La perdita di carne e anima (traduzione di Yuri_e_Momoka)

di deuxexmycroft
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


loss 1

Ecco una gran bella fanfiction che sta riscuotendo moltissimo successo. È attualmente in corso, sono stati scritti finora 4 capitoli su 5.

L’autrice ha specificato che si tratta di un crossover con Red Dragon e Il Silenzio degli Innocenti, ma non essendoci questi titoli nell’archivio di efp devo specificarlo qui.

Per qualche motivo, nonostante la semplicità e la scorrevolezza dello scritto originale, mi ci è voluto parecchio per tradurre il primo capitolo poiché è davvero ricco di particolari ed eventi.

Godetevi il primo capitolo e andate a leggere la storia originale, se potete!

The Loss of Flesh and Soul -> deuxexmycroft

 Traduzione di Yuri, con il consenso dell'autrice.

 

  

 ***

 

 

 

 John Watson suonò il campanello con un dito guantato, fermamente, per circa mezzo secondo. Il volto stanco era difficile da distinguere nel buio della notte, la luce dei lampioni troppo fioca e nebbiosa per risultare d’aiuto, ma il suo profilo poteva comunque essere intuito. Era un uomo minuto, con una buona postura a dispetto della stanchezza, avvolto in un cappotto invernale che avrebbe potuto essere più caldo, e una sciarpa che avrebbe potuto essere meno ispida.

La luce dell’atrio si accese, illuminando il volto di John attraverso il vetro ghiacciato, e dopo un ticchettio di lucchetti aperti, la porta si aprì. Sherlock Holmes stava in piedi all’entrata con una cortese espressione di stupore sul viso, la sua figura slanciata vestita di tutto punto nonostante l’ora tarda. “Ispettore?”

John sentì profumo di caffè e di cena su di lui. Si schiarì la voce. “Mi spiace disturbarti così tardi,” iniziò, ma Sherlock lo interruppe.

“Non è un problema.” Aveva una voce profonda e tranquilla. Agitò vagamente una mano pallida in direzione del salotto. “Ero sveglio, comunque. Vuoi entrare?”

“Se non è un problema.” John spinse un po’ più a fondo le mani nelle tasche. “Voglio solo parlare.”

Gli occhi taglienti di Sherlock di strinsero impercettibilmente. “Ma certo,” disse, e arretrò, tenendo la porta aperta così che John gli passasse accanto allontanandosi dal freddo. La chiuse dietro di lui, ma non a chiave, il suo sguardo non si staccava da John. “Posso prenderti la giacca?”

Appese la sua giacca nell’armadio sotto le scale e scortò John nel salotto. Una stanza abbastanza grande, che Sherlock aveva riempito – e in ciò John riconobbe il suo tipico comportamento da gazza ladra – con oggetti che gli interessavano. Avrebbe dovuto sembrare disordinata, ma al contrario appariva come un incrocio tra una biblioteca e un negozio antico. Il suo computer ronzava sul tavolo da caffè, dove sembrava che Sherlock stesse facendo ricerche sull’aracnofobia.

“Per uno dei miei clienti,” spiegò Sherlock, notando la direzione dell’occhiata di John. Si lasciò cadere sulla poltrona e tirò fuori il suo violino. “Siediti, ora. Cos’è che ti preoccupa?”

“Quanto mi costerà?” scherzò John, appropriandosi della poltrona di fronte.

Sherlock sorrise indulgente. “Considera gratuito ogni beneficio terapeutico che deriverà da questa chiacchierata.” Pizzicò le corde del violino, con gentilezza, per non fare troppo rumore che avrebbe disturbato la conversazione.

“Okay,” disse  John, mettendosi comodo della poltrona. “Bene. Non ci conosciamo molto bene, ma abbiamo lavorato sullo stesso caso per un po’ e ho fiducia nel tuo contributo come psichiatra forense.”

Sherlock sorrise. “Mi onori. Qual è il punto?”

“Credo… che abbiamo commesso un errore,” disse John tranquillamente. “Abbiamo seguito la pista sbagliata per tutto il tempo.”

“Davvero?” rispose Sherlock, senza smettere di picchiettare con le dita.

“Sì. Abbiamo identificato il killer come qualcuno con un risentimento e un’esperienza pratica di anatomia.”

Sherlock mugugnò la sua approvazione, e strinse una delle corde con una precisa torsione delle dita sottili. “Data la sua esperienza nell’estrazione delle parti del corpo che colleziona, sospetterei un medico radiato o magari uno studente di medicina che abbia abbandonato gli studi. Forse anche un dentista, o un professore di biologia umana.” Somministrò a John uno dei suoi inquietanti sorrisi che non raggiungevano gli occhi. “O persino una persona molto abile con una buona conoscenza di Google.”

John avvertì i capelli iniziare a rizzarglisi sulla nuca. Ma non lo diede a vedere a Sherlock e sollevò il mento. “È qui che ci siamo sbagliati,” spiegò con franchezza.

Le labbra di Sherlock si strinsero. “Oh?”

“Non colleziona parti del corpo.”

Sherlock inarcò un sopracciglio. “E allora perché le prende?”

“Credo,” disse John con voce sempre più fioca, “che le mangi.”

La temperatura nella stanza sembrò precipitare e Sherlock ripose con cautela il violino sul piedistallo, la sua poltrona scricchiolò quando si sedette. “Va’ avanti,” disse, unendo tra loro le dita di ciascuna mano sotto al mento.

John emise un respiro nervoso. “È stato mentre la mia ragazza preparava la cena.” Il naso di Sherlock si arricciò leggermente, come succedeva sempre quando John accennava a Sarah. “Stava tagliando il pollo e mi disse: ‘la miglior parte del pollo è il codrione, sui lati del collo’. E a quel punto mi sono ricordato della terza vittima.”

Le palpebre di Sherlock vibrarono al ricordo. Aveva visto le foto del crimine.

Deglutì rumorosamente e lo sguardo di Sherlock si spostò sulla sua gola e poi di nuovo sul viso.

“E allora ho capito.” John si raddrizzò leggermente, mentre Sherlock stava rigido come una statua di fronte a lui. “Fegato, rene, lingua, timo. Quelle che sono state prelevate da ogni vittima sono tutte parti che vengono usate in cucina.

Il volto di Sherlock sembrò illuminarsi. Si sfregò il labbro inferiore, lo sguardo abbassato mentre pensava. “Molto interessante,” mormorò. “Questo… questo cambia tutto.” Lanciò un’occhiata valutativa a John. “Hai condiviso questi pensieri con qualcuno?”

John scosse la testa. “No… volevo parlarne prima con te. Di nuovo, scusa se ti ho rovinato la nottata con questi discorsi sull’omicidio. A me ha impedito di gustarmi la cena di Sarah.”

“Oh, no, non ti scusare,” disse in fretta Sherlock, distogliendo lo sguardo. “Lo trovo affascinante.” E infatti rimase seduto in silenzio per un po’, senza dubbio rimuginando su ogni cosa.

“Alle volte mi domando se dovremmo scambiarci i lavori,” suggerì John, scherzando solo in parte. “Considerato l’interesse che provi per i miei casi.”

“Credo che scoprirai che tutti sono interessati all’omicidio, John,” disse Sherlock con un ghigno. “D’altro canto, sono più interessato alle persone che stanno dietro ai casi.” Fissò nuovamente John con uno sguardo di ghiaccio. “O da entrambi i lati.”

John sorrise educatamente, ma avvertì la propria tensione sul volto.

“Un giorno mi piacerebbe averti sul mio divano,” rifletté Sherlock, quasi tra sé e sé. “Non riesco a immaginare gli orrori che si nascondono nella tua testa. Tutte le cose che hai visto…”

“Non ne sono sicuro. Forse non sei un così bravo psichiatra come credi,” disse John, in un impeto. “Sei considerato il migliore, eppure sei rimasto su questo caso più a lungo di quanto non abbia fatto io, la possibilità che l’assassino fosse un cannibale sembra non averti sfiorato.”

“Che posso dire?” disse Sherlock, separando le mani. “Ho commesso un errore. So che a voi persone piace pensare che ciò che faccio sia magia, ma in tutta onestà io sono umano quanto voi.”

John fece una pausa, incerto. “Non mi sembri qualcuno che commette tanti errori.”

“Odierei perdere la tua piena fiducia, John,” disse Sherlock dolcemente. “Significa molto per me.”

E in quell’istante, John… aveva quasi capito.

Indietreggiò col busto e aggrottò le sopracciglia concentrandosi. Ma il pensiero gli era sfuggito, e improvvisamente si sentì esausto.

“Mi dispiace,” disse John, piegando la testa. “È stato scortese da parte mia accusare…” Si fece scorrere una mano tra i capelli e sospirò. “È tardi. Sono molto stanco e non ho dormito. Scusami.”

Sherlock lo studiò silenziosamente da sopra le dita congiunte. “Vai a casa,” disse infine. “Riposati, e poi torna a farmi visita quando ti sentirai meglio. Possiamo rivedere i rapporti degli omicidi alla luce della tua scoperta. Farò del mio meglio per non commettere altri sbagli. Può andar bene?”

John annuì debolmente. “Ottimo. Grazie, Sherlock. Scusa ancora per –“

“Non dirlo,” lo riprese Sherlock. Si alzò in piedi e agitò la mano verso il basso quando John fece cenno di seguirlo. “No, no. Rimani lì. Ti prendo la giacca.”

Scomparve dalla stanza e lo spazio sembrò improvvisamente più grande ora che lui ne era fuori. John espirò lentamente, sentendosi piccolo. Quando la porta del ripostiglio si aprì all’entrata, John affondò il volto tra le mani. Cosa c’era che non andava, in lui? Sherlock era strano, ma non c’era ragione di…

Il suo sguardo fu catturato, sulla libreria che dominava una delle pareti della stanza, da vari libri di ricette di cucina. Uno di loro era stato aperto di recente.

John si fidò del suo istinto. Se qualcosa lo colpiva, meritava di essere verificato. I suoi passi furono attutiti dal tappeto morbido quando si incamminò, prendendo quasi di riflesso il cellulare per telefonare a Lestrade. Compose il numero con mano ferma mentre faceva scorrere lo sguardo su una sezione del libro di cucina che Sherlock aveva segnato con ‘carne di maiale’.

L’attacco provenne dal nulla.

John si voltò di scatto, allarmato, in tempo per vedere Sherlock incombere su di lui, un bagliore d’acciaio, poi un dolore accecante non appena un coltello si fu fatto strada con forza nel suo stomaco. Avrebbe gridato, ma l’aria gli era stata strappata via dai polmoni, così invece si aggrappò inutilmente alle mani umide di Sherlock.

“Shh,” mormorò Sherlock paziente, premendo la sua mano sulla bocca ansante di John. John tentò di divincolarsi, ma quella mano ossuta era forte come il ferro. “Lascia che accada.”

Ci fu un suono di pelle lacerata, carne strappata quando Sherlock girò il coltello nel corpo di John.

John fissò impotente il pallido volto affascinato sopra di lui, che lo osservava come un gatto osserva un tolo intrappolato sotto le sue zampe. John stava già sudando, troppo sconvolto per lottare, pensando, stupidamente, che dopotutto a lui piaceva quella camicia. Il dolore era tale che le gambe cedettero sotto il peso del suo stesso corpo e Sherlock lasciò scivolare il coltello fuori da lui e lo rigirò come una bambola di pezza, schiacciandolo contro la libreria per mantenerlo dritto con le sue grandi mani su entrambi i fianchi di John, il coltello appoggiato di lato.

John percepiva il calore di Sherlock sulla sua schiena e, sopra ogni altra cosa, la sensazione che il suo stomaco stesse fuoriuscendo. Respirò profondamente e tentò di non singhiozzare quando la parte inferiore del suo corpo perse ogni forza.

“Ah, sì,” disse Sherlock, con un tono stranamente tenero. “Le tue gambe sono andate. Non temere, sono abbastanza forte per entrambi.” Accarezzò i capelli di John, un intimo gesto che gli provocò dei brividi lungo la spina dorsale. “Speravo che non scoprissi il mio coinvolgimento, John, ma sembra che abbia sottovalutato la tua intelligenza. O forse ho dato per scontata la mia. In ogni caso, devi saperlo, non avrei mai voluto farti del male. Ma tu mi hai costretto.”

Il cuore di John gli batteva velocemente nel petto, pompando inutilmente sangue fuori dal suo corpo e mandandolo a spargersi sul tappeto di Sherlock. Si sorprese a domandarsi come diavolo avrebbe fatto Sherlock a ripulire tutto. Avrebbe nascosto il corpo, come con aveva fatto con gli altri? Avrebbe mangiato uno degli organi di John?

La vista gli si stava offuscando ai lati, come durante una sbronza. Sentì le dita di Sherlock strofinare il suo scalpo.

“Sei ammirevole,” sussurrò Sherlock improvvisamente, le labbra vicinissime all’orecchio di John. Il suo respiro graffiante gli arrossò la pelle. “Credo di aver fatto breccia nel tuo cuore.”

“Fermo!”

Attraverso il dolore, John riconobbe quella voce. Sherlock sembrò paralizzarsi attorno a lui, le labbra ancora premute sull’orecchio di John, il suo cervello al lavoro. Come se si fosse teletrasportato dal nulla, il detective ispettore Greg Lestrade aveva la sua pistola puntata alla testa di Sherlock. John avvertì un enorme sollievo.

“Molla il coltello e lascialo andare subito,” ordinò Lestrade.

Il coltello macchiato di sangue cadde e colpì il pavimento con un rumore sordo.

Sherlock respirò lentamente nell’orecchio di John valutando la situazione, completamente immobile, poi leccò il lobo di John con la sua lingua calda, muovendo la bocca in un bacio beffardo, prima di staccarsi e accompagnarlo sul pavimento. Quando John giacque ai suoi piedi, sollevò le mani in segno di resa e sorrise tranquillamente in direzione della canna della pistola.

L’universo di John si oscurò attorno a lui, pezzo per pezzo, mentre rimaneva adagiato sul tappeto morbido, il sangue proveniente dal suo stomaco tingeva gradualmente ogni cosa di rosso.

 

******

 

Greg Lestrade sbirciò il monitor per poter vedere il Dr Sherlock Holmes nella stanza degli interrogatori, circondato da agenti della sicurezza, le mani ammanettate e posate sul tavolo. L’uomo sembrava quasi annoiato, le palpebre calate a metà, la bocca atteggiata in una smorfia di disapprovazione. Era vestito con la maglietta e i jeans di qualcun altro. I vestiti su misura che indossava quando era arrivato erano macchiati del sangue di John e per di più servivano come prove.

“Gli parlerà, signore?” domandò il detective sergente Donovan, accigliandosi.

Greg si strofinò una mano sulla fronte. “Sono appena tornato dalla visita a John all’ospedale,” disse e l’espressione di Donovan diventò più comprensiva. “Devo parlare a quel maledetto Holmes prima che vada in tribunale. Ho bisogno di capire.”

John era sembrato così piccolo nel letto d’ospedale, appena uscito da un intervento chirurgico d’urgenza con il busto pesantemente fasciato, il volto rilassato ma, per qualche motivo, non pacifico. Diversi tubi entravano e uscivano dal suo corpo, come se fosse una specie di macchina.

Ogni tanto le sue soffici, bionde ciglia avevano tremato sui suoi zigomi e Greg si era domandato se John si stesse svegliando.

Chiaramente era impossibile. John era sprofondato in un coma indotto, a mala pena in grado di sopravvivere. Sherlock lo aveva praticamente sventrato.

“Sembri preoccupato, Ispettore,” disse Sherlock non appena Greg fu entrato, e il bastardo stirò le labbra in un sorriso affettato.

Greg desiderò che la brutalità della polizia non fosse vista così di cattivo occhio. John era a pezzi e Sherlock ne sorrideva, al sicuro da ogni danno. “Sei tu quello che dovrebbe essere preoccupato, Holmes. A meno che tu non possegga un sangue freddo tale che l’omicidio non abbia alcun effetto sulla tua coscienza.”

Gli lanciò quella frase con fierezza, cercando di ferirlo con le parole dove non poteva farlo con i pugni,  ma Sherlock lo fisso semplicemente con i suoi pallidi occhi scintillanti. “Come sta John?” chiese Sherlock, calmo, come se stessero chiacchierando davanti a un caffè.

“Cosa di importa?” gli ritorse Greg, sedendosi di fronte. “Hai cercato di ucciderlo.”

“Non volevo,” disse Sherlock, intrecciando le dita, facendo sfregare le manette contro il tavolo metallico. Aveva uno sguardo distante. “Mi piace John, Ispettore, ma non tanto quanto io piaccio a me stesso.”

Ovviamente no. Sherlock era al centro del suo mondo delirante.

“Come sta John?” ripeté Sherlock, con infinita calma.

“Tu cosa credi?” gridò Greg, ma la suprema imperturbata presenza di Sherlock, in qualche modo, fece apparire la reazione di Greg impetuosa e irragionevole al confronto. “È a un passo dalla morte in un letto d’ospedale. L’hai quasi tagliato in due.”

Sherlock ammiccò lentamente. “Magari gli manderò un biglietto.”

“Non farai niente del genere,” disse Greg a denti stretti.

“È molto intelligente, sai. Più intelligente di te, comunque.” Sherlock sottolineò la frase trascinando il suo sguardo lungo il corpo di Greg. “Credo, tra i due, che il piccolo John sia molto più adatto ad essere Ispettore Capo.”

Greg si irritò e il ghigno sul volto di Sherlock si allargò, increspandogli la pelle attorno agli occhi.

“Dovresti essermi grato. Prevedo che John si ritirerà, dopo tutto questo. E allora tu sarai la scelta più naturale per la promozione.”

Si sentì uno schianto quando Greg balzò in piedi, sbattendo il pugno sul tavolo per impedirsi di colpire la faccia di Sherlock. Le sue spalle si alzarono mentre trangugiava ossigeno, arrossato dalla rabbia, squadrando Sherlock con odio. “Rimarrai rinchiuso per sempre, Holmes,” sputò. “Ti credi così superiore, ma vivrai il resto dei tuoi giorni in una piccola cella, diventando così rabbioso e  deviato che non sarai più una minaccia per nessuno. E John si riprenderà da ciò che gli hai fatto, e ti dimenticherà. Io ti dimenticherò. Ancora qualche anno e nessuno si ricorderà di te.”

I pallidi occhi di Sherlock spazzarono la figura contratta di Greg, come se lo stesse facendo mentalmente a pezzi. “Tu mi penserai, soprattutto quando meno te lo aspetti,” disse lentamente. “Infatti, farai fatica a fidarti di persone nuove per anni a venire, anche se, forse, non realizzerai quanto ciò ti stia limitando. E John?” Sherlock s’interruppe addolcendo il tono. “Ogni fitta di dolore della sua ferita, ogni pillola che prenderà per smettere di soffrire gli farà ricordare di me. E quando gli anni saranno trascorsi e il buco nel suo stomaco si sarà rimarginato in una cicatrice, mi penserà ogni volta che ne scorgerà la forma allo specchio, o la sentirà prudere sotto i vestiti. Non sarà mai in grado di dimenticare. E fintanto che sarà nei paraggi, nemmeno tu.”

“Tu speri-“ protestò Greg, ma Sherlock lo interruppe aggiungendo malizia alla sua voce.

“E allora vedrai John, ti ricorderai delle altre vittime che non hai fatto in tempo a salvare. Penserai alla tua stupidità, a quanto hai fallito a trovare il vero killer. Se solo avessi guardato un po’ più da vicino saresti stato capace di salvare quelle persone. E a quel punto,” gli occhi di Sherlock brillarono, “inizierai a odiare John.

“Sta’ zitto,” scattò Greg, il suo cuore correva troppo veloce nel suo petto.

“Perché John non ha avuto prima la sua rivelazione?” disse Sherlock, il suo piacere selvaggio per la reazione di Greg era visibile nel suo largo ghigno. “Quelle persone non sarebbero morte se John fosse stato  un po’ più veloce, un po’ meno fiducioso. E presto, non sarai più in grado di stargli vicino senza cadere in una spirale di depressione che curerai con l’alcool. Senza successo.”

Greg realizzò tardi che Sherlock se lo stava lavorando, con nessun altro scopo se non il proprio divertimento. Era inorridito per aver consentito a Sherlock di protrarre quella cosa così a lungo. La conversazione era tanto vicina a un coltello rigirato nelle budella quanto le parole potessero essere.

“Ti vedrò in tribunale, Sherlock,” disse Greg, definitivo. Uscì dalla stanza, fin troppo consapevole delle occhiate di Sherlock alle sue spalle, affilate come pugnali.

 

***

 

I giorni trascorsero veloci.

Sherlock fu dichiarato colpevole dopo un processo largamente pubblicizzato e condannato a nove ergastoli consecutivi senza possibilità di appello. Non sarebbe mai più uscito. Per fortuna, forse, John passò l’intero tracollo mediatico nel suo coma indotto.

C’erano l’interminabile copertura del coinvolgimento di Sherlock nella sua stessa indagine, i macabri dettagli del processo, e poiché le affilate caratteristiche di Sherlock risultavano così peculiari sulle stampe in bianco e nero, le sue foto finirono per essere viste ovunque. Aveva un talento per i morsi e i giornalisti amavano odiarlo.

“Cosa ne sarà della tua anima?” aveva gridato una donna esaltata mentre Sherlock usciva dal tribunale, la sua snella figura in completo fiancheggiata dalle guardie. “Dio ti manderà all’infermo per ciò che hai fatto a quella gente!”

“Dio ne ha uccisi a milioni,” aveva risposto Sherlock in tono ragionevole. “Sono sicuro che non mi invidierà per qualche miserabile omicidio.”

In termini più infelici, la notizia mise in luce il Servizio di Polizia Metropolitana per aver mancato di notare che essa aveva indirettamente favorito un omicidio. Non importava che Sherlock avesse alle spalle una carriera senza macchia e impeccabili referenze. Avrebbero dovuto capirlo, e non l’avevano fatto. Fu sottolineato, in particolare, il coinvolgimento di John, dopo che un giornalista scandalistico si fu introdotto in ospedale ed ebbe rubato una foto del suo corpo malridotto dopo un altro intervento. I bastardi lo avevano sbattuto in prima pagina.

Tutto ciò era accaduto prima che John si risvegliasse, ammiccando confusamente con occhi che non vedevano la luce da troppo tempo. Per un istante credette di trovarsi, ancora sanguinante, sul tappeto di Sherlock, ma un’infermiera accorse in fretta a tranquillizzarlo e a spiegargli cos’era accaduto.

E, esattamente come Sherlock aveva predetto, si ritirò presto dalle forze di polizia.

Era disteso sul suo letto d’ospedale quando Greg venne in visita, il suo comodino era sommerso da libri e cartoline, da parte di amici e colleghi, che gli auguravano una pronta guarigione. Secondo i dottori sarebbe stato pronto a tornare a casa in pochi giorni, una notizia che John stava assaporando. Quando Greg entrò, Sarah sedeva di fianco al suo letto, sistemandogli il cuscino; John sorrise coraggiosamente ma i suoi occhi erano velati di tristezza, sebbene fosse contento del nuovo visitatore. Aveva perso molto peso.

Nella stanza regnava un’atmosfera strana e Greg ebbe l’impressione di essere arrivato nel mezzo di una discussione che non si era conclusa.

“Sono… troppo stanco di tutto,” disse pacatamente, dopo che Sarah l’ebbe baciato con gentilezza sulla guancia e fosse tornata al lavoro. “È troppo. Mi conosci, Greg. Per risolvere i casi ho bisogno di mettermi nei panni dei criminali, devo pensare come loro. E il dottor Holmes…” John serrò i denti e la mano vicino al suo stomaco si contrasse. “È più di quanto possa reggere. Mi ucciderò, cercando di catturare queste persone.”

Greg ricordò la dolorosamente accurata predizione di Sherlock e abbassò lo sguardo sulle sue dita. “Credo che tu sia bravo in questo lavoro, John.”

John lo fissò per un po’, poi si allungò verso il comodino ed estrasse un cartolina con un’espressione sconfitta che fece stringere il cuore di Greg. “Guarda,” disse John, quasi supplicando, e le sua mano tremava mentre gli porgeva un biglietto costosamente elegante. “È da parte sua. Sta cercando di tenersi in contatto con me.”

Greg lo prese e la mano di John ricadde al suo fianco. La aprì con cautela, avvertendo la qualità della carta sotto al pollice.

Scusa, aveva scritto Sherlock in linee appuntite di inchiostro nero sopra a un messaggio prestampato. Ti penso spesso. S.

Greg rimise cautamente la cartolina assieme alle altre, lontano dalla vista. “Passerà la vita in prigione, John. Non può farti del male da là.”

Per qualche ragione, per Greg era incredibilmente importante provare che Sherlock aveva torto e far restare John nella polizia. Ma John scosse la testa, come se Greg non riuscisse a capire. Appariva triste. “Quando uscirò da qui mi dimetterò formalmente. Mi dispiace, Greg. Sei un buon amico.” I suoi occhi si mossero a incontrare quelli di Greg. “Spero che ciò non cambi dopo che avremo smesso di lavorare assieme.”

“Ovviamente no,” si affrettò ad assicurare Greg. “Sarai sempre benvenuto ad unirti a noi al pub a fine giornata. Ma John –“

“Greg,” lo interruppe John, scuotendo la testa. Sembrava anni più vecchio e decadi più fragile. “Ti prego.”

Chiacchierarono per circa mezzora prima che Greg tornasse a casa. Lasciò John con i giornali che aveva richiesto e che si era perso, così che potesse rimettersi in pari. John gli fu incredibilmente grato e diede a Greg una scatola intatta di cioccolatini da parte di uno dei suoi amici da condividere con la famiglia di Greg.

“Erano un regalo, ma al momento non posso mangiare cioccolata,” spiegò John. “Ho una dieta molto limitata.”

Greg la ricevette con gratitudine e quando John sporse la mano per una stretta, Greg invece si chinò e lo abbracciò con cautela. Lo sentì più morbido e ossuto di prima.

“Riguardati, John,” gli disse, sincero.

“Anche tu,” rispose John.

 

***

 

Sulla sua cuccetta nella sua prigione di vetro, Sherlock Holmes giaceva prono con un’uniforme bianca, leggendo avidamente il giornale The Herald. La sua pelle, naturalmente pallida prima che venisse rinchiuso, sembrava quasi cadaverica ora, privata del colore per la mancanza di sole e a malapena distinguibile dai suoi vestiti. I suoi occhi guizzarono veloci mentre leggeva e si sfregò pensieroso il labbro inferiore con l’indice, prima di leccarlo per voltare pagina.

La sua storia non era ancora scomparsa dai giornali. L’ultimo risvolto comprendeva il capo del personale dell’istituto psichiatrico, dottor Culverton Smith, e la sua promessa di divulgare le analisi definitive del caso di Sherlock a qualunque pubblico fosse interessato. La sua piccola, compiaciuta fotografia era praticamente su ogni giornale in cui si imbatté, in piena vista delle telecamere. Il dottor Smith doveva sapere che Sherlock non provava altro che disprezzo per lui.

Girò un’altra pagina, e poi un’altra ancora, crogiolandosi e immergendosi nelle informazioni di un mondo in cui non era più ammesso. Le parole crociate erano semplici in maniera deludente e con ciò Sherlock lanciò il giornale da parte e lo lasciò sparpagliarsi sul pavimento, allungandosi sotto il letto per raggiungere il giornale scandalistico che aveva conservato.

Glielo avevano lasciato tenere, per qualche ragione.

Forse, in qualche modo, il dottor Smith stava psicoanalizzando la sua nuova scoperta affezione (o forse ossessione) per l’unica vittima che era sfuggita alle sue grinfie, ma Sherlock non era particolarmente infastidito dalla consapevolezza di essere oggetto di studio. Aveva deciso, tempo addietro, che avrebbe permesso al dottore di interpretare come voleva la sua relazione con il singolare John Watson.

La prima pagina crepitò quando Sherlock fece scivolare un palmo riverente lungo la carta, la mano asciutta, così da non sbavare l’inchiostro. La sua mano indugiò sulla foto in copertina, l’immagine rubata di un John incredibilmente vulnerabile dopo un intervento che gli aveva appena salvato la vita. In bianco e nero, sfortunatamente; cosa non avrebbe fatto Sherlock per una versione a colori.

John appariva orribile, oggettivamente, ma Sherlock trovava quella fotografia bellissima.

La ferita che Sherlock aveva aperto in lui era suturata e ancora fresca sotto le bende attorno alla cintola, e la sua figura minuta sembrava imbottita di tubi. Aveva una sacca per le urine appesa inelegantemente fuori dal suo corpo, dopo che Sherlock aveva danneggiato a tal punto le sue budella. Se non fosse stato per tutta questa tecnologia, John si sarebbe trovato su un tavolo d’autopsia come tutti gli altri. Tecnicamente, Sherlock lo aveva ucciso, eppure lui era ancora lì, vivo.

Era meraviglioso.

Le sue dita danzarono sopra la fotografia, passando sullo stomaco, il petto e infine, delicatamente, sopra i puntini grigi che costituivano il collo di John Watson. Si avvicinò sempre di più finché il suo naso toccò la carta, l’immagine a malapena a fuoco, e non si mosse più per ore.

 

***

 

Cinque anni dopo, Sherlock Holmes si guadagnò un fan.

 

***

 

“Cosa c’è, Greg?” chiese John. Aveva aperto la porta con le maniche della sua camicia blu arrotolate, ora i suoi capelli soffici avevano delle striature grigie e c’era forse qualche ruga in più di quante Greg ricordasse. Nonostante ciò, sembrava più sano che mai. Dimettersi dalla polizia gli aveva fatto benissimo.

“Sembri molto più in forma,” disse Greg davanti a una tazza di tè nella cucina di John.

John picchiettò le dita contro la sua tazza, lo sguardo abbassato. “Mi sento molto meglio,” ammise. “Immagino che si tratti di una specie di processo inverso.” Nonostante la sua apparente allegria, sembrava stare in guardia. Aveva già sospettato il motivo per cui Greg era lì.

“Come sta Sarah?” chiese Greg in un vano tentativo di fare sentire John a suo agio. Era la domanda sbagliata. John rispose squadrando Greg con un’occhiata che conteneva più pietà che disprezzo, prima di prendere con calma un sorso del suo tè e guardare fuori dalla finestra.

Avrebbero dovuto tenersi in contatto.

“So perché sei qui,” disse John piano. “Leggo i giornali.”

Greg decise di lasciar perdere i convenevoli. “Cosa sai?”

“Due donne uccise nelle loro case, due mesi fa. La prima qui a Londra, l’altra a Guildford, nel Surrey.” John bevve un altro sorso di tè. “Le circostanze della morte erano simili.”

“Non simili,” lo corresse Greg. “Le stesse.”

John gli lanciò un’occhiata, incapace di trattenere la curiosità. “Mi sono perso qualcosa?”

Greg scosse la testa. “Stiamo tenendo i media all’oscuro di alcuni dettagli. Non abbiamo nemmeno detto loro che gli omicidi sono collegati tra loro.”

“Quindi c’è una connessione definitiva?” chiese John corrugando la fronte. I loro rispettivi tè si stavano raffreddando su un lato del tavolo, dimenticati.

Greg strinse le labbra e si sforzò di incontrare lo sguardo interrogativo di John. “Le vittime,” disse lentamente, “avevano delle parti del corpo mancanti.”

L’espressione di John cambiò da incuriosita a inorridita in un secondo. “È impossibile,” disse, gli occhi sgranati e le mani serrate attorno al bordo del tavolo. “È rinchiuso, io so che è –”

Aveva controllato più spesso di quanto probabilmente avrebbe fatto una persona sana.

“È un emulatore, John,” lo rassicurò Greg, e John annuì, arrossendo. “Ma posso dirti che le vittime sono state uccise esattamente negli stessi giorni in cui Holmes ha ucciso le sue, con gli stessi organi rimossi. Questo suggerisce che il killer abbia conoscenze che vanno oltre le informazioni che abbiamo divulgato sui giornali.”

“Un emulatore molto ben informato,” disse John debolmente e srotolò le maniche a coprirsi i polsi come se avesse freddo. “È altrettanto bravo chirurgicamente?”

“No,” disse John, parlando mentre estraeva copie dei fascicoli dalla sua borsa. “Ma è migliorato con la seconda vittima. I tagli erano ancora visibilmente fatti da un principiante, ma sapeva quello che c’era da fare, come se stesse seguendo istruzioni.”

John distolse lo sguardo, per un momento le sue palpebre si irrigidirono. “Una buona conoscenza di Google,” mormorò.

“Cosa?” chiese Greg, ma John agitò la mano per farlo continuare, e Greg ubbidì. “Abbiamo la misure delle sue scarpe, un 43, e sappiamo che è un abile scassinatore.”

John impallidì un poco, massaggiandosi un lato della fronte. “Perché? Chiese dopo una pausa prolungata. “Perché copiare gli omicidi di Sherlock così accuratamente?”

“Non lo so,” disse Greg con tatto, spingendo i fascicoli verso John. “Sei tu quello con l’istinto emotivo.”

John rise silenziosamente, poi espirò e si pizzicò la radice del naso. “Non è così che funziona.” Si appoggiò allo schienale sospirando stancamente. “Non voglio farmi coinvolgere.”

Greg lo fissò, infine annuì e si riappropriò controvoglia dei fascicoli. “Capisco.”

John appariva molto più piccolo adesso, l’aria quasi spensierata che aveva quando Greg era arrivato era completamente evaporata. Trascinò più vicino la sua tazza e se la portò con attenzione alle labbra, ma poi la posò nuovamente senza aver preso un solo sorso. Era ormai freddo.

“Senti, John, dobbiamo vederci ogni tanto,” disse Greg, cercando goffamente ti spingere i fascicoli dentro la sua borsa mentre John lo guardava con occhi tristi. “Puoi venire qualche volta e cenare con me e mia moglie.”

Era un gesto privo di significato. Ora John avrebbe annuito, ma poi non avrebbe più telefonato, e Greg non avrebbe dato inizio a nessuna conversazione. Era solo una promessa fatta per mitigare il senso di colpa di Greg, così che potesse dire a se stesso di aver fatto qualcosa dopo essere andato a casa di John e avergli fatto rivivere l’esperienza che lo aveva spezzato.

John lo scortò fino alla porta. C’era una collezione di cartoline di compleanno sul camino in entrata, e Lestrade si bloccò quando le vide. Un’altra cosa che aveva dimenticato.

L’espressione di John era gentile. “È tutto okay, Greg.”

“No, John,” sospirò Greg. Abbassò la testa. “Sono un amico di merda, lo sai.”

“Lo so,” disse John pacatamente, armeggiando con le cartoline. Le sue mani si soffermarono sopra a una blu, le labbra serrate. Si voltò verso Greg. “Ci darò un’occhiata.”

“Davvero?” esclamò Greg, rovistando nella borsa alla ricerca delle carte.

“Sì.” John protese le mani e li prese, lisciando le copertine. “Ho solo bisogno di essere nella giusta predisposizione mentale.”

 

***

 

Greg rimase con lui in salotto, in silenzio, mentre John leggeva la documentazione delle prove. Sedeva raggomitolato sul divano, i piedi sotto di sé, con le carte sparpagliate in grembo, domandando solo occasionalmente chiarimenti a Greg. Ma anche dopo ciò, sembrava perso. Non aveva nuove idee.

“Come hai capito che era stato Holmes?” iniziò Greg, dopo che John aveva di nuovo assunto un’aria sconfitta.

“Non l’ho fatto,” disse John, assente. Poi alzò gli occhi. “Voglio dire, avevo un sospetto, quando ti ho telefonato. Ma sai, probabilmente non avrei fatto nulla se non mi avesse attaccato.” John si corrucciò e guardò qualcosa oltre la spalla di Greg. “Crede che sia più intelligente di quanto effettivamente sia.”

Greg annuì pensieroso, e gli occhi di John si strinsero.

“Cosa?”

“Forse…” iniziò Greg, torcendosi le mani. “Forse è una risorsa che potremmo usare.”

John ammiccò rapidamente, completamente frastornato. “Stai scherzando, vero?” chiese.

“È bravo in questo genere di cose,” protestò Greg. “Mi ha aiutato a risolvere tutti i crimini prima di essere imprigionato.”

L’espressione di John si incupì. “Parlagli tu,” ribatté, rimescolando i fogli per ricomporre i fascicoli.

“Non parlerà con me. Non vuole parlare con nessuno.”

Un muto nessuno tranne te aleggiò nell’aria. John si alzò velocemente e Greg si affrettò a fare lo stesso. “Serviva tutto a questo?” domandò John, quasi incredulo. “Una scusa prolissa per farmi parlare con la tua macchina risolvi-crimini?”

“Non devi farlo per forza.” Avvertiva un’irritante punta di senso di colpa guardando l’espressione contorta di John. “Se ci fosse la possibilità che parlasse con me, lo farei. Ma non c’è, e il prossimo omicidio è programmato tra quattro giorni e sono a corto di opzioni. Ti fidi di me?”

“Certo,” disse John, in un impeto di onestà. “Mi hai salvato la vita.”

Greg annuì, tentando di nascondere la sua sorpresa alla veemente risposta di John.

“Allora fidati quando dico che se esistesse un’altra soluzione non te l’avrei proposto.”

Gli occhi di John brillarono e lui batté le palpebre, si inumidì le labbra, e le sue braccia ricaddero lungo i fianchi. Stava ancora reggendo le cartelle dei casi. Greg capì che stava trattenendo il respiro mentre i secondi passavano.

“Va bene,” disse infine John con voce rotta. “Lo farò.”

 

***

 

Dopo un viaggio di un’ora in treno verso il Berkshire, John si ritrovò nell’ufficio ben decorato del Capo del Personale, seduto di fronte allo stesso. Strisciò la sedia a disagio, il suo sorriso educato svanì quando il dottor Culverton Smith raccontò il passato di Sherlock all’istituto. Era un uomo piccolo e untuoso. John avvertì immediatamente avversione per lui, ma mantenne i suoi gesti il più neutri possibile.

“Ricordo di essere stato emozionato quando entrò qui per la prima volta,” sospirò Culverton. “Non ero mai stato in grado di studiare qualcuno come lui prima. Ma è semplicemente impenetrabile da ogni test.”

“Anche lui è uno psichiatra, dottore,” puntualizzò John. “Probabilmente conosce già i test.”

“Sì,” mormorò Culverton, massaggiandosi la mandibola mentre guardava John. “Li conosce. È questo il problema, vede, è troppo sofisticato per delle vere indagini. E mi odia, ovviamente.” Culverton guardò cupamente la cartella di Sherlock che era abbandonata sul tavolo. “Sottolinea di continuo quanto mi trovi inutile.” Alzò lo sguardo su John. “Ma, è lui quello con la camicia di forza, mh?”

L’autocontrollo di John stava iniziando a vacillare.

“Ora, la sua visita è qualcosa di molto emozionante, davvero,” disse Culverton. “Di certo non si è dimenticato di voi.”

“L’ho notato,” disse John, con attenta calma.

“Sono molto interessato a qualunque effetto lei potrebbe avere sul suo carattere.” Culverton allacciò le dita tra loro e si protese verso John come un cospiratore. “Vede, sto scrivendo un libro –”

“Cerco di non pensare al carattere di Sherlock Holmes, dottore,” lo interruppe John con un sorriso tirato. “Ma mi piacerebbe tornare a casa prima di mezzanotte, e non vedo come tutto ciò possa essermi utile nella mia investigazione.”

Culverton si riappoggiò allo schienale, la sua espressione divenne acida. “Ciò che vorrebbe sapere prima di incontrarlo è che a Sherlock Holmes non importa nulla al di fuori del proprio divertimento.” Iniziò a sfogliare i fascicoli. “Una volta, ha lamentato un dolore al petto, così lo abbiamo mandato a fare un elettrocardiogramma. Stava sdraiato lì, il battito sul monitor mostrava settantadue, e lui afferrò l’infermiera, e le fece questo alla faccia.” Una fotografia fu lanciata attraverso il tavolo e una nausea istintiva strinse lo stomaco di John. Culverton osservò la sua reazione stranamente soddisfatto mentre scivolava indietro. “Per tutto il tempo, il suo polso non è andato oltre gli ottantacinque.”

John deglutì. Si sentiva sudato sotto i vestiti. Le palpebre di Culverton si abbassarono.

“Mi segua, signor Watson.”

John fu condotto attraverso vari corridoi, sentendosi sempre più intrappolato a ogni cancello d’acciaio che si chiudeva con un clangore. Culverton incedeva davanti a lui con passi corti ma veloci, parlando a voce alta mentre camminavano.

“Il signor Holmes si troverà nella sua stanza quando vi incontrerete. È l’unico posto in cui non è completamente immobilizzato e perciò il posto in cui ha più libertà di movimento. C’è una piattaforma scorrevole così che potrete passargli alcune cose, ma solo carta morbida. Non gli passi una penna, ha del carboncino per scrivere nella sua stanza.”

Entrarono in un’area ancora più inquietante. John si guardò attorno. Poteva sentire i rumori lontani dell’ospedale, metallo che sbatteva, ronzii striduli e voci rauche. Massicci inservienti pattugliavano i corridoi e alcuni avevano una mazza, altri pistole di tranquillanti. Guardarono John con interesse, passandogli accanto.

Nell’anticamera, Culverton richiamò un membro del personale, il quale stava guardando i monitor delle celle.

“Dimmock!” abbaiò.

“Sì signore?” disse Dimmock, ruotando sulla sua sedia girevole con gli occhi sgranati.

“Lascia uscire il signor Watson quando avrà finito.” E con un’ultima occhiata a John, la bassa figura di Culverton sparì in fondo al corridoio.

John si rivolse a Dimmock e si presentarono. “Sarà al sicuro,” disse Dimmock con un sorriso accennato, forse percependo la tensione di John. Gesticolò verso uno dei monitor che mostrava una sedia posta fuori da una cella. “Sarò qui a guardare.”

 

***

 

John desiderò di aver indossato le sue scarpe da ginnastica non appena le suole delle sue scarpe eleganti echeggiarono nettamente nel corridoio. Udì un brontolio dai detenuti lungo la fila di celle alla sua sinistra, ma mantenne gli occhi fissi sulla sedia solitaria di fronte a lui e si affrettò a raggiungerla, ma non così veloce da far trapelare panico.

Sherlock Holmes, avevano detto a John, si trovava in una speciale cella in fondo.

Al posto delle sbarre, la parte anteriore era fatta di vetro con buchi per l’aria. Apparentemente, nella sua vecchia cella Sherlock aveva la cattiva abitudine di afferrare il personale attraverso gli spazi tra le sbarre e morderlo, così questa era stata progettata per impedirgli il contatto. Come aveva detto Culverton, c’era una scatola scorrevole vicino all’estremità, così che cose come cibo e giornali potessero essergli passati. Era tutto incredibilmente sicuro, ma l’assenza di una chiara barriera rendeva John nervoso. Da certe angolazioni la cella sembrava non avere nessuna facciata.

Sherlock stava disteso immobile sulla sua cuccetta, la sua testa in direzione della parte anteriore della cella, senza muovere nemmeno un dito quando John si fu seduto sulla sedia e ed ebbe posato il fascicolo del caso sulle ginocchia. Qualcosa che avrebbe suscitato la curiosità di Sherlock.

“Suppongo che Lestrade pensi di essere molto intelligente.” Sherlock sembrava divertito. I suoi occhi erano ancora chiusi. “Mandare te, questo indento. Dimmi, è vero che hanno messo Gregson davanti a lui come Ispettore Capo?”

“È così,” disse John piano.

Sherlock rimuginò su quell’ultimo frammento d’informazione, poi emise un lungo respiro. “Peccato. Era così ambizioso, da giovane,” rifletté. “E quindi, eccoti qui.”

Non lasciarlo entrare nella tua testa, ricordò fermamente John a se stesso, mordendosi il labbro senza rispondere.

Sulla sua cuccetta, la figura snella, vestita di bianco di Sherlock si alzò e si stiracchiò ampollosamente come un gatto, prima di posare i piedi a terra e procedere verso il vetro. Appariva oltremodo in forma per essere un uomo costretto all’immobilità tutto il giorno, con quasi nessuno spazio per muoversi, ma forse lo avevano tenuto in esercizio. O forse Sherlock si era  semplicemente allenato usando il peso del proprio corpo. Gli era sempre piaciuto mantenersi in buono stato.

Gli occhi di Sherlock brillarono quando videro John, ancora tutto intero, la sua prima vera visione di quell’uomo dalla turbolenta fine della loro ultima collaborazione. Si appoggiò con casuale eleganza al vetro della cella, in modo da poter squadrare John dall’alto in basso come una specie di dessert. Il quale, probabilmente, lo era davvero, nella mente contorta di Sherlock.

John mantenne la testa alta e ricambiò lo sguardo.

“Perché non porti quell’apparentemente scomoda sedia un po’ più vicino?” suggerì Sherlock.

“Sto bene dove sono, grazie,” rispose John.

“Mi piace il tuo completo.” Sherlock sbirciò da un po’ più vicino, indugiando sulla gola di John. “Camicia, pantaloni ben coordinati e un cardigan di morbida lana. Sembri quasi inoffensivo.” Il suo sguardo ricadde sulle scarpe di John. “Scarpe stravaganti. Ti ho sentito ticchettare lungo il corridoio. È un appuntamento, John?”

John sostenne a fatica lo sguardo di Sherlock, ammiccando in fretta come se gli bruciassero gli occhi.

“Sei invecchiato a mala pena,” disse Sherlock pacatamente, inclinando la testa. “Sono così felice che tu sia venuto a vedermi. Per lo più vengono a farmi visita psicologi di second’ordine addestrati in università scadenti. Ottusi, idioti dilettanti, la maggior parte di loro.”

“O il dottor Smith,” aggiunse John, e Sherlock soffocò una risata.

“Non è repellente? Nient’altro che la caricatura di uno psichiatra alla ricerca disperata di una reazione come un maiale che annusa alla ricerca di tartufi.” Sherlock strinse gli occhi, non meno taglienti di quanto dovevano essere stati quando era stato rinchiuso per la prima volta. Era addirittura più onniveggente. “Ti ha mostrato la foto dell’infermiera Leighton?”

John inclinò la testa, sentendosi male al ricordo. Sherlock rise.

“La mostra a chiunque. Ama raccontare quella storia. Lo fa sentire importante.”

“Non è lui quello che le ha strappato la faccia a morsi,” scattò John, le sue mani strette a pungo.

Sherlock sorrise, ma non rispose. Inspirò profondamente, sollevando il petto, e chiuse gli occhi. “Il tuo odore è delizioso sotto a quello dello shampoo economico, John. Dimmi, hai ricevuto le mie cartoline di compleanno?”

“Le ho ricevute,” disse John, la voce stretta in gola. “Non c’è bisogno che continui a mandarmele.” Iniziava ad agitarsi. Gli faceva male il petto quando respirava ed gli risultava difficile rimanere calmo con Sherlock che incombeva su di lui da una gabbia di vetro. Non voleva che Sherlock sapesse quanto fosse nervoso, ma dal modo in cui Sherlock lo guardava, John sospettava che leggesse ogni sua mossa come un libro.

“I tuoi palmi sono più soffici, ma hai un callo sulla falangetta del tuo dito medio sinistro,” disse Sherlock, affascinato, i suoi occhi fissi sulle dita di John avvinghiate attorno fascicolo del caso. “Sei uno scrittore, ultimamente, al contrario, le mani allungate sono per i dattilografi.”

John strinse il fascicolo e gli occhi di Sherlock guizzarono sopra di esso. “Voglio che tu mi aiuti con un caso.”

Un sorriso compiaciuto si allargò sul volto di Sherlock. “Ah,” disse, la sua voce era un brontolio soddisfatto. “Già. Il tributo al mio atto.”

John era sorpreso. “Sai già del collegamento?”

“Non essere stupido, John. Certo che lo so.” Sherlock si spinse via dal vetro e iniziò a camminare; le mani sotto al mento. “Avevo i miei sospetti dopo la scoperta del primo corpo. Il secondo li ha confermati.” Si bloccò e fissò John. “Vuoi sapere perché sta scegliendo loro.”

John annuì. “Pensavo che avresti avuto qualche idea.”

Sherlock inclinò la testa di lato. “E perché dovrei dirtelo?”

“Potrei parlare al dottor Smith riguardo al ridarti tutti i privilegi che potresti aver perso,” offrì John. Sherlock sollevò un sopracciglio, e John si protese. “Ti lascerò seguire questo caso e quando sarà finita potrei mandartene alcuni di irrisolti per darti la possibilità di risolverli.”

“Noioso,” sospirò Sherlock, ruotando la testa all’indietro. I suoi capelli scuri gli scoprirono la fronte e John poté scorgere la pallida forma del suo profilo spigoloso.

“C’è qualcos’altro,” aggiunse John, come ripensamento. Lo sguardo di Sherlock si fissò su di lui. “Facendo questo, potrai scoprire se sei più intelligente della persona che stiamo cercando.”

Sherlock lo spianò con il suo sguardo indagatore. “Usando questa logica, tu credi di essere più intelligente di me.”

John scosse la testa, appianando gli angoli del fascicolo con gli occhi bassi. “No,” disse sinceramente. “So di non esserlo.”

Sherlock si appoggiò nuovamente al vetro, scrutandolo intensamente. “Per quanto sia lusinghiero sentirti dire queste cose, John, non credere di potermi persuadere a farti favori appellandoti alla mia vanità intellettuale.”

“Inizio a dubitare di poterti persuadere del tutto,” disse John. Sherlock ricambiò lo sguardo e John si arrovellò inutilmente il cervello. “E se ti raccontassi delle vittime –”

“Io non le conosco,” lo interruppe Sherlock. “Perché dovrebbe importarmi della loro morte? Perché tutti pensano che mi dovrebbe importare del fato di persone che potrebbero anche non esistere, per quanto mi riguarda?” Si immobilizzò, bloccandosi a metà delle proteste, la postura rigida come se gli fosse appena accaduto qualcosa di spiacevole. John lo guardò confuso quando Sherlock iniziò a camminare. “Vittime…” ripeté Sherlock, toccandosi le dita con le labbra. Si fermò e si voltò a fronteggiare John. “Devo chiedertelo,” disse. “Hai considerato il finale del gioco di questo killer?”

John allungò la schiena, insicuro. “Finirà quando lo avremo catturato?”

Se,” lo corresse Sherlock e il suo sguardo distante tornò a scrutarlo. “Potreste non riuscirci. E, ovviamente, ricordi come si è concluso il mio gioco.”

La realizzazione si fece strada in John come un coltello attraverso le sue soffici interiora quando colse ciò che Sherlock stava suggerendo. “Credi che il killer verrà a cercarmi?” esclamò.

“Finire ciò che ho iniziato…” rifletté Sherlock contro le sue dita. “Interessante.”

John si alzò, provocando un raschiare rumoroso quando la sedia strisciò sopra al calcestruzzo. Si voltò per andarsene e Sherlock lo guardò, gli occhi spalancati.

“Aspetta!” Sherlock andò verso la scatola scorrevole e la spinse verso il lato di John con fragore. “Passalo,” ordinò. “Fammi dare un’occhiata e ti dirò cosa ne penso.”

C’era qualcosa che lo agitava. John si fermò, girato a metà, a guardò il volto speranzoso di Sherlock. Non voleva trovarsi lì. Avrebbe preferito essere da qualsiasi altra parte, ma aveva un lavoro da fare. “Devi restituirmelo,” disse e Sherlock ruotò gli occhi e annuì.

“Sì. Ovvio. Ora dammelo.”

John si avvicinò alla cella, tenendo gli occhi fissi su Sherlock. Erano a meno di un metro di distanza, per la prima volta dopo cinque anni, separati soltanto da una lastra di vetro che avrebbe potuto anche non esserci per la sensazione di sicurezza che dava a John. Posizionò il fascicolo nella scatole, conscio dell’occhiata affamata di Sherlock lungo il suo collo.

“Magnifico,” disse Sherlock piano, quasi troppo silenziosamente per le orecchie di John.

John indietreggiò, studiando cautamente Sherlock attraverso il vetro. Sherlock fece scivolare la scatola all’interno della cella e prese il fascicolo, sfogliandolo con le sue agili dita. Passeggiava mentre leggeva, le sopracciglia aggrottate.

John si sentiva più a suo agio quando si trovava fuori dalla sua linea di attenzione tagliente come un rasoio. “Vuoi un po’ di privacy?” chiese, e Sherlock lo guardò per un breve istante.

“Al contrario,” disse, accennando alla sedia. “Siediti. La tua presenza fa meraviglie ai miei processi mentali.”

Leggermente frastornato, John si sedette obbediente, rimuginando su come commentare esattamente mentre Sherlock analizzava ogni più piccola parte del fascicolo del caso come un computer. “Ha preso alcune parti del corpo come hai fatto tu,” disse John mentre Sherlock sfogliava spassionatamente le fotografie. “Infatti, i casi erano fin troppo simili per un normale emulatore. Ha avuto delle informazioni.” Sherlock non diede segno di averlo sentito e dopo qualche minuto John parlò di nuovo. “Credi che anche lui le mangi?”

“Shhh,” brontolò Sherlock. “Parlare non è necessario.” E fece rimare John seduto in silenzio per quasi un’ora.

 

***

 

“Mi piacerebbe parlare delle vittime,” disse Sherlock, facendo sussultare John dal punto dove era sprofondato sulla scomoda sedia.

“Oh?” rispose John, sedendosi dritto. Allungò la schiena e controllò l’orologio. “Credevo che non ti importasse delle –“

“Non delle loro speranze e dei loro sogni e delle famiglie senza volto in lutto, o altro,” lo derise Sherlock. Era rimasto in piedi o aveva camminato durante tutto il tempo, muovendosi così attivamente mentre rifletteva. “Pensare a loro come oggetti inanimati. Voglio parlare del loro significato, in particolare in confronto con le mie.”

“Beh…” iniziò John, la mente vuota. Aggrottò la fronte. “Sono più giovani. E sta prendendo donne, mentre tu uccidevi uomini.”

“Guardale, John!” esclamò Sherlock, sventolando una foto della prima vittima che era stata fornita dalle famiglie. “Sono giovani. Sono bellissime. Sta uccidendo ciò che brama, ciò che desidera. Probabilmente molesta i loro corpi senza vita, anche se non sarebbe così stupido da togliersi i guanti. Mentre io,” fece una pausa, le labbra si contrassero agli angoli. “Io ho buon gusto.”

“Hai detto di aver ucciso degli stupidi senza speranza,” fece notare John.

Sherlock si pulì i denti con l’indice e gli sorrise.

John inghiottì. “Ascolta, è tutto molto interessante, ma ho bisogno di qualcosa di pratico.”

“Queste ragazze non hanno molta conoscenza di computer,” osservò Sherlock, muovendo le dita.

“Sherlock…”

Sherlock richiuse seccamente il fascicolo. Lo gettò nella scatola scorrevole e la rimandò indietro con violenza. John indietreggiò. “Le ragazze sono irrilevanti per il suo messaggio. Sta solo prendendo qualcosa che desidera mentre porta a compimento il suo reale scopo.”

John ammiccò, si alzò in piedi. “L’imitazione è un messaggio?”

“Dei più basilari,” rispose Sherlock, senza nessun’altra spiegazione. “Ti sei chiesto come facesse a sapere che sarebbero state da sole nei loro appartamenti, al momento in cui aveva pianificato di ucciderle? Sole in un preciso giorno?”

“Giusto, perché non c’è motivo di ucciderle in un giorno diverso dal tuo,” disse John, annuendo. “Non ne sono sicuro. Probabilmente va a caso.”

“Che pensiero originale,” osserva Sherlock seccamente, concedendo finalmente riposo ai muscoli delle gambe e rotolando sul letto. Appariva abbastanza rilassato, mentre John era tutto dolorante sulla sedia di plastica.

Raccolse i fogli, tenendo d’occhio la figura allungata di Sherlock. “È tutto qui ciò che hai scoperto?”

“Per adesso,” disse Sherlock. “Credo di averti dato un sacco d’indizi per iniziare. Se mi verranno altre idee te lo farò sapere.” La sua espressione sembrò diventare più tagliente e mostrò un sorriso veloce. “Magari un numero di telefono, cosicché possa contattarti direttamente.”

John sentì stringerglisi lo stomaco. Incontrò lo sguardo di Sherlock. “Vorrei che tu fossi sincero con me, adesso.”

Sherlock rise. “Non ti dirò niente di più preciso, John. E, per carità, sappiamo quanto il tuo cervello abbia bisogno di esercizio dopo la sua pausa forzata.” Sibilò la parola. “Porta più prove appena le trovi.”

“Credi che tornerò?” domandò John.

“Certamente.” Sherlock lo disse con semplicità, come se potesse chiedere a John di fare qualunque cosa volesse. “Se non fosse per te non sarei interessato.”

John si sentì in trappola, una sensazione crescente si faceva strada nel suo petto e un pensiero continuava a ripresentarsi, ancora e ancora. “Perché?”

“Consideralo il mio pagamento.” Sherlock ruotò pigramente la testa di lato, scavando nelle coperte con la punta dei piedi come un gatto. “Non prenderò nient’altro da te, John. Voglio solo la tua compagnia mentre lavoro su questo. Ho sentito dolorosamente la mancanza del tuo viso durante gli ultimi cinque anni.”

“Non posso dire che il sentimento sia reciproco,” disse John piano. Vide Sherlock sorridere.

“Mi piaci, John,” disse, gli occhi chiusi. “Non provi ad analizzarmi.”

“L’unica persona in grado di analizzarti sei tu stesso,” replicò John, e con ciò si allontanò sulle sue scarpe troppo rumorose.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


la perdita 2

Bentrovati al secondo capitolo. Più vado avanti e più mi rendo conto  di quanto sia articolata questa scrittura (escludendo tutti i sinonimi di 'sguardo' che devo inventarmi XD). Questo mi porta a dover rimaneggiare alcune frasi per renderle comprensibili e credibili in italiano, ed è questo che mi porta via tanto tempo.

I capitoli sono diventati 6. Non vedo l'ora di arrivare in fondo.

Buona lettura!

***

John Watson arrivò al dipartimento di investigazione criminale la mattina successiva, mani in tasca e colletto della giacca sollevato sul retro del collo a combattere il freddo. Era vestito bene e sfoggiava la sua solita postura militare, ma la sonnolenza nei suoi occhi tardiva la stanchezza. Sally Donovan attendeva di incontrarlo all’accettazione; le sorrise quando la vide, più che altro per cortesia. Non erano mai stati grandi amici.

Sally gli rifilò un altro sorriso di rimando. “Il detective ispettore Lestrade mi ha detto di condurti nel suo ufficio,” disse, scortandolo attraverso l’edificio. John la seguì, ma avrebbe potuto percorrere la strada a memoria. Si guardò intorno così spesso da catalogare ogni dettaglio che era cambiato. “Hai tirato fuori qualcosa di utile da Holmes?”

Il sorriso di John vacillò. “Niente di concreto,” ammise e Sally si sentì egoisticamente vendicata. Tentò di scacciare quel pensiero, c’erano traguardi più grandi da raggiungere dinanzi a loro, ma era difficile non trarre piacere dal fatto che Holmes non era così utile come tutti solevano credere.

“Lestrade sembra pensare che quell’omicida ci aiuterà,” disse e si protese per premere il pulsante dell’ascensore. John attese pazientemente al suo fianco, mantenendo la sua espressione auto-protettiva mentre lei proseguiva. “Credo che stiamo perdendo tempo. A Holmes piace guardaci correre intorno facendo ciò che ci dice. Lo trova divertente. Siamo insetti per lui, John.”

John la giudicò con attenzione, poi si guardò i piedi. “Ricordo di averti sentito dire le stesse cose quando ancora lavoravamo con lui.”

Sally sussultò interiormente a quella memoria. “Tutti mi hanno dato della paranoica. So di aver dato quell’impressione, ma anche quando si è rivelato vero, non sono riuscita a dire ‘ve l’avevo detto’.”

Specialmente non al corpo spezzato che era andata a trovare in ospedale, con le interiora maciullate e gli occhi tristi. John aveva sicuramente ottenuto il peggio da quel tradimento. Il volto di lei arrossì e non proseguì oltre quella conversazione. John non insistette. Non aveva il desiderio di ripensare a quei fatti più di quanto non ne avesse lei.

Trascorsero il tempo in ascensore in un silenzio teso.

 

***

 

Per la prima volta, John si ritrovò nel mezzo del dipartimento di investigazione non come poliziotto, ma come testimone. La nostalgica familiarità che avvertì nell’essere tornato nel luogo in cui aveva lavorato per anni lo scosse. Lo condusse al limite. Inoltre, non era stato completamente se stesso dai giorni del Berkshire e gli inquietanti sorrisi di Sherlock.

Era seduto nell’ufficio di Greg mentre l’ispettore sfogliava le sue trascrizioni della conversazione con Sherlock, la sua emozione iniziale all’arrivo di John si stava lentamente smorzando in frustrazione. Era scoraggiante guardarlo arrivare alle stesse conclusioni a cui era giunto John a causa dell’ambiguità delle risposte di Sherlock.

Alla fine, Greg lasciò cadere i fogli sul tavolo e si riappoggiò allo schienale con espressione corrucciata. “Solitamente non è così criptico,” sospirò. “In genere non vede l’ora di dirti cosa sa realmente.”

John annuì. La sua postura era eretta, suo malgrado apprensiva. “Non so cosa farmene. Ha detto molte cose, ma sono tutti indovinelli.” John fece una pausa significativa e si inumidì le labbra. “Potrebbe sapere più di quanto ci dica.”

Greg si grattò la testa, gli occhi stretti a fessure. “Come se il killer stesse comunicando con lui?”

“Lo lascia intendere.”

John non aveva idea di cosa l’omicida potesse usare per comunicare e, data l’espressione di Greg, nemmeno lui.  Cambiarono velocemente argomento.

“E ha detto qualcosa a proposito delle conoscenze informatiche delle vittime.” John dovette tirare verso di sé gli appunti, rileggerli e ricordarsi le esatte parole.

“Qualcosa a proposito delle loro dita suggerisce che non erano persone molto tecnologiche. Non so come l’abbia capito, ma potrebbe essere un collegamento o un motivo per cui il killer ha scelto loro. Abbiamo i loro computer?”

Greg annuì, riacquistando la carica. “Abbiamo accesso a tutto. Cosa devo dire alla scientifica di cercare?”

“Procurati una lista di somiglianze tra loro.” John si sentì tornare indietro al suo ruolo di poliziotto. Qualcosa avrebbe potuto saltar fuori. “Dev’esserci un punto d’incontro.”

“Bene,” concordò Greg. Si piegò in avanti con ansia. “Così puoi portare l’elenco a Holmes.”

La testa di John si sollevò così in fretta che Greg reagì come se avesse sentito lo schiocco di una frusta. “Cosa?”

“Beh,” iniziò Greg, sorpreso. “Ci ha dato una nuova direzione da seguire. Forse potrebbe dirci di più.”

“Non sappiamo nemmeno se questa sia una direzione,” protestò John, il panico aveva preso il sopravvento sul suo primo istinto di cordialità. “Non sappiamo nemmeno se sia davvero dalla nostra parte. Non tornerò là a meno che io non debba.”

I grandi occhi castani di Lestrade guizzarono su John, la bocca si mosse senza produrre alcun suono prima di piegare la testa ed evitare lo sguardo di John. “Giusto. Mi dispiace.”

John si appoggiò all’indietro, producendo un sospiro quasi impercettibile. “Non voglio fare il difficile. Ma non sono… pronto. Mentalmente, intendo.”

L’ossessione di Sherlock per lui era evidente e preoccupante. John non aveva idea di come avesse potuto non notarla prima, dato che avevano lavorato insieme, alcune volte da soli e appartati riversando l’attenzione sulle prove, durante molti casi difficili. Lo Sherlock che aveva conosciuto in prigione gli aveva richiesto ogni grammo del suo coraggio per restare calmo in sua presenza mentre l’interno del suo corpo lo tradiva, il cuore batteva troppo velocemente e la pelle iniziava a sudare.

“Capisco,” disse Greg, anche se non ne aveva idea. John accettò, comunque, grato per il tentativo di comprensione. La sua cicatrice iniziò a prudere attraverso l’addome.

Greg aveva fatto del suo meglio, dopo tutto. La sera prima, John aveva chiamato Greg appena sceso dal treno dal Berkshire che lo aveva portato a casa, e aveva raccontato cos’era accaduto in maniera cautamente sobria. Si sentiva prosciugato fino alle ossa dopo un così lungo periodo in compagnia di Sherlock, e Greg, cogliendo la tensione nella sua voce, non aveva fatto altro che ordinargli di andare a dormire e lasciare il resoconto per il giorno dopo.

Queste persone erano dalla parte di John. Lavoravano assieme, cercando di catturare quel maniaco.

“Se hai bisogno che lo consulti, allora andrò,” si offrì John. “Ma sto parlando di ultima spiaggia.”

“Bene,” disse Greg. “No, grande, John. Sei già stato d’estremo aiuto.” Il suo tono di voce era molto sincero. Si alzarono entrambi e si strinsero la mano, Greg lo fece con cautela come temendo di spezzare il metacarpo di John. “Ti serve qualcuno che ti accompagni fuori?”

“Me la caverò,” lo rassicurò John, stringendo fermamente la mano di Greg e poi lasciandola. “Tienimi aggiornato.”

“Certamente.” Greg fece balenare un sorriso che metteva in luce la speranza di nuove prove e uscì a grandi passi dall’ufficio per dare istruzioni alla sua squadra. John lo seguì con qualcosa che sembrava attenzione e cercò di tenere la testa bassa finché non si fosse allontanato. Voleva tornare a casa, sdraiarsi, e lavorare alla sua nuova storia.

Stava indossando la giacca quando una grande mano gli afferrò la spalla. Era il detective ispettore capo Toby Gregson, con un luccichio amichevole negli occhi. L’appena promosso detective ispettore capo Gregson era un uomo alto, solido, con una forte personalità che John aveva visto mutare da affabile con i testimoni a estremamente intimidatoria con i sospettati. In quel momento era piacevole.

Forse era un’opinione azzardata, ma John sentì di essere finito in trappola.

“John,” disse Toby gioviale, come se si fossero incontrati per caso in un pub. “È bello vederti, come stai?”

“Bene,” rispose John con un sorriso fugace. “Sto bene. Riposo.”

Toby si guardò attorno fugacemente per accertarsi che la sua squadra stesse lavorano, poi ricambiò il sorriso di John. “Perché non vieni a chiacchierare un po’ con me nel mio ufficio?”

John aveva una vaga idea di ciò di cui voleva parlare. “Sono un po’ occupato, veramente…” mentì.

“Cinque minuti,” promise Toby, e ignorando ogni protesta guidò John  in un ufficio ben illuminato con grandi finestre e modernamente ammobiliato.

“Senti,” disse John, dopo esser stato letteralmente spinto su una sedia e una tazza gli fu messa tra le mani. “So cosa intendi dirmi e non sono interessato.”

Toby si sedette di fronte a lui e bevve un sorso del proprio tè. Non offese l’intelligenza di John e andò dritto al punto. “Potrei farcela se un agente esperto come te tornasse con noi, John. Tutti noi potremmo farcela.”

John scosse la testa e posò cautamente la tazza su un piattino. “Non avete bisogno di me. Non sono più di alcuna utilità alla polizia.”

“E se fossi io a decidere cos’è utile e cosa non lo è?” Gentile, ma salda pressione. Era come una leggera spinta sulla spina dorsale per farlo muovere nella giusta direzione. Toby aveva una voce così placida mentre diceva alle persone cosa dovevano fare. “Non ho mai avuto un uomo come te, John. Il modo in cui hai gestito la cosa di Holmes, ieri…” Toby in interruppe per emettere un basso fischio. “Vorrei essere stato lì.”

John non aveva gestito Sherlock, Al contrario, la loro conversazione si era svolta unicamente secondo le regole di Sherlock. “Mi piace la vita che conduco ora,” disse con fermezza, nel tentativo di portare la conversazione a una conclusione. “L’ultimo caso in cui ero coinvolto mi ha quasi ucciso. Non voglio passarci di nuovo, questa volta.”

“A me sembri stare bene,” disse Toby in tono ragionevole. “Sono quasi cinque anni.”

“Io sto bene,” rispose John un po’ troppo sulla difensiva. Fissò il tè che si raffreddava, le guance arrossate.

“Allora dovresti tornare a fare ciò in cui sei più bravo.” Toby si appoggiò allo schienale della sedia producendo uno scricchiolio, sistemandosi il risvolto della giacca con il pollice. “Ci sono vie, nella Polizia Metropolitana, che potrebbero permetterti di tornare al lavoro facilmente, e con grandi benefici. Non devi fare nulla, mi occuperò di tutto io. Solo, fai a tutti un favore e lavora a questo caso per noi.”

John esitò prima di rispondere e Toby parlò di nuovo.

“Abbiamo due giorni prima che la prossima ragazza muoia, John.” Era tutto fuorché contento. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto.”

Le foto balenarono  nella mente di John in forma di tagli sanguinanti e trasalì. Nel profondo, qualcosa dentro di lui stava pregando, supplicando di lasciarlo in pace, di andarsene adesso e riprendersi prima che qualcosa, nella sua mente, si rompesse a causa di tutta quella tensione.

Ma se John poteva davvero fare qualcosa per questi omicidi…

Inghiottì la sua stessa paura e incontrò lo sguardo inflessibile di Toby. “Va bene,” disse. “Ma ho bisogno di velocizzare le cose. Devo vedere la scena del crimini con i miei occhi.”

“Certo.” Toby sembrava sollevato. “Dirò a Lestrade di portartici. Per qualunque cosa, John, bussa alla mia porta.”

 

***

 

Ogni volta che Sherlock veniva legato, per permettere la pulizia della stanza, il dottor Culverton Smith appariva e cercava di ottenere una reazione da lui. O, come gli faceva piacere dire, “psicoanalizzarlo’. Quell’uomo era ridicolmente semplicistico. Sherlock compativa l’intero sistema della salute mentale se un uomo come quello ricopriva una tale carica in un ospedale psichiatrico.

Culverton portò con sé delle lettere per Sherlock, da una larga varietà che alcuni noiosi idioti credevano essere unica, o che i giornalisti cercavano per mettere su una storia.

“Ci sono molte signore impazzite che ti mandano lettere, Sherlock,” rimarcò Culverton, sedendosi sul suo cappotto e sfogliandole con gesti pomposi. “Credono di poterti cambiare. In cosa? Un vegetariano?” Rise alla propria stupida battuta.

Sherlock non rispondeva mai ai suoi ammiratori. Tutte le lettere sembravano fondersi l’una con l’altra, dopo un po’ di tempo, ma le leggeva comunque quando era annoiato. La bocca iniziava a dolergli, per cui tese la mandibola contro la maschera, simile a una museruola, che gli teneva i denti lontani dalla faccia di chiunque, imitando uno sbadiglio, poi fece schioccare i denti. Il suono fece fare un salto a Dimmock, che asciugava il pavimento di fronte a lui.

“Eppure,” commentò Culverton con un ghigno furbo. “Non sono esattamente le donne a stuzzicarti, non è così Sherlock?”

Ovvio. Tipico di Culverton. Prendere una reazione isolata ed applicarla all’intero genere. L’umore di Sherlock, già non dei migliori, virò a pessimo alla presenza di tale idiozia.

“La conoscono tutti, sai,” continuò Culverton. Sherlock desiderò poter voltare la testa. “La tua ossessione per quel piccolo ex poliziotto. Ero così ansioso di conoscerlo, ma è davvero così ordinario, anche se un po’ a pezzi. Non sono sicuro del fascino, per quanto mi riguarda.”

Lo disse come se costituisse un insulto per Sherlock e attese una reazione che Sherlock non gli avrebbe offerto. In verità, Sherlock si sarebbe sentito più offeso se a Culverton fosse piaciuto John Watson.

“Qualcuno ha fatto delle analisi sulla tua strana cotta. Ci sono stati degli articoli.”

Suonava leggermente geloso, e Sherlock sapeva esattamente il perché. “Il tuo libro è stato rifiutato da un altro editore,” disse in tono piatto e Culverton prima sussultò per la risposta, ma poi la sua espressione tornò di pietra.

“Non lo sarebbe stato se tu ti aprissi un po’ con me,” scattò.

Sherlock sospirò, deluso. “Non ho alcun interesse nel fornirti altra credibilità o denaro.”

Il personale continuava a pulire, tenendo fermamente le teste basse contro l’atmosfera pungente della stanza.

Poi Culverton, il suo sguardo fisso su Sherlock, si chinò e afferrò deliberatamente la foto di John che Sherlock custodiva. Sherlock si lanciò contro di lui, ma non riuscì a muoversi di un centimetro a cause delle costrizioni. Ciò fece ghignare Culverton.

“Spero che gli darai una bella occhiata quando verrà a visitarti, dottor Holmes,” lo schernì Culverton. “Terrò questa con me.”

E il pessimo umore di Sherlock diventò omicida.

 

***

 

A metà strada tra la macchinetta del caffè e il suo ufficio, con una tazza di forte caffè nero, Greg fu fermato dalla larga mano del detective ispettore capo Toby Gregson che si serrò sulla sua spalla.

“Lestrade. Ho bisogno che porti John Watson sulle scene del crimine,” disse Toby, con un preoccupante luccichio di determinazione negli occhi. Accennò oltre la sua spalla, dove John sedeva nel suo ufficio, guardando assente fuori dalla finestra e muovendosi appena per respirare. Come se fosse stato legato alla sedia da prigioniero e si fosse stancamente rassegnato al suo destino.

Greg aggrottò le sopracciglia e si raddrizzò un poco. Non era sicuro che fosse una buona idea e un sentimento strisciante, sgradevolmente simile al senso di colpa, gli attanagliò lo stomaco. “John lavora al caso?”

Toby annuì. Sembrava, Greg non poté fare a mano di notarlo, soddisfatto di se stesso.

“Come accidenti hai fatto a convincerlo a farlo?” La voce di Greg assomigliava a una risata inquieta. “Quando abbiamo parlato sembrava essere sul punto di correre fuori dall’edificio.”

Toby scrollò le spalle con leggerezza. Era sempre stato bravo a persuadere le persone. “Ricorda solo questo, Lestrade,” disse serio, scrutando Greg da sotto la fronte bassa. “Il coinvolgimento di Watson è molto importante per quest’investigazione, quindi cerca di non spaventarlo. Lascia che sia lui a fare le cose.”

Greg strinse gli occhi. “Importante?” chiese, Toby continuò a guardarlo impaziente.

“Oh, sì. Essenziale.” Toby sollevò un sopracciglio. “Ricorda, se abbiamo Watson abbiamo anche l’accesso a qualcuno di molto utile.”

Greg deglutì con amarezza e represse un brivido. “Sherlock Holmes,” disse, riluttante.

“Sherlock Holmes.” Toby lo disse con soddisfazione. Gli assestò un’altra manata sulla spalla, il palmo caldo contro la stoffa della giacca, e gli lanciò un’occhiata penetrante. “Tieni John con noi, Lestrade, non importa come. Ora vai.”

 

***

 

Fu un viaggio tranquillo in direzione sud, verso Guildford,  umido e piovigginoso.

Greg guidava, picchiettando spesso le dita sul volante, come se stesse battendo un ritmo di musica. Occasionalmente gettava occhiate incuriosite al suo passeggero, che aveva iniziato la giornata vigile e pronto ad aiutare, ma che adesso sembrava parecchio pallido. John era chiuso in se stesso sin dalla prima scena del crimine.

John passò la maggior parte del viaggio a guardare fuori dal finestrino le distese di grigio, gli occhi che guizzavano sopra l’asfalto, il cielo, le nuvole, il luccichio dell’auto grigia di Lestrade. La pioggia, che batteva pesantemente sul parabrezza, aveva un effetto soporifero sul suo umore. Si concentrò sui rivoli di pioggia che si allargavano come ragnatele nel tentativo di dimenticare gli schizzi rossi che avevano macchiato le pareti dell’appartamento a Londra.

Non era il pensiero giusto. Proprio di fronte agli occhi di John c’era uno schizzo di pioggia che aveva colpito il vetro, e tutto ciò che John poté vedere fu un corpo bagnato di sangue stampato su una carta da parati, poi l’immagine di una giovane donna macellata. Trasse un respiro profondo e scacciò un brivido fissando lo sguardo sulle proprie mani. Greg lo stava guardando preoccupato.

“Stai bene?”

John strinse le mani a pugno finché non sentì male alle braccia. “Quand’è che sono diventato così molle?” chiese, per metà ridendo, per metà attraverso i denti stretti.

Gli occhi di Greg erano dolci e comprensivi, o almeno tentavano di capire. Avrebbe dovuto prestare più attenzione alla strada. “Sei stato lontano dal lavoro per molto tempo,” disse con ragionevolezza. “E hai visto più di quanto altri uomini hanno fatto.”

John annuì, sfregando un pollice sulla pelle secca del dorso della mano. Non sembrava convinto.

“Vuoi ascoltare un po’ di musica?” domandò Greg in tono più gioviale, ma John scosse la testa.

“Non sono molto in vena.” Ammiccò in direzione di Greg. “Voglio dire, puoi ascoltarla se vuoi – ”

“No, va bene così.” Greg sorrise educatamente, anche se non riuscì a nascondere la preoccupazione nei suoi occhi. Dopo alcuni minuti tesi parlò di nuovo. “Ascolta, John. È davvero grandioso, sai. Tu, quello che stai facendo.”

John chinò di nuovo il capo. “Beh,” disse, con un colpo di tosse. “Se ho il potere di aiutare…”

“Mi sento male, alle volte. So che ci siamo persi di vista dopo che ti sei ritirato, e non voglio che tu pensi che ti stia usando –”

“Greg,” disse John stancamente, a voce bassa. “Va tutto bene.”

La pioggia si stava facendo più fitta e il cielo più nero quando smontarono per andare verso l’appartamento della seconda vittima. Greg aveva un ombrello, quindi scese per primo e lo aprì prima di andare dal lato di John. Riuscirono ad arrivare all’interno quasi asciutti.

“Chiavi?” chiese John, sembrando leggermente agitato, e Greg gli sventolò davanti la cartellina con un ghigno.

La vittima viveva al secondo piano, salirono le scale assieme. Era un bel condominio, pensò John. Spazioso. Soffitti alti.

“Credi che faccia parte del metodo del killer?” chiese John mentre Greg perdeva tempo col lucchetto. “Entrambi gli omicidi sono avvenuti nelle case delle vittime.”

“E quindi?” Greg si bloccò, le mani sulla maniglia.

John agitò la cartellina nelle sue mani e si leccò le labbra secche. “Forse,” suggerì, “c’è qualcosa, nel suo metodo, che fa sì che possa colpire le sue vittime solo quando si trovano in casa.”

Greg annuì seccamente. “Sì, forse,” disse, la bocca leggermente aperta. “È questo che ha detto Sherlock?”

A quel nome, John represse un sussulto. Dio, stava diventando patetico. “Ha menzionato qualcosa in merito ai computer, ricordi?”

“Giusto.” Greg tornò a guardare la porta, poi nuovamente John, con cautela. “È lo stesso dell’altra volta. Polizia e scientifica sono già state qui e hanno preso tutto ciò che serviva loro. Se non ti sentirai a tuo agio –”

“Starò bene,” disse John, leggermente brusco. Era infermo sulle gambe e si sentiva già sul punto di non farcela. Con un brivido, nonostante il calore dell’atrio, John spinse le mani nelle tasche.

Greg lo squadrò, poi inclinò la testa e aprì la porta dell’appartamento.

Le luci erano spente, la stanza immersa nelle tenebre. Le loro ombre si proiettavano sul tappeto grazie alla luce del corridoio, sopra a una pedana con un incontaminato miscuglio di scarponi invernali, scarpe da ginnastica e con i tacchi. C’era un cappotto di un grigio tenue appeso dietro alla porta, una delicata ragnatela si tendeva dal morbido polsino fino alla carta da parati stampata. John avvertì un tuffo al cuore e si protese in avanti, distruggendo il filo col tocco del suo indice e accarezzando gentilmente la pelliccia. Dietro di lui, Greg lottava contro il fascio di luce tremolante della torcia.

“Dove sono i maledetti interruttori…”

Si udì un click e la stanza fu inondata di luce. Greg richiuse la porta dietro di loro e John indietreggiò, guardandosi attorno. Era un bell’appartamento, forse un po’ disordinato. La porta di fronte si apriva nell’area pranzo la quale era collegata a una cucina con i piatti ancora impilati nel lavello. C’era un divano imbarcato, un tavolino da caffè di fronte alla televisione, con i cerchi lasciati dalle tazze su tutta la superficie, un paio di riviste di gossip. Aveva ricoperto i davanzali con ornamenti.

“Da questa parte,” disse Greg, una mano sulla spalla di John.

“Aspetta,” disse John. “Ricordami, a che ora è stata uccisa?”

“Uuh…” Greg sfogliò il fascicolo. “Il patologo fissa l’ora della morte alle 7 e mezza di sera.”

Un orario inusuale per uno strano omicidio, pensò John, ma poi ricordò che niente, in quel caso, era normale. Lei aveva appena finito la cena. Probabilmente si stava rilassando guardando la televisione o altro. Quindi, perché era stata uccisa nella camera da letto? Aveva provato a fuggire dal suo aggressore? Mentre Greg gli faceva strada, John eliminò mentalmente quell’opzione. La porta era intatta e non aveva segni di forzatura.

Greg spalancò la porta e John su assalito nuovamente dalla visione di schizzi rossi sulle pareti, il pavimento e la trapunta sgualcita, come un tipo di arte astratta particolarmente morboso. Batté le palpebre, già stanco, e compì un passo all’interno.

“Le ha preso i reni,” stava dicendo Greg mentre procedeva verso la sagoma di nastro bianco dove il corpo era stato trovato sventrato, riverso sul materasso. “Solo dopo averla pugnalata diverse volte con uno dei suoi coltelli da cucina. L’abbiamo trovato la prima volta in cui siamo entrati nell’appartamento. L’aveva riposto nel ceppo dei coltelli.” Greg deglutì faticosamente, ricordando quella particolare sorpresa. “Nessuna impronta, ovviamente, ma il metodo di esecuzione di quest’uomo prevede che non lasci quasi nessuna traccia dietro di sé.”

Come l’impronta di scarpa parziale, taglia 43, nel sangue sul pavimento. John annotò sul fascicolo del caso tutti i dettagli che individuava a mano a mano che si addentrava nella piccola stanza, aggirando attentamente il sangue spanto. Greg sfogliò alcune pagine dietro di lui.

“È stata trovata il giorno dopo da un amico a cui non aveva risposto al telefono e quando siamo arrivati abbiamo riconosciuto subito le somiglianze con il caso di Holmes.” Greg inspirò lentamente e scosse la testa. “Quel momento di realizzazione è stato terrificante.”

John lanciò un’occhiata al luogo dove il computer portatile della ragazza era stato appoggiato sul tavolo nell’angolo della stanza, prima che la scientifica lo portasse via per analizzarlo. La sedia era stata tirata indietro. Andò più vicino, come attirato da quello spazio, con la strana sensazione di stare evitando qualcosa di estremamente importante. Lo stuzzicava da un margine della sua mente come un movimento colto con la coda dell’occhio. Visibile, tuttavia completamente indistinguibile.

Greg lo guardò. “Ti sei fatto una buona idea delle scene, dunque?” domandò.

“Sì,” disse John lentamente. Strinse forte i pugni e fissò lo sguardo tra il tavolo vuoto e il letto macchiato di sangue.

 

***

 

Quella notte, dopo che Greg l’ebbe portato a casa, John non dormì. Fissava il soffitto, le membra flosce, la mente al lavoro mentre ripassava tutto ciò che sapeva sul caso, le prove, ma soprattutto le vittime. Il cuore di John piangeva per loro. Sapeva che passare troppo tempo a compiangere le vittime, invece che focalizzarsi a riordinare la confusione, non era una buona pratica. Come poliziotto, questa era una delle cose che gli facevano odiare di più la sua etica professionale. Il fatto era che risultava difficile, per John, vedere le persone come statistiche, o nomi su una pagina, o fotografie sanguinose. Non poteva fare a meno di provare empatia.

E lui era inesorabilmente connesso a questo caso come nessun altro. La minaccia implicita per cui, quando l’emulatore avrebbe iniziato ad esaurire le vittime, sarebbe rimasta una sola persona.

Hai considerato il finale del gioco di questo killer?

John rabbrividì e si rigirò nel letto,  le mani raccolte sotto il cuscino.

Queste persone avevano un metodo per scegliere le vittime. Quello di Sherlock era più casuale e difficile da predire, prendendo persone che lo irritavano e pianificando le loro morti nei modi più crudeli, con qualunque cosa gli fosse capitata in mano. L’emulatore avrebbe dovuto essere più efficiente. Doveva adottare un metodo che gli fruttasse una vittima nel giorno in cui Sherlock aveva ucciso la sua. Non poteva seguire una persona a caso, in quel giorno, e sperare che vivesse da sola, o che non avesse un incontro urgente con qualcuno che non avrebbero incontrato. Diversamente da Sherlock, lui non le rapiva, non era ritualizzato, al contrario uccideva le sue vittime nel luogo in cui si trovavano in quel momento.

Forse non aveva abbastanza forza per farlo. O forse la scoperta dei corpi, i quali lo collegavano a Sherlock, era considerata più importante del modo in cui gli omicidi erano portati a termine.

Ma come riusciva a trovare le vittime in casa da sole? Come riusciva a vederle?

Sherlock lo saprebbe, pensò John, stringendo forte i pugni come se si stesse preparando a una rissa. Forse l’avrebbe capito quando avesse visto i rapporti dei casi, e ora avrebbe solo voluto vedere cosa sarebbe accaduto se se ne fosse rimasto zitto. E mancava un solo giorno prima che l’emulatore colpisse di nuovo.

Alla fin fine, non è che avesse davvero scelta.

 

***

 

La mattina successiva era fredda e invernale, e Greg spese qualche minuto seduto fuori, su una panchina della stazione con un silenzioso John Watson e una tazza di caffè istantaneo zuccherato con una goccia di whiskey. Il treno di John per il Berkshire era in ritardo.

Greg continuava a lanciare occhiate a John, non poteva farne a meno, l’uomo sembrava una statua se si ignorava il vento che gli agitava i capelli. Ti ci ho fatto entrare io, in tutto questo, era tutto ciò che Greg riusciva a pensare e il pensiero gli stava consumando la mente come un veleno. “Come ti senti?” chiese, per la terza volta da quando era passato a prendere John, nonostante lui non lo avesse chiamato.

“Sto bene,” disse con un sorriso stirato, le sue parole fuoriuscivano in nuvole sottili. Si strinse meglio il cappotto attorno al corpo e alzò gli occhi al cielo. “Starò bene. So cosa mi aspetta questa volta.”

“Te ne puoi semplicemente andare, ricordalo,” disse Greg. “Se si spinge troppo oltre. Lui ti vuole lì. Sei tu quello che ha il potere.”

John annuì in tacito consenso e sorseggiò il suo caffè caldo. “Lo so,” mormorò. “Ma non è quello che sembra.”

La memoria della confusione in cui John era precipitato dopo  l’ultima volta che aveva visto Sherlock balenò nella mente di Greg, e gli angoli della sua bocca si tirarono rabbiosamente. Si guardò attorno alla ricerca della bancarella dei biglietti. “Forse dovrei venire con te.”

“No,” disse John immediatamente. “Mi servi alla stazione al mio ritorno. Se avrò delle informazioni, avrò bisogno di te per iniziare a lavorarci il prima possibile.”

Con la coda dell’occhio Greg scorse un bagliore e si girò per vedere l’arrivo ritardato del treno. Le persone iniziarono ad alzarsi, radunando le borse e sospirando in direzione dei loro orologi. Qualcosa nell’espressione di John si era indurita; finì il caffè, gettando la tazza nel cestino di fianco mentre il treno si trascinava con uno stridio d’acciaio.

Greg percorse con lui quei pochi metri, sentendosi protettivo per ragioni che non voleva analizzare. John si voltò a guardarlo quando fu salito a bordo, una piccola mano guantata afferrata alla maniglia della porta. Sembrava un po’ perplesso, ma aspettò che fosse Greg a parlare.

Dobbiamo mantenere un atteggiamento professionale, Greg ricordò a se stesso. “Ricorda,” disse seriamente, “il collegamento di questo caso con Sherlock è ancora segreto finché non decideremo il contrario. Non dirlo a nessuno.” Concluse, ricordandosi i verbali. “Specialmente al dottore capo, non mi piace.”

“Me ne ricorderò,” disse John e le porte si chiusero. Attraverso il finestrino, Greg lo vide spostarsi alla ricerca di un posto, camminando con cautela sul treno oscillante. Aspettò sul binario finché il treno non scomparve alla sua vista.

 

***

 

Il dottor Culverton Smith fu molto meno amichevole dell’ultima volta in cui John Watson era apparso alla sua porta. John fu lasciato fuori dall’ufficio del dottore, ad aspettare, ascoltando alcune telefonate rabbiose a mala pena attutite dal muro. Apparentemente la sua presenza stava interferendo con una delle punizioni di Sherlock. Si udì un’invettiva particolarmente  rumorosa che fece sollevare un sopracciglio a John, e un inserviente che spingeva un carrello con ruote attraverso i corridoi catturò la sua attenzione. I due si scambiarono un sorrisetto.

“Non mi piace,” disse più tardi Culverton, un’affermazione che ormai era più che ridondante considerata la sua espressione, come un capitano la cui ciurma si è appena ammutinata. “Questo è il mio ospedale e diventa spaventosamente difficile dirigerlo se sono schiacciato dalla burocrazia!”

“Mi occorrono solo alcuni dettagli in più su questo caso, dottore,” disse John rigidamente. C’era una pila di giornali sulla scrivania di Culverton che attirò il suo sguardo.

“Perché così tanta fretta?”

“Nessuna fretta,” gli assicurò John. “È solo che abbiamo così tanto tempo libero da riempire con questo genere di cose. Programmi, capisce.” Sorrise, ma si bloccò quando notò la foto in prima pagina del giornale in cima. Culverton seguì il suo sguardo, un sogghigno a stento nascosto, ma John capì che fremeva in attesa di ricevere domande in proposito, quindi tenne la bocca chiusa.

Anche se Culverton non aveva l’autorità per negare a John il permesso di entrare, questa volta fu molto meno cortese, delegando a qualcun altro il compito di scortarlo e borbottando qualcosa a proposito dei suoi diritti. Attraverso occhi furiosi stretti a fessure guardò la piccola figura di John scomparire nel corridoio, poi tornò a sedersi, pensieroso. La sua penna dorata appoggiata contro il labbro inferiore arricciato.

La psichiatria cannibale sembrava un premio quando era arrivato per la prima volta: Culverton credeva di aver trovato il biglietto per uno stile di vita tra gli autori famosi.

Ma Sherlock non era testabile e non parlava mai con nessuno.

Oh, ma aveva visitatori, il numero schizzava ogni qual volta un omicidio finiva tra le notizie e dei professori di psicologia volevano sfruttare quel momento per farsi un nome – ma venivano lasciati tutti a mani vuote e frustrati da quell’uomo pallido che giaceva in silenzio sulla sua branda e apriva bocca solo per dispensare insulti taglienti. Lo dicevano con occhiate saccenti – avere a che fare con Sherlock faceva sicuramente venire voglia di gridare per la frustrazione a Culverton.

E poi c’era John. Culverton si infilò con cautela la penna in tasca e sollevò il giornale più recente. John era impallidito quando lo aveva visto lì appoggiato sulla scrivania, quel giovane affettato e vivo per miracolo, ma poi si era ripreso e aveva scandagliato Culverton con un’occhiata che poteva essere descritta solo come disprezzo. Ciò aveva portato Culverton a odiare John immensamente;  

detestava essere interrotto durante i suoi tentativi di fiaccare l’animo.

Dopo cinque anni di sdegnoso silenzio da parte di Sherlock, arriva John Watson, e tutt’un tratto sente parlare di come quell’uomo riesce ad avere Sherlock alla sua mercé. Si era aspettato un John sudato e terrorizzato ricomparire dopo dieci minuti, ma no, Sherlock lo aveva trattenuto là sotto per più di un’ora con una discussione impegnata. Era apparso soddisfatto quanto un gatto ben nutrito per il resto del giorno.

La stampa non sapeva nulla delle visite di John alla casa di cura e, Culverton aveva controllato, non era più un vero detective. C’era sicuramente qualcosa di sospetto sotto, e non avrebbe fatto più alcun tentativo per risultare accomodante con tutti coloro che trattavano il suo ospedale come un caffè dove incontrarsi e salutarsi.

Quindi alzò il telefono per fare una soffiata anonima alla stampa.

 

***

 

Quando John arrivò alla cella di Sherlock, notò subito cos’era cambiato.

Sherlock era seduto al suo tavolo ora vuoto, la sua elegante figura completamente immobile, le mani giunte come in preghiera sotto il suo mento. Come parte della sua pena per dei crimini non menzionati, la cella di Sherlock era stata privata di ogni cosa remotamente stimolante per il suo cervello. Il suo letto era un piccolo quadrato, senza cuscini. I suoi libri e i suoi giornali erano spariti, persino le mensole erano state tolte dai muri, esponendo i supporti di metallo come una ferita. Tutto ciò che aveva erano il suo letto, una sedia, un tavolo e la toilette. Apparentemente, aveva fatto qualcosa di abbastanza grave.

“John,” disse col suo basso brontolio, senza muoversi. “Ho saputo che tu e Lestrade avete trascorso molto più tempo insieme, di recente.”

I suoi tristi occhi si posarono su John e le sue narici si dilatarono temporaneamente mentre inspirava.

John decise di ignorarlo e si sedette, avvertendo un brivido di trepidazione lungo la spina dorsale mentre osservava la cella spoglia, la tensione che faceva contrarre la mascella di Sherlock come il conto alla rovescia di una bomba. Appese la giacca allo schienale della sedia, gli occhi spalancati in confusione. “Cos’è successo?” domandò, realizzando solo allora in cosa consistesse la “punizione” di cui Culveron aveva parlato.

Sherlock non rispose per lungo tempo, poi le sue labbra di allungarono improvvisamente in un ghigno. “Quel dottore privo di senso ed io abbiamo avuto una discussione. Questo è il mio compenso. Non che non me lo aspettassi – a quanto pare sono mentalmente malato, non ho i diritti che hanno gli assassini sani.

“Forse potrei parlargli,” iniziò John, ma Sherlock reagì sbattendo con violenza le mani sul tavolo, quasi ringhiando. John si ritrasse.

Forse. Forse forse forse. Che parola inutile. Sei solo una delusione dopo l’altra, vero?” Si alzò, la sedia si schiantò sul pavimento dietro di lui, e fu in piedi contro il vetro con i suoi furiosi, freddi occhi così in fretta che per poco John non cadde all’indietro. “Allora, hai passato un giorno sul caso e hai già rinunciato? Non mi meraviglia che la tua vita sia un tale casino.”

John ricambiò lo sguardo con freddezza, ma la sua bocca era del tutto asciutta. “Non parlarmi così,” rispose, ma Sherlock stava già ridendo prima che avesse finito.

“Posso parlarti come voglio,” disse bruscamente. “E tu accetterai le mie parole, vero? È una singolare virtù, John, sei una vittima di prima classe.”

John resse quell’occhiata folle il più possibile, poi si alzò, prendendo la giacca con gli occhi bassi.

Lo sguardo di Sherlock si fece più tagliente. “Dove stai andando?” grugnì, indignato, le mani premute contro il vetro.

“A casa,” disse John semplicemente, con tutta l’autorità che riuscì a radunare. “Sono venuto per ricevere aiuto, non perché qualcuno mi urlasse contro.”

“Non puoi andartene e basta!” esclamò Sherlock.

“Sì che posso,” rispose John, un’espressione dura sul volto. Fece qualche passo.

Alle sue spalle poté percepire Sherlock ribollire di rabbia “Capisco,” mormorò a bassa voce. “Un gioco di potere. Che bassezza da parte tua, John, manipolarmi in quel modo.”

John si bloccò e si voltò, incontrando quello sguardo feroce. “Non far finta di essere estraneo alla manipolazione.”

Sherlock lo ignorò, le mani scivolarono lungo il vetro con uno stridio di pelle premuta. Appariva spettrale sotto la forte luce, i suoi vestiti candidi e la pelle erano quasi abbaglianti. “Credi di avere in mano le redini del nostro piccolo accordo solo perché mi fa piacere vederti?” chiese, il suo sorriso era quasi pietoso. Assunse un atteggiamento sdegnoso in un secondo, come se qualcuno avesse acceso un interruttore. “Ti dimentichi che, anche se mi godo il fatto di averti attorno, non mi faccio problemi a sbarazzarmi di te per un’esigenza personale.”

La cicatrice di John prudeva sotto la camicia, sgradevole pizzicore di nervi recisi e sudore.

Un coltello attraverso la morbida carne.

“Non l’ho dimenticato,” disse a bassa voce.

“Allora smetti di dire idiozie e siediti.” Sherlock si fece indietro, gesticolando verso la sedia come se stesse invitando un ospite di mettersi a proprio agio. “Perché darsi tanta pena per fingere di andarsene? La vita è piena di menzogne così com’è senza doverne aggiungere altre alla messinscena.”

“Non è una menzogna,” disse John fermamente. La mano richiusa a pugno sopra alla giacca. “Posso andarmene quando voglio.”

Sherlock emise una risata quasi muta, ruotando gli occhi all’indietro. “No, non puoi. Non se vuoi salvare la prossima vittima.”

John si irrigidì.

“E tu lo vuoi, vero?” continuò Sherlock candidamente. “Vuoi salvare tutti. È ciò che ti fa andare avanti, è ciò che ti ha fatto tornare nelle forze di polizia dopo tutto quel tempo –” la sua mano colpì il vetro mentre parlava “ – anche se ti risucchiano la vita da fin dentro le ossa. Permetti a quelle persone di usarti e valuti la vita di questi estranei più della tua. Non sono un disilluso. So che c’è una sola ragione per cui sei qui, a parlare con me.”

John realizzò che stava respirando come se avesse corso. Si inumidì le labbra, senza ancora muoversi verso Sherlock. “Non ho messo in pericolo la mia vita venendo qui.”

Il sorriso di Sherlock si allargò. “È così?”

John deglutì, spostò il peso su un piede. Si sentiva alla deriva.

“Fai ciò che ho detto e siediti,” ordinò Sherlock, il sorriso scomparve dal suo volto mentre si raddrizzava, rendendosi più alto. “Perché devi affrontare la realtà. Sono io quello che ha il controllo. Sono io la ragione per cui sei ritornato su questo caso. Sono io che decido cosa verrà dopo, perché se non mi dai ciò che voglio, non ti rivelerò nulla.”

“Assumendo che tu abbia qualcosa da dire,” replicò John bruscamente, così teso da sentire dolore.

La mandibola di Sherlock si contrasse, come se volesse mordere. “Siediti,” disse, come se si trattasse di un suggerimento e non di un’istruzione.

John voleva ribattere, voleva una valida ritorsione a tutto il veleno di Sherlock. Invece tornò alla sedia, sentendo lo sguardo di Sherlock su di lui come corde che lo trascinavano inesorabilmente più vicino. Poteva andarsene, scappare prima di essere tirato ancora di più dentro a tutto questo, ma la codardia di John sarebbe stata la ragione per cui un’altra ragazza avrebbe finito col morire.

E non poteva lasciare che ciò accadesse.

Sherlock sembrava trionfante. “Bene,” disse in un sospiro. “Grazie, John.” Le sue mani ricaddero dal vetro, ma rimase ancora inquietantemente vicino, gli occhi pallidi che scorrevano sopra di lui come se stesse cercando di memorizzarne ogni dettaglio.

“Okay,” disse John, inclinando la testa. “Come ci riesce? Come le trova?”

“Non così veloce,” disse Sherlock, con una breve contrazione delle labbra. “Non te lo dirò in cambio di niente.”

“Sono qui, no?”

Lo sguardo di Sherlock si spostò di lato, le palpebre abbassate. “Per quanto piacevole sia avere la tua forzata compagnia, John, la tua presenza, per quanto gradevole, non vale ciò che so.”

John lo osservò. “Cosa vuoi?”

Invece di rispondere, Sherlock emise un lungo sospiro e si girò, calciando verso l’alto la sedia ed afferrandola, sbattendola a terra di fianco al vetro. Ricadde su di essa e unì insieme i polpastrelli, fissando John con il suo sguardo di ghiaccio. Fece un cenno con la testa. “Porta la tua sedia più vicino.”

John rimase fermo, sentendosi molto simile a una preda.

“John…” disse Sherlock piano. Un avvertimento.

Stava testando il proprio potere.

Quando John trascinò la sua sedia qualche metro più vicino, riuscì a scorgere il sorriso compiaciuto di Sherlock da dietro le sue dita. “Eri qualcos’altro prima di diventare un detective,” disse Sherlock, puntando le mani verso John. “Non è così?”

John si irrigidì, la mente prese a lavorare nel panico. “Questa non è una deduzione. L’hai letto, o qualcuno te l’ha detto.”

Sherlock proruppe in una risata sguaiata e si asciugò la bocca. “Ero sospettoso la prima volta che ti ho incontrato,” ammise. “Così ho rubato un’occhiata ai tuoi file. È stata una lettura alquanto interessante.”

Era sempre stato interessato a John. John aveva interpretato il suo comportamento come eccentricità, anche se ora lo conosceva meglio, molto meglio. “Non avevi il diritto di farlo,” disse freddamente. “Quei file erano privati per una ragione.”

Sherlock allargò le mani in segno di scusa. “Mi avevi incuriosito. Non sono riuscito a trattenermi.”

“Non capisco. Perché hai bisogno che ti dica ciò che sai già?”

“Dimmelo e basta,” disse Sherlock con semplicità, appoggiandosi allo schienale della sedia come se si trattasse di un trono.

John voltò la testa, sospettoso. “Sembra un prezzo bizzarro per la tua conoscenza.”

“Le storie possono essere così prive di interesse quando sono inchiostro sulla carta. Preferisco sentirlo dalle tue labbra.” Le sue dita erano di nuovo premute insieme davanti alla bocca, i suoi occhi fissi in quelli di John.

“E se lo faccio,” chiese John, “tu mi dirai come opera il killer?”

“Hai la mia parola, John,” disse Sherlock, gli occhi si strinsero agli angoli in un mezzo sorriso. “Qualunque cosa ciò significhi per te.”

Logicamente, John sapeva che non doveva dare valore a una promessa proveniente da un bugiardo di tale abilità. Al contrario, trovò la promessa di Sherlock stranamente soddisfacente. “Okay,” disse, leccandosi nervosamente le labbra secche. Era stato ripetutamente messo in guardia dall’aprirsi con Sherlock. “Prima di essere un detective, ero un ufficiale delle forze armate.”

Gli occhi di Sherlock sembrarono brillare a sentire ciò, e guardò le mani di John appoggiate in grembo come cercando di trovare indizi, nonostante il fatto che fossero passati molti anni dall’ultima volta in cui John aveva impugnato una pistola, sparato un colpo. “È stato bello?” chiese, l’eccitazione gli vibrò in gola.

Le spalle di John si alzarono. “Molto bello.”

“Ti è piaciuto?”

“Sì,” ammise John, serrando leggermente il pugno sinistro. “Suppongo di sì.”

“Cosa ti è piaciuto di più, dello sparare alla gente?” I suoi occhi luccicavano.

“Non si trattava di quello,” ribatté John. “Si trattava di salvare vite.”

Sherlock piegò la testa. “Prendendone altre?”

“Raramente abbiamo dovuto sparare a qualcuno. Voglio dire… dovevamo mantenerci in esercizio, poligono di tiro, procedure, eccetera. Non ci sono così tante pistole a Londra, quindi alle volte ci bastava farci vedere per convincere i criminali ad arrendersi. Ho sparato con l’intento di uccidere una volta sola.”

Irruzione attraverso la porta principale, i secondi necessari ad abituarsi al buio, la corrente tagliata. Appropriarsi della zona e salire le scale, combattendo contro il peso del giubbotto antiproiettile, lo scricchiolio del legno sotto ai piedi. L’urlo violento di un uomo.

Il grido di una ragazza che si spegne all’improvviso.

John rabbrividì a quel ricordo; il buio ambiente dell’ospedale lo stava facilmente riportando al passato.

Lo sguardo di Sherlock era senza pietà. “E il tuo intento è diventato realtà?”

Sangue schizzato sul legno vecchio, penetrando nelle fessure come se stesse cercando di espandersi il più possibile, cercando di fuggire.

“Sì.”

Sherlock rimase in silenzio, osservandolo, affascinato. Le mani di John stavano tremando. Lo notò solo quando ne fece scorrere una tra i capelli e questa tremò sopra al suo orecchio.

“Il killer usa un virus per trovare le sue vittime ideali,” disse Sherlock nel mezzo del silenzio. “Sospetto che il programma si auto-elimini, ma se i tuoi della scientifica informatica hanno abbastanza talento e tenacia, potrebbero trovarne le tracce in entrambi i computer.”

John fu trascinato nuovamente al presente e fissò Sherlock scioccato. “Un virus? Come?”

Sherlock si piegò in avanti. “Amavi il tuo lavoro.”

John avvertì un’ondata di nausea.. “Non cambiare argomento!”

“Era eccitante,” continuò Sherlock, ignorandolo. “Una scossa di adrenalina, facevi del bene al mondo. E nonostante questo l’hai lasciato. Perché?”

“Forse mi ero stancato,” ribatté John.

“Ma non è così,” disse Sherlock, con un sorriso furbo. “Non mentirmi, John. Me ne accorgo.”

John lo guardò impotente, poi scosse la testa. “Volevo soltanto cambiare.”

Sherlock respinse quella risposta. “Qualcosa ti sta dando la caccia,” disse, quasi dolcemente. “Lo vedo nei tuoi occhi, in ogni respiro tremante che trai quando pensi al tuo passato. Qualcosa ti ha spezzato, non è vero? Quel cambiamento di carriera è stata, più che una decisione presa per capriccio, una necessità.

John si sentiva completamente spiazzato. “Perché vuoi che te lo dica?”

“Mi diverte,” disse Sherlock. “Potrei chiederti così tanto, ma tutto ciò che voglio da te è questo, John. Poi ti dirò quello che vuoi sapere.”

John non ne parlava da anni e trovò difficile raggruppare gli eventi nella sua mente tra le vecchie paure che ora stavano strisciando di nuovo in lui, costringendolo sull’orlo del baratro. Sherlock rappresentava ora un punto di stabilità, seduto nella sua cella con lo sguardo fisso, le gambe elegantemente accavallate come se fosse tornato ad essere uno psichiatra nella propria casa. Potrebbe sembrarlo, pensò John, se non fosse stato per qual bagliore feroce dietro gli occhi di Sherlock non appena John aveva mostrato segni di turbamento.

“Era un giro di pedofilia,” disse infine John, dovendo masticare quelle odiate parole. “Il caso andava avanti da mesi, forse anni, ma alla fine il sistema aveva iniziato a incrinarsi. Avevano rintracciato uno dei principali implicati, ma egli non si rivelò… collaborativo.”

Sherlock piegò la testa, ma rimase in silenzio.

John trasse un respiro profondo. “Non avrebbe parlato con la polizia. Quando ottennero il mandato ed entrarono in casa con la forza, lui sparò. Avevano giubbotti antiproiettile, ma una di loro fu colpito all’avambraccio.” John sfregò un pollice sopra al proprio braccio, consapevole dello sguardo di Sherlock che baluginava su di lui. “Le ha frantumato l’osso.”

“Ah, ricordo questo caso,” disse Sherlock, le labbra lievemente increspate.

“Sì, beh, è difficile per tutti dimenticare,” mormorò John. “Siamo stati mandati là non appena la stazione seppe della sparatoria.” Sollevò nuovamente la testa, la bocca serrata. “C’era un ostaggio.”

I pallidi lineamenti di Sherlock erano già rigidi nell’attesa, le labbra leggermente aperte. Fece cenno a John di continuare.

“C’era solo un uomo, all’interno, e gridava qualcosa su come non saremmo riusciti a prenderlo, su come potesse fare qualunque cosa, perché niente di ciò che avrebbe fatto avrebbe potuto peggiorare ulteriormente la sua situazione. Agitava la pistola, urlando minacce a pieni polmoni. Lui… lui aveva una ragazza tra le braccia.” John ammiccò velocemente. “Sua figlia.”

Sembrava così piccola nelle sua braccia, il suo viso bagnato di lacrime divenute perfettamente visibili dopo che la luce delle torce le ebbe illuminato gli occhi. Piangeva silenziosamente, fissando John come se lui potesse fare qualcosa. John ansimava nella sua pesante armatura, tremando, incredulo di fronte a quella scena, il ruggito furioso di un uomo con la pistola premuta contro la testa di sua figlia.

“Posso ucciderla prima che voi uccidiate me!”

“Non sapevo cosa fare,” disse John, passandosi le mani tra i capelli come un tic nervoso. “Non avevo in programma di sparargli, ma nessuno di noi si aspettava la presenza della ragazza. La reggeva davanti a sé, come uno scudo, e la pistola era premuta così fortemente contro il suo cranio da lasciarle un segno rosso sulla pelle.” Si massaggiò la tempia con un dito. “Non avrei dovuto sparagli.”

“Ma l’hai fatto.”

John si accasciò sulla sedia per alcuni secondi, la testa tra le mani mentre un’ondata di nausea e rimpianto lo trascinavano giù. Non riusciva a smettere di tremare. “Credeva di essere al sicuro con sua figlia come scudo,” disse rivolto al pavimento sotto i suoi piedi. “Ma… ho creduto di poter sparare. Lei stava piangendo, e io… le ho detto…”

“Andrà tutto bene,” aveva promesso John, tentando un sorriso che lei non avrebbe potuto scorgere da dietro la visiera.

“L’uomo perse la testa, sentendomi. Non so cosa fosse, forse il modo in cui si mosse, ma io sapevo che le avrebbe sparato. Ho reagito, soltanto…”

John si strinse la testa, gli occhi serrati. “Era troppo tardi. Lei era… era morta.”

Sangue schizzato sul legno vecchio.

Sherlock si era proteso in avanti, adesso, i gomiti sulle gambe, completamente rapito. John si raddrizzò, gli occhi pizzicavano. Sentiva la faccia calda e resistette all’impellenza di asciugarsi i palmi sudati sui jeans mentre Sherlock se ne stava lì con occhi attenti, crogiolandosi nella sua reazione emotiva.

“È stata colpa mia,” disse John intontito. Unì le mani in grembo. “Avrei dovuto portarlo fuori appena sono entrato e ho visto che c’era una bambina. Ma non l’ho fatto, perché ho avuto paura di qualche… ordine che ci imponeva di portarlo via vivo. Come potevo metterlo davanti alla vita di qualcuno?”

“Ti sei trasferito,” disse Sherlock con voce roca.

John annuì. Non riusciva a parlare.

“Sei diventato ispettore in fretta.” Sherlock continuava a incoraggiarlo. “Si è trattato di

uno sforzo consapevole?”

John scrollò le spalle, si schiarì la voce. “Se avessi lavorato abbastanza duramente non avrei dovuto ripensare a ciò che era accaduto.”

“Ma quando non lavori.” La sua voce lo sondava con cautela. “Quando ci sei solo tu, solo e stanco. Pensi a lei, in quel momento?”

John sollevò la testa per incontrare quegli occhi pallidi, i suoi stavano probabilmente luccicando, ma non gli importava. “Tutto il tempo.”

Sentì una lacrima minacciare di riversarsi lungo la sua guancia e si sfregò velocemente gli occhi, tirando su col naso. Si sentiva quasi violato, Sherlock lo guardò in silenzio per un po’. Improvvisamente, John udì la sedia grattare contro il pavimento quando Sherlock si mosse, e alzò lo sguardo per vederlo afferrare una scatola di fazzoletti dal suo letto e lasciarla cadere dentro la scatola scorrevole.

“Non intendo prendermi nient’altro da te,” disse, agitato, la voce proveniva da un punto profondo nella sua gola.

“Sono solo fazzoletti, John,” disse Sherlock con gentilezza, sedendosi nuovamente e chiudendo gli occhi con le dita premute sotto al mento. Non guardò John prenderli e tamponarsi gli occhi e il viso, come per concedergli un po’ di privacy.

Soltanto quando John ebbe riacquistato la sua compostezza, lo sguardo onniveggente si posò nuovamente su di lui.

“Sei abbastanza a pezzi, vero?” rifletté. “Penso che un solo tocco potrebbe farti andare in frantumi, se non fosse per il fatto che conosco personalmente la tua forza.”

John era troppo esausto per replicare. “Come fa l’emulatore a trovare le sue vittime?” chiese, spingendo di nuovo i fazzoletti nella cella di Sherlock.

“È un ragno al centro della sua rete,” disse Sherlock, con un sorriso vagamente divertito. “Un virus viaggia attraverso internet e si infiltra nei computer senza che lui li tocchi. Può accendere telecamere, microfoni, e quando trova qualcuno da solo, vulnerabile, va da lui.” Il sorriso si ampliò. “E poi, fa il suo lavoro.”

John annuì. “Quindi… stiamo cercando qualcuno bravo coi computer?”

“Un programmatore incredibilmente talentuoso,” specificò Sherlock, alzandosi. “Non sarei sorpreso se fosse così che ha scoperto i dettagli del mio caso. Il database del servizio di Polizia Metropolitana non è privo di falle nella sua sicurezza.” Con un sospiro arrogante piegò il collo all’indietro e John udì un leggero click. Sherlock gli andò più vicino. “Sembri così stanco, John,” mormorò. “Se tu fossi mio, mi prenderei cura di te.”

John arretrò con decisione. “Non ho bisogno di essere accudito.”

“Non hai idea di come appari al resto del mondo, vero? È questa la tragedia, davvero. Un’anima così resistente in un corpo tanto fragile.”

Sherlock appoggiò il braccio sopra la testa contro il vetro, allungandosi verso di lui. “Le persone ti guardano e tutto ciò che vedono è un uomo distrutto, in bilico sull’orlo dell’autodistruzione.”

John sbatté le palpebre lentamente, piegando la testa. “E cosa vedi tu?”

Sherlock sorrise e la sua voce si abbassò. “Io vedo acciaio.”

Per un istante, fu come se non ci fosse più un vetro tra loro.

“È stato un piacere rivederti, John,” disse Sherlock piano e questa volta lo sguardo famelico nei suoi occhi non venne mascherato.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


loss 3

Questa volta ho avuto un bel daffare con le forme del ‘tu’ e del ‘lei’, che complicano moltissimo la vita a noi traduttori (o almeno a me). Quindi perdonatemi se vi capiterà di trovarli fuori luogo, ma c’era poco altro da fare. Per questa fanfiction ho deciso di far relazionare i personaggi in modo non troppo formale. E poi la stazione. Stazione di polizia o stazione dei treni? Credo di essere riuscita a gestire i termini in questo capitolo, ma ora mi rendo conto che avrei potuto avere frainteso qualcosa in quelli precedenti. Ahimé. E ancora non ho capito se la ginnasta si arrampica su tubature o stucchi decorativi. Un inglese l’avrebbe capito, ma per me sono la stessa cosa.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Jim Moriarty ricordava il loro fatale incontro, più di cinque anni prima. Era impresso nella sua memoria come una ferita.

Gli avevano raccomandato di fissare un appuntamento di sera, l’ultima visita; in quel modo il dottor Sherlock Holmes gli avrebbe consesso delle ore extra, se necessario, e Jim avrebbe potuto finire di sistemare tutto in una notte. Aveva fermamente sperato che sarebbe stato quello il caso, che il dottor Sherlock Holmes fosse davvero così bravo come decantavano. Solo nell’eventualità che non lo fosse, Jim aveva fissato l’appuntamento all’abitazione privata del dottor Holmes così da poter conoscere l’ambiente in cui l’uomo viveva. Sarebbe stato meglio se non avesse richiesto una retribuzione, ma nessuno prendeva il denaro di Jim senza dare qualcosa in cambio. Non senza pentirsi amaramente della trasgressione.

Le giornate si erano accorciate, per questo era già buio fuori quando Jim arrivò per la sessione, i lampioni splendevano debolmente più in alto, tutto attorno a lui aveva un intenso colore grigio-blu. La notte rimuoveva i colori dal mondo. Jim dovette strizzare gli occhi mentre controllava dietro di sé, ruotando lo sterzo della sua BMW in una manovra pulita di parcheggio parallelo. Aveva guidato fin lì da solo. Non c’era bisogno che qualcuno sapesse di questa sua particolare debolezza, specialmente se si fosse scoperto che il dottor Holmes non aveva una cura.

Jim poté udire il suono smorzato di un violino mentre saliva le scale che portavano a casa del dottor Holmes, una melodia costante e profonda attutita dalle finestre da cui fuoriusciva una luce gialla che contornava gli orli delle tende. La musica si interruppe bruscamente quando Jim suonò il campanello e il dottor Holmes apparve alla porta un istante più tardi, un’espressione cortesemente neutrale. Indossava una camicia scura e dei pantaloni da completo dal taglio stretto, la sua alta, magra figura contornata dalle luci del corridoio. Jim aveva parlato al dottor Holmes soltanto al telefono. Non si aspettava qualcuno così… appariscente.

“Buona sera,” disse Sherlock, le ciglia si abbassarono mentre faceva scorrere i suoi occhi blu ghiaccio sopra a Jim, catalogandolo. “Lei dev’essere Jim Moriarty.”

“’Sera,” disse Jim vivacemente, sperando caldamente che quel Sherlock potesse aiutarlo. Sarebbe stato un tale spreco uccidere qualcuno di così grazioso.

Sherlock indietreggiò per fare spazio a Jim nell’atrio, l’espressione neutra non aveva lasciato il suo volto. Una persona normale non l’avrebbe notato, ma Jim si accorse che si stava sforzando a mantenere quello sguardo.

Sospettava che la naturale espressione di Sherlock fosse più acuta e meno educata.

“Prego,” disse Sherlock graziosamente. “È un po’ in anticipo.”

Jim lo sapeva. “Oh, mi dispiace,” si scusò con un ghigno, passando di lato a Sherlock ed entrando nel corridoio, pulendosi i piedi sullo zerbino. “L’orologio della mia auto dev’essere rotto.”

Gli occhi di Sherlock si strinsero leggermente. “È tutto a posto,” disse, stirando lievemente gli angoli della bocca. “Ho preparato tutto.”

Era uno psichiatra inusuale, rifletté Jim, mentre seguiva la snella schiena di Sherlock nel salotto. Non appariva particolarmente confortante, ma Jim non era alla ricerca di un orecchio comprensivo. Gli occhi di Sherlock erano luminosi e molto intelligenti, e aveva, attorno a lui, questa tenue aura di onniscienza che Jim trovava eccitante. Era al di sopra e al di là delle aspettative di Jim. Era sicuro che quello fosse l’uomo di cui aveva bisogno.

C’era un violino appoggiato a un piedistallo di fianco a una poltrona grigioverde, la poltrona di Sherlock. Un po’ più in là si trovava un apparentemente confortevole divano su cui Jim avrebbe potuto sdraiarsi, molto freudiano. Sherlock glielo indicò ma Jim rise e scosse la testa.

“Sto bene su una poltrona normale,” disse.

Sherlock non si mosse. “Si fidi, quello è meglio.”

Jim si appollaiò sul bordo, eretto, e sorrise verso Sherlock.

“Si sdrai,” disse Sherlock paziente, e Jim capì che non sarebbe successo niente finché non avesse fatto ciò che gli era stato detto. Emise un sospiro irritato per dimostrare a Sherlock quanto stesse diventando fastidioso e si lasciò cadere di schiena sul divano. Se quel trattamento, qualunque cosa fosse, non avesse funzionato, Jim avrebbe fatto del male a Sherlock per tutte quelle piccole umiliazioni. Non gli piaceva arrendersi a nessuno. Non gli piaceva la vulnerabilità che derivava dall’essere disteso sulla schiena, incapace di fuggire facilmente.

Udì Sherlock sedersi, lo vide incrociare le gambe con la coda dell’occhio. “Lei mi è stato raccomandato, lo sa?” disse Jim, con un cenno d’intesa. “Ha curato la claustrofobia di uno dei miei dipendenti in una sessione. Molto impressionante.”

Sherlock scosse le spalle. “È stata una lunga sessione.”

Solitamente Jim riusciva a leggere le persone, ma Sherlock era impenetrabile. “Non ha voluto dire come ci è riuscito, però.”

Sherlock si schiarì la voce. “Al telefono ha accennato di avere una preoccupante paura dei ragni.”

Jim rise. “Già, sin da quando ero piccolo. Sono cresciuto in una casa che… beh,” girò la testa per guardare Sherlock. “C’erano un sacco di modi di entrare, per un ragno.” Sherlock ricambiò lo sguardo impassibile. Non avrebbe dovuto avere un quaderno per appunti o qualcosa di simile? Agitò una mano e proseguì. “È arrivata al punto di essere imbarazzante. Ho 33 anni e sono ancora spaventato dai ragni.”

“Fotografie di ragni la spaventano?”

“Non spaventano chiunque?” Jim rise, ma Sherlock non batté ciglio. Si accigliò. “Beh, sento una certa repulsione, ma credo che sia normale. Credo che sia il loro modo di muoversi a terrorizzarmi, più che il loro aspetto. Specialmente quando sono grossi e veloci. Cazzo, griderei a squarciagola se potessi,” ridacchiò a disagio. Era imbarazzante.

Sherlock rimase in silenzio per un momento. Jim finse che stesse prendendo appunti su un quaderno immaginario come succedeva nei film. Poi Sherlock parlò. “Anch’io ero spaventato dai ragni.”

“Davvero?” esclamò Jim. Non se lo aspettava. Sherlock sembrava così imperturbabile.

Sherlock inclinò la testa. “Oh sì,” mormorò e suonò leggermente amareggiato.

“Ma non lo è più.” Jim si dimenò verso l’alto e si appoggiò ai gomiti. “Ha razionalizzato la paura?” lo accusò. “Perché io ci ho già provato ma odio ancora quei piccoli stronzi.”

“Non c’è nulla di razionale nelle fobie,” disse Sherlock gentilmente. “La paura dei ragni è comune per una serie di solide ragioni evolutive, e per quanto quelli in Inghilterra siano innocui avvertiamo ancora le tracce di quella paura quando ne vediamo uno. Non che siano pericolosi. Lo sappiamo, lo sappiamo. In questo caso, razionalizzarlo al di fuori di un preconcetto mentale avrebbe solo una piccola possibilità di funzionare.” Piegò la testa, stringendo insieme le mani. “Se mi permette, non mi sorprende il fatto che abbia fallito.”

“Come si è curato?” chiese Jim, interessato.

Sherlock lo scrutò pensieroso, poi abbasso lo sguardo sulle mani intrecciate. “Non l’ho fatto,” disse. “Ho avuto bisogno di un aiuto esterno, come lei.”

Era molto vago, questo dottore. “Può aiutarmi?” domandò Jim, ricacciando indietro la propria irritazione.

“Oh sì,” disse Sherlock, con un ghigno che rasentava la furbizia. “Probabilmente potrei curarla stanotte.” Si chinò leggermente in avanti, il tono serio. “Non sarà semplice, però, non sarà piacevole. Vuole ancora provare?”

Certo, pensò Jim, e annuì con forza. Sherlock si alzò in piedi e in incamminò a grandi passi verso la libreria, allungandosi per estrarre una cartella dalla cima. Jim poté scorgere un accenno delle sue scapole flessuose muoversi sotto la camicia scura. Non gli sarebbe dispiaciuto incontrare più spesso questo dottore. Pagarlo molto, tenerselo attorno…

Sherlock tirò fuori un foglio di carta dalla cartella. “Ho un contratto da farle firmare,” disse in tono mellifluo, facendo segno a Jim di alzarsi. “È abbastanza semplice. Le darò una mano, se le fa piacere.”

Jim si sedette sul divano, scorrendo il contratto con gli occhi stretti. Gli saltarono agli occhi vari termini di cui non si curò troppo, ma quello che lo colpì di più era la richiesta di silenzio.

Paura che qualcuno gli rubasse i metodi? “È un obbligo di silenzio, questo?” chiese a Sherlock, il quale stava accordando discretamente il violino mentre Jim rimuginava su ogni cosa.

“Sì,” disse semplicemente.

Jim rise. “Ecco perché Seb non ha potuto parlarmi della sessione,” rise, sollevando la mano e mimando uno scarabocchio in aria. Sherlock si alzò di nuovo, offrendogli una penna, e appena Jim ebbe firmato il foglio gli fu tolto di mano. Jim osservò il dottore controllare tutto con un lieve restringimento dei suoi pallidi occhi glaciali, quindi il foglio fu messo da parte. Si sedette sul divano di fianco a Jim, e Jim avvertì il calore del suo corpo vicinissimo quando Sherlock piegò la testa, i ricci scuri ondeggiarono da parte.

“Questa sarà una…” Sherlock fece una pausa delicata, “cura un po’ fisica. Non ho messo in chiaro la situazione quando ho detto che sarebbe stata spiacevole.”

Jim si strinse nelle spalle.

“Dico sul serio,” disse Sherlock, guardando intensamente negli occhi di Jim. Jim rise.

“Si fidi di me,” disse con un ghigno. “Mi sono trovato in mezzo a un sacco di situazioni spiacevoli, prima d’ora.” Molto più quanto avesse fatto un dottore di classe medio-alta in una gradevole parte di Londra, ne era certo.

“Sì,” mormorò Sherlock, abbassando le ciglia, e Jim ebbe la sensazione che lo stesse soppesando mentalmente. Affascinante. “Riesco a vederlo.” Con sorpresa di Jim, si alzò e ricadde con le ginocchia sul tappeto, armeggiando sotto al divano per estrarne delle cinghie spesse, nere, le estremità erano attaccate ai lati del divano sul quale Jim stava seduto. “Adesso la immobilizzerò,” disse in tono professionale. “Per cui trovi una posizione confortevole.”

Stava diventando interessante. “Okay,” disse Jim, divertito, e si stese permettendo a Sherlock di lavorare su di lui. Le cinghie gli passarono attorno al petto, gli legarono le braccia ai lati, e le gambe. Vennero allacciate insieme, spingendolo sul divano e, con una forza sorprendente, Sherlock le tirò così strette che, quando ebbe finito, Jim non poté fare a meno di dimenarsi.

“Quando ero un bambino,” disse Sherlock, testando la forza delle cinghie e allontanandosi con soddisfazione, “mio fratello collezionava ragni.”

“Davvero?” disse Jim e fece forza contro quelle costrizioni, saggiandole. Non c’era niente da fare, era bloccato. Notandolo, gli occhi di Sherlock guizzarono su di lui, poi si raddrizzò e camminò fino all’angolo della stanza, abbastanza lontano perché Jim dovesse allungare la testa per non perderlo d’occhio.

“Non sono sicuro del perché lo attirassero così tanto.” Sherlock si piegò dietro un tavolo da scacchi e riemerse con una scatola avvolta da una larga coperta bianca che trasportò con cautela. “Era un hobby che è andato dal collezionare quelli che avevamo in casa allo spendere soldi per le razze più costose provenienti da tutto il mondo. Forse gli piaceva la loro natura.”

Sherlock posò gentilmente la scatola sul tavolino da caffè, sollevando la coperta con una sorta di reverenza.

“Per lui erano i predatori perfetti, pazienti e scaltri. Non avevano bisogno di correre o inseguire. Loro aspettavano e basta.” Sherlock sembrò rabbrividire facendo scorrere un dito sul coperchio della scatola. “Non aveva paura di tenerli in mano, ma io,” soffocò una risata, “io ero terrorizzato da loro. Ho cercato di nasconderlo, ma lui lo scoprì in fretta. Le mie paure lo infastidivano. Mi stavo comportando in modo irrazionale.”

Sollevò il coperchio dalla scatola con due mani, posizionandolo da parte. Qualcosa, nella sua espressione, si era incupito, e vi era un che di intenzionalmente predatorio nei suoi movimenti che Jim prima non aveva colto. Deglutì a vuoto quando Sherlock allungò una mano dalle dita lunghe nella scatola, lentamente, cautamente. Ascoltando attentamente, Jim poté udire un fruscio. Il suono di qualcosa che grattava.

Il volume della voce di Sherlock precipitò. “Una notte entrò nella mia stanza, mentre dormivo.” Inalò l’aria con un respiro profondo, poi si girò improvvisamente a fissare Jim direttamente negli occhi. “Rovesciò una scatola di ragni nel mio letto.”

L’immagine di un giovane ragazzo intrappolato nelle coperte, gridando di paura, sentendo i ragni strisciargli sulla pelle, colpì la mente di Jim e si ritrovò senza fiato. Distolse lo sguardo da Sherlock per trovarsi a osservare la scatola con orrore crescente mentre il fruscio sembrava ingigantire. All’improvviso, una lunga zampa nera affiorò dalla scatola, allacciandosi attorno al braccio di Sherlock che si trovava ancora al suo interno. La mente di Jim si dissolse in puro panico quando un ragno enorme apparve dalla manica di Sherlock, pesante e nero con gli arti grassi. Le sue zampe dovevano essere lunghe parecchi centimetri.

Sherlock non degnò di uno sguardo quella creatura orripilante che era aggrappata al suo gomito, al contrario osservò Jim con calma, con l’espressione con la quale lo aveva accolto alla porta. “Il miglior trattamento per questa sorta di fobia è l’esposizione allo stimolo fobico in un ambiente controllato,” disse Sherlock con voce gentile. “Ha mai sentito parlare di flooding?”

Jim scosse soltanto la testa, delirante per la paura, con gli occhi spalancati. Non riuscì a rispondere. Il primo ragno si posizionò sul cuore di Sherlock, penzolante, e un altro gigantesco ragno si stava arrampicando sul braccio di Sherlock. La scatola frusciava ancora. Quanti ragni c’erano là dentro?

Sherlock sorrise quando Jim iniziò a forzare le cinghie e non attese una risposta. “Il flooding è il più estremo tra i trattamenti di esposizione. Il paziente viene immerso nel riflesso della paura finché questa non svanisce da sola.” Abbassò lo sguardo quando un terzo ragno gli raggiunse la spalla, raspando sulla seta della camicia. “Si realizza che non c’è nulla di cui aver paura.” Sfregò un dito pallido sul ragno sul suo petto, facendo balzare le sue grasse zampe. “Mio fratello mi tenne giù e mi coprì di ragni finché non lo trovai più spaventoso. Ho chiuso il suo amico claustrofobico in una bara e l’ho tenuto lì tutta la notte. Alcune reazioni fobiche sono così intense che il flooding va fatto tramite l’immaginazione.” Il suo sguardo ricadde sul corpo sussultante di Jim. “Ma credo che lei sia forte abbastanza da sopportarlo.”

Aveva quattro ragni attaccati addosso, il più grande si trovava sul suo collo con le sue zampe nere affondate tra i ricci, e quando sollevò la scatola e iniziò a camminare, i balbettii frenetici di Jim si tramutarono in urla supplicanti.

Sherlock rimase indifferente. “Le suggerirei di tenere la bocca chiusa, per ovvie ragioni,” disse brevemente. “E cerchi di non agitarsi troppo. Potrebbero mordere.”

Poi svuotò la scatola sul corpo di Jim.

 

***

 

John non inciampò fuori dall’ospedale. Si fece forza e marciò con andatura veloce, guardando avanti, tutta la tensione del suo corpo era pesantemente raccolta nei suoi pugni chiusi. Solo una volta che fu fuori, nell’aria mattutina, rilassò la postura. Quando fu fuori da ogni raggio visivo, quasi collassò appoggiandosi a un ruvido muro di mattoni, le ginocchia deboli, e si premette il pugno stretto contro la bocca per soffocare quello che minacciava di essere un singhiozzo. Se si fosse incamminato all’interno del parco, il taxi, che lui stesso aveva chiamato, che stava ora compiendo lenti giri, l’avrebbe visto e l’avrebbe portato alla stazione, ma John non era ancora pronto per questo. Aveva bisogno di un momento in privato, aveva bisogno di elaborare quanto rapidamente ogni cosa stava sfuggendo al suo controllo.

Gli occhi freddi di Sherlock indugiavano nella parte anteriore della sua mente, uno sguardo che aveva scavato così in profondità che John sapeva che avrebbe ricordato quella particolare gradazione di blu ghiaccio per tutto il resto della sua vita.

Erano anni che non parlava di Rachael, a nessuno. Coloro che erano a conoscenza di ciò che era accaduto non gli facevano domande in proposito, così John aveva potuto relegare con successo quelle memorie in qualche angolo oscuro del suo cervello e andare avanti come se la cosa fosse soltanto un vivido incubo del quale non doveva curarsi troppo. Era una confortante, anche se malsanamente evitata, illusione.

E poi Sherlock Holmes aveva –

John si strinse il ponte del naso tra le dita e bevve l’aria fredda del mattino. I polmoni gli dolevano. Aveva bisogno di una sciarpa, o una giacca più pesante. Il cemento ondeggiava sotto i suoi piedi, ghiaia e sporco.

Una vibrazione contro il suo petto lo spaventò; era solo il suo telefono. Ronzava rumorosamente nella sua tasca e armeggiò per raggiungerlo con le mani intirizzite. “Pronto?”

“John,” la voce familiare di Greg risuonò nel suo orecchio, sembrava scosso. “È da un po’ che ti chiamo. Abbiamo bisogno di te a Londra immediatamente.”

John respirò pesantemente contro il muro per qualche momento con gli occhi serrati. Sollevò la testa. “Scusa, non c’era campo. La cella di Sherlock è sottoterra,” spiegò, scusandosi, prorompendo in una camminata svelta verso il taxi. La sua voce uscì leggermente fievole, ma Greg sembrò non notarlo. “Cos’è successo?”

“Abbiamo trovato quattro corpi nel Tamigi, questa mattina,” disse Greg rapidamente. John sentiva il vento sibilare come una scarica elettrica attraverso l’altoparlante, ed ebbe l’immagine di un Greg infreddolito in piedi vicino all’acqua grigia del fiume leggermente scostato dagli altri, il cappotto che sbatteva attorno alle gambe. “Sono stati legati a qualche conduttura e uno di loro è venuto in superficie. Abbiamo delimitato la scena e li porteremo su presto.”

John fece un cenno al tassista e saltò sul sedile posteriore. “Stazione, per favore,” richiese, poi tornò a parlare al telefono, incapace di nascondere la confusione. “Sono ritornato soltanto su questo caso, Greg. Perché hai bisogno di me per questo?”

“È lo stesso assassino, John,” disse Greg e deglutì rumorosamente. “Sono tutte donne e hanno…” il suo tono di voce precipitò, cauto, “…parti del corpo mancanti.”

John si appoggiò al sedile con un sibilo di pelle schiacciata. La sua gola si serrò. “Quindi non sono più solo due vittime.”

“Non lo so, ma così sembra,” ammise Greg. “Toby si è praticamente ammutolito. Sta ritornando sopra a tutto.”

Cinque corpi, non due. Quante persone aveva ucciso Sherlock? Erano riusciti ad attribuirgliene nove, anche se John aveva sempre creduto che dovevano esserci delle vittime di prova nascoste da qualche parte, o alcune che semplicemente non erano stati abbastanza bravi da trovare. “Dobbiamo dirlo alla gente. Indici una conferenza stampa o qualcosa del genere. Non possiamo nascondere la connessione a nessuno, ormai. Le persone devono sapere così da potersi difendere.”

Greg sbuffò nel telefono. “Già, stavo pensando la stessa cosa. Ne parleremo con Toby. Mandami un messaggio quando il tuo treno arriva a Londra e farò venire degli agenti a prenderti.”

“Bene,” disse John, annuendo anche se Greg non poteva vederlo. “Okay.”

Ci fu una pausa, poi John credette che Greg stesse per riagganciare. “Stai bene?” chiese invece. “Tutto… bene?”

John chiuse gli occhi e una brusca sterzata del taxi dietro a una curva nascose un suo brivido. “Sto bene.”

“Bene.” Greg fece un’altra pausa.

“Inoltre, ho trovato qualcosa su cui devo metterti al corrente subito.” John abbassò la voce. “Riguarda i computer…”

 

***

 

Dopo tanto tempo trascorso in acqua, i corpi non sembrano più umani.

Greg stava in piedi con gli altri agenti come se si trovasse a un funerale, le mani raccolte davanti a sé e la testa lievemente piegata. Accanto a lui, il detective ispettore capo Toby Gregson stava abbaiando ordini alle povere anime  che dovevano portare i corpi viola e gonfi fuori dall’acqua, ad alta voce come se fosse arrabbiato. Non era davvero arrabbiato, Greg aveva lavorato con il detective ispettore capo abbastanza per sapere che stava mascherando la sua paura con la spavalderia. Questi tre corpi avevano alzato il ritmo. Adesso la polizia si trovava con cinque omicidi inspiegabili, un sesto in programma, e nessun sospettato, con una connessione a un caso con qui la stampa, in passato, li aveva eviscerati.

Il sole candido balenava occasionalmente dalle nuvole nel cielo del mattino, troppo luminoso, come una torcia che colpisce gli occhi. I cordoni della polizia sbatacchiavano incerti al vento, e i teli che coprivano i corpi alla vista dei passanti si increspavano come vele. Vi era una sorta di terribile umiliazione nei corpi trovati all’esterno. Greg le aveva viste tutte; cadaveri ricoperti di fango nei fossati, corpi decomposti nascosti nel legno, e quelli sepolti in bare sottacqua, come quelli che stava vedendo proprio ora nella forma di tre donne in vari stadi di decomposizione, i capelli che iniziavano a cadere e la pelle fradicia che si staccava come pasta sfoglia in eccesso. Era stato un puro caso che il loro luogo finale di sepoltura non fosse stato il fondo del Tamigi, nel fango, tra la spazzatura che non galleggiava.

Sentì la rabbia risalire lungo la gola e la scacciò con difficoltà. Dall’altro lato della strada, vide John fare la sua apparizione al centro della scena, passando sotto a un cordone e guardandosi attorno. Il suo sguardo atterrò su Greg, e si avviò verso di lui, strizzando gli occhi contro il vento. Sembrava più vigoroso del solito.

“Cosa ne deduci?” domandò Greg quietamente quando John fu vicino a lui. Eccetto il detective ispettore capo, avevano tutti preso a parlare a bassa voce.

John fletté le dita e lanciò un’occhiata all’intera scena che si era lasciato alle spalle. Sembrava che stesse facendo dei calcoli a mente. “A giudicare dal loro stato, credo che siano state uccise prima di quelle che abbiamo trovato negli appartamenti.”

Greg annuì. “Sarà fatta loro un’autopsia il prima possibile, ma sì, questo è ciò che mi è stato detto, finora.”

“Quindi ha ucciso queste tre, poi ha deciso di cambiare il suo metodo.”

Greg sbatté le palpebre lentamente. “Giusto,” disse.

“Sherlock ha detto,” John si interruppe bruscamente e strinse le labbra, la fronte aggrottata. “Voglio dire, la prima volta che sono andato a trovarlo, ha detto che il messaggio era la parte importante.”

“Non erano importanti le vittime, ma i loro corpi,” disse Greg, annuendo in fretta.

“Credo che abbia modificato il suo metodo per essere sicuro che le vittime fossero ritrovate.”

Era deplorevole, ma raramente le persone scomparse facevano notizia, e la polizia aveva poche possibilità di ritrovarle quando c’erano crimini più eclatanti da qualche altra parte. L’omicida non aveva motivo di continuare se nessuno gli prestava attenzione. Ai serial killer piaceva fare notizia.

Accanto a lui, John infilò le mani in tasca e guardò in direzione del luogo dove i corpi erano stati caricati. L’acqua doveva aver distrutto la maggior parte delle prove, ma erano stati comunque portati all’obitorio dove qualche sfortunato patologo avrebbe documentato ogni cosa. Con un po’ di fortuna le donne sarebbero state identificate. “Dobbiamo parlare con Gregson a proposito della conferenza stampa,” disse piano, ma fu interrotto dalla suoneria stridula del telefono di Greg.

Greg gli mise mano con sguardo di scusa e rispose. “Ispettore Lestrade.” La sua espressione era fissa e arcigna, ma quando la voce dall’altra parte del telefono parlò i suoi occhi si illuminarono e scandagliarono i paraggi per poi fermarsi su John. Premette una mano sull’altoparlante e disse a John in un frenetico sussurro ‘hanno trovato il virus!’

 

***

 

“Una conferenza stampa.” Toby Gregson si appoggiò al comodo schienale della sua sedia d’ufficio producendo un cigolio, scrutando John. L’espressione di Greg era quella di un castigato, ma di fianco a lui John proseguì imperturbabile.

“Se la tua teoria del killer che segue le date del caso di Holmes è corretta, allora dobbiamo aspettarci un omicidio per domani,” disse, incontrando lo sguardo d’acciaio di Toby, suggerendo che avrebbe retto quell’occhiata finché non avesse ottenuto ciò che voleva. Toby si ricordò di un giovane John Watson al poligono di tiro, il quale faceva fuoco una serie dopo l’altra con spaventosa accuratezza, ed ebbe il presentimento che questa volta avrebbe potuto non spuntarla.

“John,” disse con voce magnanima puntando le dita contro la solida scrivania. “Capisco che questo caso sia importante per te –”

“Credevo fosse importante per tutti,” lo interruppe John e si intravide qualcosa di tagliente nei suoi occhi, diversa dal solito colore grigio-blu.

Toby gli concesse un sorriso da dietro i denti serrati. “Tu non eri… tu non eri con noi,” disse con delicatezza, “l’ultima volta in cui abbiamo dovuto avere a che fare con la stampa. Ci daranno la caccia, correranno dietro a persone innocenti credendo che siano sospettati, pedineranno le famiglie delle vittime…”

“Se sta parlando di Sherlock Holmes, io sono stato lì per tutta la durata del caso, signore,” disse John alzando il mento. “Tranne che nell’ultima parte.”

Toby strinse le labbra e considerò l’uomo che aveva di fronte. Conosceva John, sapeva che era quel genere di persona che segue facilmente l’autorità di qualcun altro senza lamentarsi, ma che talvolta si presenta con un’idea in testa e la porta avanti con una tenacia che qualcuno chiamerebbe volontariamente testarda. E ogni tentativo di persuaderlo a lasciarla perdere lo porterebbero unicamente a voler andare più a fondo.

Girò la sedia per rivolgersi a Greg.

“In casi come questo, dobbiamo tenerli all’oscuro.”

Greg sembrò dubbioso e John si protese in avanti. “Non si tratta di due corpi trovati a miglia di distanza,” puntualizzò, lo sguardo che dardeggiava tra le espressioni silenziose di Toby e Greg. “Si tratta di un assassino che potrebbe aver ucciso cinque persone, e se Sherlock avesse ragione a proposito del virus –”

Fece una pausa e Greg parlò. “La scientifica informatica ha appena trovato un virus che controlla videocamera e microfono in entrambi i computer delle vittime, signore,” disse, con un colpo di tosse, “e Holmes pensa che potrebbe averle scelte in questo modo.”

Toby considerò ciò che gli era stato detto e tornò a girarsi verso John, che stava ancora seduto composto sulla sua sedia. Sembrava molto più difficile da ignorare da quando era tornato dal Berkshire, era quasi tornato ad essere il vecchio se stesso, come se l’incontro con Holmes avesse acceso qualcosa nella sua testa che era rimasta dormiente fino a quel momento. Era stato fragile all’inizio, vicino alla linea di rottura, così tanto che Toby si era sentito in colpa ad approfittarsi di lui. Ora non più.

“Se trova le vittime spiandole, dobbiamo dirlo alla gente,” continuò John. “Capisci, impedire a coloro che corrispondono al suo profilo dall’usare i loro computer, potremmo almeno capirci qualcosa di più.” Fece ricadere lo sguardo sul suo grembo. “So che siete preoccupati per l’intrusione della stampa nell’indagine –”

“Dannatamente preoccupati,” disse Toby.

“Ma credo che, in questo caso, il bene che possiamo fare superi ogni conseguenza negativa.”

Toby strinse gli occhi e trasse un sospiro addolorato. “Ricordo quando facevi tutto il possibile per uscire dal mio ufficio, Watson,” osservò. “Cos’è successo?”

John si strinse nelle spalle. “Non voglio vedere nessun altro venire ucciso.”

Si udì bussare alla porta di vetro e tutti e tre gli uomini si voltarono per vedere Sally Donovan entrare, un luccichio negli occhi. “Abbiamo identificato uno dei corpi trovati nel fiume.”

Le sopracciglia di Toby scattarono in alto. “Sì?”

“Beth Davenport.” Il tono di voce di Sally si abbassò. “La figlia scomparsa del politico.”

“… Oh merda,” disse Toby piano. Dannazione.

“Ma abbiamo un collegamento con gli altri due corpi. La scientifica ha trovato il virus nei loro computer.” Sally guardò le sue carte. “Il patologo ha tirato giù qualche dato su quando l’omicidio è avvenuto, e cadono tutti negli stessi giorni del caso di Holmes.” Alzò lo sguardo. “Credo che si tratti definitivamente di un emulatore.”

“Un emulatore con fin troppe informazioni sul caso di Holmes,” grugnì Toby.

Di fronte a lui, Greg sembrò vendicato ora che la sua teoria si dimostrava corretta. John guardò Toby per caso, le sopracciglia che si univano in un cipiglio. Piccolo bastardo.

“Va bene,” sbuffò Toby. “Okay. Indirò una conferenza stampa per questo pomeriggio.” Agitò le mani. “Lestrade, Donovan, presenzierete con me. Donovan, voglio che inizi a organizzare i nostri dati.”

Sally annuì, la sua figura snella era ancora ferma alla porta. “Vuole parlare della connessione col caso Holmes?”

“Sì,” confermò Toby. “Menzioneremo le parti col corpo come un’ulteriore connessione, poi mi collegherò alle altre due ragazze che abbiamo identificato.”

“Okay,” disse Sally con un cenno. “Ci penso io.”

“Ma, uh… non accenneremo a quali organi sono stati esportati,” aggiunse Toby. “Evitiamo false confessioni.”

Sally parve perplessa. “Chi confesserebbe qualcosa del genere?”

Toby rise. “Saresti sorpresa dal vedere quanti strambi hanno confessato durante casi del genere. E se questo si avvicinerà a quello di Holmes…”

Sia Greg che John rotearono gli occhi al ricordo, e Sally ghignò leggermente. Uscì dalla stanza, la porta di vetro si chiuse dietro di lei.

“Posso venire?” chiese John, dopo una pausa rispettosa. Ovviamente, non voleva tentare oltre la fortuna.

“Puoi prenderti un posto, se vuoi,” gli assicurò Toby, “ma non sarai con noi nel gruppo. Non credo che tu sia pronto per le domande del Mail a proposito della natura della tua relazione con Holmes, ora, no?”

John sorrise forzatamente. “Abbiamo lavorato insieme e poi ha cercato di uccidermi. È abbastanza semplice.”

Toby ridacchiò. “Niente è semplice per i giornali scandalistici quando ha a che fare con la polizia. Sono tutti scandali e cospirazioni e insabbiamenti…” Agitò la mano in aria.

John inspirò profondamente e distolse lo sguardo, sorridendo. “Dio, mi mancava questo lavoro.”

“Già, beh, bentornato a casa. Ora vattene fuori dal mio ufficio, ho un discorso da scrivere.” Toby tossì e si avvicinò la tastiera, poi puntò un dito su Greg. “Lestrade, mettiti un abito che ti faccia sembrare meno avvilito e qualcosa un po’ più adatto alla telecamera. Vogliamo apparire sicuri di noi.”

Greg si tirò distrattamente i polsini mentre lui e John si alzavano per andarsene, Toby stava già digitando inespertamente su Mycrosoft Word.

 

***

 

La conferenza stampa si tenne in un’ampia e tuttavia soffocante stanza alla stazione di polizia. C’erano delle serrande poste alle finestre che bloccavano la brillante luce del pomeriggio e dietro al tavolo a un capo della stanza un poster grande abbastanza per entrare in ogni fotografia, con i ritratti delle tre vittime identificate e un numero da chiamare per avere informazioni. I giornalisti riuniti erano già seduti, leggermente stretti, ma traboccanti di entusiasmo pensando a come poterne trarre un’esclusiva. Le telecamere erano piazzate in fondo alla stanza, le luci dei flash lampeggiarono quando gli agenti entrarono e i giornalisti scattarono attenti per non perdersi nulla, premendo i tasti sui loro registratori e scarabocchiando annotazioni sulla scena.

Toby si sedette nel centro, esibendo i suoi appunti freschi di stampa e appoggiandosi all’indietro con una grazia che smentiva la sua mole. Greg sedette alla sua destra nel suo bel completo grigio e Sally alla sua sinistra, slanciata con la sua liscia pelle scura. Un più discreto John Watson si trovava già seduto assieme ai giornalisti, slacciandosi i primi bottoni della camicia a combattere il caldo artificiale, per niente invadente e inosservato dal lato della stanza dove stava la sicurezza. Guardò gli agenti entrare assieme agli altri, teso. Doveva ammettere che sembravano, come aveva richiesto Toby, avere la situazione sotto controllo.

Toby picchiettò i suoi fogli sul tavolo e il trambusto si placò immediatamente. Si schiarì la voce, facendo scorrere il suo sguardo tagliente sul pubblico prima di iniziare a parlare. “Sono il detective ispettore capo Toby Gregson del Servizio di Polizia Metropolitana,” annunciò, poi guardò i suoi colleghi. “Questi sono il detective ispettore Greg Lestrade e il detective sergente Sally Donovan. Leggerò un discorso preparato e poi i miei colleghi ed io risponderemo alle domande.”

Le macchine fotografiche lampeggiarono, distraendo l’attenzione, ma Toby continuò imperturbato. L’aveva già fatto, prima d’allora.

“Questa mattina presto, i corpi di tre donne sono stati trovati nel fiume Tamigi nella Zona Maggiore di Londra. Abbiamo già identificato una delle vittime come la scomparsa Beth Davenport e stiamo attualmente lavorando per identificare le altre due. Le prove finora raccolte sono più che sufficienti a suggerire che questi fossero omicidi collegati a quelli di Tilda Hills qui a Londra e di Victoria Grey a Guildford.” Si interruppe e alzò lo sguardo dai suoi appunti. “Per questo motivo crediamo che vi sia un serial killer nel cui obiettivo ci sono giovani donne del sud-est dell’Inghilterra.”

Un giovane giornalista si piegò in avanti, la mano alzata come uno scolaretto. “Come si collegano tra loro gli omicidi?”

Toby guardò Greg.

“È un collegamento piuttosto chiaro,” ammise Greg. Sembrava calmo e controllato alla gente comune, ma John conosceva Greg a sufficienza e poté vedere l’apprensione dietro al suo sguardo. “Tutte e cinque le vittime presentano parti del corpo rimosse e presumibilmente conservate dal killer.”

I giornalisti iniziarono a borbottare attorno a John, quello di fianco a lui gli allungò involontariamente una gomitata mentre scribacchiava frettolosamente. Tuti sapevano cosa significasse parti del corpo mancanti.

Greg proseguì, la sua voce divenne più poderosa. “Crediamo che questi omicidi siano compiuti da un emulatore, ispirato dal caso Holmes che si è concluso cinque anni fa. Oltre alle parti del corpo sottratte, Hills e Grey sono state uccise lo stesso giorno in cui Holmes ha ucciso le sue vittime, e sebbene stiamo ancora cercando di ricavare prove dai corpo di Beth Davenport e le altre due donne trovate nel fiume, sappiamo che le date corrispondono approssimativamente.”

Toby aveva una scintilla negli occhi. “Questo ci fornisce una sequenza temporale di quando l’assassino potrebbe colpire di nuovo.”

Con la coda dell’occhio John vide una donna agitare la sua penna in aria. Non si voltò, non voleva che i reporter dietro di lui si focalizzassero troppo sulla sua faccia, ma anche da quella distanza riconobbe immediatamente Kitty Riley, una ora famigerata giornalista che si era fatta notare per essere stata una delle maggiori fonti d’informazione del caso Holmes. Non era mai stato provato che avesse pagato il fotografo, ma era stato il suo giornale a far circolare la foto di John mezzo morto nel letto d’ospedale.

“Holmes non ha ucciso il fagottista il giorno 28?” gridò. “Domani?”

I giornalisti attorno a lei si misero a controllare gli appunti allarmati e l’espressione di Toby s’incupì mentre giungeva alla stessa conclusione di John. “Sì, è possibile che il killer colpisca domani.”

Kitty tornò seduta, facendo i suoi calcoli. Dietro di lei, un altro giornalista parlò. “Come possono proteggersi, le persone?”

Ansiosa di procedere, Sally parlò. “Crediamo che l’assassino trovi  vittime vulnerabili spiandole utilizzando la telecamera e il microfono sui loro portatili. Siamo stati in grado di trovarne traccia sui computer delle vittime.” Controllò i suoi appunti, le labbra arricciate per un momento. “Finora il killer si è focalizzato solo su giovani donne che vivono da sole, ma potrebbe decidere di estendere le sue opzioni se gli venisse negata la possibilità di trovare il suo obiettivo preferito. Per questa ragione, consigliamo a tutti coloro che vivono soli di non usare internet a casa, se possibile, e utilizzare invece biblioteche o internet caffè, o magari trasferirsi temporaneamente dalla famiglia.” Alzò di nuovo lo sguardo, indicando i poster. “Fate attenzione ad ogni funzionamento sospetto del vostro computer e per favore chiamateci se pensate che abbia un virus. Colpisce microfoni e telecamere.”

Kitty Riley intervenne nuovamente. “Perché la polizia sta consultando Sherlock Holmes, un omicida condannato, per questo caso?”

Lo stomaco di John si strinse in una morsa e i suoi occhi si mossero velocemente a incontrare quelli di Greg. Di fianco, Toby si protese sui gomiti, sorridendo. “Non sono sicuro di come si sia fatta questa idea,” disse quasi in un ringhio. “La polizia non sta consultando Sherlock Holmes, né ci consulteremo mai con un criminale per aiutare le indagini, specialmente non con uno che ha già ingannato la polizia per il suo divertimento. Non provochi il panico.”

“Allora perché John Watson, un agente di polizia che lavorava al caso Holmes –”

“Ex agente di polizia,” la interruppe Toby.

Kitty continuò semplicemente. “Perché è stato all’ospedale psichiatrico, dove Holmes è rinchiuso, due volte questa settimana?”

“Dove ha ottenuto queste informazioni?” domandò Toby mentre i giornalisti iniziavano a confabulare gli uni con gli altri. “Watson non è più un agente di polizia. Quello che fa nel suo tempo libero non ha rilevanza per quest’indagine.”

“Si trova qui a questa conferenza stampa,” sottolineò Kitty, gesticolando in direzione di John. “Strano per qualcuno che ‘non ha rilevanza’ per la polizia, non crede?”

Toby si incollerì, come un cane arrabbiato, e Kitty cercava a malapena di nascondere il suo ghigno.

“Ed è stato fotografato mentre entrava ed usciva dalla stazione proprio questa mattina,” continuò, le sopracciglia sollevate. “Delle persone mi hanno anche riferito che si trovava sulla scena quando Beth Davenport è stata trovata. Cosa sta nascondendo questa volta, Ispettore Capo?”

“Non inizi ad architettare uno scandalo anche su questa indagine –” scattò Toby, ma la sua voce veniva coperta dai giornalisti che stavano adesso inondando John di domande. John si alzò in piedi quando i registratori gli furono spinti contro il viso e provò ad allontanarsi quando le domande iniziarono.

“Fa spesso visita a Sherlock Holmes?” sbraitò uno, la sua mano svolazzava troppo vicino per metterlo a suo agio.

“Questa del virus è una delle sue teorie?”

John sollevò le mani, scuotendo la testa, e udì il grattare della sedia di Toby sopra al frastuono.

“Portatelo fuori di qui!” ruggì Toby alle guardie di sicurezza, gesticolando animatamente in aria. “E voi tutti! Seduti!”

Delle mani calarono sulle spalle di John e le guardie con le loro facce impassibili gli fecero per metà da scudo. Una voce gridò da sopra le sue spalle, facendolo sussultare.

“Vista la sua storia di inganno da parte di Holmes, come può essere certo che gli stia dicendo la verità, questa volta?”

“Cosa succederebbe se Holmes la stesse portando sulla pista sbagliata per aiutare l’emulatore?”

“Coraggio, signore,” disse una delle guardie con un tono di voce più basso, nel tentativo di aiutarlo. “Da questa parte.”

John fece del suo meglio per non reagire e rimanere senza espressione mentre le macchine fotografiche mandavano lampi sul suo viso. Domani, tutto questo sarebbe stato sui giornali, non c’era dubbio a riguardo. Toby aveva ragione, John si era perso il peggio della frenesia dei media durante il caso Holmes. Sembrava che adesso si stesse finalmente prendendo la parte che gli spettava.

 

***

 

Tutto era silenzioso quando John tornò a casa. Si sentiva ancora leggermente sotto shock ripensando alle voci rumorose che improvvisamente l’avevano circondato e fu grato di aver avuto almeno l’autocontrollo sufficiente a tenere la bocca chiusa di fronte alle domande. L’appartamento era gelato, quindi tenne il capotto, calciando via le scarpe sull’entrata e camminando lentamente in cucina per farsi una tazza di tè. Afferrò le cartoline di compleanno e le fece scivolare giù dalla mensola nel corridoio mentre passava, osservandole con un sospiro nostalgico. Il suo compleanno era stato solo due giorni prima, ma sembrava che fosse passata una vita intera.

Era stato noioso al pub, comunque. A John non piaceva invecchiare. Aveva quarant’anni e cosa ne aveva fatto della sua vita? Una carriera fallita, niente moglie, né figli, e l’unica persona che si ricordava costantemente del suo compleanno da quando aveva lasciato le forze armate era un serial killer che voleva mangiarsi il suo cuore.

In cucina, John guardò il bollitore e chiuse gli occhi. Anni prima, la sua vita era stata meno complicata. Ricordava la maggior parte del tempo con Sherlock Holmes, era difficile dimenticare quell’uomo. Ma ricordava il loro primo incontro con particolare e sorprendente nitidezza.

Era una sera fredda e umida con quella sorta di pioggerella che sembra nebbia, ma finisce comunque per infradiciarti. Greg gli aveva scritto per chiedergli un favore. John era stato promosso ispettore molto di recente e anche se ora lui e Greg erano dello stesso grado, sentiva ancora l’impellenza di obbedirgli. Avrebbe aiutato Greg in ogni caso, pensava, e con quella rassicurazione che gli ronzava in testa era salito in macchina e aveva guidato fino alla scena. Sapeva già qualcosa; un uomo ucciso nel suo appartamento, nella sua camera da letto chiusa a chiave, la chiave ancora all’interno non girata quando la polizia era stata chiamata. Greg otteneva sempre i casi strani.

Il detective poliziotto Donovan si trovava fuori dall’appartamento, aspettandolo sotto al balcone dov’era più asciutto, ma i suoi capelli erano comunque gonfiati dall’umidità. Aveva in mano una tazza di caffè in via di raffreddamento e un’espressione imbronciata sul volto. Sally non sorrideva mai molto, ma raramente sembrava così stizzita.

John chiuse la macchina e le andò incontro. “Hey,” disse lui e azzardò un sorriso che non fu ricambiato.

“Stai andando a vedere la scena?” chiese Sally, prendendo un sorso di caffè e sogghignando. “Guarderei da fuori se fossi in te.”

John annuì vagamente. “È uno di quelli sgradevoli?”

“Ricordi quello psichiatra del detective ispettore Lestrade di cui ti parlavo?” Sally roteò gli occhi. “È qui per aiutare gratis, per mostrare quello che sa fare.”

Non sembrava troppo felice dell’aiuto extra, il che sembrava sbagliato. John le si avvicinò per evitare la pioggia e si corrucciò. “È una buona cosa, no?”

Sally non trattenne una risata e un sorriso stanco fece una fugace apparizione. Si fece da parte e aprì la porta di fronte a lui, invitandolo ad entrare con un braccio come un maggiordomo. “Avanti,” disse misteriosamente. “Vedrai di cosa parlo.”

John si precipitò all’interno sorpassando gli agenti di polizia che stavano girovagando in fondo alle scale piuttosto che andare a dare un’occhiata alla scena, il che era strano. Salì le scale passando di fianco a un agente della scientifica visibilmente annoiato che gli indicò la camera da letto principale. La maniglia era rigida sotto alla sua presa e si abbassò con un cigolio.

Sentì le voci provenire dalla stanza ancora prima di aprire completamente la porta, l’urlo pieno di panico di Greg.

“Che stai… non puoi andare lì!”

John entrò, chiudendo bene la porta dietro di sé. L’istinto di poliziotto si manifestò e i suoi occhi indagarono velocemente la stanza, soffermandosi sul mobilio costoso e le scarse decorazioni, e il corpo allargato di un uomo grosso, il sangue raggrumato a formare un’aureola attorno alla sua testa, fuoriuscito da un buco su un lato del collo. Ai lati della scena, Greg stava guardando fuori da una finestra aperta, le dita serrate attorno all’intelaiatura. John tossì educatamente e Greg si voltò.

“Oh, John!” disse, sembrando un po’ sorpreso.

“Ho ricevuto il tuo messaggio…” spiegò John, ma si sentì leggermente fuori posto. Abbassò le sopracciglia. “Cosa stai facendo?”

Greg aprì la bocca per dare spiegazioni, ma fu interrotto da un grido d’eccitazione fuori dalla finestra. “È così che l’assassino è entrato.”

Si udì un frastuono provenire dall’esterno e un John confuso sì unì a Greg per vedere un alto uomo dai capelli scuri arrampicarsi come una scimmia agli stucchi e alla pietra, fermandosi ogni tanto per osservare il muro con una lente d’ingrandimento. Sprizzava energia e aveva una sorta di sorriso gioioso sul volto che sembrava del tutto incongruo con la sanguinosa scena del crimine dietro di lui.  I suoi occhi erano pallidi e concentrati e i suoi movimenti aveva una grazia casuale che fece sentire John impacciato solo a guardarlo.

Se avesse perso la presa a quell’altezza, si sarebbe rotto qualcosa nella caduta.

Greg sembrava preoccupato tanto quanto John, ma l’uomo riuscì a concludere la scalata senza scivolare. Si appollaiò sul davanzale, il retro del suo lungo cappotto sventolava nella brezza, e indicò una macchia nera sull’angolo della pittura bianca. “Segno di sfregamento di una scarpa,” disse serenamente, le sue guance arrossate risaltavano sulla pelle pallida. “Su per gli stucchi decorativi. Immagino una donna, a giudicare dalla distanza tra loro e dalla loro capacità di reggere il peso di un corpo. Spostatevi.” Agitò la mano verso di loro.

John e Greg fecero un passo indietro ubbidienti senza pensarci e l’uomo scivolò all’interno della stanza dietro di loro.

“Una donna atletica, certamente,” continuò l’uomo, togliendosi i guanti e sondando la stanza. “Abituata a trovare metodi inusuali per entrare negli edifici. Il fatto che l’abbia ucciso col tagliacarte e non abbia portato con sé un’arma mi dice che non era venuta per ucciderlo. Forse si è trattato di una ladra sfortunata, che ha deciso saggiamente di non prendere nient’altro che il contante una volta che aveva reso questa stanza una scena del crimine. Difficile da rintracciare, quindi. Sfortuna, Lestrade. Sei sulle tracce di qualcuno di intelligente.” Sorrise. “È un bene che tu abbia me.”

Greg sollevò le sopracciglia per un istante, ma poi incrociò le braccia e piegò la testa verso l’uomo, disposto ad ascoltare. “Bene,” disse. “Che cosa sto cercando?”

I lineamenti raffinati dell’uomo sembrarono affilarsi. “Stai cercando una donna alta circa un metro e mezzo, possibilmente con un passato da ginnasta. È una scalata pericolosa per chiunque, specialmente di notte e da soli. Non era la sua prima rapina e credo che corrisponda a una grande quantità di effrazioni commesse negli ultimi cinque anni. Se potessi dare un’occhiata ai tuoi casi di rapina irrisolti potrei trovare quelli commessi in circostanze simili e procurarti più prove con le quali catturarla.”

Trasformò l’ultima frase in domanda, l’arroganza scivolò via dal suo volto, come se non ci fosse mai stata. Greg rimase in silenzio. Di certo non avrebbe voluto dare l’accesso ai rapporti confidenziali della polizia a un civile.

John interruppe il silenzio. “Ha capito tutto questo da una traccia di scarpa?” chiese incredulo.

La mano dell’uomo si mosse velocemente nella sua direzione, gli occhi stretti, e se prima John si era sentito invisibile, ora era del tutto presente poiché era diventato il centro di quello sguardo simile a un laser. “Che cosa?” domandò l’uomo, a voce bassa.

“È solo…” John agitò la mano mentre tentava di tradurre i suoi pensieri in parola e avere quegli occhi che seguivano ogni suo movimento era alquanto scoraggiante. “È fantastico! Non ho mai…. Lei deve trovarsi su questa scena da almeno mezzora!”

Gli occhi dell’uomo si spalancarono leggermente, ma soppresse velocemente lo shock. “Dieci minuti sarebbero stati più che sufficienti,” disse freddo, ma sembrava compiaciuto. “La prova era proprio qui nella stanza.”

Si raddrizzò rendendosi più alto, il cappotto danzò attorno alle sue caviglie mentre indicava il pover’uomo sul pavimento. Quando Greg guardò, dubbioso, l’uomo alto si pavoneggiò di fronte ai complimenti di John. John si sentì un po’ dispiaciuto per lui. Sembrava un tantino eccentrico; forse non aveva avuto nessuno a lodarlo durante la sua infanzia.

“Lestrade,” disse improvvisamente l’uomo. “Ho bisogno di informazioni riguardo agli altri furti. È essenziale. Sai già tutto su di me e hai le mie referenze. Sono affidabile.

Greg roteò gli occhi e sospirò, sconfitto. “Oh, okay, bene.

Gli occhi dell’uomo brillarono di piacere. “Questo sergente può portarmi alla stazione di polizia,” disse, indicando direttamente John.

Fu il turno di John di sorridere. “Sono un ispettore, in realtà.”

“Mh.” Lo sguardo dell’uomo scorse di nuovo su di lui, ricalcolando le variabili. “Certo. Promosso molto di recente.” E uscì a grandi passi dalla stanza con il cappotto che svolazzava drammaticamente dietro di lui.

John guardò Greg e udì il trambusto distante dell’uomo che scendeva velocemente le scale superando i poliziotti. “Hai intenzione di dirmi chi era?” chiese con delicatezza.

“Dottor Sherlock Holmes,” disse Greg. Si strinse nelle spalle, a disagio. “È uno psichiatra.”

“Giusto,” disse John.

“Non devi accompagnarlo alla stazione se non vuoi,” disse Greg. “È solo che gli piace impartire ordini alle persone. È uno stronzetto arrogante. Cerco di non fargli calcare troppo la mano con me.”

“No, lo riporterò  indietro io.” John si sorprese desideroso di saperne di più. “Stavo comunque andando alla stazione quando mi hai scritto.”

Greg annuì riconoscente. “Ci vediamo presto.”

Fuori, la pioggia era cessata. John si strinse un po’ di più nel cappotto e uscì al freddo, gettando occhiate alle strade alla ricerca di Sherlock. Individuò l’alta figura che aspettava alla sua macchina, guardando semplicemente John senza espressione. Non si mosse né lo salutò, ma non guardò nemmeno da un’altra parte.

“Ben fatto,” disse John con un sorriso, mentre passava di fianco alle altre macchine parcheggiate fin dove Sherlock aveva infallibilmente identificato l’auto di John. Tirò fuori le chiavi, rigirandosele nervosamente tra le mani mentre Sherlock lo osservava senza battere ciglio. “Come l’ha capito?”

Sherlock non rispose per un lungo momento, poi si voltò verso la macchina. “Sei venuto per conto tuo, se ciò che ha detto Greg è vero, quindi non avresti usato un’auto della polizia. Questo, e se si confrontano la tua altezza e la lunghezza delle gambe con il modo in cui il sedile del guidatore è regolato, credo che la risposta sia alquanto ovvia, no?”

Lo disse con nonchalance. John poté solo sorridere. “Dottor Holmes, giusto?” chiese, stendendo la mano. Sherlock lo fissò per una frazione di secondo come se John gli stesse porgendo qualche sorta di esplosivo, ma alla fine gli strinse la mano con una salda, fredda presa.

“Sherlock,” propose invece, con un debole sorriso di risposta. “Per favore.”

Sherlock gli trattenne la mano un po’ troppo per essere educato.

“Qual è il tuo nome?” chiese Sherlock, e c’era qualcosa nel modo in cui lo disse che suonava sbagliato in una maniera che John non riuscì a identificare, come una macchina che raccogliesse informazioni per un usarle in seguito.

“John,” disse educatamente. “John Watson.”

“Mh…” mormorò Sherlock, le sue palpebre si abbassarono come l’obiettivo di una macchina fotografica.

John aprì la macchina ed entrambi salirono via dal freddo. Sherlock si lasciò cadere sul sedile di fianco e iniziò immediatamente a sbirciare in giro, controllando la tappezzeria, aprendo persino il cruscotto per setacciare i bolli scaduti di John, il suo London A to Z, e una confezione mezza mangiata di caramelle. Appena John ingranò la marcia e si introdusse nella strada, Sherlock si mise a proprio agio e si infilò in bocca un lecca-lecca al limone, richiudendo pigramente lo scomparto con il piede.

“Cosa ti ha fatto dire che sono stato promosso di recente?” chiese John.

“Il modo in cui ti sei comportato con Lestrade,” disse Sherlock da dietro il lecca-lecca. “Inconsciamente, pensi ancora che ti sia superiore. Influenza il tuo comportamento; ti chiede un favore e tu rispondi come se fosse un ordine.” Lanciò a John un’occhiata sprezzante, e John si accigliò.

“Non lo faccio apposta.”

“Ovviamente no,” dichiarò Sherlock. “È ciò che significa inconsciamente. Posso anche dirti che sei un secondogenito.”

“Come?” chiese John, incredulo.

“Per lo stesso motivo,” disse Sherlock con un ghigno. “E lei vuole che tu ti tenga in contatto più di quanto fai. Acconsenti a malincuore, ma ti poni dei limiti nel contattare i tuoi genitori.” Guardò nuovamente John, gli occhi semi chiusi. “Mi domando perché…”

“Come diavolo lo sai?” domandò John.”

“Foto,” disse Sherlock, indicando la piccola fotografia ritagliata di John e Harry dietro al volante. “Te l’ha mandato tua sorella, ha premuto abbastanza forte quando ha scritto sul retro. Era ovviamente un ritratto di famiglia,  ma l’hai strappato. Quanti anni hai in quella foto?”

John ammiccò velocemente. “Diciotto,” rispose, inumidendosi le labbra. “È stata fatta prima che partissi per l’università. Come sai che l’ho strappata? Potrebbe averlo fatto lei.”

“Quello che ha scritto prosegue sulla parte strappata,” disse Sherlock, facendo ciondolare la testa da un lato per guardare fuori dal finestrino. “Davvero ovvio.”

John gli lanciò una breve occhiata e notò la finta indifferenza alla reazione di John. “È fantastico, come fai a mettere insieme tutto questo?”

“Osservo,” disse Sherlock, stringendosi nelle spalle. “Non è un superpotere.” Ma di nuovo, stava allungando la schiena in orgoglio sorpreso, gli angoli delle labbra tirati in un sorriso. John sorrise con lui.

Andarono alla stazione di polizia insieme, Sherlock scansionava il luogo come se gli appartenesse. Ma fu assolutamente gentile con tutti i membri del personale notturno, forse consapevole che avrebbero potuto sbatterlo fuori se avesse infastidito qualcuno, e sfoderava il proprio fascino ogni volta che qualcuno gli faceva domande a proposito della loro attività.

John lo fece sedere a un computer e gli portò una tazza di tè con molto zucchero. Sherlock lo sorseggiò distrattamente, già focalizzato sui rapporti delle rapine. John sedette accanto a lui, guardandolo scrutare lo schermo e borbottare sottovoce.

“Non hai cose più importanti da fare che guardare me?” chiese Sherlock, senza staccare gli occhi dallo schermo.

“In realtà no,” ammise John, alzandosi per metà dalla sua sedia. “Vuoi che ti lasci da solo?”

“No,” disse Sherlock velocemente, premendo la mano sull’avambraccio di John. “Rimani. Mi aiuti a pensare.”

Raccolse abbastanza prove da fare arrestare la giovane ginnasta dal passato colorito in meno di un’ora. Greg e gli altri agenti che stavano lavorando al caso rimasero senza parole quando Sherlock espose la sua presentazione. La stazione di polizia si mise in azione, e Sherlock si sedette comodo abbastanza compiaciuto quando il tumulto si raccolse attorno a lui.

“Beh, ora sapete ciò che sono in grado fare,” disse con un sorriso. “Spero di poter essere d’aiuto. Vi chiederei di considerare di consultarmi sui vostri casi più interessanti.”

Porse un biglietto da visita con il suo numero e indirizzo, e Greg si allungò automaticamente per prenderlo, invece Sherlock lo diede a John. Le sue dita sottili accarezzarono il polso di John.

“Arrivederci,” disse, girò sui talloni e uscì dalla stanza.

John si massaggiò il polso con un pollice, fissando la stampa precisa sul biglietto color avorio.

“Io lo scaricherei,” disse Sally, le braccia conserte in posizione di difesa.

“Beh…” Greg era leggermente più indeciso. “Potrebbe tornarci utile e non ci richiede nessun compenso. Potremmo dargli i vecchi casi irrisolti, persone scomparse, sai.”

John finì per fissare il biglietto da visita alla bacheca perché chiunque potesse usarlo. Nei mesi successivi, si ritrovò ad affidare i suoi casi più difficili a Sherlock solo per poterne parlare, e sapeva di non essere l’unico agente a farlo. Alla fine, Sherlock divenne una presenza abituale a Scotland Yard e non era raro vederlo ciondolare davanti a una scrivania a chiacchierare con un sergente, o scandagliare i rapporti al laboratorio informatico, o parlare con gli agenti quando si trovavano in un vicolo cieco.

“Di cosa si tratta, ora?” chiese Sherlock, temporeggiando sulla porta dell’ufficio di John.

“È un nuovo caso a cui sono stato assegnato,” spiegò John, sfogliando il documento. “Ricordi quello strozzino di cui continuavamo a ricevere denunce di aggressione da parte dei suoi clienti?”

“Sì,” disse Sherlock in tono piatto. “E non c’era una vera e propria prova per una condanna.”

“Il suo corpo è stato trovato sepolto in una discarica.” John aggrottò le sopracciglia e strizzò gli occhi verso il rapporto. “Sembra che sia stato soffocato. Il killer gli ha spinto spazzatura giù per la gola finché non è più riuscito a respirare.”

“Un uomo come quello potrebbe avere un sacco di nemici,” disse Sherlock, guardando altrove.

“Non è questa la parte strana,” disse John. “Il fegato è stato estratto dopo la morte e i patologi dicono che si tratta di un lavoro perfetto. Potrebbe essere stato compiuto solo da qualcuno che sappia davvero come si dissezionano i corpi. E questo,” annunciò John, raggiungendo l’armadietto con i fascicoli ed estraendone un’altra cartellina, “combacia con l’omicidio del proprietario del ristorante, quello che abusava dei dipendenti. Rimozione esperta del rene.”

Gli occhi di Sherlock sembrarono brillare nella luce fioca dell’ufficio di John. “Interessante,” mormorò, avvicinandosi per esaminare da sé i documenti. “Davvero molto interessante…”

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


LOSS 4

NdT: Questo capitolo era interminabile. Mi scuso nuovamente, comunque credo che non faccia molta differenza dover aspettare ora o più tardi, visto che l'autrice non è ancora andata oltre al capitolo 5, sebbene abbia annunciato che ce ne saranno in tutto 7. E fidatevi di me, quando vi troverete a dover aspettare, finito il capitolo 5, vi mangerete le mani. Ancora un po' e dovranno rinchiudere anche me.

Ed ora che vi ho terrorizzati, buona lettura!!


EDIT: L'autrice ha gentilmente acconsentito a rispondere alle vostre domande! Pubblicherò un altro annuncio anche nel prossimo capitolo, ma siccome ha l'aria di essere mostruoso non garantisco sulla sua puntualità neanche stavolta, pertanto se volete iniziare a mandare le vostre domande, fate pure! Potete inviarle a questo account. Le risposte verranno pubblicate nell'ultimo capitolo (7)






Sherlock era sdraiato sul sottile materasso della sua cella spoglia, gli occhi chiusi contro il blu abbagliante della luce sopra di lui. Poteva udire i gorgoglii e gli schiocchi delle lampadine fluorescenti come unghie su una lavagna, troppo flebili per la maggior parte delle orecchie, ma l’udito di Sherlock era eccellente e facilmente adattabile e in quel clima silenzioso aveva già imparato a cogliere lievi, insignificanti suoni.

John era venuto e se n’era andato quella mattina, ma questo era stato ore prima, e Sherlock aveva già rimuginato su quell’incontro un numero di volte sufficiente per ciò che credeva fosse prudente per quel giorno. La cosa più sensata da fare per un uomo con del tempo illimitato e niente da fare con esso era di non sprecare i propri ricordi. Altrimenti, questi lo avrebbero reso pazzo.

Udì dei passi, affaticati e oberati dal lavoro, un inserviente, dunque.

Sherlock calcolò le ore e realizzò che era ora di cena. L’odore del cibo da ospedale lo raggiunse allora, seguito dal leggero odore di sudore di Dimmock, che portava un nuovo dopobarba.

“’Sera,” disse Dimmock e Sherlock lo sentì posizionare il vassoio del cibo nella scatola scorrevole, e poi ci fu un fruscio di grandi fogli di carta. Un giornale.

“Pensavo che lo scopo di questo esercizio fosse quello di privarmi di stimoli mentali,” disse Sherlock freddamente.

Sentì lo strascichio nervoso di Dimmock. “Il dottor Smith vuole che tu lo abbia.”

Davvero.” Sherlock si stiracchiò e rotolò giù dal letto, colmando i pochi metri che lo speravano dalla scatola scorrevole. Dimmock si dileguò silenziosamente, non ansioso spendere più del tempo necessario di fronte alla cella di Sherlock, quando Sherlock raccolse una mela dal vassoio e prese in mano il giornale, aprendolo.

LA POLIZIA CONSULTA UN ASSASSINO campeggiava a gran voce sulla prima pagina dell’edizione della sera del quotidiano, e più in basso, in caratteri più piccoli: “Sherlock Holmes aiuta la polizia nelle indagini dell’emulatore cannibale”.

Eccitante. I segreti stavano iniziando a emergere. Sherlock si lasciò cadere sulla branda e prese un avido morso dalla mela, gettando uno sguardo alla pagina.

Illustravano la storia con una fotografia di John a quella che sembrava una conferenza stampa, la sua figura minuta parzialmente oscurata dalle guardie di sicurezza della polizia mentre tentava di ignorare i giornalisti che gli erano sciamati attorno. Il suo volto era di profilo, gli occhi abbassati e un’espressione forzatamente neutra. La didascalia lo definiva senza espressione, ma Sherlock pensò a ‘di pietra’. Riusciva a cogliere il panico nella tensione della sua mandibola, nelle sue labbra tirate. L’angolazione era perfetta per ammirare la lunghezza delle sue ciglia bionde, ridotte, in stampa, a una delicata macchia di inchiostro sopra al suo zigomo.

Sembrava che la conferenza stampa non fosse andata esattamente come avevano pianificato.

Invece che consigli al pubblico su come evitare il killer, come avrebbe voluto la polizia, l’articolo favoriva il dramma, focalizzandosi su John come colui che era l’unico sopravvissuto agli attacchi di Holmes e che quindi poteva raccontare nuovamente quelle storie vecchie di cinque, clamorosi anni. C’era un riassunto del caso Holmes e del crollo della polizia, accompagnato dalla consueta foto di Sherlock fuori dal tribunale nel suo abito nero dal taglio stretto, fiancheggiato dalle guardie del corpo. Usavano sempre quella. Contro il cielo pallido, la figura di Sherlock sembrava quasi una silhouette. Sherlock invidiava il suo vecchio se stesso in tutto quello spazio.

In tono cospiratore, il giornale documentava come John si fosse presentato, mentendo, come un ufficiale di polizia al dottor Culverton Smith (il quale sorrideva con aria di sufficienza nella sua fotografia prima che Sherlock la strappasse via) con lo scopo di garantirsi un accesso a Holmes.

Infine, c’erano i fatti. I corpi delle prime tre vittime erano stati scoperti nel Tamigi e una era stata identificata come la figlia da lungo scomparsa di un politico. Sherlock sfogliò i propri ricordi come pagine con una risata. I metodi del killer erano stati indovinati, lo scrittore si dilungava sui pericoli dell’era tecnologica, e, più importante, su come la telecamera e il microfono di un computer potessero essere facilmente manomessi dall’esterno.

Più in fondo nella pagina c’era una foto di Sherlock che non era mai stata stampata prima, di lui e John, tagliata da una fotografia dell’intero gruppo felice e vagamente ubriaco al pub. Era successo dopo un caso chiuso con successo. Sherlock appariva superbo e annoiato, consentendo riluttante ad essere fotografato, mentre John sorrideva liberamente all’obbiettivo con il braccio di un Greg non inquadrato appoggiato alle sue spalle. Le sue guance erano arrossate dall’alcol, anche se l’effetto era in qualche modo reso minore dal bianco e nero.

Era stata scattata appena prima dell’inizio di ciò che sarebbe diventato noto come il caso Holmes, ricordò Sherlock, facendo scorrere le dita lungo la carta di giornale. Quel John innocente di fianco a lui non aveva idea di ciò che stava per succedere. Se Sherlock fosse tornato indietro nel tempo e gli avesse detto tutto, John si sarebbe semplicemente lasciato andare a quella sua risatina sussurrante e gli avrebbe assestato un pugno sul braccio.

Sherlock soffriva pensando a un tempo in cui John lo avrebbe toccato di sua iniziativa. Gli mancava il calore di quella pelle proibita contro la sua.

Il giornale discuteva l’attuale teoria che il killer stesse copiando le date degli omicidi di Holmes, sia il giorno che il mese. Arrivava velocemente al punto dicendo che ciò stava a significare che il killer avrebbe potuto andare in cerca della sua prossima vittima il giorno successivo, un vecchio anniversario del giorno in cui Sherlock aveva rapito Terry Goodwin, il fagottista della London Philharmonic, e lo aveva affettato per servirlo a una cena.

Sherlock sorrise largamente e diede un morso alla mela. Questo lo riportò indietro.

Anche quand’era più giovane, Sherlock aveva sempre amato le sinfonie. Ammirava particolarmente il lavoro di Dmitri Shostakovich, un compositore sovietico il cui talento era sempre stato frenato dai capricci di Stalin. Quando aveva appreso che la London Philharmonic stava organizzando un concerto per suonare la Quinta Sinfonia alla Royal Festival Hall, aveva comprato in anticipo i biglietti per varie serate consecutive. La Quinta Sinfonia era la sua preferita, una pacata sfida di Shostakovich alle critiche, che costringeva a riconoscere la piena grandezza di un genio nel modo in cui la sua musica portava gli ascoltatori alle lacrime.

Sherlock aveva un orecchio perfetto, il che si era dimostrato sia una benedizione che una maledizione nell’arco della sua vita. Coglieva le piccole note che sfuggivano alle orecchie dei più ignoranti. Ricordava di essere seduto con John a bere il tè, lamentandosi della musica classica, e alla fine facendogli ascoltare una vecchia registrazione di qualche idiota che strimpellava Chopin che doveva essere stato un triste regalo di Natale. Aveva estratto il CD in buona fede solo per ridursi a ribollire di rabbia per la quantità di errori presenti. John, comunque, ascoltò fino alla fine, solo per sfoderare un debole sorriso quando la tortura fu conclusa e dire che era stato bello.

Perciò Sherlock sapeva che poteva trarre piacere soltanto da una performance perfetta, ma si fidava della London Philharmonic.

Era una fiducia che si sarebbe rivelata mal riposta.

Subito dopo essersi seduto per sprofondare nella musica, il suo orecchio sensibile aveva individuato errori inaccettabili. Le pecche erano piccole; leggere sbavature e note stonate. Erano come un granello di polvere in un occhio e impossibili per Sherlock da ignorare. Le ricondusse al fagottista, che avrebbe più tardi identificato come Ted Goodwin, e notò le scarpe costose dell’uomo, le mani morbide e le labbra che sembravano così poco utilizzate da non avere niente a che vedere con quelle di un fagottista. Se ne andò presto, discretamente, e vendette i biglietti della stagione rimanenti su eBay. Rimuginò rabbiosamente per giorni, pianificando la sua vendetta.

Si trovava nel bel mezzo dell’azione quando udì la voce di John alla porta.

“Sherlock?” John sembrava curioso. Probabilmente aveva visto la luce, forse dei movimenti, e John non era stupido. “Sei in casa?”

Sherlock guardò il proprio corpo macchiato di rosso, le mani scivolose per il sangue, e fece una smorfia di fronte a quell’ingiustizia.

“Stai bene?” La curiosità stava diventando preoccupazione.

I gemiti ai piedi di Sherlock crebbero d’intensità e, mentre il campanello risuonava nuovamente attraverso la casa, Sherlock realizzò che doveva agire in fretta.

Si fiondò in camera da letto, strappando le lenzuola dal letto con uno strattone violento e avvolgendovisi in modo che spuntasse solo la testa. Dopo un veloce controllo allo specchio per verificare che tutte le parti importanti fossero coperte, calciò via le scarpe macchiate di sangue e strascicò fino alla porta. Mentre camminava, il suo volto iniziava a rilassarsi. I suoi occhi lacrimavano come se gli pizzicassero e raccolse un po’ di saliva in fondo alla gola. La sua postura si incurvò, come se fosse esausto. Sembrava in punto di morte quando aprì la porta al sole di mezzogiorno.

“Sherlock!” esclamò John, il suo sguardo guizzò su Sherlock come se non riuscisse a credere a ciò che stava vedendo. Era una reazione comprensibile. Sherlock stava bene quando si erano visti quella mattina.

Sherlock tossì forte. Ancora parecchio più alto di John, incombeva su si lui dalla cima delle scale come uno spaventapasseri rotto. “Cosa fai qui, John?” chiese, lasciando che la sua voce uscisse roca. “Sto poco bene.”

“Mi dispiace tanto.” John piegò la testa, imbarazzato, poi iniziò a frugare nella tasca della sua giacca. “Hai, uh, lasciato il cellulare nella mia macchina, stamattina.”

Glielo porse in una piccola mano pulita. Le mani di Sherlock erano rosse e prudevano sotto al lenzuolo che si stringeva attorno al corpo. “Puoi appoggiarlo sul tavolo?” disse, accennando in direzione del porta vasi che stava subito dentro. John non fece domande, si allungò all’interno e posò cautamente il Blackberry di Sherlock. “Grazie.”

“Stai bene? Posso portati qualcosa?” Si spostava di qua e di là ai  piedi di Sherlock, sembrando terribilmente premuroso.

“Credo sia meglio che tu te ne vada,” disse Sherlock. “Non ho dubbi di essere contagioso.” E tossì di nuovo per sicurezza. “Starò bene. So che non agisco come tale, ma io sono un dottore.”

Il sorriso di risposta di John era tirato e incerto, ma ovviamente non voleva forzare Sherlock. “Va bene,” disse infine. “Rimettiti in fretta. Puoi mandarmi un messaggio se ti serve qualcosa.”

Sherlock sorrise debolmente e John se ne andò senza lamentarsi.

Sherlock sbatté la porta e si strappò di dosso le disgustose lenzuola che gli si erano attaccate alla pelle, lasciandole cadere in una pila bianca, rigida e rossa ai suoi piedi. Erano rovinate. Non c’era verso che avrebbe dormito di nuovo in delle lenzuola che erano state in contatto col sangue di quell’idiota.

Si rimise le scarpe e tornò nel suo ufficio.

La stanza era coperta, dal pavimento al soffitto, da un telo di plastica. Su una cerata bianca sul pavimento, nelle cui pieghe e avvallamenti del tessuto si stava già raccogliendo del sangue rosso, giaceva il corpo legato e sanguinante di Terry Goodwin, l’inutile fagottista della London Philharmonic. Aveva un corpo sano ma massiccio, con capelli diradanti e supplicanti occhi verdi che continuavano a spillare patetiche lacrime sulle sue guance rotonde. La sua bocca era distorta da un bavaglio e poteva produrre unicamente suoni soffocati e grugniti. Sarebbero stati gli ultimi suoni che avrebbe mai generato.

Sherlock si portò sopra di lui con deliberata crudeltà, premette forte il tacco della sua scarpa sulla guancia dell’uomo.

“Bene, eccoti di nuovo a crearmi disagi.” Premette più a fondo, abbastanza forte da lasciare un solco lì dove i margini del tacco affondavano nella carne. “Prima rovini la mia serata alla Royal Festival Hall con il tuo soffiare da dilettante durante una delle più squisite sinfonie mai composte, e ora schizzandomi con quel tuo sangue sporco che mi ha costretto a mentire a un amico. Non posso mentire a questo.”

Gli assestò un calcio e compì qualche passo dietro la testa di Terry, così che l’uomo dovette torcersi e tendersi per mantenere il suo sguardo sul luogo dove Sherlock stava indugiando sopra ai suoi strumenti sul tavolo da lavoro cautamente coperto.

“È più astuto di quanto lui stesso creda,” mormorò Sherlock. “Quella sorta di sospetti tendono ad accrescere nel cervello di una persona.”

Le sue dita sorvolarono un coltello per disossare dalla punta acuminata e la lama sottile e le avvolse gentilmente attorno all’impugnatura, sollevandolo lentamente così che il metallo mandasse bagliori nella luce sovrastante. Dietro di sé, udì un’esplosione di gemiti soffocati.

“Non importa.” La voce di Sherlock si abbassò leggermente mentre occhieggiava la lama affilata di recente, la sua mente ripiena della visione della pelle soffice come pesca di John, in piedi di fronte alla sua porta. “Ci penserò più tardi.”

Riposte al sicuro le memorie di John, Sherlock si voltò verso il suo obiettivo. Rigirò il coltello nella sua presa, abile come uno chef, e iniziò a girare attorno al corpo accartocciato di Terry.

“Erano anni che desideravo assistere a una performance dal vivo di Shostakovich, capisci? E mi sarei goduto la serata immensamente se non fosse stato per le continue intromissioni di un fagottista stonato. Non ti sei presentato alle prove con i tuoi compagni musicisti? Non riuscivo a capire. Poi mi sono chiesto, come diavolo ha potuto questo imbecille ottenere un posto in un’esecuzione tanto importante?” I suoi occhi si strinsero in disgusto. “Avrei dovuto capirlo. Eri il figlio di qualcuno, il fratello di qualcuno. Le classi superiori hanno l’orribile abitudine di favorire la famiglia più che il talento.”

Terry gemette le sue suppliche, le sue proteste, e Sherlock si crogiolò in quella paura mentre si inginocchiava vicino alla testa dell’uomo. Quando sollevò il coltello per appoggiarlo sotto all’occhio di Terry, l’uomo si ammutolì all’istante alla minaccia implicita.

“Bene,” disse Sherlock, lasciando che il piacere gli scivolasse sulla lingua. “Non serve parlare. Non ti toglierò il bavaglio. Questa non è una conversazione e non c’è nulla che tu possa dire che mi persuaderebbe dall’ucciderti. Pensa alla tua morte come inevitabile, se ti può aiutare.”

Chiaramente non aiutò, poiché l’uomo iniziò a tremare e a dimenarsi come se sperasse di divincolarsi e fuggire. Sherlock affondò il coltello nella carme delicata sotto al suo occhio per immobilizzarlo e il sangue sgorgò come lacrime.

Sherlock si chinò a sussurrare proprio all’orecchio di Terry Goodwin. “Darò una cena per i mecenati della London Philharmonic. Riconoscerai alcuni dei nomi, sono coloro che ti hanno introdotto ai loro favori, e facendo ciò hanno rovinato il lavoro di una mente geniale. Ti servirò a loro. Sbatterò la tua carne per farne uscire l’aria e poi la rosolerò in un filo d’olio.” Strinse la mano attorno al corpo dell’uomo come se si trovasse dal macellaio. “Sembri avere dei buoni tagli.”

Il suo volto si oscurò e con una spinta feroce affondò ancora di più il coltello. L’uomo gridò sotto il bavaglio, un grido autentico. Sapeva che stava per morire.

Più tardi, quella sera, si profuse in un generoso sorriso mentre gli ospiti alla sua cena si  complimentavano per il piatto che aveva servito.

 

***

 

Era una mattina presto quando la squadra del detective ispettore capo Gregson e la loro recluta si radunarono per discutere del caso dell’emulatore. C’era una sensazione di timore che permeava l’aria al pensiero di ciò che il giorno seguente avrebbe portato. Le ultime edizioni dei giornali giacevano qua e là nella stanza per essere esaminate e, come cinque anni prima, la figura affilata di Sherlock Holmes li scrutava dalle fotografie in bianco e nero.

Al momento Sally si trovava al centro dell’attenzione, con la sua lavagna piena di nomi e date che collegavano gli omicidi dell’emulatore all’originale, un cerchio rosso attorno al nome di Terry Goodwin.

“L’omicida ha iniziato all’inizio dell’anno,” dichiarò Sally, “e ha lavorato in un tempo più ristretto se paragonato a Holmes. Notate come i giorni e i mesi combaciano, ma gli anni sono irrilevanti? Ecco perché gli omicidi non sono accaduti in ordine perfettamente cronologico. Sta considerando gli omicidi che Holmes ha compiuto in tre anni.”

Il suo puntatore viaggiò lungo la lista di nomi e il suo volto prese colore quando raggiunse quello di John. La muta minaccia alla vita di John era qualcosa a cui tutti avevano pensato, ma a cui non avevano dato voce, e ciò fece ribollire Sally di rabbiosa frustrazione.

Si schiarì la voce e continuò. “Abbiamo identificato un’altra delle donne, quella uccisa più di recente tra i corpi ritrovati nel fiume. Il suo nome era Molly Hooper. Era una patologa dell’ospedale St Bart. Il proprietario di casa ne ha denunciato la scomparsa dopo che aveva saltato il pagamento dell’affitto e non era riuscito a contattarla. Aveva pianificato un pagamento automatico dal suo conto bancario che aveva iniziato ad attingere ai suoi risparmi molto tempo dopo la sua morte. I soldi sono finiti solo di recente.”

Toby lanciò un’occhiata astuta da dove stava appoggiato alla scrivania di un agente. “L’appartamento è intatto? Ci si siete già stati?”

“Dovrebbe essere stato lasciato così com’era, signore,” rispose Sally con disinvoltura. “Il detective Hopkins e io ci andremo appena finito qui. Ciò che sappiamo al momento è che è stata uccisa in casa sua e che la porta non è stata forzata.”

“Il che non mi convince,” brontolò Toby, incrociando le braccia. “Com’è entrato? Le donne non invitano semplicemente degli sconosciuti a entrare nelle loro case.”

“Forse non era uno sconosciuto,” propose John dal luogo dove sedeva con Greg e le teste si girarono a guardare nella sua direzione. “Se può accedere alle telecamere e ai microfoni dei portatili, probabilmente si procura i loro indirizzi IP per trovarle. Forse riesce a conoscerle qualche giorno prima… sapete.” Lasciò sfumare la voce e si strinse nelle spalle.

Gli occhi acuti di Toby si strinsero mentre pensava. Sally sapeva che lui e John non erano più in buoni rapporti dopo il disastro della conferenza stampa, ma Toby rispettava John e lo ascoltava come sempre.

“Alcune delle porte sono state forzate, però,” puntualizzò Toby infine. “Serrature scassinate.”

John scosse la testa. “Sappiamo già che è capace di modificare il suo metodo perché si adatti alla sua vittima. Non rischierà di fallire nel recapitare il suo messaggio.”

“Perché siamo così certi che il killer sia un uomo?” domandò Sally, colpendosi le dita con la bacchetta. Un segno di nervosismo. Si agitava sempre e di recente era stata troppo stressata per preoccuparsi di nasconderlo.

“L’abbiamo dato per scontato fin dall’inizio, no?” rifletté Greg. Era stato il caso suo e di Sally, all’inizio, prima che diventasse troppo serio per essere gestito da un detective ispettore.

“È molto più probabile che il killer sia un maschio, Donovan,” disse Toby in tono generoso. “La maggior parte dei serial killer lo è.”

“Sherlock si è riferito all’assassino come un uomo prima che gli potessi dire qualunque cosa,” aggiunse John. “L’ha detto come se fosse ovvio.”

Questo fece saltare tutte le precauzioni di Sally. “Oh, allora se lo dice Sherlock --”

“Donovan!” ringhiò Toby. “Basta. Apprezzo che tu stia cercando di vederla da un altro punto di vista, ma per semplicità continuiamo a riferirci a lui come a un lui.”

E a quel punto, anni di risentimento accumulato esplosero in Sally come acqua da una diga rotta.

“È che sono stanca di prendere le parole di quell’assassino per vangelo!” esclamò. “Ci ha mentito per mesi, anni, senza nessuno scrupolo. E anche se sapesse qualcosa su questo caso, credete davvero che ci dirà tutto? Non lo farà mai. È un fottuto psicopatico famelico e ci propina indizi sotto forma di indovinelli, abbastanza per costringerci a mandargli il povero John ancora e ancora per supplicarlo di dirci di più.”

“Non mi dispiace andarci,” disse John velocemente e Sally non lo derise, ma ciò che stava pensando era probabilmente palese sul suo volto.

“Sei un pessimo bugiardo, John. Ti sei ritirato per una ragione, ma ora ti abbiamo tutti costretto a tornare e farti rivivere qualcosa che non dovresti mai ricordare, così che non dobbiamo guardare in faccia la nostra ignoranza. Sherlock ti sta usando; ti tormenta per il suo divertimento personale. Noi ti siamo usando,” insistette e agitò la mano quando iniziarono a sentirsi brontolii scontenti, “no, davvero, lo stiamo facendo, e nessuno vuole ammetterlo, ma mi fa venire la nausea il fatto che ti abbiamo riportato in tutto questo quando invece dovremmo proteggerti. Guarda qui!”

Afferrò una copia del Telegraph, dove John la faccia preoccupantemente pallida di John campeggiava in prima pagina.

“La conferenza stampa è stata un’idea di John,” disse Toby forzatamente, la rabbia gli risaliva la spina dorsale, e Sally sapeva di stare camminando sul ghiaccio sottile.

“Signore,” disse educatamente, ma a denti stretti, “se posso parlare liberamente –”

“Non puoi,” rispose Toby, sprezzante. “Credo che abbiamo colto la sostanza. Presumo che la tua presentazione sia conclusa?”

Sally mantenne il silenzio per un momento, sforzandosi di incontrare quello sguardo d’acciaio, ma erano in pochi a saper fronteggiare lo sguardo di Toby Gregson. Nel suo pieno vigore, la sua personalità equivaleva a un bulldozer. “Sì, signore,” disse infine, sentendosi sgonfiata.

Toby batté insieme le sue larghe mani. “Bene! Ora che siamo tutti aggiornati, voglio che torniate di nuovo sulle prove!” Ci fu un lamento. Per lo meno venivano pagati per tutto il tempo che il caso richiedeva loro. “Donovan, Hopkins, andate all’appartamento della signorina Hooper e date un’occhiata come si deve. E Donovan,” abbassò il tono della voce a un gentile promemoria, “diminuiamo un po’ le teorie cospiratrici, va bene? Siamo solo un pugno di detective, in carica e non, che lavorano insieme per cercare di catturare un bastardo.”

Sally annuì brevemente. “Sì, signore.”

Sentì che John la stava guardando e non fu sorpresa quando lui le venne incontro mentre tutti gli altri scattavano alle loro postazioni di lavoro. Gironzolava in lontananza mentre lei prendeva cappotto e taccuino, dando l’impressione di volersi avvicinare e metterle una mano sulla spalla, ma poi si trattenne.

“Tutto bene?” chiese infine, aprendo e chiudendo le mani in imbarazzo lungo i suoi fianchi.

Sally strinse le labbra in una linea sottile e si girò a fronteggiarlo. “Non credo che dovresti fare tutto questo, John.”

John annuì. “Nemmeno io,” ammise. “Ma voglio, devo farlo. Impazzirei se me ne stessi seduto a casa a poter leggere di questo caso solo sui giornali.”

“È solo…” Sally sospirò, strofinandosi una mano sulla fronte. “Sei un civile, ora. Dovremmo proteggerti, invece ti stiamo mettendo proprio sulla traiettoria di fuoco.”

“Starò bene,” le assicurò John.

Sally scosse la testa. “Continui a ripeterlo a te stesso.”

“Sally!” chiamò il detective poliziotto Hopkins, i suoi occhi spalancati in urgenza. Giusto. L’appartamento di Molly Hooper. Con un sospiro diede le spalle a John e uscì per raggiungere l’agente.

 

***

 

Il sole era tramontato e Greg stava indossando il cappotto con movimenti stanchi. Era stata una lunga giornata. Dall’altro lato della stanza John stava facendo lo stesso. Il volto del piccolo uomo era segnato dalla stanchezza ed egli sistemò il colletto della giacca così che grattasse contro le morbide ciocche bionde ad ogni movimento. Mentre Greg usciva, John si voltò a guardarlo in attesa.

“Grazie per l’aiuto di oggi,” disse Greg, guardando in basso e strofinando il pollice contro il legno del tavolo lì vicino.

John inclinò la testa. “Non c’è problema.”

“Vai a casa, adesso?”

“Sì.”

L’esitazione di Greg dovette trasparire, perché la fronte di John si increspò al centro, con aria interrogativa.

“Cosa?” chiese.

“È solo… probabilmente ci saranno un paio di giornalisti ad aspettarti alla porta,” fece notare Greg. E forse un serial killer. “Stavo pensando, forse potresti stare da me, invece. Ho una stanza per gli ospiti.”

John annuì di nuovo e diede l’impressione di rifletterci. “A tua moglie darà fastidio?” domandò.

Greg scosse la testa. “È in visita da un’amica. Anche se non lo fosse, sono sicuro che sarebbe d’accordo.” Si strinse nelle spalle, sorrise. “E per quanto riguarda me, mi sentirei meglio sapendo che sei al sicuro. Mi sento un po’ responsabile per te, ad essere onesto, perché sono stato io a trascinarti in tutto questo –”

“Tu non mi hai trascinato,” disse John con fermezza. “Ci sono entrato camminando.”

Greg trattenne il respiro per un istante. “Mi piacerebbe che venissi a stare da me,” ripeté. “Per tranquillizzarmi, se non altro.”

Gli occhi di John guizzarono sul suo volto come se stesse cercando qualcosa, poi sorrise. “Va bene,” acconsentì. “Prendiamo da mangiare mentre andiamo, sto morendo di fame.”

 

***

 

Un generosa porzione di takeaway cinese fu sparpagliata sul tavolino da caffè nel salotto di Greg, e lui e John crollarono sul divano di fronte alla televisione, succhiando noodle e criticando le notizie. Condivisero alcune birre per rilassarsi e forse Greg ne bevve un po’ più di John, ma chi le stava contando?

“Mi piacerebbe che si concentrassero di più su come le persone potrebbero proteggersi piuttosto che scavare in cerca di uno scandalo,” mormorò John, strofinandosi le dita sulla radice del naso come per scacciare un mal di testa. Sullo schermo la sicurezza gli stava facendo da scudo mentre i giornalisti si accalcavano per ottenere risposte alle loro domande. Greg osservò l’espressione abbattuta del vero John con preoccupazione.

“Tutto bene?”

Ci fu silenzio mentre John fissava la televisione per un tempo leggermente troppo lungo, ma poi inspirò profondamente e guardò Greg. “Sto bene. Penso ancora che ne sia valsa la pena.”

Sembrava pallido alla luce della televisione.

Greg bevve un lungo sorso di birra mentre il ricordo indesiderato di un John mortalmente pallido che giaceva comatoso in un letto d’ospedale vagava in prima linea nella sua mente. Ricordava di stare seduto di fianco a quel letto con la rabbia e la frustrazione che gli ribollivano dentro, e ancora non riusciva a comprendere come avesse potuto accadere cinque anni prima. Tutto sembrava risalire a ieri. Odiava ancora se stesso per essere stato l’uomo che aveva fatto accedere Holmes alle scene del crimine.

“Credi che ci sia la possibilità che domani non si verifichi un omicidio?” rifletté Greg, cercando di non sembrare troppo speranzoso.

“Non ne sono sicuro,” disse John con calma. “Sarà più difficile per lui. La gente prenderà precauzioni.”

“Vorrei poter pensare che lo batteremo.” Greg finì la sua birra e la accartocciò sul tavolino da caffè con uno deciso gesto plateale. “Rovineremo il suo messaggio.”

John fissava la tv con sguardo vuoto, come se ci stesse guardando attraverso. “Mh.”

Sembrava dubbioso. Dubbioso e terribilmente stanco, e con un tempismo perfetto la sua testa ricadde indietro sullo schienale del divano ed egli emise un lungo sbadiglio. I suoi occhi erano scuri e velati.

“Penso che dovrei andare a letto.”

“Va bene,” disse Greg, senza muoversi. Aveva già mostrato a John la casa. “’notte.”

“’notte,” disse John con il più piccolo dei cenni e si mise in piedi e uscì dal salotto.

Era bello sentire di nuovo la casa abitata. Greg ascoltò i passi di John sopra al tappeto e le piastrelle, lavarsi i denti, il rumore delle luci spente. Fece zapping tra i canali delle news, alla fine spense la televisione con inutile rabbia dopo essere capitato su una teoria che proponeva che John potesse essere l’assassino andato da Sherlock in cerca di consiglio. Rimase seduto nell’oscurità, frustrato, cercò di non pensare tropo alle esclamazioni di Sally Donovan, o al modo in cui John era sembrato quasi per nulla preoccupato qualche giorno prima, quando Greg lo aveva gettato nuovamente tra le grinfie di Sherlock.

 

***

 

Come Greg aveva predetto, c’erano alcuni paparazzi che vagavano fuori dall’edificio di John. Superarono guidando il gruppo in agguato mentre si recavano alla stazione di polizia, e John li guardò con quello che sembrava shock.

“Non ci credo…” mormorò, sedendosi più all’indietro sul sedile nel caso che qualcuno riuscisse a intravederlo. Probabilmente impossibile, ma non voleva correre rischi.

“Te l’avevo detto,” disse Greg. “Sono famelici.”

I media si erano già stancati di mandare in onda sempre gli stessi stralci di video della conferenza stampa e le foto iniziavano ad essere ripetitive. Avrebbero pagato molto per qualcosa di nuovo.

John si rigirò a disagio sul sedile. “Che tipo di risposta credono di poter ottenere da me?”

Greg soffocò una risata. “Qualunque risposta. Qualunque reazione. È tutto ciò che vogliono e fai bene a non lasciarti provocare da loro.”

John pensò al dottor Culverton Smith e alle sua fotografie raccapriccianti, e si accigliò.

 

***

 

La rilevanza accresciuta del caso iniziò a manifestarsi quella mattina. Toby Gregson era indaffarato a lavorare nel suo ufficio, già abituato al numero di telefonate da parte del nervoso pubblico che dichiarava di avere il virus. Come si erano aspettati, avevano ricevuto false confessioni, il numero di agenti necessari ad interrogarli tutti stava lentamente intaccando la sua forza pubblica.

E adesso il detective poliziotto Hopkins era scivolato goffamente nel suo ufficio con un’informazione a proposito dell’ultima persona che aveva telefonato, un giovane uomo che insisteva a dire che il killer lo stava osservando.

“Quell’uomo ha realizzato che sono le donne ad essere nel mirino dell’assassino?” chiese Toby stancamente.

“Sembra preoccupato, signore.” Hopking corrugò la fronte. “E il suo computer si comporta come quelli delle vittime.”

Toby agitò la mano verso la porta. “Va bene. Vai e controlla. Ma torna in fretta, mi servono tutte le mani possibili per questo.”

“Sì, signore,” disse Hopkins, rimbalzando sulle punte dei piedi. Sgambettò fuori dalla porta e Toby non ci pensò più.

 

***

 

Con il nome di Sherlock nuovamente sui giornali e i giornalisti che chiamavano su ogni linea, il dottor Culverton Smith fece visita alla sua celebrità nell’umida e buia cella nell’angolo più profondo dell’ospedale.

Lì, nella sua cuccetta, Sherlock stava allungato sul suo stomaco studiando attentamente il giornale per quella che doveva essere la centesima volta. Non si preoccupò della presenza di Culverton, nemmeno dopo che lui ebbe tossito un paio di volte nella speranza di vedere quegli occhi roteare con disprezzo.

“Interessante, vero?” sentenziò Culverton infine, con un leggero ghigno.

“Hai spifferato alla stampa che John è venuto a farmi visita.” Sherlock chiuse il giornale e lo lasciò cadere sul pavimento, fissando Culverton con un’occhiata talmente potente che egli poté sentirla attraversargli la testa.

“Mi hai costretto tu, Sherlock,” disse delicatamente, iniziando a camminare. La testa di Sherlock ruotò lentamente per seguirlo. “Mi hai deliberatamente tenuto fuori dal giro. E Dio lo sa, niente di ciò che ti faccio va mai oltre quel tuo spesso cranio, così ho pensato che questo ti avrebbe fatto recepire meglio il messaggio.”

“Questo?” ripeté Sherlock, il naso arricciato come se Culverton gli avesse appena vomitato sulle scarpe.

“Ho sentito che ha i giornalisti accampati fuori da casa sua,” disse Culverton, interrompendo la sua camminata e girando sui tacchi per fronteggiare Sherlock direttamente. Gli occhi glaciali si erano stretti in fessure, ma non c’era nulla verso cui dirigere quella rabbia. “Dev’essere orribile per John, ora,” continuò Culverton in tono dispiaciuto. “Rivivere la peggior esperienza della sua vita sotto gli occhi di tutti. Dicono tutti che l’assassino lo andrà a cercare, alla fine. Come ti senti ad averlo condannato a questo destino?”

Sherlock lasciò che il discorso di Culverton restasse sospeso in aria per alcuni secondi, poi voltò la testa di lato. “Cosa vuoi, dottore?”

“Voglio che tu mi dica tutto,” rispose Culverton istantaneamente, poi cercò di non agitarsi di fronte all’immediato sorriso di Sherlock. “Voglio scrivere questo libro e fare abbastanza soldi da ritirarmi per sempre da questo schifoso, fottuto ospedale dove devo avere a che fare tutto il giorno con dei coglioni come te. È il momento perfetto per iniziare a fare affari con un libro. Il tuo nome è di nuovo su tutti i giornali.”

“Che prevedibile,” disse Sherlock, rivolgendo un’occhiata divertita al soffitto. “E cosa ci guadagno a rivelare la storia della mia vita per un tuo profitto?”

Culverton si strinse nelle spalle. “In cambio, non renderò la vita del tuo John ancora più miserabile.”

L’occhiata di Sherlock guizzò nuovamente su di lui. “Non m’importa se è miserabile.”

“Sul serio, Holmes,” disse Culverton con sguardo torvo. Beh, non sarebbe stata la prima volta in cui Sherlock aveva finto un’amicizia per i suoi scopi. Forse John era meno importante di quanto tutti credevano. Frustrato, sollevò le mani. “Bene, cosa vuoi allora? Ti darò tutto ciò che è in mio potere, te lo garantisco.”

“Ci penserò,” disse Sherlock sbrigativo. Poi il suo sguardo andò lontano, calcolatore. “Finché ci troviamo in uno stato d’animo di trattativa, comunque, potrei avere un’informazione che ti aiuterebbe a riportare il tuo nome sotto i riflettori.” Sollevò un sopracciglio. “Potrebbe aiutare con queste faccende del libro.”

Con disinvoltura, Culverton appoggiò le mani sui fianchi. “Oh?”

Il sorriso di Sherlock fece balenare i suoi denti bianchi. “L’identità dell’assassino emulatore.”

Il cuore di Culverton gli balzò in petto ed egli faticò per mantenere un’espressione impassibile. Questa sorta di scambi erano ciò che più si avvicinava a una partita di poker tra lui e Sherlock. “Sai chi è?” chiese, leccandosi le labbra aride.

“L’ho saputo fin dall’inizio,” rispose Sherlock, inclinando la testa.

“Bene, perché non l’hai detto al tuo piccolo amico?”

Sherlock si guardò le mani e si grattò il retro delle sue lunghe dita. “John non ha niente da offrirmi, oltre alla sua presenza. Se gli dicessi tutto, smetterebbe di vedermi. Se gli nascondo l’informazione, continuerà a venire da me.”

Culverton era sorpreso, a malincuore. “Astuto.”

Sherlock agitò una mano, sprezzante. “È semplice psicologia, ma funziona con tutti.” Sottopose Culverton ad un’occhiata di traverso. “Persino con te.”

Culverton incrociò le braccia e ignorò quell’ultimo insulto. Nonostante Sherlock stesse agendo con nonchalance, stava parlando con inusuale candore. Era questo l’effetto della punizione? Avrebbe potuto funzionare. “Cosa vuoi, quindi, in cambio di quest’identità?”

“So che non uscirò di prigione, dottore,” sospirò Sherlock e ricadde  sulla schiena come un gatto, le braccia a ciondoloni come se fossero senza ossa. “Comunque, mi piacerebbe trascorrere il resto della vita con un po’ di comodità in più. Voglio vedere di nuovo il sole. Fammi avere una cella con vista. Fammi vedere gli alberi e gli uccelli, fammi ascoltare il suono di ciò che accade nel mondo, là fuori.”

Una nuova cella? Era facilmente fattibile. “La finestra sarà sbarrata,” lo avvertì, cercando di nascondere l’impazienza. Non voleva dare a Sherlock l’illusione di avere il controllo.

“Non m’importa,” disse Sherlock malinconicamente. Sembrava già che stesse guardando fuori da una finestra immaginaria.

Culverton si concesse un ghigno. “Allora ho la stanza che fa per te. Massima sicurezza, ovviamente, ma comunque molto piacevole. Dimmi il nome e sarai trasferito là.”

Sherlock trasse un profondo respiro ed esalò lentamente. “Le sue iniziali sono E.R. Ti dirò il resto quando mi avrai dato ciò che voglio.”

Nella sua testa, Culverton iniziava a pianificare, eccitato, la sua apparizione di fronte ai media, sui canali televisivi di notizie attraverso tutto il paese con un ‘Esperto Psichiatra’ di fianco al suo nome, venendo inneggiato come un eroe per aver rivelato l’identità del killer emulatore. “Non posso trasferirti per adesso,” si scusò, “poiché devo far ricostruire interamente la parte anteriore della cella. È fatta di sbarre, al momento.”

“Ti dirò il resto quando sarò nella mia nuova cella,” ripeté Sherlock freddamente.

Quanto difficile sarebbe stato? Culverton si accigliò. Sarebbe stato meglio trasferirlo subito e ottenere le informazioni prima che il killer colpisse di nuovo. Sicuramente avrebbero potuto attuare nuove procedure di sicurezza, come misura temporanea, ovviamente. L’avevano già tenuto dietro le sbarre, prima, e avevano imparato dai propri errori. Forse avrebbero potuto misurare la lunghezza delle braccia di Holmes e segnare una linea sul pavimento che non doveva essere varcata quando non era immobilizzato. Avrebbe potuto funzionare.

D’altro canto, Sherlock sarebbe stato di buon umore, per una volta, quando si fosse trovato là. Era un piccolo rischio.

Doveva agire in fretta. Quello era un buon momento per portare Sherlock dal lato dei buoni, se voleva fare affari con il libro.

“È una bellissima giornata oggi, Holmes,” disse con un ghigno. “Dovresti iniziare a prepararti a vederla.”

 

***

 

Sherlock lasciò sparire ogni espressione dal suo volto mentre veniva legato e la museruola gli veniva applicata dagli inservienti prudenti sotto lo sguardo vigile di Culverton. Il suo viso era la sua maschera, qualcosa dietro cui nascondersi mentre il suo cervello si sovraccaricava.

Nonostante il palese timore degli inservienti, un gruppo di persone dalla pittoresca storia di attacchi da parte di Holmes, egli fece lo sforzo di comportarsi bene e non si lamentò di nulla di ciò che gli fecero. Mentre lo trasportavano lungo il corridoio e su per le scale, i loro corpi si tendevano lottando contro il suo peso morto. Sherlock non poteva muover la testa, ma attorno a loro la luce degli ambienti iniziava a cambiare e ad aumentare nel momento in cui raggiunsero la cima delle scale.

Ora si trovavano al piano terra e salivano ancora, se Sherlock aveva contato bene gli scalini. Primo piano. Non vedeva ancora alcuna finestra, ma la luce diffusa nel corridoio non poteva essere altro che la luce del sole. Secondo piano ed egli intuì che le braccia degli inservienti erano grate di poter posare la barella. Quando lo spinsero attraverso le porte nel corridoio vasto, gli occhi guizzanti di Sherlock colsero il linoleum color crema e le pareti di un bianco splendente, così diversi dall’ambiente nei sotterranei. Respirò l’odore di antisettico e carne pulita, udì i passi veloci delle infermiere e i medici che si spostavano in fretta dal loro tragitto.

Sherlock mise da parte tutte le informazioni, per ora; avevano raggiunto le finestre. Mentre veniva spinto attraverso i corridoi spaziosi, allungò la testa verso sinistra per cogliere un’apparizione di sole giallo e cielo blu chiaro.

Raggiunsero la sua nuova cella, soddisfacemente più spaziosa, luminosa e ben illuminata dalla luce pomeridiana. Dopo che fu sistemato lì, tutto ciò che poté fare fu sedersi alla sua scrivania in legno e fissare con stupore fuori dalla finestra.

“Il nome?” chiese Culverton.

Fu come se stesse domandando da un luogo molto lontano, o come se Sherlock si trovasse immerso sott’acqua.

“Signor Ed Grin,” disse lentamente. “È tedesco e un ex aracnofobico.”

Non degnò di ulteriore attenzione il giubilo di Culverton.

Gli alberi ondeggiavano fuori dalla sua finestra e poteva immaginare di sentire la brezza sulla pelle. Chi avrebbe mai pensato che l’ospedale potesse avere dei terreni così belli?

E il sole! Sembrava una cosa uscita da un sogno. I suoi occhi lacrimavano, sensibili dopo così tanti anni trascorsi nella luce fluorescente e nell’oscurità, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dal quel bruciante sole pomeridiano che illuminava il cielo di un colore tanto magnifico.

 

***

 

John, Greg e Toby stavano scorrendo gli appunti dell’ultima intervista quando il telefono di Toby squillò con un fischio acuto. Era uno degli agenti in uniforme e Toby alzò una mano per zittire gli altri mentre rispondeva.

“Detective ispettore capo Gregson,” disse, mettendo il telefono in vivavoce.

La voce che ne provenne era decisa, ma tremava leggermente. “Signore, parla l’agente Fred Foster. Sono appena arrivato sul luogo dove il detective poliziotto Hopkins era andato a incontrare quell’uomo per prelevarlo e…”

L’uomo esitò, chiaramente spaventato, e Toby attese pazientemente.

“Hopkins è stato assassinato, signore.” La voce dell’agente Foster ora era rotta e dall’altra parte i detective in ascolto sentirono i loro cuori sprofondare. “C’è sangue dappertutto. Non mi sono addentrato troppo, non volevo compromettere la scena.”

Il mento di Toby si abbassò. “Bravo.”

“Sono qui fuori, adesso. Mi occorrono dei rinforzi, non posso occuparmene da solo.”

“Mando subito una squadra,” rispose Toby all’istante. “Resisti, agente Foster.”

Riagganciò, il ricevitore gli scivolò di mano e cadde sul tavolo mentre la testa gli ricadeva tra le mani. Un fallimento.

“Era l’assassino,” disse John, guardando nel vuoto. Sembrava sgonfiato. “L’uomo che ha chiamato a proposito del virus, prima. L’abbiamo beccato.”

Toby si massaggiò il viso, furioso con se stesso. La tensione gli si era insinuata nelle spalle. “Ho mandato io Hopkins laggiù. Da solo.”

Greg scambiò rapidamente un’occhiata con John e poi parlò con voce più bassa. “Non potevi saperlo, Toby.”

“Lo so, lo so…” Toby si appoggiò allo schienale e sospirò, crollando come se non avesse più ossa. “Voi due farete meglio a recarvi sul posto. Lestrade, chiama una squadra dalla scientifica.”

 

***

 

Quando John e Greg si trovarono fuori dall’edificio segnato dall’indirizzo, poterono vedere la macchina vuota dell’agente parcheggiata sulla strada. Lo stesso agente Foster stava in piedi vicino alla porta e corse in avanti, appena loro si avvicinarono, con un’espressione tormentata sul suo volto pallido che provocò una fitta di panico lungo la spina dorsale di John. Ricordava la voce tremante che usciva dall’altoparlante.

Greg rispose alla domanda non posta dall’agente. “La scientifica sta arrivando. Mostraci la scena.”

Foster esitò, irrigidito. “Da questa parte,” si offrì, guidandoli dall’aria frizzante dell’esterno fino allo squallido interno dell’appartamento che odorava come se i proprietari avessero aperto solo di rado le finestre.

Fu un breve tragitto lungo il corridoio con pochi effetti personali, poi Foster si fermò di fronte a una porta parzialmente aperta e rivolse una strana occhiata a John. “Tu sei John Watson?”

John sollevò un sopracciglio. “Sì,” disse seccamente.

“Tu… Probabilmente non dovresti entrare.”

John corrugò la fronte e piegò la testa di lato. “Perché no?”

Al suo fianco poteva quasi avvertire Greg muoversi nervosamente, ma mantenne lo sguardo fisso su Foster, il quale deglutì a disagio in direzione della vigorosa occhiata di John. “È solo che…”

E John capì. Greg stava per compiere un passo all’interno e ordinargli di stare alla larga nel tentativo di proteggerlo da qualunque cosa vi trovasse, ma John era stanco di venire coccolato. Appena Greg aprì bocca, passò loro di fianco aprendo la porta con una spallata e irrompendo nel salotto.

L’odore di sangue e carne cruda lo colpì come un pungo nei polmoni.

Il giovane detective poliziotto Hopkins giaceva prono nel mezzo di un tappeto macchiato di sangue, la camicia strappata dal corpo a esporgli la schiena, dove pezzi di carne erano stati incisi e rubati da entrambi i lati. John riusciva a vedere le interiora dell’uomo e la sua mano passò istintivamente sulla sua cicatrice che bruciava ricordando il dolore. Vista la quantità di sangue che era fuoriuscita, Hopkins doveva essere stato ancora vivo quando era stato squarciato.

“Gesù,” sibilò Greg, la sua voce sorprendentemente vicina all’orecchio di John. Lo aveva seguito all’interno e stava osservando il muro con gli occhi spalancati. John seguì il suo sguardo e il suo stomaco si chiuse.

Come una decorazione sull’orribile carta da parati con motivi cachemire, lettere maiuscole scritte con il sangue ancora fresco compitavano la minaccia che Foster non avrebbe voluto che lui  vedesse: TU SEI IL PROSSIMO JOHNNY BOY

La Y si estendeva fino al pavimento dove il sangue era scorso sul muro.

John era come incollato al pavimento. Avvertì un brivido freddo, come se tutto il suo sangue avesse abbandonato le sue estremità per proteggersi e la sua bocca si era seccata. L’implicita minaccia era diventata reale e ora John non sapeva più cosa fare.

Doveva prendere il killer. Non c’era nessun altro a difenderlo se non se stesso.

“John.” Di nuovo la voce di Greg che interrompeva i suoi pensieri, ma in tutta onestà John faticava abbastanza a mettere insieme un singolo pensiero dall’ondata di panico e terrore che gli offuscava la testa. Si sentiva indifeso e lo odiava, e l’atteggiamento da madre protettiva di Greg lo faceva solo sentire peggio. “John, guardami.”

John non lo fece. “Devo…” iniziò, gesticolando vagamente verso la stanza, “…guardare la scena.”

“John,” disse la voce di Greg, questa volta più severa. Delle mani afferrarono le spalle di John e lo voltarono a guardare Greg in faccia; cercò di lottare ma rimase sorpreso scioccato dalla sincera preoccupazione di Greg. “Torna a casa mia,” quasi gli ordinò, gli occhi fissi in quelli di John. “Devi riposare.”

La bocca di John si mosse inutilmente per qualche secondo prima di ritrovare la voce. “Non posso abbandonare la scena a causa…” Indicò il muro, incapace di finire, e Greg scosse la testa e parlò di nuovo.

“Puoi assolutamente farlo. Guarda, ci penso io.” Quando John si allontanò, Greg lo lasciò andare. “Lo prenderemo. Diavolo, guarda questo posto, troveremo sicuramente delle prove. Te lo prometto John, posso farcela.”

Il mondo di John iniziò a ruotare vorticosamente.

“Ci vediamo quando sarò tornato a casa.” Greg lo stava già spingendo fuori. “Di nuovo cinese?”

“Sì,” annuì John. “Tienimi aggiornato.”

Il nervoso agente Foster lo accompagnò alla porta anteriore come se stesse accompagnando una bomba ad orologeria.

“Hopkins era tuo amico, vero?” chiese John. Riconosceva quei due volti, più giovani. “Mi ricordo che siete arrivati nello stesso periodo.”

Foster reagì a scoppio ritardato e fissò John come se lo vedesse da una nuova angolazione, poi annuì velocemente. “Già,” disse. “A me non importava, ma lui aveva sempre voluto essere un detective. Ricordo quando è stato promosso…” Si interruppe come se gli dolesse la gola.

“Mi dispiace.”

Il nuovo sguardo di Foster era fervente. “Sei un brav’uomo, John Watson. Un bravo poliziotto. Quando sei tornato, Hopkins continuava a ripetermi che ne eri ancora capace, tesseva le tue lodi.”

John era un po’ stupito. “Non me n’ero accorto.”

Foster raddrizzò la schiena. “Ce la caveremo bene qui, Watson. E lo prenderemo. Non hai di che preoccuparti.” I suoi occhi fissarono qualcosa oltre le spalle di John e poi un taxi girò l’angolo. Foster corse verso di lui, il braccio allungato. “Ecco fatto,” disse, sorridendo tra il fiatone, e si avviò nuovamente all’interno dopo aver fatto un cenno di saluto.

Il tassista lo guardò incuriosito e John salì sul taxi con un sorriso mesto, aspettandosi di dover evitare delle domande.

“Dove, signore?”

Aveva l’indirizzo di Greg sulla punta della lingua, ma John non riuscì a dirlo.

Non sarebbe rimasto a guardare.

“Mi porti a Waterloo.”

 

***

 

Invece di temere il suo viaggio verso il Berkshire, John si scoprì a pregustarlo. Aveva acquistato il suo biglietto e si era avviato verso il treno, saltando su appena prima che le porte si chiudessero dietro di lui. Più tardi, quando fu l’ultimo rimasto nella carrozza, stava facendo delle criptiche parole crociate su una copia del Metro, quando il suo telefono vibrò nella sua tasca.

“Pronto?”

“Hey John,” rispose Greg con la voce leggermente ovattata. Da quel che sembrava, Greg si trovava ancora sulla scena del crimine. John udiva i mormorii dei detective e dei membri della scientifica che girovagavano lì intorno. “Hai visto le ultime notizie?”

John rimase in silenzio e rifletté se dire o no a Geg che non si trovava, in realtà, seduto dentro casa. “Non ancora,” disse cautamente. Il treno passò rumorosamente su un dosso, ma Greg sembrò non notarlo.

“Conosci il direttore dell’ospedale psichiatrico in cui si trova Holmes?”

John lasciò ricadere il giornale in grembo e sedette dritto. “Il dottor Culverton Smith?”

“Già. A quanto pare Holmes ha voltato pagina e ha deciso di confessare tutto a quel tipo.”

John sbuffò incredulo.

“No, davvero,” disse Greg. “È al telegiornale proprio adesso. Holmes ha fatto il nome del killer come signor Ed Ring e ha fornito alcune informazioni per identificarlo. È tedesco, un ex aracnofobico, qualunque cosa significhi.”

“Un ex aracnofobico?” ripeté John, confuso.

“Ad essere onesto,” rispose Greg, “sembra proprio una di quelle strane cose specifiche che Holmes usava per dedurre quando lavorava con noi.”

John aveva imparato in fretta che era importante non sottovalutare le parole di Sherlock. Aveva la tendenza a nascondere un significato in ciò che diceva e a costringerti a trovarlo, come la sua osservazione sulle dita delle ragazze. E John aveva il presentimento di conoscere già la chiave di quel puzzle. “No, non è così,” mormorò. “Credo significhi che il killer era uno dei pazienti di Sherlock.”

“Davvero?” Greg sembrava sorpreso.

“Sì, quand’era uno psichiatra si era fatto un buon curriculum con il trattamento delle fobie. Era noto per questo. Controllerei la lista dei pazienti di Sherlock alla ricerca di qualcuno che è stato curato per l’aracnofobia, se ci sono i documenti.” John fece una smorfia. “Deve aver avuto un’idea di chi fosse il killer fin dall’inizio.” Cosa che già sapeva, sul serio. Ma ottenere informazioni da Sherlock era come togliersi un dente alla volta.

“Potrebbe essere complicato,” bisbigliò Greg. Molte delle cartelle di Sherlock erano misteriosamente sparite da quando era andato sotto processo. “Vedrò cosa posso fare. Grazie John.”

“Ci sentiamo più tardi.”

John rimise a posto il suo cellulare nella tasca e si strofinò le dita sul ponte del naso come per scacciare un’emicrania. Sherlock odiava Culverton. John aveva assistito abbastanza agli scherni di Sherlock sul dottore, che lui considerava non qualificato a psicoanalizzare un moscerino, per non capirlo. Persino Culverton lo aveva ammesso quando John lo aveva incontrato la prima volta. E adesso Culverton rivendicava una speciale penetrazione nella mente di Sherlock e otteneva un posto tra le notizie? Qualcosa non quadrava.

Sherlock non avrebbe mai reso noti i suoi pensieri senza una ragione. Doveva aver saputo che Culverton avrebbe voluto pubblicizzare immediatamente tutto ciò che Sherlock gli aveva confessato. Forse aveva realizzato che Culverton poteva essere buono come un altro per portare il messaggio che voleva far trapelare. Era uno stratagemma per comunicare al killer ‘So chi sei’? Stava comunicando con John?

John si sporse di nuovo in avanti e sfogliò il Metro fino a trovare una pagina meno affollata. Scrisse gli indizi di Sherlock in inchiostro nero.

SIGNOR ED RING

TEDESCO

EX ARACNOFOBICO

John non riusciva a trovare nessun altro significato per ‘ex aracnofobico’, così lo cancellò con un segno. Era quasi sicuramente un modo per identificarlo come uno dei pazienti di Sherlock.

Poi c’era ‘tedesco’. L’assassino era tedesco? Un tedesco che viveva a Londra? John si accigliò. Non ne era sicuro, anche se esisteva ovviamente lo stereotipo del tedesco mangiatore di carne, così lo scrisse di fianco.

Il ‘Signor Ed Ring’ gli suonava strano. Era un titolo non necessario, forse era lì per consolidare l’idea che l’assassino fosse un maschio, in modo che suonasse ridondante? Sherlock poteva essersi riferito a lui semplicemente come un uomo. Il significato del titolo in sé era importante.

Forse il nome era un anagramma, anche se John non era in grado di vederci nulla, e lui era abbastanza bravo con le parole. Lo scrisse nuovamente con il ‘signor’ in grassetto ma non aveva ancora alcun senso.

Poi pensò a lui. ‘Tedesco’. L’equivalente tedesco di signore era Herr. Herr Ed Ring.

Red Herring.

Falsa pista.

Sherlock si era di nuovo preso gioco di Culverton e John non riuscì a trattenere il piccolo sorriso che gli si allargava in volto. Fu velocemente sostituito dalla rabbia per quanto sarebbe costato a tutti il tempo che la polizia aveva sprecato cercando un signor Ring inesistente, ma John era comunque impressionato. E forse non aveva mentito a proposito del passato del paziente. Fin dall’inizio, Sherlock aveva dato l’impressione di sapere molto di più di ciò che lasciava effettivamente trapelare.

All’ospedale, Dimmock si trovava alla reception. Sollevò lo sguardo allarmato a fatica celato quando John si avvicinò.

“Devo vedere Holmes.” John non aveva mai minacciato nessuno, ma tutti quelli anni come detective l’avevano dotato dell’abilità di guardare le persone come fosse in grado di minacciarle, quando avesse voluto, e portò a compimento quell’occhiata.

“Non è proprio possibile…” rispose Dimmock, che non aveva voglia di incontrare lo sguardo di John per più di qualche secondo alla volta. John non si mosse.

“Dov’è il dottor Culverton Smith?”

Dimmock guardò il suo schermo. “Credo che si alla BBC? Non ne sono sicuro. Ma non è qui.”

Con deliberata cautela, John premette le mani sulla scrivania e si protese in avanti. “Ascolta,” disse, piegando la testa. “Ho davvero bisogno di vedere Holmes. Ti rendi conto che oggi è stato ucciso un poliziotto?”

“Sì,” ripeté Dimmock, abbassando il mento. “L’ho sentito al telegiornale.” Il suo sguardo divenne furtivo. “Senti, vorrei poter essere d’aiuto, ma non posso. È appena stato trasferito in una nuova cella e abbiamo ancora qualche dubbio sulla sua sicurezza.”

John sussultò a quelle parole. “Starò attento,” insistette. “Ho solo bisogno di parlargli.”

 

***

 

La cella di Sherlock si trovava in una stanza tutta per lui con una porta a vento, dove un corto corridoio portava alla sua stanza sbarrata. C’era una brillante striscia gialla che attraversava il pavimento, di cui Dimmock si era preoccupato di spiegargli la funzione. Rappresentava la piena distanza che Sherlock riusciva a colmare attraverso le sbarre. Una zona di pericolo.

Non attraversarla, neanche per un secondo. È incredibilmente veloce.

Beh, John lo sapeva già.

Chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo, rilassando i nervi, e spinse le ante della porta a vento.

Le differenze tra questa stanza e la prigione sotterranea di Sherlock furono immediatamente ovvie. Questa stanza era ampia e ariosa, e l’aria profumava di fresco e pulito. Erano bei quartieri dalla massima sicurezza, senza dubbio il prezzo di Sherlock per aver fornito il nome falso al dottor Smith. Le scarpe di John ticchettavano rumorosamente sulla dura pavimentazione mentre si avvicinava, ma Sherlock non si mosse.

La sua alta, sottile figura sedeva a una piccola scrivania abbastanza lontana dalle sbarre, affacciata verso l’esterno. John poteva vedere il retro dei suoi ricci scuri, il suo pallido riflesso sulla finestra. Appariva calmo.

“Ancora tu?” Gli occhi si aprirono, focalizzandosi sul riflesso di John piuttosto che sulla sua persona. La sua voce era gentile.

“Ancora io,” disse John. Lungo i suoi fianchi le sue mani erano strette a pugno.

Sherlock lo notò e le sue labbra si allargarono in un sorriso leggermente compiaciuto che fece gelare la spina dorsale di John. “Diranno che siamo innamorati,” disse lentamente, strascicando le parole, e girò attorno alla sedia per portarsi di fronte a John, la sua pelle anormalmente pallida nella luce arancione del sole morente. “Separati da sbarre d’acciaio e una sventurata tragedia, possiamo solo sognare di stare insieme. Sogni di me, John?”

John aveva incubi che lo svegliavano nel mezzo della notte con gli occhi bagnati, tastandosi disperatamente come se le sue budella minacciassero di fuoriuscirgli tra le mani.

“No,” disse invece, mantenendo il tono della voce piatto.

Sherlock sogghignò. “Bugiardo.”

“Perché, tu sogni di me?” chiese John con una nota di sarcasmo e le palpebre di Sherlock si abbassarono.

“Oh, con stupefacente regolarità. Sono riuscito a padroneggiare sogni lucidi, durante la mia permanenza qui.” Prima che John rispondesse, l’espressione di Sherlock divenne preoccupata. “Stai bene?” domandò. “Sei un po’ pallido. Dimmock avrebbe dovuto lasciarti una sedia.”

“Starò in piedi,” disse John con semplicità. “Non mi fermerò a lungo, comunque.”

Sherlock mugugnò sorpreso, ma andò avanti. “Mi scuso per le azioni del dottor Culverton Smith. So che sei stato importunato dalla stampa.”

John si strinse nelle spalle. “Non è poi così male.”

Il leggero movimento delle sue spalle sembrò risvegliare qualcosa in Sherlock, il quale socchiuse immediatamente gli occhi, utilizzando la sua vista a raggi x. “Sei andato a stare con l’ispettore Lestrade.” Annusò l’aria. “Sua moglie l’ha lasciato.”

“È da un’amica,” lo corresse John.

“No.” Sherlock sembrava divertito. “Lo ha lasciato e il buon vecchio Lestrade è troppo imbarazzato per dirtelo.” Picchiettò le dita sul tavolo e scosse lentamente la testa da una parte all’altra. “È troppo imbarazzato per dirti un sacco di cose, immagino.”

“C’è stato un altro omicidio, oggi,” disse John di rimando. “Un agente.”

Fu come se la temperatura della stanza fosse precipitata di qualche grado quando lo sguardo di Sherlock incatenò nuovamente il suo, questa volta era frustrato. Il mondo all’esterno arrivava a lui solo tramite il permesso dei suoi badanti e chiaramente non era stato aggiornato sui fatti recenti come avrebbe voluto.

“L’assassino è arrabbiato a causa della conferenza stampa che gli ha negato le vittime,” continuò John. “Credo che abbia paura di non trovare più nessuno per completare il suo messaggio, ma ci riuscirà.”

Sherlock rimase in silenzio per un po’. “Ha cambiato il suo schema,” disse infine, gli angoli della sua bocca si allungavano verso il basso. Disapprovazione? John non lo sapeva.

“Doveva farlo.”

“Bene,” mormorò Sherlock e il suo sguardo tornò fuori dalla finestra. “Non ne sarà troppo felice.”

“Non lo è,” rispose John, sollevando il mento e stringendo i pugni, e sapeva che c’era solo un modo per garantirsi l’interesse di Sherlock per ciò che sarebbe successo dopo. “È furioso. Ha scritto che sarebbe venuto a cercare me, poiché sono colui che ha gli ha incasinato le cose, dopo tutto.”

Gli occhi di Sherlock si spalancarono e si alzò in piedi, avvicinandosi rapidamente alle sbarre. John sentì il suo stomaco chiudersi dalla paura. “Perché non sei sotto custodia cautelare?” domandò Sherlock, le sue dita bianche avvolgevano le sbarre di metallo verniciate di nero e le afferravano strette.

“Dovrei esserlo,” disse John e il fatto che la casa di Greg contasse come protezione non era proprio una bugia. “Ma sono qui e voglio sapere cos’altro puoi dirmi. E niente bugie.” Piegò la testa. “Non come quella che hai raccontato al dottor Smith.”

“Oh?” Sherlock lasciò che quel suono gli rotolasse lentamente sulla lingua. Il suo sguardo era più tagliente, come se fosse in attesa di qualcosa.

John si chiese se quello fosse una specie test. “Il nome che gli hai dato,” spiegò. “È l’anagramma di red herring.”

A quel punto Sherlock sembrò risplendere di piacere. “Ben fatto, John.”

“Lo hai manovrato,” lo accusò John. “Solo perché si mettesse in ridicolo. Ti rendi conto di quante risorse hai sprecato, risorse che avrebbero potuto essere impiegate per catturare l’emulatore?”

Sherlock sospirò drammaticamente e si spinse lontano dalle sbarre, poi iniziò a passeggiare lentamente nella sua cella, misurando i passi. “Uno deve pur avere qualcosa per passare il tempo quaggiù, John. Sarebbe orribilmente noioso, altrimenti.”

“Sai che ti rispedirà nei sotterranei, appena capirà cos’hai fatto.”

“Non mi importa. Ho già visto quello che dovevo vedere.” E il suo sguardo tornò nuovamente fuori dalla finestra.

“Guarda!” John avrebbe voluto gridare. “Sono venuto qui per chiedere il tuo aiuto.

“Beh, ovviamente.” Sherlock lo guardò torvo. “Non ti fai certo vedere per il piacere della mia compagnia.”

Come se non fosse già abbastanza. John sperò che fosse sarcastico. “Tu sai chi è il killer,” disse, avvicinandosi, e ciò catturò l’attenzione di Sherlock.

“Non te lo dirò.”  Sherlock si fermò bruscamente, proprio di fronte a John e si raddrizzò raggiungendo la sua massima statura. Scrutava John, pronto a scattare come una molla come se tra loro non ci fossero sbarre, e John dovette combattere il bisogno di fare un passo indietro e cedere il campo. “Mi piace qui e, come hai detto tu, il dottor Smith mi rispedirà nei sotterranei appena avrà scoperto che gli ho mentito per il mio personale divertimento.”

“Parlerò col dottor Smith.” John era sul punto di implorare. Mantenne il suo tono di voce mite e cercò di nascondere la propria vulnerabilità, ma con ogni probabilità fallì. “Gli lascerò prendersi il merito del nome.”

Tutto a un tratto, Sherlock sembrò fare più attenzione a John, come uno squalo che avesse fiutato del sangue. Lasciò quella richiesta ad aleggiare nella stanza per un po’ e si prese il suo tempo per far scendere il suo sguardo sull’intera figura tesa di John, poi all’improvviso la sua espressione divenne fredda e calcolatrice. “E cosa ci guadagno?” chiese.

“Non lo so, Sherlock.” John fletté le dita inutilmente lungo i suoi fianchi, la tensione, sul suo corpo, era insopportabilmente costante come se l’uomo di fronte a lui fosse talmente immobile e grave da essere intagliato nel marmo. “…la mia continua esistenza?”

Sherlock apparve quasi deluso. “Di nuovo, sopravvaluti il tuo valore ai miei occhi. A cosa mi serve la tua esistenza se non vieni mai a farmi visita?”

John non riuscì a evitare di essere confuso. “Cosa intendi?”

“Se lo prendi,” disse Sherlock, “non ci sarà più ragione per te di tornare qui. Vivremo entrambi il resto della nostra vita separati e io non riceverò nulla in cambio del mio disturbo.”

Si udì chiaramente John deglutire. “Non ho niente da offrirti.”

“Sì,” disse Sherlock puntualmente, paziente. “Ce l’hai.”

John sapeva cosa intendeva. Aveva per lo più evitato gli articoli di psicologia amatoriale, apparsi di frequente, a proposito dell’apparente interesse di Sherlock per lui, ridendone persino. Era stato solo di recente che aveva realizzato che alcune di quelle argomentazioni erano valide.

Ma Sherlock era dietro alle sbarre. Non poteva ferire John fisicamente. Le sue informazioni potevano condurre all’arresto un uomo che aveva ingannato sei persone e che stava pianificando di fare lo stesso a John.

“Verrò a trovarti,” offrì John. Il suo futuro era il suo unico strumento di contrattazione. “Lo prometto.”

I pallidi occhi di Sherlock lo penetrarono come degli ami. “Quanto spesso?”

“Una volta all’anno,” fu la proposta di John, immediatamente rifiutata dalla risata di Sherlock. “Okay, una volta ogni sei mesi.”

“Una volta al mese,” mercanteggiò Sherlock e John si scoraggiò.

“Viaggiare fin qui non è economico, lo sai.”

“Ho ancora del denaro.” Sherlock agirò la mano verso le finestre come indicando il mondo esterno in cui non c’era più spazio per lui. “Pagherò io.”

John sapeva che Sherlock poteva pagare; non era propriamente povero. Ma non era quello il punto. “Una volta ogni tre mesi,” offrì, “e non spenderai un penny. È un compromesso?”

Tentò, per il momento, di ignorare quanto quell’offerta gli sarebbe costata.

Sherlock non sorrise, ma John sapeva che era soddisfatto. Con la luce arancione morente dietro di lui, assomigliava a qualcuno che avesse appena assaggiato qualcosa di meraviglioso e che ora desiderava rilassarsi e assaporarlo. Se la trattativa sul suo tempo libero era stato un test, John non sapeva se l’avesse superato o meno. In ogni caso, Sherlock ne usciva vincitore. “Bene,” disse Sherlock e rimase lì in silenzio come un falco troppo cresciuto, a fissarlo.

John sbatté in fretta le palpebre. “Dunque,” disse dopo una considerevole pausa, “chi è?”

Sherlock strizzò gli occhi nella sua direzione, poi si piegò graziosamente da un lato e ritornò a passeggiare. “Dimmi, John,” iniziò, le sue mani unite saldamente dietro la schiena. “Come hai capito che ero io l’assassino, dopo tutti quegli anni?”

John seguì i suoi movimenti, realizzando con una fitta di depressione che Sherlock non avrebbe rivelato il nome tanto facilmente. Lanciò un’occhiata al pavimento sotto i suoi piedi, ripensando al passato. “Sono state molte piccole cose. Ma ho sempre avuto solo dei sospetti e anche allora non mi fidavo di me stesso,” ammise. “È stato letteralmente nel momento in cui mi hai attaccato che ho capito di avere ragione.”

“Hai un istinto eccellente,” dichiarò Sherlock. “È un peccato che tu non ne faccia affidamento più spesso. Cos’hai pensato, quando ti ho accoltellato?”

John iniziava a sentirsi male. Quel ricordo non era un luogo in cui era facile tornare e la sua cicatrice gli doleva mentre ricordava un dolore accecante sbocciargli nello stomaco, Sherlock incombere sopra di lui con un’espressione quasi di scuse e il sangue di John sulle sue mani. “Shock, principalmente,” confessò. “Ma c’era una parte di me, nel profondo, che se lo aspettava. Avevo già telefonato a Greg quando sei andato a prendermi il cappotto.” John deglutì, le parole gli rotolavano maldestramente fuori dalla bocca. “Ha detto di aver sentito tutto ciò che stava succedendo al telefono, mentre guidava. A quanto pare, non ho neanche gridato.”

“Non l’hai fatto,” Sherlock aveva smesso di camminare e stava in piedi preoccupantemente vicino alle sbarre. “Ho pensato che fossi notevole.”

“Non avevo abbastanza aria nei polmoni, o l’avrai fatto,” gli disse John. Non si era trattato di coraggio, o stoicismo.

Sherlock guardò John come se vedesse qualcos’altro. Un vecchio ricordo sovrapposto al corpo di John. “Ricordo che il suono della tua pelle e i tuoi muscoli che si strappavano era più rumoroso di te. Eri così silenzioso.”

“Hai mai avuto un’esperienza pre-morte?” domandò John in un sussurro, mettendo la punta del piedi sulla linea gialla. Lo sguardo di Sherlock corse su di lui, affascinato.

“No,” disse, con una nota di dispiacere, “ma ci ho lavorato assieme ad alcuni pazienti.”

“Dicono che la tua vita ti passa di fronte agli occhi…” John si fermò e trasse un respiro tremante. “A me non è successo. Ero… ero scioccato. Mi trovavo nel presente, proprio lì, non a ritroso nel tempo. Era solo…”

“Noi,” terminò Sherlock, la sua voce un sussurro.

“E poi, quando mi hai messo sul pavimento, tutto è diventato nero.” Si strofinò gli occhi mentre le memorie riaffioravano, lui sdraiato sul fianco sul tappeto di Sherlock con il sangue che gli fuoriusciva dalle viscere e che macchiava tutto di rosso. Ricordò la sensazione di diventare troppo debole per muoversi, poi troppo debole per tenere gli occhi aperti. “Mi sono svegliato in ospedale credendo di stare morendo. L’infermiera è arrivata ad assicurarmi che ce l’avevo fatta, che ero vivo, che tu eri rinchiuso per sempre. Avevo ingannato la morte. Potevo vivere pienamente la mia vita.”

“Ma non era così che ti sentivi,” mormorò Sherlock, “vero?

John scosse la testa e chiuse gli occhi. Non ne aveva mai parlato prima. Fu solo quando chiuse le mani pugno che realizzò che si trovavano sul suo stomaco, come a proteggerlo. “Mi sentivo come se fossi morto sul tuo tappeto quella notte, ma il mio corpo si stesse ancora muovendo in qualche modo. Ero così stanco. Non potevo vivere. Potevo solo… esistere.”

Avrebbe dovuto stare più lontano dalla linea gialla. Perso nei ricordi, aveva dimenticato le precauzioni.

La mano di Sherlock si protese quasi troppo in fretta per essere vista, afferrò John dal bavero della sua giacca e lo tirò verso le sbarre. John gridò per lo spavento e si contorse, preso completamente alla sprovvista. Afferrò le sbarre e si spinse indietro, ma la presa di Sherlock non aveva perso la sua forza durante quegli anni. Con una torsione delle braccia, tirò John più vicino con spaventosa violenza e John poté sentire il suo respiro caldo sulla pelle.

“Cosa ne dici, adesso?” ringhiò Sherlock. Lo strattonò più forte e il petto di John premette dolorosamente contro le sbarre. “Proprio adesso. Ti senti ancora come se stessi soltanto esistendo? Solo vagando in una vita che non ti si addice più?”

Il cuore di John palpitava rumorosamente nel suo petto ed egli  non riusciva a pensare, il suo cervello era un vuoto ciclo di corri, corri corri!

I suoi occhi si trovavano al livello dei denti di Sherlock.

Io ti faccio sentire vivo,” dichiarò Sherlock e una delle sua mani ricadde come una tenaglia sul collo di John.

John era alla ricerca di un appiglio, in shock, graffiando la carne che lo incatenava alle sbarre, ma Sherlock non reagì nemmeno quando le unghie di John incisero delle linee lungo la sua pelle, fissandolo come se stesse assistendo a qualcosa di affascinante. Con John premuto vicino e impotente, si avvicinò, le narici che si dilatavano mentre traeva un profondo respiro in prossimità della guancia di John.

“Ti senti morto senza il pericolo, John,” disse in quella profonda, funesta voce, e quando John tremò le sue labbra si inarcarono per il divertimento. “Vivi la tua vita trincerato in esso, combattendolo coraggiosamente, ma sempre, sempre alla fine soccombi a quell’impeto, quella scarica di adrenalina. Il pericolo è parte di te, ti definisce, è ciò che ha determinato ogni decisione della tua vita. Ti ha portato proprio da me, John, e sai cosa?”

Le sue labbra accarezzarono l’orecchio di John.

“Io sono la cosa più pericolosa che tu abbia mai conosciuto.”

Con John bloccato per il collo, la sua mano libera scivolò attraverso le sbarre per tirare possessivamente verso il basso la stoffa della camicia, le sue lunghe dita distese. John sibilò e diede un inutile strattone all’indietro mentre la mano scivolava sulla sua cicatrice, le dita che toccavano con riverenza la striscia di tessuto spesso che attraversava l’addome di John, quando improvvisamente un allarme risuono nell’aria. John riconobbe lo squillo con sollievo distante. Forse qualcuno aveva finalmente guardato le telecamere di sicurezza.

Anche Sherlock lo udì, i suoi occhi guizzarono momentaneamente verso l’alto per accertarsene, ma ciò lo fece solo stringere con più forza. “Mi hai detto che non avevi bisogno di nessuno che si prendesse cura di te,” mormorò, “ma entrambi sappiamo che non è così. Uno psicopatico ha cercato di ucciderti oggi. Sei spaventato. Lo capisco.” Alzò un braccio per accarezzare i capelli di John, e John trasalì sentendo i polpastrelli grattargli lo scalpo. Sherlock inspirò, quasi teneramente. “Ma non ti devi preoccupare. Non gli permetterei mai di farti del male. Tu sei mio, John, lo capisci? E niente, nessuno, ferisce ciò che è mio.”

I suoi occhi erano così carichi di promesse che John dovette distogliere lo sguardo.

“Che succede qui?” ululò la voce distante di Culverton. “Toglietegli Holmes di dosso!”

Le porte si spalancarono tra il rumore di passi e, per un momento, John pensò che la stretta di Sherlock avrebbe potuto spezzarlo.

“Ti terrò d’occhio,” sibilò Sherlock e poi urlò quando vennero separati dagli inservienti coperti dalla testa ai piedi di attrezzature protettive. La mano di Sherlock lo afferrò possessiva e le sue unghie lasciarono dei graffi profondi lungo il retro del collo di John mentre veniva sottratto alla sua presa.

“Portate il poliziotto fuori di qui!” ruggì Culverton. “E tu stai indietro Holmes, o verrai sedato—”

Le voci urlanti si affievolirono mentre la sicurezza trascinava un John tremante fuori dalla zona di Sherlock, le porte sbatterono dietro di lui. Lo gettarono letteralmente fuori dall’ospedale. Una volta che fu all’esterno, tremando per lo shock e l’adrenalina nella fredda aria pomeridiana, incespicò lontano dalla vista e collassò vicino al muro di mattoni rossi dell’ospedale. Quasi immediatamente, le sue gambe cedettero. Scivolò lungo il cemento ruvido e lasciò ricadere la testa.

Non riusciva a smettere di tremare. La pelle lacerata sul suo collo pungeva a causa del vento.

Premette la sua, più piccola mano sopra la fastidiosa cicatrice che gli segnava lo stomaco e ricacciò ferocemente indietro le lacrime. Sherlock non gli aveva detto niente.

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