Old Gold

di BohemianScaramouche
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** A "brand new" home ***
Capitolo 3: *** Bastard! ***
Capitolo 4: *** School Days ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

 PROLOGO 

 





29 settembre 2012


Il campanello suona più e più volte, con un’irruenza tremenda nella calma di quella mattinata post-festa. Sento dal soggiorno, dove mi sto fumando una proibita sigaretta, che mio marito, in camera da letto, al sentire quel rumore penetrante si agita un po’. Un secondo più tardi, ritorna al suo docile russare.
Spengo la sigaretta nel portacenere e spruzzo velocemente un po’ di deodorante per ambienti per cancellare l’odore di fumo, poi mi dirigo ad aprire la porta. Ancora un fastidioso trillo, impaziente. Apro. Olivia è già lì, con il candido dito diretto verso il pulsante del campanello, pronta a far notare nuovamente la sua presenza di fronte al portone.
“Buongiorno” le dico, con un sorriso divertito sulla faccia.
Mi risponde con una smorfia.
 “Hai aperto finalmente! Perdincibacco, è un’ora che busso e suono e faccio casino, e sei venuta solo ora ad aprirmi!” esclama tutto d’un fiato, entrando senza troppi complimenti.
“Perdincibacco?” le chiedo io scettica “Seriamente?”
“Mai dire parolacce davanti alla mia adorata nonnina” mi risponde con un sorriso splendente, schioccandomi poi un bacio sulla guancia. I suoi ricci castani, lasciati liberi dai soliti nastri, elastici o fasce varie, mi fanno il solletico alle guance.
“Lo sai che io non faccio paternali sul linguaggio, cara. Non sono mica tua madre!” 
“Insomma, quella volta che ho esordito con un ‘Cazzo, buono!’ all’assaggiare il tuo buonissimo strudel alle fragole non ti sei risparmiata.”
E così dicendo, si lascia cadere sul divano del soggiorno, con il suo solito portamento da adolescente-barbona.
“Comunque no, non sarai mai come mamma Emma. Diavolo, lei è peggio di un prete, non fa altro che predicare e predicare… “ mi spiega con gli occhi che corrono da una parte all’altra della stanza e gesticolando come una pazza. Ad un certo punto però si immobilizza, annusa l’aria e mi chiede: “Hai fumato, per caso?”
“Tè?” le chiedo per sviare il discorso.
“Earl?”
“Proprio lui!”
“Allora va bene!”
Prova a mettersi in una posizione più composta, anche se con pochi risultati, mentre io le verso un po’ di tè nella tazzina, aggiungendo anche una zolletta di zucchero e un po’ di latte, proprio come piace a lei.
“Allora, da che stanza iniziamo?” chiede girando il cucchiaino nella sua bevanda.
Prendo un lungo sorso del mio tè, che invece contiene un cucchiaino di miele. “Pensavo dal salotto, oppure, se preferisci faticare prima, la cucina.”
“Cucina!” risponde, stupendo ogni mia aspettativa.
Finiamo il nostro tè e ci mettiamo al lavoro.
La stanza è nel pieno della confusione: piatti ancora da lavare, fiaschi di vino svuotati completamente, bicchieri semivuoti… Ma d’altra parte ieri sera, dopo la mia festa di compleanno celebrata con tutta la famiglia, ero troppo stanca per poter intendere o volere, figuriamoci per mettere a posto.
Fortunatamente mia nipote Liv aveva accettato di venire ad aiutarmi!
“Musica?” fa lei, anche perché non riesce a fare assolutamente niente senza il sostegno di un qualche brano rock di sottofondo.
“No tesoro, tuo nonno sta ancora dormendo.”
“Eh dai! Mettiamo piano piano!” mi supplica, facendo la boccuccia a cuore.
Mi giro per formulare un bel ‘No’, ma prima che possa anche solo emettere un suono, lei inizia a dire: “Ti prego, ti prego, ti pregoooo!!” e sbatte le ciglia dei suoi occhioni da cerbiatta ai quali non so resistere.
“E va bene!” mi arrendo io, anche perché mandare avanti una guerra contro Liv è per definizione impossibile.
Scompare in soggiorno, dove abbiamo stereo e collezione di cd (in realtà anche grammofono e vinili, ma ormai quelli non funzionano più) e dopo poco partono gli Who, anche se fortunatamente non sono ad un volume troppo alto. Grazie al cielo, anche se ha solo quattordici anni, Olly ha dei buoni gusti musicali. Tutto merito della nonna, non c’è che dire.
Torna in cucina sulle note di ‘My Generation’, facendo finta di suonare la chitarra come Pete Townshend.
“Sei ridicola” le dico ridendo e le lancio uno strofinaccio.
“Al lavoro!”
 
**
 
Siamo ad buon punto del lavoro in cucina, dobbiamo solo mettere i piatti in lavastoviglie, quando, improvvisamente, il telefono squilla. Io e Liv, entrambe trafelate, ci lanciamo uno sguardo interrogativo.
Chi telefonerebbe mai  alle dieci di mattina di sabato? Mio marito non si è neanche svegliato!
“Vai te Liv, magari è tua madre...” dico a mia nipote, iniziando a mettere qualche piatto nella lavastoviglie.
“Ma vedrai che è per te nonna…” mi dice con un faccino innocente, ma so benissimo che la verità è che si vuole risparmiare un’altra ‘fatica di Ercole’.
“Non vedi che sono occupata? Fila!” le ordino mettendo a posto qualche altra stoviglia.
Sbuffando si dirige verso il telefono del corridoio.
Tira su la cornetta e contemporaneamente io allungo le orecchie per capire chi mai potrebbe essere al telefono.
“Pronto, casa Corso, desidera?” la sento dire con voce annoiata.
Odo la cornetta bisbigliare. Fermo il mio lavoro per poter ascoltare meglio.
“Hmm…  va bene, gliela chiamo subito”
Mi vado a pulire le mani su uno strofinaccio, mentre Olly spunta in cucina dicendo, sempre con voce annoiata “Nonna, c’è un certo Paul McCartney che ti cerca per farti gli auguri…”.
Poi, improvvisamente, realizza quello che ha detto, sbianca e ritorna di fretta al telefono. Io la seguo ridacchiando e vedo, appena metto piede in corridoio, la giovane Liv che ha preso voracemente in mano la cornetta. I suoi capelli all’aria e i suoi occhi strabuzzati danno gli ultimi tocchi di stile a questa figura comica.
“Scusi, ha detto Paul McCartney?!?!”
La cornetta bisbiglia.
“Cioè, Paul McCartney, l’ex componente dei Beatles? McCartney il grande cantante, l’autore di Let it Be, Hey Jude, And I Love Her? Quel Paul McCartney?”
Liv ha la bocca spalancata dalla meraviglia, la mano che trema per l’eccitazione.  Mi guarda meravigliata, mentre io ho la mano sulla bocca per non scoppiare a riderle in faccia. La cornetta risponde.
“O mio dio, o santo cielo o vergine santissima! Io, io non l’avevo riconosciuta Sir, io… Io,io…” e non trova le parole.
Mi avvicino per prenderle la cornetta dalle mani, ma lei si scosta e ricomincia a parlare.
“Io sono una sua grandissima fan, io… ho ascoltato tutte le sue canzoni, dai Quarrymen, ai Beatles, agli Wings, alla sua carriera da solista, io… Diavolo non voglio fare la figura della fan bimbo minchia, ma lei è il mio idolo Sir, la ascolto da quando sono in fasce e non ho mai perso l’ammirazione in lei e… Nonna , ma che cazzo fai?”
L’esclamazione fine ed estremamente  signorile della mia adorata nipotina è dovuta al fatto che le ho preso il telefono di mano prima che la situazione vada ulteriormente degenerando.
“Pronto Paul?” faccio io al telefono.
“Ehi Jo…” lo sento rispondere e, come al solito, il cuore mi si allarga di gioia.
“Nonna, dai, non gli ho detto ancora quanto lo amo…” mi richiama Liv, gli occhi che ormai hanno perso ogni briciolo di dignità e serietà.
“Tu vai a finire di mettere a posto, signorinella!” le rispondo, invitandola con una mano a dirigersi in cucina.
“Ma,ma…”
“Niente ‘ma’ … Vai!” le ordino, e finalmente mi lascia sola, ma non senza aver fatto prima un sacco di storie.
“Ehi!” dico io alla fine, diretta verso la cornetta. Paul, dall’altra parte del telefono, ridacchia.
“Non c’è niente da ridere!” sbotto, fingendomi indignata.
“Scusa, ma non posso far altro che pensare a come, anche se settantenne, io riesca ancora a fare colpo” mi risponde l’ex Beatle dopo essersi dato una calmata.
“Ma smettila! Sei sempre il solito vanesio!” lo rimbrotto, ridendo a mia volta.
“Hai ragione” ammette infine “Però, una nipote Beatlemaniacal… non ci sarà mica il tuo zampino?”
“Io non sono mai stata una Beatlemaniacal!” protesto “Una fan, un’amica… ma non sono mai stata come quelle ragazzine urlanti dei vostri concerti!”
“Anche questo è vero, ma tua nipote ci ama, o meglio, MI ama alla follia e quindi ripeto… non ci sarà mica il tuo zampino?”
“Probabile, ma non cantare vittoria troppo presto… ascolta anche gli Stones, come la nonna, e ha un poster a grandezza naturale di Mick Jagger in camera” lo informo.
“Doh! E a me che sembrava simpatica!”
“Lo è, ed è anche seria, quando non deve parlare con il suo idolo… Oddio, non voglio sapere cosa accadrà quando incontrerà Robert Plant!”
“Aspetta, non ero io il suo idolo?” mi chiede con un briciolo di falso panico nella voce.
“Anche, ma devi accettare il fatto che non sei l’unico!” gli dico, fingendomi seria.
“L’ho già detto ‘Doh!’? Ma bado alle ciance: volevo farti, con il dovuto ritardo, tanti auguri di buon compleanno! Allora, come è essere settantenne?”
“Sai meglio di me cosa vuol dire aver spento ben settanta candeline, caro Paulie! Comunque, grazie. Anche se devo dire che Ringo me li ha fatti in tempo gli auguri...”lo canzono ridacchiando.
“Lascia perdere Starkey per una volta. In ogni modo, prego, ma belle!”
“Ruffiano!” lo accuso con il riso sulle labbra.
“Forse… ma lo sono solo per te!” e scoppia a ridere, seguito a ruota dalla sottoscritta.
Iniziamo a parlare del più e del meno per un po’, su come stanno i rispettivi coniugi, come è stato suonare ‘Hey Jude’ alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi e cose del genere.
Alla fine però, arriva il momento dei saluti.
“Be’ allora io vado Paulie!”
“Sarà meglio che vada anche io Jo. A presto! Ti voglio bene!”
“ Ti voglio bene anche io. Ciao Paul…” lo saluto. Sto per riattaccare, quando sento ancora la sua voce, così, riavvicino la cornetta all’orecchio.
“Jo?” lo sento chiamare.
“Si?”
“Lo so, che beh, è stupido da dire, ma… Anche loro ti salutano e ti fanno gli auguri.”
“Loro?” domando, facendo la finta tonta. Non mi va di riparlarne. Le morti rimangono una ferita aperta.
Sempre.
“Loro: tua padre, tua madre, tuo fratello…” mi spiega, con dolcezza “Ma anche John e George. Lo sai quanto eri importante per loro. Quanto sei stata importante per tutti quanti e quanto lo continui ad essere”
Rimango in silenzio per un po’, cercando di trattenere le lacrime. Lo so, non mi può vedere, ma odio anche la sola idea di lasciarmi andare. E’ sempre stato così, e probabilmente lo sarà fino alla morte. La mia, questa volta.
“Grazie” mormoro, con il magone che mi spezza la voce. “A presto Paul…”
“A presto Joanna…”
E riattacchiamo.
Mi avvolge irrimediabilmente uno stato d’ansia. Odio i saluti. Ho sempre paura che siano gli ultimi.
Con questa sensazione che mi opprime più il cuore che lo stomaco, apro la porta della cucina. O perlomeno, cerco. Riprovo, questa volta riportando un successo. La stanza è nelle stesse condizioni di prima, sempre parzialmente disordinata, ma in compenso, proprio accanto a me, trovo Olivia che tenta con poca fortuna di nascondere un bicchiere con cui deve aver origliato la conversazione.
“Ma bene, vedo che non hai finito di mettere a posto! E tutto per spiare la mia conversazione. Brava!” le dico severa, ridacchiando però tra me e me, più divertita dalla situazione che scocciata.
Olivia mi ignora bellamente e, senza neanche più nascondere il bicchiere, esclama puntandomi contro un dito accusatore “TU!”
“Io” faccio di rimando, con una calma impassibile.
“Tu conosci PAUL MCCARTNEY! Quando avevi intenzione di dirmelo?”
“Non lo avevi capito dalla mia raccolta di vinili firmati dai Beatles?”
“Mamma mi aveva detto che li conoscevi! Ma pensavo che fosse una cosa tipo che tu nella tua vita avevi intervistato i Beatles e che gli eri risultata simpatica e che allora ti avevano regalato tutti quei dischi! Non pensavo che fossi amica INTIMA del Macca.” continua lei per conto suo, camminando su e giù per la stanza, senza abbandonare la sua aria da pazza. Okay, mia nipote sta cominciando a spaventarmi.
“Devi raccontarmi assolutamente TUTTO!”
“Con calma, tesoro, con cal…”
“ORA!” fa con veemenza. La mia faccia si fa severa, ma stavolta sul serio. Non permetto che mi si parli in questo modo.
“Cioè…” fa lei, capendo di aver commesso un errore a lasciarsi trasportare in quel modo “Potresti parlarmene? Per favore?”. E assume una faccina implorante. “Ti prego!”
Mi rabbonisco un po’ e accetto.
“Però devo dire che una tazza di Earl Gray mi potrebbe aiutare a ricordare…” le dico in modo allusivo.
La vedo sparire di tutta fretta in cucina, mentre io mi vado ad accomodare in soggiorno, sulla mia poltrona preferita. Risale ai tempi in cui mi ero trasferita a Liverpool dalla cittadina di Southport.
I ricordi, al solo tocco con quella stoffa azzurra e ruvida, iniziano a riaffiorare. All’inizio debolmente, in modo leggiadro, come fiori che al mattino aprono la corolla umida di rugiada in direzione del sole. Poi in modo più violento, gocce di un acquazzone che devastano il prato su cui si adagiano rabbiosamente.
Chiudo gli occhi. Immagini di una Liverpool ormai superata, volti  di persone un tempo giovani, vestiti anni ’50 e ’60 e la musica di Elvis che si fa spazio leggera fra le case della città portuale, unendosi al freddo vento inglese…
 
Olivia torna con in mano il vassoio su cui è poggiato tutto l’occorrente per il tè.
Si accomoda e mi porge una tazza fumante. La prendo iniziando a sorseggiare il caldo contenuto, mentre Liv mi imita.
Dopo un po’ mia nipote non regge più la curiosità e mi chiede: “Allora? Come è iniziato tutto?”
“Vuoi sapere tutta la storia?” le chiedo, prendendo un altro sorso di tè.
Annuisce violentemente, a momenti ho paura che le si stacchi la testa.
Mi mordo le labbra. Raccontarle proprio tutto? Ma sì, infondo è grande ormai…
“Tutto iniziò nell’agosto del 1958, quando mi trasferii a Liverpool dalla mia città natale di Southport…”





*Angolo dell'autrice*
Saaaaaalve a tutti! Questo è il primo sclero della povera Scaramouche :S Spero di ricevere vostre recensioni e mi raccomando, siate sinceri.
Ringrazio già dall'inizio il mio povero fratellone Belfagor (??), che si è offerto volontario *coff è stato costretto coff* ad aiutarmi a riguardare questa storia e a dare un primo commento sulle cazzate che scrivo xD
Per finire, le formalità: i Beatles non mi appartengono (purtroppo), la storia è frutto della mia malsana fantasia ed è stata realizzata al solo scopo di intrattenimento, non di lucro.
Un bacio,
la vostra Scaramuccia :3

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Capitolo 2
*** A "brand new" home ***


A "BRAND NEW" HOME






02 agosto 1958



Tirai una boccata di fumo dalla mia sigaretta. Ero stesa sul cofano della macchina di mio padre ad osservare il cielo pomeridiano e nuvoloso di Liverpool, un cielo che minacciava un bel temporale estivo.
Ero convinta che scrutandolo meglio avrei notato la differenza fra questo cielo e quello che ricopriva la volta di Southport, la città dove ero nata e cresciuta fino a quel pomeriggio di inizio agosto del ’58. Purtroppo i due cieli erano identici. Uno stesso cielo che ricopre due vite diverse, due vite diverse di una stessa persona.
E la persona tirata in ballo nel mio ragionamento era la sottoscritta. Stavo iniziando un nuovo capitolo della mia vita in una città diversa da dove si erano svolti gli altri inizi di capitolo, indi per cui questa volta il cambiamento sarebbe stato radicale, me lo sentivo.
Accidenti, anche l’aria era simile: lo stesso odore salmastro delle città portuali. Tuttavia Southport era una cittadina di poco più di 80.000 abitanti, mentre Liverpool, che è il capoluogo del Merseyside, ne contava circa 700.000, quindi l’odore manteneva qualche differenza.
Soffiai fuori tutto il fumo e buttai la sigaretta. Poi scesi dalla macchina e schiacciai il mozzicone con il piede. Anche il terreno era uguale, ma era così estraneo sotto il mio passo! Mi guardai attorno: un viale ricco di case della ‘middle class’ liverpooliana, diviso in mezzo alla strada da una fila di alberi di cui non sapevo il nome.
Mi venne voglia di un’altra sigaretta, ma, non avendone a portata di mano, mi accontentai dell’unghia del mio mignolo. La addentai voracemente, osservando un merlo dal becco giallo e dal piumaggio nero lucente che volò dalla cima di un albero all’erba del mio nuovo giardino. Lasciai perdere la mia unghia, catturata dalla visione di quel guizzo nero. Il merlo mi guardava con un’espressione interrogativa, del genere : ‘E tu chi cazzo sei?’. Mi avvicinai, ma a due passi dalla creatura, il merlo di dileguò battendo le ali.
Non so quanto tempo rimasi a contemplare lo spazio prima occupato dall’uccello, ma dopo poco sentii la voce di mia sorella Susan chiamarmi spazientita: “Jo! Vuoi deciderti ad entrare? Il cielo minaccia un temporale e tu non hai ancora mosso un dito per aiutarci! Vieni immediatamente!”
“Agli ordini, madame!” risposi filando in casa.
Non feci in tempo ad entrare che la prima goccia di pioggia cadde sulla punta del mio naso, facendomelo torcere di disappunto. Chissà perché, ogni volta che inizia a piovere, le perfide gocce puntano subito alla punta del mio adorabile nasino. Con questo pensiero entrai in casa, chiudendomi la bella porta di legno di noce alle spalle.
Una visione di scatoloni diede il benvenuto al mio sguardo. Alcuni contenitori erano già aperti, ed il loro contenuto era già disposto all’interno della casa, mentre altri erano ancora sigillati con lo scotch. In realtà gli scatoloni non erano poi tanti, se si considera che avevamo trasportato tre vite da una casa all’altra. Trasloco.
La verità è semplice da spiegare, ma mi costerà l’apertura di una piccola parentesi.
 
Mio padre,Edward Page, nato e cresciuto a Liverpool da Arthur e Charlotte Page, all’età di ventidue anni, dopo una breve gita a Southport, si innamorò di una certa Jacqueline Shaw, detta ‘Jackie’, che sposò prima della guerra (la seconda guerra mondiale, si intende). Subito dopo le nozze si trasferì definitivamente a Southport, dove iniziò la sua carriera di insegnante di letteratura inglese e dove cominciò a mettere su famiglia.
Nel frattempo suo padre, ovvero mio nonno Artie, non riuscì ad arrivare vivo alla fine della guerra, morendo durante un raid nell’autunno del 1940. Così mia nonna, rimasta sola a Liverpool, decise, in seguito alla, come dire…, ‘scomparsa’ di mia madre, avvenuta nel 1952, di trasferirsi a Southport da figlio e nipoti, per poter essere di aiuto nella strana situazione familiare che si era andata a creare.
Purtroppo sei anni più tardi mia nonna morì. Lasciò tutta l’eredità al suo unico figlio Edward e tale eredità comprendeva per l’appunto anche la casa di Liverpool dove era cresciuto mio padre, abitazione che lei si era sempre rifiutata di vendere per oscuri motivi.
Così quell’anno prendemmo la scelta di trasferirci nella casa nella grande città, anche in seguito all’assunzione di mio padre presso il prestigioso Liverpool Institute. Lo stabile, una bella villetta bifamiliare collocata in una via benestante di Liverpool, era ancora tutto arredato, ma necessitava di una bella pulita: in fondo era stata chiusa per ben sei anni. Al momento del trasferimento, quindi, avevamo deciso di vendere tutti i mobili della prima abitazione (una deliziosa casetta a schiera vicina al porto) e portato con noi solo l’essenziale: vestiti, vinili, la radio, qualche quadro, libri…
Chiusa parentesi, direi.
 
‘Cazzo, che puzzo di chiuso!’ mi lasciai scappare appena entrai in casa “Diavolo, abbiamo tenuto porte e finestre aperte tutto il giorno! A questo punto questo maledetto odore se ne sarebbe già dovuto andare da un pezzo!’
“Sii meno volgare, Joanna! Sei una signorina, non uno scaricatore di porto!” mi riprese Susan, come al solito.
“Qualcosa contro gli scaricatori di porto, Sue? Sono anche loro persone, sai” ribattei in fretta, suscitando il riso di mio padre, che nel frattempo stava cercando di togliere la polvere dalle stoviglie della cucina.
Susan, indispettita, tornò alla sua impresa di pulizie, rimettendosi a pulire il tavolo di legno della sala da pranzo. Forse un tempo era stato lucido di cera, ma in quel momento era di un orribile colore grigiastro dovuto alla deposizione secolare di polvere.
La vista dello zelo con cui Sue si rimise al lavoro mi fece sentire un mostro, in fondo non stavo facendo un bel nulla da tutto il giorno. Così distolsi lo sguardo. Occhio non vede, cuore non duole, no?
La casa, per quanto fosse in condizioni disastrose, ai miei occhi era stupenda. Innanzi tutto era enorme, a occhio e croce circa tre o quattro volte più grande della casetta in cui vivevo a Southport (in seguito scoprii che la mia stima era un po’ esagerata). Era comunque arredata con gusto, e dopo poco iniziai ad immaginarmela ai tempi del suo splendore, con nonno Artie (il ricordo della cui faccia era dovuto principalmente alle numerose fotografie che mia nonna a suo tempo mi aveva mostrato) che, accomodato sulla poltrona di pelle, leggeva il giornale e si arricciava con una mano i folti baffi scuri; mi figurai poi nonna Charlie (avevo ereditato da lei l’idea di darmi un soprannome maschile) che preparava la cena dimenando la testa non ancora canuta sulle note di una qualche canzone del periodo e mio padre a undici, dodici anni, che stava stravaccato sul divano rosso a leggere un libro (è sempre stato appassionato lettore, come la sottoscritta, d’altronde).
La mia fulgida immaginazione fu interrotta da quella rompipalle di mia sorella Sue.
“Invece di stare lì a sognare ad occhi aperti, potresti almeno darci una mano Jo! Sei sempre la solita pigrona” e detto questo, mi ritrovai uno straccio per pulire in faccia.
“Susan, non si lancia la roba! Si porge, da brave ladies!” la rimbrottai, facendole il verso.
Mia sorella mi lanciò uno sguardo torvo, mentre papà prendeva le sue difese :”Dai Jo, non fare la bambina e dacci una mano.”
“Da dove dovrei cominciare?” chiesi sbuffando.
 “Vai a guardare un po’ come è la situazione al piano di sopra e inizia a ripulire” fu la risposta del mio adorabile papino.
“Ah, e fai un fischio se trovi un topo!” aggiunse Sue con un sorriso stronzo.
“T-topi?” chiesi deglutendo vistosamente. Odio quelle bestiacce.
“Be’, sai come è, la casa è stata abbandonata a sé stessa per sei lunghi anni, magari nel frattempo i topi ne hanno fatto la loro dimora…”
“Ugh!” fu la mia intelligente risposta. Fortunatamente papà intervenne.
“La volete smettere di punzecchiarvi a vicenda? Sue, smettila di spaventare tua sorella. E tu, Jo, datti da fare!”
Mio padre, per quanto la maggior parte delle volte potesse essere amabile, affabile e comprensivo, talvolta riusciva a mostrare il suo lato fermo e deciso, nonché odiosamente severo e… insopportabile.
Lo guardai, analizzando i suoi occhi nocciola cerchiati dalla montatura marrone degli occhiali di corno, i capelli scuri e radi, i baffoni sotto il naso imponente (fortunatamente non ereditato da nessuno dei suoi tre figli), il fisico alto e abbastanza slanciato, se non si considerava la pancia che iniziava a sporgere. Lo osservai mentre puliva i piatti, la gamba buona che sorreggeva l’intera struttura, la gamba tarocca (in guerra qualcuno gli aveva sparato e, non so quale diavolo di tendine o muscolo o vattelappesca gli aveva fatto fuori, sta di fatto che quell’arto era stato, da allora, molto più debole del suo vicino) più rilassata. Il bastone di legno scuro era appoggiato al muro.
Il mio sguardo si spostò poi su Susan, sulla sua capigliatura castana chiara, quasi rossiccia, sugli occhi scuri ereditati da mio padre, la pelle chiara e i tratti del viso belli ed eleganti, il fisico magro e sano, le mani dalle lunghe dita da pianista. Anche se non sembrava, A VOLTE era una ragazza adorabile, persino con me. Aveva un carattere dolce e materno, sensibile e affidabile, quando voleva. Di quattro anni più anziana della sottoscritta, si era sempre occupata di me insieme a nonna Charlie, sopportando la mia indole lunatica. Era forse proprio per questo che molte volte si comportava proprio come se fosse una madre, affibbiandosi i piacevoli compiti di trattarmi come una poppante e di sgridarmi come una pazza quando la combinavo grossa. Ecco, quando faceva così (quasi sempre) la Odiavo. Con la O maiuscola.
Avevo anche un fratello, Adam,di sei anni più vecchio di me, ma il quel periodo non viveva più con noi. Si era trasferito nel ’56 a Londra per cercarsi un lavoro, visto che il Merseyside dall’inizio del decennio era entrato in una profonda crisi economica.
Con un sospiro iniziai a dirigermi verso il piano superiore, armata di straccio e scopa. Quest’ultima mi sarebbe servita più  per scacciare, uccidere, ferire mortalmente un’eventuale colonia di topi che per pulire.
Salii tutti gli scalini. Poggiato il piede sul gradino finale, feci un ultimo sospiro.
Che la lotta abbia inizio.
 

**

 
Quelli furono giorni di curiosità e di fatica, di scoperte e di terrore.
In una quindicina di giorni riuscimmo a ripulire TUTTO e a disporre le nostre cose nelle varie stanze della casa. In seguito ci demmo da fare per riuscire far mettere a posto il sistema idraulico e quello elettrico, assicurandoci che non ci fossero più tubi che perdevano o macchie di umido, lampadine fulminate o prese di corrente ridotte in malo modo. Fortunatamente non trovammo nessuna colonia di ratti, solo un paio di topolini in soffitta, che furono portati fuori dalla nostra proprietà nello stesso momento in cui annunciai la loro presenza con un urlo lirico prolungato ed estremamente acuto.
In compenso scoprimmo, nella stanza un tempo occupata dai miei nonni e che presto sarebbe diventata di mio padre, un nido di vespe, le quali erano entrate in casa da una fessura fra la finestra e il muro. Le vespe furono scacciate, il nido distrutto e la fessura chiusa, per la felicità di tutti.
Sue si accomodò in quella che un tempo era stata la stanza degli ospiti. Era una camera piccola, ma poteva contenere tutto ciò che Susan riteneva lo stretto indispensabile: un letto con comodino, un’enorme armadio, una piccola scrivania con sedia.
Io invece, avendo un’idea di stretto indispensabile molto più vasta, mi ero appropriata della vecchia stanza di papà, che era più grande, ma non senza averla resa un briciolo più femminile (ma solo un briciolo: ero molto più maschiaccio di quanto apparissi). Verso la fine di agosto la camera conteneva oramai un letto dal nuovo materasso, un bell’armadio di legno di quercia, una scrivania per i miei studi e per la mia radio (regalatami per il mio quindicesimo compleanno), una libreria enorme, che potesse contenere tutti i miei libri, i miei quaderni di schizzi e i blocchi dove scrivevo le mie cazzate, uno specchio a figura intera (sarò stata pure maschiaccio, ma mi piaceva a volte ammirarmi davanti allo specchio) e una poltrona azzurra posta vicino alla finestra dove avrei potuto leggere i miei adorati romanzi.
 
Per fare tutto il lavoro di pulizia, riparazione e disposizione ci sarebbero voluti mesi, mentre noi ci mettemmo soltanto una trentina di giorni a causa del programma di lavori forzati che aveva definito mio padre. Sveglia alle sei, termine della giornata posto alle dieci. Non un attimo di riposo, pause bagno ridotte drasticamente, quelle per il pranzo diventate estremamente brevi. L’unico fattore positivo è che papà ci portava spesso a mangiare fish & chips, ma dopo trenta giorni di soli pesci e patate, non potei introdurre quel piatto nel mio essere per più di tre mesi. L’idea iniziale era quella di consumare il pasto in casa, ma presto papà cedette di fronte alle preghiere sempre più pressanti di due sempre più stanche figliuole e iniziammo a passare le cene a base di fish & chips nelle strade di Liverpool, nei parchi, sulle panchine che si affacciavano sul letto del fiume Mersey o, meglio di tutti, su quelle che si affacciavano al mare. Adoravo i mare. Era così… bello, romantico, infinito, crudele, imperioso, crudele, affascinante… e di aggettivi del genere ne potevo continuare a snocciolare un bel po’. Il mare era tutto. Era casa. Non era vita senza l’odore di salsedine, senza l’estate passata fra le gelide onde del Mare d’Irlanda, senza il SUONO dei flutti che si abbattevano sulle barche, sulla spiaggia, sugli scogli. Se fossi stata Dio (o Allah, o Buddha, o Superman: non sapevo chi governava l’universo, non credevo nemmeno all’esistenza un’entità superiore capace di decidere i nostri destini) e avessi dovuto creare il paradiso, beh, non avrei messo su un luogo pieno di nuvole. Il mio paradiso ideale sarebbe stato una deliziosa cittadina dalle case colorate piene di libri, sulle coste di un mare infinito. Ah, e con la musica di Chuck Berry a tutto volume.
Okay, basta romanticismi. Li odio, quindi meglio darci un taglio.
 
Quando riuscivo ad eludere la sorveglianza di mio padre, o quando ero mandata a forza a fare commissioni, ne approfittavo per scoprire le strade Liverpool, e per iniziare a ricordarmele, visto che il mio senso dell’orientamento era pari a quello di un albero. Me ne andavo in giro così, con un paio di jeans da lavoro, una sformata camiciola a mezze maniche un tempo appartenuta a papà e un cappellaccio dove ficcavo tutti i miei scuri capelli.
Susan naturalmente si lamentava.
“Vorresti andare in giro conciata a quella maniera? Ma dimmi Jo, sei impazzita? La gente crederà che tu sia una lesbica!”
Io allora le chiedevo che c’era di male e lei per risposta lasciava la stanza scuotendo la testa. Non capivo il motivo di tutte quelle scenate. Avevo imparato da mio padre a non avere alcun tipo di pregiudizio, ad essere aperta alle novità, ad accettare le persone per come sono. Ma a quei tempi gli omosessuali erano visti come gravi peccatori, come persone che coltivavano passioni contro natura e contro Dio. Io, essendo atea, non avevo alcun tipo di rancore. Sue invece era una fervente cattolica, ma soprattutto un’irrimediabile borghese, sempre preoccupata di quello che la gente potesse pensare di lei o della sua famiglia. Non era sempre stata così, ma avvicinandosi all’età adulta era diventata inspiegabilmente noiosa, cosa molto strana, visto che la mia era una famiglia dalla mentalità aperta. Forse, chissà, pensava che comportandosi da borghese avrebbe rimediato ai comportamenti dei suoi eccentrici familiari.
 
Finalmente verso la fine di agosto la casa era quasi del tutto in ordine, dovevamo soltanto imparare ad usare la lavatrice (la nostra prima lavatrice) e accordare il piano verticale che era in salotto. Dal punto personale invece, mi mancava solo da andare a comprare la nuova divisa scolastica. Tutto era al proprio posto e  nella camera regnava un ordine fuori dall’ordinario (scusate il gioco di parole). Non sarebbe durato, comunque. Tempo una settimana a partire dall’inizio della scuola, e sarebbe tornato a regnare la ben più amata e selvaggia confusione. Intanto, aspettando il ritorno del caos, nonché l’inizio di un nuovo anno scolastico, mi godevo la nuova casa.
Una delle ultime sere di quel mese, testai la vasca del bagno mio e di Susan (finora avevamo utilizzato soltanto quella nel bagno di papà). Il responso fu favorevole, forse anche perché necessitavo di un bagno rilassante. Oramai le corse per finire la casa erano terminate e io potevo finalmente godere di un momento di pace vissuto fra acqua calda, schiuma e bolle di sapone. Mi crogiolai nella vasca da bagno per un bel po’, fantasticando sulla nuova vita che avrei avuto. Iniziai ad immaginarmi possibili compagni di classe, le loro facce, i loro caratteri e poi mi sognai ipotetici dialoghi che sarebbero potuti avvenire con questi personaggi. Non seppi mai quanto tempo rimasi ammollo, a fantasticare. Quando iniziavo a sognare a occhi aperti non finivo più. Me ne uscii dalla vasca solo quando l’acqua era oramai fredda e avevo tutte le rughe sui polpastrelli. Dopo essermi asciugata un po’ i capelli, mi diressi in camera a prendere il pigiama, ma, quando fui lì, qualcosa attirò la mia attenzione. La finestra della casa accanto era illuminata. Non che fosse la prima volta, certo che no, ma prima di quel momento non ci avevo fatto caso più di tanto. La luce mi attrasse come poteva attrarre una falena e, prima di rendermene conto, ero già posizionata sulla poltrona azzurra con la faccia quasi spiaccicata sul vetro per poter spiare meglio la finestra della casa accanto. Strizzai un po’ i miei occhi blu, poiché a causa di una leggera miopia non riuscivo a vedere bene da lontano. Tuttavia scorsi, all’interno della casa dei vicini, un ragazzo che suonava la chitarra. Non riuscivo a vedere bene i lineamenti del suo viso, né avrei saputo dargli un’età. Ciò nonostante riuscivo a vedere, a percepire o che so io, la concentrazione di quel tipo nel suonare la chitarra. Mi colpì molto. Avevo già visto numerosi ragazzi suonare; a Southport, come del resto in tutta l’Inghilterra, questa attività era diventata di moda. Ne avevo anche già visti tanti che si concentravano tanto da farsi fumare il cervello per riuscire a ricordarsi i movimenti che le dita dovevano compiere per cambiare velocemente accordo. Tuttavia, di quella figura sfumata mi affascinò la dedizione con cui si concentrava e con cui suonava. Era tangibile, anche a distanza. Ne rimasi incantata. Dopo un po’, non so da quanto tempo ero in contemplazione, il giovane alzò la testa dal proprio strumento e diresse il proprio sguardo fuori dalla finestra. O perlomeno, mi parve. Maledetta miopia!
Il mio primo istinto, che fu poi quello che seguii, fu quello di salutare infantilmente il ragazzo. Mi sentii molto stupida, ma continuai imperterrita ad agitare la mano. Alla fine lui si accorse di quello strano saluto e, un po’ riluttante, alzò anche lui la mano e mi fece un cenno. Sorrisi senza motivo, e senza sapere se lui l’avrebbe visto. Non mi importava. Mi allontanai dalla finestra, mi cambiai velocemente e, infine, mi  raggomitolai nel letto. Chiudendo la luce, mi chiesi quando avrei conosciuto di persona quel giovane e che cosa ci saremmo detti in un primo momento. Tuttavia, prima che potessi iniziare un’altra delle mie interminabili fantasticate, il sonno mi avvolse e caddi fra le morbide braccia di Morfeo.







*Angolo dell'autrice*
Hey there! La Scaramouche è tornata, aggiornando questo coso (che non so se chiamare racconto) con un nuovo sclero, un nuovo capitolo insomma. Okay, è vero, questa parte della storia non racconta niente di  particolare, ma serviva per introdurvi nel mondo di Joanna.
Ringrazio tutte le persone che hanno recensito il prologo di questa storia, coloro che l'hanno messa fra i preferiti o fra le seguite e anche quelli che leggono soltanto *abbraccia tutti*.
A presto,
la vostra BohemianScaramouche <3

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Capitolo 3
*** Bastard! ***


BASTARD!






31 agosto 1958


Ultimo giorno di agosto. Fra poco sarebbe iniziata la scuola, quindi fine della pacchia.
Era così bello non dover far niente dopo giorni di lavori forzati! Dormivo fino alle undici, ero presentabile verso le due, mangiavo come un maiale, leggevo, davo noia a mia sorella… non pensavo che le vacanze potessero essere così belle. Fare NIENTE tutto il giorno mi procurava una gioia incommensurabile. Le vacanze dei miei anni a Southport erano sempre così piene di impegni: uscire con il mio gruppo di amici, andare al mare, fare il bagno, prendere il sole, aiutare nonna a preparare il pranzo… A Liverpool provai invece un nuovo tipo di vacanza, solitaria, ma sorprendentemente rilassante. Il tempo che sprecavo era dedicato solo a me stessa.
A volte decidevo di svegliarmi presto e con la mia tenuta da battaglia mi addentravo nei parchi della città, oppure mi spingevo fino alle rive del Mersey o, ancora, andavo al porto. Lì mi mettevo su una panchina e mi mettevo a scribacchiare quello che mi passava per la testa (principalmente poesie e brevi racconti), oppure, se avevo il mio blocco per gli schizzi, rappresentavo con i carboncini il paesaggio che mi circondava. Mettere le cose bianco su nero, che fossero disegni o testi, mi riempiva di gioia. Rendeva le cose più nitide, metteva pace nella mia testa costantemente incasinata.
Altre volte invece, mi limitavo a stare in casa a cantare, ballare o semplicemente ad ascoltare del buon rock ‘n’ roll: Elvis, Chuck, Eddie, Gene, Buddy… i miei eroi.
Anche papà li adorava, perciò era facile convincerlo a comprarmi tutti gli LP dei miei cantanti preferiti. Appena acquistati, i vinili venivano subito messi nel grammofono a tutto volume e io e papà e, quando c’era, mio fratello Adam ci scatenavamo sulle note di quelle canzoni irresistibili, ballando in modo maldestro e cantando parole sbagliate. Nel frattempo Susan, riluttante a lasciarsi andare al suono di quella musica sregolata, stava sul divano a guardarci. Dopo un paio di ascolti la danza era più accurata ed il testo era recitato perfettamente, ma ci divertivamo lo stesso come pazzi. Il motto di mio padre era: ‘Se la musica è il cibo dell’amore, continua a suonare’. Fino ai quattordici anni avevo sempre creduto che fosse una massima di sua invenzione, ma poi avevo scoperto che aveva fregato questa frase a Shakespeare.
Papà aveva anche numerosi LP di cantanti jazz e blues come Billie Holiday, Ray Charles ed Ella Fitzgerald.  Mi piacevano tantissimo, anche se non appartenevano alla sfera ribelle del rock ‘n’ roll.
Tuttavia la maggior parte delle volte, la musica che regnava a casa nostra era quella di Elvis Presley, trasmessa dalla radio o prodotta dal nostro mangiadischi. Il volume era sempre abbastanza alto, in modo tale che potessimo godere appieno della voce del Re, ma di certo non avrebbe dato noia ai nostri vicini, i Reevers.
 
I Reevers risiedevano nell’altro appartamento della casa bifamiliare dove noi abitavamo. Erano una coppia di coniugi i cui figli erano già andati tutti via di casa, ma lavoravano ancora, avendo entrambi poco più di cinquant’anni. Stephen era uno stenografo, mentre Dora faceva l’assistente odontoiatrica. Entrambi erano piuttosto simpatici e abbastanza tolleranti nei confronti del rock e dei giovani, quindi la convivenza con loro si era rivelata piacevole e priva di problemi.
Steph e Dora erano gli unici vicini con cui avevamo fatto conoscenza. Non sapevamo quasi niente delle altre famiglie che abitavano la via. Quando le incrociavamo per strada era tutto un ‘Buongiorno’, ‘Salve’, ‘Buonasera’ molto educato, contornato da sorrisoni finti, come se avessimo saputo benissimo chi fossero. In realtà parlo solo a nome mio e di mia sorella: papà invece non faceva che fermare persone per strada e farsi fermare. Sembrava così contento di essere tornato a Liverpool! Così, circondato dai vecchi compagni di scuola, dai vicini di un tempo, dagli amici degli anni che furono, mio papà sembrò rinascere. Non lo avevo mai visto in quel modo, salvo nelle poche occasioni in cui, tempo addietro, andavamo a Liverpool a fare questa o quella commissione o a fare visita alla nonna, quando ancora non si era trasferita da noi. Oltre ad un sorriso rilassato, in seguito al trasferimento a papà spuntò anche una certa parlantina. Era capace di tenere a parlare i vecchi conoscenti per ore, durante le quali iniziava ad enunciare la propria biografia completa a partire dai tempi in cui si era trasferito a Southport. Non si soffermava molto sulla ‘scomparsa’ di sua moglie, ma in compenso raccontava ogni singola vicenda in cui noi figli facevamo la nostra comparsa. Era imbarazzante. Soprattutto quando ci si mettevano anche gli ascoltatori, che, passando per un minuto alla categoria interlocutori, iniziavano dai tipici ‘Ma guarda come sono cresciute queste belle ragazze!’ e terminavano con i più orribili ‘Sì, mi ricordo quando da piccola andavi al mercato con la nonna e ti mettevi ad alzare la gonna alle signore anziane per far loro i dispetti! Ahahhaahha!’.
Davvero imbarazzante.
 
Stavo ripensando a questi sgradevoli episodi quando, nella calma di quel caldo pomeriggio, il campanello suonò. Papà era di sopra a fare non so cosa, così come Sue, che probabilmente si era rinchiusa in camera a sonnecchiare. Io ero l’unica al piano terra, immersa fino al collo in un nuovo romanzo e con le orecchie piene della voce di Elvis che gridava: “Let’s rock, everybody let’s rock, everybody on the whole cell block, they was dancing to the jailhouse rock!”.
Tuttavia, anche se ero molto impegnata, sarebbe toccato a me alzarmi e andare ad aprire la porta. Chissà, magari Dora non aveva più sale e stava venendo a chiedercene un po’ a noi. Ma questa mia ipotesi era semplicemente improbabile: a casa Reevers avevano sempre tutto, eravamo sempre noi a chiedere se ci prestano un po’ di questo o un briciolo di quello. Ci dimenticavamo sempre un sacco di cose quando andavamo a fare la spesa.
Il campanello suonò un’altra volta, irritato. Sbuffai, mi stiracchiai un po’ e, molto lentamente, mi alzai dal divano. In quella breve frazione di tempo, Susan era già scesa da camera sua di tutta fretta e aveva spento Elvis.
“Che cazzo fai?” le urlai, come se mi avesse preso a schiaffi.
“Eh?” fece lei, senza capire.
“Scusa, riformulo la domanda in un linguaggio piccolo borghese in modo che tu possa capire: Perché diavolo hai spento il grammofono quando c’era Jailhouse Rock?” formulai, la faccia rossa completamente indignata. Non si può interrompere una canzone del Re sul più bello. E’ sacrilego. La gente va all’inferno per questo tipo di peccati.
“Sono arrivati i vicini della casa affianco, non possiamo certo accoglierli in casa nostra con questa musica di sottofondo!”
“Ma è ELVIS! Se non lo amano non possono certo entrare in casa nostra e…” replicai disperata.
“Jo, sta’ zitta e va’ a cambiarti. Perbacco, sembri una senzatetto! Chiama anche papà, intanto io accolgo gli ospiti” mi ordinò lei, aggirando le mie proteste.
Sospirando mi diressi al piano superiore, dove papà si stava già preparando a scendere per poter salutare i vicini. Che poi, bravi i vicini a presentarsi per la prima volta dopo quasi un mese dal nostro arrivo!
Con la testa piena di bestemmie rivolte a Sue e ai vicini, andai in camera a cambiarmi. Mi soffermai prima davanti allo specchio. Cosa avevano di sbagliato i miei jeans pieni di toppe colorate , la mia maglietta grigia stropicciata e il mio chignon spettinato? Proprio non capivo. I vicini sapevano che andavano a trovare una famiglia nel pieno della siesta pomeridiana, mica potevano pretendere che girassimo per casa vestiti da festa! Infastidita da questi pensieri, andai davanti all’armadio e ne tirai fuori una camicetta azzurrina a maniche corte e una gonna color caffè lunga fino al ginocchio. Ai piedi mi misi un paio di ballerine scure senza tacco e, per quanto riguarda i capelli, me li legai con un nastro azzurro in una coda alta. Mi diedi un altro fugace sguardo allo specchio e, decidendo che più di così non sarei riuscita a fare, scesi velocemente dalle scale. Girai a destra e, entrata in salotto, mi accolse la seguente scena: papà si era accomodato sulla poltrona di pelle del soggiorno, mentre Susan era seduta tutta impettita su una sedie presa dalla cucina; i tre ospiti invece si erano posizionati sul divano. In tutto gli intrusi erano tre: una donna e due uomini. Appena mi addentrai in salotto, gli sguardi di tutti furono rivolti alla sottoscritta, provocandomi un grande imbarazzo.
Odiavo essere scrutata.
“Jo, sei arrivata finalmente!” esclamò papà con un sorriso.
“Mah, in realtà sono stata via solo per cinque minuti” borbottai a voce troppo bassa per essere udita.
“Ma su, presentati ai nostri ospiti Joanna, non fare la timida!” continuò Susan, gridando.
Le avrei tirato volentieri un pugno. Prima di tutto ci sento, tesoro; secondo non ti condannano se mi chiami Jo invece di Joanna; terzo e ultimo, non farmi fare la figura della cretina dicendomi di non fare la timida!
Tutto questo però non lo potevo dire, quindi sfoderai il mio miglior sorriso (forzato, naturalmente) e mi presentai tutta carina ed educata, stringendo cortesemente la mano agli ospiti senza però spappolargliela, come ero solita fare (la mia stretta era decisamente vigorosa).
“Salve, sono Joanna, come avrà di certo capito. Piacere di conoscerla!” feci, dando la mano alla donna, che era la più anziana di tutta la combriccola di vicini. I capelli scuri erano arricciati secondo la moda del tempo ed era vestita con una certa eleganza, ma la cosa che più mi colpì furono i suoi occhi: scuri ed estremamente severi. Mettevano paura.
“Mary Smith, piacere” disse lei, porgendomi la mano e facendo una strana smorfia, forse in un disperato tentativo di fare un sorriso austero.
“Ma tutti la chiamano Mimi, quindi potete farlo anche voi” disse il ragazzo che sedeva alla destra della donna beccandosi un’occhiata di fuoco da parte della suddetta Mimi.  Non riuscii a vederlo bene poiché la sua figura era parzialmente coperta da quella di Mrs. Smith. Inoltre, prima che potessi osservarlo meglio, si fece avanti l’altro giovane, che, essendo seduto a sinistra di Mimi, era più vicino a me. Questi avrà avuto poco più di vent’anni, anche lui era vestito di tutto punto e i suoi capelli erano perfettamente pettinati. Non mi suscitò nessuna curiosità, la sua faccia era uguale a migliaia di altre.
“Michael Fishwick” si presentò, porgendomi impacciato la mano “Sono un affittuario di Mrs. Smith. Piacere di conoscerla Miss Page”
“Il piacere è tutto mio!” dissi più per formalità che altro.
Rivolsi poi il mio sguardo all’altro ragazzo. Mimi si era un po’ scostata, così potevo vederlo meglio. Si rivelò essere il più giovane del gruppo. Avrà avuto appena due anni più di me. Indossava una tenuta da Teddy Boy e capelli castani erano acconciati con il ciuffo a banana stile Elvis. Finora piuttosto banale: tutti i giovani avevano quella pettinatura e quel tipo di vestiario. Beh, almeno sembrava che gli piacesse Mr. Presley e questo era un punto a suo favore. Sul viso era visibile un’espressione decisamente infastidita (probabilmente, proprio come me, odiava le visite di cortesia), che albeggiava dai suoi occhi scuri dalla forma affusolata e terminava nella piega contratta che prendeva la sua bocca dalle labbra sottili, smorfia che faceva arricciare anche il naso aquilino. Non era un gran che di bellezza. Avevo sperato di meglio.
“E ultimo, ma non ultimo, John Lennon. Sono il nipote di questa qua” fece porgendomi annoiato la mano e facendo un cenno nella direzione di Mimi. Che galanteria da tricheco!
“Joanna Page. Piacere di conoscerti”
Mi squadrò un attimo con lo sguardo, soffermandosi sul petto, ma, capendo che c’era poco o niente da osservare, tornò a pensare agli affari suoi. Maschi!
“Su sorellina, prendi una siediti e accomodati con noi!” fece Susan con la sua voce più odiosa.
- Sue, se non la smetti giuro su Chuck Berry che ti ammazzo - pensai rabbiosamente.
“Va bene Susan Barbara, vado e torno” dissi calcando innocentemente il suo secondo nome, Barbara, che lei odiava con tutto il cuore. A me non dispiaceva. Certamente era meglio del mio: Marie. Lo odiavo, era così… insulso. Insulso e un po’ troppo francese per i miei gusti.
Dopo essermi beccata uno sguardo omicida da parte di mia sorella, mi diressi in cucina, presi una sedia e mi sedetti  accanto a papà, in modo da stare il più lontano possibile da Sue la Perfida. Gli altri si erano già rimessi a chiacchierare.
“Davvero studi biochimica? Deve essere così interessante!” stava dicendo Susan, rivolta a Michael. Naturalmente stava cogliendo l’occasione per fare la gatta morta con quel noioso di Fishwick.
“Lo è” rispose il giovane biochimico arrossendo e guardandosi le mani, che teneva in grembo. Loquace il ragazzo!
“Lei invece di cosa si occupa, signorina Page?” chiese Mimi a Susan.
“Oh, io faccio l’infermiera. In questi giorni sto cercando un impiego in uno degli ospedali di Liverpool”
“Anche io ho fatto l’infermiera” ammise la donna con un sorriso “Lavoravo al Woolton Convalescent Hospital”
“Davvero?”
No, per finta, Sue.
“Sì. Mi piaceva davvero tanto come lavoro…” rispose Mimi con uno sguardo sognante.
“Lei invece Joanna, che scuola frequenta?” chiese Fishwick, stanco di osservare le sue mani.
“St.Julie’s Catholic High School” rispose papà al posto mio.
Ebbene sì, il mio caro paparino, pur essendo alla conoscenza del mio ateismo e pur avendolo accettato da tempo, mi aveva iscritto ad una scuola cattolica. Alle mie proteste aveva risposto che le migliori grammar school* di Liverpool erano tutte in mano al clero. Maledetto! Purtroppo era troppo tardi per iscrivermi ad un altro istituto, quindi per quell’anno avrei dovuto fare buon viso a cattivo gioco e frequentare quella cazzo di scuola.
“Ah” fece Mimi la Strega, gelida “Siete cattolici?”
“A quanto pare!” rispose papà, bonario.
“Ma non mettiamo a parlarci di religione, se è un argomento che crea così tanta tensione” continuò poi mio padre, sempre con un sorriso, facendo arrossire Mrs. Smith che borbottò un ‘Io non ho nulla contro i cattolici’ poco convinto.
“Tu John, che scuola frequenti?” domandai allora io, per cambiare argomento.
Silenzio in aula. Tutti ci mettemmo a guardare John, che mi rivolse di rimando un’occhiata interrogativa, come per chiedere quale domanda gli avessi posto.
“Cosa?” fece infatti, infastidito che qualcuno avesse interrotto il flusso dei suoi pensieri.
“Che scuola frequenti?” chiesi nuovamente, seccata di dover ripetere la domanda.
“Quarry Bank” rispose, tornando poi a pensare ai fatti suoi. Ecco, lui era forse ancor meno loquace di Fishwick. Chissà su cosa rifletteva, sembrava così assorto!
“Oddio, mi sono appena accorta che non vi abbiamo offerto niente! Vi andrebbe un tè? Sarebbe ottimo da gustare con questa splendida torta di mele. Guarda Joanna, Mrs. Smith è stata così gentile da portarci questo dolce. L’ha fatto lei con le sue mani!” disse mia sorella, riprendendo il controllo sulla situazione.
Certo, un ottimo dolce. Di mele. Preparato da Mimi la Perfida. Con le sue mani.
 - Questa ci vuole ammazzare, come ha quasi fatto la strega con Biancaneve, altro che! L’ho già inquadrata, io! – pensai, decidendo in quel momento che non avrei mai assaggiato quella torta assassina.
“Sì, del tè va bene” asserirono i nostri ospiti, o perlomeno la maggior parte di questi.
“No zia, anche per il ‘teino’ non ci sto. Avevo appuntamento con gli altri mezz’ora fa!” sbottò infatti il nipote di Mimi.
“John!” sibilò lei cercando di reprimere il desiderio di farlo fuori all’istante.
“Un bicchiere d’acqua, allora?” chiese Sue tentando di rimediare a questa piccola tensione che si era andata a formare.
John le lanciò un sguardo di fuoco.
“Beh, se il ragazzo vuole uscire, lasciamolo libero! A quale giovane interesserebbero le chiacchiere di noi poveri vecchi?” provò papà. Lui si beccò invece uno sguardo di puro odio da parte di Mimi.
“No signor Page, è una questione di principio. John non può fare sempre quello che vuole. Bisogna attenersi a delle regole” si irritò infatti Mrs. Smith.
 “E quali sarebbero queste regole?” si sentì dire.
Tutti si girarono verso di me.  No, non era possibile. L’avevo detto davvero a voce alta. Cazzo!
- Merda, ora la vicina mi ammazza! - pensai, terrorizzata - Scoppierà il terzo conflitto mondiale e non basterà un giovane Fishwick a fermarlo -
“Come, prego?” chiese Mimi con una voce che faceva paura.
Merda! Merda! MERDA!
“Le ho domandato quali sono le regole a cui bisogna attenersi. Ed in particolar modo sono interessata a sapere a quale regola dobbiamo riferirci in questo caso” risposi con un coraggio non mio.
- Però, che palle, mi tocca sempre ripetere tutto! - pensai tentando di sdrammatizzare la situazione, perlomeno nella mia testa.
Mimi raccolse la sfida e disse infatti, lapidaria:
“John passerebbe da maleducato ad andarsene ora.”
Deglutii.
“Ma noi non lo considereremmo maleducato. In fondo abitiamo a due passi, lo vedremo molte altre volte nel corso del nostro soggiorno qui a Liverpool. Non è necessario che perda l’appuntamento con i suoi amici” risposi con una certa logica. Mi sentii invincibile per un millisecondo, ma poi Mrs. Smith fece una faccia talmente indignata da farmi tremare il midollo nelle ossa.
“Come ti permetti…” iniziò lei, ma prima che potesse scoppiare del tutto, Michael Fishwick agì.
“John potrebbe portare Miss Joanna insieme a lui!” esclamò infatti tutto d’un fiato.
Tutti stupiti, lo guardammo. Questa visita era più un viaggio di sguardi che altro.
“Cioè…” fece lui, tutto rosso, tentando di formulare una frase decente “Potrebbe portare Miss Page a fare un giro e a conoscere un po’ di ragazzi di Liverpool… In fondo è appena arrivata, sarà contenta di fare nuove conoscenze e… John potrebbe uscire e nel frattempo farebbe un gesto galante nei confronti della vicina”
Prima che Mimi potesse ribattere qualcosa, intervenni.
“Per me va bene!” e poi dissi, rivolta a John “Ci stai?”
“Sì, sì” rispose John in modo sbrigativo, contento di potersi levare da quella situazione imbarazzante.
“Allora andiamo!” esclamai, e prima che qualcuno potesse dire qualcosa, presi la mia borsa di cuoio e mi diressi con il giovane Lennon fuori di casa.
 
Appena giunti all’aperto, John si accese una sigaretta. Inspirò a fondo e poi buttò fuori tutto il fumo, senza dire niente. Poi, senza guardarmi, disse: “Bene, allora ci vediamo!” e si diresse per la sua strada.
Ma che cazz…
“Come ‘ci vediamo’? Che significa?” chiesi, contrariata, iniziando a seguirlo.
“Ehm, come dire…” fece lui fermandosi un attimo e fingendosi pensoso.  “ ‘Per ora addio, ci vedremo nel futuro’?” fece poi, sarcastico.
“Non vengo con te?”
“No” disse e ricominciò a camminare.
“Ma avevi detto che potevo venire con te e i tuoi amici” replicai, tornando alle sue calcagna.
“L’ho detto perché così mi liberavo di Mimi. Con lei bisogna sempre scendere a compromessi, in questi casi” mi spiegò senza badarmi troppo attenzione.
“Perché non posso venire con te?”
“Perché ho da fare”
“E io che fine faccio, scusa?” chiesi piccata.
“Mah, non saprei, vai a fare quello che fai di solito, preghi, vai in chiesa…”
“Non sono quel tipo di ragazza!” protestai, rossa in viso per la rabbia. Che ragazzo ottuso! Solo perché frequentavo una scuola cattolica (contro il mio volere, fra l’altro) non voleva dire che ero una bigotta!
“Ah, se sei una di quelle che alimentano il detto ‘le figlie di Maria sono le prime a darla via’, allora…” e fece un sorrisetto allusivo, fermandosi un attimo per lanciarmi uno sguardo malizioso.
Quel pezzo di…
“Vorrei tanto prenderti a badilate nei genitali” sibilai, disgustata.
“Cosa?” chiese curioso, pensando probabilmente che avessi proposto una porcata da fare insieme a lui.
“Non è una tecnica sessuale. Parafrasando quello che ho detto, il concetto è che sei una testa di cazzo”
Alzò scettico un sopracciglio. Poi ridacchiando disse: “Fa’ come ti pare nanetta. Ti perdi molto, comunque”.
E ricominciò a camminare, ma stavolta non lo seguii.
“Stronzo!”
 
Lista nera di Joanna M. Page:
1 – Topi,
2 – Susan B. Page,
3 – John Lennon.











*le grammar school inglesi corrispondono all'incirca ai nostri licei



*Angolo dell'autrice*,
Salve popolo! E' con grande piacere che vi annuncio la pubblicazione del terzo capitolo della mia ff, anche se è arrivato con un ritardo tremendo :S  Spero di poter pubblicare il prossimo capitolo in un tempo decente, ma con la scuola che inizia a fare già le prime pressioni è un po' difficile. Ma non sarà certamente questo a fermarmi! :D (okay, ora la smetto...)
 
E ora i ringraziamenti:
Ringrazio il mio fratellone Belfagor per la revisione di questo capitolo, daddaphoenix, malandrini_xs, Gnufoletta, itsanowl, NimTheNimrod, StreetsOfLove, I_me_mine e Val_ per aver recensito la storia, nuovamente daddaphoenix, Gnufoletta, I_me_mine e StreetsOfLove per averla messa fra le preferite, CheccaWeasley, Val_, Elejjkk, itasanowl e malandrini_xs per averla posta fra le seguite e infine ringrazio tutti coloro che leggono silenziosamente.
*'che ringraziamenti di merda' dice il mio Lennon interiore. Mi sa che ha proprio ragione T.T*
A presto,
la vostra BohemianScaramouche :D

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Capitolo 4
*** School Days ***


SCHOOL DAYS








Il penetrante rumore  della sveglia infranse completamente il mio sonno. Ma non importava. Ero ben decisa ad ignorarlo e continuare a dormire.
Un altro fastidioso ‘drin’. Mi sembrava che mi stessero trapanando il timpano. Magari se l’avessi spenta e avessi dormito un altro pochino, nessuno se ne sarebbe accorto…
Feci per allungare la mano e spegnere la sveglia, quando papà entro in stanza, tutto eccitato.
-Detto, fatto!- pensai sarcastica.
“Jo! Cosa ci fai ancora fra le coperte? Presto, oggi è il tuo primo giorno di scuola! Ti devi alzare, vestire, farti bella e…”
Mio papà stava decisamente sclerando. Anche per lui era il primo giorno di scuola, ma lui ci andava ad insegnare letteratura inglese, il che era forse peggio che andarvi come alunno. Stranamente lui trovava questa cosa elettrizzante.
Ma, mentre mio padre era tutto esaltato, io ero ben decisa a nascondermi da qualche parte e a marinare la scuola. I primi giorni sono orrendi. Conoscere tanta gente nuova, le presentazioni, il nuovo ambiente… a dire la verità mi mettevano un po’ d’ansia. Ansia, non paura eh. No, non era paura. O forse sì? In ogni caso non lo avrei mai ammesso, neanche a me stessa, come si è soliti dire.
“Cinque minuti, ancora… cinque minuti” provai a controbattere, ma naturalmente ‘qualcuno’ aveva da ridire.
“No, piccola mia, non ti permetterò di fare tardi il tuo primo giorno di scuola!” mi disse infatti papà, prima di togliermi tutte le coperte di dosso.
“Nooooo… freeeeeddo” mugolai, tentando di proteggermi dall’improvviso cambio di temperatura con il cuscino.
“Forza! Alzati!”
“MAI!”
“Allora mi costringi ad usare le maniere forti…” proferì con una voce inquietante.
“Che maniere fort… EHI!”
A mio padre era venuta in mente la brillante idea di prendermi per i piedi e di tirarmi letteralmente giù dal letto. Alla fine mi ritrovai con la testa sul letto, il culo a terra e i piedi fra le grinfie di mio padre. Dal momento che nella mia quasi caduta mi ero aggrappata appena in tempo al coprimaterasso, il materasso era quasi del tutto in bella vista.
Cercai a fatica di riposizionarmi sul mio giaciglio, ma quel buzzurro che mi ritrovavo per padre iniziò a farmi il solletico. Scena finale: me stesa sul pavimento a contorcermi dal ridere e papà che sogghignava  in modo sadico e che mi torturava le piante dei piedi.
“No… ti prego… smettila…” tentai di dire fra una risata e l’altra.
“Niente da fare!” pronunciò ridendo a sua volta, anche se il suo riso era dovuto al piacere sadico che provava a darmi noia.
“Okay,okay… basta mi arrendo…”
“Come scusa?” fece mio padre, facendo finta di non sentire.
“MI ARRENDO!”
Appena pronunciate quelle due magiche paroline, papà mi lasciò andare i piedi e potei finalmente riprendermi.
“Forza, va’ a prepararti!” mi incitò, con ancora il riso sulle labbra.
“Corro!” dissi, filando a prepararmi.
In cinque minuti avevo già divorato il mio pane tostato con burro e marmellata (tanto quelle calorie le avrei bruciate tutte, con l’ansia che mi ritrovavo) e bevuto il caffellatte; in seguito corsi in bagno dove provvidi alla mia igiene e mi cambiai. Indossai per la prima volta la mia nuova divisa scolastica: una gonna scozzese blu, una camicia gialla a mezze maniche, un cardigan blu navy con lo stemma della scuola, calzini scuri e scarpe scure.
Non era troppo brutta, anche se si sarebbero potuti risparmiare quella camicia gialla. Ma in realtà, nonostante il mio fisico alto e slanciato, sembrava che l’uniforme fosse attaccata ad una gruccia. Non me la presi troppo a male però: in fondo le tenute scolastiche stanno male a tutti.
Lasciai i capelli sciolti, pettinati alla bell’e meglio. Non avevo voglia di acconciarmeli, ero troppo nervosa. Non volevo neanche truccarmi se era per questo. Purtroppo, appena uscita dal bagno, incrociai Susan, la quale probabilmente stava aspettando il proprio turno per la toeletta. Sperai di uscire da questo scontro indenne, ma sfortunatamente non fu così.
 “Rientra immediatamente in bagno. Non puoi andare al tuo primo giorno di scuola ridotta in questo modo” mi disse infatti.
“Suvvia Susan, ho la divisa della scuola addosso. Lo so che mi sta da cani, ma mica posso vestirmi diversamente…” provai a dire mentre cercavo, senza successo, di superarla.
“Non è per il vestiario. Anzi, l’uniforme ti sta stranamente a pennello. Sono i capelli. La tua faccia struccata. Tutto ciò è orribile” mi spiegò con la delicatezza di un rinoceronte bianco in un negozio di cristalli.
Poi, prima che potessi protestare, mi ributtò in bagno e, chiudendocisi dentro insieme a me, disse: “Non ti preoccupare, ci penso io”
-Bene, come minimo arriverò a scuola alle dieci di sera- pensai, rassegnata.
Pur essendo tremendamente bigotta, Sue aveva un’adorazione malata per il trucco, le acconciature e i bei vestiti, indi per cui molte, moltissime, troppe volte, ero stata usata come cavia per i suoi esperimenti estetici, vestita e svestita come se fossi stata una bambola e truccata come se fossi stata una maschera.
La dura vita delle sorelle minori.
Per prima cosa mi ispezionò i capelli.
“Be’, così lisci non te li posso lasciare, ma d’altra parte non c’è tempo di arricciarli…” la sentii borbottare, mentre prendeva varie ciocche e le analizzava. 
Per quanto riguarda il trucco, a lei le sarebbe piaciuto impiastricciarmi tutta la faccia con fondotinta,  fard, rossetto, eyeliner, mascara, ombretto  e chi più ne ha più ne metta! Naturalmente mi opposi: la mia carnagione lattea era senza imperfezioni e i miei occhi erano già fin troppo appariscenti, non era necessario
l’ausilio del trucco per renderli vistosi.
Dopo che ebbe finito di truccarmi e di pettinarmi, mi diedi una breve occhiata allo specchio.
Fortunatamente mia sorella non aveva esagerato: sui miei zigomi non troppo definiti aveva messo un po’ di fard rosato, mentre sulle mie labbra lievemente carnose c’era un briciolo di rossetto, non troppo evidente, grazie a Giove. Sotto le mie sopracciglia folte ma ben disegnate, i miei grandi occhi color non-ti-scordar-di-me erano abbelliti con un bel po’ di mascara che scuriva ciglia già lunghe. Niente eyeliner, per fortuna. I miei capelli castani scuri, quasi neri, essendo troppo lisci, erano stati legati in una coda alta per mezzo di un fluttuante nastro bianco.
Beh, non male.
Borbottai un grazie e uscii di corsa dal bagno, in modo tale da sfuggire alle grinfie di mia sorella che pensava che ci fosse il bisogno di qualche altra ritoccatina qua e là.
Sicura del mio ritardo, corsi in camera, presi la borsa con i libri e mi fiondai fuori casa gridando un saluto alla mia famiglia. Un ‘In bocca al lupo’ giunse invece alle mie orecchie mentre inforcavo la bicicletta per dirigermi a scuola.
Diedi un rapido sguardo a Mendips, la casa dove abitavano Mimi la Perfida, Michael Sono-Un-Bravo-Ragazzo e John lo Stronzo. Nessuno in vista. Potevo andare.
Spingendo sui pedali, mi diressi verso Speke Road, dove era situata la mia scuola.

Non mi fu difficile trovarla: quel dannato istituto era enorme. O meglio, erano più edifici enormi.  
Bene, come minimo avrei speso la prima settimana di scuola a cercare invano l’aula.
Odiavo papà con tutto il cuore. Una scuola religiosa, enorme, piena di bigotti… un incubo. Tornata a casa avrei ucciso mio padre. Questo era poco ma sicuro.
L’unica cosa positiva della scuola era che, essendo a due passi da Woolton Wood, aveva un cortile ricco di alberi.
Mi guardai attorno e vidi, con mio grande stupore, che molte studentesse (la mia era una scuola femminile) erano ancora nel cortile, e chiacchieravano fra loro senza fretta. Diedi un attimo un’occhiata al mio orologio: ero arrivata addirittura un quarto d’ora prima del suono della campanella. E io che pensavo di essere estremamente in ritardo!
-Ma vaffanculo, va’!- pensai, imprecando contro non so chi.
Riflettei un attimo: la prima cosa da fare era trovare la segreteria, dove mi avrebbero dato la cartina della scuola e il programma delle mie lezioni.
Qui però sorgeva il primo problema della giornata: dove cazzo stava la segreteria?
Mi guardai attorno, sperando di trovare una targa su cui ci fosse indicato a caratteri cubitali il nome del luogo che stavo cercando, ma non c’era niente, neanche un fottutissimo indizio.
Non avendo voglia di cercare a vuoto, decisi che la cosa più saggia da fare fosse chiedere a qualcuno.
Mi diressi verso un gruppo di ragazzette che dovevano avere più o meno la mia età. Erano tutte belle pimpanti già ad inizio giornata, alcune di loro non indossavano neanche il blazer/pullover/cardigan scuro della divisa, nonostante quella fosse una mattinata piuttosto fresca. Tutto il contrario della sottoscritta, insomma:  avevo un’aria da zombie e un freddo tale che, se avessi potuto, avrei messo altri due maglioni oltre al golf che già portavo.
Mi avvicinai cautamente, un po’ intimorita da quella massa enorme di chiacchiere che usciva dalle loro bocche e che rimbombava nella mia testa come un eco. Tuttavia, dopo aver preso un bel respiro, le interruppi.
“Scusate…”
Non appena pronunciai ciò, il gruppetto si zittì e iniziò a scrutarmi, curioso.
L’ho già detto che odio essere fissata?
“Ehm…” iniziai, con una po’ di incertezza “Sono nuova e non so dove è la segreteria, potreste dirmi come devo fare per raggiungerla?” chiesi, cercando con vani tentativi di darmi un tono sicuro.
Le ragazze si guardarono fra loro ghignando malefiche.
Questo non preannunciava niente di buono…
“Aspetta un attimo” mi fece una di loro, una ragazzetta dai capelli rossicci e il viso pieno di lentiggini.
“Faith! Faith Johnson, qui c’è bisogno del tuo aiuto!” chiamarono le ragazze.
Un po’ più in là si girò una ragazza, che si diresse verso di noi.
“Che succede?” chiese, appena si fu avvicinata.
“Una povera pecorella smarrita ha bisogno del tuo aiuto. Vai ad aiutarla, Faith” le dissero, come avrebbero potuto dire ad un supereroe di recuperare il gatto che non voleva scendere dall’albero.
“E chi sarebbe questa anima sperduta?” chiese, spalancando gli occhi decisamente chiari e decisamente a palla.
Okay, ne avevo già abbastanza di quelle parole da oratorio.               
“Io” risposi, piuttosto seccata.
Mi lanciò un’occhiata compassionevole, mentre sulle labbra iniziò ad ostentare un sorriso comprensivo, che scopriva lievemente la bocca cavallina. Il mio sguardo cadde sulla sua collana, sfoggiata sopra la cravatta scura della divisa. Il ciondolo argentato aveva la forma di crocifisso, ed era tempestato da piccoli pezzi di vetro colorati che dovevano probabilmente interpretare il ruolo di gemme preziose.
Oddio. Quella era una fanatica. Come avevo fatto a non capirlo prima? Neanche a farlo apposta, il suo nome significava “fede”.
Merda.
“Come ti chiami, cara?” mi chiese con una voce dolce, da diabete.
“Joanna Page” le risposi secca, non volendo perdermi in stupide chiacchiere.
- Ma che cazzo te ne frega di come mi chiamo?! Domandami di cosa ho bisogno, dammi una risposta e abbandonami a me stessa! -
“JOANNA! Ma che bel nome, cara! Se non sbaglio significa ‘dono del Signore’. E’ veramente un bel nome da portare… Il Signore ci ha dato davvero un bel dono! Rendiamogli grazia!” disse, iniziando ad alzare la voce, forse per far capire a tutti quanto era caritatevole e colta e credente.
- Ma dico! Neanche un prete dice queste cose al di fuori delle funzioni religiose! Lo sapevo io che era una fanatica. E poi da dove l’ha tirato fuori il significato del mio nome? Eh? Che ha, un dizionario in testa?- pensai, rabbiosa. Più parlava e più avevo voglia di riempirla di calci negli stinchi.
Le ragazze, accanto a noi, si stavano sganasciando dalle risate. Tuttavia la nostra santissima Faith sembrava non sentirle.
“Io comunque sono Faith Johnson e mi occuperò di te e del tuo problema… Ti aiuterò a superare le tue difficoltà, ti…” iniziò a dire, come se fosse stata  di fronte ad un malato terminale.
-Allah, Buddha, Giove, Satana, Superman, anche tu Dio (se ci sei), aiutatemi!- pensai, disperata.
Niente. Faith Johnson continuava a parlare, imperturbabile. Non la finiva più.
-Vi prego, vi prego, vi preeeeeego!- pregai, rivolgendomi ad ogni santo, divinità, supereroe ed entità maligna di questo mondo.
“Quindi… qual è il tuo quesito, Joanna?” terminò infine.
- Uh, forse Dio e compagnia bella esistono davvero!-
“Beh, ecco…” iniziai, non sapendo più cosa dirle. Aveva parlato talmente tanto che non mi ricordavo più che cosa le dovessi chiedere. Maledizione!
“Il mio più grande problema è che non mi ricordo come disegnare il pentacolo per la funzione satanica della mattina, quindi mi chiedevo se qualcuno se ne ricordasse…” la battuta scivolò fuori dalle mie labbra ancor prima che avessi il tempo di elaborarne il pensiero.
Oltre al gruppetto che ci faceva da pubblico, un altro po’ di ragazze si erano fermate a vedere quello strano spettacolo. Ragazze di anni diversi, dalle facce e dalle capigliature diverse. Ma una cosa avevano in comune, a parte l’uniforme: tutte avevano dipinta sulla faccia un’espressione meravigliata,  se non sconvolta.
Faith rimase un attimo immobile, come congelata. Poi la sua bocca si torse in una smorfia disgustata. Gli occhi per un momento, si infiammarono di odio. La mano corse veloce al piccolo crocifisso che teneva al collo, come per proteggerlo dalle mie parole pagane, per non dire lievemente sataniche.
Deglutii, non sapendo cosa aspettarmi.
Accidenti a me e alla mia boccaccia. Perché in casi del genere dovevo sempre dire quello che mi passava per la testa senza ragionare?
La fanatica aprì la bocca e assunse un’espressione da crociato, forse per iniziare l’esorcismo, ma, improvvisamente, il silenzio fu rotto da una voce.
 
“JOANNA! Quanto tempo!”
A parlare era stata una ragazzetta minuta dal corto caschetto corvino, che si diresse velocemente verso di me.
“Joanna! Davvero, non ti ricordi di me?” chiese, rivolgendomi uno sguardo decisamente stupito.
“Ehm…” risposi molto forbitamente.
“Sono Molly! Non ti ricordi della tua carissima amica Molly? Ci siamo conosciute a Blackpool, due anni fa!” mi spiegò, lanciandomi un’occhiata significativa e calcando il ‘carissima amica’.
- Okay, io questa non la conosco affatto e di sicuro non l’ho incontrata a Blackpool, ci sono sempre andata così raramente… -
“Harris, conosci questa pagana?” le chiese gelida Faith.
La mora mi guardò ancora una volta, lanciandomi un’occhiata grave.
Oh.
Che stupida! Perché non ci ero arrivata prima? Quella non mi conosceva affatto, stava solo cercando di aiutarmi! Probabilmente sapeva il mio nome perché la Johnson l’aveva gridato ai quattro venti poco prima. Cara ragazza!
“Oh, giusto!” feci, battendomi la mano sulla fronte, come se mi fossi dimenticata una cosa ovvia. “Molly… Harris! La mia adorata MollyMo!” e detto questo, l’abbracciai calorosamente. Okay, non sapevo da dove mi era uscito fuori quel ‘MollyMo’, avevo detto il primo nomignolo che mi era venuto in mente.
“Tranquilla Faith, mi occupo io di lei” disse la mia salvatrice alla Johnson, la quale ci guardò con un’espressione sconvolta mentre noi, veloci, ci allontanavamo da quella pazzoide.
 
Quando fummo abbastanza lontane dal gruppetto, scoppiammo a ridere.
Ridevamo, ridevamo, ridevamo, con le lacrime agli occhi e le guance che ci facevamo male per il troppo ridere.
Quando finalmente ci demmo una calmata, la ringraziai.
“Di niente! Non potevo mica lasciarti fra le grinfie di quella là. Ti avrebbe portata in chiesa per farti un esorcismo!” mi rispose la brunetta.
“Ho avuto lo stesso timore anche io!” le dissi, lasciandomi scappare un’altra risata.
“Comunque buona la battuta sul pentacolo. Devo dire che hai una certa propensione a capire quali sono le cose che fanno incazzare la gente”
“Già. Mi dispiace solo di non aver capito subito dove volevi andare a parare, carissima amica! Tutte le chiacchiere della buona samaritana mi avevano fritto il cervello”
“Non ti preoccupare, posso capirti. Comunque” e mi porse la mano “Molly Harris. Per le amiche Mo. O MollyMo, se preferisci” si presentò, facendomi l’occhiolino e ricordandosi dello stupido nomignolo che le avevo dato poco prima.
“Joanna Page all’anagrafe. Ma tutti mi chiamano Jo” e le strinsi la mano.
Molly mi sorrise. Era davvero una ragazza particolare: pelle olivastra, caschetto corvino e grandi occhioni neri. Oltre ad essi, nel viso a cuore spuntava un piccolo naso lievemente aquilino e una boccuccia dalle labbra sottili. Era magrissima, e piuttosto bassa.
“Tu sei del ’42, giusto?” mi chiese, ma prima che potessi dire qualcosa, aggiunse: “ Ma certo, che stupida! Indossi la camicia gialla dell’undicesimo anno*, devi essere per forza del ’42!”
Alla mia occhiata interrogativa, rispose con una risata imbarazzata.
“A scuola ogni hanno scolastico ha un colore diverso per la camicia dell’uniforme. A quelli dell’undicesimo anno è capitato il giallo, purtroppo” mi spiegò poi, lanciando uno sguardo schifato alla propria camicia.
“Ah. Quindi hai sedici anni… ?”
“Ne compio sedici a novembre. Lo so, sembro più piccola perché sono solo un metro e cinquantaquattro, ma che ci vuoi fare, così è la vita!” disse, ostentando una certa allegria.
Decisi di non rispondere, anche perché non sembrava propensa a continuare a parlare della sua altezza.
“Comunque… come mai ti se rivolta alla Johnson?”mi chiese poi, curiosa.
“Mah,  ero andata da delle ragazze per chiedere un’informazione, quando quelle hanno deciso di farmi il grande favore di affidarmi alle amorevoli cure di Faith la Pazza” le spiegai, alzando gli occhi al cielo.
“Probabilmente ti sei rivolta al gruppetto di Kathleen Pierce. Sarebbe tipico loro, sono delle tali stronze! Si divertono da morire a prendere per il culo la Johnson, soprattutto quando è nel bel mezzo di un salvataggio del prossimo. Tu eri soltanto la vittima perfetta” raccontò.
“Uh, ma allora le parolacce le dite!” mi lasciai scappare.
“Beh, io sì, e anche molte altre. Anche se frequentiamo una scuola cattolica non vuol dire che siamo tutte puritane come Faith!” mi rispose grattandosi la nuca, seccata dal mio commento “Di’ la verità, tu non hai mai frequentato una scuola religiosa, vero?”
“No. In realtà non sono neanche molto credente…” le dissi, vaga “Mio papà mi ha iscritto a questa scuola perché dice che è una delle migliori, qui nel quartiere di Woolton”
“Ha ragione tuo padre: la St.Julie’s è davvero un’ottima scuola. Anche se mi chiedo perché abbia iscritto la figlia atea ad un istituto cattolico.”
“Come fai a sapere che sono…?” le domandai, sconvolta dalla sua veloce deduzione.
“Oh, semplice intuito!” fece lei, con un sorrisetto.
-Che ragazza sveglia- pensai e anche a me venne da sorridere.
“Comunque tranquilla, a parte religione, le altre materie non sono insegnate da suore o frati” mi informò.
“Oh, meno male, mi hai tolto un peso dal cuore!” le dissi portandomi una mano al petto e facendo un sospiro di finto (?) sollievo.
“Comunque, qual era l’informazione che sei andata a chiedere al gruppo sbagliato?”mi domandò.
“Non trovavo la segreteria. In realtà non penso che riuscirei a trovare niente qua, è tutto così enorme e…”
“Non dire altro” mi interruppe e, facendomi l’occhiolino, disse: “A te ci penso io!”
Detto ciò, mi prese per mano e, facendosi strada fra la fiumana di studentesse, si diresse verso la segreteria.
 
Okay, forse quella scuola non era poi così male.
In fondo, avevo già trovato un’amica.









*corrisponderebbe al terzo anno di liceo.





*Angolo dell'autrice*
Saaaaaaaaaaaaaaaalve :D
Okay, lo so, siete già pronti/e a lanciarmi i pomodori o qualcunque altra verdura avete sottomano, sia perchè sono secoli che non posto, sia perchè questo capitolo è del tutto inutile. 
Mi scuso profondamente per il disagio (*si sente molto professionale u.u*) ma ho le mie ragioni: 1- la scuola risucchia tutto il tempo e tutte le energie, riducendomi ad uno straccio sia fisicamente che mentalmente; 2- a causa del punto 1 ci ho messo secoli per terminare il prossimo capitolo e non potevo pubblicare questo finchè non lo avevo terminato (la mia regola è quella di stare sempre avanti di un capitolo); 3- non voglio scrivere una storia dove la protagonista ha per amici solo i Beatles, in quanto non mi sembrerebbe un racconto veritiero (secondo me, poi ognuno pensa quello che vuole), e per questo motivo ho voluto scrivere un capitolo dove incontrava nuove amiche (spero che l'idea non vi faccia troppo schifo).
Lo so, mi starete odiando tantissimo, anche perchè (altra 'buona' notizia) non so quanto tempo ci vorrà prima che venga pubblicato il nuovo capitolo.
In ogni caso vi assicuro che sarà molto più interessante di "School Days", il cui titolo è ispirato ad una canzone del mitico Chuck Berry ** http://www.youtube.com/watch?v=VuXz-Vbkg8A

R
ingrazio tutti coloro che hanno recensito e/o che hanno inserito la storia nei preferiti/seguiti/da ricordare. Sinceramente, vi adoro <3
Un bacio,
la vostra Scaramuccia :D

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