Posso amarti? di CookieKay (/viewuser.php?uid=50614)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. God save the Queen ***
Capitolo 2: *** 2. Ubriachezza Molesta ***
Capitolo 3: *** 3. Amore perso, amore represso ***
Capitolo 4: *** 4. La mia forza, il mio piacere, il mio dolore ***
Capitolo 5: *** 5. Le ossessioni di Hayley Doherty ***
Capitolo 6: *** 6. Crush ***
Capitolo 7: *** 7. La finestra sul cortile ***
Capitolo 8: *** 8. Fiducia ***
Capitolo 1 *** 1. God save the Queen ***
Capitolo 1:
God save the Queen
Merda.
Merda. Merda.
Non riuscivo
a smettere di pensare a che schifo di giornata mi sarebbe spettata. La
donna
seduta davanti a me continuava a fissarmi. Me ne ero accorta
già da un po’.
Alzai la testa e le feci segno con la testa, come a voler dire
“E tu che cazzo
vuoi?”. Lei mi guardò sulla difensiva e poi volse
il suo sguardo accusatore da
un’altra parte. Sbuffai sonoramente. Odio essere fissata da
gente che non
conosco. In realtà anche da chi conosco. Mi fa sentire come
se mi stessero
giudicando. E a me non piace essere giudicata. Il gracchiare
dell’altoparlante
mi riportò alla realtà: “I passeggeri
del volo L6755 con destinazione Londra
sono pregati di raggiungere il gate numero 5”
Merda. Mi ritrovai a pensare per l’ennesima volta.
Mi alzai da
quello scomodo seggiolino di plastica dove da ormai un’ora e
mezza aspettavo
impaziente quell’annuncio. Mi guardavo intorno con aria
circospetta, aspettando
che qualche poliziotto mi fermasse per perquisirmi. . Mi comportavo
come se fossi
stata una terrorista alle prime armi. Ma non nascondevo una bomba.
Né armi, né
droga. Non so spiegarlo, ma in aeroporto mi sono sempre comportata in
quella
strana maniera. Come se nascondessi qualcosa. Avevo lo sguardo basso e
procedevo a passo spedito verso il gate numero 5. Il cinque
è il mio numero
fortunato, ma in quell’occasione mi ritrovai a pensare a
quanta sfiga potesse
celare. “E guarda dove vai!” esclamai acida ad un
uomo che mi aveva sbattuto
addosso. Neanche si scusò. Correva come un ossesso con il
suo mini-trolley in
mano. Sospirai ancora. Mi accorsi che al gate numero 5 si era formata
una coda
anomala. Maledetti inglesi. Se non
dovessi salire anche io su quell’aereo, pregherei
perché cascasse in mezzo
all’oceano .I miei pensieri, tutt’altro
che gentili, vennero nuovamente
interrotti da una mano che si era posata sulla mia spalla. Stavo per
mettere in
pratica quelle tre lezioni di difesa personale a cui avevo partecipato,
quando
mi accorsi che una signora dal viso cordiale mi guardava sorridendo.
“Dovresti
andare avanti, o rimarremo tutti qui” disse, facendomi notare
di aver bloccato
il flusso di gente che doveva oltrepassare il gate numero 5.
“Scusi” dissi
imbarazzata, abbassando lo sguardo e procedendo a passo svelto verso le
hostess
sedute stizzite. Porsi loro il mio biglietto e il mio passaporto e dopo
aver
constatato che quella sua foto del mio documento ero io e dopo avermi
consegnato solo parte del mio biglietto mi apprestai a raggiungere
l’aereo
attraverso il corridoio vetrato alle loro spalle. Sarei arrivata a
Londra la
mattina seguente. Un viaggio stancante che mai nella vita avrei
rivoluto fare.
Ma il destino con me è sempre stato bastardo. Salita in
aereo, uno steward poco
più grande di me mi accompagnò in prima classe.
Non sono mai stata in prima
classe quando ero bambina: pensavo che potessero andare solo chi avesse
una
ventiquattrore. Sorrisi a quel pensiero. Effettivamente me ne ero
autoconvinta
quando avevo sette anni. L’anno dopo avevo chiesto a mia
madre di comprarmi una
ventiquattrore in miniatura e quando salii in aereo una hostess mi
fermò poco
prima che riuscissi a varcare la tendina che separa la prima classe da
quella
economica. A quel punto mi convinsi che erano i bambini a non erano
ammessi.
“Accomodati pure lì” mi disse
gentilmente lo steward, con un odioso accento
inglese. “Grazie” dissi, sedendomi (o meglio
stravaccandomi) sul sedile largo e
comodo. Niente a che vedere con i seggiolini di
plastica dell’aeroporto. “Posso portarti
qualcosa?” mi chiese lui, sorridendomi. “Sono a
posto così” dissi, poi ci
pensai “Aspetta! Un caffè macchiato con
panna” forse pretendevo troppo. “Arriva
subito” rispose divertito. Mi stropicciai la faccia con le
mani e sbadigliai
sonoramente, guardando fuori dal finestrino. Dovevamo essere in
ritardo. Grazie a Dio, pensai.
Almeno il mio
incontro con loro sarebbe slittato
di
qualche minuto. E qualche minuto, per me, faceva la differenza.
“Ecco il caffè”
esultò lo steward raggiante, porgendomi una minuscola quanto
insignificante
tazza di caffè. Alzai un sopracciglio e bevvi il mio
caffè. “Cos’è questa
schifezza?” chiesi disgustata. Di sicuro non era
caffè. Lui per tutta risposta
rise e si gratto la testa imbarazzato. “Mi dispiace. Non sono
un asso a fare
caffè” confessò. “E non
c’era nessuno in grado di aiutarti?” gli chiesi tra
l’acido e il curioso. “Se scoprissero che ho
servito caffè poco prima di
partire, le mie colleghe mi spaccherebbero la faccia” non
riuscii a non ridere.
“E come mai l’hai fatto?” gli chiesi,
stavolta molto più curiosa. “Avevi
un’aria nervosa e volevo metterti a tuo agio” mi
confidò. Si vedeva così tanto?
Non pensavo di poter risultare tanto trasparente anche agli occhi di un
completo estraneo. “Grazie” risposi sincera
puntando i miei occhi verdi, nei
suoi neri. “Senti, se vuoi un po’ di compagnia
durante il volo mi offro
volontario” si grattava la testa in modo così
buffo che non riuscii a rifiutare
l’offerta. “Bene, allora ci vediamo dopo”
“Non vado da nessun’altra parte”
dissi, prima di vederlo sparire dietro la tendina che separava le due
classi.
Poco dopo lo vidi rientrare, ma non
si fermò. Proseguì e si
fermò in mezzo alla prima classe. La voce del pilota
risuonò nell’aereo
“Buonasera a tutti sono il capitano Monroe e vi do il
benvenuto su questo volo
in partenza da New-York JFK con destinazione Londra. Sono le ore 3 e
nove
minuti e il tempo è pressoché sereno. Il
tempo stimato di volo è di circa 6 ore e quaranta minuti:
arriveremo
all’aeroporto di Heathrow alle ore nove e cinquanta. In
attesa di nuovi
aggiornamento, a presto e buon viaggio”. Lui era americano.
Si sentiva
dall’accento molto più sciolto e giovanile. E per
un momento mi sentii a casa.
Hostess e steward si apprestarono a mimare i movimenti nel caso di
incidente
aereo. E’ la parte che più odio durante un volo.
Mi infilai le cuffiette
dell’Ipod e iniziai ad ascoltare un po’ di sana
musica, chiudendo gli occhi e
aspettando di decollare. I think we have an emergency, I
think we have an emergency. No, non era la canzone
più adatta da ascoltare su un aereo
mentre decollava. God save the Queen.
Sorrisi. L’avevo scaricata sapendo della mia imminente
partenza per Londra. A
cosa mi ero ridotta. Sentii tirarmi giù una cuffietta
dall’orecchio “Ehy,
ragazzina. Avresti dovuto ascoltare. In caso di disastro aereo, non
saprai come
muoverti” mi disse lo steward sorridente come al solito.
“Ci sarai tu ad
aiutarmi” gli dissi alzando un sopracciglio. “Vuoi
qualcosa da mangiare?” mi
chiese, appoggiandosi lievemente al mio sedile. “Dolci,
qualsiasi tipo, ma che
siano dolci” dissi quasi pregandolo. Lui rise divertito e
sparì dietro la
tendina. In quel momento sperai che a Londra fossero tutti come lui. Ma
sapevo
di sbagliarmi. Dove stavo andando non c’era nessuno di
gentile e amichevole.
Sospirai e nemmeno mi accorsi del suo ritorno. “Ho detto alle
mie colleghe che
eri una donna incinta e per questo mi hanno detto di non farti pagare
niente”
Mi posò sul tavolino davanti a me una cascata di schifezze
che alzarono i miei
livelli di zucchero nel sangue solo a guardarli. “Vedi di non
esagerare. Non vorrei
intrattenere una chiaccherata con te in bagno” Per la seconda
volta non riuscii
a non ridere. Scartai un pacchetto di M&M’s e gliene
offrii “Paga la
American Airlines” dissi, notando il suo tentennamento. Mi
sorrise e prese
alcune palline colorate, sedendosi di fianco a me. “Come mai
a Londra?” mi
chiese aprendo una confezione di biscotti al cioccolato. “Mio
padre abita a
Londra e mi sto trasferendo da lui” dissi. Lui
notò subito il mio disagio. “Ok,
cambiamo argomento. Come ti chiami?”
“Hayley” “Freddie, piacere” ci
stringemmo
la mano. La sua stretta era così salda che quasi sussultai.
Niente a che vedere
con la mia, moscia e insignificante. “Sei inglese?”
gli chiesi, sapendo già la
risposta. “Già, di Birmingham. Si nota
molto?” “Abbastanza” dissi sorridendo.
“Come mai fai lo steward?” mi sembrava una domanda
stupida, ma lui rispose
comunque. “Mi piace volare e stare a contatto con la
gente” “Ah, potevo
arrivarci anche da sola” assunsi l’espressione
sono-una-deficiente che lo fece
ridere. “Alcuni pensavo che io lo faccia perché
sia omosessuale” “Sei gay?”
chiesi d’impulso sgranocchiando una manciata di
M&M’s. “Se fossi stato gay
di sicuro non mi sarei messo a parlare con te, ma con quel ragazzo
laggiù” disse,
indicandomi un ragazzo di circa diciotto anni, con il volto stracarico
di acne
e una pancia non propriamente invidiabile. “Penso che anche
in quel caso
avresti parlato con me, piuttosto che con lui” dissi,
guardando il ragazzo
lontano da noi. “Forse. E tu che fai? Studi o
lavori?” “Ho abbandonato un paio
di mesi fa giornalismo” “Come mai?”
“Sapevo che mi sarei dovuta trasferire a
Londra” dissi, risprofondando nell’amarezza. Lui mi
guardò “Anche a Londra ci
sono delle facoltà del genere”
“Già, ma a mio padre non sarebbe andata
bene”
sospirai. Sentivo solo il suo sgranocchiare biscotti. “Ti
piacciono eh?!”
dissi, mettendolo in imbarazzo. “ “Non posso farne
a meno, quando volo. Ne hai
mai assaggiato uno?” “Non vado pazza per i
biscotti” “E come farai all’ora del
thè?” disse stupito, guardandomi aspettandosi una
risposta. “Io…non..” “Sto
scherzando.. tipico umorismo inglese, preparati perché ne avrai a che fare tutti
i giorni” Perfetto.
“Vuoi dormire un po’?” mi
chiese, evidentemente notando il mio viso sconvolto. Annuii
imbarazzata. Mi
piaceva parlare con Freddie, ma il sonno stava prendendo il
sopravvento. “Ti
sveglierò all’arrivo” disse alzandosi
dal sedile su cui si era seduto e
sparecchiando il tavolino pieno di cartacce. Mi addormentai come un
sasso, non
appena posai lo sguardo fuori dal finestrino. Non si vedeva nulla. Il
vuoto
assoluto. Proprio come quello che c’era nella mia testa nel
pensare a quanto
poco tempo mancava al mio arrivo a Londra.
Fui svegliata da un maledetto raggio
di sole che puntava
dritto al mio occhio destro. Sbadigliai sonoramente “Stavo
giusto per venirti a
svegliare. Dormito bene?” la voce pimpante di Freddie mi fece
voltare. Non
avevo notato quanto fosse carino. Lineamenti dolci, carnagione marmorea
e
capelli neri come i suoi occhi. Era alto e slanciato. Sperai di non
avere il
solito rivolo di bava mattutina che mi attraversava metà
faccia. Annuii. “Allacciati
la cintura” era un ordine gentile, quasi scherzoso.
Probabilmente già si
aspettava che non l’avrei fatto. Mi portò un altro
schifosissimo caffè.
“Davvero, non c’è nessun altro che possa
farmi un caffè decente?” dissi,
notando quanto la mia voce fosse rauca di prima mattina. “E
io che l’ho fatto
con tanto amore!” rispose facendo il finto imbronciato. Presi
la tazzina e
buttai giù quell’intruglio disgustoso.
“Grazie a Dio non lavori in una
caffetteria. Ti avrebbero licenziato in tronco” dissi io,
scherzando. “O forse
avrei imparato a fare i caffè più buoni del
mondo” “Ne dubito”. Mi sorrise.
Tornò a sedersi con le sue colleghe al di là
della tendina. Una sensazione di
angoscia e solitudine mi pervase il corpo. Scendere da
quell’aereo significava
andare incontro a un destino che non mi piaceva affatto. Non avrei
trovato
gentilezza e affetto fuori di lì. Ma indifferenza. Totale
indifferenza nei miei
confronti. Il
comandante dell’aereo ci
salutò con garbo. Sarebbe stato l’ultima persona
americana che avrei sentito
parlare. “Hayley! Meno male, non sei ancora scesa”
Freddie mi corse incontro.
“Devi darmi un altro schifoso caffè da
bere?” gli chiesi scherzosa mentre
tentavo di tirare giù il trolley dalla cappelliera sopra di
me. Ci pensarono
lui e la sua altezza ad aiutarmi in quell’impresa. Mi
ricordai in quel momento
che poco prima del decollo era stato sempre lui ad infilarlo
lì dentro. “Grazie..”
bisbigliai, imbarazzata dal mio metro e 55 scarso. “Senti, mi
piacerebbe
sentirti” era rosso come un pomodoro. Risi divertita
“Scusa, ma ti pare che
arrossisci a quel modo?” gli chiesi, col mio solito tatto da
elefante. “Quindi
non è un problema se ci scambiamo i numeri di
telefono?” sembrava un bambino a
Natale. Hayley Doherty, fai sempre colpo.
Sorrisi modestamente e gli diedi il mio numero. “Ti
chiamerò” mi baciò sulla
guancia e mi accompagnò all’uscita
dell’aereo. Sentii chiaramente una sua
collega dirgli “E scommetto che quella ragazza sarebbe la
donna incinta con
voglie di dolci. Sei proprio un idiota, Freddie”
“Sta zitta Beth” lo sentii
rispondere ridendo, mentre varcavo la porta che mi separava dal suolo
britannico. Io e il mio piccolo trolley vagammo alla ricerca
dell’uscita. Non
riuscivo a trovare un maledettissimo cartello che mi indicasse la via
giusta da
seguire. Poi come se fosse stato sempre lì ad aspettarmi
vidi un cartello sopra
la mia testa. Uscita. Non so se
fosse
stata la carenza di sonno o il mio non voler uscire
dall’aeroporto a non farmi
trovare ciò che stava sotto al mio naso, o meglio sopra la
mia testa. Sospirai
un ultima volta prima di varcare la porta scorrevole che avrebbe
ridotto le
distanze tra me e la mia famiglia.
Vidi solo un foglio bianco. Haylee Doherty. Anche se il nome era
scritto in
modo errato, dovevo essere sicuramente io. Mi avvicinai. Rimasi
pietrificata.
“Che ci fai qui?” chiesi al ragazzo che reggeva il
cartello. Lui mi squadrò da
capo a piedi, dietro gli occhiali da sole, che avrebbero dovuto dargli
un’aria
da bello e dannato. Peccato che la totale assenza di sole lo rendevano
un
perfetto idiota. “Non mi saluti nemmeno,
sorellina?” mi disse lui, col suo solito tono
gelido che usava solo ed
esclusivamente con me. Adam non era mio fratello. O meglio, non di
sangue. Era
il figlio maggiore della nuova moglie di mio padre. Nuova mica tanto,
dato che
erano più di 13 anni che erano sposati. “Vedi di
muoverti” disse, iniziando a
camminare velocemente. “Vuoi rallentare un po’?! Io
mi sono appena svegliata”
gli sbraitai raggiungendolo. “E io non sono ancora andato a
dormire. Quindi
vedi di muoverti” disse puntando l’indice sulla mia
fronte. Lo faceva sempre
quando eravamo piccoli. E mi dava fastidio quanto allora. Sbuffai
spazientita.
Erano anni che non lo vedevo. Non che mi avesse fatto molta differenza.
Entrai
in macchina, dopo aver appoggiato non proprio delicatamente il mio
trolley sui
sedili posteriori. “Vuoi stare attenta? Sai quanto costano
quei sedili?” Roteai
gli occhi al cielo con espressione plateale. In quella macchina, se
avessimo
potuto, ci saremmo sbranati letteralmente. Incompatibili. I nostri
genitori lo
dicevano sempre. “E dove sei stato fino a
quest’ora?” chiesi cordiale, tentando
di approcciare una qualche tipo di conversazione. “Non sono
cazzi tuoi” Incominciamo bene.
Neanche mezzo minuto
in macchina insieme e già eravamo a queste frasi cariche
d’amore reciproco.
Sbuffai. “Vedi di farti una doccia a casa. Puzzi
d’America.” Mi congelò
divertito. Mi morsicai la lingua e trattenei la rabbia, per evitare di
saltargli alla gola in preda ad un raptus. Guardai fuori dal finestrino
e
accesi l’Ipod, chiaro segno del non voler più
parlare con lui.
God
save the queen
The fascist regime
They made you a moron
Potential H-bomb
God save the queen
She ain't no human being
There is no future
In England's dreaming
Don't be told what you
want
Don't be told what you
need
There's no future, no
future,
No future for you
God save the queen
We mean it man
We love our queen
God saves
God save the queen
'Cause tourists are money
And our figurehead
Is not what she seems
Oh God save history
God save your mad parade
Oh Lord God have mercy
All crimes are paid
When there's no future
How can there be sin
We're the flowers in the
dustbin
We're the poison in your
human machine
We're the future, your
future
God save the queen
We mean it man
We love our queen
God saves
God save the queen
We mean it man
And there is no future
In England's dreaming
No future, no future,
No future for you
No future, no future,
No future for me
No future, no future,
No future for you
No future, no future
For you
Benvenuta in
Inghilterra, Hayley Doherty. Feci per accendermi una
sigaretta “Adesso fumi
pure?” mi chiese il mio odioso fratellastro, divertito.
“E’ illegale per caso?”
sputai velenosa. Lui rise “Fa un po’ come ti
pare” sentenziò. Abbassai il
finestrino e mi accesi una sigaretta. Non ero una fumatrice accanita,
ma in
quella situazione ne avevo abbastanza bisogno.
“C’è uno Starbucks vicino
casa?”
chiesi aspirando del fumo. “Sì” rispose
semplicemente. Questo voleva dire che
me lo sarei dovuto trovare da sola. “Senti per la mia salute
mentale, possiamo
cercare di andare d’accordo?” ero disperata. Volevo
almeno un alleato dalla mia
parte. “Scordati di immischiarmi nei tuoi problemi con il tuo
vecchio.” Era più
perspicace di quello che mi ricordavo. “Per favore. Ho
bisogno di un amico”
buttai lì, tentando di risultare il più disperata
possibile. “La smetti di
rompermi i coglioni?” esclamò gelido, come al
solito, piombando in un silenzio
innaturale. Arrivammo a casa. Non mi aspettò nemmeno.
Salì le scale, aprì la
porta e la richiuse sbattendola. “Stronzo”
bisbigliai, con il mio trolley in
mano. Salii le scale con passo lento. Una condannata a morte. La porta
si era
chiusa e non avendo le chiavi fui costretta a suonare il campanello. E
nessuno
venne ad aprirmi. Questo significava che in casa c’era solo
Adam. Cazzo. Aspettai un
po’, ma la musica
assordante proveniente dal piano di sopra mi fece intuire che anche se
avessi
bussato come un’ossessa non avrebbe sentito niente. Ricordai
che quando ero
piccola, nella loro vecchia casa, mi arrampicavo su un albero nella
parte
posteriore dell’edificio. Decisi quindi di constatare se
anche lì c’era la
traccia di un albero, ma arrivata dall’altra parte della casa
trovai il
giardino vuoto. Lanciai il mio trolley sul muro, visibilmente
scocciata. Mentre
mi arrampicavo sulla tubatura principale sentii un tossicchiare
dall’altra
parte del giardino “Mio fratello mi ha chiusa fuori e non ho
le chiavi” dissi
alla donna, intenta a innaffiare il suo piccolo giardinetto.
Annuì,
sorridendomi. E io continuai la mia scalata. Da quel lato della casa la
musica
era più forte. La camera di Adam doveva essere proprio al di
sopra della mia
testa. Rischiai di cadere un paio di volte ma riuscii a raggiungere la
sua
finestra, che era leggermente aperta. Lo vidi sdraiato sul suo letto,
che
leggeva una rivista. Spalancai la finestra e mi buttai in camera sua.
Nemmeno
se ne accorse. Avevo le mani sporche di sangue che bruciavano da
impazzire.
Tirai un calcio contro il suo letto “Stronzo” dissi
prima di uscire dalla sua
camera sbattendo la porta. Mentre scendevo le scale, lo sentii spegnere
la
musica e aprire la porta. “Cristo santo mi hai fatto prendere
un colpo! Ma da
dove cazzo sei sbucata?” sbraitava mentre mi raggiungeva.
“Mi hai chiuso fuori,
brutto deficiente! Mi sono dovuta scorticare le mani per arrampicarmi
alla tua
finestra!” ero più che incazzata. Se le mie mani
non fossero state ridotte a
quel modo, gli avrei tirato un pugno in faccia. “Ti sei
arrampicata?” chiese
meravigliato. Poi mi prese una mano e prese a fissarla. I suoi occhi
azzurri
guardavano il sangue. “E’ solo un
graffio” “Ma vaffanculo! Non è solo un
graffio! Fa male!” Lo vidi sbuffare. Mi trascinò
al piano di sopra, in bagno e
mise le mie mani sotto l’acqua fredda. Al contatto con le mie
ferite sussultai.
“Va meglio?” mi chiese, in un modo strano. Quasi
dolce. Lo fissai un attimo.
“Sì, sì” dissi solo. Lui
prese a fissarmi, in quel modo che odiavo tanto. “Come
mai non sei più bionda?” mi chiese
all’improvviso, come se sapere quella
risposta avrebbe salvato il mondo da un attacco nucleare. “Ti
piacevo di più
prima?” chiesi, con tono acido. “No,
così sei più carina” disse uscendo dal
bagno. Lasciandomi lì a bocca aperta, con le mani sotto
l’acqua fredda. Un
complimento. Mi aveva fatto un complimento. Umorismo
inglese, mi ricordai rallentando i battiti cardiaci che mi
stavano facendo
esplodere il cuore nel petto. Chiusi l’acqua e tornai al
piano di sotto per
recuperare il mio trolley. Nella vecchia casa. La mia stanza si trovava
al
piano di sotto. Ma non trovai stanze da letto. “E dove cazzo
dovrei dormire?”
sbraitai rivolgendomi ad Adam al piano di sopra. Lui uscì,
con un barlume di
follia negli occhi. Si scaraventò su di me, mi prese il
trolley e salì come un
razzo per le scale. Aprì una porta confinante con la sua
stanza e lanciò il mio
trolley sul letto. “E ora fammi dormire,
scassacoglioni” me lo disse ad un
centimetro dalla faccia. Sbatté la porta della sua camera e
mi lasciò sola.
Sbuffai irritata e entrai in quella che sarebbe stata la mia stanza per
un
indeterminato periodo della mia vita. Era solo il mio primo giorno a
Londra e
già volevo tornare a casa, a New York. Mi alzai dal letto,
decisa a non voler
pensare alla mia amata città. Decisi di uscire, alla ricerca
di Starbucks.
Quando passai davanti alla porta chiusa della camera di Adam alzai il
dito
medio, soddisfatta. Scesi al piano inferiore e uscii di casa. Il cielo
non
prometteva una bella giornata, ma l’alternativa era rimanere
in una casa
silenziosa a disfare degli scatoli pieni zeppi di cose mie. Starbucks
era più
allettante. Sinceramente non sapevo nemmeno dove mi trovavo. In un
quartiere
molto agiato, a giudicare dalle case che mi circondavano.
C’erano una
moltitudine di persone che passeggiavano intorno a me.
“Scusa, puoi farci una
foto?” mi chiese una ragazza dagli indomabili capelli
castani, mentre mi
tendeva una macchina fotografica. “Certo!” le
risposi sorridente. Lei si mise
in posa di fianco al suo ragazzo, un tipo biondo con la faccia da
schiaffi.
Scattai la foto e le riporsi la macchinetta fotografica. “Sai
per caso dirmi
dove siamo?” le chiesi, risultando completamente deficiente.
Lei rise “Nemmeno
tu sei di qua? Questa è King’s Road”
“Grazie” le dissi realmente grata per
quell’informazione. Se mi fossi persa almeno avrei chiesto
informazioni per
tornare su quella via. Mi lasciarono salutandomi cordialmente. Quella
via era
strapiena di negozi. Mi ritrovai a fissare vetrine che esponevano
vestiti che
nemmeno se avessi venduto l’anima al diavolo avrei potuto
permettermi. Di
Starbucks nemmeno l’ombra. Entrai in una piccola caffetteria
ad angolo,
strapiena di gente. “Un caffè macchiato con
panna” chiesi al bancone, attirando
l’attenzione di una cameriera. Mi servì il mio
caffè. Cristo santo. Era
decisamente più buono di quello di Starbucks.
Manna dal cielo per le mie papille gustative. “Ti
piace?” chiese lei, divertita
dalla mia espressione estasiata. “Decisamente. Ero abituata
ad altro”
“Americana?” “Già.”
“Sono stata nel Maine, ma non mi sembri di
lì” “New York”
risposi semplicemente. Si scusò e tornò a servire
gli altri clienti. Pagai una
fortuna quel caffè, ma valeva ogni singola sterlina spesa.
Uscii dalla
caffetteria e una mano mi bloccò per un braccio.
“Che cazzo hai in quel
cervello bacato? Potevi almeno avvisare che uscivi!” la voce
di Adam attirò
molti sguardi indiscreti. “Non pensavo fosse un
problema” dissi seccata. Se
c’era una cosa che odiavo più di Adam, era
attirare l’attenzione. “Stavi
dormendo e se ti avessi detto che uscivo probabilmente mi avresti
mandata a
fanculo” dissi, trattenendo la calma. Lui mollò il
mio braccio. “Bhè, dato che
non conosci la zona ti avrei accompagnata!” Iniziai a ridere.
“Tu mi avresti
accompagnata? Ma non mi prendere per il culo! So cavarmela benissimo da
sola”
“D’accordo” disse stizzito, prima di
voltarsi e tornare a casa. Più gli anni
erano passati e più Adam aveva perso neuroni. Mi girai dalla
parte opposta rispetto
a dove era andato lui e cominciai a camminare nervosa. Sbuffavo come
una
locomotiva. Poi lo vidi. Un piccolo negozio di dischi e libri. Entrai
come
attratta da una calamita immaginaria e fui come accolta in paradiso. CD
e libri
che riempivano immensi scaffali di legno. Una leggera pacca sulla
spalla mi
fece voltare “Cerchi qualcosa?” l’uomo
davanti a me doveva avere circa trenta
cinque anni. Le braccia erano ricoperte di tatuaggi e sul sopracciglio
destro
spuntava un piercing. “Nulla in particolare”
risposi sorridendo. Mi inoltrai in
quella coltre di album ordinati in ordine alfabetico con cura e
devozione. Come
qualsiasi patito di musica farebbe. Come io facevo a New York. Mi legai
i
capelli in una coda alta, decisa a passare l’intera giornata
in quel posto. A
costo di essere chiusa dentro durante la pausa pranzo. Non mi
importava. Le mie
dita scorrevano lungo la plastica degli album. “PumpinkPunkerz”
sussurrai. Era un gruppo quasi sconosciuto in tutto
il mondo, tranne che a New York. Avevo prestato il mio CD a un mio
compagno di
corso, che non si era degnato di restituirmelo. Lo presi tra le mani.
“Sei la
prima persona che prende in mano quel CD” mi disse
l’uomo tatuato di poco prima
comparendomi alle spalle. “E’ un gruppo
forte” dissi, sminuendo di gran lunga
ciò che riuscivano a creare con la musica. “Li
conosci?” mi chiese curioso. “A
New York sono delle leggende” dissi vomitando tutta la stima
e la venerazione
che provavo nei loro confronti. “Già, avrei dovuto
immaginarlo. Solo una di New
York può volere un CD dei Pumpink” disse
sorridendomi. “Sei in vacanza?” “Mi
sono appena trasferita e curiosavo in giro” dissi continuando
a guardarmi
intorno. “Allora, immagino ci vedremo più
spesso” disse, poi si voltò “Quello
puoi tenerlo. Te lo regalo” disse accarezzandomi i capelli.
“Grazie” risposi
estasiata. Se mi
avesse chiesto in
cambio dei favori sessuali, avrei accettato. Mi sarei prostituita per
quel CD.
Non uscii dal negozio. Mi persi lì dentro per tre ore piene.
“Ehy, newyorkese!
Stiamo chiudendo” mi disse l’uomo tatuato, che a
quanto sembrava era il
proprietario del negozio. “A che ora riaprite?” gli
chiesi senza indugio. “Ah,
ti va male! Oggi siamo aperti solo per mezza giornata” Sentii
un baratro
aprirsi sotto i miei piedi. “Bhè, domani siete
aperti, no?” “Certo, certo! Ci
vediamo domani” “Ci vediamo domani”
ripetei, tenendo ben saldo il mio CD dei
PumpinkPunkerz tra le mani e uscendo dal negozio. Decisi di tornare a
casa per
evitare di spendere altri soldi in cibo. Suonai il campanello. La
figura alta
di Adam mi squadrava, come al solito, da capo a piedi. “Ti
sei degnata di
tornare” “Avevo fame” risposi, cercando
di entrare in casa. Lui però mi fermò
prendendomi per la vita. E mi sorrise. Un sorriso che mai
potrò dimenticarmi.
Un sorriso che non mi aveva mai fatto. Rimasi immobile, poi notai la
sbucciatura sulla sua mano. “Ti sei chiuso fuori pure
te?” gli chiesi
divertita. “Ma vaffanculo!” mi rispose. Non era una
delle sue solite risposte
gelide. “Ti porto fuori a mangiare” mi disse
spingendomi leggermente
all’indietro. “Possiamo anche stare in
casa” “La domestica non c’è e
se ricordo
bene né tu, né io abbiamo un buon rapporto con la
cucina.” E aveva ragione: da
piccoli avevamo cercato di cucinare delle frittelle per i nostri
genitori, ma
eravamo finiti col dare fuoco a mezza cucina. Fu l’unica
volta in cui ci
divertimmo insieme. Poi iniziammo ad odiarci.
“Cos’è?” mi chiese una volta
in
macchina, indicando con il viso il CD che tenevo in mano. “Un
CD” risposi
semplicemente. “Lo vedo anch’io che è un
CD, ma di chi è?”
“PumpinkPunkerz”
risposi, rigirandomi l’album tra le mani.
“Chi?” Come pensavo, non li
conosceva. Strappai la plastica che circondava il CD, lo estrassi e lo
infilai
nella radio della sua macchina. C’mon
C’mon . Battevo il ritmo con la mano sul mio
ginocchio, mentre la musica
riempiva la macchina. Adam sembrava gradire. “Ma chi cazzo
sono?” mi chiese
alzando la voce, per farsi sentire. “Un gruppo di New
York” risposi guardandolo
negli occhi. Lui riprese a guardare la strada, mentre Freaky
Patrick’s Day iniziava con il suo assolo di
chitarra
elettrica. Quando fermò la macchina ero seriamente
intenzionata a non scendere
dall’auto, fino a che non avessi sentito tutte le tracce
dell’album. Ma il mio
stomaco petulante reclama cibo. “Ciao Ian!” Il mio
odioso fratello salutò un
uomo tarchiato di circa cinquant’anni, che da come si
guardava intorno in cerca
di clienti, doveva essere il proprietario di quel ristornate.
“Oh, Adam! Tutto
bene?” “Sì, sì. Riesci a
trovarmi un tavolo per due?” chiese con gentilezza.
Gentilezza con cui non si era mai rivolto a me. L’uomo mi
guardò e gli strizzò
l’occhio. “E’ mia sorella”
disse Adam roteando gli occhi al cielo.
“Savannah?!”
esclamò senza crederci. “Ti sembra Savannah?
E’ l’altra sorella.
Quella di New York” disse, togliendo ogni dubbio
all’uomo. “Ah, già. Bene, entro e vedo
se ci sono tavoli liberi”. Tornò poco
dopo con un sorriso idiota dipinto sul viso. “Prego,
seguitemi”. Ci portò nel
retro, in un giardinetto isolato dal resto del ristorante. Tipico posto
strategico per far mangiare una coppietta innamorata. Sia io che Adam
alzammo
un sopracciglio. “Dici che l’ha capito che sono tua
sorella, o ha solo fatto
finta?” gli bisbigliai, assicurandomi che solo lui sentisse.
L’uomo mise una
rosa rossa in un piccolo vasetto al centro del tavolo e ci
augurò un buon pranzo.
Di controvoglia mi sedetti e iniziai a sfogliare il menù.
Spalancai gli occhi e
quasi mi strozzai con un grissino quando notai i prezzi esorbitanti.
Adam
iniziò a ridere “Dovresti vedere la tua
faccia” “Dovresti vedere i prezzi
invece che star lì a ridere. Andiamo da MacDonald, almeno
sono sicura di poter
pagare quello che mangio” dissi alzandomi dalla sedia.
“Per questa volta pago
io” Non so se fu quel suo ‘pago io’ o
quello sguardo azzurro come il ghiaccio
che mi fecero risedere senza muovere obiezioni. Ma non mi feci scappare
quell’opportunità e ordinai come se non mangiassi
da anni. Mi abbuffai come una
cavernicola, sotto il suo sguardo disgustato. “Diventerai una
grassona” mi
disse, mentre a forza tentavo di trangugiare l’ultimo pezzo
di bistecca rimasto
nel mio piatto. Mi stravaccai sulla sedia ignorando il suo commento e
piena
come un elefante sussurrai “Non ce la faccio
più” Lui iniziò a ridere. Una
risata realmente divertita. Come da anni non gli vedevo fare. Lo
guardavo
stranita e lui se ne accorse “Che
c’è?” chiese tra le risate.
“Non ricordavo la
tua risata” dissi piantandogli gli occhi addosso. Lui smise
di ridere e
seriamente mi disse “Nemmeno
io ricordo
la tua. E prima di oggi, non ricordavo nemmeno la tua
faccia”. Fu come prendere
un potente schiaffo in faccia. Eppure ero sua sorella.
“Ricordavi che ero
bionda, però” “Pochi giorni fa ho visto
una nostra foto da piccoli” Un pugno
nello stomaco. Senza rendersene conto mi stava mettendo KO. Insensibile
pezzo
di idiota. Io ricordavo tutto di lui, dai suoi capelli castani, ai suoi
occhi
glaciali, ai suoi tratti marcati e duri. Possibile che gli fossi
proprio così
indifferente? Abbassai lo sguardo. “Voglio tornare a
casa” dissi, con fare
capriccioso. Lui sospirò e si alzò dalla sedia.
Lo aspettai in macchina mentre le note di Childhood
dei PumpinkPunkerz mi entrarono nel cervello, perforando
ogni ricordo di Adam.
Aprì la porta di casa e
senza dire una parola mi fiondai in
camera mia sbattendo la porta. Non mi faceva bene stare lì.
Volevo tornare a casa.
Nascosi la testa nel cuscino e iniziai a piangere silenziosamente. Non
mi
accorsi nemmeno che la porta della mia stanza si era aperta.
“Perché piangi?”
mi chiese avvicinandosi al mio letto. “Vattene fuori, Adam.
Non ho voglia di
perdere tempo a farmi insultare” dissi singhiozzando. Lo
sentii ridere. “Che
cazzo hai da ridere?!” sbraitai guardandolo negli occhi.
“Scusa, ma il tuo modo
di parlare mentre piangi mi fa ridere” rimasi a bocca aperta
nel guardarlo
ridere della mia disperazione. Mi alzai dal letto e, prendendolo per un
braccio, tentai di sbatterlo fuori dalla mia stanza. Senza riuscire a
muoverlo
di mezzo millimetro. Cosa che lo fece ridere ancora di più.
“Sei una mezza sega,
Lee” disse tra le risate.
Quando
eravamo piccoli mi chiamava Lee. Poi ha smesso proprio di chiamarmi se
non con
appellativi offensivi che ricambiavo con piacere. Non riuscii a non
sorridere a
tutte quelle risate. “Per favore, esci”
più io lo ‘tiravo’ verso la porta,
più
mi sembrava un’impresa degna di uno schiavo
nell’antico Egitto. Lui continuava a
ridere. Allora optai per un’altra strategia. Gli lasciai il
braccio e con le
mani ben salde sulla sua schiena tentai di spingerlo fuori. Ma niente.
Mi
buttai sul letto stravolta. Lui mi prese per i piedi e mi fece cadere
dal
letto, facendomi sbattere sedere e testa sul pavimento.
“Ahia, cazzo Adam! Mi
hai fatto male!” ma ormai ridevo come una matta dato che
aveva iniziato a
trascinarmi per i piedi per tutto il piano di sopra. Fu come tornare
piccoli,
per quel breve momento di follia generale. Era riuscito a tirarmi su di
morale.
L’ultima tappa di quel ‘trascinamento’ fu
la sua stanza. Chiuse la porta e si
mise a cavalcioni su di me. “Che vuoi fare?” gli
chiesi tra l’impaurita e la
divertita. Lui alzò un sopracciglio sorridendo. Capii troppo
tardi le sue
intenzioni. Mi ritrovai a contorcermi come un verme sotto le sue mani,
mentre
mi faceva il più torturante solletico della mia vita.
Ridevamo così forte da
sembrare due idioti. Poi si fermò guardandomi negli occhi.
Dal tanto ridere,
non mi ero accorta di quanto il mio cuore aveva iniziato a galoppare
selvaggio
nella vasta landa della mia gabbia toracica. “Non mi
è mai piaciuto vederti
piangere” ammise senza l’accenno di un minimo di
imbarazzo. “Ok” risposi,
dandomi dell’idiota. “Che cazzo significa
‘ok’?” disse dando voce ai miei
pensieri. “Non lo so” ammisi, assumendo le
sembianze di un pomodoro e
abbassando lo sguardo. Quella volta, però, non
posò il suo indice sulla mia
fronte. Ma un dolce e casto bacio a fior di pelle. Non feci in tempo a
chiedergli perché l’avesse fatto o che
significasse, perché sentimmo la porta d’ingresso
chiudersi e le voci distinte di sua madre, mio padre e della nostra
‘sorella in
comune’. Si alzò come una molla al sentir chiamare
il suo nome dal piano di
sotto. “Vedi di scendere” disse, cancellando
l’Adam giocoso, e ritornando il
mio odioso e gelido fratello. Mi alzai dal pavimento e lo seguii sulle
scale.
Non volevo incontrare mio padre, ma infondo quella era casa sua e
sicuramente
prima o poi avrei dovuto parlarci. “Hayley! Sei sveglia!
Pensavamo stessi
dormendo” disse Jodi, la mia matrigna, abbracciandomi. Sapeva
di vaniglia. I
suoi capelli neri, lisci come seta, le ricadevano sulle spalle
elegantemente,
Niente a che vedere con i miei, mogano, che scendevano sulla schiena
indomabili.
I suoi occhi dorati mi guardavano curiosa, come se stesse aspettando
che
iniziassi a spettegolare su qualcosa. Ma la voce di mio padre,
cancellò quel
contatto visivo. “E’ andato bene il
viaggio?” mi chiese abbracciandomi. “Chi
sei tu? E che ne hai fatto di mio padre?” chiesi sarcastica,
beccandomi una
leggera gomitata da parte di Adam prima che si sedesse sul divano. Mio
padre
rise imbarazzato. Non si era mai avvicinato molto a me, per questo mi
aveva
tanto stupita quell’abbraccio. “Comunque
sì, è andato tutto bene” risposi,
più
rilassata. “HAYLEY!” una ragazza mi si
scaraventò addosso in un abbraccio a
tenaglia. “Come sono felice di vederti!”
esclamò stampandomi due baci sulle
guance. Non era più la bambinetta rompicoglioni che mi
ricordavo. Davanti a me
c’era ormai un donna. Savannah, mia sorella, era la copia
giovanile di Jodi.
Stessi capelli neri corvini e stessi occhi dorati. Aveva ormai 17 anni,
5 in
meno di me, ma ne dimostrava più lei 22 che io. Era alta
quasi Adam con indosso
delle ballerine rasoterra. Probabilmente sfiorava il metro e 80. Ecco
che il
mio complesso sulla mia bassa statura mi tornava a trovare.
“Bhè, io vado a
farmi un doccia” dissi congedandomi e cercando una via di
fuga. Scappai
letteralmente al piano di sopra e mi infilai in bagno alla
velocità della luce.
L’acqua era un toccasana. Rimasi quasi un’ora sotto
l’acqua calda. “Potevi
sforzarti di più” la voce di Adam mi fece
sussultare. “Ma che cazzo fai?! Fuori
di qui, maniaco!” sbraitai dalla doccia. “Non
è colpa mia se ci resti i secoli
qui dentro! E avevo bisogno del bagno!” “Ma chi se
ne frega se avevi bisogno
del bagno, non potevi usare quello di sotto?” Lo sentii
sbuffare. “Se è
occupato come faccio ad usarlo?” Tirai fuori la testa dalla
doccia “E questo
invece ti sembra libero, stupido scimmione?!” Lo vidi
fissarmi. Un’espressione
che un fratello non dovrebbe mai fare nel guardare sua sorella.
“Piantala di star
lì a guardarmi con quella faccia da idiota ed esci di
qui!” Ero rossa, ma non
era colpa del fumo dell’acqua calda della doccia. Era per
come mi guardava
senza dire una parola. Non accennava a muoversi così presi
la prima cosa che mi
capitò tra le mani (la bottiglietta di plastica del
docciaschiuma) e gliela
lanciai contro colpandolo in piena fronte. “Ahia! Cazzo, ma
sei scema? Potevi
uccidermi!” disse mentre si massaggiava la fronte,
“Era quello che volevo fare!”
gridai sciacquandomi lo shampoo dalla testa. Spensi l’acqua e
tirai fuori una
mano dalla doccia. “Renditi utile e passami
l’accappatoio” dissi, sputando
veleno. “Vienitelo a prendere” mi sfidò
malizioso. Tirai fuori la testa “Portami
quel cazzo di accappatoio!” “No” disse
ridendo. “Adam per favore!” dissi
trattenendo la calma, mentre lui rideva prendendosi gioco di me.
“Benissimo,
allora resterò qui” dissi, restando immobile nella
doccia. “Allora fammi spazio!”
Feci appena in tempo a capire ciò che intendeva, prima che
entrasse nella
doccia. Bloccai l’anta della doccia “Provaci ancora
e ti denuncio per molestie
sessuali!” dissi ringhiando come un’invasata. Vidi
il mio accappatoio volare
sopra la doccia e atterrare sulla mia testa “Era
ora” sbuffai acida,
indossandolo. Uscii e me lo trovai in boxer davanti. “Hai
detto la stessa cosa
al tuo professore?” mi chiese con ghigno sulla faccia. Lo
guardai sperando di
aver capito male. Ma il suo ghigno mi faceva intendere il contrario.
L’aveva
detto. Me l’aveva sputato in faccia. Sentii le lacrime
pungermi gli occhi “Stronzo..”
bisbigliai prima di uscire dal bagno e chiudermi in camera mia. Mi
appoggiai
alla porta e scivolai lentamente sul pavimento, stringendomi le
ginocchia al
petto. “Lee, dai stavo scherzando” lo sentii dire
al di là della porta. Cercò
di aprire la porta, ma preventivamente l’avevo chiusa a
chiave. Batté un pugno
contro la porta di legno che ci separava e ringhiò un
“Vaffanculo” e poi sentii la porta del bagno
sbattere
e la doccia aprirsi nuovamente. Come avevo fatto a pensare che lui
fosse
cambiato? Era ancora il solito stronzo, crudele e insensibile Adam
Wilde.
*Cough cough* (colpo di tosse) Sono
lieta di presentare al
pubblico di EFP questa straziante (‘nsomma) storia
d’amore. Sono stata
letteralmente ispirata da “Blowing Bubbles” di
SidRevo che consiglio a tutti
quelli che amano il genere di andare a leggere perché
è M E R A V I G L I O S A
!! Ok, facciamo il punto della situazione: c’è una
ragazza, Hayley, che lascia
NY per motivi a noi (o meglio voi) sconosciuti e si trasferisce dal
padre a
Londra dove vivono anche Adam (il fratellastro odioso), Jodi (la
‘nuova’ moglie)
e Savannah (l’altra sorellastra). Bene, in 3 righe ho
praticamente riassunto
ciò che succede in questo primo capitolo
._.’’ Di solito non mi metto a
scrivere il famoso “ANGOLO DELL’AUTORE”
perché non
so che diavolo scrivere XD Comunque,
essendo la mia prima storia romantica che pubblico vorrei qualche
parere,
giusto per sapere che ne devo fare di questa "cosa" :D A proposito! I PumpinkPunkerz
è un gruppo inventato di sana pianta così come i
titoli delle loro canzoni. La canzone "God save the Queen" che ho
incorporato nella storia è dei Sex Pistol.
Speriamo a riscriverci,
Kiki :D
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Capitolo 2 *** 2. Ubriachezza Molesta ***
Capitolo
2: Ubriachezza
molesta
A
tavola
nessuno fiatava. Non volava una mosca. Solo le posate sui piatti
facevano un
fracasso irritante. Ad ogni minima domanda che Jodi o Savannah mi
ponevano - “Vuoi
un altro po’ di purè?” oppure
“A New
York fa freddo come qui?”- rispondevo con grugniti degni di
un animale
cresciuto nella giungla. Intorno a me aleggiava una carica di
negatività.
Facevo a brandelli i pezzi di roastbeef che avevo nel piatto,
immaginando di
avere Adam sotto le punte biforcute della mia forchetta. Lui stava
lì, con la
sua aria strafottente, a guardarmi divertito. Ogni tanto gli lanciavo
sguardi
omicidi, a cui lui rispondeva con una semplice alzata di sopracciglia.
In quel
momento provai realmente l’odio sulla mia pelle. Di solito
quando qualcuno non
mi piaceva, diventavo indifferente nei suoi confronti. Ma Adam doveva
sapere
che lo odiavo, doveva sapere cos’era l’odio
così come lo iniziavo a conoscere
io. Gli avrei reso la vita un inferno, più di quanto
involontariamente facevo.
“Hai un ragazzo a New York?” la domanda di
Savannah, congelò di più l’aria
nella sala. Fu come se qualcuno si fosse divertito a scaraventarmi un
enorme
macigno dritto sulla faccia e io fossi sprofondata in un lago di magma
rovente.
Adam prese a ridere. Jodi prese a servirsi una porzione di piselli
senza
riuscire a smettere di versarseli sul piatto. Mio padre
iniziò a tossicchiare,
imbarazzato. Ma sapevo che tutti, a conoscenza dei fatti, volevano
saperlo.
“No” dissi, togliendo ogni dubbio a tutti.
“Scusate, non ho più fame” dissi
alzandomi da tavola. Sbattei la porta della mia stanza e mi buttai sul
letto.
Sentii bussare alla porta. “Adam, vattene non mi va di
vederti” dissi scocciata
rivolta verso la porta chiusa. “Sono Savannah”
disse lei timidamente e a voce
bassa, che quasi feci fatica a sentirla. Sospirai, mi alzai dal letto e
le
aprii la porta. “Dimmi” dissi, un po’
troppo scontrosa. “Ecco, mi dispiace. Non
volevo offenderti prima. Non pensavo fossi, ehm.. lesbica.” Se non fossi stata
così sicura di aver
sentito quelle parole, probabilmente non ci avrei creduto. Iniziai a
ridere,
visibilmente e realmente divertita. “Non sono
lesbica” le dissi appoggiandole
una mano sul braccio. “E’ che mi siete sembrati
tutti così strani a tavola, e
ho pensato..” “Tranquilla. Facciamo che quando
vorrò parlartene, te lo farò
sapere. D’accordo?” le dissi sorridendo. Per quanto
io mi sforzassi di vederla
come una donna, non riuscivo a smetterla di trattarla come se fosse
ancora una
bambina. Le diedi una dolce carezza sulla guancia. “Sono
felice che tu sia qui”
mi disse puntando i suoi occhi dorati nei miei. In quel momento mi
chiesi come
Jodi avesse potuto partorire un mostro insensibile come Adam e una
creatura che
avrebbe fatto sciogliere i ghiacciai in Antartide come Savannah. La
abbracciai
“Ti prego, non farmi piangere” le dissi ridendo.
Rise insieme a me. “Che dici?
Hai voglia di parlare?” disse lei, con un guizzo di
curiosità negli occhi.
“Vatti a sedere sul letto, ficcanaso” le dissi
teneramente, spingendola
all’interno della mia stanza e chiudendo la porta. La
raggiunsi. Il battito del
mio cuore iniziava ad accelerare. Quando avrei finito di raccontarle
come
stavano realmente le cose, come mi avrebbe giudicata? Sarebbe stata
disgustata?
Delusa come lo era stata mia madre, che non era riuscita nemmeno a
guardarmi in
faccia prima che io partissi per Londra? Sospirai, tentando di darmi
coraggio,
mentre la mia sorellastra mi guardava sempre più
incuriosita. “Ti hanno detto
perché sono venuta a stare da voi?” le chiesi,
immaginando già la risposta.
“No.” Appunto.
Un altro sospiro. Non
sapevo da dove cominciare. Dal principio. Dalla fine. Che cavolo potevo
dire
per giustificarmi in qualche modo? Sbuffai. Ero pronta a sputare tutta
la
verità. “Posso parlarti?” la voce di
Adam, fredda e gelida, entrò nella mia
camera mettendomi i brividi. “Stavamo per intrattenere
un’interessante
conversazione” rispose
nostra sorella,
mettendo il broncio. “La farete un altro giorno questa
‘interessante
conversazione’” le fece il verso, aprendo di
più la porta in modo che Savannah
capisse che doveva andarsene. La vidi sbuffare e strascicare i piedi a
terra,
proprio come se fosse tornata piccola. Lui entrò e si chiuse
la porta alle
spalle. “Che vuoi?” gli chiesi astiosa, rimasti
soli. “Senti, smettila di fare
l’incazzosa. Non è colpa mia se fai danni in
giro.” Sapevo a cosa si stava
riferendo tra le righe. Sentii ribollirmi il sangue nelle vene. Mi
scaraventai
contro di lui e lo spinsi con forza contro la porta. Ci ero riuscita.
L’avevo
spostato con la mia sola forza. Lo notò anche lui, con viso
stupito, mentre gli
sventolavo davanti alla faccia un indice poco rassicurante
“Tu! Non ti
azzardare! Non provare a metter bocca in ciò che non sai!
Non ti permettere
Adam o giuro che non rispondo delle mie azioni!” gridavo
così forte, che pensai
che mi sentissero fino a New York. “Mi impiccio e come dato
che sei venuta a
rompere i coglioni anche a Londra! Se solo ti fossi trattenuta le tue
voglie da
adolescente..” ma non finì la frase. Gli tirai un
pugno in faccia. Dal mio
metro e 55 scarso riuscii a colpirlo in pieno volto. Tutta la mia
rabbia si era
concentrata in quel piccolo pugno. “Aaaahhhh!! Che
doloreeee” mi strinsi la
mano nell’altra e mi maledetti mentalmente. Non pensavo che
tirare un pugno
potesse fare così male. “Ma sei deficiente?!
Dovrei essere io quello che si
lamenta! Mi hai tirato un pugno in faccia, Lee!”
sbraitò lui, massaggiandosi la
guancia ‘ferita’.
“Se tu non fossi
dannatamente stronzo, magari mi sarei risparmiata di rompermi la mano
sulla tua
faccia!” “Pazza violenta! Ma sei cresciuta in una
gang?” Doveva fargli davvero
male. E per un attimo fu pura estasi. Per quanto lui potesse avermi
ferita
dentro, io ero riuscita a tirargli un pugno. Un pugno, Cristo Santo!
Iniziai a
ridere soddisfatta. “Sei un’invasata!”
disse spingendomi leggermente, per far
si che tra di noi ci fosse la maggior distanza possibile. “Te
lo sei meritato,
brutto idiota” dissi dolorante. Mi veniva da piangere dal
male che sentivo. Ma
non volevo dargli quella soddisfazione. “Fammi
vedere” disse, prendendomi la
mano. Lo allontanai “Non mi toccare”
“Smettila di fare la ragazzina e fammi
vedere quella mano” “Non mi sembra tu sia un
dottore, quindi non vedo come tu
mi possa aiutare!” “Tu e la tua linguaccia! Vuoi
stare zitta un attimo e darmi
quella cazzo di mano?!” Era furioso, si vedeva. Sbuffai e gli
porsi il mio arto
malandato. “Riesci a muoverlo?” “Se ci
riuscissi, ti tirerei un altro cazzotto,
non ti pare?” dissi sarcastica. Lui mi gelò con il
suo sguardo. Non era in vena
di ironia in quel momento. “Ahia, cazzo! Mi fa
male!” dissi indietreggiando la
mano, mentre lui tentava di aprirla. “Non penso sia rotta.
Proviamo a metterla
sotto l’acqua fredda. Se non ti passa, ti porto in
ospedale.” Mi trascinò in
bagno. In un giorno ero riuscita a provocarmi escoriazioni sulle mani
dovute
all’arrampicata, un livido sul sedere dovuto a quando io e
Adam stavamo
giocando, e probabilmente una mano rotta. Niente
male, Hayley. A quest’ora sarai iscritta nel Guiness dei
Primati come ‘sfigata
mondiale’. Chiuse la porta del bagno.
Aprì l’acqua fredda e tentò di
immergere la mia mano sotto il getto gelato. Ma io la ritrassi.
“Mi fa male”
“Almeno bagnala un po’” “E se
l’ho rotta?” “Che vuoi che sia? Ti
metteranno il
gesso” Sbuffai e la immersi nell’acqua. Trattenni
un imprecazione, mentre il
getto gelato faceva come da anestetizzante per la mia mano. Bagnai anche
l’altra e la appoggiai sulla
guancia di Adam, che era ritornato a fissarmi insistentemente.
“Ti fa male?”
gli chiesi, massaggiandogli delicatamente la guancia. “Sei
riuscita a prendermi
bene. E’ stata solo fortuna” Sorrisi
“Sì, solo fortuna” ripetei. I nostri
occhi
continuavano ad incrociarsi. “Mi dispiace” dissi,
abbassando lo sguardo. “Per il
pugno? N-“ “No. Quello te lo sei
meritato” lo interruppi, sicura. “Mi dispiace
per essere arrivata qui e avere incasinato la vita anche a
voi” continuai
bisbigliando. Lui lasciò la mia mano sola sotto il getto e
mi prese il viso tra
le sue mani. “Ascoltami bene, perché lo
dirò solo una volta, d’accordo?”
Annuii, ipnotizzata dai suoi occhi azzurri. “Per quanto tu
possa essere
rompicoglioni, violenta e completamente folle” Ottima
premessa. “Fai parte di questa famiglia. Che ti
piaccia o
meno. E in questa famiglia, ci si aiuta come si può. Hai
avuto un ‘incidente di
percorso’. Può capitare. Ma non ti dispiacere mai
per aver accettato il nostro
aiuto, capito? Questo non ti rende una debole. Sapevamo tutti a cosa
avrebbe
portato la tua sistemazione qui. Ma ci è sembrato il modo
migliore per farti
ricominciare da capo” “E allora perché
continui a ricordarmi i miei errori? Ti
diverte tanto farmi soffrire?” Dopo il suo discorso e una
breve analisi della
situazione e delle mia vita, non riuscii più a trattenere le
lacrime. “Voglio
solo che tu riesca a superare questa stronzata, senza farti buttare
giù da
qualche cattiveria” “Non sta andando molto
bene” gli dissi, accarezzandogli la
guancia tumefatta. Rise divertito. Mi asciugò le lacrime.
Ecco l’Adam che mi
piaceva: gentile, dolce, fraterno. “Cosa eri venuto a
chiedermi?” gli chiesi,
ricordandomi che voleva dirmi qualcosa prima di quella scenata da
lottatori di
boxe. “Se volevi uscire. Ma visti gli eventi..”
“Già.” Risposi semplicemente,
prima di godermi l’ultimo tocco gentile della mani di Adam
sul mio viso. “Ci
vediamo domani” disse, prima di uscire dal bagno. Restai
immobile, a guardarmi
la mano, che riuscivo a muovere normalmente senza sentire nessun
dolore. Tornai
in camera e mi sdraiai sul letto. Maledetto il suo sguardo. Maledette
le sue
parole. Maledetto Adam, che mi faceva dimenticare perché ero
arrabbiata con
lui. Chiusi gli occhi, ma non riuscii a dormire.
Guardai
la
sveglia, mentre i passi di Adam rimbombavano pesanti sulle scale. Le
tre e
venti di notte. O di mattina, da un altro punto di vista. Non ero
riuscita
minimamente a chiudere occhio. La mano mi pulsava. Lo sentii entrare in
camera
e buttarsi sul letto. Sbuffai. Mi alzai e scesi in cucina per prendere
un pacco
di surgelati da mettermi sulla mano. Quando tornai in camera mia non
feci caso
ad Adam seduto sul mio letto. “Posso dormire con
te?” mi chiese semplicemente.
Non risposi. Chiusi la porta e mi avvicinai al letto. “Ti fa
ancora male?” mi
chiese notando la busta gelata sulla mia mano. Annuii. “Vuoi
che ti porto in
ospedale?” “No” dissi sedendomi accanto a
lui. “Non riesci a dormire?” gli
chiesi con voce rauca. “No” disse semplicemente. Mi
sdraiai sul letto e lo
tirai leggermente per la manica della felpa verso di me. Mi accoccolai
sul suo
petto, come un gatto ubbidiente e lui prese ad accarezzarmi i capelli.
Per un
momento mi sembrò di ritornare alle dolci serate con Jamie,
nel suo
appartamento. Ma Adam non era Jamie. Adam non sapeva di sigaretta mista
a caffè
macchiato con panna. Non mi accorsi nemmeno che stavo piangendo. Mio
fratello
si tirò su a sedere e mi abbracciò.
“Sfogati” disse solo, coccolandomi tra le
sue braccia. Mi avvinghiai a lui come un koala e piansi tutte le
lacrime che
avevo in corpo. “Vuoi parlare?” mi chiese
premuroso. “Voglio solo dimenticare”
dissi asciugandomi le lacrime dal viso.
“D’accordo” disse lui, avvicinandosi
pericolosamente a me. Risi e lo spinsi dolcemente indietro
“Stupido”. Ma lui
sembrò quasi rimanerci male. Gli accarezzai una guancia e
per l’ennesima volta
mi persi in quegli occhi azzurri, così limpidi e
così.. “Hai bevuto?” gli
chiesi d’un tratto, notando il suo sguardo annebbiato.
“Un po’” rispose lui con
voce impastata. Ritornai di fianco a lui e lo feci sdraiare.
“Vedi di dormire,
idiota” dissi ridendo. “Buonanotte
frignona” rispose intrecciando la sua mano
nella mia sana. Cadde in un profondo sonno. Io, invece, non riuscivo a
muovermi. Perché il contatto con la sua mano mi faceva
battere il cuore così
forte? E’ tuo fratello, cazzo .La
voce nella mia testa aveva ragione. Ma non riuscii a dormire nemmeno un
minuto
quella notte. Rimasi ferma, a sentire il respiro di Adam sul collo, la
sua mano
stretta nella mia, il suo corpo vicino al mio. In una cosa Adam aveva
ragione:
ero un’invasata. Quando lo sentii muoversi, doveva essere
già mattina, anche se
non c’era un barlume di luce nel cielo. Istintivamente chiusi
gli occhi. Lo
sentii stiracchiarsi. “Ma che cazzo?”
bisbigliò, probabilmente notando dove
aveva dormito e con chi aveva dormito. Il mio cuore batteva come un
tamburo e avevo
paura che nel silenzio lui potesse sentirlo. Di riflesso,
involontariamente,
gli strinsi più forte la mano. Lo sentii sospirare e
mugugnare un “E’ tua
sorella, coglione”. Poi sciolse la sua mano dalla mia e
uscì dalla mia camera.
Aprii gli occhi e feci un respiro per calmarmi. Mi diedi un leggero
schiaffo
sulla fronte, come per allontanare un pensiero dalla mia mente. In quel
momento
riuscii ad abbandonarmi tra le braccia di Morfeo.
“Pochi giorni fa mi sono giunte delle
voci,
da fonti molto attendibili” L’uomo davanti a me,
basso e calvo, mi squadrava
come se fossi una serial killer. La mia mente si svuotò
completamente mentre il
mio cuore accelerava i battiti. Sapevo già dove voleva
andare a parare. Ero in
apnea da pochi minuti quando lui ricominciò a parlare
“Ho sperato che queste
voci si sbagliassero, ma dopo appurate ricerche ho constatato che era
tutto
vero” Appurate ricerche. Effettivamente era il rettore di una
delle facoltà di
giornalismo più facoltose d’America.
“Signorina Doherty, immagino lei sappia di
cosa io stia parlando e immaginerà anche cosa sono costretto
a fare” Non dirlo,
non dirlo. Ti prego, non farlo. “Devo chiederle di
abbandonare immediatamente
la facoltà” lo disse con voce tombale.
“Io..” tentai, sapendo di non avere
nulla a mio favore. “Mi dispiace” disse solo,
mentre sentivo il pavimento sotto
ai miei piedi aprirsi e inghiottirmi. Mi indicò la porta e
io uscii a testa
bassa. Avevo mandato tutto a puttane. E per che cosa? Per amore.
Aprii
gli
occhi. Sperai che fosse stato solo un incubo, ma guardandomi intorno mi
accorsi
che era stato tutto vero. Che quello che mai pensavo mi potesse
succedere, era
accaduto. La porta si aprì di scatto.
“Jamie” sussurrai, forse sperando di
trovarlo davanti a me. Ma gli occhi di Adam mi perforarono.
“Hai detto
qualcosa?” mi chiese, senza capire. “No”
dissi solo, sdraiandomi nuovamente e
mettendomi un braccio sugli occhi. “Hai intenzione di restare
lì a vegetare
ancora per molto?” mi chiese, gelido. Era tornato il solito
Adam. Non gli
risposi. Non ero in vena di discussioni. Volevo solo starmene da sola.
E la sua
presenza di certo non dava man forte alla mia solitudine.
“Che vuoi?” gli
chiesi, nella stessa posizione. “Alzati!” mi
ordinò. Si avvicinò al mio letto.
“Lasciami
stare” dissi stanca. “Reagisci, cazzo!”
sbraitò, stringendomi per un braccio e
tirandomi su, come se pesassi mezzo chilo. Lo guardai ad occhi
spalancati. “E
levati dalla faccia quell’espressione da
deficiente” disse puntando i suoi
occhi nei miei. “Vuoi un altro pugno?” gli chiesi
con un mezzo sorriso. “Vatti
a lavare. Ti porto a fare un giro” disse uscendo dalla mia
stanza così come era
rientrato. Sospirai. Ormai decideva tutto lui. Mi feci una doccia
veloce e mi
vestii
svogliata. Lo raggiunsi al piano di sotto. Lui mi squadrò
dalla testa ai piedi.
E sospirò, evidentemente senza speranze. “Dove
andiamo?” gli chiesi in
macchina. “A bere” mi disse semplicemente.
“Io non bevo” lo informai. “E invece
oggi lo farai” disse divertito. Parcheggiò la
macchina e scendemmo. Essendomi
addormentata quando ormai era mattina, mi ero svegliata che era
già sera.
Entrammo in un tipico pub inglese. All’entrata vidi un uomo
che vomitava l’anima
in un cespuglio. Probabilmente avrei fatto quella fine, alla prima
birra.
Seguii Adam attraverso i tavolini. “Ehy, Adam! Siamo
qui!” una voce femminile
aveva sovrastato il casino nel pub. Mi voltai verso quella voce e vidi
una
delle ragazze più belle che mai avessi visto. Alta, snella,
mora, occhi grandi
e castani. I jeans le stringevano le gambe lunghe. Ai piedi indossava
un paio di
scarpe dai tacchi vertiginosi. Aveva solo una canottiera nera a
fasciarle il
suo addome piatto e il suo seno abbondante. In quel momento mi venne in
mente
che forse Savannah aveva ragione: ero lesbica. Adam mi tirò
per il braccio,
risvegliandomi dai miei pensieri. Raggiungemmo un gruppo di ragazzi e
ragazze
seduti a bere. Occupavano circa tre tavoli e molti di loro erano
già ubriachi.
La ragazza che aveva chiamato mio fratello mi guardava curiosa.
“E tu chi sei?”
mi chiese, dal suo metro e ottantacinque. “Hayley”
risposi, come se fosse la
risposta più ovvia che doveva aspettarsi.
“E’ mia sorella” disse Adam, prima di
baciarla sulla guancia. “Oh, ma che carina!” disse
lei, con fare troppo
espansivo abbracciandomi. Guardai terrorizzata mio fratello, che si era
già
accomodato lasciandomi nelle mani di quella pazza mezza ubriaca.
“Io sono
Lauren” il suo alito alcolico mi entrò nelle
narici, stordendomi. Poi si voltò
verso gli altri ragazzi “Lei è Hayley!”
esclamò ridendo. Mi sedetti vicino ad
Adam, che non provava nemmeno a tenermi compagnia. Mi sentivo a
disagio. Poi un
ragazzo, il più sobrio del gruppo, mi si avvicinò
“Sei quella di New York?” mi
chiese. “Già” risposi semplicemente.
“Piacere, Dave” disse stringendomi la
mano. Era molto carino. Viso curato, occhi castani incorniciati da
occhiali da
vista alla moda, capelli biondi spettinati. In quella compagnia, mi
ritrovai a
pensare, erano uno più bello dell’altro.
“Bevi” disse Adam, mettendomi sotto al
naso un enorme boccale di birra. “Non mi va” dissi
acida. “Tutto” sibilò
gelido. Sospirai. E se bere mi avrebbe davvero fatto scordare quanto la
mia
vita fosse una colossale montagna di merda? Presi il boccale gigante
tra le mie
mani e buttai giù tutta la birra. Il sapore amarognolo mi
disgustava ma bevvi
fino all’ultima goccia. Ed essendo a pancia vuota,
l’effetto dell’alcol iniziò
subito a farsi mostrare. Non ero una che faceva amicizia molto
velocemente. Ma
in quell’occasione consideravo ogni persona che veniva a
parlarmi come un mio
amico di vecchia data. Adam mi passò tre cocktail che
inghiottii senza fare domande.
Potevo considerarmi una ex-astemia. E una futura alcolista anonima. Mi
piaceva
l’effetto che l’alcol aveva sul mio corpo e sulla
mia mente. Era riuscito a
farmi scordare tutto quanto. “Voglio rimanere ubriaca per
sempre” dissi a mio
fratello mentre mi accompagnava fuori dal locale per farmi prendere una
boccata d'aria, dato che la situazione stava degenerando. Aveva bevuto
più di me,
eppure riusciva a stare in piedi senza barcollare. Io, invece, senza il
suo
supporto, sarei caduta a terra sfracellandomi contro
l’asfalto del marciapiede.
Lo sentii ridere. Mi fermai di botto e presi a fissarlo.
“Devi vomitare?” mi
chiese, spostandosi leggermente a destra. “No”
dissi “Volevo solo guardarti”
ammisi. Se non fossi stata ubriaca, probabilmente non avrei preso ad
accarezzargli il viso. Probabilmente non mi sarei avvicinata
così a lui.
Probabilmente non gli sarei saltata in braccio. Probabilmente non avrei
tentato
di baciarlo. “Hayley” disse, indietreggiando un
po’ la testa. “Tu non mi vuoi”
dissi, più a me stessa che a lui. “Siamo
fratelli” “Noi non siamo fratelli”
dissi acida. “Perché dobbiamo litigare
sempre?” sbraitai come se fossi stata
posseduta dal diavolo. Non mi ero nemmeno accorta che stavo camminando.
“Dove
cazzo vai?” disse, prendendomi con forza il braccio.
“A casa. A vomitare”
dissi, facendo forza sulla sua mano con la mia per fargli lasciare la
presa sul
mio braccio. “Non sai nemmeno dove siamo”
“Prima o poi troverò casa nostra”
“Entra
immediatamente” disse, come se fossi stata una bambina,
indicandomi il pub.
Gliel’avrei fatta pagare. Gli avrei fatto pagare il suo
rifiuto nei miei
confronti. “Fottiti. Troverò qualcuno di meglio di
te lì dentro” e barcollando,
rientrai nel locale. Ma non tornai dai suoi amici. Guardai il bancone,
dove
erano appostati un sacco di altri ragazzi. “Chi mi offre da
bere?” chiesi
sfoggiando la mia miglior faccia da gatta morta in direzione di tutti
loro.
Meno di dieci minuti dopo mi ritrovai accerchiata da un branco di lupi
famelici
che mi offrivano ogni tipo di intruglio esistente. Bevvi tutto. Non
tralasciai
nemmeno un bicchiere. Mi voltai verso il gruppo di Adam. Il mio cuore
perse un
battito. Poi un altro. E un altro ancora. Baciava Lauren. Sentii la
testa
girarmi. “Tutto bene?” mi chiese Dave,
l’occhialuto amico di mio fratello. “Puoi
accompagnarmi a casa?” gli chiesi, sperando di non iniziare a
piangere. Mi
aiutò a salire nella sua macchina. Involontariamente tiravo
delle leggere
testate contro il finestrino del passeggero. Lo sentivo ridere. Ogni
tanto mugugnavo
qualcosa, in risposta alle sue domande che non mi
importavano.
“Grazie” dissi, prima di
scendere dalla macchina. Lo baciai sulle labbra, lasciandolo sorpreso.
Fu un’impresa
riuscire ad aprire la porta. Jodi mi aveva dato un mazzo di chiavi,
stracolmo
di pupazzetti e oggetti metallici che, essendo ubriaca marcia, pensavo
potessero aprire magicamente la porta di casa. Mi trascinai in camera
mia e mi buttai a peso morto sul letto.
Il mio
fegato reclamava pietà e il mio stomaco era sottosopra. Mai più alcol. Non sapevo se
mi fossi addormentata o quanto tempo fosse passato, ma quando
riaprii gli occhi sentii dalla camera di Adam strani suoni. Mi alzai di
scatto
dal letto e aprii le orecchie per capire che stava succedendo. Posai la
testa
contro la parete che separava la mia stanza dalla sua. Gemiti e
sospiri. Stava
facendo sesso. La ragazza rise. Lauren. Puttana. Barcollando uscii
dalla mia
stanza e spalancai la porta della camera di Adam. “Potete
abbassare la voce?!
Mi scoppia la testa!” sbraitai prima di sbattere la porta.
Vidi solo i suoi
occhi, sgranati, azzurri. Andai in bagno e iniziai a vomitare,
più per il
nervoso che per la voglia di smaltire tutto l’alcol che avevo
in corpo. E’ tuo fratello, stupida. Non
riuscivo
a smettere di insultarmi. Perché mi importava tanto di lui?
Io lo detestavo,
non lo sopportavo, lo odiavo. Bugiarda.
Avevo provato a baciarlo. Una ragazza con tutte le rotelle al loro
posto, non
avrebbe mai provato a baciare suo fratello. Cosa c’era che
non andava in me?
Vomitai ancora, e ancora. Più pensavo ad Adam e
più vomitavo. Sentii una mano
tra i capelli. Il mio stimolo per vomitare mi guardava un po’
imbronciato
mentre mi accarezzava la testa. “Fammi bere ancora e giuro
che ti uccido” dissi
prima di chiudere gli occhi.
Ok.
Secondo capitolo terminato. Immagino che il motivo per cui la nostra
protagonista si sia trasferita a Londra, lo abbiate capito tutti. Avevo
pensato di dedicare un intero capitolo a questo inciucio amoroso
politicamente scorretto. Bene iniziamo con i ringraziamenti.
GRAZIEEE!!!!! :D
@
barrYs: eccoti soddisfatta! Capitolo appena sfornato per la tua gioia
(ma de che? XD). Grazie mille per aver lasciato una recensione..
è stato bellissimo vedere che almeno qualcuno abbia
apprezzato questa storia XD
Grazie
anche a chi ha aggiunto "Posso amarti?" tra i preferiti, tra le storie
seguite o ricordate... mi avete fatto un piacere immenso :D Non vi
deluderòòòòò
muhauahuahauhauh XD
Un
bacio,
Kiki
|
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Capitolo 3 *** 3. Amore perso, amore represso ***
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Capitolo
3: Amore
perso, amore represso
Stavo
sdraiata sul prato, con un libro sulla faccia per coprirmi dal sole
mentre
tentavo di appisolarmi. L’aria era tiepida e intorno a me una
distesa infinita
di altri studenti parlavano, ridevano e studiavano. Sbadigliai
sonoramente
mentre qualcuno mi tirò via il libro dal viso.
“Dovresti studiare al posto di
star qui a dormire” la voce severa di Jamie mi rimbombava
nelle orecchie. Lo
guardai “Non hai lezione?” gli chiesi, sorpresa di
vederlo. “Inizio fra
mezz’ora” mi rispose, scompigliandosi i capelli. La
prima volta che avevo visto
Jamie l’avevo scambiato per uno studente. Mai avrei detto che
fosse un
professore. Era uno dei docenti più giovani, se non il
più giovane. Aveva
trent’anni, ma ne dimostrava poco più di una
ventina. “Tieni” disse passandomi
un caffè di Starbucks. Manna dal cielo. Lo presi avida tra
le mie mani.
“Immaginavo ti avrebbe fatto piacere”
“Immaginavi bene” dissi pimpante,
sorseggiando il mio caffè macchiato con panna. “Ci
vediamo dopo?” gli chiesi,
notando che si stava alzando dal prato. Annuì semplicemente
e sparì tra la
folla. Sorrisi notando quanti studenti lo salutavano entusiasti. Ma una
morsa
allo stomaco mi fece ripiombare nel senso di colpa. Mi
accesi una sigaretta, sperando che quel
senso di angoscia mi abbandonasse. Lo amavo, che potevo farci? Amavo i
suoi
dolci occhi castani. Amavo il suo modo di prendersi cura di me. Amavo
la
passione che metteva in tutto. Amavo i suoi baci. Amavo
l’essere amata da
qualcuno incondizionatamente e sinceramente come faceva lui. Presi a
sfogliare
il mio libro, quando il mio cellulare vibrò. Un messaggio. Ti amo. Non ero più su un
prato stracarico di gente e insetti.
Volavo su una nuvola di zucchero filato dritta nel paese degli
unicorni. Sapeva
fare questo, Jamie. Sapeva trasportarmi in mondi fantastici. Sapeva
farmi
tornare bambina con solo due parole. Sospirai e risposi al messaggio
con un
banale ‘anche io’. Alle volte di fianco a lui mi
sentivo scontata. Lui mi
sorprendeva e io non facevo nient’altro che sospirare
fantasticando su di noi.
Mi sdraiai di nuovo sul prato in attesa che le lezioni finissero e che
lui
potesse essere tutto per me. “Hayley!” la voce di
Trent mi scosse con forza dai
miei pensieri. “Che succede?” gli chiesi.
“Non lo so, il rettore ha convocato
il professor Pills e la sua segretaria mi ha chiesto di venirti a
chiamare” Mi
mancò il fiato. “Cos’hai
combinato?” mi chiese ridendo. “N-niente”
risposi
colpevole. Lui aggrottò la fronte, notando il mio
tentennamento. Mi alzai dal
prato, presi la mia borsa e mi avviai nell’ufficio del
rettore. A metà
corridoio incontrai Jamie. Il volto scuro. Guardava dritto davanti a
sé. Non
gettò nemmeno un’occhiata dalla mia parte. In quel
momento capii: ci avevano
scoperti. Mi superò con passo svelto. Mi voltai un attimo a
guardarlo. Stava
andando verso il suo ufficio. Merda. Quando mi trovai davanti
all’ufficio del
rettore sentii chiaramente un tossicchiare imbarazzato alle mie spalle.
La
segretaria, la signora Mcfinnies, doveva aver intuito qualcosa. Bussai
terrorizzata alla porta che mi separava da un atroce destino. Il
rettore mi
invitò ad entrare, cortese come al solito. Il suo ufficio
era illuminato dai
raggi solari dell’esterno. Avevo voglia di chiudere le
persiane delle finestre
per non farmi guardare in faccia. Vergogna. Umiliazione.
Irresponsabilità. Senso
del pudore pari a zero. “Si accomodi pure, signorina
Doherty” disse,
indicandomi la sedia davanti a lui. “Pochi giorni fa mi sono
giunte delle voci,
da fonti molto attendibili” L’uomo davanti a me,
basso e calvo, mi squadrava
come se fossi una serial killer. La mia mente si svuotò
completamente mentre il
mio cuore accelerava i battiti. Sapevo già dove voleva
andare a parare. Ero in
apnea da pochi minuti quando lui ricominciò a parlare
“Ho sperato che queste
voci si sbagliassero, ma dopo appurate ricerche ho constatato che era
tutto
vero” Appurate ricerche. Effettivamente era il rettore di una
delle facoltà di
giornalismo più facoltose d’America.
“Signorina Doherty, immagino lei sappia di
cosa io stia parlando e immaginerà anche cosa sono costretto
a fare” Non dirlo,
non dirlo. Ti prego, non farlo. “Devo chiederle di
abbandonare immediatamente
la facoltà” lo disse con voce tombale.
“Io..” tentai, sapendo di non avere
nulla a mio favore. “Mi dispiace” disse solo,
mentre sentivo il pavimento sotto
ai miei piedi aprirsi e inghiottirmi. Mi indicò la porta e
io uscii a testa
bassa. Avevo mandato tutto a puttane. E per che cosa? Per amore. Come
avrei
potuto spiegare a mia madre che ero stata cacciata dal college per una
tresca
con un professore? Tresca? No, io ero innamorata di lui e lui di me.
Senza
pensarci corsi nell’ufficio di Jamie. Aprii la porta e lo
trovai seduto sulla
sua sedia di pelle, intento a fumare una sigaretta e a piangere
silenzioso.
Alzò il suo sguardo su di me. Volevo abbracciarlo,
stringerlo a me. Avrei
voluto urlargli in faccia che non l’avrei lasciato solo. Ma
lui mi bloccò
“Sparisci di qui, Hayley” sibilò fra i
denti, con un tono che pensavo non
potesse appartenergli. “Ora possiamo stare insieme,
no?” dissi in un attimo di
follia. Non so cosa lo trattenne dal prendermi a schiaffi.
“Hayley, sei
stupida, per caso?! Io ho rovinato il tuo futuro e tu la mia carriera e
l’unica
cosa che hai da dirmi è che ora potremmo stare
insieme?!” “Possiamo uscire allo
scoperto!” “Ci hanno già scoperti! E non
mi sembra sia andata molto bene per
entrambi” “Ma..” “Basta,
Hayley. Sparisci dalla mia vita”. Si era alzato e mi
aveva spinto fuori dal suo ufficio. Mi chiuse la porta in faccia. E con
quello
avevo capito che diceva sul serio. Il tono che aveva usato, le sue
maniere
dure. Non mi voleva più. Per quanto mi amasse, non mi
avrebbe più voluta. “Per
favore, non mi lasciare” bisbigliai attaccata alla porta,
disperata. Le lacrime
mi bagnavano il viso. Fu come se qualcuno mi avesse strappato il cuore
dal
petto e ci avesse fatto un ragù di carne e sangue. Mi
allontanai da quella
porta chiusa. Chiusa come la nostra storia. E tornai a casa. Avevo
perso tutto
ciò che mi importava. Perché doveva essere il mio
professore? Perché non poteva
essere uno studente come me? Quando entrai in casa, lo sguardo gelido
di mia
madre mi perforò l’anima. Il rettore doveva averla
già avvisata. “Ti è dato di
volta il cervello?” chiese solamente. Non risposi. Avrei
voluto urlare, rompere
qualcosa. “Ho chiamato tuo padre e l’ho informato.
Ti trasferirai da lui a
Londra. Non ti voglio più in casa mia” disse prima
di sparire in camera sua a
piangere. Ero riuscita a deluderla, a farla vergognare. Non replicai
nemmeno.
Non ne avevo la forza. Mia madre non mi voleva più. Jamie
non mi voleva più. Il
rettore del college non mi voleva più nella sua
università. In quel momento mi
chiesi per che cosa vivevo. Che cosa mi avrebbe spinto ad andare
avanti. Se
esisteva qualcuno in grado di amarmi. Piansi silenziosamente. Quel
qualcuno
esisteva. Ma quell’amore era stato sbagliato fin
dall’inizio. Aveva infranto i
sogni e le aspettative di entrambi. Mi aveva ridotto ad una stupida
sognatrice.
Presi il cellulare e rilessi milioni e milioni di volte quel
‘ti amo’ di poche
ore prima. Quelle semplici parole che amavo sentirmi dire da lui.
Entrai in
camera mia e iniziai ad impacchettare la mia roba.
Due
settimane. Due fottutissime settimane da quando avevo tentato di
molestare mio
fratello. Ero caduta in uno stato di mutismo assoluto nei confronti di
Adam. Ma
a lui sembrava non importare. Alle volte lo trovavo a fissarmi con il
suo
solito modo indecifrabile e volgevo lo sguardo da un’altra
parte, imbarazzata.
Avrei voluto prendermi a sassate sulle dita delle mani piuttosto che
passare il
mio tempo con lui. Stavo giocando con una polpetta nel piatto quando
sentii il
mio cellulare suonare nella tasca della mia felpa. Mi alzai da tavola e
risposi
in cucina. “Pronto?” “Hayley, ciao! Sono
Freddie, lo steward” sorrisi
imbarazzata. Mi ero dimenticata di avergli dato il mio numero di
telefono.
“Ehy, Freddie come va?” chiesi gentile.
“Tutto bene. Senti, stasera sono a
Londra. Ti va se ci vediamo?” “Si,
d’accordo. Tanto non ho nient’altro da
fare”
“Ah bene! Allora ci vediamo alle nove davanti a Buckingham
Palace, ok?” “Va
bene” risposi prima di chiudere la conversazione.
“Chi è Freddie?” la voce di
Adam mi fece smettere di sorridere. “Uno che ho conosciuto in
aereo” risposi
vaga, uscendo dalla cucina. “E’ molto lontano
Buckingham Palace da qui?” chiesi
a Jodi, intenta a versarsi un bicchiere d’acqua.
“No, non molto” rispose
pensandoci su. Savannah mi spiegò in modo molto dettagliato
come raggiungere la
mia meta, dopo aver scoperto che mi sarei dovuta vedere con un ragazzo.
Sui
visi di Jodi e di mio padre, invece, leggevo preoccupazione.
“L’ho conosciuto
in aereo. E’ uno steward e ha un paio di anni in
più di me” dissi, notando poi
che si erano tranquillizzati. Salii al piano di sopra, in camera mia e
fui
raggiunta da Adam. “E’ un appuntamento?”
mi chiese chiudendo la porta alle sue
spalle. “Non lo so” risposi sincera. Non riuscivo a
guardarlo in faccia. Le mie
guance stavano prendendo fuoco. “E pensi di girare per Londra
da sola?” “Starò
con lui” “Dovrai arrivarci a Buckingham”
“Affitterò una guardia del corpo nel
tragitto” risposi ironica. Mi
spinse sul letto e si mise a cavalcioni su di me. “E se ti
dicessi che non
voglio che tu esca con lui?” mi chiese talmente vicino al mio
viso, da vedermi
specchiata nei suoi occhi azzurri. Ecco che il mio cuore prendeva a
martellarmi
nel petto. “Ti risponderei che io e te siamo solo
fratelli” risposi, trovando
la forza di guardarlo negli occhi. Capì
all’istante e sorrise divertito. Si
alzò dal letto e velenoso mi disse “Divertiti, sorellina” prima di uscire
dalla mia stanza sbattendo la porta.
Sbuffai, senza capire il suo comportamento. Mi infilai in bagno e mi
buttai
sotto l’acqua calda della doccia. Asciugai i miei capelli,
districando i nodi
con una spazzola e li lisciai sotto il calore della mia piastra. Amavo
i
capelli lisci. Era un casino di tempo che non li piastravo e sentirli
tra le
mie dita mi fece involontariamente pensare a Jamie. Dannato il mio
cervello che
non mi dava tregua. Lui mi diceva sempre che con i capelli lisci
sembravo una
bambina, che mi davano un tocco innocente. Scossi la testa, sperando
che il
ricordo di Jamie sparisse dalla mia mente ed uscii. “Sei
bellissima” mi disse
una curiosa Savannah che mi guardava mentre mi passavo un po’
di mascara sulle
ciglia. “Grazie” risposi, un po’
imbarazzata. Entrò in camera mia e si mise di
fianco a me. “Come ti vesti?” mi chiese spostando
il suo sguardo sul mio
armadio. “Non ne ho la più pallida idea”
risposi alzandomi dal letto. “Pensavo
a un paio di jeans e a una felpa” dissi, notando la sua
alzata d’occhi al
cielo. “E’ un appuntamento! Non puoi andare vestita
come una che è andata allo
stadio” disse ridendo. “Ma io sto tanto
comoda” “Chi se ne frega! Non devi star
comoda! Devi risplendere!” disse, un po’ troppo
platealmente allargando le
braccia come ad imitare un bagliore accecante. Alla fine fu lei a
scegliermi i
vestiti. Mi sentii un’ idiota. Mia sorella di diciassette
anni che mi dava
lezioni su come presentarmi un appuntamento. “Dovresti
metterti dei tacchi” “Te
lo scordi” fu la mia risposta seria a quella sua proposta.
“Almeno delle ballerine” “Non ho
ballerine” “Te le presto io, scema!”
corse in camera sua, al piano di sopra e
mi portò un paio di ballerine dorate, con un piccolo
fiocchetto nero sul
centro. Guardai allo specchio la mia figura per intero. Non sembravo
nemmeno io.
Sembravo quasi una ragazza elegante. “Perfetta” la
voce di Jodi mi fece
stringere il cuore. “Grazie” le dissi sinceramente
grata. “Lo farai cascare ai
tuoi piedi!” ridemmo a quella affermazione esaltata di mia
sorella. Avevo
impiegato tutto il pomeriggio a prepararmi, ma ne era valsa la pena.
“Non è
bellissima?” chiese Savannah. Mi voltai e vidi Adam che mi
guardava dalla testa
ai piedi. Grugnì qualcosa e tornò in camera sua.
“Bene, forse dovrei andare”
dissi a mia sorella e a Jodi. Mi accompagnarono al piano di sotto e mi
salutarono dalla porta. Savannah era stata precisa con le indicazioni.
In pochi
minuti mi trovai a Buckingham Palace. Meraviglioso.
Fissai allucinata il palazzo della regina ad occhi aperti.
“Hayley!” la voce di
Freddie mi fece voltare. Bellissimo.
Avevo dimenticato quanto fosse affascinante. “E’ da
molto che aspetti?” mi
chiese prendendomi per mano. “No, veramente sono appena
arrivata” lo seguii
attraverso Trafalgar Square, guardandomi intorno incantata e con
sguardo
sognante. Pensai a quella coppia che mi aveva fermato per strada il mio
primo
giorno a Londra. Se fossi stata con Jamie, probabilmente avrei fatto
anche io
tante di quelle foto da riempire milioni e milioni di album
fotografici. “A che
pensi?” mi chiese Freddie, riportandomi nella
realtà. “Non ricordavo quanto
fosse bella Londra” dissi con voce sognante. Lui rise
“Quindi ti trovi bene?”
“Non mi lamento” alzai le spalle. Per quanto
Freddie potesse essere bello, non
era interessante quanto mi ricordassi. Fai
la schizzinosa adesso? Sbuffai mentre mi raccontava di un
ennesimo viaggio
in aereo. “Ti sto annoiando?” mi chiese stupito.
Alzai un sopracciglio “No, no.
Continua pure” gli dissi, falsa. Avrei preferito rimanere a
casa. Avrei
preferito evitare di spendere tutto il pomeriggio a prepararmi,
eccitata come
una dodicenne al suo primo appuntamento, piuttosto che sorbirmi
un’altra
mezz’ora di racconti sui suoi viaggi. La sua presa sulla mia
mano era ridicola.
Nemmeno fossimo stati amici. “Scusami” dissi,
facendo finta di leggere un messaggio
sul cellulare “Devo tornare a casa” mentii.
“E’ successo qualcosa?” chiese
allarmato. “Nulla di preoccupante, ma devo andare”
dissi, dandogli un bacio
sulla guancia e incamminandomi verso casa.
“Un
caffè
macchiato con panna” dissi, con tono lugubre alla cameriera
al di là del
bancone. “Giornata nera?” mi chiese.
“Abbastanza” risposi, grattandomi la
testa. Eppure sull’aereo, Freddie mi piaceva.
Cos’era cambiato? Sospirai
abbandonandomi su un alto sgabello, proprio davanti al bancone. Girai
annoiata
il cucchiaino nella tazzina, carica di caffè. Tornai a casa,
sbattendo la porta
d’ingresso. “Sei già tornata?”
mi chiese Jodi, seduta sul divano intenta a
leggere un libro. Mio padre dormiva sulla poltrona, respirando
profondamente.
Voltai il viso di scatto e dal mio sguardo capì tutto. Salii
di corsa le scale
e sbattei la porta della mia stanza. Dalla camera di Adam sentii una
risata. La
sua odiosa risata. Lauren. Premetti il viso nel cuscino e lanciai un
urlo
rabbioso. Indossai una felpa e un paio di scarpe da ginnastica. Scesi
al piano
di sotto “Vado a farmi una corsa” ringhiai in
direzione di Jodi, senza nemmeno
guardarla. Uscii di casa e iniziai a correre. L’aria gelida
di Londra mi
entrava nelle narici e nei polmoni. Più correvo e
più scaricavo la rabbia che
provavo. Sentii un rombo sopra la mia testa, ma non mi fermai nemmeno
quando
iniziò a diluviare. L’acqua mi atterrava sul viso,
mi bagnava i capelli e i
vestiti. Più di una volta finii in una pozzanghera. Evitavo
i passanti con
passi felini. Ad ogni passo il mio cuore batteva, ringhiando. Sei un essere stupido e incomprensibile,
mi ripetevo. La risata di Lauren mi rimbombava nel cervello. Saperla
nella
stanza di Adam mi faceva girare i coglioni. E a quel punto presi a
correre più
veloce, sfrecciando nella pioggia che imperterrita cadeva dal cielo. E’ tuo fratello, stupida idiota!
E
allora perché ne ero quasi gelosa? Una gelosia non fraterna,
di certo.
Maledetto il mio cervello perverso. Mi fermai. La milza mi faceva un
male
assurdo. Non ero una tipa che amava correre e il mio corpo ne risentiva
come se
fossi stata investita da un tir più volte. Tornai a casa, a
passo lento, con il
fiatone. Aprii la porta e la richiusi alle mie spalle. “Santo
cielo! Hayley,
aspetta vado a prenderti un asciugamano” Jodi si
alzò non appena notò in che
condizioni pietose fossi. Bagnata dalla testa ai piedi, rossa in viso.
Mi tolsi
le scarpe e i calzini e aspettai, ferma sulla soglia di casa, che mi
portasse
un asciugamano. Lo vidi uscire dalla cucina. I suoi occhi azzurri si
posarono
su di me. Era a petto nudo e teneva in mano una lattina di un energy
drink. “Che
diavolo ti è successo?” chiese avvicinandosi.
“Piove” risposi ovvia. Mi
battevano i denti involontariamente. “Mamma! Abbiamo un
pulcino bagnato al
piano di sotto!” gridò rivolto a sua madre.
“Lo so!” rispose lei ridendo dal
piano di sopra. “Hai intenzione di rimanere lì a
tremare?” mi chiese alzando un
sopracciglio. “Non voglio sporcare casa” dissi,
stringendomi tra le braccia
congelate. Lui rise divertito. Jodi scese correndo dalle scale e mi
porse un
enorme asciugamano che profumava di biancheria pulita. Mi ci avvolse
intorno e
dolcemente mi sussurrò “Ti ho preparato un bagno
caldo” e mi scompigliò i
capelli. Le sorrisi e avvolta nell’asciugamano, a passo lento
salii al piano di
sopra, seguita da Adam. “Vuoi un po’ di
compagnia?” mi chiese, malizioso. “A
quanto so, sei già impegnato” dissi, sputando
veleno. Lui sembrò capire “Se ne
è andata” mi rispose. Non dissi nulla entrai nel
bagno, mi spogliai e mi
immersi nella vasca. L’acqua bollente, a contatto con la mia
pelle gelata, fu
così piacevole che pensai potessi sciogliermi. Jodi, aveva
riempito la vasca di
schiuma. Sorrisi. Da piccola pretendevo la schiuma quando facevo il
bagno. Doveva
essersene ricordata. Rimasi a mollo come un calzino circa
mezz’ora. Immobile ad
occhi chiusi. Mi sarei addormentata se mio fratello non avesse bussato
alla
porta. “Posso entrare?” chiese.
“No” risposi, ma fece finta di non aver sentito
ed entrò nel bagno. “Ho detto che non potevi
entrare, sei sordo oltre che
stupido?” gli dissi imbarazzata, nascondendomi tra la
schiuma. Lui chiuse la
porta, si sedette a terra, con la schiena appoggiata alla vasca da
bagno.
Sospirò e mi chiese “Come è andato il
tuo appuntamento?” “Non potevi
chiedermelo dopo?” chiesi rossa in viso. “No.
Voglio saperlo ora” e puntò i
suoi occhi azzurri su di me. Sbuffai, sapendo che non se ne sarebbe
andato fino
a quando non gli avessi dato una risposta. “E’
stato uno schifo” ammisi. “Non
sa cosa si è perso” disse dolcemente.
“Posso entrare nella vasca con te?” mi
chiese alzandosi. “Adam non ci provare! O giuro che
sarà l’ultima cosa che
farai con le tue gambe!” gli ringhiai, sentendo che i battiti
del mio cuore
iniziavano ad accelerare vorticosamente. Lui rise. Stava per uscire
quando una
mia domanda lo bloccò “E tu? Ti sei divertito con
lei?” Avevo vomitato quelle
parole senza neanche riflettere, maledicendomi per essere sembrata
così
stupida. Ma per l’ennesima volta lui mi sorprese
“Mi sarei divertito di più a
litigare con te, come al solito”. Se non fossi stata nuda
come un verme,
probabilmente lo avrei raggiunto e abbracciato. Ma mi limitai a
sorridere. Dopo
essermi asciugata mi misi il pigiama e tornai in camera mia. Mi misi
sotto le
coperte, ma non riuscivo a smettere di tremare.
“Adam!” gridai, battendo un
pugno contro il muro che separava la mia stanza dalla sua.
“Che vuoi?” lo
sentii dire dalla sua camera. “Ho freddo! Portami una
coperta!” “Per chi cazzo
mi hai preso? Per il tuo servo?” “Per
favore!” gridai più forte. Lo sentii
sbuffare e alzarsi dal letto. Entrò in camera mia e senza
dire una parola si
infilò nel mio letto e mi abbracciò.
“Ho chiesto una coperta, non un abbraccio”
dissi rigida come una lastra di acciaio. “Vuoi chiudere quel
forno?” disse,
riferendosi alla mia bocca. Mi accoccolai tra le sue braccia e mi
abbandonai
completamente a quell’abbraccio. Emanava calore come una
stufa. Poi un pensiero
mi attraversò il cervello, come una scarica elettrica. Con
quelle braccia
probabilmente aveva stretto Lauren. Istintivamente mi allontanai e mi
girai,
dandogli le spalle. “Che c’è
adesso?” mi chiese stizzito. “Non voglio te,
voglio una coperta” dissi, capricciosa. “Ma
vaffanculo, Lee” disse prima di
alzarsi e sbattere la porta della mia camera. Non mi portò
quella maledetta
coperta che mi serviva. E io cominciavo di nuovo a sentire freddo. Perché devi sempre rovinare tutto?
Accumulai tutte le mie forze per alzarmi dal letto. Misi da parte il
mio orgoglio
e mi infilai in camera sua in silenzio. Mi sdraiai sul suo letto, dove
poco
prima probabilmente aveva fatto sesso con Lauren. E dolcemente gli
dissi “Scusa”
prima di abbracciarlo a mia volta. Mi addormentai avvinghiata a lui. A
un certo
punto però lo sentii alzarsi. Gli strinsi la manica della
felpa e gli dissi,
con voce impastata “Non te ne andare”
“Lee, devo andare in bagno” disse
ridendo. Gli lasciai la felpa e tornai a dormire. E in quel preciso
momento mi
resi conto che per quanto la mia testa tentasse di ripetermi che Adam
era mio
fratello, il mio cuore non riusciva a considerarlo tale. E ormai
iniziavo ad
arrendermi a quel sentimento che nutrivo nei suoi confronti. “Sparisci dalla mia vita Hayley”
. Le
parole di Jamie mi rimbombavano in testa. Avrei potuto resistere se
anche Adam
un giorno me le avrebbe dette? Aprii gli occhi di scatto. Non potevo
permettermi di soffrire ancora così tanto. Mi alzai dal
letto e uscii dalla sua
stanza, incontrandolo nel corridoio. “Dove vai?” mi
chiese, senza capire cosa
stesse succedendo. “A dormire” gli risposi senza
nemmeno guardarlo in faccia.
Chiusi la porta della mia stanza e mi sdraiai sul letto. Non avrei
permesso ai
miei sentimenti di prendere il sopravvento. A costo di reprimerli nella
mia
anima. A costo di impazzire completamente. Non mi sarei fatta ridurre
come uno
straccio, per colpa di quell’amore impossibile.
E
finì anche
il terzo capitolo! :D
Aaaah,
finalmente! Avevo scritto che avrei dedicato un intero capitolo alla
storia d’amore
tra Hayley e il professore, ma, ahimè,
l’ossessione che provo per la mia
protagonista e Adam ha preso il sopravvento ._.’’ Vorrei innanzitutto
ringraziare le persone che
hanno dedicato del tempo a leggere (spero) la mia storia, a chi
l’ha aggiunta
tra i preferiti, tra le seguite o ricordate. Grazie mille!
@TheBlackStar:
innanzitutto grazie mille per aver commentato! :D Mi ha fatto un sacco
piacere!! Ovviamente, come anche tu hai scritto, si poteva ben
immaginare
quello che aveva combinato Hayley ._.’’ Grazie
mille per aver definito la mia
storia bella e originale, anche se come ho scritto nel primo capitolo
mi sono
ispirata a Blowing Bubbles di SidRevo, che se non hai letto corri
subito a
farlo perché è una storia stupenda!! :D
A
presto,
Kiki
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Capitolo 4 *** 4. La mia forza, il mio piacere, il mio dolore ***
Capitolo
4: La
mia forza, il mio piacere, il mio dolore
Maledetto il mio cuore che non mi
voleva ascoltare. Più
cercavo di convincerlo a non battere convulsamente ogni volta che
vedevo Adam,
e più quello mi martellava nel petto, tentando di uscire.
Cercavo di evitare di
stare nella stessa stanza da sola con lui, ma era un ‘impresa
ardua, dato che
ogni santissima mattina rimanevamo solo noi due in casa. Sbuffai
guardando la
mia tazza di latte e cereali, che mi ero appena preparata.
“Che facciamo oggi?”
la sua voce mi raggiunse alle spalle. Sussultai, spaventata. Non
pensavo fosse
già sveglio. “Tu non lo so. Io penso che
passerò tutto il giorno al negozio di
CD” dissi, tornando ad osservare i cereali galleggianti nel
latte. “Ti
accompagno, allora” “Non ce ne è
bisogno” “Tanto non ho nulla da fare”
Sospirai
sconfitta. Non mi avrebbe dato tregua. Tentai l’ultima carta.
“Voglio stare da
sola” Lui mi guardò, alzando la sopracciglia e
strafottente mi rispose “E chi
se ne frega” Se già non avessi sperimentato, gli
avrei tirato un cazzotto in
faccia. “Fai un po’ come ti pare” dissi
alzandomi dalla sedia. Lui mi prese per
il braccio “Si può sapere che cazzo
hai?” I suoi occhi azzurri mi studiavano,
cercando di entrarmi nell’anima per tentare di decifrare il
mio strano
comportamento. “Niente” dissi, senza guardarlo in
faccia. “Rispondimi!” ecco
che tornava ad essere un irrimediabile stronzo. “Non sono
obbligata a
risponderti” “Io direi di si, invece”
“Adam, vuoi lasciarmi in pace?” non ce la
facevo più. Stavo iniziando a scocciarmi della sua
assillante insistenza. “No”
rispose semplicemente “Fino a che non mi rispondi”
finì, stringendomi il
braccio. “Mi fai male” mi lamentai, per la sua
stretta. “Non mi interessa” fu
la sua risposta gelida. Presa dall’esasperazione, gli
schiacciai il piede sotto
il mio tallone. Mi lasciò il braccio e corsi sulle scale
ridendo. Lui mi
rincorse, ridendo a sua volta. Mi acchiappò quando ero quasi
arrivata in cima
alle scale. Mi prese in braccio di peso, portandomi sulla sua spalla
come se
fossi un sacco di patate. “Adam, lasciami!”
continuavo a dirgli, tra le risate.
“Tu sei troppo violenta per i miei gusti! Prima mi tiri un
pugno in faccia, poi
una tallonata sul piede. Devo fermarti prima che tu mi faccia a
pezzi!” mi
portò di peso in camera sua e mi lanciò sul suo
letto. Avanzava verso di me,
con uno strano sorriso dipinto su quella faccia da schiaffi. Prima che
potesse
fare qualsiasi cosa avesse in mente, mi armai di cuscino e glielo tirai
in
faccia. L’espressione della sua faccia fu impagabile. Non se
l’aspettava.
Iniziai a ridere più forte. “Hai capito ora cosa
intendevo nel dire che sei
violenta?” disse, mettendosi a cavalcioni su di me. Mi
fermò le mani sotto le
sue e prese a fissarmi in un modo che iniziava a darmi fastidio.
“Perché mi
guardi a quel modo?” gli chiesi, scorbutica.
“Inizio a capire il perché il tuo
professore ha
mandato a puttane la sua
carriera” Mi colpì come uno schiaffo quella sua
affermazione. Per la prima
volta in vita mia, non sapevo cosa dire. Rimasi in silenzio, sotto il
suo
sguardo. “Non dici niente?” mi chiese, come se
fosse entrato nella mia testa. “Non
ho niente da dire” “Dov’è
finita la ragazza disinibita che ha tentato di
baciarmi al pub?” disse con ghigno malizioso.
“L’ho uccisa” dissi, ironica,
facendolo sorridere. “Possiamo provare con una seduta
spiritica, allora”. Che
diavolo voleva da me? “Si può sapere dove vuoi
arrivare?” gli chiesi, seria,
puntando i miei occhi nei suoi. “Voglio capire se hai provato
a baciarmi solo perché
eri ubriaca o..” “O?” “O se
c’è altro che dovrei sapere”
finì, avvicinandosi
pericolosamente a me. Averlo così vicino al mio viso, mi
aveva tolto tutte le
riserve di ossigeno che possedevo. Mi morsicai il labbro inferiore e
mentii
spudoratamente “Non c’è
nient’altro” ma lui non ne era convinto.
“Provamelo” “Che
dovrei fare?” “Baciami”. Se non fossi
stata già sdraiata, probabilmente sarei
caduta per terra. “Cosa?!” esclamai, sperando di
aver capito male. “Hai capito
bene” disse appoggiando la sua fronte sulla mia.
“Adam, non mi piace questo
gioco” dissi cercando di divincolarmi. Ma lui strinse di
più la presa sulle mie
mani “Io non sto giocando”. Guardai le sue labbra.
E se anche lo avessi
baciato? Infondo era stato lui a chiedermelo. Raffredda
i tuoi bollenti spiriti, depravata. E se mi avesse baciata
lui? Cosa avrei fatto? Me ne sarei rimasta ferma o avrei dato sfogo a
ciò che
realmente provavo? Siete fratelli, siete
fratelli, siete fratelli. Tentai di convincermi. Ma il mio
respiro era già
accelerato. Ormai ero in tachicardia. L’aria mi mancava. Lui
non stava
giocando. E stava aspettando una mia risposta, o quanto meno una mia
reazione.
Con uno sforzo disumano girai il viso a destra, in modo da non dover
sottostare
alle sue pretese. “Dovevo aspettarmelo” disse
amaramente, alzandosi in piedi e
liberandomi da quella morsa. Mi sentii una vigliacca. Ma non potevo
rovinare
tutto ancora una volta. “Adam” tentai un approccio.
“No, senti. Non devi dirmi
proprio un cazzo” rispose, arrabbiato. Non me lo disse
apertamente, ma sapevo
che dovevo uscire dalla sua stanza. Mi vestii lentamente. E tornai
nella sua
stanza “Vuoi venire al negozio di CD?” gli chiesi
dolcemente. Di tutta risposta
lui si alzò dal letto, mi spinse fuori dalla sua stanza e mi
chiuse la porta in
faccia. Come Jamie. Appoggiai una mano su quella porta che ci divideva.
Sospirai e mi diressi verso le scale. Poi mi bloccai di colpo. Adam non
era
Jamie. Adam non mi aveva chiuso fuori dalla sua vita. La rabbia prese
il
sopravvento sul mio corpo. Spalancai la porta della sua stanza. Lo vidi
in
piedi, vicino alla finestra. Mi guardava stupito. Mi avvicinai con
passo
rabbioso verso di lui. I battiti del mio cuore mi rimbombavano nel
cervello. Il
sangue mi ribolliva nelle vene. E sorprendendo entrambi lo presi con
forza per la
collottola della felpa. Lo guardai negli occhi e lo tirai verso di me.
Baciare
Adam fu una delle cose più strane che mi ritrovai a fare
fino a quel momento.
Non fu un bacio casto e puro. Ma un bacio rabbioso, di sfida. Non avrei
mai
pensato che ne sarei stata capace. Sentii il sapore delle sue labbra,
di energy
drink, incontrarsi con le mie, di cereali e latte. Fui pervasa dai
brividi
quando le nostre lingue si incontrarono. La stanza girava
vorticosamente
intorno a noi. Ma prima che potessi pentirmi delle mie azioni, mi
staccai dalle
sue labbra. Sbuffai capricciosa e uscii dalla sua stanza sbattendo la
porta.
Volevo solo uscire da quella casa. “Che diavolo
significava?” mi chiese
raggiungendomi, a pochi passi dalla porta d’ingresso.
“Volevi che ti baciassi?
L’ho fatto! Quindi non stare lì a lamentarti per
qualcosa che hai voluto tu!”
Se fossi stata un drago, probabilmente avrei sputato fuoco dalle fauci
e mi
sarebbe uscito fumo dal naso. “Fallo ancora”
bisbigliò a pochi centimetri da
me. Ma non l’accontentai. Gli diedi le spalle e uscii da casa
velocemente.
Arrivai al negozio di dischi correndo, col fiatone.
“Newyorkese! Sei tornata!”
il benvenuto del proprietario del negozio mi risvegliò dai
miei sensi di colpa.
“Già, ho avuto molto da fare” mentii,
sorridendo. Certo, eri troppo impegnata a
baciare tuo fratello. Mi lasciò sola,
e mi persi come la prima volta, tra gli scaffali. “Oggi fate
pausa?” chiesi ad
un giovane commesso. “No, oggi siamo aperti tutto il giorno,
non-stop” rispose
sorridendo. Meno male. Almeno non sarei dovuta tornare a casa e
affrontare
Adam. “Ehy, newyorkese! Questa è tutta per
te!” disse il proprietario
indicandomi, spostando l’attenzione dei suoi clienti su di
me. Kiss
from a rose.
There used to be a greying
tower
alone on the sea.
You became the light on the dark side of me.
Love remained a drug that's the high and not the pill.
But did you know,
That when it snows,
My eyes become large and,
The light that you shine can be seen.
Baby,
I compare you to a kiss from a rose on the grey.
kiss from a rose on the grey.
And now that your rose is is in bloom.
A light hits the gloom on the grey.
There is so much a man can tell you,
So much he can say.
There's so much inside.
You remain,
You...
My power, my pleasure, my pain, baby
To me you're like a growing addiction that i can't deny... yeah.
Won't you tell me is that healthy, baby?
But did you know,
That when it snows,
My eyes become large and the light that you shine can be seen.
Baby,
I've...
I compare you to a kiss from a rose on the grey.
Been...kissed from a rose on the grey.
Stranger it feels, yeah
Stranger it feels, yeah.
Now that your rose is in bloom.
A light hits the gloom on the grey,
I've been kissed by a rose on the grey,
I've been kissed by a rose
been kissed by a rose on the grey.
I've been kissed by a rose on the grey,
and if i should fall, at all
I've been kissed by a rose
been kissed by a rose on the grey.
There is so much a man can tell you,
So much he can say.
There's so much inside.
You remain
You...
My power, my pleasure, my pain.
To me you're like a growing addiction that i can't deny, yeah
Won't you tell me is that healthy, baby.
But did you know,
That when it snows,
My eyes become large and the light that you shine can be seen.
I compare you to a kiss from a rose on the grey.
Been...kissed from a rose on the grey.
Ooh, the more i get of you
Stranger it feels, yeah
Stranger it feels.
Now that your rose is in bloom,
A light hits the gloom on the grey.
Yes i compare you to a kiss from a rose on the grey
I've...been kissed from a rose on the grey.
Ooh, the more i get of you
Stranger it feels, yeah
Stranger it feels, yeah.
And now that your rose is in bloom
A light hits the gloom on the grey
Now that your rose is in bloom,
A light hits the gloom on the grey.
Amavo
quella
canzone. Non so come quell’uomo potesse saperlo, o anche solo
immaginarlo. Ho
sempre pensato che fosse la canzone più romantica che
qualcuno potesse cantare.
E non potei evitare di pensare ad Adam, mentre estasiata ascoltavo le
parole di
quella meravigliosa canzone. Soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti. My power, my pleasure, my pain. Sospirai
scuotendo la testa sconsolata. Perché alla fine il mio cuore
doveva vincere
sempre? L’aveva fatto con Jamie e ne ero uscita distrutta.
Quindi, perché ancora?
Sbuffai per l’ennesima volta e ripresi a guardare quella
moltitudine di dischi
sotto i miei occhi. Dopo più di quattro ore di
full-immersion nei CD, non avevo
trovato ancora nulla che valesse davvero la pena di comprare.
“Tieni” davanti
al mio naso c’era un fumante hot-dog. “Grazie
mille” dissi, quasi sbavando, verso
il proprietario del negozio che brandiva il panino come un trofeo verso
di me. “ Ho pensato
stessi morendo di fame” ammise,
guardandomi mentre sbranavo letteralmente l’hot-dog
“E avevo ragione” finì
ridendo, constatando quanto fossi affamata. “Ti vedo un
po’ spenta oggi” mi
disse, appoggiandomi una mano sulla spalla. Perché dovevo
essere così
dannatamente trasparente con gli estranei? Perché non
riuscivo a fingere come
tutte le persone? “Mi sono svegliata male” mentii,
sperando non mi chiedesse
altro. “Problemi con qualche ragazzo?” chiese,
subito scoppiando a ridere vedendomi
arrossire visibilmente. “Come non detto.” E
sparì dietro il bancone lasciandomi
sola con i miei pensieri. Dovevo organizzarmi la giornata in modo da
evitare di
incontrare Adam. Ma come potevo? Vivevamo sotto lo stesso tetto, e solo
un muro
sottile separava le nostre camere. Lasciai cadere la testa
all’indietro,
sbattendo contro uno scaffale e facendo cadere sulla mia fronte un CD
che era
in bilico. Bestemmiai in cinque lingue diverse, massaggiandomi la
fronte
dolorante. Raccolsi il CD. Pink. Non ero una sua grande fan, ma quello
era un
segno del destino. Che probabilità c’erano che
solo quel CD fosse messo in
bilico e che colpisse proprio me in piena fronte? Mi decisi a
comprarlo,
notando subito che era scontato. Dodici sterline. Non sapevo nemmeno a
quanti
dollari corrispondessero. Ma di sicuro non mi avrebbero mandato sul
lastrico.
Mentre pagavo, pensai a cosa mi sarebbe aspettato a casa.
“Che posso fare per
passare il tempo qui?” chiesi al proprietario del negozio con
cui ormai mi sentivo
in piena confidenza. “Se mai stata ai Kensington
Gardens?” mi chiese. Scossi la
testa. “Non sono molto lontani da qui. Un paio di minuti a
piedi. E’ un parco
rilassante” concluse strizzandomi l’occhio. Gli
sorrisi e uscii dal negozio.
Al
contrario
delle mie aspettative, riuscii a non perdermi. Entrando ai Kensington,
non
potei non notare la moltitudine di scoiattoli che correvano
sull’erba o
saltavano da un albero all’altro. Fu come tornare a New York,
a Central Park
dove amavo oziare sorseggiando caffè macchiato con panna.
New York mi mancava,
più di quanto pensassi. Mi mancavano il caos newyorkese, le
mie uscite
pomeridiane senza meta tra la folla e i turisti. Mia madre, i miei
amici, Jamie.
Camminai continuando a guardarmi intorno, curiosa. Arrivai davanti ad
una
piccola statua, dove molti si facevano le foto. Aspettai che nessuno si
mettesse in posa per avvicinarmi e capire di chi si trattasse. Sembrava
un
mezzo folletto che suonava un flauto. Pensai immediatamente alle
leggende
celtiche. “Scusi, chi è?” chiesi a una
signora, indicandogli la statua. Mi
guardò come se fossi un alieno. “E’ la
statua di Peter Pan” mi rispose. “Ah,
grazie” risposi, riportando il mio sguardo su Peter. Da
piccola amavo il
cartone della Disney su questo personaggio. Lo guardavo quaranta volte
al
giorno, fino a sapere tutte le battute dei personaggi a memoria.
Sorrisi. E
così ero davanti alla statua del mio idolo da bambina. Il
ragazzo che non
cresce mai, proprio davanti a me. Se solo potesse essere vero. Se solo
potessimo rimanere per sempre piccoli e non crescere mai. Sospirai,
allontanandomi dalla statua e sedendomi su una panchina. Chiusi gli
occhi. Il
rumore del vento sugli alberi era rilassante. Sentivo ogni foglia
muoversi,
ogni passerotto svolazzare libero. L’unica cosa che mi
infastidiva
terribilmente era il vociare delle persone intorno a me. Se solo avessi
potuto
volare all’Isola-che-non-c’è e stare
tranquilla. Iniziò a piovere. Una pioggia
leggera. La gente intorno a me correva per trovare riparo sotto agli
alberi. Mi
alzai dalla panchina, sapendo che il destino mi voleva a casa, con Adam
ad
affrontare quella situazione. Tutto era contro di me. Tornai a passo
lento a
casa, sotto quella fastidiosa pioggerellina. Aprii la porta e dopo un
minuto
entrai in casa. Salii al piano di sopra. La porta della camera di Adam
era
stranamente aperta. Sbirciai all’interno, ma lui non
c’era. Sospirai sollevata.
Pericolo scampato. Era uscito. Poi fui presa dall’ansia. E se
fosse stato con
Lauren? Mi diedi uno schiaffo. Poi mi misi a ridere. Ero patetica.
Stavo
impazzendo. E aveva ragione mio fratello: ero troppo violenta. Mi
sdraiai sul
mio letto e chiusi gli occhi. Almeno se avessi dormito, Adam non mi
avrebbe
raggiunta. Ma contro ogni mia aspettativa non riuscii a dormire. Rimasi
ferma
immobile nel letto, ad occhi chiusi. Sentii la porta
d’ingresso sbattere e come
se avessi fatto un incubo mi alzai di scatto, ad occhi spalancati. Il
cuore mi
batteva a mille. Sentii dei passi pesanti sulle scale. Era lui. Ormai
avevo
imparato a riconoscere il suo modo di camminare e di salire le scale.
Rimasi
ferma, senza fare nessun rumore, sperando che non si accorgesse della
mia
presenza. La porta, cazzo! Pensai,
notando che avevo lasciato la porta aperta. Merda.
Infatti, come se fosse stato attratto dai miei pensieri, lo vidi
infilare la
testa in camera mia. Dalla sua espressione, non si aspettava di
trovarmi lì,
seduta sul letto con la faccia di chi ha visto un fantasma.
“Sei tornata”
constatò. “Già” risposi
telegrafica. “Sono andato al negozio di CD, ma non ti
ho trovata” “Sono andata a vedere la statua di
Peter Pan” risposi, senza
guardarlo in faccia. “Hai fame?” mi chiese.
“Ho mangiato un hot dog” risposi
robotica. Imbarazzo. Vergogna. Imbarazzo. Vergogna. Non provavo
nient’altro. Lui
se ne stava lì a guardarmi, a fissarmi. “Piantala
di fissarmi” gli dissi
gelida, dopo un interminabile minuto di silenzio. “Dio, sei
la ragazza più
strana che io conosca” disse ridendo. “Io non sono
strana” lo rimbeccai. “Invece
lo sei” si avvicinò a me, serio “ Sei la
prima che dopo avermi baciato,
preferisce parlare di hot dog e Peter Pan”
“Rispondevo solo alle tue domande”
risposi rossa in viso. “Piuttosto che affrontare
l’argomento” continuò lui,
come se non avessi detto nulla. “Cristo santo, io e te siamo
fratelli” dissi
per la millesima volta. “Ciò non toglie che ci
siamo baciati” “E non dovrà
più
succedere!” esclamai isterica. “Non ti è
piaciuto?” chiese, con quell’odioso
ghigno dipinto sulla faccia. Mi stava mettendo in
difficoltà. “No” risposi,
mentendo. Lui rise “Lee, sei una pessima bugiarda” Cazzo. “Dico sul
serio!” dissi alzandomi in piedi, tentando di
convincerlo. “Quindi se ti baciassi in questo momento, mi
respingeresti?” No, ti bacerei
tutto il giorno per tutti i
giorni della mia miserabile vita.
“Ovviamente” risposi sicura, allontanando
i miei pensieri. Ma quei suoi occhi azzurri mi fecero perdere un paio
di
battiti cardiaci. E non riuscii più a capire nulla, quando
per la seconda volta
ci baciammo. Il tocco delicato delle sue mani sul mio viso, mi fecero
andare
fuori di testa. Con una mano gli stringevo la felpa, l’altra
navigava tra i
suoi capelli castani. Mi alzò di peso e io automaticamente
gli avvinghiai le
gambe intorno alla vita. Mi mise con la schiena contro al muro mentre
continuavamo a baciarci. Un bagliore di lucidità mi
attraversò il cervello. Mi
allontanai leggermente dal suo viso e bisbigliai un
“Adam” come per fermare
quella follia che stavamo facendo, ma lui mi bloccò
“Stai zitta, cazzo” e
riprese a baciarmi. Quel bacio fu molto diverso dal primo che ci
eravamo dati
poche ore prima. Non era di sfida, dato con rabbia. Era voluto,
sentito,
passionale. Le sua labbra si spostarono lentamente dalle mie al mio
collo. Amavo
i baci sul collo in generale, ma i suoi erano paradisiaci. Respiravo
affannosamente, mentre mi mordevo il labbro inferiore sperando di non
emettere
qualche suono imbarazzate per dei semplici baci sul collo. Ma avrei
voluto
urlagli di non smettere per nessuna ragione, di continuare fino a che
non gli
si fossero consumate le labbra, fino a quando non mi avesse scavato un
solco
sul collo. Maledetto lui e i suoi baci. Poi si fermò. Aprii
gli occhi e lo
trovai a fissarmi con un sorriso divertito. “Sei una pessima
bugiarda” Gli
tappai la bocca prima che potesse aggiungere altro. Più ci
baciavamo e più mi
sentivo schiacciare contro il muro. Sentivo il suo corpo sul mio.
Sentivo il
suo respiro sulla mia pelle. Riuscii anche a sentire chiaramente la
porta di
casa chiudersi e delle voci distinte provenire dal piano di sotto.
Lasciai la
presa salda delle mie gambe sulla sua vita, cadendo rovinosamente a
terra. Lui
iniziò a ridere senza contegno, senza capire che diavolo
fosse successo. Poi
dalla sua espressione capii che aveva sentito le stesse voci che avevo
sentito
anche io. Mio padre, sua madre e nostra sorella. Mi alzai da terra e
gli
bisbigliai “Ora capisci perché tutto questo
è sbagliato?” Lui non rispose,
volgendo il suo sguardo fuori dalla mia stanza. Mi baciò
sulla fronte e mi
bisbigliò “Non me ne frega niente” e
uscì dalla mia stanza lasciandomi sola con
una faccia da completa idiota e il suo odore impresso addosso.
Capitolo
4
terminatooooo!!! Ho notato che siete sempre più ad
aggiungere la storia ai
preferiti, alle seguite e alle ricordate e oltre a ringraziarvi per la
millesima volta non so assolutamente che fare :D Grazie mille!!
Bene,
ci
siamo arrivati finalmente! SI SONO BACIAAATIII!!! UUhh che tenerezza
che mi
fanno!! Sono abbastanza in alto mare nel pensare a che diavolo far
succedere
nel prossimo capitolo muhauhauahuah vedrò cosa posso fare
per soddisfare voi e
me :D Benissimo, continuate a seguire la mia storia e a recensire per
farmi
sapere che ne pensate perché per me i vostri pareri sono oro
colato, siano essi
positivi o negativi :D
Baci,
Kiki
|
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Capitolo 5 *** 5. Le ossessioni di Hayley Doherty ***
Capitolo
5: Le
ossessioni di Hayley Doherty
“Vuoi stare
attenta?” la voce di Savannah mi riportò alla
realtà. Mi aveva afferrata per il braccio, evitandomi di
essere investita da un
autobus a due piani. “Si può sapere dove hai la
testa?” mi chiese mia sorella,
dandomi un buffetto in fronte. Non risposi. Non potevo di certo dirle
che
pensavo notte e giorno al bacio con Adam. Sospirai, senza speranze. Ero
uscita
con lei perché mi aveva obbligata. Avrei preferito rimanere
a casa. Non amavo
molto fare shopping, al contrario di mia sorella che ne era
ossessionata. Mi
trascinava per negozi e mi faceva provare vestiti che mai avrei messo
in vita
mia. Non accettava obiezioni quando tirava fuori la carta di credito di
papà e
pagava montagne di indumenti. “Lo sai di avere un problema,
vero?” le dissi,
dopo essere uscite dall’ennesimo negozio di abiti alla moda.
“Tanto paga papà”
rispose sorridendo. Mio padre guadagnava vagonate di soldi.
Sinceramente non
sapevo nemmeno di cosa si occupasse nello specifico. Sapevo solo che
lavorava
in borsa. Ma che cosa facesse per portare a casa tutti quei soldi, era
un
mistero per me. “Non mi hai più raccontato come
è finita con il tipo
dell’aereo” mi disse, fermandosi di colpo.
“Non è finita” risposi annoiata.
“Come mai?” “Te l’ha mai detto
nessuno che sei un’impicciona?” le dissi
scherzando. “Tu invece sei troppo misteriosa! E dai,
raccontami!” disse
supplichevole. “Era noioso. Parlava solo di sé e
dei suoi viaggi stupidi”
dissi. Né io né lei aggiungemmo altro.
“Devo comprare quelle scarpe!” gridò
guardando una vetrina. “Savannah, ne hai appena prese un paio
simili” ma la sua
espressione mi sciolse e l’accompagnai all’interno
di quel negozio. “Guarda se
ne trovi anche tu un paio” disse, prima di cercare un
commesso. Mi guardai
intorno. Non avrei trovato niente. Ne ero sicura. Scarpe dai tacchi
vertiginosi
e dai prezzi spaventosamente alti. Infatti, come pensavo, uscii a mane
vuote.
Mia sorella invece si era ritrovata indecisa su due paia, e alla fine
le aveva
prese entrambe. “Hai il ragazzo?” le chiesi,
immaginando lo avesse. La vidi
arrossire vistosamente. “No” bisbigliò
“Ma c’è un ragazzo che mi
piace” “E qual
è il problema?” “Non penso mi possa
ricambiare”. Fui io a quel punto a fermarmi
di botto a bocca spalancata. “Che
c’è?” mi chiese. “Come che
c’è?! Sei una delle
più belle ragazze che io abbia mai visto!”
“Non è questo il problema” “E
quale
sarebbe?” La vidi pensarci su. Poi mi sputò in
faccia la verità “Ha vent’anni
in più di me!” Rimasi senza fiato. E’
proprio tua sorella. Iniziai a ridere senza contegno.
“Smettila di ridere!”
disse arrabbiata. “Non rido per te. Questa situazione mi
è così familiare” Lei
non capì. E come poteva? Non le avevo ancora parlato di
Jamie. “Che dici se te
ne trovassi uno della tua età?” le chiesi.
“Sono tutti stupidi! Invece lui è così
maturo, sensibile, elegante” disse con fare sognante. Le
brillavano gli occhi.
Sorrisi. “Fai quello che devi” le dissi solo. Lei
mi guardò come se si
aspettasse tutt’altra risposta. Quando tornammo a casa Jodi
ci accolse con un
enorme sorriso davanti alla porta. “Non mi piace quello
sguardo” le disse mia
sorella. “Abbiamo ospiti a cena, stasera. Quindi mi aspetto
la massima
collaborazione da parte vostra” “Dobbiamo pulire
casa?” chiesi, abituata a
quando a New York io e mia madre ricevevamo ospiti e ci toccava
lustrare casa
da cima a fondo. “No, mi bastano solo le vostre
stanze” “Ma tanto nessuno ci
entrerà!” si lagnò Savannah
capricciosa. “Niente discussioni!” la
ammonì sua
madre indicandole le scale. “Puoi dire a tuo fratello di
mettere a posto camera
sua?” mi chiese Jodi, con sguardo supplichevole. Annuii non
molto convinta. E
così mi sarebbe toccato di parlare con lui dopo quel bacio.
Sbuffai salendo le
scale. Bussai alla sua porta. Ma non mi rispose. Aprii piano la porta e
infilai
la testa nella sua stanza. Lo vidi sdraiato sul letto, con un braccio
sopra gli
occhi. “Chiunque tu sia, sparisci” disse immobile.
“Tua madre ha detto che devi
pulire la tua stanza” Appena sentì la mia voce
fece un salto sul letto,
guardandomi ad occhi sgranati. “Potevi dirmelo che eri
tu” mi disse, alzandosi
dal letto e chiudendo la porta alle mie spalle. “Non vedo che
differenza
avrebbe fatto” dissi, perdendo un paio di battiti nel
sentirlo e vederlo così
vicino a me. Lui mi sorrise. Se solo fossi potuta uscire ed evitare
quel
contatto visivo con i suoi occhi azzurri. “Sarà
meglio che inizi a pulire. La
tua camera fa schifo” dissi, guardando al di là
delle sue spalle. Lo vidi
girarsi un attimo. Era il momento giusto. Con uno scatto felino riuscii
ad
uscire dalla sua stanza e a barricarmi nella mia. Chiusi a chiave e mi
sentii
più tranquilla. Per un altro paio di ore sarei rimasta
lontana da Adam. Accesi
lo stereo e alzai il volume sulle note dei Pumpink Punkerz. Pulii la
stanza da
cima a fondo. Svuotai e riempii più volte
l’armadio, riponendo vestiti e scarpe
in modo quasi maniacale. Il comodino era stato pulito così a
fondo che la
polvere veniva respinta da una barriera invisibile creata con i fumi
dei
detersivi spray. Dalla camera di Adam proveniva uno strano quanto
sospetto
silenzio. Infatti sentii qualcuno spalancare la porta della sua stanza.
Jodi.
Gli gridò come un’ossessa dato che lui non si era
dimostrato per nulla
collaborativo. A quanto sembrava, dalle urla della mia matrigna, mio
fratello
si era appisolato tralasciando le faccende domestiche. Jodi
sbatté la porta e
scese al piano di sotto, borbottando adirata. Poche ore dopo,
constatando che
la mia camera brillava ormai di luce propria, decisi di andare a farmi
una
doccia. Nel momento in cui mi tolsi la maglietta, la porta del bagno si
spalancò. I suoi occhi, il suo sguardo, la sua bocca
semiaperta. Fu
imbarazzante. Non dicemmo nulla, entrambi. Lo spinsi fuori dal bagno e
chiusi
la porta a chiave. “La prossima volta bussa,
depravato!” gridai, imbarazzata.
Lo sentii ridere. La tipica risata da idiota di Adam. Mi buttai sotto
la doccia
per lavarmi via il suo sguardo di dosso. Il mio cuore batteva
così forte che
per un momento pensai di morire. Esagerata.
Quando uscii da sotto la doccia, mi ero calmata. Più o meno.
Mi asciugai i
capelli e li legai in una treccia laterale. Corsi in camera mia per
evitare di
incrociare mio fratello nel tragitto. Mi misi un paio di jeans e una
maglietta
a maniche corte che avevo comprato con Savannah quel pomeriggio. E
scesi al
piano di sotto. Entrai in cucina, dove un’isterica Jodi
armeggiava tra i
fornelli insieme alla domestica. “Oh, Hayley!
Assaggia” disse prima di
schiaffarmi in bocca un cucchiaio ustionante di non so bene cosa.
“Buono”
dissi, con la bocca in fiamme. “Sicura? Non pensi che ci
manchi un po’ di
sale?” “Penso sia perfetto” risposi,
tentando di tranquillizzarla. “Chi viene a
cena?” le chiesi, notando la sua ansia. “Un paio di
colleghi di tuo padre. E
voglio che sia tutto perfetto” “Lo vedo”
dissi ridendo. La domestica, la signora
Travis, era più agitata della mia matrigna. Era una signora
di circa
sessant’anni, bassa quanto me, con una crocchia di capelli
grigi sistemati
ordinatamente. I suoi compiti erano cucinare e pulire la casa. Ma data
la
follia generale che stava circondando casa nostra, Jodi le aveva
ordinato di
concentrarsi sulle portate, mentre noi avremmo pulito la casa.
“Camera tua è in
ordine?” mi chiese, aprendo più antine della
credenza, la mia ansiosa matrigna.
“Lustra come uno specchio” le dissi, prendendo una
carota in miniatura da un
piatto. “Posala immediatamente Hayley Doherty!”
ululò Jodi, minacciandomi con
un mestolo. Feci come ordinato e uscii dalla cucina. Mi buttai sul
divano con
un tonfo e misi nella posizione in cui poco prima avevo visto mio
fratello. Era
rilassante stare in quella posa. “Non mi avevi detto che
avevi un tatuaggio” la
sua voce, tagliente come una lama, mi risvegliò da quello
stato di pace
assoluta, trascinandomi nel mio inferno personale.
“L’ho fatto un paio di anni
fa” dissi, sapendo che si stava riferendo al tatuaggio sulla
mia spalla
sinistra. “Non ho fatto in tempo a vedere
cos’era” disse, con quel suo ghigno
malizioso avvicinandosi al divano. “Una chiave”
dissi semplicemente. Alzò le
sopracciglia e si buttò sul divano, di fianco a me. Eravamo
così vicini. E
anche sua madre era così vicina a noi. Nella stanza di
fianco. “Spostati”
sibilai. “Spostami” disse divertito. Poi la sua
espressione diventò seria. Lo
vidi avvicinarsi a me, troppo. Istintivamente gli tirai un calcio,
dritta sullo
stinco. “Cazzo! La vuoi smettere di picchiarmi?”
disse massaggiandosi la gamba.
“Non è colpa mia se mi ispiri violenza”
dissi ridendo. “Adam!” lo voce di Jodi
ci fece voltare entrambi. Come se ci avesse colto in fragrante. Sui
nostri visi
una sola espressione: colpevolezza. Anche se non stavamo facendo nulla.
“Hai
sistemato la tua stanza?” finì sua madre. Lo vidi
annuire e abbassare lo
sguardo. Probabilmente stava pensando ciò che pensavo io.
Era sbagliato. Non
potevamo continuare così. Si scompigliò i capelli
castani e appoggiò la sua
testa sulla mia pancia. “Alzati” “Non sai
dire per favore?” disse con gli occhi
chiusi. Non mi ero accorta di essermi avvicinata così tanto
al suo viso. Lui
aveva gli occhi chiusi. “Albicocca” disse
sorridendo sempre a occhi chiusi.
“Che?” chiesi senza capire, allontanandomi da lui.
“Profumi di albicocca” aprì
gli occhi e li puntò su di me. “Mi sono lavata
prima” dissi, dandomi della
stupida subito dopo aver pronunciato quelle parole. Lui rise
“Lo so” disse
portandomi all’imbarazzante scena di lui che mi guardava
immobile, mentre ero
solo in reggiseno e pantaloni. Arrossii di colpo. “Quando hai
intenzione di
baciarmi ancora?” mi chiese col suo ghigno. Non risposi.
Evitai di guardarlo in
faccia. Ma sapevo che faceva sul serio. Guardai verso la cucina. Sua
madre
poteva tornare da un momento all’altro. Ma quella volta fu
lui a prendermi per
la collottola della maglia e tirarmi a sé. Mi ritrassi
subito da quel bacio.
“Pezzo d’idiota” bisbigliai prima di
alzarmi dal divano e lasciarlo solo. Per
quanto breve potesse essere stato quel bacio, era riuscito a farmi
esplodere il
cuore in milioni di coriandoli. Mentre salivo per le scale non riuscii
a non
sorridere. A quanto sembrava lui voleva me quanto io volevo lui. Non
era più un
gioco. Non avrebbe rischiato tanto se fosse stato solo un gioco. Non mi
avrebbe
baciata a pochi metri da sua madre. Per quanto potessi sentirmi
colpevole,
sporca e sbagliata non smettevo di sorridere. Non chiedevo
più al mio cuore di
smettere di scoppiarmi nel petto. Non mi ripetevo che Adam era mio
fratello.
Adam era il ragazzo che mi piaceva. Per una frazione di secondo
ripensai
all’uscita con Freddie: non era lui che era cambiato
dall’ultima volta che
l’avevo visto. Ero io. Pensavo ad Adam la maggior parte della
mia giornata. Mio
fratello era riuscito a farmi dimenticare di Jamie. A prendere
l’ipotetico
posto di Freddie. Mio fratello mi faceva ridere, arrabbiare, piangere,
imbarazzare. Ma se Adam non ci fosse stato, probabilmente mi sarei
sentita
persa, sola.
“Hayley dovremmo
scendere” se la donna davanti a me non
avesse parlato, probabilmente non avrei riconosciuto mia sorella.
“Sei
bellissima” riuscii solo a dire a quella creatura
paradisiaca. Lei arrossì
“Dici?” chiese solo. Mi ritrovai ad annuire
convulsamente. “Ora togliti dalla
faccia quell’espressione da ebete e vieni
giù” disse trascinandomi fuori dalla
mia camera. Dal piano di sotto sentii la voce di mio padre che
presentava agli
ospiti Jodi e Adam. “E loro sono le mie due splendide figlie.
Savannah ti ricordi
di Trent?” chiese mio padre a mia sorella. Lei
arrossì vistosamente, quando un
uomo le posò un lieve bacio sulla guancia. Un uomo molto
affascinante. Sulla
trentina. E’ lui. Guardai
mia sorella
e con solo uno sguardo capii che quell’uomo era la sua cotta.
Strinsi la mano a
Trent, sorridendo come una stupida. Poi mio padre ci
presentò agli altri due
uomini e alle loro mogli snob. C’erano anche due ragazzi,
gemelli. Avevano
approssimativamente la mia età. Joshua e Ray. Occhi scuri,
capelli biondi. Visi
anonimi. Sorrisi ad entrambi. “Direi che è ora di
sederci a mangiare” esultò
Jodi. Mi ritrovai seduta tra i due gemelli, figli di un collega di mio
padre.
Davanti a me un Adam tutt’altro che sereno. I due ragazzi
erano molto gentili.
Mi aiutarono a servirmi dai piatti, come se avessi cinque anni o fossi
menomata. Continuavo a sorridere e iniziai a pensare che ora della fine
di
quella serata mi sarebbe venuta una paresi facciale. Lo sguardo di Adam
era
sempre su di me. Come se dovesse studiare le mie mosse. Come se si
aspettasse
che facessi qualche danno. “Hayley, giusto?” venni
richiamata da Trent,
dall’altro lato del tavolo. Annuii. “Sei americana,
no?” “Già” “Hai
frequentato
qualche università?” “Giornalismo. Ma ho
abbandonato” dissi, dandomi
dell’idiota per aver puntualizzato. “E come
mai?” chiese, attirando
l’attenzione su di me. Sentii un grido strozzato di Jodi e un
tossicchiare
imbarazzato di mio padre. Inventa una
cazzata. “Mi piace di più
disegnare” dissi. Aveva ragione Adam: ero una
pessima bugiarda. Non riuscivo neanche a spararne una convincente. Ma
tutti a
tavola sembrarono crederci. Adam sorrideva divertito. Trattenni
l’impulso di
tirargli un calcio da sotto il tavolo. “Hai il
ragazzo?” mi chiese la madre dei
gemelli. “No” dissi, guardando di sfuggita mio
fratello, che iniziò a mordersi
il labbro inferiore. “Bè, potresti uscire con uno
dei miei ragazzi. Tuo padre
dice che non hai ancora visitato Londra come si deve e che ti
piacerebbe avere
compagnia” In quel momento smisi di sorridere. Guardai mio
padre, che
volontariamente teneva lo sguardo basso sul suo piatto. Ingoiai il
rospo e le
risposi “In realtà mio fratello si è
già offerto di accompagnarmi” “Oh,
bhè.
Immagino che tuo fratello capirà se preferirai uscire con
uno di loro” Se ci
fosse stata una torta di panna sul tavolo, probabilmente
gliel’avrei lanciata
in faccia a quella vecchia rompicoglioni. “E sentiamo dove
avreste intenzione
di accompagnare mia sorella?” chiese Adam ai gemelli. Quei
due cominciarono ad
elencare posti su posti, senza fermarsi. Adam rise, beffardo.
“Ad Hayley non
interessano il Tower Bridge o Buckingham Palace. Sono luoghi troppo
comuni per
una come lei” disse sicuro. “E sentiamo tu dove la
porteresti?” chiese sgarbata
la donna. “Il London Eye. Hayley ha una specie di complesso
sull’altezza. E’ la
prima cosa che nota di una persona. Lì sopra probabilmente,
guardando Londra
dall’alto, riuscirebbe a sentirsi meno in imbarazzo per la
sua statura. Oppure
in qualche negozio di CD a scovare dischi di gruppi sconosciuti o a
bere caffè
da Starbucks. O le farei visitare tutti parchi di Londra”
“I parchi?” “E’ di
New York. E mia sorella non è una delle ragazze
più comuni che esistano.
Probabilmente passava le sue giornata a Central Park a…
disegnare” finì,
sottolineando l’ultima parola. Rimasi a bocca aperta.
“E poi è stata ai
Kensington per un paio d’ore ed è tornata a casa
che sembrava un’altra persona”
concluse tornando al suo arrosto. Savannah sorrideva soddisfatta, fiera
di suo
fratello. Jodi e mio padre non riuscivano a credere alle loro orecchie.
Per
quanto lui fosse stato stronzo con me, si era accorto di ciò
che mi
ossessionava. L’altezza, i dischi, il caffè e i
parchi. “Capisce perché
preferisco andare con mio fratello?” chiesi sorridendo alla
donna che, stizzita,
non disse una parola. Grugnì qualcosa di incomprensibile e
si concentrò a fare
a brandelli il resto della carne nel suo piatto. I gemelli, entrambi,
stettero
in silenzio fino alla fine della cena. Guardai Adam, ma lui
evitò il mio
sguardo. Allora decisi di guardare mia sorella. Trattenni una risata.
Se solo
avessi avuto un macchina fotografica per le mani avrei immortalato la
sua
espressione da pesce innamorato. Guardava Trent come se fosse
un’apparizione
divina. Decisi di finire il mio arrosto. La signora Travis
portò il dolce:
crostata ai frutti di bosco. Manna dal cielo. Amavo le crostate in
generale, ma
quelle ai frutti di bosco erano le mie preferite.
“E’ deliziosa, Jodi. L’hai
fatta tu?” “No, mio figlio è andato a
prenderla in pasticceria prima che
arrivaste” rispose la mia matrigna. Lui se lo ricordava.
Doveva per forza
ricordarselo. Sapeva che avrei amato quella crostata. E il mio cuore si
riempì
di amore ad ogni morso che davo a quel dolce. Se avessi potuto, sarei
saltata
sul tavolo e l’avrei baciato. Ti
sei fatta
comprare con dolci parole e una fetta di crostata ai frutti di bosco.
Ma
non riuscivo a smettere di sorridere. Maledetto Adam. Lo vidi alzarsi e
con lo
sguardo lo seguii al piano di sopra. Aspettai un paio di minuti ma lui
non si
decideva a tornare. Così, dopo aver litigato pesantemente
con il mio cervello,
decisi di raggiungerlo. Corsi letteralmente su per le scale. Spalancai
la porta
e la richiusi dietro di me. Non dissi nulla. Mi avvicinai a lui,
sdraiato sul
letto. E lo baciai. Fu lui a fermarmi. “Che fai?”
mi chiese sorridendo. “Chiudi
quel forno” dissi, ricordandogli ciò che lui aveva
detto a me, il giorno prima.
Mi prese per i fianchi, continuando a baciarmi, e mi mise sotto di lui.
Solo
con il tocco delle sue mani con la mia pelle, ero andata fuori di
testa.
Iniziavo a non capire più niente. Ecco che riiniziava con i
suoi baci sul collo.
Paradisiaci. Stavolta non trattenni nessun gemito. Doveva sapere che
amavo
quando mi baciava sul collo. Doveva sapere cosa provavo quando mi
toccava,
quando il suo respiro affannato incontrava la mia pelle, pervasa da
brividi. Lo
sentii mettermi le mani sotto la mia maglietta. Saliva lentamente, come
se
avesse potuto farmi del male se avesse fatto più in fretta.
Ma lo fermai.
Quell’ultimo barlume di lucidità che mi era
rimasto lo aveva fermato, andando
contro a ciò che volevo realmente. Mi guardò
senza capire. Chiusi gli occhi e
cercai di riprendermi. “E’ sbagliato”
sussurrai, più a me stessa che a lui. Lo
vidi stringere le mascelle. Se avesse potuto mi avrebbe presa a
schiaffi. Si
sedette sul letto e mi diede le spalle, guardando la porta.
”Lo so anche io”
disse a bassa voce “Ma non riesco a starti lontano”
concluse, prendendosi la
faccia tra le mani. “Come facevi a sapere della crostata di
frutti di bosco?”
chiesi, cambiando drasticamente discorso. “Quando eravamo
piccoli, chiedevi a
tuo padre di comprarti quella maledetta crostata ogni giorno. Ho
pensato che
avresti apprezzato” disse, continuando a tenersi la testa
stretta fra le mani.
Mi avvicinai a lui. Appoggiai la mia testa alla sua spalla
“Grazie, Adam”
dissi, chiudendo gli occhi. “Sarai mai mia?” mi
chiese, prendendomi per le
spalle e costringendomi a guardarlo negli occhi.
“Io..” “Rispondi!”
“No”
risultando più convincente di quanto credessi. Se
l’era bevuta. Per una volta
che avrei voluto che lui si accorgesse che stavo mentendo, lui ci aveva
creduto.
La presa sulle mie spalle si fece per un attimo più forte,
per poi
affievolirsi, lasciandomi andare completamente. “E allora
perché sei venuta
qui?” “Non lo so” “Voglio delle
risposte chiare” mi disse, battagliero. Presi
coraggio e sputai “Non riesco a stare lontana da
te”. Lui sorrise. Un sorriso
amaro, poco convinto. “Non riesci a stare lontana da me, ma
non vuoi essere
mia. Questo è un controsenso”
“E’ solo confusione” “Non
voglio perdere tempo
con persone confuse!” “Benissimo.
D’accordo. Non ti farò sprecare un minuto in
più della tua vita con me” dissi alzandomi dal
letto. Alla fine dovevamo
litigare, come sempre. “Brava! Scappa! Non sai fare
altro” “Hai ragione. Non so
fare altro” dissi prima di sbattere la porta della sua stanza
alle mie spalle.
Non volevo più ascoltarlo. Perché non riusciva a
mettersi in quella testa
bacata che per me non era normale quella situazione? Baciare mio
fratello non
era di certo uno dei miei sogni di bambina. Perché ci
stavamo complicando la
vita in quel modo? Perché non potevamo odiarci come avevamo
sempre fatto? Lui
aprì la porta della mia stanza e la richiuse alle sue spalle
con violenza,
quasi volesse scardinarla. Indietreggiai di qualche passo. Non mi
piaceva la
sua espressione minacciosa. Ed essere da sola in una stanza con lui,
conciato a
quel modo non mi tranquillizzava. “Chi cazzo ti credi di
essere?! Vieni qui e
mi incasini la vita in pochi mesi e mi fai perdere completamente il
lume della
ragione, stupida deficiente!” “Non insultarmi,
brutto idiota! Hai fatto tutto
tu! Sei tu che hai incasinato la mia vita! Io nemmeno ci volevo venire
in questa
città di merda! Quindi non rompermi i coglioni!”
Di tutta risposta, lui mi
spinse contro il muro. Ma non con violenza. “Ti prego,
baciami” mi chiese quasi
in una supplica. E io non riuscii a dirgli di no. Lo attirai a me,
velocemente.
Amavo sentire il suo sapore sulle mie labbra. Amavo sentire le sue mani
sul mio
corpo. Quel bacio non fu di certo innocente. Era desideroso, bramoso,
lussurioso. Lo sentivamo entrambi. I nostri respiri affannati,
parlavano per
noi. Mi mordeva le labbra, come se volesse mangiarle. Mandai a cagare
il
barlume di lucidità che poco prima mi aveva fermato.
“State bene?” la voce di
Jodi al di là della porta ci fece staccare istantaneamente.
“Si” rispondemmo in
coro. Aprì la porta “Gli ospiti se ne stanno
andando” disse, ordinandoci tra le
righe di scendere per salutare. Lei se ne andò. Adam mi
accarezzò il viso e mi
rubò un ultimo bacio, prima di scendere al piano di sotto.
Solo
Trent rimase a
fare compagnia a mio padre per parlare di lavoro, accompagnato da
bicchierini
di whisky invecchiato. Mio padre si alzò e andò
in cucina. Io lo seguii. “E’
stato scorretto” dissi ferita. “Cosa?”
chiese, facendo finta di non capire.
“Quella pietosa messa in scena di prima.
Cos’è, stai cercando di maritarmi con
uno dei figli di qualche tuo collega?” Avrei voluto
spaccargli la faccia.
“Hayley, ho solo pensato..”
“Bhè, non farlo. Sono capace di
scegliere..” “Non
mi sembra proprio, signorina. Ti sei fatta sbattere fuori
dall’università per
una tresca col tuo cazzo di professore” sibilò
adirato a pochi centimetri dal
mio viso. L’odore di whisky mi entrò nelle narici.
Abbassai lo sguardo.
“Uscirai con uno di quei ragazzi. O con tutti e due se ti
aggrada di più. E ti
divertirai, chiaro?” “No, non puoi decidere per
me” “Sei a casa mia” “Non per
mia scelta” “Hayley, finiscila. Questa discussione
è chiusa” “Vaffanculo”
dissi, trattenendo la rabbia. Sentii la guancia prendermi fuoco, nel
momento in
cui mi tirò una delle sberle più potenti che
avessi mai preso in vita mia. Non
gli diedi la soddisfazione di vedermi piangere. Uscimmo entrambi dalla
cucina.
Lui si fermò in salotto, mentre io uscii di casa, sbattendo
la porta. Cominciai
a camminare velocemente, ritrovandomi poi a correre. Maledetta la mia
bocca che
non stava mai zitta. Il cuore mi scoppiava nel petto. Le lacrime mi
bagnavano
il viso. La guancia mi faceva un male cane. Di certo non avevo imparato
niente
dalla mia esperienza. Se prima era il mio professore, ora era mio
fratello. Mi
diedi della stupida e rallentai la corsa. Avevo il fiato corto, e i
singhiozzi
convulsivi di certo non mi aiutavano a incanalare più aria.
Tentai di calmarmi.
Mi sedetti su una panchina e mi rannicchiai, cercando di sentirmi
protetta.
Avevo bisogno di un abbraccio. Di un abbraccio di mia madre. Di quelli
caldi,
profumati che mi facevano sentire al sicuro anche se tutto intorno a me
stava
andando a puttane. Piansi ancora più forte, cercando di
scrollarmi di dosso
tutto il dolore che provavo. “Hai le gambe corte, ma corri
veloce” la voce di
Jodi mi fece alzare la testa. Non era proprio il momento migliore per
sdrammatizzare. E la mia espressione glielo fece capire.
“Scusami, non sono
molto brava a consolare le persone” “E allora che
cavolo sei venuta a fare?”
dissi, maligna. Lei sospirò. “Torna a casa. Ci
sono pochi gradi e sei a maniche
corte” “Non mi interessa. Se morissi assiderata,
sarei meno di peso” “Oh,
forza! Non fare la drammatica! Alzati su e torna a casa con
me” Aveva la voce
ferma, di quelle che non ammettono repliche. Mi alzai in piedi
“Lasciami stare”
le dissi, perforandola con lo sguardo. “Hayley, per
l’amor del cielo! Non fare
la cocciuta!” disse prendendomi per le spalle.
“Voglio tornare a casa mia” le
bisbigliai tra le lacrime, completamente stravolta. “Lo
so” disse,
abbracciandomi dolcemente. Jodi non profumava di mamma. O meglio, non
profumava
come mia madre. Probabilmente perché aveva passato
metà pomeriggio in cucina a
cucinare e l’altra metà a pulire casa.
“Per ora accontentati di stare qui.
Quando tua madre si sarà calmata, vedremo cosa
fare” disse cullandomi tra le
sue braccia. Tornammo a casa, camminando piano, in silenzio. Per tutto
il
tragitto aveva tenuto ben saldo il suo braccio intorno alle mie spalle,
per
farmi stare un po’ più a caldo. Ma non era servito
a molto, dato che ero
seriamente congelata. Non dissi una parola nemmeno quando entrai in
casa, dove
mio padre parlava ancora con Trent. Savannah si era addormentata sul
divano.
Adam probabilmente era in camera sua. Salii al piano di sopra e mi
chiusi in
camera a chiave. Sentii bussare un paio di volte. Non aprii. Era Adam,
lo
sapevo. Ma volevo stare sola. Rimasi sdraiata sul letto, a pancia in
su,
particolarmente interessata ad una minuscola crepa sul soffitto. Se
fossi
tornata davvero a New York? Sarei riuscita a chiudere il capitolo
‘Adam’?
Sbuffai. Mia madre non me l’avrebbe perdonata facilmente e a
New York
probabilmente non sarei più tornata. Mi accarezzai la
guancia che poco prima mio
padre mi aveva colpito. “Ahia” sussurrai,
massaggiandomi lo zigomo. Mi aveva
presa bene. Spalancai la finestra e mi accesi una sigaretta. Quale modo
migliore per calmarsi? L’aria fredda della sera mi
congelò la faccia. Lasciai
la sigaretta in bilico sul davanzale e presi una felpa dalla sedia di
fianco al
letto. Alzai il cappuccio, come se avesse potuto proteggermi
dall’aria fredda.
Fumai quella sigaretta lentamente, come se fosse stata
l’ultima della mia vita.
C’era un silenzio che metteva pace. Da piccola, come quasi
tutti i bambini,
odiavo il buio. Ma il buio di Londra iniziava a piacermi. Era un buio
diverso
da quello newyorkese. Non c’erano insegne luminose, i tombini
non emanavano
quell’inquietante fumo da film dell’orrore, non si
sentiva l’odore di cibi
fritti. C’era pace e silenzio. Spensi la sigaretta contro il
muro esterno della
casa e buttai il mozzicone in giardino. Chiusi la finestra e piombai
nel buio
della mia camera. Non vidi, però, il comodino che centrai in
pieno con il
mignolo del piede. Gridai come un animale ferito, prendendomi il piede
e
buttandomi sul letto. “Apri questa cazzo di porta!”
sentii fuori dalla mia
camera. Zoppicando nel buio riuscii ad arrivare alla porta e ad
aprirla. “Che
vuoi?” chiesi, ancora dolorante. “Che è
successo?” mi chiese mio fratello.
Doveva aver sentito il mio urlo spacca-timpani. “Ho sbattuto
il mignolo contro
il comodino” dissi imbarazzata. “Ah”
disse solamente. Rimase immobile a
fissarmi in silenzio. “C’è
altro?” chiesi acida. “Mi fai entrare?”
chiese lui
scocciato. Lo feci passare e accesi la luce. Chiusi la porta e aspettai
che
iniziasse a parlare. Si sedette sul letto, mentre io lo guardavo a
braccia
conserte in piedi, vicino alla porta. “Cosa siamo?”
chiese all’improvviso. “Due
umani” risposi ironica, senza capire che intendesse.
“Stupida, intendo: come
dobbiamo definirci?” “Fratellastri”
risposi, sapendo già che un’altra litigata
era nell’aria. “Quindi se io mi frequentassi con
altre ragazze, non ci
sarebbero problemi?” “Ripeto: siamo fratelli. Puoi
fare quel diavolo che vuoi”
risposi astiosa. “Hai intenzione di uscire con quei due
idioti di stasera?” “Non
lo so” “Sono due idioti”
“L’hai già detto”
“Cristo, Lee! Mi sembri un pezzo di
ghiaccio” “Ho preso freddo”
“Smettila di fare l’idiota e di dare risposte alla
cazzo!” “Puoi evitare di gridare?”
“No perché mi fai incazzare!” Mi
sovrastava
di almeno trenta centimetri. Eppure quando eravamo piccoli eravamo alti
uguali.
“Senti, non ho proprio voglia di discutere per
l’ennesima volta con te” dissi
stanca, guardandolo negli occhi. Sbuffò irritato.
“Perché mi sembra sempre di
fare un passo in avanti e cinquanta indietro con te?” disse
abbassando lo
sguardo. “Perché è sbagliato”
ripetei per l’ennesima volta. “Maledizione,
finiscila di ripeterlo! L’ho capito! Perché almeno
per un attimo non provi a
mettere da parte questo cazzo di presupposto?!” gridava come
un pazzo. “L’ho
già fatto una volta. E mi sono ritrovata su un aereo per
Londra con un
biglietto di sola andata” dissi bisbigliando. “Non
è la stessa cosa” disse,
accarezzandomi il viso. Gli allontanai la mano bruscamente.
“E’ esattamente la
stessa cosa. E tu stai solo complicando l-“ Mi
tappò la bocca con un bacio, all’improvviso,
inaspettato. Mi prese in braccio e mi buttò sul letto, senza
mai staccarsi
dalle mie labbra. Ero un mucchio di carne, ossa e brividi. Se ne fossi
stata
capace, sarei andata in autocombustione spontanea. “Non
farlo” dissi,
staccandomi da lui. “Cosa?” chiese. “Non
uscire con altre” dissi, rossa in
volto. Lo vidi sorridere. Un sorriso così dolce che avrebbe
sciolto chiunque.
Me compresa. “Nemmeno tu” disse, prima di
riprendere a baciarmi. Maledette le sue
labbra. Maledetto il suo respiro. Maledetto il suo odore. Maledette le
sue
mani. Maledetti i suoi occhi azzurri che mi guardavano curiosi.
Maledetta me,
che non imparava mai dai miei errori.
Capitolo 5: fine! E’ stata
‘na faticaccia scrivere sto
capitolo! :D Speriamo che sia uscita una cosa decente XD Allora,
facciamo il
punto della situazione: ormai è chiaro che questi 2 non si
considerano più fratelli
._.’’ La piccola e dolce Savannah, prendendo
inconsapevolmente esempio da sua
sorella, è stracotta di un collega del padre (solo a
pensarci mi vien da ridere…
Ma che razza di famiglia sto descrivendo?? Muhauhauah XD). Il padre di
Hayley
le combina appuntamenti al buio, mascherandoli da semplici cene tra
colleghi e
famiglie, cosa che fa andare fuori di testa la ragazza. Jodi sembra
l’unico
personaggio normale, o almeno ‘mentalmente sano’.
Ringrazio ancora una volta
chi ha inserito la mia umile storia tra i preferiti o le seguite.
Fatemi sapere
che ne pensate di quest’ultimo capitolo (o della storia in
generale)! :D
Un bacio,
Kiki :D
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Capitolo 6 *** 6. Crush ***
Capitolo
6: Crush
Aprii gli occhi. Tra baci e
palpeggiamenti vari, io e Adam
ci eravamo addormentati. Era bello stare accoccolata tra le sue braccia
e
sentire il suo respiro sul collo. Le sue braccia mi avvolgevano, come
se avesse
avuto paura che sarei scappata. Guardai la sveglia sul mio comodino. Le
tre e
quarantacinque di mattina. Adam si mosse, stringendomi ancora di
più a lui. “Mi
soffochi così” dissi ridendo e con la voce
impastata. “Scusa” mugugnò lui,
lasciando un po’ la presa su di me. “Dovresti
andare in camera tua” gli dissi,
accarezzandogli il viso. “No” protestò
lui, come un bambino. Mi fece ridere.
“Adam..” tentai di convincerlo, come una mamma fa
con il proprio figlio
capriccioso. “Ma ho sonno!” disse appoggiando la
sua fronte sulla mia. Gli
diedi un bacio a fior di labbra, senza pensarci. “Dopo
questo, stai pur certa
che non me ne vado” disse sorridendo. Allungò il
braccio e accese l’abat jour.
Si girò verso di me e prese a fissarmi. D’istinto
mi sistemai i capelli,
imbarazzata. “Sei bellissima” mi disse dolcemente,
avvicinandosi al mio viso.
“G-grazie” balbettai sorpresa. Non riuscivo ad
abituarmi ai complimenti che mi
faceva. Ero abituata a sentirmi insultare da lui. Mi prese il viso fra
le mani
e mi baciò. “Hai un alito spaventoso”
gli dissi ridendo. Prese a ridere anche
lui. “Vuoi davvero che me ne vada?” mi chiese,
tornando per un momento serio.
“No, ma prima che tutti si sveglino dovresti tornare in
camera tua” dissi,
chiudendo gli occhi. “Hai qualche idea per farmi stare
sveglio fino a domani
mattina?” mi chiese malizioso, con quel suo ghigno che tanto
detestavo.
“Depravato” risposi sorridendo. Mi
scoprì la pancia e prese ad accarezzarla,
muovendo la mano lentamente. Fui pervasa in mezzo secondo dai brividi.
Poi
iniziò a salire piano piano, continuando a guardarmi negli
occhi. Lo baciai con
foga, rapita dal magnetismo dei suoi occhi azzurri. Persi letteralmente
le mani
tra i suoi capelli. Iniziò ad accarezzarmi il seno,
diventando sempre più
possessivo. Si mise a cavalcioni sopra di me e mi sfilò la
felpa e la maglietta
con un unico gesto, lasciandomi in reggiseno davanti a lui. Mi
guardò un
attimo, studiando il mio corpo seminudo e riprese a baciarmi. Gli
accarezzai la
schiena. La sua pelle era così morbida da sembrare quella di
un bambino. Calda.
Iniziò a baciarmi il collo, passando per la clavicola,
fermandosi sui miei seni
e prese ad assaporarli, mentre io sentivo il piacere salirmi fino al
cervello.
Li baciava, li leccava, li mordeva con dolcezza. E io non ce la facevo
più.
L’ultimo uomo con cui avevo fatto l’amore era
Jamie. Ma la sua esperienza non
valeva niente in confronto a ciò che Adam stava riuscendo a
farmi provare. Dal
mio respiro affannato capì che poteva spingersi oltre. Non
mi importava niente:
né del fatto che stavo per fare sesso con il mio
fratellastro, né di ricascare
nei miei errori. Gli levai la maglietta e riuscii a capovolgere le
nostre
posizioni, ritrovandomi sopra di lui. Lo baciai, spostandomi poi sul
suo collo.
Gli leccai e gli morsicai il lobo dell’orecchio, sentendo
chiaramente che il
suo respiro accelerava. Amavo il suo respiro. Amavo
l’espressione del suo viso,
mentre si mordeva il labbro inferiore. Gli baciai il petto, scendendo
sempre
più giù, mentre il suo respiro si faceva sempre
più affannoso. Gli sfiorai i
fianchi e sentii i brividi sotto le mie mani. Slacciai il bottone dei
suoi
jeans e abbassai la lampo. Lo guardavo così intensamente che
per un attimo
temetti di consumarlo. Lui fece lo stesso con me. Mentre mi abbassava i
jeans,
mi strinse il sedere tra le sue mani. Una presa forte, possessiva. Non
riuscii
a non ridere. “Scusa” dissi sorridendo, imbarazzata
per aver spezzato
quell’atmosfera carica di passione. “E’
un sogno, vero?” mi chiese,
avvicinandosi al mio viso. “ Avevi detto che non saresti mai
stata mia” “Sono
una pessima bugiarda” Lo baciai ancora, mentre lui mi
stringeva a sé, in modo
da far combaciare i nostri corpi perfettamente. Poi mi spinse via. Non
dosò la
forza e mi fece cadere dal letto. “Ma sei scemo?!”
brontolai dolorante seduta
sul pavimento. “Ho sentito un rumore” disse,
mettendosi a sedere sul letto.
Aveva interrotto quel momento paradisiaco per un rumore? “I
mobili
scricchiolano” dissi alzandomi da terra da sola, dato che lui
non si era
degnato minimamente di aiutarmi. “Non era uno
scricchiolio.” Poi sgranò gli
occhi. Io rimasi immobile. Erano passi dal piano di sopra. Prese la sua
maglietta e scese dal letto come un fulmine. Lo bloccai per il braccio
“Fammi andare
in camera mia!” bisbigliò, con espressione
terrorizzata. “E se chiunque fosse
ti vedesse uscire dalla mia stanza?” “E se non mi
trovassero?” “Come se fosse
la prima volta!” dissi, ricordandogli che fino a poco tempo
prima era solito
tornare tardi. Sembrò tranquillizzarsi. Chiusi la porta a
chiave. Devi finire quello che hai iniziato.
Lo
riportai sul letto. Ma lui sembrava pensasse ad altro.
“Senti, lasciamo perdere
per stasera” mi disse, senza nemmeno guardarmi in faccia.
Alzai un
sopracciglio. Stava per caso rifiutando una notte di sesso sfrenato con
me? Una
forza misteriosa mi fermò dal soffocarlo con il cuscino. Non
dissi nulla. Mi
sdraiai sul letto e gli diedi le spalle. “Te la sei
presa?” “No” dissi
rabbiosa. Capì al volo il mio stato d’animo.
“Come faccio a rilassarmi se ho il
terrore che qualcuno ci scopra?” “La porta
è chiusa a chiave, brutto idiota”
“Sì, ma non è lo stesso”
“Adam, vaffanculo, ok?” “No, vaffanculo
tu. Sei una
ragazzina e ti comporti da pazza”
“D’accordo” risposi, nascondendomi sotto
le
coperte. Sbuffò scocciato. Si sdraiò di fianco a
me e tentò di abbracciarmi, ma
lo allontanai bruscamente. “Prova a toccarmi e ti spacco la
faccia” dissi,
tremando per la rabbia. “Pazza violenta”
sussurrò lui, dandomi le spalle.
Chiusi gli occhi e tentai di convincere il mio corpo che i giochi erano
finiti.
Se fossi stata da sola, mi sarei messa a piangere. Ma averlo
lì, a pochi
centimetri di distanza non mi aiutava. “Vattene
via” gli dissi. “No, voglio
stare qui” ringhiò velenoso. Mi alzai dal letto e
mi diressi verso la porta. La
aprii e me ne andai io. Entrai in camera sua e chiusi la porta a
chiave. Mi
buttai sul letto e aspettai la mattina, per farmi augurare
un’ennesima giornata
di merda dal timido sole londinese. Il letto di Adam era molto
più scomodo del
mio. Sentii il suo profumo sul cuscino.
Che diavolo stai combinando, stupida decerebrata? Sbuffai
sonoramente
smettendo di annusare la federa in
modo
patetico e da psicopatica. Guardai la sveglia sul comodino. Erano
già le sette
e mezza. Sentii scendere Jodi, mio padre e Savannah al piano di sotto
per fare
colazione. Poco dopo uscirono di casa. “Apri questa cazzo di
porta!” la voce
rauca di Adam mi raggiunse come uno schiaffo, risvegliandomi da quello
stato di
semi-coscienza in cui mi trovavo. Mi alzai dal suo letto e aprii la
porta, su
cui lui stava battendo insistentemente il pugno con una violenza
inaudita. “La
smetti di fare casino?” gridai a mia volta. Lui mi prese per
le spalle,
stringendole in una morsa che mi impediva di muovermi. “Tu mi
stai facendo
impazzire! Mi vuoi dire qual è il tuo cazzo di
problema?” mi sbraitò contro,
avvicinando il suo viso al mio. “Tu sei il mio problema! Mi
stai fondendo il
cervello perché a quanto pare preferisci dormire piuttosto
che fare sesso con
me e io mi ritrovo ad annusare il tuo fottuto cuscino come una specie
di
maniaca depravata!” gli sputai in faccia la
verità, rossa in viso per la rabbia
del momento. Lo vidi trattenere le risate. “Evita di ridere,
per favore. Sono
abbastanza patetica senza che tu mi rida in faccia” dissi,
umiliata e
imbarazzata. “Ti immaginavo annusare il mio
cuscino” disse beffardo, con il suo
ghigno. Sbuffai sperando che mi lasciasse andare, così da
potermi rifugiare in
camera mia ad autoinfliggermi testate contro il muro per la vergogna.
Ma lui
non lasciò la presa. “Sei un essere
strano” sentenziò infine, alzando un
sopracciglio. “Grazie mille” dissi sarcastica.
“Non è un’offesa”
“Non me ne
frega un cazzo se non è un’offesa. Per me lo
è, soprattutto se detto da te”
dissi, senza osare guardarlo negli occhi. “Ti do il permesso
di picchiarmi, se
può farti star meglio” disse ridendo. Ma io non ci
trovavo nulla da ridere.
“Siamo una tragedia” bisbigliai, dando voce ai miei
pensieri. “E questo che
significa?” “Che non faremo mai sesso!”
dissi, risultando più disperata di
quello che volevo sembrare. Questo lo fece ridere più forte.
“Come sei
drammatica!” disse, prendendomi in giro. “Vorrei
che fosse tutto come al
solito. Che continuassimo ad insultarci e a non calcolarci come abbiamo
sempre
fatto” dissi. Questo lo fece tornare serio. “Hai
capito perché sei strana? Un
momento mi dici in tono drammatico che non faremo mai sesso, come se
fosse una
delle tue priorità, e un attimo dopo te ne esci fuori che
vorresti che
tornassimo come prima. E io ti ho detto che voglio che tu sia
più chiara e
concr-“ Gli tappai la bocca con un bacio. Le sue mani
lasciarono le mie spalle,
percorrendo la schiena e raggiungendo il mio sedere. Mi prese in
braccio e mi
schiacciò contro il muro. La stretta delle mie gambe intorno
alla sua vita si
fece più forte, mentre con le mani gli sfilavo la maglietta
lasciandolo a torso
nudo. Gli accarezzai la pelle, perfetta e liscia. I suoi muscoli erano
dannatamente perfetti. Adam era dannatamente perfetto. Peccato che era
mio fratello.
Smettila di pensarci, smettila di
pensarci, smettila di pensarci. Non volevo rovinare
quell’ennesimo momento
di passione che ci aveva travolti. La sua bocca si spostò
sul mio collo,
facendo sì che il mio respiro accelerasse. Schiacciandomi
sempre di più tra il
suo corpo e il muro, riuscì a sfilarmi i pantaloni. Lo
sentii accarezzarmi
l’interno coscia, mentre mi mordicchiava malizioso il lobo.
“Gesù” bisbigliai
prima di sentire le sue dita dentro di me. Non riuscii a reprimere un
gemito,
che uscì dalle mie labbra come una sorta di liberazione da
un lungo e doloroso
supplizio. Mandai indietro la testa, sbattendo contro il muro. Mi
mordevo il
labbro inferiore mentre dalle mie labbra i gemiti aumentavano. Lui mi
baciò e
mi soffiò “Non ce la faccio
più”. Il mio cervello elaborò in un
decimo di
secondo tre teorie: la prima era che non ce la faceva più ad
aspettare; la
seconda era che non ce la faceva più a muovere le dita
dentro di me; la terza
era che non ce la faceva più a tenermi in braccio.
“In che senso?” chiesi tra i
sospiri di piacere. Velocemente mi portò sul suo scomodo
letto mettendosi a
cavalcioni su di me. Prima teoria. O
forse seconda. Magari era la terza. Dannazione! Decisi di
buttarmi,
allontanando tutti i pensieri dalla mia testa, svuotandola
completamente. Gli
abbassai i pantaloni e i boxer, in un unico gesto, guardandolo negli
occhi. Ma
davanti a me non c’era il mio odioso fratellastro che mi
riempiva di insulti
dalla mattina alla sera. C’era Adam, il ragazzo che mi
piaceva. Il ragazzo che
si riempiva di brividi quando gli sfioravo i fianchi con la mani. Il
ragazzo
che pensava prima al mio piacere che al suo. Il ragazzo che
‘non ce la faceva
più’. La mia mano destra si spinse sempre
più in basso, fino a raggiungere ciò
che stava cercando. Iniziai con movimenti lenti, dolci, per poi
aumentare di
intensità e velocità, così come il suo
respiro.
Portò le sue labbra vicino al mio orecchio e mi
bisbigliò “Ti prego,
fammi entrare”. Nessuno prima di quel momento mi aveva mai
chiesto il permesso.
Quella sua richiesta mi fece pensare a quando si citofona a casa di
qualcuno
con cui hai litigato e gli chiedi di farti entrare per chiarire.
Sorrisi
divertita e lo baciai, acconsentendo. Entrò piano, in modo
da preparaci a ciò
che avremmo provato di lì a poco in maniera molto
più ampliata. Trattenni un
urlo liberatorio, quando iniziò a muoversi sopra di me
sempre più veloce,
facendo aderire i nostri corpi perfettamente. Chiusi gli occhi, per
godermi
fino in fondo ciò che stava accadendo. Gli circondai la vita
con le mie gambe,
spingendolo più a fondo in me. I nostri respiri andavano
all’unisono, proprio
come i nostri cuori. Persi le mie labbra sulle sue, sentendo il suo
respiro
affannoso nella mia bocca. Intrecciò le sue mani nelle mie,
portandole
leggermente al di
sopra della mia testa.
Lo sentivo spingere sempre più a fondo, sempre
più forte. Mi mordeva le labbra,
ingordo, come se non ne avesse mai abbastanza di me. Ma nemmeno io ne
avevo
abbastanza di lui. Volevo sempre di più e lo incoraggiavo
ogni tanto con un
“Vai” o “Più forte”
prima di abbandonarmi al piacere completo nell’ averlo
dentro di me, finalmente. Mi leccò le labbra, assaporandole.
Sarei anche potuta
morire in quel momento, non mi sarebbe importato: sarei morta felice e
appagata. Sentii i brividi pervadermi il corpo e il mio
respirò accelerò in
maniera spropositata. Strinsi più forte che potevo le gambe
intorno alla sua
vita, prima di liberarmi. Insieme a lui. Il nostro ultimo gemito lo
facemmo a
due centimetri dalle nostre facce.
Mi
baciò la punta del naso prima di accasciarsi stravolto al
mio fianco. Ci eravamo
riusciti, finalmente. Senza che niente o nessuno ci interrompesse.
Senza che
nessuno dei due avesse ripensamenti. “E’
stato..” iniziò con fiato corto.
“Già”
finii io, sapendo esattamente cosa intendesse. Bellissimo. Fantastico.
Meraviglioso. La fine del mondo. Un viaggio di sola andata per la luna
in un
razzo di cioccolata. Mi scompigliò i capelli e si
rivestì. “Strano, vero?”
disse, allacciandosi i jeans. “Cosa?” chiesi senza
capire. “Insomma, anche per
te è stato strano?” disse, raccogliendo la sua
maglietta dal pavimento. Iniziai
ad odiare quel termine. Ero strana io ed era strano il sesso con me,
dal suo
punto di vista. Sentii le lacrime pungermi gli occhi. Mi rivestii in
fretta,
nel silenzio che si era creato tra di noi. Mi sentivo sporca e
umiliata. Era
stato fantastico per me. “Vieni a fare colazione?”
mi chiese, aprendo la porta.
“No, grazie” tentai di sorridere, ma fu
più difficile di quello che pensassi.
Non era quello che mi aspettavo. Pensavo che saremmo stati abbracciati
sul suo
letto a coccolarci, a baciarci a fare un secondo e un terzo round.
Invece lui
aveva preferito andare a fare colazione da solo. Sentii la rabbia
salirmi fino
al cervello. Scesi con foga le scale e lo aggredii verbalmente mentre
si stava
preparando una tazza di cereali. “Sei proprio uno stronzo di
merda!” “Che ho
fatto?” chiese fermando il cucchiaio stracolmo di cereali e
latte a mezz’aria.
“Mi chiedi pure che hai fatto?! Hai detto che è
stato strano fare sesso con me!
Sai quanto possa essere demoralizzante sentirsi dire una cosa del
genere?”
sbraitai come una pazza. “Prima mi riempi di dolci parole e
poi mi molli come
una scema per fare colazione!” ”Avevo
fame” “Ma chi cazzo se ne frega! Non è
questo il punto!” “E qual è? Che per me
è stato strano fare sesso con la mia sorellastra?
Penso sia più che normale!” “Mi
aspettavo dei complimenti!” esplosi. “Lee, hai
fatto sesso con me, non hai mica vinto le olimpiadi!”
“Sai che c’è? E’ stata la
scopata migliore della mia vita! Ecco, l’ho detto! Non
è stato strano, è stato
bellissimo. E se questo vuol dire che sono da rinchiudere, benissimo!
Sono
pazza!” Ero letteralmente fuori di testa. Sorrise, scosse la
testa e riprese a
mangiare. Con un gesto fulmineo presi la tazza e gli versai il latte e
i
cereali sulla testa. “Ma che cazzo fai?!” disse
indietreggiando. Sì, ero
completamente impazzita. “Sono qui davanti a te, mi sto
umiliando e vergognando
come una ladra e l’unica cosa a cui pensi è
mangiare. Perché sei così stronzo?”
dissi seria. Lui mi guardò come se mi stesse vedendo per la
prima volta. “Che
significa che è stato strano?” chiesi senza
imbarazzo, determinata. Lui si
morse un labbro “E’ stato come tornare
vergine” disse, puntando i suoi occhi
azzurri nei miei. “Di
solito non mi
preoccupo di sbagliare, ma con te è stato diverso. Avevo una
paura fottuta di
fare qualche cazzata, qualcosa che non ti sarebbe piaciuto, qualcosa
che ti
avrebbe spinta a dire basta. E non volevo che tu lo dicessi. Per questo
è stato
strano” finì appoggiandosi al mobile della cucina.
Questo non me lo sarei mai
aspettato. “Ah” dissi solo, elaborando
sconnessamente le informazioni appena
ricevute. “E questo è un bene o un
male?” chiesi. Lui sospirò “Non lo
so”
rispose, scompigliandosi i capelli castani. “Quindi non ho
fatto completamente
schifo?” chiesi, rossa in viso per l’imbarazzo.
“Direi di no” disse,
togliendosi dei cereali dai capelli. Sorrisi soddisfatta.
“Ora posso mangiare?”
mi chiese. Mi avvicinai a lui, lo baciai a fior di labbra e gli
sorrisi. In
quel preciso momento sentii cadermi qualcosa sulla testa e gocciolarmi
addosso.
Latte. Lo vidi ridere vincitore. “Quanto sei
stupido!” sbraitai ridendo e
strizzandomi i capelli nel lavandino. “Questa puoi anche
togliertela” disse,
sfilandomi la maglietta e lasciandomi in reggiseno davanti a lui.
“Che intenzioni
hai?” chiesi maliziosa, alzando un sopracciglio.
“Tu che dici?” disse
prendendomi in braccio. Mi sdraiò sul tavolo. Ma un
movimento ci congelò sul
posto. Chiavi nella porta. Mi lanciò sulla faccia la
maglietta, che indossai
alla velocità della luce. Scesi dal tavolo e quasi scivolai
sulla pozza di
latte sul pavimento. “Oh, siete già svegli? Ma che
è successo qui?” Jodi, notò
subito la pappetta schifosa di latte e cereali sotto i nostri piedi.
“Niente!” esclamammo
in coro io e Adam.
“Voi due non me la raccontate giusta!” disse
“E pulite prima che arrivi la
signora Travis, o le prenderà un colpo nel vedere questo
schifo sul pavimento!”
finì. “Come mai sei a casa?” le chiese
suo figlio. “Ho dimenticato un paio di
fascicoli. Che programmi avete per oggi?” “Pensavo
di portarla in giro” disse,
con una faccia un po’ disgustata. “Non uccidetevi,
mi raccomando” esclamò
ridendo prima di uscire dalla porta e tornare al lavoro. Finii di
pulire il
pavimento e mi apprestai ad andare al piano di sopra. “Dove
credi di andare?”
mi chiese Adam, prendendomi per un braccio. “A lavarmi. Sono
ricoperta di
latte” dissi, allontanandolo leggermente.
“Bhè, potrei farti compagnia” disse,
stringendomi a sé. “Quindi mi porti a spasso
oggi..” dissi, mentre salivamo le
scale. “Se vuoi” disse vago. “Ma non ti
aspettare che ti tenga per mano” disse
ridendo. Senza rendermene conto, mi sentii delusa nell’averlo
sentito dire
quella frase. Non ti terrà mai per
mano.
Entrammo nel bagno e mi butto di peso nella doccia, ancora vestita. Non
riuscii
a ribellarmi. Aprì l’acqua che mi bagnò
dalla testa ai piedi. Continuava a
ridere e si buttò sotto l’acqua anche lui. Prese a
baciarmi con foga mentre mi
toglieva di dosso i vestiti fradici. Pochi minuti dopo mi ritrovai
schiacciata
contro il muro ad ansimare di piacere, mentre entrava dentro di me. Lo
sentivo
gemere e sospirare. Le sue mani mi toccavano, mi accarezzavano, mentre
le mie
unghie gli graffiavano la schiena bagnata. Adam riusciva a farmi
dimenticare di
ciò che ci circondava. C’eravamo solo io e lui. Mi
baciò per l’ennesima volta,
mordendomi le labbra, prima di gemere per l’ultima volta.
Rimanemmo fermi,
immobili, in silenzio. Gli unici rumori presenti in bagno erano i
nostri
respiri e il getto dell’acqua che batteva sui nostri corpi.
“Potrei abituarmi a
tutto questo” disse, prima di baciarmi sul naso. Riuscii solo
a sorridere. Poi
prese a fissarmi divertito. “Che
c’è?”
chiesi sorridendo. “Mi piace l’espressione che
hai” “Che espressione ho?”
chiesi senza capire. “La tipica espressione che uno ha dopo
una buona e sana
scopata” disse prima di uscire dalla doccia. Una buona e sana
scopata. Era
davvero questo Adam per me? Solo una scopata? E allora
perché il cuore non
aveva smesso un attimo di battermi forte nel petto? Chiusi gli occhi,
abbandonandomi
sotto il getto dell’acqua calda. Non ero mai stata brava nel
gestire i miei
sentimenti e la mia ultima relazione ne era la prova schiacciante. Ma
da lì a
pensare che potevo essermi presa una cotta per il mio fratellastro ce
n’era di
strada. Lui ti piace. Spalancai gli
occhi. “Non è vero” bisbigliai, cercando
di convincere la voce della mia
coscienza. “Hai detto qualcosa?” mi chiese Adam,
aprendo l’anta della doccia.
Lo guardai ad occhi sgranati. “No, niente” dissi
con voce isterica, risultando
poco convincente. Mi guardò un attimo e sussurrò
“Sei dannatamente sexy.”
Sorrisi imbarazzata. Non mi ritenevo una ragazza sexy e sentirmelo dire
per la
prima volta in vita mia, mi fece arrossire. E a dirlo era stato proprio
Adam.
“Passami l’accappatoio, piuttosto” dissi
ridendo. Lui sorrise e fece come
ordinato. Chiusi all’improvviso il getto. Mi strinsi
nell’accappatoio
morbido. Sbadigliai
sonoramente, mentre
mi asciugavo i capelli con un asciugamano. “Dove vuoi essere
accompagnata
oggi?” mi chiese, incrociando il suo sguardo con il mio
attraverso lo specchio.
“Non so. Ci facciamo un giro in macchina?” chiesi,
pensando a quanto mi
piacesse vederlo guidare. “Come vuoi” disse
semplicemente, prima di uscire dal
bagno.
“Mi dici perché
ti metti gli occhiali da sole se di sole non
ce ne è?” gli chiesi, una volta in macchina.
“Perché mi fanno sembrare ancora
più bello” disse modesto.
“Più idiota, vorrai dire” ribattei
ridendo. Erano le
undici e mezza di mattina e in giro c’era una moltitudine di
gente. E noi
eravamo letteralmente imbottigliati nel traffico. “Al primo
parcheggio che
trovo, mi fermo e continuiamo a piedi” disse, isterico.
Sbuffai. Era bello
stare di fianco a lui, guardarlo guidare. Vedere come stringeva la
mascella
ogni qualvolta che doveva fermarsi. Mi piaceva osservarlo di nascosto.
“Non
capisco come fai a guidare da quel lato” esordii.
“Penso sia questione di
abitudine” rispose nervoso. “Ho solo detto una
cosa” sottolineai acida. “Una
cosa stupida” rispose acido. “Si può
sapere perché rispondi a questo modo?”
“Perché per colpa delle tue idee del cazzo, siamo
in mezzo al traffico” “E’
verde” gli dissi indicandogli il semaforo. Partì
veloce, sbuffando. Ma la
nostra corsa si fermò a pochi metri dal semaforo che ci
aveva dato il via
libera. Noi non andavamo veloci, alla fine. Ma chi ci prese in pieno lo
stava
facendo. Sbattei la
testa su non so
cosa. Sentii il vetro del finestrino infrangersi in mille pezzi. La
cintura mi
strinse in una presa soffocante. Chiusi gli occhi d’istinto.
La faccia mi
pulsava come se mi avessero presa a botte con una mazza ferrata. Quando
riaprii
gli occhi, le macchine erano ferme. Allungai il braccio verso Adam.
“Stai
bene?” bisbigliai tramortita. “S-sì e
tu?” la sua voce era terrorizzata. “Non
lo ho ancora capito” tentai di sdrammatizzare. Ma in
realtà sentivo ogni
singolo osso del mio corpo a pezzi. Come se fossi finita in un
frullatore
gigante. Girai il viso verso ciò che rimaneva del
finestrino, dalla mia parte.
Se fossimo stati in qualsiasi altra parte del mondo, quella macchina
avrebbe
preso Adam e non me. Voleva solo significare che il destino mi stava
punendo
per i miei sbagli. L’uomo nell’altra auto sembrava
illeso. Allontanò la sua
macchina dalla mia portiera. Adam uscì dalla macchina e
cercò di aprire il mio
sportello, letteralmente accartocciato. Riuscii a togliermi la cintura.
“Ce la
fai ad uscire dal finestrino?” mi chiese mio fratello. Fu
allora che notai che
non riuscivo a muovere le gambe. “Non ci riesco! Adam non
riesco a muovere le
gambe!” gridai,
in preda al terrore.
“Come non riesci a muoverle?!” gridò
spaventato. “Non ci riesco!” esclamai
piangendo in una vera e propria crisi di panico. “Lee!
Hayley! Ascoltami,
cazzo!” disse prendendomi il viso tra le sue mani.
“I soccorsi stanno
arrivando, ok? Stai tranquilla. Io non mi muovo di qui”
finì, cercando in
qualche modo di tranquillizzarmi. Fu a quel punto che mi guardai le
gambe. La
destra stava bene, mentre la sinistra era girata in modo innaturale.
“Oh,
Gesù!” esclamai terrorizzata. Era il mio primo
incidente. E potevo essere
rimasta paralizzata, per quanto ne potevo sapere. L’ambulanza
arrivò pochi
minuti dopo, insieme ai pompieri, che mi dovevano estrarre da quel che
rimaneva
della nostra macchina. Adam aveva chiamato sua madre che ci aveva
raggiunti
immediatamente. Aveva avvisato mio padre, che preoccupato ci stava
raggiungendo. I soccorritori mi fecero sdraiare sulla barella, subito
dopo
avermi messo il collarino. “Non mi sento più le
gambe” li informai tra le
lacrime. Uno di loro mi strinse un ginocchio.
“Cazzo!!” gridai di dolore.
“Nulla di cui preoccuparsi” mi
tranquillizzò. Jodi salì sull’ambulanza
insieme
a me e ad Adam, mentre mio padre pensava a parlare con la polizia e i
testimoni
oculari. Jodi stringeva suo figlio, piangendo e con una mano stringeva
la mia.
“Mamma, non piangere” cercò di
tranquillizzarla Adam. Chiusi gli occhi,
cercando di immaginarmi che dicesse a me quelle parole di conforto. E
finii per
addormentarmi. “Hayley..” la voce di Jodi mi
riportò alla realtà. Mi
accarezzava il viso, teneramente. Aprii gli occhi con uno sforzo
sovrumano.
“Tesoro, hai una gamba rotta” mi avvisò,
notando che guardavo il gesso sulla
mia gamba sinistra senza capire. “E Adam?” chiesi
con voce impastata. “Lui sta
bene. Aveva qualche taglio, ma gli hanno messo dei punti”
“Mi fa male la
faccia” dissi dolorante. La feci ridere. “Ho
già detto a tua sorella di far
sparire gli specchi da casa per un po’”
“Sono messa così male?” chiesi,
tentando di sorridere. “Meglio di quello che credi”
provò a convincermi. “Possiamo
andare a casa?” chiesi stravolta.
“Sì, tuo padre sarà qui a
minuti” disse asciugandosi delle lacrime ribelli.
“Jodi, stai tranquilla. Sto bene” dissi dolcemente,
notando quanto fosse in
ansia. “Lo so, ma mi avete fatto prendere un colpo”
disse distrutta. Le
accarezzai la mano sorridendole. Mio padre arrivò poco dopo,
con delle
stampelle in mano. “Stai bene?” mi chiese,
abbracciandomi. “Sì, papà. Sto bene.
Non preoccuparti” dissi, ormai stanca di ripeterlo. Mi
aiutò a scendere dal
letto, su cui mi avevano fatta dormire. Mi passò le
stampelle e rimase al mio
fianco per aiutarmi nel caso in cui fossi scivolata. Quando ero
più piccola mi
ero rotta un braccio: stavo saltando sul letto di mia madre ed ero
caduta per
terra come un salame. A scuola mi avevano riempito il gesso di scritte
e
disegni. Ma rompersi una gamba era stato ancora peggio. Mi sentivo
un’impedita.
E le stampelle al posto di aiutarmi, mi impacciavano ancora di
più. Quando
salii in macchina mi si chiuse lo stomaco. Ad ogni frenata di mio padre
avevo
paura che qualcuno ci venisse addosso o che, peggio ancora, noi
andassimo
addosso a qualcuno. “Il signore dell’altra macchina
sta bene?” chiesi
all’improvviso. “Sì, lui non si
è fatto niente” mi rispose mio padre,
indifferente. “Qualcuno gli ha chiesto perché ci
è venuto addosso?” chiesi
arrabbiata. “Ha detto che si era distratto”
tagliò corto mio padre. Parcheggiò
davanti casa e mi aiutò a saltare sui gradini che mi
separavano dalla porta
d’ingresso. Quando entrai in casa, Savannah mi
abbracciò con così tanta foga
che quasi persi l’equilibrio. “Stai bene, vero?
Dico, a parte la gamba” mi
chiese preoccupata. “Si, a parte la gamba sto
bene”. Mi accarezzò il viso,
guardandomi come se sentisse il mio dolore. Adam era seduto sul divano
e alzò
appena la testa quando mi vide entrare in casa. Non mosse un muscolo.
Fui io a
raggiungerlo, buttandomi sul divano. “Hai bisogno di
qualcosa, tesoro?” mi
chiese Jodi, entrando in casa. “No, grazie” risposi
gentilmente. Lei e mio
padre mi affidarono a mio fratello e tornarono al lavoro, mentre
Savannah tornò
a scuola. Rimanemmo soli. In silenzio. Sul divano. Sbuffai scocciata e
mi
alzai. “Dove vai?” mi chiese Adam.
“”In bagno” risposi. Lasciai
lì le stampelle
e saltellando raggiunsi il bagno del piano di sotto. Accesi la luce e
non
riuscii a fare a meno di guardarmi allo specchio. Rimasi shoccata. La
mia
faccia era gonfia, piena di tagli, livida. Sulle narici c’era
del sangue
asciutto. Il labbro che poco prima Adam mordeva, era aperto lasciando
intravedere la carne. Trattenni un urlo di terrore. Ma le lacrime non
riuscii
proprio a trattenerle. Più mi guardavo e più
nella mia testa rivedevo le
immagini dell’incidente. La porta si spalancò e
Adam corse dentro. Mi guardò. Mi
nascosi il viso tra le mani, sperando che lui non avesse notato il mio
aspetto
mostruoso. Mi abbracciò stretta. “Mi
dispiace” disse, baciandomi la testa.
“Perché mi chiedi scusa?” dissi,
nascondendo il viso sul suo petto. “Perché
dovevo stare più attento” Lo allontanai senza
capire. “Adam, non è
colpa tua. Chiaro?” dissi, sicura. Lui mi
accarezzò il viso. “Sembri uscita da un film
horror!” Risi. “Grazie, lo
prenderò come un complimento!” Mi baciò
piano sulle labbra, per evitare di
farmi male. Ma non mi importava di sentire dolore o meno. Lo strinsi
più forte
a me, e lo baciai con più foga. Persi le mani tra i suoi
capelli. Le labbra mi
bruciavano, come se sulla carne scoperta mi avessero versato del sale.
Ma non
riuscii a smettere di baciarlo. Fu il sangue a fermarmi.
“Merda..” bisbigliai
prima di sciacquarmi la bocca sotto al getto d’acqua del
lavandino. “Scusa”
disse solo, avvicinandosi a me. “Adam, piantala di
scusarti” dissi, scocciata.
Mi tirò indietro i capelli, mentre io mi bagnavo la bocca.
Le labbra mi
bruciavano sempre di più, tanto da farmi piangere. Dopo i
cinque minuti più
interminabili della mia vita, riuscii a fermare il sangue. Mi sentivo
così
stanca. “Puoi portarmi in camera mia?” gli chiesi
stravolta. Mi prese in
braccio e mi portò nella mia stanza. Mi sdraiò
sul letto. “Puoi stare qui con
me?” gli chiesi, trattenendolo per un braccio. Lui si
sdraiò di fianco me,
accarezzandomi i capelli. Chiusi gli occhi e poco dopo mi addormentai
tra le
sue braccia. Per il mio cervello fu quasi impossibile non farvi
rivivere l’incidente.
Mi svegliai di botto, spaventata. Con la mano cercai Adam. Ma lui non
c’era di
fianco a me. “Adam” lo chiamai.
“Adam!!” gridai, in preda a una crisi di
panico. La gamba mi faceva un male assurdo, pulsandomi attraverso il
gesso. Lo
sentii correre sulle scale. Piangevo disperata. Entrò in
camera “Lee, sono qui”
disse raggiungendomi sul letto. “Non ti ho visto e mi sono
spaventata” dissi
tra le lacrime. “Non mi lasciare sola, Adam. Non mi lasciare
mai” lo pregai
stringendolo a me. “Non ti preoccupare. Io starò
sempre con te” mi disse. Ma
nemmeno lui poteva immaginarsi quanto si stava sbagliando.
E finì anche il capitolo
6! L’altra volta mi sono scordata
di ringraziare jekikika96 per la
recensione:
effettivamente Adam ha l’aria da figone XD.
Per quanto riguarda questo capitolo
ho fatto punire Hayley
dal Karma. Poveraccia XD . Insomma hanno fatto sesso questi due! F I N
A L M E
N T E ! Ho avuto parecchi problemi nel descrivere, ehmm,
l’”atto sessuale” perché
non mi ritengo brava nel descrivere scene di sesso dato che ho sempre
paura di
finire nel volgare ._.’’ Io ci ho provato
seriamente e se è uscita una
schifezza: mi dispiace T.T
Vorrei ringraziare anche Athenril per la sua recensione
strapositiva che mi ha fatto un
sacco piacere e volevo scusarmi per averla distratta da Leopardi: io
quando l’ho
studiato mi perdevo a guardare le farfalle che volavano quindi posso
capirti
XD.
E infine vorrei ringraziare chi non
recensisce ma aggiunge
la mia storia tra i preferiti o le storie seguite. Mercì :D
Un bacio,
Kiki :D
|
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Capitolo 7 *** 7. La finestra sul cortile ***
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Capitolo 7: La
finestra sul cortile
Che palle.
Erano passati
solo dieci giorni
dall’incidente e me ne mancavano ancora venticinque per
togliermi di dosso
quello stramaledetto gesso schifoso. Sbuffai per la millesima volta,
dopo aver
girato canale con il telecomando che ormai era diventato parte
integrante della
mia mano. “Adam!!” gridai annoiata. Lo vidi correre
giù per le scale e con
fiato corto mi chiese “Stai bene? E’ successo
qualcosa?” Ma notò subito che non
c’era niente di cui preoccuparsi. “Mi
annoio!” sbottai sbuffando come una
dodicenne. “Ma vaffanculo, Lee. Pensavo fossi rotolata per
terra e stessi per
morire” disse sbuffando con me. “Andiamo a farci un
giro? A piedi, ovviamente”
cercai di convincerlo. Di tutta risposta mi rise in faccia.
“Ma se ti stanchi a
saltellare qua per casa! E poi io non porto in giro una menomata: ho
una
reputazione da difendere” “Che palle! Ma io mi
annoio a stare qua seduta tutto
il giorno!” dissi imbronciata, incrociando le braccia come
una bambina.
“Prepara dei biscotti” Fui io stavolta a ridergli
in faccia. “Già, pessima
idea. Bhè, disegna! Ricordo di averti sentita dire che ami
disegnare” disse con
quel suo solito ghigno maledetto. Gli diedi una gomitata su un fianco.
“Piantala di fare l’idiota!” “E
tu piantala di lamentarti!” “Portami di sopra e
facciamo del sesso selvaggio” dissi ormai senza
più idee, buttandomi su di lui
con fare teatrale. “Cosa mi tocca sentire!”
“Sono disperata, cosa pretendi!”
“Senti vado a prenderti un caffè da Starbucks, ok?
Magari la pianti di rompere
i coglioni” disse alzandosi dal divano e dirigendosi verso la
porta d’ingresso.
Allungai il braccio verso di lui e sempre con fare melodrammatico
ululai “Non
mi abbandonare qui da sola! Potrei morire di solitudine!”
“Per cinque minuti
che mancherò, penso che sopravvivrai!”
“E’ così che è morto
Mavis!” “Chi cazzo
è Mavis?” “Il cane di Trisha, una mia
compagna di corso. L’ha lasciato solo in
casa e lui è morto di solitudine!” “Oh,
Gesù..” lo vidi alzare gli occhi al
cielo, prima che aprisse la porta e la richiudesse poco dopo alle sue
spalle.
“Adam! Non mi lasciare, ti prego! Potrei
impazzire!” urlai con le lacrime agli
occhi alla porta ormai chiusa. Sbuffai sonoramente, prima di dedicarmi
ancora
una volta ai programmi in tv. Dopo uno psicotico zapping alla ricerca
di
qualcosa di interessante, trovai un film che stava iniziando.
Probabilmente non
era nemmeno di questo secolo. “Alfred Hitchcock”
sussurrai leggendo i titoli di
testa. Appunto. Sbuffai
e tentai di cambiare canale per
l’ennesima volta. Ma il telecomando non rispondeva. Batterie scariche, a quanto pare. Il
destino era contro di me.
Sarei morta dalla noia da sola, triste e con sottofondo la colonna
sonora de “La
finestra sul cortile”. Avevo bisogno di caffè e
Adam ci stava mettendo troppo
tempo per i miei gusti. Il film iniziò. Spalancai gli occhi
nel momento in cui
venne inquadrato il protagonista su una sedia a rotelle a causa di una
gamba
rotta. “Come me!” sussultai, sentendomi
così chiamata in causa. Anche lui
annoiato, iniziò ad osservare ciò che accadeva
all’interno del suo cortile. Il
film mi affascinò, mi coinvolse a tal punto che nemmeno mi
accorsi che Adam era
rientrato trionfante dalla sua passeggiata. “Non ti ho
chiesto come lo volevi,
perciò sono andato a fantasia” disse sedendosi di
fianco a me. “Taci! Silenzio!
Sto guardando un film!” dissi, muovendo la mano come se lui
fosse un insetto
fastidioso. “Prego, comunque!” sbottò
irritato, scattando in piedi e tornando
in camera sua. Che ci facesse poi in camera sua tutto il giorno da
solo, rimaneva
un mistero per me. “L’ha uccisa! L’ha
uccisa!” gridai al protagonista come se
potesse sentirmi. Lui coinvolse nelle indagini la sua fidanzata, che
riconobbi
subito: Grace Kelly più splendida che mai. E ad aiutarli
c’era anche la vecchia
infermiera di lui. Suspance, suspance, suspance. Alla fine il
protagonista
riuscì a smascherare l’assassino. E a rompersi
anche l’altra gamba. Film
interessante. Soprattutto perché mi aveva ispirata.
“Adam!!” gridai raggiante.
Lui scese di controvoglia, stavolta. “Che vuoi?”
chiese strafottente. “Portami
di sopra e procurami un binocolo!” “A cosa dovrebbe
servirti un binocolo?”
chiese stupito, senza capire le mie reali intenzioni.
“Sorveglierò i vicini e
smaschererò l’assassino!” Alzai un pugno
trionfante, aspettandomi che lui si
unisse a me. Ma la sua unica reazione fu alzare un sopracciglio e
guardarmi
come se venissi da un altro pianeta. “Oh, che cavolo! Portami
di sopra e
trovami un maledetto binocolo!” Brontolai, notando la sua
totale indifferenza
al mio nuovo hobby. Mi prese in braccio e sbuffando mi
accompagnò al piano di
sopra. “Se vuoi, puoi essere la mia Grace Kelly”
dissi speranzosa, guardandolo
negli occhi. Lui si fermò e prese a fissarmi. “Ma
si può sapere che cazzo ti
passa per quella testa?” mi chiese tra il divertito e il
preoccupato. “Li
spierò tutti per ammazzare la noia.” Dissi con
voce psicotica. Mi portò in
camera mia e mi sdraiò sul letto. “Non qui! Devi
procurarmi una sedia, di
quelle con le ruote sotto, in modo da farmi muovere liberamente per la
stanza e
poter guardare fuori dalla finestra!” “Lee, ma per
chi cazzo mi hai preso? Per
il tuo schiavo?” disse lui, stanco. Mi alzai dal letto e mi
aggrappai alla sua
maglia, con fare supplichevole. “Ti prego, Grace”
“E piantala di chiamarmi
Grace! Datti un contegno! Sembri una povera pazza!” mi
sbottò contro, facendomi
cadere sul letto. “Adam, dai. Sto giocando! Perché
te la prendi?” dissi,
tornando seria. “Perché fai l’idiota! E
mi sarebbe piaciuto se al posto di guardare
quello stupido film, avessi passato del tempo con me!” Era
proprio incavolato.
La vena sulla sua tempia pulsava come un martello pneumatico.
Digrignava i
denti come un cane rabbioso ed era rosso in viso. “E non
potevi semplicemente
dirmelo?” gli chiesi calma. “Pensavo fossi
abbastanza intelligente da capirlo
da sola! Ma a quanto pare sei solo un’ottusa!”
“Un’ottusa?” gridai anch’io,
sulla difensiva. “Non sei molto sveglia”
“Sarà per la botta alla testa che ho
preso quando abbiamo fatto l’incidente?!” sbraitai
rialzandomi a fatica in
piedi. “Quella botta deve averti fatto perdere parecchi
neuroni, allora!” “Probabile!
Ma te che ne puoi sapere? Non ti sei fatto nemmeno un
graffio!” gli avevo
sputato addosso tutta la mia invidia, senza pensare minimamente che
avrei
potuto ferirlo. Infatti: colpito e
affondato. “Mi dispiace” mi scusai
immediatamente, dopo aver elaborato ciò
che avevo appena detto. Lui sorrise amaramente. “Pensi che
non avrei preferito
che tu non ti facessi nulla? Pensi che la notte io dorma sereno
sentendo i tuoi
lamenti a pochi metri da me? Davvero mi credi così
stronzo?” Le sue parole mi
ferirono quasi quanto le schegge di vetro che mi avevano sfigurato
temporaneamente il viso a causa dello scoppio del finestrino durante
l’incidente. “Davvero, mi dispiace. Non pensavo a
quello che ho detto” dissi,
prendendogli la mano. Ma lui me la allontanò bruscamente.
“Senti, lascia
perdere!” sbraitò, prima di girarsi e uscire quasi
di corsa dalla mia stanza.
“Adam!” lo chiamai. “Oh, vaffanculo
questo gesso del cavolo!” sibilai, tentando
di camminare. Con due gambe ero imbranata. Con una sola gamba ero una
catastrofe.
Volevo raggiungerlo in fretta. Ma sapevo anche che la gamba mi avrebbe
fatto un
male atroce. Rincorrilo, ma con calma.
Provai con questa strategia. Ma c’era la foga del momento che
combatteva con la
coscienza di dover stare attenta. Infatti rotolai, per terra, prima di
raggiungere la porta. “Cazzo!” sbottai tra le
lacrime. Se Adam era uscito, non
l’avrei mai raggiunto strisciando.
“Perché sono circondata da un’ alone di
sfiga?” borbottai piangendo seduta sul pavimento della mia
stanza. La gamba
rinchiusa nel bianco gesso pulsava così insistentemente che
mi venne voglia di
strapparmela via dal corpo. Gattonai alla meglio, tenendo sempre stesa
dietro di
me la gamba ‘clinicamente’ morta. La porta della
stanza di Adam era socchiusa.
Con un colpo di mano la spalancai, ma non lo trovai. Allagai la sua
camera con
le mie lacrime salate, che ormai avevano sede fissa sul mio viso.
Trovai uno
zaino, abbandonato vicino al suo comodino. Quando eravamo piccoli e
nevicava,
scendevamo dalle cunette di neve con gli slittini che ci aveva comprato
mio
padre. Non sarà poi così
diverso. Mi
preparai in cima alle scale. Misi lo zaino sotto al sedere. Ha ragione Adam, sei completamente impazzita.
La porta del bagno si aprì nell’esatto momento in
cui mi lanciai in
quell’impresa suicida. Addio mondo
crudele. Girai appena la testa per vedere mio
fratello a bocca e occhi spalancati,
mentre con lo zaino scivolavo giù dagli scalini a
velocità folle. Non feci
nemmeno in tempo ad urlare che quel mio atto assolutamente insensato mi
portò
dritta di faccia ad assaporare il gusto legnoso del parquet.
“Lee, ti sei fatta
male?” Adam corse giù per le scale e mi
alzò da terra. “Ti giuro, non volevo!”
singhiozzai “Non ti volevo rispondere
così” dissi asciugandomi la faccia dal
mio infinito oceano di lacrime. “Ma si può sapere
che cavolo ti è preso? Perché
cazzo ti sei lanciata giù dalle scale con uno zaino sotto al
culo?” chiese, non
sapendo se ridere o arrabbiarsi per la mia sconsideratezza.
“Pensavo fossi da
basso e volevo raggiungerti!”
piagnucolai isterica. “Ma quanto sei
deficiente” “Piantala di
insultarmi! Io sto piangendo!” urlai, quasi strozzandomi con
la mia saliva.
“Hai ragione, scusa. Dai, non piangere più. Lo sai
che non mi piace vederti
piangere” disse asciugandomi il viso. Tirai su con il naso.
“Pace fatta?”
chiesi innocente, sbattendo i miei occhioni verdi. “Pace
fatta” rispose prima
di darmi un bacio a fior di labbra. Mi sembrò di ritornare
piccoli. Prima di
odiarci, ogni volta che bisticciavamo ero sempre io quella che faceva
il primo
passo. Gli chiedevo sempre “Pace fatta?” e lui
rispondeva alla medesima
maniera, per poi posarmi un bacio innocente sulla guancia. Sembrava che
insieme
a noi fossero cresciuti anche i baci che ci scambiavamo. “Che
dici se ti porto
in camera?” chiese, dopo un lungo minuto di silenzio.
Sbuffai. Mi prese in
braccio. Fece un paio di scalini, poi si fermò.
“Anzi no, forse è meglio
uscire” disse prima di imboccare verso la porta
d’ingresso. Aprì la porta e ci
trovammo davanti ai nostri genitori e a Savannah che ci guardavano
senza capire
che stesse succedendo. “Le fa male stare in casa”
si giustificò mio fratello,
passando tra di loro che si scambiarono solo sguardi divertiti.
“Dove vuole
andare, signorina?” mi chiese Adam pimpante. “Al
parco!” esclamai felice. Lui
si bloccò “Ti sei accorta che siamo a Londra e che
ci saranno una decina di
parchi?” mi domandò saccente. “Alla
statua di Peter Pan!” mi corressi senza
abbandonare l’entusiasmo. Essere scarrozzata per Londra da
mio fratello mi
piaceva come idea. Ma farlo tra le sue braccia era una cosa che
riempiva di
arcobaleni le mie ultime giornate nere.
Mi
adagiò cauto sulla panchina davanti
a noi, poco distante dalla statua di Peter Pan. “Sei
contenta?” mi chiese
sorridendo Adam. Annuii estasiata. Il vento sul viso era qualcosa di
indescrivibile. Chiusi gli occhi, unendomi tutt’uno con la
natura che mi
circondava. La mia gamba malandata era sopra le ginocchia di Adam.
“Vuoi che la
sposto?” gli chiesi, pensando gli potesse dare fastidio.
“No, tranquilla”
rispose semplicemente. Era nervoso. Si capiva benissimo.
“C’è qualcosa che non
va?” gli chiesi curiosa. Si mordeva insistentemente il labbro
inferiore. Mi guardò
un attimo, poi spostò il suo sguardo sulle mie labbra.
“Pensi che possa
funzionare?” mi chiese “Dico, tra me e
te” finì in un sussurro. Rimasi senza
parole. Chi era quel ragazzo dolce davanti a me e che ne aveva fatto
del mio
cinico e gelido fratellastro? “Non lo so” risposi
sincera. Sembrò deluso.
“Quindi è un no” “Non
è un no. E’ un non lo so. Un vorrei ma non
posso” “Prova
a non pensare al fatto che siamo fratellastri. Anche in quel caso
sarebbe un
non lo so?” “In quel caso penso che non ci
sarebbero problemi” risposi di
getto. Da quando ero diventata così schietta? Mi morsi il
labbro inferiore,
mentre un imbarazzato rossore compariva sulle mie guance.
“Baciami” disse,
puntando i suoi occhi nei miei. Mi avvicinai al suo viso lentamente.
“Baciami
come se non fossimo fratelli” continuò a due
centimetri dalle mie labbra. Fu la
prima volta in cui il pensiero che Adam fosse mio fratello non mi
sfiorò
minimamente: era la prima volta che Adam era solo Adam. Gli presi il
viso tra
le mani e lo tirai verso di me. Le nostre lingue danzavano in perfetta
armonia.
Nessuno dei due guidava l’altro. Facevamo tutto insieme, in
perfetto sincrono.
Poi all’improvviso si staccò da me. “Che
cosa mi hai fatto?” mi chiese ad occhi
chiusi, sorridendo. Gli sfiorai il naso con il mio. Infondo, se
qualcuno che
non ci conosceva ci avesse visti, avrebbe detto che eravamo una coppia.
Non di
certo che eravamo fratelli. Mi avvicinai ancora alle sue labbra. Gliele
morsicai teneramente. Sentii le sue mani percorrermi i fianchi e il mio
respiro
iniziò ad accelerare. “Vuoi tornare a
casa?” mi chiese, notando la mia
non-indifferenza al suo tocco. “No” risposi. Gli
presi un braccio e lo passai
sulle mie spalle, poi mi accoccolai sul suo torace, mentre lui
appoggiava il
suo mento sulla mia testa. No, nessuno vedendoci a quel modo avrebbe
detto che
io e lui eravamo fratelli. Quindi, perché avrei dovuto
pensarlo io? Con Adam
stavo bene, mi piaceva. E non potevo farci niente. Mi sentivo come
un’eroina
tragica di un libro, divisa tra la famiglia e l’ amore.
Peccato che la mia
famiglia e il mio amore coincidevano. Strinsi Adam in un abbraccio
soffocante
che lo fece ridere. “Anche i tuoi abbracci sono
violenti” disse ridendo. “E’ la
mia personale dimostrazione d’affetto nei tuoi
confronti” risposi, poco
convincente. “Comunque devi spiegarmi a che diavolo stavi
pensando quando ti
sei improvvisata kamikaze sulle scale di casa” disse serio,
guardandomi.
“Volevo raggiungerti, te l’ho detto”
risposi, intrecciandomi una ciocca di
capelli tra le dita. “Sei in assoluto la ragazza
più strana di cui io mi sia
mai innamorato”. Se ne rese conto troppo tardi, di quello che
aveva detto. Lo
vidi sbiancare di colpo. Con lo
sguardo guardava altrove. Mugugnava versi senza nessun tipo di
significato. Si
era irrigidito e continuava a mordersi il labbro inferiore. E per una
volta
decisi di infierire, ritrovandomi stranamente il coltello dalla parte
del
manico. “E da quanto saresti innamorato di me?”
chiesi, alzando un sopracciglio
e con faccia indifferente. In realtà il cuore mi batteva
all’impazzata. Se non
avessi avuto una gamba rotta mi sarei messa a correre e a gridare dalla
felicità. “E’ che, ehm, io non..
Insomma, volevo solo.. Ho.. Ma..” sbiascicava
parole senza senso. Mi fece sorridere. “Non pensavo di essere
così letale da
farti rimanere senza parole!” dissi, imbarazzandolo
ulteriormente. Adam era in
difficoltà. E la cosa lo rendeva particolarmente tenero. Lui
era innamorato di
me. E tu? Lo baciai, provando a
farlo
rilassare. “Sei davvero innamorato di me?” gli
chiesi, cercando delle conferme.
Maledetta la mia insicurezza. “A quanto pare”
rispose sussurrando. “E tu? Cioè,
voglio dire..” Adam che arrossiva era un evento da
immortalare. “Mi sono
lanciata giù da una rampa di scale con uno zaino sotto il
sedere solo per vedere
se eri arrabbiato con me: mi sembra chiaro, a questo punto”
dissi, rossa quanto
lui. Sorrise soddisfatto. Poi iniziò a ridere.
“Dovevi vedere la tua faccia
mentre scivolavi giù!” Rise così forte
che mi contagiò. “E tu dovevi vedere la
tua!” “Non ti facevo così
spericolata” mi prese in giro. “Ah,
perché non sai di
quando ho attraversato l’oceano in groppa a un delfino?
Quante cose non sai di
me, Adam!” dissi sarcastica. Prese a fissarmi.
“Ripetilo” disse solamente.
“Cosa?” chiesi senza capire a cosa si riferisse.
“Il mio nome. Ripeti il mio
nome” disse serio, puntando il suo sguardo sulle mie labbra.
“ Sono innamorata
di te, Adam Wilde” dissi, risultando più
sdolcinata di quanto volessi apparire.
Lo vidi sorridere. Quello era un nuovo sorriso: il sorriso innamorato
di Adam.
Ed ero io la causa di quel sorriso. Ero io ad averlo fatto innamorare.
“Merda..” sussurrai, sentendo la gamba ingessata
formicolarsi. “Che c’è?”
chiese Adam, senza capire. “La gamba inizia a farmi
male” dissi, togliendo la
gamba dalle sue ginocchia. Si alzò in piedi.
“Andiamo, ti porto a casa” dissi,
avvicinando il suo viso al mio. L’ultimo bacio prima di
ritornare alla realtà
in cui io e lui eravamo solo fratelli. Sbuffai, mentre mi prendeva in
braccio
pronto a riportarmi a casa. “Perché hai
così tanta voglia di tornare a casa?”
chiesi acida. “Pensavo..” “No, tu non
pensavi un bel niente. Se solo tu avessi
pensato, staremmo ancora abbracciati su quella cazzo di
panchina” sbottai,
interrompendolo. “E ora si può sapere che ti
prende?” “Un bel cazzo di niente!”
gridai a pochi centimetri dalla sua faccia. “Più
provo a capirti e meno ci
riesco. Sei proprio strana” disse, sapendo che mi avrebbe
fatta ancora di più
arrabbiare. “Dimmi ancora che sono strana e ti strappo il
naso a morsi” “Anche
le tue minacce sono strane” disse ridendo. Rimasi in silenzio
fino a casa.
“Puoi almeno farmi un sorriso, prima di entrare?”
mi chiese, trattandomi come
una bambina imbronciata. “Puoi mettermi giù. Da
qui in poi ce la faccio da
sola” dissi, lugubre senza nemmeno guardarlo in faccia.
“Smettila di fare così”
mi rimproverò, iniziando a scaldarsi. “Non sto
facendo proprio niente. Ora
mettimi giù” “Basta, mi hai rotto i
coglioni con questi atteggiamenti da pazza”
sbraitò prima di abbandonarmi su uno scalino, in malo modo.
Entrò in casa con
passo feroce senza dire una parola a nessuno. Mi alzai dal gradino e
saltellando come un canguro raggiunsi la porta. Avevo voglia di
piangere, di
urlare. La gamba mi faceva male. Dal nervoso avevo iniziato a mordermi
il labbro,
torturandolo malignamente sotto i denti. Entrai in casa con espressione
maligna, e seguendo l’esempio di mio fratello non dissi
niente a nessuno. “Ma
si può sapere perché voi due prima sembrate
inseparabili e un attimo dopo..”
“Jodi, non è il caso” la interruppi in
cagnesco. Lei sbuffò e alzò le mani in
segno di resa. Anche lei rinunciava a capirci. Fare i gradini
saltellando su un
solo piede si dimostrò un’impresa ardua. Se avessi
avuto una bandiera l’avrei
piantata in cima alle scale, a dimostrazione del fatto che ero riuscita
a
raggiungere la vetta. Ringraziai Dio del fatto che la mia camera si
trovasse al
primo piano e non al secondo. In tal caso avrei dato forfet e mi sarei
lasciata
morire di stenti sulle scale. Saltellai in camera mia, chiudendo la
porta alle
mie spalle. Mi buttai sul letto, lasciando la gamba ingessata a
penzoloni,
segno che ero troppo stanca per alzare quel peso. La porta si
spalancò
all’improvviso. “Grandi notizie!”
esclamò mia sorella entusiasta, buttandosi
sul letto di fianco a me, senza badare alle condizioni pietose in cui
mi
trovavo. “Papà mi farà fare uno stage
da lui e lavorerò con Trent! Ci pensi? Io
e lui insieme tutti i giorni! Deve essere un sogno!” le
brillavano gli occhi,
come se fossero dei pezzi d’ambra colata.
“Bene” dissi solo. Savannah era
troppo eccitata e non fece nemmeno caso a ciò che avevo
detto. “Se non avessi
quello stupido gesso ti chiederei di accompagnarmi a fare
shopping” cominciò.
In quel preciso momento mi sentii fortunata ad essermi rotta una gamba:
non mi
sarei dovuta sorbire un’altra giornata di shopping estremo
con mia sorella. Le
sorrisi solamente, cercando di non dimostrare troppa
felicità nell’aver
scampato quel pericolo. “Posso farti una domanda?”
mi chiese curiosa. Annuii
indifferente. “Perché non sei più
venuta a trovarci?” chiese schietta. Alzai lo
sguardo e incontrai il suo. “Mi sentivo sempre fuori posto
qui. Voi eravate
tutto ciò che io non potevo avere. Ero gelosa del fatto che
mio padre trattasse
più voi come dei figli, che me. Parliamoci chiaro: a lui di
me non è mai
fregato un cazzo e l’ha dimostrato trasferendosi
dall’altra parte dell’oceano.
Non si è mai mosso da qui per venirmi a trovare, ma vi ha
sempre portato in
vacanza in qualsiasi posto. Alcuni anni non mi ha nemmeno chiamato per
farmi
gli auguri di compleanno. Allora ho deciso che se lui non muoveva un
dito per
stare con me, non lo avrei fatto nemmeno io.” Era la prima
volta che confidavo
quelle cose a qualcuno. Mi sentii libera di un peso che da anni mi
affliggeva. “Mi
dispiace” bisbigliò Savannah, senza guardarmi in
faccia. “Ehi, non è colpa tua
se mio padre è uno stronzo” le dissi sorridendo.
“Sì, lo so. Ma non avevo mai
pensato a quello a cui hai rinunciato tu” “Io non
ho rinunciato a niente. A lui
non piaccio e lui non piace a me. Stare senza di lui non è
stato così tragico, d’accordo?”
la rimbeccai, vedendo che una lacrima le era sfuggita dagli occhi.
“D’accordo”
disse calmandosi. “Hai già pensato a come vestirti
il tuo primo giorno di
stage?” cambiai discorso, distendendo l’aria
pesante che si era creata nella
mia stanza. “Pensavo a un vestito e una giacchetta”
“Tacchi?” “Ovviamente.”
Già,
ovviamente. “Secondo te ce la farò?” mi
chiese. La guardai non capendo a cosa
si riferisse. “Con Trent. Dici che sono impazzita?”
“Non sei impazzita. Se lui
ti piace, buttati. Non pensare a quello che gli altri potrebbero dire
di voi”
mi bloccai all’istante. “Scusami un
attimo” le dissi, prima di alzarmi dal
letto. Saltellai fino alla camera di Adam. Aprii la porta, ma non lo
trovai.
Avevo bisogno di lui. Avevo bisogno delle sue labbra, delle sue mani
sopra la
mia pelle, dei suoi respiri e della sua voce. Tornai in camera mia.
Savannah
non si era mossa dal mio letto. “Hai visto tuo
fratello?” le chiesi. “E’ uscito
con Lauren” rispose sistemandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. Mi
irrigidii all’istante. “C-con Lauren?”
chiesi trattenendo la calma. “Sì, penso
che sono andati al pub con i loro amici” continuò
Savannah. “Scusami, ma vorrei
dormire” dissi, forse troppo scorbutica. Mia sorella si
alzò, mi baciò sulla
fronte e uscì dalla mia stanza. Adam era con Lauren. E io
ero nella mia camera,
da sola, a piangere sul mio letto.
Erano le quattro
di notte quando
sentii i passi di Adam sulle scale. Non volevo vederlo. Era come se mi
sentissi
tradita. Ma lui entrò in camera mia e si buttò
sul mio letto. Puzzava di birra
da far schifo. Iniziò a baciarmi sul collo, sbavando come un
cane. Lo
allontanai bruscamente. “E ora che
c’è?” si lamentò alzandosi
dal letto. “Sei
ubriaco” gli dissi disgustata. “L’hai
notato?” mi chiese ridendo. Si avvicinò a
me e provò a baciarmi. “Finiscila” gli
dissi respingendolo. “Lee, te l’ho già
detto: mi stai rompendo i coglioni con i tuoi atteggiamenti”
“No, tu mi hai
rotto i coglioni” lo spinsi un po’, allontanandolo
da me ancora una volta. “Si
può sapere che cazzo vuoi da me?!”
sbraitò senza freni. “Niente, Adam. Vai a
dormire. Ne riparliamo domani quando sarai meno ubriaco”
dissi stanca. Mi
strinse il braccio con forza “No, ne parliamo adesso, brutta
stronza
psicopatica! Io non ti capisco, non ci riesco proprio. Hai sempre
qualcosa per
cui essere incazzata e mi fai impazzire!” “Io non
mi incazzerei se tu stessi
con me al posto che con Lauren!” urlai in lacrime. Lui si
bloccò. “Per favore,
vattene a dormire” gli dissi, sperando che mi lasciasse in
pace. Ma non lo
fece. Mi prese il viso tra le sue mani e bisbigliando mi disse
“Ti giuro che
non ho fatto niente con lei” ma non riuscivo a crederci.
“Lee..” “Te l’ho già
detto: vai a dormire. Ne riparliamo domani” Ne avevo
abbastanza e lui lo capii.
Sbuffò, trattenendo la calma. Provò a baciarmi ma
scostai il viso. Mi guardò un’ultima
volta prima di uscire dalla mia stanza. Pregai tutta la notte
affinché un meteorite
grande quanto l’Asia si schiantasse contro la Terra,
incenerendoci tutti e
evitandomi di parlare con Adam il giorno dopo. Ma niente: le mie
preghiere
risultarono completamente vane. Fui svegliata da Savannah, o meglio dal
profumo
di Savannah. “Gesù, ma ti sei immersa in un barile
di profumo?” mugugnai,
ancora mezza addormentata. “Dici che ho esagerato?”
mi chiese in preda all’ansia.
“Sei riuscita a svegliarmi, quindi direi di
sì” dissi, stropicciandomi il naso.
“Porca vacca, lo sapevo che dovevo esagerare e che dovevo
mandare tutto a
puttane!” esclamò camminando da una parte
all’altra della mia stanza. “Bhè,
almeno sarai sicura che Trent cadrà ai tuoi piedi
svenuto” ironizzai. “E ora
che faccio?” “Hai tempo per farti una
doccia?” “No, cazzo” “Vuoi
stare ferma?
Non è niente. Lavati la faccia e prega che il profumo
sparisca” “Merda” sbottò
prima di uscire dalla mia camera. “Sei bellissima!”
le gridai, cercando di
infonderle un po’ di coraggio. Tornò poco dopo.
“Come sto?” “Te l’ho detto: sei
bellissima! E il profumo è quasi del tutto
sparito” mentii. “Prega per me”
“Penserò
a te tutto il giorno. Vedrai che sarà la giornata
più indimenticabile della tua
vita” “Speriamo” e detto questo se ne
andò. Mi stiracchiai nervosamente sul
letto. Sentii la porta d’ingresso chiudersi, chiaro segno che
in casa
rimanevamo io e quel povero deficiente di mio fratello. Ma per tutta la
mattina
non si fece vedere. Mi alzai dal letto, stanca di poltrire e scesi in
cucina a
cercare qualcosa da mettere sotto i denti. “Mi
dispiace” la voce di Adam mi
raggiunse alle spalle. “Per che cosa?” gli chiesi,
fingendo indifferenza. “Non
lo so” “Chiedi scusa e non sai nemmeno il
perché?” “Già. Con te bisogna
fare
così” “Così come?”
“Chiedere scusa anche se non si è fatto
niente” “Mi hai
lasciata da sola e sei uscito con Lauren. Io questo non lo chiamo
niente” stavo
iniziando a perdere la pazienza, esattamente come lui. “Io
sono uscito con i
miei amici e Lauren era lì con noi”
“D’accordo” dissi saltellando fuori dalla
cucina. Ma poi tornai indietro. “Ieri ho parlato con Savannah
riguardo a un
ragazzo che le piace e mi sono trovata a consigliarle cose che in
realtà stavo
consigliando a me stessa. Le ho detto di buttarsi, di non pensare a
cosa pensa
la gente. Solo che non avevo messo in conto il fatto che tu sei un
pezzo di
idiota insensibile” “Lee, porca puttana! Ti sto
dicendo che non ho fatto
niente! Quante volte te lo dovrò ripetere?” era
proprio incazzato. Non risposi.
Lo guardavo e basta. Guardavi i
suoi
capelli castani spettinati, i suoi occhi azzurri stanchi, il suo petto
muoversi
vistosamente a causa del suo respiro pesante dovuto
all’incazzatura. “Perché dobbiamo
sempre litigare? Me lo spieghi? Io voglio stare tranquillo ma tu trovi
sempre
il modo per rompermi i coglioni!” Rimase a guardarmi
piangere. “E ora perché
cazzo piangi?” sbottò perdendo le staffe.
“Io non voglio litigare con te” mi
lagnai asciugandomi la faccia dalle lacrime. “Ma tu mi fai
sempre piangere”
gridai fuori di me. “Basta ci rinuncio!”
urlò lui, lasciandomi da sola in
cucina e uscendo di casa. Mi abbandonai su una sedia in cucina e
continuai a
piangere disperata. L’aria londinese mi aveva trasformata in
una frignona. Non
ero mai stata così: anzi, di solito lasciavo correre.
Strappai un pezzo di
scottex e mi soffiai il naso. Perché doveva essere tutto
così dannatamente
complicato? Iniziavo a stancarmi dei continui e inutili litigi tra me e
Adam.
Ma solo a pensare che lui avesse passato la serata con Lauren, mi
faceva
impazzire. Iniziai ad immaginarli mentre si baciavano. E ciò
mi provocò un
conato di vomito, che riuscii a trattenere. Ecco a cosa Adam mi stava
riducendo: a una ragazzina gelosa che non riusciva a smettere di
piangere e
fantasticare. Lui aveva detto che non era successo niente, ma non
riuscivo a
crederci. Intuito femminile o sindrome psicotica? Era solo la mia
maledetta
insicurezza di cui non riuscivo a liberarmi mai. Non volevo rovinare
niente,
non un’altra volta. Non volevo che a causa delle mie turbe
psicologiche, Adam
mi avrebbe lasciata in balìa di me stessa ad affrontare,
ancora una volta, da
sola le conseguenze per le mie azioni. Non ero pronta a rivivere
ciò da cui mi
ero appena ripresa. A lungo andare, vi
farete del male entrambi. Sospirai sconsolata asciugandomi il
viso dalle
lacrime. Raggiunsi il divano e mi ci buttai sopra a peso morto. Chiusi
gli
occhi, cercando di calmarmi. La porta di casa si aprì.
Spalancai gli occhi e mi
sedetti, impaziente di vedere Adam. “Ciao, cara. Stai
bene?” la signora Travis
mi guardava preoccupata. Evidentemente dovevo avere proprio un aspetto
mostruoso. “Sì, tranquilla” le dissi
abbozzando un sorriso. “Hai bisogno di
qualcosa? Hai già mangiato?” “No,
grazie. Non ho fame” “E tuo fratello?”
“E’
uscito” le risposi lugubre, sperando di non scoppiare ancora
una volta in lacrime.
La porta si aprì di nuovo. “Quando si parla del
diavolo..” iniziò la domestica
sorridendo ad Adam. “Ti porto do sopra” non era una
domanda. Non avevo altra
alternativa. Annuii senza nemmeno guardarlo in faccia. Mi prese in
braccio e come
se fosse un’azione automatica, abbandonai la testa sul suo
torace. Sapevo che
una volta arrivati nella sua stanza, sarebbe esplosa una guerra
all’ultimo
insulto. Ma non mi importava. Perché tra le sue braccia in
quel momento c’ero
io, e nessun’altra.
Siete tutti
pronti a un’ennesima litigata? Io
no. Sono una tipa pacifica e continuare a descrivere litigate sta
diventando un’impresa
XD
Innanzitutto
consiglio a tutti di vedere (per
chi non l’avesse ancora visto) “La finestra sul
cortile”. Non mi sono
soffermata molto sui dettagli perché mi sarei dilungata
troppo, e sinceramente
sono qui per scrivere una storia e non per recensire un film XD
Questo capitolo
non mi ha molto entusiasmata e
rileggendolo mi sono quasi vergognata a pubblicarlo XD Allora premetto
che fra due capitoli ci
sarà un balzo nel
tempo (tipo tre mesi dopo da questi avvenimenti) e ci sarà
una “bella” sorpresa.
Continuate a leggere e a recensire. I vostri pareri sono ben graditi :D
Un
grazie particolare a Ryo13 e Athernil per
aver recensito l’ultimo capitolo e un altro grazie
và a chi giornalmente
aggiunge la mia storia tra i preferiti e le seguite!
A proposito,
magari non ci avete fatto caso ma
ho cambiato nick XD Quindi da ora in avanti mi firmerò
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titolo informativo). Eh già, dimenticavo: BUONA
ESTATE A TUTTI!
Baci,
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Capitolo 8 *** 8. Fiducia ***
Capitolo
8: Fiducia
“Devi
piangere ancora per molto?” Non riuscivo più a
sopportare la
sua voce. Stava iniziando a diventare difficile ascoltare le
cattiverie che continuava a ripetere. “Se tu non facessi lo
stronzo, io non piangerei” singhiozzai. “Ora
è colpa mia
se hai problemi psicologici?” “No, tu fai solo in
modo di farmi
diventare paranoica dato che esci quasi di nascosto con
Lauren!”
sbraitai, trattenendo un pugno che avrei volentieri scaraventato
contro quel suo bel faccino. “Devo chiederti il permesso per
uscire
con i miei amici? Cazzo, Lee! Non riesci proprio a vivere serenamente
e a non rompermi i coglioni?!” disse scompigliandosi i
capelli,
menefreghista. Non risposi. Non ce la facevo più a litigare.
Mi buttai a terra, sconfitta. “Basta, hai vinto tu”
dissi, in
segno di resa. Lui mi guardava senza capire. Alzai la testa, per
recuperare un po' di dignità. “Hai capito? Hai
vinto!” Ma
il mio sguardo sconfitto si posò sul mio gesso e sospirai
senza speranze. “Tu hai davvero seri problemi”
disse lui,
scuotendo la testa, compassionevole. Uscì dalla mia stanza
sbattendo fragorosamente la porta. Mi sdraiai a terra. Non avevo
più
forze. Presi a fissare una piccola crepa sul soffitto della mia
camera. Chiusi gli occhi, sperando che tutto ciò fosse solo
frutto della mia immaginazione. Perchè non riuscivo a
fidarmi?
Se lui diceva che non era successo nulla, dovevo credergli. Non era
difficile. Sospirai, cercando di trovare la pace interiore. Quando
riaprii gli occhi, trovai ancora la piccola crepa sopra di me.
“Sei
per caso un segno per farmi capire che sto distruggendo
tutto?”
chiesi, rivolta alla crepa. Adam aveva ragione: avevo seri problemi
psicologici. Volevo scomparire per un po'. Ma la mia situazione di
infermità mentale e fisica non mi avrebbe portato lontano.
Decisi quindi di nascondermi sotto il letto. Strisciai sotto al mio
letto e mi ricordai che da piccola era il posto dove preferivo
nascondermi quando giocavo con Adam a nascondino. E lui riusciva
sempre a trovarmi. Perchè ero così brava a farlo
incazzare? Sospirai e uscii da sotto il letto. Era ora di smetterla
di nascondersi. Scesi zampettando dalle scale e trovai un'impegnata
signora Travis a pulire il salotto. “Signora Travis, posso
chiederle una cosa?” dissi imbarazzata, attirando la sua
attenzione. Lei smise immediatamente di spolverare il mobiletto di
legno su cui c'erano le foto di famiglia. “Certo, cara, dimmi
tutto” disse sorridendo. “Ecco, come lei ben sa
sono
letteralmente negata a cucinare e mi chiedevo se poteva aiutarmi a
fare una torta” dissi rossa in volto, vergognandomi come se
fossi
stata colta in flagrante a rubare caramelle. Vidi il suo viso
illuminarsi e mostrarmi un sorriso smagliante. Mollò le
pulizie e mi accompagnò in cucina. “E' per
qualcuno di
speciale?” chiese curiosa, aprendo l'anta di un armadietto.
“No,
sì. Devo farmi perdonare per il mio essere una psicotica
lunatica” dissi armeggiando goffamente con un mestolo. Lei
rise e
preparò il tavolo della cucina, imbastendolo di ingredienti,
alcuni a me fino a quel momento sconosciuti. “Prima di tutto,
vorresti preparare una torta o una crostata?” mi chiese,
assumendo
un'aria esperta. “Perchè, c'è
differenza?” chiesi
ignorante. Mi guardò senza capire se stessi scherzando o se
stessi parlando sul serio. “Direi di fare una
torta” decise,
rendendosi conto di quanto fossi veramente poco esperta in materia
culinaria. La preparazione si dimostrò più
difficile di
quanto potessi immaginare. C'era da misurare le dosi di ogni singolo
ingrediente. Se non avessi chiesto aiuto alla signora Travis avrei
fatto tutto a caso, combinando uno dei miei soliti danni. Lei si
dimostrò un'insegnante paziente e tranquilla. Quella donna
era
la pacatezza fatta a persona. Se io avessi avuto un'allieva alle
prime armi e impedita tanto quanto lo ero io in cucina, avrei
iniziato a sbraitare come un'ossessa e avrei dato forfet. Dopo aver
infornato quella che sarebbe diventata una piccola torta della pace,
seguii la signora Travis in salotto. Mi buttai sul divano e presi ad
osservarla pulire con cura. “E' sposata, signora
Travis?” le
chiesi ficcanaso. “Lo sono stata cinque volte”
rispose lei
ridendo. “Cinque?!” esclamai incredula.
“Ho molto amore da
dare, ma ne ricevo sempre troppo poco” disse continuando a
pulire.
“Ha mai amato così tanto qualcuno da rovinare
inevitabilmente tutto?” le chiesi mordendomi un labbro. Smise
di
pulire e prese a fissarmi. “Hai bisogno di parlare,
Hayley?”
chiese, sapendo già la risposta. Annuii mentre lei si
accomodava di fianco a me sul divano. “C'è questo
ragazzo
che mi piace, ma non la smettiamo di litigare. E la maggior parte
delle volte è colpa della mia insicurezza. Insomma ho paura
che prima o poi lui si stanchi di me” dissi a macchinetta
senza
prendere fiato, sperando che lei non capisse a chi io mi stessi
riferendo. Lei mi accarezzò la gamba e mi
sussurrò
“Vedrai che ti perdonerà qualsiasi cosa con quella
torta. Ma
devi iniziare ad avere fiducia in te stessa” “E'
come se tutto
ciò che entra in contatto con me, si trasformi in un
colossale fallimento” “Tutti abbiamo avuto le
nostre delusioni, ma non è
un buon motivo per buttarsi giù. Guarda me: sono
sopravvissuta
a cinque matrimoni falliti eppure io so di aver dato tutto quello che
avevo, non ho nessun tipo di rimpianto. E chi ti ama davvero, ti
accetta per come sei; ma anche tu devi saper accettarti”. Non
avrei
mai creduto che la signora Travis potesse essere così
profonda. “Cinque matrimoni..” sussurrai ancora
incredula
facendola ridere. Accesi la tv, mentre la mia confidente si recava in
bagno per pulirlo. Nell'aria già sentivo odore di torta.
Odore
d'amore. Sorrisi sognante, immaginando già la reazione di
Adam
nel ricevere in regalo una torta fatta con le mie mani. Probabilmente
all'inizio l'avrebbe guardata disgustato, ma poi mi avrebbe baciata e
travolto dalla passione avrebbe divorato in pochi bocconi il dolce
sottolineando il fatto di quanto fosse delizioso. Sarebbe andata
bene, ne ero certa. Tutto sarebbe tornato alla normalità.
Adam
mi avrebbe detto che mi amava e io avrei risposto alla medesima
maniera. “Hayley! La torta è pronta!”
l'entusiasta
voce della signora Travis mi riportò alla realtà.
Mi
alzai felice dal divano e la raggiunsi in cucina. “E' normale
che
sia così bassa?” chiesi pensierosa, notando quanto
la mia
piccola torta della pace assomigliasse a un enorme dischetto da
hockey. “Devi esserti scordata il lievito” disse
lei poggiandomi
una mano sulla spalla. Maledetto lievito. Scossi la testa
scoraggiata. “Metti un po' di zucchero a velo
sopra” mi disse la
signora Travis passandomi una bustina. Notò quanto mi fossi
buttata giù, quindi esclamò gaia “Sai,
quando
litigavo col mio terzo marito gli preparavo anch'io delle torte. Era
un gran goloso, George. E per intenerirlo o per fargli capire che mi
dispiaceva, passavo col dito sullo zucchero a velo e scrivevo una
parola. Una sola parola che gli avrebbe fatto capire che nonostante
noi fossimo così diversi c'era qualcosa che ci
accomunava”
Mi guardava in modo così dolce, che non riuscii a non
sorridere. Imparare da chi ha più esperienza. E la signora
Travis aveva sicuramente più esperienza di me per quanto
riguardava l'amore. Per due ore continuai a pensare a cosa potesse
accomunare me e Adam. E la prima parola che scrissi fu
“Famiglia”.
Ma prima che la governante potesse leggere ciò che avevo
scritto spolverai altro zucchero a velo per coprire la
verità.
Scrissi “Amore” ma lo cancellai. Troppo banale. Mi
scervellai per
ore senza venirne a capo. Adam era scomparso. Non sapevo nemmeno se
fosse in casa oppure se fosse uscito. Con Lauren, magari. Mi diedi
della stupida e se non fosse stata per la prontezza della signora
Travis, avrei scaraventato la torta nel bidone dell'immondizia in uno
dei miei soliti raptus. “Si può sapere qual
è il
problema?” mi chiese la signora Travis preparando del the.
Odiavo
il the, ma iniziava a piacermi il modo in cui lei si prendeva cura di
me. “Non riesco a trovare una parola, a parte..” mi
bloccai.
Famiglia. Non potevo dirlo. Cosa avrebbe pensato? Mi avrebbe presa
per una specie di maniaca psicopatica. “..A parte
amore”
continuai, dicendo una mezza verità. “Amore
è una
parola bellissima” disse lei versando l'acqua calda in una
tazza
con del latte. “E' banale” risposi sbuffando.
“Cosa rende la
parola amore una cosa banale?” iniziavo a sentirmi
psicanalizzata.
“La usano tutti. Vorrei una parola che lui non si
aspetterebbe da
me. Vorrei sorprenderlo!” esclamai. “Avergli fatto
una torta non
sarà già una gran bella sorpresa?” mi
chiese lei
facendomi l'occhiolino. “Forse” bisbigliai, prima
di concentrarmi
sul the. Se la mia torta fosse stata una torta da copertina, di
quelle belle, alte, soffici magari sarei riuscita a impressionare
Adam. Ma quella torta era come me: bassa, anonima, confusa. Sbuffai,
muovendo il vapore del the. “Vado a finire di pulire o
rimarrò
senza lavoro oltre che senza un marito” disse la signora
Travis
ridendo, prima di lasciarmi da sola a contemplare quella torta. Cosa
voleva Adam? In che modo avrebbe apprezzato quella torta disgustosa e
tremendamente semplice? Qualche frutto come decorazione? Forse delle
scaglie di cioccolato. Abbandonai la testa sul tavolo. Dovevo
guardare da un altro punto di vista. Ripensai alla litigata di quella
mattina. L'indice si mosse da solo sullo zucchero a velo. Fiducia.
Non era più una torta della pace. Era una torta che
simboleggiava una promessa. Più fiducia. In lui e in me
stessa. Sorrisi, finalmente felice di aver trovato soluzione a
quell'enigma. Esultai raggiante nel momento stesso in cui la porta di
casa sbattè violentemente. Adam era tornato. Mi alzai di
scatto. Lui mi vide in cucina, ma fece finta di niente. Salì
in camera sua e tornò al piano di sotto con una felpa e poi
uscì di nuovo. Era proprio incazzato. Non mi ero nemmeno
resa
conto di aver trattenuto il respiro dal momento in cui Adam era
entrato in casa. Mi afflosciai sulla sedia e piansi in silenzio. Come
pensavo di poter sistemare le cose con una stupida torta? La signora
Travis tornò da basso, trovandomi in uno stato pietoso
circondata da un alone di negatività. “Hayley, io
oggi ho
finito. Ma se vuoi che rimanga con te non ci sono problemi”
disse
accarezzandomi la testa. Tornai alla realtà, allontanando i
miei pensieri e le sorrisi. “Non si preoccupi, tanto tra poco
torneranno tutti” mi diede un bacio sulla fronte e mi
salutò.
Probabilmente era alla ricerca del marito numero sei e stare con me
le avrebbe solo fatto perdere delle opportunità. Mi
immaginai
la dolce signora Travis in balìa di qualche speed-dating in
qualche locale all'ultima moda di Londra. Guardai la torta.
“E cosa
me ne faccio di te ora?” chiesi alla piccola forma tonda
davanti a
me. Presi il piatto e decisi che non avrei gettato la spugna. Adam
era arrabbiato ed era normale che non mi avesse nemmeno rivolto la
parola. Ma i miei sforzi per preparare quella torta della fiducia non
sarebbero andati sprecati. Il peggio che poteva capitare era che Adam
l'avrebbe fatta volare fuori dalla finestra. Ma almeno l'avrebbe
vista. Avrebbe capito che a lui ci tenevo tanto da affrontare una
cucina e il forno, i miei nemici da sempre. Col piatto in mano salii
in camera di Adam e appoggiai la torta sul comodino. L'avrebbe
trovata lì, mi avrebbe cercata, mi avrebbe baciata e avremmo
fatto pace. Come sempre. Stavo scendendo le scale quando la porta si
aprì nuovamente. Ma non era Adam, era Savannah e alle sue
spalle c'era mio padre. Lei era raggiante, lui era come al solito
impassibile. “Hayley!” esclamò mia
sorella vedendomi.
Corse verso di me e mi abbracciò sussurrandomi all'orecchio
“Devo raccontarti un sacco di cose!” Poi mi
superò,
correndo in camera sua. Tornai in salotto e mi buttai sul divano.
Non mi ero accorta che mio padre era seduto sulla sua poltrona e che
mi osservava in uno strano modo. “Stai bene?” mi
chiese, quasi
imbarazzato. “Sì” risposi stanca.
“Ti fa male la gamba?”
In quel preciso momento capii che stava cercando di fare un discorso
con me. “Non molto” risposi quasi monosillabica. Lo
vedevo in
difficoltà nel non trovare nulla di cui parlare con me.
“Com'è
andata oggi?” gli chiesi, cercando di non sprecare
un'occasione.
“Come al solito”
“Cioè?” Non sapevo che lavoro
facesse, figuriamoci come fosse una sua giornata tipo.
“Pesante.
Sono stanchissimo” “Non si direbbe”
risposi ridendo. “In che
senso?” chiese senza capire perchè ridessi.
“Sembri così
rilassato. Non avrei mai detto che fossi stanco”
puntualizzai.
“Sono un uomo d'affari. E' il mio lavoro far credere agli
altri ciò
che voglio io” disse sorridendo. “Mi ero scordata
che avessi gli
occhi verdi” dissi guardando i suoi occhi così
simili ai
miei. Lui mi guardò. Non era ferito da quella mia
affermazione. Era come se provasse del rimorso. “Quando sei
nata
tutti dicevano che eri la copia di tua madre. Ed era vero. Ma ogni
volta che mi guardavi con quei tuoi occhioni verdi capivo che in te
c'era anche qualcosa di mio. Ti ricordi cosa ti dicevo?”
chiese
speranzoso che io capissi a cosa si riferisse. Ma io non capii.
“Quando non ci sarà nessuno che ti
comprenderà..”
iniziò lui, ma io lo fermai, ricordandomi all'improvviso
quella frase che mi ripeteva poco prima che divorziasse da mia madre
“Cerca i miei occhi tra la folla e saprai che io ci
sarò
sempre.” Mi guardò sollevato dal fatto che non mi
fossi
dimenticata. “Li ho cercati molte volte, ma non li ho mai
trovati”
dissi tristemente, evitando di guardarlo. Colpito e affondato. Si
alzò dalla poltrona sconfitto.
“Papà!” lo fermai,
sentendomi in colpa. “Vale anche qui in
Inghilterra?” chiesi. “Se
cercassi i tuoi occhi qui, li troverei?” continuai, sperando
di non
aver rovinato ancora le cose con lui. “Dovunque”
rispose
sorridendo. Uscì dal salotto e andò in camera sua
a
riposarsi. La porta di casa si aprì nuovamente, ma come
prima
non era Adam. Jodie mi salutò, visibilmente a pezzi.
“Stai
bene?” le chiesi sorridendo. “Mica tanto. Tuo padre
e Savannah
sono già tornati?” “Sì,
papà è in
camera a riposarsi” “Penso che lo
raggiungerò” “Stasera
potrei fare da mangiare” esordii. Lei si ghiacciò
all'istante sul posto e prese a fissarmi. “Potremmo ordinare
una
pizza” cercò di convincermi. Avrei dovuto fare
anche a Jodie
una torta con scritto Fiducia. “Per favore! Giuro che se non
ci
riesco, pago io le pizze!” Era una cosa paradossale che
qualcuno
pregasse per cucinare al posto di ordinare una pizza. Ma volevo
provarci. Volevo fare qualcosa per loro, sperando che il
“qualcosa”
non includesse l'avvelenamento. “Ti prego, la cucina
è
nuova. Stai attenta” disse prima di salire in camera sua.
Sentii
Jodie bisbigliare a mia sorella che stava scendendo le scale
“Dai
un occhio a tua sorella, mentre cucina. Non vorrei svegliarmi con i
pompieri in casa.” Fui raggiunta da Savannah che mi
accompagnò
in cucina. “Posso darti una mano?” mi chiese
innocente. Come se
non sapessi che era stata mandata per controllarmi.
“Certo”
dissi, arrendendomi al fatto che non sapevo nemmeno da dove iniziare.
“Allora, vuoi iniziare a parlare o devo torturarti
fisicamente?”
esordii riferendomi chiaramente a Trent. “E' stato
fantastico! Era
così gentile, mi spiegava tutto in modo così
chiaro. E
abbiamo mangiato insieme! Mi ha portato in un ristorante vicino al
lavoro. Solo io e lui, capisci?” Era così bella e
felice. “E
di cosa avete parlato al ristorante?” le chiesi curiosa.
“Di
tutto! Del mio futuro, della sua vita al di fuori lavoro, del suo
cibo preferito. Lui è perfetto, Hayley. Sono innamorata di
Trent!” mi abbracciò con foga e non riuscii a non
ridere.
“Calmati, marmocchia!” Ma lei non mi
ascoltò e prese a
raccontarmi ogni singolo momento al lavoro con Trent. Il profumo di
Trent, la scrivania di Trent, l'ufficio di Trent, le battute di
Trent. Trent e ancora Trent. Ma non potevo fermala. Non ci riuscivo.
La mia sorellina era letteralmente cotta di Trent. Cotta tanto quanto
le uova che stavo preparando, salvate miracolosamente dall'essere
carbonizzate.
Adam
non si presentò a cena. Per essere la prima volta che
cucinavo
seriamente, non era andata male. Non era morto nessuno, ma erano
tutti troppo stanchi per lamentarsi. Savannah sparecchiò la
tavola e io aspettai che tutti andassero a dormire per sgaiattolare
in camera di Adam ad aspettarlo per dargli la mia torta. Ma alle tre
di notte non era ancora tornato e io non riuscii a restare sveglia.
Crollai sul suo letto, con la gamba ingessata a penzoloni e le
lacrime agli occhi. Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in camera di
Adam, ma di lui non c'era traccia. Mi alzai e andai a controllare in
camera mia, ma non era nemmeno lì. Presi la torta dal suo
comodino e scesi le scale per andare in cucina. Erano le cinque. Misi
la torta in frigo e andai in salotto. Mi buttai sul divano e tornai a
dormire. “Hayley..” Qualcuno mi stava scuotendo.
Aprii
pesantemente gli occhi. Vidi solo del verde.
“Papà”
biascicai. Lui mi prese in braccio e mi portò in camera mia.
Mi diede un bacio sulla fronte e mi coprì con la coperta.
Poi
uscì dalla mia stanza chiudendo la porta. Sentii Jodie
urlare
qualcosa, ma ero troppo stanca per capire cosa stesse dicendo. E
scivolai ancora una volta tra le braccia di Morfeo. Sentii la porta
della mia stanza aprirsi e chiudersi subito dopo. Aprii gli occhi e
mi rigirai nel letto. Guardai la sveglia sul mio comodino.
Mezzogiorno. Sbadigliai sonoramente e mi stiracchiai per bene prima
di scendere dal letto. La porta della stanza di Adam era chiusa. Era
il giorno libero della signora Travis, quindi mi decisi a portare
quella maledetta torta ad Adam. Nello scendere le scale avevo
rischiato un paio di volte di scivolare e rompermi qualcos'altro. Ma
la mia determinazione era troppo grande per essere spazzata via dal
fatto che avevo una gamba in meno e un peso in più da
trascinarmi. Presi la torta dal frigo, astutamente nascosta dietro
l'insalata per non attirare l'attenzione di qualche altro membro
della famiglia, e ritornai a salire le scale. Aprii piano la porta.
Adam stava dormendo, dando le spalle alla porta. Feci più
piano possibile nell'appoggiare la mia torta formato mignon sul suo
comodino. Avrei voluto avvicinarmi e accarezzargli la schiena, ma
avevo paura di una sua reazione diversa dal solito. Nel girarmi per
uscire dalla camera di Adam picchiai violentemente contro lo spigolo
del comodino tutte e cinque le dita del piede ingessato. Sentii una
fitta partirmi dal piede e arrivarmi dritta al cervello. Trattenni un
urlo di puro dolore per evitare che Adam si potesse svegliare. Ma
nonostante mi fossi morsa la lingua per evitare di sprigionare un
urlo spacca timpani, Adam si svegliò. “Ma che
cazzo..? Lee
che stai facendo?” brontolò girandosi per
guardarmi.
“N-niente” balbettai dolorante. Si sedette sul
letto e si
scompigliò i capelli. Stavo lì a guardarlo, col
piede
che pulsava, senza accennare a dire nulla.
“Cos'è?” chiese
indicando qualcosa vicino a me. Abbassai lo sguardo e la vidi. La mia
torta spappolata per terra. Sgranai gli occhi, incredula. Urtando il
comodino con il piede dovevo averla fatta cadere. Adam non avrebbe
mai mangiato la mia torta della fiducia. Non avrebbe mai assaporato
il frutto dei miei sforzi per farmi perdonare.
“Cazzo” riuscii
solo a dire. Lui mi guardava senza capire. “Scusa se ti ho
svegliato. Torna pure a dormire” dissi prima di raccogliere
quelle
briciole informi. Lui si sdraiò, dandomi le spalle.
“Era la
torta della fiducia” dissi raccogliendo le ultime briciole.
Adam si
girò “Mi piacciono le torte” disse
semplicemente. “Non
quelle di Hayley Doherty” sbuffai maledicendomi mentalmente.
“Hai
fatto una torta?” chiese incredulo.
“Perchè usi quel tono?
Non ho mica fatto un miracolo!” borbottai sulla difensiva.
Lui si
alzò dal letto e mi venne incontro. Prese un po' di torta
dal
piattino, ci soffiò sopra e la mangiò. Lo vidi
inghiottire a fatica. “Lee è disgustosa”
disse cercando di
non ridere. Lo sapevo che era immangiabile. “Scusa”
dissi solo,
sentendomi umiliata. Abbassai la testa, convinta di aver solo
peggiorato la situazione e uscii dalla sua camera con i resti di
quella schifezza tra le mani. Cosa mi era passato per la mente?
Hayley Doherty non sapeva cucinare. Hayley Doherty non sapeva fare
niente. Non ero stata nemmeno in grado di fare qualcosa di carino per
il mio... ragazzo? Adam era il mio ragazzo? Sentivo la sua presenza
alle mie spalle, quindi mi bloccai di colpo. E come al solito non
riuscii a tenere la bocca chiusa. “Cosa sei tu per me? Cosa
siamo
noi?” chiesi incrociando il suo sguardo stanco.
“Cosa?” chiese
senza capire. “Non ti so dare una posizione tra i miei
pensieri.
Cosa sei? Il mio ragazzo, mio fratello o cos'altro?” Dalla
sua
espressione capii che non si aspettava nulla di tutto ciò.
“Non lo so” rispose semplicemente. “Sono
solo tuo” “Mio
cosa?!” sbraitai perdendo la pazienza.
“Assaggiatore di torte”
disse ridendo. Ma io non avevo nessuna voglia di ridere.
“Smettila
di fare l'idiota!” dissi entrando in cucina saltellando. Lui
mi
prese il piatto con i resti della mia torta e l'appoggiò sul
tavolo. “Io sono tuo, mettitelo in testa. Che io sia il tuo
ragazzo, tuo fratello o lo stronzo che ti fa piangere non ha
importanza. Sono tuo punto e basta.” Per quanto quel discorso
non
avesse totalmente senso, era dolce che lui si definisse mio.
Perchè
ciò significava che io ero sua. Gli sorrisi e spostai il
discorso sulla torta “Era così
schifosa?” “Avrei
preferito ingurgitare del veleno” disse allontanando il
piatto da
lui. Risi divertita, spingendolo dolcemente. “Era la torta
della
fiducia” ripetei. “Cioè?”
“C'era scritto fiducia. E'
uno strano modo per dire che mi fido di te” “E'
originale, non
strano” disse prima di baciarmi. “Posso chiederti
una cosa?”
gli chiesi gettando nella spazzatura i resti della mia torta della
fiducia. Lui aprì il frigo e tirò fuori del
latte. Non
rispose, quindi decisi di buttarmi. “Dove sei
stato?” Non sapevo
se la mia fosse solo curiosità. “Fuori”
rispose
semplicemente lui, versandosi il latte in una tazza. “Oggi ti
va di
stare con me?” chiesi dolcemente. Ma dalla sua espressione
capii
che aveva altri piani. “Oggi? In realtà mi ero
messo
d'accordo con Lauren e altri amici per andare a Camden” disse
noncurante di come mi potessi sentire. Forse mi stava mettendo alla
prova per capire se io avessi davvero imparato dai miei errori.
Sorrisi, reprimendo tutta la negatività, e dissi
“Ah,
d'accordo. Bhè, divertiti!” Mi sedetti di fianco a
lui e lo
guardai mangiare. “Vorrei che venissi anche tu,
ma..” “Già,
la mia gamba” finii al suo posto. “Infatti.
Però appena ti
toglierai il gesso ti prometto che ti ci porto” disse
alzandosi
dalla sedia e uscendo dalla cucina velocemente per tornare in camera
sua. Rimasi da sola a farmi mangiare dalla gelosia. Adam l'aveva
fatto apposta a nominare Lauren. Scese poco dopo. “Ci
vediamo”
disse. Mi diede un lieve bacio sulla fronte e uscì. Mi
buttai
sul divano depressa come non mai. Come al solito avrei passato la mia
giornata in casa, da sola con me stessa, ad auto commiserarmi.
Sbuffai sonoramente prima di alzarmi. Se Adam era uscito, potevo
farlo anche io. Aprii la porta dello sgabuzzino e ritrovai le mie
odiate stampelle. Tornai al piano di sopra e tirai fuori dall'armadio
un paio di pantaloncini di jeans. Sarei morta di freddo, ma nella mia
situazione erano gli unici jeans che potevo indossare. Mi infilai una
felpa e tirai su il cappuccio. Scesi al piano di sotto e mi infilai
una scarpa. Mi sentivo ridicola, ma restare a casa da sola era
l'ultima cosa che mi serviva. Chiusi la porta a chiave e scesi gli
scalini che mi separavano dal marciapiede. Il cielo grigio di Londra
iniziava a piacermi perchè era in totale sintonia con il mio
umore. Mi fermai alla prima fermata dei bus. Avrei preso il primo
autobus che fosse passato di lì e sarei andata alla scoperta
di Londra. Se Adam non mi portava in giro, l'avrei fatto da sola. Non
c'era molta gente che aspettava l'arrivo dei bus e un signore,
notando la mia condizione di ingessata, si alzò dalla
panchina
per farmi sedere. Di fianco a me c'era una ragazza che ascoltava
musica dal suo mp3. La musica non era molto alta e con il chiasso che
ci circondava non riuscii a capire cosa stesse ascoltando. Pochi
minuti dopo un bus si fermò alla fermata. Non sapevo dove mi
avrebbe portata, ma mi alzai. Salire su un bus con una gamba rotta
risultò più complicato di ciò che mi
aspettassi.
Fui aiutata da un ragazzo poco più grande di me, che mi
prese
letteralmente di peso per adagiarmi con cautela. “Grazie
mille”
dissi imbarazzata. “Di nulla” rispose sorridendomi
prima di
salire al piano superiore. L'autista fu magnanimo e aspettò
che io mi sedessi prima di ripartire per la sua corsa. Appoggiai la
testa sul finestrino e mi persi tra le vie di quella città
che
era ormai diventata casa mia. Non era da me salire su un autobus e
andare alla avan scoperta senza una meta prestabilita. Ma avevo il
bisogno fisico e mentale di uscire di casa, anche se ciò
significava non sapere dove andare. Scesi a una fermata a caso, dopo
venti minuti. Non sapevo dove fossi, non sapevo cosa avrei trovato.
Ma iniziava a divertirmi quella mia sconsideratezza. Mandai un
messaggio a Savannah per far sapere a qualcuno della mia famiglia che
ero uscita. Non specificai dove mi trovavo, anche perchè non
lo sapevo. Adam si sarebbe arrabbiato, lo sapevo. Ma lui aveva
preferito Lauren a me. Per la seconda volta. E io mi ero stancata.
Vidi Starbuck's in lontananza e per un attimo fu come tornare a New
York. Entrai nel locale e ordinai il mio solito caffè
macchiato con panna e un biscotto al burro con gocce di cioccolato.
Mi sedetti a un tavolo, appoggiando le stampelle a un muro. La porta
d'entrata si aprì ed entrarono tre ragazze. Ridevano a
crepapelle. Amiche. Avrei voluto avere anche io delle amiche con cui
ridere e magari parlare di Adam, ma le mie vecchie amicizie si erano
tirate indietro appena avevano scoperto che me la facevo con un
professore. Finii il mio caffè e uscii da Starbuck's
più
depressa di prima. Non era stata una grande idea andare in giro per
Londra da sola e con una gamba fuori uso. Sentii della musica
provenire da un locale e ne fui quasi attratta. Mi avvicinai a un
omone di colore, proprio davanti all'entrata. “Mi scusi, chi
sta
suonando?” chiesi dal mio metro e 55 scarso. Lui
guardò in
basso, probabilmente scambiandomi per una marmocchia “Bisogna
avere
21 anni per entrare” Appunto.
“Ne ho 22, in realtà” dissi tirando
fuori il documento.
Lui controllò più volte per essere certo che non
fosse
un falso. Ero abituata ai controlli quasi maniacali della security
all'ingresso dei locali. “Nessuno di famoso. C'è
musica live
di gruppi sconosciuti” disse arrendendosi al fatto che stavo
dicendo la verità sulla mia età. Pagai l'ingresso
e mi
sedetti a un tavolo. Monkey
Blues. Che
strano nome per un gruppo di sole ragazze. La cantante sembrava una
bambola di porcellana. Bionda, occhi grandi e castani, fisico
asciutto e con un vestito che lasciava ben poco all'immaginazione. Le
altre componenti del gruppo erano ragazze anonime con nessun tipo di
stile particolare. Lei, la bambola di porcellana, aveva una voce
molto profonda e per un momento pensai si trattasse di un travestito.
La canzone non era nulla di particolare. Parlava di un ragazzo che
aveva lasciato la ragazza per partire per la guerra e di come la
ragazza lo pensava tutti i giorni. La bambola finì con un
acuto in falsetto orribile. Ma il pubblicò
applaudì
comunque. Anche perchè lei era rimasta in reggiseno durante
la
performance. Sul palco salì un ragazzo con un microfono in
mano che fece scendere le Monkey Blues. “Benissimo,
l'atmosfera si
è scaldata abbastanza per dare il benvenuto a una delle band
più promettente degli ultimi anni nel panorama della musica
d'oltreoceano. I PumpinkPunkerz!” Sentii un tuffo al cuore,
mentre
i miei idoli salivano sullo striminzito palco del locale.
Fatalità.
Destino. Fortuna. Quante probabilità c'erano che i Pumpink
fossero nello stesso locale londinese dove mi trovavo io? Mi mancava
il respiro. Presi il cellulare e iniziai a fare un video, per
immortalare la mia fortuna sfacciata. Geneve's
Dream.
Amavo quella canzone e non riuscii a non cantarla a squarciagola
insieme a Keith, il cantante dei Pumpink. Ovviamente ero la sola a
conoscere quel pezzo tra tutto il pubblico, che però
sembrava
gradire. Shoot
'em.
Mi sembrava quasi di vivere un sogno. Quando ero a New York ero
diventata amica di Kendra, anche lei amante dei Pumpink, e andavamo a
quasi tutti i loro concerti che si tenevano per la maggior parte in
locali malfamati. Ma loro riuscivano comunque a riempirli. Non mi ero
mai trovata così vicino a loro in uno di quei locali, come
in
quello dove mi trovavo a milioni di chilometri da New York. Chiusero
con Hell
in my head
prima di scendere dal palco. Ma non potevo farmi sfuggire una simile
opportunità. Mi alzai abbandonando le mie stampelle al
tavolo
e saltellai verso di loro, che stavano per andarsene.
“Scusate!”
gridai con tutta la voce che avevo in corpo, cercando di attirare la
loro attenzione. Ian, il chitarrista, si voltò verso di me
che
saltellavo come un coniglio verso di loro con il fuoco negli occhi.
Lui richiamò l'attenzione degli altri membri. Li raggiunsi
col
fiatone. “Io sono di New York e voi siete i miei
idoli” dissi
senza troppi convenevoli. Garrett, il batterista, rise compiaciuto.
“Posso farmi una foto con voi?” chiesi,
già armata di
telefonino. “Certo” disse sorridendo Keith
mettendosi in posa con
gli altri. Fermai una ragazza e le chiesi di farci una foto, mentre
mi mettevo in mezzo a loro. Lei, dopo lo scatto mi restituì
il
telefono, ma a me non bastava. “Potreste anche autografarmi
il
gesso?” dissi rossa in volto. Li feci ridere, ma
acconsentirono.
Avrei tenuto quel gesso per tutta la vita, non mi importava.
“Grazie
mille, davvero” dissi mentre a turno mi firmavano il gesso.
“Sono
Hayley, comunque” dissi stringendo le loro mani, in completa
devozione. Keith mi scompigliò i capelli prima di andarsene
insieme al resto del suo gruppo. Rimasi impalata per circa dieci
minuti. Avevo parlato con loro. Avevo una foto con loro. Avevo anche
i loro autografi. Potevo morire felice. Tornai al mio tavolo e rimasi
fino alla chiusura del locale. Non avevo prestato molta attenzione
alle altre band. Ero così felice. Quando uscii era
già
buio e dovevo trovare il modo di tornare a casa. Doveva aver piovuto
perchè i marciapiedi erano pieni di pozzanghere. La fortuna
era dalla mia parte: infatti riuscii a trovare il bus giusto per
tornare a casa. Venti minuti dopo scesi vicino a casa. Attraversai la
strada e mi apprestai ad entrare in casa. “Hayley!”
la voce di
Jodi mi risvegliò dai miei pensieri. “Si
può sapere
dove sei stata?” chiese, più curiosa che
preoccupata. “Non
lo so” risposi sincera, ma con voce sognante. Savannah e mio
padre
erano seduti sul divano e mi guardavano quasi divertiti. Jodi si
avvicinò a me e prese a fissarmi “Non ti sei
drogata, vero?”
chiese con tono severo. Iniziai a ridere “No! Sono stata in
un
locale ad ascoltare musica live e li ho conosciuti!” esclamai
saltellando verso mio padre, che mi guardava senza capirmi.
“Chi?”
chiese curiosa Savannah. “I PumpinkPunkerz” dissi
buttandomi
letteralmente su mio padre. Alzai la gamba ingessata in modo che
tutti potessero vedere le firme “Mi hanno
autografata!” continuai
abbracciando mio padre. Non la smettevo di ridere e presi anche a
saltellare per casa come un canguro. Sentii dei passi pesanti sulle
scale “Cos'è tutto questo casino?” Adam
non si accorse
subito di me. “Hayley ha conosciuto non so chi”
disse Savannah
divertita. “I PumpinkPunkerz!” esclamai sempre
più felice
saltellando verso Adam. “Ah, sei tornata” disse lui
alzando un
sopracciglio e irrigidendo la mascella. “I
PumpinkPunkerz!”
ripetei con più foga gesticolando come una pazza, per
renderlo
partecipe della mia felicità. Ma lui non fece una piega.
“Mamma, possiamo mangiare ora che la principessa è
tornata?”
chiese astioso verso sua madre. “Tra poco è
pronto, Adam”
rispose Jodi, guardandolo male. Lui non disse nient'altro e
salì
in camera sua. Non volevo seguirlo. Non volevo litigare ancora. Ero
stanca di gridare e piangere. Mi accoccolai di fianco a mia sorella e
appoggiai la testa sulle sue gambe. Lei iniziò ad
accarezzarmi
la testa senza distogliere lo sguardo dalla tv. Chiusi gli occhi e
aspettai che Jodi ci chiamasse per la cena. “Stasera hai
intenzione
di uscire?” chiese la mia matrigna ad Adam, versandosi del
vino.
C'era un'atmosfera tesa tra di loro. “Non lo so”
rispose lui
piantando i suoi occhi glaciali sulla madre. Era un chiaro segno di
sfida. Jodi alzò un sopracciglio e lo rimbeccò
“Risposta sbagliata. Tu stasera non esci. Te ne starai qui
con noi”
“A fare cosa? A controllare quella?”
sbottò lui
indicandomi. “Quella è tua sorella e si da il caso
che abbia
una gamba rotta” Jodi stava per perdere la pazienza.
“Ah sì?
Non mi sembra che abbia bisogno di aiuto dato che oggi è
andata a spasso da sola!” Adam si alzò da tavola.
“Jodi,
non fa niente. Non ho bisogno che lui stia sempre a
controllarmi”
dissi alla mia matrigna. “Hayley, non è questo il
punto”
mi rassicurò lei. “Invece è proprio
questo il punto!
Mi avete obbligato a badare a lei ogni singolo giorno da quando
è
arrivata e poi fate delle tragedie se per una volta faccio come mi
pare!” Adam sbraitava velenoso. “Non pensavo fosse
un problema”
bisbigliai amareggiata. “Perchè sei troppo stupida
per
arrivarci!” urlò con rabbia. “Adam,
adesso basta!” Jodi
si avvicinò a lui con fare minaccioso. Lui non disse
più
nulla. Salì semplicemente le scale e si rintanò
in
camera sua, sbattendo la porta. Cosa diavolo era successo? Il mio
cuore martellava nel petto senza sosta. Non lo avevo mai visto
così
arrabbiato con me. “Vado a dormire”dissi, spezzando
il silenzio
che si era creato. Salii al piano di sopra e bussai alla porta di
Adam. Lui non rispose, ma io entrai lo stesso. “Qual
è il
problema?” esordii determinata a scoprire cosa gli passasse
per la
mente. “Potevi startene a casa oggi” rispose lui
appoggiandosi
alla finestra chiusa. “A fare cosa?”
“Niente, come al solito”
rispose astioso. “Mi vuoi dire che cavolo hai in testa?
Perchè
io non riesco proprio a capirti!” esclamai avvicinandomi a
lui.
“Non voglio stare tutto il giorno con te!”
sputò velenoso.
Mi colpì come uno schiaffo. “D'accordo”
dissi soltanto.
Uscii dalla sua stanza e saltellai verso la porta della mia camera.
Mi sdraiai sul letto buttandomi a peso morto e presi a guardare il
soffitto. Il mio sguardo si posò su quella maledetta crepa.
“Ti stuccherò prima o poi” le bisbigliai.
Ritardo,
ritardo e ancora ritardo!! Mi sento un po' come il Bianconiglio.
Capitolo un po' inutile, scritto alla carlona. Ringrazio come al
solito chi inserisce la mia storia tra i preferiti e i seguiti (e
devo ammettere che non mi aspettavo foste così tanti :D ).
Inoltre
ringrazio soprattutto Ryo13
e Athenryl
che trovano sempre tempo per recensire la mia storia :D (spero di non
aver fatto un pasticcio con questo capitolo). Ora, vorrei spiegare
che questo capitolo è “riempitivo”...
Nel senso, non
sapevo che diavolo scrivere e ne è uscita fuori questa
“cosa”
solo per lasciare un po' di suspance. Il prossimo capitolo
sarà
ancora “riempitivo” e poi ci sarà il
capitolo del “3
mesi dopo...”. Non so se mi sono spiegata bene: perdonate le
mie
turbe psicologiche che mi impediscono di spiegarmi come qualsiasi
essere umano. E soprattutto aggiornerò più
velocemente!
Quindi continuate a leggere, recensire, inserite la mia storia tra i
preferiti, ricordati ecc.. E se volete chiarimenti specifici riguardo
la storia e non volete lasciare recensioni scrivetemi pure un
messaggio privato :D
Baci,
Cookie
:D
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