Il principe di Londra di Perla_Nera (/viewuser.php?uid=113320)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1° ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2° ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3° ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Amavo la metropolitana
di Londra. Il suo caos, la sensazione di movimento quasi percettibile
al tatto, la tanta gente che ne riempiva gli angoli. Non
c’era nulla di più interessante, per me, alle 6,30
del mattino, dell’ascoltare buona musica e
dell’osservare tutte quelle persone così diverse e
particolarmente uniche.
Ogni mattina
il mio occhio riconosceva e ricercava le figure che più mi
incuriosivano. Mi dilettavo alla creazione di buffe storie,
li collocavo all’interno di racconti, così, tanto
per trascorrere il tempo.
A pochi passi
da me c’era la signora dei cappelli, fantasiosamente
rinominata da me, Miss Hat. Non molto alta, portava i capelli tinti d
biondo corti e sciolti e ciò che la rendeva interessante
erano i suoi copricapo. Ogni mattina indossava un cappello diverso, di
un diverso modello, di un diverso colore, di un diverso materiale. La
parte che le si addiceva di più era quella
dell’eroina, per ogni cappello immaginavo un potere
straordinario. Quella mattina probabilmente poteva armarsi di una verde
speranza, capace di distruggere la negatività soggiogatrice
del mondo.
Mi guardai
attorno alla ricerca dell’uomo che rappresentava il malvagio
della mia storia. Un gigante dai folti baffi di fuoco che,
però, doveva ancora arrivare. Era goffo con dei lunghi
baffi, molto alto e non poteva fare a meno di portare una sigaretta
alla bocca ancora fumante, nonostante fosse stata spenta prima di
scendere in metropolitana. Tutti i suoi piani spietati erano finanziati
da Lady Gioiello, una prorompente donna in carriera, con scuri occhiali
da sole e firmati tailleur alla moda, che ancheggiava come fosse su di
una passerella sotto l’asfalto.
La storia non
era ben delineata, ma non potevo omettere lo strambo ragazzo con i
pantaloni anni ’70, l’esile signora dai tratti
spigolosi e la ragazza con le ciocche di capelli rosa. Non sarebbe mai
stato un best-seller, ma avrebbe fatto passare in fretta quei dieci
minuti d’attesa.
Risi tra me e
me dei miei fantasiosi pensieri senza neppure rendermene conto. La
metro mi piaceva particolarmente. Un frullato di rumori differenti.
Il forte e
assordante frastuono delle rotaie, le piccole ruote dei tanti trolley
che si esibivano in un concerto come fossero un orchestra di suoni, i
tanti “clop” delle ventiquattrore aperte e richiuse
almeno una decina di volte, lo squillo dei cellulari provenire da
diverse direzioni. Il tutto era racchiuso in un’atmosfera
fatta di una indeterminata miscela di odori.
Sentii la
fragranza del caffè provenire dal bicchiere
dell’uomo seduto accanto a me. L’aroma
riempì la mia mente. Probabilmente era un decaffeinato,
intenso e deciso.
Mi affacciai
alla mia sinistra, completamente coperta da una lunga fila di persone
che come me attendevano. Riconobbi l’odore di un profumo che
utilizzavo in passato; fruttato, dolce ma incisivo.
Ritornai alla
mia posizione di partenza e chiusi gli occhi per un secondo,
allontanando tutti quei suoni e quegli odori.
In alcune
mattine, come quelle, facevo ancora fatica a credere di essere a Londra.
Ormai ero
lì da due anni e non era affatto facile viverci. In quel
momento avevo un affitto da pagare, ero appena stata licenziata da un
pub, dove lavoravo come cameriera, e la mia unica speranza era riposta
in quel treno da prendere, che mi avrebbe portata ad uno pseudo
colloquio in una caffetteria. L’annuncio, trovato per strada
pochi giorni prima, era costituito da un foglio A4 rosa con su scritto
in grassetto nero “Beks, cerca cameriera con
esperienza. Buona retribuzione. Orari flessibili!” seguito
dal numero di telefono del proprietario, un certo Mike. Telefonai
all’istante e presi appuntamento: l’ennesimo
sforzo, l’ennesimo passo avanti.
Pensai a mia
madre e al fatto che la tenevo all’oscuro di molte cose.
Sapeva che me la cavavo piuttosto bene; credeva lavorassi come addetta
alle vendite in una boutique d’abbigliamento, quello che era
stato il mio primo lavoro nella capitale. Essere a Londra era in
qualche modo anche il suo sogno. Potevo farle credere ancora in
qualcosa e non c’era bisogno, quindi, le dessi preoccupazioni
inutili.
Entrai nel
treno senza neppure pensarci troppo. Come un abitudine, una routine
ormai fissa e ben delineata. Scomparve come ogni mattina il poco tempo
dedicato alla fantasia e all’immaginazione. Finì
via il racconto, volò via l’eroina e il malvagio e
il calore del mio viso. I muscoli divennero tesi e la mia mente si
appiattì in discussioni più serie, determinative,
più reali.
Eppure un
pensiero restava sempre, mattina dopo mattina. Chi ero io agli occhi
degli altri? Qual era il mio potere, il mio personaggio, la mia
caratteristica? Qual era la mia parte nelle storie della gente che mi
osservava?
Poggiai la
testa al vetro alla mia sinistra, mi lasciai cullare dal rumore delle
rotaie, cercando di non pensare, ascoltando il cavalcare del motore e
l’incedere del metallo sotto i miei piedi.
Forse mi
addormentai per qualche minuto, perché il viaggio
durò meno del previsto. Raggiunsi la caffetteria Beks in
pochi istanti. Non era distante dalla metro.
L’insegna
era grande, centrale, molto semplice. Un cartello nero con su scritto
“Caffetteria Beks”. La porta centrale era
trasparente, ma impedivano la piena visuale decine di fogli con su
scritti annunci, pubblicità e sponsor. Ai lati
dell’entrata c’erano due vetrine non molto ampie,
che fungevano anche da finestre. Lo spazio del marciapiede che le
antecedeva era occupato da pochi tavoli con le rispettive sedie, il
tutto delimitato da fioriere colorate. L’area occupata dalla
caffetteria era ombreggiata da due tendoni aperti, a strisce bianche e
verdi, un po’ rovinati ,forse, dalle continue piogge inglesi.
Mi avvicinai
alla porta e un po’ titubante la aprii.
Simultaneamente
sentii il suono cristallino di alcuni ciondoli appesi al soffitto,
lì apposta per annunciare chi oltrepassava
l’entrata. Mentre questi ripetevano il loro dovere alla
chiusura della porta, mi avvicinai al bancone, dove alcune persone si
dedicavano alla propria consumazione.
Una donna
sulla quarantina mi sorrise mettendo così in risalto il
gonfiore dei suoi occhi, probabile segno del non tanto
lontano riposo notturno. Aveva i capelli scuri legati in una coda
morbida e i lineamenti del viso precisi ma nello stesso momento
delicati. Pensai non fosse della città o comunque avesse
origini del sud Europa, vista la carnagione scura che sfoggiava da
sotto la divisa lavorativa.
-Cosa ti porto
cara?
La sua voce
riuscì a mettermi coraggio e a farmi sentire a mio agio.
Dalle sue labbra sottili echeggiò un tono caldo, quasi
materno.
-Oh, in
verità sono qui per l’offerta di lavoro. Ho
trovato l’annuncio in una bacheca- risposi al suo sorriso
educatamente avvicinandomi al bancone.
Il suo viso
assunse un’espressione quasi dispiaciuta e si
voltò a guardare due volte alle spalle, cercando forse
qualcosa sul piano di lavoro.
- Mi dispiace,
Mike, il responsabile non c’è in questo momento.
Non so con precisione quando arriverà. Ma posso farti
compilare la domanda lavorativa che mi ha lasciato- mi disse voltandosi
ancora una volta per afferrare un foglio che delicatamente ripose sul
bancone davanti a me.
- Si,
certo!- le risposi cercando una penna tra la confusione della
mia borsa.
- La penna
è qui- mi anticipò la donna ponendola
sul foglio -Desideri un caffè intanto?
- Molto
volentieri- acconsentii per essere gentile mentre mi accomodai ad uno
dei tavoli all’interno della caffetteria per compilare la
domanda di lavoro.
L’ambiente
interno era molto carino. I tavoli erano ben disposti. Solo in quel
momento feci caso alla musica che riempiva il locale, creando
un’atmosfera quasi spensierata. Sfilai il cappotto
poggiandolo sulla sedia accanto e afferrai la penna, portando, prima, i
ciuffi ribelli dietro le orecchie.
Rimasi
sorpresa nel vedere scritta una sola ed unica intestazione:
“Parlaci di te”, seguita da una breve nota che
indicava l’inserimento di un recapito telefonico.
Mi guardai
intorno e la caffetteria cominciò a riempirsi. Entrarono
altre due persone prima che la donna con cui avevo avuto quel breve
dialogo, cominciò a dirigersi verso di me, con in mano la
tazza contenente il mio caffè.
- Grazie- le
dissi porgendole automaticamente un sorriso di cortesia.
Rispose in
fretta con la stessa mimica facciale prima di tornare al banco, dove
alcuni clienti l’attendevano.
Afferrai la
tazza e lasciai che l’aroma del caffè inebriasse
la mia mente. La sensazione di calore fu immediata quando bevvi alcuni
sorsi, lentamente, osservando l’andazzo del locale.
Riposi la
tazza sul tavolo e tornai al foglio ancora fin troppo bianco dinnanzi a
me. Riportai le ciocche ribelli dei mie capelli castani dietro le
orecchie e mi decisi ad iniziare a scrivere di me.
“Mi
chiamo Jacqueline Bennett, sono nata a Londra il 14 Aprile del 1989, ma
ho trascorso parte della mia infanzia e adolescenza ad Ennis, nella
contea del Clare, in Irlanda. I miei genitori vivono attualmente
lì. Mia madre lavora presso un negozio caratteristico di
famiglia, aiutata da Fiona, mia sorella maggiore. Mio padre
è come se non esistesse. Ma meglio così. Subito
dopo il diploma mi son trasferita a Londra, dove ho lavorato come
addetta alle vendite in una boutique, come commessa in un mini-market e
come cameriera in un pub. Sono attualmente alla ricerca di lavoro per
pagare il mio affitto, che incombe puntuale peggio di una piaga, e
inseguire quello che è il mio sogno, diventare una
scrittrice. So che non ci riuscirò mai, ma spesso mi fa
comodo come scusante con mia madre. Amo gli animali, soprattutto i cani
e non ho un esatto orientamento politico. Mangio di tutto, tranne
l’insalata, nessuna allergia e poche aspettative. Ho avuto un
ragazzo tempo fa, Andrew, che ho mollato perché andava a
letto con la mia migliore amica. Sono cocciuta, testarda e istintiva, a
volte anche permalosa purtroppo, ma il mio più grande pregio
è la sincerità. Passo il mio tempo in metro
inventando storie senza senso rischiando di passare per folle se
qualcuno venisse a conoscenza del mio piccolo segreto. Mi son sentita
dire mille volte che non ho autostima, ma non è
così, è la vita ,in verità, che mi
butta giù, quindi meglio strisciare bassi che volare ad ali
spiegate. Non so realmente cosa cerco, cosa voglio, chi sono, dove
voglio andare, come e con chi! Credo di essere…”
Senza
far cadere la penna tra le mie dita, mi allisciai il viso con entrambe
le mani, percorrendo il profilo delle mie sopracciglia. I miei occhi
tornarono a studiare distrattamente l’ambiente circostante,
prima di gettarsi sulle parole insensate appena scritte. Cancellai il
tutto con la penna e ,senza pensarci neppure due volte, accartocciai il
foglio tra le mani, intenta a chiedere alla donna dietro al bancone un
altro foglio per la mia domanda lavorativa.
--------------------------------------------------------------------
Note: Grazie a
tutti voi che avete letto questo prologo!!! Tengo tantissimo a questa
storia che provai ad iniziare tanto tempo fa. In questi mesi non ho
fatto altro che pensare e ripensare al racconto, ai personaggi e alle
dinamiche. Spero davvero che stavolta sia la volta buona. La mia
prospettiva è diversa e sono davvero convinta di poter
metter su qualcosa di buono.
Detto ciò, spero vi sia piaciuto il prologo e sopratutto che
vi abbia incuriosito! Fatemi sapere se vi va attraverso i commenti,
risponderò a tutti, e vi prometto che nei prossimi capitoli
scoprirete molto di più di Jackie e dei nuovi personaggi.
In attesa dei vostri pensieri, un abbraccio,
Perla ♥
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Capitolo 2 *** Capitolo 1° ***
Capitolo 1
Nonostante lavorassi da già tre mesi da Beks, ancora dovevo
imparare dove erano riposte le tazze per la cioccolata calda.
- Jackie, Mike
ha deciso di riordinare le tazze nel secondo ripiano, sotto il bancone.
Si, esatto, proprio ahì!– mi aiutò
Eleonor indicando con la mano il punto esatto a cui stava facendo
riferimento.
-
Perché poi le ha spostate ancora?
- Oh, non me
lo chiedere, es un mistero! – rispose sarcastica.
Afferrai le
due tazze di cui avevo bisogno per l’ordinazione e le
appoggiai sul vassoio.
- Mi passi la
cioccolata?
Eleonor mi
passò il recipiente contenente la bevanda degli dei che
cominciai a versare nelle tazze con delicatezza, cercando di non far
colare nulla. Mentre mi dedicavo al mio lavoro sentivo fissi su di me
gli occhi della mia collega e spostai lo sguardo per pochi secondi
sulla sua figura. Era appoggiata al bancone, con il viso rivolto verso
di me, mentre con uno sguardo materno scrutava dritta nei miei occhi.
- Cosa?
– chiesi aggrottando leggermente la fronte.
- Hai chiamato
tua madre in questi giorni?
Eleonor
conosceva la mia storia. Sapeva quanto cercassi di tenere lontano
ciò che avevo lasciato ad Ennis, in Irlanda. C’era
Fiona, mia sorella, che si occupava di mia madre e questo mi rendeva
più tranquilla.
Feci cenno di
no con il capo mentre cambiando discorso, provai a far scivolare via
l’argomento.
- Oggi
incontro la candidata numero tre! Chissà se, finalmente,
troverò la coinquilina adatta!
- Beh, dopo la
frivola Barbie numero uno e la poco attenta all’igiene
candidata numero due, forse questa sarà la volta buone!
- Lo spero
proprio! Il numero tre indica la perfezione ma io non cerco altro che
una persona normale che mi aiuti con l’affitto; e mai impresa
mi è parsa più ardua! – scherzai con
tono epico.
Riposi la
cioccolata, non appena terminai di riempire le due tazze e afferrai il
vassoio pronta a servire l’ordinazione al tavolo
all’esterno. Eleonor però non aveva smesso di
scrutarmi con quel suo fare indagatore, facendomi intuire perfettamente
che per lei il discorso precedente non era ancora stato
sufficientemente affrontato.
- La
chiamerò, promesso!- le feci accennando un sorriso. Sapevo
quanto Eleonor fosse affezionata a me e quanto fosse sincero e puro il
suo affetto quasi materno.
- Con il
cuore, cariño! Devi farlo con il cuore! – mi
disse, lasciandosi andare al suo forte accento spagnolo, mentre prese
sistemare il bancone.
Spostai dietro
le orecchie le ciocche di capelli ribelli che scappavano dalla coda di
cavallo. Mi avviai verso la porta, con il vassoio tenuto in equilibrio
su di una mano, mentre la radio mandò il mio pezzo preferito
dei Coldplay, “Yellow”.
Non appena il
tintinnio dei ciondoli appesi alla porta echeggiò alle mie
spalle, la musica, riprodotta anche all’esterno della
caffetteria, venne sporcata dai rumori vivi della città.
- Grazie!
– mi fece una delle due ragazze quando servii le tazze con la
cioccolata da loro ordinate.
Accennai un
sorriso mentre notai il tavolo accanto ancora non ripulito. Afferrai il
panno inumidito dalla tasca del grembiule che avevo legato ai fianchi
mentre senza accorgermene iniziai ad intonare le parole della canzone.
- Look at the
stars, look how they shine for you, and everything you do…
In quell
preciso istante sentii una voce lievemente roca emettere un sommesso
sorriso. Mi voltai alle mie spalle, verso l’ultimo tavolo
posto infondo e notai un ragazzo seduto che probabilmente mi osservava.
Non riuscii a comprendere subito la direzione del suo sguardo a causa
della mia lieve miopia, ma cominciai ad avvicinarmi pensando dovesse
richiedere l’ordinazione.
A pochi passi
dal tavolo il ragazzo abbassò lo sguardo prendendo a giocare
con uno dei molteplici anelli che aveva alle dita. Le sue labbra
sottili accennavano un sorriso, contornate da una velata barba poco
curata. Portava i capelli castani legati in una coda corta che lasciava
però ricadere alcune ciocche sul viso, lunghe fino alle
orecchie.
- Ehm, ciao!
Cosa ti porto? – chiesi titubante, forse frenata
dall’imbarazzo della mia precedente e breve esibizione canora.
Il ragazzo
alzò lo sguardo da sotto le ciglia scure, mostrando ai miei
occhi il verde intenso delle sue iridi.
- Devi
scusarmi, non volevo ascoltare. Non l’ho fatto con malizia.
– spiegò con mia sorpresa, acquistando quella che
pareva una sincera espressione dispiaciuta.
-
N-no… non preoccuparti… - sentenziai imbarazzata.
La mia voce non era certo armoniosa e intonata.
Mi sorrise
ancora.
- I Coldplay
sono uno dei miei gruppi preferiti! – aggiunse forse
sentendosi in dovere di mettermi a mio agio.
- Sono
d’accordo. Piacciono molto anche a me. Questo è il
mio pezzo preferito.
Non era la
prima volta che i clienti cercavano quattro chiacchiere quando chiedevo
loro l’ordinazione, ma stavolta era strano. Sembrava che
entrambi fossimo spinti dal parlare per far dissolvere
quell’imbarazzo creato quasi senza motivo.
- Ho visto uno
dei loro concerti. Dal vivo sono ancora meglio.
- Oh, sei
stato fortunato allora. Dev’essere stato, ehm, grandioso!
– risposi cercando di apparire entusiasta, anche se quella
conversazione non era, da parte mia, totalmente spontanea.
- Scusami, ti
starò facendo perdere sicuramente del tempo.
Abbozzai un
sorriso e presi dal grembiule il blocco note e la penna, pronta a
segnare l’ordinazione. Il ragazzo abbassò ancora
una volta lo sguardo aggrottando leggermente la fronte, prima di
tornare ai miei occhi.
- Un
caffè macchiato.
La sua voce
stavolta era più sicura. Scrissi velocemente sul blocco note
che tornò subito dopo nella tasca del mio grembiule.
- Arriva
subito! – dissi, guardandolo giocare ancora una volta con gli
anelli.
Entrai nella
caffetteria azionando il suono delicato dei ciondoli alla porta.
- Mi prepari
un caffè macchiato, Eleonor?
Appoggiai le
braccia sul bancone, mentre la donna cominciò a preparare
l’ordinazione.
- Ricordami di
dire a Mike di cambiare i sottobicchieri quando arriva!
- Ancora non
li cambia?
- No!- disse
con un’espressione ironica, riferendosi probabilmente alla
famosa e tipica distrazione di Mike.
Mentre Eleonor
versava il caffè, ripresi a canticchiare le parole dei
Coldplay e inevitabilmente ripensai alla scena di pochi secondi prima.
Mi sentii nuovamente imbarazzata e stoppai subito la mia voce.
Dopo qualche
istante l’ordinazione era pronta e mi ritrovai a
riattraversare la porta, mentre mi dirigevo al tavolo del ragazzo con
cui avevo precedentemente conversato.
Sorrise quando
mi avvicinai e posai con cautela il caffè sul tavolo.
- Sono
2 £!
Il ragazzo
infilò la mano nella tasca destra dei suoi jeans chiari e
l’allungò verso di me per pagare il prezzo
richiesto. Simultaneamente stesi il braccio aprendo le dita.
Nell’istante esatto in cui la sua pelle fredda venne a
contatto con la mia avvertii una scossa elettrica che mi fece ritirare
la mano immediatamente, facendo così cadere le monete
sull’asfalto.
- Le prendo
io! – disse prima ancora che io potessi muovermi per
afferrarle.
Questa volta,
il contatto delle nostre mani non produsse alcuna
elettricità, quando mi passò nuovamente il
denaro, anche se avvertii comunque un lieve formicolio, forse per il
timore che potesse accadere nuovamente.
- Scusami!
– disse ma con un’aria sorridente, quasi divertita.
Accigliai la
fronte e non riuscii a frenare la mia curiosità.
-
Perché sorridi? - chiesi, cercando di apparire
gentile e non invadente.
Prima di
rispondere abbassò il viso, emettendo un altro sorriso prima
di tornare con i suoi occhi su di me.
-
Perché credo sia la terza volta che ti chiedo scusa
nell’arco di pochi minuti, senza neppure conoscere il tuo
nome.
In quel
momento avvertii diverse sensazioni danzare insieme nel mio stomaco.
Uno, ero divertita anche io per la verità che aveva
sottolineato; due, ero imbarazzata perché il suo voler
conoscere il mio nome mi fece pensare che ci stesse provando con me;
tre, ero leggermente infastidita per la stessa motivazione per la quale
ero imbarazzata.
- Non ci sto
provando con te! Lo farei, ma non in questo modo. – disse
calmo e sorridente avendo forse notato la mia enigmatica espressione
– Puoi credermi, sai sono un principe io!
-Beh non molti
fanno utilizzo delle buone maniere.
- No, non mi
riferivo a quelle. Intendevo “principe” nel vero
senso della parola!
In quei
secondi imparai che passare dall’imbarazzo alla confusione
non era poi così difficile. Non riuscii a capire se quella
sua frase fosse da prendere sul serio oppure no.
- Principe?
– ripetei scettica, cercando di non sbilanciare troppo il
tono della mia voce, vista la sua probabile presa in giro.
- Non me ne
vado in giro con guardie reali o cose del genere, ma è
così!
Il suo sguardo
sembrava sincero e questo mi confuse maggiormente. Cercai di fare mente
locale, ragionando, così, lucidamente. Non sapevo ancora
però se sorridere delle sue parole oppure far finta di
nulla, tornando così al mio lavoro.
- Non devi
credermi per forza… - disse, afferrando la tazza che gli
avevo servito pochi istanti prima e portandola alla bocca. Bevve pochi
sorsi del suo caffè macchiato.
-
O-okay… - fu l’unico sussurro che uscì
fuori dalle mie labbra.
Non sapevo
cosa dire, non solo perché ciò che diceva mi
sembrava assurdo, ma anche perché mi accorsi che stavo
fissando già da un bel po’ i suoi occhi verdi,
come se li stessi analizzando ai raggi x. Il suo sguardo era quasi
magnetico e la sua espressione sembrava costantemente gentile e nobile.
-
Jackie…
Con estrema
sorpresa sentii pronunciare dalla sua voce calda il mio nome. Ancora
una volta mi ritrovai ad essere confusa.
- Cosa?
– chiesi cercando di intuire come facesse a conoscerlo.
-
C’è un uomo che ti sta chiamando! –
disse sorridendo.
- Oh!
– pronunciai voltandomi immediatamente verso
l’entrata, dove Mike, forse, stava provando ad attirare la
mia attenzione già da un po’.
- Grazie!
– dissi al ragazzo ancora un po’ stranita prima di
voltarmi e raggiungere la porta.
Il tintinnio
dei pendenti accompagnò la chiusura dell’ingresso.
Una volta all’interno della caffetteria mi accorsi che i
pochi minuti della canzone che amavo erano ormai conclusi.
- Dimmi tutto
Mike! – chiesi all’uomo, avviandomi alla cassa per
riporre le 2£ pagate dal ragazzo che, pochi istanti prima,
aveva detto di essere un principe.
*******
Cercai nella
borsa le chiavi del mio appartamento al terzo piano. Una volta trovate,
aprii la porta velocemente beandomi della sensazione di calore che
avvertii una volta richiuso l’ingresso.
Feci scivolare
la borsa sul divano del mio minuscolo salotto e sfilai la giacca di
pelle, gettandola nel medesimo punto. Sciolsi la coda di cavallo e solo
dopo che rischiai di inciampare in alcuni scatoloni ricordai di
accendere la luce.
Una volta
illuminata la stanza afferrai l’ostacolo sul pavimento.
Conteneva tutti i fogli e i quaderni sui quali scrivevo le mie storie,
i miei racconti e i miei romanzi. Ancora non sapevo dove collocarli.
Ero sempre stata affezionata più al cartaceo che alla
tastiera di un computer portatile, riflettei. Cominciai a ricordare i
freddi pomeriggi ad Ennis, durante i quali mi rifugiavo sul tetto della
mia casa, indossando come un mantello una pesante coperta, per scrivere
ed esprimermi, lasciando dentro la finestra tutto ciò che mi
faceva stare male.
Accantonai con
fatica quei pensieri portando alcune ciocche dei capelli dietro
l’orecchio, mentre afferrai lo scatolone per appoggiarlo in
cima alla libreria. In quell’istante mi tornò in
mente il consiglio di Eleonor di quella mattina.
Presi il
cellulare dalla borsa e, sedendomi sul divano, attesi la risposta alla
chiamata che decisi di effettuare.
- Jackie!
Era la voce di
mia sorella maggiore. Era quasi un anno che non vedevo lei e la mia
famiglia e la mia mente stava quasi abituandosi al suono della voce
attraverso il telefono.
- Ehi Nana!
Come stai? – le chiesi cercando di non far percepire quel
velo di malinconia che iniziò a torturare il mio stomaco.
- Bene! Qui va
tutto bene, ti assicuro! La mamma sta bene e il lavoro va alla grande.
Te l’ho detto che l’ho convinta ad iniziare
equitazione?! Le sta facendo davvero bene.
Parlare di
nostra madre fece si che le lacrime iniziassero a prendere il loro
posto, offuscandomi la vista. Sentivo bagnare le mie ciglia lunghe.
Pesavano come rugiada le gocce arrampicate sul mascara, che, da
lì a poco, sarebbe colato senza ostacoli.
- Niente
problemi?
- Nessun
problema Jackie! Devi stare tranquilla, davvero!
- Che mi dici
di lui? – dissi fredda tirando su col naso e ricacciando
dentro l’acqua che voleva sgorgare via dai miei occhi.
- Il solito
comportamento, ma almeno non stressa.
- Per
caso… si, insomma, volevo chiederti se per caso, ha fatto il
mio nome in questo periodo?
La voce era il
più bassa possibile e, mentre la mia mano sinistra premeva
il cellulare all’orecchio, l’altra libera torturava
il mio viso, massaggiandolo in maniera confusionale.
- No! Nulla.
Credo che papà eviti proprio il discorso.
- Meglio
così! – sentenziai schiarendomi la voce.
- Tu come
stai? Come va a Londra?
- Bene! Lavoro
e lavoro.
- Ti hanno
contattato le case editrici alle quali hai inviato i romanzi?
Questa era una
delle tante bugie che raccontavo, non per piacere, ma perché
così evitavo pensieri inutili alla mia famiglia.
- Si, si!
Devono però farmi sapere quando fissare
l’appuntamento.
- Ma
è grandioso! Sono così contenta. Ah, qui
c’è Matt che ti saluta. Dice “Un
abbraccio alla mia cognatina”!
- Ricambia il
saluto Nana. – dissi con un sorriso a tratti gioioso e a
tratti malinconico.
- Se aspetti
due secondi ti chiamo la mamma… - disse mia sorella, mentre,
però, il mio udito spostò l’attenzione
verso la porta alla quale avevano bussato due volte.
- Mi dispiace
devo andare, c’è qualcuno alla porta! Richiamo io
più tardi Fiona, promesso!
- Okay tesoro,
a dopo allora!
Chiusi la
telefonata e utilizzai lo schermo del cellulare come specchio per
aiutare le mie dita a ripulire gli occhi dall’alone nero del
mascara colato. Poggiai il telefono sulla mensola
all’ingresso e mi avvicinai alla porta, poggiando la mano sul
pomello che l’apriva.
- Chi
è? – chiesi alzando leggermente il tono di voce.
- Sono Grace,
Grace Hill!
Mandai via
definitivamente i pensieri che pochi istanti prima mi avevano
tormentata, riacquistando un leggero sorriso. Decisa aprii la porta
alla ragazza dai capelli scuri e mossi che era lì in veste
di terza candidata.
-------------------------------------------------------
Note:
Eccomi
di già con il primo capitolo! Passano alcuni mesi dal
prologo e la scena si apre proprio con Jackie e il suo nuovo lavoro.
Spero vi sia piaciuto e vi abbia incuriosito, perchè ho
voglia di postare gli altri capitoli e conoscere le vostre opinioni
(spero positive ^^).
Allora ho
giusto alcune cose da dirvi: la prima è dirvi grazie per
aver inserito la storia tra le seguite e avermi concesso il vostro
tempo recensendo il prologo. Davvero un grazie di enormi proporzioni!
Poi, se siete
interessati, vi invito a seguire questa mia pagina, dove troverete gli
aggiornamenti, le informazioni e gli spoiler (si anche quelli ^^ )
riguardo tutte le mie storie. Mi farebbe davvero piacere anche,
perchè no, conoscerci un pò (: Vi lascio il link:
http://www.facebook.com/PerlaSavvy
Infine, ma non
per importanza, vi faccio i miei più sinceri auguri di buon
Natale a voi e ai vostri cari. Credo questo sia l'ultimo aggiornamento
della storia prima delle feste, quindi colgo l'occasione (:
Detto
ciò credo di aver concluso. Vi aspetto sulla pagina e non
vedo l'ora di poter leggere qualche recensione. Un grosso abbraccio,
Perla ♥
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 2° ***
Note: Ho
pensato di farvi un regalino e postare proprio oggi (: Eccomi con il
secondo capitolo della storia. Spero vivamente vi piaccia ma sopratutto
di poter leggere qualche vostra recensione. Grazie mille per i commenti
ai capitoli precedenti e per aver inserito la storia tra le seguite,
grazie davvero di cuore. Con la pancia piena di prelibatezze natalizie
vi auguro buon fine serata e buon capitolo ^^ Perla ♥
p.s.: vi lascio il link della pagina qualora vorreste seguire gli
aggiornamenti e gli spoiler http://www.facebook.com/PerlaSavvy
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Capitolo 2
- Grace sei sicura? Non voglio farti arrivare in ritardo in
facoltà!
Gridai dal
bagno alla mia coinquilina mentre rilegavo, come ogni mattina, i miei
capelli in una coda.
- Non dire
sciocchezze Jackie! Non è un problema darti un passaggio,
stamattina ho lezione alle 9.00!
- Okay, sono
pronta! – avvertii raggiungendola all’ingresso.
Uscimmo dal
nostro appartamento e ci dirigemmo verso la sua Mini grigia. Arrivare
con l’auto da Beks impiegava solo pochi minuti che dedicammo
a poche chiacchiere.
- Sai, Kaleb
ieri mi ha chiesto l’orario! – esordì
entusiasta Grace, mentre guidava.
- Dovresti
finirla! – risposi tra il suono della mia risata divertita
– Ma dai Grace, ti conosce a malapena, fagli capire che
c’è un interesse da parte tua, altrimenti non
andrai da nessuna parte!
- No, no e no!
Deve fare lui il primo passo.
- Ma come
può se non sa che ti piace?
- Un uomo
dovrebbe intuirlo.
- Una donna
intuisce, l’uomo non riflette su certe cose. –
puntualizzai.
- Io sento che
accadrà qualcosa, è destino Jackie! Siamo fatti
l’uno per l’altra, lo so. Lui è bello da
morire e io ho un certo fascino. Ama i cavalli, proprio come me, e ha
una Mini come la mia. Meglio di così! – disse
sarcastica e profondamente autoironica provocando le mie risa.
- Si, si okay!
Ma non esistono queste cose, lo sai? Niente principe, amore eterno o
destino.
- Odio il tuo
cinismo e non finirò mai di dirlo! –
scherzò alzando gli occhi al cielo – Prima o poi
dovrai innamorarti anche tu!
- Lo so, me lo
ripeti da un mese ormai. Ma lo sono stata Grace e sai come è
andata a finire!
- Beh, non era
quello giusto e hai avuto la sfortuna di avere un’amica poco
seria, che se l’è portato a letto.
- Grazie per
avermelo ricordato! – dissi con un tono quasi rassegnato.
Furono pochi i
secondi di pausa prima che Grace riprendesse a parlare.
- Ho una
proposta che non potrai rifiutare… - rifletté
assottigliando lo sguardo pensierosa.
- E’
una minaccia stile “Il padrino”?
- No volevo
fare la tipa
con la citazione! – sorrise – Sabato sera
c’è una festa in facoltà. In
verità è un incontro organizzato da
un’associazione che collabora con
l’università, ma ci saranno tanti ragazzi, musica
buona e qualcosa da mettere tra i denti!
- Lo sapevo,
è una minaccia! – conclusi sorridendo.
- Tu mi
prometti che verrai con me e io ti giuro che farò
comprendere il mio interesse a Kaleb. Mi servirà un
sostegno! – disse sbattendo le ciglia in maniera
supplichevole mentre parcheggiò l’auto a pochi
metri dalla caffetteria.
- E va bene.
Ma lo faccio per abbracciare la tua causa, non di certo per le
maliziose intenzioni che so ti frullano per la testa.
- Mi basta
questo! – affermò soddisfatta alzando il mento in
segno di vittoria.
La caffetteria
era già aperta, segno che Mike, arrivato presto, era di buon
umore. Notai la vecchia auto rossa di Eleonor ferma non lontana
dall’ingresso.
- Buongiorno!
– dissi entrando seguita dalla mia coinquilina che
ripeté il medesimo saluto.
- Grace, sei
venuta a salutarci? – esordì Mike uscendo dalla
porta del deposito sul retro.
- Si
stamattina ho lezione tardi e ho deciso di iniziare la giornata con uno
dei tuoi eccezionali pancake!
- Te li
preparo subito! – le rispose mettendosi all’opera
mentre io indossavo il mio grembiule e riponevo giacca e borsa sul
retro del bancone.
-
¿Donde esta mi niña? – sentii la voce
armoniosa di Eleonor provenire dal deposito quando, dopo pochi secondi,
sbucò proprio da quella porta.
Venne ad
abbracciarmi, proprio come ogni mattina, schioccando un delicato bacio
sulla mia guancia infreddolita.
- E
così stamattina està anche Grace con noi! Vai a
sederti pure un minuto con lei, vi porto un cappuccino.
- Grazie Ele.
– le dissi con un sincero sorriso, mentre il suo braccio
cingeva forte le mie spalle.
Raggiunsi
Grace al tavolo, proprio quello accanto alla finestra, prendendo posto
di fronte a lei.
- Ho fatto una
cosa che ti farà arrabbiare tanto. – la sua
espressione era preoccupata, aveva la fronte aggrottata e le labbra
arricciate in una strana smorfia.
- Ehm,
cioè? – chiesi senza andare in panico. Infondo
cosa poteva aver combinato?
- Prometti che
non te la prendi?
- A meno che
tu non abbia pubblicato una mia foto su uno di quei siti per incontri,
no, non mi arrabbierò.
- Okay. Ecco,
ieri sera, quando sono tornata da lezione, avevo voglia di leggere un
libro. Essendo che non c’era nulla che mi attirasse esposto
in libreria, ho adocchiato lo scatolone che è riposto in
cima. Non sapevo esattamente di cosa si trattasse così ho
iniziato a leggere…
Grace
rallentò il suo discorso in attesa di una mia reazione. Non
ero di certo infuriata ma molto infastidita. Non mi reputo brava, le
mie storie non sono un granché e la grammatica è
pessima. Il solo pensiero che la mia coinquilina fosse incappata nei
miei racconti e nei miei pensieri, dei quali io non mi sentivo affatto
soddisfatta, non era certo motivo di entusiasmo.
- Grace
ma… m-ma…non avresti dovuto…- cercai
di spiegare con calma.
- Lo so. E mi
dispiace. Ma le tue storie sono così belle, ho iniziato a
leggere e non sono riuscita a fermarmi.
- Come?
– chiesi sorpresa.
- Ma si! I
tuoi personaggi sono delineati in modo esauriente e sono tutti molto
interessanti. Per me scrivi benissimo e ancora non ho capito il motivo
che ti frena nell’inviare qualcosa ad una qualsiasi casa
editrice!
- Lo dici
perché sei Grace e sei la mia coinquilina e anche
perché ti ho prestato la mia sciarpa blu lo scorso week-end!
– cercai di sdrammatizzare la situazione che non gioiva certo
al mio imbarazzo.
- Non cambiare
discorso. Scusami ancora per aver letto le tue storie ma, ragazza mia,
lasciatelo dire, stai facendo una grande cavolata a non cercare di far
fortuna con quello che scrivi! – disse seria stavolta,
fissandomi negli occhi.
Fin dal primo
istante il rapporto con Grace è stato eccezionale. Abbiamo
subito trovato una forte chimica e siamo riuscite ad andare davvero
d’accordo in circa un mese che conviviamo. Si è
trasferita a Londra da Uxbridge. I suoi genitori sono abbastanza
facoltosi e le permettono di studiare senza la necessità di
lavorare. Questo sarebbe potuto essere motivo di presunzione e boria
per Grace, ma non ha mai mostrato alcun tipo di antipatia. E’
sempre stata gentile, generosa e non troppo invadente, anche se un
po’ esuberante nei modi di fare. Insomma, ero davvero
contenta di aver scelto lei come mia coinquilina.
- Ecco i
vostri pan cake e i cappuccini.
- Grazie
Eleonor. Perché non ti siedi con noi? Non
c’è ancora nessuno qui in caffetteria!
- Gracias
Grace! Ma preferisco tener d’occhio Mike, è di
buon umore e, quando lo è, tende a far pasticci! –
rispose la donna allontanandosi verso il bancone.
- Non provare
a riprendere il discorso a meno che tu non voglia che mi arrabbi!
– dissi scherzando sperando, però in questo modo,
di far cadere l’argomento prima intrapreso.
- Come
vuoi… - rispose sbuffando Grace.
Consumammo la
colazione in pochi minuti, dato il fatto che entrambe avevamo altro da
fare. Dopo che Grace aveva salutato Mike ed Eleonor,
l’accompagnai fuori dalla caffetteria, anche per approfittare
del tempo di fumare una sigaretta.
- Ti chiamo
dopo! – urlò quasi, mentre entrava nella sua Mini.
Sorridente le
feci cenno con la mano e, dopo pochi istanti, avevo già la
sigaretta accesa tra le dita. Le strade cominciarono a popolarsi. Taxi,
auto e bus erano sempre di più per le vie. Le persone
camminavano in fretta e i bambini si recavano verso le scuole. Senza
rendermene conto il mio piede tamburellava sull’asfalto
riproducendo un certo ritmo, mentre consumavo la mia sigaretta e mi
accorsi del perché dopo aver realizzato che le mie labbra
mimavano un motivo conosciuto. Alla radio trasmettevano la mia canzone
preferita dei Coldplay e la mia mente, inaspettatamente,
materializzò, come una diapositiva, l’immagine di
uno sguardo che feci fatica a riconoscere. Assottigliai gli occhi
mentre cercavo di riflettere. Inspirai l’ultima boccata di
fumo e gettai in un posacenere la sigaretta ormai spenta. Occhi verdi,
anelli e sorriso ammaliante. Ricordai, d’un tratto, con un
leggere sorriso immotivato il ragazzo che, un mese prima circa, mi
aveva chiesto scusa tre volte e aveva dichiarato di essere un principe.
Non seppi spiegarmi perché non risi subito delle sue
insensate parole ma, probabilmente, non ricordavo bene quella sua voce
che mi frenò dal farlo.
***
- E io ti
ripeto che avresti dovuto indossare quelle marroni con il tacco!
Durante tutto
il viaggio in auto verso la facoltà, Grace mi
ripeté come avrei o non dovuto vestirmi per la festa alla
quale ci stavamo dirigendo.
Riuscivo a
sentire la musica anche da fuori mentre ci avviavamo alla porta
d’entrata.
- E’
normale la musica così alta durante un incontro del genere?
- Credo sia un
gruppo che suona dal vivo. Diciamo pure che ne approfittano di queste
organizzazioni per dare una festa vera e propria in un luogo grande e
conosciuto come questo appunto!
- Ah, capisco!
– sentenziai annuendo con la testa.
Una volta
entrate venimmo inondate dal forte suono delle casse presenti su una
specie di palco allestito per la band. Era pieno di ragazzi e
c’erano diversi banconi con su cibo e bevande. Molte persone
ballavano, altri chiacchieravano seduti su alcune sedie presenti ai
bordi di quella che pareva una pista da ballo formata dal nulla. Le
luci erano poche e affievolite per rendere ancor di più
l’atmosfera di una vera e propria festa. Solo un grande
striscione appeso per gli estremi al soffitto indicava il reale scopo
benefico dell’incontro.
- Eccolo!
– mi urlò Grace all’orecchio rischiando
di rompere il mio timpano già messo sotto sforzo dalla
musica.
- Ma chi?
Kaleb intendi?
- Si, si.
E’ lui! Lo vedi quel ragazzo di colore vicino al bancone alla
tua destra. Ha una giaccia blu e i capelli rasati – mi disse
dando le spalle al punto che indicava mentre si torturava le mani
arrossate.
- Ehm, credo
proprio di si! E… beh, sta guardando proprio verso di noi,
credo abbia visto che lo indicavi. Anzi, a dirla tutta, viene qui!
– dissi d’un fiato seguendo le azioni che
avvenivano.
- Respira
Grace, non morde mica! – scherzai quando la mia amica
iniziò a boccheggiare.
- Grace? Grace
Hill?
- Si?
– rispose al richiamo del ragazzo con voce tremante prima di
voltarsi verso di lui – Ah, ma sei tu! Kaleb giusto?
- Si esatto!
– disse il ragazzo sorridendo e abbassando il viso.
- Vado a
prendermi da bere… - sussurrai all’orecchio di
Grace, così da darle un po’ di privacy.
Mi avviai al
bancone dove avevo adocchiato della birra, facendomi spazio tra alcuni
ragazzi che ballavano. Afferrai una Tennent’s e la stappai,
versandola in un bicchiere monouso. La musica cambiò e
riconobbi le note di Honky Tonk Women dei Rolling Stones. Iniziai a
fissare il gruppo che suonava, mentre sorseggiavo la birra. Spostai lo
sguardo verso Grace, un po’ lontana da me, e vidi che
chiacchierava con il suo Kaleb allegramente, segno che tutto andava per
il meglio. Quando tornai al gruppo, una figura mi impedì di
ottenere la stessa visuale di prima. Un ragazzo si versava della birra
appena aperta mentre alcune ciocche di capelli ricaddero sul suo viso,
così da non permettermi di vederne i lineamenti. Una mano
con su diversi anelli portò i ciuffi dietro le orecchie
mostrando, con mia sorpresa, un aspetto conosciuto.
Gli occhi del
ragazzo caddero distrattamente sui miei, poi al gruppo e ancora una
volta su di me, mostrandomi il suo sguardo assottigliato.
- Ci siamo
già incontrati vero? – esordì con un
sorriso dopo pochi istanti spalancando un pò gli occhi,
segno forse di un’intuizione.
- Si, credo di
si. Se non sbaglio sei venuto da Beks per un macchiato. Io lavoro
lì. – spiegai urlando un po’ per via del
volume alto della musica.
- Ricordi che
ho preso un macchiato? – chiese alzando un sopracciglio.
Mi bloccai con
le labbra socchiuse con la volontà di proferir parola ma non
riuscii a formulare nulla di sensato. Sorrisi e abbassai lo sguardo
imbarazzata.
- Io sono
Harley! - la sua voce ruppe il silenzio agghiacciante e
allungò il braccio aprendo la mano.
- Jackie!
– afferrai la sua e come un coniglio che sbuca dalla tana mi
venne in mente l’episodio della scossa elettrica del nostro
primo incontro.
- Si, lo so!
Ricordo il tuo nome.- sorrise entusiasta – Come mai sei qui?
Studi?
- No, no. In
verità ho accompagnato un’amica, è
lì che parla con un ragazzo. – dissi indicandola
con il dito e approfittando per tener d’occhio i movimenti di
Grace. – Tu studi qui?
- No, faccio
anche io da accompagnatore.
- Ah, capisco,
alla tua ragazza. – affermai decisa senza pensarci due volte.
Harley si
aprì in un divertito sorriso scuotendo un po’ la
testa e catturando i miei occhi con uno sguardo magnetico.
- In
verità sono qui con mia sorella!
In
quell’istante avrei voluto sotterrarmi. Con mia grande
sorpresa quel ragazzo sconosciuto sapeva mettermi in imbarazzo per via
del suo sguardo, della sua voce e del suo sorriso. Probabilmente fu
quello l’istante in cui ebbi la consapevolezza di essere
attratta fisicamente da Harley.
- Anche lei
è una principessa? – chiesi sarcastica curiosa
della risposta che avrebbe dato.
- Chi
Amélie? No, non lo è.
- Ah! Mentre
tu, quindi, sei un principe, giusto?
- E a te
sembra assurdo, giusto?
Arricciai il
naso e cercai di fargli capire il mio scetticismo. Lui sorrise
scuotendo il capo e abbassando lo sguardo.
- Ti ripeto
Jackie, non devi credermi per forza…
- Sono
curiosa. Anche se penso che tu mi stia prendendo in giro…
- No,
assolutamente! Non fa parte di me.
Sorrise ancora
ed entrambi ci accorgemmo di aver finito la birra.
- Ti va
di…?
- Oh no, non
so ballare!
- Jackie
– mi guardò divertito - volevo solo
chiederti se ti va di uscire un po’ fuori, la musica
è assordante!
- Oh!
– risi di me stessa e desiderai per la seconda volta di poter
scomparire via – C-certo, si!
Raggiungemmo
l’esterno e ne approfittai per fumare una sigaretta.
- So che non
te ne potrà importare quasi nulla, ma non posso non dirlo.
Non dovresti fumare…
Era appoggiato
con la schiena ad una colonna ed il suo sguardo era sincero e quasi
dispiaciuto. Guardai il suo corpo asciutto ma muscoloso. Indossava una
camicia bianca risvoltata ai gomiti con una leggera scollatura. I jeans
che portava erano scuri e terminavano arricciandosi leggermente su dei
vecchi anfibi neri. La sua testa era un po’ inclinata e il
suo labbro inferiore finì in una morsa lenta sotto i denti.
La sua fronte un po’ aggrottata forse rifletteva su
ciò che aveva appena detto e indirettamente chiesto di fare.
-
G-grazie… - dissi spontaneamente. Decisi di riposare la
sigaretta in borsa, non sapevo neppure se potevo fumarci lì,
e mi accomodai su di un gradino della lunga scala esterna.
Harley prese
posto accanto a me e posò i gomiti all’indietro
per appoggiarsi. Il suo viso sempre sorridente mi parve interessato ad
iniziare una conversazione.
- Come mai
“Yellow” è la tua canzone preferita dei
Coldplay?
Rimasi un
po’ stranita per alcuni secondi. Il fatto che ricordasse quel
particolare mi lasciò lusingata e sorpresa.
-
Beh… Okay, è una cosa assurda ed ero ubriaca
– risi abbassando il viso – Ero sulla terrazza del
mio appartamento. Avevo con me un i-pod che collegai a delle casse. La
radio mandò questa canzone e in pratica cominciai a danzare
lentamente e urlare a squarciagola verso questa distesa di luci che
vedevo dall’alto che la mia mente molto poco lucida
associò a tante stelle.- risi di gusto ripercorrendo con
l’ immaginazione quel momento e portandomi le dita alla
bocca, come a trattenere quel sorriso imbarazzato – E in
pratica tutto il vicinato mi mandò a quel paese. Questa
è stata la mia prima notte in questa città e da
allora è il mio cavallo di battaglia.
Evitai di
raccontargli la parte in cui dicevo che mi ero appena trasferita da
Londra, dopo il disagio famigliare, e che mio padre cambiava, cambiava
la mia famiglia e cambiavo io.
- No che non
è assurdo. E’ irrazionale e intenso.
- Oh beh, sono
tutto meno che irrazionale io.
- Magari
allora però non lo eri…
Incontrai il
suo sguardo. I suoi occhi, da sotto le ciglia scure, mi scrutavano con
gentilezza. Lo sbattere delle sue palpebre mi parve un movimento
così ipnotico e sensuale come nulla mai visto prima.
- Come mai sei
a Londra? Il tuo accento sembra irlandese. – chiese
distogliendo lo guardo e prendendo a giocare con i soliti anelli. In
quel momento avrei voluto chiedergli come mai amava gli anelli e
perché ne aveva così tanti, ma decisi di
rispondere prima alla sua domanda.
- Diciamo per
lavoro e per piacere. Sono nata qui, in verità, ma ho sempre
vissuto ad Ennis, in Irlanda per l’appunto.
- Ne ho
sentito parlare, dicono sia una cittadina molto caratteristica.
- Si, lo
è!
- Permettimi,
non credo tu sia venuta fin qui per lavorare da Beks…
- Vedo che non
ti sfugge nulla… – dissi scuotendo un
po’ la testa – Beh, in verità…
- Ecco dove ti
eri cacciata Jackie! Ti ho cercato ovunque…
La voce
inconfondibile di Grace, annunciata dal forte rumore della porta
d’ingresso chiusa con uno slancio, fermò la
conversazione e mi fece alzar di scatto, come se fossi stata beccata a
far qualcosa di illegale o immorale. Harley seguì
il mio movimento e solo in quell’istante la mia amica parve
accorgersi di lui.
- Ah! Ehm,
ciao. Scusatemi, non volevo interrompervi…
- No, ma che
dici! – la ripresi aggrottando la fronte – Lui
è Harley, ci siamo rincontrati per caso…
Sentivo lo
sguardo del ragazzo che avevo accanto su di me e la cosa non so
perché mi faceva sorridere.
- Mi dispiace
Jackie, dobbiamo andare. Mi ha chiamato Mike, hanno derubato il
deposito della caffetteria.
- Cosa?
– dissi allibita – Perché non ha
chiamato me?
- Dice che non
avevi linea, rispondeva la segreteria. Eleonor già
è lì, però sai
com’è lui, è in panico ora.
- Okay, si,
andiamo subito, certo!
- Ti aspetto
all’auto.
Annuii a Grace
mentre si avviò alla Mini parcheggiata sul retro. Il mio
sguardo tornò a Harley che mi guardava preoccupato mentre
una mano passò tra i suoi capelli sistemandoli dietro le
orecchie. Quel suo gesto inaspettato mi provocò una piccola
morsa allo stomaco.
- Vai, vai
pure. Mi dispiace per la caffetteria.
- Si, Mike
sarà fuori di senno. Devo andare…
- Certo,
capisco tranquilla. – mi disse comprensivo aprendosi in un
ammaliante sorriso.
- Mi ha fatto
piacere rivederti Jackie.
- E’
stato un piacere… principe! – scherzai sorridente
mentre ricambiò la mia espressione.
Mi voltai e
scesi i gradini delle scale in fretta. Non so perché lo
feci, ma in maniera del tutto spontanea mi voltai verso le scale a
cercare quella che era stata la mia compagnia degli ultimi minuti.
Harley assottigliò lo sguardo e inarcò le labbra,
mentre il suo corpo simulò un inchino quasi regale.
Mi fece
sorride e scossi la testa.
Non riuscivo a
pensare alla caffetteria lucidamente per quanto mi dovessi preoccupare
delle circostanze, perché l’unica domanda che
avevo per la testa mi chiedeva se mai avrei rivisto Harley e
soprattutto chi fosse davvero questo misterioso ragazzo che si
spacciava per principe?
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Capitolo 4 *** Capitolo 3° ***
Il
principe di Londra
Capitolo 3
Nonostante fosse trascorsa una settimana dalla rapina in caffetteria
Mike era ancora agitato e, quando il suo umore non era dei migliori,
non era facile stargli accanto. Fortuna, però, che quello
era il mio giorno di festa.
Grace era
all’università così decisi di andare a
fare un giro al parco vista quella rara e calda giornata di sole. La
primavera era ormai alle porte e l’aria sembrava
già acquistare il dolce profumo dei fiori. Le panchine di
ferro battuto erano disposte in senso circolare intorno a quella che
era una grande aiuola centrale, ricca di svariate piante. Il resto del
parco consisteva in sentieri di pietra, tra le ampie distese di verde,
ancora però, ricoperte di foglie qua e là. Il
violento odore di smog tuttavia non risparmiava neppure quel luogo
dedicato alla natura. Solo una lieve brezza portava un po’ di
purezza all’aria.
Una donna
sfilò fiera davanti a me che me ne stavo seduta e
rannicchiata quasi nella mia giacca. Aveva lunghi capelli lucidi e
curati di un energico color caramello. I suoi occhi erano coperti da
grandi lenti da sole scure e le labbra erano tinte di un peccaminoso
rosso ciliegia. La sua camminata decisa riproduceva il suono ritmico
dei tacchi alti, che indossava e portava con alterigia. Una
delle mani era occupata a tener su la borsa da giorno incastonata da
dettagli oro, mentre, l’altra, reggeva all’orecchio
un telefono di ultima generazione.
- Si, me
l’ha chiesto! Ci sposeremo a fine mese. Sono così
emozionata Diana…
Le sue parole
volarono tra il vento nella manciata di secondi durante i quali
attraversò quel tragitto che mi era vicino. La guardai con
invidia, un’invidia buona e malinconica.
Il matrimonio
a me spaventava. La mia testa non riusciva proprio a capacitarsi del
perché la gente decideva di sposarsi nonostante conoscesse
perfettamente le conseguenze di quell’unione. I fidanzati
sono amanti, coloro sposati, invece, sono conviventi. Non potevo fare a
meno di pensarla in quel modo. Il matrimonio sembrava corrodere tutto
ciò che negli anni o nei mesi precedenti si era costruito
con amore. Entrava in ballo la diffidenza, la gelosia,
l’egoismo e l’esasperazione. E ciò che
era peggio, è che non si poteva tornare indietro. Non era,
per me, una coronazione dell’amore, ma una condanna vera e
propria, che portava alla frantumazione del rapporto e
all’autodistruzione.
Si, lo so, la
mia opinione al riguardo era alquanto pessimista ma, dalla mia
esperienza, non riuscivo a vederla diversamente. Era stato forse il
matrimonio dei miei genitori a farmi avere questa negativa
considerazione dell’argomento. Le persone cambiano e
purtroppo, quando si è vincolati in un legame del
genere, non si può mollare tutto, nonostante la persona al
tuo fianco non sia più la stessa.
Fu alla
locanda londinese di mio padre che si incontrarono i miei genitori. Mia
madre, Eliza, era in viaggio con un’amica e, durante una sera
estiva, incontrò questo alto e affascinante Hank. Si
innamorarono e mia madre dopo diversi viaggi di andata e ritorno decise
di rimanere in città. Nacque Fiona, mia sorella e solo dopo
il matrimonio decisero di dare alla luce un'altra figlia,
cioè io. Ricordo gli anni a Londra come i migliori.
Un’infanzia felice, spensierata e alquanto agiata. La locanda
di mio padre aveva successo e i guadagni erano sempre molto buoni. Mia
madre poteva permettersi di restare a casa ed occuparsi delle faccende
domestiche nonostante lei stessa, però, non riuscisse a
stare senza far nulla. Il rapporto con mio padre era speciale. Lui mi
coccolava, mi raccontava la favola della buonanotte e mi proteggeva.
Era il mio gigante buono e io ero per lui un piccolo fagotto da
difendere dal mondo esterno. Ricordavo ancora le lunghe passeggiate
quando mi portava con lui a lavoro oppure quando, con la sua vespa, mi
accompagnava a scuola ogni mattina. Ero la sua bambina anche
all’età di tredici anni. Smisi però di
esserlo a quattordici.
La morte di
mio nonno provocò in Hank, è così che
poi cominciai a chiamarlo, un profondo dolore tanto da mutare il suo
carattere, il suo atteggiamento e forse i suoi sentimenti. La sua
famiglia era come scomparsa e tutta la sua vita cominciò a
ruotare intorno a ciò che lo distruggeva giorno dopo giorno:
l’alcol.
Vendemmo la
locanda e dopo mesi e mesi, in cui mio padre si ostinava a non cercar
lavoro, decidemmo di trasferirci ad Ennis, in Irlanda, dove mia madre
riprese la piccola attività familiare. Se Hank non era sul
divano oppure a letto, si trovava sicuramente in qualche bar. Non
diceva buongiorno al mattino e salutava a stento quando si entrava in
casa. Divenne burbero e accigliato. Il suo atteggiamento era lo stesso
tutta la giornata. Allontanò mia madre, allontanò
Fiona e allontanò me. Io, d’altronde, non capivo
il perché. Non capivo perché si comportasse in
quel modo quando proprio per un dolore così intenso, quale
la perdita di una persona cara, avrebbe dovuto cercare
l’affetto e l’appoggio della sua famiglia. Noi
provavamo a spiegare o chiarire, lui sbraitava e mia mamma piangeva.
Io, per quel che mi riguardava, mi arrabbiavo. La rabbia era talmente
forte da scappare di casa per un giorno o due, ma non potevo lasciare
mia madre da sola ad affrontare tutto questo, non potevo non provare a
renderla felice con quel che potevo.
Passai le dita
sotto agli occhi per asciugare la pelle dalle lacrime che volevano
venir fuori prepotentemente. Ricordai di avere dei fazzoletti in borsa
che cercai di afferrare tra il caos di cianfrusaglie che
c’era. Ripulii dal mascara colato gli occhi,
aiutandomi con uno specchietto e prima che potessi rimettere tutto a
posto nella borsa, un husky dal pelo bianco e grigio
cominciò a saltare sulle mie gambe scodinzolando. Per la
sorpresa mi volò via lo specchietto. Adoravo gli animali ed
in particolar modo i cani, quindi non potei fare a meno di accarezzarlo
e concedergli le coccole che mi chiedeva.
- Ciao
cucciolo… - dissi intenerita dai suoi occhi ghiaccio.
Aveva un
guinzaglio nero al collo che penzolava tra le sue zampe. Mi guardai
attorno per cercare il presunto padrone che se l’era fatto
scappare rigettando in borsa lo specchietto.
- Jack! Jack
bello dove sei? Jack!
Mi alzai di
istinto afferrando il guinzaglio di quello che capii chiamarsi Jack.
Cominciai a guardarmi intorno quando con mia sorpresa avvistai il
padrone.
- Non ci posso
credere…
- Mi sa che
è destino allora!
Harley si
avvicinò lentamente e prima che potessi cedergli il
guinzaglio si calò a salutare il suo cane con delle carezze.
- Jack
è affettuoso. – disse rivolgendosi a me come a
giustificare il gesto del cucciolo.
- Nessun
problema, adoro i cani! – risposi con un sincero sorriso,
passando nelle sue mani il guinzaglio mentre si rialzava da terra.
- Credo che tu
gli piaccia parecchio! – disse divertito osservando Jack
farmi le feste.
- E’
davvero meraviglioso. Quanto ha?
- Il prossimo
mese farà un anno e mezzo.
- E’
un cucciolo… - sussurrai mentre Jack si lasciava accarezzare
dalle mie dita che sprofondavano nel suo pelo.
- Come mai
qui? Aspetti qualcuno?
- No, no. Sono
sola. Avevo voglia di stare un po’ all’aria aperta.
- Ti va
di… passeggiare?
Harley quella
mattina pareva più bello del solito. Forse era la luce del
sole che sembrava illuminargli gli occhi. Il suo volto era solare e le
sue labbra sempre distese in un caldo sorriso. Avvampata da un leggero
imbarazzo abbassai lo sguardo.
- Si,
perché no!
Iniziammo a
camminare lungo i sentieri del parco, seguendo Jack che
schizzò avanti entusiasta.
- Come va alla
caffetteria? L’ultima volta che ci siamo incontrati per caso,
era accaduta quella sfortuna…
- Mike, il
titolare, è ancora sotto shock. Lui è un tipo
abbastanza suscettibile e questa cosa ancora non gli passa!
La luce
brillante del sole filtrava tra le foglie degli alberi ancora un
po’ ingiallite, creando un magico gioco di colori. Qualche
fiore qua e là cominciava a spuntare tra l’erba
fitta, tinteggiando di colore le distese di verde. Camminavo catturando
con lo sguardo tutti quei dettagli, forse per non imbattermi nei suoi
occhi oppure semplicemente per seguire il percorso del parco.
- Mi dispiace.
In passato hanno derubato anche casa mia. Presero di tutto, televisori
e oggetti di valore. So che significa, si ha sempre il
terrore che questo possa riaccadere.
- Abiti qui
vicino? – chiesi approfittando per conoscere qualcosa in
più di lui.
- Si, non
lontano da qui.
Dopo qualche
secondo di imbarazzo mi decisi a parlare.
- Parlami di
te! L’altra volta risposi solo io alle tue domande…
- Cosa ti va
di sapere? – chiese sorridendomi. Abbassai lo sguardo
impacciata cercando di riformulare le idee.
- Non so. Mi
chiedesti della mia canzone preferita dei Coldplay, la tua qual
è?
- Senza dubbio
Lovers in Japan!
-
Perché? – sussurrai.
- Le parole di
quella canzone spesso mi sembrano così vicine a quella che
è la mia vita! – disse scuotendo leggermente la
testa e socchiudendo gli occhi a causa della luce del sole che ora
abbagliava proprio di fronte a noi. Arricciò le labbra e
passò una mano tra i capelli, per risistemare le ciocche
ribelli che scesero sul suo volto.
- E
com’è la tua vita? – chiesi incuriosita
cercando di non essere invadente.
Harley
titubò un po’ sorridendo e seguendo con lo sguardo
Jack. Aggrottò la fronte e, con la mano libera dal
guinzaglio, prese ad accarezzarsi lentamente la barba rada. I suoi
occhi, per pochi secondi, erano come persi in qualcosa che io non
riuscivo a vedere, qualcosa di invisibile, qualcosa che, probabilmente,
esisteva solo nella sua mente.
- Beh, potrei
definirtela in breve come “ricca di passioni”.
– disse dopo aver emesso un sommesso sorriso.
Voltò
il viso e mi guardò; le sue iridi erano illuminate dalla
luce dei raggi del sole. Il verde giocava ora con il color miele e lo
sguardo profondo si assottigliò quasi a diventare misterioso
e sensuale. Mi guardava come per ammaliarmi, i suoi occhi mi
incatenarono facendomi arrossire lievemente. Ma forse era solo la luce
che gli dava fastidio.
- E quali sono
queste passioni? – gli chiesi staccandomi da quella presa
visiva e abbassando repentinamente lo sguardo sui miei passi.
- Amo la
fotografia. Non sono un professionista, non ho mai studiato. Ma mi
diletto con la mia macchina fotografica. Poi adoro Jack –
sorride guardandolo – e… il giardino di mia nonna!
Incuriosita
non potei fare a meno di chiedergli a riguardo.
-
Cos’ha di speciale? Non fraintendermi, non è per
sminuirlo… - sussurrai titubante.
- E’
la passione stessa con cui lei lo cura e come lo ha sempre fatto.
– sembrò riflettere un istante tra i suoi pensieri
- Il profumo, ecco! Amo il profumo di quel giardino.
- Le fai
spesso visita quindi?
- In
verità abita con me e Amélie. Teoricamente potrei
anche presentarlo come il giardino di casa mia, ma se ne è
sempre occupata mia nonna Yvonne.
- Yvonne,
è davvero un bel nome! – affermai convinta.
- Mia nonna
è francese. Si trasferì qui a Londra dopo il
matrimonio con un alto e aitante militare, mio nonno. – le
sue labbra si distesero leggermente a quel ricordo.
- E il tuo
nome, invece?! I tuoi sono amanti delle moto?
Il suo sguardo
si incupì di colpo. Qualcosa l’aveva toccato per
un paio di secondi e portò la mano al mento accarezzandosi,
come prima, la barba.
- Ti va un the?
Mi prese
completamente alla sprovvista. Mi osservava con un pizzico di
malinconia sul volto ma mi sorrise come se nulla fosse.
- O una
cioccolata?
-
Ehm… Vogliamo passare in caffetteria? – chiesi
senza rendermene conto di aver accettato nell’immediato.
Mi piaceva
stare con lui e non volevo che quegli istanti terminassero. Sembrava
come se non pensassi più a nulla con razionalità.
Io, la persona più razionale di questo mondo… Era
una strana sensazione. Non riuscivo a capire se era lui o
ciò che io ero con lui. I dubbi mi attanagliavano ma ero
incapace di riflettere realmente.
Ci eravamo
fermati e i suoi occhi mi asservirono nuovamente.
- In
verità volevo mostrarti il giardino e farti conoscere mia
nonna Ivonne, se ti va…
Jack
strusciava il suo pelo contro il tessuto spesso e slavato dei miei
jeans mentre la mia mano lo accarezzava istintivamente. Avvampai di
nuovo costretta a prendere una decisione.
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Note:
Eccomi con il terzo
capitolo!!! Spero vi sia piaciuto. Purtroppo vado di corsa ma non
volevo rimandare ancora la pubblicazione. Vi ringrazio di cuore per
aver inserito la storia tra le vostre e un enrome ringraziamento per le
vostre recensioni. Non vedo l'ora di leggerne altre **
Vi ricordo il
link della pagina dove potrete seguire gli aggiormenti e tant altro http://www.facebook.com/PerlaSavvy
Vi mando un
forte abbraccio, Perla ♥
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