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Se
è vero che il destino è scritto, chi perirà per mano di chi?!
“Olimpia
non è la mia casa”. Capitolo primo.
Olimpia affacciò al giorno il suo sole migliore.
Le Olimpiadi si erano concluse da una notte eppure
le strade erano ancora piene di gente al bivacco.
Melibea
di Tebe aveva sancito la vittoria.
Una donna.
E nipote di Pelope futuro Re di Pisa.
E vittima delle persecuzioni degli Dei in quanto
figlia di Niobe, appartenente alla stirpe di Tantalo il truce, il maledetto
dagli Dei; la povera madre della giovane in un impeto di superbia aveva poi
rincarato la dose di sfortuna vantandosi durante i festeggiamenti in nome della
Dea Latona dei setti bellissimi figli procreati,
proclamandosi superiore alla Dea, sulla base dei soli due figli da lei
generati.
Due figli sì, di nome Apollo e Artemide.
E che Latona istigò contro
la donna sciocca che aveva osato offenderla pubblicamente e ai quali ordinò di
ucciderle senza pietà i figli.
I sette bellissimi figli.
Di questi si salvò solo Melibea
appunto, che ebbe l’arguzia di recitare una preghiera di clemenza alla Dea in
punto di morte e motivo per il quale le fu invece risparmiata la vita.
Di tutte le vittorie questa parse la più mesta.
Donna e persino dannata.
*
Ippodamia
dal talamo nuziale, non riusciva a prender sonno. I pensieri e le risate
sguaiate dei vecchi ubriachi la tormentavano.
Pensava ossessivamente a Melibea.
Che fosse l’ennesimo scacco che il Grande Zeus tirava contro ella e il suo
sposo?!
La notte aveva sfilato sulla sua tenda ombre oscure,
grandi mani nere a volerla stringere in una morsa mortale.
Si era svegliata imperlata di sudore in viso e con
il respiro affannato si era portata fuori all’aria aperta.
Grandi passi sullo sterrato che divideva la zona
sacra –dove era stato eretto un piccolo palazzo dove potesse alloggiare con il
suo sposo in vece di madrina delle Olimpiadi- da quella delle gare, la
condussero all’altare del padre di tutti gli dei.
Era tesa e irata da tanta malasorte ed anche se sapeva
che questo era solo un assaggio della malevolenza che Zeus poteva porgergli
addosso, non riusciva a pensare ad altro che non fossero catastrofi e rovine.
“Sapevo
di trovarti qui.”Pelope
l’aveva raggiunta sentendola sgusciare fuori dalle coperte. ”Ti
prego alzati, ti affaticherai stando così.”
“Mi
chiedo quando finirà.”Mia
si sfiorò il ventre, gonfio della seconda gravidanza.
“Quando
non avrà più pace se non quella di vederci morti.”Aiutò la moglie
ad issarsi, accogliendola fra le sue braccia.
“Non capisco Pelope. Prego la sua misericordia tutti
i giorni. Con un alito di vento ci ha spediti all’altro capo della penisola ma
con tenacia siamo arrivati sin qui a rendergli il perdono senza remore. Olimpia
è diventata grande da quando siamo arrivati e i Giochi stanno prendendo sempre
più spazio nella vita politica e sociale della Grecia. Il suo nome è legato ad
essi e ogni quattro anni e anche meno, accoliti di persone vengono qui a
rendergli onore.” Inspirò, oltre la spalla del suo sposo.“Credo questo sia abbastanza.”
“Non sarà mai
abbastanza fin che non vedrà scorrere il mio sangue o il tuo.” Le
baciò i capelli prima di allontanarla dal petto per fissarla nei grandi zaffiri
che aveva per occhi. Era stanca, il bel volto segnato dalla sofferenza dello
spirito e del corpo. Le parole uscirono autoritarie.“Perciò mia signora ti ricondurrò a Pisa, nella tua
antica casa, dove partorirai il mio secondo figlio e dove cominceremo la nostra
nuova vita.” La baciò guardando lontano, oltre i
campi verdi e le colline degradanti.“Il nostro
compito qui è terminato. E’ tempo di tornare.”
Mia lo abbracciò forte, in silenzio. Le lacrime che
ricadevano dagli occhi come rugiada del mattino; ne avevano passate tante e per
tanto tempo erano stati figli della terra di nessuno. Olimpia non era mai stata
ostile al loro arrivo, i rozzi abitanti che accampavano le sue terre erano da
sempre stati ospitali e di buona lena si erano subito prodigati ad allestire i
Giochi insieme a Pelope ed alcuni ingegneri accorsi da città vicine non appena
i loro progetti erano divenuti comuni.
La fama e la popolarità di Zeus avevano fatto il
resto, benedicendo le gare che vi erano state compiute ad oggi; sciami di
persone avevano deciso persino di metter radici trasformando quello che era un
accampamento in una vera e propria città favorendo i commerci e l’espansione
sempre più vasta nel territorio, una volta simile a una macchia in un foglio
bianco.
Erano passati quattro anni e due Olimpiadi. Era
stata bene, era stata felice, qui aveva partorito il suo primo figlio, Atreo.
Ma Olimpia, la generosa Olimpia, non era la sua
casa.
*
Pelope nominò fra i saggi custodi dei templi un
attendente della città. Questi aveva il compito di mantenere i rapporti con il
futuro Re e la sua regina sulle condizioni della città stessa, per via politica
e sociale. Si congedarono dai sudditi in un tripudio di grida e inni di
felicità; aveva promesso ricchezze e prosperità una volta divenuto Re della
città fulcro dell’Elide. La grande Pisa. Il popolo gli credeva, vedeva in lui
la forza di un leone e l’arguzia di un Dio. Avevano imparato ad amarlo e
venerarlo, con timore e rispetto, attendendo il giorno in cui la corona regale
gli avrebbe cinto il capo e le promesse sarebbero divenute fatti.
Soltanto i più diffidenti li seguirono. E un seguito
di ancelle, schiavi e armigeri che furono messi a loro servizio; un contingente
dell’attendente della corona di Pisa poi non appena ricevuto una pergamena con
il sigillo reale in cui si dichiarava il loro immane ritorno, li raggiunse per
scortarli sulla via del ritorno.
E quello che trovarono lungo il cammino non seppero
spiegarlo, da tanto stupore.
Le strade erano state assestate, i solchi delle
battaglie di Enomao a cavallo cancellati per sempre
dalla memoria triste della città; al loro posto, una effigie impetuosa di
lucido marmo bianco, sull’imbocco per la via principale per Pisa, inneggiava
con incisioni d’oro sulla lastra, parole in onore e memoria del grande Re di
tutti i tempi.
Il Re Enomao.
Mia sussultò alla sua vista; in allineamento alle
sue spalle, si stagliava in lontananza l’enorme mole del castello.
Un castello con fattezze diverse, mutato da quando
lo avevano lasciato.
Arrestò la lunga fila di persone e fece cenno loro
di prestare attenzione a ciò che avevano davanti.
Scese da cavallo per portarsi vicino l’effige; era
alta almeno il doppio di lei e di forma rettangolare, imponente come un monito;
le sue dita graziose scivolarono nelle lettere grandi delle incisioni e lungo
gli intarsi che raccontavano le gesta del padre. Rubini della casa reale
ornavano i vessilli del casato, le pietre che da sempre avevano amato e
sfoggiato insieme.
Si rabbuiò. Non aveva mai pensato tanto intensamente
a suo padre come da allora.
La distanza da Pisa aveva fatto sì che nel suo cuore
non si albergasse l’insidiosa e alquanto tediosa mano della colpa.
Non avrebbe mai voluto suo padre morto e la
malaugurata sorte lo aveva portato via da questo mondo nel modo più tragico che
potesse esistere.
Il grande Enomao, primo
del suo nome, Re di Pisa e dell’Elide intera meritava una fine in battaglia e
in guerra come gli avi prima di lui erano periti, ma quale diversa morte poteva
prospettarsi l’uomo se non quella sul campo della sua “personale” battaglia, al
trotto impazzito dei suoi bai e all’eco delle sue urla sanguinarie?!
Mia scosse il capo. Era un uomo testardo ed era
morto per la sua testardaggine e ostinazione; in questo doveva ammetterlo, gli
somigliava molto.
Aveva voluto a tutti i costi una Olimpiade per
riscattarsi dei suoi peccati e l’aveva avuta.
Aveva voluto far sbocciare una città e ci era riuscita.
Aveva voluto l’amore di Pelope e l’aveva avuto.
L’unica cosa che non riusciva ad ottenere era la
benevolenza degli Dei. E questa nemmeno la sua testardaggine era riuscita ad
agguantarla.
Mi serva come monito, pensò. Mio padre è
perito per ostinazione, non morirò della stessa causa. Da oggi in avanti il mio
compito sarà quello di governare la mia casa e il mio regno nel migliore dei
modi, senza attendere consensi da nessuno. Una regina non attende nessun
perdono. Una regina esegue i suoi compiti. Governa, solo questo.
Si scostò i capelli dalle spalle e con viso sereno
si rivolse al seguito.“Qui si fa la
nostra storia. Pisa è il futuro e chi non ha abbastanza fegato per
guadagnarselo volti pure le spalle e torni indietro.”
Ci fu un boato di urla e fischi, poi la fila così
come era apparsa rientrò precisa nei ranghi, sfilando in silenzio lungo la
strada che conduceva a Pisa.
Le alte mura torreggiavano
verso il cielo terso; due alfieri dal costone di merli li scrutarono ansiosi,
sporgendosi dai parapetti.
Da lassù il corteo che
i due sposi si portavano dietro doveva fare una certa impressione.
Tutto intorno al
castello era stato scavato un fossato nel quale ristagnava una putrida acqua
dal colore malsano; Ippodamia sussultò alla vista delle
piccole finestrelle a pelo d’acqua dalla quale scarne mani aggrappate alle inferiate
fuoriuscivano.
“Non
abbiamo mai avuto bisogno di segrete.”
Si giustificò arrossendo nel notare che Pelope la stava fissando sorridendo.
“E
quale pazzo avrebbe sperato di rivedere la luce del giorno dopo aver sfidato
l’ira tuo padre?!”
“Tu
hai vinto mio signore.” Ippodamia riacquistò il suo accento superbo.
“Noi
abbiamo vinto, Ippodamia.”
“Andiamo
a prenderci il nostro premio, allora.”
“Come
sua Maestà la MIA regina comanda.”
Mia rise comandando al
suo baio di procedere a passo più svelto; Pelope le tenne il passo, mantenendo
il trotto alla medesima velocità, senza indietreggiare o mai distanziare. Erano
perfetti, fianco a fianco, in quell’andatura così familiare per loro e per il
loro amore; non esistevano rivalità, ripicche, oltraggi d’animo e di parola,
Pelope si era rivelato un grande uomo e dal suo canto ella aveva adempiuto ai
suoi doveri come una buona moglie doveva fare. Si erano sostenuti nei momenti
di sconforto, nelle traversate per mare alla volta di Olimpia e nei momenti di
gloria come la nascita dei giochi. Avevano condiviso tutto; gli stenti, la
fame, gli onori e la ricchezza ritrovata.
Il ponte levatoio fu
calato in un assordante cigolio e poi un tonfo finale nel momento in cui aveva
toccato terra; sul fianco del castello appena sopra il grande portale fra i
solidi mattoni, vi era una fenditura dalla quale si ergevano minacciose picche.
Stavolta fu lo stesso Pelope a inorridire dello spettacolo che si stagliava
proprio sopra di loro; le teste di donne e uomini senza distinzione erano
infilzate nei bastoni, con le punte delle lance a fuoriuscire in alto, nere di
catrame per evitare una putrefazione violenta che avrebbe oltraggiato la sete
di vendetta di chi aveva compiuto lo scempio e che a quanto pare aveva tutta
l’intenzione di veder marcire i cadaveri nel modo più lento possibile.
“Che
ne hai fatto della tua anima fratello…” Pelope
sospirò.
“La
guerra rende uomini.” Questo le diceva
Agrippina, la cara balia, quando suo padre e Apyos
suo comandante, ritornavano dalla guerra e sembravano vegetali vestiti di
bronzo tanto la morte era capace di strappar loro l’anima e lei spaventata
andava a nascondersi sotto il letto sentendo il rimbombo delle loro voci cupe
nelle sale del trono.
Ma quel tempo era
passato e si era portato via tutto ciò che era stato.
Si sentiva pronta,
qualsiasi cosa si fosse palesato dinnanzi ai suoi occhi non aveva più nulla da
temere; lo aveva giurato a suo padre, il suo regno non avrebbe avuto mai fine
ed era disposta a tuttopur di mantenere
la parola data.
*
Oltre il portone, sullo
sfondo della piazza principale riconobbe i volti a lei cari; il popolo di Pisa.
Non poteva ricordare le
loro facce, non più, ma ogni essere che respirava, che costituiva la rinascita
della sua amata casa, rappresentava un bene prezioso ai suoi occhi; e a
giudicare dall’affollamento delle strade, dei sorrisi e dei canti anche lei
doveva rappresentare un qualcosa di molto importante per la città.
La sua mano volteggiava
nell’aria così come aveva fatto tante volte da ragazza prima delle gare, quando
sfilava in corteo sulla biga del pretendente in direzione del via; nel suo
cuore non vi era più il tumulto e la foga di una giovane piena della
consapevolezza della sua beltà, ma la fiamma e il coraggio di una donna fatta e
formata.
Da lontano, oltre i templi
e i porticati dove i mercanti avevano imbandito i loro tavoli con la merce
preziosa, sotto i gradoni che conducevano all’entrata principale del palazzo e
delle sue stanze regali, intravide un palco nel mezzo del quale si reggeva un
trono; un ragazzo dalla folta chioma vi era impiantato con lo scettro serrato
nel pugno sinistro e la spada tenuta per l’elsa in orizzontale sulle ginocchia.
Era sicura di averlo
visto sorridere.
“Maestà
la prego di accettare questi doni”. Una
donna si prostrò dinnanzi le zampe del suo baio innalzando una cesta di succose
mele dorate.
“Mele
dal mare stretto, le più buone che possiate assaggiare.” La penetrò con occhi color ambra dal taglio esotico.
Rabbrividì.
“Quale
è il tuo nome donna?!”
“Alaya maestà.”
“Alaya per quale motivo tu vuoi cedere a me i frutti più
buoni che possiedi?!”
“Per
omaggiare la vostra grandezza.”
“La
omaggeresti di più se li tenessi per te e la tua famiglia.”
“Non
possiedo nessuna famiglia maestà.”
La guardò attentamente;
il volto era pieno e dello stesso colore degli occhi, le vesti erano modeste ma
non sciatte e tralasciavano intravedere una figura florida. “E dimmi come può una donna sola
permettersi i frutti pregiati del mare stretto?!”
Non le lasciò il tempo
di replicare, annuendo con il capo. “Nikandrios dì alle schiave di prendere la cesta e porta la
ragazza con loro.” Alaya protestò e quando i suoi occhi incontrarono i
zaffiri di Mia si morse il labbro sconfitta.“Tienila d’occhio e di
alle donne di non toccare nulla di quello che c’è in quella cesta. E’ un
ordine.” L’ultima frase la
sussurrò nell’orecchio del generale.
“Veleno?!”
“I
miei occhi hanno visto troppo fino ad ora Pelope.”
“Questa
città odora di perdizione difatti.” Mia
annuì, se dapprima sorridente la sua sfilata terminò con labbra serrate e
l’espressione del volto scura.
*
Quando furono al di
sotto della piattaforma eretta, il popolo si acquietò.
“Sei
ancora più bella di quando te ne andasti, sorella.”
Sotto gli occhi della
corte che sul palco lo circondava Atreo andò loro incontro, con passo svelto e
incerto. Prese la mano di Mia fra le sue e vi posò le labbra umide; la ragazza
fece reverenza attenta a non sporgersi troppo in avanti, una guardia le sfilò
accanto aiutandola a ridiscendere dal suo destriero.
Un
Re non deve mai correre incontro a nessuno, pensò
notando subito il chitone troppo stretto intorno alla vita lievitata.
“E
tu molto più regale di quanto ricordassi, fratello.” Si voltò verso Pelope in cerca di un suo assenso;
quello li avvicinò cauto, raggiungendo la mano di Mia e serrandola forte.
“Cosa
possono fare le stoffe pregiate mia signora.” Allungò il braccio verso le loro mani strette e vi
posò lo scettro nel mezzo.“Siete voi i veri signori della
città.”
Il popolo esultò alla
parola signori. “Le stoffe pregiate.. Sua maestà.” Pelope riprese Atreo, poi con voce autoritaria
continuò, “ fratello
saremmo lieti se tu volessi condurci alle nostre stanze. La nostra regina ha
attraversato la Lidia in stato interessante ed ha bisogno di riposare.”
“Come
le vostre maestà comandano.” Fece
cenno agli attendenti di ritirarsi; quelli li circondarono scortandoli
all’interno del palazzo.
Camminarono a grappolo,
molto lentamente, ed a ogni passo il cuore di Mia tamburellava contento.
Le sale erano come le
ricordava, solo più areate, più luminose; l’androne conservava ancora i
ciottoli rossi del pavimento e i mosaici alle pareti raffiguranti le gesta dei
padri dell’Olimpo. Le colonne erano state levigate e ricostruite da capo con i
capitelli sontuosi che tanto amava suo padre. Passarono per il centro verso il cortile
con il soffitto a volta dal foro per il quale la luce filtrava timida.
I giardini erano ricchi
e curati, il profumo di fiori inondava l’aria; degli uomini sentinella e alcuni
giardinieri fecero reverenza al loro passaggio.
“Ci
sono state molte perdite?!” Mia
ruppe il silenzio carezzando il petalo turgido di un giglio. Il fiore dei
fiori.
“Più
di quante avrei voluto Maestà.” Lo
sguardo di Atreo si fece mesto e basso.
“E
dove sono finiti tutti?!” Mia tornò
rigida, artigliando lo sguardo sul suo volto.“Apyos per esempio. Dov’è l’attendente di mio padre?”
“Disperso.”
“E
della mia balia, che ne è stato?!”
“Dispersa
anche lei.”
Mia serrò i pugni tanto
forte da graffiare la carne, un leggero tremore le attraversò il corpo
costringendola ad asserragliarsi nelle spalle; Pelope le passò la mano lungo la
schiena a palmo aperto, guardò il fratello e senza bisogno di dire null’altro
quello cominciò a parlare.
“Quando
feci breccia nel castello la maggior parte di esso non esisteva più. Il fuoco
aveva divorato tutto; fiori, animali, persone. Tutto. Un pavimento disseminato
di cenere. Resti ecco cosa c’era qui. Non mi è stato difficile trovare la tua
balia; quale donna avrebbe fatto da scudo con il proprio corpo una porta
all’apparenza insignificante, se non una donna che aveva servito fedelmente la
corona e che continuava a servirla proteggendo qualcosa oltre quella porta
anche a costo della sua vita?! Ladri d’occasione. Fu una fortuna per me che di
spade ne avevo maneggiate assai poco. E quella donna, non appena mi vide una
furia diventò. L’ho vista uccidere un uomo con la sola forza delle mani. Poi
non ricordo più nulla. E’ caracollata per la strada assieme a un predone e sono
spariti nella polvere.” Atreo riprese fiato, gli occhi
lucidi guardavano lontano. “Ho forzato quella porta e mi sono nascosto con il
tuo tesoro. I miei occhi hanno rivisto la luce dopo giorni infiniti, quando le
fiamme non vorticarono più e più nessuna voce si udì. I tuoi occhi non
avrebbero sopportato lo strazio che io vidi dopo, perché se bene io non sia
nato qui so cosa vuol dire vedere morire la grandezza maestà e mi creda io
morii quel giorno insieme alla tua città. Ma rinsavii dal buio delle tenebre
pregando e ricordando le parole di fiducia che tu spendesti per me. Trovai il
coraggio là dove c’era solo morte e distruzione.” Trattenne
il respiro, gli occhi chiusi.“Ho adempiuto ai
miei compiti come mia Sorella mi dettò. Ho trovato il tuo tesoro, la gente per ricostruire,
ho combattuto il crimine a la corruzione. Ho fatto tutto questo perché TU me lo
chiedesti.” Atreo sganciò il medaglione dalla
clamide e inginocchiandosi lo allungò ad Ippodamia.
Quella balzò alla vista del gioiello; il medaglione del Re Enomao
scintillava in tutta la sua eterna bellezza. “Ti rendo ciò che con tanto amore e
fiducia tu hai riposto nelle mie mani. Non sono un Re mia Regina ma sono figlio
di Tantalo il Truce e so cosa significa essere vili e infami. Io non sono
questo. Ho protetto il tuo castello come meglio ho potuto e con saggezza mi
ritiro dal mio compito se tu accetti.”
Ippodamia
non riuscì a trattenersi; si inginocchiò anche ella e lo abbracciò senza timore
e vergogna. Piansero a lungo bagnando la terra delle lacrime che negli anni
addietro avevano mandato giù per non perire.
“Non
appena la corona solcherà il mio capo farò di te il nostro primo attendente
reale.” Poi si rivolse a tutti,
guardie, schiavi, sguattere, attendenti. “Domani
al levar del sole la piazza benedirà i nuovi Re e Regina di Pisa.”
*
Fu una notte piena di
parole.
Pelope, Ippodamia e Atreo aprirono le loro menti nelle sale delle
udienze per discutere sul da farsi, nominare un nuovo corpo di guardia, creare
un concilio ristretto e soprattutto aggiornarsi sull’attuale salute del regno.
“Servono
nuove tasse, questo dico. “
“Nuove
tasse per nuovi tumulti.”
“Fratello
il tesoro regale è ridotto all’osso da quanto si legge su questi conti. I tuoi
conti!”
“Non
è un castello fatto di cera, Pelope.”
“E’
di soldi che abbiamo bisogno non di velluti e sete. Per quanto mi riguarda
questo castello potrebbe esser fatto anche di merda.”
Ippodamiabattè le mani sul tavolo.“Silenzio!
E’ di idee che abbiamo bisogno, non di infantili battibecchi.”
“Hai
qualcosa da proporre?!”
“La
città è cresciuta. Il numero di persone è triplicato.” Sembrava stesse pensando più che parlando e i due
uomini la fissarono perplessi.
“La
ricostruzione ha portato un certo numero di manovali, mercanti, contadini.” Atreo sogghignò.“Dove vuoi arrivare?!”
“Dovremmo
trarre da loro quanti più benefici possiamo. Ma allo stesso tempo accontentarli.”
“Non
ti seguo Mia.”
“Le
mura sono ben fatte ma comunque circoscritte, giusto?!” I due annuirono.“Senza contare che
siamo alla merce di qualsiasi losco individuo. Ho visto facce poco rassicuranti
e baraccamenti troppo disordinati.”
“Gli
asiatici non sono facili da trattare Mia. Le teste sulle picche non spaventano
tutti.”
“Gli
costruiremo un mercato esterno e le nostre porte torneranno ad essere chiuse
Atreo. D’ora in poi chi abiterà nelle case dentro le mura ci dovrà versare una
tassa, chi vorrà costruirle seguirà i parametri che Pelope ha importato da Olimpia.
La precedenza verrà data coloro i quali hanno contribuito anche solo a
sistemare un masso di questo castello.” Si
girò verso il cognato.“Confido che tu ti sia annotato
tutti i nomi dei manovali che hai pagato. I signori di alto lignaggio verranno
ospitati nelle sale del castello per il tempo necessario ci vorrà alla nomina e
sistemazione nelle loro terre. Dobbiamo intrecciare rapporti con loro se vogliamo
mantenere la pace e la calma nel Regno.” Si
alzò con fare perentorio afferrando le carte dal tavolo per portarsele al
petto.“E
fa sparire quelle picche. Portano male.”
“Ma
Mia la compassione non fa sì che i ladri si ammansiscano.”
“Spostale
allora. Sul tuo caminetto. Nei boschi. Non importa dove! Non voglio morte sulle
mura del mio castello.”
“Ti
conviene starla a sentire o ci sarà un picca in più per te, fratello!” Pelope rise piegandosi in avanti sul tavolo; Atreo
cercò di mantenere una facciata seria ma non riuscì a trattenersi e si lasciò
andare anche egli. Mia li guardava soddisfatta.
“Proteggere. Governare. Difendere.”.
Capitolo terzo
All’alba Pelope baciò
le spalle bianche di Ippodamia.
“Sei pronta?!”.
Quella si girò
lentamente cercando le labbra del suo sposo“Lo sarò mai?!”
“Sei nata per essere Regina, Ippodamia.”
Le carezzò una guancia
amorevolmente.“Ti ho vista
combattere contro il mulinare dei venti, l’ignoranza di rozzi uomini che
credevano tu fossi niente ad Olimpia e tu li hai ammansiti come gregge al
pascolo. Ti sei fatta benvolere da quella stessa gente che conoscendoti ha
iniziato ad amarti. Hai partorito mio figlio sulla bruna terra di un’isola a
noi sconosciuta senza emettere un fiato. ed ora eccoti qua, nel grembo un altro
figlio, nel tuo letto a Pisa. Dove volevi essere, dove devi essere.”
Miaallargò le braccia e strinse forte l’uomo al
petto; lui le alzò la veste e le massaggiò le gambe lunghe e tornite. “Tutto ciò che
voglio sei tu. Non mi importa del resto se ci sei.”
“Ci sono. Ci sarò.” La baciò con trasporto, facendo leva sulle braccia
per scivolarle addosso delicatamente; la desiderava, la desiderava sopra ogni
altra cosa, più del mangiare, del bere e le sue curve piene, il suo ventre
ingrossato dalla maternità le conferivano una tenerezza che si trasformava in
passione ogni volta che immaginava la sua vita, il suo seme, crescere in lei. Era
diventato un uomo, lo aveva reso padre rendendo la sua vita completa, appagata,
parte del cerchio chiamato eterno; ogni uomo ambiva all’eternità, guerriero o
mercenario che fosse, Re o popolano e di labbra con cui proferir la storia
meglio di quelle della progenie per Pelope non vi erano.
Un rumore secco alla
porta li portò a distaccarsi; in un attimo Atreo si palesò dinnanzi a loro.
Li guardò trafelato,
arrossendo. L’aria sapeva di cose interrotte. “Ho una sorpresa per voi. Non
volevo farvi aspettare.”
Pelope fece cenno di
svelarsi, Atreo indietreggiò e una minuta figura riccioluta si affacciò alla
stanza; Mia emise un risolino di gioia, le mani si aprirono lasciando scivolare
le lenzuola di lino dal corpo.
“Mamma!” L’infante
con passi corti e precisi si avvicinò al talamo; la donna lo afferrò per le
ascelle adagiandoselo sulle gambe, quello cominciò a giocare con i suoi capelli
tirandoli come fossero redini. “Mamma dove siamo qui?!”
“Te la ricordi la storia del grande Enomao?”
“Sì. L’uomo
che correva con i cavalli!” Si
girò guardando lo zio.“Lui mi ha detto
che qui ce ne sono tanti e sono tutti miei.”
“Tuoi e del fratellino che sta per nascere.”
“No!” Battè
i pugni sulla pancia della donna.“Sono miei! Sono
miei!”
Pelope lo afferrò
tirandoselo al petto. “Non ci sarà nessun cavallo peril bambino
capriccioso.” Se lo mise sulle spalle
e lo portò fuori che ancora piangeva e si dimenava.
“Padre degli Dei! Ha il temperamento di un toro.”
“E il portamento di un Re.” Mia si coprì le nudità una volta rimasta sola con il
cognato nella stanza. “E’ un despota prepotente. Una veggente ad Olimpia
mi disse che il suo animo è quello di un guerriero.” Rise nervosamente abbandonandosi a qualche ricordo
lontano.“Il tempo saprà dirci se è un bene
o un male.”
“Certo mia regina. Mi occuperò di farti avere il
sostegno per la sua educazione.”
“Per il momento voglio seguirlo io stessa, ma ti
ringrazio del pensiero fratello.”
“Intanto puoi far venire le serve.” Pelope si palesò sull’uscio con un sorriso vacuo.“Mia moglie deve essere preparata.”
Atreo si inchinò e
sparì sulla scia di sandalo e legno.
“Lo comandi come se fosse uno schiavo.” La donna lasciò che le vesti scivolassero sul
pavimento; nuda si recò danzando alle sale attigue dove erano riposti i beni
per la toilette. Dopo poco delle donne silenziose e svelte entrarono nella
stanza con dei calderoni bollenti e fumanti; Ippodamia
fece cenno di tornare più tardi, chiuse le porte e guardò il marito
maliziosamente. “Non dimenticare che ci ha tenuto il trono in caldo.”
Lo avvicinò con grazia
avvolgendogli le braccia al collo.“Dove eravamo
rimasti?!” Sigillò le labbra su
quelle del marito prima che quello che si incartasse con parole vuote e
inutili.
Era geloso di Atreo. Lo
era sempre stato.
*
La pedana era la stessa
sulla quale il reggente del trono li aveva accolti; un rettangolo rialzato
coperto di pesante stoffa rossa. Lo scranno dorato e intarsiato di rubini le
gemme del regno, era stato affiancato alle spalle da uno della stessa
dimensione più un altro più piccolo rispetto ai due. La famiglia al completo.
Il primo attendente avrebbe stagliato la sua figura poche spanne al di sotto
del trono svelando in questo gioco di caselle la gerarchia effettiva.
Pelope avrebbe preso
posto al centro, come spettava ai Re, d’etichetta; Ippodamia
gli portava in dote il regno ma come ogni Regina il suo compito era quello di
suggeritore “silenzioso”, quasi un ombra impercettibile del sovrano stesso.
Questo la rendeva serena, confidava in lui ogni sorta di aspettativa ed era
certa che non ne avrebbe tradita nessuna in alcun modo.
Il primo a sfilare fu Atreo
in quanto reggente della città. Avrebbe fatto da portavoce delle nuove leggi e
la nomina dei corpi di protezione reale, autoproclamandosi di conseguenza Primo
Attendente. Da dietro la cortina di guardie che li circondavano i futuri Re e
Regina ascoltavano in silenzio e in trepidazione che fossero fatti i loro nomi;
Pelope torturava nervoso la clamide fra le dita, Mia stringeva la manina
paffuta di Atreo e sorrideva raccontandogli passo per passo cosa sarebbe
accaduto e perché erano lì. Il bambino vantava una vena curiosa piuttosto
spiccata, una vivace intelligenza e una lingua pungente notevole.
“Il mio papà sarà Re! Il mio papà sarà Re!” Tirava il mantello rosso porpora del padre cercando
la sua attenzione, ma quello con gli occhi chiusi e le labbra contratte
sibilava nel vuoto un mormorio incomprensibile. Stava pregando.
“Andrà tutto bene.”Mia gli strinse
le braccia attorno ai fianchi. “Prega quanto vuoi. Nessuno più di te merita quel
trono.”
“Sento la sua presenza Mia.” Guardò la compagna.“Zeus. Tuo padre. Il mio. Chi può dirlo. Ma io sento
qualcosa!”
“Prega per loro e lasciali andare. I morti sono solo
morti e gli Dei sono solo Dei.” Gli
accarezzò la guancia.“Tu sei un Re
oggi e sarai un Re domani!”. L’uomo
sospirò soffiando nella mano che lenta ridiscendeva sulle sue mandibole serrate;
il tocco di una mano gentile, sicura, gli occhi di una donna che lo amava, le
parole di chi aveva creduto sempre in lui.
Si commosse ma girò il
capo primo che una lacrima bagnasse quella mano.
*
Il battito cadenzato
dei tamburi e le fanfare squillanti annunciarono la loro entrata; Pelope in
testa camminava lento come gli aveva insegnato Ippodamia
nei momenti liberi ad Olimpia. “Il passo dei Re”diceva. Non troppo veloce, non
troppo lento, schiena dritta, una lieve flessione di ginocchia a destra, una
lieve flessione di ginocchia a sinistra. Era molto regale come portamento e a
lui piaceva sfoggiarlo. Subito dietro, tre passi come voleva l’istituzione
monarchica seguiva Mia e il principe ancora troppo piccolo per essere rilegato
a qualsiasi gioco di ruolo.
Atreo andò loro
incontro e come la volta precedente passò lo scettro dalle sue mani e quelle
del futuro monarca; dalle fucine di Pisa arrivò in tutto il suo splendore la
corona forgiata secondo le misure del capo di Pelope, un tripudio di oro puro a
formare stalattiti a punta di freccia intarsiate di rubini e diamanti grandi
quanto sassi.“Oh!”. Atreo il bambino sussultò nel vedere tanta luce e
immaginarla sul capo del padre.
Mia indossò la tiara
che era stata di Enomao quando ancora non era reggente;
Agrippina l’aveva salvata dalle fiamme e dagli sciacalli prima di sparire nella
polvere. Era ancora splendete, rifulgente di zaffiri dello stesso colore degli
occhi della giovane.
Prima di accomodarsi
sui rispettivi scranni le loro mani vennero intrecciate con la corda del filo
eterno e le promesse di matrimonio rinnovate dinnanzi la città a testimonianza
dell’indissolubile e indiscusso legame che univa i due.
“Pelope, signore e principe di Frigia e della Lidia
intera” Un silenzio surreale si
impadronì della piazza quando Atreo aprì bocca. ”figlio del Re Tantalo discendente
di Zeus” Si ricordò di sorvolare
sulle funeste discendenze della loro famiglia marcando prontamente la linea
diretta che li legava al sangue del padre degli dei, “con questa corona sigillo il patto che ti vincola al
matrimonio con Ippodamia principessa di Pisa e in
quanto marito di lei successore al trono della città.” Un cenno del capo fece avvicinare un paggio e il
cuscino con il prezioso adagiato.
“Accetti i vincoli di fedeltà e protezione che ti
legano a questa donna?!”
“Accetto.”
“Accetti di governare questo regno sulla base dei
diritti e dei doveri della carta che i primi Re ascrissero prima che tu
nascessi?!”
“Accetto.”
“Accetti di difendere la città e il popolo da
attacchi e incursioni nemiche senza lode o infamia anche a costo della tua
stessa vita?!”
“Accetto!” Il
corpo di Pelope fu percorso da spasmi e un sorriso glaciale gli dipinse le
labbra.
“Sul mio onore!”
Con mani sicure Atreo fece
scivolare con estrema e ricercata lentezza la corona sul capo del fratello così
che il popolo potesse bearsi e crogiolarsi di enfasi; quando il diadema toccò
il capo del giovane ed andò ad incontrarsi ai suoi folti capelli neri una luce
dorata balenò nei suoi occhi liquidi.
“Proteggere! Governare! Difendere!” Pelope si issò dallo scranno innalzando le braccia
al cielo; una ola festante di boati e fischi lo incoraggiò. Mia ostentava sul
viso il sorriso sarcastico per chi li voleva spacciati, lontani, dispersi e nelle
sue braccia il piccolo Atreo dimenava i pugni nell’aria come il suo papà. “Lo giuro! Lo
giuro! Lo giuro!”.
La formula era stata
pronunciata, il giovane figlio di Tantalo il Truce era finalmente un Re.
*
Il banchetto nuziale si
snodò nelle ampie sale del castello alla testimonianza dei signori di alto
lignaggio.
Vennero servite ogni
sorta di leccornie, dalla carne di montone stufata all’arancia, al pesce
azzurro con il pane salato, i formaggi invecchiati e carni di piccione e
agnello arrostite. L’idromele annaffiava le pietanze. La frutta venne servita
in coppe dorate, adornava le tavole, secca oppure fresca insieme a mandorle, fichi
e datteri. Le spezie rendevano l’aria dolciastra e il miele colava sui piatti come
benedizioni dal cielo.
I due monarca sedevano
sui letti più alti al centro della sala, dinnanzi a loro convergevano in due
lunghe file coppieri, musici, danzatori e servi che fluttuavano l’aria con
ventagli di piume di struzzo; tutto intorno gli ospiti erano disposti a cerchio
di modo che i loro sguardi potessero incontrarsi e parlarsi senza filtri.
Fra loro i crateri di
vino gorgheggiavano in attesa che iniziasse il simposio. Come da tradizione il
vino non veniva mai servito schietto, un’usanza più da barbari che da persone
raffinate quale si definivano i greci; esso veniva annacquato con una
proporzione di tre quarti d’acqua e uno di vino. La sorte dei dadi avrebbe fatto
il resto scegliendo colui che avrebbe dato inizio allo scorrimento del fiume
rosso.
Il fiume rosso scelse
Pelope.
Scese i gradini che lo separavano
dal popolo e cantando lodi a Bacco si apprestò al rito; versò del vino in una
grande coppa, spesso grande quanto un calderone per minestre, ripetendo il
rituale del versamento del vino al di fuori della coppa per tre volte.
“Agli Dei celesti!” Il primo fiotto raggiunse il pavimento.
“Agathoudaimonos!” I
presenti in sala sollevarono il calice che avevano pronto con il primo vino
puro; lo mandarono giù d’un sorso brindando al buon genio, prima di dissetarsi
del vino simposio.
“Agli spiriti degli eroi, a Enomao!”
Giù il secondo fiotto. E il
silenzio crollò quando la macchia come sangue si allargò vistosamente sul
pavimento.“Al Padre degli
Dei. Che veglia e protegge le nostre vite!”. Forse non avrebbe voluto vedere
tale giorno, pensò ghignando.
Versò a terra il terzo
fiotto e bevve il vino rimasto tutto d’un fiato.
La coppa del Re girò
per i commensali partendo alla sua destra, quando raggiunse le candide mani di Ippodamia tutti sussultarono; una donna non era ammessa al
simposio.
Una donna, ma Ippodamia non era una semplice donna. Era regina, madre,
reggente. Guardò il suo sposo e leccandosi le labbra pronunciò.
“Kaìre!
Kaìre! Kaìpìeeù!”.Salute! Salute! E bevi
bene.
Un destriero le venne
incontro nitrendo nella radura che prima era stata la sua casa.
Un purosangue nero
dalla stazza regale, con larghe froge dalla quale gettava aria innervosito.
Sulla groppa un’ombra
scintillante gli carezzava il pelo, bisbigliandogli nei lunghi orecchi rigidi; quello stizziva il
capo nascondendoselo fra le zampe, sottomesso e terribilmente in apprensione.
Ippodamia si vergognò della sua stessa presenza, quasi
avvertisse il senso di repulsione che trasmetteva all’animale.
“Chi siete?!”Intimò all’ombra. “Fatevi vedere.”
L’ombra non indugiò
molto, incitando l’animale a muoversi; le sorrise portandosi al fianco.
La donna indietreggiò
non appena la bestia le fu accanto.“Non vi vedo.
Togliete l’elmo.”
La strana figura
obbedì. Diede un colpetto al lungo mantello color porpora sventagliandoselo
alle spalle per poi portarsi le mani al capo; i lineamenti del viso dell’uomo,
seppur celati dalla nube densa dei boschi,fecero palpitare la giovane.
“Padre..”
Quello si inchinò
nascondendo il volto. Nel rialzarlo scoprì un ghigno malevolo.
Il viso era pallido
come cera di morto, gli occhi vacui come vetro. Le labbra violacee sembravano
lombrichi rigonfi.
Ippodamia ebbe un trasalimento.“Stai indietro, tu non sei mio padre!”
“Chi altri potrei essere? Sono Enomao
il Grande.” Tuonò in una risata
arcigna.
“E sono venuto a darti il mio regalo di nozze.”
Nell’attimo in cui
chinò nuovamente il capo questo gli scivolò dal resto del corpo ruzzolando ai
piedi della giovane che gridò inorridita.
Il respiro del baio si
era fatto affannoso e potente; Ippodamia voltandosi
lo vide trasformato in un abominio a due teste.
“Filla.. Arpinna..”
Le bestie rantolarono
accasciandosi sulle zampe, dal ventre fiotti di sangue si riversarono sulla
terra; il liquido rosso si allargò vistosamente sul terreno creando una pozza
densa.
“Quale creatura dell’inferno sei!” Nel tentativo di arginare il sangue dai suoi piedi
inciampò.
“Il sangue chiame sangue…” Gli occhi vacui dal capo mozzato dal terreno la
fissavano. La bocca aperta emetteva un suono metallico e così riversa in terra
continuava sinistramente a ridere in modo malevolo.
“No! Vattene!”Nel divincolarsi dalla morsa del
liquido ci finì dentro lottando con tutte le sue forze per risalire.
*
“Vattene! Vattene!”
“Ippodamia svegliati!” Pelope aprì gli occhi; Mia si dimenava nel sonno,
combattendo contro le spesse lenzuola di lino e scalciando i piedi contro i
suoi fianchi. “E’ solo un sogno cara.” Le accarezzò la guancia fredda e il braccio madido
di sudore.“Solo un sogno.”
Si svegliò con occhi
sgranati. Lasciò che il marito la sfiorasse prima di ridiscendere dal letto;
andò alla finestra, la nebbia nei boschi stava diradando.
“Solo un sogno, sì.”
*
“Voglio vedere la tomba di mio padre.”
Atreo incurvato nei manoscritti
contabili alzò il capo. Sorrise alla figura impettita nella sala.
“Non aspettavo che questo giorno.” Richiamò i servi all’ordine battendo le mani.“Sellate i cavalli. Voglio il
generale Nikandrios alle stalle.”
Cavalcarono in
silenzio, battendo un sentiero che portava al di là delle colline di Pisa; il
castello alle loro spalle era una mole d’aria viziata, una prigione dorata che l’aveva
tenuta per se da quando era ritornata. Tutto ciò che bramava adesso era aria
sferzante sul viso, il battito di cuore di un puledro veloce e piangere.
Finalmente. Su un corpo che non fosse solo frutto della sua immaginazione.
Il sentiero terminò in uno
sterrato degradante fra due colline che formavano una conca all’apparenza
anonima.
“Dobbiamo lasciare i cavalli.” Atreo l’aiutò a smontare.“E’ uno sterrato ciottoloso. Ho pensato che un
cavallo zoppo potesse far desistere l’idea di avvicinarsi troppo.” Si affacciò oltre la collina.“Andiamo”. Ma
Ippodamia era già lanciata in discesa.
“Come fai, non dovresti evitare di sforzarti?!”
“Non sono malata, Atreo. Tu e tuo fratello non
riuscite a comprenderlo ma… io mi sento viva.” La mano scivolò sulla curva alta del pancione. “E forte.”
“Forse sei nata per questo.”
“Pelope lo dice spesso.” Sorrise e avvampò; il dono di Pelope nel rendere
vita il seme era pari alla sua capacità di sopportare la gravidanza e portarla
come fosse un trofeo.
La cripta era scavata
nella roccia; vi si accedeva mediante un cunicolo stretto a imbuto e si
allargava in una sala grande e centrale.
Le pareti erano meravigliosamente
dipinte con le gesta dei mitici eroi dell’Olimpo, banchetti divini, battesimi e
cerimonie sacrificali; ma più grande e vivida di colori fra tutti era una
trasfigurazione della Dea Asterope alla quali i
pittori avevano dedicato un’intera parete, creando in sfumature blu e indaco il
cielo notturno nella quale la donna abitava sotto forma di stella.
La parete di stagliava
al di sopra del sarcofago contenenti le ceneri del Re. Mia trasalì, la gola
secca e gli occhi umidi.
“Cosa è questo odore?!”
“Alloro. Mirto. Incenso delle terre delle sole,
perlopiù.”Atreo si schiarì la voce. “Più un erba
magica che addolcisce l’aria e .. i sensi.”
Mia diede un forte
respiro di polmoni. La testa le vorticò. “A quale stregoneria ti sei
rivolto stavolta?!”
“Ippodamia così mi rechi
offesa.” Atreo passò una veloce
occhiata soddisfatta alle pareti della stanza.“La conoscenza umana delle erbe è talmente vasta da
aver scatenato nei chiropratici la necessità di catalogare e spesso tener
segrete le preziose nozioni che ci vengono regalate dalla terra.” Le sorrise sornione così come era abitudine fare
quando con le sue scoperte la colpivano.“Mi è bastato
l’aiuto di qualche moneta, della sapienza dei maestri e di alcune braccia forti
per piazzare qua e là questo elisir innocente, per tirarle fuori dai libri nei
quali erano sepolte.” Le indicò le
pareti al di là delle quali le erbe erano state collocate prima di tornare con
il viso nel suo.“Chi passa del
tempo prolungato qui dentro rischia la narcolessia. Un banale trucchetto ma
tale da scatenare anche la più tiepida superstizione e tu lo sai meglio di me
non c’è nulla di più forte del potere della scaramanzia.”
Elisir innocente, certo. Ad ogni boccata d’aria le pareva d’essere preda di
allucinazioni; i polmoni erano saturi eppur le narici erano attratte da
quell’aria dolciastra e viziosa. Cercò di tossire, ma le sembrò di venir meno.
Guardò il cognato con occhi increduli e incerti.
“Venti minuti al massimo, Mia.”Si girò di
spalle. ”Fa
le tue preghiere ed esci alla svelta se non vuoi un sonno lungo e tormentato.”
Quella
annuì, trattenendo il respiro. Si chiese se fosse troppo ardito inginocchiarsi,
se l’aria nel basso non fosse più pericolosa; maledicendo il cognato si spinse
poco alla volta a carponi sul fondo della roccia ruvida. Poco male, le sembrava
che fosse aria meno irrespirabile. Inspirò trattenendo quanta più aria potesse.
Allungò
una mano verso la bara, contro il marmo freddo e bianco. Atreo non aveva
lasciato nulla al caso; se per i funerali più comunemente veniva usata la
terracotta o il legno, il cognato era riuscito a procurarsi una quantità tale
di marmo capace di erigere un monumento e una tomba dalle fattezze lussuose e
innovative. I dipinti poi erano maestosi, così come gli intarsi nella pietra
lungo il bordo arrotondato della bara.
Una
grande opera. Una grande opera per un grande uomo. Un fremito la percorse lungo
la spina dorsale.
Padre, pensò. Perdonami se puoi. Il resto non lo ricordò, le sembrò di aver pregato,
forse pianto un po’, ma il tempo volò fra le lucubrazioni della mente
annebbiata dalle erbe e il dolce amaro sapore della vergogna. Non poteva
giurare di averlo sentito arrivare, ma qualcosa le sfiorò le spalle avvolgendola
letteralmente in una morsa; un peso leggero che la schiacciava al pavimento
impedendole di rialzarsi.
“Chi c’è?!”
“Resta, resta qui. Fuori è
pericoloso per te.”
“Chi sei?! Fatti vedere!”
Chi sei, fatti vedere. Ricordò, era il sogno.Silenzio. Il peso vorticò nell’aria creando un bagliore.
“Devi stare attenta Ippodamia,
questa per te non è un alba felice.” Tornò
ad avvolgerle le spalle, sussurrandole da dietro l’orecchio, “i tuoi
problemi sono iniziati sedendoti su quel trono. Guardati le spalle dai nemici e
soprattutto dagli amici.” Girò la testa ma
il bagliore svanì dalle sue spalle restando solo voce.“Il destino si è compiuto ma nuove trame ti
attendono. La stirpe è forte e crescerà, ma il sangue è caldo. Ricordati. E’ il
vostro sangue la vostra congiura.”
“Non ci sono marchi nel futuro della mia stirpe!” Si rialzò, poggiandosi con le mani alle pareti.“E tu sei solo una voce! Un
allucinazione!”
“Puoi fare finta di non ascoltare ma questa voce è
dentro di te.”
“E dimmi cosa potrei fare?! Arrendermi allo
sterminio dei miei figli?! Giammai! E giammai una voce potrà convincermi del
contrario. Io sono Ippodamia la regina dell’Elide
della Lidia e Frigia e nessuno può venirmi a dire il vostro destino è tutto
qua. I miei figli cresceranno e saranno governatori dopo di me che stia bene al
fato oppure no! Se tu fossi mio padre capiresti.”
“Io capisco.”
La luce si portò al centro della
sala smorzandosi a poco a poco. “Il sangue chiama sangue figlia mia e tu devi
difendere i tuoi figli ma prima di loro la tua stessa vita. Ciò che ti dico non
è arrenditi. Ciò che dico è proteggiti, tramanda la storia e fa che si ricordi!”
Fa che si ricordi. Il sangue chiama sangue. La luce si smorzò del tutto e tornò il buio nella
sala; tornò il senso di vertigine e si accorse di avere la gola secca e in
fiamme. Devo
uscire da qui. Si precipitò verso
l’uscita arrancando in passi incerti.
Il sole le ferì gli
occhi, gran colpi di tosse buttarono fuori aria velenosa; Atreo era lì con il
generale che l’attendeva impaziente e da come la guardava anche piuttosto
preoccupato. “Attardavi nel risalire e ho mandato Nikandrios a vedere come stavi ma il passaggio era
bloccato. Stai bene mia Regina?!”
“Non credo mio Attendente.” Prese il respiro e guardò lontano davanti a se.”Sono sempre stata lì ed è da lì
che sono risalita. Sai Atreo credo che mio padre abbia trovato il modo di
difendere le proprie ceneri.”
“Cosa è successo?!” Mia guardò il generale e questi si allontanò
permettendo loro di parlare liberamente.
“Ho avuto una visione Atreo. Nefasta direi. Ci
attende il peggio, la mia vita e quella dei miei figli è in pericolo.”
“In pericolo per mano di chi?!”
“Il nostro stesso sangue.”
*
Ci vollero ostinazione
e caparbietà per convincere Atreo e la guardia a lasciarla andare agli altari
da sola.
Aveva bisogno di
cavalcare selvaggiamente, di urlare al cielo e imprecare contro il fato suo
acerrimo nemico; aveva bisogno di cacciare, di sentire il sapore della
vittoria, l’odore del sangue e il fruscio dell’erba sotto i piedi nudi.
Aveva bisogno di molte
cose, ma fra tutte, aveva bisogno di non pensare.
“Eccola, vai da lei.” Irruppero nelle sue preghiere Pelope e Atreo che trascinava
un cordone con delle lepri attaccate per le zampe.Conosco tua madre come me stesso, pensò.
Il bambino corse verso
la madre inginocchiata, le sfiorò i capelli sedendosi accanto a lei.“Tuoi, mamma.” Tirò la corda fin sotto i piedi di Ippodamia che gli accarezzò il capo sorridendo.“Sei stato bravo. Vieni facciamo un
dono agli Dei.”
La donna si tirò su le
gonne e afferrò il coltello dalla fascetta della coscia. “Adesso devi
essere coraggioso. Vedrai qualcosa che ti spaventerà ma che è necessario. Non
tirarti indietro, sii forte.”Pelope issò Atreo all’altezza degli
altari porgendo la sua piccola mano su quella della madre. “Sei pronto
figlio mio?!” Il bambino annuì seguendo le incisioni
nella carne tenera delle bestie; il sangue zampillò in un veloce fiotto caldo
andando a impregnare le loro mani. Atreo era in silenzio, concentrato dallo
spettacolo di budella e viscido liquido che aveva sotto gli occhi. Non emise un
lamento e restò attaccato alla madre che gli spiegò cosa dovevano fare e quali
preghiere recitare.
Quando ebbero finito estasiato battè
colpetti sul tavolo di marmo lasciando impronte di caldo sangue rosso.
“Io non voglio!” Il piccolo
irruppe nei silenzi scalciando un ciottolo dalla terra.
“Cosa ti angustia figlio?!” Pelope
lo prese fra le braccia portandolo al petto.
“Non voglio che voi moriate.” Trapassò
il padre con gli occhi neri tipici della sua famiglia; l’espressione seria
faceva dubitare del fatto che il giovane Atreo avesse solo quattro anni e una
mente così articolata e parole fluenti. Pelope strinse le braccia intorno a
quelle gambette paffute e bianche. “La morte Atreo è il passaggio che conduce alla
vita eterna, non devi esserne spaventato.”
“Ma io non voglio.” Afferrò
la mano dell’uomo portandosela alla guancia.“Quando
sarò Re io vieterò la morte!” Parlò con fermezza e Ippodamia fu lieta di riscoprire tutti i suoi quattro anni;
carezzò la testa di riccioli biondo grano, sorridendo. “Quando tu sarai
Re noi saremmo la leggenda che allieterà le tue feste. Alzerai coppe di vino in
nome degli avi che ti precedettero e brinderai alla nostra vita eterna! Il tuo
castello sarà pieno dei tuoi figli e avrai una moglie bellissima che ti
accompagnerà nei giorni.”
Il bambino arricciò le labbra disgustato.“Non voglio una moglie! Voglio le
spade e i cavalli! ”
“Avrai le tue spade e i tuoi cavalli.” Pelope
lo rabbonì,“ma senza una
moglie e senza figli non ti serviranno a niente.”
“Sì Pelope, tuo padre ha ragione.” Ippodamia
posò una mano su padre e figlio abbracciati, gli uomini della sua vita,
sospirando. “La famiglia è tutto. E’ come il sangue. E senza
sangue noi non siamo niente.”
“Bravo, così dritto con la schiena!”Pelope e Atreo
erano alle stalle, il giorno in cui dalle cucine del palazzo si levò un urlo
terrificante.
L’uomo affidò il
piccolo alle cure del Generale prima di recarsi dalla servitù ed accettarsi di
quanto fosse successo; la scena che si trovò davanti fu raccapricciante.
Ella, la giovane
sguattera dai capelli fulvi giaceva a terra con bava schiumante ai lati della
bocca.
“Cosa è successo?!”
“Il cesto di mele Sua Maestà..” La donna grassa che comandava le cucine con fare da
gendarme, davanti al Re berciò parole sconnesse. “Non volevamo. Le ho detto di non
toccare ma quella piccola, stupida ragazzina dai capelli rossi non ha voluto
darmi retta. Sono spiacente, perdono Maestà. Perdono.” Si inchinò singhiozzando.
Pelope la superò e si
avvicinò alla cesta; il velo che la ricopriva era aperto per metà e dal fondo
del vimini se ne stava pronto a sferrare un altro colpo il pungiglione del
corpo bianco latteo e rigido di uno scorpione.
Inorridì disgustato. “Portate via
questa cesta. Bruciate l’animale!”
“Fratello..” Atreo
arrivò di corsa nelle sue solite sete e profumi.“Cos’è questo chiasso?!”
“Alaya delle terre
d’oriente ci ha consegnato il suo regalo di nozze in ritardo.” Indicò col mento la ragazza riversa a terra.“Le era stato ordinato di non toccare
nulla. Nella cesta c’è uno scorpione latteo.”
“Veloce e mortale.” Atreo si sfregò il mento con i polpastrelli.“Beh?! Avete udito cosa vi ha
ordinato vostra Maestà! Svelte ripulite tutto!” Poi passò lo sguardo sugli ultimi estremi rantolii
che il corpo della fanciulla emise. “Consegnatela ai mortuari. Che venga ripulita e si avvisi
chi ne reclama il corpo.”
“Posso occuparmene io illustrissimo Attendente. E’
la figlia del fornaio, conosco suo padre.” La
comandante delle cucine inchinò il capo e corse via.
Rimasti soli Pelope si
sbragò su uno sgabello passandone un altro con un calcio al fratello.“Avanti, dimmi cosa pensi.”
“La cesta era destinata ad Ippodamia, ma per quanto ne sappiamo potevi prenderla tu
con le tue stesse mani.”
“Chi c’è dietro?!”
“Se lo sapessi farei sventolare la
sua testa mozzata sulle gerle del castello.”
Pelope
agguantò una pasta calda al limone fissandolo con attenzione.“Chi può desiderare la morte di un
sovrano e della sua consorte se non l’uomo che ambisce al trono?!”
“Caro fratello, per ora abbiamo
solo una donna indiziata. Una schiava per quanto ne sappiamo. O una megera.
Magari la figlia del garzone. Chiunque vi vuole morti può cambiare faccia in
ogni momento e come vedi la verità non è così semplice come vuol sembrare. ”
Rimasero
in silenzio ad ascoltare i rumori distanti delle altre sale del castello; Atreo
era rientrato e la sua vocina acuta riecheggiava nei cortili, le serve si erano
date a passi veloci e chiacchiericci sommessi, al di sotto la voce potente
femminile di una donna diventata sempre più forte e vicina.
“Cosa aspettavate ad avvertirmi?!” Ippodamia si palesò in tutta la sua regalità.
*
Le
segrete erano l’unico luogo della nuova ricostruzione a non essere stato
modificato.
Le
acque del canale erano state bonificate da un piccolo affluente che versava i
miasmi stagnati direttamente nell’Alfeo e questo conferiva alle finestre a pelo
d’acqua un aspetto meno sciagurato; il Re svestito delle sete seguva i lavori abbozzando sempre nuovi progetti. Per quanto
in passato Pisa non necessitò di celle, Ippodamia fu
costretta ad ammettere che i tempi erano cambiati, la città si era allargata ed
evoluta e con essa anche il coraggio di certi malfattori.
“Alaya
delle terre d’oriente alzati. Sono il Re e la Regina che ti vogliono vedere.”
La
guardia battè la picca contro le sbarre; una figura
pallida ed emaciata apparì alla vista.
Il
suo aspetto era cambiato, la figura dapprima florida si era fatta scarna e
perfino il bel viso ambrato era svuotato dalla fame.
Soffre. Constatò Ippodamia.Bene.
“Inginocchiati serpe” Pelope fece cenno all’uomo in divisa di aprire la
cella e seguirlo. Mia si unì a loro come un ombra.“Frustala.” Il
guardiano strappò la veste sulla schiena della giovane schioccando un solo,
rigido colpo di frusta.
“Questo è per quello che non sai.” Pelope abbassò il braccio. Il secondo colpo vibrò
nell’aria.“Il resto ti
verrà risparmiato per quello che sai.”
La
pelle della giovane si era fatta già rossa e chiazzata per contro i suoi occhi
si erano fatti stretti e sostenuti dallo sguardo fiero che gli avevano visto il
giorno del ritorno; Mia fremeva di sentirla parlare, tremava dietro le spalle
del marito e sovrano.
“Non so di cosa state parlando.”
Giù
il terzo colpo.“Cosa volete da
me!” E il quarto.
“Chi ti ha dato la cesta?!”
“Non lo so. Non so chi sia!” Il quinto colpo squarciò la pelle e fu accompagnato
da urlo squassante; un rivolo di sangue colò per le vertebre.
Mia
appoggiò una mano sul braccio del consorte invitandolo a non proseguire. “Ti conviene dire
la verità donna o morirai. E a quel punto il tuo segreto non ti servirà più a
nulla e non ti avrà salvata comunque.” La
ragazza tremante piegò il capo. “Si dice che le buone doti di un sovrano siano la
clemenza e l’onore. Io posseggo l’una e l’altra.”
“Nella mia terra si dice sii
clemente e tieniti vicino gli amici ma soprattutto i nemici.”
“Conosco le leggi della tua terra. Mio padre
era un estimatore della vostra cultura.” Le
alzò il capo.”So che il
vostro stato di schiavitù vi rende servili e fedeli sopra ogni logica, anche se
il vostro padrone è ilpiù acerrimo
nemico. L’ospitalità è un culto e divinate strani Dei comandati dal sole.”
“E’ così Sua Maestà. Il Grande Enomao vi ha insegnato bene.”
Mia
sorrise soddisfatta.“Era un uomo che
amava il mondo, il rispetto delle regole e l’onore. Ed io sono sua figlia.” Ordinò alla guardia di slegarle i polsi. “La clemenza
vi renderà mia schiava. Fate quel nome e non vi verrà torto un capello, al
contrario, dite pure addio a questo mondo Alaya delle
terre d’oriente.”
Tutti
attesero il verdetto finale che non s’attardò oltre; la ragazza si gettò ai
piedi della Regina baciandole i calzari.“Era un vecchio
ubriacone che diceva di chiamarsi Basileus. Mi ha
reclutato alla locanda di Mena la vacca dicendo che aveva un po’ di spiccioli
da darmi se avessi fatto una cosa per lui.” Guardò
Ippodamia implorante.“Continua.”
“Beh la sacca era piena di monete
d’oro e il mio più grande desiderio era quello di tornare a casa. Potete capire
vero maestà?!”
Ippodamia
sorvolò l’ultima informazione fra i pugni stretti. Il vile denaro. Per ora
l’unica ragione per la quale avrebbero dovuto aver timore perla loro vita era
il conio suonante.“Perché proprio
tu?!”
“Un solo Re aveva il diritto di
sedere a quel trono Sua Altezza e quel Re era Enomao
il Grande”. Pelope infuriato
sfoderò la spada e la fece volteggiare nell’aria; Mia con un colpo sull’elsa lo
riportò alla ragione. “Le ho dato la mia parola.” Sussurrò.
“Sul campo della corsa io fui una
di quelle donne che aiutò a recuperare il suo corpo. Qualche giorno dopo, nella
locanda dove mi prostituivo è entrato quell’uomo. Mi ha dato metà denaro, la
cesta, ed è sparito.”
“Cosa ti ha detto di preciso?!”
“Che Enomao
era stato assassinato e che il Re che avrebbe preso il suo posto era un falso
Re.”
“Bene ho sentito abbastanza.” La ragazza venne fatta indietreggiare; in preda alla
paura si mise a tremare violentemente.“La tua vita ti
verrà risparmiata, da oggi in poi ti sottoporrai alle nostre leggi e vivrai da
schiava.” Si portò fuori dalla
cella intimando al marito di restare e non rinfoderare la spada.“Mi duole svelarti però l’ultima
dote di una Sovrano; l’arguzia. Un nemico travestito da amico resta pur sempre
un nemico, così chi ha attentato alla tua vita oggi può sempre rivendicare il
gesto domani. E la clemenza non ha mai una giusta bilancia, troppa o troppa
poca?! Se io ora qui ti perdono lasciando intatta la tua vita sono una stolta.
Se invece io lasciassi intatta la tua vita e prendessi qualcos’altro t’avrei
fatto saggiare la mia arguzia e la mia clemenza.” Rise fra se e se“Tira
in avanti le mani Alaya. Pisa è Pisa, non siamo in
oriente questo lo avrai capito da sola. Ci sono altre regole qui.”
La
ragazza strillò, il gendarme le affondò lo stivale nella schiena costringendola
con la faccia premuta al pavimento.
“Tagliale la mano. La destra,
quella con cui ci ha porto la cesta.”
“Come Sua Maestà desidera.” Pelope calò la lunga lama argentata sul polso di Alaya; la mano mutilata schizzò trascinandosi via un sol
fiotto.
“Fa ripulire e portala dai medici.
Voglio che viva.”
*
La
coppa di vino riluceva al chiarore del fuoco.
Atreo riempiva il silenzio parlottando con i
soldatini di legno; Ippodamia aveva ordinato di farlo
trasferire nelle sue stanze fino a data da definire, trasformando le camere in
un paese di balocchi, ma neanche la voce dell’infante adorato riusciva a destarla
dai pensieri.
Fissava
le fiamme avvilupparsi le une sulle altre e il desiderio indomito era veder
bruciare in quel fuoco la mano responsabile dell’attentato; ma chiunque fosse
andava trovato, torturato lentamente e infine lasciato marcire nei campi così che
la sua animasse vagasse smarrita.
Dei
ricci corvino attirarono la sua attenzione. “Ippodamia
ho tristi notizie.” Pelope era
rientrato dalla spedizione alla locanda e i suoi occhi cerchiati e mesti, le
vesti umide, davano ben pochi segni di vittoria; il sole era calato ormai
costringendolo a ritirata. Il buio nasconde i nemici meglio di altri nemici. “Lo hanno ucciso
prima del mio arrivo.”
“Ci ascoltano Pelope. Prevedono le
nostre mosse.”
Il
Re annuì.“Mi duole dirtelo ma devi
rinunciare a tutta la servitù istituita da tuo padre. E anche dei generali
compreso quel tuo Nikandrios, armigeri, sguattere.
Chiunque abbia baciato e lodato i suoi piedi.”
“Nikandrios
è un bravo uomo e ha dato più volte prova del suo onore, così le donne che ci
servono. Sono tante persone. Troppe.”
“E’ necessario Mia.” L’avvicinò carezzandole la guancia.“Se dovesse succedere qualcosa a te
o ad Atreo impazzirei!”
“Questa gente non mi tradirebbe ne
ora ne mai!” Si alzò stizzita,
scostando la mano.“Sono il sangue
del suo sangue. Non oserebbero tanto.” Le
fiamme vorticarono riflesse nei suoi occhi.
Pelope
rabbuiò il viso.“E’ me che
vogliono. Stai dicendo questo?!”
“L’hai sentita la serpe, no?!
Qualche stolto non ti reputa Re di diritto.” Si
addolcì, gli prese la mano e se la portò al cuore.“Ma gli Dei ci sono testimoni amore mio. Sappiamo
che fu Mirtilo ad uccidere mio padre manomettendo il
carro e Zeus sa che ti avvantaggiasti ben prima che lo stesso uscisse fuori
d’asse!” Prese il volto amato
fra le mani e posò un bacio lieve sulle sue labbra.“Troveremo quello stolto e tutti gli altri. Gli
suoneremo l’unica verità esistente. Tu sei il Re di diritto, Pisa ti appartiene
e allora sì che bella musica udiranno!”
La
mano scese su il seno e poi su tutto il resto. Atreo ignaro continuava a
giocare sul pavimento con i suoi soldatini.
*
Approfittò
del buio pesto per indossare la clamide e uscire dalle stanze.
I
suoi passi affrettati smossero il silenzio, in un fruscio danzante e appena
lieve.
I
giardini erano immersi in una fitta nebbia insolita, quasi spettrale; una voce
dentro di lui gli comandava di camminare e proseguire, fuori dal palazzo oltre
le mura, nella fitta radura. Una mano però lo afferrò per la tunica,
costringendolo a desistere; balzò su se stesso cercando di difendersi con le
mani aperte sul viso. Qualcuno sussultò prima di lui.
“Siete voi maestà!” Atreo imprecò riprendendo fiato.“Mi avete spaventato!”
“Non ne dubito. Vagare per i giardini a questa ora
della notte.. si rischia di fare strani incontri..” Pelope sogghignò sarcastico.” quando le mura
sono sorvegliate da cinquanta guardie pagate con il costosissimo conio reale.”
“Con tutto il rispetto siete voi ad
avermi messo a incarico Sua Maestà.”
“Mia moglie. Non dimenticatelo. E’
mia moglie che vi stima con tale ardore..” Il
Re si allontanò volteggiando nel chitone.
“Sarai anche un Re, gli Dei mi
fulmini se mi azzardassi ad ammettere il contrario.” Atreo collerico alzò la voce per raggiungerlo,“ma sei pur sempre mio fratello,
Pelope, ti conosco come le mie tasche e farei di tutto per non deluderti e
restituirti la gloria eterna che ti spetta. Ma voltati e guardami negli occhi,
cosa sta facendo questo fratello per meritare questo astio?!”
Pelope
si girò lentamente.“Io ti guardo ma
non vedo mio fratello”.
“E’ la nebbia ad offuscarti la vista,
ti dico.” L’attendente a grandi
passi si portò di fronte a Sua Maestà; erano li, occhi negli occhi, il sangue
delle medesime membra ad averli generati, uomo a uomo, fratello a fratello. “E’ da quando
hai indossato quella corona che sei cambiato.”
“Il potere ti cambia Atreo, la corona
è il peso più gravoso che un uomo possa sopportare. E così quando hai indossato
anche tu le sete pregiate e gli ori di Pisa hai cambiato per sempre il tuo
animo. Ma c’è oro e oro fratello. Il tuo lo riponi in uno scrigno ogni notte e
puoi decidere di non indossarlo domani, il mio ti resta sul capo anche quando
non c’è. Ho dei doveri imprescindibili e il mio compito è sorvegliare il mio
regno e la vita mia e di quelli che da me dipendono.”
“Io sono complice in questo tuo
compito. Sono il tuo Attendente di corte, lo dimentichi.”
“Ancora per poco, temo.”
Atreo
si fece pallido in volto. “Cosa vorresti dire?!”
“Due Re sulla stessa corona sono
troppi. Quando avrò gioito della nascita del mio secondo figlio partiremo alla
volta del nostro antico castello in Frigia e spazzeremo via i barbari che vi
hanno fatto colonia. Ti verrà data in sposa nostra cugina Melibea
e insieme governerete sulle terre appartenenti a Pisa, assoggettati alle nostre
leggi, con tutti gli onori e i pregi spettanti ad un Re ed una Regina.” Pelope sorrise guardando in lontananza.“Avrai modo per riflettere sulle
mie parole fratello solo quando il capo sarà incoronato. Goditi ancora le tue
mansioni nel mio castello e brinda con me alla tua nuova vita.” Si diressero alle cucine dove i fornai stavano dando
forma alle pagnotte per la colazione; Pelope stappò del vino rosso versandolo
in due coppe istoriate che tintinnarono fra di loro al cielo.
Con l’arrivo
dell’inverno Ippodamia diede alla luce il
secondogenito.
Il bimbo venne chiamato
Tieste da un antenato della casata di Enomao e oltre
al nome aveva ereditato una folta chioma dorata e gli occhi da neonato di un
azzurro sorprendentemente vacuo come quelli della madre.
“E’ un bambino bellissimo Sua Maestà.” Melibea mise fra le braccia della Regina l’infante avvolto
nel vello di pecora; la fanciulla era stata ammessa alle stanze per via
dell’amicizia instaurata con la sovrana, da quando era stata portata via da
Olimpia e soprattutto da quando era stata promessa sposa ad Atreo.
Melibea era graziosa, i tratti del volto risalivano ai
fieri di Tantalo il Truce di cui era nipote, lunghi capelli corvino e occhi
scuri come la pece; un tempo si diceva fosse ancor più bella ma lo spavento
allo vista dei volti di Apollo e Artemide venuti ad ucciderla per le offese che
sua madre ingiuriò contro la loro madre, le rese il volto di un innaturale
pallore tanto che da quel giorno ovunque ella andasse veniva chiamata Clori, la
pallida; per amor del fato la
ragazza possedeva altre qualità che distoglievano lo sguardo da questo suo
“difetto”, tanto ella era mossa da carattere solido, equilibrio e disciplina
instillata certo dall’amore per le attività sportive che l’avevano vista
vincitrice oltretutto dell’ultima Olimpiade. Ippodamia
la riteneva la giusta compagna per Atreo e dopo aver avuto notizia dal Re del
loro imminente matrimonio dapprima ne fu molto adirata perché il marito aveva
agito alle sue spalle, ma dopo la sfuriata non potè
che ammettere quanto la coppia fosse ben assortita e quanto avrebbe giovato al
regno la loro unione; questo la spinse ad occuparsi della sua istruzione,
raffinando le maniere poco regali e trasformandola mano-mano in una giovane
promessa sposa e regina degna di tal nome.
La vita al castello era
molto cambiata, Pelope aveva preso il comando calandosi nel ruolo di Re come
fosse stato sempre il suo; con stratagemmi aveva sostituito la servitù tanto
cara ad Ippodamia, con eccezion fatta per Nikandrios difeso a spada tratta dalla consorte. La sua
supervisione si spostò anche al tesoro reale, mettendo sempre più alle strette
il lavoro di Atreo. Si occupò personalmente di trovare i fondi per le casse
destinate al riassortimento di un esercito, che da lì a pochi mesi, avrebbe
marciato al suo fianco per assoggettare i territori del suo antico potere a
quello del nuovo.
“Come è fragile.” Atreo
toccò con la punta del dito la pelle rosea del braccino di Tieste e inorridì.
“E’ un neonato Atreo, la sua pelle è molto
delicata.” Ippodamia prese la mano del maggiore e la portò nuovamente
sul bambino che nel frattempo si era attaccato al seno.“Però senti come è liscia e calda. Anche tu eri così
fragile.” Fece cenno a Melibea di far salire il bambino sul letto. “Adesso sei un
fratello maggiore Atreo e il tuo compito è quello di proteggere Tieste.” Parlò con voce affettuosa ma il bambino guardava
l’infante perplesso e sempre più inorridito; c’era qualcosa nel fondo dei suoi
occhi neri che ribolliva come una fiamma.
“Fino a quando?!”
“Per tutta la vita sarai un fratello maggiore.” Si chinò in avanti e gli baciò i capelli.“Ma non preoccuparti quando questo
esserino camminerà sarà un po’ meno fragile.” La donna sorrise abbandonando il capo ai guanciali;
chiuse gli occhi e lasciò che il figlio poppasse tutto il latte di cui
necessitava.
Atreo strinse i pugni e
corse verso i suoi giochi raggruppandoli tutti nelle braccia corte e piccole. “Il principe può
giocare con i suoi giochi più tardi, Sua maestà ha bisogno di riposare.” Melibea si chinò cercando di alzarlo per un braccio.
“No! Lui si metterà a camminare e io non avrò più
niente.”
“Ma non è vero! Avrai tutto più di tutti invece. Sei
il maggiore e questo è importante, l’hai sentita la tua mamma?!”
“La mia mamma dorme e lui e se la prende tutta.”
“Lui è molto piccolo Atreo e ha bisogno della tua
mamma.” Melibea lo prese in braccio accompagnandolo accanto al
letto, con un dito sulle piccole labbra controllò che Tieste poppasse ancora. “Guarda come è
piccolo e indifeso.”
“E’ fragile.” Berciò
il bambino voltandosi disgustato dall’altra parte .
*
Quando Mia aprì gli
occhi Pelope le era accanto, con il fagotto fra le braccia. “Ti somiglia
molto.”
La donna annuì. “Come stanno
andando gli addestramenti?!”
“Bene mia Regina. Ma non parliamo di questo.” Baciò la mano della consorte e sollevò il fagotto.“Un altro maschio! Tu mi rendi
orgoglioso moglie!” Il bambino
rispose con un suono simile ad una risata.
La Regina si issò sui
guanciali.“Il giorno in
cui nascerà una femmina sarai meno orgoglioso, marito?!”
“Mi renderai orgoglioso per ogni creatura che
avremmo, Ippodamia” La guardò serio tornando a sedere. “Ma questo è
molto meglio di qualsiasi profezia, lo sai?! Insieme avremmo governato sulle
nuove generazioni e la Grecia tutta si sarebbe inchinata, queste erano le
parole che l’oracolo mi predisse. Ma due figli maschi mia Regina assicurano un
dominio che va ben oltre ogni mia aspettativa.”
“Molto romantico, davvero.”
“Alla mamma non piacciono i miei discorsi militari,
che si può fare?!” Due manine
uscirono fuori dalla copertina agitandosi fra di loro; Pelope le baciò tornando
a rivolgersi alla moglie. “Tuo padre per paura di perderti ti ha custodita
come un prezioso dalla quale non voleva separarsi mai, anche a costo della sua
stessa vita. Io ti dico guardali, sono così piccoli adesso eppure in loro
scorre il potere del futuro, la testimonianza del nostro passaggio. Io non sono
fatto perché il nostro nome resti circoscritto a queste mura. Io sogno il
progresso, l’espansione. Chissà quanti e quali luoghi domineranno, le mogli e i
castelli che prenderanno, la sapienza e le arti che otterranno. Tutto questo io
sogno per loro, per noi.”
Mia irrigidì il volto e
bisbigliò fra i denti.“Siete già stufo
di questo castello e questa moglie?!”
“Questo castello e questa moglie sono stati la mia
fortuna. Ma è ora di restituirti quello che mi hai dato mia Regina.” Pelope la baciò, serrando le labbra contro quelle
tese di lei, sciogliendole a poco-poco con un delicato tocco di lingua. “Immagina cosa
c’è al di là; oro, sete, palazzi. La conquista e la sottomissione dei
territori, un nuovo verbo e una nuova voce a capo di tutte le genti. Il dominio
assoluto. I nostri nomi a veleggiare verso l’eterno.” Si acquietò vinto dai sogni che teneva nascosti nel
suo animo; Mia si voltò a guardarlo.
Dai suoi occhi una
lacrima sgorgava per ridiscendere sulla guancia bruciata dai vento invernali.
Cercò infondo ad essi
la verità ma non la trovò.
Trovò le stelle che luccicavano
chiare e nitide sulla strada per il loro futuro.
Non avrebbe mai
compreso il furore degli uomini per le battaglie e per la morte, ma una cosa
capì fino in fondo; gli uomini nascevano per le battaglie, le donne per
procreare. Le donne combattevano sul loro letto il giorno del parto.
*
Il bambino venne
battezzato al cospetto degli Dei otto giorni dopo la sua nascita.
Ippodamia vestita con un peplo sontuoso di un candido bianco
rifulgeva di una bellezza rinnovata; la figura non appariva per nulla
appesantita dalla seconda maternità benchè fosse
passato un tempo irrosorio e Pelope la teneva stretta
come fossero due ragazzini alla prima cotta.
Probabilmente alla fine dell’inverno mi darà un
terzo erede.Pensò, mentre osservava ciocche dorate della donna
strette nelle mani del primo figlio.
La cerimonia per volere
del Re, per la sicurezza dei suoi cari, fu rapida e contro ogni riguardo
officiata dinnanzi all’intera città che acclamò entusiasta e a gran voce
l’arrivo del secondo infante e secondo in linea di successione al trono;
lafamiglia reale si spostò poi agli
Altari per officiare il lieto evento con un sacrificio agli Dei, muovendo
dietro loro il netto numero di accoliti giunti sin là per l’occasione. Nikandrios e altri quattro soldati li scortarono, il
generale teneva la spada ben stretta per l’elsa premuta al fianco, girando il
capo nervoso ogni qualvolta un movimento sospetto sfilava dalla processione e
s’avvicinava ai membri reali.
“Qualcuno è nervoso.” Berciò il Re. “E’ troppo giovane per essere un
generale.”
“E’ svelto di mano e di cervello.” La regina indicò la mano del generale e poi rise.
Una fanfara portò
silenzio intorno.
Atreo, il piccolo
Atreo, venne portato a braccia sin al tavolo di marmo adornato di ghirlande e
prelibatezze delle cucine reali; un agnello vivo lo aspettava belante legato
per il collo da una fune tenuta stretta dalle mani di uno sguattero dal sorriso
sdentato.
Il bambino venne
passato alle braccia del padre che stringeva nel pugno un coltello affilato dal
manico d’onice; il piccolo posizionò la manina al di sotto di quella dell’uomo
a contatto con la pietra fredda dell’impugnatura.
Ippodamia poche spanne più indietro guardava la scena
attentamente, stringendo al petto l’ultimo nato.
Lo sguattero la
guardava mostrando denti gialli e spazi vuoti su gengive nere, il piede al
ritmo nervoso batteva sul terreno; Nikandrios si era
messo di mezzo cercando di proteggerla dietro la sua stazza.
I tre uomini della
guardia presero posto circondando il tavolo per tre lati.
I tamburi suonarono e
nell’attimo in cui Pelope squarciò la gola dell’animale un ombra veloce guizzò
al suo fianco con un bagliore scintillante nel braccio proteso verso l’alto;
urla sconnesse provennero dalla folla. “Attentato! Attentato a sua maestà.”
L’uomo dallo sguardo
furente scartò con due fendenti il soldato più prossimo alla traiettoria
prendendolo alle spalle e recidendogli la gola; l’altro si gettò sul tavolo
cercando di attraversalo e impedirgli di avanzare ma fu colpito alla gamba da
una seconda figura sfilata dalla folla; costretto a girarsi diede le spalle a
sua Maestà e sguainata la spada affondò colpi nella tunica grezza dell’uomo.
Con un calcio il primo
uomo allontanò il soldato morto e con un flebile alito di voce sibilòin faccia al Re, “nazisete.” Buona vita a voi.
Ma Pelope abbassandosi
schivò il colpo che ferì l’aria facendola vibrare sopra la sua testa; nascose
Atreo sotto al tavolo e agguantando l’elsa tentò di sguainare la spada. L’uomo
era pronto a sferrare il secondo colpo a due mani in verticale quando con un
solo balzo il generale Nikandrios fu addosso al Re
spostandolo dalla traiettoria e dalla spada che andò a conficcarsi nel suo
scudo.
Ippodamia sguarnita di protezione urlò tentando di
divincolarsi dalla stretta dello sguattero rimasto indisturbato; Pelope si
rialzò e le corse incontro a spada volteggiante. Arrivò sull’uomo che quello
non ebbe neanche il tempo di stupirsi, gli tranciò di netto il capo facendo
schizzare in aria la materia cerebrale. Atreo uscì da sotto al tavolo e li
raggiunse, Ippodamia si piegò e lo strinse per le
spalle.
“Devi correre a nasconderti nei boschi Atreo. Qui è
pericoloso.” Gli baciò i capelli,
passandogli il neonato nelle braccia. “Ricordati sei un fratello maggiore adesso, spetta
a te proteggerlo.” Atreo accolse il
piccolo a se stringendolo goffamente; il suo faccino rotondo e i suoi occhi
spauriti d’un tratto lo fecero sembrare più piccolo di quanto non fosse.
Ma il baluginio infondo
ai suoi occhi riprese presto a fiammeggiare e il bambino Atreo da quel momento
non fu più bambino.
*
“No! Non ti permetterò di ferirti Ippodamia!” La donna raccolse la spada dell’attentatore a cui Nikandrios aveva staccato un braccio, ma Pelope la bloccò
per la vita tirandosela al petto. “Lasciami Pelope!” Strattonò invano, le braccia dell’uomo la tenevano
salda. “Guardati
intorno, hai bisogno di me!”
La folla era stata
acciecata dalla caccia alle streghe; tutti colpivano tutti, ramazze, pugnali,
sassi ogni oggetto potesse contundere andava bene, in breve tempo la terra
s’era fatta rossa di sangue e la foga dilagante si era spinta oltre il
possibile inimmaginabile.
“I tuoi figli hanno bisogno della loro madre.”
“Se non ti aiuterò, non avremmo più dei figli.” Annuì sicura.“Fidati di me.”
La lasciò andare verso
l’uomo che l’aspettava forcone alla mano, tremando per quella minuta figura
trasformata in furia; e ricordò, ricordò il suo canto ammaliatore sui carri il
giorno delle gare per avere la sua mano, ricordò la curva della schiena quando
doveva saltare dalla biga impazzita del padre, ricordò le gambe forti serrate
ai fianchi dei bai quando Zeus li soffiò oltre le isole del mare, ricordò la
tenacia quando partorì Atreo sulla terra nuda senza che nessuno le avesse
insegnato come si faceva. Ricordò questo e molto altro ma ricordò soprattutto
che Ippodamia era figlia degli Dei e per quanto le
avesse dato prova di essere di una donna calda, amabile, affettuosa, restava pur
sempre un essere divino.
Alla fine della
battaglia vennero catturati più di venti insorti; il generale Nikandrios nell’impeto dei subbugli aveva rispedito uno dei
soldati di guardia a Pisa ordinandogli di far tornare indietro trenta uomini e
lettighe a sufficienza per i feriti. La conta dei morti fu impressionante tanto
che alcuni di essi furono bruciati seduta stante senza un vero e proprio rito
funebre. Pelope adunò gli attentatori e si munì di fruste, legandoli per le
braccia alle rocce sporgenti del terreno; cominciò così una serie di atroci
sevizie e fustigazioni in nome della verità e della giustizia.
Atreo giunse a cavallo,
estromesso dal rito quale attendente della città e obbligato a rispondere per
essa in assenza dei sovrani, benedicendo il cielo per questa legge certo che
non se fosse stata istituita il caro fratello lo avrebbe accusato certo di aver
ordito tale piano; sputò in terra tre volte, girando fra la gente esterrefatto
e inorridito da tanta barbarie. Non avrei mai avuto il coraggio. E l’ambizione per
farlo, pensò.
“Credo dovrai farci l’abitudine caro fratello. In
Frigia non troveremo braccia aperte ad accoglierci.”
“Temo di no.” Atreo
raccolse i resti di quella che somigliava a una spada.“Ho come l’impressione di girare sempre in tondo.”
“Spiegati meglio.”
“Spade al posto di pugnali. Singolare, non trovi?!” Si girò l’elsa fra le mani.“E dispendioso. Chi può permettersi un armamentario
così?”
“Ippodamia dice che le
istoriate sull’elsa appartengono a noi.”
“Quelle spade non esistono più Pelope. Sono andate
perdute nella caduta di Pisa.”
“Ne sei certo?!”
“Beh a dire il vero non ne avevo mai vista una prima
d’ora. Solo sentito parlare. E confrontandola con la spada di Enomao, sempre che sia l’originale e spero che tu capisca,
noto una certa somiglianza.” Si
grattò il mento e proseguì,“nei forzieri
non c’erano al mio arrivo, quindi sì non posso dire con certezza quando o da
chi furono prelevate, ma ho sempre pensato che dopo la caduta della città le
armi fossero andate perse con i legittimi proprietari.”
“Enomao vantava un esercito
di settecento uomini. Settecento uomini per settecento spade, troppe per sparire
senza far rumore. Qualcuno deve averle messe insieme quelle maledette spade! Ma
chi? E perché non prelevare anche tutto il resto?!” Pelope pensò alle mura distrutte del castello e i
segni ancora oggi visibili la dove il fuoco aveva aperto breccia e d’improvviso
capì; il popolo di Pisa era caduto per mano degli Dei insieme alla città
stessa, intere famiglie distrutte, ridotte al lastrico e allo sbando, chi di
questi figli, zii, nipoti e madri avrebbe avuto tanta forza e coraggio, il
desiderio e la conoscenza d’arrivare alla ferraglia prima ancora di mettere in
salvo la propria vita?! Nessuno poteva desiderare la sua morte come e quanto
più di un vecchio soldato fedele ad Enomao, di un
vecchio comandante o di un vecchio generale.
Ma un soldato non aveva
i mezzi per muovere una sommossa. E nemmeno un comandante.
Ma un generale sì.
Meglio se anche fidato e personale consigliere del Re.
Arricchitosi da anni di
fedele servizio e conoscitore dei segreti e dei nascondigli del tesoro reale.
Colui il quale non
bramava gioielli ma più sete di giustizia.
Colui che non voleva di
certo vederlo seduto sul trono al posto dell’ amato Re assassinato.
Colui che non lo
riteneva il
Re di diritto.
Colui il quale poteva rispondere
solo al nome del Generale e Consigliere Apyos della
corona di Enomao di Pisa.
Un ruggito profondo e
costante risaliva dalle viscere scuotendo gli alberi, le persone, poche,
rimaste ancora in piedi dopo il caos; si attendeva il giudizio, il nulla o più
probabilmente solo la fine di quella giornata straziante.
Nella confusione degli
elementi Ippodamia trasalì pensando ai suoi figli,
soli, in preda ai mutamenti nei boschi.
“Atreo! Atreo!”
Le fronde degli alberi
scuotendo risposero un laconico Shhh.
Vagò con gli uomini
della guardia reale nell’intrico di querce e castagni con il cuore in gola ogni
qualvolta un cervo o una volpe smuovevano gli arbusti; per lei, che il bosco
era stata la sua casa, non v’era timore nelle creature della natura, ma i suoi
figli, così piccoli, così delicati potevano rappresentare una grandissima
fragilità nel medesimo contesto. Atreo era sì forte e coraggioso, dal
temperamento caldo.. ma restava pur sempre un bambino e il piccolo Tieste non
riusciva nemmeno a immaginarselo lì.
Doveva trovarli.
E li trovò. Il bambino
di cinque anni con ancora il fagottino stretto fra le braccia e il corpo
riflesso verso lo specchio d’acqua che era l’Alfeo; un corpo vacillante,
troppo, le mani che sembravano tremare e provocare singulti alla stessa figura
minuta, piccoli passi sempre più vicino all’acqua..
“Atreo!” Ippodamia
si gettò verso il bambino tirandoselo addosso; quello voltò il capo lentamente
scoprendo un ghigno malizioso.
“Volevo far vedere a Tieste i pesci argento.” Pochi
secondi ancora e lo avrebbe gettato nel fiume. Ne era certa.
“Ma lui non può vedere ancora quello che vedi tu.”Delicatamente
sciolse la presa delle sue mani sul neonato avvicinandoselo al petto. “vuoi
raccontarglielo, Atreo?!”
“Sono stanco, mamma.” E abbassò il capo anche egli al petto della madre
singhiozzando.
E’ il vostro sangue la vostra congiura.
*
Rientrarono a palazzo
consumando un pasto frugale, con la luna alta nel cielo; si respirava aria
mesta e la servitù filava di fretta con le portate. C’era vergogna; la testa
basta per il rammarico di appartenere a quella fascia di popolo che aveva osato
creare disordini.
Pelope non toccò cibo,
la vista del sangue dei cosciotti d’agnello gli serrò lo stomaco.
“Mi hai fatta chiamare mio Re?!” Poco dopo nella sala delle udienze la Regina apparve
alla vista del consorte; l’uomo dall’alto dello scranno la invitò ai suoi
piedi, porgendole una carezza sul viso e il baciamano. “Perdonami sarai
stanca, ma ho notizie troppo importanti.”
“Nulla è più importante della vostra vita sua
Maestà, nemmeno il mio riposo.” Pelope
annuì, congedando le guardie.
“Ippodamia so chi mi vuole
morto.” Sentenziò, appena
rimasti soli.
“Chi?!”
“Apyos primo Generale
della Guardia del tuo defunto padre.” Scrutò
il viso incerto della donna e proseguì,“troppe
coincidenze, fra cui le istoriate che tu stessa hai riconosciuto appartenenti
alla tua casata e gli avventori troppo capaci, troppo preparati. Uno fra questi
ha confessato di essere un disertore del vecchio reggimento, capisci?!”
“Apyos..” Le parole soffiate dalle labbra di Ippodamia morirono nei suoi occhi tristi.
“Chi se non lui?! Comunque abbiamo tenuto in vita
uno degli ostaggi; avevano un appuntamento in alcuni diroccamenti fuori Pisa,
ci condurrà lì.”
“Non sarà troppo rischioso mio Re?!” La donna si svegliò dai suoi incubi, alzandosi come
colpita da una scarica elettrica; camminò verso le anfore colme di vino e ne
versò in un due coppe. “Apyos è solo un nome. Tu
non sai chi si nasconde dietro quel nome. Vuoi credere che sia lui perché ti
sentiresti sicuro, ma cosa accadrebbe se così non fosse?” Porse il calice all’uomo che aveva difronte, un uomo
dal viso tirato, dai folti capelli lucidi di olio di macassar
e solchi scavati nelle orbite per il dolore e la fatica.
“Tu mi hai chiesto di avere fiducia in te, ti chiedo
io ora di ricambiarla a me.” Pelope
si alzò e la prese fra le braccia. “Non posso lasciare Pisa in disordine quando me ne
andrò e non voglio lasciarti con gli sciacalli dietro la porta; sei forte e so
che avrai cura di te, ma lascia a me il duro compito della giustizia e
appoggiami ancora, come hai sempre fatto.” Si
staccò avvolgendo il volto della donna con le mani. “Non mi sono mai
sentito così vulnerabile come oggi quando ho visto le sporche mani di
quell’uomo addosso al tuo corpo.” La
baciò, accarezzandole il seno e scendendo con l’altra mano fra le fessure della
tunica; spuntò la spilla che tratteneva le stoffe all’altezzadei fianchi lasciandola scoperta di
ogni indumento. Si stesero sui resti del peplo come su un giaciglio di erba
fresca guardandosi negli occhi senza emettere alcun fiato. La loro vita era
andata cambiando da quando si era completata di due bambini, Pelope si rese
conto di non aver avuto più l’attenzione e la premura di ammirare e decantare
le curve voluttuose del corpo di sua moglie, un corpo giovane e flessuoso da
recargli turbamento e estasi, mangiandoselo spesso troppo di fretta e non
godendolo in ogni minimo particolare.
“Ti amo Ippodamia, mia
Regina.”Fece scorrere le mani sulla pelle, accarezzando ogni
antro, incavo, superficie liscia e bianca; usò le labbra per provocare spasmi e
l’altra mano per aumentare la voglia. Entrò delicatamente in lei solo quando si
sentì sazio e pieno della sua figura, quando dal fondo degli occhi della
compagna avvertì arrendevolezza e piacere e non ci fu altro da guardare, solo
chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare per una via che avevano intrapreso
insieme e che sarebbe stata destinata a continuare da lì all’eterno.
Se gli Dei non fossero stati così infimi e
meschini.
*
Le fiamme crepitati nel
camino di erano trasformate in braci ardenti e silenziose, Mia si ridestò dal
corpo del suo uomo e si rivestì della tunica; con le mani ravvivò le ciocche
bionde e flessuose del capo e fece per alzarsi.
“Prima di congedarmi vorrei sottoporti un altro
problema mio Re.”
“Parla pure, ti ascolto.”
“Si tratta di nostro figlio Atreo.” Pelope issò il busto ponendosi attentamente
all’ascolto.“Non sta bene
mia Regina?!”
“Fin troppo bene direi. Il suo temperamento è smosso
dalla forza di guerrieri, ma ciò che mi angustia è il suo animo turbolento.
Negli occhi balugina la fiamma dell’intemperanza, della bramosia. Ma è un fuoco
destinato a bruciarsi in fretta e che reca solo sventura!” Mia si inginocchiò al capezzale del suo Re
serrandogli le mani con le proprie.“Devi prenderlo
con te e incanalare la sua forza in qualche arte. Credo che abbia bisogno di
sfogare la sua natura.”
“Anche nei tuoi occhi la gente vedeva strani presagi.
Ma oggi hanno difronte la loro Regina.” Pelope
si eresse gettando sulle braci legna nuova; contemplò le nuove fiamme aizzarsi
l’una sull’altra.“Credevo volessi
occuparti tu della sua istruzione.” L’uomo
si girò verso la moglie. “Ma forse sai qualcosa che non so, vero?! E scommetto
centrino i tuoi sogni.”
Mia abbassò lo sguardo
ripensando alle nuvole che in nascita oscurarono i suoi occhi; due macchie
scure che la sua balia amorevolmente chiamava così, quando in preda alla furia, alla rabbia
o a sentimenti che scuotevano l’animo, le comparivano sulle pupille.
Quando Pelope prese la
sua virtù, quelle nuvole sparirono senza far più ritorno.
“Ho sognato mio padre e lo sogno spesso; il suo
monito è una cospirazione, il vostro sangue ha detto, sarà il vostro sangue la
vostra congiura. Mi duole dirti questo ma.. al fiume Atreo stava per gettare il
fratello in acqua, ne sono certa, lo avrebbe fatto se non fossi arrivata per
prima.”
“E’ un bambino Ippodamia!
Come può un bambino arrivare a tanto?!”
“Oh Pelope!” Mia
si battè un colpo al cuore.“Nostro figlio non è solo un bambino. Lui è molto di
più. La dea Artemide mise le mani nel ventre di mia madre aiutandola a
partorirmi e quando tu nascesti un oracolo brillò sulla tua vita. Oh Pelope!
Atreo non è solo un bambino. E’ il sangue del potere. Il sangue degli Dei.”
*
Una notte al calar del
sole, quando tutto sembrava esser alle spalle ormai e coperti di mantelli a
proteggere le loro identità, il Re e una piccola adunata di mercenari, uomini
che avevano confessato di appartenere ad un piano per assassinarlo e passati alla
sponda regale dopo aver visto le teste mozzate dei compagni che avevano
rifiutato di collaborare e in cambio di una promessa libertà, partirono alla
volta dei diroccamenti fuori la città.
Il generale Nikandrios in tenuta d’assetto, scudo di cuoio e calzari
alla caviglia teneva la fila, rinnovato nel corpo e nello spirito per aver
conquistato la fiducia del Re salvandogli la vita agli altari; suo era il
compito di addestrare l’esercito che avrebbe marciato per la guerra in Lidia e
Frigia e suo era stato il compito di ammaestrare i vagabondi e voltagabbana che
si erano macchiati di tradimento e che quella notte marciavano invece al fianco
del suo Re.
Ai primi accenni di boscaglia,
laddove le strade principali di Pisa intersecavano il fiume a ovest, Pelope
ordinò di smontare dai cavalli e legarli agli alberi; un giovane sbarbato di Pirgos restò a guardia, mentre gli altri si addentrarono
verso le fiaccole che luccicavano nel buio.
Colsero di sorpresa un
uomo e una donna, probabilmente una baldracca di Pisa, intenti ad ammucchiarsi
su un cumulo di paglia a cielo aperto. “Questo sì che si dice fottere
sotto le stelle!” Simon il
mercenario dette un calcio nel posteriore dell’uomo facendolo caracollare di
lato; la donna impaurita e con il grosso seno penzolante cercò di scappare ma
due uomini le furono addosso. “Alzati ultimo dei romantici!” Rise sguaiatamente portandosi prepotentemente alle
spalle dell’uomo, disarmato e costretto a obbedire, affondandogli il ginocchio
nella schiena.
“Cerchiamo l’uomo di Corinto. L’ombra, si fa
chiamare.” Ippodamia istruì Pelope prima di mandarlo alla ricerca del fantomatico
Apyos, il resto lo avevano fatto i confessori a suon
di frustate.
“Se è un ombra perché lo cercate?!”
“Qui le domande le faccio io, feccia!” Simon accompagnò al ghigno un colpo di tallone piazzato nelle
costole. “Te
lo ripeto di nuovo, forse oltre al cazzo anche le tue orecchie sono lerce.
Cerchiamo l’uomo ombra. E’ nei baraccamenti adesso?!”
“Non ho visto nessuno.”
“Vissarion, colpiscilo!” Mentre lo teneva stretto per le braccia un compagno
si portò avanti caricando il piede sul membro dell’uomo ancora fuori dalle brache;
quello urlò buttandosi all’indietro, ma Simon lo ricacciò in avanti a suon di
calci. “Forse
ricordi male.”
“Ochi.” No, disse serafico l’uomo.“Voithia! Voithia!” Aiuto. Aiuto. Ma
nessuno corse in suo aiuto, solo altri calci.
“La baldracca, provate con lei!” I due che la tenevano stretta si misero in posizione
l’uno di fronte all’altro e prima che uno dei due potesse toccarla quella
cacciò un urlo straziante.“Vi prego, no!
Non so nulla di questo uomo ombra, vi prego!” Ma quelli le tapparono la bocca con un pugno fra i
denti; la donna sputò sangue. “Quanti denti vuoi perdere prima di crepare?!” Quello fece per colpirla di nuovo ma l’uomo fra le
braccia di Simon gridò. “Lasciatela stare! Lo tengono loro, ma non si fa
vedere spesso dopo quello che è successo agli altari. Tutta quella gente morta
con onore..”
“Onore?!” Pelope
sfilò dal buio, il mantello sul capo a coprirgli il volto.“Quale onore c’è nel tradimento?!”
“Si
tradiscono i Re e le Regine. Io non vedo ne l’uno ne l’altra.”
“I-o s-o-n-o i-l R-e d-i d-i-r-i-t-t-o!” Pelope urlò sguainando la spada e con forza cieca la
spinse per intero nel petto dell’u0mo; quello gorgheggiò. “Mia è stata la
vittoria alle corse! Mio è il trono e mia è la sua Regina! Zeus mi è testimone!
Che mi fulmini se dico il falso!” Gli
occhi strabuzzanti del moribondo si spalancarono ancora di più; nuvole pesanti
e cariche di pioggia si agglomerarono nel cielo tingendolo di un cupo color
violaceo. I lampi illuminarono il cielo cadendo sulla terra, ma nessuno di essi
a discapito del poveretto sfiorò il Re.
“Vi ucciderò uno ad uno. Uno ad uno!”
Rinfoderò la spada
ancora grondante di sangue muovendo passi svelti verso le baracche sul finire
del bosco; Nikandrios gli correva al fianco intonando
le preghiere del buon soldato. Con un calcio spalancò le canne fasciate che
fungevano da porta, l’elsa ben serrata al fianco, gli occhi ferini. Nella sala
c’erano diverse stole e pagliericci sulla quale bivaccavano uomini di ogni
genere, il vino accompagnava il fragore e le donne scaldavano gli animi; una
veloce occhiata con il generale li portò a dividersi, uno verso il locandiere e
l’altro sul fondo, defilato, in attesa.
“Una coppa di vino speziata, oste!” Battè sul tavolo parecchie monete d’argento,“e una confessione.”
Quello rise.“Cosa vuoi che ti confessi? Che ho
le migliori baldracche dell’Elide?!” Agguantò
le monete facendole scivolare dal banco sudicio.“Né. Le migliori, sì.”
Pelope gli serrò il
braccio tirandoselo a sé.“Delle tue baldracche
non me ne faccio nulla. Voglio l’ombra.” Si
calò il mantello scoprendo il volto; quello smise di ridere, accigliandosi, le
labbra tremanti, gli occhi increduli.
“Non c’è n-n-nessuna ombra qui.”
A ridere fu il Re.“La tua baracca è circondata dai
miei uomini, hanno torce e spade, un solo comando e puoi dire addio a questo
mondo.” L’oste guardò fuori
dalle finestre; quando scorse dei leggeri movimenti nel buio trasalì. “Se invece te ne
stai qui buono e mi dici dove posso trovarlo.. beh te ne sarò grato.”
“Grato.. quanto?!” Deglutì, socchiudendo gli occhi; Pelope fece
volteggiare sul bancone cinque monete stavolta d’oro zecchino.
“Queste.. e la mia clemenza.”Si toccò l’elsa
della spada e quello annuì.
“E’ alle latrine, quando rientrerà ti farò cenno..
Sua..”
“.. Suaramis, pescatore di Pirgos. I nomi sono pericolosi quanto gli uomini che li
portano.” Pelope si voltò verso l’uscio
sentendo la risata roca di uomo al di là della porta. “Torna al tuo
lavoro e portami due coppe di vino, oste.” Il
mantello tornò sul suo capo e il silenzio lo avvolse donandogli fattezze di una
statua di cera. Si leccò le labbra. Vi ucciderò uno ad uno.
L’uomo che entrò nella
locanda era tozzo, un corto omuncolo con spalle piazzate e bicipiti granitici;
si guardò intorno prima di prendere possesso di una stola dove giaceva
divertita una delle puttane dell’oste. Le strappò di mano la coppa di vino,
prima di tracannarla in un sol fiato.
Pelope lo osservava di
traverso con occhi stretti, dal basso del cappuccio di rozza lana di cui era
fatta la clamide indossata; uno sguardo complice con l’uomo dell’accordo le
bastò a far capire che si trattava proprio dell’ombra.
Lasciò trascorrere i
minuti non staccandogli gli occhi di dosso neanche per un istante, osservandolo
bere il vino che gli colava giù per il mento e la sua figura non più asciutta
come probabilmente lo era stata da giovane, quando al posto delle sgualdrine
c’erano i cavalli del potente esercito del Re Enomao
da domare; eccolo
là, il grande Apyos, generale e primo comandante del
Re.
Ippodamia gli raccontò a grande termini quella che era stata
la sua vita; discendeva da una ricca famiglia di Patrasso l’antica città-porto
dell’Achaia, affacciata sul mare Ionio e famosa per i
commerci con la vicina Grecia Centrale e le isole sparse difronte la sua costa.
Il giovane Apyos venne spedito alla corte dell’allora
Re di Pisa, Asopo, per studiare le arti della guerra
insieme ad altri figli di nobile sangue. Fra questi legò molto con Enomao che altro non era che il nipote del Re, figlio di Harpina primogenita di Asopo e
per discendenza diretta, erede della corona. I due si affiancarono in molte battaglie,
il giovane aveva un senso spiccato per l’addestramento e il combattimento e
quando sul suolo dell’Elide, vi furono spargimenti di sangue per affermare
l’egemonia del Re, dette riprova di suddette capacità affermandosi comandante
prima e generale poi quando al potere salì il suo amico di infanzia Enomao. La loro amicizia si saldò con il passare degli
anni, delle battaglie e delle gioie della vita, ma anche dopo momenti bui,
quando Enomao perse l’unica donna che aveva mai
veramente amato, la madre di Ippodamia, il generale
si tolse ogni armatura e gli restò accanto come semplice amico. Non v’erano
ombre sull’onestà di Apyos e se aveva un difetto, lui
uomo mortale, era quello di temere gli Dei, la loro presenza, il loro giudizio.
Ma di questo, aveva proseguito Ippodamia, non poteva
essere biasimato; tutti gli uomini temono ciò che non comprendono.
E questo era quanto
Pelope aveva voluto sapere, perché conoscere quanto straordinario fosse, quali
e quante riprove di fedeltà aveva dato al suo Re lo avrebbero solo rallentato
nella sua missione; ucciderlo. Cancellare con un colpo di spada tutto ciò che
era stato, senza permettere a nessuno di instillare nel suo cuore l’incertezza,
per un uomo che di certo non avrebbe meritato morire senza onore, senza rispetto.
Svuotò la coppa e
afferrò l’altra voltandosi nella sua direzione; scivolò dalla panca come un
felino avvicinandolo.
Quello si accorse di
lui solo dopo aver abbassato la coppa di vino, la terza, da quando era
arrivato; restarono a fissarsi, Pelope con il ghigno di chi sa e Apyos con l’incertezza della vista quasi appannata.
“Che hai da guardare ragazzo?!” Berciò di un tono superiore al trambusto della sala;
tutti si voltarono aguardarlo.
“Kalà.” Ebbene, rispose suadente. “Volevo vedere se è vero.” E sputò in terra.
“Vero cosa, aghorì?!”Apyos sputò l’ultima parola con disprezzo. Ragazzino. Si issò con un sol colpo di reni, accarezzando
l’elsa; in piedi era ancora più piazzato di quanto non gli era sembrato
vedendolo entrare da lontano, con l’alito che sapeva di vino e di spezie e i
denti lucenti e affilati come quelli di un lupo.
Pelope non aveva paura,
ma il cuore gli martellava nelle tempie, il respiro affannato. Sputò ancora
stavolta ai suoi piedi, accorciando la distanza.
“Che l’uomo tanto valoroso di cui tutti parlano si è
messo a fare l’ombra..” Pelope svuotò la
coppa con il vino in faccia ad Apyos; quello imprecò con gli occhi
arrossati e brucianti, ma avvertendo dei passi affrettati si voltò di scatto alla sua destra vedendo arrivare dal
fondo della sala Nikandrios con la spada imbracciata;
senza rifletterci assestò, come meglio potè, una
spallata contro il petto di Pelope sbilanciandolo all’indietro per guadagnare
poi l’uscita a grandi falcate.
“Uccidilo!”Pelope indicò l’oste, Nikandrios gli fu addosso lacerandogli la carotide in un
sol colpo. “Bruciate
tutto! Bruciate tutto!” Si lanciò fuori
gridando comandi ai suoi uomini, alcuni lo accostarono nell’inseguimento
liberandosi di spade, mantello, calzari per essere più veloci. In un attimo ci
fu una grande fiammata ad illuminare i campi e il bosco tutto attorno; urla si
dispersero nella radura ma Pelope continuò a correre imperterrito dietro la sua
preda; Apyos arrancava, ebbro di vino.
Nel frattempo il
ragazzo di Pirgos attirato dai rumori e allertato da
un’altra sentinella smosse i cavalli nella direzione del Re; Pelope girò il
viso e vedendolo arrivare gridò estasiato.“Corri
quanto vuoi generale! Prima dell’alba brinderò al tuo cadavere!”
Piegato sul baio nero
sembrava una furia; la bocca aperta dalla quale fuoriuscivano suoni mostruosi,
i capelli come fruste colpivano l’aria, la mano che brandiva la mazza chiodata
ora volteggiante nell’aria; scemò la corsa e l’animale fiutato l’ostacolo umano
dinnanzi alle sue zampe impennò mostrandosi in tutta la sua mole, schizzando
bava dai denti scoperti.
Apyos si voltò vedendoselo addosso ma l’istinto di
sopravvivenza lo spinse ad arrancare altri passi; d’improvviso si ritrovò con
il volto a terra e un dolore lancinante a bloccargli le gambe. Era finita.
Sputò e urlò.
Era finita.
*
Riconobbe le risate dell’
uomo dal fondo dei cortili di Pisa, come un segno premonitore.
Scivolò dalle lenzuola
fredde e senza sonno per gettarsi addosso la tunica e andargli incontro
incerta, impaurita, curiosa.
Fa che non sia lui. Fa che non sia lui. Ma non si vedeva nulla, i servi erano stati
congedati, le sale delle udienze apparivano gelide e buie.
Le sentinelle sulla
piazza si ridestarono sentendola gridare, batterono le picche al suo passaggio
e si apprestarono a metter luce.
“Il Re è tornato! Sveglia, il Re è tornato!”
In un batter d’occhio,
la piazza interna al castello fu gremita di servitù, pedine silenziose, occhi e
mani pronte, che nulla sapevano eppure tutto sapevano. E tutti si girarono non
appena dal buio delle strade esterne apparì la sagoma di un uomo alto e
riccioluto; il medico di fianco a Sua altezza la Regina tremò esitante,
azzardando qualche passo in avanti, ma Ippodamia gli
bloccò il braccio.
“Quello è il tuo Re. Ed è vivo.” Era sicura. Lo aveva percepito. E vedendolo adesso
camminare alto e fiero voleva solo corrergli incontro e baciarlo
appassionatamente. Ma era la Regina. I Re non corrono verso nessuno, nemmeno
verso altri Re.
Dietro di lui un filo
di uomini spogli, più spogli di come erano partiti lo seguivano, con le facce
polverose, le divise luride, ma i sogghigni di chi già pregustava laute
ricompense da riempirsi la pancia e la vita.
“Mia Regina” Pelope
si inchinò, sfiorandole appena la mano con le labbra, seguito a ruota dai suoi
uomini.“Ti porto i miei successi e la
salvezza della tua vita a me tanto cara.”
“Alzati mio Re. E mostrami chi ha osato offendere il
trono e la mia famiglia.”
Un uomo entrò a cavallo
trascinandosi dietro lo straccio di ciò che rimaneva del colpevole; una figura
simile ad una roccia anche se claudicante e con le gambe tutte insozzate di
sangue, la faccia lercia e le braccia ancora più lerce legate per i polsi al
baio che lo trascinava.
Gli occhi di Ippodamia si strinsero tanto da lacrimare. Ma era
soddisfatta.
Lo avevano costretto a
percorrere tutto il tratto di strada al ritmo del trotto del baio, dalle radure
disperse fino a Pisa; e quando l’animale si fermò, anche egli si fermò,
restando ritto e senza vergogna, senza dar riprova della fatica e del dolore.
Ippodamia immerse delle pezze mediche in un catino d’acqua,
le strizzò e gli si avvicinò. “La polvere copre gli occhi di questo reietto.
Diamogli la vista, fino a quando gli serve.” Rise,
ma il sorriso divenne una smorfia non appena dal lerciume comparvero tratti a
lei conosciuti. Abbassò la mano, delusa. “Ebbene è vero ciò che si mormora..
ti sei nutrito del cibo del tuo sovrano, hai sfoggiato i suoi ori e le sue
ricchezze, il tuo nome è stato inciso nella memoria della storia delle
conquiste per la città, eppure oggi ti trastulli con guitti e cani giocando
alla rivoluzione, macchiandoti persino di tradimento!” Gettò stizzita la pezza ai piedi dell’uomo, “cosa hai da
dire a tua discolpa, Apyos di Corinto, primo Generale
del comando del Re Enomao?!”
La folla si lasciò
andare a gridolini di stupore, fischi e ilarità; d’un tratto tutti si strinsero
in un cerchio soffocante intorno all’uomo che un tempo impartiva ordini per
vece del Re precedente, quello che amava le corse ai cavalli, alla quale egli
stesso insegnò tecniche di perfezionamento e di guerra coi carri. Lo guardavano
con occhi assassini, già ebbri dell’odore di morte, in prima fila per quello
che si preannunciava un finale trucolento.
L’uomo non si attardò
ad accontentarli, si guardò intorno, uno ad uno inchiodò quei volti, schiarì la
voce e sommessamente iniziò a parlare. “Ho servito il mio sovrano come e
quanto di meglio avrei potuto fare, con devozione e rispetto. Ho pagato i dazi
della mia fedeltà con le cicatrici delle battaglie che mi porto dietro ed ho
cenato alla sua mensa come un umile uomo. Ho raccolto il suo corpo dalla
polvere quando è stato assassinato e..” La
folla ululò, Pelope si portò al suo viso colpendolo con il bastone della
lancia; grumi di sangue e denti schizzarono dalle sue labbra, ma proseguì. “..ho pregato
per lui. Ho cercato di metterlo in guardia sui pericoli che incombevano, ma non
ha voluto saperne ed ha pagato con la vita.”
“Il tuo Re era forte, ma non immortale!” Pelope sputò in terra. Lo afferrò per la tunica e gli
lanciò parole serafiche in viso.“Tu dovevi
proteggerlo e lo hai lasciato nelle mani di Mirtilo,
il traditore che ti ha preceduto.”
“Traditore?!” Apyos
scosse il capo; dalla caduta di Enomao non aveva
avuto più notizie dell’auriga.
“E’ stato lui a manomettere il carro di Enomao accecato di bramosia nei riguardi di Ippodamia, sperava di poterla avere per se. Ma questo non è
servito a nulla, i cavalli che Poseidone mi ha donato mi hanno portato alla
vittoria prima del disastro e il tuo Re per mano di un uomo meschino è deceduto
sotto i suoi stessi cavalli.” Il
popolino confermò le parole del sovrano con altre urla affermative; Pelope
soddisfatto lo liberò dalla stretta.“Come vedi, hai
fatto male i tuoi conti, Eskià.”
“Eskià.”
Sussurrò. Ombra. Aveva passato l’intera esistenza a proteggere la
vita di Enomao, ed era stato tanto cieco da non
vedere che il pericolo che aleggiava sulla testa dell’amato sovrano, era proprio
il suo braccio sinistro? Mirtilo, il fedele auriga.
L’uomo con il sangue misto degli Dei, l’uomo che lo rendeva nervoso ogni qual
volta appariva in una stanza, l’uomo che amava i cavalli più degli uomini.
Si trettenne
il capo fra le mani.. la verità era sempre stata sotto ai suoi occhi.
E quegli occhi si velarono, abbassò il capo e
soffiò con voce roca. “Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per la
corona.”
“La corona ti ringrazia.” Pelope si sfiorò l’elsa e proseguì.“Ma tu morirai.”
Venne fatto portare via,
di modoche si potessero dare il via ai
preparativi; una forca dinnanzi a tutto il popolino sarebbe servito a mettere a
tacere gli animi ribelli che lo avevano appoggiato. Si fece trascinare in
silenzio, quasi consenziente, verso il patibolo. Non emise alcun suono, neanche
quando il cappio fu appoggiato intorno al collo tozzo.
*
Fuori era quasi l’alba
e i due monarca si tenevano per mano, a farsi forza; la fatica contornava i
loro occhi di nero fumo, gli abiti smessi.
Ippodamia guardava Apyos priva di
emozioni.
Era stato l’uomo che
l’aveva aiutata a camminare, che le aveva insegnato a maneggiar di spada, che l’aveva
protetta mentre sua padre era via per il continente, eppure non sentiva niente;
tale era stata la paura di perdere l’amato sposo o la vita preziosa dei suoi
figli, che il cuore le si era attorcigliato nel petto, ed ella non sentiva più
niente.
“Apyos di Corinto, Primo
Generale della guardia di Enomao di Pisa, io ti
condanno a morte per alto tradimento.” Pelope
esordì e tutto attorno ci fu silenzio. “Per il tuo grado e per il
servizio prestato alla Corona, avrai l’onore di essere bruciato come un uomo
rispettabile così che la tua anima non vaghi dispersa su questa terra. C’è
qualcosa che vuoi dire, prima di morire?!”
Lei ricordava le loro
battaglie, quando tornavano a casa con le armature inzaccherate di sangue e
l’anima mesta, ricordava le loro risate quando veniva fatta portare a letto ma
oltre le canne dei muri riusciva a sentirli, ricordava i loro simposi, le loro
cerimonie, i loro battibecchi.. eppure, non sentiva niente.
Si domandava se adesso
avrebbero cavalcato nei cieli, assieme. Se l’anima mortale di Apyos avrebbe raggiunto l’Olimpo e quella del suo Re.
“Me lene eskià.” Io sono
l’uomo ombra.
Si chiedeva questo e
molto altro.. mentre il suo corpo era ancora attaccato alla vita, in preda alle
convulsioni, penzolante da una forca.
Il medico di corte uscì
dalla stanza con viso cupo. Sua Maestà la regina non stava bene.
Da quando il Generale Apyos era stato impiccato nella piazza della città,
rifiutava il cibo spesso e il bel viso roseo si era fatto cianotico; si diceva
soffrisse di incubi che la tenevano sveglia la notte riempiendo di urla
strazianti i corridoi, che scostasse le persone e persino la vicinanza del suo
amato Pelope la infastidiva. Neanche le dolci risate di Melibea,
riuscivano a distogliere i suoi occhi dai pensieri che le annebbiavano la
mente.
I suoi figli erano
l’unica cosa che rubava al suo viso il sorriso; ma Atreo venne fatto
allontanare dalla madre per iniziarlo alle pratiche di combattimento corporale,
agli studi e all’educazione di Re. Il piccolo Tieste cresceva a vista d’occhio,
ma le sue poppate contribuivano a svuotarle il corpo già scarno e per questo si
trovò una balia che sostituisse la madre.
L’unica presenza che
richiedeva con ostinazione era Alaya, la sguattera
dalla mano monca.
La giovane si era
rilevata con grande sorpresa servizievole e amorevole nei confronti della donna
che l’aveva condannata, a vita, all’umiliazione di servire la corte con una
sola mano, per questo Pelope non si fidava di lei e gradiva assai poco l’assidua
presenza accanto alla regina.
Inoltre era dotata di
una grande sapienza sulle arti magiche e questo la rendeva deliziosa agli occhi
di Sua Maestà la Regina, ma una megera agli occhi di Sua Maestà il Re.
“Sua Maestà ha un male che non può essere curato con
i miei preparati.”
“Di che male si tratta medico, non tirarla per le
lunghe.”
“Ha il male dell’anima, Maestà. Ha subito un forte
choc, dobbiamo darle il tempo di riprendersi.”
“Quanto tempo?!”
“Giorni, mesi, anni.. nessuno sa con certezza quando
si smette di stare male.”
Il Re abbassò lo
sguardo disperato.“Non ho mesi
davanti, tanto meno anni!”
“Mio Re, farò tutto ciò che ho in mio possesso per
aiutarla, posso garantirlo.”
“Che sia così, medico.”
E se andò frusciando la
clamide.
Ippodamia era stesa
a letto, in un sonno artificiale. Si avvicinò alla coppa accanto a lei e
l’annusò; latte di papavero, l’elisir del dolce sonno.
Non la svegliò, ma
prese la sua mano esile come un giunco e la strinse forte nella sua; doveva
riprendersi, era giovane, forte e bella.. ed era la Regina di Pisa, chi avrebbe
vegliato su di lei quando sarebbe partito per la guerra?!
“Mio Re..”sussurrò dopo qualche ora, aprendo
gli occhi; Pelope alzò il capo dalle loro mani intrecciate e le sorrise.
“Vegliavo sul tuo sonno.. e tu hai preso il mio!”
“Non dovresti stare qui, i tuoi doveri ti richiedono
presente.”
“Prima la tua salute e poi i miei doveri.”
“Vorrei che fosse così..” Guardò lontano, verso la finestra; il sole era alto
e c’era molta luce. Aveva confuso le notti con i giorni e non aveva più coscienza
ormai di quanto avesse dormito. “Non fraintendere, sei un uomo premuroso, ma presto
le tue guerre ti porteranno via da me e a quel punto la mia salute, le mie
nubi, i miei pensieri saranno lontani da te.”
“Mi rechi offesa a pensar questo, mia Regina.” La guardò contrito, lasciando andare le sue mani. “Quando le prese
si assesteranno e i venti saranno più tranquilli, tu mi raggiungerai. Avevo già
pensato a questo, te ne avrei parlato.”
“E il regno?! Chi baderà al regno?! E i tuoi
figli?!” Tirò le coperte fra le
mani strette a pugno. “Noi non combattiamo più per la stessa guerra
Pelope, la nostra l’abbiamo già vinta!”
“Non farmi questo Ippodamia,
non chiedermi di scegliere fra te e il mio destino. Vinceresti tu. Tu sei più
importante di tutto il resto, ma il mio destino è stato scritto e tu eri fiera
di compierlo insieme a me. Sapevi cosa ci attendeva, cosa è cambiato?! Sono io
che ti chiedo di non lasciarmi solo, adesso. Ciò che sono diventato lo devo a
te e al tuo coraggio. Ti prego combatti ancora con me, sostienimi perché io non
sono niente senza di te.”
Gli occhi della donna
si velarono. “Lasciami riposare adesso, ti prego va via.”
“Ma..” Ippodamia
scosse il capo e Pelope capì, fece riverenza e sparì. Oltre le mura, per i
corridoi, la sentì singhiozzare.
“Pazienta mio Re.”Alaya passò svelta con un anfora tracotante d’acqua
bollente, ma si fermò non appena lo vide. “La regina è forte. Guarirà.”
*
“Assomigli molto alla mia balia, Alaya.
Anche lei aveva occhi come i tuoi.” Il
moncherino della serva urtava la schiena di sua maestà, ogni qualvolta l’altra
mano si faceva spazio sulla pelle morbida. La sguattera era guarita, a
sostituire l’orribile mutilazione le era stato messo una coppa d’oro piccola e
rigirata. Era quasi graziosa, se non fosse che l’ordine di sfregiarla lo aveva
dato lei. “Quanti
anni hai?!”
“Credo abbiamo la stessa età, sua maestà.” E aggiunseabbassando
il capo,“non ho mai conosciuto mia madre.”
“La mia è morta prima che ricordassi. Non c’è
vergogna in questo.” Le sorrise,
facendosi avvolgere in un lungo telo di lana.“Apyos ha fatto il tuo
nome prima di morire.” La serva tremò,
facendo scivolare fra le mani la veste pulita.
“M-mi dispiace sua Maestà. Ne prendo subito
un’altra.” E scappò verso le ceste
con gli abiti freschi.
“Non devi avere paura Alaya,
io mantengo la parola data. Non ti verrà fatto più alcun male.” La stoffa calò lungo il corpo, rappresa in vita da
un cordino rosso e oro. “Ma a me piace la verità, qualunque essa sia non
dovrai avere riserve con la tua Regina.”
Dagli occhi della
ragazza scesero due lacrime.“Era mio padre.”
Mia soffiò triste fra
le labbra contrite. “Triste è la giustizia del Re, perchè
nelle sue mani è il potere.”
*
“Come sta la nostra Regina?!” Atreo e Nikandrios erano
nella sala del concilio insieme a sua maestà; si andavano assestando le prime
strategie che li avrebbero portati al di là della terra d’Elide, sul continente
Asiatico a riconquistar terre e tesori perduti. Prima di tale passaggio era nei
desideri di Pelope assoggettare tutta la penisola Morea
al suo comando, formando agglomerati come Olimpia, dove il tempo trascorreva
fra i ricchi mercati e la divinazione degli Dei. Il Re sognava in grande e lo
faceva quanto bastava per tutti gli altri.
“Nessuna novità a riguardo, aimè.” Si accomodò sullo scranno e indicò le pergamene sul
tavolo.“Generale Nikandrios,
illustrami i tracciati ed elencami nuovamente il numero di volontari che hai a
tua disposizione.”
“Attraverseremo l’Elide con cinquecento uomini verso
sud in Messenia e Laconia
risalendo per l’Argolide e tagliando di netto la
penisola passando per Tegea, in Arcadia. A quel punto risaliremo verso la costa
in Acaia e faremo saggiare la nostra la lama a Patrasso, se occorrerà, dopo di
che dritti per Corinto a est dove ci attenderanno le navi che la porteranno
nelle terre che le spettano per diritto e nascita, mio Re.”
“Un messaggero fa sapere da Tebe che tuo cognato è
disposto ad affiancarti un plotone di rinforzo.” Atreo li interruppe armeggiando con i primi accenni
di una folta barba che avrebbe preso posto sul suo viso terreo. “Ti
aspetterebbe a Corinto, prima di prendere il largo.”
“Ringrazialo, ma declina il suo aiuto.” Pelope si mosse nervoso sullo scranno.“Non voglio render merito a nessuno
dei miei successi.”
“Duecento uomini Pelope, fossi in te ci penserei
almeno un po’.”
“Duecento uomini da buttare via e mia sorella giace
pietrificata in una valle di nessuno perché il Re di Tebe non interferisce con
la giustizia divina! Dovrei ucciderlo con queste mie mani!” Triste era la storia di Niobe e nessuno aveva voglia
di ricordare quanto ella dall’alto della superbia della sua casata, si vantò di
esser bella e feconda più della Dea Latona, invitando
il popolo a venerare lei anziché una donna capace di dar almondo due soli figli. Due soli figli il cui
sangue però era lo stesso di Zeus e che gli avevano annientato la bella prole
per punizione, trasformando lei in una roccia di pietra, tanta la paura della
loro crudeltà.
“Era anche mia sorella.” Ma Atreo lo tenne per sé. Questa era la guerra di
Pelope. Il destino di Pelope.
Lo avrebbe affiancato e
avrebbe combattuto le sue battaglie, ma il solo ruolo che gli spettasse era
quello di tener caldo un finto trono nelle remote terre che diedero i natali ai
loro progenitori.
La gloria, quella fatta
dell’eterno riecheggiare di nomi, beh quella gloria, spettava solo ed
unicamente a Pelope.
Alla fine del giorno il
Re si sentiva il capo dolere, dal peso della corona e dal peso delle
responsabilità.
Annegò i suoi pensieri
in una coppa di vino, nelle sale private dove la moglie giaceva a letto in
compagnia della sua schiava e dei suoi unguenti per calmarle il sonno; si
sentiva frustrato e incompreso da quella donna ora ostinata e attaccata alle
regole antiche della sua casa.
Che ne era stato di sua
moglie?! Dove era finita la donna che mosse il coraggio con tanta astuzia e
vigore da farlo salire al trono?!
Non aveva risposte.
Solo domande. Gettò la coppa lontano, in un moto di rabbia; il vino lo aveva
reso d’un tratto più ansioso.
Ma non era tutto.
Sentiva il suo nome
sussurrato da una voce ovattata e flebile, un richiamo alla sua attenzione.
Una voce interna o
forse il troppo vino, convenne, ma troppo chiara per essere solo immaginazione.
Si alzò dunque,
portandosi alle grandi finestre della stanza; la vista impeccabile dava sui
boschi di Pisa.
Un lampo di luce sferzò
nel buio. Non era una stella; acuì la vista e si stupì nel notare che la luce
aveva la forma di un corpo flessuoso e dorato.
Il guizzo sembrava
giocasse, attorcigliandosi ai tronchi deli alberi, impaziente; era chiaro,
doveva uscire e scoprire cosa fosse.
Sentì le donne dalle
pareti attigue ridere e bisbigliare e ne approfittò per dileguarsi; coperto il
volto dalla clamide, deviò i percorsi protetti dalle guardie e imboccando un
vicolo che ridiscendeva nei cunicoli della città, si ritrovò fuori dalle mura
del palazzo. Superò silenziosamente la piazza principale e le case più ricche
nate dopo la ricostruzione e si avviò verso la radura; il bagliore gli fece
strada, ed avvicinandosi si mostrò dai contorni più tremolanti e quasi
impercettibile, tanto da farlo dubitare, ma proseguì.
Qualcosa di attraente
rifulgeva in quella luce. Un richiamo, la delizia del calore e il mistero del
luccichio.
“Chi sei? Fatti vedere!” Bisbigliò agli alberi, la dove l’aveva vista; tutto
era tornato fermo e statico, con il suo sopraggiungere.
Una risata e il fruscio
di foglie gli rispose. “Non voglio farti del male, fatti vedere.” Si addentrò nel bosco seguendo i sospiri e quando si
girò attirato dal rumore secco di ramo spezzato, notò che aveva percorso un
netto tratto di strada e che dal sottofondo si udiva lo scorrere delle acque
placidedell’Alfeo; temette di esser
stato sciocco e infantile, impugnando con diffidenza l’elsa della spada.
“Non hai bisogno di quella.” Una voce cristallina arrivò alle sue spalle e nel
voltarsi percepì lo spostamento fulmineo di un ombra lattea e informe; si piegò
sulle ginocchia, come attendesse che quel qualcosa gli piombasse
improvvisamente addosso. “Ti aspettavo.” Fu
tutto ciò che arrivò.
Restò calmo, per nulla
spaventato.“Mostrami chi
sei.. e fatti capire.”
“Ciò che vedrai potrà recarti molta sorpresa.
Potresti non aver più voglia di tornare.”
“Lascia a me giudicare.”
Non percepì il suo
arrivo, solo una folata d’aria che gli annegò i polmoni; quando riaprì gli
occhi si trovò dinnanzi una creatura dalle fattezze umane e.. perfette.
L’aspetto era quella di una donna, dalla pelle traslucida rifulgente di
bagliori argentei, il volto squisitamente armonico e di porcellana, due occhi
che al buio sembravano brillare. Mosse le labbra impercettibilmente, ma non udì
alcun suono dapprima, solo dopo alcuni istanti percepì la voce umana e che la
sua attenzione era stata catturata a tal punto da non averla sentita parlare.
Arretrò di un passo, un
po’ scosso, ma non troppo, da quel corpo che emanava un calore rassicurante e
al contempo freschezza; quella rise, ristabilendo la distanza. “Il Re ha perso
la parola.”Era quasi vicina, la sua aurea più del corpo di
carne e poteva sentirla, addosso, come se braccia invisibili l’avessero
avvolto. “Ma
non temere, presto tutto sarà più chiaro e capirai.”
“Parli per enigmi, strana creatura.. non avvicinarti.”
Arretrò di nuovo e quella restò
ferma, ubbidiente.
“Non devi avere paura di me.”
“Paura?! La paura non mi appartiene.” Sputò in terra. ”Come sai chi sono?!”
“So molte cose di te, Pelope. Del passato e del tuo
futuro. Ed è soprattutto questo che mi interessa di più.” Graziosamente provò a muovere qualche passo, sicura
quando non vide nei suoi occhi il ripudio.“Il
nostro incontro è stato scritto per volere degli Dei, sono stata mandata qui
per salvarti.”
“Salvarmi da cosa?!”
“L’oblio della tua stirpe. Morirai Pelope, angustiato
e pieno di dolore.” Gli soffiò sul
viso alito caldo.“Ma se mi
seguirai, la tua vita sarà serena e lontano dalle ombre.” Gli toccò la mano, ma il Re la ritirò accompagnando
il gesto ad una risata amara.
“Il mio destino è dominare.” Fece per voltarsi ma la guardò ancora una volta.“Sono nato per combattere, nel
dolore e negli angusti.. non sai niente di me, strana creatura. La spada e la
terra sono il mio regno, non i boschi e luci fatue. Questo.. è il volere degli
Dei!”
E se ne andò, non
voltandosi più.
Corse alla volta del
castello impaziente e quando fu nel dormitorio reale, destò la serva da quello
che era il suo posto e la sbattè fuori; Ippodamia aprì lentamente gli occhi, odorava di rosa e la
pelle del volto alla luce delle fiaccole rifulgeva di un colore che non le
apparteneva.
“Ti voglio.”E le fu sopra, senza attendere il
consenso o il permesso.. lasciandosi guidare, però, da mani ben contente di
riaverlo a casa.
Quando le loro carni si
unirono i gemiti della regina riempirono la stanza e un urlo squassante, fuori,
volò libero dalla boscaglia.
Pelope rabbrividì; le
parole della creatura gli bucarono la mente.
E’ solo un lupo,pensò.
Dagli spettri delle sue
paure lo raccolse Ippodamia, che stringendolo al
collo, gli sussurrò supplichevolmente di non lasciarla.
Di non lasciarla mai.
Di ritornare sempre. Di amarla comunque.
“Non ti lascio.”E solo alle
prime luci dell’alba, spossato, lasciò che la donna accucciasse il capo al suo
petto.
*
Si sentiva
meravigliosamente bene.
Tanto da ordinare alla
serva le vesti più sontuose e i gioielli più preziosi.
Pelope la salutò dopo
la colazione, porgendole una carezza e un bacio lieve sulle labbra.
Dopo il bagno si
sedette dinnanzi allo specchio e mentre i capelli venivano spazzolati con
pettine d’onice, alzò inni per la Dea Afrodite; le servette l’ascoltarono
estasiate, rapite dalla voce soave. Risolini e altre voci bianche si unirono
alla sua formando un coro deliziosamente fatato.
I canti si fermarono di
colpo; girando la guancia, nascosta alla fine dello zigomo e verso l’orecchio,
una lunga scia di polvere dorata brillava sulla sue pelle come un trito
finissimo di diamanti alla luce del sole.
Si toccò istintivamente
quella meraviglia, ricordando che Pelope nella notte passata e prima di
congedarsi, vi aveva appoggiato la mano; rabbrividì, spaventata ed estasiata al
tempo stesso.
“Alaya!”Urlò e le
servette minori si dileguarono dalla sua vista.
La donna accorse tutta
trafelata, afferrandole il volto. “Polvere di fata.” L’ispezionò, annusandola. “Trucchi da ninfa
dei boschi, sua maestà. Come ve la siete procurata?!” La guardò ingenuamente.
“E’ male o è bene?!”
“Male, Sua mestà.” Sbarrò gli occhi, rendendosi conto dell’errore.“Sono considerate le sirene di
terra. Adescano gli uomini con la loro luce melliflua e incantatrice e li
costringono a seguirli.”
“E cosa succede loro, dopo?!”
“Morte mia regina. Lenta, agognata, morte.”
“Come lo sai?!”
“Mia potente Regina siete nata dalle viscere di una
cacciatrice, dovreste sapere che non tutte le creature del bosco sono perfette.”
Ippodamia annuì, afflosciandosi sulla seduta.
D’un tratto il viso
disteso e sereno diventò una maschera contratta di paure e domande. “Portami del
vino caldo. E una soluzione.”