Omicron

di Pendragon of the Elves
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Return to the Cold ***
Capitolo 2: *** The Odd ***
Capitolo 3: *** Cruelty ***
Capitolo 4: *** Let me see... ***
Capitolo 5: *** Omicron ***
Capitolo 6: *** Gate to the Future ***
Capitolo 7: *** Little Spy ***
Capitolo 8: *** Orphanage of Flowers ***
Capitolo 9: *** Nest of Courage ***
Capitolo 10: *** The Arrival ***
Capitolo 11: *** Golden Light ***
Capitolo 12: *** Warm Soup ***
Capitolo 13: *** The Softness of a Bed ***



Capitolo 1
*** Return to the Cold ***


Return to the Cold

Era notte fonda. Le stelle brillavano alte nel cielo e degli eleganti cirri notturni incorniciavano la faccia bianca della luna che rispendeva nostalgica col suo pallore mortale: pareva un’inquietante presenza che spiava il mondo. O forse lo osservava preoccupato.
Molte cose erano successe negli ultimi giorni, cose orribili e spaventose. E toccava nuovamente a lui salvare il mondo. L guardava il cielo lasciandosi accarezzare dal freddo vento autunnale che soffiava leggero, facendo sussurrare le foglie e scuotendo le fronde. Una foglia morta gli danzò un istante dinnanzi agli occhi, sorretta dall’aria in precaria stasi, e poi continuò per la sua fluttuante strada.
L sospirò. La sua angoscia si condensò in una nuvoletta di vapore e volò via nel freddo della notte.
Aveva passato bei momenti negli ultimi giorni. E, ora che tornava al lavoro, come sempre, li ripercorreva nella mente. Per non dimenticare. Per non scordare. Poteva morire in qualsiasi momento e, solo quei piccoli, caldi, fuggevoli istanti erano tutta la sua vita: la sua vera vita. Il suo tempo scorreva inesorabile e lui non voleva dimenticare quando scorreva più velocemente, più piacevolmente. Lui non era soltanto il più grande detective del mondo.
Guardò Watari che lo aspettava al cancello con la portiera della macchina aperta: era tempo di andare. L volse ancora una volta il capo verso l’edificio e la luna osservò un sorriso triste e sincero fargli luccicare gli occhi. Una sola ci era riuscita a trovare, vedere e capire fuggevolmente la persona occultata dietro la lettera. Non Q, il grande hacker, non R, il grande matematico, non Niky, la grande psicologa, e neanche Mello e Near, i suoi brillanti successori. No, nessuno di loro: solo lei. Sperò con tutto il cuore che potesse guardare dentro se stessa come aveva fatto con lui e scorgere finalmente la verità che lui aveva visto racchiusa in lei. “Ricerca la forza dentro te stessa, Omicron”.



                                                                    


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Salve, sono di nuovo io e mi vedete ancora alle prese con una fanfiction su Death Note ma, questa volta, non sarà una One-shot: preparatevi ad una storia ben più lunga, il racconto di un personaggio che mi sta molto a cuore che, spero, imparerete anche voi a conoscere e ad amare. Per ora, non aggiungo altro. Spero di riuscire a pubblicare regolarmente i prossimi capitoli. Grazie a tutti quelli che decideranno di accompagnarmi in questa storia e nel cuoricino di una bimba timida che cerca il suo incerto sentiero in un cielo costellato di stelle troppo brillanti. Spero che vi piaccia e che restiate con lei fino alla fine.

Pendragon of the Elves

[non possiedo i diritti per Death Note e l'immagine]

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Capitolo 2
*** The Odd ***


The Odd
 
Watari scese dalla macchina e guardò l’edificio dinnanzi a lui: un semplice cubo di cemento grigio con delle file di piccole, strette finestre, una per ognuno dei due piani, e un tetto a spioventi di tegole leggermente ammuffite. Era abbastanza vecchio e non era tenuto alla perfezione ma era uno dei tanti orfanotrofi da lui fondati nel mondo, uno dei pochi in Gran Bretagna. Sorrise alle maestre che lo attendevano al cancello e si avvicinò.
«Benvenuto signor Wammy! La aspettavamo con ansia» disse con pacatezza una donna sorridendogli cordiale mentre gli stringeva la mano. Doveva aver ormai passato i cinquant’anni, come si deduceva dal suo viso reso più austero dalle rughe e dalla solenne compostezza del suo atteggiamento. Teneva i capelli castani tagliati corti e acconciati ariosamente ed era vestita in modo modesto, coerentemente alla sua età ma in modo elegantemente curato.  
«Grazie per la sua visita!» aggiunse una più giovane con un evidente accento italiano: gli occhi le scintillavano per la contentezza.
«Grazie per tutto quello che fate voi, invece», rispose pacatamente l’anziano signore,«ogni tanto vengo a conoscere i miei piccoli ospiti. Mi piace vedere di aver reso qualche servizio a dei bisognosi nella mia umile esistenza. Ora che sono vecchio, poi, mi sento mille volte nonno».
«Danno soddisfazione, eh?» sorrise la signora. Poi, vedendo la sua giovane collega fissare imbambolata e con ammirazione il benefattore, quasi fosse in contemplazione, la riportò malamente alla realtà.
«Maria, non stare lì impalata! Non è cortese fissare così le persone. Sei per caso uno stoccafisso? Va’ a chiamare i piccoli e radunali nella sala principale!»
«Oh… sì, subito signora Wanda!»
La giovane si precipitò all’interno.
Watari e Wanda rimasero a fissarsi in silenzio, due monoliti davanti al cancello. Dall’edificio si sentì il richiamo eccitato di Maria:«Bambiniii!! Venite giù! C’è un ospite che vuole vedervi!».
Nonostante il momento fosse comico, Wanda era completamente seria:«Sei venuto per portare via qualcuno, vero?». Lo guardava con intensità, il volto duro come una maschera di pietra.
Watari annuì.
«Capisco…». La gestrice dell’orfanotrofio distolse lo sguardo.
Dalla porta dell’edificio sbucò la testa di Maria.
«Signora, tutti radunati!» urlò raggiante.
Watari ridacchiò. «Certo che è vivace…».
«Oh, non me lo dire», fece Wanda con un’espressione esasperata, «tra lei e i bambini non so proprio chi sia peggio!».
I due entrarono nella struttura.
 
Fuori dalla finestra si vedevano dei rami. Neri e contorti, sembravano radicati nel cielo.
“Forse gli alberi si nutrono di quell’azzurro”, pensò la bimba. Teneva le ginocchia abbracciate al petto e le caviglie incrociate. “Chi l’ha deciso che le radici sono sotto terra e che si nutrono di elementi chimici presenti nel terreno”. Fissò il piccolo demone seduto accanto a lei. “Sai, Geo, forse un giorno quest’albero fiorirà e sbocceranno dei fiori dello stesso colore del cielo”. Geo la guardò con i suoi occhi bianchi inespressivi. Un fiorellino azzurro gli spuntò in testa con un piccolo “plup”.
“Oppure…”, tornò a guardare fuori dalla finestra, “ci sono già i fiori e visto che sono del colore del cielo non si vedono”. Geo la guardava: aveva sguardo fissato con intensità corrucciata sulla volta azzurra. “Forse il cielo non è altro che una volta arborea, un mare di tantissimi, piccolissimi fiori…”. Pensava così la piccola bimba quando sentì l’urlo di Maria che li richiamava tutti.
«Bambiniii!! Venite giù! C’è un ospite che vuole vedervi!»
I due si guardarono.
«Secondo te chi è?» chiese piano al suo piccolo amico. Ma Geo ne sapeva quanto lei e, poiché la mente della bimba si era ormai scordata di lui, cessò di esistere.
 
Watari salutò i bambini festanti. Solo alcuni dei più grandi erano stati presenti alle sue precedenti visite (in quella struttura era venuto altre due volte in precedenza e non aveva mai trovato nessuno da portare alla Wammy’s).
«Salve bambini. Ma come siete grandi. Forse qualcuno si ricorderà di me…» disse Watari, sorridendo alla piccola folla di bambini che gli si affollavano contro. I più timidi e i più grandi stavano ad osservare in disparte. L’arrivo di un ospite era una cosa più unica che rara in quell’orfanotrofio sperduto nel nulla e lontano dal resto del mondo, un evento speciale che non avveniva tutti i giorni. Detto questo, è facile immaginare il turbine di emozioni che l’arrivo di un perfetto sconosciuto poteva destare nei bambini e il baccano che le loro grida producevano rimbalzando contro le parati del piccolo atrio.
«Scommetto che siete anche bravi; ditemi, fin dove sapete contare?».
Era una domanda di repertorio, di solito la utilizzava per scoprire eventuali menti matematiche. Watari sorrideva calmo ma era ansioso: sperava di riuscire a trovare qualcuno di speciale anche se, ovviamente, una domanda così banale, seppur a trabocchetto, non gli dava la conferma che gli serviva nella sua ricerca, ma poteva comunque essere un punto di partenza. La richiesta fu accolta da dei coretti vanitosi.
«Io fino a 10!»
«Io fino a 30!»
«Io fino a 100!»
«Io invece a 1000!»
Erano tutti caduti nel tranello. Restò lì a sorridere, attendendo che il baccano cessasse. Poi, senza sapere perché, la sua attenzione venne catturata da una piccola figura a margine del suo campo visivo. Se fosse stato un dettaglio in un quadro sarebbe stato una piccola fogliolina seminascosta in mezzo all’esuberanza di una variopinta natura morta. Il solo fatto che l’avesse notata aveva dello straordinario.  
Era una bambina piccola, pallidissima e magra tanto da avere un’aria malsana. I capelli le ricadevano lunghi e neri fino ai fianchi. Con la coda dell’occhio la vide guardarlo, aprire la bocca in un sorrisino timido come per azzardarsi a rispondere quando le pupille le si annebbiarono e il sorriso le si spense sul volto trasformandolo in una maschera di dubbio e incertezza. Gli occhi parvero vagare nel nulla, come se fossero ciechi. Watari seppe che, al contrario, avevano visto la verità. Leggendole le labbra sottili e pallide gli sembrò quasi di sentire la sua vocina oltre la confusione generale. «Io… non lo so fino a dove posso contare…». La bimba abbassò lo sguardo, pensosa. Ma, mentre nella sua mente cominciavano ad affollarsi degli ingenui ma leciti dubbi, in Watari cominciò ad affiorare una speranza: la bimba aveva capito. Forse per lui c’era una possibilità, dopotutto. Lo capì anche Wanda che scosse la testa tristemente.
 
«Cosa state disegnando, bambini?» chiese gioiosamente Maria ai piccoli al lavoro. Ci fu un confuso coretto dissonante di risposta.
«Ok, ok, ora passo da ognuno di voi e ve lo chiedo».
Mentre la giovane faceva il giro di domande, Wanda e Watari erano in un angolo della stanza a parlare.
«E così, le hai messo gli occhi addosso, eh?»
«Diciamo che potrebbe essere interessante».
Wanda sospirò e seguì lo sguardo dell’anziano signore.
«Cos’hai disegnato, Clara?»
«Un bel prato!» rispose orgogliosamente una biondina.
«Cos’hai disegnato, John?»
«Io ho fatto un prato! Ma più bello di quello di Clara».
«Non è vero!».
«Dai, non litigate!»ridacchiò Maria.
«Come si chiama quella bambina?» chiese Watari. Anche lei stava disegnando ma non era concentrata, aveva lo sguardo perso. Sembrava non vedere quello che stava facendo.
«Non ha un nome», rispose la signora. «O meglio, ufficialmente non conosciamo il suo nome di nascita, neppure lei. Ci è stata affidata dopo un ricovero in ospedale. L’avevano trovata dei turisti addormentata in un bosco, quasi in fin di vita. Si suppone che si fosse smarrita, deve aver battuto la testa. Dice di non ricordare nulla. E nessuno ha denunciato la sua scomparsa. Noi la chiamiamo Mary ma lei non sembra riconoscere il nome».
«In che senso?».
« Sai,quando veniamo chiamati… è come se qualcosa scattasse dentro di noi. è una cosa un po’ difficile da spiegare… Hai presente quella sensazione? Quella sorta di richiamo ancestrale, quello stato di allarme che sentire il proprio nome provoca nel profondo di ognuno di noi come il suono di un campanello? Ecco, con lei non succede, capisci? Non c'è alcun campanello, come se le mancasse. Forse non mi sono spiegata bene ma, più o meno, questa è l’impressione. Non so se lo faccia di proposito ma mi sembra strano in qualunque caso. E non sarebbe la sua unica stranezza: quella povera piccola sta sempre sola, nascosta in qualche buco lontano da tutti. A volte non sappiamo neanche dove vada a cacciarsi, non la si trova più. La cosa che non capisco è perché: chi si escluderebbe così di propria volontà? Non parliamo poi di quando la trovi a parlare da sola. Blatera di cose stranissime e guarda in giro come se fosse cieca. Veramente inquietante. Non sembra demente ma… non so davvero che fare con quella piccola!»
Wanda sembrava preoccupata.
Lei e Watari tornarono a guardare i bambini che rispondevano a Maria.
«E tu cos’hai disegnato?»
«Un prato!»
«è molto bello! E tu, Jim? Cosa disegni?»
«Un prato e un mostro»
«Uh, che paura! E tu, Mary, cosa disegni?»
La bimba ci mise qualche secondo a capire di essere chiamata dalla terra e la fissò spaesata e sorpresa. Evidentemente non veniva interpellata spesso. «Cosa?»
«Ti ho chiesto cosa stai disegnando». Disse Maria ruotando gli occhi verso il cielo.
«Oh». La bimba fissò il foglio: strane spirali e chiazze di colore si incrociavano in complicati e indistinti arabeschi. Certo, neanche i lavori degli altri erano propriamente definibili delle opere d’arte che, comunque, sembravano pesantemente influenzati da correnti astrattiste, ma, su quel foglio, non si riconosceva davvero il soggetto. «Niente in particolare».
«Che assurdità!» sbottò leggermente scocciata Maria. «Devi aver per forza disegnato qualcosa! Com’è possibile non aver disegnato nulla in particolare?!»
La piccola rispose come se neanche lei fosse convinta della risposta o che, questa, sminuisse ciò che in realtà stava rappresentando.
«Allora un prato…»
Wanda si batte una mano in fronte scuotendo la testa. «Mio Dio!»
Watari sorrise sotto i baffi.
«La cosa si fa sempre più interessante…»
 
«Io non vedo proprio cosa ci trovi in quella creatura!» disse esasperata Wanda. Erano nel suo ufficio. A soli due giorni dalla sua visita, Watari era tornato dicendo che avrebbe portato la ragazza con se in un’altra struttura. «Hai visto anche tu quanto è strana! Secondo me quella bambina ha qualcosa di sbagliato! Una volta l’ho ritrovata di notte a camminare in giro per i corridoi. In tutta onestà, quale bambino scorrazzerebbe da solo nel buio completo nell’ora delle streghe senza bagnarsi i pantaloni? In più con quella carnagione da cadavere che si ritrova ho creduto di aver visto un fantasma! Quella è da curare non da portare in giro! ».
Watari aveva abbassato lo sguardo ricordando di quello che gli aveva detto L. Lui gli aveva raccontato della visita chiedendogli cosa ne pensava. Il detective lo aveva guardato inespressivo per un po’. Era seduto alla sua solita maniera, con le lunghe gambe piegate a sorreggere il corpo e stava mangiucchiando delle fragole. «Sarebbe anormale solo perché si comporta in modo strano? Scusa, Watari, ma hai visto con chi stai parlando?».
Watari ridacchiò al ricordo.
«Non mi pare che ci sia molto da ridere!», sentenziò Wanda, dura.
«Mi perdoni. Comunque in questi casi è meglio non saltare a conclusioni troppo affrettate: accade spesso che la prima impressione si riveli errata. E poi, non sempre la stranezza è sinonimo di pazzia, anzi, a volte è indice di genialità…».
Già: L ne era un chiaro esempio.
«Non mi pare questo il caso!» lo interruppe bruscamente Wanda. Watari notò che la direttrice si scaldava molto parlando di questa bambina. Sorrise divertito: doveva esserne molto turbata.
«No», concesse Watari, «non si tratta assolutamente di genialità: basta guardare il test per il quoziente intellettivo».
«Basta guardarla in faccia per capirlo!» borbottò seccata Wanda.
«Sa leggere?». Cambiò argomento.
Mossa che si dimostrò vincente poiché, come sapeva, la direttrice era orgogliosa istruttrice di ben 7 generazioni di bambini al miracolo della scrittura. Con il petto leggermente in fuori e un malcelato compiacimento in volto disse. «Quasi tutti in questo asilo sanno leggere, tranne quelli svogliati. A dir la verità, mi ricordo che lei ha imparato abbastanza in fretta: sa leggere e anche scrivere, credo. Inoltre, sospetto che conosca pure qualche parola d’italiano: come sa la mia collega è originaria di quel paese e, come ha avuto modo di constatare, parla  pure molto…».
«Ha mai dimostrato interessi particolari… stranezze a parte intendo», aggiunse in fretta vedendo l’espressione ironica che si stava disegnando sul volto di Wanda.
«Le hai mai chiesto qualcosa, per esempio, ha manifestato interessi per qualcosa, una qualche curiosità? Di qualsiasi genere.»
«Beh, penso lei possa comprendere che, con tanti bambini in questa struttura ve ne sono di molto più turbolenti cui badare… Insomma, non è che le stia molto dietro, d’altra parte non ce n’è mai stato bisogno. Non è che parli molto ma… ora che me lo chiede mi ricordo che una volta –l’anno scorso se non ricordo male- mi ha chiesto che lettera è l’omega. Deve averla sentita nominare da qualche parte ma non l’ha trovata nel nostro alfabeto. Sfido, è di quello greco. Comunque, le ho spiegato un po’ com’è strutturato ma dubito che se lo ricordi: è stato un po’ di tempo fa e non penso sia stata così attenta. A parte questo, nient’altro ma credo che le piacciano le favole: sai che roba...».



                                                           


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Ecco il sudato secondo capitolo. In realtà l'avevo già scritto da un pezzo ma, al momento della pubblicazione, sono stata assalita da atroci dubbi e dannatissimi ripensamenti. Voi innocenti lettori non avete neanche idea di quanto io odi i ripensamenti. Sopratutto quelli che si presentano nell'anticamera del mio cervello senza portare con loro nemmeno una soluzione alternativa da proporre alla mia povera testa bacata (quelli sono proprio i peggiori!).
Ma alla fine, pur tormentata da questi emissari infernali, ecco il secondo capitolo col quale inizia la storia vera e propria (Il prologo che avete precedentemente letto è ambientato molto più avanti: era una sorta di flash forward prima della presentazione della storia). Per quelli che intendono continuare a seguirla, sappiate che questo è uno dei capitoli più brutti e noiosi dell'intero racconto: nemmeno io ne sono particolarmente soddisfatta. Dopo tutto, l'avevo scritto l'hanno scorso e, da allora, il mio stile di scrittura dovrebbe essere (almeno in teoria e a rigor di logica) migliorato o, almeno, cambiato; quindi non mi sono ritrovata soddisfatta di questo racconto rileggendolo e l'ho un po' modificato. Spero in meglio anche se, pure ora, non mi soddisfa pienamente. Spero che voi riusciate comunque a leggerlo e a arrivare il fondo a questo viaggio assieme a me. Cercherò di aggiornarlo ogni settimana, scuola consentendo -.-''. Comunque prometto che per la prossima pubblicazione farò di tutto per rendervi felici di esservelo lasciato alle spalle.
 
Cautamente fiduciosa,
Pendragon of the Elves


P.S.: Spero si capisca il demone con cui "Mary" sta parlando in una di queste scene è puramente frutto della sua immaginazione e che la povera bimba si sta dando a riflessioni assurde per il puro piacere di pensare cose assurde (d'altronde, chi non l'ha mai fatto?).


[P.P.S.: Non possiedo i diritti per Death Note e l'immagine non è mia ma l'ho presa da Deviantart (Io ho semplicemente falsato i colori con un programma per la modifica di immagini)

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Capitolo 3
*** Cruelty ***


Cruelty
 
Tre sole sillabe. Ecco quanto bastò perché il terrore ceco ghermisse il suo cuore e lei realizzasse di essere spacciata.
«Eccola!»
L’avevano vista, non c’era tempo per nascondersi. Si guardò disperatamente intorno in cerca di una via di fuga: nel dormitorio c’erano solo letti e armadi e l’unica porta, sua unica speranza di salvezza, era occupata da un gruppetto di cinque bambini che guardavano nella sua direzione.
«Stava di nuovo parlando da sola», accusò con sprezzo una bambina bionda.
«è strana…».
«Fa paura».
«Ho sentito che diceva che non sapeva fin dove contare», continuò la bambina, un sorriso cattivo sulla faccetta rosea.
«Perché è stupida!».
Cominciarono a cantare tutti assieme un motivetto cadenzato:«Stupida! Stupida!».
Lei si portò le manine alle orecchie: non voleva sentire. E avrebbe voluto non riuscirci –quanto le sarebbe piaciuto non riuscirci- ma quelle parole affilate come lame sgusciavano tra le sue dita ed arrivavano comunque ai suoi timpani trapassandoli. Giungevano lo stesso nella sua testa dove rimbombavano insopportabilmente nella tempesta di lacrime e terrore che si stava impadronendo di lei. Avrebbe voluto strapparsele dalla mente, urlare così forte da spegnere qualsiasi altro suono ma la gola era chiusa in una morsa troppo stretta e il pavimento insensibile si rifiutava di assorbirla per trarla in salvo da quella tortura.
La bambina bionda le si avvicinò con un sorriso sprezzante in volto e le prese il polso, stringendolo con le sue affilate unghiette, cercando di farle aprire le orecchie. Perché doveva sopportare tutto questo? Non aveva fatto nulla, non aveva mai fatto nulla: perché erano tutti così crudeli? Perché le facevano questo? Cresciuta in quella gabbia delle speranze infrante, non aveva mai conosciuto il coraggio, né per ribellarsi né per pensare di farlo. Forse era troppo spaventata perché quella che le montasse dentro fosse rabbia. Forse era solo disperazione. Qualunque cosa fosse, ad un certo punto, traboccò.
«Ahi!», strillò la bimba bionda, allontanandosi da lei con la mano al petto: i suoi occhi la fissavano ora con sconcertato orrore. «Mi ha morso!», piagnucolò.
«Ora farà la spia con la maestra», disse un bambino.
«Addosso!», urlò un altro. Si gettarono tutti assieme su di lei, brandendo i guanciali dei rispettivi letti. I colpi erano terribili: anche se erano attutiti dalle piume venivano alternati a dei calci. Non riuscì a reggere, scoprì che ogni forma di resistenza era inutile: se provava a ribellarsi calciavano più forte e le strappavano i capelli, se tentava di alzarsi e scappare la schiacciavano contro il pavimento fino a farle mancare il respiro. Soccombette sotto il peso delle percosse fino ad accasciarsi per terra, proteggendosi la testa tra le braccia, completamente impotente contro cinque crudeli aguzzini.
Alla fine, dopo buoni cinque minuti, il supplizio finì.
«Così impara», disse un bambino.
«Già, se l’è meritato».
Cominciarono ad andarsene.
«Stupida!», «Idiota!» furono le eco che si lasciarono dietro uscendo dalla stanza, arrivavano sempre più attutite alle sue orecchie.
Alla fine, le loro voci si fecero sempre più fioche fino a che non cessarono. Ma, anche quando ci fu completo silenzio, non osò muoversi. Rimase lì rannicchiata contro il freddo pavimento senza emettere un suono, i capelli pieni di piume e le braccia piene di botte. Sentiva le orecchie fischiare, quasi fosse il silenzio a ferirgliele, e la pelle formicolare, quasi fosse l’aria a ferirla. Ora tutto era attutito, come se fosse immersa nell’acqua. Per terra, accanto il suo viso, stava andando a formarsi una piccola pozzetta di silenziose lacrime e del sangue che le usciva dal naso.
“Geo… perché non sei venuto a salvarmi…”


                                                                                       



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Ecco il terzo capitolo, uno di quelli che il mio progetto originale non prevedeva ma che la mia mente aveva voglia di buttare su carta (altro che carta, questa è la rete... XD). Comunque... l'ho inserito per rendere maggiormente l'idea della orribile vita che la povera "Mary" è costretta a vivere in quell'orfanotrofio: dalla storia non si capiva molto e un lettore avrebbe potuto pensare che lei è solamente una esagerata snob a cui non piace stare con nessuno e basta. Beh, non è così: la piccola a avuto un gran schifo di vita, non bisogna stupirsi se poi è cresciuta così debole. La sua situazione è molto peggio di quanto si potesse pensare. Ci tenevo a chiarire la cosa.
Come dite? Beh, sì sono molto sadica con i miei personaggi e sapete una cosa? Di tutti quelli che ho ideato in vita mia, lei è una di quelle messe meglio (vi sfido a immaginare cosa possa capitare agli altri, huhuhu... ... no, non fatelo, innocenti lettori: davvero non potreste immaginarvelo).
Bene, mi dispiace che questo sia più corto degli altri ma... dovrete aspettare la prossima settimana per averne uno più lungo.
Alla prossima! ^ ^

Pendragon of the Elves

P.S.: Non possiedo i diritti per Death Note e nemmeno per l'immagine di cui ho solo modificato i colori.

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Capitolo 4
*** Let me see... ***


Let me see…
 
«Mary», le disse Wanda un giorno poco dopo la seconda visita di Watari, «devo parlarti».
La condusse nel suo ufficio. La piccola tradiva sorpresa e smarrimento come quando, scendendo una scala al buio, il piede incontra solo il vuoto pensando di trovarvi uno scalino. Dal suo viso sembrava che le fosse caduto il mondo da sotto i piedi. Come fosse stata appena svegliata all’improvviso da un sonno profondo, i suoi occhi, pur preoccupati, parevano vagare ancora nel mondo dei sogni, cercando di capire dove fosse finito, occhi smarriti come topi che cercano terrorizzati un pertugio dove nascondersi. Wanda rabbrividì.
Una volta nell’ufficio la fece accomodare e notò con sollievo che sembrava attenta. Le indicò di sedersi nella poltroncina dall’altra parte della scrivania. Quando si sedette, quasi vi scomparve dentro tanto era minuta. Immediatamente abbassò il capo, come imbarazzata.
Wanda, la osservò a lungo: sembrava una bambina ma c’era qualcosa di più maturo in quegli occhi. Sulle guance mancava quel po’ di carne in più che le rende le classiche guance da bambino e di quel colore in più che le rende le guance di un vivo. I capelli neri facevano altro che risaltare il pallore di quel piccolo corpo snello e incorniciavano l’intera figura come se questa fosse perennemente avvolta da spire di oscurità. Come uno spirito o un’apparizione…
La signora ritornò alla realtà. «Il signore di ieri, come sai, è colui che ha fondato questo orfanotrofio e molti altri come questo», cominciò, «è un signore molto gentile che ha intenzione di trasferirti in un’altra struttura». Non aveva voglia di stare tanto a parlare: decise di andare direttamente al punto.
A queste parole la piccola alzò il capo veloce come un passerotto, gli occhi erano sbarrati e la bocca leggermente aperta per la sorpresa.
«Da…davvero?» chiese. Sembrava non riuscire a credere a quello che sentiva.
«è quello che ho detto», ribatté Wanda. «Non devi preoccuparti, starai bene. Verrai trasferita in un orfanotrofio speciale. Il signore tornerà tra pochi giorni e ti spiegherà i dettagli ma prima, mi ha pregato di sottoporti a delle prove».
Lo stupore della piccola stava sfociando in una sospettosa preoccupazione, anche se ciò non fu notato. «Che genere di prove? E perché?».
«Non preoccuparti», ripeté più gentilmente Wanda, «sono solo delle formalità, servono per testare i tuoi metodi di ragionamento e analisi per capire con che modalità si svolgono e per inserirti in una classe dove sarai seguita da un insegnante adatto a sviluppare miratamene le tue capacità. Ti troverai in un bel ambiente, con degli insegnanti competenti e pazienti: dovresti considerarti fortunata». Anche questa era una prova: Watari le aveva chiesto di usare delle parole di difficile comprensione per una bimba di cinque anni per capire se la piccola aveva un vocabolario forbito o riusciva a ricostruire il senso della frasi in caso di non comprensione di alcuni vocaboli.
Mary spalancò ancora di più gli occhi. Wanda era sicura che le avrebbe chiesto di ripetere. ”Non è per niente sveglia! cosa ci troverà il signor Wammy in questa bambina?”. Si preparò a risponderle.
«C-credete che sia pazza?», chiese spaventata la piccola all’improvviso, schiacciandosi contro lo schienale.
«Co…? No, no, no, piccola», si affrettò a dire, «Niente del genere! Solo un piccolo test! Tutti quelli che ci vanno vengono sottoposti a tali test: ti ho già spiegato perché».
“Oh, mamma!”, pensò Wanda, sbalordita, “non solo ha capito ciò che ho detto, ma ha anche frainteso! Chi l’avrebbe mai detto!”.
«Allora perché mi trasferite?».
“Me lo chiedo anch’io, tesoro”, pensò Wanda. «Te l’ho già detto», disse infine, «I dettagli te li spiegherà il signore quando verrà a prenderti. Ora, se non ti dispiace, seguimi».
E, così dicendo, si alzò dalla sedia seguita dalla titubante bambina.
 
Alla Wammy’s, Watary stava guardando L che osservava concentrato lo schermo.
«Interessante…» mormorò piano il detective, portando lentamente alla bocca una zolletta di zucchero.
«Fin ora tutto normale. Passiamo alla telecamera 2».
Watari fece accendere un secondo monitor sul quale comparvero le immagini riprese in tempo reale dalla telecamera. In pochi secondi fecero la loro comparsa sullo schermo una signora dall’aria severa e una piccola, minuta bimba sui cinque anni che si guardava attorno alquanto preoccupata.
 
«é molto semplice, devi solo aspirare questa stanza» spiegò seccamente Wanda porgendo alla piccola esaminanda l’aspirapolvere che afferrò il tubo annuendo incerta.
«Semplicemente aspirarla?» chiese, incredula.
«Sì, è quello che ho detto. Io ti lascio. Fa un buon lavoro. Aspira in ogni angolo, mi raccomando».
E dicendo così, uscì dalla stanza chiudendo piano la porta.
Mary si guardò intorno ascoltando i passi di Wanda allontanarsi. Aprì un poco la porta sbirciando dietro per vedere se c’era qualcuno. Guardò il pesante aspirapolvere accucciato come un tranquillo cagnolone sul pavimento. Che razza di prova era se poi non c’era nessuno a controllarla? Per quanto continuasse a ragionarci non riusciva davvero a spiegarsi tutto ciò. Aveva l’impressione che se si fosse posta una sola altra domanda senza risposta la sua piccola testolina sarebbe davvero scoppiata. Fece spallucce e attaccò la spina dell’aspirapolvere. Osservò la stanza: era una specie di salotto con un lungo tavolo, due poltrone e un vecchio mobile. Non era molto grande e qualcuno si era già procurato di alzare le sedie sopra il tavolo per facilitare il lavoro. Accese l’elettrodomestico schiacciando con un piedino l’interruttore di accensione e cominciò ad aspirare. Era molto rumoroso. Provò a parlare e sentì a stento la propria voce sopra l’aspirazione: di certo da fuori non l’avrebbero sentita.
«Non sembra procedere con un criterio» osservò Watari, pacato. La piccola spostò una poltrona appoggiandocisi di peso con i palmi aperti. Poi controllò di nuovo fuori dalla porta.
«Ryuzaki, sei sicuro…»
«Aspetta, Watari, ascolta: credo stia dicendo qualcosa».
Watari si voltò a guardare lo schermo: la bambina lavorava con gran lena ma lo sguardo, pur osservando il lavoro da compiere tradiva una certa disattenzione. Muoveva le labbra. Aguzzando l’orecchio Watari riuscì a stento a sentire una voce bianca intonare piacevolmente una melodia.
Ryuzaki inclinò leggermente di lato il capo con un accenno di sorrisino sul volto:«Sta cantando…»
«Sì, ma sta aspirando in modo poco intelligente: va dove si posa lo sguardo».
Il detective aveva il pollice appoggiato sulle labbra sottili ancora piegate in quel sorriso un po’ sgradevole di chi sa di aver, come sempre, previsto tutto. «Me l’aspettavo». Non sembrava aver sentito.
«Non procede in maniera regolare». Aggiunse inespressivo l’anziano signore.
«Ciò non cambia nulla».
«Ma così passa due volte o più sullo stesso punto»
Il detective stava ancora sorridendo:«Passando due volte su uno stesso punto si pulisce più a fondo»
Watari annuì.
 
Nei giorni seguenti Mary fu soggetta ad altri test: alcuni annunciati e ordinari e altri, sibillini, effettuati a sua insaputa analizzando le sue reazioni e risposte. Fu anche fatta parlare con una bambina piuttosto sociale (senza darle motivo per credere che fosse una prova) per vedere se rivelava qualcosa a proposito del suo trasferimento, ma non disse nulla, anzi, non parlò proprio. Seguirono molti test e non emersero segni di genialità ma sempre di banale intelligenza, anche se insolita per un’infante, e di una capacità di comprensione dei propri errori che tradiva una profonda insicurezza. Nonostante ciò, la bimba destava discreto interesse in L. Watari non se ne stupiva poi più di tanto, abituato alle stranezze del giovane, e non faceva commenti. L si occupava personalmente di qualsiasi ragazzo candidato a entrare nella Wammy’s, quindi non era strano che se ne interessasse mediamente. Strano era il fatto era che la bimba, pur possedendo una certa intelligenza, non mostrava capacità eccezionali adatte all’ingresso alla Wammy’s.
Finalmente, dopo pochi giorni il detective decise di effettuare un ultimo test: consisteva nel lasciare la bimba in una stanza per qualche ora assieme a degli oggetti  specificati da lui. Se il detective ci aveva visto giusto, avrebbe scelto esattamente quelli che si aspettava. Watari, quel giorno si recò all’orfanotrofio: non era un test importante, la bimba sarebbe comunque entrata alla Wammy’s, ma poteva servire a conoscerla meglio.
«Bentornato» gli disse Wanda nel suo studio. «Ho fatto come mi avevate detto. Ho tolto tutte le telecamere delle altre stanze lasciando solo quelle nel salotto. Vado a chiamarla». E, dicendo così se ne andò indicando a Watari uno schermo che mostrava le immagini dello studio. La telecamera era posizionata in modo da riprendere tutta la stanza in modo che non ci fossero angoli morti. Controllo che tutto ciò che Ryuzaki aveva specificato ci fosse. Di sicuro lo stava facendo anche L in quel momento, dalla Wammy’s.
A un certo punto, la porta del salotto si aprì ed entrò la bimba. Indossava dei pantaloni di stoffa blu e una maglietta a maniche lunghe azzurra. I capi d’abbigliamento erano piuttosto grandi e la sua figura magra pareva fluttuarci all’interno.
«Ora aspetta qua: ci vorrà un po’ ma abbi pazienza» le disse cordialmente Wanda. «Nel frattempo puoi fare qualcosa: ci sono dei libri e qualche gioco sparso in giro, credo. Fai come preferisci».
Chiuse la porta. La piccola rimasta sola si guardò intorno e, dopo un po’, andò timidamente a sedersi composta su un divanetto morbido.
La porta dello studio si aprì ed entrò Wanda che si mise a guardare assieme a lui.
Dopo quindici minuti. La piccola si mise comoda sedendosi a gambe incrociate sul divano. Stette con lo sguardo perso nel vuoto per un buon quarto d’ora. Wanda diventava sempre più agitata. Watari era piuttosto divertito: la ragazzina doveva incutere un certo timore alla signora. Dopo poco la cosa si fece interessante: la bambina si avviò timidamente verso la libreria (che aveva adocchiato appena entrata e che continuava a sbirciare) e s’inginocchiò dinnanzi allo scaffale più in basso in una maniera a Watari molto famigliare. Si mise a scorrere i titoli e si soffermò proprio su uno dei titoli posti lì da L. Sul volto della piccola apparve un’espressione piacevolmente stupita e, con un sorriso incredulo, allungò un’esitante manina bianca e estrasse piano il volume: era un fantasy. La bimba lo fissò stupita alzandosi in piedi e avviandosi verso il divano. Sistemò alcuni cuscini e ci si sedette comodamente a gambe incrociate. Si mise a leggere.
Wanda non credeva ai propri occhi: oltre al fatto che la bambina leggesse piuttosto speditamente, sembrava anche felice come non l’aveva mai vista (e non l’aveva mai vista felice). Era come guardare un cane che sogna di correre. Nella lettura assumeva inconsciamente espressioni di beatitudine, spavento, interesse e incredulità e, ogni tanto, faceva udire delle risate divertite. Wanda era stupefatta: era un suono talmente anomalo per la piccola che stentava quasi a credere che stesse veramente ridendo lei. Era uno spettacolo meraviglioso. Per una volta pareva finalmente umana. E viveva attraverso il libro.
Dopo un’ora, Mary, avendo voglia di continuare la lettura ma gli occhi stanchi, si alzò e quasi non cadde a terra: le gambe addormentate avevano ceduto a tradimento. Si guardò attorno: su un comodino c’era un game boy (che non venne neanche degnato di uno sguardo) e, sopra una cassapanca era posizionato un giochino cinese che consisteva nel liberare una macchinina da un intrico di altri veicoli facendola uscire dal perimetro di gioco. Giocò un po’ con quello dimostrando gli stessi risultati della prova dell’aspirapolvere: ripeteva più volte le stesse mosse inutilmente seguendo il suo piano mentale prestabilito che, per quanto intricato ed astruso, portava sempre a una soluzione. Ragionava in maniera contorta ma, all’interno delle contorsioni, s’intravedeva qualcosa di sensato. Era un’inusuale maniera di ragionare e analizzare, sfuggevole e strana: Watari capì quanto facilmente potesse, in altri ambiti, essere fraintesa con stupidità e superficialità. Non era neanche la pazzia che credeva Wanda: era semplicemente una piccola mente pronta a sbocciare già svalutata in partenza. Ora, sembrava quasi un bene che L l’avesse scorta: bastava guardare attentamente al di là del giudizio superficiale degli osservatori non attenti.
Stufata anche di quello, la piccola, si mise a osservare una piccola rosa che era appoggiata su un mobile dinnanzi alla finestra. La piantina pareva godere di buona salute, come attestavano orgogliosamente le foglie perfettamente verdi e i tre piccoli boccioli rossi che vi spuntavano timidamente, ma la terra del vaso era secca. La piccola prese il bicchiere che le aveva lasciato Wanda e lo riempì d’acqua e offrì, con una sorta di gentile referenza anche in quel semplice gesto, il liquido alla piccola pianticella. Non ne mise né troppo né troppo poco. Poi, con grande inquietudine di Wanda, cominciò a parlare alla pianta ma lei e Watari non riuscirono a capire quello che dicesse perché le sue parole non erano nulla più che sussurri leggeri come la brezza che ebbero solo il potere di far oscillare le foglie.
«Sembra un comportamento interessante…», mormorò Watari.
«Inquietante!» lo corresse Wanda.
Watari non le prestò attenzione e continuò a guardare lo schermo.
La piccola guardò fuori dalla finestra il sole delle cinque che illuminava il mondo di una debole e calda luce. Si diresse verso una poltrona isolata dagli altri divani posizionata dinnanzi a una stretta finestra. Vi si sedette a gambe incrociate e lesse per un’altra mezzora. Il celeste plumbeo della notte che si avvicinava inesorabile corrodendo la gemma del tramonto che cominciava a marcire perdendo sempre più intensità. Ben presto ci fu troppo poca luce per leggere. Chiuse il libro e lo lo poggiò delicatamente a terra. Dopo uno sguardo al cielo della sera e alla porta, dalla quale nessuno era ancora entrato a chiamarla, si appallottolò in posizione fetale tra i braccioli dell’enorme poltrona e chiuse gli occhi. Sembrava dormire.
Erano ora che rimaneva da sola, dimenticata in quella stanza. Watari guardò Wanda e lei ricambiò lo sguardo. Il cellulare di Watari vibrò nella tasca. L’anziano signore lo prese in mano e lesse una singola parola bianca sul display scuro. Diceva “Procedi”.
«Penso che sia giunto il momento», disse tornando a rivolgere lo sguardo a Wanda.
«Dunque è così» disse mestamente Wanda «è ancora convinto?»
«Sì», disse, e uscì dallo studio.



                                      



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Ecco, ormai è fatto: ho sudato tutta la settimana a stressarmi su questo capitolo: "ma lo pubblico o non lo pubblico?", "meglio aspettare o no?", "dovrò cambiare la storia?". Alla fine ho detto "adesso basta" ed è rimasto così com'era quindi spero che vi piaccia. Lo stress e l'insicurazza stavano per uccidermi. Dopo questi immani sforzi e laceranti preoccupazioni, però, mi piacerbbe sapare se c'è qualcuno che legge questa storia visto che sembra che la stiano seguendo solo due persone. Perciò prego tutti quelli che l'hanno letta a scrivermi una recensione o un messaggio, anche solo per dirmi cosa ne pensano: accetto qualsiasi suggerimento o critica perchè quello che mi interessa è imparare e migliorare. Chiedo solo un vostro pensiero.
Grazie per l'attenzione e per essere arrivati fino qui! ^ ^

Pendragon of the Elves
                                                                    

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Capitolo 5
*** Omicron ***


Omicron
 
Trovò Mary rannicchiata come l’aveva vista nello schermo: una piccola perla contro il nero della pelle della poltrona. Respirava talmente piano ed era talmente pallida da parere morta.
Watari avanzò prendendo una sedia e posizionandola di fronte a lei.
«Buonasera, Mary» disse sedendosi. Mary aprì gli occhi a mandorla e fissò Watari inespressiva: non sembrava sorpresa di vederlo. Che l’avesse sentito entrare? L’anziano signore guardò in quegli specchi argentei che erano i suoi occhi: occhi tanto tristi da far stringere il cuore.
«Lei è il signore che deve trasferirmi?», chiese con voce piatta, dalla cadenza talmente poco interrogativa da parere un’affermazione.
«Sì, esattamente» rispose il signore con tranquillità.
La bimba, invece, non sembrava ancora tranquilla.
«La signora Wanda mi ha riferito dei tuoi infondati timori», continuò sorridendo, «Non devi preoccuparti, non si tratta di un trasferimento in manicomio ma di una cosa completamente diversa».
«Allora cosa c’è di tanto segreto? Perché nessuno mi ha detto niente?», chiese la piccola distogliendo lo sguardo. «Se non avessi dovuto preoccuparmene ora saprei qualcosa…».
Watari annuì, comprensivo. «Ti devo delle spiegazioni, ma prima devi promettermi che manterrai il segreto: è una cosa di vitale importanza. Di questo devi preoccuparti».
La bambina era stupita da tale premessa: che razza d’importanza poteva avere il suo trasferimento? Realizzò che doveva trattarsi di qualcosa che andava ben oltre quello che si era aspettata e di quello che le aveva detto Wanda fino a quel momento. Ma cosa poteva c’entrare lei con qualcosa di così importante? Era anche vero che, se una cosa è importante, non la si dice a dei bambini, tantomeno se è un segreto, però… altrimenti perché sottoporla a tutte quelle prove? La cosa era troppo sospetta, troppo strana… e c’era ancora tanto di quel mondo che ignorava, piccola e inesperta com’era: non poteva trovare le risposte da sola, poteva soltanto cercare di capirle quando queste fossero giunte. Guardò in silenzio l’insolito interlocutore poi, visto che sembrava aspettarsi una risposta disse:«Lo giuro».
«Prima però, devi fare una scelta».
«Che tipo di scelta?», chiese la piccola, sempre più confusa.
«Una scelta di vita. Sappi che non sono qui per portarti via contro la tua volontà, hai la possibilità di scegliere: vuoi venire, ovunque io ti porti, o preferisci rimanere a vivere qui?».
Non avrebbe potuto farle domanda più semplice. Era ciò che aspettava. Gli occhi le si illuminarono di una nuova luce di speranza: era la via per andarsene da lì, per uscire da quell’inferno. Non le importava dove, voleva solo andarsene. Quasi non riusciva a crederci: tutte le preghiere innalzate nel nulla, tutti i desideri che aveva espresso alle stelle, tutti i sogni non riusciva a impedirsi di fare si stavano finalmente avverando. Con la voce tremante per l’emozione disse:«No, io… voglio venire con lei».
Watari fece un lento cenno di assenso. «Bene. Allora ti dirò tutto. è una cosa un po’ complicata ma non credo che tu abbia difficoltà a capire».
Sapeva di poter parlare tranquillamente senza che Wanda lo sentisse: in quella stanza c’erano due telecamere. Una, quella di cui si era servita anche Wanda, era stata disattivata ma ce n’era un’altra dalla quale li osservava L.
Così, le raccontò tutto. Si presentò come Watari. Come se il nome non fosse abbastanza originale, non era questa la cosa più incredibile perché lui era il braccio destro del più grande detective del mondo: L. Questi, un giorno, sarebbe morto e c’era la necessita che, una volta successo questo, ci fosse qualcuno pronto a succedergli nell’incarico. I candidati erano ragazzi raccolti da tutto il mondo da Watari che venivano confluiti in una speciale struttura chiamata Wammy’s House. Era lì che si sarebbe trasferita.
«Anche se non succederai a L, non devi preoccuparti: la Wammy’s House da una buona preparazione culturale di base per poter intraprendere, al tempo debito, qualsiasi strada tu voglia percorrere. Se la nostra scuola ha aiutanti sparsi per il mondo e in tutti i campi meglio anche per noi, no? Ovviamente, però, combattere il crimine comporta molti rischi ed è pericoloso lasciare tracce dietro di se. Tu stai per entrare in un orfanotrofio che è anche il nascondiglio segreto del più grande detective del mondo. Come puoi immaginare, ha molti nemici ma non devi temere: non ce modo di risalire fino a lui e, tanto meno, agli studenti della Wammy’s. Perché ciò non accada, è di vitale importanza non lasciare indizi. Capirai quindi che è necessario rimanere in incognito. In poche parole: dovremo distruggere tutti i documenti che ti riguardano e tutte le notizie e gli indizi che portano a te. Questo l’abbiamo già fatto ma, per maggiore sicurezza, c’è un’altra cosa: devi cambiare il tuo nome e dimenticarlo per sempre».
La bambina si era tirata su a sedere e lo fissava inespressiva. “Dimenticare… il mio nome?”
Distolse lo sguardo e fissò un punto vuoto del pavimento. Era pensierosa.
«Non è necessario che sia un nome completo», continuò Watari, «anzi, ancora più consigliabile sarebbe un soprannome. Alla Wammy’s  non siamo molti e ci piace definire i ragazzi come le lettere dell’alfabeto: chi succede a L erediterà la sua lettera. Una sola iniziale la possono possedere solo due ragazzi per volta, di solito un maschio e una femmina. Qui ho l’elenco delle iniziali libere. Mi raccomando: scegli un nome che non assomigli al tuo vero nome». Glielo porse. Lei guardò il foglio dove erano scritte le lettere dell’alfabeto inglese e lo prese in mano e scorse distrattamente l’elenco. In realtà, aveva ben altri pensieri per la mente: il peso di quel discorso l’aveva totalmente spiazzata. Più di una volta, mentre il signore parlava si era data dei fugaci pizzicotti per riuscire a convincersi fino in fondo di essere lucida e di stare davvero vivendo e ascoltando della parole così incredibile. Ma, anche quando raggiunse –con immenso sforzo- questa certezza, ci furono altri terribili dubbi giunti ad assillarle la mente. Perché proprio lei? Tutti le dicevano che era una svampita e una stupida, lei per prima ne era convinta. Il panico cominciò a montarle dentro e le lacrime minacciarono di uscirle dagli occhi. Cosa avevano notato in lei per trasferirla in una scuola tanto prestigiosa? Ce l’avrebbe fatta o avrebbe deluso le loro aspettative? Avrebbe dovuto impegnarsi molto e non era neanche sicura di riuscire a impegnarsi. Ci avrebbe provato ma non era sicura di sapere cosa sarebbe riuscita a fare. Non riusciva a esprimersi. Lei era solo una piccola bambina, una piccola stupida, solamente una piccola…
«Hai deciso?» chiese Watari. La sua voce era calda e rassicurante.
La bambina lo guardò, gli occhi smarriti e lucidi per l’incertezza: non ci aveva ancora pensato. Gli occhi del signore, invece, sembravano così tranquilli e sicuri, come se le comunicassero una silente aspettativa. Distolse nuovamente lo sguardo fissando il pavimento. Si calmò, reprimendo con sussurri nell’animo i battiti affannati del suo povero cuoricino. Allora, ebbe un’illuminazione. Si ricordò di un giorno lontano e di un’antica curiosità.
Sfido che non l’hai mai sentita: non appartiene al nostro alfabeto…
“Non appartiene…”.
«Va bene qualsiasi nomignolo?», chiese: la sua voce era atona ma non tradiva più il fremito causato dalle lacrime.
«Sì», rispose incoraggiante Watari.
Pensò. Sì: quella era la sua etichetta perfetta, la parola che, meglio di qualsiasi altra, la rappresentava nel suo essere fisico e psicologico. Un nome che le calzava perfettamente. Anzi, si stupì del fatto che non fosse stato quello il suo vero nome, perché nessuna parola la descriveva in quel modo. Quella era la parola, non poteva pensare ad una migliore. Dopo un attimo di silenzio, la fece sua.
«Allora… Omicron»
Watari annuì:«Molto bene. Ora, scusa per il ritardo, ma partiremo domani mattina. Puoi andare a prepararti: ti aspetterò davanti al cancello domani. Wanda ti sveglierà presto quindi vai a dormire presto. Ti auguro una buona notte». E così dicendo Watari lasciò sola la bambina.
Lei lo guardò uscire dalla stanza, immobile e pensierosa. Non si mosse nemmeno quando la porta si chiuse e i leggeri passi del signore si spensero nel silenzio del corridoio.
“Non se ne è accorto…”, pensò semplicemente. Si portò le ginocchia al petto tremante, incrociando le caviglie e nascondendo il volto tra le braccia che stringevano le gambe: la “Omicron” non appartiene all’alfabeto inglese.



                                                                     


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E così, anche se non si è ancora vista la Wammy's, si è scoperto il vero significato del titolo. Ora mi rendo conto che una soluzione che a me pareva così ovvia non era così scontata (beh, in fondo il racconto l'ho scritto io... -.-''). Allora mi viene scontato chiedermi... ma voi, cari lettori che avete avuto il coraggio di arrivare fino a qui, cosa ne pensavate? Come vi eravate spiegati questo insolito titolo? Mi piacerebbe conoscere le vostre risposte e, magari, anche qualche recensione, almeno per sapere se c'è davvero qualcuno che mi segue... Ripeto l'appello che avevo anciato già nel messaggio precedente: mi basta un semplice commento, mi va bene anche uno negativo, vorrei solo sapere se qualcuno l'ha letta questa storia. Coraggio, sbizzarritevi: sono aperta a qualunque critica!
Comunque, un ringraziamento a tutti quelli che sono arrivati fin qui, a quelli che vorranno seguirmi anche oltre e a quelli che seguiranno la nostra piccola Omicron in lungo e oscuro viaggio che sembra essere la sua vita.
Un ringraziamento speciale a MikuSama, che non ha mai mancato di recensire, a Eru Roraito, che ha inserito questa storia tra le "seguite" e a Hamber of the Elves (che si sorbisce questa storia da almeno un anno) per l'aiuto-correzione last minute. Grazie davvero! ^ ^

Pendragon of the Elves


P.S.: Non possiedo i diritti per Death Note e nemmeno per l'immagine (di cui ho solo modificato i colori)

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Capitolo 6
*** Gate to the Future ***


Gate to the future

Il nero cancello di ferro battuto era aperto dinnanzi a lei, avvolto in veli di nebbia che lo lambivano come le deboli onde di un giorno senza vento accarezzano gli scogli del mare. Le sue spigolose porte erano spalancate e attendevano solo che lei varcasse quella soglia: il punto dove finiva l’incubo e iniziava il mondo. Dall’altra parte di quella crudele bocca metallica la rassicurante figura di Watari aspettava in piedi a fianco di un’elegante automobile nera, lucidissima: pareva un’astronave tanto era incredibilmente pulita.
Wanda procedeva a fianco a lei. Giunti al cancello, fece un respiro e le porse la sua piccola valigia. Lei l’afferrò con le piccole manine bianche, maneggiandola con grande cura e attenta a non sbatacchiarla troppo perché sapeva che essa conteneva un grande tesoro.
«Abbi cura di te, mi raccomando» le disse semplicemente Wanda.
Mary annuì poi, impaziente ed emozionata come un astronauta che sta per partire alla volta di mondi nuovi e sconosciuti, si voltò e fissò ancora una volta Watari e la macchina, come per accertarsi che fossero ancora lì e che non fosse tutto un crudele scherzo della sua immaginazione. Invece, la macchina era ancora ferma lì, non sfumava come un miraggio ed aspettava solo lei, parcheggiata appena fuori dal cancello.
Con una certa esitazione che recava in se una sorta di solenne lentezza, compì un solo, semplice passo ed infranse la barriera magica che circondava l’orfanotrofio.
Il suo cuore cominciò a battere freneticamente. Era la prima volta che lo faceva, era la prima volta che varcava il cancello: aveva ormai smesso di sperare che sarebbe successo. Eppure era successo davvero: era fuori.
Era talmente emozionata che si dimenticò del tutto di dove si trovava e stette ferma con lo sguardo perso al suolo, nel punto in cui i suoi piedi calpestavano la polvere grigia della strada. Ma quella non era semplice polvere: quella era la polvere del mondo, il punto dove, per la prima volta, lasciava la sua impronta. Per la prima volta, si rese veramente conto che stava per iniziare un nuovo capitolo della sua vita. Non avrebbe più potuto tornare indietro e, pur sapendo dov’era diretta, non riusciva ancora ad immaginare la vita lontana da quel posto maledetto che era stata la sua gabbia da quando aveva memoria. Figuriamoci poi, la sua vita in un posto così speciale, fuori finalmente da quella bolla isolante.
Parlavano tanto di lei dicendo che si chiudeva in se stessa e si isolava da quello che la circondava. Niente di più vero ma anche quel maledetto orfanotrofio l’aveva isolata dal resto del mondo: lei non aveva fatto altro che nascondersi dalle creature maligne che lo abitavano. Gioia, spensieratezza, forza e speranza: quel posto le aveva tolto tutto. Ricordava troppo bene le ore trascorse nella tristezza e nel dolore. Sola, perché gli altri la ripudiavano: erano stati loro a creare la sua stessa gabbia d’insicurezza dalla quale non riusciva più ad uscire, un uccellino chiuso in gabbia a cui erano state strappate perfino le ali. Perché si può essere crudeli anche a cinque anni.
Strinse un pugnetto tremante, scossa. Non aveva più lacrime per piangere la speranza perduta. E, ora che si allontanava, anche solo di qualche centimetro, da quello che era sempre stato il suo mondo, dalla sua vita fino al quel punto, sentiva che la scintilla spenta si riaccendeva. Quello era il primo passo nel mondo vero, il primo passo per una nuova vita. Ora, esattamente come un uccellino, avrebbe lasciato quel crudele nido di rovi, le cui spine le avrebbero lasciato per sempre la cicatrice, e si sarebbe librata in cielo, lontano in mezzo alle nuvole, dove non l’avrebbero più trovata. Sarebbe volata via con le nuove ali che le erano state donate, lasciandosi tutto alle spalle.
Non riusciva ancora a felicitarsi completamente perché aveva timore, timore di quello a cui sarebbe andata incontro. Ma ora, almeno ora, poteva finalmente sperare. Perché quello era un passo verso un nuovo futuro. Era un passo oltre il passato. Proprio lì, dove poggiava i piedi: quello era il punto dove passato e futuro si congiungevano, il punto di partenza di un nuovo d’inizio.
«Beh? Vuoi sbrigarti?» le ingiunse bruscamente Wanda.
Gli occhi di Mary, disturbata dalla sua contemplazione, tornarono al presente: «Oh, sì… mi scusi!». E, senza voltarsi a salutare ancora una volta la rettrice, entrò nella portiera apertale da Watari: la porta per il futuro.  
… Già, proprio quello, quel sedile di pelle nera dove ora sedeva, sarebbe stato il punto d’inizio di una nuova vita.
Trovato il nuovo punto su cui concentrare la sua eccitazione e le sue riflessioni, la bambina poté goderselo per bene e tornò a fissare il vuoto, pensando a quante possibilità le si aprivano dinnanzi (ovviamente una sola: andare alla Wammy’s ma il semplice fatto di aver cambiato orizzonte faceva sembrare quello impostole molto più ampio e meraviglioso di quanto in realtà fosse).
Wanda osservò con tanto d’occhi la piccola che saliva in macchina senza salutarla e rimettersi a fissare il vuoto. Fissò il cielo esasperata e mandò l’ennesimo, esasperato:«Mio Dio…».
Watari ridacchiò. Ormai ne era sicuro: la dirigente era molto inquietata dalle stranezze della bambina. «Arrivederci, Signora Wanda».
«A rivederla»
Quando la macchina partì, Mary si voltò a guardare l’orfanotrofio. Non per nostalgia o altro, solo per il gusto di vedere come appariva visto da fuori, sempre più lontano. Il grosso edificio grigio cemento, con il cancello di punte di ferro e le sbarre alle finestre, pareva percorrere lui la strada a ritroso. Ancora non lo sapeva, ma quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbe visto. Lo fisso scomparire all’orizzonte con occhi spenti: si lasciava così in dietro tutta la sua vita fino a quel punto…
«Ricordati», le disse Watari, «Tu ora non sei più Mary, ma Omicron».
Già, giusto: si lasciava dietro anche la sua identità.
Ma, tanto… a quella chi ci teneva?



                                                          


Fine Prima Parte

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Eccoci qua, cari lettori. Intanto comincio ringraziando tutti coloro cha hanno seguito la mia storia e, non meno importante, la piccola Omicron, fino a qui: grazie davvero di cuore, perché questa storia è molto importante per me e, forse, dice molto più di quanto io non voglia sul mio conto.
Questo capitolo segna un traguardo per me perché, oltre a rendere questa storia la più lunga che abbia mai pubblicato fino ad ora, rappresenta la fine della prima parte del racconto di Omicron, una storia che l'accompagnerà ancora per molto e molto tempo. Ed ora veniamo alle note dolenti, perché il tempo è esattamente quello che mi è mancato in questi ultimi tempi e, anche se la pubblicazione di questa storia è stata regolare, la mia tabella di marcia sta cominciando a sballarsi. Anche se voi leggete questi capitoli una volta alla settimana, vi giungono come la luce del sole giunge sulla terra (ergo: molto tempo dopo la sua reale data di emissione). In verità, è da un anno che lavoro a questo racconto e, dato che ci metto molto a scriverlo e a curarlo nei minimi particolari per i vostri occhi, ho dei tempi molto lunghi. Preferisco portarmi avanti col lavoro e pubblicare la versione definitiva, quella che maggiormente mi soddisfa. Per questo -anche se mi dispiace dirlo- ora mi prenderò una pausa con la pubblicazione. Non so quanto sarà lunga ma posso assicurarvi che, con tutta l'estate a mia disposizione, riuscirò a scrivere molto dato che la scuola mi da tregua. Mi dispiace lasciarvi così ma mi è indispensabile per offrirvi il meglio di me.  Ringrazierò un'ultima volta tutti coloro che mi hanno seguito e recensito (in particolare Hamber of the Elves, Eru Roraito e MikuSama, alle quali sono molto grata) e incoraggio tutti a lasciare, almeno su questo capitolo una breve recensione o un commento, per capire cosa vi è parso di questa storia (accetto anche suggerimenti e critiche negative).
Detto questo, come disse il conte di Monte Cristo: "Aspettate e sperate". Ci rivedremo con questa storia, promesso!
La prossima volta, vi aspetterò dall'altra parte del cancello.

Pendragon of the Elves


P.S.: Non possiedo i diritti per Death Note e per l'immagine

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Capitolo 7
*** Little Spy ***


Little Spy

Un Hacker non è un personaggio dalla spiccata moralità. È una spia: un piccolo occhietto che osserva da un buchino nascosto. Ma,  per quanto quel pertugio possa essere piccolo, quel occhio può scorgere tutto ciò di cui è in cerca. È un pirata, e Internet è il mare dove naviga. Si aggira tra onde di informazioni come fosse a casa propria perché sa che vi può trovare tutto ciò che desidera: una password qui, un raggirò là, qualche aiuto dal traduttore e i suoi occhi potranno leggere anche i segreti più importanti, cose di cui il mondo è all’oscuro. L’occhio di un Hacker può arrivare ovunque si estenda il mare digitale: può accedere a qualunque computer, sia che esso sia dall’altra parte del mondo, sia che si trovi collocato in una piccola stanza da letto di un orfanotrofio a pochi piani di distanza. Facilissimo entrarvi, soprattutto se c’è solo qualche misera password da eludere ed era un’operazione svolta decine di volte nella stessa notte con lo stesso scopo.
“E allora perché mi sento così dannatamente agitato?”.
Q era seduto rigido sulla sua sedia con lo schermo del portatile acceso dinnanzi a lui.
“Si, insomma, …l’ho fatto migliaia di volte… come mai sono così teso? Che diamine! Mi sento un novellino!”.
L’unghia del medio destro picchiettava ritmicamente sul tavolo accanto al mouse producendo un leggero ticchettio. Q se ne accorse e frenò la mano: non voleva apparire agitato… e tanto meno far capire di esserlo. Tanto meno alla persona alle sua spalle.
Si era introdotto centinaia di volte negli archivi segreti dell’FBI, della CIA e di molte organizzazioni segrete del mondo senza lasciare traccia alcuna. Una volta aveva perfino frugato tra i documenti eliminati. Se lo avesse voluto, avrebbe potuto tranquillamente trovare il Power Point della relazione di scienze della figlia del presidente degli Stati Uniti, avrebbe potuto andare a sbirciare gli ultimi programmi per il nuovo videogioco di Super Mario o truffare mezzo mondo su E-Bay… eppure questa volta si trattava di copiare un file da una cartella di un computer con delle misure di sicurezza progettate appositamente perché lui -e lui solo- potesse  violarle e si sentiva come se stesse per fare una cosa che non doveva fare. Lui, che non conosceva regole di restrizione o morali nel spiare i segreti internazionali e questioni di stato, si sentiva in colpa per entrare in un computer di studenti. Ridicolo! Però doveva farlo e anche senza esitare, per non destare sospetti nell’anziano signore che aspettava tranquillo accanto alla stampante con un fascio di fogli in mano.
Così, cercando di non pensarci, Q copiò quel file Word di quattro pagine la cui data di creazione risaliva a poco tempo prima. 
“Mi dispiace, Omicron”.


 




 

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Eccoci qua: Omicron è tornata!
Mi scuso per l'attesa, ma avevo davvero bisogno di prepararmi a dovere la la pubblicazione di questa seconda parte e per riorganizzare un po' le idee in vista degli eventuali sviluppi della storia... che non svelerò certo adesso! xD
Immagino che questo capitolo necessiti di un chiarimento: esattamente come il primo capitolo della prima parte, questo è un flash forward, narra quindi di avvenimenti successivi al filo della trama che stiamo seguendo. Ce ne saranno altri di pezzi così, più avanti, all'inizio di ogni parte del racconto. Vi dovevo una spiegazione come si deve, sopratutto ora che la storia comincia ad entrare dal vivo... o si avvicina alla Wammy's, vedetela come preferite.
Arrivati a questo punto -che non pensavo neanche di poter vedere- , ringrazio tutti coloro che mi hanno seguita e recensita in questo mio primo percorso di storia a capitoli e che si sono interessati al destino della piccola Omicron. Ringrazio in particolare Eru Roraito e Mikusama, che hanno recensito fin dall'inizio, tutti quelli che la seguono o leggono in silenzio (anche se le recensioni sono sempre gradite, eh? xD). Un ringraziamento speciale anche alla povera Hamber of the Elves che si è sorbita tutti miei deliri e momenti di dubbio su questa storia fin dal momento della sua ideazione e ancora, nonostante tutto questo, non si perde mai un appuntamento. Grazie a tutti voi! ^ ^
Alla prossima settimana! ^ ^

Pendragon of the Elves


P.S.: [Non possiedo i diritti per Death Note e nemmeno per l'mmagine (trovata chissà dove nell'immensità del mare digitale...]

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Capitolo 8
*** Orphanage of Flowers ***


Orphanage of Flowers
 

«Siamo arrivati a destinazione».
Omicron aprì gli occhi. Per un momento rimase disorientata. Strappata bruscamente dal mondo dei sogni, non riconobbe il luogo dove si trovava. Quando i suoi occhi misero a fuoco i sedili in pelle nera, credette di stare ancora sognando ma poi si ricordò degli eventi di poche ore prima: era finalmente stata portata via dall’orfanotrofio. Un buon modo di risvegliarsi. Dalla luce che entrava dai finestrini dedusse che doveva essere ormai mezzogiorno. Che strano… come mai la luce proveniva dal soffitto? Poi, anche il senso di percezione della forza di gravità si svegliò, sebbene un po’ in ritardo, e la bambina si accorse si essersi accoccolata sul sedile. “Oh”. Si tirò su a sedere sistemando i capelli all’indietro. Costatò che ora i finestrini erano in posizione naturale. “Certo che dormire fuori orario tira dei bei scherzi…”. Guadò fuori dal finestrino.
La destinazione in questione era un orfanotrofio (la cui vista causò un piccolo brivido di disagio a Omicron). Era un edificio di tre piani, molto curato e grazioso, situato lungo una strada di quella che doveva essere la periferia di una piccola cittadina di campagna. La facciata azzurra era decorata da qualche terrazzino pieno di vasi di fiori colorati: ce n’erano talmente tanti che era incredibile pensare che i cornicioni reggessero tutto il loro peso. Le imposte degli scuretti erano ben lucidati e tende candide di pizzo si intravedevano dietro ai vetri ben puliti. Nascosto dagli alberi doveva esserci un grande giardino che tradiva la sua presenza a causa di alcune allegre risate e vociare indistinto di bimbi.
Omicron deglutì: era dunque quella la sua nuova casa?
Ad un tratto, da una finestra, apparve il volto di una giovane donna, apparentemente sui trent’anni, con dei bei capelli biondi raccolti in uno chignon che fece loro gentilmente segno di entrare.  
Watari scese dalla macchina e le aprì la portiera.
«Bene», disse, «questa è la prima tappa: dobbiamo ritirare altre due bambine. Ci fermeremo qui per un po’: devo sbrigare delle faccende con la rettrice».
La bimba rimase come pietrificata: si era completamente dimenticata di quella tappa (era così contenta di essere partita che non si era preoccupata delle sue future compagne di viaggio) ma, di sicuro, dover incontrare dei suoi coetanei non era un suo desiderio. Temeva gli altri bambini, piccoli e grandi che fossero. Ormai lo stereotipo di bambino che conosceva corrispondeva alla descrizione dei suoi ex compagni: maleducati, scorbutici, violenti nei suoi confronti e pronti a schernirla e a ferirla ogni volta se ne fosse presentata l’occasione. La sua massima aspirazione di rapporto sociale era la sua completa assenza. Non voleva assaggiare di nuovo quella sensazione di solitudine e incomprensione. E ora che scopriva di doverlo fare di nuovo…
Cercò di calmarsi: con gli altri bambini della struttura non doveva starci per molto, quindi non rappresentavano un problema a lungo termine, ma le due bambine… quella era una gatta da pelare (anche se scorticare gatti non era la sua massima aspirazione al momento: da dove li tiravano fuori dei proverbi del genere?). Non aveva idea di cosa fare, di come comportarsi. Forse avrebbe dovuto essere simpatica? Sì, bell’idea, sarebbe stato un ottimo inizio… se solo avesse saputo come si faceva. Si spremette le meningi e non raggiunse alcuna conclusione. E la cosa ebbe il potere di riaccendere il suo stato di allarme: se non se la cavava con le teoria, come poteva cavarsela in pratica?
Si accorse di essere rimasta un secondo con lo sguardo nel vuoto e che Watari le aveva teso la mano. Deglutì, afferrò la mano dell’anziano signore che le sorrideva incoraggiante, e scese dall’auto. “O la va o la spacca!” pensò disperata la piccola che cominciò a capire il significato dell’espressione “ avere il cuore in gola” sperimentando lo strano fenomeno in prima persona. Si diressero verso la sagoma della signora che li aveva salutati e che ora era scesa e si faceva loro incontro con un sorriso gentile, le lunghe, eleganti gambe da ballerina che si alternavano sinuosamente nel passo e lo chignon biondo, che torreggiava sul suo regale capo, che ondeggiava seguendo il loro ritmo saltellante. 
«Buon giorno, signor Wammy! E un piacere rivederla!», cinguettò la giovane, suonando limpida e sincera mentre lo diceva. “Come Maria…” pensò Omicron, anche se dovette notare che la sua compostezza apparteneva più a una versione meno burbera e più principesca di Wanda.
«Signorina Louise, buon giorno» rispose pacato e cortese il signore.
I due si strinsero amichevolmente la mano, poi, dopo qualche cortese formula di cortesia, lo sguardo della -a quanto pareva- “signorina Louise” si spostò su di lei, gentile come una farfalla che si posa su un fiore. Notò che i suoi occhi erano perfettamente turchini e limpidi come il suono della sua voce.
« È lei l’altra bambina? Come sei piccina!».
La bimba piccina distolse lo sguardo, imbarazzata, mentre il capo, che annuì impercettibilmente, sembrava voler essere assorbito dalle spalle.
«Che timidona!», disse con la sua risata cristallina, e si piegò un po’ avanti per parlarle ancora.
Omicron si agitava imbarazzata invocando un aiuto celeste per distogliere da se il mirino di quei gentili occhi azzurri che la fissavano sorridenti. Pur sforzandosi, non riusciva a sostenere il loro sguardo per più di un secondo a causa dell’imbarazzo che quell’attenzione le provocava. Capendo, forse, lo stato d’animo della bambina, Louise le diede una carezza sulla testa ridendo. Le ricordava un po’ Maria, solo un po’ meno agitata e molto più paziente: il suo morbido accento francese contribuiva a creare un’aura di dolcezza attorno a quella figura elegante da ballerina.
«Com’è carina!» disse rivolta a Watari, che osservava sorridendo la scena. «Ma, ora, che ne dici piccola di fare un giro nel giardino? Potresti giocare con qualche bambino, o, magari… puoi andare dalle tue nuove compagne, sono…». Si interruppe e fissò Watari. I suoi occhi dolci si fecero più tristi e malinconici, emozioni che emergevano da quegli specchi azzurri rendendoli più umidi da vedersi, quasi stesse per commuoversi.
«Immagino che meno sappia di loro meglio sia, vero, signor Wammy?», mormorò assente.
Watari annuì: «La loro vecchia identità deve rimanere il più possibile segreta».
Quasi si aspettò delle parole di conforto o pietà da quella situazione che però, non giunsero, anche se Omicron le vide, quelle parole, salire verso le labbra della signorina Louise e, bloccate appena in tempo, gonfiare il petto in un gran sospiro triste che in se racchiudeva, concentrato, il significato di quei pensieri taciuti.
«A questo proposito», continuò Watari, «abbiamo delle faccende da sbrigare».
Luoise annuì, con gli occhi chiusi:«Mi permetta di accompagnarla nel mio ufficio». Si raddrizzò e sorrise alla bimba:«Non vorrai ascoltare le noiose faccende dei grandi tu, vero?», le domandò, gentile –da queste parole Omicron capì che non erano discorsi per grandi, ma semplicemente molto riservati-, «Ma non credo tu abbia voglia di giocare: hai il faccino stanco. Non preoccuparti: so che hai passato tante ore in macchina e ho preparato una stanzetta tutta per te dove potrai riposarti un momento». Le porse la mano incoraggiante:«Andiamo?».
Omicron gliela strinse esitante e si stupì di quanto la sua pelle fosse fresca e liscia come quella di una ballerina di porcellana.
Seguendo la direttrice, attraversò un sacco di ariosi corridoi e luminosi ambienti entro i quali, l’elegante figura di Louise sembrava muoversi come dentro un mondo disegnato apposta per lei. Tutto in quell’orfanotrofio era elegante ed ordinato, le finestre erano molte e decorate con delle tende pulite che donavano all’interno una luce soffusa e rilassante. L’arredamento era raffinato, curato e calcolato nei minimi dettagli. Ovunque c’erano delle poltroncine dall’aria confortevole, delle mensole con delle fotografie ben riuscite, dei quadri dalle tinte chiare e luminose. E c’erano dei vasi ricolmi di fiori ovunque, così come ovunque aleggiava il loro delicato profumo. Alla bambina sembrava di procedere all’interno di una casa di bambola: era incredibile pensare che li dentro quell’ordine potesse sopportare il flagello dei bambini.
Alla fine, giunsero dinnanzi ad una porta di legno situata in una della zone adibite agli ospiti e le fece cenno di entrare.
«Qui dovresti stare tranquilla per un po’», disse, aprendo la maniglia con un delicato movimento del polso, «non hai l’aria di volere dei contatti con altri in questo momento».
“Su questo ci può contare…”, pensò Omicron infilandosi velocemente nella stanza, come temendo che, proprio in quel momento, avesse potuto presentarsi un “altro”.
Con un cenno di saluto della mano, Louise chiuse la porta, lasciandola sola. Poi esitò guardando la chiave dorata infilata nella toppa e, voltandosi verso Watari, chiese:«Dovrei…?».
«Non è necessario: non credo abbia nemmeno la voglia di uscire da lì», rispose il signore.
Louise diede un triste sguardo alla porta prima di lasciare lentamente, quasi accarezzandola, la maniglia. L’ultimo dito impiegò un tempo eterno a staccarsi dall’ottone, quasi le si stringesse il cuore a doverlo abbandonare così e come se quella carezza fosse un tacito, invisibile segno di comprensione e addio.
«Anche le altre due sono…?», chiese Watari, a bassa voce.
«Sì», mormorò la signorina, «isolate».



                                                                    



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Eccomi ancora qui! Come avevo promesso, questo capitolo è più lungo, anche se non siamo ancora arrivati al punto che molti aspettavano da tempo... (mi dispiace! v_v)
Siamp tornati a seguire il tempo della nostra storia e vediamo qui la nostra piccola Omicron (che soddsfazione poterla chiamare così! xD) che si prepara ad affrontare una nuova sfida: l'incontro con le sue compagne. Non temete, le incontreremo nel prossimo capitolo! (ovvero tra due settimane).
Ringrazio ancora una volta tutte le persone che hanno letto questa storia e, in particolare, Hamber of the Elves, Eru Roraito e Miku Sama che hanno recensito e seguito fin dall'inizio.
Prossimo appuntamento, il 21 luglio! (mi scuso, ma ho davvero necessità di allungare i tempi di pubblicazione!)
Alla prossima! ^ ^

Pendragon of the Elves

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Capitolo 9
*** Nest of Courage ***


Nest of Courage
 

La stanza dove avrebbe dovuto aspettare era un piccolo salotto per gli ospiti, simile a quello del suo vecchio orfanotrofio ma molto più piccolo e molto più grazioso. Le poltroncine erano posizionate attorno a un piccolo tavolino tondo dal piano di vetro da cui scendeva una tovaglia bianca fatta all’uncinetto. Sopra, oltre all’immancabile vaso di fiori, c’era un bicchiere di tiepido latte al cacao con un generoso numero di pasticcini e biscotti poggiati su un piattino accanto, lasciti lì per lei: probabilmente erano il pranzo.
Aspettò lì per un po’, sorseggiando pian piano il latte. Guardò l’orologio: erano le quattro passate –quasi le cinque, a voler essere precisi- e il sole sembrava già  stare tramontando dato che la sua luce prendeva il colore delle foglie degli alberi prima di giungere alla finestra. Louise doveva essersi premurata di procurarle un pasto non esageratamente sostanzioso data l’ora ormai tarda per un pasto canonico.
Ad un tratto sentì dei rumori. Da prima erano molto lontani e soffuso ma, quando si avvicinarono, si fecero più nitidi e distinti cosicché poté riconoscere i rumori di bambini che ridevano e piedini che si avvicinavano sempre più velocemente. Il suo cuore cominciò a battere sempre più forte mentre il trambusto si avvicinava sempre di più e il suono veniva convogliato proprio in quel corridoio: venivano lì. Era rimasta come impietrita, talmente spaventata da non riuscire nemmeno a muoversi ma, quando ebbe le orecchie talmente piene di quel suono da sembrarle già dentro la stanza, superò perfino la soglia dell’immobilità.  Atterrita, si lanciò velocemente dietro una tenda, con la paura di essere stata troppo lenta. La stoffa la avvolse completamente appena in tempo. La maniglia si abbassò e dei bimbi entrarono rumorosamente.
«No, non è neanche qui!» disse la voce di un bimbo piccolo.
«Te l’ho detto: qui non viene perché è fifone!». Questa era la vocina acuta e dai toni antipatici di una bambina: entrambi dovevano avere 5 o 6 anni. Evidentemente cercavano qualcuno.
«Oh, guarda!».
Le si gelò il sangue nelle vene: che l’avessero vista? Sentì degli allegri passetti avvicinarsi, le sagome offuscate dei bimbi attraverso la tenda si fecero più vicine mentre il suo cuore batteva sempre più forte, tanto forte che aveva paura potessero sentire quei battiti. Quasi non ci credette quando si fermarono davanti al tavolino di cristallo: con immenso sollievo, constatò che la loro attenzione era stata attratta da altro.
«Mmhh… biscotti!».
«Che buoni…».
Se li infilarono in bocca e nelle tasche con una fretta e una furia degna dei ladruncoli più fetidi e della più bassa lega. Anche se, forse, perfino un ladro avrebbe avuto qualche sospetto o qualche minimo ripensamento prima di appropriarsi così di qualche cosa evidentemente lasciata lì per qualcun altro.
«Andiamo a cercarlo!», esclamò il bimbo, una volta spazzolati tutti i biscotti.
«Sì, io so dove potrebbe essere!».
Le loro voci si allontanarono e Omicron tornò a respirare, comparendo nuovamente da dietro la tenda, leggermente tremante. Tese cautamente l’orecchio verso il corridoio, come una lepre che sbuca allertata dalla sua tana: non avvertiva segni di attività infantili nelle vicinanze. Senza pensarci due volte, infilò veloce la porta e uscì: ne aveva piene le tasche di aspettare e, poi, quel posto non era mica tanto isolato!
Nascondendosi a ogni angolo e ricostruendo il percorso a memoria, riuscì ad arrivare, correndo, come perseguitata da un fantasma, fino in cortile senza incontrare o essere vista da nessuno. Si avventurò tra gli alberi, allontanandosi dall’edificio e si fermò solo una volta in salvo a riposare appoggiandosi al tronco di un albero. Ebbe il tempo per dare un’occhiata in giro.
Era un giardino abbastanza grande e pieno di alberi: pareva quasi una piccola foresta costellata di alcuni giochi per bambini come altalene colorate, scivoli e giostrine varie. A terra per pieno di mucchi di foglie cadute, raggruppati, un po’ qui e un po’ la, dal lavoro curato di qualche giardiniere.  Molti, come quello che aveva di fronte, erano altri almeno un metro e mezzo. Cercò di pensare a dove andare quando due voci sgradevolmente famigliari le giunsero sgraziate alle orecchie.
«Lo sapevo che non era nel dormitorio».
«Secondo me è qui nel giardino…».
Erano i bambini che poco prima avevano fatto così bruscamente irruzione nel salottino: li riconobbe dalle voci e dal loro insistente masticare.
“è una maledizione o cercano me?”, pensò Omicron col cuore in gola, schiacciata contro il tronco, spesso appena sufficientemente a per nascondere il suo corpicino.
«Cerchiamolo!»
«Avanti, marsch!»
Sentì i loro piedi gironzolare e scrocchiare tra le foglie cadute, impotente e immobile: si stavano avvicinando e non sapeva dove nascondersi. La situazione si faceva critica: di questo passo, l’avrebbero trovata di sicuro. Si guardò disperatamente attorno, senza riuscire a trovare alcun nascondiglio o a ideare nessun piano di fuga. Alla fine, senza pensarci due volte, si aggrappò saldamente con braccia e gambe al tronco dell’albero e si arrampicò velocemente strisciando sulla corteccia: in quanto a velocità e tecnica, avrebbe fatto invidia ad uno scoiattolo. Quando riuscì a issarsi su un ramo si ritrovò piuttosto in alto, coi i vestiti pieni di pezzetti di corteccia e le mani sbucciate. Ironicamente, più che dall’altezza o alle condizioni in cui la sua persona versava, la cosa che la preoccupava maggiormente –per non dire che la terrorizzava- era la vicinanza con quei terribili bambini. Ma non poteva farci nulla: era intollerante alla crudeltà dei suoi coetanei e la temeva a tal punto da incorrere in pericoli che ad altri sarebbero sembrati ben peggiori pur di scamparle. Era solo una questione di priorità.
Proprio in quell’istante, i due inseguitori passarono sotto all’albero.
«Secondo me è andato…».
«Io ho la noia! Andiamo a giocare coi lego!».
«Sì! Così se non c’è Lucas, lo uso io il robot!».
Tra indistinti vocii e scricchiolare di foglie calpestate, senti i due bimbi allontanarsi chiassosamente all’interno dell’orfanotrofio.
Tirò un sospiro di sollievo. Chiuse gli occhi premendosi una mano sul petto come per cercare di calmare i battiti impazziti del suo cuore: pulsava così forte che le sembrava di sentire dimenarsi tra e mani un piccolo passerotto. Alla fine, riuscì a tranquillizzarsi e si guardò attorno. Si rese conto di essere seduta su un ramo abbastanza alto da ritrovarsi completamente immersa nelle foglie arancioni. I raggi del sole pomeridiano vi passavano attraverso investendola di luce dorata. Era così bello: sembrava di trovarsi in uno scrigno di topazio. Un nascondiglio morbido e tiepido, costruito su misura per lei. Rimase a crogiolarsi in quel mondo arancione, ormai dimentica del suo divieto di uscire dalla stanza.
Che poteva farci? Era terrorizzata dagli altri: in tutta la sua vita non aveva incontrato che bambini spregevoli e crudeli. Piccoli mostri disgustosi che la facevano sentire peggio di quello che loro sembravano a lei. Sperò che le sue nuove compagne non fossero così. Si strinse le ginocchia al petto, angosciata. Non le restava che aggrapparsi a quella effimera speranza: non sapeva cosa avrebbe fatto quando le avesse incontrate. Sospirò di nuovo. “Beh, almeno, per un po’ le starò lontano…”.
«Ehy, chi c’è là sopra?».
La voce, che proveniva da poco sotto di lei, sul ramo inferiore, la fece sobbalzare.
«AAAH!», gridò per lo spavento. La sorpresa le fece perdere l’equilibrio e cadde dal ramo addossò alla nuova venuta trascinandola con se a terra.
Si sarebbero spezzate l’osso del collo se, ai piedi dell’albero, non ci fosse stato quel provvidenziale mucchio di foglie e un altro individuo su cui cadere. Crollarono tutte e tre nel mucchio di fogliame secco in una pioggia di foglie gialle, rosse e arancioni.
«Ahi, Ahi, la mia testa!», si lamentò una bimba con dei corti capelli arancioni che le ricadevano in ciuffi ribelli sulla fronte e sul collo, quella che l’aveva spaventata.
«Si può sapere che è l’imbecille che mi è caduto addosso?!».
Un’altra bambina emerse dal fogliame. Aveva dei lunghi capelli neri legati in una coda alta che accarezzava le spalle e che lasciava due ciuffi corvini incorniciare il visetto avvampato per la rabbia.
«Ehy, scusa!», fece capelli-arancioni, «è quella che mi è caduta addosso!».
Capelli-neri le indirizzò un’occhiataccia e poi si voltò verso Omicron che tentava inutilmente di divenire tutt’uno col mucchio di foglie e scomparire. Evidentemente non era abbastanza arancione, perché la individuò subito ma il suo sguardo si fece meno aggressivo, forse vedendo la sua espressione atterrita.
«E tu chi saresti?»
«Ehm…», era arrossita per la vergogna, l’imbarazzo e la paura: tre sensazioni che il suo cuore non poteva reggere contemporaneamente, soprattutto se il suo senso di sopravvivenza le gridava talmente forte nelle orecchie da non riuscire a pensare. Soprattutto se non poteva rispondere alla domanda: non poteva dire chi era, Watari glie l’aveva raccomandato. Cosa doveva dire? Il suo nuovo nomignolo sarebbe parso molto più strano ed insolito e non tornava certo utile in quella situazione. Non avrebbe neanche dovuto farsi vedere. Non avrebbe dovuto uscire dalla stanza. Era davvero una stupida! Non sapeva cosa inventare, di sicuro non poteva dire nulla della Wammys’ House. Cominciava davvero bene come allieva per una scuola del genere!
Fortunatamente, una voce graziosamente contrariata la trasse d’impiccio cinguettando.
«Bene, vedo che vi conoscete già».
Le tre si girarono: in piedi, con le braccia incrociate compostamente sul petto e la testa inclinata di lato, c’era Louise. Accanto a lei Watari ridacchiava sotto i baffi.
«Qualcuno qui è davvero disubbidiente», continuò la rettrice picchiettando con un piede per terra.
«Mi dispiace, signorina Louise», disse la ragazza dai capelli corvini, celando a stento una leggera insofferenza nella voce, «Ma non ne potevo più di stare la dentro: ormai sono passate più di tre ore…».
«Si lamenta lei», bofonchiò la ragazza dai capelli arancioni, «io sono prigioniera da un giorno intero…».
Omicron era sempre più confusa. “Ci conosciamo già?”, pensò, immediatamente prima che un pensiero sospetto la folgorasse. “Non saranno mica…?”.
Louise le si rivolse sorridendo:«Beh, piccola, la frittata è fatta: queste sono le tue nuove compagne».
Lei le osservò, incuriosita e intimidita allo stesso tempo, incontrando i loro sguardi svegli.
La ragazza dai capelli arancioni aveva un visetto grazioso con grandi occhi azzurri e un nasino a punta costellato di lentiggini che le ricordava vagamente quello di un folletto (o almeno, quello che secondo il suo immaginario era il naso di un folletto). Come lei indossava indumenti larghi e maschili: un paio di morbidi pantaloni marroni che ricadevano larghi ai piedi e una maglietta dentro la quale il suo corpicino sembrava navigare. I suoi espressivi occhi brillavano di intelligenza curiosa.
L’altra appariva completamente diversa, quasi venisse da un altro pianeta. Aveva lunghi capelli neri come i suoi ma, a differenza di lei, li teneva fieramente legati in un’elegante coda alta, senza paura di mostrare al mondo il suo viso dai lineamenti fini, quasi aguzzi, maturi per una bambina. Nella pelle pallida erano incastonati come due lucenti ossidiane gli indagatori occhi neri dal taglio a mandorla, un po’ come i suoi ma che ricordavano più quelli freddi e maestosi di un corvo. Indossava, come l’uccello le sue piume, degli abiti neri: pantaloni neri, una felpa nera e degli stivaletti del medesimo colore. Anche lei esprimeva un’aura d’intelligenza, tanto da farla sembrare più matura rispetto a quello che la sua età consentiva: non poteva essere più di un anno più grande di lei. Nonostante gli elementi che le potevano accomunare, appariva molto diversa, un’altra persona, probabilmente il suo opposto: acuta, riservata (non che lei non lo fosse) e sicura, assolutamente padrona di se. Omicron si sentì profondamente in soggezione a vedere quelle due paia di occhi scrutarla molto meno discretamente di quanto aveva timidamente fatto lei.
«Bene, piccole», fece Louise interrompendo il loro silenzioso –quanto imbarazzante- confronto, «credo che sia tempo di andare: si sta facendo piuttosto tardi e voi avete ancora parecchia strada da fare». Si volse poi verso Watari sorridendo:«Credo che qui sia stato detto tutto ciò che bisognava dire».
«Credo abbia ragione», asserì l’anziano signore.
Louise guardò nuovamente le tre bimbe ancora semi-immerse nel nido di foglie: un giovane corvo, un curioso passerotto e una timida cincia.
«Bene», mormorò diretta a nessuno in particolare, un sorriso nostalgico dipinto sul volto assente, «è tempo di spiccare il volo…».
 
Watari aprì loro la portiera ed esse salirono riluttanti, non sapendo poi dove sarebbero scese all’arrivo. Lo spazio ristretto dell’automobile le fu spaventosamente avverso: si ritrovò seduta in mezzo alle due. Il cuore le batteva da impazzire nel petto tanto era agitata. Avrebbe desiderato di essere in un altro posto se ne avesse avuto uno dove andare.
«Arrivederci, signorina Louise», disse Watari salendo in auto.
Lei chinò il capo col suo sorriso triste: nella luce del pomeriggio morente sembrava una bambola di porcellana, con la sua lunga gonna e il suo ordinato chignon. «Arrivederci».
L’auto partì. La figura della signorina Louise rimpiccioliva in lontananza, il fruscio sinuoso delle sua gonna mossa dalla brezza diveniva sempre più indistinto e i contorni della sua figura sempre più indistinti, come un miraggio: un miraggio ammantato di bianco in un tramonto di settembre.
Nessuno disse una parola mentre l’intero edificio e il suo verde giardino non scomparvero all’orizzonte.
La ragazza dai capelli arancioni intercettò nel riflesso dello specchietto retrovisore gli occhi di Watari e, per quell’istante di istante contatto visivo, sembrò scambiare una silenziosa occhiata d’assenso con l’anziano signore.
«Io mi chiamo Fi», fece rivolgendosi alle altre due.
«Io sono Niky», disse la ragazzina dai capelli neri, intuendo al volo il messaggio di quello sguardo e l’implicita raccomandazione lanciata anche a loro.
«E tu come ti chiami?», chiese Fi.
Si rivolgeva a lei. Stette un attimo in silenzio, impaurita: indecisa se scegliere le parole giuste per presentarsi o cercare prima di calmarsi. Ma, nell’emozione, le parole non giungevano e l’agitazione saliva man mano che il suo silenzio si faceva sempre più lungo ed imbarazzante.
«Che c’è? Non puoi parlare?», continuò la bimba avvicinando il volto al suo.
Ora la fissavano tutte e due e lei non riusciva a guardarle. Strinse i pugnetti: le mancava anche solo la forza per alzare lo sguardo. I loro occhi, la loro attenzione, i pensieri che quasi sentiva strisciare nelle loro menti, tutto questo era davvero insostenibile. Dentro di sé, cominciò a fremere d’agitazione: voleva solo sparire, voleva solo divenire invisibile, fuggire da li, voleva…
“No… che sto facendo?”, pensò all’improvviso, “Io… non posso fuggire ora”. La schiacciante innegabilità della realtà la folgorò in tutta la sua concretezza: non aveva vie di scampo, l’unica cosa che poteva fare era cercare di uscir da quella situazione. Fu come se una luce le si fosse accesa nel petto. Con uno sforzo immenso e determinato, alzò lo sguardò, rassegnata a vedere su di loro sguardi di derisione. Ma, con sua enorme sorpresa, sui volti delle due bambine non ve n’era traccia: si limitavano a fissarla incuriosite, in attesa di una parola, un segno da parte sua. Allora il nodo in gola le si sciolse e, senza dover pensare, la voce e le parole le uscirono spontaneamente:«Io… sono Omicron».
 
Da dietro non proveniva più alcun rumore.
Watari, intento nella guida, diede una rapida occhiata allo specchietto retrovisore. Sul sedile posteriore, le tre bambine riposavano tranquillamente, l’una appoggiata alla spalla dell’altra, tutte e tre con i tre visini allineati, gli occhietti chiusi e le boccucce semiaperte. I loro piccoli petti si alzavano e si abbassavano lentamente in sincrono: si erano addormentate.
Watari sorrise non riuscendo a impedirsi di pensare che, viste così, nonostante le differenze, sembravano quasi delle sorelline. I suoi gentili pensieri di anziano volteggiarono malinconicamente sui lidi tetri e colmi di amarezza dov’era inevitabile che si posassero. Delle bambine che non avevano avuto fortuna, come delle esili borse di plastica completamente in balia dei capricciosi e incontrastabili venti della vita; delle piccole anime gettate nel mondo senza uno scopo, senza un punto di riferimento, senza una famiglia: uniche e sole in quell’universo buio e avverso, chine e sofferenti sulle loro morenti fiammelle di speranza. Quanto i loro piccoli cuoricini dovevano aver sofferto nella loro vita solitaria, nessuno poteva saperlo. Ma ora non avevano più motivo di piangere: forse loro ancora non se ne rendevano conto, ma la loro vita aveva subito una svolta e procedeva su una strada che, anche con tutte le sue curve e asperità, era solida e sicura; navigavano sempre più in un mare di mille nuove opportunità, il campo dei desideri. Era certo che, dov’erano dirette, avrebbero finalmente trovato un nido caldo e sicuro nel cuore della tempesta e provato per la prima volta il calore e l’affetto di un’autentica famiglia.
Dopotutto, pensò Watari, era il sogno a cui aveva dedicato la sua intera vita e ci aveva messo tutto se stesso: sarebbe stato davvero riprovevole che non gli fosse riuscito.



                                                       



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Eccoci qua, cari lettori: il proseguo della prima tappa della piccola Omicron nel suo viaggio verso la Wammy's. So che molti di voi non vedevate l'ora di incontrare i vostri personaggi preferiti ma, purtroppo, dovrete aspettare ancora un po' e prepararvi a conoscerne di nuovi.
In questo capitolo, che mi è molto caro, la piccola bambina pallida dal cuore timido incontra alcune delle sua compagne di viaggio: un viaggio che le condurrà assieme verso orizzonti inesplorati, nuovi e diversi per ognuna di loro. Ci tengo a questa parte perchè segna la divisione tra i pezzi scritti l'anno scorso e quelli scritti quest'anno, una differenza abissale -a mio parere- insorta nella mutazione del mio stile di scrittura. è lungo e assurdo a tratti, ma è ricco di emozioni e attimi di incertezza e di incontri, come, del resto, la vita e il suo corso. Ma non sono questi i motivi per cui lo amo così tanto.
Ringrazio tutte le persone che hanno letto questa storia e quelle che l'hanno recensita ma, per questo capitolo, il mio ringraziamento più sentito e grande va alle "Fi" e "Niky" della mia vita, che hanno ispirato questi personaggi e che sono la mia luce nelle tenebre: grazie, dal più profondo del cuore.

Pendragon of the Elves



P.S.: E ora le comunicazioni di servizio: il prossimo aggiornamento è in data incerta ma, probabilmente, il 2 agosto; l'immagine non è mia e non possiedo i diritti per Death Note, solo per i miei personaggi.

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Capitolo 10
*** The Arrival ***


The Arrival
 

«Bene, bambine, siamo arrivati».
Le tre, ancora assopite sul sedile posteriore, furono riportate alla realtà dalla voce di Watari. Omicron si stropicciò gli occhi, ancora con un piede nel mondo dei sogni.
«Siete arrivate nella vostra nuova casa».
Con un tuffo al cuore, guardarono fuori dal finestrino. Era ormai buio e, nella scarsa luce della sera, non si distinguevano bene le forme ma la loro curiosità mostrò anche ciò che i loro occhi non videro.
Oltre un alto cancello di ferro nero, si distinguevano, stagliate contro il cielo, le sagome di alcuni grandi alberi e, tra quell’oscura massa di fronde spuntava il profilo di un edificio cubico di almeno quattro piani. Le uniche luci nel buio erano i fasci dei fanali della macchina e i luccichii dorati delle luci accese alle finestre. Omicron non poté impedirsi di pensare che, se la casa della fata di Pinocchio esisteva, doveva assomigliare a quella. E, esattamente come fosse una casa fatata, la stradicciola che conduceva alla sua porta riluceva sotto la luna appena sorta come una scia di polvere di stelle.
Era una vista suggestiva ma in fondo al cuore aveva timore:  ora più che mai aveva paura di quello che il futuro le avrebbe riservato. D'altronde, neanche i condannati a morte capivano bene cosa li attendeva finché non vedevano il patibolo di fronte a se. In quel momento, le stava accadendo la medesima cosa: aveva compiuto lei la scelta di abbandonare l’inferno che conosceva per un futuro incognito e, nonostante tutto il tempo che aveva impiegato a raggiungere la sua destinazione, solo ora si accorgeva che, forse, poteva essere peggio di quello che aveva già passato. La c’erano altri bambini, altre persone, un’altra vita, un intero altro mondo ad aspettarla oltre quella soglia, ma chi le assicurava che non fossero stati esattamente uguali a quelli che aveva appena lasciato alle spalle? Cominciò a tremare: aveva troppa paura di varcarla e scoprire di aver intrapreso la strada sbagliata.
In quel momento, sentì un tocco vicino al collo: era Niky che le aveva poggiato una mano sulla spalla. La stava guardando intensamente.
«Coraggio», le disse.
Omicron la fissò sbalordita. L’aveva… incoraggiata? Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per lei: non sapeva come reagire. Forse avrebbe dovuto ringraziarla ma le emozioni le serravano terribilmente la gola. Si limitò ad annuire cercando di apparire convinta. Tornò a fissare fuori e cercò di reprimere il terrore: tanto, ora non poteva più tornare indietro.
Impegnata in quella in quella faticosa battaglia emotiva non si accorse, così come le altre, delle incredibili procedure che Watari, sportosi dal finestrino, stava svolgendo al cancello per entrare, né delle decine di telecamere puntate su di loro e nemmeno dell’invisibile e fittissima rete di raggi laser che stavano sondando l’auto e la targa. Watari fissava quello che sarebbe apparso come un normale citofono se non fosse stato per quel raggio di luce blu che gli stava scansionando la retina.
«Sono Watari».
Un microfono registrò la voce del signore ricordandone la frequenza.
«Q, facci entrare»
Dopo un attimo di silenzio, dall’altra parte gli rispose una voce metallica.
«D’accordo»
Il cancello di ferro si aprì quasi senza rumore ma con una lentezza solenne che avrebbe fatto invidia al portone levatoio della più imponente fortezza di Bretagna. L’auto nero entrò nel cortile anteriore.
Watari aprì loro la porta e porse loro i rispettivi bagagli. Non fu una scortesia da parte sua non portarglieli a mano poiché consistevano in tre piccole, semplici valigie contenenti i loro poveri averi. Per Omicron sembrò strano constatare che la loro vita fino a quel momento rappresentasse un così leggero peso. Già: nulla al confronto con la paura che pesava come piombo nel loro cuore (o nello stomaco, poiché sembrava che la piccola Fi, quasi livida per il mal di pancia, somatizzasse in quel punto).
Seguirono riluttanti Watari per il piccolo sentierino, l’una stretta alle altre. Erano talmente tese che, quando il cancello si chiuse alle loro spalle con un colpo metallico, fecero un salto sul posto.  Man mano che si avvicinavano, l’edificio si faceva sempre più grande fino a che non occupò, con la sua mole resa più grande dal buio, tutto il loro campo visivo. Era enorme, immenso, terribile e, a quel punto, inevitabile poiché, da quel momento, rappresentava la soglia del loro futuro. E loro stavano per varcarla.
«Signorine», disse Watari con un sorriso incoraggiante, «Benvenute alla Wammy’s».




                                                                    



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Rieccomi qua! ^ ^
Ok, ragazze, siate sincere: quante mi odiano per essermi fermata a questo punto? ^ ^'' (uh, non sono davvero sicura di volerlo sapere... °_°)
Mi dispiace davvero ma il capitolo sarebbe risultato davvero troppo lungo. ...
... Ok, c'è anche una ragione stilistica in mezzo: in questo modo si separano in modo più netto le loro impressioni da quello che poi vedono in realtà. E, ora mi riderete dietro, ma è anche una questione di colori: sì, perchè, mentre qui l'atmosfera è buia e misteriosa, nel prossimo sarà diversa... ma non vi voglio anticipare niente! ;P Continuerete a seguirmi e vedere di che colore dipingerò la Wammy's? :D Chi lo sa... intanto posso solo dirvi che sarà il 18 agosto. Altra comunicazione di servizio: domani stesso partirò per una settimana di vacanze quindi non offendetevi se non ricevete mie risposte subito: sarò a saltellare per i monti assieme ad Hamber of the Elves (che, probabilmente, mi fisserà esterefatta con il suo famoso sopracciglio alzato per gran parte del tempo) (Ti voglio bene, Hamber! xD).
Ringrazio tutte le persone che leggono questa storia e chi l'ha recensita: MikuSama, Eru Roraito, Clalla97 che ha cominciato da poco, e, ovviamnte, l'onnipresente Hamber of the Elves.
Alla prossima e... buone vacanze! ^ ^


Pendragon of the Elves


P.S.: Avete visto che è rispuntato Q? :D

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Capitolo 11
*** Golden Light ***


Golden Light
 

La porta si aprì dinnanzi a loro. La calda luce dorata proveniente dall’interno creò un nuovo riquadro luminoso nelle tenebre della notte. Rimasero un attimo abbagliate, i loro occhi ancora abituati alla scarsa luminosità della luna, riuscirono solo a scorgere appena in tempo una sagoma che si delineava sulla soglia.
«Ben tornato, Watari!».
A salutarlo era stato un signore che doveva aver passato da un po’ la mezza età: aveva i capelli bianchi e canuti che, mentre ai lati dal cranio stavano allegramente ritti in aria, sulla nuca cominciavano a scarseggiare. Era molto magro, dal volto scavato, e aveva la postura un po’ gobba di chi sta molto tempo –forse troppo- chinato in avanti. Indossava degli abiti sobri ma larghi, entro i quali la sua smilza figura sembrava solamente più buffa. Eppure una certa insofferenza nei tratti del suo volto comunicava che non c’era nulla di cui ridere. Omicron lo fissava con gli occhioni spalancati nascosta dietro Watri. In quel momento, seppe che tutte e tre stavano pensando la stessa cosa: era davvero incredibile quanto assomigliasse ad un clown depresso.
«Buona sera, Roger», rispose Watari.
In quel momento, colui che a quanto pareva rispondeva al nome di Roger, si accorse delle loro testoline che sporgevano da dietro l’amico. Si ritrassero spaventate al suo sguardo.
«Vedo che mi hai portato qualcuno», mormorò con un ghignetto.
Quando Watari si scostò, rimasero completamente esposte dinnanzi alla porta.
«Signorine…», fece Roger, sorridendo della loro timidezza, «vi do il ben venuto, alla Wammy’s House. Mi presento: io sono Roger, il co-direttore di questo edificio».
«Piacere di fare la sua conoscenza», rispose Niky per tutte e tre: lei non sembrava affatto intimidita.
Il co-direttore sembrò leggermente sollevato:«Che bambina educata! La cosa mi fa davvero piacere. E tu chi saresti, piccola?»
«Roger», lo interruppe Watari con la sua voce calda, «abbiamo fatto un lungo viaggio in macchina e le signorine sono stanche: ci vuoi lasciare in piedi sulla porta?».
Roger lanciò loro uno sguardo: in effetti sembravano abbastanza sciupate, Fi stava addirittura dondolando dal sonno. «Giusto, scusate! Entrate pure…». Si scostò dalla porta e le fece entrare.
Quello che videro quando entrarono superò ogni loro aspettativa perché su qualunque cosa si posasse il loro sguardo non sembrava appartenere ad un normale orfanotrofio. All’ingresso, dove solitamente c’era uno spartano atrio per accogliere i visitatori e gli ospiti o radunare i bambini, c’era un’accogliente entrance dal pavimento in legno, tappeti per pulirsi le scarpe e d eleganti appendiabiti verticali di legno scuro. Faceva piuttosto caldo li dentro e il buon odore faceva loro intuire che, da qualche parte, c’era un caminetto che bruciava.
«Potete darmi le giacche», disse loro Roger, «per ora le appenderemo qui. E lasciate pure qui le valige, le porterete su dopo. Ora, se volete seguirmi da questa parte…».
E le imboccò la porta che si apriva a destra, guidandole in una stanza limitrofa che aveva tutta l’aria di essere un salotto. Al centro, v’era un grande di vano dall’aria comodissima e famigliare. Anche in quella stanza, il pavimento e i mobili erano tutti in legno così come le rifiniture della pareti. Per terra erano stesi dei bellissimi tappeti a sobri motivi stilizzati di arabeschi di foglie o floreali e ovunque per la stanza erano disseminati cuscini di ogni dimensione e colore. Ma non era affatto un salotto per gli ospiti. Anzi, sembrava che i ragazzi che abitavano l’orfanotrofio avessero libero accesso a qual luogo, lo testimoniavano alcuni giocattoli abbandonati per terra e alcuni libri poggiati un po’ ovunque sui tavolini. E ovunque per la stanza, lo stesso rilassante calore del caminetto –entro il quale bruciavano dei ciocchi profumati- e l’intenso e raffinato odore del legno, l’odore di una stanza vissuta, l’odore della famiglia.
Le tre ammiravano tutto con gli occhi spalancati, perfino Niky –che da una prima impressione poteva sembrare una persona non facilmente impressionabile- guardava in giro affascinata. Omicron aveva visto tanto legno solo nell’orfanotrofio da dove erano appena tornati ma, con tutta la sua bellezza, non poteva competere con questo. Del suo poi, meglio non parlarne: là tutto era di dura pietra e fredde piastrelle che, d’inverno, trasmettevano solamente un più intenso senso freddo congelando i piedi e d’estate, con l’umidità, diventavano pericolosamente scivolose. Mentre da dove veniva lei tutto era grigio ed inospitale, qui tutto era caldo e dorato. Trasmetteva una sensazione completamente nuova, estranea eppure, in un certo qual modo, famigliare. Non sembrava neanche di essere in un orfanotrofio, pareva quasi… “Una casa”, pensò. Ma lo pensò cautamente. Forse per paura, forse per rispetto, forse per incredulità: non aveva mai sognato di vivere in un posto del genere e tutto quello che vedeva faceva sembrare sempre più incredibile che quella sarebbe stata anche la sua casa. Eppure aveva un aspetto tanto accogliente che non poteva non diventarlo per chiunque. In quel luogo, così caldo e confortante al solo vedersi, perfino l’animo del più freddo e nostalgico viaggiatore poteva sciogliersi in quell’aura dorata e dimenticare per sempre le disgrazie passate. Omicron si tolse con riverenza il pesante cappotto, provando più da vicino il calore che quel luogo trasmetteva: sperò che anche il suo passato, radicato nel suo cuore come un castello di ghiaccio, potesse liquefarsi e scomparire per sempre, nel calore di nuove esperienze. 
Un rumore di passi sulle scale interruppe la sua contemplazione: un bambino che fino a quel momento si era limitato a osservare non visto sporgendo da dietro un muro, era salito ad avvisare gli altri. Ora un piccolo gruppo di ragazzi si stava ammassando in cima alla tromba scale per vedere le nuove arrivate. Nella penombra gettata dal soffitto sull’angolo buio dove si erano rannicchiati, si scorgevano dei volti: alcuni incuriositi, altri noncuranti, altri assonnati, altri ancora sorridenti ma tutti quanti per nulla sorpresi. Erano di tutte le età, molti erano più grandi di lei e solo pochi sembravano avere la loro età.
Sotto quelli sguardi, Omicron aveva preso a fremere impercettibilmente: si sentiva a disagio, tanto a disagio che preferì accostarsi a Fi che lanciava brevi, insistenti occhiate alla tromba delle scale.
Fortunatamente, non ce n’erano molti e –dal suo punto di vista- ancora più fortunatamente nessuno di loro sembrava aver intenzione di voler avvicinarsi e porre domande: se ne stavano tutti lassù, seduti sugli scalini a sbirciare tra le sbarre del corrimano, in distante e, in una certa maniera, rispettosa contemplazione. Non c’era neppure lo sgradevole sussurrio di voci crudelmente divertite che si scambiavano pettegolezzi o battutine retoriche sulle nuove venute entro il quale si distinguevano –o sembrava di distinguere- parole di scherno: tutto era silenzio, un silenzio talmente educato da parere irreale.
Omicron fu loro silenziosamente ma profondamente grata per questo: era il massimo del contatto che desiderava e poteva sopportare in quel momento. Non poté però fare a meno di notare che alcuni era vestiti normalmente e altri in pigiama: pochi erano ancora in giro a quell’ora (non sapeva che ora fosse ma, di sicuro, un’ora accettabile per poter cominciare ad andare a prepararsi per dormire). Evidentemente non andavano tutti a dormire alla stessa ora. Per lei era una cosa strana: solitamente negli orfanotrofi vigeva il coprifuoco.
 Roger si accorse del movimento in cima alle scale:«Qualcuno vada ad avvertire le loro compagne che sono arrivate, su!».
Con una silente occhiata d’intesa, uno dei ragazzi si alzò e, non prima di aver lanciato un’altra occhiata alle nuove arrivate, salì le scale diretto ai piani superiori.
«Bene», fece il signore girandosi nuovamente verso di loro, «immagino siate stanche ma non siamo così barbari da lasciarvi andare a letto senza cena. Anche perché credo siate affamate».
In risposta ricevette soltanto un brontolio affatto misterioso.
«Mi scusi», fece Fi chiudendo gli occhi con aria esasperata.
«Qualcosa mi dice, signore, che ci aveva visto giusto…», commentò Niky.
Omicron non riuscì ad impedire che l’ombra di un sorrisino divertito le balenasse sul volto pallido.



                                         




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Rieccomi qui, di ritorno dalle ferie: più scottata e muscolosa di prima (come se ce ne fosse bisogno... -.-''). Eh, la montagna e i suoi effetti... stavo quasi per dimenticarmi della pubblicazione!
Finalmente sono entrate in questo benedetto edificio... Ma chi nel mondo intero può dedicare un capitolo intero ad un semplice ingresso? Ma solo io, ovviamente, ed è per questo che mi detesterete, vero? xD Lo devo dire: dedicherò un po' di capitoli alle mie tre orfanelle perchè, sia loro che il lettore, prendano famigliarità con la Wammy's. Per chi non l'avesse notato, ho giocato a fare l'archietto e l'ho fatta diventare un edificio a quattro piani anczichè di due... ;P E ci saranno alte mie personali interpretazioni quindi... beh, abbiate pazienza: vi prometto che i nostri cari bambini arriveranno, non temete! ^ ^''
Scusandomi ancora, vi prego di rilassarvi e godervi queste scenette un po' famigliari ed autunnali, con la nostalgia della stagione fredda. Eh già, perchè, tra un po', l'autunno arriverà anche per noi! (Sììì!!) A proposito di questo: la prossima pubblicazione è fissata per il primo settembre.
Un grazie enorme a tutti quelli che hanno letto e recensito, a quelli che hanno inserito la storia tra le seguite e a quelli (buone anime!) che avranno pazienza e sopporteranno la mia cauta flemma ancora per un po'. Grazie a tutti!!
Alla prossima! ^ ^

Pendragon of the Elves


P.S.: [Non possiedo i diritti per Death Note e nemmeno per l'immagine]

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Capitolo 12
*** Warm Soup ***


Warm Soup
 

Furono condotte in una stanza attigua al salottino dove erano state fatte entrare.
L’arredo era un po’ più moderno rispetto alle altre stanze per le quali erano passate ma il materiale principalmente utilizzato era comunque il legno e su tutto dominavano colori caldi. Era piuttosto piccola ed appartata, con delle credenze alle pareti e un grande tavolo di legno al centro. Omicron era piuttosto piccola e minuta e succedeva spesso che il mobilio la facesse sembrare più bassa di quello che fosse ma, questa volta, la colpa non era delle sue dimensioni, ma di quelle del tavolo. Rispetto ad un normale tavolo da lavoro o da pranzo, questo era molto alto, tanto che, per sedere, c’erano degli alti sgabelli di legno. Non si capiva bene che razza di stanza fosse o, almeno, quale fosse la sua principale funzione ma molti dettagli facevano pensare che fosse una sala da pranzo.
Era una cosa strana in un orfanotrofio, avere una stanza di quelle dimensioni adibita ai pasti: decisamente troppo piccola perché tutti i bambini potessero mangiarci. Eppure ad aspettarle su qual tavolo, illuminati da un lampadario pendente color arancione, c’erano, come offerte su un altare, tre generosi piatti di quella che sembrava zuppa fumante. Anche se dalla sua misera altezza non riusciva a scorgere il contenuto dei piatti, l’odorino invitante che si levava da essi compensava tutto ciò che i suoi occhi non scorgevano.
«Spero che la minestra vi piaccia: un pasto caldo dovrebbe farvi bene dopo il freddo che vi siete prese per venire qui. E poi le verdure sono più sane di altre porcherie. Ora, accomodatevi e mangiate pure: le vostre compagne scenderanno a momenti e vi faranno compagnia».
«Co-compagne?», chiese Omicron, titubante. Prima aveva sentito che Roger aveva detto ad un ragazzo di andare a chiamare  delle compagne ma pensava che intendesse solo avvisare gli altri bambini del loro arrivo.
«Sì, le vostre compagne di stanza», fece sbrigativamente Roger, «Ora, se volete scusarmi, ho del lavoro da fare. Buon appetito!». E così dicendo, si defilò in fretta chiudendo la porta.
Le tre si guardarono con aria interrogativa. Era un ben strano comportamento da parte di un direttore lasciarle lì da sole in una cucina. Senza contare che erano appena arrivate e non avevano famigliarità col posto. Ma la cosa che più turbava Omicron, era il fatto che di li a poco sarebbero arrivate le loro compagne. Sperò caldamente che avessero di meglio da fare che guadare tre nuove arrivate che si sorbivano una zuppa.
Niky, si sedette su uno sgabello, al capo apparecchiato della tavola. Fi le si sedette accanto da un lato del tavolo e Omicron, fronteggiandola, dall’altro. Anche se un po’ impacciata a confronto con la compostezza di Niky, si accomodò sullo sgabello –che la innalzava ad un’altezza quasi vertiginosa- e fissò finalmente la zuppa verde dinnanzi a loro. Nel denso brodo, giacevano sottili fette di zucchine e riso. Solo guardando quel tesoro sommerso si rese conto di quanta fame avesse: non sapeva a proposito delle altre due, ma lei non mangiava decentemente da quella mattina.
Portò un cucchiaio colmo di minestra alle labbra, ci soffiò delicatamente sopra e poi lo mise in bocca. Quasi arrossì. La minestra era davvero caldissima, ma non era per questo: il sapore era così buono e morbido da scaldare perfino il cuore. Ed il suo era tristemente abituato ai freddi e grigi cibi insapori del suo vecchio orfanotrofio. Non che il cibo fosse cattivo ma la tutto sembrava avere un sapore, un odore e un colore peggiore: vivendo in quel posto lei si era spenta, come si era spenta la sua capacità di godere delle gioie della vita. Era come un solo sorso di quella minestra avesse avuto il potere di farla rinascere. E questo solo il primo assaggio: quanti altri sapori le avrebbe riservato quel posto straordinario? Una sola cucchiaiata ebbe il potere di infonderle un po’ più di coraggio in corpo in vista dell’incontro con le loro nuove compagne.
Il suo sguardo si posò su Niky e Fi, che mangiavano tranquillamente la minestra. Era evidente dai loro sguardi che anche loro stavano pensando a ciò che pensava lei: leggeva nei loro occhi ombre di speranze, aspettative e timori. Erano molto meno ansiose ma, per il resto, sembravano pensare come lei. La cosa le diede un po’ fiducia. Ma sì: non c’era nulla di cui avere paura. Dopotutto, era già sopravvissuta all’incontro con loro due. E fronteggiare uno sguardo di pietra come quello di Niky era un’impresa.
In quel momento si sentì uno scalpiccio fuori dalla porta e un confuso vociare di bambine. Parlavano a voce abbastanza alta e riuscirono a distinguere un paio di parole.
«…e vedi di non spaventarle!».
«E tu non assillarle!».
La porta si aprì con notevole slancio e due bambine entrarono nella stanza. Le fissarono come si potrebbe fissare un militare armato ad un convegno per la pace mondiale.
Assieme erano un’accoppiata davvero singolare, perché per alcuni aspetti si somigliavano, per altri parevano opposte. Una era una ragazzina esile e bionda, con capelli dorati raccolti in una coda alta che le sfiorava le spalle come la scia di una cometa. Il visino era elegante, come quello di una bambola di porcellana, con un sorriso un po’ furbetto di chi la sa lunga, un bel nasino alla francese e due luminosi occhi azzurri. L’altra, un po’ più robusta, aveva un faccino rotondo, incorniciato da una quantità generosa di gonfi capelli castani, i ciuffi laterali erano legati ai lati del viso in due corte codine, il resto era sciolto ed arrivava alla fine del collo della ragazza in un caschetto scarmigliato, mentre una frangetta le copriva la fronte. Le guance erano squisitamente rosate, il suo sorriso era sincero ed entusiasta. Al centro del volto c’era un nasetto a patatina e, sopra di questo, gli occhi più grandi e luminosi che avesse mai visto. Solo dopo si sarebbe accorta che erano di colori diversi.
«Ciao!», esclamarono in coro, i loro volti quasi interamente occupati dai larghi sorrisi: sembravano delle piccole testimonial di una pubblicità di dentifrici.
Omicron riusciva quasi vedere una sorta di aura luminosa attorno a loro: sprizzavano entusiasmo da tutti i pori. Una tale manifestazione di felicità le disorientava alquanto dato che erano stanche ed quasi incapaci di ideare pensieri più complessi di “zuppa” o “letto”. Senza contare la preoccupazione per l’incontro con le compagne di stanza: si trovavano a vivere quell’istante in cui le aspettative del loro cervello intorpidito andavano a cozzare troppo all’improvviso con una realtà dirompente che le mandava in mille pezzi e non sapevano ancora come reagire allo svanire di tutte le loro fantasie, se cominciare a temere o essere grate del fatto che fossero andate in fumo. In quel momento, Niky aveva un’espressione talmente spiazzata che ci si sarebbe aspettati le fosse caduto il cucchiaio di mano e avesse fatto schizzare la minestra: sembrava dire “mi state prendendo in giro?”.
«Scusate per l’interruzione, non sapevamo a che ora sareste arrivate!», continuarono imperterrite.
«Già», fece la bimba coi codini che, tra le due, pareva quella più paurosamente esuberante, «cioè, insomma… sapevamo che sarebbero arrivate delle compagne ma non sapevamo quando. Poi adesso sono venute a chiamarci dicendo che eravate arrivate ed io ero tipo “ma che diavolo…?”. Credevo fosse uno scherzo e invece poi era vero davvero!».
«Sì, sì: cerca di tirare fiato altrimenti mi muori asfissiata sul posto!», le fece la bambina bionda.
Poi si rivolse a loro, sorridendo:«Con questa qui», fece accennando all’amica, «dovremmo fare ogni volta le prove per un discorso altrimenti è capace di divagare per ore».
«E per questa qui dovremmo sottoporci a due mesi di prove prima della comparsa ufficiale», fece l’altra, ironica.
«Comunque, questa volta non abbiamo avuto il tempo di farlo: abbiamo appena scoperto che eravate arrivate».
«Circa cinque minuti fa. E il bello è che io ero già andata a preparami e ho pure dovuto andare a cercare in lungo e in largo questa qui che si era dispersa chissà dove e…».
«Io mi chiamo Nicole», la interruppe la bionda, «e la pazza schizzotica qui è…».
«Io sono Ichigo», esclamò gioiosamente la bimba scarmigliata, togliendosi la mano della compagna dalla bocca, «lieta di fare la vostra conoscenza!».
«Vi dispiace se ci sediamo con voi?», chiese Nicole.
«N-no, figurati…», fece Niky un po’ esitante: era ancora visibilmente provata dallo scontro con quelle dirompenti personalità.
Nicole si sedette accanto a Fi mentre Ichigo balzò accanto a Omicron. Lo slancio, assolutamente esagerato, fece ondeggiare pericolosamente lo sgabello.
«Waaah!».
Omicron vi poggiò velocemente una mano sopra, fermandolo.
«Fuih… grazie!», sospirò con sollievo Ichigo grattandosi la testa, imbarazzata. Poi, guardando nei loro piatti: «Uh, minestra, eh? Non è il massimo per un’accoglienza ma questa è davvero buona, a mio parere!».
«Voi non mangiate?», chiese Niky.
Ichigo rise. «No abbiamo già cenato… ma avete una minima idea di che ore siano?».
«In effetti, no…».
«Sono le undici di sera».
«Oh».
«Vi teniamo solo un po’ compagnia», disse Nicole.
«E che compagnia!», esclamò Ichigo, «siete alla presenza della più grande intrattenitrice del mondo, signore e… signore: Ichigo, l’unica acrobata senza il minimo senso dell’equilibro che affronta numeri pericolosissimi senza rete!». E mentre mimava l’atto di restare in equilibrio su una trave, quasi si sbilanciò davvero provocando l’ilarità generale.
Risero davvero tanto quella sera. Omicron rise come non aveva mai riso in vita sua e come pensava non le sarebbe mai accaduto. Si divertiva così tanto che non faceva più, come le veniva tristemente spontaneo, confronti con la sua vita passata o dubbiosi pensieri sul futuro: ora vedeva solo il presente e si stupiva di quanto fosse bello. Perfino la stanchezza sembrava essersene andata. La presenza di quelle due bambine era davvero ristorante, come una sorta di calda zuppa. Avrebbe potuto restare per ore a crogiolarsi in quel brodo dorato, dove tutto il dolore svaniva e regnava suprema solo l’effimera allegria del momento. Ma, si sa, quando ci si diverte, il tempo passa molto più in fretta.
Quasi si spaventò quando sentì un orologio a pendolo suonare la mezzanotte.
«Accidenti che tardi!», fece Nicole, «è ora di andare a dormire. Datemi i vostri piatti».
Le tre le porsero i piatti vuoti e la bambina bionda scomparve con essi in una stanzetta attigua che si presupponeva essere un cucinino.
«Venite», fece Ichigo, «vi facciamo vedere la stanza e i vostri letti».
Solo al suono di quelle dolci parole si resero davvero conto di quanto fossero terribilmente stanche.
«Ah giusto!», fece Ichigo mentre salivano le scale, «non vi abbiamo ancora chiesto i vostri nomi».
«Io sono Niky».
«Io sono Fi».
«Io… Omicron».
E nella soffusa penombra di quella rampa di scale, pronunciò per la seconda volta il suo nuovo nome. Solo dopo si rese conto che era anche la prima parola che aveva detto da quando era entrata in quell’orfanotrofio.




                                                 




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Lo so, sono in ritardo spaventoso ma ho avuto un sacco di impegni e molte complicazioni, il tutto condito con una spruzzata di lezioni di chitarra, una generosa spolverata di compiti da finire e qualche funerale qui e là.
Devo ammettere, che non sono nemmeno andata più avanti a scrivere quindi i capitoli che ho già nel computer ci tengo a somministrarveli regolarmente: spero mi perdonerete se la storia procede così lentamente. Ora, non possiamo più mentire, sta per iniziare la scuola e non avrò molto più tempo per scrivere. Il motivo per cui non l'ho fatto finora è che ho avuto un piccolo momento di incomprensione con la storia: ad un certo punto, dopo aver preparato il titolo del nuovo capitolo, le mie mani sono rimaste a volteggiare sopra la tastiera come avvoltoi affamati, in disperata ricerca di parole che non sono venute. Piuttosto che forzare qualche schifezza dalle mie mani, ho preferito fermarmi e chiedermi davvero cosa voglio da questa storia. Alla fine, forse l'aria di autunno che sta per arrivare mi ha portato consiglio e ho ripreso fiducia in questa storia, ho ripreso fiducia nella piccola Omicron che, finalmente, mi ha svelato come si comporterà quando conoscerà gli altri. A proposito di questo: come avrete immaginato, sarà una parte difficoltosa da scrivere, senza contare che richiede un mucchio di personaggi originali e diversi, quindi… beh, mi spaventa un pochino. Senza contare che ho quasi esaurito le idee. Per questo mi appello a voi recensori (e alla vostra clemenza xD): vi chiedo solo di avere un po' di pazienza, rilassarvi, e godervi i prossimi capitoli come dei cucchiai di zuppa calda: una piccola evasione dalla scuola e degli assaggi di autunno che pian piano arriverà. Sarà il nostro piccolo momento magico (e spero di riuscire a renderlo bene! °_°). In attesa, vi propongo una cosa: ditemi voi che tipo di OC volete oppure che tipo di scene volete che inserisca nella storia. Se mi ispireranno, li inserirò pure. Vi avverto, però: siamo a corto di ragazzi, quindi puntate si quelli! ;) E mi raccomando: non devono avere tutti la stesse età. Ovviamente, alla fine, dirò chi mi ha consigliato il personaggio (e lo ringrazierò dovutamente). Avete ancora almeno 5 o 4 capitoli di tempo: se non me lo scrivete nelle recensioni, mandatemi dei messaggi privati.
Ringrazio in anticipo quelli che vorranno aiutarmi e, ovviamente, tutti quelli che leggono questa storia. Un pensiero anche alle straordinarie ragazze che mi hanno ispirato/consigliato i personaggi di Ichigo e Nicole e un abbraccio forte ad Hamber of the Elves e a Eru Roraito che hanno sopportato i miei sfoghi sulle mie mille frustrazioni. Grazie a tutti! ^ ^

La vostra ponderante insicura,
Pendragon of the Elves



P.S.: Auguro a tutti quelli che condividono la mia sventura un felice (per quanto possibile) ritorno a scuola. (ugh! D:)

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Capitolo 13
*** The Softness of a Bed ***


The Softness of a Bed
 

«Datemi la mano, così non rischiate di inciampare», fece Ichigo.
«Se posso permettermi, con te rischiano il doppio…», osservò Nicole.
«Già, forse hai ragione», ridacchiò.
«Comunque, scusate ma a quest’ora non possiamo accendere le luci: sono già tutti a dormire, quindi cerchiamo di fare piano…».
Salirono in silenzio la prima rampa di scale, ritrovandosi in un pianerottolo deserto ed oscuro. Omicron credette di sentire il suo piccolo cuoricino fermarsi di fronte a quella immensa ed impenetrabile parete nera: quello era il dormitorio dove tutte avrebbero dovuto dormire? Un comune dormitorio grande e buio per dormire senza intimità per tutta la notte?  Alla fine, il suo cuore tirò un sospiro di sollievo quando quelle paure vennero fugate, veloci come si erano materializzate.
«Il dormitorio è nel piano sopra di questo…».
«Meno male!», sospirò Fi, «non so se avrei abbastanza forza per sostenere un’altra gradinata senza accasciarmi sui gradini e addormentarmi li!».
Salirono, questa volta ancora più in silenzio, la seconda rampa fino a sbucare timidamente in un corridoio buio. Tutto sembrava tacere addormentato. Se si concentrava, o in virtù del suo udito sviluppato da anni passati a tendere ansiosamente le orecchie o della suggestione, poteva quasi sentire il lieve rumore di tanti silenziosi respiri nell’oscurità attorno a loro. L’unico segno di attività era un flebile fascio di luce che proveniva da sotto la prima porta del corridoio alla loro sinistra. E, da qualche parte nel buio, un leggero rumore di tasti.
«Da questa parte», sussurrò Nicole, conducendole a sinistra. «Ora, cercate di fare piano: la nostra stanza è dall’altra parte del corridoio».
Zampettarono in silenzio come topini, scivolando contro il muro, fino a quando Nicole non le trascinò velocemente verso una porta. La aprirono e vi ci si infilarono velocemente.
«Ah, finalmente!», fece Ichigo, «fatemi un applauso: sono riuscita ad arrivare fino a qui senza inciampare neanche una volta!».
«Sono contenta per te ma ora stai ferma, per non rischiare di rovinare il tuo record… sempre che tu riesca a rimanere ferma per più di un istante, almeno finché non accendo la luce… Ah, dannazione! Mi sono persa…».
«Non preoccuparti, ho una torcia!».
«Tu hai una… cosa?».
«Ecco fatto!». Sì sentì un piccolo clic e un sottile fascio di luce bianca illuminò da sotto il viso di Ichigo: visto così sembrava ancora più spaventosamente maniacale.
«Un giorno dovrai spiegarmi da dove tiri fuori certi oggetti…», mormorò Nicole.
«Già, forse… magari un giorno anche tu sarai degna di condividere la mia immensa saggezza».
«Basta che questo non comporti acquisire anche il tuo equilibrio…».
«Uffa! Se l’uomo fosse nato per stare in equilibrio sarebbe nato soprammobile! O almeno con una coda…».
«Piantala di sparare cavolate e dammi quella torcia!», afferrando la fonte di luce, Nicole si diresse verso un comodino ed accese una lampada posata su di esso. Una fredda luce bianca  finalmente la stanza: non era molta e non era abbastanza per illuminare perfettamente l’ambiente ma contribuiva a creare un’atmosfera rilassante e conciliante per il sonno. Tuttavia, a Omicron bastò per darle un’impressione sulle dimensioni della camera.
La prima cosa che notò era che la luce veniva proiettata sulla vernice bianca molto più in alto di quanto ci si sarebbe aspettati: dovevano esserci almeno 5 metri tra il pavimento e il soffitto. Solo per questa altezza insolita la stanza poteva definirsi “grande”, in quanto occupava notevole volume soprattutto estendendosi verticalmente. Per il resto aveva forme e dimensioni normali: era un semplice ambiente rettangolare dalle pareti bianche. Su quella di sinistra c’erano una scrivania e un’enorme scansia a ripiani mentre sulla sinistra c’erano un’altra scrivania, un armadio a due ante e una porta di legno. Sulla parete di fronte a loro, invece, c’erano i letti. E che letti.
Omicron aveva sentito parlare di un cosa chiamata “letto a castello” in vita sua ma, ciò che vedeva ora, oltrepassava e umiliava la leggenda. Del resto, lo spazio di una stanza con un’altezza del genere, era logico venisse sfruttato di conseguenza, coerentemente con queste dimensioni, ma a vederlo coi propri occhi era semplicemente sconvolgente.
Niky, Fi e Omicron fissarono sbalordite il letto a castello di ben tre piani che si ergeva dinnanzi a loro nella semi oscurità.
«Dovete scusarci, ma non potevamo sapere che sareste arrivate oggi», disse Nicole frugando nell’enorme armadio a due ante, talmente profondo che ci scompariva dentro con tutto il busto, «quindi non ci siamo preparate a dovere. Per ora, dovrete usare i nostri vestiti. Accidenti… dov’è quel dannato pigiama? Ah, eccolo!», fece, sbucando dall’armadio con in braccio tre pigiami invernali per le ospiti. «D’altronde…», disse, «non vi avranno lasciato portare indumenti personali dall’orfanotrofio con voi, o sbaglio?».
«No», ammise Niky, «possono essere materiale compromettente…».
Nicole sorrise, «Già, è esattamente quello che hanno detto anche a me. Comunque, questi sono per voi», disse porgendo loro i pigiami, «ne abbiamo altri di sotto ma ora è tardi per andare a prenderli: per oggi dovrete usare questi».
«Tieni», disse Ichigo, porgendo a Omicron un pigiama bianco con le maniche rosse, «questo è mio: dovrebbe andarti bene».
«G-grazie…».
In verità le sarebbero andati bene tutti, dato che, anche se piccola, non era molto più bassa di loro, ma apprezzò comunque la premura.
«In bagno ci sono degli asciugamani puliti, potete usare quelli se volete lavarvi.», continuò Nicole, «Purtroppo mancano gli spazzolini e qui non ne abbiamo in più: temo che per ‘stasera dovrete fare a meno di lavarvi i denti».
«Sopravvivremo», fece Fi, «ma… dov’è il bagno?».
«Lì», Ichigo indicò la porta di legno che si apriva a fianco dell’armadio.
«Avete un bagno tutto vostro?», esclamò Fi, strabuzzando gli occhi.
«Sì, siamo tra le poche privilegiate che hanno un bagno nella camera», fece Ichigo, «i bagni comuni sono su questo piano. Comunque, andate pure a prepararvi: noi eravamo già pronte prima, dobbiamo solo metterci il pisclama».
«Il cosa?».
«La parola di Ichigo per dire “pigiama”», intervenne Nicole.
«Ah…».
 
Omicron fu l’ultima a prepararsi. Si mosse con molta cautela per non fare troppo rumore sapendo che, dall’altra parte del muro, c’erano degli altri orfani che dormivano. Si lavò con uno spaventoso timore addosso: il fracasso provocato dalla poca acqua che usciva dal lavandino era a dir poco imbarazzante, nonché tremendamente esagerato. Si stupiva ogni volta di quanto ogni rumore apparisse maledettamente amplificato di notte o quando si desiderava non essere uditi.
“Certo che il silenzio è una cosa davvero fragile…”, pensò.
Con altrettanta riluttanza, infilò il pigiama di Ichigo: si stupì di quanto fosse morbido e confortevole. In effetti, però, era un po’ largo e volteggiava attorno alla sua piccola figura senza riuscire a scaldarla perfettamente. E doveva ammettere, che era da un po’ che sentiva freddo.
Aprì piano la porta del bagno e la richiuse attentamente dietro di se. Proprio in quel momento si stava discutendo di come organizzare i letti. Fu Fi a lanciare il discorso.
«Allora… noi dove dormiamo?», cercava di dissimulare ma era palese che desiderava soltanto andare a dormire e, desumibile dalle occhiate malcelate che lanciava verso il letto, a uno dei piani sopraelevati. Si vedeva, però, che aveva già capito di non avere speranza di conquistare quei posti.
«Ah, dove volete», fece Nicole, «qualcuna di voi soffre di vertigini?».
Le altre si guardarono.
«No, perché?».
«Perché io e Ichigo dormiamo sotto: io soffro di vertigini e Ichigo… Beh, avete visto che razza di equilibrio si ritrova: cerchiamo di evitare una tragedia».
«Senza contare che sono sonnambula ad intermittenza!», sorrise Ichigo.
Niky e Fi le guardarono come se fossero pazze. Omicron poteva quasi leggere i loro sguardi: “Avete un letto a castello a tre piani e dormite nel più basso?”. In effetti, la cosa era davvero sorprendente, un vero colpo di fortuna: nessuno sano di mente (o che soffre di vertigini e/o sonnambulismo) si sarebbe fatto scappare un’occasione simile.
«Io di sopra!», dissero Fi e Niky in contemporanea.
«Io verso il muro, però!», fece Fi.
«D’accordo…», sbuffò Niky.
Poi, come folgorate, si voltarono verso Omicron, leggermente imbarazzate, guardandola con occhi leggermente colpevoli.
Lei ricambiò quello sguardo con sorpresa e velata agitazione: non capiva il perché di quello sguardo (tantomeno di quell’attenzione che non era abituata a ricevere).
«C-che  c’è? Ho f-fatto qualcosa di male?».
«No», esitò Niky, «ma noi sì… scusa: volevi…», si interruppe, «sicura di non voler stare tu di sopra? A me va bene anche quello sotto…».
Omicron la guardò con gli occhi spalancati, incapace di credere a quello che aveva appena sentito: loro… l’avevano presa in considerazione? Era impossibile, eppure non poteva essere altrimenti. Era talmente emozionata che riusciva solo a sentire il suo cuore battere come un tamburo in un momento di rullante ma potente come una grancassa. Si sentì molto strana, imbarazzata, forse, ma non a disagio: era la prima volta che qualcuno usava una tale premura per lei. La prima. E non sapeva come comportarsi. Frugo disperatamente nella mente alla ricerca di parole adatte da usare – come una ragazza in ritardo che cerca dei vestiti nell’armadio accumulandoli sul letto dopo una breve occhiata – fino a che non trovò quelle giuste. Le guardò con gli occhioni limpidi, lucidi e profondamente grati e le sfoderò con la forza data dall’intensità della sua gratitudine. «No, grazie: preferisco dormire in quello di mezzo».
Stette un attimo zitta e ferma, con lo sguardo perso nel vuoto, come ricordando e assaporando il colore dell’attimo appena trascorso, neanche fosse una grande esperienza. Era piuttosto ridicolo ammetterlo e davvero incredibile da constatare ma, per lei, era davvero un’esperienza di vita (sapeva ancora così poco di comportamenti in società).
Niky e Fi si guardarono, sorprese da un atteggiamento così bizzarro, senza sapere esattamente cosa rispondere.
«Ok… d’accordo…», fecero, mentre si accingevano a salire la scaletta del letto a castello.
Omicron salì dietro di loro e, cautamente, s’infilò in quello che aveva scelto essere il suo nuovo letto: quello al primo piano del castello affiancato alla parete. Scostò piano quel piumone blu notte e ci si infilò. Rimase quasi estasiata da quanto era morbido: il materasso era vecchio e confortevolmente molle ed il cuscino di piuma soffice come una pagnotta. Il letto era ancora freddo e lei prese a tremare leggermente ma, quando si distese, le sembrò di stare su una nuvola.
«Bene», disse Nicole con voce assonnata, «io spengo la luce, vi va bene?».
«Non c’è problema», sbadigliò Niky dal piano di sopra.
«D’accordo. Buona notte a tutte: ci si vede domani mattina».
E con un piccolo click, la stanza tornò a piombare nel buio.
Omicron rimase immobile: si ricordava fin troppo bene quanto nel suo vecchio orfanotrofio temesse l’ora del coprifuoco che era per tutti, senza nessuna eccezione, alle nove di sera. Aveva sempre paura in quei momenti: la sera recava sembra con se un’angoscia inimmaginabile man mano che si avvicinava l’ora fatale. Ma il terrore raggiungeva il culmine solo quando venivano spente le luci. Il suo cuore prendeva a battere talmente forte quelle volte che era un miracolo che non lo sentissero anche al piano di sotto. Non aveva affatto paura del buio o dei mostri sotto al letto come gli altri bambini. Anche perché i mostri che temeva lei non si trovavano negli armadi o fuori dalla finestra pronti ad entrare, ma dormivano anche loro nei letti -tutti distesi immobili in letti dalle lenzuola bianche come i cadaveri negli obitori- decine nella stessa stanza assieme a lei, chiusi tutti fino all’alba con il divieto più assoluto di uscire. Decine contro una sola.
Eppure, in quell’istante, nel suo piccolo cuoricino non c’era affatto inquietudine: solo un profondo, semplice e immenso senso di tranquillità come non l’avrebbe mai provato nella in tutti quegli anni. Ma stava pensando troppo al passato: ora era lontano da quella vita, era lì, in quel suo lettuccio morbido che la isolava del resto del mondo crudele tra quelle coperte, tra quelle mura già così accoglienti. E nelle sue orecchie risuonavano soltanto quelle tenere, incredibilmente dolci parole: “Buona notte”.
Ora, non c’era motivo di avere paura, perché era lì con le uniche persone al mondo che sarebbe stata contenta di rivedere la mattina dopo.





                                              




 

Fine Seconda Parte



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Un saluto a tutte le anime buone che ancora leggono questa storia indegna di tale nome!
Mi dispiace per il ritardo spaventoso (più di un mese... Dio, sono un mostro!) ma queste settimane di scuola sono state terribli e sono passate in un turbine indistinto di maledizioni contro la scuola, la vita, sonni confusi, interrogazioni freneiche e imprecazioni varire. Il tempo è diventato un'opinione nella mia testa. Alla fine non mi sono accorta che era passato tanto tempo, mi ero quasi dimenticata di dover aggiornare. Inutile dire che non sono nemmeno riuscita ad andare avanti a scrivere: lo cofesso, ho pronto solo un capitolo e mezzo ancora. Dall'altra parte, mi stanno venendo delle buonissime idee per sfruttare i cosigli delle anime gentili che mi hanno consigliato (grazie, ragazze! T T). Insomma, alla fine ho deciso di far finire quì la seconda parte del racconto per giustificare un futuro ritardo di pubblicazione che, praticamente, si tradurrà in una pausa di uno o due mesi durante i quali scriverò: lo prometto. Mi disciace lasciarvi con un capitolo così insulso ma mi sembrava significativo terminare quì: ci rivedremo col mattino e, si spera, con dei capitoli scritti decentemente.
Inutile dire che sono ancora aperta a eventuali consigli per OC (però vi prego, non fateli diventare tutti amici di Omicron: non è che diventa una bomba di socialità! xD) o per aggiungere particolari mentre vi lascio senza spoiler per le ideuzze che mi sono venute per quelli che mi avete dato... sono malvagia, lo so! ;)
Se proprio vi manco troppo -oppure (più palusibilmente) volete un'altra opportunità per dirmi tutte le parolacce che mi merito- sappiate che scriverò una storiella brividosa su Death Note per Halloween: non vedo l'ora! :3
Ringrazio tutti quelli che hanno seguito letto questa storia fino a qui, tutti quelli che hanno recensito, la mia sempre presente Hamber of the Elves e quegli angeli che mi hanno donato dei consigli, Eru Roraito, chiarelle99 e Mikusama: mi avete dato la forza per andare avanti, vi adoro!
Ci vediamo presto!

Pendragon of the Elves


P.S.: Se c'è qualcuno a cui piacerebbe che i titoli dei capitoli fossero scritti col font della "L" di L, fatemi sapere... ;)

P.P.S.:[L'immagine non è mia]

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