Posso amarti?

di CookieKay
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. God save the Queen ***
Capitolo 2: *** 2. Ubriachezza Molesta ***
Capitolo 3: *** 3. Amore perso, amore represso ***
Capitolo 4: *** 4. La mia forza, il mio piacere, il mio dolore ***
Capitolo 5: *** 5. Le ossessioni di Hayley Doherty ***
Capitolo 6: *** 6. Crush ***
Capitolo 7: *** 7. La finestra sul cortile ***
Capitolo 8: *** 8. Fiducia ***



Capitolo 1
*** 1. God save the Queen ***



Capitolo 1: God save the Queen

Merda. Merda. Merda.

Non riuscivo a smettere di pensare a che schifo di giornata mi sarebbe spettata. La donna seduta davanti a me continuava a fissarmi. Me ne ero accorta già da un po’. Alzai la testa e le feci segno con la testa, come a voler dire “E tu che cazzo vuoi?”. Lei mi guardò sulla difensiva e poi volse il suo sguardo accusatore da un’altra parte. Sbuffai sonoramente. Odio essere fissata da gente che non conosco. In realtà anche da chi conosco. Mi fa sentire come se mi stessero giudicando. E a me non piace essere giudicata. Il gracchiare dell’altoparlante mi riportò alla realtà: “I passeggeri del volo L6755 con destinazione Londra sono pregati di raggiungere il gate numero 5” Merda. Mi ritrovai a pensare per l’ennesima volta. Mi alzai da quello scomodo seggiolino di plastica dove da ormai un’ora e mezza aspettavo impaziente quell’annuncio. Mi guardavo intorno con aria circospetta, aspettando che qualche poliziotto mi fermasse per perquisirmi. . Mi comportavo come se fossi stata una terrorista alle prime armi. Ma non nascondevo una bomba. Né armi, né droga. Non so spiegarlo, ma in aeroporto mi sono sempre comportata in quella strana maniera. Come se nascondessi qualcosa. Avevo lo sguardo basso e procedevo a passo spedito verso il gate numero 5. Il cinque è il mio numero fortunato, ma in quell’occasione mi ritrovai a pensare a quanta sfiga potesse celare. “E guarda dove vai!” esclamai acida ad un uomo che mi aveva sbattuto addosso. Neanche si scusò. Correva come un ossesso con il suo mini-trolley in mano. Sospirai ancora. Mi accorsi che al gate numero 5 si era formata una coda anomala. Maledetti inglesi. Se non dovessi salire anche io su quell’aereo, pregherei perché cascasse in mezzo all’oceano .I miei pensieri, tutt’altro che gentili, vennero nuovamente interrotti da una mano che si era posata sulla mia spalla. Stavo per mettere in pratica quelle tre lezioni di difesa personale a cui avevo partecipato, quando mi accorsi che una signora dal viso cordiale mi guardava sorridendo. “Dovresti andare avanti, o rimarremo tutti qui” disse, facendomi notare di aver bloccato il flusso di gente che doveva oltrepassare il gate numero 5. “Scusi” dissi imbarazzata, abbassando lo sguardo e procedendo a passo svelto verso le hostess sedute stizzite. Porsi loro il mio biglietto e il mio passaporto e dopo aver constatato che quella sua foto del mio documento ero io e dopo avermi consegnato solo parte del mio biglietto mi apprestai a raggiungere l’aereo attraverso il corridoio vetrato alle loro spalle. Sarei arrivata a Londra la mattina seguente. Un viaggio stancante che mai nella vita avrei rivoluto fare. Ma il destino con me è sempre stato bastardo. Salita in aereo, uno steward poco più grande di me mi accompagnò in prima classe. Non sono mai stata in prima classe quando ero bambina: pensavo che potessero andare solo chi avesse una ventiquattrore. Sorrisi a quel pensiero. Effettivamente me ne ero autoconvinta quando avevo sette anni. L’anno dopo avevo chiesto a mia madre di comprarmi una ventiquattrore in miniatura e quando salii in aereo una hostess mi fermò poco prima che riuscissi a varcare la tendina che separa la prima classe da quella economica. A quel punto mi convinsi che erano i bambini a non erano ammessi. “Accomodati pure lì” mi disse gentilmente lo steward, con un odioso accento inglese. “Grazie” dissi, sedendomi (o meglio stravaccandomi) sul sedile largo e comodo. Niente a che vedere con i seggiolini di plastica dell’aeroporto. “Posso portarti qualcosa?” mi chiese lui, sorridendomi. “Sono a posto così” dissi, poi ci pensai “Aspetta! Un caffè macchiato con panna” forse pretendevo troppo. “Arriva subito” rispose divertito. Mi stropicciai la faccia con le mani e sbadigliai sonoramente, guardando fuori dal finestrino. Dovevamo essere in ritardo. Grazie a Dio, pensai. Almeno il mio incontro con loro sarebbe slittato di qualche minuto. E qualche minuto, per me, faceva la differenza. “Ecco il caffè” esultò lo steward raggiante, porgendomi una minuscola quanto insignificante tazza di caffè. Alzai un sopracciglio e bevvi il mio caffè. “Cos’è questa schifezza?” chiesi disgustata. Di sicuro non era caffè. Lui per tutta risposta rise e si gratto la testa imbarazzato. “Mi dispiace. Non sono un asso a fare caffè” confessò. “E non c’era nessuno in grado di aiutarti?” gli chiesi tra l’acido e il curioso. “Se scoprissero che ho servito caffè poco prima di partire, le mie colleghe mi spaccherebbero la faccia” non riuscii a non ridere. “E come mai l’hai fatto?” gli chiesi, stavolta molto più curiosa. “Avevi un’aria nervosa e volevo metterti a tuo agio” mi confidò. Si vedeva così tanto? Non pensavo di poter risultare tanto trasparente anche agli occhi di un completo estraneo. “Grazie” risposi sincera puntando i miei occhi verdi, nei suoi neri. “Senti, se vuoi un po’ di compagnia durante il volo mi offro volontario” si grattava la testa in modo così buffo che non riuscii a rifiutare l’offerta. “Bene, allora ci vediamo dopo” “Non vado da nessun’altra parte” dissi, prima di vederlo sparire dietro la tendina che separava le due classi.

Poco dopo lo vidi rientrare, ma non si fermò. Proseguì e si fermò in mezzo alla prima classe. La voce del pilota risuonò nell’aereo “Buonasera a tutti sono il capitano Monroe e vi do il benvenuto su questo volo in partenza da New-York JFK con destinazione Londra. Sono le ore 3 e nove minuti e il tempo è pressoché sereno.  Il tempo stimato di volo è di circa 6 ore e quaranta minuti: arriveremo all’aeroporto di Heathrow alle ore nove e cinquanta. In attesa di nuovi aggiornamento, a presto e buon viaggio”. Lui era americano. Si sentiva dall’accento molto più sciolto e giovanile. E per un momento mi sentii a casa. Hostess e steward si apprestarono a mimare i movimenti nel caso di incidente aereo. E’ la parte che più odio durante un volo. Mi infilai le cuffiette dell’Ipod e iniziai ad ascoltare un po’ di sana musica, chiudendo gli occhi e aspettando di decollare. I think we have an emergency, I think we have an emergency. No, non era la canzone più adatta da ascoltare su un aereo mentre decollava. God save the Queen. Sorrisi. L’avevo scaricata sapendo della mia imminente partenza per Londra. A cosa mi ero ridotta. Sentii tirarmi giù una cuffietta dall’orecchio “Ehy, ragazzina. Avresti dovuto ascoltare. In caso di disastro aereo, non saprai come muoverti” mi disse lo steward sorridente come al solito. “Ci sarai tu ad aiutarmi” gli dissi alzando un sopracciglio. “Vuoi qualcosa da mangiare?” mi chiese, appoggiandosi lievemente al mio sedile. “Dolci, qualsiasi tipo, ma che siano dolci” dissi quasi pregandolo. Lui rise divertito e sparì dietro la tendina. In quel momento sperai che a Londra fossero tutti come lui. Ma sapevo di sbagliarmi. Dove stavo andando non c’era nessuno di gentile e amichevole. Sospirai e nemmeno mi accorsi del suo ritorno. “Ho detto alle mie colleghe che eri una donna incinta e per questo mi hanno detto di non farti pagare niente” Mi posò sul tavolino davanti a me una cascata di schifezze che alzarono i miei livelli di zucchero nel sangue solo a guardarli. “Vedi di non esagerare. Non vorrei intrattenere una chiaccherata con te in bagno” Per la seconda volta non riuscii a non ridere. Scartai un pacchetto di M&M’s e gliene offrii “Paga la American Airlines” dissi, notando il suo tentennamento. Mi sorrise e prese alcune palline colorate, sedendosi di fianco a me. “Come mai a Londra?” mi chiese aprendo una confezione di biscotti al cioccolato. “Mio padre abita a Londra e mi sto trasferendo da lui” dissi. Lui notò subito il mio disagio. “Ok, cambiamo argomento. Come ti chiami?” “Hayley” “Freddie, piacere” ci stringemmo la mano. La sua stretta era così salda che quasi sussultai. Niente a che vedere con la mia, moscia e insignificante. “Sei inglese?” gli chiesi, sapendo già la risposta. “Già, di Birmingham. Si nota molto?” “Abbastanza” dissi sorridendo. “Come mai fai lo steward?” mi sembrava una domanda stupida, ma lui rispose comunque. “Mi piace volare e stare a contatto con la gente” “Ah, potevo arrivarci anche da sola” assunsi l’espressione sono-una-deficiente che lo fece ridere. “Alcuni pensavo che io lo faccia perché sia omosessuale” “Sei gay?” chiesi d’impulso sgranocchiando una manciata di M&M’s. “Se fossi stato gay di sicuro non mi sarei messo a parlare con te, ma con quel ragazzo laggiù” disse, indicandomi un ragazzo di circa diciotto anni, con il volto stracarico di acne e una pancia non propriamente invidiabile. “Penso che anche in quel caso avresti parlato con me, piuttosto che con lui” dissi, guardando il ragazzo lontano da noi. “Forse. E tu che fai? Studi o lavori?” “Ho abbandonato un paio di mesi fa giornalismo” “Come mai?” “Sapevo che mi sarei dovuta trasferire a Londra” dissi, risprofondando nell’amarezza. Lui mi guardò “Anche a Londra ci sono delle facoltà del genere” “Già, ma a mio padre non sarebbe andata bene” sospirai. Sentivo solo il suo sgranocchiare biscotti. “Ti piacciono eh?!” dissi, mettendolo in imbarazzo. “ “Non posso farne a meno, quando volo. Ne hai mai assaggiato uno?” “Non vado pazza per i biscotti” “E come farai all’ora del thè?” disse stupito, guardandomi aspettandosi una risposta. “Io…non..” “Sto scherzando.. tipico umorismo inglese, preparati perché  ne avrai a che fare tutti i giorni” Perfetto. “Vuoi dormire un po’?” mi chiese, evidentemente notando il mio viso sconvolto. Annuii imbarazzata. Mi piaceva parlare con Freddie, ma il sonno stava prendendo il sopravvento. “Ti sveglierò all’arrivo” disse alzandosi dal sedile su cui si era seduto e sparecchiando il tavolino pieno di cartacce. Mi addormentai come un sasso, non appena posai lo sguardo fuori dal finestrino. Non si vedeva nulla. Il vuoto assoluto. Proprio come quello che c’era nella mia testa nel pensare a quanto poco tempo mancava al mio arrivo a Londra.

Fui svegliata da un maledetto raggio di sole che puntava dritto al mio occhio destro. Sbadigliai sonoramente “Stavo giusto per venirti a svegliare. Dormito bene?” la voce pimpante di Freddie mi fece voltare. Non avevo notato quanto fosse carino. Lineamenti dolci, carnagione marmorea e capelli neri come i suoi occhi. Era alto e slanciato. Sperai di non avere il solito rivolo di bava mattutina che mi attraversava metà faccia. Annuii. “Allacciati la cintura” era un ordine gentile, quasi scherzoso. Probabilmente già si aspettava che non l’avrei fatto. Mi portò un altro schifosissimo caffè. “Davvero, non c’è nessun altro che possa farmi un caffè decente?” dissi, notando quanto la mia voce fosse rauca di prima mattina. “E io che l’ho fatto con tanto amore!” rispose facendo il finto imbronciato. Presi la tazzina e buttai giù quell’intruglio disgustoso. “Grazie a Dio non lavori in una caffetteria. Ti avrebbero licenziato in tronco” dissi io, scherzando. “O forse avrei imparato a fare i caffè più buoni del mondo” “Ne dubito”. Mi sorrise. Tornò a sedersi con le sue colleghe al di là della tendina. Una sensazione di angoscia e solitudine mi pervase il corpo. Scendere da quell’aereo significava andare incontro a un destino che non mi piaceva affatto. Non avrei trovato gentilezza e affetto fuori di lì. Ma indifferenza. Totale indifferenza nei miei confronti.  Il comandante dell’aereo ci salutò con garbo. Sarebbe stato l’ultima persona americana che avrei sentito parlare. “Hayley! Meno male, non sei ancora scesa” Freddie mi corse incontro. “Devi darmi un altro schifoso caffè da bere?” gli chiesi scherzosa mentre tentavo di tirare giù il trolley dalla cappelliera sopra di me. Ci pensarono lui e la sua altezza ad aiutarmi in quell’impresa. Mi ricordai in quel momento che poco prima del decollo era stato sempre lui ad infilarlo lì dentro. “Grazie..” bisbigliai, imbarazzata dal mio metro e 55 scarso. “Senti, mi piacerebbe sentirti” era rosso come un pomodoro. Risi divertita “Scusa, ma ti pare che arrossisci a quel modo?” gli chiesi, col mio solito tatto da elefante. “Quindi non è un problema se ci scambiamo i numeri di telefono?” sembrava un bambino a Natale. Hayley Doherty, fai sempre colpo. Sorrisi modestamente e gli diedi il mio numero. “Ti chiamerò” mi baciò sulla guancia e mi accompagnò all’uscita dell’aereo. Sentii chiaramente una sua collega dirgli “E scommetto che quella ragazza sarebbe la donna incinta con voglie di dolci. Sei proprio un idiota, Freddie” “Sta zitta Beth” lo sentii rispondere ridendo, mentre varcavo la porta che mi separava dal suolo britannico. Io e il mio piccolo trolley vagammo alla ricerca dell’uscita. Non riuscivo a trovare un maledettissimo cartello che mi indicasse la via giusta da seguire. Poi come se fosse stato sempre lì ad aspettarmi vidi un cartello sopra la mia testa. Uscita. Non so se fosse stata la carenza di sonno o il mio non voler uscire dall’aeroporto a non farmi trovare ciò che stava sotto al mio naso, o meglio sopra la mia testa. Sospirai un ultima volta prima di varcare la porta scorrevole che avrebbe ridotto le distanze tra me e la mia famiglia. Vidi solo un foglio bianco. Haylee Doherty. Anche se il nome era scritto in modo errato, dovevo essere sicuramente io. Mi avvicinai. Rimasi pietrificata. “Che ci fai qui?” chiesi al ragazzo che reggeva il cartello. Lui mi squadrò da capo a piedi, dietro gli occhiali da sole, che avrebbero dovuto dargli un’aria da bello e dannato. Peccato che la totale assenza di sole lo rendevano un perfetto idiota. “Non mi saluti nemmeno, sorellina?” mi disse lui, col suo solito tono gelido che usava solo ed esclusivamente con me. Adam non era mio fratello. O meglio, non di sangue. Era il figlio maggiore della nuova moglie di mio padre. Nuova mica tanto, dato che erano più di 13 anni che erano sposati. “Vedi di muoverti” disse, iniziando a camminare velocemente. “Vuoi rallentare un po’?! Io mi sono appena svegliata” gli sbraitai raggiungendolo. “E io non sono ancora andato a dormire. Quindi vedi di muoverti” disse puntando l’indice sulla mia fronte. Lo faceva sempre quando eravamo piccoli. E mi dava fastidio quanto allora. Sbuffai spazientita. Erano anni che non lo vedevo. Non che mi avesse fatto molta differenza. Entrai in macchina, dopo aver appoggiato non proprio delicatamente il mio trolley sui sedili posteriori. “Vuoi stare attenta? Sai quanto costano quei sedili?” Roteai gli occhi al cielo con espressione plateale. In quella macchina, se avessimo potuto, ci saremmo sbranati letteralmente. Incompatibili. I nostri genitori lo dicevano sempre. “E dove sei stato fino a quest’ora?” chiesi cordiale, tentando di approcciare una qualche tipo di conversazione. “Non sono cazzi tuoi” Incominciamo bene. Neanche mezzo minuto in macchina insieme e già eravamo a queste frasi cariche d’amore reciproco. Sbuffai. “Vedi di farti una doccia a casa. Puzzi d’America.” Mi congelò divertito. Mi morsicai la lingua e trattenei la rabbia, per evitare di saltargli alla gola in preda ad un raptus. Guardai fuori dal finestrino e accesi l’Ipod, chiaro segno del non voler più parlare con lui.

God save the queen
The fascist regime
They made you a moron
Potential H-bomb

God save the queen
She ain't no human being
There is no future
In England's dreaming

Don't be told what you want
Don't be told what you need
There's no future, no future,
No future for you

God save the queen
We mean it man
We love our queen
God saves

God save the queen
'Cause tourists are money
And our figurehead
Is not what she seems

Oh God save history
God save your mad parade
Oh Lord God have mercy
All crimes are paid

When there's no future
How can there be sin
We're the flowers in the dustbin
We're the poison in your human machine
We're the future, your future

God save the queen
We mean it man
We love our queen
God saves

God save the queen
We mean it man
And there is no future
In England's dreaming

No future, no future,
No future for you
No future, no future,
No future for me

No future, no future,
No future for you
No future, no future
For you

Benvenuta in Inghilterra, Hayley Doherty. Feci per accendermi una sigaretta “Adesso fumi pure?” mi chiese il mio odioso fratellastro, divertito. “E’ illegale per caso?” sputai velenosa. Lui rise “Fa un po’ come ti pare” sentenziò. Abbassai il finestrino e mi accesi una sigaretta. Non ero una fumatrice accanita, ma in quella situazione ne avevo abbastanza bisogno. “C’è uno Starbucks vicino casa?” chiesi aspirando del fumo. “Sì” rispose semplicemente. Questo voleva dire che me lo sarei dovuto trovare da sola. “Senti per la mia salute mentale, possiamo cercare di andare d’accordo?” ero disperata. Volevo almeno un alleato dalla mia parte. “Scordati di immischiarmi nei tuoi problemi con il tuo vecchio.” Era più perspicace di quello che mi ricordavo. “Per favore. Ho bisogno di un amico” buttai lì, tentando di risultare il più disperata possibile. “La smetti di rompermi i coglioni?” esclamò gelido, come al solito, piombando in un silenzio innaturale. Arrivammo a casa. Non mi aspettò nemmeno. Salì le scale, aprì la porta e la richiuse sbattendola. “Stronzo” bisbigliai, con il mio trolley in mano. Salii le scale con passo lento. Una condannata a morte. La porta si era chiusa e non avendo le chiavi fui costretta a suonare il campanello. E nessuno venne ad aprirmi. Questo significava che in casa c’era solo Adam. Cazzo. Aspettai un po’, ma la musica assordante proveniente dal piano di sopra mi fece intuire che anche se avessi bussato come un’ossessa non avrebbe sentito niente. Ricordai che quando ero piccola, nella loro vecchia casa, mi arrampicavo su un albero nella parte posteriore dell’edificio. Decisi quindi di constatare se anche lì c’era la traccia di un albero, ma arrivata dall’altra parte della casa trovai il giardino vuoto. Lanciai il mio trolley sul muro, visibilmente scocciata. Mentre mi arrampicavo sulla tubatura principale sentii un tossicchiare dall’altra parte del giardino “Mio fratello mi ha chiusa fuori e non ho le chiavi” dissi alla donna, intenta a innaffiare il suo piccolo giardinetto. Annuì, sorridendomi. E io continuai la mia scalata. Da quel lato della casa la musica era più forte. La camera di Adam doveva essere proprio al di sopra della mia testa. Rischiai di cadere un paio di volte ma riuscii a raggiungere la sua finestra, che era leggermente aperta. Lo vidi sdraiato sul suo letto, che leggeva una rivista. Spalancai la finestra e mi buttai in camera sua. Nemmeno se ne accorse. Avevo le mani sporche di sangue che bruciavano da impazzire. Tirai un calcio contro il suo letto “Stronzo” dissi prima di uscire dalla sua camera sbattendo la porta. Mentre scendevo le scale, lo sentii spegnere la musica e aprire la porta. “Cristo santo mi hai fatto prendere un colpo! Ma da dove cazzo sei sbucata?” sbraitava mentre mi raggiungeva. “Mi hai chiuso fuori, brutto deficiente! Mi sono dovuta scorticare le mani per arrampicarmi alla tua finestra!” ero più che incazzata. Se le mie mani non fossero state ridotte a quel modo, gli avrei tirato un pugno in faccia. “Ti sei arrampicata?” chiese meravigliato. Poi mi prese una mano e prese a fissarla. I suoi occhi azzurri guardavano il sangue. “E’ solo un graffio” “Ma vaffanculo! Non è solo un graffio! Fa male!” Lo vidi sbuffare. Mi trascinò al piano di sopra, in bagno e mise le mie mani sotto l’acqua fredda. Al contatto con le mie ferite sussultai. “Va meglio?” mi chiese, in un modo strano. Quasi dolce. Lo fissai un attimo. “Sì, sì” dissi solo. Lui prese a fissarmi, in quel modo che odiavo tanto. “Come mai non sei più bionda?” mi chiese all’improvviso, come se sapere quella risposta avrebbe salvato il mondo da un attacco nucleare. “Ti piacevo di più prima?” chiesi, con tono acido. “No, così sei più carina” disse uscendo dal bagno. Lasciandomi lì a bocca aperta, con le mani sotto l’acqua fredda. Un complimento. Mi aveva fatto un complimento. Umorismo inglese, mi ricordai rallentando i battiti cardiaci che mi stavano facendo esplodere il cuore nel petto. Chiusi l’acqua e tornai al piano di sotto per recuperare il mio trolley. Nella vecchia casa. La mia stanza si trovava al piano di sotto. Ma non trovai stanze da letto. “E dove cazzo dovrei dormire?” sbraitai rivolgendomi ad Adam al piano di sopra. Lui uscì, con un barlume di follia negli occhi. Si scaraventò su di me, mi prese il trolley e salì come un razzo per le scale. Aprì una porta confinante con la sua stanza e lanciò il mio trolley sul letto. “E ora fammi dormire, scassacoglioni” me lo disse ad un centimetro dalla faccia. Sbatté la porta della sua camera e mi lasciò sola. Sbuffai irritata e entrai in quella che sarebbe stata la mia stanza per un indeterminato periodo della mia vita. Era solo il mio primo giorno a Londra e già volevo tornare a casa, a New York. Mi alzai dal letto, decisa a non voler pensare alla mia amata città. Decisi di uscire, alla ricerca di Starbucks. Quando passai davanti alla porta chiusa della camera di Adam alzai il dito medio, soddisfatta. Scesi al piano inferiore e uscii di casa. Il cielo non prometteva una bella giornata, ma l’alternativa era rimanere in una casa silenziosa a disfare degli scatoli pieni zeppi di cose mie. Starbucks era più allettante. Sinceramente non sapevo nemmeno dove mi trovavo. In un quartiere molto agiato, a giudicare dalle case che mi circondavano. C’erano una moltitudine di persone che passeggiavano intorno a me. “Scusa, puoi farci una foto?” mi chiese una ragazza dagli indomabili capelli castani, mentre mi tendeva una macchina fotografica. “Certo!” le risposi sorridente. Lei si mise in posa di fianco al suo ragazzo, un tipo biondo con la faccia da schiaffi. Scattai la foto e le riporsi la macchinetta fotografica. “Sai per caso dirmi dove siamo?” le chiesi, risultando completamente deficiente. Lei rise “Nemmeno tu sei di qua? Questa è King’s Road” “Grazie” le dissi realmente grata per quell’informazione. Se mi fossi persa almeno avrei chiesto informazioni per tornare su quella via. Mi lasciarono salutandomi cordialmente. Quella via era strapiena di negozi. Mi ritrovai a fissare vetrine che esponevano vestiti che nemmeno se avessi venduto l’anima al diavolo avrei potuto permettermi. Di Starbucks nemmeno l’ombra. Entrai in una piccola caffetteria ad angolo, strapiena di gente. “Un caffè macchiato con panna” chiesi al bancone, attirando l’attenzione di una cameriera. Mi servì il mio caffè. Cristo santo. Era decisamente più buono di quello di Starbucks. Manna dal cielo per le mie papille gustative. “Ti piace?” chiese lei, divertita dalla mia espressione estasiata. “Decisamente. Ero abituata ad altro” “Americana?” “Già.” “Sono stata nel Maine, ma non mi sembri di lì” “New York” risposi semplicemente. Si scusò e tornò a servire gli altri clienti. Pagai una fortuna quel caffè, ma valeva ogni singola sterlina spesa. Uscii dalla caffetteria e una mano mi bloccò per un braccio. “Che cazzo hai in quel cervello bacato? Potevi almeno avvisare che uscivi!” la voce di Adam attirò molti sguardi indiscreti. “Non pensavo fosse un problema” dissi seccata. Se c’era una cosa che odiavo più di Adam, era attirare l’attenzione. “Stavi dormendo e se ti avessi detto che uscivo probabilmente mi avresti mandata a fanculo” dissi, trattenendo la calma. Lui mollò il mio braccio. “Bhè, dato che non conosci la zona ti avrei accompagnata!” Iniziai a ridere. “Tu mi avresti accompagnata? Ma non mi prendere per il culo! So cavarmela benissimo da sola” “D’accordo” disse stizzito, prima di voltarsi e tornare a casa. Più gli anni erano passati e più Adam aveva perso neuroni. Mi girai dalla parte opposta rispetto a dove era andato lui e cominciai a camminare nervosa. Sbuffavo come una locomotiva. Poi lo vidi. Un piccolo negozio di dischi e libri. Entrai come attratta da una calamita immaginaria e fui come accolta in paradiso. CD e libri che riempivano immensi scaffali di legno. Una leggera pacca sulla spalla mi fece voltare “Cerchi qualcosa?” l’uomo davanti a me doveva avere circa trenta cinque anni. Le braccia erano ricoperte di tatuaggi e sul sopracciglio destro spuntava un piercing. “Nulla in particolare” risposi sorridendo. Mi inoltrai in quella coltre di album ordinati in ordine alfabetico con cura e devozione. Come qualsiasi patito di musica farebbe. Come io facevo a New York. Mi legai i capelli in una coda alta, decisa a passare l’intera giornata in quel posto. A costo di essere chiusa dentro durante la pausa pranzo. Non mi importava. Le mie dita scorrevano lungo la plastica degli album. “PumpinkPunkerz” sussurrai. Era un gruppo quasi sconosciuto in tutto il mondo, tranne che a New York. Avevo prestato il mio CD a un mio compagno di corso, che non si era degnato di restituirmelo. Lo presi tra le mani. “Sei la prima persona che prende in mano quel CD” mi disse l’uomo tatuato di poco prima comparendomi alle spalle. “E’ un gruppo forte” dissi, sminuendo di gran lunga ciò che riuscivano a creare con la musica. “Li conosci?” mi chiese curioso. “A New York sono delle leggende” dissi vomitando tutta la stima e la venerazione che provavo nei loro confronti. “Già, avrei dovuto immaginarlo. Solo una di New York può volere un CD dei Pumpink” disse sorridendomi. “Sei in vacanza?” “Mi sono appena trasferita e curiosavo in giro” dissi continuando a guardarmi intorno. “Allora, immagino ci vedremo più spesso” disse, poi si voltò “Quello puoi tenerlo. Te lo regalo” disse accarezzandomi i capelli. “Grazie” risposi estasiata. Se  mi avesse chiesto in cambio dei favori sessuali, avrei accettato. Mi sarei prostituita per quel CD. Non uscii dal negozio. Mi persi lì dentro per tre ore piene. “Ehy, newyorkese! Stiamo chiudendo” mi disse l’uomo tatuato, che a quanto sembrava era il proprietario del negozio. “A che ora riaprite?” gli chiesi senza indugio. “Ah, ti va male! Oggi siamo aperti solo per mezza giornata” Sentii un baratro aprirsi sotto i miei piedi. “Bhè, domani siete aperti, no?” “Certo, certo! Ci vediamo domani” “Ci vediamo domani” ripetei, tenendo ben saldo il mio CD dei PumpinkPunkerz tra le mani e uscendo dal negozio. Decisi di tornare a casa per evitare di spendere altri soldi in cibo. Suonai il campanello. La figura alta di Adam mi squadrava, come al solito, da capo a piedi. “Ti sei degnata di tornare” “Avevo fame” risposi, cercando di entrare in casa. Lui però mi fermò prendendomi per la vita. E mi sorrise. Un sorriso che mai potrò dimenticarmi. Un sorriso che non mi aveva mai fatto. Rimasi immobile, poi notai la sbucciatura sulla sua mano. “Ti sei chiuso fuori pure te?” gli chiesi divertita. “Ma vaffanculo!” mi rispose. Non era una delle sue solite risposte gelide. “Ti porto fuori a mangiare” mi disse spingendomi leggermente all’indietro. “Possiamo anche stare in casa” “La domestica non c’è e se ricordo bene né tu, né io abbiamo un buon rapporto con la cucina.” E aveva ragione: da piccoli avevamo cercato di cucinare delle frittelle per i nostri genitori, ma eravamo finiti col dare fuoco a mezza cucina. Fu l’unica volta in cui ci divertimmo insieme. Poi iniziammo ad odiarci. “Cos’è?” mi chiese una volta in macchina, indicando con il viso il CD che tenevo in mano. “Un CD” risposi semplicemente. “Lo vedo anch’io che è un CD, ma di chi è?” “PumpinkPunkerz” risposi, rigirandomi l’album tra le mani. “Chi?” Come pensavo, non li conosceva. Strappai la plastica che circondava il CD, lo estrassi e lo infilai nella radio della sua macchina. C’mon C’mon . Battevo il ritmo con la mano sul mio ginocchio, mentre la musica riempiva la macchina. Adam sembrava gradire. “Ma chi cazzo sono?” mi chiese alzando la voce, per farsi sentire. “Un gruppo di New York” risposi guardandolo negli occhi. Lui riprese a guardare la strada, mentre Freaky Patrick’s Day iniziava con il suo assolo di chitarra elettrica. Quando fermò la macchina ero seriamente intenzionata a non scendere dall’auto, fino a che non avessi sentito tutte le tracce dell’album. Ma il mio stomaco petulante reclama cibo. “Ciao Ian!” Il mio odioso fratello salutò un uomo tarchiato di circa cinquant’anni, che da come si guardava intorno in cerca di clienti, doveva essere il proprietario di quel ristornate. “Oh, Adam! Tutto bene?” “Sì, sì. Riesci a trovarmi un tavolo per due?” chiese con gentilezza. Gentilezza con cui non si era mai rivolto a me. L’uomo mi guardò e gli strizzò l’occhio. “E’ mia sorella” disse Adam roteando gli occhi al cielo. “Savannah?!” esclamò senza crederci. “Ti sembra Savannah? E’ l’altra sorella. Quella di New York” disse, togliendo ogni dubbio all’uomo. “Ah, già. Bene, entro e vedo se ci sono tavoli liberi”. Tornò poco dopo con un sorriso idiota dipinto sul viso. “Prego, seguitemi”. Ci portò nel retro, in un giardinetto isolato dal resto del ristorante. Tipico posto strategico per far mangiare una coppietta innamorata. Sia io che Adam alzammo un sopracciglio. “Dici che l’ha capito che sono tua sorella, o ha solo fatto finta?” gli bisbigliai, assicurandomi che solo lui sentisse. L’uomo mise una rosa rossa in un piccolo vasetto al centro del tavolo e ci augurò un buon pranzo. Di controvoglia mi sedetti e iniziai a sfogliare il menù. Spalancai gli occhi e quasi mi strozzai con un grissino quando notai i prezzi esorbitanti. Adam iniziò a ridere “Dovresti vedere la tua faccia” “Dovresti vedere i prezzi invece che star lì a ridere. Andiamo da MacDonald, almeno sono sicura di poter pagare quello che mangio” dissi alzandomi dalla sedia. “Per questa volta pago io” Non so se fu quel suo ‘pago io’ o quello sguardo azzurro come il ghiaccio che mi fecero risedere senza muovere obiezioni. Ma non mi feci scappare quell’opportunità e ordinai come se non mangiassi da anni. Mi abbuffai come una cavernicola, sotto il suo sguardo disgustato. “Diventerai una grassona” mi disse, mentre a forza tentavo di trangugiare l’ultimo pezzo di bistecca rimasto nel mio piatto. Mi stravaccai sulla sedia ignorando il suo commento e piena come un elefante sussurrai “Non ce la faccio più” Lui iniziò a ridere. Una risata realmente divertita. Come da anni non gli vedevo fare. Lo guardavo stranita e lui se ne accorse “Che c’è?” chiese tra le risate. “Non ricordavo la tua risata” dissi piantandogli gli occhi addosso. Lui smise di ridere e seriamente mi disse  “Nemmeno io ricordo la tua. E prima di oggi, non ricordavo nemmeno la tua faccia”. Fu come prendere un potente schiaffo in faccia. Eppure ero sua sorella. “Ricordavi che ero bionda, però” “Pochi giorni fa ho visto una nostra foto da piccoli” Un pugno nello stomaco. Senza rendersene conto mi stava mettendo KO. Insensibile pezzo di idiota. Io ricordavo tutto di lui, dai suoi capelli castani, ai suoi occhi glaciali, ai suoi tratti marcati e duri. Possibile che gli fossi proprio così indifferente? Abbassai lo sguardo. “Voglio tornare a casa” dissi, con fare capriccioso. Lui sospirò e si alzò dalla sedia.  Lo aspettai in macchina mentre le note di Childhood dei PumpinkPunkerz mi entrarono nel cervello, perforando ogni ricordo di Adam.

Aprì la porta di casa e senza dire una parola mi fiondai in camera mia sbattendo la porta. Non mi faceva bene stare lì. Volevo tornare a casa. Nascosi la testa nel cuscino e iniziai a piangere silenziosamente. Non mi accorsi nemmeno che la porta della mia stanza si era aperta. “Perché piangi?” mi chiese avvicinandosi al mio letto. “Vattene fuori, Adam. Non ho voglia di perdere tempo a farmi insultare” dissi singhiozzando. Lo sentii ridere. “Che cazzo hai da ridere?!” sbraitai guardandolo negli occhi. “Scusa, ma il tuo modo di parlare mentre piangi mi fa ridere” rimasi a bocca aperta nel guardarlo ridere della mia disperazione. Mi alzai dal letto e, prendendolo per un braccio, tentai di sbatterlo fuori dalla mia stanza. Senza riuscire a muoverlo di mezzo millimetro. Cosa che lo fece ridere ancora di più. “Sei una mezza sega, Lee” disse tra le risate. Quando eravamo piccoli mi chiamava Lee. Poi ha smesso proprio di chiamarmi se non con appellativi offensivi che ricambiavo con piacere. Non riuscii a non sorridere a tutte quelle risate. “Per favore, esci” più io lo ‘tiravo’ verso la porta, più mi sembrava un’impresa degna di uno schiavo nell’antico Egitto. Lui continuava a ridere. Allora optai per un’altra strategia. Gli lasciai il braccio e con le mani ben salde sulla sua schiena tentai di spingerlo fuori. Ma niente. Mi buttai sul letto stravolta. Lui mi prese per i piedi e mi fece cadere dal letto, facendomi sbattere sedere e testa sul pavimento. “Ahia, cazzo Adam! Mi hai fatto male!” ma ormai ridevo come una matta dato che aveva iniziato a trascinarmi per i piedi per tutto il piano di sopra. Fu come tornare piccoli, per quel breve momento di follia generale. Era riuscito a tirarmi su di morale. L’ultima tappa di quel ‘trascinamento’ fu la sua stanza. Chiuse la porta e si mise a cavalcioni su di me. “Che vuoi fare?” gli chiesi tra l’impaurita e la divertita. Lui alzò un sopracciglio sorridendo. Capii troppo tardi le sue intenzioni. Mi ritrovai a contorcermi come un verme sotto le sue mani, mentre mi faceva il più torturante solletico della mia vita. Ridevamo così forte da sembrare due idioti. Poi si fermò guardandomi negli occhi. Dal tanto ridere, non mi ero accorta di quanto il mio cuore aveva iniziato a galoppare selvaggio nella vasta landa della mia gabbia toracica. “Non mi è mai piaciuto vederti piangere” ammise senza l’accenno di un minimo di imbarazzo. “Ok” risposi, dandomi dell’idiota. “Che cazzo significa ‘ok’?” disse dando voce ai miei pensieri. “Non lo so” ammisi, assumendo le sembianze di un pomodoro e abbassando lo sguardo. Quella volta, però, non posò il suo indice sulla mia fronte. Ma un dolce e casto bacio a fior di pelle. Non feci in tempo a chiedergli perché l’avesse fatto o che significasse, perché sentimmo la porta d’ingresso chiudersi e le voci distinte di sua madre, mio padre e della nostra ‘sorella in comune’. Si alzò come una molla al sentir chiamare il suo nome dal piano di sotto. “Vedi di scendere” disse, cancellando l’Adam giocoso, e ritornando il mio odioso e gelido fratello. Mi alzai dal pavimento e lo seguii sulle scale. Non volevo incontrare mio padre, ma infondo quella era casa sua e sicuramente prima o poi avrei dovuto parlarci. “Hayley! Sei sveglia! Pensavamo stessi dormendo” disse Jodi, la mia matrigna, abbracciandomi. Sapeva di vaniglia. I suoi capelli neri, lisci come seta, le ricadevano sulle spalle elegantemente, Niente a che vedere con i miei, mogano, che scendevano sulla schiena indomabili. I suoi occhi dorati mi guardavano curiosa, come se stesse aspettando che iniziassi a spettegolare su qualcosa. Ma la voce di mio padre, cancellò quel contatto visivo. “E’ andato bene il viaggio?” mi chiese abbracciandomi. “Chi sei tu? E che ne hai fatto di mio padre?” chiesi sarcastica, beccandomi una leggera gomitata da parte di Adam prima che si sedesse sul divano. Mio padre rise imbarazzato. Non si era mai avvicinato molto a me, per questo mi aveva tanto stupita quell’abbraccio. “Comunque sì, è andato tutto bene” risposi, più rilassata. “HAYLEY!” una ragazza mi si scaraventò addosso in un abbraccio a tenaglia. “Come sono felice di vederti!” esclamò stampandomi due baci sulle guance. Non era più la bambinetta rompicoglioni che mi ricordavo. Davanti a me c’era ormai un donna. Savannah, mia sorella, era la copia giovanile di Jodi. Stessi capelli neri corvini e stessi occhi dorati. Aveva ormai 17 anni, 5 in meno di me, ma ne dimostrava più lei 22 che io. Era alta quasi Adam con indosso delle ballerine rasoterra. Probabilmente sfiorava il metro e 80. Ecco che il mio complesso sulla mia bassa statura mi tornava a trovare. “Bhè, io vado a farmi un doccia” dissi congedandomi e cercando una via di fuga. Scappai letteralmente al piano di sopra e mi infilai in bagno alla velocità della luce. L’acqua era un toccasana. Rimasi quasi un’ora sotto l’acqua calda. “Potevi sforzarti di più” la voce di Adam mi fece sussultare. “Ma che cazzo fai?! Fuori di qui, maniaco!” sbraitai dalla doccia. “Non è colpa mia se ci resti i secoli qui dentro! E avevo bisogno del bagno!” “Ma chi se ne frega se avevi bisogno del bagno, non potevi usare quello di sotto?” Lo sentii sbuffare. “Se è occupato come faccio ad usarlo?” Tirai fuori la testa dalla doccia “E questo invece ti sembra libero, stupido scimmione?!” Lo vidi fissarmi. Un’espressione che un fratello non dovrebbe mai fare nel guardare sua sorella. “Piantala di star lì a guardarmi con quella faccia da idiota ed esci di qui!” Ero rossa, ma non era colpa del fumo dell’acqua calda della doccia. Era per come mi guardava senza dire una parola. Non accennava a muoversi così presi la prima cosa che mi capitò tra le mani (la bottiglietta di plastica del docciaschiuma) e gliela lanciai contro colpandolo in piena fronte. “Ahia! Cazzo, ma sei scema? Potevi uccidermi!” disse mentre si massaggiava la fronte, “Era quello che volevo fare!” gridai sciacquandomi lo shampoo dalla testa. Spensi l’acqua e tirai fuori una mano dalla doccia. “Renditi utile e passami l’accappatoio” dissi, sputando veleno. “Vienitelo a prendere” mi sfidò malizioso. Tirai fuori la testa “Portami quel cazzo di accappatoio!” “No” disse ridendo. “Adam per favore!” dissi trattenendo la calma, mentre lui rideva prendendosi gioco di me. “Benissimo, allora resterò qui” dissi, restando immobile nella doccia. “Allora fammi spazio!” Feci appena in tempo a capire ciò che intendeva, prima che entrasse nella doccia. Bloccai l’anta della doccia “Provaci ancora e ti denuncio per molestie sessuali!” dissi ringhiando come un’invasata. Vidi il mio accappatoio volare sopra la doccia e atterrare sulla mia testa “Era ora” sbuffai acida, indossandolo. Uscii e me lo trovai in boxer davanti. “Hai detto la stessa cosa al tuo professore?” mi chiese con ghigno sulla faccia. Lo guardai sperando di aver capito male. Ma il suo ghigno mi faceva intendere il contrario. L’aveva detto. Me l’aveva sputato in faccia. Sentii le lacrime pungermi gli occhi “Stronzo..” bisbigliai prima di uscire dal bagno e chiudermi in camera mia. Mi appoggiai alla porta e scivolai lentamente sul pavimento, stringendomi le ginocchia al petto. “Lee, dai stavo scherzando” lo sentii dire al di là della porta. Cercò di aprire la porta, ma preventivamente l’avevo chiusa a chiave. Batté un pugno contro la porta di legno che ci separava e ringhiò un “Vaffanculo” e poi sentii la porta del bagno sbattere e la doccia aprirsi nuovamente. Come avevo fatto a pensare che lui fosse cambiato? Era ancora il solito stronzo, crudele e insensibile Adam Wilde.

 

 

 

 

 

*Cough cough* (colpo di tosse) Sono lieta di presentare al pubblico di EFP questa straziante (‘nsomma) storia d’amore. Sono stata letteralmente ispirata da “Blowing Bubbles” di SidRevo che consiglio a tutti quelli che amano il genere di andare a leggere perché è M E R A V I G L I O S A !! Ok, facciamo il punto della situazione: c’è una ragazza, Hayley, che lascia NY per motivi a noi (o meglio voi) sconosciuti e si trasferisce dal padre a Londra dove vivono anche Adam (il fratellastro odioso), Jodi (la ‘nuova’ moglie) e Savannah (l’altra sorellastra). Bene, in 3 righe ho praticamente riassunto ciò che succede in questo primo capitolo ._.’’ Di solito non mi metto a scrivere il famoso “ANGOLO DELL’AUTORE” perché  non so che diavolo scrivere XD Comunque, essendo la mia prima storia romantica che pubblico vorrei qualche parere, giusto per sapere che ne devo fare di questa "cosa" :D A proposito! I PumpinkPunkerz è un gruppo inventato di sana pianta così come i titoli delle loro canzoni. La canzone "God save the Queen" che ho incorporato nella storia è dei Sex  Pistol.

Speriamo a riscriverci,

Kiki :D

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Capitolo 2
*** 2. Ubriachezza Molesta ***


Capitolo 2: Ubriachezza molesta

A tavola nessuno fiatava. Non volava una mosca. Solo le posate sui piatti facevano un fracasso irritante. Ad ogni minima domanda che Jodi o Savannah mi ponevano -  “Vuoi un altro po’ di purè?” oppure “A New York fa freddo come qui?”- rispondevo con grugniti degni di un animale cresciuto nella giungla. Intorno a me aleggiava una carica di negatività. Facevo a brandelli i pezzi di roastbeef che avevo nel piatto, immaginando di avere Adam sotto le punte biforcute della mia forchetta. Lui stava lì, con la sua aria strafottente, a guardarmi divertito. Ogni tanto gli lanciavo sguardi omicidi, a cui lui rispondeva con una semplice alzata di sopracciglia. In quel momento provai realmente l’odio sulla mia pelle. Di solito quando qualcuno non mi piaceva, diventavo indifferente nei suoi confronti. Ma Adam doveva sapere che lo odiavo, doveva sapere cos’era l’odio così come lo iniziavo a conoscere io. Gli avrei reso la vita un inferno, più di quanto involontariamente facevo. “Hai un ragazzo a New York?” la domanda di Savannah, congelò di più l’aria nella sala. Fu come se qualcuno si fosse divertito a scaraventarmi un enorme macigno dritto sulla faccia e io fossi sprofondata in un lago di magma rovente. Adam prese a ridere. Jodi prese a servirsi una porzione di piselli senza riuscire a smettere di versarseli sul piatto. Mio padre iniziò a tossicchiare, imbarazzato. Ma sapevo che tutti, a conoscenza dei fatti, volevano saperlo. “No” dissi, togliendo ogni dubbio a tutti. “Scusate, non ho più fame” dissi alzandomi da tavola. Sbattei la porta della mia stanza e mi buttai sul letto. Sentii bussare alla porta. “Adam, vattene non mi va di vederti” dissi scocciata rivolta verso la porta chiusa. “Sono Savannah” disse lei timidamente e a voce bassa, che quasi feci fatica a sentirla. Sospirai, mi alzai dal letto e le aprii la porta. “Dimmi” dissi, un po’ troppo scontrosa. “Ecco, mi dispiace. Non volevo offenderti prima. Non pensavo fossi, ehm.. lesbica.”  Se non fossi stata così sicura di aver sentito quelle parole, probabilmente non ci avrei creduto. Iniziai a ridere, visibilmente e realmente divertita. “Non sono lesbica” le dissi appoggiandole una mano sul braccio. “E’ che mi siete sembrati tutti così strani a tavola, e ho pensato..” “Tranquilla. Facciamo che quando vorrò parlartene, te lo farò sapere. D’accordo?” le dissi sorridendo. Per quanto io mi sforzassi di vederla come una donna, non riuscivo a smetterla di trattarla come se fosse ancora una bambina. Le diedi una dolce carezza sulla guancia. “Sono felice che tu sia qui” mi disse puntando i suoi occhi dorati nei miei. In quel momento mi chiesi come Jodi avesse potuto partorire un mostro insensibile come Adam e una creatura che avrebbe fatto sciogliere i ghiacciai in Antartide come Savannah. La abbracciai “Ti prego, non farmi piangere” le dissi ridendo. Rise insieme a me. “Che dici? Hai voglia di parlare?” disse lei, con un guizzo di curiosità negli occhi. “Vatti a sedere sul letto, ficcanaso” le dissi teneramente, spingendola all’interno della mia stanza e chiudendo la porta. La raggiunsi. Il battito del mio cuore iniziava ad accelerare. Quando avrei finito di raccontarle come stavano realmente le cose, come mi avrebbe giudicata? Sarebbe stata disgustata? Delusa come lo era stata mia madre, che non era riuscita nemmeno a guardarmi in faccia prima che io partissi per Londra? Sospirai, tentando di darmi coraggio, mentre la mia sorellastra mi guardava sempre più incuriosita. “Ti hanno detto perché sono venuta a stare da voi?” le chiesi, immaginando già la risposta. “No.” Appunto. Un altro sospiro. Non sapevo da dove cominciare. Dal principio. Dalla fine. Che cavolo potevo dire per giustificarmi in qualche modo? Sbuffai. Ero pronta a sputare tutta la verità. “Posso parlarti?” la voce di Adam, fredda e gelida, entrò nella mia camera mettendomi i brividi. “Stavamo per intrattenere un’interessante conversazione”  rispose nostra sorella, mettendo il broncio. “La farete un altro giorno questa ‘interessante conversazione’” le fece il verso, aprendo di più la porta in modo che Savannah capisse che doveva andarsene. La vidi sbuffare e strascicare i piedi a terra, proprio come se fosse tornata piccola. Lui entrò e si chiuse la porta alle spalle. “Che vuoi?” gli chiesi astiosa, rimasti soli. “Senti, smettila di fare l’incazzosa. Non è colpa mia se fai danni in giro.” Sapevo a cosa si stava riferendo tra le righe. Sentii ribollirmi il sangue nelle vene. Mi scaraventai contro di lui e lo spinsi con forza contro la porta. Ci ero riuscita. L’avevo spostato con la mia sola forza. Lo notò anche lui, con viso stupito, mentre gli sventolavo davanti alla faccia un indice poco rassicurante “Tu! Non ti azzardare! Non provare a metter bocca in ciò che non sai! Non ti permettere Adam o giuro che non rispondo delle mie azioni!” gridavo così forte, che pensai che mi sentissero fino a New York. “Mi impiccio e come dato che sei venuta a rompere i coglioni anche a Londra! Se solo ti fossi trattenuta le tue voglie da adolescente..” ma non finì la frase. Gli tirai un pugno in faccia. Dal mio metro e 55 scarso riuscii a colpirlo in pieno volto. Tutta la mia rabbia si era concentrata in quel piccolo pugno. “Aaaahhhh!! Che doloreeee” mi strinsi la mano nell’altra e mi maledetti mentalmente. Non pensavo che tirare un pugno potesse fare così male. “Ma sei deficiente?! Dovrei essere io quello che si lamenta! Mi hai tirato un pugno in faccia, Lee!” sbraitò lui, massaggiandosi la guancia ‘ferita’.  “Se tu non fossi dannatamente stronzo, magari mi sarei risparmiata di rompermi la mano sulla tua faccia!” “Pazza violenta! Ma sei cresciuta in una gang?” Doveva fargli davvero male. E per un attimo fu pura estasi. Per quanto lui potesse avermi ferita dentro, io ero riuscita a tirargli un pugno. Un pugno, Cristo Santo! Iniziai a ridere soddisfatta. “Sei un’invasata!” disse spingendomi leggermente, per far si che tra di noi ci fosse la maggior distanza possibile. “Te lo sei meritato, brutto idiota” dissi dolorante. Mi veniva da piangere dal male che sentivo. Ma non volevo dargli quella soddisfazione. “Fammi vedere” disse, prendendomi la mano. Lo allontanai “Non mi toccare” “Smettila di fare la ragazzina e fammi vedere quella mano” “Non mi sembra tu sia un dottore, quindi non vedo come tu mi possa aiutare!” “Tu e la tua linguaccia! Vuoi stare zitta un attimo e darmi quella cazzo di mano?!” Era furioso, si vedeva. Sbuffai e gli porsi il mio arto malandato. “Riesci a muoverlo?” “Se ci riuscissi, ti tirerei un altro cazzotto, non ti pare?” dissi sarcastica. Lui mi gelò con il suo sguardo. Non era in vena di ironia in quel momento. “Ahia, cazzo! Mi fa male!” dissi indietreggiando la mano, mentre lui tentava di aprirla. “Non penso sia rotta. Proviamo a metterla sotto l’acqua fredda. Se non ti passa, ti porto in ospedale.” Mi trascinò in bagno. In un giorno ero riuscita a provocarmi escoriazioni sulle mani dovute all’arrampicata, un livido sul sedere dovuto a quando io e Adam stavamo giocando, e probabilmente una mano rotta. Niente male, Hayley. A quest’ora sarai iscritta nel Guiness dei Primati come ‘sfigata mondiale’. Chiuse la porta del bagno. Aprì l’acqua fredda e tentò di immergere la mia mano sotto il getto gelato. Ma io la ritrassi. “Mi fa male” “Almeno bagnala un po’” “E se l’ho rotta?” “Che vuoi che sia? Ti metteranno il gesso” Sbuffai e la immersi nell’acqua. Trattenni un imprecazione, mentre il getto gelato faceva come da anestetizzante per la mia mano.  Bagnai anche l’altra e la appoggiai sulla guancia di Adam, che era ritornato a fissarmi insistentemente. “Ti fa male?” gli chiesi, massaggiandogli delicatamente la guancia. “Sei riuscita a prendermi bene. E’ stata solo fortuna” Sorrisi “Sì, solo fortuna” ripetei. I nostri occhi continuavano ad incrociarsi. “Mi dispiace” dissi, abbassando lo sguardo. “Per il pugno? N-“ “No. Quello te lo sei meritato” lo interruppi, sicura. “Mi dispiace per essere arrivata qui e avere incasinato la vita anche a voi” continuai bisbigliando. Lui lasciò la mia mano sola sotto il getto e mi prese il viso tra le sue mani. “Ascoltami bene, perché lo dirò solo una volta, d’accordo?” Annuii, ipnotizzata dai suoi occhi azzurri. “Per quanto tu possa essere rompicoglioni, violenta e completamente folle” Ottima premessa. “Fai parte di questa famiglia. Che ti piaccia o meno. E in questa famiglia, ci si aiuta come si può. Hai avuto un ‘incidente di percorso’. Può capitare. Ma non ti dispiacere mai per aver accettato il nostro aiuto, capito? Questo non ti rende una debole. Sapevamo tutti a cosa avrebbe portato la tua sistemazione qui. Ma ci è sembrato il modo migliore per farti ricominciare da capo” “E allora perché continui a ricordarmi i miei errori? Ti diverte tanto farmi soffrire?” Dopo il suo discorso e una breve analisi della situazione e delle mia vita, non riuscii più a trattenere le lacrime. “Voglio solo che tu riesca a superare questa stronzata, senza farti buttare giù da qualche cattiveria” “Non sta andando molto bene” gli dissi, accarezzandogli la guancia tumefatta. Rise divertito. Mi asciugò le lacrime. Ecco l’Adam che mi piaceva: gentile, dolce, fraterno. “Cosa eri venuto a chiedermi?” gli chiesi, ricordandomi che voleva dirmi qualcosa prima di quella scenata da lottatori di boxe. “Se volevi uscire. Ma visti gli eventi..” “Già.” Risposi semplicemente, prima di godermi l’ultimo tocco gentile della mani di Adam sul mio viso. “Ci vediamo domani” disse, prima di uscire dal bagno. Restai immobile, a guardarmi la mano, che riuscivo a muovere normalmente senza sentire nessun dolore. Tornai in camera e mi sdraiai sul letto. Maledetto il suo sguardo. Maledette le sue parole. Maledetto Adam, che mi faceva dimenticare perché ero arrabbiata con lui. Chiusi gli occhi, ma non riuscii a dormire.

Guardai la sveglia, mentre i passi di Adam rimbombavano pesanti sulle scale. Le tre e venti di notte. O di mattina, da un altro punto di vista. Non ero riuscita minimamente a chiudere occhio. La mano mi pulsava. Lo sentii entrare in camera e buttarsi sul letto. Sbuffai. Mi alzai e scesi in cucina per prendere un pacco di surgelati da mettermi sulla mano. Quando tornai in camera mia non feci caso ad Adam seduto sul mio letto. “Posso dormire con te?” mi chiese semplicemente. Non risposi. Chiusi la porta e mi avvicinai al letto. “Ti fa ancora male?” mi chiese notando la busta gelata sulla mia mano. Annuii. “Vuoi che ti porto in ospedale?” “No” dissi sedendomi accanto a lui. “Non riesci a dormire?” gli chiesi con voce rauca. “No” disse semplicemente. Mi sdraiai sul letto e lo tirai leggermente per la manica della felpa verso di me. Mi accoccolai sul suo petto, come un gatto ubbidiente e lui prese ad accarezzarmi i capelli. Per un momento mi sembrò di ritornare alle dolci serate con Jamie, nel suo appartamento. Ma Adam non era Jamie. Adam non sapeva di sigaretta mista a caffè macchiato con panna. Non mi accorsi nemmeno che stavo piangendo. Mio fratello si tirò su a sedere e mi abbracciò. “Sfogati” disse solo, coccolandomi tra le sue braccia. Mi avvinghiai a lui come un koala e piansi tutte le lacrime che avevo in corpo. “Vuoi parlare?” mi chiese premuroso. “Voglio solo dimenticare” dissi asciugandomi le lacrime dal viso. “D’accordo” disse lui, avvicinandosi pericolosamente a me. Risi e lo spinsi dolcemente indietro “Stupido”. Ma lui sembrò quasi rimanerci male. Gli accarezzai una guancia e per l’ennesima volta mi persi in quegli occhi azzurri, così limpidi e così.. “Hai bevuto?” gli chiesi d’un tratto, notando il suo sguardo annebbiato. “Un po’” rispose lui con voce impastata. Ritornai di fianco a lui e lo feci sdraiare. “Vedi di dormire, idiota” dissi ridendo. “Buonanotte frignona” rispose intrecciando la sua mano nella mia sana. Cadde in un profondo sonno. Io, invece, non riuscivo a muovermi. Perché il contatto con la sua mano mi faceva battere il cuore così forte? E’ tuo fratello, cazzo .La voce nella mia testa aveva ragione. Ma non riuscii a dormire nemmeno un minuto quella notte. Rimasi ferma, a sentire il respiro di Adam sul collo, la sua mano stretta nella mia, il suo corpo vicino al mio. In una cosa Adam aveva ragione: ero un’invasata. Quando lo sentii muoversi, doveva essere già mattina, anche se non c’era un barlume di luce nel cielo. Istintivamente chiusi gli occhi. Lo sentii stiracchiarsi. “Ma che cazzo?” bisbigliò, probabilmente notando dove aveva dormito e con chi aveva dormito. Il mio cuore batteva come un tamburo e avevo paura che nel silenzio lui potesse sentirlo. Di riflesso, involontariamente, gli strinsi più forte la mano. Lo sentii sospirare e mugugnare un “E’ tua sorella, coglione”. Poi sciolse la sua mano dalla mia e uscì dalla mia camera. Aprii gli occhi e feci un respiro per calmarmi. Mi diedi un leggero schiaffo sulla fronte, come per allontanare un pensiero dalla mia mente. In quel momento riuscii ad abbandonarmi tra le braccia di Morfeo.

 

“Pochi giorni fa mi sono giunte delle voci, da fonti molto attendibili” L’uomo davanti a me, basso e calvo, mi squadrava come se fossi una serial killer. La mia mente si svuotò completamente mentre il mio cuore accelerava i battiti. Sapevo già dove voleva andare a parare. Ero in apnea da pochi minuti quando lui ricominciò a parlare “Ho sperato che queste voci si sbagliassero, ma dopo appurate ricerche ho constatato che era tutto vero” Appurate ricerche. Effettivamente era il rettore di una delle facoltà di giornalismo più facoltose d’America. “Signorina Doherty, immagino lei sappia di cosa io stia parlando e immaginerà anche cosa sono costretto a fare” Non dirlo, non dirlo. Ti prego, non farlo. “Devo chiederle di abbandonare immediatamente la facoltà” lo disse con voce tombale. “Io..” tentai, sapendo di non avere nulla a mio favore. “Mi dispiace” disse solo, mentre sentivo il pavimento sotto ai miei piedi aprirsi e inghiottirmi. Mi indicò la porta e io uscii a testa bassa. Avevo mandato tutto a puttane. E per che cosa? Per amore.

 

Aprii gli occhi. Sperai che fosse stato solo un incubo, ma guardandomi intorno mi accorsi che era stato tutto vero. Che quello che mai pensavo mi potesse succedere, era accaduto. La porta si aprì di scatto. “Jamie” sussurrai, forse sperando di trovarlo davanti a me. Ma gli occhi di Adam mi perforarono. “Hai detto qualcosa?” mi chiese, senza capire. “No” dissi solo, sdraiandomi nuovamente e mettendomi un braccio sugli occhi. “Hai intenzione di restare lì a vegetare ancora per molto?” mi chiese, gelido. Era tornato il solito Adam. Non gli risposi. Non ero in vena di discussioni. Volevo solo starmene da sola. E la sua presenza di certo non dava man forte alla mia solitudine. “Che vuoi?” gli chiesi, nella stessa posizione. “Alzati!” mi ordinò. Si avvicinò al mio letto. “Lasciami stare” dissi stanca. “Reagisci, cazzo!” sbraitò, stringendomi per un braccio e tirandomi su, come se pesassi mezzo chilo. Lo guardai ad occhi spalancati. “E levati dalla faccia quell’espressione da deficiente” disse puntando i suoi occhi nei miei. “Vuoi un altro pugno?” gli chiesi con un mezzo sorriso. “Vatti a lavare. Ti porto a fare un giro” disse uscendo dalla mia stanza così come era rientrato. Sospirai. Ormai decideva tutto lui. Mi feci una doccia veloce e mi vestii svogliata. Lo raggiunsi al piano di sotto. Lui mi squadrò dalla testa ai piedi. E sospirò, evidentemente senza speranze. “Dove andiamo?” gli chiesi in macchina. “A bere” mi disse semplicemente. “Io non bevo” lo informai. “E invece oggi lo farai” disse divertito. Parcheggiò la macchina e scendemmo. Essendomi addormentata quando ormai era mattina, mi ero svegliata che era già sera. Entrammo in un tipico pub inglese. All’entrata vidi un uomo che vomitava l’anima in un cespuglio. Probabilmente avrei fatto quella fine, alla prima birra. Seguii Adam attraverso i tavolini. “Ehy, Adam! Siamo qui!” una voce femminile aveva sovrastato il casino nel pub. Mi voltai verso quella voce e vidi una delle ragazze più belle che mai avessi visto. Alta, snella, mora, occhi grandi e castani. I jeans le stringevano le gambe lunghe. Ai piedi indossava un paio di scarpe dai tacchi vertiginosi. Aveva solo una canottiera nera a fasciarle il suo addome piatto e il suo seno abbondante. In quel momento mi venne in mente che forse Savannah aveva ragione: ero lesbica. Adam mi tirò per il braccio, risvegliandomi dai miei pensieri. Raggiungemmo un gruppo di ragazzi e ragazze seduti a bere. Occupavano circa tre tavoli e molti di loro erano già ubriachi. La ragazza che aveva chiamato mio fratello mi guardava curiosa. “E tu chi sei?” mi chiese, dal suo metro e ottantacinque. “Hayley” risposi, come se fosse la risposta più ovvia che doveva aspettarsi. “E’ mia sorella” disse Adam, prima di baciarla sulla guancia. “Oh, ma che carina!” disse lei, con fare troppo espansivo abbracciandomi. Guardai terrorizzata mio fratello, che si era già accomodato lasciandomi nelle mani di quella pazza mezza ubriaca. “Io sono Lauren” il suo alito alcolico mi entrò nelle narici, stordendomi. Poi si voltò verso gli altri ragazzi “Lei è Hayley!” esclamò ridendo. Mi sedetti vicino ad Adam, che non provava nemmeno a tenermi compagnia. Mi sentivo a disagio. Poi un ragazzo, il più sobrio del gruppo, mi si avvicinò “Sei quella di New York?” mi chiese. “Già” risposi semplicemente. “Piacere, Dave” disse stringendomi la mano. Era molto carino. Viso curato, occhi castani incorniciati da occhiali da vista alla moda, capelli biondi spettinati. In quella compagnia, mi ritrovai a pensare, erano uno più bello dell’altro. “Bevi” disse Adam, mettendomi sotto al naso un enorme boccale di birra. “Non mi va” dissi acida. “Tutto” sibilò gelido. Sospirai. E se bere mi avrebbe davvero fatto scordare quanto la mia vita fosse una colossale montagna di merda? Presi il boccale gigante tra le mie mani e buttai giù tutta la birra. Il sapore amarognolo mi disgustava ma bevvi fino all’ultima goccia. Ed essendo a pancia vuota, l’effetto dell’alcol iniziò subito a farsi mostrare. Non ero una che faceva amicizia molto velocemente. Ma in quell’occasione consideravo ogni persona che veniva a parlarmi come un mio amico di vecchia data. Adam mi passò tre cocktail che inghiottii senza fare domande. Potevo considerarmi una ex-astemia. E una futura alcolista anonima. Mi piaceva l’effetto che l’alcol aveva sul mio corpo e sulla mia mente. Era riuscito a farmi scordare tutto quanto. “Voglio rimanere ubriaca per sempre” dissi a mio fratello mentre mi accompagnava fuori dal locale per farmi prendere una boccata d'aria, dato che la situazione stava degenerando. Aveva bevuto più di me, eppure riusciva a stare in piedi senza barcollare. Io, invece, senza il suo supporto, sarei caduta a terra sfracellandomi contro l’asfalto del marciapiede. Lo sentii ridere. Mi fermai di botto e presi a fissarlo. “Devi vomitare?” mi chiese, spostandosi leggermente a destra. “No” dissi “Volevo solo guardarti” ammisi. Se non fossi stata ubriaca, probabilmente non avrei preso ad accarezzargli il viso. Probabilmente non mi sarei avvicinata così a lui. Probabilmente non gli sarei saltata in braccio. Probabilmente non avrei tentato di baciarlo. “Hayley” disse, indietreggiando un po’ la testa. “Tu non mi vuoi” dissi, più a me stessa che a lui. “Siamo fratelli” “Noi non siamo fratelli” dissi acida. “Perché dobbiamo litigare sempre?” sbraitai come se fossi stata posseduta dal diavolo. Non mi ero nemmeno accorta che stavo camminando. “Dove cazzo vai?” disse, prendendomi con forza il braccio. “A casa. A vomitare” dissi, facendo forza sulla sua mano con la mia per fargli lasciare la presa sul mio braccio. “Non sai nemmeno dove siamo” “Prima o poi troverò casa nostra” “Entra immediatamente” disse, come se fossi stata una bambina, indicandomi il pub. Gliel’avrei fatta pagare. Gli avrei fatto pagare il suo rifiuto nei miei confronti. “Fottiti. Troverò qualcuno di meglio di te lì dentro” e barcollando, rientrai nel locale. Ma non tornai dai suoi amici. Guardai il bancone, dove erano appostati un sacco di altri ragazzi. “Chi mi offre da bere?” chiesi sfoggiando la mia miglior faccia da gatta morta in direzione di tutti loro. Meno di dieci minuti dopo mi ritrovai accerchiata da un branco di lupi famelici che mi offrivano ogni tipo di intruglio esistente. Bevvi tutto. Non tralasciai nemmeno un bicchiere. Mi voltai verso il gruppo di Adam. Il mio cuore perse un battito. Poi un altro. E un altro ancora. Baciava Lauren. Sentii la testa girarmi. “Tutto bene?” mi chiese Dave, l’occhialuto amico di mio fratello. “Puoi accompagnarmi a casa?” gli chiesi, sperando di non iniziare a piangere. Mi aiutò a salire nella sua macchina. Involontariamente tiravo delle leggere testate contro il finestrino del passeggero. Lo sentivo ridere. Ogni tanto mugugnavo qualcosa,  in risposta alle sue domande che non mi importavano. “Grazie” dissi, prima di scendere dalla macchina. Lo baciai sulle labbra, lasciandolo sorpreso. Fu un’impresa riuscire ad aprire la porta. Jodi mi aveva dato un mazzo di chiavi, stracolmo di pupazzetti e oggetti metallici che, essendo ubriaca marcia, pensavo potessero aprire magicamente la porta di casa. Mi trascinai in camera mia e mi buttai a peso morto sul letto. Il mio fegato reclamava pietà e il mio stomaco era sottosopra. Mai più alcol. Non sapevo se mi fossi addormentata o quanto tempo fosse passato, ma quando riaprii gli occhi sentii dalla camera di Adam strani suoni. Mi alzai di scatto dal letto e aprii le orecchie per capire che stava succedendo. Posai la testa contro la parete che separava la mia stanza dalla sua. Gemiti e sospiri. Stava facendo sesso. La ragazza rise. Lauren. Puttana. Barcollando uscii dalla mia stanza e spalancai la porta della camera di Adam. “Potete abbassare la voce?! Mi scoppia la testa!” sbraitai prima di sbattere la porta. Vidi solo i suoi occhi, sgranati, azzurri. Andai in bagno e iniziai a vomitare, più per il nervoso che per la voglia di smaltire tutto l’alcol che avevo in corpo. E’ tuo fratello, stupida. Non riuscivo a smettere di insultarmi. Perché mi importava tanto di lui? Io lo detestavo, non lo sopportavo, lo odiavo. Bugiarda. Avevo provato a baciarlo. Una ragazza con tutte le rotelle al loro posto, non avrebbe mai provato a baciare suo fratello. Cosa c’era che non andava in me? Vomitai ancora, e ancora. Più pensavo ad Adam e più vomitavo. Sentii una mano tra i capelli. Il mio stimolo per vomitare mi guardava un po’ imbronciato mentre mi accarezzava la testa. “Fammi bere ancora e giuro che ti uccido” dissi prima di chiudere gli occhi.

 

Ok. Secondo capitolo terminato. Immagino che il motivo per cui la nostra protagonista si sia trasferita a Londra, lo abbiate capito tutti. Avevo pensato di dedicare un intero capitolo a questo inciucio amoroso politicamente scorretto. Bene iniziamo con i ringraziamenti. GRAZIEEE!!!!! :D

@ barrYs: eccoti soddisfatta! Capitolo appena sfornato per la tua gioia (ma de che? XD). Grazie mille per aver lasciato una recensione.. è stato bellissimo vedere che almeno qualcuno abbia apprezzato questa storia XD

Grazie anche a chi ha aggiunto "Posso amarti?" tra i preferiti, tra le storie seguite o ricordate... mi avete fatto un piacere immenso :D Non vi deluderòòòòò muhauahuahauhauh XD

Un bacio,

Kiki

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Capitolo 3
*** 3. Amore perso, amore represso ***


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Capitolo 3: Amore perso, amore represso

 

Stavo sdraiata sul prato, con un libro sulla faccia per coprirmi dal sole mentre tentavo di appisolarmi. L’aria era tiepida e intorno a me una distesa infinita di altri studenti parlavano, ridevano e studiavano. Sbadigliai sonoramente mentre qualcuno mi tirò via il libro dal viso. “Dovresti studiare al posto di star qui a dormire” la voce severa di Jamie mi rimbombava nelle orecchie. Lo guardai “Non hai lezione?” gli chiesi, sorpresa di vederlo. “Inizio fra mezz’ora” mi rispose, scompigliandosi i capelli. La prima volta che avevo visto Jamie l’avevo scambiato per uno studente. Mai avrei detto che fosse un professore. Era uno dei docenti più giovani, se non il più giovane. Aveva trent’anni, ma ne dimostrava poco più di una ventina. “Tieni” disse passandomi un caffè di Starbucks. Manna dal cielo. Lo presi avida tra le mie mani. “Immaginavo ti avrebbe fatto piacere” “Immaginavi bene” dissi pimpante, sorseggiando il mio caffè macchiato con panna. “Ci vediamo dopo?” gli chiesi, notando che si stava alzando dal prato. Annuì semplicemente e sparì tra la folla. Sorrisi notando quanti studenti lo salutavano entusiasti. Ma una morsa allo stomaco mi fece ripiombare nel senso di colpa.  Mi accesi una sigaretta, sperando che quel senso di angoscia mi abbandonasse. Lo amavo, che potevo farci? Amavo i suoi dolci occhi castani. Amavo il suo modo di prendersi cura di me. Amavo la passione che metteva in tutto. Amavo i suoi baci. Amavo l’essere amata da qualcuno incondizionatamente e sinceramente come faceva lui. Presi a sfogliare il mio libro, quando il mio cellulare vibrò. Un messaggio. Ti amo. Non ero più su un prato stracarico di gente e insetti. Volavo su una nuvola di zucchero filato dritta nel paese degli unicorni. Sapeva fare questo, Jamie. Sapeva trasportarmi in mondi fantastici. Sapeva farmi tornare bambina con solo due parole. Sospirai e risposi al messaggio con un banale ‘anche io’. Alle volte di fianco a lui mi sentivo scontata. Lui mi sorprendeva e io non facevo nient’altro che sospirare fantasticando su di noi. Mi sdraiai di nuovo sul prato in attesa che le lezioni finissero e che lui potesse essere tutto per me. “Hayley!” la voce di Trent mi scosse con forza dai miei pensieri. “Che succede?” gli chiesi. “Non lo so, il rettore ha convocato il professor Pills e la sua segretaria mi ha chiesto di venirti a chiamare” Mi mancò il fiato. “Cos’hai combinato?” mi chiese ridendo. “N-niente” risposi colpevole. Lui aggrottò la fronte, notando il mio tentennamento. Mi alzai dal prato, presi la mia borsa e mi avviai nell’ufficio del rettore. A metà corridoio incontrai Jamie. Il volto scuro. Guardava dritto davanti a sé. Non gettò nemmeno un’occhiata dalla mia parte. In quel momento capii: ci avevano scoperti. Mi superò con passo svelto. Mi voltai un attimo a guardarlo. Stava andando verso il suo ufficio. Merda. Quando mi trovai davanti all’ufficio del rettore sentii chiaramente un tossicchiare imbarazzato alle mie spalle. La segretaria, la signora Mcfinnies, doveva aver intuito qualcosa. Bussai terrorizzata alla porta che mi separava da un atroce destino. Il rettore mi invitò ad entrare, cortese come al solito. Il suo ufficio era illuminato dai raggi solari dell’esterno. Avevo voglia di chiudere le persiane delle finestre per non farmi guardare in faccia. Vergogna. Umiliazione. Irresponsabilità. Senso del pudore pari a zero. “Si accomodi pure, signorina Doherty” disse, indicandomi la sedia davanti a lui. “Pochi giorni fa mi sono giunte delle voci, da fonti molto attendibili” L’uomo davanti a me, basso e calvo, mi squadrava come se fossi una serial killer. La mia mente si svuotò completamente mentre il mio cuore accelerava i battiti. Sapevo già dove voleva andare a parare. Ero in apnea da pochi minuti quando lui ricominciò a parlare “Ho sperato che queste voci si sbagliassero, ma dopo appurate ricerche ho constatato che era tutto vero” Appurate ricerche. Effettivamente era il rettore di una delle facoltà di giornalismo più facoltose d’America. “Signorina Doherty, immagino lei sappia di cosa io stia parlando e immaginerà anche cosa sono costretto a fare” Non dirlo, non dirlo. Ti prego, non farlo. “Devo chiederle di abbandonare immediatamente la facoltà” lo disse con voce tombale. “Io..” tentai, sapendo di non avere nulla a mio favore. “Mi dispiace” disse solo, mentre sentivo il pavimento sotto ai miei piedi aprirsi e inghiottirmi. Mi indicò la porta e io uscii a testa bassa. Avevo mandato tutto a puttane. E per che cosa? Per amore. Come avrei potuto spiegare a mia madre che ero stata cacciata dal college per una tresca con un professore? Tresca? No, io ero innamorata di lui e lui di me. Senza pensarci corsi nell’ufficio di Jamie. Aprii la porta e lo trovai seduto sulla sua sedia di pelle, intento a fumare una sigaretta e a piangere silenzioso. Alzò il suo sguardo su di me. Volevo abbracciarlo, stringerlo a me. Avrei voluto urlargli in faccia che non l’avrei lasciato solo. Ma lui mi bloccò “Sparisci di qui, Hayley” sibilò fra i denti, con un tono che pensavo non potesse appartenergli. “Ora possiamo stare insieme, no?” dissi in un attimo di follia. Non so cosa lo trattenne dal prendermi a schiaffi. “Hayley, sei stupida, per caso?! Io ho rovinato il tuo futuro e tu la mia carriera e l’unica cosa che hai da dirmi è che ora potremmo stare insieme?!” “Possiamo uscire allo scoperto!” “Ci hanno già scoperti! E non mi sembra sia andata molto bene per entrambi” “Ma..” “Basta, Hayley. Sparisci dalla mia vita”. Si era alzato e mi aveva spinto fuori dal suo ufficio. Mi chiuse la porta in faccia. E con quello avevo capito che diceva sul serio. Il tono che aveva usato, le sue maniere dure. Non mi voleva più. Per quanto mi amasse, non mi avrebbe più voluta. “Per favore, non mi lasciare” bisbigliai attaccata alla porta, disperata. Le lacrime mi bagnavano il viso. Fu come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dal petto e ci avesse fatto un ragù di carne e sangue. Mi allontanai da quella porta chiusa. Chiusa come la nostra storia. E tornai a casa. Avevo perso tutto ciò che mi importava. Perché doveva essere il mio professore? Perché non poteva essere uno studente come me? Quando entrai in casa, lo sguardo gelido di mia madre mi perforò l’anima. Il rettore doveva averla già avvisata. “Ti è dato di volta il cervello?” chiese solamente. Non risposi. Avrei voluto urlare, rompere qualcosa. “Ho chiamato tuo padre e l’ho informato. Ti trasferirai da lui a Londra. Non ti voglio più in casa mia” disse prima di sparire in camera sua a piangere. Ero riuscita a deluderla, a farla vergognare. Non replicai nemmeno. Non ne avevo la forza. Mia madre non mi voleva più. Jamie non mi voleva più. Il rettore del college non mi voleva più nella sua università. In quel momento mi chiesi per che cosa vivevo. Che cosa mi avrebbe spinto ad andare avanti. Se esisteva qualcuno in grado di amarmi. Piansi silenziosamente. Quel qualcuno esisteva. Ma quell’amore era stato sbagliato fin dall’inizio. Aveva infranto i sogni e le aspettative di entrambi. Mi aveva ridotto ad una stupida sognatrice. Presi il cellulare e rilessi milioni e milioni di volte quel ‘ti amo’ di poche ore prima. Quelle semplici parole che amavo sentirmi dire da lui. Entrai in camera mia e iniziai ad impacchettare la mia roba.

 

Due settimane. Due fottutissime settimane da quando avevo tentato di molestare mio fratello. Ero caduta in uno stato di mutismo assoluto nei confronti di Adam. Ma a lui sembrava non importare. Alle volte lo trovavo a fissarmi con il suo solito modo indecifrabile e volgevo lo sguardo da un’altra parte, imbarazzata. Avrei voluto prendermi a sassate sulle dita delle mani piuttosto che passare il mio tempo con lui. Stavo giocando con una polpetta nel piatto quando sentii il mio cellulare suonare nella tasca della mia felpa. Mi alzai da tavola e risposi in cucina. “Pronto?” “Hayley, ciao! Sono Freddie, lo steward” sorrisi imbarazzata. Mi ero dimenticata di avergli dato il mio numero di telefono. “Ehy, Freddie come va?” chiesi gentile. “Tutto bene. Senti, stasera sono a Londra. Ti va se ci vediamo?” “Si, d’accordo. Tanto non ho nient’altro da fare” “Ah bene! Allora ci vediamo alle nove davanti a Buckingham Palace, ok?” “Va bene” risposi prima di chiudere la conversazione. “Chi è Freddie?” la voce di Adam mi fece smettere di sorridere. “Uno che ho conosciuto in aereo” risposi vaga, uscendo dalla cucina. “E’ molto lontano Buckingham Palace da qui?” chiesi a Jodi, intenta a versarsi un bicchiere d’acqua. “No, non molto” rispose pensandoci su. Savannah mi spiegò in modo molto dettagliato come raggiungere la mia meta, dopo aver scoperto che mi sarei dovuta vedere con un ragazzo. Sui visi di Jodi e di mio padre, invece, leggevo preoccupazione. “L’ho conosciuto in aereo. E’ uno steward e ha un paio di anni in più di me” dissi, notando poi che si erano tranquillizzati. Salii al piano di sopra, in camera mia e fui raggiunta da Adam. “E’ un appuntamento?” mi chiese chiudendo la porta alle sue spalle. “Non lo so” risposi sincera. Non riuscivo a guardarlo in faccia. Le mie guance stavano prendendo fuoco. “E pensi di girare per Londra da sola?” “Starò con lui” “Dovrai arrivarci a Buckingham”  “Affitterò una guardia del corpo nel tragitto” risposi ironica. Mi spinse sul letto e si mise a cavalcioni su di me. “E se ti dicessi che non voglio che tu esca con lui?” mi chiese talmente vicino al mio viso, da vedermi specchiata nei suoi occhi azzurri. Ecco che il mio cuore prendeva a martellarmi nel petto. “Ti risponderei che io e te siamo solo fratelli” risposi, trovando la forza di guardarlo negli occhi. Capì all’istante e sorrise divertito. Si alzò dal letto e velenoso mi disse “Divertiti, sorellina” prima di uscire dalla mia stanza sbattendo la porta. Sbuffai, senza capire il suo comportamento. Mi infilai in bagno e mi buttai sotto l’acqua calda della doccia. Asciugai i miei capelli, districando i nodi con una spazzola e li lisciai sotto il calore della mia piastra. Amavo i capelli lisci. Era un casino di tempo che non li piastravo e sentirli tra le mie dita mi fece involontariamente pensare a Jamie. Dannato il mio cervello che non mi dava tregua. Lui mi diceva sempre che con i capelli lisci sembravo una bambina, che mi davano un tocco innocente. Scossi la testa, sperando che il ricordo di Jamie sparisse dalla mia mente ed uscii. “Sei bellissima” mi disse una curiosa Savannah che mi guardava mentre mi passavo un po’ di mascara sulle ciglia. “Grazie” risposi, un po’ imbarazzata. Entrò in camera mia e si mise di fianco a me. “Come ti vesti?” mi chiese spostando il suo sguardo sul mio armadio. “Non ne ho la più pallida idea” risposi alzandomi dal letto. “Pensavo a un paio di jeans e a una felpa” dissi, notando la sua alzata d’occhi al cielo. “E’ un appuntamento! Non puoi andare vestita come una che è andata allo stadio” disse ridendo. “Ma io sto tanto comoda” “Chi se ne frega! Non devi star comoda! Devi risplendere!” disse, un po’ troppo platealmente allargando le braccia come ad imitare un bagliore accecante. Alla fine fu lei a scegliermi i vestiti. Mi sentii un’ idiota. Mia sorella di diciassette anni che mi dava lezioni su come presentarmi un appuntamento. “Dovresti metterti dei tacchi” “Te lo scordi” fu la mia risposta seria a quella sua  proposta. “Almeno delle ballerine” “Non ho ballerine” “Te le presto io, scema!” corse in camera sua, al piano di sopra e mi portò un paio di ballerine dorate, con un piccolo fiocchetto nero sul centro. Guardai allo specchio la mia figura per intero. Non sembravo nemmeno io. Sembravo quasi una ragazza elegante. “Perfetta” la voce di Jodi mi fece stringere il cuore. “Grazie” le dissi sinceramente grata. “Lo farai cascare ai tuoi piedi!” ridemmo a quella affermazione esaltata di mia sorella. Avevo impiegato tutto il pomeriggio a prepararmi, ma ne era valsa la pena. “Non è bellissima?” chiese Savannah. Mi voltai e vidi Adam che mi guardava dalla testa ai piedi. Grugnì qualcosa e tornò in camera sua. “Bene, forse dovrei andare” dissi a mia sorella e a Jodi. Mi accompagnarono al piano di sotto e mi salutarono dalla porta. Savannah era stata precisa con le indicazioni. In pochi minuti mi trovai a Buckingham Palace. Meraviglioso. Fissai allucinata il palazzo della regina ad occhi aperti. “Hayley!” la voce di Freddie mi fece voltare. Bellissimo. Avevo dimenticato quanto fosse affascinante. “E’ da molto che aspetti?” mi chiese prendendomi per mano. “No, veramente sono appena arrivata” lo seguii attraverso Trafalgar Square, guardandomi intorno incantata e con sguardo sognante. Pensai a quella coppia che mi aveva fermato per strada il mio primo giorno a Londra. Se fossi stata con Jamie, probabilmente avrei fatto anche io tante di quelle foto da riempire milioni e milioni di album fotografici. “A che pensi?” mi chiese Freddie, riportandomi nella realtà. “Non ricordavo quanto fosse bella Londra” dissi con voce sognante. Lui rise “Quindi ti trovi bene?” “Non mi lamento” alzai le spalle. Per quanto Freddie potesse essere bello, non era interessante quanto mi ricordassi. Fai la schizzinosa adesso? Sbuffai mentre mi raccontava di un ennesimo viaggio in aereo. “Ti sto annoiando?” mi chiese stupito. Alzai un sopracciglio “No, no. Continua pure” gli dissi, falsa. Avrei preferito rimanere a casa. Avrei preferito evitare di spendere tutto il pomeriggio a prepararmi, eccitata come una dodicenne al suo primo appuntamento, piuttosto che sorbirmi un’altra mezz’ora di racconti sui suoi viaggi. La sua presa sulla mia mano era ridicola. Nemmeno fossimo stati amici. “Scusami” dissi, facendo finta di leggere un messaggio sul cellulare “Devo tornare a casa” mentii. “E’ successo qualcosa?” chiese allarmato. “Nulla di preoccupante, ma devo andare” dissi, dandogli un bacio sulla guancia e incamminandomi verso casa.

 

“Un caffè macchiato con panna” dissi, con tono lugubre alla cameriera al di là del bancone. “Giornata nera?” mi chiese. “Abbastanza” risposi, grattandomi la testa. Eppure sull’aereo, Freddie mi piaceva. Cos’era cambiato? Sospirai abbandonandomi su un alto sgabello, proprio davanti al bancone. Girai annoiata il cucchiaino nella tazzina, carica di caffè. Tornai a casa, sbattendo la porta d’ingresso. “Sei già tornata?” mi chiese Jodi, seduta sul divano intenta a leggere un libro. Mio padre dormiva sulla poltrona, respirando profondamente. Voltai il viso di scatto e dal mio sguardo capì tutto. Salii di corsa le scale e sbattei la porta della mia stanza. Dalla camera di Adam sentii una risata. La sua odiosa risata. Lauren. Premetti il viso nel cuscino e lanciai un urlo rabbioso. Indossai una felpa e un paio di scarpe da ginnastica. Scesi al piano di sotto “Vado a farmi una corsa” ringhiai in direzione di Jodi, senza nemmeno guardarla. Uscii di casa e iniziai a correre. L’aria gelida di Londra mi entrava nelle narici e nei polmoni. Più correvo e più scaricavo la rabbia che provavo. Sentii un rombo sopra la mia testa, ma non mi fermai nemmeno quando iniziò a diluviare. L’acqua mi atterrava sul viso, mi bagnava i capelli e i vestiti. Più di una volta finii in una pozzanghera. Evitavo i passanti con passi felini. Ad ogni passo il mio cuore batteva, ringhiando. Sei un essere stupido e incomprensibile, mi ripetevo. La risata di Lauren mi rimbombava nel cervello. Saperla nella stanza di Adam mi faceva girare i coglioni. E a quel punto presi a correre più veloce, sfrecciando nella pioggia che imperterrita cadeva dal cielo. E’ tuo fratello, stupida idiota! E allora perché ne ero quasi gelosa? Una gelosia non fraterna, di certo. Maledetto il mio cervello perverso. Mi fermai. La milza mi faceva un male assurdo. Non ero una tipa che amava correre e il mio corpo ne risentiva come se fossi stata investita da un tir più volte. Tornai a casa, a passo lento, con il fiatone. Aprii la porta e la richiusi alle mie spalle. “Santo cielo! Hayley, aspetta vado a prenderti un asciugamano” Jodi si alzò non appena notò in che condizioni pietose fossi. Bagnata dalla testa ai piedi, rossa in viso. Mi tolsi le scarpe e i calzini e aspettai, ferma sulla soglia di casa, che mi portasse un asciugamano. Lo vidi uscire dalla cucina. I suoi occhi azzurri si posarono su di me. Era a petto nudo e teneva in mano una lattina di un energy drink. “Che diavolo ti è successo?” chiese avvicinandosi. “Piove” risposi ovvia. Mi battevano i denti involontariamente. “Mamma! Abbiamo un pulcino bagnato al piano di sotto!” gridò rivolto a sua madre. “Lo so!” rispose lei ridendo dal piano di sopra. “Hai intenzione di rimanere lì a tremare?” mi chiese alzando un sopracciglio. “Non voglio sporcare casa” dissi, stringendomi tra le braccia congelate. Lui rise divertito. Jodi scese correndo dalle scale e mi porse un enorme asciugamano che profumava di biancheria pulita. Mi ci avvolse intorno e dolcemente mi sussurrò “Ti ho preparato un bagno caldo” e mi scompigliò i capelli. Le sorrisi e avvolta nell’asciugamano, a passo lento salii al piano di sopra, seguita da Adam. “Vuoi un po’ di compagnia?” mi chiese, malizioso. “A quanto so, sei già impegnato” dissi, sputando veleno. Lui sembrò capire “Se ne è andata” mi rispose. Non dissi nulla entrai nel bagno, mi spogliai e mi immersi nella vasca. L’acqua bollente, a contatto con la mia pelle gelata, fu così piacevole che pensai potessi sciogliermi. Jodi, aveva riempito la vasca di schiuma. Sorrisi. Da piccola pretendevo la schiuma quando facevo il bagno. Doveva essersene ricordata. Rimasi a mollo come un calzino circa mezz’ora. Immobile ad occhi chiusi. Mi sarei addormentata se mio fratello non avesse bussato alla porta. “Posso entrare?” chiese. “No” risposi, ma fece finta di non aver sentito ed entrò nel bagno. “Ho detto che non potevi entrare, sei sordo oltre che stupido?” gli dissi imbarazzata, nascondendomi tra la schiuma. Lui chiuse la porta, si sedette a terra, con la schiena appoggiata alla vasca da bagno. Sospirò e mi chiese “Come è andato il tuo appuntamento?” “Non potevi chiedermelo dopo?” chiesi rossa in viso. “No. Voglio saperlo ora” e puntò i suoi occhi azzurri su di me. Sbuffai, sapendo che non se ne sarebbe andato fino a quando non gli avessi dato una risposta. “E’ stato uno schifo” ammisi. “Non sa cosa si è perso” disse dolcemente. “Posso entrare nella vasca con te?” mi chiese alzandosi. “Adam non ci provare! O giuro che sarà l’ultima cosa che farai con le tue gambe!” gli ringhiai, sentendo che i battiti del mio cuore iniziavano ad accelerare vorticosamente. Lui rise. Stava per uscire quando una mia domanda lo bloccò “E tu? Ti sei divertito con lei?” Avevo vomitato quelle parole senza neanche riflettere, maledicendomi per essere sembrata così stupida. Ma per l’ennesima volta lui mi sorprese “Mi sarei divertito di più a litigare con te, come al solito”. Se non fossi stata nuda come un verme, probabilmente lo avrei raggiunto e abbracciato. Ma mi limitai a sorridere. Dopo essermi asciugata mi misi il pigiama e tornai in camera mia. Mi misi sotto le coperte, ma non riuscivo a smettere di tremare. “Adam!” gridai, battendo un pugno contro il muro che separava la mia stanza dalla sua. “Che vuoi?” lo sentii dire dalla sua camera. “Ho freddo! Portami una coperta!” “Per chi cazzo mi hai preso? Per il tuo servo?” “Per favore!” gridai più forte. Lo sentii sbuffare e alzarsi dal letto. Entrò in camera mia e senza dire una parola si infilò nel mio letto e mi abbracciò. “Ho chiesto una coperta, non un abbraccio” dissi rigida come una lastra di acciaio. “Vuoi chiudere quel forno?” disse, riferendosi alla mia bocca. Mi accoccolai tra le sue braccia e mi abbandonai completamente a quell’abbraccio. Emanava calore come una stufa. Poi un pensiero mi attraversò il cervello, come una scarica elettrica. Con quelle braccia probabilmente aveva stretto Lauren. Istintivamente mi allontanai e mi girai, dandogli le spalle. “Che c’è adesso?” mi chiese stizzito. “Non voglio te, voglio una coperta” dissi, capricciosa. “Ma vaffanculo, Lee” disse prima di alzarsi e sbattere la porta della mia camera. Non mi portò quella maledetta coperta che mi serviva. E io cominciavo di nuovo a sentire freddo. Perché devi sempre rovinare tutto? Accumulai tutte le mie forze per alzarmi dal letto. Misi da parte il mio orgoglio e mi infilai in camera sua in silenzio. Mi sdraiai sul suo letto, dove poco prima probabilmente aveva fatto sesso con Lauren. E dolcemente gli dissi “Scusa” prima di abbracciarlo a mia volta. Mi addormentai avvinghiata a lui. A un certo punto però lo sentii alzarsi. Gli strinsi la manica della felpa e gli dissi, con voce impastata “Non te ne andare” “Lee, devo andare in bagno” disse ridendo. Gli lasciai la felpa e tornai a dormire. E in quel preciso momento mi resi conto che per quanto la mia testa tentasse di ripetermi che Adam era mio fratello, il mio cuore non riusciva a considerarlo tale. E ormai iniziavo ad arrendermi a quel sentimento che nutrivo nei suoi confronti. “Sparisci dalla mia vita Hayley” . Le parole di Jamie mi rimbombavano in testa. Avrei potuto resistere se anche Adam un giorno me le avrebbe dette? Aprii gli occhi di scatto. Non potevo permettermi di soffrire ancora così tanto. Mi alzai dal letto e uscii dalla sua stanza, incontrandolo nel corridoio. “Dove vai?” mi chiese, senza capire cosa stesse succedendo. “A dormire” gli risposi senza nemmeno guardarlo in faccia. Chiusi la porta della mia stanza e mi sdraiai sul letto. Non avrei permesso ai miei sentimenti di prendere il sopravvento. A costo di reprimerli nella mia anima. A costo di impazzire completamente. Non mi sarei fatta ridurre come uno straccio, per colpa di quell’amore impossibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E finì anche il terzo capitolo! :D                 Aaaah, finalmente! Avevo scritto che avrei dedicato un intero capitolo alla storia d’amore tra Hayley e il professore, ma, ahimè, l’ossessione che provo per la mia protagonista e Adam ha preso il sopravvento ._.’’  Vorrei innanzitutto ringraziare le persone che hanno dedicato del tempo a leggere (spero) la mia storia, a chi l’ha aggiunta tra i preferiti, tra le seguite o ricordate. Grazie mille!

 

@TheBlackStar: innanzitutto grazie mille per aver commentato! :D Mi ha fatto un sacco piacere!! Ovviamente, come anche tu hai scritto, si poteva ben immaginare quello che aveva combinato Hayley ._.’’ Grazie mille per aver definito la mia storia bella e originale, anche se come ho scritto nel primo capitolo mi sono ispirata a Blowing Bubbles di SidRevo, che se non hai letto corri subito a farlo perché è una storia stupenda!! :D

 

A presto,

Kiki

 

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Capitolo 4
*** 4. La mia forza, il mio piacere, il mio dolore ***


Capitolo 4:  La mia forza, il mio piacere, il mio dolore

 

Maledetto il mio cuore che non mi voleva ascoltare. Più cercavo di convincerlo a non battere convulsamente ogni volta che vedevo Adam, e più quello mi martellava nel petto, tentando di uscire. Cercavo di evitare di stare nella stessa stanza da sola con lui, ma era un ‘impresa ardua, dato che ogni santissima mattina rimanevamo solo noi due in casa. Sbuffai guardando la mia tazza di latte e cereali, che mi ero appena preparata. “Che facciamo oggi?” la sua voce mi raggiunse alle spalle. Sussultai, spaventata. Non pensavo fosse già sveglio. “Tu non lo so. Io penso che passerò tutto il giorno al negozio di CD” dissi, tornando ad osservare i cereali galleggianti nel latte. “Ti accompagno, allora” “Non ce ne è bisogno” “Tanto non ho nulla da fare” Sospirai sconfitta. Non mi avrebbe dato tregua. Tentai l’ultima carta. “Voglio stare da sola” Lui mi guardò, alzando la sopracciglia e strafottente mi rispose “E chi se ne frega” Se già non avessi sperimentato, gli avrei tirato un cazzotto in faccia. “Fai un po’ come ti pare” dissi alzandomi dalla sedia. Lui mi prese per il braccio “Si può sapere che cazzo hai?” I suoi occhi azzurri mi studiavano, cercando di entrarmi nell’anima per tentare di decifrare il mio strano comportamento. “Niente” dissi, senza guardarlo in faccia. “Rispondimi!” ecco che tornava ad essere un irrimediabile stronzo. “Non sono obbligata a risponderti” “Io direi di si, invece” “Adam, vuoi lasciarmi in pace?” non ce la facevo più. Stavo iniziando a scocciarmi della sua assillante insistenza. “No” rispose semplicemente “Fino a che non mi rispondi” finì, stringendomi il braccio. “Mi fai male” mi lamentai, per la sua stretta. “Non mi interessa” fu la sua risposta gelida. Presa dall’esasperazione, gli schiacciai il piede sotto il mio tallone. Mi lasciò il braccio e corsi sulle scale ridendo. Lui mi rincorse, ridendo a sua volta. Mi acchiappò quando ero quasi arrivata in cima alle scale. Mi prese in braccio di peso, portandomi sulla sua spalla come se fossi un sacco di patate. “Adam, lasciami!” continuavo a dirgli, tra le risate. “Tu sei troppo violenta per i miei gusti! Prima mi tiri un pugno in faccia, poi una tallonata sul piede. Devo fermarti prima che tu mi faccia a pezzi!” mi portò di peso in camera sua e mi lanciò sul suo letto. Avanzava verso di me, con uno strano sorriso dipinto su quella faccia da schiaffi. Prima che potesse fare qualsiasi cosa avesse in mente, mi armai di cuscino e glielo tirai in faccia. L’espressione della sua faccia fu impagabile. Non se l’aspettava. Iniziai a ridere più forte. “Hai capito ora cosa intendevo nel dire che sei violenta?” disse, mettendosi a cavalcioni su di me. Mi fermò le mani sotto le sue e prese a fissarmi in un modo che iniziava a darmi fastidio. “Perché mi guardi a quel modo?” gli chiesi, scorbutica. “Inizio a capire il perché il tuo professore  ha mandato a puttane la sua carriera” Mi colpì come uno schiaffo quella sua affermazione. Per la prima volta in vita mia, non sapevo cosa dire. Rimasi in silenzio, sotto il suo sguardo. “Non dici niente?” mi chiese, come se fosse entrato nella mia testa. “Non ho niente da dire” “Dov’è finita la ragazza disinibita che ha tentato di baciarmi al pub?” disse con ghigno malizioso. “L’ho uccisa” dissi, ironica, facendolo sorridere. “Possiamo provare con una seduta spiritica, allora”. Che diavolo voleva da me? “Si può sapere dove vuoi arrivare?” gli chiesi, seria, puntando i miei occhi nei suoi. “Voglio capire se hai provato a baciarmi solo perché eri ubriaca o..” “O?” “O se c’è altro che dovrei sapere” finì, avvicinandosi pericolosamente a me. Averlo così vicino al mio viso, mi aveva tolto tutte le riserve di ossigeno che possedevo. Mi morsicai il labbro inferiore e mentii spudoratamente “Non c’è nient’altro” ma lui non ne era convinto. “Provamelo” “Che dovrei fare?” “Baciami”. Se non fossi stata già sdraiata, probabilmente sarei caduta per terra. “Cosa?!” esclamai, sperando di aver capito male. “Hai capito bene” disse appoggiando la sua fronte sulla mia. “Adam, non mi piace questo gioco” dissi cercando di divincolarmi. Ma lui strinse di più la presa sulle mie mani “Io non sto giocando”. Guardai le sue labbra. E se anche lo avessi baciato? Infondo era stato lui a chiedermelo. Raffredda i tuoi bollenti spiriti, depravata. E se mi avesse baciata lui? Cosa avrei fatto? Me ne sarei rimasta ferma o avrei dato sfogo a ciò che realmente provavo? Siete fratelli, siete fratelli, siete fratelli. Tentai di convincermi. Ma il mio respiro era già accelerato. Ormai ero in tachicardia. L’aria mi mancava. Lui non stava giocando. E stava aspettando una mia risposta, o quanto meno una mia reazione. Con uno sforzo disumano girai il viso a destra, in modo da non dover sottostare alle sue pretese. “Dovevo aspettarmelo” disse amaramente, alzandosi in piedi e liberandomi da quella morsa. Mi sentii una vigliacca. Ma non potevo rovinare tutto ancora una volta. “Adam” tentai un approccio. “No, senti. Non devi dirmi proprio un cazzo” rispose, arrabbiato. Non me lo disse apertamente, ma sapevo che dovevo uscire dalla sua stanza. Mi vestii lentamente. E tornai nella sua stanza “Vuoi venire al negozio di CD?” gli chiesi dolcemente. Di tutta risposta lui si alzò dal letto, mi spinse fuori dalla sua stanza e mi chiuse la porta in faccia. Come Jamie. Appoggiai una mano su quella porta che ci divideva. Sospirai e mi diressi verso le scale. Poi mi bloccai di colpo. Adam non era Jamie. Adam non mi aveva chiuso fuori dalla sua vita. La rabbia prese il sopravvento sul mio corpo. Spalancai la porta della sua stanza. Lo vidi in piedi, vicino alla finestra. Mi guardava stupito. Mi avvicinai con passo rabbioso verso di lui. I battiti del mio cuore mi rimbombavano nel cervello. Il sangue mi ribolliva nelle vene. E sorprendendo entrambi lo presi con forza per la collottola della felpa. Lo guardai negli occhi e lo tirai verso di me. Baciare Adam fu una delle cose più strane che mi ritrovai a fare fino a quel momento. Non fu un bacio casto e puro. Ma un bacio rabbioso, di sfida. Non avrei mai pensato che ne sarei stata capace. Sentii il sapore delle sue labbra, di energy drink, incontrarsi con le mie, di cereali e latte. Fui pervasa dai brividi quando le nostre lingue si incontrarono. La stanza girava vorticosamente intorno a noi. Ma prima che potessi pentirmi delle mie azioni, mi staccai dalle sue labbra. Sbuffai capricciosa e uscii dalla sua stanza sbattendo la porta. Volevo solo uscire da quella casa. “Che diavolo significava?” mi chiese raggiungendomi, a pochi passi dalla porta d’ingresso. “Volevi che ti baciassi? L’ho fatto! Quindi non stare lì a lamentarti per qualcosa che hai voluto tu!” Se fossi stata un drago, probabilmente avrei sputato fuoco dalle fauci e mi sarebbe uscito fumo dal naso. “Fallo ancora” bisbigliò a pochi centimetri da me. Ma non l’accontentai. Gli diedi le spalle e uscii da casa velocemente. Arrivai al negozio di dischi correndo, col fiatone. “Newyorkese! Sei tornata!” il benvenuto del proprietario del negozio mi risvegliò dai miei sensi di colpa. “Già, ho avuto molto da fare” mentii, sorridendo. Certo, eri troppo impegnata a baciare tuo fratello. Mi lasciò sola, e mi persi come la prima volta, tra gli scaffali. “Oggi fate pausa?” chiesi ad un giovane commesso. “No, oggi siamo aperti tutto il giorno, non-stop” rispose sorridendo. Meno male. Almeno non sarei dovuta tornare a casa e affrontare Adam. “Ehy, newyorkese! Questa è tutta per te!” disse il proprietario indicandomi, spostando l’attenzione dei suoi clienti su di me. Kiss from a rose.

There used to be a greying tower alone on the sea.
You became the light on the dark side of me.
Love remained a drug that's the high and not the pill.

But did you know,
That when it snows,
My eyes become large and,
The light that you shine can be seen.

Baby,
I compare you to a kiss from a rose on the grey.
kiss from a rose on the grey.

And now that your rose is is in bloom.
A light hits the gloom on the grey.

There is so much a man can tell you,
So much he can say.
There's so much inside.

You remain,
You...
My power, my pleasure, my pain, baby
To me you're like a growing addiction that i can't deny... yeah.
Won't you tell me is that healthy, baby?

But did you know,
That when it snows,
My eyes become large and the light that you shine can be seen.

Baby,
I've...
I compare you to a kiss from a rose on the grey.
Been...kissed from a rose on the grey.

Stranger it feels, yeah
Stranger it feels, yeah.

Now that your rose is in bloom.
A light hits the gloom on the grey,
I've been kissed by a rose on the grey,
I've been kissed by a rose
been kissed by a rose on the grey.

I've been kissed by a rose on the grey,
and if i should fall, at all
I've been kissed by a rose
been kissed by a rose on the grey.

There is so much a man can tell you,
So much he can say.
There's so much inside.

You remain
You...
My power, my pleasure, my pain.

To me you're like a growing addiction that i can't deny, yeah
Won't you tell me is that healthy, baby.

But did you know,
That when it snows,
My eyes become large and the light that you shine can be seen.

I compare you to a kiss from a rose on the grey.
Been...kissed from a rose on the grey.

Ooh, the more i get of you
Stranger it feels, yeah
Stranger it feels.

Now that your rose is in bloom,
A light hits the gloom on the grey.
Yes i compare you to a kiss from a rose on the grey
I've...been kissed from a rose on the grey.

Ooh, the more i get of you
Stranger it feels, yeah
Stranger it feels, yeah.

And now that your rose is in bloom
A light hits the gloom on the grey
Now that your rose is in bloom,
A light hits the gloom on the grey.

 

Amavo quella canzone. Non so come quell’uomo potesse saperlo, o anche solo immaginarlo. Ho sempre pensato che fosse la canzone più romantica che qualcuno potesse cantare. E non potei evitare di pensare ad Adam, mentre estasiata ascoltavo le parole di quella meravigliosa canzone. Soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti. My power, my pleasure, my pain. Sospirai scuotendo la testa sconsolata. Perché alla fine il mio cuore doveva vincere sempre? L’aveva fatto con Jamie e ne ero uscita distrutta. Quindi, perché ancora? Sbuffai per l’ennesima volta e ripresi a guardare quella moltitudine di dischi sotto i miei occhi. Dopo più di quattro ore di full-immersion nei CD, non avevo trovato ancora nulla che valesse davvero la pena di comprare. “Tieni” davanti al mio naso c’era un fumante hot-dog. “Grazie mille” dissi, quasi sbavando, verso il proprietario del negozio che brandiva il panino come un trofeo verso di me. “ Ho pensato stessi morendo di fame” ammise, guardandomi mentre sbranavo letteralmente l’hot-dog “E avevo ragione” finì ridendo, constatando quanto fossi affamata. “Ti vedo un po’ spenta oggi” mi disse, appoggiandomi una mano sulla spalla. Perché dovevo essere così dannatamente trasparente con gli estranei? Perché non riuscivo a fingere come tutte le persone? “Mi sono svegliata male” mentii, sperando non mi chiedesse altro. “Problemi con qualche ragazzo?” chiese, subito scoppiando a ridere vedendomi arrossire visibilmente. “Come non detto.” E sparì dietro il bancone lasciandomi sola con i miei pensieri. Dovevo organizzarmi la giornata in modo da evitare di incontrare Adam. Ma come potevo? Vivevamo sotto lo stesso tetto, e solo un muro sottile separava le nostre camere. Lasciai cadere la testa all’indietro, sbattendo contro uno scaffale e facendo cadere sulla mia fronte un CD che era in bilico. Bestemmiai in cinque lingue diverse, massaggiandomi la fronte dolorante. Raccolsi il CD. Pink. Non ero una sua grande fan, ma quello era un segno del destino. Che probabilità c’erano che solo quel CD fosse messo in bilico e che colpisse proprio me in piena fronte? Mi decisi a comprarlo, notando subito che era scontato. Dodici sterline. Non sapevo nemmeno a quanti dollari corrispondessero. Ma di sicuro non mi avrebbero mandato sul lastrico. Mentre pagavo, pensai a cosa mi sarebbe aspettato a casa. “Che posso fare per passare il tempo qui?” chiesi al proprietario del negozio con cui ormai mi sentivo in piena confidenza. “Se mai stata ai Kensington Gardens?” mi chiese. Scossi la testa. “Non sono molto lontani da qui. Un paio di minuti a piedi. E’ un parco rilassante” concluse strizzandomi l’occhio. Gli sorrisi e uscii dal negozio.

 

Al contrario delle mie aspettative, riuscii a non perdermi. Entrando ai Kensington, non potei non notare la moltitudine di scoiattoli che correvano sull’erba o saltavano da un albero all’altro. Fu come tornare a New York, a Central Park dove amavo oziare sorseggiando caffè macchiato con panna. New York mi mancava, più di quanto pensassi. Mi mancavano il caos newyorkese, le mie uscite pomeridiane senza meta tra la folla e i turisti. Mia madre, i miei amici, Jamie. Camminai continuando a guardarmi intorno, curiosa. Arrivai davanti ad una piccola statua, dove molti si facevano le foto. Aspettai che nessuno si mettesse in posa per avvicinarmi e capire di chi si trattasse. Sembrava un mezzo folletto che suonava un flauto. Pensai immediatamente alle leggende celtiche. “Scusi, chi è?” chiesi a una signora, indicandogli la statua. Mi guardò come se fossi un alieno. “E’ la statua di Peter Pan” mi rispose. “Ah, grazie” risposi, riportando il mio sguardo su Peter. Da piccola amavo il cartone della Disney su questo personaggio. Lo guardavo quaranta volte al giorno, fino a sapere tutte le battute dei personaggi a memoria. Sorrisi. E così ero davanti alla statua del mio idolo da bambina. Il ragazzo che non cresce mai, proprio davanti a me. Se solo potesse essere vero. Se solo potessimo rimanere per sempre piccoli e non crescere mai. Sospirai, allontanandomi dalla statua e sedendomi su una panchina. Chiusi gli occhi. Il rumore del vento sugli alberi era rilassante. Sentivo ogni foglia muoversi, ogni passerotto svolazzare libero. L’unica cosa che mi infastidiva terribilmente era il vociare delle persone intorno a me. Se solo avessi potuto volare all’Isola-che-non-c’è e stare tranquilla. Iniziò a piovere. Una pioggia leggera. La gente intorno a me correva per trovare riparo sotto agli alberi. Mi alzai dalla panchina, sapendo che il destino mi voleva a casa, con Adam ad affrontare quella situazione. Tutto era contro di me. Tornai a passo lento a casa, sotto quella fastidiosa pioggerellina. Aprii la porta e dopo un minuto entrai in casa. Salii al piano di sopra. La porta della camera di Adam era stranamente aperta. Sbirciai all’interno, ma lui non c’era. Sospirai sollevata. Pericolo scampato. Era uscito. Poi fui presa dall’ansia. E se fosse stato con Lauren? Mi diedi uno schiaffo. Poi mi misi a ridere. Ero patetica. Stavo impazzendo. E aveva ragione mio fratello: ero troppo violenta. Mi sdraiai sul mio letto e chiusi gli occhi. Almeno se avessi dormito, Adam non mi avrebbe raggiunta. Ma contro ogni mia aspettativa non riuscii a dormire. Rimasi ferma immobile nel letto, ad occhi chiusi. Sentii la porta d’ingresso sbattere e come se avessi fatto un incubo mi alzai di scatto, ad occhi spalancati. Il cuore mi batteva a mille. Sentii dei passi pesanti sulle scale. Era lui. Ormai avevo imparato a riconoscere il suo modo di camminare e di salire le scale. Rimasi ferma, senza fare nessun rumore, sperando che non si accorgesse della mia presenza. La porta, cazzo! Pensai, notando che avevo lasciato la porta aperta. Merda. Infatti, come se fosse stato attratto dai miei pensieri, lo vidi infilare la testa in camera mia. Dalla sua espressione, non si aspettava di trovarmi lì, seduta sul letto con la faccia di chi ha visto un fantasma. “Sei tornata” constatò. “Già” risposi telegrafica. “Sono andato al negozio di CD, ma non ti ho trovata” “Sono andata a vedere la statua di Peter Pan” risposi, senza guardarlo in faccia. “Hai fame?” mi chiese. “Ho mangiato un hot dog” risposi robotica. Imbarazzo. Vergogna. Imbarazzo. Vergogna. Non provavo nient’altro. Lui se ne stava lì a guardarmi, a fissarmi. “Piantala di fissarmi” gli dissi gelida, dopo un interminabile minuto di silenzio. “Dio, sei la ragazza più strana che io conosca” disse ridendo. “Io non sono strana” lo rimbeccai. “Invece lo sei” si avvicinò a me, serio “ Sei la prima che dopo avermi baciato, preferisce parlare di hot dog e Peter Pan” “Rispondevo solo alle tue domande” risposi rossa in viso. “Piuttosto che affrontare l’argomento” continuò lui, come se non avessi detto nulla. “Cristo santo, io e te siamo fratelli” dissi per la millesima volta. “Ciò non toglie che ci siamo baciati” “E non dovrà più succedere!” esclamai isterica. “Non ti è piaciuto?” chiese, con quell’odioso ghigno dipinto sulla faccia. Mi stava mettendo in difficoltà. “No” risposi, mentendo. Lui rise “Lee, sei una pessima bugiarda” Cazzo. “Dico sul serio!” dissi alzandomi in piedi, tentando di convincerlo. “Quindi se ti baciassi in questo momento, mi respingeresti?” No, ti bacerei tutto il giorno per tutti i giorni della mia miserabile vita. “Ovviamente” risposi sicura, allontanando i miei pensieri. Ma quei suoi occhi azzurri mi fecero perdere un paio di battiti cardiaci. E non riuscii più a capire nulla, quando per la seconda volta ci baciammo. Il tocco delicato delle sue mani sul mio viso, mi fecero andare fuori di testa. Con una mano gli stringevo la felpa, l’altra navigava tra i suoi capelli castani. Mi alzò di peso e io automaticamente gli avvinghiai le gambe intorno alla vita. Mi mise con la schiena contro al muro mentre continuavamo a baciarci. Un bagliore di lucidità mi attraversò il cervello. Mi allontanai leggermente dal suo viso e bisbigliai un “Adam” come per fermare quella follia che stavamo facendo, ma lui mi bloccò “Stai zitta, cazzo” e riprese a baciarmi. Quel bacio fu molto diverso dal primo che ci eravamo dati poche ore prima. Non era di sfida, dato con rabbia. Era voluto, sentito, passionale. Le sua labbra si spostarono lentamente dalle mie al mio collo. Amavo i baci sul collo in generale, ma i suoi erano paradisiaci. Respiravo affannosamente, mentre mi mordevo il labbro inferiore sperando di non emettere qualche suono imbarazzate per dei semplici baci sul collo. Ma avrei voluto urlagli di non smettere per nessuna ragione, di continuare fino a che non gli si fossero consumate le labbra, fino a quando non mi avesse scavato un solco sul collo. Maledetto lui e i suoi baci. Poi si fermò. Aprii gli occhi e lo trovai a fissarmi con un sorriso divertito. “Sei una pessima bugiarda” Gli tappai la bocca prima che potesse aggiungere altro. Più ci baciavamo e più mi sentivo schiacciare contro il muro. Sentivo il suo corpo sul mio. Sentivo il suo respiro sulla mia pelle. Riuscii anche a sentire chiaramente la porta di casa chiudersi e delle voci distinte provenire dal piano di sotto. Lasciai la presa salda delle mie gambe sulla sua vita, cadendo rovinosamente a terra. Lui iniziò a ridere senza contegno, senza capire che diavolo fosse successo. Poi dalla sua espressione capii che aveva sentito le stesse voci che avevo sentito anche io. Mio padre, sua madre e nostra sorella. Mi alzai da terra e gli bisbigliai “Ora capisci perché tutto questo è sbagliato?” Lui non rispose, volgendo il suo sguardo fuori dalla mia stanza. Mi baciò sulla fronte e mi bisbigliò “Non me ne frega niente” e uscì dalla mia stanza lasciandomi sola con una faccia da completa idiota e il suo odore impresso addosso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 4 terminatooooo!!! Ho notato che siete sempre più ad aggiungere la storia ai preferiti, alle seguite e alle ricordate e oltre a ringraziarvi per la millesima volta non so assolutamente che fare :D Grazie mille!!

Bene, ci siamo arrivati finalmente! SI SONO BACIAAATIII!!! UUhh che tenerezza che mi fanno!! Sono abbastanza in alto mare nel pensare a che diavolo far succedere nel prossimo capitolo muhauhauahuah vedrò cosa posso fare per soddisfare voi e me :D Benissimo, continuate a seguire la mia storia e a recensire per farmi sapere che ne pensate perché per me i vostri pareri sono oro colato, siano essi positivi o negativi :D

 

Baci,

Kiki

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Capitolo 5
*** 5. Le ossessioni di Hayley Doherty ***


Capitolo 5: Le ossessioni di Hayley Doherty

 

“Vuoi stare attenta?” la voce di Savannah mi riportò alla realtà. Mi aveva afferrata per il braccio, evitandomi di essere investita da un autobus a due piani. “Si può sapere dove hai la testa?” mi chiese mia sorella, dandomi un buffetto in fronte. Non risposi. Non potevo di certo dirle che pensavo notte e giorno al bacio con Adam. Sospirai, senza speranze. Ero uscita con lei perché mi aveva obbligata. Avrei preferito rimanere a casa. Non amavo molto fare shopping, al contrario di mia sorella che ne era ossessionata. Mi trascinava per negozi e mi faceva provare vestiti che mai avrei messo in vita mia. Non accettava obiezioni quando tirava fuori la carta di credito di papà e pagava montagne di indumenti. “Lo sai di avere un problema, vero?” le dissi, dopo essere uscite dall’ennesimo negozio di abiti alla moda. “Tanto paga papà” rispose sorridendo. Mio padre guadagnava vagonate di soldi. Sinceramente non sapevo nemmeno di cosa si occupasse nello specifico. Sapevo solo che lavorava in borsa. Ma che cosa facesse per portare a casa tutti quei soldi, era un mistero per me. “Non mi hai più raccontato come è finita con il tipo dell’aereo” mi disse, fermandosi di colpo. “Non è finita” risposi annoiata. “Come mai?” “Te l’ha mai detto nessuno che sei un’impicciona?” le dissi scherzando. “Tu invece sei troppo misteriosa! E dai, raccontami!” disse supplichevole. “Era noioso. Parlava solo di sé e dei suoi viaggi stupidi” dissi. Né io né lei aggiungemmo altro. “Devo comprare quelle scarpe!” gridò guardando una vetrina. “Savannah, ne hai appena prese un paio simili” ma la sua espressione mi sciolse e l’accompagnai all’interno di quel negozio. “Guarda se ne trovi anche tu un paio” disse, prima di cercare un commesso. Mi guardai intorno. Non avrei trovato niente. Ne ero sicura. Scarpe dai tacchi vertiginosi e dai prezzi spaventosamente alti. Infatti, come pensavo, uscii a mane vuote. Mia sorella invece si era ritrovata indecisa su due paia, e alla fine le aveva prese entrambe. “Hai il ragazzo?” le chiesi, immaginando lo avesse. La vidi arrossire vistosamente. “No” bisbigliò “Ma c’è un ragazzo che mi piace” “E qual è il problema?” “Non penso mi possa ricambiare”. Fui io a quel punto a fermarmi di botto a bocca spalancata. “Che c’è?” mi chiese. “Come che c’è?! Sei una delle più belle ragazze che io abbia mai visto!” “Non è questo il problema” “E quale sarebbe?” La vidi pensarci su. Poi mi sputò in faccia la verità “Ha vent’anni in più di me!” Rimasi senza fiato. E’ proprio tua sorella. Iniziai a ridere senza contegno. “Smettila di ridere!” disse arrabbiata. “Non rido per te. Questa situazione mi è così familiare” Lei non capì. E come poteva? Non le avevo ancora parlato di Jamie. “Che dici se te ne trovassi uno della tua età?” le chiesi. “Sono tutti stupidi! Invece lui è così maturo, sensibile, elegante” disse con fare sognante. Le brillavano gli occhi. Sorrisi. “Fai quello che devi” le dissi solo. Lei mi guardò come se si aspettasse tutt’altra risposta. Quando tornammo a casa Jodi ci accolse con un enorme sorriso davanti alla porta. “Non mi piace quello sguardo” le disse mia sorella. “Abbiamo ospiti a cena, stasera. Quindi mi aspetto la massima collaborazione da parte vostra” “Dobbiamo pulire casa?” chiesi, abituata a quando a New York io e mia madre ricevevamo ospiti e ci toccava lustrare casa da cima a fondo. “No, mi bastano solo le vostre stanze” “Ma tanto nessuno ci entrerà!” si lagnò Savannah capricciosa. “Niente discussioni!” la ammonì sua madre indicandole le scale. “Puoi dire a tuo fratello di mettere a posto camera sua?” mi chiese Jodi, con sguardo supplichevole. Annuii non molto convinta. E così mi sarebbe toccato di parlare con lui dopo quel bacio. Sbuffai salendo le scale. Bussai alla sua porta. Ma non mi rispose. Aprii piano la porta e infilai la testa nella sua stanza. Lo vidi sdraiato sul letto, con un braccio sopra gli occhi. “Chiunque tu sia, sparisci” disse immobile. “Tua madre ha detto che devi pulire la tua stanza” Appena sentì la mia voce fece un salto sul letto, guardandomi ad occhi sgranati. “Potevi dirmelo che eri tu” mi disse, alzandosi dal letto e chiudendo la porta alle mie spalle. “Non vedo che differenza avrebbe fatto” dissi, perdendo un paio di battiti nel sentirlo e vederlo così vicino a me. Lui mi sorrise. Se solo fossi potuta uscire ed evitare quel contatto visivo con i suoi occhi azzurri. “Sarà meglio che inizi a pulire. La tua camera fa schifo” dissi, guardando al di là delle sue spalle. Lo vidi girarsi un attimo. Era il momento giusto. Con uno scatto felino riuscii ad uscire dalla sua stanza e a barricarmi nella mia. Chiusi a chiave e mi sentii più tranquilla. Per un altro paio di ore sarei rimasta lontana da Adam. Accesi lo stereo e alzai il volume sulle note dei Pumpink Punkerz. Pulii la stanza da cima a fondo. Svuotai e riempii più volte l’armadio, riponendo vestiti e scarpe in modo quasi maniacale. Il comodino era stato pulito così a fondo che la polvere veniva respinta da una barriera invisibile creata con i fumi dei detersivi spray. Dalla camera di Adam proveniva uno strano quanto sospetto silenzio. Infatti sentii qualcuno spalancare la porta della sua stanza. Jodi. Gli gridò come un’ossessa dato che lui non si era dimostrato per nulla collaborativo. A quanto sembrava, dalle urla della mia matrigna, mio fratello si era appisolato tralasciando le faccende domestiche. Jodi sbatté la porta e scese al piano di sotto, borbottando adirata. Poche ore dopo, constatando che la mia camera brillava ormai di luce propria, decisi di andare a farmi una doccia. Nel momento in cui mi tolsi la maglietta, la porta del bagno si spalancò. I suoi occhi, il suo sguardo, la sua bocca semiaperta. Fu imbarazzante. Non dicemmo nulla, entrambi. Lo spinsi fuori dal bagno e chiusi la porta a chiave. “La prossima volta bussa, depravato!” gridai, imbarazzata. Lo sentii ridere. La tipica risata da idiota di Adam. Mi buttai sotto la doccia per lavarmi via il suo sguardo di dosso. Il mio cuore batteva così forte che per un momento pensai di morire. Esagerata. Quando uscii da sotto la doccia, mi ero calmata. Più o meno. Mi asciugai i capelli e li legai in una treccia laterale. Corsi in camera mia per evitare di incrociare mio fratello nel tragitto. Mi misi un paio di jeans e una maglietta a maniche corte che avevo comprato con Savannah quel pomeriggio. E scesi al piano di sotto. Entrai in cucina, dove un’isterica Jodi armeggiava tra i fornelli insieme alla domestica. “Oh, Hayley! Assaggia” disse prima di schiaffarmi in bocca un cucchiaio ustionante di non so bene cosa. “Buono” dissi, con la bocca in fiamme. “Sicura? Non pensi che ci manchi un po’ di sale?” “Penso sia perfetto” risposi, tentando di tranquillizzarla. “Chi viene a cena?” le chiesi, notando la sua ansia. “Un paio di colleghi di tuo padre. E voglio che sia tutto perfetto” “Lo vedo” dissi ridendo. La domestica, la signora Travis, era più agitata della mia matrigna. Era una signora di circa sessant’anni, bassa quanto me, con una crocchia di capelli grigi sistemati ordinatamente. I suoi compiti erano cucinare e pulire la casa. Ma data la follia generale che stava circondando casa nostra, Jodi le aveva ordinato di concentrarsi sulle portate, mentre noi avremmo pulito la casa. “Camera tua è in ordine?” mi chiese, aprendo più antine della credenza, la mia ansiosa matrigna. “Lustra come uno specchio” le dissi, prendendo una carota in miniatura da un piatto. “Posala immediatamente Hayley Doherty!” ululò Jodi, minacciandomi con un mestolo. Feci come ordinato e uscii dalla cucina. Mi buttai sul divano con un tonfo e misi nella posizione in cui poco prima avevo visto mio fratello. Era rilassante stare in quella posa. “Non mi avevi detto che avevi un tatuaggio” la sua voce, tagliente come una lama, mi risvegliò da quello stato di pace assoluta, trascinandomi nel mio inferno personale. “L’ho fatto un paio di anni fa” dissi, sapendo che si stava riferendo al tatuaggio sulla mia spalla sinistra. “Non ho fatto in tempo a vedere cos’era” disse, con quel suo ghigno malizioso avvicinandosi al divano. “Una chiave” dissi semplicemente. Alzò le sopracciglia e si buttò sul divano, di fianco a me. Eravamo così vicini. E anche sua madre era così vicina a noi. Nella stanza di fianco. “Spostati” sibilai. “Spostami” disse divertito. Poi la sua espressione diventò seria. Lo vidi avvicinarsi a me, troppo. Istintivamente gli tirai un calcio, dritta sullo stinco. “Cazzo! La vuoi smettere di picchiarmi?” disse massaggiandosi la gamba. “Non è colpa mia se mi ispiri violenza” dissi ridendo. “Adam!” lo voce di Jodi ci fece voltare entrambi. Come se ci avesse colto in fragrante. Sui nostri visi una sola espressione: colpevolezza. Anche se non stavamo facendo nulla. “Hai sistemato la tua stanza?” finì sua madre. Lo vidi annuire e abbassare lo sguardo. Probabilmente stava pensando ciò che pensavo io. Era sbagliato. Non potevamo continuare così. Si scompigliò i capelli castani e appoggiò la sua testa sulla mia pancia. “Alzati” “Non sai dire per favore?” disse con gli occhi chiusi. Non mi ero accorta di essermi avvicinata così tanto al suo viso. Lui aveva gli occhi chiusi. “Albicocca” disse sorridendo sempre a occhi chiusi. “Che?” chiesi senza capire, allontanandomi da lui. “Profumi di albicocca” aprì gli occhi e li puntò su di me. “Mi sono lavata prima” dissi, dandomi della stupida subito dopo aver pronunciato quelle parole. Lui rise “Lo so” disse portandomi all’imbarazzante scena di lui che mi guardava immobile, mentre ero solo in reggiseno e pantaloni. Arrossii di colpo. “Quando hai intenzione di baciarmi ancora?” mi chiese col suo ghigno. Non risposi. Evitai di guardarlo in faccia. Ma sapevo che faceva sul serio. Guardai verso la cucina. Sua madre poteva tornare da un momento all’altro. Ma quella volta fu lui a prendermi per la collottola della maglia e tirarmi a sé. Mi ritrassi subito da quel bacio. “Pezzo d’idiota” bisbigliai prima di alzarmi dal divano e lasciarlo solo. Per quanto breve potesse essere stato quel bacio, era riuscito a farmi esplodere il cuore in milioni di coriandoli. Mentre salivo per le scale non riuscii a non sorridere. A quanto sembrava lui voleva me quanto io volevo lui. Non era più un gioco. Non avrebbe rischiato tanto se fosse stato solo un gioco. Non mi avrebbe baciata a pochi metri da sua madre. Per quanto potessi sentirmi colpevole, sporca e sbagliata non smettevo di sorridere. Non chiedevo più al mio cuore di smettere di scoppiarmi nel petto. Non mi ripetevo che Adam era mio fratello. Adam era il ragazzo che mi piaceva. Per una frazione di secondo ripensai all’uscita con Freddie: non era lui che era cambiato dall’ultima volta che l’avevo visto. Ero io. Pensavo ad Adam la maggior parte della mia giornata. Mio fratello era riuscito a farmi dimenticare di Jamie. A prendere l’ipotetico posto di Freddie. Mio fratello mi faceva ridere, arrabbiare, piangere, imbarazzare. Ma se Adam non ci fosse stato, probabilmente mi sarei sentita persa, sola.

“Hayley dovremmo scendere” se la donna davanti a me non avesse parlato, probabilmente non avrei riconosciuto mia sorella. “Sei bellissima” riuscii solo a dire a quella creatura paradisiaca. Lei arrossì “Dici?” chiese solo. Mi ritrovai ad annuire convulsamente. “Ora togliti dalla faccia quell’espressione da ebete e vieni giù” disse trascinandomi fuori dalla mia camera. Dal piano di sotto sentii la voce di mio padre che presentava agli ospiti Jodi e Adam. “E loro sono le mie due splendide figlie. Savannah ti ricordi di Trent?” chiese mio padre a mia sorella. Lei arrossì vistosamente, quando un uomo le posò un lieve bacio sulla guancia. Un uomo molto affascinante. Sulla trentina. E’ lui. Guardai mia sorella e con solo uno sguardo capii che quell’uomo era la sua cotta. Strinsi la mano a Trent, sorridendo come una stupida. Poi mio padre ci presentò agli altri due uomini e alle loro mogli snob. C’erano anche due ragazzi, gemelli. Avevano approssimativamente la mia età. Joshua e Ray. Occhi scuri, capelli biondi. Visi anonimi. Sorrisi ad entrambi. “Direi che è ora di sederci a mangiare” esultò Jodi. Mi ritrovai seduta tra i due gemelli, figli di un collega di mio padre. Davanti a me un Adam tutt’altro che sereno. I due ragazzi erano molto gentili. Mi aiutarono a servirmi dai piatti, come se avessi cinque anni o fossi menomata. Continuavo a sorridere e iniziai a pensare che ora della fine di quella serata mi sarebbe venuta una paresi facciale. Lo sguardo di Adam era sempre su di me. Come se dovesse studiare le mie mosse. Come se si aspettasse che facessi qualche danno. “Hayley, giusto?” venni richiamata da Trent, dall’altro lato del tavolo. Annuii. “Sei americana, no?” “Già” “Hai frequentato qualche università?” “Giornalismo. Ma ho abbandonato” dissi, dandomi dell’idiota per aver puntualizzato. “E come mai?” chiese, attirando l’attenzione su di me. Sentii un grido strozzato di Jodi e un tossicchiare imbarazzato di mio padre. Inventa una cazzata. “Mi piace di più disegnare” dissi. Aveva ragione Adam: ero una pessima bugiarda. Non riuscivo neanche a spararne una convincente. Ma tutti a tavola sembrarono crederci. Adam sorrideva divertito. Trattenni l’impulso di tirargli un calcio da sotto il tavolo. “Hai il ragazzo?” mi chiese la madre dei gemelli. “No” dissi, guardando di sfuggita mio fratello, che iniziò a mordersi il labbro inferiore. “Bè, potresti uscire con uno dei miei ragazzi. Tuo padre dice che non hai ancora visitato Londra come si deve e che ti piacerebbe avere compagnia” In quel momento smisi di sorridere. Guardai mio padre, che volontariamente teneva lo sguardo basso sul suo piatto. Ingoiai il rospo e le risposi “In realtà mio fratello si è già offerto di accompagnarmi” “Oh, bhè. Immagino che tuo fratello capirà se preferirai uscire con uno di loro” Se ci fosse stata una torta di panna sul tavolo, probabilmente gliel’avrei lanciata in faccia a quella vecchia rompicoglioni. “E sentiamo dove avreste intenzione di accompagnare mia sorella?” chiese Adam ai gemelli. Quei due cominciarono ad elencare posti su posti, senza fermarsi. Adam rise, beffardo. “Ad Hayley non interessano il Tower Bridge o Buckingham Palace. Sono luoghi troppo comuni per una come lei” disse sicuro. “E sentiamo tu dove la porteresti?” chiese sgarbata la donna. “Il London Eye. Hayley ha una specie di complesso sull’altezza. E’ la prima cosa che nota di una persona. Lì sopra probabilmente, guardando Londra dall’alto, riuscirebbe a sentirsi meno in imbarazzo per la sua statura. Oppure in qualche negozio di CD a scovare dischi di gruppi sconosciuti o a bere caffè da Starbucks. O le farei visitare tutti parchi di Londra” “I parchi?” “E’ di New York. E mia sorella non è una delle ragazze più comuni che esistano. Probabilmente passava le sue giornata a Central Park a… disegnare” finì, sottolineando l’ultima parola. Rimasi a bocca aperta. “E poi è stata ai Kensington per un paio d’ore ed è tornata a casa che sembrava un’altra persona” concluse tornando al suo arrosto. Savannah sorrideva soddisfatta, fiera di suo fratello. Jodi e mio padre non riuscivano a credere alle loro orecchie. Per quanto lui fosse stato stronzo con me, si era accorto di ciò che mi ossessionava. L’altezza, i dischi, il caffè e i parchi. “Capisce perché preferisco andare con mio fratello?” chiesi sorridendo alla donna che, stizzita, non disse una parola. Grugnì qualcosa di incomprensibile e si concentrò a fare a brandelli il resto della carne nel suo piatto. I gemelli, entrambi, stettero in silenzio fino alla fine della cena. Guardai Adam, ma lui evitò il mio sguardo. Allora decisi di guardare mia sorella. Trattenni una risata. Se solo avessi avuto un macchina fotografica per le mani avrei immortalato la sua espressione da pesce innamorato. Guardava Trent come se fosse un’apparizione divina. Decisi di finire il mio arrosto. La signora Travis portò il dolce: crostata ai frutti di bosco. Manna dal cielo. Amavo le crostate in generale, ma quelle ai frutti di bosco erano le mie preferite. “E’ deliziosa, Jodi. L’hai fatta tu?” “No, mio figlio è andato a prenderla in pasticceria prima che arrivaste” rispose la mia matrigna. Lui se lo ricordava. Doveva per forza ricordarselo. Sapeva che avrei amato quella crostata. E il mio cuore si riempì di amore ad ogni morso che davo a quel dolce. Se avessi potuto, sarei saltata sul tavolo e l’avrei baciato. Ti sei fatta comprare con dolci parole e una fetta di crostata ai frutti di bosco. Ma non riuscivo a smettere di sorridere. Maledetto Adam. Lo vidi alzarsi e con lo sguardo lo seguii al piano di sopra. Aspettai un paio di minuti ma lui non si decideva a tornare. Così, dopo aver litigato pesantemente con il mio cervello, decisi di raggiungerlo. Corsi letteralmente su per le scale. Spalancai la porta e la richiusi dietro di me. Non dissi nulla. Mi avvicinai a lui, sdraiato sul letto. E lo baciai. Fu lui a fermarmi. “Che fai?” mi chiese sorridendo. “Chiudi quel forno” dissi, ricordandogli ciò che lui aveva detto a me, il giorno prima. Mi prese per i fianchi, continuando a baciarmi, e mi mise sotto di lui. Solo con il tocco delle sue mani con la mia pelle, ero andata fuori di testa. Iniziavo a non capire più niente. Ecco che riiniziava con i suoi baci sul collo. Paradisiaci. Stavolta non trattenni nessun gemito. Doveva sapere che amavo quando mi baciava sul collo. Doveva sapere cosa provavo quando mi toccava, quando il suo respiro affannato incontrava la mia pelle, pervasa da brividi. Lo sentii mettermi le mani sotto la mia maglietta. Saliva lentamente, come se avesse potuto farmi del male se avesse fatto più in fretta. Ma lo fermai. Quell’ultimo barlume di lucidità che mi era rimasto lo aveva fermato, andando contro a ciò che volevo realmente. Mi guardò senza capire. Chiusi gli occhi e cercai di riprendermi. “E’ sbagliato” sussurrai, più a me stessa che a lui. Lo vidi stringere le mascelle. Se avesse potuto mi avrebbe presa a schiaffi. Si sedette sul letto e mi diede le spalle, guardando la porta. ”Lo so anche io” disse a bassa voce “Ma non riesco a starti lontano” concluse, prendendosi la faccia tra le mani. “Come facevi a sapere della crostata di frutti di bosco?” chiesi, cambiando drasticamente discorso. “Quando eravamo piccoli, chiedevi a tuo padre di comprarti quella maledetta crostata ogni giorno. Ho pensato che avresti apprezzato” disse, continuando a tenersi la testa stretta fra le mani. Mi avvicinai a lui. Appoggiai la mia testa alla sua spalla “Grazie, Adam” dissi, chiudendo gli occhi. “Sarai mai mia?” mi chiese, prendendomi per le spalle e costringendomi a guardarlo negli occhi. “Io..” “Rispondi!” “No” risultando più convincente di quanto credessi. Se l’era bevuta. Per una volta che avrei voluto che lui si accorgesse che stavo mentendo, lui ci aveva creduto. La presa sulle mie spalle si fece per un attimo più forte, per poi affievolirsi, lasciandomi andare completamente. “E allora perché sei venuta qui?” “Non lo so” “Voglio delle risposte chiare” mi disse, battagliero. Presi coraggio e sputai “Non riesco a stare lontana da te”. Lui sorrise. Un sorriso amaro, poco convinto. “Non riesci a stare lontana da me, ma non vuoi essere mia. Questo è un controsenso” “E’ solo confusione” “Non voglio perdere tempo con persone confuse!” “Benissimo. D’accordo. Non ti farò sprecare un minuto in più della tua vita con me” dissi alzandomi dal letto. Alla fine dovevamo litigare, come sempre. “Brava! Scappa! Non sai fare altro” “Hai ragione. Non so fare altro” dissi prima di sbattere la porta della sua stanza alle mie spalle. Non volevo più ascoltarlo. Perché non riusciva a mettersi in quella testa bacata che per me non era normale quella situazione? Baciare mio fratello non era di certo uno dei miei sogni di bambina. Perché ci stavamo complicando la vita in quel modo? Perché non potevamo odiarci come avevamo sempre fatto? Lui aprì la porta della mia stanza e la richiuse alle sue spalle con violenza, quasi volesse scardinarla. Indietreggiai di qualche passo. Non mi piaceva la sua espressione minacciosa. Ed essere da sola in una stanza con lui, conciato a quel modo non mi tranquillizzava. “Chi cazzo ti credi di essere?! Vieni qui e mi incasini la vita in pochi mesi e mi fai perdere completamente il lume della ragione, stupida deficiente!” “Non insultarmi, brutto idiota! Hai fatto tutto tu! Sei tu che hai incasinato la mia vita! Io nemmeno ci volevo venire in questa città di merda! Quindi non rompermi i coglioni!” Di tutta risposta, lui mi spinse contro il muro. Ma non con violenza. “Ti prego, baciami” mi chiese quasi in una supplica. E io non riuscii a dirgli di no. Lo attirai a me, velocemente. Amavo sentire il suo sapore sulle mie labbra. Amavo sentire le sue mani sul mio corpo. Quel bacio non fu di certo innocente. Era desideroso, bramoso, lussurioso. Lo sentivamo entrambi. I nostri respiri affannati, parlavano per noi. Mi mordeva le labbra, come se volesse mangiarle. Mandai a cagare il barlume di lucidità che poco prima mi aveva fermato. “State bene?” la voce di Jodi al di là della porta ci fece staccare istantaneamente. “Si” rispondemmo in coro. Aprì la porta “Gli ospiti se ne stanno andando” disse, ordinandoci tra le righe di scendere per salutare. Lei se ne andò. Adam mi accarezzò il viso e mi rubò un ultimo bacio, prima di scendere al piano di sotto.

 Solo Trent rimase a fare compagnia a mio padre per parlare di lavoro, accompagnato da bicchierini di whisky invecchiato. Mio padre si alzò e andò in cucina. Io lo seguii. “E’ stato scorretto” dissi ferita. “Cosa?” chiese, facendo finta di non capire. “Quella pietosa messa in scena di prima. Cos’è, stai cercando di maritarmi con uno dei figli di qualche tuo collega?” Avrei voluto spaccargli la faccia. “Hayley, ho solo pensato..” “Bhè, non farlo. Sono capace di scegliere..” “Non mi sembra proprio, signorina. Ti sei fatta sbattere fuori dall’università per una tresca col tuo cazzo di professore” sibilò adirato a pochi centimetri dal mio viso. L’odore di whisky mi entrò nelle narici. Abbassai lo sguardo. “Uscirai con uno di quei ragazzi. O con tutti e due se ti aggrada di più. E ti divertirai, chiaro?” “No, non puoi decidere per me” “Sei a casa mia” “Non per mia scelta” “Hayley, finiscila. Questa discussione è chiusa” “Vaffanculo” dissi, trattenendo la rabbia. Sentii la guancia prendermi fuoco, nel momento in cui mi tirò una delle sberle più potenti che avessi mai preso in vita mia. Non gli diedi la soddisfazione di vedermi piangere. Uscimmo entrambi dalla cucina. Lui si fermò in salotto, mentre io uscii di casa, sbattendo la porta. Cominciai a camminare velocemente, ritrovandomi poi a correre. Maledetta la mia bocca che non stava mai zitta. Il cuore mi scoppiava nel petto. Le lacrime mi bagnavano il viso. La guancia mi faceva un male cane. Di certo non avevo imparato niente dalla mia esperienza. Se prima era il mio professore, ora era mio fratello. Mi diedi della stupida e rallentai la corsa. Avevo il fiato corto, e i singhiozzi convulsivi di certo non mi aiutavano a incanalare più aria. Tentai di calmarmi. Mi sedetti su una panchina e mi rannicchiai, cercando di sentirmi protetta. Avevo bisogno di un abbraccio. Di un abbraccio di mia madre. Di quelli caldi, profumati che mi facevano sentire al sicuro anche se tutto intorno a me stava andando a puttane. Piansi ancora più forte, cercando di scrollarmi di dosso tutto il dolore che provavo. “Hai le gambe corte, ma corri veloce” la voce di Jodi mi fece alzare la testa. Non era proprio il momento migliore per sdrammatizzare. E la mia espressione glielo fece capire. “Scusami, non sono molto brava a consolare le persone” “E allora che cavolo sei venuta a fare?” dissi, maligna. Lei sospirò. “Torna a casa. Ci sono pochi gradi e sei a maniche corte” “Non mi interessa. Se morissi assiderata, sarei meno di peso” “Oh, forza! Non fare la drammatica! Alzati su e torna a casa con me” Aveva la voce ferma, di quelle che non ammettono repliche. Mi alzai in piedi “Lasciami stare” le dissi, perforandola con lo sguardo. “Hayley, per l’amor del cielo! Non fare la cocciuta!” disse prendendomi per le spalle. “Voglio tornare a casa mia” le bisbigliai tra le lacrime, completamente stravolta. “Lo so” disse, abbracciandomi dolcemente. Jodi non profumava di mamma. O meglio, non profumava come mia madre. Probabilmente perché aveva passato metà pomeriggio in cucina a cucinare e l’altra metà a pulire casa. “Per ora accontentati di stare qui. Quando tua madre si sarà calmata, vedremo cosa fare” disse cullandomi tra le sue braccia. Tornammo a casa, camminando piano, in silenzio. Per tutto il tragitto aveva tenuto ben saldo il suo braccio intorno alle mie spalle, per farmi stare un po’ più a caldo. Ma non era servito a molto, dato che ero seriamente congelata. Non dissi una parola nemmeno quando entrai in casa, dove mio padre parlava ancora con Trent. Savannah si era addormentata sul divano. Adam probabilmente era in camera sua. Salii al piano di sopra e mi chiusi in camera a chiave. Sentii bussare un paio di volte. Non aprii. Era Adam, lo sapevo. Ma volevo stare sola. Rimasi sdraiata sul letto, a pancia in su, particolarmente interessata ad una minuscola crepa sul soffitto. Se fossi tornata davvero a New York? Sarei riuscita a chiudere il capitolo ‘Adam’? Sbuffai. Mia madre non me l’avrebbe perdonata facilmente e a New York probabilmente non sarei più tornata. Mi accarezzai la guancia che poco prima mio padre mi aveva colpito. “Ahia” sussurrai, massaggiandomi lo zigomo. Mi aveva presa bene. Spalancai la finestra e mi accesi una sigaretta. Quale modo migliore per calmarsi? L’aria fredda della sera mi congelò la faccia. Lasciai la sigaretta in bilico sul davanzale e presi una felpa dalla sedia di fianco al letto. Alzai il cappuccio, come se avesse potuto proteggermi dall’aria fredda. Fumai quella sigaretta lentamente, come se fosse stata l’ultima della mia vita. C’era un silenzio che metteva pace. Da piccola, come quasi tutti i bambini, odiavo il buio. Ma il buio di Londra iniziava a piacermi. Era un buio diverso da quello newyorkese. Non c’erano insegne luminose, i tombini non emanavano quell’inquietante fumo da film dell’orrore, non si sentiva l’odore di cibi fritti. C’era pace e silenzio. Spensi la sigaretta contro il muro esterno della casa e buttai il mozzicone in giardino. Chiusi la finestra e piombai nel buio della mia camera. Non vidi, però, il comodino che centrai in pieno con il mignolo del piede. Gridai come un animale ferito, prendendomi il piede e buttandomi sul letto. “Apri questa cazzo di porta!” sentii fuori dalla mia camera. Zoppicando nel buio riuscii ad arrivare alla porta e ad aprirla. “Che vuoi?” chiesi, ancora dolorante. “Che è successo?” mi chiese mio fratello. Doveva aver sentito il mio urlo spacca-timpani. “Ho sbattuto il mignolo contro il comodino” dissi imbarazzata. “Ah” disse solamente. Rimase immobile a fissarmi in silenzio. “C’è altro?” chiesi acida. “Mi fai entrare?” chiese lui scocciato. Lo feci passare e accesi la luce. Chiusi la porta e aspettai che iniziasse a parlare. Si sedette sul letto, mentre io lo guardavo a braccia conserte in piedi, vicino alla porta. “Cosa siamo?” chiese all’improvviso. “Due umani” risposi ironica, senza capire che intendesse. “Stupida, intendo: come dobbiamo definirci?” “Fratellastri” risposi, sapendo già che un’altra litigata era nell’aria. “Quindi se io mi frequentassi con altre ragazze, non ci sarebbero problemi?” “Ripeto: siamo fratelli. Puoi fare quel diavolo che vuoi” risposi astiosa. “Hai intenzione di uscire con quei due idioti di stasera?” “Non lo so” “Sono due idioti” “L’hai già detto” “Cristo, Lee! Mi sembri un pezzo di ghiaccio” “Ho preso freddo” “Smettila di fare l’idiota e di dare risposte alla cazzo!” “Puoi evitare di gridare?” “No perché mi fai incazzare!” Mi sovrastava di almeno trenta centimetri. Eppure quando eravamo piccoli eravamo alti uguali. “Senti, non ho proprio voglia di discutere per l’ennesima volta con te” dissi stanca, guardandolo negli occhi. Sbuffò irritato. “Perché mi sembra sempre di fare un passo in avanti e cinquanta indietro con te?” disse abbassando lo sguardo. “Perché è sbagliato” ripetei per l’ennesima volta. “Maledizione, finiscila di ripeterlo! L’ho capito! Perché almeno per un attimo non provi a mettere da parte questo cazzo di presupposto?!” gridava come un pazzo. “L’ho già fatto una volta. E mi sono ritrovata su un aereo per Londra con un biglietto di sola andata” dissi bisbigliando. “Non è la stessa cosa” disse, accarezzandomi il viso. Gli allontanai la mano bruscamente. “E’ esattamente la stessa cosa. E tu stai solo complicando l-“ Mi tappò la bocca con un bacio, all’improvviso, inaspettato. Mi prese in braccio e mi buttò sul letto, senza mai staccarsi dalle mie labbra. Ero un mucchio di carne, ossa e brividi. Se ne fossi stata capace, sarei andata in autocombustione spontanea. “Non farlo” dissi, staccandomi da lui. “Cosa?” chiese. “Non uscire con altre” dissi, rossa in volto. Lo vidi sorridere. Un sorriso così dolce che avrebbe sciolto chiunque. Me compresa. “Nemmeno tu” disse, prima di riprendere a baciarmi. Maledette le sue labbra. Maledetto il suo respiro. Maledetto il suo odore. Maledette le sue mani. Maledetti i suoi occhi azzurri che mi guardavano curiosi. Maledetta me, che non imparava mai dai miei errori.

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 5: fine! E’ stata ‘na faticaccia scrivere sto capitolo! :D Speriamo che sia uscita una cosa decente XD Allora, facciamo il punto della situazione: ormai è chiaro che questi 2 non si considerano più fratelli ._.’’ La piccola e dolce Savannah, prendendo inconsapevolmente esempio da sua sorella, è stracotta di un collega del padre (solo a pensarci mi vien da ridere… Ma che razza di famiglia sto descrivendo?? Muhauhauah XD). Il padre di Hayley le combina appuntamenti al buio, mascherandoli da semplici cene tra colleghi e famiglie, cosa che fa andare fuori di testa la ragazza. Jodi sembra l’unico personaggio normale, o almeno ‘mentalmente sano’. Ringrazio ancora una volta chi ha inserito la mia umile storia tra i preferiti o le seguite. Fatemi sapere che ne pensate di quest’ultimo capitolo (o della storia in generale)! :D

Un bacio,

Kiki :D

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Capitolo 6
*** 6. Crush ***


Capitolo 6: Crush

 

Aprii gli occhi. Tra baci e palpeggiamenti vari, io e Adam ci eravamo addormentati. Era bello stare accoccolata tra le sue braccia e sentire il suo respiro sul collo. Le sue braccia mi avvolgevano, come se avesse avuto paura che sarei scappata. Guardai la sveglia sul mio comodino. Le tre e quarantacinque di mattina. Adam si mosse, stringendomi ancora di più a lui. “Mi soffochi così” dissi ridendo e con la voce impastata. “Scusa” mugugnò lui, lasciando un po’ la presa su di me. “Dovresti andare in camera tua” gli dissi, accarezzandogli il viso. “No” protestò lui, come un bambino. Mi fece ridere. “Adam..” tentai di convincerlo, come una mamma fa con il proprio figlio capriccioso. “Ma ho sonno!” disse appoggiando la sua fronte sulla mia. Gli diedi un bacio a fior di labbra, senza pensarci. “Dopo questo, stai pur certa che non me ne vado” disse sorridendo. Allungò il braccio e accese l’abat jour. Si girò verso di me e prese a fissarmi. D’istinto mi sistemai i capelli, imbarazzata. “Sei bellissima” mi disse dolcemente, avvicinandosi al mio viso. “G-grazie” balbettai sorpresa. Non riuscivo ad abituarmi ai complimenti che mi faceva. Ero abituata a sentirmi insultare da lui. Mi prese il viso fra le mani e mi baciò. “Hai un alito spaventoso” gli dissi ridendo. Prese a ridere anche lui. “Vuoi davvero che me ne vada?” mi chiese, tornando per un momento serio. “No, ma prima che tutti si sveglino dovresti tornare in camera tua” dissi, chiudendo gli occhi. “Hai qualche idea per farmi stare sveglio fino a domani mattina?” mi chiese malizioso, con quel suo ghigno che tanto detestavo. “Depravato” risposi sorridendo. Mi scoprì la pancia e prese ad accarezzarla, muovendo la mano lentamente. Fui pervasa in mezzo secondo dai brividi. Poi iniziò a salire piano piano, continuando a guardarmi negli occhi. Lo baciai con foga, rapita dal magnetismo dei suoi occhi azzurri. Persi letteralmente le mani tra i suoi capelli. Iniziò ad accarezzarmi il seno, diventando sempre più possessivo. Si mise a cavalcioni sopra di me e mi sfilò la felpa e la maglietta con un unico gesto, lasciandomi in reggiseno davanti a lui. Mi guardò un attimo, studiando il mio corpo seminudo e riprese a baciarmi. Gli accarezzai la schiena. La sua pelle era così morbida da sembrare quella di un bambino. Calda. Iniziò a baciarmi il collo, passando per la clavicola, fermandosi sui miei seni e prese ad assaporarli, mentre io sentivo il piacere salirmi fino al cervello. Li baciava, li leccava, li mordeva con dolcezza. E io non ce la facevo più. L’ultimo uomo con cui avevo fatto l’amore era Jamie. Ma la sua esperienza non valeva niente in confronto a ciò che Adam stava riuscendo a farmi provare. Dal mio respiro affannato capì che poteva spingersi oltre. Non mi importava niente: né del fatto che stavo per fare sesso con il mio fratellastro, né di ricascare nei miei errori. Gli levai la maglietta e riuscii a capovolgere le nostre posizioni, ritrovandomi sopra di lui. Lo baciai, spostandomi poi sul suo collo. Gli leccai e gli morsicai il lobo dell’orecchio, sentendo chiaramente che il suo respiro accelerava. Amavo il suo respiro. Amavo l’espressione del suo viso, mentre si mordeva il labbro inferiore. Gli baciai il petto, scendendo sempre più giù, mentre il suo respiro si faceva sempre più affannoso. Gli sfiorai i fianchi e sentii i brividi sotto le mie mani. Slacciai il bottone dei suoi jeans e abbassai la lampo. Lo guardavo così intensamente che per un attimo temetti di consumarlo. Lui fece lo stesso con me. Mentre mi abbassava i jeans, mi strinse il sedere tra le sue mani. Una presa forte, possessiva. Non riuscii a non ridere. “Scusa” dissi sorridendo, imbarazzata per aver spezzato quell’atmosfera carica di passione. “E’ un sogno, vero?” mi chiese, avvicinandosi al mio viso. “ Avevi detto che non saresti mai stata mia” “Sono una pessima bugiarda” Lo baciai ancora, mentre lui mi stringeva a sé, in modo da far combaciare i nostri corpi perfettamente. Poi mi spinse via. Non dosò la forza e mi fece cadere dal letto. “Ma sei scemo?!” brontolai dolorante seduta sul pavimento. “Ho sentito un rumore” disse, mettendosi a sedere sul letto. Aveva interrotto quel momento paradisiaco per un rumore? “I mobili scricchiolano” dissi alzandomi da terra da sola, dato che lui non si era degnato minimamente di aiutarmi. “Non era uno scricchiolio.” Poi sgranò gli occhi. Io rimasi immobile. Erano passi dal piano di sopra. Prese la sua maglietta e scese dal letto come un fulmine. Lo bloccai per il braccio “Fammi andare in camera mia!” bisbigliò, con espressione terrorizzata. “E se chiunque fosse ti vedesse uscire dalla mia stanza?” “E se non mi trovassero?” “Come se fosse la prima volta!” dissi, ricordandogli che fino a poco tempo prima era solito tornare tardi. Sembrò tranquillizzarsi. Chiusi la porta a chiave. Devi finire quello che hai iniziato. Lo riportai sul letto. Ma lui sembrava pensasse ad altro. “Senti, lasciamo perdere per stasera” mi disse, senza nemmeno guardarmi in faccia. Alzai un sopracciglio. Stava per caso rifiutando una notte di sesso sfrenato con me? Una forza misteriosa mi fermò dal soffocarlo con il cuscino. Non dissi nulla. Mi sdraiai sul letto e gli diedi le spalle. “Te la sei presa?” “No” dissi rabbiosa. Capì al volo il mio stato d’animo. “Come faccio a rilassarmi se ho il terrore che qualcuno ci scopra?” “La porta è chiusa a chiave, brutto idiota” “Sì, ma non è lo stesso” “Adam, vaffanculo, ok?” “No, vaffanculo tu. Sei una ragazzina e ti comporti da pazza” “D’accordo” risposi, nascondendomi sotto le coperte. Sbuffò scocciato. Si sdraiò di fianco a me e tentò di abbracciarmi, ma lo allontanai bruscamente. “Prova a toccarmi e ti spacco la faccia” dissi, tremando per la rabbia. “Pazza violenta” sussurrò lui, dandomi le spalle. Chiusi gli occhi e tentai di convincere il mio corpo che i giochi erano finiti. Se fossi stata da sola, mi sarei messa a piangere. Ma averlo lì, a pochi centimetri di distanza non mi aiutava. “Vattene via” gli dissi. “No, voglio stare qui” ringhiò velenoso. Mi alzai dal letto e mi diressi verso la porta. La aprii e me ne andai io. Entrai in camera sua e chiusi la porta a chiave. Mi buttai sul letto e aspettai la mattina, per farmi augurare un’ennesima giornata di merda dal timido sole londinese. Il letto di Adam era molto più scomodo del mio. Sentii il suo profumo sul cuscino. Che diavolo stai combinando, stupida decerebrata? Sbuffai sonoramente smettendo di annusare la federa  in modo patetico e da psicopatica. Guardai la sveglia sul comodino. Erano già le sette e mezza. Sentii scendere Jodi, mio padre e Savannah al piano di sotto per fare colazione. Poco dopo uscirono di casa. “Apri questa cazzo di porta!” la voce rauca di Adam mi raggiunse come uno schiaffo, risvegliandomi da quello stato di semi-coscienza in cui mi trovavo. Mi alzai dal suo letto e aprii la porta, su cui lui stava battendo insistentemente il pugno con una violenza inaudita. “La smetti di fare casino?” gridai a mia volta. Lui mi prese per le spalle, stringendole in una morsa che mi impediva di muovermi. “Tu mi stai facendo impazzire! Mi vuoi dire qual è il tuo cazzo di problema?” mi sbraitò contro, avvicinando il suo viso al mio. “Tu sei il mio problema! Mi stai fondendo il cervello perché a quanto pare preferisci dormire piuttosto che fare sesso con me e io mi ritrovo ad annusare il tuo fottuto cuscino come una specie di maniaca depravata!” gli sputai in faccia la verità, rossa in viso per la rabbia del momento. Lo vidi trattenere le risate. “Evita di ridere, per favore. Sono abbastanza patetica senza che tu mi rida in faccia” dissi, umiliata e imbarazzata. “Ti immaginavo annusare il mio cuscino” disse beffardo, con il suo ghigno. Sbuffai sperando che mi lasciasse andare, così da potermi rifugiare in camera mia ad autoinfliggermi testate contro il muro per la vergogna. Ma lui non lasciò la presa. “Sei un essere strano” sentenziò infine, alzando un sopracciglio. “Grazie mille” dissi sarcastica. “Non è un’offesa” “Non me ne frega un cazzo se non è un’offesa. Per me lo è, soprattutto se detto da te” dissi, senza osare guardarlo negli occhi. “Ti do il permesso di picchiarmi, se può farti star meglio” disse ridendo. Ma io non ci trovavo nulla da ridere. “Siamo una tragedia” bisbigliai, dando voce ai miei pensieri. “E questo che significa?” “Che non faremo mai sesso!” dissi, risultando più disperata di quello che volevo sembrare. Questo lo fece ridere più forte. “Come sei drammatica!” disse, prendendomi in giro. “Vorrei che fosse tutto come al solito. Che continuassimo ad insultarci e a non calcolarci come abbiamo sempre fatto” dissi. Questo lo fece tornare serio. “Hai capito perché sei strana? Un momento mi dici in tono drammatico che non faremo mai sesso, come se fosse una delle tue priorità, e un attimo dopo te ne esci fuori che vorresti che tornassimo come prima. E io ti ho detto che voglio che tu sia più chiara e concr-“ Gli tappai la bocca con un bacio. Le sue mani lasciarono le mie spalle, percorrendo la schiena e raggiungendo il mio sedere. Mi prese in braccio e mi schiacciò contro il muro. La stretta delle mie gambe intorno alla sua vita si fece più forte, mentre con le mani gli sfilavo la maglietta lasciandolo a torso nudo. Gli accarezzai la pelle, perfetta e liscia. I suoi muscoli erano dannatamente perfetti. Adam era dannatamente perfetto. Peccato che era mio fratello. Smettila di pensarci, smettila di pensarci, smettila di pensarci. Non volevo rovinare quell’ennesimo momento di passione che ci aveva travolti. La sua bocca si spostò sul mio collo, facendo sì che il mio respiro accelerasse. Schiacciandomi sempre di più tra il suo corpo e il muro, riuscì a sfilarmi i pantaloni. Lo sentii accarezzarmi l’interno coscia, mentre mi mordicchiava malizioso il lobo. “Gesù” bisbigliai prima di sentire le sue dita dentro di me. Non riuscii a reprimere un gemito, che uscì dalle mie labbra come una sorta di liberazione da un lungo e doloroso supplizio. Mandai indietro la testa, sbattendo contro il muro. Mi mordevo il labbro inferiore mentre dalle mie labbra i gemiti aumentavano. Lui mi baciò e mi soffiò “Non ce la faccio più”. Il mio cervello elaborò in un decimo di secondo tre teorie: la prima era che non ce la faceva più ad aspettare; la seconda era che non ce la faceva più a muovere le dita dentro di me; la terza era che non ce la faceva più a tenermi in braccio. “In che senso?” chiesi tra i sospiri di piacere. Velocemente mi portò sul suo scomodo letto mettendosi a cavalcioni su di me. Prima teoria. O forse seconda. Magari era la terza. Dannazione! Decisi di buttarmi, allontanando tutti i pensieri dalla mia testa, svuotandola completamente. Gli abbassai i pantaloni e i boxer, in un unico gesto, guardandolo negli occhi. Ma davanti a me non c’era il mio odioso fratellastro che mi riempiva di insulti dalla mattina alla sera. C’era Adam, il ragazzo che mi piaceva. Il ragazzo che si riempiva di brividi quando gli sfioravo i fianchi con la mani. Il ragazzo che pensava prima al mio piacere che al suo. Il ragazzo che ‘non ce la faceva più’. La mia mano destra si spinse sempre più in basso, fino a raggiungere ciò che stava cercando. Iniziai con movimenti lenti, dolci, per poi aumentare di intensità e velocità, così come il suo respiro.  Portò le sue labbra vicino al mio orecchio e mi bisbigliò “Ti prego, fammi entrare”. Nessuno prima di quel momento mi aveva mai chiesto il permesso. Quella sua richiesta mi fece pensare a quando si citofona a casa di qualcuno con cui hai litigato e gli chiedi di farti entrare per chiarire. Sorrisi divertita e lo baciai, acconsentendo. Entrò piano, in modo da preparaci a ciò che avremmo provato di lì a poco in maniera molto più ampliata. Trattenni un urlo liberatorio, quando iniziò a muoversi sopra di me sempre più veloce, facendo aderire i nostri corpi perfettamente. Chiusi gli occhi, per godermi fino in fondo ciò che stava accadendo. Gli circondai la vita con le mie gambe, spingendolo più a fondo in me. I nostri respiri andavano all’unisono, proprio come i nostri cuori. Persi le mie labbra sulle sue, sentendo il suo respiro affannoso nella mia bocca. Intrecciò le sue mani nelle mie, portandole leggermente  al di sopra della mia testa. Lo sentivo spingere sempre più a fondo, sempre più forte. Mi mordeva le labbra, ingordo, come se non ne avesse mai abbastanza di me. Ma nemmeno io ne avevo abbastanza di lui. Volevo sempre di più e lo incoraggiavo ogni tanto con un “Vai” o “Più forte” prima di abbandonarmi al piacere completo nell’ averlo dentro di me, finalmente. Mi leccò le labbra, assaporandole. Sarei anche potuta morire in quel momento, non mi sarebbe importato: sarei morta felice e appagata. Sentii i brividi pervadermi il corpo e il mio respirò accelerò in maniera spropositata. Strinsi più forte che potevo le gambe intorno alla sua vita, prima di liberarmi. Insieme a lui. Il nostro ultimo gemito lo facemmo a due centimetri dalle nostre facce.  Mi baciò la punta del naso prima di accasciarsi stravolto al mio fianco. Ci eravamo riusciti, finalmente. Senza che niente o nessuno ci interrompesse. Senza che nessuno dei due avesse ripensamenti. “E’ stato..” iniziò con fiato corto. “Già” finii io, sapendo esattamente cosa intendesse. Bellissimo. Fantastico. Meraviglioso. La fine del mondo. Un viaggio di sola andata per la luna in un razzo di cioccolata. Mi scompigliò i capelli e si rivestì. “Strano, vero?” disse, allacciandosi i jeans. “Cosa?” chiesi senza capire. “Insomma, anche per te è stato strano?” disse, raccogliendo la sua maglietta dal pavimento. Iniziai ad odiare quel termine. Ero strana io ed era strano il sesso con me, dal suo punto di vista. Sentii le lacrime pungermi gli occhi. Mi rivestii in fretta, nel silenzio che si era creato tra di noi. Mi sentivo sporca e umiliata. Era stato fantastico per me. “Vieni a fare colazione?” mi chiese, aprendo la porta. “No, grazie” tentai di sorridere, ma fu più difficile di quello che pensassi. Non era quello che mi aspettavo. Pensavo che saremmo stati abbracciati sul suo letto a coccolarci, a baciarci a fare un secondo e un terzo round. Invece lui aveva preferito andare a fare colazione da solo. Sentii la rabbia salirmi fino al cervello. Scesi con foga le scale e lo aggredii verbalmente mentre si stava preparando una tazza di cereali. “Sei proprio uno stronzo di merda!” “Che ho fatto?” chiese fermando il cucchiaio stracolmo di cereali e latte a mezz’aria. “Mi chiedi pure che hai fatto?! Hai detto che è stato strano fare sesso con me! Sai quanto possa essere demoralizzante sentirsi dire una cosa del genere?” sbraitai come una pazza. “Prima mi riempi di dolci parole e poi mi molli come una scema per fare colazione!” ”Avevo fame” “Ma chi cazzo se ne frega! Non è questo il punto!” “E qual è? Che per me è stato strano fare sesso con la mia sorellastra? Penso sia più che normale!” “Mi aspettavo dei complimenti!” esplosi. “Lee, hai fatto sesso con me, non hai mica vinto le olimpiadi!” “Sai che c’è? E’ stata la scopata migliore della mia vita! Ecco, l’ho detto! Non è stato strano, è stato bellissimo. E se questo vuol dire che sono da rinchiudere, benissimo! Sono pazza!” Ero letteralmente fuori di testa. Sorrise, scosse la testa e riprese a mangiare. Con un gesto fulmineo presi la tazza e gli versai il latte e i cereali sulla testa. “Ma che cazzo fai?!” disse indietreggiando. Sì, ero completamente impazzita. “Sono qui davanti a te, mi sto umiliando e vergognando come una ladra e l’unica cosa a cui pensi è mangiare. Perché sei così stronzo?” dissi seria. Lui mi guardò come se mi stesse vedendo per la prima volta. “Che significa che è stato strano?” chiesi senza imbarazzo, determinata. Lui si morse un labbro “E’ stato come tornare vergine” disse, puntando i suoi occhi azzurri nei miei.  “Di solito non mi preoccupo di sbagliare, ma con te è stato diverso. Avevo una paura fottuta di fare qualche cazzata, qualcosa che non ti sarebbe piaciuto, qualcosa che ti avrebbe spinta a dire basta. E non volevo che tu lo dicessi. Per questo è stato strano” finì appoggiandosi al mobile della cucina. Questo non me lo sarei mai aspettato. “Ah” dissi solo, elaborando sconnessamente le informazioni appena ricevute. “E questo è un bene o un male?” chiesi. Lui sospirò “Non lo so” rispose, scompigliandosi i capelli castani. “Quindi non ho fatto completamente schifo?” chiesi, rossa in viso per l’imbarazzo. “Direi di no” disse, togliendosi dei cereali dai capelli. Sorrisi soddisfatta. “Ora posso mangiare?” mi chiese. Mi avvicinai a lui, lo baciai a fior di labbra e gli sorrisi. In quel preciso momento sentii cadermi qualcosa sulla testa e gocciolarmi addosso. Latte. Lo vidi ridere vincitore. “Quanto sei stupido!” sbraitai ridendo e strizzandomi i capelli nel lavandino. “Questa puoi anche togliertela” disse, sfilandomi la maglietta e lasciandomi in reggiseno davanti a lui. “Che intenzioni hai?” chiesi maliziosa, alzando un sopracciglio. “Tu che dici?” disse prendendomi in braccio. Mi sdraiò sul tavolo. Ma un movimento ci congelò sul posto. Chiavi nella porta. Mi lanciò sulla faccia la maglietta, che indossai alla velocità della luce. Scesi dal tavolo e quasi scivolai sulla pozza di latte sul pavimento. “Oh, siete già svegli? Ma che è successo qui?” Jodi, notò subito la pappetta schifosa di latte e cereali sotto i nostri piedi. “Niente!”  esclamammo in coro io e Adam. “Voi due non me la raccontate giusta!” disse “E pulite prima che arrivi la signora Travis, o le prenderà un colpo nel vedere questo schifo sul pavimento!” finì. “Come mai sei a casa?” le chiese suo figlio. “Ho dimenticato un paio di fascicoli. Che programmi avete per oggi?” “Pensavo di portarla in giro” disse, con una faccia un po’ disgustata. “Non uccidetevi, mi raccomando” esclamò ridendo prima di uscire dalla porta e tornare al lavoro. Finii di pulire il pavimento e mi apprestai ad andare al piano di sopra. “Dove credi di andare?” mi chiese Adam, prendendomi per un braccio. “A lavarmi. Sono ricoperta di latte” dissi, allontanandolo leggermente. “Bhè, potrei farti compagnia” disse, stringendomi a sé. “Quindi mi porti a spasso oggi..” dissi, mentre salivamo le scale. “Se vuoi” disse vago. “Ma non ti aspettare che ti tenga per mano” disse ridendo. Senza rendermene conto, mi sentii delusa nell’averlo sentito dire quella frase. Non ti terrà mai per mano. Entrammo nel bagno e mi butto di peso nella doccia, ancora vestita. Non riuscii a ribellarmi. Aprì l’acqua che mi bagnò dalla testa ai piedi. Continuava a ridere e si buttò sotto l’acqua anche lui. Prese a baciarmi con foga mentre mi toglieva di dosso i vestiti fradici. Pochi minuti dopo mi ritrovai schiacciata contro il muro ad ansimare di piacere, mentre entrava dentro di me. Lo sentivo gemere e sospirare. Le sue mani mi toccavano, mi accarezzavano, mentre le mie unghie gli graffiavano la schiena bagnata. Adam riusciva a farmi dimenticare di ciò che ci circondava. C’eravamo solo io e lui. Mi baciò per l’ennesima volta, mordendomi le labbra, prima di gemere per l’ultima volta. Rimanemmo fermi, immobili, in silenzio. Gli unici rumori presenti in bagno erano i nostri respiri e il getto dell’acqua che batteva sui nostri corpi. “Potrei abituarmi a tutto questo” disse, prima di baciarmi sul naso. Riuscii solo a sorridere.  Poi prese a fissarmi divertito. “Che c’è?” chiesi sorridendo. “Mi piace l’espressione che hai” “Che espressione ho?” chiesi senza capire. “La tipica espressione che uno ha dopo una buona e sana scopata” disse prima di uscire dalla doccia. Una buona e sana scopata. Era davvero questo Adam per me? Solo una scopata? E allora perché il cuore non aveva smesso un attimo di battermi forte nel petto? Chiusi gli occhi, abbandonandomi sotto il getto dell’acqua calda. Non ero mai stata brava nel gestire i miei sentimenti e la mia ultima relazione ne era la prova schiacciante. Ma da lì a pensare che potevo essermi presa una cotta per il mio fratellastro ce n’era di strada. Lui ti piace. Spalancai gli occhi. “Non è vero” bisbigliai, cercando di convincere la voce della mia coscienza. “Hai detto qualcosa?” mi chiese Adam, aprendo l’anta della doccia. Lo guardai ad occhi sgranati. “No, niente” dissi con voce isterica, risultando poco convincente. Mi guardò un attimo e sussurrò “Sei dannatamente sexy.” Sorrisi imbarazzata. Non mi ritenevo una ragazza sexy e sentirmelo dire per la prima volta in vita mia, mi fece arrossire. E a dirlo era stato proprio Adam. “Passami l’accappatoio, piuttosto” dissi ridendo. Lui sorrise e fece come ordinato. Chiusi all’improvviso il getto. Mi strinsi nell’accappatoio morbido.  Sbadigliai sonoramente, mentre mi asciugavo i capelli con un asciugamano. “Dove vuoi essere accompagnata oggi?” mi chiese, incrociando il suo sguardo con il mio attraverso lo specchio. “Non so. Ci facciamo un giro in macchina?” chiesi, pensando a quanto mi piacesse vederlo guidare. “Come vuoi” disse semplicemente, prima di uscire dal bagno.

“Mi dici perché ti metti gli occhiali da sole se di sole non ce ne è?” gli chiesi, una volta in macchina. “Perché mi fanno sembrare ancora più bello” disse modesto. “Più idiota, vorrai dire” ribattei ridendo. Erano le undici e mezza di mattina e in giro c’era una moltitudine di gente. E noi eravamo letteralmente imbottigliati nel traffico. “Al primo parcheggio che trovo, mi fermo e continuiamo a piedi” disse, isterico. Sbuffai. Era bello stare di fianco a lui, guardarlo guidare. Vedere come stringeva la mascella ogni qualvolta che doveva fermarsi. Mi piaceva osservarlo di nascosto. “Non capisco come fai a guidare da quel lato” esordii. “Penso sia questione di abitudine” rispose nervoso. “Ho solo detto una cosa” sottolineai acida. “Una cosa stupida” rispose acido. “Si può sapere perché rispondi a questo modo?” “Perché per colpa delle tue idee del cazzo, siamo in mezzo al traffico” “E’ verde” gli dissi indicandogli il semaforo. Partì veloce, sbuffando. Ma la nostra corsa si fermò a pochi metri dal semaforo che ci aveva dato il via libera. Noi non andavamo veloci, alla fine. Ma chi ci prese in pieno lo stava facendo.  Sbattei la testa su non so cosa. Sentii il vetro del finestrino infrangersi in mille pezzi. La cintura mi strinse in una presa soffocante. Chiusi gli occhi d’istinto. La faccia mi pulsava come se mi avessero presa a botte con una mazza ferrata. Quando riaprii gli occhi, le macchine erano ferme. Allungai il braccio verso Adam. “Stai bene?” bisbigliai tramortita. “S-sì e tu?” la sua voce era terrorizzata. “Non lo ho ancora capito” tentai di sdrammatizzare. Ma in realtà sentivo ogni singolo osso del mio corpo a pezzi. Come se fossi finita in un frullatore gigante. Girai il viso verso ciò che rimaneva del finestrino, dalla mia parte. Se fossimo stati in qualsiasi altra parte del mondo, quella macchina avrebbe preso Adam e non me. Voleva solo significare che il destino mi stava punendo per i miei sbagli. L’uomo nell’altra auto sembrava illeso. Allontanò la sua macchina dalla mia portiera. Adam uscì dalla macchina e cercò di aprire il mio sportello, letteralmente accartocciato. Riuscii a togliermi la cintura. “Ce la fai ad uscire dal finestrino?” mi chiese mio fratello. Fu allora che notai che non riuscivo a muovere le gambe. “Non ci riesco! Adam non riesco a muovere le gambe!”  gridai, in preda al terrore. “Come non riesci a muoverle?!” gridò spaventato. “Non ci riesco!” esclamai piangendo in una vera e propria crisi di panico. “Lee! Hayley! Ascoltami, cazzo!” disse prendendomi il viso tra le sue mani. “I soccorsi stanno arrivando, ok? Stai tranquilla. Io non mi muovo di qui” finì, cercando in qualche modo di tranquillizzarmi. Fu a quel punto che mi guardai le gambe. La destra stava bene, mentre la sinistra era girata in modo innaturale. “Oh, Gesù!” esclamai terrorizzata. Era il mio primo incidente. E potevo essere rimasta paralizzata, per quanto ne potevo sapere. L’ambulanza arrivò pochi minuti dopo, insieme ai pompieri, che mi dovevano estrarre da quel che rimaneva della nostra macchina. Adam aveva chiamato sua madre che ci aveva raggiunti immediatamente. Aveva avvisato mio padre, che preoccupato ci stava raggiungendo. I soccorritori mi fecero sdraiare sulla barella, subito dopo avermi messo il collarino. “Non mi sento più le gambe” li informai tra le lacrime. Uno di loro mi strinse un ginocchio. “Cazzo!!” gridai di dolore. “Nulla di cui preoccuparsi” mi tranquillizzò. Jodi salì sull’ambulanza insieme a me e ad Adam, mentre mio padre pensava a parlare con la polizia e i testimoni oculari. Jodi stringeva suo figlio, piangendo e con una mano stringeva la mia. “Mamma, non piangere” cercò di tranquillizzarla Adam. Chiusi gli occhi, cercando di immaginarmi che dicesse a me quelle parole di conforto. E finii per addormentarmi. “Hayley..” la voce di Jodi mi riportò alla realtà. Mi accarezzava il viso, teneramente. Aprii gli occhi con uno sforzo sovrumano. “Tesoro, hai una gamba rotta” mi avvisò, notando che guardavo il gesso sulla mia gamba sinistra senza capire. “E Adam?” chiesi con voce impastata. “Lui sta bene. Aveva qualche taglio, ma gli hanno messo dei punti” “Mi fa male la faccia” dissi dolorante. La feci ridere. “Ho già detto a tua sorella di far sparire gli specchi da casa per un po’” “Sono messa così male?” chiesi, tentando di sorridere. “Meglio di quello che credi” provò a convincermi.  “Possiamo andare a casa?” chiesi stravolta. “Sì, tuo padre sarà qui a minuti” disse asciugandosi delle lacrime ribelli. “Jodi, stai tranquilla. Sto bene” dissi dolcemente, notando quanto fosse in ansia. “Lo so, ma mi avete fatto prendere un colpo” disse distrutta. Le accarezzai la mano sorridendole. Mio padre arrivò poco dopo, con delle stampelle in mano. “Stai bene?” mi chiese, abbracciandomi. “Sì, papà. Sto bene. Non preoccuparti” dissi, ormai stanca di ripeterlo. Mi aiutò a scendere dal letto, su cui mi avevano fatta dormire. Mi passò le stampelle e rimase al mio fianco per aiutarmi nel caso in cui fossi scivolata. Quando ero più piccola mi ero rotta un braccio: stavo saltando sul letto di mia madre ed ero caduta per terra come un salame. A scuola mi avevano riempito il gesso di scritte e disegni. Ma rompersi una gamba era stato ancora peggio. Mi sentivo un’impedita. E le stampelle al posto di aiutarmi, mi impacciavano ancora di più. Quando salii in macchina mi si chiuse lo stomaco. Ad ogni frenata di mio padre avevo paura che qualcuno ci venisse addosso o che, peggio ancora, noi andassimo addosso a qualcuno. “Il signore dell’altra macchina sta bene?” chiesi all’improvviso. “Sì, lui non si è fatto niente” mi rispose mio padre, indifferente. “Qualcuno gli ha chiesto perché ci è venuto addosso?” chiesi arrabbiata. “Ha detto che si era distratto” tagliò corto mio padre. Parcheggiò davanti casa e mi aiutò a saltare sui gradini che mi separavano dalla porta d’ingresso. Quando entrai in casa, Savannah mi abbracciò con così tanta foga che quasi persi l’equilibrio. “Stai bene, vero? Dico, a parte la gamba” mi chiese preoccupata. “Si, a parte la gamba sto bene”. Mi accarezzò il viso, guardandomi come se sentisse il mio dolore. Adam era seduto sul divano e alzò appena la testa quando mi vide entrare in casa. Non mosse un muscolo. Fui io a raggiungerlo, buttandomi sul divano. “Hai bisogno di qualcosa, tesoro?” mi chiese Jodi, entrando in casa. “No, grazie” risposi gentilmente. Lei e mio padre mi affidarono a mio fratello e tornarono al lavoro, mentre Savannah tornò a scuola. Rimanemmo soli. In silenzio. Sul divano. Sbuffai scocciata e mi alzai. “Dove vai?” mi chiese Adam. “”In bagno” risposi. Lasciai lì le stampelle e saltellando raggiunsi il bagno del piano di sotto. Accesi la luce e non riuscii a fare a meno di guardarmi allo specchio. Rimasi shoccata. La mia faccia era gonfia, piena di tagli, livida. Sulle narici c’era del sangue asciutto. Il labbro che poco prima Adam mordeva, era aperto lasciando intravedere la carne. Trattenni un urlo di terrore. Ma le lacrime non riuscii proprio a trattenerle. Più mi guardavo e più nella mia testa rivedevo le immagini dell’incidente. La porta si spalancò e Adam corse dentro. Mi guardò. Mi nascosi il viso tra le mani, sperando che lui non avesse notato il mio aspetto mostruoso. Mi abbracciò stretta. “Mi dispiace” disse, baciandomi la testa. “Perché mi chiedi scusa?” dissi, nascondendo il viso sul suo petto. “Perché dovevo stare più attento” Lo allontanai senza capire. “Adam, non  è colpa tua. Chiaro?” dissi, sicura. Lui mi accarezzò il viso. “Sembri uscita da un film horror!” Risi. “Grazie, lo prenderò come un complimento!” Mi baciò piano sulle labbra, per evitare di farmi male. Ma non mi importava di sentire dolore o meno. Lo strinsi più forte a me, e lo baciai con più foga. Persi le mani tra i suoi capelli. Le labbra mi bruciavano, come se sulla carne scoperta mi avessero versato del sale. Ma non riuscii a smettere di baciarlo. Fu il sangue a fermarmi. “Merda..” bisbigliai prima di sciacquarmi la bocca sotto al getto d’acqua del lavandino. “Scusa” disse solo, avvicinandosi a me. “Adam, piantala di scusarti” dissi, scocciata. Mi tirò indietro i capelli, mentre io mi bagnavo la bocca. Le labbra mi bruciavano sempre di più, tanto da farmi piangere. Dopo i cinque minuti più interminabili della mia vita, riuscii a fermare il sangue. Mi sentivo così stanca. “Puoi portarmi in camera mia?” gli chiesi stravolta. Mi prese in braccio e mi portò nella mia stanza. Mi sdraiò sul letto. “Puoi stare qui con me?” gli chiesi, trattenendolo per un braccio. Lui si sdraiò di fianco me, accarezzandomi i capelli. Chiusi gli occhi e poco dopo mi addormentai tra le sue braccia. Per il mio cervello fu quasi impossibile non farvi rivivere l’incidente. Mi svegliai di botto, spaventata. Con la mano cercai Adam. Ma lui non c’era di fianco a me. “Adam” lo chiamai. “Adam!!” gridai, in preda a una crisi di panico. La gamba mi faceva un male assurdo, pulsandomi attraverso il gesso. Lo sentii correre sulle scale. Piangevo disperata. Entrò in camera “Lee, sono qui” disse raggiungendomi sul letto. “Non ti ho visto e mi sono spaventata” dissi tra le lacrime. “Non mi lasciare sola, Adam. Non mi lasciare mai” lo pregai stringendolo a me. “Non ti preoccupare. Io starò sempre con te” mi disse. Ma nemmeno lui poteva immaginarsi quanto si stava sbagliando.

 

 

 

E finì anche il capitolo 6! L’altra volta mi sono scordata di ringraziare jekikika96 per la recensione: effettivamente Adam ha l’aria da figone XD.

Per quanto riguarda questo capitolo ho fatto punire Hayley dal Karma. Poveraccia XD . Insomma hanno fatto sesso questi due! F I N A L M E N T E ! Ho avuto parecchi problemi nel descrivere, ehmm, l’”atto sessuale” perché non mi ritengo brava nel descrivere scene di sesso dato che ho sempre paura di finire nel volgare ._.’’ Io ci ho provato seriamente e se è uscita una schifezza: mi dispiace T.T

Vorrei ringraziare anche Athenril per la sua recensione strapositiva che mi ha fatto un sacco piacere e volevo scusarmi per averla distratta da Leopardi: io quando l’ho studiato mi perdevo a guardare le farfalle che volavano quindi posso capirti XD.

E infine vorrei ringraziare chi non recensisce ma aggiunge la mia storia tra i preferiti o le storie seguite. Mercì :D

Un bacio,

Kiki :D

 

 

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Capitolo 7
*** 7. La finestra sul cortile ***



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Capitolo 7: La finestra sul cortile

 

Che palle.

Erano passati solo dieci giorni dall’incidente e me ne mancavano ancora venticinque per togliermi di dosso quello stramaledetto gesso schifoso. Sbuffai per la millesima volta, dopo aver girato canale con il telecomando che ormai era diventato parte integrante della mia mano. “Adam!!” gridai annoiata. Lo vidi correre giù per le scale e con fiato corto mi chiese “Stai bene? E’ successo qualcosa?” Ma notò subito che non c’era niente di cui preoccuparsi. “Mi annoio!” sbottai sbuffando come una dodicenne. “Ma vaffanculo, Lee. Pensavo fossi rotolata per terra e stessi per morire” disse sbuffando con me. “Andiamo a farci un giro? A piedi, ovviamente” cercai di convincerlo. Di tutta risposta mi rise in faccia. “Ma se ti stanchi a saltellare qua per casa! E poi io non porto in giro una menomata: ho una reputazione da difendere” “Che palle! Ma io mi annoio a stare qua seduta tutto il giorno!” dissi imbronciata, incrociando le braccia come una bambina. “Prepara dei biscotti” Fui io stavolta a ridergli in faccia. “Già, pessima idea. Bhè, disegna! Ricordo di averti sentita dire che ami disegnare” disse con quel suo solito ghigno maledetto. Gli diedi una gomitata su un fianco. “Piantala di fare l’idiota!” “E tu piantala di lamentarti!” “Portami di sopra e facciamo del sesso selvaggio” dissi ormai senza più idee, buttandomi su di lui con fare teatrale. “Cosa mi tocca sentire!” “Sono disperata, cosa pretendi!” “Senti vado a prenderti un caffè da Starbucks, ok? Magari la pianti di rompere i coglioni” disse alzandosi dal divano e dirigendosi verso la porta d’ingresso. Allungai il braccio verso di lui e sempre con fare melodrammatico ululai “Non mi abbandonare qui da sola! Potrei morire di solitudine!” “Per cinque minuti che mancherò, penso che sopravvivrai!” “E’ così che è morto Mavis!” “Chi cazzo è Mavis?” “Il cane di Trisha, una mia compagna di corso. L’ha lasciato solo in casa e lui è morto di solitudine!” “Oh, Gesù..” lo vidi alzare gli occhi al cielo, prima che aprisse la porta e la richiudesse poco dopo alle sue spalle. “Adam! Non mi lasciare, ti prego! Potrei impazzire!” urlai con le lacrime agli occhi alla porta ormai chiusa. Sbuffai sonoramente, prima di dedicarmi ancora una volta ai programmi in tv. Dopo uno psicotico zapping alla ricerca di qualcosa di interessante, trovai un film che stava iniziando. Probabilmente non era nemmeno di questo secolo. “Alfred Hitchcock” sussurrai leggendo i titoli di testa. Appunto.  Sbuffai e tentai di cambiare canale per l’ennesima volta. Ma il telecomando non rispondeva. Batterie scariche, a quanto pare. Il destino era contro di me. Sarei morta dalla noia da sola, triste e con sottofondo la colonna sonora de “La finestra sul cortile”. Avevo bisogno di caffè e Adam ci stava mettendo troppo tempo per i miei gusti. Il film iniziò. Spalancai gli occhi nel momento in cui venne inquadrato il protagonista su una sedia a rotelle a causa di una gamba rotta. “Come me!” sussultai, sentendomi così chiamata in causa. Anche lui annoiato, iniziò ad osservare ciò che accadeva all’interno del suo cortile. Il film mi affascinò, mi coinvolse a tal punto che nemmeno mi accorsi che Adam era rientrato trionfante dalla sua passeggiata. “Non ti ho chiesto come lo volevi, perciò sono andato a fantasia” disse sedendosi di fianco a me. “Taci! Silenzio! Sto guardando un film!” dissi, muovendo la mano come se lui fosse un insetto fastidioso. “Prego, comunque!” sbottò irritato, scattando in piedi e tornando in camera sua. Che ci facesse poi in camera sua tutto il giorno da solo, rimaneva un mistero per me. “L’ha uccisa! L’ha uccisa!” gridai al protagonista come se potesse sentirmi. Lui coinvolse nelle indagini la sua fidanzata, che riconobbi subito: Grace Kelly più splendida che mai. E ad aiutarli c’era anche la vecchia infermiera di lui. Suspance, suspance, suspance. Alla fine il protagonista riuscì a smascherare l’assassino. E a rompersi anche l’altra gamba. Film interessante. Soprattutto perché mi aveva ispirata. “Adam!!” gridai raggiante. Lui scese di controvoglia, stavolta. “Che vuoi?” chiese strafottente. “Portami di sopra e procurami un binocolo!” “A cosa dovrebbe servirti un binocolo?” chiese stupito, senza capire le mie reali intenzioni. “Sorveglierò i vicini e smaschererò l’assassino!” Alzai un pugno trionfante, aspettandomi che lui si unisse a me. Ma la sua unica reazione fu alzare un sopracciglio e guardarmi come se venissi da un altro pianeta. “Oh, che cavolo! Portami di sopra e trovami un maledetto binocolo!” Brontolai, notando la sua totale indifferenza al mio nuovo hobby. Mi prese in braccio e sbuffando mi accompagnò al piano di sopra. “Se vuoi, puoi essere la mia Grace Kelly” dissi speranzosa, guardandolo negli occhi. Lui si fermò e prese a fissarmi. “Ma si può sapere che cazzo ti passa per quella testa?” mi chiese tra il divertito e il preoccupato. “Li spierò tutti per ammazzare la noia.” Dissi con voce psicotica. Mi portò in camera mia e mi sdraiò sul letto. “Non qui! Devi procurarmi una sedia, di quelle con le ruote sotto, in modo da farmi muovere liberamente per la stanza e poter guardare fuori dalla finestra!” “Lee, ma per chi cazzo mi hai preso? Per il tuo schiavo?” disse lui, stanco. Mi alzai dal letto e mi aggrappai alla sua maglia, con fare supplichevole. “Ti prego, Grace” “E piantala di chiamarmi Grace! Datti un contegno! Sembri una povera pazza!” mi sbottò contro, facendomi cadere sul letto. “Adam, dai. Sto giocando! Perché te la prendi?” dissi, tornando seria. “Perché fai l’idiota! E mi sarebbe piaciuto se al posto di guardare quello stupido film, avessi passato del tempo con me!” Era proprio incavolato. La vena sulla sua tempia pulsava come un martello pneumatico. Digrignava i denti come un cane rabbioso ed era rosso in viso. “E non potevi semplicemente dirmelo?” gli chiesi calma. “Pensavo fossi abbastanza intelligente da capirlo da sola! Ma a quanto pare sei solo un’ottusa!” “Un’ottusa?” gridai anch’io, sulla difensiva. “Non sei molto sveglia” “Sarà per la botta alla testa che ho preso quando abbiamo fatto l’incidente?!” sbraitai rialzandomi a fatica in piedi. “Quella botta deve averti fatto perdere parecchi neuroni, allora!” “Probabile! Ma te che ne puoi sapere? Non ti sei fatto nemmeno un graffio!” gli avevo sputato addosso tutta la mia invidia, senza pensare minimamente che avrei potuto ferirlo. Infatti: colpito e affondato. “Mi dispiace” mi scusai immediatamente, dopo aver elaborato ciò che avevo appena detto. Lui sorrise amaramente. “Pensi che non avrei preferito che tu non ti facessi nulla? Pensi che la notte io dorma sereno sentendo i tuoi lamenti a pochi metri da me? Davvero mi credi così stronzo?” Le sue parole mi ferirono quasi quanto le schegge di vetro che mi avevano sfigurato temporaneamente il viso a causa dello scoppio del finestrino durante l’incidente. “Davvero, mi dispiace. Non pensavo a quello che ho detto” dissi, prendendogli la mano. Ma lui me la allontanò bruscamente. “Senti, lascia perdere!” sbraitò, prima di girarsi e uscire quasi di corsa dalla mia stanza. “Adam!” lo chiamai. “Oh, vaffanculo questo gesso del cavolo!” sibilai, tentando di camminare. Con due gambe ero imbranata. Con una sola gamba ero una catastrofe. Volevo raggiungerlo in fretta. Ma sapevo anche che la gamba mi avrebbe fatto un male atroce. Rincorrilo, ma con calma. Provai con questa strategia. Ma c’era la foga del momento che combatteva con la coscienza di dover stare attenta. Infatti rotolai, per terra, prima di raggiungere la porta. “Cazzo!” sbottai tra le lacrime. Se Adam era uscito, non l’avrei mai raggiunto strisciando. “Perché sono circondata da un’ alone di sfiga?” borbottai piangendo seduta sul pavimento della mia stanza. La gamba rinchiusa nel bianco gesso pulsava così insistentemente che mi venne voglia di strapparmela via dal corpo. Gattonai alla meglio, tenendo sempre stesa dietro di me la gamba ‘clinicamente’ morta. La porta della stanza di Adam era socchiusa. Con un colpo di mano la spalancai, ma non lo trovai. Allagai la sua camera con le mie lacrime salate, che ormai avevano sede fissa sul mio viso. Trovai uno zaino, abbandonato vicino al suo comodino. Quando eravamo piccoli e nevicava, scendevamo dalle cunette di neve con gli slittini che ci aveva comprato mio padre. Non sarà poi così diverso. Mi preparai in cima alle scale. Misi lo zaino sotto al sedere. Ha ragione Adam, sei completamente impazzita. La porta del bagno si aprì nell’esatto momento in cui mi lanciai in quell’impresa suicida. Addio mondo crudele. Girai appena la testa per vedere  mio fratello a bocca e occhi spalancati, mentre con lo zaino scivolavo giù dagli scalini a velocità folle. Non feci nemmeno in tempo ad urlare che quel mio atto assolutamente insensato mi portò dritta di faccia ad assaporare il gusto legnoso del parquet. “Lee, ti sei fatta male?” Adam corse giù per le scale e mi alzò da terra. “Ti giuro, non volevo!” singhiozzai “Non ti volevo rispondere così” dissi asciugandomi la faccia dal mio infinito oceano di lacrime. “Ma si può sapere che cavolo ti è preso? Perché cazzo ti sei lanciata giù dalle scale con uno zaino sotto al culo?” chiese, non sapendo se ridere o arrabbiarsi per la mia sconsideratezza. “Pensavo fossi da basso e volevo raggiungerti!”  piagnucolai isterica. “Ma quanto sei deficiente” “Piantala di insultarmi! Io sto piangendo!” urlai, quasi strozzandomi con la mia saliva. “Hai ragione, scusa. Dai, non piangere più. Lo sai che non mi piace vederti piangere” disse asciugandomi il viso. Tirai su con il naso. “Pace fatta?” chiesi innocente, sbattendo i miei occhioni verdi. “Pace fatta” rispose prima di darmi un bacio a fior di labbra. Mi sembrò di ritornare piccoli. Prima di odiarci, ogni volta che bisticciavamo ero sempre io quella che faceva il primo passo. Gli chiedevo sempre “Pace fatta?” e lui rispondeva alla medesima maniera, per poi posarmi un bacio innocente sulla guancia. Sembrava che insieme a noi fossero cresciuti anche i baci che ci scambiavamo. “Che dici se ti porto in camera?” chiese, dopo un lungo minuto di silenzio. Sbuffai. Mi prese in braccio. Fece un paio di scalini, poi si fermò. “Anzi no, forse è meglio uscire” disse prima di imboccare verso la porta d’ingresso. Aprì la porta e ci trovammo davanti ai nostri genitori e a Savannah che ci guardavano senza capire che stesse succedendo. “Le fa male stare in casa” si giustificò mio fratello, passando tra di loro che si scambiarono solo sguardi divertiti. “Dove vuole andare, signorina?” mi chiese Adam pimpante. “Al parco!” esclamai felice. Lui si bloccò “Ti sei accorta che siamo a Londra e che ci saranno una decina di parchi?” mi domandò saccente. “Alla statua di Peter Pan!” mi corressi senza abbandonare l’entusiasmo. Essere scarrozzata per Londra da mio fratello mi piaceva come idea. Ma farlo tra le sue braccia era una cosa che riempiva di arcobaleni le mie ultime giornate nere.

Mi adagiò cauto sulla panchina davanti a noi, poco distante dalla statua di Peter Pan. “Sei contenta?” mi chiese sorridendo Adam. Annuii estasiata. Il vento sul viso era qualcosa di indescrivibile. Chiusi gli occhi, unendomi tutt’uno con la natura che mi circondava. La mia gamba malandata era sopra le ginocchia di Adam. “Vuoi che la sposto?” gli chiesi, pensando gli potesse dare fastidio. “No, tranquilla” rispose semplicemente. Era nervoso. Si capiva benissimo. “C’è qualcosa che non va?” gli chiesi curiosa. Si mordeva insistentemente il labbro inferiore. Mi guardò un attimo, poi spostò il suo sguardo sulle mie labbra. “Pensi che possa funzionare?” mi chiese “Dico, tra me e te” finì in un sussurro. Rimasi senza parole. Chi era quel ragazzo dolce davanti a me e che ne aveva fatto del mio cinico e gelido fratellastro? “Non lo so” risposi sincera. Sembrò deluso. “Quindi è un no” “Non è un no. E’ un non lo so. Un vorrei ma non posso” “Prova a non pensare al fatto che siamo fratellastri. Anche in quel caso sarebbe un non lo so?” “In quel caso penso che non ci sarebbero problemi” risposi di getto. Da quando ero diventata così schietta? Mi morsi il labbro inferiore, mentre un imbarazzato rossore compariva sulle mie guance. “Baciami” disse, puntando i suoi occhi nei miei. Mi avvicinai al suo viso lentamente. “Baciami come se non fossimo fratelli” continuò a due centimetri dalle mie labbra. Fu la prima volta in cui il pensiero che Adam fosse mio fratello non mi sfiorò minimamente: era la prima volta che Adam era solo Adam. Gli presi il viso tra le mani e lo tirai verso di me. Le nostre lingue danzavano in perfetta armonia. Nessuno dei due guidava l’altro. Facevamo tutto insieme, in perfetto sincrono. Poi all’improvviso si staccò da me. “Che cosa mi hai fatto?” mi chiese ad occhi chiusi, sorridendo. Gli sfiorai il naso con il mio. Infondo, se qualcuno che non ci conosceva ci avesse visti, avrebbe detto che eravamo una coppia. Non di certo che eravamo fratelli. Mi avvicinai ancora alle sue labbra. Gliele morsicai teneramente. Sentii le sue mani percorrermi i fianchi e il mio respiro iniziò ad accelerare. “Vuoi tornare a casa?” mi chiese, notando la mia non-indifferenza al suo tocco. “No” risposi. Gli presi un braccio e lo passai sulle mie spalle, poi mi accoccolai sul suo torace, mentre lui appoggiava il suo mento sulla mia testa. No, nessuno vedendoci a quel modo avrebbe detto che io e lui eravamo fratelli. Quindi, perché avrei dovuto pensarlo io? Con Adam stavo bene, mi piaceva. E non potevo farci niente. Mi sentivo come un’eroina tragica di un libro, divisa tra la famiglia e l’ amore. Peccato che la mia famiglia e il mio amore coincidevano. Strinsi Adam in un abbraccio soffocante che lo fece ridere. “Anche i tuoi abbracci sono violenti” disse ridendo. “E’ la mia personale dimostrazione d’affetto nei tuoi confronti” risposi, poco convincente. “Comunque devi spiegarmi a che diavolo stavi pensando quando ti sei improvvisata kamikaze sulle scale di casa” disse serio, guardandomi. “Volevo raggiungerti, te l’ho detto” risposi, intrecciandomi una ciocca di capelli tra le dita. “Sei in assoluto la ragazza più strana di cui io mi sia mai innamorato”. Se ne rese conto troppo tardi, di quello che aveva  detto. Lo vidi sbiancare di colpo. Con lo sguardo guardava altrove. Mugugnava versi senza nessun tipo di significato. Si era irrigidito e continuava a mordersi il labbro inferiore. E per una volta decisi di infierire, ritrovandomi stranamente il coltello dalla parte del manico. “E da quanto saresti innamorato di me?” chiesi, alzando un sopracciglio e con faccia indifferente. In realtà il cuore mi batteva all’impazzata. Se non avessi avuto una gamba rotta mi sarei messa a correre e a gridare dalla felicità. “E’ che, ehm, io non.. Insomma, volevo solo.. Ho.. Ma..” sbiascicava parole senza senso. Mi fece sorridere. “Non pensavo di essere così letale da farti rimanere senza parole!” dissi, imbarazzandolo ulteriormente. Adam era in difficoltà. E la cosa lo rendeva particolarmente tenero. Lui era innamorato di me. E tu? Lo baciai, provando a farlo rilassare. “Sei davvero innamorato di me?” gli chiesi, cercando delle conferme. Maledetta la mia insicurezza. “A quanto pare” rispose sussurrando. “E tu? Cioè, voglio dire..” Adam che arrossiva era un evento da immortalare. “Mi sono lanciata giù da una rampa di scale con uno zaino sotto il sedere solo per vedere se eri arrabbiato con me: mi sembra chiaro, a questo punto” dissi, rossa quanto lui. Sorrise soddisfatto. Poi iniziò a ridere. “Dovevi vedere la tua faccia mentre scivolavi giù!” Rise così forte che mi contagiò. “E tu dovevi vedere la tua!” “Non ti facevo così spericolata” mi prese in giro. “Ah, perché non sai di quando ho attraversato l’oceano in groppa a un delfino? Quante cose non sai di me, Adam!” dissi sarcastica. Prese a fissarmi. “Ripetilo” disse solamente. “Cosa?” chiesi senza capire a cosa si riferisse. “Il mio nome. Ripeti il mio nome” disse serio, puntando il suo sguardo sulle mie labbra. “ Sono innamorata di te, Adam Wilde” dissi, risultando più sdolcinata di quanto volessi apparire. Lo vidi sorridere. Quello era un nuovo sorriso: il sorriso innamorato di Adam. Ed ero io la causa di quel sorriso. Ero io ad averlo fatto innamorare. “Merda..” sussurrai, sentendo la gamba ingessata formicolarsi. “Che c’è?” chiese Adam, senza capire. “La gamba inizia a farmi male” dissi, togliendo la gamba dalle sue ginocchia. Si alzò in piedi. “Andiamo, ti porto a casa” dissi, avvicinando il suo viso al mio. L’ultimo bacio prima di ritornare alla realtà in cui io e lui eravamo solo fratelli. Sbuffai, mentre mi prendeva in braccio pronto a riportarmi a casa. “Perché hai così tanta voglia di tornare a casa?” chiesi acida. “Pensavo..” “No, tu non pensavi un bel niente. Se solo tu avessi pensato, staremmo ancora abbracciati su quella cazzo di panchina” sbottai, interrompendolo. “E ora si può sapere che ti prende?” “Un bel cazzo di niente!” gridai a pochi centimetri dalla sua faccia. “Più provo a capirti e meno ci riesco. Sei proprio strana” disse, sapendo che mi avrebbe fatta ancora di più arrabbiare. “Dimmi ancora che sono strana e ti strappo il naso a morsi” “Anche le tue minacce sono strane” disse ridendo. Rimasi in silenzio fino a casa. “Puoi almeno farmi un sorriso, prima di entrare?” mi chiese, trattandomi come una bambina imbronciata. “Puoi mettermi giù. Da qui in poi ce la faccio da sola” dissi, lugubre senza nemmeno guardarlo in faccia. “Smettila di fare così” mi rimproverò, iniziando a scaldarsi. “Non sto facendo proprio niente. Ora mettimi giù” “Basta, mi hai rotto i coglioni con questi atteggiamenti da pazza” sbraitò prima di abbandonarmi su uno scalino, in malo modo. Entrò in casa con passo feroce senza dire una parola a nessuno. Mi alzai dal gradino e saltellando come un canguro raggiunsi la porta. Avevo voglia di piangere, di urlare. La gamba mi faceva male. Dal nervoso avevo iniziato a mordermi il labbro, torturandolo malignamente sotto i denti. Entrai in casa con espressione maligna, e seguendo l’esempio di mio fratello non dissi niente a nessuno. “Ma si può sapere perché voi due prima sembrate inseparabili e un attimo dopo..” “Jodi, non è il caso” la interruppi in cagnesco. Lei sbuffò e alzò le mani in segno di resa. Anche lei rinunciava a capirci. Fare i gradini saltellando su un solo piede si dimostrò un’impresa ardua. Se avessi avuto una bandiera l’avrei piantata in cima alle scale, a dimostrazione del fatto che ero riuscita a raggiungere la vetta. Ringraziai Dio del fatto che la mia camera si trovasse al primo piano e non al secondo. In tal caso avrei dato forfet e mi sarei lasciata morire di stenti sulle scale. Saltellai in camera mia, chiudendo la porta alle mie spalle. Mi buttai sul letto, lasciando la gamba ingessata a penzoloni, segno che ero troppo stanca per alzare quel peso. La porta si spalancò all’improvviso. “Grandi notizie!” esclamò mia sorella entusiasta, buttandosi sul letto di fianco a me, senza badare alle condizioni pietose in cui mi trovavo. “Papà mi farà fare uno stage da lui e lavorerò con Trent! Ci pensi? Io e lui insieme tutti i giorni! Deve essere un sogno!” le brillavano gli occhi, come se fossero dei pezzi d’ambra colata. “Bene” dissi solo. Savannah era troppo eccitata e non fece nemmeno caso a ciò che avevo detto. “Se non avessi quello stupido gesso ti chiederei di accompagnarmi a fare shopping” cominciò. In quel preciso momento mi sentii fortunata ad essermi rotta una gamba: non mi sarei dovuta sorbire un’altra giornata di shopping estremo con mia sorella. Le sorrisi solamente, cercando di non dimostrare troppa felicità nell’aver scampato quel pericolo. “Posso farti una domanda?” mi chiese curiosa. Annuii indifferente. “Perché non sei più venuta a trovarci?” chiese schietta. Alzai lo sguardo e incontrai il suo. “Mi sentivo sempre fuori posto qui. Voi eravate tutto ciò che io non potevo avere. Ero gelosa del fatto che mio padre trattasse più voi come dei figli, che me. Parliamoci chiaro: a lui di me non è mai fregato un cazzo e l’ha dimostrato trasferendosi dall’altra parte dell’oceano. Non si è mai mosso da qui per venirmi a trovare, ma vi ha sempre portato in vacanza in qualsiasi posto. Alcuni anni non mi ha nemmeno chiamato per farmi gli auguri di compleanno. Allora ho deciso che se lui non muoveva un dito per stare con me, non lo avrei fatto nemmeno io.” Era la prima volta che confidavo quelle cose a qualcuno. Mi sentii libera di un peso che da anni mi affliggeva. “Mi dispiace” bisbigliò Savannah, senza guardarmi in faccia. “Ehi, non è colpa tua se mio padre è uno stronzo” le dissi sorridendo. “Sì, lo so. Ma non avevo mai pensato a quello a cui hai rinunciato tu” “Io non ho rinunciato a niente. A lui non piaccio e lui non piace a me. Stare senza di lui non è stato così tragico, d’accordo?” la rimbeccai, vedendo che una lacrima le era sfuggita dagli occhi. “D’accordo” disse calmandosi. “Hai già pensato a come vestirti il tuo primo giorno di stage?” cambiai discorso, distendendo l’aria pesante che si era creata nella mia stanza. “Pensavo a un vestito e una giacchetta” “Tacchi?” “Ovviamente.” Già, ovviamente. “Secondo te ce la farò?” mi chiese. La guardai non capendo a cosa si riferisse. “Con Trent. Dici che sono impazzita?” “Non sei impazzita. Se lui ti piace, buttati. Non pensare a quello che gli altri potrebbero dire di voi” mi bloccai all’istante. “Scusami un attimo” le dissi, prima di alzarmi dal letto. Saltellai fino alla camera di Adam. Aprii la porta, ma non lo trovai. Avevo bisogno di lui. Avevo bisogno delle sue labbra, delle sue mani sopra la mia pelle, dei suoi respiri e della sua voce. Tornai in camera mia. Savannah non si era mossa dal mio letto. “Hai visto tuo fratello?” le chiesi. “E’ uscito con Lauren” rispose sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Mi irrigidii all’istante. “C-con Lauren?” chiesi trattenendo la calma. “Sì, penso che sono andati al pub con i loro amici” continuò Savannah. “Scusami, ma vorrei dormire” dissi, forse troppo scorbutica. Mia sorella si alzò, mi baciò sulla fronte e uscì dalla mia stanza. Adam era con Lauren. E io ero nella mia camera, da sola, a piangere sul mio letto.

Erano le quattro di notte quando sentii i passi di Adam sulle scale. Non volevo vederlo. Era come se mi sentissi tradita. Ma lui entrò in camera mia e si buttò sul mio letto. Puzzava di birra da far schifo. Iniziò a baciarmi sul collo, sbavando come un cane. Lo allontanai bruscamente. “E ora che c’è?” si lamentò alzandosi dal letto. “Sei ubriaco” gli dissi disgustata. “L’hai notato?” mi chiese ridendo. Si avvicinò a me e provò a baciarmi. “Finiscila” gli dissi respingendolo. “Lee, te l’ho già detto: mi stai rompendo i coglioni con i tuoi atteggiamenti” “No, tu mi hai rotto i coglioni” lo spinsi un po’, allontanandolo da me ancora una volta. “Si può sapere che cazzo vuoi da me?!” sbraitò senza freni. “Niente, Adam. Vai a dormire. Ne riparliamo domani quando sarai meno ubriaco” dissi stanca. Mi strinse il braccio con forza “No, ne parliamo adesso, brutta stronza psicopatica! Io non ti capisco, non ci riesco proprio. Hai sempre qualcosa per cui essere incazzata e mi fai impazzire!” “Io non mi incazzerei se tu stessi con me al posto che con Lauren!” urlai in lacrime. Lui si bloccò. “Per favore, vattene a dormire” gli dissi, sperando che mi lasciasse in pace. Ma non lo fece. Mi prese il viso tra le sue mani e bisbigliando mi disse “Ti giuro che non ho fatto niente con lei” ma non riuscivo a crederci. “Lee..” “Te l’ho già detto: vai a dormire. Ne riparliamo domani” Ne avevo abbastanza e lui lo capii. Sbuffò, trattenendo la calma. Provò a baciarmi ma scostai il viso. Mi guardò un’ultima volta prima di uscire dalla mia stanza. Pregai tutta la notte affinché un meteorite grande quanto l’Asia si schiantasse contro la Terra, incenerendoci tutti e evitandomi di parlare con Adam il giorno dopo. Ma niente: le mie preghiere risultarono completamente vane. Fui svegliata da Savannah, o meglio dal profumo di Savannah. “Gesù, ma ti sei immersa in un barile di profumo?” mugugnai, ancora mezza addormentata. “Dici che ho esagerato?” mi chiese in preda all’ansia. “Sei riuscita a svegliarmi, quindi direi di sì” dissi, stropicciandomi il naso. “Porca vacca, lo sapevo che dovevo esagerare e che dovevo mandare tutto a puttane!” esclamò camminando da una parte all’altra della mia stanza. “Bhè, almeno sarai sicura che Trent cadrà ai tuoi piedi svenuto” ironizzai. “E ora che faccio?” “Hai tempo per farti una doccia?” “No, cazzo” “Vuoi stare ferma? Non è niente. Lavati la faccia e prega che il profumo sparisca” “Merda” sbottò prima di uscire dalla mia camera. “Sei bellissima!” le gridai, cercando di infonderle un po’ di coraggio. Tornò poco dopo. “Come sto?” “Te l’ho detto: sei bellissima! E il profumo è quasi del tutto sparito” mentii. “Prega per me” “Penserò a te tutto il giorno. Vedrai che sarà la giornata più indimenticabile della tua vita” “Speriamo” e detto questo se ne andò. Mi stiracchiai nervosamente sul letto. Sentii la porta d’ingresso chiudersi, chiaro segno che in casa rimanevamo io e quel povero deficiente di mio fratello. Ma per tutta la mattina non si fece vedere. Mi alzai dal letto, stanca di poltrire e scesi in cucina a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. “Mi dispiace” la voce di Adam mi raggiunse alle spalle. “Per che cosa?” gli chiesi, fingendo indifferenza. “Non lo so” “Chiedi scusa e non sai nemmeno il perché?” “Già. Con te bisogna fare così” “Così come?” “Chiedere scusa anche se non si è fatto niente” “Mi hai lasciata da sola e sei uscito con Lauren. Io questo non lo chiamo niente” stavo iniziando a perdere la pazienza, esattamente come lui. “Io sono uscito con i miei amici e Lauren era lì con noi” “D’accordo” dissi saltellando fuori dalla cucina. Ma poi tornai indietro. “Ieri ho parlato con Savannah riguardo a un ragazzo che le piace e mi sono trovata a consigliarle cose che in realtà stavo consigliando a me stessa. Le ho detto di buttarsi, di non pensare a cosa pensa la gente. Solo che non avevo messo in conto il fatto che tu sei un pezzo di idiota insensibile” “Lee, porca puttana! Ti sto dicendo che non ho fatto niente! Quante volte te lo dovrò ripetere?” era proprio incazzato. Non risposi. Lo guardavo e basta. Guardavi  i suoi capelli castani spettinati, i suoi occhi azzurri stanchi, il suo petto muoversi vistosamente a causa del suo respiro pesante dovuto all’incazzatura. “Perché dobbiamo sempre litigare? Me lo spieghi? Io voglio stare tranquillo ma tu trovi sempre il modo per rompermi i coglioni!” Rimase a guardarmi piangere. “E ora perché cazzo piangi?” sbottò perdendo le staffe. “Io non voglio litigare con te” mi lagnai asciugandomi la faccia dalle lacrime. “Ma tu mi fai sempre piangere” gridai fuori di me. “Basta ci rinuncio!” urlò lui, lasciandomi da sola in cucina e uscendo di casa. Mi abbandonai su una sedia in cucina e continuai a piangere disperata. L’aria londinese mi aveva trasformata in una frignona. Non ero mai stata così: anzi, di solito lasciavo correre. Strappai un pezzo di scottex e mi soffiai il naso. Perché doveva essere tutto così dannatamente complicato? Iniziavo a stancarmi dei continui e inutili litigi tra me e Adam. Ma solo a pensare che lui avesse passato la serata con Lauren, mi faceva impazzire. Iniziai ad immaginarli mentre si baciavano. E ciò mi provocò un conato di vomito, che riuscii a trattenere. Ecco a cosa Adam mi stava riducendo: a una ragazzina gelosa che non riusciva a smettere di piangere e fantasticare. Lui aveva detto che non era successo niente, ma non riuscivo a crederci. Intuito femminile o sindrome psicotica? Era solo la mia maledetta insicurezza di cui non riuscivo a liberarmi mai. Non volevo rovinare niente, non un’altra volta. Non volevo che a causa delle mie turbe psicologiche, Adam mi avrebbe lasciata in balìa di me stessa ad affrontare, ancora una volta, da sola le conseguenze per le mie azioni. Non ero pronta a rivivere ciò da cui mi ero appena ripresa. A lungo andare, vi farete del male entrambi. Sospirai sconsolata asciugandomi il viso dalle lacrime. Raggiunsi il divano e mi ci buttai sopra a peso morto. Chiusi gli occhi, cercando di calmarmi. La porta di casa si aprì. Spalancai gli occhi e mi sedetti, impaziente di vedere Adam. “Ciao, cara. Stai bene?” la signora Travis mi guardava preoccupata. Evidentemente dovevo avere proprio un aspetto mostruoso. “Sì, tranquilla” le dissi abbozzando un sorriso. “Hai bisogno di qualcosa? Hai già mangiato?” “No, grazie. Non ho fame” “E tuo fratello?” “E’ uscito” le risposi lugubre, sperando di non scoppiare ancora una volta in lacrime. La porta si aprì di nuovo. “Quando si parla del diavolo..” iniziò la domestica sorridendo ad Adam. “Ti porto do sopra” non era una domanda. Non avevo altra alternativa. Annuii senza nemmeno guardarlo in faccia. Mi prese in braccio e come se fosse un’azione automatica, abbandonai la testa sul suo torace. Sapevo che una volta arrivati nella sua stanza, sarebbe esplosa una guerra all’ultimo insulto. Ma non mi importava. Perché tra le sue braccia in quel momento c’ero io, e nessun’altra.

 

 

 

 

 

 

 

Siete tutti pronti a un’ennesima litigata? Io no. Sono una tipa pacifica e continuare a descrivere litigate sta diventando un’impresa XD

Innanzitutto consiglio a tutti di vedere (per chi non l’avesse ancora visto) “La finestra sul cortile”. Non mi sono soffermata molto sui dettagli perché mi sarei dilungata troppo, e sinceramente sono qui per scrivere una storia e non per recensire un film XD

Questo capitolo non mi ha molto entusiasmata e rileggendolo mi sono quasi vergognata a pubblicarlo XD Allora premetto che fra due capitoli ci sarà un balzo nel tempo (tipo tre mesi dopo da questi avvenimenti) e ci sarà una “bella” sorpresa. Continuate a leggere e a recensire. I vostri pareri sono ben graditi :D Un grazie particolare a Ryo13 e Athernil per aver recensito l’ultimo capitolo e un altro grazie và a chi giornalmente aggiunge la mia storia tra i preferiti e le seguite!

A proposito, magari non ci avete fatto caso ma ho cambiato nick XD Quindi da ora in avanti mi firmerò Cookie u.u (giusto a titolo informativo). Eh già, dimenticavo: BUONA ESTATE A TUTTI!

 

Baci,

Cookie :D

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** 8. Fiducia ***


Capitolo 8: Fiducia




Devi piangere ancora per molto?” Non riuscivo più a sopportare la sua voce. Stava iniziando a diventare difficile ascoltare le cattiverie che continuava a ripetere. “Se tu non facessi lo stronzo, io non piangerei” singhiozzai. “Ora è colpa mia se hai problemi psicologici?” “No, tu fai solo in modo di farmi diventare paranoica dato che esci quasi di nascosto con Lauren!” sbraitai, trattenendo un pugno che avrei volentieri scaraventato contro quel suo bel faccino. “Devo chiederti il permesso per uscire con i miei amici? Cazzo, Lee! Non riesci proprio a vivere serenamente e a non rompermi i coglioni?!” disse scompigliandosi i capelli, menefreghista. Non risposi. Non ce la facevo più a litigare. Mi buttai a terra, sconfitta. “Basta, hai vinto tu” dissi, in segno di resa. Lui mi guardava senza capire. Alzai la testa, per recuperare un po' di dignità. “Hai capito? Hai vinto!” Ma il mio sguardo sconfitto si posò sul mio gesso e sospirai senza speranze. “Tu hai davvero seri problemi” disse lui, scuotendo la testa, compassionevole. Uscì dalla mia stanza sbattendo fragorosamente la porta. Mi sdraiai a terra. Non avevo più forze. Presi a fissare una piccola crepa sul soffitto della mia camera. Chiusi gli occhi, sperando che tutto ciò fosse solo frutto della mia immaginazione. Perchè non riuscivo a fidarmi? Se lui diceva che non era successo nulla, dovevo credergli. Non era difficile. Sospirai, cercando di trovare la pace interiore. Quando riaprii gli occhi, trovai ancora la piccola crepa sopra di me. “Sei per caso un segno per farmi capire che sto distruggendo tutto?” chiesi, rivolta alla crepa. Adam aveva ragione: avevo seri problemi psicologici. Volevo scomparire per un po'. Ma la mia situazione di infermità mentale e fisica non mi avrebbe portato lontano. Decisi quindi di nascondermi sotto il letto. Strisciai sotto al mio letto e mi ricordai che da piccola era il posto dove preferivo nascondermi quando giocavo con Adam a nascondino. E lui riusciva sempre a trovarmi. Perchè ero così brava a farlo incazzare? Sospirai e uscii da sotto il letto. Era ora di smetterla di nascondersi. Scesi zampettando dalle scale e trovai un'impegnata signora Travis a pulire il salotto. “Signora Travis, posso chiederle una cosa?” dissi imbarazzata, attirando la sua attenzione. Lei smise immediatamente di spolverare il mobiletto di legno su cui c'erano le foto di famiglia. “Certo, cara, dimmi tutto” disse sorridendo. “Ecco, come lei ben sa sono letteralmente negata a cucinare e mi chiedevo se poteva aiutarmi a fare una torta” dissi rossa in volto, vergognandomi come se fossi stata colta in flagrante a rubare caramelle. Vidi il suo viso illuminarsi e mostrarmi un sorriso smagliante. Mollò le pulizie e mi accompagnò in cucina. “E' per qualcuno di speciale?” chiese curiosa, aprendo l'anta di un armadietto. “No, sì. Devo farmi perdonare per il mio essere una psicotica lunatica” dissi armeggiando goffamente con un mestolo. Lei rise e preparò il tavolo della cucina, imbastendolo di ingredienti, alcuni a me fino a quel momento sconosciuti. “Prima di tutto, vorresti preparare una torta o una crostata?” mi chiese, assumendo un'aria esperta. “Perchè, c'è differenza?” chiesi ignorante. Mi guardò senza capire se stessi scherzando o se stessi parlando sul serio. “Direi di fare una torta” decise, rendendosi conto di quanto fossi veramente poco esperta in materia culinaria. La preparazione si dimostrò più difficile di quanto potessi immaginare. C'era da misurare le dosi di ogni singolo ingrediente. Se non avessi chiesto aiuto alla signora Travis avrei fatto tutto a caso, combinando uno dei miei soliti danni. Lei si dimostrò un'insegnante paziente e tranquilla. Quella donna era la pacatezza fatta a persona. Se io avessi avuto un'allieva alle prime armi e impedita tanto quanto lo ero io in cucina, avrei iniziato a sbraitare come un'ossessa e avrei dato forfet. Dopo aver infornato quella che sarebbe diventata una piccola torta della pace, seguii la signora Travis in salotto. Mi buttai sul divano e presi ad osservarla pulire con cura. “E' sposata, signora Travis?” le chiesi ficcanaso. “Lo sono stata cinque volte” rispose lei ridendo. “Cinque?!” esclamai incredula. “Ho molto amore da dare, ma ne ricevo sempre troppo poco” disse continuando a pulire. “Ha mai amato così tanto qualcuno da rovinare inevitabilmente tutto?” le chiesi mordendomi un labbro. Smise di pulire e prese a fissarmi. “Hai bisogno di parlare, Hayley?” chiese, sapendo già la risposta. Annuii mentre lei si accomodava di fianco a me sul divano. “C'è questo ragazzo che mi piace, ma non la smettiamo di litigare. E la maggior parte delle volte è colpa della mia insicurezza. Insomma ho paura che prima o poi lui si stanchi di me” dissi a macchinetta senza prendere fiato, sperando che lei non capisse a chi io mi stessi riferendo. Lei mi accarezzò la gamba e mi sussurrò “Vedrai che ti perdonerà qualsiasi cosa con quella torta. Ma devi iniziare ad avere fiducia in te stessa” “E' come se tutto ciò che entra in contatto con me, si trasformi in un colossale fallimento” “Tutti abbiamo avuto le nostre delusioni, ma non è un buon motivo per buttarsi giù. Guarda me: sono sopravvissuta a cinque matrimoni falliti eppure io so di aver dato tutto quello che avevo, non ho nessun tipo di rimpianto. E chi ti ama davvero, ti accetta per come sei; ma anche tu devi saper accettarti”. Non avrei mai creduto che la signora Travis potesse essere così profonda. “Cinque matrimoni..” sussurrai ancora incredula facendola ridere. Accesi la tv, mentre la mia confidente si recava in bagno per pulirlo. Nell'aria già sentivo odore di torta. Odore d'amore. Sorrisi sognante, immaginando già la reazione di Adam nel ricevere in regalo una torta fatta con le mie mani. Probabilmente all'inizio l'avrebbe guardata disgustato, ma poi mi avrebbe baciata e travolto dalla passione avrebbe divorato in pochi bocconi il dolce sottolineando il fatto di quanto fosse delizioso. Sarebbe andata bene, ne ero certa. Tutto sarebbe tornato alla normalità. Adam mi avrebbe detto che mi amava e io avrei risposto alla medesima maniera. “Hayley! La torta è pronta!” l'entusiasta voce della signora Travis mi riportò alla realtà. Mi alzai felice dal divano e la raggiunsi in cucina. “E' normale che sia così bassa?” chiesi pensierosa, notando quanto la mia piccola torta della pace assomigliasse a un enorme dischetto da hockey. “Devi esserti scordata il lievito” disse lei poggiandomi una mano sulla spalla. Maledetto lievito. Scossi la testa scoraggiata. “Metti un po' di zucchero a velo sopra” mi disse la signora Travis passandomi una bustina. Notò quanto mi fossi buttata giù, quindi esclamò gaia “Sai, quando litigavo col mio terzo marito gli preparavo anch'io delle torte. Era un gran goloso, George. E per intenerirlo o per fargli capire che mi dispiaceva, passavo col dito sullo zucchero a velo e scrivevo una parola. Una sola parola che gli avrebbe fatto capire che nonostante noi fossimo così diversi c'era qualcosa che ci accomunava” Mi guardava in modo così dolce, che non riuscii a non sorridere. Imparare da chi ha più esperienza. E la signora Travis aveva sicuramente più esperienza di me per quanto riguardava l'amore. Per due ore continuai a pensare a cosa potesse accomunare me e Adam. E la prima parola che scrissi fu “Famiglia”. Ma prima che la governante potesse leggere ciò che avevo scritto spolverai altro zucchero a velo per coprire la verità. Scrissi “Amore” ma lo cancellai. Troppo banale. Mi scervellai per ore senza venirne a capo. Adam era scomparso. Non sapevo nemmeno se fosse in casa oppure se fosse uscito. Con Lauren, magari. Mi diedi della stupida e se non fosse stata per la prontezza della signora Travis, avrei scaraventato la torta nel bidone dell'immondizia in uno dei miei soliti raptus. “Si può sapere qual è il problema?” mi chiese la signora Travis preparando del the. Odiavo il the, ma iniziava a piacermi il modo in cui lei si prendeva cura di me. “Non riesco a trovare una parola, a parte..” mi bloccai. Famiglia. Non potevo dirlo. Cosa avrebbe pensato? Mi avrebbe presa per una specie di maniaca psicopatica. “..A parte amore” continuai, dicendo una mezza verità. “Amore è una parola bellissima” disse lei versando l'acqua calda in una tazza con del latte. “E' banale” risposi sbuffando. “Cosa rende la parola amore una cosa banale?” iniziavo a sentirmi psicanalizzata. “La usano tutti. Vorrei una parola che lui non si aspetterebbe da me. Vorrei sorprenderlo!” esclamai. “Avergli fatto una torta non sarà già una gran bella sorpresa?” mi chiese lei facendomi l'occhiolino. “Forse” bisbigliai, prima di concentrarmi sul the. Se la mia torta fosse stata una torta da copertina, di quelle belle, alte, soffici magari sarei riuscita a impressionare Adam. Ma quella torta era come me: bassa, anonima, confusa. Sbuffai, muovendo il vapore del the. “Vado a finire di pulire o rimarrò senza lavoro oltre che senza un marito” disse la signora Travis ridendo, prima di lasciarmi da sola a contemplare quella torta. Cosa voleva Adam? In che modo avrebbe apprezzato quella torta disgustosa e tremendamente semplice? Qualche frutto come decorazione? Forse delle scaglie di cioccolato. Abbandonai la testa sul tavolo. Dovevo guardare da un altro punto di vista. Ripensai alla litigata di quella mattina. L'indice si mosse da solo sullo zucchero a velo. Fiducia. Non era più una torta della pace. Era una torta che simboleggiava una promessa. Più fiducia. In lui e in me stessa. Sorrisi, finalmente felice di aver trovato soluzione a quell'enigma. Esultai raggiante nel momento stesso in cui la porta di casa sbattè violentemente. Adam era tornato. Mi alzai di scatto. Lui mi vide in cucina, ma fece finta di niente. Salì in camera sua e tornò al piano di sotto con una felpa e poi uscì di nuovo. Era proprio incazzato. Non mi ero nemmeno resa conto di aver trattenuto il respiro dal momento in cui Adam era entrato in casa. Mi afflosciai sulla sedia e piansi in silenzio. Come pensavo di poter sistemare le cose con una stupida torta? La signora Travis tornò da basso, trovandomi in uno stato pietoso circondata da un alone di negatività. “Hayley, io oggi ho finito. Ma se vuoi che rimanga con te non ci sono problemi” disse accarezzandomi la testa. Tornai alla realtà, allontanando i miei pensieri e le sorrisi. “Non si preoccupi, tanto tra poco torneranno tutti” mi diede un bacio sulla fronte e mi salutò. Probabilmente era alla ricerca del marito numero sei e stare con me le avrebbe solo fatto perdere delle opportunità. Mi immaginai la dolce signora Travis in balìa di qualche speed-dating in qualche locale all'ultima moda di Londra. Guardai la torta. “E cosa me ne faccio di te ora?” chiesi alla piccola forma tonda davanti a me. Presi il piatto e decisi che non avrei gettato la spugna. Adam era arrabbiato ed era normale che non mi avesse nemmeno rivolto la parola. Ma i miei sforzi per preparare quella torta della fiducia non sarebbero andati sprecati. Il peggio che poteva capitare era che Adam l'avrebbe fatta volare fuori dalla finestra. Ma almeno l'avrebbe vista. Avrebbe capito che a lui ci tenevo tanto da affrontare una cucina e il forno, i miei nemici da sempre. Col piatto in mano salii in camera di Adam e appoggiai la torta sul comodino. L'avrebbe trovata lì, mi avrebbe cercata, mi avrebbe baciata e avremmo fatto pace. Come sempre. Stavo scendendo le scale quando la porta si aprì nuovamente. Ma non era Adam, era Savannah e alle sue spalle c'era mio padre. Lei era raggiante, lui era come al solito impassibile. “Hayley!” esclamò mia sorella vedendomi. Corse verso di me e mi abbracciò sussurrandomi all'orecchio “Devo raccontarti un sacco di cose!” Poi mi superò, correndo in camera sua. Tornai in salotto e mi buttai sul divano. Non mi ero accorta che mio padre era seduto sulla sua poltrona e che mi osservava in uno strano modo. “Stai bene?” mi chiese, quasi imbarazzato. “Sì” risposi stanca. “Ti fa male la gamba?” In quel preciso momento capii che stava cercando di fare un discorso con me. “Non molto” risposi quasi monosillabica. Lo vedevo in difficoltà nel non trovare nulla di cui parlare con me. “Com'è andata oggi?” gli chiesi, cercando di non sprecare un'occasione. “Come al solito” “Cioè?” Non sapevo che lavoro facesse, figuriamoci come fosse una sua giornata tipo. “Pesante. Sono stanchissimo” “Non si direbbe” risposi ridendo. “In che senso?” chiese senza capire perchè ridessi. “Sembri così rilassato. Non avrei mai detto che fossi stanco” puntualizzai. “Sono un uomo d'affari. E' il mio lavoro far credere agli altri ciò che voglio io” disse sorridendo. “Mi ero scordata che avessi gli occhi verdi” dissi guardando i suoi occhi così simili ai miei. Lui mi guardò. Non era ferito da quella mia affermazione. Era come se provasse del rimorso. “Quando sei nata tutti dicevano che eri la copia di tua madre. Ed era vero. Ma ogni volta che mi guardavi con quei tuoi occhioni verdi capivo che in te c'era anche qualcosa di mio. Ti ricordi cosa ti dicevo?” chiese speranzoso che io capissi a cosa si riferisse. Ma io non capii. “Quando non ci sarà nessuno che ti comprenderà..” iniziò lui, ma io lo fermai, ricordandomi all'improvviso quella frase che mi ripeteva poco prima che divorziasse da mia madre “Cerca i miei occhi tra la folla e saprai che io ci sarò sempre.” Mi guardò sollevato dal fatto che non mi fossi dimenticata. “Li ho cercati molte volte, ma non li ho mai trovati” dissi tristemente, evitando di guardarlo. Colpito e affondato. Si alzò dalla poltrona sconfitto. “Papà!” lo fermai, sentendomi in colpa. “Vale anche qui in Inghilterra?” chiesi. “Se cercassi i tuoi occhi qui, li troverei?” continuai, sperando di non aver rovinato ancora le cose con lui. “Dovunque” rispose sorridendo. Uscì dal salotto e andò in camera sua a riposarsi. La porta di casa si aprì nuovamente, ma come prima non era Adam. Jodie mi salutò, visibilmente a pezzi. “Stai bene?” le chiesi sorridendo. “Mica tanto. Tuo padre e Savannah sono già tornati?” “Sì, papà è in camera a riposarsi” “Penso che lo raggiungerò” “Stasera potrei fare da mangiare” esordii. Lei si ghiacciò all'istante sul posto e prese a fissarmi. “Potremmo ordinare una pizza” cercò di convincermi. Avrei dovuto fare anche a Jodie una torta con scritto Fiducia. “Per favore! Giuro che se non ci riesco, pago io le pizze!” Era una cosa paradossale che qualcuno pregasse per cucinare al posto di ordinare una pizza. Ma volevo provarci. Volevo fare qualcosa per loro, sperando che il “qualcosa” non includesse l'avvelenamento. “Ti prego, la cucina è nuova. Stai attenta” disse prima di salire in camera sua. Sentii Jodie bisbigliare a mia sorella che stava scendendo le scale “Dai un occhio a tua sorella, mentre cucina. Non vorrei svegliarmi con i pompieri in casa.” Fui raggiunta da Savannah che mi accompagnò in cucina. “Posso darti una mano?” mi chiese innocente. Come se non sapessi che era stata mandata per controllarmi. “Certo” dissi, arrendendomi al fatto che non sapevo nemmeno da dove iniziare. “Allora, vuoi iniziare a parlare o devo torturarti fisicamente?” esordii riferendomi chiaramente a Trent. “E' stato fantastico! Era così gentile, mi spiegava tutto in modo così chiaro. E abbiamo mangiato insieme! Mi ha portato in un ristorante vicino al lavoro. Solo io e lui, capisci?” Era così bella e felice. “E di cosa avete parlato al ristorante?” le chiesi curiosa. “Di tutto! Del mio futuro, della sua vita al di fuori lavoro, del suo cibo preferito. Lui è perfetto, Hayley. Sono innamorata di Trent!” mi abbracciò con foga e non riuscii a non ridere. “Calmati, marmocchia!” Ma lei non mi ascoltò e prese a raccontarmi ogni singolo momento al lavoro con Trent. Il profumo di Trent, la scrivania di Trent, l'ufficio di Trent, le battute di Trent. Trent e ancora Trent. Ma non potevo fermala. Non ci riuscivo. La mia sorellina era letteralmente cotta di Trent. Cotta tanto quanto le uova che stavo preparando, salvate miracolosamente dall'essere carbonizzate.


Adam non si presentò a cena. Per essere la prima volta che cucinavo seriamente, non era andata male. Non era morto nessuno, ma erano tutti troppo stanchi per lamentarsi. Savannah sparecchiò la tavola e io aspettai che tutti andassero a dormire per sgaiattolare in camera di Adam ad aspettarlo per dargli la mia torta. Ma alle tre di notte non era ancora tornato e io non riuscii a restare sveglia. Crollai sul suo letto, con la gamba ingessata a penzoloni e le lacrime agli occhi. Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in camera di Adam, ma di lui non c'era traccia. Mi alzai e andai a controllare in camera mia, ma non era nemmeno lì. Presi la torta dal suo comodino e scesi le scale per andare in cucina. Erano le cinque. Misi la torta in frigo e andai in salotto. Mi buttai sul divano e tornai a dormire. “Hayley..” Qualcuno mi stava scuotendo. Aprii pesantemente gli occhi. Vidi solo del verde. “Papà” biascicai. Lui mi prese in braccio e mi portò in camera mia. Mi diede un bacio sulla fronte e mi coprì con la coperta. Poi uscì dalla mia stanza chiudendo la porta. Sentii Jodie urlare qualcosa, ma ero troppo stanca per capire cosa stesse dicendo. E scivolai ancora una volta tra le braccia di Morfeo. Sentii la porta della mia stanza aprirsi e chiudersi subito dopo. Aprii gli occhi e mi rigirai nel letto. Guardai la sveglia sul mio comodino. Mezzogiorno. Sbadigliai sonoramente e mi stiracchiai per bene prima di scendere dal letto. La porta della stanza di Adam era chiusa. Era il giorno libero della signora Travis, quindi mi decisi a portare quella maledetta torta ad Adam. Nello scendere le scale avevo rischiato un paio di volte di scivolare e rompermi qualcos'altro. Ma la mia determinazione era troppo grande per essere spazzata via dal fatto che avevo una gamba in meno e un peso in più da trascinarmi. Presi la torta dal frigo, astutamente nascosta dietro l'insalata per non attirare l'attenzione di qualche altro membro della famiglia, e ritornai a salire le scale. Aprii piano la porta. Adam stava dormendo, dando le spalle alla porta. Feci più piano possibile nell'appoggiare la mia torta formato mignon sul suo comodino. Avrei voluto avvicinarmi e accarezzargli la schiena, ma avevo paura di una sua reazione diversa dal solito. Nel girarmi per uscire dalla camera di Adam picchiai violentemente contro lo spigolo del comodino tutte e cinque le dita del piede ingessato. Sentii una fitta partirmi dal piede e arrivarmi dritta al cervello. Trattenni un urlo di puro dolore per evitare che Adam si potesse svegliare. Ma nonostante mi fossi morsa la lingua per evitare di sprigionare un urlo spacca timpani, Adam si svegliò. “Ma che cazzo..? Lee che stai facendo?” brontolò girandosi per guardarmi. “N-niente” balbettai dolorante. Si sedette sul letto e si scompigliò i capelli. Stavo lì a guardarlo, col piede che pulsava, senza accennare a dire nulla. “Cos'è?” chiese indicando qualcosa vicino a me. Abbassai lo sguardo e la vidi. La mia torta spappolata per terra. Sgranai gli occhi, incredula. Urtando il comodino con il piede dovevo averla fatta cadere. Adam non avrebbe mai mangiato la mia torta della fiducia. Non avrebbe mai assaporato il frutto dei miei sforzi per farmi perdonare. “Cazzo” riuscii solo a dire. Lui mi guardava senza capire. “Scusa se ti ho svegliato. Torna pure a dormire” dissi prima di raccogliere quelle briciole informi. Lui si sdraiò, dandomi le spalle. “Era la torta della fiducia” dissi raccogliendo le ultime briciole. Adam si girò “Mi piacciono le torte” disse semplicemente. “Non quelle di Hayley Doherty” sbuffai maledicendomi mentalmente. “Hai fatto una torta?” chiese incredulo. “Perchè usi quel tono? Non ho mica fatto un miracolo!” borbottai sulla difensiva. Lui si alzò dal letto e mi venne incontro. Prese un po' di torta dal piattino, ci soffiò sopra e la mangiò. Lo vidi inghiottire a fatica. “Lee è disgustosa” disse cercando di non ridere. Lo sapevo che era immangiabile. “Scusa” dissi solo, sentendomi umiliata. Abbassai la testa, convinta di aver solo peggiorato la situazione e uscii dalla sua camera con i resti di quella schifezza tra le mani. Cosa mi era passato per la mente? Hayley Doherty non sapeva cucinare. Hayley Doherty non sapeva fare niente. Non ero stata nemmeno in grado di fare qualcosa di carino per il mio... ragazzo? Adam era il mio ragazzo? Sentivo la sua presenza alle mie spalle, quindi mi bloccai di colpo. E come al solito non riuscii a tenere la bocca chiusa. “Cosa sei tu per me? Cosa siamo noi?” chiesi incrociando il suo sguardo stanco. “Cosa?” chiese senza capire. “Non ti so dare una posizione tra i miei pensieri. Cosa sei? Il mio ragazzo, mio fratello o cos'altro?” Dalla sua espressione capii che non si aspettava nulla di tutto ciò. “Non lo so” rispose semplicemente. “Sono solo tuo” “Mio cosa?!” sbraitai perdendo la pazienza. “Assaggiatore di torte” disse ridendo. Ma io non avevo nessuna voglia di ridere. “Smettila di fare l'idiota!” dissi entrando in cucina saltellando. Lui mi prese il piatto con i resti della mia torta e l'appoggiò sul tavolo. “Io sono tuo, mettitelo in testa. Che io sia il tuo ragazzo, tuo fratello o lo stronzo che ti fa piangere non ha importanza. Sono tuo punto e basta.” Per quanto quel discorso non avesse totalmente senso, era dolce che lui si definisse mio. Perchè ciò significava che io ero sua. Gli sorrisi e spostai il discorso sulla torta “Era così schifosa?” “Avrei preferito ingurgitare del veleno” disse allontanando il piatto da lui. Risi divertita, spingendolo dolcemente. “Era la torta della fiducia” ripetei. “Cioè?” “C'era scritto fiducia. E' uno strano modo per dire che mi fido di te” “E' originale, non strano” disse prima di baciarmi. “Posso chiederti una cosa?” gli chiesi gettando nella spazzatura i resti della mia torta della fiducia. Lui aprì il frigo e tirò fuori del latte. Non rispose, quindi decisi di buttarmi. “Dove sei stato?” Non sapevo se la mia fosse solo curiosità. “Fuori” rispose semplicemente lui, versandosi il latte in una tazza. “Oggi ti va di stare con me?” chiesi dolcemente. Ma dalla sua espressione capii che aveva altri piani. “Oggi? In realtà mi ero messo d'accordo con Lauren e altri amici per andare a Camden” disse noncurante di come mi potessi sentire. Forse mi stava mettendo alla prova per capire se io avessi davvero imparato dai miei errori. Sorrisi, reprimendo tutta la negatività, e dissi “Ah, d'accordo. Bhè, divertiti!” Mi sedetti di fianco a lui e lo guardai mangiare. “Vorrei che venissi anche tu, ma..” “Già, la mia gamba” finii al suo posto. “Infatti. Però appena ti toglierai il gesso ti prometto che ti ci porto” disse alzandosi dalla sedia e uscendo dalla cucina velocemente per tornare in camera sua. Rimasi da sola a farmi mangiare dalla gelosia. Adam l'aveva fatto apposta a nominare Lauren. Scese poco dopo. “Ci vediamo” disse. Mi diede un lieve bacio sulla fronte e uscì. Mi buttai sul divano depressa come non mai. Come al solito avrei passato la mia giornata in casa, da sola con me stessa, ad auto commiserarmi. Sbuffai sonoramente prima di alzarmi. Se Adam era uscito, potevo farlo anche io. Aprii la porta dello sgabuzzino e ritrovai le mie odiate stampelle. Tornai al piano di sopra e tirai fuori dall'armadio un paio di pantaloncini di jeans. Sarei morta di freddo, ma nella mia situazione erano gli unici jeans che potevo indossare. Mi infilai una felpa e tirai su il cappuccio. Scesi al piano di sotto e mi infilai una scarpa. Mi sentivo ridicola, ma restare a casa da sola era l'ultima cosa che mi serviva. Chiusi la porta a chiave e scesi gli scalini che mi separavano dal marciapiede. Il cielo grigio di Londra iniziava a piacermi perchè era in totale sintonia con il mio umore. Mi fermai alla prima fermata dei bus. Avrei preso il primo autobus che fosse passato di lì e sarei andata alla scoperta di Londra. Se Adam non mi portava in giro, l'avrei fatto da sola. Non c'era molta gente che aspettava l'arrivo dei bus e un signore, notando la mia condizione di ingessata, si alzò dalla panchina per farmi sedere. Di fianco a me c'era una ragazza che ascoltava musica dal suo mp3. La musica non era molto alta e con il chiasso che ci circondava non riuscii a capire cosa stesse ascoltando. Pochi minuti dopo un bus si fermò alla fermata. Non sapevo dove mi avrebbe portata, ma mi alzai. Salire su un bus con una gamba rotta risultò più complicato di ciò che mi aspettassi. Fui aiutata da un ragazzo poco più grande di me, che mi prese letteralmente di peso per adagiarmi con cautela. “Grazie mille” dissi imbarazzata. “Di nulla” rispose sorridendomi prima di salire al piano superiore. L'autista fu magnanimo e aspettò che io mi sedessi prima di ripartire per la sua corsa. Appoggiai la testa sul finestrino e mi persi tra le vie di quella città che era ormai diventata casa mia. Non era da me salire su un autobus e andare alla avan scoperta senza una meta prestabilita. Ma avevo il bisogno fisico e mentale di uscire di casa, anche se ciò significava non sapere dove andare. Scesi a una fermata a caso, dopo venti minuti. Non sapevo dove fossi, non sapevo cosa avrei trovato. Ma iniziava a divertirmi quella mia sconsideratezza. Mandai un messaggio a Savannah per far sapere a qualcuno della mia famiglia che ero uscita. Non specificai dove mi trovavo, anche perchè non lo sapevo. Adam si sarebbe arrabbiato, lo sapevo. Ma lui aveva preferito Lauren a me. Per la seconda volta. E io mi ero stancata. Vidi Starbuck's in lontananza e per un attimo fu come tornare a New York. Entrai nel locale e ordinai il mio solito caffè macchiato con panna e un biscotto al burro con gocce di cioccolato. Mi sedetti a un tavolo, appoggiando le stampelle a un muro. La porta d'entrata si aprì ed entrarono tre ragazze. Ridevano a crepapelle. Amiche. Avrei voluto avere anche io delle amiche con cui ridere e magari parlare di Adam, ma le mie vecchie amicizie si erano tirate indietro appena avevano scoperto che me la facevo con un professore. Finii il mio caffè e uscii da Starbuck's più depressa di prima. Non era stata una grande idea andare in giro per Londra da sola e con una gamba fuori uso. Sentii della musica provenire da un locale e ne fui quasi attratta. Mi avvicinai a un omone di colore, proprio davanti all'entrata. “Mi scusi, chi sta suonando?” chiesi dal mio metro e 55 scarso. Lui guardò in basso, probabilmente scambiandomi per una marmocchia “Bisogna avere 21 anni per entrare” Appunto. “Ne ho 22, in realtà” dissi tirando fuori il documento. Lui controllò più volte per essere certo che non fosse un falso. Ero abituata ai controlli quasi maniacali della security all'ingresso dei locali. “Nessuno di famoso. C'è musica live di gruppi sconosciuti” disse arrendendosi al fatto che stavo dicendo la verità sulla mia età. Pagai l'ingresso e mi sedetti a un tavolo. Monkey Blues. Che strano nome per un gruppo di sole ragazze. La cantante sembrava una bambola di porcellana. Bionda, occhi grandi e castani, fisico asciutto e con un vestito che lasciava ben poco all'immaginazione. Le altre componenti del gruppo erano ragazze anonime con nessun tipo di stile particolare. Lei, la bambola di porcellana, aveva una voce molto profonda e per un momento pensai si trattasse di un travestito. La canzone non era nulla di particolare. Parlava di un ragazzo che aveva lasciato la ragazza per partire per la guerra e di come la ragazza lo pensava tutti i giorni. La bambola finì con un acuto in falsetto orribile. Ma il pubblicò applaudì comunque. Anche perchè lei era rimasta in reggiseno durante la performance. Sul palco salì un ragazzo con un microfono in mano che fece scendere le Monkey Blues. “Benissimo, l'atmosfera si è scaldata abbastanza per dare il benvenuto a una delle band più promettente degli ultimi anni nel panorama della musica d'oltreoceano. I PumpinkPunkerz!” Sentii un tuffo al cuore, mentre i miei idoli salivano sullo striminzito palco del locale. Fatalità. Destino. Fortuna. Quante probabilità c'erano che i Pumpink fossero nello stesso locale londinese dove mi trovavo io? Mi mancava il respiro. Presi il cellulare e iniziai a fare un video, per immortalare la mia fortuna sfacciata. Geneve's Dream. Amavo quella canzone e non riuscii a non cantarla a squarciagola insieme a Keith, il cantante dei Pumpink. Ovviamente ero la sola a conoscere quel pezzo tra tutto il pubblico, che però sembrava gradire. Shoot 'em. Mi sembrava quasi di vivere un sogno. Quando ero a New York ero diventata amica di Kendra, anche lei amante dei Pumpink, e andavamo a quasi tutti i loro concerti che si tenevano per la maggior parte in locali malfamati. Ma loro riuscivano comunque a riempirli. Non mi ero mai trovata così vicino a loro in uno di quei locali, come in quello dove mi trovavo a milioni di chilometri da New York. Chiusero con Hell in my head prima di scendere dal palco. Ma non potevo farmi sfuggire una simile opportunità. Mi alzai abbandonando le mie stampelle al tavolo e saltellai verso di loro, che stavano per andarsene. “Scusate!” gridai con tutta la voce che avevo in corpo, cercando di attirare la loro attenzione. Ian, il chitarrista, si voltò verso di me che saltellavo come un coniglio verso di loro con il fuoco negli occhi. Lui richiamò l'attenzione degli altri membri. Li raggiunsi col fiatone. “Io sono di New York e voi siete i miei idoli” dissi senza troppi convenevoli. Garrett, il batterista, rise compiaciuto. “Posso farmi una foto con voi?” chiesi, già armata di telefonino. “Certo” disse sorridendo Keith mettendosi in posa con gli altri. Fermai una ragazza e le chiesi di farci una foto, mentre mi mettevo in mezzo a loro. Lei, dopo lo scatto mi restituì il telefono, ma a me non bastava. “Potreste anche autografarmi il gesso?” dissi rossa in volto. Li feci ridere, ma acconsentirono. Avrei tenuto quel gesso per tutta la vita, non mi importava. “Grazie mille, davvero” dissi mentre a turno mi firmavano il gesso. “Sono Hayley, comunque” dissi stringendo le loro mani, in completa devozione. Keith mi scompigliò i capelli prima di andarsene insieme al resto del suo gruppo. Rimasi impalata per circa dieci minuti. Avevo parlato con loro. Avevo una foto con loro. Avevo anche i loro autografi. Potevo morire felice. Tornai al mio tavolo e rimasi fino alla chiusura del locale. Non avevo prestato molta attenzione alle altre band. Ero così felice. Quando uscii era già buio e dovevo trovare il modo di tornare a casa. Doveva aver piovuto perchè i marciapiedi erano pieni di pozzanghere. La fortuna era dalla mia parte: infatti riuscii a trovare il bus giusto per tornare a casa. Venti minuti dopo scesi vicino a casa. Attraversai la strada e mi apprestai ad entrare in casa. “Hayley!” la voce di Jodi mi risvegliò dai miei pensieri. “Si può sapere dove sei stata?” chiese, più curiosa che preoccupata. “Non lo so” risposi sincera, ma con voce sognante. Savannah e mio padre erano seduti sul divano e mi guardavano quasi divertiti. Jodi si avvicinò a me e prese a fissarmi “Non ti sei drogata, vero?” chiese con tono severo. Iniziai a ridere “No! Sono stata in un locale ad ascoltare musica live e li ho conosciuti!” esclamai saltellando verso mio padre, che mi guardava senza capirmi. “Chi?” chiese curiosa Savannah. “I PumpinkPunkerz” dissi buttandomi letteralmente su mio padre. Alzai la gamba ingessata in modo che tutti potessero vedere le firme “Mi hanno autografata!” continuai abbracciando mio padre. Non la smettevo di ridere e presi anche a saltellare per casa come un canguro. Sentii dei passi pesanti sulle scale “Cos'è tutto questo casino?” Adam non si accorse subito di me. “Hayley ha conosciuto non so chi” disse Savannah divertita. “I PumpinkPunkerz!” esclamai sempre più felice saltellando verso Adam. “Ah, sei tornata” disse lui alzando un sopracciglio e irrigidendo la mascella. “I PumpinkPunkerz!” ripetei con più foga gesticolando come una pazza, per renderlo partecipe della mia felicità. Ma lui non fece una piega. “Mamma, possiamo mangiare ora che la principessa è tornata?” chiese astioso verso sua madre. “Tra poco è pronto, Adam” rispose Jodi, guardandolo male. Lui non disse nient'altro e salì in camera sua. Non volevo seguirlo. Non volevo litigare ancora. Ero stanca di gridare e piangere. Mi accoccolai di fianco a mia sorella e appoggiai la testa sulle sue gambe. Lei iniziò ad accarezzarmi la testa senza distogliere lo sguardo dalla tv. Chiusi gli occhi e aspettai che Jodi ci chiamasse per la cena. “Stasera hai intenzione di uscire?” chiese la mia matrigna ad Adam, versandosi del vino. C'era un'atmosfera tesa tra di loro. “Non lo so” rispose lui piantando i suoi occhi glaciali sulla madre. Era un chiaro segno di sfida. Jodi alzò un sopracciglio e lo rimbeccò “Risposta sbagliata. Tu stasera non esci. Te ne starai qui con noi” “A fare cosa? A controllare quella?” sbottò lui indicandomi. “Quella è tua sorella e si da il caso che abbia una gamba rotta” Jodi stava per perdere la pazienza. “Ah sì? Non mi sembra che abbia bisogno di aiuto dato che oggi è andata a spasso da sola!” Adam si alzò da tavola. “Jodi, non fa niente. Non ho bisogno che lui stia sempre a controllarmi” dissi alla mia matrigna. “Hayley, non è questo il punto” mi rassicurò lei. “Invece è proprio questo il punto! Mi avete obbligato a badare a lei ogni singolo giorno da quando è arrivata e poi fate delle tragedie se per una volta faccio come mi pare!” Adam sbraitava velenoso. “Non pensavo fosse un problema” bisbigliai amareggiata. “Perchè sei troppo stupida per arrivarci!” urlò con rabbia. “Adam, adesso basta!” Jodi si avvicinò a lui con fare minaccioso. Lui non disse più nulla. Salì semplicemente le scale e si rintanò in camera sua, sbattendo la porta. Cosa diavolo era successo? Il mio cuore martellava nel petto senza sosta. Non lo avevo mai visto così arrabbiato con me. “Vado a dormire”dissi, spezzando il silenzio che si era creato. Salii al piano di sopra e bussai alla porta di Adam. Lui non rispose, ma io entrai lo stesso. “Qual è il problema?” esordii determinata a scoprire cosa gli passasse per la mente. “Potevi startene a casa oggi” rispose lui appoggiandosi alla finestra chiusa. “A fare cosa?” “Niente, come al solito” rispose astioso. “Mi vuoi dire che cavolo hai in testa? Perchè io non riesco proprio a capirti!” esclamai avvicinandomi a lui. “Non voglio stare tutto il giorno con te!” sputò velenoso. Mi colpì come uno schiaffo. “D'accordo” dissi soltanto. Uscii dalla sua stanza e saltellai verso la porta della mia camera. Mi sdraiai sul letto buttandomi a peso morto e presi a guardare il soffitto. Il mio sguardo si posò su quella maledetta crepa. “Ti stuccherò prima o poi” le bisbigliai.















Ritardo, ritardo e ancora ritardo!! Mi sento un po' come il Bianconiglio. Capitolo un po' inutile, scritto alla carlona. Ringrazio come al solito chi inserisce la mia storia tra i preferiti e i seguiti (e devo ammettere che non mi aspettavo foste così tanti :D ).

Inoltre ringrazio soprattutto Ryo13 e Athenryl che trovano sempre tempo per recensire la mia storia :D (spero di non aver fatto un pasticcio con questo capitolo). Ora, vorrei spiegare che questo capitolo è “riempitivo”... Nel senso, non sapevo che diavolo scrivere e ne è uscita fuori questa “cosa” solo per lasciare un po' di suspance. Il prossimo capitolo sarà ancora “riempitivo” e poi ci sarà il capitolo del “3 mesi dopo...”. Non so se mi sono spiegata bene: perdonate le mie turbe psicologiche che mi impediscono di spiegarmi come qualsiasi essere umano. E soprattutto aggiornerò più velocemente! Quindi continuate a leggere, recensire, inserite la mia storia tra i preferiti, ricordati ecc.. E se volete chiarimenti specifici riguardo la storia e non volete lasciare recensioni scrivetemi pure un messaggio privato :D


Baci,

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