Can I trust you?

di LadyProud
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Capitolo 1.





Drin. Drin. Drin.

«Mfff… Chi è a quest’ora?»
Allungai svogliatamente una mano per raggiungere il cellulare, che si trovava sul comodino alla destra del mio letto e che in quel momento stava emettendo una sequenza di suoni davvero sgradevoli.
«Nghh…»
La mia mattina era un insieme di suoni onomatopeici e fastidiosi.
Questo perché vivevo da sola, in un monolocale alquanto squallido, senza la minima voglia di far nulla, senza un compagno o qualcuno con cui condividere il mondo. Non ero obbligata a parlare con nessuno, nessuno era obbligato ad ascoltarmi.

Mi chiamo Amanda Liberati, ho ventidue anni e vivo a Venezia, in Italia, in un condominio in Salita San Canciano. Prima di trasferirmi in questo posto insignificante, frequentavo l’Università Iuav, la facoltà di design e arti. Ho dovuto abbandonarla praticamente subito; sarebbe stato impossibile prendere la laurea, per una come me.
Avevo problemi di depressione, sono andata in cura da uno psichiatra, mi hanno imbottita di pillole varie, antidepressivi e annessi, ho tentato il suicidio.
Dopo essere andata dallo psichiatra, chiaramente.
Non ho mai avuto un buon rapporto con i miei genitori, per completare il quadretto. Mia madre è morta qualche anno fa; ha lasciato questo mondo alla veneranda età di settantatré anni, distesa tranquilla nel suo letto, circondata dai parenti. A tal proposito, io non ero lì.
Durante i primi anni della mia vita, i miei genitori mi ripetevano sempre che ero stata una benedizione, un miracolo, considerata l’età di mia madre quando rimase incinta della qui presente. Ebbero modo di ricredersi.
Mio padre, una volta rimasto solo, era andato a vivere con una tizia russa, la sua badante. Ogni tanto lo andavo a trovare, perché è così che dovrebbe fare una figlia normale, e ogni volta lo trovavo sempre più demotivato. Eh, la vecchiaia…

«Pronto?», bofonchiai, rispondendo al cellulare. Era un numero che non conoscevo.
«Signorina Liberati?», rispose una voce femminile estremamente cortese.
«Sì, sono io.»
«La stiamo chiamando dall’Ospedale SS. Giovanni e Paolo. E’ per suo padre.» Sussultai.
«M-mio padre? Cosa…»
«La preghiamo di venire immediatamente. Il suo recapito telefonico ci è stato dato da suo fratello.» Pensai di stare per svenire.
«Va bene, arrivo in un istante…» bofonchiai, e richiusi il cellulare. L’ospedale era a pochi chilometri di distanza. Mi vestii in fretta, presi le chiavi della macchina, il portafogli e mi catapultai fuori di casa. In un quarto d’ora ero già nella vettura. Prima di partire, mi fermai un attimo per pensare.
«Io non ho nessun fratello…» balbettai confusa.

Non sono mai stata una persona forte, né una su cui contare.
Neanche io mi sarei affidata a me stessa; purtroppo me ne resi conto troppo tardi, e del senno di poi son piene le fosse: ero rimasta sola con me stessa.
Questi erano i miei unici pensieri, mentre piangevo, china sul cadavere di mio padre. I miei egoistici pensieri, che facevano rimbalzare tra le pareti del mio cervello infiniti dubbi; che aspettavano solo di riuscire a creare qualche crepa per poter uscire e creare il caos in un mondo dove ero sempre stata sola.
Mio padre se n’era andato in silenzio, senza dire nulla, poco prima del mio arrivo; almeno non mi aveva mai promesso che sarebbe restato per me, non infranse nessuna speranza. Se n’era andato tranquillamente, poiché non aveva legato il mio cuore al suo, tramite qualche debole legame; nessuna catena di spago era stata spezzata.
Allora perché, all’improvviso, mi sentivo così persa, così legata a qualcosa che non c’era più? Mi sentivo vagare nel nulla. Compresi che, con la scomparsa dell’ultima persona che nonostante tutto aveva continuato a sopportarmi e a viziarmi fino all’ultimo, iniziava un nuovo capitolo della mia vita.
Se fossi stata una scrittrice, l’avrei intitolato Il mio viaggio verso la morte; sarebbe stato un viaggio del quale ignoravo le varie tappe, certa solo che si sarebbe concluso con la mia morte.
Un percorso durante il quale avrei imparato molte cose, che però avrei digerito durante la notte, risvegliandomi la mattina con dei vaghi ricordi, ancor più inesperta e stolta di quanto non ero il giorno prima.
Per non scomparire mentalmente, avrei dovuto legare insieme tutti i pensieri che avrebbero voluto perdersi per non essere più ritrovati; ma la mia volontà sarebbe stata debole come un filo di spago, poiché il peso dei miei ricordi è gravoso.
Sì, sarebbe stato proprio come compiere un lungo viaggio verso Dio solo sa dove, senza sapere neanche cosa avessi messo nella valigia; più che il peso di quest’ultima, quello che mi schiaccerebbe sarebbe il senso di estrema precarietà.
«E’ permesso?»
Una voce estremamente gentile interruppe i miei cupi pensieri. Alzai il viso verso l’uomo che stava entrando nella stanza e lo scrutai sospettosa, puntandogli addosso i miei occhi di un anonimo castano, offuscati dalle lacrime.
«Certo.» sì, ti prego, non voglio rimanere sola.
«So che è dura, ma non sei sola.» Cosa? Che ne sapeva, quell’uomo, dei miei pensieri?
«Ah, sì? E tu cosa ne sai?»
«Era anche mio padre, ricordi?» no, non ricordavo. All’improvviso, mi ritornò in mente la voce della segretaria e le parole che mi avevano tanto confusa.
«Mio fratello…» mormorai. Fantastico, come se non fossi già abbastanza sconvolta.
«Ti va se ti racconto tutta la storia?» disse lui, mantenendo un atteggiamento estremamente cortese. Si sedette al mio fianco; lo lasciai fare. Quell’uomo m’ispirava sicurezza, come se l’avessi conosciuto da sempre, come se in tempi andati fosse stati lui a prendersi cura di me. Beh, dopotutto era mio fratello.
«Per favore.» risposi quindi. «Il mio nome è Amanda, il cognome… Oh, lo conosci.»
«Io mi chiamo Antonio.» rispose sorridendo; dopodiché, si lanciò in una descrizione molto accurata della sua vita. Da lui appresi che venne concepito per errore, che sua madre era una prostituta russa che l’aveva tenuto in grembo e partorito solo per amore di mio padre, che in ogni caso la lasciò quando il bambino compì dieci anni, per sposarsi con mia madre.
Antonio visse con loro fino ai suoi vent’anni, dopodiché mio padre lo cacciò di casa.
«Come facevo a non ricordarmi di te?» esclamai all’improvviso, interrompendolo. «Te ne sei andato quando io avevo tredici anni.»
«Ora ti ricordi, però?» colsi una nota d’ansia nella sua voce.
«Sì, certamente. Ma…»
«Ma?»
«Tranquillo, eh. Ma non ricordo perché nostro padre ti cacciò di casa.»
«Oh.» Antonio parve rilassarsi. «Ero un ragazzo difficile. Mi mandò in collegio, mi capirai.»
Sussultai.
«Come sai che…» non sapevo come continuare la frase; me n’erano successe di tutti i colori.
«Hai avuto problemi anche tu. Mi ha detto tutto nostro padre, poco prima di morire.»
«Ti ha dato lui il mio numero di cellulare?»
«Sì. Prima di entrare qui, ricordavo a malapena quale fosse il tuo nome. Ma non ho mai scordato il tuo volto, sorellina, mai…» posò delicatamente una mano sul mio viso. «Mai. Ti ho sempre protetta, ed ora che nessuno potrà più impedirmelo, ho intenzione di continuare a farlo.»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Capitolo 2.





Mi mossi come un automa, come qualcuno che non ha una volontà propria.
Non volevo leggere, non volevo scrivere. Buttai a terra i libri, i fogli, le penne e mi rannicchiai sul letto, in posizione fetale.
Mi mossi come qualcuno in procinto di suicidarsi, allungando una mano e prendendo l’mp3 sul comodino, lo stesso comodino dove stamattina il mio cellulare aveva squillato per darmi una pessima notizia. Dio mio, era successo davvero questa mattina? Sembravano passati secoli.
Mi mossi come se avessi preso un’arma e me la stessi puntando a una tempia, mentre mi mettevo gli auricolari.
Di solito non mi suicidavo.
Volevo dire, di solito non facevo cose del genere; deprimersi ascoltando musica triste era affare delle adolescenti in preda a crisi esistenziali. Questa sera, però, era diverso; non mi importava più nulla, non desideravo fare niente.
Piansi ancor prima di aver udito anche solo una singola nota, mentre impostavo l’mp3 sulla riproduzione casuale.
I pensieri cominciarono a sgorgare copiosi dal mio cervello, facendosi spazio tra intorpiditi dubbi e domande annidate come cancri maligni tra la mia materia grigia, fino a trovare le crepe scavate dall’incertezza; fuoriuscirono in silenzio, e mi aspettai di vedere la trapunta colorarsi di rosso cremisi.
Ma no, i pensieri non avevano un colore; pensare non è un suicidio, e le coperte non avrebbero mai preso il colore del mio sangue.
Sempre meglio pensare, che tentare il suicidio; produce gli stessi effetti di quest’ultimo, ma non sporca.
Continuai a piangere. Piansi così tanto che i miei occhi si ribellarono; alcuni capillari dentro di essi si ruppero, colorando la sclera di rosso vivo. A quanto pare, il mio sangue stava lottando per uscire, in un modo o in un altro…
Piansi fino a non avere più lacrime; avrei voluto piangere anche per quest’ultimo motivo.
Piansi perché non volevo essere sola, ma lo ero, e questa volta sul serio.




Dlin dlon.

«Mfff… Il campanello…»
Aprii gli occhi e guardai l’orologio dell’mp3, che era praticamente scarico. Avevo dormito due ore, ed erano le sei di sera.
«Arrivo!» urlai, scalciando per liberare le gambe dalle coperte. Mi infilai una vestaglia, visto che i miei abiti erano diventati veramente indecenti e mi catapultai verso la porta. Passando davanti a uno specchio, notai che ero un completo disastro, dai capelli fino alle punte dei piedi scalzi e senza pedicure.
«Oh, Antonio, sei tu. Entra» dissi, aprendo la porta. «Cosa posso fare per te?»
Lui non rispose. Sembrava pietrificato; il suo sguardo mi fece persino un po’ di paura.
«Amanda! Che cosa hai combinato?» disse, scuotendomi le spalle.
«Sei pazzo? Lasciami andare!» con uno strattone riuscii a liberarmi dalla sua presa. «Che cavolo ti ha preso?»
«Oh, sorellina, mi spiace. E’ che vederti in queste condizioni… Non mi rende affatto felice.»
«Entra, e calmati, per l’amor di Dio.»
Richiusi la porta e lo guidai nella piccola stanza che doveva essere una cucina; non ero abituata a ricevere visitatori, anche perché non avrei potuto offrire loro nessun comfort, in un appartamento piccolo come il mio.
Antonio si accomodò –per modo di dire- su una sedia di fronte ad un piccolo tavolino, mentre io presi due birre dal frigorifero e occupai la sedia all’altro lato del tavolo.
«No, grazie, non bevo.» disse lui cortesemente, quando gli porsi la birra. «Non mi piace perdere il controllo.»
«Oh, scusami. C’è qualcos’altro che posso offrirti?»
«No, nulla, tranquilla. Ero passato per vedere come te la passavi, e forse ho fatto bene.»
Aprii la birra e cominciai a berla, sentendomi un tantino a disagio; Antonio continuava a fissarmi, come se fosse estremamente interessato ad ogni mia singola mossa. Forse aveva paura che tirassi fuori una pistola e cominciassi a sparare senza nessun apparente motivo.
«Non avevo intenzione di fare nulla di sconsiderato, ad ogni modo.»
Rimasi seduta in silenzio, con lo sguardo fisso su un punto imprecisato del tavolo, attenta a non fare incontrare i miei occhi con quelli di lui. Ripensai alla reazione esagerata che aveva avuto il mio presunto fratello quando aprii la porta; per quanto terribile potesse essere il mio aspetto, quell’assurdo moto d’orrore e quello sguardo che mostrava un’apprensione che rasentava la follia erano assolutamente ingiustificati.
E meno male che non gli piaceva perdere il controllo…
«Mi piacerebbe sapere a cosa stai pensando», disse lui all’improvviso, rompendo il silenzio.
«Stavo pensando a mio padre», mentii. Lui mi lanciò un’occhiata truce, così mi corressi. «A nostro padre.»
«A cosa, precisamente?»
«Lui è… Era», e qui non potei trattenere una lacrima, «l’unica persona importante che mi rimaneva. Nonostante tutti i miei problemi, ha continuato ad aiutarmi. Ad esempio, mi pagava lo psichiatra, le medicine… Anche l’affitto…»
Mi guardai intorno, sconvolta. «Non ho mai fatto un cazzo in vita mia!» conclusi, stupendomi più per il fatto che avevo realizzato solo in quel momento quanto fossi stata viziata che per la reazione di Antonio, che mosse la testa a destra e a sinistra in segno di diniego e mi rimproverò energicamente.
«Amanda, per cortesia. Non voglio che mia sorella parli a questo modo. Controllati.»
«Scusami. Dicevo, devo trovarmi un lavoro.»
«Non è necessario.» gli lanciai un’occhiata stupita, rischiando d’incontrare il suo sguardo. Vidi due profondi occhi blu che mi stavano ancora fissando, come previsto.
«Come, scusa?» riuscii infine a balbettare.
«Io ho parecchi soldi. Non c’è bisogno che ti scomodi a trovare un impiego.»
«Non so che dire…»
«Accetta semplicemente.»
«Accettare cosa, esattamente?»
«Voglio che tu venga a stare da me.»
Questo era pazzo, ma io ero ancora più pazza da volergli rispondere.
«Ci conosciamo appena!»
«Sono tuo fratello, Amanda. Portiamo lo stesso cognome, abbiamo lo stesso sangue che ci scorre nelle vene.»
Non sapevo davvero cosa rispondere, ancora una volta.
Che non avesse problemi di denaro, l’avevo intuito dai suoi abiti palesemente molto costosi; indossava solo capi firmati, partendo dai lacci delle scarpe fino ad arrivare alla cravatta, sempre annodata perfettamente. Mi chiesi vagamente se avesse anche dei maggiordomi, o qualcosa del genere.
Il problema era un altro: potevo fidarmi di lui?
«Vieni con me, Amanda. Non hai nulla da temere. Anche io sono solo, come te, sai?»
«Io non…»
«Sei in uno stato di totale abbandono, non è difficile da notare. Hai appena perso l’unica persona che ti amava davvero. Non hai amici…»
«Frena un momento. Tu questo come fai a saperlo?»
«Grazie per avermelo appena confermato.»
Come poteva prendersi gioco dei miei sentimenti in quel modo?
Sentii che le lacrime avevano cominciato ad addensarsi, sotto le palpebre dei miei occhi chiusi. Serrai i pugni, conficcandomi le unghie nei  palmi, tanto che da alcuni solchi scese qualche goccia di sangue.
«Questo non è del tutto vero. Ho un’amica…»
«Dov’è ora? Ti ha chiamata, oggi?»
No, non lo aveva fatto, il che era strano. Carla, la mia unica amica, era solita chiamarmi tutti i giorni. Ci eravamo conosciute all’Università, quando ancora la frequentavo; era stata l’unica ragazza che mi si fosse avvicinata di sua spontanea volontà. Di solito le persone tendevano ad evitare una ragazza con delle perenni occhiaie violacee e delle labbra che non sorridevano da ventidue anni.
«No. Avrà avuto i suoi motivi.»
«Non lo metto in dubbio.» incrociò le braccia al petto, chiaro segno di ostilità. Dopo una manciata di secondi cominciò a picchiettare le unghie sul tavolino; stava aspettando una mia risposta. Quell’uomo cambiava completamente umore da un momento all’altro, senza passare per tutte quelle sfumature di emozioni che sono proprie degli esseri umani. Mi sembrava addirittura che non pensasse, che programmasse in anticipo ogni mossa.
«Accetto», dissi all’improvviso. Di cosa dovevo preoccuparmi? Era mio fratello, e mio padre sembrava averlo accettato, anche se in punto di morte. Non avrei più dovuto essere sola; a questo punto, non poteva capitarmi nulla di più brutto di quanto mi era accaduto fino a quel momento. Non volevo essere sola; decisi di fidarmi di quell’uomo che sembrava avere tanto a cuore la mia incolumità, perché era l’unica persona che mi era rimasta.

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