Oh no! Not you again.

di HippyQueen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il primo giorno ***
Capitolo 2: *** Cambio d'abito ***
Capitolo 3: *** Il pranzo ***
Capitolo 4: *** Pazzia ***
Capitolo 5: *** Esprimiti ***
Capitolo 6: *** Postumi da sbornia ***
Capitolo 7: *** La sigaretta ***
Capitolo 8: *** Questo, è uno stanzino per le scope ***
Capitolo 9: *** Un bacio ***
Capitolo 10: *** La scuola ***
Capitolo 11: *** La tutrice ***
Capitolo 12: *** Alicia ***
Capitolo 13: *** L'amore di Alicia ***
Capitolo 14: *** L'entrata ***
Capitolo 15: *** Sally ***
Capitolo 16: *** La malattia ***
Capitolo 17: *** Sally, il teatro, il messaggio ***
Capitolo 18: *** L'addio ***
Capitolo 19: *** La disperazione ***
Capitolo 20: *** Le giornate nere ***
Capitolo 21: *** La fine ***
Capitolo 22: *** Quindici anni dopo ***



Capitolo 1
*** Il primo giorno ***


Uscendo di casa calpesto il tappeto con su scritto “Oh no! Not you again!”. Scendo le scale, prendo la metropolitana, arrivo davanti alla scuola e mi fermo.
So che la gente mi guarda storto, attorno a me, anche se non mi conosce. Critica i miei capelli di questo viola prugna, raccolti in spuntoni attorno alla mia coda di cavallo; gli orecchini che indosso, i sette buchi in ogni orecchia; il piercing al naso, quello che ho sulla lingua che vedono solo quando gliela mostro; i miei jeans con i lacci, il mio corsetto di pelle, i miei stivali col tacco aderenti, le mie borchie. Odiano me, il fatto che io sia pansessuale, il fatto che io non guardi il corpo, o meglio, non solo quello. So che mi troverò male qui; è come mandare una prostituta in un convento. Forse è proprio questo che sono: una prostituta in un convento. Sono una donna che ama di tutto, in un ambiente che non fa per lei. Combatterò contro questo.
Comincio da subito. Sotto gli occhi disgustati di tutti, mi incammino verso un gruppo che di sicuro frequenta l’ultimo anno; probabilmente le mie nuove compagne di classe. Passano adulti accanto a noi e spero ci sia tra loro qualche professore. Le ragazze mi guardano inorridite e disgustate mentre prendo per la nuca la più carina, terrorizzata, e la bacio di fronte a tutti. So che è un ipotetico tradimento per la mia attuale ragazza, ma non mi importa; lei sa la mia situazione e cerca di capirmi, anche se non ci riesce alla perfezione.
Non ne sono sicura, ma mentre me ne vado con un sorriso di vittoria dentro quella trincea, mi pare di vedere una ragazza gioire, nascosta da un libro, mentre il gruppetto che ho appena molestato mi ricopre di insulti che io, ormai, so apprezzare.
 
Le lezioni passano come il fuoco passa sulla pelle dei dannati: i professori mi squadrano, decidono che sono una buona a nulla che verrà bocciata e non considerata dal resto del mondo per tutta la vita e mi lasciano in disparte libera di maledirli per i loro pregiudizi. All’intervallo vengo lasciata in pace, evitata da tutti mentre mi siedo in un angolo a fumare una sigaretta che sicuramente è proibita in questa scuola, mentre ogni tanto controllo il mio telefono antidiluviano, contenta che le ragazze che mi passano accanto ridano come galline commentando il fatto che io non sono provvista di connessione internet. Sono così felice che ci sia gente così stupida a questo mondo.
La mia pace viene interrotta da una ragazzina che mi pare del primo anno, massimo secondo, mingherlina com’è; è bassa, magrissima che pare una bulimica, i capelli color del grano lasciati sciolti a coprirle il viso, gli occhi castani caldi, nascosti da quel libro che avevo notato anche prima: è “Romeo e Giulietta”, ma un’edizione piuttosto antiquata. Si liscia la gonna scozzese e si siede accanto a me. Non mi disturba finché non finisco di fumare, al che attacca:
-          Sono felice di averti visto fare ciò che hai fatto, oggi! Abbiamo proprio bisogno di gente come te!
Mi prendo qualche secondo per pensare, ma fingo di pensarci, perché so già che dirò le prime cose mi passeranno in testa.
-          Ah si? Non è che abbia intenzione di fare la liberatrice. Voglio solo diplomarmi, non mi importa dove.
-          Starai passando l’inferno. – continua lei, mentre prendo dalla mia sacca una bottiglia di vodka che non ho minimamente cercato di nascondere o camuffare. Sorseggio, gliela offro, ma lei scuote la testa sorridendo. – Ho solo quattordici anni. – aggiunge.
Oh cazzo.
Perfetto. Ora ho un’amichetta molto più piccola di me.
-          Hai il coraggio di fare ciò che io vorrei. Vorrei essere come te, essere capace di fare ciò che fai tu, ma io ho troppa paura di quello che diranno gli altri. E i miei genitori! Quando hanno scoperto che volevo essere un’attivista, mi hanno blindato in casa e…
-          Ehi, scusa, non che mi interessi quello che hanno fatto i tuoi genitori, ma si può sapere di che stai parlando?
-          Oh, giusto. Be’, vedi, io mi chiamo Clementine e non ho molti amici qui dentro. Ne avrò si e no due o tre; due ragazzi gay e una ragazza etero che però è stata vittima di un sacco di bullismo, quindi è un po’ come lo zimbello di tutta la scuola. O meglio lo era prima che arrivassi te.
-          Ah, fantastico.
-          Non volevo offenderti! È solo che è questo che succede.
-          Non mi offendo, anzi, sono felice che la gente si preoccupi di come mi adatto ai diversi ambienti scolastici.
-          Sei proprio una dura. Volevo chiederti, a pranzo ti va di venire con me e i miei amici? Voglio dire, siamo emarginati ma anche tu lo sarai, così…
-          Scusa, Clementine, ma avevo altri programmi. Ho intenzione di saltare le ultime ore, magari un alieno verrà a prendermi in navicella, no?
 
Non l’ho più vista per tutta la giornata. A pranzo mi sono chiusa in bagno, e sono stata coinvolta in un bacio appassionatissimo tra due ragazze.
Ero in bagno, chiusa nel cubicolo del cesso, sbocconcellavo un panino pieno di olio, la mia forma di protesta contro l’anoressia, quando sento affanni e sospiri aldilà della porta. Subito decido di uscire: se devo essere sgradevole, tanto vale esserlo già da subito. E mi trovo davanti queste due ragazze impegnate a slinguazzare come se si fossero incontrate dopo anni di mancanza di seduzione. E quando si accorgono che ci sono io, come spettatrice, si staccano come se avessero preso la scossa e mi assalgono:
-          Tu non hai visto nulla! Dimenticati di noi! Tu non sai nulla! Noi non abbiamo fatto nulla!
Sono la prima a dire che l’amore è libero, dopotutto sono pansessuale. Ma voglio fare la stronza, per divertirmi un po’.
-          I vostri genitori sanno che siete lesbiche? E i vostri amici? E scommetto che avete pure il ragazzo.
-          Bastarda! Stronza! Taci!
Me ne vado lasciandole li, considerandomi superiore rispetto a due ragazzine che giocano alla doppia vita.
Non succede nulla fino alla fine delle lezioni, quando esco vedo la mia ragazza, così iperfemminile, nei suoi pantaloni di pelle, la sua t-shirt che le segna meravigliosamente le curve dei seni e il suo giubbotto di pelle; i tacchi neri e alti, sulla sua moto, senza casco, coi capelli rossi liberi al vento.
Clementine è in un angolo, sorridente, accanto a un ragazzo. Una folla è attorno alla mia ragazza; scommetto che sospettano tutti che stia aspettando me. Arrivo spingendo e scalciando, prendo il volto di Alicia e non mi importa se gli altri guardano, la bacio appassionatamente per mezzo minuto, poi mi siedo dietro di lei, le passo una mano sui seni prima di stringermi ai suoi fianchi e lei mette in moto, con un sorriso stampato in faccia, ci scommetto, lontane da quella trincea e da quella gente così pronta a dire che quello che siamo è sbagliato.

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Capitolo 2
*** Cambio d'abito ***


*Qualche mese dopo*
 
Decido di fingermi un’altra persona. Lascio i capelli raccolti in una coda bassa, indosso una minigonna blu e una camicia bianca, roba che mi mancano i codini biondi e sono Britney Spears. Indosso dei tacchi vertiginosi blu, e come sempre porto la mia sacca con me. Ho comunque qualche borchia qua e là, come il mio collare di cuoio o quei braccialetti che mi hanno svenduto a Mykonos, e il trucco che porto non è dei più acqua e sapone, ma è questo che rappresenta il mio spirito e ora più che mai ne ho bisogno.
La metropolitana puzza più del solito, o forse è colpa di quell’ubriaco che dorme accanto a una pozza di vomito, così sono convinta di portarmi dietro quell’odore acre di birreria e bile. Sale sul treno un ragazzo della mia nuova scuola, così appena lo vedo appoggio la schiena al palo e mi piego, per poi risalire, un paio di volte. Passo la lingua sui denti ed ammicco; un barbone esulta e applaude, quel ragazzo, invece, gira la testa dall’altra parte. Scoppio a ridere e lui arrossisce, capendo che mi sto prendendo spudoratamente gioco di lui.
Scendiamo assieme alla fermata, e mentre salgo la scalinata scorgo un sacco di occhiate verso il mio nuovo look, e queste facce scioccate sicuramente si stanno chiedendo se ci sono o se ci faccio. Giro la testa con estrema lentezza e sorrido ad ognuno di loro; che decidano pure la risposta per conto proprio. Saluto con la mano la ragazza che ho baciato il primo giorno; intravedo le due ragazze che ho beccato nel bagno, e mando loro un bacio soffiato. Rido mentre oltrepasso le porte, diretta in aula.
Siedo comunque nell’ultima fila e nonostante il cambio di atteggiamento (ma solo apparentemente) non seguo le lezioni. Comincio, però, a guardarmi attorno. La ragazza accanto a me, scopro, è bellissima. Ha dei capelli con un taglio corto e un lungo ciuffo sulla parte destra del volto; ha dei nei in faccia e degli occhi castani enormi. Nasconde il volto e il corpo in una larga felpa, forse del suo fidanzato o di suo padre o che magari si è comprata da sola, e se ne sta a disegnare su un foglio, scarabocchiando immagini di morte, come boia incappucciati e mucche morte.
Ad un certo punto mi stanco e la guardo in faccia. Lei si accorge che la sto fissando e si volta spaventata.
-          Cosa c’è? – chiede.
-          Ma perché cavolo stai disegnando delle vacche?
-          Non lo so.
Decido di non chiedere altro, ma continuo a fissare le sue mani abili. Mi ritrovo a domandarmi come quelle mani si muoverebbero su di me.
Per distogliere questi pensieri, le domando ancora qualcosa.
-          Qual è il tuo nome?
-          Sally.
-          Sono Scarlett.
Sorride. Sembra sincera, quasi grata; chissà quanta gente davvero parla con questa ragazza. Io e lei siamo le denigrate, a quanto pare. Io, questa Sally e la bambina che ho visto ieri.
-          Senti, Scarlett.. – dice lei, dopo qualche minuto. Sembra spaventata da me. – Frequenti qualche corso pomeridiano?
-          Direi proprio di no. Tu si? – sono irritata, ma voglio trattare questa ragazza bene. Oggi mi sento stranamente sentimentale. Forse è la volta buona che io e Alicia facciamo l’amore come vuole lei.
-          Faccio un corso teatro.
Fisso il mio foglio per qualche secondo, indecisa se rispondere oppure no. Vorrei sotterrarmi: adesso lei si attaccherà a me, mi chiederà di frequentare tutti i suoi corsi perché non ha amici ed è tutta colpa mia. Mi sa tanto che neanche questa volta accontento Alicia.
Ma poi Sally mi prende la mano, quella mano che ho messo per caso sopra il banco. Mi guarda dritta negli occhi, e non l’ha mai fatto per tutte le ore in cui siamo state sedute vicine. Sento, come se mi mandasse delle vibrazioni, che non vuole attaccarsi a me, ma vuole solo un’amica. Ed è lo stesso per me, no? Una persona su cui contare dopo tutti questi mesi da sola.
-          Lo so che è un po’ tardi; la scuola è iniziata da mesi. Ma l’insegnante del corso è gentile; credo che ti farà bene frequentare qualche lezione. Per favore, Scarlett, provaci e basta. Prova, mal che vada urli qualche insulto al professore e scappi via.
La sua voce è calda e roca, mi provoca dei brividi lungo la schiena che non so spiegarmi. D’un tratto la sua mano sulla mia comincia a scottare; lei arrossisce, quasi lo percepisse, e la ritira.
Le lezioni mattiniere terminano, e lei si alza, prendendo i suoi libri e scompare nella folla, senza urlare “Eccomi, sto uscendo” come lo fanno le altre. In mezzo a tutti, è proprio lei che si distingue. Rimango seduta per qualche secondo in più, quasi fossi in stand-by. Sally si blocca sulla porta e mi rivolge uno sguardo interrogativo: vieni?

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Capitolo 3
*** Il pranzo ***


Sorrido e scuoto la testa tra me e me mentre raccolgo le mie cose e mi avvio verso l’uscita e la raggiungo.
Andiamo a mangiare nel cortile; prima volta in assoluto in quella scuola che non mangio nei bagni. Glielo confesso e lei sorride, confidandomi che lei ha passato i primi tre anni mangiando nei bagni. Mi prende per mano mentre mi guida verso un albero con una grande chioma, il che corrisponde ad una grande ombra. È l’unico albero in tutto il cortile e lo spiazzo non è neanche grande. Si siede accanto a me e scarta il suo pranzo: un sandwich al salmone che avrà preso in un qualche negozio costoso di cose dietetiche, roba che trovi solo a New York.
-          È la prima volta che mi fermo a prendere da mangiare mentre vengo a scuola. – mi dice. – Di solito preparo le cose prima di uscire.
Mi consolo con un morso enorme di pane all’olio, direttamente dal sacchetto di carta del negozio. Un gruppo di ragazze più giovani di noi si fermano e ci fissano, ridendo.
-          Ti sei trovata la ragazza, Sally? – ride una dai capelli castani raccolti in una treccia alla francese.
-          Sei proprio messa male, Sally! – urla un’altra bionda. Sally, al mio fianco, finge di ignorarle.
-          Sei proprio una puttana come tua madre. – una ragazza piuttosto corpulenta le calcia una gamba. – Proprio una puttana, Sally.
Io mi alzo di scatto e prendo la corpulenta per il collo della camicia.
-          Vorrei renderti la faccia uno schifo, ma pare proprio che Madre Natura abbia fatto tutto da sola. – le dico. – Vattene, non ti vogliamo intorno. – cerco di spingerla indietro, ma lei è troppo pesante e non riesco a spostarla.
-          Scarlett, davvero, lascia perdere! – mi dice Sally. Ha la voce rotta, quasi stia per piangere. Alcuni ragazzi, tra cui quello che ho visto quella mattina, si fermano a guardare la scena. Intravedo Clementine nascosta dietro l’ennesimo libro. La cicciona mi prende per le spalle e mi sbatte sull’albero sotto il quale io e Sally eravamo sedute. Sally è in piedi ed urla ad ogni colpo che ricevo. Cerco di dargliene dietro, dopotutto ho mantenuto una certa facciata per un lungo periodo, finché finalmente, con un labbro sanguinante, riesco a piantarle un pugno nello stomaco e lei cade a terra. Le calcio l’addome e mi piego sopra di lei per sbatterla sul terreno una volta ancora, con tutta la rabbia che mi cresce dentro e che voglio sfogare. Le ragazze del suo gruppo mi guardano scandalizzate. La mia minigonna ormai mi fa da cintura e le minuscole mutande che portavo hanno dato spettacolo. Sally mi prende per un braccio.
-          Avanti, Scarlett, smettila. Andiamo via. Per favore. – ha il volto rigato di lacrime, così cedo.
-          Troia. – sputo alla cicciona prima di andarmene.
Mentre corriamo via, Sally mi indica i bagni. Ci rifugiamo nello stesso cubicolo. Lei scoppia a piangere. Si accuccia a terra, nasconde il viso nel cappuccio e appoggia la fronte sulle ginocchia. Le scivolo a fianco.
-          Non dovevi farlo. – mi sussurra.
-          Ti ha insultata. – le rispondo.
-          Non mi importa.
-          Neanche a me.
Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, i suoi singhiozzi sono l’unico suono che sento.
-          Grazie, comunque. – dice dopo. – Davvero, è la prima volta che qualcuno mi difende.
-          Come si chiama?
-          Chi? Quella che hai picchiato?
-          Sì.
-          Deborah. È europea, credo. Rumenia penso.
-          Romania, intendi?
Non mi pongo nemmeno il problema di cosa ci faccia una rumena a New York City, ma dopotutto non sono neanche fatti miei. 

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Capitolo 4
*** Pazzia ***


Nel pomeriggio frequento le lezioni ordinarie, ma poi alla penultima ora Sally mi ferma in corridoio.
-          Cosa hai adesso?
-          Letteratura tedesca. – le dico, controllando il mio orario.
-          Vuoi leggere il Mein Kampf? – la sua espressione è un misto di disgusto e sorpresa.
-          Non hai notato quanto mi impegno nelle lezioni?
-          Vieni con me. – per l’ennesima volta in quella giornata, mi prende per mano e mi guida nei corridoi, fino all’auditorium.
Nella scuola pubblica che frequentavo prima, l’auditorium era una specie di piccola (molto piccola) arena; poi gli ho dato fuoco con un gruppo di ragazzi che frequentavo in quei tempi, e ora credo sia un piccolo teatro. Be’, l’auditorium di questa scuola privata, invece, era un vero e proprio teatro. È vero che noi newyorkesi abbiamo Broadway, ma nei piccoli ghetti degli altri quartieri esistono anche altri teatri.
Quella scuola di Manhattan, però, mi stupiva. Avevo sempre frequentato le scuole di Brooklyn e del Queens, una volta, per un semestre, una nel Bronx, ma mi hanno espulso molto presto, così sono tornata dai “buoni”. Nel Bronx la scuola chiudeva per li scontri tra gang, eppure se incendiavi un banco tanto per fare, ti esiliavano dall’istituto. Credetemi, non sono una piromane: è solo che quelle ragazze erano così simpatiche, e quando mi hanno informate della loro brillante idea non mi sono allontanata e ne sono rimasta coinvolta. E per l’auditorium, è più o meno la stessa storia. Solo che quella volta avevamo fumato un po’ troppo e alzato il gomito altrettanto.
Sally ed io arriviamo un po’ in ritardo alla lezione, ed il professore ha già disposto gli alunni in cerchio. Mi aspettavo quattro sfigati, invece la classe è composta da circa quattordici persone, il che è abbastanza stupefacente.
Il professore è giovanissimo. Avrà uno o due anni più di me. È alto e dal fisico atletico; mi verrebbe da dire che ha accettato il lavoro solo perché non c’era di meglio. Lo guardo in viso e, giuro, ha un’espressione così grata nel vedermi arrivare che cambio subito idea.
-          Sally! – dice. – Ci hai portato compagnia?
Mi sorride così sinceramente che sembra quasi non abbia sentito in giro le voci che corrono su di me. Ne ho sentita una, dicono che sono incinta; una ragazzina del primo anno giura di avermi visto battere agli angoli delle strade di Brooklyn.
-          Questa è Scarlett. – mi presenta lasciando la mia mano. Non sorrido e scruto tutti i presenti. – Ha accettato di venire solo perché non voleva leggere la vita di Hitler.
Guardo un po’ storto Sally e lei sorride.
-          Perfetto, allora, Scarlett. – dice il professore. – Volevamo proprio iniziare in questo momento. Ogni giorno abbiamo un argomento diverso. Quello di oggi è: la pazzia. Facciamo vedere a turno cosa significa essere pazzi!
A cerchio, comincia la ragazza alla sinistra dell’insegnante. Io sono alla sua destra. La ragazza è bionda, con gli occhi azzurri, terribilmente enormi.
-          Mi chiamo Ashley, - dice, rivolta verso di me. – Pazzia mia la è questa.
Comincia a recitare una poesia al contrario. Quando ha finito ci fissa tutti con gli occhi spalancati. Posso vederle l’anima, dentro quegli occhi.
-          Ho detto qualcosa?
 Poi guarda il professore e, facendo capire che il suo turno è finito, scoppia a ridere. Ho davvero creduto per un momento che fosse uscita di testa.
Il prossimo ad impazzire è un ragazzo, Dan, si presenta. Ha i capelli piuttosto lunghi, gli arrivano alle spalle; sono fini ed arricciati alle punte, chiari. Ho l’impulso di avvicinarmi e infilare una mano in quei capelli. Potrei stare ore a fissarli. I suoi occhi sono piuttosto scuri. Ci guarda uno a uno, ci fissa negli occhi e non distoglie lo sguardo finché gli comoda. Poi si fissa su di me: nel silenzio mi viene incontro, attraversando un cerchio di gente curiosa di scoprire cosa abbia in mente. Si ferma a pochi passi, qualche centimetro ci separa l’uno dall’altro. Mi scruta come potrebbe scrutarmi uno scoiattolo. Piega la testa da un lato all’altro, sembra un animale, decide come catalogarmi, se sono commestibile oppure se sono un guscio vuoto. Mi critica nella sua testa. Mi mette in soggezione, perché la gente mi guarda per disgusto, non per interesse. Ad un certo punto interrompe il suo spettacolo e sorride come un killer. Spalanca gli occhi come se abbia avuto una rivelazione e si mette a ridere istericamente. È preso dai convulsi.
Torna al suo posto, mi ringrazia e fa cenno alla persona accanto a lui di proseguire.
Io non ho idea del perché la pazzia ora mi faccia paura.

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Capitolo 5
*** Esprimiti ***


Quando tocca ad un ragazzo dai capelli rasta lunghissimi, rimango affascinata. Si aggira fingendo di avere un ombrello, fingendo che piova, cerca di ripararci tutti, domandandoci in silenzio perché non ci proteggiamo dall’alluvione. Ha un che di aristocratico, con i capelli lunghi, le movenze slanciate, forse per il suo fisico magro ed alto. D’un tratto capisco che questo gruppo ha dei componenti interessanti. Non tutti, ovviamente, ma alcuni di loro me li immagino già nel futuro, in presentazioni di film o nei teatri.
Quando è il mio turno, non so cosa fare. Non ne ho la minima idea, che cosa significa pazzia per  me? Sono l’ultima, ho impresse in mente tre esibizioni e quella di Sally, perché era quella prima della mia. Ha cominciato a ballare come una forsennata, e si è fermata gradualmente. Ed io non ho fantasia: d’un tratto tutto questo mi sembra una schifezza assurda e una tremenda perdita di tempo.
Così comincio ad urlare. Urlo insulti, parolacce, bestemmie. I miei nuovi compagni spalancano gli occhi increduli che io lo stia facendo proprio davanti a un insegnante. Alla fine, c’è un applauso generale per tutti noi. Ci facciamo i complimenti, ma nessuno rivolto a me sembra davvero sincero. Non potrei biasimarli.
-          Allora, ne è valsa la pena di saltare tedesco? – mi chiede Sally mentre usciamo. Fa scivolare lentamente la sua mano nella mia. Ho letto da qualche parte che le ragazze europee lo fanno anche tra amiche, soprattutto quelle spagnole ed italiane. Ma qui, negli Stati Uniti? Nemmeno se sei di origine messicana. Almeno non a New York!
-          Uhm.. direi di si. Ma non farti strane idee: non ho una passione per il cinema o il teatro. Lo faccio solo perché non ne posso più di domande di cui non capisco una parola.
Sally ride, e la sua risata mi pare la più carina dell’Universo intero.
Fuori dall’istituto, lo so, c’è Alicia che mi aspetta in moto. Mi ha appena inviato un sms, dicendomi che non vede l’ora di vedermi di nuovo.
Mentre ci avviciniamo ai cancelli, lascio la mano di Sally. Intravedo Deborah, la ragazza grossa che ho picchiato a pranzo, accanto alla moto di Alicia. Una folla è attorno a loro, e questa volta non per ammirare la bellezza della mia ragazza.
-          Non lo sapevi che stai con una  troia? Davvero, non la devi pagare ogni volta che te la mangia?
-          Chi sei tu, che cosa vuoi da me?!
So che Alicia ne ha passate di brutte. Ha la mia età, ma ha già preso il diploma perché, a differenza mia, non è mai stata bocciata. Oggi indossa una maglietta bianca e un paio di jeans. Sembra così vulnerabile. Lancio un ringhio verso Deborah, i miei capelli sono sciolti e disordinati. Non sembra nemmeno che io indossi una gonna, non la tengo bene, non sono portata per queste cose. Voglio solo che Alicia mi porti il più lontano possibile da qui.

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Capitolo 6
*** Postumi da sbornia ***


La mattina dopo mi sveglio con un forte mal di testa. Sento tutto rimbombare, porto una mano alla fronte; cerco di spegnere la sveglia assordante – maledetto quel giorno in cui ho impostato “Supermassive black hole” dei Muse come suoneria – e scappo in bagno, scossa da un conato.
Dio, aiutami.
Il mio primo impulso, dopo aver tirato lo sciacquone, sperando che la mia bile se ne vada assieme all’emicrania, è di bestemmiare contro Alicia e suo fratello, per avermi fatta ubriacare sapendo benissimo che il giorno dopo avrei dovuto andare a scuola.
Questa mattina non ho voglia di giocare coi miei vestiti, così recupero le cose della sera prima, contestando che non sono sporche o rovinate. Così indosso un paio di pantaloni di ecopelle nera, una t-shirt bianca elasticizzata con delle scritte provocatorie in spagnolo e un paio di anfibi. Prendo in mano un biscotto, indecisa se mangiarlo oppure no; nel frattempo do un’occhiata all’orologio appeso al muro e, diamine, sono in ritardo. Se ho davvero fortuna riesco a prendere il treno in tempo per arrivare a scuola dieci minuti dopo l’orario limite. Se il karma mi grazia entro senza che nessuno se ne accorga. Ti prego, Sally, capiscimi. Inventa una scusa con il professore della prima ora. So che abbiamo lezione assieme. Avanti.
Sto correndo per strada come non ho mai fatto. In una giornata normale sarei rimasta a poltrire in divano, dichiarandomi malata. Invece oggi provo un sentimento nuovo; non ne sono sicura – non voglio ammetterlo – ma sono.. be’, come dire.. contenta, ecco. Ho voglia di andare a scuola. Un’emozione che, siamo sinceri, non ho mai provato in vita mia. Ho mai avuto davvero voglia di qualcosa, se non di cioccolato e della mia ragazza? Ho mai desiderato qualcosa quanto.. be’, che cosa desidero davvero? Nel momento in cui salto sulla metropolitana appena in tempo, capisco la ragione che mi ha spinto ad alzarmi, questa mattina: la lezione di teatro.
Oh no, mi dico. Non posso essere contenta per questo.
Affannata arrivo davanti a scuola; i pochi studenti ritardatari stanno entrando e riesco a confondermi con loro. Appena entro in classe, la lezione è iniziata.
-          Tu, sei? – mi scruta una professoressa, infagottata nel suo giaccone, seduta alla cattedra con fare severo. La polvere di gesso mi si intrufola nelle narici, facendomi starnutire. Il che mi ricorda del mal di testa e della nausea. Cercando di non impallidire, passo al mio banco senza rispondere. – Non mi vuoi parlare, eh? – continua.
No. Non ti voglio parlare, sai perché? Perché se lo facessi probabilmente ti vomiterei sulle scarpe di Prada.
-          Credo, signorina, che ti farebbe bene venire alla lavagna.
Mi siedo accanto a Sally e la saluto con gli occhi. Mi piego per prendere le mie cose dalla sacca, apro un bloc notes senza davvero guardarlo. Non ho idea di che materia sia, né di cosa dovrei fare.
-          Non mi hai sentita?
Sì, puttana, ti ho sentita. Non me ne frega un cazzo di quello che insegni. Non mi servirà mai.
Sento che questa professoressa mi ha rovinato l’umore. Prendo appunti nella mia stessa mente: basta essere felici sulla via della scuola. Ogni sentimento positivo verrebbe guastato da una donna inacidita dalla mancanza di sesso.
Però mi alzo. Mi alzo e cammino fino alla lavagna, guardandola davvero. Starnutisco nuovamente, ricordandomi della mia allergia: la matematica. Una sfilza di numeri mi osserva, ed io non so che fare.
-          Voglio che tu esegua questa espressione, signorina. Avanti. Dimostra ai tuoi compagni che puoi arrivare in ritardo senza davvero perdere qualcosa.
Ed io lo dimostro.
Comincio a disegnare un’aureola allo zero del primo numero, il dieci. Disegno delle ali ad un 3. Il 4 diventa presto un uomo che pesca. Sento delle risate provenire dalla classe. Credo che la professoressa non stia guardando, dubito mi permetterebbe di continuare. Così io vado avanti. L’8 è una signora obesa con una cintura in vita. Sono indecisa se fare del 7 una figura sconcia oppure no, ma non riesco a trattenermi davanti al 69. Sto proprio per terminare un bel paio di labbra quando la prof si gira e, scandalizzata, commenta la mia opera.
-          Signorina! Fuori da questa classe! Non ti permetto di prenderti gioco così del mio insegnamento! Nessuno ti ha mai insegnato l’educazione? Da dove vieni fuori, tu, eh?
Vorrei risponderle sinceramente, ovvero dal Bronx, dalle gang, dalle lotte. Vorrei sfogarmi con lei, urlarle dietro di tutto. Ma l’unica cosa che esce dalla mia bocca, che qualcuno mi aiuti, non è altro che bile.

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Capitolo 7
*** La sigaretta ***


Le mani forti di Sally mi tengono le spalle mentre sono china sulla tazza del water in un bagno.
-          Davvero, - le dico, - non sto male. Mi è passata. Non ho più nausea.
Mi siedo a terra e appoggio la testa al muro freddo piastrellato. Lei si siede dinanzi a me e fa la stessa cosa. Il muro è freddo, spoglio, mi ricorda quello che dovrei essere anche io. Invece eccomi qua: in un cubicolo del cesso con una ragazza solitaria almeno quanto me. Butto un occhio in alto, cerco dei rilevatori di fumo, ma non ce ne sono. Dopotutto, qua si da per scontato che ci siano solo brave persone. Non c’è nemmeno un’area per i fumatori. Così, mi arrampico sulla tazza, cercando di stare in equilibrio, ed apro la finestrella. Poi torno alla mia posizione precedenze e accendo una sigaretta. Ci penso un po’, poi la spingo verso Sally.
Lei arrossisce, per poi affermare, confermando i miei sospetti:
-          Non ho mai provato. – si chiude nelle spalle mentre lo dice.
Scuoto la testa, espirando.
-          Avanti. Non ti costringerò. Magari la prima volta ti potrebbe dare fastidio.
-          Perché fumi? – mi fissa con i suoi grandi occhi marroni.
In your brown eyes..
Diamine, Lady Gaga no.
-          Perché fumo, dici? Perché vado contro le regole della società? Ci sono molti motivi. Diciamo, per ora, che la mia situazione non mi va a genio. Non mi conosci bene. Non mi conosci, quasi per niente. Nessuno qua mi conosce. Nessuno sa quello che ho passato, quello che passo ogni giorno. Nessuno sa davvero quello che voglio. Né quello che penso. Ma perché fumo? C’è chi lo fa perché è depresso, chi cerca di combattere l’ansia in questo modo. Ma io non sono depressa. Non ho nessun’ansia in corpo. Non ho desideri che non posso veder avverare. Ho solo voglia di qualcosa che mi tenga lontano da mali peggiori. Se non fumassi.. potrei fare cose molto, molto, peggiori.  – non vorrei sembrarle scontrosa, ma non c’è modo migliore per dirlo. Continuo a passarmi la sigaretta tra le labbra mentre parlo. Lei si china verso di me, allungando le dita. Il suo profumo, non troppo dolce né troppo acido, mi travolge. Tituba un attimo, non capisco se voglia la mia sigaretta oppure no. Gliela porgo.
-          Come devo fare? – mi chiede. Alzo le spalle.
-          Cerca di non aspirare..
Ma mi fermo; sono catturata dal viso di Sally e dal modo in cui porta la sigaretta alle labbra. La tiene tra l’indice e il medio, piegando un po’ quest’ultimo dito. Le sue labbra si schiudono un poco, sono bellissime, carnose e sensuali. Sento il suo respiro. I suoi occhi si chiudono mentre il contatto con la sigaretta si prolunga. Mentre espira e la ritira dalle labbra, mi sento crescere qualcosa dentro. Pare che qualcuno mi abbia piantato una pianta nello stomaco e ora questa stia nascendo. Ma non posso. Io ho una ragazza. Sono innamorata di lei. Sono innamorata della mia Alicia e non la tradirei con nessuno.
Solo che mentre Sally mi da indietro la mia sigaretta il mio unico desiderio è quello di baciarla.
 

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Capitolo 8
*** Questo, è uno stanzino per le scope ***


Solo che non lo faccio. Non lo posso fare.
Eppure le sue labbra sono così invitanti, così sensuali. Sono belle, carnose, mi chiamano. Sussurrano il mio nome.. Scarlett.. Scarlett, vieni qua..
-          Scarlett, ci sei?
Oh cazzo.
-          Scusa, Sally, stavo pensando.
-          Già, me ne ero accorta. – fa una pausa, nel frattempo io mi guardo intorno, imbarazzata. – Credo sia meglio uscire da qui, che dici? Fra poco è ora di pranzo. Ti va di mangiare?
Sally si vuole prendere cura di me.
Non so se sia l’alcool che ho in corpo. Non so se sia perché ieri Alicia non ha fatto l’amore con me. Non so se sia perché i miei ormoni sono impazziti, eppure in me nasce un po’ di commozione. Non dico che piango, io non riesco a piangere. È scientificamente provato che i miei condotti lacrimali sono inutili e difettati.
Eppure sento qualcosa muoversi in me.
Gli occhi di Sally mi inchiodano. Devo darle una risposta. Sento il mio sedere scivolare sul pavimento, le mie mani raggiungono le mie ginocchia stese. Chiudo gli occhi.
-          Uuhm. – gemo. – Il pranzo equivale a gente in giro, vero? – apro un occhio solo.
-          Questo dipende da dove vuoi stare.
-          I bagni non mi sembrano i posti più isolati, tu che dici?
-          Quanto si vede che sei nuova e non hai esplorato. – Sally sorride ed è dolcissima. Le sorrido anch’io, come sarebbe possibile piantarle il muso?
Con lentezza estrema mi tiro su dal pavimento e la seguo fuori dal cesso, tirando l’acqua per far sparire le prove della mia sigaretta clandestina. Sally mi prende per mano, e questo contatto improvviso mi coglie di sorpresa. Non è la prima volta che lo fa, ma comunque non ci sono abituata. Dalle mie parti prendersi per mano equivale a fare coming out. Non prendi per mano un’amica qualunque.
E le altre persone nella scuola lo notano. Delle ragazzine più giovani di noi ci scrutano alzando le sopracciglia mentre camminiamo nei corridoi dirette alla mensa. Quando le oltrepassiamo, ridacchiano e sussurrano tra loro. Vorrei voltarmi ed urlare qualcosa di veramente offensivo, e ci provo, ma Sally mi tira con uno scossone per il braccio e sono obbligata a starle dietro. Raggiungiamo la mensa e poi svoltiamo per un corridoio a destra; senza preavviso, mi spinge dentro una stanzina buia.
-          Cazzo, Sally, dove siamo? – chiedo, guardandomi attorno senza vedere nulla.
-          Questo è uno stanzino per le scope.
-          Non ci posso credere. – sussurro. Cerco a tentoni un interruttore. È la cosa più scontata del mondo ed io non ci avevo pensato. Quasi non mi capacito di essere stata così stupida.
Lo stanzino è abbastanza grande per farci sedere entrambe sul pavimento, ma non abbastanza per stendere le gambe o stare in piedi movendo le braccia. L’odore di detersivi e candeggina è forte e mi pizzica le narici; sono abituata agli odori forti e ripugnanti, ma non posso trattenermi dallo starnutire.
-          Scarlett? – mi richiama Sally. Non mi ero accorta che si è fatta così vicina. Ora il suo volto copre tutta la mia visuale. Le sue gambe sono vicinissime alle mie, incrociate. Si china ancora di più e chiude gli occhi. Non so se posso farlo.. sono sicura che però, se tenessi gli occhi aperti, cambierei idea. Perciò li chiudo e subisco questo bacio. 

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Capitolo 9
*** Un bacio ***


Vorrei potermi godere le labbra soffici di Sally sulle mie. Eppure no, non posso. Mi scosto velocemente, chiudo gli occhi, la mia testa gira, trovo la forza di uscire dallo stanzino e mi butto a terra. Sento l’acido in gola, i rumori delle ragazzine per i corridoi mi infastidiscono e sento che fra poco scoppierò. Esploderò. Devo riuscire a chiamare Alicia al cellulare e farmi venire a prendere. Devo riuscire a scappare.
Sobria e senza problemi, chiederei a Sally una mano. Ma Sally è dietro di me, spero che capisca che non mi sento bene.
Che cosa vuoi, Scarlett, ha cercato di baciarti.. ti odia.
Mi odierei anch’io se fossi in me.
Raggiungo un’aula vuota e prendo il cellulare, cercando nella rubrica il numero di Alicia. Dovrebbe essere a casa di suo fratello. Ti prego, fa’ che non stia dormendo. Se sta dormendo non so che cosa farò.
Ma Alicia risponde al quarto squillo.
-          Scarlett? Tutto bene? – la sua voce è affannosa. – Sta succedendo qualcosa?
-          Ho bisogno che tu mi venga a prendere.
-          Stai bene?
-          Alicia, ieri ero ubriaca. – tengo la testa fra le ginocchia sperando di far passare il mal di testa. – Ho bisogno che tu mi porti a casa.
-          Non hai mai avuto problemi con l’alcool, Scarlett.
-          Ho bisogno di te, Alicia. – sussurro al telefono, la voce rotta. – Ti prego. Portami via.
Non le dico del bacio con Sally. Non le dico che quella ragazza mi sta facendo uno strano effetto. Tutto ciò che voglio è che Alicia mi porti via. Voglio che mi stringa tra le sue braccia e che mi dica che tutto va bene. Voglio che lei mi spogli e mi baci ovunque. Voglio che sia lei a proteggermi e a prendersi cura di me.
-          Va bene. – acconsente con un sospiro. – Sto arrivando.
So che non ha capito, non sa le mie ragioni, ma le sospetta. Alicia sa che non sono una ragazza fedele, ma che ci provo. Non sono mai stata brava con le cose durature. Non ho mai avuto davvero qualcuno con cui installare un vero rapporto duraturo.
 
Riesco ad uscire dalla scuola e aspettarla seduta sul marciapiede freddo e vuoto. Sono maggiorenne e posso firmare da sola il permesso. Non c’è nessun bisogno che qualcuno mi impedisca di uscire da quest’edificio. Alicia arriva a piedi, la camminata veloce, quasi corre mentre attraversa le strade. Appena mi vede si avvicina e si siede accanto a me. I suoi capelli rossicci mi sfiorano la spalla, facendomi il solletico, così sorrido. Appoggio la testa tra la sua clavicola e il suo collo, sentendo il calore del suo corpo. Lei accende una sigaretta, aspira, e ce la passiamo. Non c’è bisogno di parlare. Il suo profumo mi inebria: è una fragranza maschile, un odore virile e sensuale. Le bacio il collo, vi passo la lingua un paio di volte, le lascio un segno; sa di bagnoschiuma, segno che ha avuto più saggezza di me nello svegliarsi tardi e prendersi cura di sè. Voglio baciarla; lei china la testa verso di me e le mordo leggermente le labbra. Mi lascia succhiare il suo labbro inferiore, mentre mi attira a sé con un braccio. La stringo anche io, sistemandomi in fronte a lei; mi sento una bambina adorante. Rimaniamo così, abbracciate; mi da un bacio leggero, poi la sua lingua fra breccia nelle mie labbra, so che agli occhi degli altri la cosa diventa volgare, mentre per me è sempre più pura. Più Alicia esplora la mia bocca, più percepisco il suo amore, la sua passione, i suoi desideri, le cose che vuole dirmi ma che no, non può esprimere ad alta voce, non sempre, non ora; non sa come dirle, non trova un modo, l’unica via che le salta in mente è il bacio ed io sono più che felice di comunicare così con lei. Non chiedo di più; tutto questo non potrebbe essere più perfetto. Chiudo gli occhi il più forte possibile, voglio scacciare qualsiasi sentimento negativo, qualsiasi cosa brutta e perdermi nella perfezione di un bacio con la ragazza che amo. 

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Capitolo 10
*** La scuola ***


Alicia mi prende per mano e mi porta a casa mia. Per la strada non parliamo.  Lei singhiozza ed io capisco. Non c’è niente che io voglia dire: lei si pente per avermi fatta ubriacare ed io non so come dimostrarle che non mi importa. Quando varchiamo la soglia di casa mia, prendo atto della porta già aperta. Mi fermo, guardandomi attorno. Vengo sorpresa da una voce:
-          Scarlett?
Non è una voce calda o accogliente, ma la riconosco. Un brivido di rabbia mi travolge, mi irrita e sbatto la porta. Alicia appoggia una mano sulla mia spalla, comprensiva.
-          Scarlett, sei tu? Non dovresti essere a scuola?
La voce si fa sempre più vicina. La donna a cui appartiene si ferma sulla porta d’entrata, stringendo in mano un coltello.
-          Diamine, Scarlett, potevi rispondermi.
Ma io non dico niente. Alicia la saluta, la donna non le risponde. Allora si pianta di fronte a me e mi blocca il passaggio:
-          Signorina, voglio sapere dove sei stata. Perché non ti trovi a scuola, ora?
Cerco di passare alla sua sinistra, ma lei si sposta con me. Mi spinge indietro con una mano.
Allora emetto un ringhio e guardo fisso la mia tutrice.
-          Non ho intenzione di pagare delle rette salatissime per farti conseguire un diploma, lo sai? Mi hai promesso che ti saresti impegnata, quest’anno! Ho deciso di darti fiducia, invece mi torni a casa ubriaca!
-          Non devi per forza pagarle, quelle rette. – dico, ma sembra più un borbottio arrabbiato. – Nessuno te l’ha chiesto.
-          Non hai un titolo di studio, Scarlett! Hai bisogno di un titolo di studio. – lo dice come se dovesse convincersi di questo. La realtà è che io con un titolo di studio non sarei diversa da una io senza titolo di studio. E lei lo sa bene. – Hai bisogno almeno di finire le superiori.
-          Posso farlo in una scuola pubblica, se per te è un problema. – cerco ancora ti scappare. Alicia, al mio fianco, si spalma su un muro, desiderando di essere invisibile e non vedermi litigare con quella donna.
-          Devo ricordarti i miei tentativi di mandarti a una scuola pubblica? Sei una piromane, Scarlett. Solo perché ora sei maggiorenne non significa che puoi prendere in mano le redini della tua vita.
-          Credi che io non possa cavarmela da sola?! – voglio sfidarla, come faccio sempre. Vinco ogni volta che le dico quella frase. Sono scappata di casa a quindici anni, so benissimo cavarmela da sola. E anche questo lei lo sa. Solo che questa volta la mia tutrice sfoggia uno sguardo amaro e abbassa gli occhi. Non ha il suo solito tono deridente e canzonatorio. Lei guarda un punto basso alle mie spalle mentre sussurra, scuotendo la testa:
-          No.
E questo mi manda in bestia.

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Capitolo 11
*** La tutrice ***


Ciao a tutti! Intanto, volevo ringraziare tutti i lettori che mi hanno seguito fino a qui. Grazie, grazie davvero. Spero di non deludervi, anzi, di “invocare”, con lo spirito originale di Scarlett, la vostra attenzione. Volevo anche chiedervi di recensire, se vi va, esprimendo senza problemi il vostro parere: sarei davvero felice di conoscere le vostre aspettative, le vostre critiche e i vostri pensieri. Grazie ancora e buon proseguimento con questo capitolo, a mia detta, abbastanza “intenso” ^^
-          HippyQueen
 
Mi sento avvampare, Alicia corre al mio fianco, prevedendo quello che sta per succedere. Mi tira per un braccio verso la mia stanza. Ma io non posso, devo sfogarmi, per tutto quello che mi sta succedendo. Sono stata brava per troppo tempo. Non è da me.
Così afferro la prima cosa che capita – un bicchiere con del vecchio vino rosso sul fondo, lasciato per caso sulle mensole rotte in entrata – e lo tiro ai piedi della mia tutrice, con l’intento di ferirla con le schegge di vetro. Ma lei fa un salto indietro, conoscendomi ed intuendo le mie mosse. Senza preavviso la ritrovo alle mie spalle, mi stringe, dal dolore devo piegarmi, ma non urlerò, io non urlo mai con lei. Non le farò capire che mi fa del male. Afferro una scheggia di vetro e cerco di graffiarle i polsi. Lei mi sbatte le spalle al muro, la ritrovo davanti a me. È più magra di me, ma più veloce e più scaltra. Ha più esperienza e sa come prendermi. Un ricordo improvviso delle lotte avute con la mia tutrice da bambina mi riaffiora nella mente, ne approfitto, mi piego e la spingo vero il muro di fronte.
-          Cosa vuoi farmi, eh? – mi dice, la voce piegata dallo sforzo. – Che cazzo vuoi farmi, Scarlett? Lo sai che vincerò io.
-          Potrai vincere anche con una caviglia slogata. – le ricordo, mentre spingo il mio piede verso la sua caviglia. Lei non ha un appoggio dietro mentre l’allontano dal muro, e cade a terra.
Mi allontano dalla mia tutrice, non tremo più di rabbia ma non riesco a concentrarmi.
-          Credi di avermi fatto del male, eh, Scarlett? Povera bambina..
Cerca di stuzzicarmi. Mi mordo la lingua e trascino Alicia in camera mia, sbattendo la porta. Sento i suoi passi verso la mia stanza. Allora apro la porta e me la ritrovo davanti a me:
-          Vaffanculo, stronza. – le dico, per poi richiuderla.
Sento la mia tutrice ridere. Ride a crepapelle, ride di gola, non ride davvero. È così falsa. Scommetto che i suoi occhi sono seri. Dopo anni passati a convivere con lei, la conosco.
Sono stata affidata a Pamela Wilson all’età di sette anni. Non ho mai conosciuto i miei genitori, sono cresciuta con una lontana prozia che però poi è morta, o così dicono, quando avevo tre anni. Non ho ricordi di quei giorni, non posso sapere se è vero, e questo mi ha fatto soffrire per un bel po’. Molte volte ho sperato di capire la ragione del mio affidamento a quella donna, ma nessuno, tantomeno lei, me l’ha resa chiara. Secondo Pamela io ero sua figlia adottata. Non l’ho mai chiamata “mamma”. Lei non è mai stata mia madre. Dai tre ai sette anni ho passato le giornate tra mense scolastiche, genitori provvisori che mi tenevano in affidamento, ma poi puff, nuova famiglia, nuova vita. Nessuno aveva davvero tempo per me, nessuno mi voleva davvero. Tutte le famiglie erano del Bronx, tre quarti di loro era di colore: non potevo nemmeno essere guardata senza ricordare che non appartenevo a loro. A sette anni, però, decisi di denunciare l’ultima famiglia che mi ha ospitato provvisoriamente. Il padre violentava la madre, io la sentivo urlare. Non ricordo i loro nomi. Una notte la bambina più piccola mi strinse la mano, la sua mano cioccolata, la ricordo ancora. Quella bambina era bellissima e mi stava sempre vicina. Le avevo distrutto tutti i giocattoli, ma non le importava. Ricordo la mano dolce di quella bambina sulla mia. Finché il padre non è entrato nella stanza, mi ha sorriso, mormorato qualcosa in una lingua che non potevo capire e mi ha portato nella sua camera da letto.
Non appena ho potuto, la mattina dopo, sono scappata. Sapevo riconoscere il pericolo, ma solitamente ero io a nuocere agli altri, e gli altri erano bambini. Rubavo loro i giocattoli, li rompevo di proposito. Non riuscivo a capacitarmi delle loro fortune. Ho denunciato la famiglia ai servizi sociali. Sapevo come fare, mi avevano istruita ad ogni affidamento. E così, non so come e non so perché, venni affidata a Pamela Wilson. Secondo lei, era un’amica stretta della mia vecchia prozia; quando le è giunta voce della mia condizione, ha avuto il gran cuore di ospitarmi.
Non ho mai denunciato quella donna perché, sinceramente, mi offriva tutto. Mi permetteva di uscire di casa e non tornare. Non mi dava delle regole. Mi picchiava, certo, ogni volta che commettevo un errore. Ma gli schiaffi e le sberle mi sembravano niente in confronto a ciò che avevo subito. Non volevo perdere una casa, non di nuovo. Non volevo perdere degli amici.
I miei amici, anche da ragazzina, non erano i soliti buoni amici. A undici anni mi hanno iniziata all’alcool. A tredici anni ero una veterana di sesso, alcool e droga. Pamela stessa non mi vietava di fare certe cose. Pamela stessa non era riuscita ad uscire dall’alcolismo. Pamela stessa si faceva di eroina.
Non so come abbia ottenuto l’affidamento. Non so come mia abbia persuasa a restare, i primi giorni. So solo che non è mai stata mia madre, sempre la mia tutrice. Non ho mai avuto un rapporto amichevole con lei. Lei rappresentava solo un fondo di soldi che aveva ricavato, in passato, con la prostituzione. A detta sua, ne era uscita, era libera adesso. Ma io non ci credo. 

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Capitolo 12
*** Alicia ***


La mia tutrice se ne va, esce di casa sbattendo la porta. Non voglio sapere dove è diretta, né chi vedrà. Alicia è seduta sul mio letto e mi guarda con gli occhi enormi, sgranati. Mi siedo accanto a lei e prendo una sua mano tra le mie. I suoi occhi incontrano i miei, ma non riesco a sostenere quello sguardo pieno d’amore perché non lo merito.
-          Cosa succede, Scarlett? – con la mano leggera, gentilmente, scaccia una ciocca di capelli viola invadente sul mio volto.
Detta da qualcun altro, una domanda simile sarebbe fuori luogo, se non ridicola. Ci sono molte cose evidenti che non vanno. Ma detta da Alicia ha tutto un altro significato: Alicia vuole sapere quello che non ho espresso ancora. Lei sa che c’è qualcosa che mi tengo dentro. Qualcosa che presto non potrò negare. Qualcosa che non voglio ancora mostrare alla gente, lei lo sa. Ma è giusto che anche lei sia egoista, ne ha bisogno.
Alicia non ha subito violenze a sette anni. Alicia non è stata affidata a diverse famiglie. Alicia ha passato di peggio.
La madre di Alicia era un’eroinomane dipendente dal gioco d’azzardo. Figlia di un banchiere, da ricca famiglia, aveva deciso di cambiare le cose, durante gli anni più spensierati della sua vita. Aveva dato via a un’esistenza fatta di sesso, droga e rock’n’roll. Era rimasta incinta a ventidue anni, senza essere a conoscenza di chi fosse il padre del bambino che portava in grembo. Quando aveva notato che il suo corpo cambiava, che la vita non poteva basarsi sul dormire e farsi, proprio quando cominciava a rendersi conto che qualcosa era sbagliato, perse il bambino. Depressa, ormai, era caduta nel circolo vizioso, eliminando il gioco, rendendo le sue giornate sempre più buie, peggiorando quando si accorgeva che la scorta calava. I suoi compagni – ne aveva più di uno, condivideva un appartamento con molte persone – non l’aiutavano, anzi, la trasportavano sempre più giù.
Un giorno suo fratello, lo zio di Alicia, la ritrovò. Faceva parte di una gang, ma ne voleva uscire. Aiutò la madre di Alicia a curarsi, le fece fare dei trattamenti di re stabilizzazione.
Alicia nacque da un uomo conosciuto nella clinica. Non conosce il suo vero padre né lo conoscerà mai.
La madre di Alicia fu colta da una comune depressione post parto che la portò all’anoressia; non mangiava, non si faceva vedere in giro. Lasciava la figlia piangere nella culla per giorni, finché il pianto assordante che tanto le dava alla testa e la faceva inviperire si placava. Molto, molto spesso era colta da impulsi che la spingevano ad abbandonare la bambina a qualcuno di più forte.
La depressione non passò con gli anni. Alicia crebbe con la zia. Lo zio morì in una lotta tra gang. La madre di Alicia si suicidò, morendo per overdose, venne trovata dalla figlia.
La zia di Alicia la picchiava, la maltrattava. La sottoponeva a lotte quotidiane, facendole ingurgitare qualsiasi cosa lei non volesse mangiare, quando era bambina. La puniva per ogni singolo errore, facendola crescere con enormi sensi di colpa, facendola pensare di peccare ad ogni pensiero o ad ogni azione.
Quando Alicia compì quindici anni la incitò alla prostituzione.
Alicia non è mai stata amata. Quando mi ha raccontato la sua vita, dopo aver fatto l’amore con me la prima volta, è scoppiata in lacrime e ha continuato a piangere per tutta la notte, e anche il giorno dopo.
Credo sia stata l’ultima volta che i miei occhi si sono bagnati.
Forse è per questo che io e Alicia stiamo assieme e siamo innamorate; nessuna delle due ha mai avuto il coraggio di amare una persona che non potesse capire cosa significa non avere nessuno a disposizione. Le nostre menti sono libere e siamo in grado di distinguere il bene dal male. Vogliamo differirci dalle nostre famiglie perché sappiamo che ciò che facevano era sbagliato e non lo vogliamo per noi.
Ma una persona qualunque non lo capirebbe e non mi amerebbe come Alicia sa amarmi. 

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Capitolo 13
*** L'amore di Alicia ***


Le mani di Alicia abbandonano il mio corpo nudo mentre lei si sdraia al mio fianco, sospirando. Mi bacia il collo leggermente, mi volto per morderle un labbro. La sento sorridere. Mi metto a cavalcioni sopra di lei e scherzosamente gioco con il piercing che ha sul naso; la gente lo chiama “spectrum”, ma io non bado a queste cose.
-          Scarlett, avanti, - lei ride e cerca di spingermi giù. Ci ritroviamo a lottare sul pavimento della mia stanza spoglia e triste. – avanti, Scarlett, lo sai che vinco io.
-          Stai scherzando, vero? – le succhio il collo fino a lasciarle un segno rosso.
Il suo cellulare squilla, interrompendo il nostro gioco. Lei risponde e mi fa cenno di rivestirmi. Mentre cerca di tirarsi su i jeans mantenendo attiva la chiamata, mi chiedo con chi stia parlando. Dal tono, pare un amico, forse suo fratello. È allarmata. Poi, chiude in fretta la comunicazione.
-          Era Jason. – mi informa. Come sospettavo: il suo fratellastro. Figlio adottivo della zia, è stato cresciuto assieme ad Alicia fin da quando ha messo piede in quella casa. Essendo un maschio, non è stato spinto alla prostituzione, bensì allo spaccio di droga per mantenere viva l’attività in famiglia. Come me ed Alicia, però, ne voleva uscire. Solo che non vedeva una luce nel grande e vuoto tunnel buio. – C’è stata una sparatoria tra le due gang del vicinato. Chiuderanno la scuola pubblica per qualche giorno.
Mi avvicino ad Alicia e prendo il suo dolce volto fra le mani. Gli occhi le si riempiono di lacrime mentre legge la verità nei miei.
-          Siamo davvero messe male, vero? – sussurra. – Non riusciremo mai ad uscire da qui. Non sarò mai un’insegnante, vero? Non lavorerò mai in Messico.
Cerco di zittirla baciandole le labbra gonfie, ma so che non faccio niente di buono e non cambio le cose.
-          Shh, - mormoro. – noi ce la faremo, Alicia, va bene? Nulla di ciò che fanno gli altri potrà cambiarci. Non finché noi non lo permettiamo. Lo sai bene. Siamo forti. Lo siamo sempre state e non molleremo ora.
-          Credi che la nostra storia possa durare per sempre, Scarlett?
Certo. Io ti amerò per sempre, sei la donna della mia vita. Mi hai amato come non ha fatto nessuna, mi hai preso tra le mani come un uccellino ferito, mi hai accudito e insegnato a volare. Mi hai fatto capire cosa significa avere qualcuno che ci tiene a te, mi hai toccata con amore e passione come io non avevo mai  osato.
Si, Alicia, noi non ci lasceremo mai. Ti seguirò in Messico, parleremo lo spagnolo, hola chicas, insegnerai l’inglese ai bambini, sarai una seconda madre per loro, farai capire alle persone che la droga non è il modo migliore per vivere la vita intera. Aiuterai le ragazze dei bordelli a uscirne, conoscendo le loro storie meglio di chiunque altro perché ci sei passata anche tu.
Io ti amo, Alicia, e tu lo sai. Non oserei perderti per nulla al mondo. Qualora lo facessi, significa che voglio tentare il suicidio. Un atto di puro egoismo, perché so che anche tu hai bisogno di me.
Però non lo dico.
Se lo dicessi anche Alicia noterebbe che c’è qualcosa di inespresso, dietro tutte queste verità. Legge il mio discorso nei miei occhi, e l’amarezza la riempie quando capisce il mio piccolo segreto.

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Capitolo 14
*** L'entrata ***


Io e Alicia ci salutiamo dopo poco, ed io mi chiudo in camera. Mangio delle barrette al cioccolato che avevo nascosto sotto il materasso in caso d’emergenza, e mi addormento fumando un’ultima sigaretta, gettando la cenere direttamente sul pavimento.
La mattina dopo mi alzo prima che la sveglia cominci a squillare. La disattivo mentre mi avvio verso la doccia, lascio scendere l’acqua calda sul mio corpo sudato, questa scivola e mi faccio cullare dal pensiero che stia portando via tutte le mie tossine, le mie particelle negative e i miei pensieri neri.
Non ho nessuna voglia di andare a scuola. Lo so che lo dico ogni giorno, ma oggi più che mai; non ho il coraggio di vedere Sally dopo quello che è successo tra noi. Seppellisco la mia faccia sotto un bel po’ di sapone, cercando di avvelenarmi senza però provarci davvero.
Cammino lentamente per le strade; mi fermo in un bar e prendo un grosso bicchiere di caffè, con cui esco e riprendo la mia passeggiata mattutina verso l’inferno. La gente attorno a me comincia a spintonare. “Ma che diamine.. perché se ne escono di casa così presto se sono già di fretta?”, mi chiedo.
Arrivo presto a scuola, mi posiziono davanti all’entrata e comincio a fumare una sigaretta in santa pace. Le ragazze mi passano accanto, guardandomi con sdegno e continuando le loro conversazioni su quanto sia bello il fratello del loro ragazzo, o quanto siano aumentati i prezzi degli smalti nei grandi magazzini. Le spio di sottecchi, notando la loro magrezza eccessiva, il colore arancione della loro pelle per il troppo fard che quasi le fa sembrare finte, i capelli raccolti in modo ordinario, come la moda detta. E poi guardo me in un riflesso di una pozzanghera: ciuffi viola scompigliati mi coprono il viso, l’anello al naso mi dà un’aria più simpatica di quanto io mi senta, la camicia che indosso è così scollata che mi si potrebbe vedere l’elastico delle mutande che porto, se mi chinassi un poco. Ma non ci bado, non mi interessa. L’unica cosa a cui punto è il diploma: ottenuto questo, potrò andarmene con Alicia in Messico e cominciare daccapo. Lei sta aspettando me. Sta posticipando i suoi sogni solo per viverli assieme alla donna che ama.
Al pensiero di Alicia e del suo amore, mi si stringe lo stomaco. Il nostro legame è così forte che quasi ho un conato non appena intravedo Sally tra la folla. È assieme a Clementine, la bambina fastidiosa. Non mi guarda, non cerca il mio sguardo nemmeno per un istante. Filano in classe, mentre io aspetto l’orario limite, fumando come un’ossessa. Quando entro in aula, noto che il posto ordinario di Sally è libero e lei si è seduta accanto a un ragazzo corpulento, silenzioso, dalla parte opposta al mio banco.
Prima che entri il professore mi avvicino a lei, appoggio una mano sul banco e la obbligo a guardarmi negli occhi.
-          Mi dispiace. – sussurro. – Non volevo scappare, ieri. Ma ho bisogno di parlarti.
-          Sì, - risponde, con mio sollievo. I suoi occhi si posano nei miei: sono umidi, segno che le lacrime stanno prendendo il sopravvento su di lei. – Anche io ti devo parlare di una cosa importante.

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Capitolo 15
*** Sally ***


Scusate il preludio.. voglio solo dire che questo capitolo mi ha coinvolto particolarmente mentre lo scrivevo. Lo considero piuttosto intenso, ed interessante. Spero che la pensiate come me. Grazie ancora,
HippyQueen
 
Passo la prima ora nel dolore più totale. Non so cosa Sally voglia dirmi, non so come comportarmi con lei. Ripasso mentalmente il mio discorso più volte, all’infinito, finché non mi pare scontato e senza senso. Prendo la testa fra le mani, le mie ginocchia si uniscono, mi chiedo se lei mi stia spiando con la coda dell’occhio come ho fatto io per tutta la lezione. Il professore mi ha squadrato, l’ho sentito, il suo sguardo pungente sulla nuca, cercava di estorcermi qualche informazione basica dell’inglese, anche una stupida interpretazione di William Blake. Il mio occhio cade su una poesia, la leggo senza davvero capirla. Passo gli ultimi venti minuti a rileggerla, cercando di concentrarmi sulle parole. I secondi paiono ore, non riesco ad aspettare. Devo parlare con Sally e devo farlo ora. La guardo. È così bella e perfetta, nascosta nella felpa enorme vedo ancora le sue forme femminili che tanto cerca di non mostrare. Se si vestisse diversamente forse non mi farebbe fantasticare sul suo corpo, o si? Che cazzo, Scarlett. Che cazzo stai facendo? Forse non dovrei parlarle. Forse dovrei tornare sotto le coperte. Forse dovrei tornare ad essere una bambina di sette anni ed agire diversamente, sopportare invece che reagire, sottomettermi invece che desiderare un futuro migliore di ciò che mi veniva sbattuto in faccia quotidianamente.
Però Sally è così bella, proprio perché è sé stessa. Proprio perché mi fa vaneggiare. Ed è così perfetta nel suo corpo, la sua mente è così libera: non ha esitato ad aprire il suo cuore a me, così diversa, un mostro, una peccatrice, confronto alla sua purezza. La sua innocenza mi attrae, voglio essere la sua maestra, la sua guida. Voglio iniziarla al mondo, alla vera vita, non quella che seguo io, ma quella che si suppone che sia. Ha tentato di baciarmi, prova che vuole conoscermi, non solo sperimentare, ma anche approcciarsi a un nuovo stile di vita, il mio. Mi conosce. Ha visto come esisto.
La campanella suona. Durante il cambio dell’aula, mi avvicino a lei. So che abbiamo ancora una volta lezione assieme. I suoi occhi trovano i miei, le sue braccia stringono i libri. Mi sussurra all’orecchio di seguirla nei bagni, ma io sono inebriata dal suo profumo, il suo odore, quell’essenza che non attribuirò mai a nessun altro. La sua voce è vellutata e soffice, non alta né acuta, sono travolta da quel suono dolce. Scommetto che sa anche cantare, e che canta bene. I suoi occhi marroni mi studiano, mentre cammino al suo fianco, ma non poco distante. Ci chiudiamo in un cubicolo, come il giorno precedente, sediamo a terra. Dall’ansia cerco il mio pacchetto di sigarette, ma lei mi ferma, mettendo una mano sul mio polso. La sua voce si incurva non appena apre bocca:
-          Scarlett, io voglio davvero parlarti.
-          Anche io, Sally. – voglio toccarla, rassicurarla. Mi sporgo verso di lei, ma non riesco a posare la mia mano sulla sua spalla, così la ritraggo. Lei sotterra il viso tra le maniche larghe della felpa scura. – Dimmi ciò che vuoi.
-           Credo.. credo di essermi innamorata di te, Scarlett. – sussurra, senza guardarmi in faccia. Mi sento sbiancare. – So che non mi ami, so che hai una ragazza. Ma in questi mesi.. e negli ultimi giorni.. ti ho sempre guardata, capisci? Hai sempre.. fatto nascere qualcosa in me che non avevo mai sospettato né notato con nessun altro. – la sua voce è un sussurro, devo tendere bene le orecchie per non perdere una parola. – Non avevo mai accettato certi pensieri.. credevo fossero sbagliati; ma mi hai fatto capire che in realtà.. quello che io provo.. è la cosa più bella del mondo. – sbircia leggermente da dietro le mani. I suoi occhi sono umidi e rossi, li ha tenuti serrati per tutto il tempo. Ha parlato senza interruzione, la sua voce si è sciolta man mano che il discorso strutturato nella sua mente si traduceva in realtà. Ed io non potevo fare altro che ascoltarla.
-          Sally.. è vero, io ho una ragazza. Ma sono anche in confusione. – mi aveva parlato a cuore aperto, ed io non potevo non seguire il suo esempio. Anche se mi fossi sforzata, purtroppo però, sapevo di non poterci riuscire. – Tu mi piaci. Mi piaci davvero. Vorrei.. vorrei poterti crescere. Vorrei poter stare al tuo fianco. Mi attrai. Moltissimo. – faccio una pausa, in cui lei osa fissarmi, ed incontro i suoi grandi occhi marroni. Infine sussurro: -  Se mi innamorassi di te, cosa succederebbe?
Le sue lacrime scorrono silenziose come un fiume in piena. Le sue gote sono arrossate, i suoi occhi martoriati. Si nasconde sempre di più nella sua stessa felpa.
Alla fine si decide a rispondermi.
-          Sarebbe la fine. – dice. – Perché io.. io sono malata, Scarlett.
Quando capisco davvero cosa vuole dire, comincio a piangere. 

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Capitolo 16
*** La malattia ***


Sento le lacrime solcarmi le guancie, trasportare con sé tutte le mie ansie, liberandomi un poco. Quello che sento dentro non è paragonabile a qualsiasi cosa io abbia mai provato in vita mia.
La vista mi si appanna, sento le mani di Sally sui miei polsi. Alzo la testa, cerco il contatto con la luce a neon, spero che mi prosciughi. Il dolore che provo è assurdo.
In un qualche momento della mia vita, ho sperato di essere felice. Non sono mai stata davvero felice; sebbene io avessi Alicia, sebbene fossi stata amata e avessi amato, sebbene avessi avuto le mie piccole vittorie. Però ci avevo sempre sperato: un giorno sarai felice, Scarlett, mi  dicevo.
Che cretina. Sono proprio stata una stupida idiota.
Sento Sally vicino a me. I miei occhi incontrano i suoi.
-          Da quanto tempo? – sussurro, avvicinandomi ancora di più, nascondendo il mio volto nell’incavo del suo collo.
-          Dillo, Scarlett. Ho scoperto che non dirlo ad alta voce non lo fa sparire. – dice, sorprendendomi. Ho sempre pensato a lei come una ragazza piuttosto fragile e insicura, ma mi stupisce una volta ancora. – Quindi dillo.
Non so se ce la faccio. Le mie lacrime sono calde ed è una sensazione che non provavo da un sacco.
-          Da quanto tempo sai di avere la leucemia? – dirlo mi provoca una fitta all’altezza dello stomaco.
-          Da quasi un anno. – risponde lei, baciandomi all’altezza della testa. Serro gli occhi.
Non voglio sentire altro. Le mie mani cercano il suo viso, apro gli occhi e li immergo nei suoi. Sono così caldi, marroni, non può essere vero, non può essere malata. Cerco le sue labbra. Quelle labbra che cercavano di baciarmi il giorno prima, convinte di non essere ricambiate. Voleva solo un bacio da me. Voleva poter dire di averlo fatto, e non tormentarsi fino alla fine.
Il nostro primo bacio non era stato all’altezza di ciò che avrebbe dovuto essere. Volevo colmare quel vuoto, quella passione che non avevo saputo dare.
Così quando le mie labbra incontrano le sue, cerco di trasmetterle tutta la mia dolcezza. Le prendo con una mano il volto, avvicinandola a me. Lei si distanzia un poco, mi guarda, sorride. Credo che mi voglia baciare di nuovo, ma mi sorprende di nuovo. Poggia le labbra sulla mia guancia, ingoia una lacrima. Sorride. Sorrido a mia volta. Torna a baciarmi, sa di buono, sa di cosa giusta. Sento che voglio passare il mio tempo con lei.
Solo che poi mi ricordo del suo cancro.
-          Ti amo. – sussurra.
Non le rispondo. Se le dicessi di amarla.. non sarebbe la cosa corretta da fare, ed io ho una mia etica personale a cui resto fedele.
Accendo una sigaretta mentre lei si accosta a me, si appoggia alla mia spalla e chiude gli occhi.
-          Devo riposare molto. – dice. – Dicono che sto peggiorando.
Aspiro. Desidero solo che il fumo mi dia alla testa e mi faccia temporaneamente dimenticare tutto questo.
Che cazzo dovrei fare? L’amore dovrebbe essere una salvezza, non una tortura. Mentre le ultime lacrime scendono, mi torna in mente la poesia che ho cercato leggere durante l’ora precedente. L’ho memorizzata senza volerlo, ed ora ha finalmente un senso.
 
“L’Amore non cerca a Sé stesso di piacere
Né ha per sé alcuna cura,
ma per un altro dà la sua gioia
e costruisce un Paradiso nella disperazione dell’Inferno.”
 
Così cantava una piccola Zolla di Terra
Calpestata dalle zampe del bestiame,
ma un Sassolino del ruscello
modulò queste rime appropriate:
 
“L’Amore cerca solo a Sé di piacere,
per legare un altro alla Propria gioia,
gode della sventura altrui,
e costruisce un Inferno contro il Paradiso”
 
Se per Alicia ero stata un paradiso nella disperazione dell’inferno, per Sally non potevo che essere un inferno contro il paradiso.

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Capitolo 17
*** Sally, il teatro, il messaggio ***


All’ora di pranzo restiamo chiuse nel cubicolo. Cerchiamo di non fare rumore, i nostri baci sono diventati più caldi, più appassionati, cerco sempre di dimostrarle che non ha vissuto invano. Le nostre lacrime si fondono, o meglio, le sue bagnano il mio viso, ormai umido e arrossato. Non riesco a piangere, non ci riesco più. Sento crescere in me della rabbia, la mia solita rabbia verso il genere di cose che non so gestire. Che non posso gestire. Questa è una di quelle, questa malattia è impossibile da gestire.
-          Voglio aiutarti. – le dico. – Farò tutti gli esami possibili per farti guarire. Tu non mi lascerai qui, Sally. Non te lo permetterò.
Lei non risponde. Si accomoda, acciambellandosi attorno a me. Passo le mani sul suo seno, accarezzandolo dolcemente. Desidero che lei mi ricordi per sempre. Voglio farla mia. È più forte di me.
Sento le voci irritanti delle ragazzine nei bagni. Chiacchierano e ridono, alcune di loro sussurrano cose più interessanti, lo so per esperienza, ma oggi non le ascolto. Oggi il loro ciarlare mi passa sulla pelle, scivola via senza lasciare traccia.
Tutto il mio mondo, ora, è Sally. Alicia non attraversa la mia mente per un secondo. Non riesco a pensare a lei, quando la malattia di Sally è così potente ed io, man mano che me ne rendo conto, stringo più forte a me questo corpo fragile e bisognoso di cure.
La scuola, il diploma, nulla ha più senso. Il corpo di Sally è l’unica cosa che le mie mani toccano e desiderano. Ma non succede, non succede nulla tra noi. Non andiamo oltre il bacio. Toccarla in quel modo sarebbe come privarla della sua innocenza, di tutto ciò che la rende così pura. Non oserei mai privarla di questo, sporcandola con la mia volgarità, il mio passato, la mia vita. Forse non dovrei neanche permetterle di baciarmi, infettandole così le labbra perfette.
Una volta, a dieci anni, dissi di non avere paura della morte. Fu la prima volta in cui tentai di scappare di casa della tutrice, tornando però prima di notte. Lei urlò, denigrandomi ed incitandomi ad andarmene:
-          Vattene, Scarlett, avanti! Scappa, corri, non troverai mai di meglio! Sai benissimo che questa è l’ultima opportunità rimasta, per te! Perditi nella notte, qualcuno ti prenderà, ti ucciderà!
La mia anima di bambina vissuta non poteva ferirsi per comuni insulti a cui ero abituata. Perciò mi girai per fronteggiarla e, sulla soglia di casa, sputai:
-          Non ho paura di morire, io.
Ma ora, in questo cubicolo, sento i brividi solo a pensarci, alla morte. Non posso credere che potrebbe succedere. Cerco di convincermi che non succederà. Che Sally guarirà. Deve essere così, non lascerò che mi abbandoni in questo modo.
Suona la campanella della penultima ora. Le lancio un’occhiata:
-          È l’ora di teatro, la tua preferita. Andiamo? – provo a sorridere. Lei apprezza il mio sforzo e mi batte, illuminando l’intera città.
Attraversiamo lo spazio che ci separa dal teatro correndo sotto la pioggia e tenendoci per mano. Quando raggiungiamo l’auditorium, la lezione deve ancora iniziare. Ci accomodiamo sulle poltroncine rosse, chiacchierando con gli altri ragazzi. Nessuno parla con me; seguo semplicemente le conversazioni, molte delle quali è Sally ad animare. Parlano di musical a Broadway che non ho mai visto – a quanto pare c’è un’interessante versione di West Side Story questa settimana, e Mamma mia! La prossima – libri che non leggerò mai e film in cui non mi piacerebbe recitare. Rimango colpita dalla serietà con cui questi ragazzi trattano le loro indoli, la loro creatività.
-          Noi facciamo arte, dopotutto, - sta dicendo una ragazza, è bionda. La fisso per un po’ prima di ricordarmi il suo nome, Ashley. – anche se i miei genitori pensano che non andrò mai da nessuna parte, almeno potrò dire di aver dormito sulle panchine del parco facendo quello che davvero ho sempre sognato di fare.
Tutti si ritrovano d’accordo con lei. Qualche ragazzo racconta di suo padre, così orgoglioso, che voleva vincesse una borsa di studio per il football; una ragazza, invece, avrebbe rifiutato un college in Canada per presentarsi ad un’audizione per Wicked.
Durante l’intera conversazione, Sally stringe la mia mano.
Quando il professore entra, eseguiamo degli esercizi in cui notiamo i comportamenti degli altri. Il linguaggio del corpo ci viene spiegato, le tattiche della persuasione. Vengo coinvolta subito. L’insegnante mi chiede di dimostrare con lui quanto sia influente la ripetizione delle cose tre volte. Mentre svolgo l’esercizio, convincendo una ragazza di essere in una stanza grande e verde, la mia mente macina e lavora.
Sally guarirà, Alicia capirà, io sarò felice.
Alicia capirà, io sarò felice, Sally guarirà.
Io sarò felice, Sally guarirà, Alicia capirà.
Mi arriva un messaggio che spio mentre l’insegnante è distratto; è di Alicia: Ti vengo a prendere fra poco, tu devi sapere. Devi assolutamente sapere. 

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Capitolo 18
*** L'addio ***


Avviandomi verso l’uscita, lascio la mano di Sally, spiegandole che sono di fretta, avrei dovuto vedere una persona. Lei capisce, non le importa. Sorride, mi bacia una guancia, prosegue per la sua strada.
Attorno ad Alicia non c’è più la folla di una volta. Ormai tutti sanno di me e delle mie stramberie. Mi giudicano un’ultima volta per quella giornata, tornando ai compiti e alle proprie vite.
Mentre io devo presentarmi faccia a faccia coi miei problemi.
Monto dietro di lei, sulla moto; le stringo forte i fianchi, appoggio il volto alla sua schiena, contro la sua ruvida giacca di pelle, il cui profumo mi riempie le narici e mi fa quasi starnutire. Mi porta lontano, attraversiamo Manhattan, il ponte di Brooklyn, ci fermiamo lungo il fiume. Alzo gli occhi al cielo, le strade sono bellissime. I grattacieli mi mettono in soggezione. Ho l’improvviso desiderio di prendere un traghetto, raggiungere la Statue of Liberty e salire fino in cima, guardare la mia città dall’alto assieme ad Alicia, sentirmi potente, sentire che non ferirò nessuno con le mie decisioni. Però so che non posso farlo. La mia ragazza ha qualcosa da dirmi, devo ascoltarla per poi parlare a mia volta.
Ci sediamo sul sedile di una panchina, i piedi dove ci si dovrebbe sedere. Alicia accende una sigaretta e me la passa. Aspira, aspetta un po’ trattenendo il fumo, poi espira scuotendo la testa.
-          Non dovrei parlartene, quello che farò ora è un atto veramente egoista. – dice. Mi guarda, incontra i miei occhi, mi perdo nel ghiaccio che mi si presenta davanti. Distoglie lo sguardo quando capisce che non lo farò io per prima. – Ma c’è un problema. Io ho un problema. Mio fratello è stato coinvolto in importanti lotte, lo sai; non è mai uscito davvero dal giro. Ha cercato di ribellarsi allo spaccio, non voleva più fare da transito; se importassero ancora droghe dal Messico e dalla California e venissero beccati.. be’, lo sai benissimo. Mio fratello è il primo nome che farebbero; ha tanti precedenti, Scarlett. – le lacrime scendono sul suo viso, come perle. L’amore che prova verso il fratellastro è così potente che, ne sono consapevole, farebbe qualsiasi cosa per lui. – Devo aiutarlo. È necessario, capisci? Non posso lasciarlo. Io non posso.
Prendo il suo polso, la trascino verso di me, le stampo un bacio sulle labbra. Prendo la sua sigaretta e aspiro a mia volta.
-          Cosa posso fare per aiutarti? – le chiedo. So che c’è qualcosa.
-          Ecco, Scarlett.. – i suoi occhi cercano i miei, ma sono troppo discreti per fissarmi. – Spero che tu capisca. Io.. io ho già cominciato a difenderlo.. e non è andata bene. – il suo pianto è quasi isterico, ed io capisco davvero come sono andate le cose.
-          Alicia, chi cazzo ti ha toccata.. lo giuro, io li ammazzo! – sbotto. Mi alzo in piedi, mi muovo, cerco una via d’uscita quando davvero non ce ne sono, non le vedo. Poi guardo lei. Piange, ha gettato la sigaretta a terra, singhiozza. La stringo tra le mie braccia. Non le sussurro che tutto andrà bene, perché entrambe sappiamo che niente andrà bene.
-          Scarlett.. Scarlett io sono incinta. – sussurra contro il mio petto. Mi sento morire, morire davvero dentro. – Ho bisogno di andarmene ora. Ma allo stesso tempo non posso lasciare Jason.
Abbraccio Alicia, la stringo a me, cerco di scaldarla con quel poco che rimane della mia anima, mi preparo a quello che seguirà.
-          Io ti amo Scarlett, e anche se non lo dirai so che mi ami anche tu. Però dobbiamo lasciarci. Devo affrontare tutto questo da sola. Devo poter scappare senza la paura di lasciarti indietro. Ti prego, Scarlett, ti prego, cerca di capirmi. Io non amerò mai nessuno come amo te. Nessuno prenderà mai il tuo posto, nessuno mi comprenderà meglio di te, nessuno sarà capace di guadagnarsi la mia fiducia come hai fatto tu. Ti prometto che non toccherò mai nessuno come ho toccato te. Ti ricorderò ogni giorno della mia vita, sarò esiliata dal mondo per averti fatto questo torto, per lasciarti. Non sai quanto io mi odi e mi senta morire. Ma devo per forza fare queste cose. Lo sai, Scarlett, sai come funziona. Sai che assumerò un’altra identità non appena mi libererò di questi problemi. – finalmente i suoi occhi si fermano nei miei. Mi stringe le mani. Sento il bisogno di urlare. – E invece tu devi rimanere qui, continuare gli studi. Devi crearti una vita, Scarlett, devi pensare a te. Promettimi che otterrai un diploma, lascerai la tua tutrice, lavorerai nel posto migliore del mondo, starai lontana dalla droga. Io.. io spero davvero di poterti ritrovare, anche se non lo merito. Non merito il tuo amore dopo quello che ti sto facendo ora. Capisco che sei arrabbiata, mi odi, e mi odio anche io.
Per la seconda volta in un giorno, lacrime mi rigano il viso. Sono calde e pure, eppure le sento sporche sulla mia pelle. È come se questa giornata non potesse andare peggio di così.
Lentamente mi chino su di lei, i miei capelli le cadono sul viso. I nostri volti sono bagnati dalle lacrime, queste gocce d’anima che si mescolano. Ne bacio una, ingerendola. È salata, come questo momento. Mi sporgo verso le sue labbra rosse ciliegia, desiderandole un’ultima volta. Con un singhiozzo le raggiungo, la pressione che vi esercito è leggerissima, ma quell’ultimo contatto mi dà i brividi. Lo stomaco si stringe. È peggio che il primo bacio. So che questo sarà l’ultimo.
-          Ti aspetterò per sempre, Alicia. – sussurro, prima lasciare le sue mani e correre via.
 I’m a loser… I’m gonna marry the night. 

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Capitolo 19
*** La disperazione ***


Bene ragazze/i, vi presento un capitolo puramente emotivo.. ultimamente sono un po’ tragica, drammatica e teatrale.. e sto ritrovando molta ispirazione, grazie a voi (lettori silenziosi e non) e a Lady Gaga. Per chiunque fosse interessato, queste riflessione sono state ispirate alle versioni acustiche – che personalmente amo – di “Marry the night” e “Paparazzi”. Grazie ancora, e scusate il patetico preludio!
 
Mentre corro a piedi, le lacrime mi offuscano la vista. Non so dove mi stia dirigendo. Entro nella prima imboccatura della metro che trovo. Mi siedo a terra, in mezzo allo sporco, alla gente che cammina, appoggio la schiena al muro. Non me ne frega un cazzo se qualcuno ha pisciato proprio dove io sono seduta ora. La mia disperazione è immensa. Sono stata lasciata dalla donna che amo. La mia donna è incinta, ha subito ancora delle violenze ed io non sono stata capace di impedirlo. Non ho fatto nulla per lei, né per me. Ho lasciato che tutto accadesse e non me lo perdonerò mai.
Come se non bastasse, una ragazza innamorata di me è malata di cancro. E per quanto io sia confusa, per quanto io ami Alicia, so di provare qualcosa di forte anche per Sally. Non vedo alternative. Non vedo nulla davanti a me. Non so cosa fare. Piango, incurante che la gente mi guardi. Un tempo non l’avrei mai permesso: le persone non dovevano sapere che io, Scarlett, avevo dei sentimenti, sapevo amare e sapevo piangere. Piangere in fronte a qualcuno era la cosa peggiore che potessi fare, segno di debolezza.
Ma forse stavo crescendo. Forse stavo finalmente lasciando quel bozzolo di rabbia e ribellione che mi aveva rivestito da quando ero una bambina. Una forte e potente voglia di distruggere il mondo, dandogli fuoco, godendo della disperazione altrui, stringendo i pugni dalla gioia, sorridendo al sentire le urla. Urla altrui, ora, mi provocavano sofferenza. Non potevo sentire qualcuno gemere di dolore senza pensare che forse anche io potevo starci male. Amare equivale a morire, l’avevo appena capito. Chiunque io avessi amato, chiunque mi abbia mai amato in tutta la mia vita – Alicia, Sally – era condannato a morte certa, ed io con loro. Se non nel senso fisico, almeno in quello spirituale. Chi ero io senza Alicia? Cosa poteva rendermi felice, se non un sorriso di Sally? E in più, come poteva Alicia sopravvivere senza di me, per quanto fosse forte ed intelligente? Come poteva Sally combattere una malattia più grande di lei?
Singhiozzo, ma questi sussulti non mi sembrano abbastanza. Sbatto i pugni a terra mentre urlo, urlo disperatamente, la gente mi guarda male ed io per dispetto serro gli occhi, non voglio vedere chi mi giudica, non voglio mandarli a ‘fanculo perché sarebbe come dargliela vinta. Voglio piangere e buttarmi giù da sola, senza che nessuno mi aiuti. Non ho bisogno di nessuno. Sono una vincitrice.
Non suona bene, nemmeno alle mie stesse orecchie.
Sono una perdente.
Sono stata lasciata. Sono senza amore. Alicia non mi vuole più. Sally mi ama, ma non per molto.
Io non sono capace di amarmi; non ci sono mai riuscita. Non avrò mai questa bellissima possibilità di svegliarmi un mattino e dire “Oggi farò questo per me stessa, perché mi voglio bene”.
Mi alzo in piedi. Il mio volto è martoriato. Continuo a urlare, anzi, cerco di trasformare le mie urla in canzoni, per rendere il tutto più piacevole, o tremendo, dipende dai punti di vista. Intravedo il mio riflesso in un vetro. Sono oscena. I miei capelli sono spettinati, ma non me ne può fregare di meno; i miei occhi sono arrossati, il mio volto è paonazzo, il mio naso cola, mi sento la febbre, tremo, i miei abiti sono sporchi e rovinati, mi viene da vomitare, vorrei vomitare l’anima. Prendo il primo treno che passa, mi ritrovo in centro Manhattan senza neanche accorgermene. Vorrei correre verso il Bronx e sentirmi a casa nei quartieri malfamati assieme alle prostitute, invece entro in un bar. Non guardo nemmeno chi ho davanti, chiedo da bere. Nessuno mi domanda se sono maggiorenne per bere. Cerco di sfogare i miei dolori nell’alcool, ma non funziona. So che il fumo non è abbastanza, ma un briciolo di buonsenso mi ricorda che è meglio non farsi. Non oggi.
Raggiungo il mio appartamento chiedendo dei passaggi in giro, gente che si conosce da poco. Permetto loro di infilarsi nelle mie mutande, tanto non me ne frega più niente. Il mio corpo non è nulla ora che nessuno lo amerà più. Voglio sentirmi un niente almeno una volta ancora.
Mi chiedo solo se vedrò Sally domani a scuola.
È l’unica ragione che mi rimane per tirare avanti.
 

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Capitolo 20
*** Le giornate nere ***


Salve! Questo capitolo rappresenta un momento di transizione tra “La disperazione” e il prossimo passaggio che sarà pubblicato. Più che un capitolo vero e proprio, è un chiarimento sulle giornate di Scarlett dopo la rottura con Alicia. Grazie, come sempre, a tutti voi.
 
I miei giorni proseguono, senza cambiare, quotidianamente faccio le stesse cose. Non so che giorno sia oggi. So a malapena che mese sia, ma non lo ricordo. In che anno siamo? È cambiato oppure è sempre lo stesso?
La mia tutrice si sveglia verso mezzogiorno. Lo so, perché quando vedo il sole mi arrabbio e capisco che sono le dodici. Sembra che io stia vaneggiando? Quella donna mi calcia gli stinchi se sono addormentata. Alle volte, cerco di alzarmi presto ed andare a scuola. Vedo Sally. Sta sempre male. Eppure quando sono con lei ho un vago ricordo di cosa sia la gioia.
Altre volte, be’, non ne ho la forza. Non ricordo più come si mette un piede davanti all’altro, come si mangia, come si deglutisce, se sbattere le palpebre è involontario, non so più respirare. Ci sono dei momenti in cui credo di essere morta.
La mia vita non ha nessuno scopo.
Ogni giorno è uguale al precedente, e se non lo è, non me ne rendo conto. Non so distinguere la mattina dalla sera, se non mi obbligo a scendere dal letto ed andare a scuola.
Quando Sally è di buonumore ed ha le forze, mi trascina a teatro. I ragazzi sembrano capire come mi sento. Abbiamo fatto delle lezioni sulla depressione, su come interpretare un personaggio depresso. Non ho avuto bisogno di spiegazioni.
Sally dice di sentirsi spesso stanca. I suoi occhi, però, sono sempre bellissimi.
I suoi genitori la vengono a prendere a scuola, tutti i giorni.
A Sally piacciono i disegni.
Una volta ho disegnato un fiore di pesco sul muro della classe, durante il pranzo. Lei mi ha baciata, ma sono stata sospesa per qualche giorno.
Dicono che la faranno studiare a casa, molto presto. Non ha più le forze per muoversi da sola.
Quando non vado a scuola, Clementine, la bambina fastidiosa, la aiuta. Non avrei mai pensato di poterle essere grata per qualcosa, eppure sapere che Sally non è sola a badare a sé stessa, mi rende sicura.
Un sorriso di Sally è il mio sole.
Comincio ad amare i giorni di pioggia come non avevo mai fatto.
L’altra sera sono uscita di casa nuda come un verme, pregando la pioggia di lavare via la mia anima.
Stranamente, non ho sentito nulla uscire.

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Capitolo 21
*** La fine ***


*Qualche mese dopo*
 
Non riesco più a frequentare la scuola. Per quanto io ci provi, non sono capace di entrare in classe senza soffrire, non appena i miei occhi si posano sul banco vuoto di Sally.
Se ce la faccio, se entro nell’edificio, il mio corpo viene scosso dai conati, devo correre in bagno, non ne esco più. L’altra settimana ho implorato un ragazzo di scoparmi a scuola, ma non ci siamo riusciti. Non cerco piacere: desidero ribrezzo. Voglio sentirmi uno schifo, ormai il mio corpo non mi interessa più.  Credo di avere delle infezioni. Spero disperatamente sia così.
Vado a trovare Sally in ospedale ogni pomeriggio. I suoi genitori non la lasciano per un secondo: a malapena posso parlarle. I suoi capelli bellissimi, scuri, sono caduti e ricrescono radi e deboli. I suoi meravigliosi occhi castani e caldi, be’, mi mandano avanti. Guardandoli, sento crescere una speranza che si vanifica ogni volta che poso lo sguardo sulla sua pelle quasi traslucida.
Oggi mi sento stranamente bene. È come se sentissi che Sally troverà quel donatore di midollo che non si riesce a contattare. Quasi mi spunta un sorriso sulle labbra. Mi guardo allo specchio, non posso davvero credere che sia lì. Infatti sparisce dopo poco. Però ricordo di averlo visto.
Per la strada incontro un ragazzo della gang del fratello di Alicia, Jason. Lo fisso negli occhi. Lui è serio. Mi ferma sgarbatamente, per la prima volta ha uno sguardo compassionevole. Prova pena per me, ma non ne capisco il motivo finché non parla:
-          Sei la ragazza di Alicia, vero?
Lo guardo senza capire; taccio. Lui prosegue.
-          C’è stato uno scontro. Non sappiamo se sono scappati, morti o se sono stati presi.
Non c’è pericolo, per queste strade.
Non lo ringrazio.
Il mio cuore batte a mille.
Non respiro.
Scappo. I miei piedi corrono come un treno sulle rotaie. Cambio metropolitane, strade, gli occhi sono aridi e spalancati, raggiungo l’ospedale. Varco la soglia irrompendo come una tempesta in una calda giornata estiva. L’infermiera all’accoglienza mi conosce. Mi guarda e sorride, come per scusarsi.
Ed io capisco che oggi è il giorno peggiore della mia vita.
Raggiungo il Ponte di Brooklyn. Mi arrampico tra i fili, l’acciaio, il ferro, la ruggine, non me ne frega niente, sono sudata, sono in trance, non sono veramente consapevole delle mie azioni e credo che mai lo sarò. Vedo la gente fissarmi mentre cammino ma non li sento davvero presenti. Nemmeno io sono davvero presente.
Ho la nausea. Il mal di testa. Forse sono malata anche io, forse, forse..
Forse se non avessi fatto ciò che ho fatto nella mia vita non sarei qui. Se mi fossi accontentata. Se non avessi lasciato che la me stessa quindicenne venisse coinvolta con le gang. Se Alicia non mi avesse trovata a rubare. Se Alicia non mi avesse salvata da me stessa. Se avessi conseguito il diploma nelle scuole pubbliche del Bronx. Se non avessi mai visto Sally.
Se non fossi mai nata.
Rivolgo uno sguardo al viale dove io e Alicia ci siamo scambiate l’ultimo bacio. La Statue of Liberty è fiera ed imponente. Sopravvive a temporali, tempeste, uragani. È così forte.
Ma io non sono come lei.
Mi sporgo, guardo la mia città senza davvero vederla. Le luci, la nebbia, il freddo. Voglio soffrire.
E devo farlo.
Ora.
Salto e l’acqua gelida mi abbraccia; il mio corpo e il mio animo non sanno sopravvivere.
Ed io non desidero altro. 

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Capitolo 22
*** Quindici anni dopo ***


Bene, miei cari lettori: questo è l’ultimo capitolo della storia. Ho cercato di rispondere a tutti gli interrogativi sparsi nei capitoli precedenti, ma ci sono dei passaggi che, in futuro, mi piacerebbe approfondire. Allo stesso tempo, ho storie molto diverse che mi frullano in testa, e credo di metterle in atto presto. Vi ringrazio per avermi seguito fino a qua, sperando di non “deludere” le vostre aspettative per questo finale.
-          Hippy Queen
 
Quindici anni dopo

-          ¿Mamà? ¿Dònde estàs?
-          Oh, niña, ¡estoy aquì! – grido. Scendo dalla scala a pioli, rinunciando definitivamente a trovare quell’album da disegno che ero solita a rimpire quando avevo vent’anni. – Sono qui, bambina mia.
Mia figlia mi guarda con un broncio adorabile, i suoi occhi sono grandi e chiari; non riesco a trattenermi dal baciarle la punta del naso.
-          Sei così.. linda. – lei ride e mette le mani sui fianchi, determinata a farmela pagare.
-          Avevo paura, mamà. Non ti vedevo.
-          Non ti devi preoccupare: io non me ne andrò mai. Ci sarò sempre. Non sarai mai sola, se non lo vorrai. – le sussurro, chinandomi per guardarla negli occhi. Sfioro la mia punta del naso con la sua – Mai. – le ribadisco.
A pronunciare queste parole sento una fitta allo stomaco che provo da anni. Da quindici anni, ormai, mi rendo conto. Quindici anni, quindici anni di notti insonni, incubi ricorrenti, sempre gli stessi. Ponti, viali, New York, la Statue Of Liberty. Sempre le stesse immagini che mi svegliano di notte per farmi correre al bagno, scossa, le mani a stringere lo stomaco. Incubi che mi svegliano di notte per farmi urlare, come un’ossessa, come se fossi malata, in preda al terrore.
Ma da quando c’è la bambina, non posso più urlare. Non posso sbagliare di nuovo. Così mi nascondo, entro nella doccia, piango ogni notte. Non so cosa sia successo. Non so nulla.
Ma posso immaginarlo. Posso immaginarlo benissimo.
-          ¡Jodèr! – impreco, quando la bambina è andata nella sua stanza. Mi getto sul divano, prendo la borsa e la apro, notando il lavoro da fare.
-          Ehi. – un volto d’uomo fa capolino dallo stipite della porta. Il suo volto è abbronzato, i capelli rasati da poco, un sorriso dalla storia recente. – Ti ho portato del tè.
Mi allunga una tazza fumante ed io sorrido sotto i baffi. Annuso, è floreale. Posso scommettere che è un infuso di erbe che coltiva personalmente.
-          Allora: ora posso portare la bambina al falò sulla costa, se ti va. Così hai un po’ di tempo per te stessa, si? – mi chiede. Annuisco senza guardarlo negli occhi. Sa benissimo che crollerò non appena varcheranno la soglia.
Sono quindici cazzo di anni.
Se ne vanno lasciandomi sola ed io mi sento scivolare verso il pavimento. Appoggio la schiena al muro e mi prendo la testa fra le mani. Alzo il volume dello stereo, non voglio che nessuno sospetti. So benissimo che nessuno mi sentirà mai: vivo in una villetta solitaria, ho dei campi, sembro rimasta negli anni ’70.
Urto senza desiderarlo un cassetto, facendolo aprire. All’interno, con meraviglia, vi trovo il mio album da disegno. Lo apro, ma non posso fermare l’inevitabile.
Sono quindici cazzo di anni.
Le lacrime scendono senza che io le debba invocare. Mi bruciano le gote, le sento calorose e fiammanti; le urla mi riempiono la gola, bloccandola e togliendomi il respiro. Sento il sangue darmi alla testa.
Sono quindici cazzo di anni.
Sfoglio le prime pagine, disegni astratti di mani che stringono braccia, gambe, chiaroscuri con un retrogusto amaro e di violenza. Finché gli scenari cambiano: due labbra, due mani, due corpi adiacenti. Le forme e lo stile diventa più dolce e sofisticato, tutto prende una piega più morbida. Posso anche ricordare il cambio di mina.
Sono quindici cazzo di anni.
Riconosco il volto della persona ritratta mille volte. Foglio dopo foglio, solo lei. Espressioni diverse, diversi abiti, e non posso non piangere più forte. Liberare le urla che mi soffocano ogni giorno.
Sono quindici cazzo di anni. 
Non vedo l’unica persona che io abbia mai amato da tutto questo tempo. Non so cosa le sia successo, ma tramite delle conoscenze posso averne accesso ad una parte.
Quando sono stata coinvolta nelle lotte, sono dovuta scappare con Jason. Abbiamo sceso gli Stati Uniti, abbiamo raggiunto l’Arizona e, transitando tra il Texas ed il Messico, abbiamo assunto una nuova identità e costruito una nuova vita assieme. Io e mio fratello ora viviamo assieme. Ho una figlia adolescente e una bambina piccola, avuta tre anni fa da un ragazzo più giovane che frequentavo. Credevo che con qualcuno di più giovane fosse più facile ed io potessi, in qualche modo, rivivere ciò che avevo trascurato. Credevo di potermi innamorare di nuovo.
Ma l’amore vero è un treno che passa una volta sola nella vita, ed il mio treno si chiamava Scarlett.
Poco dopo aver raggiunto El Paso, mi sono concessa una telefonata a New York. Ho chiamato un vecchio amico, che mi ha detto di averla vista circa due giorni dopo la lotta che mi ha costretta a scappare. Gli ho chiesto di più, gli ho dato informazioni sulla scuola, volevo sapere tutto. Lui mi doveva dei favori, ed ha accettato.
Ho scoperto quindi che la sua amica, di cui mi aveva parlato alcune volte, era malata di leucemia ed è morta in ospedale, anche lei in prossimità della mia partenza. La tutrice di Scarlett, Pamela, non la vedeva da quando, una sera, l’aveva trovata stesa a terra, probabilmente in overdose. Credeva fosse scappata con me.
Non ho idea di dove sia Scarlett, ora, ma ho le mie teorie. Ogni volta che ci penso, però, è sempre la stessa storia. Le mie lacrime mi piegano e non mi lasciano via d’uscita. È tutta colpa mia. Ho causato un dolore insopportabile alla persona che amavo, che mi amava. Non amerò mai nessuno come ho amato lei, e non farò mai a meno delle mie promesse. Ogni risata per me è una fitta allo stomaco. Cerco di godermi la vita e la gioia perché è ciò che lei avrebbe voluto io facessi, ne sono sicura. Avrebbe voluto che io crescessi le mie figlie con sani principi, che educassi le ragazze insegnando loro l’inglese e la retta via. Sono una professoressa rispettabile, ma l’ombra di ciò che io e Scarlett eravamo, nelle ragazzine ribelli mi ricorda del nostro amore.
L’unica cosa che posso sperare è che Scarlett, ovunque lei sia ora, sia finalmente in pace con sé stessa.
 

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