Artiglio di Lupo 2.0

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


 

 

••1••

 

 

 

Naell si svegliò di soprassalto, le membra indolenzite, gli occhi sgranati e il volto ricoperto da un sottile strato di sudore.

Come sempre le accadeva, ultimamente, quel serpeggiante panico non sembrava abbandonarla mai, per lo meno non da quando aveva subito il primo attentato, sei anni prima.

Tutto era successo velocemente, come in un sogno – o, piuttosto, un incubo – e lei aveva visto per la prima volta la morte in faccia.

Solo la fortuna, e l’amore dei suoi sudditi per lei, l’avevano salvata dall’inevitabile.

Eppure, due volte aveva dovuto subire quello scherzo da parte di un destino avverso.

Due lame, due differenti mani, un solo scopo.

La sua morte.

Ma perché?

Da quel primo incidente, in cui aveva sfiorato l’abbraccio della Morte in un qualsiasi giorno di mercato, speso tra le bancarelle della piazza principale di Rajana, Naell aveva chiesto con forza che Kalia fosse mandata a chiamare.

Nessun altro aveva voluto per sé, a parte lei.

Non perché non si fidasse degli uomini comandati dall’amico di vecchia data Meyor, nuovo comandante delle guardie di palazzo, ma perché nessuno, a parte una donna, avrebbe potuto seguirla ogni dove.

Inoltre, voleva con sé la vecchia amica e figlia sacra del villaggio di Hyo-den, unica in grado di capirla veramente.

Non aveva mai saputo se il rifiuto di sposare il figlio del Conte Alderan, il giovane e coetaneo Coryn, avesse avuto a che fare con quegli eventi infausti.

Le era parso comunque strano che, a pochi giorni dall’ultimo, ennesimo rifiuto, qualcuno avesse attentato alla sua vita.

Suo padre, re Ruak di Enerios, aveva bollato quelle idee come folli e l’aveva rassicurata promettendole che, entro breve, la sua amica fidata sarebbe stata al suo fianco per proteggerla.

Già in passato Naell aveva chiesto figlia sacra Kalia di raggiungerla a palazzo.

Con la promessa che ben presto l’avrebbe accontentata, non aveva però esitato un attimo a dare risposta affermativa al re, non appena messa al corrente di ciò che era successo alla principessa.

In poco meno di due settimane, Kalia era giunta a Rajana e, su mandato stesso del re, era divenuta la sua guardia del corpo ufficiale.

Una stanza era stata predisposta per lei accanto a quella della principessa e, da quel momento in poi, erano state inseparabili.

Se già la corte, negli anni, si era mostrata in netto disaccordo con il re, quest’ultima mossa aveva dato voce alle lingue e ai veleni ancor più del solito.

Se già i tre lupi condotti a palazzo dai principi, avevano fomentato sgomento e rabbia tra i più, l’arrivo di Kalia aveva scatenato ulteriori attriti con la nobiltà, ma a Ruak poco era importato.

La necessità di mantenere in vita la figlia minore aveva avuto peso maggiore, che non le chiacchiere maligne dei cortigiani o del consiglio della corona.

Qualsiasi dubbio sull’utilità di Kalia era stata presto smentita dagli stessi fatti.

In occasione del diciassettesimo compleanno di Naell, in vista dell’ennesimo viaggio in direzione di Akantar – meta ormai assidua per la principessa – la bravura di Kalia come guardia del corpo era stata messa subito alla prova.

Un secondo attacco contro la principessa era stato mosso con abile maestria.

Soltanto grazie alla prontezza di riflessi di Kalia e alla mano veloce di Naell, si era potuto gridare allo scampato pericolo.

Da quel momento, lo stiletto che tanto gelosamente Naell aveva sempre tenuto nascosto tra le falde degli abiti, aveva fatto la sua comparsa in bella vista, legato a una preziosa cintura in filigrana argentata, dono della regina Elmassary di Akantar.

Nuovamente, la corte si era espressa in tal senso, e così pure il consiglio, sempre più desideroso di un prossimo matrimonio della principessa.

Re Ruak li aveva zittiti con aspro dire e, pur se le regole di palazzo prevedevano che nessuna donna potesse girare armata, lo stiletto era rimasto al suo posto.

Questo, però, aveva reso ancor più invisa ai nobili la giovane Naell, così al di fuori delle regole e degli schemi che, solitamente, una donna doveva tenere in pubblico.

Soprattutto se di sangue reale.

La definivano poco principesca, a conti fatti.

Il solo fatto che il re le avesse concesso di occuparsi del commercio estero del regno di Enerios, sotto la guida del più che titolato Ministro Korissar, era suonato come un insulto alle consuetudini.

Le donne, per consuetudine, avrebbero dovuto rimanere ben chiuse all’interno dei palazzi natii, e lontane dagli affari di Stato.

Spiegare alla corte intera le doti eccelse della figlia in materia di economia estera, non era parso utile, ben più che abituato alle intemperanze della corte.

Questo stratagemma era anche servito per tenere impegnata lontano da casa Naell, consentendole così di vivere il più liberamente possibile.

Ruak aveva sempre saputo quanto, la figlia, somigliasse allo zio e, per lei, aveva tentato il tutto e per tutto, pur di renderla felice.

I continui rifiuti della figlia di accettare un qualsiasi matrimonio a lei proposto, però, iniziava a irritare non soltanto il consiglio della corona, ma anche il re stesso.

 Neppure a una principessa come lei, in una famiglia progressista come la sua, poteva essere concessa una simile libertà.

Pur sapendo quanti malumori ciò avrebbe scatenato, Ruak aveva procrastinato anno dopo anno, sperando da par suo che Naell maturasse a sufficienza per comprendere la situazione.

Ciò, purtroppo, non era accaduto, e ora il re si ritrovava con il consiglio debitamente schierato contro di lui, e la figlia apertamente irritata con il padre.

L’unico a non apparire sdegnato in tutta quella situazione, ma pazientemente serafico, era il Conte Alderan che, negli anni, non solo aveva plaudito i successi di Naell, ma aveva accettato i suoi continui rifiuti.

Cosa ne pensasse Coryn, non era mai stato possibile saperlo, visto che i suoi interessi erano sempre stati seguiti dal padre.

Purtroppo per Naell, stava raggiungendo un’età in cui, obbligatoriamente, avrebbe dovuto essere maritata a qualcuno.

La famiglia del Conte Alderan era importante, munifica e potente. Davvero non il clan ideale da inimicarsi.

Occuparsi del commercio estero del regno, aveva aiutato Naell a crearsi un suo spazio, ma anch’ella sapeva bene quanto, tirare la corda, fosse ormai impossibile.

Le parole di Hevos, però, pesavano su di lei come macigni, rendendole impossibile pensare chiaramente a un suo futuro come moglie e madre, ma solo come parte di un piano cosmico più ampio del comprensibile.

Farne parola col padre, era improponibile, visto che le era stato caldamente vietato, perciò, come fargli comprendere quanto poco, un matrimonio, potesse importarle?

Quanto poco, le parole di un re – o le proprie – contassero, di fronte alle imposizioni di un dio?

Quanto poco, la lascivia di Alderan, potesse impensierirla, se rapportata al terrificante pericolo cui stava andando incontro senza conoscerlo?

Non si sarebbe mai maritata – o avuto un figlio – con il rischio di perdere marito e prole a causa del destino avverso che pendeva su di lei.

Prima di ogni altra cosa, doveva pensare a giungere pronta a quel fatidico momento pronosticato da Hevos.

Null’altro doveva importarle.

Ma era difficile mettere in fila tutti i problemi che la assillavano, se doveva anche pensare a un marito che non voleva.

Naell aveva avuto un aspro battibecco col padre, in merito a questo. Come sempre, negli ultimi anni.

Ormai stanco delle sue intemperanze, l’aveva rabberciata in malo modo prima di cacciarla letteralmente dallo studio, il volto reso arido dalla profonda delusione provata di fronte al comportamento irresponsabile della figlia.

La giovane si era limitata a reclinare colpevole il capo e, in silenzio, era uscita dallo studiolo – trovando Kalia ad attenderla nel corridoio – e si era diretta ai suoi appartamenti, dove un tempo aveva soggiornato suo zio Aken.

Lì, sua madre l’aveva salutata con un bacio e un abbraccio prima di entrare con lei nelle sue stanze e, turbata, le aveva chiesto cosa le stesse passando per la testa.

Non avere una risposta per la donna che tanto amava, l’aveva quasi ridotta in lacrime.

Sapeva di andare contro tutti i dettami previsti dal suo rango, sapeva di non comportarsi bene con i suoi genitori, ma la stessa idea di sposarsi la faceva impazzire di rabbia.

Come poteva far comprendere agli altri – senza parlare – quanto, una cosa simile, non le passasse neanche per l’anticamera del cervello?

L’unica cosa che aveva potuto dire per bloccare le mani del padre, pur essendosi sentita un verme nel farlo, era stato minacciare se stessa di morte.

Questo, più di ogni altra cosa, aveva reso le mani di Ruak restie a firmare qualsiasi accordo; il pensiero della morte della figlia per sua stessa scelta.

Naell aveva sentito il suo cuore andare in pezzi, nell’usare quella scorretta minaccia, ben sapendo di fare un torto al padre mettendolo di fronte a un simile, scellerato patto.

D’altro canto, la prospettiva di un matrimonio la atterriva più della morte stessa, perciò sapeva di non raccontare fandonie, promettendosi la morte in caso di un matrimonio da lei non voluto.

Ora, ansante e spaventata tra le lenzuola di seta del suo letto, Naell discese a terra poggiando i piedi su un morbido tappeto di pelli d’orso mentre Kalia, comparsa dalla stanza accanto con aria preoccupata, le si avvicinò guardinga, chiedendole: “Cosa turba il tuo sonno, hillan?”

Fiorellino.

Per quanto Naell avesse ormai ventidue anni, Kalia continuava a chiamarla a quel modo.

Lei gliene fu grata, in quel momento, perché si sentiva davvero fragile come un fiorellino di campo.

Si addossò a Kalia, poggiando il capo sulla spalla dell’amica, alta poco meno di lei – che superava abbondantemente il metro e settanta – e, sconsolata, mormorò: “La consapevolezza di aver ormai tirato troppo la corda. Non posso più procrastinare… ma non è il momento. Ora, non posso!

“Ciò che è successo stasera con tuo padre il re, ti ha condotta a più miti consigli? Sposerai dunque il tuo coetaneo Coryn? O qualche nobile delle pianure?”

“No!” esalò Naell, ritraendosi da lei sdegnata, prima di notare il quieto sorriso dell’amica. “Tu ti prendi gioco del mio dolore.”

“Tutt’altro. Cerco di scrollartelo di dosso” replicò Kalia, dandole una pacca sulla spalla prima di appollaiarsi sull’enorme letto di Naell e fissarla alla luce morente del fuoco del camino.

Sbattendo le braccia contro il corpo in maniera davvero infantile, Naell sbuffò contrariata: “L’intera situazione è assurda. Dovrei semplicemente fuggire da palazzo e mandare alla malora tutto, come fece mio zio tanti anni fa.”

“Lui fuggì per raggiungere l’amore. Tu fuggiresti per paura, o un'altra ragione che non vuoi dirmi. Non è la stessa cosa” precisò Kalia, sorridendole comprensiva.

Naell storse la bocca, fissandola bieca prima di recriminare seccamente: “Da che parte stai, tu?”

“Dalla tua, hillan. Ma solo finché rimarrai coerente con te stessa. La Naell che conosco io non scappa per paura. La Naell che conosco io ha affrontato un mercenario per salvarsi la vita. Perciò, da cosa fuggi, esattamente?

“Già, e ora ha la tremarella al pensiero di sposarsi con un uomo non scelto da lei” si irrise mestamente Naell, lanciando un’occhiata disperata verso la finestra.

Sapeva di non dire del tutto la verità, ma neppure a Kalia poteva dire del suo segreto.

Là fuori, il mondo libero che lei tanto amava, la chiamava a gran voce come un coro di sirene ammaliatrici.

Per quanto lei avesse spiegato al padre le sue esigenze, - tacendogli la verità - esso le sarebbe rimasto per sempre bandito, in quanto principessa reale.

Avvicinandosi con passi strascicati alla finestra, la aprì per lasciar penetrare la brezza notturna e i suoi profumi e, prendendone a pieni polmoni, sussurrò all’amica: “Conosco i miei doveri, ma non ammetto che io, perché donna, non possa avere gli stessi diritti dei miei fratelli. Loro si sono sposati con donne scelte da loro, per quanto di nobili origini. Io non avrei lo stesso diritto, secondo la costituzione. Mio padre potrà decidere per me l’uomo di suo gusto, ma non io! E ciò è assurdo!”

“E il consiglio della corona non accetta un cambiamento della legge” chiosò mestamente Kalia, scuotendo il capo.

“Già” biascicò irritata Naell, voltando le spalle di scatto a Rajana e al mondo tutto.

Detestava poterlo guardare solo attraverso lo stretto cunicolo di una finestra, senza poterlo toccare realmente.

Balzando giù dal letto con un saltello, Kalia la raggiunse e, poggiata una mano sulla spalla dell’amica, le sorrise benevola.

“Ci aspettano quasi due settimane di viaggio per mare, e tre mesi interi di vacanza ad Akantar. Parlane con la regina Elmassary. Lei è saggia e potente, e forse potrà trovare le parole giuste per affrontare tuo padre e fargli capire come ti senti.”

Naell ed Elmassary, la madre del principe Ellessandar, si erano vicendevolmente piaciute fin dal loro primo incontro e, nel corso degli anni, la loro amicizia si era rafforzata al pari di quella con il figlio della regina e della sua donna-felino, My-chan.

Con Ellessandar, aveva passato intere giornate a studiare le carte nautiche e stellari, a passeggiare nei giardini pensili di palazzo, o a discorrere di teoremi matematici – a Naell tanto cari – e di poesia.

My-chan, invece, l’aveva condotta in giro per il maniero dalle bianche mura e dalle vetrate colorate, facendole scoprire sempre nuovi angoli, o stanze sempre diverse.

In quel tempo passato assieme, Naell si era presa cura di lei come una madre avrebbe fatto con la figlia.

Insieme, erano cresciute e l’amore reciproco si era accresciuto con loro, rendendole l’una l’ombra dell’altra.

Ogni separazione era stata più dolorosa della seguente, come ogni incontro era stato più piacevole del precedente.

Le mancava.

Ormai, era assente da Akantar da più di otto mesi, a causa dei suoi molteplici impegni con il Ministro del Commercio, il mellifluo e fin troppo accomodante Korissar, che la seguiva in ogni suo appuntamento pubblico con fare cortese e sempre disponibile a qualsiasi sua richiesta.

Kalia lo aveva trovato viscido fin dal loro primo incontro, ma non si poteva dire che non sapesse fare il suo mestiere.

Era un asso, nel far di conto, e sapeva sempre stilare i contratti migliori per Enerios.

Da lui aveva imparato molto, e le sue lodi le erano sempre parse veritiere, pur se esposte col suo modo di fare piuttosto infiorettato.

“Scommetto che papà andrà su tutte le furie, quando glielo ricorderò” sospirò Naell, buttandosi sul letto a braccia e gambe aperte.

I lunghi capelli bruni, stretti in una treccia, finirono scompostamente su uno dei cuscini di piume e Kalia, sorridendole generosamente, la imitò e le rammentò: “Akantar è un partner commerciale troppo importante perché re Ruak lo scontenti, ed Elmassary ha richiesto la tua presenza a palazzo, prima dell’inizio dei festeggiamenti per i mille anni della loro famiglia come regnanti del Paese. Non puoi mancare, come non possono mancare i gemelli. E loro non possono andare senza la principessa, ti pare?”

Naell ridacchiò di fronte all’ineluttabilità di quella verità e, volgendosi prona sul letto, intrecciò le mani sotto il mento fissando l’amica.

“Credi che Aken ed Eikhe avranno avuto da ridire, quando ho chiesto la presenza di Enyl e Rannyl a palazzo?”

“Se anche avessero trovato la richiesta piuttosto bizzarra, non avrebbero potuto certo rifiutare, no?” le strizzò un occhio Kalia, imitandone la posizione. “Aken più di tutti comprende l’importanza di questo invito, ed entrambi loro non possono certo mettere un freno a quei due. Pur senza questo invito, ben presto Enyl e Rannyl avrebbero chiesto ai genitori di compiere un viaggio in giro per Enerios senza la loro costante presenza. Quei due non riescono a star fermi.”

“Già. Sembra che il villaggio stia loro stretto” ammise Naell.  O, forse, sentono che qualcosa sta accadendo, esattamente come sta succedendo a me.

Naell non aveva dimenticato il monito che, anni prima, lo stesso dio-lupo Hevos aveva predetto per lei e per i gemelli.

Pur se negli anni nulla di così tremendo si era verificato, ciò non voleva dire che esso non potesse avvenire a breve.

I suoi due attentati potevano essere il primo sintomo di un cambiamento, così come la sua ansia sempre maggiore, il suo desiderio incessante di muoversi, di non restare a palazzo.

Nell’ultimo anno, inoltre, i due gemelli si erano fatti irrequieti, chiedendo con sempre maggiore veemenza di poter intraprendere viaggi di volta in volta più lunghi e senza la presenza dei genitori.

Questo, aveva messo in allarme sia Aken che Eikhe che, però, non si erano mai rifiutati di accontentarli.

Per i figli del branco era normale stare lontani da casa anche per settimane intere ma, nelle richieste dei due gemelli, era parsa comparire un’urgenza tale da lasciare interdetti i genitori.

Era sembrato a entrambi che i due gemelli volessero, in qualche modo, prepararsi a qualche evento di cui, però, non volevano far parola con nessuno.

Naell ipotizzava soltanto che la frenesia dei gemelli fosse la stessa che la animava a sua volta e che, negli ultimi due anni, l’aveva portata a comportarsi nel modo in cui, poi, aveva fatto.

Non aveva mai detto ai genitori dei suoi assidui allenamenti a cavallo, così come delle lezioni di scherma prese da Meyor.

Il tutto era stato fatto a loro insaputa, e per ottimi motivi.

Non potendosi confidare coi genitori, si era limitata a riceverne sonori richiami, fino al rimbrotto feroce di quella sera che, a quanto pareva, le aveva guastato il sonno.

“Dormiamoci sopra, Naell e, stavolta, vedi di non svegliarti” ridacchiò Kalia, dandole una pacca sul braccio.

“Resterai qui?” le domandò Naell, con voce tremante.

“Se vuoi, sì, hillan.”

Detto ciò, si volse per sistemarsi comodamente contro i cuscini e, dopo aver fatto segno a Naell di imitarla, le sistemò le coltri attorno al corpo.

“Non pensare a matrimoni vari, ma al viaggio che intraprenderemo non appena i gemelli saranno a corte.”

“D’accordo” annuì la principessa, sorridendole nell’appoggiare il capo sul cuscino. “Ti voglio bene, Kalia, lo sai, vero?”

“Certo che lo so, e io ne voglio a te, o non sarei qui. Ordini o non ordini del re” ridacchiò lei, chiudendo gli occhi. “Ora dormi.”

“Agli  ordini” mormorò Naell, abbassando le palpebre sugli occhi grigio-azzurri.

Sapeva già che non avrebbe dormito bene ma, per lo meno, ci avrebbe provato.

La bellezza aveva tanti nomi ma, uno in particolare, scivolò sulle bocche dei soldati, non appena la piccola carovana di cavalieri raggiunse il cortile interno del palazzo di Rajana.

Baciata da un sole dorato come i suoi capelli, Enyl, figlia di Aken ed Eikhe, bloccò la sua cavalcatura con un sussurro delicato indirizzato al suo baio.

Scivolata con grazia giù dalla sella, sorrise sorniona al fratello gemello e, infine, gli domandò con voce roca e naturalmente sensuale: “Non sei contento di essere arrivato?”

Rannyl, scuro di capelli e dalla carnagione bronzea come quella del padre, imitò la sorella, lasciando che il suo fisico slanciato scivolasse a terra silenzioso.

Con passi eleganti e ferini, si avvicinò a Enyl sistemandole nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima di rabberciarla dolcemente.

“E’ mai possibile che tu debba sempre fare la vanitosa?”

Scrollando il capo di capelli biondo platino e che giungevano, liberi da freni, fin oltre la vita in sinuose onde scintillanti, Enyl replicò bonaria: “La treccia mi stava facendo venire l’emicrania. Parli bene, tu, che li porti corti come i militari di palazzo.”

“Nessuno ti ha detto di farli crescere così tanto” brontolò Rannyl, lanciando occhiate furenti ai soldati che, dalle mura, stavano osservando la sorella con interesse malcelato.

Alta, slanciata e dal viso cesellato - si diceva - dallo stesso dio Hevos, Enyl era la copia vivente della capostipite della razza, l’umana Hyo che il dio-lupo aveva amato in passato.

Sopraffina in bellezza quanto in intelligenza, Enyl non si faceva troppi scrupoli nell’usare il suo fascino, quando occorreva, ma sapeva essere letale quanto il fratello.

Con arco e frecce non aveva rivali, e la sua ferale daga, che portava sempre allacciata alla vita, aveva dato più di un assaggio della sua bravura.

Rannyl, più chiuso della sorella ma non meno affascinante, raggiungeva già in statura il padre Aken e, pur se non robusto quanto lui, era già un ottimo combattente.

Preferiva di gran lunga lo scontro fisico, all’uso delle armi e, chi aveva combattuto contro di lui, aveva solo potuto tesserne le lodi.

Lesto come un serpente e altrettanto pericoloso, era il più riflessivo tra i due gemelli, l’ombra protettiva di Enyl in qualsiasi circostanza.

Muovendosi lesto e agile tra i carri e gli uomini addetti allo scarico merci, un paggio in livrea si avvicinò alla coppia per rendere nota la sua presenza.

Dopo essersi compitamente inchinato, li invitò a entrare a palazzo assieme a lui per raggiungere il re, ansioso di rivederli dopo più di un anno di mancanza da Rajana.

Enyl fu la prima a muoversi, come al solito, mentre Rannyl le si mise alle spalle, a un passo di distanza.

I lupi dei due giovani, Fell e Kerr, si unirono a loro zampettando leggeri sulle rocce lisce del cortile.

Consegnate le loro armi alle guardie di palazzo, i gemelli si mossero agili entro quegli ambienti che, ormai, avevano imparato a conoscere.

Nell’incrociare alcune dame di corte, entrambi i gemelli si esibirono in brevi quanto educati saluti, cui le signore risposero con risolini e rossori profusi.

Che lo volesse o meno, Rannyl sapeva come far colpo sulle donne e la bellezza squisita di Enyl, invece di creare invidia nel gentil sesso, produceva l’effetto esattamente opposto.

Salito che ebbero due piani del palazzo, lasciandosi alle spalle il gruppetto di cortigiane, i gemelli affrettarono il passo, obbligando il paggio a fare altrettanto.

Quando infine raggiunsero la Sala dei Ricevimenti,  un altro paggio in livrea batté il suo bastone a terra, declamando i loro nomi con voce tonante.

“Le loro Altezze Reali, i principi Enyl e Rannyl!”

Dall’interno, le porte vennero aperte da un paio di guardie armate di alabarda e, nel mettere piede sul lungo tappeto color carminio che conduceva fino al palco reale, Enyl sussurrò al fratello: “Una volta o l’altra, mi sfonderà i timpani. Credo che, ogni volta che ci presentiamo qui, lui alzi di un’ottava il tono di voce.”

“E’ evidente che vuole attirare la tua attenzione” mugugnò Rannyl, avanzando assieme a lei e i lupi, che corsero avanti per andarsi a sistemare ai piedi del palco.

All’erta, i due lupi li attesero pazienti, controllando tutt’attorno come a sincerarsi che non vi fossero pericoli.

Enyl, nel frattempo, lanciò un’occhiata scettica in direzione del fratello prima di rivolgere un sorriso deliziato allo zio, assiso sul trono con aria lieta e che, nel vederli, si levò in piedi per raggiungerli a braccia aperte.

Perso di vista ogni desiderio di essere affascinante a tutti i costi, Enyl allungò il passo per gettarsi tra le braccia di Ruak, che lei adorava e, stringendosi a lui, mormorò gaia: “Sono così felice di vederti, zio! Sembra sempre passare un secolo, tra una visita e l’altra!”

“Quanto hai ragione, mia cara e, ogni volta, non riesco a capacitarmi della tua bellezza. Smetterai mai di diventare sempre più avvenente?” ridacchiò Ruak, scostandola da sé per ammirarla affascinato e sì, incredulo.

Aken aveva dimostrato più che palesemente la sua ansia di fronte alla bellezza sempre più fiorente della figlia e, mal volentieri, aveva accettato i suoi primi viaggi lontano da casa.

Si era sempre dichiarato – in segreto – timoroso che la sua avvenenza avrebbe potuto cacciarla in qualche guaio.

Tutto ciò non era successo, ma la paura rimaneva e Ruak, nell’osservare quel viso perfetto, i vividi occhi ambrati e le ciglia lunghe e arcuate che li solleticavano, non poté che comprendere le paure del fratello.

Enyl era veramente pericolosa, con la sua bellezza ultraterrena, ma poteva altresì mettersi in pericolo, a causa del suo bel viso.

Allargando le braccia per un ben più mascolino abbraccio a Rannyl, Ruak non poté non riconoscere in lui lo stesso fascino.

Esso era però molto meno marcato, non così evidente e, su un uomo, esso non produceva lo stesso effetto distruttivo, almeno ai suoi occhi.

Rannyl, inoltre, non faceva nulla per metterlo in mostra, cosa cui invece Enyl non pensava minimamente.

“Hai finito di crescere, Rannyl, o conti di superare in altezza il mio caro fratello?” domandò il re al nipote, sorridendo generosamente.

“Solo Hevos può dirlo” mormorò serafico Rannyl, prima di veder comparire la regina Renke, seguita da figli, nuore e nipotini.

“Ah, i miei due nipoti delle montagne!” esclamò Renke, giungendo da loro in un frusciare di stoffe pregiate.

“E’ un piacere rivederti, zia” sorrise Enyl, baciandola calorosamente sulle guance.

Renke ricambiò con affetto prima di sorridere generosamente al nipote.

“Mi sia testimone Iralva, tu diventi sempre più spettacolare, nipote mio. Ti ruberò a tua madre e ti terrò qui a palazzo, così che le cortigiane siano gelose di me perché posso godere della tua compagnia.”

Rannyl scoppiò a ridere di gusto e, baciata la zia, celiò serafico: “Rifiuterei, anche se fosse Hevos stesso a chiedermelo. Non potrei mai abbandonare Hyo-den, anche se scoprire gli effetti della mia presenza qui a corte, sarebbe divertente.”

Meriton ridacchiò nell’abbracciare i cugini, chiosando: “Chissà che non si dimentichino dei guai causati da Naell, avendoti qui intorno.”

Ruak scosse il capo, disturbato da quell’accenno e Staryn, dopo aver dato un colpetto di gomito al fratello a mo’ di ammonimento, intervenne dicendo: “Siamo lietissimi di avervi qui. Il viaggio è andato bene?”

“Ottimamente” annuì Enyl prendendo in braccio il piccolo Sysan, il figlio di quattro anni di Meriton e sua moglie Ylvire. “E tu, splendore, come stai?”

Sysan si mostrò affascinato da Enyl esattamente come tutti gli uomini dai due ai novant’anni e, sorridendo allegramente, le si strinse addosso dandole un bacio sulla guancia.

“Bene. E tu?”

“Ora che ti vedo, sto benissimo” sorrise la figlia sacra, baciandolo sulla fronte prima di metterlo a terra per dedicarsi alle mogli dei cugini. “Il matrimonio vi si confà. Oserei dire che siete ancor più belle dell’ultima volta che siamo venuti qui.”

Emelde, la moglie di Staryn, ridacchiò a seguito del suo commento e, abbracciandola, replicò: “Detto da te, è un vero complimento, cugina. I tuoi genitori e tuo fratello maggiore stanno bene?”

“Tutti benissimo. Myssa e Narad stanno diventando due cavallerizzi davvero eccezionali. Antalion ha detto che lui, Liana e i figli verranno con la prossima carovana assieme ai nostri genitori quindi saranno qui, all’incirca, tra tre settimane” spiegò Enyl, dando un buffetto sulla guancia a Sysan, che le si era allacciato alla gamba.

“Allora, ritarderemo il nostro rientro a Elior” propose Staryn alla moglie, che annuì. “Sarà un piacere rivedere tutti loro.”

“E a loro farà piacere vedere voi” asserì Rannyl prima di lasciar perdere le formalità e domandare: “Naell non sta bene, per caso?”

Ruak scosse il capo, vagamente infastidito, e mormorò: “Vi aspetta nelle sue stanze. Sta preparando i bagagli per la partenza per Akantar, da quel che ho capito.”

Enyl e Rannyl si guardarono dubbiosi per alcuni attimi ma, preferendo non approfondire oltre quell’argomento, si astennero dal fare commenti.

Era evidente la tensione tra il re e la figlia, perciò era meglio non sollevare polveroni inutili.

Con la promessa di rivedersi a pranzo, abbandonarono la sala e si diressero lesti verso la torre dove si trovavano le stanze di Naell.

Possibile che i rifiuti della cugina di sposarsi, avessero incrinato una volta per tutte i rapporti col padre?

Se solo avessero potuto parlare, tutto sarebbe stato chiaro!

Naell non poteva affatto sposarsi, con il destino incerto a gravare sulle sue spalle. Doveva pensare solo a questo, non ad altro.

Percorsi in fretta i gradini con il sottofondo delle unghie dei loro lupi, che picchiettavano sulle rocce scure del pavimento, i gemelli giunsero infine alle stanze di Naell e lì Enyl, dopo aver bussato, disse a mezza voce: “Naell, siamo noi. Possiamo entrare?”

Un attimo dopo, Kalia venne loro ad aprire e, dopo averli abbracciati calorosamente, li lasciò entrare chiedendo loro: “Già salutata la famiglia reale?”

“Sì” annuirono entrambi, lanciando uno sguardo incuriosito in direzione della cugina.

Contrariamente al solito, Naell non indossava le ingombranti vesti di raso scuro con guardinfanti che soleva usare a palazzo ma, al contrario, era abbigliata in maniera piuttosto esotica.

Indossava dei salwar a palloncino color fuoco, tipici di Akantar, e una kameez ricamata bianca e rossa.

Ai piedi, indossava delle pianelle dalla punta rialzata, al posto delle classiche scarpette dal tacco alto e la punta arrotondata.

Dopo averla guardata per un po’ mentre, con mani leggermente tremanti, Naell si appuntava la lunga treccia dietro la nuca, Enyl le domandò: “Immagino che quelli siano gli abiti che usi ad Akantar ma, mi chiedevo… perché indossarli ora?”

Naell si volse a mezzo per sorridere loro mestamente, le mani impegnate con le ultime forcine e, a mezza voce, mormorò: “Mio padre non potrebbe essere più arrabbiato di quanto già non sia ora. Vedermi con gli abiti che porto a Yskandar non peggiorerà la situazione, e io li preferisco.”

Rannyl si accomodò a gambe incrociate su uno degli enormi cuscini che la cugina teneva di fronte al camino, ora spento e, osservatala attentamente, replicò gentilmente: “Getti olio sul fuoco, se me lo permetti. La rabbia può crescere fino a vette che neppure immagini e questo farà accrescere, e di molto, quella dello zio.”

“Tanta saggezza in un sedicenne fa quasi paura” commentò Kalia, sorridendogli generosamente. “Ma mi vedo costretta ad assentire con lui, Naell. Mettere tuo padre di fronte a questo, è davvero troppo.”

“Lui deve sapere dove preferisco stare. Forse, questo gli aprirà gli occhi” brontolò Naell, nervosamente.

“Non sei figlia di Elmassary ed Erenokt, per quanto essi ti vogliano bene. E, finché rimarrai qui, sarai sottoposta alle leggi di Enerios, non di Akantar” le ricordò gentilmente Kalia. “Non puoi comportarti così con tuo padre. In fondo, in tutti questi anni, è sempre stato dalla tua parte, appoggiando ogni tuo comportamento, sensato o meno che fosse. Devi dargliene atto.”

Perdendo di colpo la testa, Naell sbottò e, volgendosi verso l’amica con aria più che mai irritata, le gettò in faccia un foglio pergamenato, ringhiandole contro: “Leggi questo, prima di difenderlo tanto!”

Sorpresa da tanta veemenza e, soprattutto, da quella reazione spropositata, Kalia raccolse da terra il foglio sotto gli occhi allibiti di Enyl e Rannyl e, ad alta voce, lesse il contenuto della missiva che, a quanto pareva, aveva condotto Naell a mettersi apertamente contro il padre.

 

Poiché tra noi, ormai, non vi è più un dialogo costruttivo, e le male parole ben si accordano con il nostro attuale stato d’animo, mi vedo costretto a scriverti questa mia, figlia diletta. Non posso più accettare che tu conduca una vita al di fuori di qualsiasi legge, legge che io, per primo, sono tenuto a rispettare in quanto re di questo Paese. Esse possono apparirti ingiuste e, su alcune di esse, non posso che renderti atto che lo sono ma, almeno per il momento, mi è impossibile intercedere per te presso il consiglio della corona perché, negli anni, ti sei giocata fin troppe volte la loro pazienza e, ora, non sono più disposti ad ascoltare le tue lagnanze. Al tuo ritorno da Akantar, che non posso negarti poiché l’invito dei reali di Yskandar è troppo importante, per poter essere messo sotto silenzio, tu ti atterrai a quanto deciso da me e ti mariterai assieme al figlio del Conte Alderan. Tra tutti i tuoi pretendenti, si è dimostrato il più paziente, e quindi il più meritevole, a prenderti in moglie. Non accetterò un ‘no’ come risposta, sappilo, poiché ormai non posso più nulla per salvarti da te stessa e questo, credimi, mi fa soffrire molto più di quanto possa mostrare in pubblico, o a te, mia dolce Naell.                     Tuo padre.

 

Gli occhi sgranati e la bocca molle per la sorpresa, Kalia lasciò scivolare a terra lo scritto prima di rivolgere uno sguardo comprensivo in direzione dell’amica.

“Non sai quanto mi spiaccia.”

Enyl e Rannyl fissarono la cugina con un gran desiderio di abbracciarla, ma si astennero nel momento stesso in cui incrociarono lo sguardo glaciale di Naell.

In quel momento, qualsiasi dimostrazione di affetto l’avrebbe fatta esplodere, soprattutto se si considerava che, un tale guazzabuglio, era nato a causa di Hevos.

“Come vedi, non sono molto ben disposta verso di lui, oggi” ringhiò Naell, indossando due lunghi pendenti dorati alle orecchie e pesanti anelli d’oro brunito alle mani.

“Ti rapirò la notte prima delle nozze e, di te, non rimarrà alcuna traccia” le promise Enyl con un mezzo sorriso. “Tu non avrai alcuna colpa, l’onore della tua famiglia sarà salvo e il Conte Alderan non potrà dire nulla.”

Sorridendo grata alla cugina, Naell le replicò bonariamente: “E dove andrei a stare, mia cara?”

Lanciando un’occhiata significativa a Rannyl, che annuì sornione nell’alzarsi, le disse: “Esistono luoghi che neppure le figlie sacre di Hyo-den conoscono. Se anche i soldati venissero a cercarti nei villaggi delle sorelle del branco, non ti troverebbero.”

“E voi, come fate a conoscerli?” domandò loro la cugina, incuriosita.

“Faceva parte del… beh, dell’addestramento, per così dire” scrollò le spalle Rannyl, ammiccandole con intenzione.

Naell comprese al volo. Hevos.

Kalia li fissò dubbiosa, mugugnando: “Ogni tanto, voi tre parlate per enigmi e questo mi irrita ma, se avete un modo per salvare Naell da quel viscido imbrattacarte, mi unirò a voi.”

Fissando i cugini e l’amica con rinnovata fiducia, Naell disse loro: “Mi fiderò di voi, e non mi getterò dalla goletta quando saremo in piena navigazione, allora. Andiamo ad Akantar, e che gli dèi ce la mandino buona.”

“Per Hevos, so che sarà così” esclamò Enyl, poggiando il suo pugno chiuso sul petto, a mo’ di giuramento.

Rannyl e Kalia la imitarono e Naell, per ultima, seguì il loro esempio, mormorando: “Per Hevos, sarà così.”

Non appena le sue parole scaturirono dalla bocca socchiusa, un brivido la percorse.

Era giunto il momento.

Qualsiasi cosa volesse significare.

 

 

 




__________________________________
N.d.A.: Ed eccoci di nuovo in compagnia dei personaggi di Occhi di Lupo. Per chi non lo ricordasse, Naell e i gemelli di Aken ed Eikhe hanno ricevuto la visita speciale del Dio-Lupo Hevos, che ha predetto loro eventi infausti, che loro avrebbero dovuto affrontare assieme per poter risultare vincitori.
Grazie fin d'ora a chi leggerà e/ commenterà la storia, o a chi vorrà dispensare consigli. ^_^

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Capitolo 2
*** 2. ***


 

 

 

••2••

 

 

 

 

Il vento le sferzava il viso come a volerla schiaffeggiare, ma a lei non importava molto. Forse, anzi, se lo meritava.

Come tutti avevano ipotizzato, l’abbigliamento di Naell non solo aveva irritato il padre ma, durante il corso del pranzo, il sovrano non aveva proferito parola all’indirizzo della figlia.

Silenziosa spettatrice di quella dolorosa lotta in seno alla famiglia, Renke aveva cercato di mediare tra i due, intrattenendosi con entrambi e cercando di dispensare da ambo le parti i medesimi sorrisi.

Alla fine di quella battaglia a suon di silenzi, anche lei ne era comunque uscita distrutta.

Meriton e Staryn, pur non potendo schierarsi apertamente dalla parte della sorella, ne avevano compreso pienamente i sentimenti.

Con sguardi ammiccanti e mezzi sorrisi, le avevano fatto capire quanto fossero d’accordo con lei e la sua personale lotta per la libertà.

Ylvire ed Emelde si erano occupate di tenere impegnati i gemelli in frivole quanto divertenti chiacchiere, ben sapendo quanto velocemente, altrimenti, quel pranzo avrebbe potuto diventare un campo di battaglia.

Era risaputo che Ruak e Naell possedevano una cocciutaggine pari a quella del vecchio re e, non sempre, essa si rivelava essere un pregio.

Ridurre a un’inutile sequela di insulti una delle poche occasioni in cui la famiglia poteva dirsi più o meno riunita, non sarebbe stata cosa gradita a nessuno.

Le due donne, perciò – uniche a poter sostenere simili conversazioni senza infastidire nessuno – , si erano impegnate perché il pranzo si svolgesse nel miglior modo possibile.

L’approssimarsi del meriggio li aveva visti partire alla volta del porto di Elior, riducendo così a zero i pericoli di una lite furibonda.

Quando Naell si era finalmente trovata oltre i confini di Rajana, si era concessa il lusso di piangere in silenzio, protetta dal cappuccio levato del suo mantello.

Ylar aveva mugolato al fianco del suo destriero, preoccupato per la padrona, ma lei non aveva in alcun modo trovato le parole per chetarne le ansie.

Alla fine, Enyl l’aveva richiamato al suo fianco, pregandolo di lasciare in pace per un po’ l’amica.

Di mala voglia, Ylar era rimasto al fianco di Kell, il lupo di Enyl e, per tutto il tempo, i suoi occhi erano corsi alla figura ingobbita della sua amica e padrona, condividendone le ansie e i dolori.

Con la luna piena e il cielo sgombro di nubi, erano salpati su stessa richiesta della principessa.

In quel momento, col sole che stava sorgendo all’orizzonte e scure nubi di tempesta che solcavano i cieli a ovest, Naell lasciò che l’aria di mare le strappasse via di dosso l’amarezza provata nell’abbandonare Rajana.

Non aveva desiderato litigare col padre ma, alla fine, la rivalsa aveva prevalso sul buonsenso.

Senza poterne fare a meno, aveva mostrato apertamente cosa ne pensasse delle leggi restrittive del regno di Enerios.

Non era consentito a nessuna donna della corte indossare brache, solo Enyl – pur se principessa per diritto di nascita – le poteva portare in quanto figlia sacra ma, di sicuro, questo privilegio non era mai stato concesso a Naell.

Inoltre, non essendo Enyl in linea di successione per il trono, non era sottoposta allo stesso, restrittivo regime riservato alla cugina.

Per questo, l’ingresso di Naell nella Sala Piccola– dove solevano tenersi i pasti della  famiglia reale – abbigliata con i costumi classici di Akantar, aveva subito fatto risentire il re.

Questo aveva dato luogo, per diretta conseguenza, a una serie infinita di chiacchiere tra la servitù.

“Far male a chi si ama non può produrre nulla di buono” motteggiò al suo fianco Kalia, osservando al pari della principessa le cupe nubi temporalesche.

Volgendosi a mezzo, Naell lasciò perdere i suoi cupi pensieri e scrutò il viso arrossato dal vento dell’amica.

“Solo chi ti ama può farti veramente male.”

“E farvene reciprocamente è cosa buona?” ribatté la figlia sacra, sorridendole.

“Lui è re, e io capisco i motivi che lo spingono. Il consiglio della corona non può essere sopravanzato. E’ ciò che ci distingue da una comunissima dittatura, ma io non posso comunque sopportare che essi decidano del mio futuro senza tener conto dei miei desideri” brontolò Naell.

“O di ciò che non posso dire, ma so benissimo che avverrà” pensò poi tra sé la principessa, imprecando mentalmente per l’ennesima volta.

Se solo avesse potuto dire la verità…

“Forse, se avessi mostrato una preferenza per questo o quel partito, tuo padre non si sarebbe irritato così tanto, di fronte ai tuoi continui tentativi di circuire la legge” le rammentò Kalia, scrollando le spalle.

Naell si morse il labbro inferiore reclinando il capo con fare colpevole, non potendo mettere a parole ciò che pensava.

A nessuno avrebbe mai detto ciò che risiedeva nel suo cuore, neppure a Kalia.

Poiché era tutto talmente assurdo, talmente impossibile che, anche il solo metterlo a parole, l’avrebbe uccisa.

No, non ne poteva parlare, soprattutto ora che sentiva, in ogni più piccola parte di sé, che il momento era giunto.

Non avrebbe condannato l’unica persona che veramente le interessava, a un calvario senza fine.

Con una pacca sulla spalla e un’ammiccata, Kalia la lasciò sola ai suoi pensieri.

Mentre il cambio degli uomini in coperta veniva dato al suono di una campana appesa all’albero maestro1, lei si scostò dal mascone di dritta2 per tornare alla sua cabina.

A che pro pensare a cose che non poteva realizzare?

Doveva essere realista e, nella realtà, il suo sogno non poteva avverarsi.

***

Non potevano semplicemente evitarla?

No, sembrava quasi che il tempo, come il Fato, ce l’avesse con lei.

Con il cambio del vento, la tempesta si era avvicinata a loro invece di allontanarsi.

In quel momento, potenti mareggiate si stavano abbattendo contro le paratie della nave, sballottandoli come un tappo di sughero gettato in un fiume impetuoso.

Gli uomini in coperta, impegnati con il ritiro delle vele e il fissaggio delle cime, urlavano ordini e richieste a gran voce.

All’interno della cabina reale, invece, Naell, i cugini, Kalia e il Ministro Korissar tentavano senza grosso successo di rimanere in piedi nonostante le mareggiate possenti.

Più semplicemente, i lupi si erano sdraiati a terra e, pur non apparendo al meglio delle loro condizioni, sembravano sopportare abbastanza agevolmente quella traversata movimentata.

Un cuscino abbondante e di seta scura ben stretto al petto, il ministro caracollò a terra durante l’ennesimo maroso.

Avvicinandosi a lui per conoscerne le condizioni, Naell si ritrovò a camminare gatton gattoni per poterlo raggiungere senza danni.

Con un mezzo sorriso di circostanza, domandò a Korissar: “Tutto bene?”

“Potrei… stare meglio” gorgogliò l’uomo, abbozzando uno sguardo coraggioso, subito annullato da un’ondata di dritta, che fece diventare verde il viso del ministro.

Un attimo dopo, la sua mano destra corse a prendere uno degli incensieri e, senza troppa grazia, lasciò che il suo stomaco si liberasse con gran conati e lamenti vari.

Non potendo fare nulla per lui, Naell gli sfiorò una spalla con una pacca consolatoria, dopodiché arretrò fino a raggiungere Kalia.

Piuttosto sbattuta, la figlia sacra stava scrutando il mare da un oblò rimasto miracolosamente intatto e, con tono stanco, le domandò: “Novità, là fuori?”

“Sembra interminabile” sibilò Kalia, accigliandosi non appena vide Enyl e Rannyl diretti alla porta della cabina. “Ehi, voi due! Dove pensate di andare?!”

“A dare una mano” sentenziò Rannyl, sfidandola con lo sguardo a replicare.

Enyl, più diplomatica, le sorrise affabile, rammentandole un particolare non da poco.

“Con la freoha sempre attiva, possiamo fare quello che dieci di questi uomini non potrebbero, con un tempo simile. Non ci accadrà nulla, Kalia. Tu occupati della principessa e del ministro. Noi faremo il resto.”

Detto ciò, la dolcezza nel suo sguardo svanì come d’incanto e, al seguito del fratello, uscì nel mezzo della tempesta prima di richiudersi la porta alle spalle con un sordo tonfo.

“Oh, dèi, se succederà qualcosa ai principini, il re mi scotennerà!” si lagnò il ministro, non avendo però il coraggio di muovere un dito per andare a riprenderli.

Naell lo fissò serafica, dicendogli soltanto: “Enyl e Rannyl rispondono solo a loro stessi. Mio padre non riterrà voi responsabile della loro sorte.”

Ciò detto, si diresse alla porta e, attraverso il largo vetro colorato del battente di quercia, cercò di intravedere i cugini sul ponte di prua.

***

Sotto gli occhi sgomenti della cugina, i gemelli ascoltarono seriosi gli ordini che il capitano della nave dispensò loro.

Dopo aver annuito al suo indirizzo, corsero in direzione dell’asta di fiocco3 e si aggrapparono al sartiame fino a raggiungere il gran fiocco4.

A causa dei marosi, la vela aveva perso il suo ancoraggio all’albero di trinchetto5 e stava svolazzando in modo più che pericoloso proprio dinanzi ai suoi cugini.

Impossibilitati a salvarla – il sartiame si era quasi interamente sfilacciato – restava loro un unico compito.

Strapparla di peso dall’albero e gettarla in mare perché non li portasse a scuffiare6, cosa che nessuno di loro desiderava. Per nulla.

La mano di Rannyl ben stretta a quella di Enyl, che si teneva al sartiame dell’asta di fiocco, il giovane afferrò saldamente il telo ruvido e robusto del gran fiocco e, con un grido possente, iniziò a tirare.

Enyl fu subito con lui, aiutandolo a sua volta nell’ardua impresa, incurante delle ondate che li colpivano inclementi e del mare che, di volta in volta, si faceva loro più vicino.

La goletta sbatacchiò ancora e ancora in balia della tempesta, mentre i marinai mettevano in sicurezza tutto ciò che avrebbe potuto creare danni alla struttura.

Nessuno di loro stava risparmiandosi, mettendo ogni stilla di sudore e fatica in tutti i loro  movimenti, ma ciò che Rannyl ed Enyl fecero andò ben oltre l’umana concezione del possibile.

Mentre i loro muscoli si tendevano allo spasimo, affiorando ben visibili sotto la lastra sottile e morbida della loro pelle perfetta, il gran fiocco venne estirpato, raccolto e ricondotto a bordo.

Il tutto, sotto gli occhi sgomenti dei presenti, Naell compresa.

Incuranti della tempesta, che avrebbe potuto rendere impacciati i loro movimenti, i  gemelli ripiegarono la vela per poi legarla con il suo stesso sartiame.

Fatto ciò, la fissarono contro la paratia di dritta e, infine, si avventurarono fino al timone della goletta per ricevere altri ordini.

Pur se bagnati fino all’osso e, forse, provati per la prova ardua appena superata, i due giovani parevano pronti a scalare le stesse calotte di ghiaccio dei Mari del Nord, pur di rendersi utili.

Al capitano non restò altro che impiegarli in mille piccoli lavori in coperta, poiché entrambi si rifiutarono di rientrare in cabina assieme ai loro compagni di viaggio.

Qualcosa, nei loro sguardi, lo spinse a non vietare loro di rimanere sul ponte.

La femmina, in particolar modo, gli parve la più convinta tra i due.

Quando, molte ore dopo, la tempesta si placò e il sole tornò a splendere sul mare ora più calmo, i gemelli rientrarono infine in cabina.

Basita, Naell li fissò mentre, con i volti stremati dalla fatica e le mani livide, andarono a sdraiarsi a terra accanto ai lupi, addormentandosi pochi attimi dopo.

Kalia, con un mezzo sorriso, rassicurò Naell dicendole: “E’ l’effetto della freoha. Quando cessa, crolli a terra sfinito.”

“Sì, lo capisco ma… quello che hanno fatto…” esalò Naell, ancora sbigottita.

Kalia allora scosse il capo e, pensosa, mormorò: “Nessuno capisce perfettamente come funzioni il loro potere. Sono potenti, ma non c’è solo questo.”

“Provengono da una forte dinastia” commentò ammirato Korissar, annuendo a più riprese.

“Su questo non c’è dubbio” assentì Kalia, scrutando con occhi guardinghi i gemelli.

Naell li fissò a sua volta, chiedendosi cosa avesse voluto dire Kalia con quelle parole.

Soprattutto, voleva capire fino a che punto, quei due, fossero quello che sembravano.

Non le era sfuggito il cambio di espressione di Enyl che, da placido e gentile, si era fatto glaciale e pericoloso.

Non sapeva quanto di quello sguardo fosse da attribuirsi al Marchio di Hevos, la freoha, e quanto al suo reale cipiglio.

Possibile che la dolce, ammaliante Enyl, nascondesse due facce?

***

La tempesta aveva lasciato i suoi strascichi sulla goletta, ma il bastimento procedeva ora spedito lungo la sua rotta.

Il cielo era nuovamente sgombro da nubi, e un caldo sole illuminava il lavoro dei marinai, intenti a sistemare i danni provocati dai marosi.

Enyl e Rannyl, presisi personale carico di risistemare il gran fiocco all’albero di trinchetto.

Armeggiarono ad altezze importanti come se si fossero trovati sulla terra ferma e non su una nave, con il suo costante rollio a render più complesso qualsiasi movimento.

Naell li osservò ansiosa, desiderando più di tutto che scendessero dall’albero per averli accanto.

Kalia, al suo fianco, ammirò semplicemente la loro abilità e la sopraffina armonia con cui si muovevano all’unisono.

“Quei due ragazzi sono straordinari. Sono sempre stati affiatati ma, negli ultimi anni, la cosa ha raggiunto livelli impensati.”

Ridacchiando, Kalia allungò una tazza di tè caldo all’amica e aggiunse: “Continuare a guardarli non li farà scendere prima, sai?”

“Sarà anche vero ma, se a quei due succede qualcosa, gli zii mi daranno in pasto ai loro lupi” brontolò Naell, dando subito dopo una sbirciata al suo lupo, oltre a quelli dei gemelli.

Erano tranquillamente seduti al suo fianco, gli occhi chiusi e le membra rilassate, come se quello che era avvenuto solo il giorno prima non fosse mai avvenuto.

“Aken ed Eikhe non ti farebbero mai del male. Inoltre, conoscono i loro figli” ammiccò Kalia, allontanandosi da Naell per tornare in cabina.

Forse, Kalia aveva ragione.

Forse, starsene lì impalata sotto il sole a fissarli mentre loro, senza alcun problema, terminavano i lavori che si erano auto imposti, era un’autentica perdita di tempo, ma non riusciva a smuovere i piedi dal mascone.

Era terrorizzata all’idea che potesse succedere loro qualcosa e, più di una volta, si era sentita in dovere di richiamarli a terra.

L’attimo dopo, però, si era azzittita prima di proferir parola quando si era resa conto che, un comportamento del genere, avrebbe potuto essere frainteso.

Lei non voleva mettere in dubbio la loro bravura, né tanto meno smentire la fiducia che aveva in loro.

A conti fatti, non voleva imporsi come suo padre aveva fatto con lei.

Reclinando il capo, Naell sospirò affranta, atterrita all’idea che, al suo ritorno, la sua libertà sarebbe stata cancellata per sempre.

Le sue mosse sarebbero state controllate a vista da un marito che non poteva avere, al momento.

La sua intelligenza sarebbe stata per sempre messa in secondo piano, sopravanzata in ogni cosa dall’uomo scelto per lei dal padre.

Piegatasi su un ginocchio, accarezzò placidamente la schiena del suo lupo che, a dieci anni, era nel fiore dell’età, possente e forte come pochi, alfa tra i fratelli che erano giunti con loro a Rajana.

Il suo pelo, di un grigio scuro striato di bianco, era lievemente irruvidito dalla salsedine portata dal vento.

“Vorrei fare come te, amico mio. Passeggiare placida per il bosco in cerca di un  compagno, senza alcuno a dirti chi scegliere, o quando scegliere” mormorò la principessa, sentendo feroci lacrime pungerle gli occhi.

Ylar si svegliò a quell’accorata confidenza e, mugolando una risposta nella sua direzione, le leccò la mano che lo stava accarezzando prima di rizzarsi sulle forti zampe e sfiorarle il viso con il muso.

Naell sorrise, stringendoselo al petto con braccia tremanti e, tra i singhiozzi, esalò: “Ovunque il Fato mi porterà, tu sarai con me. E’ la mia unica consolazione. Nessun marito potrà dividerci, Ylar.”

Il lupo abbaiò con veemenza, sottolineando quella promessa.

Più tranquilla al pensiero che, almeno lui, le sarebbe rimasto accanto, Naell prese un gran sospiro e si levò in piedi, mormorando al suo amico quadrupede: “Resta pure qui a prendere il sole con i tuoi amici. Io torno in cabina per dare un’occhiata ai documenti che presenteremo ai reali di Akantar.”

Ylar annuì, dandole un ultimo colpetto alla gamba con il muso prima di rimettersi steso a terra con gli altri lupi.

Dopo averli guardati con bramosa invidia, la giovane si allontanò con passo strascicato non senza un ultimo sguardo ai cugini.

Quello che vide, la sconcertò.

Appesa al pennone7 più alto con la sola forza delle gambe, le sartie ben strette in mano, Enyl stava osservando il fratello che, con abilità di mani, stava legando la vela all’asta di fiocco.

La distanza che li separava era notevole, e lo sciabordio delle onde produceva un frastuono tale che, solo urlando a gran voce, ci si sarebbe potuti sentire agevolmente.

Eppure, la ragazza rise alcuni attimi dopo aver guardato il fratello, annuendo come a un comando implicito.

Con abilità, si sedette sul pennone, terminando di legare il gran fiocco.

Aggrappatasi poi al sartiame, scese in poche, rapide mosse prima di ritrovarsi sul mascone, al suo fianco, tutta sorridente e gaia.

“Abbiamo finito di farti preoccupare, cugina” le strizzò l’occhio lei, dando una pacca al suo lupo prima di schizzare via di corsa in direzione della cabina.

Rannyl la seguì dopo un attimo, ammiccando a Naell e imitando subito dopo i movimenti della sorella.

Sempre più basita, a lei non restò altro che seguirli, chiedendosi il perché dello strano comportamento di Enyl e del fratello.

***

Fu la guardia di sentina a regalare a Naell il primo, vero sorriso da quando si erano imbarcati a Elior, alla volta di Yskandar.

Con un gran vociare e un potente colpo di campana, avvisò gli uomini in coperta dell’avvistamento delle coste dell’amichevole paese a cui si stavano avvicinando.

Accorrendo fuori dalla cabina, la principessa si aggrappò all’impavesata8 di dritta e osservò la nebbiolina leggera all’orizzonte e sì, la linea scura della terra di Akantar.

Ormai molte volte aveva scorto quei paesaggi, ma l’impatto su di lei fu il solito. Fascino e sospiri.

Già sapeva, però che, prima di giungere al porto, avrebbero dovuto circumnavigare le Isole Arcobaleno, poiché non correva buon sangue tra la corona di Akantar e il dignitario di tali terre.

Era meglio tenersi lontani dalle loro catapulte, se era possibile.

Sarebbero perciò occorse ancora diverse ore, prima di attraccare a uno dei moli del porto fortificato di Ylleru.

La città portuale era collegata alla capitale da una lunga e diritta strada, protetta da alte mura difensive.

Il solo fatto di poter vedere quelle terre a lei tanto care, comunque, bastò a metterle il buon umore in corpo.

Sapeva che non tutti, molti in verità, comprendevano la sua passione per Akantar.

A parte poche miglia di terreni verdeggianti e disseminati lungo la costa, vantava solo distese quasi infinite di deserti e montagne impervie color del fuoco vivo, eppure lei ne era rimasta incanta già al suo primo viaggio.

Tornare lì ogni anno, non aveva fatto altro che aumentare il suo amore per quelle terre impervie e così difficili da domare.

Forse perché, un po’, le ricordavano se stessa.

“E così, quello è Akantar?” chiese Enyl, in piedi al suo fianco e intenta a intrecciarsi distrattamente i lunghissimi capelli.

Il sole di quelle settimane aveva contribuito a far brillare la sua pelle - già bellissima - di un caldo bronzo dorato.

“Sì, Enyl. E’ decisamente diverso dai luoghi dove siete cresciuti tu, Ran e Kalia, ma spero vi farà una buona impressione.”

Nel dirlo, Naell sorrise.

“A me piace” chiosò Kalia, scrollando le spalle. “E poi, ho ancora un conto in sospeso con il capo delle guardie di palazzo. Mi deve una partita a rileko.”

Sogghignando, Rannyl le domandò curiosamente: “Ti sei lasciata battere al tuo gioco preferito?”

“Mi ha stracciata con una mossa che non avevo mai visto prima ma, dall’anno scorso, mi sono allenata parecchio” sbuffò Kalia.

Con un sospiro esasperato, Naell lo confermò.

“Mi ha fatta ammattire, posso confermarlo. Io, nei giochi da tavolo, sono negata, e non potete immaginarvi quanti insulti io abbia collezionato, in questo ultimo anno.”

“Io non ti insulto. Ti… redarguisco” precisò Kalia, prima di scoppiare a ridere con Naell.

I gemelli si unirono all’ilarità di gruppo mentre Korissar, poco lontano da loro, li studiava con espressione curiosa.

Al pari loro, la vista delle terre di Akantar aveva portato un sorriso rasserenato sul suo volto pallido e sottile.

Avvicinatosi al gruppo ridente, il ministro sorrise loro cordialmente, asserendo: “Con un tempo simile, e con i venti a noi propizi, toccheremo terra entro breve.”

Naell annuì, sorridendogli di rimando.

“Sì, mio buon ministro. Mi spiace solo che vi siate dovuto sobbarcare un viaggio così pericoloso, e con simili marosi.”

Ridacchiando con fare lievemente nervoso, Korissar scosse il capo, replicando: “Oh, ma principessa, voi non c’entrate affatto col tempo. E poi, prima che voi nasceste, altre volte ho solcato mari altrettanto agitati, in nome della corona.”

“Allora, avete più coraggio di me. Io ero atterrita, durante la tempesta” esalò Naell, fissandolo con un misto tra sorpresa e orgoglio.

Lanciando un’occhiata melliflua all’indirizzo dei gemelli, Korissar si derise, chiosando: “Oh, no, mia gentile signora. Nessun coraggio. Dedizione alla corona, forse, ma coraggio direi di no. Non, almeno, quello che hanno dimostrato questi due giovani figli sacri.”

Enyl si esibì in un sorriso scintillante che, letteralmente, ammaliò il più che maturo Korissar.

Con voce mielata, mormorò grata: “Ricevere complimenti simili da un uomo così devoto a nostro zio, non può che farci piacere. Non meritiamo davvero riconoscimenti così altisonanti. Abbiamo semplicemente fatto ciò che eravamo in grado, nel limite delle nostre misere possibilità.”

Aprendosi in un largo sorriso, il ministro le batté affettuosamente una mano sul braccio nudo, replicando giocosamente: “Tutt’altro, bambina. Avete dimostrato una tempra degna dei più grandi eroi del regno, anche se non mi dovrei stupire di questo, visto che siete i figli di Eikhe, la nostra più importante eroina, e del possente principe Aken.”

Naell non seppe dire chi dei due, se la giovane cugina o l’attempato ministro, stesse esponendosi con le più eclatanti sviolinate.

Ma non fu quello ad attirarne l’attenzione quanto, piuttosto, l’espressione attenta di Rannyl, ritto in piedi a un passo da Enyl.

Gli occhi fissi sul volto di Korissar, non aveva perso una sola battuta del loro scambio di convenevoli e, apparentemente, stava studiando ogni minimo mutamento di espressione dell’uomo.

Che fosse geloso della sorella a quel punto?

Difficile dirlo, visto il carattere ermetico di Rannyl.

Che fosse sempre, e in ogni situazione, l’ombra di Enyl, già lo sapeva, ma non aveva idea che si preoccupasse anche di uomini molto più anziani della sorella.

Con un mezzo sorriso, trovò la cosa a suo modo divertente e sì, gentile.

Rannyl, dopotutto, si sentiva in dovere di proteggere la sorella come avrebbe fatto Aken, se si fosse trovato lì.

Naell non poté che sentirsi fiera di avere un cugino così dolce.

Ma non glielo avrebbe mai detto perché, sicuramente, avrebbe negato recisamente qualsiasi addebito.

Quando, però, i gemelli si scusarono con il ministro per allontanarsi e raggiungere il giardinetto9, Naell li vide lanciarsi uno sguardo strano, colmo di mille parole non dette.

E, tra esse, la gelosia non v’era proprio.

 

 

 

 

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1. Albero maestro: su una nave, è l’albero principale, il più grande.

2. Mascone di dritta: Parte anteriore della nave, o prua. La dritta è la destra.

3. Asta di fiocco: viene dopo il bompresso ed è l’albero posto quasi in orizzontale sulla prua della nave.

4. Gran fiocco: una delle vele latine (triangolari) che sono ancorate all’Asta di fiocco.

5. Albero di trinchetto: è il primo albero a prua della nave, che è collegato all’asta di fiocco tramite le vele latine di prua (trinchettina, gran fiocco, contro fiocco, secondo fiocco, etc.)

6. Scuffiare: E’ l’evento che porta la nave, o la barca, a capovolgersi.

7. Pennone: E’ la robusta trave di legno, perpendicolare all’albero, dove sono fissate le vele.

8. Impavesata: Alto parapetto della nave, a protezione delle persone.

9. Giardinetto: zona a poppa (sul retro) della nave.

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Capitolo 3
*** 3. ***


••3••

 

 

 

 

Alti stendardi e flessuose bandiere ondeggianti nel vento si scorgevano dal mare, in prossimità del porto di Ylleru, avamposto marittimo della più imponente città di Yskandar, capitale del regno di Akantar.

La nera bandiera di Akantar, su cui spiccava il profilo di una testa di renpardo nello stemma, si inframmezzava a quella di Enerios, rossa con un lupo nero nel mezzo.

In un tripudio di corni suonati con forza, e tamburi colpiti con grazia dai musici radunati sulle banchine del porto, la goletta fece infine il suo ingresso nel porto.

Sorridendo spontaneamente di fronte a quel caloroso benvenuto, Naell si sistemò in prossimità della passerella, già pronta a discendere non appena il capitano avesse dato loro il benestare.

Accanto a lei, abbigliati con i vestiti della loro tribù d’origine, i tre figli sacri ammirarono lo scrosciante tripudio di saluti in onore del loro arrivo.

Sorridendo eccitata di fronte a quell’incredibile spettacolo di colori e suoni, Enyl esalò affascinata: “Non avrei mai immaginato che avrebbero messo in piedi un simile comitato di benvenuto. E’ incredibile!”

“Gli akantaryan amano le feste” le spiegò sorridente Naell, cercando con lo sguardo il palco reale, sicuramente allestito per proteggere dal sole inclemente il re, la regina e il principe ereditario.

Un attimo dopo, adocchiato un largo padiglione dai tendaggi bianco latte e le insegne del casato di re Erenokt, la principessa lo indicò ai cugini, esclamando: “Laggiù ci aspettano Ellessandar e i suoi genitori.”

Ridacchiando imbarazzata, Enyl arrossì suo malgrado, borbottando: “Spero mi perdonerà per lo scherzo che gli feci anni addietro.”

“Ti avevo detto di non farglielo” le ricordò bonariamente Rannyl, ammiccandole complice.

Con un sorriso comprensivo, Naell la rincuorò.

“Non devi temere le ire di Ellessandar. Sarà solo felicissimo di rivedervi adulti, credimi.”

Rincuorata dalle parole della cugina, Enyl si rasserenò un poco.

Quando la goletta fu messa alla fonda, e i parabordi poggiati contro i muri della banchina, la giovane figlia sacra fu la prima ad aiutare i marinai a far discendere la passerella verso terra.

Naell la lasciò fare, ormai abituata a vederla correre sempre in aiuto degli uomini di bordo.

Con un cenno di saluto al comandante delle guardie del palazzo di Yskandar – che li attendeva a terra in alta uniforme – la principessa mise infine piede sulla passerella di corda e legno e discese verso il molo.

Il suo cuore colmo di gioia e speranza, inframmezzato a sentimenti molto meno belli, come l’ansia e il rammarico.

Si sentiva in colpa nei confronti del padre ma, al tempo stesso, non poteva bloccare il fiotto di gaia felicità che le stava riverberando nell’animo con sempre maggiore forza.

Amava Akantar, e non poteva far nulla per soffocare quell’amore.

Ligia al suo dovere di guardia del corpo, Kalia la seguì lungo la passerella e, con occhio attento, misurò persone, mezzi e animali presenti tutt’intorno a loro.

Conosceva ogni uomo e donna di quel folto gruppo di soldati ma, anche in quel frangente di relativa sicurezza, non volle calare la guardia.

La vita di Naell era troppo importante, perché se lo potesse permettere.

Korissar, poco dietro la figlia sacra, precedette i gemelli, con Rannyl a chiudere la fila degli alti esponenti della corona di Enerios su suolo akantaryan.

Quando tutti ebbero toccato terra, l’alta e massiccia Skytana, a capo delle guardie di palazzo, poggiò una mano aperta sul cuore ed esclamò con voce stentorea: “La corona di Akantar vi da il benvenuto nelle terre del rosso sole! Vogliate seguirmi, Vostre Altezze, perché io possa scortarvi al palco della Famiglia Reale!”

Naell le sorrise affabile mentre la donna, ammiccando velocemente al suo indirizzo a mo’ di saluto personale, le si pose innanzi per difenderla da qualsiasi potenziale nemico.

Kalia, invece, pensò a proteggerle il fianco.

Enyl e Rannyl seguirono la fila tenendosi dietro il ministro che, volgendosi a mezzo verso di loro, sussurrò: “Non sarebbe più prudente che voi vi avvicinaste alla principessa Naell?”

“Proteggiamo voi, signor ministro” replicò Enyl, sorridendo amabilmente.

L’uomo si schernì con un risolino, ribattendo: “Sono ben misera persona, rispetto a voi principi.”

“E’ un nostro piacere personale prenderci cura di voi” si limitò a dire Enyl, mantenendo un tono di voce affabile e mellifluo.

“Ve ne sono oltremodo grato, allora” affermò a quel punto Korissar, tornando a volgere lo sguardo in avanti.

Rannyl ammiccò orgoglioso alla sorella che, con una scrollatina di spalle, gli sorrise grata, tornando dopodiché a controllare il perimetro tutt’intorno a sé.

Il fratello fece lo stesso, esaminando con i suoi sensibili occhi tutte le persone alla sua destra, mentre Enyl teneva d’occhio la folla alla sua sinistra.

Procedendo con movimenti fluidi e perfettamente speculari, i gemelli si mantennero a qualche passo di distanza dal ministro, tenendo sott’occhio non solo lui ma anche la cugina, che li precedeva.

Non che non si fidassero del popolo di Akantar che, evidentemente, Naell amava come il proprio.

L’ansia continua che, da più di un anno, li aveva fatti fremere e scalpitare, ora sembrava sfrigolare sulla loro pelle come una bruciatura da calore.

Fin da quando si erano imbarcati, quella sensazione di disagio non li aveva mai abbandonati e, una volta messo piede a terra era, se possibile, decuplicata.

Non si sarebbero fatti trovare impreparati ma, allo stesso modo, non avrebbero mancato di rispetto a persone che Naell apprezzava tanto.

In questo, Enyl era un asso.

L’arte dell’ammaliare con un sorriso era la sua specialità.

Rannyl doveva solo reggerle il gioco e coprirle le spalle. Come aveva sempre fatto.

Erano cresciuti spalleggiandosi a vicenda, completando l’uno le lacune dell’altra e, insieme, sarebbero rimasti fino alla loro morte, se Hevos l’avesse loro concesso.

***

Le celebrazioni erano perdurate così a lungo, a Ylleru che, quando infine la carovana reale aveva messo piede, a Yskandar, il sole aveva tinto di rosso sangue le lontane dune del deserto e il cielo scevro di nubi.

L’aria sembrava galleggiare rovente all’orizzonte e Naell, osservando quell’ammaliante spettacolo dal balcone semi circolare delle sue stanze, sorrise sognante nel mormorare: “Pare acqua di torrente, non ti sembra?”

Poggiata al parapetto marmoreo del balcone, Kalia annuì prima di lanciare uno sguardo dabbasso, in direzione dei giardini privati della Famiglia Reale.

Nello scorgere Enyl e Rannyl, in compagnia di Ellessandar e My-chan, si chiese dubbiosa cosa stessero confabulando.

Sembravano parlare fittamente di un argomento importante, almeno a giudicare dalle espressioni serie dei gemelli e del principe.

“Come mai non sei con loro?” chiese Kalia, distogliendo lo sguardo per rivolgersi all’amica.

Naell si lappò le labbra, tendendole leggermente prima di scostarsi dal parapetto e tornare all’interno dell’appartamento a lei assegnato.

Intrecciate le mani dietro la schiena, si fermò a fissare la piccola fontanella zampillante che rinfrescava l’aria della camera da letto, profumandola di fiori d’ibisco e rosa selvatica.

Lo sguardo che Ellessandar aveva lanciato a Enyl, durante il loro primo incontro al porto, l’aveva spinta a lasciare che la fanciulla riallacciasse da sola i contatti con il principe.

Inoltre, sapere Rannyl assieme a loro, la confortava.

Non che temesse azioni sconsiderate o meno che corrette, da parte di Ellessandar.

Anche nel caso di Enyl, pur se figlia sacra e non un membro effettivo della corte, avere un accompagnatore era considerata buona norma.

Lanciato uno sguardo sorridente a Kalia, che le si avvicinò con passo silenzioso, Naell le spiegò: “Forse eri troppo impegnata a guardare me, per accorgerti dell’interesse di ‘Sandar per Enyl.”

Kalia sollevò scettica un sopracciglio e, scuotendo il capo, replicò: “Era affascinato, certo, ma come qualsiasi uomo su questa terra con un po’ di sangue nelle vene. Hevos mi è testimone; quella ragazza potrebbe essere davvero Hyo rediviva, per quanto è bella. Ma non è solo questo, ovviamente. Nei suoi occhi si scorge un’intelligenza sottile, e questo strega gli uomini forse ancor più del suo viso avvenente. Ma non penso che il principe si sia preso una cotta fulminante per lei.”

“Il tempo parlerà per noi. A ogni modo, è molto tempo che non si vedono ed è giusto che riallaccino i rapporti. Io parlerò con ‘Sandar domani” scrollò le spalle Naell, liquidando con tono lapidario l’intera faccenda.

Per nulla convinta, Kalia preferì però non approfondire l’argomento.

Fissando così dubbiosa la montagna di abiti che le domestiche avevano portato per lei, grugnì: “Dovrei davvero indossare questo mucchio di roba? Ero stata chiara già le volte precedenti: indosserò sempre i miei abiti di figlia sacra.”

Naell non poté esimersi dal ridacchiare e, tirando un lembo degli ampi pantaloni di seta chiara che indossava, asserì: “Sono molti meno di quelli che porto io, di solito, a Rajana. E sono molto più pratici, visto il caldo che fa qui. La pelle di daino è comoda ma scalda, ammettilo. Le altre volte, se ben ricordi, eravamo venuti in pieno periodo invernale, e qui faceva fresco.”

“Verissimo” sospirò Kalia, mettendo mano agli alamari della sua tunica a mezze maniche. “E va bene! Visto che stavolta siamo venute in piena estate, mi adeguerò e cambierò i miei abiti con i loro.”

“Brava!” esclamò Naell, battendo le mani. “Vieni, ti do una mano.”

Pensare agli abiti sarebbe stato un ottimo diversivo per scacciare la malinconia.

***

Nello scorgere la figura di Naell svanire oltre la linea arcuata del balcone, Ellessandar sospirò leggermente.

Lanciato poi uno sguardo al volto pensieroso di Enyl, chiosò: “E quindi, l’ombra che le ho visto negli occhi, è dovuta a questo.”

Annuendo torva, Enyl mormorò: “Lo zio ha deciso di darla in moglie al figlio del Conte Alderan, un ragazzetto senza nervo troppo amante dei libri e dalla vitalità di un sasso. Capisco che le leggi siano tutte contro Naell e che, a ventidue anni, sia quasi uno scandalo che lei non sia maritata ma… dèi, proprio lui?!”

Rannyl ringhiò un’imprecazione a mezza bocca, come per dare più enfasi al dire della sorella.

Ellessandar si limitò a scuotere il capo, spiacente.

 “Sapevo che, prima o poi, una simile scure si sarebbe abbattuta su di lei. E’ sempre stato il suo più grande fardello.”

“Io e Ran le abbiamo promesso che la rapiremo il giorno prima delle nozze, piuttosto che farla finire tra le braccia di un uomo che non la merita” sogghignò Enyl, con un lampo di determinazione negli occhi. “Nessuno potrà mai trovarla, una volta che l’avremo portata via da Rajana.”

“Terrò pronta per voi una nave a Elior, casomai vi servisse” intervenne allora Ellessandar, ammiccando complice alla ragazza.

Sorridendo suadente, Enyl replicò sorniona: “Oh, sarebbe scontato approfittare del tuo aiuto. No, il nostro intento è ben diverso.”

“Ebbene?” volle sapere il principe, sinceramente interessato.

Fu Rannyl a parlare per la sorella.

“Tutti si aspetterebbero un tuo intervento, vista l’amicizia che ti lega a Naell, perciò abbiamo tolto dall’equazione Akantar fin dall’inizio. Siamo in contatto già da tempo con Berhen, il principe ereditario di Karton, perché ci dia man forte in caso di fuga.”

Enyl prese allora la parola, e aggiunse: “Lui sovrintende i servizi segreti migliori di tutto il nord del continente, e ha una rete ramificata di spie praticamente ovunque. Può offrirci appoggio logistico meglio di chiunque altro e, come noi, aborrisce l’idea che Naell venga data in sposa a quel negletto di Coryn. A Karton, le cose funzionano diversamente. Non a caso, sua sorella si è sposata con un soldato della guardia.”

Sinceramente strabiliato, Ellessandar li fissò con autentica ammirazione prima di esalare: “Dèi, ma… avete solo sedici anni, o mal ricordo la vostra età?”

Enyl e Rannyl si sorrisero complici e la giovane, scrollando le spalle, celiò: “Ci è sempre piaciuto escogitare dei piani perfetti.”

Scoppiando a ridere, il principe akantaryan annuì più volte mentre My-chan, scrutando i due gemelli, sentenziò: “Basta che salviate la mia ykan da un matrimonio che non vuole. Non voglio che sia infelice.”

“Nessuno di noi lo vuole, My-chan, e ti prometto che ce la metteremo tutta per impedirlo” la rassicurò Enyl, sorridendole calorosamente.

L’alta donna-felino rispose al suo sorriso prima di abbracciarla, il corpo leggermente tremante. Era evidente quanto fosse in ansia per Naell.

Anche i lupi parvero capirlo, perché le si avvicinarono, strusciandosi contro le sue gambe ricoperte di fine peluria maculata.

Scostatasi da Enyl, My-chan allora si chinò su un ginocchio per accarezzarli, proponendo loro: “Andiamo a giocare vicino al laghetto?”

I lupi abbaiarono felici, allontanandosi di corsa assieme a lei ed Ellessandar, fissando l’amica con preoccupazione, sospirò nel dire: “Mi si spezzerebbe il cuore se non dovessero più incontrarsi.”

“E tu? Come ti sentiresti all’idea di non poterla più rivedere come ora?” gli chiese Enyl, con casualità.

“E’ mia amica. E’ ovvio che ne soffrirei, ma per My-chan sarebbe sicuramente peggio” mormorò il principe, lanciando nuovamente un’occhiata in direzione della stanza di Naell.

Un vociare allegro era appena percettibile alle sue orecchie sensibili, eppure gli parve che la voce di Naell fosse più flebile del solito, come se non fosse accompagnata dalla sua consueta forza.

“Si spegnerà come una candela consumata” sussurrò pochi attimi dopo, riprendendo a camminare lungo il sentiero lastricato che percorreva il giardino di sicomori e palme da dattero.

Un vento caldo, profumato di sabbia, miele e fumo di legna giunse alla loro narici, non appena esso ebbe superato l’alto sbarramento offerto dalle mura di palazzo.

Lanciato uno sguardo pensoso in direzione della città, nascosta al suo sguardo dalla cinta muraria, Enyl chiese al principe: “Yskandar è fortificata come il castello, o le sue vie di accesso sono libere e lineari?”

“Perché me lo chiedi?” domandò sorpreso Ellessandar.

Rannyl ridacchiò, spiegandogliene i motivi.

“Enyl ha parlato con papà di strategia di assedio e guerra lampo per diverso tempo, negli ultimi anni e, quando è giunta qui, ha subito pensato a come potesse essere strutturata la difesa di Yskandar. Ha fatto la stessa cosa quando è giusta a Rajana la prima volta, se ti può consolare.”

Ridacchiando a sua volta, Ellessandar la prese per mano e, sorridendole generosamente, le disse: “Vieni con me, e ti mostrerò com’è la città.”

Enyl annuì e, assieme al principe e a Rannyl, rientrarono a palazzo per dirigersi direttamente verso i piani alti e, da lì, alla torre nord, dove si trovava l’enorme cannocchiale di Ellessandar.

Oltrepassarono in fretta gli alti colonnati di marmo bianco e rivestiti da lamine dorate a forma di foglie di edera, risalendo poi enormi scalinate dai corrimani in bronzo bulinato a fantasie fiorate.

I gemelli seguirono dappresso il principe finché, aperta una porta dal singolo battente, non si trovarono a poggiare i piedi sul punto più alto del palazzo, Yskandar brillante sotto il sole al tramonto.

I tetti piatti delle case riflettevano la luce morente del giorno ed Enyl, ammirandone la pianta confusa e dalle strade strette e, spesso, chiuse in vicoli ciechi, sorrise divertita.

“Solo una persona esperta, potrebbe attaccare il palazzo. E’ quasi impossibile, dalle vie di accesso più esterne, trovare una strada che punti direttamente qui.”

“Questo può soddisfare la tua curiosità?” le chiese a quel punto Ellessandar, dandole una pacca sulla spalla.

Enyl sobbalzò leggermente a quel contatto e, fissando sinceramente dispiaciuta il principe, esalò: “C’è un dolore così profondo, in te…”

“Enyl!” esclamò immediatamente Rannyl, aggrottando la fronte nel fissare la sorella.

La giovane reclinò subito il capo, spiacente e, con un sussurro quasi impercettibile, aggiunse: “Lascia perdere… dico sciocchezze, a volte.”

Senza aver ben compreso cosa fosse successo in quei brevi istanti, Ellessandar si limitò a scuotere il capo, non senza però lanciare uno sguardo incuriosito in direzione di Rannyl che, per contro, fece di tutto per non incrociare il suo sguardo.

Perché l’aveva redarguita?

“Enyl, vuoi vedere attraverso il cannocchiale?” propose a quel punto il principe, preferendo stemperare un poco l’aria, fattasi di colpo tesa.

La ragazza parve rianimarsi subito e, annuendo a più riprese, lasciò che l’akantaryan le sistemasse il cannocchiale prima di sbirciare attraverso la lente.

L’attimo seguente, squittì di gioia e saltellò allegramente, così come avrebbe fatto qualsiasi altra sedicenne di fronte a una novità simile.

Rannyl fu più contenuto nell’esternare il suo entusiasmo ma, come la sorella, si dichiarò entusiasta dell’invenzione di Ellessandar.

Dopo un attimo ancora speso in contemplazione dell’orizzonte, il giovane chiese al principe se, per caso, possedesse un esemplare più piccolo da donargli, in cambio di qualcosa di suo.

Il principe sapeva bene che il baratto, tra i figli del branco, era pratica assai diffusa.

Preferì perciò accettare l’offerta di Rannyl, piuttosto che impuntarsi perché il suo fosse un regalo.

Alla fine, convennero che la daga del giovane fosse il giusto prezzo da pagarsi, per un cannocchiale.

Quella stessa sera, poco prima di scendere dabbasso nella sala da pranzo per cenare con i suoi genitori e le più alte cariche dello Stato, Ellessandar passò dagli appartamenti che Rannyl ed Enyl dividevano a palazzo.

Dopo aver consegnato il cannocchiale al ragazzo, si allacciò al fianco la preziosa daga prima di sorridere ed esalare: “Dèi, Enyl! Potresti incantare anche il più freddo e dispotico tra gli uomini!”

Seguendo il consiglio di Kalia, anche Enyl aveva lasciato perdere i pesanti abiti di pelle della sua tribù per adeguarsi alle mode del luogo.

Per quella sera, aveva indossato un leggero sari di seta verde smeraldo a ricami argentati, cui aveva abbinato dei calzari in argento e sottili braccialetti, che tintinnavano ai suoi polsi aggraziati.

Diversamente dalla sorella, Rannyl aveva scelto l’azzurro e l’argento, per abbigliarsi come i nobili del luogo.

Al pari di Ellessandar, quindi, portava una lunga tunica ricamata color della luna e chalwar azzurri a sbuffo su scarpe basse dello stesso colore.

A distinguerlo dal principe Akantaryan pensavano i colori, dorato e rosso per Ellessandar che, offerto il braccio a una sorridente Enyl, chiosò: “Entro domani, prevedo migliaia di vittime del tuo fascino, mia cara amica.”

“Dovrò deludere un mondo di persone, allora” sorrise dolcemente lei, carezzandosi distrattamente la trina di trecce bionde che le cameriere le avevano fatto poche ore prima.

Nello scendere dabbasso, trovarono Naell e Kalia su uno dei ballatoi delle scale, abbigliate a loro volta con eleganti sari color vinaccia e color argento.

Rannyl si affrettò a offrire le braccia sia a Naell che a Kalia, ma quest’ultima rifiutò, preferendo avere le mani libere in caso di necessità.

Ringraziò comunque il giovane, dandogli un affettuoso bacio sulla guancia prima di sistemarsi a un passo da Naell e dichiarare: “Se non fossi così giovane, Rannyl, potrei fare un pensierino su di te, sai?”

Il giovane arrossì copiosamente, scoppiando a ridere di gusto mentre Enyl, ammiccando a Kalia, replicava: “Oh, ma a Ran piacciono le donne mature! Non lo sapevi, Kalia?”

Stando al gioco, la figlia sacra sollevò un sopracciglio con interesse e, meditabonda, studiò attentamente la figura alta e longilinea del ragazzo, commentando subito dopo: “Potrei sempre decidere di portarti a letto con me per avere un figlio. Sai che razza di gigante verrebbe fuori, tra te e me?”

Ora, la risata di Rannyl si fece ancor più forte ed Ellessandar, divertito da quel siparietto,  decretò: “C’è un motivo, se ho sempre amato i figli del branco.  Siete diretti nelle uscite tanto quanto un pugno in faccia, ma almeno non correte il rischio di essere fraintesi.”

“Su questo non c’è dubbio” ammiccò Enyl, sorridendogli.

Ellessandar rispose al sorriso della ragazza mentre, per primi, mettevano piede nella sala dove, entro breve tempo, avrebbero cenato.

Nell’ammirare la coppia avvicinarsi alla lunga tavolata già imbandita di ogni genere di libagione, si chiese cosa sarebbe successo, se si fossero innamorati l’uno dell’altra.

“Io non starei tanto a preoccuparmi, sai?” chiosò a mezza voce Rannyl, ammiccando all’indirizzo della cugina.

Naell lo fissò con l’imbarazzo ben dipinto sul volto, incapace di comprendere come il cugino avesse compreso l’entità dei suoi pensieri.

Con un ghigno furbo, lui proseguì nel dire: “Non soffermarti alla superficie, Naell. Non è tutto oro quel che luccica, dovresti saperlo.”

Il loro arrivo al tavolo non permise a Naell di replicare al cugino che, dopo averla accompagnata al suo scranno, le si inchinò beffardo per poi raggiungere la sorella e accomodarsi al suo fianco.

Vagamente accigliata, Naell scrutò il capo scuro di Rannyl piegarsi per parlare all’orecchio della sorella, che rise allegra prima di sorridere elegantemente all’indirizzo del Consigliere Bramann.

Uno tra gli uomini più in vista, tra i consiglieri di re Erenokt, Bramann si era presentato ai gemelli giusto quel pomeriggio, profondendosi in complimenti e offrendosi come guida per Yskandar.

Enyl lasciò che lui le baciasse galantemente la mano mentre Rannyl, come suo solito, osservava la scena con sguardo acuto, simile a un falco.

Il re, seduto a capo tavola e vicino a Naell, ridacchiò divertito e commentò la scena, chiosando: “Quella giovane potrebbe instupidire anche un vecchio di novant’anni, non c’è che dire!”

“I genitori ne sono così consapevoli che, già da quando Enyl aveva tredici anni, hanno cominciato a disperarsi” chiosò Naell, con un mezzo sorriso.

Ricordava bene le lagnanze di Aken quando, durante un loro viaggio a Rajana, aveva scoperto metà dei soldati della guardia intenti a fare sorrisi sdolcinati alla figlia.

Scoppiando a ridere, Erenokt annuì deliziato, asserendo: “Oh, posso ben immaginarlo! Una simile bellezza può portare anche molti guai, non solo gentili complimenti.”

Poi, sornione, l’uomo aggiunse: “Non che la fanciulla al mio fianco non potrebbe ottenere gli stessi risultati, se solo sorridesse un po’ di più.”

Arrossendo suo malgrado, Naell fissò imbarazzata il re, mormorando: “Mi lusinghi davvero, Erenokt, ma non possiedo la bellezza sfavillante di Enyl.”

“I tuoi sorrisi farebbero risplendere la notte più oscura, credimi…” replicò il sovrano, tornando serio. “…ma ho notato che, da quando sei giunta qui, non ne ho visto sorgere neppure uno. Akantar non illumina più le tue giornate?”

“Caro, ti prego, non angustiare la nostra ospite” intervenne gentilmente la regina, sfiorando con lo sguardo il viso ansioso di Naell. “Se ce ne vorrà parlare, sarà lei stessa a farlo. Non è gentile impicciarsi a questo modo dei suoi affari. E non è nemmeno il luogo adatto.”

“Vero, mia cara” annuì immediatamente Erenokt, sorridendo contrito a Naell, che scosse il capo come per sminuire ciò che era successo. “Perdona la curiosità di un vecchio, Naell.”

“Primo, non lo sei, secondo, apprezzo il tuo interessamento e, se esso sarà ancora vivo domani, te ne parlerò durante la nostra udienza privata” lo rassicurò la principessa, cercando di mettere insieme un sorriso che potesse soddisfare la coppia di reali.

Erenokt sollevò una mano per carezzarle il viso e, con occhi tristi, disse gentilmente: “Mi sei cara come una figlia, pur non essendola per nascita. E sei bella come un fiore, pur non essendo altrettanto fragile. Inoltre, sei forte come un guerriero, pur non avendone le fattezze. Sarà un onore parlare con te, Naell Yollande di Rajana.”

Sgranando leggermente gli occhi, Naell rammentò l’unica altra persona – o, per meglio dire, essere vivente, visto che di un lupo si era trattato – che l’avesse mai chiamata a quel modo.

Per qualche ragione, quel particolare la fece tremare di paura, confermandole i suoi dubbi.

Il momento era dunque giunto. Le coincidenze erano ormai troppe, per non darvi peso.

Il suono cadenzato di una serie di archi la portò però a sobbalzare, distogliendo lo sguardo dal volto serio del re.

Mentre le prime pietanze iniziavano a essere condotte sul tavolo, la musica galleggiò nell’aria per allietare il lieto evento.

La sensazione di estraniamento, però, rimase, e la accompagnò per tutta la notte.

Ma non fu l’unica a passare una nottata insonne e agitata.

 

 

 

 


N.d.A: Cosa sta nascondendo Enyl, secondo voi? :)

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Capitolo 4
*** 4. ***


••4••

 

 

 

 

 

Una brezza fresca spirava dalle montagne, mentre la carovana di carri penetrava all’interno del cortile del palazzo reale di Rajana.

Aken ed Eikhe, accompagnati da Antalion e la sua famiglia, si diressero con passo lesto in direzione del paggio che, paziente, li stava attendendo accanto a una delle porte secondarie dell’imponente maniero.

Salutato con un cenno della mano il giovane che, già altre volte, si era occupato di loro, Aken chiese al paggio come procedessero le cose a palazzo.

A sorpresa, il domestico arrossì per un istante prima di balbettare confusamente: “Beh, vedete, Aken… non so se … in effetti…”

Bloccandosi a metà di un passo, l’uomo fissò con i suoi penetranti occhi verdi il viso ora pallido del giovane paggio e, preoccupato, esalò: “Non dirmi che è successo qualcosa alla mia famiglia?”

“Non direi, Aken, ma…” tentennò il giovane, guardandosi intorno prima di sussurrare spiacente: “… temo troverete un’atmosfera piuttosto tesa, a palazzo.”

Accigliatosi immediatamente, Aken annuì al giovane e preferì non angustiarlo con ulteriori domande.

Sapeva bene che non avrebbero fatto altro che metterlo ancor più a disagio.

Senza ulteriori indugi, salì perciò le scale in direzione dell’ufficio del fratello, dopo aver ringraziato il paggio per la sua disponibilità.

Antalion, che procedeva lesto al fianco del padre, gli domandò: “Pensi possa essere ancora per via di Naell?”

“Potrei giocarci la casa, credimi. C’è solo un argomento su cui mio fratello perde le staffe, ed è la figlia” brontolò Aken, adombrandosi maggiormente a ogni gradino in meno che lo separava da Ruak.

Per anni, aveva tentato di far ragionare il fratello minore, in merito a quella faccenda.

Obbligare Naell a seguire i dettami della Corte, sarebbe stato come legarle un cappio intorno al collo, ma lui non aveva voluto sentire ragioni.

Per più di un motivo, e tutti validissimi, in effetti.

Il Consiglio aveva negato la possibilità di creare un precedente imbarazzante, quanto pericoloso.

Non avrebbero mai permesso che una principessa reale si scegliesse il consorte.

Inoltre, erano tutti più che convinti che Naell stesse facendo i capricci, senza tenere in minimo conto la sua intelligenza, o anche semplicemente il suo animo.

Certo, se la ragazza avesse avuto dodici anni, avrebbe anche potuto dar loro ragione.

Ma, a vent’anni passati, dubitava che Naell fosse così superficiale da impuntarsi per mero cipiglio.

Inoltre, da quando era stata a Hyo-Den, l’aveva vista trasformarsi in una donna capace, raffinata, altresì erudita e molto, molto scaltra.

Non che Ruak non stesse comportandosi come il Consiglio.

Anche lui era più che convinto che la figlia si stesse impuntando e, pur se lui voleva innanzitutto il suo bene, rimaneva pur sempre il re.

E il re non poteva essere sempre messo a tacere dalle intemperanze della figlia. Figlia, tra le altre cose, assai cocciuta.

Erano ugualmente testardi, a voler essere onesti e, quando ci si mettevano, sapevano essere più ciechi di una talpa.

Quando infine la famiglia raggiunse lo studiolo del re, che si trovava nella torre sud del maniero, Aken bussò un paio di volte, prima di sentirsi invitare a entrare.

Il tono di Ruak fu secco, il che non lasciò presagire nulla di buono.

Come Aken aveva temuto fin dal primo momento in cui aveva subodorato guai, l’uomo trovò il fratello appollaiato sulla sua poltrona come se essa fosse punteggiata di spilli.

Il suo viso appariva tirato, stanco e pallido e, nei suoi occhi solitamente limpidi e azzurri, poté scorgere solo rabbia e, sì, risentimento.

Eikhe preferì non dire nulla, e così pure fecero Antalion e Liana che, tenendo per mano i due figli, si andarono a sistemare in un angolo dello studio senza fare il minimo rumore.

Avvicinatosi alla scrivania, Aken la oltrepassò su un fianco e, dopo essersi piazzato a gambe divaricate dinanzi alla figura ripiegata del fratello, intrecciò le braccia al petto e grugnì: “Certo che, per essere un uomo adulto e ben formato, ti riduci comunque uno straccio, quando litighi con tua figlia.”

Ruak levò lo sguardo verso di lui e borbottò un saluto prima di volgere gli occhi tutt’intorno e, lentamente, sospirare.

Le sue spalle, da contratte che erano, si sciolsero quasi subito e, nell’aria, il freddo tocco della rabbia andò scemando per essere sostituito dal caldo abbraccio dell’amore familiare.

Levandosi dalla poltrona, Ruak abbracciò rudemente il fratello prima di fare lo stesso con Eikhe, Antalion e Liana.

Lasciando i pronipotini per ultimi, il re li fissò con un sorriso finalmente allegro e sereno e, sfiorandoli sul capo con gentili baci di benvenuto, disse loro: “Scusatemi se mi avete visto con quella faccia burbera. Sappiate che non è per colpa vostra.”

“Possiamo fare qualcosa per te, zio?” chiese gentilmente Myssa, sorridendo generosamente e mettendo in mostra un piccolo buco tra la dentatura perfetta, retaggio di un premolare caduto di recente.

“Non sarà necessario, mia cara, ma vedo che dobbiamo festeggiare un dentino, qui” ridacchiò Ruak, controllando nelle tasche delle sue brache per trovare una moneta di rame per la pronipote. “Ah, ecco ciò che fa per te! Una moneta per comprarti un dolce al mercato.”

Sorridendo, Myssa si strinse a Ruak per un rapido abbraccio e, dopo averlo ringraziato, infilò la moneta nella piccola scarsella da cintura che portava e ammiccò al fratellino minore, Narad, sussurrando: “Comprerò una mela caramellata per tutti e due.”

Narad annuì, lieto che la sorella avesse pensato anche a lui, prima di guardare lo zio e chiedere: “Magari possiamo farti ridere.”

“Se ci riusciste, vi regalerei ben di più di una moneta!” commentò melanconicamente Ruak. “Non badare a me e al mio malumore, Narad. Andate piuttosto a trovare Meriton e Staryn. Sono sicuro che scoppieranno di gioia, nel vedervi. Sono negli appartamenti dell’ala nord.”

Guardando alternativamente i loro genitori, che annuirono, i due bambini si presero per mano e, dopo aver salutato il prozio, uscirono dallo studio di corsa, le chiome brune e rosse danzanti sulle loro esili spalle.

Tornando subito serio, Ruak fissò il fratello prima di esalare un sospiro infastidito e borbottare: “Chi ha fatto la spia, sentiamo?”

“Solo Naell può causarti un simile malumore, fratello. Non serviva nessuna spia per illuminarmi su una simile verità” replicò Aken, scrollando le spalle.

Lanciando un’imprecazione a denti stretti, il re si portò stancamente alla finestra per aprirla e fissare il contorno dolce delle colline.

A distanza di qualche attimo, mormorò: “Quella ragazza mi farà impazzire. Non vuole mettersi in testa che non può più tirare la corda a questo modo. Il Consiglio ne chiederà la deportazione, di questo passo, oltre alla cancellazione del suo titolo di principessa.”

“Possono farlo?” esalò Antalion, accigliandosi.

Liana mormorò un insulto tra i denti ed Eikhe, scuotendo il capo, fissò la schiena di Ruak come per obbligarlo a fissarli. Non avvenne.

Lo sguardo sempre rivolto verso le verdeggianti colline, ricoperte di boschi fiorenti e frutteti prosperosi, Ruak rispose al nipote, chiosando: “Una stupida postilla, inserita quasi cento anni fa, lo prevede eccome. Evidentemente, a suo tempo, vi fu un’altra principessa dallo spirito ribelle, nella nostra famiglia.”

“E ovviamente, a quei parrucconi, non è venuto in mente che, piuttosto che affrontare una simile scelta, sarebbe preferibile concederle un po’ di respiro” brontolò Aken, altresì irritato.

Voltandosi finalmente verso i suoi familiare, Ruak borbottò indispettito: “Pensi non gliel’abbia fatto notare? Pensi non abbia detto loro che scacciarla dalla mia casa, senza più un titolo e una rendita, sarebbe cosa ben peggiore che lasciarla libera di trovarsi un uomo a lei congeniale?”

“E loro che ti hanno detto?” sbuffò il fratello maggiore, pur ipotizzandone già la risposta.

“Che la legge parla chiaro. Che è passato troppo poco tempo, dallo scampato scandalo cui nostro padre ha portato l’intero regno con la sua follia. Che il popolo ha bisogno di stabilità, e non di un ulteriore cambio di regole al vertice” sibilò Ruak, gesticolando ampiamente con mani e braccia.

“Il re è dunque così succube del Consiglio?” esalò scocciata Liana, poggiando le mani sui fianchi.

“Nel caso specifico, sì, mia cara, e non c’è nulla che io possa fare in tal senso, se non aspettare che gli elementi più riottosi del Consiglio muoiano di vecchiaia” sbottò Ruak, gesticolando nervosamente.

Liana lanciò un’imprecazione colorita, ed Eike sorrise alla nuora con aria affabile. Era della sua stessa opinione.

“Il Consiglio è stato indetto per creato la dittatura ma, a conti fatti, spesso e volentieri questa forma di governo non differisce di molto da ciò che si era voluto evitare, con la sua formazione. Io ho le mani legate, e il comportamento irrispettoso di Naell non fa altro che indispettirli ancora di più.”

 Nel dirlo, sospirò pesantemente e tutta la sua ira scivolò via come neve sciolta dal sole.

“Vorrei, vorrei davvero darle ciò che vuole, ma la legge me lo vieta, e lei pensa che sia io a negarle la libertà che brama.”

“Sei sicuro che lei lo pensi?” replicò gentilmente Eikhe, sorridendogli comprensiva.

“Non l’hai vista la sera prima della sua partenza” ridacchiò senza allegria alcuna Ruak, un attimo prima che la porta dello studio si aprisse per lasciar entrare la figura leggiadra ed elegante di Renke.

In un fruscio di sete cangianti e profumo di rose, la regina abbracciò la cognata, avvolgendola nel suo caloroso benvenuto.

Con voce resa tremula dall’emozione, mormorò: “E’ così bello rivederti, cara! Ho visto i miei pronipoti e così… dèi, quanto sono belli!”

“Renke, siediti prima di svenire. Sei agitatissima!” esalò Eikhe, fissandola preoccupata negli occhi vitrei e densi.

Liana si affrettò ad avvicinarsi alla regina e, aiutata Eikhe ad accompagnare Renke verso la più vicina poltrona, mormorò: “Voi due avete bisogno di staccare un po’… siete allo stremo delle forze.”

“Liana ha ragione. Non potete guidare Enerios in queste condizioni” soggiunse Antalion, fissando spiacente lo zio.

“Se dicessi a Meriton di sostituirmi per un po’, ne sarebbe lieto…” ammise Ruak, passandosi una mano sulla fronte aggrottata. “… ma questo significherebbe mostrarsi deboli. E il Consiglio è già abbastanza forte così. Lo resi forte io stesso, anni fa, chiedendo il loro aiuto per spodestare papà, e ora…”

“… ora, ti fanno pagare lo scotto” soggiunse Aken, irritato.

“Ugualmente, dovete darvi il tempo di riprendere le forze. La faccenda di Naell vi sta sfiancando entrambi” replicò gentilmente Liana, carezzando un braccio di Renke mentre Eikhe le passava un fazzoletto sulla fronte, imperlata di sudore freddo.

Scuotendo il capo, la regina riuscì in qualche modo a raddrizzare la schiena e, con una pallida eco della sua forza, ribatté: “Mostrarci forti potrà in qualche modo darci il tempo di negoziare con il Consiglio. Aver detto loro che Naell è promessa al figlio del Conte Alderan, li ha in qualche modo ammansiti, permettendoci così di trovare il modo di aggirare la legge in favore di nostra figlia.”

Ruak assentì alla moglie e, con un pallido sorriso, Renke aggiunse: “L’invito di Akantar è giunto al momento giusto e, onestamente, se la regina Elmassary non avesse invitato Enyl e Rannyl a palazzo, avrei chiesto io, ai vostri figli, di accompagnare Naell a Yskandar.”

“E perché, di grazia?” esalò sorpreso Aken, sgranando leggermente gli occhi.

“Per far aprire gli occhi a mia figlia” sentenziò cupa Renke, sbalordendo tutti loro.

“Sei criptica, cognata” mormorò Eikhe, leggermente confusa.

“Se ho ragione, Enyl mi sarà di grande aiuto, più ancora di quello stramaledetto tomo quasi infinito dove sono scritte tutte le leggi di Enerios” brontolò la regina, fissando irritata l’enorme libro che campeggiava sulla scrivania del re.

“Continuo a non capire” brontolò Antalion, grattandosi pensoso una guancia.

“Raramente gli uomini sono lesti nel capire certe cose… nel caso specifico, neanche mia figlia, a dirla tutta” ridacchiò Renke, sorridendo suo malgrado al nipote.

Antalion preferì non dire nulla.

Sapeva bene che, con le donne, meno si diceva, meglio era.

Se la zia avesse voluto essere più chiara, l’avrebbe fatto coi suoi tempi, e coi suoi modi. Inutile insistere.

***

Semi sdraiata su un fianco sulla morbida dormeuse che Ellessandar teneva nel suo salottino privato, Naell si portò alle labbra un succoso acino di uva primaverile e lo sgranocchiò soddisfatta.

Lanciato poi uno sguardo a My-chan, che se ne stava accucciata in forma di felino sul lustro pavimento di marmo bianco a striature grigie, sorrise deliziata.

Il cielo, quel giorno velato di nubi leggere, lasciava intravedere bargigli di sole che illuminavano a tratti il florido giardino su cui si aprivano le enormi porte a vetri.

Da quella posizione, poteva scorgere senza problemi l’andirivieni nervoso di Kalia.

Non le piaceva mai essere gentilmente bandita da una stanza dove fosse presente Naell, ma Ellessandar era stato lapidario quanto educato.

Voleva parlare con la principessa da solo.

L’unica concessione alle apparenze, e al decoro, era stata la presenza di My-chan che, in quanto persona adulta, poteva fungere da chaperon per evitare spiacevoli pettegolezzi.

Il fatto che, in quel momento, lei fosse in forma animale, poco contava.

Le sue orecchie e i suoi occhi funzionavano molto bene e, per il buon gusto, ciò era sufficiente.

In una posizione in tutto simile a quella di Naell, Ellessandar era sistemato sul fresco pavimento e, svogliatamente, stava piluccando dal suo piatto alcuni pezzetti di melone.

In tutta onestà, però, non stava assaporando il dolce sapore del frutto, e neppure la sua freschezza.

C’era altro che lo interessava, in quel momento.

E lo mise a voce.

Levando gli occhi di pece sul volto pallido della vecchia amica, Ellessandar sussurrò: “Una moneta per un tuo pensiero.”

Lei gli sorrise mesta, giocherellando con una ciocca dei suoi capelli castani prima di replicare: “Diventeresti ancor più ricco, ‘Sandar, perché sono migliaia i pensieri che mi arrovellano.”

“Uno su tutti, immagino” sentenziò lui, mettendosi seduto.

La lunga treccia corvina scivolò sinuosa sulla sua schiena diritta e forte e Naell, distogliendo a fatica lo sguardo, reclinò il viso e sospirò.

“Chi di loro ha parlato?” chiese alla fine.

“Tutti loro” ammise Ellessandar, arrischiandosi ad allungare una mano per carezzare una guancia di Naell.

Lei arrossì lievemente, sorpresa da quel gesto - insolito per il principe - e, con occhi sgranati e spaventati, esalò: “Che devo fare?”

Ellessandar ritirò la mano, sentendo le sue dita bruciare per quel tocco leggero e, stringendole su loro stesse, si morse un labbro per la rabbia prima di riuscire a contenerla per non spaventare ulteriormente Naell.

Quanto era stato bravo, negli anni, a trattenere e sopprimere i suoi impulsi! Davvero fin troppo bravo!

Quando ritenne di essere abbastanza in sé per non apparire un invasato fuori controllo, le sorrise benevolo e asserì: “Lascia che Enyl e Rannyl ti portino via. Se anche la Corona e il Consiglio dovessero bandirti, tu saresti in salvo e, di te, ci prenderemmo cura noi. Sai che i miei genitori ti amano come se fossi figlia loro.”

“Non verrei mai qui” mormorò spiacente Naell, tornando a reclinare il capo. “Non incrinerei mai i buoni rapporti che Enerios ha con Akantar. Non farei anche questo sgarbo, ai miei genitori.”

Il cuore di Ellessandar ebbe un fremito a quella notizia ma, contenendo il proprio disappunto, tentò nuovamente di chetarne le paure.

“Lascia allora che tuo cugino Berhen si occupi di tutto, trovandoti un nascondiglio altrove, ma non escluderci. My-chan sentirebbe tremendamente la tua mancanza… e anche noi.”

Mettendosi supina, Naell si coprì il viso con le mani, le lacrime già pronte a scendere copiose e, con voce resa roca dal dolore che sentiva pungerle l’animo, gracchiò: “Io sarò sempre la sua ykan, anche se non potessi più vederla.”

My-chan uggiolò tristemente, fissandola con i suoi profondi occhi ferini ed Ellessandar, non potendo esimersi dal farlo, mormorò: “Lascia che ti aiuti. Sei mia amica.”

“Purtroppo lo so” singhiozzò Naell, iniziando a piangere.

Subito, My-chan ringhiò all’indirizzo di Ellessandar, che si allontanò dalla giovane di qualche passo.

In un bagliore dorato, la donna-felino prese forma umana e si inginocchiò accanto a Naell, traendola a sé per un abbraccio consolatorio.

Osservando con il cuore straziato le spalle tremanti di Naell, Ellessandar prese congedo in silenzio e, non appena fu nel giardino, disse a Kalia: “Vai da lei. Ti prego.”

Kalia non chiese nulla.

Il volto di Ellessandar le disse ciò che doveva sapere e, in fruscio leggero di stoffe, si allontanò da lui, sparendo all’interno dell’edificio assieme al suo lupo.

Non potendo fare altro per Naell, Ellessandar si allontanò per dirigersi nella sua biblioteca privata per affogare il suo risentimento nei libri che tanto amava.

Sperò ardentemente che in essi vi fosse una risposta a tanto dolore.

Quando, però, fece per rientrare a palazzo attraverso un passaggio secondario, i suoi occhi registrarono qualcosa di insolito sulle mura perimetrali.

Curioso, si diresse verso di esse per scoprire cosa avesse attirato la sua attenzione.

Strabiliato, vide Enyl e Rannyl correre lungo in camminamenti con falcata potente e veloce, chiaramente in preda alla freoha.

Da quello che Kalia gli aveva detto, il loro Marchio di Hevos era più unico che raro, e loro erano in grado di utilizzarlo con imbarazzante bravura.

Senza comprendere appieno i motivi del loro strano comportamento, li osservò volteggiare con grazia da una torre all’altra sotto gli occhi curiosi e interessati delle guardie.

Evidentemente al corrente della loro presenza, non parevano allarmati dalla loro corsa sfrenata.

All’improvviso, quasi come se fossero andati a sbattere contro un muro invisibile, si fermarono di botto, volgendo lo sguardo in direzione della città.

Un attimo dopo, svanirono al suo sguardo, gettandosi dalle mura.

Subito allarmato, Ellessandar si affrettò a raggiungere i camminamenti attraverso una piccola scala a chiocciola, sita a ogni angolo delle mura perimetrali.

Dopo aver avvicinato la guardia a lui più vicina, chiese spiegazioni.

La guardia si inchinò compita e indicò a Ellessandar la posizione dei due gemelli, fermi a poca distanza dalla fontana che si ergeva nella piazza principale di Yskandar.

“Ci hanno detto che intendevano fare una specie di prova, e di non preoccuparsi se li avessimo visti correre a destra e a sinistra, senza un motivo apparente” gli spiegò il soldato, lanciando uno sguardo incuriosito alla giovane coppia di figli sacri. “E’ davvero impressionante, il loro potere. Non ho mai visto un essere umano muoversi a quella velocità, e con tale forza e grazia.”

“Sono davvero unici, anche tra i loro simili” asserì pensieroso Ellessandar, notando che Enyl stava acquistando un qualche genere di spezia da un banco del mercato.

Cosa stavano combinando, quei due ragazzi?

“Una coppia davvero curiosa, non trovate, Vostra Altezza?” esordì una voce tranquilla alle spalle di Ellessandar.

Volgendosi a mezzo con espressione vagamente sorpresa, il principe scrutò il volto sbarbato e dalle linee affilate del Consigliere Bramann, braccio destro del padre e uomo di enormi conoscenze storiche e linguistiche.

Con tono altrettanto pacato, chiese: “Avevate bisogno di me, consigliere?”

“Debbo sottoporvi alcune questioni che richiedono la vostra attenzione, principe e, quando vi ho visto sulle mura, ho preferito venire di persona, piuttosto che mandare un paggio a chiamarvi. Fare un po’ di moto, ogni tanto, fa bene anche a me” gli spiegò l’uomo, dandosi una pacca scherzosa sul ventre prominente.

Abbozzando un sorrisino, Ellessandar ammise tra sé che Bramann non brillava per linea e fascino, ma aveva un’intelligenza davvero sopraffina a compensare le sue lacune in fatto di bellezza.

Tornando a lanciare uno sguardo ai due gemelli che, in quel momento, stavano osservando curiosi la mercanzia di un nomade proveniente dal deserto, il principe rispose alla domanda del consigliere.

“Sono due giovani davvero unici, non c’è che dire.”

“E la principessa Enyl ha una bellezza che potrebbe incantare anche le fiere più feroci” mormorò ammirato Bramann, sorridendo spontaneamente.

“E’ probabile che, messa di fronte a un cobra, potrebbe ammansirlo con un solo sorriso” ridacchiò Ellessandar, avviandosi con il consigliere lungo le mura per raggiungere le più agevoli scale in pietra.

“La corte akantaryan risplenderebbe per mille e mille anni, se lei divenisse la vostra consorte. Si parlerebbe di lei nei secoli a venire, e voi sareste ricordato come il più fortunato tra i re” sorrise suadente Bramann, scendendo con cautela i numerosi scalini.

Trovandosi a ridere di fronte alle sue parole, Ellessandar scosse gentilmente il capo, replicando: “Enyl sarebbe davvero una magnifica regina ma né io, né tanto meno lei, abbiamo nel cuore questo desiderio.”

“La fanciulla è già promessa?” si interessò allora il consigliere.

“Lei è promessa ai boschi lussureggianti, ai monti ricoperti di neve e alle radure ricolme di fiori. Condurla in un luogo che non fosse quello, la farebbe appassire come una pianta divelta dal terreno.”

Poi, con un mezzo sorriso, aggiunse: “Inoltre, non ho parlato di questioni così personali con la nostra ospite. So solo che nessuno dei due ha in animo di prendere l’altro quale compagno per la vita.”

“Un vero peccato. Ma potreste sempre chiedere in moglie la principessa Naell. La vostra amicizia è salda, e questa è un’ottima base per creare un matrimonio solido” soggiunse Bramann, annuendo tra sé, come se trovasse quell’idea persino migliore.

Sinceramente sorpreso da quell’argomento, Ellessandar sollevò uno scuro sopracciglio e fissò ironico il consigliere.

“Avete intenzione di cambiare lavoro, Bramann, e diventare un sensale di matrimoni?”

Scoppiando a ridere, l’uomo negò una simile eventualità prima di tornare serio e sottolineare un fatto che Ellessandar, da fin troppo tempo, conosceva bene.

“Sua Maestà sta diventando vecchio, e voi siete l’unico erede diretto, Vostra Altezza. Avete già trent’anni e nessuna moglie al vostro fianco, come nessun erede legittimo da presentare al popolo. Se, per disgrazia, dovesse succedere qualcosa a voi o, gli dèi non vogliano, a vostro padre, il paese cadrebbe nel caos, e questa è un’eventualità che non voglio neppure prendere in considerazione.”

Intrecciate le mani tremanti dietro la schiena, Ellessandar annuì grave, ma replicò: “Avete detto bene, Consigliere. Io e Naell siamo amici e, per nessun motivo, la obbligherei a un matrimonio che non vuole. Già altri premono per farlo, e io non voglio aggiungermi alla lista.”

“Ma sareste un ottimo partito, per lei” protestò vibratamente Bramann, accalorandosi.

Sorridendogli sinceramente grato, Ellessandar si limitò a dire: “Non cercherò mai di impormi su di lei. Le voglio troppo bene, per farlo.”

“Capisco” sospirò il consigliere, apparentemente accantonando l’argomento. “Non voglio insistere oltre, poiché capisco bene cosa voglia dire tenere a qualcuno a quel modo.”

“Ve ne sono grato, consigliere e, se permettete, preferirei non ne faceste cenno con mio padre, o con Naell stessa” lo pregò Ellessandar.

“Ma certo, Vostra Altezza. Le vostre parole non verranno udite da nessun altro” gli promise solennemente Bramann, aprendo la porta del suo studio per farvi entrare il principe.

***

Il capo poggiato sulle ginocchia di Elmassary che, seduta su una comoda poltroncina, stava carezzando la chioma bruna di Naell, la giovane principessa sospirò e ammise: “Mi hanno promessa a un uomo che non voglio sposare, e nulla di quello che potrò dire, o fare, mi impedirà di giungere dinanzi al Sacerdote di Iralva per pronunziare i voti.”

Erenokt, che la stava osservando dal divanetto del piccolo salottino che avevano scelto per quel colloquio privato, strinse i denti per la frustrazione.

Scrutando quella giovane donna accucciata a terra come una bambina, e stretta alla sua regina in cerca di conforto, mormorò spiacente: “Non sai quanto la notizia mi rattristi, bambina cara. So perfettamente quanto l’idea di non poterti scegliere un marito sia fonte di dolore, per te.”

Fissando con occhi colmi di lacrime il volto sbarbato del re, Naell abbozzò un sorriso ed esalò: “So di dare un dolore ai miei genitori, che poco possono fare contro la legge del regno, ma non voglio… non posso unirmi in matrimonio con un uomo che conosco pochissimo e che, di certo, non apprezzo.”

Sorridendo generosamente alla giovane, Elmassary le diede un buffetto sulla guancia umida di pianto – pianto che l’aveva presa non appena aveva incontrato i reali – e le propose: “E se chiedessimo a ‘Sandar di sposarti? Siete buoni amici e sono sicura che, per te,  farebbe questo e altro.”

Scostandosi immediatamente dalle ginocchia della regina, Naell scosse il capo con aria sconvolta, gli occhi sgranati quanto spaventati, ed esclamò: “No! No, vi prego! Non chiedeteglielo! Non potrei sopportarlo!”

“Ma perché, mia cara? A noi farebbe piacere che tu diventassi nostra figlia e, sono sicuro, i tuoi genitori troverebbero questa unione molto favorevole, permettendo loro di evitare qualsiasi disagio con il tuo promesso. In fondo, sarebbe la proposta di un principe, dell’erede di un regno” replicò gentilmente Erenokt, stringendo in grembo le grandi mani.

Continuando scuotere la testa, Naell sospirò afflitta: “Ellessandar non deve essere costretto a fare nulla che non voglia. Non desidero per lui la mia stessa sorte. Quando troverà la donna a lui più congeniale, la sposerà, null’altro mi farebbe felice.”

“Rispettiamo la tua decisione, cara, ma non vuoi che ne parliamo prima con lui?” le chiese a quel punto Elmassary.

“No. ‘Sandar è troppo generoso, e si sacrificherebbe per me per liberarmi da questo impedimento. Non vorrei mai una cosa simile. Non parlategliene, e lasciamo che le cose vadano come devono andare” mormorò Naell, prima di trovare la forza per sfoderare un sorriso e aggiungere: “Enyl e Rannyl hanno promesso di salvarmi, caso mai si arrivasse al matrimonio.”

Erenokt non poté che ridere di fronte a quell’eventualità e, battendo una mano sul ginocchio, esclamò: “Beh, se riuscissero nell’intento, li farei subito baronetti!”

Elmassary sorrise gentilmente a Naell, traendo il suo capo contro i seni per baciarlo calorosamente e, con tono amorevole, le disse: “Sono sicura che, per quando tornerai a Enerios, i tuoi genitori avranno risolto ogni cosa.”

“Dipendesse solo da loro!” esalò Naell, malinconica. “Il Consiglio non vuole sentire ragioni e prevaricarlo significherebbe agire da despoti e tiranni, cosa che mio padre non farebbe mai, neppure per me. E io non vorrei mai che si macchiasse di un simile crimine, ma…”

“Ma neppure vuoi diventare l’ombra di te stessa, alla mercé di un uomo che difficilmente potrebbe darti quel che desideri dalla vita” terminò per lei la regina, annuendo più volte.

Mordendosi un labbro per non scoppiare nuovamente in lacrime, Naell la ringraziò, mormorando: “Grazie per avermi capita.”

Anche se non è solo questo, il problema, pensò poi Naell, straziata dal pensiero di non aver potuto essere del tutto onesta neppure con loro.

“Sono più che certa che anche tuo padre capisce la situazione ma che, nella sua posizione, possa fare ben poco” convenne Erenokt, alzandosi per raggiungerla e inginocchiarsi innanzi a lei.

Sollevandole poi il mento con un dito, le baciò la fronte, aggiungendo: “A volte, essere re non ti concede nessuna libertà. Ed essere una principessa è ancora più difficile. Ma tu sei una donna coraggiosa e forte, e sono certo che supererai anche questa avversità.”

“Lo spero” sussurrò Naell.

Alzandosi da terra e attirando a sé la giovane, Erenokt le sorrise bonario ed esclamò: “Sai che ti dico, bambina cara? Niente più lacrime. Hai bisogno di qualcosa che ti travolga, che ti faccia brillare nuovamente gli occhi, e io so cosa fa per te.”

Sinceramente sorpresa, Naell fissò il sovrano con occhi sgranati al pari della moglie che, sgomenta, mormorò: “Cos’hai in mente, caro?”

“Un viaggio” gongolò il re, tutto soddisfatto.

Le due donne lo fissarono ancor più stupite ed Erenokt, storcendo il naso, mugugnò: “Perché mi guardate come se fossi pazzo? L’oasi di Jilli’nat è stupenda, in questo periodo dell’anno, e sono sicuro che Naell gradirebbe vederla. Inoltre, la tribù dei Kerann che la abita è ospitale, e una gradevolissima compagnia per chiunque. Un cambiamento radicale è quel che ti serve, bambina. Stare qui a palazzo non potrà che farti rammentare, ogni minuto, ciò che ti attende a casa ma là, nel mezzo del deserto, a contatto diretto con la natura selvaggia di Akantar, potrai rigenerare il tuo spirito.”

“Ma… andranno avvisati, dovremo preparare i soldati e…” tentennò la regina, non del tutto convinta.

Scuotendo una mano con aria tranquilla, il sovrano le replicò furbo: “Ne avevo già preventivamente parlato con Skytana, la quale si è dichiarata pienamente d’accordo con me. Ha già inviato un falco al capo-tribù in modo tale che, da qui a una settimana, possano ricevere degnamente la nostra cara principessa e, nel contempo, la nostra comandante della guardia ha iniziato a scegliere gli uomini adatti per la scorta.”

“Hai dato per scontato che io accettassi!” esclamò Naell, non potendo non scoppiare a ridere di fronte all’espressione tronfia del Re.

“Non sei tu la ragazza che, a soli dodici anni, ha voluto passare l’estate dagli zii, tra le montagne, senza la servitù al seguito?” le ricordò bonariamente Erenokt, ammiccando.

“Sì” ammise lei, abbracciandolo con calore. “Grazie, accetto volentieri.”

“Bene, cara. Nel frattempo, io mi metterò in contatto con tuo padre per sapere se ha bisogno di una mano per saltare fuori da questo guazzabuglio.”

Sorridendogli, Naell annuì e chiosò: “Male non farà. Credo che, al momento, stia sbattendo la testa contro il muro, tra le arrabbiature che gli ho fatto venire prima di partire, e il caos riguardante il mio potenziale matrimonio.”

Ridacchiando, Erenokt si batté una mano sul petto, proclamando: “Con mia figlia ho fatto un pasticcio tremendo, perciò dirò esattamente a tuo padre cosa non fare in questi casi.”

Elmassary sorrise benevola al marito, sapendo bene quanto gli costasse parlare, anche solo accennare a Myllisen, sposatasi con il cugino del Dignitario delle Isole Arcobaleno.

Nonostante il loro parere contrario, la loro secondogenita se n’era andata da casa per sposarsi e, da quel momento, era stata praticamente segregata nella sua casa.

Stando, per lo meno, a ciò che Bramann aveva potuto dire loro.

Lui era stato l’unico a essere accolto al cospetto del Signore dell’isola.

Non avevano più potuto vederla, incontrarla anche per un breve momento, o scriverle. L

a tregua con le Isole Arcobaleno si basava su questo silenzio protratto nel tempo e, poiché Erenokt non aveva voluto causare una guerra a causa dei capricci della figlia, aveva accettato suo malgrado di non rivederla mai più.

Non faceva specie che, con Naell, che amava e apprezzava come una figlia di sangue, volesse dare una mano perché si evitasse un altro disastro.

Il dolore che, l’infelicità di Naell, avrebbe causato al suo cuore, sarebbe stato davvero troppo.

***

Il falco era appena giunto, e portava notizie. Ottime notizie.

Gli ingranaggi, a Enerios, stavano girando nel modo giusto e, ora che anche ad Akantar l’occasione per destabilizzare il reame sarebbe presto giunta proficua, non restava altro che mettersi in contatto con Nellassat.

Il loro intervento, i loro uomini, erano necessari per la buona riuscita del piano.

L’oro per pagarli non mancava, grazie al loro munifico e generoso donatore.

Che alla fine lui ottenesse ciò per cui stava attualmente pagando, era ancora da vedersi.

Al momento opportuno, le carte in tavola potevano essere scompaginate e, quando avesse ritenuto il momento adatto, lui avrebbe mosso a suo vantaggio le pedine sulla scacchiera.

Pazienza. Doveva solo portare pazienza.

Ma era una cosa che, in fondo in fondo, gli riusciva bene.

Aveva tentato una volta, ma aveva fallito a causa del buon cuore del re.

Non avrebbe fallito una seconda, e Akantar sarebbe crollato sulle sue stesse fondamenta, e proprio durante i festeggiamenti per i mille anni dalla sua nascita.

Non avrebbe potuto avvenire in un momento migliore.

No davvero.

 

 

 


__________________________
N.d.A.: Credo che si sia ormai capito che sta per succedere qualcosa....:-)

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Capitolo 5
*** 5. ***


 

 

 

••5••

 

 

 

 

Seduto compostamente su una poltrona di morbido velluto, Coryn, figlio del Conte Alderan ed erede del potente feudo del padre, osservò con aria stranita la figura del munifico genitore.

Questi, con espressione meditabonda e distratta, entrò nella biblioteca dove egli si trovava ormai da ore.

L’uomo, senza minimamente accorgersi di lui, si avventurò in direzione degli scaffali più alti dell’imponente libreria e lì, presa una scala a pioli, iniziò una pressante quanto attenta ricerca.

Poggiato sulla poltrona il libro di poesie che stava leggendo, Coryn si nascose in silenzio dietro una delle tante scaffalature dell’imponente stanza di lettura.

Lì, lo fissò di nascosto con i suoi acquosi occhi azzurro pallido, prima di sollevare uno scuro sopracciglio con espressione sgomenta non appena si rese conto di cosa, il padre, avesse preso dalla libreria.

Appariva antico, ai suoi occhi, e stranamente esotico nella copertina, di un cupo color nero dai riflessi bruno-rossastri.

Simboli a lui sconosciuti, e dipinti con un denso color oro, fregiavano il dorso del libro e, senza sapere bene il perché, Coryn preferì non proferir parola, mantenendo segreta al padre la sua presenza.

Rimase in silenzio e perfettamente nascosto – in quello, era sempre stato bravissimo – e, protetto da una delle librerie a lui più vicine, lasciò che il padre sfilasse via senza vederlo.

La porta della stanza venne aperta e richiusa in tutta fretta e Coryn, fissando dubbioso quel battente di quercia, si chiese che diamine fosse quel libro vetusto, e perché il padre ne avesse bisogno.

Solitamente, lui detestava quel luogo, e Coryn lo aveva scelto come suo nascondiglio prediletto per sfuggire alle morbose attenzioni del padre.

Perché, quindi, era giunto lì, quel giorno? E cosa nascondeva quel libro?

C’era una sola persona che potesse rispondergli in merito, ed era il vecchio maggiordomo di famiglia.

Lui, meglio di chiunque altro, conosceva ogni libro presente nella loro vasta collezione, perciò si sarebbe rivolto all’anziano Damenor per scoprire la natura di quel volume così misterioso.

Preso un carboncino da una delle scrivanie presenti nella biblioteca, Coryn tracciò su un foglio pergamenato alcuni dei simboli che era riuscito a scorgere sul dorso del libro.

In tutta fretta, poi, uscì a sua volta dalla stanza per recarsi dal vecchio maggiordomo che, da oltre trent’anni, era al servizio nella loro villa di campagna.

Non aveva ben chiari i motivi, ma quel libro gli aveva messo i brividi, perciò doveva scoprire quanto prima cosa fosse.

***

“Che cosa? Un viaggio nel deserto?! No! Impossibile!” sbottò Kalia, facendo tanto d’occhi non appena Naell ebbe terminato di parlargliene.

Sorda alle sue proteste, Naell mordicchiò un morbido panino dolce e, con lentezza quasi esasperante, lo ingollò prima di sorriderle sorniona e replicare serafica alla sua ira: “E ti metteresti contro re Erenokt, per sostenere questa tua tesi?”

Accigliandosi immediatamente, Kalia divenne paonazza in viso e, con passo nervoso, iniziò a camminare avanti e indietro per l’enorme appartamento che divideva con la principessa.

Ylar e Kessa la osservavano dubbiosi, non comprendendo appieno l’ansia della donna.

Kessa in particolare, dopo qualche istante, si avvicinò alla padrona, uggiolando preoccupato.

Abbozzando un sorrisino nei suoi confronti, Kalia lo accarezzò tra le orecchie, mormorandogli: “Non temere, sono solo in ansia per quella pazza della principessa.”

Kessa allora si volse a fissare Naell, svogliatamente sdraiata su una dormeuse dai cuscini bianco latte e, con un semplice accenno di ululato, le domandò cosa stesse succedendo.

Ylar, nel frattempo, si accucciò a terra accanto alla padrona mentre Naell, rivolgendo la sua attenzione al lupo dell’amica, gli spiegò succintamente: “Voglio uscire da palazzo, e Kalia non è d’accordo.”

Già da anni, Naell non trovava poi così strano il fatto di poter parlare con i lupi che abitavano a palazzo.

Dopo il primo anno passato a sgrossare la conoscenza della lingua di Ylar, aveva impiegato ben poco tempo a farla diventare propria.

Meriton e Staryn si erano affidati a lei per imparare a loro volta.

In non poche occasioni, i tre principi erano stati visti  intrattenersi con i loro lupi in interminabili discussioni fatte di sussurri e di quieti uggiolii dai mille toni diversi.

La Corte, ovviamente, aveva trovato tutto ciò estremamente esotico quanto assurdo ma, a conti fatti, nessuno aveva avuto veramente nulla da ridire su questo fatto.

La faccenda che più premeva alla Corte e al Consiglio era un’altra, Naell lo sapeva benissimo.

E lei, se avesse potuto, li avrebbe mandati tutti debitamente a quel paese.

Non potevano impicciarsi degli affari suoi! Lei non apparteneva a nessuno se non a se stessa! Inoltre, nessuno di loro sapeva cosa realmente gravasse sulle sue spalle!

“Quel che non capisce la principessa…” ribatté sarcasticamente Kalia, osservando il musetto dubbioso del suo lupo, “… è che io sono stata chiamata per proteggerla e, di certo, girare per il deserto non è la condizione migliore per garantire la sua sicurezza.”

“Avremmo una ventina di soldati al nostro fianco, tre figli sacri e un renpardo stellato. Cos’altro vuoi?” brontolò Naell, levandosi a sedere e fissando l’amica con espressione accigliata.

“Cosa voglio? Salvarti le penne, mia amata hillan. Non c’è niente che voglia più di questo, a parte saperti felice, ma andare per il deserto senza un intero esercito a proteggerti, per me, equivale a non adempiere ai miei compiti” sbottò Kalia, agitando le lunghe e forti braccia.

Sollevando un sopracciglio con evidente ironia, Naell le chiese: “Mi vuoi felice? Allora, perché ti rifiuti di portarmi nel deserto? Io ne sarei felicissima.”

La figlia sacra strinse i denti, masticando un’imprecazione non troppo elegante per poi affermare: “Tu sai quanto ti sto odiando, ora come ora?”

“Vagamente” ammise la principessa, allungando una mano per carezzare il capo di Ylar.

“Trenta soldati. Non uno di meno” rilanciò a quel punto Kalia, piantando le mani sui fianchi con espressione arcigna.

“Parlane con Skytana; è lei che organizzerà la nostra scorta” le propose Naell, ormai certa che l’amica avrebbe ceduto.

Con un sospiro esasperato, Kalia assentì.

Dopo essersi infilata le babbucce di seta rosso fuoco, che si abbinavano ai suoi chalwar color ruggine e alla leggera kameez smanicata rosa antico, prese la via della porta, brontolando insulti più o meno generosi sulle principesse e i loro capricci.

Non appena ella fu uscita, il sorrisino di Naell si spense come una candela senza più stoppino.

Sdraiatasi nuovamente sulla dormeuse, scrutò l’alto soffitto dalle controsoffittature a cassettoni bianchi, da cui pendevano eleganti lampadari dalle mille e più candele.

Agli albori della sera, una schiera di servitori accendeva con lunghi bracci lignei le infinite serie di candele di cera, posizionate su quelle elaborate strutture di metallo sagomato.

A ogni alba, poi, provvedevano a spegnerle, in un rituale infinito scandito dal sorgere e dal calar del sole.

In quel momento erano spente e, grazie alla luce del sole che penetrava dalle larghe finestre dell’appartamento, Naell poteva scorgere le sagome cristallizzate delle gocce di cera colate durante la notte precedente.

Nella camera da letto, portava con sé solo un candelabro, che spegneva opportunamente prima di dormire.

Nell’ampio salotto del loro appartamentino, invece, la luce restava accesa fino a quando la servitù non fosse passata per spegnerla.

Le era capitato diverse volte, in quei giorni, di alzarsi la notte e passeggiare nel salotto illuminato a giorno mentre l’oscurità della notte, all’esterno, inghiottiva ogni cosa, ogni colore, ogni movimento.

Tutto quanto.

Più volte si era chiesta cosa avrebbe provato nell’affondare in quel buio totale, in quella totale mancanza di riferimenti.

E più di una volta, si era ritrovata con la mano poggiata sul pomello della porta che conduceva ai corridoi, dove due guardie controllavano notte e giorno i suoi appartamenti.

Nel deserto avrebbe finalmente provato quell’esperienza.

Il totale isolamento, in un mondo a lei del tutto alieno.

Nulla di quanto aveva fin lì sperimentato vi si assomigliava neppure lontanamente.

Ylar le leccò una guancia, uggiolando ansioso e Naell, sorridendo nel volgersi verso di lui, mormorò: “Non temere per me, amico mio. Starò bene, prima o poi.”

Il lupo, però, scosse il muso e puntò il suo sguardo adamantino in direzione delle finestre e Naell, seguendone l’occhiata, gli domandò: “Cosa percepisci, Ylar?”

Un ringhio. Basso, profondo, di gola.

Naell rabbrividì, perché sapeva bene cosa voleva dire quel suono.

Pericolo. Lontano o vicino che fosse, non potevano saperlo. Ma era esistente.

Attirandosi vicino il lupo, Naell lo strinse a sé, sussurrandogli contro la morbida gorgiera: “E’ l’ansia che mi tiene sveglia la notte, la sensazione di essere in balia di due forze contrapposte, e di non sapere che strada prendere per salvarmi.”

Ylar a quel punto uggiolò e la sua padrona, affondando il viso nel suo pelo profumato, esalò: “E’ giunto il momento, dunque.”

Il lupo non poté che annuire.

***

Il grido che si librò dalle labbra morbide di Enyl svegliò di soprassalto il fratello che, sdraiato nell’enorme letto accanto a quello della sorella, sobbalzò stranito tra le coltri.

L’attimo seguente, balzò fuori dalle lenzuola di seta e si avvicinò ansioso alla gemella.

Lei, afferrate le braccia robuste del fratello, gli occhi ancora sgranati e vitrei, esalò con voce gracchiante: “Bianco. Di un bianco accecante. Una lama che sferza l’aria e… e il buio. Tanto buio. Il verso di un corvo. E il suo sangue nero che cade a terra.”

“Sangue nero?” mormorò Rannyl, tenendola saldamente contro il suo petto mentre, con gesti lenti e tranquillizzanti, le sfiorava la schiena e i lunghi capelli biondi.

Lei annuì, lappandosi nervosamente le labbra prima di riprendere piena coscienza di sé e mormorare roca: “Ho avuto freddo, tanto freddo. Mi toccava. Una mano di morte mi toccava dappertutto, ma non stava cercando me.”

Accentuando la stretta sulla sorella, Rannyl le chiese ancora: “Hai parlato di sangue nero. Ne sei sicura?”

Enyl sospirò tremula prima di scostarsi dal fratello, levarsi quasi goffamente dal letto – cosa insolita, per lei – e fissarlo sgomenta, esalando: “Era Haaron, fratello. Il corvo era Haaron.

Rannyl sgrano gli occhi, impallidendo visibilmente prima di levarsi a sua volta da letto, gracchiando sgomentò: “Come può, un dio, essere ucciso?!”

Torva in viso, Enyl scosse il capo, sistemandosi nervosamente una ciocca dietro un orecchio e replicando all’affermazione del fratello.

“Non ho detto che è morto. L’ho visto ferito.”

Imprecando senza mezze misure, Rannyl cominciò a percorrere in lungo e in largo la stanza da letto mentre Enyl, detergendosi il viso utilizzando l’acqua contenuta in un bacile di ceramica, commentò lapidaria: “Siamo giunti al bivio. Ne sono più che sicura.”

“Sei più esperta di me, in queste cose” ironizzò nervoso Rannyl, tentando di sorriderle.

Enyl scosse nuovamente il capo, ribattendo: “Esperta? Io? Ran, non ho la più pallida idea di cosa stia succedendo.”

“Io non vedo quel che vedi tu” le rammentò Rannyl, fissandosi le mani con aria quasi irritata.

La gemella fu lesta a raggiungerlo e, afferrate le sue forti mani di guerriero, gliele strinse prima di rivolgergli un sorriso caloroso.

“Io non faccio quel che fai tu.”

Chinandosi verso di lei, poggiò la fronte contro la sua e, con un sospiro tremulo, mugugnò: “Non voglio lasciarti sola.”

“Non saremo mai soli, Ran” lo consolò lei, accentuando il suo sorriso.

“Fisicamente, sì. Almeno, stando a quello che mi hai detto” brontolò il fratello, svicolando dalla stretta della sorella per abbracciarla con foga. “Ti sono sempre stato accanto! Non sopporto di doverti lasciare adesso, quando il pericolo è più vicino!”

“Così ho visto, Ran. E’ l’unica cosa che ho capito, in tutti i miei incubi” sospirò Enyl, poggiando il capo biondo contro il torace del gemello. “Spero solo di capire qualcosa di più, prima di arrivare al dunque.”

“Avrebbero dovuto dare a me, questo compito” sbottò Rannyl, baciandola frettolosamente sul capo prima di scostarla da sé. “Io sono inutile.”

“Sai benissimo che non è così. Il tuo dono è utile quanto il mio” brontolò Enyl, dandogli un colpetto bonario sulla fronte con l’indice teso.

Ran mugugnò un rifiuto ma Enyl non si lasciò convincere e, tornando a sorridergli, mormorò: “Torniamo a dormire? Ho sonno.”

“Puoi dormire con me, se credi che possa aiutarti” le propose lui, grattandosi nervosamente dietro la nuca scoperta, l’aria vagamente imbarazzata.

Enyl gli sorrise con maggiore calore, memore dei tanti anni passati accoccolati l’uno vicino all’altra.

Si erano stretti in un abbraccio consolatorio, che sapeva di reciproca accettazione di un destino che nessuno dei due aveva chiesto, e di piena consapevolezza della loro missione.

“Grazie, Ran” si limitò a dire Enyl, infilandosi nel letto del fratello e poggiando il capo sul morbido cuscino di piume.

Un attimo dopo, Rannyl la raggiunse e, dopo averla avvolta nel suo abbraccio protettivo, sussurrò: “Vorrei tanto che mamma e papà fossero qui.”

“Non è la loro battaglia, a quanto pare” sentenziò Enyl, lasciando calare le palpebre su gli occhi dorati.

“Spero proprio di evitarla, questa battaglia” mugugnò Rannyl, imitandola.

“Non saremmo nati tali senza un motivo, ti pare?” gli ricordò lei, sorridendo nell’ombra della stanza.

Rannyl preferì non dire niente.

Sapeva fin troppo bene che, di qualsiasi cosa si trattasse, il loro nemico era là fuori, pronto a trafiggerli con la sua malvagità.

Loro dovevano solo essere in grado di muoversi più velocemente dei suoi strali.

***

“E’ dolce!” esclamò una donna con voce cristallina. E gelida.

Spire di fumo biancastro si levavano dai bracieri che si innalzavano ai quattro angoli dell’enorme salone ove, immersa nella penombra della notte, una donna di bianco vestita era assisa come una regina su un trono di niveo marmo.

Le effigi di Haaron erano scolpite a bassorilievo su quell’enorme scranno di pietra, così come i corvi che lo sovrastavano.

La veste di lei, che scivolava come una nuvola candida su un corpo perfetto e di giovane fanciulla, solleticava i primi gradini del podio ove ella si trovava come una dea vivente.

Ai suoi piedi, a qualche metro di distanza, due servitori genuflessi attendevano pazienti che la donna desse loro ordini.

La bianca falce che teneva con una mano scintillò alla luce della luna, che scivolava all’interno del palazzo da un lucernario posto sul soffitto.

Quando la giovane si levò in piedi, emanò scintillii spettrali lungo tutto il salone, come serpi di fuoco freddo sprigionate dal nulla.

Chinandosi fino a sfiorare il pavimento di fredda pietra con il capo, il più alto in grado fra i suoi servitori mormorò ossequioso: “Siete infine giunta a sfiorare la mente della gemella bianca?”

“Sì” esalò eccitata la donna, picchiando a terra il bastone della falce e producendo un rimbombo sinistro per tutta la sala. “Dolce. Ma anche forte. Molto forte. Sarà  un piacere averla tutta per me.”

I passi cadenzati di un paio di stivali riverberarono nel salone e la donna, volgendo lo sguardo dagli occhi di fuoco in direzione di quel suono, ringhiò: “Non ti è permesso stare al mio cospetto, se non sono io a volerti qui!”

L’uomo, del tutto indifferente allo scoppio d’ira della fanciulla, si avvicinò ugualmente al palco, oltrepassando i due servi ossequiosi.

Con un sorriso sghembo sul viso sbarbato, fissò con occhi adamantini la figura longilinea della giovane prima di ghignare tronfio: “Il tuo essere la mia strega, non fa di te la regina di questo palazzo, cara Kennadarya. Io sono il re, non tu. Il palazzo è mio, e sono io che ti ospito.”

“Ma tu hai bisogno dei miei poteri, se vuoi conquistare Akantar” precisò la ragazza, puntandogli contro la falce con disinvoltura.

L’uomo la scostò con un gesto rabbioso della mano e, dopo aver allontanato con un ringhio i due servitori – che fuggirono silenziosi dalla sala – afferrò alla vita la giovane e la schiacciò prepotentemente contro di sé.

“Non ne ho bisogno. Potrei annientare Erenokt quando voglio. Il tuo metodo mi consente soltanto di risparmiare il mio esercito e i miei danari.”

Lei rise, reclinando all’indietro il capo per un istante, lasciando che la sua lunga massa di capelli color della luna scivolasse fino a terra in un fiume niveo e liscio come seta.

Tornando poi a osservare il suo re con i profondi occhi di ghiaccio, adombrati da chiare ciglia arcuate, Kennadarya mormorò maliziosa: “Voi uomini siete così stolti, quando c’è di mezzo qualcosa che volete a tutti i costi.”

Lui strinse maggiormente il braccio attorno alla sua vita sottile, percependo senza fallo il calore della sua pelle eburnea e il battito calmo del suo cuore.

Con un ghigno beffardo, il re replicò: “Tu sei giunta alla mia porta assieme a tua madre, mia cara, non il contrario. Io mi sono solo dimostrato ben lieto di dare una mano a un’Accolita del Signore delle Ombre, di cui io sono devoto servitore.”

Detto ciò, le schiacciò le labbra tinte di rossetto viola scuro con una foga che non lasciò alcun dubbio a Kennadarya, sui reali motivi che avevano spinto re Kevan da lei.

La voleva nel suo letto, anche quella notte.

La sua regina non ne sarebbe stata felice, ma questo a Kevan poco importava. Le sue voglie avevano la precedenza su tutto.

Ma a lei, in fondo, stava bene anche così. Attraverso di lui, avrebbe ottenuto ciò che voleva più di tutto. Il potere degli dèi.

Se, per ottenerlo, avesse dovuto giacere anche altre mille notti con Kevan, l’avrebbe fatto con piacere.

Gli avrebbe anche consegnato su un piatto d’argento Akantar e il palazzo di Yskandar.

Alla fine, però, il vero premio sarebbe andato a lei, e lei sola.

Il potere della divinità della Vita sarebbe stato nelle sue mani e, grazie al suo retaggio, anche quello della Morte sarebbe stato suo.

Si era nascosta per anni, imparando a padroneggiare i suoi immensi poteri grazie ai Prelati dell’Ombra che risiedevano nel palazzo di re Kevan.

Era stata una paziente allieva, pronta a ricevere la sua eredità nel momento in cui il Fato fosse stato pronto per lei.

Abbandonare il luogo in cui era nata, in cui aveva imparato i rudimenti di ciò che era e che avrebbe potuto divenire, era stato difficile, per lei, pur se aveva sempre saputo che quello non era il posto più adatto in cui far prosperare il suo potere.

Lì, in quei luoghi, la Luce era troppo forte, troppo difficile mantenere il controllo sui propri istinti.

No, partire alla volta di un paese straniero era stata la scelta giusta, e sua madre era stata lungimirante in questo, pur avendo avuto a che fare con lei, una bambina petulante e poco propensa a obbedire ai comandi materni.

Ora comprendeva molto meglio ciò che, un tempo, le era parsa una forzatura e, prima o poi, avrebbe ringraziato la madre per averle imposto certe scelte che, all’epoca, le erano parse assurde.

Ora era pronta a rivendicare la sua eredità, a combattere per ottenerla e a schiacciare sotto i suoi piedi coloro che avrebbero tentato di impedirglielo.

Se, nel frattempo, avesse ripagato i suoi debiti con le persone che, fin lì, l’avevano aiutata  a portare a buon fine i suoi sogni, meglio ancora.

Sapeva essere generosa con chi lo meritava.

Ma aveva bisogno della gemella bianca per poter utilizzare appieno i poteri dello Spirito Nero, lo sapeva fin da quando era nata, diciassette anni or sono.

Tutta la sua vita si era basata su quello.

La venuta nel continente di Rellentan della gemella bianca aveva solo accelerato i tempi.

Quanto prima il Libro degli Arcani fosse stato in suo possesso, tanto prima avrebbero potuto dare il via all’intera operazione.

Era tempo che la sua eredità tornasse nelle mani cui apparteneva, e cioè le sue. Era stato confinato al sicuro per fin troppo tempo, così da non essere visibile a occhi nemici.

A quel punto, neppure lo stesso Haaron avrebbe potuto fermarla.

Sciocchi dèi immortali, non hanno ancora compreso quanto il loro dominio sia in bilico su un baratro senza fine, e che sarò io a spingerli oltre quel confine senza ritorno, pensò tra sé Kennadarya, sentendo sulla sua gola protesa la bocca avida di Kevan.

Tutto le sarebbe stato servito su un piatto d’argento perché così doveva essere, così era stato scritto per lei fin da quando il suo primo vagito aveva trafitto le pareti dell’oscuro sotterraneo in cui era nata.

Un Fato bizzarro l’aveva creata, quando le leggi stesse dell’Universo avevano sempre gridato il contrario, e lei avrebbe approfittato di quella fortuita fortuna per avere tutto.

Luce, Tenebra, immortalità.

Le terre?

Che Kevan si tenesse Akantar.

Che il suo munifico genitore adottivo si tenesse la corona, cui bramava da decenni.

A lei non pesava affatto lasciare tutto ciò, a coloro che l’avevano generosamente spalleggiata.

Non Enerios, non Akantar, non Nellassat,… nessuno di loro avrebbe prevalso.

Solo Kennadarya, figlia di Haaron.

 

 

 




________________
N.d.A.: giusto per complicare le cose, ho inserito anche questo ultimo, simpatico personaggio, che risponde al nome di Kennadarya. Di sicuro, complicherà molto la vita ai nostri eroi.
Un grazie a tutti coloro che hanno fin qui letto la mia storia e anche a coloro che hanno commentato. :))

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Capitolo 6
*** 6. ***


 

 

 

 

 

 

••6••

 

 

 

 

Lo sguardo contrito e l’espressione spiacente, il consigliere Bramann consegnò un plico di documenti piuttosto sostanziosi al principe che, con aria vagamente accigliata, li fissò per diversi secondi prima di chiedere preoccupato: “Non dirmi che devo controllarli tutti…  e subito!”

Sempre più afflitto, l’uomo reclinò il capo canuto, annuendo più volte.

Con un tono di voce piuttosto imbarazzato, esalò contrito: “Me ne scuso profondamente, Vostra Altezza, ma i mercanti del Nord si sono presentati a palazzo giusto stamattina, e pretendono che osserviate con attenzione ciò che hanno da offrire alla Corona. Potrei disturbare vostro padre, se preferite, ma…”

Scuotendo una mano per liquidare immediatamente la questione, Ellessandar aprì il primo tra i voluminosi plichi di documenti e replicò lapidario: “Non sia mai che io disturbi mio padre per una cosa che io sono tenuto a fare.”

“Me ne scuso ancora” mormorò Bramann, stringendo le mani tra loro con fare nervoso.

Le dita grassocce si intrecciarono diverse volte, facendo tintinnare gli anelli d’oro che portava.

“Non hai alcuna colpa, Bramann. Non tu hai deciso il loro arrivo proprio oggi” si limitò a dire bonariamente Ellessandar, lasciandosi andare a un mezzo sorriso di comprensione.

“Vi sono estremamente grato per la vostra gentilezza, principe. E’ un vero peccato che non possiate partire con la carovana di Sua Altezza, a causa di questo inghippo” sussurrò impacciato il consigliere, non sapendo esattamente dove guardare tale era il suo imbarazzo.

Quell’accenno fece irrigidire per un istante le spalle di Ellessandar che, solo a stento, riuscì a trovare la forza per riacquistare il controllo sul proprio corpo.

Dopo l’offerta che aveva fatto a Naell, l’amica l’aveva caldamente evitato e, con un entusiasmo quasi fuori luogo, aveva accettato l’offerta propostagli dal re di partire per un viaggio nel deserto.

Ellessandar non aveva gradito molto l’idea, ritenendola inutilmente pericolosa, ma si era dichiarato disposto ad accompagnarli tutti, giusto per stare più tranquillo.

La reazione di Naell, però, gli aveva fatto capire che la sua decisione di aggregarsi al gruppo l’aveva in qualche modo urtata.

Pur sorridendogli e dichiarandosi lieta della sua partecipazione, aveva defilato alla svelta in direzione delle sue stanze insieme a Kalia e, per quasi una settimana, non si erano rivolti che brevi saluti e cenni del capo.

Davvero non aveva idea di come prendere quella sua presa di posizione.

Certo, sapeva che Naell era allergica alla parola ‘matrimonio’ come gli esseri umani erano allergici al veleno dello scorpione, ma aveva pensato che la loro amicizia avrebbe potuto essere un collante sufficiente.

Quanto meno, sufficiente a colmare la mancanza d’amore di lei nei suoi confronti.

Mentre la porta del suo ufficio si richiudeva con un lieve sussurro, Ellessandar bloccò la sua mano destra sui fogli pergamenati e, con la sinistra, si passò le dita sulla fronte.

Un principio di emicrania stava premendo contro le pareti della sua scatola cranica, ben deciso a infastidirlo per tutta la giornata.

Amore.

Era un argomento tabù in molti reami, ma non ad Akantar.

Non nella sua famiglia, per lo meno.

I suoi genitori si erano sposati per amore, e così i suoi nonni.

Suo padre il re aveva atteso di trovare la donna giusta prima di renderla la sua regina, e così avrebbe fatto lui.

O, per lo meno, ci aveva provato.

Il fatto di conoscere più che bene l’idiosincrasia di Naell nei confronti di quel legame a vita, che tanto le faceva paura, non lo aveva certo messo al riparo dai sentimenti che, nel corso degli anni, si erano avviluppati attorno al suo cuore.

Questi erano cresciuti poco per volta, fino a soffocarlo.

Vederla crescere, diventare donna e sviluppare un odio sempre più profondo nei confronti di tutti coloro che, a vario titolo, avrebbero potuto chiederla in sposa, l’aveva fatto desistere dai suoi propositi di dichiararsi.

Quando era intervenuto con quella proposta, apparentemente dettata solo dall’amicizia che li legava, aveva sperato di darle una speranza di felicità.

Invece, l’aveva allontanata da sé con una tale velocità da averlo ferito profondamente.

Possibile che l’idea di maritarsi con lui fosse così estranea ai suoi pensieri, da averla resa apatica nei suoi confronti?

Non sapeva davvero che fare, con Naell.

Il quieto bussare alla sua porta lo fece sobbalzare sullo scranno ove era accomodato e, poggiato lo sguardo sul battente di bianco dipinto, mormorò: “Chi è?”

“Sono Enyl.”

La sua voce giunse come il cinguettio di un’allodola ed Ellessandar, subito pacificato, abbandonò la pesante corrispondenza e le permise di entrare, levandosi poi dallo scranno per meglio accoglierla nel suo regno privato.

Enyl entrò un attimo dopo, i capelli raccolti in una trina di trecce sul capo e abbigliata con un semplice sari bianco che le giungeva fino ai piedi, stretto in vita da una fusciacca rosso fuoco a ricami dorati.

Alcune ciocche leggere dei biondi capelli le solleticavano le gote rosee ed Ellessandar, senza tema di essere smentito, la trovò bellissima.

Aveva scorto, durante il suo viaggio a Enerios, i dipinti raffiguranti Hyo, la compagna umana di Hevos, ed Enyl le somigliava in maniera quasi imbarazzante.

Tutto, in lei, pareva essere opera di una qualche divinità, e nulla sembrava essere stato lasciato al caso.

Eppure, nei suoi occhi non c’era solo la consapevolezza della propria bellezza ultraterrena, ma era presente anche dell’acciaio. E molto.

Solo uno stolto avrebbe pensato di poterla asservire ai propri voleri con il semplice fascino, o credere di poterla abbindolare con facilità.

No, Enyl non era solo un bel faccino.

Le labbra morbide piegate in un sorriso, Enyl esordì dicendo: “Perdonami se ti disturbo, Ellessandar, ma vorrei chiederti quando sarai pronto per partire. La carovana ti attende.”

Lanciando  uno sguardo obliquo in direzione dei documenti sulla sua scrivania, il principe ammiccò malinconicamente ed esalò: “Come vedi, i miei obblighi di erede al trono mi portano a restare qui.”

Come se la cosa non la stupisse minimamente, Enyl annuì tranquillamente e accettò la sua risposta senza tentare nemmeno di dissuaderlo dal rimanere a palazzo.

“Capisco. Comunque, volevo informarti che il convoglio partirà tra un’ora. Presiederai per salutare i partenti?”

Sollevando un sopracciglio scuro per poi fissarla con estrema curiosità, Ellessandar le domandò con non poca curiosità: “Tu non partirai con loro?”

“No. Io devo rimanere qui” si limitò a dire Enyl, accennando un grazioso saluto col capo prima di avviarsi verso la porta per uscire.

“Enyl!” la richiamò indietro Ellessandar, levando una mano verso di lei.

La giovane si tenne a distanza di sicurezza dopo essersi voltata in direzione del principe, quasi non volesse essere toccata anche solo accidentalmente.

Scrutandola con il dubbio negli occhi, l’amico le chiese: “Perché parli di dovere?”

Enyl si lappò le labbra, forse indecisa su cosa dire e, con espressione enigmatica, mormorò: “Il destino che porto sulle spalle mi impone dei compiti gravosi, principe. Spero mi capirai, se non ti dirò altro.”

Detto ciò, tornò a volgersi e, senza più aggiungere null’altro, uscì, lasciando Ellessandar alle prese con quella risposta enigmatica e priva di senso.

Che diamine aveva voluto dire?

***

L’enorme dispiegamento di uomini, donne e mezzi che Skytana aveva messo in piedi per proteggere Naell e il suo seguito, mise quasi in imbarazzo quest’ultima.

Ferma sul suo cammello, al limitare del cortile di palazzo, osservò quella marea di persone come se tutto ciò che aveva dinanzi non fosse reale.

O fosse solo un bruttissimo incubo da cui non poteva fuggire.

Sapeva che quella marea di soldati era da addebitarsi in parte a Kalia e alle sue manie di persecuzione e, in parte, alla stessa Skytana.

Più di una volta si era trovata d’accordo nel proteggere Naell come se fosse fatta di porcellana.

La principessa trovava tutto ciò semplicemente assurdo e, a tratti, fastidioso, ma in fondo le capiva.

Nessuna delle due donne prendeva alla leggera il proprio ruolo, e lei non doveva puntare i piedi come, invece, in quei giorni sapeva di aver fatto.

I suoi nervi erano però davvero troppo tesi, per permetterle di essere razionale.

Era fuggita dai suoi problemi come una codarda, sperando di trovare ristoro e pace in quella terra che lei tanto amava.

Invece, si era ritrovata ad affrontare dei demoni lusinghieri che avrebbe preferito non ascoltare.

Ah, come sarebbe stato facile accettare la proposta di Ellessandar, e rimanere ad Akantar per sempre!

Ma non poteva condannare il suo migliore amico a un matrimonio che le aveva offerto solo per salvarla da una miserevole, quanto terrificante fine.

Voleva per lui una donna che potesse amare sinceramente, non un’unione di comodo. 

Sapeva fin troppo bene che era questo il desiderio di Ellessandar.

Lanciando uno sguardo ai lupi, che sarebbero rimasti a palazzo per non dover sopportare il caldo eccessivo del deserto, Naell sorrise a Ylar in particolare.

Seduto svogliatamente sotto l’ombra di un sicomoro, sembrava offeso da quella separazione forzata.

A nulla era valso spiegargli che il deserto non era un posto da lupi.

Lui si era trincerato dietro un silenzio di lesa maestà, e non aveva più proferito uggiolio.

Naell si sarebbe fatta perdonare in qualche modo, pur se non sapeva ancora bene come.

Volgendosi in direzione di Rannyl ed Enyl quando li vide comparire nel cortile, Naell fissò sorpresa la cugina e si chiese come mai, a differenza del fratello, non fosse abbigliata per affrontare il viaggio che avrebbero intrapreso di lì a poco.

A differenza di Ran, che indossava un turbante sul capo, camiciola chiara, pantaloni di tela robusta e stivali al ginocchio, Enyl portava una tunica bianca e leggera, stretta in vita da una fusciacca e, ai piedi, sottili calzari di corda dorata.

Di certo, non l’abbigliamento adatto per salire su un cammello.

Quando, poi, li vide abbracciarsi e parlottare fittamente tra loro, capì che qualcosa non andava.

Scesa che fu dalla propria cavalcatura, li raggiunse in tutta fretta per chiedere: “Che succede, ragazzi? Enyl, perché non sei pronta?”

Lei le sorrise gentilmente, quasi contrita, prima di volgersi a mezzo e fissare Ellessandar  arrivare nel cortile stipato di persone.

Naell trattenne appena il fiato nel guardarlo alla luce feroce del primo pomeriggio e, non senza un tremito, ne ammirò le ampie spalle avvolte da una bianca camicia di lino.

Gli stretti pantaloni di pelle nera, che ben abbracciavano le muscolose e lunghe gambe, ne facevano risaltare il fisico perfetto, da guerriero.

I suoi stivali di cuoio picchiettarono ritmici sul selciato prima di fermarsi in prossimità di Enyl che, con un gesto naturale quanto imprevedibile, lo prese per mano, sorridendogli con enfasi.

Naell sentì il proprio cuore perdere un battito quando si rese conto di cosa, lo sguardo della cugina, stesse celando malamente.

Ammirazione e… affetto profondo.

Ellessandar, dal canto suo, non rifiutò la stretta e, anzi, la accolse con un apprezzamento sorpreso, ma di certo non sgradito.

Quando infine Enyl tornò a rivolgere la propria attenzione alla cugina, i suoi occhi vennero percorsi da una sfumatura di dolore e, sì, di rabbia, cosa che Naell proprio non comprese.

Perché era furiosa, adesso?

“Io rimarrò a palazzo con Ellessandar. Non me la sento di affrontare il deserto” spiegò Enyl, lanciando uno sguardo al Ministro Korissar, poco distante da loro. “Inoltre, non vorrei mai che il ministro avesse bisogno della presenza di uno dei principi, e nessuno di noi fosse qui per lui.”

L’uomo sorrise bonario, replicando: “Se lo fate solo per me, principessa, non abbiate remore a partire. Qualsiasi documento abbia bisogno del sigillo reale, potrà aspettare il ritorno di voi tutti, per essere inviato in patria tramite falco.”

“Sono cosciente che certe cose debbono avvenire secondo i tempi, e i modi corretti, perciò rimarrò io a palazzo per esservi utile. Conosco bene i miei doveri e i miei compiti, e sostituirò volentieri Naell laddove ve ne sarà bisogno” ci tenne a precisare Enyl, sorridendo melliflua come un dolce al miele.

Korissar si limitò ad annuire, preferendo lasciar decadere l’argomento mentre Naell, fissando dubbiosa e spiacente assieme la cugina, mormorò: “Sei sicura di non voler venire? Korissar ha ragione. I documenti da inviare a mio padre possono aspettare il nostro ritorno.”

“Così deve essere, Naell” replicò con uno strano tono di voce la ragazza, arrischiandosi a prendere le mani della cugina tra le proprie, dopo aver lasciato la presa da quella di Ellessandar.

Accigliandosi leggermente, Enyl strinse le labbra in una linea sottile mentre Rannyl la fissava turbato e ansioso di aiutarla.

Lei scosse il capo nella sua direzione, impedendoglielo.

Gli occhi fissi in quelli della cugina, Enyl disse perentoria: “Sai il perché, Naell. E’ ora.”

Naell allora sgranò leggermente gli occhi e annuì sotto lo sguardo confuso di Ellessandar che, di quel breve scambio di parole, non comprese alcunché.

Le due ragazze si lasciarono con un abbraccio più ansioso di quanto non avrebbe dovuto essere e, nel lasciarla andare, Enyl sussurrò al suo orecchio: “Resta sempre accanto a Kalia e Rannyl. Ti prego. Lo stesso farò io per Ellessandar. Così deve essere.”

Naell allora assentì e, senza più guardare in viso Ellessandar, tornò alla sua cavalcatura e vi risalì grazie all’aiuto di uno stalliere.

Rannyl la imitò con un agile colpo di gambe e, dopo aver sorriso mestamente alla sorella, volse lo sguardo in direzione della cugina.

Con mossa esperta, poi, prese le redini del cammello e seguì uomini e mezzi per uscire lentamente dal palazzo, salutati dalla famiglia reale e dalla servitù.

Ferma accanto ad Ellessandar, che stava scrutando quell’imponente dispiegamento di soldati con aria accigliata, Enyl asserì torva: “Dubito che tutto il tuo esercito possa bloccare la tempesta che è in arrivo, ma spero che questo viaggio basti a proteggere Naell… per ora.”

“Che intendi dire?”

Ellessandar si volse a fissarla accigliato, le sopracciglia reclinate all’insù e l’aria di uno che intende avere risposte immediate.

Per niente spaventata dal suo sguardo perentorio, Enyl aggiunse soltanto: “Non c’è nulla che tu, o io, possiamo fare per bloccare la tempesta. Essa arriverà, e noi potremo solo accoglierla e non farci travolgere.”

“Se sai qualcosa…” iniziò col dire Ellessandar, afferrandola per le spalle.

Enyl si scostò lesta, le labbra tese in una smorfia sottile e, fissando torva il principe, sibilò: “Pensi davvero che, se sapessi qualcosa di preciso, non l’avrei detto?! Mi credi così irresponsabile?! So solo che è nell’aria, ma Hevos mi è testimone, non ho idea di quando ci colpirà! O di cosa ci colpirà!

“Dubito che Hevos abbia potere, in queste lande desertiche” replicò scettico Ellessandar.

“Ah! Hevos è ovunque e in nessun luogo, non lo sai? Egli ha potere in ogni dove, e non conta con quale nome io lo invochi. Lui è sempre con me,… con noi” lo irrise Enyl, fissandolo seria in viso.

“Parli per enigmi, Enyl. Spiegati meglio, o dovrò pensare che mi stai abilmente prendendo in giro” ringhiò Ellessandar, prendendola per un braccio per allontanarla da eventuali orecchie indiscrete.

Quella volta, Enyl si lasciò toccare senza scappare, ma sul suo volto comparve una smorfia così simile al dolore che, ben presto, Ellessandar la lasciò andare, limitandosi ad accompagnarla in un angolo del giardino isolato e tranquillo.

La servitù stava già rientrando a palazzo, e i reali si erano scostati dalla terrazza da cui avevano salutato i partenti per tornare ai loro obblighi di corte, lasciando perciò ben poche persone in giro per il giardino.

Le guardie di ronda sulle mura di palazzo, infine, erano troppo distanti per poterli udire, perciò Ellessandar si fermò in prossimità di un’ombra offerta da un piccolo padiglione.

Rivoltosi a Enyl, ammise: “Perdona la mia rabbia, ma le tue parole mi hanno confuso e, sì, irritato e spaventato.”

“Perdonami tu, principe. A volte dimentico la cortesia, specialmente quando la mia mente è così affollata di messaggi incomprensibili.”

Nel dirlo, sospirò pesantemente e si accomodò su una panchina di pietra.

Ellessandar la imitò, notando solo in quel momento quanto Enyl fosse pallida e, preoccupato, le domandò ansioso: “Enyl, sei certa di sentirti bene?”

Lei annuì, pur non apparendo molto in salute e, rivolto uno sguardo pensieroso al principe, mormorò: “Lei ti ama… come tu ami lei. Ma non accetterà mai questo sentimento, se non verrà spronata, convinta con i fatti di questa verità. Perciò ho dovuto ferirla.”

Ellessandar la fissò a bocca aperta e, scuotendo il capo incredulo, esclamò: “Enyl, ma cosa…? Naell non mi ama affatto! E io…”

A quel punto Enyl sorrise mestamente e, levando le mani dinanzi a lei come se fossero state due serpenti velenosi, chiosò: “Possiedo armi letali, per due cuori dolenti come i vostri. E posso leggervi dentro come se, innanzi a me, vi fosse un libro aperto.”

“Ora sei oscura, amica mia” dichiarò Ellessandar, fissandola senza capire.

“La Luce ha posto nelle mie mani un dono che, altre persone, saprebbero usare con maggiore capacità ma che io, ahimè, non sono in grado di gestire come vorrei… o almeno, così io la vedo” sospirò Enyl, reclinando le mani in grembo. “Ti sei mai chiesto perché Rannyl mi sta sempre accanto, e impedisce praticamente a chiunque di toccarmi, se non sono espressamente io a volerlo?”

“Perché è geloso di te?” cercò di ironizzare Ellessandar pur sapendo che, nella frase della giovane, era nascosto un segreto importante.

Lei scosse il capo, pur sorridendo, e gli spiegò cosa intendesse dire.

“E’ sì geloso, ma non è questo il motivo. Se io tocco una persona e non sto ben attenta a elevare delle barriere, posso ascoltare tutto ciò che ella pensa, e credimi, non è piacevole.”

Ellessandar si irrigidì a quelle parole e, scettico, la fissò in viso senza proferire parola.

Afferratolo a una mano senza dargli il tempo di scostarsi, Enyl aggrottò la fronte e mormorò con voce atona: “Che diavolo sta dicendo, questa ragazza? E’ dunque folle?!

Il principe rifuggì il suo tocco per poi guardare sconvolto Enyl che, contrita, ritirò la mano e dichiarò: “Come vedi, non sono folle. Sono solo indegna del mio dono.”

“Enyl…”

Reclinando il capo, la ragazza sussurrò: “Rannyl può percepire cosa avviene al corpo delle persone e, a volte, curarne i malanni, mentre io so cosa avviene alle anime… e alle menti. La nostra freoha agisce così, è sempre attiva e non abbiamo mai un momento di pace, per così dire, dai nostri doni.”

“Oh, dèi…” esalò Ellessandar, sgranando gli occhi fin quasi a farsi male.

“Non abbiamo bisogno di nessuno stimolo, perché essa divampi dentro di noi. Siamo sempre pericolosi. Non abbiamo mai compreso il perché avvenisse, ma sappiamo che è legato a ciò che ci disse Hevos tanti anni orsono” cominciò con l’ammettere Enyl, la voce ridotta a un esile sussurro. “Neppure i nostri genitori sanno di questa cosa. Solo tu sai, ora.”

“Perché? Perché io, Enyl?” volle sapere Ellessandar.

Scrollando le spalle, lei dichiarò: “Ti ho sognato spesso, prima di partire per Akantar. E sapevo che avrei dovuto confessarmi a te, perché sapere di questo nostro potere avrebbe potuto… aiutarti. Non so altro, davvero.”

Arrischiandosi a sfiorarle una spalla con la mano e, nel contempo, cercando di non pensare a nulla per non turbarla, Ellessandar le domandò: “Anche Naell sa di questo pericolo incombente? Questo significavano le tue parole?”

“Lei era con noi, quando Hevos e Haaron ci parlarono di questo pericolo” annuì lei.

“Entrambi loro?” esclamò il principe, sgomento.

“Haaron desiderava conoscerci… e capire se fossimo in grado di reggere il peso gravoso che avrebbero posto, lui e Hevos, sulle nostre spalle con il loro monito” gli spiegò Enyl, sofferente in viso.

Ellessandar la lasciò andare, mormorando vagamente indispettito: “Come potevano dei bambini di sei anni, e una ragazzina di dodici, essere pronti per un impegno simile? Perché immagino non sia nulla di semplice, vero?”

Lei scosse il capo e chiosò: “L’occhio di un dio vede lontano.”

“E di due dèi?”

“Molto di più” ammiccò Enyl, sorridendo per un momento.

“Puoi dirmi altro, perché io possa aiutarti?” le chiese allora Ellessandar.

“Hai mai sentito parlare di un corvo bianco?” gli domandò Enyl, dubbiosa.

“No. Perché?”

“E’ lui – o lei – a minacciarci. E’ lontano, o lontana, ma può toccarmi. Lo ha fatto in sogno, e mi ha terrorizzata” tremò Enyl, stringendosi le braccia attorno al corpo.

Ellessandar fu tentato di abbracciarla per consolarla in qualche modo, ma rimase fermo al suo posto, timoroso di procurarle altro dolore con i suoi pensieri.

Che situazione assurda!

Enyl gli sorrise mesta, poggiando il capo contro la sua spalla e, chiusi gli occhi, sussurrò: “Prova. Ho le barriere alzate, ora.”

Ellessandar, allora, le avvolse le spalle con un braccio e la strinse a sé ed Enyl, sospirando di sollievo, lasciò che una lacrima le scivolasse lungo la gota pallida.

“Ho visto strani simboli alchemici galleggiare nel mio sogno, e il sangue di un corvo nero gocciolare a terra dalla gola tagliata dell’uccello. E poi un altro corvo, stavolta bianco… che rideva. E mi toccava, come se volesse strapparmi il cuore dal petto.”

“Simboli alchemici, hai detto… te ne ricordi qualcuno?” chiese a bassa voce Ellessandar, tenendo la guancia poggiata sul capo biondo di Enyl.

“Potrei provare a disegnare quelli che rammento” annuì pensierosa la ragazza. “Conosci l’alchimia?”

“Qualcosa” ammise Ellessandar. “Un corvo bianco, eh?”

“Sì. Ti è venuto in mente qualcosa?” si interessò Enyl, sollevando il viso per scrutarlo con curiosità.

“Forse non c’entra nulla, ma so che alla corte di re Kevan di Nellassat c’è una strega di grandi poteri che è sua fida consigliera e che, tra le altre cose, è armata di una falce bianca e veste solo con vesti color del latte. La falce è il simbolo della morte, così come il corvo. Può non essere lei, però… non so…” rimuginò Ellessandar, dubbioso.

“Come si chiama, lo sai?” si informò Enyl, levando il capo dalla sua spalla per fissarlo intensamente, le mani ora tremanti.

“Posso informarmi in tal senso, se vuoi.”

Nel proporglielo, le sorrise comprensivo.

“Sì, fallo. Ne ho bisogno” annuì lesta, Enyl, lanciando uno sguardo ai lupi che, nervosi, si aggiravano per il giardino come se non si sentissero a loro agio. “Anche loro la avvertono. La tempesta è vicina.”

“Non è una tempesta vera, giusto?” mormorò Ellessandar,  scrutando a sua volta i lupi e il loro incedere nervoso e senza meta.

“No. Affatto. E’ una tempesta di sangue. E di fiamma” sentenziò Enyl, levandosi in piedi.

Annuendo gravemente, Ellessandar la imitò e disse: “Ti accompagnerò nella mia biblioteca personale. Lì, troverai tutti i volumi che ti servono per cercare i simboli alchemici che rammenti e, se non dovessi trovarli, rivolgiti a me. Io cercherò di sbrigare i miei impegni nel più breve tempo possibile, così potrò esserti d’aiuto nella ricerca.”

“Te ne sono grata” mormorò lei.

“Sei certa che Naell sia al sicuro?” le domandò a quel punto Ellessandar.

“Posso solo dirti che, rimanendo a palazzo, sarebbe morta. Nel deserto, ha qualche possibilità di sopravvivenza. Non ho visto altro, nelle mie visioni” sospirò Enyl, scuotendo il capo. “Ci sono forze che non controllo, così come non controllo ciò che il mio subconscio mi invia durante la notte. Ma ti giuro, non farei mai nulla per mettere in pericolo Naell. Io le voglio bene e desidero solo che sia felice.”

Ellessandar le sorrise, annuendo alle sue parole, e mormorò vagamente incredulo: “Mi ama davvero?”

Enyl a quel punto si aprì in un largo sorriso di risposta, e annuì.

“Ti ama così tanto che non farebbe mai nulla per ferirti, così ferisce se stessa, non dicendoti nulla, perché dubita così tanto di sé e del proprio valore, da non vedersi come una compagna adatta a te.”

“E’ sempre stata sciocca, per certe cose” ridacchiò mestamente Ellessandar, scuotendo il capo.

“Tu non lo sei stato meno di lei, perché non le hai detto la verità, nascondendoti dietro le sue paure, e le tue” gli rammentò saggiamente Enyl.

Ellessandar scoppiò a ridere nervosamente e, passandosi una mano sul capo, esalò: “Ripreso da una ragazzina, e a ben donde, tra l’altro!”

Enyl si limitò a sorridere e il principe, ammiccando al suo indirizzo, le domandò: “Dovrei dirle tutto, quando sarà tornata?”

“Dovrai impedirle di replicare alle tue parole. Pensi di poterlo fare?”

“Sì.”

Non disse altro, ed Enyl fu certa che non avrebbe fallito.

Il punto era un altro. Il Corvo Bianco sarebbe arrivato prima del ritorno di Naell?

***

“Dubito fortemente che tenere il broncio ti aiuterà a goderti il viaggio, hillan.”

Naell fissò torva Kalia, che stava procedendo tranquilla al suo fianco, e mormorò indispettita: “Non lo sto tenendo!”

“No? Allora è per questo che le tue labbra pendono all’ingiù come fiori morti, e la tua faccia sembra quella di un condannato?” ironizzò l’amica, lanciando poi un’occhiata significativa Rannyl, che procedeva sul fianco opposto a quello di Naell. “Tu che dici, Ran?”

“Che voi donne siete più complesse di quanto io possa al momento comprendere” sospirò Rannyl, scuotendo il capo. “Ma una cosa la so; Kalia ha ragione, cugina. Pensare a cose,  e persone, che non sono qui in questo momento, non ti aiuterà a godere di questo viaggio che, da quel che so, hai voluto fare tu.”

“Siete coalizzati contro di me, per caso?” borbottò Naell, sbuffando.

My-chan, che si trovava – in forma animale – accanto al cammello di Naell, la osservò dubbiosa prima di mutare in donna e, sfiorando una gamba dell’amica, mormorare: “Ykan, tutto bene?”

“Se tu potessi divorarli entrambi, mi faresti un favore” brontolò Naell, fissando bieca cugino e guardia del corpo.

My-chan strabuzzò gli occhi prima di esalare sconvolta: “Mi sembra una soluzione piuttosto esagerata… e definitiva. Non vuoi più bene alla tua amica e a tuo cugino?”

Esalando un sospiro esasperato, Naell lasciò reclinare le spalle a formare un arco pendente e mormorò: “No, tesoro… sono solo stanca che tutti si facciano i fatti miei, tutto qui.”

“Allora li mangerò” sentenziò My-chan, rivolgendo un sorriso sornione in direzione di Rannyl.

“No, cara, ma ti ringrazio” ridacchiò allora Naell, sfiorandole una spalla con la mano.

Ancora rivolta in direzione di Ran, My-chan gli strizzò l’occhio prima di tornare a volgersi verso Naell ed esclamare sentitamente: “Ma ti hanno dato noia, ykan. E lo sai che io farei di tutto, per te.”

“E io ti ringrazio, ma non desidero la morte di mio cugino, né quella della mia fida guardia del corpo e amica” la rassicurò allora la principessa, accentuando ancora di più il suo sorriso.

My-chan allora annuì e, con un balzo agile, le diede un bacio sulla guancia dichiarando: “Sei bellissima, mamma, quando sorridi.”

“Grazie” mormorò Naell.

“Anche nahry1 lo pensa” buttò lì My-chan prima di mutare nuovamente in renpardo, lasciando così a bocca asciutta Naell che, fissando accigliata l’amica, bofonchiò un insulto mentre Kalia e Rannyl scoppiavano a ridere.

“Ora lo so. Siete coalizzati contro di me” sentenziò Naell, stringendo le braccia sotto i seni.

“Ti vogliamo solo molto bene, hillan” replicò Kalia, tornando seria. “E vederti così combattuta, fa soffrire anche noi.”

“Soprattutto quando i problemi te li crei da sola” aggiunse Rannyl, annuendo convinto.

Naell allora lo fissò accigliata, replicando: “E tu che vuoi saperne?”

“Molto di più di quanto tu non pensi” precisò Rannyl, allungando una mano per sfiorarle una spalla.

Aggrottando la fronte, dichiarò poi: “Il tuo cuore sta soffrendo pene inimmaginabili e cederà, se tu non gli darai requie. Sono ormai troppi anni che patisce per una sofferenza che tu stessa ti sei creata.”

Naell lo fissò con occhi che rasentavano il panico e Rannyl, sospirando, ritirò la mano e non disse più nulla.

Non era il caso di farle sapere tutto quello che Enyl aveva scorto nel suo cuore, e in quello di Ellessandar.

***

“E’ giunto un plico per madama Kennadarya” mormorò un paggio alla cameriera personale della strega bianca di Nellassat.

La donna, canuta di capelli e dallo sguardo serioso quanto inamovibile, annuì nel prendere il plico tra le mani prima di entrare nelle stanze private della strega.

La giovane, in quel momento, stava compiendo le sue abluzioni in una vasca ricolma di latte di cavalla.

Solo il viso era visibile, nell’enorme distesa lattiginosa e la donna, avvicinandosi lentamente alla sua padrona, sussurrò ossequiosa: “Il pacco che attendevate da Enerios è infine giunto, mia signora.”

“Molto bene” sorrise Kennadaria, piegando all’insù le labbra carnose e rosso fuoco.

Sollevandosi dalla vasca ovale con un fluido movimento, il corpo leggiadro e interamente nudo esposto allo sguardo sgomento della donna, Kennadarya uscì con un fruscio di liquido morbido prima di venire avvolta in un panno color cannella.

Ciò che aveva tanto sorpreso la cameriera erano i simboli alchemici che, come bruciature scarlatte, brillavano sul ventre e intorno ai seni della ragazza.

Era la prima volta che, sul corpo perfetto della giovane strega, scorgeva simili iscrizioni.

Sapeva che Kennadarya era in possesso di poteri che nessun altro, prima di lei, aveva mai dimostrato di avere, ma quei simboli significavano ben altro.

Conosceva a sufficienza l’arte dell’alchimia per sapere che, quella simbologia, aveva ripercussioni non solo sul mondo dei mortali, ma anche su quello degli dèi.

Per quanto sapesse che la sua padrona era potente, temeva che un simile sfoggio di presunzione potesse procurarle dei guai.

Ugualmente, non disse nulla e si limitò a consegnarle il plico mentre, con gesti misurati, iniziò a tamponarle la lunghissima chioma per asciugarla.

Kennadarya, dal canto suo, aprì l’involto di carta protettiva e sorrise sorniona non appena le sue mani sfiorarono la vecchia copertina di pelle scura, e i suoi simboli scarlatti ben in evidenza.

Dodici lunghi anni erano passati da quando aveva scorto da lontano quel libro, ma ora si trovava tra le mani della sua legittima proprietaria.

Ciò si era reso necessario per non rendere edotto il suo temutissimo padre della di lei nascita, ma ormai il tempo era giunto e la sua maschera di invisibilità poteva finalmente cadere.

Nessuno, a parte sua madre e il loro stimatissimo amico, era stato a conoscenza della sua nobile quanto oscura discendenza.

Il sommo Haaron non sospettava minimamente che, dai suoi trastulli ultraterreni, una donzella era nata e cresciuta con l’unico intento di possedere il potere di entrambe le parti in causa.

Luce e Tenebre sarebbero state sue, grazie a quel libro.

In esso era contenuto tutto ciò che le serviva per porre gli ultimi pezzi sulla scacchiera e, a quel punto, lasciar percepire al padre la presenza nel mondo dei vivi di una creatura in grado di usare i suoi poteri, era cosa fattibile.

Nulla poteva ormai fare, Haaron, per fermarla.

Gli ingranaggi erano in moto, la gemella bianca si trovava più vicina a lei di quanto non avrebbe mai potuto sperare da quando aveva ideato quel lento, lungo piano per la conquista del potere assoluto.

Akantar sarebbe sprofondata nell’oblio assieme a coloro che avevano negato loro la possibilità di prosperare a Yskandar, tanti anni addietro e, assieme alla loro disfatta, sarebbe seguita quella della casa reale di Enerios.

Il loro stimato amico avrebbe ricevuto la sua meritata quanto sospirata preda, ottenendo il diritto di regnare sul suo paese d’origine, e lei avrebbe stretto per le mani il vero, unico potere.

Re Kevan?

Le sarebbe servito ancora per un po’, per portare a termine i suoi intenti senza sprecare troppe energie in previsione dello scontro che, sicuramente, sarebbe avvenuto con la gemella bianca.

Una volta ottenuto ciò che desiderava, si sarebbe liberata delle sue attenzioni, lasciandolo a quelle ben poco interessanti della moglie.

O di chiunque altro gli fosse garbato.

Che occupasse il suo tempo con le donne di Akantar, a lei non interessava.

I tirapiedi che muovevano i fili della vendetta nel palazzo di Yskandar?

Di certo, nessuno dei due le sarebbe servito per soddisfare le sue voglie, perciò si sarebbe liberata di loro, una volta che il palazzo reale fosse passato nelle mani di Kevan.

Lappandosi le labbra con un sorrisino, sfogliò distrattamente il pesante tomo dalla fattura antica e, tra sé, mormorò: “Potrei tenere il principe Ellessandar per me. E’ giovane e forte, e il suo viso ha tratti importanti e nobili. Sarà il mio trastullo, mentre la sua casa cadrà in rovina.”

Silenziosa, la cameriera prese a pettinarle i lunghi capelli canuti e Kennadarya, levando una mano, disegnò nell’aria una serie di cerchi concentrici che, ben presto, presero le sembianze di una lunga catena brunita ricolma di simboli alchemici.

Con un tintinnio sinistro, essa cadde sul pavimento di marmo chiaro e la strega, sogghignando nell’osservarla soddisfatta, sentenziò: “Questo prezioso monile è per te, mia cara figlia sacra. Vedrai quanto ti piacerà!”

In uno sfolgorio di fiamma bianca, la catena scomparve e Kennadarya, scoppiando a ridere, esclamò: “Ah, padre, vedrai quanto tua figlia è diventata brava a destreggiarsi con la magia!”

 






_____________________
1 nahry: akantarian (papà). Nomignolo con cui My-chan chiama Ellessandar come Naell viene chiamata ykan, cioè mamma.


N.d.A.: direi che ormai si comincia a capire cosa sta succedendo.... ci sono traditori un po' ovunque, a quanto pare...:)

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Capitolo 7
*** 7. ***


N.d.A.: breve balzo temporale all'indietro per mostrare cos'è successo a Enerios mentre i nostri eroi raggiungevano Akantar, ancora ignari del pericolo ormai prossimo.
Buona lettura.





••7••

 

 

 

  

Lo sguardo liquido di Coryn spaziò, pensieroso e curioso, nell’enorme stanzone dal soffitto a botte in cui era entrato grazie ai buoni uffici del vecchio Damenor.

Dopo aver ascoltato la richiesta del giovane figlio del conte, l’uomo si era adoperato per scoprire la natura del libro prelevato dalla biblioteca di palazzo dal Conte Alderan.

Quando, dopo diversi giorni passati a ricercare nei vecchi archivi di famiglia, l’anziano maggiordomo era tornato da lui con notizie, Coryn aveva compreso subito che qualcosa non andava.

Non aveva mai visto Damenor con uno sguardo così angustiato quanto crucciato.

Il vecchio servitore gli aveva domandato cosa avesse fatto di preciso il Conte Alderan, con il libro.

Dopo avergli spiegato che il padre lo aveva prelevato dalla biblioteca per non riportarlo più indietro, Coryn aveva scorto l’ansia sorgere sul volto rugoso dell’uomo.

Con tono stanco, il maggiordomo gli aveva infine detto: “Voi non potete ricordare, perché eravate molto piccolo, ma vostro padre accolse una donna, anni orsono, tra le mura di questo maniero. Ella era in avanzato stato di gravidanza, e necessitò delle cure della vostra stimata madre, per partorire la creatura che nacque dal suo ventre. All’epoca, Madama Milanta non si era ancora ammalata.”

Coryn aveva annuito, ripensando all’ultimo anno di malattia della madre, e a quanto ella avesse sofferto per i dolori causati dal male che l’aveva colpita.

Lui aveva avuto solo nove anni, all’epoca, e il rimorso per non essere stato in grado di aiutarla, neppure minimamente, l’aveva fatto sentire inutile per anni interi.

Non che il padre lo avesse aiutato ad alleviare quelle pene.

L’uomo era stato troppo impegnato ad accumulare fortune su fortune, per occuparsi del figlio.

Così, semplicemente, Coryn aveva accettato la morte della madre ed era andato avanti da solo.

Come sempre.

L’appoggio del padre era una cosa,  così come la salvezza di sua madre, che il cielo e gli dèi non gli avevano concesso, nel corso degli anni.

“Cos’ha a che fare, questa donna, con il libro?” gli aveva domandato Coryn, lasciando perdere i foschi pensieri che sembravano chiamarlo come sibille.

“La donna diede alla luce una bambina perfetta, ma dai capelli stranamente bianchi come il latte e gli occhi viola come ametiste.”

L’anziano aveva rabbrividito, a quel ricordo.

“Chi era? E perché i miei genitori la accolsero in casa?”

Dubbioso, Coryn aveva rimuginato su quel fatto davvero strano. Suo padre non era mai stato un uomo particolarmente generoso, o altruista.

A quel punto, Damenor aveva scosso il capo e aveva mormorato con ansia: “La donna era una seguace di Haaron, signorino.”

“Ebbene? So che esistono sacerdotesse che ossequiano il dio della morte, così come viene ossequiata Iralva o il dio-lupo Hevos, patrono delle donne-lupo, ma questo cosa c’entra con mio padre?” aveva allora fatto notare Coryn, più confuso che mai.

A Damenor non era rimasto altro che dirgli: “Venite con me, signorino, e capirete.”

Ora, dinanzi a quella stanza dal soffitto a volta – che si trovava nella parte più sotterranea del palazzo – dove i mobili stivati contro i muri contenevano boccette e flaconcini di ogni sorta, Coryn comprese.

“Magia nera, Damenor?” gracchiò Coryn, impallidendo leggermente.

“Alchimia, per quanto mi è dato sapere, signorino. Non mi intendo di queste cose ma, finché non succedeva nulla di serio, non ho ritenuto necessario dire ad anima viva ciò che vostro padre praticava” sospirò afflitto l’anziano maggiordomo. “Ma se mi dite che vostro padre ha preso quel libro, è giusto che chi di dovere sappia e, se dovrà accadermi qualcosa di spiacevole, saprò che ho comunque fatto il mio dovere.”

“Che intendete dire?” domandò preoccupato Coryn.

Damenor lo fissò spiacente, prima di ammettere: “Le enormi ricchezze di cui gode la vostra famiglia, sono giunte miracolosamente dopo l’arrivo della sacerdotessa di Haaron, quando vostro padre iniziò a usare quel libro.”

“Il libro conterrebbe i segreti della trasmutazione?” esalò Coryn, sobbalzando sorpreso e sgomento.

“Non ho mai indagato su queste cose, signorino, ma non mi è sembrato un caso. Inoltre la donna, dopo avere partorito ed essere rimasta qui per diversi anni assieme alla bambina,  pregò vostro padre di tenere segreto e ben protetto il libro. Ciò detto, se ne andò con la piccola e non tornò mai più” gli spiegò il vecchio maggiordomo, tornando a scuotere il capo. “Non avrei dovuto udire quelle parole, ma…”

Coryn annuì, reclinando il capo e rimuginando sulle parole dell’anziano prima di mormorare: “Eravate preoccupato?”

“Per voi, signorino, e per i miei familiari. C’era qualcosa di maligno, in quel libro, e temevo che potessero farvi del male. Sarei intervenuto, se solo avessi avuto il sentore che qualcosa potesse nuocervi. Lo avevo promesso a vostra madre, ma… vostro padre non vi portò addentro ai suoi progetti, così non trovai la necessità di intervenire. Forse fu un errore.”

Battendogli affettuosamente una mano sul braccio scarno e abbracciato da cotone inamidato, Coryn replicò gentilmente: “Nessun errore, Damenor. Solo amore. E’ difficile prendere simili decisioni, posso immaginarlo. Ma come mai non vidi mai quella ragazzina?”

“Rimase sempre confinata nei sotterranei assieme alla madre e, sovente, vostro padre si occupò di istruirla nell’arte alchemica assieme a… beh…”

Tentennando, Damenor smise di parlare, chiaramente in imbarazzo e Coryn, subodorando vi fosse qualcosa di molto più sordido di una semplice bimba tenuta lontano dalla luce del sole, si accigliò immediatamente.

Tornando a lanciare uno sguardo disgustato a tutti gli strumenti alchemici che si trovavano nello studio segreto del padre – assente da più di una settimana da palazzo – Coryn domandò al maggiordomo: “Potete dirmi il nome della persona che si trovava qui assieme a mio padre, quando la donna e sua figlia ancora abitavano a palazzo?”

“Cosa volete fare, signorino?” si informò subito il maggiordomo, preoccupato.

“Desidero scoprire cosa sta architettando mio padre, perché ho il sentore che stia per succedere qualcosa di grave” ammise Coryn, stringendo le mani a pugno, rilasciate lungo il busto tremante.

Damenor gli poggiò comprensivo una mano sulla spalla, prima di annuire e mormorare un nome all’orecchio del giovane.

Dopo aver ringraziato l’anziano servitore, Coryn si allontanò da quella stanza satura di odori e simboli che avrebbe preferito non scoprire mai.

Sentiva il terrore serpeggiargli nelle vene come fuoco divorante.

Sapeva che non poteva essere un caso se, dopo tanti anni, suo padre aveva rimosso quel libro dal suo nascondiglio, e l’aveva condotto al di fuori dell’abbraccio protettivo della biblioteca di palazzo.

Doveva per forza significare qualcosa, vista anche l’ansia provata dal maggiordomo.

Scivolando lungo le scale come un’ombra – era abituato a muoversi per il palazzo senza farsi vedere – Coryn fu lesto a uscire dal maniero senza attirare l’attenzione.

Dopo aver raggiunto le scuderie, sellò il suo castrone e uscì di nascosto per raggiungere la casa della donna nominata da Damenor.

Avrebbe saputo, a ogni costo.

***

La villetta dove la Stramba Maliatt abitava era ben isolata dal vicino villaggio di Jilmion e, a ben vedere, Coryn comprese anche perché nessuno si aggirasse da quelle parti se non per errore.

Alte mura di pietra cingevano il giardino, a malapena visibile dall’imponente cancello in ferro battuto.

Oscuri cani da guardia ringhiavano oltre il confine, rendendo chiaro a tutti quale sarebbe stata l’accoglienza, se qualcuno si fosse arrischiato ad attraversare i confini della piccola tenuta, senza il permesso della padrona.

Ugualmente, Coryn si fece avanti dopo essere sceso da cavallo e, lanciato un altro sguardo al cottage verde brillante e circondato da fitta vegetazione, prese coraggio e afferrò la corda per suonare la campana appesa fuori dalle mura.

Il battacchio fece tintinnare il metallo brunito della campana mentre i cani, avvicinandosi ringhianti al cancello, lo fissarono con occhi rossi come rubini.

Erano pronti a fare fiero pasto delle sue carni, se la loro padrona avesse deciso in tal senso.

Coryn deglutì a fatica, fissando le fiere mentre il suo cavallo strattonava ansioso le redini per fuggire.

Avrebbe voluto scappare a gambe levate a sua volta, ma il dovere di scoprire cosa nascondesse suo padre, lo spinse a rimanere fermo sul posto.

Non fu facile, ma in qualche modo vi riuscì.

Dopo un paio di minuti, che a Coryn parvero eterni, una donna sulla sessantina venne ad aprire la porta d’entrata, abbigliata con pesanti abiti colorati.

Osservatolo con il dubbio dipinto sul volto rugoso, esclamò: “Cosa ti porta qui, viandante? Non vogliamo niente!”

Deglutendo a fatica, la gola rinsecchita dal terrore, Coryn esalò debolmente: “Non sono né viandante, né venditore, mia signora. Sono il visconte Coryn di Nelvar. Chiedo di poter incontrare Madama Maliatt, se ella vorrà accettare la mia umile richiesta.”

La donna aggrottò la fronte, reclinò pensosa il capo e, già sul punto di rispondergli in malo modo, venne fermata dal tocco delicato di una mano eburnea.

Poggiata sulla spalla dell’attempata governante, quella mano elegante allontanò gentilmente la signora dalla porta e, al suo posto, una dama di incantevole eleganza si affacciò per dire: “Cosa desidera da me il figlio del conte Alderan?”

“Parlare, se fosse possibile rubare qualche attimo del vostro tempo, Madama. Non chiedo altro” replicò elegantemente Coryn, un po’ meno intimorito, ora che i cani avevano smesso di ringhiare.

La donna annuì lentamente prima di dire sommessamente alle sue bestie: “Asuf, Mirak, Rellen, allontanatevi dal cancello e lasciate stare il nostro ospite. Non è qui per creare disagio a nessuno.”

I cani, immediatamente, si scostarono dall’entrata mentre, sotto gli occhi sorpresi di Coryn, i due battenti di ferro si aprivano quel tanto per farlo entrare assieme al cavallo.

Nel notare la mano levata della donna, Coryn esalò: “Magia?”

“Semplice alchimia elementare” scrollò le spalle Maliatt.

Avvicinandosi con passo guardingo calpestando il selciato perfettamente regolare, Coryn chiese dove poter legare le briglie del suo cavallo.

A un cenno della padrona di casa, abbigliata con un sobrio abito scuro a ricami verde smeraldo, entrò all’interno della villa.

La governante sparì lungo un corridoio illuminato da lampade a olio mentre, colei che Coryn ritenne essere Maliatt, lo pregava di seguirlo in un piccolo salottino arredato con gusto.

Le pareti erano ricoperte di arazzi magnificamente ricamati, raffiguranti scene campestri.

La controsoffittatura a cassettoni, di un bel legno chiaro, riprendeva e replicava infinite volte il simbolo del regno di Enerios, la testa di lupo.

Piccoli divanetti dalle sedute in broccato azzurro e argento, un tavolino in vetro satinato e una cristalliera ricolma di oggetti antichi quanto bizzarri completavano l’arredamento.

A un cenno della donna, Coryn si accomodò, rigido e formale.

Sedendosi dinanzi a lui e sistemando con aria distratta la pesante gonna dal taglio moderno, la donna lo fissò con i suoi penetranti occhi verde oliva e chiosò: “Il figlio di Milanta, eh? A quanto pare, il tempo della verità è giunto. Bene, visconte, chiedete, e io risponderò.”

Coryn preferì non indagare troppo su quella frase, o su come e perché quella strana donna conoscesse sua madre, ma annuì al suo dire così affabile.

“Una domanda debbo porvi, e una richiesta di aiuto sono giunto a chiedervi” ammise lui, intrecciando le mani in grembo e tamburellando nervosamente i tacchi degli stivali sul pavimento pietroso e freddo.

“Esponetele entrambe e io vi risponderò… se posso” lo esortò lei con un gesto elegante della mano.

La porta del salottino si aprì per lasciar entrare la domestica che, armata di tè e pasticcini, depositò il tutto sul tavolino che divideva Coryn da Maliatt.

Con un formale inchino, si allontanò silenziosa come era giunta.

Coryn la seguì con lo sguardo, prima di tornare a scrutare il volto maturo ma elegante della sua ospite.

Appariva in salute, dall’età indefinibile e del tutto priva in viso dei cosmetici che solevano usare le nobildonne, per imbellettarsi le gote o gli occhi.

Inoltre, era strabiliato all’idea che una donna così piacente abitasse sola e senza un marito ma, forse, la sua nomea aveva tenuto lontani anche gli uomini più intrepidi.

Lappandosi nervosamente le labbra, Coryn domandò: “Conoscete l’alchimia, come mi avete fatto notare prima. Potreste quindi aiutarmi a comprendere certi simboli che ho visto?”

Versando il tè aromatizzato alla menta in due tazze di porcellana finissima, Maliatt lo scrutò con aria dubbiosa e, accigliandosi leggermente, gli chiese di rimando: “Se vi dicessi che non posso accontentarvi, cosa fareste?”

“Cercherei altrove aiuto, e vi ringrazierei ugualmente per la cortesia di avermi ricevuto” ammise candidamente Coryn.

La donna allora sorrise e gli porse la tazza, prima di servire se stessa e sorseggiare pensierosa la bevanda ambrata.

Coryn accettò di buon grado il tè bollente e, quando assaporò il sapore dolce e aromatico della bevanda sulla lingua, si rilassò gradatamente.

Pensieroso, quindi, scrutò in viso la donna dinanzi a lui, chiedendosi come – e se –avrebbe risposto alla sua domanda.

Maliatt terminò con calma il contenuto della tazza,  prima di poggiarla sul vassoio d’argento su cui era stata servita la merenda leggera.

“Ero addentro ai segreti dell’alchimia, tempo addietro… almeno, finché lavorai con vostro padre, a palazzo.”

La notizia lo sconcertò, portandolo a esalare: “Ma… non potete avere più di trent’anni! Non capisco!”

La donna sorrise benevola e replicò: “La prossima luna compirò quarant’anni, giovane Coryn… ma grazie per il complimento. Quanto a ciò che vi dirò, spero non me ne vorrete, ma la verità non è mai molto bella… o pulita.”

Il giovane assentì muto e Maliatt, con un leggero sospiro, proseguì nel suo racconto.

“Ero sacerdotessa di Haaron, ai tempi in cui lavorai a palazzo. Come ben sai, ogni dio va benedetto e osannato, sia esso portatore di vita o di morte.”

Coryn annuì e mormorò: “Non v’è nulla di sbagliato in questo, lo so. Il ciclo della vita, così come quello della morte, è naturale quanto giusto. Ogni dio è ugualmente importante, così come ciò che governa.”

Maliatt assentì brevemente, prima di proseguire.  

“Aiutai vostro padre a sfruttare i poteri di un libro di cui era venuto in possesso tramite i buoni uffici di una mia consorella.”

“In che senso, aiutaste?” indagò dubbioso Coryn, non del tutto sicuro di voler conoscere fino in fondo la verità, a quel punto.

Maliatt sorrise e ammiccò con fare malizioso.

“Ero giovane, ma avevo qualcosa che poteva essere estremamente prezioso, almeno agli occhi di mia madre, che mi vendette a vostro padre in cambio di questa casa e dei modesti terreni a essi legati. Al conte serviva una vergine, così da portare a termine il rito alchemico che gli serviva per mettere in pratica la magia di cui aveva bisogno. Io servii allo scopo.”

Coryn sgranò gli occhi, inorridendo al solo pensiero ma Maliatt, per nulla disturbata dal suo sguardo scioccato, continuò.

“Il mio sangue di vergine servì per la trasmutazione della pietra in oro, oro che, come ben sapete, ha reso immensamente ricco il vostro casato. Come premio per il mio sacrificio, vostro padre mi offrì un compenso in denaro, oltre a ciò che lui aveva pattuito con mia madre, ma io chiesi a gran voce di poter imparare l’alchimia, e lui accettò il mio desiderio.”

Maliatt soppesò tra le dita un biscotto e, dopo aver soffiato via un po’ di zucchero a velo, lo sbocconcellò sotto gli occhi sgranati di Coryn, ancora confuso e sconcertato.

“Mi tenne come allieva e amante per più di quattro anni, e io imparai ciò che mi serviva sapere per essere una donna indipendente dagli uomini, così come dal mondo intero. Quando ritenni di non aver più nulla da imparare, chiesi a vostro padre di poter tornare da mia madre e lui acconsentì, ma solo a patto che non rivelassi ad alcuno ciò che lui aveva fatto.”

Scrollò le spalle, come se il passato – e i suoi sacrifici – non avessero contato più di tanto, e terminò di dire: “A me non interessava farlo sapere a nessuno, inoltre sapevo che, se avessi anche solo accennato alla cosa, lui mi avrebbe fatta uccidere, così mantenni il segreto e vissi libera da tutto e da tutti.”

Sconvolto da quella realtà, che non avrebbe immaginato neppure nei suoi incubi più tremendi, Coryn si passò le mani tra gli scuri capelli prima di gracchiare scioccato: “Non può… essere vero… mio padre… mio padre amava mia madre e…”

“Non ho mai affermato il contrario” replicò serafica Maliatt. “Ma, per operare un certo genere di alchimia, serve l’energia sessuale, mio giovane visconte, e questo è servito a entrambi per ottenere ciò che volevamo. Vostro padre non avrebbe mai chiesto a vostra madre di partecipare a certi riti. Ella neppure sapeva della sua doppia vita. Solo Damenor sapeva di me e della bambina canuta che viveva a palazzo assieme alla mia consorella, e suppongo sia stato lui a inviarvi qui.”

Coryn annuì, ancora sconcertato da quella verità scomoda e orripilante e, nervosamente, domandò: “Non vi siete sentita… usata da mio padre?”

“Certo, signorino, ma sapevo che, per pochi anni di sofferenza, avrei ottenuto in cambio una vita intera di libertà” commentò pacifica la donna.

“Ma vivete sola, isolata dal mondo… cosa ci può essere di buono, in tutto questo?” replicò confuso Coryn.

“Non tutti agognano a una vita di società, o nella società. Io volevo questo, e l’ho ottenuto. Ma dubito fortemente che voi siate qui per conoscere i segreti inconfessabili di vostro padre, vero?” scrollò le spalle Maliatt, incurante del suo giudizio negativo.

Coryn allora estrasse dalla tasca del panciotto i simboli di cui voleva conoscere il significato e la donna, osservando scrupolosa quelle curve e quei punti articolati sul foglio pergamenato, aggrottò la fronte, ansiosa.

“Sono simboli di magia nera e solo una volta li ho scorti, per un attimo. Facevano parte del libro che vostro padre usò per la trasmutazione della pietra in oro.”

“Cosa significano?” deglutì a fatica Coryn.

Adombrandosi in viso, Maliatt ammise: “Sono porte per la magia oscura di Haaron, che io servivo nel suo tempio come vestale. Solo qualcuno dotato di un potere enorme li può controllare, non certo vostro padre, signorino. Questi simboli sono destinati a un’altra persona.  A Haaron stesso, mi verrebbe da dire. Ma non certo a un comune essere umano. L’energia sprigionata da ciò che vedo qui, scritta di vostro pugno, non potrebbe essere governata da un semplice corpo di carne e sangue.”

Annuendo lentamente, Coryn piegò in avanti il capo, coprendo il volto affranto con le mani e, tremante, esalò: “Cosa devo fare? Cosa devo fare, ora?”

Sfiorandogli una spalla con la mano, Maliatt mormorò sinceramente: “Nascondete ciò che sapete e tornate a fare la vostra vita di sempre. Non siete in grado di gestire questo problema, e neppure dovreste. La vostra vita è bella. Non distruggetela.”

Sarebbe stato bello darle retta.

Chiudersi nella sua stanza, tornare a studiare poesia o storia antica.

Dimenticarsi completamente di quella faccenda, dei segreti orrendi del padre, del suo coinvolgimento con poteri che lui stesso stentava a comprendere.

Ma non poteva.

Sua madre non gli aveva insegnato a nascondersi.

Certo, non era un giovane coraggioso, ma sapeva dove si trovava la giustizia e non risiedeva nelle parole della donna, né nel comportamento subdolo del padre.

Scuotendo il capo, Coryn si levò perciò in piedi e, sorridendo mestamente a Maliatt, si esibì in un breve inchino.

“Vi sono grato per ciò che mi avete confessato, perché ciò mi ha aperto gli occhi su molte cose ma, in tutta onestà, non posso nascondermi. Farò in modo, comunque, che voi non abbiate a che soffrire delle mie azioni. Nessuno sa che sono qui, a parte Damenor, e lui non direbbe mai nulla per causarvi danno. Parimenti farò io. Grazie ancora, Madama Maliatt.”

A quel punto, non avendo null’altro da offrire al giovane Coryn, Maliatt lo accompagnò alla porta e mormorò: “Il coraggio non sempre risiede in un forte braccio, visconte.”

“Forse. Vi auguro una buona serata, Madama, e ancora grazie” si accomiatò Coryn, uscendo dalla villetta per raggiungere il suo cavallo.

I cani lo fissarono muti, limitandosi a rimanere sdraiati accanto alla porta d’ingresso.

Coryn ne fu più che lieto.

Il cielo era ormai pronto per accogliere la sera, e lui sarebbe riuscito a raggiungere il maniero solo a tarda notte, ma non gli importava.

Nulla poteva spaventarlo realmente, non dopo quello che aveva ascoltato dalle labbra di Maliatt.

Nulla.

***

Seduto a tavola per la colazione, gli occhi pesti per la totale mancanza di sonno e la segreta paura di non saper controllare le proprie emozioni di fronte al padre, Coryn riuscì a stento a esibirsi in un sorriso, non appena Alderan fece il suo ingresso nel salone.

Appariva saporitamente riposato, il volto rilassato e, sì, soddisfatto e, contrariamente a lui – che invece stava segretamente tremando dentro – pareva non avere un solo pensiero per la mente.

Niente, comunque, che lo preoccupasse.

Per un istante, Coryn fu quasi tentato di cancellare dal suo viso quella sicurezza.

Quasi.

Non era così coraggioso, nonostante Maliatt gli avesse detto il contrario.

Suo padre l’aveva sempre reso nervoso e, specialmente da quando sua madre era morta, questa sensazione di inadeguatezza era via via cresciuta.

Quando, poi, si era intestardito con il voler ottenere a tutti i costi la mano della principessa Naell per suo conto, il disagio era aumentato a dismisura.

Non che non ritenesse la principessa una donna piacevole e interessante, ma non era decisamente il suo tipo.

Inoltre, dubitava a sua volta di essere il partito giusto per lei.

Da quel poco che aveva compreso di Naell – o, per lo meno, da quello che si sapeva di lei – dubitava fortemente che potessero andare seriamente d’accordo.

Pur essendo entrambi amanti della lettura, stando alle voci che circolavano a palazzo, sapeva che Naell era un’appassionata viaggiatrice e non aveva problemi a trovarsi in un bosco, piuttosto che in un accampamento improvvisato.

Inoltre, l’enorme lupo che la seguiva ogni dove era per lui motivo più che valido per starle alla larga, pur sapendo che la possente bestia non avrebbe mai torto un capello a chicchessia.

A meno che, ovviamente, non fosse stato un nemico della principessa.

No, lei era troppo forte, troppo indipendente per lui.

Si sarebbe sentito sopraffatto da una simile tempra e, al tempo stesso, l’avrebbe resa infelice perché non adatto a reggerne il confronto.

Sopra a tutto, non voleva essere al centro dell’attenzione come, sicuramente, un principe cadetto sarebbe stato all’interno della corte.

Detestava la mondanità.

“Sembra tu non abbia dormito molto, figliolo. Cosa ha turbato il tuo sonno?” domandò Alderan a Coryn, facendo nel contempo un cenno alla cameriera di portargli il necessario per la colazione.

In un quieto fruscio di stoffe, prodotto dal veloce movimento della donna di servizio, Coryn si schiarì la voce prima di borbottare: “Nulla di preoccupante, padre. Solo troppi studi, e troppo complessi.”

Servendosi della spremuta di frutta fresca nel calice di cristallo azzurrino che aveva innanzi, Alderan ne sorseggiò un goccio prima di asserire affabile: “Dovresti discorrere con la principessa Naell dei tuoi studi. So da fonti certe che è donna davvero intelligente e sagace.”

“Dubito che la principessa abbia tempo per me, nobile padre. Non è forse in partenza per il regno di Akantar, se non già partita?” replicò Coryn, imburrandosi una fetta di pane bianco e morbido.

Con tono leggermente irriverente, Alderan mormorò: “I mille anni della dinastia dei reali di Akantar, sì. Se non erro, i figli minori di Aken sono giunti stamani a Rajana proprio per accodarsi alla principessa. Davvero scelta curiosa, la loro.”

“Siete ben informato, padre” gli fece notare Coryn, con casualità.

“Contrariamente a te, figlio, io tengo molto a rimanere in contatto perenne con ciò che succede ai nostri reali. Specialmente considerando quanto, la nostra cara principessa, abbia rischiato in questi anni. Saperla in procinto di solcare nuovamente il mare, è per me fonte di grande preoccupazione” lo rabberciò leggermente Alderan, accigliandosi.

La cameriera, silenziosa ombra nella saletta, depositò accanto al braccio del conte frutta di stagione, composte di vario genere, pane abbrustolito e panetti dolci.

L’attimo dopo, con un profuso inchino, uscì senza produrre alcun rumore.

Alderan la seguì con lo sguardo per un istante prima di continuare nella sua reprimenda al figlio.

“Devi comprendere che, se intendi veramente entrare nella famiglia reale, occuparti della politica interna del nostro paese sarà di vitale importanza. Non puoi dimostrarti ignorante in materia.”

“E’ vostro desiderio, non certo mio, nobile padre” tenne a precisare Coryn, accalorandosi.

“Non capisco questo tuo odio viscerale nei confronti della principessa Naell. E’ una fanciulla molto bella e ben educata, pur se un po’ ribelle. Sarebbe una compagna ideale per te, Coryn. Ama i libri. Non dovrebbe farti felice, questo particolare?” protestò con veemenza Alderan, mostrandosi piuttosto scocciato dal comportamento testardo del figlio.

Sbuffando, Coryn terminò di bere la sua spremuta prima di ribattere con un nerbo che mai, prima di allora, si era sognato di usare col padre.

“Mille e più creature del gentil sesso hanno questa dote, padre, ma non per questo desidero maritarmi con tutte loro. Una sola mi basta, ma ella non sarà la nobile Naell. Sono più che certo che non andremmo d’accordo.”

“Hai parlato con lei solo due volte! Come puoi sostenere questa tua tesi ridicola!?” sbottò il padre, picchiando con violenza un pugno sul tavolo.

Pur tremando dentro di sé, Coryn si fece forza per ribattere con altrettanta foga al padre e, con voce solo lievemente esitante, replicò: “Conosco me stesso, e ho fiducia nel mio intuito.”

“Intuito! Non sapresti allacciarti una tunica da solo, se fossi messo alle strette, figurarsi se sei in grado di comprendere simili segreti!” lo irrise irrispettosamente il padre, ridendo di gusto subito dopo.

Coryn non replicò, troppo angustiato per farlo e Alderan, prendendo il suo silenzio per una vittoria, decretò senza mezzi termini: “La nobile Naell sarà tua moglie, fosse anche l’ultima cosa che farò prima di morire.”

Reclinando il capo, Coryn si levò in piedi in silenzio e, con un inchino formale al padre, lasciò la sua stanza per dirigersi impettito verso le proprie.

Ascoltando assorto il rimbombare dei suoi passi nei cupi corridoi che conducevano in quell’angolo del maniero, Coryn fu sul punto di ridere di sé.

Gli sembrava di essere un condannato a morte e pronto per raggiungere il patibolo.

E forse lo era seriamente.

Per lo meno, lo avrebbero condannato seriamente a morte se, quel che sospettava, corrispondeva a verità.

Ma sapeva davvero troppo poco dei movimenti di suo padre, per poter realmente pensare di fare qualcosa.

Doveva procedere per gradi, attendere paziente che si tradisse o che, per lo meno, mettesse nelle sue mani qualcosa di veramente utile per formulare delle accuse.

Se realmente ve n’erano da formulare.

In quei giorni, avrebbe dovuto tenere sotto controllo il padre e cercare di comprendere dove si fosse recato, nei giorni precedenti, portando con sé il prezioso manoscritto di alchimia.

Una volta in possesso di quelle informazioni, avrebbe tratto le sue conclusioni.

Come ultima risorsa, avrebbe affrontato il viaggio a cavallo dal suo feudo fino alla capitale, che distava quattro giorni a passo di diligenza, e avrebbe infine informato il re.

A costo di perdere tutto.

Ma, di certo, non il suo senso di giustizia e la sua dignità.

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Capitolo 8
*** 8. ***


••8••

 

 

 

  

Le mani dell’uomo che la tenevano stretta a sé erano calde, sulla sua pelle fresca e il suo respiro, profumato di erba fresca e ghiaccio, le solleticava la base del collo, eccitandola.

Muovendosi nel suo letto, preda di quello strano sogno, Enyl ansimò nel sonno, passandosi lascivamente le mani sulle braccia prima di avvertire, prepotente, il tocco di una bocca rovente sulla sua.

Non era mai stata baciata, se non raramente sulla guancia da qualche amico, o dai parenti.

E, di certo, non come se volessero svuotarla di ogni energia e, al tempo stesso, volessero riempirla come una coppa.

Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra e, di colpo, tutto il suo corpo venne avvolto dalla brina.

Svegliandosi di soprassalto, il fiato corto come se avesse corso per miglia intere senza mai fermarsi, Enyl sgranò gli occhi, spaventata ed eccitata al tempo stesso.

Le mani che artigliavano le stoffe preziose del leggero lenzuolo, la giovane scrutò ansiosa la stanza vuota, dove la mancanza di Rannyl pesava come un macigno pronto a schiacciarla.

Non v’era nessuno a turbare il suo sonno e, di certo, l’uomo che l’aveva fatta sentire donna come mai prima, non era giunto a lei in sogno per spaventarla.

O almeno, così credeva.

Di certo, l’aveva sorpresa.

Levandosi da letto con le gambe ancora leggermente tremanti, Enyl fissò i palmi delle mani umidi di sudore.

Nel lapparsi le labbra, avvertì sulla sua pelle il residuo del tocco dell’uomo senza volto che aveva turbato in maniera così sconvolgente il suo mondo onirico.

Era ormai così abituata alle incursioni occasionali di colei che Enyl aveva soprannominato Corvo Bianco, che quella visita a sorpresa l’aveva sgomentata oltre ogni ragionevole dubbio.

Non era da lei sognare misteriosi amanti notturni né, tanto meno, risvegliarsi eccitata, confusa e dolente, come se la mancanza dello sconosciuto uomo dei suoi sogni le procurasse un dolore fisico.

“Ma che mi prende?” esalò Enyl, passeggiando nervosamente per la stanza, le mani poggiate sui fianchi snelli.

***

“Gli uomini sono arrivati?”

“Sono nei luoghi prestabiliti. L’ultimo contingente giungerà entro domani al massimo.”

Annuendo tra sé, Bramann tamburellò pensoso una mano flaccida e grassoccia sul ripiano marmoreo della scrivania prima di sospirare, aprire un cassetto ed estrarre un piccolo involto di cuoio.

L’uomo dinanzi a lui, avvolto da un semplice mantello color cioccolata e un pesante turbante sul capo, sogghignò soddisfatto nello scorgere il contenuto dell’involto.

Con un lieve cenno del capo, afferrò il prezioso contenuto con dita avide prima di ghignare: “Non ve ne pentirete, mio signore. I nostri servigi sono i migliori di tutto il continente. Anche…”

Interrompendolo con un gesto della mano, Bramann replicò seccamente: “Non mi interessa conoscere i tuoi importanti committenti, Ligass. Mi basta sapere che loro vi trovano i migliori per questa missione. Voglio un lavoro rapido, pulito e che mi fornisca una copertura fuori e dentro le mura, il più capillare possibile. Non voglio guai di alcun tipo, quando arriverà il giorno dei festeggiamenti per i mille anni di regno.”

“Saranno i più gloriosi che la storia ricorderà” dichiarò sorridente l’uomo, inchinandosi brevemente prima di scivolare fuori dalle stanze del Consigliere, lasciando così solo l’akantaryan.

Oh, ne era certo. Quei festeggiamenti sarebbero stati eccezionali.

Tre settimane al massimo, e tutto avrebbe avuto inizio.

Poggiando la schiena contro l’alto scranno su cui era assiso, Bramann chiuse per un momento gli occhi e assaporò il silenzio delle sue stanze.

Un tenue profumo di spezie si levava dall’incensiere d’argento posto accanto alla porta, mentre il calore del sole sulla pelle, proveniente dalla finestra, ne riscaldava il viso.

Erano passati due giorni dalla partenza della principessa Naell e del suo seguito, e tutto ciò che doveva essere fatto, stava dipanandosi dinanzi a lui come un perfetto spettacolo coreografico.

Nulla poteva andare storto.

Troppe persone vi erano coinvolte, per troppo tempo avevano lavorato, e con notevole dispendio di energie.

Tutto avrebbe dovuto svolgersi con una sinergia priva di difetti, così da rendere Yskandar il palcoscenico perfetto per i festeggiamenti ormai prossimi.

Sì, il suo uomo aveva ragione; il giorno in cui Yskandar fosse stata abbigliata a festa, sarebbe stato il giorno più bello di tutti i tempi di lì a venire.

***

Accigliata come poche altre volte era stata, Enyl uscì a grandi passi dal palazzo per ritrovarsi nel bel mezzo del traffico cittadino, immersa in un miasma di persone di tutti i generi.

Il giorno del mercato era sempre costellato da un febbrile andirivieni di mercanti, mercanzie di ogni tipo e compratori di qualsiasi estrazione sociale.

Con l’avvicinarsi dei festeggiamenti per i mille anni di regno della famiglia di Ellessandar, poi, tutto ciò aveva assunto i contorni del caos puro.

Non le era mai piaciuta la confusione e rimpiangeva la calma delle sue montagne, la frescura dell’aria frizzante del mattino e il profumo dei fiori boschivi.

M era lì per un motivo, e non doveva lagnarsi del proprio destino.

Se il fato aveva scelto lei, per detenere quello strano potere, e Hevos e Haaron si erano addirittura spinti a presentarsi al loro cospetto, per metterli in guardia, un motivo doveva esserci.

Non dipendeva da Loro, il dipanarsi degli eventi, ma da forze ben più grandi di lei, del suo dio e di tutti loro messi assieme.

Aveva però sperato ardentemente in una sua parola di conforto, in un suo consiglio.

Era così tanto che non udiva più la Sua voce!

Sapeva solo che, in quel momento, voleva agire per il meglio, anche se non era sicura di essere all’altezza delle aspettative di coloro che l’avevano guidata fin lì.

“E’ tutta colpa di Ran. Mi affido troppo a lui, e ora mi manca da morire” brontolò a bassa voce tra sé, camminando spedita lungo il marciapiede in arenaria rossa, che costeggiava le alte mura di palazzo.

Accanto a lei, un via vai di passanti dava l’idea di uno sciame d’api ben ordinato ed efficiente.

L’aria era profumata di spezie, frutta esotica e cuoio conciato e, quando finalmente Enyl raggiunse il mercato, lì si fermò per ammirarlo rapita per alcuni attimi.

I colori di quei luoghi le erano piaciuti fin dal primo istante, così forti, così impetuosi, e così pure i profumi, ma non era lì per lustrarsi gli occhi o comprare sete preziose per se stessa, mamma o Liana.

Fin dal loro arrivo a Yskandar, lei e Ran avevano cercato i segni, seppur miseri, di un qualche genere di pericolo.

Pur avvertendolo nell’aria come l’odore acre di una bestia in decomposizione, non erano riusciti a inquadrarlo in nessun modo.

Perciò, ogni giorno, aveva compiuto gli stessi passi, gli stessi movimenti, alla ricerca di quella risposta che continuava a sfuggirle dalle mani, simile a sabbia tra le dita.

Anche questa volta, l’odore pungente del pericolo le solleticò le narici, dicendole di mantenersi pronta contro un eventuale attacco, ma non le giunsero più informazioni dei giorni precedenti.

Era frustrante sapere che c’era qualcosa pur senza vederlo, percepire il pericolo pur senza conoscerne la causa, e non poter far nulla per impedire che esso cadesse loro addosso come fitta pioggia.

Percepiva attorno a sé scie di pensieri furenti, altri più lieti, altri ancora subdoli, freddi e calcolatori.

Questi ultimi, la interessavano più degli altri, ma non riusciva a collegarli a un volto, o un luogo.

Tutto era ancora troppo lontano dallo svolgersi, evidentemente, e coloro i quali avrebbero guidato queste menti dai pensieri errabondi e oscuri, ancora non erano presenti per dare loro uno scopo preciso cui pensare.

No, non era ancora il tempo, a quanto pareva.

La sua ricerca sarebbe stata ancora una volta infruttuosa, e ciò la fece indispettire non poco.

Riprese perciò il cammino tra le bancarelle, e ammirò distratta ciò che esse proponevano ai ricchi abitanti di Yskandar.

Badò solo minimamente alle occhiate incuriosite della gente, e ai commenti sorpresi quanto affascinati di chi le stava vicino; vi era abituata, e scorrevano su di lei come acqua di torrente.

Non le interessava sapere se gli akantaryan la trovavano esotica e bella quanto una dea, o se trovavano i suoi colori volgari o insipidi.

La sua vanità – che esisteva, ma non era di certo così importante per lei – non ne veniva minimamente intaccata.

Aveva scoperto fin troppo presto che mostrarsi affascinanti con le persone giuste, faceva aprire più porte di quante non si potessero immaginare.

Come ormai ben sapeva, coloro che la conoscevano solo di sfuggita pensavano che lei fosse ammorbata di vanità come di bellezza.

Ma era un mascheramento. Così ben congegnato, doveva ammettere che, a volte, ne rideva tanto da farsi dolere le guance.

Nessuno la conosceva veramente, forse neppure Rannyl, che le poteva entrare comodamente nella mente e scavarvi a suo piacimento.

Solo una persona, o meglio, un dio, aveva questo privilegio.

E quel dio avrebbe ricevuto una sua visita molto presto. Aveva un sacco di domande da porgli, e non era certa che sarebbe stata carina e affabile come suo solito.

Avevano parlato per anni, con la mente o nella sua forma animale, e lei aveva sempre trovato estremamente piacevoli le loro chiacchierate, ma stavolta era diverso.

Se voleva che operasse per il Bene, perché non le dava le armi per sconfiggere il loro nemico?!

***

Il tempio di Soanes, dio della Luce del Mattino e protettore di Yskandar, era fresco e arieggiato.

Leggiadri colonnati si allungavano a spirale verso le volte a sesto acuto mentre alte, elaboratissime vetrate lasciavano penetrare bargigli di luce solare dai mille spettri di colore.

Le poche persone presenti, erano accomodate in posizione penitente sulle rigide panche di legno che si estendevano lungo le navate più esterne del tempio.

Quella centrale, invece, era libera da qualsiasi impedimento, fatto salvo un’enorme struttura di marmo a forma di fiore e da cui sgorgava acqua purissima.

Trattenuta da una vasca dalla forma lanceolata, l’acqua gorgogliava mentre il mormorio soffuso delle preghiere intonate dai credenti si confondeva con il vociare proveniente dall’esterno.

Levato il capo per ammirare i bellissimi dipinti delle volte, in cui potè scorgere la figura leonina di Soanes e il suo alter-ego umano, bruno di pelle come di capelli, Enyl sorrise nel pensare a quante forme potesse assumere la Luce, agli occhi degli uomini.

Sapeva per fatto certo che Soanes e Hevos erano la stessa entità, e che essa appariva con forme e nomi diversi solo per amore degli uomini che la Luce proteggeva.

Scorgere quelle fattezze così estranee, per lei, fu comunque uno shock.

Lei era abituata a un enorme lupo bianco coperto di brina e… brina?

Portandosi una mano alla bocca per soffocare il proprio sgomento, nella mente un flash del sogno che l’aveva sconvolta tanto quella mattina al risveglio, Enyl esalò con un rantolo strozzato: “No! Non può…”

Scostandosi di lato non appena scorse una matrona giungere nella sua direzione, Enyl le sorrise lievemente nel farla passare, la mente momentaneamente chetata.

Con passo il più possibile tranquillo, si diresse poi verso una delle alcove affondate nel possente muro portante, e lì si accomodò.

Strette le dita attorno alla stoffa leggera della veste che indossava, mentre il respiro le si faceva via via più corto, Enyl ripensò a ciò che rammentava del sogno.

Il tocco lieve di quelle mani maschili, il suo profumo così familiare…, sempre più sconcertata, si passò le mani sul viso umido di sudore, non sapendo bene che pensare.

Fin da piccola, aveva incontrato Hevos nei suoi sogni in forma di lupo e, ogni anno circa, lontano dagli sguardi degli adulti, lei e Rannyl avevano ricevuto una sua breve visita.

Durante il suo ultimo viaggio in solitaria, però, Hevos l’aveva avvicinata tra le lande desolate che percorrevano i confini con Vartas e, fatto ancor più strano, era rimasto con lei per più di una settimana.

Il tutto era avvenuto meno di un anno prima.

Avevano parlato a lungo dei poteri conferiti a lei e Rannyl, e Hevos l’aveva rincuorata circa le sue paure e i suoi dubbi.

Le aveva permesso di dormire al suo fianco, avvolta dal suo calore e da quella strana brina che lo ricopriva, senza mai realmente inumidirne il pelo candido e morbido.

Il suo lupo, Kell, durante la breve visita di Hevos, si era assentato per quasi tutto il tempo e, anche se la cosa le era parsa strana, aveva immaginato fosse dipeso da qualche ordine implicito del dio.

Aveva da sempre apprezzato moltissimo la sua compagnia, perché l’avevano sempre fatta sentire speciale e amata.

Nel salutarlo alla fine della loro strana convivenza temporanea, inoltre, aveva provato una sorta di vuoto nel petto, cui però non aveva dato troppo peso, sul momento.

Ora, forse, iniziava a comprendere da cosa fosse dipesa quella sensazione di vuoto.

Sembri sconvolta, mia diletta.”

La voce stentorea e calda di Hevos rimbombò tra le pareti del suo cervello, stordendola e facendola rabbrividire leggermente, tanto che le mani si mossero nervose per massaggiare le braccia intirizzite.

“Hevos…voi…tu…”

“Temo di aver commesso un passo falso.”

“In che senso?”

Lo stupore di Enyl fu così genuino che Hevos, dentro la sua testa, rise sommessamente, per quanto in modo contrito e imbarazzato.

“Mi trovo in una situazione più che imbarazzante, con cui mi devo scontrare senza avere armi adatte... neppure con Hyo mi sentii così… inerme…”

A quel punto, la giovane avvampò in viso, immaginando perfettamente a cosa si stesse riferendo Hevos.

Mordendosi un labbro, esalò: “Ma… è possibile tutto ciò? Non mi è chiaro.”

“La Luce che è in te, che scorre nel tuo sangue come fuoco vivo, mi lega a te in modi che neppure io sospettavo e, temo, in alcuni altri che proprio non avrebbero dovuto.”

Il tono si fece ancor più contrito e, suo malgrado, Enyl si ritrovò a sorridere divertita e, sì, deliziata all’idea che lui potesse sentirsi in imbarazzo per ciò che, evidentemente, entrambi avevano condiviso nel mondo onirico.

Era un tuo sogno?” chiese allora Enyl, rilassandosi gradatamente.

Intorno a lei vibrava leggera la presenza del dio e, pur non scorgendo alcuna figura lupesca, sapeva che Hevos era lì con lei.

Ti ho sgomentata, e non era mia intenzione. Specialmente in considerazione del fatto che, ultimamente, i tuoi sogni sono costellati di tristi presagi.”

Accigliandosi immediatamente, Enyl gli domandò: “A tal proposito… non è possibile, per me, impedirle di entrare a suo piacimento nella mia testa? Comincio a essere stanca dei suoi scherzi di bassa lega.”

“Temo che non si possa proprio impedire al Corvo Bianco, nome che io trovo appropriato, di giungere a te tramite i sogni. Il mondo onirico appartiene alle Tenebre e lei vi ha accesso senza alcun problema.”

“Alle Tenebre? Quindi a Haaron. Ma non dovrebbe…”

Bloccandosi a metà della frase, Enyl impallidì visibilmente e fu costretta a poggiare le mani sulla panca su cui era accomodata, per non cadere a terra svenuta.

No, non era possibile! Non poteva aver capito bene!

Un sospiro, e Hevos mormorò: “Il Grimorio Nero è nelle mani del sangue di Haaron, di cui neppure lui conosceva l’esistenza, almeno finché ella non li ha sfiorati.”

“Come può…”

Trattenendosi all’ultimo momento dall’urlare nella propria mente i peggiori improperi, Enyl riuscì a dire con voce a stento controllata: “… come poteva nonsapere di avere avuto una figlia? Penso sia una cosa abbastanza facile da scoprire!”

“Non per Haaron, che non può mettere piede nel mondo dei terreni senza causarne la rovina più totale. Ancora non si capacita di tutto ciò, ma ipotizza possa essere successo in uno dei suoi templi, visitati dalle sue Accolite umane. Sono gli unici luoghi in cui gli è possibile intrattenere rapporti in forma solida – e con le sue sembianze umane – senza dover impossessarsi di un corpo estraneo e… beh… non è necessario che ti spieghi il resto.”

“Vuoi forse dirmi che… che si è portato a letto una delle sue Accolite, e che quest’ultima ha avuto una figlia? E lui non l’ha percepito?!”

Ora, la rabbia di Enyl era più che manifesta.

“Il punto è un altro, mia cara. Haaron, per sua natura, non può generare vita. Questo è un fatto incontrovertibile. O almeno, così noi pensavamo. La presenza di questa fanciulla nella terra dei viventi è una cosa di per sé incredibile, pur se maledettamente reale.”

Strabiliata dalle parole di Hevos – pur trovandovi un senso più che logico, visto che Haaron rappresentava le Tenebre e la Morte – Enyl chiese comunque: “E non può fermarla, ora che ha scoperto le proprie carte? Ora che ha mostrato al mondo la sua presenza?”

“Haaron può camminare su questa terra, e al di fuori dei suoi templi, solo tramite un corpo non suo e, così facendo, non ha alcun potere. Ciò che ha dentro di sé ucciderebbe ogni creatura vivente, se essa toccasse anche solo per errore l’aria che ci circonda.”

Imponendosi una certa dose di calma, Enyl mugugnò irritata: “Quindi, io e tutti coloro che sono coinvolti in questa storia, dobbiamo risolvere una bega nata nel talamo di Haaron, anche se lui non aveva alcuna idea che potesse succedere?”

“Se vuoi vederla in maniera moltoristretta… sì.”

Assottigliando le iridi dorate, Enyl sibilò nella sua mente: “Chiarisci bene un fatto. Quali altri motivi vi sarebbero?”

“Equilibrio e Caos, mia diletta. Tutto ciò ha motivazioni ben più ampie e più oscure di quanto tu non possa immaginare, e ciò che Haaron ha messo inavvertitamente in moto, è solo una parte del tutto.”

“Io vedo solo un uomo… un dio, scusami, che non ha saputo tenere i propri gioielli di famiglia lontano dalle sottane delle sue Accolite, e che ha dato il via a questa follia, pur senza volerlo.”

Hevos si lasciò sfuggire un sospiro e replicò stancamente: “Quando decisi di unirmi a Hyo, fu con consapevolezza e per amore, ma ugualmente i miei discendenti diretti finirono con lo sbagliare. Ho dovuto attendere la nascita di tua madre e tuo padre, perché le cose potessero prendere la giusta direzione. Fato agisce come meglio crede. E’ lo strumento a due facce usato da Equilibrio e Caos, e persino noi dèi della Luce e delle Tenebre possiamo fare poco o nulla, contro queste due forze cosmiche, a noi superiori.”

Vagamente più calma, Enyl sospirò a sua volta e, passandosi una mano tra la folta chioma di capelli dorati, mormorò: “Io e Ran siamo nati in risposta alla nascita di Corvo Bianco?”

“Sì, almeno per quanto ci è dato comprendere adesso. Io e Haaron fummo assai sorpresi di scoprire in voi l’essenza stessa della Luce e, all’epoca, ci parve giusto mettervi al corrente di ciò che sapevamo. Ci parve… importante. Ora ne conosciamo il motivo, finalmente.”

“Se ho capito bene, quindi, non fu una tua decisione, farci nascere con questi doni, e quanto faceste tu e Haaron non dipese da voi, ma una ‘soffiata’ di Equilibrio. Ho inteso il giusto?”

“Quanto ai vostri poteri, non fu per mia mano che la Luce discese su di voi. Fui il primo a stupirmi di un tale potere. E sì, a quanto pare Equilibrio decise di aiutarci in qualche modo, mostrandoci una pallida visione del futuro. Come vedi, non siamo più burattini di voi, nelle mani di tutti Loro.”

Nel dirlo, il suo tono parve irritato come, in precedenza, lo era stato quello di Enyl.

Quel particolare portò la giovane a sorridere lievemente e, con voce più dolce, replicò: “Non avrei dovuto alzare la voce, scusami. A volte, dimentico con chi sto parlando, e il mio caratteraccio salta fuori senza che io possa trattenerlo.”

“Tu potrai sempre parlarmi come meglio credi, mia cara. Inoltre, io ho estremamente a cuore ogni più piccola parte di te… anche il tuo caratteraccio, come lo hai definito tu.”

Enyl rise sommessamente, un tenue rossore a imporporarle le guance e, mordendosi un labbro imbarazzata, sussurrò nella sua mente: “Non mi è mai capitato di… beh, sì, insomma… di parlare con un uomo che…”

“Ti ho imbarazzata,… scusami ancora” intervenne Hevos, lasciandosi andare a un risolino nervoso.

Era così strano percepire il suo imbarazzo, il suo tono contrito, i suoi atteggiamenti così… umani!

Eppure, Enyl sapeva che le sue sensazioni non erano date da artifizi magici, ma erano assolutamente reali.

E le piacevano.

“No! Va bene… solo, mi devo abituare. E adesso, come dicevi prima tu, non è esattamente il momento migliore per mettermi ad amoreggiare con … beh, con te.”

Enyl rise in silenzio, tappandosi la bocca con le mani e ritrovandosi a cercare con lo sguardo la figura di Rannyl, desiderosa di metterlo a conoscenza dei suoi pensieri.

Non trovandolo, però, tornò immediatamente con i  piedi per terra e, mestamente, mormorò: “Vorrei poter dire che questa situazione è affascinante e piena di mistero, ma al momento è solo triste. Non ho a cuore di lasciarmi andare a pensieri pieni di gioia quando tutto, intorno a me, si prepara a una battaglia senza esclusione di colpi.”

“Parleremo di noi più avanti, quando Corvo Bianco non sarà più una minaccia. Ora bada alle ombre, mia diletta, poiché esse si stanno pericolosamente avvicinando a te, ma non ne scorgo ancora i volti.”

Il tono di Hevos si fece accorato, quasi spaventato, ed Enyl si sentì invadere da un calore del tutto nuovo, così piacevole che avrebbe voluto crogiolarsi in esso fino alla fine dei tempi.

Invece, levandosi in piedi per allontanarsi dal tempio, si limitò a dire: “Sono una figlia sacra, e so difendere me stessa e il mio lupo. Non temere per me. Ora, sarà meglio che continui con la perlustrazione della città. L’aria è satura di pericolo.”

“Lo so. Ma è tutto oscuro, ai miei occhi. Fato non mi permette di agire, questa volta.”

Frustrazione e rabbia scivolarono nella sua mente con forza ed Enyl, premurosa, mormorò: “Mi rassicura avere il tuo appoggio, anche se ancora non credo di essere la persona più adatta a questa missione.”

“Equilibrio non sceglie mai a caso e, scegliendo te e Rannyl, sono certo abbia preso la decisione migliore.”

“Sei di parte” gli rammentò Enyl con un sorrisino malizioso dipinto sul volto.

“Riesco a essere abbastanza obiettivo pur trattandosi di te, mia diletta.”

“E’ carino, … sì, quando lo dici.”

“Allora, lo dirò sempre.”

Detto ciò, svanì dalla sua mente ed Enyl, levando il capo verso l’alto, scorse il cielo azzurro e terso e rade, flebili nubi all’orizzonte.

Al di fuori delle mura del tempio, le era impossibile comunicare con lui, se non in sogno. Ed ella non era in grado di camminare consapevolmente nel mondo onirico.

Avrebbe dovuto tornare entro quelle mura per avere ancora un dialogo con Hevos ma, per il momento, non aveva bisogno di conoscere altro.

Sapeva chi era il Corvo Bianco e, grazie ai buoni uffici di Ellessandar, aveva avuto la conferma che a Nellassat si trovava una strega che corrispondeva alla descrizione che lei aveva fatto.

Anche se la notizia non era certo stata delle migliori ora, per lo meno, conoscevano una parte del problema.

Il suo rapporto con Hevos era tutt’altra storia.

Quello, di certo, non aveva a che fare con il conflitto.

Avvampando suo malgrado nel ripensare al sogno che l’aveva destata, Enyl si ritrovò a sfiorare le guance roventi con le dita e, tra sé, esclamò: “Piantala di pensarci! Non è il momento!”

“Piantarla? E di fare cosa?”

Sobbalzando, e lasciandosi andare a un gridolino ben poco edificante, Enyl si appoggiò al muro esterno del tempio e, piccata, strillò nella sua mente: “Ran! Hai intenzione di farmi morire di paura?!”

“Veramente, eri tu che urlavi come un’ossessa!” brontolò contrariato Rannyl. “Per poco non scivolavo dal cammello, quando mi hai strillato nella testa.”

“Scusa” sbuffò Enyl, tentando con un certo sforzo di darsi una calmata. “Ho ricevuto notizie da Hevos… e non sono buone.”

“In che senso?”

“Corvo Bianco altri non è che la figlia di Haaron.”

“CHE?!” esclamò a gran voce Rannyl, sgomento e confuso.

Enyl riassunse ciò che Hevos le aveva raccontato su Caos ed Equilibrio, aggiungendo il fatto di non poca rilevanza riguardo all’assoluta infertilità di Haaron, e alla sua impossibilità di fermare la figlia dai suoi intenti.

Rannyl espresse a modo suo la rabbia e l’indignazione di fronte a quella notizia, ed Enyl lasciò che le sue imprecazioni rimbalzassero libere nella sua mente finché, a poco a poco, esse non presero a scemare fino a svanire del tutto.

Ora più libero, il fratello tornò a essere pacato e reattivo come suo solito e, prontamente, le chiese: “Quale sarebbe, quindi, questo nostro compito?”

“Eliminarla, se ho ben compreso. Come, resta da stabilire. Io non sono addentro alle pratiche magiche come, invece, Corvo Bianco è di sicuro. Hevos non ha potuto dirmi nient’altro ma sta indagando, per quanto gli è possibile.”

“Il fatto che ben due dèi siano stati circuiti in questo modo, mi fa pensare che ben poche cose, in questo Universo, siano controllabili” mormorò stancamente Rannyl. “Siamo sicuri che questo viaggio è ancora indispensabile? Non sarebbe meglio tornare?”

“Ogni volta che ci penso, vedo Naell morta nella sua stanza, e con la gola tagliata. No, qui a Yskandar c’è chi vuole la sua morte mentre, nel deserto, non scorgo pericolo diretto nei suoi confronti.”

“Per ‘diretto’ che intendi?”

“Che il pericolo è incombente, ma non la ucciderà. E’ tutto ciò che percepisco, scusa.”

Si sentiva così inutile, in quei momenti!

“Naah. Non è colpa tua, sorellina. Staremo in campana e vedremo di non farci cogliere di sorpresa ma, nel frattempo, farò anche a modo mio.”

“E cioè?”

“Ho chiesto al comandante di inviare due uomini in avanscoperta sui fianchi della carovana, così da essere certi che niente e nessuno cerchi di colpirci quando siamo più esposti.”

Enyl sorrise e, annuendo, dichiarò: “C’è un motivo se papà dice che saresti stato uno stratega nato, se fossi cresciuto a Rajana.”

Rannyl ridacchiò imbarazzato e replicò: “Anche tu sei brava, e anche An. Abbiamo il sangue di un guerriero, no, di due guerrieri nelle vene. Qualcosa conterà pure, ti pare?”

Ripensando alle parole di Hevos, Enyl aggiunse: “Abbiamo anche la Luce, nel nostro sangue. Siamo creature beneficiate del suo tocco.”

“Beh, siamo figli della stirpe di Hevos, che è il Signore della Luce, quindi ne siamo toccati due volte, direi…”

“E’ un po’ più complicato di così. Hevos mi ha assicurato che lui non c’entra niente con i nostri doni. Che è stato Equilibrio a darceli, per controbilanciare la presenza di Corvo Bianco nell’Universo.”

“La morale, comunque, rimane una. Hevos ci guida, quindi…”

Bloccandosi a metà della frase, Rannyl bofonchiò: “Enyl… cos’hai combinato mentre io non c’ero?”

Avvampando in viso, lei mugugnò: “Niente, perché?!”

“Perché nella tua testa vedo… ehi! Stavo guardando! Non puoi tagliarmi fuori così, dai!” protestò vibratamente Rannyl non appena la sorella elevò le sue barriere mentali, talmente alte da chiuderlo definitivamente fuori dalla sua testa.

“Sono cose private. E credimi, di reale c’è ben poco, per non dire nulla!” sbuffò irritata Enyl.

“Cioè? Hai sognato il tuo bello e basta?” la prese in giro Ran.

Accigliandosi, Enyl replicò piccata: “Non è ‘il mio bello’, come lo chiami tu. Vedi di moderare i termini.”

Rannul allora ridacchiò divertito e dichiarò: “La mia sorellina si è presa una cotta, la mia sorellina si è presa una cotta…”

“Quando tornerai a Yskandar, ti spellerò vivo, Ran, questo è sicuro” ringhiò Enyl, fattasi mortalmente seria.

“Lo vedremo. Per ora, non darti alla pazza gioia con il tipo… voglio prima conoscerlo e scoprire se è degno di te” si limitò a dire Rannyl, tornando serio al pari suo.

A quel punto Enyl scoppiò a ridere e, perfida, sentenziò: “Oh, sono sicura che, quando lo conoscerai, non potrai dire nulla su di lui. Credimi.

“Vedremo. Ora ti lascio. Stanno tornando gli uomini di ronda.”

Detto ciò, interruppe il contatto e, sarcasticamente, Enyl pensò tra sé che, una volta che Rannyl avesse scoperto chi le aveva fatto battere più forte il cuore, non avrebbe potuto che tacere.

Chi poteva avere qualcosa da ridire, contro Hevos?

***

Nel veder sopraggiungere una delle vedette mandate in avanscoperta, il comandante della carovana diede l’alt e, in attesa, volse il proprio cammello in direzione del soldato in arrivo.

Muovendo la propria cavalcatura in direzione del comandante, Rannyl attese con lui e gli altri soldati il ritorno della vedetta.

Non appena essa ebbe raggiunto il folto gruppo armato, salutò brevemente il suo comandante, prima di schiarirsi la gola con un goccio d’acqua prelevata dalla borraccia che teneva legata in vita.

Dopo un secondo di riflessione, esordì dicendo: “Ho raggiunto il Dente di Serpente, a due ore da qui, e ho controllato la stretta vallata visibile dalla rupe, scorgendo il convoglio di vettovaglie che, solitamente, percorre quella via carovaniera. Sono merci provenienti da Nellassat e che, periodicamente, giungono da nord-est per poi discendere fino a Yskandar. Non ho riscontrato una presenza di soldati superiore al solito.”

Ingollando un secondo sorso d’acqua, l’uomo proseguì subito dopo.

“Ho ritenuto più sicuro, comunque, parlare con chi guidava la carovana, e il mercante mi ha detto di essere stato testimone dei preparativi per la partenza dei reali di Nellassat.”

“Per il millennio della casa regnante di Akantar? Sono stati invitati anche loro?” si informò subito Rannyl, vagamente sorpreso.

Il soldato annuì, torvo in viso.

“Sì, Altezza. Il mercante mi ha riferito che stavano allestendo le portantine reali, e carri colmi di vettovaglie per affrontare il lungo viaggio. Stando a ciò che stavano caricando, dovrebbero partire nei prossimi giorni, e non giungeranno a Yskandar prima di un mese, un mese e mezzo, giusto in tempo per presenziare alle celebrazioni solenni.”

“Da quel che so, però, il popolo inizierà a festeggiare tra tre settimane circa, giusto?” domandò Rannyl, volgendosi in direzione del comandante.

“Esattamente” assentì il capitano Rystak. “Saranno celebrazioni minori, ma daranno il via ai tre mesi di festeggiamenti promulgati dalla Corona. Noi saremo di ritorno a Yskandar nel momento in cui daranno il via alla festività vera e propria, esattamente come i reali di Nellassat.”

Aggrottando lievemente la fronte, Rannyl lanciò un’occhiata pensosa a Naell e Kalia, che annuirono al giovane.

Il figlio sacro, allora, domandò: “I rapporti tra Nellassat e Akantar sono stati buoni, negli ultimi tempi?”

“Più che buoni. Re Kevan è un sovrano a cui non interessa la conquista, quanto il ragionevole profitto, e fare affari con Akantar lo ha reso caro ai suoi sudditi, poiché da tempo quel regno non godeva di un simile splendore. Naturalmente, non ha le ricchezze del nostro reame, ma… diciamo che, dopo secoli di dominio poco oculato, re Kevan si è dimostrato un uomo con l’occhio lungo, e la mano poco propensa a spargere sangue.”

Rannyl non fu sicuro che il tono del capitano fosse ammirato o, più semplicemente, ironico, ma non discusse con lui delle sue personali idee.

Rimuginò piuttosto sulle parole del comandante del convoglio, e si chiese se ci si potesse fidare di un uomo del genere.

Specialmente dopo ciò che aveva saputo sul Corvo Bianco.

Possibile che una simile strega si trovasse a Nellassat senza un motivo? E che il suo re non fosse a conoscenza del pericolo costituito dalla figlia di Haaron?

Quando Enyl l’aveva messo al corrente della sua chiacchierata con Ellessandar, venendo a conoscenza della presenza di una simile strega al fianco di re Kevan, non si era sentito al sicuro sapendola così vicina alla loro destinazione finale.

Ma, stando alla sorella, il pericolo principale per Naell non veniva da lì, ma da Yskandar.

Chi si nascondeva nella capitale? Chi voleva la morte di Naell? E perché?

Enyl conosceva il nemico contro cui avrebbe dovuto lottare, ma Naell?

Chi, tra le parti in gioco, la voleva come vittima sacrificale?

“Vi vedo turbato, principe. Qualcosa non va?” domandò cortesemente il comandante a Rannyl.

Come sempre gli capitava, ogni qualvolta dove affrontare la parte regale dell’essere uno dei figli di Aken, Rannyl impiegò qualche attimo prima di comprendere che il comandante stava rivolgendosi a lui.

Suo zio era stato lapidario, su quel punto.

Suo padre Aken aveva perso per legge qualsiasi diritto ad essere chiamato ‘Sua Altezza’ o ‘Principe’, o ancora ‘Altezza Reale’, come aveva perso il diritto a essere annoverato tra gli eredi al trono.

Questo divieto non era però stato esteso alla sua progenie, poiché Ruak aveva pensato non fosse corretto.

Pur se non in linea di successione per il trono di Enerios, lui, Enyl e Antalion erano considerati, per la legge del Regno, ‘Loro Altezze Reali’.

Non che la cosa gli interessasse, specialmente in situazioni del genere, ma non poteva certo offendere lo zio dichiarandosi infastidito all’idea di essere trattato come una persona di grado superiore agli altri.

Schiarendosi la voce, Rannyl cercò di pacificare il suo animo per non far sorgere la consueta acredine che serpeggiava nel suo sangue, ogni qualvolta udiva il suo titolo onorifico e, annuendo al comandante, mormorò pensoso: “Stavo solo pensando che un re poco devoto alla spada può essere più subdolo e pericoloso di uno amante del sangue ma, non conoscendo affatto re Kevan, né il genere di rapporto intercorrente tra le corone di Nellassat e Akantar, non posso esprimere nessun giudizio avvalorato da prove.”

“Il vostro dire vi fa onore, principe, poiché dimostra che, pur essendo così giovane, non vi lanciate in elucubrazioni prive di coerenza. E’ un pensiero, il vostro, che hanno formulato in molti ma, nel corso degli anni, le azioni di re Kevan non hanno portato a credere che la corona di Nellassat stesse tramando contro di noi” gli espose il comandante, annuendo più volte.

“Ugualmente, non siete tranquillo neppure voi” gli fece però notare Rannyl, ammiccando.

Avvicinando la propria cavalcatura al gruppo, Naell domandò loro: “Ci sono problemi dinanzi a noi?”

“No, principessa. Raggiungeremo regolarmente l’oasi domani sera, e potremo soggiornarvi per le successive due settimane”  la rassicurò il soldato, sorridendole generosamente.

La giovane cercò sul volto di Rannyl anche il minimo accenno di pericolo ma, come sempre, sul viso del ragazzo non riuscì a scorgere nulla.

Le sue iridi ambrate erano perfettamente ermetiche, quiete come uno specchio d’acqua di montagna.

Era fastidioso, a volte, avere a che fare con i gemelli.

Sembravano entrambi  delle statue, quando ci si mettevano d’impegno.

Lasciandosi andare a un leggero sospiro, Naell non poté far altro che annuire e, tornata che fu al fianco di Kalia, le mormorò all’orecchio: “Vedi se riesci a farti dire qualcosa da Rannyl. Io non riesco a cavargli neppure una parola.”

“Devo circuirlo?” ironizzò Kalia, prima di notare l’assoluta serietà dipinta sul volto dell’amica. “Vedrò che riesco a ottenere.”

Naell annuì e, con lo sguardo, tornò a osservare il cugino che, saldo sulla sua cavalcatura e con gli occhi fissi sull’orizzonte, parve non essere del tutto presente, come se i suoi pensieri stessero correndo lontano, molto lontano da loro.





_____________________
N.d.A.: dovrei aver chiarito qualche dubbio, in teoria. In pratica, dovrete dirmelo voi... :)
Grazie a chi ha letto e commentato! Mi fa sempre piacere conoscere i vostri pareri in merito a ciò che scrivo.

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Capitolo 9
*** 9. ***



••9••

 

 

 

 

 

“Come sarebbe a dire? Dov’è la principessa?!”

Quelle frasi gli esplosero nella testa come un colpo di maglio, neanche la moglie fosse stata presente nel suo studio e avesse udito le parole del sicario da lui pagato per mettere fine alla breve vita della principessa Naell di Rajana.

Perché Norat di Elegor, cugino del Signore delle Isole Arcobaleno, sapeva perfettamente che sarebbero state quelle le parole di Myllisen, sua devota moglie quanto figlia primogenita di re Erenokt di Akantar.

Erano passati anni da quando, una notte stellata di primavera, Myllisen era giunta su una piccola barca sulle coste dell’isola, armata solo del suo amore per lui e di una radicata quanto indistruttibile voglia di ferire il padre.

Norat era stato lieto della sua decisione di scegliere lui come futuro sposo, piuttosto che un qualsiasi nobile scelto dal sovrano di Akantar.

Il desiderio della donna di dichiarare guerra al potente padre, però, gli era sembrata una follia pura e semplice.

Suo cugino Gherman, infatuato a sua volta della bella Myllisen e deciso ad averla nelle sue grazie, le aveva concesso di mantenere un continuo stato di allerta con Akantar.

Questo avrebbe fatto comprendere a re Erenokt che, un qualsiasi suo tentativo di riprendersi la figlia, avrebbe potuto dare il via a una cruenta lotta per mare.

Tutto ciò non si era fortunatamente concretizzato – amava Myllisen, ma non desiderava far scoppiare una guerra per lei – ma, a tutt’oggi, i mari adiacenti le Isole Arcobaleno erano tenuti sotto costante controllo.

I soldati, appostati sulle scogliere o nelle torri martello, erano pronti a prendere di mira le imbarcazioni di Akantar troppo vicine alle coste delle loro isole.

Re Erenokt, comunque, non aveva mai tentato approcci con la figlia, nel corso di quei lunghi anni di lontananza.

A Norat, quel silenzio era parso strano.

Dopo l’iniziale divertimento portato dai continui borbottii della moglie, pronta a  insultare il padre per questo o quel motivo, quell’odio spesso puerile gli era infine giunto a noia.

Era più che probabile che il re akantaryan avesse rinunciato alla figlia proprio per evitare altri anni di rimbrotti, bronci e vanesie richieste.

Se si era comportata così anche da giovane virgulto della corona akantaryan, non lo stupiva che il re non la rivolesse in seno alla famiglia!

D’altra parte, Norat era compiaciuto dai figli che la donna aveva saputo dargli nel corso degli anni e, a parte quegli scoppi d’ira e i ripetuti capricci infantili, averla nel letto, la notte, era sempre un piacere.

Spesso e volentieri passava sopra alle sue mattanze e, quando esagerava, poteva sempre rivolgersi alle tante concubine del cugino, per scaldarsi le lenzuola.

Questa volta, però, sapeva che nessun posto, sull’isola, sarebbe stato abbastanza lontano, o sicuro, per lui.

Myllisen aveva desiderato porre fine alla vita della principessa Naell fin da quando, l’anno passato, aveva saputo del prezioso dono che suo fratello, il principe Ellessandar, aveva regalato alla fanciulla.

A Norat era parso strano sentirla inveire all’indirizzo del principe solo per un misero libro miniato, ma Myllisen aveva urlato come un’aquila impazzita.

Aveva asserito, tra un pianto e un insulto, che a nessuno, Ellessandar, avrebbe fatto un dono del genere, se non a una donna che amava profondamente.

Il libro in questione non era altro che un breve componimento di poesie scritte dalla stessa regina Elmassary.

Stando a quanto sostenuto da Myllisen, però, nessun’altro era in possesso di un simile scritto, poiché apparteneva solo alla Famiglia Reale.

Il fatto che Ellessandar lo avesse donato a Naell, era riprova del fatto che il fratello tenesse a lei più che a qualsiasi altra donna da lui conosciuta… e perciò ella doveva morire.

Quando aveva osato chiedergliene i motivi, Myllisen aveva ringhiato infastidita che il fratello non avrebbe mai dovuto essere più felice di lei.

Quello, era un diritto che voleva mantenere per sé e basta.

Preferendo non scatenare una sicura discussione con la moglie, Norat si era limitato ad assentire e, senza null’altro dire, se n’era andato da palazzo per parlare della cosa con il cugino.

Gherman si era dichiarato più che d’accordo con Myllisen, ma per tutt’altre motivazioni.

Non solo avrebbe voluto eliminare sul nascere la possibilità che Ellessandar potesse sposarsi – con Naell, o qualsiasi altra nobildonna, poco importava – ma, se fosse stato per lui, avrebbe tolto di mezzo il principe stesso.

Così facendo, sarebbero stati i figli di Norat a poter vantare diritti sulla corona di Akantar e, indirettamente, le Isole Arcobaleno sarebbero diventate potentissime.

Norat non aveva espresso commenti neppure in quell’occasione – non provava ambizioni simili – e, con un breve cenno del capo, si era limitato ad annuire.

Segretamente, Norat aveva sperato che Naell, dopo il suo ritorno a Enerios, si sposasse con qualcun altro, eliminando così a piè pari qualsiasi problema.

Ciò, purtroppo, non era avvenuto e così, grazie ai buoni uffici delle loro spie, non appena aveva saputo del suo prossimo viaggio presso Yskandar, si era dato da fare per accontentare la voglia di sangue della moglie.

Se Myllisen e Gherman desideravano fare piani di conquista, e inimicarsi due reami potenti come Akantar ed Enerios, che facessero pure.

Lui non aveva granché voglia di scervellarsi su cose simili.

Si sarebbe limitato a seguirli da lontano e ne avrebbe preso quel che sarebbe venuto, come si sarebbe allontanato alla chetichella, e senza farsi vedere, se le cose si fossero messe male.

Aveva pagato il sicario a nome di sua moglie, ma di certo non lo avrebbe mandato in giro per il deserto alla ricerca della principessa Naell.

La notizia che la nobildonna si era assentata da palazzo per spingersi nell’entroterra, aveva rovinato i suoi piani, e ora lui si ritrovava con quell’immenso guaio per le mani.

A ogni buon conto, non avrebbe speso una moneta d’oro in più, per quella missione.

Avrebbe atteso il ritorno di Naell a Yskandar e, solo in seguito, avrebbe fatto muovere nuovamente il sicario.

A ogni modo… perché, gli dèi soli forse lo sapevano, perché Myllisen cominciava le cose ma era lui a doverle finire e se, come in quel caso, le cose andavano male, a rimetterci era sempre e solo lui?

“Se non fosse che la adoro, la strangolerei” borbottò tra sé Norat, scuotendo nervosamente il capo.

“Chi vorrebbe strangolare?” mormorò il sicario, vagamente confuso.

“No, nessuno, nessuno. E così la principessa non c’è più, eh?” dichiarò con tono strascicato Norat, passandosi una mano tra i folti e ricci capelli scuri. “Torna a Yskandar e attendi il suo ritorno. Dovrà festeggiare anche lei i mille anni della corona, perciò avrai un’altra occasione per rifarti. Nel frattempo, io terrò calma la mia esigente mogliettina in qualche modo.”

Il sicario rabbrividì leggermente, ben conscio del caratterino di Myllisen quanto della fine che avevano fatto alcuni suoi servitori considerati poco… attenti alle sue esigenze.

Con un breve inchino, il sicario si affrettò a uscire dallo studio e Norat, scivolando leggermente verso il basso sulla sua poltrona di pelle, mugugnò con fare scocciato: “Dèi, questo mi costerà un’intera collezione nuova di gioielli, lo so già!”

***

L’arsura del giorno era davvero incredibile e Naell, nel sorseggiare un po’ d’acqua dalla borraccia, esalò: “E’ stato un bene non portare i lupi con noi. Quattro giorni di viaggio con questa calura, li avrebbe sicuramente uccisi.”

“Non che io stia meglio” precisò Rannyl, passandosi una mano sulla nuca umida e appiccicosa.

“Venite da un posto molto più fresco ma, una volta fattaci l’abitudine, non ve ne accorgerete neppure più” ci tenne a dire My-chan, sorridendo loro.

Lei appariva tranquilla e perfettamente in forma e, pur non utilizzando un cammello per procedere come, invece, erano costretti a fare loro, non sembrava risentire affatto del viaggio.

Tutt’intorno a loro, i trenta soldati predisposti alla difesa di Naell non sembravano cavarsela affatto male, nonostante il caldo.

All’orizzonte, inoltre, l’oasi di Jilli’nat, luogo in cui stanziava la tribù dei Kerann, dava loro la forza di non crollare proprio nell’ultimissimo tratto di quel viaggio.

Quella sera avrebbero riposato all’ombra di freschi palmeti, sorseggiato acqua pura e mangiato i cibi prelibati offerti dalla tribù.

“Se non altro, siamo arrivati.”

Nel dirlo, la principessa ammiccò a My-chan e aggiunse: “Ma la prossima volta, mi premurerò di chiedere al re quanto caldo fa, nel deserto. Immaginavo che non sarebbe stata una passeggiata, ma qui c’è veramente un’afa pazzesca!”

My-chan ridacchiò e ammise con l’amica: “In effetti, questo è un periodo un po’ infelice per i viaggi ma ammettilo… stare nel deserto ti ha fatto bene, vero? Ti vedo più rilassata, e sorridi di più.”

A tutti gli effetti, dopo l’iniziale sconforto provato nell’abbandonare Yskandar, Naell era riuscita infine ad apprezzare la bellezza selvaggia di quei luoghi così impervi.

Il colore rosso-dorato della sabbia le era parso bellissimo, così come le dolci creste delle dune sabbiose o le lance frastagliate di roccia brunita che, modellate dai venti costanti che battevano i deserti, avevano preso le forme più strane e misteriose.

Sì, non era un posto per tutti, lo ammetteva senza tema di essere smentita, ma a lei piaceva.

Sapeva di avere la tempra giusta per poter vivere in quei luoghi.

E, se non fosse mai più tornata…

Scuotendo il capo per il disappunto, si diede silenziosamente della stupida e della codarda, per aver anche solo ipotizzato di scappare dai suoi obblighi.

Non solo avrebbe terrorizzato a morte i reali di Akantar, ma avrebbe anche spinto il padre a pensare al peggio, obbligandolo di fatto a muovere guerra contro Erenokt, pur di riaverla indietro.

No, sarebbe stato da folli prendere la via del deserto per scappare da quel matrimonio che non voleva.

Doveva affrontare quella sfida come, fin lì, aveva affrontato i problemi che le si erano parati innanzi.

Forse, dopotutto, Coryn non si sarebbe dimostrato un così cattivo marito.

In fondo, a entrambi piaceva leggere. Era un legame labile, però poteva essere un inizio.

Inoltre, se nel suo futuro prossimo era scritto un oscuro presagio, avere al fianco una persona di cui non era innamorata, poteva essere meglio del previsto.

Non avrebbe sofferto, se fosse successo qualcosa a lei, o a Coryn.

Non come le sarebbe capitato se, al suo fianco, vi fosse stato Ellessandar, per esempio.

Peccato che il suo cuore non sarebbe mai appartenuto a nessuno se non a Ellessandar ma, per lo meno, lui non avrebbe dovuto soffrire una sua eventuale dipartita.

Sarebbe stata coerente con se stessa, e non avrebbe obbligato l’amico e confidente a sacrificarsi per salvarla da quel matrimonio cui non aspirava affatto.

Avrebbe gioito per lui, una volta che avesse trovato la donna dei suoi sogni e, dal suo imposto legame, avrebbe cercato di ottenere il meglio possibile.

A più di quello non poteva aspirare, purtroppo, soprattutto con i misteriosi presagi che pesavano sulle sue spalle.

“A cosa pensi, ykan?” le domandò cortesemente My-chan, scrutandola con apprensione.

“Soltanto che, a volte, non si può avere tutto dalla vita, ma che si può ottenere il meglio possibile, impegnandosi a fondo” le spiegò con un mezzo sorriso, scrollando al tempo le spalle.

Storcendo un poco la bocca, My-chan replicò scontenta: “Non mi piace sentirti parlare a questo modo, Naell. Perché non dovresti aspirare al massimo, scusa?”

“Perché, a volte, semplicemente non è possibile.”

Sbuffando, My-chan commentò sarcastica: “Solo perché, quando ti ci metti, sai essere più fifona di quel ministrucolo da strapazzo che ti tiri sempre dietro.”

“My-chan!” esclamò sorpresa Naell, fissandola con tanto d’occhi. “Korissar non è così…”

“Lo è” replicò la donna-felino, smentendola prima ancora di farle terminare la frase. “E lasciami dire un’altra cosa, ykan… la tua fissazione di non dire nulla a ‘Sandar, è assurda. Mi stai deludendo molto.”

“Mi sono confidata con te sperando che tu non andassi a spifferare tutto a lui!” esalò sconvolta Naell, avvampando in viso. “My-chan, se gli hai detto anche solo mezza parola…”

“Tranquillizzati. My-chan sa mantenere la parola data, ma davvero non capisco perché nahry non dovrebbe conoscere i tuoi sentimenti. Vi siete sempre detti tutto!” protestò la donna, accalorandosi.

Accigliandosi leggermente, Naell sbuffò infastidita.

“Ripetimi queste parole quando ti innamorerai di qualcuno, tesoro, poi ne riparleremo. Non voglio che si senta in obbligo di rispondere ai miei sentimenti, non lo capisci?!”

My-chan aggrottò la fronte e, in uno scintillio dorato, mutò in renpardo e levò fiera il musetto per poi trotterellare avanti e raggiungere la cavalcatura di Rannyl, dove stazionò con ostentata lesa maestà.

Digrignando i denti, Naell sibilò un insulto prima di distogliere lo sguardo, solo per ritrovarsi addosso gli occhi ironici di Kalia.

Sogghignando divertita, la figlia sacra chiosò: “Rimessa al tuo posto dalla tua cara figlioccia. Questa scena non ha prezzo!”

“Ti ci metti anche tu?!” sbottò Naell, arroventandosi in viso.

Socchiudendo gli occhi e fissandola con aria serafica, Kalia si limitò a dire: “Delle due, la più matura è senz’altro My-chan. Credimi. Non ti ho mai considerata puerile, o fifona, ma quando si tratta del tuo cuore, non ti riconosco più.”

“Potrei decidere di strangolare sia te che lei, se continuate su questo andiamo…” cominciò a minacciarla Naell. “…anche perché, fino a prova contraria, nessuna di voi due è nella mia situazione.”

“Dubito che My-chan potrà mai trovarvisi, almeno finché non incontrerà un altro renpardo… quanto a me, non mi faccio mandare nel panico da simili problemi. Certo, tu vivi in un mondo più difficile del mio, ma ho sempre pensato che la sincerità valesse anche nelle alte sfere, specie in quelle dove regna l’affetto reciproco. Quindi, perché non dovrebbe valere a maggior ragione adesso?” le fece notare ora più seriamente Kalia, sorridendole con affetto.

Naell sospirò, la rabbia ora del tutto svanita, come evaporata al sole e, fissando la vecchia amica, ammise: “Non mi sto comportando come mio solito, lo so. Ma davvero, non so che fare.”

“Non potresti semplicemente avere fiducia in Ellessandar? E’ tuo amico e, prima di tutto, sarà questo, per te. Sa già che non vuoi la sua pietà, perciò non te la offrirà. Ma credimi, starai meglio tu e starà meglio lui, se saprai parlargli con sincerità. Il fatto che lui possa non pensarla come te, è una possibilità, ma io sono sicura che, in ogni caso, ti sentirai più leggera e potrai affrontare meglio ciò che ti aspetta una volta tornata a Rajana.”

Allungandosi verso Naell, l’amica le sfiorò un braccio con una mano e, stringendo leggermente, aggiunse: “In ogni caso, io sarò sempre al tuo fianco.”

Riuscendo a raffazzonare un sorriso sincero, Naell annuì e infine disse: “Gli parlerò.”

“Ora sì che ti riconosco” assentì Kalia prima di accentuare il suo sorriso ed esclamare: “Ehi, si è finalmente levato il vento! Addio afa!”

***

Doveva rendere atto a re Erenokt.

L’oasi era stupenda, i membri della tribù si erano dimostrati ben lieti di accoglierli e ora, sdraiata su una comoda stuoia imbottita, Naell era rilassata come poche altre volte era stata in vita sua.

Kalia si era dichiarata entusiasta del loro alloggio e, dopo aver scaricato i loro bagagli, era partita in esplorazione assieme a Rannyl per conoscere più approfonditamente i confini dell’oasi.

Sorridendo nell’addormentarsi, Naell si disse che un figlio sacro non cambiava mai; doveva sempre avere le idee ben chiare su ciò che lo circondava.

In effetti, quel che Kalia e Rannyl stavano facendo in quel momento, aveva tutta l’aria di un sopralluogo in grande stile.

Arrampicato con noncuranza su una delle palme più alte dell’oasi, Rannyl stava studiando con attenzione il territorio illuminato dalle torce e oltre, fin dove la sua vista acuta poteva spingersi.

La sua speciale freoha gli consentiva di attingere continuamente alla fonte dei suoi poteri, perciò i suoi occhi potevano scorgere ben al di là della linea offerta dai palmeti, che delimitavano l’oasi di Jilli’nat.

Kalia, ai piedi della palma, era in paziente attesa della discesa dell’amico e, sgranocchiando un dattero rosso dalla polpa succosa, stava rimuginando su quanto avevano appreso della tribù fino a quel momento.

I guerrieri Kerann erano possenti, e armati di scimitarre lunghe e dalle lame decisamente affilate.

Inoltre, potevano contare su un’abilità nei movimenti davvero superiore al normale, …per un comune essere umano, per lo meno.

Certo, non avrebbero retto il confronto contro un figlio sacro spinto dalla freoha, ma chi poteva, in effetti, se non un altro figlio sacro?

Con un fruscio e un aroma speziato ad accompagnarlo, Rannyl atterrò al fianco di Kalia che, sorridendogli a mezzo, gli allungò un dattero prima di chiedergli: “Ebbene? Cos’hai visto?”

“Non ci sono luci di falò all’orizzonte, né strani movimenti tra le dune. Direi che il perimetro è sicuro, e la posizione della tenda di Naell è ottimale. Il capoclan ha scelto bene, decidendo di mettervi proprio lì” asserì Rannyl, mangiucchiando distrattamente il frutto sugoso.

“Ma tu non ti fidavi ugualmente, e hai voluto controllare” ridacchiò Kalia, dandogli un colpetto con la spalla.

“Già” ammise Rannyl, terminando il dattero prima di allungare un ramoscello ricolmo di piccoli fiori bianchi a Kalia. “Per te.”

Vagamente sorpresa, la donna li accettò con un sorrisino e, rigirandosi tra le dita il rametto di fiori profumati, mormorò: “Grazie.”

“Mi sembrava carino, così l’ho raccolto. So che ti piacciono” scrollò le spalle Rannyl, incamminandosi verso il centro dell’oasi, dove si trovava un laghetto dalle acque placide.

Kalia lo seguì dopo aver infilato il rametto fiorito nella cintura e, passeggiando al suo fianco, gli domandò: “Ti manca Enyl? O Eikhe?”

Ran ghignò sarcastico ma annuì e, scrutando il cielo sgombro di nubi e scintillante di stelle ammiccanti, ammise: “La mancanza di Enyl mi pesa come se mi avessero amputato una mano. Non è come quando, per libera scelta, ci allontaniamo dal villaggio per vagare soli per i boschi. E mamma… beh, è mamma.”

Annuendo, Kalia mormorò pensosa: “Immagino che l’essere gemelli sia una cosa che lega più di due comuni fratelli. Non hai lo stesso legame con Antalion, vero?”

Rannyl meditò a lungo su quella domanda.

Dopo essersi lasciato alle spalle le ultime tende e aver raggiunto uno spiazzo sabbioso, dove una palma era caduta formando una panca naturale, vi si accomodò a gambe intrecciate.

Kalia lo osservò in silenzio nella semi oscurità, il profilo serio scolpito nelle ombre della notte, e gli occhi d’ambra che raccoglievano come spugne la poca luce offerta dalla luna.

Alla fine, dopo lungo rimuginare, Rannyl asserì: “Amo Antalion, ma diciassette anni di differenza sono tanti. Inoltre, con Enyl…”

Si interruppe, la fissò intensamente per alcuni attimi prima di sospirare, lasciar reclinare il capo e le spalle per poi ammettere: “Io ed Enyl siamo speciali, in tutto.”

Comprendendo al volo quanta verità vi fosse nelle sue parole, Kalia si trattenne dal fare battute in merito e, nell’accomodarsi al suo fianco, gli sfiorò una spalla con la mano, domandandogli: “Cosa intendi, Ran?”

Lui storse appena il naso, arricciò le labbra e, alla fine, disse: “Possiamo parlarci mentalmente, anche a grandi distanze. Inoltre, lei scorge l’animo e i pensieri delle persone, mentre io posso percepire la sostanza dei corpi, la loro struttura interna e, nell’eventualità, curarne le ferite.”

Kalia sgranò lentamente gli occhi, assimilando poco alla volta le parole del giovane e il loro significato.

Mai, neppure per un attimo, si sentì presa in giro da lui.

Se c’era una cosa che sapeva, era che Rannyl non raccontava mai bugie.

Era il più serioso tra i gemelli, e di carattere era posato quanto educato.

Affascinante quanto ritroso, Rannyl era sempre rimasto nell’ombra della sorella, non mettendo mai in mostra se stesso come, invece, era solita fare Enyl.

Alla luce dei nuovi elementi portati a galla dal giovane, Kalia si chiese ancor più di prima il perché di un comportamento simile da parte di Enyl e, non potendo esimersi dal farlo, glielo chiese.

Sorridendo a mezzo, Rannyl le spiegò sinceramente i motivi che avevano spinto Enyl a comportarsi a quel modo, negli ultimi anni.

“Sa di essere bella, e sa che effetto fa sulle persone, perciò ha pensato bene di sfruttare questo vantaggio su coloro che non la conoscono. E’ più facile che i pensieri scorrano errabondi se, nelle vicinanze, c’è qualcuno all’apparenza frivolo e vuoto. Certo, chi conosce bene Enyl, sa che lei non è affatto così, ma con chi vede solo il suo bel volto e il suo corpo affascinante, la cosa viene da sé.”

“Ma perché tutto questo interesse a sondare nelle menti delle persone?” si insospettì Kalia. “Non mi pare molto corretto.”

Accigliandosi, Ran replicò seccamente: “Enyl non farebbe mai nulla per nuocere alle persone che conosce, e neppure agli estranei. Ma noi… dovevamo sondare il terreno, per così dire.”

“Parli in modo oscuro, ragazzo. Spiegati meglio” borbottò Kalia, aggrottando la fronte.

“Sulle nostre teste, come su quella di Naell, pende un’oscura minaccia. Da anni” mormorò Rannyl, torvo in viso. “Hevos e Haaron ci misero in guardia, ammonendoci di prepararci ad affrontare un pericolo futuro, e ponendo dinanzi a noi alcune linee guida da seguire.”

“Che cosa?!” esalò sconvolta Kalia, impallidendo.

“Per anni, durante i miei viaggi e quelli di Enyl nei boschi, abbiamo ricevuto la visita di Hevos e, ogni volta, lui ci insegnava qualcosa di nuovo, qualcosa in più sui nostri doni. Nessun altro poteva sapere di noi, perché troppa curiosità avremmo attirato su di noi, ed era vitale che il nostro essere così speciali rimanesse il più a lungo celato.”

Parlò con tono pacato, serafico, ma Kalia notò immediatamente il lampo di timore nei suoi giovani occhi.

“Hevos ci disse che il grande occhio del Fato ci osservava, e che non dovevamo mettere in mostra ciò che eravamo. Ora, però, non ha più senso mantenere il segreto, perché il volto di colei che è nostra nemica, non è più celato nelle ombre.”

“Ora mi spaventi” ansò Kalia, stringendo tra loro le mani tremanti.

“E fai bene a spaventarti.”

Sogghignò sarcastico, e aggiunse: “Sangue di Haaron che non avrebbe dovuto camminare tra i vivi, stiamo per affrontare. Ecco cosa ci attende al varco.”

“Ma… Haaron è dio di Morte! Come può aver generato un figlio?!” sbottò Kalia, ora incredula.

“Da quel che sappiamo per bocca di Hevos, è stato un evento voluto da Caos, Colui che porta scompiglio nell’Universo, e neppure Haaron ha mai saputo di lei, se non in questi giorni. E’ stata celata nell’ombra per anni interi, forte del suo sangue in parte umano, e ha nascosto il suo essere per metà di stirpe divina. Non sappiamo ancora come, ma sono sicuro che presto ne verremo a conoscenza.”

Aggrottando la fronte, Kalia mormorò meditabonda: “Haaron non può camminare tra i vivi, perciò non ha potuto avvertirne la presenza. Ma ora può, hai detto. Non gli è dunque possibile fermarla, qualunque sia il suo intento?”

“I suoi poteri di Tenebra spazzerebbero via la vita sul pianeta, se Lui li usasse contro la figlia. E, in forma di corvo, non ha alcun potere” scrollò le spalle Rannyl, sconsolato.

“Dèi!” esclamò Kalia, fissando sgomenta il cielo tranquillo. “E come potreste mai, voi due,  fermare un simile concentrato di Tenebra?”

“Non lo so” ammise Rannyl, mostrando ora tutta la sua paura e il suo sconforto.

“Oh, Ran…” sussurrò lei, avvolgendogli le spalle con un braccio per attirarselo vicino.

Rannyl sospirò, si lasciò sfuggire un singhiozzo e, con voce rotta da lacrime che fino all’ultimo avrebbe evitato di versare, gracchiò: “Ho paura di sapere da Enyl come tenteremo di fermarla, perché quella strega ha sempre e solo aggredito lei, nei suoi sogni. Non ha mai cercato me.”

Carezzandogli il capo di neri capelli, Kalia lo baciò su una tempia e asserì: “Sono sicura che Hevos non vi… non ci abbandonerà a noi stessi. Saprà aiutarci. Perché, di una cosa puoi essere sicuro, figlio sacro,… non dovrete combatterla da soli.”

“Temo che, al grande evento, dovremo presentarci senza alcun esercito alle spalle” replicò mesto Rannyl, pur apprezzando le parole dell’amica.

“Questo è da vedersi. Per ora, non mi nascondere più nulla, e tienimi informata se Enyl ti aggiorna.”

Poi, sorridendogli, esclamò: “Cielo! Che potere incredibile, che avete! Deve essere eccezionale!”

“Enyl ne soffre e basta, e io non posso proteggerla come vorrei” ribatté fiacco Rannyl, raddrizzandosi. “E’ un potere disarmante, che non ci abbandona mai, e spesso è difficile difenderla dai pensieri e dal tocco della gente. Non oso immaginare come possa sentirsi ora, che è sola e sguarnita di ogni difesa.”

“Sono sicura che Ellessandar sarà un tuo valido sostituto. Inoltre, Enyl è forte e sa cavarsela” lo rassicurò Kalia, levandosi in piedi. “Andiamo a dormire, Ran. Ne abbiamo entrambi bisogno.”

“Credo tu abbia ragione” assentì Rannyl, alzandosi e abbracciandola con slancio. “Grazie, Kally. Mi ha fatto bene parlare con te.”

Kalia gli batté le mani sulla schiena ampia e forte e sorrise, replicando: “Di nulla, ragazzo. Dopotutto, faccio le veci di tua madre, qui, no?”

“Già” ammiccò lui, ridacchiando prima di allontanarsi di corsa.

Tornando seria, Kalia mormorò alle ombre della notte: “E’ un peso enorme, per dei ragazzi così giovani!”

***

“Hai fatto bene a parlarne con Kalia. Io l’ho detto a ‘Sandar, sai?”

“E come l’ha presa?”

“Un po’ scioccato, all’inizio, ma sapere di poter contare su di lui mi tranquillizza, visto che tu sei lontano.”

“Non mi piace questa faccenda. Le visioni come vanno?”

Il fastidio che Enyl percepì nella voce del fratello fu netto, freddo come ghiaccio invernale. Era indispettito all’idea di starle così lontano.

Corvo Bianco mi ha lasciata stare, in queste ultime notti, ma a Yskandar percepisco un pericolo crescente, che circonda tutta la città. Però, chi governa questo agglomerato di male non è presente, e i pensieri corrono errabondi come locuste impazzite, impedendomi di comprendere con precisione dove si trovi il grosso del nemico. So solo che la Tenebra è vicina.”

“Due settimane e mezzo e tornerò da te. Nel frattempo, non cacciarti nei guai… e fai tenere le mani a posto al tizio che aleggia nei tuoi pensieri, Enyl!”

Nel buio della sua stanza, la sorella avvampò vistosamente e, coprendosi il viso con il cuscino di piume, biascicò: “Non… non sto facendo nulla, davvero!”

“Sul momento no, ma percepisco la presenza di un uomo nella tua testa, e non sono io” la rabberciò bonariamente Rannyl.

“Ti sbagli di grosso!” urlò nella sua testa Enyl, rafforzando invece di smorzare le ipotesi del gemello.

“Non me la racconti giusta, ma sembra che questo tizio ti abbia fatto sbarellare parecchio… non so se esserne felice, o incavolarmi di brutto.”

“Non chiamarlo tizio!” sbottò Enyl, risentita.

Scoppiando a ridere, Rannyl allora replicò: “Ah! Allora qualcuno c’è!”

“Uff! Ti prometto che te ne parlerò al tuo ritorno, ma non ora.”

“Stai attenta. Ti chiedo solo questo.”

“Lo farò” sospirò afflitta Enyl, togliendosi di dosso il cuscino per scrutare silente il soffitto chiaro della sua stanza.

 “Sorellina… tutto bene?”

“Sì, tranquillo. Ora riposa, e pensa che quello che hai detto a Kalia è giusto.”

“Grazie, hillan. Buonanotte.”

“Buonanotte, kilin1.”

Rannyl sorrise e, chiusi finalmente gli occhi, lasciò che il sonno prendesse anche lui.

Parlare con sua sorella lo aiutava sempre. Non sapeva cosa avrebbe fatto, senza di lei.

***

“Li ho in pugno!” esclamò trionfante Ruak, levando il capo dallo scrittoio prima di tapparsi la bocca non appena si rese conto che la moglie, seduta sul divanetto del suo studio, stava dormendo profusamente.

Dinanzi a lei, sciami di carte sparse sulle ginocchia e su un tavolino di cristallo, denotavano cosa l’aveva portata a quel sonno privo di sogni.

All’esterno, la notte era calata da tempo, e la luna alta in cielo splendeva silenziosa e pallida sulla vallata, illuminando con tenue luce i campi, i frutteti, le case in lontananza… la sua terra.

La amava profondamente ma a volte, come in quegli ultimi anni, gli era pesato rappresentare così tanto, per lei.

Avrebbe voluto essere libero da impegni, da obblighi, da regole, e dare la libertà alla sua figlioletta adorata, ma non aveva potuto.

Si era dovuto trincerare dietro le norme del regno, che prevedevano che la potestà del re avesse potere sulle principesse reali, cosa che non avveniva per i principi, che godevano di maggiore libertà di movimento.

Aveva dovuto lottare invano contro un Consiglio sordo a ogni sua argomentazione, troppo terrorizzato all’idea di giungere nuovamente al pericolo di una crisi di governo, come al tempo dell’abdicazione di suo padre.

Nessuno di loro si era reso conto che un simile comportamento rasentava, e di molto, la dittatura.

Come re, si trovava nella scomoda situazione di dover riferire a loro ogni sua decisione e, peggio ancora, metterla al vaglio per amore di democrazia.

Se fosse stato un po’ più egoista, avrebbe riso di tutti loro e avrebbe promulgato una legge per liberare da ogni affanno la sua Naell, ma non era così opportunista.

E, a quel punto, non ve n’era più bisogno.

Scrutando soddisfatto e fiero quel misero codicillo che, per troppo tempo, aveva cercato invano senza mai trovarlo, si sentì finalmente fiero di se stesso.

Una volta risolta tutta quella situazione, avrebbe assoldato un giovane membro  del Consiglio e gli avrebbe ordinato di dare una sforbiciata al lunghissimo e interminabile tomo contenente le leggi del regno.

Alcune erano così obsolete da essere ormai inutili, mentre altre erano semplicemente assurde, e potevano essere depennate senza alcun danno per nessuno.

A questo, però, avrebbe pensato in un secondo momento.

No, ora era giunto il tempo di dare una scrollata al Consiglio. E grazie alle leggi di Enerios.

Sfiorando riverente il pesante e antico libro che teneva tra le mani, lesse a bassa voce ciò che tanto lo aveva rincuorato e, soddisfatto di se stesso, sorrise.

 

A ogni principe cadetto, o principessa cadetta, non meno di terzo e oltre in linea di successione, può essere concesso di rinunziare al proprio titolo, senza perdere altresì i benefici fin lì ottenuti, vedasi tenute, appezzamenti di terreno, mandrie o terreni boschivi, qualora la necessità o l’interesse impellenti lo rendessero necessario.

 

Grazie a quell’unica frase, scritta a dir poco più di duecento anni prima, avrebbe liberato Naell dal fardello del suo titolo, senza peraltro impedirle di mantenere una rendita in grado di concederle una vita più che dignitosa.

Suo era di diritto, infatti, il palazzo che sorgeva nei pressi della villetta dove risiedeva il Borgomastro di Marhna, oltre a dieci acri di bosco a sud-est della cittadina montana.

Oltre a questo, le spettava un piccolo vigneto poco oltre Rastanie, e un piccolo maniero di campagna nei pressi di Elior.

Più che sufficienti, a suo modo di vedere, per garantirle la libertà che tanto agognava.

Prima di portare innanzi al Consiglio quella scoperta, però, si sarebbe premurato di farle intestare anche un piccolo borgo montano, corredato di campi e agricoltori capaci di governarlo.

Le rendite ottenute le sarebbero servite per vivere più che bene e, quando lo avesse ritenuto opportuno, si sarebbe creata una famiglia senza l’assillo pressante rappresentato dal Consiglio della Corona.

I membri di quell’antica cricca di potere non avrebbero potuto rifiutarsi di mettere in pratica quella vecchia legge, e lui non sarebbe stato costretto a imporsi, cosa che più di una volta aveva pensato di fare.

“Perderti è l’unico modo che ho per renderti felice, mia piccola farfalla, ma non ho altro modo per liberarti da questo fardello” sospirò Ruak, coprendosi il viso stanco con le mani.

Avrebbe sofferto le pene dell’inferno, sapendola lontana da palazzo, non più riverita come una principessa.

Certo, la sua rendita le avrebbe permesso di vivere come una nobildonna di alto rango, ma i titoli le sarebbero stati tolti, e questo era come uno spregio, per lui.

Era sua figlia, dopotutto, era Principessa Reale di Enerios.

Eppure, per renderla libera, avrebbe dovuto depennare il suo nome dalla linea di successione, dai documenti riguardanti la Famiglia Reale, da tutto ciò che aveva a che fare con la corona.

Come Aken prima di lei, un altro membro della sua famiglia sarebbe diventato un’ombra all’interno del palazzo di Rajana.

Poco importava che il suo amore li avrebbe per sempre seguiti.

Per la legge, non sarebbero mai più stati considerati membri reali della corte, e questo era un insulto bello e buono, per Ruak.

Per rendere felice la sua Naell, però, l’avrebbe fatto.

A conti fatti, come Aken non aveva sentito la mancanza del suo titolo nobiliare, così sarebbe stato anche per Naell, già lo sapeva.

“E’ tempo di cambiare questa follia. E io lo farò, prima o poi.”

Ciò detto, si levò dallo scranno e raggiunse la moglie per darle un casto bacio sulla fronte, bacio che la fece risvegliare dolcemente e aprire i profondi occhi verde muschio.

“Ruak… mi sono addormentata?” biascicò lei, lasciando che lui la aiutasse a sedersi.

“Sì, mia cara, ma ora sarà meglio se andiamo a letto. Domani ci attende una strenua battaglia.”

Le sorrise, appoggiando le labbra alle sue.

“Oh, e perché?” domandò lei, confusa e curiosa, uno scintillio dinamico negli occhi ora attenti.

Ruak tornò a fissare il tomo aperto sulla sua scrivania, prima di asserire orgoglioso: “So come liberare Naell, anche se dovremo perderla, per farlo.”

“Che intendi dire? Vuoi toglierle tutto e cacciarla da palazzo, sola e senza averi?” esalò sconvolta Rneke, impallidendo. “Perché sai che è questo che chiederà il Consiglio!”

“Non potranno farlo. La legge lo vieta” ridacchiò Ruak, facendola alzare per condurla alla scrivania, eccitato alla sola idea di farle leggere quell’antico codicillo.

Mostrandole il punto in questione, Ruak la osservò mentre Renke, affamata, divorò in pochi secondi il comma trascritto sul tomo.

Aprendosi in un sorriso quando la moglie si rese conto della verità, dovette farsi forza quando lei gli gettò le braccia al collo, urlando felice e senza controllo.

Tempestandogli il viso di baci, Renke esclamò eccitata: “Non potranno toccarla! Perderà il titolo, è vero, ma sarà libera! Libera!”

Annuendo alla moglie, che ora appariva più serena di quanto non lo fosse mai stata in quegli ultimi anni, Ruak ammise: “Sono stato così presuntuoso da pensare che, tra le leggi più vecchie del regno, non potesse esserci niente di utile per Naell e così, per anni, ho avuto la risposta a portata di mano senza mai afferrarla. Ma ora potrò farmi perdonare da lei. Sarà felice.”

“Sì, sarà felice. Saremo felici” sussurrò Renke, stampandogli un bacio piuttosto impegnativo sulle labbra. “Dèi, da quanto aspettavo una cosa del genere! Ora non riuscirò a prendere più sonno!”

Osservandola malizioso, Ruak le propose: “Se ti va, ho io un modo per farti passare l’insonnia.”

Socchiudendo gli occhi, Renke annuì pensierosa e, passandogli svogliatamente un dito lungo il bavero della giacca che indossava, mormorò: “Beh, non so… se ti va…”

Ruak rise e, sorprendendola, la prese in braccio sotto i suoi occhi sgranati e divertiti.

Uscito che fu nel corridoio, lo percorse sotto gli occhi sgomenti e vagamente confusi delle guardie, prima di raggiungere i loro appartamenti e chiudersi dentro senza troppi complimenti.

Giocando con i lacci interminabili dell’abito di Renke, Ruak ridacchiò quando lei sbuffò nel divincolarsi tra le sue braccia, desiderosa di sbarazzarsi alla svelta del vestito  ingombrante.

“Datemi una forbice!” sbottò Renke, indispettita.

Preferendo evitare di rovinare il bell’abito, Ruak lasciò ben presto perdere e, sollevando la moglie sull’imponente letto a baldacchino, le sollevò le gonne sotto lo sguardo divertito e birichino di lei e sussurrò malizioso: “Posso arrivare dove voglio anche da qui… pur se ti sgualcirò tutto l’abito.”

Lappandosi le labbra quando avvertì le mani del marito percorrerle le gambe nude e calde, Renke ansò: “Chi se ne importa dell’abito!”

Piegandosi su di lei, Ruak grugnì: “Pienamente d’accordo!”

La cameriera personale della regina si tenne a debita distanza dalla camera padronale, pur avendo visto entrare i reali nei loro appartamenti.

Nell’afferrare il braccio dell’attendente di Sua Maestà, ridacchiò divertita e sussurrò: “Non credo che ora re Ruak vorrebbe udire qualcuno bussare alla porta.”

Afferrato alla svelta in concetto, l’uomo annuì e sorrise, lasciandosi sfuggire: “Era ora.”

“Romal!” esalò la governante, prima di scoppiare in una risatina sommessa.

“Smentiscimi, se sbaglio, Nerina.”

Con una scrollata di spalle, aggiunse: “I reali erano da troppo tempo tesi e snervati. Un po’ di relax non farà loro male. Avvertirò la servitù e i paggi di tenersi alla larga dagli appartamenti reali fino a… domani pomeriggio?”

“Direi che può bastare” assentì la governante, uscendo dal salottino dell’appartamento reale assieme a Romal.

Meglio lasciare alla coppia quanta più privacy possibile.

 

 

 

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1 kilin: cucciolo.

 
 
 
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N.d.A.: direi che, almeno il dubbio su chi voleva uccidere Naell, si è chiarito. ;-)

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Capitolo 10
*** 10. ***


●●10●●

 

 

 

  

Aveva poco tempo.

Suo padre sarebbe tornato nel giro di poche ore dalla sua breve visita  presso un loro vicino e, a quel punto, Coryn avrebbe dovuto trovarsi ben lontano dallo studiolo del suo genitore.

Quando il padre aveva consegnato il misterioso libro di alchimia al corriere – sapientemente ricoperto da carta oleata – perché lo conducesse via, Coryn aveva scorto dalla sua stanza anche una lettera, assieme a quel pacco anonimo e senza fronzoli.

Una lettera sigillata con ceralacca, e un plico.

Del plico conosceva il contenuto – impossibile sbagliarsi, visto che lo aveva spiato di nascosto mentre lo preparava – ma la lettera?

Per questo, armato di un coraggio che non era suo, ma che gli veniva dall’amore per la giustizia, era penetrato in segreto nella stanza del padre per studiare la sua carta da lettera.

Notoriamente, suo padre era solito tratteggiare col pennino con una forza insolita, quasi volesse imprimere le lettere all’interno della pergamena stessa.

Se, solitamente, questo tratto del suo comportamento gli dava un certo fastidio – riteneva assurdo scalfire la carta pergamenata a quel modo, rischiando di romperla – stavolta trovò quel particolare più che vantaggioso.

Se suo padre aveva scritto la lettera appoggiandosi ad altri fogli, il messaggio si sarebbe trascritto automaticamente sulla pergamena sottostante.

Questa era la sua speranza, ma doveva essere lesto.

Non appena fu sgattaiolato all’interno dei suoi appartamenti – in quel momento adombrati da tendaggi di velluto scuro – Coryn accese una candela e si avvicinò silenzioso allo scrittoio aperto.

Il calamaio recava ancora la penna d’oca al suo interno, altro particolare che dava non poco fastidio a Coryn.

Aveva segretamente covato il sospetto che il padre si comportasse in modo così palesemente scorretto solo per dar noia a lui, che invece era molto attento a ogni minimo particolare.

Sapeva che certe fissazioni erano in qualche modo esagerate, ma trovava che trattare adeguatamente qualsiasi strumento, fosse anche una penna d’oca o un foglio pergamenato, andasse a merito dell’utilizzatore.

Non riteneva vi fosse differenza alcuna tra il soldato che manteneva pulita la propria arma, e lo scriba che teneva in ordine i propri oggetti di scrittura.

Farlo capire al padre, era tutt’altra faccenda.

Controllando con attenzione i fogli sullo scrittoio liscio e lucente, Coryn aggrottò la fronte non appena le sue dita – passate con meticolosità sulla superficie screziata della pergamena – avvertirono alcuni avvallamenti significativi.

Sapeva per certo che, quella mattina, a parte il plico e la lettera, suo padre non aveva inviato null’altro, perciò quel foglio poteva essere proprio quello che cercava.

Ora, non restava altro che scoprire cosa vi fosse scritto.

Frugando nella tasca del suo panciotto, ne estrasse un piccolo pezzo di carboncino e, dopo averlo passato di sbieco sulla carta pergamenata, iniziò a lasciarsi andare a un sorriso speranzoso.

Senza lasciarsi andare alla fretta, ricoprì di carbone l’intero foglio, prima di dedicarsi alla lettura di quel poco leggibile sulla lettera.

Quando ebbe terminato di scorrere con lo sguardo il testo, il sorriso venne presto sostituito da una smorfia di disappunto.

Era mai possibile?

“Perché, padre? Che follia è mai questa?” esalò Coryn, caracollando all’indietro fino a crollare sull’ottomana di suo padre.

Passandosi le mani sul volto raggrinzito dall’ansia e dall’orrore, il giovane desiderò poter piangere, desiderò rintanarsi nella sua stanza e dimenticare ogni cosa, desiderò non essersi mai impicciato di quella faccenda.

Ma questo avrebbe voluto dire mentire a sé stesso, lasciare che suo padre perpetrasse il male, rendersi ugualmente colpevole di una cosa che rasentava l’abominio.

Perché, ciò che aveva letto, non poteva che essere un abominio, un evento ben lungi dal poter essere definito solo che orribile.

Strette le mani a pugno, Coryn si fece forza quel che bastò per levarsi dall’ottomana, sistemare quanto aveva spostato durante il suo esame e, in silenzio, uscire dalla stanza del padre.

Ciò fatto, si diresse verso la torre dove si trovavano le sue stanze private.

Nessuno l’avrebbe disturbato, e lui avrebbe potuto preparare il necessario per il viaggio che avrebbe intrapreso per raggiungere Rajana.

Avrebbe chiesto udienza al re e… beh, da lì in poi, solo Iralva avrebbe potuto aiutarlo.

***

Incenso e alcune foglie di pertulacca bruciavano nell’incensiere d’argento che aveva nelle sue stanze, al palazzo della capitale di Nellassat, Viryane.

Re Kevan era tornato da tempo dalla sua sciocca regina, e Kennadarya poteva godersi il fresco della sera, abbeverando la sua pelle alla luce della luna alta in cielo.

Aveva goduto appieno dell’amplesso con il re poiché, per quanto non lo apprezzasse come persona, era un eccellente amante e sapeva come renderla felice, almeno da quel punto di vista.

Sperava davvero tanto che Ellessandar si dimostrasse altrettanto dotato a letto ma, fino a quel momento, avrebbe goduto della compagnia di Kevan tra le lenzuola.

Sorrise nella notte, nuda e pallida come una stella.

Un fruscio di ali la strappò alla sua trance e, levandosi a mezzo sull’enorme letto dalle lenzuola sfatte, si guardò intorno curiosa, nulla vedendo.

Levatasi in piedi, i lunghi e lisci capelli di seta bianca scivolarono sul suo corpo come una vestaglia a coprirne le nudità e, nell’oscurità della stanza, una voce stentorea si levò rimbombando contro le pareti coperte di arazzi.

“Mai avrei pensato che Caos potesse giungere a tanto, pur di creare disordine nell’Universo… e mai avrei pensato che una mente potesse essere così perversa e malvagia.”

Kennadarya sorrise, riconoscendo quella voce tonante e, muovendosi leggera a piedi nudi per la stanza, mormorò melodiosa: “Padre… da quanto tempo attendevo di incontrarti!”

“Tutto fuorché lieto, io sono, poiché non vi può essere gioia nello scorgere l’abominio nei tuoi occhi, … figlia.”

Lei sorrise ancora di più, quando scorse il corvo nero appollaiato su uno dei suoi divanetti e, arricciando il naso, accese un paio di candele perché nella stanza si estendesse un po’ di luce.

“Padroneggi con abilità le arti magiche, e pieghi la materia a tuo piacimento” asserì Haaron, senza alcun orgoglio nella voce. “Non oso neppure immaginare cosa potrai fare, con il Grimorio Nero nelle tue mani. Non è libro per questo mondo, e tu più di tutte dovresti saperlo.”

“E’ la mia eredità, il tuo lascito a me. Mia madre lo portò con sé dopo aver lasciato il tuo tempio, dopo che tu prendesti da lei ciò che desideravi… senza darle nulla in cambio.

Le ultime parole, Kennadarya quasi le sputò.

Haaron rimase in silenzio sotto la sferza delle sue accuse e la donna, ringalluzzita, proseguì nel suo dire con maggiore veemenza.

“Quante donne hai asservito al tuo volere, ai tuoi sollazzi, senza mai degnarti di guardarle in volto, di conoscere anche solo il loro nome? E poi, vuoi dare a me dell’abominio?!”

“Solo una sacerdotesse fuggì da uno dei miei templi, che io ricordi, e si trattò di Ryuna.”

Poi, con tono più strascicato, aggiunse: “E, a giudicare dalla tua faccia, non ti aspettavi una risposta simile.”

Irritandosi non poco, Kennadarya raggiunse la sua bianca falce e, sferzando l’aria con l’arma, ringhiò: “Che tu conosca il suo nome, non fa alcuna differenza!”

“Ricordiamo quella notte in modo diverso, figlia, perciò lasciami il tempo di spiegarti come andò… ai miei occhi, ovviamente.”

“Non mi interessa!” sibilò Kennadarya, ansimando sempre più irritata.

“Se Ryuna si fosse affidata alle cure delle sue consorelle, invece di fuggire dalle mie stanze come l’ultima tra le donne, avrebbe saputo che elargisco sommi doni, a coloro che vogliono donarmi una notte di piacere. Non sono irrispettoso, né tanto meno violento, ma mi parve più che ovvio che, del nostro amplesso, lei non ne godette che pochi attimi. Gliene volli chiedere il motivo, ma non me ne lasciò il tempo così pensai, erroneamente a questo punto, che parlarne con le sue sorelle sarebbe stato più logico. Immaginai che cercarla il giorno seguente, e chiederle perdono per qualsivoglia fosse stato il motivo della sua paura nei miei confronti, fosse la mossa più giusta. Anche in questo caso, esitai troppo e, quando andai a cercarla, lei era già fuggita dal tempio. Ma mai, mai, avrei immaginato che, come pegno di una notte, lei mi avrebbe sottratto quel libro.”

Il respiro di Kennadarya si era ormai fatto flebile e velocissimo e, seppure le parole di Haaron erano state tenui e tenere, colme di una sincerità che lei aveva percepito con chiarezza, lei non volle credergli.

Sua madre le aveva detto per anni quanto Haaron fosse stato crudele e violento con lei, quella notte di tanti anni prima, e quanto questo l’avesse segnata nel profondo.

Molto dell’odio che lei provava nei confronti del padre mai conosciuto, veniva dalle parole di fiele della madre, e ora il suo dire rimbombava tra le pareti della sua mente, confondendola.

Se anche Haaron non aveva colpa per ciò che era successo, ed era tutto da dimostrare, lei doveva andare avanti, doveva ottenere per sé ciò che aveva sempre voluto.

Non poteva cedere ora, e solo per poche parole dette nel cuore della notte.

“Non mi interessa cos’hai da dire! Il grimorio è mio, e lo userò come più mi piace. Sono depositaria del tuo potere, unica a poterlo usare in questo mondo, poiché in parte umana. La Tenebra avrà finalmente il posto che merita, e io sarò la sua degna sovrana. Non potrai mai cambiare questo, padre!”

Urlò così forte che la gola le dolse, ma non vi badò.

Era importante che suo padre capisse che nulla l’avrebbe fermata.

“La Tenebra non può vivere e perdurare nel regno della Luce, non è così che funzionano le leggi dell’Universo, figlia… sei ancora in tempo per fermare questa follia!”

“Beh, l’Universo si piegherà al mio volere, padre, perché io ne ho il potere! Quando avrò tra le mani sia Luce che Tenebra, potrò fare quel che vorrò! Sarò quel che vorrò!”

Rise sguaiata, levando alta la sua falce mentre il corvo dinanzi a lei apriva le nere ali, come a volerla fermare.

Il colpo squarciò l’aria con velocità.

Nere piume come sangue oscuro punteggiarono il chiaro pavimento, mentre il corpo inerme del corvo crollò a terra con un tonfo sordo.

La nivea lama della falce si tinse della linfa vitale dell’animale che, fino a qualche attimo prima, era stato l’involucro vivente di suo padre.

La risata tornò più forte, più isterica e, tra lacrime salate, Kennadarya lasciò cadere la falce a terra prima di crollare anch’essa sul pavimento, sbucciandosi un ginocchio.

Lacrime rosse tinsero il suo bianco volto mentre le mani, graffiando il pavimento fino a raggiungere il corpo esanime del corvo, afferrarono quella carne ancora calda per portarsela al petto, macchiando corpo e capelli di oscuro sangue.

“Quando avrò tutto, capirai… quando sarò forte come una dea, capirai… quando anche l’Universo stesso si dovrà inchinare ai miei piedi, padre, capirai. Capirai, e sarai orgoglioso della tua bambina.”

Alle sue spalle, avvolta in una vestaglia scura, in neri capelli rilasciati sulle spalle e il volto pallido teso per l’ansia, una donna si avvicinò timorosa a Kennadarya prima di esalare sconvolta: “Kennadarya, ma cosa…”

Volgendosi a mezzo, il corvo ancora stretto al petto e il viso sporco di sangue nero e rosso, la giovane donna mormorò: “Madre…”

Ryuna fissò basita la scena, la falce sporca gettata a terra, la figlia nuda e in ginocchio e, tra le sue braccia, un corvo decapitato.

Portandosi le mani alla bocca, ansò: “LuiLui è stato qui!”

“Sì, è stato qui… ma, quando vedrà quanto posso diventare forte, cambierà idea e mi amerà come la più cara tra le figlie!” sorrise Kennadarya, avvolgendo ancor più strettamente il corvo morto con le sue esili braccia.

Inorridita dal lampo folle nello sguardo della figlia, e dal raccapricciante e informe corvo che ancora si ostinava a tenere tra le braccia, Ryuna mormorò disperata: “Alzati, figliola, e pulisciti di dosso quel sangue.”

“E’ sangue sacro. Non lo laverò via!” replicò stizzita Kennadarya, levandosi in piedi piena di orgoglio ferito.

Ben sapendo quanto fosse pericolosa la figlia, se aizzata contro qualcuno, Ryuna lasciò perdere immediatamente qualsiasi diatriba con lei.

Annuendo flebilmente, disse soltanto: “Torna a letto, allora. Domani partiremo per raggiungere Akantar.”

Annuendo dopo un momento, Kennadarya ripose il corpo sulla sua vestaglia di seta bianca e, dopo averlo avvolto con cura, lo depositò in uno scrigno.

“Il primo dono di mio padre è stata la fiammella della vita, il secondo, il sangue del suo involucro morente. Una volta ottenuto il potere totale nelle mie mani, saprò ripagarlo.”

“Kennadarya…” sussurrò ansiosa Ryuna.

Tornando a volgere lo sguardo alla madre, pallida in viso non meno della luna, la giovane le sorrise e, carezzandole il viso con la mano lorda di sangue, asserì: “Anche a te elargirò doni e preghiere, madre mia. Sarai la regina del mondo, come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio.”

Ryuna fece di tutto per non tremare sotto il suo tocco viscido e, quando finalmente la figlia tornò nel suo letto, le rimboccò le coperte prima di fuggir via dalla stanza, il terrore ora ben dipinto sul viso.

***

La notte gli aveva sempre portato il timore nel cuore, ma ora era cosciente che non la mancanza di luce era vera portatrice di pericoli, ma la mancanza di etica, di morale, di onore.

L’incarnazione del male era sempre risieduta nella sua dimora, e Coryn non si era mai accorto di nulla, fino a pochi giorni addietro.

In quelle brevi ore, poche, se confrontate con la vita fino a lì vissuta, il suo mondo aveva perso il proprio baricentro.

Tutto si era riversato sulla scacchiera dove Vita e Morte orchestravano l’esistenza di tutti e lui, per la prima volta dacché era nato, si era dovuto confrontare con la realtà.

Essa era orribile, ancor più orribile degli incubi che, da bambino, lo avevano svegliato tremante nel suo letto solitario.

Ma era anche una realtà da cui non poteva fuggire, ormai.

In sella al suo cavallo, ammantato con un nero mantello, come nera era la notte in cui si era immerso, era uscito silente dalla stalla senza farsi vedere dai garzoni della stalla.

Raggiunto il villaggio, aveva preso la via per Rajana.

In quel momento, era accompagnato solo dallo stridore leggero del vento tra le fronde, e il coro solitario di qualche gufo a caccia.

Non aveva timore di essere aggredito da furfanti o ladruncoli di strada; conosceva quei posti, e la gente che vi abitava e sapeva dove passare per evitare guai.

A ogni buon conto, per quanto non amasse usarla, la sua spada riposava tranquilla appesa alla sella, pronta in qualsiasi momento a essere sguainata.

Era stato un buon allievo, negli anni e, anche se non aveva mai dovuto affrontare nessuno per salvarsi la vita, non avrebbe esitato un solo attimo a estrarre l’arma dal fodero.

Troppo importante era la missione che lo aveva spinto allo scoperto, e non si sarebbe fatto fermare da briganti o gente di malaffare.

Per l’alba, avrebbe raggiunto un crocevia sicuro, dove avrebbe sicuramente incontrato mercanti diretti alla capitale o pellegrini in viaggio per raggiungere il santuario di Iralva a Rajana.

Con piacere si sarebbe unito a loro per proseguire il viaggio.

Doveva resistere ancora poche ore, nulla più di questo.

Il suo cuore, pesante nel petto, gli rendeva comunque difficile proseguire.

Nella mente, il ricordo del testo della lettera che suo padre aveva scritto, e che lui aveva copiato come prova della colpevolezza del genitori.

 

Invio a te il libro come promesso, mia dolce figlia, nella speranza che tutto proceda come voluto. Attenderò tue nuove quanto prima e, quando la nera  ombra si leverà a est, saprò che la tua mano ha raggiunto il suo scopo. Mi rivolgo a te, Signora Oscura, perché tu ti assicuri che alla principessa non venga torto un capello, così come concordato. Ella è per me molto importante. Auguro a te e alle oscure forze di riuscire, pur se sono certo del risultato, che sarà favorevole a noi. Tuo devoto padre.                                     Alderan

 

Padre. Si era rivolto a lei come padre.

Quanta devozione, in quelle parole piene di stima!

Mai, nella vita, le aveva udire rivolte verso di lui e, per un momento, Coryn fremette di rabbia.

E la principessa? Possibile si riferisse a Naell?

E per quale motivo ella doveva essere tenuta al sicuro?

Cosa avrebbe potuto succederle, visto che il pacco era diretto a Nellassat, e la giovane Naell era a…

Sgranando gli occhi, lo sgomento dipinto su ogni centimetro del viso, Coryn esalò scioccato: “E’ un’invasione. Attaccheranno Akantar.”

Era questo!

Ma perché inviare quel libro di magia nera proprio a Nellassat?

Chi poteva essere la giovane che avrebbe avuto tra le mani quel potere?

Chi era, in realtà, la fanciulla che aveva abitato nell’ombra del suo palazzo per anni, nascosta agli occhi del mondo?

E cosa voleva realmente suo padre dalla principessa?

“Di certo, nulla di buono” brontolò tra sé Coryn, dando un colpo di tacchi ai fianchi del cavallo per accelerare l’andatura. “E questo potrebbe spiegare il suo affannarsi a darmela in moglie.”

Il cavallo si mise al trotto leggero e Coryn strinse maggiormente le redini, chiedendosi morbosamente come sottoporre l’intera questione al re.

Provava rispetto nei confronti di re Ruak e sapeva che era uomo compassionevole quanto attento ma, di fronte a un simile tradimento, dubitava seriamente che anche il più compassato tra gli uomini avrebbe mantenuto il sangue freddo.

Soprattutto in considerazione del fatto che, ben tre membri della sua famiglia, si trovavano fin troppo vicini a una fonte di potenziale pericolo.

E che parte di quel pericolo era da imputarsi a un suo suddito.

“Non la prenderà per niente bene” sbuffò Coryn, accigliandosi.

Avrebbe dovuto mostrare una certa tempra, per imporre la propria presenza e farsi accettare al cospetto del re, senza averne fatto richiesta con il dovuto anticipo.

Era comunque sicuro che avrebbero compreso l’urgenza, una volta accennato al potenziale pericolo che gravava sui principi.

***

Scrutando l’alba tingere di rosa, viola e celeste il cielo all’orizzonte, Aken si volse a mezzo non appena avvertì attorno alla sua vita le braccia sottili e forti della moglie.

Sorridendo nel darle un bacio sul capo ramato, mormorò: “Ti ho svegliato, hillan?”

“Affatto. Ho il sonno leggero da giorni, ormai. Oserei dire, da quando i ragazzi hanno messo piede sulla nave che li ha condotti ad Akantar” sospirò Eikhe, lanciando uno sguardo distratto alle nuvole fioche tinte dai primi raggi del sole nascente.

L’aria frizzante penetrava nella loro stanza, accarezzando i corpi nudi e intiepiditi dal sonno.

Nello stringere la vita del marito, la figlia sacra asserì pensierosa: “Qualcosa mi scuote l’animo. Non è come al solito, quando i gemelli sono lontani. Ci sono ombre e artigli, nei miei sogni. E tanto, tanto dolore.”

“Antalion cosa dice?” si informò Aken, turbato dalle parole della moglie.

Levando il capo a scrutare il viso di Aken, circondato da una corona di capelli corvini e striati di grigio sulle tempie, Eikhe si lasciò andare a un sospiro.

Nel depositare un bacio leggero sul suo torace, diede infine voce ai propri dubbi.

“E’ turbato e in ansia e, a sua volta, ha fatto strani sogni. Non è mai riuscito a rammentarli al risveglio, ma sapeva che riguardavano i gemelli.”

“Avrei dovuto insistere per andare con loro” ringhiò Aken, avvolgendo strettamente Eikhe e affondando il viso nei suoi capelli profumati di miele.

“Sono costantemente scortati da guardie armate, hanno i loro lupi e sanno combattere, Aken” replicò seriosa la compagna, pur avvertendo il tremore nella sua stessa voce. “Avresti sminuito la loro forza, partendo alla volta di Akantar.”

“Sono i miei figli!” protestò sonoramente Aken serrando ermeticamente gli occhi, come colpito al plesso solare da un pugno troppo forte da poter sopportare. “Non riuscirei più a vivere, se succedesse loro qualcosa!”

Eikhe strinse i denti, comprendendo appieno la rabbia e la frustrazione del marito, perché sapeva erano anche le sue, ma si ostinò a dire: “La freoha li protegge.”

“Dovrei difenderli io. Non hanno neppure diciassette anni, Eikhe, ti rendi conto?” esalò Aken, rabbrividendo.

Una lacrima scintillò negli occhi ambrati della donna e, annuendo, lei sussurrò roca: “Lo so… ma sono adulti. I figli del branco diventano adulti molto presto, lo sai.”

“Difenderei anche Antalion, se fosse necessario! Non mi interessa se è sposato ed è a sua volta padre! E’ sangue del mio sangue, una parte del mio cuore!” sbottò Aken, passandosi una mano sul volto teso dall’ansia che lo stava divorando dall’interno.

“Credi che non sia così anche per me?!” esplose a quel punto Eikhe, scostandosi dal marito. “Credi che non darei il mio braccio per ognuno di loro? Ma so anche che, ormai da tempo, non possiamo più combattere le loro guerre, i loro problemi, le loro ansie. Possiamo aiutarli, ma non sostituirci a loro.”

“Eikhe…” sussurrò Aken, spiacente.

Con un gran sospiro, la donna nascose il viso dietro le mani e singhiozzò senza freni, mormorando tra le lacrime: “Impazzirei, se uno di loro non tornasse, se anche fosse ferito, ma so che è un pensiero sciocco, perché non posso padroneggiare il Fato più di quanto possa farlo tu. Se io sono qui e loro sono ad Akantar, è perché così doveva andare. Se, e quando, le cose cambieranno lo sapremo come, a suo tempo, abbiamo saputo come muoverci nonostante i nostri animi ci urlassero di fare tutt’altro.”

“Non stiamo parlando di cuori infranti, Eikhe, ma di vita o di morte.”

Nel replicare, le sfiorò il capo, carezzandolo delicatamente.

Lei risollevò il volto, ora bagnato di lacrime ma infinitamente forte e orgoglioso, e sentenziò: “Non è detto e, comunque, anche nel nostro caso si è trattato di vita o di morte e solo noi, alla fine, abbiamo deciso.”

“E’ vero” assentì alla fine Aken, attirandola nuovamente a sé. “Non dubiterò di loro, ma starò debitamente in ansia in ogni caso.”

A Eikhe sfuggì un risolino nell’annuire e, lanciatogli un sorriso, replicò: “Ti imiterò, se me lo concedi.”

“Permesso accordato” ammiccò lui, sollevandola tra le braccia per riportarla verso l’enorme letto a baldacchino. “E, visto che siamo entrambi svegli…”

“Mi leggi nel pensiero, caro?”

“Non l’ho sempre fatto?” ironizzò Aken, perdendosi nel suo sguardo d’ambra.

Lei annuì, avvolgendogli il collo con una mano per attirarlo a sé e baciarlo con amore e disperazione.

Sapeva perfettamente che perdersi tra le braccia di Eikhe l’avrebbe salvato dagli incubi a occhi aperti che spesso lo tormentavano, ed era quasi certo che anche per la sua donna non fosse dissimile.

Forse, era il motivo sbagliato per amarsi ma, quando la stese sotto di sé e le catturò la bocca con un bacio divorante, perse di vista quei sensi di colpa e si unì a lei come tante altre volte aveva fatto.

Cercò con le mani, afferrò e depredò il suo corpo mentre Eikhe, con le unghie e con i denti, deponeva su di lui il suo marchio.

Affondò in lei con un ringhio e, al suono delle campane del tempio di Iralva, la amò, la amò per ciò che era, per ciò che sapeva donargli, per ciò che rappresentava per lui.

Era come aria nei polmoni, come cibo per una bocca affamata, come acqua per un assetato, come la luce per un cieco.

Era tutto questo e molto altro, per lui.

Come lo erano i suoi figli.

Si sarebbe abbandonato nelle braccia di Hevos, confidando in lui e cercando di non tremare a ogni alito di vento e, al tempo stesso, avrebbe pregato per loro e per il loro lieto ritorno.

Null’altro poteva fare, al momento, ma sperò potesse bastare.

Molto più tardi, con il sole alto in cielo e un fresco venticello proveniente dalle colline, Aken scrutò i nipoti alle prese con i cani da caccia e i lupi di Staryn, Meriton.

Insieme a loro, Liana controllava che non succedessero disastri.

Ylvire ed Emelde, le mogli di Meriton e Staryn, erano accomodate su una panchina di pietra e osservavano Sysan, Missa e Narad giocare confusamente tra loro.

Il quadretto appariva idilliaco eppure, anche a quella grande distanza, Aken si rese conto della tensione che galleggiava sui volti delle tre donne.

La preoccupazione albergava in tutti loro, evidentemente, anche se non avevano motivazioni di sorta per provarla.

“Bella giornata, vero, padre?” esordì alle sue spalle Antalion, raggiungendolo sulla balconata dove si era appostato per scrutare l’orizzonte.

Aken attese che lo affiancasse al parapetto e, dopo averne studiato il profilo in tutto simile al proprio, asserì: “Soleggiata e piacevole, e i bambini si stanno divertendo un mondo.”

“Già” mormorò Antalion, poggiando le mani sui fianchi, lo sguardo accigliato e teso.

“Altri sogni strani, An?” gli domandò Aken, guadagnandosi per diretta conseguenza un’occhiataccia dal figlio trentatreenne.

Aken ghignò, facendo spallucce e il figlio, sospirando, alla fine annuì.

“Mi è parso di scorgere Enyl… ma era ammantata da una luce così forte che, persino nel sogno, mi ha fatto dolere gli occhi. Hai idea di cosa possa significare?”

“Non mi intendo di misticismo ma, in effetti, Enyl è bella come una dea e le dee, nei quadri, sono dipinte con aloni di luce” buttò lì Aken, non sapendo bene cosa dire.

Antalion scosse il capo, replicando: “Padre, quella che l’adornava non era un’aureola, ma un intenso chiarore, come se mille soli si fossero levati per illuminarla.”

“Non mi sembra una brutta cosa, però” ci tenne a precisare Aken, pur tremando dentro.

“No, in effetti no, però… ho paura per lei. E’ così giovane…” sospirò Antalion, passandosi una mano tra i corti capelli neri. “So che è stupido, perché Ran ha la sua stessa età, ed Enyl non ha nulla da invidiare a nessun soldato di mia conoscenza, però…”

“E’ pur sempre la tua sorellina” sentenziò Aken, dandogli una pacca sulla spalla.

Antalion abbozzò un sorrisino sghembo e annuì.

“Li ho amati fin dal loro primo vagito e non ho mai smesso di farlo, perciò saperli lontani mi uccide, pur se so che alla reggia di Ellessandar ci sono abbastanza uomini per proteggere più che bene i miei fratelli e mia cugina Naell. Eppure, l’ansia mi divora.”

“Tua madre non è meglio di te. Come me, del resto e, a quanto mi è dato di vedere, neppure le signore laggiù sono serene” gli fece notare Aken, indicando il giardino.

Scuotendo il capo, Antalion ammise: “Liana ha stretto Missa e Narad al petto tutta la notte. Non li ha voluti lasciar dormire nei loro lettini, il che la dice lunga.”

“Tu ed Eikhe… non potete in qualche modo parlare con Hevos? Chiedere lumi? In fondo, siete figli sacri” gli propose Aken, speranzoso.

“Mamma ci ha provato, ma non ha ottenuto risposta. Spero solo che voglia dire che, in qualche modo, sta già pensando alla sicurezza di Enyl, Ran e Naell.”

Scrollando le spalle con impotenza, aggiunse: “Anche se mi piacerebbe avere almeno una conferma di qualche genere.”

“Non sei il solo” sbuffò Aken, contrariato. “L’unica nota positiva è la scoperta di Ruak. Per lo meno, un problema verrà risolto. Il punto, sarà farlo digerire al Conte Alderan. Non credo apprezzerà questa novità.”

“Gliela farò digerire io, se lo zio non troverà un sistema” dichiarò con convinzione Antalion, ghignando soddisfatto. “Ho già in mente un paio di metodi niente male.”

Aken ridacchiò, annuendo di fronte all’aria gongolante del figlio e, avvolgendogli le spalle con un braccio, lo scrollò un poco, mormorando: “Sai quanto ti amo, vero, An?”

“Certo che lo so. Anche se ti ostini a usare quel nomignolo assurdo” ammiccò Antalion prima di stringerlo in un abbraccio caloroso e sussurrare contro la sua spalla: “Ti ho sempre amato, padre, anche quando di te conoscevo solo i ricordi della mamma. Posso essere stato combattuto, all’inizio, ma non ho mai provato che amore sincero, per te.”

“Tu, Enyl e Rannyl siete così importanti, per me! Le mie benedizioni!”

“E la mamma?” gli sorrise Antalion, scostandosi per scrutarlo in viso.

“La mamma è il mio cuore, ormai dovresti saperlo” sorrise Aken.

“E’ sempre bello sentirtelo dire… perciò non mi stancherò mai di chiedertelo.”

“E io sarò ben lieto di ripeterlo” asserì Aken, tornando a scrutare il giardino. “Ci uniamo a loro?”

“Vado a recuperare i lupi e chiamo la mamma. Adesso sta parlando con Renke e la nonna, ma credo le piacerà l’idea di uscire in giardino” assentì Antalion, correndo via silenzioso per rientrare all’interno del palazzo.

Scrutando il punto ove era scomparso il figlio, Aken venne colto da un brivido gelido quanto improvviso e, volgendosi preoccupato verso est, mormorò: “Vi prego, dèi, non portatemeli via…”

 


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N.d.A.: Senza che me lo chiediate... sì, Kennadarya è matta come un cavallo. Proprio per questo è così pericolosa.

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Capitolo 11
*** 11. ***


●●11●●

 

 

 

 

 

Sdraiata all’ombra di una palma, gli occhi chiusi e il volto rilassato, Naell si stava godendo gli agi di quel soggiorno presso l’oasi di Jilli’nat.

Assaporava come mai prima la libertà di quei luoghi assolati, la totale mancanza di regole di Corte, il placido trascorrere delle ore.

Accanto a sé, il rumore della vita della tribù scorreva come acqua cheta in un torrente, dandole pace e serenità.

Il chiacchiericcio dei bambini si confondeva con le voci delle donne impegnate nel lavare i panni, o nel preparare il buon pane sottile ottenuto con la farina prodotta con il cocco maculato che cresceva in quei luoghi.

Gli uomini, impegnati negli allenamenti con le spade, gridavano incitamenti ai duellanti o dispensavano saggi consigli agli allievi.

I cacciatori, invece, dopo essere partiti agli albori del mattino, tornavano con ricche prede da cuocere allo spiedo, la sera, nel mezzo della tribù.

Tutto veniva condiviso, dal più ricco premio alla più semplice libagione, e Naell aveva riscoperto cosa volesse dire adoprarsi per ottenere il cibo di cui sfamarsi.

Echi di ricordi vissuti nei meandri delle montagne tornarono a carezzarle la mente, riportando a galla i bei momenti vissuti al villaggio di Hyo-den.

Lì, aveva fatto amicizia con le donne-lupo e aveva scoperto un futuro tutt’altro che semplice per lei e i gemelli.

Quel futuro adombrato dal mistero si era ben presto mescolato con una realtà non meno difficoltosa ma che, lì all’oasi, pareva più distante, meno crudele, meno dolorosa.

Sapeva che, al suo ritorno a Yskandar, avrebbe dovuto affrontare di petto Ellessandar e ciò che provava per lui, ma ormai non ne aveva più timore.

Doveva dire la verità a un amico.

Ellessandar avrebbe capito e non le avrebbe mai taciuto i propri sentimenti, fossero essi d’amicizia o meno. Oramai lo aveva compreso.

“Un sorriso delizia il tuo volto, ykan. E’ bello” mormorò lì accanto My-chan, stesa al suo fianco a godersi la frescura dell’ombra del palmeto.

“E’ bello che tu lo veda, perché so che ti rende felice” replicò Naell, aprendo un occhio per scrutarla.

La bellissima donna-felino stesa al suo fianco appariva rilassata, pur se il suo corpo statuario e muscoloso non pareva mai realmente sciolto.

Era come se i suoi nervi fossero sempre in allerta, anche quando non v’era nulla a metterla in ansia.

Sapeva che era la sua condizione normale, eppure ogni volta quel fatto la incuriosiva.

Come la incuriosiva l’idea che My-chan non avesse mai pensato di trovarsi un uomo, in quegli anni.

Sapeva bene che il fatto di essere in parte felino non le impediva di avere rapporti anche con gli esseri umani, eppure My-chan non era mai stata interessata a nessuno, neppure leggermente.

Per l’ennesima volta, se ne chiese il motivo.

“Pensieri, pensieri… cosa ti arrovella, stavolta?” le domandò My-chan, sorridendole maliziosa.

“Mi leggi davvero troppo bene, tesoro. Ormai non ti si può nascondere nulla” ridacchiò Naell, mettendosi seduta.

Ben presto, avrebbe preso il suo posto ai fuochi per stendere l’impasto del pane sulle pietre abbrustolite, ma aveva ancora un po’ di tempo per dedicarsi all’amica.

“Leggo i tuoi occhi, e ora sono fumosi, proprio quando pensi intensamente a qualcosa” le rispose sinceramente My-chan, imitandola.

“Non hai mai pensato di trovarti un compagno? Umano, intendo.”

Glielo chiese così, senza preamboli, perché sapeva bene quanto My-chan detestasse i giri di parole.

La domanda parve coglierla davvero di sorpresa, perché la donna sgranò gli occhi e sbatté confusa le palpebre, prima di uscirsene con una risatina divertita quanto triste.

Naell attese paziente che My-chan le desse una risposta di qualche tipo e alla fine l’amica, scrollando le spalle, si limitò a dire: “Sarebbe ben difficile, visto che… beh,… siamo incompatibili. Umani e renpardi, intendo.”

A quel punto fu la volta di Naell di rimanere sorpresa e, fissando con sincero dispiacere l’amica, esalò: “Oh, cielo… mi spiace. Non ne avevo idea. Se solo l’avessi saputo, non mi sarei mai permessa di ficcare il naso a questo modo e…”

Levando una mano per bloccare il suo mare di scuse, My-chan si limitò a dirle: “Nutro ancora la speranza che, prima o poi, qualche renpardo salti fuori dai meandri di Akantar e che, al tempo stesso, mi possa piacere. Ma, in ogni caso, io sono già felice così. Ellessandar mi salvò da una ben misera vita e, grazie a lui, ho imparato un sacco di cose, sono stata amata, ho una famiglia e degli amici. Sono già stata benedetta… tutto il resto, sarà solo un qualcosa in più.”

“Ma… rimanendo sempre a Yskandar, non potrai mai sapere se qualche renpardo si è salvato dalle stragi” le fece notare Naell.

My-chan allora sorrise e, nell’alzarsi con grazia, si spazzolò le gambe ricoperte di finissima peluria maculata.

“Ellessandar ha inviato dei cercatori in giro per i quattro angoli del paese. Se e quando troveranno qualcuno, lui verrà subito informato. Non solo per me, ma per salvare la specie.”

Già, era proprio una cosa da ‘Sandar.

Non aveva mai dubitato del suo cuore, o dell’amore che provava per il suo renpardo.

Anche per questo si era innamorata di lui e, anche per questo, provava un’intensa ammirazione nei suoi confronti.

Sarebbe stato un degno sovrano, quando fosse giunto il suo momento.

Levatasi in piedi a sua volta, Naell si spazzolò i leggeri chalwar color sabbia e, rivolta all’amica e confidente, le disse: “Sono sicura che, prima o poi, ci saranno novità.”

“Non ho fretta. Il mio cuore è pacifico.”

Scrollò le spalle e, dopo averle dato un rapido bacio, si allontanò di corsa, trasformandosi tra un balzo e l’altro in forma animale per seguire Rannyl nella giornaliera perlustrazione dei confini dell’oasi.

Con un sorriso, Naell si rese conto che, nonostante tutto, anche il suo cuore si era riappacificato con i propri sentimenti, da quando aveva deciso di dire tutto a Ellessandar.

Non aveva la più pallida idea di quel che sarebbe successo, ma le andava bene comunque.

Avrebbe fatto onore a se stessa e all’amicizia che li legava, l’importante era quello.

Levato lo sguardo verso l’alto, dove si trovava Kalia, Naell le fece un cenno con la mano e la figlia sacra, con un abile balzo, scese in poche, rapide mosse dalla palma dove si era appollaiata di vedetta.

“E’ il nostro turno per fare il pane?”

“Già, ormai sì. Cosa stavi osservando di bello, da lassù?” le domandò curiosa Naell, accennando un sorriso.

Con una scrollata di spalle, Kalia si portò alla bocca un dattero e borbottò: “Controllavo l’andirivieni dei guerrieri dell’oasi, tutto qui.”

“Non lo fa già Rannyl? Oltre al comandante del nostro gruppo?” ironizzò Naell. “Non state diventando paranoici?”

“Forse” sbuffò Kalia, estraendo un dattero dalla sua scarsella da cintura per passarlo all’amica. “O, forse, mi stanno prudendo le mani. Ran mi ha accennato a ciò che vi disse Hevos tanti anni fa. E’ questo che ha turbato te e i gemelli, ultimamente?”

Naell si fece seria e annuì, mormorando: “Non avevamo il permesso di parlarne con nessuno, in precedenza, e a questo ci siamo attenuti. E forse è stato un bene, o mio padre mi avrebbe legata al letto e fatta maritare a sedici anni, invece di permettermi di viaggiare con il Ministro del Commercio, o concedermi di imparare a difendermi. Immagino, però che, se Ran te l’ha detto, il tempo dei segreti sia terminato. Resta solo da capire che ruolo avremo in questo fantomatico futuro prossimo.”

“Ammetto che l’aver saputo di questa cosa mi ha un po’ infastidito, ma … beh, se Hevos ha voluto così, chi sono io per replicare?” buttò lì Kalia, prima di sbuffare e ammettere: “No, anzi. Replico eccome. Avrei potuto aiutarvi a portare questo peso!”

“Lo hai fatto anche senza sapere nulla” le sorrise Naell mentre, a passi tranquilli, raggiungevano le donne della tribù, già intente a preparare il pane.

“Per questo, allora, hai sempre storto il naso all’idea di maritarti. Non solo per Coryn o Ellessandar” borbottò Kalia.

Naell assentì. “Che futuro avrei potuto dare, a un mio eventuale marito, sapendo che avrei dovuto essere parte di qualcosa di così oscuro? Se avessi avuto dei figli da Coryn, cosa avrebbe potuto accadere? No, dovevo pensare solo alla missione di Hevos, anche se l’idea di sposare Coryn di certo non mi allettava.”

“Sono ancora convinta che, se avessi saputo tutto, avrei potuto essere d’aiuto.”

Naell si limitò a sorriderle, preferendo lasciar cadere l’argomento. Quando ci si metteva, Kalia era più testarda di un mulo.

Kalia storse la bocca ma preferì non dire niente di fronte ai presenti e, rimboccandosi le maniche della camiciola color sabbia che indossava, si limitò a mugugnare: “Ne riparleremo.”

“D’ora in poi, quando vorrai” le promise Naell.

***

La catena che, poche notti prima, era comparsa magicamente nelle sue stanze, tintinnando freddamente sul pavimento marmoreo, ora si trovava al sicuro all’interno di uno dei suoi bauli.

Era pronta a essere usata quando il segnale fosse giunto da Kennadarya.

Gli era parsa strana, quella semplice catena brunita e ricoperta di simboli rossastri, ma si fidava della donna che gliel’aveva inviata, come del buon esito del suo utilizzo.

Non avesse funzionato, si sarebbe ritrovato sicuramente con la gola sgozzata, ma era più che certo che tutto ciò non sarebbe avvenuto.

Restava solo da attendere l’arrivo del falco che avrebbe dato inizio all’intera operazione, operazione che sarebbe stata gestita contemporaneamente da più uomini.

Il tutto doveva svolgersi entro tempi ristretti, così da non permettere alle forze presenti nel castello, o alla stessa Enyl, di intervenire in alcun modo.

Il sincronismo tra loro sarebbe stato l’arma vincente con cui portare a termine il loro piano, piano che aveva richiesto almeno quattro anni, per essere messo in piedi con la dovizia di particolari necessaria per renderlo perfetto.

Nulla avrebbe dovuto andare storto.

La famiglia reale sarebbe stata prelevata dai suoi appartamenti, Ellessandar sarebbe stato fatto prigioniero assieme a Enyl, e la principessa Naell consegnata su un piatto d’argento a colui che aveva foraggiato così generosamente l’intera impresa.

Lui avrebbe ricevuto il compenso adeguato per i suoi servigi e, alla fine di quella campagna di conquista, si sarebbe ritirato dal suo ruolo per godere dei frutti così ottenuti.

Non si sarebbe più dovuto genuflettere di fronte a nessun principe o principessa.

Avrebbe vissuto in un sontuoso palazzo, servito e riverito e, sul trono, vi sarebbe stato qualcuno di ben più degno di colui che tutt’ora scaldava il seggio del regno per cui lui, per tanti anni, aveva lavorato alacremente.

Sì, finalmente anche il suo tempo sarebbe giunto.

Un quieto bussare alla porta delle sue stanze lo strappò ai suoi sogni ad occhi aperti e, nell’alzarsi dalla poltrona ov’era accomodato, esclamò: “Avanti. E’ aperto.”

Un paggio in livrea entrò impettito all’interno, portando con sé un vassoio in argento, su cui era poggiata una missiva arrotolata e chiusa da un sigillo in ceralacca nero come il carbone.

Istintivamente, sorrise.

“Le mie scuse per avervi disturbato, Ministro Korissar, ma è giunto questo messaggio per voi” mormorò ossequioso il giovane, inchinandosi leggermente.

Allungata una mano per afferrare la missiva, Korissar lo ringraziò con un sorriso e lo congedò.

Dopo essere stato lasciato solo, ruppe il sigillo e scrutò famelico la scrittura secca e spigolosa di Kennadarya che, con parole semplici e chiare, lo mise al corrente di ciò che sarebbe avvenuto di lì a dieci giorni.

Dieci. Giorni.

Mancava davvero poco al compiersi del suo destino. Del destino di tutti.

***

“Sei irrequieta, lo noterebbe anche un cieco, perciò ti chiedo. Posso fare qualcosa per te?” le domandò a un certo punto Ellessandar, levando il capo dal libro che stava consultando per le sue ricerche sui simboli alchemici visti in sogno da Enyl.

Quando era venuto a conoscenza del reale significato dei simboli che la ragazza aveva disegnato per lui, Ellessandar aveva subito compreso quanto pericolosi e oscuri fossero i poteri a essi legati.

Erano simboli legati agli dèi, all’ancestrale potere delle Tenebre, all’apertura di porte che avrebbero dovuto rimanere sigillate, alla possibilità di rendere la vita sul loro mondo un autentico martirio senza fine.

Da quel che aveva saputo dalla stessa Enyl, la loro nemica altro non era che sangue di Tenebra, giunta a camminare nella terra dei viventi per un artificio voluto dallo stesso Caos.

C’erano molti nomi per la luce e le tenebre, la vita e la morte, ma Caos ed Equilibrio erano tali in qualsiasi regno, in qualsiasi religione.

Erano superiori a tutto, a tutti. E loro stavano lottando per fare lo sgambetto a Caos, per così dire.

Non certo un pensiero molto confortante.

Lappandosi le labbra con fare nervoso, Enyl gli sorrise, le braccia strette attorno alle ginocchia, che aveva rannicchiato contro il petto a mo’ di difesa contro il resto del mondo.

Se ne stava appollaiata su un divanetto, l’aria smarrita e al tempo stesso attenta, come se si aspettasse un agguato da un momento all’altro, e forse non era così lontano dalla verità.

Pur non avendo il dono di Enyl, anche se a volte faticava a non vederlo come una maledizione, Ellessandar percepiva la tensione nell’aria ogni qual volta si trovava per le vie della sua città.

Aveva più volte scorto volti non conosciuti ma, in prossimità delle festività per i mille anni di regno, ciò non l’aveva affatto turbato.

Non fino al giorno precedente quando, accompagnata Enyl al mercato per recuperare qualche spezia rara, non aveva avvertito il tendersi dei muscoli della giovane sotto il tocco della sua mano.

Volgendo lo sguardo a destra e a sinistra, ‘Sandar non aveva notato nulla di diverso dal solito ma, a sua volta, si era irrigidito, avvertendo su di sé sguardi che mai lo avevano sfiorato.

Sapevano di trafitture di spillo, quelle occhiate nascoste tra la folla festante, non di carezze ossequiose quali era più abituato.

“Ci avviciniamo alla resa dei conti, e io ho un solo desiderio. Prendere in mano la mia daga e tagliare la testa a qualcuno.”

Lo disse con un sorriso caustico, ironico, ma Ellessandar percepì la sua rabbia repressa, e la condivise in pieno.

“Sono sicuro che avrai quest’occasione, se anche la metà di ciò che ho compreso da questo libro è vero” mormorò Ellessandar, tornando a osservare le pagine del libro che riposava sul leggio dinanzi a lui.

Con un balzo atletico, Enyl fu subito da lui e, appoggiata una mano sul suo braccio per allungarsi a sbirciare, la giovane gli domandò: “Cos’hai scoperto?”

“Le immagini che hai riprodotto sono portali per le Tenebre. Chiunque li abbia disegnati, sta tentando di divenire una porta per il regno della morte. Nel libro, si fa menzione al grande pericolo cui si va incontro, utilizzando simili simboli. E tu dici di averli visti in sogno.”

Nel dirlo, aggrottò la fronte.

Enyl annuì, sospirando nervosamente.

“Ella ne era cosparsa. Un corpo candido, ammantato di luce fredda, tagliente. Sui seni, il ventre, le cosce, le ginocchia, le braccia. Ne era ricoperta come un abito funereo.”

“Allora, significa che Corvo Bianco si è aperta ai poteri del padre, e questo non è un bell’affare” ringhiò infastidito Ellessandar.

“E io non so che fare” esalò spaurita Enyl, facendo un passo indietro.

Ellessandar la afferrò al braccio prima che potesse urtare lo spigolo di una delle scrivanie ivi presenti e, attirandosela vicina, la cullò gentilmente mentre i tremori della giovane si fecero sempre più forti, sempre più incontrollabili.

Carezzandole i capelli uniti in una treccia, il giovane principe le fece poggiare il capo contro il torace ampio e forte ed Enyl, singhiozzando irrefrenabilmente, esalò sconfortata: “Non so come comportarmi, che fare, come prepararmi. Non sono un’adepta della magia!”

“Ssst, non temere, Enyl. Ne verremo a capo. Se ti hanno concesso questi doni, ci sarà un motivo. Non credo ti avrebbero mandato allo sbaraglio e basta” la consolò gentilmente Ellessandar, continuando a cullarla contro di sé.

Comprendeva più che bene le preoccupazioni della giovane amica perché, al suo posto, avrebbe tremato di paura al solo pensiero di mettersi contro un simile concentrato di potere.

Ugualmente, era fiducioso sul fatto che, se Enyl era stata dotata di simili poteri, a tempo debito avrebbe saputo come sfruttarli a suo vantaggio per distruggere il  nemico.

Così, almeno sperava perché, se ciò non fosse avvenuto, dubitava seriamente ci sarebbe più stato un nuovo giorno per ciascuno di loro.

Strette la mani a pugno, il viso premuto contro il torace caldo di Ellessandar, Enyl gracchiò con voce stiracchiata: “Hevos… devo vedere Hevos.”

“Hevos? Ma cosa…? Oh… il tempio, dici? Il tempio di Soanes?” comprese dopo alcuni attimi Ellessandar, scostandola da sé per scrutarla in viso.

Annuendo a più riprese, ora spinta dalla frenesia di andare, Enyl lo afferrò per una mano e, dopo essersi lasciati alle spalle l’imponente biblioteca immersa nella luce calda del giorno, la figlia sacra esclamò: “E’ l’unico che può darmi pace! Ma ho bisogno che tu dica ai postulanti di uscire dal tempio. Non posso parlare con lui apertamente davanti a tutti e, stavolta, ho bisogno di evocarlo. Sono troppe le domande che devo porgli, e parlare mentalmente mi sfianca.”

“Puoi davvero evocarlo?” esalò vagamente sgomento Ellessandar, seguendola di buon passo lungo il corridoio che avevano imboccato.

Paggi, cameriere e soldati si scostarono lesti al loro passaggio e, quando infine raggiunsero le porte che conducevano al cortile interno, Enyl si volse un attimo per scrutare in viso Ellessandar.

Con mezzo sorriso, dichiarò: “Per me, lui verrà.”

Ellessandar si limitò ad annuire e, quando infine raggiunsero il cortile, diede ordine alle guardie di stanza presso i cancelli di aprire la piccola porta laterale che conduceva direttamente sulla via principale di Yskandar.

Immediatamente, il soldato più vicino si apprestò a girare la chiave di pesante ottone nella toppa.

Tenendola aperta per la coppia, li scrutò uscire nel mezzo della folla cicaleggiante all’esterno e, infine, chiuse il battente.

Con passo lesto e cadenzato, Enyl tenne gli occhi fissi sull’enorme struttura del tempio che, da palazzo, distava solo qualche minuto a piedi.

Sempre col principe al suo fianco, mormorò tesa: “Non dovrai fare caso a ciò che vedrai. Sappi soltanto che so quel che faccio.”

“Mi fido di te” annuì Ellessandar, sorridendole.

Enyl lo scrutò per un momento e assentì. “Lo so.”

Detto ciò, tornò a scrutare le alte torri del tempio, sottili come lance e distese verso il cielo terso come mani che tentino di afferrare il regno degli dèi.

In quel momento, lei avrebbe voluto afferrare ben altro, e stringere bene.

Il collo di Corvo Bianco era il suo primo desiderio, ma anche il suo cuore le sarebbe andato bene.

Perché desiderava sangue, il suo sangue e, finché non lo avesse ottenuto, non si sarebbe sentita appagata.

Quella maledetta l’aveva costretta a far emergere la parte più oscura di sé, quella che solo durante la caccia o la lotta, lei esponeva al mondo.

Non le piaceva bramare sangue, desiderarlo come si desidera un abbraccio caloroso, ma tant’era, e Corvo Bianco avrebbe ricevuto questo, da lei.

Preso un bel respiro quando infine si trovò di fronte alle porte del tempio, Enyl si volse a fissare speranzosa Ellessandar e lui, nell’annuire, le disse: “Ai fedeli penso io. Tu fai ciò che devi.”

Un cenno del capo ed Enyl salì la breve scalinata per poter entrare all’interno dell’ampia struttura sacra, dove la luce multicolore dei rosoni tinteggiava i pavimenti come un lago dalle mille tonalità diverse.

Lì, Enyl si fermò e, con gesti misurati, si sciolse la treccia per poi passare tra i capelli le lunghe dita affusolate, lasciando che una cascata di oro puro scivolasse sulle sue spalle e la schiena diritta e fiera.

Fatto ciò – e del tutto dimentica di coloro che, gentilmente, Ellessandar stava pregando di abbandonare il tempio – cominciò a camminare lungo la navata centrale.

Sotto gli occhi estasiati del principe, infine, si avviò in direzione della statua del dio Soanes.

“E’… lei è Luce” sussurrò ammirato Ellessandar, osservando basito la figura alta e longilinea dell’amica che, completamente immersa nella luce proveniente dai rosoni istoriati, pareva rifulgere come una dea discesa in terra.

Silenziosa nel passo come nella parola, Enyl raggiunse infine il piedistallo marmoreo del dio-leone Soanes e, inginocchiatasi dinanzi a lui, sfiorò il pavimento con la fronte in posa di totale sottomissione.

Con enfasi e speranza assieme, lei mormorò: “Io ti scongiuro di ascoltarmi, mio dio… ho estremo bisogno del tuo consiglio, della tua mano consolatoria, del tuo supporto. Non abbandonarmi ora, mio dio.”

Muto e immobile sul fondo della navata centrale, gli occhi puntati su Enyl, Ellessandar soppresse a stento un singulto strozzato quando vide rifulgere la statua del dio e, subito dopo, ammantarsi di brina finissima.

La brina divenne sempre più fitta e, come un abbraccio, avvolse il corpo genuflesso di Enyl che, levando appena il capo, sorrise rivolta alla statua del dio ed esalò: “Grazie, Hevos.”

“Non inginocchiarti mai dinanzi a me, mia diletta” esclamò stentoreo Hevos, facendo rimbalzare la sua voce tra le pareti del tempio.

Ellessandar sobbalzò, impallidendo leggermente e, non riuscendo più a contenere il tremore alle gambe, dovette sedersi su una delle panche dei postulanti per non crollare a terra.

Non v’era dubbio che quella fosse la voce di un dio, ma… cielo! Mai nella vita avrebbe immaginato di udirne il suono!

Levandosi in piedi con grazia innata, Enyl sollevò le mani per raccogliere sui palmi la brina cristallina e, tornando a sorridere con maggiore calma, se la portò al cuore e sussurrò: “Mi è mancata. Tu mi sei mancato.”

“Non sono mai distante da te, mia diletta, anche se in questi luoghi mi è difficile raggiungerti nella forma a te più cara. Potrei prendere le sembianze di Soanes, ma dubito gradiresti.”

Ridendo nell’osservare l’enorme e nerboruto dio che sorgeva come una montagna dinanzi a lei, Enyl scosse il capo e replicò: “Mi va più che bene avvertire sulla pelle la tua brina fresca e leggera.”

“Di più non posso, al momento, ma spero che basti. Quali parole posso donarti, mia diletta Enyl?”

Deglutendo a fatica, Enyl si volse a scrutare Ellessandar, ancora seduto su una delle panche e, schiarendosi la voce, mormorò: “Il principe ha decifrato i simboli che ho visto in sogno e… non so cosa poter fare contro di essi.”

“Cosa rappresentavano?” si informò allora Hevos.

“Ombre e morte. I cancelli per il regno delle Tenebre” esordì Ellessandar, cercando di non far tremare la voce. Vi riuscì a stento. “Nulla di ciò che ho trovato è positivo, Mio Signore.”

“Sono lieto che Enyl possa contare su un così valido amico, avendo il gemello lontano dal suo braccio” declamò Hevos con tono ossequioso. “Niente mi renderebbe più infelice che sapere la mia diletta sola, o senza amici che possano confortarla nel momento del bisogno.”

Enyl sorrise a quelle parole e la brina si raccolse per prendere le sembianze di una figura umana, figura cristallina che la avvolse in un abbraccio scintillante mentre la voce del dio, ora fattasi sussurro, esalò: “Vorrei tanto fare di più, per te… posso dirti questo, però. Haaron ha provato ad avvicinare la figlia, ed ella lo ha bandito da questo regno con un colpo di falce. Ne deduco che questo si possa ricollegare all’incubo che hai avuto tu.”

Henyl annuì, rilassata nell’abbraccio fatto di brina.

“Kennadarya, questo è il nome di colei che dovrai affrontare. E non temere ciò che lei sa, ma che tu ignori. La Luce non ha bisogno di una guida. Lei Esiste. E’ ovunque, anche dove non si pensa essa possa annidarsi. Sarà questa consapevolezza che ti guiderà.”

“Ma… il suo sapere alchemico?” mormorò turbata Enyl.

“Le Tenebre tenteranno sempre di sfuggire al dominio di chi vuole piegarle al proprio volere, per questo solo Haaron ne è padrone assoluto. L’alchimia di Kennadarya, unita al suo sangue in parte divino, serve per imbrigliare tale potere, ma esso è forte e, io credo, tu saprai spezzare i ponti che la legano a un dominio che non può, e non potrà mai, essere suo.”

La convinzione e la fiducia che Enyl avvertì nel tono di Hevos la riscaldarono.

“Saprò come agire a tempo debito?”

“Sono convinto di sì, perché io credo in te. Sei donna intelligente, Enyl, non l’ho mai dubitato. La tua bellezza è solo uno specchio che tu hai saputo utilizzare con maestria, ma non rappresenta ciò che sei. Tu sei Luce, mia diletta, e nessuno potrà mai apprezzare abbastanza questo tuo dono interiore.”

“Tu sì…”

“In un tempo e un luogo diversi, io ti risponderò, mia diletta… per ora, rasserena il tuo spirito e pensa a questo. Io sono con te, Haaron è con te. Equilibrio si fida del tuo giudizio. Credo siano tutte buone ragioni per pensare positivo.”

“Spero solo di non deludervi” mormorò allora Enyl.

“Non potresti mai… mia amata.”

Enyl sorrise nel chiudere gli occhi quando la brina le sfiorò le labbra e, piano, sussurrò: “Torna da me, stanotte, te ne prego.”

“Come è tuo desiderio.”

Detto ciò, la brina iniziò a svanire e anche la luce attorno al corpo di Enyl andò scemando, confermando a Ellessandar che non solo il gioco di luci creato dai rosoni aveva illuminato la giovane.

Fino a quel momento, Enyl era stata la Luce.

Volgendosi infine verso l’amico, Enyl sospirò e ammise: “Fa un po’ paura, eh?”

“La luce in te, o la faccenda dell’apparizione di un dio?” cercò di ironizzare Ellessandar, raggiungendola in pochi, rapidi passi.

“Entrambe le cose, credo” mormorò la ragazza, aggrappandosi al suo braccio.

“Enyl, posso chiederti una cosa senza apparirti un impiccione?” le domandò a quel punto il principe, conducendola a una panca perché potesse riprendersi.

Era mortalmente pallida, in quel momento, e dubitava sarebbe riuscita a fare un solo passo fuori dal tempio, in quello stato.

Sedendosi quasi di peso sul sedile di legno, Enyl si piegò in avanti per appoggiare la testa contro i leggii delle panche del tempio e, con un sospiro lungo e sottile, esalò: “Parla pure, Ellessandar.”

“Tu e Hevos, per caso…?”

Lasciò la domanda a mezz’aria, non sapendo neppure bene come esprimersi ed Enyl, sorridendo, annuì.

“E’ successo tutto l’anno passato, durante il mio ultimo viaggio solitario per i boschi ma, fino a pochi giorni addietro, non avevo ricollegato quel che successe, a quel che ho da poco scoperto di me” gli spiegò sommariamente lei.

 

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Capitolo 12
*** 12. ***


 

 

●●12●●

 

 

 

Un anno prima.

 

 

 

“L’alba è prossima, Enyl… pensi di dilettarti con la caccia, stamani?”

La voce calda e melodiosa di Hevos le sfiorò le orecchie al suo risveglio.

Stiracchiandosi sulle stuoie che aveva steso nella grotta dove aveva trovato rifugio, la giovane aprì gli occhi e li fissò sulla figura nivea del lupo che era accoccolato al suo fianco.

Era la prima volta in assoluto che Hevos passava così tanto tempo con lei ma, in fondo, la cosa le faceva molto piacere.

Anzi, era deliziata all’idea di averlo accanto a sé.

Svegliarsi, in quei giorni, e trovarlo sempre vicino a lei, con il suo profumo di muschio e brina a carezzarle le narici, le era servito a fare sogni tranquilli e pacifici.

Da tempo, ormai, era disturbata da visioni oscure e senza forma ma, con Hevos nelle vicinanze, ciò non era più avvenuto.

Inoltre, per qualche ragione che non riusciva esattamente a comprendere, la sua compagnia, il suo colloquiare, la sua stessa presenza la rendevano… viva.

Buffo, come un lupo diverso da Kell potesse farla sentire ugualmente così felice.

Anzi, ciò che provava stando con Hevos era mille volte superiore a qualsiasi altra piacevole sensazione provata nello stare accanto al suo fido compagno a quattro zampe.

Anche se, il solo pensarlo, la faceva sentire in colpa.

Lei amava Kell, ma c’era una differenza sostanziale tra lo stare con lui e lo stare con Hevos, pur se non riusciva a coglierne completamente i contorni.

“Penso che potremmo andare a caccia, sì. Le scorte di carne sono ormai agli sgoccioli, e desidero prendere un altro animale per la pelliccia. Vorrei confezionare qualcosa per la mamma.”

Nel dirlo, si rizzò a sedere, intrecciando le gambe tornite e lunghe e abbracciate da corti calzoncini di pelle di daino.

“Ti assisterò nella caccia, se la cosa ti aggrada” le propose Hevos, levando il muso verso di lei.

Enyl annuì lieta e, avvolgendo il lupo in un abbraccio, avvertì il consueto tocco gentile del suo potere e della brina leggera che sempre lo circondava come un’aura.

Dopo le prime occasioni di iniziale imbarazzo, Enyl si era ritrovata a comportarsi con Hevos come con il suo lupo e, da quel poco che aveva capito, al dio non aveva dato affatto fastidio.

Sembrava apprezzare i suoi abbracci, i suoi scherzi bonari e, spesso e volentieri, era lui stesso a mordicchiarle la tunica perché giocasse un po’ con lei.

Probabilmente, nella sua forma di lupo, risentiva in parte del carattere giocoso dell’animale che ben rappresentava.

“Hai già deciso su che versante cacciare?” le domandò Hevos mentre Enyl si levava in piedi per afferrare la sua daga e allacciarla al fianco.

“Pensavo di puntare verso la Lama del Drago… pensi possa andare?” propose lei, scrollando le spalle.

“Ti seguirò ovunque tu vorrai” dichiarò Hevos, ripiegando appena il capo come per annuire alla sua proposta.

Quella frase fece scivolare un lento brivido caldo lungo la schiena di Enyl che, nel fissare curiosa Hevos, si chiese se le parole appena espresse dal dio volessero dire anche altro.

Non sembravano essere state esposte a caso, ma per un valido motivo, di cui però non scorgeva bene la ragione.

Era più che convinta che ne sarebbe venuta a capo, a ogni modo.

Seguita al trotto leggero da Hevos, Enyl iniziò a correre furtivamente per il bosco, la freoha che gonfiava i suoi muscoli di sangue e adrenalina, spingendola a prendere una posizione avanzata, pronta in qualsiasi momento a scattare all’attacco.

Una lancia in mano e la daga ben fissata al fianco, Enyl si avventurò leggiadra tra gli alti abeti montani come uno spettro senza peso.

Sfiorò i muschi a terra  e le rocce sparse qua e là con la punta degli stivali, senza produrre alcun suono.

I suoi occhi dorati volarono veloci da un angolo all’altro della foresta, scandagliando con attenzione ombre e luci alla ricerca di una preda.

A un gesto del muso di Hevos, scartò sulla destra, indirizzandosi verso uno spuntone di roccia dove, imponente e fiero, un leone di montagna stava osservando paziente la valle.

Stretta saldamente in una mano la lancia, Enyl balzò agilmente su un ramo di larice bianco e, da lì, prese la mira per colpire la sua preda che, ignara, continuò a studiare la radura poco distante.

Il vento le portò l’odore della fiera e la giovane, sorridendo leggermente, assottigliò gli occhi per prendere la mira.

Con un ampio gesto del braccio, lanciò la sua arma con l’intento di colpirlo al petto, più che sicura che il leggero venticello proveniente da ovest non avrebbe guastato la traiettoria della sua arma.

Hevos ne seguì il volo in silenzio e, quando la lancia colpì il felino direttamente al cuore, levò il muso verso il cielo sgombro di nubi e ululò fiero.

Nel tornare al suo fianco, Enyl sorrise gaia e si inginocchiò per abbracciarlo.

Il lupo niveo le leccò il viso prima di incamminarsi verso la preda ed Enyl, tutta contenta, esclamò: “E’ una preda magnifica! Ne verrà fuori una casacca davvero bellissima per la mamma, e un berretto per papà. Sono davvero contenta.”

“Il tuo lancio è stato magistrale, Enyl. Una cacciatrice provetta” si complimentò Hevos, trotterellando accanto a lei.

Arrossendo leggermente, la giovane si schernì, replicando: “Oh, Ran è più bravo.”

“Permettimi di dissentire, fanciulla. Siete egualmente bravi.”

“Beh… allora, grazie” sussurrò Enyl, tornando velocemente con lo sguardo alla preda poco lontana.

Per un motivo incomprensibile, immergersi nello sguardo dorato di Hevos le aveva procurato un principio di vertigine.

Quando infine raggiunsero il puma, Enyl si inginocchiò accanto alla preda ormai morta e, nel poggiare una mano sulla fronte dell’animale, chiuse gli occhi e mormorò ossequiosa: “Grazie per il dono che ci hai fatto, nobile creatura. Le tue carni ci sfameranno e le tue pelli ci terranno al caldo. La Luce ti accompagni nel tuo viaggio tra le braccia di Haaron, fratello, e possa tu attendermi in pace quando sarà giunta la mia ora.”

Hevos le leccò la mano poggiata sull’animale e, con tono roco, sussurrò: “Preferirei non usassi la formula per intero, Enyl.”

“E’ un omaggio a te e Haaron… pensavo ti fosse gradita” replicò confusa Enyl, estraendo la daga per iniziare il suo lavoro di scuoiatura.

“Rabbrividisco al pensiero di te… sul Sentiero Nero… sarà sciocco, ma…”

Il lupo che era Hevos scosse il muso e il corpo maestoso tremò per diretta conseguenza, come per riflesso dell’ansia provata dal dio.

Sinceramente commossa dalla preoccupazione di Hevos, Enyl lasciò perdere la daga, che infilò nel terreno, e lo abbracciò con calore.

Strusciando la guancia contro la sua nivea gorgiera, la figlia sacra sussurrò: “Non avresti potuto dirmi una cosa più bella, Hevos, ma so che prima o poi verrà anche per me quel momento. Io spero il più in là possibile ma, con il futuro che ci attende, non si può mai dire.”

“Non pensarlo mai!” esalò Hevos con voce stentorea, sorprendendola.

Il suo tono di voce fu così accorato, così terrorizzato, che Enyl non poté che stringerlo ancor più forte a sé.

E fu in quel momento che qualcosa cambiò.

La gorgiera scomparve per magia, sostituita dal tessuto più morbido che avesse mai sfiorato, mentre forti braccia maschili la strinsero protettive, quasi volessero escludere ogni pericolo proveniente dal mondo che li circondava.

Sorpresa e, sì, vagamente spaventata da quel cambiamento, Enyl fece per scostarsi ma la voce di Hevos – o almeno, lei pensò fosse la sua – le ordinò gentilmente: “Ti prego, non farlo.”

Aveva sempre pensato che la voce del dio fosse la più pura e bella che avrebbe mai potuto udire, o anche solo immaginare, in vita sua, ma si era sbagliata di grosso.

Il dover parlare la loro lingua attraverso la bocca di un lupo, aveva guastato quanto di meraviglioso c’era in quel timbro vocale roco, profondo, stentoreo e, al tempo stesso, delicato.

Parve risuonare come un’eco intorno a lei, forse perché tale voce proveniva dal corpo di un dio.

“Non vuoi … che ti veda?” sussurrò Enyl, lasciando che il suo corpo tornasse a sfiorare quello umano del dio.

Era enorme, al suo confronto, molto più del padre ma, nonostante la sua mole, non si sentiva intimorita ma… protetta. Amata.

Hevos rise, una risata tremula, contrita… timorosa ed Enyl, più che mai sorpresa da quella reazione, gli domandò: “Hai paura tu possa non piacermi?”

“Rimarrei molto deluso da un tuo rifiuto, lo ammetto. Ma non è questo il motivo che mi spinge in questo momento, Enyl” ammise lui, con una certa ironia nella voce. “Sono troppo debole per trattenere il mio potere e, se tu dovessi vedermi ora, sicuramente ne rimarresti accecata.”

Annuendo lentamente, Enyl rimase docile nel suo abbraccio prima di stringersi un poco più a lui e sussurrare: “Perché sei diventato uomo?”

Ancora quella risata gutturale, che la fece tremare tutta. Era così piacevole da ascoltare!

“Ne parleremo più avanti, Enyl… per ora, promettimi che non penserai più alla tua morte. Mi intristisce sentirtene parlare con quel tono così disilluso.”

“Non voglio arrecarti offesa, perciò non ne parlerò più” assentì ossequiosa lei prima di sgranare gli occhi sgomenta non appena percepì le labbra soffici di Hevos sulla fronte.

La luce la invase, obbligandola a serrare maggiormente le palpebre e, in uno sfrigolio di brina, Hevos la abbandonò nella radura mormorandole all’orecchio prima di andarsene: “Farò in modo tu possa avere una lunga vita, Enyl… non importa che prezzo dovrò pagare…”

Un vento possente le schiaffeggiò il viso, portandola a levare un braccio per proteggersi e, quando fu sicura di non correre più alcun rischio, riaprì gli occhi per poi urlare al nulla attorno a sé: “Hevos, no! Aspetta!”

Se ne era andato, lasciandola con la sua preda e un senso di vuoto profondo nel cuore.

Stringendosi le mani al petto, avvertì come una fitta dolorosa trafiggerla più e più volte.

Mentre il suo lupo si avvicinava a lei, comparendo dal bosco, Enyl volse lo sguardo a osservare il cielo e sussurrò tremante: “Hevos… ritorna.”

Ma lui non tornò.

***

“… e questo, è più o meno tutto. Evidentemente, all’epoca ero troppo ingenua per capire o, forse, non ero ancora pronta ad accettare un simile sentimento dentro di me” terminò di dire Enyl, dopo aver raccontato a Ellessandar del suo ultimo incontro con Hevos.

Il principe non poté che fissarla stranito, strabiliato a tal punto che anche le parole – di cui era sempre stato padrone – vennero meno.

La storia di Enyl lo aveva colpito e, nel profondo del cuore, aveva percepito la verità in essa contenuta.

Non c’era stata vanagloria nel suo dire, si era solo trattato del racconto di una giovane fanciulla alle prese con il suo primo amore.

Il fatto che Hevos fosse un dio, in quel caso, era solo un fattore marginale anche se, a ben pensarci, complicava e di molto le cose.

Dubitava seriamente che Enyl avrebbe potuto vivere normalmente quel sentimento assieme a lui, vista l’ovvia impossibilità del dio a rimanere per lungo tempo nel mondo degli umani in forma di uomo.

A peggiorare il tutto, poi, v’era la presenza incombente dell’ombra del loro nemico che, certamente, non aiutava Enyl a vivere serenamente la scoperta di quel dolce sentimento.

Non la invidiò per nulla.

“Neppure io invidio me stessa” sussurrò con un mesto sorriso Enyl, sbirciandolo da sotto le palpebre socchiuse.

Ellessandar le sorrise benevolo e, circondandole le spalle con un braccio, le domandò: “Torniamo a palazzo? Te la senti?”

Lei annuì dopo un istante e, nel levarsi in piedi grazie al suo aiuto, ristette per un momento accanto all’amico.

“Vorrei tanto dirlo alla mamma.”

“Posso immaginarlo” ammise Ellessandar. “Ti andrebbe di parlarne con la mia? Non sarebbe la stessa cosa, ma ti potrebbe ugualmente capire.”

“Dici che Elmassary…” tentennò Enyl, non sapendo bene se accettare o meno il suo aiuto.

Scrollandola gentilmente, Ellessandar la accompagnò fuori del tempio con passo tranquillo e, nel tornare sui loro passi, le confidò: “Mia madre è una bravissima ascoltatrice, sai?”

Enyl sorrise grata e, annuendo, asserì: “Allora sarò felice di chiederle consiglio.”

***

Il falco atterrò con precisione sul guanto da falconiere di uno degli uomini di re Kevan che, scrutando con curiosità il rapace, si domandò: “Chi può mandarci un messaggio proprio ora?”

Kennadarya, seduta sulla portantina assieme a lui e alla regina, che si stava facendo aria con un elegante ventaglio, non rispose al re ma fece cenno al falconiere di consegnargli il messaggio.

L’uomo si affrettò ad accontentarla e, con un gesto ossequioso, le consegnò il piccolo foglietto di carta pergamenata prima di tornare al suo posto per occuparsi del rapace.

Kevan la fissò con irritata curiosità ma lei non vi badò e, nell’aprire la missiva, storse la bocca per poi dire indispettita: “Come sarebbe a dire?!”

“Cosa succede?” si informò Kevan, sorpreso dalla sua reazione.

“Naell non si trova a palazzo, ma in una delle tribù del deserto sotto l’egida di Erenokt” gli spiegò succintamente Kennadarya prima di appallottolare infastidita la missiva proveniente da Bramann.

Non era possibile! Quel messaggio li aveva cercati prima alla capitale e poi, non trovandoli perché già in viaggio, era stato inviato nel deserto per trovarli.

Quando infine era giunto, lei non aveva potuto che constatare l’evidenza dei fatti.

Qualcosa era sfuggito al suo controllo.

“Poco importa, no? A ogni buon conto, saperla lontano dalla battaglia non è meglio?” replicò Kregan, scrollando le spalle.

“Avrei preferito di gran lunga saperla al sicuro nelle mie mani, e non dispersa nel deserto, e potenzialmente libera di scappare, qualora l’occasione lo rendesse necessario” ringhiò Kennadarya prima di guardarsi intorno e ordinare: “Devi inviare un contingente di uomini all’oasi di Jilli’nat per farla prelevare. Di’ loro di uccidere pure tutti, ma di non toccare lei.”

Sbuffando contrariato, Kevan brontolò sonoramente: “E’ mai possibile che tu veda complotti ovunque? Come può, la principessa, pensare di scappare, se è così lontana dalla capitale? Anche quanto, quando avverrà l’attacco, lei non verrà mai a saperlo e, quando tornerà a Yskandar, la prenderemo con comodo.”

“Non mi fido e basta. Abbiamo un esercito, alle nostre spalle! Ordina subito a un centinaio di uomini di andare a prelevarla, o giuro su quanto ho di più caro che…”

Bloccando la sua ira sul nascere, Kevan levò un braccio per attirare l’attenzione di uno degli ufficiali del suo esercito e, nel fargli cenno di avvicinarsi, mormorò a Kennadarya: “Sei davvero impossibile.”

Lei preferì non insultarlo dinanzi a tutti e, silenziosa come una tomba, ristette al suo posto senza neppure degnare di uno sguardo il soldato avvicinatosi alla portantina.

“Invia un contingente di uomini all’oasi di Jilli’nat. Dovete prelevare la principessa Naell integra. Non le sarà torto un capello, o io torcerò il collo di ciascuno di voi, è chiaro?”

Kevan fu lapidario nel tono e Kennadarya, dentro di sé, rise. Com’era facile manipolarlo!

“Sarà fatto, mio re. Dove desiderate che la conduciamo, una volta catturata?” si informò il soldato, ossequioso.

“Conducetela al mio palazzo. Lì, sarà al sicuro fino al nostro ritorno vittorioso.”

Sorrise e lo congedò, prima di scrutare sarcastico Kennadarya e commentare: “Contenta?”

“Come non mai, mio re” ironizzò lei, sorridendo con le sue morbide labbra carnose.

Il Fato aveva voluto giocarle quel tiro mancino, ma Lui non aveva idea contro chi si fosse messo.

Nessuno poteva pensare di fargliela  in barba, neppure le forze più potenti dell’Universo.

Naell sarebbe stata nelle sue mani entro breve tempo.

Ne avrebbe così fatto dono all’uomo che, primo tra tutti, aveva dato inizio a quell’avventura e le aveva permesso di prendere tra le sue mani il potere che il padre non le aveva voluto donare spontaneamente.

Tutto si sarebbe compiuto entro breve.

Quando avesse avuto il cuore della gemella bianca tra le sue mani, ne avrebbe bevuto il sangue fino all’ultima goccia, suggendolo come il più saporito tra i frutti maturi.

Al solo pensiero, si lappò deliziata le labbra rosso fuoco e rise.

Sììì, aveva buoni motivi di ridere. Il mondo sarebbe ben presto stato suo.

***

La brezza tiepida del mattino lo accarezzò, risvegliandolo dal sonno privo di sogni in cui era caduto la sera prima, quando si era attardato attorno al falò acceso dai mercanti per rasserenare la notte.

Il mattino aveva portato con sé il bel tempo e la visione dell’ampia valle dove sorgeva Rajana, splendida nella sua imponente struttura e possente per mura difensive e per maestosità.

Le torri di vedetta, che sorgevano ai suoi quattro angoli, si estendevano come magli enormi e pronti a colpire gli invasori.

I carri si sarebbero ben presto messi in marcia verso quelle imponenti strutture, e anche lui con loro.

Quattro giorni aveva impiegato per raggiungere la capitale ma infine, dinanzi agli occhi chiari di Coryn, giungeva la meta finale del suo viaggio.

Non aveva idea di ciò che stava accadendo a casa, se il padre si fosse o meno interessato della sua mancanza.

Gli dèi non volessero che il conte avesse obbligato il suo fido maggiordomo a confessargli ciò che sapeva.

Il non aver detto a nessuno della sua partenza era stata buona cosa, ma dubitava seriamente che il padre, se fosse venuto a sapere della sua visita a Maliatt, non avrebbe fatto i suoi debiti calcoli.

Non avrebbe faticato troppo a capire dove potesse essersi recato il figlio, una volta scoperto quel suo piccolo segreto.

Dalla sua aveva il vantaggio di essere partito notte tempo, mettendo tra sé e il maniero diverse ore di viaggio.

Non aveva idea, però, se ciò sarebbe bastato.

Ugualmente, il castello e il re che lo governava erano vicini, perciò era inutile indugiare su simili pensieri.

Sperava soltanto che il sovrano avesse il tempo necessario per ascoltare il suo dire perché, diversamente, si sarebbe trovato in guai davvero seri.

Non dubitava che il padre, se fosse giunto a Rajana prima del suo colloquio con il re, sarebbe riuscito a riportarlo con la forza a casa.

Raccolta in fretta la sua sacca, Coryn arrotolò il suo mantello e legò il tutto sulla sella.

Ciò fatto, montò in groppa al suo castrone, afferrando saldamente le redini per accodarsi al gruppo di mercanti che, per tre giorni, erano stati suoi compagni di viaggio.

A nessuno di loro era parso strano vedere un giovane nobile viaggiare solo, lungo le strade del regno.

Quando Coryn aveva espresso il desiderio di accodarsi a loro, il capo della carovana si era dichiarato d’accordo, specialmente in considerazione del fatto che una spada in più, in caso di necessità, sarebbe stata utile.

Fortunatamente, il giovane non aveva dovuto snudarla al pari degli altri, e di questo non poteva che essere lieto.

Trovarsi all’aperto per così tanto tempo, comunque, l’aveva aiutato a rendersi conto di un particolare che, negli anni, aveva completamente trascurato a favore dei suoi adorati libri.

Era un vero peccato che, per portare avanti la sua istruzione, si fosse lasciato sfuggire in modo così superficiale le bellezze del regno in cui era nato.

Vi avrebbe porto rimedio, in ogni caso… se tutto fosse andato per il meglio, ovviamente.

Forse, e solo forse, quello avrebbe potuto essere un punto in comune con cui legare con la principessa, se i suoi intenti non fossero andati a buon fine e il matrimonio si fosse celebrato ugualmente.

Lei avrebbe potuto istruirlo su ciò che, negli anni, si era perso e, al tempo stesso, lui l’avrebbe resa felice dandole quella libertà che, sicuramente, l’aveva guidata nei tanti viaggi da lei compiuti.

Non sarebbe stato un cattivo inizio per nessuno dei due, se proprio si fosse giunti a tanto.

Con un mesto sospiro, Coryn mormorò tra sé: “Passeggiate tra i boschi e qualche visita alle antiche rovine del posto. Non granché, ma forse potrebbero piacerle.”

Che senso avrebbe avuto affrontare una simile condanna – perché non dubitava che anche per Naell sarebbe stato così – senza trovare del buono in essa?

“Ora pensa a parlare con suo padre… chissà che non si riesca a evitare questo gran pasticcio!” sbuffò tra sé Coryn, accelerando il passo.

Avrebbero impiegato più o meno l’intera giornata per raggiungere la capitale ma, giunti a quel punto, non aveva più senso attendere la carovana.

Ringraziati tutti per la bella compagnia, Coryn spronò perciò il suo cavallo al galoppo e si piegò in avanti per assecondare i movimenti eleganti dell’animale.

Anche quello, stava pagando, per anni passati sui libri.

Quei lunghi giorni in sella avrebbero lasciato strascichi molto pesanti, sulle sue ossa, ma era un prezzo che pagava volentieri, per il regno.

Senza troppo distrarsi, oltrepassò piccoli borghi rurali e costeggiò rigogliosi campi coltivati prima di rallentare il passo quando, infine, giunse nei pressi della zona antistante la città vera e propria.

Lì, il traffico era così intenso che dovette mettere al trotto il castrone e, con attenzione, oltrepassò carri carichi di vettovaglie e carrozze di nobili in visita nella capitale.

Nell’avvicinarsi alla Porta Nord della città, Coryn scostò il cappuccio dalla testa e, messo al passo il cavallo, lo fermò non appena fu il suo turno per farsi riconoscere dalle guardie  all’entrata.

Mostrato il suo anello con le insegne del casato di famiglia, disse a mezza voce al soldato innanzi a lui: “Sono il visconte Coryn di Nelvar. Giungo in visita per parlare con Sua Maestà re Ruak.”

Il soldato controllò attentamente il suo sigillo su una serie di documenti pergamenati, su cui erano riprodotti i vari blasoni nobiliari del regno.

Dopo aver annuito un paio di volte, gli domandò: “Avete nulla da dichiarare, prima di entrare nella capitale?”

“Non conduco nulla con me, a parte gli abiti e la spada” dichiarò Coryn, accennandola con un movimento del capo.

Annuendo ancora, il soldato gli consegnò un foglio sul quale si poteva scorgere il simbolo della corona di Enerios e, nel salutarlo con un cenno della mano, il soldato gli disse: “Proseguite diritto e giungerete direttamente a palazzo. Lì, chiederete udienza alla guardia del cancello settentrionale del maniero.”

“Molte grazie, e buona giornata.”

“A voi, visconte” asserì il soldato, rivolgendosi subito dopo al carovaniere alle sue spalle.

Senza null’altro attendere, Coryn avviò il suo cavallo verso il centro della città.

In più di un’occasione, si ritrovò a osservare intimorito gli alti palazzi che si inerpicavano verso il cielo come demoni pronti a catturare le nuvole.

Le loro forme opulente e oscure gli incutevano un certo timore, pur se sapeva che da loro non sarebbe giunto alcun pericolo.

L’architettura di Rajana, almeno per quanto riguardava le case dei nobili, era eccessivamente spocchiosa e ridondante, quasi che coloro che vi dimoravano necessitassero di dimostrare al mondo la loro forza.

Come se un palazzo potesse dare reale potere, pensò tra sé, disgustato.

Non che il padre non fosse da meno.

Il loro maniero a Nelvar non era meno imponente e, al suo interno, si sprecavano le decorazioni e gli orpelli più che inutili.

Per contro, il palazzo reale appariva fiero, enorme ai suoi occhi, ma scevro di qualsiasi frivolezza.

Le sue linee semplici, così come la sua pietra scura, erano indice di potenza, di fierezza, ma non certo di vanità, e questo gli era sempre piaciuto.

L’idea di mettervi nuovamente piede, però, non incorreva nel suo plauso ma tant’era, non poteva evitarlo.

Impiegò più di un’ora per giungere alla porta indicatagli dal soldato e, quando discese dal cavallo per esporre la sua richiesta, l’alabardiere che la prese in consegna lo fissò accigliato.

L’attimo seguente, però, consegnò il messaggio al sottoposto, che scomparve oltre una porticina di legno per correre all’interno del palazzo.

Quello sguardo adombrato fece comprendere immediatamente a Coryn che, non solo il soldato lo aveva riconosciuto, ma che non gradiva affatto la sua presenza a Rajana.

Che fosse un sostenitore di Naell? Un uomo innamorato di lei?

Visto il nero cipiglio con cui gli disse di entrare per attendere nella foresteria, designata per coloro che desideravano essere ricevuti dal re, gli parve un’ipotesi plausibile.

Dopo aver lasciato la sua cavalcatura a uno degli stallieri, Coryn si accomodò all’interno del basso stabile in muratura posto proprio accanto alla caserma di soldati.

Lì, dubbioso e incerto, osservò di sottecchi le altre persone ivi presenti.

Ogni genere di personaggio era lì presente, dal più basso in grado al più altolocato nobile.

Nessuno aveva la precedenza grazie al proprio titolo; solo il re poteva decidere se fare passare innanzi qualcuno, non certo il blasone di famiglia.

Se tutti avessero dovuto presenziare dinanzi al sovrano, ci sarebbero voluti giorni, per vederlo, e al solo pensiero Coryn rabbrividì.

Quel che non si immaginò affatto fu di veder comparire in tutta fretta un paggio che, nel nominarlo, lo osservò per un istante con aria smarrita prima di inchinarsi.

“Visconte, il re vi incontrerà immantinente. Vi prego di seguirmi.”

Sbattendo le palpebre diverse volte prima di rendersi conto di ciò che l’uomo gli aveva detto, Coryn si affrettò a seguirlo quando lo vide prendere la via della porta.

Nell’oltrepassare il cortile ingombro di merci appena giunte dall’est, domandò al paggio in livrea: “Sua Maestà vi ha forse preannunciato qualcosa?”

“No, nulla. Ma, quando ha udito il vostro nome, mi ha pregato di farvi passare immediatamente.”

Nel dirlo, gli lanciò un’altra occhiata turbata.

“Non sono qui per la principessa. Non del tutto, almeno” ci tenne a precisare Coryn, come sentendosi in dovere di chetarne le paure.

Il paggio si limitò ad annuire senza più dire nulla, e a Coryn non restò altro che seguirlo lungo le varie scalinate che conducevano alla Sala delle Udienze.

Lì, il cerimoniere di corte batté un paio di volte il suo bastone a terra per annunciarlo e Coryn, deglutendo a fatica, avanzò non appena le porte vennero aperte per lui.

Oh, oh, pensò tra sé non appena intravide il palco reale… e coloro che vi si trovavano.

Non soltanto il re era in compagnia, ma aveva al suo fianco suo fratello Aken, l’Eroina del Regno e l’erede al trono.

E tutti lo stavano fissando parecchio accigliati.

Ugualmente, si fece avanti mentre le porte venivano chiuse alle sue spalle.

Il rimbombo dei battenti chiusi rimbalzò tra le pareti dell’enorme salone e, quando infine raggiunse le scale ricoperte di velluto che conducevano al palco, si fermò per inchinarsi.

“Vi sono immensamente grato per avermi concesso subito udienza, Vostra Maestà.”

“Ho trovato davvero curioso che voi, visconte, foste giunto alla mia porta completamente privo di una scorta e senza alcun messaggero a preannunciarvi. Perciò, ho ritenuto fosse opportuno concedervi il mio tempo immediatamente” esordì cauto Ruak, le mani poggiate sui braccioli dello scranno su cui era assiso.

“Gravi sono i motivi che mi hanno spinto a giungere a bussare alla vostra porta, non lo nego, ma il senso di giustizia mi ha imposto questo viaggio” asserì con voce roca Coryn, sapendo bene di stare condannando a morte il padre con ogni sua parola. “Ho motivo di credere che i principi Naell, Enyl e Rannyl possano essere in grave pericolo… per colpa di mio padre.”

Un coro collettivo di sdegno, timore e rabbia si elevò dalla famiglia reale.

Trovando in qualche modo il coraggio di elevare lo sguardo, Coryn si ritrovò addosso gli sguardi colmi di domande del re e dei suoi familiari.

Estraendo dalla scarsella da cintura il documento che aveva copiato dalla scrivania del padre, lo porse a un paggio perché potesse consegnarlo al re.

A quel punto, come un fiume in piena che non trovi nulla a bloccarlo, espose ciò che aveva scoperto e ciò che la sua mente aveva supposto.

Proseguì per minuti interi, incurante di tutto, incurante di stare condannando la sua famiglia, incurante di cancellare con un solo colpo di spugna tutta la credibilità del padre.

Si bloccò solo quando vide Eikhe, la compagna di Aken, discendere il palco per raggiungerlo e, con un sorriso comprensivo, levare una mano armata di fazzoletto per… tergergli il volto?

Stava forse piangendo?

“Ciò che ci hai riferito ti ricopre di onore, giovane Coryn” mormorò Eikhe, sfiorandogli una guancia con la mano libera. “Non è da tutti passare sopra alla propria dinastia, pur di seguire un ideale di giustizia come tu sembri avere.”

“Io… no, io non…”

Schiarendosi la voce, divenuta poco più che sussurro, Coryn replicò: “… non merito nulla, madama Eikhe. Ho sangue avariato nelle vene, come avete udito voi stessa. Mi è solo parso corretto esporre ciò che sapevo al re, perché potesse prendere provvedimento in merito.”

“E ciò farò, figliolo” assentì grave il re, continuando a leggere con aria accigliata la lettera consegnatagli. “Ma, come ha fatto notare mia cognata, il tuo coraggio nel giungere qui è stato grande, e questo io non lo dimenticherò. Come non lo dimenticheranno i miei nipoti e mia figlia.”

“Quanto a Naell…” tentennò Coryn, prima di arrossire copiosamente.

Eikhe si sorprese al pari degli altri e Ruak, sorridendo a mezzo, gli fece cenno di proseguire.

Preso il coraggio a due mani, Coryn mormorò: “Spero non vogliate prendere il mio dire come un insulto, ma trovo che gli accordi presi da mio padre siano quanto meno prematuri. Ho stima per vostra figlia e, proprio perché la rispetto, dubito che potrei essere per lei un buon partito, poiché i nostri caratteri non sono affini e… beh, tutto vorrei tranne rendere infelice una fanciulla. So che avrei dovuto parlare prima, ma mio padre, beh… lui…”

“E così, tuo padre è il solo fautore di questa decennale caccia alla mia adorata figlia?” si informò Ruak, stringendo i pugni sui braccioli dello scranno.

“Così è, mio re, pur se sottolineo che sarebbe un onore prenderla in moglie. Naell è fiore di somma virtù e donna di grande intelligenza, perciò qualsiasi uomo si sentirebbe onorato di camminare al suo fianco” precisò Coryn, reclinando ossequioso il capo.

“Al suo fianco, eh? Non innanzi a lei?” sottolineò Ruak, sempre più interessato.

“Credo sia quanto meno irrispettoso camminare innanzi alla propria dama, sire” mormorò Coryn.

Annuendo più volte, Ruak alla fine asserì: “Non hai da temere, figliolo. Il matrimonio non si farà, a meno che non sia la stessa Naell, o tu, a desiderarlo parimenti. La legge me lo consente e, visto ciò che mi hai detto, mi hai dato un’arma in più per proteggere la mia adorata bambina da coloro che vorrebbero rinchiuderla in una casa come una bambola di porcellana.”

Sinceramente sorpreso, Coryn fissò tutti i presenti senza ben comprendere ciò che il re gli aveva appena detto, lieto però che il suo dire non avesse offeso sua maestà.

Rivolgendosi al fratello, Ruak gli disse lesto: “Chiama Meyor e torna qui con lui. Ho idea che possa esserci reale pericolo per Naell e i tuoi ragazzi, perciò ci sarà bisogno di mettere in pista più di un piano di battaglia.”

“Intendi snudare le spade, fratello?” ironizzò senza allegria alcuna Aken.

“Non per il momento, ma terrò pronto l’esercito, in caso si dovesse intervenire. Nel frattempo, invierò un messaggio a Erenokt per sapere da lui come stanno procedendo le cose a Yskandar” gli spiegò Ruak prima di tornare a scrutare Coryn e aggiungere: “Va da sé che non ti lascerò uscire da questo palazzo. E’ chiaro come il sole che, se tuo padre venisse a sapere che sei qui, non passeresti un bel quarto d’ora. Emetterò  un mandato di cattura a suo nome, e mi farò spiegare cosa significa esattamente questa missiva.”

“Vi ringrazio, Vostra Maestà, ma pensavo di…”

Azzittendolo con un gesto, Ruak si rivolse a Meriton.

“Conducilo nella Stanza Azzurra e fai mandare dalle cucine un vassoio con del cibo. Ho idea che questo ragazzo sia giunto qui a tappe forzate, pur di avvertirci per tempo.”

“Ci penserò io, padre” assentì Meriton, prima di discendere la scala in due balzi e porsi di fianco al giovane. “Andiamo, Coryn. Credo che qui, ora, si scateneranno i cervelli, e io preferirei evitare di imprecare, almeno per un altro po’.”

Coryn accennò un sorriso e, con un ultimo inchino al re, si affrettò a seguire l’erede al trono.

Non appena si trovò nel corridoio in sua compagnia, il principe primogenito gli batté una mano sulla spalla, per poi dirgli in tutta onestà: “Ti devo delle scuse, Coryn. Ho sempre pensato male di te, ma quello che hai fatto per mia sorella non solo ti rende onore, ma mette a tacere i miei preconcetti. Sono in debito nei tuoi confronti perciò, se desideri qualcosa, non hai che da chiedere.”

Sinceramente sorpreso, Coryn scosse lesto il capo e replicò: “Non… non mi dovete nulla, Altezza. E posso ben capire che l’agire di mio padre possa avervi infastidito. Sono stato debole, in questi anni, a non chiarire con il mio genitore i miei reali desideri anche se, alla luce di quello che ho scoperto, dubito avrebbe fatto qualche differenza. Ora che so che vostra sorella è libera da qualsiasi obbligo, anch’io mi sento più sereno.”

“Allora, siamo in due. E credo che, non appena daremo la bella notizia al resto della famiglia, ti ritroverai a dover stringere un sacco di mani colme di gratitudine” ridacchiò Meriton, tornando serio subito dopo. “Spero solo che i tuoi sospetti siano infondati. Se realmente un pericolo giunge da Nellassat, non oso pensare a ciò che potrebbe succedere a mia sorella, o ai miei cugini.”

“Mi è parso tutto troppo ben calcolato per essere un caso, soprattutto in considerazione del fatto che Nellassat sarà tra gli invitati alla festa per i mille anni del regno di Akantar” annuì torvo Coryn. “Inoltre, la frase riguardante Naell mi ha impensierito.”

“Un simile potere nelle mani di un re arrivista e subdolo… no, non starei tranquillo neppure io.”

Nell’ammetterlo, si lasciò sfuggire un’imprecazione. “E anch’io temo che dietro gli interessi covati da tuo padre per mia sorella, ci sia qualcosa di più ampio… la corona stessa, penso.”

“Non volevo esporlo a voce alta, ma credo abbiate ragione, Altezza” assentì Coryn, sobbalzando leggermente quando vide giungere di corsa un enorme lupo dal manto bruno.

Le sue unghie ticchettarono veloci sulla pietra grigia prima di interrompere la loro corsa accanto al loro padrone e Meriton, accarezzando l’enorme testa del suo lupo, sorrise e chiese: “Rym, cosa succede?”

L’animale uggiolò per alcuni secondi prima di lanciare un’occhiata incuriosita in direzione di Coryn che, prudentemente, si mantenne a una certa distanza da lui.

Aggrottando la fronte, Meriton mormorò: “Affrettiamoci. A quanto pare, tuo padre non ha inviato solo quel libro di alchimia oscura, oltreconfine.”

“Che intendete dire, principe?” si informò Coryn, impallidendo leggermente.

Mentre Rym correva via lungo il corridoio, precedendoli, Meriton gli spiegò brevemente: “Teniamo sempre d’occhio la compravendita di galenda, poiché è un minerale non solo estremamente costoso, ma anche un’arma ad alto potenziale, per così dire.”

“Perché è un metallo estremamente robusto, e difficilmente corruttibile dagli agenti atmosferici?” ipotizzò Coryn, annuendo.

“Esatto. Anok Fort, sul confine con Vartas, è in parte costruito con quel materiale, proprio per la sua resistenza alle intemperie, ma anche per la sua efficacia contro i colpi di catapulta” assentì Meriton, adombrandosi in volto. “A ogni modo, ogni oncia di quel minerale viene attentamente controllata e schedata e, ogni qual volta essa viene inviata all’estero, io ne vengo informato, poiché mi occupo della sua regolamentazione.”

“Quindi… mio padre…” esalò Coryn, mordendosi nervosamente un labbro.

“Posso solo dire che, se il mio contabile non fosse così maledettamente attento ai particolari, a quest’ora non avremmo saputo di questo invio a Nellassat” ironizzò con rabbia Meriton. “La galenda può essere chiamata ‘artiglio di demone’, ma ha anche un altro nome, poco usato e molto più antico.”

Rimalla, alito di fuoco demoniaco” mormorò roco Coryn, reclinando il viso.

Meriton annuì ammirato e osservò con fastidio: “Detesto quando, per una cosa sola, esistono così tanti termini e, soprattutto, quando essi invadono il campo mercantile. E’ un disastro cercare di raccapezzarsi nel mare della terminologia usata dai mercanti e, anche a causa di questo guazzabuglio semantico, abbiamo compreso troppo tardi cosa fosse uscito dai nostri confini.”

“Era una quantità così importante?” si informò allora Coryn.

“Una quantità sufficiente a fabbricare qualsiasi cosa… da punte di freccia a spade, a scudi … o  catene. Una qualsiasi di queste cose” scrollò le spalle impotente, prima di dare un leggero colpetto a una porta prima di entrare.

Lì, vi trovò Antalion e Staryn che, alla vista di Coryn, aggrottarono immediatamente la fronte.

Meriton scrollò una mano, prevenendo qualsiasi scontro.

“Lasciatelo in pace. Ci è appena stato di grande aiuto, perciò risparmiatevi quelle occhiatacce venefiche per qualcun altro.”

Fratello e cugino lo fissarono confusi e Meriton, lanciata un’occhiata al loro ospite, asserì: “Direi che puoi fare un sunto anche a loro.”

Annuendo, Coryn non se lo fece ripetere due volte e, quando ebbe terminato di parlare, non solo gli sguardi dei due giovani principi erano mutati ma, come preannunciato da Meriton, si ritrovò a stringere le loro mani e assaggiare le loro pacche grate sulle spalle.

Ora, restava solo da comprendere cosa fare per evitare il peggio.

 

 

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Capitolo 13
*** 13. ***


 

●●13●●

 

 

 

 

 

 

L’assalto giunse con l’aurora del mattino.

Balzando a terra da una delle palme più alte dell’oasi, Rannyl corse a tutto spiano lungo le vie sabbiose dinanzi a sé, urlando agli uomini di prendere le armi.

Un corno oblungo venne suonato dalle vedette, messe in allerta dal giovane, così da risvegliare coloro i quali erano ancora stretti nell’abbraccio dei sogni.

In un andirivieni di corpi frementi per la battaglia prossima, il giovane figlio sacro si riversò all’interno della tenda della cugina per avvertirla del pericolo incombente.

Già in armi e con uno sguardo volitivo dipinto in volto, Rannyl fece ben poco caso a Kalia, che ancora si stava vestendo, lasciando che il suo sguardo si concentrasse su Naell.

Preoccupata e tesa, lei esalò: “Cosa succede, Ran?”

“Uno stuolo di guerrieri stanno puntando contro l’oasi, e non sembrano ben intenzionati” riassunse velocemente Rannyl prima di avvicinarsi a Kalia, scostarle le mani dai lunghi capelli e intrecciarglieli velocemente con dita abili.

“Grazie” sussurrò lei, lanciandogli un’occhiata da sopra la spalla mentre Ran completava la treccia.

“Ci vedo meglio di te, qua dietro e, con Enyl, sono abituatissimo” rispose lui con un sorrisino. “Scusa per l’intrusione. Non volevo fare il guardone.”

“Immagino tu sappia già com’è fatta una donna. Non sono molto preoccupata per quello che tu possa o meno aver visto” scrollò le spalle la donna, pacata.

“Meno di quanto avrei voluto” ironizzò Rannyl, sogghignando al suo indirizzo.

“Ran!” esclamarono al tempo stesso Naell e Kalia.

Il giovane si limitò a scrollare incurante le spalle, mentre Kalia gli dava un pizzicotto su un braccio. L’ironia, però, durò soltanto un istante.

L’attimo dopo, la voce stentorea del comandante Rylkas, a capo della loro guardia d’onore, si fece sentire al di fuori della tenda.

Allacciatasi che ebbe alla cintura la sua daga, Naell uscì scortata da Kalia e Rannyl mentre My-chan, di corsa e con lo sguardo teso, stava correndole incontro dal fondo della via sabbiosa.

Annuendo nel vedere il principe già presente, Rylkas spiegò loro: “Bene, immagino che Sua Altezza vi abbia già ragguagliate. Vi pregherei di rimanere all’interno della tenda per non correre alcun rischio, mentre noi procediamo nel fermare l’attacco.”

My-chan affiancò Naell, avvolgendole la vita con un braccio.

La principessa, però, scosse recisamente il capo e replicò: “Non ho alcuna intenzione di lasciare solo a voi il lavoro sporco, comandante. Se ci sarà da snudare le armi, non mi tirerò indietro.”

“Ma… Altezza…” esalò turbato l’uomo, lanciando un’occhiata disperata all’indirizzo di Rannyl.

“Cugina, non credi sarebbe più saggio fare come richiesto dal comandante?” intervenne allora Ran, conciliante.

Scuotendo ancora il capo, Naell fissò i suoi occhi smeraldini sul volto teso del soldato e, con voce più gentile, aggiunse: “So che i vostri ordini sono questi, comandante, ma non intendo essere solo un peso, per voi. Vi siete scomodati a proteggermi fino a ora, nonostante io sia solo un’ospite in casa vostra perciò, ora, permettetemi quanto meno di rendermi utile. Io e My-chan combattiamo bene, insieme…”

Vagamente sorpreso, il comandante le fissò alternativamente, senza ben comprendere le sue parole.

Sorridendo comprensiva al soldato, My-Chan ammise: “Io e Naell non passavamo solo il nostro tempo a chiacchierare, quando lei veniva in visita.”

Grattandosi pensoso una guancia, alla fine il comandante esalò: “Va contro ogni mio ordine, ma… e sia. Non vi obbligherò a rimanere segregate all’interno della tenda, ma non cercherete il combattimento, sia chiaro. Vi limiterete a difendervi, e solo se sarà strettamente necessario.”

“Chiarissimo, comandante” assentì Naell, sorridendogli nel vederlo allontanarsi di corsa.

La tribù era immersa in un caos apparentemente controllato, e gli uomini in arme si confondevano con le donne che, come in una danza provata centinaia di volte, si muovevano di corsa tra una tenda e l’altra per radunare i bambini e gli anziani.

In breve, gli anelli più deboli sarebbero stati condotti lontano dal centro dell’oasi, raggiungendo luoghi più riparati e sicuri.

Non doveva essere la prima volta che affrontavano un problema del genere, vista l’organizzazione dimostrata, eppure Naell non si sentiva tranquilla.

Anche Rannyl, nell’incrociare il suo sguardo, le confermò che c’era qualcosa di diverso dal solito, in quell’attacco.

“Può essere Corvo Bianco… Kennadarya… anche se non ho la minima idea del perché” mormorò pensieroso Rannyl, stringendo nella mano la sua spada.

“Penseremo dopo al perché. Ora, cerchiamo solo di uscirne vivi” si affrettò ad affermare Kalia, vedendoli così preoccupati. “Quanti erano, Ran?”

“Maledettamente tanti” ringhiò lui, accigliandosi in viso.

***

“Non voglio neppure sapere perché sia arrivata una missiva del genere da re Ruak, ma ormai quel che doveva essere fatto ha già intrapreso il suo corso” brontolò furibondo Bramann, tenendo tra le mani il messaggio appena giunto - a mezzo di un falco - tre giorni prima.

Quando Bramann lo aveva ricevuto direttamente dalle mani del mastro falconiere, era mancato poco che imprecasse.

Ne aveva ancora una gran voglia ma, a conti fatti, sarebbe servito a poco.

Non meno indispettito di Bramann, Korissar borbottò con aria infastidita: “E’ mai possibile che qualcuno vicino ad Alderan abbia scoperto qualcosa?”

“A ogni modo, non conta più nulla. Quel che deve succedere non può più essere fermato e, una volta che Kennadarya sarà al potere, anche la potente corona di Enerios dovrà piegarsi  e perire” sentenziò lapidario Bramann, battendo la mano grassoccia sulla scrivania del suo studio.

“Spero che Alderan controlli alla svelta tra le sue fila se vi sono dei delatori. Non voglio che questa oscura gola profonda rimanga impunita!” replicò secco Korissar, poggiando nervosamente le mani sui fianchi.

“Avrà già ricevuto la nostra missiva, quindi chetati. Entro poche ore, l’assalto prenderà corpo, e dei soldati di stanza a Yskandar rimarrà ben poco” sorrise mellifluo Bramann, accartocciando la missiva con fare definitivo.

Un attimo dopo, la gettò nell’incensiere perché bruciasse lentamente, svanendo in spire di fumo e cenere.

Controllato che ebbe la clessidra, mormorò con aspettativa: “Due clessidre e mezzo da ora, caro amico. Non dovremo attendere che questo tempo.”

“Sappiamo già dove si trova Enyl? Sai bene che re Kevan ha chiesto lei in tributo, prima che Kennadarya le metta letteralmente le mani addosso” si informò allora Korissar, ancora vagamente in ansia.

“Viene seguita costantemente, perciò sì, so esattamente dove si trova. Quella povera ragazza non ne uscirà viva, tra le cure del sovrano di Nellassat, e quelle di Kennadarya” ridacchiò beffardo Bramann. “Anche se, a dir la verità, avrei a mia volta desiderio di assaggiare le sue carni.”

Vagamente sconvolto, Korissar replicò: “Sai benissimo che Kevan ha dichiarato di volerla sana e integra. E noi due sappiamo altrettanto bene cosa fai alle tue… compagne di letto.”

La risatina di Bramann si fece lasciva e viscida come le spire di un serpente e, nel massaggiarsi il ventre prominente e flaccido, l’uomo ammise con candore: “Solo perché mi piacciono le emozioni forti, non vuol dire che non sappia anche trattenermi. Ne uscirà integra… più o meno.”

Accigliandosi, Korissar gli poggiò una mano sulla spalla a mo’ di ammonimento e sottolineò nuovamente: “Ricordati che né Kennadarya, né Kevan, sono persone da scontentare.”

“Lo so bene, Korissar. Non temere. So come agire per cogliere il massimo godimento con un impatto minimo sul corpo della donzella di turno” ridacchiò Bramann, soddisfatto.

Korissar non si sentì per nulla tranquillizzato dal suo dire, ma sperò ardentemente che il suo compagno di lotte si rendesse conto di quanto stava rischiando, per quel suo sciocco desiderio di marchiare il corpo caldo e seducente di Enyl.

Certo, poteva capirlo senza tema di essere smentito.

Quella giovane era più bella di una dea, e incarnava l’ideale di bellezza ultraterrena che qualsiasi uomo appena sano di mente avrebbe voluto nel suo letto, ma lui sapeva bene fin dove poteva spingersi.

Toccare Enyl, quando già re Kevan ne aveva chiesto il corpo in pegno, gli sembrava un azzardo non da poco.

In cuor suo, tornò a pregare che Bramann non esagerasse. Non voleva finire nei guai a sua volta, e solo per non averlo bloccato per tempo.

***

“C’è qualcosa che non va” ansò sfiancata Naell, sgomenta di fronte alla marea di corpi morti che giacevano dinanzi a lei come un unico tappeto umano.

La battaglia stava infuriando da ore, senza che peraltro gli assetti fossero cambiati, tra i contendenti.

Nonostante l’iniziale virulenza dell’attacco, gli uomini incappucciati erano parsi più desiderosi di scovare qualcuno, o qualcosa, nelle tende, che di uccidere i soldati che, via via, si erano interposti tra loro e il successo della loro missione.

My-chan, in forma umana e ritta al suo fianco, annuì preoccupata prima di ringhiare furiosa, non appena intravide un soldato balzare verso di loro con le armi snudate.

Naell fu lesta ad affiancare l’amica e, nel giro di pochissimi secondi, ebbero la meglio anche su quell’assalto.

Da tempo non era più stata in grado di scorgere il cugino e Kalia, in quel mare di corpi che combattevano, di quelle armi che cozzavano con violenza e, tra sé, si augurò che a entrambi non fosse successo nulla.

Grazie al saldo scudo di protezione offerto dai soldati della corona e dai guerrieri della tribù, ben poche volte Naell aveva dovuto levare la sua arma per uccidere.

Forte dell’aiuto di My-chan, ogni combattimento era stato breve e privo di conseguenze per entrambe loro.

Restava da capire chi fossero quei soldati, e perché si trovassero proprio lì.

Mentre My-chan ne controllava le vesti per scoprire eventuali prove, Naell tenne sott’occhio l’area intorno alle tende, dove si trovava con l’amica.

Mentre i rumori della battaglia le giungevano alle orecchie furiosi e assai vicini, il suo cuore pregò che tutto questo avesse un termine.

L’idea di perire lontano da casa la atterriva ma, soprattutto, non sopportava il pensiero di morire lontana da Ellessandar, senza avergli potuto dire nulla su ciò che la legava a lui.

Sapeva di essere egoista al solo pensarlo, ma non poteva evitarlo, era più forte di lei.

“Naell” la chiamò My-chan, strappandola ai suoi pensieri.

Subito, la principessa si accosciò accanto a lei e, sgomenta quanto sorpresa, prese tra le mani il foglio pergamenato che l’amica le stava tendendo con aria torva.

Paralizzata con lo sguardo come nei gesti, fissò il ritratto di se stessa ben riproposto su quella pergamena spiegazzata.

Pergamena che, nell’essere sfiorata dalla sua mano, svaporò come se bruciata su una fiamma.

Lasciandone andare i resti con un sibilo spaventato, Naell esclamò: “Magia! E’ stato creato con la magia!”

Agghiacciata, si chiese il motivo di un tale documento, e del perché fosse così intriso di poteri magici. Cosa volevano da lei, e chi c’era dietro a quell’incantesimo?

“Cercano te, evidentemente” sentenziò lapidaria My-chan.

“Ma perché?” esalò confusa Naell, levandosi in piedi per poi osservare dubbiosa il soldato morto.

“Non è possibile che tutto questo scempio sia stato causato solo dalla mia presenza in questa oasi. Non ha senso!” esclamò poi dopo un attimo, ancora attonita di fronte a ciò che aveva appena scoperto.

Trascinando con sé l’amica per allontanarsi dal soldato esanime, My-chan gridò un allerta a Naell non appena vide sbucare da dietro una tenda l’ennesimo guerriero.

Senza nulla attendere, la principessa mise mano alla daga e si apprestò a combattere.

Mentre My-chan lo teneva impegnato con le sue movenze feline e i suoi artigli poderosi, Naell lo colpì al fianco in prossimità delle reni.

Quando il soldato cadde a terra, non esitò a mozzargli la testa per mettere la parola fine anche a quell’assalto.

“Ben poco sportivo, ma non me ne importa niente” sbuffò stancamente Naell, ripulendo l’arma sulla tunica di uno dei corpi morti e stesi ai suoi piedi.

Ormai da troppe ore stava ripetendosi quel triste racconto senza fine e, della cavalleria e del senso dell’onore, non aveva visto nessuna traccia, come non ne aveva concessi.

Lì c’erano soltanto dolore, morte e puzzo di cadaveri in decomposizione sotto il sole cocente.

Ci vollero quasi altre due ore perché il nemico fosse messo a tacere e, quando finalmente una pace di morte e dolore tornò a regnare nell’oasi, Naell fece una macabra scoperta.

A terra, accanto al corpo accosciato di Rannyl, che appariva incolume pur se sporco di sangue e sabbia, si trovava il comandante dei soldati che l’avevano condotta fino a lì.

Quella che avrebbe dovuto essere una serena gita per il deserto, si era rivelata una trappola mortale per molti di loro.

Kalia, in piedi vicino a Rannyl, stava sfiorando con la mano libera dalla daga il capo bruno e ripiegato del giovane, in un gesto di conforto.

Il cugino, prostrato dal dolore, osservava con occhi lucidi la punta di freccia che aveva strappato la vita al valente soldato.

Avvicinandosi lentamente e con passo claudicante – durante gli scontri, si era insaccata una caviglia – , accompagnata in quel lento progredire da My-chan, che presentava un vistoso taglio al braccio, Naell mormorò spiacente: “Ran… tu stai bene?”

Il giovane figlio sacro levò lesto il capo per scrutare la cugina e, dopo aver annuito una sola volta, si alzò in piedi per dichiarare con voce roca: “Abbiamo perso dodici uomini della guardia e diciotto guerrieri della tribù, ma abbiamo evitato il peggio. Tu stai bene, cugina?”

“Un po’ acciaccata, ma me la cavo” asserì Naell, tornando a guardare il corpo esanime del comandante. “Non hai idea di quanto io mi senta in colpa.”

Avvicinatosi a My-chan, Rannyl le sollevò gentilmente un braccio e, nel porre a pochi centimetri dalla ferita la sua mano, il giovane replicò sommessamente: “Non è tua la colpa di questo attacco, cugina.”

“E invece sì” sospirò Naell, scuotendo il capo affranta.

Pur apparendo sorpreso, Rannyl si rivolse a My-chan, dicendole: “Ora sentirai bruciare, My… ma andrà tutto a posto in breve tempo.”

Il renpardo annuì con aria grave e, mentre sulla pelle della donna-felino iniziava a formarsi una sottile schiuma rossastra, Rannyl pregò la cugina di spiegarsi meglio.

I suoi occhi dorati brillarono come di luce propria e, sul volto del giovane, iniziarono a comparire le prime goccioline di sudore.

Ammirando per la prima volta l’estensione del potere di Rannyl, Naell esalò: “Puoi davvero… curarla?”

“Non sono un dio, ma qualcosa riesco a fare” assentì Rannyl, totalmente concentrato su ciò che stava compiendo in quel momento. “Parla, Naell.”

Annuendo dopo un attimo, mentre una folla di curiosi li attorniava per assistere a quell’inconsueto spettacolo di guarigione, Naell ammise: “Io e My-chan abbiamo trovato un foglio pergamenato nella tasca di uno dei soldati, e recava un mio ritratto. E’ molto probabile che fossero qui per me, anche se non ne conosco i motivi. Inoltre, il foglio era intriso di magia.”

Uno dei sottufficiali si mosse verso di loro con aria torva e, scrutando l’intera scena per poco più di un secondo prima di tornare a fissare Naell, asserì con convinzione: “Ho il timore, principessa, che coloro che ci hanno attaccato fossero uomini di Nellassat.”

La sorpresa corse veloce come il soffio del vento tra le nubi e la donna, fissando con occhi sgranati l’uomo in arme dinanzi a sé, esalò sconcertata: “Come… come potete esserne sicuro?”

“Per puro scrupolo, ho controllato sulla nuca di alcuni dei soldati uccisi e, mi duole dirlo, portano tutti lo sfregio dell’artiglio” le spiegò succintamente il soldato.

Appariva stanco non meno di tutti coloro che si trovavano attorno a loro ma, nei suoi occhi, brillava una scintilla di rivalsa.

“E’ il marchio che il re di Nellassat lascia ai suoi sottoposti. Nel corso degli anni ne ho visti molti, perciò dubito di potermi sbagliare.”

Aggrottando la fronte, Naell fece per parlare quando un ‘oh’ collettivo si levò dalla folla presente in quel punto della tribù.

Nel volgersi per comprendere cosa fosse successo, anche la giovane fu pervasa da un senso di euforica sorpresa, quando scorse il braccio ora perfettamente risanato di My-chan e la sua pelle completamente priva di abrasioni.

“Avanti un altro” sentenziò Rannyl, scuro in volto e concentrato sul suo ruolo di guaritore.

“Sicuro non sia troppo?” si informò Naell, preoccupata per lui.

“Occupati della faccenda dei soldati di Nellassat, mentre io curo queste persone. Poi mi riferirai” dichiarò frettolosamente Rannyl, accosciandosi accanto a un soldato con un taglio slabbrato sulla coscia.

Nuovamente, una calda luce dorata si sprigionò dalle sue mani e Naell, non potendo fare altro, si concentrò unicamente sul problema riguardante i soldati nemici.

Annuendo all’indirizzo del cugino, Naell tornò a rivolgersi al sottufficiale – che scoprì chiamarsi Rodan – e, in compagnia di Kalia e My-chan, si fece spiegare ciò che l’uomo sapeva su quella pratica adottata a Nellassat.

Erano trascorsi meno di venti minuti dall’inizio della lunga dissertazione di Rodan quando, di colpo, l’urlo affranto di Rannyl attraversò l’intera tribù come un’onda di piena, travolgendoli tutti.

“No, no, NO!” gridò ancora portandosi le mani alle tempie, il viso contratto dal dolore e dall’ansia.

Kalia fu la prima a catapultarsi su di lui e, strettolo tra le braccia, gli sussurrò all’orecchio: “Ran, calmati, calmati! Cosa succede?!”

“Attaccano… attaccano… Yskandar. Enyl, no!” biascicò a fatica Ran, prima di svenire tra le braccia di Kalia.

“Ran!” gridarono all’unisono Naell e Kalia, spaventate a morte.

Rannyl non rispose.

***

Con rapide falcate, Enyl raggiunse le mura di cinta del palazzo e lì, dopo aver fatto un breve cenno alle guardie, balzò sui camminamenti con la stessa leggerezza di un falco in volo.

Trafelata, raggiunse in fretta il primo soldato a portata di tiro ed esalò: “Avvisa Skytana! Sta per succedere qualcosa di brutto!”

L’alabardiere parve sorpreso dalla sua affermazione e la ragazza, insistendo, si aggrappò alle sue braccia e asserì con veemenza: “Per favore! Dai pure la colpa a me, ma aumentate la guardia! Presto!”

Il soldato annuì a più riprese ed Enyl, senza perdere altro tempo, balzò oltre il muro di cinta per raggiungere in tutta fretta Ellessandar.

Il senso di urgenza che l’aveva fatta uscire in tutta fretta dal tempio di Soanes le aveva quasi fatto rizzare i capelli sulla testa, tanto l’energia negativa che galleggiava nell’aria l’aveva aggredita con violenza.

Non sapeva da che punto stesse giungendo l’onda, perché i marosi che la colpivano provenivano da ogni dove, sapeva soltanto che il momento era giunto, e che Rannyl era ancora troppo lontano per potergli essere d’aiuto.

Cos’aveva sbagliato?

Era più che sicura che gli eventi si sarebbero svolti diversamente… eppure, era certa che le tenebre si sarebbero abbattute su tutti loro entro brevissimo tempo.

Possibile che Kennadarya fosse già lì?

“Non può essere… non ne percepisco la malvagità. No, c’è ben altro, qualcosa che non ho considerato” borbottò tra sé Enyl, camminando a passo spedito non appena mise piede nell’ampia veranda del pian terreno.

Lì, si bloccò a metà di un passo in preda al panico e alla rabbia più puri e, nel giro di pochi attimi, si ritrovò circondata da armigeri vestiti di nero… e guidati niente meno che dal Consigliere Korissar.

Ecco il perché di quell’aura strana!

Aggrottando la fronte, già pronta a dar battaglia, Enyl si bloccò sul nascere non appena Korissar le sorrise mellifluo.

“Immagino che tu non voglia che ai reali di Akantar succeda qualcosa, così come ai tuoi preziosi lupi, vero?”

“E’ merito di Kennadarya se non vi ho percepito, esatto?” ringhiò Enyl, sorprendendolo.

“Quindi lei aveva ragione. Sei in grado di percepire le menti delle persone. Ora comprendo il perché di quell’incantesimo” sogghignò Korissar, scrutandola con divertimento.

“Cosa è successo ai reali? Ditemelo!” sibilò Enyl, stringendo i pugni per la rabbia, la freoha che bruciava come fuoco nel suo sangue ribollente.

“Stanno bene… per ora…” sorrise maggiormente Korissar prima di veder comparire, da uno dei corridoi provenienti dal piano superiore, il cancelliere Bramann.

I primi scoppi violenti e le prime urla spaventate giunsero da Yskandar ed Enyl, sempre più furiosa, fissò entrambi gli uomini con sguardo adamantino.

“Anche voi, cancelliere… è dunque così misero il rispetto che portate verso il vostro re?”

“Rispetto maggiormente una borsa piena d’oro, mia cara fanciullina… come apprezzerò te nel mio letto” sorrise bonario Bramann, sfregandosi le mani nel guardarla lascivamente.

Korissar aggrottò la fronte, replicando: “Ricordati bene che Kevan la vuole integra.”

“Ci sono molti modi per approfittare di una donna, … lasciandola illibata” replicò Bramann, fulminando con lo sguardo Korissar.

Enyl ringhiò, disgustata dalle argomentazioni dei due uomini.

“Mi ucciderò, prima che uno soltanto di voi tocchi il mio corpo.”

I rumori di lotta, all’esterno come all’interno del palazzo, si fecero sempre più forti, mentre le urla di panico e sgomento si levavano come nere nubi all’orizzonte.

Enyl pregò che quel soldato fosse riuscito a trovare Skytana prima dell’arrivo dei nemici, ma non vi contò molto.

“Oh… non credo ci riuscirai” sogghignò Korissar, tornando a volgere lo sguardo verso di lei.

Prima ancora di poter comprendere il suo dire, Enyl venne circondata da non meno di dieci uomini.

Armati di pesanti catene e ceppi di metallo brunito, la legarono di tutto punto per poi gettarla a terra e trascinarla lungo il pavimento, come se fosse stata un sacco per gli alimenti.

Disgustata, Enyl provò a divincolarsi con violenza, solo per scoprire che le catene non cedevano minimamente alla sua forza.

Fatto cenno ai soldati di bloccarsi, Korissar la sfidò con lo sguardo, mormorando divertito: “Non pensavi che la tua forza potesse essere messa a tacere, vero? Beh, colei che ha messo in piedi tutto questo piano, ne è in grado. Mi spiace per te.”

“Il Corvo Bianco” ringhiò Enyl, continuando a divincolarsi inutilmente nel tentativo di liberarsi.

“Uhm, come nome le calzerebbe a pennello” ridacchiò Korissar, prima di ordinare: “Portatela in una delle celle nei sotterranei. Attenderà lì l’arrivo del suo nuovo compagno di giochi. Nel frattempo, io mi premurerò di avvertire il povero re Ruak della morte prematura della figlia e dei nipoti, per mano degli uomini di re Erenokt. Ne sarà affranto.”

Sgranando gli occhi, Enyl urlò: “No! Non potete farlo! Questo porterà…”

Interrompendola con un sogghigno, lui terminò per lei: “Lo so. Porterà alla guerra. Esattamente ciò che vogliamo. Attaccato su due fronti, l’esercito di Akantar crollerà come un castello di carte, senza nessuno a guidarlo, e Yskandar cadrà nelle mani di chi lo merita.”

“No, no, NO!” gridò sempre più forte Enyl, trascinata via a forza. La guerra era iniziata.

“Ran! Ci attaccano! Ci attaccano!” urlò Enyl, più forte che poté, sperando che almeno il suo pensiero potesse oltrepassare le barriere di quelle maledette catene.

***

Non seppe dire quanto tempo rimase svenuto ma, quando riaprì gli occhi ambrati, le prime cose che Ran  scorse furono il sole al tramonto e il volto rasserenato di Kalia.

“Cosa…?” gracchiò Rannyl, passandosi una mano sul volto.

Ricordava l’attacco, i soldati di nero vestiti e… Enyl!

Balzando a sedere di colpo, lo sguardo sconvolto e un pallore sempre crescente sul viso, Rannyl esalò: “Enyl… dèi! L’hanno presa!”

Le mani di Kalia lo costrinsero a reclinare di nuovo verso il basso e Ran, troppo debole per protestare, tornò a poggiare il capo sulle gambe della donna per poi guardarla con aria smarrita e preoccupata.

Carezzandogli il viso con gentile premura, Kalia gli domandò: “Spiegami cos’hai visto, Ran. Sei svenuto di colpo, quando hai urlato, questo pomeriggio.”

“Enyl. Hanno attaccato la città e catturato Enyl. Non so come diamine abbiano fatto, ma hanno bloccato la sua freoha. E’ prigioniera e…”

Rabbrividendo, raccolse le forze per continuare e dichiarò con rabbia a stento trattenuta: “… la useranno, Kalia. La useranno!

Kalia aggrottò la fronte, adombrandosi in viso.

Naell, in quel mente, entrò nella tenda dove avevano ricoverato Rannyl perché si riprendesse dal collasso che aveva avuto.

“La salveremo a ogni costo, Rannyl, te lo prometto” mormorò la figlia sacra, lanciando poi un’occhiata dubbiosa all’amica appena giunta.

“Se le torceranno un solo capello, non avrò pietà per nessuno” ringhiò Rannyl, levandosi nuovamente a sedere con l’aiuto di Kalia.

Naell si inginocchiò loro accanto e, abbracciato che ebbe Ran, gli domandò: “Ti senti un po’ meglio, Ran?”

“Fisicamente, sì. Ma dobbiamo assolutamente tornare a Yskandar. E’ stata attaccata, e temo per Enyl e gli altri membri della corte. Inoltre…”

Sospirando, aggiunse torvo: “Bramann e Korissar hanno tradito e, se ho ben compreso ciò che ho visto nella mente di Enyl, prima di perdere il contatto con lei, aizzeranno tuo padre contro Akantar, facendogli credere che tu sei morta.”

“No, dèi, no!” esclamò Naell, impallidendo visibilmente.

Kalia aiutò Rannyl ad alzarsi e Naell, imitatili, asserì terrorizzata: “Dobbiamo fermarli in qualche modo.”

“Manda un messaggio a tuo padre via falco, scritto di tuo pugno, e prega che giunga prima della partenza delle navi per Akantar” mormorò torvo Rannyl, tenendosi al braccio di Kalia per non crollare a terra.

L’uso dei suoi doni, unito alla perdita improvvisa del contatto con la gemella, lo avevano stremato, ma non aveva il tempo di lagnarsi per il male che gli stava divorando le viscere.

Dovevano tornare indietro, e in fretta.

Naell corse fuori per fare quanto chiestole e Rannyl, nello scrutare Kalia in viso, mormorò: “Grazie per esserti presa cura di me, Kalia, non lo dimenticherò.”

“Non pensarci nemmeno, Ran” gli strizzò l’occhio lei prima di domandargli: “Te la senti di affrontare un viaggio a tappe forzate?”

“Recupero alla svelta, tranquilla” assentì Ran, prima di veder riemergere Naell nella tenda assieme al sottoufficiale Rodan. “Ebbene?”

“Partiremo per Yskandar tra un’ora al massimo” asserì serio Rodan, sorridendo orgoglioso nel rivolgersi alla principessa. “Saremo ai vostri ordini, mia signora.”

“Ho a cuore come voi le sorti di Yskandar, perciò non lasceremo nulla di intentato per rientrare il prima possibile nella capitale, sperando di poter trovare sostegno prima della battaglia che, temo, stia già infuriando” replicò convinta Naell, prima di scrutare il viso torvo del cugino.

“Enyl era terrorizzata… quindi, temo siano già iniziati i primi conflitti. Non abbiamo molto tempo” assentì il giovane, lapidario.

“Raccoglieremo quanti più uomini nelle oasi da qui a Yskandar, sperando bastino per un contrattacco” dichiarò allora Rodan. “In tre giorni dovremmo essere di ritorno, se terremo una media sostenuta. Porteremo con noi solo lo stretto indispensabile, e il resto lo lasceremo qui a Jilli’nat.”

“Molto bene, faremo così. Dite agli uomini di preparare il necessario per il rientro. Io arriverò tra breve” ordinò lesta Naell, scrutando il soldato inchinarsi prima di svanire oltre le coltri della tenda.

Sospirando tremula non appena se ne fu andato Rodan, Naell fissò i suoi compagni e asserì: “Non so se ne sono in grado, ma ce la metterò tutta.”

“E noi saremo con te” dichiarò Kalia, con convinzione.

Rannyl la imitò, sperando che il loro intervento potesse bastare.

***

Era sdraiata in posizione fetale sulla nuda e umida roccia delle segrete del castello, il labbro inferiore spaccato a causa di un manrovescio di uno dei soldati che l’avevano condotta nella prigione.

Tentando di chetare il respiro per mettersi in contatto con il fratello, Enyl si rese conto subito di essere troppo debole per farlo.

Sarebbe svenuta di sicuro, se avesse continuato in quei tentativi infruttuosi, e non era davvero il momento per rimanere del tutto inerme nelle mani del nemico.

No davvero.

***

“Non posso credere che tu intenda davvero muovere guerra contro Akantar! Sei pazzo?!” esclamò Aken, fissando suo fratello come se non lo riconoscesse.

Gli occhi lucidi e rossi, Ruak replicò con foga: “Come dovrei reagire, di fronte a un simile messaggio?! Mia figlia uccisa, i tuoi figli dispersi e il mio ministro preso prigioniero! Spiegamelo!”

Aken aggrottò la fronte, passandosi una mano tra i folti capelli prima di replicare con maggiore calma: “Se realmente Korissar fosse prigioniero, come avrebbe potuto inviarti un simile messaggio?”

“Può esserci riuscito tranquillamente. Non è un’impresa improba prelevare un falco messaggero e inviare uno scritto” ribatté Ruak, passeggiando nervosamente avanti e indietro per il suo studio.

“Korissar? Parliamo della stessa persona?” lo irrise bonariamente Aken, ben ricordando il pavido ministro del commercio.

“La necessità aguzza l’ingegno, lo sai anche tu” protestò vibratamente Ruak. “A ogni modo, non me ne starò qui ad attendere repliche eventuali da parte di Akantar. Andrò là con le mie truppe, e farò capire loro cosa succede a colpire un membro della mia famiglia.”

“Scateneresti una guerra con il dubbio nel cuore?” cercò di farlo ragionare Aken, prendendolo per un braccio per bloccarne l’incessante via vai.

Finalmente una lacrima scivolò dai suoi occhi pesti e, con voce rotta, Ruak esalò: “E se fosse vero, Aken? Se la mia bambina fosse realmente morta, e io non muovessi neppure un dito per vendicarla? Che padre sarei, Aken, dimmelo! Inoltre, c’è la lettera che ci ha portato Coryn. Se qualcosa fosse andato storto? Se mia figlia fosse rimasta vittima di un conflitto interno? No, non rimarrò qui inerme ad aspettare.”

“Ruak…” ansò Aken, prima di stringerselo al petto con foga.

“La mia bambina, Aken… so che le è successo qualcosa, lo so… non posso rimanere fermo ad aspettare” singhiozzò Ruak, tentando di trattenere un pianto sempre più prossimo.

“Ti capisco, Ruak… ma dai ad Akantar il beneficio del dubbio. Erenokt ed Elmassary amano tua figlia come se fosse loro, non le farebbero mai del male.”

“Ugualmente, mi imbarcherò per andare ad Akantar. Devo sapere. Solo allora deciderò se muovere guerra o meno.”

Detto ciò, si scostò dal petto del fratello ed esalò: “Non vuoi sapere se i tuoi figli sono vivi o morti?”

“Più di qualsiasi altra cosa, fratello, ma percepisco la menzogna in questa faccenda. La lettera di Coryn non è legata alla missiva di Korissar, perciò presta attenzione prima di muovere guerra, Ruak” dichiarò torvo Aken, scuotendo mestamente il capo.

“Non sarò il primo a colpire, se ciò può esserti di conforto, ma non rimarrò in disparte mentre mia figlia è in pericolo, forse morta, e dal mio ministro giungono notizie così oscure” sentenziò a quel punto Ruak, suonando il campanellino sulla sua scrivania.

In pochi attimi, il suo attendente di campo si presentò alla porta e Ruak, con la morte nel cuore, dichiarò: “Ordina ai soldati della guarnigione di Elior di prepararsi a salpare. Si parte per Akantar… in armi.”

L’attendente impallidì leggermente, a quelle parole, ma annuì.

Nel vederlo uscire di gran carriera dallo studio, Aken mormorò torvo: “Spero davvero non si debba arrivare a tanto ma io sarò con te, sul campo di battaglia, esattamente come tanti anni fa.”

“Non potrei contare su appoggio migliore, fratello” asserì Ruak, coprendosi il viso e singhiozzando irrefrenabilmente un attimo dopo.

Aken tornò ad abbracciarlo in silenzio, mentre una cappa di nera angoscia si posava su di loro, ammorbando l’aria.

Il capo ancora poggiato contro la spalla di Aken, Ruak si riscosse all’improvviso, quando udì il battere frettoloso di un pugno contro la porta.

L’ansia crebbe a dismisura quando Ruak concesse al misterioso visitatore di entrare e, quando sulla porta trovò solo Staryn, si chiese perché non fosse entrato senza bussare come faceva di solito.

Il suo volto pallido, gli occhi sgranati e il lieve velo di sudore che ne ricopriva il viso, gli fecero comprendere immediatamente che suo figlio era scioccato a morte.

Cos’altro era successo?

Subito dietro Staryn, comparvero anche Antalion, Meriton e Coryn che, assieme, entrarono nello studio per poi chiudere lentamente la porta alle loro spalle.

Sui loro volti, il medesimo pallore, la medesima ansia.

“Ragazzi, qualcuno di voi parli, o morirò prematuramente” esalò Ruak, scostandosi dal fratello per raggiungerli a grandi passi.

Staryn non parlò, limitandosi ad allungare al padre la missiva stropicciata che teneva tra le mani.

Quando l’uomo la scorse velocemente, crollò a terra in ginocchio, scosso da spasmi violenti.

Subito, Aken lo affiancò assieme ai figli del re, ad Antalion e Coryn mentre Ruak, con occhi sgranati e voce flebile, gracchiò: “E’ viva… viva…”

“Cosa dice la missiva?” domandò con veemenza Aken, fissando dapprima Staryn per poi passare al fratello, che stava trattenendo la carta pergamenata con violenza.

“Naell ci avverte del pericolo, del tradimento di Korissar e dell’avvicinarsi di un esercito ad Akantar e…” mormorò Staryn, prima di reclinare il viso e parlare con un groppo in gola. “...Enyl è tenuta prigioniera. Non sappiamo come, solo che Rannyl non riesce a comunicare con lei. Tu sai che significa, zio?”

Aggrottando pericolosamente la fronte, Aken ringhiò: “So che quei due ragazzi ci hanno tenuto nascoste un bel po’ di cose, a quanto pare, ma ora non mi interessa quante gliene dirò per questo. Se Enyl non può usare la freoha per liberarsi, ci sono di mezzo forze davvero potenti.”

“Quando metterò le mani attorno al collo di Korissar, lo farò urlare così tanto da farlo diventare afono, e questo sarà solo l’inizio” minacciò roco Ruak, risollevandosi a fatica con l’aiuto di Staryn e Aken.  “A quanto pare, muoveremo davvero verso Akantar, ma con ben altre motivazioni.”

“Basteranno cinque giorni? O sarà troppo tardi?” mormorò Aken, ansioso.

“Dovranno bastare, a costo di mettere ai remi tutti i soldati per accelerare i tempi” ringhiò Ruak, gettando a terra la missiva con rabbia. “Non resterà nulla di quel traditore.”

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


●●14●●

 

 

 

 

 

Era stata altre volte senza cibo per giorni ma mai, prima di allora, si era sentita così spossata, così priva di energie.

Possibile che vi fosse qualche collegamento tra il suo deperimento accelerato, e le catene che la tenevano obbligata a terra?

Lappandosi le labbra secche, Enyl si mosse stentatamente sul pavimento freddo della cella, nel tentativo di trovare una posizione più comoda – se mai ve ne fosse una, ovviamente.

Proprio quando riuscì a mettersi seduta, la porta della prigione si aprì e fece la sua comparsa il cancelliere Bramann.

Sgranando gli occhi, Enyl lo fissò ansiosa, subodorando guai.

Non appena l’uomo si chiuse la porta alle spalle, poggiando a terra una lanterna per vedere dove mettere i piedi, la sua ansia mutò in paura.

Era ovvio nel suo sguardo cosa avesse intenzione di farle, e ben poco lei avrebbe potuto fare per difendersi, legata com’era mani e piedi, debilitata dalla prigionia e da quella maledetta catena stregata.

Sfregandosi soddisfatto le mani, l’uomo si avvicinò a lei e mormorò sornione: “A quanto pare, anche una creatura selvaggia come te, subisce gli effetti di una prigionia prolungata. Cinque giorni sono stati sufficienti a piegare anche una creaturina deliziosa come te.”

Assottigliando le palpebre, Enyl replicò recisa: “Dubito mi giudicherete deliziosa, tra poco.”

“Questo, lascialo decidere a me” sogghignò l’uomo, avvicinandosi ulteriormente prima di mettere mano alla tunica che indossava.

Non aveva la più pallida idea di quello che, in quei cinque giorni, fosse successo alla capitale, né se Ellessandar e i suoi fossero ancora vivi, o appesi alle picche come monito per chi volesse rivoltarsi contro gli invasori.

Di Kennadarya neppure l’ombra, perciò ne aveva dedotto che i carri da Nellassat non fossero giunti ancora a destinazione e, di per sé, questo fu un bene.

Questo le dava la speranza di credere che i reali fossero ancora in vita, forse tenuti come trofeo di caccia, da consegnare direttamente nelle mani di re Kevan e della sua strega.

Che fine avessero fatto i suoi amici lupi, però, non ne aveva alcuna idea.

Scrutando furente il corpo molliccio di Bramann, lo fissò accigliata quando lo vide togliersi la tunica per poi gettarla con negligenza sul pagliericcio fetido e maleodorante che Enyl non aveva mai voluto usare.

Si divincolò inutilmente, quando l’uomo si inginocchiò accanto a lei per sfiorarle una gamba con dita lascive, scivolando verso l’alto con lentezza esasperante.

Enyl scalciò per allontanarlo, disgustata dal suo tocco – che pure aveva sfiorato solo il tessuto lurido delle sue brache – e Bramann, scoppiando in una risatina querula, la afferrò malamente per un braccio e la sbatté faccia a terra.

“Mi piacciono le gattine riottose… ma fino a un certo punto” ghignò l’uomo, schiacciandole il volto contro la nuda roccia per poi armeggiare con la mano libera sulla cintura delle sue brache.

Cominciando a respirare affannosamente, il cuore a pomparle il sangue nelle vene, Enyl tentò disperatamente di divincolarsi per impedirgli di denudarla.

Bramann, però, la schiaffeggiò con violenza sul capo, bloccando ogni sua difesa.

Un rivolo di sangue caldo le scivolò tra i denti e sulle labbra raggrinzite in un ringhio, formando una piccola pozza sulla roccia umida del pavimento.

“Smettila, se non vuoi peggiorare le cose” le ringhiò contro l’uomo, iniziando a infuriarsi. “Re Kevan vuole la tua virtù, e per me se la può anche tenere. Io mi diverto in ben altri modi ma, se mi farai infuriare, non sarò affatto tenero, con te.”

“Sporco farabutto… lascia che mi liberi e io…” sibilò Enyl, ricominciando a divincolarsi sotto le sue mani avide.

Afferratala sopra i polsi, dove i pesanti ceppi le avevano già segnato le carni, Bramann le sollevò le braccia fino a farle dolere le spalle.

Con la mano libera, poi, strinse l’orlo delle brache e lo abbassò con forza, mettendo in mostra le carni morbide di Enyl.

“Bene… hai una pelle davvero splendida, piccolina. Sarà un piacere divorarla pezzo per pezzo.”

Con una risatina lasciva, sfregò la mano flaccida su una natica di Enyl mentre la ragazza, disgustata, lo insultava a più riprese.

L’uomo, invece di offendersi, iniziò a ridere divertito.

Armeggiando con i propri pantaloni, liberò la propria erezione per fare sua la recalcitrante ragazza e, con movimenti goffi, si pose perfettamente sopra Enyl, già pronto a portare a compimento il suo divertimento.

“Vedrai, se non ti dimenerai troppo, ti piacerà” sentenziò con un risolino Bramann.

“Vai a farti fottere!” gli urlò contro Enyl, già pronta a sopportare stoicamente il dolore in previsione di una sanguinosa quanto pronta vendetta.

Bramann si lasciò andare a un’altra risatina prima di gorgogliare sorpreso, voltarsi a mezzo e infine crollare sul corpo di Enyl, la bocca ricolma di sangue e gli occhi sgranati per lo sgomento.

Divincolandosi spaventata, Enyl cercò di liberarsi dal peso feroce dell’uomo quando, all’improvviso, due forti mani agirono per lei.

Una voce amica, poi, le sussurrò nella penombra: “Enyl, tranquilla, sono ‘Sandar.”

Ansando spaventata, Enyl tentò di mettersi seduta per mascherare l’imbarazzo che provava.

Non facendo caso alcuno alle sue condizioni, il principe le sistemò meglio gli abiti prima di sorriderle comprensivo e stringerla a sé in un rapido abbraccio.

Enyl, allora, si lasciò andare a un pianto dirotto ed Ellessandar, ben comprendendo la paura della ragazza, le permise di sfogarsi nonostante la loro condizione non fosse delle più sicure.

Non seppe mai realmente bene quanto tempo passò dal momento in cui Ellessandar la salvò dallo stupro a quando, finalmente, le sue lacrime cessarono di cadere.

Quando ciò avvenne, però, Enyl era nuovamente lucida e pronta.

Fissando l’amico con rinnovata sicurezza, la figlia sacra mormorò roca: “Ti chiederò dopo come fai a essere qui. Ora, devi riuscire a liberarmi da questi cosi. Sono mostruosi.”

“Penso di avere la soluzione adatta. Acqua acida. E’ un composto chimico che usano i nostri  fabbri per lucidare le armature. Corrode i metalli, se usato in gran quantità ma, con i dovuti accorgimenti, rende splendenti armi e arredi metallici” le spiegò succintamente Ellessandar, estraendo dalla sacca che teneva sulle spalle una boccetta di liquido trasparente.

“Se corrode i metalli, che fa alla carne?” ironizzò sarcastica Enyl, fissandolo dubbiosa.

“Farò in modo di non bruciarti, promesso” le strizzò l’occhio il principe, inginocchiandosi accanto a lei.

Enyl annuì, restando perfettamente ferma mentre Ellessandar si dava da fare con l’acqua acida.

Presto, un fumo denso e acre si levò dagli anelli della catena, ammorbando l’aria umida della cella e facendo pizzicare il naso della ragazza.

“Dio! E’ peggio che aprire una cloaca!” sbottò la giovane, disgustata.

“Qualcosa del genere. E’ soprattutto la reazione alla galenda, il minerale usato per creare la catena, oltre alle proprietà dell’incantesimo alchemico con cui è impregnata questa trappola” le spiegò Ellessandar, aggrottando la fronte. “Chi ha compiuto questa malia è davvero bravo.”

“E sapeva che mi avrebbe bloccata. Il che è tutto dire” sbuffò Enyl, scrollandosi di dosso le catene non appena esse cedettero di schianto.

Palpandosi le caviglie e i polsi malandati, segnati da graffi ed ecchimosi più o meno evidenti, Enyl digrignò i denti irritata e, fissando Ellessandar, gli domandò: “Dove andiamo, ora?”

“Nei passaggi segreti del castello, così potrò raccontarti più agevolmente ciò che sta succedendo” le spiegò Ellessandar, prendendola per mano. “Sono giorni che ti cerco in giro per il palazzo, attraverso questi cunicoli. Avrei dovuto immaginare che non ti avrebbero tenuta comodamente in una delle stanze ai piani alti.”

“L’importante è che tu mi abbia trovata” asserì Enyl, prima di fissare livida in viso il cancelliere Bramann.

Il suo corpo esanime, trafitto alle spalle da un pesante pugnale ricurvo, giaceva scomposto sul pavimento di pietra, e una pozza di sangue imbrattava le carni mollicce e le pietre ruvide sotto di lui.

Preda di una ferocia a stento trattenuta, Enyl afferrò un secondo coltello che il principe portava alla cintola.

Disgustata, volse il corpo esanime dell’uomo con un colpo di piede e fissò il suo membro ora flaccido prima di compiere la sua personale, sanguinosa vendetta sul suo aguzzino.

Ellessandar preferì non commentare la scelta compiuta dalla ragazza – comprendendola pienamente – ma,  pur non volendo, un lungo brivido gli corse lungo tutto il corpo, portandolo ad allontanarsi dall’uomo, ora martoriato a dovere.

Preso un gran sospiro di soddisfazione, Enyl restituì l’arma all’amico dopo averla ripulita sulla tunica di Bramann e, gelida, sentenziò: “Ora possiamo andare.”

“Mi fai paura, a volte” dichiarò con un mezzo sorriso Ellessandar, pigiando una mano sul muro.

Prima ancora di poter replicare alle sue parole, la pietra sfiorata dal principe affondò nella muratura e, subito dopo, un piccolo varco si aprì su uno stretto cunicolo buio.

“Prego, dopo di lei” sorrise Ellessandar, indicandole lo stretto pertugio.

“A destra o a sinistra?” mugugnò lei, storcendo la bocca.

“Sinistra. Dopo un centinaio di passi si allargherà e compariranno delle scale ma, per ora, devi procedere gatton gattoni” le spiegò succintamente il principe.

Detesto il buio” brontolò Enyl, infilandosi nello stretto passaggio con aria accigliata.

***

Stretta nell’abbraccio di Elmassary, Enyl aveva buoni motivi per piangere disperata.

Kell, il suo adorato Kell, era rimasto vittima del primo assalto dei mercenari pagati dalla corona di Nellassat.

Il lupo, con il suo sacrificio, aveva permesso alla regina e al suo consorte di rifugiarsi nei condotti segreti del palazzo.

Non appena aveva visto comparire Enyl dallo stretto cunicolo in cui era scomparso il figlio meno di un’ora prima, Elmassary era corsa ad abbracciarla in lacrime.

Nello spiegarle ciò che era successo, durante i suoi cinque giorni di prigionia, la sovrana aveva dovuto ammettere anche quella tragica perdita.

Nulla sapevano dei lupi di Ran, Naell e Kalia, ma Enyl dubitava fossero ancora vivi, almeno stando ai racconti di Ellessandar su ciò che stava avvenendo fuori delle mura di palazzo.

Nascosti entro le mura interne del maniero, unici a conoscerne i meandri interminabili, avrebbero potuto sopravvivere a qualsiasi attacco.

Nel frattempo, però, la popolazione avrebbe ceduto sotto i colpi dei soldati che avevano attaccato proditoriamente il palazzo.

Skytana, raggiunta per tempo dall’alabardiere che Enyl aveva messo sulle sue tracce, gravava in pessime condizioni, dopo il primo attacco subito dalle guardie di palazzo.

Aveva fatto da scudo al re, venendo colpita da una raffica di frecce, scagliate per aprirsi la strada all’interno del maniero.

Sarebbe sopravvissuta, almeno stando alle parole di Elmassary, ma difficilmente avrebbe potuto riprendere la carriera delle armi.

Gran parte dell’esigua forza armata, di stanza a Yskandar, era stata spazzata via da quel primo, improvviso attacco all’arma bianca.

A parte la famiglia reale, e alcune decine di servitori che Ellessandar era riuscito a mettere in salvo, pochi altri rimanevano liberi dalla forte mano del nemico.

Fuori dalle mura della città, i corazzieri reali e la guardia a cavallo, giunta in forze dal porto di Ylleru, attendevano inermi notizie del loro re.

Tenuti in scacco dai nemici, grazie alla minaccia di bruciare l’intera Yskandar e gli abitanti tutti, era immobili dinanzi alle mura della capitale, impossibilitati a colpire.

Ancora nell’abbraccio di Elmassary, Enyl si asciugò le lacrime col dorso di una mano prima di mormorare roca: “C’è la possibilità di raggiungere in qualche modo i soldati fuori le mura?”

“Da qui? I condotti sbucano nel tempio di Soanes e, da lì ai cancelli, c’è più di un miglio a piedi. Troppo pericoloso” scosse mestamente il capo Ellessandar.

Annuendo grave, Enyl sospirò tremula prima di chiudere gli occhi e tentare di mettersi in contatto con il fratello.

Sperava ardentemente che stesse bene.

“Ran?”

“Enyl, sia ringraziato il Cielo! Stai bene?!” esclamò nella sua mente Rannyl, sollevato.

Nell’ombra, Enyl sorrise e, annuendo, replicò: “Io sto bene, e sono più o meno illesa. Ho solo qualche livido a polsi e caviglie. Tu?”

“Sano come un pesce e irritato come un istrice. Che diamine sta succedendo in città? Siamo bloccati da ieri mattina nei pressi delle mura, insieme a un buon numero di soldati, e abbiamo saputo che il nemico ha in mano i reali. E’ vero?”

“Per niente. E credo che, quando Kennadarya arriverà e scoprirà che le cose non sono andate come sperava, andrà su tutte le furie” presagì Enyl, aggrottando la fronte. “Di quanti uomini disponete, Ran?”

“Diecimila, più la guarnigione portuale, che conta duecento cavalieri e un centinaio tra corazzieri e picchieri”  le spiegò succintamente Rannyl.

“A giudicare dal freddo che percepisco nel cuore, Kennadarya è vicina. Non più di un giorno o due. Con lei, ci sarà sicuramente il grosso dell’esercito, perciò è di vitale importanza che la città venga espugnata prima del suo arrivo. Non combatterò contro di lei all’interno delle mura di Yskandar.”

“In che senso… combatterai?” replicò preoccupato Rannyl.

“Tu dovrai occuparti di riprendere la città assieme a Naell. Il mio compito è un altro, ormai l’ho capito.”

“Non te lo lascerò fare da sola!” protestò sonoramente Rannyl, turbato dalle sue parole.

“Al momento opportuno, chiederò il tuo aiuto, ma lo scontro avverrà tra me e Kennadarya solamente.”

Nel suo tono, Rannyl percepì una sicurezza che, nelle settimane passate, non aveva mai avvertito. Cosa l’aveva fatta divenire così certa delle proprie azioni?

“Sorellina… ne sei sicura?”

“Ho avuto cinque giorni per pensarci, bloccata all’interno del mio cervello, senza alcun altro da ascoltare se non me stessa. Sì, ho compreso cosa volle dirmi Hevos, sostenendo che noi siamo Luce. La tua luce servirà per portare beneficio a questo popolo, la mia luce servirà per scacciare le tenebre. Così deve essere.”

“Ho guarito My-chan, sai? E anche alcuni soldati.”

“Bene. Vuol dire che non temi più il tuo potere. Ti servirà interamente, per riconquistare la città. Resta comunque a portata d’orecchio, Ran, perché ti cercherò ancora.”

“Ci mancherebbe! Cerca piuttosto di non esagerare, Enyl, perché voglio riabbracciarti” brontolò Rannyl, scocciato.

Enyl ridacchiò e infine disse: “Parlerò con Ellessandar su come meglio procedere, poi ti richiamerò.”

Un attimo dopo, Enyl si rivolse a Ellessandar e dichiarò: “Gli uomini sono pronti per attaccare. Bisogna solo stabilire come. Ran, Naell e Kalia si trovano con il grosso dell’esercito, e attendono nostre notizie.”

“Lei… stanno tutti bene?” balbettò Ellessandar, fissando speranzoso l’amica.

Enyl gli sorrise benevola e annuì.

“Sta bene e, a quanto pare, è alla testa degli uomini che hanno radunato via via nel deserto.”

“Come?” esalò sorpreso Ellessandar.

“Non ho chiesto a mio fratello, ma ho letto nella sua mente quel che è successo a Jilli’nat. Sono stati attaccati poche ore prima di noi e, nel conflitto, diversi tuoi ufficiali e soldati hanno perso la vita per difendere Naell. A quel punto, lei ha preso le redini degli uomini rimasti e, con l’aiuto di un sottoufficiale, sono tornati in tutta fretta verso Yskandar, radunando mano a mano i soldati dalle varie guarnigioni sparse per il deserto. Al momento, possiamo contare su circa diecimila e trecento uomini, tra cavalleria, fanteria e picchieri.”

Annuendo più e più volte, raccogliendo in fretta quelle notizie per ristrutturarle in un più ampio schema, Ellessandar si fece pensieroso.

Fissando con autentica sorpresa la fanciulla, Erenokt esalò: “Come puoi… che magia è mai questa, fanciullina?”

“Io e mio fratello siamo speciali, sire. Gli unici gemelli mai nati tra i figli sacri, e abbiamo doni particolari, tra cui la lettura del pensiero” gli spiegò con un mezzo sorriso Enyl, scrollando le spalle.

“Santi dèi!” esclamò sorpreso Erenokt, facendo tanto d’occhi.

“E’ luna nuova” commentò all’improvviso Ellessandar, sorprendendo tutti loro.

“Spiegati meglio” lo esortò Enyl, facendosi attenta.

“Stanotte sarà luna nuova e, con la città completamente al buio, per una manciata di soldati scelti ad arte, sarà facile per loro entrare e sgominare gli uomini che presidiano le porte” le spiegò con un mezzo sorriso Ellessandar, convinto che il piano potesse funzionare.

“Scelti ad arte?” ripeté Enyl, confusa.

“Uomini che siano agili nei movimenti e che possano arrampicarsi senza problemi lungo…”

Bloccandosi un momento, Ellessandar scoppiò a ridere ed esclamò: “Che sciocco che sono!”

Strabuzzando gli occhi, Enyl esalò: “E perché, di grazia?”

“Cosa entra ed esce da ogni città, non vista e non controllata?” ironizzò Ellessandar, battendosi una mano sulla fronte.

Erenokt scoppiò a sua volta a ridere sommessamente prima di dichiarare: “Le fogne. I maledetti condotti fognari.”

“Scommetto tutto quello che volete che a nessuno dei mercenari è venuto in mente di mettere delle guardie di ronda presso le condutture principali della città che, tra le altre cose, passano sotto la strada che conduce al porto, esattamente dove si trova adesso il grosso dell’esercito” sogghignò sempre più soddisfatto Ellessandar, già pregustando la battaglia.

“I soldati di certo non gradiranno la cosa ma, a questo modo, potranno entrare molti più armigeri, e sparpagliarsi nei punti strategici della città. Qui a palazzo, dove si trovano le bocchette delle condutture?” si informò Enyl, sorridendo all’idea del fratello in mezzo a una fogna.

“Nelle cucine” intervenne Elmassary. “Le altre bocchette sono troppo piccole perché vi passino degli uomini ma, da lì, potranno entrare speditamente. Sempre che non siano controllate da qualche soldato.”

“A quello penserò io” replicò Ellessandar, prima di notare il cipiglio di Enyl. “Penseremo noi. Dai condotti, possiamo sbucare direttamente nelle cucine passando da sud-est, perciò potremo controllare agevolmente se qualcuno controlla quei locali.”

“Ottimo” sentenziò Enyl, alzandosi in piedi con energia ritrovata. “Andiamo a controllare, dopodiché chiamerò Ran. Dovremo agire sinergicamente, se vogliamo sgominare il nemico.”

“Con te e Ran, ce la faremo” affermò allegramente Ellessandar prendendola per mano per incamminarsi verso i condotti che li avrebbero portati verso le cucine.

Enyl preferì non dirgli che, a un certo punto della battaglia, lei avrebbe dovuto prendere la via del tempio di Soanes per la sua parte in quella guerra.

Non lo avrebbe accettato, e lei doveva mantenersi salda per la battaglia che l’avrebbe vista protagonista assieme a Kennadarya.

***

Passeggiando nervosamente in lungo e in largo per l’enorme salone del trono, ora del tutto spogliato dei suoi averi, Korissar sobbalzò terrorizzato quando udì la porta della sala aprirsi di botto.

Tirato un sospiro di sollievo non appena vide avvicinarsi il capo della milizia pagata da re Kevan, Korissar esclamò: “Ancora nulla?!”

“No, signore. Dei reali nessuna traccia. Sembrano scomparsi nel nulla. Abbiamo setacciato tutte le case della capitale, tutti i fienili, i capannoni, ma niente” scosse il capo l’uomo, teso in viso e visibilmente preoccupato.

Aveva ben ragione d’essere in ansia.

Ben cinque giorni erano passati dall’assalto iniziale e, dopo aver scorto per un attimo la coppia reale in fuga lungo un corridoio, Korissar non aveva più avuto alcuna nuova di loro.

L’unico corpo esanime che avevano trovato lungo la strada, era stato quello del lupo biondo di Enyl che, evidentemente, aveva protetto loro la fuga fino all’estremo sacrificio.

Poche ore più tardi, nel giardino interno di palazzo, Korissar aveva trovato anche i corpi dei due lupi di Rannyl e Kalia ma, della coppia reale, neppure mezza traccia.

Che diamine stava facendo poi, Bramann, ancora nelle segrete?

Stava uccidendo quella ragazza, con le sue attenzioni?!

Se, oltre alla mancanza dei reali, Enyl fosse stata data in pasto a Kevan meno che pura, sarebbero saltate parecchie teste, tra cui sicuramente la sua!

Certamente, Kennadarya si sarebbe irritata a morte per non essere stata avvisata di quel piccolo inghippo nel loro piano.

Se poi, a peggiorare il tutto, Enyl non fosse stata come avevano richiesto, davvero non aveva idea di quello che avrebbe potuto succedere.

Irritato e spaventato al tempo stesso, Korissar infine ordinò: “Manda un uomo a cercare il consigliere Bramann. Desidero parlare urgentemente con lui.”

Con un cenno del capo, l’uomo annuì e si avventurò fuori dalla sala con uno scalpiccio degli stivali sul marmo pallido del pavimento, sbattendo poi alle spalle il pesante portone di legno laccato.

Passandosi una mano tra i radi capelli sale e pepe, Korissar esalò sconvolto: “Kennadarya ci ucciderà tutti se, prima del loro arrivo, i reali non salteranno fuori!”

***

“… e questo è quanto. Ellessandar ed Enyl hanno controllato le cucine per due ore buone e, a parte qualche movimento di alcune cuoche, non hanno notato la presenza di armigeri. E’ evidente che non sospettano che il passaggio delle fogne passi proprio di lì e che, soprattutto, possa essere usato per entrare a Yskandar” terminò di dire Rannyl, rivolto agli ufficiali presenti al suo fianco, oltre che a Kalia, My-chan e Naell.

Una piccola marea di teste annuì quasi all’unisono, mentre battute più o meno volgari si susseguirono circa l’idea di riprendersi la città attraversando i canali maleodoranti che scorrevano sotto di essa.

Naell rise nel sentirle e si unì a loro dicendo la sua, scatenando per diretta conseguenza l’ilarità generale e il rispetto sempre crescente dei soldati che avrebbero condotto quell’assalto notturno.

Stando a ciò che aveva detto loro Rannyl, era di vitale importanza riprendere la città prima dell’arrivo di Kevan e del suo esercito.

Da dietro le mura di Yskandar, sarebbe stato più semplice mantenere una posizione di vantaggio durante la battaglia.

Naell non aveva voluto chiedere nulla in merito a Kennadarya ma, a giudicare dal suo sguardo accigliato, la strega canuta non sarebbe stato un problema loro.

Questo la impensierì non poco, perché questo voleva dire una cosa soltanto. Ci sarebbe stata soltanto Enyl, a proteggere il potere della Luce contro quell’immonda creatura.

Ormai, invece, era sicura del suo compito. Guidare gli akantaryan, essere il loro baluardo, la loro forza fino a che Ellessandar non avesse ripreso nelle sue mani il comando.

Era stato così, in quei giorni di rientro frettoloso, e lei aveva tratto forza e coraggio da loro, come loro da lei.

Rivolgendo per la prima volta da ore il suo sguardo in direzione della cugina, Rannyl le confidò a bassa voce: “Ellessandar vorrebbe che tu rimanessi in disparte, per il tuo stesso bene.”

“Beh, può andare a quel paese. Riprenderò Yskandar assieme ai suoi uomini” replicò con falsa alterigia Naell.

Rannyl allora le sorrise orgoglioso e, battendole affettuosamente  una mano sulla spalla, le disse: “Sono onorato di combattere al tuo fianco, cugina.”

Il sottoufficiale Rodan sguainò la spada, levandola alta verso il cielo oscurato dall’imbrunire ed esclamò: “Per Yskandar! Per Akantar! Per il regno!”

Uno a uno, i soldati seguirono il loro esempio e Naell, assieme a Kalia e Rannyl, li imitarono, mettendo in quel grido tutta la loro speranza, i loro sogni e le loro paure inespresse.

Ben presto, le loro armi sarebbero state snudate per ben altro motivo ma, in quel momento, Naell volle godersi quell’istante di condivisione di un destino, del ponte venutosi a creare tra i loro due popoli.

Era questo ciò che Hevos aveva predetto per lei.

Quelle armi unite in un’unica forza, quelle lame che si sfioravano tra loro a crearne una sola.

Esse rappresentavano il ponte che lei aveva creato tra sé e il popolo che, in quegli anni, era giunta ad amare come il proprio e che, a costo della propria vita, lei avrebbe difeso.

Gli uomini di Ellessandar erano morti per proteggerla e ricondurla viva a Yskandar.

Lei avrebbe pagato lo stesso prezzo, se fosse stato necessario perché, indipendentemente da come sarebbe andato l’esito della battaglia, da come sarebbe terminato il suo colloquio con il principe, quello era il suo popolo.

E nessuno si sarebbe messo in mezzo tra lei e la sua gente.

***

La luna sarebbe sorta entro breve ed Enyl era pronta per recarsi al tempio, dove avrebbe passato le ore successive in profonda meditazione.

Al sorgere del sole, avrebbe affrontato l’arrivo della sua nemica, la nemesi per eccellenza della Luce.

Nell’allontanarsi dal rifugio di fortuna dove i reali e parte della servitù si erano ritirati, si era fermata un istante a rincuorare Skytana assicurandole che, una volta ripreso il controllo sul palazzo, Rannyl avrebbe pensato alle sue ferite.

Inutile dire che la donna si era fatta beffe di lei, asserendo che, per quella notte, sarebbe stata già pronta per imbracciare la sua fida scimitarra, incurante delle profonde ferite  che la tenevano bloccata su un pagliericcio di fortuna.

Enyl le aveva sorriso, plaudendo alla sua forza e al suo coraggio e, con un ultimo saluto, si era allontanata per seguire Ellessandar lungo gli stretti cunicoli che attraversavano il palazzo.

Grazie a essi, e per il suo sommo gaudio, aveva udito lo strepitare ossesso di Korissar che, per merito di uno dei soldati mercenari, era infine giunto a conoscenza della morte prematura del consigliere Bramann.

Avrebbe tanto voluto scorgere il suo volto allampanato farsi rugoso per l’ansia e, ancor di più, avrebbe voluto affondare la daga nelle sue viscere per reclamare come sua anche quell’inutile vita.

Con tutta probabilità, però, la sua esistenza sarebbe giunta alla fine quella notte stessa per mano dei soldati di Akantar.

Poteva accontentarsi di questo. Forse.

Alla fine della loro perlustrazione, comunque, Enyl aveva dovuto ammettere con Ellessandar il suo ruolo nella battaglia imminente e, con sua grande sorpresa, il principe non aveva avuto nulla da obiettare.

Con un sospiro e un sorriso pieno di mestizia, aveva ammesso di aver compreso fin da quel giorno al tempio che il suo compito sarebbe stato ben diverso dal loro.

Vederla coronata di luce come una dea scesa in terra, gli aveva fatto comprendere con amara consapevolezza quanto poco sarebbe stato utile, lui, nell’impresa di sconfiggere Kennadarya.

Enyl lo aveva abbracciato con calore, ammettendo di avere paura, ma di essere consapevole anche della profonda fiducia che loro nutrivano in lei.

Quel particolare, più di qualsiasi altra cosa, l’avrebbe resa forte nel momento decisivo.

Ellessandar, allora, si era proposto come suo accompagnatore fino alle porte che conducevano al tempio, assicurandole che lì, la battaglia, non sarebbe mai giunta.

E ora si trovavano a quel bivio, una botola di legno a dividerli dall’ineluttabile, niente più di qualche asse di legno di palma tra loro e le fredde navate del tempio.

Fuori, il silenzio assoluto della notte.

Nulla si muoveva, come la quiete prima della tempesta, come se gli animali stessi sapessero che ogni minimo rumore avrebbe interferito con la ripresa della città.

Enyl si volse per salutare Ellessandar e, nello sfiorare il suo volto con le mani, lo attirò gentilmente a sé per baciarlo sulle labbra.

“Dallo da parte mia a Naell. Capirà.”

“Pensa anche a te stessa, là fuori. Non solo alla salvezza delle genti. Voglio rivederti sana e salva, Enyl” la pregò con veemenza Ellessandar, stringendola in un abbraccio feroce prima di lasciarla andare.

“Farò quel che potrò” si limitò a dire lei, scostando con decisione il pannello di legno per passare oltre.

Strette le mani a pugno per impedirsi di afferrarla e riportarla al sicuro all’interno del cunicolo, Ellessandar fissò con occhi lucidi di lacrime il pannello mentre veniva rimesso al suo posto.

Quando esso fu saldamente fissato alla parete, seppe che ormai nulla poteva più fare, per Enyl.

La sua vita, ora, era nelle salde mani di un dio.

A lui restava da compiere ben altro compito.

Recuperare la città, prepararsi a difenderla dall’assalto dell’esercito di Nellassat e, se possibile, uccidere re Kevan per stroncare le forze nemiche sul nascere.

“Buona fortuna, Enyl” mormorò alla fine Ellessandar, correndo indietro per raggiungere il cunicolo delle cucine, da cui avrebbe visto giungere i suoi uomini per la rappresaglia contro i mercenari di Kevan.

***

Si sentiva maleodorante come una montagna di sterco, coi piedi bagnati di liquami cui preferì non pensare più di tanto, ma il suo cuore batteva di attesa, colmo di speranza e fiero come mai prima di allora.

Non le importava quale aspetto avrebbe avuto una volta uscita da quello stretto cunicolo, che li obbligava a procedere in fila e ripiegati in avanti per non urtare il soffitto a volta.

Voleva solo rivedere Ellessandar, abbracciarlo e muoversi con lui per riprendere la città che lei amava come Rajana, dove lei era nata e cresciuta.

Certo, il pericolo incombeva, e sapeva bene che la spada che teneva saldamente legata al fianco sarebbe stata ben presto snudata.

Quel che sarebbe avvenuto quella notte, però, era ciò per cui si era allenata per anni assieme a My-chan.

Sapeva che il suo intervento sarebbe stato come una goccia nel mare ma, tutti assieme, avrebbero formato quella marea che avrebbe dilavato la città per eliminare le forze nemiche ivi presenti.

“Siamo quasi arrivati” sussurrò dinanzi a lei Kalia, lo sguardo fisso su Rannyl, che guidava la fila di uomini.

Avevano stabilito di comune accordo che il giovane, in quanto membro più forte e veloce dell’intero gruppo, sarebbe stato il primo a fare breccia all’interno delle cucine.

Qualora si fosse ritrovato dinanzi dei nemici, la freoha avrebbe fatto la differenza tra la vita e la morte per tutti loro.

Naell non era stata molto lieta di quella decisione – in cuor suo, ancora temeva per lui, pur sapendo quanto fosse logica quella soluzione – ma non se l’era sentita di smentire la sicurezza che aveva percepito nelle parole del cugino.

Quando, però, lo udì aprire la botola per entrare nelle cucine, scatenando la paura nelle poche cuoche presenti, seppe di essersi grandemente sbagliata.

Assieme alle poche serve rimaste in vita – e che, in quei giorni, si erano date da fare controvoglia per sfamare l’esercito nemico – Rannyl aveva anche trovato quattro soldati ad attenderlo, ma ciò non lo aveva minimamente turbato.

Forte della freoha che ne incendiava il sangue, si mosse così veloce che, a stento, i mercenari ne colsero le movenze e, con grazia letale, si accanì su di loro recidendo le loro gole con un solo colpo di daga.

Alla fine di quella macabra danza, durata in tutto meno di dieci secondi, Rannyl si  ritrovò accucciato sul bordo di una credenza, la posa in tutto simile a quella di un lupo a caccia e gli occhi dorati che emanavano scintille.

Le cuoche, spaventate loro malgrado da quello spettacolo di morte, si rintanarono in un angolo solo per emettere identici ansiti di sorpresa quando, dalla conduttura delle fogne, comparvero altri uomini in armi e diverse donne, tra qui la principessa e il renpardo del principe.

Dopo aver digrignato un’ultima volta i denti, cercando di contenere la freoha, Rannyl discese con balzo silenzioso accanto a Kalia.

Nell’ammirare il suo lavoro pulito e letale, quest’ultima annuì al giovane e chiosò: “Oserei dire che i tagli hanno la stessa lunghezza su ogni collo.”

“Se ho calcolato bene la forza, sì” scrollò le spalle noncurante Rannyl, annuendo alla muta domanda nascosta nello sguardo di Naell.

Rassicurata dal fatto che Ran stesse bene, Naell lanciò uno sguardo a Rodan per dirgli: “Ora, dobbiamo solo attendere che il principe si…”

Non fece in tempo a terminare la frase che una botola nel muro si aprì dinanzi a loro e, sotto lo sguardo lieto di tutti, Ellessandar fece la sua comparsa all’interno delle cucine.

Tale fu la gioia che provò nel vederlo sano e incolume, che Naell non poté trattenere un singhiozzo incontrollato.

A quel punto, Ellessandar le sorrise al colmo della felicità e, indifferente alle persone che si trovavano nella cucina e alla situazione disperata in cui si trovavano, corse verso di lei a grandi passi e, senza dire nulla, la avvolse in un abbraccio stritolante.

Sollevatala di peso da terra, le fece fare un mezzo giro in tondo prima di impadronirsi della sua bocca calda e, come aveva sperato, percepì la sua piena risposta e la dolce sorpresa in essa trattenuta.

Parecchi uomini ridacchiarono, mentre altri si limitarono a tossicchiare imbarazzati mentre le donne soldato, con ampi sorrisi, ammiccavano a Ran e Kalia, che stavano  rischiando di scardinare le loro mascelle per il gran sorridere.

Quando Ellessandar la rimise a terra, il viso di Naell rosso di piacere e imbarazzo, il mondo tornò a riprendere corpo intorno a loro.

Resosi finalmente conto di dove si trovava, e di chi vi fosse presente, il principe rise sommessamente ed esalò: “Le mie più profonde scuse.”

Naell, ora imbarazzata a morte, affondò il viso nel torace di Ellessandar mentre Rodan, con un gran sorrisone, si limitò a dire: “Immagino che quello avesse la precedenza, Altezza. Quali sono i vostri ordini, ora?”

Sempre tenendo stretta a sé Naell, Ellessandar tornò serio nel giro di pochi attimi e, rivolto uno sguardo significativo a Rannyl, che annuì, disse con veemenza: “A palazzo, ci sono circa una trentina di uomini, mentre il resto dell’armata nemica si trova sparpagliato per la città, dislocato principalmente accanto alle porte di entrata. Una parte di voi, andrà in avanscoperta per aprire le porte al grosso dell’esercito, mentre una decina di voi rimarrà a palazzo per aiutarmi a sgominare i mercenari ivi presenti. Una volta fatto questo, ci riverseremo in città e punteremo direttamente a ovest, verso la via per il porto.”

Tutti annuirono e, mentre Rodan abbaiava ordini alla trentina di uomini e donne presenti nelle cucine, Ellessandar si chinò sull’orecchio di Naell e sussurrò: “Parleremo più tardi di quello che non ci siamo detti in questi anni per la troppa stupidità. Per il momento ti chiedo… stai bene?”

“Benissimo, anche se puzzo come una latrina” ridacchiò lei, ancora incredula di aver ricevuto quel bacio divorante da Ellessandar.

Quanto era stata stupida, in quegli anni vissuti nella paura dei suoi stessi sentimenti?

Ellessandar rise di quel commento, limitandosi a dire: “Non mi importa un accidente, credimi. Sei sicura di voler partecipare alla lotta, o preferisci nasconderti tra le mura assieme ai miei genitori?”

“Lotterò al tuo fianco” dichiarò allora Naell scostandosi per scrutarlo in viso.

I suoi occhi verdi dalle pagliuzze dorate brillarono di convinzione, ed Ellessandar non poté che amarla ancora di più per il suo coraggio.

“Combatteremo fianco a fianco, allora… mia principessa” assentì allora Ellessandar, levando la sua mano destra per baciarne il dorso.

Naell sorrise lieta e, sentendosi più forte e fiera di quanto non lo fosse mai stata fino a quel momento, mormorò: “Non ti deluderò, mio principe.”

“Non potresti mai” replicò lui, prima di intrecciare la mano alla sua e tornare a scrutare il viso serio e pronto di Rodan. “Andiamo, comandante.”

“Sì, mio principe… mia principessa…” assentì l’uomo, onorando entrambi di un profondo inchino.

Al muto cenno di Ellessandar, i gruppi si divisero come due onde di piena ben distinte.

Una volta usciti dalle cucine, si riversarono per il palazzo come locuste su un campo di grano mentre, coloro i quali dovevano occuparsi delle porte, si dileguarono lungo i corridoi della servitù per non essere visti dai nemici.

Imperativo per tutti era contenere le urla dei mercenari, cosicché i soldati all’esterno non percepissero - se non troppo tardi - ciò che si stava svolgendo entro le mura del palazzo.

A tal fine, sarebbe stato necessario colpire con rapidità e, spesso e volentieri, mandando all’aria le regole stesse della cavalleria in battaglia.

Naell, al fianco di Ellessandar, si fece valere con la sua corta spada dalla lama sottile e, sotto gli occhi sorpresi e orgogliosi del principe, fece il suo dovere senza lasciare nulla di intentato.

Rannyl, nel gruppo che aveva il compito di aprire le porte della città, correva nel frattempo assieme a Kalia e al resto degli uomini guidati da Rodan e, immersi nel buio silenzioso della città, pensò alla sorella.

“Come ti senti?” le domandò mentre, leggero come una piuma, balzava da un tetto all’altro, sopravanzando gli akantaryan per aprire loro la strada qualora vi fossero stati dei mercenari in agguato.

“Pronta. Ti chiederò un favore, durante la battaglia, quindi rimani nei pressi del Tempio. Sarà vitale la sinergia tra noi, Ran, perciò sappi questo; sarà necessario un numero di persone pari al perimetro delle mura templari, cosicché possiate formare un cordone attorno a esso.”

“E, naturalmente, non mi spiegherai il perché, vero?”

“Penso che il non saperlo sia meglio per te, poiché temo potresti non essere d’accordo col mio piano.”

“Il che la dice lunga su ciò che hai intenzione di fare” brontolò lui.

Fidati di me, fratello.”

“Non l’ho sempre fatto?”

“Sì.”

Il contatto si interruppe e Rannyl, nel lanciarsi dal tetto dove si trovava in quel momento, si preparò a dar battaglia. La resa dei conti era infine giunta.

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Capitolo 15
*** 15. ***


●●15●●

 

 

 

 

Enyl avvertì i primi rumori di lotta quando ancora mancavano diverse ore all’alba, e la presenza di Kennadarya era lontana, remota, niente più di un filamento d’ombra nella sua mente.

Seduta ai piedi della statua di Soanes, le ginocchia strette al petto e gli occhi ben chiusi, Enyl ascoltò quel lontano frastuono tentando di badarvi poco.

Doveva mantenere la concentrazione necessaria per immagazzinare la maggiore energia possibile all’interno del suo corpo.

Le sarebbe servita tutta, per affrontare Kennadarya.

“Il tuo pensiero è corretto, mia diletta, e io so che non fallirai” mormorò nella sua mente Hevos, cogliendola alla sprovvista.

Enyl sorrise nell’oscurità e replicò mestamente: “Fato si è sbilanciato in qualche modo, o è solo una tua speranza?”

“Io e Haaron crediamo sia giusto ciò che hai pensato di fare, ma né io né mio fratello sappiamo ciò che succederà, se è questo che vuoi sapere” ammise il dio, suonando preoccupato alle orecchie della giovane.

Hevos?”

“Sì, mia diletta?”

“Mi ami perché sono Luce o…”

Lui la zittì immediatamente, asserendo con veemenza: “Sei Enyl, per me. E io amo Enyl, non ciò che rappresenti.”

“Perché?”

Hevos allora rise nella sua mente e mormorò roco: “Dovrei possedere il Tempo, mia diletta, per decantare tutti i motivi che, nel corso degli anni, mi hanno portato a innamorarmi di te, ma sappi una cosa; non è per solitudine, o perché tu assomigli a Hyo. Non cerco una sua sostituta.”

Vagamente sorpresa, Enyl esalò: “Pensavo… i ritratti di Hyo non sono veritieri?”

“Hyo era molto differente da te, per molte cose. Fisicamente, tu sei molto più alta e forte, oltre ad avere un viso più allungato. Il carattere, soprattutto, è diverso, però.”

“Cioè?”

Sapeva che la curiosità era una mera sciocchezza, in quel momento, ma voleva sapere.

“Hyo è cresciuta con me, somigliandomi in molte cose e finendo con l’apprendere ciò che mi piaceva, facendolo suo. Era gratificante amarla ed essere riamato da lei ma ammetto che, dopo averla fatta tornare nel mondo degli uomini, capii anche che l’averla tenuta con me fin dalla nascita, era stato in sé e per sé un errore, perché questo le aveva impedito di sviluppare un suo carattere personale.”

“Non eri certo che lei ti amasse veramente, ma fosse solo il frutto del suo essere sempre stata solo con te?” gli domandò Enyl, comprensiva.

“Paura molto umana, ma genuina” ammise Hevos, con una triste risatina. “E, per lo stesso motivo, non ero certo di averla veramente amata, pur sapendo di aver provato per lei un affetto profondo.”

“Cosa successe, con me?”

“La prima volta che ci incontrammo, trovai piacevole che i tuoi occhi non fossero turbati dalla mia presenza. Ti incuriosivo. E tu incuriosisti me. Seguii da lontano la tua crescita e, quando tu e Rannyl iniziaste il vostro personale percorso iniziatico per imparare a usare i vostri poteri, decisi di conoscere entrambi voi da vicino.”

Si interruppe, rise con un tocco di amarezza e autoironia nella voce, e proseguì.

“Eri impudente, fiera, allegra, avventata… e questo mi conquistò. Apprezzavo la tua compagnia, il tuo modo pungente di rispondermi e…”

“… e venne quell’estate” disse per lui Enyl, sorridendo.

“Sì. Avrei voluto portarti via con me, impedire che il Male ti toccasse, ma sapevo che sarebbe stato egoista e potenzialmente pericoloso. Rannyl sarebbe rimasto solo prima dell’arrivo di Kennadarya, e lui non avrebbe potuto affrontarla, ora lo so per certo.”

La veemenza del suo tono commosse Enyl che, tergendosi una lacrima ribelle, accarezzò lieve il piedistallo della statua del dio Soanes, come a voler consolare indirettamente Hevos.

“Io sono il Veicolo della Luce, Rannyl il Ponte, giusto?”

“Spirito e Corpo. Sì, mia diletta. Lui potrà solo veicolare l’energia, ma sarai tu a doverla condurre dove dovrà andare infine” assentì Hevos, con tono stanco.

La percepiva sempre più forte, dentro di sé, in ogni sua fibra e, anche a occhi chiusi, ormai riusciva a scorgerne il bagliore dietro le palpebre sottili.

Per mezzogiorno, sarebbe apparsa fulgida come una stella.

Sperava solo che Rannyl e gli altri, per l’arrivo di Kennadarya, avessero già ripreso la città per poter approntare le difese contro l’esercito di re Kevan.

***

La mano destra poggiata sulla balaustra del mascone di dritta mentre la sinistra, sul fianco, tamburellava fremente le dita inguantate, re Ruak di Rajana si volse a mezzo non appena vide affiancarsi dal fratello e dalla cognata.

Sorridendo loro brevemente, mormorò: “Il vento ci è favorevole come il tempo, eppure mi sembra di andare sempre troppo piano.”

“Le vele e i controvelacci sono stati interamente dispiegati… l’unica cosa che possiamo appendere sono le lenzuola, ma non credo servirebbe a molto” ironizzò Aken con cupa ironia.

Ruak abbozzò un ghigno ed Eikhe, scrutando l’orizzonte marino, dichiarò: “Non manca molto e, pur mantenendoci lontani dalle Isole Arcobaleno, giungeremo sulle coste di Akantar entro domattina al massimo.”

“Spero solo che questo possa essere sufficiente” sospirò Ruak, scuotendo mestamente il capo.

“Dubito che Floras il Vento si metterà dietro le nostre navi per sospingerle, perciò quello che stiamo facendo è il massimo consentito” gli ricordò Aken, sorridendogli comprensivo, pur se nei suoi occhi si leggeva la stessa ansia che pervadeva il cuore del re.

Ruak si guardò attorno, la goletta dove viaggiava assieme alla sua famiglia interamente circondata dalle slanciate e veloci navi da guerra di Enerios che, stendardi al vento, parevano pronte per dare battaglia già in quel momento.

Molti erano i guerrieri che, sui ponti delle navi, scrutavano il cielo all’imbrunire e le coste lontane delle Isole Arcobaleno, saggiando sulle loro mani le spade affilate.

Tornando parlare al fratello, il re asserì: “Voglio che Liana e Antalion rimangano nelle retrovie. Non desidero dovermi preoccupare anche di loro, durante la battaglia.”

“Sarà ben difficile che ti accontenteremo, zio” esordì Antalion, balzando a terra dall’albero di trinchetto e sorprendendoli tutti.

Nessuno si era avveduto della sua presenza.

Subito dietro di lui sopraggiunse anche Liana che, sorridendo fiera al re, prese a braccetto il compagno e aggiunse: “Siamo figli sacri, sappiamo cos’è la battaglia e non ci spaventa. Inoltre, siamo più forti di tutti i tuoi soldati, zio, perciò non temere per noi.”

Ruak le sorrise benevolo e, stringendola a sé in un abbraccio accorato, mormorò contro la sua bionda capigliatura: “Mi preoccuperò sempre per voi, bambina perché, adulti o meno, voi siete i miei tesori. Ma capisco il vostro punto di vista, perciò vi chiederò soltanto di non partire alla testa dei soldati. Può essere sufficiente per accontentare entrambi?”

“Ce lo faremo bastare” assentì Antalion, con un gran sorriso.

Annuendo, Ruak fissò tutti loro e dichiarò mestamente: “Se dovesse succedermi qualcosa, tu Liana, e tu Antalion, riprenderete immediatamente la via del mare e porterete a Meriton e gli altri la notizia. Su questo, non accetterò un ‘no’ come risposta. Questa goletta rimarrà alla fonda nel porto solo per voi, perciò siate lesti, qualora le cose dovessero volgere al peggio.”

Antalion annuì grave e, nello stringere la mano dello zio, protesa verso di lui come silenziosa promessa, asserì: “Non succederà nulla, ma ti prometto che eseguirò i tuoi ordini, zio, qualunque cosa io sia costretto a fare per portarla a termine.”

“Liana?” domandò allora Ruak, fissando la donna con attenzione.

Lei annuì a sua volta, poggiando la mano su quella del marito, ancora stretta a quella del re.

“Porterò io stessa il messaggio a Renke, te lo giuro su quanto ho di più caro, e rimarrò al suo fianco per consolarla. Ma sono certa che non ce ne sarà bisogno.”

Sorridendo ai due giovani per un istante, Ruak tornò infine a scrutare ansioso l’orizzonte e, torvo, mormorò: “Ora dobbiamo solo attendere che faccia giorno.”

***

Il castello pullulava di uomini in armi e re Erenokt, nell’aiutare in prima persona a trasportare la lettiga dove era distesa Skytana, osservò orgoglioso i suoi uomini.

Entro il sorgere dell’alba, erano riusciti a tornare in possesso della loro città, falcidiando i mercenari nemici con un minimo di perdite tra le loro fila.

“Giuro che, quando starò bene, ve la farò pagare, sire. Non è giusto che voi dobbiate trasportarmi!” protestò per l’ennesima volta Skytana, pallida in viso ma agguerrita come sempre.

Erenokt rise e replicò con soddisfazione: “C’è di bello, mio caro generale, che sono io che comando, e questo mi offre la possibilità di fare quel che voglio… ivi compreso portare una lettiga.”

Ellessandar sogghignò a quelle parole, mentre la donna distesa grugnì un’imprecazione tra i denti senza più avanzare altre recriminazioni.

Era evidente quanto, quella situazione, la stesse snervando e quanto, il prodigarsi del re, la mettesse a disagio.

In fondo, poteva capirla.

Era sempre stato suo compito difendere e servire la famiglia reale, non il contrario.

In quel mentre, da una delle stanze del pianterreno, Elmassary si sporse per indicare loro di entrare e lì, impegnato nella cura di altri pazienti con ferite gravi, trovarono infine Rannyl.

Mentre la lettiga veniva poggiata a terra, il giovane figlio sacrò si deterse il viso prima di sorridere a Skytana che, bieca, mugugnò: “Non oserai davvero poggiare quelle mani su di me, spero!? Brillano come candele accese!”

Rannyl indicò con il pollice le ferite perfettamente suturate e rosee dei soldati che aveva appena curato e, ironico, chiosò: “Mi sembra di aver fatto un ottimo lavoro, non ti pare?”

Giungendo in quel momento con un enorme cesto ricolmo di cibo tra le mani, Naell sorrise brevemente a Ellessandar prima di notare il fiero cipiglio di Skytana e il risolino del re.

Era evidente il disagio della donna e, a giudicare da come stava guardando le mani di Rannyl, non sembrava molto concorde con il farsi curare da lui.

Ridendone, Naell si avvicinò a grandi passi e le disse convincente: “Fossi in te, mi fiderei. Ha fatto cose prodigiose, con quelle mani, in queste ore.”

“E va bene!” sbottò Skytana, arrossendo suo malgrado. “Ma non voglio avere spettatori!”

Ellessandar si affrettò ad aprire un paravento per proteggerla dalle occhiate del resto dei presenti e, dopo un breve saluto, si dileguò per lasciare che, a Skytana, pensasse Rannyl.

Naell ed Elmassary rimasero e, nel togliere con delicatezza le bende imbevute di sangue e la tunica sfilacciata, le sorrisero speranzose.

Inginocchiatosi accanto a lei, Rannyl le sfiorò la fronte con una mano prima di dirle gentilmente: “Non sentirai quasi nulla, te lo prometto.”

“Fammi tornare a combattere, ragazzo… ti chiedo solo questo” lo pregò allora Skytana, mordendosi ansiosa il labbro inferiore.

“Vedrò quello che potrò fare. Spero che i danni non siano troppo seri.”

Non aggiunse altro e, quando si volse per adocchiare le ferite al ventre e al fianco, trattenne a stento una smorfia.

La carne appariva scura in più punti mentre, dalle abrasioni, il puzzo del pus lo investiva fin quasi a farlo indietreggiare.

Il caldo di quei luoghi non aveva certo aiutato quella ferita e rimanere sana, questo era certo.

Preso un gran respiro, chiese alla regina e a Naell di tenere bloccate le braccia di Skytana per ogni evenienza dopodiché, fissando gli occhi dorati sulle ferite, iniziò a incanalare la freoha nelle sue mani.

Mantenendo le dita a pochissima distanza dalla pelle arrossata e lisa della donna, Rannyl socchiuse gli occhi e iniziò a immergersi dentro di lei.

Percepì immediatamente l’enorme sforzo con cui Skytana stava tenendo a bada il dolore, causato dalla perforazione della milza e delle lesioni interne, pur se non mortali.

Grazie a Hevos, nessun organo vitale era stato intaccato, ma le ferite erano suppurate e il veleno che il corpo stesso aveva prodotto, aveva creato un inizio di necrosi nella carne.

Necrosi che lui avrebbe dovuto far regredire quanto prima o, alla peggio, far eliminare fisicamente da un medico.

Deglutendo a fatica per lo sforzo di non farsi trascinare via dal dolore cocente della donna, Rannyl gracchiò: “Trovate un cerusico. Dovremo incidere. Le necrosi più profonde non possono essere più risanate con il mio potere, a quanto pare. Nel frattempo, però, mi occuperò del resto.”

Elmassary fu lesta ad annuire e, raccolte in fretta le gonne, corse via mentre Naell, levatasi in piedi per mantenere ferma Skytana da sola, fissò preoccupata il cugino e gli domandò: “Sicuro di star bene? Stai sudando.”

“Reagisco al dolore di Skytana, tutto qui. Appena uscirò da lei, passerà subito” le spiegò in fretta Rannyl, appoggiando le mani calde sul ventre piatto della donna.

Le labbra delle ferite più sane si erano saldate, formando uno strato leggero di tessuto cicatriziale color ciliegia, che Rannyl rafforzò col suo tocco, poco alla volta.

Skytana ansimò per la sorpresa e, socchiudendo gli occhi, scrutò le mani del giovane farsi sempre più brillanti e calde.

Subito, nel suo ventre si generò una piacevole onda di energia che parve dilavare il male fin lì provato.

Passarono diversi minuti dall’inizio di quel trattamento e, quando Elmassary fu di ritorno con il cerusico, Rannyl si scostò con un esile sospiro.

“Quel che potevo fare, l’ho fatto. Ora, va rimosso l’inizio di necrosi in corrispondenza della ferita al fianco. Evidentemente, la freccia doveva essere stata imbevuta di un qualche genere di veleno.”

Rivolgendosi poi al medico, asserì: “Non appena avrete eliminato il tessuto morto, chiamatemi. Eliminerò potenziali infezioni di mia mano.”

“Molto bene, principe. Mi metterò subito al lavoro” assentì l’uomo, fissandolo con profondo rispetto prima di mettere mano alla sua borsa degli attrezzi medici.

Già sul punto di allontanarsi, Rannyl venne bloccato dalla mano di Skytana che, grata, mormorò con un sorriso: “Hai delle mani strane, ragazzo, ma sono un dono del cielo.”

Rannyl fece un mezzo sorriso e le augurò buona guarigione, prima di uscire con passo lento dallo stanzone per rifugiarsi per qualche minuto nel giardino interno di palazzo.

Tutto intorno era un via vai di persone, servitori indaffarati a preparare vettovaglie per i soldati, armigeri intenti a lucidare le armi per una nuova battaglia, donne di servizio che portavano via teli sporchi di sangue.

Ma Rannyl, in quel momento, vide solo Kalia.

Seduta mestamente sul bordo di una fontana a forma di fiore, che si trovava in quell’angolo di giardino, teneva la testa tra le mani e i gomiti poggiati sulle cosce.

Lo sguardo era perso nel vuoto e, ben evidente ai suoi occhi, era la mancanza di Kessa al suo fianco.

Né lui, né Enyl né tantomeno Kalia, o Naell, avevano avuto il tempo di piangere i loro compagni, periti per difendere coloro che amavano.

Sapeva però che, in quel momento di quiete prima della tempesta, la loro mancanza pesava più di un macigno sui loro cuori.

Non aveva voluto affrontare l’argomento con la sorella, visto ciò che sarebbe successo di lì a poco, ma poteva per lo meno tentare di chetare lo spirito affranto di Kalia.

Avvicinandosi a lei, le sedette innanzi, intrecciando le gambe sull’erba più e più volte calpestata in quei giorni di tradimento e, levata una mano, le sfiorò un braccio nudo.

“Posso fare qualcosa per te, Kalia?”

Lei gli sorrise brevemente, prima di scivolare a terra anch’essa sul terreno schiacciato.

“Sto solo cercando di venire a patti con la morte di Kessa. Dubito che questo dolore si possa curare con le tue mani.”

Scuotendo il capo, Rannyl le prese le mani tra le sue e, baciandone i dorsi uno dopo l’altro, asserì dolcemente: “Posso solo aiutarti con la mia presenza, non posso fare di più.”

Vagamente sorpresa da quel gesto, Kalia abbozzò un sorriso ed esalò: “Ran, ma cosa…?”

Messosi in ginocchio, Rannyl si piegò verso di lei e, nel fissarla negli occhi da una distanza brevissima, sussurrò: “Non lascerò che il tuo cuore pianga in solitudine. Piangeremo insieme, come è giusto che facciano due figli del branco.”

Detto ciò, le sfiorò  una guancia con un bacio e, nello scostarsi da lei con un profuso rossore dipinto sul volto serio, si allontanò quasi di corsa, lasciandola stranita ma piacevolmente riscaldata nell’animo.

Avrebbe discusso più tardi con Rannyl di quel bacio ma, per il momento, doveva pensare a cancellare il dolore dal suo cuore per concentrarsi sulla battaglia imminente.

Come aveva detto Ran, avrebbero pianto assieme per la morte di Kessa e gli altri lupi.

Di Ylar non avevano ancora trovato il corpo ma, presto o tardi, ci sarebbe stato il tempo di  trovare e commemorare anche lui.  

Nessuno sarebbe stato lasciato indietro, e avrebbero ricondotto a Enerios i loro corpi perché venissero cremati nella loro terra natia.

Alzandosi infine per poi spazzolarsi i pantaloni di lino, Kalia portò istintivamente la mano alla daga quando udì Naell urlare in lontananza.

Sapeva che il castello era presidiato dai loro uomini ma, assurdamente, pensò che lei potesse essere in pericolo.

Con passo veloce, si lanciò lungo il porticato per raggiungerla, la daga già snudata nella mano ma, non appena si rese conto del motivo che l’aveva portata a urlare, si bloccò di colpo e crollò in ginocchio con le lacrime agli occhi.

Lì, nel corridoio coperto, ferito e col pelo ricoperto di sangue rinsecchito e polvere, stava Ylar, abbracciato da una piangente Naell.

Baciandolo a più riprese sotto gli sguardi sorpresi di tutti, si lasciò andare a mille e più dichiarazioni d’affetto profondo per il suo lupo.

Doveva essere rimasto nascosto per giorni, tra la vita e la morte, prima di aver avvertito la presenza della sua padrona ed essersi trascinato fuori dal pertugio in cui aveva tentato di recuperare le forze da quelle che sembravano bruttissime ferite.

Avvicinandosi gatton gattoni, non avendo la forza di reggersi in piedi, Kalia si unì all’abbraccio di Naell e baciò il muso sporco del lupo, ricevendo per diretta conseguenza un colpetto della sua lingua direttamente sul naso.

Kalia rise e pianse al tempo stesso e, mentre Rannyl le raggiungeva con eguali gioia e lacrime sul volto, lei esalò: “Sei sopravvissuto. Sei vivo… bravo, Ylar, bravo.”

Poggiate le mani sul dorso del lupo, Ran si inginocchiò quasi senza forze e gracchiò al colmo della felicità: “Sei proprio una forza, amico! Coraggio, vieni qui, piccolo, e lasciati curare.”

Gentilmente, Rannyl scostò il lupo dalle mani di Naell e Kalia e, dopo aver abbracciato l’animale piagato e stanco, chiuse gli occhi e divenne pura energia.

Non solo le sue mani, ma il suo corpo tutto prese come fuoco e, sotto gli occhi sorpresi e sgomenti di chi si trovava nel corridoio in quel momento, il lupo riprese via via le forze fino a emettere un ululato forte e dirompente.

Ylar leccò più e più volte il volto di Rannyl mentre la luce che permeava dal corpo del giovane figlio sacro andava scemando e, quando il giovane fu certo delle buone condizioni dell’amico, lo accarezzò con forza e mormorò: “Abbiamo salvato almeno te… almeno te.”

Fu a quel punto che Rannyl crollò in lacrime e Kalia, avvicinandosi a lui, lo prese tra le braccia e pianse con lui per la morte dei loro amici.

Naell, stretta al suo lupo, si chiese cosa poter fare per chetare in parte il loro dolore.

Sapeva quanto quelle lacrime fossero importanti, quanto quel dolore cocente dovesse uscire dai loro corpi sotto forma di pianto, ma era straziante dover osservare quei volti a lei cari distorcersi per la pena provata.

Come era difficile accettare che solo il suo lupo fosse sopravvissuto.

Carezzandolo lentamente, Naell poggiò il capo contro la sua spalla mentre Ylar, gentilmente, leccava via le lacrime dei suoi amici umani, pronto a balzare nuovamente nella battaglia pur di non vederli ancora soffrire.

Fu a quel punto che il lupo parve rammentare un particolare e, volgendo il proprio sguardo serio in direzione della padrona, iniziò a uggiolare con tono sommesso e vibrante.

Dopo aver ascoltato attentamente ciò che il lupo aveva da dirle, Naell si infuriò al punto che anche Rannyl e Kalia si accorsero del suo cipiglio, nonostante il dolore provato.

Levandosi da terra mentre Ylar scodinzolava allegro al solo pensiero di dare man forte alla padrona, Naell si volse verso Ran e Kalia e dichiarò torva: “E’ stato Korissar a tentare di uccidere Ylar. Lui lo ha creduto morto e così, quando è rimasto solo, si è allontanato fin dove gli è riuscito per recuperare un minimo le forze.”

Rannyl si levò a sua volta in piedi con l’aiuto di Kalia e, tergendosi il viso – ora duro come pietra – ringhiò ferocemente: “Non ti chiedo molto, cugina. Dammi licenza di giustiziarlo.”

Sogghignando fiera, Naell dichiarò con tono feroce: “Sarò ben lieta di concederti questo onore, cugino.”

“Ve ne sono obbligato, Altezza” ghignò Rannyl, mettendo mano alla daga nel concedere un ironico inchino alla cugina.

Kalia lo imitò lesta, nello sguardo la medesima morte e il medesimo desiderio di vendetta.

Naell li osservò per un istante, indecisa sul da farsi, quando Ellessandar la raggiunse trafelato e si chinò per abbracciare un redivivo Ylar.

“Sei sopravvissuto almeno tu!” esclamò il giovane principe prima di levare lo sguardo verso Naell e gli altri, e rendersi finalmente conto che qualcosa non andava.

Rannyl e Kalia sprigionavano odio da tutti i pori ed Ellessandar, pur non possedendo alcun potere psichico, poté avvertirlo senza problemi.

Lasciando che Ylar continuasse a leccargli le mani, tutto contento per l’abbraccio del principe, Ellessandar fissò dubbioso Naell, chiedendole: “Che succede?”

“Stanno pensando di farla pagare a Korrisar per quello che ha tentato di fare a Ylar” gli spiegò gelida lei, prima di rivolgergli un mezzo sorriso di scuse e asserire: “Spero non me ne vorrai. Teoricamente, Korissar dovrebbe essere affar tuo, visto che si trova qui, ma…”

Ellessandar si rialzò per abbracciarla strettamente e, nel darle vigoroso bacio sulle labbra, replicò signorilmente: “La mia futura moglie può fare ciò che vuole… esecuzioni comprese.”

“Allora, noi andiamo” sentenziò Rannyl senza attendere un solo attimo.

Kalia lo affiancò senza dire nulla, la mano stretta attorno alla daga leggermente tremante.

Naell rise lievemente nel guardarli allontanarsi lungo il corridoio. Li avrebbe raggiunti, ma prima doveva dire un paio di cose a Ellessandar.

Mordendosi pensosa un labbro, ammise: “Mi fa strano sentirti parlare così, e c’è ancora la faccenda di Coryn da sistemare, però… però…”

“Ti fa piacere?” ironizzò Ellessandar.

“Ebbene sì. Io, che ho tanto temuto questa parola, apprezzo sentirla quando sei tu a menzionarla” buttò lì Naell, abbracciandolo con un risolino subito dopo. “Mi sembra tutto così assurdo! Così irreale!”

“E’ solo perché ci troviamo sull’orlo di un baratro… ma io ho fiducia in Enyl, e so che ci tirerà fuori da questo ginepraio” asserì con convinzione Ellessandar.

“My-Chan è ancora davanti alle porte del tempio?” gli domandò allora Naell, sapendo che nelle scorse ore l’amica si era appostata dinanzi alle porte templari a mo’ di guardia del corpo.

“Sì, non si fidava a lasciarla sola” annuì, con tono affettuoso.

“E’ adorabile” assentì Naell, prima di chiedergli: “Andiamo a fare da testimoni all’esecuzione?”

Ellessandar si volse a guardare nella direzione presa dai due figli sacri che, nel frattempo, stavano prendendo la via delle prigioni e, annuendo glaciale, ringhiò: “Sì.”

***

Rannicchiato in un angolo della cella, dove era stato rinchiuso ormai da diverse ore, il mento tremante di paura e la certezza di essere ormai prossimo alla fine, Korissar sobbalzò spaventato e strillò, quando vide entrare due figure che avrebbe preferito non rivedere mai.

Rannyl e Kalia apparivano vendicativi come un covo di scorpioni irritati, e le loro daghe snudate non preannunciavano nulla di buono.

Quando poi udì sopraggiungere la principessa Naell, si angustiò ancor di più.

Fu però la vista del suo lupo, apparentemente incolume pur se sporco copiosamente di sangue e terriccio, che lo mandò definitivamente al tappeto.

Ylar ringhiò al suo indirizzo mentre Korissar, con occhi sgranati e sconvolti, lo fissò terrorizzato prima di gracchiare: “Eri morto! Eri morto! Ti ho visto!”

“I lupi sono molto più forti di quanto tu non creda, vecchio” gli sibilò contro Rannyl, stringendo i denti fin quasi a farsi male.

Korissar mosse febbrilmente gli occhietti folli dall’uno all’altro volto, evitando di proposito il muso del lupo puntato contro di lui e, con mani tremanti, cercò di coprirsi per ripararsi dai loro sguardi accusatori.

“Era morto… morto…” continuò a ripetere il ministro, muovendosi sul pavimento come se avesse voluto scomparire.

Naell era così disgustata da quell’uomo che non riuscì neppure a trovare dentro di sé la rabbia necessaria per emettere a voce la condanna ma Ellessandar, dietro di lei, dichiarò con voce atona e fredda: “Principe Rannyl, vi concedo testé di porre fine all’esistenza di questo traditore della patria e di farlo in modo che, prima che l’ultimo sospiro sopraggiunga, egli abbia compreso perfettamente cosa abbia voluto dire mettersi contro i regni di Enerios e Akantar.”

Rannyl sogghignò all’indirizzo del principe, gli occhi d’ambra che mandavano lampi e, nell’annuire con profonda gratitudine, il giovane mormorò: “Sarà un vero onore portare a compimento questo ordine, Vostra Altezza. Vi chiedo solo di concedere alla mia fida amica Kalia il medesimo piacere.”

“Così sia” assentì Ellessandar prima di afferrare Naell per le spalle e trascinarla via dalla cella, mentre Kalia e Rannyl si avvicinavano minacciosi al ministro del commercio.

Restia ad allontanarsi, Naell lo fissò male e replicò: “Perché mi stai portando via? So cos’è il sangue e…”

Il primo grido giunse spettrale dalla cella ed Ellessandar, torvo in viso, le confidò: “Scommetto quel che vuoi che avresti incubi per mesi interi, sapendo cosa può fare tuo cugino. Credimi, io ho visto Enyl all’opera quando era veramente infuriata, e non penso vorresti essere testimone della stessa furia.”

Naell impallidì leggermente a quelle parole e, mentre le urla si facevano sempre più alte e isteriche, Ellessandar aggiunse lapidario: “Considera solo questo, Naell. Un corpo umano può resistere ore a una tortura ben congegnata, e credo che nessuno dei due lascerà scorrere invano il tempo che ci separa dall’arrivo di re Kevan. Dico bene, Ylar?”

Il lupo abbaiò una volta e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo alla cella poco lontana, si strusciò contro la gamba della padrona come per invogliarla ad allontanarsi in fretta.

Con il suono delle urla di Korissar nelle orecchie, Naell risalì le scale di pietra assieme a Ellessandar e, quando finalmente si trovò di nuovo all’aperto a respirare l’aria frizzante del primo mattino, si chiese come sarebbero tornati alla luce i due suoi compagni di viaggio.

Forse, Ellessandar aveva fatto bene ad allontanarla da quello scempio.

“Manca poco, ormai” mormorò roco Ellessandar, osservando le ombre lunghe degli alberi nel giardino.

“Secondo quel che dice Rannyl, dovrebber…” iniziò col dire lei, prima di udire le grida concitate e meravigliate delle guardie di ronda sulle mura.

Preoccupato, Ellessandar si mise a correre in quella direzione, subito tallonato da Naell Ylar e, dopo aver percorso a spron battuto il giardino, si lanciò su per la scala che conduceva ai camminamenti.

Raggiunti i suoi soldati, il principe dovette però coprirsi il viso con un braccio per non rimanere accecato dalla luce proveniente dal centro della città e, confuso, si chiese cosa stesse succedendo.

“Mio signore, cos’è?” mormorò preoccupata una delle guardie, schermandosi la vista con uno scudo.

“Enyl?” domandò suo malgrado affascinata Naell, riuscendo a fatica a mantenere lo sguardo sulla città.

“La luce proviene dal tempio, quindi penso sia proprio lei” assentì Ellessandar, pur non essendone certo.

Pareva di veder sorgere il sole, ma la direzione era completamente sbagliata e la luminosità molto più forte, più vivida.

Poteva solo immaginare come dovesse apparire da vicino e, in cuor suo, sperò che tale splendore e forza potessero bastare per proteggerla dal male che si stava avvicinando a tutti loro.

“E’ pronta” dichiarò all’improvviso dietro di loro Rannyl.

Sobbalzando per la sorpresa e la paura, Naell lo fissò sconcertata, chiedendosi stupidamente perché fosse già lì, visto che aveva desiderato che Korissar patisse per ore e ore dolori atroci.

Il corpo del cugino, però, era interamente ricoperto di sangue scarlatto, che ne macchiava i vestiti e il viso, così come Kalia che, ferma al suo fianco, appariva pronta a fronteggiare un esercito intero, forte della sua sola daga.

In qualche modo, lo avevano fatto soffrire parecchio, ma la loro presenza sui camminamenti la lasciava comunque perplessa.

I soldati si guardarono bene dal chiedere loro il perché di quella macabra esibizione ed Ellessandar, torvo in viso, domandò loro: “Vi siete stancati prima del tempo?”

“E’ morto di paura” ringhiò indispettito Rannyl. “Non ho neppure fatto in tempo a recidere la metà dei nervi che avevo intenzione di tagliare. Un vero spreco di energie.”

“Rannyl!” esalò sbalordita Naell.

Il giovane la fissò senza realmente vederla e la principessa comprese che, in quel momento, la freoha doveva scorrere così copiosa nel suo corpo.

La misericordia era ben lungi da lui, in quei momenti di foga animale.

Ora, Rannyl era solo una perfetta macchina da guerra, con in mente un solo obiettivo. Uccidere il nemico, a qualsiasi costo.

Kalia, accanto a lui, gli strinse una mano con forza e, osservando al pari di Rannyl l’immensa luce in movimento all’interno della città, dichiarò: “E’ la più forte tra le figlie sacre. Riuscirà.”

“Non da sola, però” replicò Rannyl, sorprendendo tutti. “Dovremo circondare il tempio con un numero di persone sufficienti a formare un cerchio compatto. Al momento opportuno, Enyl mi dirà cosa fare ma, più di ogni altra cosa, è vitale che questo cerchio non venga mai spezzato.”

“E non lo sarà, te lo prometto. Parlerò subito con i miei genitori per radunare il maggior numero di persone al tempio di Soanes e, nel frattempo, predisporrò una linea di difesa per proteggerci quando saremo lì” gli promise Ellessandar, poggiando una mano sulla sua spalla.

“Sarai con noi anche tu?” esalò Rannyl, vagamente sorpreso.

“Non ho bisogno della gloria in battaglia, Ran. Preferisco essere d’aiuto, per quel che potrò, a Enyl” gli sorrise benevolo il principe, prima di correre dabbasso per predisporre quanto appena detto.

“Ci sarò anch’io, al tempio” asserì Naell, tenace.

“Bene” si limitò a dire Rannyl, senza perdere di vista l’immensa luminosità della sorella.

La Luce camminava per Yskandar.

Sperava soltanto che le Tenebre non compissero gli stessi passi.

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Capitolo 16
*** 16. ***


 

●●16●●

 

  

 

 

Kennadarya sorrise spontaneamente nel risvegliarsi poco dopo l’alba, quando ormai le mura difensive di Yskandar erano visibili, e il raggiungimento dei suoi scopi si faceva di ora in ora sempre più vicino.

Avvertiva sulla pelle il potere risvegliato della gemella bianca e, sulla lingua, pregustava già il momento in cui avrebbe sorseggiato il sangue stillato dal suo giovane e puro cuore di Luce.

Sarebbe stato un piacere così immenso che dubitava avrebbe mai potuto eguagliare, in futuro, un simile godimento.

Ugualmente, si sarebbe goduta ogni attimo, finché la Luce e le Tenebre si sarebbero fuse assieme nel suo corpo, e lei avrebbe potuto divenire la padrona di ogni cosa, di ogni Regno.

Avrebbe dimostrato al padre la sua forza e il suo potere e, alla fine, si sarebbe impadronita del suo Reame Immortale come di quello di suo fratello.

Sulle sue mani lorde di sangue avrebbe retto gli scettri del Cosmo e nulla, neppure Caos che l’aveva per primo voluta in quel mondo, avrebbe potuto opporsi al suo volere.

Sarebbe stata lei la padrona di ogni cosa. L’Universo sarebbe stato suo per l’eternità.

“Già sveglia, Kennadarya?” mormorò a poca distanza da lei Kevan, poggiandosi su un gomito mentre, sornione, un lento sorriso si dipinse sul suo viso.

La regina dormiva ancora saporitamente accanto a lui, avvolta da strati su strati di seta purissima e del tutto ignara del sorriso venefico che Kennadarya le lanciò.

Quella notte l’aveva stordita con la sua magia per poter godere del corpo del marito ma la sua presenza, ormai, l’aveva stancata. L’aveva risparmiata fino a quel momento solo per non turbare l’esercito, da sempre affezionato a lei e alla sua millenaria famiglia.

Una volta che tutto fosse stato in mano sua, la regina di Nellassat sarebbe stata la prima di una lunga serie di persone che avrebbe eliminato.

Kevan seguì lo sguardo della strega e ghignò divertito, asserendo: “L’hai davvero tramortita. Dorme saporitamente.”

“Volevo essere sicura che non si svegliasse, disturbandoci. Allora, avrei davvero potuto farle molto male.”

Lentamente, Kennadarya si sollevò in ginocchio tra le coltri setose della loro immensa portantina – chiusa in quel momento da pesanti panneggi – e, nell’avvolgere il suo corpo nudo con una tunica scura dai pesanti ricami rosso sangue, sorrise brevemente nell’osservare l’aria lasciva di Kevan.

Sapeva quanto ancora bramasse il suo corpo, ma in quel momento non voleva dedicare la sua attenzione alle pratiche amorose, quanto piuttosto alla sua nemica.

A quanto pareva, aveva raccolto nel suo umano corpo ben più energie di quanto avesse in un primo tempo ritenuto possibile.

Sarebbe stato ancor più interessante attingere a quell’enorme fonte di potere.

***

Nell’attraccare a uno dei tanti moli del porto di Ylleru, lo sguardo puntato verso la deserta darsena, Ruak si chiese turbato cosa avesse svuotato a quel modo il polo commerciale più importante di Akantar.

Nave dopo nave, l’esercito di Enerios sbarcò senza problemi quando il sole fece capolino oltre la linea dell’orizzonte e, nell’assestarsi alla testa del gruppo di soldati – che contava quasi tremila uomini armati di tutto punto – Ruak diede l’ordine di partire alla volta della capitale.

Aken ed Eikhe, alla testa dell’esercito assieme al re, seguiti a breve distanza da Antalion, Liana, Staryn e Coryn – che aveva preferito unirsi a loro, piuttosto che attendere l’arresto del padre, a Rajana – lanciarono sguardi ugualmente dubbiosi al desertico paese di mare.

Le case, completamente chiuse, apparivano come abbandonate frettolosamente mentre gli avamposti militari, del tutto privi di guardie alla porta, sembravano essere state lasciati di gran carriera e del tutto sguarniti.

Era più che evidente che l’intero complesso portuale era stato svuotato per un motivo più che grave e…

Ansando di colpo, e attirando per diretta conseguenza l’attenzione dell’intera famiglia, Eikhe si coprì il cuore con una mano prima di volgere lo sguardo in direzione del figlio maggiore, pallido al pari suo e con gli occhi sgranati per l’orrore.

“Tesoro, cosa…” borbottò Aken, prima di sgranare lentamente gli occhi quando, in direzione della lontana città di Yskandar, un immenso bagliore rivaleggiò con quello del sole all’alba.

Dall’intero corpo d’armata si levarono cori di stupore misti ad apprensione e Ruak, fissando quello spettacolo d’immenso splendore con uguale confusione, esalò: “Quale stregoneria è mai questa?”

Eikhe si aggrappò al braccio proteso del marito, ansando a fatica e, con voce rotta dall’ansia, gracchiò: “E’ successo qualcosa… i gemelli…”

Aken sorresse la moglie pallida mentre Antalion, aiutato dalla compagna, esalava con altrettanta preoccupazione: “Enyl e Ran sono… dèi, qualcosa non va!”

Ruak non perse altro tempo.

Levata la spada in aria, urlò: “Al galoppo, miei soldati. Non è più tempo di indugiare. C’è bisogno di noi a Yskandar!”

Un urlo collettivo si levò tra i soldati a cavallo e, mentre Aken sollevava quasi di peso Eikhe dalla sella per portarla sul proprio destriero, Liana afferrò le redini dello stallone di Antalion e, granitica, esclamò: “Non aspettiamo oltre! Se hanno avuto questa reazione, non oso immaginare cosa troveremo in città!”

Nessuno se la sentì di smentirla e, come un sol uomo, l’esercito di Enerios si mosse verso la città, mentre la luce all’orizzonte si faceva sempre più luminosa e l’ansia sempre più fremente nei cuori di tutti.

***

La rabbia gorgogliava in lei come un fuoco senza freno e, mentre osservava le mura di Yskandar senza trovarvi issato lo stendardo di Nellassat, Kennadarya si chiese fuggevolmente cosa fosse andato storto.

Cosa, in nome di tutti gli dèi, aveva portato gli uomini di Kevan a non rispettare gli ordini ricevuti?!

Scorgere la figura solitaria della gemella bianca dinanzi alle porte principali della città, la fece infuriare ancora di più.

Cosa ci faceva, lì, priva delle catene che aveva inviato ai suoi seguaci e del tutto libera di usare il suo potere?

L’aveva immaginata distesa su un letto di nuda roccia, asservita al suo potere e del tutto priva di difese, circonfusa della Luce che lei tanto agognava, ma inerme dinanzi a lei e alla sua degna vittoria.

Invece eccola là, fulgida come una dea e priva di controllo alcuno da parte dei suoi servitori.

Che fine avevano fatto Bramann e Korissar? Perché l’avevano lasciata libera di agire come voleva?

Li avrebbe spellati vivi, una volta ottenuta la vittoria su quella sciocca ragazzina, e si sarebbe abbeverata del loro sangue solo per diletto.

Scrutando l’orizzonte al pari di Kennadarya, lo sguardo duro e seccato, Kevan borbottò: “Che diamine sta succedendo? Perché i miei soldati non presidiano le porte?”

“Poco importa. Combatterò con lei per ottenere il potere e, prima di ucciderla, la darò a te perché tu ti diverta. Mi sgranchirò solo un po’ le mani, cambia solo questo. Tu, nel frattempo, prendi la città come avrebbero dovuto fare i tuoi mercenari, e togli la corona a Erenokt” decretò Kennadarya, scrollando nervosamente le spalle.

“Lasciamela intera, però… non mi piace sollazzarmi con donne menomate” ridacchiò Kevan, balzando dalla portantina per allontanarsi e parlare con il suo generale.

“Vedrò, se potrò…” mormorò tra sé Kennadarya, ghignando nell’osservare la luce brillante proveniente dal corpo della fanciulla che contrastava, sola, l’intero esercito di Nellassat.

***

Giungendo di corsa dalle mura di cinta rivolte verso nord, una delle vedette delle torri di guardia si diresse verso il principe Ellessandar.

Oltrepassato lo sbarramento di soldati che circondavano il tempio di Soanes, mormorò ansante: “Porto notizie, mio principe. L’esercito di Nellassat si trova dinanzi alle nostre porte, e la principessa Enyl è innanzi alle loro forze. Per il momento, non si è ancora mosso nessuno.”
  Pur rabbrividendo all’idea di saperla da sola, là fuori, senza alcuna difesa se non il potere della Luce – di cui però non conosceva la vera entità – Ellessandar annuì lesto.

Dopo avergli ordinato di riprendere il suo posto, si volse in direzione del padre e ripeté per tutti loro ciò che aveva appena saputo.

Le quasi cento persone riunite attorno al tempio, componenti il cerchio che avrebbe funto da cassa di risonanza per Enyl, ristettero attorno ai reali per essere messi al corrente dell’attuale situazione alle porte quando, verso ovest, si udirono in lontananza i corni dalle torrette di vedetta.

Ellessandar, già in ansia per quella situazione pericolosa, si volse astioso al pari degli altri in quella direzione mentre Naell, accorrendo al suo fianco, gli domandò nervosamente: “Cosa significa quel suono?”

“Non ne ho la più pallida idea” mormorò lui, prima di aprirsi in un sorriso speranzoso quando, dal fondo del lungo viale che conduceva alle porte occidentali, giunse la cavalleria di Enerios in grande spolvero.

I loro stendardi con il lupo nero erano in bella vista, tenuti saldamente da una schiera di soldati e accompagnati da diversi cavalieri akantaryan.

Naell esplose in un gridolino di pura gioia al solo vederli mentre Rannyl, stupito non meno degli altri, lanciò un grido di battaglia non appena incrociò lo sguardo del fratello maggiore che, in un balzo, scese dal cavallo per raggiungerlo.

Ran e Antalion si strinsero in un abbraccio robusto a metà strada mentre Ruak, al pari degli altri, bloccò la propria cavalcatura di fronte al gruppo di persone raccolto nei pressi del tempio.

Vi furono abbracci reciproci e suoni di risate inframmezzate a singhiozzi di sollievo mentre, oltre le mura della città, la luce abbacinante aumentava di intensità, rischiarando il cielo.

Fu a quel punto che Eikhe, scrutando preoccupata il figlio minore, domandò ansiosa: “E’ Enyl, vero?”

Lui si limitò ad annuire e Ruak, turbato, chiese spiegazioni in merito.

Non dovendo più mantenere il segreto, Rannyl espose tutto ciò che sapeva agli sconvolti presenti e, quando accennò al ruolo di Enyl in tutto ciò, Eikhe si aggrappò al marito, temendo di non poter sopportare oltre.

Aken la avvolse alla vita mentre, con occhi sgranati e terrorizzati, ascoltava il figlio minore con espressione sempre più incredula.

Hevos, Haaron, la Luce e le Tenebre, i loro figli… tutto sembrava così assurdo, così irreale!

Ritta al fianco di Rannyl, Kalia gli batté comprensiva una mano sulla spalla per dargli coraggio e lui, sorridendole a mezzo, terminò il suo sconvolgente racconto.

“Il nostro compito è rimanere accanto al tempio a ogni costo, anche se l’esercito di Nellassat dovesse penetrare all’interno della città. Enyl avrà bisogno di noi, pur se non so dire quando, o in che modo.”

Ruak annuì lesto prima di volgere lo sguardo in direzione del suo comandante, riferendogli sommariamente ciò che avrebbe dovuto fare di lì in poi.

Non c’era tempo per porre ulteriori domande, chiedersi il perché di quei silenzi o tentare di trovare soluzioni alternative.

Era chiaro che, pur con tutto il suo esercito, ben poco avrebbe potuto fare per la nipote, se non attenersi al piano che lei e il gemello avevano elaborato.

Eikhe e Aken, lasciando che all’esercito badasse Ruak, abbracciarono a turno il figlio minore, lo cullarono gentilmente tra le loro braccia mentre il giovane, scosso dai singhiozzi, mormorava spiacente: “Non potevo dirvi nulla… scusatemi. Hevos era stato irremovibile, su questo.”

“Ci assicurò che, dicendolo, avremmo alterato gli equilibri del Fato” intervenne Naell, avvicinandosi agli zii con espressione contrita.

“Tu sapevi?” esalò Eikhe, sgranando gli occhi per la sorpresa.

“Sapevo solo che saremmo arrivati a un punto di svolta epocale. Ma non avevo idea dei poteri di Enyl e Rannyl. L’ho scoperto solo pochi giorni addietro” le spiegò Naell, la mano ancora stretta in quella di Ellessandar, che le sorrise comprensivo.

“Se la principessa Enyl è in grado di manovrare le energie della Luce, è evidente che il libro di mio padre servirà a incanalare quelle delle Tenebre. Non possono esservi altre spiegazioni” asserì a un certo punto Coryn che, fino a quel momento, era rimasto accanto ai cavalieri per non inserirsi in quella riunione di famiglia.

Naell trovò la forza di guardarlo solo in quel momento, turbata dalle sue parole come dalla sua presenza ed Ellessandar, quasi inconsapevolmente, le cinse la vita con un braccio, possessivo.

Coryn se ne rese subito conto e, ritrovandosi a sorridere, si premurò di dire: “Non dovete temere nulla da me, principe, nonostante quello che può avervi detto in merito Naell.”

Vagamente confuso, Ellessandar fissò dubbioso il dinoccolato giovane dalla bruna capigliatura che, sorridendo cordiale a entrambi, spiegò loro: “Non sono mai stato interessato a prendervi in moglie, Naell, pur se mio padre ha fatto di tutto per esigere il contrario da voi e da vostro padre. Avrei dovuto affrontare prima il problema e parlare per entrambi, e di questo vi chiedo scusa ma, a quanto vedo, voi avete già trovato un modo più che eccellente per evitare questo matrimonio.”

La principessa, allora, abbozzò un sorriso più tranquillo e chiosò: “Mi preoccupavo per nulla, allora. E anche io avrei potuto parlarvi francamente, Coryn, invece di correre qua e là pur di evitarvi.”

“Ci siamo ingannati entrambi, Vostra Altezza.”

“E i nobili di Enerios non ne saranno scontenti? La tua dote finirà qui ad Akantar, dopotutto…” ironizzò sarcastico Ellessandar, facendo sorridere sia Coryn che Naell.

“Da quel che so, re Ruak, già prima della mia visita a Rajana, aveva trovato un cavillo legale per evitare a Naell di sposarmi, pur se questo avrebbe voluto dire toglierle il titolo di principessa” intervenne Coryn, sorridendo a entrambi.

“Mi sarebbe importato ben poco” chiosò Naell, pur sentendosi estremamente felice all’idea che il padre si fosse dato così tanta pena per trovare un modo di salvarla dall’inevitabile.

Nel notarla in compagnia di Ellessandar, Ruak si allontanò dal comandante dei suoi cavalieri per fissare la coppia con estrema soddisfazione, prima di dichiarare: “A cosa devo l’onore di vederti finalmente rinsavita, figlia?”

Pur non volendo, Naell arrossì terribilmente ed Ellessandar, sorridendo benevolo a Ruak, ammise: “Abbiamo sbagliato entrambi, creando questa situazione insostenibile, e me spiace. Avremmo dovuto avere maggior fiducia nei nostri sentimenti.”

Annuendo più volte, Ruak diede una pacca sulla spalla al principe, comprensivo, e asserì: “Non ho mai voluto interferire, riguardo a te, perché sapevo quanto Naell tenesse alla vostra amicizia, ma non potevo neppure impedire ai nobili di Enerios di vederla in sposa a qualcuno di degno…  e danaroso. Speravo davvero che vi poteste chiarire prima dell’inevitabile e, anche grazie a Coryn, abbiamo risolto questo annoso problema prima di crearne uno più grande.”

“Ho fatto ben poco, Maestà” replicò Coryn, schernendosi.

Naell dissentì e, allungando una mano verso di lui, gli sorrise e replicò: “Non è vero, Coryn. Avete tentato di raddrizzare un torto, e di questo vi sarò eternamente grata.”

Saremo” precisò Ellessandar, ammiccando a Naell.

“Non ho compreso l’accenno a vostro padre, però…” si premurò di dire Naell, a quel punto.

La gioia sul viso di Coryn svanì presto e, succintamente, spiegò loro ciò che era venuto a sapere e ciò che era giunto a Nellassat per mano di suo padre.

L’accenno all’alchimia oscura non stupì affatto Ellessandar, che già ne aveva parlato ampiamente con Enyl ed era stato testimone, grazie alla catena magica che aveva tenuto imprigionato la ragazza, del suo potere venefico.

Quando Coryn terminò il racconto, lo sguardo torvo e pieno di rivalsa, sia Naell che Ellessandar si guardarono preoccupati, ma fu il tono di Rannyl a raggelarli veramente.

Torvo in viso e gelido come una notte d’inverno, dichiarò: “Ci siamo. Kennadarya è pronta.”

***

La bellezza algida di Kennadarya strideva con il terrificante turbinio di malvagità che la circondava, ed Enyl ne fu disgustata oltremodo.

Sapeva bene che le Tenebre non erano sinonimo di malvagità, ma Kennadarya aveva sfruttato il suo retaggio divino per inglobare quelle forze e traviarle a suo piacimento, facendo in modo che rispondessero ai suoi ordini.

Un corvo sorvolò la spianata di fronte a Yskandar e la donna canuta rise fiera, esclamando: “Mio padre giunge per onorare la mia vittoria!”

“E’ ben lungi dall’essere la verità, Kennadarya, poiché io sono qui dinanzi a te, con tutta l’intenzione di rispedire le Tenebre laddove dovrebbero stare” replicò con forza Enyl, sentendo dietro di sé, proveniente dalle mura, le grida di incitamento di My-chan.

Enyl sorrise all’idea di saperla lì.

Non ne aveva voluto sapere di allontanarsi, per quanto quel luogo fosse molto più pericoloso di altri, in quel momento.

Il viso perfetto di Kennadarya si trasfigurò d’ira e, sibilando come un serpente, dichiarò: “Spezzerò sul nascere la tua sicurezza e, nel frattempo, sarai testimone della rovina dei tuoi cari!”

Detto ciò, levò un braccio pallido e ricoperto di tatuaggi curvilinei rossi come il fuoco e neri come la notte.

Le porte delle Tenebre.

Enyl li riconobbe immediatamente come tali e, mentre l’esercito di Nellassat si muoveva come una fiumana indistruttibile verso la città, Kennadarya rise sguaiata e puntò verso di lei la sua falce dalla bianca lama.

“E’ giunto il momento, Ran. Chiudi il cerchio e tieniti pronto. Kennadarya sfrutterà le Tenebre per attaccare Yskandar assieme all’esercito, ne sono certa, perciò noi dovremo erigere una barriera di energia bianca per escludere il suo potere!”

“Dimmi solo cosa devo fare, Enyl” rispose lui mentre, nell’enorme piazzale antistante il tempio, i presenti si unirono mano nella mano per creare il cerchio.

“Resta sempre collegato a me. Le energie di coloro che si trovano lì si combineranno con la Luce che è in me tramite te, così Yskandar sarà protetta dalle Tenebre. All’esercito dovrà pensare qualcun altro, però, perché non posso sprecare energie per fermare anche loro” gli spiegò succintamente Enyl, aggrottando la fronte.

“Mamma e papà sono qui assieme ad An e lo zio… e una buona fetta di esercito di Enerios. Tra i cavalieri dello zio e la fanteria di Ellessandar, non avremo problemi a fermarli” la rassicurò Rannyl, avvertendo senza problemi la gioia di Enyl nel sapere presente anche la famiglia.

“Bene! Ora tieniti pronto, perché avvertirai un contraccolpo!” lo mise in guardia Enyl, un attimo prima di ricevere la prima bordata del potere di Kennadarya.

Insieme, Enyl e Rannyl ansimarono per la sorpresa e Kalia, accanto al ragazzo, strinse maggiormente la presa sulla sua mano mentre Aken, sull’altro lato, fece lo stesso, fissando preoccupato il figlio.

“Tutto bene. Abbiamo iniziato” ringhiò lui mentre, dalle porte della città, iniziarono a levarsi i primi ululati di guerra.

Levate le mani verso il cielo, Enyl scrutò il sole a perpendicolo sulla città e richiamò a sé il potere della Luce da inviare a Rannyl per proteggere Yskandar.

Mentre una coltre di nubi torve e purulente andava ad accumulandosi sopra le loro teste con il chiaro intento di abbattersi sugli akantaryan, la giovane figlia sacra gridò: “Le Tenebre non passeranno!”

Ciò detto, incuneò nella sua mente l’energia per creare la barriera per la città e Rannyl, ringhiando per la tensione non appena iniziò a riceverla, urlò: “Non spezzate il cerchio!”

Le mani vennero serrate mentre, dai corpi dei presenti, scaturì la luce che era il potere di Hevos, il potere della Vita.

Come un ventaglio, si sparse in ogni angolo della città, formando una cupola sopra di essa, come un ombrello protettivo contro le nubi oscure e minacciose.

Kennadarya rise dei suoi sforzi e, tenendo alta la sua falce, iniziò a mormorare antiche malie nella vecchia lingua nera appartenente al regno della Morte.

Quelle parole ricche di odio guizzarono sulla pelle ambrata di Enyl, pizzicandola come mille e più spilli acuminati.

Resistendo a quell’attacco, Enyl aggrottò la fronte non appena vide comparire sopra il capo di Kennadarya la rappresentazione energetica di un corvo dalle nere ali e, furiosa, ringhiò: “Non sei degna di Lui, Kennadarya, e tu lo sai!”

“L’animale guida di mio padre è anche mio, e tu non potrai impedirmi di usare i miei poteri per distruggerti! Tu non sei nulla di fronte a me!” urlò Kennadarya, scagliando contro Enyl l’enorme corvo nero.

***

Il furore della lotta che si stava combattendo in città fu nulla, se paragonata al riverbero di potere che squassò le fondamenta stessa di Yskandar.

Tremando sotto i colpi delle Tenebre, iniziò a riportare i primi traumi di quell’assalto divino.

Notando le crepe sui muri di alcune case limitrofe il tempio, Ellessandar dichiarò turbato: “Non so quanto potrà reggere, la città, di fronte a uno sfoggio simile di potere. I muri possono contenere i terremoti, ma questo? Non so davvero.”

Quando un enorme lupo bianco comparve nel cielo a fronteggiare l’orrendo corvo nero dal becco spalancato, Rannyl sogghignò e dichiarò con forza: “Non credo che Enyl permetterà altri colpi diretti alla città.”

“Dobbiamo solo sperare che la battaglia non giunga fino a qui, altrimenti non so come potremo mantenere saldo il cerchio” mormorò torva Naell, scrutando in lontananza le strade vuote.

I rumori della lotta giungevano dalle alte mura cittadine e, da quel poco che si poteva comprendere, lo scontro era feroce quanto privo di soste.

L’unica speranza, per loro, era che gli arcieri non oltrepassassero lo sbarramento offerto dall’esercito perché, se si fossero avvicinati abbastanza per mirare, nulla avrebbero potuto per fermare i dardi lanciati contro di loro.

***

L’orizzonte appariva funesto e le enormi figure sospese nell’aria erano così imponenti e ricche di magia che persino lì, a miglia e miglia di distanza da Yskandar, al sicuro sulle Isole Arcobaleno, se ne poteva avvertire la furia.

Osservando con occhi sconcertati la battaglia aerea tra le figure di corvo e lupo che, senza esclusione di colpi, si stavano facendo guerra dinanzi alle porte della capitale akantaryan, Norat deglutì a fatica quando un vento prodigioso quanto innaturale colpì le coste dell’isola e, da lì, le pareti del palazzo dove dimorava.

Myllisen, al suo fianco, impallidì visibilmente e, stretta al braccio del marito, gracchiò infelice: “Ma che sta succedendo, laggiù?”

“Di sicuro, nulla di buono e, se proprio vuoi sapere la mia opinione, nulla che vorrei vedere alle porte di casa mia” dichiarò torvo l’uomo, scrutando attentamente il cugino Gherman che, a poca distanza da loro, stava scrutando egualmente teso l’orizzonte in subbuglio.

“E chi lo vorrebbe mai?” esalò Myllisen, turbata.

“Non siete voi due che avete mire su Akantar?” replicò con cupa ironia Norat, fissando con un sarcastico sorriso sia la moglie che il cugino.

Sgranando gli occhi per lo sconcerto, quasi temesse che un simile accenno potesse attirarle addosso le ire dei due immensi concentrati di potere che stavano lottando sopra Yskandar, lei scosse violentemente il capo, replicando: “Assolutamente no! Non ho mai pensato questo! Non voglio averci minimamente a che fare! Con Akantar, con Ellessandar, Naell e chiunque altro si trovi là!”

Ciò detto, corse verso il palazzo per nascondersi all’interno, la lunga chioma svolazzante sulle spalle che emanò il suo dolce profumo fiorato.

Norat ne rise fuggevolmente, avendo già presagito una simile reazione e, nel tornare con lo sguardo allo scontro tra quelle due potenze di innegabile origine divina, chiosò: “Io, fossi in te, non agognerei a conquistare il potere su Akantar. A quanto pare, ci sono forze più potenti di te che già lo desiderano.”

Gherman non disse nulla, lo sguardo sgomento fisso sull’orizzonte purulento e Norat, nel ridere dell’ansia dipinta sul viso del cugino, se ne tornò soddisfatto all’interno del palazzo, celiando: “Non si può sempre avere tutto, nella vita!”

 

 

 
 

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Capitolo 17
*** 17. ***


●●17●●

 

  

 

 

Mai, nella sua breve esistenza, aveva percepito così intensamente la vita che la circondava, il respiro stesso del pianeta, il germogliare e l’appassire, il crescere e il morire di ogni creatura vivente.

Mentre l’enorme lupo bianco combatteva la sua battaglia divina sopra la città, guidato dal suo pensiero e dal suo desiderio di proteggere Yskandar, Enyl percepì dentro di sé ogni cuore pulsante, ogni respiro affannato, ogni grido esultante o di paura.

Ogni morte passò attraverso di lei come un’ombra attraverso il portale che conduceva al regno di Haaron e, solo in quell’istante, comprese fino a che punto fosse sciocco combattere quella battaglia contro le Tenebre.

Le Tenebre non potevano annullare la Luce, come la Luce le Tenebre.

Non erano le Tenebre che lei doveva sconfiggere, ma il male insediatosi nel cuore malato di Kennadarya.

Luce e Tenebre erano tenere compagne dell’infinito, affiancate l’una all’altra dal primo alito di vita fino all’ultimo gorgoglio di morte.

Mai nemiche, ma solerti amanti con un unico scopo ben prefissato; la prosecuzione dell’Universo.

Era il Male, non la Tenebra, la sua nemica.

Non il fiero corvo doveva abbattere, ma la nera nube che aleggiava nel cuore di Kennadarya.

Per arrivare a quell’anima oscurata dal Caos, l’unico modo era penetrare in lei, proprio come la sua cinica nemica desiderava fare.

In nessun altro modo avrebbe potuto toccare quel cuore, poiché la conoscenza alchemica di Kennadarya – ottenuta grazie ai buoni uffici di Alderan e all’uso scellerato del Nero Grimorio di Haaron – la teneva a distanza di sicurezza, impedendole di fatto di toccarla fisicamente.

La strega le aveva inferto ferite che lei non era riuscita a evitare e, per contro, Enyl non era mai riuscita ad avvicinarsi per togliere dal volto della nemica quel sorriso beffardo e irriverente.

Di quel passo, le ferite infettate dal potere nero di Kennadarya, l’avrebbero fatta crollare a terra priva di forze, consentendole di impadronirsi dell’energia della Luce senza opporre alcuna resistenza.

Quel che doveva fare lei, invece, era concederle ciò che voleva, ma alle sue condizioni.

Non vedeva altro modo per sconfiggerla, visto che Luce e Tenebre si equivalevano, e non avrebbero mai potuto annullarsi a vicenda.

Ran, la sua famiglia, Akantar, l’Universo tutto sarebbe stato salvo dalle mire di Kennadarya e la distruzione di ogni cosa sarebbe stata evitata, se lei fosse riuscita nei suoi intenti.

Un lento sorriso le sorse fiero e triste sul volto mentre, con rinnovato vigore, scrutò in lontananza per fissare il suo sguardo sul viso candido e iracondo di Kennadarya.

Le mani levate al cielo e i tatuaggi sulla sua pelle roventi di potere, caricò contro di lei per l’ennesima volta il possente corvo dalle nere ali.

Il bianco lupo parò il colpo con una poderosa zampata, guidato dalla mente di Enyl con abile maestria ma, per l’ennesima volta, il contraccolpo riverberò su di lei, infierendo sulla carne del suo braccio, che stillò sangue rosso e scintillante.

Imprecando tra i denti, Enyl coprì con una mano la nuova ferita e, con il pensiero, raggiunse Rannyl.

Tesa e preoccupata nonostante la certezza delle proprie idee, mormorò nella sua mente: “Quando ti dirò di allontanarti da me, dovrai farlo, senza chiedermi perché.”

“Cos’hai in mente?” ritorse lui, dubbioso.

Enyl poté percepire, tramite la mente del fratello, il caos che regnava nella città, dove le forze alleate di Enerios e Akantar combattevano assieme contro l’esercito di Nellassat.

I rumori le giungevano smorzati, niente più che echi indistinti, ma poteva immaginare senza tema di sbagliare quanta devastazione vi fosse per le strade, quanti morti si sarebbero contati alla fine di quel giorno.

Sperava soltanto di riuscire ad agire correttamente per poter evitare una strage.

“Non importa, ora. Sappi solo che ciò che farò ci garantirà la vittoria, ma tu non dovrai rimanere legato a me. Non appena il collegamento si annullerà, Yskandar sarà in balia del potere scatenato da Kennadarya, per alcuni attimi, perciò preparatevi al terremoto che si protrarrà per diretta conseguenza.”

“Enyl…”

La giovane sorrise mestamente nell’avvertire l’ansia crescente del fratello e la consapevolezza che, con tutta probabilità, non l’avrebbe mai più rivisto.

Nel lapparsi nervosamente le labbra, dichiarò: “Di’ alla mamma e al papà che ho voluto loro un mondo di bene, e ricorda a Naell di non temere l’amore, perché può renderci più forti di quanto una persona non immagini.”

“Enyl! Che vuoi fare?!” sbraitò allora Rannyl, stringendo a forza le mani di Kalia e Aken che, turbati, lo fissarono in ansia.

“Ti ho sempre amato, fratello mio, mio cuore… il Fato ci ha voluti separati alla nascita, ma siamo e saremo sempre le due parti di un’unica entità. Ricordalo, io sarò sempre con teasserì con veemenza Enyl, prima di urlare con forza: “Ricordati, allontanati da me quando te lo dirò!”

Rannyl non poté far altro che annuire e, con il volto inondato dalle lacrime, abbandonò  temporaneamente il collegamento con la mente di Enyl.

Tutt’intorno a lui, nel frattempo, gli interrogativi sui volti dei presenti si addensarono come nubi nel cielo.

Con voce roca e attraversata da un dolore che gli feriva l’animo, Ran gorgogliò: “Al mio segnale, spezzate il cerchio e rifugiatevi lontano dai palazzi che ci circondano. Lo scudo di Luce si spezzerà, e saremo preda del contraccolpo esercitato dall’energia delle Tenebre.”

“Perché? Cosa vuol fare, Enyl?” protestò accoratamente Aken, sgranando lentamente gli occhi per l’orrore.

Il figlio lo fissò, spiacente e ferito e, nello scuotere il capo, asserì: “Si consegnerà a lei. Da quel poco che ho potuto comprendere prima di allontanarmi da Enyl, la sua idea è questa.”

Sia Eikhe che Aken emisero identici singhiozzi disperati mentre Kalia, al fianco di Rannyl, sibilò: “E’ impazzita?! Richiamala e dille di non fare follie!”

Rannyl raccolse tutta la sua forza per risponderle e, con il cuore lacerato dal dubbio, ammise: “Anche secondo me è folle, ma capisco perché voglia tentare. Luce e Tenebre non potranno mai soccombere l’una all’altra, perché sono le due esatte parti di un insieme. Quel che intende fare Enyl si basa su un’altra teoria.”

“E quale?” sbottò Kalia, incredula.

***

Le Tenebre non erano mai state il reale problema.

Certo, Kennadarya, in quanto figlia di Haaron, poteva sfruttarle per tenerla a bada con maggiore successo di quanto non era in grado di fare lei, che agiva solo guidata dall’istinto, ma il problema risiedeva altrove.

Nel suo cuore.

Quel cuore che, per anni, era stato invaso dall’odio che Caos stesso aveva generato per asservirla ai suoi ordini.

Quell’odio galleggiava sinuoso e spettrale attorno a Kennadarya, brillava feroce come le zanne di una fiera e la rendeva bellissima e terrificante al tempo stesso.

Era l’odio a guidarla, e le Tenebre erano il suo strumento.

Enyl non doveva puntare sulle Tenebre, ma sull’odio. Era Caos che doveva sconfiggere, non la Tenebra di Haaron.

“Il tuo pensiero è corretto, fanciulla.”

Quella voce estranea riverberò nel suo cervello, mentre Enyl raccoglieva le forze per richiamare il suo lupo metapsichico e riprendere dentro di sé l’energia dilagante e mostruosa della Luce.

Sobbalzando per la sorpresa, la giovane figlia sacra si guardò scioccamente attorno, quasi aspettandosi di veder comparire qualche mistica figura sul campo di battaglia.

Nella sua mente sgomenta, esalò: “Equilibrio?!”

La voce non concesse risposte, ma Enyl non ebbe bisogno di conferme sulla sua identità, poiché conosceva a menadito sia la voce di Haaron che quella di Hevos.

Il tono da basso tenore che aveva udito nella sua mente, non apparteneva a nessuno di loro.

Nessun altro, a parte Equilibrio, avrebbe avuto motivo di mettersi in contatto con lei, che era innanzitutto creatura asservita a Lui e alla Luce.

Con un sorriso di rinnovata speranza, tornò a contattare il fratello per confermare la sua decisione di eliminare il lupo di Luce dalla contesa e, non appena ne sfiorò la mente invasa dal dolore, mormorò: “E’ il tempo.”

“Noi siamo pronti.”

“E io con te. Addio, fratello mio. Abbi cura di te.”

“Non aspettarti che io dica lo stesso, Enyl… non lo farò mai! Tu tornerai da me sana e salva!”

Enyl sorrise, comprendendo più che bene il terrore del fratello, perché era anche il proprio.

Ugualmente, interruppe il contatto e richiamò a sé le energie dello scudo e quelle del lupo che, come due onde di piena ben distinte, si rifugiarono nel suo corpo umano e divino, facendola nuovamente rifulgere come una supernova.

Il cuore accelerò per alcuni attimi, scosso da quelle due onde dirompenti di energia.

Avvertendo un bruciore quasi insopportabile al capo, Enyl comprese che, presto o tardi, il suo corpo umano avrebbe ceduto sotto quella dirompente forza, creata per gli dèi.

Il suo corpo di carne e sangue non poteva reggere oltre quello sfoggio di potere e, anche se fosse mai giunta a prendere quella drastica decisione, dubitava che sarebbe ugualmente sopravvissuta, dopo una simile prova.

“Non c’era altro modo.”

Nuovamente, la voce di Equilibrio riverberò come una campana nella sua scatola cranica ed Enyl, annuendo impercettibilmente, asserì pacata: “Nessun dio potrebbe combattere una simile battaglia, o l’Universo stesso sarebbe distrutto, vero?”

“Così è.”

“Ma un umano, circonfuso di questo potere, può essere un tramite valido perché non può sfruttare appieno questa energia e, di conseguenza, non rischia di distruggere ogni cosa, pur desiderandolo. Sì, ha senso.”

“Così è” ripeté Equilibrio, scevro di risposte.

Enyl allora sorrise e chiosò: “Immagino tu non possa darmi molte risposte, o Caos dovrebbe aiutare a sua volta Kennadarya, vero?”

Equilibrio non disse nulla, ma Enyl reputò quel silenzio come un assenso.

A ogni buon conto, non aveva altre idee da sfoderare perciò, in un modo o nell’altro, avrebbe fatto ciò che si era prefissata.

Con la scomparsa improvvisa del bianco lupo, il corvo nero si abbatté senza freni su Yskandar e, come previsto, un violento terremoto squassò l’intera spianata che circondava la città.

Mentre i membri del cerchio si allontanavano dal tempio di Soanes come ordinato, lo schieramento di soldati preposti alla loro difesa li seguirono lesti per non lasciar sguarnito nessun fronte.

Le case tremarono, i palazzi ondeggiarono, alcuni fienili cedettero di schianto, crollando fragorosamente in un mare di paglia, legno e pietre.

Diverse persone rimasero ferite in quel contraccolpo di energia ma Yskandar, nonostante tutto, resse.

Respirando a pieni polmoni l’energia della vita che, contro a ogni aspettativa, ancora vibrava tra le vie della città, Enyl si assicurò che coloro che amava stessero bene.

Quando infine riuscì a trovare coloro per cui il suo cuore palpitava ansioso, poté lasciarsi andare a un sospiro di sollievo.

Rannyl, Kalia, suo padre e sua madre erano assieme, poco lontano Antalion teneva stretti a sé sia lo zio che la compagna e, nei pressi della fontana della piazza principale, Naell era tra le braccia di Ellessandar, affiancati da Erenokt ed Elmassary.

Tutti gli altri componenti il cerchio di energia si erano salvati, e così pure i loro protettori.

L’esercito combatteva ancora, nonostante la scossa tellurica avesse messo in agitazione più di un cuore impavido.

Ora era il suo turno. Anche il suo cuore avrebbe dovuto reggere alla prova suprema.

Fissando a occhi sgranati il cielo ormai sgombro dell’incombente figura, Kennadarya si lasciò andare a una risata soddisfatta, quando fu certa che il lupo era effettivamente scomparso dal campo di battaglia.

Scrutando vittoriosa la gemella bianca che, immobile e fiera, teneva le braccia toniche ferme lungo i fianchi, la strega sogghignò deliziata, già pregustando sulla lingua il suo dolce sapore.

I rumori della battaglia, all’interno di Yskandar, raggiungevano il loro personale campo di scontro grazie al vento favorevole, ma a Kennadarya poco importava ciò che stava avvenendo entro quelle mura.

Il mondo degli uomini, presto sarebbe stato in mano sua; ciò che quegli uomini e quelle donne stavano facendo per portare avanti i loro rispettivi desideri, sarebbe contato ben poco, una volta ottenuto il potere della Luce.

Richiamando a sua volta il corvo nero, ormai del tutto inutile per ciò che aveva intenzione di fare, Kennadarya strinse forte la sua falce nivea e assottigliò le iridi di fuoco per immagazzinare dentro di sé l’immagine della sua nemica ormai sconfitta.

Sarebbe stato un piacere ripensare a lei, inerme e ai suoi piedi, nelle dolci serate deliziate dal corpo caldo del principe Ellessandar stretto al suo, o nei gelidi momenti passati a falciare vite per diletto.

Sììì, le sarebbe piaciuto! Sarebbe stato il suo ricordo più piacevole!

Re Kevan, tutt’altro che lieto da quell’interruzione degli attacchi portati avanti dal corvo di Kennadarya, fissò irritato la sua strega prima di ordinarle: “Da’ il colpo di grazia alla città! Ora che lei è inerme, puoi farlo!”

Kennadarya lo fissò disgustata – non aveva gradito la sua scelta di rimanere nella spianata a godersi lo spettacolo – , squadrandolo da capo a piedi nel suo ricco abito ricamato, levò una mano verso di lui per allontanare da sé quel fastidio di poco conto.

Come avesse fatto a sopportarlo per tutto quel tempo, era impossibile da comprendere.

Certo, senza il suo appoggio, non avrebbe potuto continuare i suoi studi, né avere un luogo dove sopravvivere nei lunghi anni che l’avevano condotta fino a lì.

Ciò, però, non voleva dire che quell’insulso omuncolo avesse il diritto di rabberciarla a quel modo!

Era stato un buon compagno di letto, non poteva certo negarlo, e le aveva insegnato a godere appieno non solo del suo corpo, ma anche di quello del suo partner.

Da quel momento in poi, però, non avrebbe avuto bisogno del suo intervento, per allietare le sue notti.

La sua interferenza le aveva reso chiaro quanto Kevan pensasse a lei come a una sua mera proprietà, una donna da comandare, non da seguire, e questo faceva di lui, in automatico, solo carne da macello.

Il suo tempo era giunto e, poiché si era permesso di parlare in tono così insofferente, non gli sarebbe spettata nessuna ricompensa, alla fine del suo scontro con la gemella bianca.

Avrebbe messo sul trono di Akantar qualcun altro. Doveva solo scegliere il suo sostituto tra coloro che le erano stati veramente fedeli.

Kevan, ormai, era solo un altro essere da eliminare dalla lista. Nulla più di questo.

Avrebbe seguito la stessa sorte della sua frigida, insulsa mogliettina.

Con gesto sgarbato, lo spinse lontano da sé, scagliandolo ben oltre la linea dei carri fermi nella prossimità del campo di battaglia.

Dopo averlo osservato con fastidio per un altro secondo, distolse lo sguardo per tornare a scrutare il volto torvo della sua nemica.

Sperava davvero che quel colpo fosse bastato per finirlo, perché non aveva nessunissima intenzione di perdere altro tempo con un essere spregevole come lui.

Nessuno le diceva come agire, né doveva farle perdere tempo inutilmente.

Puntata la falce nivea in direzione di Enyl, la sua mente ora totalmente concentrata sulla gemella bianca, Kennadarya esclamò: “Ti arrendi, dunque?”

“Mi sei superiore, è evidente. Per quanto io e te possiamo batterci sul piano spirituale con l’utilizzo dei nostri animali guida, io non potrò mai avvicinarmi a te, perciò non v’è altro da dire” ammise Enyl, con un sorriso sardonico.

“Ti dai per vinta con facilità” ironizzò Kennadarya, iniziando ad avvicinarsi a lei con aria vittoriosa.

Nere nubi purulente si addensarono sempre più spesse sulla città e un vento gelido si abbatté sulla spianata, schiaffeggiando i loro volti impassibili.

“Ammetto la verità, è ben diverso” replicò Enyl, con una scrollatina di spalle, scostando con naturalezza una ciocca di capelli dietro un orecchio.

“La Luce ha sbagliato a spezzare il suo potere in due. Non c’è nulla di buono nel condividere ciò che si ha con qualcun altro. L’aver donato poteri simili sia a te che al tuo gemello, ha indebolito il tuo essere” ridacchiò Kennadarya, con tono querulo.

“Può essere, anche se amare mio fratello mi ha riempito i giorni” le fece notare Enyl, inginocchiandosi lentamente a terra per poi sciogliersi lentamente la lunga e pesante treccia bionda che le solcava la schiena.

Kennadarya rise di quel commento e proseguì nella sua avanzata con passo lento, godendosi ogni attimo come se fosse l’ultimo.

La sabbia graffiava la pelle di entrambe e irritava le ferite ancora sanguinanti di Enyl ma, a quel punto, poco importava.

Il dolore sarebbe stato suo compagno ancora per poco.

Kennadarya ghignò vincitrice mentre osservava la totale resa della sua nemica e, nell’affondare la lama della falce nella sabbia rossastra, ultimò la distanza che le separava.

Dalle mura, le grida di incitamento degli uomini di Akantar tacquero di colpo, di fronte a quella manovra del tutto inaspettata da parte della loro eroina.

Quando anche l’ultima ciocca fu sciolta, Enyl mormorò tra sé: “E’ stato bello amare ed essere amata, Hevos… grazie.”

Sapeva che, all’esterno del tempio di Soanes, lui non poteva risponderle, ma era certa che quel messaggio sarebbe comunque giunto alle sue orecchie, in un modo o nell’altro.

“E’ troppo rischioso, mia diletta. La tua stessa essenza rischia di rimanere intrappolata in lei!” riecheggiò la voce di Hevos nella sua mente, sorprendendola.

Enyl sobbalzò, stupita e sgomenta e, preda di un’ansia quasi incontrollabile, esalò: “Non devi usare tutta questa energia per me! Vattene!”

“Non ti lascerò sola proprio ora!”

“Vai! Non voglio che lei possa anche solo sfiorarti attraverso me! Non lo sopporterei!” urlò ancora Enyl, ansando sempre più velocemente quando vide Kennadarya raggiungerla e fissarla con aria di supremazia. “Se mi ami davvero, fai come ti dico! Vattene!”

L’urlo iracondo e di resa di Hevos rimbombò nella sua mente, abbandonandola.

Con un sospiro di sollievo, Enyl chiuse gli occhi prima di stringere i denti per il dolore, non appena la sua nemica la afferrò per i capelli, costringendola a indietreggiare col capo.

My-chan, dall’alto delle mura di cinta, le gridò di ribellarsi, di riprendere la lotta, ma Enyl era ormai ben conscia di ciò che voleva fare.

La Luce l’avrebbe sorretta fino all’ultimo momento, fino a che l’ultima stilla del suo sangue fosse stata incamerata nel corpo di Kennadarya e, a quel punto, lei avrebbe vinto.

Sorridendo lieta a Kennadarya, che ridacchiava trionfante e divertita di fronte a lei, Enyl mormorò: “La Luce è finalmente tua.”

“Sì” ringhiò lei, affondando i denti nel suo collo come un serpente sulla sua preda.

Enyl sobbalzò per quel morso violento e, lentamente, chiuse gli occhi mentre, sulle mura, le grida terrorizzate si sovrapponevano tra loro, rendendole sempre più difficile cogliere le loro parole, o riconoscere i volti di coloro che le avevano proferite.

Solo una, improvvisa e imprevista, avvertì. E la terrorizzò.

“Enyl! Non azzardarti a morire! Non potrei mai perdonartelo!”

L’urlo di suo fratello Antalion, forte e imperioso come un colpo di tamburo, giunse alle sue orecchie come un monito.

Da quella posizione sfavorevole, però, non poté né concedersi di guardarlo per l’ultima volta, né urlargli che quello era l’unico modo per vincere il male che albergava in Kennadarya.

Il suo amore, però, la rincuorò e, quando la Luce nel suo corpo iniziò ad affievolire in un pallido scintillio sottopelle, lei alitò: “Prendi anche il mio amore, assieme alla Luce, Kennadarya… così, io avrò vinto.”

La donna, che fino a quel momento aveva succhiato la sua linfa vitale con sempre maggiore forza e vigore, si staccò a sorpresa da lei al solo sentir nominare quella parola.

Le labbra ancora sporche di sangue fluido e scintillante, Corvo Bianco la scaraventò a terra ormai morente, sibilando: “Amore? Che intendi dire?!”

Con un sorriso trionfante quanto fiacco, Enyl ansò ormai priva di forze: “Che nel mio animo non è presente solo la Luce, ma anche l’amore. Luce e Tenebre non possono annullarsi vicendevolmente, perciò non avrei mai potuto sconfiggerti usando quel potere, ma l’amore può battere il male, può eliminarlo e, poiché io ho l’amore di tutte le persone che conosco, io posso battere te.”

“No!” esclamò Kennadarya, arrancando all’indietro mentre, all’interno del suo corpo, bagliori di luce sgargiante si inframmezzavano a nubi di cupo potere tenebroso.

“Il male è solitario ed egoista, ti porta a isolarti da tutto e da tutti, se ne sta accucciato nel tuo animo senza permetterti di scorgere il vero potere, mentre l’amore cresce e prospera, aumenta sempre di più… annullando anche il male più oscuro. Anche il tuo. Perché, anche se non lo vuoi ammettere neppure con te stessa, provi amore per tua madre e per tuo padre, pur se contagiato dalla follia, e questo tuo sentimento, foraggiato dal mio, vincerà sull’anima oscura che turba il tuo cuore.”

Tossì, prima di riuscire a terminare il suo discorso.

“Vincerà su Caos, che ti ha ottenebrato la mente solo per ottenere i suoi scopi, non i tuoi” mormorò poi Enyl, chiudendo gli occhi e cercando, con le sue ultime forze, di trovare abbastanza aria nei suoi polmoni per le sue parole di commiato.

Inginocchiandosi a terra, preda da forti spasmi muscolari, Kennadarya ricordò suo malgrado le ninne nanne della madre, i dolcetti che era solita farle da bambina, la gioia provata nel ricevere i primi regali.

Più recentemente, rammentò l’onore velato di dispiacere provato nell’incontrare per la prima volta il padre.

Per la sua intera giovane vita lo aveva cercato, sperando in una sua visita, bramando un suo sorriso, un suo sguardo.

Per lui aveva studiato, si era impegnata, aveva ordito quel piano.

Portare le Tenebre ovunque, in modo tale che lui potesse camminare per il mondo come, invece, ora non gli era concesso fare.

Ma Caos aveva mescolato le carte.

Il Fato l’aveva spinta su un terreno scivoloso e lei, spinta dall’ avidità instillata ad arte nel suo animo dal Distruttore, aveva desiderato di più, sempre di più.

Aveva agognato possedere le Tenebre, non solo guidarle come Enyl aveva fatto con la Luce che era in lei, e questo l’aveva condotta oltre un limite invalicabile per un mortale, anche un mortale con sangue divino.

Premendosi le mani sul petto, dove il cuore le tamburellava all’impazzata, Kennadarya fissò sgomenta il viso ormai pallidissimo di Enyl e gracchiò: “Hai dato tutto… per loro.”

“Il Grimorio ti rendeva troppo forte… per me… e il mio amore per la vita potevo concedertelo solo così. Solo… così… potevo toccare… il tuo cuore” alitò Enyl, il petto ormai dolente e privo di forze.

Dei passi concitati si udirono in lontananza e Kennadarya, impossibilitata a muoversi perché preda di sempre più violenti crampi, fissò confusa un uomo corvino e vestito di pelli avvicinarsi a loro per poi piegarsi in ginocchio accanto a Enyl.

Egli la prese tra le braccia, mentre un renpardo stellato si poneva dinanzi a loro, pronto a qualsiasi cosa per difenderli.

Ma, anche volendo, lei non avrebbe potuto fare più nulla, divorata com’era dallo stesso potere che lei aveva bramato stringere tra le mani come una padrona, senza comprendere quale errore disumano fosse stato quello.

Nessuno poteva detenere quel potere, neppure un dio.

Neppure suo padre, per quanto signore della Morte, era il padrone delle Tenebre.

Lui le guidava con saggezza e oculatezza, non le governava come un despota e tiranno.

Il Grimorio? Era illusione di potere. Questo, alla fine, insegnava quello scritto.

Aveva sperato fino all’ultimo di poter utilizzare a suo piacimento i poteri in esso contenuti senza comprendere che, in realtà, quelle formule alchemiche servivano per mettere alla prova colui che fosse stato così stolto da usarle.

Erano scritti che insegnavano a non utilizzare quel potere, spiegando i risvolti drammatici legati a ogni azione.

E ora ne stava pagando le conseguenze.

Le Tenebre e la Luce dentro di lei la stavano divorando pezzo dopo pezzo, cellula dopo cellula.

L’amore di Enyl, infine, le stava dando il colpo di grazia, rammentandole i veri motivi per cui avrebbe dovuto battersi e ciò che, invece, Caos le aveva fatto dimenticare per raggiungere il fine di distruggere tutto e tutti.

L’affetto di suo padre, di sua madre, di amici che non aveva mai voluto avere per non dividere le sue conoscenze e il suo potere.

Si era affidata alle lusinghe di Caos, lasciando che il male che lui le aveva instillato nel cuore la guidasse fino a quello sventurato giorno.

Ora, Lui l’aveva abbandonata, sconfitto ma non vinto, pronto a una nuova battaglia, ma senza di lei.

Lei aveva perso. Tutto.

“Non tutto, figlia mia.”

La voce di Haaron, nella sua mente ormai ottenebrata dalla morte, rimbalzò come il suono di un gong e Kennadarya, nell’esalare l’ultimo respiro, lasciò che sul suo viso si dipingesse il primo, vero sorriso dacché era nata.

Rilassandosi solo quando vide la donna esalare l’ultimo alito di vita, My-chan si volse a mezzo in direzione di Antalion che, raccolta la sorella tra le braccia, la sollevò dal terreno per riportarla verso la città.

Scortato dal renpardo stellato, mormorò: “Ti impedirò di morire, sorella. Non te lo lascerò fare.”

“Andava… fatto” sussurrò senza forze Enyl, pur sorridendo. “Non c’era altro… modo.”

“Rannyl ti curerà come ha curato me, Enyl” la rassicurò My-chan, trattenendo a stento le lacrime mentre, con una mano tremante, le carezzava i capelli.

Enyl le sorrise flebilmente. “Non può.”

Detto ciò chiuse gli occhi e, prima di perdere completamente ogni contatto con il mondo, udì il grido accorato di Antalion che, terrorizzato, la chiamò più e più volte senza ricevere alcuna risposta da lei.

Ma era tardi, ormai. Per tutto.

***

Con la scomparsa dell’enorme corvo nero dal cielo, l’esercito di Nellassat cominciò a battere in ritirata.

Le forze congiunte di Enerios e Akantar misero in sicurezza la città, mentre Antalion rientrava entro le mura, portando con sé il corpo svenuto e ormai allo stremo delle forze di Enyl.

Calde lacrime gli bagnavano gli occhi dorati mentre, praticamente di corsa, Antalion si dirigeva verso il tempio dove sapeva trovarsi Rannyl.

A metà strada, però, lo incrociò trafelato e pallido come un cencio, la verità dipinta a chiare lettere sul suo giovane viso.

Porgendogliela, Antalion gli ordinò testardamente: “Salvala!”

Ma Rannyl si limitò a crollare in ginocchio a terra, tenendo la sorella tra le braccia, niente più che un guscio vuoto laddove un tempo vi era stata Enyl e, tra le lacrime, ansò: “Non posso… non posso…”

Il suo corpo allora si circonfuse di luce prima che Antalion potesse rabberciarlo a male parole e, col volto accostato a quello della sorella, Ran ristette in quella posizione finché non giunsero accanto a loro anche gli altri.

Naell per prima si inginocchiò accanto alla cugina, avvolgendola in un abbraccio assieme a Ran ed Ellessandar, fissando con le lacrime agli occhi quel corpo immobile, mormorò: “Non si può fare proprio nulla?”

“La sto chiamando” sussurrò Rannyl, con un estremo sforzo di volontà.

Kalia, aggrottando la fronte, dichiarò: “Fate portare due lettighe. Li riporteremo a palazzo così perché non credo che, almeno per il momento, Rannyl possa scostarsi da lei.”

Aken ed Eikhe, in lacrime e sconvolti, la fissarono senza comprendere le sue parole e Kalia, torva, mormorò: “La sta tenendo in vita con il suo cuore, ma non so per quanto potrà andare avanti.”

Ellessandar non perse tempo in ulteriori spiegazioni e ordinò che venissero condotte lì due lettighe mentre Antalion, in ginocchio accanto al fratello, domandò preoccupato: “Ran, Kalia ha ragione?”

Lui si limitò ad annuire e Kalia, con un sospiro, spiegò loro: “Quando mi parlò del suo dono e di quello di Enyl, subito non vi feci caso ma, nel vederlo collaborare a quel modo con la sorella per creare la barriera mistica su Yskandar, ho compreso fino a che punto loro due siano legati. Ed è questo legame a trattenere qui Enyl.”

Aken, tenendo stretto a sé la compagna in lacrime, esalò turbato: “Ma questo lo prosciugherà.”

“Sì” si limitò a dire Kalia, prima di portarsi una mano alla bocca per soffocare un singulto.

 

 

 

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Capitolo 18
*** 18. ***


●●18●●

 

 

 

 

 

Il tramonto era sceso sulla città ormai silenziosa e, mentre la conta dei morti e il tentativo di salvare i feriti proseguiva senza sosta tra le strade della città.

Il personale dramma della famiglia reale proseguiva incessante, togliendo smalto alla vittoria, e gioia dai volti dei vittoriosi.

L’esercito di Nellassat, sconfitto dalle forze congiunte dei regni di Akantar ed Enerios, e orfano della potenza mistica offerta da Kennadarya, aveva abbandonato le armi sul campo.

Il generale che aveva guidato l’assalto alla città, aveva deposto la sua spada nelle mani di re Erenokt stesso.

Re Kevan, trovato dolorante e ferito accanto ai carri delle vettovaglie che avevano seguito l’esercito, era stato soccorso dai cerusici del suo esercito che, pochi attimi prima, avevano trovato la regina ormai priva di vita.

La gola tagliata e le iridi sgranate fino al limite, la donna era morta da ore quando, infine, i medici si erano accorti della sua triste fine.

Kevan, però, non aveva versato una lacrima in suo favore, facendo sorgere nel cuore di molti chi realmente vi fosse dietro quell’assassinio.

Le sole cose che il re di Nellassat era stato in grado di comprendere, in quei momenti di scoramento, erano state la sconfitta subita da Akantar e la perdita di ogni sogno di conquista.

Perso in quei pensieri, re Kevan non aveva minimamente badato all’arrivo sulla spianata di re Erenokt e del suo seguito, né tanto meno dello sguardo disgustato del suo generale in capo.

Ogni cosa non aveva avuto più senso, per lui.

Ben consapevole di questo, Erenokt lo aveva fatto mettere ai ceppi perché fosse incarcerato dopodiché, con un cenno al generale di Nellassat, aveva bandito lui e i suoi uomini dal suo regno, ordinando loro di allontanarsi senza armi da Yskandar e di non farvi più ritorno.

Il comandante in capo dell’esercito aveva accettato il bando e, dopo un ultimo sguardo insofferente al loro ormai deposto re, aveva chiesto di poter ricondurre in patria la salma della loro regina.

Erenokt aveva perciò concesso loro il tempo di prepararne le spoglie e, con il fare della sera – scortati da un cospicuo stuolo di soldati akantaryan – l’esercito di Nellassat era ripartito alla volta del loro regno.

Nessuno si era chiesto dove fosse finita la Strega Bianca che aveva guidato, da dietro le quinte, quell’impresa ormai evidentemente fallita su ogni fronte poiché, per lei, nessuno aveva mai speso amore o affetto.

Che i corvi l’avessero divorata, o gli sciacalli raccolta per farne fiero pasto, a nessuno dei soldati di Nellassat era importato alcunché.

Nell’avviarsi verso il loro destino ricolmo di incognite, nessuno l’aveva cercata con lo sguardo, o chiesto ansioso dove ella fosse.

Disfatta peggiore non avrebbe potuto capitare a un esercito, e un buon merito andava tutto a quella donna piena di livore e di superbia.

Ellessandar li aveva osservati torvo dall’alta torre Nord delle mura di cinta della città,  ritenendo il gesto del padre fin troppo generoso, ma Erenokt era stato irremovibile.

La città, liberata dall’invasore, aveva fin da subito iniziato a contare i danni derivanti dal terremoto e, unendo le forze per dare il via alle riparazioni più urgenti, il popolo akantaryan si era raccolto le maniche perché Yskandar tornasse a brillare di luce propria come un tempo.

Tutto appariva più tranquillo, ora, e gli uccelli cinguettavano più sereni, l’andirivieni della servitù nei corridoi era solo un pelo di più frenetica del normale, ogni cosa sembra essere tornata uguale a prima.

Ma, per uno sparuto pugno di persone, nulla sarebbe mai più stato uguale.

Sdraiato accanto alla sorella in un enorme letto a baldacchino, Rannyl appariva emaciato e stanco, ma di certo non privo della volontà di trattenere nel mondo dei vivi Enyl per quanto più tempo possibile.

Eikhe, accomodata su un bordo del letto mentre Aken era in piedi accanto a lei, continuava incessante a osservare i due figli minori mentre l’odio e lo sconcerto si fondevano nel suo cuore in subbuglio.

Sedici anni aveva sacrificato del suo amore per Aken, in nome di Hevos, e ora questo.

Non poteva più sopportare altro.

Non questa volta.

Non avrebbe più permesso a nessun dio, o demone, di interferire ancora una volta con la sua famiglia.

La mano di Aken le sfiorò gentilmente una spalla e lei, sorridendogli mesta nel comprendere quanto, i suoi pensieri, non fossero dissimili da quelli del marito, mormorò: “So che è egoistico, ma non ce la faccio a non pensarlo.”

“Lo so. Lo faccio anch’io” abbozzò un sorriso lui, baciandole il capo biondo ramato.

Quelle ore avevano segnato entrambi profondamente, e pesanti rughe solcavano in quel momento il viso del possente guerriero, quasi in un solo giorno fosse invecchiato di dieci anni.

La vista dei figli minori in così gravi condizioni, lo aveva colpito a tal punto da renderlo vulnerabile a un dolore talmente cocente che nulla, neppure il tocco di un dio, avrebbe potuto chetare.

Eikhe non era più serena del marito, pallida in viso e con gli occhi bagnati di lacrime che, ormai da tempo, aveva consumato assieme a mille e più imprecazioni lanciate al cielo insensibile e silente, di fronte al suo giusto rancore.

Antalion, seduto a terra con la schiena poggiata contro il muro, carezzava distrattamente la chioma dorata di Liana, addormentata e col capo sulle sue ginocchia.

Aveva pianto così tanto, nel vedere Enyl ridotta in quello stato che, meno di un’ora prima, era crollata per la stanchezza e la tensione nervosa.

Gli occhi del figlio sacro correvano ansiosi dalle figure dei genitori a quelle dei gemelli, immobili e circonfusi di luce e, per tutti loro, provava paura e sconforto.

Non avrebbe sopportato in nessun modo che anche solo uno di loro potesse lasciarsi andare alla morte.

Avrebbe scatenato tutta la sua rabbia e il suo furore, se ciò fosse successo, anche in barba al dio che fin lì aveva seguito con amore e devozione.

La porta, d’improvviso, si aprì leggermente, sorprendendo tutti e, imbarazzata e stanca, fece capolino Kalia.

Tenendo tra le mani un vassoio di cibo, si addentrò con passo felpato nella stanza e disse: “Scusate se vi disturbo, ma ho pensato che poteste avere fame.”

“Grazie, Kalia” dichiarò Ruak con un fiacco sorriso, levandosi dallo scranno che aveva sistemato accanto al letto per prendere dalle sue mani il vassoio e poggiarlo su una credenza nelle vicinanze.

Lanciato uno sguardo ai due gemelli, teneramente abbracciati e avvolti da una calda luce dorata, Kalia domandò loro: “Ci sono cambiamenti?”

“Enyl ha mormorato qualcosa, poco meno di un’ora fa, ma poi si è addormentata, e così pure Ran” le spiegò Naell, accucciata accanto al letto assieme a Ellessandar, che sedeva a gambe incrociate tenendo la schiena contro il muro.

Il viso del principe appariva smunto non meno degli altri, ma nei suoi occhi si leggeva anche un risentimento senza nome.

Era ben chiaro, in lui, il ricordo del dolce sentimento che aveva scorto sul volto di Enyl, abbracciata al suo dio nel tempio di Soanes.

Quell’amore incondizionato lo faceva ora irritare come poche altre volte, poiché trovava inconcepibile che una divinità potesse ingannare a quel modo una sua accolita, lasciandola in balia di morte certa senza minimamente intervenire in suo aiuto.

Gli era parso che l’affetto incondizionato di Hevos fosse reale, forte, dirompente ma, evidentemente, si era sbagliato e non di poco a giudicare, viste le condizioni attuali di Enyl.

L’aveva lasciata in balia del male e, ora, lei pagava per tutti loro la vittoria su Caos.

Tutto ciò era inconcepibile, per lui.

Kalia, ancora ferma in osservazione dei gemelli, si avvicinò ai due figli sacri dormienti per carezzare le loro teste accostate e, nel baciarli sulle guance, si allontanò prima di dire: “Sarò qui fuori, se avrete bisogno di qualcosa.”

I due coniugi annuirono al pari delle altre persone presenti nella stanza quando, provenienti dall’esterno, voci concitate  e timorose si levarono sgomente.

Già con la mano alla daga che portava sulla schiena, Kalia ringhiò: “Ma che diamine succede, ora?!”

Un bagliore iridescente si incuneò sotto la porta, inondando il pavimento di pietra chiara,  mentre le voci spaventate e accorate della servitù si allungavano per il corridoio come una melodia cacofonica e dissonante.

Passi concitati si intervallarono a grida terrorizzate, mentre un lontano coro di ululati si confondeva con il frusciare fremente di mille ali.

Il tutto era semplicemente assurdo, inconcepibile.

Più di un’arma venne snudata nella stanza dei gemelli, di fronte a quell’assurdo dipanarsi di brusii senza senso.

Ponendosi come ultima ed estrema difesa di fronte ai cugini, Naell fissò la famiglia, glia pronta a dare battaglia a chiunque fosse entrato da quella porta.

Chiunque vi fosse stato oltre quel battente, non sarebbe passato per nulla al mondo. Avrebbero dato anche la loro vita, se necessario.

La luce si fece sempre più accecante, oltre la porta e Kalia, aggrottando la fronte, ringhiò: “Ma cos’è?!”

La porta venne infine aperta lentamente e il bagliore che ne seguì fu così forte e dirompente da accecarli per alcuni istanti, rendendo loro impossibile scorgere altro se non la luce stessa di una stella.

Col passare dei secondi, però, la luminescenza andò scemando e, mentre la porta veniva richiusa, due figure comparvero dinanzi a coloro che, ancora armati, si trovavano nella stanza.

Ciò che venne sottoposto alla loro vista fu così sconvolgente e senza senso che, per diversi secondi, nessuno degli occupanti riuscì a proferire parola, né muovere un muscolo in risposta a quelle nuove presenze.

Dinanzi a loro, circonfuso di bianca luce, stava un giovane dai lunghi e lisci capelli biondi come il sole al mattino, dagli infuocati occhi d’ambra e la pelle bronzea e glabra.

Le brache frangiate erano nivee come la casacca smanicata che indossava e che lasciava libere le forti braccia, tatuate lungo tutta la loro lunghezza con strani simboli aggrovigliati e color dell’oro.

Una densa scia di brina turbinava intorno a lui, partendo dai piedi nudi fino a raggiungere la sommità del capo.

Sgranando lentamente gli occhi nel comprendere poco alla volta chi fosse appena entrato nella stanza, Kalia crollò a terra in ginocchio, esalando: “Hevos! Mio Signore!”

Ma fu l’uomo al suo fianco a generare vero sconcerto e, sì, terrore puro, poiché nessun’altra creatura se non il Signore delle Tenebre avrebbe potuto essere avviluppato da nere e voluttuose spire di fumo denso, e profumato d’incenso.

I capelli corvini erano mossi come spuma di mare e, tra essi, lunghe penne rilucenti si intervallavano a sottili trecce che penzolavano sulle ampie spalle, ricoperte da una pesante casacca nera come la notte, al pari delle brache e degli stivali di cuoio che indossava.

“Non è possibile…” gracchiò Antalion, mentre Liana, ancora stordita dal sonno improvviso che aveva dovuto abbandonare, fissava terrorizzata le due presenze divine nella stanza.

Aken, già pronto a balzare loro contro nonostante sapesse di andare incontro a morte certa, venne bloccato al braccio dalla moglie che, terrea in viso, tenne lo sguardo puntato sul viso pallido e sereno di Haaron.

“Sei qui per portarcela via?”

“Tutt’altro” replicò lui, la voce profonda, stentorea, quasi trascinata fuori dagli abissi del tempo e dello spazio.

L’uomo che era Hevos la scrutò a sua volta per un momento, il volto solcato da un dolore cocente e profondo, così immane da riverberare dal suo corpo come un colpo di maglio, rimbalzando contro di loro simile all’onda sulla  battigia.

Eikhe si lasciò sfuggire un singhiozzo, di fronte a tanto sconforto, ma così non fu per il compagno.

Aken, pur avvertendone la pena e il conflitto interiore, non ebbe però remore di sorta a mettere a parole il proprio dolore.  

“Dio o non dio, stavolta non vi lascerò giocare con le nostre vite! Non vi farò avvicinare a loro!”

Un coro di voci sconvolte giunse alle orecchie di Aken, che però non badò affatto a coloro che, nella stanza, lo stavano ritenendo non a torto un folle, ma solo agli dèi che aveva di fronte e che stava apertamente sfidando.

Sapeva di avere decretato la sua morte parlando a quel modo, ma… diamine, aveva già dato troppo di sé e della sua famiglia, al mondo degli immortali!

Hevos si limitò a sfiorare con lo sguardo il viso solcato dall’odio di Aken e, conciliante e triste, mormorò con la sua voce roca: “Non reco mestizia, buon cavaliere, ma speranza.”

Detto ciò, scostò con gentilezza Aken dalla loro traiettoria e, sempre tenendo Haaron per mano, si avvicinò al letto prima di sorridere a Eikhe, che ancora lo stava guardando senza parole.

Rivolto poi il suo sguardo a Naell, che non si era scostata dal letto – impedendogli di fatto il passaggio – il giovane dio le sfiorò una spalla con la mano libera, esalando: “Permettici di salvarli, fanciullina. Non arrecheremo loro alcun danno.”

“Il danno è già stato fatto” farfugliò Naell con occhi colmi di lacrime, scrutando furente il volto serafico di Haaron.

Già il fatto che lui fosse lì, in forma umana, non poteva che essere un nefasto presagio.

“Né Enyl, né tanto meno Rannyl, sono nel mio Regno…” dichiarò per contro Haaron, lanciando un’occhiata preoccupata ai due giovani figli sacri. “… ma, se non mi lascerai operare in tal senso, non vi sarà più tempo per impedire la loro venuta. Scostati, principessa, poiché non è nelle mie possibilità allontanarti con la forza, o periresti per diretta conseguenza. E, di certo, non è mio desiderio.”

Hevos intervenne a sua volta, aggiungendo: “Non potrò trattenere le Tenebra ancora a lungo, mia cara Naell, perciò lascia che Haaron blocchi le porte del Regno dei Morti, o tutto sarà vano.”

Naell si morse un labbro, indecisa sul da farsi.

Desiderava con tutto il cuore fidarsi di loro, ma il dolore patito dai suoi zii, dal cugino, dal padre, da tutti loro, la metteva in guardia sul dare loro ulteriore fiducia, dopo che le vite di Rannyl ed Enyl erano state messe così in pericolo.

Ugualmente, si scostò per accostarsi a Ellessandar, che le avvolse la vita con un braccio.

“Salveremo entrambi… in un modo o nell’altro” promise Hevos, volgendo lo sguardo su tutti loro prima di prestare attenzione unicamente ai gemelli.

Sulla porta, Antalion scrutava l’intera scena a pugni serrati mentre, accanto a lui, ancora trafelata e sconvolta, Liana osservava le due divinità con aria incredula.

My-chan stretta al suo braccio, ringhiava con tono basso, cupo, facendo quasi vibrare i vetri della stanza.

Hevos, indifferente al clima di sfiducia che aleggiava per la stanza, scostò la mano da quella di Haaron per poggiarla sulla sua spalla e il dio oscuro, posato che ebbe un ginocchio sul letto, si chinò per sfiorare la fronte di Rannyl con un dito.

Il pallore del giovane scomparve immediatamente, mentre gli ansiti sconcertati dei presenti si sostituirono al silenzio teso di prima.

Borbottando tra sé nel ritirare la mano, mugugnò contrariato al fratello: “Ti puniranno, e lo sai.”

“Francamente, non mi interessa nulla” ringhiò Hevos, stringendo la mano sulla spalla di Haaron mentre la brina, attorno a lui, sfrigolava e turbinava sempre più velocemente.

Il corpo slanciato e robusto di Rannyl, a quel punto, venne scosso da un brivido e, con un singhiozzo strozzato, si ridestò nel giro di pochi attimi, aprendo lentamente gli occhi prima di fissarli sgranati sulle divinità dinanzi a lui.

“Hevos? Haaron?” esalò confuso un attimo dopo, lanciando sguardi dubbiosi attorno a lui prima di tornare a scrutare pensoso quell’incredibile fenomeno sovrannaturale.

Sorridendo mestamente al giovane, il dio-corvo annuì e mormorò: “Scostati da lei, figliolo. Penserò io a Enyl, ora.”

“Ma…” tentennò Rannyl, restio ad abbandonare il fianco della gemella in favore del Signore delle Tenebre.

Haaron gli offrì una mano sotto gli occhi sgomenti di tutti e il dio, per diretta conseguenza, li fissò stizzito, ringhiando: “Pensate davvero che lo farei fuori, dopo avergli restituito la forza per sopravvivere?”

Hevos lo scrollò leggermente, pacificandolo e, nell’annuire a Rannyl perché accettasse quell’aiuto, spiegò ai confusi presenti: “Rannyl è beneficiato del potere della Luce, perciò non corre alcun pericolo, sfiorando Haaron. Ben diverso sarebbe per tutti voi, poiché non vi è concesso un simile lusso.”

Lo sguardo che il dio-lupo lanciò ad Aken da sopra una spalla fu più che eloquente e l’uomo, seppur controvoglia, rilasciò le mani strette a pugno e si impose di calmarsi.

Per ogni evenienza, Eikhe gli strinse le braccia attorno alla vita e, per nulla tranquilla, continuò a seguire con lo sguardo le movenze di Haaron che, nel frattempo, aveva preso Enyl tra le braccia per tenerla in grembo.

Sedutosi sul letto, ne carezzò la chioma fulgida e splendente, ne ammirò il bel volto addormentato e, infine, levato un momento lo sguardo per scrutare il viso ansioso del fratello, mormorò: “Passeremo un guaio, ma fa lo stesso.”

“Grazie” sussurrò allora Hevos, concedendosi il lusso di un breve sorriso.

Haaron calò la bocca su quella morbida di Enyl un attimo dopo e, sotto gli occhi sgomenti di tutti, la pelle cerea della giovane riprese immediatamente colore e il suo respiro si fece più forte e sano.

Carezzando subito dopo il volto della giovane, mentre le pallide palpebre iniziavano a muoversi tremolanti, Haaron asserì con dolcezza: “Ogni cellula di lei vibra per te, fratello mio… la tua fortuna è grande.”

Hevos poté solo lapparsi le labbra mentre una lacrima solitaria scivolò sul suo volto e, in quel mentre, gli occhi di Enyl si aprirono al mondo, lasciandole scorgere la verità sconvolgente che la circondava e l’unicità di quel momento irripetibile.

Accostandosi subito al letto per poterla guardare in viso, Ran si aprì in un sorriso non appena i suoi occhi chiari incrociarono quelli identici della sorella.

Con voce tremula, esalò: “Enyl… ciao…”

“Ran…” ansò lei, sorridendogli prima di distogliere lo sguardo per fissarlo sui volti di Haaron e Hevos.

Lo sconcerto si palesò lesto assieme alla paura, ma Haaron fu più veloce di lei e, bloccandola nel suo abbraccio, le disse premuroso: “Non angustiarti, fanciullina. Non sono qui per portarti via con me.”

“Ma come…” tentennò Enyl prima di notare la mano di Hevos sulla spalla del dio-corvo. “Lo stai trattenendo tu, vero?”

Annuendo, Hevos si chinò su di lei per baciarla teneramente ed Enyl, del tutto incurante degli sguardi sconvolti di tutti – e di quello iracondo di Aken – levò una mano per stringere la nuca del dio e trattenerlo accanto a sé.

Quel gesto apparentemente banale, dichiarò a chiare lettere cosa li unisse, e quanto fosse profondo – oltre che unico – il loro legame.

Haaron, a quel punto, tossicchiò per l’imbarazzo ed Enyl, rammentando solo in quel momento dove si trovava e, soprattutto, chi era presente nella stanza, si scostò lesta da Hevos prima di incrociare lo sguardo confuso e stordito del fratello.

Rannyl si volse allora per fissare sgomento Hevos, pacifico in viso e interessato unicamente a Enyl, i suoi occhi luminosi fissi solo sul viso della gemella.

Nel rammentare le parole della sorella e i suoi imbarazzati richiami, esalò a mezza voce: “Sei tu? Enyl ama te!”

Un ringhio si levò nella stanza mentre Hevos, sorridendo per un momento al giovane, si illuminò come una stella al solo pensare all’amore provato per la giovane donna.

Rannyl non ebbe bisogno di ulteriori conferme e, sperando ardentemente che il padre non decidesse di abbandonare il fianco della madre per scagliarsi su Hevos, mormorò ossequioso: “La ami anche tu, allora…”

“Non saremmo qui, se mio fratello non tenesse a questa fanciulla più che a qualsiasi altra creatura mai nata…” gli fece notare con una certa ironia Haaron, che ancora teneva tra le braccia Enyl.

“Com’è possibile?!” sibilò a quel punto Aken, che mal aveva sopportato l’intimità evidente tra il dio e la figlia.

“E’ successo e basta, papà…” intervenne allora Enyl, volgendosi per osservare il padre, oltre la spalla di Haaron.

Aggrappandosi a quelle spalle robuste, Enyl fissò l’uomo che, fin dalla nascita, aveva amato e onorato e, con un mesto sorriso, aggiunse: “Già da tempo il mio cuore ha imparato ad amarlo come si può amare un uomo, padre… io sono felice di questo mio sentimento, e così Hevos. Davvero.”

Aken la scrutò scettico, volendo crederle ma ritenendosi in diritto di non poter concedere ulteriore credito a quel dio che tanto aveva tolto alla loro famiglia.

“Non mi sarà più concesso giungere a voi, in nessuna mia forma… non potrò più parlarvi, vedervi, consigliarvi, e questo mi rattrista più di quanto potrete mai capire, o immaginare, figli miei…” asserì Hevos, con voce contrita e tremante di angoscia, intervenendo per dare man forte a Enyl. “… ma, grazie a questo, Enyl potrà vivere per sempre assieme a me.”

Levatasi in piedi grazie all’aiuto di Haaron, che le rimase accanto sorreggendola per la vita, Enyl fissò sorpresa e felice Hevos che, occhi negli occhi, le mormorò contrito: “Ho potuto fare solo questo, per te, mia diletta. Avrei voluto combattere per te mille e mille volte, ma…”

Enyl gli sfiorò le labbra con una mano, mano che Hevos strinse con la sua, baciandogliela teneramente.

La giovane, nello scuotere il capo, replicò: “So già tutto, non preoccuparti. Nessun dio avrebbe potuto combattere la battaglia che io e Kennadarya abbiamo sostenuto, o l’intero Universo sarebbe stato spazzato via. La nostra mortalità ha reso possibile la salvezza delle genti.”

Lui annuì tremulo ma reclinò colpevole il viso, lasciando che i lisci capelli biondi nascondessero i suoi occhi serrati e colmi di lacrime che, in un’occasione diversa, avrebbe ben volentieri versato.

Lanciando uno sguardo a Haaron, Enyl gli domandò dubbiosa: “Non posso stringere Hevos per qualche motivo?”

“Se ti lascio a lui ora, svanirete immediatamente, e pensavo volessi abbandonare questo luogo dopo aver almeno salutato i tuoi cari” le spiegò gentilmente Haaron, mentre gli occhi di Enyl si sgranavano leggermente a quella notizia.

“L’energia della Luce ci condurrà nel mio regno entro breve, Enyl, ma per qualche minuto ancora, potremo restare qui” esalò Hevos, allungando un braccio per poggiarsi alla testiera del letto.

Il petto del dio-lupo si alzò e si abbassò frenetico, come in debito d’ossigeno e Haaron, aggrottando la fronte, borbottò: “Non c’è più tempo, fratello. Dobbiamo andare, se non vogliamo che Yskandar sia rasa al suolo da un mio starnuto.”

Hevos, suo malgrado, sogghignò all’indirizzo del fratello ma scosse il capo, replicando: “Enyl deve poter salutare la sua famiglia.”

La ragazza si morse un labbro nel notare il dolore sempre crescente sul volto dell’amato e, nello scrutare supplichevole Rannyl, mormorò: “Sorreggilo, te ne prego.”

Il gemello non se lo fece ripetere due volte e, passato un braccio attorno alla vita del dio, gli concesse parte dei suoi poteri perché non soccombesse.

Eikhe, ai piedi del letto, sorrise mesta alla figlia, asserendo con triste ironia: “Avevo sempre immaginato questo momento in modo molto diverso, ma posso solo dire che… hai scelto bene.”

Enyl le sorrise con le lacrime agli occhi e, nello scostarsi da Haaron quel tanto che le bastò per accostarsi alla madre, la giovane le baciò le guance con calore.

“Lo amo davvero, mamma… non potrei amare nessun altro più di lui.”

“Allora va bene… ogni cosa andrà bene” assentì Eikhe, baciandola sulla fronte.

“Papà…” esalò Enyl, scostandosi dalla madre per poter osservare il viso ancora ombroso dell’uomo.

Aken la avvolse in un abbraccio l’attimo seguente e, contro i suoi capelli color del grano, mormorò accorato: “Dammi un fischio, e lo ucciderò per te. Non mi importa se è un dio!”

Enyl allora scoppiò in una risata tremula, che fece battere forte il cuore al padre, ancora incredulo all’idea di dover dire per sempre addio alla figlia, e in un modo così incredibile.

Uno a uno, Enyl abbracciò coloro che le erano più cari e, quando infine giunse il turno di Antalion, la fanciulla lo carezzò gentilmente sulla nuca.

“Né io né Ran avremmo mai potuto avere un fratellone più bravo e in gamba di te. Ma ora dovrai prenderti cura di lui, An. Proteggilo anche per me, amalo anche per me.”

Antalion annuì un paio di volte prima di baciare teneramente la sorella sulle labbra e sussurrarle subito dopo: “Ti amerò per sempre, hillan.”

“Lo so” assentì lei prima di sospirare spaventata quando Hevos, sorprendendo tutti, crollò su un ginocchio, ormai privo di forze.

Le nubi nere che gravitavano attorno a Haaron ruggirono feroci, pronte a liberarsi dalla catena imposta dalla Luce di Hevos e Ran, a terra accanto al dio-lupo, esalò sconvolto: “Hevos! Non cedere ora!”

Enyl si gettò immediatamente verso di lui per aiutarlo, il volto teso e percorso dall’ansia, ma Hevos levò una mano per bloccarla, ringhiando: “Non ancora! Non preoccuparti per me!”

“Ma Hevos…” tentennò lei, turbata dal suo pallore cadaverico e dal suo fiato corto.

“Saluta… come si deve… Rannyl…” le ordinò con gentilezza lui, addossandosi a Haaron per lasciare degno spazio ai due gemelli.

“Sei davvero ridotto male, fratello…” mormorò preoccupato Haaron, avvolgendo con il braccio libro la vita del gemello.

“Lo so…” ridacchiò fiacco Hevos, gli occhi tutti per Enyl e Rannyl che, a un passo di distanza l’uno dall’altro, si sorridevano senza però toccarsi.

A loro, in ogni caso, non era mai servito il contatto fisico.

“E’ dunque giunto il momento, sorellina…”

“Sai che siamo le due parti di un insieme, vero?” gli rammentò lei, accentuando il sorriso.

“Continui a dirmelo, ma io credo piuttosto che, quando sarai andata via, il mio cuore si spezzerà in due” ironizzò per contro Rannyl, scrollando leggermente le spalle.

“Non dico che non soffrirai, come io patirò le pene più atroci, sapendoti lontano, ma so anche che non saremo mai veramente separati. Siamo nati dallo stesso grembo, con la Luce a unire i nostri cuori, i nostri animi, e questo perdurerà per l’eternità.”

“Vorrei crederci” sospirò Rannyl, storcendo la bella bocca in una smorfia.

“Così è” mormorò allora Enyl, rammentando le parole di Equilibrio.

E quella stessa voce, forte e stentorea, rimbalzò nella mente di Rannyl, sorprendendolo.

Con un ultimo sorriso, Enyl lasciò andare il fianco di Haaron per stringere in un abbraccio Hevos e rifulgere della stessa luce che, solo poche ore prima, l’aveva circonfusa sul campo di battaglia.

In uno sfrigolio dorato, le figure di Enyl, Hevos e Haaron scomparvero in un battere di ciglia ed Eikhe, stringendosi nell’abbraccio del compagno, pianse silenziosa al pari del figlio maggiore, fermo a pochi passi da loro.

Liana, stretta a lui, poggiò il capo contro il suo torace sospirando tremula, mentre My-chan singhiozzava affranta nell’abbracciare Naell ed Ellessandar, in lacrime entrambi.

Ruak, fermo accanto a Rannyl, sfiorò con mano tremante la spalla del nipote e il giovane, rabbrividendo da capo a piedi quando infine la luce scemò fino a mostrare l’improvviso vuoto di quella stanza, avvertì i poteri della sorella penetrare in lui come un’onda di piena.

Un coro di campane a festa accompagnò quel mutamento e, all’interno della sua mente devastata dal dolore, e la voce corale di Enyl e di Hevos mormorarono benedicenti: “Sii Portatore di Luce su questo mondo, fratello… ciò che doveva essere fin dall’inizio.”

Due entità divise alla nascita, ora erano tornate a essere una, per sempre unite. Indivisibili.

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** 19. ***


●●19●●

 

 

 

  

 

La prima cosa che avvertì, al suo risveglio, fu un dolce tepore sulla pelle.

Un attimo dopo, il profumo di mille fiori diversi le invase le narici e, sotto il tocco delle sue dita, soffice seta si distese scivolando leggera, senza peso.

Sbattendo le ciglia diverse volte per mettere a fuoco ciò che la circondava, Enyl intravide tralci di fiori rampicanti inerpicarsi su quella che pareva essere la struttura di un letto a baldacchino.

Il volo leggero di alcune farfalle attirò la sua attenzione e, senza parole, la giovane si ritrovò ad ammirare un infinito prato ricolmo di fiori di ogni genere.

Poco lontano, scorse fontane zampillanti in cui danzavano uccelli canterini e, sull’orizzonte, il profilo seghettato di monti aguzzi e ricolmi di neve perenne.

Levandosi a sedere sul morbido materasso che l’aveva accolta al suo risveglio, Enyl ammirò il bellissimo padiglione dove si trovava il letto in cui, fino a quel momento, aveva riposato.

Con un sorriso lieto, allargò le braccia non appena la figura eterea di Kell la raggiunse trotterellando.

Calde lacrime le scaldarono le gote mentre il suo lupo, perduto per sempre nel mondo dei viventi, la raggiungeva in forma di spirito, leccandole il viso per la gioia di quell’incontro insperato.

“Oh, Kell… Kell! Che gioia vederti!” singhiozzò lei, crollando in ginocchio a terra per meglio abbracciarlo.

Certo, la consistenza del suo corpo non era più la stessa – stringersi a Kell le dava la stessa sensazione del tocco lieve della nebbia sulla pelle – , ma poco le importò.

Kell era lì con lei, per sempre.

Il lupo allora uggiolò felice mentre, praticamente di corsa, Ferr e Kessa si unirono a loro per quell’incontro di gruppo.

Enyl rise ancor di più, finendo col crollare sdraiata sul pavimento di pietra bianca che ricopriva il padiglione fiorato, mentre i tre lupi la ricoprivano di baci e leccate.

La giovane dispensò uguali carezze e abbracci, prima di ritrovare l’equilibrio sufficiente per mettersi in piedi.

Lì, circondata dai suoi vecchi amici e da quell’idilliaco paesaggio circonfuso di luce, Enyl scorse infine la figura di Hevos.

Sdraiato sul prato dinanzi al padiglione, appariva pacifico e sereno, gli occhi chiusi e il viso illuminato dal sole che splendeva in quei luoghi.

Subito, la fanciulla si aprì in un sorriso estasiato e, concedendosi per la prima volta il tempo di scrutarlo con attenzione, si beò la vista del suo corpo elegante e abbracciato da bianchi abiti di pelle.

I chiari capelli dorati erano stesi a ventaglio sulle mani – intrecciate dietro la nuca – e le forti braccia, tatuate dalla spalla al polso, recavano i simboli ancestrali della Luce, cui lui era Signore e Padrone.

Era strano poterlo ammirare in forma umana quando, per tutta la sua breve vita da umana, si era accontentata della sua forma animale – che peraltro amava.

Con il cuore gonfio di gioia, si incamminò verso di lui, calpestando con i piedi nudi la morbida e fresca erba profumata.

Un nugolo di farfalle si levò attorno a lei, portandola a ridere lieta e, nell’inginocchiarsi accanto all’amato, lo abbracciò con possessiva, esclamando: “E’ tutto così bello, qui! E i miei amici… i lupi sono qui! Tutti loro!”

“E’ il regno della Luce, mia cara… è la loro dimora spirituale, adesso. Non sarebbero mai mancati al tuo risveglio” le spiegò gaio Hevos, scostandola da sé per baciarla teneramente, le mani che sfioravano gentilmente il suo viso.

“E’ stato bellissimo ritrovarli e…” cominciò col dire Enyl, ancora eccitata per quella recente scoperta prima di bloccarsi esterrefatta, fissare sgomenta Hevos e, infine, esalare scioccata: “… Hevos… i tuoi occhi!”

Lui si limitò a scuotere il capo, come per non dare peso alla sua ansia e, nel poggiare un dito sulle labbra di Enyl per chetarne le sue paure, mormorò: “Va tutto bene, amore mio. Tutto bene.”

“Come può andare tutto bene?!” esclamò allora lei, fissando al colmo del panico gli occhi di Hevos, ricoperti da una patina biancastra che ne velava il bel colore dorato di un tempo. “Tu… tu non… non ci vedi, vero?”

Attirandola a sé per un abbraccio, Hevos ne carezzò la chioma morbida e, con lenti massaggi delle mani, tentò di placare il tremore che stava squassando la giovane.

Poteva capire il suo disagio, la sua preoccupazione, ma Hevos desiderava unicamente che Enyl si godesse le gioie di quel luogo, non che fosse in ansia per lui.

Con tono sommesso, asserì tranquillo: “I tuoi capelli sono seta sotto le mie mani, la tua voce è musica per le mie orecchie, il tuo amore è come una carezza senza fine per il mio cuore. Che altro potrei desiderare, mia diletta?”

Stringendosi a lui con forza, le palpebre serrate per trattenere le lacrime che le stavano ferendo gli occhi, Enyl replicò sgomenta: “E’ questo il prezzo per la mia salvezza, oltre al tuo esilio perenne in questo luogo?”

“Come può essere un esilio, se ho te?” ribatté lui, aiutandola ad alzarsi per poi avvolgerle la vita con un braccio.

Enyl si strinse a lui, il cuore colmo di rimorso per ciò che il dio aveva dovuto pagare per averla lì con sé, per salvarla dall’annientamento.

Con voce roca, lei asserì: “Non avrei potuto abbracciarti a questo modo, vero, se fossi giunta qui in spirito?”

“No, mia diletta. Saresti stata come i tuoi amici lupi, niente più che un desiderio esaudito solo a metà. Non avremmo potuto condividere in alcun modo l’amore che ci lega… e io non potevo sopportare che tu morissi, quando così tanto hai fatto per tutte le creature dell’Universo” assentì lui con tono accorato, baciandole le palpebre e le gote rosee. “Non avrei potuto sopportare di perderti… di averti al mio fianco solo come uno spirito errante.”

La fanciulla annuì, pur sentendosi colpevole e, nello scrutare la polla d’acqua che si trovava a pochi passi da loro, ansò per la sorpresa.

“Ma quelli sono… sono…” balbettò Enyl, sgranando gli occhi fin quasi a farsi male.

Hevos allora le sorrise e, avvicinandosi con lei alla polla, le domandò: “Cosa vedi, Enyl?”

“Sono Ran,… mamma, papà… tutti quanti!” esclamò lei, prima di fissarlo speranzosa ed esalare: “Com’è possibile?”

Accentuando il suo sorriso, Hevos le carezzò il viso con un tocco solo leggermente esitante e, nell’avvertire sotto le sue dita la bocca dell’amata, ammise: “Ho pagato il mio fio per averti voluta qui al mio fianco per l’eternità, immortale mio pari e con pari diritti… ma non ho mai detto che anche tu avresti dovuto pagare il mio stesso prezzo, per essere qui.”

Enyl allora strillò di gioia e, gettandosi tra le braccia di Hevos, ne ricoprì il volto di baci mentre il giovane dio, ridendo divertito, esalava: “Attenta, Enyl, non sono ancora avvezzo alla cecità e potrei finire per far cadere entrambi, non vedendo dove metto i piedi.”

“Oh… scusa!” ansò lei, appoggiando immediatamente i piedi a terra e trattenendo Hevos per le braccia.

“Non scusarti mai, Enyl… amo tutto di te, anche la tua euforia a volte incontrollata” le sorrise benevolo lui, dandole un casto bacio sulla fronte.

Lei allora sorrise di fronte a quel volto che ancora poco conosceva e, nello sfiorare le palpebre socchiuse di Hevos con una mano, mormorò: “Sarò io i tuoi occhi, d’ora innanzi. Penserò io a guidare il tuo passo e ti racconterò ogni cosa del mondo dei terreni, così che tu possa conoscere ciò che i tuoi figli compiranno nel corso dei secoli a venire.”

Hevos annuì e nel poggiare la fronte contro quella dell’amata, mormorò con convinzione: “Sarai più dei miei occhi, mia cara… ma non oggi voglio parlarti di questo. Ci sarà tempo per ogni cosa. Ora voglio solo godermi la giornata con te, sentirti vicina e al sicuro,… amata.”

Enyl si limitò ad annuire e, nell’accostare la bocca a quella di Hevos, seppe di essere nel luogo giusto, con la persona giusta.

Indipendentemente da tutto il resto.

***

Seduta sul bordo di una delle fontane del giardino di palazzo, il cielo adombrato dalla notte e una brezza fresca a carezzarle il viso, Naell volse lo sguardo al suono sommesso di alcuni passi sull’erba.

Vagamente sorpresa, sorrise all’arrivo di Coryn che, con l’accenno di un inchino, si sedette a poca distanza da lei.

Gli eventi di poche ore prima avevano sconvolto l’intero palazzo reale, e avevano fatto gridare tanto al miracolo coloro che non avevano vissuto direttamente quegli eventi.

Per chi, come loro, avevano visto svolgersi ogni cosa, era lo sgomento – più di ogni altro sentimento – a farla da padrone.

Naell per prima faticava ancora ad accettare la scomparsa della cugina, pur se era felice di saperla con l’amato immortale, rediviva ed eterna come il dio che l’aveva portata nella Luce.

Le mancava, e questo non avrebbe potuto cambiarlo nessuno, ma sapeva che sarebbe vissuta per sempre, il che non era poco.

“Come ti senti?” le domandò a un certo punto Coryn, sorridendole comprensivo.

Le forme di cortesia erano scomparse durante il corso della giornata quando, ormai, simili fardelli erano stati cancellati con un colpo di spugna.

“Stordita, credo. Sono cose che non capitano tutti i giorni” asserì con una scrollata di spalle.

Ylar, sdraiato sull’erba, scosse leggermente le orecchie prima di levare il capo e scrutare il cielo notturno, quasi avesse udito, o percepito, qualcosa di strano ma, come venne, quell’impulso passò.

Nello scrollare il muso con aria infastidita, tornò a sdraiarsi a terra.

Naell lo fissò incuriosita al pari di Coryn ma, nulla ricevendo in risposta dal suo lupo, si limitò a sorridere e commentò: “Vai a sapere cosa l’ha turbato…”

“Anche lui è un miracolo, da quel che ho saputo dal principe Rannyl” dichiarò Coryn, osservando ammirato il bel lupo.

Annuendo, Naell sfiorò con una mano il capo di Ylar per carezzarlo amorevolmente e, con tono sommesso, ammise: “Pensavo di averlo perso per sempre, e invece lui è tornato da me. E Rannyl lo ha curato.”

“Ciò che il principe è in grado di fare, è davvero strabiliante. Ho avuto l’onore di vederlo all’opera, poco fa, e nulla mi è parso così incredibile come il suo dono curativo!” esclamò eccitato Coryn, sorridendo come un bambino.

Naell rispose a quel sorriso, ammettendo senza remore: “Sei molto diverso da tuo padre, Coryn.”

“Lo spero, Naell, anche perché la mia famiglia ha molti debiti da ripagare, in primo luogo con te” replicò il giovane, fissandola spiacente. “Avrei dovuto trovare prima il coraggio di mettermi contro mio padre e, forse, non si sarebbe giunti a tanto. E tu non avresti sofferto inutilmente.”

“Dubito che si sarebbe potuto evitare tutto ciò, Coryn, poiché già in tenera età fui messa in guardia circa una grave crisi, che mi avrebbe vista protagonista” ribatté gentilmente lei, battendogli una mano sul braccio.

Alcuni servi corsero veloci lungo il corridoio aperto lungo il giardino, e Naell si chiese fuggevolmente dove fossero diretti. Che qualcuno si fosse sentito male?

Nel tornare a volgere lo sguardo verso Coryn, comunque, aggiunse: “Inoltre, il coraggio lo si può trovare solo quando si è pronti. Neppure io sono esente da errori, poiché non ho avuto abbastanza fede in me stessa e nel mio amore per Ellessandar. Avessi parlato prima, non mi sarei cacciata nei guai in cui io stessa mi sono spinta.”

Coryn annuì e Naell, tornando a scrutare il cielo, mormorò: “Ho passato anni e anni a credere che mio padre non volesse il meglio per me, ma solo il buon nome della corona, mentre invece non ha fatto altro che difendermi a spada tratta contro il consiglio. A volte, si può essere così ciechi!”

“L’amore tende a creare incomprensioni e paure” ammise Coryn, giocherellando con le stringhe in pelle della sua tunica ricamata. “Pur temendolo, ho sempre provato amore per mio padre, e questo mi ha portato a sopportare le sue angherie, non comprendendo quanto fosse sciocco tacere e, soprattutto, negare l’ovvio. Era l’unica persona di famiglia che mi era rimasta… e ora, devo dire addio anche a lui, e nel modo più orribile.”

“La nostra mente e il nostro cuore possono renderci deboli, anche per lunghissimo tempo, ma quando troviamo la forza per ribellarci a questo stato di inedia, dobbiamo cogliere al volo l’occasione” assentì Naell. “Papà mi ha raccontato ciò che hai fatto per tutti noi, e ciò che intenderesti fare con i possedimenti della tua famiglia. Non credi sia troppo devolvere tutto alla corona? Tu, in fondo, non hai colpe per ciò che tuo padre ha fatto.”

Scuotendo il capo con risolutezza, Coryn replicò: “Sono in disaccordo con il tuo dire, se mi permetti. La mia famiglia ha fondato la sua ricchezza su una menzogna, mutando la pietra in oro grazie ai poteri di un libro che non avrebbe mai dovuto essere toccato da mani umane, perciò ritengo che tutto ciò che è stato acquisito con quella immonda bugia finisca nelle mani di tuo padre. Mi rimetterò al suo giudizio anche sulle sorti di colui che mi generò… non chiederò grazia, per lui.”

Naell sentì la morsa del dolore perforarle il petto, a quelle parole così livide e, in cuor suo, le spiacque per Coryn.

Era un giovane gentile e generoso, cui il Fato aveva tolto molto e chiesto ancor di più.

Ora più che mai, doveva sentirsi solo e schiacciato da un peso troppo grande da portare nella più totale solitudine, destino che non avrebbe augurato neppure al suo peggior nemico.

Battendogli una mano sulla spalla, Naell gli sorrise comprensiva e, con tono pragmatico, gli disse: “Non possiamo sceglierci la famiglia, ma gli amici sì, e io vorrei che tu mi considerassi tua amica, Coryn, e così pure Ellessandar.”

“Naell…” esalò il giovane, sgranando sorpreso gli occhi.

Accentuando il sorriso, Naell aggiunse: “Io credo che papà abbia apprezzato molto il tuo coraggio e la tua intraprendenza e, visto che al momento Enerios non ha un degno ministro del commercio, potrei anche decidere di chiedere a mio padre di dare a te tale carica.”

Lo sconcerto sostituì in fretta la sorpresa e Coryn, scuotendo nervosamente le mani dinanzi al suo volto paonazzo, balbettò stentate proteste prima di venire azzittito dalla stessa voce del re che, emergendo dalla notte stessa, dichiarò: “Mia figlia non avrebbe potuto scegliere ministro migliore. Concordo pienamente con il suo dire.”

“Ma… mio Signore! Non sono né degno, né in grado, di portare avanti un simile compito!” esalò sempre più sconvolto Coryn, sbarrando i chiari occhi cerulei di fronte all’espressione sorniona del re.

“Sei un ottimo studioso, hai una conoscenza più che ottimale del regno e delle sue ricchezze, parli correntemente più lingue di quante io ne balbetterò mai e, oltre a questo, hai dimostrato più che ampiamente la tua fedeltà alla corona” replicò con una certa ironia Ruak, affiancando la figlia per poi darle una pacca sulla spalla. “Sono sicuro che sarai un ottimo ministro. E poi, se proprio vuoi rendermi le cose difficili, potrei sempre ordinartelo.”

Coryn a quel punto reclinò il viso e, compito, mormorò: “Lo ritengo un grande onore, sire, e sarò più che felice di mettermi al servizio della Corona. Penso che ora prenderò congedo e mi rifugerò in camera mia per esprimere in privato il mio terrore più che genuino.”

Ruak e Naell risero divertiti e il re concesse al suo neo promosso ministro di ritirarsi in buon ordine, prima di accomodarsi sul bordo della fontana accanto alla figlia.

Ylar si levò scodinzolante per poggiare il musetto sulle gambe dell’uomo e Ruak, nell’accarezzarlo gentilmente, gli grattò le orecchie mormorando: “Hai corso un bel rischio, eh, Ylar?”

Il lupo abbaiò una volta e Naell, ammirando padre e lupo con un caldo sorriso in viso, asserì: “Sono stati giorni terribili… c’era un tale caos, tra qui e il deserto.”

“E tu e i tuoi cugini avete dovuto affrontare tutto da soli, senza confidare ad alcuno i vostri timori” mormorò Ruak, con tono spiacente. “Non era paranoia da matrimonio, la tua, ma terrore nei confronti di un avvenire incerto… e io non l’ho capito.”

Ridendo imbarazzata, Naell replicò candidamente: “Oh, no. Ero veramente terrorizzata all’idea di un mio futuro matrimonio, ma è vero che le mie ansie derivavano anche e soprattutto dalle parole di Hevos. Sapere a dodici anni di dover affrontare, in un futuro prossimo, una tremenda battaglia, non è un pensiero che fa riposare tranquilli.”

Ruak annuì, continuando ad accarezzare Ylar.

“Tua madre mi disse più volte che, a suo modo di vedere, la tua amicizia con Ellessandar era mutata in qualcosa di più profondo ma, non udendo nulla da parte tua, pensavo che Renke volesse vedere cose che, in realtà, non esistevano. Se tu ci avessi detto dei sentimenti che provavi per lui, il consiglio non ti avrebbe mai tartassato come invece a fatto, e io non avrei mai acconsentito a cedere alle mire di Alderan.”

“Avevo paura. Pensavo di essere troppo giovane per lui, inoltre credevo che, l’avermi vista crescere, l’avesse fatto divenire a torto più amico che altro…e io…” borbottò Naell, scalciando nervosamente un sassolino con uno stivale.

“Penso piuttosto che questo sia stato  un vantaggio, per voi due, perché avete potuto conoscervi fin nel profondo, e da amici.”

Nel sorriderle, Ruak le carezzò una guancia e le domandò: “Sei felice, e i tuoi occhi brillano. Ne deduco sia quello giusto, ma te lo chiederò lo stesso. Vuoi sposarlo?”

“Sì” disse soltanto Naell, convinta come poche altre volte era stata in vita sua. “Amo Ellessandar, e amo questa terra. Desideravo con tutta me stessa salvarla dalle grinfie di Nellassat e di Kennadarya, volevo combattere al fianco degli akantaryan, e così ho fatto. Era questa la mia prova e, a quanto pare, l’ho passata con il massimo dei voti. E’ il mio popolo, papà.”

Annuendo, Ruak la attirò a sé per un rapido abbraccio e, nel darle un bacio sulle guance, dichiarò: “Tornerai con noi, quando partiremo per rientrare a casa, ma solo per confortare tua madre circa le tue condizioni di salute. Naturalmente, Ellessandar verrà con noi per ratificare i documenti inerenti il vostro matrimonio, cosicché il consiglio possa azzittirsi una volta per tutte. Inoltre, credo che farebbe bene anche a Rannyl stare in vostra compagnia ancora per un po’. Avete vissuto così tante avventure, insieme.”

“L’avrei fatto anche senza il tuo dire, padre. Non voglio abbandonare Ran, Antalion e gli zii al loro dolore. Anche se sapere Enyl insieme a Hevos è una consolazione, è ancora troppo fresca la separazione da lei, e stringerci in un abbraccio collettivo è il miglior modo per superare questo momento.”

Con un sorriso, aggiunse: “Nel branco, è così che si fa.”

“Credo sia un ottimo metodo” assentì Ruak, lanciando uno sguardo verso il cielo, dove le stelle palpitavano splendenti e la costellazione del Lupo si intravedeva oltre le forme scure del palazzo reale.

Non sapeva dove fosse il regno della Luce, ma sperava davvero con tutto il cuore che la sua adorata nipotina stesse bene e fosse felice.

“Abbi cura di te, piccola cara…” mormorò quasi tra sé Ruak, sorridendo alle stelle.

***

“Lo farò, caro zio” asserì Enyl, ammirando commossa le figure di Ruak e Naell nel giardino del palazzo di Yskandar.

La polla che le aveva mostrato Hevos si era rivelata fonte di grandi sorprese, per lei, e di immensa soddisfazione.

Certo, nessuno dei suoi cari poteva sapere che lei era in grado di vederli, ma era già una consolazione sapere che tutti loro stavano combattendo per recuperare un equilibrio, dopo il vuoto venutosi a creare con la sua mancanza.

“Pensano a te, Enyl?” le domandò Hevos, stringendole una mano per attirarla nuovamente a sé.

“Sì, ma mi sembra che i loro volti siano percorsi da speranza, non solo da tristezza” assentì la giovane, sdraiandosi accanto al corpo nudo e perfetto di Hevos, avvolti entrambi dalla morbidezza dell’erba e dei fiori profumati.

Un’aquila, in lontananza, si librò nel cielo, lanciando il suo grido.

Osservandola pensierosa nell’appoggiare il capo sul torace del suo amore, Enyl mormorò: “Imparerò mai a comprendere le stranezze di questo mondo?”

“Imparerai come feci io quando venni creato, migliaia e migliaia di epoche or sono” dichiarò Hevos, carezzandole gentilmente il contorno morbido di un seno.

La scoperta dell’amore in tutte le sue più diverse sfaccettature, aveva non soltanto reso Enyl felice, ma le aveva fatto sperimentare sentimenti e sensazioni che mai, prima di allora, si era anche soltanto illusa di poter provare.

Hevos era stato gentile con lei, procedendo per gradi per non spaventarla ed esplorando per la prima volta il suo corpo con occhi umani, mani umane, … e godendone pienamente.

Assieme alla sua amata, si era abbandonato ai più caldi piaceri e, tra le sue braccia fiduciose, si era infine perso e ritrovato.

Enyl, come suo solito, l’aveva sorpreso e deliziato, e aveva spinto Hevos a lasciarle campo libero, perché esprimesse pienamente se stessa e i suoi desideri.

Avevano riso insieme, avevano spaventato le timide farfalle con i loro ansiti, si erano tuffati nella vicina polla per puro divertimento.

Sotto il sole di quel meriggio di eterna primavera, stavano ora asciugandosi godendo della reciproca vicinanza.

Scavalcandolo di colpo per poi sedersi sul suo stomaco, le chiome bionde e ondeggianti sparse sul suo corpo come su quello di Hevos, Enyl sorrise maliziosa e mormorò: “Se noi siamo immortali, non ci stanchiamo, vero? Rimanendo qui, intendo.”

Cercato il suo viso con le mani, Hevos lo trovò anche grazie all’intervento di Enyl e, nell’avvertire il suo sorriso dispettoso sotto le dita, il giovane dio asserì pensoso: “Beh, mia diletta, a onor del vero, il tuo ragionamento è corretto. Ma mi domando perché ti sia venuta in mente una cosa simile.”

Enyl rise maliziosa e, nel chinarsi su di lui, stampò un bacio delicato sull’incavo del collo di Hevos, mormorando contro la sua pelle calda e levigata: “Pensavo di sfruttare in modo proficuo il tempo di cui disponiamo.”

“E quale sarebbe il modo da te scelto?” ironizzò Hevos, inarcando impercettibilmente la schiena, quando la sentì assaporare la sue pelle con lievi, dolci baci.

“Te lo mostrerò. E’ più facile” sussurrò allora Enyl, discendendo ancora con la sua bocca.

Il tocco impercettibile di una lacrima sulla sua pelle lo fece però irrigidire e, nel rimettersi immediatamente seduto, con Enyl ancora in grembo, Hevos le sfiorò esitante il viso.

Sospirò poi spiacente quando, sulle gote morbide, trovò fredde perle disperate.

“Enyl, no… non piangere…” mormorò il dio, stringendola a sé in un abbraccio tremante.

Lei singhiozzò, non potendolo evitare.

Con voce incrinata dal pianto, ammise: “Desidero darti tutta la gioia possibile, tutto l’amore possibile per dimostrarti quanto io apprezzi l’enorme sacrificio che tu hai fatto per me. Se potessi, ti ridarei la vista anche subito, ma non posso, non è in mio potere. Però, posso amarti come nessun’altra donna ha mai amato l’uomo che tiene il suo cuore tra le mani.”

Tu tieni il mio nelle tue” le ricordò con dolcezza lui, sfiorandole le labbra umide di lacrime con un bacio. “E, se ascolti bene, esso è lieto, felice, sereno. Non c’è nulla che lo angustia, perché tu sei con me. Non importa se non potrò più bearmi della bellezza del tuo viso, come di quella del Creato. Li ho nella mia mente, nella mia anima, e ciò mi basta. Ho te, il dono più grande di tutti.”

Enyl lo carezzò sul viso, avvertendo tutt’attorno a lui la serenità che proveniva dal suo animo.

Parzialmente pacificata, lo baciò sulle guance, domandandogli: “Non c’è davvero nulla che io possa fare per te?”

Hevos non poté che ridere della sua domanda e la giovane, accigliandosi leggermente, ritrovò immediatamente il sorriso non appena gli sentì dire: “Tutto ciò che fai mi rende felice, per cui…”

Vistasi libera di proseguire, Enyl allora lo sospinse verso l’erba mentre Hevos le sorrideva fiducioso.

Tornando a baciarlo con delicatezza e malizia assieme, procedette nella scoperta di quel nuovo mondo, per lei del tutto estraneo ma che, fino dal primo momento, lei aveva adorato.

***

Le onde si abbattevano sui fianchi della goletta mentre, all’orizzonte, bianche nubi si gonfiavano simili a panna candida e soffice.

Abbandonare Yskandar aveva portato Rannyl a provare un miscuglio dolceamaro di sensazioni.

Nel salutare la famiglia reale, aveva dovuto stringere i denti per non lasciarsi sopraffare dal dolore che aveva percepito con chiarezza nei loro animi.

Stentava a comprendere come, negli anni, sua sorella fosse riuscita a tenere a freno un simile, devastante potere.

Era davvero ben misera persona, lui, al suo confronto.

“Pensieri davvero profondi… hai la fronte aggrottata da far spavento” esordì My-chan, affiancando Rannyl sul mascone di dritta della goletta.

Il giovane sorrise a mezzo alla donna-felino che, ritta al suo fianco e singolarmente bella nella sua unicità, stava osservando il mare dinanzi a sé e la bellissima giornata che li aveva accolti alla loro partenza dal porto.

La chioma fluente, maculata come il resto del suo corpo perfetto, e ricoperto da una soffice peluria, era scomposta dal vento di bolina, ma a My-chan poco importava.

Lei non era una femmina molto interessata a quel genere di problemi, poiché la sua forma semi-umana era solo una parte della vera se stessa, e neppure la più importante.

My-chan era e sarebbe sempre rimasta un renpardo stellato che, solo per caso, possedeva l’incredibile proprietà ancestrale di mutare.

La maggior parte dei renpardi non aveva più simili poteri da secoli e, forse, nessun altro dopo My-chan l’avrebbe avuto.

“Siamo unici. Due gocce in un oceano di creature differenti da noi” mormorò My-chan, continuando a osservare l’orizzonte.

Gli occhi felini che si muovevano impercettibilmente a ogni più piccolo sciabordio del mare.

“Posso capire quanto questa tua diversità ti renda insicuro ma credimi, non sarai mai realmente solo. Hai una famiglia che ti ama, amici fidati e un intero branco ad aspettarti. Lascia che siano le loro braccia a stringerti, non le tue.”

Rannyl si guardò curiosamente e, solo in quel momento, si rese conto di stringere se stesso come se, il solo liberare il proprio corpo da quella stretta, potesse mandarlo in frantumi.

Ghignando, rilassò le braccia fino a stenderle e My-chan, annuendo compiaciuta, asserì: “Verrà un giorno in cui, forse, io troverò un compagno con cui creare un mio branco ma, se ciò non dovesse mai accadere, avrò comunque Naell ed Ellessandar, Erenokt ed Elmassary… voi tutti. Non mi sembra poca cosa, ti pare?”

“No, è un pensiero confortante” ammise Rannyl, lanciando uno sguardo dietro di sé per scrutare le figure poco lontane della sua famiglia.

My-chan ne seguì lo sguardo, annuendo e dando una pacca sulla spalla al giovane.

“Enyl mancherà a tutti, ma sappiamo che è felice con l’uomo che ama e, cosa ancora più bella, abbiamo la certezza che vivrà in eterno con lui. Anche questo è confortante.”

“Sì” annuì soltanto Rannyl, volgendo le spalle all’orizzonte.

Il renpardo sorrise soddisfatto e, nell’avvolgergli la vita con un braccio, si avviò con lui verso coloro che amavano.

“La famiglia non ci lascerà mai soli, Ran, per quanto diversi da tutti loro noi potremo mai essere. La famiglia è amore, e l’amore può arrivare ovunque, anche nei nostri cuori tristi e solitari.”

Rannyl non poté che annuire e, nello stringersela al fianco, si ritrovò a sorridere di vero piacere dacché Enyl era scomparsa dinanzi ai suoi occhi.

Sì, lui ora era il depositario del potere della Luce sul loro mondo.

Questo l’avrebbe reso più unico che raro anche tra le creature più rare tra tutte, ma ciò non doveva spaventarlo perché, assieme a lui, ci sarebbe stata per sempre la sua famiglia.

Il suo mondo.

 

 

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Capitolo 20
*** Epilogo. ***


●●Epilogo●●

 

 

 

 

 

 

 

Cinque anni dopo.

 

 

 

Il ritorno da Marhna, per Rannyl, aveva sempre un sapore dolce amaro.

Vedere i nonni, gli zii, Sendala ed Enok e le loro famiglie, era piacevole, così come fare visita a Kannor nell’immensa villa del borgomastro dove lui risiedeva stabilmente.

Lasciare quei lidi per fare ritorno al villaggio, era strano ogni volta, comunque.

Si sentiva perennemente spezzato in due e, a distanza di così tanti anni dalla perdita-non perdita della gemella, avrebbe dovuto essersi abituato a quella sensazione.

Così non era, e dubitava che lo sarebbe mai stato.

Se non altro, nella sua bisaccia, conteneva missive che lo rendevano lieto di essere al mondo, per una volta tanto nella vita.

Naell aveva scritto da Yskandar per metterli al corrente della nascita della loro secondogenita, una femminuccia dalla pelle color cioccolato e gli occhi chiari come la madre, che avevano chiamato Enyl.

La scelta del nome aveva reso felice Rannyl, e il desiderio di vedere la piccola era stato così forte che, se non fosse stato per le persone che lo attendevano a Hyo-den, sarebbe partito alla volta del porto di Elior per raggiungere Akantar con la prima nave disponibile.

La seconda missiva era più pragmatica e, a seconda dei punti di vista, poteva essere vista come una notizia piacevole o miserevole.

Colui che un tempo era stato chiamato Conte Alderan, si era tolto la vita nella cella in cui era stato rinchiuso anni addietro.

Si era impiccato con una corda fabbricata grazie alla copertura di stoffa del pagliericcio dove dormiva.

Coryn aveva appreso la notizia in viaggio, di ritorno da Rumenea, dove si era recato in visita come Ministro del Commercio della Corona.

La scoperta della misera fine del padre non lo aveva scosso più di tanto, anche se Rannyl immaginava che, con il carattere gentile e generoso di Coryn, più di una lacrima doveva aver versato in segreto per l’uomo che l’aveva messo al mondo.

Uno stormo di strelle argentate si involò dalla cima di un larice, sorprendendo Rannyl.

Ammirato, le scrutò nel loro volo caotico e che le portò, una dopo l’altra, a involarsi nel fitto del bosco di abeti, che correva lungo la carovaniera che l’avrebbe ricondotto a Hyo-den.

Sorridendo nel tornare a pensare alle notizie variegate che conduceva con sé, lasciò che la sua mente andasse alla terza missiva, che proveniva da Ruak.

Il re suo zio li invitava a palazzo per la nascita di un nuovo bebè, figlio di Staryn e della sua cara moglie.

I festeggiamenti si sarebbero tenuti di lì a un mese e, vista la bella stagione, era più che certo che la sua famiglia si sarebbe messa in viaggio per raggiungere Rajana quanto prima.

Non che lui fosse particolarmente in vena di festeggiare, ma Kalia sosteneva che tenere perennemente il broncio, era inutile e controproducente.

Pensare a lei, riportò immediatamente il sorriso sul volto di Rannyl.

Da quando Naell era rimasta a Yskandar, lei aveva ripreso la sua vita al villaggio.

Proprio grazie al suo appoggio e al suo aiuto spontaneo, Rannyl era riuscito infine a superare l’iniziale dolore per la perdita fisica della gemella.

Il fatto che fossero finiti a letto insieme durante una notte di luna piena, a coronamento dei festeggiamenti per il suo ventunesimo compleanno, era un dato ininfluente.

Rannyl si era ubriacato di brutto, quella notte, e Kalia gli aveva fatto degna compagnia.

La mattina seguente, più sani di mente e di corpo, ne avevano riso come pazzi e Rannyl, in quel momento, si era reso conto che solo con Kalia poteva sorridere… e tornare a ridere di nuovo.

I suoi genitori avevano riso con lui, quando aveva ammesso dove fosse finito, visto che non era più rientrato a casa, dopo i festeggiamenti.

Non avevano la più pallida idea se, da quella notte sfrenata, sarebbe nato qualcosa – era ancora troppo presto, visto che era passato solo un mese – ma Rannyl era lieto che fosse successo.

E, a quanto gli era parso, anche Kalia aveva gradito l’interludio.

Se fosse nato un figlio, Rannyl se ne sarebbe preso cura, lo avrebbe amato e protetto assieme a Kalia e, se lei lo avesse desiderato, avrebbero costruito una vita assieme.

Anche se lei era molto più matura di lui – a dividerli c’erano quasi dieci anni – a Rannyl non importava.

Solo Kalia aveva il potere di farlo sentire completo, un’unica entità, non un corpo spezzato e solo.

Voleva pur dire qualcosa, no?

A ogni buon conto, era presto per tutto, e nessuno correva loro dietro.

Quando, e se, avesse dovuto decidere in tal senso, ne avrebbe parlato con Kalia e i suoi genitori.

Era adulto da tempo e, in linea teorica, non avrebbe dovuto neppure prendere in considerazione di attendere il benestare di mamma e papà ma, visto ciò che era successo…

Gli sembrava di tradire sia la madre che il padre, anche se il solo pensarlo era senza senso. Sapeva benissimo che i genitori volevano solo il suo bene.

Così come Antalion, anche se era ben più difficile comprenderlo, rispetto a mamma e papà che, nonostante tutto, erano sempre sorridenti e gioviali.

Sapeva per cosa certa che, dopo diversi mesi di ansia e sconforto, la loro vita era tornata più o meno quella di prima.

Avere in sé il dono di Enyl, a volte, non gli pesava, se poteva servire a rasserenarlo sulle condizioni dei genitori.

Antalion, invece, era un dilemma.

Con lui, non si era arrischiato a curiosare ma, in ogni caso, sarebbe stata battaglia persa.

Quando stava in sua compagnia, appariva sempre ermetico.

Non perdeva giorno senza inoltrarsi nel bosco, forse nella speranza vana di incontrare Hevos per chiedere notizie di Enyl.

Gli sembrava quasi che, il solo vederlo, lo facesse soffrire più di quanto fosse lecito patire.

In cuor suo, non sapeva che pensare.

Aveva paura di rimanere per più di qualche ora con Antalion, per il terrore di ferire i suoi sentimenti, ma non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli come si sentisse ad averlo vicino.

Non voleva turbarlo più di quanto già non lo fosse perché era evidente che, in sua compagnia, si sentiva a disagio, e finiva col barricarsi.

Fu perciò una sorpresa vederlo giungere dalla carovaniera, il portamento fiero di sempre e i capelli lisci e scuri stretti in una coda di cavallo, come suo solito.

Rannyl, al contrario, li portava sempre cortissimi, pur se si era concesso di lasciarsi crescere una ciocca di capelli che, stranamente, si era imbiondita fino a divenire dello stesso colore di quelli di Enyl.

Lui la teneva perennemente intrecciata e poggiata sulla spalla sinistra.

Bloccando la sua cavalcatura lungo il sentiero, Rannyl lo salutò con un cenno della mano.

Nel raggiungerlo, Antalion volse il cavallo per affiancarsi al fratello e disporsi con lui lungo la via del ritorno.

Con un borbottio, disse poi a mezza voce: “Mi domandavo come mai tardassi, così ti sono venuto incontro.”

“Nonna non voleva più lasciarmi andare. Ho due sporte di cibo preparato da lei” sorrise Ran nel riprendere il cammino assieme ad Antalion.

Abbozzando un sorriso, il fratello maggiore assentì divertito.

“Impossibile che Ildera non ci lasci qualcosa da mangiare. Forse pensa che, al villaggio, facciamo la fame.”

“Può essere” assentì Rannyl, prima di cadere in un silenzio imbarazzato.

Antalion non disse altro per una buona mezz’ora e, ad accompagnarli in quel viaggio di rientro davvero insolito, vi furono solo gli sbuffi dei cavalli, il fischiettare degli uccellini e lo scalpiccio degli zoccoli sul terreno dissestato.

“E’ difficile” bofonchiò a un certo punto Antalion, facendo sobbalzare per la sorpresa Rannyl, che lo fissò stranito e con occhi sgranati.

“Cosa?” mormorò lui, dubbioso.

“Guardarti senza provare perennemente la sensazione di abbracciarti per non lasciarti più andare” ammise Antalion, sorridendogli imbarazzato per un attimo prima di tornare a scrutare in avanti, lungo il sentiero. “Mamma e papà sembrano essersene fatti una ragione e, anzi, mi sembrano tranquilli. Ma io…”

“Enyl era la tua preferita” dichiarò tranquillo Rannyl, scrollando di spalle.

Antalion si volse verso di lui con un risentimento nello sguardo quasi palpabile. Rannyl allora deglutì a fatica e il fratello maggiore, torvo, ringhiò: “Non ho mai avuto un preferito, scemo! Vi ho amati entrambi fin dal primo giorno in cui vi vidi!”

“An…” ansò spiacente Rannyl.

L’uomo reclinò il viso a fissarsi le mani che stringevano con forza le briglie del cavallo, la mente percorsa da mille e più pensieri.

Il vento soffiò leggero tra le fronte degli abeti, facendoli mugghiare e Antalion, a mezza voce, asserì: “Vi ho amati da sempre, come amo i miei figli… vi amo come loro. Non vorrei mai lasciarti da solo, ma so che è stupido, ingiusto e crudele. Devi poter vivere la tua vita serenamente, non vedere me con la faccia pesta e che ti guardo come se… come se…”

Sfiorando la spalla del fratello con una mano, Rannyl gli sorrise comprensivo e annuì.

“Ho capito, An. Io avevo paura che tu potessi odiarmi in qualche modo, perché sono rimasto solo io, così non sapevo mai se stare con me ti faceva piacere o meno.”

“Non pensarlo mai più, idiota che non sei altro!” sbottò Antalion, oscurandosi in volto.

Rannyl allora ridacchiò e borbottò: “Prima scemo, ora idiota. Sto facendo carriera!”

Antalion fece per rabberciarlo, ma l’ululato in un lupo nella foresta fece bloccare di colpo le loro cavalcature.

I lupi al loro fianco rizzarono le orecchie, guardinghi, prima di correre a perdifiato all’interno del bosco, lasciando i loro compagni di viaggio basiti e sconcertati.

“Ehi! Tornate indietro!” sbottò Antalion prima di impallidire visibilmente quando l’ululato riverberò nuovamente attorno a loro, potente e fiero e… innaturale.

“Non è possibile!” esclamò Rannyl, balzando dalla cavalcatura assieme al fratello per rincorrere i loro lupi. “Aveva detto che non avrebbe più potuto tornare!”

“Beh, non mi interessa! E’ l’unico legame con Enyl che abbiamo, quindi lo troverò e lo torcerò ben bene per sapere come sta!” ringhiò Antalion, balzando oltre un cespuglio con la stessa agilità di un lupo.

Rannyl lo seguì a ruota, la freoha che gli rombava nel sangue come il rombo di un tuono nella tempesta.

Oltrepassarono il torrente che proveniva dal ghiacciaio quasi senza vederlo mentre, a poca distanza da loro, i lupi erano lanciati nella corsa,  a testa bassa, le orecchie acquattate e gli occhi fissi su un punto preciso della foresta.

“Di là!” esclamò a un tratto Rannyl, inquadrando un lieve bagliore biancastro nella fitta penombra dell’abetaia.

Scartando a sinistra con un balzo elegante, Antalion si aggrappò a un ramo di pino per slanciarsi in avanti e guadagnare più agevolmente terreno, mentre Rannyl lo imitava con identica maestria.

Quando infine raggiunsero una radura a loro sconosciuta, trovarono ad attenderli i loro due lupi…  e un enorme lupo bianco circonfuso di brina scintillante.

“Hevos” ansò Antalion, crollando a terra in ginocchio, incredulo.

Rannyl si limitò a fissare il niveo lupo per alcuni secondi prima di gracchiare: “Non… è … possibile.”

I loro compagni, nell’inchinarsi al nuovo venuto, si allontanarono subito dopo nel bosco, come a voler lasciare quel momento solo per i loro compagni.

A quel punto, il lupo ammantato di brina si avvicinò ai due giovani prima di accomodarsi sulle zampe posteriori, allungare la lingua fuori dalle zanne e dire sommessamente: “Ben ritrovati, fratelli.”

Lo sconcerto fu tale che anche Rannyl crollò a terra, le gambe rese acqua da quella confessione a sorpresa.

Solo in quell’istante, si rese conto che l’animale che avevano loro innanzi era, a tutti gli effetti, una femmina e non un maschio.

Una risatina allegra e argentina scaturì dalle zanne della lupa, e una voce trillante e solo vagamente metallica scaturì nuovamente da quella bocca non umana per aggiungere: “E’ bello rivedervi, finalmente.”

“Enyl… sei veramente tu?” esalò Rannyl, camminando carponi per avvicinarsi maggiormente alla lupa bianca.

“Sì, fratello… sono io. In carne, ossa e pelo” ridacchiò lei, allungandosi per leccarlo in viso.

Rannyl allora scoppiò in una risata frenetica e Antalion, con un gesto improvviso, abbracciò entrambi, esclamando: “Sia ringraziato Hevos! Sei qui!”

La lupa che era Enyl leccò anche Antalion in viso e, stretta in quell’abbraccio caloroso e che, da anni, aveva bramato come l’aria, spiegò loro: “Dovete perdonarmi se ho impiegato tanto per tornare, ma non è stato facile comprendere come mutare la mia forma umana in quella animale e, soprattutto, come aprire i Portali di Luce per giungere nel punto giusto. Non posso spuntare dove voglio, e questa radura è il punto più vicino al villaggio che ho saputo trovare.”

“Ma… Hevos aveva detto che…” tentennò Antalion, ora del tutto confuso.

Enyl rise sommessamente e ammise: “In effetti, lui non può più giungere qui. Ma la sua promessa valeva per se stesso, non per me. Rendendomi immortale, mi ha fatto dono dei suoi medesimi poteri, perciò ho potuto apprendere ciò che lui sa, e agire come lui. Mutazione compresa. E, visto che il veto apparteneva solo a lui, io sono potuta uscire dal regno immortale per un po’.”

Antalion e Rannyl allora risero lieti di quell’espediente ed Enyl, scostandosi da loro, dichiarò: “Non solo Caos sa scompaginare le leggi dell’Oltremondo. Anche Hevos conosce qualche trucchetto.”

“Sei felice, allora?” le domandò Rannyl, carezzandole con un gesto ripetitivo la morbida gorgiera.

Lei annuì col muso e asserì fiera: “Il luogo in cui dimoro con Hevos è come le montagne in cui sono nata, perciò non poteva essermi che caro fin dal principio ma, soprattutto, sono felice perché sono con lui. E…”

“E…” ansarono entrambi, vedendola reclinare vergognosa il musetto.

“La prossima volta che verrò, vi mostrerò vostra… nipote.”

I due fratelli strabuzzarono gli occhi di fronte a quella notizia ma, immediatamente, come la gioia per quella lieta novella era giunta a illuminare i loro volti, così il dubbio la spense, rendendoli ansiosi.

“Enyl, ma siamo sicuri che Hevos non sarà costretto ad abbandonare anche te e… oh, cacchio… nostra nipote come fece con Hyo?” esalò Rannyl, ridacchiando al pensiero di avere una nipotina.

Sarebbe stata un lupetto grazioso, o una bambina affascinante come la gemella?

“E’ impossibile che ciò succeda, Ran. Ricorda… entrambi noi siamo nati con il potere della Luce nel nostro corpo, perciò eravamo già dal principio legati a doppio filo con Hevos. L’avermi resa immortale ha solo rafforzato questa unione. E Ylveren non è dissimile dai suoi genitori, quindi anche lei potrà godere dell’immortalità della Luce” spiegò loro Enyl, illuminandosi maggiormente al solo nominare la figlia.

“Ha un bellissimo nome” asserì Antalion, tornando ad abbracciarla gentilmente prima di baciarle la punta del naso umido.

“Grazie. Ora devo andare, perché questo mio primo esperimento mi ha sfiancata ma, ora che so come fare, appena potrò, tornerò. Forse tra un anno, credo, … in questo periodo.”

Nel dirlo, lanciò uno sguardo in direzione di un gruppo di rocce presenti nella radura e queste si mossero al tocco del suo potere, disponendosi a cerchio tutt’intorno a loro.

Rannyl e Antalion osservarono quella strana danza di rocce prima di sobbalzare leggermente, quando esse caddero fragorosamente a terra, facendo tremare il terreno.

“Così, saprete riconoscere a prima vista la radura” dichiarò soddisfatta Enyl. “D’ora in poi, mi occuperò io delle nostre sorelle e dei nostri fratelli, come finora se n’era occupato Hevos. Spero solo di essere abbastanza saggia per questo compito.”

“Hai dato la tua vita mortale per tutti noi… penso sia già un merito importante” le fece notare Antalion, rimettendosi in piedi assieme al fratello.

La lupa annuì e, nel trotterellare per il prato, ammise: “Sì, forse come inizio non è male… ma saprò fare meglio, col passare del tempo.”

“Dovremo erigere nuovi templi in tuo onore?” rise allora Rannyl, ammiccando al suo indirizzo. “Ti chiameremo la dea-lupa Enyl?”

La lupa gli fece la linguaccia, confermandogli – se mai ve ne fosse stato bisogno – che entro quel corpo così estraneo per lui esisteva ancora la sorella.

Aveva cambiato forma, luogo in cui vivere, ma lei era sempre la stessa, sempre la sua dolce e spassosa sorella.

“Ricordati, due entità in una” gli rammentò Enyl, tornando accanto a Rannyl per leccargli una mano. “Ora, nessuna dimensione mi terrà lontana dalla tua mente.”

Il giovane annuì, più che lieto della notizia e la sorella, tossendo una risata lupesca che fece sorridere entrambi i fratelli, chiese loro: “Portate anche mamma e papà, l’anno prossimo? Vorrei vederli.”

“Appena racconteremo loro cosa ci è successo, si accamperanno qui fin da oggi” dichiarò Antalion, scoppiando a ridere di gioia autentica, gioia che da cinque anni non aveva più provato o solo avvertito palpitare nel suo cuore.

“Fate sapere alle genti che Hevos non è perduto, e che le preghiere verranno sempre ascoltate. Quando potrò, parlerò e, quando non potrò parlare, sarai tu, Rannyl, a consigliare e guidare al posto mio.”

“E non comandare” assentì Rannyl, fiero della sorella e del ruolo che aveva preso sulle sue spalle al posto del compagno, che aveva sacrificato il suo amore per l’umanità intera – che aveva visto nascere e crescere – al fine di salvare la donna amata.

“Mai. La Luce, come la Tenebra, non comanda. Guida. Consiglia. Offre.”

La brina a quel punto avvolse il corpo niveo di Enyl e i due fratelli, ritti l’uno a fianco dell’altro, osservarono con rinnovata fiducia il corpo del lupo svanire in uno scintillio dorato.

Al suo posto, rimase solo la radura spoglia e il cerchio di pietre, a imperitura memoria del passaggio del nuovo Immortale Portatore di Luce.

Scambiandosi uno sguardo d’intesa, i due fratelli tornarono ai loro cavalli con un’andatura più sciolta che all’andata.

Un sorriso gemello aleggiava sui loro volti assieme alla certezza che, da quel giorno in poi, la tristezza per la lontananza da Enyl sarebbe stata più dolce, più sopportabile.

Avrebbe potuto tornare a parlare con lei come faceva un tempo, se mai ve ne fosse stato bisogno e, per tutto il resto… cos’era, un anno di attesa?

Un anno, dopotutto, passa in fretta.

 

 

FINE

 



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N.d.A.: E qui chiudo la trilogia legata ad Aken ed Eikhe. Vorrei ringraziarvi per avermi seguito fino a qui, per aver commentato e offerto consigli. Sappiate che il vostro supporto è sempre stato più che apprezzato! :)
Grazie, e arrivederci per nuove avventure.


 

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