La leggenda di Ippodamia

di Luna_R
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Come l'amore ***
Capitolo 3: *** Pretendenti ***
Capitolo 4: *** La prima luna ***
Capitolo 5: *** Lei è una di noi ***
Capitolo 6: *** L'Alfeo è magico ***
Capitolo 7: *** Destino ***
Capitolo 8: *** Senza più ritorno ***
Capitolo 9: *** La corsa ***
Capitolo 10: *** Legami ***
Capitolo 11: *** Verità ***
Capitolo 12: *** Tradimento ***
Capitolo 13: *** La caduta del Re ***
Capitolo 14: *** Pisa rinascerà. Finale ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La leggenda di Ippodamia.

 

Presa dalla mia follia mitologica, continuo su questo genere stavolta proponendovi la leggenda di Ippodamia.

Navigando in rete mi sono imbattuta nel suo racconto e l’ho trovato altamente ispirante.

A differenza di “Favola Antica” dove la leggenda originale si fondeva in quella attuale che stavo raccontando io, questa è letteralmente ispirata e conforme all’originale. Beh sì più o meno, la stravolgerò comunque con la mia fantasia.. sia mai!

Colgo l’occasione per ringraziare chi ha commentato, aggiunto in preferiti e storie da seguire “Favola Antica” e per chi non lo avesse ancora fatto beh.. tiratina d’orecchi e commentate!!!!

Un bacio e alla prossima.

Lunadreamy

 

Prologo.

 

In una notte fredda, come non se ne ebbero mai nell’Elide, la cacciatrice Asterope dette alla luce una bellissima bambina dal nome Ippodamia.

La partorì fra i boschi, ai bordi del fiume Alfeo, con il gorgogliare delle acque a farle da ninna nanna.

Si disse che la Dea Artemide in persona l’aiutò a partorire, conferendo alla piccola con il suo tocco, le doti caratterizzanti una cacciatrice.

L’atuzia. L’istinto. E una bellezza folgorante come sigillo divino.

 

Purtroppo Asterope morì prima che ella ebbe compiuto un anno.

Si racconta che il cacciatore Orione, invaghito delle sette compagne cacciatrici di Artemide le inseguisse per i boschi arrecando loro molto dolore ed esponendole a pericoli di ogni sorta; il loro lamento era così straziante che riecheggiò sin su l’Olimpo, dove gli Dei sovrani mossi a compassione le librarono nel cielo come colombe, trasformandole in stelle.

Da qui il nome della costellazione delle sette sorelle. Le pleiadi.

 

Il padre della piccola, Enomao Re di Pisa tenuto all’oscuro della paternità, incappò nella piccola durante una battuta di caccia.

Se ne innamorò alla prima occhiata.

Era sporca, sudicia, eppure i suoi occhi avevano un che di magnetico, tanto da spingerlo a volerla tenere con sé senza sapere chi fosse.

L’oracolo però gli venne in sonno, svelandogli la verità.

Rivide la tanto cara amata cacciatrice Asterope che non aveva potuto amare come voleva perché votata alla Dea e scoprì che la piccola altro non era che il frutto del loro amore.

La principessa di Pisa.

Rientrò a palazzo ordinando subito il battesimo reale, si festeggiò per giorni, con la felicità della gente che amava il suo sovrano, il ritrovo della piccola principessa perduta; il suo cuore era pieno d’amore per la creatura, ma nei suoi occhi c’era il turbamento di una verità taciuta.

 

L’oracolo aveva predetto anche morte.

 

Fine prologo.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Come l'amore ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“Come l’amore” Capitolo N1

 

“Passarono gli inverni, le estati con le primavere; la ragazza crebbe e sbocciò come un fiore.

La sua inestimabile bellezza arrivò agli orecchi di terre lontane, muovendo uomini e donne curiose di vedere anche solo una volta nella vita la donna il cui sangue discendeva dal Dio della Guerra, Ares, per via di padre e assistita in nascita dalla Dea della caccia, Artemide.

Inutile dire che il tumulto che affossava il cuore di Enomao cresceva ogni anno di più.”

 

 

Aprì gli occhi, quando il sole raggiunse le stoffe alle finestre; i capelli lunghi, color grano, risplendettero alla luce dorata.

Nel cortile del palazzo si udiva un gran vociare, voci distinte di uomini che acclamavano il nome del loro padrone.

E quel nome che l’aveva generata, oggi, l’aveva destata dal giaciglio caldo.

 

“Cosa hanno da far tanto chiasso?!”

 

Si rivolse alla donna giunonica che le stava scaldando la vasca per il bagno; armeggiava con ampolle di essenze e sali, borbottando chissà che cosa.

 

“Sono giunti altri pretendenti da terre lontane.”

“Mio padre è ostinato.”

“Tuo padre ti vuole bene.”

“Tanto da vendermi al primo offerente?!”

“Tanto da donarti al più valoroso, al più coraggioso, al più temerario uomo che esista sulla terra.”

 

Il problema sostanzialmente era quello; non esisteva nessun uomo capace di assecondare le pretese si Enomao.

Enomao non solo era il Re ma si offriva egli stesso come pretendente di sua figlia, sfidando chiunque la chiedesse in sposa; si batteva per lei in quella che aveva sancito fosse la corsa per conquistarla.

E proprio di corsa si trattava; i pretendenti dovevano sfidarlo in una gara di cavalli in uno stretto di terra da lui designato, chiunque l’avesse battuto, quello sarebbe stato il prescelto futuro sposo, nonché futuro Re di Pisa.

 

“Quanta energia sprecata.” La ragazza immerse prima un piede e poi l’altro, delicatamente, nell’acqua calda ”io non mi sposerò mai.”

“Ora parli così. Vedessi che bei principi e che valorosi uomini ti bramano piccola mia” La donna le sciolse i capelli detergendoli con acqua di rose, massaggiando la cute con i polpastrelli grandi “Ci sarà fra questi quello giusto. Quello con cui desidererai più di ogni cosa passare ogni attimo, ogni respiro della tua vita.”

“Sarà. Ma sarà sempre una scelta di mio padre.”

“E perché tu non lo indirizzi verso la scelta giusta?!” La donna le si accucciò all’orecchio, sussurrandole maliziosa.

“Mi stai dicendo di corromperlo nel suo pazzo rituale?!”

“Ti sto dicendo di essere più presente. Ormai sei adulta e figlia di uno dei nobili più influenti di tutta Grecia, comportati come tale.”

“Oh Agrippina, l’amore è una cosa così stupida!”

“Perché ancora non lo conosci, Mia, ancora non lo conosci.”

 

Si chiusero entrambe in un silenzio assordante; Ippodamia, Mia affettuosamente chiamata da chi le era vicino, accarezzava distratta le gambe con il latte di mula fresco fattole arrivare apposta per rendere la pelle morbida e setosa.

La testa vuota vorticava sulla risposta che Agrippina le aveva dato, indugiando sul crederle o meno, se l’amore fosse tanto importante e fino a che punto bisognava mettersi in gioco per lui.

Suo padre doveva amarla moltissimo, dal momento che fin dal compimento dei suoi dodici anni, età in cui una donna diveniva interessate e proponibile, si era messo in gioco in quello che lei chiamava il suo pazzo rituale.

Quanto l’amore potesse rendere pazzo questo ormai le era chiaro.

Il perché forse era un po’ meno conosciuto.

E la spaventava a morte.

 

La serva le posò intorno le spalle una pezza di lino, quando fu ben detersa.

Si rimirò nello specchio mentre quella le frizionava la pelle con l’olio di mandorle; stava crescendo in fretta, le forme di donna avevano ormai preso posto al fisico acerbo e asciutto che la primavera scorsa decantava con le sue compagne al tiro con l’arco.

Adesso un generoso seno le gonfiava il petto, sorretto da spalle larghe, e i fianchi avevano preso una odiosa forma ad ampolla sottolineando ancor di più il giro vita stretto. Le sembrava di essere diventata anche più sensibile, trovandosi più volte a sussultare quanto Agrippina le carezzava la pelle con il guanto di crine; si vergognava di ciò, ma era una sensazione incontrollabile.

Odiava se stessa e quei cambiamenti.

Ma era inevitabile.

Come l’amore.

Fine primo capitolo.

 

Ringrazio davvero di cuore quelle persone che hanno aggiunto questa storia in quelle “da seguire”, in particolare 5HuNTeR5 per la recensione e la fiducia! Spero di non deludervi.

 

 

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Capitolo 3
*** Pretendenti ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“I pretendenti” Capitolo N.2

 

Apyos, cosa è mai questo baccano?!”

“Pretendenti. Mio signore.”

 

Enomao era in vestaglia, con lo scriba a fargli da mittente per la posta quotidiana.

Dal cesto di frutta traboccavano acini d’uva rossa, la sua preferita.

Ne staccò uno prepotentemente, portandoselo alla bocca e mordendolo con voracità; si alzò della scanno per andare alla finestra e alla parola pretendenti i suoi occhi si fecero piccoli e felini.

Apyos tremò. Conosceva bene l’insaziabile sete di sangue del suo sovrano.

Tanto caro e amato nella vita politica e nella giustizia amministrativa, quanto temuto per l’odio che riversava nei pretendenti di sua figlia.

Nessuno era a conoscenza del segreto che si celava dietro tanta cattiveria e atrocità.

Sì perché poco importava al suo Re se uno o tutti quei valorosi uomini morivano in nome della sua cara figlia; a fine giornata c’era sempre qualche corpo straziato dalla polvere da recuperare e mandare alle famiglie.

Enomao era una furia disposta a spazzare via chiunque osasse sfidarlo.

Chiunque bramasse la sua Ippodamia.

E quasi nessuno ne conosceva il motivo.

Apyos non era fra questi.

 

“Scegli i più valorosi e mandali a udienza.”

 

Andava così ormai da tanti di quegli anni che aveva perso il conto.

Avrebbe dovuto scegliere i pretendenti migliori in agilità e forza, amministrazione della battaglia -i preferiti del Re erano senza dubbio uomini reduci da qualche guerra- di ricca famiglia –nel caso lui non avesse fatto ritorno che fosse in grado di provvedere al regno e questa solitamente era una clausola che lo faceva molto ridere certo che non sarebbe stato lui a perire- di buon intelletto e animo.

Era straziante vedere tanta fortuna morire un giorno solo; Apyos spesso si faceva prendere dai rimorsi e ai più valorosi intimava di scappare via, di trovarsi una buona donna-non che Ippodamia non fosse il meglio del meglio che potessero desiderare- che qui avrebbero trovato solo morte o nel peggiore dei casi mutilazioni terribili.

Altre volte mandava avanti solo gli inetti, disubbidendo al suo padrone, conscio che nessuno avrebbe mai fatto ritorno al posto suo.

Enomao era figlio di Ares, il Dio della guerra.

La sua protezione faceva sì che i suoi cavalli fossero i più furbi, i più veloci, i più forti di tutti Grecia.

Erano cavalli magici. Ed anche questo nessuno lo sapeva.

 

****

Mirtilo fai preparare i cavalli di Ares.”

 

Mirtilo era il cocchiere personale e amico fidato di Enomao da tempo immemore.

 

“Certo mio signore. Durra della migliore qualità e gallette rinforzanti. Strigliate vigorose e passeggiate notturne.”

 

Mirtilo curava le bestie come fossero figli suoi; conosceva alla perfezione i segreti per mantenerli sani, longevi e produttivi.

Per tre giorni e tre notti li avrebbe preparati alla grande corsa, tanto bastava agli arguti animali per essere pronti.

Il Re era così sicuro di sé, del suo cocchiere e dei suoi cavalli che metteva a rischio perfino la vita di sua figlia, mandandola sul carro assieme al pretendente; il suo era perlopiù un gioco d’astuzia, convinto che la bellezza di Ippodamia distraesse il corridore e potesse recargli, qualora servisse, ulteriore vantaggio.

Al momento esatto Ippodamia, istruita alla guerra dall’età di otto anni, sarebbe saltata fuori dal carro, con tutta la grazia e l’agilità che la Dea Artemide sua madrina, le aveva donato.

 

Se Apyos era il braccio sinistro, quello del cuore, delle decisioni politiche e sociali del regno, Mirtilo era il braccio destro, della forza, delle battaglie, della vita militare.

 

 

“Mio signore, quando smetterai di mandare gli agnelli al macello?!”

 

Enomao si voltò, una graziosa fanciulla lo guardava divertita; il suo cuore ululò dalla gioia.

 

“Mia è sacrilegio per un padre volere il meglio per sua figlia?!”

“Esisterà mai un meglio, se tu li uccidi tutti?!”

“Mi ferisci con queste parole. Ma allo stesso tempo mi inorgoglisce sapere che pensi nessuno possa battermi.”

“Padre” Quella gli poggiò le braccia intorno al collo, puntando due enormi zaffiri in occhi color caffè “Non esisterà ne ora ne mai uomo che vi batterà nel mio cuore” Gli baciò le guance, strusciando gli zigomi su quella pelle ruvida “sarete per sempre il migliore.”

L’uomo la strinse a se, commosso. “Ma dovrete lasciarmi andare prima o poi, lo sapete voi e lo so anche io.”

Enomao chiuse gli occhi, pugnalato dalle restanti parole che la voce soave della ragazza aveva pronunciato.

 

“Ti ucciderà. Il suo amore ti ucciderà.” La voce dell’oracolo riecheggiava dal fondo delle sue membra.

 

“Mi ucciderà.” Biascicò.

“Chi ti ucciderà?!” Mia aveva slegato l’abbraccio per guardarlo in volto.

“Niente. Nessuno. Tu, forse con queste parole” Le baciò la fronte, sorridendo. “vai a prepararti, al calar della luce avremo i pretendenti.”

 

Quella sbuffò. Era testardo come un mulo.

Tanto meglio se non l’avesse data in sposa a nessuno, ma un giorno avrebbe voluto essere libera da tanto amore.

Solo quello chiedeva. Che suo padre la lasciasse andare.

 

****

Fece notte e come da tradizione, i pretendenti scelti furono riuniti in banchetto nelle sale reali.

Si festeggiava la bella Ippodamia.

Il vino scorreva a fiumi nel simposio, le carni succulenti ribollivano sui piatti d’oro delle tavole imbandite.

La frutta era piena, dolce, come le curve della bella principessa che dal suo scanno guardava divertita gli uomini ubriacarsi.

Non osavano avvicinarla tanto fosse bella; ti guardava con gli occhi color zaffiro e non sapevi mai se ti stesse ammaliando o se fosse il vino ad appannare i sensi e la vista. I pochi tornati a raccontare della sua bellezza, dissero fosse ricoperta di un aurea celestiale.

 

“Uomini valorosi, sono fiero di banchettare con voi questa sera.” Il re sovrastò le urla, alzando il calice in alto. Tutto intorno, silenzio. ”Domani si compirà il vostro destino! Festeggiate e bevete il mio vino. Saziatevi delle mie carni e godete della bellezza della mia adorata figlia Ippodamia. Ma badate bene, la via per raggiungerla è impervia, mille trame ha il suo cuore e cunicoli nascosti hanno i suoi occhi impenetrabili.” Bevve d’un fiato barcollando su un piede “molti di voi non ce l’hanno fatta, uomini dieci, cento, mille volte il vostro valore.” Puntò il dito contro ogni viso presente ai suoi piedi. Non c’era un volto deturpato dal tempo, non c’era su quelle facce la paura della morte. Solo ammirazione per quel padre che immolava la sua vita alla ricerca dell’uomo perfetto per la figlia.Vi chiedo quindi, siete disposti a rischiare la vita per lei?!”

Gli uomini estasiati urlarono a lui. “Si!”

Enomao si riempì il calice vuoto e di fretta se lo portò alle labbra; i suoi occhi al di là del bicchiere erano allineati con quelli di sua figlia, sull’altro lato della sala, sospesa sul trono più alto, come volasse.

Si asciugò gli angoli della bocca col dorso della mano e poi le sorrise, leccandosi le labbra.

 

“Siete pazzo” Quella le sussurrò divertita alzando il calice a sua volta.

 

****

“Si dice sia il figlio d’Ares e che sua figlia discenda da una cacciatrice, ti rendi conto?!”

 

Un giovane al bordo della sala, sudava freddo mentre guardava il Re darsi un gran da fare con delle concubine belle come fenici.

Avevano i seni nudi grossi come due meloni, mentre li agitavano sul volto rosso il re li toccava goffamente, ridendo ogni volta che una di loro si ritirava fingendo vergogna.

 

“Chiacchiere. A me sembra solo un pallone gonfiato.”

“Porta rispetto, domani a questa ora i corvi ci staranno mangiando le viscere!”

 

L’altro era bivaccato sulle pelli, con le gambe incrociate e lo stecchino delle carni fra i denti; osservava attentamente la scena.

 

“Mi spieghi cosa sei venuto a fare, allora?!”

“Sono venuto ad impedirti di cacciarti nei guai.”

“Non gareggerai, quindi?!”

“Certo che gareggerò, ma fino ad allora tu sarai sotto mia sorveglianza.”

“Non ho paura.”

“E’ questo il problema.”

 

Proprio in quel momento si levò un brusio dalla sala; Mia si levò dal trono e fece per ritirarsi nei suoi appartamenti.

Il padre la fece scortare fino all’uscita, seguendola passo-passo con lo sguardo.

Nel vederla passare a poche spanne da loro, i due ragazzi ammutolirono; il più grande si alzò facendole reverenza, l’altro sputò in terra cercando di bloccarle il passaggio con un balzo.

Restava fra loro lo spazio d’aria necessario per due respiri; Ippodamia si irrigidì quando soffermò lo sguardo su quella figura.

Aveva taglienti occhi neri e capelli color caffè. Uno sguardo ferino, da cacciatore.

Una lieve asimmetria delle labbra -quello superiore più sporgente e carnoso rispetto all’altro- gli donava un che di fanciullesco.

 

“Belle labbra. Occhi zaffiro impenetrabili. Capelli color del grano.” Il ragazzo si schiarì la voce “Quello che si dice di voi è vero, dunque.”

“Mettevate in dubbio la voce del popolo?!”

“No. Mi piace giudicare con i miei occhi.”

“Attento, la curiosità uccide.”

“A quello ci pensa già vostro padre.”

“E voi non smentitelo.”

 

Mia cercò di eludere la stretta del suo passaggio aggirandolo su un fianco; quello fece per allungare un braccio nella sua direzione quando una spada fluttuò nello stretto spazio fra le loro spalle, andandosi a conficcare nel muro.

La guardia dietro al giovane impallidì; l’arma gli aveva lacerato le carni.

Enomao con il braccio ancora proteso in avanti per il lancio, gridò come una furia nella direzione del ragazzo; quello staccò la spada dal muro gettandola in terra con stizza.

 

“Avevate ragione grande Re di Pisa. Vale la pena morire per vostra figlia.”

Fine capitolo secondo

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Capitolo 4
*** La prima luna ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“La prima luna”. Capitolo N3

 

La sala del banchetto si svuotò in fretta, tutti cercarono di acciuffare il folle che aveva osato sfidare la magnanimità del Re.

Chi lo faceva per rendersi bello agli occhi del sovrano, chi per noia, chi per congratularsi con l’incosciente coraggioso.

Niente. Di lui non v’era più traccia.

 

“Non può essere svanito nel nulla! Datevi da fare pelandroni acchiappamosche!”

MirtiloIl Re, adagiato allo scanno, rideva divertito del suo servitore. Era sempre così isterico quando non otteneva ciò che desiderava dalle guardie al suo servizio “non vorrai disturbare l’intero regno per uno sciocco.”

“Ma mio Re ha osato..”

Il rumore di tre colpi secchi ravvicinati frenò il cocchiere; un codice personale, adottato da Enomao per distinguere le rogne dai benvoluti.

Battè lo scettro in terra in cenno d’assenso e sulle porte si palesò Apyos; trafelato si scambiò un occhiata guardinga con Mirtilo e schiarì la voce.

 

“E’ nelle campagne a ridosso del fiume Alfeo” Asserì. Enomao gli fece il gesto di proseguire “Ho ordinato che non gli venga dato il vitto e alloggio a palazzo come i suoi compagni ma da libero arbitrio come dettasti nelle tue regole mio signore, può decidere di ritirarsi.”

“Non lo farà. Ho visto una furia nei suoi occhi.” Enomao si leccò le labbra, pregustando il sapore del sangue.

 

Mirtilo rise, se c’era una cosa in grado di eccitare il suo padrone era proprio l’odore della morte. La sfida. Il gioco.

Non aveva visto nulla dargli più appagamento che il dolore dello sconfitto, lo scricchiolio delle ossa fratturate fra le ruote dei carri, le ultime grida disperate prima del precipizio; aveva visto uomini esasperati dal supplizio della corsa, riuscire a fermarsi in tempo una volta giunti al traguardo, che vedeva una rupe come fine, gettarvisi giù ugualmente. Per disperazione, verso la follia omicida di quell’uomo.

Era innamorato della morte. E forse aveva amato solo quella.

Dopo Mia, ovviamente.

 

“Mio Re, ti avviso, quello che hai davanti è tutt’altro che uno sciocco.”Apyos inspirò creando patos. “E’ benedetto da Poseidone, si mormora che abbia compiuto questo viaggio per vincere la mano di Ippodamia e il regno Elide. E’ assennato, discende dalla stirpe del truce Tantalo, confinato negli inferi dagli Dei per averli derisi. Il suo sangue è sangue di condottieri.”

“Dovrebbe spaventarmi?!”

“Mio signore, il padre lo ha fatto a pezzi cucinandolo agli Dei per mettere alla prova il loro eccelso potere, credendo che questi non se ne sarebbero accorti. E quando questi se ne sono accorti lo hanno ricomposto, tranne la spalla sinistra che la sprovveduta Demetra ha mangiato, sostituendola con avorio.” Riprese fiato inorridito dalle sue stesse parole “Hanno punito il padre lanciando una maledizione sulla sua stirpe. Si dice che abbia imparato prima a procurarsi un regno che a camminare. E che i cavalli di cui dispone sono cavalli donati dallo stesso Poseidone in carne ed ossa.”

Enomao restò a contemplare le ultime parole di Apyos, fissando un punto preciso del vuoto; tutto quello che aveva sentito non era più forte della paura di essere ucciso a sua volta.

E poi Ippodamia, come poteva lasciarla ad un essere il cui sangue era stato macchiato da atrocità pari ad un infanticidio?!

Mirtilo è figlio di Ermes, messaggero degli Dei, io stesso discendo da Ares. Dovremmo aver paura di costui?!” Il Re sputò in terra. “Un millantatore, un povero pazzo senza un regno! Odiato e amato dagli Dei!” Rise sguaiato pestando i piedi in terra. “I miei cavalli sono i cavalli del Dio della Guerra. Sono forse peggio di quelli del Dio del mare?!”

“No mio signore, non oserei mai affermare questo solo..”

“La sua spalla è d’avorio?! Bene, ne farò fare un ciondolo che Ippodamia sfoggerà sul suo collo latteo.”

“Certo mio signore.”

“Allora non dubitare mai più del tuo Re, caro Apyos.”

“Mai più.” Il consigliere si buttò sulle ginocchia di Enomao stringendole a se. “Mio signore, mai più.”

 

****

Agrippina sfilò la spilla dal peplo di Mia; la veste scivolò lungo i fianchi adagiandosi sul pavimento.

Un enorme rubino sfavillò al crepitio delle fiamme nel camino.

 

“Lasciami sola Agrippina, ti congedo nelle tue stanze.”

“Ma..”

“Non osare disubbidire vecchia serva impicciona che non sei altro!”

 

Agrippina sorrise della sveltezza di pensiero della giovane principessa; sapeva già che l’avrebbe tempestata di domande sui fatti accaduti durante la cena dei pretendenti.

 

“Come lei desidera sua maestà.” La donna fece reverenza, e sparì nella camera adiacente, riservata alla servitù speciale.

 

Ippodamia si calò nella tinozza piena d’acqua, insieme ai suoi pensieri.

 

Che uomo coraggioso. Che fulgore!

A parte lei, nessuno aveva mai osato sfidare così platealmente suo padre, che si era fatto trovare pronto certo, con quella spada lanciata esattamente nel mezzo dei loro corpi; si somigliavano in un certo qual modo, avevano difeso entrambi ciò di più caro.

L’orgoglio il primo, l’amore per la figlia il secondo.

Si sentiva strana, qualcosa le solleticava la pancia quando incontrava nella mente quegli occhi color caffè, così taglienti. Oscuri.

Era un dolore piacevole, un pizzico che arrivava giù, fino al pendio nascosto dalla giovane peluria.

La faceva sorridere, così tanto che si pizzicò le braccia per farlo smettere.

Eppure non bastava.

Portò la mano sul fondo della vasca, appoggiandola a conchiglia proprio là, dove nasceva il dolore.

Nulla. La ritirò, e nel portarla fuori dall’acqua si accorse che era macchiata.

 

“Agrippina!” Strillò, con la voce rotta dalla paura. “Agrippina!”

 

La donna spalancò le porte della stanza regale e le fu addosso. “Mia che ti è successo?!” La tirò di peso fuori dall’acqua, asciugandole il viso con una pezzuola di lino accanto la vasca.

 

“Sangue. Sangue.” Quella biascicò, prima di svenire.

 

Quando rinsavì era fra le coperte, ben asciugata e con la sottana di lino bianca; Agrippina le era di fianco, con la mano le accarezzava i capelli.

 

“Cosa mi è successo?!”

“Sei diventata donna.”

“Vuoi dire che..”

“Sì, non sei più una bambina Ippodamia. La grande Dea ti ha dato ciò che ti ha promesso.”

 

Ippodamia sorrise, sfiorando il braccio alla serva; quella spostò lo sguardo oltre la finestra, sulla grande sala illuminata dall’altro lato del cortile.

Era la stanza di Enomao; rabbrividì.

Baciò la piccola congedandosi e sparì fra il fruscio delle stoffe.

 

****

“Per tutte le stelle del firmamento, ne siete sicura?!”

“Sì mio Re, stanotte Ippodamia s’è fatta donna.”

 

Enomao si grattò il capo, visibilmente scosso.

La piccola creatura che aveva trovato nel bosco e che aveva allevato senza sapere fosse sua, d’improvviso era già grande.

Donna, alla prima luna.

Una miriade di immagini sovrapponevano i ricordi di quando la vedeva sgambettare nei cortili reali, inseguendo le sottane delle serve o gli animali domestici di cui le aveva fatto dono, perché spiccatamente portata alle loro cure; lei li amava e loro ricambiavano il suo amore.

Sembrava parlassero una loro lingua, un gergo privato che solo quell’anima bianca sapeva comprendere.

Diceva, “padre i cavalli hanno bisogno di questo e i gatti di quello!” Straordinariamente la ragione era sempre dalla sua parte; Mirtilo aveva preso subito in simpatia quella bambina così speciale, tanto da affidargli i preziosi animali che lui stesso amava con tanto fulgore.

Possedeva una collezione di volatili dalle svariate razze; le colombe bianche erano i suoi preferiti e non era raro vederla passeggiare con qualcuna di esse appoggiata sulle spalle.

Era una Dea senza ombra di dubbio.

Ma era anche una donna.

E lui aveva fatto l’errore di dimenticarlo.

 

..Dovrete lasciarmi andare prima o poi, lo so io e lo sapete anche voi..

 

“No!” Enomao tuonò come riscosso da un incubo.

“Mio Re che vi prende?!”

“Chiamatemi la veggente, subito!” Camminava lungo tutto il perimetro della stanza, avanti e indietro. “dite alle serve delle cucine di preparate gli agnelli e svegliate Ippodamia!” Inspirò agitato “che sia preparata come una vestale, con le vesti bianche e..”

Agrippina si prostrò ai piedi di Enomao supplicandolo “Mio Re sua altezza è spossata è stato un lungo giorno per lei.”

“Serva, non un diniego da parte vostra o verrete punita.”

“Non intendo disubbidire mio Re, ma trascinare la ragazza agli altari, con il freddo della notte e tutti quegli uomini accampati nelle foresti circostanti. Le guardie non potrebbero nulla contro quegli orchi affamati, la notte li proteggerebbe.”

“Siete convinta che permetterei a qualcuno di sfiorarla?!”Quella fece per rispondere ma Enomao la precedette “La vostra lingua lunga non mi è mai piaciuta molto.” Poi rivolto alle guardie “Assicuratevi che adempia ai suoi doveri e rinchiudetela nelle sue stanze, immediatamente!”

Agrippina fu portata via di peso e fustigata.

 

****

“E’ qui. Lo sento. Vedo i suoi occhi bramosi..”

 

La donna cieca dinnanzi al Re, confabulò nel vapore della ciotola sotto le sue mani.

Eracle di Olimpia era il suo nome e per anni aveva alleviato le sofferenze di Enomao, prevedendo buona sorte e vita serena, se lo avesse ascoltato.

Apyos la guardava con rispetto e timore, perché se c’era una cosa che aveva imparato, lui comune mortale che passeggiava fra gli immortali, era aver paura della veggente; per mano sua Enomao vide l’oracolo in sogno e per sua intercessione venne a conoscenza del terribile destino che da una vita l’angustiava.

Sarebbe morto per mano del giovane che Ippodamia avrebbe preso in sposa.

 

“.. tua figlia è pronta Enomao di Pisa. La scure di Ade si abbatte già sulla tua testa.” Le mani vorticavano nell’aria, scomponendo i fluidi e spargendoli dinnanzi a se. “Uccidilo prima che lui uccida te.”

 

Fine capitolo terzo.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Lei è una di noi ***


“La leggenda di Ippodamia

 

Sono veramente felice delle parole che Eirikr e 5HuNtEr5 hanno lasciato per me; può sembrare sciocco ma un parere può cambiare totalmente lo spirito con il quale si affronta questo percorso della scrittura! Come voi amo la mitologia, ci sto mettendo ricerche (perché non mi va di scrivere stronzate su una cosa piuttosto che un’altra) e ci sto mettendo un pezzo del mio cuore perché amo Enomao e quasi quasi la sua sofferenza e confusione fanno parte di me!

So che ormai conoscete la storia, io ci sto mettendo solo i dialoghi e le descrizioni, se avete ancora qualche consiglio o qualche desiderio da esporre fate pure! E’ anche vostra questa storia.

Un bacio a voi due e a tutti (tanti a dire il vero.. dai non fate i timidi e scrivetemi!!) quelli che mi hanno messo fra storie da seguire.

Lunadreamy.

 

“Lei è una di noi”. Capitolo N4

 

La notte era buia e silenziosa, l’unico rumore proveniva dal fiume, eterno brontolone.

Che magnifica litania pensava, mentre con un filo d’erba si solleticava le labbra.

Era accorso dalla lontana Frigia, la terra dei Re dei Re, Mida e Gordio, per conquistare il cuore della bella principessa sovrana e riscattare la sua nobiltà conquistando Pisa; il suo sangue lo richiedeva, appartenente al truce Re Tantalo, e a Dione, che si diceva fosse la forma femminile di Zeus.

Non un nobile come tanti altri ma costretto dalla vita a scontrarsi con fatti crudeli e dolorosi, eppure con l’anima che bruciava ancora, che non si era arresa, nemmeno all’incostanza del fato e degli Dei, suoi amanti e trucidatori.

 

“Pelope, sveglia!” Atreo, il fratello bastardo che suo padre ebbe con una serva, lo tirò per l’orlo della tunica; la voce affannata ed eccitata.

“Sono sveglio.” Rispose seccato. “Per cosa ti dai tanta pena?!”

“Notizie dal castello! Il Re è in cammino per onorare gli Dei.”

Pelope si issò con il busto. “Quale nuova?! Soffre d’insonnia?!” Rise “Le sue concubine non gli danno tregua?!”

“Meglio, molto meglio.” Lo fissò con occhi asciutti “Sua figlia è con lui.”

 

Pelope guardò lontano, estasiato.

La bella Ippodamia sarebbe passata a non poche miglia da lì, così vicina da poterla toccare.

Come tutti gli altri, era soggiogato dalla sua bellezza. E lei lo aveva sfidato, con i modi tentatrici di chi nelle vene ha la linfa divina.

Acchiappò la sacca che portava con se e sbrigliò il cavallo.

 

“Dove stai andando?!”

“Che domanda sciocca, non è per questo che sei venuto a cercarmi?!”

“Vai da lei?!”

“Tu dimmi come si fa a non voler andare da lei.”

“Ti uccideranno se cercherai di toccarla un’altra volta.”

“Non se sarà lei a volermi toccare.” Balzò in sella schioccando un colpo secco sulle natiche del baio “Arrivederci fratello.”

 

****

Il peplo bianco le cadeva sui fianchi come una cascata, ripreso da un drappeggio sontuoso a sottolinearle la vita.

Le braccia era adornate da spessi bracciali d’oro sulla quale vi erano incisi l’effige del regno, con rubini a impreziosire le forme.

Amava i rubini scarlatti, risaltavano alla perfezione sulla sua pelle candida.

 

“L’avete fatta picchiare come una comune serva!”

 

Ippodamia era retta su un podio, mentre la sarta di corte dava gli ultimi ritocchi al vestito.

Il volto paonazzo, mentre cercava di darsi un tono moderando voce; le braccia gettate con stizza verso il basso sottolinearono il gesto con il tintinnio dei bracciali entrati in collisione fra loro.

Enomao la guardava dal basso dello scanno divertito.

 

“Ti dimentichi che lei è una serva.”

“Agrippina è più che una serva!” Alzò di poco la voce, battendo il piede “ Lo sapete bene. Di tutte le serve lascive di cui vi circondate, avete punito l’unica che ama vostra figlia come se fosse sua!”

“Bene!” Esclamò alzando le braccia come se si rivolgesse ad un fantomatico pubblico “Che si dica pure che siete nobile per via di serva, allora.” Rise sarcastico, alzandosi. “E che si dica che tuo padre non ti ami più della sua stessa vita.” Prese una sacca di velluto blu, snodò il laccio che la teneva ferma al centro e tirò fuori un girocollo di madre perla composto da tanti rettangoli di diverse misure. Tornò sui suoi passi, si posizionò alle spalle della giovane e lo adagiò sulla sua pelle “Lo feci intarsiare per te proprio per questo giorno. Anche se mi odi adesso, sappi che tutto ciò che faccio, ogni decisione che prendo, la mia stessa vita, è legata a te Ippodamia.”

 

La ragazza non rispose, gli occhi lo fecero per lei; due lacrime calde le rigarono il volto di cera.

Quell’amore.

Quell’amore così forte. Così presente. Così pieno da far mancare il respiro.

 

“Permettete ad Agrippina di partecipare al corteo sfilandomi accanto.” Sentenziò. “Lasciatemi sola ora, ve ne prego.”

 

Enomao abbassò il capo, piegato dall’amore di quella figlia già donna. Ormai lontana.

Tremò. E quando sfilò fra i corridoi del palazzo gocce di rugiada dai suoi occhi gli bagnarono le guance.

 

****

Era tutto pronto.

Scesero da palazzo le prime guardie reali che avrebbero aperto il corteo, sfilando in formazione da cerimonia.

Poco dopo Enomao prese possesso del baio reale , affiancato da Apyos e Mirtilo rispettivamente alla sua sinistra e alla sua destra.

Scrutò l’orizzonte, la notte stava rischiarando nel giorno. Dette ordine di procedere agli altari.

Un nutrito numero di persone, li seguiva con rispetto e veemenza; il popolo veniva informato di ogni decisione presa dal Re ed era a conoscenza delle ricompense che spettavano a chi onorasse gli Dei e lo seguisse nelle pratiche sacrificali.

Li salutava a gran voce e loro ricambiavano i saluti innalzando le braccia.

Dietro di lui, defilata di pochi passi come voleva l’etichetta e su una portantina sorretta da dieci uomini, Ippodamia muoveva sinuosa la mano.

 

Una donna, una serva visto l’umiltà delle vesti, la proteggeva a scudo.

 

“Devi soffrire molto.” Prese le mani di Agrippina nelle sue, carezzandole.

“L’ho meritato principessa.”

“Quando moriremo e gli Dei ci renderanno la vita immortale, dove saremmo tutti uguali, ricchi e poveri, io mi prenderò cura di te Agrippina.”

 

La donna sorrise abbassando il capo. Sarebbe stato bello dividere l’immortalità con la sua dolce Ippodamia.

 

Non era una notte come tutte le altre.

Nell’aria risuonavano i canti e le preghiere rivolte agli Dei per buona sorte e prosperità.

Quello che si raccontava di vicolo in vicolo faceva tremare le mura; Enomao era già dato sull’orlo della pazzia per quella figlia che aveva osato sfidarlo accogliendo sulla portantina una serva. Si diceva fosse cambiata, che il vino servito nelle tavole reali si fosse fatto sangue in coincidenza della sua prima luna vista come segno di grande sfortuna agli occhi delle zingare del villaggio e che proprio per questo il grande Re avesse ordinato di sfilare in onore degli Dei per propiziarseli.

Le donne la guardavano con rispetto e timore ammutolendo ogni qual volta il suo sguardo disarmante incrociava i loro occhi bramosi; era affascinante, ed in grado di catturare su di sé l’attenzione femminile tanto quanto quella maschile.

La cosa che rendeva pazzi era il suo sguardo, vacuo, come se una nuvola si fosse posata sugli zaffiri che aveva per occhi.

Le donne anziane sconsigliavano di guardarla a lungo negli occhi; si poteva restar toccati.

L’amavano sì, ma la sua bellezza era ritenuta quasi un peccato.

Un peccato dalla quale tener lontano i loro figli e i figli dei loro figli.

 

“Salute a voi uomini al di sopra di tutti gli uomini.” La voce di Enomao sovrastò i canti. In prossimità degli altari si arrestò, protendendo le braccia dinnanzi a se. “In veste di Re mi accolgo alla vostra divinità e il popolo di Pisa con me.”

La gente comune esultò, approvando le parole del suo sovrano.

 

“Vi prego di accettare i miei umili doni. Niente che le mie mani producano sarà mai tanto grande al vostro pari. Accettatelo per i sudori della mia gente, le fatiche delle mie cucine e gli stenti che i vecchi patiranno nei lunghi inverni.” Poi si mise le mani sul cuore, calando il capo “Mi prostro a voi, per ingraziare la mia splendida figlia Ippodamia alla vostra casa.”

 

Si inginocchiò nel terreno umido di brina, in completo silenzio.

Era giunta l’ora di Ippodamia di prendere parte al rito.

Agrippina le strinse forte la mano, baciandola.

 

“Ce la farai.”

 

Annuì debolmente, prendendo fiato; con passo soave, quasi un fruscio di vento, si portò accanto al padre.

Con una mano gli toccò la spalla, ed egli aprì gli occhi portandosi alla sua altezza.

Fece segno agli sguatteri e alle concubine nelle retrovie di raggiungerli con i cesti dei doni e le bestiole legate al collo dalla stessa corda.

I servi sistemarono il tutto di gran lena e con la sapienza con la quale erano stati istruiti.

Era un momento molto toccante; i pani venivano adagiati sulle tovaglie di lino grezzo, ed erano di tutti i tipi e di tutte le specialità di grano.

Il vino rosso rubino era distribuito in dosi esatte nelle caraffe d’oro zecchino.

I dolci tipici fatti cuocere nelle cucine reali, spargevano nell’aria un live sentore di festa.

 

Le bestie belarono per tutto il tempo una ninna nanna di morte, quasi consce del loro destino.

Ippodamia deglutì, afferrando il rozzo coltello dal manico d’osso appartenente di sicuro a qualche sguattero.

Strappò una matassa di peli dal capo degli agnelli e li sparse ben bene sulla terra, da buona sorte come le avevano insegnato.

Poi si portò dietro il banco di marmo sorretto da un capitello intarsiato di foglie così vivide da sembrare reali.

I servi adagiarono le bestie in modo che per ella il compito risultasse il più facile possibile.

Raccolse tutte le sue forze e con mano ferma, ad uno ad uno alzò loro il capo -non troppo in alto da rischiare di recidere tutta la testa, non troppo basso per incorrere in un emorragia violenta- recidendo la carotide con un taglio netto.

I fiotti di sangue uscirono all’istante, le povere bestie non ebbero nemmeno il tempo di accorgersi di morire; calarono il capo e sbarrarono gli occhi.

Ippodamia cercò di mantenersi, ma la vista di quel sangue opulento gli annebbiò i sensi.

Immerse le sue mani candide in quelle ferite aperte con gli occhi avidi di chi aveva bramato solo quel momento; il padre la guardava colpito, la gente si stringeva intimorita e curiosa allo stesso tempo. Fece scendere tutto il liquido in piccole coppe tempestate di gemme che vennero prostrate ai piedi delle statue raffiguranti le effige dei grandi dell’Olimpo.

Una piccola scossa fece tremare la terra. Un lampo proruppe dal cielo e stagliò una luce blu intorno.

 

Le vesti di Ippodamia si macchiarono di sangue all’altezza del ventre.

 

****

Gli agnelli furono fatti a pezzi e i pani spezzati in parti uguali da distribuire al popolo.

Questo momento recava trambusto ma anche tanta ilarità, soprattutto perché veniva fatto girare il buon vino rosso.

Enomao si defilò in disparte, per chiudersi in contemplazione; se per la gente era il momento di far festa, per lui era quello di pregare i padri della casa divina.

 

“Figlio.”

 

Una voce gli sbucò alle spalle risvegliandolo; la visione che aveva davanti gli toglieva il fiato; si inginocchiò.

 

“Alzati pure Enomao, di tutti gli uomini sei il più meritevole di tener alta la testa.”

“Vi ringrazio padre, purtroppo il dolore mi angustia ed è diventato pesante da sopportare.”

“Con una figlia di quel temperamento c’è poco da star allegri.”

 

Ares rise delle sue stesse parole, una risata forte, corposa, degna dell’uomo che governa le guerre.

 

“Già, credo mi odi.”

“No, non ti odia. Crede di farlo, ma ti ama sopra ogni altra cosa.”

“Non sai quanto mi fanno bene queste parole.”

Enomao che ti prende, questa angoscia non è figlia del tuo carattere.”

“Sta crescendo padre, sta crescendo ed è come se scivolasse via dalle mie dita.”

“Lo so, veder mutare i propri figli non è cosa facile.” Tutto a un tratto Ares rabbuiò la sua risata, cingendo Enomao per una spalla e portandoselo al petto, “Ma tu hai la grande fortuna di poter respirare il suo odore” Affondò il capo fra i capelli ricci del figlio, “Veder passare i segni del tempo sulla sua faccia, lo straordinario mutamento delle stagioni sulla sua vita.” Si scostò, fissando gli occhi neri del figlio così diversi dal blu cobalto dei suoi. “Puoi tutto questo Enomao e non sai che gran fortuna che ti è stata regalata.”

“Voi siete il miglior padre che io possa desiderare di avere.” Si inchinò aggrappandosi alle sue ginocchia, “Il vostro compito di servire il grande Zeus è stato stabilito prima che io nascessi, non datevi pena.”

“Certo. Ma neanche tu. Ippodamia ha nelle vene la grandezza della nostra casa Enomao.” Inspirò, pregando il figlio di mettersi alla sua altezza, “Lei è una di noi ed è destinata a compiere grandi cose, anche se questo ti deluderà, tu non puoi farci nulla. Accetta il suo destino Enomao e accetterai di prolungare la tua stirpe fino all’eternità.”

“Cosa significa questo padre?!”

 

Ares non rispose.

Enomao si voltò vedendo scolorire la sua identità.

 

“Zeus mi chiama.” Stava dissolvendo nel nulla eppure poteva sentire il suo influsso ancora presente.

 

“Non andare padre, non così presto!”

“Ricorda Enomao. Il destino deve compiersi sempre.”

Fine capitolo quarto.

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Capitolo 6
*** L'Alfeo è magico ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“L’Alfeo è magico”. Capitolo N5

 

“Forza, aiutatemi a tenerla dritta.”

 

Agrippina comandava le serve come una caposquadra impeccabile; quando si trattava della principessa non dovevano esserci intralci.

Erano ai bordi dell’Alfeo, dove era stato montata di fretta e furia un infermeria da campo.

Ippodamia era svenuta una volta allontanatasi dagli altari, aveva perso molto sangue e il colore cinereo delle sue guance spaventava la sua nutrice.

 

“Tu” Si rivolse ad un concubino grassottello che il Re si era ostinato a voler tenere alla corte, “portami dell’acqua calda e del vino.”

 

Quello sparì indugiando per un sull’ordine quando Agrippina cominciò a sbottonare il peplo che costringeva Ippodamia al sudiciume.

Ritornò di gran fretta, proprio mentre la veste della principessa scivolò in terra.

Si imbambolò con le caraffe in mano e le salviette poggiate sugli avambracci.

Agrippina protestò, avvicinandolo con la sua grande stazza, decisamente infuriata.

 

“Non c’è niente per te qui!” Lo schiaffeggiò sulla nuca, strappandogli dalle mani ciò che le occorreva, “Sparisci!”

Quello scappò via massaggiandosi il collo tutto trafelato.

 

“Agrippina, ti dico che sto bene.”

 

La ragazza tentò di muoversi non appena la sua pelle entrò in contatto con l’acqua fredda, ma le forze vennero meno.

La donna la ignorò accelerando i tempi della detersione; in un attimo donò al suo corpo l’antico splendore.

Le infilò una veste e adagiò il suo capo su dei guanciali di piume d’oca.

 

“Tu non rientrerai a palazzo in queste condizioni.” Scuoteva il capo come se cercasse approvazione “Dovrà passare sul mio cadavere!”

“Non ti sembra d’averlo fatto infuriare abbastanza?!”

“Che mi frusti ancora! Sarebbe capace di trascinarti nuovamente fra i boschi in queste condizioni!”

 

“Che succede qui?!” Enomao entrò nella tenda, irrompendo sulla voce di Agrippina.

“Nulla mio signore, constatavo le condizioni delicate di sua altezza.” La serva tossicchiò, Ippodamia rise.

“Papà, sembra proprio che io non possa tornare stamane a castello con te. Mi sento molto debole.”

“Avete chiamato un medico prima di sentenziare decisioni?!”

“Non c’è bisogno di un medico sua maestà, non vede come è cinerea. Ha bisogno di riposo e buon vino rosso.” Avrebbe voluto aggiungere brutto testone che non sei altro te lo avevo detto di non farla strapazzare troppo.

“Ebbene. Resteremo tutti allora.”

“Papà, hai le corse da preparare non preoccuparti. Un pezzo del tuo contingente a farmi da guardia basterà contro chi volesse mettersi fra te e il bene tuo più caro.” Gli prese la mano e la baciò con gratitudine “Va a palazzo, domani mattina tornerò anche io.”

“Sia fatto il tuo volere.”

 

Si chinò a baciarle la fronte. Quella lo trattenne per i riccioli scuri, fissandolo intensamente. “E’ proprio una bella collana.”

L’uomo sorrise grato e le disse altro. Il cuore un po’ più leggero.

 

“La lascio nelle sue mani. Vi farò avere quanto necessario.” Fece reverenza verso il letto della giovane e sussurrò all’orecchio della serva, “Ringraziate tutti gli Dei che mia figlia vi adori così tanto altrimenti la vostra lingua stasera sarebbe stata servita ai cani, per quello che vi ho sentito pronunciare.”

 

****

Dormì tutta la mattinata; un sonno pesante, agitato da incubi riguardanti suo padre; lo vide invocare il suo nome, mentre camminava per una valle piena di polvere, con il viso sudato. Alle sue spalle l’ombra di un viso familiare, di cui si vedevano soltanto gli occhi, blu cobalto.

Si svegliò tutta sudata, profondamente agitata per l’immagine di suo padre così supplichevole e debole.

Aveva bisogno di uscire, prendere un po’ d’aria.

 

“Fammi portare gli abiti da caccia. E di alla mia nutrice di non preoccuparsi, sono giù al fiume. Porterò una guardia con me.”

 

****

Le immagini del sangue sulle sue mani delicate, lo facevano raggelare; era stata ferma, temeraria, sicura dei gesti.

Ogni volta ricordava la bramosia dei suoi occhi, provava eccitazione; delicata, bella, soave.

Assassina.

 

“Mettiti pure là, ti chiamo se ho bisogno.”

 

Aguzzò gli orecchi, una voce cristallina giunse oltre la coltre di alberi dall’alto del suo capo; si appiattì sotto le rocce aspettando di sapere chi fosse.

Qualcosa, un corpo nudo per l’esattezza, volò oltre la sua testa e finì nell’acqua argentea.

Una testa bionda, tagliava trasversalmente il fiume, con uno stile elegante e sinuoso.

La guardò bene, mordendosi le labbra incredulo di aver avuto così tanta fortuna.

 

Si spogliò delle vesti e fu in acqua anche lui.

 

Ippodamia sentì qualcosa alle sue spalle, un rumore lontano forse, ben udibile nel silenzio del bosco quindi; quando si girò vide qualcosa di scuro nuotare nella sua direzione. Si spaventò, aumentando le bracciate, controcorrente; affannava ma reggeva il ritmo anche se dovette arrestarsi in prossimità di un ansa presso il quale il fiume si allargava e scendeva a valle.

La cosa scura era ancora dietro lei. Urlò, aggrappandosi a una roccia. La guardia era lontana e le sorrideva agitando le mani, convinta che la ragazza si stesse divertendo un mondo, giocando fra le rocce.

 

La testa di Pelope riemerse dall’acqua, la ragazza gemette.

 

“Tu?!”

“Quali coincidenze, vero principessa?!”

“Se ti avvicini ti strappo un orecchio a morsi. Sei avvertito.” Digrignò i denti stizzita.

“Sono convinto che lo farai” Si avvicinò, aggrappandosi alla roccia adiacente quella di lei. “mi scuoierai vivo, ne sei in grado.”

“Non tentarmi allora, vattene finche sei in tempo.”

“Amo il rischio” Ignorò l’avvertimento e si avvicinò col viso dalla sua parte, soffiandole le parole sul volto, “E come già detto voi mi tentate molto.”

“Voi per niente.” Ci fu un attimo ben preciso in cui Ippodamia ragionò sulle vie di fuga esistenti; la corrente le era contro rispetto al verso in cui si trovava e il corpo nudo che aveva difronte, risultava essere almeno il triplo del suo. Così forte che l’acqua schiaffeggiandolo alle spalle si perdeva in mille guizzi vinta da tanta potenza. Poi pensò, adesso o mai più. Gli si avvicinò languida, spostando la mano dalla sua roccia a quella dove lui sembrava soavemente appeso, come se la corrente non lo stesse scalfendo più di tanto, gli balzò sulle spalle nel momento in cui questi sorrise sornione aggrappando le unghie nella carne, “Con permesso” gli infilò la testa sott’acqua e si tuffò oltre quella massa muscolare enorme.

Quello ululò, prima di essere inghiottito dall’acqua e spinto via dalla corrente, oltre le rocce.

Lo sorpassò ridendo. “Arrivederci mio caro, mandami tue notizie dall’inferno!”

 

Nuotò più in fretta che potette, verso la riva dove aveva depositato le vesti prima di buttarsi in acqua; una volta toccata terra si rivestì in tutta fretta.

Si girò per un’ultima volta verso l’ansa più grande, l’acqua fluttuava come se niente potesse ostacolarla.

 

“Mai provare pietà per il nemico..” Un braccio possente le bloccò le braccia alla vita, “..principessa!”

“Ma come hai fatt..”

Provò ad urlare, ma quello le tappò la bocca con la mano libera; la trascinò sotto il costone di rocce, lontano dalla vista della guardia, e l’avvicinò con l’orecchio alle labbra. “Non voglio farti del male, perciò se stai buona ti lascio libera.”

Quella guardò in alto scocciata, prima di mordergli con foga il dito anulare rimasto vagante fra le sue labbra.

“Ma voi non siete una donna!” Disse quello agitando la mano, “siete una specie di selvaggia!”

“Si lo sono. E fareste bene a ricordarlo la prossima volta decideste di prendere iniziative di questo genere.”

“Cosa c’è, non vi piaccio neanche un po’?!” La strinse forte a se tanto da poter sentire i brividi sotto la camicia che indossava.

“Siete strano.” Tentò di strattonare un po’, ma quelle braccia la tenevano salda, “E mi state facendo male.”

“Non più di quanto voi ne state facendo al mio cuore.”

 

La girò piano, slegandole le braccia pe un attimo per tornare a stringerla quasi subito, le accarezzò i capelli in modo delicato, come faceva sempre Agrippina, quando i suoi sogni erano agitati; era piacevole, non era un tocco lezioso, quanto più il solletico di una piuma su una guancia.

Si rilassò, tirò indietro il capo allentando la resistenza.

Lui la fece appoggiare delicatamente con la schiena alle rocce, chiudendo lo spazio con il suo corpo proteso in avanti; Ippodamia lo guardò fremente.

Non una cellula del suo corpo osava opporsi al calore di quell’uomo che man a mano stava riducendo centimetri vitali fra di loro; un calore nuovo, che non aveva mai assaporato con nessun uomo, a parte suo padre ma quello era il calore di chi ti ha dato la vita.

Le sue mani le afferrarono i fianchi, scorrendo fra le dita la stoffa grezza della tenuta da caccia; quando i suoi pollici arrivarono a contatto con la pelle sospirò, irrigidendo le labbra lievemente socchiuse.

Pelope sorrise, avevano la forma di un cuore. E aveva voglia di baciarle. Un bacio soltanto.

Se glielo avesse permesso, sarebbe bastato.

Si avvicinò.

Ippodamia si sentì in preda al panico, quando le mani di lui si fermarono e lo vide vicino, sempre più vicino alla sua bocca.

S’incontrarono così, lievemente sorpresi di ciò che stava accadendo; due labbra in attesa di altre che tardavano ad arrivare.

Si scoprirono lentamente, socchiudendo e schiudendo quell’insieme di bocche rosse e carnose, asimmetriche, dolci, soavi, prepotenti, timide.

Un bacio che sembrava uno scontro in crescendo, fra il respiro affannoso, affannato, di chi vuole ancora e ancora.

I loro corpi perfettamente uniti sembravano una sola cosa, un tutt’uno con la natura intorno; si erano mimetizzati, quasi.

Rimasero in apnea giusto il tempo di dare fiato alle loro bocche e ricominciare.

 

“Credo tu sia guarito.” Mia ritrasse le labbra, serrandole. “Devo andare.”

“No! Non andare, non c’è fretta!”

“Non dovrei nemmeno essere qui” lo scansò con una leggera spinta “la guardia potrebbe insospettirsi di tutto questo silenzio.”

“Perché fai così?!” Pelope cercò di tenerla per una mano, prima che scappasse via oltre il costone “pensavo fosse stato, piacevole.” E rise.

“Certo..” Mia con tono ironico guadagnò dei passi in avanti, “..come la morte, se non torno prima che faccia buio. Addio!”

“Addio?! Pensi di potertela cavare così?!” Pelope le trotterellò alle spalle, scioccato da tanta sfacciataggine.

“Preferisci un arrivederci?!”

“Ascoltami bene, Principessa di Pisa” Pelope la girò verso se “sono venuto qui solo per vincere la tua mano. E puoi stare certa che lo farò e il giorno in cui sarai mia sposa raddrizzerò per bene il tuo carattere selvaggio!”

“Il giorno in cui sarò tua sposa..” Ippodamia rise sarcastica ”..non avrà mai luce.”

 

****

“Per l’amor del cielo Mia, dove eri finita?!”

“A caccia!” E mostrò le quaglie che teneva legate per le zampe, “e vedessi la mia tecnica quanto è migliorata!”

“Hai i capelli tutti bagnati” Agrippina le spettinò la chioma, “e i tuoi vestiti sono zuppi. Le quaglie hanno preso a nuotare e io non ne sapevo nulla?!”

“Ho fatto un bagno vecchia brontolona che non sei altro!” Poi con occhi sognanti e voce smielata si toccò le labbra, “l’Alfeo è magico come dicono.”

La serva la squadrò dal basso verso l’alto, poco convinta del brio nelle sue parole; era sudata, spettinata, con gli abiti sgualciti eppure c’era qualcosa in lei che emanava una tale serenità da spaventarla a morte e renderla felice insieme.

Stava meglio, il rossore si era appropriato nuovamente delle sue guance, l’aria aperta le aveva fatto bene; perfino le nuvole sui suoi zaffiri si erano aperte, ora sembrava occhi quasi brillati.

“E di un ,’” Le tolse di fretta la camicia di lino e il gilet di montone, scaldandola con dei panni caldi, “l’Alfeo è magico per via di quel ragazzo che vedo ronzare qui intorno da ieri mattina?!”

Mia arrossì violentemente. “Quale ragazzo?!”

“Alto, moro, corporatura massiccia.” Tossicchiò allegramente, “e dicono dal temperamento di un Dio?!”

“Chi te le mette in testa certe idee, serva?!”

“Le serve di sua maestà non parlano d’altro.”

“E da quando in qua dai retta alle serve di mio padre?!” Mia sorrise beffarda, “dovrei farti picchiare per tale avventatezza!”

“Perdonatemi sua Altezza.”

 

Agrippina fece riverenza, molto lentamente, proprio nel modo che faceva ridere Mia, che difatti rise, abbracciandola forte.

 

“Lui è un Dio, Agrippina.”

 

Fine capitolo quinto.

 

Finalmente Pelope ha raggiunto la sua bella e con essa comincerà a scrivere la vera storia di questa leggenda.

Spero il capitolo vi sia piaciuto.. perdonatemi non so essere molto romantica! :D

Baci e a presto.

Lunadreamy

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Capitolo 7
*** Destino ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“Destino.” Capitolo N6

 

Sua maestà il Re diede il via alla preparazione delle corse.

Gli allenamenti venivano svolti nelle campagne a ridosso dell’Alfeo, oltre le mura del castello per non disturbare il villaggio nelle attività quotidiane; c’era sempre fermento quando dei bei ragazzoni, alcuni di alto lignaggio e questo faceva assai gola, gironzolavano per prati con i loro fisici scolpiti dalla fatica e ambrati dal sole.

Non era raro che alcuni di essi abbandonassero la sfida per prendere in moglie una delle fanciulle della città; le donne di Pisa erano assai astute, quando veniva il periodo delle corse, si mettevano in mostra, si davano da fare, prodighe a risanare le fatiche degli allenamenti.

Con buon cibo, vino e il calore di un focolaio.

Non solo del focolaio.

 

Filla e Arpinna, i cavalli di Enomao, avevano cominciato il loro addestramento ben prima dei tre giorni consueti che spettavano ai pretendenti per essere pronti. Erano bestie intelligenti, al di sopra dell’intelletto dei comuni destrieri e proprio per questo avevano bisogno di molte attenzioni, quasi sentissero e si addolorassero della trascuratezza.

Le regole erano poche e semplici; tutti potevano allenarsi liberamente e disporre delle proprie bestie –in rari casi si attingeva alle riserve reali- avrebbero potuto scegliere quando gareggiare –per far fronte a questo si nominava un capo squadra che coordinasse i pretendenti- e a tutti si lasciava la possibilità di ritiro.

Anche la morte non era un obbligo. A quella il Re non si appellava mai con le proprie forze, era il destino a scrivere come e quando la terra si sarebbe macchiata del sangue di valorosi uomini.

 

“Falla avere a mia figlia il prima possibile. Dille che suo padre l’attende presto.”

“Ai vostri ordini sua Maestà.”

 

****

Il sonno di Ippodamia fu travagliato e contorto, gli occhi supplichevoli del padre si erano fatti in questo sogno iniettati di sangue e la scrutavano senza alcuna pietà come se volessero cavargli l’anima dal corpo; si sentiva giudicata, offesa e ferita da tanto odio.

Cercava di chiamarlo ma non aveva alcuna risposta, se non la risata cristallina di Pelope alle rocce, come un terribile scherzo del destino.

“Madre aiutami tu.”

Si levò fuori dalla tenda, per farsi investire dalla frescura del bosco notturno; tutto intorno era silenzio, le guardie intorno al fuoco erano appisolate, le tende degli sguatteri erano buie. Scivolò nella coltre del bosco, la dove l’acqua gorgogliava.

Aveva sempre desiderato vivere a ridosso di un fiume, sentiva come un richiamo, il richiamo della natura a gettare la sua nobiltà anche agli occhi delle sue piccole creature; le civette che coloravano la notte con i loro occhi gialli, i lupi che strisciavano silenziosi fra gli alberi.

Camminò attenta ad ogni piccolo rumore, non per paura, per passione. Amava il bosco.

 

Ai bordi del corso d’acqua si accucciò contro le rocce e chiuse gli occhi.

 

“Mia..” Una voce suadente la stava chiamando, “..non cercare le risposte nei tuoi sogni, segui il tuo destino.”

“Madre sei tu?!”

“Non abbiamo molto tempo, prometti che lo farai..”

“Qual è il mio destino?!”

“Amare.”

 

Mia riaprì gli occhi e la voce svanì; un ombra le si parava davanti, si spaventò a morte ma mantenne la lucidità scivolando su un fianco.

Pelope era lì e la guardava incantato da tanta agilità.

 

“Ti ho spaventata?! Ho sentito delle voci e sono accorso.”

“Chi pensavi fosse l’oracolo dei boschi?!”

 

Si tirò su ridendo sarcastica e spolverò la tunica sbuffando. “E comunque ci vuole ben altro a spaventarmi.”

“Sono sicuro che se ti facessi vedere una cosa, ti spaventeresti a morte.”

“La superbia è un peccato sottovalutato.”

“Provare per credere.”

Le allungò la mano, quella lo guardò sospettosa; “Fidati di me”. Mia chiuse gli occhi e allungò la sua.

 

Dapprima non capì cosa era quella sensazione di freschezza che provava sulle braccia e le gambe, poi si decise ad aprire gli occhi e vide qualcosa che solo nei suoi sogni aveva immaginato di vedere; stavano nuotando a pelo d’acqua –o meglio Pelope la teneva issata sulla schiena mentre mandava bracciate vigorose- come se fossero di materia leggera come aria.

 

“Come ci riesci?!”

“Non lo so, nuoto!” Rise e a Mia si sciolse il cuore “tieniti forte, c’è la prima cascata!” Mia si tenne salda, “La prima cascata?! Ci schianteremo!” Pelope le strinse forte la mano aggrappata alla pelle “fidati di me, non te ne pentirai.”

Scivolarono lungo il getto sospesi per aria, Mia riempì i polmoni d’aria, quando i loro corpi sprofondarono per alcuni minuti nel punto di rottura dei due flussi, quello a nord impetuoso, della cascata, e quello a sud incredibilmente docile; riemersero e fu come se l’apnea fosse stata inesistente.

“Quando te lo dico, prendi più aria che puoi!” Il letto del fiume si era ristretto, all’orizzonte non vi erano scogli o aggrappi, solo acqua fluente all’apparenza tranquilla. ”Adesso ho paura!” ”No Mia, adesso viene il bello!” Pelope scemò di poco la potenza delle bracciate, impuntò i piedi in un preciso punto in corrispondenza di un costone di roccia a strapiombo sul margine e urlò “Vai!”

Ippodamia trattenne il respiro sigillando le braccia intorno al collo di Pelope; per minuti lunghissimi sembrò che la pressione dovesse spaccarle i timpani, poi tutto cessò e quando aprì gli occhi vide una strettoia davanti a se e il ragazzo che la trasportava farsi spazio.

Non poteva parlare e non sarebbe comunque riuscita a dir nulla ma lo spettacolo che si ritrovò di lì a poco fu destabilizzante.

Il fiume aveva corroso le rocce al di sotto del letto scavando un cunicolo che portava dritto-dritto ad una grotta sotterranea per metà sommersa e per metà scoperta solo dal costone sovrastante da un singolare foro dal quale si intravedeva il cielo; nel mezzo colonne di stalattiti e detriti alte quanto il soffitto e una roccia simile al granito rosa a formare il pavimento dissestato.

Pelope si appoggiò alla riva permettendo a Mia di scavalcarlo; la ragazza ciondolò, prima di cadere a terra sfinita.

 

“E’ meravigliosa.” Mia era rivolta al cielo, sdraiata sul granito. “potrei passarci delle ore qui.”

“Ci verremo ogni volta che vorrai.”

“Però devi insegnarmi a nuotare come te!”

“No Mia, questo non posso insegnartelo. Fa parte di me.” Si rabbuiò.

“Non sei felice di ciò che sei?!”

“Mi hanno insegnato a non esserlo.”

 

Senza dire nulla si spogliò degli abiti che indossava; Mia protestò, con due pietre asciutte lui cercò di fare un fuoco usando gli abiti come legna.

Il tepore del fuoco l’avrebbe temprata prima di far ritorno. Ci riuscì e si accoccolarono entrambi, finchè presero sonno.

 

“Oh Cielo!” Mia si ridestò come in preda a un incubo, strattonando Pelope per le braccia. “La tua pelle.. cosa sono questi segni?!”

Un raggio di luna caduto fra loro fece risplendere la pelle del ragazzo, che alla luce mostrò lungo tutto il corpo dei vistosi segni argentei.

“Perdonami Mia” Pelope cercò di coprirsi come meglio potette con ciò che rimaneva delle vesti salve dal fuoco, “ho dimenticato, perdonami!”

“Fermati Pelope.” La ragazza gli serrò le mani che si muovevano frenetiche. “Voglio guardarti.” Fece scorrere le dita lungo le cicatrici frastagliate, provocando singulti di pena al ragazzo che lacerato dalla vergogna se ne stava abbattuto in terra come se lo stessero torturando.

 

“La tua spalla è d’avorio.” Non sembrava fosse una domanda, quanto più un assenso alla meraviglia di ciò che aveva davanti.

“E’ stata forgiata da Efesto.”

“I tagli sono studiati ad arte. Segni di morte.”

“Sono un mostro, lo so.”

Mia afferrò le sue parole e lasciò che le dita si fermassero, lo guardò intensamente negli occhi. “Mostro è chi ti ha fatto questo.” Lo abbracciò, portandosi la testa al petto, “voglio che mi racconti la tua storia, Pelope.”

 

****

Passarono le ore, fra i singhiozzi di Mia e le parole concitate di Pelope; la ragazza gli baciava i capelli, bagnando con le lacrime le sue guance.

 

“Dunque discendi dagli Dei.”

“Discendiamo dagli Dei, Mia.” Si tirò su con il volto, all’altezza d’occhi di lei, “il nostro destino è stato scritto prima che nascessimo.”

“Io non posso amarti, Pelope.” Mia incupì il volto, “sono condannata ad amare solo mio padre.”

“Se c’è una condanna nella tua vita è quella di servirmi come moglie.” Rise, tornando serio all’istante. “Ho sognato tutto questo! Te, la Lidia! Finalmente sarò un Re e tu mia regina.”

“Se è un regno che ti serve, la Grecia è piena di principesse!” Mia lo schiaffeggiò stizzita.

“Non capisci. Io ti conosco già da molto tempo.” Le afferrò le mani, scaldandole fra le sue, “all’età di otto anni un oracolo mi venne in sogno facendomi il tuo nome; saresti divenuta mia sposa se ti avessi trovato e insieme avremmo ridisegnato nuovi confini, dato alla Grecia la giusta visibilità sul mondo.” “Come vedi siamo fatti per stare insieme Ippodamia, respingerci è respingere il nostro destino.”

 

Cosa doveva fare?

La parola destino si era portata prepotentemente nella sua vita e non poteva di certo ignorarla.

Prima la voce nel bosco, poi Pelope, il nobile Pelope figlio degli Dei che sembrava avesse in pugno la storia della loro vita.

Poi c’era suo padre.

Cosa gli sarebbe successo?

E fino a che punto poteva rinnegarlo per amor proprio?

 

****

Il sole era alto, nelle tende ci si stava dando da fare per il rientro, Agrippina stava sistemando i bauli con i preziosi di Mia, quando si accorse che la ragazza era come assorta.

 

“Non hai mangiato nulla, Mia. Non ti senti bene?”

“Non ho fame.”

“Tuo padre ha fatto arrivare questa.” Agrippina le porse una lettera con il sigillo reale, “credo ti reclami.”

Ippodamia afferrò la lettera.

 

Un giorno solo lontano da questo vecchio e già sente la vostra mancanza.

Pisa non è la stessa senza di voi, i pretendenti reclamano la sua assenza.

E anche io.

Torna presto.

Enomao, tuo padre.

 

Non aveva chiuso occhio tutta la notte. O ciò che ne restava.

Doveva lasciarla andare. Era giusto.

Il suo amore l’avrebbe uccisa e se avesse avuto la sfortuna di sopravvivergli sarebbe stata costretta a vivere una vita di inferno, piena di rimpianti e di rimorsi per tutto ciò che non aveva avuto il coraggio di fare e di osare.

Pelope non era solo uno dei pretendenti, questo ormai lo aveva accettato e per quanto strano e incomprensibile risultasse ai suoi occhi a volte, cominciava a provare qualcosa per lui; qualcosa alla quale non aveva ancora dato un nome, ma che aveva la seria intenzione di scoprire.

 

“Mandatemi lo scriba. E il più alto comandante presente all’accampamento.”

 

Amatissimo padre anche voi mancate tanto al mio cuore.

Tutta via ritengo necessario perpetrare la mia permanenza in questi luoghi per compiere il mio addestramento.

Manca veramente poco alle corse, sarebbe fatica inutile spostare la vostra armata quando qui dispongo dei migliori soldati.

Tornerò a Pisa il terzo giorno con fulgore e rinnovato spirito, degna di voi e della vostra grandezza.

Ippodamia, sempre vostra.

 

“Resteremo qui altri due giorni, sua maestà?!”

“Esatto. Metà contingente rientrerà con voi comandante. Che rimangano solo gli uomini con il grado più alto. Rifornite le provviste e fatele avere nelle cucine entro stasera.” Ippodamia piegò la lettera e con la cera lacca la sigillò “Dite a mio padre che ci rivedremo presto.”

“Ai suoi ordini, maestà.”

 

Il soldato schizzò via dalla tenda come un fulmine. Agrippina tornò alla vista della sua principessa.

 

“Cosa succede? Devo preoccuparmi?!”

“Nulla che non sia già stato scritto, Agrippina cara.”

 

Fine capitolo sesto.

 

 

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Capitolo 8
*** Senza più ritorno ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“Senza più ritorno.” Capitolo N7

 

Ragazze visto l’andamento scorrevole dell’ispirazione, che mi sta facendo sfornare un capitolo dopo l’altro, ho deciso di postarne ben due.

Occhio quindi, prima di questo c’è il numero 6!

I più salienti secondo me del rapporto fra Mia e Pelope che andrà crescendo, unendoli.

Ringrazio veramente di cuore tutte le persone che mi seguono con affetto, fra le quali si è aggiunta anche la cara Lena Vid.

Piccola nota: capitolo lievemente lemon. ;)

 

I soldati la guardavano entusiasti al bordo del campo; un piccolo contingente di persone che si riunivano sempre alla stessa ora e che seguivano affascinati i progressi che andava compiendo di ora in ora.

Sembrava una scheggia impazzita, con i svolazzanti capelli biondo miele raccolti in una treccia che le ricadeva sulla schiena e i ciuffi scomposti che le si appiccicavano al viso sudato; probabilmente non aveva nulla di regale così conciata, con la blusa di lino e un paio di pantaloni leggeri per la corsa, ma il magnetismo della sua persona riusciva a radunare accoliti anche in certe condizioni.

Il suo allenamento era metodico e preciso, specifico per potenziare la muscolatura delle gambe e l’agilità degli arti; il suo era considerato il compito più arduo e in molti si domandavano come un padre potesse esporre la propria amata figlia ad un tale pericolo.

Nel momento opportuno Ippodamia sarebbe dovuta volar via dalla biga del suo pretendente con un secco e deciso scatto di reni, uno sforzo che richiedeva una lucidità mentale- data da ore di preghiera- e una prestanza fisica da non sottovalutare.

Erano passati solo due giorni e l’arco di curvatura del suo salto aveva raggiunto già una sufficiente angolazione da permetterle di surclassare la biga e tenersi abbastanza lontano dal pericolo.

Ma per Ippodamia la perfezione non era abbastanza.

 

“E’ questa stupida treccia!” Si fermò in preda ai bollenti spiriti, “Nikandrios la tua spada. Subito!”

“Ma sua Maestà è stata impeccabile. Mi creda è solo stanchezza la sua, la corsa e tutte quelle ore di nuoto, la stanno sfiancando.”

“E’ un ordine.” Si inginocchiò, con una mano stese i capelli all’indietro usando come appoggio il tronco squarciato di un albero. ”Taglia!”

Il soldato deglutì, mettendo mano al fodero; quando alzò in aria la lama scintillante Mia rise soddisfatta.

Un taglio netto e dei suoi lunghi capelli color grano rimase la metà.

 

****

Sull’altra sponda dell’Alfeo, Enomao dava fondo alle sue energie.

La sua età era da sempre stata mistero e il suo corpo tonico, le gambe e le braccia possenti tradivano qualsiasi primavera.

Non aveva nulla da invidiare ai baldi e giovani pretendenti che lo sfidavano; un viso bello, con mascelle pronunciate e labbra carnose, il naso scolpito e forte e due occhi neri vagamente assottigliati verso l’alto, quasi orientali.

Non era mai stato sposato e questo lo rendeva mira di assidue frequentazioni da parte di donne dell’alta nobiltà, a volte anche straniere di mondi lontani, regine e addirittura principesse, da tanto la sua bellezza fosse oggetto di attenzioni.

Per quanto la lussuria e il peccato lo tentassero, all’alba il suo letto era freddo. Come pure il suo cuore.

 

“Enomao, Ippodamia ti manda sua notizie.”

“Leggila per me.”

 

Apyos spaccò in due la cera lacca ed estrasse la lettera in bella grafia della principessa; Enomao ascoltava ben attento a non tradire il minimo fiato. “E con questo ti rinnova i saluti a quando vi rivedrete.” Apyos tacque, volgendo lo sguardo verso sua maestà.

Enomao come se niente fosse tornò ai suoi allenamenti, Apyos tergiversò ben conoscendo l’umore del suo amato Re e prima di tutto amico.

 

“Mi hanno detto che si sta allenando come una forsennata, con dedizione e caparbietà. Semmai si avessero avuto dubbi, ho risposto che è degna del padre che l’ha generata.” Rincarò la dose non ottenendo la reazione sperata, “devi essere fiero di lei, Enomao. Tua figlia ti sta rendendo onore.”

“E mi sta scavando la fossa.”

“Non dire così, ciò che l’oracolo dice, l’oracolo interpreta lo sai.”

“Cosa vorresti dire?!”

“Che forse chi brama la mano di tua figlia e la tua testa non è soltanto un pretendente.”

 

“Sua maestà i cavalli sono pronti.” Mirtilo arrivò con voce trionfante. Apyos lo fissò e l’auriga sputò in terra di rimando.

 

Lo rendeva nervoso.

 

****

“Nikandros non c’è bisogno che mi scortiate, non mi succederà nulla, gli Dei mi proteggeranno.” Mia stringeva fra le mani la lunga treccia bionda, ”dite alla serva di non aver premura della mia assenza. Sarò agli altari e vi resterò tutto il giorno.”

Mia sgattaiolò via fra gli alberi, senza dare il tempo alla guardia di controbattere o farle perdere ulteriore tempo.

Avrebbe deposto il cimelio sacro ai piedi degli altari e come ogni giorno, prima del calar del sole avrebbe raggiunto Pelope al fiume.

 

“Madre veglia e proteggi il mio cammino.”

 

Non appena la treccia toccò terra questa tremò. Ippodamia si portò una mano al cuore, timorosa ed eccitata.

 

 

“Pelope!” Si svestì di tutta fretta e si gettò in acqua dove il ragazzo l’attendeva.

“Mia credevo non arrivassi più.” Il ragazzo la strinse, tremando al contatto dei suoi seni nudi contro il petto.

“Hai freddo mio caro?!”Mia che poco sapeva dell’arte della seduzione, frizionò le mani lungo le braccia del giovane. Lui le sorrise accarezzandole la guancia affettuosamente, “Sei tu Mia, il tuo corpo caldo.”

“Oh, sono mortificata.”

“E perché mai è una sensazione bellissima.”

“Potrei rifarlo, se vuoi.”

“Devi.”

Il ragazzo l’avvicinò nuovamente stringendola forte; l’aderenza dei due corpi cullati dalla corrente stavolta procurò reazioni inaspettate.

Mia sussultò; qualcosa si era messo di mezzo fra il suo bacino e quello di Pelope, tanto da non sentire più le ossa spigolose del compagno contro le sue.

“Dobbiamo and-are pri-ma” Era contrastato dalla voglia di tenerla stretta e quella di lasciarla andare togliendo alla sua pelle il calore di quel corpo morbido e vellutato, “pri-ma che aumenti la corrente.”

Mia rise, balzando dalle sue braccia alle spalle con un guizzo fuori dal comune; fu come guardare una sirena saltare da uno scoglio. “Andiamo!”

Si immersero e fu divertente come le altre volte; stavolta Pelope permise a Mia di nuotargli di fianco nei punti in cui la corrente era quieta tenendola salda con la mano e fu ben felice di riscontrare la velocità di apprendimento con cui lei aveva memorizzato il punto esatto di immersione fino al cunicolo sotterraneo. Di sua iniziativa gli passò avanti, facendosi largo nel tunnel con disinvolta agilità.

“Se tuo padre mi facesse gareggiare contro di te perderei di sicuro!” Si issarono dall’acqua e Mia sgattaiolò fra le colonne di granito. Era convinta che la grotta nascondesse diversi passaggi, passaggi che magari portavano in luoghi incantati a loro sconosciuti. Pelope la seguiva sempre con molta iniziativa, era divertente ascoltare le sue storie, le sue teorie sul mondo e sulle divinità che ne facevano parte. Secondo Mia tutti gli oggetti avevano un anima, bisognava solo toccare i punti i giusti per entrare in connessione con ciò che li circondava. “Tu non conosci abbastanza mio padre, non essere convinto che ti regalerà la vittoria senza prima sputare sangue.” Pelope la prese per mano, costringendola a guardarlo.

“Credevo ti importasse che io vincessi.”

“E mi importa, ma il gran nome di Enomao esige rispetto.”

“Mi spaventa.” Pelope serrò le labbra guardando un punto impreciso davanti a se. Lo sguardo perso.

“Che cosa?!”

“Sapere che non amerai mai nessun altro come ami lui.”

Mia gli prese il volto fra le mani e lo portò verso il suo. “L’amore che provo per lui è il rispetto e la devozione che una figlia prova per suo padre. Tu non puoi capirmi perché hai avuto la sventura di avere un abominio come padre, ma ti assicuro che fra tutti gli uomini Pelope tu sei il più degno, il più giusto e l’unico che possa mai prendere il suo posto.”

“Dillo ancora.”

“Semmai esista un uomo capace di prendere il posto di Enomao nel mio cuore, quello sei tu Pelope di Frigia. Ora e sempre.”

 

Pelope la strinse a sé e la baciò appassionatamente passando le forti mani fra i capelli; Mia si aggrappò alle sue spalle con inaudita forza.

I loro corpi nudi fremevano al minimo contatto, provocando scintille come legna al fuoco.

La ragazza serrò le gambe intorno alla vita del giovane che con le mani l’aiutò ad issarsi contro il suo petto; i seni di Ippodamia fieri e sodi sembravano due medaglioni al di sotto del collo rosa, Pelope cauto allungò una mano coprendone uno sotto le sue larghe dita. Era morbido e caldo a differenza del capezzolo che si era fatto turgido e freddo. Portò la sua bocca vicino a tanta meraviglia e si stupì egli stesso del suono gutturale che fuoriuscì dalle labbra di Mia. Incoraggiato succhiò teneramente un seno e poi l’altro, provocando nella ragazza gemiti simili a un miagolio.

Sull’onda della ripartenza, Pelope saggiò ogni centimetro della ragazza che ancora teneva stretta a se; le sue mani la tenevano stretta per le natiche, così che potesse issarla come un trofeo e baciarla dove più gli aggradava.

Mia in estasi inarcò la schiena, la testa abbandonata all’indietro stanca di resistere.

Scivolò da quell’abbraccio quando i loro occhi si fissarono attraverso le coltri del desiderio; non v’era più via di ritorno, lo sapevano entrambi.

Ippodamia si stese sul granito ruvido, che le graffiava la schiena come il desiderio nel petto; schiuse le gambe e gemendo come una gattina invito Pelope a sdraiarsi su di lei; il ragazzo si piegò sulle ginocchia chinandosi lievemente, le braccia a sorreggere la mole del suo corpo, aderendo a lei in modo lieve, senza toccarla, farle il minimo male.

“Mia sei bellissima.”

E lo era davvero. Gli occhi zaffiro intensamente languidi e le labbra strette per la paura.

Pelope le baciò dolcemente e queste si sciolsero un poco “Non voglio farti male. Non voglio fare niente che tu non voglia.”

“Voglio sentirti, non importa quanto male farà.”

Un ultimo bacio prima di ridiscendere verso il collo e piegarsi lievemente verso il basso dove la pelle era attraversata da scossoni simili alle vibrazioni della terra; con una mano si aiutò a penetrarla facendosi spazio fra la carne ardente.

Mia gemette. Due lacrime scorsero sulle guance. Pelope si fermò baciandole. “Continua.”

Spinse piano poi ritmicamente fino a che il suo corpo non si adattò a lui. Era bello. Si sentiva perfettamente incastrato in quelle membra fino ad allora sconosciute; nemmeno nei suoi sogni aveva immaginato tanta perfezione, tanta tenerezza, tanto tutto da non avere parole per descriverlo.

Aumentò il grado delle spinte, trovando consenso nelle urla goduriose della sua compagna e lasciandosi andare anche egli, provando e sperimentando diverse posizioni, fino a che la loro fantasia glielo permise, fino a quando le loro gole non ebbero più fiato per parlare e abbastanza forza per dividersi rimanendo lì, l’uno dentro l’atra, in silenzio.

Doveva fermare suo padre. In qualche modo doveva convincerlo che non sarebbe servita nessuna corsa.

Che il suo cuore ormai era stato rapito e che non c’era più nulla da fare.

Nulla in suo potere che potesse convincerla a ritornare alla vita precedente.

Dove l’amore era una scatola chiusa senza via d’uscita e non uno spazio senza confini dove correre in libertà.

 

****

Tornò alle tende che era buio inoltrato.

Il fruscio dei veli all’entrata fecero sussultare l’amata serva intenta ad apparecchiare il tavolo per la cena al suo ritorno.

 

“Oh buon Dio Ippodamia!” Agrippina versò la caraffa d’acqua sul pavimento, “che ne hai fatto dei tuoi lunghi capelli?!”

“Erano così infantili.”

“Tuo padre mi darà in pasto ai cani.” Camminava su è giù per la tenda agitata, “Non ti venivano tagliati dalla notte che ti trovò nei boschi.”

“Beh allora ho fatto bene,” Mia prese le mani di Agrippina fra le sue “è ora di cambiare certe tradizioni.”

”Piccola Mia le tue parole mi fanno paura.”

“Sono pronta Agrippina. Voglio indurre mio padre ad una scelta.”

“Quale scelta?!”

“Sposare Pelope di Frigia. L’uomo che stanotte mi ha resa donna.”

 

Agrippina si portò una mano la petto, sussultò; gli occhi della ragazza era cangianti.

Occhi senza più nuvole.

Come un nuovo cielo.

 

La sua Ippodamia non era più bambina.

 

Fine capitolo settimo.

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Capitolo 9
*** La corsa ***


Il giorno si fece spazio dopo una notte di tormenti e agitazioni

La leggenda di Ippodamia.

 

“La corsa.” Capitolo N8

 

Il giorno si fece spazio dopo una notte di tormenti e agitazioni.

Agrippina restò sveglia tartassando i pensieri su una soluzione possibile affinché Mia non si desse in pasto all’ira di Enomao; dopo qualche elucubrazione era giunta alla conclusione che le sembrava meno pericolosa.

Avrebbero temporeggiato, permettendo ad Enomao di scaricare la sua follia su i poveri pretendenti che avrebbero anticipato Pelope nella corsa, dopodiché appellandosi a tutte le forze divine Mia lo avrebbe affrontato ad accettare il suo amore e la sua scelta.

Certo come piano non le era sembrato un gran che, ma davanti alla prospettiva di una fuga, immaginando la sua Mia vivere come un barbaro nei boschi, riteneva l’ira di Enomao una passeggiata.

E forse toccando le leve giuste, smuovendo il suo amor di padre, Enomao avrebbe potuto anche accettare di averla ancora con se, sposata certo, ma sempre sotto la sua ala.

 

Mia dal suo canto dormì serena come non le accadeva da tempo.

I suoi sogni furono un tappeto di stelle e un alcova in cui Pelope muoveva il corpo sinuoso contro il suo.  

 

 

Quando aprì gli occhi e assaporò le prime luci del mattino, ciò che restava del sogno era una bellissima realtà.

 

 

“Sua maestà la lettiga è pronta e il contingente è schierato.  Con il suo permesso marceremmo immediatamente verso Pisa.”

 

“Mio padre è stato informato del mio arrivo?”

 

“Suo padre l’attende da giorni, Sua Maestà. Mi è stato riferito di dirle esattamente così.”

 

Ippodamia sospirò ben conscia del destino che l’avrebbe attesa.

Ma il suo cuore era coraggioso e il suo animo impetuoso; non avrebbe avuto paura, non avrebbe nascosto la testa sotto la sabbia, non si sarebbe tirata indietro nemmeno se suo padre fosse stato Ade in persona.

 

Il destino era nelle sue mani. E solo lei era predestinata a scriverlo.

 

“E sia. Il destino ci attende. Pisa ci attende.”

 

Marciarono per le campagne e i boschi rigogliosi dell’Elide come se fosse stata l’ultima volta; i soldati cantavano le canzoni della pace e della vittoria, di buona sorte e prosperità, come se fossero stati liberati dalle oppressioni dei nemici.

C’era gioia nelle file, Ippodamia incantava la marcia con la sua voce gloriosa e gli inciti a proseguire fieri per la strada verso casa.

 

Distanziato il fiume di qualche miglia, in una radura coperta di alberi e a poche linee d’aria dal castello si fermarono per far riposare e rifocillare i cavalli e permettere ad un annunciatore di corte di distanziarli e di far avere imminente conoscenza al Re del loro arrivo.

Mia scivolò dalla lettiga, addentrandosi fra gli alberi; il cuore le batteva a mille, le mani sudavano per l’agitazione.

 

“Amore mio!” Pelope gli fu alle spalle, baciandole il collo. Ella si girò, sigillando le labbra alle sue.

 

“Ascoltami bene Pelope. Questa è l’ultima volta che ci vedremo arrischiandoci così. Il castello è un nido intricato di servi e guardie disposte a tutto pur di ingraziarsi favori del Re. Quando sarà il tempo ti farò sapere io dove e come potremo rivederci.”

 

“Mia mi lasci senza darmi speranza?!”

 

“Una volta rientrati a Pisa non potremmo più giocare Pelope.” Mia gli passò una mano a coppa sul viso, “Il mio ruolo di principessa mi attende e per quanto io non voglia, c’è in ballo il nostro amore a farmi desistere da questa follia.”

 

“Permettimi di gareggiare per primo! Vincerò e metterò fine a questa pazzia io stesso!”

 

“No! Non essere ostinato.” Mia si aggrappò ai suoi capelli, ”non capisci?! Se ti accadesse qualcosa io morirei con te!”

 

“Io non morirò.”

 

“Non comportarti da stupido allora. Tutto ciò che voglio è che tu viva.”

 

“Vivrò.” La strinse a se baciandole gli occhi, il naso, le guance e il volto, tutto.

 

“Amami.” Sussurrò Mia.

 

“Già ti amo. Più della mia stessa vita.”

 

E l’adagiò fra i fili d’erba umidi, baciandole gli orecchi, il collo, il corpo.

Tutto.

 

****

Una fanfara annunciò l’entrata della Principessa con il corteo di guardie.

Le strade erano in piena festa e adornate con gli stendardi delle casate dei pretendenti; un caos di vecchi e giovani, poveri e ricchi accalcavano i bordi delle cinta murarie, accorsi a Pisa per il gran giorno.

Chi era rimasto in città era lì per assistere alla cerimonia delle benedizioni delle anime, voluta da Enomao per quanti praticassero la religione cattolica; era molto rispettoso del nemico e della religione soprattutto, sapeva che gli Dei andavano temuti e rispettati, tutti, qualsiasi faccia e credo avessero.

 

Una volta officiate le formalità il Re avrebbe preso la via per gli altari ad Olimpia a mezzora di cammino da Pisa; era una delle regole, Enomao regalava il vantaggio all’avversario che si sarebbe portato a sua volta al via del percorso scelto per la gara apprestandosi a cominciare senza il Re.

Terminato il sacrificio degli agnelli in nome di Zeus, allora e solo allora, Enomao sarebbe tornato indietro e avrebbe preso parte alla corsa.

La sua superbia aveva la meglio su tutto, per lui il tempo non era un nemico da combattere bensì un alleato in cui trovare, semmai ce ne fosse stato ulteriore bisogno, il riscontro della sua immensità.

 

Il percorso era delineato da terreni scoscesi e venti spesso contrari; le malelingue della città vociavano di una nascita maledetta che aveva avuto per teatro quella strada impervia. La nascita di una creatura deforme che il padre e la madre ebbero pietà di tenere in vita e che secoli addietro aveva tormentato Pisa, rendendola sfavorevole alla civiltà e alla conoscenza del mondo che andava formandosi.

Per superstizione e rispetto Enomao e chi prima di lui, non assestarono mai il terreno ne tanto meno apportarono cambi alla natura così intricata di quei luoghi sinistri.

Alcuni pretendenti addietro dichiararono di aver udito dei lamenti, durante la gara; ma essa obbligava il suo passaggio fino all’istmo di Corinto, il collo come veniva chiamato dai Greci cioè una striscia sottile di terra che andava comunicando l’Elide con la Grecia continentale e che costituiva il corpo principale della gara, quindi impossibile da svicolare.

L’arrivo poi era sancito agli altari di Poseidone, oltre solo una scogliera che delineava il confine fra la vita e la morte; chi riusciva a fermarsi in tempo aveva salva la vita, chi no finiva dritto fra le braccia di Ade.

Nessuno era riuscito a baciare la terra prima di Enomao.

In molti erano periti e in molti erano usciti scalfiti nell’animo e nel corpo.

Ma quello era il volere del Re, per la mano della sua bella figlia.

 

****

Sfilò soave come l’aveva vista fare da quando era poco più che una bambina.

Il corpo cambiato, fasciato dallo Xystis rosso, la lunga tunica legata in vita da un cinturone di oro zecchino, designata appositamente per le gare perché il tessuto di cui era fatta non permetteva di gonfiarsi al vento durante la corsa.

Era una donna, i cui seni materni erano strizzati dal corpetto di cuoio della veste così eloquenti da indurre in tentazione anche un cieco e ridar forma a un guercio; il volto poi era truccato magistralmente da render la pelle traslucida, candida, con gli angoli degli occhi allungati e ombreggiati dal nerofumo e le guance pizzicate di rosso di Minio.

 

Lo raggiunse, inchinandosi al suo cospetto.

Lui le prese la mano, invitandola ad alzarsi e farsi ammirare.

 

“Mi siete mancata.”

 

“Anche voi.” Sorrise sfuggendo il suo sguardo.

                                         

“Cosa..”  con una mano strinse uno dei boccoli che le ricadevano sul collo, “avete fatto ai vostri lunghi capelli?!”

 

“Sono solo capelli padre. Ricresceranno.”

 

Enomao la fissò intensamente; l’ambiguità delle sue parole lo rese nervoso.

Ippodamia era il riflesso distorto della giovane donna che aveva lasciato agli accampamenti e adesso più che mai se ne stava rendendo conto.

Il suo corpo, i suoi capelli, perfino i suoi occhi ombreggiati sin dalla nascita adesso rifulgevano cangianti rivelando una donna a lui sconosciuta.

 

Lasciò che gli voltasse le spalle per prendere posto sulla biga del primo pretendente; questi la guardò esterrefatto, costretto a tener salde le briglie per non rischiare di farsi prendere alla sprovvista dall’animale. Ripreso il contegno comandando ai cavalli di prendere direzione verso il fiume.

 

Le spalle bianche della principessa scolorivano mano a mano nel verde del bosco. Ma si voltò verso il Re un ultima volta.

 

Un ombra di terrore passò attraverso le pupille di Enomao; dalle labbra rosa di Ippodamia era nato un sorriso, come a volerlo mettere in guardia.

 

****

Il mantello color porpora sferzava il vento sotto il ritmo delle falcate dei suoi Filla e Arpinna; con le mani teneva saldo il cavallo di destra, mentre Mirtilo suo fedele auriga quello di sinistra.

La clamide era fermata in gola da un medaglione con le effige delle battaglie che un suo lontano avo aveva condotto per tracciare nuovi confini per Pisa.

 

Le urla di guerra che uscivano dalla sua gola riecheggiavano lungo tutto lo sterrato, giungendo alle spalle del povero pretendente che si girò incredulo. Aveva mezzora di vantaggio. Ma Enomao era lì, lo aveva raggiunto.

 

Ippodamia cantò, come le era stato insegnato, la litania del guerriero greco, un canto di speranza che le giovani donne intonavano ogni qual volta uno dei loro mariti tornava dalla battaglia.

 

La sua voce era persuadente. I suoi seni schizzavano fuori dal petto.

Il poveretto non sapeva più dove guardare e il Re era lì, rasente le spalle che lo guardava sfidandolo con gli occhi iniettati di sangue.

 

Filla! Arpinna! Mostrate al pretendente il vostro sangue reale!”

 

I due cavalli ubbidirono al richiamo del loro padrone, scalciando più forte che potettero; lo spettacolo era indescrivibile, con i due bai avvolti da una nuvola di polvere sotto la quale si celava il segreto della loro forza.

 

Ares li aveva donati di ali, perciò le loro gambe altro non erano che arti in grado di spostare aria, alleggerendo il peso della loro mole.

 

Passarono in vantaggio distaccando la biga avversaria di parecchie miglia.

Mirtilo ululò e i cavalli scesero di nuovo sul terreno.

Il pretendente si guardò attorno avvilito; il Re era un punto lontano nello sterrato dinnanzi a se.

Ingiuriò contro il suo cavallo spronandolo con frustate vigorose tanto da lacerargli la carne sul fianco.

 

Ippodamia gli bloccò la mano.

 

“Arrenditi, non c’è più nulla da fare.”

 

“Giammai principessa.” E tornò a frustare la bestia in preda ad urla strazianti. Schizzi di sangue gli macchiarono il volto.

Ippodamia tornò ad avventarsi sulle sue mani; quello la schiaffeggiò, buttandola in un angolo. “Lo ucciderai!”

 

“Non sarà l’unica bestia che saggerà la mia frusta, donna!”

 

Rise sguaiatamente infierendo nelle ferite aperte del cavallo ormai ridotto allo stremo; l’animale difatti spossato irrigidì le zampe anteriori non appena gli altari furono ben visibili. L’altro perse l’equilibrio, non avendo più il compagno come punto di riferimento.

 

Il pretendente impallidì appellandosi agli Dei, ma questi dovettero aver altro da fare, perché d’un tratto la situazione precipitò ulteriormente.

 

Ippodamia sorrise sarcastica. Gli sputò in faccia prima che fosse troppo tardi e con la grazia di una gazzella saltò in aria avvitandosi su stessa, per ricadere sul terreno senza nemmeno un graffio.

 

La frenata brusca rialzò il carro da dietro, facendo volare il pretendente fra le zampe del cavallo ancora rimasto in piedi; lo scricchiolio delle ossa calpestate fu l’ultimo rumore che si udì, dopo il boato della biga caduta in frantumi.

 

In prossimità dell’arrivo Enomao slegò la clamide e la gettò in aria in segno di vittoria, Mirtilo afferrò tutte e quattro le redini avvicinandosi con il corpo in avanti intimando ai cavalli di rallentare, scemando la forza di resistenza così che si sentissero liberi nei movimenti.

 

Frenarono prima del dirupo, girando su stessi alla volta di Ippodamia ancora piegata sul terreno.

 

 

“Cosa hai fatto al volto?!”

 

“Devo essermi ferita con le redini padre.”

 

 

Un lamento soffocato provenne dalle zampe dei cavalli morti; il pretendente era ancora vivo ed Ippodamia sbiancò di terrore.

 

Enomao uscì fuori di testa quando intuì cosa era successo.

 

Con mani nude scavò oltre i detriti. “Non meriti di vivere.”

Estrasse la spada dal fodero e la conficcò per intero, da parte a parte, nel petto dell’uomo.

 

 

A fine giornata il conto dei morti salì a tredici.

Per tutto il regno si sparse la voce del pessimo umore del Re, tanto che si decise di dar tregua alla gara e molti ne approfittarono per ritirarsi.

Le schiave si dettero un gran da fare per risollevare i malanni d’animo di Enomao, scaldando la notte con fiumi di vino rosso e accoppiamenti proibiti.

 

 

Un’altra schiava, nella locanda di una strada stretta e buia al di fuori del villaggio, gettò un sacco di monete sul sudicio bancone dove se ne stava appollaiato il caposquadra; questi ci si avventò, soppesando il contenuto. Nel giro di qualche istante lo fece sparire dalla vista.

 

“Cosa cercate?”  

 

Conosci Pelope di Frigia?!”

 

“Maledizione, sì!”

 

“Va tenuto alla larga dalla corsa il maggior tempo possibile.”

 

“Chi ti manda, donna?!”

 

“Non sono affari tuoi, stolto!” La donna battette i pugni sul tavolo con stizza, “Ti pago per non fare domande ed eseguire gli ordini. Allora, sei capace di fare questa cosa?!”

 

“Pelope di Frigia resterà lontano dalle corse.”

 

“Non una parola su quanto accaduto stanotte caposquadra.” Lo accarezzò lascivamente fra le gambe, “potrei tenerne conto per futuri servigi.”

 

“E sia.” Quello buttò gli occhi sulla generosa scollatura di Agrippina, leccandosi le labbra.

 

Fine capitolo ottavo.

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Legami ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“Legami.” Capitolo N9

 

Una mattina la tregua finì.

I cortili reali si erano fatti schieramento di pretendenti in attesa che arrivasse il segno.

Della vita. Della morte. Non sapevano neanche più cosa sperare.

Poi accadde; Enomao scese fra loro e con una mano protesa al cielo in segno di vittoria, li salutò.

 

Il Re era tornato di buon umore.

 

Ippodamia continuava la sua farsa sempre con il sorriso sulle labbra; all’apparenza era una giovane donna vigorosa e leale, dentro era un fiume in piena pronto a straripare se non avesse avuto argini tanto forti.

Agrippina era riuscita a sedarla e a sua volta a sedare l’animo tumultuoso del giovane Principe di Frigia, che dal giaciglio in cui viveva nascosto tormentava il cuore della sua bella compagna con la fretta di averla presto in sposa.

 

Quella mattina era venuto il turno del giovane Atreo di Frigia, il figlio bastardo che il Re Tantalo aveva generato con una serva.

Ippodamia era in preda all’emozione di conoscere un parente del suo amato; Pelope per quanto fosse loquace e intelligente nelle parole della filosofia e della storia, diveniva assai scontroso e muto quando si trattava di parlare della sua vita passata.

Tutto ciò che sapeva di lui era l’esistenza di questo fratello e di una sorella di nome Niobe fresca sposa di Anfione fondatore e Re di Tebe.

“Salve giovane Atreo!”

“Salute a lei sua maestà.” Il ragazzo le prese la mano appoggiandosela lievemente alle labbra, “ciò che si dice di lei non le rende giustizia.”

“Cosa si dice di me?!”

“Che siete una donna con l’animo di un uomo.” La scrutò con occhi liquidi e di uno straordinario color caffè come quelli del fratello, “ma mi permetta di correggere questa espressione così poco alla vostra altezza.” Inspirò, sorridendo. “Siete una meravigliosa donna con la forza e il coraggio degno del più valoroso uomo.”

“Siete molto bravo con le parole.” Ippodamia sorrise scostando la mano, “con i cavalli come ve la cavate?!”

“I cavalli non fanno per me Sua Altezza.” Sussurrò al suo orecchio, “ne ho una paura folle.”

“Per quale motivo dunque gareggiate?!” Anche ella sussurrò, avvicinandoselo.

“Ho un fratello Sua Maestà. Si è messo in testa che voi gli appartenete di diritto per nascita, che un oracolo gli abbia predetto un futuro roseo e prospero se vi avesse incontrata e presa in moglie.” Scosse la testa, “lo so che è fuori dal normale ma vede io sono il maggiore e mi prendo cura di lui.”

“Questo è molto nobile da parte sua.” Ippodamia sorrise. Pelope le aveva detto la verità. “parlatemi ancora di lui, ve ne prego.”

Pochi metri più indietro Enomao li osservava agitato. “Cosa avranno mai da bisbigliare?!”

Mirtilo li guardava con occhi stretti, “Non lo so.” E sputò vigorosamente a terra. “ma godrei nel veder la testa di quel lecchino schiacciata dai cavalli.”

Enomao sorrise. Certe volte Mirtilo sapeva essere più spietato di lui.

 

Le strade si divisero come di consueto, il Re verso Olimpia e il pretendente assieme alla principessa al via del percorso.

Il ragazzo che era con Ippodamia risultò essere ai suoi occhi molto impacciato e nervoso nei movimenti, lontano dal portamento fiero che invece caratterizzava Pelope, tanto da farla sorridere soprattutto di quel modo in cui si teneva dritto su la biga, in punta di piedi, come se fosse sempre sul punto di cadere in avanti.

 

“Non avere paura, se le tue intenzioni sono lungi dall’avermi in sposa ti basterà seguirmi,” Ippodamia afferrò le redini, ben attenta a non farsi vedere dal padre e dall’auriga, “lascia che ti superi e dagli un bel vantaggio. Una volta presa la strada per l’arrivo il gioco sarà fatto.”

“Vi ringrazio Sua maestà.”

“C’è una cosa che non capisco. Perché non vi siete ritirato dalla gara? Con le gambe intere vi sarebbe riuscito meglio tenere d’occhio vostro fratello. O sbaglio?!”

“Non è facile da spiegare Altezza.” Atreo fissò le mani di Ippodamia in cui teneva salde le redini, “Io e Pelope siamo fratellastri. Io sono il figlio che suo padre ha generato con una serva e questo ha fatto di me l’uomo che sono oggi. Un uomo a metà. Se lo immagina il figlio maggiore di Tantalo, il futuro erede al trono, un bastardo?! Quale disonore! Ho passato la mia infanzia additato e umiliato, ma non c’è nulla di peggio se a tutto ciò si ha anche la sventura di avere un padre influenzabile.” Piegò il capo come sconfitto, “Per fortuna mia madre mi ha strappato alle sue grinfie prima che torturasse me come ha torturato il suo figlio nobile.” Atreo rabbrividì, ”alla sua morte ci hanno riavvicinato ma continuavano a considerarmi solo come un illegittimo, si bramava alle mie spalle per togliermi di mezzo. Pelope mi ha fatto andare via da palazzo dandomi dimora in un luogo segreto e provvedeva a me e mia madre come fossimo la sua famiglia. E così era. Tre anime che non avevano nulla se non l’un l’altro.”

“Ma tu non devi dimostrare niente a nessuno, Atreo!”

“Agli altri no Principessa, ma qualcosa a me stesso lo devo.”

Ippodamia lo guardò, il vento gli scapigliava i capelli folti, gettandoli alle spalle. “Ti insegno come si fa, prendi.”

“Ne siete sicura?!”

“E’ un ordine.” Atreo annuì afferrando le redini forte nei palmi. “Tienile tese non tirare troppo ma non lasciare troppa corda. L’animale lo sente e potrebbe approfittarsi del vantaggio.” Eseguì cercando di tener dritta la corda il giusto, “Bravo. Se vuoi diminuire di velocità tira lentamente dal basso all’alto verso il petto” Ippodamia gli appoggiò le mani sulle sue, tirando le corde nel loro direzione. Atreo arrossì al contatto della sua pelle candida, “Se tieni le corde serrate in alto e ridiscendi schioccandole a seconda dell’intensità che desideri, lui aumenterà le spinte. Prova dai!” Il ragazzo deglutì, schioccando un lieve colpo sulla natica del baio, “più forte Atreo! Fagli sentire chi comanda!”

Atreo si lasciò andare lanciandosi a schiocchi vigorosi; il percorso veniva mangiato dalle falcate lunghe dei cavalli.

Ippodamia strillò di gioia e lui si sentì il petto gonfio d’orgoglio.

Era una bella sensazione; il vento fra i capelli, i muscoli delle braccia guizzanti. Si sentiva potente. Dominatore delle sue stesse paure.

 

Ma le urla della principessa furono coperte dall’ululato di Mirtilo dal carro dietro le loro spalle; li avevano raggiunti e si erano lanciati all’inseguimento con un fulgore e una rabbia che fecero tremare perfino la ragazza. Suo padre aveva ancora la mani sporche di sangue, visibili ancora le colature lungo le sue braccia.

 

“Buona Artemide ha il fuoco negli occhi!”

 

I due accorciarono la distanza quasi subito, Atreo cinereo per la paura irrigidì le braccia, “piega le briglie leggermente verso sinistra, lasciagli lo spazio per prendere il largo!” Il ragazzo ubbidì e il loro carro si spostò di pochi centimetri verso sinistra, “mantieni tese le briglie e non distrarti. Ora devo cantare Atreo ma tu non staccare gli occhi dalla strada. Pensa a tua madre. Pensa alle umiliazioni che hai dovuto subire!”

Ippodamia prese a cantare e per quanto ubbidiente fosse stato il ragazzo fino ad ora non potette fare a meno di guardarla estasiato; aveva la voce di un usignolo, le vene pompavano fiato dal collo bianco gonfiando il petto generoso.

Si sforzò di tenere dritta la strada, pensando ai suoi dolori e caricandosi di un coraggio che non aveva avuto mai fino ad allora.

 

Enomao sostenuto da Mirtilo urlava epiteti in direzione del ragazzo che confuso e agitato girava la testa da una parte all’altra; si udì un rumore assordante nel mezzo del canto della Principessa -che aprì gli occhi pietrificata- e le urla sconnesse degli uomini nella biga accanto.

Si erano portati volutamente addosso al carro del giovane urtandolo; la biga aveva sobbalzato piegando tutta la sua mole su un lato per attimi che sembrarono eterni, poi sorretta da mano divina ritrovò assestamento retto. Mirtilo non contento ripiegò nuovamente urtando sul fianco, mantenendo la velocità di pari passo alla biga avversaria che per il contraccolpo ricevuto sobbalzò nuovamente.

“Cosa state facendo?!” Ippodamia urlò in direzione del padre, “avete libero il passaggio, cosa aspettate?!”

Gli occhi di Enomao si fecero simili a fessure dopo il richiamo di Ippodamia. Umiliato dalla figlia spostò di forza Mirtilo al comando -che dovette appiattirsi al bordo del carro- e afferrò tutte e quattro le briglie gettandosi nuovamente alla volta della biga avversaria; il colpo fu fatale alla ruota destra del carro che ripiegò su stessa bloccandosi di colpo e dopo diversi cigolamenti si staccò dall’asse scivolando via.

Mia afferrò il coltello che suo padre le aveva dato dopo gli ultimi accadimenti, avventandosi sulle briglie per cercare di liberare i cavalli e salvarli da morte certa, ma il carro si schiantò al suolo prima che riuscisse a sbrigliare tutti gli animali, che caddero a terra sbalzando fuori lei e Atreo.

Il ragazzo finì sotto il carro ribaltato, fra gli animali e ciò che restava degli assi di trasporto.

Ippodamia allargò le braccia e riuscì ad avvitarsi su stessa, ma la forza con la quale venne sbattuta in aria non le permise di rimanere in piedi; rovinò sul terreno, ma caparbia si rialzò quasi subito.

“E’ viva sua maestà.” Mirtilo riprese il comando delle briglie, spingendo i cavalli verso l’arrivo.

 

****

Atreo non era morto, ma la sua gamba era ridotta male; lo portarono di corsa alle infermerie fra gli altri derelitti che attendevano la vita e la morte come si aspetta il sole o la pioggia.

Ippodamia fu fatta portare nelle sue stanze e medicata; era furiosa e poco centravano gli stupidi graffi che si era fatta alle gambe.

 

“Potevo morire, te ne rendi conto?!”

“Morire?!”Enomao si alzò stizzito dallo scanno ai piedi del letto della figlia, che sciocchezza vai farneticando?!”

“Noi tutti moriremo un giorno papà.”Ippodamia posò lo sguardo su suoi occhi collerici, “Solo chi sprezza la vita non lo ricorda.” Mise i piedi fuori dalle lenzuola e scivolò piano dal letto; gli passò accanto senza degnarlo di uno sguardo giungendo tremolante alla porta d’uscita.

“Dove credi d’andare?!” La voce di Enomao tuonò nella stanza.

Mia si voltò lentamente, il viso bagnato di lacrime. “Vedi padre un uomo saggio una volta mi disse di avere rispetto e timore del proprio nemico, che della morte non ci si può fidare e che il nemico invece a volte può essere amico; esso può consegnarti ad Ade o fare di te un uomo libero, la morte invece ti tocca e se lo fa non concede seconde occasioni.” Sospirò, “avevo rispetto di quell’uomo. Beh, di quell’uomo che corre forte con i suoi cavalli, oggi non ho visto nemmeno l'ombra della sua saggezza.” Afferrò la maniglia e si portò fuori dalla stanza.

Enomao si sentì le forze venire meno; si aggrappò con forza al letto ma quando i singulti arrivarono a squarciargli il petto si lasciò cadere in terra, in preda alla più totale disperazione; era stato capace di insegnarle per una vita come comportarsi da donna valorosa e in un solo istante aveva distrutto tutto. Sua figlia le aveva dato una lezione che non avrebbe dimenticato fino all’ultimo dei suoi giorni e il cuore voleva urlare di gioia per quella creatura così eletta eppure morire per il fuoco di rabbia.

Ma rimase lì, semplicemente, il Re di Pisa e dell’ Elide intero, su un pavimento a piangere lacrime calde. Lacrime amare.

 

Le serve lo trovarono dopo un ora in preda a deliri tipici di chi aveva la mente scossa.

Agrippina dette ordine di farlo mettere a letto e che in via speciale e solo per quella occasione, si sarebbe preso cura di lui.

 

****

Ippodamia camminò senza pensieri fino alla foresteria reale; durante le corse era stata adibita ad infermeria, trasformando i tavoli in lettighe per i feriti. Un idea di Enomao, far ristabilire i valorosi scampati alla morte e rimandarli ai loro villaggi solo guariti.

Un Enomao che secondo Mia non esisteva più.

Al suo arrivo, i lamenti di trasformarono in brusii poi in silenzio assoluto; ella passeggiava di tavolo in tavolo donando una parola di conforto, una carezza o anche solo un saluto a quei poveri uomini e spesso ciò che ne restava di loro.

Uno sterminio. I pretendenti erano stati ridotti e di molto, ne mancava solo qualche manciata a dover gareggiare ancora.

Fra questi il suo amato Pelope. Rabbrividì mentre la sua mano ne sfiorava una fredda.

Alzò lo sguardo.

“Principessa.” Con un filo di voce Atreo la salutò, Ippodamia riconosciuta la voce oltre le bende che gli coprivano il viso esultò; lo aveva trovato.

“Atreo caro, ho temuto per la tua vita.” Gli sfiorò il braccio sorridendo; il ragazzo le rispose di rimando mostrando un sorriso al quale mancava qualche dente, “sono dispiaciuta e addolorata per quanto accaduto, spero ti rimetterai presto.”

“Non deve preoccuparsi per me, i dottori dicono che me la caverò ed io non oso contraddirli. Le loro medicine stordiscono sensi.”

“Mi offenderò io però se vi ostinate a non volermi chiamare per nome. E sono peggio dei dottori!”

“Mi sembra di averlo capito, guardatevi non avete nemmeno un graffio.” Poi tossicchiò credendo di esser stato scortese visto che la ragazza abbassò lo sguardo tristemente, ovviamente merito della vostra prontezza e del vostro coraggio.”

 

“E dovresti vederla nuotare” Un uomo incappucciato si avvicinò al lato del tavolo difronte la ragazza, “non ce n’è per nessuno.” Si sfilò il cappuccio ed Ippodamia sussultò nell’incontrare gli occhi liquidi che tanto amava.

Atreo bofonchiò, Princip.. ehm, Mia! Non mi avevi detto di conoscerlo!”

“Perdonami Atreo, era così bello sentirti parlare di lui.” Rise gaia proseguendo seria, “spero tu non sia arrabbiato.”

“Non si può essere arrabbiati con te.”

 

Pelope li fissava e la loro complicità gli scaturì in petto una sensazione che non aveva mai provato fino ad allora; sembrava andasse a fuoco, desiderava ardentemente che suo fratello sparisse, forse aveva desiderato addirittura che fosse morto. Si vergognò molto, cercò di riacquistare lucidità intromettendosi nei loro discorsi.

 

“Beh vedo che te la passi bene fratello, se già cerchi di rubarmi la moglie!”

“Pelope che dici!” Ippodamia lo ammonì, “tuo fratello è gentile con me quando dovrebbe odiarmi per quello che gli ho fatto!”

Ippodamia io non potrei mai odiarti sei stata buon con me dal primo momento che mi hai visto e..” Guardò Pelope negli occhi accennando a una risatina sarcastica, “adesso che ho più chiara la situazione ne comprendo bene anche il motivo.”

Pelope arrossì e Mia rise a sua volta abbracciandolo, “Atreo sei un caro ragazzo!” Si rialzò fissando Pelope intensamente negli occhi, “sei così stupido che tuo fratello ha capito quanto io ti ami prima di te.” Sfiorò la mano del ragazzo ferito e si congedò voltando loro le spalle.

“Beh che aspetti!” Atreo colpì il fratello alla gamba, “inseguila, no?! Ha detto che ti ama Pelope.”

 

Pelope fissò il vuoto cercando di riempire quel cuore straripante che sembrava voler saltare fuori dal petto; aveva detto che lo amava.

E quando ci pensò scattò via come un razzo.

 

****

“Dovete rientrare nei vostri appartamenti” Enomao si era svegliato dopo un sonno ristoratore e una buona tisana agli estratti di fiori che gli aveva preparato Agrippina, “ho già chi mi segue e la principessa potrebbe rientrare e chiedere di voi.”

“Certo Sua Altezza, come desiderate.”

“Fatemi il favore di non raccontarle nulla su quanto accaduto.”

“Non una parola Sire.”

“E’ tutto, andate.” Agrippina fece reverenza prendendo direzione per la porta ma Enomao la fermò, “Aspettate ho una cosa da chiedervi.”

Agrippina tremò, voltandosi piano. “Dite pure mio Re.”

“Non pensate anche voi che mia figlia sia..” gesticolò, “diversa?!”

“Ho avuto modo di seguirla molto attentamente Sua Maestà e mi trovate assolutamente d’accordo con voi.” Prese il respiro, “tuttavia credo che Ippodamia ormai sia una donna e che voglia essere trattata come tale.” Prese coraggio e continuò, “il suo animo è tramutato, come pure le sue esigenze. E’ diventata molto sensibile a ciò che la circonda e anche se il suo carattere si è indurito è propenso all’altruismo e alla generosità. Sa essere un capo fermo ma non despota, tipico di chi vuole scelte non comandi, saprebbe brillantemente governare un regno Sire, se solo voi non vi ostinaste a trattarla come una bambina sciocca e viziata.”

“E’ così che si sente? Ve lo ha detto lei?!”

“Lei non dice certe cose, vi ama e vi rispetta, ma il suo cuore è tumultuoso e parla al posto suo.”

“Come posso farmi perdonare?!”

Agrippina si morse il labbro, “Chiedetele di scegliere qualche volta.”

“Scegliere cosa?!”

“Del suo futuro.”

 

****

In altre stanze invece c’erano altre scelte da fare, meno dolorose e assai più piacevoli.

Una coppia di giovani innamorati stava facendo del letto un alcova di passione ardente; si erano appena dichiarati reciproco amore eterno e con i loro corpi nudi sigillavano un patto che li vedeva uniti finche vita battesse in loro.

 

“Non è opportuno che io mi rivesta?!” Pelope si issò sul busto appoggiando il capo alla lettiera soffice del letto di Mia, “la tua serva potrebbe rientrare e farmi a pezzi stavolta.”

“Ho dato ordine di non farmi disturbare.” Allungò una mano sotto le lenzuola e lo sfiorò fra le gambe, “voglio dormire con te stanotte.”

“Sarà difficile dormire” Le bloccò la mano portandosela alle labbra, “e un terribile errore quando ti ho nuda qui accanto a me” Le fu nuovamente sopra, con un braccio le cingeva il capo avvolgendola stretta alle sue labbra, muovendosi sinuosamente dentro lei, “voglio passare mille di queste notti così Ippodamia, tutto ciò che desidero è sposarti.”

“Devi avere pazienza.” La ragazza bisbigliava parole affettate dalla sua stessa voglia e annebbiate dai movimenti del corpo dell’uomo che le stava sopra le provocava, “Non ho più la pazienza Ippodamia.” Pelope aumentò le spinte in preda alla disperazione, Mia gli soffiò in un orecchio aggrappandosi alle sue spalle, “devi averne. Aspetto un bambino.”

Pelope la guardò e restò come folgorato; una lacrima gli bagnò il viso.

 

Fine capitolo nono.

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Capitolo 11
*** Verità ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“Verità.” Capitolo N10

 

Dove sono finite le mie care lettrici?!

Spero che abbiate mille impegni e che non vi abbia deluso nel mio racconto strada facendo!

Mi auguro di no, ma tutto può essere.

Comunque senza troppi giri, siamo giunti quasi alla fine e un po’ –recensioni mancate a parte- mi dispiace.

Piccola nota: Enomao nella mia testa resta sempre un uomo nobile per cui perdonate se alla fine giustifico le sue azioni un po’ banalmente.

Vi saluto,

Lunadreamy.

 

Erano passati ormai due mesi dall’inizio delle corse, i giorni erano passati velocemente a Pisa e i pretendenti erano stati fatti fuori uno ad uno; l’ultimo carro era partito nella mattinata riconducendo i superstiti ormai in via di guarigione, ai propri villaggi.

Cinquanta uomini erano stati battuti. Cinquanta uomini alla quale Enomao aveva fatto saggiare il sapore della terra di Elide e che niente avevano potuto contro quella furia umana mossa da ardore divino.

Dal canto suo l’animo del Re era in fermento; ancora una volta si era riconfermato il vincitore assoluto e anche se all’appello mancavano solo due pretendenti la sua superbia deliziava già la gloria.

Ma se dal suo viso si leggeva benissimo il sapore della vittoria, nel suo cuore un incendio stava squarciando l’amore che provava per sua figlia Ippodamia, figlia che da quando aveva fatto saltare il carro di Atreo di Frigia non le aveva più rivolto parola.

 

“Tieniti in salute e forze mio Re” Apyos alzò il calice di vino al tavolo dove lui e il Re stava consumando un pasto loculliano, “i prossimi pretendenti sono assai agguerriti, fra questi ti ricorderai certo di Pelope di Frigia.”

“Come posso scordare quel diavolo.” Enomao rise alzando il suo di rimando, “mi chiedevo proprio dove fosse.”

“Ha vissuto a ridosso dell’Alfeo, poi le mie spie ne hanno perso le tracce.” Si avventò su un cosciotto di quaglia addentandolo, “si è presentato qui spontaneamente due giorni fa per dichiararsi vivo e in attesa.”

“Hanno così voglia di farsi trucidare i figli della Frigia?!”

“Mio Re ho già tentato di dirti che sono persone senza più nulla da temere.” Apyos posò la selvaggina nel piatto pulendosi le mani e gli angoli della bocca per osservare attentamente gli occhi del Re, “il loro regno è stato spodestato dalla mano degli Dei, sulla loro stirpe si è abbattuta una terribile maledizione che ha sancito la fine degli eredi se il principe Pelope ereditario della corona non portasse a termine un arduo compito.”

“Quale compito, Apyos?!”

“Sposare tua figlia Enomao. Sposare tua figlia per perpetrare la razza.”

Enomao sputò in terra. “Non vedo l’ora di sentire le sue ossa spezzarsi sotto il mio carro.”

Apyos annuì, ritornando al suo piatto con estrema velocità; poco dopo si udì il segnale alle porte ed Enomao rispose puntando a terra lo scettro.

 

“Mio Re perdonami l’intrusione.”

“Accomodati Mirtilo e serviti pure senza troppi complimenti.” Gli versò del vino, “che notizi porti?!”

“Temo di averli visti sua Maestà.” Mirtilo si portò il calice alle labbra sorseggiando il vino tutto di un fiato. Enomao gli riempì nuovamente la coppa guardandolo accigliato, “Chi hai visto auriga?!” Mirtilo fissò il bicchiere e il liquido rossastro che aveva tremolato per la forza con cui il Re aveva posato la caraffa sul tavolo, “Sua figlia Ippodamia e quel principe di Frigia, Pelope.”

Enomao sbarrò gli occhi guardando perplesso Apyos; questi scosse il capo, alzandosi velocemente. “Uccidilo Enomao. Uccidilo.”

 

****

“La gravidanza procede bene sua maestà, ma a questo punto temo dovreste dirlo a vostro padre.”

“Il Re deve essere tenuto all’oscuro, mi sembrava di esser stata chiara. In quanto a voi..” Mia si portò le mani al ventre, proteggendo il suo segreto con amore, “..fareste meglio a ricordare il segreto professionale che vi vincola al silenzio.”

“Ma state rischiando grosso con i vostri salti e acrobazie.” Il dottore cercò di giustificare la sua avvertenza “il feto è ancora piccolo e non impiantato saldamente alla madre.”

“Se mio padre dovesse scoprirlo dottore, lo strapperà via da sé a mani nude.” Ippodamia si rivestì in tutta fretta, “fatevi dare dalla serva il vostro compenso e ricordate, la vostra vita dipende da quella di mio figlio. Se gli succedesse qualcosa voi morireste con lui.”

Il medico asserì, ricomponendo la sua cassetta con tutti gli attrezzi da lavoro; si era cacciato in un bel guaio, da un lato il Re accortosi della sua presenza a castello e nelle sale reali ormai frequentemente aveva preteso spiegazioni e da un lato la principessa che voleva nascondere la sua gravidanza sulla quale aveva deposto in lui ogni responsabilità di buona riuscita.

Era fra due fuochi e vedeva già rotolare la sua testa sui pavimenti reali se qualcosa fosse andato storto.

 

Quando il medico se ne andò Pelope uscì dal nascondiglio; corse dalla sua amata liberandosi della tunica, conducendola a letto.

 

“Se sarà maschio lo chiameremo Atreo, come mio fratello.” Accarezzò amorevolmente il ventre ancora troppo piatto della giovane, “ti stai nutrendo a sufficienza Mia?!”

“Pelope hai sentito il dottore? Va tutto bene.” Gli si strinse al petto, chiudendo gli occhi, “sono solo molto stanca.”

“Ne manca solo uno Mia, solo uno e finalmente potremmo vivere insieme come una vera famiglia.”

“Non aspetto che quel momento.”

 

Mia pianse. Era abituata agli sbalzi d’umore, così come le aveva insegnato Agrippina l’essere dentro di lei comandava i suoi stati, ma quelle erano lacrime di gioia sì ma anche di tristezza; per tutta la vita aveva ubbidito ad un solo uomo, un uomo che l’aveva circondata d’amore e l’aveva fatta sentire speciale, abbandonarlo le sembrava così crudele da non capacitarsi del perché una sorte tanto bizzarra fosse toccata proprio a loro.

Se Enomao non fosse stato tanto accecato dalla sua gelosia e dalla sua possessività avrebbe potuto donare anche a lui un pezzo della grande gioia che aveva dentro; sarebbe diventato nonno e per il suo stupido progetto di vita non avrebbe potuto festeggiare insieme a lei.

 

Ippodamia aprì gli occhi alzando il capo. “Svelto rivestiti” Pelope si alzò di fretta ubbidendo fedele, avendo testato più volte il suo sensibile udito sviluppato senza ombra di dubbio nell’anno in cui visse nella foresta , “Lo sento, sta arrivando.”

Il ragazzo si infilò la tunica, avventurandosi lungo il costone della finestra di Ippodamia; era ormai un passaggio collaudato, non troppo alto e impervio, da permettergli di arrampicarsi o ridiscendere con facilità.

Le mandò due baci, prima di sparire oltre il buio.

 

La porta si spalancò violentemente. Enomao entrò trafelato, girando il capo a destra e sinistra.

 

“Beh?!” Mia nuda sotto le coperte lo guardava divertita, “avevo dato ordine di non essere disturbata.” Alzò il busto tirando la stoffa sul petto, “e non solo vengo disturbata, sono nuda difronte il tuo plotone e i tuoi servi.”

“Lui dov’è?!”

“Lui chi?!”

“Quel diavolo che ti vuole in sposa.”

“Padre mio, noto con dispiacere che tu e tuoi uomini vi siete accompagnati con il vino eccessivamente anche questa sera.”

Ippodamia fece cenno agli uomini di allontanarsi e lasciarli soli. “Cosa vi è saltato in mente venendo qui?!”

“Mi hanno riferito di averlo visto.”

“I vostri lecchini hanno visioni sempre difficili da riscontrare.” Si alzò vestendosi con la vestaglia di lino che Agrippina le aveva lasciato ai bordi del letto. “Vi circondate di gente che vi fa credere di fare i vostri interessi ma in realtà ambisce solo ai suoi personali.”

“Anche il sangue del proprio sangue può tramare alla tue spalle Ippodamia.”

“Se siete così sicuro di ciò che vi dicono padre, perché non osate chiedere?!”

Enomao la guardò terrorizzato, le sue parole erano al suo cospetto più di una rivelazione; era così dunque, mentre lui si prodigava a tenerla lontano dall’uomo che gli avrebbe tolto l’ultimo alito di vita, ella si era prodigata invece a compiacerlo, riscaldarlo, amarlo.

Era preda di scossoni violenti e sentiva montare la rabbia come un fuoco nelle vene; si allentò la tunica cominciando a respirare affannato.

La collera lo spinse verso quel fuscello che lo guardava terribilmente in apprensione ma con occhi vibranti, dal sapore della liberazione, come un compiacimento per aver finalmente ammesso il peso che portava dentro; la schiaffeggiò con quanta più forza avesse in corpo, tanto che Mia scivolò sulle tende riuscendo ad aggrapparvisi malamente. Urlò spaventata, ripiegata in terra la sua sola paura era che suo padre la prendesse a calci urtandole il ventre; fortunatamente ad Enomao non sfiorò nemmeno il pensiero, ma le si avventò addosso piegandosi egli stesso, stringendole forte il viso con la mano. “Dì le tue preghiere perché quando lo avrò fra le mani di lui non resterà che carne da macello.”

“Se sei un uomo sfidalo come hai fatto con tutti gli altri.”

“Farò di più.” La tirò verso l’alto costringendola ad alzarsi. “Domani ti preparerai alla corsa e quando il suo ultimo respiro esalerà su questa terra tu te ne andrai via.” La tenne sempre per la guancia affondando gli occhi irrorati di sangue nei suoi, “ti farò ancella di Artemide. Tornerai fra i boschi, alla tua vera natura. Non sei degna di restare al mio cospetto.”

Ippodamia lo guardò con sfida, “non sono degna nemmeno di servire la Grande Dea padre.”

 

Non restava altro da aggiungere, non ve n’era bisogno per quella verità. Gli occhi di Enomao si spensero per sempre.

 

****

Distrusse ogni cosa si trovò a tiro nella sua corsa per i corridoi alla sua stanza.

Picchiò le serve che si erano fatte trovare nude per consolarlo dalle fatiche e ordinò di non essere disturbato per nessuna ragione al mondo; d'altronde cosa poteva desiderare il mondo da lui quando nel suo futuro non vedeva più nulla?!

Ippodamia era il suo unico punto di riferimento, il suo centro e il suo mondo; la morte per lui era diventata solo un pretesto per averla ancora più vicina a sé, non farla scappare, perché la realtà dei fatti rivelava che lui era un uomo solo e senza amore.

Il suo animo diceva, combattilo! Il suo cuore urlava, uccidilo!

Ancora una volta e l’ultima visto i fatti narrati in tale leggenda, Enomao detta retta al suo animo di nobile combattente.

Perché poteva esser piegato dal cuore e dai sentimenti, ma restava pur sempre un uomo dotato di lealtà e coraggio.

 

****

“Ho paura Agrippina. Non sento felicità nel mio cuore.”

La serva le carezzava il capo proprio come faceva da quando era bambina, “Vuoi aver timore proprio ora che sei stata così coraggiosa?!”

“Non so, non mi sento bene.”

“Ti lascio al riposo.” Le baciò la testa prima di andare, “il destino si sta compiendo Ippodamia. Nel grembo porti già il futuro della tua terra e di quelle avvenire. Devi essere pronta a tutto.”

Mia chiuse gli occhi e sembrò quasi dormisse; la testa vorticava pensieri di paura e di felicità, come se la felicità fosse spaventosamente bella e crudele allo stesso tempo. Non sognò. Era quasi come se si trovasse in uno spazio bianco senza pensieri. Era una bella sensazione.

Poi riaprì gli occhi.

 

Devi essere pronta a tutto. Sapeva cosa fare.

 

Fine decimo capitolo

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Capitolo 12
*** Tradimento ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“Tradimento.” Capitolo N11

 

L’eco delle urla di Enomao svegliarono Pisa addormentata.

Il Re di buona ora quel giorno convocò a rapporto il penultimo pretendente, il quale fu malamente portato fuori dalla foresteria dalle guardie reali e indotto alla corsa senza il preavviso di rigore.

Enomao aveva fretta.

Quel giorno si sarebbe compiuto il suo destino e aveva tutta voglia di mangiarselo in sol boccone.

 

Le serve lo accudirono nella preparazione dello spirito e del corpo lavando la sua pelle con i Sali del misterioso mare chiuso a sud delle coste del mondo, utili per il vigore dell’epidermide e la rilassatezza delle carni.

I suoi capelli furono acconciati alla maniera dei guerrieri; resi lucidi dal grasso ottenuto con la spremitura di olive e intrecciati a ciocche fra loro, fermati alla base da lucchetti d’oro zecchino.

Lo Xystis era di un rosso porpora brillante e la clamide, il mantello usato dal plotone militare, era bloccato alla gola da un medaglione d’oro rifulgente.

Il pretendente quando lo vide eretto sulla biga trainata da due bai imponenti rabbrividì.

Nei suoi occhi fiammeggiava già la scintilla dell’imbattibilità.

 

I suoi cavalli volarono oltre il tempo, al poveretto mezzora di vantaggio sembrò poco più come cinque minuti, mentre si faceva il segno della croce e lanciava le bestie al galoppo lungo il tragitto per l’istmo di Corinto; Enomao lo sorpassò con un battito d’ali dei suoi purosangue, investendo di polvere la biga sulla quale viaggiava assieme alla principessa Ippodamia.

Ella cantò. Un cantò rotto dai lamenti del poveretto ferito dalle pietre che il terreno innalzava nel suo caos.

Non si udì più nulla poi.

Solo l’urlo di vittoria di Enomao e la sua clamide svolazzante al cielo ricadere in terra con un tonfo una volta raggiunti gli altari; il pretendente riuscì a frenare in tempo prima del dirupo e Mia a volteggiare nell’aria come di consueto per mettersi al riparo.

 

“Una passeggiata.” Enomao schioccò le briglie sulle natiche dei cavalli, “vedremo adesso come se la caverà il tuo principe.” Allungò un braccio verso Ippodamia di modo che l’aiutasse ad issarsi sulla biga e prendere posto fra di loro, ma quella schivò la sua mano saltandoci su da sola.

“Siete stato molto valoroso.” Sussurrò agli orecchi di Mirtilo una volta che il padre fu ben concentrato sul rientro a palazzo, “il vostro modo di condurre i cavalli mi fa girare la testa.” Rise in modo plateale stringendosi al braccio dell’auriga che guardava in avanti facendo finta di non ascoltarla, “devo passare a trovarvi più spesso alle stalle. Chissà che non possiate insegnarmi a montare.” Calcò l’ultima parola in modo lascivo, spingendosi sempre di più verso il suo corpo, “Sua Maestà voi sapete..” Mirtilo trattenne il respiro e soffiò fra i denti, “..cavalcare un cavallo perfettamente.” Ippodamia sorrise schiarendosi la voce, “è passato tanto tempo, temo tu non possa ricordare.”

E si staccò da lui fingendosi dispiaciuta; quello la guardò con occhi bramosi, troppo, per dichiarare il suo sentimento semplice affetto.

 

Era innamorato di lei da sempre.

 

La verità era quella e il suo cuore era un suicidio di emozioni ogni volta che un pretendente la chiamava in sposa; avrebbe fatto a pezzi chiunque avesse potuto averla al posto suo, lui che altro non era che un semplice auriga, uno stalliere di corte che la sorte benedì con l’amicizia del Re e un sangue misto proveniente dal dio Ermes, ma pur sempre uno scudiero.

Tutto gli remava contro, perfino l’amicizia con l’uomo che l’aveva generata gli era ostile; doveva mantenere il rigore, essere sempre al di sopra di ogni sospetto, perché lo avrebbe fatto a pezzi se avesse scoperto che in realtà ogni cellula del suo corpo era persa per quella sua bella figlia.

La sua sorte era segnata. Il suo compito era quello di restare nell’ombra e ubbidire, comandare i cavalli, seguirli e null’altro.

Non avrebbe potuto avere Ippodamia ne in questa vita ne in un'altra.

 

****

Il clamore raggiunse presto le strade del villaggio.

La voce che girava parlava dell’ultimo pretendente come l’unico essere vivente in grado di battere il Re; un uomo il cui mistero aleggiava nella sua storia fatta di intrighi e crudeltà, un uomo nato da una mortale e rigenerato dagli Dei, amante di Poseidone di lui follemente innamorato tanto da regalargli i possenti bai che avrebbe usato per la corsa e protettore dei suoi respiri.

Le donne si accalcarono presto lungo le mura del castello, tutte volevano guardare il bel Principe di Frigia, con la speranza in fondo al cuore che egli rimandasse loro i propri sguardi e perché no si innamorasse a prima vista scegliendole al posto della principessa maledetta dalla sua stessa bellezza.

Ciò che non si sapeva di lui era tutto il resto.

Pelope era predestinato. E come tutti i predestinati il suo unico dovere era compiere il proprio destino.

 

****

Mia si ricondusse nelle sue stanze in preda all’eccitazione; si svestì dello Xystis e si fece preparare da Agrippina un bel bagno caldo.

Avrebbe mangiato e indossato la tunica più succinta che avesse, poi ben determinata a centrare il suo obbiettivo si sarebbe recata da lui.

Colui che conduceva il giochi. Il solo che avrebbe potuto cambiare le sorti del suo destino.

 

Mirtilo.

 

Quando arrivò alle stalle egli era di spalle intento a massaggiare i cavalli del Re per prepararli all’ultima, imminente corsa; non v’era molto tempo, gli animali andavano fatti mangiare, riposare gli arti con massaggi mirati e rinfrescati proprio come esseri umani.

Il calpestio della paglia secca lo fece voltare e quando incontrò la sua figura stagliata nella penombra del casolare inspirò.

Sapeva che lo avrebbe raggiunto. E sapeva già cosa voleva da lui; il suo istinto primordiale gli chiedeva di portarsi via da lì, scappare il più lontano possibile, che ogni frase, parola inspirata da quelle soffici labbra rosa sarebbe stata bestemmia per i suoi orecchi.

Ma rimase lì, fermo. E lei avanzò, cadenzando i passi per farsi rimirare; era vestita di una sola tunica tanto trasparente che al di sotto della stoffa poteva immaginare ogni forma e dargli un contorno. Si leccò le labbra e Mia sorrise fiduciosa.

 

“Ho sempre amato questi animali.” Esordì, carezzando il fianco del baio umido d’acqua, ”animali tanto intelligenti e fedeli, da ricambiare ciò che gli dai con tutte le loro forze.” Lo guardò fissa inumidendosi le labbra, “proprio come certi uomini, vero Mirtilo?!”

“Come certi uomini sua maestà.” Mirtilo chinò il capo sentendosi colpito. “Sono nati per ubbidire.”

“Ma pensa cosa succedesse se gli fosse data l’opportunità di essere liberi.”

“Impazzirebbero Sua Maestà. Certe bestie come gli uomini, non sanno fare nulla senza essere comandati.”

“Questo è quello che ti fanno credere buon MirtiloMia gli si avvicinò sfiorandogli un braccio lentamente, poi lo aggirò per il fianco portandosi alle sue spalle; il suo alito caldo trapassava oltre il chitone dell’auriga, che in estasi chiuse gli occhi, “non sei stanco, caro, buon, vecchio Mirtilo?!” Lo cinse con le braccia per la vita, facendo risalire le mani al petto.

“Non sono così vecchio.” Sussurrò con voce rotta dell’emozione di avere quelle piccole mani addosso.

“Difatti la vostra età mente al vostro corpo.” Girò nuovamente il fianco per guardarlo negli occhi verde smeraldo ardenti di desiderio; allacciò le braccia alle spalle facendole ridiscendere lungo la schiena, accentuando le carezze la dove i muscoli erano un groviglio di perdizione ed estasi. “un corpo turgido, possente, perfetto per una prima notte di nozze.” Lasciò che le parole riempissero il silenzio, scandendole soavemente.

Mirtilo soffocato dai singulti per quelle carezze proibite, spalancò gli occhi. “Cosa desiderate da me Sua Altezza?!”

“Un piccolo aiuto.” Sentenziò, staccandosi da lui. “Ed ho già pensato alla vostra ricompensa.”

“Quale ricompensa Sua Maestà?!”

Ippodamia sorrise vittoriosa; non poteva rifiutare, ormai era certa che la desiderasse sopra ogni cosa e poco le importava quali fossero le conseguenze delle sue gesta, doveva convincerlo a schierarsi con lei.

Quando Pelope di Frigia gareggerà, tu lo farai vincere.”

“Come? Come Principessa? Suo padre dispone di cavalli invincibili.”

“Non mi importa come, lo farai e basta.” Gli afferrò un mano e se la portò al petto premendola forte contro i seni, “Se Pelope riuscirà nella sua impresa, ti ha promesso la prima notte di nozze con me.” Mirtilo strabuzzò gli occhi incredulo, “Hai capito bene auriga. E non è tutto. La mia prima notte da sposa e metà del mio regno se accetti.” Quello si inginocchiò, combattuto tra il desiderio di averla e la paura del tradimento verso l’amico leale, il suo Re.

Mia lo tirò a sé per il capo contro le gambe e affondò il coltello nella piaga, serafica, “ti accoglierò fra le mie cosce auriga, con tanto ardimento che non lo scorderai finche vivrai. Mi basta solo un cenno del capo.” Mirtilo inebriato dal profumo della pelle candida e vinto dal desiderio lussurioso le si aggrappò addosso, scuotendo il capo in cenno d’assenso.

 

Mia lo tirò indietro, staccando le sozze mani dalla veste bianca. “Non una parola con nessuno o la vostra prossima notte la passerete sotto terra.” Si voltò guardandolo maliziosa prima di sparire ancheggiando oltre la luce che si intravedeva alla fine delle stalle.

 

Passò il tempo a tormentarsi le membra per cercare una soluzione che potesse portarlo.. fra le sue gambe.

Non si era mai considerato un uomo venale o lussurioso, tantomeno un traditore, ma la posta in gioco era alta e in sole poche ore aveva visto la sua misera vita prendere uno slancio verso quella da reali che gli spettava per nascita; avrebbe avuto Ippodamia e una parte dell’Elide tanto grande da sentirsi un Re anche egli. Dopotutto pensò, si trattava di velocizzare un qualcosa che sarebbe accaduto comunque, se alla morte di Enomao non si sarebbero avuti eredi che prendessero il suo posto e con Ippodamia votata alla Dea e impossibilitata a sposarsi e quindi a procreare, Pisa sarebbe di certo caduta in mano ai barbari. Dunque la sua coscienza lo portò a pensare che in realtà altro non era che un salvatore della patria, si stava immolando per ella, l’avrebbe salvata accettando di far perdere Enomao e spodestarlo dal trono.

Ci avrebbero giovato certamente tutti. Forse un dì lo avrebbero anche ringraziato. Si sarebbe parlato di lui come il coraggioso eroe dell’Elide e non solo come l’auriga personale del Re di Pisa. Sì, dopotutto questa gli sembrava adesso l’unica soluzione possibile.

 

Doveva solo trovare qualcosa di ingegnoso e che non arrischiasse troppo la vita del Re.

Poi fissò il carro e le sue ruote. D’improvviso sussultò.

 

Aveva la soluzione.

 

****

Corse a perdifiato dal suo amato, nascosto nel frutteto dei giardini reali; gli saltò al collo non appena questi si accorse del suo arrivo.

Poi si staccò e gli raccontò per filo e per segno quello che era successo.

Pelope la guardava rigido, i pugni stretti nei fili d’erba e una collera montante nello stomaco.

 

“Come hai potuto farmi questo?!”

“Non essere stupido. La certezza della vittoria non può essere affidata a stupidi sogni e oracoli!” Gli prese il volto girandolo di prepotenza verso il suo. “Non ho nessuna intenzione di giacere con Mirtilo, tanto meno donargli il mio regno, ma averlo schierato dalla nostra parte accresce la tua vittoria.” Sospirò scocciata nel dover spiegare qualcosa che per lei era sottointeso, ”al momento opportuno ci libereremo di lui.”

La guardò sorpreso, un po’ più rilassato. “Cosa ne hai fatto della piccola Mia?!”

“Dovresti essere fiero di me al posto di lamentarti.” Sputò fra i denti, “sto rinnegando ciò che sono pur di stare insieme a te.”

“Io ti ridarò tutto. Palazzi, regni, oro, città con il tuo nome.”

“Io non voglio tutto questo!” Mia si alzò irritata. “Non mi interessa possedere nulla che non sia tu!”

“Aspetta Mia, non andare!” L’afferrò per l’orlo della tunica, strappandole la veste per la troppa forza; quella restò con le gambe nude e il volto incredulo e adirato; era buffa, tanto che Pelope le scoppiò a ridere in faccia.

“Sei uno sciocco prepotente Pelope di Frigia!”

“Sì, però ti amo.” L’afferrò per le gambe trascinandosela addosso. “E sono fiero di te. Sarai una grande regina e una buona madre.”

“Non dimenticarlo mai.”

“Mai. Mai più.” La baciò teneramente e fece volare via il resto della tunica.

 

****

“Mia! Pelope!”

Atreo accorse tutto affannato. “E’ giunto il momento, il Re è pronto e la fanfara ha squillato. Mancate solo voi!”

I due ragazzi si guardarono intensamente negli occhi prima di sigillare uno le labbra su quelle dell’altro.

 

Era venuto il momento.

 

Fine capitolo undicesimo.

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Capitolo 13
*** La caduta del Re ***


La leggenda di Ippodamia.

 

“La caduta del Re.” Capitolo N12

 

 

Io mi consumo come cera al calore quando guardo la giovinezza dei ragazzi dalle floride membra.

Contro il destino non c’è fuoco o muraglia che tenga.

Cit. Pindaro filosofo Grecia Antica.

 

Un boato si levò dalla folla quando Enomao arrivò sfilando sul carro insieme a Mirtilo.

I muscoli del volto tesi e le braccia protese in avanti cozzavano con il corpo solido e fermo, lucente di Crocinum l’olio di rosa, cannella e mirra.

Le donne lo guardavano fiere, qualche prostituta mandava baci e i bambini sventolavano in aria le spade di legno contenti e sognanti di veder capitare loro un giorno la stessa sorte.

Era il Re e non mancò un sorriso, un saluto, perchè sapeva quanto fosse importante quel momento e sapeva quanto il suo aspetto contasse sull’influenza del popolo; non riusciva a sopportare che si dicesse di lui che era di malumore o adirato, ciò che contava veramente era raccontare di lui di uomo fiero, eretto.

Un Re. Il Re.

 

Il clamore si affievolì, quando alle loro spalle e di poche spanne dietro, fece capolino il carro trainato da Pelope.

I suoi cavalli erano qualcosa di imponente mai visto prima, Ippodamia stessa sussultò alla loro vista.

L’auriga che li accompagnava era un tale Sfero dalla storia ombreggiata di ambiguità, sostituto del grande Cilla –fondatore di una città della Grecia a cui diede il suo nome- auriga personale del giovane quando era a Frigia, ma che morì annegato durante la traversata del principe in viaggio per Pisa.

Insieme rasentavano la perfezione di ciò che dovevano essere un principe e il suo cocchiere.

Pelope era nobile senza ombra di dubbio.

Sereno in volto, con i capelli ricci intrecciati alla nuca da vero guerriero; il chitone morbido era di un blu cobalto, colore assai strano per il rango elevato ed insolito nelle mode; molti lo decifrarono come segno di sfida, di una nobiltà in punto di cambiamento se avesse agguantato la vittoria.

Qualcuno in lui rivide l’antico splendore dei Re del passato che avevano fatto grande Pisa.

Qualcuno invece sputò in terra per scacciare la cattiva sorte che quella figura stramba emanava.

Tutti però parlarono di lui.

E non importava l’origine delle chiacchiere, Pelope era stato capace di attirare l’attenzione ed emanare suggestione.

 

Proprio come un Re.

 

“Pelope di Frigia, figlio di Tantalo il truce, finalmente ci incontriamo.”

“Salve a te nobile Enomao di Pisa.” Inchinò il capo in segno di rispetto, “ è un onore incontrarti.”

“Alza pure il capo principe” Rise. “La tua nomina ti precede.”

“Non facciamo attendere inutilmente la sorte dunque.” Asserì Pelope, stringendo più forte le briglie.

“E neanche la morte.” Enomao schioccò le briglie e si voltò di spalle, Olimpia sua meta e direzione.

 

Mia sigillò le sue mani su quelle del giovane; egli la guardò compunto, lanciando i cavalli al via.

Gli animali al segnale cominciarono a correre sul filo del vento, con le criniere spazzate all’indietro, sferzate dai colpi di brezza dell’ovest; Sfero guidava alla sinistra, Ippodamia s’era fatta al centro piccola e minuta, Pelope schioccava colpi alla destra.

Ogni tanto i loro sguardi si perdevano sognanti l’uno nell’altra; quella per loro non era solo una corsa ai cavalli, era il lasciapassare per un futuro roseo, che li vedeva insieme come una famiglia. Finalmente.

“Mia tieniti forte!” Mia ubbidì, quando sentì dal basso uno spostamento d’aria non consono per solo quattro zampe di cavalli; si affacciò oltre la balaustra e vide due paia di ali vive nascere dal fianco dei purosangue. “Cavalli alati!” Ululò, capendo finalmente il motivo per cui il ragazzo fosse tanto certo della vittoria, “ma non sei l’unico principe di Frigia! Mio padre ha quattro ali come le tue!” Pelope irrigidì i muscoli facciali, intuendo a sua volta il motivo delle assolute vittorie del Re, “sarà allora il Buon Poseidone a darmi la spinta per vincere.”

 

****

Enomao saltò sulla biga senza nemmeno afferrare le biglie; gli animali al suo salto cominciarono a correre a perdifiato lungo la strada che da Olimpia riportava a Pisa e da Pisa al bosco.

La sua mente era affollata da immagini che gli appestavano il cervello; non aveva avuto un buon sonno, seppur la sua superbia non lo fece vacillare neanche un momento. Non si trattava di un nemico temuto, dell’uomo che avrebbe fatto a pezzi il suo destino, quello che andava rincorrendo in quel momento era solo un piccolo e misero essere da scacciare via con un colpo di redini.

Asterope gli era venuta in sogno.

La sua fresca e bella moglie, madre di Ippodamia, nelle vesti bianche da nozze gli allungava le braccia come a volerlo con se; lui non si era opposto, facendosi cullare fra le calde membra dell’unica donna che aveva amato nella vita.

 

“Sei venuta a prendermi Asterope?!”

“La morte non è che la fine di una vita e l’inizio di un'altra, Enomao.”

“La mia vita è finita quando tu te ne sei andata mia Regina.”

“Lo so.” Asterope lo guardò dolcemente negli occhi, “ma ci ricongiungeremo e da allora sarà l’eterno.”

“L’eterno spetta agli Dei.”

“L’eterno spetta a noi.”

 

Ed era sparita fra gli ansiti della perdita; ma sul cuscino al risveglio trovò una piuma bianca. La piuma delle cacciatrici di Artemide.

 

Mirtilo era nervoso.

Teneva lo sguardo fisso sullo sterrato, ma gli occhi erano appannati e lucidi; l’odore della pelle di Enomao gli dava conati di nausea.

Odore di tradimento. Odore di mille battaglie trascorse insieme, fianco a fianco.

Era l’ultima corsa che avrebbero tenuto assieme e lo sapeva bene, perché nella notte trascorsa alle stalle aveva apportato una modifica al carro, sostituendo i chiodi di ferro delle assi delle ruote con dei perni di cera, che li avrebbero rallentati determinando così la sconfitta di Enomao.

 

“Per tutti gli Dei Mirtilo, guarda là!” Enomao scosse l’auriga spingendolo con lo sguardo sui monti, “Zeus ci veglia!”

Un enorme sagoma si stagliava fra la vegetazione fitta, vestita di bianco e con la folgore in mano; Mirtilo seguì il profilo del dito del Re ma scosse il capo. Enomao io non vedo niente.” Quello contemplò l’accaduto giustificando l’auriga come un semidio non ancora capace di sviluppare il suo lato divino ed affinare i sensi che aprivano le porte al contatto con gli Dei. “Un giorno vedrai.” Lo colpì affettuosamente sulla spalla e l’auriga si sentì stretto nella morsa dell’infamia ancora di più.

 

****

Ippodamia avvertì nel vento l’olezzo dell’essenza di Enomao; Pelope che stava imparando a captarla, intuito il pericolo, lanciò i destrieri al centro del percorso, intralciando l’arrivo della biga avversaria costretta a rallentare per non schiantarsi di muso contro di loro.

La ragazza si voltò e vide una nuvola di polvere agitarsi alle loro spalle, “eccoli che partono all’attacco. Ti sfileranno sul fianco Pelope, non concedere loro terreno o ti sbalzeranno via come una foglia. Tieni il ritmo e scaglia le tue ali più forte che puoi!” Il ragazzo annuì, incitando i cavalli a dare di più,” non avere timore per ciò che vedrai, chiudi gli occhi e vola via amore mio.”

“Non avrò paura.” La baciò, prima di portare frustate vigorose sul dorso dei cavalli. “Oh divinità sublime, Grande Poseidone!” Continuò con voce greve, “non è il pericolo che spaventa il guerriero. Io sono pronto ad affrontarlo!” Alzò il pugno al cielo urlando nell’alto delle loro teste come se una presenza invisibile ascoltasse le sue suppliche, “Chi è comunque destinato a morire una volta, come può subire una vecchiaia anonima, senza rischiare nulla?!” Un sibilo di vento freddo si insinuò fra di loro; Mia sorrise della prontezza degli Dei nel palesarsi nella risposta mentre Sfero ignaro dei poteri dell’alto, rabbrividì. “Amo questa donna e voglio farla mia! Donami tu l'ambito successo!”.

D’improvviso il carro fu come travolto da una tempesta di vento inarrestabile; i tre si tennero saldi, dimenticando per un momento le briglie e lasciandosi trasportare dall’inerzia dell’aria minacciosa e potente.

La biga sbandò ma tenne dritta la traiettoria. Enomao dietro rideva come un pazzo dal momento che il carro avversario sfrecciando in avanti a tutta velocità aveva aperto un varco d’aria che aveva permesso anche a loro di sfruttare della velocità del vento amico; Mia scalò di posto portandosi all’estremità del carro di modo che fosse vicina all’auriga del Re e che potesse guardarla. Stavano guadagnando terreno e sarebbero di certo passati in vantaggio se non si fosse palesata la soluzione che Mirtilo aveva trovato per lei.

 

“Pelope di Frigia arrenditi! I tuoi bai alati non possono nulla contro i cavalli di Ares!”

Mia guardava disperata Mirtilo senza poter dire o fare nulla, quello sentiva su di se gli occhi della giovane come spilli appuntiti; si piegò di lato, oltre la balaustra per verificare le condizioni delle ruote, ma queste continuavano a girare imperterrite.

La principessa si accucciò su se stessa in preda a conati di vomito; suo padre l’avrebbe sorpassata e vinto la gara, costringendola ai più atroci abomini una volta saputo che era gravida del bastardo che aveva osato sfidarlo.

Ippodamia canta!” Enomao urlò dall’alto del suo posto, “canta, cosa aspetti!”

Mia si tirò su con veemenza; tutto attorno era caos, la polvere si alzava in cielo come vortici, Enomao e Mirtilo erano color ruggine ormai, come anche Sfero e Pelope, i cavalli erano sudati e stremati e nitrivano di strazio mentre lei desiderava solo morire in quel momento.

Il Re era passato in vantaggio portandosi all’arrembaggio degli altari ben visibili, ma Pelope non desistette e si portò al loro fianco ancora una volta, forse l’ultima dato l’enorme sforzo richiesto alle bestie sfinite; Enomao guardò Ippodamia stretta alla balaustra con le mani nelle mani di Pelope, ed ebbe una forte sensazione di mancamento.

Non avrebbe cantato.

E quando lo guardò con occhi desolati, riuscì a comprendere quello che fino a quel momento non ebbe il coraggio di dirsi mai; vincita o non vincita aveva perso sua figlia. Le lacrime gli rigarono il volto, le briglie si annodarono intorno alle mani per un ultimo disperato tentativo di salvezza.

 

Ippodamia non era più sua.

 

****

D’improvviso il cigolio di una ruota attirò l’attenzione di Mirtilo. Era il momento.

Mentre cercava di respirare normalmente e arginare i battiti sfasati del cuore, afferrò la mano del Re. Enomao ci schianteremo.” Sua Maestà corrucciò la fronte, allargando gli occhi quando il rumore del cigolio arrivò anche ai suoi orecchi. “Dammi la tua spada forza!” Pazzo di rabbia, aveva solo un obbiettivo in testa, trucidare l’avversario. Il resto non riusciva a metabolizzarsi nei suoi pensieri. Non potevano schiantarsi. Non potevano perdere. Lui era invincibile. “Non c’è più tempo Enomao! Non arriveremo mai al via! Le ruote si stanno staccando, se non salteremo fuori moriremo!”

Nel preciso momento in cui Mirtilo si oppose al volere del Re, Pelope sfilò via come un turbine; la pressione esercitata dalla fuga della biga avversaria sbandò il carro con due violenti scossoni.

Fatali.

Le due ruote si staccarono continuando la loro corsa in direzioni opposte, finche non caddero su se stesse roteando; la biga si abbassò precipitosamente trainata a struscio dai cavalli in punto di morte, il terreno alzava massi e polvere che la riempivano aumentando il peso.

Mirtilo rabbrividì; non era esattamente la fine che aveva previsto, la cera avrebbe dovuto arrestare la corsa, renderla meno fluente, tuttalpiù sbandare un po’ il carro, senza traumi eccessivi. Ma qualcosa era andato storto e la situazione si stava mettendo nel peggiore dei modi.

Come se non bastasse Enomao si era messo a urlare pazzo di rabbia, attorcigliandosi le briglie fra le mani con la seria intenzione di far collaborare i cavalli e farsi spingere fino all’ultimo; ma le bestie crollarono e il carro si impennò con il muso.

 

“Salta fuori Enomao!” Mirtilo lo scosse per la spalla. “Salta fuori o morirai!”

 

 

Si udì un rumore orribile; Mia, Pelope e Sfero si voltarono indietro.

Lo spettacolo dinnanzi ai loro occhi non lasciava spazio all’immaginazione. Il carro si era andato a schiantare addosso ai cavalli dall’alto, spezzandogli la schiena di netto e appiattendoli sul terreno; Mirtilo era balzato fuori nell’attimo prima la biga si avvitasse su stessa e ricadesse sui poveri animali impazziti, rovinando sul terreno con il fianco sinistro.

 

 

La morte ombreggiò gli occhi Enomao.

Il Re era rimasto aggrovigliato nella sua stessa pazzia; non riuscì a saltare fuori dal carro impazzito in quanto le briglie lo tenevano legato per i polsi come una marionetta.

Fu ingoiato dai cavalli nella voragine che il carro aveva aperto fra i loro corpi straziati, ribaltandogli addosso.

 

Il rumore di ossa spezzate riecheggiò per tutta la valle.

 

****

La biga di Pelope tagliò il traguardo fra le facce attonite di Pisa; passarono attimi che sembrarono anni, in quello strano tepore misto d’ ansia e stupore.

Atreò tagliò il corteo accorrendo alla vista del fratello; lo issò per un braccio e urlò alla volta della folla.

 

Enomao è caduto! Acclamiamo il nuovo Re!”

 

Fine capitolo dodicesimo.

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Capitolo 14
*** Pisa rinascerà. Finale ***


La leggenda di Ippodamia.

 

Ogni finale mi sconvolge e mi tormenta.

Tormenta perché mi chiede di essere scritto. Sconvolge perché non vorrei scriverlo.

Cit. Lunadreamy.

Ho amato questa storia, grazie a chi mi ha seguita.

 

 

Sconvolgi con le tue furie gli empi Dèi protettori della casata.

Che la rabbia dei progenitori perduri e una lunga serie d’infamie passi ai figli dei figli.

Nessuno abbia modo di aborrire il crimine compiuto, ma sempre ne sorga uno nuovo, e da uno più d’uno.

Perché la somma dei delitti deve crescere ogni volta che uno di essi trovi vendetta.

testo latino e traduzione sono di Giancarlo Giardina, in Seneca, II, Tragedie.

 

“Pisa rinascerà.” Capitolo N13

 

Il pretendente vincitore fu issato come un prezioso oggetto di cristallo.

Accorsero migliaia di persone, quando la voce della caduta del Re si sparse; c’era paura eppure gioia, negli occhi storditi della gente che acclamava il nuovo sovrano di Pisa. Quel giovane dallo sguardo ferino, aveva spazzato via in un sol colpo il passato, spalancando le porte al futuro.

 

Ippodamia scivolò via dal nugolo di folla impazzito, correndo alla volta del padre; il cuore straziato doleva ad ogni passo in più verso ciò che restava del carro e delle bestie. Non aveva fiducia di trovarlo vivo, non dopo quello che aveva visto.

Mirtilo fu il primo ad apparire alla sua vista, a poche spanne dai detriti, dolorante e lamentoso; gli si avventò contro, urlandogli addosso.

 

“Alzati auriga!” Lo scalciò fra le costole senza alcun riguardo, ridestandolo. “Mio padre giace fra le macerie!”

Quello imprecò, provando ad alzarsi; barcollando riuscì ad alzarsi e a mani nude cominciò a scavare.

“Non si capisce nulla qui sotto!” Mia piangeva e imprecava, graffiandosi le dita. “Papà dove sei?! Riesci a sentirmi?!”

 

Un flebile filo di voce si levò fra le zampe monche di Filla.

Mirtilò accorse sotto al carro; la puzza di morte lo colpì allo stomaco provocandogli singulti. La vista del baio dilaniato riempì i suoi occhi di lacrime.

Scalciò la bestia che aveva amato e nutrito come un figlio e intravide le braccia di Enomao; con quanta più forza avesse cercò di trascinare il Re verso lo spazio aperto, ma il peso del cavallo morto schiacciava il corpo al terreno senza tregua.

 

Enomao bisbigliò. Ippodamia.”

“Padre!” La giovane si buttò sul corpo inerme del genitore, baciandolo sulle guance. “Resisti padre, stanno arrivando i soccorsi.”

Ippodamia.”

“Sono io papà. Sono qui non mi vedi?!” La voce si ruppe in gola. Era ridotto male; le costole erano schiacciate sotto lo stesso peso di Filla e probabilmente avevano compromesso i polmoni in quanto l’uomo annaspava.

Padre..” Era come se parlasse al cielo, con gli occhi vitrei, spalancati; Mia alzò lo sguardo in alto, nel preciso momento in cui un ombra saettò nelle pupille del genitore. “..perdonami. E perdonami tu Mia per averti lasciato sola.”

“Sarai sempre al mio fianco. Nel mio cuore.” Sussurrò al suo orecchio; capì che era arrivato il momento, sentiva la presenza di Ares come un fuoco tutto intorno, chiudi gli occhi e riposa grande Enomao di Pisa.” Una lacrima le rigò il volto e scivolò sulla guancia di Enomao esanime, “il tuo nome sarà leggenda, le tue gesta riecheggeranno per secoli e la tua memoria non verrà mai dimenticata.” Accarezzò i riccioli dell’uomo, aggrappandosi un ultima volta alla sua essenza, “il tuo regno non avrà mai fine. Te lo prometto padre.”

 

Enomao chiuse gli occhi ed esalò il suo ultimo respiro; anche in punto di morte la sua forza si palesò, tanto che il suo corpo tremò all’ultimo alito.

 

Enomao non è più di questo mondo. Lo lascio alle tue braccia nonno.” Mia si rivolse all’ombra che le aleggiava attorno.

“Stai serena nipote. Per compiersi il destino chiede grandi sacrifici.” Ares le fu accanto circondandola con la sua aurea, “Siamo nati per affrontare grandi gesta, non possiamo sottrarci a questo.”

La ragazza annuì, toccandogli una mano. “Perseguirò il fato finche vita batterà in me. Lo giuro.”

“Preparati Ippodamia, sarà un lungo viaggio.”

 

****

Mia si lasciò andare al pianto senza freni; aveva tenuto duro mostrandosi forte per infondere coraggio all’uomo, lungo la dipartita per la vita eterna. Non aveva mai desiderato la morte di suo padre, voleva solo andare incontro al suo destino e mai avrebbe immaginato che giorno tanto bello fosse oscurato da un evento tanto triste. D’ora in avanti sarebbe rimasta solo lei a perpetrare la stirpe dei nobili di Pisa e avrebbe dato qualsiasi cosa pur di tenere alto il buon nome del suo casato; non avrebbe permesso a nessuno di spodestare il suo potere e con il nuovo Re, il suo amato Pelope, avrebbero reso grande la Lidia proprio come suo padre bramava.

Lo aveva giurato -il cielo e il fato le erano testimoni- e lo avrebbe fatto.

 

Avrebbe cominciato dall’uomo responsabile di tutto quello che le stava accadendo, colui che si era macchiato di alto tradimento; Mirtilo l’auriga.

Le leggi del più forte erano chiare; uccidi chi ti aiutato a tradire perché potrebbe tradire anche te.

E lei non aveva nessuna intenzione di farsi uccidere da un uomo bercio come Mirtilo. Senza contare che c’era la riscossione del premio per averla aiutata a rovinare suo padre. Era inorridita al solo pensiero di essere posseduta da lui.

Gli si avvicinò leggiadra, in punta di piedi, sfilando dalla coscia il pugnale che Enomao le aveva fatto dono; quello era accucciato su stesso, con la testa fra le mani, preda di lamenti e lagne degne di un poppante.

Un sasso urtò i sandali di Mia e si andò a scontrare contro le gambe di Mirtilo; quello alzò lo sguardo sulla giovane e la sorprese con il coltello a mezza aria e gli occhi assetati di sangue. In un attimo la colpì alle caviglie facendola cadere all’indietro; le si avventò addosso e puntando al pugnale le strinse i polsi, schiacciandola sotto il peso della sua mole.

 

“Lasciami andare maledetto!” Strattonò le braccia cercando di liberarsi, “Tu non meriti di vivere!”

“Ho fatto quello che mi avete comandato principessa.” Gli si strusciò addosso lezioso, “è ora di riscuotere la ricompensa.” La baciò sulle labbra pigiando forte con il muso ispido; ridiscese lungo il collo, le scapole, il petto roseo. Il suo respiro affannato era disgustoso. Mia urlò, dibattendosi con forza dinnanzi quella prepotenza, “è inutile che urlate. Quando arriveranno a prenderci voi sarete già deflorata.” Rise di gusto, sfilandole il pugnale dalle mani e gettandolo lontano; con l’altra mano libera si aiutò a tirarle su lo Xystis e scoprirle le gambe. Era nuda.

Si leccò le labbra alzandosi la veste. Mia chiuse gli occhi terrorizzata.

 

Li riaprì all’istante, sentendo il corpo di Mirtilo afflosciarsi addosso; oltre le sua figura un collerico Pelope brandiva un bastone.

Non gli dette il tempo di dir nulla, lo afferrò per le spalle e se lo caricò addosso; lo legò ad una corda trascinandoselo dietro con il carro, in direzione del dirupo. Era acciecato dalla rabbia, una furia indomita.

Mirtilo riprese i sensi e gridò sorpreso; le sue gambe penzolavano oltre il nulla sotto di lui. “Ecco che fine fanno gli infami.”

Pelope tagliò di netto la corda e l’auriga precipitò nel vuoto; nel cadere, come la storia racconta, pronunciò una maledizione contro la dinastia del giovane e della sua amata Ippodamia. Erano destinati a sofferenze e morti brusche. E così i loro i figli e i figli dei figli.

 

E mai gesto fu più sbagliato.

 

Mirtilo era un semidio ma discendeva pur sempre da Ermes, figlio prediletto di Zeus, il quale mimetizzato nelle radure aveva visto tutto; il padre degli Dei aveva un codice personale delle ingiustizie da infliggere e come, quando, soprattutto a chi.

I figli erano sacri. Specie i suoi e quelli della sua disendenza.

A nulla valsero le suppliche di Ares, fratellastro ed eterno rivale di Ermes; Zeus adirato scagliò la folgore contro il castello di Pisa che prese inesorabilmente fuoco.

 

****

L’odore acre del fumo copriva ogni respiro.

La gente urlava da una direzione all’altra, in preda al panico; molti abbandonarono le proprio case e fuggirono per l’Elide alla ricerca di un nuovo regno.

Le strade erano distrutte, le cinta murarie danneggiate gravemente. Il castello, come una maledizione, bruciò senza sosta.

 

“No! Lasciami andare!” Mia scalciava in aria sorretta dalle braccia forti di Pelope.

“Non possiamo fare più nulla Mia!” La strinse forte, bloccandole il respiro, “Pisa è distrutta, ormai.”

La ragazza si arrese, scemando la resistenza. “Cosa faremo adesso?!”

“Partiremo alla volta di Olimpia. E mano a mano percorreremo tutto l’Elide, unificando il territorio con la forza della nostra ascendenza.” La girò guardandola intensamente negli occhi, “chiederemo perdono agli Dei, omaggiando Zeus con una festa dedicata.”

“Potremmo dedicargli dei Giochi, Pelope!” Si ridestò come punta da uno spillo.

“Dei giochi?!”

“Sì pensaci bene.” Mia si battette il pugno sulla mano aperta, “ogni quattro anni si festeggia la Grande Madre Era sua sposa, potremmo conciliare questa festa con dei Giochi sportivi che inneggino alla forza di Zeus. Era solerte seguire Mirtilo nelle corse perché ama i cavalli e lo spirito combattivo.” Gli occhi di Mia si illuminarono. “Sì, istituiremo per lui i Giochi di Olimpia.”

Pelope annuì lasciandosi andare ad un sorriso, il primo della giornata, dopo la sua vittoria.

Ippodamia era quanto di meglio gli fosse accaduto in vita, una donna caparbia, coraggiosa e con lo spirito di una vera guerriera; non si era fatta scoraggiare alla vista del suo regno in fiamme, aveva presto trovato una soluzione che poteva riportarli fra le grazie degli Dei.

L’abbracciò forte baciandole i capelli, “Prima però voglio sposarti Regina di Pisa.”

 

****

Le nozze furono celebrate il giorno stesso al cospetto di pochi reduci e di Atreo.

I preparativi furono sbrigativi perché si animava in loro la voglia di riconquista; volevano partire non appena il sole fosse calato, protetti dal buio e da occhi indiscreti. Non avrebbero portato nessun seguito, il loro arrivo sarebbe stato annunciato da un emissario di corte e niente più.

Erano determinati a farcela con le loro forze e il loro temperamento.

 

“Mia dobbiamo andare.”

“E’ così triste ora.” Ippodamia era rivolta con lo sguardo al castello; bruciava ancora. “Ma rinascerà.” Inspirò. “Sì, come le fenici. Dalle ceneri, per un nuovo lustro e allora la Grecia tutta si inchinerà a lei.”

“Torneremo Mia, te lo prometto.”

“Lo so.” Infilò un mano nella bisaccia, e chiamò Atreo. “Prendi questo.” Tirò fuori il medaglione che chiudeva il mantello di Enomao usato durante le corse. “C’è incisa la storia di Pisa su. E’ tuo adesso. Trova Agrippina e fatti dire dove è il tesoro regale, insieme aiutate i sopravvissuti a ricostruire la città.”

“Cosa vuoi dire Mia?!”

“Che Pisa è sotto la tua guida adesso.”

Atreo la guardò commosso; gli stava donando la città a lei tanto cara, affidandogli il compito di farla rinascere. Nessuno lo aveva trattato come un Re prima d’ora, nessuno lo aveva creduto capace di comandare. “Sono onorato Sua Maestà. Non vi deluderò.”

Mia annuì, stringendogli le mani. “Ti faremo avere nostre notizie non appena ci saremo stabiliti. Dì alla serva che la amo come una madre e di non aver timore, io e la creatura stiamo bene.” Rabbuiò lo sguardo, l’ultima visione di Agrippina era stata agli altari di Poseidone, quando l’aveva vista gioire fra la folla; temeva per la sua vita, ma ce ne erano tre più importanti adesso da salvare.

La sua. Quella di suo marito. E quella del bambino che portava nel grembo.

 

Pelope schioccò un colpo sulle natiche dei bai e questi risposero trottando alla volta di Olimpia.

Ippodamia si voltò ancora una volta verso Pisa, Atreo e la sua gente; sarebbe tornata e avrebbe restituito loro ciò che spettava.

 

Onore. Grandezza. Ricchezza.

 

****

 

Questo è solo l’inizio di una lunga storia.

La storia della dinastia dei Pelopidi, con a capo il Grande Pelope signore di Frigia e Re di Pisa e della sua maestosa moglie Ippodamia.

L’unione dei due diede frutto a una stirpe comandata da venti figli, precursori a loro volta, di dinastie capitanate da grandi nomi quali Agamennone –re di Micene- e Menelao suo fratello, protagonisti assoluti del raccoglimento delle forze Greche nella conquista di Troia.

Grandi cose successero quando i due partirono alla volta di Olimpia; Pelope riuscì a unificare il territorio dell’Elide e a mano a mano allargare i confini delle sue conquiste, assoggettando tutta la Penisola stretta fra il Mar Ionio e il Mar Egeo; a questa dette il proprio nome, l’oggi conosciuto Peloponneso e culla, dopo la sua venuta, della civiltà micenea.

Pisa rifiorì e una volta rientrati Pelope fu fatto incoronare; la leggenda narra che alcuni profughi della città, rientrati dalla guerra di Troia con il giovane Re al comando, fondarono in Toscana l’attuale Pisa.

Ippodamia istituì i Giochi di Olimpia, meglio conosciuti nella nostra epoca moderna come Olimpiadi, dando vita all’inizio del periodo Greco Antico coincidente con la data della prima Olimpiade (776 a.C)

Le gare vennero istituite ogni quattro anni, per favorire le grazie del Grande Zeus loro malevolo e della moglie Era, alla quale Ippodamia riversava gratitudine per il matrimonio realizzato con Pelope.

Le offese però non vennero del tutto cancellate e la dinastia dei Pelopidi fu tormentata fino alla morte degli stessi Pelope e Ippodamia; oltre toccò ai loro figli, Atreo e Tieste in primis, che si odiarono a tal punto da ripercorrere le gesta del truce Tantalo –macchiandosi di infanticidio- scatenando altre ire fra gli Dei e dando vita a loro volta al dannato ceppo degli Atridi.

Non v’era modo per loro di scacciare la malasorte.

Avevano ottenuto tutto ciò che l’oracolo predisse, ma i loro nomi nella storia vennero ricordati grandi gesta e grandi dolori.

 

Come l’acqua è il più prezioso di tutti gli elementi.

Come l’oro ha più valore di ogni alto bene.

Come il sole splende brillante più di ogni altra stella.

Così brilla Olimpia mettendo in ombra tutti gli altri giochi.

Cit. Pindaro filosofo Grecia Antica.

 

Fine.

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