Ecco
una gran bella fanfiction che sta riscuotendo moltissimo successo. È
attualmente in corso, sono stati scritti finora 4 capitoli su 5.
L’autrice
ha specificato che si tratta di un crossover con Red Dragon e Il Silenzio degli
Innocenti, ma non essendoci questi titoli nell’archivio di efp devo
specificarlo qui.
Per
qualche motivo, nonostante la semplicità e la scorrevolezza dello scritto
originale, mi ci è voluto parecchio per tradurre il primo capitolo poiché è
davvero ricco di particolari ed eventi.
Godetevi il primo capitolo e andate a leggere la storia originale, se potete!
The Loss of Flesh and Soul -> deuxexmycroft
La
luce dell’atrio si accese, illuminando il volto di John attraverso il vetro
ghiacciato, e dopo un ticchettio di lucchetti aperti, la porta si aprì.
Sherlock Holmes stava in piedi all’entrata con una cortese espressione di
stupore sul viso, la sua figura slanciata vestita di tutto punto nonostante
l’ora tarda. “Ispettore?”
John
sentì profumo di caffè e di cena su di lui. Si schiarì la voce. “Mi spiace
disturbarti così tardi,” iniziò, ma Sherlock lo interruppe.
“Non
è un problema.” Aveva una voce profonda e tranquilla. Agitò vagamente una mano
pallida in direzione del salotto. “Ero sveglio, comunque. Vuoi entrare?”
“Se
non è un problema.” John spinse un po’ più a fondo le mani nelle tasche.
“Voglio solo parlare.”
Gli
occhi taglienti di Sherlock di strinsero impercettibilmente. “Ma certo,” disse,
e arretrò, tenendo la porta aperta così che John gli passasse accanto
allontanandosi dal freddo. La chiuse dietro di lui, ma non a chiave, il suo
sguardo non si staccava da John. “Posso prenderti la giacca?”
Appese
la sua giacca nell’armadio sotto le scale e scortò John nel salotto. Una stanza
abbastanza grande, che Sherlock aveva riempito – e in ciò John riconobbe il suo
tipico comportamento da gazza ladra – con oggetti che gli interessavano.
Avrebbe dovuto sembrare disordinata, ma al contrario appariva come un incrocio
tra una biblioteca e un negozio antico. Il suo computer ronzava sul tavolo da
caffè, dove sembrava che Sherlock stesse facendo ricerche sull’aracnofobia.
“Per
uno dei miei clienti,” spiegò Sherlock, notando la direzione dell’occhiata di
John. Si lasciò cadere sulla poltrona e tirò fuori il suo violino. “Siediti,
ora. Cos’è che ti preoccupa?”
“Quanto
mi costerà?” scherzò John, appropriandosi della poltrona di fronte.
Sherlock
sorrise indulgente. “Considera gratuito ogni beneficio terapeutico che deriverà
da questa chiacchierata.” Pizzicò le corde del violino, con gentilezza, per non
fare troppo rumore che avrebbe disturbato la conversazione.
“Okay,”
disse John, mettendosi comodo della
poltrona. “Bene. Non ci conosciamo molto bene, ma abbiamo lavorato sullo stesso
caso per un po’ e ho fiducia nel tuo contributo come psichiatra forense.”
Sherlock
sorrise. “Mi onori. Qual è il punto?”
“Credo…
che abbiamo commesso un errore,” disse John tranquillamente. “Abbiamo seguito
la pista sbagliata per tutto il tempo.”
“Davvero?”
rispose Sherlock, senza smettere di picchiettare con le dita.
“Sì.
Abbiamo identificato il killer come qualcuno con un risentimento e
un’esperienza pratica di anatomia.”
Sherlock
mugugnò la sua approvazione, e strinse una delle corde con una precisa torsione
delle dita sottili. “Data la sua esperienza nell’estrazione delle parti del
corpo che colleziona, sospetterei un medico radiato o magari uno studente di
medicina che abbia abbandonato gli studi. Forse anche un dentista, o un
professore di biologia umana.” Somministrò a John uno dei suoi inquietanti
sorrisi che non raggiungevano gli occhi. “O persino una persona molto abile con
una buona conoscenza di Google.”
John
avvertì i capelli iniziare a rizzarglisi sulla nuca. Ma non lo diede a vedere a
Sherlock e sollevò il mento. “È qui che ci siamo sbagliati,” spiegò con
franchezza.
Le
labbra di Sherlock si strinsero. “Oh?”
“Non
colleziona parti del corpo.”
Sherlock
inarcò un sopracciglio. “E allora perché le prende?”
“Credo,”
disse John con voce sempre più fioca, “che le mangi.”
La
temperatura nella stanza sembrò precipitare e Sherlock ripose con cautela il
violino sul piedistallo, la sua poltrona scricchiolò quando si sedette. “Va’
avanti,” disse, unendo tra loro le dita di ciascuna mano sotto al mento.
John
emise un respiro nervoso. “È stato mentre la mia ragazza preparava la cena.” Il
naso di Sherlock si arricciò leggermente, come succedeva sempre quando John
accennava a Sarah. “Stava tagliando il pollo e mi disse: ‘la miglior parte del
pollo è il codrione, sui lati del collo’. E a quel punto mi sono ricordato
della terza vittima.”
Le
palpebre di Sherlock vibrarono al ricordo. Aveva visto le foto del crimine.
Deglutì
rumorosamente e lo sguardo di Sherlock si spostò sulla sua gola e poi di nuovo
sul viso.
“E
allora ho capito.” John si raddrizzò leggermente, mentre Sherlock stava rigido
come una statua di fronte a lui. “Fegato, rene, lingua, timo. Quelle che sono
state prelevate da ogni vittima sono tutte parti che vengono usate in cucina.”
Il
volto di Sherlock sembrò illuminarsi. Si sfregò il labbro inferiore, lo sguardo
abbassato mentre pensava. “Molto interessante,” mormorò. “Questo… questo cambia
tutto.” Lanciò un’occhiata valutativa a John. “Hai condiviso questi pensieri
con qualcuno?”
John
scosse la testa. “No… volevo parlarne prima con te. Di nuovo, scusa se ti ho
rovinato la nottata con questi discorsi sull’omicidio. A me ha impedito di
gustarmi la cena di Sarah.”
“Oh,
no, non ti scusare,” disse in fretta Sherlock, distogliendo lo sguardo. “Lo
trovo affascinante.” E infatti rimase seduto in silenzio per un po’, senza
dubbio rimuginando su ogni cosa.
“Alle
volte mi domando se dovremmo scambiarci i lavori,” suggerì John, scherzando
solo in parte. “Considerato l’interesse che provi per i miei casi.”
“Credo
che scoprirai che tutti sono interessati all’omicidio, John,” disse Sherlock
con un ghigno. “D’altro canto, sono più interessato alle persone che stanno
dietro ai casi.” Fissò nuovamente John con uno sguardo di ghiaccio. “O da
entrambi i lati.”
John
sorrise educatamente, ma avvertì la propria tensione sul volto.
“Un
giorno mi piacerebbe averti sul mio divano,” rifletté Sherlock, quasi tra sé e
sé. “Non riesco a immaginare gli orrori che si nascondono nella tua testa.
Tutte le cose che hai visto…”
“Non
ne sono sicuro. Forse non sei un così bravo psichiatra come credi,” disse John,
in un impeto. “Sei considerato il migliore, eppure sei rimasto su questo caso
più a lungo di quanto non abbia fatto io, la possibilità che l’assassino fosse
un cannibale sembra non averti sfiorato.”
“Che
posso dire?” disse Sherlock, separando le mani. “Ho commesso un errore. So che
a voi persone piace pensare che ciò che faccio sia magia, ma in tutta onestà io
sono umano quanto voi.”
John
fece una pausa, incerto. “Non mi sembri qualcuno che commette tanti errori.”
“Odierei
perdere la tua piena fiducia, John,” disse Sherlock dolcemente. “Significa
molto per me.”
E
in quell’istante, John… aveva quasi capito.
Indietreggiò
col busto e aggrottò le sopracciglia concentrandosi. Ma il pensiero gli era
sfuggito, e improvvisamente si sentì esausto.
“Mi
dispiace,” disse John, piegando la testa. “È stato scortese da parte mia
accusare…” Si fece scorrere una mano tra i capelli e sospirò. “È tardi. Sono molto
stanco e non ho dormito. Scusami.”
Sherlock
lo studiò silenziosamente da sopra le dita congiunte. “Vai a casa,” disse
infine. “Riposati, e poi torna a farmi visita quando ti sentirai meglio.
Possiamo rivedere i rapporti degli omicidi alla luce della tua scoperta. Farò
del mio meglio per non commettere altri sbagli. Può andar bene?”
John
annuì debolmente. “Ottimo. Grazie, Sherlock. Scusa ancora per –“
“Non
dirlo,” lo riprese Sherlock. Si alzò in piedi e agitò la mano verso il basso
quando John fece cenno di seguirlo. “No, no. Rimani lì. Ti prendo la giacca.”
Scomparve
dalla stanza e lo spazio sembrò improvvisamente più grande ora che lui ne era
fuori. John espirò lentamente, sentendosi piccolo. Quando la porta del
ripostiglio si aprì all’entrata, John affondò il volto tra le mani. Cosa c’era
che non andava, in lui? Sherlock era strano, ma non c’era ragione di…
Il
suo sguardo fu catturato, sulla libreria che dominava una delle pareti della
stanza, da vari libri di ricette di cucina. Uno di loro era stato aperto di
recente.
John
si fidò del suo istinto. Se qualcosa lo colpiva, meritava di essere verificato.
I suoi passi furono attutiti dal tappeto morbido quando si incamminò, prendendo
quasi di riflesso il cellulare per telefonare a Lestrade. Compose il numero con
mano ferma mentre faceva scorrere lo sguardo su una sezione del libro di cucina
che Sherlock aveva segnato con ‘carne di maiale’.
L’attacco
provenne dal nulla.
John
si voltò di scatto, allarmato, in tempo per vedere Sherlock incombere su di
lui, un bagliore d’acciaio, poi un dolore accecante non appena un coltello si
fu fatto strada con forza nel suo stomaco. Avrebbe gridato, ma l’aria gli era
stata strappata via dai polmoni, così invece si aggrappò inutilmente alle mani umide
di Sherlock.
“Shh,”
mormorò Sherlock paziente, premendo la sua mano sulla bocca ansante di John.
John tentò di divincolarsi, ma quella mano ossuta era forte come il ferro.
“Lascia che accada.”
Ci
fu un suono di pelle lacerata, carne strappata quando Sherlock girò il coltello
nel corpo di John.
John
fissò impotente il pallido volto affascinato sopra di lui, che lo osservava come
un gatto osserva un tolo intrappolato sotto le sue zampe. John stava già
sudando, troppo sconvolto per lottare, pensando, stupidamente, che dopotutto a
lui piaceva quella camicia. Il dolore
era tale che le gambe cedettero sotto il peso del suo stesso corpo e Sherlock
lasciò scivolare il coltello fuori da lui e lo rigirò come una bambola di
pezza, schiacciandolo contro la libreria per mantenerlo dritto con le sue
grandi mani su entrambi i fianchi di John, il coltello appoggiato di lato.
John
percepiva il calore di Sherlock sulla sua schiena e, sopra ogni altra cosa, la
sensazione che il suo stomaco stesse fuoriuscendo. Respirò profondamente e
tentò di non singhiozzare quando la parte inferiore del suo corpo perse ogni
forza.
“Ah,
sì,” disse Sherlock, con un tono stranamente tenero. “Le tue gambe sono andate.
Non temere, sono abbastanza forte per entrambi.” Accarezzò i capelli di John,
un intimo gesto che gli provocò dei brividi lungo la spina dorsale. “Speravo
che non scoprissi il mio coinvolgimento, John, ma sembra che abbia
sottovalutato la tua intelligenza. O forse ho dato per scontata la mia. In ogni
caso, devi saperlo, non avrei mai voluto farti del male. Ma tu mi hai costretto.”
Il
cuore di John gli batteva velocemente nel petto, pompando inutilmente sangue
fuori dal suo corpo e mandandolo a spargersi sul tappeto di Sherlock. Si
sorprese a domandarsi come diavolo avrebbe fatto Sherlock a ripulire tutto.
Avrebbe nascosto il corpo, come con aveva fatto con gli altri? Avrebbe mangiato
uno degli organi di John?
La
vista gli si stava offuscando ai lati, come durante una sbronza. Sentì le dita
di Sherlock strofinare il suo scalpo.
“Sei
ammirevole,” sussurrò Sherlock improvvisamente, le labbra vicinissime
all’orecchio di John. Il suo respiro graffiante gli arrossò la pelle. “Credo di
aver fatto breccia nel tuo cuore.”
“Fermo!”
Attraverso
il dolore, John riconobbe quella voce. Sherlock sembrò paralizzarsi attorno a
lui, le labbra ancora premute sull’orecchio di John, il suo cervello al lavoro.
Come se si fosse teletrasportato dal nulla, il detective ispettore Greg
Lestrade aveva la sua pistola puntata alla testa di Sherlock. John avvertì un
enorme sollievo.
“Molla
il coltello e lascialo andare subito,” ordinò Lestrade.
Il
coltello macchiato di sangue cadde e colpì il pavimento con un rumore sordo.
Sherlock
respirò lentamente nell’orecchio di John valutando la situazione, completamente
immobile, poi leccò il lobo di John con la sua lingua calda, muovendo la bocca
in un bacio beffardo, prima di staccarsi e accompagnarlo sul pavimento. Quando
John giacque ai suoi piedi, sollevò le mani in segno di resa e sorrise
tranquillamente in direzione della canna della pistola.
L’universo
di John si oscurò attorno a lui, pezzo per pezzo, mentre rimaneva adagiato sul
tappeto morbido, il sangue proveniente dal suo stomaco tingeva gradualmente
ogni cosa di rosso.
******
Greg
Lestrade sbirciò il monitor per poter vedere il Dr Sherlock Holmes nella stanza
degli interrogatori, circondato da agenti della sicurezza, le mani ammanettate
e posate sul tavolo. L’uomo sembrava quasi annoiato, le palpebre calate a metà,
la bocca atteggiata in una smorfia di disapprovazione. Era vestito con la
maglietta e i jeans di qualcun altro. I vestiti su misura che indossava quando era
arrivato erano macchiati del sangue di John e per di più servivano come prove.
“Gli
parlerà, signore?” domandò il detective sergente Donovan, accigliandosi.
Greg
si strofinò una mano sulla fronte. “Sono appena tornato dalla visita a John
all’ospedale,” disse e l’espressione di Donovan diventò più comprensiva. “Devo
parlare a quel maledetto Holmes prima che vada in tribunale. Ho bisogno di
capire.”
John
era sembrato così piccolo nel letto d’ospedale, appena uscito da un intervento
chirurgico d’urgenza con il busto pesantemente fasciato, il volto rilassato ma,
per qualche motivo, non pacifico. Diversi tubi entravano e uscivano dal suo
corpo, come se fosse una specie di macchina.
Ogni
tanto le sue soffici, bionde ciglia avevano tremato sui suoi zigomi e Greg si era
domandato se John si stesse svegliando.
Chiaramente
era impossibile. John era sprofondato in un coma indotto, a mala pena in grado
di sopravvivere. Sherlock lo aveva praticamente sventrato.
“Sembri
preoccupato, Ispettore,” disse Sherlock non appena Greg fu entrato, e il
bastardo stirò le labbra in un sorriso affettato.
Greg
desiderò che la brutalità della polizia non fosse vista così di cattivo occhio.
John era a pezzi e Sherlock ne sorrideva, al sicuro da ogni danno. “Sei tu
quello che dovrebbe essere preoccupato, Holmes. A meno che tu non possegga un
sangue freddo tale che l’omicidio non abbia alcun effetto sulla tua coscienza.”
Gli
lanciò quella frase con fierezza, cercando di ferirlo con le parole dove non
poteva farlo con i pugni, ma Sherlock lo
fisso semplicemente con i suoi pallidi occhi scintillanti. “Come sta John?”
chiese Sherlock, calmo, come se stessero chiacchierando davanti a un caffè.
“Cosa
di importa?” gli ritorse Greg, sedendosi di fronte. “Hai cercato di ucciderlo.”
“Non
volevo,” disse Sherlock, intrecciando le dita, facendo sfregare le manette
contro il tavolo metallico. Aveva uno sguardo distante. “Mi piace John,
Ispettore, ma non tanto quanto io piaccio a me stesso.”
Ovviamente
no. Sherlock era al centro del suo mondo delirante.
“Come
sta John?” ripeté Sherlock, con infinita calma.
“Tu
cosa credi?” gridò Greg, ma la suprema imperturbata presenza di Sherlock, in
qualche modo, fece apparire la reazione di Greg impetuosa e irragionevole al
confronto. “È a un passo dalla morte in un letto d’ospedale. L’hai quasi
tagliato in due.”
Sherlock
ammiccò lentamente. “Magari gli manderò un biglietto.”
“Non
farai niente del genere,” disse Greg a denti stretti.
“È
molto intelligente, sai. Più intelligente di te, comunque.” Sherlock sottolineò
la frase trascinando il suo sguardo lungo il corpo di Greg. “Credo, tra i due,
che il piccolo John sia molto più adatto ad essere Ispettore Capo.”
Greg
si irritò e il ghigno sul volto di Sherlock si allargò, increspandogli la pelle
attorno agli occhi.
“Dovresti
essermi grato. Prevedo che John si ritirerà, dopo tutto questo. E allora tu
sarai la scelta più naturale per la promozione.”
Si
sentì uno schianto quando Greg balzò in piedi, sbattendo il pugno sul tavolo
per impedirsi di colpire la faccia di Sherlock. Le sue spalle si alzarono
mentre trangugiava ossigeno, arrossato dalla rabbia, squadrando Sherlock con
odio. “Rimarrai rinchiuso per sempre, Holmes,” sputò. “Ti credi così superiore,
ma vivrai il resto dei tuoi giorni in una piccola cella, diventando così
rabbioso e deviato che non sarai più una
minaccia per nessuno. E John si riprenderà da ciò che gli hai fatto, e ti
dimenticherà. Io ti dimenticherò. Ancora qualche anno e nessuno si ricorderà di
te.”
I
pallidi occhi di Sherlock spazzarono la figura contratta di Greg, come se lo
stesse facendo mentalmente a pezzi. “Tu mi penserai, soprattutto quando meno te
lo aspetti,” disse lentamente. “Infatti, farai fatica a fidarti di persone
nuove per anni a venire, anche se, forse, non realizzerai quanto ciò ti stia limitando.
E John?” Sherlock s’interruppe addolcendo il tono. “Ogni fitta di dolore della
sua ferita, ogni pillola che prenderà per smettere di soffrire gli farà
ricordare di me. E quando gli anni saranno trascorsi e il buco nel suo stomaco
si sarà rimarginato in una cicatrice, mi penserà ogni volta che ne scorgerà la
forma allo specchio, o la sentirà prudere sotto i vestiti. Non sarà mai in
grado di dimenticare. E fintanto che sarà nei paraggi, nemmeno tu.”
“Tu
speri-“ protestò Greg, ma Sherlock lo
interruppe aggiungendo malizia alla sua voce.
“E
allora vedrai John, ti ricorderai delle altre vittime che non hai fatto in
tempo a salvare. Penserai alla tua stupidità, a quanto hai fallito a trovare il
vero killer. Se solo avessi guardato un po’ più da vicino saresti stato capace
di salvare quelle persone. E a quel punto,” gli occhi di Sherlock brillarono,
“inizierai a odiare John.”
“Sta’
zitto,” scattò Greg, il suo cuore correva troppo veloce nel suo petto.
“Perché
John non ha avuto prima la sua rivelazione?” disse Sherlock, il suo piacere
selvaggio per la reazione di Greg era visibile nel suo largo ghigno. “Quelle
persone non sarebbero morte se John fosse stato
un po’ più veloce, un po’ meno fiducioso. E presto, non sarai più in
grado di stargli vicino senza cadere in una spirale di depressione che curerai
con l’alcool. Senza successo.”
Greg
realizzò tardi che Sherlock se lo stava lavorando, con nessun altro scopo se
non il proprio divertimento. Era inorridito per aver consentito a Sherlock di
protrarre quella cosa così a lungo. La conversazione era tanto vicina a un
coltello rigirato nelle budella quanto le parole potessero essere.
“Ti
vedrò in tribunale, Sherlock,” disse Greg, definitivo. Uscì dalla stanza, fin
troppo consapevole delle occhiate di Sherlock alle sue spalle, affilate come
pugnali.
***
I
giorni trascorsero veloci.
Sherlock
fu dichiarato colpevole dopo un processo largamente pubblicizzato e condannato
a nove ergastoli consecutivi senza possibilità di appello. Non sarebbe mai più
uscito. Per fortuna, forse, John passò l’intero tracollo mediatico nel suo coma
indotto.
C’erano
l’interminabile copertura del coinvolgimento di Sherlock nella sua stessa
indagine, i macabri dettagli del processo, e poiché le affilate caratteristiche
di Sherlock risultavano così peculiari sulle stampe in bianco e nero, le sue
foto finirono per essere viste ovunque. Aveva un talento per i morsi e i
giornalisti amavano odiarlo.
“Cosa
ne sarà della tua anima?” aveva gridato una donna esaltata mentre Sherlock
usciva dal tribunale, la sua snella figura in completo fiancheggiata dalle
guardie. “Dio ti manderà all’infermo per ciò che hai fatto a quella gente!”
“Dio
ne ha uccisi a milioni,” aveva risposto Sherlock in tono ragionevole. “Sono sicuro
che non mi invidierà per qualche miserabile omicidio.”
In
termini più infelici, la notizia mise in luce il Servizio di Polizia
Metropolitana per aver mancato di notare che essa aveva indirettamente favorito
un omicidio. Non importava che Sherlock avesse alle spalle una carriera senza
macchia e impeccabili referenze. Avrebbero dovuto capirlo, e non l’avevano
fatto. Fu sottolineato, in particolare, il coinvolgimento di John, dopo che un
giornalista scandalistico si fu introdotto in ospedale ed ebbe rubato una foto
del suo corpo malridotto dopo un altro intervento. I bastardi lo avevano
sbattuto in prima pagina.
Tutto
ciò era accaduto prima che John si risvegliasse, ammiccando confusamente con
occhi che non vedevano la luce da troppo tempo. Per un istante credette di
trovarsi, ancora sanguinante, sul tappeto di Sherlock, ma un’infermiera accorse
in fretta a tranquillizzarlo e a spiegargli cos’era accaduto.
E,
esattamente come Sherlock aveva predetto, si ritirò presto dalle forze di
polizia.
Era
disteso sul suo letto d’ospedale quando Greg venne in visita, il suo comodino
era sommerso da libri e cartoline, da parte di amici e colleghi, che gli auguravano
una pronta guarigione. Secondo i dottori sarebbe stato pronto a tornare a casa
in pochi giorni, una notizia che John stava assaporando. Quando Greg entrò,
Sarah sedeva di fianco al suo letto, sistemandogli il cuscino; John sorrise
coraggiosamente ma i suoi occhi erano velati di tristezza, sebbene fosse
contento del nuovo visitatore. Aveva perso molto peso.
Nella
stanza regnava un’atmosfera strana e Greg ebbe l’impressione di essere arrivato
nel mezzo di una discussione che non si era conclusa.
“Sono…
troppo stanco di tutto,” disse pacatamente, dopo che Sarah l’ebbe baciato con
gentilezza sulla guancia e fosse tornata al lavoro. “È troppo. Mi conosci,
Greg. Per risolvere i casi ho bisogno di mettermi nei panni dei criminali, devo
pensare come loro. E il dottor Holmes…” John serrò i denti e la mano vicino al
suo stomaco si contrasse. “È più di quanto possa reggere. Mi ucciderò, cercando
di catturare queste persone.”
Greg
ricordò la dolorosamente accurata predizione di Sherlock e abbassò lo sguardo
sulle sue dita. “Credo che tu sia bravo in questo lavoro, John.”
John
lo fissò per un po’, poi si allungò verso il comodino ed estrasse un cartolina
con un’espressione sconfitta che fece stringere il cuore di Greg. “Guarda,”
disse John, quasi supplicando, e le sua mano tremava mentre gli porgeva un
biglietto costosamente elegante. “È da parte sua. Sta cercando di tenersi in
contatto con me.”
Greg
lo prese e la mano di John ricadde al suo fianco. La aprì con cautela,
avvertendo la qualità della carta sotto al pollice.
Scusa, aveva
scritto Sherlock in linee appuntite di inchiostro nero sopra a un messaggio
prestampato. Ti penso spesso. S.
Greg
rimise cautamente la cartolina assieme alle altre, lontano dalla vista.
“Passerà la vita in prigione, John. Non può farti del male da là.”
Per
qualche ragione, per Greg era incredibilmente importante provare che Sherlock
aveva torto e far restare John nella polizia. Ma John scosse la testa, come se
Greg non riuscisse a capire. Appariva triste. “Quando uscirò da qui mi
dimetterò formalmente. Mi dispiace, Greg. Sei un buon amico.” I suoi occhi si
mossero a incontrare quelli di Greg. “Spero che ciò non cambi dopo che avremo
smesso di lavorare assieme.”
“Ovviamente
no,” si affrettò ad assicurare Greg. “Sarai sempre benvenuto ad unirti a noi al
pub a fine giornata. Ma John –“
“Greg,”
lo interruppe John, scuotendo la testa. Sembrava anni più vecchio e decadi più
fragile. “Ti prego.”
Chiacchierarono
per circa mezzora prima che Greg tornasse a casa. Lasciò John con i giornali
che aveva richiesto e che si era perso, così che potesse rimettersi in pari.
John gli fu incredibilmente grato e diede a Greg una scatola intatta di
cioccolatini da parte di uno dei suoi amici da condividere con la famiglia di
Greg.
“Erano
un regalo, ma al momento non posso mangiare cioccolata,” spiegò John. “Ho una
dieta molto limitata.”
Greg
la ricevette con gratitudine e quando John sporse la mano per una stretta, Greg
invece si chinò e lo abbracciò con cautela. Lo sentì più morbido e ossuto di
prima.
“Riguardati,
John,” gli disse, sincero.
“Anche
tu,” rispose John.
***
Sulla
sua cuccetta nella sua prigione di vetro, Sherlock Holmes giaceva prono con
un’uniforme bianca, leggendo avidamente il giornale The Herald. La sua pelle, naturalmente pallida prima che venisse
rinchiuso, sembrava quasi cadaverica ora, privata del colore per la mancanza di
sole e a malapena distinguibile dai suoi vestiti. I suoi occhi guizzarono
veloci mentre leggeva e si sfregò pensieroso il labbro inferiore con l’indice,
prima di leccarlo per voltare pagina.
La
sua storia non era ancora scomparsa dai giornali. L’ultimo risvolto comprendeva
il capo del personale dell’istituto psichiatrico, dottor Culverton Smith, e la
sua promessa di divulgare le analisi definitive del caso di Sherlock a
qualunque pubblico fosse interessato. La sua piccola, compiaciuta fotografia
era praticamente su ogni giornale in cui si imbatté, in piena vista delle
telecamere. Il dottor Smith doveva sapere che Sherlock non provava altro che
disprezzo per lui.
Girò
un’altra pagina, e poi un’altra ancora, crogiolandosi e immergendosi nelle
informazioni di un mondo in cui non era più ammesso. Le parole crociate erano
semplici in maniera deludente e con ciò Sherlock lanciò il giornale da parte e
lo lasciò sparpagliarsi sul pavimento, allungandosi sotto il letto per
raggiungere il giornale scandalistico che aveva conservato.
Glielo
avevano lasciato tenere, per qualche ragione.
Forse,
in qualche modo, il dottor Smith stava psicoanalizzando la sua nuova scoperta
affezione (o forse ossessione) per
l’unica vittima che era sfuggita alle sue grinfie, ma Sherlock non era
particolarmente infastidito dalla consapevolezza di essere oggetto di studio.
Aveva deciso, tempo addietro, che avrebbe permesso al dottore di interpretare
come voleva la sua relazione con il singolare John Watson.
La
prima pagina crepitò quando Sherlock fece scivolare un palmo riverente lungo la
carta, la mano asciutta, così da non sbavare l’inchiostro. La sua mano indugiò
sulla foto in copertina, l’immagine rubata di un John incredibilmente
vulnerabile dopo un intervento che gli aveva appena salvato la vita. In bianco
e nero, sfortunatamente; cosa non avrebbe fatto Sherlock per una versione a
colori.
John
appariva orribile, oggettivamente, ma Sherlock trovava quella fotografia
bellissima.
La
ferita che Sherlock aveva aperto in lui era suturata e ancora fresca sotto le
bende attorno alla cintola, e la sua figura minuta sembrava imbottita di tubi. Aveva
una sacca per le urine appesa inelegantemente fuori dal suo corpo, dopo che
Sherlock aveva danneggiato a tal punto le sue budella. Se non fosse stato per
tutta questa tecnologia, John si sarebbe trovato su un tavolo d’autopsia come
tutti gli altri. Tecnicamente, Sherlock lo aveva ucciso, eppure lui era ancora
lì, vivo.
Era
meraviglioso.
Le
sue dita danzarono sopra la fotografia, passando sullo stomaco, il petto e
infine, delicatamente, sopra i puntini grigi che costituivano il collo di John
Watson. Si avvicinò sempre di più finché il suo naso toccò la carta, l’immagine
a malapena a fuoco, e non si mosse più per ore.
***
Cinque
anni dopo, Sherlock Holmes si guadagnò un fan.
***
“Cosa
c’è, Greg?” chiese John. Aveva aperto la porta con le maniche della sua camicia
blu arrotolate, ora i suoi capelli soffici avevano delle striature grigie e c’era
forse qualche ruga in più di quante Greg ricordasse. Nonostante ciò, sembrava
più sano che mai. Dimettersi dalla polizia gli aveva fatto benissimo.
“Sembri
molto più in forma,” disse Greg davanti a una tazza di tè nella cucina di John.
John
picchiettò le dita contro la sua tazza, lo sguardo abbassato. “Mi sento molto
meglio,” ammise. “Immagino che si tratti di una specie di processo inverso.”
Nonostante la sua apparente allegria, sembrava stare in guardia. Aveva già
sospettato il motivo per cui Greg era lì.
“Come
sta Sarah?” chiese Greg in un vano tentativo di fare sentire John a suo agio.
Era la domanda sbagliata. John rispose squadrando Greg con un’occhiata che
conteneva più pietà che disprezzo, prima di prendere con calma un sorso del suo
tè e guardare fuori dalla finestra.
Avrebbero
dovuto tenersi in contatto.
“So
perché sei qui,” disse John piano. “Leggo i giornali.”
Greg
decise di lasciar perdere i convenevoli. “Cosa sai?”
“Due
donne uccise nelle loro case, due mesi fa. La prima qui a Londra, l’altra a
Guildford, nel Surrey.” John bevve un altro sorso di tè. “Le circostanze della
morte erano simili.”
“Non
simili,” lo corresse Greg. “Le stesse.”
John
gli lanciò un’occhiata, incapace di trattenere la curiosità. “Mi sono perso
qualcosa?”
Greg
scosse la testa. “Stiamo tenendo i media all’oscuro di alcuni dettagli. Non
abbiamo nemmeno detto loro che gli omicidi sono collegati tra loro.”
“Quindi
c’è una connessione definitiva?” chiese John corrugando la fronte. I loro
rispettivi tè si stavano raffreddando su un lato del tavolo, dimenticati.
Greg
strinse le labbra e si sforzò di incontrare lo sguardo interrogativo di John.
“Le vittime,” disse lentamente, “avevano delle parti del corpo mancanti.”
L’espressione
di John cambiò da incuriosita a inorridita in un secondo. “È impossibile,”
disse, gli occhi sgranati e le mani serrate attorno al bordo del tavolo. “È
rinchiuso, io so che è –”
Aveva
controllato più spesso di quanto probabilmente avrebbe fatto una persona sana.
“È
un emulatore, John,” lo rassicurò Greg, e John annuì, arrossendo. “Ma posso
dirti che le vittime sono state uccise esattamente negli stessi giorni in cui
Holmes ha ucciso le sue, con gli stessi organi rimossi. Questo suggerisce che
il killer abbia conoscenze che vanno oltre le informazioni che abbiamo
divulgato sui giornali.”
“Un
emulatore molto ben informato,” disse John debolmente e srotolò le maniche a
coprirsi i polsi come se avesse freddo. “È altrettanto bravo chirurgicamente?”
“No,”
disse John, parlando mentre estraeva copie dei fascicoli dalla sua borsa. “Ma è
migliorato con la seconda vittima. I tagli erano ancora visibilmente fatti da
un principiante, ma sapeva quello che c’era da fare, come se stesse seguendo
istruzioni.”
John
distolse lo sguardo, per un momento le sue palpebre si irrigidirono. “Una buona
conoscenza di Google,” mormorò.
“Cosa?”
chiese Greg, ma John agitò la mano per farlo continuare, e Greg ubbidì.
“Abbiamo la misure delle sue scarpe, un 43, e sappiamo che è un abile
scassinatore.”
John
impallidì un poco, massaggiandosi un lato della fronte. “Perché? Chiese dopo
una pausa prolungata. “Perché copiare gli omicidi di Sherlock così accuratamente?”
“Non
lo so,” disse Greg con tatto, spingendo i fascicoli verso John. “Sei tu quello
con l’istinto emotivo.”
John
rise silenziosamente, poi espirò e si pizzicò la radice del naso. “Non è così
che funziona.” Si appoggiò allo schienale sospirando stancamente. “Non voglio
farmi coinvolgere.”
Greg
lo fissò, infine annuì e si riappropriò controvoglia dei fascicoli. “Capisco.”
John
appariva molto più piccolo adesso, l’aria quasi spensierata che aveva quando
Greg era arrivato era completamente evaporata. Trascinò più vicino la sua tazza
e se la portò con attenzione alle labbra, ma poi la posò nuovamente senza aver
preso un solo sorso. Era ormai freddo.
“Senti,
John, dobbiamo vederci ogni tanto,” disse Greg, cercando goffamente ti spingere
i fascicoli dentro la sua borsa mentre John lo guardava con occhi tristi. “Puoi
venire qualche volta e cenare con me e mia moglie.”
Era
un gesto privo di significato. Ora John avrebbe annuito, ma poi non avrebbe più
telefonato, e Greg non avrebbe dato inizio a nessuna conversazione. Era solo
una promessa fatta per mitigare il senso di colpa di Greg, così che potesse
dire a se stesso di aver fatto qualcosa dopo essere andato a casa di John e
avergli fatto rivivere l’esperienza che lo aveva spezzato.
John
lo scortò fino alla porta. C’era una collezione di cartoline di compleanno sul
camino in entrata, e Lestrade si bloccò quando le vide. Un’altra cosa che aveva
dimenticato.
L’espressione
di John era gentile. “È tutto okay, Greg.”
“No,
John,” sospirò Greg. Abbassò la testa. “Sono un amico di merda, lo sai.”
“Lo
so,” disse John pacatamente, armeggiando con le cartoline. Le sue mani si
soffermarono sopra a una blu, le labbra serrate. Si voltò verso Greg. “Ci darò
un’occhiata.”
“Davvero?”
esclamò Greg, rovistando nella borsa alla ricerca delle carte.
“Sì.”
John protese le mani e li prese, lisciando le copertine. “Ho solo bisogno di
essere nella giusta predisposizione mentale.”
***
Greg
rimase con lui in salotto, in silenzio, mentre John leggeva la documentazione
delle prove. Sedeva raggomitolato sul divano, i piedi sotto di sé, con le carte
sparpagliate in grembo, domandando solo occasionalmente chiarimenti a Greg. Ma
anche dopo ciò, sembrava perso. Non aveva nuove idee.
“Come
hai capito che era stato Holmes?” iniziò Greg, dopo che John aveva di nuovo
assunto un’aria sconfitta.
“Non
l’ho fatto,” disse John, assente. Poi alzò gli occhi. “Voglio dire, avevo un
sospetto, quando ti ho telefonato. Ma sai, probabilmente non avrei fatto nulla
se non mi avesse attaccato.” John si corrucciò e guardò qualcosa oltre la
spalla di Greg. “Crede che sia più intelligente di quanto effettivamente sia.”
Greg
annuì pensieroso, e gli occhi di John si strinsero.
“Cosa?”
“Forse…”
iniziò Greg, torcendosi le mani. “Forse è una risorsa che potremmo usare.”
John
ammiccò rapidamente, completamente frastornato. “Stai scherzando, vero?”
chiese.
“È
bravo in questo genere di cose,” protestò Greg. “Mi ha aiutato a risolvere
tutti i crimini prima di essere imprigionato.”
L’espressione
di John si incupì. “Parlagli tu,” ribatté, rimescolando i fogli per ricomporre
i fascicoli.
“Non
parlerà con me. Non vuole parlare con nessuno.”
Un
muto nessuno tranne te aleggiò
nell’aria. John si alzò velocemente e Greg si affrettò a fare lo stesso.
“Serviva tutto a questo?” domandò John, quasi incredulo. “Una scusa prolissa
per farmi parlare con la tua macchina risolvi-crimini?”
“Non
devi farlo per forza.” Avvertiva un’irritante punta di senso di colpa guardando
l’espressione contorta di John. “Se ci fosse la possibilità che parlasse con
me, lo farei. Ma non c’è, e il prossimo omicidio è programmato tra quattro
giorni e sono a corto di opzioni. Ti fidi di me?”
“Certo,”
disse John, in un impeto di onestà. “Mi hai salvato la vita.”
Greg
annuì, tentando di nascondere la sua sorpresa alla veemente risposta di John.
“Allora
fidati quando dico che se esistesse un’altra soluzione non te l’avrei
proposto.”
Gli
occhi di John brillarono e lui batté le palpebre, si inumidì le labbra, e le
sue braccia ricaddero lungo i fianchi. Stava ancora reggendo le cartelle dei
casi. Greg capì che stava trattenendo il respiro mentre i secondi passavano.
“Va
bene,” disse infine John con voce rotta. “Lo farò.”
***
Dopo
un viaggio di un’ora in treno verso il Berkshire, John si ritrovò nell’ufficio
ben decorato del Capo del Personale, seduto di fronte allo stesso. Strisciò la
sedia a disagio, il suo sorriso educato svanì quando il dottor Culverton Smith
raccontò il passato di Sherlock all’istituto. Era un uomo piccolo e untuoso.
John avvertì immediatamente avversione per lui, ma mantenne i suoi gesti il più
neutri possibile.
“Ricordo
di essere stato emozionato quando entrò qui per la prima volta,” sospirò
Culverton. “Non ero mai stato in grado di studiare qualcuno come lui prima. Ma
è semplicemente impenetrabile da ogni test.”
“Anche
lui è uno psichiatra, dottore,” puntualizzò John. “Probabilmente conosce già i
test.”
“Sì,”
mormorò Culverton, massaggiandosi la mandibola mentre guardava John. “Li
conosce. È questo il problema, vede, è troppo sofisticato per delle vere
indagini. E mi odia, ovviamente.” Culverton guardò cupamente la cartella di
Sherlock che era abbandonata sul tavolo. “Sottolinea di continuo quanto mi
trovi inutile.” Alzò lo sguardo su John. “Ma, è lui quello con la camicia di forza, mh?”
L’autocontrollo
di John stava iniziando a vacillare.
“Ora,
la sua visita è qualcosa di molto
emozionante, davvero,” disse Culverton. “Di certo non si è dimenticato di voi.”
“L’ho
notato,” disse John, con attenta calma.
“Sono
molto interessato a qualunque effetto lei potrebbe avere sul suo carattere.”
Culverton allacciò le dita tra loro e si protese verso John come un
cospiratore. “Vede, sto scrivendo un libro –”
“Cerco
di non pensare al carattere di Sherlock Holmes, dottore,” lo interruppe John
con un sorriso tirato. “Ma mi piacerebbe tornare a casa prima di mezzanotte, e
non vedo come tutto ciò possa essermi utile nella mia investigazione.”
Culverton
si riappoggiò allo schienale, la sua espressione divenne acida. “Ciò che
vorrebbe sapere prima di incontrarlo è che a Sherlock Holmes non importa nulla
al di fuori del proprio divertimento.” Iniziò a sfogliare i fascicoli. “Una
volta, ha lamentato un dolore al petto, così lo abbiamo mandato a fare un
elettrocardiogramma. Stava sdraiato lì, il battito sul monitor mostrava settantadue,
e lui afferrò l’infermiera, e le fece
questo alla faccia.” Una fotografia fu lanciata attraverso il tavolo e una
nausea istintiva strinse lo stomaco di John. Culverton osservò la sua reazione
stranamente soddisfatto mentre scivolava indietro. “Per tutto il tempo, il suo
polso non è andato oltre gli ottantacinque.”
John
deglutì. Si sentiva sudato sotto i vestiti. Le palpebre di Culverton si
abbassarono.
“Mi
segua, signor Watson.”
John
fu condotto attraverso vari corridoi, sentendosi sempre più intrappolato a ogni
cancello d’acciaio che si chiudeva con un clangore. Culverton incedeva davanti
a lui con passi corti ma veloci, parlando a voce alta mentre camminavano.
“Il
signor Holmes si troverà nella sua stanza quando vi incontrerete. È l’unico
posto in cui non è completamente immobilizzato e perciò il posto in cui ha più
libertà di movimento. C’è una piattaforma scorrevole così che potrete passargli
alcune cose, ma solo carta morbida. Non gli passi una penna, ha del carboncino
per scrivere nella sua stanza.”
Entrarono
in un’area ancora più inquietante. John si guardò attorno. Poteva sentire i
rumori lontani dell’ospedale, metallo che sbatteva, ronzii striduli e voci
rauche. Massicci inservienti pattugliavano i corridoi e alcuni avevano una
mazza, altri pistole di tranquillanti. Guardarono John con interesse,
passandogli accanto.
Nell’anticamera,
Culverton richiamò un membro del personale, il quale stava guardando i monitor
delle celle.
“Dimmock!”
abbaiò.
“Sì
signore?” disse Dimmock, ruotando sulla sua sedia girevole con gli occhi
sgranati.
“Lascia
uscire il signor Watson quando avrà finito.” E con un’ultima occhiata a John, la
bassa figura di Culverton sparì in fondo al corridoio.
John
si rivolse a Dimmock e si presentarono. “Sarà al sicuro,” disse Dimmock con un
sorriso accennato, forse percependo la tensione di John. Gesticolò verso uno
dei monitor che mostrava una sedia posta fuori da una cella. “Sarò qui a
guardare.”
***
John
desiderò di aver indossato le sue scarpe da ginnastica non appena le suole
delle sue scarpe eleganti echeggiarono nettamente nel corridoio. Udì un
brontolio dai detenuti lungo la fila di celle alla sua sinistra, ma mantenne
gli occhi fissi sulla sedia solitaria di fronte a lui e si affrettò a
raggiungerla, ma non così veloce da far trapelare panico.
Sherlock
Holmes, avevano detto a John, si trovava in una speciale cella in fondo.
Al
posto delle sbarre, la parte anteriore era fatta di vetro con buchi per l’aria.
Apparentemente, nella sua vecchia cella Sherlock aveva la cattiva abitudine di
afferrare il personale attraverso gli spazi tra le sbarre e morderlo, così
questa era stata progettata per impedirgli il contatto. Come aveva detto
Culverton, c’era una scatola scorrevole vicino all’estremità, così che cose
come cibo e giornali potessero essergli passati. Era tutto incredibilmente
sicuro, ma l’assenza di una chiara barriera rendeva John nervoso. Da certe
angolazioni la cella sembrava non avere nessuna facciata.
Sherlock
stava disteso immobile sulla sua cuccetta, la sua testa in direzione della parte
anteriore della cella, senza muovere nemmeno un dito quando John si fu seduto
sulla sedia e ed ebbe posato il fascicolo del caso sulle ginocchia. Qualcosa
che avrebbe suscitato la curiosità di Sherlock.
“Suppongo
che Lestrade pensi di essere molto intelligente.” Sherlock sembrava divertito.
I suoi occhi erano ancora chiusi. “Mandare te, questo indento. Dimmi, è vero
che hanno messo Gregson davanti a lui come Ispettore Capo?”
“È
così,” disse John piano.
Sherlock
rimuginò su quell’ultimo frammento d’informazione, poi emise un lungo respiro.
“Peccato. Era così ambizioso, da giovane,” rifletté. “E quindi, eccoti qui.”
Non lasciarlo entrare
nella tua testa, ricordò fermamente John a se stesso,
mordendosi il labbro senza rispondere.
Sulla
sua cuccetta, la figura snella, vestita di bianco di Sherlock si alzò e si
stiracchiò ampollosamente come un gatto, prima di posare i piedi a terra e
procedere verso il vetro. Appariva oltremodo in forma per essere un uomo
costretto all’immobilità tutto il giorno, con quasi nessuno spazio per
muoversi, ma forse lo avevano tenuto in esercizio. O forse Sherlock si era semplicemente allenato usando il peso del
proprio corpo. Gli era sempre piaciuto mantenersi in buono stato.
Gli
occhi di Sherlock brillarono quando videro John, ancora tutto intero, la sua
prima vera visione di quell’uomo dalla turbolenta fine della loro ultima
collaborazione. Si appoggiò con casuale eleganza al vetro della cella, in modo
da poter squadrare John dall’alto in basso come una specie di dessert. Il quale,
probabilmente, lo era davvero, nella mente contorta di Sherlock.
John
mantenne la testa alta e ricambiò lo sguardo.
“Perché
non porti quell’apparentemente scomoda sedia un po’ più vicino?” suggerì
Sherlock.
“Sto
bene dove sono, grazie,” rispose John.
“Mi
piace il tuo completo.” Sherlock sbirciò da un po’ più vicino, indugiando sulla
gola di John. “Camicia, pantaloni ben coordinati e un cardigan di morbida lana.
Sembri quasi inoffensivo.” Il suo sguardo ricadde sulle scarpe di John. “Scarpe
stravaganti. Ti ho sentito ticchettare lungo il corridoio. È un appuntamento,
John?”
John
sostenne a fatica lo sguardo di Sherlock, ammiccando in fretta come se gli
bruciassero gli occhi.
“Sei
invecchiato a mala pena,” disse Sherlock pacatamente, inclinando la testa.
“Sono così felice che tu sia venuto a vedermi. Per lo più vengono a farmi
visita psicologi di second’ordine addestrati in università scadenti. Ottusi,
idioti dilettanti, la maggior parte di loro.”
“O
il dottor Smith,” aggiunse John, e Sherlock soffocò una risata.
“Non
è repellente? Nient’altro che la caricatura di uno psichiatra alla ricerca
disperata di una reazione come un maiale che annusa alla ricerca di tartufi.”
Sherlock strinse gli occhi, non meno taglienti di quanto dovevano essere stati
quando era stato rinchiuso per la prima volta. Era addirittura più
onniveggente. “Ti ha mostrato la foto dell’infermiera Leighton?”
John
inclinò la testa, sentendosi male al ricordo. Sherlock rise.
“La
mostra a chiunque. Ama raccontare quella storia. Lo fa sentire importante.”
“Non
è lui quello che le ha strappato la faccia a morsi,” scattò John, le sue mani
strette a pungo.
Sherlock
sorrise, ma non rispose. Inspirò profondamente, sollevando il petto, e chiuse
gli occhi. “Il tuo odore è delizioso sotto a quello dello shampoo economico,
John. Dimmi, hai ricevuto le mie cartoline di compleanno?”
“Le
ho ricevute,” disse John, la voce stretta in gola. “Non c’è bisogno che
continui a mandarmele.” Iniziava ad agitarsi. Gli faceva male il petto quando
respirava ed gli risultava difficile rimanere calmo con Sherlock che incombeva
su di lui da una gabbia di vetro. Non voleva che Sherlock sapesse quanto fosse
nervoso, ma dal modo in cui Sherlock lo guardava, John sospettava che leggesse
ogni sua mossa come un libro.
“I
tuoi palmi sono più soffici, ma hai un callo sulla falangetta del tuo dito
medio sinistro,” disse Sherlock, affascinato, i suoi occhi fissi sulle dita di
John avvinghiate attorno fascicolo del caso. “Sei uno scrittore, ultimamente,
al contrario, le mani allungate sono per i dattilografi.”
John
strinse il fascicolo e gli occhi di Sherlock guizzarono sopra di esso. “Voglio
che tu mi aiuti con un caso.”
Un
sorriso compiaciuto si allargò sul volto di Sherlock. “Ah,” disse, la sua voce
era un brontolio soddisfatto. “Già. Il tributo al mio atto.”
John
era sorpreso. “Sai già del collegamento?”
“Non
essere stupido, John. Certo che lo so.” Sherlock si spinse via dal vetro e
iniziò a camminare; le mani sotto al mento. “Avevo i miei sospetti dopo la
scoperta del primo corpo. Il secondo li ha confermati.” Si bloccò e fissò John.
“Vuoi sapere perché sta scegliendo loro.”
John
annuì. “Pensavo che avresti avuto qualche idea.”
Sherlock
inclinò la testa di lato. “E perché dovrei dirtelo?”
“Potrei
parlare al dottor Smith riguardo al ridarti tutti i privilegi che potresti aver
perso,” offrì John. Sherlock sollevò un sopracciglio, e John si protese. “Ti
lascerò seguire questo caso e quando sarà finita potrei mandartene alcuni di
irrisolti per darti la possibilità di risolverli.”
“Noioso,”
sospirò Sherlock, ruotando la testa all’indietro. I suoi capelli scuri gli
scoprirono la fronte e John poté scorgere la pallida forma del suo profilo
spigoloso.
“C’è
qualcos’altro,” aggiunse John, come ripensamento. Lo sguardo di Sherlock si
fissò su di lui. “Facendo questo, potrai scoprire se sei più intelligente della
persona che stiamo cercando.”
Sherlock
lo spianò con il suo sguardo indagatore. “Usando questa logica, tu credi di
essere più intelligente di me.”
John
scosse la testa, appianando gli angoli del fascicolo con gli occhi bassi. “No,”
disse sinceramente. “So di non esserlo.”
Sherlock
si appoggiò nuovamente al vetro, scrutandolo intensamente. “Per quanto sia
lusinghiero sentirti dire queste cose, John, non credere di potermi persuadere a
farti favori appellandoti alla mia vanità intellettuale.”
“Inizio
a dubitare di poterti persuadere del tutto,” disse John. Sherlock ricambiò lo
sguardo e John si arrovellò inutilmente il cervello. “E se ti raccontassi delle
vittime –”
“Io
non le conosco,” lo interruppe
Sherlock. “Perché dovrebbe importarmi della loro morte? Perché tutti pensano
che mi dovrebbe importare del fato di persone che potrebbero anche non
esistere, per quanto mi riguarda?” Si immobilizzò, bloccandosi a metà delle
proteste, la postura rigida come se gli fosse appena accaduto qualcosa di
spiacevole. John lo guardò confuso quando Sherlock iniziò a camminare.
“Vittime…” ripeté Sherlock, toccandosi le dita con le labbra. Si fermò e si
voltò a fronteggiare John. “Devo chiedertelo,” disse. “Hai considerato il
finale del gioco di questo killer?”
John
allungò la schiena, insicuro. “Finirà quando lo avremo catturato?”
“Se,” lo corresse Sherlock e il suo
sguardo distante tornò a scrutarlo. “Potreste non riuscirci. E, ovviamente,
ricordi come si è concluso il mio gioco.”
La
realizzazione si fece strada in John come un coltello attraverso le sue soffici
interiora quando colse ciò che Sherlock stava suggerendo. “Credi che il killer
verrà a cercarmi?” esclamò.
“Finire
ciò che ho iniziato…” rifletté Sherlock contro le sue dita. “Interessante.”
John
si alzò, provocando un raschiare rumoroso quando la sedia strisciò sopra al
calcestruzzo. Si voltò per andarsene e Sherlock lo guardò, gli occhi
spalancati.
“Aspetta!”
Sherlock andò verso la scatola scorrevole e la spinse verso il lato di John con
fragore. “Passalo,” ordinò. “Fammi dare un’occhiata e ti dirò cosa ne penso.”
C’era
qualcosa che lo agitava. John si fermò, girato a metà, a guardò il volto
speranzoso di Sherlock. Non voleva trovarsi lì. Avrebbe preferito essere da
qualsiasi altra parte, ma aveva un lavoro da fare. “Devi restituirmelo,” disse
e Sherlock ruotò gli occhi e annuì.
“Sì.
Ovvio. Ora dammelo.”
John
si avvicinò alla cella, tenendo gli occhi fissi su Sherlock. Erano a meno di un
metro di distanza, per la prima volta dopo cinque anni, separati soltanto da
una lastra di vetro che avrebbe potuto anche non esserci per la sensazione di
sicurezza che dava a John. Posizionò il fascicolo nella scatole, conscio
dell’occhiata affamata di Sherlock lungo il suo collo.
“Magnifico,”
disse Sherlock piano, quasi troppo silenziosamente per le orecchie di John.
John
indietreggiò, studiando cautamente Sherlock attraverso il vetro. Sherlock fece
scivolare la scatola all’interno della cella e prese il fascicolo, sfogliandolo
con le sue agili dita. Passeggiava mentre leggeva, le sopracciglia aggrottate.
John
si sentiva più a suo agio quando si trovava fuori dalla sua linea di attenzione
tagliente come un rasoio. “Vuoi un po’ di privacy?” chiese, e Sherlock lo
guardò per un breve istante.
“Al
contrario,” disse, accennando alla sedia. “Siediti. La tua presenza fa
meraviglie ai miei processi mentali.”
Leggermente
frastornato, John si sedette obbediente, rimuginando su come commentare
esattamente mentre Sherlock analizzava ogni più piccola parte del fascicolo del
caso come un computer. “Ha preso alcune parti del corpo come hai fatto tu,”
disse John mentre Sherlock sfogliava spassionatamente le fotografie. “Infatti,
i casi erano fin troppo simili per un normale emulatore. Ha avuto delle
informazioni.” Sherlock non diede segno di averlo sentito e dopo qualche minuto
John parlò di nuovo. “Credi che anche lui le mangi?”
“Shhh,”
brontolò Sherlock. “Parlare non è necessario.” E fece rimare John seduto in
silenzio per quasi un’ora.
***
“Mi
piacerebbe parlare delle vittime,” disse Sherlock, facendo sussultare John dal
punto dove era sprofondato sulla scomoda sedia.
“Oh?”
rispose John, sedendosi dritto. Allungò la schiena e controllò l’orologio.
“Credevo che non ti importasse delle –“
“Non
delle loro speranze e dei loro sogni e delle famiglie senza volto in lutto, o
altro,” lo derise Sherlock. Era rimasto in piedi o aveva camminato durante
tutto il tempo, muovendosi così attivamente mentre rifletteva. “Pensare a loro
come oggetti inanimati. Voglio parlare del loro significato, in particolare in
confronto con le mie.”
“Beh…”
iniziò John, la mente vuota. Aggrottò la fronte. “Sono più giovani. E sta
prendendo donne, mentre tu uccidevi uomini.”
“Guardale,
John!” esclamò Sherlock, sventolando una foto della prima vittima che era stata
fornita dalle famiglie. “Sono giovani. Sono bellissime.
Sta uccidendo ciò che brama, ciò che desidera.
Probabilmente molesta i loro corpi senza vita, anche se non sarebbe così
stupido da togliersi i guanti. Mentre io,”
fece una pausa, le labbra si contrassero agli angoli. “Io ho buon gusto.”
“Hai
detto di aver ucciso degli stupidi senza speranza,” fece notare John.
Sherlock
si pulì i denti con l’indice e gli sorrise.
John
inghiottì. “Ascolta, è tutto molto interessante, ma ho bisogno di qualcosa di
pratico.”
“Queste
ragazze non hanno molta conoscenza di computer,” osservò Sherlock, muovendo le
dita.
“Sherlock…”
Sherlock
richiuse seccamente il fascicolo. Lo gettò nella scatola scorrevole e la
rimandò indietro con violenza. John indietreggiò. “Le ragazze sono irrilevanti
per il suo messaggio. Sta solo prendendo qualcosa che desidera mentre porta a
compimento il suo reale scopo.”
John
ammiccò, si alzò in piedi. “L’imitazione è un messaggio?”
“Dei
più basilari,” rispose Sherlock, senza nessun’altra spiegazione. “Ti sei
chiesto come facesse a sapere che sarebbero state da sole nei loro
appartamenti, al momento in cui aveva pianificato di ucciderle? Sole in un
preciso giorno?”
“Giusto,
perché non c’è motivo di ucciderle in un giorno diverso dal tuo,” disse John,
annuendo. “Non ne sono sicuro. Probabilmente va a caso.”
“Che
pensiero originale,” osserva Sherlock seccamente, concedendo finalmente riposo
ai muscoli delle gambe e rotolando sul letto. Appariva abbastanza rilassato,
mentre John era tutto dolorante sulla sedia di plastica.
Raccolse
i fogli, tenendo d’occhio la figura allungata di Sherlock. “È tutto qui ciò che
hai scoperto?”
“Per
adesso,” disse Sherlock. “Credo di averti dato un sacco d’indizi per iniziare.
Se mi verranno altre idee te lo farò sapere.” La sua espressione sembrò
diventare più tagliente e mostrò un sorriso veloce. “Magari un numero di
telefono, cosicché possa contattarti direttamente.”
John
sentì stringerglisi lo stomaco. Incontrò lo sguardo di Sherlock. “Vorrei che tu
fossi sincero con me, adesso.”
Sherlock
rise. “Non ti dirò niente di più preciso, John. E, per carità, sappiamo quanto
il tuo cervello abbia bisogno di esercizio dopo la sua pausa forzata.” Sibilò la parola. “Porta più prove appena le
trovi.”
“Credi
che tornerò?” domandò John.
“Certamente.”
Sherlock lo disse con semplicità, come se potesse chiedere a John di fare
qualunque cosa volesse. “Se non fosse per te non sarei interessato.”
John
si sentì in trappola, una sensazione crescente si faceva strada nel suo petto e
un pensiero continuava a ripresentarsi, ancora e ancora. “Perché?”
“Consideralo
il mio pagamento.” Sherlock ruotò pigramente la testa di lato, scavando nelle
coperte con la punta dei piedi come un gatto. “Non prenderò nient’altro da te,
John. Voglio solo la tua compagnia mentre lavoro su questo. Ho sentito
dolorosamente la mancanza del tuo viso durante gli ultimi cinque anni.”
“Non
posso dire che il sentimento sia reciproco,” disse John piano. Vide Sherlock
sorridere.
“Mi
piaci, John,” disse, gli occhi chiusi. “Non provi ad analizzarmi.”
“L’unica
persona in grado di analizzarti sei tu stesso,” replicò John, e con ciò si
allontanò sulle sue scarpe troppo rumorose.