Il principe di Londra

di Perla_Nera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1° ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2° ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3° ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Amavo la metropolitana di Londra. Il suo caos, la sensazione di movimento quasi percettibile al tatto, la tanta gente che ne riempiva gli angoli.  Non c’era nulla di più interessante, per me, alle 6,30 del mattino,  dell’ascoltare buona musica e dell’osservare tutte quelle persone così diverse e particolarmente uniche.
Ogni mattina il mio occhio riconosceva e ricercava le figure che più mi incuriosivano.  Mi dilettavo alla creazione di buffe storie, li collocavo all’interno di racconti, così, tanto per trascorrere il tempo.
A pochi passi da me c’era la signora dei cappelli, fantasiosamente rinominata da me, Miss Hat. Non molto alta, portava i capelli tinti d biondo corti e sciolti e ciò che la rendeva interessante erano i suoi copricapo. Ogni mattina indossava un cappello diverso, di un diverso modello, di un diverso colore, di un diverso materiale. La parte che le si addiceva di più era quella dell’eroina,  per ogni cappello immaginavo un potere straordinario. Quella mattina probabilmente poteva armarsi di una verde speranza, capace di distruggere la negatività soggiogatrice del mondo.
Mi guardai attorno alla ricerca dell’uomo che rappresentava il malvagio della mia storia. Un gigante dai folti baffi di fuoco che, però, doveva ancora arrivare. Era goffo con dei lunghi baffi, molto alto e non poteva fare a meno di portare una sigaretta alla bocca ancora fumante, nonostante fosse stata spenta prima di scendere in metropolitana. Tutti i suoi piani spietati erano finanziati da Lady Gioiello, una prorompente donna in carriera, con scuri occhiali da sole e firmati tailleur alla moda, che ancheggiava come fosse su di una passerella sotto l’asfalto.
La storia non era ben delineata, ma non potevo omettere lo strambo ragazzo con i pantaloni anni ’70, l’esile signora dai tratti spigolosi e la ragazza con le ciocche di capelli rosa. Non sarebbe mai stato un best-seller, ma avrebbe fatto passare in fretta quei dieci minuti d’attesa.
Risi tra me e me dei miei fantasiosi pensieri senza neppure rendermene conto. La metro mi piaceva particolarmente. Un frullato di rumori differenti.
Il forte e assordante frastuono delle rotaie, le piccole ruote dei tanti trolley che si esibivano in un concerto come fossero un orchestra di suoni, i tanti “clop” delle ventiquattrore aperte e richiuse almeno una decina di volte, lo squillo dei cellulari provenire da diverse direzioni. Il tutto era racchiuso in un’atmosfera fatta di una indeterminata miscela di odori.
Sentii la fragranza del caffè provenire dal bicchiere dell’uomo seduto accanto a me. L’aroma riempì la mia mente. Probabilmente era un decaffeinato, intenso e deciso.
Mi affacciai alla mia sinistra, completamente coperta da una lunga fila di persone che come me attendevano. Riconobbi l’odore di un profumo che utilizzavo in passato; fruttato, dolce ma incisivo.
Ritornai alla mia posizione di partenza e chiusi gli occhi per un secondo, allontanando tutti quei suoni e quegli odori.
In alcune mattine, come quelle, facevo ancora fatica a credere di essere a Londra.
Ormai ero lì da due anni e non era affatto facile viverci. In quel momento avevo un affitto da pagare, ero appena stata licenziata da un pub, dove lavoravo come cameriera, e la mia unica speranza era riposta in quel treno da prendere, che mi avrebbe portata ad uno pseudo colloquio in una caffetteria. L’annuncio, trovato per strada pochi giorni prima, era costituito da un foglio A4 rosa con su scritto in grassetto nero  “Beks, cerca cameriera con esperienza. Buona retribuzione. Orari flessibili!” seguito dal numero di telefono del proprietario, un certo Mike. Telefonai all’istante e presi appuntamento: l’ennesimo sforzo, l’ennesimo passo avanti.
Pensai a mia madre e al fatto che la tenevo all’oscuro di molte cose. Sapeva che me la cavavo piuttosto bene; credeva lavorassi come addetta alle vendite in una boutique d’abbigliamento, quello che era stato il mio primo lavoro nella capitale. Essere a Londra era in qualche modo anche il suo sogno. Potevo farle credere ancora in qualcosa e non c’era bisogno, quindi, le dessi preoccupazioni inutili.
Entrai nel treno senza neppure pensarci troppo. Come un abitudine, una routine ormai fissa e ben delineata. Scomparve come ogni mattina il poco tempo dedicato alla fantasia e all’immaginazione. Finì via il racconto, volò via l’eroina e il malvagio e il calore del mio viso. I muscoli divennero tesi e la mia mente si appiattì in discussioni più serie, determinative, più reali.
Eppure un pensiero restava sempre, mattina dopo mattina. Chi ero io agli occhi degli altri? Qual era il mio potere, il mio personaggio, la mia caratteristica? Qual era la mia parte nelle storie della gente che mi osservava?
Poggiai la testa al vetro alla mia sinistra, mi lasciai cullare dal rumore delle rotaie, cercando di non pensare, ascoltando il cavalcare del motore e l’incedere del metallo sotto i miei piedi.
Forse mi addormentai per qualche minuto, perché il viaggio durò meno del previsto. Raggiunsi la caffetteria Beks in pochi istanti. Non era distante dalla metro.
L’insegna era grande, centrale, molto semplice. Un cartello nero con su scritto “Caffetteria Beks”. La porta centrale era trasparente, ma impedivano la piena visuale decine di fogli con su scritti annunci, pubblicità e sponsor. Ai lati dell’entrata c’erano due vetrine non molto ampie, che fungevano anche da finestre. Lo spazio del marciapiede che le antecedeva era occupato da pochi tavoli con le rispettive sedie, il tutto delimitato da fioriere colorate. L’area occupata dalla caffetteria era ombreggiata da due tendoni aperti, a strisce bianche e verdi, un po’ rovinati ,forse, dalle continue piogge inglesi.
Mi avvicinai alla porta e un po’ titubante la aprii.
Simultaneamente sentii il suono cristallino di alcuni ciondoli appesi al soffitto, lì apposta per annunciare chi oltrepassava l’entrata. Mentre questi ripetevano il loro dovere alla chiusura della porta, mi avvicinai al bancone, dove alcune persone si dedicavano alla propria consumazione.
Una donna sulla quarantina mi sorrise mettendo così in risalto il gonfiore dei suoi occhi,  probabile segno del non tanto lontano riposo notturno. Aveva i capelli scuri legati in una coda morbida e i lineamenti del viso precisi ma nello stesso momento delicati. Pensai non fosse della città o comunque avesse origini del sud Europa, vista la carnagione scura che sfoggiava da sotto la divisa lavorativa.
-Cosa ti porto cara?
La sua voce riuscì a mettermi coraggio e a farmi sentire a mio agio. Dalle sue labbra sottili echeggiò un tono caldo, quasi materno.
-Oh, in verità sono qui per l’offerta di lavoro. Ho trovato l’annuncio in una bacheca- risposi al suo sorriso educatamente avvicinandomi al bancone.
Il suo viso assunse un’espressione quasi dispiaciuta e si voltò a guardare due volte alle spalle, cercando forse qualcosa sul piano di lavoro.
- Mi dispiace, Mike, il responsabile non c’è in questo momento. Non so con precisione quando arriverà. Ma posso farti compilare la domanda lavorativa che mi ha lasciato- mi disse voltandosi ancora una volta per afferrare un foglio che delicatamente ripose sul bancone davanti a me.
- Si, certo!-  le risposi cercando una penna tra la confusione della mia borsa.
- La penna è qui-  mi anticipò la donna ponendola sul foglio -Desideri un caffè intanto?
- Molto volentieri- acconsentii per essere gentile mentre mi accomodai ad uno dei tavoli all’interno della caffetteria per compilare la domanda di lavoro.
L’ambiente interno era molto carino. I tavoli erano ben disposti. Solo in quel momento feci caso alla musica che riempiva il locale, creando un’atmosfera quasi spensierata. Sfilai il cappotto poggiandolo sulla sedia accanto e afferrai la penna, portando, prima, i ciuffi ribelli dietro le orecchie.
Rimasi sorpresa nel vedere scritta una sola ed unica intestazione: “Parlaci di te”, seguita da una breve nota che indicava l’inserimento di un recapito telefonico.
Mi guardai intorno e la caffetteria cominciò a riempirsi. Entrarono altre due persone prima che la donna con cui avevo avuto quel breve dialogo, cominciò a dirigersi verso di me, con in mano la tazza contenente il mio caffè.
- Grazie- le dissi porgendole automaticamente un sorriso di cortesia.
Rispose in fretta con la stessa mimica facciale prima di tornare al banco, dove alcuni clienti l’attendevano.
Afferrai la tazza e lasciai che l’aroma del caffè inebriasse la mia mente. La sensazione di calore fu immediata quando bevvi alcuni sorsi, lentamente, osservando l’andazzo del locale.
Riposi la tazza sul tavolo e tornai al foglio ancora fin troppo bianco dinnanzi a me. Riportai le ciocche ribelli dei mie capelli castani dietro le orecchie e mi decisi ad iniziare a scrivere di me.

 “Mi chiamo Jacqueline Bennett, sono nata a Londra il 14 Aprile del 1989, ma ho trascorso parte della mia infanzia e adolescenza ad Ennis, nella contea del Clare, in Irlanda. I miei genitori vivono attualmente lì. Mia madre lavora presso un negozio caratteristico di famiglia, aiutata da Fiona, mia sorella maggiore. Mio padre è come se non esistesse. Ma meglio così. Subito dopo il diploma mi son trasferita a Londra, dove ho lavorato come addetta alle vendite in una boutique, come commessa in un mini-market e come cameriera in un pub. Sono attualmente alla ricerca di lavoro per pagare il mio affitto, che incombe puntuale peggio di una piaga, e inseguire quello che è il mio sogno, diventare una scrittrice. So che non ci riuscirò mai, ma spesso mi fa comodo come scusante con mia madre. Amo gli animali, soprattutto i cani e non ho un esatto orientamento politico. Mangio di tutto, tranne l’insalata, nessuna allergia e poche aspettative. Ho avuto un ragazzo tempo fa, Andrew, che ho mollato perché andava a letto con la mia migliore amica. Sono cocciuta, testarda e istintiva, a volte anche permalosa purtroppo, ma il mio più grande pregio è la sincerità. Passo il mio tempo in metro inventando storie senza senso rischiando di passare per folle se qualcuno venisse a conoscenza del mio piccolo segreto. Mi son sentita dire mille volte che non ho autostima, ma non è così, è la vita ,in verità, che mi butta giù, quindi meglio strisciare bassi che volare ad ali spiegate. Non so realmente cosa cerco, cosa voglio, chi sono, dove voglio andare, come e con chi! Credo di essere…”

Senza far cadere la penna tra le mie dita, mi allisciai il viso con entrambe le mani, percorrendo il profilo delle mie sopracciglia. I miei occhi tornarono a studiare distrattamente l’ambiente circostante, prima di gettarsi sulle parole insensate appena scritte. Cancellai il tutto con la penna e ,senza pensarci neppure due volte, accartocciai il foglio tra le mani, intenta a chiedere alla donna dietro al bancone un altro foglio per la mia domanda lavorativa.



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Note: Grazie a tutti voi che avete letto questo prologo!!! Tengo tantissimo a questa storia che provai ad iniziare tanto tempo fa. In questi mesi non ho fatto altro che pensare e ripensare al racconto, ai personaggi e alle dinamiche. Spero davvero che stavolta sia la volta buona. La mia prospettiva è diversa e sono davvero convinta di poter metter su qualcosa di buono.
Detto ciò, spero vi sia piaciuto il prologo e sopratutto che vi abbia incuriosito! Fatemi sapere se vi va attraverso i commenti, risponderò a tutti, e vi prometto che nei prossimi capitoli scoprirete molto di più di Jackie e dei nuovi personaggi.
In attesa dei vostri pensieri, un abbraccio,
Perla ♥

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Capitolo 2
*** Capitolo 1° ***


Capitolo 1



Nonostante lavorassi da già tre mesi da Beks, ancora dovevo imparare dove erano riposte le tazze per la cioccolata calda.

- Jackie, Mike ha deciso di riordinare le tazze nel secondo ripiano, sotto il bancone. Si, esatto, proprio ahì!– mi aiutò Eleonor indicando con la mano il punto esatto a cui stava facendo riferimento.
- Perché poi le ha spostate ancora?
- Oh, non me lo chiedere, es un mistero! – rispose sarcastica.
Afferrai le due tazze di cui avevo bisogno per l’ordinazione e le appoggiai sul vassoio.
- Mi passi la cioccolata?
Eleonor mi passò il recipiente contenente la bevanda degli dei che cominciai a versare nelle tazze con delicatezza, cercando di non far colare nulla. Mentre mi dedicavo al mio lavoro sentivo fissi su di me gli occhi della mia collega e spostai lo sguardo per pochi secondi sulla sua figura. Era appoggiata al bancone, con il viso rivolto verso di me, mentre con uno sguardo materno scrutava dritta nei miei occhi.
- Cosa? – chiesi aggrottando leggermente la fronte.
- Hai chiamato tua madre in questi giorni?
Eleonor conosceva la mia storia. Sapeva quanto cercassi di tenere lontano ciò che avevo lasciato ad Ennis, in Irlanda. C’era Fiona, mia sorella, che si occupava di mia madre e questo mi rendeva più tranquilla.
Feci cenno di no con il capo mentre cambiando discorso, provai a far scivolare via l’argomento.
- Oggi incontro la candidata numero tre! Chissà se, finalmente, troverò la coinquilina adatta!
- Beh, dopo la frivola Barbie numero uno e la poco attenta all’igiene candidata numero due, forse questa sarà la volta buone!
- Lo spero proprio! Il numero tre indica la perfezione ma io non cerco altro che una persona normale che mi aiuti con l’affitto; e mai impresa mi è parsa più ardua! – scherzai con tono epico.
Riposi la cioccolata, non appena terminai di riempire le due tazze e afferrai il vassoio pronta a servire l’ordinazione al tavolo all’esterno. Eleonor però non aveva smesso di scrutarmi con quel suo fare indagatore, facendomi intuire perfettamente che per lei il discorso precedente non era ancora stato sufficientemente affrontato.
- La chiamerò, promesso!- le feci accennando un sorriso. Sapevo quanto Eleonor fosse affezionata a me e quanto fosse sincero e puro il suo affetto quasi materno.
- Con il cuore, cariño! Devi farlo con il cuore! – mi disse, lasciandosi andare al suo forte accento spagnolo, mentre prese sistemare il bancone.
Spostai dietro le orecchie le ciocche di capelli ribelli che scappavano dalla coda di cavallo. Mi avviai verso la porta, con il vassoio tenuto in equilibrio su di una mano, mentre la radio mandò il mio pezzo preferito dei Coldplay, “Yellow”.
Non appena il tintinnio dei ciondoli appesi alla porta echeggiò alle mie spalle, la musica, riprodotta anche all’esterno della caffetteria, venne sporcata dai rumori vivi della città.
- Grazie! – mi fece una delle due ragazze quando servii le tazze con la cioccolata da loro ordinate.
Accennai un sorriso mentre notai il tavolo accanto ancora non ripulito. Afferrai il panno inumidito dalla tasca del grembiule che avevo legato ai fianchi mentre senza accorgermene iniziai ad intonare le parole della canzone.
- Look at the stars, look how they shine for you, and everything you do…
In quell preciso istante sentii una voce lievemente roca emettere un sommesso sorriso. Mi voltai alle mie spalle, verso l’ultimo tavolo posto infondo e notai un ragazzo seduto che probabilmente mi osservava. Non riuscii a comprendere subito la direzione del suo sguardo a causa della mia lieve miopia, ma cominciai ad avvicinarmi pensando dovesse richiedere l’ordinazione.
A pochi passi dal tavolo il ragazzo abbassò lo sguardo prendendo a giocare con uno dei molteplici anelli che aveva alle dita. Le sue labbra sottili accennavano un sorriso, contornate da una velata barba poco curata. Portava i capelli castani legati in una coda corta che lasciava però ricadere alcune ciocche sul viso, lunghe fino alle orecchie.
- Ehm, ciao! Cosa ti porto? – chiesi titubante, forse frenata dall’imbarazzo della mia precedente e breve esibizione canora.
Il ragazzo alzò lo sguardo da sotto le ciglia scure, mostrando ai miei occhi il verde intenso delle sue iridi.
- Devi scusarmi, non volevo ascoltare. Non l’ho fatto con malizia. – spiegò con mia sorpresa, acquistando quella che pareva una sincera espressione dispiaciuta.
- N-no… non preoccuparti… - sentenziai imbarazzata. La mia voce non era certo armoniosa e intonata.
Mi sorrise ancora.
- I Coldplay sono uno dei miei gruppi preferiti! – aggiunse forse sentendosi in dovere di mettermi a mio agio.
- Sono d’accordo. Piacciono molto anche a me. Questo è il mio pezzo preferito.
Non era la prima volta che i clienti cercavano quattro chiacchiere quando chiedevo loro l’ordinazione, ma stavolta era strano. Sembrava che entrambi fossimo spinti dal parlare per far dissolvere quell’imbarazzo creato quasi senza motivo.
- Ho visto uno dei loro concerti. Dal vivo sono ancora meglio.
- Oh, sei stato fortunato allora. Dev’essere stato, ehm, grandioso! – risposi cercando di apparire entusiasta, anche se quella conversazione non era, da parte mia, totalmente spontanea.
- Scusami, ti starò facendo perdere sicuramente del tempo.
Abbozzai un sorriso e presi dal grembiule il blocco note e la penna, pronta a segnare l’ordinazione. Il ragazzo abbassò ancora una volta lo sguardo aggrottando leggermente la fronte, prima di tornare ai miei occhi.
- Un caffè macchiato.
La sua voce stavolta era più sicura. Scrissi velocemente sul blocco note che tornò subito dopo nella tasca del mio grembiule.
- Arriva subito! – dissi, guardandolo giocare ancora una volta con gli anelli.
Entrai nella caffetteria azionando il suono delicato dei ciondoli alla porta.
- Mi prepari un caffè macchiato, Eleonor?
Appoggiai le braccia sul bancone, mentre la donna cominciò a preparare l’ordinazione.
- Ricordami di dire a Mike di cambiare i sottobicchieri quando arriva!
- Ancora non li cambia?
- No!- disse con un’espressione ironica, riferendosi probabilmente alla famosa e tipica distrazione di Mike.
Mentre Eleonor versava il caffè, ripresi a canticchiare le parole dei Coldplay e inevitabilmente ripensai alla scena di pochi secondi prima. Mi sentii nuovamente imbarazzata e stoppai subito la mia voce.
Dopo qualche istante l’ordinazione era pronta e mi ritrovai a riattraversare la porta, mentre mi dirigevo al tavolo del ragazzo con cui avevo precedentemente conversato.
Sorrise quando mi avvicinai e posai con cautela il caffè sul tavolo.
- Sono 2  £!
Il ragazzo infilò la mano nella tasca destra dei suoi jeans chiari e l’allungò verso di me per pagare il prezzo richiesto. Simultaneamente stesi il braccio aprendo le dita. Nell’istante esatto in cui la sua pelle fredda venne a contatto con la mia avvertii una scossa elettrica che mi fece ritirare la mano immediatamente, facendo così cadere le monete sull’asfalto.
- Le prendo io! – disse prima ancora che io potessi muovermi per afferrarle.
Questa volta, il contatto delle nostre mani non produsse alcuna elettricità, quando mi passò nuovamente il denaro, anche se avvertii comunque un lieve formicolio, forse per il timore che potesse accadere nuovamente.
- Scusami! – disse ma con un’aria sorridente, quasi divertita.
Accigliai la fronte e non riuscii a frenare la mia curiosità.
- Perché sorridi?  - chiesi, cercando di apparire gentile e non invadente.
Prima di rispondere abbassò il viso, emettendo un altro sorriso prima di tornare con i suoi occhi su di me.
- Perché credo sia la terza volta che ti chiedo scusa nell’arco di pochi minuti, senza neppure conoscere il tuo nome.
In quel momento avvertii diverse sensazioni danzare insieme nel mio stomaco. Uno, ero divertita anche io per la verità che aveva sottolineato; due, ero imbarazzata perché il suo voler conoscere il mio nome mi fece pensare che ci stesse provando con me; tre, ero leggermente infastidita per la stessa motivazione per la quale ero imbarazzata.
- Non ci sto provando con te! Lo farei, ma non in questo modo. – disse calmo e sorridente avendo forse notato la mia enigmatica espressione – Puoi credermi, sai sono un principe io!
-Beh non molti fanno utilizzo delle buone maniere.
- No, non mi riferivo a quelle. Intendevo “principe” nel vero senso della parola!
In quei secondi imparai che passare dall’imbarazzo alla confusione non era poi così difficile. Non riuscii a capire se quella sua frase fosse da prendere sul serio oppure no.
- Principe? – ripetei scettica, cercando di non sbilanciare troppo il tono della mia voce, vista la sua probabile presa in giro.
- Non me ne vado in giro con guardie reali o cose del genere, ma è così!
Il suo sguardo sembrava sincero e questo mi confuse maggiormente. Cercai di fare mente locale, ragionando, così, lucidamente. Non sapevo ancora però se sorridere delle sue parole oppure far finta di nulla, tornando così al mio lavoro.
- Non devi credermi per forza… - disse, afferrando la tazza che gli avevo servito pochi istanti prima e portandola alla bocca. Bevve pochi sorsi del suo caffè macchiato.
- O-okay… - fu l’unico sussurro che uscì fuori dalle mie labbra.
Non sapevo cosa dire, non solo perché ciò che diceva mi sembrava assurdo, ma anche perché mi accorsi che stavo fissando già da un bel po’ i suoi occhi verdi, come se li stessi analizzando ai raggi x. Il suo sguardo era quasi magnetico e la sua espressione sembrava costantemente gentile e nobile.
- Jackie…
Con estrema sorpresa sentii pronunciare dalla sua voce calda il mio nome. Ancora una volta mi ritrovai ad essere confusa.
- Cosa? – chiesi cercando di intuire come facesse a conoscerlo.
- C’è un uomo che ti sta chiamando! – disse sorridendo.
- Oh! – pronunciai voltandomi immediatamente verso l’entrata, dove Mike, forse, stava provando ad attirare la mia attenzione già da un po’.
- Grazie! – dissi al ragazzo ancora un po’ stranita prima di voltarmi e raggiungere la porta.
Il tintinnio dei pendenti accompagnò la chiusura dell’ingresso. Una volta all’interno della caffetteria mi accorsi che i pochi minuti della canzone che amavo erano ormai conclusi.
- Dimmi tutto Mike! – chiesi all’uomo, avviandomi alla cassa per riporre le 2£ pagate dal ragazzo che, pochi istanti prima, aveva detto di essere un principe.



*******
Cercai nella borsa le chiavi del mio appartamento al terzo piano. Una volta trovate, aprii la porta velocemente beandomi della sensazione di calore che avvertii una volta richiuso l’ingresso.
Feci scivolare la borsa sul divano del mio minuscolo salotto e sfilai la giacca di pelle, gettandola nel medesimo punto. Sciolsi la coda di cavallo e solo dopo che rischiai di inciampare in alcuni scatoloni ricordai di accendere la luce.
Una volta illuminata la stanza afferrai l’ostacolo sul pavimento. Conteneva tutti i fogli e i quaderni sui quali scrivevo le mie storie, i miei racconti e i miei romanzi. Ancora non sapevo dove collocarli. Ero sempre stata affezionata più al cartaceo che alla tastiera di un computer portatile, riflettei. Cominciai a ricordare i freddi pomeriggi ad Ennis, durante i quali mi rifugiavo sul tetto della mia casa, indossando come un mantello una pesante coperta, per scrivere ed esprimermi, lasciando dentro la finestra tutto ciò che mi faceva stare male.
Accantonai con fatica quei pensieri portando alcune ciocche dei capelli dietro l’orecchio, mentre afferrai lo scatolone per appoggiarlo in cima alla libreria. In quell’istante mi tornò in mente il consiglio di Eleonor di quella mattina.
Presi il cellulare dalla borsa e, sedendomi sul divano, attesi la risposta alla chiamata che decisi di effettuare.
- Jackie!
Era la voce di mia sorella maggiore. Era quasi un anno che non vedevo lei e la mia famiglia e la mia mente stava quasi abituandosi al suono della voce attraverso il telefono.
- Ehi Nana! Come stai? – le chiesi cercando di non far percepire quel velo di malinconia che iniziò a torturare il mio stomaco.
- Bene! Qui va tutto bene, ti assicuro! La mamma sta bene e il lavoro va alla grande. Te l’ho detto che l’ho convinta ad iniziare equitazione?! Le sta facendo davvero bene.
Parlare di nostra madre fece si che le lacrime iniziassero a prendere il loro posto, offuscandomi la vista. Sentivo bagnare le mie ciglia lunghe. Pesavano come rugiada le gocce arrampicate sul mascara, che, da lì a poco, sarebbe colato senza ostacoli.
- Niente problemi?
- Nessun problema Jackie! Devi stare tranquilla, davvero!
- Che mi dici di lui? – dissi fredda tirando su col naso e ricacciando dentro l’acqua che voleva sgorgare via dai miei occhi.
- Il solito comportamento, ma almeno non stressa.
- Per caso… si, insomma, volevo chiederti se per caso, ha fatto il mio nome in questo periodo?
La voce era il più bassa possibile e, mentre la mia mano sinistra premeva il cellulare all’orecchio, l’altra libera torturava il mio viso, massaggiandolo in maniera confusionale.
- No! Nulla. Credo che papà eviti proprio il discorso.
- Meglio così! – sentenziai schiarendomi la voce.
- Tu come stai? Come va a Londra?
- Bene! Lavoro e lavoro.
- Ti hanno contattato le case editrici alle quali hai inviato i romanzi?
Questa era una delle tante bugie che raccontavo, non per piacere, ma perché così evitavo pensieri inutili alla mia famiglia.
- Si, si! Devono però farmi sapere quando fissare l’appuntamento.
- Ma è grandioso! Sono così contenta. Ah, qui c’è Matt che ti saluta. Dice “Un abbraccio alla mia cognatina”!
- Ricambia il saluto Nana. – dissi con un sorriso a tratti gioioso e a tratti malinconico.
- Se aspetti due secondi ti chiamo la mamma… - disse mia sorella, mentre, però, il mio udito spostò l’attenzione verso la porta alla quale avevano bussato due volte.
- Mi dispiace devo andare, c’è qualcuno alla porta! Richiamo io più tardi Fiona, promesso!
- Okay tesoro, a dopo allora!
Chiusi la telefonata e utilizzai lo schermo del cellulare come specchio per aiutare le mie dita a ripulire gli occhi dall’alone nero del mascara colato. Poggiai il telefono sulla mensola all’ingresso e mi avvicinai alla porta, poggiando la mano sul pomello che l’apriva.
- Chi è? – chiesi alzando leggermente il tono di voce.
- Sono Grace, Grace Hill!
Mandai via definitivamente i pensieri che pochi istanti prima mi avevano tormentata, riacquistando un leggero sorriso. Decisa aprii la porta alla ragazza dai capelli scuri e mossi che era lì in veste di terza candidata.




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Note: Eccomi di già con il primo capitolo! Passano alcuni mesi dal prologo e la scena si apre proprio con Jackie e il suo nuovo lavoro. Spero vi sia piaciuto e vi abbia incuriosito, perchè ho voglia di postare gli altri capitoli e conoscere le vostre opinioni (spero positive ^^).
Allora ho giusto alcune cose da dirvi: la prima è dirvi grazie per aver inserito la storia tra le seguite e avermi concesso il vostro tempo recensendo il prologo. Davvero un grazie di enormi proporzioni!
Poi, se siete interessati, vi invito a seguire questa mia pagina, dove troverete gli aggiornamenti, le informazioni e gli spoiler (si anche quelli ^^ ) riguardo tutte le mie storie. Mi farebbe davvero piacere anche, perchè no, conoscerci un pò (: Vi lascio il link: http://www.facebook.com/PerlaSavvy
Infine, ma non per importanza, vi faccio i miei più sinceri auguri di buon Natale a voi e ai vostri cari. Credo questo sia l'ultimo aggiornamento della storia prima delle feste, quindi colgo l'occasione (:
Detto ciò credo di aver concluso. Vi aspetto sulla pagina e non vedo l'ora di poter leggere qualche recensione. Un grosso abbraccio, Perla ♥

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Capitolo 3
*** Capitolo 2° ***


Note: Ho pensato di farvi un regalino e postare proprio oggi (: Eccomi con il secondo capitolo della storia. Spero vivamente vi piaccia ma sopratutto di poter leggere qualche vostra recensione. Grazie mille per i commenti ai capitoli precedenti e per aver inserito la storia tra le seguite, grazie davvero di cuore. Con la pancia piena di prelibatezze natalizie vi auguro buon fine serata e buon capitolo ^^ Perla ♥
p.s.: vi lascio il link della pagina qualora vorreste seguire gli aggiornamenti e gli spoiler http://www.facebook.com/PerlaSavvy

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Capitolo 2


- Grace sei sicura? Non voglio farti arrivare in ritardo in facoltà!

Gridai dal bagno alla mia coinquilina mentre rilegavo, come ogni mattina, i miei capelli in una coda.
- Non dire sciocchezze Jackie! Non è un problema darti un passaggio, stamattina ho lezione alle 9.00!
- Okay, sono pronta! – avvertii raggiungendola all’ingresso.
Uscimmo dal nostro appartamento e ci dirigemmo verso la sua Mini grigia. Arrivare con l’auto da Beks impiegava solo pochi minuti che dedicammo a poche chiacchiere.
- Sai, Kaleb ieri mi ha chiesto l’orario! – esordì entusiasta Grace, mentre guidava.
- Dovresti finirla! – risposi tra il suono della mia risata divertita – Ma dai Grace, ti conosce a malapena, fagli capire che c’è un interesse da parte tua, altrimenti non andrai da nessuna parte!
- No, no e no! Deve fare lui il primo passo.
- Ma come può se non sa che ti piace?
- Un uomo dovrebbe intuirlo.
- Una donna intuisce, l’uomo non riflette su certe cose. – puntualizzai.
- Io sento che accadrà qualcosa, è destino Jackie! Siamo fatti l’uno per l’altra, lo so. Lui è bello da morire e io ho un certo fascino. Ama i cavalli, proprio come me, e ha una Mini come la mia. Meglio di così! – disse sarcastica e profondamente autoironica provocando le mie risa.
- Si, si okay! Ma non esistono queste cose, lo sai? Niente principe, amore eterno o destino.
- Odio il tuo cinismo e non finirò mai di dirlo! – scherzò alzando gli occhi al cielo – Prima o poi dovrai innamorarti anche tu!
- Lo so, me lo ripeti da un mese ormai. Ma lo sono stata Grace e sai come è andata a finire!
- Beh, non era quello giusto e hai avuto la sfortuna di avere un’amica poco seria, che se l’è portato a letto.
- Grazie per avermelo ricordato! – dissi con un tono quasi rassegnato.
Furono pochi i secondi di pausa prima che Grace riprendesse a parlare.
- Ho una proposta che non potrai rifiutare… - rifletté assottigliando lo sguardo pensierosa.
- E’ una minaccia stile “Il padrino”?
- No volevo fare la tipa con la citazione! – sorrise – Sabato sera c’è una festa in facoltà. In verità è un incontro organizzato da un’associazione che collabora con l’università, ma ci saranno tanti ragazzi, musica buona e qualcosa da mettere tra i denti!
- Lo sapevo, è una minaccia! – conclusi sorridendo.
- Tu mi prometti che verrai con me e io ti giuro che farò comprendere il mio interesse a Kaleb. Mi servirà un sostegno! – disse sbattendo le ciglia in maniera supplichevole mentre parcheggiò l’auto a pochi metri dalla caffetteria.
- E va bene. Ma lo faccio per abbracciare la tua causa, non di certo per le maliziose intenzioni che so ti frullano per la testa.
- Mi basta questo! – affermò soddisfatta alzando il mento in segno di vittoria.
La caffetteria era già aperta, segno che Mike, arrivato presto, era di buon umore. Notai la vecchia auto rossa di Eleonor ferma non lontana dall’ingresso.
- Buongiorno! – dissi entrando seguita dalla mia coinquilina che ripeté il medesimo saluto.
- Grace, sei venuta a salutarci? – esordì Mike uscendo dalla porta del deposito sul retro.
- Si stamattina ho lezione tardi e ho deciso di iniziare la giornata con uno dei tuoi eccezionali pancake!
- Te li preparo subito! – le rispose mettendosi all’opera mentre io indossavo il mio grembiule e riponevo giacca e borsa sul retro del bancone.
- ¿Donde esta mi niña? – sentii la voce armoniosa di Eleonor provenire dal deposito quando, dopo pochi secondi, sbucò proprio da quella porta.
Venne ad abbracciarmi, proprio come ogni mattina, schioccando un delicato bacio sulla mia guancia infreddolita.
- E così stamattina està anche Grace con noi! Vai a sederti pure un minuto con lei, vi porto un cappuccino.
- Grazie Ele. – le dissi con un sincero sorriso, mentre il suo braccio cingeva forte le mie spalle.
Raggiunsi Grace al tavolo, proprio quello accanto alla finestra, prendendo posto di fronte a lei.
- Ho fatto una cosa che ti farà arrabbiare tanto. – la sua espressione era preoccupata, aveva la fronte aggrottata e le labbra arricciate in una strana smorfia.
- Ehm, cioè? – chiesi senza andare in panico. Infondo cosa poteva aver combinato?
- Prometti che non te la prendi?
- A meno che tu non abbia pubblicato una mia foto su uno di quei siti per incontri, no, non mi arrabbierò.
- Okay. Ecco, ieri sera, quando sono tornata da lezione, avevo voglia di leggere un libro. Essendo che non c’era nulla che mi attirasse esposto in libreria, ho adocchiato lo scatolone che è riposto in cima. Non sapevo esattamente di cosa si trattasse così ho iniziato a leggere…
Grace rallentò il suo discorso in attesa di una mia reazione. Non ero di certo infuriata ma molto infastidita. Non mi reputo brava, le mie storie non sono un granché e la grammatica è pessima. Il solo pensiero che la mia coinquilina fosse incappata nei miei racconti e nei miei pensieri, dei quali io non mi sentivo affatto soddisfatta, non era certo motivo di entusiasmo.
- Grace ma… m-ma…non avresti dovuto…- cercai di spiegare con calma.
- Lo so. E mi dispiace. Ma le tue storie sono così belle, ho iniziato a leggere e non sono riuscita a fermarmi.
- Come? – chiesi sorpresa.
- Ma si! I tuoi personaggi sono delineati in modo esauriente e sono tutti molto interessanti. Per me scrivi benissimo e ancora non ho capito il motivo che ti frena nell’inviare qualcosa ad una qualsiasi casa editrice!
- Lo dici perché sei Grace e sei la mia coinquilina e anche perché ti ho prestato la mia sciarpa blu lo scorso week-end! – cercai di sdrammatizzare la situazione che non gioiva certo al mio imbarazzo.
- Non cambiare discorso. Scusami ancora per aver letto le tue storie ma, ragazza mia, lasciatelo dire, stai facendo una grande cavolata a non cercare di far fortuna con quello che scrivi! – disse seria stavolta, fissandomi negli occhi.
Fin dal primo istante il rapporto con Grace è stato eccezionale. Abbiamo subito trovato una forte chimica e siamo riuscite ad andare davvero d’accordo in circa un mese che conviviamo. Si è trasferita a Londra da Uxbridge. I suoi genitori sono abbastanza facoltosi e le permettono di studiare senza la necessità di lavorare. Questo sarebbe potuto essere motivo di presunzione e boria per Grace, ma non ha mai mostrato alcun tipo di antipatia. E’ sempre stata gentile, generosa e non troppo invadente, anche se un po’ esuberante nei modi di fare. Insomma, ero davvero contenta di aver scelto lei come mia coinquilina.
- Ecco i vostri pan cake e i cappuccini.
- Grazie Eleonor. Perché non ti siedi con noi? Non c’è ancora nessuno qui in caffetteria!
- Gracias Grace! Ma preferisco tener d’occhio Mike, è di buon umore e, quando lo è, tende a far pasticci! – rispose la donna allontanandosi verso il bancone.
- Non provare a riprendere il discorso a meno che tu non voglia che mi arrabbi! – dissi scherzando sperando, però in questo modo, di far cadere l’argomento prima intrapreso.
- Come vuoi… - rispose sbuffando Grace.
Consumammo la colazione in pochi minuti, dato il fatto che entrambe avevamo altro da fare. Dopo che Grace aveva salutato Mike ed Eleonor, l’accompagnai fuori dalla caffetteria, anche per approfittare del tempo di fumare una sigaretta.
- Ti chiamo dopo! – urlò quasi, mentre entrava nella sua Mini.
Sorridente le feci cenno con la mano e, dopo pochi istanti, avevo già la sigaretta accesa tra le dita. Le strade cominciarono a popolarsi. Taxi, auto e bus erano sempre di più per le vie. Le persone camminavano in fretta e i bambini si recavano verso le scuole. Senza rendermene conto il mio piede tamburellava sull’asfalto riproducendo un certo ritmo, mentre consumavo la mia sigaretta e mi accorsi del perché dopo aver realizzato che le mie labbra mimavano un motivo conosciuto. Alla radio trasmettevano la mia canzone preferita dei Coldplay e la mia mente, inaspettatamente, materializzò, come una diapositiva, l’immagine di uno sguardo che feci fatica a riconoscere. Assottigliai gli occhi mentre cercavo di riflettere. Inspirai l’ultima boccata di fumo e gettai in un posacenere la sigaretta ormai spenta. Occhi verdi, anelli e sorriso ammaliante. Ricordai, d’un tratto, con un leggere sorriso immotivato il ragazzo che, un mese prima circa, mi aveva chiesto scusa tre volte e aveva dichiarato di essere un principe. Non seppi spiegarmi perché non risi subito delle sue insensate parole ma, probabilmente, non ricordavo bene quella sua voce che mi frenò dal farlo.


***


- E io ti ripeto che avresti dovuto indossare quelle marroni con il tacco!
Durante tutto il viaggio in auto verso la facoltà, Grace mi ripeté come avrei o non dovuto vestirmi per la festa alla quale ci stavamo dirigendo.
Riuscivo a sentire la musica anche da fuori mentre ci avviavamo alla porta d’entrata.
- E’ normale la musica così alta durante un incontro del genere?
- Credo sia un gruppo che suona dal vivo. Diciamo pure che ne approfittano di queste organizzazioni per dare una festa vera e propria in un luogo grande e conosciuto come questo appunto!
- Ah, capisco! – sentenziai annuendo con la testa.
Una volta entrate venimmo inondate dal forte suono delle casse presenti su una specie di palco allestito per la band. Era pieno di ragazzi e c’erano diversi banconi con su cibo e bevande. Molte persone ballavano, altri chiacchieravano seduti su alcune sedie presenti ai bordi di quella che pareva una pista da ballo formata dal nulla. Le luci erano poche e affievolite per rendere ancor di più l’atmosfera di una vera e propria festa. Solo un grande striscione appeso per gli estremi al soffitto indicava il reale scopo benefico dell’incontro.
- Eccolo! – mi urlò Grace all’orecchio rischiando di rompere il mio timpano già messo sotto sforzo dalla musica.
- Ma chi? Kaleb intendi?
- Si, si. E’ lui! Lo vedi quel ragazzo di colore vicino al bancone alla tua destra. Ha una giaccia blu e i capelli rasati – mi disse dando le spalle al punto che indicava mentre si torturava le mani arrossate.
- Ehm, credo proprio di si! E… beh, sta guardando proprio verso di noi, credo abbia visto che lo indicavi. Anzi, a dirla tutta, viene qui! – dissi d’un fiato seguendo le azioni che avvenivano.
- Respira Grace, non morde mica! – scherzai quando la mia amica iniziò a boccheggiare.
- Grace? Grace Hill?
- Si? – rispose al richiamo del ragazzo con voce tremante prima di voltarsi verso di lui – Ah, ma sei tu! Kaleb giusto?
- Si esatto! – disse il ragazzo sorridendo e abbassando il viso.
- Vado a prendermi da bere… - sussurrai all’orecchio di Grace, così da darle un po’ di privacy.
Mi avviai al bancone dove avevo adocchiato della birra, facendomi spazio tra alcuni ragazzi che ballavano. Afferrai una Tennent’s e la stappai, versandola in un bicchiere monouso. La musica cambiò e riconobbi le note di Honky Tonk Women dei Rolling Stones. Iniziai a fissare il gruppo che suonava, mentre sorseggiavo la birra. Spostai lo sguardo verso Grace, un po’ lontana da me, e vidi che chiacchierava con il suo Kaleb allegramente, segno che tutto andava per il meglio. Quando tornai al gruppo, una figura mi impedì di ottenere la stessa visuale di prima. Un ragazzo si versava della birra appena aperta mentre alcune ciocche di capelli ricaddero sul suo viso, così da non permettermi di vederne i lineamenti. Una mano con su diversi anelli portò i ciuffi dietro le orecchie mostrando, con mia sorpresa, un aspetto conosciuto.
Gli occhi del ragazzo caddero distrattamente sui miei, poi al gruppo e ancora una volta su di me, mostrandomi il suo sguardo assottigliato.
- Ci siamo già incontrati vero? – esordì con un sorriso dopo pochi istanti spalancando un pò gli occhi, segno forse di un’intuizione.
- Si, credo di si. Se non sbaglio sei venuto da Beks per un macchiato. Io lavoro lì. – spiegai urlando un po’ per via del volume alto della musica.
- Ricordi che ho preso un macchiato? – chiese alzando un sopracciglio.
Mi bloccai con le labbra socchiuse con la volontà di proferir parola ma non riuscii a formulare nulla di sensato. Sorrisi e abbassai lo sguardo imbarazzata.
- Io sono Harley! - la sua voce ruppe il silenzio agghiacciante e allungò il braccio aprendo la mano.
- Jackie! – afferrai la sua e come un coniglio che sbuca dalla tana mi venne in mente l’episodio della scossa elettrica del nostro primo incontro.
- Si, lo so! Ricordo il tuo nome.- sorrise entusiasta – Come mai sei qui? Studi?
- No, no. In verità ho accompagnato un’amica, è lì che parla con un ragazzo. – dissi indicandola con il dito e approfittando per tener d’occhio i movimenti di Grace. – Tu studi qui?
- No, faccio anche io da accompagnatore.
- Ah, capisco, alla tua ragazza. – affermai decisa senza pensarci due volte.
Harley si aprì in un divertito sorriso scuotendo un po’ la testa e catturando i miei occhi con uno sguardo magnetico.
- In verità sono qui con mia sorella!
In quell’istante avrei voluto sotterrarmi. Con mia grande sorpresa quel ragazzo sconosciuto sapeva mettermi in imbarazzo per via del suo sguardo, della sua voce e del suo sorriso. Probabilmente fu quello l’istante in cui ebbi la consapevolezza di essere attratta fisicamente da Harley.
- Anche lei è una principessa? – chiesi sarcastica curiosa della risposta che avrebbe dato.
- Chi Amélie? No, non lo è.
- Ah! Mentre tu, quindi, sei un principe, giusto?
- E a te sembra assurdo, giusto?
Arricciai il naso e cercai di fargli capire il mio scetticismo. Lui sorrise scuotendo il capo e abbassando lo sguardo.
- Ti ripeto Jackie, non devi credermi per forza…
- Sono curiosa. Anche se penso che tu mi stia prendendo in giro…
- No, assolutamente! Non fa parte di me.
Sorrise ancora ed entrambi ci accorgemmo di aver finito la birra.
- Ti va di…?
- Oh no, non so ballare!
- Jackie – mi guardò divertito -  volevo solo chiederti se ti va di uscire un po’ fuori, la musica è assordante!
- Oh! – risi di me stessa e desiderai per la seconda volta di poter scomparire via – C-certo, si!
Raggiungemmo l’esterno e ne approfittai per fumare una sigaretta.
- So che non te ne potrà importare quasi nulla, ma non posso non dirlo. Non dovresti fumare…
Era appoggiato con la schiena ad una colonna ed il suo sguardo era sincero e quasi dispiaciuto. Guardai il suo corpo asciutto ma muscoloso. Indossava una camicia bianca risvoltata ai gomiti con una leggera scollatura. I jeans che portava erano scuri e terminavano arricciandosi leggermente su dei vecchi anfibi neri. La sua testa era un po’ inclinata e il suo labbro inferiore finì in una morsa lenta sotto i denti. La sua fronte un po’ aggrottata forse rifletteva su ciò che aveva appena detto e indirettamente chiesto di fare.
- G-grazie… - dissi spontaneamente. Decisi di riposare la sigaretta in borsa, non sapevo neppure se potevo fumarci lì, e mi accomodai su di un gradino della lunga scala esterna.
Harley prese posto accanto a me e posò i gomiti all’indietro per appoggiarsi. Il suo viso sempre sorridente mi parve interessato ad iniziare una conversazione.
- Come mai “Yellow” è la tua canzone preferita dei Coldplay?
Rimasi un po’ stranita per alcuni secondi. Il fatto che ricordasse quel particolare mi lasciò lusingata e sorpresa.
- Beh… Okay, è una cosa assurda ed ero ubriaca – risi abbassando il viso – Ero sulla terrazza del mio appartamento. Avevo con me un i-pod che collegai a delle casse. La radio mandò questa canzone e in pratica cominciai a danzare lentamente e urlare a squarciagola verso questa distesa di luci che vedevo dall’alto che la mia mente molto poco lucida associò a tante stelle.- risi di gusto ripercorrendo con l’ immaginazione quel momento e portandomi le dita alla bocca, come a trattenere quel sorriso imbarazzato – E in pratica tutto il vicinato mi mandò a quel paese. Questa è stata la mia prima notte in questa città e da allora è il mio cavallo di battaglia.
Evitai di raccontargli la parte in cui dicevo che mi ero appena trasferita da Londra, dopo il disagio famigliare, e che mio padre cambiava, cambiava la mia famiglia e cambiavo io.
- No che non è assurdo. E’ irrazionale e intenso.
- Oh beh, sono tutto meno che irrazionale io.
- Magari allora però non lo eri…
Incontrai il suo sguardo. I suoi occhi, da sotto le ciglia scure, mi scrutavano con gentilezza. Lo sbattere delle sue palpebre mi parve un movimento così ipnotico e sensuale come nulla mai visto prima.
- Come mai sei a Londra? Il tuo accento sembra irlandese. – chiese distogliendo lo guardo e prendendo a giocare con i soliti anelli. In quel momento avrei voluto chiedergli come mai amava gli anelli e perché ne aveva così tanti, ma decisi di rispondere prima alla sua domanda.
- Diciamo per lavoro e per piacere. Sono nata qui, in verità, ma ho sempre vissuto ad Ennis, in Irlanda per l’appunto.
- Ne ho sentito parlare, dicono sia una cittadina molto caratteristica.
- Si, lo è!
- Permettimi, non credo tu sia venuta fin qui per lavorare da Beks…
- Vedo che non ti sfugge nulla… – dissi scuotendo un po’ la testa – Beh, in verità…
- Ecco dove ti eri cacciata Jackie! Ti ho cercato ovunque…
La voce inconfondibile di Grace, annunciata dal forte rumore della porta d’ingresso chiusa con uno slancio, fermò la conversazione e mi fece alzar di scatto, come se fossi stata beccata a far qualcosa di illegale o immorale.  Harley seguì il mio movimento e solo in quell’istante la mia amica parve accorgersi di lui.
- Ah! Ehm, ciao. Scusatemi, non volevo interrompervi…
- No, ma che dici! – la ripresi aggrottando la fronte – Lui è Harley, ci siamo rincontrati per caso…
Sentivo lo sguardo del ragazzo che avevo accanto su di me e la cosa non so perché mi faceva sorridere.
- Mi dispiace Jackie, dobbiamo andare. Mi ha chiamato Mike, hanno derubato il deposito della caffetteria.
- Cosa? – dissi allibita – Perché non ha chiamato me?
- Dice che non avevi linea, rispondeva la segreteria. Eleonor già è lì, però sai com’è lui, è in panico ora.
- Okay, si, andiamo subito, certo!
- Ti aspetto all’auto.
Annuii a Grace mentre si avviò alla Mini parcheggiata sul retro. Il mio sguardo tornò a Harley che mi guardava preoccupato mentre una mano passò tra i suoi capelli sistemandoli dietro le orecchie. Quel suo gesto inaspettato mi provocò una piccola morsa allo stomaco.
- Vai, vai pure. Mi dispiace per la caffetteria.
- Si, Mike sarà fuori di senno. Devo andare…
- Certo, capisco tranquilla. – mi disse comprensivo aprendosi in un ammaliante sorriso.
- Mi ha fatto piacere rivederti Jackie.
- E’ stato un piacere… principe! – scherzai sorridente mentre ricambiò la mia espressione.
Mi voltai e scesi i gradini delle scale in fretta. Non so perché lo feci, ma in maniera del tutto spontanea mi voltai verso le scale a cercare quella che era stata la mia compagnia degli ultimi minuti. Harley assottigliò lo sguardo e inarcò le labbra, mentre il suo corpo simulò un inchino quasi regale.
Mi fece sorride e scossi la testa.
Non riuscivo a pensare alla caffetteria lucidamente per quanto mi dovessi preoccupare delle circostanze, perché l’unica domanda che avevo per la testa mi chiedeva se mai avrei rivisto Harley e soprattutto chi fosse davvero questo misterioso ragazzo che si spacciava per principe?

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Capitolo 4
*** Capitolo 3° ***


Il principe di Londra

Capitolo 3



Nonostante fosse trascorsa una settimana dalla rapina in caffetteria Mike era ancora agitato e, quando il suo umore non era dei migliori, non era facile stargli accanto. Fortuna, però, che quello era il mio giorno di festa.

Grace era all’università così decisi di andare a fare un giro al parco vista quella rara e calda giornata di sole. La primavera era ormai alle porte e l’aria sembrava già acquistare il dolce profumo dei fiori. Le panchine di ferro battuto erano disposte in senso circolare intorno a quella che era una grande aiuola centrale, ricca di svariate piante. Il resto del parco consisteva in sentieri di pietra, tra le ampie distese di verde, ancora però, ricoperte di foglie qua e là. Il violento odore di smog tuttavia non risparmiava neppure quel luogo dedicato alla natura. Solo una lieve brezza portava un po’ di purezza all’aria.
Una donna sfilò fiera davanti a me che me ne stavo seduta e rannicchiata quasi nella mia giacca. Aveva lunghi capelli lucidi e curati di un energico color caramello. I suoi occhi erano coperti da grandi lenti da sole scure e le labbra erano tinte di un peccaminoso rosso ciliegia. La sua camminata decisa riproduceva il suono ritmico dei tacchi alti,  che indossava e portava con alterigia. Una delle mani era occupata a tener su la borsa da giorno incastonata da dettagli oro, mentre, l’altra, reggeva all’orecchio un telefono di ultima generazione.
- Si, me l’ha chiesto! Ci sposeremo a fine mese. Sono così emozionata Diana…
Le sue parole volarono tra il vento nella manciata di secondi durante i quali attraversò quel tragitto che mi era vicino. La guardai con invidia, un’invidia buona e malinconica.
Il matrimonio a me spaventava. La mia testa non riusciva proprio a capacitarsi del perché la gente decideva di sposarsi nonostante conoscesse perfettamente le conseguenze di quell’unione. I fidanzati sono amanti, coloro sposati, invece, sono conviventi. Non potevo fare a meno di pensarla in quel modo. Il matrimonio sembrava corrodere tutto ciò che negli anni o nei mesi precedenti si era costruito con amore. Entrava in ballo la diffidenza, la gelosia, l’egoismo e l’esasperazione. E ciò che era peggio, è che non si poteva tornare indietro. Non era, per me, una coronazione dell’amore, ma una condanna vera e propria, che portava alla frantumazione del rapporto e all’autodistruzione.
Si, lo so, la mia opinione al riguardo era alquanto pessimista ma, dalla mia esperienza, non riuscivo a vederla diversamente. Era stato forse il matrimonio dei miei genitori a farmi avere questa negativa considerazione dell’argomento. Le persone cambiano e purtroppo,  quando si è vincolati in un legame del genere, non si può mollare tutto, nonostante la persona al tuo fianco non sia più la stessa.
Fu alla locanda londinese di mio padre che si incontrarono i miei genitori. Mia madre, Eliza, era in viaggio con un’amica e, durante una sera estiva, incontrò questo alto e affascinante Hank. Si innamorarono e mia madre dopo diversi viaggi di andata e ritorno decise di rimanere in città. Nacque Fiona, mia sorella e solo dopo il matrimonio decisero di dare alla luce un'altra figlia, cioè io. Ricordo gli anni a Londra come i migliori. Un’infanzia felice, spensierata e alquanto agiata. La locanda di mio padre aveva successo e i guadagni erano sempre molto buoni. Mia madre poteva permettersi di restare a casa ed occuparsi delle faccende domestiche nonostante lei stessa, però, non riuscisse a stare senza far nulla. Il rapporto con mio padre era speciale. Lui mi coccolava, mi raccontava la favola della buonanotte e mi proteggeva. Era il mio gigante buono e io ero per lui un piccolo fagotto da difendere dal mondo esterno. Ricordavo ancora le lunghe passeggiate quando mi portava con lui a lavoro oppure quando, con la sua vespa, mi accompagnava a scuola ogni mattina. Ero la sua bambina anche all’età di tredici anni. Smisi però di esserlo a quattordici.
La morte di mio nonno provocò in Hank, è così che poi cominciai a chiamarlo, un profondo dolore tanto da mutare il suo carattere, il suo atteggiamento e forse i suoi sentimenti. La sua famiglia era come scomparsa e tutta la sua vita cominciò a ruotare intorno a ciò che lo distruggeva giorno dopo giorno: l’alcol.
Vendemmo la locanda e dopo mesi e mesi, in cui mio padre si ostinava a non cercar lavoro, decidemmo di trasferirci ad Ennis, in Irlanda, dove mia madre riprese la piccola attività familiare. Se Hank non era sul divano oppure a letto, si trovava sicuramente in qualche bar. Non diceva buongiorno al mattino e salutava a stento quando si entrava in casa. Divenne burbero e accigliato. Il suo atteggiamento era lo stesso tutta la giornata. Allontanò mia madre, allontanò Fiona e allontanò me. Io, d’altronde, non capivo il perché. Non capivo perché si comportasse in quel modo quando proprio per un dolore così intenso, quale la perdita di una persona cara, avrebbe dovuto cercare l’affetto e l’appoggio della sua famiglia. Noi provavamo a spiegare o chiarire, lui sbraitava e mia mamma piangeva. Io, per quel che mi riguardava, mi arrabbiavo. La rabbia era talmente forte da scappare di casa per un giorno o due, ma non potevo lasciare mia madre da sola ad affrontare tutto questo, non potevo non provare a renderla felice con quel che potevo.
Passai le dita sotto agli occhi per asciugare la pelle dalle lacrime che volevano venir fuori prepotentemente. Ricordai di avere dei fazzoletti in borsa che cercai di afferrare tra il caos di cianfrusaglie che c’era.  Ripulii dal mascara colato gli occhi, aiutandomi con uno specchietto e prima che potessi rimettere tutto a posto nella borsa, un husky dal pelo bianco e grigio cominciò a saltare sulle mie gambe scodinzolando. Per la sorpresa mi volò via lo specchietto. Adoravo gli animali ed in particolar modo i cani, quindi non potei fare a meno di accarezzarlo e concedergli le coccole che mi chiedeva.
- Ciao cucciolo… - dissi intenerita dai suoi occhi ghiaccio.
Aveva un guinzaglio nero al collo che penzolava tra le sue zampe. Mi guardai attorno per cercare il presunto padrone che se l’era fatto scappare rigettando in borsa lo specchietto.
- Jack! Jack bello dove sei? Jack!
Mi alzai di istinto afferrando il guinzaglio di quello che capii chiamarsi Jack. Cominciai a guardarmi intorno quando con mia sorpresa avvistai il padrone.
- Non ci posso credere…
- Mi sa che è destino allora!
Harley si avvicinò lentamente e prima che potessi cedergli il guinzaglio si calò a salutare il suo cane con delle carezze.
- Jack è affettuoso. – disse rivolgendosi a me come a giustificare il gesto del cucciolo.
- Nessun problema, adoro i cani! – risposi con un sincero sorriso, passando nelle sue mani il guinzaglio mentre si rialzava da terra.
- Credo che tu gli piaccia parecchio! – disse divertito osservando Jack farmi le feste.
- E’ davvero meraviglioso. Quanto ha?
- Il prossimo mese farà un anno e mezzo.
- E’ un cucciolo… - sussurrai mentre Jack si lasciava accarezzare dalle mie dita che sprofondavano nel suo pelo.
- Come mai qui? Aspetti qualcuno?
- No, no. Sono sola. Avevo voglia di stare un po’ all’aria aperta.
- Ti va di… passeggiare?
Harley quella mattina pareva più bello del solito. Forse era la luce del sole che sembrava illuminargli gli occhi. Il suo volto era solare e le sue labbra sempre distese in un caldo sorriso. Avvampata da un leggero imbarazzo abbassai lo sguardo.
- Si, perché no!
Iniziammo a camminare lungo i sentieri del parco, seguendo Jack che schizzò avanti entusiasta.
- Come va alla caffetteria? L’ultima volta che ci siamo incontrati per caso, era accaduta quella sfortuna…
- Mike, il titolare, è ancora sotto shock. Lui è un tipo abbastanza suscettibile e questa cosa ancora non gli passa!
La luce brillante del sole filtrava tra le foglie degli alberi ancora un po’ ingiallite, creando un magico gioco di colori. Qualche fiore qua e là cominciava a spuntare tra l’erba fitta, tinteggiando di colore le distese di verde. Camminavo catturando con lo sguardo tutti quei dettagli, forse per non imbattermi nei suoi occhi oppure semplicemente per seguire il percorso del parco.
- Mi dispiace. In passato hanno derubato anche casa mia. Presero di tutto, televisori e oggetti di valore.  So che significa, si ha sempre il terrore che questo possa riaccadere.
- Abiti qui vicino? – chiesi approfittando per conoscere qualcosa in più di lui.
- Si, non lontano da qui.
Dopo qualche secondo di imbarazzo mi decisi a parlare.
- Parlami di te! L’altra volta risposi solo io alle tue domande…
- Cosa ti va di sapere? – chiese sorridendomi. Abbassai lo sguardo impacciata cercando di riformulare le idee.
- Non so. Mi chiedesti della mia canzone preferita dei Coldplay, la tua qual è?
- Senza dubbio Lovers in Japan!
- Perché? – sussurrai.
- Le parole di quella canzone spesso mi sembrano così vicine a quella che è la mia vita! – disse scuotendo leggermente la testa e socchiudendo gli occhi a causa della luce del sole che ora abbagliava proprio di fronte a noi. Arricciò le labbra e passò una mano tra i capelli, per risistemare le ciocche ribelli che scesero sul suo volto.
- E com’è la tua vita? – chiesi incuriosita cercando di non essere invadente.
Harley  titubò un po’ sorridendo e seguendo con lo sguardo Jack. Aggrottò la fronte e, con la mano libera dal guinzaglio, prese ad accarezzarsi lentamente la barba rada. I suoi occhi, per pochi secondi, erano come persi in qualcosa che io non riuscivo a vedere, qualcosa di invisibile, qualcosa che, probabilmente, esisteva solo nella sua mente.
- Beh, potrei definirtela in breve come “ricca di passioni”. – disse dopo aver emesso un sommesso sorriso.
Voltò il viso e mi guardò; le sue iridi erano illuminate dalla luce dei raggi del sole. Il verde giocava ora con il color miele e lo sguardo profondo si assottigliò quasi a diventare misterioso e sensuale. Mi guardava come per ammaliarmi, i suoi occhi mi incatenarono facendomi arrossire lievemente. Ma forse era solo la luce che gli dava fastidio.
- E quali sono queste passioni? – gli chiesi staccandomi da quella presa visiva e abbassando repentinamente lo sguardo sui miei passi.
- Amo la fotografia. Non sono un professionista, non ho mai studiato. Ma mi diletto con la mia macchina fotografica. Poi adoro Jack – sorride guardandolo – e… il giardino di mia nonna!
Incuriosita non potei fare a meno di chiedergli a riguardo.
- Cos’ha di speciale? Non fraintendermi, non è per sminuirlo… - sussurrai  titubante.
- E’ la passione stessa con cui lei lo cura e come lo ha sempre fatto. – sembrò riflettere un istante tra i suoi pensieri - Il profumo, ecco! Amo il profumo di quel giardino.
- Le fai spesso visita quindi?
- In verità abita con me e Amélie. Teoricamente potrei anche presentarlo come il giardino di casa mia, ma se ne è sempre occupata mia nonna Yvonne.
- Yvonne, è davvero un bel nome! – affermai convinta.
- Mia nonna è francese. Si trasferì qui a Londra dopo il matrimonio con un alto e aitante militare, mio nonno. – le sue labbra si distesero leggermente a quel ricordo.
- E il tuo nome, invece?! I tuoi sono amanti delle moto?
Il suo sguardo si incupì di colpo. Qualcosa l’aveva toccato per un paio di secondi e portò la mano al mento accarezzandosi, come prima, la barba.
- Ti va un the?
Mi prese completamente alla sprovvista. Mi osservava con un pizzico di malinconia sul volto ma mi sorrise come se nulla fosse.
- O una cioccolata?
- Ehm… Vogliamo passare in caffetteria? – chiesi senza rendermene conto di aver accettato nell’immediato.
Mi piaceva stare con lui e non volevo che quegli istanti terminassero. Sembrava come se non pensassi più a nulla con razionalità. Io, la persona più razionale di questo mondo… Era una strana sensazione. Non riuscivo a capire se era lui o ciò che io ero con lui. I dubbi mi attanagliavano ma ero incapace di riflettere realmente.
Ci eravamo fermati e i suoi occhi mi asservirono nuovamente.
- In verità volevo mostrarti il giardino e farti conoscere mia nonna Ivonne, se ti va…
Jack strusciava il suo pelo contro il tessuto spesso e slavato dei miei jeans mentre la mia mano lo accarezzava istintivamente. Avvampai di nuovo costretta a prendere una decisione.


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Note: Eccomi con il terzo capitolo!!! Spero vi sia piaciuto. Purtroppo vado di corsa ma non volevo rimandare ancora la pubblicazione. Vi ringrazio di cuore per aver inserito la storia tra le vostre e un enrome ringraziamento per le vostre recensioni. Non vedo l'ora di leggerne altre **
Vi ricordo il link della pagina dove potrete seguire gli aggiormenti e tant altro http://www.facebook.com/PerlaSavvy
Vi mando un forte abbraccio, Perla ♥

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