La perdita di carne e anima (traduzione di Yuri_e_Momoka) di deuxexmycroft (/viewuser.php?uid=306043)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
loss 1
Ecco
una gran bella fanfiction che sta riscuotendo moltissimo successo. È
attualmente in corso, sono stati scritti finora 4 capitoli su 5.
L’autrice
ha specificato che si tratta di un crossover con Red Dragon e Il Silenzio degli
Innocenti, ma non essendoci questi titoli nell’archivio di efp devo
specificarlo qui.
Per
qualche motivo, nonostante la semplicità e la scorrevolezza dello scritto
originale, mi ci è voluto parecchio per tradurre il primo capitolo poiché è
davvero ricco di particolari ed eventi.
Godetevi
il primo capitolo e andate a leggere la storia originale, se potete!
The Loss of Flesh and Soul -> deuxexmycroft
Traduzione di Yuri, con il consenso dell'autrice.
***
John
Watson suonò il campanello con un dito guantato, fermamente, per circa mezzo
secondo. Il volto stanco era difficile da distinguere nel buio della notte, la
luce dei lampioni troppo fioca e nebbiosa per risultare d’aiuto, ma il suo
profilo poteva comunque essere intuito. Era un uomo minuto, con una buona
postura a dispetto della stanchezza, avvolto in un cappotto invernale che
avrebbe potuto essere più caldo, e una sciarpa che avrebbe potuto essere meno
ispida.
La
luce dell’atrio si accese, illuminando il volto di John attraverso il vetro
ghiacciato, e dopo un ticchettio di lucchetti aperti, la porta si aprì.
Sherlock Holmes stava in piedi all’entrata con una cortese espressione di
stupore sul viso, la sua figura slanciata vestita di tutto punto nonostante
l’ora tarda. “Ispettore?”
John
sentì profumo di caffè e di cena su di lui. Si schiarì la voce. “Mi spiace
disturbarti così tardi,” iniziò, ma Sherlock lo interruppe.
“Non
è un problema.” Aveva una voce profonda e tranquilla. Agitò vagamente una mano
pallida in direzione del salotto. “Ero sveglio, comunque. Vuoi entrare?”
“Se
non è un problema.” John spinse un po’ più a fondo le mani nelle tasche.
“Voglio solo parlare.”
Gli
occhi taglienti di Sherlock di strinsero impercettibilmente. “Ma certo,” disse,
e arretrò, tenendo la porta aperta così che John gli passasse accanto
allontanandosi dal freddo. La chiuse dietro di lui, ma non a chiave, il suo
sguardo non si staccava da John. “Posso prenderti la giacca?”
Appese
la sua giacca nell’armadio sotto le scale e scortò John nel salotto. Una stanza
abbastanza grande, che Sherlock aveva riempito – e in ciò John riconobbe il suo
tipico comportamento da gazza ladra – con oggetti che gli interessavano.
Avrebbe dovuto sembrare disordinata, ma al contrario appariva come un incrocio
tra una biblioteca e un negozio antico. Il suo computer ronzava sul tavolo da
caffè, dove sembrava che Sherlock stesse facendo ricerche sull’aracnofobia.
“Per
uno dei miei clienti,” spiegò Sherlock, notando la direzione dell’occhiata di
John. Si lasciò cadere sulla poltrona e tirò fuori il suo violino. “Siediti,
ora. Cos’è che ti preoccupa?”
“Quanto
mi costerà?” scherzò John, appropriandosi della poltrona di fronte.
Sherlock
sorrise indulgente. “Considera gratuito ogni beneficio terapeutico che deriverà
da questa chiacchierata.” Pizzicò le corde del violino, con gentilezza, per non
fare troppo rumore che avrebbe disturbato la conversazione.
“Okay,”
disse John, mettendosi comodo della
poltrona. “Bene. Non ci conosciamo molto bene, ma abbiamo lavorato sullo stesso
caso per un po’ e ho fiducia nel tuo contributo come psichiatra forense.”
Sherlock
sorrise. “Mi onori. Qual è il punto?”
“Credo…
che abbiamo commesso un errore,” disse John tranquillamente. “Abbiamo seguito
la pista sbagliata per tutto il tempo.”
“Davvero?”
rispose Sherlock, senza smettere di picchiettare con le dita.
“Sì.
Abbiamo identificato il killer come qualcuno con un risentimento e
un’esperienza pratica di anatomia.”
Sherlock
mugugnò la sua approvazione, e strinse una delle corde con una precisa torsione
delle dita sottili. “Data la sua esperienza nell’estrazione delle parti del
corpo che colleziona, sospetterei un medico radiato o magari uno studente di
medicina che abbia abbandonato gli studi. Forse anche un dentista, o un
professore di biologia umana.” Somministrò a John uno dei suoi inquietanti
sorrisi che non raggiungevano gli occhi. “O persino una persona molto abile con
una buona conoscenza di Google.”
John
avvertì i capelli iniziare a rizzarglisi sulla nuca. Ma non lo diede a vedere a
Sherlock e sollevò il mento. “È qui che ci siamo sbagliati,” spiegò con
franchezza.
Le
labbra di Sherlock si strinsero. “Oh?”
“Non
colleziona parti del corpo.”
Sherlock
inarcò un sopracciglio. “E allora perché le prende?”
“Credo,”
disse John con voce sempre più fioca, “che le mangi.”
La
temperatura nella stanza sembrò precipitare e Sherlock ripose con cautela il
violino sul piedistallo, la sua poltrona scricchiolò quando si sedette. “Va’
avanti,” disse, unendo tra loro le dita di ciascuna mano sotto al mento.
John
emise un respiro nervoso. “È stato mentre la mia ragazza preparava la cena.” Il
naso di Sherlock si arricciò leggermente, come succedeva sempre quando John
accennava a Sarah. “Stava tagliando il pollo e mi disse: ‘la miglior parte del
pollo è il codrione, sui lati del collo’. E a quel punto mi sono ricordato
della terza vittima.”
Le
palpebre di Sherlock vibrarono al ricordo. Aveva visto le foto del crimine.
Deglutì
rumorosamente e lo sguardo di Sherlock si spostò sulla sua gola e poi di nuovo
sul viso.
“E
allora ho capito.” John si raddrizzò leggermente, mentre Sherlock stava rigido
come una statua di fronte a lui. “Fegato, rene, lingua, timo. Quelle che sono
state prelevate da ogni vittima sono tutte parti che vengono usate in cucina.”
Il
volto di Sherlock sembrò illuminarsi. Si sfregò il labbro inferiore, lo sguardo
abbassato mentre pensava. “Molto interessante,” mormorò. “Questo… questo cambia
tutto.” Lanciò un’occhiata valutativa a John. “Hai condiviso questi pensieri
con qualcuno?”
John
scosse la testa. “No… volevo parlarne prima con te. Di nuovo, scusa se ti ho
rovinato la nottata con questi discorsi sull’omicidio. A me ha impedito di
gustarmi la cena di Sarah.”
“Oh,
no, non ti scusare,” disse in fretta Sherlock, distogliendo lo sguardo. “Lo
trovo affascinante.” E infatti rimase seduto in silenzio per un po’, senza
dubbio rimuginando su ogni cosa.
“Alle
volte mi domando se dovremmo scambiarci i lavori,” suggerì John, scherzando
solo in parte. “Considerato l’interesse che provi per i miei casi.”
“Credo
che scoprirai che tutti sono interessati all’omicidio, John,” disse Sherlock
con un ghigno. “D’altro canto, sono più interessato alle persone che stanno
dietro ai casi.” Fissò nuovamente John con uno sguardo di ghiaccio. “O da
entrambi i lati.”
John
sorrise educatamente, ma avvertì la propria tensione sul volto.
“Un
giorno mi piacerebbe averti sul mio divano,” rifletté Sherlock, quasi tra sé e
sé. “Non riesco a immaginare gli orrori che si nascondono nella tua testa.
Tutte le cose che hai visto…”
“Non
ne sono sicuro. Forse non sei un così bravo psichiatra come credi,” disse John,
in un impeto. “Sei considerato il migliore, eppure sei rimasto su questo caso
più a lungo di quanto non abbia fatto io, la possibilità che l’assassino fosse
un cannibale sembra non averti sfiorato.”
“Che
posso dire?” disse Sherlock, separando le mani. “Ho commesso un errore. So che
a voi persone piace pensare che ciò che faccio sia magia, ma in tutta onestà io
sono umano quanto voi.”
John
fece una pausa, incerto. “Non mi sembri qualcuno che commette tanti errori.”
“Odierei
perdere la tua piena fiducia, John,” disse Sherlock dolcemente. “Significa
molto per me.”
E
in quell’istante, John… aveva quasi capito.
Indietreggiò
col busto e aggrottò le sopracciglia concentrandosi. Ma il pensiero gli era
sfuggito, e improvvisamente si sentì esausto.
“Mi
dispiace,” disse John, piegando la testa. “È stato scortese da parte mia
accusare…” Si fece scorrere una mano tra i capelli e sospirò. “È tardi. Sono molto
stanco e non ho dormito. Scusami.”
Sherlock
lo studiò silenziosamente da sopra le dita congiunte. “Vai a casa,” disse
infine. “Riposati, e poi torna a farmi visita quando ti sentirai meglio.
Possiamo rivedere i rapporti degli omicidi alla luce della tua scoperta. Farò
del mio meglio per non commettere altri sbagli. Può andar bene?”
John
annuì debolmente. “Ottimo. Grazie, Sherlock. Scusa ancora per –“
“Non
dirlo,” lo riprese Sherlock. Si alzò in piedi e agitò la mano verso il basso
quando John fece cenno di seguirlo. “No, no. Rimani lì. Ti prendo la giacca.”
Scomparve
dalla stanza e lo spazio sembrò improvvisamente più grande ora che lui ne era
fuori. John espirò lentamente, sentendosi piccolo. Quando la porta del
ripostiglio si aprì all’entrata, John affondò il volto tra le mani. Cosa c’era
che non andava, in lui? Sherlock era strano, ma non c’era ragione di…
Il
suo sguardo fu catturato, sulla libreria che dominava una delle pareti della
stanza, da vari libri di ricette di cucina. Uno di loro era stato aperto di
recente.
John
si fidò del suo istinto. Se qualcosa lo colpiva, meritava di essere verificato.
I suoi passi furono attutiti dal tappeto morbido quando si incamminò, prendendo
quasi di riflesso il cellulare per telefonare a Lestrade. Compose il numero con
mano ferma mentre faceva scorrere lo sguardo su una sezione del libro di cucina
che Sherlock aveva segnato con ‘carne di maiale’.
L’attacco
provenne dal nulla.
John
si voltò di scatto, allarmato, in tempo per vedere Sherlock incombere su di
lui, un bagliore d’acciaio, poi un dolore accecante non appena un coltello si
fu fatto strada con forza nel suo stomaco. Avrebbe gridato, ma l’aria gli era
stata strappata via dai polmoni, così invece si aggrappò inutilmente alle mani umide
di Sherlock.
“Shh,”
mormorò Sherlock paziente, premendo la sua mano sulla bocca ansante di John.
John tentò di divincolarsi, ma quella mano ossuta era forte come il ferro.
“Lascia che accada.”
Ci
fu un suono di pelle lacerata, carne strappata quando Sherlock girò il coltello
nel corpo di John.
John
fissò impotente il pallido volto affascinato sopra di lui, che lo osservava come
un gatto osserva un tolo intrappolato sotto le sue zampe. John stava già
sudando, troppo sconvolto per lottare, pensando, stupidamente, che dopotutto a
lui piaceva quella camicia. Il dolore
era tale che le gambe cedettero sotto il peso del suo stesso corpo e Sherlock
lasciò scivolare il coltello fuori da lui e lo rigirò come una bambola di
pezza, schiacciandolo contro la libreria per mantenerlo dritto con le sue
grandi mani su entrambi i fianchi di John, il coltello appoggiato di lato.
John
percepiva il calore di Sherlock sulla sua schiena e, sopra ogni altra cosa, la
sensazione che il suo stomaco stesse fuoriuscendo. Respirò profondamente e
tentò di non singhiozzare quando la parte inferiore del suo corpo perse ogni
forza.
“Ah,
sì,” disse Sherlock, con un tono stranamente tenero. “Le tue gambe sono andate.
Non temere, sono abbastanza forte per entrambi.” Accarezzò i capelli di John,
un intimo gesto che gli provocò dei brividi lungo la spina dorsale. “Speravo
che non scoprissi il mio coinvolgimento, John, ma sembra che abbia
sottovalutato la tua intelligenza. O forse ho dato per scontata la mia. In ogni
caso, devi saperlo, non avrei mai voluto farti del male. Ma tu mi hai costretto.”
Il
cuore di John gli batteva velocemente nel petto, pompando inutilmente sangue
fuori dal suo corpo e mandandolo a spargersi sul tappeto di Sherlock. Si
sorprese a domandarsi come diavolo avrebbe fatto Sherlock a ripulire tutto.
Avrebbe nascosto il corpo, come con aveva fatto con gli altri? Avrebbe mangiato
uno degli organi di John?
La
vista gli si stava offuscando ai lati, come durante una sbronza. Sentì le dita
di Sherlock strofinare il suo scalpo.
“Sei
ammirevole,” sussurrò Sherlock improvvisamente, le labbra vicinissime
all’orecchio di John. Il suo respiro graffiante gli arrossò la pelle. “Credo di
aver fatto breccia nel tuo cuore.”
“Fermo!”
Attraverso
il dolore, John riconobbe quella voce. Sherlock sembrò paralizzarsi attorno a
lui, le labbra ancora premute sull’orecchio di John, il suo cervello al lavoro.
Come se si fosse teletrasportato dal nulla, il detective ispettore Greg
Lestrade aveva la sua pistola puntata alla testa di Sherlock. John avvertì un
enorme sollievo.
“Molla
il coltello e lascialo andare subito,” ordinò Lestrade.
Il
coltello macchiato di sangue cadde e colpì il pavimento con un rumore sordo.
Sherlock
respirò lentamente nell’orecchio di John valutando la situazione, completamente
immobile, poi leccò il lobo di John con la sua lingua calda, muovendo la bocca
in un bacio beffardo, prima di staccarsi e accompagnarlo sul pavimento. Quando
John giacque ai suoi piedi, sollevò le mani in segno di resa e sorrise
tranquillamente in direzione della canna della pistola.
L’universo
di John si oscurò attorno a lui, pezzo per pezzo, mentre rimaneva adagiato sul
tappeto morbido, il sangue proveniente dal suo stomaco tingeva gradualmente
ogni cosa di rosso.
******
Greg
Lestrade sbirciò il monitor per poter vedere il Dr Sherlock Holmes nella stanza
degli interrogatori, circondato da agenti della sicurezza, le mani ammanettate
e posate sul tavolo. L’uomo sembrava quasi annoiato, le palpebre calate a metà,
la bocca atteggiata in una smorfia di disapprovazione. Era vestito con la
maglietta e i jeans di qualcun altro. I vestiti su misura che indossava quando era
arrivato erano macchiati del sangue di John e per di più servivano come prove.
“Gli
parlerà, signore?” domandò il detective sergente Donovan, accigliandosi.
Greg
si strofinò una mano sulla fronte. “Sono appena tornato dalla visita a John
all’ospedale,” disse e l’espressione di Donovan diventò più comprensiva. “Devo
parlare a quel maledetto Holmes prima che vada in tribunale. Ho bisogno di
capire.”
John
era sembrato così piccolo nel letto d’ospedale, appena uscito da un intervento
chirurgico d’urgenza con il busto pesantemente fasciato, il volto rilassato ma,
per qualche motivo, non pacifico. Diversi tubi entravano e uscivano dal suo
corpo, come se fosse una specie di macchina.
Ogni
tanto le sue soffici, bionde ciglia avevano tremato sui suoi zigomi e Greg si era
domandato se John si stesse svegliando.
Chiaramente
era impossibile. John era sprofondato in un coma indotto, a mala pena in grado
di sopravvivere. Sherlock lo aveva praticamente sventrato.
“Sembri
preoccupato, Ispettore,” disse Sherlock non appena Greg fu entrato, e il
bastardo stirò le labbra in un sorriso affettato.
Greg
desiderò che la brutalità della polizia non fosse vista così di cattivo occhio.
John era a pezzi e Sherlock ne sorrideva, al sicuro da ogni danno. “Sei tu
quello che dovrebbe essere preoccupato, Holmes. A meno che tu non possegga un
sangue freddo tale che l’omicidio non abbia alcun effetto sulla tua coscienza.”
Gli
lanciò quella frase con fierezza, cercando di ferirlo con le parole dove non
poteva farlo con i pugni, ma Sherlock lo
fisso semplicemente con i suoi pallidi occhi scintillanti. “Come sta John?”
chiese Sherlock, calmo, come se stessero chiacchierando davanti a un caffè.
“Cosa
di importa?” gli ritorse Greg, sedendosi di fronte. “Hai cercato di ucciderlo.”
“Non
volevo,” disse Sherlock, intrecciando le dita, facendo sfregare le manette
contro il tavolo metallico. Aveva uno sguardo distante. “Mi piace John,
Ispettore, ma non tanto quanto io piaccio a me stesso.”
Ovviamente
no. Sherlock era al centro del suo mondo delirante.
“Come
sta John?” ripeté Sherlock, con infinita calma.
“Tu
cosa credi?” gridò Greg, ma la suprema imperturbata presenza di Sherlock, in
qualche modo, fece apparire la reazione di Greg impetuosa e irragionevole al
confronto. “È a un passo dalla morte in un letto d’ospedale. L’hai quasi
tagliato in due.”
Sherlock
ammiccò lentamente. “Magari gli manderò un biglietto.”
“Non
farai niente del genere,” disse Greg a denti stretti.
“È
molto intelligente, sai. Più intelligente di te, comunque.” Sherlock sottolineò
la frase trascinando il suo sguardo lungo il corpo di Greg. “Credo, tra i due,
che il piccolo John sia molto più adatto ad essere Ispettore Capo.”
Greg
si irritò e il ghigno sul volto di Sherlock si allargò, increspandogli la pelle
attorno agli occhi.
“Dovresti
essermi grato. Prevedo che John si ritirerà, dopo tutto questo. E allora tu
sarai la scelta più naturale per la promozione.”
Si
sentì uno schianto quando Greg balzò in piedi, sbattendo il pugno sul tavolo
per impedirsi di colpire la faccia di Sherlock. Le sue spalle si alzarono
mentre trangugiava ossigeno, arrossato dalla rabbia, squadrando Sherlock con
odio. “Rimarrai rinchiuso per sempre, Holmes,” sputò. “Ti credi così superiore,
ma vivrai il resto dei tuoi giorni in una piccola cella, diventando così
rabbioso e deviato che non sarai più una
minaccia per nessuno. E John si riprenderà da ciò che gli hai fatto, e ti
dimenticherà. Io ti dimenticherò. Ancora qualche anno e nessuno si ricorderà di
te.”
I
pallidi occhi di Sherlock spazzarono la figura contratta di Greg, come se lo
stesse facendo mentalmente a pezzi. “Tu mi penserai, soprattutto quando meno te
lo aspetti,” disse lentamente. “Infatti, farai fatica a fidarti di persone
nuove per anni a venire, anche se, forse, non realizzerai quanto ciò ti stia limitando.
E John?” Sherlock s’interruppe addolcendo il tono. “Ogni fitta di dolore della
sua ferita, ogni pillola che prenderà per smettere di soffrire gli farà
ricordare di me. E quando gli anni saranno trascorsi e il buco nel suo stomaco
si sarà rimarginato in una cicatrice, mi penserà ogni volta che ne scorgerà la
forma allo specchio, o la sentirà prudere sotto i vestiti. Non sarà mai in
grado di dimenticare. E fintanto che sarà nei paraggi, nemmeno tu.”
“Tu
speri-“ protestò Greg, ma Sherlock lo
interruppe aggiungendo malizia alla sua voce.
“E
allora vedrai John, ti ricorderai delle altre vittime che non hai fatto in
tempo a salvare. Penserai alla tua stupidità, a quanto hai fallito a trovare il
vero killer. Se solo avessi guardato un po’ più da vicino saresti stato capace
di salvare quelle persone. E a quel punto,” gli occhi di Sherlock brillarono,
“inizierai a odiare John.”
“Sta’
zitto,” scattò Greg, il suo cuore correva troppo veloce nel suo petto.
“Perché
John non ha avuto prima la sua rivelazione?” disse Sherlock, il suo piacere
selvaggio per la reazione di Greg era visibile nel suo largo ghigno. “Quelle
persone non sarebbero morte se John fosse stato
un po’ più veloce, un po’ meno fiducioso. E presto, non sarai più in
grado di stargli vicino senza cadere in una spirale di depressione che curerai
con l’alcool. Senza successo.”
Greg
realizzò tardi che Sherlock se lo stava lavorando, con nessun altro scopo se
non il proprio divertimento. Era inorridito per aver consentito a Sherlock di
protrarre quella cosa così a lungo. La conversazione era tanto vicina a un
coltello rigirato nelle budella quanto le parole potessero essere.
“Ti
vedrò in tribunale, Sherlock,” disse Greg, definitivo. Uscì dalla stanza, fin
troppo consapevole delle occhiate di Sherlock alle sue spalle, affilate come
pugnali.
***
I
giorni trascorsero veloci.
Sherlock
fu dichiarato colpevole dopo un processo largamente pubblicizzato e condannato
a nove ergastoli consecutivi senza possibilità di appello. Non sarebbe mai più
uscito. Per fortuna, forse, John passò l’intero tracollo mediatico nel suo coma
indotto.
C’erano
l’interminabile copertura del coinvolgimento di Sherlock nella sua stessa
indagine, i macabri dettagli del processo, e poiché le affilate caratteristiche
di Sherlock risultavano così peculiari sulle stampe in bianco e nero, le sue
foto finirono per essere viste ovunque. Aveva un talento per i morsi e i
giornalisti amavano odiarlo.
“Cosa
ne sarà della tua anima?” aveva gridato una donna esaltata mentre Sherlock
usciva dal tribunale, la sua snella figura in completo fiancheggiata dalle
guardie. “Dio ti manderà all’infermo per ciò che hai fatto a quella gente!”
“Dio
ne ha uccisi a milioni,” aveva risposto Sherlock in tono ragionevole. “Sono sicuro
che non mi invidierà per qualche miserabile omicidio.”
In
termini più infelici, la notizia mise in luce il Servizio di Polizia
Metropolitana per aver mancato di notare che essa aveva indirettamente favorito
un omicidio. Non importava che Sherlock avesse alle spalle una carriera senza
macchia e impeccabili referenze. Avrebbero dovuto capirlo, e non l’avevano
fatto. Fu sottolineato, in particolare, il coinvolgimento di John, dopo che un
giornalista scandalistico si fu introdotto in ospedale ed ebbe rubato una foto
del suo corpo malridotto dopo un altro intervento. I bastardi lo avevano
sbattuto in prima pagina.
Tutto
ciò era accaduto prima che John si risvegliasse, ammiccando confusamente con
occhi che non vedevano la luce da troppo tempo. Per un istante credette di
trovarsi, ancora sanguinante, sul tappeto di Sherlock, ma un’infermiera accorse
in fretta a tranquillizzarlo e a spiegargli cos’era accaduto.
E,
esattamente come Sherlock aveva predetto, si ritirò presto dalle forze di
polizia.
Era
disteso sul suo letto d’ospedale quando Greg venne in visita, il suo comodino
era sommerso da libri e cartoline, da parte di amici e colleghi, che gli auguravano
una pronta guarigione. Secondo i dottori sarebbe stato pronto a tornare a casa
in pochi giorni, una notizia che John stava assaporando. Quando Greg entrò,
Sarah sedeva di fianco al suo letto, sistemandogli il cuscino; John sorrise
coraggiosamente ma i suoi occhi erano velati di tristezza, sebbene fosse
contento del nuovo visitatore. Aveva perso molto peso.
Nella
stanza regnava un’atmosfera strana e Greg ebbe l’impressione di essere arrivato
nel mezzo di una discussione che non si era conclusa.
“Sono…
troppo stanco di tutto,” disse pacatamente, dopo che Sarah l’ebbe baciato con
gentilezza sulla guancia e fosse tornata al lavoro. “È troppo. Mi conosci,
Greg. Per risolvere i casi ho bisogno di mettermi nei panni dei criminali, devo
pensare come loro. E il dottor Holmes…” John serrò i denti e la mano vicino al
suo stomaco si contrasse. “È più di quanto possa reggere. Mi ucciderò, cercando
di catturare queste persone.”
Greg
ricordò la dolorosamente accurata predizione di Sherlock e abbassò lo sguardo
sulle sue dita. “Credo che tu sia bravo in questo lavoro, John.”
John
lo fissò per un po’, poi si allungò verso il comodino ed estrasse un cartolina
con un’espressione sconfitta che fece stringere il cuore di Greg. “Guarda,”
disse John, quasi supplicando, e le sua mano tremava mentre gli porgeva un
biglietto costosamente elegante. “È da parte sua. Sta cercando di tenersi in
contatto con me.”
Greg
lo prese e la mano di John ricadde al suo fianco. La aprì con cautela,
avvertendo la qualità della carta sotto al pollice.
Scusa, aveva
scritto Sherlock in linee appuntite di inchiostro nero sopra a un messaggio
prestampato. Ti penso spesso. S.
Greg
rimise cautamente la cartolina assieme alle altre, lontano dalla vista.
“Passerà la vita in prigione, John. Non può farti del male da là.”
Per
qualche ragione, per Greg era incredibilmente importante provare che Sherlock
aveva torto e far restare John nella polizia. Ma John scosse la testa, come se
Greg non riuscisse a capire. Appariva triste. “Quando uscirò da qui mi
dimetterò formalmente. Mi dispiace, Greg. Sei un buon amico.” I suoi occhi si
mossero a incontrare quelli di Greg. “Spero che ciò non cambi dopo che avremo
smesso di lavorare assieme.”
“Ovviamente
no,” si affrettò ad assicurare Greg. “Sarai sempre benvenuto ad unirti a noi al
pub a fine giornata. Ma John –“
“Greg,”
lo interruppe John, scuotendo la testa. Sembrava anni più vecchio e decadi più
fragile. “Ti prego.”
Chiacchierarono
per circa mezzora prima che Greg tornasse a casa. Lasciò John con i giornali
che aveva richiesto e che si era perso, così che potesse rimettersi in pari.
John gli fu incredibilmente grato e diede a Greg una scatola intatta di
cioccolatini da parte di uno dei suoi amici da condividere con la famiglia di
Greg.
“Erano
un regalo, ma al momento non posso mangiare cioccolata,” spiegò John. “Ho una
dieta molto limitata.”
Greg
la ricevette con gratitudine e quando John sporse la mano per una stretta, Greg
invece si chinò e lo abbracciò con cautela. Lo sentì più morbido e ossuto di
prima.
“Riguardati,
John,” gli disse, sincero.
“Anche
tu,” rispose John.
***
Sulla
sua cuccetta nella sua prigione di vetro, Sherlock Holmes giaceva prono con
un’uniforme bianca, leggendo avidamente il giornale The Herald. La sua pelle, naturalmente pallida prima che venisse
rinchiuso, sembrava quasi cadaverica ora, privata del colore per la mancanza di
sole e a malapena distinguibile dai suoi vestiti. I suoi occhi guizzarono
veloci mentre leggeva e si sfregò pensieroso il labbro inferiore con l’indice,
prima di leccarlo per voltare pagina.
La
sua storia non era ancora scomparsa dai giornali. L’ultimo risvolto comprendeva
il capo del personale dell’istituto psichiatrico, dottor Culverton Smith, e la
sua promessa di divulgare le analisi definitive del caso di Sherlock a
qualunque pubblico fosse interessato. La sua piccola, compiaciuta fotografia
era praticamente su ogni giornale in cui si imbatté, in piena vista delle
telecamere. Il dottor Smith doveva sapere che Sherlock non provava altro che
disprezzo per lui.
Girò
un’altra pagina, e poi un’altra ancora, crogiolandosi e immergendosi nelle
informazioni di un mondo in cui non era più ammesso. Le parole crociate erano
semplici in maniera deludente e con ciò Sherlock lanciò il giornale da parte e
lo lasciò sparpagliarsi sul pavimento, allungandosi sotto il letto per
raggiungere il giornale scandalistico che aveva conservato.
Glielo
avevano lasciato tenere, per qualche ragione.
Forse,
in qualche modo, il dottor Smith stava psicoanalizzando la sua nuova scoperta
affezione (o forse ossessione) per
l’unica vittima che era sfuggita alle sue grinfie, ma Sherlock non era
particolarmente infastidito dalla consapevolezza di essere oggetto di studio.
Aveva deciso, tempo addietro, che avrebbe permesso al dottore di interpretare
come voleva la sua relazione con il singolare John Watson.
La
prima pagina crepitò quando Sherlock fece scivolare un palmo riverente lungo la
carta, la mano asciutta, così da non sbavare l’inchiostro. La sua mano indugiò
sulla foto in copertina, l’immagine rubata di un John incredibilmente
vulnerabile dopo un intervento che gli aveva appena salvato la vita. In bianco
e nero, sfortunatamente; cosa non avrebbe fatto Sherlock per una versione a
colori.
John
appariva orribile, oggettivamente, ma Sherlock trovava quella fotografia
bellissima.
La
ferita che Sherlock aveva aperto in lui era suturata e ancora fresca sotto le
bende attorno alla cintola, e la sua figura minuta sembrava imbottita di tubi. Aveva
una sacca per le urine appesa inelegantemente fuori dal suo corpo, dopo che
Sherlock aveva danneggiato a tal punto le sue budella. Se non fosse stato per
tutta questa tecnologia, John si sarebbe trovato su un tavolo d’autopsia come
tutti gli altri. Tecnicamente, Sherlock lo aveva ucciso, eppure lui era ancora
lì, vivo.
Era
meraviglioso.
Le
sue dita danzarono sopra la fotografia, passando sullo stomaco, il petto e
infine, delicatamente, sopra i puntini grigi che costituivano il collo di John
Watson. Si avvicinò sempre di più finché il suo naso toccò la carta, l’immagine
a malapena a fuoco, e non si mosse più per ore.
***
Cinque
anni dopo, Sherlock Holmes si guadagnò un fan.
***
“Cosa
c’è, Greg?” chiese John. Aveva aperto la porta con le maniche della sua camicia
blu arrotolate, ora i suoi capelli soffici avevano delle striature grigie e c’era
forse qualche ruga in più di quante Greg ricordasse. Nonostante ciò, sembrava
più sano che mai. Dimettersi dalla polizia gli aveva fatto benissimo.
“Sembri
molto più in forma,” disse Greg davanti a una tazza di tè nella cucina di John.
John
picchiettò le dita contro la sua tazza, lo sguardo abbassato. “Mi sento molto
meglio,” ammise. “Immagino che si tratti di una specie di processo inverso.”
Nonostante la sua apparente allegria, sembrava stare in guardia. Aveva già
sospettato il motivo per cui Greg era lì.
“Come
sta Sarah?” chiese Greg in un vano tentativo di fare sentire John a suo agio.
Era la domanda sbagliata. John rispose squadrando Greg con un’occhiata che
conteneva più pietà che disprezzo, prima di prendere con calma un sorso del suo
tè e guardare fuori dalla finestra.
Avrebbero
dovuto tenersi in contatto.
“So
perché sei qui,” disse John piano. “Leggo i giornali.”
Greg
decise di lasciar perdere i convenevoli. “Cosa sai?”
“Due
donne uccise nelle loro case, due mesi fa. La prima qui a Londra, l’altra a
Guildford, nel Surrey.” John bevve un altro sorso di tè. “Le circostanze della
morte erano simili.”
“Non
simili,” lo corresse Greg. “Le stesse.”
John
gli lanciò un’occhiata, incapace di trattenere la curiosità. “Mi sono perso
qualcosa?”
Greg
scosse la testa. “Stiamo tenendo i media all’oscuro di alcuni dettagli. Non
abbiamo nemmeno detto loro che gli omicidi sono collegati tra loro.”
“Quindi
c’è una connessione definitiva?” chiese John corrugando la fronte. I loro
rispettivi tè si stavano raffreddando su un lato del tavolo, dimenticati.
Greg
strinse le labbra e si sforzò di incontrare lo sguardo interrogativo di John.
“Le vittime,” disse lentamente, “avevano delle parti del corpo mancanti.”
L’espressione
di John cambiò da incuriosita a inorridita in un secondo. “È impossibile,”
disse, gli occhi sgranati e le mani serrate attorno al bordo del tavolo. “È
rinchiuso, io so che è –”
Aveva
controllato più spesso di quanto probabilmente avrebbe fatto una persona sana.
“È
un emulatore, John,” lo rassicurò Greg, e John annuì, arrossendo. “Ma posso
dirti che le vittime sono state uccise esattamente negli stessi giorni in cui
Holmes ha ucciso le sue, con gli stessi organi rimossi. Questo suggerisce che
il killer abbia conoscenze che vanno oltre le informazioni che abbiamo
divulgato sui giornali.”
“Un
emulatore molto ben informato,” disse John debolmente e srotolò le maniche a
coprirsi i polsi come se avesse freddo. “È altrettanto bravo chirurgicamente?”
“No,”
disse John, parlando mentre estraeva copie dei fascicoli dalla sua borsa. “Ma è
migliorato con la seconda vittima. I tagli erano ancora visibilmente fatti da
un principiante, ma sapeva quello che c’era da fare, come se stesse seguendo
istruzioni.”
John
distolse lo sguardo, per un momento le sue palpebre si irrigidirono. “Una buona
conoscenza di Google,” mormorò.
“Cosa?”
chiese Greg, ma John agitò la mano per farlo continuare, e Greg ubbidì.
“Abbiamo la misure delle sue scarpe, un 43, e sappiamo che è un abile
scassinatore.”
John
impallidì un poco, massaggiandosi un lato della fronte. “Perché? Chiese dopo
una pausa prolungata. “Perché copiare gli omicidi di Sherlock così accuratamente?”
“Non
lo so,” disse Greg con tatto, spingendo i fascicoli verso John. “Sei tu quello
con l’istinto emotivo.”
John
rise silenziosamente, poi espirò e si pizzicò la radice del naso. “Non è così
che funziona.” Si appoggiò allo schienale sospirando stancamente. “Non voglio
farmi coinvolgere.”
Greg
lo fissò, infine annuì e si riappropriò controvoglia dei fascicoli. “Capisco.”
John
appariva molto più piccolo adesso, l’aria quasi spensierata che aveva quando
Greg era arrivato era completamente evaporata. Trascinò più vicino la sua tazza
e se la portò con attenzione alle labbra, ma poi la posò nuovamente senza aver
preso un solo sorso. Era ormai freddo.
“Senti,
John, dobbiamo vederci ogni tanto,” disse Greg, cercando goffamente ti spingere
i fascicoli dentro la sua borsa mentre John lo guardava con occhi tristi. “Puoi
venire qualche volta e cenare con me e mia moglie.”
Era
un gesto privo di significato. Ora John avrebbe annuito, ma poi non avrebbe più
telefonato, e Greg non avrebbe dato inizio a nessuna conversazione. Era solo
una promessa fatta per mitigare il senso di colpa di Greg, così che potesse
dire a se stesso di aver fatto qualcosa dopo essere andato a casa di John e
avergli fatto rivivere l’esperienza che lo aveva spezzato.
John
lo scortò fino alla porta. C’era una collezione di cartoline di compleanno sul
camino in entrata, e Lestrade si bloccò quando le vide. Un’altra cosa che aveva
dimenticato.
L’espressione
di John era gentile. “È tutto okay, Greg.”
“No,
John,” sospirò Greg. Abbassò la testa. “Sono un amico di merda, lo sai.”
“Lo
so,” disse John pacatamente, armeggiando con le cartoline. Le sue mani si
soffermarono sopra a una blu, le labbra serrate. Si voltò verso Greg. “Ci darò
un’occhiata.”
“Davvero?”
esclamò Greg, rovistando nella borsa alla ricerca delle carte.
“Sì.”
John protese le mani e li prese, lisciando le copertine. “Ho solo bisogno di
essere nella giusta predisposizione mentale.”
***
Greg
rimase con lui in salotto, in silenzio, mentre John leggeva la documentazione
delle prove. Sedeva raggomitolato sul divano, i piedi sotto di sé, con le carte
sparpagliate in grembo, domandando solo occasionalmente chiarimenti a Greg. Ma
anche dopo ciò, sembrava perso. Non aveva nuove idee.
“Come
hai capito che era stato Holmes?” iniziò Greg, dopo che John aveva di nuovo
assunto un’aria sconfitta.
“Non
l’ho fatto,” disse John, assente. Poi alzò gli occhi. “Voglio dire, avevo un
sospetto, quando ti ho telefonato. Ma sai, probabilmente non avrei fatto nulla
se non mi avesse attaccato.” John si corrucciò e guardò qualcosa oltre la
spalla di Greg. “Crede che sia più intelligente di quanto effettivamente sia.”
Greg
annuì pensieroso, e gli occhi di John si strinsero.
“Cosa?”
“Forse…”
iniziò Greg, torcendosi le mani. “Forse è una risorsa che potremmo usare.”
John
ammiccò rapidamente, completamente frastornato. “Stai scherzando, vero?”
chiese.
“È
bravo in questo genere di cose,” protestò Greg. “Mi ha aiutato a risolvere
tutti i crimini prima di essere imprigionato.”
L’espressione
di John si incupì. “Parlagli tu,” ribatté, rimescolando i fogli per ricomporre
i fascicoli.
“Non
parlerà con me. Non vuole parlare con nessuno.”
Un
muto nessuno tranne te aleggiò
nell’aria. John si alzò velocemente e Greg si affrettò a fare lo stesso.
“Serviva tutto a questo?” domandò John, quasi incredulo. “Una scusa prolissa
per farmi parlare con la tua macchina risolvi-crimini?”
“Non
devi farlo per forza.” Avvertiva un’irritante punta di senso di colpa guardando
l’espressione contorta di John. “Se ci fosse la possibilità che parlasse con
me, lo farei. Ma non c’è, e il prossimo omicidio è programmato tra quattro
giorni e sono a corto di opzioni. Ti fidi di me?”
“Certo,”
disse John, in un impeto di onestà. “Mi hai salvato la vita.”
Greg
annuì, tentando di nascondere la sua sorpresa alla veemente risposta di John.
“Allora
fidati quando dico che se esistesse un’altra soluzione non te l’avrei
proposto.”
Gli
occhi di John brillarono e lui batté le palpebre, si inumidì le labbra, e le
sue braccia ricaddero lungo i fianchi. Stava ancora reggendo le cartelle dei
casi. Greg capì che stava trattenendo il respiro mentre i secondi passavano.
“Va
bene,” disse infine John con voce rotta. “Lo farò.”
***
Dopo
un viaggio di un’ora in treno verso il Berkshire, John si ritrovò nell’ufficio
ben decorato del Capo del Personale, seduto di fronte allo stesso. Strisciò la
sedia a disagio, il suo sorriso educato svanì quando il dottor Culverton Smith
raccontò il passato di Sherlock all’istituto. Era un uomo piccolo e untuoso.
John avvertì immediatamente avversione per lui, ma mantenne i suoi gesti il più
neutri possibile.
“Ricordo
di essere stato emozionato quando entrò qui per la prima volta,” sospirò
Culverton. “Non ero mai stato in grado di studiare qualcuno come lui prima. Ma
è semplicemente impenetrabile da ogni test.”
“Anche
lui è uno psichiatra, dottore,” puntualizzò John. “Probabilmente conosce già i
test.”
“Sì,”
mormorò Culverton, massaggiandosi la mandibola mentre guardava John. “Li
conosce. È questo il problema, vede, è troppo sofisticato per delle vere
indagini. E mi odia, ovviamente.” Culverton guardò cupamente la cartella di
Sherlock che era abbandonata sul tavolo. “Sottolinea di continuo quanto mi
trovi inutile.” Alzò lo sguardo su John. “Ma, è lui quello con la camicia di forza, mh?”
L’autocontrollo
di John stava iniziando a vacillare.
“Ora,
la sua visita è qualcosa di molto
emozionante, davvero,” disse Culverton. “Di certo non si è dimenticato di voi.”
“L’ho
notato,” disse John, con attenta calma.
“Sono
molto interessato a qualunque effetto lei potrebbe avere sul suo carattere.”
Culverton allacciò le dita tra loro e si protese verso John come un
cospiratore. “Vede, sto scrivendo un libro –”
“Cerco
di non pensare al carattere di Sherlock Holmes, dottore,” lo interruppe John
con un sorriso tirato. “Ma mi piacerebbe tornare a casa prima di mezzanotte, e
non vedo come tutto ciò possa essermi utile nella mia investigazione.”
Culverton
si riappoggiò allo schienale, la sua espressione divenne acida. “Ciò che
vorrebbe sapere prima di incontrarlo è che a Sherlock Holmes non importa nulla
al di fuori del proprio divertimento.” Iniziò a sfogliare i fascicoli. “Una
volta, ha lamentato un dolore al petto, così lo abbiamo mandato a fare un
elettrocardiogramma. Stava sdraiato lì, il battito sul monitor mostrava settantadue,
e lui afferrò l’infermiera, e le fece
questo alla faccia.” Una fotografia fu lanciata attraverso il tavolo e una
nausea istintiva strinse lo stomaco di John. Culverton osservò la sua reazione
stranamente soddisfatto mentre scivolava indietro. “Per tutto il tempo, il suo
polso non è andato oltre gli ottantacinque.”
John
deglutì. Si sentiva sudato sotto i vestiti. Le palpebre di Culverton si
abbassarono.
“Mi
segua, signor Watson.”
John
fu condotto attraverso vari corridoi, sentendosi sempre più intrappolato a ogni
cancello d’acciaio che si chiudeva con un clangore. Culverton incedeva davanti
a lui con passi corti ma veloci, parlando a voce alta mentre camminavano.
“Il
signor Holmes si troverà nella sua stanza quando vi incontrerete. È l’unico
posto in cui non è completamente immobilizzato e perciò il posto in cui ha più
libertà di movimento. C’è una piattaforma scorrevole così che potrete passargli
alcune cose, ma solo carta morbida. Non gli passi una penna, ha del carboncino
per scrivere nella sua stanza.”
Entrarono
in un’area ancora più inquietante. John si guardò attorno. Poteva sentire i
rumori lontani dell’ospedale, metallo che sbatteva, ronzii striduli e voci
rauche. Massicci inservienti pattugliavano i corridoi e alcuni avevano una
mazza, altri pistole di tranquillanti. Guardarono John con interesse,
passandogli accanto.
Nell’anticamera,
Culverton richiamò un membro del personale, il quale stava guardando i monitor
delle celle.
“Dimmock!”
abbaiò.
“Sì
signore?” disse Dimmock, ruotando sulla sua sedia girevole con gli occhi
sgranati.
“Lascia
uscire il signor Watson quando avrà finito.” E con un’ultima occhiata a John, la
bassa figura di Culverton sparì in fondo al corridoio.
John
si rivolse a Dimmock e si presentarono. “Sarà al sicuro,” disse Dimmock con un
sorriso accennato, forse percependo la tensione di John. Gesticolò verso uno
dei monitor che mostrava una sedia posta fuori da una cella. “Sarò qui a
guardare.”
***
John
desiderò di aver indossato le sue scarpe da ginnastica non appena le suole
delle sue scarpe eleganti echeggiarono nettamente nel corridoio. Udì un
brontolio dai detenuti lungo la fila di celle alla sua sinistra, ma mantenne
gli occhi fissi sulla sedia solitaria di fronte a lui e si affrettò a
raggiungerla, ma non così veloce da far trapelare panico.
Sherlock
Holmes, avevano detto a John, si trovava in una speciale cella in fondo.
Al
posto delle sbarre, la parte anteriore era fatta di vetro con buchi per l’aria.
Apparentemente, nella sua vecchia cella Sherlock aveva la cattiva abitudine di
afferrare il personale attraverso gli spazi tra le sbarre e morderlo, così
questa era stata progettata per impedirgli il contatto. Come aveva detto
Culverton, c’era una scatola scorrevole vicino all’estremità, così che cose
come cibo e giornali potessero essergli passati. Era tutto incredibilmente
sicuro, ma l’assenza di una chiara barriera rendeva John nervoso. Da certe
angolazioni la cella sembrava non avere nessuna facciata.
Sherlock
stava disteso immobile sulla sua cuccetta, la sua testa in direzione della parte
anteriore della cella, senza muovere nemmeno un dito quando John si fu seduto
sulla sedia e ed ebbe posato il fascicolo del caso sulle ginocchia. Qualcosa
che avrebbe suscitato la curiosità di Sherlock.
“Suppongo
che Lestrade pensi di essere molto intelligente.” Sherlock sembrava divertito.
I suoi occhi erano ancora chiusi. “Mandare te, questo indento. Dimmi, è vero
che hanno messo Gregson davanti a lui come Ispettore Capo?”
“È
così,” disse John piano.
Sherlock
rimuginò su quell’ultimo frammento d’informazione, poi emise un lungo respiro.
“Peccato. Era così ambizioso, da giovane,” rifletté. “E quindi, eccoti qui.”
Non lasciarlo entrare
nella tua testa, ricordò fermamente John a se stesso,
mordendosi il labbro senza rispondere.
Sulla
sua cuccetta, la figura snella, vestita di bianco di Sherlock si alzò e si
stiracchiò ampollosamente come un gatto, prima di posare i piedi a terra e
procedere verso il vetro. Appariva oltremodo in forma per essere un uomo
costretto all’immobilità tutto il giorno, con quasi nessuno spazio per
muoversi, ma forse lo avevano tenuto in esercizio. O forse Sherlock si era semplicemente allenato usando il peso del
proprio corpo. Gli era sempre piaciuto mantenersi in buono stato.
Gli
occhi di Sherlock brillarono quando videro John, ancora tutto intero, la sua
prima vera visione di quell’uomo dalla turbolenta fine della loro ultima
collaborazione. Si appoggiò con casuale eleganza al vetro della cella, in modo
da poter squadrare John dall’alto in basso come una specie di dessert. Il quale,
probabilmente, lo era davvero, nella mente contorta di Sherlock.
John
mantenne la testa alta e ricambiò lo sguardo.
“Perché
non porti quell’apparentemente scomoda sedia un po’ più vicino?” suggerì
Sherlock.
“Sto
bene dove sono, grazie,” rispose John.
“Mi
piace il tuo completo.” Sherlock sbirciò da un po’ più vicino, indugiando sulla
gola di John. “Camicia, pantaloni ben coordinati e un cardigan di morbida lana.
Sembri quasi inoffensivo.” Il suo sguardo ricadde sulle scarpe di John. “Scarpe
stravaganti. Ti ho sentito ticchettare lungo il corridoio. È un appuntamento,
John?”
John
sostenne a fatica lo sguardo di Sherlock, ammiccando in fretta come se gli
bruciassero gli occhi.
“Sei
invecchiato a mala pena,” disse Sherlock pacatamente, inclinando la testa.
“Sono così felice che tu sia venuto a vedermi. Per lo più vengono a farmi
visita psicologi di second’ordine addestrati in università scadenti. Ottusi,
idioti dilettanti, la maggior parte di loro.”
“O
il dottor Smith,” aggiunse John, e Sherlock soffocò una risata.
“Non
è repellente? Nient’altro che la caricatura di uno psichiatra alla ricerca
disperata di una reazione come un maiale che annusa alla ricerca di tartufi.”
Sherlock strinse gli occhi, non meno taglienti di quanto dovevano essere stati
quando era stato rinchiuso per la prima volta. Era addirittura più
onniveggente. “Ti ha mostrato la foto dell’infermiera Leighton?”
John
inclinò la testa, sentendosi male al ricordo. Sherlock rise.
“La
mostra a chiunque. Ama raccontare quella storia. Lo fa sentire importante.”
“Non
è lui quello che le ha strappato la faccia a morsi,” scattò John, le sue mani
strette a pungo.
Sherlock
sorrise, ma non rispose. Inspirò profondamente, sollevando il petto, e chiuse
gli occhi. “Il tuo odore è delizioso sotto a quello dello shampoo economico,
John. Dimmi, hai ricevuto le mie cartoline di compleanno?”
“Le
ho ricevute,” disse John, la voce stretta in gola. “Non c’è bisogno che
continui a mandarmele.” Iniziava ad agitarsi. Gli faceva male il petto quando
respirava ed gli risultava difficile rimanere calmo con Sherlock che incombeva
su di lui da una gabbia di vetro. Non voleva che Sherlock sapesse quanto fosse
nervoso, ma dal modo in cui Sherlock lo guardava, John sospettava che leggesse
ogni sua mossa come un libro.
“I
tuoi palmi sono più soffici, ma hai un callo sulla falangetta del tuo dito
medio sinistro,” disse Sherlock, affascinato, i suoi occhi fissi sulle dita di
John avvinghiate attorno fascicolo del caso. “Sei uno scrittore, ultimamente,
al contrario, le mani allungate sono per i dattilografi.”
John
strinse il fascicolo e gli occhi di Sherlock guizzarono sopra di esso. “Voglio
che tu mi aiuti con un caso.”
Un
sorriso compiaciuto si allargò sul volto di Sherlock. “Ah,” disse, la sua voce
era un brontolio soddisfatto. “Già. Il tributo al mio atto.”
John
era sorpreso. “Sai già del collegamento?”
“Non
essere stupido, John. Certo che lo so.” Sherlock si spinse via dal vetro e
iniziò a camminare; le mani sotto al mento. “Avevo i miei sospetti dopo la
scoperta del primo corpo. Il secondo li ha confermati.” Si bloccò e fissò John.
“Vuoi sapere perché sta scegliendo loro.”
John
annuì. “Pensavo che avresti avuto qualche idea.”
Sherlock
inclinò la testa di lato. “E perché dovrei dirtelo?”
“Potrei
parlare al dottor Smith riguardo al ridarti tutti i privilegi che potresti aver
perso,” offrì John. Sherlock sollevò un sopracciglio, e John si protese. “Ti
lascerò seguire questo caso e quando sarà finita potrei mandartene alcuni di
irrisolti per darti la possibilità di risolverli.”
“Noioso,”
sospirò Sherlock, ruotando la testa all’indietro. I suoi capelli scuri gli
scoprirono la fronte e John poté scorgere la pallida forma del suo profilo
spigoloso.
“C’è
qualcos’altro,” aggiunse John, come ripensamento. Lo sguardo di Sherlock si
fissò su di lui. “Facendo questo, potrai scoprire se sei più intelligente della
persona che stiamo cercando.”
Sherlock
lo spianò con il suo sguardo indagatore. “Usando questa logica, tu credi di
essere più intelligente di me.”
John
scosse la testa, appianando gli angoli del fascicolo con gli occhi bassi. “No,”
disse sinceramente. “So di non esserlo.”
Sherlock
si appoggiò nuovamente al vetro, scrutandolo intensamente. “Per quanto sia
lusinghiero sentirti dire queste cose, John, non credere di potermi persuadere a
farti favori appellandoti alla mia vanità intellettuale.”
“Inizio
a dubitare di poterti persuadere del tutto,” disse John. Sherlock ricambiò lo
sguardo e John si arrovellò inutilmente il cervello. “E se ti raccontassi delle
vittime –”
“Io
non le conosco,” lo interruppe
Sherlock. “Perché dovrebbe importarmi della loro morte? Perché tutti pensano
che mi dovrebbe importare del fato di persone che potrebbero anche non
esistere, per quanto mi riguarda?” Si immobilizzò, bloccandosi a metà delle
proteste, la postura rigida come se gli fosse appena accaduto qualcosa di
spiacevole. John lo guardò confuso quando Sherlock iniziò a camminare.
“Vittime…” ripeté Sherlock, toccandosi le dita con le labbra. Si fermò e si
voltò a fronteggiare John. “Devo chiedertelo,” disse. “Hai considerato il
finale del gioco di questo killer?”
John
allungò la schiena, insicuro. “Finirà quando lo avremo catturato?”
“Se,” lo corresse Sherlock e il suo
sguardo distante tornò a scrutarlo. “Potreste non riuscirci. E, ovviamente,
ricordi come si è concluso il mio gioco.”
La
realizzazione si fece strada in John come un coltello attraverso le sue soffici
interiora quando colse ciò che Sherlock stava suggerendo. “Credi che il killer
verrà a cercarmi?” esclamò.
“Finire
ciò che ho iniziato…” rifletté Sherlock contro le sue dita. “Interessante.”
John
si alzò, provocando un raschiare rumoroso quando la sedia strisciò sopra al
calcestruzzo. Si voltò per andarsene e Sherlock lo guardò, gli occhi
spalancati.
“Aspetta!”
Sherlock andò verso la scatola scorrevole e la spinse verso il lato di John con
fragore. “Passalo,” ordinò. “Fammi dare un’occhiata e ti dirò cosa ne penso.”
C’era
qualcosa che lo agitava. John si fermò, girato a metà, a guardò il volto
speranzoso di Sherlock. Non voleva trovarsi lì. Avrebbe preferito essere da
qualsiasi altra parte, ma aveva un lavoro da fare. “Devi restituirmelo,” disse
e Sherlock ruotò gli occhi e annuì.
“Sì.
Ovvio. Ora dammelo.”
John
si avvicinò alla cella, tenendo gli occhi fissi su Sherlock. Erano a meno di un
metro di distanza, per la prima volta dopo cinque anni, separati soltanto da
una lastra di vetro che avrebbe potuto anche non esserci per la sensazione di
sicurezza che dava a John. Posizionò il fascicolo nella scatole, conscio
dell’occhiata affamata di Sherlock lungo il suo collo.
“Magnifico,”
disse Sherlock piano, quasi troppo silenziosamente per le orecchie di John.
John
indietreggiò, studiando cautamente Sherlock attraverso il vetro. Sherlock fece
scivolare la scatola all’interno della cella e prese il fascicolo, sfogliandolo
con le sue agili dita. Passeggiava mentre leggeva, le sopracciglia aggrottate.
John
si sentiva più a suo agio quando si trovava fuori dalla sua linea di attenzione
tagliente come un rasoio. “Vuoi un po’ di privacy?” chiese, e Sherlock lo
guardò per un breve istante.
“Al
contrario,” disse, accennando alla sedia. “Siediti. La tua presenza fa
meraviglie ai miei processi mentali.”
Leggermente
frastornato, John si sedette obbediente, rimuginando su come commentare
esattamente mentre Sherlock analizzava ogni più piccola parte del fascicolo del
caso come un computer. “Ha preso alcune parti del corpo come hai fatto tu,”
disse John mentre Sherlock sfogliava spassionatamente le fotografie. “Infatti,
i casi erano fin troppo simili per un normale emulatore. Ha avuto delle
informazioni.” Sherlock non diede segno di averlo sentito e dopo qualche minuto
John parlò di nuovo. “Credi che anche lui le mangi?”
“Shhh,”
brontolò Sherlock. “Parlare non è necessario.” E fece rimare John seduto in
silenzio per quasi un’ora.
***
“Mi
piacerebbe parlare delle vittime,” disse Sherlock, facendo sussultare John dal
punto dove era sprofondato sulla scomoda sedia.
“Oh?”
rispose John, sedendosi dritto. Allungò la schiena e controllò l’orologio.
“Credevo che non ti importasse delle –“
“Non
delle loro speranze e dei loro sogni e delle famiglie senza volto in lutto, o
altro,” lo derise Sherlock. Era rimasto in piedi o aveva camminato durante
tutto il tempo, muovendosi così attivamente mentre rifletteva. “Pensare a loro
come oggetti inanimati. Voglio parlare del loro significato, in particolare in
confronto con le mie.”
“Beh…”
iniziò John, la mente vuota. Aggrottò la fronte. “Sono più giovani. E sta
prendendo donne, mentre tu uccidevi uomini.”
“Guardale,
John!” esclamò Sherlock, sventolando una foto della prima vittima che era stata
fornita dalle famiglie. “Sono giovani. Sono bellissime.
Sta uccidendo ciò che brama, ciò che desidera.
Probabilmente molesta i loro corpi senza vita, anche se non sarebbe così
stupido da togliersi i guanti. Mentre io,”
fece una pausa, le labbra si contrassero agli angoli. “Io ho buon gusto.”
“Hai
detto di aver ucciso degli stupidi senza speranza,” fece notare John.
Sherlock
si pulì i denti con l’indice e gli sorrise.
John
inghiottì. “Ascolta, è tutto molto interessante, ma ho bisogno di qualcosa di
pratico.”
“Queste
ragazze non hanno molta conoscenza di computer,” osservò Sherlock, muovendo le
dita.
“Sherlock…”
Sherlock
richiuse seccamente il fascicolo. Lo gettò nella scatola scorrevole e la
rimandò indietro con violenza. John indietreggiò. “Le ragazze sono irrilevanti
per il suo messaggio. Sta solo prendendo qualcosa che desidera mentre porta a
compimento il suo reale scopo.”
John
ammiccò, si alzò in piedi. “L’imitazione è un messaggio?”
“Dei
più basilari,” rispose Sherlock, senza nessun’altra spiegazione. “Ti sei
chiesto come facesse a sapere che sarebbero state da sole nei loro
appartamenti, al momento in cui aveva pianificato di ucciderle? Sole in un
preciso giorno?”
“Giusto,
perché non c’è motivo di ucciderle in un giorno diverso dal tuo,” disse John,
annuendo. “Non ne sono sicuro. Probabilmente va a caso.”
“Che
pensiero originale,” osserva Sherlock seccamente, concedendo finalmente riposo
ai muscoli delle gambe e rotolando sul letto. Appariva abbastanza rilassato,
mentre John era tutto dolorante sulla sedia di plastica.
Raccolse
i fogli, tenendo d’occhio la figura allungata di Sherlock. “È tutto qui ciò che
hai scoperto?”
“Per
adesso,” disse Sherlock. “Credo di averti dato un sacco d’indizi per iniziare.
Se mi verranno altre idee te lo farò sapere.” La sua espressione sembrò
diventare più tagliente e mostrò un sorriso veloce. “Magari un numero di
telefono, cosicché possa contattarti direttamente.”
John
sentì stringerglisi lo stomaco. Incontrò lo sguardo di Sherlock. “Vorrei che tu
fossi sincero con me, adesso.”
Sherlock
rise. “Non ti dirò niente di più preciso, John. E, per carità, sappiamo quanto
il tuo cervello abbia bisogno di esercizio dopo la sua pausa forzata.” Sibilò la parola. “Porta più prove appena le
trovi.”
“Credi
che tornerò?” domandò John.
“Certamente.”
Sherlock lo disse con semplicità, come se potesse chiedere a John di fare
qualunque cosa volesse. “Se non fosse per te non sarei interessato.”
John
si sentì in trappola, una sensazione crescente si faceva strada nel suo petto e
un pensiero continuava a ripresentarsi, ancora e ancora. “Perché?”
“Consideralo
il mio pagamento.” Sherlock ruotò pigramente la testa di lato, scavando nelle
coperte con la punta dei piedi come un gatto. “Non prenderò nient’altro da te,
John. Voglio solo la tua compagnia mentre lavoro su questo. Ho sentito
dolorosamente la mancanza del tuo viso durante gli ultimi cinque anni.”
“Non
posso dire che il sentimento sia reciproco,” disse John piano. Vide Sherlock
sorridere.
“Mi
piaci, John,” disse, gli occhi chiusi. “Non provi ad analizzarmi.”
“L’unica
persona in grado di analizzarti sei tu stesso,” replicò John, e con ciò si
allontanò sulle sue scarpe troppo rumorose.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
la perdita 2
Bentrovati al
secondo capitolo. Più vado avanti e più mi rendo conto
di quanto sia articolata questa scrittura (escludendo tutti i
sinonimi di 'sguardo' che devo inventarmi XD). Questo mi porta a dover
rimaneggiare alcune frasi per renderle comprensibili e credibili in
italiano, ed è questo che mi porta via tanto tempo.
I capitoli sono diventati 6. Non vedo l'ora di arrivare in fondo.
Buona lettura!
***
John
Watson arrivò al dipartimento di investigazione criminale la mattina
successiva, mani in tasca e colletto della giacca sollevato sul retro del collo
a combattere il freddo. Era vestito bene e sfoggiava la sua solita postura
militare, ma la sonnolenza nei suoi occhi tardiva la stanchezza. Sally Donovan
attendeva di incontrarlo all’accettazione; le sorrise quando la vide, più che
altro per cortesia. Non erano mai stati grandi amici.
Sally
gli rifilò un altro sorriso di rimando. “Il detective ispettore Lestrade mi ha
detto di condurti nel suo ufficio,” disse, scortandolo attraverso l’edificio.
John la seguì, ma avrebbe potuto percorrere la strada a memoria. Si guardò
intorno così spesso da catalogare ogni dettaglio che era cambiato. “Hai tirato
fuori qualcosa di utile da Holmes?”
Il
sorriso di John vacillò. “Niente di concreto,” ammise e Sally si sentì
egoisticamente vendicata. Tentò di scacciare quel pensiero, c’erano traguardi
più grandi da raggiungere dinanzi a loro, ma era difficile non trarre piacere
dal fatto che Holmes non era così utile come tutti solevano credere.
“Lestrade
sembra pensare che quell’omicida ci aiuterà,” disse e si protese per premere il
pulsante dell’ascensore. John attese pazientemente al suo fianco, mantenendo la
sua espressione auto-protettiva mentre lei proseguiva. “Credo che stiamo
perdendo tempo. A Holmes piace guardaci correre intorno facendo ciò che ci
dice. Lo trova divertente. Siamo insetti per lui, John.”
John
la giudicò con attenzione, poi si guardò i piedi. “Ricordo di averti sentito
dire le stesse cose quando ancora lavoravamo con lui.”
Sally
sussultò interiormente a quella memoria. “Tutti mi hanno dato della paranoica.
So di aver dato quell’impressione, ma anche quando si è rivelato vero, non sono
riuscita a dire ‘ve l’avevo detto’.”
Specialmente
non al corpo spezzato che era andata a trovare in ospedale, con le interiora
maciullate e gli occhi tristi. John aveva sicuramente ottenuto il peggio da
quel tradimento. Il volto di lei arrossì e non proseguì oltre quella
conversazione. John non insistette. Non aveva il desiderio di ripensare a quei
fatti più di quanto non ne avesse lei.
Trascorsero
il tempo in ascensore in un silenzio teso.
***
Per
la prima volta, John si ritrovò nel mezzo del dipartimento di investigazione
non come poliziotto, ma come testimone. La nostalgica familiarità che avvertì
nell’essere tornato nel luogo in cui aveva lavorato per anni lo scosse. Lo
condusse al limite. Inoltre, non era stato completamente se stesso dai giorni
del Berkshire e gli inquietanti sorrisi di Sherlock.
Era
seduto nell’ufficio di Greg mentre l’ispettore sfogliava le sue trascrizioni
della conversazione con Sherlock, la sua emozione iniziale all’arrivo di John
si stava lentamente smorzando in frustrazione. Era scoraggiante guardarlo
arrivare alle stesse conclusioni a cui era giunto John a causa dell’ambiguità
delle risposte di Sherlock.
Alla
fine, Greg lasciò cadere i fogli sul tavolo e si riappoggiò allo schienale con
espressione corrucciata. “Solitamente non è così criptico,” sospirò. “In genere
non vede l’ora di dirti cosa sa realmente.”
John
annuì. La sua postura era eretta, suo malgrado apprensiva. “Non so cosa
farmene. Ha detto molte cose, ma sono tutti indovinelli.” John fece una pausa
significativa e si inumidì le labbra. “Potrebbe sapere più di quanto ci dica.”
Greg
si grattò la testa, gli occhi stretti a fessure. “Come se il killer stesse
comunicando con lui?”
“Lo
lascia intendere.”
John
non aveva idea di cosa l’omicida potesse usare per comunicare e, data
l’espressione di Greg, nemmeno lui.
Cambiarono velocemente argomento.
“E
ha detto qualcosa a proposito delle conoscenze informatiche delle vittime.”
John dovette tirare verso di sé gli appunti, rileggerli e ricordarsi le esatte
parole.
“Qualcosa
a proposito delle loro dita suggerisce che non erano persone molto
tecnologiche. Non so come l’abbia capito, ma potrebbe essere un collegamento o
un motivo per cui il killer ha scelto loro. Abbiamo i loro computer?”
Greg
annuì, riacquistando la carica. “Abbiamo accesso a tutto. Cosa devo dire alla
scientifica di cercare?”
“Procurati
una lista di somiglianze tra loro.” John si sentì tornare indietro al suo ruolo
di poliziotto. Qualcosa avrebbe potuto saltar fuori. “Dev’esserci un punto
d’incontro.”
“Bene,”
concordò Greg. Si piegò in avanti con ansia. “Così puoi portare l’elenco a
Holmes.”
La
testa di John si sollevò così in fretta che Greg reagì come se avesse sentito
lo schiocco di una frusta. “Cosa?”
“Beh,”
iniziò Greg, sorpreso. “Ci ha dato una nuova direzione da seguire. Forse
potrebbe dirci di più.”
“Non
sappiamo nemmeno se questa sia una
direzione,” protestò John, il panico aveva preso il sopravvento sul suo primo
istinto di cordialità. “Non sappiamo nemmeno se sia davvero dalla nostra parte.
Non tornerò là a meno che io non debba.”
I
grandi occhi castani di Lestrade guizzarono su John, la bocca si mosse senza
produrre alcun suono prima di piegare la testa ed evitare lo sguardo di John.
“Giusto. Mi dispiace.”
John
si appoggiò all’indietro, producendo un sospiro quasi impercettibile. “Non
voglio fare il difficile. Ma non sono… pronto. Mentalmente, intendo.”
L’ossessione
di Sherlock per lui era evidente e preoccupante. John non aveva idea di come
avesse potuto non notarla prima, dato che avevano lavorato insieme, alcune
volte da soli e appartati riversando l’attenzione sulle prove, durante molti
casi difficili. Lo Sherlock che aveva conosciuto in prigione gli aveva
richiesto ogni grammo del suo coraggio per restare calmo in sua presenza mentre
l’interno del suo corpo lo tradiva, il cuore batteva troppo velocemente e la
pelle iniziava a sudare.
“Capisco,”
disse Greg, anche se non ne aveva idea. John accettò, comunque, grato per il
tentativo di comprensione. La sua cicatrice iniziò a prudere attraverso
l’addome.
Greg
aveva fatto del suo meglio, dopo tutto. La sera prima, John aveva chiamato Greg
appena sceso dal treno dal Berkshire che lo aveva portato a casa, e aveva
raccontato cos’era accaduto in maniera cautamente sobria. Si sentiva
prosciugato fino alle ossa dopo un così lungo periodo in compagnia di Sherlock,
e Greg, cogliendo la tensione nella sua voce, non aveva fatto altro che
ordinargli di andare a dormire e lasciare il resoconto per il giorno dopo.
Queste
persone erano dalla parte di John. Lavoravano assieme, cercando di catturare
quel maniaco.
“Se
hai bisogno che lo consulti, allora andrò,” si offrì John. “Ma sto parlando di
ultima spiaggia.”
“Bene,”
disse Greg. “No, grande, John. Sei già stato d’estremo aiuto.” Il suo tono di
voce era molto sincero. Si alzarono entrambi e si strinsero la mano, Greg lo
fece con cautela come temendo di spezzare il metacarpo di John. “Ti serve
qualcuno che ti accompagni fuori?”
“Me
la caverò,” lo rassicurò John, stringendo fermamente la mano di Greg e poi
lasciandola. “Tienimi aggiornato.”
“Certamente.”
Greg fece balenare un sorriso che metteva in luce la speranza di nuove prove e
uscì a grandi passi dall’ufficio per dare istruzioni alla sua squadra. John lo
seguì con qualcosa che sembrava attenzione e cercò di tenere la testa bassa
finché non si fosse allontanato. Voleva tornare a casa, sdraiarsi, e lavorare
alla sua nuova storia.
Stava
indossando la giacca quando una grande mano gli afferrò la spalla. Era il
detective ispettore capo Toby Gregson, con un luccichio amichevole negli occhi.
L’appena promosso detective ispettore capo Gregson era un uomo alto, solido,
con una forte personalità che John aveva visto mutare da affabile con i
testimoni a estremamente intimidatoria con i sospettati. In quel momento era
piacevole.
Forse
era un’opinione azzardata, ma John sentì di essere finito in trappola.
“John,”
disse Toby gioviale, come se si fossero incontrati per caso in un pub. “È bello
vederti, come stai?”
“Bene,”
rispose John con un sorriso fugace. “Sto bene. Riposo.”
Toby
si guardò attorno fugacemente per accertarsi che la sua squadra stesse
lavorano, poi ricambiò il sorriso di John. “Perché non vieni a chiacchierare un
po’ con me nel mio ufficio?”
John
aveva una vaga idea di ciò di cui voleva parlare. “Sono un po’ occupato,
veramente…” mentì.
“Cinque
minuti,” promise Toby, e ignorando ogni protesta guidò John in un ufficio ben illuminato con grandi finestre
e modernamente ammobiliato.
“Senti,”
disse John, dopo esser stato letteralmente spinto su una sedia e una tazza gli
fu messa tra le mani. “So cosa intendi dirmi e non sono interessato.”
Toby
si sedette di fronte a lui e bevve un sorso del proprio tè. Non offese
l’intelligenza di John e andò dritto al punto. “Potrei farcela se un agente
esperto come te tornasse con noi, John. Tutti noi potremmo farcela.”
John
scosse la testa e posò cautamente la tazza su un piattino. “Non avete bisogno
di me. Non sono più di alcuna utilità alla polizia.”
“E
se fossi io a decidere cos’è utile e cosa non lo è?” Gentile, ma salda
pressione. Era come una leggera spinta sulla spina dorsale per farlo muovere
nella giusta direzione. Toby aveva una voce così placida mentre diceva alle
persone cosa dovevano fare. “Non ho mai avuto un uomo come te, John. Il modo in
cui hai gestito la cosa di Holmes, ieri…” Toby in interruppe per emettere un
basso fischio. “Vorrei essere stato lì.”
John
non aveva gestito Sherlock, Al contrario, la loro conversazione si era svolta
unicamente secondo le regole di Sherlock. “Mi piace la vita che conduco ora,”
disse con fermezza, nel tentativo di portare la conversazione a una
conclusione. “L’ultimo caso in cui ero coinvolto mi ha quasi ucciso. Non voglio
passarci di nuovo, questa volta.”
“A
me sembri stare bene,” disse Toby in tono ragionevole. “Sono quasi cinque
anni.”
“Io
sto bene,” rispose John un po’ troppo sulla difensiva. Fissò il tè che si
raffreddava, le guance arrossate.
“Allora
dovresti tornare a fare ciò in cui sei più bravo.” Toby si appoggiò allo
schienale della sedia producendo uno scricchiolio, sistemandosi il risvolto
della giacca con il pollice. “Ci sono vie, nella Polizia Metropolitana, che
potrebbero permetterti di tornare al lavoro facilmente, e con grandi benefici.
Non devi fare nulla, mi occuperò di tutto io. Solo, fai a tutti un favore e
lavora a questo caso per noi.”
John
esitò prima di rispondere e Toby parlò di nuovo.
“Abbiamo
due giorni prima che la prossima ragazza muoia, John.” Era tutto fuorché
contento. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto.”
Le
foto balenarono nella mente di John in
forma di tagli sanguinanti e trasalì. Nel profondo, qualcosa dentro di lui
stava pregando, supplicando di lasciarlo in pace, di andarsene adesso e
riprendersi prima che qualcosa, nella sua mente, si rompesse a causa di tutta
quella tensione.
Ma
se John poteva davvero fare qualcosa per questi omicidi…
Inghiottì
la sua stessa paura e incontrò lo sguardo inflessibile di Toby. “Va bene,”
disse. “Ma ho bisogno di velocizzare le cose. Devo vedere la scena del crimini
con i miei occhi.”
“Certo.”
Toby sembrava sollevato. “Dirò a Lestrade di portartici. Per qualunque cosa,
John, bussa alla mia porta.”
***
Ogni
volta che Sherlock veniva legato, per permettere la pulizia della stanza, il
dottor Culverton Smith appariva e cercava di ottenere una reazione da lui. O,
come gli faceva piacere dire, “psicoanalizzarlo’. Quell’uomo era ridicolmente
semplicistico. Sherlock compativa l’intero sistema della salute mentale se un
uomo come quello ricopriva una tale carica in un ospedale psichiatrico.
Culverton
portò con sé delle lettere per Sherlock, da una larga varietà che alcuni noiosi
idioti credevano essere unica, o che i giornalisti cercavano per mettere su una
storia.
“Ci
sono molte signore impazzite che ti mandano lettere, Sherlock,” rimarcò
Culverton, sedendosi sul suo cappotto e sfogliandole con gesti pomposi.
“Credono di poterti cambiare. In cosa? Un vegetariano?” Rise alla propria
stupida battuta.
Sherlock
non rispondeva mai ai suoi ammiratori. Tutte le lettere sembravano fondersi
l’una con l’altra, dopo un po’ di tempo, ma le leggeva comunque quando era
annoiato. La bocca iniziava a dolergli, per cui tese la mandibola contro la
maschera, simile a una museruola, che gli teneva i denti lontani dalla faccia
di chiunque, imitando uno sbadiglio, poi fece schioccare i denti. Il suono fece
fare un salto a Dimmock, che asciugava il pavimento di fronte a lui.
“Eppure,”
commentò Culverton con un ghigno furbo. “Non sono esattamente le donne a
stuzzicarti, non è così Sherlock?”
Ovvio.
Tipico di Culverton. Prendere una reazione isolata ed applicarla all’intero
genere. L’umore di Sherlock, già non dei migliori, virò a pessimo alla presenza
di tale idiozia.
“La
conoscono tutti, sai,” continuò Culverton. Sherlock desiderò poter voltare la
testa. “La tua ossessione per quel
piccolo ex poliziotto. Ero così ansioso di conoscerlo, ma è davvero così
ordinario, anche se un po’ a pezzi. Non sono sicuro del fascino, per quanto mi
riguarda.”
Lo
disse come se costituisse un insulto per Sherlock e attese una reazione che
Sherlock non gli avrebbe offerto. In verità, Sherlock si sarebbe sentito più
offeso se a Culverton fosse piaciuto John
Watson.
“Qualcuno
ha fatto delle analisi sulla tua strana cotta. Ci sono stati degli articoli.”
Suonava
leggermente geloso, e Sherlock sapeva esattamente il perché. “Il tuo libro è
stato rifiutato da un altro editore,” disse in tono piatto e Culverton prima
sussultò per la risposta, ma poi la sua espressione tornò di pietra.
“Non
lo sarebbe stato se tu ti aprissi un po’ con me,” scattò.
Sherlock
sospirò, deluso. “Non ho alcun interesse nel fornirti altra credibilità o
denaro.”
Il
personale continuava a pulire, tenendo fermamente le teste basse contro
l’atmosfera pungente della stanza.
Poi
Culverton, il suo sguardo fisso su Sherlock, si chinò e afferrò deliberatamente
la foto di John che Sherlock custodiva. Sherlock si lanciò contro di lui, ma
non riuscì a muoversi di un centimetro a cause delle costrizioni. Ciò fece
ghignare Culverton.
“Spero
che gli darai una bella occhiata quando verrà a visitarti, dottor Holmes,” lo schernì
Culverton. “Terrò questa con me.”
E
il pessimo umore di Sherlock diventò omicida.
***
A
metà strada tra la macchinetta del caffè e il suo ufficio, con una tazza di
forte caffè nero, Greg fu fermato dalla larga mano del detective ispettore capo
Toby Gregson che si serrò sulla sua spalla.
“Lestrade.
Ho bisogno che porti John Watson sulle scene del crimine,” disse Toby, con un
preoccupante luccichio di determinazione negli occhi. Accennò oltre la sua
spalla, dove John sedeva nel suo ufficio, guardando assente fuori dalla
finestra e muovendosi appena per respirare. Come se fosse stato legato alla
sedia da prigioniero e si fosse stancamente rassegnato al suo destino.
Greg
aggrottò le sopracciglia e si raddrizzò un poco. Non era sicuro che fosse una
buona idea e un sentimento strisciante, sgradevolmente simile al senso di
colpa, gli attanagliò lo stomaco. “John lavora al caso?”
Toby
annuì. Sembrava, Greg non poté fare a mano di notarlo, soddisfatto di se
stesso.
“Come
accidenti hai fatto a convincerlo a farlo?” La voce di Greg assomigliava a una
risata inquieta. “Quando abbiamo parlato sembrava essere sul punto di correre
fuori dall’edificio.”
Toby
scrollò le spalle con leggerezza. Era sempre stato bravo a persuadere le
persone. “Ricorda solo questo, Lestrade,” disse serio, scrutando Greg da sotto
la fronte bassa. “Il coinvolgimento di Watson è molto importante per
quest’investigazione, quindi cerca di non spaventarlo. Lascia che sia lui a
fare le cose.”
Greg
strinse gli occhi. “Importante?” chiese, Toby continuò a guardarlo impaziente.
“Oh,
sì. Essenziale.” Toby sollevò un sopracciglio. “Ricorda, se abbiamo Watson
abbiamo anche l’accesso a qualcuno di molto utile.”
Greg
deglutì con amarezza e represse un brivido. “Sherlock Holmes,” disse, riluttante.
“Sherlock Holmes.” Toby
lo disse con soddisfazione. Gli assestò un’altra manata sulla spalla, il palmo
caldo contro la stoffa della giacca, e gli lanciò un’occhiata penetrante.
“Tieni John con noi, Lestrade, non importa come. Ora vai.”
***
Fu
un viaggio tranquillo in direzione sud, verso Guildford, umido e piovigginoso.
Greg
guidava, picchiettando spesso le dita sul volante, come se stesse battendo un
ritmo di musica. Occasionalmente gettava occhiate incuriosite al suo
passeggero, che aveva iniziato la giornata vigile e pronto ad aiutare, ma che
adesso sembrava parecchio pallido. John era chiuso in se stesso sin dalla prima
scena del crimine.
John
passò la maggior parte del viaggio a guardare fuori dal finestrino le distese
di grigio, gli occhi che guizzavano sopra l’asfalto, il cielo, le nuvole, il
luccichio dell’auto grigia di Lestrade. La pioggia, che batteva pesantemente
sul parabrezza, aveva un effetto soporifero sul suo umore. Si concentrò sui
rivoli di pioggia che si allargavano come ragnatele nel tentativo di
dimenticare gli schizzi rossi che avevano macchiato le pareti dell’appartamento
a Londra.
Non
era il pensiero giusto. Proprio di fronte agli occhi di John c’era uno schizzo
di pioggia che aveva colpito il vetro, e tutto ciò che John poté vedere fu un
corpo bagnato di sangue stampato su una carta da parati, poi l’immagine di una
giovane donna macellata. Trasse un respiro profondo e scacciò un brivido
fissando lo sguardo sulle proprie mani. Greg lo stava guardando preoccupato.
“Stai
bene?”
John
strinse le mani a pugno finché non sentì male alle braccia. “Quand’è che sono
diventato così molle?” chiese, per metà ridendo, per metà attraverso i denti
stretti.
Gli
occhi di Greg erano dolci e comprensivi, o almeno tentavano di capire. Avrebbe
dovuto prestare più attenzione alla strada. “Sei stato lontano dal lavoro per
molto tempo,” disse con ragionevolezza. “E hai visto più di quanto altri uomini
hanno fatto.”
John
annuì, sfregando un pollice sulla pelle secca del dorso della mano. Non
sembrava convinto.
“Vuoi
ascoltare un po’ di musica?” domandò Greg in tono più gioviale, ma John scosse
la testa.
“Non
sono molto in vena.” Ammiccò in direzione di Greg. “Voglio dire, puoi
ascoltarla se vuoi – ”
“No,
va bene così.” Greg sorrise educatamente, anche se non riuscì a nascondere la
preoccupazione nei suoi occhi. Dopo alcuni minuti tesi parlò di nuovo.
“Ascolta, John. È davvero grandioso, sai. Tu, quello che stai facendo.”
John
chinò di nuovo il capo. “Beh,” disse, con un colpo di tosse. “Se ho il potere
di aiutare…”
“Mi
sento male, alle volte. So che ci siamo persi di vista dopo che ti sei
ritirato, e non voglio che tu pensi che ti stia usando –”
“Greg,”
disse John stancamente, a voce bassa. “Va tutto bene.”
La
pioggia si stava facendo più fitta e il cielo più nero quando smontarono per
andare verso l’appartamento della seconda vittima. Greg aveva un ombrello,
quindi scese per primo e lo aprì prima di andare dal lato di John. Riuscirono
ad arrivare all’interno quasi asciutti.
“Chiavi?”
chiese John, sembrando leggermente agitato, e Greg gli sventolò davanti la
cartellina con un ghigno.
La
vittima viveva al secondo piano, salirono le scale assieme. Era un bel
condominio, pensò John. Spazioso. Soffitti alti.
“Credi
che faccia parte del metodo del killer?” chiese John mentre Greg perdeva tempo
col lucchetto. “Entrambi gli omicidi sono avvenuti nelle case delle vittime.”
“E
quindi?” Greg si bloccò, le mani sulla maniglia.
John
agitò la cartellina nelle sue mani e si leccò le labbra secche. “Forse,”
suggerì, “c’è qualcosa, nel suo metodo, che fa sì che possa colpire le sue
vittime solo quando si trovano in casa.”
Greg
annuì seccamente. “Sì, forse,” disse, la bocca leggermente aperta. “È questo
che ha detto Sherlock?”
A
quel nome, John represse un sussulto. Dio, stava diventando patetico. “Ha
menzionato qualcosa in merito ai computer, ricordi?”
“Giusto.”
Greg tornò a guardare la porta, poi nuovamente John, con cautela. “È lo stesso
dell’altra volta. Polizia e scientifica sono già state qui e hanno preso tutto
ciò che serviva loro. Se non ti sentirai a tuo agio –”
“Starò
bene,” disse John, leggermente brusco. Era infermo sulle gambe e si sentiva già
sul punto di non farcela. Con un brivido, nonostante il calore dell’atrio, John
spinse le mani nelle tasche.
Greg
lo squadrò, poi inclinò la testa e aprì la porta dell’appartamento.
Le
luci erano spente, la stanza immersa nelle tenebre. Le loro ombre si
proiettavano sul tappeto grazie alla luce del corridoio, sopra a una pedana con
un incontaminato miscuglio di scarponi invernali, scarpe da ginnastica e con i
tacchi. C’era un cappotto di un grigio tenue appeso dietro alla porta, una
delicata ragnatela si tendeva dal morbido polsino fino alla carta da parati
stampata. John avvertì un tuffo al cuore e si protese in avanti, distruggendo
il filo col tocco del suo indice e accarezzando gentilmente la pelliccia.
Dietro di lui, Greg lottava contro il fascio di luce tremolante della torcia.
“Dove
sono i maledetti interruttori…”
Si
udì un click e la stanza fu inondata di luce. Greg richiuse la porta dietro di
loro e John indietreggiò, guardandosi attorno. Era un bell’appartamento, forse
un po’ disordinato. La porta di fronte si apriva nell’area pranzo la quale era
collegata a una cucina con i piatti ancora impilati nel lavello. C’era un
divano imbarcato, un tavolino da caffè di fronte alla televisione, con i cerchi
lasciati dalle tazze su tutta la superficie, un paio di riviste di gossip.
Aveva ricoperto i davanzali con ornamenti.
“Da
questa parte,” disse Greg, una mano sulla spalla di John.
“Aspetta,”
disse John. “Ricordami, a che ora è stata uccisa?”
“Uuh…”
Greg sfogliò il fascicolo. “Il patologo fissa l’ora della morte alle 7 e mezza
di sera.”
Un
orario inusuale per uno strano omicidio, pensò John, ma poi ricordò che niente,
in quel caso, era normale. Lei aveva appena finito la cena. Probabilmente si stava
rilassando guardando la televisione o altro. Quindi, perché era stata uccisa
nella camera da letto? Aveva provato a fuggire dal suo aggressore? Mentre Greg
gli faceva strada, John eliminò mentalmente quell’opzione. La porta era intatta
e non aveva segni di forzatura.
Greg
spalancò la porta e John su assalito nuovamente dalla visione di schizzi rossi
sulle pareti, il pavimento e la trapunta sgualcita, come un tipo di arte
astratta particolarmente morboso. Batté le palpebre, già stanco, e compì un
passo all’interno.
“Le
ha preso i reni,” stava dicendo Greg mentre procedeva verso la sagoma di nastro
bianco dove il corpo era stato trovato sventrato, riverso sul materasso. “Solo
dopo averla pugnalata diverse volte con uno dei suoi coltelli da cucina.
L’abbiamo trovato la prima volta in cui siamo entrati nell’appartamento.
L’aveva riposto nel ceppo dei coltelli.” Greg deglutì faticosamente, ricordando
quella particolare sorpresa. “Nessuna impronta, ovviamente, ma il metodo di
esecuzione di quest’uomo prevede che non lasci quasi nessuna traccia dietro di
sé.”
Come
l’impronta di scarpa parziale, taglia 43, nel sangue sul pavimento. John annotò
sul fascicolo del caso tutti i dettagli che individuava a mano a mano che si
addentrava nella piccola stanza, aggirando attentamente il sangue spanto. Greg
sfogliò alcune pagine dietro di lui.
“È
stata trovata il giorno dopo da un amico a cui non aveva risposto al telefono e
quando siamo arrivati abbiamo riconosciuto subito le somiglianze con il caso di
Holmes.” Greg inspirò lentamente e scosse la testa. “Quel momento di
realizzazione è stato terrificante.”
John
lanciò un’occhiata al luogo dove il computer portatile della ragazza era stato appoggiato
sul tavolo nell’angolo della stanza, prima che la scientifica lo portasse via
per analizzarlo. La sedia era stata tirata indietro. Andò più vicino, come
attirato da quello spazio, con la strana sensazione di stare evitando qualcosa
di estremamente importante. Lo stuzzicava da un margine della sua mente come un
movimento colto con la coda dell’occhio. Visibile, tuttavia completamente
indistinguibile.
Greg
lo guardò. “Ti sei fatto una buona idea delle scene, dunque?” domandò.
“Sì,”
disse John lentamente. Strinse forte i pugni e fissò lo sguardo tra il tavolo
vuoto e il letto macchiato di sangue.
***
Quella
notte, dopo che Greg l’ebbe portato a casa, John non dormì. Fissava il
soffitto, le membra flosce, la mente al lavoro mentre ripassava tutto ciò che
sapeva sul caso, le prove, ma soprattutto le vittime. Il cuore di John piangeva
per loro. Sapeva che passare troppo tempo a compiangere le vittime, invece che
focalizzarsi a riordinare la confusione, non era una buona pratica. Come
poliziotto, questa era una delle cose che gli facevano odiare di più la sua
etica professionale. Il fatto era che risultava difficile, per John, vedere le
persone come statistiche, o nomi su una pagina, o fotografie sanguinose. Non
poteva fare a meno di provare empatia.
E
lui era inesorabilmente connesso a questo caso come nessun altro. La minaccia
implicita per cui, quando l’emulatore avrebbe iniziato ad esaurire le vittime,
sarebbe rimasta una sola persona.
Hai considerato il
finale del gioco di questo killer?
John
rabbrividì e si rigirò nel letto, le
mani raccolte sotto il cuscino.
Queste
persone avevano un metodo per scegliere le vittime. Quello di Sherlock era più
casuale e difficile da predire, prendendo persone che lo irritavano e
pianificando le loro morti nei modi più crudeli, con qualunque cosa gli fosse
capitata in mano. L’emulatore avrebbe dovuto essere più efficiente. Doveva
adottare un metodo che gli fruttasse una vittima nel giorno in cui Sherlock
aveva ucciso la sua. Non poteva seguire una persona a caso, in quel giorno, e
sperare che vivesse da sola, o che non avesse un incontro urgente con qualcuno
che non avrebbero incontrato. Diversamente da Sherlock, lui non le rapiva, non
era ritualizzato, al contrario uccideva le sue vittime nel luogo in cui si
trovavano in quel momento.
Forse
non aveva abbastanza forza per farlo. O forse la scoperta dei corpi, i quali lo
collegavano a Sherlock, era considerata più importante del modo in cui gli
omicidi erano portati a termine.
Ma
come riusciva a trovare le vittime in casa da sole? Come riusciva a vederle?
Sherlock
lo saprebbe, pensò John, stringendo forte i pugni come se si stesse preparando
a una rissa. Forse l’avrebbe capito quando avesse visto i rapporti dei casi, e
ora avrebbe solo voluto vedere cosa sarebbe accaduto se se ne fosse rimasto
zitto. E mancava un solo giorno prima che l’emulatore colpisse di nuovo.
Alla
fin fine, non è che avesse davvero scelta.
***
La
mattina successiva era fredda e invernale, e Greg spese qualche minuto seduto
fuori, su una panchina della stazione con un silenzioso John Watson e una tazza
di caffè istantaneo zuccherato con una goccia di whiskey. Il treno di John per
il Berkshire era in ritardo.
Greg
continuava a lanciare occhiate a John, non poteva farne a meno, l’uomo sembrava
una statua se si ignorava il vento che gli agitava i capelli. Ti ci ho fatto entrare io, in tutto questo, era
tutto ciò che Greg riusciva a pensare e il pensiero gli stava consumando la
mente come un veleno. “Come ti senti?” chiese, per la terza volta da quando era
passato a prendere John, nonostante lui non lo avesse chiamato.
“Sto
bene,” disse con un sorriso stirato, le sue parole fuoriuscivano in nuvole
sottili. Si strinse meglio il cappotto attorno al corpo e alzò gli occhi al
cielo. “Starò bene. So cosa mi aspetta questa volta.”
“Te
ne puoi semplicemente andare, ricordalo,” disse Greg. “Se si spinge troppo
oltre. Lui ti vuole lì. Sei tu quello che ha il potere.”
John
annuì in tacito consenso e sorseggiò il suo caffè caldo. “Lo so,” mormorò. “Ma
non è quello che sembra.”
La
memoria della confusione in cui John era precipitato dopo l’ultima volta che aveva visto Sherlock
balenò nella mente di Greg, e gli angoli della sua bocca si tirarono
rabbiosamente. Si guardò attorno alla ricerca della bancarella dei biglietti.
“Forse dovrei venire con te.”
“No,”
disse John immediatamente. “Mi servi alla stazione al mio ritorno. Se avrò
delle informazioni, avrò bisogno di te per iniziare a lavorarci il prima
possibile.”
Con
la coda dell’occhio Greg scorse un bagliore e si girò per vedere l’arrivo
ritardato del treno. Le persone iniziarono ad alzarsi, radunando le borse e
sospirando in direzione dei loro orologi. Qualcosa nell’espressione di John si
era indurita; finì il caffè, gettando la tazza nel cestino di fianco mentre il
treno si trascinava con uno stridio d’acciaio.
Greg
percorse con lui quei pochi metri, sentendosi protettivo per ragioni che non
voleva analizzare. John si voltò a guardarlo quando fu salito a bordo, una
piccola mano guantata afferrata alla maniglia della porta. Sembrava un po’
perplesso, ma aspettò che fosse Greg a parlare.
Dobbiamo
mantenere un atteggiamento professionale, Greg ricordò a se stesso. “Ricorda,”
disse seriamente, “il collegamento di questo caso con Sherlock è ancora segreto
finché non decideremo il contrario. Non dirlo a nessuno.” Concluse, ricordandosi
i verbali. “Specialmente al dottore capo, non mi piace.”
“Me
ne ricorderò,” disse John e le porte si chiusero. Attraverso il finestrino,
Greg lo vide spostarsi alla ricerca di un posto, camminando con cautela sul
treno oscillante. Aspettò sul binario finché il treno non scomparve alla sua
vista.
***
Il
dottor Culverton Smith fu molto meno amichevole dell’ultima volta in cui John
Watson era apparso alla sua porta. John fu lasciato fuori dall’ufficio del
dottore, ad aspettare, ascoltando alcune telefonate rabbiose a mala pena
attutite dal muro. Apparentemente la sua presenza stava interferendo con una
delle punizioni di Sherlock. Si udì un’invettiva particolarmente rumorosa che fece sollevare un sopracciglio a
John, e un inserviente che spingeva un carrello con ruote attraverso i corridoi
catturò la sua attenzione. I due si scambiarono un sorrisetto.
“Non
mi piace,” disse più tardi Culverton, un’affermazione che ormai era più che
ridondante considerata la sua espressione, come un capitano la cui ciurma si è
appena ammutinata. “Questo è il mio ospedale e diventa spaventosamente
difficile dirigerlo se sono schiacciato dalla
burocrazia!”
“Mi
occorrono solo alcuni dettagli in più su questo caso, dottore,” disse John
rigidamente. C’era una pila di giornali sulla scrivania di Culverton che attirò
il suo sguardo.
“Perché
così tanta fretta?”
“Nessuna
fretta,” gli assicurò John. “È solo che abbiamo così tanto tempo libero da
riempire con questo genere di cose. Programmi, capisce.” Sorrise, ma si bloccò
quando notò la foto in prima pagina del giornale in cima. Culverton seguì il
suo sguardo, un sogghigno a stento nascosto, ma John capì che fremeva in attesa
di ricevere domande in proposito, quindi tenne la bocca chiusa.
Anche
se Culverton non aveva l’autorità per negare a John il permesso di entrare,
questa volta fu molto meno cortese, delegando a qualcun altro il compito di
scortarlo e borbottando qualcosa a proposito dei suoi diritti. Attraverso occhi
furiosi stretti a fessure guardò la piccola figura di John scomparire nel
corridoio, poi tornò a sedersi, pensieroso. La sua penna dorata appoggiata
contro il labbro inferiore arricciato.
La
psichiatria cannibale sembrava un premio quando era arrivato per la prima
volta: Culverton credeva di aver trovato il biglietto per uno stile di vita tra
gli autori famosi.
Ma
Sherlock non era testabile e non parlava mai con nessuno.
Oh,
ma aveva visitatori, il numero schizzava ogni qual volta un omicidio finiva tra
le notizie e dei professori di psicologia volevano sfruttare quel momento per
farsi un nome – ma venivano lasciati tutti a mani vuote e frustrati da
quell’uomo pallido che giaceva in silenzio sulla sua branda e apriva bocca solo
per dispensare insulti taglienti. Lo dicevano con occhiate saccenti – avere a
che fare con Sherlock faceva sicuramente venire voglia di gridare per la
frustrazione a Culverton.
E
poi c’era John. Culverton si infilò con cautela la penna in tasca e sollevò il
giornale più recente. John era impallidito quando lo aveva visto lì appoggiato
sulla scrivania, quel giovane affettato e vivo per miracolo, ma poi si era
ripreso e aveva scandagliato Culverton con un’occhiata che poteva essere
descritta solo come disprezzo. Ciò aveva portato Culverton a odiare John
immensamente;
detestava
essere interrotto durante i suoi tentativi di fiaccare l’animo.
Dopo
cinque anni di sdegnoso silenzio da parte di Sherlock, arriva John Watson, e
tutt’un tratto sente parlare di come quell’uomo riesce ad avere Sherlock alla
sua mercé. Si era aspettato un John sudato e terrorizzato ricomparire dopo
dieci minuti, ma no, Sherlock lo aveva trattenuto là sotto per più di un’ora
con una discussione impegnata. Era apparso soddisfatto quanto un gatto ben
nutrito per il resto del giorno.
La
stampa non sapeva nulla delle visite di John alla casa di cura e, Culverton
aveva controllato, non era più un vero detective. C’era sicuramente qualcosa di
sospetto sotto, e non avrebbe fatto più alcun tentativo per risultare
accomodante con tutti coloro che trattavano il suo ospedale come un caffè dove
incontrarsi e salutarsi.
Quindi
alzò il telefono per fare una soffiata anonima alla stampa.
***
Quando
John arrivò alla cella di Sherlock, notò subito cos’era cambiato.
Sherlock
era seduto al suo tavolo ora vuoto, la sua elegante figura completamente
immobile, le mani giunte come in preghiera sotto il suo mento. Come parte della
sua pena per dei crimini non menzionati, la cella di Sherlock era stata privata
di ogni cosa remotamente stimolante per il suo cervello. Il suo letto era un
piccolo quadrato, senza cuscini. I suoi libri e i suoi giornali erano spariti,
persino le mensole erano state tolte dai muri, esponendo i supporti di metallo
come una ferita. Tutto ciò che aveva erano il suo letto, una sedia, un tavolo e
la toilette. Apparentemente, aveva fatto qualcosa di abbastanza grave.
“John,”
disse col suo basso brontolio, senza muoversi. “Ho saputo che tu e Lestrade
avete trascorso molto più tempo insieme, di recente.”
I
suoi tristi occhi si posarono su John e le sue narici si dilatarono
temporaneamente mentre inspirava.
John
decise di ignorarlo e si sedette, avvertendo un brivido di trepidazione lungo
la spina dorsale mentre osservava la cella spoglia, la tensione che faceva
contrarre la mascella di Sherlock come il conto alla rovescia di una bomba.
Appese la giacca allo schienale della sedia, gli occhi spalancati in
confusione. “Cos’è successo?” domandò, realizzando solo allora in cosa
consistesse la “punizione” di cui Culveron aveva parlato.
Sherlock
non rispose per lungo tempo, poi le sue labbra di allungarono improvvisamente
in un ghigno. “Quel dottore privo di senso ed io abbiamo avuto una discussione.
Questo è il mio compenso. Non che non me lo aspettassi – a quanto pare sono
mentalmente malato, non ho i diritti che hanno gli assassini sani.”
“Forse
potrei parlargli,” iniziò John, ma Sherlock reagì sbattendo con violenza le
mani sul tavolo, quasi ringhiando. John si ritrasse.
“Forse. Forse forse forse. Che parola
inutile. Sei solo una delusione dopo l’altra, vero?” Si alzò, la sedia si
schiantò sul pavimento dietro di lui, e fu in piedi contro il vetro con i suoi
furiosi, freddi occhi così in fretta che per poco John non cadde all’indietro.
“Allora, hai passato un giorno sul caso e hai già rinunciato? Non mi meraviglia
che la tua vita sia un tale casino.”
John
ricambiò lo sguardo con freddezza, ma la sua bocca era del tutto asciutta. “Non
parlarmi così,” rispose, ma Sherlock stava già ridendo prima che avesse finito.
“Posso
parlarti come voglio,” disse bruscamente. “E tu accetterai le mie parole, vero?
È una singolare virtù, John, sei una vittima di prima classe.”
John
resse quell’occhiata folle il più possibile, poi si alzò, prendendo la giacca
con gli occhi bassi.
Lo
sguardo di Sherlock si fece più tagliente. “Dove stai andando?” grugnì,
indignato, le mani premute contro il vetro.
“A
casa,” disse John semplicemente, con tutta l’autorità che riuscì a radunare.
“Sono venuto per ricevere aiuto, non perché qualcuno mi urlasse contro.”
“Non
puoi andartene e basta!” esclamò Sherlock.
“Sì
che posso,” rispose John, un’espressione dura sul volto. Fece qualche passo.
Alle
sue spalle poté percepire Sherlock ribollire di rabbia “Capisco,” mormorò a
bassa voce. “Un gioco di potere. Che bassezza da parte tua, John, manipolarmi
in quel modo.”
John
si bloccò e si voltò, incontrando quello sguardo feroce. “Non far finta di
essere estraneo alla manipolazione.”
Sherlock
lo ignorò, le mani scivolarono lungo il vetro con uno stridio di pelle premuta.
Appariva spettrale sotto la forte luce, i suoi vestiti candidi e la pelle erano
quasi abbaglianti. “Credi di avere in mano le redini del nostro piccolo accordo
solo perché mi fa piacere vederti?” chiese, il suo sorriso era quasi pietoso.
Assunse un atteggiamento sdegnoso in un secondo, come se qualcuno avesse acceso
un interruttore. “Ti dimentichi che, anche se mi godo il fatto di averti
attorno, non mi faccio problemi a sbarazzarmi di te per un’esigenza personale.”
La
cicatrice di John prudeva sotto la camicia, sgradevole pizzicore di nervi
recisi e sudore.
Un
coltello attraverso la morbida carne.
“Non
l’ho dimenticato,” disse a bassa voce.
“Allora
smetti di dire idiozie e siediti.” Sherlock si fece indietro, gesticolando
verso la sedia come se stesse invitando un ospite di mettersi a proprio agio.
“Perché darsi tanta pena per fingere di andarsene? La vita è piena di menzogne
così com’è senza doverne aggiungere altre alla messinscena.”
“Non
è una menzogna,” disse John fermamente. La mano richiusa a pugno sopra alla
giacca. “Posso andarmene quando voglio.”
Sherlock
emise una risata quasi muta, ruotando gli occhi all’indietro. “No, non puoi.
Non se vuoi salvare la prossima vittima.”
John
si irrigidì.
“E
tu lo vuoi, vero?” continuò Sherlock candidamente. “Vuoi salvare tutti. È ciò
che ti fa andare avanti, è ciò che ti ha fatto tornare nelle forze di polizia
dopo tutto quel tempo –” la sua mano colpì il vetro mentre parlava “ – anche se
ti risucchiano la vita da fin dentro le ossa. Permetti a quelle persone di
usarti e valuti la vita di questi estranei più della tua. Non sono un
disilluso. So che c’è una sola ragione per cui sei qui, a parlare con me.”
John
realizzò che stava respirando come se avesse corso. Si inumidì le labbra, senza
ancora muoversi verso Sherlock. “Non ho messo in pericolo la mia vita venendo
qui.”
Il
sorriso di Sherlock si allargò. “È così?”
John
deglutì, spostò il peso su un piede. Si sentiva alla deriva.
“Fai
ciò che ho detto e siediti,” ordinò Sherlock, il sorriso scomparve dal suo
volto mentre si raddrizzava, rendendosi più alto. “Perché devi affrontare la
realtà. Sono io quello che ha il controllo. Sono io la ragione per cui sei
ritornato su questo caso. Sono io che decido cosa verrà dopo, perché se non mi
dai ciò che voglio, non ti rivelerò nulla.”
“Assumendo
che tu abbia qualcosa da dire,” replicò John bruscamente, così teso da sentire
dolore.
La
mandibola di Sherlock si contrasse, come se volesse mordere. “Siediti,” disse,
come se si trattasse di un suggerimento e non di un’istruzione.
John
voleva ribattere, voleva una valida ritorsione a tutto il veleno di Sherlock.
Invece tornò alla sedia, sentendo lo sguardo di Sherlock su di lui come corde
che lo trascinavano inesorabilmente più vicino. Poteva andarsene, scappare
prima di essere tirato ancora di più dentro a tutto questo, ma la codardia di
John sarebbe stata la ragione per cui un’altra ragazza avrebbe finito col
morire.
E
non poteva lasciare che ciò accadesse.
Sherlock
sembrava trionfante. “Bene,” disse in un sospiro. “Grazie, John.” Le sue mani
ricaddero dal vetro, ma rimase ancora inquietantemente vicino, gli occhi
pallidi che scorrevano sopra di lui come se stesse cercando di memorizzarne
ogni dettaglio.
“Okay,”
disse John, inclinando la testa. “Come ci riesce? Come le trova?”
“Non
così veloce,” disse Sherlock, con una breve contrazione delle labbra. “Non te
lo dirò in cambio di niente.”
“Sono
qui, no?”
Lo
sguardo di Sherlock si spostò di lato, le palpebre abbassate. “Per quanto
piacevole sia avere la tua forzata compagnia, John, la tua presenza, per quanto
gradevole, non vale ciò che so.”
John
lo osservò. “Cosa vuoi?”
Invece
di rispondere, Sherlock emise un lungo sospiro e si girò, calciando verso
l’alto la sedia ed afferrandola, sbattendola a terra di fianco al vetro.
Ricadde su di essa e unì insieme i polpastrelli, fissando John con il suo
sguardo di ghiaccio. Fece un cenno con la testa. “Porta la tua sedia più
vicino.”
John
rimase fermo, sentendosi molto simile a una preda.
“John…”
disse Sherlock piano. Un avvertimento.
Stava
testando il proprio potere.
Quando
John trascinò la sua sedia qualche metro più vicino, riuscì a scorgere il
sorriso compiaciuto di Sherlock da dietro le sue dita. “Eri qualcos’altro prima
di diventare un detective,” disse Sherlock, puntando le mani verso John. “Non è
così?”
John
si irrigidì, la mente prese a lavorare nel panico. “Questa non è una deduzione.
L’hai letto, o qualcuno te l’ha detto.”
Sherlock
proruppe in una risata sguaiata e si asciugò la bocca. “Ero sospettoso la prima
volta che ti ho incontrato,” ammise. “Così ho rubato un’occhiata ai tuoi file. È
stata una lettura alquanto interessante.”
Era
sempre stato interessato a John. John aveva interpretato il suo comportamento
come eccentricità, anche se ora lo conosceva meglio, molto meglio. “Non avevi
il diritto di farlo,” disse freddamente. “Quei file erano privati per una
ragione.”
Sherlock
allargò le mani in segno di scusa. “Mi avevi incuriosito. Non sono riuscito a
trattenermi.”
“Non
capisco. Perché hai bisogno che ti dica ciò che sai già?”
“Dimmelo
e basta,” disse Sherlock con semplicità, appoggiandosi allo schienale della
sedia come se si trattasse di un trono.
John
voltò la testa, sospettoso. “Sembra un prezzo bizzarro per la tua conoscenza.”
“Le
storie possono essere così prive di interesse quando sono inchiostro sulla
carta. Preferisco sentirlo dalle tue labbra.” Le sue dita erano di nuovo
premute insieme davanti alla bocca, i suoi occhi fissi in quelli di John.
“E
se lo faccio,” chiese John, “tu mi dirai come opera il killer?”
“Hai
la mia parola, John,” disse Sherlock, gli occhi si strinsero agli angoli in un
mezzo sorriso. “Qualunque cosa ciò significhi per te.”
Logicamente,
John sapeva che non doveva dare valore a una promessa proveniente da un bugiardo
di tale abilità. Al contrario, trovò la promessa di Sherlock stranamente
soddisfacente. “Okay,” disse, leccandosi nervosamente le labbra secche. Era
stato ripetutamente messo in guardia dall’aprirsi con Sherlock. “Prima di
essere un detective, ero un ufficiale delle forze armate.”
Gli
occhi di Sherlock sembrarono brillare a sentire ciò, e guardò le mani di John
appoggiate in grembo come cercando di trovare indizi, nonostante il fatto che
fossero passati molti anni dall’ultima volta in cui John aveva impugnato una
pistola, sparato un colpo. “È stato bello?” chiese, l’eccitazione gli vibrò in
gola.
Le
spalle di John si alzarono. “Molto bello.”
“Ti
è piaciuto?”
“Sì,”
ammise John, serrando leggermente il pugno sinistro. “Suppongo di sì.”
“Cosa
ti è piaciuto di più, dello sparare alla gente?” I suoi occhi luccicavano.
“Non
si trattava di quello,” ribatté John. “Si trattava di salvare vite.”
Sherlock
piegò la testa. “Prendendone altre?”
“Raramente
abbiamo dovuto sparare a qualcuno. Voglio dire… dovevamo mantenerci in
esercizio, poligono di tiro, procedure, eccetera. Non ci sono così tante
pistole a Londra, quindi alle volte ci bastava farci vedere per convincere i
criminali ad arrendersi. Ho sparato con l’intento di uccidere una volta sola.”
Irruzione attraverso la
porta principale, i secondi necessari ad abituarsi al buio, la corrente
tagliata. Appropriarsi della zona e salire le scale, combattendo contro il peso
del giubbotto antiproiettile, lo scricchiolio del legno sotto ai piedi. L’urlo
violento di un uomo.
Il grido di una ragazza
che si spegne all’improvviso.
John
rabbrividì a quel ricordo; il buio ambiente dell’ospedale lo stava facilmente
riportando al passato.
Lo
sguardo di Sherlock era senza pietà. “E il tuo intento è diventato realtà?”
Sangue schizzato sul
legno vecchio, penetrando nelle fessure come se stesse cercando di espandersi
il più possibile, cercando di fuggire.
“Sì.”
Sherlock
rimase in silenzio, osservandolo, affascinato. Le mani di John stavano tremando.
Lo notò solo quando ne fece scorrere una tra i capelli e questa tremò sopra al
suo orecchio.
“Il
killer usa un virus per trovare le sue vittime ideali,” disse Sherlock nel
mezzo del silenzio. “Sospetto che il programma si auto-elimini, ma se i tuoi
della scientifica informatica hanno abbastanza talento e tenacia, potrebbero
trovarne le tracce in entrambi i computer.”
John
fu trascinato nuovamente al presente e fissò Sherlock scioccato. “Un virus?
Come?”
Sherlock
si piegò in avanti. “Amavi il tuo lavoro.”
John
avvertì un’ondata di nausea.. “Non cambiare argomento!”
“Era
eccitante,” continuò Sherlock, ignorandolo. “Una scossa di adrenalina, facevi
del bene al mondo. E nonostante questo l’hai lasciato. Perché?”
“Forse
mi ero stancato,” ribatté John.
“Ma
non è così,” disse Sherlock, con un sorriso furbo. “Non mentirmi, John. Me ne
accorgo.”
John
lo guardò impotente, poi scosse la testa. “Volevo soltanto cambiare.”
Sherlock
respinse quella risposta. “Qualcosa ti sta dando la caccia,” disse, quasi
dolcemente. “Lo vedo nei tuoi occhi, in ogni respiro tremante che trai quando
pensi al tuo passato. Qualcosa ti ha spezzato, non è vero? Quel cambiamento di
carriera è stata, più che una decisione presa per capriccio, una necessità.”
John
si sentiva completamente spiazzato. “Perché vuoi che te lo dica?”
“Mi
diverte,” disse Sherlock. “Potrei chiederti così tanto, ma tutto ciò che voglio
da te è questo, John. Poi ti dirò quello che vuoi sapere.”
John
non ne parlava da anni e trovò difficile raggruppare gli eventi nella sua mente
tra le vecchie paure che ora stavano strisciando di nuovo in lui,
costringendolo sull’orlo del baratro. Sherlock rappresentava ora un punto di
stabilità, seduto nella sua cella con lo sguardo fisso, le gambe elegantemente
accavallate come se fosse tornato ad essere uno psichiatra nella propria casa.
Potrebbe sembrarlo, pensò John, se non fosse stato per qual bagliore feroce
dietro gli occhi di Sherlock non appena John aveva mostrato segni di
turbamento.
“Era
un giro di pedofilia,” disse infine John, dovendo masticare quelle odiate
parole. “Il caso andava avanti da mesi, forse anni, ma alla fine il sistema
aveva iniziato a incrinarsi. Avevano rintracciato uno dei principali implicati,
ma egli non si rivelò… collaborativo.”
Sherlock
piegò la testa, ma rimase in silenzio.
John
trasse un respiro profondo. “Non avrebbe parlato con la polizia. Quando
ottennero il mandato ed entrarono in casa con la forza, lui sparò. Avevano giubbotti
antiproiettile, ma una di loro fu colpito all’avambraccio.” John sfregò un
pollice sopra al proprio braccio, consapevole dello sguardo di Sherlock che
baluginava su di lui. “Le ha frantumato l’osso.”
“Ah,
ricordo questo caso,” disse Sherlock, le labbra lievemente increspate.
“Sì,
beh, è difficile per tutti dimenticare,” mormorò John. “Siamo stati mandati là
non appena la stazione seppe della sparatoria.” Sollevò nuovamente la testa, la
bocca serrata. “C’era un ostaggio.”
I
pallidi lineamenti di Sherlock erano già rigidi nell’attesa, le labbra
leggermente aperte. Fece cenno a John di continuare.
“C’era
solo un uomo, all’interno, e gridava qualcosa su come non saremmo riusciti a
prenderlo, su come potesse fare qualunque cosa, perché niente di ciò che
avrebbe fatto avrebbe potuto peggiorare ulteriormente la sua situazione.
Agitava la pistola, urlando minacce a pieni polmoni. Lui… lui aveva una ragazza
tra le braccia.” John ammiccò velocemente. “Sua figlia.”
Sembrava così piccola
nelle sua braccia, il suo viso bagnato di lacrime divenute perfettamente
visibili dopo che la luce delle torce le ebbe illuminato gli occhi. Piangeva
silenziosamente, fissando John come se lui potesse fare qualcosa. John ansimava
nella sua pesante armatura, tremando, incredulo di fronte a quella scena, il ruggito
furioso di un uomo con la pistola premuta contro la testa di sua figlia.
“Posso ucciderla prima
che voi uccidiate me!”
“Non
sapevo cosa fare,” disse John, passandosi le mani tra i capelli come un tic
nervoso. “Non avevo in programma di sparargli, ma nessuno di noi si aspettava
la presenza della ragazza. La reggeva davanti a sé, come uno scudo, e la
pistola era premuta così fortemente contro il suo cranio da lasciarle un segno
rosso sulla pelle.” Si massaggiò la tempia con un dito. “Non avrei dovuto
sparagli.”
“Ma
l’hai fatto.”
John
si accasciò sulla sedia per alcuni secondi, la testa tra le mani mentre un’ondata
di nausea e rimpianto lo trascinavano giù. Non riusciva a smettere di tremare. “Credeva
di essere al sicuro con sua figlia come scudo,” disse rivolto al pavimento sotto
i suoi piedi. “Ma… ho creduto di poter sparare. Lei stava piangendo, e io… le
ho detto…”
“Andrà tutto bene,”
aveva promesso John, tentando un sorriso che lei non avrebbe potuto scorgere da
dietro la visiera.
“L’uomo
perse la testa, sentendomi. Non so cosa fosse, forse il modo in cui si mosse,
ma io sapevo che le avrebbe sparato. Ho reagito, soltanto…”
John
si strinse la testa, gli occhi serrati. “Era troppo tardi. Lei era… era morta.”
Sangue schizzato sul
legno vecchio.
Sherlock
si era proteso in avanti, adesso, i gomiti sulle gambe, completamente rapito.
John si raddrizzò, gli occhi pizzicavano. Sentiva la faccia calda e resistette
all’impellenza di asciugarsi i palmi sudati sui jeans mentre Sherlock se ne
stava lì con occhi attenti, crogiolandosi nella sua reazione emotiva.
“È
stata colpa mia,” disse John intontito. Unì le mani in grembo. “Avrei dovuto
portarlo fuori appena sono entrato e ho visto che c’era una bambina. Ma non l’ho
fatto, perché ho avuto paura di qualche… ordine che ci imponeva di portarlo via
vivo. Come potevo metterlo davanti alla vita di qualcuno?”
“Ti
sei trasferito,” disse Sherlock con voce roca.
John
annuì. Non riusciva a parlare.
“Sei
diventato ispettore in fretta.” Sherlock continuava a incoraggiarlo. “Si è
trattato di
uno
sforzo consapevole?”
John
scrollò le spalle, si schiarì la voce. “Se avessi lavorato abbastanza duramente
non avrei dovuto ripensare a ciò che era accaduto.”
“Ma
quando non lavori.” La sua voce lo sondava con cautela. “Quando ci sei solo tu,
solo e stanco. Pensi a lei, in quel momento?”
John
sollevò la testa per incontrare quegli occhi pallidi, i suoi stavano
probabilmente luccicando, ma non gli importava. “Tutto il tempo.”
Sentì
una lacrima minacciare di riversarsi lungo la sua guancia e si sfregò velocemente
gli occhi, tirando su col naso. Si sentiva quasi violato, Sherlock lo guardò in
silenzio per un po’. Improvvisamente, John udì la sedia grattare contro il
pavimento quando Sherlock si mosse, e alzò lo sguardo per vederlo afferrare una
scatola di fazzoletti dal suo letto e lasciarla cadere dentro la scatola
scorrevole.
“Non
intendo prendermi nient’altro da te,” disse, agitato, la voce proveniva da un
punto profondo nella sua gola.
“Sono
solo fazzoletti, John,” disse Sherlock con gentilezza, sedendosi nuovamente e
chiudendo gli occhi con le dita premute sotto al mento. Non guardò John prenderli
e tamponarsi gli occhi e il viso, come per concedergli un po’ di privacy.
Soltanto
quando John ebbe riacquistato la sua compostezza, lo sguardo onniveggente si
posò nuovamente su di lui.
“Sei
abbastanza a pezzi, vero?” rifletté. “Penso che un solo tocco potrebbe farti
andare in frantumi, se non fosse per il fatto che conosco personalmente la tua
forza.”
John
era troppo esausto per replicare. “Come fa l’emulatore a trovare le sue
vittime?” chiese, spingendo di nuovo i fazzoletti nella cella di Sherlock.
“È
un ragno al centro della sua rete,” disse Sherlock, con un sorriso vagamente
divertito. “Un virus viaggia attraverso internet e si infiltra nei computer
senza che lui li tocchi. Può accendere telecamere, microfoni, e quando trova qualcuno
da solo, vulnerabile, va da lui.” Il sorriso si ampliò. “E poi, fa il suo
lavoro.”
John
annuì. “Quindi… stiamo cercando qualcuno bravo coi computer?”
“Un
programmatore incredibilmente talentuoso,” specificò Sherlock, alzandosi. “Non sarei
sorpreso se fosse così che ha scoperto i dettagli del mio caso. Il database del
servizio di Polizia Metropolitana non è privo di falle nella sua sicurezza.”
Con un sospiro arrogante piegò il collo all’indietro e John udì un leggero
click. Sherlock gli andò più vicino. “Sembri così stanco, John,” mormorò. “Se
tu fossi mio, mi prenderei cura di te.”
John
arretrò con decisione. “Non ho bisogno di essere accudito.”
“Non
hai idea di come appari al resto del mondo, vero? È questa la tragedia,
davvero. Un’anima così resistente in un corpo tanto fragile.”
Sherlock
appoggiò il braccio sopra la testa contro il vetro, allungandosi verso di lui. “Le
persone ti guardano e tutto ciò che vedono è un uomo distrutto, in bilico sull’orlo
dell’autodistruzione.”
John
sbatté le palpebre lentamente, piegando la testa. “E cosa vedi tu?”
Sherlock
sorrise e la sua voce si abbassò. “Io vedo acciaio.”
Per
un istante, fu come se non ci fosse più un vetro tra loro.
“È
stato un piacere rivederti, John,” disse Sherlock piano e questa volta lo
sguardo famelico nei suoi occhi non venne mascherato.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
loss 3
Questa
volta ho avuto un bel daffare con le forme del ‘tu’ e del ‘lei’, che complicano
moltissimo la vita a noi traduttori (o almeno a me). Quindi perdonatemi se vi
capiterà di trovarli fuori luogo, ma c’era poco altro da fare. Per questa
fanfiction ho deciso di far relazionare i personaggi in modo non troppo
formale. E poi la stazione. Stazione di polizia o stazione dei treni? Credo di
essere riuscita a gestire i termini in questo capitolo, ma ora mi rendo conto
che avrei potuto avere frainteso qualcosa in quelli precedenti. Ahimé. E ancora
non ho capito se la ginnasta si arrampica su tubature o stucchi decorativi. Un inglese
l’avrebbe capito, ma per me sono la stessa cosa.
***
Jim
Moriarty ricordava il loro fatale incontro, più di cinque anni prima. Era
impresso nella sua memoria come una ferita.
Gli
avevano raccomandato di fissare un appuntamento di sera, l’ultima visita; in
quel modo il dottor Sherlock Holmes gli avrebbe consesso delle ore extra, se
necessario, e Jim avrebbe potuto finire di sistemare tutto in una notte. Aveva
fermamente sperato che sarebbe stato quello il caso, che il dottor Sherlock
Holmes fosse davvero così bravo come decantavano. Solo nell’eventualità che non
lo fosse, Jim aveva fissato l’appuntamento all’abitazione privata del dottor
Holmes così da poter conoscere l’ambiente in cui l’uomo viveva. Sarebbe stato
meglio se non avesse richiesto una retribuzione, ma nessuno prendeva il denaro
di Jim senza dare qualcosa in cambio. Non senza pentirsi amaramente della
trasgressione.
Le
giornate si erano accorciate, per questo era già buio fuori quando Jim arrivò
per la sessione, i lampioni splendevano debolmente più in alto, tutto attorno a
lui aveva un intenso colore grigio-blu. La notte rimuoveva i colori dal mondo.
Jim dovette strizzare gli occhi mentre controllava dietro di sé, ruotando lo
sterzo della sua BMW in una manovra pulita di parcheggio parallelo. Aveva
guidato fin lì da solo. Non c’era bisogno che qualcuno sapesse di questa sua
particolare debolezza, specialmente se si fosse scoperto che il dottor Holmes
non aveva una cura.
Jim
poté udire il suono smorzato di un violino mentre saliva le scale che portavano
a casa del dottor Holmes, una melodia costante e profonda attutita dalle
finestre da cui fuoriusciva una luce gialla che contornava gli orli delle
tende. La musica si interruppe bruscamente quando Jim suonò il campanello e il
dottor Holmes apparve alla porta un istante più tardi, un’espressione
cortesemente neutrale. Indossava una camicia scura e dei pantaloni da completo
dal taglio stretto, la sua alta, magra figura contornata dalle luci del
corridoio. Jim aveva parlato al dottor Holmes soltanto al telefono. Non si
aspettava qualcuno così… appariscente.
“Buona
sera,” disse Sherlock, le ciglia si abbassarono mentre faceva scorrere i suoi
occhi blu ghiaccio sopra a Jim, catalogandolo. “Lei dev’essere Jim Moriarty.”
“’Sera,”
disse Jim vivacemente, sperando caldamente che quel Sherlock potesse aiutarlo.
Sarebbe stato un tale spreco uccidere qualcuno di così grazioso.
Sherlock
indietreggiò per fare spazio a Jim nell’atrio, l’espressione neutra non aveva
lasciato il suo volto. Una persona normale non l’avrebbe notato, ma Jim si
accorse che si stava sforzando a mantenere quello sguardo.
Sospettava
che la naturale espressione di Sherlock fosse più acuta e meno educata.
“Prego,”
disse Sherlock graziosamente. “È un po’ in anticipo.”
Jim
lo sapeva. “Oh, mi dispiace,” si scusò con un ghigno, passando di lato a
Sherlock ed entrando nel corridoio, pulendosi i piedi sullo zerbino.
“L’orologio della mia auto dev’essere rotto.”
Gli
occhi di Sherlock si strinsero leggermente. “È tutto a posto,” disse, stirando
lievemente gli angoli della bocca. “Ho preparato tutto.”
Era
uno psichiatra inusuale, rifletté Jim, mentre seguiva la snella schiena di
Sherlock nel salotto. Non appariva particolarmente confortante, ma Jim non era
alla ricerca di un orecchio comprensivo. Gli occhi di Sherlock erano luminosi e
molto intelligenti, e aveva, attorno a lui, questa tenue aura di onniscienza
che Jim trovava eccitante. Era al di sopra e al di là delle aspettative di Jim.
Era sicuro che quello fosse l’uomo di cui aveva bisogno.
C’era
un violino appoggiato a un piedistallo di fianco a una poltrona grigioverde, la
poltrona di Sherlock. Un po’ più in là si trovava un apparentemente
confortevole divano su cui Jim avrebbe potuto sdraiarsi, molto freudiano.
Sherlock glielo indicò ma Jim rise e scosse la testa.
“Sto
bene su una poltrona normale,” disse.
Sherlock
non si mosse. “Si fidi, quello è meglio.”
Jim
si appollaiò sul bordo, eretto, e sorrise verso Sherlock.
“Si
sdrai,” disse Sherlock paziente, e Jim capì che non sarebbe successo niente
finché non avesse fatto ciò che gli era stato detto. Emise un sospiro irritato
per dimostrare a Sherlock quanto stesse diventando fastidioso e si lasciò
cadere di schiena sul divano. Se quel trattamento, qualunque cosa fosse, non
avesse funzionato, Jim avrebbe fatto del male a Sherlock per tutte quelle
piccole umiliazioni. Non gli piaceva arrendersi a nessuno. Non gli piaceva la
vulnerabilità che derivava dall’essere disteso sulla schiena, incapace di
fuggire facilmente.
Udì
Sherlock sedersi, lo vide incrociare le gambe con la coda dell’occhio. “Lei mi
è stato raccomandato, lo sa?” disse Jim, con un cenno d’intesa. “Ha curato la
claustrofobia di uno dei miei dipendenti in una sessione. Molto
impressionante.”
Sherlock
scosse le spalle. “È stata una lunga sessione.”
Solitamente
Jim riusciva a leggere le persone, ma Sherlock era impenetrabile. “Non ha
voluto dire come ci è riuscito, però.”
Sherlock
si schiarì la voce. “Al telefono ha accennato di avere una preoccupante paura
dei ragni.”
Jim
rise. “Già, sin da quando ero piccolo. Sono cresciuto in una casa che… beh,”
girò la testa per guardare Sherlock. “C’erano un sacco di modi di entrare, per
un ragno.” Sherlock ricambiò lo sguardo impassibile. Non avrebbe dovuto avere
un quaderno per appunti o qualcosa di simile? Agitò una mano e proseguì. “È
arrivata al punto di essere imbarazzante. Ho 33 anni e sono ancora spaventato
dai ragni.”
“Fotografie
di ragni la spaventano?”
“Non
spaventano chiunque?” Jim rise, ma Sherlock non batté ciglio. Si accigliò.
“Beh, sento una certa repulsione, ma
credo che sia normale. Credo che sia il loro modo di muoversi a terrorizzarmi,
più che il loro aspetto. Specialmente quando sono grossi e veloci. Cazzo,
griderei a squarciagola se potessi,” ridacchiò a disagio. Era imbarazzante.
Sherlock
rimase in silenzio per un momento. Jim finse che stesse prendendo appunti su un
quaderno immaginario come succedeva nei film. Poi Sherlock parlò.
“Anch’io ero spaventato dai ragni.”
“Davvero?”
esclamò Jim. Non se lo aspettava. Sherlock sembrava così imperturbabile.
Sherlock
inclinò la testa. “Oh sì,” mormorò e suonò leggermente amareggiato.
“Ma
non lo è più.” Jim si dimenò verso l’alto e si appoggiò ai gomiti. “Ha
razionalizzato la paura?” lo accusò. “Perché io ci ho già provato ma odio
ancora quei piccoli stronzi.”
“Non
c’è nulla di razionale nelle fobie,” disse Sherlock gentilmente. “La paura dei
ragni è comune per una serie di solide ragioni evolutive, e per quanto quelli
in Inghilterra siano innocui avvertiamo ancora le tracce di quella paura quando
ne vediamo uno. Non che siano pericolosi. Lo sappiamo, lo sappiamo. In questo
caso, razionalizzarlo al di fuori di un preconcetto mentale avrebbe solo una
piccola possibilità di funzionare.” Piegò la testa, stringendo insieme le mani.
“Se mi permette, non mi sorprende il fatto che abbia fallito.”
“Come
si è curato?” chiese Jim, interessato.
Sherlock
lo scrutò pensieroso, poi abbasso lo sguardo sulle mani intrecciate. “Non l’ho
fatto,” disse. “Ho avuto bisogno di un aiuto esterno, come lei.”
Era
molto vago, questo dottore. “Può aiutarmi?” domandò Jim, ricacciando indietro
la propria irritazione.
“Oh
sì,” disse Sherlock, con un ghigno che rasentava la furbizia. “Probabilmente
potrei curarla stanotte.” Si chinò leggermente in avanti, il tono serio. “Non
sarà semplice, però, non sarà piacevole. Vuole ancora provare?”
Certo,
pensò Jim, e annuì con forza. Sherlock si alzò in piedi e in incamminò a grandi
passi verso la libreria, allungandosi per estrarre una cartella dalla cima. Jim
poté scorgere un accenno delle sue scapole flessuose muoversi sotto la camicia
scura. Non gli sarebbe dispiaciuto incontrare più spesso questo dottore.
Pagarlo molto, tenerselo attorno…
Sherlock
tirò fuori un foglio di carta dalla cartella. “Ho un contratto da farle
firmare,” disse in tono mellifluo, facendo segno a Jim di alzarsi. “È
abbastanza semplice. Le darò una mano, se le fa piacere.”
Jim
si sedette sul divano, scorrendo il contratto con gli occhi stretti. Gli
saltarono agli occhi vari termini di cui non si curò troppo, ma quello che lo
colpì di più era la richiesta di silenzio.
Paura
che qualcuno gli rubasse i metodi? “È un obbligo di silenzio, questo?” chiese a
Sherlock, il quale stava accordando discretamente il violino mentre Jim
rimuginava su ogni cosa.
“Sì,”
disse semplicemente.
Jim
rise. “Ecco perché Seb non ha potuto parlarmi della sessione,” rise, sollevando
la mano e mimando uno scarabocchio in aria. Sherlock si alzò di nuovo,
offrendogli una penna, e appena Jim ebbe firmato il foglio gli fu tolto di
mano. Jim osservò il dottore controllare tutto con un lieve restringimento dei
suoi pallidi occhi glaciali, quindi il foglio fu messo da parte. Si sedette sul
divano di fianco a Jim, e Jim avvertì il calore del suo corpo vicinissimo
quando Sherlock piegò la testa, i ricci scuri ondeggiarono da parte.
“Questa
sarà una…” Sherlock fece una pausa delicata, “cura un po’ fisica. Non ho messo in chiaro la situazione quando ho detto che
sarebbe stata spiacevole.”
Jim
si strinse nelle spalle.
“Dico
sul serio,” disse Sherlock, guardando intensamente negli occhi di Jim. Jim
rise.
“Si
fidi di me,” disse con un ghigno. “Mi sono trovato in mezzo a un sacco di
situazioni spiacevoli, prima d’ora.” Molto più quanto avesse fatto un dottore
di classe medio-alta in una gradevole parte di Londra, ne era certo.
“Sì,”
mormorò Sherlock, abbassando le ciglia, e Jim ebbe la sensazione che lo stesse
soppesando mentalmente. Affascinante. “Riesco a vederlo.” Con sorpresa di Jim,
si alzò e ricadde con le ginocchia sul tappeto, armeggiando sotto al divano per
estrarne delle cinghie spesse, nere, le estremità erano attaccate ai lati del
divano sul quale Jim stava seduto. “Adesso la immobilizzerò,” disse in tono
professionale. “Per cui trovi una posizione confortevole.”
Stava
diventando interessante. “Okay,” disse Jim, divertito, e si stese permettendo a
Sherlock di lavorare su di lui. Le cinghie gli passarono attorno al petto, gli
legarono le braccia ai lati, e le gambe. Vennero allacciate insieme,
spingendolo sul divano e, con una forza sorprendente, Sherlock le tirò così
strette che, quando ebbe finito, Jim non poté fare a meno di dimenarsi.
“Quando
ero un bambino,” disse Sherlock, testando la forza delle cinghie e allontanandosi
con soddisfazione, “mio fratello collezionava ragni.”
“Davvero?”
disse Jim e fece forza contro quelle costrizioni, saggiandole. Non c’era niente
da fare, era bloccato. Notandolo, gli occhi di Sherlock guizzarono su di lui,
poi si raddrizzò e camminò fino all’angolo della stanza, abbastanza lontano
perché Jim dovesse allungare la testa per non perderlo d’occhio.
“Non
sono sicuro del perché lo attirassero così tanto.” Sherlock si piegò dietro un
tavolo da scacchi e riemerse con una scatola avvolta da una larga coperta
bianca che trasportò con cautela. “Era un hobby che è andato dal collezionare
quelli che avevamo in casa allo spendere soldi per le razze più costose
provenienti da tutto il mondo. Forse gli piaceva la loro natura.”
Sherlock
posò gentilmente la scatola sul tavolino da caffè, sollevando la coperta con
una sorta di reverenza.
“Per
lui erano i predatori perfetti, pazienti e scaltri. Non avevano bisogno di
correre o inseguire. Loro aspettavano e
basta.” Sherlock sembrò rabbrividire facendo scorrere un dito sul coperchio
della scatola. “Non aveva paura di tenerli in mano, ma io,” soffocò una risata,
“io ero terrorizzato da loro. Ho cercato di nasconderlo, ma lui lo scoprì in
fretta. Le mie paure lo infastidivano. Mi stavo comportando in modo
irrazionale.”
Sollevò
il coperchio dalla scatola con due mani, posizionandolo da parte. Qualcosa,
nella sua espressione, si era incupito, e vi era un che di intenzionalmente
predatorio nei suoi movimenti che Jim prima non aveva colto. Deglutì a vuoto
quando Sherlock allungò una mano dalle dita lunghe nella scatola, lentamente,
cautamente. Ascoltando attentamente, Jim poté udire un fruscio. Il suono di
qualcosa che grattava.
Il
volume della voce di Sherlock precipitò. “Una notte entrò nella mia stanza,
mentre dormivo.” Inalò l’aria con un respiro profondo, poi si girò
improvvisamente a fissare Jim direttamente negli occhi. “Rovesciò una scatola
di ragni nel mio letto.”
L’immagine
di un giovane ragazzo intrappolato nelle coperte, gridando di paura, sentendo i
ragni strisciargli sulla pelle, colpì la mente di Jim e si ritrovò senza fiato.
Distolse lo sguardo da Sherlock per trovarsi a osservare la scatola con orrore
crescente mentre il fruscio sembrava ingigantire. All’improvviso, una lunga
zampa nera affiorò dalla scatola, allacciandosi attorno al braccio di Sherlock
che si trovava ancora al suo interno. La mente di Jim si dissolse in puro
panico quando un ragno enorme apparve dalla manica di Sherlock, pesante e nero
con gli arti grassi. Le sue zampe dovevano essere lunghe parecchi centimetri.
Sherlock
non degnò di uno sguardo quella creatura orripilante che era aggrappata al suo
gomito, al contrario osservò Jim con calma, con l’espressione con la quale lo
aveva accolto alla porta. “Il miglior trattamento per questa sorta di fobia è
l’esposizione allo stimolo fobico in un ambiente controllato,” disse Sherlock
con voce gentile. “Ha mai sentito parlare di flooding?”
Jim
scosse soltanto la testa, delirante per la paura, con gli occhi spalancati. Non
riuscì a rispondere. Il primo ragno si posizionò sul cuore di Sherlock,
penzolante, e un altro gigantesco ragno si stava arrampicando sul braccio di
Sherlock. La scatola frusciava ancora. Quanti ragni c’erano là dentro?
Sherlock
sorrise quando Jim iniziò a forzare le cinghie e non attese una risposta.
“Il flooding è il più estremo tra i trattamenti di esposizione. Il paziente viene
immerso nel riflesso della paura finché questa non svanisce da sola.” Abbassò
lo sguardo quando un terzo ragno gli raggiunse la spalla, raspando sulla seta
della camicia. “Si realizza che non c’è nulla di cui aver paura.” Sfregò un
dito pallido sul ragno sul suo petto, facendo balzare le sue grasse zampe. “Mio
fratello mi tenne giù e mi coprì di ragni finché non lo trovai più spaventoso.
Ho chiuso il suo amico claustrofobico in una bara e l’ho tenuto lì tutta la
notte. Alcune reazioni fobiche sono così intense che il flooding va fatto
tramite l’immaginazione.” Il suo sguardo ricadde sul corpo sussultante di Jim.
“Ma credo che lei sia forte abbastanza da sopportarlo.”
Aveva
quattro ragni attaccati addosso, il più grande si trovava sul suo collo con le
sue zampe nere affondate tra i ricci, e quando sollevò la scatola e iniziò a
camminare, i balbettii frenetici di Jim si tramutarono in urla supplicanti.
Sherlock
rimase indifferente. “Le suggerirei di tenere la bocca chiusa, per ovvie
ragioni,” disse brevemente. “E cerchi di non agitarsi troppo. Potrebbero
mordere.”
Poi
svuotò la scatola sul corpo di Jim.
***
John
non inciampò fuori dall’ospedale. Si fece forza e marciò con andatura veloce,
guardando avanti, tutta la tensione del suo corpo era pesantemente raccolta nei
suoi pugni chiusi. Solo una volta che fu fuori, nell’aria mattutina, rilassò la
postura. Quando fu fuori da ogni raggio visivo, quasi collassò appoggiandosi a
un ruvido muro di mattoni, le ginocchia deboli, e si premette il pugno stretto
contro la bocca per soffocare quello che minacciava di essere un singhiozzo. Se
si fosse incamminato all’interno del parco, il taxi, che lui stesso aveva
chiamato, che stava ora compiendo lenti giri, l’avrebbe visto e l’avrebbe
portato alla stazione, ma John non era ancora pronto per questo. Aveva bisogno
di un momento in privato, aveva bisogno di elaborare quanto rapidamente ogni
cosa stava sfuggendo al suo controllo.
Gli
occhi freddi di Sherlock indugiavano nella parte anteriore della sua mente, uno
sguardo che aveva scavato così in profondità che John sapeva che avrebbe ricordato
quella particolare gradazione di blu ghiaccio per tutto il resto della sua
vita.
Erano
anni che non parlava di Rachael, a nessuno. Coloro che erano a conoscenza di
ciò che era accaduto non gli facevano domande in proposito, così John aveva
potuto relegare con successo quelle memorie in qualche angolo oscuro del suo
cervello e andare avanti come se la cosa fosse soltanto un vivido incubo del
quale non doveva curarsi troppo. Era una confortante, anche se malsanamente
evitata, illusione.
E
poi Sherlock Holmes aveva –
John
si strinse il ponte del naso tra le dita e bevve l’aria fredda del mattino. I
polmoni gli dolevano. Aveva bisogno di una sciarpa, o una giacca più pesante.
Il cemento ondeggiava sotto i suoi piedi, ghiaia e sporco.
Una
vibrazione contro il suo petto lo spaventò; era solo il suo telefono. Ronzava
rumorosamente nella sua tasca e armeggiò per raggiungerlo con le mani
intirizzite. “Pronto?”
“John,”
la voce familiare di Greg risuonò nel suo orecchio, sembrava scosso. “È da un
po’ che ti chiamo. Abbiamo bisogno di te a Londra immediatamente.”
John
respirò pesantemente contro il muro per qualche momento con gli occhi serrati.
Sollevò la testa. “Scusa, non c’era campo. La cella di Sherlock è sottoterra,”
spiegò, scusandosi, prorompendo in una camminata svelta verso il taxi. La sua
voce uscì leggermente fievole, ma Greg sembrò non notarlo. “Cos’è successo?”
“Abbiamo
trovato quattro corpi nel Tamigi, questa mattina,” disse Greg rapidamente. John
sentiva il vento sibilare come una scarica elettrica attraverso l’altoparlante,
ed ebbe l’immagine di un Greg infreddolito in piedi vicino all’acqua grigia del
fiume leggermente scostato dagli altri, il cappotto che sbatteva attorno alle
gambe. “Sono stati legati a qualche conduttura e uno di loro è venuto in superficie.
Abbiamo delimitato la scena e li porteremo su presto.”
John
fece un cenno al tassista e saltò sul sedile posteriore. “Stazione, per
favore,” richiese, poi tornò a parlare al telefono, incapace di nascondere la
confusione. “Sono ritornato soltanto su questo caso, Greg. Perché hai bisogno
di me per questo?”
“È
lo stesso assassino, John,” disse Greg e deglutì rumorosamente. “Sono tutte
donne e hanno…” il suo tono di voce precipitò, cauto, “…parti del corpo
mancanti.”
John
si appoggiò al sedile con un sibilo di pelle schiacciata. La sua gola si serrò.
“Quindi non sono più solo due vittime.”
“Non
lo so, ma così sembra,” ammise Greg. “Toby si è praticamente ammutolito. Sta
ritornando sopra a tutto.”
Cinque
corpi, non due. Quante persone aveva ucciso Sherlock? Erano riusciti ad
attribuirgliene nove, anche se John aveva sempre creduto che dovevano esserci
delle vittime di prova nascoste da qualche parte, o alcune che semplicemente
non erano stati abbastanza bravi da trovare. “Dobbiamo dirlo alla gente. Indici
una conferenza stampa o qualcosa del genere. Non possiamo nascondere la
connessione a nessuno, ormai. Le persone devono sapere così da potersi
difendere.”
Greg
sbuffò nel telefono. “Già, stavo pensando la stessa cosa. Ne parleremo con
Toby. Mandami un messaggio quando il tuo treno arriva a Londra e farò venire
degli agenti a prenderti.”
“Bene,”
disse John, annuendo anche se Greg non poteva vederlo. “Okay.”
Ci
fu una pausa, poi John credette che Greg stesse per riagganciare. “Stai bene?”
chiese invece. “Tutto… bene?”
John
chiuse gli occhi e una brusca sterzata del taxi dietro a una curva nascose un
suo brivido. “Sto bene.”
“Bene.”
Greg fece un’altra pausa.
“Inoltre,
ho trovato qualcosa su cui devo metterti al corrente subito.” John abbassò la
voce. “Riguarda i computer…”
***
Dopo
tanto tempo trascorso in acqua, i corpi non sembrano più umani.
Greg
stava in piedi con gli altri agenti come se si trovasse a un funerale, le mani
raccolte davanti a sé e la testa lievemente piegata. Accanto a lui, il
detective ispettore capo Toby Gregson stava abbaiando ordini alle povere
anime che dovevano portare i corpi viola
e gonfi fuori dall’acqua, ad alta voce come se fosse arrabbiato. Non era
davvero arrabbiato, Greg aveva lavorato con il detective ispettore capo
abbastanza per sapere che stava mascherando la sua paura con la spavalderia.
Questi tre corpi avevano alzato il ritmo. Adesso la polizia si trovava con
cinque omicidi inspiegabili, un sesto in programma, e nessun sospettato, con
una connessione a un caso con qui la stampa, in passato, li aveva eviscerati.
Il
sole candido balenava occasionalmente dalle nuvole nel cielo del mattino,
troppo luminoso, come una torcia che colpisce gli occhi. I cordoni della
polizia sbatacchiavano incerti al vento, e i teli che coprivano i corpi alla
vista dei passanti si increspavano come vele. Vi era una sorta di terribile
umiliazione nei corpi trovati all’esterno. Greg le aveva viste tutte; cadaveri
ricoperti di fango nei fossati, corpi decomposti nascosti nel legno, e quelli
sepolti in bare sottacqua, come quelli che stava vedendo proprio ora nella
forma di tre donne in vari stadi di decomposizione, i capelli che iniziavano a
cadere e la pelle fradicia che si staccava come pasta sfoglia in eccesso. Era
stato un puro caso che il loro luogo finale di sepoltura non fosse stato il
fondo del Tamigi, nel fango, tra la spazzatura che non galleggiava.
Sentì
la rabbia risalire lungo la gola e la scacciò con difficoltà. Dall’altro lato
della strada, vide John fare la sua apparizione al centro della scena, passando
sotto a un cordone e guardandosi attorno. Il suo sguardo atterrò su Greg, e si
avviò verso di lui, strizzando gli occhi contro il vento. Sembrava più vigoroso
del solito.
“Cosa
ne deduci?” domandò Greg quietamente quando John fu vicino a lui. Eccetto il
detective ispettore capo, avevano tutti preso a parlare a bassa voce.
John
fletté le dita e lanciò un’occhiata all’intera scena che si era lasciato alle
spalle. Sembrava che stesse facendo dei calcoli a mente. “A giudicare dal loro
stato, credo che siano state uccise prima di quelle che abbiamo trovato negli
appartamenti.”
Greg
annuì. “Sarà fatta loro un’autopsia il prima possibile, ma sì, questo è ciò che
mi è stato detto, finora.”
“Quindi
ha ucciso queste tre, poi ha deciso di cambiare il suo metodo.”
Greg
sbatté le palpebre lentamente. “Giusto,” disse.
“Sherlock
ha detto,” John si interruppe bruscamente e strinse le labbra, la fronte
aggrottata. “Voglio dire, la prima volta che sono andato a trovarlo, ha detto
che il messaggio era la parte importante.”
“Non
erano importanti le vittime, ma i loro corpi,” disse Greg, annuendo in fretta.
“Credo
che abbia modificato il suo metodo per essere sicuro che le vittime fossero
ritrovate.”
Era
deplorevole, ma raramente le persone scomparse facevano notizia, e la polizia
aveva poche possibilità di ritrovarle quando c’erano crimini più eclatanti da
qualche altra parte. L’omicida non aveva motivo di continuare se nessuno gli
prestava attenzione. Ai serial killer piaceva fare notizia.
Accanto
a lui, John infilò le mani in tasca e guardò in direzione del luogo dove i
corpi erano stati caricati. L’acqua doveva aver distrutto la maggior parte
delle prove, ma erano stati comunque portati all’obitorio dove qualche
sfortunato patologo avrebbe documentato ogni cosa. Con un po’ di fortuna le
donne sarebbero state identificate. “Dobbiamo parlare con Gregson a proposito
della conferenza stampa,” disse piano, ma fu interrotto dalla suoneria stridula
del telefono di Greg.
Greg
gli mise mano con sguardo di scusa e rispose. “Ispettore Lestrade.” La sua
espressione era fissa e arcigna, ma quando la voce dall’altra parte del
telefono parlò i suoi occhi si illuminarono e scandagliarono i paraggi per poi
fermarsi su John. Premette una mano sull’altoparlante e disse a John in un
frenetico sussurro ‘hanno trovato il
virus!’
***
“Una
conferenza stampa.” Toby Gregson si appoggiò al comodo schienale della sua
sedia d’ufficio producendo un cigolio, scrutando John. L’espressione di Greg
era quella di un castigato, ma di fianco a lui John proseguì imperturbabile.
“Se
la tua teoria del killer che segue le date del caso di Holmes è corretta,
allora dobbiamo aspettarci un omicidio per domani,” disse, incontrando lo
sguardo d’acciaio di Toby, suggerendo che avrebbe retto quell’occhiata finché
non avesse ottenuto ciò che voleva. Toby si ricordò di un giovane John Watson
al poligono di tiro, il quale faceva fuoco una serie dopo l’altra con
spaventosa accuratezza, ed ebbe il presentimento che questa volta avrebbe
potuto non spuntarla.
“John,”
disse con voce magnanima puntando le dita contro la solida scrivania. “Capisco
che questo caso sia importante per te –”
“Credevo
fosse importante per tutti,” lo interruppe John e si intravide qualcosa di
tagliente nei suoi occhi, diversa dal solito colore grigio-blu.
Toby
gli concesse un sorriso da dietro i denti serrati. “Tu non eri… tu non eri con
noi,” disse con delicatezza, “l’ultima volta in cui abbiamo dovuto avere a che
fare con la stampa. Ci daranno la caccia, correranno dietro a persone innocenti
credendo che siano sospettati, pedineranno le famiglie delle vittime…”
“Se
sta parlando di Sherlock Holmes, io sono stato lì per tutta la durata del caso,
signore,” disse John alzando il mento. “Tranne che nell’ultima parte.”
Toby
strinse le labbra e considerò l’uomo che aveva di fronte. Conosceva John,
sapeva che era quel genere di persona che segue facilmente l’autorità di
qualcun altro senza lamentarsi, ma che talvolta si presenta con un’idea in
testa e la porta avanti con una tenacia che qualcuno chiamerebbe
volontariamente testarda. E ogni tentativo di persuaderlo a lasciarla perdere lo
porterebbero unicamente a voler andare più a fondo.
Girò
la sedia per rivolgersi a Greg.
“In
casi come questo, dobbiamo tenerli all’oscuro.”
Greg
sembrò dubbioso e John si protese in avanti. “Non si tratta di due corpi
trovati a miglia di distanza,” puntualizzò, lo sguardo che dardeggiava tra le
espressioni silenziose di Toby e Greg. “Si tratta di un assassino che potrebbe
aver ucciso cinque persone, e se Sherlock avesse ragione a proposito del virus
–”
Fece
una pausa e Greg parlò. “La scientifica informatica ha appena trovato un virus
che controlla videocamera e microfono in entrambi i computer delle vittime,
signore,” disse, con un colpo di tosse, “e Holmes pensa che potrebbe averle scelte
in questo modo.”
Toby
considerò ciò che gli era stato detto e tornò a girarsi verso John, che stava
ancora seduto composto sulla sua sedia. Sembrava molto più difficile da
ignorare da quando era tornato dal Berkshire, era quasi tornato ad essere il
vecchio se stesso, come se l’incontro con Holmes avesse acceso qualcosa nella
sua testa che era rimasta dormiente fino a quel momento. Era stato fragile
all’inizio, vicino alla linea di rottura, così tanto che Toby si era sentito in
colpa ad approfittarsi di lui. Ora non più.
“Se
trova le vittime spiandole, dobbiamo dirlo alla gente,” continuò John. “Capisci,
impedire a coloro che corrispondono al suo profilo dall’usare i loro computer,
potremmo almeno capirci qualcosa di più.” Fece ricadere lo sguardo sul suo
grembo. “So che siete preoccupati per l’intrusione della stampa nell’indagine
–”
“Dannatamente
preoccupati,” disse Toby.
“Ma
credo che, in questo caso, il bene che possiamo fare superi ogni conseguenza
negativa.”
Toby
strinse gli occhi e trasse un sospiro addolorato. “Ricordo quando facevi tutto
il possibile per uscire dal mio ufficio, Watson,” osservò. “Cos’è successo?”
John
si strinse nelle spalle. “Non voglio vedere nessun altro venire ucciso.”
Si
udì bussare alla porta di vetro e tutti e tre gli uomini si voltarono per
vedere Sally Donovan entrare, un luccichio negli occhi. “Abbiamo identificato
uno dei corpi trovati nel fiume.”
Le
sopracciglia di Toby scattarono in alto. “Sì?”
“Beth
Davenport.” Il tono di voce di Sally si abbassò. “La figlia scomparsa del
politico.”
“…
Oh merda,” disse Toby piano. Dannazione.
“Ma
abbiamo un collegamento con gli altri due corpi. La scientifica ha trovato il
virus nei loro computer.” Sally guardò le sue carte. “Il patologo ha tirato giù
qualche dato su quando l’omicidio è avvenuto, e cadono tutti negli stessi
giorni del caso di Holmes.” Alzò lo sguardo. “Credo che si tratti
definitivamente di un emulatore.”
“Un
emulatore con fin troppe informazioni sul caso di Holmes,” grugnì Toby.
Di
fronte a lui, Greg sembrò vendicato ora che la sua teoria si dimostrava
corretta. John guardò Toby per caso, le sopracciglia che si univano in un
cipiglio. Piccolo bastardo.
“Va
bene,” sbuffò Toby. “Okay. Indirò una conferenza stampa per questo pomeriggio.”
Agitò le mani. “Lestrade, Donovan, presenzierete con me. Donovan, voglio che
inizi a organizzare i nostri dati.”
Sally
annuì, la sua figura snella era ancora ferma alla porta. “Vuole parlare della
connessione col caso Holmes?”
“Sì,”
confermò Toby. “Menzioneremo le parti col corpo come un’ulteriore connessione,
poi mi collegherò alle altre due ragazze che abbiamo identificato.”
“Okay,”
disse Sally con un cenno. “Ci penso io.”
“Ma,
uh… non accenneremo a quali organi sono stati esportati,” aggiunse Toby.
“Evitiamo false confessioni.”
Sally
parve perplessa. “Chi confesserebbe qualcosa del genere?”
Toby
rise. “Saresti sorpresa dal vedere quanti strambi hanno confessato durante casi
del genere. E se questo si avvicinerà a quello di Holmes…”
Sia
Greg che John rotearono gli occhi al ricordo, e Sally ghignò leggermente. Uscì
dalla stanza, la porta di vetro si chiuse dietro di lei.
“Posso
venire?” chiese John, dopo una pausa rispettosa. Ovviamente, non voleva tentare
oltre la fortuna.
“Puoi
prenderti un posto, se vuoi,” gli assicurò Toby, “ma non sarai con noi nel
gruppo. Non credo che tu sia pronto per le domande del Mail a proposito della
natura della tua relazione con Holmes, ora, no?”
John
sorrise forzatamente. “Abbiamo lavorato insieme e poi ha cercato di uccidermi. È
abbastanza semplice.”
Toby
ridacchiò. “Niente è semplice per i giornali scandalistici quando ha a che fare
con la polizia. Sono tutti scandali e cospirazioni e insabbiamenti…” Agitò la
mano in aria.
John
inspirò profondamente e distolse lo sguardo, sorridendo. “Dio, mi mancava
questo lavoro.”
“Già,
beh, bentornato a casa. Ora vattene fuori dal mio ufficio, ho un discorso da
scrivere.” Toby tossì e si avvicinò la tastiera, poi puntò un dito su Greg.
“Lestrade, mettiti un abito che ti faccia sembrare meno avvilito e qualcosa un
po’ più adatto alla telecamera. Vogliamo apparire sicuri di noi.”
Greg
si tirò distrattamente i polsini mentre lui e John si alzavano per andarsene,
Toby stava già digitando inespertamente su Mycrosoft Word.
***
La
conferenza stampa si tenne in un’ampia e tuttavia soffocante stanza alla
stazione di polizia. C’erano delle serrande poste alle finestre che bloccavano
la brillante luce del pomeriggio e dietro al tavolo a un capo della stanza un
poster grande abbastanza per entrare in ogni fotografia, con i ritratti delle
tre vittime identificate e un numero da chiamare per avere informazioni. I giornalisti
riuniti erano già seduti, leggermente stretti, ma traboccanti di entusiasmo
pensando a come poterne trarre un’esclusiva. Le telecamere erano piazzate in
fondo alla stanza, le luci dei flash lampeggiarono quando gli agenti entrarono
e i giornalisti scattarono attenti per non perdersi nulla, premendo i tasti sui
loro registratori e scarabocchiando annotazioni sulla scena.
Toby
si sedette nel centro, esibendo i suoi appunti freschi di stampa e
appoggiandosi all’indietro con una grazia che smentiva la sua mole. Greg
sedette alla sua destra nel suo bel completo grigio e Sally alla sua sinistra,
slanciata con la sua liscia pelle scura. Un più discreto John Watson si trovava
già seduto assieme ai giornalisti, slacciandosi i primi bottoni della camicia a
combattere il caldo artificiale, per niente invadente e inosservato dal lato
della stanza dove stava la sicurezza. Guardò gli agenti entrare assieme agli
altri, teso. Doveva ammettere che sembravano, come aveva richiesto Toby, avere
la situazione sotto controllo.
Toby
picchiettò i suoi fogli sul tavolo e il trambusto si placò immediatamente. Si
schiarì la voce, facendo scorrere il suo sguardo tagliente sul pubblico prima
di iniziare a parlare. “Sono il detective ispettore capo Toby Gregson del
Servizio di Polizia Metropolitana,” annunciò, poi guardò i suoi colleghi.
“Questi sono il detective ispettore Greg Lestrade e il detective sergente Sally
Donovan. Leggerò un discorso preparato e poi i miei colleghi ed io risponderemo
alle domande.”
Le
macchine fotografiche lampeggiarono, distraendo l’attenzione, ma Toby continuò
imperturbato. L’aveva già fatto, prima d’allora.
“Questa
mattina presto, i corpi di tre donne sono stati trovati nel fiume Tamigi nella
Zona Maggiore di Londra. Abbiamo già identificato una delle vittime come la
scomparsa Beth Davenport e stiamo attualmente lavorando per identificare le
altre due. Le prove finora raccolte sono più che sufficienti a suggerire che
questi fossero omicidi collegati a quelli di Tilda Hills qui a Londra e di
Victoria Grey a Guildford.” Si interruppe e alzò lo sguardo dai suoi appunti.
“Per questo motivo crediamo che vi sia un serial killer nel cui obiettivo ci
sono giovani donne del sud-est dell’Inghilterra.”
Un
giovane giornalista si piegò in avanti, la mano alzata come uno scolaretto.
“Come si collegano tra loro gli omicidi?”
Toby
guardò Greg.
“È
un collegamento piuttosto chiaro,” ammise Greg. Sembrava calmo e controllato
alla gente comune, ma John conosceva Greg a sufficienza e poté vedere
l’apprensione dietro al suo sguardo. “Tutte e cinque le vittime presentano
parti del corpo rimosse e presumibilmente conservate dal killer.”
I
giornalisti iniziarono a borbottare attorno a John, quello di fianco a lui gli
allungò involontariamente una gomitata mentre scribacchiava frettolosamente.
Tuti sapevano cosa significasse parti del
corpo mancanti.
Greg
proseguì, la sua voce divenne più poderosa. “Crediamo che questi omicidi siano
compiuti da un emulatore, ispirato dal caso Holmes che si è concluso cinque
anni fa. Oltre alle parti del corpo sottratte, Hills e Grey sono state uccise
lo stesso giorno in cui Holmes ha ucciso le sue vittime, e sebbene stiamo
ancora cercando di ricavare prove dai corpo di Beth Davenport e le altre due
donne trovate nel fiume, sappiamo che le date corrispondono
approssimativamente.”
Toby
aveva una scintilla negli occhi. “Questo ci fornisce una sequenza temporale di
quando l’assassino potrebbe colpire di nuovo.”
Con
la coda dell’occhio John vide una donna agitare la sua penna in aria. Non si
voltò, non voleva che i reporter dietro di lui si focalizzassero troppo sulla
sua faccia, ma anche da quella distanza riconobbe immediatamente Kitty Riley,
una ora famigerata giornalista che si era fatta notare per essere stata una
delle maggiori fonti d’informazione del caso Holmes. Non era mai stato provato
che avesse pagato il fotografo, ma era stato il suo giornale a far circolare la
foto di John mezzo morto nel letto d’ospedale.
“Holmes
non ha ucciso il fagottista il giorno 28?” gridò. “Domani?”
I
giornalisti attorno a lei si misero a controllare gli appunti allarmati e
l’espressione di Toby s’incupì mentre giungeva alla stessa conclusione di John.
“Sì, è possibile che il killer colpisca domani.”
Kitty
tornò seduta, facendo i suoi calcoli. Dietro di lei, un altro giornalista parlò.
“Come possono proteggersi, le persone?”
Ansiosa
di procedere, Sally parlò. “Crediamo che l’assassino trovi vittime vulnerabili spiandole utilizzando la
telecamera e il microfono sui loro portatili. Siamo stati in grado di trovarne
traccia sui computer delle vittime.” Controllò i suoi appunti, le labbra
arricciate per un momento. “Finora il killer si è focalizzato solo su giovani
donne che vivono da sole, ma potrebbe decidere di estendere le sue opzioni se
gli venisse negata la possibilità di trovare il suo obiettivo preferito. Per
questa ragione, consigliamo a tutti coloro che vivono soli di non usare
internet a casa, se possibile, e utilizzare invece biblioteche o internet caffè,
o magari trasferirsi temporaneamente dalla famiglia.” Alzò di nuovo lo sguardo,
indicando i poster. “Fate attenzione ad ogni funzionamento sospetto del vostro
computer e per favore chiamateci se pensate che abbia un virus. Colpisce
microfoni e telecamere.”
Kitty
Riley intervenne nuovamente. “Perché la polizia sta consultando Sherlock
Holmes, un omicida condannato, per questo caso?”
Lo
stomaco di John si strinse in una morsa e i suoi occhi si mossero velocemente a
incontrare quelli di Greg. Di fianco, Toby si protese sui gomiti, sorridendo.
“Non sono sicuro di come si sia fatta questa idea,” disse quasi in un ringhio.
“La polizia non sta consultando Sherlock Holmes, né ci consulteremo mai con un
criminale per aiutare le indagini, specialmente non con uno che ha già
ingannato la polizia per il suo divertimento. Non provochi il panico.”
“Allora
perché John Watson, un agente di polizia che lavorava al caso Holmes –”
“Ex
agente di polizia,” la interruppe Toby.
Kitty
continuò semplicemente. “Perché è stato all’ospedale psichiatrico, dove Holmes
è rinchiuso, due volte questa settimana?”
“Dove
ha ottenuto queste informazioni?” domandò Toby mentre i giornalisti iniziavano
a confabulare gli uni con gli altri. “Watson non è più un agente di polizia.
Quello che fa nel suo tempo libero non ha rilevanza per quest’indagine.”
“Si
trova qui a questa conferenza stampa,” sottolineò Kitty, gesticolando in
direzione di John. “Strano per qualcuno che ‘non ha rilevanza’ per la polizia,
non crede?”
Toby
si incollerì, come un cane arrabbiato, e Kitty cercava a malapena di nascondere
il suo ghigno.
“Ed
è stato fotografato mentre entrava ed usciva dalla stazione proprio questa
mattina,” continuò, le sopracciglia sollevate. “Delle persone mi hanno anche
riferito che si trovava sulla scena quando Beth Davenport è stata trovata. Cosa
sta nascondendo questa volta, Ispettore Capo?”
“Non
inizi ad architettare uno scandalo anche su questa indagine –” scattò Toby, ma
la sua voce veniva coperta dai giornalisti che stavano adesso inondando John di
domande. John si alzò in piedi quando i registratori gli furono spinti contro
il viso e provò ad allontanarsi quando le domande iniziarono.
“Fa
spesso visita a Sherlock Holmes?” sbraitò uno, la sua mano svolazzava troppo
vicino per metterlo a suo agio.
“Questa
del virus è una delle sue teorie?”
John
sollevò le mani, scuotendo la testa, e udì il grattare della sedia di Toby
sopra al frastuono.
“Portatelo
fuori di qui!” ruggì Toby alle guardie di sicurezza, gesticolando animatamente
in aria. “E voi tutti! Seduti!”
Delle
mani calarono sulle spalle di John e le guardie con le loro facce impassibili
gli fecero per metà da scudo. Una voce gridò da sopra le sue spalle, facendolo
sussultare.
“Vista
la sua storia di inganno da parte di Holmes, come può essere certo che gli stia
dicendo la verità, questa volta?”
“Cosa
succederebbe se Holmes la stesse portando sulla pista sbagliata per aiutare
l’emulatore?”
“Coraggio,
signore,” disse una delle guardie con un tono di voce più basso, nel tentativo
di aiutarlo. “Da questa parte.”
John
fece del suo meglio per non reagire e rimanere senza espressione mentre le
macchine fotografiche mandavano lampi sul suo viso. Domani, tutto questo
sarebbe stato sui giornali, non c’era dubbio a riguardo. Toby aveva ragione,
John si era perso il peggio della frenesia dei media durante il caso Holmes.
Sembrava che adesso si stesse finalmente prendendo la parte che gli spettava.
***
Tutto
era silenzioso quando John tornò a casa. Si sentiva ancora leggermente sotto
shock ripensando alle voci rumorose che improvvisamente l’avevano circondato e
fu grato di aver avuto almeno l’autocontrollo sufficiente a tenere la bocca
chiusa di fronte alle domande. L’appartamento era gelato, quindi tenne il
capotto, calciando via le scarpe sull’entrata e camminando lentamente in cucina
per farsi una tazza di tè. Afferrò le cartoline di compleanno e le fece
scivolare giù dalla mensola nel corridoio mentre passava, osservandole con un
sospiro nostalgico. Il suo compleanno era stato solo due giorni prima, ma
sembrava che fosse passata una vita intera.
Era
stato noioso al pub, comunque. A John non piaceva invecchiare. Aveva
quarant’anni e cosa ne aveva fatto della sua vita? Una carriera fallita, niente
moglie, né figli, e l’unica persona che si ricordava costantemente del suo
compleanno da quando aveva lasciato le forze armate era un serial killer che
voleva mangiarsi il suo cuore.
In
cucina, John guardò il bollitore e chiuse gli occhi. Anni prima, la sua vita
era stata meno complicata. Ricordava la maggior parte del tempo con Sherlock
Holmes, era difficile dimenticare quell’uomo. Ma ricordava il loro primo
incontro con particolare e sorprendente nitidezza.
Era
una sera fredda e umida con quella sorta di pioggerella che sembra nebbia, ma
finisce comunque per infradiciarti. Greg gli aveva scritto per chiedergli un
favore. John era stato promosso ispettore molto di recente e anche se ora lui e
Greg erano dello stesso grado, sentiva ancora l’impellenza di obbedirgli.
Avrebbe aiutato Greg in ogni caso, pensava, e con quella rassicurazione che gli
ronzava in testa era salito in macchina e aveva guidato fino alla scena. Sapeva
già qualcosa; un uomo ucciso nel suo appartamento, nella sua camera da letto
chiusa a chiave, la chiave ancora all’interno non girata quando la polizia era
stata chiamata. Greg otteneva sempre i casi strani.
Il
detective poliziotto Donovan si trovava fuori dall’appartamento, aspettandolo
sotto al balcone dov’era più asciutto, ma i suoi capelli erano comunque
gonfiati dall’umidità. Aveva in mano una tazza di caffè in via di
raffreddamento e un’espressione imbronciata sul volto. Sally non sorrideva mai
molto, ma raramente sembrava così stizzita.
John
chiuse la macchina e le andò incontro. “Hey,” disse lui e azzardò un sorriso
che non fu ricambiato.
“Stai
andando a vedere la scena?” chiese Sally, prendendo un sorso di caffè e
sogghignando. “Guarderei da fuori se fossi in te.”
John
annuì vagamente. “È uno di quelli sgradevoli?”
“Ricordi
quello psichiatra del detective ispettore Lestrade di cui ti parlavo?” Sally
roteò gli occhi. “È qui per aiutare gratis, per mostrare quello che sa fare.”
Non
sembrava troppo felice dell’aiuto extra, il che sembrava sbagliato. John le si
avvicinò per evitare la pioggia e si corrucciò. “È una buona cosa, no?”
Sally
non trattenne una risata e un sorriso stanco fece una fugace apparizione. Si
fece da parte e aprì la porta di fronte a lui, invitandolo ad entrare con un
braccio come un maggiordomo. “Avanti,” disse misteriosamente. “Vedrai di cosa
parlo.”
John
si precipitò all’interno sorpassando gli agenti di polizia che stavano
girovagando in fondo alle scale piuttosto che andare a dare un’occhiata alla
scena, il che era strano. Salì le scale passando di fianco a un agente della
scientifica visibilmente annoiato che gli indicò la camera da letto principale.
La maniglia era rigida sotto alla sua presa e si abbassò con un cigolio.
Sentì
le voci provenire dalla stanza ancora prima di aprire completamente la porta,
l’urlo pieno di panico di Greg.
“Che
stai… non puoi andare lì!”
John
entrò, chiudendo bene la porta dietro di sé. L’istinto di poliziotto si manifestò
e i suoi occhi indagarono velocemente la stanza, soffermandosi sul mobilio
costoso e le scarse decorazioni, e il corpo allargato di un uomo grosso, il
sangue raggrumato a formare un’aureola attorno alla sua testa, fuoriuscito da
un buco su un lato del collo. Ai lati della scena, Greg stava guardando fuori
da una finestra aperta, le dita serrate attorno all’intelaiatura. John tossì
educatamente e Greg si voltò.
“Oh,
John!” disse, sembrando un po’ sorpreso.
“Ho
ricevuto il tuo messaggio…” spiegò John, ma si sentì leggermente fuori posto.
Abbassò le sopracciglia. “Cosa stai facendo?”
Greg
aprì la bocca per dare spiegazioni, ma fu interrotto da un grido d’eccitazione
fuori dalla finestra. “È così che l’assassino è entrato.”
Si
udì un frastuono provenire dall’esterno e un John confuso sì unì a Greg per vedere
un alto uomo dai capelli scuri arrampicarsi come una scimmia agli stucchi e
alla pietra, fermandosi ogni tanto per osservare il muro con una lente d’ingrandimento.
Sprizzava energia e aveva una sorta di sorriso gioioso sul volto che sembrava
del tutto incongruo con la sanguinosa scena del crimine dietro di lui. I suoi occhi erano pallidi e concentrati e i
suoi movimenti aveva una grazia casuale che fece sentire John impacciato solo a
guardarlo.
Se
avesse perso la presa a quell’altezza, si sarebbe rotto qualcosa nella caduta.
Greg
sembrava preoccupato tanto quanto John, ma l’uomo riuscì a concludere la
scalata senza scivolare. Si appollaiò sul davanzale, il retro del suo lungo
cappotto sventolava nella brezza, e indicò una macchia nera sull’angolo della
pittura bianca. “Segno di sfregamento di una scarpa,” disse serenamente, le sue
guance arrossate risaltavano sulla pelle pallida. “Su per gli stucchi
decorativi. Immagino una donna, a giudicare dalla distanza tra loro e dalla
loro capacità di reggere il peso di un corpo. Spostatevi.” Agitò la mano verso
di loro.
John
e Greg fecero un passo indietro ubbidienti senza pensarci e l’uomo scivolò all’interno
della stanza dietro di loro.
“Una
donna atletica, certamente,” continuò l’uomo, togliendosi i guanti e sondando
la stanza. “Abituata a trovare metodi inusuali per entrare negli edifici. Il
fatto che l’abbia ucciso col tagliacarte e non abbia portato con sé un’arma mi
dice che non era venuta per ucciderlo. Forse si è trattato di una ladra
sfortunata, che ha deciso saggiamente di non prendere nient’altro che il
contante una volta che aveva reso questa stanza una scena del crimine.
Difficile da rintracciare, quindi. Sfortuna, Lestrade. Sei sulle tracce di
qualcuno di intelligente.” Sorrise. “È un bene che tu abbia me.”
Greg
sollevò le sopracciglia per un istante, ma poi incrociò le braccia e piegò la
testa verso l’uomo, disposto ad ascoltare. “Bene,” disse. “Che cosa sto
cercando?”
I
lineamenti raffinati dell’uomo sembrarono affilarsi. “Stai cercando una donna
alta circa un metro e mezzo, possibilmente con un passato da ginnasta. È una
scalata pericolosa per chiunque, specialmente di notte e da soli. Non era la
sua prima rapina e credo che corrisponda a una grande quantità di effrazioni commesse
negli ultimi cinque anni. Se potessi dare un’occhiata ai tuoi casi di rapina
irrisolti potrei trovare quelli commessi in circostanze simili e procurarti più
prove con le quali catturarla.”
Trasformò
l’ultima frase in domanda, l’arroganza scivolò via dal suo volto, come se non
ci fosse mai stata. Greg rimase in silenzio. Di certo non avrebbe voluto dare l’accesso
ai rapporti confidenziali della polizia a un civile.
John
interruppe il silenzio. “Ha capito tutto questo da una traccia di scarpa?”
chiese incredulo.
La
mano dell’uomo si mosse velocemente nella sua direzione, gli occhi stretti, e
se prima John si era sentito invisibile, ora era del tutto presente poiché era diventato il centro di quello sguardo simile a
un laser. “Che cosa?” domandò l’uomo, a voce bassa.
“È
solo…” John agitò la mano mentre tentava di tradurre i suoi pensieri in parola
e avere quegli occhi che seguivano ogni suo movimento era alquanto scoraggiante.
“È fantastico! Non ho mai…. Lei deve trovarsi su questa scena da almeno
mezzora!”
Gli
occhi dell’uomo si spalancarono leggermente, ma soppresse velocemente lo shock.
“Dieci minuti sarebbero stati più che sufficienti,” disse freddo, ma sembrava
compiaciuto. “La prova era proprio qui nella stanza.”
Si
raddrizzò rendendosi più alto, il cappotto danzò attorno alle sue caviglie
mentre indicava il pover’uomo sul pavimento. Quando Greg guardò, dubbioso, l’uomo
alto si pavoneggiò di fronte ai complimenti di John. John si sentì un po’
dispiaciuto per lui. Sembrava un tantino eccentrico; forse non aveva avuto
nessuno a lodarlo durante la sua infanzia.
“Lestrade,”
disse improvvisamente l’uomo. “Ho bisogno di informazioni riguardo agli altri
furti. È essenziale. Sai già tutto su di me e hai le mie referenze. Sono affidabile.”
Greg
roteò gli occhi e sospirò, sconfitto. “Oh, okay, bene.”
Gli
occhi dell’uomo brillarono di piacere. “Questo sergente può portarmi alla
stazione di polizia,” disse, indicando direttamente John.
Fu
il turno di John di sorridere. “Sono un ispettore, in realtà.”
“Mh.”
Lo sguardo dell’uomo scorse di nuovo su di lui, ricalcolando le variabili. “Certo.
Promosso molto di recente.” E uscì a grandi passi dalla stanza con il cappotto
che svolazzava drammaticamente dietro di lui.
John
guardò Greg e udì il trambusto distante dell’uomo che scendeva velocemente le
scale superando i poliziotti. “Hai intenzione di dirmi chi era?” chiese con
delicatezza.
“Dottor
Sherlock Holmes,” disse Greg. Si strinse nelle spalle, a disagio. “È uno
psichiatra.”
“Giusto,”
disse John.
“Non
devi accompagnarlo alla stazione se non vuoi,” disse Greg. “È solo che gli
piace impartire ordini alle persone. È uno stronzetto arrogante. Cerco di non
fargli calcare troppo la mano con me.”
“No,
lo riporterò indietro io.” John si
sorprese desideroso di saperne di più. “Stavo comunque andando alla stazione
quando mi hai scritto.”
Greg
annuì riconoscente. “Ci vediamo presto.”
Fuori,
la pioggia era cessata. John si strinse un po’ di più nel cappotto e uscì al
freddo, gettando occhiate alle strade alla ricerca di Sherlock. Individuò l’alta
figura che aspettava alla sua macchina, guardando semplicemente John senza
espressione. Non si mosse né lo salutò, ma non guardò nemmeno da un’altra
parte.
“Ben
fatto,” disse John con un sorriso, mentre passava di fianco alle altre macchine
parcheggiate fin dove Sherlock aveva infallibilmente identificato l’auto di
John. Tirò fuori le chiavi, rigirandosele nervosamente tra le mani mentre
Sherlock lo osservava senza battere ciglio. “Come l’ha capito?”
Sherlock
non rispose per un lungo momento, poi si voltò verso la macchina. “Sei venuto per
conto tuo, se ciò che ha detto Greg è vero, quindi non avresti usato un’auto
della polizia. Questo, e se si confrontano la tua altezza e la lunghezza delle
gambe con il modo in cui il sedile del guidatore è regolato, credo che la
risposta sia alquanto ovvia, no?”
Lo
disse con nonchalance. John poté solo sorridere. “Dottor Holmes, giusto?”
chiese, stendendo la mano. Sherlock lo fissò per una frazione di secondo come
se John gli stesse porgendo qualche sorta di esplosivo, ma alla fine gli
strinse la mano con una salda, fredda presa.
“Sherlock,”
propose invece, con un debole sorriso di risposta. “Per favore.”
Sherlock
gli trattenne la mano un po’ troppo per essere educato.
“Qual
è il tuo nome?” chiese Sherlock, e c’era qualcosa nel modo in cui lo disse che
suonava sbagliato in una maniera che
John non riuscì a identificare, come una macchina che raccogliesse informazioni
per un usarle in seguito.
“John,” disse educatamente. “John
Watson.”
“Mh…”
mormorò Sherlock, le sue palpebre si abbassarono come l’obiettivo di una
macchina fotografica.
John
aprì la macchina ed entrambi salirono via dal freddo. Sherlock si lasciò cadere
sul sedile di fianco e iniziò immediatamente a sbirciare in giro, controllando
la tappezzeria, aprendo persino il cruscotto per setacciare i bolli scaduti di
John, il suo London A to Z, e una
confezione mezza mangiata di caramelle. Appena John ingranò la marcia e si
introdusse nella strada, Sherlock si mise a proprio agio e si infilò in bocca un
lecca-lecca al limone, richiudendo pigramente lo scomparto con il piede.
“Cosa
ti ha fatto dire che sono stato promosso di recente?” chiese John.
“Il
modo in cui ti sei comportato con Lestrade,” disse Sherlock da dietro il
lecca-lecca. “Inconsciamente, pensi ancora che ti sia superiore. Influenza il
tuo comportamento; ti chiede un favore e tu rispondi come se fosse un ordine.”
Lanciò a John un’occhiata sprezzante, e John si accigliò.
“Non
lo faccio apposta.”
“Ovviamente
no,” dichiarò Sherlock. “È ciò che significa inconsciamente. Posso anche dirti
che sei un secondogenito.”
“Come?”
chiese John, incredulo.
“Per
lo stesso motivo,” disse Sherlock con un ghigno. “E lei vuole che tu ti tenga in contatto più di quanto fai. Acconsenti
a malincuore, ma ti poni dei limiti nel contattare i tuoi genitori.” Guardò
nuovamente John, gli occhi semi chiusi. “Mi domando perché…”
“Come
diavolo lo sai?” domandò John.”
“Foto,”
disse Sherlock, indicando la piccola fotografia ritagliata di John e Harry
dietro al volante. “Te l’ha mandato tua sorella, ha premuto abbastanza forte
quando ha scritto sul retro. Era ovviamente un ritratto di famiglia, ma l’hai strappato. Quanti anni hai in quella
foto?”
John
ammiccò velocemente. “Diciotto,” rispose, inumidendosi le labbra. “È stata
fatta prima che partissi per l’università. Come sai che l’ho strappata?
Potrebbe averlo fatto lei.”
“Quello
che ha scritto prosegue sulla parte strappata,” disse Sherlock, facendo
ciondolare la testa da un lato per guardare fuori dal finestrino. “Davvero
ovvio.”
John
gli lanciò una breve occhiata e notò la finta indifferenza alla reazione di
John. “È fantastico, come fai a mettere insieme tutto questo?”
“Osservo,”
disse Sherlock, stringendosi nelle spalle. “Non è un superpotere.” Ma di nuovo,
stava allungando la schiena in orgoglio sorpreso, gli angoli delle labbra
tirati in un sorriso. John sorrise con lui.
Andarono
alla stazione di polizia insieme, Sherlock scansionava il luogo come se gli
appartenesse. Ma fu assolutamente gentile con tutti i membri del personale
notturno, forse consapevole che avrebbero potuto sbatterlo fuori se avesse
infastidito qualcuno, e sfoderava il proprio fascino ogni volta che qualcuno
gli faceva domande a proposito della loro attività.
John
lo fece sedere a un computer e gli portò una tazza di tè con molto zucchero.
Sherlock lo sorseggiò distrattamente, già focalizzato sui rapporti delle
rapine. John sedette accanto a lui, guardandolo scrutare lo schermo e
borbottare sottovoce.
“Non
hai cose più importanti da fare che guardare me?” chiese Sherlock, senza
staccare gli occhi dallo schermo.
“In
realtà no,” ammise John, alzandosi per metà dalla sua sedia. “Vuoi che ti lasci
da solo?”
“No,”
disse Sherlock velocemente, premendo la mano sull’avambraccio di John. “Rimani.
Mi aiuti a pensare.”
Raccolse
abbastanza prove da fare arrestare la giovane ginnasta dal passato colorito in
meno di un’ora. Greg e gli altri agenti che stavano lavorando al caso rimasero
senza parole quando Sherlock espose la sua presentazione. La stazione di
polizia si mise in azione, e Sherlock si sedette comodo abbastanza compiaciuto
quando il tumulto si raccolse attorno a lui.
“Beh,
ora sapete ciò che sono in grado fare,” disse con un sorriso. “Spero di poter
essere d’aiuto. Vi chiederei di considerare di consultarmi sui vostri casi più
interessanti.”
Porse
un biglietto da visita con il suo numero e indirizzo, e Greg si allungò
automaticamente per prenderlo, invece Sherlock lo diede a John. Le sue dita
sottili accarezzarono il polso di John.
“Arrivederci,”
disse, girò sui talloni e uscì dalla stanza.
John
si massaggiò il polso con un pollice, fissando la stampa precisa sul biglietto
color avorio.
“Io
lo scaricherei,” disse Sally, le braccia conserte in posizione di difesa.
“Beh…”
Greg era leggermente più indeciso. “Potrebbe tornarci utile e non ci richiede
nessun compenso. Potremmo dargli i vecchi casi irrisolti, persone scomparse,
sai.”
John
finì per fissare il biglietto da visita alla bacheca perché chiunque potesse
usarlo. Nei mesi successivi, si ritrovò ad affidare i suoi casi più difficili a
Sherlock solo per poterne parlare, e sapeva di non essere l’unico agente a
farlo. Alla fine, Sherlock divenne una presenza abituale a Scotland Yard e non
era raro vederlo ciondolare davanti a una scrivania a chiacchierare con un
sergente, o scandagliare i rapporti al laboratorio informatico, o parlare con
gli agenti quando si trovavano in un vicolo cieco.
“Di
cosa si tratta, ora?” chiese Sherlock, temporeggiando sulla porta dell’ufficio
di John.
“È
un nuovo caso a cui sono stato assegnato,” spiegò John, sfogliando il
documento. “Ricordi quello strozzino di cui continuavamo a ricevere denunce di
aggressione da parte dei suoi clienti?”
“Sì,”
disse Sherlock in tono piatto. “E non c’era una vera e propria prova per una
condanna.”
“Il
suo corpo è stato trovato sepolto in una discarica.” John aggrottò le
sopracciglia e strizzò gli occhi verso il rapporto. “Sembra che sia stato
soffocato. Il killer gli ha spinto spazzatura giù per la gola finché non è più
riuscito a respirare.”
“Un
uomo come quello potrebbe avere un sacco di nemici,” disse Sherlock, guardando
altrove.
“Non
è questa la parte strana,” disse John. “Il fegato è stato estratto dopo la
morte e i patologi dicono che si tratta di un lavoro perfetto. Potrebbe essere
stato compiuto solo da qualcuno che sappia davvero
come si dissezionano i corpi. E questo,”
annunciò John, raggiungendo l’armadietto con i fascicoli ed estraendone un’altra
cartellina, “combacia con l’omicidio del proprietario del ristorante, quello
che abusava dei dipendenti. Rimozione esperta del rene.”
Gli
occhi di Sherlock sembrarono brillare nella luce fioca dell’ufficio di John. “Interessante,”
mormorò, avvicinandosi per esaminare da sé i documenti. “Davvero molto
interessante…”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
LOSS 4
NdT:
Questo capitolo era interminabile. Mi scuso nuovamente, comunque credo
che non faccia molta differenza dover aspettare ora o più tardi,
visto che l'autrice non è ancora andata oltre al capitolo 5,
sebbene abbia annunciato che ce ne saranno in tutto 7. E fidatevi di
me, quando vi troverete a dover aspettare, finito il capitolo 5, vi
mangerete le mani. Ancora un po' e dovranno rinchiudere anche me.
Ed ora che vi ho terrorizzati, buona lettura!!
EDIT: L'autrice ha gentilmente acconsentito a rispondere alle vostre domande! Pubblicherò un altro annuncio anche nel prossimo capitolo, ma siccome ha l'aria di essere mostruoso non garantisco sulla sua puntualità neanche stavolta, pertanto se volete iniziare a mandare le vostre domande, fate pure! Potete inviarle a questo account. Le risposte verranno pubblicate nell'ultimo capitolo (7)
Sherlock
era sdraiato sul sottile materasso della sua cella spoglia, gli occhi chiusi
contro il blu abbagliante della luce sopra di lui. Poteva udire i gorgoglii e
gli schiocchi delle lampadine fluorescenti come unghie su una lavagna, troppo
flebili per la maggior parte delle orecchie, ma l’udito di Sherlock era
eccellente e facilmente adattabile e in quel clima silenzioso aveva già
imparato a cogliere lievi, insignificanti suoni.
John
era venuto e se n’era andato quella mattina, ma questo era stato ore prima, e Sherlock aveva già
rimuginato su quell’incontro un numero di volte sufficiente per ciò che credeva
fosse prudente per quel giorno. La cosa più sensata da fare per un uomo con del
tempo illimitato e niente da fare con esso era di non sprecare i propri
ricordi. Altrimenti, questi lo avrebbero reso pazzo.
Udì
dei passi, affaticati e oberati dal lavoro, un inserviente, dunque.
Sherlock
calcolò le ore e realizzò che era ora di cena. L’odore del cibo da ospedale lo raggiunse
allora, seguito dal leggero odore di sudore di Dimmock, che portava un nuovo
dopobarba.
“’Sera,”
disse Dimmock e Sherlock lo sentì posizionare il vassoio del cibo nella scatola
scorrevole, e poi ci fu un fruscio di grandi fogli di carta. Un giornale.
“Pensavo
che lo scopo di questo esercizio fosse quello di privarmi di stimoli mentali,”
disse Sherlock freddamente.
Sentì
lo strascichio nervoso di Dimmock. “Il dottor Smith vuole che tu lo abbia.”
“Davvero.” Sherlock si stiracchiò e
rotolò giù dal letto, colmando i pochi metri che lo speravano dalla scatola
scorrevole. Dimmock si dileguò silenziosamente, non ansioso spendere più del
tempo necessario di fronte alla cella di Sherlock, quando Sherlock raccolse una
mela dal vassoio e prese in mano il giornale, aprendolo.
LA
POLIZIA CONSULTA UN ASSASSINO campeggiava a gran voce sulla prima pagina
dell’edizione della sera del quotidiano, e più in basso, in caratteri più
piccoli: “Sherlock Holmes aiuta la polizia nelle indagini dell’emulatore
cannibale”.
Eccitante.
I segreti stavano iniziando a emergere. Sherlock si lasciò cadere sulla branda
e prese un avido morso dalla mela, gettando uno sguardo alla pagina.
Illustravano
la storia con una fotografia di John a quella che sembrava una conferenza
stampa, la sua figura minuta parzialmente oscurata dalle guardie di sicurezza
della polizia mentre tentava di ignorare i giornalisti che gli erano sciamati
attorno. Il suo volto era di profilo, gli occhi abbassati e un’espressione
forzatamente neutra. La didascalia lo definiva senza espressione, ma Sherlock
pensò a ‘di pietra’. Riusciva a
cogliere il panico nella tensione della sua mandibola, nelle sue labbra tirate.
L’angolazione era perfetta per ammirare la lunghezza delle sue ciglia bionde,
ridotte, in stampa, a una delicata macchia di inchiostro sopra al suo zigomo.
Sembrava
che la conferenza stampa non fosse andata esattamente come avevano pianificato.
Invece
che consigli al pubblico su come evitare il killer, come avrebbe voluto la
polizia, l’articolo favoriva il dramma, focalizzandosi su John come colui che
era l’unico sopravvissuto agli attacchi di Holmes e che quindi poteva
raccontare nuovamente quelle storie vecchie di cinque, clamorosi anni. C’era un
riassunto del caso Holmes e del crollo della polizia, accompagnato dalla
consueta foto di Sherlock fuori dal tribunale nel suo abito nero dal taglio
stretto, fiancheggiato dalle guardie del corpo. Usavano sempre quella. Contro
il cielo pallido, la figura di Sherlock sembrava quasi una silhouette. Sherlock
invidiava il suo vecchio se stesso in tutto quello spazio.
In
tono cospiratore, il giornale documentava come John si fosse presentato,
mentendo, come un ufficiale di polizia al dottor Culverton Smith (il quale
sorrideva con aria di sufficienza nella sua fotografia prima che Sherlock la
strappasse via) con lo scopo di garantirsi un accesso a Holmes.
Infine,
c’erano i fatti. I corpi delle prime tre vittime erano stati scoperti nel
Tamigi e una era stata identificata come la figlia da lungo scomparsa di un
politico. Sherlock sfogliò i propri ricordi come pagine con una risata. I
metodi del killer erano stati indovinati, lo scrittore si dilungava sui
pericoli dell’era tecnologica, e, più importante, su come la telecamera e il
microfono di un computer potessero essere facilmente manomessi dall’esterno.
Più
in fondo nella pagina c’era una foto di Sherlock che non era mai stata stampata
prima, di lui e John, tagliata da una fotografia dell’intero gruppo felice e
vagamente ubriaco al pub. Era successo dopo un caso chiuso con successo.
Sherlock appariva superbo e annoiato, consentendo riluttante ad essere
fotografato, mentre John sorrideva liberamente all’obbiettivo con il braccio di
un Greg non inquadrato appoggiato alle sue spalle. Le sue guance erano
arrossate dall’alcol, anche se l’effetto era in qualche modo reso minore dal
bianco e nero.
Era
stata scattata appena prima dell’inizio di ciò che sarebbe diventato noto come
il caso Holmes, ricordò Sherlock, facendo scorrere le dita lungo la carta di
giornale. Quel John innocente di fianco a lui non aveva idea di ciò che stava
per succedere. Se Sherlock fosse tornato indietro nel tempo e gli avesse detto
tutto, John si sarebbe semplicemente lasciato andare a quella sua risatina
sussurrante e gli avrebbe assestato un pugno sul braccio.
Sherlock
soffriva pensando a un tempo in cui John lo avrebbe toccato di sua iniziativa.
Gli mancava il calore di quella pelle proibita contro la sua.
Il
giornale discuteva l’attuale teoria che il killer stesse copiando le date degli
omicidi di Holmes, sia il giorno che il mese. Arrivava velocemente al punto
dicendo che ciò stava a significare che il killer avrebbe potuto andare in
cerca della sua prossima vittima il giorno successivo, un vecchio anniversario
del giorno in cui Sherlock aveva rapito Terry Goodwin, il fagottista della
London Philharmonic, e lo aveva affettato per servirlo a una cena.
Sherlock
sorrise largamente e diede un morso alla mela. Questo lo riportò indietro.
Anche
quand’era più giovane, Sherlock aveva sempre amato le sinfonie. Ammirava
particolarmente il lavoro di Dmitri Shostakovich, un compositore sovietico il
cui talento era sempre stato frenato dai capricci di Stalin. Quando aveva appreso
che la London Philharmonic stava organizzando un concerto per suonare la Quinta
Sinfonia alla Royal Festival Hall, aveva comprato in anticipo i biglietti per
varie serate consecutive. La Quinta Sinfonia era la sua preferita, una pacata
sfida di Shostakovich alle critiche, che costringeva a riconoscere la piena grandezza
di un genio nel modo in cui la sua musica portava gli ascoltatori alle lacrime.
Sherlock
aveva un orecchio perfetto, il che si era dimostrato sia una benedizione che
una maledizione nell’arco della sua vita. Coglieva le piccole note che
sfuggivano alle orecchie dei più ignoranti. Ricordava di essere seduto con John
a bere il tè, lamentandosi della musica classica, e alla fine facendogli
ascoltare una vecchia registrazione di qualche idiota che strimpellava Chopin
che doveva essere stato un triste regalo di Natale. Aveva estratto il CD in
buona fede solo per ridursi a ribollire di rabbia per la quantità di errori
presenti. John, comunque, ascoltò fino alla fine, solo per sfoderare un debole
sorriso quando la tortura fu conclusa e dire che era stato bello.
Perciò
Sherlock sapeva che poteva trarre piacere soltanto da una performance perfetta,
ma si fidava della London Philharmonic.
Era
una fiducia che si sarebbe rivelata mal riposta.
Subito
dopo essersi seduto per sprofondare nella musica, il suo orecchio sensibile
aveva individuato errori inaccettabili. Le pecche erano piccole; leggere
sbavature e note stonate. Erano come un granello di polvere in un occhio e
impossibili per Sherlock da ignorare. Le ricondusse al fagottista, che avrebbe
più tardi identificato come Ted Goodwin, e notò le scarpe costose dell’uomo, le
mani morbide e le labbra che sembravano così poco utilizzate da non avere niente a che vedere con quelle di un
fagottista. Se ne andò presto, discretamente, e vendette i biglietti della
stagione rimanenti su eBay. Rimuginò rabbiosamente per giorni, pianificando la
sua vendetta.
Si
trovava nel bel mezzo dell’azione quando udì la voce di John alla porta.
“Sherlock?”
John sembrava curioso. Probabilmente aveva visto la luce, forse dei movimenti,
e John non era stupido. “Sei in casa?”
Sherlock
guardò il proprio corpo macchiato di rosso, le mani scivolose per il sangue, e
fece una smorfia di fronte a quell’ingiustizia.
“Stai
bene?” La curiosità stava diventando preoccupazione.
I
gemiti ai piedi di Sherlock crebbero d’intensità e, mentre il campanello
risuonava nuovamente attraverso la casa, Sherlock realizzò che doveva agire in
fretta.
Si
fiondò in camera da letto, strappando le lenzuola dal letto con uno strattone
violento e avvolgendovisi in modo che spuntasse solo la testa. Dopo un veloce
controllo allo specchio per verificare che tutte le parti importanti fossero
coperte, calciò via le scarpe macchiate di sangue e strascicò fino alla porta.
Mentre camminava, il suo volto iniziava a rilassarsi. I suoi occhi lacrimavano
come se gli pizzicassero e raccolse un po’ di saliva in fondo alla gola. La sua
postura si incurvò, come se fosse esausto. Sembrava in punto di morte quando aprì
la porta al sole di mezzogiorno.
“Sherlock!”
esclamò John, il suo sguardo guizzò su Sherlock come se non riuscisse a credere
a ciò che stava vedendo. Era una reazione comprensibile. Sherlock stava bene
quando si erano visti quella mattina.
Sherlock
tossì forte. Ancora parecchio più alto di John, incombeva su si lui dalla cima
delle scale come uno spaventapasseri rotto. “Cosa fai qui, John?” chiese,
lasciando che la sua voce uscisse roca. “Sto poco bene.”
“Mi
dispiace tanto.” John piegò la testa, imbarazzato, poi iniziò a frugare nella
tasca della sua giacca. “Hai, uh, lasciato il cellulare nella mia macchina,
stamattina.”
Glielo
porse in una piccola mano pulita. Le mani di Sherlock erano rosse e prudevano sotto
al lenzuolo che si stringeva attorno al corpo. “Puoi appoggiarlo sul tavolo?”
disse, accennando in direzione del porta vasi che stava subito dentro. John non
fece domande, si allungò all’interno e posò cautamente il Blackberry di
Sherlock. “Grazie.”
“Stai
bene? Posso portati qualcosa?” Si spostava di qua e di là ai piedi di Sherlock, sembrando terribilmente
premuroso.
“Credo
sia meglio che tu te ne vada,” disse Sherlock. “Non ho dubbi di essere
contagioso.” E tossì di nuovo per sicurezza. “Starò bene. So che non agisco
come tale, ma io sono un dottore.”
Il
sorriso di risposta di John era tirato e incerto, ma ovviamente non voleva
forzare Sherlock. “Va bene,” disse infine. “Rimettiti in fretta. Puoi mandarmi
un messaggio se ti serve qualcosa.”
Sherlock
sorrise debolmente e John se ne andò senza lamentarsi.
Sherlock
sbatté la porta e si strappò di dosso le disgustose lenzuola che gli si erano
attaccate alla pelle, lasciandole cadere in una pila bianca, rigida e rossa ai
suoi piedi. Erano rovinate. Non c’era verso che avrebbe dormito di nuovo in
delle lenzuola che erano state in contatto col sangue di quell’idiota.
Si
rimise le scarpe e tornò nel suo ufficio.
La
stanza era coperta, dal pavimento al soffitto, da un telo di plastica. Su una
cerata bianca sul pavimento, nelle cui pieghe e avvallamenti del tessuto si
stava già raccogliendo del sangue rosso, giaceva il corpo legato e sanguinante
di Terry Goodwin, l’inutile fagottista della London Philharmonic. Aveva un
corpo sano ma massiccio, con capelli diradanti e supplicanti occhi verdi che
continuavano a spillare patetiche lacrime sulle sue guance rotonde. La sua
bocca era distorta da un bavaglio e poteva produrre unicamente suoni soffocati
e grugniti. Sarebbero stati gli ultimi suoni che avrebbe mai generato.
Sherlock
si portò sopra di lui con deliberata crudeltà, premette forte il tacco della
sua scarpa sulla guancia dell’uomo.
“Bene,
eccoti di nuovo a crearmi disagi.” Premette più a fondo, abbastanza forte da
lasciare un solco lì dove i margini del tacco affondavano nella carne. “Prima
rovini la mia serata alla Royal Festival Hall con il tuo soffiare da dilettante
durante una delle più squisite sinfonie mai composte, e ora schizzandomi con
quel tuo sangue sporco che mi ha costretto a mentire a un amico. Non posso mentire a questo.”
Gli
assestò un calcio e compì qualche passo dietro la testa di Terry, così che
l’uomo dovette torcersi e tendersi per mantenere il suo sguardo sul luogo dove
Sherlock stava indugiando sopra ai suoi strumenti sul tavolo da lavoro
cautamente coperto.
“È
più astuto di quanto lui stesso creda,” mormorò Sherlock. “Quella sorta di
sospetti tendono ad accrescere nel cervello di una persona.”
Le
sue dita sorvolarono un coltello per disossare dalla punta acuminata e la lama
sottile e le avvolse gentilmente attorno all’impugnatura, sollevandolo
lentamente così che il metallo mandasse bagliori nella luce sovrastante. Dietro
di sé, udì un’esplosione di gemiti soffocati.
“Non
importa.” La voce di Sherlock si abbassò leggermente mentre occhieggiava la
lama affilata di recente, la sua mente ripiena della visione della pelle
soffice come pesca di John, in piedi di fronte alla sua porta. “Ci penserò più
tardi.”
Riposte
al sicuro le memorie di John, Sherlock si voltò verso il suo obiettivo. Rigirò
il coltello nella sua presa, abile come uno chef, e iniziò a girare attorno al
corpo accartocciato di Terry.
“Erano
anni che desideravo assistere a una performance dal vivo di Shostakovich,
capisci? E mi sarei goduto la serata immensamente se non fosse stato per le continue
intromissioni di un fagottista stonato. Non ti sei presentato alle prove con i
tuoi compagni musicisti? Non riuscivo a capire. Poi mi sono chiesto, come diavolo ha potuto questo imbecille
ottenere un posto in un’esecuzione tanto importante?” I suoi occhi si strinsero
in disgusto. “Avrei dovuto capirlo. Eri il figlio di qualcuno, il fratello di
qualcuno. Le classi superiori hanno l’orribile abitudine di favorire la
famiglia più che il talento.”
Terry
gemette le sue suppliche, le sue proteste, e Sherlock si crogiolò in quella
paura mentre si inginocchiava vicino alla testa dell’uomo. Quando sollevò il
coltello per appoggiarlo sotto all’occhio di Terry, l’uomo si ammutolì
all’istante alla minaccia implicita.
“Bene,”
disse Sherlock, lasciando che il piacere gli scivolasse sulla lingua. “Non
serve parlare. Non ti toglierò il bavaglio. Questa non è una conversazione e
non c’è nulla che tu possa dire che mi persuaderebbe dall’ucciderti. Pensa alla
tua morte come inevitabile, se ti può aiutare.”
Chiaramente
non aiutò, poiché l’uomo iniziò a tremare e a dimenarsi come se sperasse di
divincolarsi e fuggire. Sherlock affondò il coltello nella carme delicata sotto
al suo occhio per immobilizzarlo e il sangue sgorgò come lacrime.
Sherlock
si chinò a sussurrare proprio all’orecchio di Terry Goodwin. “Darò una cena per
i mecenati della London Philharmonic. Riconoscerai alcuni dei nomi, sono coloro
che ti hanno introdotto ai loro favori, e facendo ciò hanno rovinato il lavoro
di una mente geniale. Ti servirò a loro. Sbatterò la tua carne per farne uscire
l’aria e poi la rosolerò in un filo d’olio.” Strinse la mano attorno al corpo
dell’uomo come se si trovasse dal macellaio. “Sembri avere dei buoni tagli.”
Il
suo volto si oscurò e con una spinta feroce affondò ancora di più il coltello.
L’uomo gridò sotto il bavaglio, un grido autentico. Sapeva che stava per
morire.
Più
tardi, quella sera, si profuse in un generoso sorriso mentre gli ospiti alla
sua cena si complimentavano per il
piatto che aveva servito.
***
Era
una mattina presto quando la squadra del detective ispettore capo Gregson e la
loro recluta si radunarono per discutere del caso dell’emulatore. C’era una
sensazione di timore che permeava l’aria al pensiero di ciò che il giorno
seguente avrebbe portato. Le ultime edizioni dei giornali giacevano qua e là nella
stanza per essere esaminate e, come cinque anni prima, la figura affilata di
Sherlock Holmes li scrutava dalle fotografie in bianco e nero.
Al
momento Sally si trovava al centro dell’attenzione, con la sua lavagna piena di
nomi e date che collegavano gli omicidi dell’emulatore all’originale, un
cerchio rosso attorno al nome di Terry Goodwin.
“L’omicida
ha iniziato all’inizio dell’anno,” dichiarò Sally, “e ha lavorato in un tempo
più ristretto se paragonato a Holmes. Notate come i giorni e i mesi combaciano,
ma gli anni sono irrilevanti? Ecco perché gli omicidi non sono accaduti in
ordine perfettamente cronologico. Sta considerando gli omicidi che Holmes ha
compiuto in tre anni.”
Il
suo puntatore viaggiò lungo la lista di nomi e il suo volto prese colore quando
raggiunse quello di John. La muta minaccia alla vita di John era qualcosa a cui
tutti avevano pensato, ma a cui non avevano dato voce, e ciò fece ribollire
Sally di rabbiosa frustrazione.
Si
schiarì la voce e continuò. “Abbiamo identificato un’altra delle donne, quella
uccisa più di recente tra i corpi ritrovati nel fiume. Il suo nome era Molly
Hooper. Era una patologa dell’ospedale St Bart. Il proprietario di casa ne ha
denunciato la scomparsa dopo che aveva saltato il pagamento dell’affitto e non
era riuscito a contattarla. Aveva pianificato un pagamento automatico dal suo
conto bancario che aveva iniziato ad attingere ai suoi risparmi molto tempo
dopo la sua morte. I soldi sono finiti solo di recente.”
Toby
lanciò un’occhiata astuta da dove stava appoggiato alla scrivania di un agente.
“L’appartamento è intatto? Ci si siete già stati?”
“Dovrebbe
essere stato lasciato così com’era, signore,” rispose Sally con disinvoltura.
“Il detective Hopkins e io ci andremo appena finito qui. Ciò che sappiamo al
momento è che è stata uccisa in casa sua e che la porta non è stata forzata.”
“Il
che non mi convince,” brontolò Toby, incrociando le braccia. “Com’è entrato? Le
donne non invitano semplicemente degli sconosciuti a entrare nelle loro case.”
“Forse
non era uno sconosciuto,” propose John dal luogo dove sedeva con Greg e le
teste si girarono a guardare nella sua direzione. “Se può accedere alle
telecamere e ai microfoni dei portatili, probabilmente si procura i loro
indirizzi IP per trovarle. Forse riesce a conoscerle qualche giorno prima…
sapete.” Lasciò sfumare la voce e si strinse nelle spalle.
Gli
occhi acuti di Toby si strinsero mentre pensava. Sally sapeva che lui e John
non erano più in buoni rapporti dopo il disastro della conferenza stampa, ma
Toby rispettava John e lo ascoltava come sempre.
“Alcune
delle porte sono state forzate, però,” puntualizzò Toby infine. “Serrature
scassinate.”
John
scosse la testa. “Sappiamo già che è capace di modificare il suo metodo perché
si adatti alla sua vittima. Non rischierà di fallire nel recapitare il suo
messaggio.”
“Perché
siamo così certi che il killer sia un uomo?” domandò Sally, colpendosi le dita
con la bacchetta. Un segno di nervosismo. Si agitava sempre e di recente era
stata troppo stressata per preoccuparsi di nasconderlo.
“L’abbiamo
dato per scontato fin dall’inizio, no?” rifletté Greg. Era stato il caso suo e
di Sally, all’inizio, prima che diventasse troppo serio per essere gestito da
un detective ispettore.
“È
molto più probabile che il killer sia un maschio, Donovan,” disse Toby in tono
generoso. “La maggior parte dei serial killer lo è.”
“Sherlock
si è riferito all’assassino come un uomo prima che gli potessi dire qualunque
cosa,” aggiunse John. “L’ha detto come se fosse ovvio.”
Questo
fece saltare tutte le precauzioni di Sally. “Oh, allora se lo dice Sherlock --”
“Donovan!”
ringhiò Toby. “Basta. Apprezzo che tu stia cercando di vederla da un altro punto
di vista, ma per semplicità continuiamo a riferirci a lui come a un lui.”
E
a quel punto, anni di risentimento accumulato esplosero in Sally come acqua da
una diga rotta.
“È
che sono stanca di prendere le parole di quell’assassino per vangelo!” esclamò.
“Ci ha mentito per mesi, anni, senza
nessuno scrupolo. E anche se sapesse qualcosa su questo caso, credete davvero
che ci dirà tutto? Non lo farà mai. È un fottuto psicopatico famelico e ci
propina indizi sotto forma di indovinelli, abbastanza per costringerci a
mandargli il povero John ancora e ancora per supplicarlo di dirci di più.”
“Non
mi dispiace andarci,” disse John velocemente e Sally non lo derise, ma ciò che
stava pensando era probabilmente palese sul suo volto.
“Sei
un pessimo bugiardo, John. Ti sei ritirato per una ragione, ma ora ti abbiamo
tutti costretto a tornare e farti rivivere qualcosa che non dovresti mai
ricordare, così che non dobbiamo guardare in faccia la nostra ignoranza.
Sherlock ti sta usando; ti tormenta per il suo divertimento personale. Noi ti siamo usando,” insistette e agitò
la mano quando iniziarono a sentirsi brontolii scontenti, “no, davvero, lo
stiamo facendo, e nessuno vuole ammetterlo, ma mi fa venire la nausea il fatto
che ti abbiamo riportato in tutto questo quando invece dovremmo proteggerti.
Guarda qui!”
Afferrò
una copia del Telegraph, dove John la
faccia preoccupantemente pallida di John campeggiava in prima pagina.
“La
conferenza stampa è stata un’idea di John,” disse Toby forzatamente, la rabbia
gli risaliva la spina dorsale, e Sally sapeva di stare camminando sul ghiaccio
sottile.
“Signore,”
disse educatamente, ma a denti stretti, “se posso parlare liberamente –”
“Non
puoi,” rispose Toby, sprezzante. “Credo che abbiamo colto la sostanza. Presumo
che la tua presentazione sia conclusa?”
Sally
mantenne il silenzio per un momento, sforzandosi di incontrare quello sguardo
d’acciaio, ma erano in pochi a saper fronteggiare lo sguardo di Toby Gregson.
Nel suo pieno vigore, la sua personalità equivaleva a un bulldozer. “Sì,
signore,” disse infine, sentendosi sgonfiata.
Toby
batté insieme le sue larghe mani. “Bene! Ora che siamo tutti aggiornati, voglio
che torniate di nuovo sulle prove!” Ci fu un lamento. Per lo meno venivano
pagati per tutto il tempo che il caso richiedeva loro. “Donovan, Hopkins,
andate all’appartamento della signorina Hooper e date un’occhiata come si deve.
E Donovan,” abbassò il tono della voce a un gentile promemoria, “diminuiamo un
po’ le teorie cospiratrici, va bene? Siamo solo un pugno di detective, in
carica e non, che lavorano insieme per cercare di catturare un bastardo.”
Sally
annuì brevemente. “Sì, signore.”
Sentì
che John la stava guardando e non fu sorpresa quando lui le venne incontro
mentre tutti gli altri scattavano alle loro postazioni di lavoro. Gironzolava
in lontananza mentre lei prendeva cappotto e taccuino, dando l’impressione di
volersi avvicinare e metterle una mano sulla spalla, ma poi si trattenne.
“Tutto
bene?” chiese infine, aprendo e chiudendo le mani in imbarazzo lungo i suoi
fianchi.
Sally
strinse le labbra in una linea sottile e si girò a fronteggiarlo. “Non credo
che dovresti fare tutto questo, John.”
John
annuì. “Nemmeno io,” ammise. “Ma voglio, devo farlo. Impazzirei se me ne stessi
seduto a casa a poter leggere di questo caso solo sui giornali.”
“È
solo…” Sally sospirò, strofinandosi una mano sulla fronte. “Sei un civile, ora.
Dovremmo proteggerti, invece ti stiamo mettendo proprio sulla traiettoria di
fuoco.”
“Starò
bene,” le assicurò John.
Sally
scosse la testa. “Continui a ripeterlo a te stesso.”
“Sally!”
chiamò il detective poliziotto Hopkins, i suoi occhi spalancati in urgenza.
Giusto. L’appartamento di Molly Hooper. Con un sospiro diede le spalle a John e
uscì per raggiungere l’agente.
***
Il
sole era tramontato e Greg stava indossando il cappotto con movimenti stanchi.
Era stata una lunga giornata. Dall’altro lato della stanza John stava facendo
lo stesso. Il volto del piccolo uomo era segnato dalla stanchezza ed egli
sistemò il colletto della giacca così che grattasse contro le morbide ciocche
bionde ad ogni movimento. Mentre Greg usciva, John si voltò a guardarlo in
attesa.
“Grazie
per l’aiuto di oggi,” disse Greg, guardando in basso e strofinando il pollice
contro il legno del tavolo lì vicino.
John
inclinò la testa. “Non c’è problema.”
“Vai
a casa, adesso?”
“Sì.”
L’esitazione
di Greg dovette trasparire, perché la fronte di John si increspò al centro, con
aria interrogativa.
“Cosa?”
chiese.
“È
solo… probabilmente ci saranno un paio di giornalisti ad aspettarti alla
porta,” fece notare Greg. E forse un serial killer. “Stavo pensando, forse
potresti stare da me, invece. Ho una stanza per gli ospiti.”
John
annuì di nuovo e diede l’impressione di rifletterci. “A tua moglie darà fastidio?”
domandò.
Greg
scosse la testa. “È in visita da un’amica. Anche se non lo fosse, sono sicuro
che sarebbe d’accordo.” Si strinse nelle spalle, sorrise. “E per quanto
riguarda me, mi sentirei meglio sapendo che sei al sicuro. Mi sento un po’
responsabile per te, ad essere onesto, perché sono stato io a trascinarti in
tutto questo –”
“Tu
non mi hai trascinato,” disse John con fermezza. “Ci sono entrato camminando.”
Greg
trattenne il respiro per un istante. “Mi piacerebbe che venissi a stare da me,”
ripeté. “Per tranquillizzarmi, se non altro.”
Gli
occhi di John guizzarono sul suo volto come se stesse cercando qualcosa, poi
sorrise. “Va bene,” acconsentì. “Prendiamo da mangiare mentre andiamo, sto
morendo di fame.”
***
Un
generosa porzione di takeaway cinese fu sparpagliata sul tavolino da caffè nel
salotto di Greg, e lui e John crollarono sul divano di fronte alla televisione,
succhiando noodle e criticando le notizie. Condivisero alcune birre per
rilassarsi e forse Greg ne bevve un po’ più di John, ma chi le stava contando?
“Mi
piacerebbe che si concentrassero di più su come le persone potrebbero
proteggersi piuttosto che scavare in cerca di uno scandalo,” mormorò John,
strofinandosi le dita sulla radice del naso come per scacciare un mal di testa.
Sullo schermo la sicurezza gli stava facendo da scudo mentre i giornalisti si
accalcavano per ottenere risposte alle loro domande. Greg osservò l’espressione
abbattuta del vero John con preoccupazione.
“Tutto
bene?”
Ci
fu silenzio mentre John fissava la televisione per un tempo leggermente troppo
lungo, ma poi inspirò profondamente e guardò Greg. “Sto bene. Penso ancora che
ne sia valsa la pena.”
Sembrava
pallido alla luce della televisione.
Greg
bevve un lungo sorso di birra mentre il ricordo indesiderato di un John
mortalmente pallido che giaceva comatoso in un letto d’ospedale vagava in prima
linea nella sua mente. Ricordava di stare seduto di fianco a quel letto con la
rabbia e la frustrazione che gli ribollivano dentro, e ancora non riusciva a
comprendere come avesse potuto accadere cinque anni prima. Tutto sembrava
risalire a ieri. Odiava ancora se stesso per essere stato l’uomo che aveva
fatto accedere Holmes alle scene del crimine.
“Credi
che ci sia la possibilità che domani non si verifichi un omicidio?” rifletté
Greg, cercando di non sembrare troppo speranzoso.
“Non
ne sono sicuro,” disse John con calma. “Sarà più difficile per lui. La gente
prenderà precauzioni.”
“Vorrei
poter pensare che lo batteremo.” Greg finì la sua birra e la accartocciò sul
tavolino da caffè con uno deciso gesto plateale. “Rovineremo il suo messaggio.”
John
fissava la tv con sguardo vuoto, come se ci stesse guardando attraverso. “Mh.”
Sembrava
dubbioso. Dubbioso e terribilmente stanco, e con un tempismo perfetto la sua
testa ricadde indietro sullo schienale del divano ed egli emise un lungo
sbadiglio. I suoi occhi erano scuri e velati.
“Penso
che dovrei andare a letto.”
“Va
bene,” disse Greg, senza muoversi. Aveva già mostrato a John la casa. “’notte.”
“’notte,”
disse John con il più piccolo dei cenni e si mise in piedi e uscì dal salotto.
Era
bello sentire di nuovo la casa abitata. Greg ascoltò i passi di John sopra al
tappeto e le piastrelle, lavarsi i denti, il rumore delle luci spente. Fece
zapping tra i canali delle news, alla fine spense la televisione con inutile
rabbia dopo essere capitato su una teoria che proponeva che John potesse essere
l’assassino andato da Sherlock in cerca di consiglio. Rimase seduto
nell’oscurità, frustrato, cercò di non pensare tropo alle esclamazioni di Sally
Donovan, o al modo in cui John era sembrato quasi per nulla preoccupato qualche
giorno prima, quando Greg lo aveva gettato nuovamente tra le grinfie di
Sherlock.
***
Come
Greg aveva predetto, c’erano alcuni paparazzi che vagavano fuori dall’edificio
di John. Superarono guidando il gruppo in agguato mentre si recavano alla
stazione di polizia, e John li guardò con quello che sembrava shock.
“Non
ci credo…” mormorò, sedendosi più all’indietro sul sedile nel caso che qualcuno
riuscisse a intravederlo. Probabilmente impossibile, ma non voleva correre
rischi.
“Te
l’avevo detto,” disse Greg. “Sono famelici.”
I
media si erano già stancati di mandare in onda sempre gli stessi stralci di
video della conferenza stampa e le foto iniziavano ad essere ripetitive. Avrebbero
pagato molto per qualcosa di nuovo.
John
si rigirò a disagio sul sedile. “Che tipo di risposta credono di poter ottenere
da me?”
Greg
soffocò una risata. “Qualunque risposta. Qualunque reazione. È tutto ciò che
vogliono e fai bene a non lasciarti provocare da loro.”
John
pensò al dottor Culverton Smith e alle sua fotografie raccapriccianti, e si
accigliò.
***
La
rilevanza accresciuta del caso iniziò a manifestarsi quella mattina. Toby
Gregson era indaffarato a lavorare nel suo ufficio, già abituato al numero di
telefonate da parte del nervoso pubblico che dichiarava di avere il virus. Come
si erano aspettati, avevano ricevuto false confessioni, il numero di agenti
necessari ad interrogarli tutti stava lentamente intaccando la sua forza
pubblica.
E
adesso il detective poliziotto Hopkins era scivolato goffamente nel suo ufficio
con un’informazione a proposito dell’ultima persona che aveva telefonato, un
giovane uomo che insisteva a dire che il killer lo stava osservando.
“Quell’uomo
ha realizzato che sono le donne ad essere nel mirino dell’assassino?” chiese
Toby stancamente.
“Sembra
preoccupato, signore.” Hopking corrugò la fronte. “E il suo computer si
comporta come quelli delle vittime.”
Toby
agitò la mano verso la porta. “Va bene. Vai e controlla. Ma torna in fretta, mi
servono tutte le mani possibili per questo.”
“Sì,
signore,” disse Hopkins, rimbalzando sulle punte dei piedi. Sgambettò fuori
dalla porta e Toby non ci pensò più.
***
Con
il nome di Sherlock nuovamente sui giornali e i giornalisti che chiamavano su
ogni linea, il dottor Culverton Smith fece visita alla sua celebrità nell’umida
e buia cella nell’angolo più profondo dell’ospedale.
Lì,
nella sua cuccetta, Sherlock stava allungato sul suo stomaco studiando
attentamente il giornale per quella che doveva essere la centesima volta. Non
si preoccupò della presenza di Culverton, nemmeno dopo che lui ebbe tossito un
paio di volte nella speranza di vedere quegli occhi roteare con disprezzo.
“Interessante,
vero?” sentenziò Culverton infine, con un leggero ghigno.
“Hai
spifferato alla stampa che John è venuto a farmi visita.” Sherlock chiuse il
giornale e lo lasciò cadere sul pavimento, fissando Culverton con un’occhiata
talmente potente che egli poté sentirla attraversargli la testa.
“Mi
hai costretto tu, Sherlock,” disse delicatamente, iniziando a camminare. La
testa di Sherlock ruotò lentamente per seguirlo. “Mi hai deliberatamente tenuto
fuori dal giro. E Dio lo sa, niente di ciò che ti faccio va mai oltre quel tuo
spesso cranio, così ho pensato che questo ti avrebbe fatto recepire meglio il
messaggio.”
“Questo?”
ripeté Sherlock, il naso arricciato come se Culverton gli avesse appena
vomitato sulle scarpe.
“Ho
sentito che ha i giornalisti accampati fuori da casa sua,” disse Culverton,
interrompendo la sua camminata e girando sui tacchi per fronteggiare Sherlock
direttamente. Gli occhi glaciali si erano stretti in fessure, ma non c’era
nulla verso cui dirigere quella rabbia. “Dev’essere orribile per John, ora,”
continuò Culverton in tono dispiaciuto. “Rivivere la peggior esperienza della
sua vita sotto gli occhi di tutti. Dicono tutti che l’assassino lo andrà a
cercare, alla fine. Come ti senti ad averlo condannato a questo destino?”
Sherlock
lasciò che il discorso di Culverton restasse sospeso in aria per alcuni
secondi, poi voltò la testa di lato. “Cosa vuoi, dottore?”
“Voglio
che tu mi dica tutto,” rispose Culverton istantaneamente, poi cercò di non
agitarsi di fronte all’immediato sorriso di Sherlock. “Voglio scrivere questo
libro e fare abbastanza soldi da ritirarmi per sempre da questo schifoso,
fottuto ospedale dove devo avere a che fare tutto il giorno con dei coglioni
come te. È il momento perfetto per iniziare a fare affari con un libro. Il tuo
nome è di nuovo su tutti i giornali.”
“Che
prevedibile,” disse Sherlock, rivolgendo un’occhiata divertita al soffitto. “E
cosa ci guadagno a rivelare la storia della mia vita per un tuo profitto?”
Culverton
si strinse nelle spalle. “In cambio, non renderò la vita del tuo John ancora
più miserabile.”
L’occhiata
di Sherlock guizzò nuovamente su di lui. “Non m’importa se è miserabile.”
“Sul
serio, Holmes,” disse Culverton con sguardo torvo. Beh, non sarebbe stata la
prima volta in cui Sherlock aveva finto un’amicizia per i suoi scopi. Forse
John era meno importante di quanto tutti credevano. Frustrato, sollevò le mani.
“Bene, cosa vuoi allora? Ti darò tutto ciò che è in mio potere, te lo
garantisco.”
“Ci
penserò,” disse Sherlock sbrigativo. Poi il suo sguardo andò lontano,
calcolatore. “Finché ci troviamo in uno stato d’animo di trattativa, comunque,
potrei avere un’informazione che ti aiuterebbe a riportare il tuo nome sotto i
riflettori.” Sollevò un sopracciglio. “Potrebbe aiutare con queste faccende del
libro.”
Con
disinvoltura, Culverton appoggiò le mani sui fianchi. “Oh?”
Il
sorriso di Sherlock fece balenare i suoi denti bianchi. “L’identità
dell’assassino emulatore.”
Il
cuore di Culverton gli balzò in petto ed egli faticò per mantenere
un’espressione impassibile. Questa sorta di scambi erano ciò che più si
avvicinava a una partita di poker tra lui e Sherlock. “Sai chi è?” chiese,
leccandosi le labbra aride.
“L’ho
saputo fin dall’inizio,” rispose Sherlock, inclinando la testa.
“Bene,
perché non l’hai detto al tuo piccolo amico?”
Sherlock
si guardò le mani e si grattò il retro delle sue lunghe dita. “John non ha
niente da offrirmi, oltre alla sua presenza. Se gli dicessi tutto, smetterebbe
di vedermi. Se gli nascondo l’informazione, continuerà a venire da me.”
Culverton
era sorpreso, a malincuore. “Astuto.”
Sherlock
agitò una mano, sprezzante. “È semplice psicologia, ma funziona con tutti.”
Sottopose Culverton ad un’occhiata di traverso. “Persino con te.”
Culverton
incrociò le braccia e ignorò quell’ultimo insulto. Nonostante Sherlock stesse
agendo con nonchalance, stava parlando con inusuale candore. Era questo
l’effetto della punizione? Avrebbe potuto funzionare. “Cosa vuoi, quindi, in
cambio di quest’identità?”
“So
che non uscirò di prigione, dottore,” sospirò Sherlock e ricadde sulla schiena come un gatto, le braccia a
ciondoloni come se fossero senza ossa. “Comunque, mi piacerebbe trascorrere il
resto della vita con un po’ di comodità in più. Voglio vedere di nuovo il sole.
Fammi avere una cella con vista. Fammi vedere gli alberi e gli uccelli, fammi ascoltare
il suono di ciò che accade nel mondo, là fuori.”
Una
nuova cella? Era facilmente fattibile. “La finestra sarà sbarrata,” lo avvertì,
cercando di nascondere l’impazienza. Non voleva dare a Sherlock l’illusione di
avere il controllo.
“Non
m’importa,” disse Sherlock malinconicamente. Sembrava già che stesse guardando
fuori da una finestra immaginaria.
Culverton
si concesse un ghigno. “Allora ho la stanza che fa per te. Massima sicurezza,
ovviamente, ma comunque molto piacevole. Dimmi il nome e sarai trasferito là.”
Sherlock
trasse un profondo respiro ed esalò lentamente. “Le sue iniziali sono E.R. Ti
dirò il resto quando mi avrai dato ciò che voglio.”
Nella
sua testa, Culverton iniziava a pianificare, eccitato, la sua apparizione di
fronte ai media, sui canali televisivi di notizie attraverso tutto il paese con
un ‘Esperto Psichiatra’ di fianco al suo nome, venendo inneggiato come un eroe
per aver rivelato l’identità del killer emulatore. “Non posso trasferirti per
adesso,” si scusò, “poiché devo far ricostruire interamente la parte anteriore
della cella. È fatta di sbarre, al momento.”
“Ti
dirò il resto quando sarò nella mia nuova cella,” ripeté Sherlock freddamente.
Quanto
difficile sarebbe stato? Culverton si accigliò. Sarebbe stato meglio
trasferirlo subito e ottenere le informazioni prima che il killer colpisse di
nuovo. Sicuramente avrebbero potuto attuare nuove procedure di sicurezza, come
misura temporanea, ovviamente. L’avevano già tenuto dietro le sbarre, prima, e
avevano imparato dai propri errori. Forse avrebbero potuto misurare la
lunghezza delle braccia di Holmes e segnare una linea sul pavimento che non
doveva essere varcata quando non era immobilizzato. Avrebbe potuto funzionare.
D’altro
canto, Sherlock sarebbe stato di buon umore, per una volta, quando si fosse
trovato là. Era un piccolo rischio.
Doveva
agire in fretta. Quello era un buon momento per portare Sherlock dal lato dei
buoni, se voleva fare affari con il libro.
“È
una bellissima giornata oggi, Holmes,” disse con un ghigno. “Dovresti iniziare
a prepararti a vederla.”
***
Sherlock
lasciò sparire ogni espressione dal suo volto mentre veniva legato e la
museruola gli veniva applicata dagli inservienti prudenti sotto lo sguardo
vigile di Culverton. Il suo viso era la sua maschera, qualcosa dietro cui
nascondersi mentre il suo cervello si sovraccaricava.
Nonostante
il palese timore degli inservienti, un gruppo di persone dalla pittoresca
storia di attacchi da parte di Holmes, egli fece lo sforzo di comportarsi bene
e non si lamentò di nulla di ciò che gli fecero. Mentre lo trasportavano lungo
il corridoio e su per le scale, i loro corpi si tendevano lottando contro il
suo peso morto. Sherlock non poteva muover la testa, ma attorno a loro la luce
degli ambienti iniziava a cambiare e ad aumentare nel momento in cui
raggiunsero la cima delle scale.
Ora
si trovavano al piano terra e salivano ancora, se Sherlock aveva contato bene
gli scalini. Primo piano. Non vedeva ancora alcuna finestra, ma la luce diffusa
nel corridoio non poteva essere altro che la luce del sole. Secondo piano ed
egli intuì che le braccia degli inservienti erano grate di poter posare la
barella. Quando lo spinsero attraverso le porte nel corridoio vasto, gli occhi
guizzanti di Sherlock colsero il linoleum color crema e le pareti di un bianco
splendente, così diversi dall’ambiente nei sotterranei. Respirò l’odore di
antisettico e carne pulita, udì i passi veloci delle infermiere e i medici che
si spostavano in fretta dal loro tragitto.
Sherlock
mise da parte tutte le informazioni, per ora; avevano raggiunto le finestre.
Mentre veniva spinto attraverso i corridoi spaziosi, allungò la testa verso
sinistra per cogliere un’apparizione di sole giallo e cielo blu chiaro.
Raggiunsero
la sua nuova cella, soddisfacemente più spaziosa, luminosa e ben illuminata
dalla luce pomeridiana. Dopo che fu sistemato lì, tutto ciò che poté fare fu
sedersi alla sua scrivania in legno e fissare con stupore fuori dalla finestra.
“Il
nome?” chiese Culverton.
Fu
come se stesse domandando da un luogo molto lontano, o come se Sherlock si
trovasse immerso sott’acqua.
“Signor
Ed Grin,” disse lentamente. “È tedesco e un ex aracnofobico.”
Non
degnò di ulteriore attenzione il giubilo di Culverton.
Gli
alberi ondeggiavano fuori dalla sua finestra e poteva immaginare di sentire la
brezza sulla pelle. Chi avrebbe mai pensato che l’ospedale potesse avere dei
terreni così belli?
E
il sole! Sembrava una cosa uscita da un sogno. I suoi occhi lacrimavano,
sensibili dopo così tanti anni trascorsi nella luce fluorescente e nell’oscurità,
ma non riusciva a distogliere lo sguardo dal quel bruciante sole pomeridiano
che illuminava il cielo di un colore tanto magnifico.
***
John,
Greg e Toby stavano scorrendo gli appunti dell’ultima intervista quando il
telefono di Toby squillò con un fischio acuto. Era uno degli agenti in uniforme
e Toby alzò una mano per zittire gli altri mentre rispondeva.
“Detective
ispettore capo Gregson,” disse, mettendo il telefono in vivavoce.
La
voce che ne provenne era decisa, ma tremava leggermente. “Signore, parla
l’agente Fred Foster. Sono appena arrivato sul luogo dove il detective
poliziotto Hopkins era andato a incontrare quell’uomo per prelevarlo e…”
L’uomo
esitò, chiaramente spaventato, e Toby attese pazientemente.
“Hopkins
è stato assassinato, signore.” La voce dell’agente Foster ora era rotta e
dall’altra parte i detective in ascolto sentirono i loro cuori sprofondare.
“C’è sangue dappertutto. Non mi sono addentrato troppo, non volevo
compromettere la scena.”
Il
mento di Toby si abbassò. “Bravo.”
“Sono
qui fuori, adesso. Mi occorrono dei rinforzi, non posso occuparmene da solo.”
“Mando
subito una squadra,” rispose Toby all’istante. “Resisti, agente Foster.”
Riagganciò,
il ricevitore gli scivolò di mano e cadde sul tavolo mentre la testa gli ricadeva
tra le mani. Un fallimento.
“Era
l’assassino,” disse John, guardando nel vuoto. Sembrava sgonfiato. “L’uomo che
ha chiamato a proposito del virus, prima. L’abbiamo beccato.”
Toby
si massaggiò il viso, furioso con se stesso. La tensione gli si era insinuata
nelle spalle. “Ho mandato io Hopkins laggiù. Da solo.”
Greg
scambiò rapidamente un’occhiata con John e poi parlò con voce più bassa. “Non
potevi saperlo, Toby.”
“Lo
so, lo so…” Toby si appoggiò allo schienale e sospirò, crollando come se non
avesse più ossa. “Voi due farete meglio a recarvi sul posto. Lestrade, chiama
una squadra dalla scientifica.”
***
Quando
John e Greg si trovarono fuori dall’edificio segnato dall’indirizzo, poterono
vedere la macchina vuota dell’agente parcheggiata sulla strada. Lo stesso
agente Foster stava in piedi vicino alla porta e corse in avanti, appena loro
si avvicinarono, con un’espressione tormentata sul suo volto pallido che
provocò una fitta di panico lungo la spina dorsale di John. Ricordava la voce
tremante che usciva dall’altoparlante.
Greg
rispose alla domanda non posta dall’agente. “La scientifica sta arrivando.
Mostraci la scena.”
Foster
esitò, irrigidito. “Da questa parte,” si offrì, guidandoli dall’aria frizzante
dell’esterno fino allo squallido interno dell’appartamento che odorava come se
i proprietari avessero aperto solo di rado le finestre.
Fu
un breve tragitto lungo il corridoio con pochi effetti personali, poi Foster si
fermò di fronte a una porta parzialmente aperta e rivolse una strana occhiata a
John. “Tu sei John Watson?”
John
sollevò un sopracciglio. “Sì,” disse seccamente.
“Tu…
Probabilmente non dovresti entrare.”
John
corrugò la fronte e piegò la testa di lato. “Perché no?”
Al
suo fianco poteva quasi avvertire Greg muoversi nervosamente, ma mantenne lo
sguardo fisso su Foster, il quale deglutì a disagio in direzione della vigorosa
occhiata di John. “È solo che…”
E
John capì. Greg stava per compiere un passo all’interno e ordinargli di stare
alla larga nel tentativo di proteggerlo da qualunque cosa vi trovasse, ma John
era stanco di venire coccolato. Appena Greg aprì bocca, passò loro di fianco
aprendo la porta con una spallata e irrompendo nel salotto.
L’odore
di sangue e carne cruda lo colpì come un pungo nei polmoni.
Il
giovane detective poliziotto Hopkins giaceva prono nel mezzo di un tappeto
macchiato di sangue, la camicia strappata dal corpo a esporgli la schiena, dove
pezzi di carne erano stati incisi e rubati da entrambi i lati. John riusciva a
vedere le interiora dell’uomo e la sua mano passò istintivamente sulla sua cicatrice
che bruciava ricordando il dolore. Vista la quantità di sangue che era
fuoriuscita, Hopkins doveva essere stato ancora vivo quando era stato
squarciato.
“Gesù,”
sibilò Greg, la sua voce sorprendentemente vicina all’orecchio di John. Lo
aveva seguito all’interno e stava osservando il muro con gli occhi spalancati.
John seguì il suo sguardo e il suo stomaco si chiuse.
Come
una decorazione sull’orribile carta da parati con motivi cachemire, lettere
maiuscole scritte con il sangue ancora fresco compitavano la minaccia che
Foster non avrebbe voluto che lui
vedesse: TU SEI IL PROSSIMO JOHNNY BOY
La
Y si estendeva fino al pavimento dove il sangue era scorso sul muro.
John
era come incollato al pavimento. Avvertì un brivido freddo, come se tutto il
suo sangue avesse abbandonato le sue estremità per proteggersi e la sua bocca
si era seccata. L’implicita minaccia era diventata reale e ora John non sapeva
più cosa fare.
Doveva
prendere il killer. Non c’era nessun altro a difenderlo se non se stesso.
“John.”
Di nuovo la voce di Greg che interrompeva i suoi pensieri, ma in tutta onestà
John faticava abbastanza a mettere insieme un singolo pensiero dall’ondata di
panico e terrore che gli offuscava la testa. Si sentiva indifeso e lo odiava, e
l’atteggiamento da madre protettiva di Greg lo faceva solo sentire peggio.
“John, guardami.”
John
non lo fece. “Devo…” iniziò, gesticolando vagamente verso la stanza, “…guardare
la scena.”
“John,”
disse la voce di Greg, questa volta più severa. Delle mani afferrarono le
spalle di John e lo voltarono a guardare Greg in faccia; cercò di lottare ma
rimase sorpreso scioccato dalla sincera preoccupazione di Greg. “Torna a casa
mia,” quasi gli ordinò, gli occhi fissi in quelli di John. “Devi riposare.”
La
bocca di John si mosse inutilmente per qualche secondo prima di ritrovare la
voce. “Non posso abbandonare la scena a causa…” Indicò il muro, incapace di
finire, e Greg scosse la testa e parlò di nuovo.
“Puoi
assolutamente farlo. Guarda, ci penso io.” Quando John si allontanò, Greg lo
lasciò andare. “Lo prenderemo. Diavolo, guarda questo posto, troveremo
sicuramente delle prove. Te lo prometto John, posso farcela.”
Il
mondo di John iniziò a ruotare vorticosamente.
“Ci
vediamo quando sarò tornato a casa.” Greg lo stava già spingendo fuori. “Di
nuovo cinese?”
“Sì,”
annuì John. “Tienimi aggiornato.”
Il
nervoso agente Foster lo accompagnò alla porta anteriore come se stesse
accompagnando una bomba ad orologeria.
“Hopkins
era tuo amico, vero?” chiese John. Riconosceva quei due volti, più giovani. “Mi
ricordo che siete arrivati nello stesso periodo.”
Foster reagì a scoppio ritardato e fissò John come se lo vedesse da una nuova
angolazione, poi annuì velocemente. “Già,” disse. “A me non importava, ma lui
aveva sempre voluto essere un detective. Ricordo quando è stato promosso…” Si
interruppe come se gli dolesse la gola.
“Mi
dispiace.”
Il
nuovo sguardo di Foster era fervente. “Sei un brav’uomo, John Watson. Un bravo
poliziotto. Quando sei tornato, Hopkins continuava a ripetermi che ne eri
ancora capace, tesseva le tue lodi.”
John
era un po’ stupito. “Non me n’ero accorto.”
Foster
raddrizzò la schiena. “Ce la caveremo bene qui, Watson. E lo prenderemo. Non
hai di che preoccuparti.” I suoi occhi fissarono qualcosa oltre le spalle di
John e poi un taxi girò l’angolo. Foster corse verso di lui, il braccio
allungato. “Ecco fatto,” disse, sorridendo tra il fiatone, e si avviò
nuovamente all’interno dopo aver fatto un cenno di saluto.
Il
tassista lo guardò incuriosito e John salì sul taxi con un sorriso mesto,
aspettandosi di dover evitare delle domande.
“Dove,
signore?”
Aveva
l’indirizzo di Greg sulla punta della lingua, ma John non riuscì a dirlo.
Non
sarebbe rimasto a guardare.
“Mi
porti a Waterloo.”
***
Invece
di temere il suo viaggio verso il Berkshire, John si scoprì a pregustarlo.
Aveva acquistato il suo biglietto e si era avviato verso il treno, saltando su
appena prima che le porte si chiudessero dietro di lui. Più tardi, quando fu
l’ultimo rimasto nella carrozza, stava facendo delle criptiche parole crociate
su una copia del Metro, quando il suo telefono vibrò nella sua tasca.
“Pronto?”
“Hey
John,” rispose Greg con la voce leggermente ovattata. Da quel che sembrava,
Greg si trovava ancora sulla scena del crimine. John udiva i mormorii dei
detective e dei membri della scientifica che girovagavano lì intorno. “Hai
visto le ultime notizie?”
John
rimase in silenzio e rifletté se dire o no a Geg che non si trovava, in realtà,
seduto dentro casa. “Non ancora,” disse cautamente. Il treno passò rumorosamente
su un dosso, ma Greg sembrò non notarlo.
“Conosci
il direttore dell’ospedale psichiatrico in cui si trova Holmes?”
John
lasciò ricadere il giornale in grembo e sedette dritto. “Il dottor Culverton
Smith?”
“Già.
A quanto pare Holmes ha voltato pagina e ha deciso di confessare tutto a quel
tipo.”
John
sbuffò incredulo.
“No,
davvero,” disse Greg. “È al telegiornale proprio adesso. Holmes ha fatto il
nome del killer come signor Ed Ring e ha fornito alcune informazioni per
identificarlo. È tedesco, un ex aracnofobico, qualunque cosa significhi.”
“Un
ex aracnofobico?” ripeté John, confuso.
“Ad
essere onesto,” rispose Greg, “sembra proprio una di quelle strane cose
specifiche che Holmes usava per dedurre quando lavorava con noi.”
John
aveva imparato in fretta che era importante non sottovalutare le parole di
Sherlock. Aveva la tendenza a nascondere un significato in ciò che diceva e a
costringerti a trovarlo, come la sua osservazione sulle dita delle ragazze. E
John aveva il presentimento di conoscere già la chiave di quel puzzle. “No, non
è così,” mormorò. “Credo significhi che il killer era uno dei pazienti di
Sherlock.”
“Davvero?”
Greg sembrava sorpreso.
“Sì,
quand’era uno psichiatra si era fatto un buon curriculum con il trattamento
delle fobie. Era noto per questo. Controllerei la lista dei pazienti di
Sherlock alla ricerca di qualcuno che è stato curato per l’aracnofobia, se ci
sono i documenti.” John fece una smorfia. “Deve aver avuto un’idea di chi fosse
il killer fin dall’inizio.” Cosa che già sapeva, sul serio. Ma ottenere
informazioni da Sherlock era come togliersi un dente alla volta.
“Potrebbe
essere complicato,” bisbigliò Greg. Molte delle cartelle di Sherlock erano
misteriosamente sparite da quando era andato sotto processo. “Vedrò cosa posso fare.
Grazie John.”
“Ci
sentiamo più tardi.”
John
rimise a posto il suo cellulare nella tasca e si strofinò le dita sul ponte del
naso come per scacciare un’emicrania. Sherlock odiava Culverton. John aveva
assistito abbastanza agli scherni di Sherlock sul dottore, che lui considerava
non qualificato a psicoanalizzare un moscerino, per non capirlo. Persino
Culverton lo aveva ammesso quando John lo aveva incontrato la prima volta. E
adesso Culverton rivendicava una speciale penetrazione nella mente di Sherlock e
otteneva un posto tra le notizie? Qualcosa non quadrava.
Sherlock
non avrebbe mai reso noti i suoi pensieri senza una ragione. Doveva aver saputo
che Culverton avrebbe voluto pubblicizzare immediatamente tutto ciò che
Sherlock gli aveva confessato. Forse aveva realizzato che Culverton poteva
essere buono come un altro per portare il messaggio che voleva far trapelare.
Era uno stratagemma per comunicare al killer ‘So chi sei’? Stava comunicando con John?
John
si sporse di nuovo in avanti e sfogliò il Metro fino a trovare una pagina meno
affollata. Scrisse gli indizi di Sherlock in inchiostro nero.
SIGNOR
ED RING
TEDESCO
EX
ARACNOFOBICO
John
non riusciva a trovare nessun altro significato per ‘ex aracnofobico’, così lo
cancellò con un segno. Era quasi sicuramente un modo per identificarlo come uno
dei pazienti di Sherlock.
Poi
c’era ‘tedesco’. L’assassino era tedesco? Un tedesco che viveva a Londra? John
si accigliò. Non ne era sicuro, anche se esisteva ovviamente lo stereotipo del
tedesco mangiatore di carne, così lo scrisse di fianco.
Il
‘Signor Ed Ring’ gli suonava strano. Era un titolo non necessario, forse era lì
per consolidare l’idea che l’assassino fosse un maschio, in modo che suonasse
ridondante? Sherlock poteva essersi riferito a lui semplicemente come un uomo.
Il significato del titolo in sé era importante.
Forse
il nome era un anagramma, anche se John non era in grado di vederci nulla, e
lui era abbastanza bravo con le parole. Lo scrisse nuovamente con il ‘signor’
in grassetto ma non aveva ancora alcun senso.
Poi
pensò a lui. ‘Tedesco’. L’equivalente tedesco di signore era Herr. Herr Ed Ring.
Red Herring.
Falsa pista.
Sherlock
si era di nuovo preso gioco di Culverton e John non riuscì a trattenere il
piccolo sorriso che gli si allargava in volto. Fu velocemente sostituito dalla
rabbia per quanto sarebbe costato a tutti il tempo che la polizia aveva
sprecato cercando un signor Ring inesistente, ma John era comunque
impressionato. E forse non aveva mentito a proposito del passato del paziente.
Fin dall’inizio, Sherlock aveva dato l’impressione di sapere molto di più di
ciò che lasciava effettivamente trapelare.
All’ospedale,
Dimmock si trovava alla reception. Sollevò lo sguardo allarmato a fatica celato
quando John si avvicinò.
“Devo
vedere Holmes.” John non aveva mai minacciato nessuno, ma tutti quelli anni
come detective l’avevano dotato dell’abilità di guardare le persone come fosse
in grado di minacciarle, quando avesse voluto, e portò a compimento
quell’occhiata.
“Non
è proprio possibile…” rispose Dimmock, che non aveva voglia di incontrare lo
sguardo di John per più di qualche secondo alla volta. John non si mosse.
“Dov’è
il dottor Culverton Smith?”
Dimmock
guardò il suo schermo. “Credo che si alla BBC? Non ne sono sicuro. Ma non è
qui.”
Con
deliberata cautela, John premette le mani sulla scrivania e si protese in
avanti. “Ascolta,” disse, piegando la testa. “Ho davvero bisogno di vedere
Holmes. Ti rendi conto che oggi è stato ucciso un poliziotto?”
“Sì,”
ripeté Dimmock, abbassando il mento. “L’ho sentito al telegiornale.” Il suo
sguardo divenne furtivo. “Senti, vorrei poter essere d’aiuto, ma non posso. È appena stato trasferito in una
nuova cella e abbiamo ancora qualche dubbio sulla sua sicurezza.”
John
sussultò a quelle parole. “Starò attento,” insistette. “Ho solo bisogno di
parlargli.”
***
La
cella di Sherlock si trovava in una stanza tutta per lui con una porta a vento,
dove un corto corridoio portava alla sua stanza sbarrata. C’era una brillante
striscia gialla che attraversava il pavimento, di cui Dimmock si era
preoccupato di spiegargli la funzione. Rappresentava la piena distanza che
Sherlock riusciva a colmare attraverso le sbarre. Una zona di pericolo.
Non attraversarla,
neanche per un secondo. È incredibilmente veloce.
Beh,
John lo sapeva già.
Chiuse
gli occhi e trasse un respiro profondo, rilassando i nervi, e spinse le ante
della porta a vento.
Le
differenze tra questa stanza e la prigione sotterranea di Sherlock furono
immediatamente ovvie. Questa stanza era ampia e ariosa, e l’aria profumava di
fresco e pulito. Erano bei quartieri dalla massima sicurezza, senza dubbio il
prezzo di Sherlock per aver fornito il nome falso al dottor Smith. Le scarpe di
John ticchettavano rumorosamente sulla dura pavimentazione mentre si avvicinava,
ma Sherlock non si mosse.
La
sua alta, sottile figura sedeva a una piccola scrivania abbastanza lontana
dalle sbarre, affacciata verso l’esterno. John poteva vedere il retro dei suoi
ricci scuri, il suo pallido riflesso sulla finestra. Appariva calmo.
“Ancora
tu?” Gli occhi si aprirono, focalizzandosi sul riflesso di John piuttosto che
sulla sua persona. La sua voce era gentile.
“Ancora
io,” disse John. Lungo i suoi fianchi le sue mani erano strette a pugno.
Sherlock
lo notò e le sue labbra si allargarono in un sorriso leggermente compiaciuto
che fece gelare la spina dorsale di John. “Diranno che siamo innamorati,” disse
lentamente, strascicando le parole, e girò attorno alla sedia per portarsi di
fronte a John, la sua pelle anormalmente pallida nella luce arancione del sole
morente. “Separati da sbarre d’acciaio e una sventurata tragedia, possiamo solo
sognare di stare insieme. Sogni di me, John?”
John
aveva incubi che lo svegliavano nel mezzo della notte con gli occhi bagnati,
tastandosi disperatamente come se le sue budella minacciassero di fuoriuscirgli
tra le mani.
“No,”
disse invece, mantenendo il tono della voce piatto.
Sherlock
sogghignò. “Bugiardo.”
“Perché,
tu sogni di me?” chiese John con una nota di sarcasmo e le palpebre di Sherlock
si abbassarono.
“Oh,
con stupefacente regolarità. Sono riuscito a padroneggiare sogni lucidi,
durante la mia permanenza qui.” Prima che John rispondesse, l’espressione di
Sherlock divenne preoccupata. “Stai bene?” domandò. “Sei un po’ pallido.
Dimmock avrebbe dovuto lasciarti una sedia.”
“Starò
in piedi,” disse John con semplicità. “Non mi fermerò a lungo, comunque.”
Sherlock
mugugnò sorpreso, ma andò avanti. “Mi scuso per le azioni del dottor Culverton
Smith. So che sei stato importunato dalla stampa.”
John
si strinse nelle spalle. “Non è poi così male.”
Il
leggero movimento delle sue spalle sembrò risvegliare qualcosa in Sherlock, il
quale socchiuse immediatamente gli occhi, utilizzando la sua vista a raggi x.
“Sei andato a stare con l’ispettore Lestrade.” Annusò l’aria. “Sua moglie l’ha
lasciato.”
“È
da un’amica,” lo corresse John.
“No.”
Sherlock sembrava divertito. “Lo ha lasciato e il buon vecchio Lestrade è
troppo imbarazzato per dirtelo.” Picchiettò le dita sul tavolo e scosse
lentamente la testa da una parte all’altra. “È troppo imbarazzato per dirti un
sacco di cose, immagino.”
“C’è
stato un altro omicidio, oggi,” disse John di rimando. “Un agente.”
Fu
come se la temperatura della stanza fosse precipitata di qualche grado quando
lo sguardo di Sherlock incatenò nuovamente il suo, questa volta era frustrato.
Il mondo all’esterno arrivava a lui solo tramite il permesso dei suoi badanti e
chiaramente non era stato aggiornato sui fatti recenti come avrebbe voluto.
“L’assassino
è arrabbiato a causa della conferenza stampa che gli ha negato le vittime,”
continuò John. “Credo che abbia paura di non trovare più nessuno per completare
il suo messaggio, ma ci riuscirà.”
Sherlock
rimase in silenzio per un po’. “Ha cambiato il suo schema,” disse infine, gli angoli
della sua bocca si allungavano verso il basso. Disapprovazione? John non lo
sapeva.
“Doveva
farlo.”
“Bene,”
mormorò Sherlock e il suo sguardo tornò fuori dalla finestra. “Non ne sarà
troppo felice.”
“Non
lo è,” rispose John, sollevando il mento e stringendo i pugni, e sapeva che
c’era solo un modo per garantirsi l’interesse di Sherlock per ciò che sarebbe
successo dopo. “È furioso. Ha scritto che sarebbe venuto a cercare me, poiché
sono colui che ha gli ha incasinato le cose, dopo tutto.”
Gli
occhi di Sherlock si spalancarono e si alzò in piedi, avvicinandosi rapidamente
alle sbarre. John sentì il suo stomaco chiudersi dalla paura. “Perché non sei
sotto custodia cautelare?” domandò Sherlock, le sue dita bianche avvolgevano le
sbarre di metallo verniciate di nero e le afferravano strette.
“Dovrei
esserlo,” disse John e il fatto che la casa di Greg contasse come protezione
non era proprio una bugia. “Ma sono qui e voglio sapere cos’altro puoi dirmi. E
niente bugie.” Piegò la testa. “Non come quella che hai raccontato al dottor
Smith.”
“Oh?”
Sherlock lasciò che quel suono gli rotolasse lentamente sulla lingua. Il suo
sguardo era più tagliente, come se fosse in attesa di qualcosa.
John
si chiese se quello fosse una specie test. “Il nome che gli hai dato,” spiegò.
“È l’anagramma di red herring.”
A
quel punto Sherlock sembrò risplendere di piacere. “Ben fatto, John.”
“Lo
hai manovrato,” lo accusò John. “Solo perché si mettesse in ridicolo. Ti rendi
conto di quante risorse hai sprecato, risorse che avrebbero potuto essere
impiegate per catturare l’emulatore?”
Sherlock
sospirò drammaticamente e si spinse lontano dalle sbarre, poi iniziò a
passeggiare lentamente nella sua cella, misurando i passi. “Uno deve pur avere
qualcosa per passare il tempo quaggiù, John. Sarebbe orribilmente noioso,
altrimenti.”
“Sai
che ti rispedirà nei sotterranei, appena capirà cos’hai fatto.”
“Non
mi importa. Ho già visto quello che dovevo vedere.” E il suo sguardo tornò
nuovamente fuori dalla finestra.
“Guarda!”
John avrebbe voluto gridare. “Sono venuto qui per chiedere il tuo aiuto.”
“Beh,
ovviamente.” Sherlock lo guardò torvo. “Non ti fai certo vedere per il piacere
della mia compagnia.”
Come
se non fosse già abbastanza. John sperò che fosse sarcastico. “Tu sai chi è il
killer,” disse, avvicinandosi, e ciò catturò l’attenzione di Sherlock.
“Non
te lo dirò.” Sherlock si fermò
bruscamente, proprio di fronte a John e si raddrizzò raggiungendo la sua
massima statura. Scrutava John, pronto a scattare come una molla come se tra
loro non ci fossero sbarre, e John dovette combattere il bisogno di fare un
passo indietro e cedere il campo. “Mi piace qui e, come hai detto tu, il dottor
Smith mi rispedirà nei sotterranei appena avrà scoperto che gli ho mentito per
il mio personale divertimento.”
“Parlerò
col dottor Smith.” John era sul punto di implorare. Mantenne il suo tono di
voce mite e cercò di nascondere la propria vulnerabilità, ma con ogni
probabilità fallì. “Gli lascerò prendersi il merito del nome.”
Tutto
a un tratto, Sherlock sembrò fare più attenzione a John, come uno squalo che
avesse fiutato del sangue. Lasciò quella richiesta ad aleggiare nella stanza
per un po’ e si prese il suo tempo per far scendere il suo sguardo sull’intera
figura tesa di John, poi all’improvviso la sua espressione divenne fredda e
calcolatrice. “E cosa ci guadagno?” chiese.
“Non
lo so, Sherlock.” John fletté le dita inutilmente lungo i suoi fianchi, la
tensione, sul suo corpo, era insopportabilmente costante come se l’uomo di
fronte a lui fosse talmente immobile e grave da essere intagliato nel marmo. “…la
mia continua esistenza?”
Sherlock
apparve quasi deluso. “Di nuovo, sopravvaluti il tuo valore ai miei occhi. A
cosa mi serve la tua esistenza se non vieni mai a farmi visita?”
John
non riuscì a evitare di essere confuso. “Cosa intendi?”
“Se
lo prendi,” disse Sherlock, “non ci sarà più ragione per te di tornare qui.
Vivremo entrambi il resto della nostra vita separati e io non riceverò nulla in
cambio del mio disturbo.”
Si
udì chiaramente John deglutire. “Non ho niente da offrirti.”
“Sì,”
disse Sherlock puntualmente, paziente. “Ce l’hai.”
John
sapeva cosa intendeva. Aveva per lo più evitato gli articoli di psicologia
amatoriale, apparsi di frequente, a proposito dell’apparente interesse di
Sherlock per lui, ridendone persino. Era stato solo di recente che aveva
realizzato che alcune di quelle argomentazioni erano valide.
Ma
Sherlock era dietro alle sbarre. Non poteva ferire John fisicamente. Le sue
informazioni potevano condurre all’arresto un uomo che aveva ingannato sei
persone e che stava pianificando di fare lo stesso a John.
“Verrò
a trovarti,” offrì John. Il suo futuro era il suo unico strumento di
contrattazione. “Lo prometto.”
I
pallidi occhi di Sherlock lo penetrarono come degli ami. “Quanto spesso?”
“Una
volta all’anno,” fu la proposta di John, immediatamente rifiutata dalla risata
di Sherlock. “Okay, una volta ogni sei mesi.”
“Una
volta al mese,” mercanteggiò Sherlock e John si scoraggiò.
“Viaggiare
fin qui non è economico, lo sai.”
“Ho
ancora del denaro.” Sherlock agirò la mano verso le finestre come indicando il
mondo esterno in cui non c’era più spazio per lui. “Pagherò io.”
John
sapeva che Sherlock poteva pagare; non era propriamente povero. Ma non era
quello il punto. “Una volta ogni tre mesi,” offrì, “e non spenderai un penny. È
un compromesso?”
Tentò,
per il momento, di ignorare quanto quell’offerta gli sarebbe costata.
Sherlock
non sorrise, ma John sapeva che era soddisfatto. Con la luce arancione morente
dietro di lui, assomigliava a qualcuno che avesse appena assaggiato qualcosa di
meraviglioso e che ora desiderava rilassarsi e assaporarlo. Se la trattativa
sul suo tempo libero era stato un test, John non sapeva se l’avesse superato o
meno. In ogni caso, Sherlock ne usciva vincitore. “Bene,” disse Sherlock e rimase
lì in silenzio come un falco troppo cresciuto, a fissarlo.
John
sbatté in fretta le palpebre. “Dunque,” disse dopo una considerevole pausa, “chi
è?”
Sherlock
strizzò gli occhi nella sua direzione, poi si piegò graziosamente da un lato e
ritornò a passeggiare. “Dimmi, John,” iniziò, le sue mani unite saldamente
dietro la schiena. “Come hai capito che ero io l’assassino, dopo tutti quegli
anni?”
John
seguì i suoi movimenti, realizzando con una fitta di depressione che Sherlock non
avrebbe rivelato il nome tanto facilmente. Lanciò un’occhiata al pavimento
sotto i suoi piedi, ripensando al passato. “Sono state molte piccole cose. Ma
ho sempre avuto solo dei sospetti e anche allora non mi fidavo di me stesso,”
ammise. “È stato letteralmente nel momento in cui mi hai attaccato che ho
capito di avere ragione.”
“Hai
un istinto eccellente,” dichiarò Sherlock. “È un peccato che tu non ne faccia
affidamento più spesso. Cos’hai pensato, quando ti ho accoltellato?”
John
iniziava a sentirsi male. Quel ricordo non era un luogo in cui era facile
tornare e la sua cicatrice gli doleva mentre ricordava un dolore accecante
sbocciargli nello stomaco, Sherlock incombere sopra di lui con un’espressione
quasi di scuse e il sangue di John sulle sue mani. “Shock, principalmente,”
confessò. “Ma c’era una parte di me, nel profondo, che se lo aspettava. Avevo
già telefonato a Greg quando sei andato a prendermi il cappotto.” John deglutì,
le parole gli rotolavano maldestramente fuori dalla bocca. “Ha detto di aver
sentito tutto ciò che stava succedendo al telefono, mentre guidava. A quanto
pare, non ho neanche gridato.”
“Non
l’hai fatto,” Sherlock aveva smesso di camminare e stava in piedi
preoccupantemente vicino alle sbarre. “Ho pensato che fossi notevole.”
“Non
avevo abbastanza aria nei polmoni, o l’avrai fatto,” gli disse John. Non si era
trattato di coraggio, o stoicismo.
Sherlock
guardò John come se vedesse qualcos’altro. Un vecchio ricordo sovrapposto al
corpo di John. “Ricordo che il suono della tua pelle e i tuoi muscoli che si
strappavano era più rumoroso di te. Eri così silenzioso.”
“Hai
mai avuto un’esperienza pre-morte?” domandò John in un sussurro, mettendo la
punta del piedi sulla linea gialla. Lo sguardo di Sherlock corse su di lui,
affascinato.
“No,”
disse, con una nota di dispiacere, “ma ci ho lavorato assieme ad alcuni
pazienti.”
“Dicono
che la tua vita ti passa di fronte agli occhi…” John si fermò e trasse un
respiro tremante. “A me non è successo. Ero… ero scioccato. Mi trovavo nel
presente, proprio lì, non a ritroso nel tempo. Era solo…”
“Noi,”
terminò Sherlock, la sua voce un sussurro.
“E
poi, quando mi hai messo sul pavimento, tutto è diventato nero.” Si strofinò
gli occhi mentre le memorie riaffioravano, lui sdraiato sul fianco sul tappeto
di Sherlock con il sangue che gli fuoriusciva dalle viscere e che macchiava
tutto di rosso. Ricordò la sensazione di diventare troppo debole per muoversi,
poi troppo debole per tenere gli occhi aperti. “Mi sono svegliato in ospedale
credendo di stare morendo. L’infermiera è arrivata ad assicurarmi che ce l’avevo
fatta, che ero vivo, che tu eri rinchiuso per sempre. Avevo ingannato la morte.
Potevo vivere pienamente la mia vita.”
“Ma
non era così che ti sentivi,” mormorò Sherlock, “vero?”
John
scosse la testa e chiuse gli occhi. Non ne aveva mai parlato prima. Fu solo
quando chiuse le mani pugno che realizzò che si trovavano sul suo stomaco, come
a proteggerlo. “Mi sentivo come se fossi morto sul tuo tappeto quella notte, ma
il mio corpo si stesse ancora muovendo in qualche modo. Ero così stanco. Non
potevo vivere. Potevo solo… esistere.”
Avrebbe
dovuto stare più lontano dalla linea gialla. Perso nei ricordi, aveva
dimenticato le precauzioni.
La
mano di Sherlock si protese quasi troppo in fretta per essere vista, afferrò
John dal bavero della sua giacca e lo tirò verso le sbarre. John gridò per lo
spavento e si contorse, preso completamente alla sprovvista. Afferrò le sbarre
e si spinse indietro, ma la presa di Sherlock non aveva perso la sua forza
durante quegli anni. Con una torsione delle braccia, tirò John più vicino con
spaventosa violenza e John poté sentire il suo respiro caldo sulla pelle.
“Cosa
ne dici, adesso?” ringhiò Sherlock. Lo strattonò più forte e il petto di John
premette dolorosamente contro le sbarre. “Proprio
adesso. Ti senti ancora come se stessi soltanto esistendo? Solo vagando in una vita che non ti si addice più?”
Il
cuore di John palpitava rumorosamente nel suo petto ed egli non riusciva a pensare, il suo cervello era
un vuoto ciclo di corri, corri corri!
I
suoi occhi si trovavano al livello dei denti di Sherlock.
“Io ti faccio sentire vivo,” dichiarò
Sherlock e una delle sua mani ricadde come una tenaglia sul collo di John.
John
era alla ricerca di un appiglio, in shock, graffiando la carne che lo
incatenava alle sbarre, ma Sherlock non reagì nemmeno quando le unghie di John
incisero delle linee lungo la sua pelle, fissandolo come se stesse assistendo a
qualcosa di affascinante. Con John premuto vicino e impotente, si avvicinò, le
narici che si dilatavano mentre traeva un profondo respiro in prossimità della
guancia di John.
“Ti
senti morto senza il pericolo, John,” disse in quella profonda, funesta voce, e
quando John tremò le sue labbra si inarcarono per il divertimento. “Vivi la tua
vita trincerato in esso, combattendolo coraggiosamente, ma sempre, sempre alla
fine soccombi a quell’impeto, quella scarica di adrenalina. Il pericolo è parte
di te, ti definisce, è ciò che ha determinato ogni decisione della tua vita. Ti
ha portato proprio da me, John, e sai cosa?”
Le
sue labbra accarezzarono l’orecchio di John.
“Io
sono la cosa più pericolosa che tu abbia mai conosciuto.”
Con
John bloccato per il collo, la sua mano libera scivolò attraverso le sbarre per
tirare possessivamente verso il basso la stoffa della camicia, le sue lunghe
dita distese. John sibilò e diede un inutile strattone all’indietro mentre la
mano scivolava sulla sua cicatrice, le dita che toccavano con riverenza la
striscia di tessuto spesso che attraversava l’addome di John, quando
improvvisamente un allarme risuono nell’aria. John riconobbe lo squillo con
sollievo distante. Forse qualcuno aveva finalmente guardato le telecamere di
sicurezza.
Anche
Sherlock lo udì, i suoi occhi guizzarono momentaneamente verso l’alto per
accertarsene, ma ciò lo fece solo stringere con più forza. “Mi hai detto che
non avevi bisogno di nessuno che si prendesse cura di te,” mormorò, “ma
entrambi sappiamo che non è così. Uno psicopatico ha cercato di ucciderti oggi.
Sei spaventato. Lo capisco.” Alzò un braccio per accarezzare i capelli di John,
e John trasalì sentendo i polpastrelli grattargli lo scalpo. Sherlock inspirò,
quasi teneramente. “Ma non ti devi preoccupare. Non gli permetterei mai di
farti del male. Tu sei mio, John, lo capisci? E niente, nessuno, ferisce ciò che è mio.”
I
suoi occhi erano così carichi di promesse che John dovette distogliere lo
sguardo.
“Che
succede qui?” ululò la voce distante di Culverton. “Toglietegli Holmes di dosso!”
Le
porte si spalancarono tra il rumore di passi e, per un momento, John pensò che
la stretta di Sherlock avrebbe potuto spezzarlo.
“Ti
terrò d’occhio,” sibilò Sherlock e poi urlò quando vennero separati dagli
inservienti coperti dalla testa ai piedi di attrezzature protettive. La mano di
Sherlock lo afferrò possessiva e le sue unghie lasciarono dei graffi profondi
lungo il retro del collo di John mentre veniva sottratto alla sua presa.
“Portate
il poliziotto fuori di qui!” ruggì Culverton. “E tu stai indietro Holmes, o
verrai sedato—”
Le
voci urlanti si affievolirono mentre la sicurezza trascinava un John tremante
fuori dalla zona di Sherlock, le porte sbatterono dietro di lui. Lo gettarono
letteralmente fuori dall’ospedale. Una volta che fu all’esterno, tremando per
lo shock e l’adrenalina nella fredda aria pomeridiana, incespicò lontano dalla
vista e collassò vicino al muro di mattoni rossi dell’ospedale. Quasi
immediatamente, le sue gambe cedettero. Scivolò lungo il cemento ruvido e
lasciò ricadere la testa.
Non
riusciva a smettere di tremare. La pelle lacerata sul suo collo pungeva a causa
del vento.
Premette
la sua, più piccola mano sopra la fastidiosa cicatrice che gli segnava lo
stomaco e ricacciò ferocemente indietro le lacrime. Sherlock non gli aveva detto
niente.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1533551
|