Il destino dei Re

di Luna_R
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Olimpia non è la mia casa ***
Capitolo 3: *** Odore di perdizione ***
Capitolo 4: *** Proteggere. Governare. Difendere. ***
Capitolo 5: *** Il sangue chiama sangue ***
Capitolo 6: *** Le tre doti del sovrano ***
Capitolo 7: *** Caccia alle streghe ***
Capitolo 8: *** Vi ucciderò uno ad uno ***
Capitolo 9: *** Me lene eskià ***
Capitolo 10: *** Ninfa ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Il destino dei Re.

 

 

Tempo fa ho scritto della leggenda di Ippodamia e di Pelope, un mito greco facilmente reperibile sul web e che io ho raccontato con parole mie qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1232239

Questo è il seguito per così dire sui fatti accaduti successivamente nel mito e nella mia testa fantasiosa.

Spero vi piaccia.

Saluti.

Lunadreamy.

 

Prologo.

 

Era una notte buia e tempestosa, gelida e dal sapore amaro.

Non vi erano più lacrime da far scorrere, ne rimorsi, ne rimpianti.

I cavalli trottavano a rilento, stanchi e carichi di un peso a loro non percepibile.

Il dolore dell’anima. Che a volte stringe come una morsa d’acciaio anche il cuore più duro.

Non si scampa e si resta in attesa.

Del perdono che verrà.

E verrà.

(?)

 

Arrivò una folata di vento invece, tanto forte da smuovere le montagne.

Il sangue ancora caldo di Mirtilo bagnava la terra e la vendetta di Zeus non si era attardata oltre.

Si strinsero forte alle redini dei bai, serrati ai fianchi con le gambe tanto strette da sentir male.

Ma non c’era resistenza opportuna per quella furia. Si trovarono a sorvolare il cielo in un turbinio di foglie e terra…

 

“Dove siamo?!”

“All’inferno.”

 

L’inferno aveva un nome; Eubea, isola persa nel mare Egeo.

 

Toccarono terra increduli di essere ancora vivi. Erano stati spazzati lontano, molto lontano da Olimpia.

 

Fine prologo.

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Capitolo 2
*** Olimpia non è la mia casa ***


Il destino dei Re.

 

Se è vero che il destino è scritto, chi perirà per mano di chi?!

 

“Olimpia non è la mia casa”. Capitolo primo.

 

Olimpia affacciò al giorno il suo sole migliore.

Le Olimpiadi si erano concluse da una notte eppure le strade erano ancora piene di gente al bivacco.

 

Melibea di Tebe aveva sancito la vittoria.

Una donna.

E nipote di Pelope futuro Re di Pisa.

 

E vittima delle persecuzioni degli Dei in quanto figlia di Niobe, appartenente alla stirpe di Tantalo il truce, il maledetto dagli Dei; la povera madre della giovane in un impeto di superbia aveva poi rincarato la dose di sfortuna vantandosi durante i festeggiamenti in nome della Dea Latona dei setti bellissimi figli procreati, proclamandosi superiore alla Dea, sulla base dei soli due figli da lei generati.

Due figli sì, di nome Apollo e Artemide.

E che Latona istigò contro la donna sciocca che aveva osato offenderla pubblicamente e ai quali ordinò di ucciderle senza pietà i figli.

I sette bellissimi figli.

Di questi si salvò solo Melibea appunto, che ebbe l’arguzia di recitare una preghiera di clemenza alla Dea in punto di morte e motivo per il quale le fu invece risparmiata la vita.

 

Di tutte le vittorie questa parse la più mesta. Donna e persino dannata.

 

*

Ippodamia dal talamo nuziale, non riusciva a prender sonno. I pensieri e le risate sguaiate dei vecchi ubriachi la tormentavano.

Pensava ossessivamente a Melibea. Che fosse l’ennesimo scacco che il Grande Zeus tirava contro ella e il suo sposo?!

La notte aveva sfilato sulla sua tenda ombre oscure, grandi mani nere a volerla stringere in una morsa mortale.

Si era svegliata imperlata di sudore in viso e con il respiro affannato si era portata fuori all’aria aperta.

Grandi passi sullo sterrato che divideva la zona sacra –dove era stato eretto un piccolo palazzo dove potesse alloggiare con il suo sposo in vece di madrina delle Olimpiadi- da quella delle gare, la condussero all’altare del padre di tutti gli dei.

Era tesa e irata da tanta malasorte ed anche se sapeva che questo era solo un assaggio della malevolenza che Zeus poteva porgergli addosso, non riusciva a pensare ad altro che non fossero catastrofi e rovine.

 

“Sapevo di trovarti qui.” Pelope l’aveva raggiunta sentendola sgusciare fuori dalle coperte. ”Ti prego alzati, ti affaticherai stando così.”

“Mi chiedo quando finirà.” Mia si sfiorò il ventre, gonfio della seconda gravidanza.

“Quando non avrà più pace se non quella di vederci morti.” Aiutò la moglie ad issarsi, accogliendola fra le sue braccia.

“Non capisco Pelope. Prego la sua misericordia tutti i giorni. Con un alito di vento ci ha spediti all’altro capo della penisola ma con tenacia siamo arrivati sin qui a rendergli il perdono senza remore. Olimpia è diventata grande da quando siamo arrivati e i Giochi stanno prendendo sempre più spazio nella vita politica e sociale della Grecia. Il suo nome è legato ad essi e ogni quattro anni e anche meno, accoliti di persone vengono qui a rendergli onore.” Inspirò, oltre la spalla del suo sposo. “Credo questo sia abbastanza.”

“Non sarà mai abbastanza fin che non vedrà scorrere il mio sangue o il tuo.” Le baciò i capelli prima di allontanarla dal petto per fissarla nei grandi zaffiri che aveva per occhi. Era stanca, il bel volto segnato dalla sofferenza dello spirito e del corpo. Le parole uscirono autoritarie. “Perciò mia signora ti ricondurrò a Pisa, nella tua antica casa, dove partorirai il mio secondo figlio e dove cominceremo la nostra nuova vita.” La baciò guardando lontano, oltre i campi verdi e le colline degradanti. “Il nostro compito qui è terminato. E’ tempo di tornare.”

Mia lo abbracciò forte, in silenzio. Le lacrime che ricadevano dagli occhi come rugiada del mattino; ne avevano passate tante e per tanto tempo erano stati figli della terra di nessuno. Olimpia non era mai stata ostile al loro arrivo, i rozzi abitanti che accampavano le sue terre erano da sempre stati ospitali e di buona lena si erano subito prodigati ad allestire i Giochi insieme a Pelope ed alcuni ingegneri accorsi da città vicine non appena i loro progetti erano divenuti comuni.

La fama e la popolarità di Zeus avevano fatto il resto, benedicendo le gare che vi erano state compiute ad oggi; sciami di persone avevano deciso persino di metter radici trasformando quello che era un accampamento in una vera e propria città favorendo i commerci e l’espansione sempre più vasta nel territorio, una volta simile a una macchia in un foglio bianco.

Erano passati quattro anni e due Olimpiadi. Era stata bene, era stata felice, qui aveva partorito il suo primo figlio, Atreo.

 

Ma Olimpia, la generosa Olimpia, non era la sua casa.

 

*

Pelope nominò fra i saggi custodi dei templi un attendente della città. Questi aveva il compito di mantenere i rapporti con il futuro Re e la sua regina sulle condizioni della città stessa, per via politica e sociale. Si congedarono dai sudditi in un tripudio di grida e inni di felicità; aveva promesso ricchezze e prosperità una volta divenuto Re della città fulcro dell’Elide. La grande Pisa. Il popolo gli credeva, vedeva in lui la forza di un leone e l’arguzia di un Dio. Avevano imparato ad amarlo e venerarlo, con timore e rispetto, attendendo il giorno in cui la corona regale gli avrebbe cinto il capo e le promesse sarebbero divenute fatti.

Soltanto i più diffidenti li seguirono. E un seguito di ancelle, schiavi e armigeri che furono messi a loro servizio; un contingente dell’attendente della corona di Pisa poi non appena ricevuto una pergamena con il sigillo reale in cui si dichiarava il loro immane ritorno, li raggiunse per scortarli sulla via del ritorno.

 

E quello che trovarono lungo il cammino non seppero spiegarlo, da tanto stupore.

Le strade erano state assestate, i solchi delle battaglie di Enomao a cavallo cancellati per sempre dalla memoria triste della città; al loro posto, una effigie impetuosa di lucido marmo bianco, sull’imbocco per la via principale per Pisa, inneggiava con incisioni d’oro sulla lastra, parole in onore e memoria del grande Re di tutti i tempi.

Il Re Enomao.

Mia sussultò alla sua vista; in allineamento alle sue spalle, si stagliava in lontananza l’enorme mole del castello.

Un castello con fattezze diverse, mutato da quando lo avevano lasciato.

Arrestò la lunga fila di persone e fece cenno loro di prestare attenzione a ciò che avevano davanti.

Scese da cavallo per portarsi vicino l’effige; era alta almeno il doppio di lei e di forma rettangolare, imponente come un monito; le sue dita graziose scivolarono nelle lettere grandi delle incisioni e lungo gli intarsi che raccontavano le gesta del padre. Rubini della casa reale ornavano i vessilli del casato, le pietre che da sempre avevano amato e sfoggiato insieme.

Si rabbuiò. Non aveva mai pensato tanto intensamente a suo padre come da allora.

La distanza da Pisa aveva fatto sì che nel suo cuore non si albergasse l’insidiosa e alquanto tediosa mano della colpa.

Non avrebbe mai voluto suo padre morto e la malaugurata sorte lo aveva portato via da questo mondo nel modo più tragico che potesse esistere.

Il grande Enomao, primo del suo nome, Re di Pisa e dell’Elide intera meritava una fine in battaglia e in guerra come gli avi prima di lui erano periti, ma quale diversa morte poteva prospettarsi l’uomo se non quella sul campo della sua “personale” battaglia, al trotto impazzito dei suoi bai e all’eco delle sue urla sanguinarie?!

Mia scosse il capo. Era un uomo testardo ed era morto per la sua testardaggine e ostinazione; in questo doveva ammetterlo, gli somigliava molto.

Aveva voluto a tutti i costi una Olimpiade per riscattarsi dei suoi peccati e l’aveva avuta.

Aveva voluto far sbocciare una città e ci era riuscita.

Aveva voluto l’amore di Pelope e l’aveva avuto.

L’unica cosa che non riusciva ad ottenere era la benevolenza degli Dei. E questa nemmeno la sua testardaggine era riuscita ad agguantarla.

Mi serva come monito, pensò. Mio padre è perito per ostinazione, non morirò della stessa causa. Da oggi in avanti il mio compito sarà quello di governare la mia casa e il mio regno nel migliore dei modi, senza attendere consensi da nessuno. Una regina non attende nessun perdono. Una regina esegue i suoi compiti. Governa, solo questo.

 

Si scostò i capelli dalle spalle e con viso sereno si rivolse al seguito. “Qui si fa la nostra storia. Pisa è il futuro e chi non ha abbastanza fegato per guadagnarselo volti pure le spalle e torni indietro.”

 

Ci fu un boato di urla e fischi, poi la fila così come era apparsa rientrò precisa nei ranghi, sfilando in silenzio lungo la strada che conduceva a Pisa.

 

Fine primo capitolo.

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Capitolo 3
*** Odore di perdizione ***


Il destino dei Re.

 

“Odore di perdizione”. Capitolo secondo

 

Le alte mura torreggiavano verso il cielo terso; due alfieri dal costone di merli li scrutarono ansiosi, sporgendosi dai parapetti.

Da lassù il corteo che i due sposi si portavano dietro doveva fare una certa impressione.

Tutto intorno al castello era stato scavato un fossato nel quale ristagnava una putrida acqua dal colore malsano; Ippodamia sussultò alla vista delle piccole finestrelle a pelo d’acqua dalla quale scarne mani aggrappate alle inferiate fuoriuscivano.

 

“Non abbiamo mai avuto bisogno di segrete.” Si giustificò arrossendo nel notare che Pelope la stava fissando sorridendo.

“E quale pazzo avrebbe sperato di rivedere la luce del giorno dopo aver sfidato l’ira tuo padre?!”

“Tu hai vinto mio signore.” Ippodamia riacquistò il suo accento superbo.

“Noi abbiamo vinto, Ippodamia.”

“Andiamo a prenderci il nostro premio, allora.”

“Come sua Maestà la MIA regina comanda.”

 

Mia rise comandando al suo baio di procedere a passo più svelto; Pelope le tenne il passo, mantenendo il trotto alla medesima velocità, senza indietreggiare o mai distanziare. Erano perfetti, fianco a fianco, in quell’andatura così familiare per loro e per il loro amore; non esistevano rivalità, ripicche, oltraggi d’animo e di parola, Pelope si era rivelato un grande uomo e dal suo canto ella aveva adempiuto ai suoi doveri come una buona moglie doveva fare. Si erano sostenuti nei momenti di sconforto, nelle traversate per mare alla volta di Olimpia e nei momenti di gloria come la nascita dei giochi. Avevano condiviso tutto; gli stenti, la fame, gli onori e la ricchezza ritrovata.

 

Il ponte levatoio fu calato in un assordante cigolio e poi un tonfo finale nel momento in cui aveva toccato terra; sul fianco del castello appena sopra il grande portale fra i solidi mattoni, vi era una fenditura dalla quale si ergevano minacciose picche. Stavolta fu lo stesso Pelope a inorridire dello spettacolo che si stagliava proprio sopra di loro; le teste di donne e uomini senza distinzione erano infilzate nei bastoni, con le punte delle lance a fuoriuscire in alto, nere di catrame per evitare una putrefazione violenta che avrebbe oltraggiato la sete di vendetta di chi aveva compiuto lo scempio e che a quanto pare aveva tutta l’intenzione di veder marcire i cadaveri nel modo più lento possibile.

 

“Che ne hai fatto della tua anima fratello…” Pelope sospirò.

“La guerra rende uomini.” Questo le diceva Agrippina, la cara balia, quando suo padre e Apyos suo comandante, ritornavano dalla guerra e sembravano vegetali vestiti di bronzo tanto la morte era capace di strappar loro l’anima e lei spaventata andava a nascondersi sotto il letto sentendo il rimbombo delle loro voci cupe nelle sale del trono.

Ma quel tempo era passato e si era portato via tutto ciò che era stato.

Si sentiva pronta, qualsiasi cosa si fosse palesato dinnanzi ai suoi occhi non aveva più nulla da temere; lo aveva giurato a suo padre, il suo regno non avrebbe avuto mai fine ed era disposta a tutto pur di mantenere la parola data.

 

*

Oltre il portone, sullo sfondo della piazza principale riconobbe i volti a lei cari; il popolo di Pisa.

Non poteva ricordare le loro facce, non più, ma ogni essere che respirava, che costituiva la rinascita della sua amata casa, rappresentava un bene prezioso ai suoi occhi; e a giudicare dall’affollamento delle strade, dei sorrisi e dei canti anche lei doveva rappresentare un qualcosa di molto importante per la città.

La sua mano volteggiava nell’aria così come aveva fatto tante volte da ragazza prima delle gare, quando sfilava in corteo sulla biga del pretendente in direzione del via; nel suo cuore non vi era più il tumulto e la foga di una giovane piena della consapevolezza della sua beltà, ma la fiamma e il coraggio di una donna fatta e formata.

 

Da lontano, oltre i templi e i porticati dove i mercanti avevano imbandito i loro tavoli con la merce preziosa, sotto i gradoni che conducevano all’entrata principale del palazzo e delle sue stanze regali, intravide un palco nel mezzo del quale si reggeva un trono; un ragazzo dalla folta chioma vi era impiantato con lo scettro serrato nel pugno sinistro e la spada tenuta per l’elsa in orizzontale sulle ginocchia.

 

Era sicura di averlo visto sorridere.

 

“Maestà la prego di accettare questi doni”. Una donna si prostrò dinnanzi le zampe del suo baio innalzando una cesta di succose mele dorate.

“Mele dal mare stretto, le più buone che possiate assaggiare.” La penetrò con occhi color ambra dal taglio esotico. Rabbrividì.

“Quale è il tuo nome donna?!”

Alaya maestà.”

Alaya per quale motivo tu vuoi cedere a me i frutti più buoni che possiedi?!”

“Per omaggiare la vostra grandezza.”

“La omaggeresti di più se li tenessi per te e la tua famiglia.”

“Non possiedo nessuna famiglia maestà.”

La guardò attentamente; il volto era pieno e dello stesso colore degli occhi, le vesti erano modeste ma non sciatte e tralasciavano intravedere una figura florida. “E dimmi come può una donna sola permettersi i frutti pregiati del mare stretto?!”

 

Non le lasciò il tempo di replicare, annuendo con il capo. Nikandrios dì alle schiave di prendere la cesta e porta la ragazza con loro.” Alaya protestò e quando i suoi occhi incontrarono i zaffiri di Mia si morse il labbro sconfitta. “Tienila d’occhio e di alle donne di non toccare nulla di quello che c’è in quella cesta. E’ un ordine.” L’ultima frase la sussurrò nell’orecchio del generale.

 

“Veleno?!”

“I miei occhi hanno visto troppo fino ad ora Pelope.”

“Questa città odora di perdizione difatti.” Mia annuì, se dapprima sorridente la sua sfilata terminò con labbra serrate e l’espressione del volto scura.

 

*

Quando furono al di sotto della piattaforma eretta, il popolo si acquietò.

 

“Sei ancora più bella di quando te ne andasti, sorella.”

Sotto gli occhi della corte che sul palco lo circondava Atreo andò loro incontro, con passo svelto e incerto. Prese la mano di Mia fra le sue e vi posò le labbra umide; la ragazza fece reverenza attenta a non sporgersi troppo in avanti, una guardia le sfilò accanto aiutandola a ridiscendere dal suo destriero.

 

Un Re non deve mai correre incontro a nessuno, pensò notando subito il chitone troppo stretto intorno alla vita lievitata.

 

“E tu molto più regale di quanto ricordassi, fratello.” Si voltò verso Pelope in cerca di un suo assenso; quello li avvicinò cauto, raggiungendo la mano di Mia e serrandola forte.

“Cosa possono fare le stoffe pregiate mia signora.” Allungò il braccio verso le loro mani strette e vi posò lo scettro nel mezzo. “Siete voi i veri signori della città.”

 

Il popolo esultò alla parola signori. “Le stoffe pregiate.. Sua maestà.” Pelope riprese Atreo, poi con voce autoritaria continuò, “ fratello saremmo lieti se tu volessi condurci alle nostre stanze. La nostra regina ha attraversato la Lidia in stato interessante ed ha bisogno di riposare.”

“Come le vostre maestà comandano.” Fece cenno agli attendenti di ritirarsi; quelli li circondarono scortandoli all’interno del palazzo.

 

Camminarono a grappolo, molto lentamente, ed a ogni passo il cuore di Mia tamburellava contento.

Le sale erano come le ricordava, solo più areate, più luminose; l’androne conservava ancora i ciottoli rossi del pavimento e i mosaici alle pareti raffiguranti le gesta dei padri dell’Olimpo. Le colonne erano state levigate e ricostruite da capo con i capitelli sontuosi che tanto amava suo padre. Passarono per il centro verso il cortile con il soffitto a volta dal foro per il quale la luce filtrava timida.

I giardini erano ricchi e curati, il profumo di fiori inondava l’aria; degli uomini sentinella e alcuni giardinieri fecero reverenza al loro passaggio.

 

“Ci sono state molte perdite?!” Mia ruppe il silenzio carezzando il petalo turgido di un giglio. Il fiore dei fiori.

“Più di quante avrei voluto Maestà.” Lo sguardo di Atreo si fece mesto e basso.

“E dove sono finiti tutti?!” Mia tornò rigida, artigliando lo sguardo sul suo volto. Apyos per esempio. Dov’è l’attendente di mio padre?”

“Disperso.”

“E della mia balia, che ne è stato?!”

“Dispersa anche lei.”

 

Mia serrò i pugni tanto forte da graffiare la carne, un leggero tremore le attraversò il corpo costringendola ad asserragliarsi nelle spalle; Pelope le passò la mano lungo la schiena a palmo aperto, guardò il fratello e senza bisogno di dire null’altro quello cominciò a parlare.

 

“Quando feci breccia nel castello la maggior parte di esso non esisteva più. Il fuoco aveva divorato tutto; fiori, animali, persone. Tutto. Un pavimento disseminato di cenere. Resti ecco cosa c’era qui. Non mi è stato difficile trovare la tua balia; quale donna avrebbe fatto da scudo con il proprio corpo una porta all’apparenza insignificante, se non una donna che aveva servito fedelmente la corona e che continuava a servirla proteggendo qualcosa oltre quella porta anche a costo della sua vita?! Ladri d’occasione. Fu una fortuna per me che di spade ne avevo maneggiate assai poco. E quella donna, non appena mi vide una furia diventò. L’ho vista uccidere un uomo con la sola forza delle mani. Poi non ricordo più nulla. E’ caracollata per la strada assieme a un predone e sono spariti nella polvere.” Atreo riprese fiato, gli occhi lucidi guardavano lontano. “Ho forzato quella porta e mi sono nascosto con il tuo tesoro. I miei occhi hanno rivisto la luce dopo giorni infiniti, quando le fiamme non vorticarono più e più nessuna voce si udì. I tuoi occhi non avrebbero sopportato lo strazio che io vidi dopo, perché se bene io non sia nato qui so cosa vuol dire vedere morire la grandezza maestà e mi creda io morii quel giorno insieme alla tua città. Ma rinsavii dal buio delle tenebre pregando e ricordando le parole di fiducia che tu spendesti per me. Trovai il coraggio là dove c’era solo morte e distruzione.” Trattenne il respiro, gli occhi chiusi. “Ho adempiuto ai miei compiti come mia Sorella mi dettò. Ho trovato il tuo tesoro, la gente per ricostruire, ho combattuto il crimine a la corruzione. Ho fatto tutto questo perché TU me lo chiedesti.” Atreo sganciò il medaglione dalla clamide e inginocchiandosi lo allungò ad Ippodamia. Quella balzò alla vista del gioiello; il medaglione del Re Enomao scintillava in tutta la sua eterna bellezza. “Ti rendo ciò che con tanto amore e fiducia tu hai riposto nelle mie mani. Non sono un Re mia Regina ma sono figlio di Tantalo il Truce e so cosa significa essere vili e infami. Io non sono questo. Ho protetto il tuo castello come meglio ho potuto e con saggezza mi ritiro dal mio compito se tu accetti.”

 

Ippodamia non riuscì a trattenersi; si inginocchiò anche ella e lo abbracciò senza timore e vergogna. Piansero a lungo bagnando la terra delle lacrime che negli anni addietro avevano mandato giù per non perire.

 

“Non appena la corona solcherà il mio capo farò di te il nostro primo attendente reale.” Poi si rivolse a tutti, guardie, schiavi, sguattere, attendenti. “Domani al levar del sole la piazza benedirà i nuovi Re e Regina di Pisa.”

 

*

Fu una notte piena di parole.

Pelope, Ippodamia e Atreo aprirono le loro menti nelle sale delle udienze per discutere sul da farsi, nominare un nuovo corpo di guardia, creare un concilio ristretto e soprattutto aggiornarsi sull’attuale salute del regno.

 

“Servono nuove tasse, questo dico. “

“Nuove tasse per nuovi tumulti.”

“Fratello il tesoro regale è ridotto all’osso da quanto si legge su questi conti. I tuoi conti!”

“Non è un castello fatto di cera, Pelope.”

“E’ di soldi che abbiamo bisogno non di velluti e sete. Per quanto mi riguarda questo castello potrebbe esser fatto anche di merda.”

 

Ippodamia battè le mani sul tavolo. “Silenzio! E’ di idee che abbiamo bisogno, non di infantili battibecchi.”

“Hai qualcosa da proporre?!”

“La città è cresciuta. Il numero di persone è triplicato.” Sembrava stesse pensando più che parlando e i due uomini la fissarono perplessi.

“La ricostruzione ha portato un certo numero di manovali, mercanti, contadini.” Atreo sogghignò. “Dove vuoi arrivare?!”

“Dovremmo trarre da loro quanti più benefici possiamo. Ma allo stesso tempo accontentarli.”

“Non ti seguo Mia.”

“Le mura sono ben fatte ma comunque circoscritte, giusto?!” I due annuirono. “Senza contare che siamo alla merce di qualsiasi losco individuo. Ho visto facce poco rassicuranti e baraccamenti troppo disordinati.”

“Gli asiatici non sono facili da trattare Mia. Le teste sulle picche non spaventano tutti.”

“Gli costruiremo un mercato esterno e le nostre porte torneranno ad essere chiuse Atreo. D’ora in poi chi abiterà nelle case dentro le mura ci dovrà versare una tassa, chi vorrà costruirle seguirà i parametri che Pelope ha importato da Olimpia. La precedenza verrà data coloro i quali hanno contribuito anche solo a sistemare un masso di questo castello.” Si girò verso il cognato. “Confido che tu ti sia annotato tutti i nomi dei manovali che hai pagato. I signori di alto lignaggio verranno ospitati nelle sale del castello per il tempo necessario ci vorrà alla nomina e sistemazione nelle loro terre. Dobbiamo intrecciare rapporti con loro se vogliamo mantenere la pace e la calma nel Regno.” Si alzò con fare perentorio afferrando le carte dal tavolo per portarsele al petto. “E fa sparire quelle picche. Portano male.”

“Ma Mia la compassione non fa sì che i ladri si ammansiscano.”

“Spostale allora. Sul tuo caminetto. Nei boschi. Non importa dove! Non voglio morte sulle mura del mio castello.”

“Ti conviene starla a sentire o ci sarà un picca in più per te, fratello!” Pelope rise piegandosi in avanti sul tavolo; Atreo cercò di mantenere una facciata seria ma non riuscì a trattenersi e si lasciò andare anche egli. Mia li guardava soddisfatta.

 

Ce l’avrebbero fatta. Insieme.

Fine secondo capitolo.

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Capitolo 4
*** Proteggere. Governare. Difendere. ***


Il destino dei Re

 

“Proteggere. Governare. Difendere.”. Capitolo terzo

All’alba Pelope baciò le spalle bianche di Ippodamia.

 

“Sei pronta?!”.

Quella si girò lentamente cercando le labbra del suo sposo “Lo sarò mai?!”

“Sei nata per essere Regina, Ippodamia.” Le carezzò una guancia amorevolmente. “Ti ho vista combattere contro il mulinare dei venti, l’ignoranza di rozzi uomini che credevano tu fossi niente ad Olimpia e tu li hai ammansiti come gregge al pascolo. Ti sei fatta benvolere da quella stessa gente che conoscendoti ha iniziato ad amarti. Hai partorito mio figlio sulla bruna terra di un’isola a noi sconosciuta senza emettere un fiato. ed ora eccoti qua, nel grembo un altro figlio, nel tuo letto a Pisa. Dove volevi essere, dove devi essere.”

Mia allargò le braccia e strinse forte l’uomo al petto; lui le alzò la veste e le massaggiò le gambe lunghe e tornite. “Tutto ciò che voglio sei tu. Non mi importa del resto se ci sei.”

“Ci sono. Ci sarò.” La baciò con trasporto, facendo leva sulle braccia per scivolarle addosso delicatamente; la desiderava, la desiderava sopra ogni altra cosa, più del mangiare, del bere e le sue curve piene, il suo ventre ingrossato dalla maternità le conferivano una tenerezza che si trasformava in passione ogni volta che immaginava la sua vita, il suo seme, crescere in lei. Era diventato un uomo, lo aveva reso padre rendendo la sua vita completa, appagata, parte del cerchio chiamato eterno; ogni uomo ambiva all’eternità, guerriero o mercenario che fosse, Re o popolano e di labbra con cui proferir la storia meglio di quelle della progenie per Pelope non vi erano.

Un rumore secco alla porta li portò a distaccarsi; in un attimo Atreo si palesò dinnanzi a loro.

Li guardò trafelato, arrossendo. L’aria sapeva di cose interrotte. “Ho una sorpresa per voi. Non volevo farvi aspettare.”

Pelope fece cenno di svelarsi, Atreo indietreggiò e una minuta figura riccioluta si affacciò alla stanza; Mia emise un risolino di gioia, le mani si aprirono lasciando scivolare le lenzuola di lino dal corpo.

“Mamma!” L’infante con passi corti e precisi si avvicinò al talamo; la donna lo afferrò per le ascelle adagiandoselo sulle gambe, quello cominciò a giocare con i suoi capelli tirandoli come fossero redini. “Mamma dove siamo qui?!”

“Te la ricordi la storia del grande Enomao?”

“Sì. L’uomo che correva con i cavalli!” Si girò guardando lo zio. “Lui mi ha detto che qui ce ne sono tanti e sono tutti miei.”

“Tuoi e del fratellino che sta per nascere.”

“No!” Battè i pugni sulla pancia della donna. “Sono miei! Sono miei!”

Pelope lo afferrò tirandoselo al petto. “Non ci sarà nessun cavallo per il bambino capriccioso.Se lo mise sulle spalle e lo portò fuori che ancora piangeva e si dimenava.

 

“Padre degli Dei! Ha il temperamento di un toro.”

“E il portamento di un Re.” Mia si coprì le nudità una volta rimasta sola con il cognato nella stanza. “E’ un despota prepotente. Una veggente ad Olimpia mi disse che il suo animo è quello di un guerriero.” Rise nervosamente abbandonandosi a qualche ricordo lontano. “Il tempo saprà dirci se è un bene o un male.”

“Certo mia regina. Mi occuperò di farti avere il sostegno per la sua educazione.”

“Per il momento voglio seguirlo io stessa, ma ti ringrazio del pensiero fratello.”

 

“Intanto puoi far venire le serve.” Pelope si palesò sull’uscio con un sorriso vacuo. “Mia moglie deve essere preparata.”

Atreo si inchinò e sparì sulla scia di sandalo e legno.

 

“Lo comandi come se fosse uno schiavo.” La donna lasciò che le vesti scivolassero sul pavimento; nuda si recò danzando alle sale attigue dove erano riposti i beni per la toilette. Dopo poco delle donne silenziose e svelte entrarono nella stanza con dei calderoni bollenti e fumanti; Ippodamia fece cenno di tornare più tardi, chiuse le porte e guardò il marito maliziosamente. “Non dimenticare che ci ha tenuto il trono in caldo.” Lo avvicinò con grazia avvolgendogli le braccia al collo. “Dove eravamo rimasti?!” Sigillò le labbra su quelle del marito prima che quello che si incartasse con parole vuote e inutili.

Era geloso di Atreo. Lo era sempre stato.

 

*

La pedana era la stessa sulla quale il reggente del trono li aveva accolti; un rettangolo rialzato coperto di pesante stoffa rossa. Lo scranno dorato e intarsiato di rubini le gemme del regno, era stato affiancato alle spalle da uno della stessa dimensione più un altro più piccolo rispetto ai due. La famiglia al completo. Il primo attendente avrebbe stagliato la sua figura poche spanne al di sotto del trono svelando in questo gioco di caselle la gerarchia effettiva.

Pelope avrebbe preso posto al centro, come spettava ai Re, d’etichetta; Ippodamia gli portava in dote il regno ma come ogni Regina il suo compito era quello di suggeritore “silenzioso”, quasi un ombra impercettibile del sovrano stesso. Questo la rendeva serena, confidava in lui ogni sorta di aspettativa ed era certa che non ne avrebbe tradita nessuna in alcun modo.

Il primo a sfilare fu Atreo in quanto reggente della città. Avrebbe fatto da portavoce delle nuove leggi e la nomina dei corpi di protezione reale, autoproclamandosi di conseguenza Primo Attendente. Da dietro la cortina di guardie che li circondavano i futuri Re e Regina ascoltavano in silenzio e in trepidazione che fossero fatti i loro nomi; Pelope torturava nervoso la clamide fra le dita, Mia stringeva la manina paffuta di Atreo e sorrideva raccontandogli passo per passo cosa sarebbe accaduto e perché erano lì. Il bambino vantava una vena curiosa piuttosto spiccata, una vivace intelligenza e una lingua pungente notevole.

 

“Il mio papà sarà Re! Il mio papà sarà Re!” Tirava il mantello rosso porpora del padre cercando la sua attenzione, ma quello con gli occhi chiusi e le labbra contratte sibilava nel vuoto un mormorio incomprensibile. Stava pregando.

“Andrà tutto bene.” Mia gli strinse le braccia attorno ai fianchi. “Prega quanto vuoi. Nessuno più di te merita quel trono.”

“Sento la sua presenza Mia.” Guardò la compagna. “Zeus. Tuo padre. Il mio. Chi può dirlo. Ma io sento qualcosa!”

“Prega per loro e lasciali andare. I morti sono solo morti e gli Dei sono solo Dei.” Gli accarezzò la guancia. “Tu sei un Re oggi e sarai un Re domani!”. L’uomo sospirò soffiando nella mano che lenta ridiscendeva sulle sue mandibole serrate; il tocco di una mano gentile, sicura, gli occhi di una donna che lo amava, le parole di chi aveva creduto sempre in lui.

Si commosse ma girò il capo primo che una lacrima bagnasse quella mano.

 

*

Il battito cadenzato dei tamburi e le fanfare squillanti annunciarono la loro entrata; Pelope in testa camminava lento come gli aveva insegnato Ippodamia nei momenti liberi ad Olimpia. “Il passo dei Re” diceva. Non troppo veloce, non troppo lento, schiena dritta, una lieve flessione di ginocchia a destra, una lieve flessione di ginocchia a sinistra. Era molto regale come portamento e a lui piaceva sfoggiarlo. Subito dietro, tre passi come voleva l’istituzione monarchica seguiva Mia e il principe ancora troppo piccolo per essere rilegato a qualsiasi gioco di ruolo.

Atreo andò loro incontro e come la volta precedente passò lo scettro dalle sue mani e quelle del futuro monarca; dalle fucine di Pisa arrivò in tutto il suo splendore la corona forgiata secondo le misure del capo di Pelope, un tripudio di oro puro a formare stalattiti a punta di freccia intarsiate di rubini e diamanti grandi quanto sassi. “Oh!”. Atreo il bambino sussultò nel vedere tanta luce e immaginarla sul capo del padre.

Mia indossò la tiara che era stata di Enomao quando ancora non era reggente; Agrippina l’aveva salvata dalle fiamme e dagli sciacalli prima di sparire nella polvere. Era ancora splendete, rifulgente di zaffiri dello stesso colore degli occhi della giovane.

Prima di accomodarsi sui rispettivi scranni le loro mani vennero intrecciate con la corda del filo eterno e le promesse di matrimonio rinnovate dinnanzi la città a testimonianza dell’indissolubile e indiscusso legame che univa i due.

 

“Pelope, signore e principe di Frigia e della Lidia intera” Un silenzio surreale si impadronì della piazza quando Atreo aprì bocca. ”figlio del Re Tantalo discendente di Zeus” Si ricordò di sorvolare sulle funeste discendenze della loro famiglia marcando prontamente la linea diretta che li legava al sangue del padre degli dei,con questa corona sigillo il patto che ti vincola al matrimonio con Ippodamia principessa di Pisa e in quanto marito di lei successore al trono della città.” Un cenno del capo fece avvicinare un paggio e il cuscino con il prezioso adagiato.

 

“Accetti i vincoli di fedeltà e protezione che ti legano a questa donna?!”

“Accetto.”

“Accetti di governare questo regno sulla base dei diritti e dei doveri della carta che i primi Re ascrissero prima che tu nascessi?!”

“Accetto.”

“Accetti di difendere la città e il popolo da attacchi e incursioni nemiche senza lode o infamia anche a costo della tua stessa vita?!”

“Accetto!” Il corpo di Pelope fu percorso da spasmi e un sorriso glaciale gli dipinse le labbra. “Sul mio onore!”

 

Con mani sicure Atreo fece scivolare con estrema e ricercata lentezza la corona sul capo del fratello così che il popolo potesse bearsi e crogiolarsi di enfasi; quando il diadema toccò il capo del giovane ed andò ad incontrarsi ai suoi folti capelli neri una luce dorata balenò nei suoi occhi liquidi.

 

“Proteggere! Governare! Difendere!” Pelope si issò dallo scranno innalzando le braccia al cielo; una ola festante di boati e fischi lo incoraggiò. Mia ostentava sul viso il sorriso sarcastico per chi li voleva spacciati, lontani, dispersi e nelle sue braccia il piccolo Atreo dimenava i pugni nell’aria come il suo papà. “Lo giuro! Lo giuro! Lo giuro!”.

 

La formula era stata pronunciata, il giovane figlio di Tantalo il Truce era finalmente un Re.

 

*

Il banchetto nuziale si snodò nelle ampie sale del castello alla testimonianza dei signori di alto lignaggio.

Vennero servite ogni sorta di leccornie, dalla carne di montone stufata all’arancia, al pesce azzurro con il pane salato, i formaggi invecchiati e carni di piccione e agnello arrostite. L’idromele annaffiava le pietanze. La frutta venne servita in coppe dorate, adornava le tavole, secca oppure fresca insieme a mandorle, fichi e datteri. Le spezie rendevano l’aria dolciastra e il miele colava sui piatti come benedizioni dal cielo.

I due monarca sedevano sui letti più alti al centro della sala, dinnanzi a loro convergevano in due lunghe file coppieri, musici, danzatori e servi che fluttuavano l’aria con ventagli di piume di struzzo; tutto intorno gli ospiti erano disposti a cerchio di modo che i loro sguardi potessero incontrarsi e parlarsi senza filtri.

Fra loro i crateri di vino gorgheggiavano in attesa che iniziasse il simposio. Come da tradizione il vino non veniva mai servito schietto, un’usanza più da barbari che da persone raffinate quale si definivano i greci; esso veniva annacquato con una proporzione di tre quarti d’acqua e uno di vino. La sorte dei dadi avrebbe fatto il resto scegliendo colui che avrebbe dato inizio allo scorrimento del fiume rosso.

Il fiume rosso scelse Pelope.

Scese i gradini che lo separavano dal popolo e cantando lodi a Bacco si apprestò al rito; versò del vino in una grande coppa, spesso grande quanto un calderone per minestre, ripetendo il rituale del versamento del vino al di fuori della coppa per tre volte.

“Agli Dei celesti!” Il primo fiotto raggiunse il pavimento.

Agathou daimonos!” I presenti in sala sollevarono il calice che avevano pronto con il primo vino puro; lo mandarono giù d’un sorso brindando al buon genio, prima di dissetarsi del vino simposio.

“Agli spiriti degli eroi, a Enomao!” Giù il secondo fiotto. E il silenzio crollò quando la macchia come sangue si allargò vistosamente sul pavimento. “Al Padre degli Dei. Che veglia e protegge le nostre vite!”. Forse non avrebbe voluto vedere tale giorno, pensò ghignando.

Versò a terra il terzo fiotto e bevve il vino rimasto tutto d’un fiato.

La coppa del Re girò per i commensali partendo alla sua destra, quando raggiunse le candide mani di Ippodamia tutti sussultarono; una donna non era ammessa al simposio.

 

Una donna, ma Ippodamia non era una semplice donna. Era regina, madre, reggente. Guardò il suo sposo e leccandosi le labbra pronunciò.

 

Kaìre! Kaìre! Kaì pìe !”.Salute! Salute! E bevi bene.

 

Fine capitolo terzo.

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Capitolo 5
*** Il sangue chiama sangue ***


Il destino dei Re.

 

“Il sangue chiama sangue.” Capitolo quarto

 

Un destriero le venne incontro nitrendo nella radura che prima era stata la sua casa.

Un purosangue nero dalla stazza regale, con larghe froge dalla quale gettava aria innervosito.

Sulla groppa un’ombra scintillante gli carezzava il pelo, bisbigliandogli nei lunghi orecchi rigidi; quello stizziva il capo nascondendoselo fra le zampe, sottomesso e terribilmente in apprensione.

Ippodamia si vergognò della sua stessa presenza, quasi avvertisse il senso di repulsione che trasmetteva all’animale.

 

“Chi siete?!” Intimò all’ombra. “Fatevi vedere.”

 

L’ombra non indugiò molto, incitando l’animale a muoversi; le sorrise portandosi al fianco.

La donna indietreggiò non appena la bestia le fu accanto. “Non vi vedo. Togliete l’elmo.”

La strana figura obbedì. Diede un colpetto al lungo mantello color porpora sventagliandoselo alle spalle per poi portarsi le mani al capo; i lineamenti del viso dell’uomo, seppur celati dalla nube densa dei boschi, fecero palpitare la giovane.

 

“Padre..”

 

Quello si inchinò nascondendo il volto. Nel rialzarlo scoprì un ghigno malevolo.

Il viso era pallido come cera di morto, gli occhi vacui come vetro. Le labbra violacee sembravano lombrichi rigonfi.

Ippodamia ebbe un trasalimento. “Stai indietro, tu non sei mio padre!”

 

“Chi altri potrei essere? Sono Enomao il Grande.” Tuonò in una risata arcigna. “E sono venuto a darti il mio regalo di nozze.”

 

Nell’attimo in cui chinò nuovamente il capo questo gli scivolò dal resto del corpo ruzzolando ai piedi della giovane che gridò inorridita.

Il respiro del baio si era fatto affannoso e potente; Ippodamia voltandosi lo vide trasformato in un abominio a due teste.

 

Filla.. Arpinna..”

 

Le bestie rantolarono accasciandosi sulle zampe, dal ventre fiotti di sangue si riversarono sulla terra; il liquido rosso si allargò vistosamente sul terreno creando una pozza densa.

 

“Quale creatura dell’inferno sei!” Nel tentativo di arginare il sangue dai suoi piedi inciampò.

“Il sangue chiame sangue…” Gli occhi vacui dal capo mozzato dal terreno la fissavano. La bocca aperta emetteva un suono metallico e così riversa in terra continuava sinistramente a ridere in modo malevolo.

“No! Vattene!” Nel divincolarsi dalla morsa del liquido ci finì dentro lottando con tutte le sue forze per risalire.

 

*

“Vattene! Vattene!”

Ippodamia svegliati!” Pelope aprì gli occhi; Mia si dimenava nel sonno, combattendo contro le spesse lenzuola di lino e scalciando i piedi contro i suoi fianchi. “E’ solo un sogno cara.” Le accarezzò la guancia fredda e il braccio madido di sudore. “Solo un sogno.”

Si svegliò con occhi sgranati. Lasciò che il marito la sfiorasse prima di ridiscendere dal letto; andò alla finestra, la nebbia nei boschi stava diradando.

“Solo un sogno, sì.”

 

*

“Voglio vedere la tomba di mio padre.”

Atreo incurvato nei manoscritti contabili alzò il capo. Sorrise alla figura impettita nella sala.

“Non aspettavo che questo giorno.” Richiamò i servi all’ordine battendo le mani. “Sellate i cavalli. Voglio il generale Nikandrios alle stalle.”

 

Cavalcarono in silenzio, battendo un sentiero che portava al di là delle colline di Pisa; il castello alle loro spalle era una mole d’aria viziata, una prigione dorata che l’aveva tenuta per se da quando era ritornata. Tutto ciò che bramava adesso era aria sferzante sul viso, il battito di cuore di un puledro veloce e piangere. Finalmente. Su un corpo che non fosse solo frutto della sua immaginazione.

Il sentiero terminò in uno sterrato degradante fra due colline che formavano una conca all’apparenza anonima.

 

“Dobbiamo lasciare i cavalli.” Atreo l’aiutò a smontare. “E’ uno sterrato ciottoloso. Ho pensato che un cavallo zoppo potesse far desistere l’idea di avvicinarsi troppo.” Si affacciò oltre la collina. “Andiamo”. Ma Ippodamia era già lanciata in discesa.

“Come fai, non dovresti evitare di sforzarti?!”

“Non sono malata, Atreo. Tu e tuo fratello non riuscite a comprenderlo ma… io mi sento viva.” La mano scivolò sulla curva alta del pancione. “E forte.”

“Forse sei nata per questo.”

“Pelope lo dice spesso.” Sorrise e avvampò; il dono di Pelope nel rendere vita il seme era pari alla sua capacità di sopportare la gravidanza e portarla come fosse un trofeo.

 

La cripta era scavata nella roccia; vi si accedeva mediante un cunicolo stretto a imbuto e si allargava in una sala grande e centrale.

Le pareti erano meravigliosamente dipinte con le gesta dei mitici eroi dell’Olimpo, banchetti divini, battesimi e cerimonie sacrificali; ma più grande e vivida di colori fra tutti era una trasfigurazione della Dea Asterope alla quali i pittori avevano dedicato un’intera parete, creando in sfumature blu e indaco il cielo notturno nella quale la donna abitava sotto forma di stella.

La parete di stagliava al di sopra del sarcofago contenenti le ceneri del Re. Mia trasalì, la gola secca e gli occhi umidi.

 

“Cosa è questo odore?!”

“Alloro. Mirto. Incenso delle terre delle sole, perlopiù.” Atreo si schiarì la voce. “Più un erba magica che addolcisce l’aria e .. i sensi.”

Mia diede un forte respiro di polmoni. La testa le vorticò. “A quale stregoneria ti sei rivolto stavolta?!”

Ippodamia così mi rechi offesa.” Atreo passò una veloce occhiata soddisfatta alle pareti della stanza. “La conoscenza umana delle erbe è talmente vasta da aver scatenato nei chiropratici la necessità di catalogare e spesso tener segrete le preziose nozioni che ci vengono regalate dalla terra.” Le sorrise sornione così come era abitudine fare quando con le sue scoperte la colpivano. “Mi è bastato l’aiuto di qualche moneta, della sapienza dei maestri e di alcune braccia forti per piazzare qua e là questo elisir innocente, per tirarle fuori dai libri nei quali erano sepolte.” Le indicò le pareti al di là delle quali le erbe erano state collocate prima di tornare con il viso nel suo. “Chi passa del tempo prolungato qui dentro rischia la narcolessia. Un banale trucchetto ma tale da scatenare anche la più tiepida superstizione e tu lo sai meglio di me non c’è nulla di più forte del potere della scaramanzia.”

 

Elisir innocente, certo. Ad ogni boccata d’aria le pareva d’essere preda di allucinazioni; i polmoni erano saturi eppur le narici erano attratte da quell’aria dolciastra e viziosa. Cercò di tossire, ma le sembrò di venir meno. Guardò il cognato con occhi increduli e incerti.

 

“Venti minuti al massimo, Mia.” Si girò di spalle. ”Fa le tue preghiere ed esci alla svelta se non vuoi un sonno lungo e tormentato.”

Quella annuì, trattenendo il respiro. Si chiese se fosse troppo ardito inginocchiarsi, se l’aria nel basso non fosse più pericolosa; maledicendo il cognato si spinse poco alla volta a carponi sul fondo della roccia ruvida. Poco male, le sembrava che fosse aria meno irrespirabile. Inspirò trattenendo quanta più aria potesse.

 

Allungò una mano verso la bara, contro il marmo freddo e bianco. Atreo non aveva lasciato nulla al caso; se per i funerali più comunemente veniva usata la terracotta o il legno, il cognato era riuscito a procurarsi una quantità tale di marmo capace di erigere un monumento e una tomba dalle fattezze lussuose e innovative. I dipinti poi erano maestosi, così come gli intarsi nella pietra lungo il bordo arrotondato della bara.

Una grande opera. Una grande opera per un grande uomo. Un fremito la percorse lungo la spina dorsale.

 

Padre, pensò. Perdonami se puoi. Il resto non lo ricordò, le sembrò di aver pregato, forse pianto un po’, ma il tempo volò fra le lucubrazioni della mente annebbiata dalle erbe e il dolce amaro sapore della vergogna. Non poteva giurare di averlo sentito arrivare, ma qualcosa le sfiorò le spalle avvolgendola letteralmente in una morsa; un peso leggero che la schiacciava al pavimento impedendole di rialzarsi.

 

“Chi c’è?!”

“Resta, resta qui. Fuori è pericoloso per te.”

“Chi sei?! Fatti vedere!”

 

Chi sei, fatti vedere. Ricordò, era il sogno. Silenzio. Il peso vorticò nell’aria creando un bagliore.

 

“Devi stare attenta Ippodamia, questa per te non è un alba felice.” Tornò ad avvolgerle le spalle, sussurrandole da dietro l’orecchio, “i tuoi problemi sono iniziati sedendoti su quel trono. Guardati le spalle dai nemici e soprattutto dagli amici.” Girò la testa ma il bagliore svanì dalle sue spalle restando solo voce. “Il destino si è compiuto ma nuove trame ti attendono. La stirpe è forte e crescerà, ma il sangue è caldo. Ricordati. E’ il vostro sangue la vostra congiura.”

“Non ci sono marchi nel futuro della mia stirpe!” Si rialzò, poggiandosi con le mani alle pareti. E tu sei solo una voce! Un allucinazione!”

“Puoi fare finta di non ascoltare ma questa voce è dentro di te.”

“E dimmi cosa potrei fare?! Arrendermi allo sterminio dei miei figli?! Giammai! E giammai una voce potrà convincermi del contrario. Io sono Ippodamia la regina dell’Elide della Lidia e Frigia e nessuno può venirmi a dire il vostro destino è tutto qua. I miei figli cresceranno e saranno governatori dopo di me che stia bene al fato oppure no! Se tu fossi mio padre capiresti.”

“Io capisco.” La luce si portò al centro della sala smorzandosi a poco a poco. “Il sangue chiama sangue figlia mia e tu devi difendere i tuoi figli ma prima di loro la tua stessa vita. Ciò che ti dico non è arrenditi. Ciò che dico è proteggiti, tramanda la storia e fa che si ricordi!”

Fa che si ricordi. Il sangue chiama sangue. La luce si smorzò del tutto e tornò il buio nella sala; tornò il senso di vertigine e si accorse di avere la gola secca e in fiamme. Devo uscire da qui. Si precipitò verso l’uscita arrancando in passi incerti.

 

Il sole le ferì gli occhi, gran colpi di tosse buttarono fuori aria velenosa; Atreo era lì con il generale che l’attendeva impaziente e da come la guardava anche piuttosto preoccupato. “Attardavi nel risalire e ho mandato Nikandrios a vedere come stavi ma il passaggio era bloccato. Stai bene mia Regina?!”

“Non credo mio Attendente.” Prese il respiro e guardò lontano davanti a se. ”Sono sempre stata lì ed è da lì che sono risalita. Sai Atreo credo che mio padre abbia trovato il modo di difendere le proprie ceneri.”

“Cosa è successo?!” Mia guardò il generale e questi si allontanò permettendo loro di parlare liberamente.

“Ho avuto una visione Atreo. Nefasta direi. Ci attende il peggio, la mia vita e quella dei miei figli è in pericolo.”

“In pericolo per mano di chi?!”

“Il nostro stesso sangue.”

 

*

Ci vollero ostinazione e caparbietà per convincere Atreo e la guardia a lasciarla andare agli altari da sola.

Aveva bisogno di cavalcare selvaggiamente, di urlare al cielo e imprecare contro il fato suo acerrimo nemico; aveva bisogno di cacciare, di sentire il sapore della vittoria, l’odore del sangue e il fruscio dell’erba sotto i piedi nudi.

Aveva bisogno di molte cose, ma fra tutte, aveva bisogno di non pensare.

 

“Eccola, vai da lei.” Irruppero nelle sue preghiere Pelope e Atreo che trascinava un cordone con delle lepri attaccate per le zampe. Conosco tua madre come me stesso, pensò.

Il bambino corse verso la madre inginocchiata, le sfiorò i capelli sedendosi accanto a lei. “Tuoi, mamma.” Tirò la corda fin sotto i piedi di Ippodamia che gli accarezzò il capo sorridendo. “Sei stato bravo. Vieni facciamo un dono agli Dei.”

La donna si tirò su le gonne e afferrò il coltello dalla fascetta della coscia. “Adesso devi essere coraggioso. Vedrai qualcosa che ti spaventerà ma che è necessario. Non tirarti indietro, sii forte.” Pelope issò Atreo all’altezza degli altari porgendo la sua piccola mano su quella della madre. “Sei pronto figlio mio?!” Il bambino annuì seguendo le incisioni nella carne tenera delle bestie; il sangue zampillò in un veloce fiotto caldo andando a impregnare le loro mani. Atreo era in silenzio, concentrato dallo spettacolo di budella e viscido liquido che aveva sotto gli occhi. Non emise un lamento e restò attaccato alla madre che gli spiegò cosa dovevano fare e quali preghiere recitare.

Quando ebbero finito estasiato battè colpetti sul tavolo di marmo lasciando impronte di caldo sangue rosso.

 

“Io non voglio!” Il piccolo irruppe nei silenzi scalciando un ciottolo dalla terra.

“Cosa ti angustia figlio?!” Pelope lo prese fra le braccia portandolo al petto.

“Non voglio che voi moriate.” Trapassò il padre con gli occhi neri tipici della sua famiglia; l’espressione seria faceva dubitare del fatto che il giovane Atreo avesse solo quattro anni e una mente così articolata e parole fluenti. Pelope strinse le braccia intorno a quelle gambette paffute e bianche. “La morte Atreo è il passaggio che conduce alla vita eterna, non devi esserne spaventato.”

“Ma io non voglio.” Afferrò la mano dell’uomo portandosela alla guancia. “Quando sarò Re io vieterò la morte!” Parlò con fermezza e Ippodamia fu lieta di riscoprire tutti i suoi quattro anni; carezzò la testa di riccioli biondo grano, sorridendo. “Quando tu sarai Re noi saremmo la leggenda che allieterà le tue feste. Alzerai coppe di vino in nome degli avi che ti precedettero e brinderai alla nostra vita eterna! Il tuo castello sarà pieno dei tuoi figli e avrai una moglie bellissima che ti accompagnerà nei giorni.”

Il bambino arricciò le labbra disgustato. “Non voglio una moglie! Voglio le spade e i cavalli! ”

“Avrai le tue spade e i tuoi cavalli.” Pelope lo rabbonì, “ma senza una moglie e senza figli non ti serviranno a niente.”

“Sì Pelope, tuo padre ha ragione.” Ippodamia posò una mano su padre e figlio abbracciati, gli uomini della sua vita, sospirando. “La famiglia è tutto. E’ come il sangue. E senza sangue noi non siamo niente.”

 

Fine capitolo quarto

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Capitolo 6
*** Le tre doti del sovrano ***


Il destino dei Re.

 

“Le tre doti del sovrano.” Capitolo quinto

 

“Bravo, così dritto con la schiena!” Pelope e Atreo erano alle stalle, il giorno in cui dalle cucine del palazzo si levò un urlo terrificante.

L’uomo affidò il piccolo alle cure del Generale prima di recarsi dalla servitù ed accettarsi di quanto fosse successo; la scena che si trovò davanti fu raccapricciante.

Ella, la giovane sguattera dai capelli fulvi giaceva a terra con bava schiumante ai lati della bocca.

 

“Cosa è successo?!”

“Il cesto di mele Sua Maestà..” La donna grassa che comandava le cucine con fare da gendarme, davanti al Re berciò parole sconnesse. “Non volevamo. Le ho detto di non toccare ma quella piccola, stupida ragazzina dai capelli rossi non ha voluto darmi retta. Sono spiacente, perdono Maestà. Perdono.” Si inchinò singhiozzando.

Pelope la superò e si avvicinò alla cesta; il velo che la ricopriva era aperto per metà e dal fondo del vimini se ne stava pronto a sferrare un altro colpo il pungiglione del corpo bianco latteo e rigido di uno scorpione.

Inorridì disgustato. “Portate via questa cesta. Bruciate l’animale!”

“Fratello..” Atreo arrivò di corsa nelle sue solite sete e profumi. “Cos’è questo chiasso?!”

Alaya delle terre d’oriente ci ha consegnato il suo regalo di nozze in ritardo.” Indicò col mento la ragazza riversa a terra. “Le era stato ordinato di non toccare nulla. Nella cesta c’è uno scorpione latteo.”

“Veloce e mortale.” Atreo si sfregò il mento con i polpastrelli. “Beh?! Avete udito cosa vi ha ordinato vostra Maestà! Svelte ripulite tutto!” Poi passò lo sguardo sugli ultimi estremi rantolii che il corpo della fanciulla emise. “Consegnatela ai mortuari. Che venga ripulita e si avvisi chi ne reclama il corpo.”

“Posso occuparmene io illustrissimo Attendente. E’ la figlia del fornaio, conosco suo padre.” La comandante delle cucine inchinò il capo e corse via.

 

Rimasti soli Pelope si sbragò su uno sgabello passandone un altro con un calcio al fratello. “Avanti, dimmi cosa pensi.”

“La cesta era destinata ad Ippodamia, ma per quanto ne sappiamo potevi prenderla tu con le tue stesse mani.”

“Chi c’è dietro?!”

“Se lo sapessi farei sventolare la sua testa mozzata sulle gerle del castello.”

Pelope agguantò una pasta calda al limone fissandolo con attenzione. “Chi può desiderare la morte di un sovrano e della sua consorte se non l’uomo che ambisce al trono?!”

“Caro fratello, per ora abbiamo solo una donna indiziata. Una schiava per quanto ne sappiamo. O una megera. Magari la figlia del garzone. Chiunque vi vuole morti può cambiare faccia in ogni momento e come vedi la verità non è così semplice come vuol sembrare. ”

Rimasero in silenzio ad ascoltare i rumori distanti delle altre sale del castello; Atreo era rientrato e la sua vocina acuta riecheggiava nei cortili, le serve si erano date a passi veloci e chiacchiericci sommessi, al di sotto la voce potente femminile di una donna diventata sempre più forte e vicina.

 

“Cosa aspettavate ad avvertirmi?!” Ippodamia si palesò in tutta la sua regalità.

 

*

Le segrete erano l’unico luogo della nuova ricostruzione a non essere stato modificato.

Le acque del canale erano state bonificate da un piccolo affluente che versava i miasmi stagnati direttamente nell’Alfeo e questo conferiva alle finestre a pelo d’acqua un aspetto meno sciagurato; il Re svestito delle sete seguva i lavori abbozzando sempre nuovi progetti. Per quanto in passato Pisa non necessitò di celle, Ippodamia fu costretta ad ammettere che i tempi erano cambiati, la città si era allargata ed evoluta e con essa anche il coraggio di certi malfattori.

 

Alaya delle terre d’oriente alzati. Sono il Re e la Regina che ti vogliono vedere.”

 

La guardia battè la picca contro le sbarre; una figura pallida ed emaciata apparì alla vista.

Il suo aspetto era cambiato, la figura dapprima florida si era fatta scarna e perfino il bel viso ambrato era svuotato dalla fame.

Soffre. Constatò Ippodamia. Bene.

 

“Inginocchiati serpe” Pelope fece cenno all’uomo in divisa di aprire la cella e seguirlo. Mia si unì a loro come un ombra. “Frustala.” Il guardiano strappò la veste sulla schiena della giovane schioccando un solo, rigido colpo di frusta.

“Questo è per quello che non sai.” Pelope abbassò il braccio. Il secondo colpo vibrò nell’aria. “Il resto ti verrà risparmiato per quello che sai.”

La pelle della giovane si era fatta già rossa e chiazzata per contro i suoi occhi si erano fatti stretti e sostenuti dallo sguardo fiero che gli avevano visto il giorno del ritorno; Mia fremeva di sentirla parlare, tremava dietro le spalle del marito e sovrano.

 

“Non so di cosa state parlando.”

Giù il terzo colpo. “Cosa volete da me!” E il quarto.

“Chi ti ha dato la cesta?!”

“Non lo so. Non so chi sia!” Il quinto colpo squarciò la pelle e fu accompagnato da urlo squassante; un rivolo di sangue colò per le vertebre.

Mia appoggiò una mano sul braccio del consorte invitandolo a non proseguire. “Ti conviene dire la verità donna o morirai. E a quel punto il tuo segreto non ti servirà più a nulla e non ti avrà salvata comunque.” La ragazza tremante piegò il capo. “Si dice che le buone doti di un sovrano siano la clemenza e l’onore. Io posseggo l’una e l’altra.”

“Nella mia terra si dice sii clemente e tieniti vicino gli amici ma soprattutto i nemici.”

“Conosco le leggi della tua terra. Mio padre era un estimatore della vostra cultura.” Le alzò il capo. ”So che il vostro stato di schiavitù vi rende servili e fedeli sopra ogni logica, anche se il vostro padrone è il più acerrimo nemico. L’ospitalità è un culto e divinate strani Dei comandati dal sole.”

“E’ così Sua Maestà. Il Grande Enomao vi ha insegnato bene.”

Mia sorrise soddisfatta. “Era un uomo che amava il mondo, il rispetto delle regole e l’onore. Ed io sono sua figlia.” Ordinò alla guardia di slegarle i polsi. “La clemenza vi renderà mia schiava. Fate quel nome e non vi verrà torto un capello, al contrario, dite pure addio a questo mondo Alaya delle terre d’oriente.”

Tutti attesero il verdetto finale che non s’attardò oltre; la ragazza si gettò ai piedi della Regina baciandole i calzari. “Era un vecchio ubriacone che diceva di chiamarsi Basileus. Mi ha reclutato alla locanda di Mena la vacca dicendo che aveva un po’ di spiccioli da darmi se avessi fatto una cosa per lui.” Guardò Ippodamia implorante. “Continua.”

“Beh la sacca era piena di monete d’oro e il mio più grande desiderio era quello di tornare a casa. Potete capire vero maestà?!”

Ippodamia sorvolò l’ultima informazione fra i pugni stretti. Il vile denaro. Per ora l’unica ragione per la quale avrebbero dovuto aver timore perla loro vita era il conio suonante. “Perché proprio tu?!”

“Un solo Re aveva il diritto di sedere a quel trono Sua Altezza e quel Re era Enomao il Grande”. Pelope infuriato sfoderò la spada e la fece volteggiare nell’aria; Mia con un colpo sull’elsa lo riportò alla ragione. “Le ho dato la mia parola.” Sussurrò.

“Sul campo della corsa io fui una di quelle donne che aiutò a recuperare il suo corpo. Qualche giorno dopo, nella locanda dove mi prostituivo è entrato quell’uomo. Mi ha dato metà denaro, la cesta, ed è sparito.”

 

“Cosa ti ha detto di preciso?!”

“Che Enomao era stato assassinato e che il Re che avrebbe preso il suo posto era un falso Re.”

 

“Bene ho sentito abbastanza.” La ragazza venne fatta indietreggiare; in preda alla paura si mise a tremare violentemente. “La tua vita ti verrà risparmiata, da oggi in poi ti sottoporrai alle nostre leggi e vivrai da schiava.” Si portò fuori dalla cella intimando al marito di restare e non rinfoderare la spada. “Mi duole svelarti però l’ultima dote di una Sovrano; l’arguzia. Un nemico travestito da amico resta pur sempre un nemico, così chi ha attentato alla tua vita oggi può sempre rivendicare il gesto domani. E la clemenza non ha mai una giusta bilancia, troppa o troppa poca?! Se io ora qui ti perdono lasciando intatta la tua vita sono una stolta. Se invece io lasciassi intatta la tua vita e prendessi qualcos’altro t’avrei fatto saggiare la mia arguzia e la mia clemenza.” Rise fra se e se “Tira in avanti le mani Alaya. Pisa è Pisa, non siamo in oriente questo lo avrai capito da sola. Ci sono altre regole qui.”

La ragazza strillò, il gendarme le affondò lo stivale nella schiena costringendola con la faccia premuta al pavimento.

 

“Tagliale la mano. La destra, quella con cui ci ha porto la cesta.”

“Come Sua Maestà desidera.” Pelope calò la lunga lama argentata sul polso di Alaya; la mano mutilata schizzò trascinandosi via un sol fiotto.

“Fa ripulire e portala dai medici. Voglio che viva.”

 

*

La coppa di vino riluceva al chiarore del fuoco.

Atreo riempiva il silenzio parlottando con i soldatini di legno; Ippodamia aveva ordinato di farlo trasferire nelle sue stanze fino a data da definire, trasformando le camere in un paese di balocchi, ma neanche la voce dell’infante adorato riusciva a destarla dai pensieri.

Fissava le fiamme avvilupparsi le une sulle altre e il desiderio indomito era veder bruciare in quel fuoco la mano responsabile dell’attentato; ma chiunque fosse andava trovato, torturato lentamente e infine lasciato marcire nei campi così che la sua animasse vagasse smarrita.

Dei ricci corvino attirarono la sua attenzione. Ippodamia ho tristi notizie.” Pelope era rientrato dalla spedizione alla locanda e i suoi occhi cerchiati e mesti, le vesti umide, davano ben pochi segni di vittoria; il sole era calato ormai costringendolo a ritirata. Il buio nasconde i nemici meglio di altri nemici. “Lo hanno ucciso prima del mio arrivo.”

“Ci ascoltano Pelope. Prevedono le nostre mosse.”

Il Re annuì. “Mi duole dirtelo ma devi rinunciare a tutta la servitù istituita da tuo padre. E anche dei generali compreso quel tuo Nikandrios, armigeri, sguattere. Chiunque abbia baciato e lodato i suoi piedi.”

Nikandrios è un bravo uomo e ha dato più volte prova del suo onore, così le donne che ci servono. Sono tante persone. Troppe.”

“E’ necessario Mia.” L’avvicinò carezzandole la guancia. “Se dovesse succedere qualcosa a te o ad Atreo impazzirei!”

“Questa gente non mi tradirebbe ne ora ne mai!” Si alzò stizzita, scostando la mano. “Sono il sangue del suo sangue. Non oserebbero tanto.” Le fiamme vorticarono riflesse nei suoi occhi.

Pelope rabbuiò il viso. “E’ me che vogliono. Stai dicendo questo?!”

“L’hai sentita la serpe, no?! Qualche stolto non ti reputa Re di diritto.” Si addolcì, gli prese la mano e se la portò al cuore. “Ma gli Dei ci sono testimoni amore mio. Sappiamo che fu Mirtilo ad uccidere mio padre manomettendo il carro e Zeus sa che ti avvantaggiasti ben prima che lo stesso uscisse fuori d’asse!” Prese il volto amato fra le mani e posò un bacio lieve sulle sue labbra. “Troveremo quello stolto e tutti gli altri. Gli suoneremo l’unica verità esistente. Tu sei il Re di diritto, Pisa ti appartiene e allora sì che bella musica udiranno!”

 

La mano scese su il seno e poi su tutto il resto. Atreo ignaro continuava a giocare sul pavimento con i suoi soldatini.

 

*

Approfittò del buio pesto per indossare la clamide e uscire dalle stanze.

I suoi passi affrettati smossero il silenzio, in un fruscio danzante e appena lieve.

I giardini erano immersi in una fitta nebbia insolita, quasi spettrale; una voce dentro di lui gli comandava di camminare e proseguire, fuori dal palazzo oltre le mura, nella fitta radura. Una mano però lo afferrò per la tunica, costringendolo a desistere; balzò su se stesso cercando di difendersi con le mani aperte sul viso. Qualcuno sussultò prima di lui.

 

“Siete voi maestà!” Atreo imprecò riprendendo fiato. “Mi avete spaventato!”

“Non ne dubito. Vagare per i giardini a questa ora della notte.. si rischia di fare strani incontri..” Pelope sogghignò sarcastico.” quando le mura sono sorvegliate da cinquanta guardie pagate con il costosissimo conio reale.”

“Con tutto il rispetto siete voi ad avermi messo a incarico Sua Maestà.”

“Mia moglie. Non dimenticatelo. E’ mia moglie che vi stima con tale ardore..” Il Re si allontanò volteggiando nel chitone.

“Sarai anche un Re, gli Dei mi fulmini se mi azzardassi ad ammettere il contrario.” Atreo collerico alzò la voce per raggiungerlo, “ma sei pur sempre mio fratello, Pelope, ti conosco come le mie tasche e farei di tutto per non deluderti e restituirti la gloria eterna che ti spetta. Ma voltati e guardami negli occhi, cosa sta facendo questo fratello per meritare questo astio?!”

Pelope si girò lentamente. “Io ti guardo ma non vedo mio fratello”.

“E’ la nebbia ad offuscarti la vista, ti dico.” L’attendente a grandi passi si portò di fronte a Sua Maestà; erano li, occhi negli occhi, il sangue delle medesime membra ad averli generati, uomo a uomo, fratello a fratello. “E’ da quando hai indossato quella corona che sei cambiato.”

“Il potere ti cambia Atreo, la corona è il peso più gravoso che un uomo possa sopportare. E così quando hai indossato anche tu le sete pregiate e gli ori di Pisa hai cambiato per sempre il tuo animo. Ma c’è oro e oro fratello. Il tuo lo riponi in uno scrigno ogni notte e puoi decidere di non indossarlo domani, il mio ti resta sul capo anche quando non c’è. Ho dei doveri imprescindibili e il mio compito è sorvegliare il mio regno e la vita mia e di quelli che da me dipendono.”

“Io sono complice in questo tuo compito. Sono il tuo Attendente di corte, lo dimentichi.”

“Ancora per poco, temo.”

Atreo si fece pallido in volto. “Cosa vorresti dire?!”

“Due Re sulla stessa corona sono troppi. Quando avrò gioito della nascita del mio secondo figlio partiremo alla volta del nostro antico castello in Frigia e spazzeremo via i barbari che vi hanno fatto colonia. Ti verrà data in sposa nostra cugina Melibea e insieme governerete sulle terre appartenenti a Pisa, assoggettati alle nostre leggi, con tutti gli onori e i pregi spettanti ad un Re ed una Regina.” Pelope sorrise guardando in lontananza. “Avrai modo per riflettere sulle mie parole fratello solo quando il capo sarà incoronato. Goditi ancora le tue mansioni nel mio castello e brinda con me alla tua nuova vita.” Si diressero alle cucine dove i fornai stavano dando forma alle pagnotte per la colazione; Pelope stappò del vino rosso versandolo in due coppe istoriate che tintinnarono fra di loro al cielo.

 

Fine capitolo quinto.

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Capitolo 7
*** Caccia alle streghe ***


Il destino dei Re

 

“Caccia alle streghe.” Capitolo sesto

 

Con l’arrivo dell’inverno Ippodamia diede alla luce il secondogenito.

Il bimbo venne chiamato Tieste da un antenato della casata di Enomao e oltre al nome aveva ereditato una folta chioma dorata e gli occhi da neonato di un azzurro sorprendentemente vacuo come quelli della madre.

 

“E’ un bambino bellissimo Sua Maestà.” Melibea mise fra le braccia della Regina l’infante avvolto nel vello di pecora; la fanciulla era stata ammessa alle stanze per via dell’amicizia instaurata con la sovrana, da quando era stata portata via da Olimpia e soprattutto da quando era stata promessa sposa ad Atreo.

 

Melibea era graziosa, i tratti del volto risalivano ai fieri di Tantalo il Truce di cui era nipote, lunghi capelli corvino e occhi scuri come la pece; un tempo si diceva fosse ancor più bella ma lo spavento allo vista dei volti di Apollo e Artemide venuti ad ucciderla per le offese che sua madre ingiuriò contro la loro madre, le rese il volto di un innaturale pallore tanto che da quel giorno ovunque ella andasse veniva chiamata Clori, la pallida; per amor del fato la ragazza possedeva altre qualità che distoglievano lo sguardo da questo suo “difetto”, tanto ella era mossa da carattere solido, equilibrio e disciplina instillata certo dall’amore per le attività sportive che l’avevano vista vincitrice oltretutto dell’ultima Olimpiade. Ippodamia la riteneva la giusta compagna per Atreo e dopo aver avuto notizia dal Re del loro imminente matrimonio dapprima ne fu molto adirata perché il marito aveva agito alle sue spalle, ma dopo la sfuriata non potè che ammettere quanto la coppia fosse ben assortita e quanto avrebbe giovato al regno la loro unione; questo la spinse ad occuparsi della sua istruzione, raffinando le maniere poco regali e trasformandola mano-mano in una giovane promessa sposa e regina degna di tal nome.

La vita al castello era molto cambiata, Pelope aveva preso il comando calandosi nel ruolo di Re come fosse stato sempre il suo; con stratagemmi aveva sostituito la servitù tanto cara ad Ippodamia, con eccezion fatta per Nikandrios difeso a spada tratta dalla consorte. La sua supervisione si spostò anche al tesoro reale, mettendo sempre più alle strette il lavoro di Atreo. Si occupò personalmente di trovare i fondi per le casse destinate al riassortimento di un esercito, che da lì a pochi mesi, avrebbe marciato al suo fianco per assoggettare i territori del suo antico potere a quello del nuovo.

 

“Come è fragile.” Atreo toccò con la punta del dito la pelle rosea del braccino di Tieste e inorridì.

“E’ un neonato Atreo, la sua pelle è molto delicata.” Ippodamia prese la mano del maggiore e la portò nuovamente sul bambino che nel frattempo si era attaccato al seno. “Però senti come è liscia e calda. Anche tu eri così fragile.” Fece cenno a Melibea di far salire il bambino sul letto. “Adesso sei un fratello maggiore Atreo e il tuo compito è quello di proteggere Tieste.” Parlò con voce affettuosa ma il bambino guardava l’infante perplesso e sempre più inorridito; c’era qualcosa nel fondo dei suoi occhi neri che ribolliva come una fiamma.

“Fino a quando?!”

“Per tutta la vita sarai un fratello maggiore.” Si chinò in avanti e gli baciò i capelli. “Ma non preoccuparti quando questo esserino camminerà sarà un po’ meno fragile.” La donna sorrise abbandonando il capo ai guanciali; chiuse gli occhi e lasciò che il figlio poppasse tutto il latte di cui necessitava.

Atreo strinse i pugni e corse verso i suoi giochi raggruppandoli tutti nelle braccia corte e piccole. “Il principe può giocare con i suoi giochi più tardi, Sua maestà ha bisogno di riposare.” Melibea si chinò cercando di alzarlo per un braccio.

“No! Lui si metterà a camminare e io non avrò più niente.”

“Ma non è vero! Avrai tutto più di tutti invece. Sei il maggiore e questo è importante, l’hai sentita la tua mamma?!”

“La mia mamma dorme e lui e se la prende tutta.”

“Lui è molto piccolo Atreo e ha bisogno della tua mamma.” Melibea lo prese in braccio accompagnandolo accanto al letto, con un dito sulle piccole labbra controllò che Tieste poppasse ancora. “Guarda come è piccolo e indifeso.”

 

“E’ fragile.” Berciò il bambino voltandosi disgustato dall’altra parte .

 

*

Quando Mia aprì gli occhi Pelope le era accanto, con il fagotto fra le braccia. “Ti somiglia molto.”

La donna annuì. “Come stanno andando gli addestramenti?!”

“Bene mia Regina. Ma non parliamo di questo.” Baciò la mano della consorte e sollevò il fagotto. “Un altro maschio! Tu mi rendi orgoglioso moglie!” Il bambino rispose con un suono simile ad una risata.

La Regina si issò sui guanciali. “Il giorno in cui nascerà una femmina sarai meno orgoglioso, marito?!”

“Mi renderai orgoglioso per ogni creatura che avremmo, IppodamiaLa guardò serio tornando a sedere. “Ma questo è molto meglio di qualsiasi profezia, lo sai?! Insieme avremmo governato sulle nuove generazioni e la Grecia tutta si sarebbe inchinata, queste erano le parole che l’oracolo mi predisse. Ma due figli maschi mia Regina assicurano un dominio che va ben oltre ogni mia aspettativa.”

“Molto romantico, davvero.”

“Alla mamma non piacciono i miei discorsi militari, che si può fare?!” Due manine uscirono fuori dalla copertina agitandosi fra di loro; Pelope le baciò tornando a rivolgersi alla moglie. “Tuo padre per paura di perderti ti ha custodita come un prezioso dalla quale non voleva separarsi mai, anche a costo della sua stessa vita. Io ti dico guardali, sono così piccoli adesso eppure in loro scorre il potere del futuro, la testimonianza del nostro passaggio. Io non sono fatto perché il nostro nome resti circoscritto a queste mura. Io sogno il progresso, l’espansione. Chissà quanti e quali luoghi domineranno, le mogli e i castelli che prenderanno, la sapienza e le arti che otterranno. Tutto questo io sogno per loro, per noi.”

Mia irrigidì il volto e bisbigliò fra i denti. “Siete già stufo di questo castello e questa moglie?!”

“Questo castello e questa moglie sono stati la mia fortuna. Ma è ora di restituirti quello che mi hai dato mia Regina.” Pelope la baciò, serrando le labbra contro quelle tese di lei, sciogliendole a poco-poco con un delicato tocco di lingua. “Immagina cosa c’è al di là; oro, sete, palazzi. La conquista e la sottomissione dei territori, un nuovo verbo e una nuova voce a capo di tutte le genti. Il dominio assoluto. I nostri nomi a veleggiare verso l’eterno.” Si acquietò vinto dai sogni che teneva nascosti nel suo animo; Mia si voltò a guardarlo.

 

Dai suoi occhi una lacrima sgorgava per ridiscendere sulla guancia bruciata dai vento invernali.

Cercò infondo ad essi la verità ma non la trovò.

Trovò le stelle che luccicavano chiare e nitide sulla strada per il loro futuro.

 

Non avrebbe mai compreso il furore degli uomini per le battaglie e per la morte, ma una cosa capì fino in fondo; gli uomini nascevano per le battaglie, le donne per procreare. Le donne combattevano sul loro letto il giorno del parto.

 

*

Il bambino venne battezzato al cospetto degli Dei otto giorni dopo la sua nascita.

Ippodamia vestita con un peplo sontuoso di un candido bianco rifulgeva di una bellezza rinnovata; la figura non appariva per nulla appesantita dalla seconda maternità benchè fosse passato un tempo irrosorio e Pelope la teneva stretta come fossero due ragazzini alla prima cotta.

Probabilmente alla fine dell’inverno mi darà un terzo erede. Pensò, mentre osservava ciocche dorate della donna strette nelle mani del primo figlio.

La cerimonia per volere del Re, per la sicurezza dei suoi cari, fu rapida e contro ogni riguardo officiata dinnanzi all’intera città che acclamò entusiasta e a gran voce l’arrivo del secondo infante e secondo in linea di successione al trono; la famiglia reale si spostò poi agli Altari per officiare il lieto evento con un sacrificio agli Dei, muovendo dietro loro il netto numero di accoliti giunti sin là per l’occasione. Nikandrios e altri quattro soldati li scortarono, il generale teneva la spada ben stretta per l’elsa premuta al fianco, girando il capo nervoso ogni qualvolta un movimento sospetto sfilava dalla processione e s’avvicinava ai membri reali.

 

“Qualcuno è nervoso.” Berciò il Re. “E’ troppo giovane per essere un generale.”

“E’ svelto di mano e di cervello.” La regina indicò la mano del generale e poi rise.

 

Una fanfara portò silenzio intorno.

Atreo, il piccolo Atreo, venne portato a braccia sin al tavolo di marmo adornato di ghirlande e prelibatezze delle cucine reali; un agnello vivo lo aspettava belante legato per il collo da una fune tenuta stretta dalle mani di uno sguattero dal sorriso sdentato.

Il bambino venne passato alle braccia del padre che stringeva nel pugno un coltello affilato dal manico d’onice; il piccolo posizionò la manina al di sotto di quella dell’uomo a contatto con la pietra fredda dell’impugnatura.

Ippodamia poche spanne più indietro guardava la scena attentamente, stringendo al petto l’ultimo nato.

Lo sguattero la guardava mostrando denti gialli e spazi vuoti su gengive nere, il piede al ritmo nervoso batteva sul terreno; Nikandrios si era messo di mezzo cercando di proteggerla dietro la sua stazza.

I tre uomini della guardia presero posto circondando il tavolo per tre lati.

I tamburi suonarono e nell’attimo in cui Pelope squarciò la gola dell’animale un ombra veloce guizzò al suo fianco con un bagliore scintillante nel braccio proteso verso l’alto; urla sconnesse provennero dalla folla. “Attentato! Attentato a sua maestà.”

L’uomo dallo sguardo furente scartò con due fendenti il soldato più prossimo alla traiettoria prendendolo alle spalle e recidendogli la gola; l’altro si gettò sul tavolo cercando di attraversalo e impedirgli di avanzare ma fu colpito alla gamba da una seconda figura sfilata dalla folla; costretto a girarsi diede le spalle a sua Maestà e sguainata la spada affondò colpi nella tunica grezza dell’uomo.

 

Con un calcio il primo uomo allontanò il soldato morto e con un flebile alito di voce sibilò in faccia al Re,na zisete.” Buona vita a voi.

 

Ma Pelope abbassandosi schivò il colpo che ferì l’aria facendola vibrare sopra la sua testa; nascose Atreo sotto al tavolo e agguantando l’elsa tentò di sguainare la spada. L’uomo era pronto a sferrare il secondo colpo a due mani in verticale quando con un solo balzo il generale Nikandrios fu addosso al Re spostandolo dalla traiettoria e dalla spada che andò a conficcarsi nel suo scudo.

Ippodamia sguarnita di protezione urlò tentando di divincolarsi dalla stretta dello sguattero rimasto indisturbato; Pelope si rialzò e le corse incontro a spada volteggiante. Arrivò sull’uomo che quello non ebbe neanche il tempo di stupirsi, gli tranciò di netto il capo facendo schizzare in aria la materia cerebrale. Atreo uscì da sotto al tavolo e li raggiunse, Ippodamia si piegò e lo strinse per le spalle.

“Devi correre a nasconderti nei boschi Atreo. Qui è pericoloso.” Gli baciò i capelli, passandogli il neonato nelle braccia. “Ricordati sei un fratello maggiore adesso, spetta a te proteggerlo.” Atreo accolse il piccolo a se stringendolo goffamente; il suo faccino rotondo e i suoi occhi spauriti d’un tratto lo fecero sembrare più piccolo di quanto non fosse.

Ma il baluginio infondo ai suoi occhi riprese presto a fiammeggiare e il bambino Atreo da quel momento non fu più bambino.

 

*

“No! Non ti permetterò di ferirti Ippodamia! La donna raccolse la spada dell’attentatore a cui Nikandrios aveva staccato un braccio, ma Pelope la bloccò per la vita tirandosela al petto. “Lasciami Pelope!” Strattonò invano, le braccia dell’uomo la tenevano salda. “Guardati intorno, hai bisogno di me!”

La folla era stata acciecata dalla caccia alle streghe; tutti colpivano tutti, ramazze, pugnali, sassi ogni oggetto potesse contundere andava bene, in breve tempo la terra s’era fatta rossa di sangue e la foga dilagante si era spinta oltre il possibile inimmaginabile.

 

“I tuoi figli hanno bisogno della loro madre.”

“Se non ti aiuterò, non avremmo più dei figli.” Annuì sicura. “Fidati di me.”

 

La lasciò andare verso l’uomo che l’aspettava forcone alla mano, tremando per quella minuta figura trasformata in furia; e ricordò, ricordò il suo canto ammaliatore sui carri il giorno delle gare per avere la sua mano, ricordò la curva della schiena quando doveva saltare dalla biga impazzita del padre, ricordò le gambe forti serrate ai fianchi dei bai quando Zeus li soffiò oltre le isole del mare, ricordò la tenacia quando partorì Atreo sulla terra nuda senza che nessuno le avesse insegnato come si faceva. Ricordò questo e molto altro ma ricordò soprattutto che Ippodamia era figlia degli Dei e per quanto le avesse dato prova di essere di una donna calda, amabile, affettuosa, restava pur sempre un essere divino.

 

Alla fine della battaglia vennero catturati più di venti insorti; il generale Nikandrios nell’impeto dei subbugli aveva rispedito uno dei soldati di guardia a Pisa ordinandogli di far tornare indietro trenta uomini e lettighe a sufficienza per i feriti. La conta dei morti fu impressionante tanto che alcuni di essi furono bruciati seduta stante senza un vero e proprio rito funebre. Pelope adunò gli attentatori e si munì di fruste, legandoli per le braccia alle rocce sporgenti del terreno; cominciò così una serie di atroci sevizie e fustigazioni in nome della verità e della giustizia.

Atreo giunse a cavallo, estromesso dal rito quale attendente della città e obbligato a rispondere per essa in assenza dei sovrani, benedicendo il cielo per questa legge certo che non se fosse stata istituita il caro fratello lo avrebbe accusato certo di aver ordito tale piano; sputò in terra tre volte, girando fra la gente esterrefatto e inorridito da tanta barbarie. Non avrei mai avuto il coraggio. E l’ambizione per farlo, pensò.

 

“Credo dovrai farci l’abitudine caro fratello. In Frigia non troveremo braccia aperte ad accoglierci.”

“Temo di no.” Atreo raccolse i resti di quella che somigliava a una spada. “Ho come l’impressione di girare sempre in tondo.”

“Spiegati meglio.”

“Spade al posto di pugnali. Singolare, non trovi?!” Si girò l’elsa fra le mani. “E dispendioso. Chi può permettersi un armamentario così?”

Ippodamia dice che le istoriate sull’elsa appartengono a noi.”

“Quelle spade non esistono più Pelope. Sono andate perdute nella caduta di Pisa.”

“Ne sei certo?!”

“Beh a dire il vero non ne avevo mai vista una prima d’ora. Solo sentito parlare. E confrontandola con la spada di Enomao, sempre che sia l’originale e spero che tu capisca, noto una certa somiglianza.” Si grattò il mento e proseguì, “nei forzieri non c’erano al mio arrivo, quindi sì non posso dire con certezza quando o da chi furono prelevate, ma ho sempre pensato che dopo la caduta della città le armi fossero andate perse con i legittimi proprietari.”

Enomao vantava un esercito di settecento uomini. Settecento uomini per settecento spade, troppe per sparire senza far rumore. Qualcuno deve averle messe insieme quelle maledette spade! Ma chi? E perché non prelevare anche tutto il resto?!” Pelope pensò alle mura distrutte del castello e i segni ancora oggi visibili la dove il fuoco aveva aperto breccia e d’improvviso capì; il popolo di Pisa era caduto per mano degli Dei insieme alla città stessa, intere famiglie distrutte, ridotte al lastrico e allo sbando, chi di questi figli, zii, nipoti e madri avrebbe avuto tanta forza e coraggio, il desiderio e la conoscenza d’arrivare alla ferraglia prima ancora di mettere in salvo la propria vita?! Nessuno poteva desiderare la sua morte come e quanto più di un vecchio soldato fedele ad Enomao, di un vecchio comandante o di un vecchio generale.

Ma un soldato non aveva i mezzi per muovere una sommossa. E nemmeno un comandante.

Ma un generale sì. Meglio se anche fidato e personale consigliere del Re.

Arricchitosi da anni di fedele servizio e conoscitore dei segreti e dei nascondigli del tesoro reale.

Colui il quale non bramava gioielli ma più sete di giustizia.

Colui che non voleva di certo vederlo seduto sul trono al posto dell’ amato Re assassinato.

Colui che non lo riteneva il Re di diritto.

 

Colui il quale poteva rispondere solo al nome del Generale e Consigliere Apyos della corona di Enomao di Pisa.

 

Fine capitolo sesto.

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Capitolo 8
*** Vi ucciderò uno ad uno ***


Il destino dei Re.

 

“Vi ucciderò uno ad uno.” Capitolo settimo.

 

La terra tremava.

Un ruggito profondo e costante risaliva dalle viscere scuotendo gli alberi, le persone, poche, rimaste ancora in piedi dopo il caos; si attendeva il giudizio, il nulla o più probabilmente solo la fine di quella giornata straziante.

 

Nella confusione degli elementi Ippodamia trasalì pensando ai suoi figli, soli, in preda ai mutamenti nei boschi.

 

“Atreo! Atreo!”

 

Le fronde degli alberi scuotendo risposero un laconico Shhh.

Vagò con gli uomini della guardia reale nell’intrico di querce e castagni con il cuore in gola ogni qualvolta un cervo o una volpe smuovevano gli arbusti; per lei, che il bosco era stata la sua casa, non v’era timore nelle creature della natura, ma i suoi figli, così piccoli, così delicati potevano rappresentare una grandissima fragilità nel medesimo contesto. Atreo era sì forte e coraggioso, dal temperamento caldo.. ma restava pur sempre un bambino e il piccolo Tieste non riusciva nemmeno a immaginarselo lì.

Doveva trovarli.

E li trovò. Il bambino di cinque anni con ancora il fagottino stretto fra le braccia e il corpo riflesso verso lo specchio d’acqua che era l’Alfeo; un corpo vacillante, troppo, le mani che sembravano tremare e provocare singulti alla stessa figura minuta, piccoli passi sempre più vicino all’acqua..

 

“Atreo!” Ippodamia si gettò verso il bambino tirandoselo addosso; quello voltò il capo lentamente scoprendo un ghigno malizioso.

“Volevo far vedere a Tieste i pesci argento.” Pochi secondi ancora e lo avrebbe gettato nel fiume. Ne era certa.

“Ma lui non può vedere ancora quello che vedi tu.” Delicatamente sciolse la presa delle sue mani sul neonato avvicinandoselo al petto. “vuoi raccontarglielo, Atreo?!”

“Sono stanco, mamma.” E abbassò il capo anche egli al petto della madre singhiozzando.

 

E’ il vostro sangue la vostra congiura.

 

*

Rientrarono a palazzo consumando un pasto frugale, con la luna alta nel cielo; si respirava aria mesta e la servitù filava di fretta con le portate. C’era vergogna; la testa basta per il rammarico di appartenere a quella fascia di popolo che aveva osato creare disordini.

Pelope non toccò cibo, la vista del sangue dei cosciotti d’agnello gli serrò lo stomaco.

 

“Mi hai fatta chiamare mio Re?!” Poco dopo nella sala delle udienze la Regina apparve alla vista del consorte; l’uomo dall’alto dello scranno la invitò ai suoi piedi, porgendole una carezza sul viso e il baciamano. “Perdonami sarai stanca, ma ho notizie troppo importanti.”

“Nulla è più importante della vostra vita sua Maestà, nemmeno il mio riposo.” Pelope annuì, congedando le guardie.

 

Ippodamia so chi mi vuole morto.” Sentenziò, appena rimasti soli.

“Chi?!”

Apyos primo Generale della Guardia del tuo defunto padre.” Scrutò il viso incerto della donna e proseguì, “troppe coincidenze, fra cui le istoriate che tu stessa hai riconosciuto appartenenti alla tua casata e gli avventori troppo capaci, troppo preparati. Uno fra questi ha confessato di essere un disertore del vecchio reggimento, capisci?!”

Apyos..” Le parole soffiate dalle labbra di Ippodamia morirono nei suoi occhi tristi.

“Chi se non lui?! Comunque abbiamo tenuto in vita uno degli ostaggi; avevano un appuntamento in alcuni diroccamenti fuori Pisa, ci condurrà lì.”

“Non sarà troppo rischioso mio Re?!” La donna si svegliò dai suoi incubi, alzandosi come colpita da una scarica elettrica; camminò verso le anfore colme di vino e ne versò in un due coppe. Apyos è solo un nome. Tu non sai chi si nasconde dietro quel nome. Vuoi credere che sia lui perché ti sentiresti sicuro, ma cosa accadrebbe se così non fosse?” Porse il calice all’uomo che aveva difronte, un uomo dal viso tirato, dai folti capelli lucidi di olio di macassar e solchi scavati nelle orbite per il dolore e la fatica.

“Tu mi hai chiesto di avere fiducia in te, ti chiedo io ora di ricambiarla a me.” Pelope si alzò e la prese fra le braccia. “Non posso lasciare Pisa in disordine quando me ne andrò e non voglio lasciarti con gli sciacalli dietro la porta; sei forte e so che avrai cura di te, ma lascia a me il duro compito della giustizia e appoggiami ancora, come hai sempre fatto.” Si staccò avvolgendo il volto della donna con le mani. “Non mi sono mai sentito così vulnerabile come oggi quando ho visto le sporche mani di quell’uomo addosso al tuo corpo.” La baciò, accarezzandole il seno e scendendo con l’altra mano fra le fessure della tunica; spuntò la spilla che tratteneva le stoffe all’altezza dei fianchi lasciandola scoperta di ogni indumento. Si stesero sui resti del peplo come su un giaciglio di erba fresca guardandosi negli occhi senza emettere alcun fiato. La loro vita era andata cambiando da quando si era completata di due bambini, Pelope si rese conto di non aver avuto più l’attenzione e la premura di ammirare e decantare le curve voluttuose del corpo di sua moglie, un corpo giovane e flessuoso da recargli turbamento e estasi, mangiandoselo spesso troppo di fretta e non godendolo in ogni minimo particolare.

“Ti amo Ippodamia, mia Regina.” Fece scorrere le mani sulla pelle, accarezzando ogni antro, incavo, superficie liscia e bianca; usò le labbra per provocare spasmi e l’altra mano per aumentare la voglia. Entrò delicatamente in lei solo quando si sentì sazio e pieno della sua figura, quando dal fondo degli occhi della compagna avvertì arrendevolezza e piacere e non ci fu altro da guardare, solo chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare per una via che avevano intrapreso insieme e che sarebbe stata destinata a continuare da lì all’eterno.

 

Se gli Dei non fossero stati così infimi e meschini.

 

*

Le fiamme crepitati nel camino di erano trasformate in braci ardenti e silenziose, Mia si ridestò dal corpo del suo uomo e si rivestì della tunica; con le mani ravvivò le ciocche bionde e flessuose del capo e fece per alzarsi.

“Prima di congedarmi vorrei sottoporti un altro problema mio Re.”

“Parla pure, ti ascolto.”

“Si tratta di nostro figlio Atreo.” Pelope issò il busto ponendosi attentamente all’ascolto. “Non sta bene mia Regina?!”

“Fin troppo bene direi. Il suo temperamento è smosso dalla forza di guerrieri, ma ciò che mi angustia è il suo animo turbolento. Negli occhi balugina la fiamma dell’intemperanza, della bramosia. Ma è un fuoco destinato a bruciarsi in fretta e che reca solo sventura!” Mia si inginocchiò al capezzale del suo Re serrandogli le mani con le proprie. “Devi prenderlo con te e incanalare la sua forza in qualche arte. Credo che abbia bisogno di sfogare la sua natura.”

“Anche nei tuoi occhi la gente vedeva strani presagi. Ma oggi hanno difronte la loro Regina.” Pelope si eresse gettando sulle braci legna nuova; contemplò le nuove fiamme aizzarsi l’una sull’altra. “Credevo volessi occuparti tu della sua istruzione.” L’uomo si girò verso la moglie. “Ma forse sai qualcosa che non so, vero?! E scommetto centrino i tuoi sogni.”

 

Mia abbassò lo sguardo ripensando alle nuvole che in nascita oscurarono i suoi occhi; due macchie scure che la sua balia amorevolmente chiamava così, quando in preda alla furia, alla rabbia o a sentimenti che scuotevano l’animo, le comparivano sulle pupille.

Quando Pelope prese la sua virtù, quelle nuvole sparirono senza far più ritorno.

 

“Ho sognato mio padre e lo sogno spesso; il suo monito è una cospirazione, il vostro sangue ha detto, sarà il vostro sangue la vostra congiura. Mi duole dirti questo ma.. al fiume Atreo stava per gettare il fratello in acqua, ne sono certa, lo avrebbe fatto se non fossi arrivata per prima.”

“E’ un bambino Ippodamia! Come può un bambino arrivare a tanto?!”

“Oh Pelope!” Mia si battè un colpo al cuore. “Nostro figlio non è solo un bambino. Lui è molto di più. La dea Artemide mise le mani nel ventre di mia madre aiutandola a partorirmi e quando tu nascesti un oracolo brillò sulla tua vita. Oh Pelope! Atreo non è solo un bambino. E’ il sangue del potere. Il sangue degli Dei.”

 

*

Una notte al calar del sole, quando tutto sembrava esser alle spalle ormai e coperti di mantelli a proteggere le loro identità, il Re e una piccola adunata di mercenari, uomini che avevano confessato di appartenere ad un piano per assassinarlo e passati alla sponda regale dopo aver visto le teste mozzate dei compagni che avevano rifiutato di collaborare e in cambio di una promessa libertà, partirono alla volta dei diroccamenti fuori la città.

Il generale Nikandrios in tenuta d’assetto, scudo di cuoio e calzari alla caviglia teneva la fila, rinnovato nel corpo e nello spirito per aver conquistato la fiducia del Re salvandogli la vita agli altari; suo era il compito di addestrare l’esercito che avrebbe marciato per la guerra in Lidia e Frigia e suo era stato il compito di ammaestrare i vagabondi e voltagabbana che si erano macchiati di tradimento e che quella notte marciavano invece al fianco del suo Re.

Ai primi accenni di boscaglia, laddove le strade principali di Pisa intersecavano il fiume a ovest, Pelope ordinò di smontare dai cavalli e legarli agli alberi; un giovane sbarbato di Pirgos restò a guardia, mentre gli altri si addentrarono verso le fiaccole che luccicavano nel buio.

Colsero di sorpresa un uomo e una donna, probabilmente una baldracca di Pisa, intenti ad ammucchiarsi su un cumulo di paglia a cielo aperto. “Questo sì che si dice fottere sotto le stelle!” Simon il mercenario dette un calcio nel posteriore dell’uomo facendolo caracollare di lato; la donna impaurita e con il grosso seno penzolante cercò di scappare ma due uomini le furono addosso. “Alzati ultimo dei romantici!” Rise sguaiatamente portandosi prepotentemente alle spalle dell’uomo, disarmato e costretto a obbedire, affondandogli il ginocchio nella schiena.

 

“Cerchiamo l’uomo di Corinto. L’ombra, si fa chiamare.” Ippodamia istruì Pelope prima di mandarlo alla ricerca del fantomatico Apyos, il resto lo avevano fatto i confessori a suon di frustate.

“Se è un ombra perché lo cercate?!”

“Qui le domande le faccio io, feccia!” Simon accompagnò al ghigno un colpo di tallone piazzato nelle costole. “Te lo ripeto di nuovo, forse oltre al cazzo anche le tue orecchie sono lerce. Cerchiamo l’uomo ombra. E’ nei baraccamenti adesso?!”

“Non ho visto nessuno.”

Vissarion, colpiscilo!” Mentre lo teneva stretto per le braccia un compagno si portò avanti caricando il piede sul membro dell’uomo ancora fuori dalle brache; quello urlò buttandosi all’indietro, ma Simon lo ricacciò in avanti a suon di calci. “Forse ricordi male.”

Ochi.” No, disse serafico l’uomo. Voithia! Voithia!” Aiuto. Aiuto. Ma nessuno corse in suo aiuto, solo altri calci.

“La baldracca, provate con lei!” I due che la tenevano stretta si misero in posizione l’uno di fronte all’altro e prima che uno dei due potesse toccarla quella cacciò un urlo straziante. “Vi prego, no! Non so nulla di questo uomo ombra, vi prego!” Ma quelli le tapparono la bocca con un pugno fra i denti; la donna sputò sangue. “Quanti denti vuoi perdere prima di crepare?!” Quello fece per colpirla di nuovo ma l’uomo fra le braccia di Simon gridò. “Lasciatela stare! Lo tengono loro, ma non si fa vedere spesso dopo quello che è successo agli altari. Tutta quella gente morta con onore..”

“Onore?!” Pelope sfilò dal buio, il mantello sul capo a coprirgli il volto. “Quale onore c’è nel tradimento?!”

“Si tradiscono i Re e le Regine. Io non vedo ne l’uno ne l’altra.”

“I-o s-o-n-o i-l R-e d-i d-i-r-i-t-t-o!” Pelope urlò sguainando la spada e con forza cieca la spinse per intero nel petto dell’u0mo; quello gorgheggiò. “Mia è stata la vittoria alle corse! Mio è il trono e mia è la sua Regina! Zeus mi è testimone! Che mi fulmini se dico il falso!” Gli occhi strabuzzanti del moribondo si spalancarono ancora di più; nuvole pesanti e cariche di pioggia si agglomerarono nel cielo tingendolo di un cupo color violaceo. I lampi illuminarono il cielo cadendo sulla terra, ma nessuno di essi a discapito del poveretto sfiorò il Re.

“Vi ucciderò uno ad uno. Uno ad uno!”

 

Rinfoderò la spada ancora grondante di sangue muovendo passi svelti verso le baracche sul finire del bosco; Nikandrios gli correva al fianco intonando le preghiere del buon soldato. Con un calcio spalancò le canne fasciate che fungevano da porta, l’elsa ben serrata al fianco, gli occhi ferini. Nella sala c’erano diverse stole e pagliericci sulla quale bivaccavano uomini di ogni genere, il vino accompagnava il fragore e le donne scaldavano gli animi; una veloce occhiata con il generale li portò a dividersi, uno verso il locandiere e l’altro sul fondo, defilato, in attesa.

“Una coppa di vino speziata, oste!” Battè sul tavolo parecchie monete d’argento, “e una confessione.”

Quello rise. “Cosa vuoi che ti confessi? Che ho le migliori baldracche dell’Elide?!” Agguantò le monete facendole scivolare dal banco sudicio. “Né. Le migliori, sì.”

Pelope gli serrò il braccio tirandoselo a sé. “Delle tue baldracche non me ne faccio nulla. Voglio l’ombra.” Si calò il mantello scoprendo il volto; quello smise di ridere, accigliandosi, le labbra tremanti, gli occhi increduli.

“Non c’è n-n-nessuna ombra qui.”

A ridere fu il Re. “La tua baracca è circondata dai miei uomini, hanno torce e spade, un solo comando e puoi dire addio a questo mondo.” L’oste guardò fuori dalle finestre; quando scorse dei leggeri movimenti nel buio trasalì. “Se invece te ne stai qui buono e mi dici dove posso trovarlo.. beh te ne sarò grato.”

“Grato.. quanto?!” Deglutì, socchiudendo gli occhi; Pelope fece volteggiare sul bancone cinque monete stavolta d’oro zecchino.

“Queste.. e la mia clemenza.” Si toccò l’elsa della spada e quello annuì.

“E’ alle latrine, quando rientrerà ti farò cenno.. Sua..”

“.. Suaramis, pescatore di Pirgos. I nomi sono pericolosi quanto gli uomini che li portano.” Pelope si voltò verso l’uscio sentendo la risata roca di uomo al di là della porta. “Torna al tuo lavoro e portami due coppe di vino, oste.” Il mantello tornò sul suo capo e il silenzio lo avvolse donandogli fattezze di una statua di cera. Si leccò le labbra. Vi ucciderò uno ad uno.

 

Fine capitolo settimo.

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Capitolo 9
*** Me lene eskià ***


Il destino dei Re.

 

“Me lene eskià” Capitolo ottavo.

 

L’uomo che entrò nella locanda era tozzo, un corto omuncolo con spalle piazzate e bicipiti granitici; si guardò intorno prima di prendere possesso di una stola dove giaceva divertita una delle puttane dell’oste. Le strappò di mano la coppa di vino, prima di tracannarla in un sol fiato.

Pelope lo osservava di traverso con occhi stretti, dal basso del cappuccio di rozza lana di cui era fatta la clamide indossata; uno sguardo complice con l’uomo dell’accordo le bastò a far capire che si trattava proprio dell’ombra.

Lasciò trascorrere i minuti non staccandogli gli occhi di dosso neanche per un istante, osservandolo bere il vino che gli colava giù per il mento e la sua figura non più asciutta come probabilmente lo era stata da giovane, quando al posto delle sgualdrine c’erano i cavalli del potente esercito del Re Enomao da domare; eccolo là, il grande Apyos, generale e primo comandante del Re.

Ippodamia gli raccontò a grande termini quella che era stata la sua vita; discendeva da una ricca famiglia di Patrasso l’antica città-porto dell’Achaia, affacciata sul mare Ionio e famosa per i commerci con la vicina Grecia Centrale e le isole sparse difronte la sua costa. Il giovane Apyos venne spedito alla corte dell’allora Re di Pisa, Asopo, per studiare le arti della guerra insieme ad altri figli di nobile sangue. Fra questi legò molto con Enomao che altro non era che il nipote del Re, figlio di Harpina primogenita di Asopo e per discendenza diretta, erede della corona. I due si affiancarono in molte battaglie, il giovane aveva un senso spiccato per l’addestramento e il combattimento e quando sul suolo dell’Elide, vi furono spargimenti di sangue per affermare l’egemonia del Re, dette riprova di suddette capacità affermandosi comandante prima e generale poi quando al potere salì il suo amico di infanzia Enomao. La loro amicizia si saldò con il passare degli anni, delle battaglie e delle gioie della vita, ma anche dopo momenti bui, quando Enomao perse l’unica donna che aveva mai veramente amato, la madre di Ippodamia, il generale si tolse ogni armatura e gli restò accanto come semplice amico. Non v’erano ombre sull’onestà di Apyos e se aveva un difetto, lui uomo mortale, era quello di temere gli Dei, la loro presenza, il loro giudizio. Ma di questo, aveva proseguito Ippodamia, non poteva essere biasimato; tutti gli uomini temono ciò che non comprendono.

E questo era quanto Pelope aveva voluto sapere, perché conoscere quanto straordinario fosse, quali e quante riprove di fedeltà aveva dato al suo Re lo avrebbero solo rallentato nella sua missione; ucciderlo. Cancellare con un colpo di spada tutto ciò che era stato, senza permettere a nessuno di instillare nel suo cuore l’incertezza, per un uomo che di certo non avrebbe meritato morire senza onore, senza rispetto.

Svuotò la coppa e afferrò l’altra voltandosi nella sua direzione; scivolò dalla panca come un felino avvicinandolo.

Quello si accorse di lui solo dopo aver abbassato la coppa di vino, la terza, da quando era arrivato; restarono a fissarsi, Pelope con il ghigno di chi sa e Apyos con l’incertezza della vista quasi appannata.

 

“Che hai da guardare ragazzo?!” Berciò di un tono superiore al trambusto della sala; tutti si voltarono a guardarlo.

Kalà.” Ebbene, rispose suadente. “Volevo vedere se è vero.” E sputò in terra.

“Vero cosa, aghorì?!”Apyos sputò l’ultima parola con disprezzo. Ragazzino. Si issò con un sol colpo di reni, accarezzando l’elsa; in piedi era ancora più piazzato di quanto non gli era sembrato vedendolo entrare da lontano, con l’alito che sapeva di vino e di spezie e i denti lucenti e affilati come quelli di un lupo.

Pelope non aveva paura, ma il cuore gli martellava nelle tempie, il respiro affannato. Sputò ancora stavolta ai suoi piedi, accorciando la distanza.

“Che l’uomo tanto valoroso di cui tutti parlano si è messo a fare l’ombra..” Pelope svuotò la coppa con il vino in faccia ad Apyos; quello imprecò con gli occhi arrossati e brucianti, ma avvertendo dei passi affrettati si voltò di scatto alla sua destra vedendo arrivare dal fondo della sala Nikandrios con la spada imbracciata; senza rifletterci assestò, come meglio potè, una spallata contro il petto di Pelope sbilanciandolo all’indietro per guadagnare poi l’uscita a grandi falcate.

“Uccidilo!” Pelope indicò l’oste, Nikandrios gli fu addosso lacerandogli la carotide in un sol colpo. “Bruciate tutto! Bruciate tutto!” Si lanciò fuori gridando comandi ai suoi uomini, alcuni lo accostarono nell’inseguimento liberandosi di spade, mantello, calzari per essere più veloci. In un attimo ci fu una grande fiammata ad illuminare i campi e il bosco tutto attorno; urla si dispersero nella radura ma Pelope continuò a correre imperterrito dietro la sua preda; Apyos arrancava, ebbro di vino.

Nel frattempo il ragazzo di Pirgos attirato dai rumori e allertato da un’altra sentinella smosse i cavalli nella direzione del Re; Pelope girò il viso e vedendolo arrivare gridò estasiato. “Corri quanto vuoi generale! Prima dell’alba brinderò al tuo cadavere!”

 

Piegato sul baio nero sembrava una furia; la bocca aperta dalla quale fuoriuscivano suoni mostruosi, i capelli come fruste colpivano l’aria, la mano che brandiva la mazza chiodata ora volteggiante nell’aria; scemò la corsa e l’animale fiutato l’ostacolo umano dinnanzi alle sue zampe impennò mostrandosi in tutta la sua mole, schizzando bava dai denti scoperti.

Apyos si voltò vedendoselo addosso ma l’istinto di sopravvivenza lo spinse ad arrancare altri passi; d’improvviso si ritrovò con il volto a terra e un dolore lancinante a bloccargli le gambe. Era finita. Sputò e urlò.

Era finita.

*

Riconobbe le risate dell’ uomo dal fondo dei cortili di Pisa, come un segno premonitore.

Scivolò dalle lenzuola fredde e senza sonno per gettarsi addosso la tunica e andargli incontro incerta, impaurita, curiosa.

Fa che non sia lui. Fa che non sia lui. Ma non si vedeva nulla, i servi erano stati congedati, le sale delle udienze apparivano gelide e buie.

Le sentinelle sulla piazza si ridestarono sentendola gridare, batterono le picche al suo passaggio e si apprestarono a metter luce.

 

“Il Re è tornato! Sveglia, il Re è tornato!”

 

In un batter d’occhio, la piazza interna al castello fu gremita di servitù, pedine silenziose, occhi e mani pronte, che nulla sapevano eppure tutto sapevano. E tutti si girarono non appena dal buio delle strade esterne apparì la sagoma di un uomo alto e riccioluto; il medico di fianco a Sua altezza la Regina tremò esitante, azzardando qualche passo in avanti, ma Ippodamia gli bloccò il braccio.

 

“Quello è il tuo Re. Ed è vivo.” Era sicura. Lo aveva percepito. E vedendolo adesso camminare alto e fiero voleva solo corrergli incontro e baciarlo appassionatamente. Ma era la Regina. I Re non corrono verso nessuno, nemmeno verso altri Re.

Dietro di lui un filo di uomini spogli, più spogli di come erano partiti lo seguivano, con le facce polverose, le divise luride, ma i sogghigni di chi già pregustava laute ricompense da riempirsi la pancia e la vita.

“Mia Regina” Pelope si inchinò, sfiorandole appena la mano con le labbra, seguito a ruota dai suoi uomini. “Ti porto i miei successi e la salvezza della tua vita a me tanto cara.”

“Alzati mio Re. E mostrami chi ha osato offendere il trono e la mia famiglia.”

 

Un uomo entrò a cavallo trascinandosi dietro lo straccio di ciò che rimaneva del colpevole; una figura simile ad una roccia anche se claudicante e con le gambe tutte insozzate di sangue, la faccia lercia e le braccia ancora più lerce legate per i polsi al baio che lo trascinava.

Gli occhi di Ippodamia si strinsero tanto da lacrimare. Ma era soddisfatta.

Lo avevano costretto a percorrere tutto il tratto di strada al ritmo del trotto del baio, dalle radure disperse fino a Pisa; e quando l’animale si fermò, anche egli si fermò, restando ritto e senza vergogna, senza dar riprova della fatica e del dolore.

Ippodamia immerse delle pezze mediche in un catino d’acqua, le strizzò e gli si avvicinò. “La polvere copre gli occhi di questo reietto. Diamogli la vista, fino a quando gli serve.” Rise, ma il sorriso divenne una smorfia non appena dal lerciume comparvero tratti a lei conosciuti. Abbassò la mano, delusa. “Ebbene è vero ciò che si mormora.. ti sei nutrito del cibo del tuo sovrano, hai sfoggiato i suoi ori e le sue ricchezze, il tuo nome è stato inciso nella memoria della storia delle conquiste per la città, eppure oggi ti trastulli con guitti e cani giocando alla rivoluzione, macchiandoti persino di tradimento!” Gettò stizzita la pezza ai piedi dell’uomo, “cosa hai da dire a tua discolpa, Apyos di Corinto, primo Generale del comando del Re Enomao?!”

La folla si lasciò andare a gridolini di stupore, fischi e ilarità; d’un tratto tutti si strinsero in un cerchio soffocante intorno all’uomo che un tempo impartiva ordini per vece del Re precedente, quello che amava le corse ai cavalli, alla quale egli stesso insegnò tecniche di perfezionamento e di guerra coi carri. Lo guardavano con occhi assassini, già ebbri dell’odore di morte, in prima fila per quello che si preannunciava un finale trucolento.

L’uomo non si attardò ad accontentarli, si guardò intorno, uno ad uno inchiodò quei volti, schiarì la voce e sommessamente iniziò a parlare. “Ho servito il mio sovrano come e quanto di meglio avrei potuto fare, con devozione e rispetto. Ho pagato i dazi della mia fedeltà con le cicatrici delle battaglie che mi porto dietro ed ho cenato alla sua mensa come un umile uomo. Ho raccolto il suo corpo dalla polvere quando è stato assassinato e..” La folla ululò, Pelope si portò al suo viso colpendolo con il bastone della lancia; grumi di sangue e denti schizzarono dalle sue labbra, ma proseguì. “..ho pregato per lui. Ho cercato di metterlo in guardia sui pericoli che incombevano, ma non ha voluto saperne ed ha pagato con la vita.”

“Il tuo Re era forte, ma non immortale!” Pelope sputò in terra. Lo afferrò per la tunica e gli lanciò parole serafiche in viso. “Tu dovevi proteggerlo e lo hai lasciato nelle mani di Mirtilo, il traditore che ti ha preceduto.”

“Traditore?!” Apyos scosse il capo; dalla caduta di Enomao non aveva avuto più notizie dell’auriga.

“E’ stato lui a manomettere il carro di Enomao accecato di bramosia nei riguardi di Ippodamia, sperava di poterla avere per se. Ma questo non è servito a nulla, i cavalli che Poseidone mi ha donato mi hanno portato alla vittoria prima del disastro e il tuo Re per mano di un uomo meschino è deceduto sotto i suoi stessi cavalli.” Il popolino confermò le parole del sovrano con altre urla affermative; Pelope soddisfatto lo liberò dalla stretta. “Come vedi, hai fatto male i tuoi conti, Eskià.”

Eskià.” Sussurrò. Ombra. Aveva passato l’intera esistenza a proteggere la vita di Enomao, ed era stato tanto cieco da non vedere che il pericolo che aleggiava sulla testa dell’amato sovrano, era proprio il suo braccio sinistro? Mirtilo, il fedele auriga. L’uomo con il sangue misto degli Dei, l’uomo che lo rendeva nervoso ogni qual volta appariva in una stanza, l’uomo che amava i cavalli più degli uomini.

Si trettenne il capo fra le mani.. la verità era sempre stata sotto ai suoi occhi.

E quegli occhi si velarono, abbassò il capo e soffiò con voce roca. “Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per la corona.”

 

“La corona ti ringrazia.” Pelope si sfiorò l’elsa e proseguì. “Ma tu morirai.”

 

Venne fatto portare via, di modo che si potessero dare il via ai preparativi; una forca dinnanzi a tutto il popolino sarebbe servito a mettere a tacere gli animi ribelli che lo avevano appoggiato. Si fece trascinare in silenzio, quasi consenziente, verso il patibolo. Non emise alcun suono, neanche quando il cappio fu appoggiato intorno al collo tozzo.

 

*

Fuori era quasi l’alba e i due monarca si tenevano per mano, a farsi forza; la fatica contornava i loro occhi di nero fumo, gli abiti smessi.

Ippodamia guardava Apyos priva di emozioni.

Era stato l’uomo che l’aveva aiutata a camminare, che le aveva insegnato a maneggiar di spada, che l’aveva protetta mentre sua padre era via per il continente, eppure non sentiva niente; tale era stata la paura di perdere l’amato sposo o la vita preziosa dei suoi figli, che il cuore le si era attorcigliato nel petto, ed ella non sentiva più niente.

 

Apyos di Corinto, Primo Generale della guardia di Enomao di Pisa, io ti condanno a morte per alto tradimento.” Pelope esordì e tutto attorno ci fu silenzio. “Per il tuo grado e per il servizio prestato alla Corona, avrai l’onore di essere bruciato come un uomo rispettabile così che la tua anima non vaghi dispersa su questa terra. C’è qualcosa che vuoi dire, prima di morire?!”

 

Lei ricordava le loro battaglie, quando tornavano a casa con le armature inzaccherate di sangue e l’anima mesta, ricordava le loro risate quando veniva fatta portare a letto ma oltre le canne dei muri riusciva a sentirli, ricordava i loro simposi, le loro cerimonie, i loro battibecchi.. eppure, non sentiva niente.

Si domandava se adesso avrebbero cavalcato nei cieli, assieme. Se l’anima mortale di Apyos avrebbe raggiunto l’Olimpo e quella del suo Re.

 

“Me lene eskià.” Io sono l’uomo ombra.

 

Si chiedeva questo e molto altro.. mentre il suo corpo era ancora attaccato alla vita, in preda alle convulsioni, penzolante da una forca.

 

Alaya..” Sussurrò, prima di morire.

 

Fine capitolo ottavo.

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Capitolo 10
*** Ninfa ***


Il destino dei Re

 

“Ninfa.” Capitolo nono.

 

“Allora, come sta?!”

 

Il medico di corte uscì dalla stanza con viso cupo. Sua Maestà la regina non stava bene.

Da quando il Generale Apyos era stato impiccato nella piazza della città, rifiutava il cibo spesso e il bel viso roseo si era fatto cianotico; si diceva soffrisse di incubi che la tenevano sveglia la notte riempiendo di urla strazianti i corridoi, che scostasse le persone e persino la vicinanza del suo amato Pelope la infastidiva. Neanche le dolci risate di Melibea, riuscivano a distogliere i suoi occhi dai pensieri che le annebbiavano la mente.

I suoi figli erano l’unica cosa che rubava al suo viso il sorriso; ma Atreo venne fatto allontanare dalla madre per iniziarlo alle pratiche di combattimento corporale, agli studi e all’educazione di Re. Il piccolo Tieste cresceva a vista d’occhio, ma le sue poppate contribuivano a svuotarle il corpo già scarno e per questo si trovò una balia che sostituisse la madre.

L’unica presenza che richiedeva con ostinazione era Alaya, la sguattera dalla mano monca.

La giovane si era rilevata con grande sorpresa servizievole e amorevole nei confronti della donna che l’aveva condannata, a vita, all’umiliazione di servire la corte con una sola mano, per questo Pelope non si fidava di lei e gradiva assai poco l’assidua presenza accanto alla regina.

Inoltre era dotata di una grande sapienza sulle arti magiche e questo la rendeva deliziosa agli occhi di Sua Maestà la Regina, ma una megera agli occhi di Sua Maestà il Re.

 

“Sua Maestà ha un male che non può essere curato con i miei preparati.”

“Di che male si tratta medico, non tirarla per le lunghe.”

“Ha il male dell’anima, Maestà. Ha subito un forte choc, dobbiamo darle il tempo di riprendersi.”

“Quanto tempo?!”

“Giorni, mesi, anni.. nessuno sa con certezza quando si smette di stare male.”

Il Re abbassò lo sguardo disperato. “Non ho mesi davanti, tanto meno anni!”

“Mio Re, farò tutto ciò che ho in mio possesso per aiutarla, posso garantirlo.”

“Che sia così, medico.”

 

E se andò frusciando la clamide.

Ippodamia era stesa a letto, in un sonno artificiale. Si avvicinò alla coppa accanto a lei e l’annusò; latte di papavero, l’elisir del dolce sonno.

Non la svegliò, ma prese la sua mano esile come un giunco e la strinse forte nella sua; doveva riprendersi, era giovane, forte e bella.. ed era la Regina di Pisa, chi avrebbe vegliato su di lei quando sarebbe partito per la guerra?!

 

“Mio Re..” sussurrò dopo qualche ora, aprendo gli occhi; Pelope alzò il capo dalle loro mani intrecciate e le sorrise.

“Vegliavo sul tuo sonno.. e tu hai preso il mio!”

“Non dovresti stare qui, i tuoi doveri ti richiedono presente.”

“Prima la tua salute e poi i miei doveri.”

“Vorrei che fosse così..” Guardò lontano, verso la finestra; il sole era alto e c’era molta luce. Aveva confuso le notti con i giorni e non aveva più coscienza ormai di quanto avesse dormito. “Non fraintendere, sei un uomo premuroso, ma presto le tue guerre ti porteranno via da me e a quel punto la mia salute, le mie nubi, i miei pensieri saranno lontani da te.”

“Mi rechi offesa a pensar questo, mia Regina.” La guardò contrito, lasciando andare le sue mani. “Quando le prese si assesteranno e i venti saranno più tranquilli, tu mi raggiungerai. Avevo già pensato a questo, te ne avrei parlato.”

“E il regno?! Chi baderà al regno?! E i tuoi figli?!” Tirò le coperte fra le mani strette a pugno. “Noi non combattiamo più per la stessa guerra Pelope, la nostra l’abbiamo già vinta!”

“Non farmi questo Ippodamia, non chiedermi di scegliere fra te e il mio destino. Vinceresti tu. Tu sei più importante di tutto il resto, ma il mio destino è stato scritto e tu eri fiera di compierlo insieme a me. Sapevi cosa ci attendeva, cosa è cambiato?! Sono io che ti chiedo di non lasciarmi solo, adesso. Ciò che sono diventato lo devo a te e al tuo coraggio. Ti prego combatti ancora con me, sostienimi perché io non sono niente senza di te.”

Gli occhi della donna si velarono. “Lasciami riposare adesso, ti prego va via.”

“Ma..” Ippodamia scosse il capo e Pelope capì, fece riverenza e sparì. Oltre le mura, per i corridoi, la sentì singhiozzare.

 

“Pazienta mio Re.” Alaya passò svelta con un anfora tracotante d’acqua bollente, ma si fermò non appena lo vide. “La regina è forte. Guarirà.”

 

*

“Assomigli molto alla mia balia, Alaya. Anche lei aveva occhi come i tuoi.” Il moncherino della serva urtava la schiena di sua maestà, ogni qualvolta l’altra mano si faceva spazio sulla pelle morbida. La sguattera era guarita, a sostituire l’orribile mutilazione le era stato messo una coppa d’oro piccola e rigirata. Era quasi graziosa, se non fosse che l’ordine di sfregiarla lo aveva dato lei. “Quanti anni hai?!”

“Credo abbiamo la stessa età, sua maestà.” E aggiunse abbassando il capo, “non ho mai conosciuto mia madre.”

“La mia è morta prima che ricordassi. Non c’è vergogna in questo.” Le sorrise, facendosi avvolgere in un lungo telo di lana. Apyos ha fatto il tuo nome prima di morire.” La serva tremò, facendo scivolare fra le mani la veste pulita.

“M-mi dispiace sua Maestà. Ne prendo subito un’altra.” E scappò verso le ceste con gli abiti freschi.

“Non devi avere paura Alaya, io mantengo la parola data. Non ti verrà fatto più alcun male.” La stoffa calò lungo il corpo, rappresa in vita da un cordino rosso e oro. “Ma a me piace la verità, qualunque essa sia non dovrai avere riserve con la tua Regina.”

 

Dagli occhi della ragazza scesero due lacrime. “Era mio padre.”

 

Mia soffiò triste fra le labbra contrite. “Triste è la giustizia del Re, perchè nelle sue mani è il potere.”

 

*

“Come sta la nostra Regina?!” Atreo e Nikandrios erano nella sala del concilio insieme a sua maestà; si andavano assestando le prime strategie che li avrebbero portati al di là della terra d’Elide, sul continente Asiatico a riconquistar terre e tesori perduti. Prima di tale passaggio era nei desideri di Pelope assoggettare tutta la penisola Morea al suo comando, formando agglomerati come Olimpia, dove il tempo trascorreva fra i ricchi mercati e la divinazione degli Dei. Il Re sognava in grande e lo faceva quanto bastava per tutti gli altri.

“Nessuna novità a riguardo, aimè.” Si accomodò sullo scranno e indicò le pergamene sul tavolo. “Generale Nikandrios, illustrami i tracciati ed elencami nuovamente il numero di volontari che hai a tua disposizione.”

“Attraverseremo l’Elide con cinquecento uomini verso sud in Messenia e Laconia risalendo per l’Argolide e tagliando di netto la penisola passando per Tegea, in Arcadia. A quel punto risaliremo verso la costa in Acaia e faremo saggiare la nostra la lama a Patrasso, se occorrerà, dopo di che dritti per Corinto a est dove ci attenderanno le navi che la porteranno nelle terre che le spettano per diritto e nascita, mio Re.”

“Un messaggero fa sapere da Tebe che tuo cognato è disposto ad affiancarti un plotone di rinforzo.” Atreo li interruppe armeggiando con i primi accenni di una folta barba che avrebbe preso posto sul suo viso terreo. “Ti aspetterebbe a Corinto, prima di prendere il largo.”

“Ringrazialo, ma declina il suo aiuto.” Pelope si mosse nervoso sullo scranno. “Non voglio render merito a nessuno dei miei successi.”

“Duecento uomini Pelope, fossi in te ci penserei almeno un po’.”

“Duecento uomini da buttare via e mia sorella giace pietrificata in una valle di nessuno perché il Re di Tebe non interferisce con la giustizia divina! Dovrei ucciderlo con queste mie mani!” Triste era la storia di Niobe e nessuno aveva voglia di ricordare quanto ella dall’alto della superbia della sua casata, si vantò di esser bella e feconda più della Dea Latona, invitando il popolo a venerare lei anziché una donna capace di dar al mondo due soli figli. Due soli figli il cui sangue però era lo stesso di Zeus e che gli avevano annientato la bella prole per punizione, trasformando lei in una roccia di pietra, tanta la paura della loro crudeltà.

 

“Era anche mia sorella.” Ma Atreo lo tenne per sé. Questa era la guerra di Pelope. Il destino di Pelope.

Lo avrebbe affiancato e avrebbe combattuto le sue battaglie, ma il solo ruolo che gli spettasse era quello di tener caldo un finto trono nelle remote terre che diedero i natali ai loro progenitori.

La gloria, quella fatta dell’eterno riecheggiare di nomi, beh quella gloria, spettava solo ed unicamente a Pelope.

 

Alla fine del giorno il Re si sentiva il capo dolere, dal peso della corona e dal peso delle responsabilità.

Annegò i suoi pensieri in una coppa di vino, nelle sale private dove la moglie giaceva a letto in compagnia della sua schiava e dei suoi unguenti per calmarle il sonno; si sentiva frustrato e incompreso da quella donna ora ostinata e attaccata alle regole antiche della sua casa.

Che ne era stato di sua moglie?! Dove era finita la donna che mosse il coraggio con tanta astuzia e vigore da farlo salire al trono?!

Non aveva risposte. Solo domande. Gettò la coppa lontano, in un moto di rabbia; il vino lo aveva reso d’un tratto più ansioso.

 

Ma non era tutto.

 

Sentiva il suo nome sussurrato da una voce ovattata e flebile, un richiamo alla sua attenzione.

Una voce interna o forse il troppo vino, convenne, ma troppo chiara per essere solo immaginazione.

Si alzò dunque, portandosi alle grandi finestre della stanza; la vista impeccabile dava sui boschi di Pisa.

Un lampo di luce sferzò nel buio. Non era una stella; acuì la vista e si stupì nel notare che la luce aveva la forma di un corpo flessuoso e dorato.

Il guizzo sembrava giocasse, attorcigliandosi ai tronchi deli alberi, impaziente; era chiaro, doveva uscire e scoprire cosa fosse.

Sentì le donne dalle pareti attigue ridere e bisbigliare e ne approfittò per dileguarsi; coperto il volto dalla clamide, deviò i percorsi protetti dalle guardie e imboccando un vicolo che ridiscendeva nei cunicoli della città, si ritrovò fuori dalle mura del palazzo. Superò silenziosamente la piazza principale e le case più ricche nate dopo la ricostruzione e si avviò verso la radura; il bagliore gli fece strada, ed avvicinandosi si mostrò dai contorni più tremolanti e quasi impercettibile, tanto da farlo dubitare, ma proseguì.

Qualcosa di attraente rifulgeva in quella luce. Un richiamo, la delizia del calore e il mistero del luccichio.

 

“Chi sei? Fatti vedere!” Bisbigliò agli alberi, la dove l’aveva vista; tutto era tornato fermo e statico, con il suo sopraggiungere.

Una risata e il fruscio di foglie gli rispose. “Non voglio farti del male, fatti vedere.” Si addentrò nel bosco seguendo i sospiri e quando si girò attirato dal rumore secco di ramo spezzato, notò che aveva percorso un netto tratto di strada e che dal sottofondo si udiva lo scorrere delle acque placide dell’Alfeo; temette di esser stato sciocco e infantile, impugnando con diffidenza l’elsa della spada.

 

“Non hai bisogno di quella.” Una voce cristallina arrivò alle sue spalle e nel voltarsi percepì lo spostamento fulmineo di un ombra lattea e informe; si piegò sulle ginocchia, come attendesse che quel qualcosa gli piombasse improvvisamente addosso. “Ti aspettavo.” Fu tutto ciò che arrivò.

Restò calmo, per nulla spaventato. “Mostrami chi sei.. e fatti capire.”

“Ciò che vedrai potrà recarti molta sorpresa. Potresti non aver più voglia di tornare.”

“Lascia a me giudicare.”

 

Non percepì il suo arrivo, solo una folata d’aria che gli annegò i polmoni; quando riaprì gli occhi si trovò dinnanzi una creatura dalle fattezze umane e.. perfette. L’aspetto era quella di una donna, dalla pelle traslucida rifulgente di bagliori argentei, il volto squisitamente armonico e di porcellana, due occhi che al buio sembravano brillare. Mosse le labbra impercettibilmente, ma non udì alcun suono dapprima, solo dopo alcuni istanti percepì la voce umana e che la sua attenzione era stata catturata a tal punto da non averla sentita parlare.

Arretrò di un passo, un po’ scosso, ma non troppo, da quel corpo che emanava un calore rassicurante e al contempo freschezza; quella rise, ristabilendo la distanza. “Il Re ha perso la parola.” Era quasi vicina, la sua aurea più del corpo di carne e poteva sentirla, addosso, come se braccia invisibili l’avessero avvolto. “Ma non temere, presto tutto sarà più chiaro e capirai.”

“Parli per enigmi, strana creatura.. non avvicinarti.” Arretrò di nuovo e quella restò ferma, ubbidiente.

“Non devi avere paura di me.”

“Paura?! La paura non mi appartiene.” Sputò in terra. ”Come sai chi sono?!”

“So molte cose di te, Pelope. Del passato e del tuo futuro. Ed è soprattutto questo che mi interessa di più.” Graziosamente provò a muovere qualche passo, sicura quando non vide nei suoi occhi il ripudio. “Il nostro incontro è stato scritto per volere degli Dei, sono stata mandata qui per salvarti.”

“Salvarmi da cosa?!”

“L’oblio della tua stirpe. Morirai Pelope, angustiato e pieno di dolore.” Gli soffiò sul viso alito caldo. “Ma se mi seguirai, la tua vita sarà serena e lontano dalle ombre.” Gli toccò la mano, ma il Re la ritirò accompagnando il gesto ad una risata amara.

“Il mio destino è dominare.” Fece per voltarsi ma la guardò ancora una volta. “Sono nato per combattere, nel dolore e negli angusti.. non sai niente di me, strana creatura. La spada e la terra sono il mio regno, non i boschi e luci fatue. Questo.. è il volere degli Dei!”

E se ne andò, non voltandosi più.

 

Corse alla volta del castello impaziente e quando fu nel dormitorio reale, destò la serva da quello che era il suo posto e la sbattè fuori; Ippodamia aprì lentamente gli occhi, odorava di rosa e la pelle del volto alla luce delle fiaccole rifulgeva di un colore che non le apparteneva.

 

“Ti voglio.” E le fu sopra, senza attendere il consenso o il permesso.. lasciandosi guidare, però, da mani ben contente di riaverlo a casa.

Quando le loro carni si unirono i gemiti della regina riempirono la stanza e un urlo squassante, fuori, volò libero dalla boscaglia.

Pelope rabbrividì; le parole della creatura gli bucarono la mente.

E’ solo un lupo, pensò.

Dagli spettri delle sue paure lo raccolse Ippodamia, che stringendolo al collo, gli sussurrò supplichevolmente di non lasciarla.

Di non lasciarla mai. Di ritornare sempre. Di amarla comunque.

 

Non ti lascio.” E solo alle prime luci dell’alba, spossato, lasciò che la donna accucciasse il capo al suo petto.

 

*

Si sentiva meravigliosamente bene.

Tanto da ordinare alla serva le vesti più sontuose e i gioielli più preziosi.

Pelope la salutò dopo la colazione, porgendole una carezza e un bacio lieve sulle labbra.

Dopo il bagno si sedette dinnanzi allo specchio e mentre i capelli venivano spazzolati con pettine d’onice, alzò inni per la Dea Afrodite; le servette l’ascoltarono estasiate, rapite dalla voce soave. Risolini e altre voci bianche si unirono alla sua formando un coro deliziosamente fatato.

I canti si fermarono di colpo; girando la guancia, nascosta alla fine dello zigomo e verso l’orecchio, una lunga scia di polvere dorata brillava sulla sue pelle come un trito finissimo di diamanti alla luce del sole.

Si toccò istintivamente quella meraviglia, ricordando che Pelope nella notte passata e prima di congedarsi, vi aveva appoggiato la mano; rabbrividì, spaventata ed estasiata al tempo stesso.

 

Alaya!” Urlò e le servette minori si dileguarono dalla sua vista.

La donna accorse tutta trafelata, afferrandole il volto. “Polvere di fata.” L’ispezionò, annusandola. “Trucchi da ninfa dei boschi, sua maestà. Come ve la siete procurata?!” La guardò ingenuamente.

“E’ male o è bene?!”

“Male, Sua mestà.” Sbarrò gli occhi, rendendosi conto dell’errore. “Sono considerate le sirene di terra. Adescano gli uomini con la loro luce melliflua e incantatrice e li costringono a seguirli.”

“E cosa succede loro, dopo?!”

“Morte mia regina. Lenta, agognata, morte.”

“Come lo sai?!”

“Mia potente Regina siete nata dalle viscere di una cacciatrice, dovreste sapere che non tutte le creature del bosco sono perfette.”

 

Ippodamia annuì, afflosciandosi sulla seduta.

D’un tratto il viso disteso e sereno diventò una maschera contratta di paure e domande. “Portami del vino caldo. E una soluzione.”

 

Fine capitolo nono.

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