Strazianti racconti interrotti da strazianti riflessioni.

di LadyProud
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Era, troppo tardi. ***
Capitolo 2: *** -Perché mi ami? ***
Capitolo 3: *** All Hope Is Gone - libera interpretazione. ***



Capitolo 1
*** Era, troppo tardi. ***


ERA, TROPPO TARDI

 
La usarono come cavia da laboratorio.
Appena nata, la buttarono in una stanza e lì rimase per un lungo, infinito periodo.
Le diedero tutti i beni materiali del mondo, non le fecero mancare nulla; tranne l’amore, ovviamente.
Finché…

I giorni passavano, passavano le notti, e lei aveva finito le cose da dire. Aveva detto tutto, fatto tutto, chiusa dentro quella stanza. Aveva letto i libri che aveva a disposizione, trascritto le citazioni che l’avevano colpita. In quella stanza, però, non c’era un vocabolario o un dizionario, quindi le parole che non conosceva, per lei non esistevano e basta.
Aveva trascritto anche i testi di certe canzoni, che ascoltava da un cellulare. Erano sempre le stesse, perché in quella stanza c’era solo un cellulare.
Aveva riempito le pareti di poesie, di citazioni, di cose dette e fatte da altri e non da lei. Lì, dentro quella stanza, non c’era modo di farsi sentire da nessuno.
Una sera, quindi, si era accorta di aver finito le cose da dire. Conosceva quella stanza a memoria, specialmente le pareti, le cose non sue. Erano le cose che sapeva meglio.
Non sapeva come sentirsi, però –era contenta? Era spaventata? Era… Non lo sapeva, dentro quella stanza non si usavano troppe parole; solo quelle degli altri.
Allora, aveva deciso di uscire da quella prigione.
Non le era mai venuto in mente di farlo; il pavimento sarebbe crollato, o qualcosa del genere. Per quanto ne sapeva, esisteva solo lei, in quel posto. Alla fine aveva deciso di tentare, perché stando a quanto aveva letto, la vita finiva quando finivano le cose da fare.
Quindi, si era decisa ad aprire la porta e ad uscire.
Aveva scoperto, così, che c’erano molte altre stanze, e case, con altre stanze ancora, e strade senza stanze, e gente, che aveva parole, che faceva cose… Loro dicevano e facevano cose che appartenevano solo a loro!
Aveva anche scoperto che le parole che non conosceva, esistevano. Aveva compreso questo e molte altre cose, dopo aver trascorso un’esistenza non sua. Non poteva, non riusciva proprio ad abituarsi; sembrava impazzita, mentre cercava disperatamente di tornare nella beatitudine della propria ignoranza.
Alla fine, aveva scoperto anche che non era contenta, non era spaventata –semplicemente non era.
Era, troppo tardi. 

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Capitolo 2
*** -Perché mi ami? ***


-Perché mi ami?



Solitamente detesto questo tipo di domande, poiché per dare risposte esaurienti bisognerebbe spiegare concetti per i quali ancora non esistono neppure le parole adatte; tuttavia, questa volta proverò a risponderti.
Immagina di essere stata rinchiusa senza un motivo preciso in un carcere, con l’unica compagnia della triste consapevolezza di non poterne mai più uscire e godere della vita; con il tempo, cominceresti a inalare odio e anidride carbonica e a gettar fuori, lontano, l’amore, le speranze e l’ossigeno. Vivresti al contrario, rinascendo con la morte e aspettando una vita vera, mentre ti corrodi l’anima.
Tutti noi facciamo degli errori, anche piccoli, anche apparentemente insignificanti; innocenti illusioni che ci portano sull’orlo del baratro, e da lì è veramente semplice cadere. Lo sappiamo tutti.
Un giorno tu, prigioniera amareggiata, cominci a muoverti cauta, inconscia del fatto che di lì a poco ti ritroverai probabilmente a cadere giù nel fosso: cominci a sperare.
Speri in una vita, in una vita migliore, appagante; immagini che fuori dalla tua prigione ci sia un mondo meraviglioso, pieno di opportunità e d’amore.
Allora decidi di evadere.
Scavi, scavi e ti avvicini sempre più all’orlo del baratro, finché finalmente ti accorgi che c’è qualcosa che non va… Sei uscita dalla prigione, ma è una notte buia e senza Luna, e tutto ciò che riesci a vedere è un cumulo di macerie; disordinati pezzi di metalli arrugginiti, costruzioni crollate, recinzioni severe e invalicabili.
Ti siedi a terra, distrutta, e piangi per esserti illusa, piangi perché pensavi ci fosse una speranza e perché in fondo desideravi solo vivere.
Hai appena cominciato la tua caduta.
Mentre te ne stai lì seduta a volgere lo sguardo sulla triste realtà che ti circonda, senza che tu te ne accorga il mondo va avanti –Il mondo va avanti comunque, con o senza di te.
Alzi la testa da quegli schifosi aborti d’umanità e ti trovi a tu per tu con il Sole.
Come spiegare la meraviglia che tu, prigioniera, puoi provare davanti al calore e alla bellezza di un’alba?
Qui cominci ad entrare in gioco tu, amore, perché non saprei spiegare questo come non riuscirei a descrivere in modo appropriato la tua magnificenza.
Fatto sta che tu, prigioniera, all’improvviso ritrovi la speranza; sapere che esiste un essere così meraviglioso, basta e avanza per continuare a vivere nel suo stesso mondo.
Inoltre, come potresti sentirti, se questa entità angelica percepisse la tua adorazione e la ricambiasse?
Sorridi al sole ed esso, ricambiando, scioglie con il suo calore i cancelli della tua prigione, l’ultimo ostacolo che ti separava dalla vita, dal mondo, dalla libertà.
Ora sei libera, sei felice, sei tutto. Sei viva e completa. Non ti serve più nulla.

-Suppongo di essere il Sole, in questa storia. Quindi, perché mi ami?
 
-Ma come potrei non amarti? Ti amo perché non posso farne a meno, perché sei l’unica persona di cui ho bisogno, perché ci sei sempre stata tu a rendere migliore questo mondo.
Ti amo perché mi hai salvata, perché mi hai fatto vedere le cose con occhi diversi, perché mi hai resa più forte.
Ti amo perché la tua bellezza e il tuo calore sono indescrivibili, e perché li condividi con me.
Ti amo perché mi rendo conto che è spuntato il Sole solo quando la mattina mi sveglio e ti trovo al mio fianco.



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Scusate l'incommensurabile dose di zucchero e miele di questo aborto, ma l'ho scritto alle tre di notte sul cellulare perché non riuscivo a pensare ad altro. Come al solito, le cose si scrivono da sole e io non posso farci nulla. D:

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Capitolo 3
*** All Hope Is Gone - libera interpretazione. ***


All Hope Is Gone.
Libera interpretazione.

 
La strada pullulava di gente.
C’era un uomo che andava a lavorare e sbraitava contro un cellulare, sputando saliva (probabilmente si sta sforzando inutilmente, pensò Cassie. Se ha così tanto da dire, o quello all’altro capo del telefono lo teme troppo e non osa pronunciare una singola parola, o s’è addormentato. Cassie lanciò una fugace occhiata all’ometto tutto rosso in viso, che era poco più alto di lei e grosso venti volte, e optò per la seconda ipotesi).
C’era una madre che chiacchierava animatamente con un’amica, mentre un ragazzino che non poteva avere più di tre anni le strattonava la gonna, evidentemente contrariato dal fatto che lei non lo stesse degnando neanche di un’occhiata, ripetendogli solo “Basta, Marco, ora arrivo, non scocciarmi”.
Quando il bambino rinunciò e, imbronciato, si diresse verso una costruzione che forse in passato era un’altalena, ma che ora aveva tutta l’aria di dover crollare da un momento all’altro, Cassie si allarmò (dove va? Si farà certamente male, chiamo la mamma, pensò ingenuamente).
Cercò di attirare l’attenzione della donna, ma venne cacciata (“Marco, ti ho detto di non scocciare!”).
Infastidita, rinunciò e continuò ad osservare la gente.
Vide una banda di ragazzini che accerchiavano un cagnolino, chiaramente impaurito. Non avevano certo buone intenzioni, e Cassie intervenne.
I ragazzi, però, sembrarono non notarla (mi stanno volutamente ignorando, che maleducati). Passò loro davanti più e più volte, ma questi continuarono ad avvicinarsi sempre più e sempre più minacciosamente alla bestiola.
“Scappa”, le sussurrò Cassie; il cane sembrò come risvegliarsi all’improvviso da un brutto sogno e, dopo aver abbaiato di gratitudine, corse via, lasciando spiazzata la banda di teppistelli.
Camminando, quella sera Cassie incontrò molta altra gente: un bambino che aveva fatto volare via un aquilone e che si disperava (“lo rivoglio!”, urlava), quando questo era finito dietro ad una siepe non lontana (quando Cassie glielo riportò, fece finta di non notarlo. “È rotto”, disse, “lo lascerò per terra”); una ragazza che si lamentava dei troppi impegni (“Oggi sono uscita con un tizio, domani Kevin, e poi… Ah, Jordan. Che palle”. Cassie provò a dirle che erano tutti e tre già impegnati, e che non era una cosa carina, ma la ragazza mosse distrattamente una mano vicino alla sua testa, come a voler scacciare un moscerino dall’orecchio).
Incontrò un senzatetto che si bucava, un uomo ubriaco e una prostituta; un macellaio che tornava a casa dalla sua famiglia (non sembri molto contento… -osservò Cassie, e quello reagì con un grugnito).
Dopo aver inutilmente tentato di parlare con una madre che, per iperprotezione, voleva rinchiudere la figlia in camera (è un reato, mi pare…), si decise a tornare a casa.
 



“Com’è andata, Cassie?”
“Orribilmente. Non sono riuscita a parlare con nessuno”. Prima che il suo interlocutore potesse ribattere, aggiunse “Sì, solo un cane”.
“Un cane?” rispose quello, divertito.
“Esatto. Solo questo”.
Stettero in silenzio per un po’, le braccia di Cassie strette attorno a qualcosa d’indefinito.
“Non voglio più uscire”, disse lei infine.
“Come, scusa?” chiese la voce, chiaramente sorpresa.
“Non voglio più vedere la luce. Sono anni, decenni, millenni che cerco di recare beneficio a questa gente, senza ottenere nulla. Evidentemente non hanno bisogno di me”. Strinse più forte, come se avesse paura che chi stava parlando con lei la lasciasse.
Questo, invece, sorrise maliziosamente e parlò compiaciuto: “Se tu non vuoi più vedere la luce, Cassie, non potrà più vederla nessuno di loro –mai più”. Fece per allontanarsi, come per testare la sicurezza della decisione di lei, ma Cassie lo strinse più forte che mai.
“Resta”, gli ordinò, “Resta per sempre, Buio”.
Con un sorriso ancora più ampio e ambiguo, il Buio abbracciò teneramente Cassie, finché del suo splendore non rimase più nulla di visibile.
L’umanità si spense. 

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