-I hate everything about you; Why do I love you?

di Deathbed
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Charlotte. ***
Capitolo 2: *** Bill ***
Capitolo 3: *** School ***
Capitolo 4: *** Bring me to life. ***
Capitolo 5: *** Rape me. ***
Capitolo 6: *** When the children cry ***
Capitolo 7: *** The End. ***



Capitolo 1
*** Charlotte. ***


I hate everything about you; Why do I love you?

{Three Days Grace-I hate everything about you}



*Il titolo non è il massimo, ma non mi veniva in mente altro. Spero di riuscire a cambiarlo prima possibile.


Charlotte era nuda, chiusa in camera sua. Si stava guardando allo specchio.
Si stava guardando la pelle bianca, le gambe lunghe e magre, il livido sotto il seno. I capelli neri e lisci che le spiovevano sulle spalle, gli occhi grigi e freddi. I polsi martoriati, da cui stavano ancora uscendo dei rivoletti di sangue.
Distolse lo sguardo dallo specchio.
Era sempre in silenzio, Charlotte. Era sempre fredda.
Non aveva amici, e non ne voleva. Nessuno voleva essere sua amica, ma tutti sapevano chi era. Era una di quelle persone che quando qualcuno vede a scuola, tutti cominciano a bisbigliare, smettendo subito se lei per caso si volta, e ricominciando appena se ne va. Le ragazze le odiavano per la sua bellezza, perché i maschi parlavano sempre di lei. Ma a lei non interessava. Lei li odiava, gli uomini.
Tutti sapevano chi era, ma nessuno la conosceva.
Nessuno poteva immaginare cosa c'era dietro quell'aria sempre così strafottente, disinteressata, di chi pensa di vivere mille metri più in alto rispetto agli altri. Nessuno era mai stato a casa sua.

 Distolse lo sguardo dallo specchio e vide che erano già le sette e mezza.
“Meglio muoversi” pensò “altrimenti quello si incazza”.
Si rivestì in fretta e corse in cucina. Sua mamma era lì, come sempre. Le fece un vago sorriso. Sorrideva sempre, quella donna.
Charlotte cominciò ad apparecchiare, in silenzio, ma con la mente era altrove. Sistemò i tovaglioli ordinatamente a destra dei piatti, e cominciò a tagliare il pane, ma pensava ad altro. Pensava che odiava sua madre quasi quanto suo padre. No, non la odiava, le faceva schifo. Le faceva schifo il pensiero che da più di diciotto anni sua madre continuava a subire senza osare ribellarsi. E soprattutto le faceva schifo il fatto che non avesse mai, mai fatto niente per proteggere lei. Lei, se un giorno fosse diventata madre, sperava con tutto il cuore di essere una madre migliore della sua.
Suo padre intanto era sul divano davanti alla televisione, come al solito.
Scolò la pasta e riempì i piatti, senza smettere di sorridere. Charlotte le avrebbe volentieri tirato un pugno.
-Henry, è pronto.- cantilenò sua madre, rivolta al marito.
Henry si alzò, si mise a tavola e cominciò a mangiare, in silenzio, senza badare a nessuno. Charlotte mangiava lentamente. C'era un tempo preciso per cenare, e non poteva permettersi di non rispettarlo.
Le stava venendo da vomitare. Le veniva sempre la nausea, quando era costretta a stare da sola insieme ai suoi genitori. C'era un silenzio di tomba.
A un certo punto suo padre alzò gli occhi dal piatto e le lanciò un'occhiata.
-Cos'hai sugli occhi?- le chiese.
Charlotte sentì una fitta allo stomaco. Merda, si era dimenticata di struccarsi. Non rispose.
Allora l'uomo si alzò, e senza dire niente prese la brocca d'acqua e gliela rovesciò in testa. Poi la prese per un braccio e le assestò due schiaffi.
-Non ti devi mai più far vedere in giro truccata come una puttana, va bene?! Mai più! Non voglio che la gente pensi che mia figlia sia una puttana!- sbraitò. Poi si risedette e finì di mangiare come se niente fosse.
Sua madre continuava a sorridere, come sempre.
Charlotte rimaneva lì, seduta. Non aveva detto una parola. In quei casi non apriva bocca, per evitare di peggiorare le cose. Non piangeva mai, non si lamentava mai. Neanche un piccolo singhiozzo.
Semplicemente rimase seduta, tutta bagnata, con la matita e il rimmel che le colavano, e sembrava avesse rischiato di morire affogata, o fosse appena scampata a un'alluvione. Finì di cenare e si chiuse in camera sua.
Qui avrebbe potuto tranquillamente piangere e sfogarsi, a patto di essere silenziosa, ma non lo fece. Odiava piangere.
Prese il phon e si asciugò i capelli, e finì di struccarsi. Poi si buttò sul letto e prese a guardare il soffitto. 

Charlotte voleva andare via di lì. Ma dove?
E poi, con che coraggio sarebbe scappata dall'unico posto che poteva chiamare casa?
Perché dopo diciotto anni puoi quasi farci l'abitudine. Sembra quasi normale tornare a casa da scuola e sentirsi urlare contro qualcosa, prendersi uno schiaffo se sei in ritardo di qualche minuto. Venire picchiata ogni giorno per i motivi più futili, mentre tua madre stava a guardare. Non uscire mai, non avere amici, passare il tempo a pulire la casa e guai se quando ti viene detto qualcosa non ubbidisci subito. E guai se quando finisce la scuola non sei subito a casa. Tua madre sorride. E sabato sera c'è troppa brutta gente fuori. E se tuo padre, quando veniva a prenderti a scuola, ti vedeva parlare con un ragazzo, poi i pugni non te li toglieva nessuno. Non che lei volesse parlare con i ragazzi. Ma quando qualcuno si avvicina per provarci, puoi solo dirgli di smetterla e sperare che se ne vada. E lei non poteva essere picchiata per questo. Perché dopo diciotto anni i lividi e le botte sembrano quasi normali, e le lacrime che trattieni, e sembra normale aver disimparato a sorridere e va bene così.
In quella città ti potevi ritenere fortunato a non avere una vita del genere, e il massimo che potevi sperare era andare ad una festa e vedere che i ragazzi ti guardavano il culo. Poi basta, la vita finiva lì.
Charlotte non era mai stata, ad una festa, e non ci voleva andare. Non le importava niente degli altri, e di cosa facevano in generale.
Aveva paura solo di una cosa. Che a forza di essere abituata, alla fine avrebbe dato per scontato che non c'era nient'altro al di fuori di casa sua, e della sua famiglia. Che si sarebbe rinsecchita sempre di più, finché dentro non sarebbe rimasto più niente. Aveva il terrore che alla fine sarebbe diventata come sua madre.
Scivolò lentamente nel sonno, un sonno leggero e pieno di sogni confusi. E intanto quel pensiero continuava a rimbombarle in testa, io non voglio diventare come mia madre.
Era l'unica sua sicurezza.
Oltre al fatto che, ovviamente, lei non sarebbe mai riuscita ad innamorarsi di un uomo.
E va bene così.

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Capitolo 2
*** Bill ***


Ok, allora. Buonsalve! (?)
è la mia prima volta su efp, quindi chiedo pietà. Ieri ho postato di botto, senza pensare, come faccio sempre. allora, questa storia mi è venuta in mente da un giorno all'altro, e l'ho voluta pubblicare. sarà molto corta, penso meno di dieci capitoli. eh beh...il resto lo scoprirete leggendo! e le recensioni saranno gradite, altrimenti mi sento una merda.
Baci.
-April


 

-Bill

Crawling in my skin
These wounds
They will not heal
Fear is how I fall
Confusing what is real

{Linkin Park-Crawling}


Da un paio di minuti ormai qualcuno stava bussando alla porta della camera del diciottenne Bill Bailey.
Bussare è un termine troppo civile. Diciamo che la donna stava praticamente prendendo a calci la porta, ma Bill aveva la musica talmente a palla da non riuscire neanche a sentire i propri pensieri.
Allora la donna decise di entrare, nonostante il figlio glielo avesse severamente proibito.
Quando la vide Bill fece un balzo.
-Mamma!- gridò -perché sei entrata?!-
-Puoi spegnere sto rumore?!- chiese la madre urlando.
Allora Bill si chinò sul giradischi e spense Mick Jagger “Cause I tryyyy, and I tryyyy, and I tryyy, I can't get noooooo, Satisfactioooon...”
-Che vuoi?- chiese quando ci fu silenzio, guardandola scocciato.
-Tuo padre sta per tornare, ti conviene mettere un po' in ordine questo porcile- rispose, stringendo gli occhi.
-E allora?- fece una smorfia -Non ci deve dormire lui qua- disse Bill, con un tono che faceva capire che lui non aveva la minima intenzione di muoversi da lì, men che meno per pulire.
La madre lo guardò disgustata.
-Fai come vuoi- disse -poi però non venire da me a lamentarti se ci litighi...-
e uscì sbattendo la porta.
“Troia” pensò.
Poi fece ripartire la musica, e lasciò che essa inghiottisse tutti i suoi pensieri.

La cena a casa Bailey, esattamente come a casa di Charlotte, era un momento estremamente sgradevole.
Ma, mentre Charlotte la consumava come una persona normale, Bill inghiottiva due bocconi, prendeva qualcosa dal frigo che poi si mangiava in camera, dava un bacio a sua sorella e spariva di nuovo.
La sera di quello stesso giorno, dopo cena, e dopo che era rimasto solo con sua moglie, Stephen Bailey si accese una sigaretta. Tirò un paio di boccate e osservò la donna che gli sedeva di fronte. Evitava di guardarlo in faccia. Adesso invece si era alzata, e aveva cominciato a sparecchiare.
Era invecchiata, Sharon. Non era più la ragazzina bionda che aveva appena partorito, che l'aveva tanto impietosito con la storia della sua vita, e del figlio appena nato, del marito che se n'era andato, fino a convincerlo a prenderla con sé, insieme al bambino. Quel bambino che gli aveva sempre fatto dannare, sin da quando aveva imparato a stare in piedi, e, più tardi, a pensare con la propria testa.
-Sharon- disse a un certo punto l'uomo.
-Sì?- fece lei, senza voltarsi, impegnata a lavare i piatti.
-Hai controllato la camera di William?- chiese.
-Sì- rispose.
-Trovato niente?- adesso stava asciugando le stoviglie, ma continuava a evitare il suo sguardo. Non rispose subito.
-Le solite cose...- disse.
-Ad esempio?- la incalzò l'uomo.
Lei si morse un labbro. Nonostante non amasse il figlio, nonostante avrebbe solo voluto vederlo uscire di casa senza che mai facesse ritorno, neanche a lei andava molto a genio il fatto che fosse picchiato dall'uomo che aveva sposato

-Cd, un sacco di cd, vestiti sparsi dappertutto, riviste, altri cd...-
-Un giorno dovrò fare piazza pulita di tutta quella paccottiglia inutile- borbottò l'uomo -e poi?-
-Delle sigarette, e...-
-Che cosa?-
Sharon deglutì.
-Sigarette...-
-E perché non me l'hai detto subito?!- l'uomo si alzò, in tutto il suo metro e novanta di altezza.
La donna abbassò lo sguardo, senza rispondere.
Stephen le lanciò un'occhiata infuocata -Io e te facciamo i conti dopo...- disse, prima di salire in camera del figlio.
Sharon chiuse gli occhi,cercando di non piangere, e rimase così per alcuni secondi.

Poi si riprese. Ricominciò a lavare i piatti, cercando di non sentire i tonfi che provenivano dal piano di sopra. Cercando di non pensare al fatto che sposando quell'uomo si era rovinata la vita, e soprattutto aveva rovinato la vita di suo figlio. Cercò di convincersi che il problema era quel ragazzo, da sempre troppo chiuso, troppo scontroso. Andava educato, e suo marito conosceva l'unico modo.
Sentì il rumore di vetri infranti.
Sì, lui stava facendo la cosa giusta.

Bill, ritornato in camera sua, era intento a leggere una rivista porno. Appena vide la porta aprirsi la gettò sotto il letto e fece finta di dormire.
-William- lo chiamò suo padre.
Aprì un occhio.
-Che vuoi?-
Sì avvicinò lentamente al letto, mentre il ragazzo lo guardava, indifferente, facendo finta di non temerlo.
L'uomo continuò ad avvicinarsi, senza rispondere, e quando fu davanti al ragazzo gli tirò un pugno sulla pancia. Bill spalancò gli occhi, preso alla sprovvista. Subito non faceva neanche troppo male. Era quello che veniva dopo che faceva male. Si mise a sedere e si piegò in due. Sentiva il profondo bisogno di vomitare, ma dalla bocca non gli uscì assolutamente niente, se non un rantolo e qualche goccia di sangue.
-Tua madre mi ha detto che ha trovato delle sigarette in camera tua- disse, con voce fredda -Mi sembrava di averti vietato di fumare-
Bill non disse niente.
Allora il padre andò su tutte le furie. Afferrò una bottiglia vuota dal comodino, e la spaccò. Bill lo guardò, senza cercare di nascondere la sua paura adesso. E l'uomo lo prese, e lo sbattè al muro, e cominciò a tempestarlo di cazzotti. Tre, quattro, cinque, finché la faccia del ragazzo non cominciò a sanguinare.
Poi lo lasciò, e lui si accasciò sul pavimento, come una bambola di pezza senza vita.
Stephen si lisciò la giacca e si risedette sul letto.
-Beh? Non mi dici niente?- chiese. Sembrava estremamente calmo, adesso.
Bill lo guardò con odio.
-Che c'è? Non ti inventi nessuna scusa oggi? Non te le ha infilate di nascosto in camera il tuo amico, oggi?- chiese con voce sarcastica.
Bill non era come Charlotte. Anche se nemmeno a lui piaceva piangere, lui si ribellava. Non si faceva toccare, e quando succedeva, cercava sempre di difendersi con tutte le sue forze. Non quel giorno però. Perché, anche se non l'aveva ammesso neanche a sé stesso, sperava che almeno quel giorno sarebbero riusciti a comportarsi come una famiglia normale. O, per lo meno, suo padre non l'avrebbe picchiato. Invece no. E lui, quel giorno, non aveva la forza di ribellarsi.
L'unica cosa che riuscì a fare fu alzarsi in piedi e urlargli contro tutta la sua rabbia.
-Ti odio!- gridò.
Ti. Odio. Sei mio padre, e ti odio. E vorrei che tu morissi, sarebbe la cosa migliore che mi possa capitare in tutta la vita. Vorrei ucciderti io, con le mie stesse mani, vorrei uccidere l'uomo che con il suo seme mi ha dato la vita. Porco schifoso!
Dopo avergli urlato addosso quelle due parole, Bill uscì sbattendo la porta, scese di corsa le scale, evitò sua madre, aprì la porta d'ingresso e...finalmente libero.
Andò al parco di Lafayette. Lì poteva stare da solo, in pace. Nessuno andava in un posto del genere a quell'ora.
Cominciò a piangere, suo malgrado. Pensò che era completamente solo al mondo, e che, anche se sapeva che non era colpa sua, a volte si odiava per non riuscire mai a rendere fieri i tuoi. Sei un mostro. Devi ringraziare di non essere ancora finito in prigione. E tagliati quei capelli.
Voleva andare da Jeff, ma non poteva. O meglio, non voleva. Aveva paura che a forza di piombare lì di notte e svegliarlo alla fine anche il suo migliore amico si sarebbe stufato di lui e l'avrebbe sbattuto fuori.
Così rimane lì, continuando a piangere. Non si accorse neanche di essersi sdraiato su una panchina e di essersi addormentato. Di essere lentamente scivolato nel sonno, un sonno leggero e pieno di sogni confusi, da cui suo padre entrava e usciva. E rimase lì tutta la notte; a pochi passi dalla casa in cui, anche se lui non lo sapeva, Charlotte viveva la sua stessa vita.

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Capitolo 3
*** School ***


 Ok, scusate il ritardo! E' che durante la settimana ho davvero poco tempo per postare...Allora, due o tre cosette (sempre che qualcuno si sia fermato a leggere sta roba, lol) poi vi lascio liberi di leggere. Innanzitutto voglio ringraziare Angie Mars, kat_gunsnroses_love e Filthy Neon Angel per avermi recensito! :3 ah e Angie...beh, ovviamente Charlotte e Bill si conoseranno e probabilmente innamoreranno ma...non sperare in un lieto fine. Io odio i finali allegri. XD
In questo capitolo dimostro tutto il mio infinito ammoorehh per la fisica, che per quanto difficile rimane sempre la mia materia preferita *-* (questo non mi impedisce di avere 5, mlml)
Ok, finito. Buona lettura! :3
-April




School

You're in high school again
You're in high school again
You're nothing, again!
{Nirvana- School}




“Quindi, ragazzi, per calcolare la forza massima di attrito statico, bisogna fare il rapporto fra la forza peso, o forza premente, e il coefficiente di attrito statico μs...”

La professoressa continuava a sparare formule su formule, a tutto tondo, e aveva già riempito metà della lavagna con numeri e simboli inquietanti, di cui nessuno comprendeva il significato. Lei però non sembrava accorgersene. Sembrava pensare che i suoi studenti la stessero diligentemente ascoltando, che davvero gli importasse come calcolare l'attrito statico.
No, loro avevano tutt'altri pensieri.
C'erano due persone in particolare, poi, di cui della fisica, e della scuola più in generale, non fregava assolutamente nulla. Venivano solo perché la legge gli imponeva di farlo, solo perché sapevano che comunque qualsiasi posto era meglio che a casa. E perché sapevano anche cosa gli sarebbe toccato se non ci fossero andati.
Charlotte continuava a guardare l'ora, e a tormentare una povera matita tutta smangiucchiata che non le aveva fatto assolutamente niente. Mentre gli altri smaniavano per uscire, lei non era proprio così sicura di volerlo. Uscire per andare dove? A casa? Allora era meglio non uscire mai.
Dall'altro lato della stanza, intanto, c'era qualcuno che, anche se lei non lo poteva sapere, stava anche peggio. Bill, attrito statico a parte, avrebbe voluto che quell'ora non finisse mai, avrebbe voluto poter rimanere lì per sempre. Durante quelle cinque ore di scuola, aveva pensato a cosa avrebbe potuto fargli suo padre dopo che era stato una notte fuori di casa. Forse non riusciva ad avere abbastanza immaginazione per farsi un'idea di una punizione per una cosa simile. Ma suo padre...lui ce l'aveva di sicuro.
Rabbrividì.
 Bill e Charlotte non si conoscevano. Sapevano ovviamente l'uno dell'esistenza dell'altra, frequentando alcuni corsi insieme, ma in linea di massima a nessuno dei due era mai fregato niente degli altri in generale, figurarsi di una persona in particolare.
Però, grazie a uno di quegli rari e strani scherzi del destino, che però a Lafayette capitano un po' più spesso (simile, in effetti, a quello che, quattro anni prima, aveva fatto conoscere a Bill un certo ragazzo di nome Jeffrey Isbell) quel giorno lui e Charlotte si incontrarono.
Che poi questo incontro sia stato una fortuna o no...è molto relativo.

Driin!
Un unanime sospiro di sollievo si levò in tutta la classe. I ragazzi cominciarono a infilare le loro robe nella cartella, il più velocemente possibile, e si diressero tutti verso la porta. Sembravano un branco di zebre o qualsiasi altro animale della savana che si lancia verso una preda, o un banco di pesci che tenta di sfuggire a un'immensa rete.
C'erano, però, due zebre o pesciolini che non avevano così tanta fretta di uscire, almeno non ora che era suonata la campanella.
Uno dei ragazzi, nella pressa che aveva di uscire, aveva travolto e fatto cadere la povera Charlotte. Bill, in questi casi, di solito passava avanti strafottendosene. Stavolta, però, la vista di quella ragazza per terra che si massaggiava la caviglia lamentandosi (e soprattutto la vista dei suoi slip quando era caduta, e il vestito le si era alzato) lo spinse a fermarsi. Anzi, fece di più. Con aria quasi cavalleresca, si mise in ginocchio accanto alla ragazza, e, sorridendo, le porse una mano.
-Serve aiuto?- chiese.
Charlotte alzò gli occhi, impaurita. Sembrava, per restare in tema di animali, un coniglio o una lepre paralizzati dai fari di un'auto. Guardò quel ragazzo che le stava davanti, che le sorrideva disarmante, e per un solo attimo, per una frazione infinitesimale di secondo, pensò che era davvero bello. E sentì come se il suo cuore si stesse riscaldando. Però fu, appunto, solo una frazione infinitesimale di secondo, e Charlotte si riscosse subito, tornò ad essere se stessa. Lei odiava la gente, a lei non importava niente di nessuno.
Anche Bill, però, guardandola, non rimase indifferente. Perché la ragazza aveva due occhi grigi e grandi e tanto cupi, che sembrava tentassero di nascondere, senza successo, una tristezza infinita. Ti facevano sentire in colpa, quegli occhi, anche se non avevi fatto assolutamente niente, anche se li guardavi per la prima volta. Bill, però, li continuava a guardare lo stesso, perché...era come stregato.
Rimasero per alcuni istanti lì per terra, come due idioti, poi si riscossero.
Charlotte si alzò, si passò le mani sul vestito per lisciarlo, e guardò male Axl. Dire male è un eufemismo; guardò la sua mano ancora tesa come si potrebbe guardare qualcosa di schifoso e un po' ributtante, come una cacca in un cesso pubblico, o una gomma da masticare che ti è rimasta attaccata sotto la suola.
“Ma chi si crede di essere?” pensò Bill con una smorfia, ritraendo la mano. Però non si arrese; dopotutto lui con le ragazze con la puzza sotto il naso ci aveva a che fare ogni giorno.
-Tutto bene?- chiese, cercando di sembrare premuroso.
-Sì- rispose la ragazza, fredda.
Si scrutarono in silenzio per qualche secondo, poi Charlotte si voltò. Oggi voleva andare a casa presto. Non aveva voglia di fare tardi, e soprattutto non aveva voglia di subirne le conseguenze. Soprattutto per un ragazzo.
Bill, però, non si arrese. La afferrò per un braccio e la fece voltare.
-Dove vai?- chiese, guardandola negli occhi. Charlotte sentì tutto il peso di quello sguardo, di quegli occhi verdi, come se la stessero passando ai raggi x.
-A casa...- rispose.
-Di già?- fece finta di guardare un orologio immaginario. Come se lui fosse il padrone del mondo, come se non avesse vincoli di orario.
-Sì, di già- disse Charlotte scocciata.
 Voleva solo andare a casa, e togliersi dai piedi quel ragazzo. Ma, una piccola parte di sé stessa desiderava il contrario. Desiderava essere una ragazza normale, almeno per un giorno. E Bill se n'era accorto. Per questo non mollava.
-Eddai, non dirmi che una ragazza bella come te va davvero a casa subito dopo le lezioni, di venerdì pomeriggio, perché non ci credo!- esclamò.
Voleva essere un complimento, ma fece cilecca. Aveva toccato un tasto dolente.
Charlotte lo guardò stringendo gli occhi cupi. Si vedeva che si era offesa. Però non disse niente, si limitò a liberarsi dalla presa di Bill, raccolse le sue cose e se ne andò.
 Bill ci rimase di merda, tanto che, anche se non lo voleva fare davvero, le urlò dietro.
-Sì, brava, vai a casa da papà a fare la finta brava ragazza! Troia!-
Charlotte si fermò. Rimase così, un'istante, poi si voltò. E guardandola Bill si pentì subito di aver aperto bocca.
Scoppiò a piangere. Fatto sconvolgente, considerato che lei non piangeva mai, mai, neanche quando era piccola. Ma non era il pianto di una persona normale. Era un pianto di rabbia. Perché quello stronzo sborone con i capelli rossi non doveva sopportare neanche la metà di quello che sopportava lei, ogni giorno (almeno così credeva). Perché avrebbe tanto voluto potergli urlare contro perché era costretta a tornare a casa in fretta. Perché ormai sarebbe arrivata di sicuro in ritardo, e il pensiero che era colpa di quello stronzo le faceva venir voglia di prendere qualcosa a pugni, di prendere lui a pugni, di restituirgli quelli che lei si sarebbe dovuta prendere. E urlargli che lei non si era mai neanche fatta sfiorare da un ragazzo, e che troia lo poteva andare a dire a sua mamma.
Ma non fece niente di tutto questo.
 Rimase lì, in mezzo al corridoio ormai vuoto, tranne che per Bill dieci metri più avanti, a piangere.
Il ragazzo, vedendola così, si sentì terribilmente in colpa; e tentò di rimediare. Le si avvicinò.
-Scusami...- fece.
Niente, la ragazza continuava a piangere.
Lui deglutì -Non l'ho fatto apposta, non volevo dirti quelle cose, è che sono un po' incazzato di mio, e dovevo sfogarmi, anche se so che ho sbagliato...-
Nada, niente di niente. Bill aveva la vaga sensazione che avrebbe potuto parlare per un'ora e alla fine si sarebbero ritrovati esattamente al punto di partenza. Le diede un buffetto sul braccio. No, non funziona neanche così.
Allora l'abbracciò.
Charlotte si sentì mancare il fiato. Non era mai stata così vicina a nessuno, figurarsi un ragazzo. Figurarsi un ragazzo bello come quello. Però non si staccò, continuò solo a piangere come un'idiota, ancora più forte di prima. Perché -anche se solo ora se ne rendeva lentamente conto- aveva bisogno di sfogarsi. Piangere però non bastava.
Avrebbe volentieri vomitato un po', però anche se si sentiva la nausea, cercò di trattenersi. Preferiva non sboccare sul primo ragazzo che le si avvicinava.
Bill continuò a tenerla stretta, le appoggiò il mento sulla testa e rimase fermo così finché lei non ebbe smesso di piangere. Quando sentì che si era calmata un po', si staccò.
-Va meglio ora?- chiese gentilmente.
Charlotte si asciugò gli occhi e si guardò intorno con aria intontita. Sembrava una bambina piccola.
-Sì, grazie...- rispose.
Sembrava un po' più calma e disponibile a fare una conversazione normale adesso. Bill ne approfittò al volo.
-Scusa, mi dispiace per quelle cose- disse -però, se vuoi posso farmi perdonare. Non so, se sei libera questo pomeriggio possiamo uscire a fare un giro, ti offro un gelato, se vuoi...- disse. Mentre parlava, anche se non se n'era accorto, arrossì. Però Charlotte se ne accorse, e dentro di sé sorrise.
-Non molli, eh?- chiese.
Lui la guardò -No, finché non accetti- rispose con un sorriso, capendo che scherzava.
Charlotte non voleva andarci. I ragazzi portano solo guai, sentiva spesso dire da sua mamma. Meglio stare alla larga. E poi se suo padre la scopriva...preferiva non pensare a cosa le avrebbe fatto.
Ma. C'erano dei ma.
Suo padre quel giorno andava a lavorare alle due, e tornava la sera, per cena.
Sua madre non si curava mai di lei, e quando lo faceva aveva l'accortezza di non dire niente a nessuno. A lui.
Perché non andarci, dunque?
Aveva paura? Sì, ma voleva superarla.
Allora si rivolse al ragazzo.
-Ok...va bene, vengo.- disse.
Lui sorrise.
E, guardandolo sorridere, sorrise anche Charlotte. Infondo, che male c'era nel desiderare qualcuno?

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Capitolo 4
*** Bring me to life. ***


AAAAAAAAAAAH SCUSATE IL RITARDOOOOO! E' che mi si è rotto il caricatore del pc e non ho potuto più fare niente, e mi sento stra in colpa :c spero di non aver perso tutti i lettori! D: giuro che mi farò perdonare vnrfhhgh buona lettura!
-April




Bring me to life.



All this time I can't believe I couldn't see
Kept in the dark but you were there in front of me
I’ve been sleeping a thousand years it seems
Go to open my eyes to everything
Without a thought, without a voice, without a soul
Don't let me die here
There must be something more
Bring me to life
{Evanescence-Bring me to life}




Tornando a casa da scuola, Charlotte si rese lentamente conto di quello che le era appena successo. Un ragazzo l'aveva appena invitata ad uscire. Un ragazzo! E non un ragazzo qualsiasi, uno...bello!
Uno che non le aveva fatto venire voglia di vomitare appena l'aveva toccata. No, okay, un po' di nausea le era venuta, ma non per colpa sua.
Aveva sempre odiato gli uomini, e li odiava ancora, ma lui... Charlotte dovette fermarsi e appoggiarsi contro un tronco per riprendere fiato. Chiuse gli occhi. Tentò di figurarselo. E il cuore cominciò a battere più forte. Si portò una mano sotto il vestito e contò i battiti. Sorrise.
Poi si riprese e ricominciò a camminare.
Se qualcuno l'avesse vista, quel giorno, mentre tornava a casa piena di libri come al solito, con la sua aria scontrosa e selvatica, probabilmente non ci avrebbe fatto molto caso. Eppure qualcosa c'era.
Si poteva notare dai suoi occhi, di solito sempre cupi, spenti. Quel giorno invece sembravano brillare di una luce propria, forse per la prima volta da quando era nata. E dalle sue labbra, di solito sempre strette, quelle di qualcuno che sta facendo di tutto per tenersi dentro qualcosa che vorrebbe tanto poter dire, ma che il mondo non deve sentire. Quel giorno erano lievemente arricciate, come se la ragazza fosse costantemente sul punto di scoppiare a ridere.
Non si accorgeva di essere diversa dal solito, Charlotte. Pensava di sembrare, almeno agli occhi degli altri, sempre la stessa.
Ed era così. Perché nessuno se ne accorgeva, a casa sua nessuno ci avrebbe fatto caso. E quello...quello non sarebbe cambiato mai.

Doveva proprio essere il suo giorno fortunato, suo padre non era ancora tornato.
-Dov'è papà?- chiese alla madre, cominciando ad apparecchiare.
-Ha chiamato prima, ha detto che non riesce a tornare a pranzare a casa...- rispose la donna, con il suo solito tono vago e trasognato.
Elleanor, la madre di Charlotte, non era sempre stata così. Vent'anni prima, quando aveva appena conosciuto il marito, era una bella ragazza, di aspetto simile a come sarebbe poi diventata sua figlia, con tanta voglia di vivere, e innamorata. Innamorata di quell'uomo più grande di lui che di seducente non aveva assolutamente niente. Ma lei era fatta così...vedeva un uomo e puff! Innamorata. Henry non era del tutto stupido. Aveva capito com'era fatta quella donna, aveva capito che era debole, che non avrebbe mai avuto il coraggio di ribellarsi, che aveva bisogno di qualcuno accanto, che la facesse sentire amata. Henry a volte pensava a lei come a quei cani che puoi prendere a calci, e che mezz'ora dopo sono di nuovo tutti scodinzolanti e pronti a servirti. E aveva ragione. Lei era così.
Charlotte non la odiava del tutto. È vero, non aveva mai fatto niente per proteggerla dal mostro, ma Charlotte un po' capiva che era perché non ne aveva la forza. Non aveva la forza di difendere sé stessa, figurarsi qualcun'altro. Figurarsi la figlia. Non aveva neanche la forza di lasciare il marito, andarsene via, trovarsi un lavoro, ricostruirsi una vita...non ce l'aveva a vent'anni come non ce l'aveva adesso. Non ce l'aveva neanche prima di rimanere incinta e partorire.
Mangiarono, in religioso silenzio come sempre, poi Charlotte si chiuse in camera sua. Si buttò sul letto e guardò la sveglia sul comodino. Le due e mezza. Alle quattro doveva vedersi con...oddio, non gli aveva neanche chiesto come si chiamava. Un vago rossore le colorò le guance, quando pensò che stava per uscire con un ragazzo di cui non sapeva neanche il nome. Però dopo diciotto anni di castità poteva anche andare.
E poi non era vero che non sapeva il suo nome. Frequentavano i corsi di fisica e chimica assieme, e lui era...Bill! Sì, Bill Bailey. Uno dei ragazzi più popolari della scuola, il classico puttaniere, il classico bello e maledetto, che riusciva a mettersi nei casini un giorno sì e l'altro pure. E lei era una delle sue tante puttane...
No. Lei era Charlotte.
Mentre continuava a rimuginare su questi pensieri, e su Bill, cominciò a provare una strana sensazione. Una sensazione che tutte le sue coetanee avevano provato anni prima. Ma loro non avevano la pelle piena di lividi viola, non avevano gli occhi spenti.E quella sensazione le faceva chiudere lo stomaco, e seccare la gola. Si alzò, e prese a svuotare gli armadi.
Dunque...cosa mettere?
Si provò tutti i vestiti che aveva, senza riuscire a decidere. Passò mezz'ora buona chiusa in bagno, a truccarsi. Non lo faceva spesso, e non era sicura di essere davvero capace.
Alle quattro meno un quarto era finalmente pronta. Si guardò allo specchio e sorrise; un sorriso pieno di tutti quei suoi denti dritti e bianchi. Un sorriso raro come un raggio di sole durante un temporale. E, guardandosi allo specchio mentre sorrideva, per un secondo provò qualcosa di simile alla felicità, e qualcos'altro simile alla tristezza. Perché, finalmente, almeno per un pomeriggio, poteva essere una persona normale. Neanche nei suoi sogni più sfrenati e inconfessabili aveva mai immaginato una scena del genere. E adesso si stava realizzando! Però, per essere perfetta, quella scena aveva bisogno di qualcos'altro...qualcosa tipo una persona, una ragazza. Alta, magra, bassa, grassa, bella o brutta, bionda, castana, mora, rossa, ricciolina, con gli occhi grandi e belli e vivi, quella persona sulla quale sai di poter sempre contare, quella a cui puoi dire tutto...un'amica. Uguale ed opposta.
Charlotte non aveva mai incontrato nessuno del genere, e per un attimo, solo per un attimo, desiderò avere qualcuno accanto a se, che la stringesse e le dicesse di non preoccuparsi, che sarebbe andato tutto bene, che era bellissima. Ma fu il pensiero di un attimo. Anche perché lì non c'era nessuno.
Charlotte si riscosse, guardò l'orologio. Si diede un'ultima occhiata, si aggiustò i capelli, afferrò la borsa ed uscì.
“Non preoccuparti” si disse “andrà tutto bene.”

Bill le aveva dato appuntamento alle quattro, al parco. E adesso era lì, seduto su una panchina, la stessa su cui aveva dormito quella notte, e per ingannare il tempo si era messo a scribacchiare delle frasi su un foglio. Frasi che aveva in mente già da un po', ma che non aveva mai avuto il coraggio di mettere su carta.
Quando era tornato a casa dopo scuola, suo padre non si era incazzato neanche tanto. Gli aveva semplicemente detto di non farsi vedere, se non voleva prenderle, e Bill l'aveva accontentato volentieri. Era così immerso nei suoi pensieri che non si accorse neanche che Charlotte era finalmente arrivata, e adesso era lì davanti a lui. Alzò lo sguardo e vide la ragazza davanti a se, che sorrideva timidamente. Sembrava una bambina nel suo primo giorno di scuola. Ma, anche con quell'aria innocente, Charlotte appariva sempre buia, cupa. Perché quel piccolo sorriso non si estendeva anche agli occhi grigi? Bill voleva saperlo.
Si alzò in piedi, chiedendosi un po' preoccupato di che accidente avrebbero parlato.
-Stai bene così- disse, tanto per attaccare bottone.
Lei arrossì un po' -Grazie- rispose -che si fa?-
-Non dovevo offrirti un gelato, io?- rispose lui, sorridendo.
Bill ci sapeva fare con le ragazze. Perché, oltre a essere impossibilmente figo (almeno così credeva lui), sapeva come comportarsi. Sapeva che non con tutte le ragazze bastava fare la parte del duro per riuscire a conquistarle. Sapeva che con alcune ti beccheresti solo qualche insulto, o nei casi peggiori uno schiaffo. E sapeva che Charlotte era una di quelle. Però, neanche lui, così intelligente, così bravo a capire le persone, riusciva a leggere del tutto quegli occhi, che non intercettavano mai lo sguardo di nessuno, se non per poco. A volte gli veniva la smania di prendere il viso della ragazza fra le mani e costringerla a guardarlo, guardarlo negli occhi. Ma cercò di trattenersi.
Si incamminarono verso il “centro”, si fa per dire, di Lafayette. Erano le quattro di pomeriggio ed era gennaio. Tipica ora in cui non c'è nessuno in giro, e per fortuna. Mancano solo le balle di fieno spazzate dal vento per far sembrare quel posto un deserto, il peggiore che ci possa essere. Entrarono in una piccola gelateria, un posto così triste che i due preferirono sedersi fuori sui gradini a mangiare, anche se faceva freddo e non c'era un cane. Però era anche bello, vedere il cielo rosso sangue all'orizzonte, e respirare l'aria fresca, e stare da soli.
Mangiarono i loro coni in silenzio, parlando per lo più di niente. Charlotte si sentiva a disagio. Non era brava con le persone lei, e anche per questo preferiva stare per i fatti suoi. Le sembravano tutti così complicati. Per esempio, adesso io sono qui con il primo ragazzo della mia vita, e siamo in silenzio assoluto, come due idioti, allora tanto vale rimanere a casa, no?
-Che hai fatto ai polsi?- Bill interruppe il silenzio improvvisamente, nel peggiore dei modi.
Si era accorto, infatti, osservando la ragazza, che aveva i polsi pieni di tagli, da poco rimarginati. E sommandoli al fatto che quella ragazza stava sempre da sola, non usciva mai, non aveva amici, e sembrava sempre di una tristezza infinita, non era difficile immaginare come doveva essere la sua vita. E Bill non era stupido, sapeva cosa si provava a soffrire.
La ragazza lo guardò con gli occhi sgranati, poi si guardò i polsi. Come se non sapesse di averli in quelle condizioni. Poi fece una smorfia.
-Niente- rispose, fredda. Ecco, era tornata sé stessa, la solita Charlotte, che vive un gradino sopra gli altri, che non può convivere con i comuni mortali.
-Niente? Ti sei quasi tagliata da una parte all'altra, come fai a dire “niente”?-
“E tu come fai a non riuscire a farti i cazzi tuoi?” pensò la ragazza. Non voleva che nessuno sapesse niente della sua vita. Se ne vergognava infinitamente. E poi non voleva la pietà degli altri, non voleva vedere le loro facce sconvolte se mai l'avrebbero saputo, non voleva sentire i balbettii imbarazzati, non voleva sentire “Oh, ti capisco..” ma cosa cazzo vuoi capire?

Bill, però, non si arrendeva facilmente. Così tentò di afferrarle un polso, ma l'unico effetto fu quello che Charlotte riuscì a rovesciarsi addosso il gelato.
Splat, sul vestito.
Bill guardò prima il volto della ragazza, poi il casino che aveva combinato.
-Scusami, sono un'idiota...- disse.
-Non fa niente- disse lei automaticamente. Tirò fuori un fazzoletto dalla borsa e tentò di ripulirsi alla bell'e meglio.
Bill però glielo tolse di mano -Vieni in bagno, forse è meglio-
Rientrarono nella minuscola gelateria, e Charlotte entrò nel bagno delle donne, mentre Bill l'aspettava fuori.
Dopo un quarto d'ora, però, cominciò a scalpitare. Che cazzo starà facendo?
Si avvicinò alla porta, la aprì quel che bastava per vedere dentro. E attraverso quello spiraglio vide che Charlotte si era tolta il vestito a fiori, e adesso lo teneva sotto il getto d'acqua del lavandino e lo strofinava, tentando di far andare via la macchia. Bill però non resistette all'impulso di entrare. Ma non spalancò la porta e balzò dentro, no. Entrò lentamente, senza farsi sentire, tanto che Charlotte non se ne accorse neppure. Lui, però, se ne accorse. Se ne accorse, quando fu abbastanza vicino da poter vedere tutti i lividi, quelle macchie violacee che ricoprivano la pelle bianca della ragazza, tanto che sembrava avesse una strana malattia.
Charlotte alzò la testa, e lo vide riflesso nello specchio. Fece un salto di mezzo metro e cacciò un urlo.
-Bill!- disse, solo. Si guardarono per alcuni secondi. Però il ragazzo non la guardava in faccia, negli occhi, come avrebbe tanto voluto, guardava il suo corpo. E Charlotte si accorse che non era perché era mezza nuda e lui stava pensando che avrebbe voluto saltarle addosso. Esaminò ogni centimetro del suo corpo, dalla testa alle dita dei piedi, e risalì di nuovo, fino a guardarla in faccia.
Lei gli restituì lo sguardo. Era un sguardo triste, come a dire “Eh, lo so...ma cosa ci posso fare?”
Bill capì voleva dirgli, guardandolo così. Allora si sfilò la maglietta e i pantaloni con dita lievi. Adesso aveva anche lui lo stesso sguardo. Charlotte spalancò gli occhi. Lui era...era come lei! Ma come poteva un ragazzo bello e sicuro di sé come quello, uno che sembra abbia il mondo a portata di mano...a essere come lei?
Bill le si avvicinò e d'impulso l'abbracciò. E lei non si ritrasse, come avrebbe potuto farlo? Gli restituì l'abbraccio. Senza piangere. Semplicemente restarono lì, ad abbracciarsi, come due idioti. Quando finalmente si staccarono, Bill la guardò. Era la prima volta che qualcuno la guardava davvero.
-Da quanto?- chiese.
Lei fece un sorriso amaro -Da quando sono nata...-
-Anche io...-
Charlotte si sedette per terra, con la schiena appoggiata al muro di quel cesso schifoso, e si prese la testa fra le mani. Bill si sedette accanto a lei.
Non sapeva cosa dire per aiutarla, e d'altronde cosa si può dire in casi del genere? Però non ci fu bisogno di dire niente, perché cominciò Charlotte a parlare. Gli raccontò tutta la sua vita, di suo padre, di quanto lo odiasse, della paura che aveva di diventare come sua madre, del desiderio che aveva di essere, almeno ogni tanto, una persona normale. E Bill, dopo un po', prese coraggio, e fece lo stesso. E rimasero così per più di un'ora, a parlare, a sfogarsi e a piangere, a rievocare e cercare di esorcizzare i fantasmi e gli spiriti che da troppo tempo ormai portavano con loro. E per un attimo si sentirono quasi riportare in vita
.

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Capitolo 5
*** Rape me. ***


Non so cosa dire, solo che spero vi piaccia e di recensire.

-Rape me.


«In quel momento ero così viva. Pensai che essere distesa con un uomo che grondava sopra di te era la cosa più brutta del mondo. Io ero il mortaio, lui il pestello.»
{Susi Salmon in Amabili Resti}




Henry aveva visto tutto.
La sua bambina, la sua piccola, la sua Charlotte. In giro per Lafayette. con un ragazzo!
E quel figlio di puttana che l'aveva toccata, abbracciata, le aveva anche dato un bacio. Non in bocca, però. Grazie al cielo. Henry li aveva visti, tornando dal lavoro. E quasi non poteva crederci che quella era sua figlia. Ma i capelli neri e lunghi, il vestito a fiori, la pelle bianca, e il modo in cui si muoveva erano inconfondibili. E aveva visto tutto, li aveva visti uscire dalla gelateria, e quel ragazzo, quel lurido bastardo con i capelli rossi, che continuava a toccarla.
Più ci pensava più si sentiva salire la rabbia, più stringeva i pugni fino a sentir male. D'impulso avrebbe voluto scendere dalla macchina e andare a dividerli, e ridurre quel ragazzo a uno spezzatino. Poi però ci aveva ripensato. La cosa più importante da fare era fare un bel discorsetto a sua figlia. Che non doveva fare la puttana. Così era tornato a casa, aveva costretto sua moglie a prendere due pasticche di sonnifero, e l'aveva messa a letto. E adesso era lì, in cucina, ad aspettare sua figlia.
Henry non era veramente cattivo. Semplicemente non aveva sentimenti. Riusciva solo a provare un senso di rabbia, costante, che a volte esplodeva, e quando succedeva era sempre sua figlia a pagarne le conseguenze. Perché lei era l'unica cosa bella della sua vita, l'unica cosa luminosa. Ricordava perfettamente ogni istante della sua vita, da quando era nata. I suoi primi passi, quando aveva cominciato a parlare. La prima volta che aveva detto 'papà'. Il suo primo giorno di scuola, minuscola bambina con la cartella enorme sulle spalle. Lei era la cosa migliore della sua vita, ed era un dovere di padre proteggerla.
Questo era quello che più o meni pensava Henry.
Ed era davvero convinto di essere nel giusto, ed era davvero convinto che un giorno sua figlia l'avrebbe ringraziato. Così rimaneva fermo, seduto in cucina, ad aspettare la figlia.
Quando Charlotte arrivò erano le 6, e tutto si aspettava tranne che trovare suo padre. Perché di solito suo padre arrivava non prima delle 8. E non aveva mai sgarrato. Per questo, quando entrò e lo vide seduto in cucina, con le braccia incrociate e nessuna espressione sul volto, si era sentita gelare il sangue nelle vene. Non perché era truccata, non perché quel vestito non era abbastanza lungo. Ma perché era evidente che era appena rientrata.
E suo padre sapeva.
Per questo era lì.
Che la fissava, senza dire niente.
Charlotte rabbrividì.
Finalmente si decise a parlare.
-Ti sembra questa l'ora di rientrare?- chiese.
Charlotte non disse niente. Allora il padre, vedendo che non rispondeva, esplose. Si alzò di scatto, la prese e la sbatté contro il muro.
-Charlotte, ti ho fatto una domanda! Ti sembra ora di rientrare?- sibilò. -Cosa credi, di poter uscire senza che io me ne accorga? Pensi che non abbia visto?!- adesso gridava. -Ti sbagli, ho visto tutto! Quante volte te l'ho detto che non devi fare la puttana, eh?! Quante volte? Cosa devo fare per farmi ascoltare da te?!- sbraitò, sbattendola ripetutamente contro il muro.
Charlotte allora cominciò a piangere.
E vedendola piangere, suo padre si sentì in colpa. Perchè era la prima volta che Charlotte piangeva davanti a lui. Ma poi glitornò in mente quello che aveva appena visto, e la scena di sua figlia fra le braccia di quel ragazzo.
Henry sapeva cosa fare. Forse era in ritardo, forse avrebbe dovuto farlo anni prima...ma era necessario comunque. Doveva fare in modo che quella scena non si ripetesse, doveva sradicare da sua figlia qualsiasi desiderio di avvicinarsi nuovamente ad un ragazzo. E quello era l'unico modo. Così la prese per le spalle, la fece sdraiare per terra e si mise a cavalcioni sopra di lei, slacciandosi la cintura. E Charlotte lentamente si rendeva conto di quello che stava per succedere. E provava un grande senso di ribellione, di schifo. Quella era una cosa che non andava via, non sbiadiva come i lividi. Non te lo potevi dimenticare mai. Una volta era venuta a scuola sua una donna. Avrà avuto circa trent'anni, e a ventidue era stata violentata da un suo ex. Aveva raccontato alla classe la sua esperienza, faceva parte di una campagna di sensibilizzazione contro la violenza alle donne. E Charlotte la ricordava ancora. Di solito se ne fregava altamente di quello che facevano a scuola, ma quella lezione le era rimasta impressa nella mente in maniera indelebile. La donna aveva fatto fatica a parlare davanti a tutta la classe, nel silenzio più assoluto. Le tremavano le mani, e teneva sempre gli occhi bassi. Charlotte in quel momento, con suo padre sopra di lei, riuscì solo a pensare che non voleva, davvero non voleva diventare così. Lo pensò con tutte le sue forze. Ma fu solo un attimo. Poi suo padre la penetrò, e lei provò dolore, un dolore fisico lancinante, peggiore delle botte, peggiore di qualsiasi cosa. Però non rimase impassibile. Continuò a piangere, e a gridare, per cercare di non sentire. Ma questo non lo fermò, non gli impedì di continuare. E mentre lui continuava a spingere, sempre più forte, lei pensò a Bill. Era tutta colpa sua. Se non l'avesse invitata ad uscire, se non l'avesse abbracciata. Se lei non avesse accettato. Ma come poteva saperlo? No,non era colpa di nessuno, se non di suo padre. Ma forse, nel profondo, non era neanche colpa sua. Forse non è colpa di nessuno, o forse di tutti...o forse semplicemente di quel dio che lei era costretta a pregare ogni domenica, in chiesa. Ma in quel momento, sdraiata sotto suo padre che continuava a spingere, Charlotte era sicura di una sola cosa. Che da quel momento in poi avrebbe odiato tutto e tutti, costantemente, finchè non sarebbe invecchiata e non sarebbe morta. Perchè come fai ad amare e sentirti amata in un mondo in cui i padri violentano le figlie e le madri stanno a guardare? In quel momento, da qualche parte là fuori, una coppia di ventenni stava litigando forte, e loro figlio piangeva, non sentito da nessuno. Un bambino era appena morto per un errore di un medico. Una ragazza tale e quale a lei era chiusa in bagno con la lametta, e stava seriamente pensando al suicidio, e un ladro aveva appena spaccato la testa a una vecchietta, nel corso di una rapina finita male. Come si fa a vivere in un mondo così? Charlotte aveva paura che, dopo quel gesto, anche quel minuscolo calore, anche quella piccola fiamma che Bill era riuscito ad accendere dentro di lei, si sarebbe spenta per sempre.

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Capitolo 6
*** When the children cry ***


Grazie di cuore a tutti quelli che leggono, recensiscono eccetera eccetera! <3
Questo èil mio primo e ultimo capitolo romantico, se così si può definire :')

 

 When the Children cry

Little child
dry your crying eyes
how can I explain
the fear you feel inside
cause you were born
into this evil world
where man is killing man
and no one knows just why
what we have become
just look what we have done
{White lion-when the children cry}

Intanto, a casa di Bill...

Bill non aveva neanche varcato la soglia di casa, e già sentiva odore di guai. Perché già da fuori si capiva che i suoi stavano litigando, si sentivano le loro urla fin lì. Bill allora decise di mettersi in ascolto per qualche secondo. Non perché gli fregasse di cosa stavano discutendo, ma per cercare di capire se si trattava di una cosa seria, perché in quel caso gli conveniva rimanere fuori ancora un po', andare a farsi un giro, comunque stare alla larga; sennò sarebbe potuto entrare,quando le acque si fossero calmate un po'. Così appoggio la testa allo stipite della porta e cercò di cogliere qualcosa di sensato dalla cacofonia di urli.
-Non puoi continuare a tenerglielo nascosto, ha 18 anni ormai, lo verrà a sapere da solo!- urlava sua madre.
-Lo verrà a sapere da solo? Sharon, lui non lo saprà mai, ho fatto sparire tutte le carte tranne noi nessuno lo sa, nessuno può dirglielo!!-
Quindi stavano parlando di lui. Le cose si facevano interessanti.
-Ma sai benissimo anche tu che prima o poi salterà fuori, una cosa così non si può nascondere, non a uno come lui! Lo sai, Stephen, lo sai, solo che non vuoi ammetterlo!-
Ma cosa, cosa non doveva sapere?
Schiacciò l'orecchio contro la porta ancora di più, cercando di non perdere neanche una parola.
Solo che adesso suo padre aveva abbassato di colpo la voce, sussurrava appena, e sarebbe bastato un alito in quella fredda sera di gennaio, per rendere incomprensibili quelle parole.
-Tu però non farai niente, vero, Sharon?- mormorò. Dal silenzio improvviso di sua madre, Bill intuì che suo padre era riuscito a farla stare zitta senza utilizzare solamente la sua aria pericolosa e intimidatoria.
-Tu non glielo dirai. Perché se lo fai, io ti ucciderò, Shar.-
Bill rabbrividì. Non tanto per le parole che aveva pronunciato, per quanto orribile, ma per il tono calmo, quasi rilassato. Quell'uomo era pazzo, più pazzo di qualsiasi altra persona lì a Lafayette (se si esclude Henry, ovviamente). E il pensiero che fosse suo padre...
-Ma...Stephen... è un rischio... se poi lo scoprirà...e più tardi succederà, peggio sarà...-
-E perché dovrebbe scoprirlo? Sentiamo, dammi una buona motivazione.-
-Perché il suo vero padre è ancora vivo...- sospirò sua madre, arrendendosi.
Silenzio.
-Che cosa?- chiese suo padre dopo un certo tempo.
-Lui è ancora vivo! Quel porco non è morto come pensavo!-
-Come fai a saperlo?-
-Io..-
-Avanti, Sharon, dimmelo.-
-Io l'ho incontrato ieri...-
Silenzio. Più lungo, questa volta.
-Che cosa?-
-L'ho incontrato ieri, in centro a Lafayette...-
-Come hai fatto a riconoscerlo?-
-Io..non l'ho riconosciuto... è stato lui...ero uscita per fare la spesa, ed a un certo punto vedo questo uomo che mi si para davanti... è sempre lo stesso, è ancora vaga ancora per le strade, ma è diventato più vecchio, e non l'avevo riconisciuto...non lo ricordavo neanche...- singhiozzò.
-Vai avanti- la esortò Stephen con calma.
-E mi si piazza davanti, ridendo, mi dice che è tornato da poco a Lafayette, e mi ha chiesto come stavo, e come stava Bill...e in quel momento ho capito chi era...e mi ha chiesto come stava Bill...e se si ricordava, se mi ricordavo, del loro ultimo incontro...- si interruppe con voce rotta, sul punto di scoppiare a piangere.

 Bill nel frattempo era ancora appoggiato alla porta, ma non ascoltava più. Non riusciva più a capire niente. Gli continuava a rimbombare in testa quello che aveva sentito.
Stephen...il suo vero padre...è vivo...è tornato...
Il loro ultimo incontro.
Fu solo quando sentì i suoi genitori muoversi, e che suo padre stava per uscire, che riuscì a riprendersi, quel tanto che bastava per correre via. Correre per andare dove?
Ma al parco di Lafayette, naturalmente.
Si sedette su quella panchina, senza ancora riuscire a pensare.
Lui...non era il figlio di Stephen.
Stephen non era suo padre!
E per un attimo si sentì improvvisamente e stupendamente felice. Non era figlio di quel porco bastardo!
Però, dopo la felicità, una sensazione più oscura si fece strada dentro di lui. Se Stephen non era suo padre... allora chi lo era?
Bill alzò la testa di scatto e si guardò intorno spaventato, quasi avesse paura di voltarsi e trovarsi faccia a faccia anche lui con un barbone alcolizzato e ridente, che gli annunciava di essere suo padre. Ma non successe niente di tutto ciò.
Il loro ultimo incontro.
Bill non ricordava di aver mai visto qualcuno oltre a Stephen come padre, non aveva neanche mai pensato di averne un altro. Quindi, se mai doveva essere successo qualcosa, lui non doveva essere neppure in grado di reggersi in piedi da solo.
Il loro ultimo incontro
doveva essere avvenuto quando lui era piccolissimo. Ecco perché non ne conservava ricordo, ma certo.
Eppure c'era qualcosa, nascosto dentro di lui, in una parte dell'anima così recondita che lui non ne sospettava neanche l'esistenza, che gli diceva che lui, infondo, l'aveva sempre saputo.
A volte, da bambino (e anche un po' da ragazzo, e anche un po' adesso che aveva 18 anni, anche se non lo avrebbe ammesso mai) faceva degli incubi, che lo svegliavano nel bel mezzo della notte, e gli impedivano di riaddormentarsi fino al mattino. Incubi che adesso che aveva scoperto la verità, forse cominciavano ad avere un senso. Un senso orribile, però, che Bill non aveva la minima voglia di cogliere.
Un rumore dietro di lui lo fece sobbalzare, e si voltò spaventato. Di nuovo si immaginò che fosse suo padre, ma di nuovo si sbagliava. Era Charlotte.
Che però non assomigliava minimamente a Charlotte. Aveva la faccia talmente gonfia e rigata dalle lacrime che per un attimo Bill stentò a riconoscerla, in più era mezza svestita, sembrava una prostituta che si affretta a finire il giro prima che spunti il giorno.
Si rimasero per alcuni secondi a fissare, ad occhi sgranati, poi Bill parlò.
-Cos'è cazzo ti è successo?- mormorò. Si sentiva la gola secca e dovette schiarirsi più volte la voce.
Charlotte non disse niente, semplicemente lasciò che le lacrime ricominciassero a scorrere sul suo viso. Allora Bill le fece segno di sedersi, e lei ubbidì, senza dire niente. E non disse niente nemmeno per i dieci minuti successivi. Rimase seduta lì a piangere, accanto a Bill, che si limitò a guardarla per tutto il tempo. Sapeva che finché non si fosse sfogata a sufficienza non sarebbe neanche riuscita a parlare. Poi, finalmente, quando singhiozzò per l'ultima volta, si asciugò gli occhi e finalmente rivolse di nuovo lo sguardo al ragazzo, quando sembrava non avere più nemmeno lacrime da piangere, parlò.
-Grazie...-
-E di che?- Bill sorrise appena
-Che ti è successo?- chiese
Charlotte si morse un labbro -Lui...quando sono tornata a casa...lui era lì...e aveva scoperto che ero uscita, ci aveva visti! E allora ha cominciato a picchiarmi...-
Bill non la esortò, lasciò che trovasse da sola le parole; tanto sapeva che alla fine ci sarebbe riuscita.
-E poi mi ha spogliato...e...ha cominciato a toccarmi...e...- e scoppiò a piangere di nuovo. No, non le sarebbe bastato sfogarsi. Bill adesso capiva che Charlotte avrebbe potuto continuare a piangere per sempre e alla fine non sarebbe cambiato niente, almeno non dentro di lei.
Allora l'abbracciò.
-Sshh, non piangere- disse, sapendo quanto fossero inutili le sue parole -è tutto finito, nessuno ti farà più del male adesso...-
-E tu come lo sai?- singhiozzò la ragazza.
-Perché adesso ci sono io con te, e non lascerò che nessuno ti faccia più qualcosa di brutto...-
Charlotte lo guardò, con gli occhi lucidi, ma non disse niente, non chiese spiegazioni, si limitò a stringersi a lui. E Bill in quel momento ebbe un'erezione. Charlotte se ne accorse e fece un risolino, ma lui arrossì. Di norma se ne sarebbe vantato, ma in quel momento provò solo vergogna. Charlotte però no.
-Non ti preoccupare...- disse. Poi si tolse i vestiti, o quel che ne rimaneva. Bill la guardò incantato.
-Ma...ne sei sicura?- chiese.
-Sì, Bill, ne sono sicura, non sono mai stata così sicura in vita mia! Non voglio rimanere con lui addosso...-
Il rosso allora si convinse. Si spogliò a sua volta, e si mise sopra di lei, e fecero l'amore.
E si addormentarono uno abbracciato all'altra, sulla panchina, lì nel parco di Lafayette, sotto la luce della luna.

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Capitolo 7
*** The End. ***


Scusate, vi prego. Prometto che la prossima volta che comincerò una storia la finirò prima di postarla. Comunque...finita! Grazie mille a tutti quelli che hanno letto e recensito e seguito <3 ah e non odiatemi per il finale, vi prego :c
Comunque tanto per farvi sapere ho un altro paio di storie in mente, ma non so se le posterò...devo vedere come vengono D:
Hasta la vista!



-The End.



This is the end, beautiful friend
This is the end, my only friend, the end
Of our elaborate plans, the end
Of everything that stands, the end
No safety or surprise, the end
I'll never look into your eyes
Again

{The Doors-The End}



morte: [dal latino mortem, acc. di mors=morts] cessazione di quelle funzioni biologiche che definiscono gli organismi viventi. Essa si riferisce sia ad un evento specifico sia ad una condizione. Con la morte, termina l'esistenza di un essere vivente.


Facciamo finta che le cose non siano andate così. O almeno, non del tutto.
Facciamo finta che, la mattina dopo quel giorno, Bill e Charlotte si siano svegliati. Facciamo finta che si siano rivestiti con tanti baci e carezze e che siano andati a fare colazione insieme, come una coppia normale. Facciamo finta che Bill le abbia raccontato di quello che aveva sentito ieri sera, su suo padre, e che Charlotte lo abbia consolato. Facciamo finta che Bill, poi, sia andato a casa della ragazza e che l'abbia fatta pagare ad Henry per quello che aveva fatto, per tutto quello che aveva fatto. Facciamo finta che poi i ragazzi siano scappati a Los Angeles, e abbiano vissuto lì, insieme, e che Bill abbia creato Axl, e con lui i Guns n' Roses, e che siano diventati ricchi e famosi e che siano rimasti tutti insieme, per sempre, per sempre felici e contenti! Ma, ovviamente, questo non è ciò che è toccato a Bill e Charlotte.
Le cose non sono andate proprio così.
Quella mattina, dopo essersi svegliati, Bill le ha raccontato quel che aveva sentito la sera prima. Hanno parlato, a lungo, e hanno deciso che...beh, che dovevano andare via. Via, lontano da tutto quello schifo che li aveva circondati per tutto quel tempo, lontano dalle loro famiglie, lontano anche da loro stessi, per quanto fosse possibile!
Si erano dati appuntamento a quella sera stessa. Così avevano un po' di tempo per preparare tutto il minimo indispensabile per andar via, e soprattutto Bill avrebbe avuto un po' di tempo per chiedere aiuto ad un suo vecchio amico, un certo Jeffrey, per rubare una macchina. Quindi, lasciamo Bill e Jeffrey al loro furto d'auto.
Charlotte nel frattempo era andata a casa, ma le cose non erano andate esattamente come immaginava.

Ovviamente, immaginava che molto probabilmente avrebbe dovuto subire, di nuovo, le ire di suo padre, ma questa volta era diverso. Questa volta era pronta, Bill l'aveva cambiata; non si sarebbe lasciata sfiorare, si sarebbe difesa con le unghie e con i denti!
Quando arrivò a casa, c'era un silenzio di tomba...sembrava non ci fosse nessuno. Salì al piano di sopra, e vide che sua madre era a dormire...sempre se stesse dormendo davvero. Charlotte fece per voltarsi, chiudere la porta e andarsene, quando sentì una fitta alla schiena. Spalancò gli occhi e si portò una mano sulla schiena sentì caldo e bagnato, e vide che era sporca di sangue.
Dicono che, quando muori, il tuo cervello rimane attivo per sette minuti. Charlotte l'aveva sentito da qualche parte, forse in una di quelle famose lezioni di scienze. In quei sette minuti la ragazza morente si rese conto di alcune cose. Si rese conto che quello che aveva sempre temuto (che però non aveva mai voluto neanche pensare) si era avverato. "Sai papà, un giorno mi ucciderai. Andrai un po' troppo oltre il limite e fine della storia"
Si rese conto che era tutta colpa di Bill...se non lo avesse mai incontrato non sarebbe successo mai niente. Però lo amava, più di qualsiasi altra cosa, lui l'aveva salvata, in un certo senso, le aveva ridato la vita! Ma l'aveva anche fatta morire...se solo fosse andato con lei, se solo l'avesse difesa.
Però lo amava!
I hate everything about you, why do I love you?

Bill, ovviamente, non sopravvisse a lungo. Poco dopo aver scoperto quel che era successo a Charlotte, impazzì. Passava i giorni a piangere e ad odiarsi per non essere riuscito a fare niente, a fermarlo. Era stato un'idiota, come aveva potuto lasciarla tornare a casa da sola?!

Finì per suicidarsi. Meglio vivere con i fantasmi e le ombre che continuano a tormentarti, o morire e ricongiungersi per sempre ad essi?

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