Faithless

di Kim WinterNight
(/viewuser.php?uid=96904)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto (L'ottavo, Capitolo) ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitré ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


1.

 

 

«No, no, no, Max, no! Così non va! Insomma mettici un po' più d'impegno, cristo santo!» sbottai, gettando le bacchette a terra.

Erano ore che provavamo e Max non riusciva a concentrarsi. Andava fuori tempo e non era in grado di accordarsi con noi altri musicisti.

Sospirai.

Essendo l'unica ragazza del gruppo, ero una sorta di mascotte di quei pazzi dei miei compagni. L'incredibile di tutta quella faccenda era il fatto che tutti i componenti di quella strampalata band erano musicisti famosi che avevano fatto parte di altri complessi e che ora si erano riuniti per partecipare ad uno strano concorso.

E voi vi starete chiedendo cosa ci facessi io in mezzo a tutte queste svampite celebrità.

Ebbene, sembrerà strano, ma gli mancava un batterista e fecero dei provini per trovarne uno. Potevo perdermi l'opportunità di lavorare con dei musicisti per me mitici?

Assolutamente no, ed ecco che ora, a distanza di sei mesi dal nostro incontro, dopo aver vinto il concorso con il nome di 'Faithless', ci ritrovavamo a preparare i pezzi per il nostro primo album.

Chi erano, dunque, i miei compagni d'avventura?

Alla voce si alternavano Max Cavalera, leader di gruppi come Sepultura e Soulfly, e Serj Tankian, storico vocalist dei System Of A Down, il quale si occupava talvolta anche delle tastiere, nonostante il tastierista non ci mancasse. Disponevamo infatti di Janne, ex Children Of Bodom. La chitarra solista era in mano a Matthew Tuck, una volta cantante principale dei Bullet For My Valentine, che ora interveniva qualche volta come corista. La chitarra d'accompagnamento spettava a Joey Jordison, una volta batterista degli SlipKnoT e chitarrista dei Murderdolls. Infine, come bassista, una persona che mai vi aspettereste, ovvero Caparezza.

Cosa ci faceva lui a suonare il basso in una band metal? Be', che importanza aveva? Insieme ci si divertiva ed era questo il fattore fondamentale.

Tra l'altro Michele era bravo con il suo insolito strumento, perciò era tutto okay.

«Che ho fatto stavolta?» ribatté il cantante brasiliano, guardandomi storto.

«Non ti stai concentrando abbastanza Max, e lo sai anche tu» risposi, inchinandomi a raccogliere le bacchette.

«Ehi drummer, non essere troppo severa con lui, sono ore che proviamo. Siamo tutti stanchi» intervenne Janne, rivolgendomi uno sguardo ammiccante.

«Meno male che ci sei tu a difendermi, altrimenti dovrei subire la furia di questa vipera anche oggi.»

«Cosa vorresti insinuare, Cavalera?» lo ammonii, incenerendolo con lo sguardo.

«Siete sempre i soliti bambini» sentenziò Serj, bonario. «Credo che per oggi sia meglio finirla qui» aggiunse poi, andando a sedersi in un angolo della saletta.

«Uomo saggio lui, mi fanno male le dita a forza di suonare questo fottuto basso.»

«Mick ha ragione! Gli strumenti a corda sono tremendi» concordò Joey, cominciando a sistemare la sua chitarra.

L'unico che non si espresse fu Matt e io temevo di conoscere il motivo di quel suo silenzio.

 

 

*Flashback*

 

 

«Matthew, non ti innamorare di me, non conviene» gli consigliai guardandolo.

«Spiacente, temo sia troppo tardi» rispose, per poi baciarmi con passione.

Subito, lo allontanai da me e me ne andai, lasciandolo lì.

 

 

*Flashback's end*

 

 

Sospirai. Era passato un mese ormai da quell'avvenimento, nel quale lui non aveva fatto altro che ignorarmi. D'altronde, non poteva obbligarmi ad amarlo, poiché io non ero in grado di amare nessuno e mai lo sarei stata. Volevo bene ad ognuno di loro, ma per me tutti quanti rappresentavano degli amici, dei compagni d'avventura, dei fratelli. Facevano le veci di quella famiglia che non avevo mai propriamente avuto. Non ero in grado di innamorarmi e perciò non potevo illudere nessuno di possedere quella capacità.

Matt mi amava, ma prima o poi mi avrebbe dimenticato, se ne sarebbe fatto una ragione.

Con questi pensieri, mi andai a sedere accanto a Serj, che per me era come un padre, e osservai di sfuggita le silenziose mosse dell'ex Bullet.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo due ***


2.

 

 

«Ragazzi, cosa ne dite di venire tutti a casa mia oggi? Facciamo un po' di casino!» propose Joey.

«Ehi nano, sai che hai avuto una buona idea?» intervenne per la prima volta Matt, chiudendo la custodia della sua chitarra. «Ne ho proprio bisogno. Sei fornito di birre?»

«Ovvio. Voi che ne dite?» chiese l'altro chitarrista, rivolgendosi al resto del gruppo.

«Dal momento che avete intenzione di ridurvi a merda stasera, dev'esserci qualcuno che badi alla vostra incolumità, perciò verrò» accettò il cantante armeno.

«Concordo con Serj. Noi due dobbiamo controllare che non vi ammazziate» dichiarai, sorridendo.

Max rifiutò perché aveva un concerto con i Cavalera Conspiracy, gruppo fondato con suo fratello in seguito alla loro riappacificazione, mentre Janne accettò di buon grado e Michele si unì all'allegra combricola, dicendo: «Vengo anch'io, ma faccio compagnia agli astemi.»

Così, divisi in due macchine, raggiungemmo casa Jordison. Per quanto riguardava il nostro nanetto, mi ero sempre chiesta come mai non fosse stato lui il batterista dei Faithless, e mi ero ripromessa di chiederglielo, prima o poi.

La casa di Joey era enorme, contornata da un giardino che amava curare personalmente e, all'interno, arredata in modo bizzarro, con tanto di croci celtiche ovunque, pareti completamente dipinte di nero, ricoperte di graffiti e disegni fatti da lui. Inoltre, i mobili erano piuttosto antichi, risalenti probabilmente all'Ottocento. Adoravo andare da lui, poiché mi trovavo a mio agio. Nonostante vivesse da solo, la casa era pulitissima, in quanto disponeva di una servitù eccellente e, soprattutto, ben pagata. Insomma, al nano i soldi non mancavano, ma di certo non lo si poteva definire tirchio, anzi; condividere le sue ricchezze con le persone che amava lo rendeva felice. Il nostro chitarrista era davvero una persona d'oro, a cui, personalmente, volevo un bene immenso, come del resto ne volevo a tutti gli altri ragazzi.

Ormai, loro erano la mia vita.

La serata procedette come previsto: Matt, Janne e Joey si presero una sbronza colossale, mentre io, Serj e Michele li prendevamo in giro ridendo come dei matti.

Come al solito, a noi astemi toccò il compito di mettere a letto i nostri amici che Joey aveva pensato bene di sistemare a casa sua, poiché non erano in grado di tornare nelle loro.

Dopodiché, Michele ci chiese: «Dev'essere difficile per voi metterli a letto quando io non ci sono, vero?»

«Sì, esatto Capa. Il lavoro pesante tocca sempre a noi due» risposi, mentre mi preparavo per andarmene.

«Ti ammazzo» dichiarò, per poi intrappolarmi in un abbraccio e farmi il solletico.

Cominciai a dimenarmi, ridendo a crepapelle. «Scusami Mick... Non... Non volevo chiamarti in quel modo...» riuscii a dire, mentre non accennava a fermarsi.

«Sai cosa devi fare per farti perdonare, vero?» mi sussurrò all'orecchio.

Serj ci guardava allibito dall'altra parte della stanza, mentre si occupava di buttare le bottiglie di birra vuote.

Mi voltai a guardare il bassista negli occhi e lo strinsi forte a me. «Uff... Sai che odio doverlo dire... Ma... Mick, ti voglio... Ti voglio bene» sussurrai.

Ricambiò il mio abbraccio e disse: «Piccola, lo faccio per te. Esprimere i tuoi sentimenti ti serve, e arriverà il giorno in cui riuscirai a farlo spontaneamente. Comunque anche io te ne voglio tanto» confessò, prima di sciogliere l'abbraccio.

«Lo so Mick e so che lo fai per il mio bene. Grazie» dissi, riconoscente.

Dopodiché, raggiunsi il mio mitico cantante e lo abbracciai felice.

«Che c'è?» chiese, sorridendomi.

«Niente, non posso abbracciare il mio paparino?»

«Tu sei pazza figliola» scherzò.

Così, tutti e tre insieme, lasciammo casa Jordison e prendemmo posto in macchina di Michele.

«Mi accompagni da Eve?» chiese Serj, e Michele annuì.

Una volta accompagnato il nostro cantante, si avviò verso casa mia.

«Quanto vorrei stare sempre con voi» dissi e sospirai.

«Coraggio» mi incitò il bassista.

«Non voglio andare Mick» dissi, inchiodandomi al sedile.

Il mio amico spense il motore.

«Voglio... Stare con te» aggiunsi, chiudendo gli occhi per evitare che le lacrime mi inondassero il viso.

«Liz

«Michele, non mi lasciare qui» lo pregai, guardandolo in faccia con l'angoscia che mi invadeva fino alle viscere.

«Liz... Ti va di parlarne? Se non mi dici cosa ti turba non ti posso aiutare. Non ti voglio vedere così.»

«Non voglio più vivere con mio padre Mick. Lui...» Mi interruppi, stringendo i pugni.

«Lui?» mi incitò.

«Mi odia perché pensa che la mamma sia morta per colpa mia» spiegai, scoppiando a piangere.

Il mio amico scese dalla macchina e mi raggiunse dall'altro lato, per poi stringermi al petto.

«Liz, shhh, tranquilla, sono qui. Senti, per stanotte starai con me, poi domani ne parliamo. Va bene?»

«Grazie. Io... Mick?»

«Dimmi tesoro.»

«Ti adoro» sussurrai, cercando di calmarmi.

Rimase per un attimo in silenzio, poi rispose: «Anche io, dannazione, anche io.» Il suo tono, così come il suo abbraccio, erano colmi di disperazione e preoccupazione.

Tornò al posto di guida, mentre mi asciugavo le lacrime e tentavo di rilassarmi. Fece ripartire l'auto e guidò in silenzio.

Nel tragitto, pensai a quello che gli avevo detto poco prima e rimasi allibita di me stessa. Mi aveva detto che sarebbe arrivato quel giorno in cui sarei riuscita ad esprimere i miei sentimenti ed ecco che era giunto prima di quanto realmente entrambi potessimo credere. In quel momento mi ero sentita di pronunciare quelle parole poiché mi provenivano dal profondo dell'anima e significavano tutta la gratitudine che provavo nei suoi confronti. Era un angelo e mi faceva sentire come se, con lui, fossi in grado di superare qualunque ostacolo con determinazione e sicurezza. Riusciva a farmi comprendere che dovevo credere in me stessa e nelle mie capacità e che solo così avrei potuto affrontare al meglio la mia vita.

Come avrei fatto senza lui? Non fui minimamente in grado di immaginarlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


3.

 

 

Una volta giunti a casa sua, mi fece strada in quella che sarebbe stata la mia stanza.

«Tu dove dormirai?» domandai, abbandonandomi sul letto ad una piazza e mezzo che stava al centro dell'ambiente.

«Nella camera a destra della tua» mi informò. «Se hai bisogno vieni pure a chiamarmi, va bene?» aggiunse, dirigendosi verso la porta.

«Va bene Mick. Grazie ancora» sussurrai.

«Figurati principessa. Dolci sogni» concluse, chiudendosi la porta alle spalle.

Mi sfilai le scarpe e scivolai sotto le coperte. Circondata dal buio e dal silenzio, tornai indietro nel tempo con la mente, fino a ricordare il giorno in cui avevo letto l'annuncio.

 

 

*Flashback*

 

 

«Faithless: gruppo musicale cerca batterista. Componenti: Max Cavalera (voce); Serj Tankian (voce e piano); Matthew Tuck (chitarra solista e voce corale); Joey Jordison (chitarra); Janne Wirman (tastiere) e Caparezza (basso)» lessi tutto d'un fiato sulla bacheca, all'ingresso dell'Hard Rock Cafe a Londra.

Scoppiai a ridere. Cosa ci faceva Capa a suonare il basso in un gruppo del genere? E soprattutto, come potevano certi svalvolati riunirsi in un'unica band?

L'annuncio inoltre diceva che il batterista era urgente poiché un mese dopo il gruppo avrebbe partecipato ad un contest, grazie alla vincita del quale avrebbe avuto la possibilità di incidere un disco ed evolvere il ricavato in beneficenza.

Subito mi annotai il numero a cui rivolgermi e decisi di provare a cambiare la mia vita, immergendomi in qualcosa che non avrebbe fatto altro che distrarmi dalla solita mediocrità.

 

 

*Flashback's end*

 

 

Prima di conoscere personalmente i ragazzi, non avevo minimamente pensato di poter instaurare un rapporto profondo e particolare con ognuno di loro, e soprattutto avevo scoperto un lato estremamente dolce del mio cantante italiano preferito.

Michele era tenero, affettuoso e sempre pronto a regalarmi un sorriso; ottimista e sempre pieno di idee per rendere le mie giornate migliori. Ed io ero felice di averlo conosciuto.

 

«Sì, sì... Va bene ma, dove?»

Mentre, la mattina seguente, mi dirigevo in bagno, sentii Michele pronunciare queste parole, probabilmente al telefono; così, spinta dalla curiosità, mi fermai poco prima della sua camera ad ascoltare.

«Milano? Oh, e me lo chiedi? Ovvio. Ah va bene, allora richiamami per ulteriori dettagli. Grazie, ciao» concluse.

Chissà cosa gli avevano appena detto. Cercando di contenere la voglia di saperne di più, raggiunsi la mia meta e mi preparai per la colazione.

Non appena uscii dal bagno, me lo ritrovai davanti con un enorme sorriso stampato in faccia. «Buongiorno, principessa! Dormito bene?» domandò, stampandomi un bacio sulla guancia.

Quant'era carino, diamine!

«Buongiorno a te! Benissimo, grazie. Tu?»

«Idem. Hai fame?»

«Abbastanza» ammisi, sorridendo. «Andiamo a mangiare, su! Ho una notizia bomba da darti» mi informò, dirigendosi in cucina con me al seguito.

Mi accomodai su una sedia e lo guardai mentre preparava il caffè. Mi alzai nuovamente e mi misi a settaciare i mobili, in cerca di qualcosa che riempisse il buco che avevo nello stomaco e trovai un pacco di biscotti al cioccolato.

«Spero non te la prenda dato che mi sono permessa di frugare così sfacciatamente, ma...»

«Hai fatto bene. Devi sentirti come a casa tua» mi interruppe, accendendo il fornello.

Nel frattempo, aprii la confezione di biscotti e cominciai a sgranocchiarne uno. «Allora, questa notizia?» mi lasciai sfuggire, non resistendo più.

«Giusto! Io e te andremo a Milano questo fine settimana!»

«Cosa?» gridai, saltando dalla sedia.

«Hai capito bene! Ho un concerto in piazza Duomo sabato, quindi dopodomani devo partire e tu verrai con me. Non è fantastico?»

«Cioè... Io e te... A Milano... Da soli?» chiesi, titubante.

«Esattamente!»

«Mick ma è... Meraviglioso! Grazie, grazie, grazie» esultai, correndo ad abbracciarlo.

«Speravo che fossi d'accordo» sussurrò, mentre mi stringeva. «Ci tengo tanto ad andarci con te» concluse, con dolcezza.

 

E, com'era prevedibile, Matt andò fuori di testa per quella notizia.

«Non potete andare a Milano! Come faremo senza bassista e senza batterista?» sbottò il pomeriggio successivo in saletta. Il suo modo di ingelosirsi tirando in ballo i Faithless mi irritava parecchio.

«Sopravviverai Matthew» ribattei, gelida.

Mi rivolse uno sguardo colmo d'ira e se ne andò sbattendo la porta.

«Vado da lui» dichiarò Michele.

«Fermo, ci penso io» dichiarai, alzandomi e lasciando la stanza. Uscii sul terrazzo adiacente, dove sapevo che avrei trovato il chitarrista a fumare una sigaretta e infatti non mi sbagliavo. «Matt... Insomma... Che ti prende?» gli chiesi, appoggiandomi alla ringhiera accanto a lui.

«Non lo so» si limitò a rispondere. «Da un lato sono contento che tu parta, così potrò cercare di togliermi il tuo pensiero dalla mente. Dall'altro lato però... Tu e Mick... Da soli... Mi manda in bestia pensare che...» si interruppe, per aspirare una boccata di fumo.

«Matt... Sei così dolce... Vorrei davvero che te ne facessi una ragione, che mi dimenticassi. Spero tanto che questi giorni in cui staremo lontani ti saranno utili» dissi, avvicinandomi e sistemandogli un ciuffo ribelle che il vento aveva scompigliato. «Perdonami se puoi» aggiunsi, stringendogli una mano.

«Piccola» sussurrò, per poi abbracciarmi forte. «Matt, sei importante per me, anche se...»

«Shh, questo mi basta» mi interruppe, giocherellando con qualche ciocca dei miei capelli. «Divertiti a Milano» mi augurò, staccandosi da me.

«Ti porterò un regalo, promesso.»

«Non ce n'è bisogno, il regalo più bello che possa ricevere è che tu torni sana e salva» ammise.

«Sono sicura che Mick non permetterà che mi succeda qualcosa di male» constatai, sorridendogli.

«Lo so anch'io. Dai, torniamo dentro» ordinò, offrendomi la mano.

La accettai volentieri, contenta di aver chiarito le cose con il mio chitarrista preferito. Ora, sarei partita più tranquilla, a Milano.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


4.

 

 

«C'eri mai stata?» si informò Michele mentre sistemavamo i bagagli nella nostra camera d'albergo. Il mio bassista aveva ben pensato di prenotare un mini appartamento con due camere da letto, rispettivi bagni e un piccolo soggiorno.

«Mai. Sembra una bella città» osservai, guardando fuori dalla grande finestra della mia stanza.

«Lo è. Io ho suonato tante volte qui. Comunque spero che con i Faithless si riesca a fare un tour, così conoscerai tante altre città bellissime. Mi piacerebbe portarti a fare il giro del mondo, sai?»

Rimasi immobile ad assimilare quelle parole che raggiunsero dritte il centro del mio petto. «Mick, grazie. Io... Non so cosa dire» sussurrai, sentendomi avvampare.

«Non dire niente, principessa. Piuttosto preparati, si va a provare. E' da un sacco di tempo che non canto i miei pezzi» disse, per poi sparire in camera sua.

Entrai in bagno a darmi una rinfrescata e ripensai a quelle parole così dolci e profonde, che mi avevano scosso l'anima. In ogni gesto che mi rivolgeva, Michele dimostrava di tenere moltissimo a me. Con quei pensieri, andai a sedermi nel divano della saletta che avevamo in comune e lo attesi.

Quando uscì, era ancora a petto nudo e io rimasi impalata a fissarlo.

«Scusa Liz... Pensavo che fossi ancora di là, io...» provò a giustificarsi, infilandosi frettolosamente la t-shirt.

Abbassai lo sguardo in netto imbarazzo, scuotendo il capo come a voler sminuire il suo gesto. In realtà quello che avevo visto mi aveva mandato il viso in fiamme e aveva fatto sì che il mio cuore accelerasse i suoi battiti.

«Forse è meglio se andiamo, altrimenti rischi di far tardi alle prove» consigliai, alzandomi, evitando di guardarlo negli occhi.

Senza ribattere, prese le chiavi e mi seguì fuori dalla stanza. «C'è un taxi che ci aspetta di sotto» mi informò, mentre prendevamo l'ascensore.

«Hai pensato proprio a tutto, eh Mick?» scherzai, per sdrammatizzare e sciogliere la tensione.

Si mise a ridere e anch'io mi rilassai.

 

«Oddio!» gridai, mentre mi aggiravo per il backstage con il mio amico.

«Che ti prende?» chiese, preoccupato.

«Quello... Quello è... Oddio!» esclamai ancora, euforica.

«Liz! Stai calma e dimmi che ti prende!»

Ero incapace di parlare, così volsi lo sguardo al punto che aveva attirato la mia attenzione poco prima e lui lo seguì, per poi scoppiare a ridere.

«Babaman?» chiese, con tono ironico.

«Sì! E' un mito, lo adoro!» dichiarai.

«Andiamo, te lo presento!»

«Cosa? No! Mi vergogno e poi...»

«Zitta! Vieni con me» ordinò, trascinandomi per mano.

Cercai di divincolarmi, ma ormai era troppo tardi.

«Ehi, Massimo! Ti ho portato una fan che fremeva dalla voglia di conoscerti» esordì, rivolgendosi a Babaman.

Mi sentii avvampare, imprecando mentalmente contro Michele e sperando che, da un momento all'altro, si aprisse una profonda voragine che mi trascinasse giù, dandomi la possibilità di nascondermi.

«Michele? Ciao vecchio bastardo!» fece quello, travolgendolo con un abbraccio.

Non avrei mai detto che lui fosse così affettuoso.

«E lei chi è?» chiese poi, indicandomi.

Emozionata, gli rivolsi un timido sorriso e mi presentai: «Piacere, sono Liz

«E' la batterista del mio gruppo, quello di cui ti parlavo» aggiunse Michele.

«Capisco. Piacere mio, bellezza. E così sei una mia fan?» domandò, facendomi ridere.

«Più che fan, direi che ti stimo parecchio» precisai.

«Allora che ne dite di venire a sentirmi mentre provo?» ci propose.

«E ce lo chiedi? Mick è d'accordo! Vero, Mick?» accettai, pregandolo con lo sguardo.

«Certo. Andiamo.»

E fu così che assistetti alla performance del mio mito italiano del reggae, cantando come una matta ogni singola canzone, mentre il mio bassista mi guardava divertito.

In seguito, fu Michele a dover provare e Massimo si offrì di farmi compagnia. Ridemmo come due matti quando Caparezza sbagliava qualche parola.

«Grazie rastaman, mi ha fatto piacere conoscerti. Ci si vede domani per il concerto, vero?» dissi, stringendogli la mano.

«Certamente. Grazie a te, Liz. Mi sono divertito a prendere per culo questo vecchio coglione» dichiarò, ridendo.

«Vacci piano» concluse Michele, salutandolo a sua volta.

Sorrisi e lo seguii all'esterno, dove un taxi era già in nostra attesa.

Una volta tornati in albergo, andammo a cena e subito dopo fuggimmo in camera, sfiniti.

«Mick, vieni?» chiesi, sulla soglia della mia stanza.

Mi seguì e gli feci cenno di sedersi sul letto.

«Sono sfinita» mi lamentai, gettandomi sul materasso dopo aver scalciato via i sandali. Posai la testa sul cuscino e chiusi gli occhi.

«Se hai sonno ti lascio dormire» sussurrò Michele.

«No. Stai pure, sempre se ti va.»

«Va bene, rimango un po'.» Senza aggiungere altro, mi si avvicinò e prese ad accarezzarmi il viso e i capelli.

Mi rilassai completamente sotto quel tocco paradisiaco.

Rimase in silenzio a coccolarmi per chissà quanto tempo finché, ormai quasi completamente addormentata, non avvertii le sue labbra baciarmi delicatamente la fronte.

«Buonanotte, principessa» mormorò, per poi andarsene.

Quando riaprii gli occhi, era mattina.

I raggi del sole filtravano attraverso le pesanti tende e io faticai a rendermi conto del luogo in cui mi trovavo, ma poi ricordai. Mi alzai con calma, andando a scostare il tendone: se a Milano c'era il sole, significava che la fortuna era proprio dalla mia parte. Mi ero svegliata di buonumore e sperai che durasse a lungo quella sensazione di benessere interiore.

Talmente ero euforica, che mi precipitai fuori dalla mia stanza e irruppi in quella di Michele, senza nemmeno bussare, per poi saltargli sul letto e svegliarlo con un urlo di gioia.

Mi guardò stralunato e sbadigliò.

«Buongiorno, Capa!» dissi, saltandogli sopra.

«Ahi, ferma! Mi fai male!»

Lo ignorai e continuai ad esultare.

Poco dopo, mi immobilizzò e prese a farmi il solletico. «Come mi hai chiamato?» chiese, mentre mi contorcevo dalle risate.

All'inizio provai a resistere, poi mi arresi. «Basta, Mick, ti prego!» lo implorai e lui obbedì.

In seguito a tutto quel trambusto, lui era finito sopra di me e ora mi guardava dritto negli occhi.

«Ti voglio bene, Mick. Perdonami. E' che sono felice» ammisi.

«Anche io, principessa» sussurrò e mi strinse forte a sé.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


5.

 

 

La giornata procedette tranquilla, fra una risata e l'altra, finché non arrivò il momento di andare al concerto. Dal canto mio, indossai un paio di jeans, una maglietta e le snikers.

Anche Michele era vestito come me, in modo molto semplice. Dal momento che doveva tornare a cantare le sue canzoni, aveva ripreso il suo solito look da 'cespuglio', come lo chiamavo io ogni volta che lasciava i capelli sciolti e ricci.

Non appena arrivammo, incontrammo il nostro amico rastaman, che era intento a fumare.

«Che robaccia stai inspirando?» chiesi, guardandolo storto.

«Ehi, bellezza!» mi salutò. Non appena ebbe finito di rovinarsi i polmoni, si avvicinò a me e mi diede un forte abbraccio che portò con sé un aroma non indifferente che cercai di ignorare, mentre ricambiavo debolmente.

«Mi... Stai... Stritolando...» riuscii a farfugliare, intrappolata nella morsa d'acciaio che erano le sue braccia.

«Ohi, non ammazzarmi la batterista» lo ammonì Michele.

Massimo mi lasciò andare, ridendo.

«Suoneranno anche i Linea 77» ci informò ad un certo punto il cantante milanese, mentre ci aggiravamo per il backstage.

«Davvero? Questo significa che... Rivedrò Nico!» gridai, saltando dalla gioia. In seguito agli sguardi shockati dei miei due accompagnatori, spiegai che avevo assistito a molte performance dei Linea e che ogni volta facevo di tutto per incontrarli, e loro ormai mi conoscevano, tanto che ero diventata la peste di Nicola.

«Vado a cercarli, ragazzi. Okay?» dichiarai, loro annuirono.

«Però attenta a non perderti» sussurrò Michele, lasciandomi una carezza sulla guancia.

Subito, mi voltai e partii alla ricerca del cantante dei Linea 77, sentendomi in imbarazzo per le attenzioni che il riccio mi rivolgeva.

Dopo circa dieci minuti di giri a vuoto, trovai Nicola intento a parlare con un ragazzo dello staff. Non appena quello si allontanò, mi feci avanti senza dire niente, finché il suo sguardo non si posò sulla mia figura.

«Peste? Tu qui?» chiese stupito, avvicinandosi.

«Nico!» esclamai, abbracciandolo.

«Sei sempre più pazza» osservò, ridendo e ricambiando la stretta.

«Lo so» conclusi.

«Con chi sei venuta?»

«Con Caparezza.»

Mi guardò stupito e così gli raccontai tutta la storia dei Faithless.

«Incredibile! E così ora suoni con quei matti? Dio, sono dei miti! Hai avuto un culo pazzesco, lasciatelo dire!» esclamò, mentre insieme andavamo a cercare Michele e Massimo.

«Ne sono consapevole» concordai, ridendo.

Poi, avvistai il mio amico 'cespuglio'. «Eccolo! Be', Nico, in bocca al lupo per il concerto. Ora torno dal mio bassista, ci becchiamo più tardi semmai, okay?»

«Certo! Ciao Liz, divertiti» mi augurò, per poi tornare indietro.

Raggiunsi il mio amico e lo abbracciai da dietro, facendolo spaventare.

«Già di ritorno, principessa?» chiese, voltandosi a guardarmi.

Prima di rispondere notai che Massimo era sparito. «Eh, sai, mi mancavi troppo» scherzai poi, mollandogli un pugno sul braccio.

«Scema. Dai, andiamo, devo fare il soundcheck» mi informò, facendomi strada verso il palco.

Rimasi ad osservarlo, cantando tutte le canzoni che provava. Poco dopo iniziarono le esibizioni vere e proprie: per primi si esibirono i Linea, e io rimasi affascinata dalla possibilità che ebbi di sentirli suonare dal backstage. Poi venne il turno di un gruppo poco conosciuto proveniente dalla Sicilia, che personalmente apprezzai molto, poiché proposero delle cover degli Iron Maiden.

«Caparezza, tocca a te! In scena tra cinque minuti» gridò un tizio dello staff.

«Okay, grazie!» rispose, per poi avvicinarsi a me e stringermi le mani tra le sue. Intanto, i suoi musicisti cominciarono ad entrare in scena, e Diego, prima di sparire oltre il tendone nero che divideva il palco dal backstage, lanciò uno sguardo malizioso al nostro gesto affettivo.

Michele lo ignorò. «Liz» disse, guardandomi dritto negli occhi. «Andrò a cantare su quel dannato palco per te.»

Lo abbracciai forte. «Fagli vedere chi sei, Mick. E grazie, sei così dolce» mormorai, trattenendo a stento le lacrime di commozione.

Un istante dopo, si precipitò sul palco scatenando un boato infernale tra la folla. Cantò i suoi più grandi successi, e io con lui gridai ogni singola parola, come se fossi lì al suo fianco. Ad un certo punto, Nicola mi raggiunse e rimase a farmi compagnia.

«Ed ora... Vorrei dedicare questa canzone ad una persona speciale. Lei si chiama Liz e sa che le voglio un bene immenso» esordì Michele dal palco, spiazzandomi.

«Principessa, so che mi senti. Vorrei dirti che, be', questo pezzo non è il massimo in quanto a dolcezza e romanticismo, ma so che ti piace molto e... Te la dedico. 'Ulisse', tutta per te» concluse.

Il pubblico si scatenò in un grido d'approvazione, mentre io spalancavo occhi e bocca per la sorpresa. Non appena cominciò a cantare, scoppiai a piangere.

Nicola, al mio fianco, sorrise e mi circondò le spalle con un braccio, dicendo: «Questo dovrebbe farti riflettere, peste.»

Non risposi, decidendo di concentrarmi sulla voce del mio bassista, e rimandare l'analisi delle parole del cantante dei Linea a più tardi. Chiusi gli occhi e mi isolai dal resto del mondo, come se fossi sola con Michele.

Mi riscossi soltanto quando la canzone terminò e lui scese dal palco, ringraziando il pubblico.

Emozionata come non mai, gli corsi incontro e lo travolsi, stringendolo forte a me.

«Tu sei pazzo... Sei completamente fuori di testa! Io... Mi hai fatto anche piangere, cretino!» dissi, mentre nuove lacrime abbandonavano i miei occhi.

«Principessa... Piaciuta la dedica?» chiese, restituendomi l'abbraccio.

«E me lo chiedi? Sei... Un idiota... Ah, al diavolo! Ti adoro, Mick, grazie, grazie, grazie, sono così felice!» esultai ancora, per poi staccarmi da lui e guardarlo negli occhi.

«Sono contento che ti sia piaciuta, Liz» sussurrò, accarezzandomi una guancia. «Ora ti va di vedere come se la cava il nostro rastaman su quel palco?» domandò, scompigliandomi i capelli.

Proprio in quel momento, Babaman ci raggiunse. «Bellezza, e se te la dedicassi anch'io una canzone? Qual è la tua preferita?»

Nicola e Michele risero.

«La mia preferita? Mi piace molto 'Il Giorno Che Vedrai', ma forse la più bella in assoluto è 'Fyah'» risposi.

«Sei fortunata, 'Fyah' è in scaletta. Okay... Te la dedico! Vado... A dopo!» «In bocca al lupo, Baba!» gridai. «Crepi» concluse, salendo sul palco. Anche lui ricevette un discreto calore e apprezzamento da parte del pubblico, mentre si esibiva.

Dal canto mio, attesi con ansia che cantasse 'Fyah', per scoprire che tipo di dedica aveva in mente, mentre ridevo con Michele e Nicola del suo grande amore per il culto verde.

 

«La tua dedica è stata bellissima, Baba!» dissi, ridendo, mentre io e Michele aspettavamo il taxi per andarcene. Ormai erano le tre del mattino e, dopo aver fatto baldoria in seguito al concerto, eravamo tutti sfiniti.

«Il fyah è caliente come te, baby» disse il rasta, vaneggiando. Chissà quante canne si era fatto, povero diavolo.

Dal canto mio, non riuscivo a smettere di ridere. Nonostante tutto, era davvero simpatico e divertente il nostro strampalato amico cannaiolo.

«Siamo fottuti» intervenne Michele, per poi comunicarmi che era arrivato il taxi.

«Ragazzi, pensateci voi a lui» pregai, rivolgendomi agli altri artisti che ancora erano accampati nel backstage.

«Tranquilla, bellezza, starò bene. Grazie per la preoccupazione» fece il rastaman, con un sorriso ebete.

Scoppiai nuovamente a ridere e, dopo aver salutato tutti, seguii Michele all'esterno.

 

«E' stato pazzesco! Non so come ringraziarti» commentai, dopo essermi seduta sul divanetto della saletta comune, nella nostra camera d'albergo.

«Non devi farlo infatti. Per me è stato un immenso piacere» ribatté, accomodandosi al mio fianco. Si accoccolò con la testa sulla mia spalla, sbadigliando. «Non devo essere tanto profumato» osservò.

«Non è vero, e poi non mi importa» sussurrai, sciogliendo nuovamente i capelli che aveva legato poco prima. «Mi piacciono di più così» spiegai, affondando le dita tra la sua folta chioma. Presi a giocherellare con le sue ciocche, mentre canticchiavo la canzone che mi aveva dedicato quella sera. Non riuscivo a descrivere il mix di sensazioni che mi invadeva l'anima, sapevo soltanto di tenere immensamente a quel ragazzo che sapeva sempre come sorprendermi, dimostrandomi che anche per lui io ero importante. Avrebbe potuto farsi accompagnare da chiunque a Milano, o addirittura andarci da solo, eppure aveva scelto me. Il motivo vero e proprio non lo conoscevo, ma comunque non potevo fare a meno di sentirmi estremamente felice e fortunata ad avere avuto la possibilità di viaggiare a Milano con lui.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


6.

 

 

Su cosa avrebbe dovuto farmi riflettere la dedica di Michele?

Fu con questa domanda che mi risvegliai la mattina seguente. Ero ancora sul divanetto, con Michele che mi dormiva sulla spalla. Mentre ripensavo alle parole di Nicola, lo osservai: il suo viso era disteso, sereno, quasi angelico; i capelli erano arruffati e disordinati, mentre sulle labbra era dipinto un leggero sorriso.

«Quanto sei bello» mi ritrovai a bisbigliare, per poi stupirmi di me stessa. Cosa andavo a pensare?

Cercando di non svegliarlo, mi alzai ma, non appena mossi un passo verso camera mia, lo sentii sbadigliare.

«Liz? Oh, no! Non dirmi che ho dormito sulla tua spalla tutta la notte» farfugliò.

Mi voltai a guardarlo e lo trovai a stiracchiarsi, mentre mi rivolgeva uno sguardo colpevole. «Proprio così. Non ti preoccupare, è solo un po' atrofizzata ma non ha importanza» dissi, con un sorriso.

Si alzò e venne ad abbracciarmi. «Comunque, buongiorno, principessa mia» sussurrò, baciandomi una guancia.

«Buongiorno a te, tesoro.» Tesoro? E da quando io chiamavo qualcuno in quel modo? Rimasi sbigottita da me stessa per la seconda volta nel giro di pochi minuti, mentre Michele scioglieva l'abbraccio.

«Sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui saresti stata in grado di liberare le tue emozioni, ma non pensavo giungesse così presto» constatò, guardandomi negli occhi.

«Questo è accaduto solo grazie a te. Da sola non ce l'avrei mai fatta. Te ne sono immensamente grata» spiegai, prendendogli una mano e premendola all'altezza del mio cuore. «Senti come batte forte? Be', le emozioni che mi hai fatto provare in questi giorni l'hanno fatto rivivere, l'hanno fatto pulsare come mai prima d'ora. Perché lo fai, Mick? Chi te lo fa fare?» domandai, facendo ricadere le braccia lungo i fianchi.

Stavolta fu lui a premere la mia mano sul suo petto. «Perché questo batte così forte quando ti ho vicino che nemmeno io so spiegarmi come mai» confessò, abbassando lo sguardo.

Rimasi senza parole.

«Sei così... Mick, io...» provai a dire, senza trovare le parole adatte ad esprimere tutto ciò che sentivo. Mi trovai a pensare a quanto desiderassi che rimanesse al mio fianco per ora e per sempre, che non smettesse mai di abbracciarmi e di comportarsi come se fossi il gioiello più prezioso di questo mondo. Avrei potuto confessargli tutto ciò, ma ovviamente non mi sembrava proprio il caso, soprattutto perché ancora non ero in grado di esternare delle emozioni così intime.

«Non c'è bisogno che dici niente, Liz» disse dolcemente. «Forza! Ora andiamo a fare colazione e poi ci prepariamo per andare a prendere l'aereo, che parte alle tre del pomeriggio. D'accordo?» chiese.

Annuii e mi chiusi in camera. Tra mille pensieri e riflessioni, mi preparai la piccola valigia e mi vestii, indossando una t-shirt dei Faithless e un paio di jeans.

Dopodiché andai insieme a Michele a fare colazione e, dal momento che erano soltanto le nove, decidemmo di prendere i bagagli e andare a fare un giro per i negozi di souvenir. Dovevo comprare il regalo che avevo promesso a Matt, ma non avevo idea di cosa potergli donare. Mentre sul taxi provavo a rifletterci, mi venne in mente che lui, così come gli altri ragazzi del gruppo, mi mancava molto. Tuttavia, Michele era riuscito a non farmi sentire tanta nostalgia per Londra e i Faithless. Mi chiesi se esistesse un modo per poterlo ripagare di tutto quello che aveva fatto per me, ma non mi venne in mente niente.

Alla fine, comprai a Matt un disco dei Linea 77, sperando che lo apprezzasse. Presi qualcosa insieme al bassista anche per gli altri ragazzi e verso mezzogiorno eravamo in viaggio verso l'aereoporto.

Le ore successive trascorsero veloci, e verso le quattro del pomeriggio lasciammo l'aereoporto di Londra.

«Finalmente a casa!» dissi, trascinandomi dietro il trolley.

«Dove vuoi andare, Liz?» mi domandò Michele, una volta saliti in taxi.

«A casa mia. Devo risolvere una faccenda importante» dichiarai, per poi sospirare.

«Non puoi trattarmi come se fossi la causa di tutto, mi sono stancata! Capisci che mi ferisci?» gridai, guardando mio padre con odio.

«Stai zitta! Se tu non fossi nata, Elena sarebbe ancora qui» ribatté, gelido.

Scossi il capo, frustrata. «Come vuoi. Be', io me ne vado, non ce la faccio più a vivere così» dichiarai, con un filo di voce.

Non disse niente e io mi diressi in camera a preparare le valige. Nel frattempo, telefonai a Joey.

«Pronto, Liz!» rispose.

«Ciao, nanetto. Ho bisogno di un favore» attaccai, svuotando i cassetti.

«Dimmi simpaticona. Cosa non si fa per la mia collega batterista!»

«Grazie Joey. Il fatto è che... Non so dove andare a vivere e stavo pensando che magari mi potresti... Affittare una stanza nella tua grande casa. Che te ne pare?» domandai.

«Affittare? Macché, puoi semplicemente venire ad abitare da me» propose.

«Grazie Joey, davvero, ma preferisco pagarti l'affitto. Non voglio vivere sulle spalle di nessuno. Per favore, accetta questa condizione. Se non è possibile, mi arrangerò in qualche altro modo.»

«Okay, okay! Va bene, vieni pure. Vuoi che ti venga a prendere?»

«No, grazie. Verrò con Mick» lo informai, raccattando le ultime cose dall'armadio.

«Va bene, a tra poco» rispose e chiuse la chiamata.

Inviai un sms a Michele per avvisarlo che l'avrei aspettato di sotto e terminai di sistemare le mie cose. Circa dieci minuti dopo, senza salutare mio padre, lasciai definitivamente quella casa.

Dopo essere scesa, attesi che arrivasse il mio bassista. Chissà come avrebbe preso il fatto che andassi a vivere in affitto da Joey. Ma, soprattutto, perché mi interessava così tanto il suo parere? Era la mia vita, perciò perché dovevo dipendere dalla sua opinione?

Be', era arrivato il momento di dirglielo, poiché poco dopo si parcheggiò accanto a me.

Saltai a bordo e lo guardai. «Mick... Joey mi affitta una stanza. Potresti accompagnarmi a casa sua?» domandai, mentre ripartiva.

«Cosa?» chiese, quasi gridando.

«Sì, Mick. Ho chiamato Joey e lui dice che è d'accordo. Non te la prendere, è solo che...»

«Saresti potuta venire a stare da me» mi interruppe.

«No. Non mi piace vivere sulle spalle di qualcuno e soprattutto dipendere dagli altri. Non ti arrabbiare Mick, per favore» lo implorai.

«Va bene. E' una tua scelta e la rispetto. Però sappi che per qualunque cosa puoi contare su di me.»

«Lo so Mick, ti ringrazio tanto» sussurrai, sprofondando nel sedile.

Il resto del viaggio trascorse in silenzio, finché non giungemmo davanti a casa di Joey.

«Ti va di entrare a dare un'occhiata alla stanza che mi ha lasciato il nano?» proposi al mio bassista, mentre parcheggiava.

«Certo» accettò, sorridendomi.

Scendemmo dall'auto e in pochi minuti ci ritrovammo al seguito del nostro amico che ci fece strada verso la mia nuova 'casa'.

«Ecco... Se ti piace, puoi stare qua. Per quanto riguarda il bagno, puoi usare quello che sta in fondo al corridoio. Se vuoi cucinare, sai dove andare, altrimenti puoi chiedere a Mary di farlo per te» spiegò il padrone di casa, mostrandomi l'ambiente.

«Quanto ti devo al mese?» domandai, abbandonando la valigia sul letto.

«Poi ne parleremo, ora non ti preoccupare. Dimmi, che te ne pare della camera?»

«Mi piace. Grazie ancora Joey

«Figurati collega. Bene, io vado di là. Mick, vieni?»

«Aiuto Liz a sistemarsi, poi ti raggiungo» rispose quello.

L'ex SlipKnoT annui e lasciò la stanza.

«Sei proprio sicura di voler stare qui?» domandò Michele, mentre mi osservava svuotare la valigia.

«Sicurissima. Sei tanto gentile ma voglio farcela da sola» risposi, per poi avvicinarmi a lui che stava con la schiena appoggiata alla porta.

«Okay» sussurrò.

«Mick» attaccai, stringendo le sue mani tra le mie, «sei così carino a preoccuparti tanto per me.»

Posò una delle sue mani sulla mia guancia. «Voglio soltanto che tu stia bene, principessa» dichiarò, accarezzandomi.

«Grazie» conclusi.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


7.

 

 

«Questo è per te!» dichiarai, porgendo il cd a Matt che mi guardava con espressione stupita.

«Linea 77?» lesse, con una pronuncia gallese che mi fece sorridere.

«Sì. A me personalmente piacciono molto, il cantante è un mio amico. Ho iniziato a perseguitarli andando a sentirli live ovunque, finché non si sono abituati alla mia presenza e ormai si stupiscono quando non mi vedono nelle prime file, durante i concerti. Comunque ascoltali e dimmi che ne pensi» consigliai.

«Certo! Sei stata così carina a portarmi un regalo, ma non dovevi disturbarti!» disse, venendo ad abbracciarmi.

Lo strinsi forte a me e risposi: «Figurati, è stato un piacere, Matt.»

«Mi sei mancata Liz» sussurrò.

«Anche tu mi sei mancato chitarrista» ammisi, sciogliendo l'abbraccio.

«Ehm... Tu e Mick... Voi...» provò a dire, imbarazzato. «Tra voi è... E' successo qualcosa?» concluse infine, arrossendo leggermente.

«Matt, ne avevamo già parlato o sbaglio? Io non sono in grado di amare nessuno, né tantomeno di rendere felice qualcuno. Come ho rifiutato te, succederà anche con lui quando - e se - ci sarà l'occasione. Matt, non fraintendermi, tu mi piaci. Pensa che quando ero adolescente sbavavo dietro ad ogni tua foto» raccontai, facendolo ridere. «Il punto è che non voglio illuderti. Se tu soffrissi, non me lo perdonerei mai» conclusi, stringendogli la mano.

«Capisco. Quindi... Questa è la tua nuova casa?» chiese, cambiando discorso, mentre si guardava intorno, osservando la mia camera in casa Jordison.

«Eh già, Joey è stato molto gentile. Pensa che non voleva nemmeno che pagassi l'affitto.»

«Be', tra Faithless ci si aiuta, siamo tutti fratelli, dovresti saperlo» osservò.

«Lo so, ma va bene così. Sono contenta di essere andata via di casa. Ormai sto invecchiando» dissi, ridendo con Matt al seguito.

Quando rimasi sola, ripensai a quello che gli avevo detto a proposito dell'amore. Tempo fa avrei affermato con sicurezza di non potermi innamorare, ma ora, come stavano le cose?

Sbuffai. Erano giorni ormai che i miei pensieri venivano tormentati da un'unica questione, ovvero cercare di capire cosa provavo per Michele. Se partivo dal presupposto che non ero in grado di amare nessuno soltanto perché avevo ricevuto poco amore da quello che sarebbe dovuto essere mio padre, cosa significava quell'ammasso di emozioni che si impossessava di me quando l'avevo accanto?

Se avessi evitato di escludere la possibilità di amare, smettendo di farmi rovinare la vita e i rapporti sociali da mio padre che mi aveva ferito nel profondo e di conseguenza aveva impedito che mi fidassi appieno degli altri, avrei potuto affermare che, forse, qualcosa nei confronti di Michele c'era.

Comunque, decisi di lasciar seguire agli eventi il proprio corso, senza forzare le situazioni e scelsi, per la prima volta in vita mia, di rischiare e di seguire quello straccio di cuore che ancora avevo la fortuna di possedere.

«You are the one who wants to kill my life» proposi, cercando approvazione negli occhi dei miei colleghi.

«E se invece al posto di 'my life' mettessimo 'my world'?» ribatté Janne, giocherellando con una mia bacchetta per la batteria. «I am the man who walks alone» canticchiò Serj, citando un passo di 'Fear Of The Dark' dei Maiden.

«Smettila Serj, così non ci sei d'aiuto» lo riprese Joey.

«Direi che potremmo fare una pausa ragazzi, io e Mick abbiamo delle sorprese per voi» intervenni, alzandomi e andando a prendere i regali che avevamo comprato in Italia per i nostri amici.

«Sorprese?» saltò su Janne, abbandonando la mia bacchetta sul divano su cui era seduto poco prima.

«Esatto. Jan, questa è per te, per la tua collezione» feci, porgendogli la maglia dell'Hard Rock Cafe di Milano.

«Porca puttana! Grazie ragazzi» esultò, travolgendoci con un abbraccio.

«Questa invece è per te. Sappiamo che ne desideravi una, amando la Sardegna» disse Michele, consegnando a Max una maglietta con i Quattro Morì.

«È bellissima! Grazie» disse, provandosela.

«Joey... A te abbiamo portato questo, speriamo ti piaccia» dissi ancora, dandogli un modellino di Ferrari.

«Oh cazzo! Voi siete completamente fuori di testa! Non dovevate...»

«Zitto! Ti piace?» chiese Michele.

«E me lo chiedi? È una figata!» esclamò, esaminando il suo regalo.

«Invece, al mio mitico cantante ho scelto di comprare un bellissimo disco» affermai.

«Pavarotti? Ma... Liz» sussurrò Serj, guardandomi.

«Non... Non ti piace?» domandai, con timore.

«Certo che sì! È solo che... Oh, grazie figliola» concluse, dandomi un caloroso abbraccio.

«Di niente paparino. L'ho scelto personalmente, ci tenevo a regalare il meglio al mito dei miti» confessai con un sorriso.

«Non esagerare, non credo di essere così...»

«Sì che lo sei. Ti ritengo il migliore in assoluto» ribattei.

«Grazie, grazie davvero Liz» disse, sciogliendo l'abbraccio.

Poco dopo ringraziò anche Michele per poi fare un giro a vedere i regali degli altri.

«E Tuck non ha ricevuto niente?» chiese Janne, guardandolo con un ghigno dipinto in faccia.

«Io ho già ricevuto il mio regalo ieri» spiegò Matt, soddisfatto.

«Esatto. Al nostro chitarrista ho regalato un disco dei Linea 77, un gruppo italiano molto bravo» aggiunsi, sorridendo.

«Figo» commentò il finlandese, continuando a contemplare il dono che aveva ricevuto.

Mi fece immensamente piacere sapere che i nostri regali erano stati apprezzati. Ora, mi mancava solo un ultimo pacchetto da consegnare, ossia quello indirizzato a Michele. Sì, eravamo stati in viaggio assieme, ma mi sentivo in dovere di ringraziarlo per ogni singola cosa che aveva fatto per me. Una volta rimasti soli, avrei trovato il coraggio di esprimere quanto lui fosse importante per me.

Quando le prove terminarono, mi avvicinai a lui e feci una cosa che mai, prima d'ora, avevo fatto. «Mick, hai da fare stasera?» domandai, mentre lo osservavo sistemare il suo basso.

Mi rivolse un'occhiata colma di stupore, poi disse: «No, sono libero. Perché?»

«Ti va di... Uscire?»

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo otto (L'ottavo, Capitolo) ***


8.

 

 

«Da soli?» domandò, osservandomi con stupore.

«Sì. Ti va?»

«Certo.»

Nel frattempo, Joey mi si avvicinò. «Collega, andiamo a casa?»

«Okay andiamo. Mick» sussurrai mentre gli lasciavo un bacio sulla guancia, «passi a prendermi tra un'ora?»

«Va bene. A più tardi principessa» rispose, stringendomi una mano.

Mentre guidava, Joey mi chiese: «Devi vederti con Mick più tardi?»

Mi morsi nervosamente il labbro inferiore e risposi: «Sì, ci facciamo un giro.»

Il chitarrista annuì e non aggiunse altro.

Una volta giunti a casa, mi infilai sotto la doccia e cercai di rilassarmi il più possibile. Cosa gli avrei detto quella sera? Sentivo qualcosa nei suoi confronti, ma davvero avrei potuto confessarglielo? Ero sicura di non esserne in grado. Inoltre, dovevo consegnargli il mio regalo.

Tra mille pensieri, finii di prepararmi e, mentre ero intenta a sistemarmi i capelli, suonò il campanello.

«Liz, Mick è arrivato!» gridò Joey dall'ingresso.

Senza rispondere, presi la borsa e mi avviai in salotto.

«...di Liz?» sentii bisbigliare da Joey, così mi fermai ad ascoltare.

«Non lo so. Speriamo» fece Mick con lo stesso volume di voce. Chissà cosa avevano di così segreto da dirsi, tirando in causa anche me.

In seguito tacquero, così mi feci avanti, attirando la loro attenzione. «Eccomi! Ciao Mick, scusa se ti ho fatto aspettare.»

«Tranquilla. Se sei pronta, possiamo andare» propose.

Mentre mi parlava, lo osservai: indossava un paio di jeans scuri, una camicia nera e teneva i capelli legati come al solito.

«D'accordo. A più tardi Joey

«Divertitevi» augurò quello con un sorriso.

Una volta saliti in macchina, Michele disse: «Ti voglio portare in un posto speciale.»

Non risposi e mi limitai a stringere forte la borsa. Chissà dove aveva intenzione di andare. Conoscendolo, sapevo che sarebbe stato in grado di sorprendermi anche quella volta e ne ebbi la conferma quando parcheggiò. Davanti a noi, torreggiava un'enorme ruota panoramica illuminata ovunque. Spalancai gli occhi e rimasi a fissare il luccichio che mi circondava.

«È meraviglioso tutto questo» confessai, stringendo la mano del mio amico.

«Davvero ti piace?» domandò, voltandosi a guardarmi.

Annuii.

Senza lasciarmi la mano, si incamminò verso la biglietteria per poi farmi strada verso la grande ruota che ci sovrastava. Prendemmo posto e attesimo che partisse.

«Che bello!» esclamai, mentre cominciavamo a salire.

Al mio fianco, Michele mi circondò le spalle con un braccio e mi strinse al suo fianco.

Osservai incantata il panorama che mi si presentava, mentre le persone e le luci divenivano sempre più piccole.

«Ti ho portato qui» attaccò il mio bassista, «perché volevo farti emozionare. Non so se ci sono riuscito, Liz, ma sappi che ho fatto del mio meglio.»

Mentre parlava, sentivo che il cuore mi esplodeva nel petto. Era arrivato il momento di compiere quell'importante passo, nonostante la cosa risultasse parecchio difficile e imbarazzante, per me.

«Mick, devo darti una cosa» lo informai, infilando una mano nella borsa ed afferrando il pacchetto che avevo confezionato di tutta fretta prima di uscire.

Allentò la presa sulle mie spalle e mi posò una mano sulla guancia.

«Principessa... Cos'hai combinato? Sai benissimo che non ce n'era alcun bisogno» sussurrò.

Scossi il capo e risposi: «Non è vero. Ascoltami. Sai che per me non è facile aprire il mio cuore, ma è arrivato il momento che io faccia qualcosa per te, per ringraziarti di tutto il bene che mi hai fatto e che mi fai ogni volta che stiamo insieme. Mick» pronunciai il suo nome con un filo di voce, avvicinando il mio viso al suo, «perdonami. Non so come definirlo, ma non riesco più a dirti che ti voglio bene, perché non è totalmente vero. C'è qualcosa di più profondo che mi lega a te ma, forse per la poca esperienza o per paura, non riesco a definire bene ciò che provo. So soltanto che, quando tu mi stai accanto, vorrei che non te ne andassi mai, che restassi sempre con me, che mi abbracciassi e mi proteggessi da tutto ciò che temo. Sei la persona più importante della mia vita» conclusi. Feci una pausa. «Questo è per te, aprilo» aggiunsi, porgendogli la confezione.

Dopo il mio discorso, non fu in grado di rispondermi per un po' e si limitò a lanciarmi occhiate colme di stupore.

«Che cos'è?» domandò in un sussurro, esaminando il disco che teneva tra le mani.

«Ecco... Ho registrato una canzone dove ho cercato di esprimere tutto ciò che provo per te. L'ho scritta pensandoti, pensando a come mi fai sentire e... Vorrei che l'ascoltassi quando sarai da solo. Un po' mi vergogno perché... Be', sai come sono fatta» spiegai, arrossendo.

«Sarà sicuramente bellissima» disse, stringendomi a sé. «Grazie mia piccola principessa, sapessi quanto tengo io, a te. Non temere, non ti lascerò mai sola, starò al tuo fianco sempre e comunque» sussurrò al mio orecchio, mentre le emozioni si impossessavano del mio cuore.

Immersi il viso nel suo petto, sentendomi colma di felicità. Non sapevo come ci ero riuscita, ma ora lui era a conoscenza di gran parte dei miei sentimenti, mentre il resto l'avrebbe scoperto ascoltando la canzone. Forse, mi ci sarebbe voluto più tempo per dare un nome a tutto questo, ma già l'avergliene parlato significava aver fatto un grosso passo avanti.

Quando il giro panoramico giunse al termine, Michele mi aiutò a scendere e, tenendomi per mano, raggiunse la sua macchina. Senza dire niente, mise in moto e partì.

«Se non sei stanca vorrei andare in un altro posto» disse dopo un po', spezzando il silenzio.

«Non sono stanca. Fai pure» acconsentii.

Annuì e continuò a guidare per altri dieci minuti, per poi fermarsi vicino ad un parco. Spense in motore e mi chiese: «Scendiamo o preferisci stare qui?»

Mi guardai intorno mentre riflettevo, poi sorrisi e scesi dall'auto per poi risalire sul sedile posteriore. «Vieni?» lo incitai.

Dopo avermi rivolto un'occhiata interrogativa, mi raggiunse. «Saremmo potuti stare anche davanti» constatò.

«No, davanti si sta più scomodi» ribattei, stringendolo e accoccolandomi al suo petto.

Eravamo in silenzio, lui intento a giocherellare con i miei capelli, io a disegnare cerchi immaginari sul suo petto.

«Mick?» lo chiamai flebilmente.

«Sì?»

«Sto bene qui con te» confessai, per poi sollevare la testa e cercare il suo sguardo.

Mi prese il mento con due dita e rispose: «Anch'io, lo sai.»

Improvvisamente i nostri visi erano vicini, troppo vicini, i nostri occhi fissi gli uni negli altri, i nostri respiri fusi in uno solo. Sfiorò le mie labbra con le sue, ma subito si ritrasse, guardandomi mortificato.

«Perdonami... Liz... Non so... Non so cosa mi sia preso... Scusa... Dai, ti accompagno a casa» dichiarò e, senza darmi il tempo di ribattere, tornò al posto di guida.

Io rimasi dov'ero, troppo sconvolta per poter reagire in modo razionale. Quel breve contatto che era avvenuto tra noi mi aveva provocato un'enorme scarica di emozioni e aveva fatto sì che il cuore accelerasse i suoi battiti. E ora, mentre lui guidava in silenzio con gli occhi fissi sulla strada, sentivo che avrei voluto che approfondisse quel bacio e che mi stringesse forte a sé. Ormai, però, tutto era sfumato e io, logicamente, non possedevo abbastanza coraggio per ritornare sull'argomento o, addirittura, prendere l'iniziativa di continuare ciò che era stato interrotto. Frustrata, trascorsi tutto il viaggio sprofondata sul sedile posteriore, con una voglia di piangere immensa.

Una volta giunti davanti a casa Jordison, afferrai la borsa, decisa a scendere senza chiedergli di entrare.

«Liz?» mi richiamò, non appena aprii lo sportello.

Mi voltai a guardarlo e lessi nei suoi occhi paura mista a speranza. «Non me la sono presa Mick, non ti preoccupare» dissi, sciogliendomi in un sorriso. «Comunque, senti la canzone e fammi sapere. Va bene? Grazie per la splendida serata, 'notte» conclusi, per poi scendere e richiudere la portiera. Estrassi le chiavi e entrai in casa, per poi lasciarmi cadere con la schiena contro la porta che avevo sbattuto alle mie spalle.

«Liz? Che succede collega?» chiese Joey, raggiungendomi.

 

«Quindi ora che farai?» domandò Joey, dopo aver ascoltato il mio racconto.

«Non lo so. Purtroppo, non sono in grado di prendere certe iniziative. Comunque ci proverò, devo fare il possibile altrimenti temo che lui non ci proverà più» dissi, con le lacrime agli occhi. «Scusa Joey, ora vorrei andare a letto» aggiunsi, alzandomi.

«Aspetta... Non piangere piccola, dai, vieni qui» fece lui, venendo ad abbracciarmi.

Inizialmente cercai di trattenermi il più possibile, ma poi mi lasciai completamente andare, stringendo forte il chitarrista. «Temo di essermi innamorata» gli confessai tra i singhiozzi.

«Perché hai paura? Lo sai anche tu che con Mick vai sul sicuro, è una brava persona» mi rassicurò.

«Infatti non c'entra lui, ho paura di farlo soffrire perché sono piena di insicurezze» risposi, mentre pian piano le lacrime diminuivano.

Il mio amico sciolse l'abbraccio e mi guardo dritto negli occhi, accarezzandomi una guancia. «Liz, lui ti conosce. Sa quali sono le tue paure, le tue indecisioni, le tue debolezze. Più che soffrirci, cercherà di aiutarti a superarle, a diventare più forte e sicura di te.»

«Se dovessi avere un'altra opportunità con lui, ciò mi renderebbe la ragazza più fortunata a questo mondo» dissi, sorridendo.

«Proprio così. Ora vai e dormici su. Domani è un nuovo giorno e tu potrai pensare a come conquistare il tuo bassista. No?»

«Sì! Grazie mille nanetto.» Feci per andarmene, poi mi avvicinai nuovamente a lui e gli stampai un bacio sulla guancia, dicendo: «Ti voglio bene.»

«Anche io, Liz. Buonanotte» rispose, guardandomi negli occhi.

Una volta rimasta sola, mi gettai sotto le coperte con una nuova speranza nel cuore. Forse sarebbe bastata la mia canzone a fargli capire che desideravo quel bacio più di ogni altra cosa. In caso contrario, avrei dovuto impegnarmi, facendomi avanti contro ogni imbarazzo. Chissà se ci sarei riuscita.

Comunque stavo facendo molti passi avanti e la cosa mi rendeva più che felice e soddisfatta di me stessa.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


9.

 

 

«Joey? Non è che mi presteresti una chitarra acustica?» domandai al mio amico, entrando in soggiorno.

«Prendi pure quella» fece, indicandomi lo strumento appoggiato alla parete.

«Grazie.»

«Potrei sapere come mai alle nove del mattino hai tutta questa voglia di suonare?» domandò, mentre finiva di legarsi una scarpa.

«Così, mi sento ispirata per comporre. Magari esce fuori qualcosa di buono da proporre ai Faithless. Tu stai uscendo?»

«Esatto. Vado a prendere Corey all'aereoporto

Spalancai gli occhi. «Corey... Taylor?» chiesi, perplessa.

«Sì, chi sennò?» rispose, con tono ironico.

«E me lo farai conoscere, vero?»

«Verrà a stare da noi per qualche giorno» mi informò, alzandosi dal divano.

Rimasi piuttosto lusingata dal fatto che avesse usato il plurale. Mi considerava allo suo stesso livello, nonostante conoscesse le mie intenzioni riguardo all'affitto, malgrado non fosse d'accordo.

Sorrisi. «Che culo! Allora vi aspetto. Ah, Joey, che bello!» esultai, abbracciandolo. «Incontrare Corey sarà un onore per me, è mitico!» aggiunsi.

«Sei sempre la solita Liz. Ora vado altrimenti faccio tardi. A dopo» concluse sciogliendo l'abbraccio e lasciando la stanza.

Afferrai la chitarra e mi sedetti sul divano, per poi cominciare a strimpellare. Presa com'ero dalla felicità per l'imminente incontro con Corey Taylor, intonai 'Bother' degli Stone Sour. Apprezzavo parecchio quando il cantante degli SlipKnoT si esibiva in versione acustica, con la sua voce pulita, che era così bella e profonda. Subito dopo, passai a 'Vermillion' e la cantai tutta, sbagliando parecchi accordi. La chitarra non era decisamente il mio strumento ma ogni tanto mi piaceva provare a combinarci qualcosa, giusto per svagarmi un po'. Trascorsi il resto della mattinata a comporre un pezzo che avevo iniziato tempo addietro, cercando di terminare anche la stesura del testo.

Mi interruppi soltanto quando Joey rientrò e, guardando l'orologio, mi accorsi che erano le undici e mezza. Abbandonai il taccuino e la chitarra sul divano e andai ad accogliere il mio amico e il suo ospite, sentendomi un po' agitata ed emozionata.

«Oh, ecco la mia collega. Corey, ti presentò Liz» disse il chitarrista, sorridendo.

«Piacere» dissi, tendendogli la mano.

«Corey» fece quello, rivolgendomi uno sguardo strano, quasi indagatore.

Spostai i miei occhi su Joey, sperando che mi fossi sbagliata sul suo amico, ma lui si limitò a fare spallucce e s'incamminò verso il soggiorno.

Feci per seguirlo ma sentii suonare il campanello.

«Vai tu Liz, per favore?» chiese Joey con un sorriso.

Annuii e mi avviai nuovamente verso l'ingresso. Chi poteva mai essere ad un'ora così insolita? Quando aprii la porta, rimasi stupita da quella vistita inaspettata.

«Liz» sussurrò Michele.

Lo guardai dritto negli occhi, poi gli feci cenno di entrare.

«Di là c'è Corey Taylor. Vuoi incontrarlo?» chiesi, in imbarazzo. Volevo evitare di domandargli se aveva sentito la mia canzone e volevo evitare soprattutto di sapere come mai fosse venuto a casa di Joey con l'aria di urgenza dipinta in viso. Che fosse successo qualcosa? Scacciai quei pensieri e mi concentrai sulla sua risposta.

«Magari dopo. Liz» sussurrò ancora, rivolgendomi uno sguardo pieno di dolcezza. «Sono venuto per parlare con te.»

Sussultai. Di cosa aveva intenzione di parlarmi? Senza incrociare il suo sguardo, annuii. Dopo aver avvisato il chitarrista, mi avviai verso camera mia e Michele mi seguì.

Una volta dentro, si chiuse la porta alle spalle e mi raggiunse sul letto, sedendosi al mio fianco. «Ho sentito la tua canzone» dichiarò, cercando i miei occhi.

Non risposi, non ne fui in grado. Ebbi paura di quello che avrebbe potuto dirmi.

«È bellissima. Non avevo dubbi che lo fosse, ma non me l'aspettavo così... Così vera, sincera, così tua.»

Fissai il vuoto davanti a me, incapace di reagire. Avevo il timore che ciò che sentivo di voler dire non fosse adatto alla situazione. Era una voglia più che razionale, che tenevo dentro da un bel po' e che, col passare del tempo, era maturata e si era insinuata prepotentemente nelle parti più remote del mio corpo.

«Che succede?» domandò, stringendomi una mano.

Ancora una volta non parlai. Non riuscii ad esprimere a parole ciò che sentivo. Di scatto, mi alzai e corsi in soggiorno lasciando Michele ad attendermi.

Avevo assoluto bisogno della chitarra di Joey.

Quando la presi, avvertii gli sguardi dei due ex SlipKnoT addosso, ma li ignorai e, dopo aver afferrato anche il taccuino e la penna, tornai dal mio bassista.

Era rimasto immobile ad aspettarmi e, quando feci il mio ingresso nella stanza, mi osservò mentre ero intenta a sistemare il blocco e mi adagiavo sul letto incrociando le gambe e imbracciando lo strumento. C'era una canzone non mia che volevo cantare. Era dei Bullet, il vecchio gruppo di cui faceva parte Matt.

Già, Matt. Cosa avrebbe pensato di me se avesse saputo cosa provavo per l'uomo che avevo davanti? Sicuramente mi avrebbe odiato.

Scacciai quei pensieri e, chiudendo gli occhi, cominciai a cantare. All'inizio la mia voce era incerta, esitante e un po' tremante. Poi, giunse il pezzo che preferivo e ci misi tutta l'anima per interpretarlo al meglio.

 

I live my life in misery

I sacrificed this world to hold you

No breath left inside of me

Shattered glass keeps falling

Say goodnight

Just sleep tight

Say goodnight

So here I am you're inside of me

So here I am our world is over

So here I am you're inside of me

So here I am our world is over

Here I am with you

I'm there 'till the end

Memories are calling so farewell my friend

 

Non appena terminai, rimasi con gli occhi fissi sul lenzuolo blu notte su cui ero seduta, con l'imbarazzo che mi impediva di sbirciare l'espressione dipinta sul viso di Michele.

Lo avvertii sfilarmi la chitarra di mano e posarla sul letto. Dopodiché, mi sollevò il mento con due dita. «Oh, Liz» mormorò.

Come spinta da un muto desiderio, mi avvicinai di più a lui. Le sue iridi color cioccolato fisse sulle mie mi davano come l'impressione che volesse leggermi nell'anima. Tuttavia, non mi ritrassi, anzi; mi feci ancora più vicina e posai una mano sulla sua spalla. Questa volta non mi sarei tirata indietro perché era ciò che desideravo.

Accostò il suo viso al mio in modo incerto.

'Baciami, baciami, baciami!' gridava la mia mente, sperando di essere udita.

Poiché non si decideva a compiere il primo passo, lo feci io, mossa da un istinto irresistibile.

Sfiorai le sue labbra con le mie, poi lo guardai negli occhi.

«Liz tu...» sussurrò.

«Shhh» feci e tornai a baciarlo, stavolta con più intensità.

Con un braccio avvolse la mia vita, mentre l'altra mano la utilizzò per accarezzarmi dolcemente la guancia.

Dal canto mio, tenevo ancora una mano sulla sua spalla e l'altra rimase immobile, abbandonata sul materasso.

Inizialmente si trattò di un bacio lento, dolce e pieno di tenerezza; qualche istante dopo, però, presi entrambi da una strana ed improvvisa passione, probablimente repressa, trasformammo radicalmente quel contatto.

Lo strinsi forte a me, affondando le dita tra i suoi capelli, nonostante fossero legati. Non avrei mai creduto che tutto ciò potesse accadere sul serio, eppure eccomi lì, immersa in un universo che mi era quasi del tutto sconosciuto.

Quando ci staccammo, mi accarezzò dolcemente i capelli e fissò i suoi occhi sui miei. «Non credevo che anche tu lo volessi» sussurrò.

«A quanto pare ti ho sorpreso» dissi, sorridendo. Quella situazione parve surreale anche a me, tuttavia ero felice. Felice perché io, colei che era sempre stata convinta di non potersi innamorare, a venticinque anni aveva scoperto che ne era in grado.

«Oh, Liz.» Mi strinse forte a sé, cullandomi tra le sue braccia.

E io, tra le sue braccia, stavo bene. Mi sentivo al sicuro, protetta, come mai prima d'allora. Avevo trascorso tutta la vita tra mille dubbi e paure; da quando avevo conosciuto i componenti dei Faithless, invece, tutto era cambiato. E da quando avevo conosciuto Michele, tutto era migliorato. Avevo sentito crescere la sicurezza e la fiducia in me stessa e questo lo dovevo soltanto al mio dolce bassista.

«Mick... Io... Grazie di tutto» balbettai, senza smettere di vergognarmi, nonostante sapessi che lui teneva a me così come io tenevo a lui.

«Figurati, sono qui a posta per te» rispose, attorcigliandosi una ciocca dei miei capelli su un dito.

E in quel momento, mentre ero stretta a lui, odiai per la prima volta l'incapacità di esprimere i miei sentimenti. Avrei voluto dirgli tante cose, ma non lo feci. Mi limitai a sospirare, chiudendo gli occhi.

'Ti amo' pensai. Ed era vero, era la cosa più autentica che avessi mai percepito in venticinque anni di vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


10.

 

 

Quando io e Michele giungemmo in soggiorno, Joey ci lanciò un'occhiata d'intesa, come se volesse la conferma che tra me e il bassista fosse successo quello che speravo.

Lo fissai e annuii impercettibilmente. «Mick, eccoti. Ti presento Corey, anche se forse ne hai già sentito parlare» disse il chitarrista, indicando con il capo il cantante che sedeva al suo fianco.

Michele gli si avvicinò e gli strinse la mano, dicendo: «Piacere, Michele. Puoi chiamarmi Mick.»

Dal canto mio, rimasi ad osservare le sue mosse, affascinata da ognuna di esse. Dopo qualche istante, mi lasciai cadere sul divano di fronte a quello dei due ex SlipKnoT e poco dopo fui raggiunta dal mio bassista, che mi circondò le spalle con un braccio. Inizialmente quel gesto mi imbarazzò un po', ma subito cercai di rilassarmi e cercai di scacciare via quella spiacevole sensazione.

I ragazzi presero a parlare tra loro, mentre io mi limitavo ad ascoltare, nonostante ogni tanto mi venisse rivolta qualche domanda o si alludesse a me come batterista dei Faithless.

Dopo un po' Michele osservò l'orologio che stava appeso alla sapete, sopra la testa di Corey e, inarcando le sopracciglia, mi chiese: «Ti va di andare a pranzo fuori? Ormai è quasi l'una.»

Osservai la sua espressione premurosa e attenta alla mia persona, e ne fui seriamente colpita. Desideravo stare con lui, così risposi: «Sicuro!» Mi alzai e aggiunsi: «Mi sistemo un attimo, non ci metterò molto.»

Annuì e io mi diressi in camera.

Dopo circa dieci minuti io e Michele stavamo salendo in macchina.

«Dove andiamo?» domandai, sprofondando sul sedile del passeggero.

«Mmh... Non so, decidi tu!»

«Cinese?»

«Cinese sia» concluse. Mentre guidava, fece partire un cd nell'autoradio.

Non appena udii le prime note della mia canzone, ebbi come un senso di vertigine. Vergognandomi, guardai fuori dal finestrino, giocherellando nervosamente con la cinghia della borsa. Sentivo le parole e avevo voglia di intonarle. Aveva ragione lui: erano vere, sincere, mie.

 

Dopo pranzo Mick mi propose di andare a casa sua e io accettai. Ero un po' nervosa all'idea di stare sola con lui, dopo quello che era successo. A casa di Joey eravamo soli, ma ciò non era stato programmato precedentemente.

Ora invece sì.

Saremo stati soli.

Completamente soli.

E questo mi faceva impazzire. Come mi sarei dovuta comportare? Come avrei dovuto agire? Cos'avrei dovuto dire?

Scossi il capo, cercando di calmarmi, mentre il mio bassista parcheggiava.

Tuttavia, l'agitazione rimase a farmi compagnia, mentre lui mi faceva strada su per le scale, tenendomi la mano.

Guardai l'ora sul display del mio cellulare: 14:15.

Le prove sarebbero cominciate alle 15:30.

Okay, potevo farcela.

Dovevo farcela.

«Siediti, principessa. Va tutto bene?» Lui era sempre così gentile, premuroso e dolce con me.

Abbassai lo sguardo e fissai le punte delle mie scarpe.

Mi si avvicinò. «Liz... Che succede? Non ti senti bene?»

«Sì, sto... Sto bene» balbettai.

«Non si direbbe.»

«È solo che... Che sono un po'... Agitata, ecco.»

Michele prese una delle mie mani e mi attirò più vicino a sé. «Quanto sei sciocca. Ehi, non c'è motivo perché tu ti senta così. Siamo io e te. Quante altre volte siamo stati insieme, prima d'ora? Pensa a Milano» disse, sistemandomi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio destro.

«Era diverso» sussurrai, fissando il vuoto oltre la sua spalla.

«Intendi dire che non era ancora successo questo?» domandò con lo stesso mio tono, sfiorando per un istante le mie labbra con le sue.

Cercai il suo sguardo. «Esatto» confermai.

«Liz, va tutto bene. Non ho nessuna fretta e mai e poi mai vorrei farti soffrire. Tu... Ti fidi di me?»

Quella domanda, per me, aveva un significato molto profondo perché la fiducia negli altri non era mai stato il mio forte. Senza lasciare i suoi occhi, risposi: «Sì, Mick, mi fido di te.»

Mi strinse forte a sé e sorrise. «Per me questo è davvero importante. Farò di tutto pur di tenermi stretta la fiducia che hai riposto in me» disse, con dolcezza.

«Lo so.»

In quel momento tutta l'ansia di poco prima sembrava svanita, cedendo il posto a gioia immensa.

Quando sciogliemmo l’abbraccio, mi chiese se avessi voglia di un caffè e io annuii entusiasta.

«La verità è che sono preoccupata per la reazione di Matt» gli confidai, mentre stavamo seduti in cucina davanti al nostro meraviglioso caffè all'italiana.

«Se devo essere sincero, anch'io. Siamo tutti amici, fratelli, noi Faithless. Cosa credi che comporterà il nostro legame al resto del gruppo del gruppo?» domandò, guardandomi distrattamente, mentre versava dello zucchero nella sua tazzina.

«Non lo so, ma spero che non si creino dei problemi.»

Il bassista bevve un sorso di caffè, ripose la tazzina e infine posò i gomiti sul tavolo. Mi osservò con aria pensierosa e disse: «Se dovessero nascere dei problemi, vedremo di risolverli.» Detto questo, gli si dipinse in viso un'espressione leggermente seccata che rispecchiava appieno il tono che aveva utilizzato per prunuciare quelle parole.

Sbuffai, versando lo zucchero nella mia tazza. «È questo il problema. Vorrei che non ci fosse alcun problema da risolvere. Ne ho già dovuti affrontare abbastanza in passato» mi lamentai, per poi pentirmi immediatamente. Odiavo chi si autocommiserava e piangeva sul latte versato, dunque non riuscii a sopportare l'idea di averlo appena fatto.

«Mi dispiace tanto. Vorrei davvero poterti evitare tutto questo e farò il possibile per far sì che non cambi nulla con gli altri. Purtroppo, però, questa è la vita, principessa mia. I guai non finiscono mai» sussurrò, rivolgendomi uno sguardo colmo di rammarico.

«Scusa, lo so. Ma ora non voglio pensarci, vedremo al momento cosa fare» dichiarai, per poi bere tutto d'un fiato il liquido nero.

«Hai ragione» concordò Michele, alzandosi. Si mise in piedi dietro di me, appoggiando la pancia sulla spalliera della mia sedia. «Tra un po' conviene avviarsi in saletta» disse, sospirando.

Mi voltai a guardarlo, rimanendo seduta. «Già. Non sembri molto contento» osservai, accarezzandogli timidamente un braccio.

«Indovinato. Vorrei stare qui, con te» sussurrò, chinandosi a baciarmi la fronte.

Catturai i suoi occhi con i miei e mi alzai lentamente, andandogli vicino. «Anch'io, sai?» mormorai, per poi baciarlo. Circondai il suo collo con le braccia, mentre lui cingeva i miei fianchi con le sue.

«Sono felice, Liz» disse, dopo essersi staccato da me.

«Anche io lo sono tanto, grazie a te.»

Sorrise. Quello fu Il sorriso più luminoso che i miei occhi avessero mai percepito.

 

Quando arrivammo in saletta, Michele mi teneva per mano e io feci di tutto perché non si notasse eccessivamente e, soprattutto, evitai accuratamente lo sguardo di Matt. Cosa sarebbe successo, ora?

Nessuno fece commenti.

Sospirai di sollievo e mi andai a sedere alla batteria, stringendo con forza le bacchette.

«Se le stringi in quel modo, va a finire che si romperanno» mi fece notare Janne, con tono divertito. «Nervosetta?» aggiunse, con un ghigno enorme dipinto in viso.

«Abbastanza. Comunque se dovessi distruggerle, ne ho un paio di scorta» gli feci notare con un sorriso colmo di sarcasmo, come per fargli intendere che non era quello il vero problema.

«Previdente. Attenta, credo che in un modo o nell'altro il chitarrista gallese manifesterà la sua furia» sussurrò poi, rivolgendo uno sguardo a Matt che accordava distrattamente la chitarra, seduto dall'altro lato della stanza.

Sospirai. «Non stento a crederci.»

Il tastierista si allontanò, strizzandomi l'occhio. Possibile che tutti fossero già a conoscenza di tutto? Sì, probabilmente era stato quel chiacchierone di Joey a spifferàre ogni cosa. Ciò non mi arrecò particolari dispiaceri, tuttavia sperai che Matt non lo sapesse ancora poiché avrei voluto parlargliene personalmente. Gli dovevo una spiegazione.

Scattai in piedi. Raggiunsi Joey e lo trascinai da parte, sotto lo sguardo indagatore di Corey.

«Che c'è?» fece il mio amico, perplesso.

«Matt lo sa? Gliel'hai detto?»

«Come ti viene in mente? Okay, è vero che il più delle volte non so tenere la bocca chiusa, ma non sono così stronzo. O lo capisce da solo o glielo dite voi, se volete» rispose, sussurrando.

Gli sorrisi riconoscente e tornai al mio posto, sempre sentendomi addosso gli occhi di Corey. Cosa c'era di così interessante da osservare in me?

Nel frattempo, il resto della band si sistemò e le prove presero avvio.

Quel giorno, ci esibimmo davanti a un inespressivo Corey Taylor che non mi staccò gli occhi di dosso, inquietandomi in maniera non indifferente.

Che voleva da me? Mi sarebbe davvero piaciuto saperlo.

Matt non fece nulla e questo poteva significare soltanto due cose: o se n'era accorto e faceva finta di niente o, semplicemente, non se n'era accorto.

In ogni caso, gli avrei parlato e spiegato con sincerità e franchezza ogni cosa anche se ancora non ero in grado di spiegare nemmeno a me stessa come tutto fosse accaduto e cambiato così velocemente.

Io ero cambiata radicalmente e lui aveva il diritto di saperlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


11.

 

 

«Ehi Matt! Posso parlare con te?»

Il chitarrista mi rivolse uno sguardo strano, quasi spaesato, poi  annuì.

Uscii dalla saletta e raggiunsi il terrazzo con lui al seguito.

«Te ne sei accorto?» domandai senza preamboli.

«Già da tempo, ormai» rispose, appoggiando la schiena alla ringhiera.

«Cosa... Cosa significa che...»

«Si vede lontano un miglio che siete innamorati l'uno dell'altra, nonostante tu mi dicessi che non eri in grado di farlo. Non te ne faccio una colpa, dovevi essere parecchio confusa. Meno male che me ne sono reso conto in anticipo, così ho avuto il tempo di farmene una ragione, almeno in parte, e ho evitato di sbottare come tutti si aspettavano.»

Rimasi in silenzio, stupita da quelle parole. Matt sapeva più di me come sarebbero andate a finire le cose. Era stato così chiaro il mio attaccamento a Michele? Avevo trascorso molto tempo insieme a lui, ma avevo capito da poco di esserne follemente innamorata. Eppure io stessa sapevo che quel sentimento era frutto di una lunga maturazione. Possibile che proprio io, la diretta interessata, non mi fossi accorta di niente? È proprio vero che, spesso, chi non è direttamente coinvolto nelle situazioni vede tutto con più chiarezza.

«Mi dispiace di averti mentito, ma... In quel momento credevo che fosse la verità. Sono mortificata» sussurrai, senza guardarlo. L'unica cosa che potevo fare era scusarmi, nonostante sapessi essere pressoché inutile. Chissà quanto soffriva, quanto mi desiderava, quanto voleva spaccare la faccia a Michele, quanto si stava trattenendo per non farlo, quanto si sforzava per non odiarmi a morte. Non seppi più cosa dire, così mi diressi verso la porta e rientrai in saletta, tornando a sistemarmi dietro la batteria. Avevo bisogno di sfogarmi, così presi a picchiare convulsamente sui piatti, per poi accasciarmi sulla sedia, sentendomi triste e in colpa.

Serj mi raggiunse, mentre notai che Michele lasciava la stanza.

«Vieni» disse il cantante armeno e io lo seguii sul divano.

Fu in quel momento che decisi cosa fare. Come potevo costruire la mia felicità sulla sofferenza di Matt? Non potevo sopportarlo e non era assolutamente giusto.

Quando i due tornarono in saletta io rimasi immobile accanto a Serj, mentre Michele mi raggiungeva e posava una delle sue mani sulla mia spalla.

Subito, rivolsi uno sguardo a Matt e nel suo viso, seppur cercasse di nasconderla, si dipinse una smorfia di sofferenza. Non appena si accorse che lo fissavo, distolse lo sguardo.

Mi alzai. «Joey? Andiamo a casa?» domandai, ignorando completamente Michele. Ciò mi provocò una fitta in mezzo al petto.

Joey mi osservò con aria perplessa. «Va bene. Dammi un attimo, sistemo la chitarra.»

Annuii e rimasi in piedi, mentre mi sentivo addosso, oltre agli sguardi dell'ex cantante dei Bullet e del mio bassista, anche quello di Corey. Avrei dovuto parlare con lui, prima o poi, per cercare di farmi un'idea di cosa avesse contro la mia persona.

«Liz, va tutto bene?» chiese Michele, avvicinandosi.

«Sì» risposi senza guardarlo.

Non fece in tempo a ribattere che Joey mi fece cenno di seguirlo, mentre il suo amico lo aveva già raggiunto vicino alla porta.

«Bene. Ciao ragazzi» dissi, avviandomi. Poco prima di uscire incrociai gli occhi di Michele e vi lessi confusione, paura, tristezza e delusione, in un mix troppo logorante da sopportare, così mi voltai e uscii. Mi sentii morire. Avrei voluto abbracciarlo e dirgli che andava tutto bene, ma non potevo farlo. Matt ci avrebbe sofferto. Sperai che attraverso il mio sguardo avesse scorto le mute scuse che avrei voluto rivolgergli.

Durante il viaggio in macchina mi sentivo infinitamente triste e affranta. Avevo preso la mia decisione: non potevo stare con Michele fingendo che andasse tutto per il meglio mentre Matt stava male a causa mia.

Una volta giunti a casa, feci per andare in camera ma fui bloccata.

«Liz?» mi chiamò Corey, dopo che Joey si fu dileguato in salotto.

«Sì?» risposi, incerta, voltandomi lentamente nella sua direzione. Evidentemente, aveva deciso di fare lui il primo passo e ciò mi fece quasi sospirare di sollievo.

Stava appoggiato allo stipite della porta d'ingresso, con le braccia incrociate sul petto e gli occhi socchiusi. «So che non dovrei intromettermi, ma credo di sapere cos'hai in mente di fare e ti dico che stai sbagliando tutto.»

Lo guardai storto, sperando di aver capito male. Si stava intromettendo nella mia vita senza alcuna cognizione di causa e questo mi irritava in maniera non indifferenza. Chi si credeva di essere? «E tu che ne sai di me? Fatti gli affari tuoi» ordinai, sbuffando, e me ne andai, imbufalita.

Cosa voleva quel Corey da me?

Mi chiusi in camera e mi gettai a letto sfinita. Volevo dormire per non pensare, per non sentire il dolore dilagare in me. Così, senza cambiarmi, mi addormentai con l'ansia che mi toglieva il respiro.

A svegliarmi fu un continuo bussare alla porta.

Mi alzai a fatica e, ancora intorpidita dal sonno, andai ad aprire.

Alla vista di Michele sulla soglia ebbi un sussulto. «Cosa fai qui?» chiesi, ignorando il suo saluto.

Mi rivolse un'occhiata interrogativa. «Non capisco cosa ti sia preso in saletta. Sei fredda, distaccata... C'entra per caso Matthew? Ti ha detto qualcosa che ti ha turbato?»

Senza guardarlo, con un'indifferenza disarmante, dissi: «Matt non c'entra. Il problema è che io e te non possiamo stare insieme.» Detto questo, avvertii una fitta lancinante al petto.

«Come, scusa?» chiese, con tono incerto, mentre il suo viso si distorceva in un'espressione profondamente sofferente, proprio com'era accaduto poche ore prima, in saletta.

«Hai capito bene, non voglio stare con te. Forse ti eri illuso. Hai capito male» risposi. Sentivo il sapore delle lacrime in gola ma le ricacciai indietro con forza. Se avessi ceduto in quel momento, non sarei più stata in grado di perseguire il mio obiettivo.

«E quella canzone... Quello che è successo... Quello che mi hai detto... Non ha nessun significato, tutto questo, per te?»

«Nessuno» affermai, guardandolo negli occhi con sufficienza.

Rimase lì a fissare il vuoto mentre io morivo dentro, con la voglia di stringerlo a me e cancellare il dolore che distorceva il suo bel viso. 'Perdonami Mick, ti prego' pensai, invece dissi: «Adesso vattene, vorrei tornare a dormire.» Era come se la mia voce fosse attraversata da un'abominevole tempesta di neve siberiana.

«Non ti credo. Non credo ad una sola parola di ciò che hai detto, Elisa. C'è qualcosa sotto a tutto questo e stai certa che lo scoprirò. Parola mia. Un'ultima cosa.» Piantò con fermezza i suoi occhi nei miei, poi aggiunse: «Ti amo. E non ho intenzione di stare qui un minuto di più per sentirmi dire che anche questo ti è indifferente, perché non è vero. Ti saluto» concluse e se ne andò.

Richiusi la porta con un calcio e mi lasciai andare alle lacrime. Lui mi amava e io amavo lui. Sì, lo amavo follemente. Eppure, tra noi non avrebbe mai potuto funzionare. D'allora in poi mi sarei dovuta abituare a convivere con quella sofferenza, con la morte nel cuore, con l'astinenza che la sua distanza mi procurava.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


12

 

 

E così trascorsero le ore, i giorni, le settimane e io stavo sempre peggio.

Michele non mi rivolgeva la parola e io non ero da meno. Durante le prove in saletta la tensione era palpabile e spesso ricevevo delle strane occhiate da Matt. Sembrava preoccupato. Evidentemente la mia tristezza e il mio vegetare dietro la batteria si notavano parecchio.

Intanto, Corey era ormai ancorato a casa di Joey e io cominciavo a non sopportarlo più. Dal giorno in cui si era permesso di intromettersi nella mia vita, avevo maturato un forte senso di repulsione nei suoi confronti.

Intanto, i miei colleghi erano preoccupati per le mie condizioni e quelle del bassista che, stranamente, diveniva più silenzioso giorno dopo giorno. Tutti cercarono di scoprire cosa fosse successo, chiedendomi come stavo, ma io mi limitavo a dire che era tutto a posto. Sapevo di non averli convinti, ma sapevano com'ero fatta e che, perciò, non era facile confidarmi. Dentro me sentivo crescere una sofferenza lancinante e a volte sembrava addirittura che qualcuno mi stesse strappando il cuore.

Vedere Michele ogni giorno e dovergli stare lontano, nonostante non desiderassi altro che stringerlo forte, stava diventando una situazione insostenibile.

Un pomeriggio, dopo le prove, mentre aspettavo che Joey si preparasse per tornare a casa, mi rifugiai nel terrazzo.

«Che fai qui tutta sola? Non era mio, questo posto?» disse Matt, raggiungendomi. Mi sorrise e io non potei fare a meno di restituirgli il gesto.

«Diciamo che mi hai ispirato.» Restammo in silenzio a fissarci per un po', poi io ripresi a parlare: «Ti è mai capitato di aver fatto qualcosa sperando di non fare del male a nessuno e invece scoprire che, forse, non era la cosa giusta?»

«Sì. Mi è capitato, Liz

«Racconta.»

«Dovresti correre da Mick» disse, d'improvviso.

«Cosa?» domandai, spiazzata.

«Si vede che ti manca e che senza lui stai da schifo. Credo che tu l'abbia lasciato per un motivo ben preciso che non riguarda i sentimenti.» Aveva ragione. Matt aveva capito tutto.

«E quale sarebbe questo motivo?» chiesi, con tono incerto.

«Ho il timore che tu l'abbia fatto a causa mia.»

«Non voglio che tu soffra, tutto qua» dichiarai, appoggiandomi alla ringhiera con le braccia incrociate sul petto. Il sole del pomeriggio cominciava a tramontare dietro i palazzoni londinesi e si stagliava, basso, sul mio viso.

«La sofferenza più grande» attaccò, raggiungendomi. Mi afferrò per le spalle e mi costrinse a guardarlo negli occhi, poi proseguì: «Il dolore più intenso che io possa provare si manifesta ogni volta che incontro i tuoi occhi e vi leggo tutta questa fottuta malinconia. Liz» si interruppe per poi sussurrare, «sii felice, ti prego. Non puoi vivere eternamente in funzione agli altri. È ora che pensi a te stessa e ad essere felice con la persona che desideri avere al tuo fianco. Solo così mi potrò mettere l'anima in pace.»

Quando concluse, rimasi stupita e colpita da quelle parole. Aveva ragione lui. Trascorrere le ultime settimane lontano dal mio bassista aveva fatto soffrire tutti e, cosa a cui non avevo dato minimamente peso finora, aveva fatto tanto male anche a Michele stesso. Come mi era venuto in mente di rinunciare a lui, sperando che tutti fossero più felici? Questo era impossibile e io avrei dovuto capirlo da subito.

«Grazie Matt. Hai ragione, sono stata una stupida!» ammisi, cominciando ad avviarmi in saletta. Avevo una missione da compiere: implorare perdono al mio dolce Michele, sperando che non fosse troppo tardi per recuperare il nostro rapporto.

Quando entrai nella stanza, però, lui non c'era più.

Il panico mi invase l'anima.

«Se cerchi Capa, se n'è appena andato» disse Janne, giocherellando come al solito con una delle mie bacchette.

Senza dire niente, mi precipitai fuori, gettandomi quasi giù dalle scale. La sua auto nel parcheggio non c'era. Senza perdere tempo, presi a correre come una pazza e raggiunsi la fermata dell'autobus. Dovevo parlare con lui, ora, subito! Avevo tanta voglia di riabbracciarlo e, soprattutto, di confessargli, finalmente, che l'amavo.

Il tragitto verso casa sua fu relativamente breve. Mentre l'autobus sfrecciava per le trafficate vie di Londra, ripensai a come la mia vita fosse cambiata da quando stavo in Inghilterra. All'inizio non volevo venire e, come al solito, avevo discusso con mio padre.

Scossi il capo a quel ricordo e mi concentrai su quello che stavo andando a fare, ovvero cercare di salvare la mia storia d'amore.

Quando scesi, alla sesta fermata, mi lanciai di corsa verso il palazzo dov'era situato il suo appartamento. Salii le scale senza nemmeno controllare se la sua macchina fosse nel parcheggio e suonai il campanello, stentando a calmare il fiatone. Non mi ero preparata mentalmente un qualcosa da dirgli, semplicemente avevo deciso di lasciar parlare il cuore.

La porta non si aprì. Senza lasciarmi scoraggiare, presi la mia decisione: non me ne sarei andata, l'avrei aspettato, se necessario, per sempre. Mi lasciai scivolare con la schiena contro la parete e strinsi le ginocchia al petto, socchiudendo gli occhi. Com'era possibile che proprio io fossi arrivata al punto di fare delle "pazzie" per amore?

Intanto, il tempo passava e io me ne rimanevo immobile ad aspettarlo. Quando il sonno cominciava ad appesantire le mie palpebre, udii dei rumori e un vociare provenire dall'ingresso del palazzo, tre piani sotto di me. Sollevai lo sguardo, e vidi Michele accompagnato da un suo amico.

«Mick!» saltai su, sentendomi improvvisamente attiva. Subito mi accorsi che c'era qualcosa che non andava.

«Elisa? Che fai qui? Comunque, Mick ha bevuto un po' troppo» mi spiegò Mark, raggiungendomi con il mio bassista che gli vegetava sulla spalla.

«Senti» attaccai, frugando nelle tasche di Michele per cercare le chiavi. «Mi occupo io di lui, glielo devo» dichiarai, mentre giravo la chiave nella serratura.

Il ragazzo annuì.

Lo aiutai a trasportare il bassista sul divano.

«Mark... Lei... Lei è... Bella... Vero? Bellissima...» prese a vaneggiare Michele, in italiano.

Mark mi osservò con aria interrogativa.

Levai gli occhi al cielo e accompagnai il suo amico alla porta, ringraziandolo per averlo riaccompagnato.

Tornai da lui e lo trovai immerso nel mondo dei sogni.

Mi sedetti in un angolo del divano e, poco dopo, chiusi gli occhi, posando la testa sulla sua.

 

Quando mi svegliai, avvertii un vuoto nello stomaco che mi fece ricordare di non aver cenato la sera prima.

Michele, con la testa sul mio petto, dormiva profondamente perciò mi alzai facendo di tutto per non svegliarlo. Gli posai il capo su un cuscino e mi avviai in cucina. Accesi la tv e cercai un canale di musica rock, mantenendo basso il volume. Subito dopo armeggiai in dispensa alla ricerca di cibo. Dopo aver messo su il caffè, presi un po' di pane e vi spalmai della cioccolata.

Intanto, in sottofondo, le note di una canzone dei Muse mi tennero compagnia mentre preparavo la colazione.

Quando intravidi Michele sulla soglia della cucina, stavo finendo di apparecchiare la tavola; lasciai perdere quello che stavo facendo e gli andai incontro, abbracciandolo.

«Ben svegliato! Come stai?» chiesi.

«Mal di testa. Ma... Cosa fai qui?» Cercò il mio sguardo.

«Ecco... Ieri sono venuta a cercarti ma non c'eri. Così ti ho aspettato e... Beh, sei arrivato con Mark e non eri messo per niente bene. Così ho deciso di rimanere a prendermi cura di te» spiegai, prendendogli la mano e trascinandolo a sedere.

Sgranò gli occhi non appena si accorse della colazione. «L'hai preparata tu?» chiese, seppur la domanda fosse scontata e la risposta ovvia.

Annuii e mi lasciai cadere su una sedia accanto alla sua, senza lasciare la sua mano.

«Ieri mi hai aspettato tanto?»

«No» mentii.

«Va bene... Ma... Perché mi cercavi? Se non sbaglio avevi deciso di starmi alla larga» osservò, mollando la presa.

«La verità è che non ce la facevo più. Starti lontano è...» Mi interruppi per cercare il termine più adatto. «Improponibile» conclusi, studiando la sua espressione indecifrabile.

«Allora perché... Perché mi hai lasciato? Non sai quanto faccia male» sussurrò, affondando le dita tra i capelli arruffati, con il rammarico a caratterizzargli la voce.

«Spero tu mi possa perdonare... L'ultima cosa che volevo era farti soffrire.»

«Allora dimmi perché!»

Lo guardai con cautela. «Matt» mormorai.

Michele mi fissò, perplesso. Poi, distolse lo sguardo e annuì.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


13

 

 

«L'ho fatto perché volevo evitare che lui stesse male» aggiunsi, dopo che Michele ebbe sollevato gli occhi al cielo.

«Non ci credo» disse, piatto.

«Sembra che tu ce l'abbia con lui! Non ne hai alcun motivo, sai? È stato lui ad incoraggiarmi e a farmi capire che dovevo tornare da te.»

Dopo essersi guardato intorno, posò nuovamente lo sguardo su di me e disse: «Sei tornata solo perché te l'ha detto lui?»

«No, Mick, maledizione!» Esasperata, mi presi la testa fra le mani e avvertii le lacrime pungermi gli occhi. «Tu non sai quanto mi odio» ripresi, senza guardarlo. «Mi odio perché non riesco a farti capire quanto tu sia importante, mi odio perché non merito tutto ciò che tu fai per me, mi odio perché non riesco mai ad esprimermi come vorrei. Perché è così difficile?» chiesi più a me stessa che a lui. Lasciai ricadere le braccia sul tavolo e tacqui.

«Cosa è difficile?»

Mi alzai, mi avvicinai a lui e lo strinsi forte, mentre ormai le gocce salate mi bagnavano il viso. «Mick... È difficile... Dirti... Oh, Mick! Anche io... Ti... T-ti amo» riuscii a dire tra i singhiozzi. Cominciai a sudare a causa dell'immenso imbarazzo e di ciò che pronunciare quelle parole mi aveva fatto provare.

Dopo essersi alzato a sua volta, mi fissò con un'espressione strana, difficile da definire. Poco dopo, si sciolse in un magnifico sorriso e mi prese la testa tra le mani.

Dal canto mio, gli circondai il collo con le braccia e non potei fare a meno di restituirgli il sorriso, mentre le lacrime divenivano di gioia.

«Tu...» attaccò, ma io lo interruppi lasciandogli un bacio a fior di labbra.

«Voglio stare con te, Mick, lo desidero davvero» sussurrai, per poi baciarlo con più intensità. Mi strinsi al suo corpo e approfondii quel contatto, rendendomi conto che, durante le settimane precedenti, avevo sentito terribilmente la sua mancanza.

Mi tenne stretta tra le braccia e io capii che anche lui, come me, doveva aver sofferto molto a causa della nostra lontananza finalmente interrotta.

Poco più tardi, quando ricevetti una chiamata da parte di Joey, io e Michele stavamo facendo colazione.

«Si può sapere che fine hai fatto ieri?» chiese, ignorando il mio saluto. Era preoccupato perché ero scappata via come un razzo senza avvisare nessuno e aveva ragione.

«Scusa, è che sono venuta a cercare Mick e non ho pensato di avvertire, mi spiace» dissi, rivolgendo uno sguardo al mio bassista.

«L'importante è che ora sia tutto a posto. Lo è, vero?» domandò, con tono speranzoso, tendente alla curiosità.

«Sì, finalmente.»

«Grandioso! Poi ne parliamo quando torni. Ah! Aspetta» fece una pausa, poi aggiunse: «Ti saluta Corey e dice che... Che hai fatto bene a tornare da lui. Ciao ciao.» Riattaccò.

Sbuffai. Nonostante mi avesse irritato quel suo impicciarsi nella mia vita, dovevo ammettere che Corey aveva avuto ragione da subito e che, probabilmente, avrei dovuto parlarci e scusarmi per il mio comportamento sempre un po' troppo scontroso.

«A che pensi?» chiese Michele, sfiorando la mia mano con la sua.

«Penso che sono stata ingiusta nei confronti di Corey, l'ho preso in antipatia ma alla fine aveva ragione lui.»

«Aveva ragione lui su cosa?»

Lo guardai negli occhi e, un po' in imbarazzo, dissi: «Secondo lui stavo sbagliando ad allontanarmi da te. Il fatto è che, non avendomi mai rivolto più di un saluto, un giorno mi ha fermato soltanto per dirmi che stavo sbagliando tutto e questa sua intromissione mi ha infastidito parecchio. Da quel momento ho iniziato a non sopportarlo. Ma ora...»

«È comprensibile che ti sia sentita a disagio quando lui ha cercato di entrare con prepotenza nella tua vita, ma ti posso assicurare che è un bravo ragazzo. Dovresti proprio parlarci» consigliò, sorridendo.

«Prima o poi lo farò.» Mi alzai e mi avvicinai a lui, per poi sedermi sopra le sue ginocchia.

All'inizio parve sorpreso, ma poi mi strinse per la vita con le braccia. «Piccola... Quanto sono felice che tu sia tornata da me» sussurrò, posando la testa sulla mia spalla.

Sorrisi. Afferrai qualche ciocca dei suoi capelli. «Anche io lo sono.»

 

Finalmente le cose erano tornate alla normalità e, per far sì che tutto andasse bene, decisi che dovevo parlare con Corey ad ogni costo. Così, la prima cosa che feci una volta rientrata a casa di Joey, fu cercare l'ex cantante degli SlipKnoT e chiarire le cose.

Lo scovai seduto nella sala computer di casa Jordison che ascoltava una canzone su YouTube.

«Ciao Corey, disturbo?»

«Liz? Ciao! Certo che no, siediti pure.»

Feci come mi disse, mi accomodai su una poltroncina di pelle situata in un angolo della stanza e incrociai le gambe, osservandolo mentre si avvicinava e mi si inginocchiava davanti. Quel gesto mi inquietò parecchio, ma cercai di non pensarci troppo.

«Mi cercavi?» domandò.

«Sì, volevo parlare con te. Mi dispiace di averti evitato e di averti risposto male quando...»

«Lo so che non l'hai fatto a posta, è comprensibile che non volessi che un estraneo si intromettesse nella tua vita.»

Annuii.

«Liz, comunque, forse anch'io ho sbagliato» aggiunse.

Stranamente, non riuscii a capire se si riferisse al fatto di essersi intromesso o a qualcos'altro che non ero capace di afferrare. Spaesata, avvertii come la sensazione e il bisogno di andarmene da quella stanza, di allontanarmi da lui. Tuttavia, rimasi inchiodata dov'ero, dicendomi che non potevo scappare in eterno e che era la mia immaginazione a giocarmi brutti scherzi.

Lo osservai con aria interrogativa.

«Ho sbagliato a consigliarti di tornare da Michele» disse ancora, fissandomi con un'espressione quasi... Famelica? In ogni caso, temetti quello sguardo.

«Cosa... Cosa vuoi dire?» chiesi, con tono incerto.

Non ebbi nemmeno il tempo di capire le sue intenzioni, che me lo ritrovai addosso che premeva le sue labbra sulle mie.

No, non poteva essere. Sentendomi avvampare per l'imbarazzo e per l'ira, sollevai un ginocchio e lo colpii dritto in mezzo alle gambe, facendolo rotolare a terra dal dolore. Un grido gli sfuggì strozzato.

«Cosa cazzo stai facendo? Se provi ancora ad avvicinarti a me te ne do un altro! Hai sbagliato a metterti contro di me, questa me la paghi, bastardo!» Saltai in piedi e me ne andai.

 

«Joey, dobbiamo parlare» esordii, irrompendo in salotto, dove il chitarrista era intento a guardare la tv.

«Certo, ma che succede? Come mai quella faccia?» mi domandò studiando la mia espressione.

Rimasi in piedi vicino alla porta con le braccia incrociate sul petto, senza proferire parola.

Il mio amico spense la tv e mi fece cenno di raggiungerlo sul divano.

«Ti devo chiedere di scegliere tra la mia presenza in questa casa o quella di quel depravato di Corey!» sbottai, rimanendo ferma dov'ero.

Joey sgranò gli occhi e, lentamente, si alzò e mi si avvicinò. «Cosa?»

«Hai capito! O se ne va lui o me ne vado io!»

«Ma perché, Liz, eh? Cos'è successo?»

«Ti basti sapere che è un porco! Allora?»

Alzò gli occhi al cielo e disse: «Allora cosa? Non posso sfrattarlo, è come un fratello per me! Come puoi chiedermi una cosa simile?»

«Infatti non te l'ho chiesto, ti ho messo davanti ad una scelta e tu hai deciso. Tolgo subito il disturbo» dichiarai, sentendomi in qualche modo tradita da Joey.

«Non dire cazzate Liz, fermati! Ma dove vai?» chiese, trattenendomi per un polso.

«Vado dal mio ragazzo, che sarà contentissimo quando saprà cos'ha fatto il tuo caro amico!»

«Cos'ha fatto? Me lo dici o no?»

«Chiedilo a lui. E ora lasciami andare» gli ordinai, divincolandomi dalla sua presa.

Corsi in camera e iniziai a preparare le mie cose. Perfetto, non riuscivo ad avere una dimora fissa. Decisi che sarei rimasta a casa di Michele giusto il tempo necessario per trovare un appartamento tutto mio.

Quando me ne andai sbattendo la porta, non mi preoccupai di salutare nessuno. Volevo solo allontanarmi da Corey e da quel traditore di Joey. Come avevo potuto fidarmi di lui? E ora, avevo ricevuto l'ennesima mazzata. Avrei dovuto essere distaccata come ero sempre stata, invece mi ero lasciata andare, ancora una volta, con la persona sbagliata.

Frustrata, presi l'autobus e durante il tragitto pensai a come sarebbero andate ora le cose con i Faithless. E Michele cos'avrebbe fatto? Non ne avevo idea ma decisi comunque di attendere di poter assistere con i miei occhi alla sua reazione.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


14

 

 

«Liz? Cosa fai qui con quella valigia?» mi chiese Michele non appena aprì la porta.

«Mick!» Abbandonai il mio bagaglio sulla soglia e mi gettai tra le sue braccia.

«Principessa, ehi... Che succede?» domandò stringendomi al petto e accarezzandomi i capelli.

Cercai il suo sguardo. «Posso stare qui da te finché non trovo un'altra sistemazione?» sussurrai, con imbarazzo.

«Ma... Ma come mai? Non stavi... Non stavi da Joey?» balbettò confuso. Dopodiché si staccò da me, chiuse la porta e mi condusse in cucina.

Dopo essermi seduta sul divano con lui al seguito, dissi: «Me ne sono andata da casa di Joey perché... Per colpa di Corey

Il bassista mi guardò con aria interrogativa, così aggiunsi: «Ecco... Corey ha provato a... Lui mi ha... Baciato.»

Il viso di Michele si distorse a causa della rabbia. «Bastardo!» esclamò, stringendo i pugni.

«Dai... Ora stai tranquillo. Quello che mi ha ferito maggiormente è il fatto che Joey abbia scelto lui» ripresi, accarezzando distrattamente il dorso della sua mano, che poi si intrecciò alla mia.

«Cosa significa che ha scelto lui?»

«Sono andata a parlargli di quello che era successo e gli ho detto che se non se ne fosse andato Corey me ne sarei andata io e lui ha risposto che non poteva sfrattarlo così.» Più guardavo il mio bassista, più avvertivo la delusione mischiarsi alla rabbia nei suoi occhi scuri.

«Questa non me la sarei mai aspettata da Joey» disse, amareggiato.

«Nemmeno io in realtà.»

Lasciò la mia mano e si alzò, per poi avvicinarsi alla finestra e guardare all'esterno. «Vedrò di risolvere anche questo principessa, stanne certa» dichiarò, perdendo lo sguardo all'orizzonte, nonostante ai suoi occhi si mostrasse soltanto un'infinità di palazzoni grigi.

Lo raggiunsi e lo abbracciai da dietro, posando la testa tra le sue scapole. «Grazie amore mio, grazie per come ti prendi cura di me» sussurrai, stringendolo forte.

Rimase in silenzio e poi si voltò per poter ricambiare l'abbraccio.

«Comunque non c'è bisogno, ho già parlato io con loro» aggiunsi.

«Ti proteggerò sempre e comunque, da ogni male» ribatté con tono fermo, fissandomi intensamente negli occhi.

 

Quando quello stesso pomeriggio ci ritrovammo in saletta per le prove, Corey non c'era.

Dal canto mio, feci il mio solito giro di saluti, ignorando deliberatamente Joey. Mi fermai a parlare con Matt e, mentre accordava la chitarra, gli raccontai gli ultimi avvenimenti.

Dopo aver scosso il capo, rivolse una veloce occhiata all'altro chitarrista, per poi sospirare.

Notai che Michele parlottava con Janne e Max, mentre Serj mi osservava dal lato opposto della stanza, così lo raggiunsi lasciando che Matt si concentrasse su ciò che stava facendo.

«Ehi» dissi, affiancandomi al cantante armeno.

«Ehi» rispose, scrutandomi.

«Come mai mi guardavi in quel modo? Scommetto che hai intuito qualcosa.»

«Se ti riferisci al fatto che tu e Jordison vi comportate come due estranei, penso sia impossibile non accorgersene» spiegò. «Comunque, che è successo?» domandò, a bassa voce.

«Corey mi ha baciato e lui l'ha difeso» risposi.

«Ahia! Ecco perché Mick ha quella faccia da funerale oggi. Non basta quello che ha fatto Taylor, in più c'è pure il tradimento di un amico. Brutta storia» osservò Serj, per poi darmi una pacca sulla spalla. «Coraggio, supereremo anche questa, non temere. Io comunque sono a disposizione se hai bisogno.»

Non potei fare a meno di sorridere. «Inguaribile ottimista. Comunque grazie.»

Mi restituì il sorriso e si avvicinò agli altri per capire se fossero pronti per iniziare, mentre io andavo a sedermi dietro la batteria. Qualche minuto dopo cominciarono le prove e io mi sfogai parecchio con le bacchette.

Due ore dopo eravamo intenti a sistemare tutto per andarcene, abbastanza soddisfatti di come avevamo suonato.

Qualcosa, però, accadde e rallentò i nostri preparativi, deconcentrandoci: sulla soglia, con aria spavalda, apparve Corey.

Rimasi shockata per qualche istante, ma subito mi riscossi e lo incenerii con lo sguardo.

«Cosa cazzo ci fai tu qui?» gli gridai in faccia, facendo qualche passo nella sua direzione.

Michele, che non si era accorto di niente intento com'era a riordinare meticolosamente il suo basso, si voltò e in un attimo il suo volto si distorse per la rabbia.

Feci appena in tempo a raggiungerlo prima che si scagliasse addosso all'ex cantante degli SlipKnoT. «Amore, no» sussurrai, tenendolo stretto a me.

Corey non staccava gli occhi da noi e non smetteva di fissare le mie braccia avvolte al corpo tremante di rabbia di Michele.

«Liz... Lasciami» provò a protestare il bassista, ma lo interruppi:

«Mick, no, ti prego.»

I suoi occhi incontrarono i miei e vi lessi un'ira bruciante e un istinto omicida non indifferente.

«Andiamo a casa, mmh? Prendi il basso e andiamocene» consigliai.

Lui annuì e insieme andammo a recuperare il suo strumento.

Intanto, Corey aveva salutato il resto del gruppo e si era avvicinato a Joey.

Io e Michele ci avviammo verso la porta.

«Liz? Tesoro, non mi saluti?» disse Corey e io mi bloccai. Aveva superato il limite, decisamente.

Michele, al mio fianco, divenne paonazzo in viso a causa della crescente rabbia nei confronti di quello stronzo e io lo strinsi forte dicendo:

«Tranquillo, su, non è niente. Ci penso io.»

Mi voltai nella direzione dell'amico di Joey. Non gli rivolsi la parola ma bastò un mio sguardo a far sì che abbassasse il suo.

«Ciao ragazzi, a domani» dissi con un sorriso guardando Janne, Serj, Max e Matt. Dopodiché strinsi più forte la mano del mio bassista e lo trascinai fuori dalla saletta.

Una volta saliti in macchina lui, anziché partire, appoggiò la testa sul volante, sospirando pesantemente.

«Mick, dai... Non te la prendere, l'ha fatto a posta per provocarci, lo capisci?»

Sprofondò sul sedile e mi guardò. «Avrei voluto spaccargli la faccia» ammise.

Avvicinai il mio corpo al suo e lo baciai dolcemente, posando una mano sulla sua guancia. Poco dopo, fissando i suoi occhi, sussurrai: «Andiamo a casa e non pensiamoci più.»

Lui annuì, così ci mettemmo in viaggio.

«Se vuoi, metti un cd» disse, accennando al porta oggetti.

Presi il suo disco 'Le Dimensioni Del Mio Caos' e lo infilai nel lettore. Era sempre stato il mio album preferito, ma da quando mi aveva dedicato 'Ulisse' lo amavo ancora di più. Trascorremmo il resto del viaggio immersi tra le note e i testi delle sue canzoni, intonandole insieme. Mi rilassava cantare e in quel momento ne avevo bisogno, dopo quello che era successo con Corey.

Anche Michele sembrò essersi tranquillizzato e io ne fui estremamente felice. Non avrei permesso a nessuno di rovinare il nostro rapporto, avevo già fatto troppi errori e non avrei più potuto accettare di perderlo ancora.

 

«Comunque non la passa liscia» disse Michele, dopo cena, mentre stavamo sul divano a fare zapping in tv.

Mi voltai a guardarlo e risposi: «Capa, la smetti o no? Ne abbiamo già parlato. Non ne vale la pena, lo sai.»

«Mi fa incazzare! E tu non mi chiamare in quel modo» disse più dolcemente, rivolgendomi un'occhiata carica di significato.

«È solo che non voglio vederti così nervoso, ti fa male. Scusa, mi è uscito spontaneo» sussurrai.

«Va bene, non importa.» Mi fece cenno di avvicinarmi a lui e io posai la testa sul suo petto, sintonizzando la tv sul mio canale rock preferito.

«Liz, forse non sai qual è il problema.»

«Probabilmente hai ragione, non lo so.»

«Il fatto è che ora io e te... Be'... Ci frequentiamo, ecco. L'idea che qualcuno possa distruggere quello che si sta creando tra noi mi manda in bestia. Ci è voluto tanto tempo perché le nostre anime si trovassero e non posso permettermi di lasciarti andare così, come se niente fosse» confessò, appoggiando una mano sulla mia spalla.

Chiusi gli occhi e rimasi in silenzio ad ascoltare il battito del suo cuore vibrare sotto il mio orecchio e così ebbi modo di assimilare quelle parole. Mi limitai a stringerlo forte, chiedendomi quanto fosse facile per lui esternare i suoi sentimenti. Anch'io avrei voluto dirgli tante di quelle cose con le quali avrei addirittura potuto scrivere un libro, eppure non ne ero assolutamente in grado. Lui però sapeva che dentro di me regnavano dei sentimenti puri e sinceri e conosceva ogni mia difficoltà, proprio come mi aveva detto Joey tempo addietro.

Già, Joey. Mi sembrava impossibile che mi avesse tradito poiché era stato lui a spingermi a lottare per stare con l'uomo che amavo. Ci doveva essere qualcosa sotto. Il fatto che lui mi avesse pugnalato alle spalle non rientrava nelle mie capacità di concepimento. Joey era Joey e non poteva averlo fatto, non poteva e basta.

Eppure, l'aveva fatto.

Temevo che il mio rapporto con lui fosse giunto definitivamente al termine e temevo che questo potesse influire negativamente sulla carriera dei Faithless.

Sospirai, e Michele fece lo stesso.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


15

 

 

I giorni passavano e le prove con il gruppo erano sempre più strane. Regnava perennemente uno strano silenzio, e io cominciavo a pensare che, di questo passo, non ci sarebbe stato più quell'affiatamento e quell'entusiasmo tipico dei mesi precedenti. Della situazione erano a conoscenza tutti i componenti della band.

Matt, infatti, era piuttosto distaccato nei confronti dell'altro chitarrista e gli lanciava strane occhiate ogni tanto, come se studiasse i suoi comportamenti.

Per quanto riguardava Corey, non si era più fatto vedere e io pensai che fosse dovuto alla figuraccia che aveva fatto quel giorno in saletta.

Un giorno, però, parlando con Max, avevo scoperto che era tornato in America.

Quel giorno ero piuttosto immersa nel mio mondo e quasi sobbalzai quando qualcuno mi rivolse la parola.

«A cosa pensi?» mi chiese Serj, distogliendomi dal caos che popolava la mia mente. Ci trovavamo in saletta circa una settimana dopo l'accaduto e io, dopo finite le prove, ero rimasta dietro la batteria a fissare il nulla.

«Pensavo a questa situazione con Joey» risposi, posando lo sguardo sul cantante armeno che stava in piedi al mio fianco con le braccia incrociate sul petto.

Non fece in tempo a ribattere che fummo interrotti da qualcuno che irruppe nella stanza. Si trattava di una ragazza piuttosto alta, capelli scuri, fisicamente perfetta, di una bellezza disarmante. Si guardò intorno e poi corse incontro a Max e lo abbracciò. «Max!» disse, poi aggiunse qualcosa in una lingua a me sconosciuta, che mi parve uno spagnolo molto strano, che poteva essere portoghese.

Così, cominciò un dialogo tra i due in quel linguaggio incomprensibile per i presenti, poi il cantante brasiliano ci rivolse la parola: «Ragazzi, lei è mia sorella Débora. Deb, loro sono Matt, Joey, Janne, Serj, Liz e Mick» disse, indicandoci man mano che pronunciava il nostro nome.

La ragazza esaminò i nostri visi, poi, ad un tratto, le si illuminarono gli occhi.

Seguii il suo sguardo che si posò famelico sul mio bassista. Poco dopo tornò a guardare il fratello e disse in inglese: «Mi piacciono i tuoi amici.»

Cercai di mantenere la calma mentre quella vipera mangiava il mio Michele con gli occhi. Era in quella stanza da poco più di dieci minuti e già la detestavo. Mi dispiaceva per Max, ma sua sorella non avrebbe avuto vita facile con me.

Serj, che stava ancora in piedi vicino a me, mi posò una mano sulla spalla.

Lo guardai e nei suoi occhi lessi tranquillità, come se volesse rassicurarmi, facendomi intendere che non dovevo preoccuparmi. Lui era fatto così, vedeva sempre del buono in ogni persona o situazione, e questo poteva essere sì un pregio ma anche un difetto. Infatti, non sempre le cose andavano per il meglio, ma in fondo sperarci non costava poi tanto.

Purtroppo, però, l'ottimismo appena acquistato grazie al cantante armeno fu destinato a morir sul nascere. Infatti, la stangona, non appena finite le prove, si sedette sul divano accanto al mio bassista e, incrociando le gambe, cominciò a parlargli con un'espressione e un atteggiamento da gatta morta che mi mandò in bestia.

Mi alzai, lasciando cadere le bacchette sul pavimento e mi diressi a passo spedito verso il divano. Con prepotenza, mi misi a sedere sulle ginocchia del mio ragazzo.

Ehi, un attimo... Michele era il mio ragazzo? Quella consapevolezza mi scosse leggermente, poiché non avevo ancora preso seriamente in considerazione quell'opzione.

Gli circondai il collo con le braccia e mi godetti l'espressione perplessa di Débora.

Dal canto suo, Michele, colpito da quel mio gesto in pubblico, rimase immobile per qualche istante, poi mi strinse a sua volta.

«Voi due... State insieme?» domandò quella, sconcertata.

«Precisamente» risposi, secca e concisa.

Abbassò lo sguardo, per poi spostarlo altrove, sulla figura di suo fratello che era intento a colpire Janne in testa con una delle mie bacchette. La scena mi fece sorridere e, stretta al bassista, osservai i nostri amici rincorrersi per tutta la stanza come dei bambini dell'asilo.

L'unico che rimaneva in disparte era Joey e vederlo in quel modo, solo in un angolo, mi dispiacque parecchio. Ero convinta della sua fedeltà nei miei confronti, non poteva avermi tradito, non era da Joey. D’altronde, lui mi aveva accolto, evitando di lasciarmi in mezzo alla strada.

Ero più che certa che lui tenesse a me e l'avrei dimostrato a me stessa e al resto dei Faithless.

 

Sperai vivamente che Débora avesse recepito il messaggio e che lasciasse in pace il mio ragazzo.

Già, ormai lo consideravo tale, nonostante non ne avessimo parlato esplicitamente. Tuttavia, ero sicura che lui fosse contento di ciò, e non tardò a farmelo presente.

Mi ero rifugiata nel piccolo balcone di casa sua quella sera, quando mi raggiunse.

«Che fai qui?» domandò, cercando subito un contatto con me. Avvolse le mie spalle con un braccio e rivolse lo sguardo al cielo notturno.

«Riflettevo» sussurrai, stringendomi al suo fianco.

«Sul fatto che noi due stiamo insieme?» volle sapere, dandomi un buffetto sulla guancia.

Sorrisi perché mi aspettavo che portasse fuori l'argomento. «Ti ha per caso dato fastidio il fatto che io l'abbia confermato a Débora?» risposi, con un'altra domanda.

Scosse vigorosamente il capo. «Affatto. Credo sia stata la cosa giusta da fare.»

Annuii. Credetti che non ci fosse altro da aggiungere, ma lui riuscì comunque a stupirmi, come al solito.

«Dunque è così?»

Rimasi stupita da quella domanda, perciò mi lasciai sfuggire: «Cosa?»

«Stiamo insieme Liz

Cercai il suo sguardo e risposi con un sussurro: «Spero di sì.»

Rimanemmo in silenzio e fissammo l'uno gli occhi dell'altra.

Avrei voluto dirgli che l'amavo, ma non lo feci. Mi sembrò fuori luogo e, inoltre, mi ero nuovamente bloccata. Odiavo non potermi esprimere come desideravo, soprattutto nei suoi confronti.

Dopo un po', mi strinse a sé e sussurrò al mio orecchio. «Hai sperato bene.»

Rabbrividii leggermente e ricambiai l'abbraccio, senza dire niente. Forse, i gesti furono capaci di parlare più della mia stessa voce, e Michele sembrò capire il mio muto messaggio.

Quando andai a dormire, quella notte, mi sentii sola. Avrei tanto voluto stringermi al suo petto e sentirlo respirare sui miei capelli, eppure rimasi lì, sola, senza riuscire a chiudere occhio per un bel po' di tempo. Quando, finalmente, mi abbandonai tra le braccia di Morfeo, ero abbracciata al cuscino, alla ricerca del suo odore.

Invano.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo sedici ***


16

 

 

Quando riaprii gli occhi, il mattino seguente, mi sentivo uno straccio. Possibile che dipendesse dalla voglia di dormire sul petto del mio ragazzo? No, era impossibile.

Mi alzai e mi chiusi in bagno. Feci una bella doccia tiepida e, dopo essermi vestita, raggiunsi la cucina.

«Buongiorno! Come stai oggi principessa?» mi accolse il bassista, venendomi incontro con un sorriso.

Mi lasciai stringere, cercando di percepire il suo odore che mi era mancato terribilmente.

«'giorno. Mmh, non va tanto bene, mi sento un po' debole» confessai.

«Dai vieni» mi incitò accompagnandomi a tavola. «Ora bevi un bel caffè e vedrai che starai meglio» concluse, versandomi il liquido miracoloso in una tazzina.

Non sapevo se fosse il caso di dirgli cosa mi faceva star male, eppure non lo feci, perché non ne trovai il coraggio. Ormai era una routine provare a lottare con il fatto di non riuscire ad esprimere praticamente niente, e ancora mi stupivo di essere riuscita a dirgli che l'amavo. Mi sembravano cose talmente estranee alla mia persona, che davvero non mi capacitavo di averle fatte mie in quei momenti. Ero frustrata e, più il tempo passava, più detestavo quella sorta di handicap che da troppo tempo mi caratterizzava.

«Tutto bene?»

Mi riscossi da quei pensieri e scossi il capo.

«Devo preoccuparmi Liz?» domandò ancora, leggermente allarmato.

«No, davvero. Ti dispiace se torno a letto, Mick? Sto proprio da schifo» sussurrai.

«Figurati, vai pure.»

Senza aggiungere altro, mi alzai e mi trascinai nuovamente in camera, per poi gettarmi nel letto. Sapevo benissimo che il male che provavo era strettamente psicologico, tuttavia rimasi tutta la mattina sotto le coperte appisolandomi di tanto in tanto. Se solo avessi potuto semplicemente liberarmi di ciò che mi causava quello strano malessere come probabilmente avrebbe fatto qualsiasi altra persona.

Ma io non ero come gli altri.

Io ero Liz: il cuore lacerato, l'anima distrutta e tanto, troppo, da raccontare.

 

Decisi di parlare con Joey. La situazione tra noi era ormai insostenibile e le prove venivano spesso rimandate per suoi improvvisi e inspiegabili impegni.

Michele, con il quale avevo parlato delle mie intenzioni durante il viaggio verso la saletta, non sembrava molto entusiasta all'idea.

«Non fraintendermi Liz, mi farebbe piacere che tutto si sistemasse, ma penso che dovrebbe prendere lui l'iniziativa» disse infatti.

«Andiamo, sai com'è fatto Joey. Tra l'altro, si ritrova ad avere quasi tutta la band contro, vuoi che non tema una reazione da parte nostra?» ribattei, osservando il suo profilo rivolto verso la strada.

«Probabilmente sì. Be', comunque se vuoi parlarci, fallo. Sicuramente dopo ti sentirai meglio.»

Annuii. Aveva ragione. Mi conosceva abbastanza per sapere che anche la cosa più semplice riusciva a rallegrarmi. Stavo male a causa della situazione creatasi con Joey perché era come se avessi perso una parte della famiglia, un fratello. E siccome una famiglia vera e propria non la avevo, l'idea di perdere anche uno solo degli affetti rappresentati dai ragazzi dei Faithless mi faceva male, troppo male.

Quando entrando in saletta incrociai lo sguardo triste del chitarrista, non riuscii più a resistere. Lo raggiunsi, lo guardai negli occhi e, senza dire niente, lo trascinai in terrazzo, sotto lo sguardo stupito degli altri.

«Joey, senti... Mi manchi, okay?» dissi, senza guardarlo.

«Anche tu, tanto. Mi dispiace di aver in qualche modo difeso Corey, non c'è giustificazione per il mio comportamento. Prima che se ne andasse, gli ho detto tutto quello che pensavo e ora credo mi odi.»

«Cosa gli hai detto?» domandai, curiosa.

«Che è un fottuto stronzo e tante altre cose che è meglio non ripetere.»

Risi. «Probabilmente ti odia davvero. Comunque non dovevi, insomma, lui è...»

«Corey è cambiato tanto in questi ultimi mesi, non è più lo stesso. Perciò, anche il nostro rapporto di conseguenza si è modificato» spiegò. Ci soffriva, lo sapevo, lo percepivo.

«Mi dispiace» sussurrai, avvicinandomi di più a lui.

Joey mi guardò, cercando di sorridere, nonostante il suo viso, esprimesse tristezza e delusione. «Anche a me» rispose.

Lo abbracciai forte. «Joey... Ti voglio tanto bene» confessai, mentre lui ricambiava il mio gesto.

«Anch'io collega te ne voglio tanto.»

Così, fui felice che con Joey fosse tutto okay.

Ciò che mi mandò su tutte le furie fu la sorpresa che mi attendeva in saletta non appena rientrai. Débora, che non avevo idea di cosa facesse anche quel giorno là, si comportava da civetta con il mio ragazzo.

Joey, che mi stava accanto, sbuffò rumorosamente, attirando l'attenzione di tutti, soprattutto dell'odiosa brasiliana. «Possiamo iniziare le prove se siete pronti» disse poi, rivolgendo uno sguardo ai membri del gruppo.

Michele mi raggiunse, mi lasciò un lieve bacio sulla fronte e andò a prendere il suo basso, mentre io mi sistemavo dietro la batteria.

La sorella di Max rimase in piedi vicino al divano con la schiena contro il muro per tutta la durata delle prove, fissando ammaliata le dedizione con cui il bassista sfiorava ogni singola corda del suo strumento.

La odiavo e ciò venne fuori nel modo in cui suonai. Durante la terza canzone mi si ruppe una bacchetta. Imprecai.

Il bassista mi guardò stupito, poi scoppiò a ridere, seguito a ruota da tutti gli altri.

Tutti tranne Débora, che si limitò a serrare le labbra e i pugni mentre osservava Michele ridere con me, per me.

«Hai le bacchette di ricambio?» domandò Janne con tono divertito.

«Quale batterista serio andrebbe in giro senza le bacchette di ricambio?» feci, estraendone un nuovo paio dalla borsa. Ne feci roteare una in aria.

Joey trotterellò euforico nella mia direzione e pretese di fare batti cinque.

Non appena riuscii a smettere di ridere, aggiunsi: «Pronti? Riprendiamo?»

Tutti annuirono e le prove proseguirono. Ero contenta del fatto che quella gatta morta stesse rodendo dalla rabbia e dalla gelosia. La detestavo, mi dispiaceva terribilmente per Max, ma sua sorella faceva parte della mia lista nera. Non avrebbe avuto scampo con me, affatto.

Dopo un po', mentre continuavamo a provare, Débora prese a fissare me, distogliendo lo sguardo da Michele. Mi guardava, studiava ogni mio movimento come volesse trucidarmi con gli occhi, mettendomi in soggezione.

Fu durante un assolo di Matt accompagnato dalla melodica voce di Serj che smisi di suonare. Ora, oltre a quello della brasiliana, sentivo addosso lo sguardo interrogativo di tutti.

Il mio, invece, era piantato unicamente in quello della sorella di Max.

«Potresti gentilmente smettere di guardarmi?» sbottai.

Sorrise. Quella stronza aveva osato sorridere davanti alla mia irritazione.

Mi alzai e in un attimo le fui vicino.

Qualcuno, alle mie spalle, mi trattenne per un braccio.

Lanciai una veloce occhiata. «Lasciami, Matt» sussurrai a denti stretti, cercando di divincolarmi.

La sua presa aumentò.

Débora, intanto, continuava a sorridere, beffarda, con le braccia incrociate sul petto. «Che c'è, Liz? Mmh?» fece, socchiudendo gli occhi.

Vedevo tutto rosso, accecata dalla rabbia. Grugnii.

«Ora basta, ragazze» intervenne Serj. Come sempre, il suo tono era terribilmente calmo, pacato, tranquillo. «Max, sarebbe meglio tenere tua sorella lontana dalla saletta d'ora in avanti. Liz, stai calma, su» concluse, guardandomi. Nei suoi occhi intravidi qualcosa che subito mi tranquillizzò.

Mi liberai di Matt e lo raggiunsi, sorridendogli.

Prese una delle mie mani e la strinse, con fare rassicurante e allo stesso tempo protettivo. Sentivo che il cantante armeno rappresentava il padre che, ormai, avevo perso per sempre.

Max, intanto, stava avendo una muta conversazione con sua sorella, fissandola intensamente negli occhi. Poco dopo, disse: «Ragazzi, mi dispiace per il disagio. Vi assicuro che Deb non vi darà più fastidio. Ora noi andiamo.»

Solo quando i due lasciarono la saletta mi resi conto che, per quel giorno, le prove erano terminate. Con la mano stretta a quella di Serj, ripensai al truce sguardo che Débora mi rivolse poco prima di uscire.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo diciassette ***


17

 

 

Tenere la mano al cantante armeno mi permetteva di mantenere la calma, poiché il suo carattere ottimista e pacato era in grado di infondere quelli stessi sentimenti a chi lo circondava.

Michele stava sistemando il suo basso in silenzio e io lo osservai, pensando a quanto fossi fortunata ad averlo accanto. Débora non me l'avrebbe portato via. Io non l'avrei permesso e nemmeno lui. Lo sapevo, ne ero certa. Come avrebbe potuto essere interessato a quella? Era bella, sì, ma l'amore del mio bassista per me andava oltre la bellezza. Doveva essere così, altrimenti come avrebbe potuto stare insieme a me? D'altronde ero soltanto una venticinquenne come tante altre, né brutta né di una bellezza ammaliante come quella della brasiliana.

Tra tutti quei pensieri se ne insinuò un altro che non aveva niente a che fare con gli altri: mi chiesi se, ora che con Joey era tutto risolto, avrei dovuto tornare a vivere da lui o se invece dovessi stare a casa di Michele. La risposta era semplice: avrei chiesto all'ex SlipKnoT di poter occupare nuovamente la stanza in casa sua e di pagargli l'affitto com'era stato deciso in origine. Inoltre, ancora non gli avevo consegnato i soldi delle tre settimane che avevo già trascorso in casa sua prima del litigio.

Mi resi conto che, prima di tutto, avrei dovuto affrontare Michele ed esporgli la mia decisione. Sperai che non se la prendesse. In fondo sapeva benissimo che non amavo dipendere dagli altri e avrebbe dovuto accettarlo a tutti i costi, come aveva già fatto in passato. Ne era in grado, nonostante gli costasse parecchio. Mi rispettava e non ostacolava mai le mie decisioni.

Lasciai la mano di Serj, che era rimasto in silenzio con gli occhi socchiusi come se mi stesse leggendo nella mente, e raggiunsi il mio ragazzo, abbracciandolo. Volevo stare con lui, solo con lui, perciò gli sussurrai all'orecchio: «Andiamo?»

Annuì e prese il basso.

Salutammo gli altri con un sorriso e uscimmo dalla saletta.

 

Mi bastava stare con lui per star bene. Non aveva importanza che rimanessimo in silenzio uno accanto all'altra o facessimo qualunque altra cosa, la cosa essenziale era percepirci a vicenda.

E quella sera era proprio così che stavano andando le cose: io stavo seduta al tavolo della cucina a comporre il testo di una canzone da proporre al gruppo mentre Michele sedeva accanto a me a leggere un libro. C'era silenzio assoluto, eppure io lo sentivo più vicino che mai.

Ricordai che dovevo parlargli della mia decisione di lasciare casa sua e tornare da Joey, ma per quella sera non avrei detto niente, semplicemente perché spezzare la quiete di quel momento significava distruggere la magia che si era venuta a creare attorno a noi. Fu per questo che le nostre labbra rimasero sigillate per tutte le due ore successive, facendo sì che ci immergessimo ancora più a fondo in ciò che stavamo facendo.

Quando mi accorsi di essere molto stanca mi alzai, mi avvicinai a lui e lo baciai con passione, sussurrando: «Buonanotte amore mio.»

La cosa stupì entrambi ma entrambi ne fummo felici.

Infatti, Michele mi sorrise dolcemente e disse: «Sogni d'oro principessa.»

Raggiunsi la mia stanza e, non appena mi chiusi la porta alle spalle, la solitudine e lo sconforto che mi assalivano da diverse notti ormai, tornarono inesorabili a trovarmi. Avrei voluto tornare di là, stringermi nuovamente al mio amato e dirgli che non riuscivo a dormire da sola, senza lui.

Eppure, come ogni notte, mi trascinai a letto, mi cambiai e mi infilai sotto le coperte, cominciando a piangere. Non avevo il coraggio di fare una cosa del genere, una cosa che per chiunque altro sarebbe stata così semplice e naturale.

Ovvio, non per me, non per Liz.

Liz non riusciva a prendere quasi nessuna Iniziativa, Liz era timida, goffa, impacciata e senza un minimo di coraggio.

Cosa potevo fare per cambiare le cose? Non reggevo più quella situazione, mi sentivo sempre peggio, man mano che i giorni trascorrevano.

 

Quando ne parlai con Michele fu unicamente perché lui insistette parecchio prima di riuscire a farmi cedere.

Era venuto a trovarmi a casa di Joey, poiché ero tornata a vivere là, e stavamo seduti sul bordo del mio letto.

Quando capii di non potermi tenere tutto dentro, gli parlai fissando il vuoto davanti a me. «Abbiamo vissuto per un po' di tempo insieme e io ho sempre dormito sola. Be', contrariamente a quanto mi aspettassi, la cosa mi ha fatto soffrire, star male fino al punto di non riuscire a prendere sonno facilmente. Mi dispiace di non avertene parlato prima ma sai come, purtroppo, sono fatta» dissi, senza spostare i miei occhi su di lui che, al mio fianco, mi teneva la mano.

Sospirò. «Non ti ho chiesto se ti andava di dormire con me perché avevo paura di un tuo rifiuto e di sembrare invadente e...» S'interruppe mentre scuotevo il capo.

«Non ti giustificare. Quella che ha la colpa di tutto sono io.»

«Credo che tu ti sbagli» mi contraddisse.

Gli lanciai un'occhiata interrogativa.

«Non sei stata tu a voler essere così dannatamente chiusa e lo sai perfettamente.»

Era vero, Michele aveva ragione. L'essere cresciuta senza una vera e propria famiglia mi aveva fatto diventare com'ero.

Sospirai. «Non sopporto di vivere così male a causa di mio padre. Vorrei dirti così tante cose in così tanti momenti, ma ho una strafottuta paura» sussurrai, fissando il vuoto.

«Principessa» mi chiamò lui, per poi prendermi il viso tra le mani.

Mi persi nei suoi occhi, incapace di spostare lo sguardo altrove.

«Se ti va puoi venire da me stanotte» proseguì.

Lo volevo, lo desideravo più di ogni altra cosa al mondo. Finalmente sarei riuscita a dormire serenamente. Tutto il mio entusiasmo si limitò ad un sorriso e ad un «Okay» sussurrato appena. Ero felice ma allo stesso tempo provavo un leggero imbarazzo. Non avevamo mai dormito insieme, o almeno non così. Tuttavia, mi imposi di stare calma e andai a prendere il necessario per passare la notte fuori casa.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo diciotto ***


Nota: A partire da questo capitolo i dialoghi verranno inseriti tra “”.

 

 

18

 

 

Non appena entrai a casa di Michele, mi sentii mancare l’aria. Forse avevo sbagliato a parlargli di quel mio problema, poiché ora che stava per avvenire ciò che desideravo da tempo, avevo paura e non volevo assolutamente che accadesse. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa.

“Ehi, Liz. Ti va se ordiniamo una pizza?” domandò il mio ragazzo, distogliendomi da quei pensieri.

Annuii e mi andai a sedere silenziosamente sul divano.

Il bassista ordinò le pizze, poi mi raggiunse.

“Tutto bene?” sussurrò, accarezzandomi il viso mentre mi fissava negli occhi.

Distolsi lo sguardo. “Ma sì, è tutto a posto.”

Michele sospirò. “Non mentire con me.”

Mi alzai e rimasi impalata a fissare il vuoto mentre scuotevo energicamente il capo.

Liz, rilassati.” Si alzò a sua volta e mi venne vicino, abbracciandomi.

Lo strinsi a me e mi sentii in colpa. Non potevo respingerlo per sempre, eravamo adulti ormai e qualcosa doveva pur succedere, nonostante io non ne fossi per niente convinta.

Suonò il campanello e lui andò ad aprire. Non appena si fu staccato da me tirai un sospiro di sollievo. Non ero pronta e lo sapevo. Come mi era potuto venire in mente di dormire con lui? Certo, quando stavo da sola sognavo quei momenti e mi faceva male non poterli vivere, ma la realtà è molto diversa dai sogni.

Avrei dovuto saperlo. Io non ero come le altre, non sarei mai riuscita a lasciarmi andare con nessuno. La razionalità me l’avrebbe sempre impedito.

La cena trascorse in silenzio e io compresi di non poter passare la notte là. Dovevo assolutamente tornare a casa e magari parlarne con Joey. Lui avrebbe saputo cosa consigliarmi. Ero certa che mi avrebbe rimproverato, ma mi conosceva e avrebbe saputo comprendere ogni cosa.

“Mick, non sto bene” mormorai, fissando il tavolo. Non riuscii minimamente ad incontrare il suo sguardo, temevo ciò che vi avrei trovato.

Liz…

“Scusa. Vorrei tornare a casa.”

“Cosa?” sbottò.

Sollevai il capo e notai che mi osservava con espressione contrariata e delusa.

“Mi dispiace. Prenderò un autobus, non c’è bisogno che mi accompagni.” Mi alzai.

Lui fece lo stesso. “Sei sicura?” mi domandò.

Annuii e mi diressi al divano per racattare la mia borsa.

Michele prese le chiavi della sua auto e si diresse silenziosamente verso l’ingresso.

Lo raggiunsi. “Ho detto che prenderò l’autobus, davvero, non ti preoccupare” ribadii.

Ignorandomi, posò la mano sulla maniglia.

Mi sentii cedere le ginocchia. Avevo rovinato tutto e lui aveva tutte le ragioni del mondo per avercela con me. Non potevo sopportare che si arrabbiasse.

Lo abbracciai da dietro, sperando che mi desse ascolto. “Fermati un attimo, ti prego! Sono mortificata, credimi.” Silenziose lacrime presero a rigarmi il viso, inumidendo anche la stoffa della sua maglia. Proseguii: “La verità è che sono terrorizzata, mi sento inadeguata e…

Michele si scostò da me e si voltò. Pianto i suoi occhi scuri sui miei. “Basta così. Liz, io ti rispetto, tu lo sai. Ma devi anche capire che ti desidero e non mi pare che questo sia anormale.”

Scoppiai a piangere e mi inginocchiai sul pavimento, prendendomi la testa tra le mani. Quello che mi aveva appena detto mi colpii al cuore, facendo aumentare a dismisura il mio senso di colpa. Lui mi desiderava, proprio come io desideravo lui. Per colpa mia tutto questo risultò fottutamente inutile.

“Non fraintendermi, non voglio metterti fretta” aggiunse, accovacciandosi accanto a me. “Non piangere principessa” sussurrò, per poi stringermi a sé.

Rimasi tra le sue braccia per un tempo indefinito e riuscii a calmarmi, sotto le sue dolci carezze sui capelli. Forse non era tutto perduto.

“Senti, facciamo così. Ora tu vai a letto, sei stanca. Io sistemo in cucina poi ti raggiungo. Ti va? Te ne prego, resta con me. Anch’io mi sento solo quando non ci sei.”

Sorrisi e lo baciai, sentendo ancora il sapore delle mie labbra.

Ci alzammo e io mi diressi in camera sua. Non appena vi misi piede, mi accorsi di non aver affatto superato la paura. Eppure ora era diverso. Michele aveva bisogno di me e io di lui. Se me ne fossi andata sarebbe stato come abbandonarlo. Ora avevo capito che il mio posto era lì con lui quella notte.

Non avevo idea di cosa sarebbe successo, ma ora come ora non mi importava. Volevo soltanto stringermi a lui e non pensare. Il mio cervello sempre attivo mi impediva di prendere iniziative e stavo cominciando a odiarlo seriamente.

 

Quando Michele mi raggiunse, giacevo in dormiveglia sotto le coperte. Avvertii la sua presenza soltanto quando il suo corpo prese posto accanto al mio.

Sussultai e spalancai gli occhi.

“Dormivi?” domandò, non appena mi voltai nella sua direzione.

Risi nervosamente. “Più o meno.”

Michele si avvicinò a me e mi fece posare la testa al suo petto. “Sei stanca?”

Immediatamente mi rilassai. Stare così, abbracciati a sentire l’uno il profumo dell’altra era ancora più bello di come avevo sperato. “Psicologicamente lo sono parecchio, in realtà” risposi, stringendogli una mano.

“Allora riposa.”

Scoppiai a ridere.

“Che succede?” domandò Michele, curioso.

“Ho dimenticato di cambiarmi” dissi, accennando al mio abbigliamento. Infatti, indossavo ancora i jeans e la mia camicia preferita.

Lui rise. “Sei sempre la solita.”

“Lo so ma sai ora non ho voglia di rialzarmi.”

“Allora non lo fare” mi sussurrò all’orecchio, facendomi rabbrividire.

Lo baciai e mi strinsi forte al suo corpo, così come lui si strinse al mio. Era bello stare insieme così e mi maledissi per essere quasi scappata da quel benessere.

Prima di addormentarmi, lo abbracciai forte e mormorai: “Buonanotte.”

“Sogni d’oro principessa.”

Quando scivolai nel sonno fui certa di averlo sentito dire ‘Ti amo’.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo diciannove ***


19

 

 

La mattina seguente fu lo squillo del mio cellulare a ridestarmi dal sonno.

Imprecai, mentre Michele sbadigliò.

Allungai la mano e afferrai l’apparecchio che si trovava sul comodino accanto al letto.

Era Matt.

Sobbalzai e mi misi a sedere.

Cosa voleva di buon mattino? Per un attimo posai gli occhi sulla sveglia e mi accorsi che erano già le undici. Era tardissimo!

“Pronto?” risposi, quasi gridando.

Il mio amico dall’altro capo del telefono rise. “Cazzo, Liz, scommetto che ti sei svegliata ora. Eh?”

“Sì, esatto. Perché mi chiami?” domandai, andando dritta al punto.

Michele al mio fianco ridacchiò e mi solleticò un braccio.

Gli lanciai un’occhiataccia e cercai di concentrarmi su ciò che Matt stava dicendo.

“Ho una notizia bomba da darti! Sei stata la prima che ho pensato di chiamare e…

“Che notizia?” sbottai, curiosa.

Il bassista drizzò le orecchie e si avvicinò per cercare di carpire qualche informazione.

Tiniti forte.”

Trattenni il fiato.

Michele fece lo stesso.

“ABBIAMO UNA DATA!” gridò il chitarrista.

Io e il mio ragazzo ci guardammo negli occhi, allibiti, poi cacciamo un grido di gioia.

“Mick, abbiamo una data, te ne rendi conto? I Faithless stanno per conquistare il mondo!”

“E’ fantastico!”

Per la foga del momento mi accorsi poco dopo di aver lanciato il telefono ai piedi del letto. Nel silenzio colsi i richiami e le imprecazioni di Matt. Risi e recuperai il cellulare.

“Scusa Matt, è che sono con Mick e ci siamo messi ad esultare.”

Silenzio.

“Matt?”

“Ci sono.” Il tono con cui mi rispose mi parve estremamente contrariato e triste.

Rimasi immobile a fissare il vuoto e la realtà mi crollò addosso. Non sapevo cosa dire perché sapevo che Matt era rimasto turbato nell’apprendere che alle undici del mattino mi ero appena svegliata ed ero con Michele. Chissà cosa aveva elaborato la sua mente inevitabilmente gelosa.

“Senti, ci vediamo per pranzo? Chiama gli altri e troviamoci tra un’ora fuori dalla saletta, poi decideremo dove andare. Ti va?” proposi, mentre Michele annuiva come per farmi capire che avevo avuto una buona idea.

“Deduco che tu non sia da Joey e che lo debba avvertire io.”

Mi sentii punta nel vivo poiché la sua gelosia cancellò tutta la felicità acquisita poco prima.

“Sono da Mick ma penso io ad avvertire Joey, non ti preoccupare” dissi, sottolineando volutamente il ‘sono da Mick’, così che capisse una volta per tutte che doveva smetterla di comportarsi come un adolescente in piena crisi ormonale. Io e Michele eravamo adulti, vaccinati e liberi di fare tutto ciò che volevamo. Se aveva pensato che io e lui avessimo già avuto dei rapporti, be’, gliel’avrei lasciato credere. Non potevo vivere perennemente con i sensi di colpa. Basta.

“Va bene. A dopo” rispose Matt con tono seccato e riagganciò.

Feci spallucce e gettai il telefono sul comodino, per poi tornare vicino al bassista e abbracciarlo.

“Scommetto che Matt ha fatto il geloso” osservò lui, stringendomi.

“Sì, ma non mi interessa. Deve farsene una ragione e io ora voglio stare con te.”

Lui si sciolse in un meraviglioso sorriso e mi baciò.

Dopo qualche minuto decidemmo di alzarci e prepararci per l’incontro con il resto della band.

Mentre Michele era sotto la doccia, chiamai Joey che rispose al quinto squillo.

Liz! Buongiorno! Allora, dormito bene a casa di Mick?” fece il chitarrista ironizzando sulla parola ‘dormito’.

Risi. “Ciao Joey. Non fare il cretino. Se proprio lo vuoi sapere non è successo niente di quello che stai pensando.”

Sbuffò. “Sempre la solita santarellina tu, eh?”

“Poi ne parleremo a casa. Piuttosto, mi ha chiamato Matt.”

“Che voleva?”

Rimasi un attimo in silenzio.

“I FAITHLESS HANNO UNA DATA!” gridai, proprio come aveva fatto Matt.

Joey gridò felice. “Davvero? Oh, ma questo è meraviglioso!”

“Sì! Senti, ho proposto di andare a pranzo tutti insieme per poterne parlare meglio, visto che oggi non ci sono le prove. Ci troviamo tra quarantacinque minuti davanti alla saletta.”

“Perfetto. A dopo collega.” E riagganciò.

 

Due ore dopo eravamo seduti intorno ad un tavolo circolare, dentro ad un ristorante italiano che io e Michele adoravamo e con noi, purtroppo, c’era anche Débora.

Mi chiesi come mai tutti i parassiti dovevano intralciare la nostra band. Prima Corey, ora lei.

Cercai di ignorarla e mi concentrai su Matt, anche se lui non osava osservarmi mentre esponeva i particolari del concerto.

Si trattava di una data in cui saremmo stati il gruppo spalla dei Metallica durante il loro concerto a Londra, circa un mese dopo.

Era fantastico e tutti sembravano pensarla come me. Insomma, suonare con un gruppo del genere non era da poco!

Mi domandai come Matt avesse fatto a rimediare una possibilità così grandiosa.

“Mi ha contattato il loro agente dicendo che James ha espressamente preteso la nostra partecipazione, sapendo che siamo tutti dei validi elementi e rimanendo incuriosito dal fatto che alla batteria abbiamo una donna” spiegò l’ex cantante dei Bullet for my Valentine, senza però rivolgermi minimamente un cenno.

Mi sentii ferita e non seppi perché dovesse comportarsi in quel modo. Sembrava voler a tutti i costi fare leva sul mio senso di colpa e direi che ci riusciva più che bene.

“E’ grandioso ragazzi!” civettò Débora intervenendo per la prima volta nella conversazione.

Tutti i nostri sguardi si posarono sulla sua figura ma lei non parve minimamente turbata dal fatto di trovarsi al centro dell’attenzione.

“Avrete la possibilità di esibirvi prima del grande Kirk Hammett! Non so se vi rendete conto.”

Ebbi l’impulso di lanciarle la forchetta in testa. Aveva utilizzato il solito tono da gallina e non mi era di certo sfuggita l’occhiata di fuoco che aveva lanciato a Michele mentre parlava. Forse non le era ancora chiaro il concetto. Se avesse continuato di quel passo non ci avrei messo tanto a ficcarglielo bene in quella testa vuota che si ritrovava.

Credeva forse che presentarsi con abiti succinti e un quintale di trucco soltanto perché era brasiliana e bella l’avrebbe aiutata a far cambiare idea al mio ragazzo? Si sbagliava di grosso. Povera illusa.

L’unico che sembrò gradire il suo intervento fu Janne che le sedeva accanto. Le posò una mano sul ginocchio e io credetti di aver visto male, poi mi venne il voltastomaco.

“Devi assolutamente venire a sentirci, baby. Ti farò conoscere Kirk” le disse, guardandola con aria seducente.

Lei lanciò un gridolino e gli gettò le braccia al collo, premendo la sua quinta sul petto di lui.

Distolsi lo sguardo e guardai Max.

Fece spallucce e tornò a parlare con Serj.

Vomitevole.

Come poteva il nostro tastierista essere affascinato da quella gatta morta?

Decisi di non pensarci e di concentrarmi sull’imminente concerto. Nel mese successivo avremmo dovuto sudare per prepararci al meglio, avremmo dovuto perfezionare i pezzi già pronti e scrivere anche qualcosa di nuovo.

Sì, sarebbe stata dura ma ce l’avremmo fatta poiché quella era un’occasione da non perdere.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo venti ***


20

 

 

Mentre uscivamo dal locale, dopo pranzo, Matt mi fermò e mi chiese di uscire quella sera stessa.

Michele stava discutendo con Max di qualcosa che non riuscii ad afferrare e sperai vivamente che avesse sentito le parole del chitarrista.

Osservai Matt con aria sorpresa. “Cosa significa?” domandai, confusa.

In che senso voleva uscire con me? Cos’aveva in mente?

“Ho soltanto bisogno di parlarti.” Si guardò intorno, poi proseguì in un sussurro: “Non possiamo mai stare un po’ soli, c’è sempre Mick e lui sono sicuro che non approverebbe.”

“Infatti non approva e non lo faccio nemmeno io” chiarii, fissandolo in viso. “Ci vediamo tutti i giorni e se vuoi discutere con me basta uscire in terrazza durante la pausa dalle prove.”

Matt sospirò. “Senti, ti sto chiedendo di uscire perché siamo amici. Cosa c’è di sbagliato in questo?”

Non seppi cosa rispondere. In effetti non c’era proprio niente di così anormale, se non fosse stato per il fatto che lui mi amava e desiderava. Ma questo non aveva attinenza con la domanda che mi aveva fatto, perché lui stesso aveva affermato che si sarebbe trattato di un’uscita tra amici. Io mi fidavo di lui e di me stessa, perciò potevo anche accettare. Non avevo niente da perdere né da guadagnare.

E Michele come l’avrebbe presa? Ero certa che non ne sarebbe stato entusiasta per niente eppure non me lo avrebbe impedito, non poteva. Stavamo insieme, sì, ma io avevo tutte le facoltà mentali e legittime per decidere della mia vita, prendendomi ovviamente tutte le conseguenze delle mie azioni.

Così decisi di accettare.

“Va bene Matt” dissi.

Lui sorrise. “Perfetto. Ti passo a prendere da Joey?”

Annuii.

“Okay. Alle otto sono da te. A dopo.” Detto questo salutò il resto dei Faithless e se ne andò.

Mi avvicinai a Michele. Dovevo trovare il coraggio di dirgli tutto, non avevo scelta.

 

Il mio ragazzo sbatté un pugno sul tavolo, paonazzo in viso. Ci trovavamo nella cucina di casa di Joey e io gli avevo appena confessato che sarei uscita con Matt.

Già, non gli avevo chiesto il permesso, era così e basta. Doveva fidarsi di me altrimenti la nostra relazione non sarebbe andata da nessuna parte. Io appartenevo soltanto a me stessa e non avrei potuto accettare che chicchessia contaminasse la mia indipendenza.

“Calmati, Mick.”

“Esci con un altro e dovrei calmarmi?” gridò, mettendosi le mani sui capelli.

“Falla finita! Non sto uscendo con un altro, non nel senso che pensi tu. Matt è un amico.”

“Un amico che – guarda caso – ti chiede di uscire da soli e – sempre guarda caso – è innamorato di te. Non dirmi che credi davvero a questa…

“Io credo soltanto in me stessa e nei miei sentimenti per te. Parlerò con lui, lo starò a sentire e poi tornerò a casa” spiegai con fermezza.

Michele sospirò e si sedette su una sedia. “Fa’ come vuoi” borbottò socchiudendo gli occhi.

“Ovvio che sì.”

Anch’io mi sedetti e il silenzio si frappose tra noi per alcuni minuti.

Il bassista teneva le mani a sorreggergli il viso e i gomiti posati sul tavolo. Il suo viso pian piano si rilassò così come i muscoli delle sue spalle. Era bello, dio se lo era. Forse nessuno la pensava così osservando la sua folta chioma riccia, il pizzetto, le sopracciglia folte… ma io non ero nessuno. Io ero Liz e lo amavo, nonostante tutti i pregiudizi possibili ed immaginabili da parte del mondo intero. Inoltre i suoi occhi erano lo specchio di un’anima dolce, intelligente, arguta e colta, come poche se ne trovavano in circolazione. Non per niente lo stimavo immensamente e il suo successo nella nostra patria – l’Italia – era ancora alle stelle, nonostante la sua quasi totale assenza dalla nazione.

Non potevo credere di avergli risposto malamente poco prima, così mi alzai e andai ad accarezzare i suoi ricci che quel giorno ricadevano sciolti attorno al suo viso.

Sussultò per la sorpresa e riaprì gli occhi.

“Mi dispiace.”

“Di cosa?” domandò afferrando la mano che avevo posato sulla sua spalla mentre stavo in piedi alle sue spalle con il bacino contro lo schienale della sedia.

“Per prima, non volevo rispondere in quel modo.”

“Non ti preoccupare. Piuttosto mi scuso per aver tentato di ostacolarti. Mi fido di te Liz.”

Sorrisi. “Lo so.” Di slancio mi sedetti sulle sue ginocchia e lo baciai dolcemente, affondando le dita tra i capelli scuri.

Lui ricambiò.

Restammo un po’ abbracciati poi disse che doveva andare.

Lo accompagnai alla porta e lo salutai con un altro bacio.

“A domani” sussurrai stringendolo forte.

“A presto principessa.”

Richiusi l’uscio e mi diressi in camera a prepararmi, chiedendomi dove diamine si fosse cacciato Joey.

 

Poco prima delle otto entrai in salotto e trovai il nano seduto sul divano a strimpellare.

“Ehi” lo salutai, accomodandomi accanto a lui.

“Dove vai tutta in tiro? Sono certo che Mick non saprà resisterti. Anche oggi dormi da lui?”

“Non hai una ragazza Joey?” risposi con un’altra domanda.

“Eh?” fece lui, sollevando di scatto gli occhi dall’Ibanez che teneva in mano.

Scoppiai a ridere.

“Cosa c’entrava questa domanda? E perché ridi?” chiese, confuso.

“Rispondimi.”

“Ne ho più di una, mia cara collega.” Il tono con cui pronunciò quelle parole era fiero e compiaciuto.

“Dovresti dedicarti a loro anziché tormentarmi” dissi, alzandomi.

Squillò il citofono.

Ma…” provò a dire, con occhi sempre più sgranati e curiosi.

Afferrai un cuscino e glielo lanciai, continuando a ridere.

Lui imprecò.

“A più tardi nanetto” lo salutai e mi precipitai fuori di casa.

Matt mi attendeva seduto in macchina con un disco dei Metallica sparato a tutto volume.

“Devi sempre farti riconoscere, eh?” gridai, cercando di sovrastare la voce di James Hatfield che cantava ‘Sad But True’.

Il chitarrista abbassò il volume e rise. “Certamente! Ciao Liz.”

“Ciao.”

“Oggi ti porto a vivere, baby.” Detto questo ingranò la marcia e partì.

“A vivere? Parli come se fossi morta” lo punzecchiai per poi mettermi a canticchiare il ritornello della canzone.

Matt rimase con gli occhi puntati sulla strada e un sorrisino ambiguo stampato in viso.

Non me ne curai troppo e sprofondai sul sedile del passeggero pronta ad affrontare quella serata.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo ventuno ***


21

 

 

Matt parcheggiò difronte all’Hard Rock Cafe.

Spalancai gli occhi e sorrisi. Era da una vita che non ci tornavo, esattamente dal giorno in cui avevo letto l’annuncio che i Faithless avevano pubblicato. Pensai a quante cose fossero accadute da allora, a come la mia vita fosse stata sconvolta dalla loro presenza, a come i rapporti con ognuno di loro si erano creati e intensificati, a come mi fossi sentita finalmente amata dopo aver vissuto da sola e senza affetto prima che loro si impossessassero del mio cuore.

Una lacrima scese lungo la mia guancia, solitiaria e colma di ricordi.

Matt se ne rese conto e si voltò a guardarmi. “Liz! Perché piangi?”

Gli sorrisi. “Non sto piangendo. Stavo solo pensando al giorno che lessi il vostro annuncio proprio in questo posto. Da allora tutto è cambiato per me.”

“Spero in meglio” disse, estraendo la chiave dal quadro.

“Certo che sì!” confermai.

Dopo esserci scambiati un sorriso scendemmo dall’auto e ci dirigemmo verso il locale. Mentre camminavo mi chiesi ancora una volta cosa intendesse Matt col dire ‘ti porto a vivere’. Insomma, la sua affermazione mi aveva fatto riflettere. Ciò era inevitabile.

Non appena entrammo, mi sentii immediatamente a mio agio: l’atmosfera era allegra, poiché una canzone dei Guns ‘n’ Roses risuonava nell’aria e la gente si divertiva a ballarla. Era paradisiaco! Mi ritrovai a sorridere mentre Matt mi trascinava verso il bancone chiedendomi se volevo qualcosa da bere.

Presi un drink analcolico e mi sedetti su uno sgabello mentre il chitarrista si sistemò in piedi davanti a me.

Si avvicinò al mio orecchio e disse: “Spero non mi riconosca nessuno, sarebbe una bella seccatura.”

Risi. “Sarebbe divertente vederti sommerso da ragazzine urlanti!” esclamai.

Mi rivolse un’occhiataccia ma poi scoppiò a ridere.

Nel frattempo partì la bellissima ‘Rebel Yell’ di Billy Idol e io per poco non saltai dalla sedia. Afferrai il braccio di Matt. “Dobbiamo andare a ballarla! Ti prego!” gridai.

Mi rivolse uno sguardo divertito. Finì di bere e posò il bicchiere sul bancone. Poi mi afferrò la mano e mi condusse al centro della pista.

Per un attimo mi sentii in imbarazzo avvertendo tanti sguardi addosso. In effetti non ero il tipo di ragazza che amava stare sotto i riflettori. Ma d’altronde ero là per divertirmi, no? Avevo accettato di uscire con il mio amico, tanto valeva approfittare dell’occasione per distrarmi un po’.

Presi le mani di Matt e cominciai a muovermi a tempo di quella canzone che adoravo.

Lui fece altrimenti e prese a fissarmi negli occhi, sorridendo nel modo più dolce possibile.

Trascorse diverso tempo nel quale ci divertimmo a ballare e ridere come due matti, mentre un sacco di musica fantastica veniva trasmessa dall’enorme impianto sistemato in un angolo della sala.

Ad un certo punto mi ritrovai a muovermi con le sue braccia strette in vita e notai che la cosa non mi infastidiva più di tanto. Anzi, era piacevole.

Poi mi riscossi.

Cosa stavo facendo?

Mi bloccai fissando il mio amico in viso.

Stavo definitivamente impazzendo.

Non c’erano altre spiegazioni se non quella.

Come potevo abbandonarmi tra le braccia di Matt?

Lui non era il mio ragazzo.

Lui non era Michele.

“Devo andare in bagno, ci vediamo tra un po’” dissi a Matt e mi allontanai da lui il più velocemente possibile.

Cercai la toilette e mi ci chiusi dentro sospirando.

Dovevo riordinare le idee e subito.

Come potevo tradire in quel modo il mio ragazzo? Non doveva accadere! Eppure io e Matt ci stavamo divertendo, era tutto così bello, le sue braccia che mi stringevano erano così…

Così cosa?

Così estranee.

Sì, ma anche piacevoli e forti.

Non potevo mentire a me stessa: quel contatto mi era piaciuto, nonostante non sapessi perché.

Amavo Michele e su questo non vi era ombra di dubbio.

Allora cosa mi aveva portato a lasciarmi così andare con il mio amico? Semplicemente mi stavo divertendo. Sì, doveva essere questa la spiegazione. Quando ci si diverte si può trovare bello anche ciò che solitamente non si ritiene tale. No?

Be’, no.

Decisamente non è questa la logica.

Mi maledissi per la mia insicurezza e per i pensieri del cavolo che stavo elaborando. Dovevo immediatamente tornare da Matt e comportarmi come se niente fosse, evitando però che quell’abbraccio si ripetesse.

Così feci.

Rientrai in sala e lo raggiunsi. Lo trovai che parlava con una bellissima ragazza.

Ebbi voglia di tornare ad accucciarmi in bagno ma rimasi con i piedi ben piantati per terra ad osservarli mentre chiacchieravano e si sorridevano. Poi un tipo muscoloso la raggiunse e le cinse la vita con un braccio. Lei fece cenno verso Matt e il suo accompagnatore gli strinse la mano facendo un sorriso ammirato.

Doveva trattarsi di due fan dell’ex cantante dei Bullet for my Valentine e io mi ritrovai a tirare involontariamente un sospiro di sollievo.

Per un attimo avevo creduto che Matt e quella ragazza… che loro…

E allora? E se puro Matt e quella ragazza avessero avuto una relazione, a me che sarebbe importato? Io avevo già il cuore occupato unicamente da Michele e non aveva senso preoccuparmi per il mio amico.

Matt salutò i due e mi venne incontro.

“Lo sapevo che avresti incontrato qualche ammiratore” dissi, prendendolo in giro.

Mi scompigliò i capelli.

Dagli enormi amplificatori si udirono le prime note di ‘You Shook Me All Night Long’ degli AC/DC.

Ci guardammo complici negli occhi e capimmo che non potevamo evitare di ballare quella canzone. Sapevamo entrambi che era la nostra preferita di quel gruppo, perciò dovevamo assolutamente renderla nostra in quel meraviglioso locale.

Ci avviammo a passo spedito verso la pista e prendemmo a saltare insieme a un altro centinaio di persone che come noi impazziva per quel pezzo.

Fu bellissimo: avvertii le note penetrarmi nell’anima, gli strumenti vibrarmi in tutto il corpo, la voce di Brian Johnson unirsi alla mia nel canto, le luci illuminare Matt che sembrava completamente catturato dalla situazione proprio come me.

Poi accadde qualcosa che sconvolse il ritmo e l’andatura di tutto ciò che era accaduto fino ad allora.

Matt mi baciò.

E io baciai lui.

Mi strinse forte a sé e mi donò tutto il suo amore, tutto ciò che gli avevo sempre negato di darmi, tutto ciò che non aveva fatto altro che reprimere per mesi interminabili.

E io non seppi resistergli. Non seppi dire di no alle sue labbra, non seppi respingere le sue braccia, non seppi evitare il contatto con lui. Era come se anch’io, inconsciamente, non avessi desiderato altro.

Fu elettrizzante finché durò.

Già, finché non tornai con i piedi per terra e la testa smise di girarmi a causa di tutte le emozioni che stavo provando.

Mi allontanai immediatamente da lui e fu come se il tempo si fosse fermato, come se le luci si fossero spente, come se la musica fosse cessata, come se tutti se ne fossero andati.

L’unica cosa che feci fu schiaffeggiarlo, gridare un’imprecazione e scappare via.

Volevo che tutto fosse un sogno. Stavo quasi per crederci ma la pioggia che batteva forte fuori dal locale mi fece riacquistare la lucidità al cento per cento.

Non volevo assolutamente che Matt mi trovasse così mi infilai nel primo palazzo che mi capitò a tiro e mi accucciai all’interno dell’androne al riparo dal temporale. Rimasi là a tremare dal freddo mentre vidi Matt uscire dal locale e chiamarmi. Poi salì in macchina e se ne andò.

Io non mi mossi.

Non avevo il coraggio di mettere il naso fuori dal mio nascondiglio. Avevo paura che il mondo mi sputasse in faccia tutto il suo risentimento nei confronti del mio orribile gesto.

Già, avevo sbagliato tutto e mi facevo decisamente schifo.

Quando finalmente andai alla ricerca di un taxi, la pioggia si era placata, ma un forte vento faceva svolazzare i miei capelli e portava via tutte le lacrime che continuavano interminabili a lasciare i miei occhi spenti.

Doveva essere un sogno.

Riuscii a malapena a comunicare l’indirizzo di casa Jordison all’autista, poi mi lasciai sprofondare sul sedile.

Avevo rovinato tutto.

Matt aveva rovinato tutto.

Quando misi piede dentro casa, fui grata che Joey non venisse a parlarmi.

Mi trascinai a fatica in camera e mi gettai sul letto.

Volevo soltanto dormire e dimenticare ogni cosa.

Volevo soltanto dormire e non svegliarmi mai più.

Prima di scivolare definitivamente nel sonno mi pentii di essere stata felice dell’incontro con i Faithless. Se fossi rimasta per i fatti miei avrei evitato di illudere e far soffrire tutti coloro che si erano fidati di me.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo ventidue ***


22

 

 

Il giorno seguente non osai alzarmi dal letto. Mi sentivo come se tutto mi fosse improvvisamente crollato addosso, come se tutta la mia vita fosse appena terminata e io dovessi ricominciare tutto da capo.

E io sapevo che non ce l’avrei fatta.

Eppure dovevo reagire, poiché non potevo abbandonare i Faithless ora che la data del nostro primo favoloso concerto si avvicinava. Avremmo suonato con i Metallica e questo doveva bastare per darmi la spinta necessaria a scuotermi da quell’agonia.

Avevo baciato Matt.

Era inutile negarlo, dire che lui aveva baciato me e io ero stata impassibile. Non era vero. Avevo ricambiato, lo avevo voluto e non riuscivo a pentirmene, nonostante i sensi di colpa nei confronti di Michele crescessero inesorabilmente. Cosa dovevo fare? Come avrei potuto guardare nuovamente il bassista negli occhi senza sentirmi morire? Come avrei potuto continuare a vedere Matt senza rivivere all’infinito il nostro contatto all’Hard Rock Cafe?

Era paradossale. Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto dire al mio amico che non sarei uscita con lui, avrei dovuto evitare che si avvicinasse troppo, avrei…

Ma ormai era tardi per parlare al condizionale, ormai il peggio era successo e io dovevo assolutamente capire perché. Cosa mi aveva spinto tra le braccia del chitarrista? Non c’era sicuramente amore tra noi, almeno non da parte mia. Era fuori questione. Io amavo Michele.

Ma se fosse stato vero, non avrei mai permesso a Matt di farmi girare la testa con quel bacio.

Ma io non lo amavo.

Mi ero soltanto sentita attratta, trascinata, forse a causa del momento, del luogo, delle luci, della musica.

Sì, doveva essere quello il motivo.

Eppure, più cercavo di scacciare quei pensieri, più desideravo che Matt mi stringesse a sé, che le sue labbra tornassero sulle mie, che…

Inorridii e mi misi a sedere, mentre il mio cellulare prendeva a squillare dentro la borsa.

Borbottando un’imprecazione, lo racattai e risposi senza guardare chi fosse.

“Pronto?”

Silenzio.

“Pronto?” gridai, spazientita.

Ancora nessuna risposta.

Mi portai il display davanti agli occhi e rimasi immobile a fissare le quattro lettere che componevano il nome del mittente della chiamata. Feci per premere il tasto rosso del telefono, poi mi fermai.

“Liz” mormorò Matt.

Mi portai l’apparecchio all’orecchio e il cuore prese a battermi forte nel petto.

“Liz, so che forse è… inopportuno chiamarti, ma volevo…” S’interruppe.

Il mio cuore pregò che proseguisse, che la sua voce lo facesse battere ancora più freneticamente, mentre il mio cervello ordinava con decisione che dovevo sbattergli il telefono in faccia.

“Matt” sussurrai, affranta, mentre le lacrime spingevano per riversarsi sul mio viso.

“Mi dispiace” disse.

“Non mentire” lo pregai.

“Non mento. Mi dispiace di aver tradito un amico come Mick e di aver rovinato tutto con te. La verità è che non riesco ad esserti soltanto amico. Ieri ho perso la ragione.”

Assorbii quelle parole e mi ritrovai a sorridere.

Poi scoppiai a piangere.

Ero confusa, tremendamente confusa. Possibile che da quando lo conoscevo, non avessi mai pensato che Matt potesse rappresentare qualcosa di più per me? Possibile che non mi fossi mai accorta di quanto tenessi a lui? Ci tenevo così tanto che non riuscii ad arrabbiarmi con lui.

“Capisco.”

“Non piangere, Liz… ti prego.”

“N-non… ci riesc-co” balbettai tra i singhiozzi.

Matt sospirò.

Avrei voluto che mi abbracciasse e mi rassicurasse. Lo avrei voluto davvero.

Stavo deliberatamente tradendo il mio ragazzo, fisicamente e mentalmente. Non dovevo farlo. Non potevo.

Tutto per colpa di un bacio.

No, non avrei gettato all’aria la relazione con Michele per questo.

“Matt, è meglio se non parliamo per un po’.”

“Va bene.”

Rimasi in silenzio. Sapevo che non aspirava a perdermi, però non aveva altre alternative.

“Liz, non dirò niente a Michele.”

“Nemmeno io.”

Non seppi più cosa dire e nemmeno lui.

Trascorsero almeno due minuti prima che uno dei due decidesse di parlare.

“Ti desidero da morire, Matt” dissi, ricominciando a piangere.

Era vero.

Lo desideravo, ma avrei represso, avrei dimenticato, avrei scacciato quei sentimenti così sbagliati e orridi nei confronti di Matt.

“Oh, Liz.”

“Dimentichiamo tutto” proposi.

“Almeno proviamoci” mi corresse.

“Sì.”

“Ciao Liz.”

“C-ciao.”

Matt riagganciò.

Dopodiché spensi il cellulare, chiusi a chiave la porta della camera e mi infilai le cuffie del lettore mp3, accucciandomi sotto le coperte.

Volevo rimanere sola, sola con il mio dolore, sola con il mio desiderio, sola con un miliardo di sensi di colpa.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo ventitré ***


23

 

 

Non ebbi il coraggio di accendere il cellulare prima di andare alle prove, due giorni dopo essere uscita con Matt. Semplicemente, uscii dalla camera, misi qualcosa sotto i denti e dissi a Joey che sarei uscita con lui per andare in saletta.

Il chitarrista mi osservò con aria comprensiva e allo stesso tempo sbalordita.

“Joey, ricordati che tra meno di un mese ci sarà il primo concerto dei Faithless. Credi che sia il caso di provare o dovremmo girarci i pollici?” dissi, fingendo indifferenza.

“Liz, non fingere con me. So che è successo qualcosa tra te e Matt.”

“Non sono affari tuoi e in ogni caso non è questo il momento di pensarci!” sbottai. “Dobbiamo pensare a dare il meglio quando suoneremo davanti ai Metallica.”

Joey mi ignorò. “Mick è venuto almeno dieci volte nel giro di due giorni a chiedere come stavi, perché non gli rispondevi…”

Scossi il capo. “La smetti?”

“No.”

“Joey, non costringermi a…”

“A fare cosa?” domandò, avvicinandosi a me e piantandomi gli occhi in viso. Era almeno dieci centimetri più basso di me ma quello sguardo mi intimorì al punto che fui costretta a liberarmene. Fissai un punto indefinito della cucina, finché non notai che al frigo era appiccicato un post-it arancione.

Mi avvicinai con il chitarrista al seguito.

“L’ha lasciato lui” spiegò, mentre io fissavo il foglietto quadrato.

 

Liz,

non so perché tu mi stia evitando, ma sappi che aspetto che tu ti faccia viva.

Mi manchi.

Tuo,

Capa

 

Sgranai gli occhi e scoppiai a piangere.

“Oh, Liz” mormorò Joey, abbracciandomi.

Rimasi immobile a sentirmi morire per il male che sapevo di aver inflitto a Matt, il male che avrei inflitto a Michele e il male che tutto ciò avrebbe portato ai Faithless.

Ero un mostro, non riuscivo a sentirmi diversamente. Cosa dovevo fare? Perché improvvisamente Matt era diventato parte dei miei pensieri e desideri? Non capivo il motivo di tanta confusione.

“L’ho tradito” mi lasciai sfuggire, tra i singhiozzi.

Joey si scostò da me e mi guardò negli occhi. “Cioè?”

“L’ho baciato.”

Il mio amico sospirò. “Perché, Liz?”

Mi presi la testa tra le mani. “Non lo so” piagnucolai.

“Vieni.” Joey mi spinse verso il divano. Vi prendemmo posto.

“Ho sbagliato tutto.”

“Sì, ma non è detto che tutto sia perduto. Innanzitutto devi capire cosa vuoi” consigliò il mio amico.

“E’ proprio questo il problema” dissi, asciugandomi le lacrime. Dovevo calmarmi, riordinare le idee e soprattutto capire come affrontare Michele e Matt in saletta.

“Ora andiamo, altrimenti si fa tardi” mi incitò Joey, adocchiando l’orologio. “Sono certo che vederli ti aiuterà a schiarirti un po’ le idee.” Prese le chiavi e si avviò alla porta. Poi si voltò. “Sciacquati il viso” disse, sorridendo e facendomi l’occhiolino.

Mi lavai la faccia nel lavabo della cucina e lo raggiunsi, sistemandomi i capelli con una manata. Non mi importava di essere presentabile , volevo soltanto che il tempo trascorresse il più velocemente possibile e le prove si svolgessero in maniera indolore.

In macchina Joey mise su un album dei Manowar e io mi rilassai sulle note di ‘Worriors of the World United’.

Poi giungemmo in saletta.

Prima di scendere mi bloccai e rimasi inchiodata al sedile. “Non ce la faccio.” Sospirai.

Joey mi lanciò un’occhiataccia. “Non fare la bambina, sei forte e determinata, dimostralo a te stessa e a tutti noi. Forza!”

“Grazie” mormorai e scesi.

Il chitarrista chiuse a chiave e mi fece cenno di seguirlo.

Gli rimasi dietro con il cuore che batteva troppo forte nel petto. Avevo paura. Non volevo vedere Michele. Non volevo vedere Matt. Non volevo vedere nessuno. Volevo tornare a casa e accucciarmi sotto le coperte per il resto dei miei giorni, finché la morte non mi avesse strappato a quel mondo in cui non riuscivo a crearmi un posto, in cui non riuscivo a vivere, in cui non facevo altro che far soffrire chiunque mi stesse accanto – o almeno ci provasse.

Ormai però era troppo tardi.

Poco prima di arrivare, mi venne in mente Débora. E se ci fosse stata anche lei in saletta? Max aveva assicurato che lei non sarebbe più stata presente, ma da quando avevo visto Janne rivolgerle attenzioni tutt’altro che amichevoli, entrare e trovarmela seduta sulle ginocchia del nostro tastierista non mi avrebbe assolutamente sorpreso.

Joey mi spinse dentro la stanza e io rimasi impalata sulla soglia, mentre lui si avviava verso la sua postazione, salutava tutti con un cenno e si metteva a preparare la chitarra per le prove.

“Liz!” mi salutò Janne con un sorrisone, venendo verso di me. Mi baciò sulle guance e tornò da dov’era venuto.

“Ehi, ragazzi” feci, incerta.

Contemporaneamente, Michele e Matt mi fissarono, il primo con un enorme sorriso stampato il viso, il secondo con lo sguardo più triste che avessi mai visto in tutta la mia vita. L’espressione di Matt mi mandò il cuore in frantumi. Non potevo concepire di avergli fatto tanto male soltanto ricambiando il suo gesto d’amore.

Ancora una volta mi sentii un mostro e fui costretta a distogliere lo sguardo per non scoppiare a piangere. Ricacciai le lacrime e mi diressi a passo spedito alla batteria, per poi sistemarmici dietro.

“Ragazzi” prese la parola Serj. “Oggi che ci siamo tutti, è bene che decidiamo che pezzi portare al concerto.”

Annuii.

“Sì, hai ragione” disse Joey, sedendosi sul divano.

“Io direi di portare soltanto una cover” propose il cantante armeno.

“E quale?” domandò Janne, che da poco si era sistemato per terra con la schiena contro la parete insonorizzata e le gambe incrociate.

“Pensavo di portare qualcosa di uno dei nostri gruppi” intervenne Max, rimanendo in piedi in un angolo della saletta.

“Eh?” fece Michele, avvicinandosi a me.

Oh, no, no! Perché non era rimasto dov’era? Non ero pronta ad un contatto con…

La sua mano mi si posò sulla spalla e l’unica emozione che provai fu il rimorso. Non potevo far altro che sentirmi in colpa, specialmente nei suoi confronti. Lui non sapeva niente e mai l’avrebbe saputo. Certo era che se fosse venuto a conoscenza del mio tradimento avrebbe evitato accuratamente di toccarmi come aveva sempre fatto.

Tuttavia, non riuscii a sopportare la sua vicinanza, non ancora. Dovevo prima elaborare il tutto e imparare a convivere con il fatto che Michele era il mio ragazzo e Matt soltanto un amico. Amico che però scatenava in me emozioni e desideri mai provati.

Scacciai ancora una volta il suo pensiero e mi alzai, raggiungendo Serj al centro della stanza.

Lui mi guardò, accennando un sorriso.

“Max ha ragione” concordai, guardando il cantante brasiliano. Fui lieta del fatto che sua sorella non fosse presente.

“Sì, ma… la scelta è difficile” puntualizzò Michele, con un tono che mi costrinse a posargli gli occhi addosso. Sembrava irritato e anche il suo viso esprimeva un certo risentimento.

Perfetto. Ero riuscita a ferire anche lui, respingendolo e allontanandomi. Ero un disastro. Più il tempo passava, più diveniva difficile fingere e la voglia di fuggire via aumentava.

“Tuck, tu cosa ne pensi?” chiese Serj, voltandosi a guardare Matt.

Solo allora mi resi conto che lui non aveva ancora aperto bocca. Osservandolo, notai che se ne stava appoggiato alla parete con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo – tremendamente triste – perso nel vuoto.

Mi si strinse lo stomaco e mi venne voglia di correre ad abbracciarlo.

Tuttavia, rimasi immobile dov’ero.

“Fate come volete, per me è uguale” dichiarò l’ex Bullet, senza degnare il resto del gruppo di un’occhiata.

Serj rimase a fissarlo, poi disse: “Capisco.” E tornò a rivolgersi agli altri.

Lui capiva sempre tutto. Era stato in grado di afferrare le sensazioni emanate da Matt ed ero certa che avesse compreso che la sua tristezza dipendeva da qualcosa che era successa tra me e lui.

Gli fui grata del fatto che non avesse insistito con il chitarrista. L’ultima cosa di cui Matt aveva bisogno era qualcuno che gli facesse pressioni in un momento del genere.

Sapevo che lui si trovava là esclusivamente per evitare che nascessero problemi con la band, perché non riusciva e non poteva essere egoista, nonostante desiderasse trovarsi da tutt’altra parte, proprio come me.

Dopo averlo osservato per qualche altro istante, tornai a concentrarmi sulla conversazione dei miei colleghi.

“Dovremmo portarne una dei Bullet” esclamai di slancio.

Nella saletta calò il silenzio più totale.

Gli sguardi di tutti erano puntati su di me e questo mi mise in imbarazzo.

Sapevo di aver sganciato una bomba a orologeria, ma ero sicura che ci fosse una canzone di quel gruppo che sarebbe stata perfetta da realizzare live usufruendo di voci particolari come quella di Serj e Max.

Janne chiese: “Perché?”

Spiazzata, cominciai a spiegare: “Secondo me, sarebbe perfetto fare ‘Just Another Star’ aggiungendo le vostre voci.” Accennai ai cantanti.

“No!”

Tutti ci voltammo a fissare Matt.

“Non faremo una canzone del mio gruppo.”

A bocca aperta, rimasi a guardarlo, finché non lo vidi staccarsi dalla parete e uscire dalla saletta.

Perché Matt aveva avuto quella reazione?

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro ***


24

 

 

“Ma che…” cominciò a dire Michele.

Gli lanciai un’occhiata e lui si zittì.

“Ragazzi, vi dispiace se vado a parlargli?” chiesi, cercando di non lasciar trapelare emozioni.

Joey e Serj mi osservarono, annuendo comprensivi, mentre il resto della band non fece obiezioni.

Mi diressi verso l’uscita ma mi sentii afferrare per il polso.

“Liz” disse Michele.

Mi ritrassi dalla sua presa e mi voltai a guardarlo. “Sì?”

Non disse nulla.

Continuai a fissarlo interrogativa, chiedendomi cosa avesse in mente di dirmi. Tuttavia non gli chiesi ulteriori spiegazioni e ripresi a camminare, lasciandolo dov’era.

Non appena misi piede fuori dalla saletta, sospirai. Matt non poteva essersene andato, doveva per forza trovarsi sulla terrazza. La raggiunsi di corsa e mi bloccai sulla soglia.

Lui era là, accasciato sul pavimento, mentre quell’espressione triste che gli avevo visto poco prima non voleva saperne di abbandonare il suo viso, invaso dalle ombre che il sole gli proiettava addosso. Teneva le gambe incrociate, la schiena premuta contro il parapetto di cemento, i palmi delle mani premuti a terra e i capelli mossi dal vento.

Mi sentii quasi male mentre mi rendevo conto di quanto fosse bello.

E di quanto soffrisse.

E di quanto lo desiderassi.

E di quanto stessi sbagliando.

Scossi impercettibilmente il capo e mi avvicinai a passo lento alla sua figura.

Rimase immobile nonostante si fosse accorto della mia presenza, poiché mi aveva lanciato una breve occhiata, come per accertarsi che fossi sola o che fossi io e nessun altro.

Mi fermai davanti a lui e rimasi in piedi con lo sguardo puntato a terra.

Matt mi afferrò la mano che tenevo abbandonata lungo il fianco e quel gesto mi riscosse, procurandomi un profondo brivido lungo la schiena.

“Scusa” mormorò.

Presi a fissare le sue dita che stringevano le mie, mentre con il pollice mi accarezzava delicatamente la pelle del dorso.

Mi abbandonai in ginocchio di fronte a lui e sentii che non ero più in grado di fingere, non con lui.

Matt finalmente mi guardò negli occhi.

E io mi sentii morire.

Non volevo sopportare tutto il dolore che dai suoi occhi mi trapassava l’anima, eppure rimasi incantata a fissare le sue iridi di ghiaccio, ghiaccio liquido, ghiaccio freddo, ghiaccio spento.

Che mi raggelò il sangue nelle vene.

“Oh, Matt, non…” Fui incapace di aggiungere altro.

Era strano come i suoi occhi fossero capaci di esprimere così tante emozioni, di inondarmi di tutta la sofferenza che provava lui, di farmi sentire come se anche io dovessi subire quello che stava subendo lui a causa mia.

“Va’ da Mick” ordinò, con tono piatto.

“N-no” balbettai, stringendogli forte la mano.

“E’ giusto che sia così.”

“Ma non è quello che voglio” dichiarai, per poi afferrargli anche l’altra mano e avvicinarmela alla guancia. Me la posai sulle labbra. “Matt.”

“Liz, noi non possiamo stare insieme, lo hai detto anche tu.”

“Mi sbagliavo!” sbottai.

“No, non è così. Hai idea di cosa manderesti a monte scegliendomi?” domandò, serio.

Lasciai andare le sue mani e mi misi a sedere accanto a lui. “Non m’importa.”

“Non dire stronzate” mi rimproverò, rimanendo immobile a fissare il punto in cui mi trovavo poco prima.

“Stammi a sentire!”

Il chitarrista si voltò di scatto e i suoi occhi incontrarono i miei.

“Non so cosa sia successo. So soltanto che da quando ci siamo baciati non ho fatto altro che pensare a te. Cosa posso farci, eh?”

Scosse il capo. “Potrebbe essere semplicemente una sbandata, Liz.”

“U-una… ma che dici, io…”

“Sai che c’è?” Matt si alzò e mi osservò dall’alto in basso. “Sei soltanto un’egoista.”

Mi sentii sprofondare nel pavimento, come se qualcuno stesse scavando una voragine in cui rinchiudermi per sempre e impedirmi di riemergere.

Matt proseguì senza togliermi gli occhi di dosso: “Può essere che ora tu ti senta attratta da me. Ma cosa succederà quando capirai di aver sbagliato tutto? Cosa farai quando la tua parte razionale ti farà intendere che la tua vita dev’essere con Mick e non con me?”

Non dissi niente e abbassai lo sguardo sulle mie mani, vergognandomi terribilmente soltanto per il fatto di esistere.

“Pensaci bene prima di venire da me e illudermi ancora” lo sentii dire.

Poi udii i suoi passi. Se ne stava andando.

Balzai in piedi, come risvegliata da un lungo letargo, e lo raggiunsi, abbracciandolo da dietro. “Non te ne andare, ti prego!” lo supplicai, mentre avvertivo le lacrime pungermi gli occhi. Le ricacciai indietro e mi costrinsi ad essere forte. Non potevo piangere proprio ora, ora che Matt mi avrebbe abbandonato per sempre al mio destino e alla mia confusione.

Mi sentivo proprio un’adolescente in piena crisi. E forse non ero altro che questo. Durante il liceo ero stata troppo occupata a studiare e a sopportare di vivere con un padre che mi odiava, per preoccuparmi di vivere gli anni in cui si scoprono nuove emozioni, in cui si comincia ad avere le prime cotte, le prime delusioni. Così, ora mi ritrovavo a vivere le incertezze tipiche di quell’età, con la complicazione che avevo venticinque anni e avevo a che fare con persone adulte, persone che provavano sentimenti intensi e puri, persone che non stavo facendo altro che ferire a causa della mia immaturità.

Lasciai andare Matt e abbandonai le braccia lungo i fianchi.

Lui non aggiunse altro e se ne andò.

Affranta, mi andai a sedere dov’era stato lui precedentemente e mi raggomitolai con le ginocchia al petto e la testa affondata tra le mani. Ero sbagliata, per me non c’era posto in un mondo in cui tutti erano già cresciuti, in cui tutti sapevano cosa volevano dalla vita, sapevano chi amare.

Io non lo sapevo e non avevo idea di cosa significasse rendere felice qualcuno. Forse perché nessuno aveva mai reso felice me.

Un rumore proveniente dalla porta che dava sulla terrazza mi fece sollevare il viso rigato di lacrime.

Michele stava in piedi sulla soglia e mi sorrideva debolmente, finché non si accorse che piangevo e la sua espressione si fece preoccupata.

A passo veloce si diresse nella mia direzione. “Cosa ti ha fatto? Matt…” Fece per accarezzarmi i capelli ma mi ritrassi.

“Niente, non ha fatto niente! Smettila di prendertela con lui una buona volta!” gridai, trafiggendolo con gli occhi.

Lui indietreggiò, ritirando la mano. “Liz…”

“E’ tutta colpa mia ti dico! Quando siamo usciti, sabato, l’ho baciato! E sì, ho rovinato tutto, lo so! E sì, so anche di essere egoista e immatura, ma questa sono io Mick! Ti sei innamorato della persona sbagliata!”

Michele impallidì.

“Non ti azzardare a torcere un capello a Matt, lui non c’entra, ti ripeto! Se c’è qualcuno con cui prendersela”, mi alzai e piantai i miei occhi sui suoi, “quel qualcuno sono io!”

Il bassista continuava a rimanere immobile a fissarmi con sguardo inespressivo.

“Ho deciso che tornerò in Italia, lasciare i Faithless è la cosa più giusta che io possa fare. A Londra non c’è più posto per me e forse non c’è mai stato.”

Senza preoccuparmi di aspettare una sua reazione, lo superai e raggiunsi la soglia.

“Spero vorrai dirlo tu ai ragazzi” dissi e me ne andai di corsa.

Dovevo raggiungere casa Jordison prima che a qualcuno venisse in mente di seguirmi e levare le tende il più velocemente possibile.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo venticinque ***


25

 

 

Il taxi sfrecciava per le vie stranamente poco trafficate di Londra. Erano circa le nove di sera e avevo scoperto che un volo per Milano sarebbe partito circa un’ora e mezza più tardi. Perfetto. Dovevo assolutamente lasciare la città il prima possibile, in modo da non dare la possibilità a nessuno di provare a seguirmi e pregarmi di cambiare idea.

Avevo sbagliato a rispondere a quell’annuncio lasciato dai Faithless, sarei dovuta rimanere nell’ombra e continuare a vivere con mio padre, nel tentativo di sopportarlo finché non avessi trovato un lavoro che mi permettesse di andarmene di casa. Invece avevo risposto a quella loro dannata ricerca e da lì era cominciato tutto. Non ero adatta a vivere in mezzo a delle persone adulte, perché nel mio cervello l’apposita maturità non c’era. Me n’ero accorta non appena Michele aveva cercato di conquistarmi, e allora mi sarei dovuta distaccare, anziché gettarmi tra le sue braccia. Così anche l’ira e la gelosia di Matt si erano scatenate, riversandosi sui Faithless e sul nostro rapporto. In più c’era stata la faccenda di Corey che mi aveva allontanato da Joey, soltanto perché io, come al solito, non avevo capito niente e lo avevo respinto nonostante cercasse di spiegarmi la sua posizione. Poi, sempre a causa mia, la sorella di Max era stata allontanata dalla saletta. Lo scompiglio nel gruppo era sempre stato portato da me, così come l’incrinazione e la tensione dei rapporti tra i componenti.

Ma stavolta non avrei sbagliato, non sarei rimasta a guardare mentre tutto andava a rotoli a causa mia, non l’avrei permesso ancora. Ora stavo facendo soltanto la cosa giusta e non me ne sarei pentita.

Una volta giunta in aeroporto, pagai la corsa e scesi, mentre una leggere brezza mi sferzava il viso.

Mi trascinai dietro il mio trolley e mi avviai all’interno della struttura con l’intenzione di fare il check-in per poi rifugiarmi in un angolo e aspettare l’orario dell’imbarco.

Nessuno mi avrebbe trovato e non avrei permesso che le cose andassero diversamente da come avevo deciso. Quella era stata la scelta migliore che avessi mai fatto in venticinque anni di vita e, nonostante il dolore mi squarciasse il petto, l’avrei portata avanti fino all’ultimo.

Presto mi sbarazzai del pensiero del check-in e mi fiondai in un angolo da cui riuscivo a scorgere soltanto gli orari delle partenze e degli arrivi, mentre tutto il resto mi veniva oscurato da un muro su cui posai la testa, sospirando. Mi sentivo affranta e triste. Mi sarebbe mancato ogni singolo componente del gruppo e questa sarebbe risultata la parte più difficile da sopportare. Serj con il suo ottimismo, Joey con la sua allegria e i suoi consigli, Janne con le sue battute stupide, Max e il suo temperamento latino colmo di vitalità.

E Michele, intelligente, sicuro di sé, riflessivo.

E Matt, bello, impulsivo, passionale.

Calde lacrime presero a rigarmi le guance. Era impossibile, stavo sul serio abbandonando tutto per tornare in Italia a vivere la vita che ormai non ricordavo più di aver vissuto? Chissà come sarebbe andata.

In quel momento mi venne in mente che non sapevo assolutamente dove andare.

Afferrai il cellulare e scorsi la rubrica, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano. Non ero sicura che Anna mi avrebbe risposto. Sperai che non ce l’avesse ancora per me per il fatto che me ne fossi andata senza salutarla, ma era stato mio padre ad opprimermi e a farmi pressione.

Da allora io e Anna ci eravamo sentite saltuariamente e lei mi era parsa un po’ fredda e distaccata.

Il suo era ancora il primo numero della lista. Schiacciai convulsamente il tasto verde e la chiamata partì.

Sentii gli squilli che si susseguivano e il cuore perse un battito quando la sua voce mi arrivò alle orecchie.

Liz?” Il suo tono era sorpreso e leggermente incerto.

Annuccia” mormorai, scoppiando nuovamente a piangere. Non avrei voluto, ma fu inevitabile. Tuttavia sapevo che con lei potevo essere me stessa, senza pensare né riflettere su cosa dovessi dire o fare per compiacerla. O almeno, così era sempre stato in passato e ora il mio desiderio era quello che potesse essere ancora così con la mia vecchia amica.

“Oh, tesoro! Perché piangi?”

“Sto tornando a casa” dissi tra i singhiozzi.

“Cosa?” sbottò. “Perché?”

In quel momento udii la chiamata dell’imbarco del mio volo.

“Ti racconto tutto quando arrivo. Dimmi soltanto se posso stare da te per qualche giorno.”

“Certo che puoi!” dichiarò, alzando il tono di voce. “Non devi nemmeno chiederlo.”

“Grazie” piagnucolai. “Sono felice che tra noi non sia cambiato niente” aggiunsi, riprendendo ad asciugarmi le lacrime.

Presi il trolley e mi alzai.

“Anche io.” Immaginai che stesse sorridendo dal tono della sua voce.

Silenzio.

“Devo andare” dissi.

Mi incamminai verso l’uscita, mentre un sacco di persone mi passavano accanto, quasi di corsa.

“Vuoi che ti venga a prendere?” domandò.

“Prenderò un taxi.”

Ci salutammi e riagganciai, gettando il cellulare dentro una tasca interna del trolley, dopo averlo spento.

Mi diressi dietro a tutti gli altri passeggeri e mi immersi tra la marmaglia.

Non so perché, ma qualcosa mi indusse a voltarmi indietro.

E li vidi.

Michele e Matt, così diversi eppure così uniti dallo stesso amore per me, per la persona sbagliata che non aveva fatto altro che procurargli sofferenza. Stavano là, vicini, con lo sguardo fisso su di me, come se aspettassero che ci ripensassi.

Ma ciò non accadde.

Mi dovetti sforzare immensamente per non correr loro incontro, eppure rimasi con i piedi piantati per terra a guardarli come se non fossero nemmeno là.

Michele era arrabbiato e deluso, sul suo viso teso, le sopracciglia erano inarcate e gli occhi puntati sui miei erano accusatori.

Matt era triste. Sembrava che volesse piangere da un momento all’altro e le sue spalle erano incurvate in maniera strana, come se tutto il dolore che provava si riversasse su di esse. Gli occhi erano sgranati e lucidi.

Il cuore mi si spezzò, fu quasi come se un rumore orribile mi si espandesse per tutto il petto, fino a raggiungere ogni singolo recettore del mio corpo.

A ridestarmi da quella fase di trance fu l’ultima chiamata del volo.

I due ragazzi raddrizzarono le spalle e rimasero immobili a fissarmi intensamente, aspettando una mia mossa, un mio passo verso di loro, un mio ennesimo errore.

Che non avvenne.

Gli voltai le spalle e mi affrettai ad accodarmi agli ultimi ritardatari.

Senza guardare più indietro, camminai velocemente e mi gettai definitivamente il passato alle spalle.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo ventisei ***


26

 

 

Quando scesi dall’aereo, il ricordo dell’ultima volta che ero stata a Milano mi investì come uno tsunami, ferendomi terribilmente. Era stato Michele a portarmici, chiedendomi di accompagnarlo poiché doveva tenere un concerto nella Grande Metropoli italiana. Allora tra noi non era ancora nato niente di che, ma io ero già confusa e cercavo di capire cosa provassi nei suoi confronti. Quei giorni, nonostante facesse male ricordarli, erano stati divertentissimi: nel backstage della manifestazione a cui Michele aveva partecipato, avevo reincontrato il mio amico Nicola, cantante dei Linea 77, e conosciuto Babaman, uno dei miei tanti idoli. Era stata un’esperienza fantastica e ora ci tornavo perché la mia migliore amica abitava là e io non ero sicura di poter tornare in Toscana. Probabilmente mio padre aveva venduto la casa prima di partire a Londra e prima di scoprirlo avevo dovuto trovare una sistemazione temporanea.

Immersa nei miei pensieri, mi avviai verso l’uscita e salii sul primo taxi a disposizione, dicendo l’indirizzo all’autista.

Mi accasciai sul sedile e osservai i claustrofobici grattaceli milanesi ammassati l’uno sull’altro. Non rimasi turbata da quell’ambiente, poiché Londra era ancora peggio di Milano da quel punto di vista. Quando ci imbottigliammo nel traffico, notai che ci trovavamo vicino a Piazza del Duomo e il ricordo del concerto di Michele mi schiaffeggiò ancora una volta con tutta la sua potente crudeltà. Mi venne in mente la dedica che mi aveva fatto prima di cominciare a cantare ‘Ulisse’. Era stato emozionante assistere a tutto quello spettacolo e in quel momento, mentre l’autista ripartiva, fui certa che non avrei mai dimenticato niente che fosse legato ai Faithless.

L’auto si fermò e io scesi, porgendo una banconota da venti sterline all’autista.

Lui mi lanciò un’occhiataccia.

Inizialmente non compresi cosa ci fosse che non andava, poi sgranai gli occhi, mortificata.

“Mi scusi, io… sono appena tornata da Londra e… avevo fretta, non ho pensato di…

Il tizio mi sorrise sarcastico e mi congedò con un gesto della mano. “Vada, non si preoccupi. La prossima volta mi dovrà il doppio.”

Stordita, scesi dalla macchina e la osservai mentre si allontanava, scomparendo nel traffico milanese.

Dio, come avevo potuto non ricordarmi di cambiare le sterline in euro? Mi maledissi un centinaio di volte, mentre mi infilavo nell’androne del palazzo in cui abitava Anna. Presi l’ascensore e schiacciai convulsamente il tasto numero 8, per poi appoggiarmi con la schiena contro la parete metallica e sospirare.

Le porte si aprirono dopo un lungo minuto e, barcollando, mi trascinai fuori, avviandomi verso l’appartamento della mia amica. Vi giunsi e suonai il campanello, lasciando andare il trolley e sistemandomi distrattamente i capelli con una manata.

Pochi istanti dopo Anna mi aprì e mi si fiondò addosso, stringendomi forte a sé. “Oh, Elisa! Quanto mi sei mancata!” disse.

Ricambiai l’abbraccio e sorrisi, mentre qualche lacrima di gioia sgorgava dai miei occhi.

“Fatti guardare!” Mi afferrò per le spalle e mi fece allontanare, per poi squadrarmi dall’alto in basso. Posò le iridi nocciola sul mio viso e mormorò: “Non piangere, tesoro. Vieni, entra. Ci mettiamo comode e mi racconti tutto, ti va? Vuoi qualcosa da bere?” prese a domandare, trascinandomi letteralmente dentro casa.

Mi fece sedere sulla piccola poltrona in vimini che si trovava in un angolo della cucina e trasportò il mio bagaglio fuori dalla stanza. Poco dopo riapparve e prese ad armeggiare con un bollitore di metallo.

La osservai e sorrisi.

“Allora? Vuoi un tè?”

Scossi il capo. “Dimentichi sempre che odio quella bevanda.”

Anna si batté una mano sulla fronte e ridacchiò, mettendo comunque a bollire l’acqua. “Allora l’inglese sono io, a quanto pare” osservò, voltandosi nella mia direzione.

Risi e le feci una linguaccia.

“Caffè?” chiese ancora.

“Sì, diamine! Un bell’Espresso!”

La mia amica si mise all’opera e io mi guardai intorno, notando l’arredamento modesto ma comunque accogliente; tutti i mobili erano di legno chiaro, mentre le pareti color pesca ospitavano qualche quadretto rappresentante astrattismi.

Una domanda mi occupò improvvisamente la mente e mi voltai di scatto verso Anna, trovandola appoggiata con la schiena contro il frigorifero, intenta a fissare la piccola caffettiera rossa.

“Anna.”

“Sì?”

“Vivi ancora da sola, vero?” domandai.

La mia amica sorrise, ma non distolse lo sguardo dal punto che stava osservando.

Cosa mi stava nascondendo? Non è che forse…

“Sai, in realtà… Giorgio si è trasferito da me circa un mese fa.”

Cosa? Io non ne sapevo niente! E ora stavo deliberatamente invadendo i loro spazi, proprio nel momento in cui Anna e il suo ragazzo avevano appena intrapreso un’esperienza importante come la convivenza.

“Ma Eli, non ti preoccupare!” si affrettò ad aggiungere, notando la mia espressione dopo aver sollevato il viso. Mi si avvicinò e proseguì: “Tu sei e sarai sempre la ben venuta a casa mia, perciò smettila di pensare di arrecare disturbo.”

Spalancai la bocca per dire qualcosa.

“Non essere sorpresa, ti conosco” dichiarò, con tono divertito.

Intanto la caffettiera e il bollitore presero a rumoreggiare nello stesso istante, come se si fossero messi d’accordo.

Sorrisi ad Anna e lei si affrettò a spegnere tutto e a versarmi il liquido nero che tanto amavo in una tazzina.

“Ecco a te!” disse, posandomela accanto assieme alla zuccheriera color porpora, abbinata alla caffettiera. “Ben tornata a casa.”

 

“E così sei fuggita da Londra per amore” riassunse Anna, mentre stavamo accoccolate sul divano.

Le avevo appena raccontato ogni singola cosa e lei era stata ad ascoltarmi con attenzione e comprensione, come se ci fossimo viste appena il giorno precedente.

“Sì.” Le posai la testa sulla spalle e lei mi avvolse in un abbraccio.

“Sei sicura di aver compiuto la scelta giusta?”

“Sinceramente non lo so. Cioè, per i ragazzi è meglio così, ma è logico che io soffra per la drasticità del mio gesto. Ho tagliato i ponti in quattro e quattr’otto e ora mi sento vuota.” Ero sincera, con Anna era inutile fingere.

“Capisco. Sono d’accordo con la tua scelta, Elisa.”

Annuii. “Lo immaginavo.”

“Per come ti conosco, non saresti stata in grado di scegliere.”

Chiusi gli occhi e sospirai. “Già. Sono una bambina.”

Anna ridacchiò, tirandomi una ciocca di capelli. “Sì, sei la mia bambina.”

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo ventisette ***


27

 

 

“Anna?”

“Elisa, ti prego!”

“Non ho il coraggio di farlo.”

“Perché mai? Abbiamo fatto tutti questi chilometri per niente? Ora siamo qua e tu ti dai una mossa.”

Anna aveva ragione.

Ci trovavamo in Toscana, più precisamente a Grosseto, la mia città natale. Ebbene sì, dopo una settimana trascorsa a sentirmi il terzo incomoda a casa della mia migliore amica, mi ero decisa a tornare nella mia terra a controllare se la casa in cui ero cresciuta fosse ancora di proprietà della mia famiglia o se fosse stata venduta. Mio padre sarebbe stato capace di tutto pur di tagliarmi le gambe, tant’era l’odio che provava nei miei confronti.

Così, mi ritrovavo davanti al vialetto che tanto avevo odiato ma che adesso speravo tanto che potesse essere nuovamente mio. Un auto era parcheggiata sul ciglio della strada, ma non sapevo a chi appartenesse. Sperai che non fosse del nuovo proprietario della casa.

L’unico modo che avevo di scoprirlo, in quel momento, era suonare quel dannato campanello e scoprire il mio destino. In caso nessuno avesse risposto, nella mano destra stringevo una vecchia copia della chiave del portone principale.

Anna mi diede una leggera spinta, incitandomi a farmi avanti.

Una volta giunta vicino al campanello, il mio sguardo fu catturato dalla targhetta che una volta arrecava il cognome di mio padre. Ora, invece, c’era scritto ‘Famiglia Arrighi’.

“Oh, no!” mormorai, portandomi una mano alla bocca.

“Elisa! Insomma, ti vuoi decidere? Non è detto che tuo padre l’abbia venduta. Può essere che…”

“Okay, okay! Suono!”

Avvicinai l’indice sinistro al pulsante del citofono ma, quando stavo per schiacciarlo, fui interrotta da una voce femminile alle mie spalle.

“Elisa? Sei proprio tu?”

Mi voltai di scatto, ritrovandomi faccia a faccia con Adelina Giannini, una delle mie ex vicine di casa. La signora, conosciuta da tutti come Ada, era una vecchia zitella pettegola che ricordava tanto la nonna di Hansel e Gretel. Rimasi a bocca aperta, mentre la mia mente elaborava il fatto che la donna facesse ancora parte di questo mondo. Quando ero partita a Londra, due anni prima, l’avevo lasciata che vegetava a letto, in seguito ad un infarto che avrebbe ucciso chiunque. Già, chiunque ma non lei. Si sa, l’erba cattiva non muore mai. L’avevo sempre conosciuta e odiata, così come detestavo tutto il genere delle pettegole che esistevano sulla faccia della Terra.

Ebbi l’impulso di risponderle malamente, o di liquidarla con un sorriso falso come una banconota da due euro, eppure un’idea mi balenò in mente come un fulmine a ciel sereno.

Mi sciolsi in un sorriso, compiaciuta dal fatto di avere un cervello pensante.

La donna credette che stessi rivolgendo quel gesto a lei, così mi si avvicinò e mi travolse in uno dei suoi famosi abbracci stritolanti, capaci di infastidire la persona più paziente e tranquilla al mondo.

“Salve, signora Ada. Come sta? La trovo in splendida forma!” esclamai, dopo essermi gentilmente scostata da lei.

Anna, intanto, si intromise nella conversazione, salutando educatamente la donna. “Signora Ada, si ricorda di me? Sono Anna, giocavo spesso con Elisa quando eravamo piccole.”

“Oh, sì, cara! Ciao!” squittì Adelina, abbracciando anche la mia amica.

“Cosa fate da queste parti? So che vi eravate trasferite a Londra e Milano” disse, indicando prima me poi Anna, mentre pronunciava i nomi delle due metropoli.

Il sangue mi ribollì nelle vene. Quanto odiavo quel suo ficcanasare in ogni questione! Eppure, dovevo tenere duro e usufruire di quella fonte che tanto mi irritava per cercare di scoprire qualcosa sulla casa.

“Sa, è proprio per questo che sono qua” risposi, cercando di non rivelarle troppi dettagli che lei avrebbe sicuramente spifferato alle altre reliquie del quartiere, ammesso e non concesso che fossero ancora vive e vegete.

“Cioè?” I suoi occhi si accesero di quella curiosità morbosa che conoscevo bene.

“Ecco, vorrei tornare a vivere a Grosseto, ma non so se la mia casa è ancora disponibile.”

“Non lo sai?” fece, spalancando sfacciatamente la bocca, come indignata dalla mia ignoranza. Insomma, era davvero convinta che tutti dovessero essere a sua immagine e somiglianza? Che razza di presunzione era quella?

“No, non lo so” risposi con tono inevitabilmente irritato, beccandomi un’occhiataccia da parte di Anna.

“Oh, cara. Allora con tuo padre le cose non sono migliorate, vero? Mi dispiace tanto. Quell’uomo è terribile, io l’ho sempre detto!” borbottò, come se stesse parlando più con se stessa che con me.

Soffocai un’imprecazione, stendendo un velo pietoso sulla sua indelicatezza.

“Ragazze, su, venite dentro! Vi offro una tazza di caffè e vi racconto quello che so. Non sono più informata come una volta, ormai voi giovani siete così riservati! Però forse posso aiutarvi.” Così dicendo, zampettò velocemente verso la sua dimora. Chi non la conosceva, non avrebbe mai pensato che quel carro armato di donna fosse uscita illesa da un infarto.

Io ed Anna la seguimmo e, prima di entrare, la mia amica mi afferrò per un braccio e mi sussurrò: “Comportati bene.”

Mi divincolai dalla sua presa e annuii, per poi sedermi sulla poltrona di pelle nera che la signora Adelina mi stava indicando.

L’arredamento della sua casa era sempre nuovo, smagliante, come se nessuno vi abitasse, e forse era proprio così. Era come se quella donna vegetasse alla maniera di un fantasma.

Poco dopo, tre tazze di caffè fumante erano posate sul tavolino al centro del salotto e la padrona di casa si sedette su una poltrona di fronte alla mia, mentre Anna si era accomodata su una sedia di vimini.

“Il suo caffè è sempre il migliore del quartiere, immagino” osservai, mescolando lo zucchero. Il mio complimento, stavolta, fu sincero. La signora Adelina aveva molti difetti, ma non le si poteva di certo togliere quel primato.

“Lo spero, cara, lo spero! Assaggia e fammi sapere.”

Dopo aver sorseggiato il liquido nero, le sorrisi.

Lei ricambiò, scrutandomi con quei suoi occhi piccoli e stretti, indagatori e attenti com’erano sempre stati, capaci di mettermi tremendamente in soggezione.

“Allora, Elisa, devi sapere che la tua casa è in affitto alla deliziosa famiglia Arrighi” disse Ada, per poi trangugiare il suo caffè.

“In affitto?” Posai la tazza sulla superficie quadrata e vitrea del tavolino.

“Sì, hai capito bene. A tuo padre fa comodo incassare un po’ di soldi. Con i tempi che corrono non ha ritenuto opportuno vendere la casa, sai com’è.”

Evitai di chiederle come facesse a sapere certe cose. Diamine, nemmeno io ne ero a conoscenza!

“Tuttavia…”

Sollevai lo sguardo. Cosa stava per dirmi?

“La casa è a nome tuo, questo dovresti saperlo.”

Rimasi interdetta. Cosa? No, non ne sapevo niente! Eppure, feci finta di averne sentito parlare.

Annuii. “Ricordo vagamente qualcosa del genere…”

“Tuo nonno ha voluto lasciarla a te. Perciò, puoi farne ciò che vuoi.”

Sorrisi. “E’ vero. Che sciocca, io…”

“Oh, Elisa, non ti preoccupare” tagliò corto, sorridendo.

Quando io e Anna lasciammo l’abitazione della signora Adelina Giannini, fui certa che mi sarei ripresa ciò che era mio. Avevo perso tutto per colpa di mio padre, avevo dovuto rinunciare ai Faithless perché non ero in grado di compiere scelte mature, ma di una cosa ero sicura al cento per cento: sebbene mi dispiacesse per la ‘deliziosa famiglia Arrighi’, sarei tornata a vivere a Grosseto, lottando contro la bestia che mi aveva rovinato l’esistenza.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo ventotto ***


28

 

 

Innanzi tutto, feci visita alla famiglia Arrighi. Si trattava di due coniugi abbastanza giovani senza figli, perciò immaginai che per loro non sarebbe stato difficile trovare un’altra sistemazione alternativa a casa mia. Poi Giorgio – il ragazzo di Anna – che lavorava come avvocato in uno studio legale al centro di Milano, contattò mio padre e gli richiese il documento che attestava la mia proprietà della casa a Grosseto, poiché io avevo espressamente manifestato la mia volontà a volerci tornare.

Quella bestia aveva borbottato e imprecato contro il gentilissimo Giorgio, poi però era stato costretto a sottomettersi alla giustizia e dichiarò che avrebbe inviato il tutto via fax.

Tutto si concluse in maniera abbastanza rapida, nel giro di un mese il documento fu di mia proprietà e con tale attestato esercitai il mio legittimo rimpatrio in Toscana.

Tuttavia, aiutai i coniugi Arrighi a trovare una sistemazione, scoprendo che la fortuna sembrava essere dalla mia parte. Infatti, i due si trasferirono in un appartamento in centro, meno costono dell’esorbitante affitto che mio padre pretendeva loro. Inoltre, la zona era la stessa in cui entrambi lavoravano, essendo proprietari di una cartolibreria.

Così, un mese e mezzo dopo, ero a casa, felice di aver ricevuto la proposta di lavorare alle dipendenze dei due coniugi.

Inutile dire quanto fosse felice la signora Adelina Giannini nel vedermi scaricare la mia roba dov’era sempre stata fino a due anni prima. Mi fece le feste come un cagnolino che aspettava con ansia il ritorno del suo padrone e questo mi irritò in maniera eclatante. Fui quasi sul punto di mandarla al diavolo, se non fossi stata una persona educata.

Per quanto riguarda i miei sentimenti, la situazione non era affatto cambiata: se durante il giorno ero entusiasta e occupata a servire i clienti della cartolibreria, la notte mi chiudevo a riccio sul mio letto e piangevo, sentendomi nostalgica e triste. Avevo combinato un sacco di guai e già mi mancava il sostegno che Anna mi aveva donato nel periodo in cui avevo vissuto a casa sua. Anche lei, però, aveva un lavoro e doveva rimanere a Milano a svolgerlo, non poteva star dietro alle mie stupide lacrime.

Più il tempo passava, più il vuoto nel mio petto cresceva inesorabilmente, trascinandomi in un oblio che mai e poi mai avrei saputo affrontare e sconfiggere. Mi ero premurata di gettare la vecchia scheda telefonica, proprio per evitare di essere contattata da Michele o da Matt.

Rimaneva però il mio indirizzo e-mail che avevo deciso di continuare ad utilizzare, poiché ricevevo aggiornamenti da diversi siti e non mi andava di eliminare tutto a causa di un triangolo amoroso che solo io mi ero creata.

Così, un bel giorno – per così dire – effettuai l’accesso alla mia casella di posta elettronica per controllare se ci fosse qualche novità interessante.

Mentre scorrevo i ventiquattro messaggi in arrivo (dalla quantita della posta non letta si può capire che non vi entravo spesso), uno di essi attirò la mia attenzione, raggelandomi il sangue nelle vene.

Risaliva a circa una settimana prima. Il mittente era Matthew Tuck. Non poteva essere, avevo vietato sia a lui che a Michele di cercarmi. E ora venivo a conoscenza del fatto che il mio volere non era stato rispettato.

Con lo sguardo fisso sullo schermo del portatile, cominciai a leggere ciò che Matt mi aveva scritto.

 

Cara Liz,

            so perfettamente che non avrei dovuto scriverti, ma è stato più forte di me.

Mi manchi, non immagini quanto. Non sai cosa darei per poterti riabbracciare.

 

Tuo, Matt

 

Rimasi per qualche minuto con la bocca spalancata, gli occhi sgranati e una mano premuta sul petto all’altezza del cuore, mentre un uragano di sensazioni mi travolgeva, trascinandomi in un universo a me sconosciuto. Matt aveva detto che gli mancavo. Peccato che non sapesse quanto lui mancasse a me. Avrei voluto cancellare quel suo messaggio, ignorarlo, magari avrei potuto addirittura evitare di leggerlo e cestinarlo soltanto perché proveniva da lui.

Eppure, rimasi là a rileggerlo all’infinito, incurante delle lacrime che mi offuscavano la vista, della gioia insensata che il sentirmi desiderata da lui mi provocava, del bisogno che sentivo di rispondergli o addirittura di prendere il primo aereo per Londra e raggiungerlo.

Invece, lessi centinaia, migliaia di volte quelle poche parole, in modo da imprimerle a fuoco nella mia anima.

Matt mi voleva.

E io volevo lui.

Ma sapevo già che non avremmo mai potuto stare insieme, non dopo tutto quello che avevo combinato, non dopo aver abbandonato i Faithless di punto in bianco.

Cosa dovevo fare?

Non ne avevo la minima idea. Mi sentivo un po’ come Tom Hanks nel film ‘Cast Away’: demoralizzata, sola, confusa, incapace di trovare una soluzione per abbandonare quell’isola triste e solitaria che era la mia sofferenza.

Scossi il capo, cercando di liberare la mente da quei pensieri dolorosi.

Decisi di spegnere il computer. Non volevo nemmeno cancellare l’e-mail di Matt, volevo soltanto smetterla di leggerla, anche perché ormai conoscevo a memoria ogni singola interpunzione, ogni singolo termine, ogni singola emozione legata ad ognuna delle parti dei brevi periodi che aveva inciso in quel messaggio digitale.

Prima di arrestare il sistema, però, decisi che avevo qualcosa di importante da affrontare: dovevo sapere com’era andato lo spettacolo dei Faithless come gruppo spalla dei Metallica, dovevo venire a conoscenza della nuova formazione, dovevo saperne di più su di loro. Avevo rimandato per troppo tempo quel momento. Ma ora potevo affrontarlo, dopo aver accettato di leggere le parole di Matt, non mi restava che completare l’opera in bellezza.

Digitai alcune parole sul motore di ricerca e attesi che comparisse la lista dei risultati. Aprii il sito ufficiale dei Faithless e la foto del gruppo mi si parò davanti agli occhi, trafiggendoli.

Sulla destra, il primo a spiccare con un sorriso smagliante era Max, accanto a lui c’era Joey che faceva le corna, poi Michele che osservava l’obiettivo con espressione seria; al suo fianco, Matt aveva assunto un’espressione da duro, mentre Janne rideva, come se qualcuno dei presenti avesse appena fatto una battuta.

E accanto a lui, con gli occhi più tristi di questo mondo, vi ero io, persa come al solito nei miei pensieri.

Infine, Serj posava rilassato, con una mano sulla mia spalla e l’altra posata sul petto, mentre un lieve sorriso gli increspava le labbra.

Mi sentii invadere da un amore incondizionato per ognuno di loro, come se tutto quello che era successo nei mesi precedenti avesse improvvisamente cessato di esistere. Fu come trovarmi lì a posare insieme a loro. Non mi importava che la mia espressione fosse malinconica, sapevo soltanto che ricordavo il momento in cui quell’immagine era stata scattata e sapevo che, allora, mi sentivo a casa, protetta dalla mia vera famiglia.

Mi riscossi e scesi con il cursore a leggere i post della timeline.

L’ultimo risaliva proprio al giorno della mia partenza.

 

5 settembre 2012, ore 19:37

 

I Faithless annuciano che la batterista Elisa Rubini non potrà presenziare al live in cui la band si esibirà in apertura del concerto dei Metallica, il prossimo 3 ottobre.

Si spera che la musicista si rimetta presto in forze e che torni il prima possibile ad allietarvi con l’energia del suo strumento.

Intanto, sarà sostituita dal batterista Mike Luce, facente parte della band statunitense Drowning Pool.

Siete tutti invitati a partecipare all’evento!

 

Cosa? Dovevo aver letto male, perché non era concepibile che i ragazzi credessero che sarei tornata a suonare con loro. Ero stata chiara, avevo detto espressamente che sarei uscita dalle loro vite per sempre, eppure avevano comunque fatto di testa loro.

Tutti i buoni propositi riguardanti l’esito della serata con i Metallica andarono a farsi benedire. Sapevo che Mike Luce non aveva niente da invidiarmi, perciò potevo dormire sonni tranquilli da quel punto di vista.

Spensi il computer e mi andai a stendere sul letto.

I Faithless erano pazzi, completamente fuori di testa!

Non potevo ripartire per Londra come se niente fosse e scoinvolgere un’altra volta le loro vite.

Prima di scivolare tra le braccia di Morfeo, soltanto di una cosa fui certa: avevo sbagliato ad illudere Michele, poiché soltanto ora comprendevo che l’unico che avessi mai amato altri non era che Matthew Tuck.

Ecco perché dovevo rimanere in Toscana e lasciarlo andare.

Ecco perché decisi che avrei eliminato la sua e-mail.

Ecco perché non l’avrei degnato della minima risposta.

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo ventinove ***


29

 

 

Osservai lo schermo del mio cellulare per controllare che ore fossero e mi accorsi che era tremendamente tardi. Mi precipitai giù dal letto e misi le ultime cose in valigia. Dovevo sbrigarmi, altrimenti l’aereo non avrebbe certo atteso il mio arriivo, poiché ero io a dovermi adeguare agli orari imposti dalla compagnia. Sicuramente non sarebbero venuti a suonare a casa mia per incitarmi a salire a bordo. Perciò, avrei perso l’occasione di arrivare in orario a quel dannato concerto e Anna mi avrebbe strozzato, ne ero certa.

Imprecai, mentre uscivo di casa trascinandomi dietro il trolley. Un taxi mi aspettava già da un quarto d’ora e l’autista sembrava parecchio scocciato. Mi fulminò con gli occhi quando mi vide avvicinarmi alla sua vettura, poi butto il mio bagaglio nel cofano e partì a tutta velocità verso l’aeroporto. Almeno non avrei dovuto pregarlo di fare in fretta, la sua guida era abbastanza spericolata e rapida.

Non appena giungemmo a destinazione, mi diressi a passo spedito all’imbarco, mentre dagli altoparlanti si udiva l’ultima chiamata per il volo diretto a Milano. Ero stata proprio fortunata, avevo creduto seriamente di dover rimanere a Grosseto.

Non che fossi troppo entusiasta all’idea di assistere a quel concerto, ma Anna mi aveva letteralmente trascinato a Milano, dicendomi che era giunto il momento di affrontare la mia vita e sistemare le cose che avevo lasciato in sospeso.

Da quando Matt mi aveva scritto, erano passati due mesi e non mi ero degnata di rispondergli. Ora che i Faithless erano in tour in Europa con i Metallica, dopo il grande successo ottenuto nella prima data londinese, ero pronta a rivederli, ad assistere alla loro performance con il batterista Mike Luce, ero pronta a vedere Matt e comunicargli personalmente la risposta alla sua e-mail.

Era stato difficile comprendere cosa dovevo fare, ma alla fine tutti i nodi erano tornati al pettine.

Il viaggio non durò molto, in men che non si dica mi ritrovai stretta ad Anna che esultava del fatto che le avessi dato ascolto per una volta, che fossi riuscita ad arrivare e che dovevamo sbrigarci.

Passammo giusto un attimo nel suo appartamento a lasciare il trolley e a sistemarci, poi prendemmo la sua auto e ci dirigemmo all’Alcatraz. Erano soltanto le due del pomeriggio e io avevo una fame tremenda, ma la mia amica era decisa ad assicurarsi la prima fila e quando Anna si metteva in testa una cosa, era pressoché impossibile smuoverla o impedirle di ottenerla.

“Devi stare faccia a faccia con loro, devono sapere che ci sei” continuava, zigzagando in mezzo al traffico milanese.

“Sì, ma ho fame! Ero in ritardo e non ho nemmeno avuto il tempo di fare colazione!” protestai, incrociando le braccia sul petto.

“Non temere, mangeremo!”

E così, ci fermammo ad un fast food e tutto ciò che riuscii ad ottenere fu del cibo d’asporto, poiché Anna fu categorica: non avevamo tempo da perdere per mangiare sul posto, dovevamo sbrigarci!

Credetti che stesse letteralmente impazzendo, ma mi divertiva tremendamente quel suo modo di fare.

Ricordo perfettamente cosa accadde quando i cancelli si aprirono: la mia amica mi trasportò in mezzo alla folla urlante, sgomitando a destra e a manca per poter passare, incurante del fatto che fosse presente un esorbitante numero di gente, prevalentemente di sesso maschile. Arrivammo come due furie in prima fila e io mi schiantai contro la transenna, imprecando tra i denti. Attorno a me cominciò ad affollarsi una marea di sostenitori accaniti dei Metallica, con tanto di maglie della band e altri gadget vari. In poco tempo, mi ritrovai schiacciata contro la barriera di ferro che mi separava dal palcoscenico, mentre tutti spingevano per potersi avvicinare alla prima fila. Ero così impegnata a tenermi stretta la mia postazione, che ancora non avevo realizzato ciò che stava per succedere.

Avrei rivisto i Faithless.

Feci appena in tempo ad elaborare quel concetto che un boato si scatenò attorno a me, mentre Anna mi gridava all’orecchio, indicandomi il palco.

Pian piano, tutti i musicisti che componevano i Faithless fecero il loro ingresso, lasciandomi letteralmente a bocca aperta.

Serj era completamente vestito di nero e sfilava con sicurezza, trasmettendomi una calma immensa, seppur non gli stessi stringendo la mano come spesso capitava in passato.

Joey era buffo mentre teneva tra le braccia la sua chitarra, distinguendosi per la sua bassa statura in confronto agli altri.

Janne trotterellava allegro, dirigendosi dietro la sua fantastica keyboard, come se si trovasse in saletta a provare e non ad un concerto davanti a miliardi di persone.

Max lanciò un sorriso in direzione del pubblico, per poi afferrare il microfono e pronunciare qualche parola che non fui in grado di distinguere.

Mike Luce corse ad impugnare le bacchette, per poi sedersi dietro la batteria e lanciare un grido in scream attraverso il microfono che gli era stato sistemato addosso.

Michele camminò tranquillo e si sistemò sul lato destro del palco, strimpellando distrattamente il basso, per poi rivolgere un cenno di saluto agli spettatori.

E Matt…

Be’, Matt era bellissimo.

Indossava una maglia dei Metallica e sorrideva, eccitato, mentre perlustrava il pubblico con gli occhi.

E mi vide.

Il mio sguardo si scontrò con il suo e la sua espressione divenne prima sorpresa, poi il suo sorriso si allargò e attirò l’attenzione di tutta la band su di me.

Max, che ancora giocherellava con il microfono, gridò: “Liz!”

Imbarazzata, mi strinsi al fianco di Anna, mentre lei rideva euforica.

Attorno a me le grida non erano diminuite, tuttavia molti dei presenti sembravano interessati alle espressioni sorprese dipinte sul viso dei Faithless.

Mike Luce, incuriosito, si avvicinò a Janne, che mi indicò, sorridendo come suo solito.

Liz, sei venuta a suonare?” chiese Max.

Calò il silenzio.

Avrei voluto sotterrarmi, sì, in quel momento non desiderai altro.

Anna mi diede una gomitata, incitandomi a rispondere al brasiliano.

Scossi il capo, incapace di proferire parola.

Notai che Michele mi osservava, sembrava tranquillo, come se si fosse fatto una ragione di ogni cosa. Ma con lui non c’era da stare tranquilli, lo conoscevo abbastanza per sapere che certe volte evitava di mostrare le sue vere emozioni, nascondendosi dietro una maschera di benessere e calma.

“E invece sì!” gridò Matt, strappando il microfono a Max.

Mi sentii tremare da capo a piedi.

Liz, sali sul palco!” proseguì.

Lo guardai con aria spaesata, non poteva star dicendo sul serio.

Invece, in una maniera che non riesco a ricordare nitidamente, mi ritrovai sul palco, tremante, ad osservare la folla che ancora taceva, in preda alla confusione.

Mike Luce mi sventolò le bacchette davanti al viso e questo gesto mi riscosse. Mi voltai a guardarlo.

“Queste sono tue, prendile e fammi vedere cosa sai fare.”

Rimasi imbambolata a fissare il suo viso, mentre cercavo di rimettere in ordine un minimo dei miei pensieri.

“Ah, io sono Mike, piacere.” Mi tese la mano.

Improvvisamente, fu come se una strana consapevolezza mi colpisse in pieno, come se il senso di appartenenza che stare a contatto con i Faithless mi aveva sempre provocato tornasse a completarmi, scaldandomi l’anima.

Strinsi la mano ad uno dei miei idoli e gli sorrisi. “So chi sei, è un onore per me conoscerti. Credo che tu mi abbia sostituito nel migliore dei modi, ma adesso è tempo che il gruppo torni alle sue origini.”

Prima di riprendere le bacchette, guardai negli occhi ogni singolo componente della band, comunicando con quell’occhiata la mia volontà, facendo intendere ai miei amici che ero tornata più forte di prima e che non sarei più scappata da loro, perché quello era il mio posto.

Mi precipitai dietro la batteria e tutto divenne magico. Solo allora mi resi conto che stavo per suonare dal vivo per la prima volta davanti a miliardi di persone insieme alla mia band e questa consapevolezza mi rese emozionata, eccitata e colma di energia.

Non appena cominciai a suonare, fu come se il mondo intorno a me si fondesse con la mia persona e la mia batteria, riverente nei miei confronti, come se tutto dipendesse dal ritmo che imprimevo ad ogni singolo pezzo, come se i Faithless non aspettassero che me per raggiungere la loro personale perfezione.

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo trenta ***


30

 

 

Io e Matt sedevamo nel backstage, mentre gli altri erano sotto la doccia. Il concerto era stato estenuante, tutto era andato come previsto e i Metallica erano rimasti contenti del risultato. Avevo avuto la possibilità di conoscerli e per me era stata un’emozione grandissima stringere loro la mano e scambiarci quattro chiacchiere.

Osservai il ragazzo che stava davanti a me e mi parve quasi impossibile che si trovasse là, visto e considerato il tempo che avevamo trascorso separati.

Liz, sei stata grandiosa!” sbottò Joey, correndo fuori dal camerino.

Mi alzai e corsi ad abbracciarlo, felice di rivederlo e di sapere che non ce l’aveva con me, che aveva capito, che tutto poteva ricominciare da capo.

“Oh, nanetto!” esclamai, stringendolo a me. Mi era mancato il suo appoggio, il suo affetto e tutto quello che quotidianamente faceva per me.

“Se vuoi, casa mia è anche casa tua” disse, scostandosi da me per poter incontrare il mio sguardo.

“Certo che lo voglio, i Faithless sono la mia casa, la famiglia che non ho mai avuto e tu lo sai.” Ero certa che mi brillassero gli occhi, poiché dalle mie parole traspariva una sincerità e una gioia che verbalmente era difficile spiegare.

Nel frattempo, Janne ci raggiunse, seguito da Max. Ci fu un mega abbraccio collettivo, durante il quale scoppiai a piangere, felice come non lo ero da tempo.

“Mi siete mancati, giuro che non vi abbandonerò più. Mi dispiace, mi dispiace tanto di essermene andata.”

“Non importa, ora sei qua ed è questo che conta” proferì Max, in tono solenne.

Janne prese a farmi volteggiare per aria, nonostante le mie proteste, sotto lo sguardo divertito degli altri.

“Sei tornata!” gridò.

“Sì, sì!” esultai a mia volta. Mi sentivo una bambina, ma in quel momento non me ne importava niente.

Liz.” Serj pronunciò il mio nome con tono pacato, mentre si avvicinava, però sul suo viso era dipinto un radioso sorriso che mi fece commuovere più di quanto già non fossi.

Abbandonai gli altri ragazzi e mi fiondai tra le sue braccia, incapace di placare il fiume di lacrime che imperterrito continuava a sgorgare dai miei occhi.

“Ben tornata, sapevo che non avresti saputo rinunciare a me per tanto tempo” scherzò, accarezzandomi i capelli.

“Mi conosci troppo bene” concordai, sorridendo.

Dopo essermi separata dal contatto con il cantante armeno, notai che Michele parlottava con Mike Luce in un angolo della stanza, così mi avvicinai a loro.

“Ehilà” salutai, cercando di mantenere un’espressione serena. Volevo che le cose con il bassista dei Faithless andassero per il meglio, non avrei sopportato il fatto che tra noi nascessero delle tensioni. Avevo sbagliato ad illuderlo, ma allora non avevo minimamente idea di cosa volessi e desiderassi realmente.

Mi ero appoggiata a lui perché la vita mi aveva lasciato sola fin da subito, perché nessuno mi aveva mai amato come aveva fatto lui, perché avevo bisogno di prendermi cura di qualcun altro, stanca di dover pensare soltanto a me stessa, curiosa di conoscere la vita che mi era ignota.

Poi, però, avevo capito di aver sbagliato. Con Matt era diverso, accanto a lui mi sentivo completa e appagata, non avevo paura, non provavo nessun imbarazzo né vergogna, come se la cosa più naturale del mio mondo fosse rimanere al suo fianco.

Liz, ciao! Sono felice che tu sia qui” disse Michele, distogliendo lo sguardo dal batterista dei Drowning Pool.

“Ragazzi, vi lascio soli.” Detto questo, Mike si allontanò e scomparve dal mio campo visivo.

“Sul serio ti fa piacere? Ti ho ferito, Mick, lo so. E…

“Tu ami Matt, giusto?”

Rimasi spiazzata. Lo fissai per qualche istante e decisi che era ormai inutile continuare a mentire a lui e, specialmente, a me stessa.

Abbassai il viso. “Sì” sussurrai.

“Allora è giusto che tu viva questi sentimenti. Hai sofferto abbastanza, è ora che tu sia felice.”

“Grazie, Mick, ma… tu?” Lo guardai incerta.

“Io? Mi sono già fatto da parte, avevo immaginato che sarebbe andata a finire in questo modo. L’ho intuito dal momento in cui hai deciso di uscire da sola con Matt, nonostante stessimo insieme” spiegò, tranquillo.

Spalancai la bocca ed emisi un sibilo di sorpresa. “Io, non… mi dispiace.”

“Lo so, però è acqua passata.”

Annuii.

Michele mi sorrise e fu allora che tutto divenne chiaro. Ci volevamo bene e sapevamo che tutto quello che era accaduto in passato non avrebbe mai distrutto il nostro legame.

“Oh, Capa, ti voglio bene!” mormorai, per poi abbracciarlo.

Ricambiò la stretta e ridacchiò. “Anche io, principessa.”

Gli mollai un pugno sul braccio e mi allontanai ridendo.

Raggiunsi Matt e gli strinsi la mano. “Ti va di parlare un po’?”

Mi osservò e sorrise. “Certo. Con Michele va tutto bene?”

“Sì, per fortuna.”

Ci dirigemmo all’interno del camerino che ormai era vuoto e prendemmo posto su un divanetto ricoperto di velluto consunto, di un colore che in passato doveva essere rosso.

“Matt, ho letto la tua e-mail.”

“Perché non hai risposto? Pensavo che non ti importasse più niente di me.” Il tono che utilizzò mi fece male, esprimeva tutta la sofferenza che gli avevo inflitto durante quel periodo appena trascorso.

“Ti sbagliavi. A me importa di te.”

Le sue iridi color ghiaccio si scontrarono con le mie e ne rimasi del tutto incantata.

“Ah, sì?”

“Matt, ti amo” sussurrai, accarezzandogli i capelli. “Ora sono certa che sia così, ti amo e voglio stare con te.”

Un sorriso meraviglioso gli si allargò sul viso e i suoi occhi divennero lucidi, segno che quelle parole lo avessero colpito nel profondo dell’anima.

“Spero che anche per te sia lo stesso, ancora” aggiunsi, fissandomi la mano che giaceva abbandonata sulla mia gamba sinistra.

Il ragazzo mi sollevò il mento con due dita e mi costrinse a far incontrare ancora i nostri sguardi. “Certo, certo che è così.” Mi prese la testa tra le mani e una lacrima brillò sulla sua guancia, solitaria e colma di significato. Poi mi baciò, posò le sue labbra sulle mie e io lo strinsi forte, ricambiando con sicurezza ogni suo singolo gesto.

Volevamo entrambi stare insieme, volevamo amarci e dedicarci l’uno all’altro, nonostante fosse passato parecchio tempo da quando lui aveva cercato di farmelo capire.

Ma ora tutto era al suo posto, i pezzi del nostro puzzle personale si erano incastrati perfettamente tra loro e non potevamo desiderare di meglio.

Avevamo l’uno l’amore dell’altra, avevamo degli amici fantastici e una band che stava prendendo il volo.

Mentre mi stringevo a Matt, mi venne in mente il fatto che mai e poi mai avrei immaginato che la mia vita potesse migliorare in maniera così radicale e positiva.

Ma era accaduto e ora stava a me non sprecare più nemmeno un nanosecondo di felicità.

 

 

Bene, bene, bene!

Siamo giunti al termine di questa follia, perché altro non è, se non questo.

O sbaglio?

Un po’ mi dispiace, è da molto che scrivevo le avventure di Liz e i Faithless.

Be’, però, devo dire che vi ho stressato abbastanza, trenta capitoli sono sempre trenta capitoli!

Allora, passiamo ai dovuti ringraziamenti: grazie a Lady Red Velvet e DreamNini per il sostegno e gli infiniti complimenti, siete state voi a “costringermi” a proseguire, non potevo lasciarvi sulle spine senza arrivare alla fine; poi, ringrazio anche _Marya_ e minnie 98 per aver letto e recensito, mi ha fatto davvero piacere =)

Infine, un grazie va anche a chi ha inserito ‘Faithless’ tra le seguite e a chi ha semplicemente letto, senza esprimere nessun parere.

Spero di avervi appassionato con quest’esperimento, a presto <3

 

Kim

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1066267