Oltre le Tenebre

di The queen of darkness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 41 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 42 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 43 ***
Capitolo 44: *** Capitolo 44 ***
Capitolo 45: *** Capitolo 45. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Brian. Quel nome le turbinava in testa senza darle pace. Si gettó nella folla del corridoio, dove le aule rigettavano cheerleader, giocatori di football, membri del club di scacchi e tutti i liceali che l'America poteva offrire. Annaspava fra i corpi ammassati tra gli armadietti. Rumorosi, fastidiosissimi ragazzetti. Alcune bionde le sfilarono accanto ridacchiando come galline. Il vociare sovrapposto di decine di persone era assordante e la stava stordendo. Ma quel nome, cosí comune, non se ne voleva andare. Qualcuno le urtò un braccio, facendole male, ma non si fermò. Suvvia, Carol, non essere paranoica, magari non se ne sarà neanche accorto. Era la bugia che si ripeteva più spesso, soprattutto negli ultimi tempi. Ricordò lo scontro involontario di pochi attimi prima, quando un corpo alto e forte si era sovrapposto fra lei e la sua strada. Uno "scusa" sincero e poi il ragazzo era sparito. Ma lei sapeva chi era. Tutti sapevano chi era. Il ragazzo in questione, Brian, era alto e perennemente vestito di scuro, con i capelli lisci e lunghi oltre le spalle. Erano neri e compatti. Lo smalto sulle unghie ricordava molto quel colore, più intenso negli occhi, brillanti di intelligenza. Aveva un viso interessante: un ovale perfetto, con un naso allungato e importante. Era magro, fatto evidenziato dagli abiti che portava e dalle borchie. Di quelle ne aveva un sacco. Le era sempre sembrato diverso, non in senso dispregiativo, e per questo migliore degli altri. Non giocava a football, né a scacchi ed era, anche lui, un emarginato. Ma a colpirla, di tutto ció, era stata la voce. Aveva un timbro profondo, forte, sicuro e denso, che attirava qualsiasi ascoltatore. Aveva il tono tipico delle persone taciturne, le cui parole sono rare e preziose. Così, l'aveva distratta con questa improvvisa parola e la sua impercettibile scia di pulito e forza aveva avvolto la ragazza, ancora stupita di quella dimostrazione di gentilezza nei suoi confronti... -Heylà! Fu distratta dalla voce alle sue spalle. -Ciao, Kelly. La ragazza le sorrise. Ora che il corridoio si era un po' svuotato, parlare era possibile. Era molto graziosa quel giorno. -Ti sta bene quel vestito. -Me l'ha regalato Chad. Kelly soffriva di un leggero tardo mentale che secondo Carol era solo ingenuità. Ma ciò la rendeva imperfetta, una ragazza non bionda e non facile, quindi si era aggiunta alla schiera di "persone-scarto". Chad, un giocatore di football, le si era dichiarato un anno prima, diventando il suo ragazzo ufficialmente. -Sei tutta rossa. La ragazza arrossì ancora di più e sorrise lievemente. - Sai, lui è tanto caro con me, che sono solo una stupida. -Non sei stupida. La madre di Kelly era stupida. Lei e le sue credenze religiose creavano una marea di difficoltá alla figlia, facendola sentire inferiore. La cosa faceva infuriare Carol, che era fermamente convinta che una religione dovesse essere un sollievo, non una pena. Kelly sorrise tristemente, cominciando a camminarle a fianco, verso l'aula di biologia. -Oggi si consegnano le ricerche - , osservò pensierosa, quasi tra sè e sè. Carol sorrise. Parlare di queste cose le metteva tristezza. I colori vivaci, i cuccioli di animale e i fiocchi da mettere nei capelli la tiravano su di morale, così Carol provò a farla sentire meglio. -Sai, non si può essere tristi con questo magnifico arancione addosso! Il vestito datole da Chad era proprio del suo colore preferito. Il ragazzo era molto attento a queste cose. Carol lo ringraziò, quando vide che Kelly ridacchiava sommessamente. Entrarono in aula sedendosi vicine come al solito e Carol ebbe un tuffo al cuore. Seduto tra le prime file stava seduto Brian, nella posa più naturale e composta che gli vesse mai visto assumere. "Cosa diavolo ci fa qui?", si chiese. Di solito saltava le prime ore di lezione al lunedì. Uff. Si sarebbe preannunciata una giornata interessante. Le lezioni erano finite da un pezzo ma, dopo aver salutato Kelly e Chad, restò a bazzicare lá in giro per un altro po'. Non aveva voglia di tornare a casa, dove comunque nessuno la aspettava, così decise di studiacchiare qualcosa e poi avviarsi. Ma il tempo, quel giorno, passava lentissimo. I minuti sembravano ore, e il freddo pungente di fine Ottobre sembrava complottare contro di lei. Seduta sul suo angolino di marcipiede sudicio, a combattere contro i fogli agitati dal vento, si stava annoiando a morte. Ma era un tipo cocciuto: lá aveva detto che sarebbe rimasta e LÀ sarebbe rimasta. Si alzò per sgranchirsi e osservò il turbinare delle foglie rosse sulla strada. Non c'erano macchine. Nessun passante. Solo lei e e foglie, assieme all'imponente presenza degli alberi. Era uno spettacolo molto bello. Le cortecce erano forti e robuste, segnate da piccoli sfregi, ma il nocciola nodoso del tronco era arricchito dai colori sgargianti delle foglie, tutte prese da quella stranissima danza. Carol aveva sempre pensato che quello fosse un bel modo di andarsene. Le foglie erano davvero splendide, molto più di quando erano tutte verdi, e volteggiavano in aria quasi spavalde, leggere, per poi posarsi a terra. Gli umani quando muoiono diventano tutti bianchi e freddi, duri come il ferro e dopo un po' imputridiscono. Ma le foglie...loro restavano sembre belle, perchè poi si fondevano con la terra, diventando cibo per il loro albero. Anche gli uomini cercavano di restituirsi alla terra, ma con dei risultati grotteschi. E lei? Sarebbe stata accettata dalla terra? Con il suo corpo contaminato? Con l'animo inaridito? Questi pensieri la resero incredibilmente tristi. Si risedette sul marciapiede, affondando la testa nelle spalle. Non avrebbe pianto, come non piangeva quando suo padre ubriaco abusava di lei o quando ripensava a sua madre, che era chissà dove. Avrebbe tenuto duro, come suo solito, per il semplice fatto che non riusciva a sfogarsi. Non ce la faceva a livello fisico, e il suo orgoglio era troppo grande per permettere a quelle agognate lacrime di liberarsi delle loro catene e uscire. No, non l'avrebbe fatto. Cosìm serrò le mascelle e stette a godersi lo spettacolo delle foglie, cercando di affogare la sua tristezza nei recessi della sua anima. Ma con scarsi risultati.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Brian guardava inespressivamente la lavagna. Un'altra giornata schifosa. Di solito il lunedì mattina gironzolava per i quartieri, senza fare nulla di preciso, frequentando solo le ultime ore. Ma quel giorno, aveva una scusa per andare a scuola, un motivo convincente. Una ragazza. E che ragazza! Niente a che fare con Amy Sullivan, la Barbie dell'istituto. No,no,no. La fortunata in questione era un tipo taciturno, schivo, con un corpicino niente male, con quell'aria indifferente alla vita che la rendeva speciale. Aveva in mente un piano d'azione abbastanza geniale, una cosa soft, così, per iniziare, ma quella bastarda della prof ne aveva approfittato per riempirlo di punizioni. Aveva preso la palla al alzo, o come diavolo si dice, e gli aveva affibbiato 2 ore nella sala studio a fare la ricerca che aveva deliberatamente ignorato. E codì, sotto a supervisione di un bidello grassone, cercava di svolgere l'oneroso compito. Ma non era facile:le distrazioni erano ovunque. Improvvisamente una scarpa slacciata diventava una fonte d'intrattenimento, lo smalto implorava di essere mordicchiato, la canzone che aveva in testa doveva ASSOLUTAMENTE essere ricordata per intero, e così via. Poi, la finestra. Era la cosa ideale da fissare mentre si inventavano nuove invettive verso il cazzone che gli aveva impedito la riuscita del piano. Una figura sul marciapiede. Una ragazza. I capelli erano tutti agitati al vento, con quel singolare castano ramato unico dell'oggetto del suo interesse. Un lampo lo fulminò. Carol. Era lei. La osservò sedersi e poi rialzarsi, fissare le foglie e poi risedersi. Incurvò le spalle lentamente e affogò la testa nel soprabito, immobile. Era il ritratto della tristezza. Cosa ci faceva ancora lì? Cominciò a sudare e a diventare irrequieto. Quanto ci metteva la Campanella? Era lì da un sacco, ormai. Il bidello sembrava più morto che vivo, una montagna di grasso sudaticcio crollata su uno sgabello. Vedendo i personale Brian non si stupì che la scuola fosse così sudicia. Ecco l'agognato trillo. Un'invasione di gioia. Lui e pochi altri teppistelli si fiondarono fuori dall'aula. Si accorse di aver dimenticato il foglio. Vabbè, chissenefrega. Cominciò a piovere e lui, tipo previdente, agguantò l'ombrello dalla cartella. Guardò rapidamente fuori: era ancora lì. Bene. Il destino forse non era così crudele. Aprì l'ombrello e si tuffò in cortile, dandosi un contegno. Era arrivato il suo momento.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Aveva cominciato a piovere, ma era rimasta ferma. Non si sarebbe spostata di un millimetro. Cercare con tutte le forze di piangere le aveva prosciugato le energie, e non era affatto dell'umore adatto per tornare a casa. Inoltre, la pioggia era arrivata al momento giusto. Con tutte quelle gocce a rigarle le guance, poteva fingere che fosse tutto merito suo. Avrebbe pagato le sue bugie con un raffreddore. / Ora le foglie che l'avevano intrattenuta fino a quel momento, giacevano fradice al suolo. Lei poteva capirle: era rimasta altrettanto sorpresa. L'acqua le stava incollando i capelli alla faccia. Era una situazione veramente assurda, ma non le venne voglia di ridere. Voleva solo inzupparsi di acqua gelida fin nelle ossa, per colmare quel vuoto che era peggio della rabbia o della tristezza, semplicemente perchè era...nulla. Sentì un fruscio alle sue spalle, ma poteva esserselo immaginato. Con tutto quello scrosciare, faticava anche a sentire il proprio respiro. -Hey. Aveva giá sentito quella voce. Quella carezza che sembrava essersi staccata dalle ombre del cortile, arrivando fino alle sue orecchie. Quel tono intenso, con un'inflessione che risvegliava sensazioni ataviche. Quel suono che aveva sentito solo poche volte, che aveva disperatamente cercato come un assetato cerca l'acqua, il suo balsamo per lenire ogni ferita, ogni ammaccatura. E stavolta sapeva che era diretto a lei, solo per le sue orecchie, a richiamare la SUA attenzione. Lasciò che il proprio corpo si adattasse a quel suono, a quelle emozioni. Le parve di trovarsi in fondo all'oceano, ma non per a pioggia, bensì per la leggerezza e la flemma delle proprie membra. Vide un lampo di stoffa nera, e due occhi scuri che a osservavano. Capelli lisci umidi, le sopracciglia aggrottate, un ombrello. L'acqua le offuscava la vista. Come in un sogno, una mano si tese e lei, senza esitare, la prese. // Arrivarle alle spalle forse non era stata una magnifica idea, e quell' "hey" non era un modo intelligente per iniziare una conversazione, però ora stringeva la sua piccola manina tiepida nella propria, e si stupì della delicatezza di quel contatto. Si era immaginato di arrivare, offrirle l'ombrello dicendo qualcosa di arguto e figo, ma aveva fallito miseramente. Tuttavia il suo scopo era stato raggiunto e, dopo averla aiutata ad alzarsi, se la ritrovò accanto. -Grazie, aveva sussurrato. Una voce vellutata e sicura, che l'aveva stregato. Era sempre stato abituato ai cinguettii di ragazzine poco sveglie e voci baritonali, forti e spaventose, come la propria. Ma non era pronto per quel suono maturo. La ragazza portava un lungo soprabito scuro, ormai zuppo e pesante, a giudicare da come si sforzava a non incurvare le spalle. I suoi movimenti rimanevo fluidi, osservò, nonostante i vestiti bagnati dovessero essere dei macigni. Purtroppo il contatto si era interrotto, e tutte le sue riflessioni spezzate all'istante. C'erano solo loro due, sotto la pioggia, un ombrello ad unirli, il sole celato da un drappo scuro. / Si guardò intorno; non c'era proprio nessun altro. Cominciarono a camminare, le mani in tasca, anche se lui non aveva idea di dove sarebbero andati. -Abiti qui vicino?, chiese, giusto per spezzare il silenzio. La ragazza si limitò ad annuire, come se parlare fosse troppo difficile per lei. Sbirciò con la coda dell'occhio: i suoi occhi erano asciutti. Sì, se non si contavano la pioggia e il vento erano a posto, non arrossati o lucidi, segno che non aveva pianto. Ma c'era qualcosa in quello sguardo che lo turbò: era profondo, sicuro e triste, infinitamente triste, un amarezza che aveva visto solo su alcuni anziani. Una ragazza non avrebbe dovuto aver quel'aria così vissuta. No, meglio. Consumata. Come se avesse giá vissuto una vita e fosse stanca della seconda. Scosse la testa. I capelli attaccati alle tempie erano davvero fastidiosi, oltre che antiestetici. -Sei gentile ad accompagnarmi. Di solito le persone hanno di meglio da fare. Lui trattenne un sorriso. -È che abito qui vicino-. Pff. Che balla pazzesca. Abitava nella direzione opposta a quella appena imboccata. Silenzio di nuovo. I piedi producevano un suono buffo a contatto con le pozzanghere. Avevano entrambi gli orli del jeans fradici. -È così strano questo tempo, disse lei.-Un attimo prima il vento spazza le foglie e l'attimo dopo aggredisce te. -Non credo che il vento voglia aggredirci. Anzi, penso che le persone si aggrediscono abbastanza giá da sole. Si morse violentemente la lingua: certe cose da secchione risparmiatele, Brian. Ecco, si disse, ora l'hai spaventata. Ti guarderá come se fossi un idiota e poi dirà:"Grazie di tutto, ma forse è meglio se ci dividiamo qui"./ Invece no. Alzò lo sguardo (era molto più bassa di lui) e un barlume di interesse si accese nei suoi occhi. -Lo sai? L'ultima volta che ho parlato con un prete, furono queste e parole che dissi. Lui ribattè che era a Dio a muovere il vento, e sai cosa risposi? Brian non riuscì a trattenersi. Scosse il capo, affamato di sapere. -"Quale persona più di Dio, allora, ci può aggredire?" Il ragazzo ridacchiò. -Abbiamo molte cose in comune. / Lei sorrise. Era incredibilmente bella. Scosse la testa, i capelli le si stavano arricciando. -Siamo arrivati. A lui si fermò il cuore. Gli sembrarono passati solo pochi secondi. -Grazie di tutto. Ci rivediamo a scuola, Brian. Si voltò e fece qualche passo allo scoperto, sotto la pioggia. Poi si girò di nuovo. -È stata una chiaccherata davvero interessante. Attraversò la strada e sparì dentro il condomino. Lui rimase imbambolato ancora un po', poi chiuse l'ombrello e cominciò a camminare lentamente. Gli serviva l'acqua fredda ora più che mai, perchè i bollori si erano fatti così intensi da farlo sudare, nonostante tutto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Era al telefono con Kelly da circa un'ora, ma non aveva capito una parola. La ragazza continua a ripetere e a piagnucolare quando la sentiva distratta, ma Carol non poteva farci niente. Sentiva il frullio impazzito delle ali delle farfalle nello stomaco, e una sorta di nebbia densa le offuscava i pensieri. -Senti, Kelly, perchè non ci vediamo da Sack's? Al telefono non riesco proprio a seguirti. La sentì tirare sù col naso. -Va bene. Sì, alle... Tre? -È perfetto. Allora a dopo. La sentì mugugnare qualcosa e riattaccare. Con un sospiro esausto si buttò sul letto. Appena arrivata a casa aveva trovato un'amara sorpresa:bottiglie di vodka rotte a terra e puzza di vomito sul lavandino. Aveva notato un biglietto sul tavolo della cucina, ma il telefono l'aveva distratta. Sentiva le membra pesanti. Con un puro sforzo di volontá riuscì ad alzarsi e a trascinarsi in cucina. Per poco non si tagliò un piede con una scheggia di vetro. Perse l'equilibrio e si aggrappò freneticamente al tavolo in cerca di un appiglio, trovando il pezzo di carta. Con un gemito si rimise in piedi e afferrò il messaggio, non senza una smorfia di dolore. Erano passati solo quattro giorni da quando il mostro l'aveva fatto di nuovo, e i lividi stavano sparendo più lentamente del solito. Osservò il pezzettino rettangolare che aveva tra le dita. Si vedeva distante a un chilometro che era stato strappato da un altro foglio, ed era tutto sgualcito. Lesse con attenzione, ma ci mise un pò ad afferrare il messaggio: Vado a cercare tua madre. Papà. Poche parole quasi illeggibili.  Si mise a ridere. Era una risata isterica e piena di dolore, di rabbia e risentimento. Rideva convulsamente, riprendendo fiato con dei disperati singhiozzi. Maledetto. Maledettissimo bastardo. L'aveva lasciata da sola. Senza un soldo, senza un padre degno di questo di nome. L'autocontrollo di Carol si era frantumato davanti al disarmante egoismo di quelle parole. Imbottirsi di vodka e partire, così, senza una meta, lasciare una figlia distrutta alle proprie spalle per cercare una donna che, con tutta probabilitá era morta, solo per fuggire dalla propria incapacitá. Non riusciva a capire, non riusciva a calmarsi. Si piegò a metá, preda delle fitte allo stomaco. Era un torrente di disperazione quello che fluiva nel suo corpo? Sentì i vetri conficcarsi nei suoi piedi, ma non vi badò. Era troppo insensibile in quel momento. Prese il foglietto e lo stracciò, in minuscoli pezzettini. Si sentì subito meglio. Poi serrò la mascella digrignando i denti, per far fronte al dolore. E, mentre stava in quella posizione assurda, si sforzava di tornare fredda e lucida. Regolarizzò il respiro. Immaginò che sul suo corpo scorresse ancora la pioggia, immaginò la cantilena di quella voce profonda che si era riscoperta adorare, risentì il peso del cappotto sulle proprie spalle. Brividi freddi le si insinuarono sotto la pelle e, in quel tumulto riuscì a calmarsi. Prese un profondo respiro, ingabbiando l'aria dentro di se per liberarla subito dopo. Ora non hai più un padre, si disse. Perchè lo sapeva, dentro di se sentiva che non sarebbe tornato mai più. Basta violenze, il suo corpo sarebbe tornato nuovo. Altro respiro. I soldi. Lavorava ad una tavola calda, forse intensificando i turni ce l'avrebbe fatta con luce e riscaldamento. Avrebbe rinunciato alla TV e ai vestiti nuovi, avrebbe tagliato le telefonate con Kelly e lasciato perdere i libri. C'era la biblioteca, in ondo alla strada. Per quanto riguardava la spesa, dove lavorava le lasciavano portare via gli avanzi, per cui si sarebbe preoccupata solo dell'indispensabile. Un altro respiro. Ce l'avrebbe fatta. Come sempre. Si rialzò e si diede una sistemata. Poi, con gesti meccanici ripulì il pavimento e il lavandino. Si infilò dei jeans e una camicia puliti e afferrate la borsa e le chiavi uscì. Era in anticipo,  e si sentiva benissimo. Una ritrovata forza albergava in lei. Sì, se la sarebbe cavata alla grande. Guardò il cielo plumbeo. Aveva smesso di piovere.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Brian aveva un mezz'idea di andare da Sak's con Jeordie, un bassista che aveva conosciuto circa un anno prima. Aveva chiamato il ragazzo, (completamente fatto già a metà pomeriggio), ma gli disse che non poteva, così  aveva rinunciato. Steso sul letto a guardare il soffitto, stava pensando alla passeggiata di qualche ora prima, al tepore della mano di Carol, al suo sorriso e alla pioggia. Era straziante ripensare a tutte le occasioni che aveva avuto per intraprendere una conversazione interessante gettate al vento./ Però, se non altro, aveva avuto la conferma del fatto che Carol non fosse una stupida. E quel "abbiamo molte cose in comune" gli era scivolato fuori dalle labbra prima che potesse fermarlo./ Ripensare a tutto ciò lo rese euforico. Altro che gli spinelli che Jeordie gli rimediava! Andò in bagno, per calmare i bollori, che erano ritornati. Aprì l'acqua nella doccia e vi si gettò sotto, a darsi appena il tempo di spogliarsi. Era così contento che si mise persino a cantare, come faceva spesso, ma stavolta con rinnovato vigore. Cantava, e la sua voce profonda risuonava nel bagno, aggressiva come la canzone, roca e spontanea. Ma Alice Cooper in quella situazione non era adatto. Proprio per niente. Gli ci voleva qualcosa di più soft, qualcosa di vagamente romantico ma anche reale, qualcosa che lo ispirasse ma si mantenesse sul leggero... -Tesorooo!- La porta del bagno si spalancò all'improvviso, mandandogli di traverso un acuto. -M-mamma!- Porco cane, proprio adesso doveva venire?! Proprio mentre si stava lavando, quando le tendine erano tirate e, molto probabilmente, proprio quando l'"inquilino là sotto" era particolarmente agitato? -Oh!- disse la donna. -Ti ho sentito sotto la doccia.- Lui si riparò dietro la tendina della doccia, e la tenne a mo' di scudo. -Allora gli asciugamani li lascio qui-, disse in tono allegro. -Certo che si proprio cresciuto-, aggiunse, prima di richiudersi la porta alle spalle lanciandoli un'ultima occhiata. Lui sospirò di sollievo quando la donna fu scomparsa dalla stanza. Lasciò andare il telo plastificato a cui si era spasmodicamente aggrappato. Guardò gli asciugamani: saranno stati una dozzina. Sospirò e cominciò ad insaponarsi. Spesso gli succedeva di stare ore sotto la doccia e dimenticare il sapone, per poi re iniziare tutto d'accapo. Dunque...dov'era rimasto? Ah, sì, stava tradendo il povero Alice con qualcuno di più sdolcinato. Allora...non che avesse una vera e propria cultura in fatto di musica che non fosse Metal, Rock o Punk. Uhm, che bel dilemma. Osservò per qualche secondo il sapone turbinare nello scarico, e poi ebbe la Folgorazione. Elvis Presley! Il buon vecchio Elvis aveva sicuramente qualcosa in serbo per lui. Avevano addirittura un timbro simile, solo che Brian era più cavernoso. Passò in rassegna le canzoni di cui ricordava il testo, scegliendo quelle più lente. Optò per I Can't Help Falling In Love With You, mitica canzone nonchè abbastanza romantica, e intonò le prime note. Partì sicuro, ma la stecca non tardò ad arrivare. Stupida acqua in gola, pensò risentito, sputacchiando anche un pò di shampoo. Si concentrò ricordando di non aprire la bocca sotto il getto e riattacò. "Whise..... Man...... Say.....". Se la ricordava abbastanza bene, ma dovette ricominciare un paio di volte, perchè andava troppo veloce. Non era abituato ai lenti. Si immaginò Carol, un magnifico vestito da sera addosso, volteggiare con lui in un dolcissimo Valzer, in una sala lussuosa con i lampadari di cristallo e tutto il resto. Se la immaginò ancor più bella di quel che era, magnifica, soave, un frusciare di vesti, e la sua voce che cantava Elvis, amore e struggimento, e questo solo per lei. La sua gola vibrava, non sentiva più nulla, l'urlo grottesco in cui di solito si perdeva era stato dimenticato. Abbandonò la cupa disperazione e violenza delle canzoni a cui era abituato, si lasciò trasportare e raggiunse un inaspettata delicatezza. Pensava a Carol e cantava per lei. Per Carol. Solo Carol. ///// Sak's era vuoto e triste a quell'ora del pomeriggio. Era un locale abbastanza squallido, in effetti, dove persino l'insalata era unta e, anche se solo Carol e gli altri membri del personale potevano saperlo, anche il cuoco era unto. Andare sul posto di lavoro nel proprio giorno libero non era granchè, ma non aveva intenzione di tradire il locale con la concorrenza. Doris, l'altra cameriera oltre a lei che sembrava essere vissuta lì da sempre, la salutò strizzandole l'occhio. Kelly sembrava fuori posto, seduta a suo agio sul sedile malandato. La sua pelle di porcellana era troppo perfetta per quel locale,i capelli pettinatissimi e biondo grano inappropriati a quello squallore. Ordinò un succo di frutta con un sorriso che avrebbe fatto scogliere il ghiaccio, mentre Carol un caffè forte. Doris insistette sul "offre la casa", e ció le fece ripensare al suo nuovo problema economico. Scacciò il pensiero e si dedicò a Kelly. -Allora, qual'è la notizia importante?- Chiese. -Chad mi ha chiesto di sposarlo.- Il caffè di Carol prese la tangente per la gola troppo in fretta e la poveretta rischiò di strozzarsi. Kelly attese pazientemente che l'attacco di tosse si calmasse, e poi continuò. -Non subito, ovviamente. Prima andremo entrambi al College, sai lui ha giá la bosa di studio, dopodichè ci sposeremo e avremo tanti bambini!- sorrise radiosa. Carol invece era allibita. Aveva sempre visto un ragazzo innamorato in Chad, così premuroso e carino con Kelly, che aspettava i tempi della ragazza senza farle pressione e sembrava che gli importasse solo di stare con lei. Ma erano entrambi molto giovani, troppo giovani, e Carol aveva paura che lui fosse solo un approfittatore. Insomma, Kelly era molto ingenua, quasi infantile a volte, il suo mondo rosato era ben diverso dalla realtá vera e, beh, era giá abbastanza strano che il ragazzo non l'avesse presa in giro fino a quel momento. Carol sapeva benissimo cosa poteva succedere in un matrimonio senza amore, com'era capitato ai suoi genitori, una cocainomane e uno stupratore alcolizzato. Non ne usciva niente di buono, ed entrambi, inevitabilmente, soffrivano. Kelly, naturalmente, non aveva pensato alle conseguenze, aveva giá accettato, era persino superfluo chiederlo. Però...Carol si diede per l'ennesima volta della paranoica, sorrise e disse:-Sono contentissima per te,Kelly. Scusami per la reazione eccessiva, ma sono solo un po' sorpresa. Chad è un bravo ragazzo.- Pausa. -Lo pensi davvero?-, chiese Kelly, speranzosa. Carol sorrise incoraggiante. -Davvero./ Ed era sincera.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


I giorni seguenti scorsero in modo frenetico. Carol era riuscita a farsi intensificare i turni, anche se il capo non era d'accordo. Ció le permetteva di avere più soldi a sua disposizione e meno tempo per pensare. Stranamente anche il suo rendimento scolastico stava migliorando. Non che ne avesse bisogno, in effetti, tuttavia ci stava dando dentro con lo studio e le faceva piacere vedere i risultati. Brian assisteva a tutte le lezioni. Avevano un sacco di ore in comune, e ció la faceva sentire bene. Quando Kelly attaccava con tutti i suoi progetti (vivremo vicine in due case gemelle, avremo due figli a testa, un cane e un roseto splendido), le piaceva distrarsi guardando le fibre intrecciate del maglione dl ragazzo, che le dava sempre le spalle./ Si sentiva spossata, però. Era sfiancante seguire quel ritmo, anche se innegabilmente le faceva bene. Non aveva più il terrore di tornare a casa, anche perchè l'uomo non si era portato via le chiavi, inoltre il suo corpo era giovane e forte, vigoroso, come dovrebbe esserlo quello di tutte le adolescenti. Una sola cosa la preoccupava: da un po' di tempo aveva cominciato a pensare teneramente a Brian. Il ragazzo non era bello, però aveva un certo fascino che la stregava, il fascino del Proibito. Odiava quando il caramello le zuccherava i pensieri, perchè aveva paura di amare. Se avesse amato Brian, come prima aveva amato suo padre, forse anche lui l'avrebbe tradita, rubando ancora più amore con la forza. E lei non poteva permetterlo. Non ora che aveva trovato un nuovo equilibrio. Tuttavia, nonostante queste paure, quando lui l'aspettava fuori da scuola accettava sempre l'invito. Era il momento più piacevole della giornata, camminare con lui a volte in assoluto silenzio, altre chiaccherando. Lui era una compagnia veramente interessante. Era spiritoso e intelligente, come non aveva mai incontrato nessuno. Leggeva molto e se fregava di quello che dicevano gli altri sul suo aspetto o il suo modo di fare. Carol scoprì che era anche molto timido. A volte si nascondeva in uno strato di finta durezza solo per celare il vero se stesso, perchè ne aveva paura persino lui, e se ne vergognava. Carol lo incitava a svelarsi, almeno a lei, ma il tragitto era troppo corto per una simile impresa. Poi, appena arrivati, lei lo salutava e sbirciava dalla finestra: stava fermo fino a quando lei non entrava nel condominio ed infine si voltava e camminava nella direzione opposta. Lo seguiva con lo sguardo fino a quando una curva non lo inghiottiva e pensava:"Deve tenerci davvero a me, se mente ogni volta solo per accompagnarmi". //// Con la scusa di Carol, per lui la scuola era diventato un appuntamento costante. Il suo rendimento andava a gonfie vele e tutti i professori ne erano allibiti. Anche i suoi genitori si erano dimostrati piacevolmente sorpresi. Come quella mattina. -Brian, tesoro, dove vai?, aveva chiesto sua madre. -A scuola. Suo padre aveva smesso di leggere il giornale e la donna aveva abbandonato le stoviglie sul lavello. Entrambi lo fissarono per qualche secondo, poi suo padre riprese il quotidiano, gli strizzò l'occhio e guardò la moglie. -Secondo me c'entra una ragazza. Brian evitò qualsiasi commento, e fuggì colpevole dalla scena seguito dalle risatine di sua madre. -Oh Hugh, certo che ti assomiglia proprio, eh? Aveva evitato di sentire altro sbattendo la porta dietro di se. Odiava certe scenette, anche se lo divertivano, quando non era coinvolto. Anche Jeordie l'aveva guardato di sbieco, appollaiato sul suo armadietto. -A scuola, eh? Aveva commentato, probabilmente non rendendosi neanche conto di esserci anche lui. Peccato che il ragazzo fosse stato sospeso. Era stato beccato a fumare in bagno. Sospirò e cercò di ricordarsi quella maledetta combinazione. 5...ok...2...va bene....ehm...6? Maledizione. In quel momento aveva una gran voglia di fracassare qualche testa contro l'odiato armadietto. Cominciò ad armeggiare. Niente, a prova di scasso. Altro che quelli della vecchia scuola, lá non c'erano lucchetti. Ihihihih, quante merende aveva sgraffignato... -Serve aiuto?. Ahh, che voce stupenda. Si volse lentamente, accarezzato da un discreto profumo. Carol. Si ricompose in fretta, cercando di apparire il meno sclerato possibile. -È la combinazione. Credo che Jeordie mi abbia truccato l'armadietto. -Jeordie?. Ma certo,idiota! Come cavolo poteva sapere chi era quel cocainomane? Veniva si e no un'ora la settimana! -Un tizio -, disse, sperando di essere convincente. -Capisco. Comunque, se vuoi conosco un buon metodo, truccato o no. -Ah sì?, chiese Brian, divertito. Si scostò e lasciò lo spazio libero. In realtà era solo per il gusto di vederla lavorare, magari imprecare, chinata contro il diabolico contenitore. Sarebbe stato divertente godere della sua reazione interdetta. Lui era il mago degli armadietti, specializzato in serrature e, se i principi dell'America fossero stati giusti, ci sarebbe stata una targhetta dorata all'ingresso con scritto: "A Brian, lo scassinatore folle". Intanto Carol si era tolta qualcosa da i capelli che non era riuscito a vedere, liberando un ricciolo perfetto. Sentì frugare ma non volle sbirciare come un guardone, anche perchè la vista del suo corpo magnifico in pendenza era fantastica. Se solo non fosse stato per quel maglione così lungo e largo... -Ecco. La ragazza di voltò con un magnifico sorriso sulle labbra, e per un attimo lui pensò seriamente di baciarla. Si riscosse in fretta quando vide lo sportellino metallico semiaperto e il ghigno urlante di una rockstar che ammiccava dall'interno, assieme ad altre cianfrusaglie. -Come hai fatto? Esaminò il lucchetto ma non era deforme o che. Anzi,sembrava quasi che avesse inserito la combinazione esatta. -Forcine, disse mostrandone una tra il pollice e l'indice. -Ne ho un sacco che non servono a nulla sui capelli. Brian non potè evitare un mezzo sorriso. Quella ragazza era davvero eccezionale. La Campanella interruppe la scena paradisiaca. -Ops, questo era il mio ultimo avvertimento- disse sorridendo.-Se ti dovesse servire...., disse inchinandosi e porgendogli l'oggettino. -Anche se ho i capelli lunghi non credo che la metterò mai, disse prendendola. Lei rise in modo magnifico. Lo salutò e sparì nell'orda di adolescenti. -Mai dire mai!, gli urlò, e lui le sorrise anche se non poteva vederlo. Si rigirò la forcina fra le dita, e notò dei segni neri sul palmo. Li osservò: erano un po' sbavati ma ancora leggibili. Un flebile sorriso affiorò sulle sue labbra. Era la combinazione per il suo armadietto.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Stava ancora guardando la forcina. Era un oggetto avvolto da un qualche sortilegio, perchè non aveva mai smesso di fissarlo. Quel giorno era rimasto con l'amaro in bocca, perchè Carol era dovuta andare via prima del solito. "Mi farò perdonare", aveva sussurrato, prima di essere travolta da quell'uragano della sua amica. Il tono a lui era sembrato molto suadente, ma per ció che riguardava Carol TUTTO era suadente. Si rigirò sul letto, senza trovare pace. Il soffitto aveva perso la sua attrattiva. Ispezionò il mobiletto, ma non trovò neanche lì nulla di interessante. Si tolse i calzini. Si rimise i calzini. Giocherellò con una ciocca di capelli. Abbandonò la ciocca di capelli. Si girò di nuovo, trovandosi faccia a faccia col muro. Avrebbe voluto sbatterci la testa contro, giusto per vedere cosa succedeva. No, non é una buona idea. / Normalmente, arrivato a quel punto, avrebbe preso e sarebbe uscito, oppure avrebbe cercato qualsiasi cosa da fare, persino strimpellare con la chitarra. Ma da quando aveva conosciuto Carol, nulla era più normale. Lei aveva capovolto tutto il suo universo, con le passeggiate, i sorrisi, le conversazioni, i commenti intelligenti, il profumo, il suo modo di camminare, il suo sguardo... Ogni cosa che aveva sempre fatto gli appariva priva di senso. Anche solo per il fatto che lei aveva dovuto andarsene prima lo faceva sentire perso. Ma non solo in senso psicologico: era una sensazione anche fisica. Quando stava con lei, respirare era più facile, camminare lo faceva sentire bene, sentiva il mondo in pace con lui. Non si sentiva un puntino nel nulla, destinato a scomparire, prima o poi. No, lui era Brian Warner, figlio di Hugh e Barbara Warner e stava vicino a Caroline Hayes, per riaccompagnarla a casa. Tutto aveva un senso. Senza di lei, invece, Brian diventava uno qualsiasi, i suoi genitori due tipi strambi anche per il solo fatto di non averlo ripudiato quando potevano, un ragazzo senza futuro, che si sarebbe perso, un giorno, oppure si sarebbe omologato, avrebbe vissuto in una casa bianca in un bel quartiere residenziale, avrebbe mantenuto i suoi figli con lo stipendio da impiegato, sarebbe andato in chiesa ogni domenica, avrebbe insegnato la morale ai suoi figli  e dopo sarebbe andato in ufficio a tradire sua moglie con la segretaria, consolandosi con un bicchiere di Brandy dopo il pranzo di famiglia, con sua madre tutta presa dai nipotini, a discutere di politica con il padre e a fare finta di amare i suoceri, in un allegro quadretto. Ma se sua moglie fosse stata Carol, allora sarebbe stato diverso. Nessuna segretaria come dopocena, nessun bambino piagnucolante, niente pranzi finti dove tutti hanno i sorrisi plastificati. Tutti sarebbero stati se stessi e, perchè no?, un giorno sarebbe stato disposto anche ad avere un Piccolo Brian. Sarebbe stato una rockstar famosa e odiata dai circoli religiosi, avrebbe avuto una vita bellissima, si sarebbe sentito forte e amato perchè....se lo meritava. / Si rannicchiò come una ragazzina. Carol avrebbe scelto un bel giocatore i football assolutamente indegno di lei e sarebbe stata felice, il povero Brian come guardia del corpo. Sì, fin troppo ovvio che sarebbe finita così. Ma lui, decise, avrebbe fatto di tutto perchè lei lo notasse, perchè lo scegliesse, ce l'avrebbe messa tutta, perchè lei era l'unica che riuscisse a dargli uno scopo. Ma questo non gli impedì di rimanere in una sorta di trance, che mantenne per tutto il giorno. //// Carol avrebbe tanto voluto tornare a casa con Brian, però aveva anche promesso a Kelly di accompagnarla a fare shopping. L'amica aspettò che Carol prendesse qualche soldo da casa sua e poi partirono. Il centro commerciale era abbastanza lontano, ma il loro piano era stato studiato in ogni dettaglio per un pomeriggio degno di questo nome, così chiacchierarono per tutto il tragitto. La ragazza nascose sotto uno strato di allegria la tempesta del suo animo. Naturalmente non avrebbe potuto comprare nulla, perchè i soldi dovevano bastarle per tutte le spese. Fece un rapido conteggio: aveva risparmiato su qualunque cosa, vestiti, cibo, TV, scarpe, luce, acqua e gas. Le rimaneva abbastanza da parte, da quando aveva cominciato a lavorare anche fino alle due di notte, però non poteva rischiare. Era il pomeriggio di Kelly, no? Allora spettava all'amica fare spese pazze, lei che ne aveva la possibilitá. Esaminarono attentamente ogni vetrina. Il posto era davvero immenso. Kelly era al settimo cielo: scarpe, borse, vestiti, fiocchi per capelli, braccialetti... Era il suo paradiso! Sembrava una trottola, schizzava da ogni parte. Carol le faceva da consulente, e osservava con occhio critico ogni mise della ragazza, dando il proprio parere. La sera, stanche e spossate, presero una bibita alla prospettiva della camminata. Solo allora Kelly si accorse di un dettaglio. -Carol, ma tu non hai preso niente?- La ragazza aveva sperato fino all'ultimo che non se ne accorgesse, ma era stata beccata. -Ehm... --E per il ballo, come fai?. Cavolo. Il ballo. Quest'anno se ne era persino dimenticata, segno della svolta epocale nella sua vita. Il ballo studentesco organizzato per eleggere Miss Inverno e che si teneva prima delle vacanze natalizie era sempre stato l'inferno delle due amiche. Questo, per Kelly, sarebbe stato il primo ballo che avrebbe passato in pista con il suo futuro marito, e non su un divano ad imbottirsi di gelato e film strappalacrime. Adesso Carol comprendeva il motivo di quel magnifico vestito arancione da sera acquistato poco prima. Era veramente splendido: più stretto sul corpetto, senza spalline, con delle elegantissime decorazioni di minuscole perline nere, che creavano dei motivi singolari sul busto. Aveva visto la ragazza uscire tutta soddisfatta dal camerino e aveva pensato che i ragazzi che in passato l'avevano respinta erano stati dei veri idioti. -Non credo che ci andrò-, ammise Carol, come ogni anno. Nessuno l'aveva mai invitata. -Bè, allora dì a Brian di sbrigarsi con l'invito-, sbottò Kelly. Per la seconda volta che erano uscite a bere qualcosa, Carol per poco non si strangolò col caffè. Devo ricordarmi di prendere qualcos'altro, la prossima volta, si disse, mentre cercava di riacquistare il controllo. - Perchè mai dovrebbe invitarmi?, chiese. Una luce birichina comparve negli occhi di Kelly. -Credi che non abbia mai notato le vostre passeggiatine? Il modo in cui ti guarda? Eh?- Kelly si era fatta molto più sveglia in quelle cose. -Perchè, come vuoi che mi guardi? E poi tra me e lui non c'é nulla, è solo che vive nel mio stesso quartiere, tutto qui. -Ma se lo sanno tutti che i Warner abitano dall'altra parte della strada!-, esclamò. Qui Carol non sapeva proprio come rispondere. Si era riscoperta ad arrossire, lei che non arrossiva mai. -Lo vedi? Se non ci fosse niente di male non arrossiresti in quel modo- Kelly era molto soddisfatta e annuiva tra se e se.-L'ha detto anche Chad, che sareste una bella coppia, e lui non se ne intende.-/ Carol ci pensò su per un po'. Poi disse: -Comunque non avrei i soldi per il vestito- . Il tono voleva essere ragionevole. -Ma il tuo lavoro alla tavola calda frutta bene! Lo so perchè praticamente ci vivi, lá dentro. E poi tuo padre lavora, no?-/ Tuo padre. Un fulmine beccò Carol in pieno, che rimase impietrita all'istante. Un brivido tremendo la scosse, ma lei cercò di non far trapelare nulla. Si costrinse ad annuire. -Sì, disse soltanto. /-Benissimo, allora!  Esclamò Kelly al settimo cielo. -Andiamo? Carol si limitò ad annuire. Si alzò come un automa e ascoltò le chiacchiere entusiaste della ragazza, mentre la aiutava con le borse. Ma quelle parole continuavano a tormentarla.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Jeordie era tornato a scuola dopo 5 giorni di sospensione. Sua madre lo aveva strigliato per bene, con tanto di scena isterica davanti al preside, e lo aveva obbligato a vestirsi come uno scolaretto al suo primo giorno di scuola. Brian gli tirò scherzosamente la cravatta e i riflessi dell'amico furono fulminei. Solitamente il musicista si animava solo con il suo basso in mano, mentre per il resto era per lo più assente. Aveva sempre un'espressione vacua, come se fosse in un posto solo fisicamente. Ma stavolta era presente col corpo e lo spirito, perchè gli tirò altrettanto fiaccamente un pugno sulla spalla. Era difficile vederlo lucido, in circostanze normali, così Brian si godette la sensazione di avere finalmente l'amico al suo fianco. -Ti trovo bene, sfigatello-, osservò Jeordie. -Lo dico io a te, cravattino.   -Oh, ma smettila! Così mi fai arrossire!-. Detto questo assunse un'espressione oscena e una posa che voleva sembrare pudica. Le risate tonanti riempirono la strada, completamente vuota in quella mattinata di inizio Novembre. -Sai, ho chiuso col crack. E con l'eroina e tutto il resto. L'ultimo spinello l'ho fatto la sera di Halloween, che i miei erano via. Ma poi l'ho buttato via a metá. Ha cominciato a farmi proprio schifo-, aggiunse. Brian era soddisfatto. Nonostante Jeordie fosse più giovane di lui di due anni, era giá un tossico fatto e finito. Aveva agganci con tutti gli spacciatori della cittá, nonché un sacco di "amici usa e getta",come li chiamava lui, che possono sparire da un giorno all'altro. Aveva cominciato presto, con spinelli ed erba, poi marijuana e hascisc e via discorrendo. Aveva procurato qualche spinello anche a Brian, ogni tanto, ma non è che quest'ultimo fosse proprio così appassionato alla roba. Poi, stando a ciò che gli aveva raccontato, un giorno era proprio fatto, nella maniera più letterale del termine, e un tizio cocainomane l'aveva portato in un vicolo, perchè pensava che sarebbe morto. Sempre questo tirò fuori un basso e cominciò a suonare qualcosa (Jeordie disse di non ricordare che pezzo fosse, ma sapeva solo che era stato riadattato). Dopo, quando si fu ripreso, tornò a casa e insistette per prendere lezioni. E lì si rivelò il suo talento. Aveva un sacco di storie su come a volte suonasse per un po' di roba, ed era solo minorenne./ Arrivarono a scuola di buon'ora, ancora scherzando come due idioti, e Brian notò che c'era una figura all'ingresso. L'avrebbe riconosciuta fra mille: la forma della coda di cavallo in penombra, l'ombreggiatura delle pelle accarezzata dal sole mattutino, le mani nelle tasche del pesante cappotto e il profumo, che poteva sentire persino stando lì, nonostante fosse una sensazione evanescente. -Hey, che ti prende amico?- Jeordie lo riscosse, e si rese conto di essersi imbambolato. Scosse la testa e lo prese per l'avambraccio. -Vieni, ti devo presentare una persona. ////// Carol era arrivata inspiegabilmente presto, quella mattina. Le cose con Brian andavano a gonfie vele, se così si poteva dire, e le conversazioni non smettevano mai di lasciarla piacevolmente sorpresa. Aveva scoperto che Brian pubblicava qualche poesiola sul giornale locale, così ogni mattina lei si presentava puntuale all'edicola. Era l'unico vizio che si concedeva. Le aveva accennato di lavorare anche come giornalista, intervistando le star di passaggio, ma non aveva speso molte parole, come suo solito. Cavargli informazioni era arduo, e spesso si sentiva un chirurgo. Decise di investigare, per non perdersi proprio nulla. Sentì dei passi, e si voltò giusto in tempo per vedere Brian trascinare un tizio verso di lei. -Ciao Brian-, disse, rivolgendo un cenno anche all'altro ragazzo. -Ciao Carol. Volevo presentarti Jeordie, sai è quello di cui ti parlavo.- Carol ci pensó su, poi ricordò. Il ragazzo le sorrise un po' confuso, come uno che torna al mondo dopo una lunga assenza, e le strinse la mano. Carol lo osservò. Si sarebbe potuto definire bello, ma aveva la mascella e il mento senza una delineazione precisa, troppo attaccati al collo. Il suo sguardo era vispo, sembrava non volesse perdersi nulla. Aveva i capelli mossi e flosci lunghi più o meno come quelli di Brian, pieni di doppie punte. Inoltre, circa a metá, erano tutti crespi, ma solo in quella particolare zona. Era dinoccolato, nonostante non fosse molto alto di statura ed era vestito come un damerino. Sarebbe stato elegante, se non fosse stato per i colori bizzarri. Le venne quasi da dargli il benvenuto, perchè sembrava essere stato altrove fino a quel momento.-É un piacere, Jeordie-, disse. -Spero che ti abbia parlato bene di me-, aggiunse il ragazzo, assestando una pacca non troppo gentile all'amico. Carol rise. -Non preoccuparti. A prima vista mi sembri una brava persona./ Il ragazzo parve un po' sorpreso, come se non ci fosse abituato ma gli facesse piacere, e rispose con un inchino. Carol notò le sue dita, lunghe e affusolate, e il palmo. -Jeordie, tu suoni qualcosa?-, chiese. Non riuscì proprio a fermarsi. -Il basso-, disse il ragazzo, che sembrava essere sempre più spaesato. Carol annuì. La piazzola si era riempita un sacco, e stare ferma a lungo le aveva fatto congelare le ossa. Si tirò il bavero dl soprabito a proteggere il collo. -Scusatemi, ma devo proprio andare-, disse Carol, notando Kelly che avanzava a passo deciso verso di lei. Brian annuì e Jeordie, dopo un attimo d'esitazione, le prese la mano. Era gelida, con il dorso screpolato e arrossato per la mancanza dei guanti. Lo osservò chinarsi lentamente in avanti, fino a posare le labbra sulla pelle fredda di Carol. La ragazza era rimasta immobile per la sorpresa, ma anche piacevolmente imbarazzata per l'inaspettato gesto, completamente privo di malizia. -Se questo è passato di moda-, disse Jeordie, rialzandosi. -Allora vuol dire che ho dormito più del previsto.  Brian lo fulminò con lo sguardo. Quegli occhi così dolci potevano essere assassini, a volte. -Le mode sono per le persone frivole, instabili e passeggere come i loro animi.-. Mentre lo disse, aveva tenuto gli occhi fissi su Brian, in modo eloquente, anche se non sapeva che sentimenti volesse esprimere. Notò comunque l'occhiata compiaciuta del nuovo amico, di cui aveva completamente raggiunto la fiducia. Si voltò, andando verso Kelly, e sorrise soddisfatta tra se e se. Aveva sentito le parole di Jeordie, dette a mezza voce: -Te la sei trovata proprio speciale, amico.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Carol non si sarebbe mai immaginata che l'amica potesse essere così cocciuta. Ad ogni cambio d'ora si erano ritrovate a discutere in bagno, luogo del loro personale consiglio in orario scolastico, riguardo al piano ideato da Kelly. Era usanza, infatti, invitare almeno un mese prima la ragazza al ballo, in modo da darle il tempo di prepararsi adeguatamente  e lasciare che la notizia si spargesse per bene. Però Brian non aveva dato nessun segno di volercela portare, "e quelle passeggiatine da cane che ti fa fare mi urtano proprio i nervi". Carol non aveva nulla in contrario al fatto che l'accompagnasse sempre a casa, perché era un modo per capirlo davvero, forse l'unico. Le piaceva andare con calma, e tutto il rispetto di cui la inondava le faceva solo piacere. Ma Kelly, evidentemente, non era dello stesso parere. Aveva in mente un progetto assai semplice: Carol sarebbe dovuta diventare irresistibile. Era strano sentire cerchi loschi programmi in bocca a Kelly, ma molte cose si erano schiuse nella mente della fanciulla dopo la proposta di matrimonio. Le aveva regalato qualche abito nero che lei non indossava mai ma che a Carol piacevano molto, le aveva consigliato le giuste combinazioni di collane e orecchini, aveva insistito affinchè mangiasse qualcosa, dal momento che era dimagrita moltissimo. Ma la richiesta che aveva seminato il caos tra le due riguardava i capelli. Carol li portava sempre legati, seppur in acconciature diverse, ma Kelly voleva li sciogliesse. Per la ragazza era una richiesta difficile da digerire. I suoi capelli, infatti, erano l'unica parte del suo corpo che il mostro non aveva mai toccato. Le ciocche non erano unte del suo odore, il suo cuoio capelluto non aveva risentito della sua stretta. I capelli di Carol rappresentavano i suoi sentimenti, e tenerli legati era un modo per mascherarli con la freddezza,imprigionarli dentro i recessi della sua anima, l'unica parte veramente pura di lei. Portarli sciolti, avrebbe significato abbattere una diga nel suo spirito, e la ragazza non era pronta ad affrontare la terribile inondazione che ne sarebbe conseguita. Kelly, che non sapeva niente di queste cose, non riusciva a capire ed insisteva. Ma era colpa di Carol, che non le aveva mai spiegato nulla. Era quindi finita in un litigio. Quando a Campanella le aveva divise, Kelly aveva deliberatamente scelto un posto lontano da lei, e non aveva mai rivolto lo sguardo sul banco dell'amica. All'uscita, non l'aveva presa a braccetto come al solito, anzi, se n'era andata senza degnarla di un'occhiata, defilandosi in fretta. Carol scosse la testa. Gli studenti erano ormai spariti oltre il marciapiede, ridendo e scherzando tra loro. Sebbene trovasse infantili certi comportamenti, era anche contenta, da un lato, perché ciò significava che la vecchia Kelly era ancora viva dentro a quella nuova. Si sedette sul marciapiede. Si erano dette delle cose davvero orribili. E tutto per cosa? Per dei stupidi capelli. Non era forse in atto un cambiamento radicale in Carol? Forse....dei mormorii la distrassero. Non riusciva a distinguere le parole, ma quelle voci le sembravano familiari. Si allontanò: non voleva sembrare un impicciona. Ma sbirciare fu più forte di lei... Le si gelò il sangue nelle vene non appena vide ciò che stava succedendo: Amy Sullivan, la più popolare della scuola, si stava languidamente strusciando, o come si dice, contro.... Brian. Era lui, non c'erano dubbi. La statura, la corporatura.... Aveva visto Jeordie da solo, che se andava per i fatti suoi fischiettando. Che stupida, pensò amaramente. Aveva litigato con la sua migliore amica per uno che non la considerava. Forse pensava che lei fosse come Betty Sue "denti storti" Smith? Che fosse così..."disponibile"? Forse si era messo in testa chissachè ma era rimasto con l'amaro in bocca. Scosse la testa ancora una volta. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla schiena che tanto amava attraversata da provocanti unghie rosa. Si sentiva tradita, e umiliata. Perchè lui sapeva benissimo che lei lo aspettava, sapeva che stava a scuola fino a tardi, magari dopo avrebbe passeggiato con lei come se nulla fosse. Magari si era messo addirittura d'accordo con quella sgualdrina. Una profonda amarezza prese possesso delle sue viscere, serrandole la gola. Le lacrime premevano dietro agli occhi, facendoli pizzicare dolorosamente, ma non uscirono, per quanto attese fossero. Niente, come al solito. Come può una disgraziata come me, macchiata dal suo stesso padre, sperare nell'amore di qualcuno? Se ne andó il più in fretta possibile dallo scempio dei suoi sentimenti. Mai, mai più, giurò a se stessa, mi illuderó come una stupida. Gli uomini sono tutti uguali. Tutti, tutti uguali. Quel giorno, percorrendo il tragitto in solitudine, la strada che le era sempre sembrata troppo corta si rivelò invece infinita.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Carol, quella sera, chiese un permesso da Sak's, visto che i clienti erano pochi e perfettamente gestibili anche solo da Doris. Il padrone era stato ben contento di vederla libera almeno una serata, concedendole di uscire prima. Aveva in programma di andare da Kelly. Quando era tornata a casa, infatti, aveva in mente di spaccare qualcosa giusto per sgorgare la sua ira, però non poteva permettersi di rompere anche un solo piatto, per paura che i conti poi non tornassero. Si era messa quindi a lucidare furiosamente pavimenti, finestre e anche il mobilio spoglio, lavando a mano le lenzuola e la biancheria. Esausta si era recata al lavoro, ormai calma, continuando a rimuginare su ciò che era successo. Il suo cuore aveva subito un duro colpo, ancora una volta, e non avere il sostegno di Kelly non le permetteva di sentirsi bene del tutto. Aveva persino dimenticato di mettersi il numero consueto di forcine, segno invisibile del suo turbamento interiore. Il ragazzo, anche se inconsapevolmente, le aveva rubato anche l'unica confidente valida in quel momento. E lì le era venuta l'idea. Era Brian la causa di tutto, no? Allora, adesso che non era più nella sua vita, le cose si sarebbero di sicuro sistemate. Era volata fuori dal locale appena strappato il permesso, dirigendosi a razzo a casa di Kelly, sperando di non incontrare nessuno. Era buio pesto rischiarato a tratti da qualche lampione. La cittá era gelida e deserta. Sembrava che ognuno si fosse raggomitolato in casa, per i fatti propri. Ci mise un po' a trovare la porta giusta, nell'oscurità. Bussò un paio di volte, titubante. Il vento gelido fischiava ferocemente, come se fosse un cattivo presagio. Dopo qualche minuto interminabile, la porta si aprì. Carol si ritrovò davanti alla copia esatta di Kelly, se quest'ultima avesse avuto un'espressione gelida quasi quanto l'aria che c'era di fuori. Piccolissime rughe segnavano l'unica espressione di quel viso così aristocratico, ovvero di alterigia e arroganza. I capelli biondissimi erano perfettamente scolpiti in un caschetto regolare a contornare il viso. La donna la sovrastava grazie agli scalini che Carol non aveva trovato il coraggio di salire del tutto. -Buonasera, signora Forstin.   Deglutì. -Buonasera a te, Caroline. Hai idea di che ore sono?- L'espressione non era cambiata minimamente. -Sono le sei e mezzo, signora.- rispose la ragazza, decisa a non farsi intimorire. -Esattamente, Caroline. Ora di cena. E mia figlia è in lacrime.- questa volta emanò disprezzo. -Sono venuta per quest'ultima questione, e sono desolata di dover interferire con le altre. Comprendo l'immenso disturbo che le sto arrecando, tuttavia desidererei ardentemente riconciliarmi con Kelly, per farla sentire meglio.-/ Attese, non osando chiudere gli occhi per implorare gli Dei. Venne squadrata per un lungo momento, esaminata pezzetto per pezzetto. Poi: -D'accordo, allora. Entra.- Pochi secondi dopo si trovava nell'atrio della casa principesca. Non si sarebbe mai abituata al raffinato lusso di quelle stanze, ai lampadari di cristallo e ai mobili, bianchi e blu. C'erano delle vetrate piene di minuscoli oggettini di cristallo ed eleganti bicchieri dello stesso materiale. Si sentiva inadatta a quel luogo, e l'aspetto impeccabile della signora, con tanto di vestito abbinato alla casa, non faceva che sottolineare il suo disagio. Con gesto intriso di superbia, la signora le indicò la strada da seguire, anche se Carol la conosceva benissimo. Ringraziò sentitamente la donna, probabilmente stupita del fatto che la ragazza conoscesse l'educazione. Trovare la camera di Kelly non fu difficile. C'era un peluche rosa attaccato alla porta come benvenuto, l'unica stanza non arredata in modo uguale alle altre. I muri di Kelly erano infatti arancioni, e quando la ragazza era assente, la signora si premurava che la porta rimanesse ben chiusa, per non mostrare quell'aspetto dell'abitazione. Bussò un paio di volte, come aveva fatto all'ingresso. Il contrasto caldo-freddo cominciava a farsi sentire. -Kelly?- chiamò discretamente. -Vattene via!-/ Carol prese un profondo respiro. -Kelly, devo parlarti.  -No!- urlò la ragazza oltre la porta, scoppiando in singhiozzi. -Non fare la bambina e stammi a sentire. Facciamo un patto, ok? Se non ti va di vedermi, allora avvicinati alla porta. Se proprio non vuoi sentire torneró a casa con il cuore ancora più freddo di questa notte invernale. Ci stai?- trattenne il respiro. Trattare con l'amica era sempre stato molto difficile, anche se ormai sapeva come attirare il suo interesse. Sentì dei passi strascicati provenire dall'interno. -Ci sto./ Carol sospirò di sollievo. Era già un passo avanti. -Oggi ho avuto un'amara sorpresa, quindi anche se me lo dovesse chiedere, non andrò mai al ballo con Brian- pronunciare il suo nome fu molto faticoso. -Quindi sono stata una stupida ad essere così testarda, in fondo la tua era una richiesta poco impegnativa./ Sentì l'amica tirare su col naso, appoggiata al legno con l'orecchio. -Perché non vuoi scioglierli?- il tono era quello di una bambina che aveva appena smesso di fare i capricci. Cedeva alla curiosità per affogare l'imbarazzo. Carol sorrise, sentendo un grosso nodo sciogliersi. -Per un motivo veramente stupido. -. Silenzio. -Come mai non vuoi più saperne di lui? - l'interrogatorio arrivò prima del previsto. -L'ho beccato con Amy.-. Quanto faceva male ricordarlo! -Ma é terribile!-/ Quello che più apprezzava elle confidenze con Kelly, era il fatto che la ragazza partecipasse al suo dolore. Quando le aveva accennato che il padre la picchiava, dal momento che i segni erano troppo evidenti, l'amica era scoppiata in lacrime. Era il "catalizzatore di sentimenti", se così si poteva dire. Le parole di Carol, diventavano le lacrime di Kelly, che l'altra non riusciva a versare. -Ma fai entrare? -, chiese, la fronte appoggiata alla porta. Rimase così qualche secondo. Poi la porta si aprì. -Piangerò per te, Carol. Vedrai che ti fará bene.- la abbracciò stretta e l'accompagnò ai piedi del letto, dove erano solite confidarsi. Si sedettero vicine. Kelly aveva tenuto le luci spente e si era raggomitolata in un nido di coperte. C'erano peluche sparsi alla rinfusa ovunque, segno della sua rabbia. -Per i capelli-, disse Carol, deglutendo sonoramente. Aveva deciso di celare solo la parte della fuga di suo padre, onde evitare stupide ricerche da parte della polizia e il suo trasferimento in una casa famiglia, e le scene più cruente, che avrebbero potuto spaventarla. -C'entra il fatto che mi picchia.-/ Kelly rimase in silenzio. -Adesso non ti picchia più?-/-No. Le tremò la voce. Le lacrime avevano iniziato a scorrere silenziose sulle candide guance della promessa sposa, facendo sentire Carol subito meglio, come se piangere fosse lei. Era una serata magica. E, mentre le due condividevano il loro dolore, fuori iniziò a nevicare.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Quel giorno, a scuola, non riusciva a smettere di pensare alla frase "mi farò perdonare" detta da Carol. Era concentrato esclusivamente sull'orologio appeso alla parete. Secondo lui aveva bisogno di una riparazione: era troppo lento. Voleva assolutamente confidarsi con lei per ciò che gli era capitato. Il solo pensarci lo rese irrequieto. La sera prima, Jeordie gli aveva chiesto se lo accompagnava in una sala registrazioni, dal momento che aveva vinto in un concorso ben due biglietti omaggio. Promise di rimediare altri due o tre amici per formare una "band che spacca", come diceva lui. Brian si era rivelato subito entusiasta dalla cosa, e non vedeva l' ora di iniziare. La settimana era iniziata da poco, e l'appuntamento era nel week-end. Mentre la prof di scienze spiegava, lui non potè fare a meno di ascoltare la conversazione in corso dietro di lui. Oltre ai "che paura" e "mette i brividi" indirizzati a lui, le due ochette ciarlavano riguardo al ballo scolastico. Così gli venne un'idea. Il ballo era da sempre l'occasione per vedere le ragazze nel loro massimo splendore e dichiarare i propri sentimenti. E lui si era effettivamente accorto di provare qualcosa per Carol, che non avrebbe saputo spiegare. Lei lo aveva rapito sin dalla prima occhiata, quando aveva posato lo sguardo su di lui nell'involontario scontro di quasi un mese prima e aveva sentito quel corpicino esile contro il proprio, solo per pochi secondi, sufficienti a fargli perdere la testa al solo pensiero. Quando era di buon umore, avverare progetti che poi si rivelavano stupidi o mal programmati era ancor più facile, quindi, dopo averla distratta mentre la portava a casa con la notizia della band, le avrebbe fatto la proposta. Sentiva le farfalle allo stomaco al solo pensiero. Sei tu l'uomo, si disse, i tremori lasciali a lei! Era ancora più euforico, giunto a quella conclusione. Se lei avesse accettato, oh, come sarebbe stato felice! Nulla l'aveva mai reso più entusiasta. E quella era solo un'idea! / finalmente, dopo un'interminabile lezione di letteratura inglese, riusciva a farsi strada nei corridoi, mentre aspettava impaziente che tutti i liceali sparissero. Com'era da tradizione, lui si sarebbe fermato all'ingresso, poi la sua Regina sarebbe arrivata e l'avrebbe accompagnata a casa. Era tutto perfetto. -Briaaaan? Una voce stridula gli perforò un timpano. Stava aspettando appoggiato fuori vicino alle porte. Gli studenti erano ormai spariti, e Carol sarebbe arrivata da un momento all'altro. Si voltò e scoprì un corpo sottilissimo a malapena coperto da alcuni pezzettini di stoffa rosa. La ragazza aveva i capelli biondi mossi lunghi fino alla schiena, e un trucco decisamente pesante, con l'imbottitura evidente. Amy Sullivan. Come aveva fatto a trovarla attraente? Adesso era solo volgare. Ripensò al fascino acqua e sapone di Carol, al suo sorriso... -Che vuoi?, chiese bruscamente. La ragazza rimase interdetta, ma non si scoraggiò. Sicuramente nessuno le aveva mai parlato così. - Tu lavori al giornalino, giusto? Sbattè le ciglia in modo ridicolo. Lui annuì. Si stava già innervosendo. -Ecco, vedi, dovresti farmi un favorino...  Detto questo gli posò le mani sul petto, cercando di essere seducente. Ma le unghie erano troppo lunghe, i capelli troppo finti, le bocca con troppo lucida labbra. -Pubblicheresti delle foto per me? Ora le sue mani immonde graffiavano la stoffa sulla sua schiena, e gli stava sussurrando all'orecchio. -No. Cercó di respingerla, ma ogni posto sfiorato nel tentativo di non farle male era nudo, e non riusciva a capacitarsi di come riuscisse a stare conciata così con quel freddo. Vedeva i brividi attraversarle i fianchi, ma non demordeva. -Daiiiiiiii...... Doveva aver male interpretato il tocco di Brian, che si stava facendo sempre meno gentile all'altezza dei fianchi di Amy. -Toglimi le mani di dosso-, ringhiò, ma la ragazza era come incollata. Trovò il punto giusto e, mentre lei finse che le stesse piacendo quella situazione, spinse. Subitola ragazza, che di certo non se l'aspettava, si ritrovò con la schiena contro il muro, Brian a pochi metri di distanza. Un lampo di paura serpeggiò negli occhi di Amy, come se davvero credesse che lui si sarebbe abbassato ad aggredirla. Il ragazzo si scrollò di dosso la sensazione delle unghie finte che lo graffiavano e il suo sguardo si posò fugacemente a terra. Vide delle foto che ritraevano l'ex ragazzo di Amy abbracciato ad un'altra nell'esatta posizione che la cheerleader aveva avuto con lui pochi secondi prima. Le due ragazze gli sembrarono identiche, ma evidentemente Amy pensava di essere migliore. Brian scosse la testa disgustato. Si voltò per andare da Carol. -Chi sei tu per giudicarmi?, gli urlò Amy. Poi la sentì scoppiare in singhiozzi. Ma non gliene importava. Perchè aveva appena visto l'amore della sua vita fuggire lungo il marciapiede, verso la propria casa.  Non cercò di raggiungerla. Perchè sapeva da chi stava scappando. Stava correndo via da lui.///// Da quel maledettissimo giorno, Brian aveva cercato in tutti i modi di riaggiustare le cose. Un ragazzo (basso, grassoccio con degli occhiali spessi) era stato sospeso per aver pubblicato sul giornale della scuola delle foto compromettenti che riguardavano due rispettabilissimi (cioè ricchi, pensò sarcasticamente Brian) alunni i cui volti erano stati prontamente censurati. Amy Sullivan non fu mai nominata. / Ma a lui non importava assolutamente nulla. Il giorno seguente, deciso a chiarire il malinteso con Carol, si fece in quattro per riuscire a parlarle, ma la ragazza lo stava deliberatamente ignorando. A lezione, pur di avere anche solo un momento il suo sguardo su di se, si mise ad un banco di distanza da Kelly, che le stava sempre appiccicata. Vicino a lei, la sua bella Carol non aveva mai distolto i suoi occhi ora freddi e risentiti dalla lavagna, e ogni tanto aveva addirittura preso appunti, prontamente imitata dalla compagna di banco. Ad ogni cambio d'ora le vedeva uscire ridacchiando dal bagno, e una stilettata di dolore gli trafiggeva il cuore ogni volta. All'uscita da scuola, entrambe si volatilizzarono prima che lui potesse anche solo pensare di fare qualcosa. Avrebbe dovuto studiare meglio la piantina della scuola, perchè sembrava proprio che ci fossero delle uscite segrete.  Il giorno dopo fu identico, seguito da quello dopo ancora. Brian stava impazzendo. Una volta era quasi arrivato a parlarle, ma il giornale aveva indetto una riunione per decidere chi potesse essere il sostituto del ragazzo mancante e il cantante, pur di farla finita, si sobbarcò la dose di lavoro del quattrocchi senza nemmeno rifletterci su. Così si era trovato depresso e stracarico di lavoro, un po' per scuola, un po' per il giornale, un po' per le prove in vista del week-end. Si era visto caduto in uno strano limbo: ogni cosa fatta gli appariva priva di senso, ogni parola detta come se non fosse stata pronunciata, persino il cibo aveva perso sapore. Guardava la neve fioccare quasi senza vederla realmente pensando sempre e costantemente a Lei. Jeordie cercava in tutti i modi di tirarlo un po' su, forse si sentiva in colpa per quando anche lui grazie alle droghe si comportava allo stesso modo, ma era tutto inutile. Naturalmente Brian apprezzava i suoi sforzi, però...non riusciva a concludere nessun pensiero perchè arrivava sempre al punto di partenza. A scuola non ascoltava una parola e non gliene importava nulla delle punizioni da scontare dopo l'ultima Campanella, tanto non aveva nessuno che lo aspettasse per essere riaccompagnato a casa. La notte fantasticava su ció che avrebbe potuto dirle, ma la mattina dopo sembrava tutto inutile. Anche i suoi genitori erano preoccupati. Li aveva sentiti discutere, dopo l'ennesima risposta sibilata come un automa. Alla fine, aveva concluso suo padre la discussione: -Lasciamolo stare, Barbie. Anche io stavo così quando ti avevo visto ballare con altro al liceo, no? Vediamo cosa succede. Poi interveniamo,va bene?- . Aveva sentito i singhiozzi della madre, ma non aveva provato nulla. Trovava ridicolo essere K.O. dopo solo cinque giorni, eppure era proprio così. Il grande Brian distrutto da una ragazza. Quel pomeriggio, allora, Jeordie perse la pazienza. Non riusciva a capire cosa fosse successo all'amico, e gli sbraitò contro: -Se proprio vuoi fare il depresso, almeno portami da Sak's e pagami da bere  per il disturbo che mi prendo! -/ Quelle parole ebbero effetto immediato. Gli occhi di Brian si accesero di una nuova luce, che non li animava da giorni. Era saltato su ridendo e cantando, ripetendo "Jeordie, sei un genio" e "ma come ho fatto a non pensarci prima". Ma certo! Era così semplice! Sarebbe andato da Sak's con l'amico e avrebbe trovato Carol che, sapendo bene quanto lei odiasse le scenate in pubblico, sarebbe stata costretta a seguirlo e a parlargli. Era perfetto. Il Sole aveva ricominciato a brillare.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Jeordie lo stava osservando incuriosito. Avevano trovato un posticino tranquillo nel locale semi-affollato, e lui aveva subito scostato tutti i capelli dalla parte della spalla verso la finestra, mentre copriva la parte esposta del viso con una mano appoggiata alla mascella, come se si stesse annoiatamente sostenendo la testa. -Hey amico, ma che fai?-, gli aveva domandato il bassista. Brian aveva spiegato a grandi linee celando molte cose, soprattutto riguardo ai suoi sentimenti e al progetto di invitare Carol al ballo, ma credeva che l'amico avrebbe capito comunque. -Quindi-, concluse, - quando arriva fammi un segnale./Un segnale?- chiese l'altro, senza capire. -Ma sì! Un segnale, un cenno./ -Ma che tipo di cenno?- ribadì Jeordie. -E io che ne so? Inventati qualcosa! Detto questo cominció a guardarsi nervosamente in giro. Intanto il musicista aveva preso il menù: -Dunque, dato che il mio amico qui presente è così gentile da offrirmi qualcosa, penso che prenderó un panino molto unto e costoso, accompagnato da triple patatine fritte, una coca, un caffè...- Jeordie era tutto assorto nello sfogliare pagine. -E, dal momento che insisti anche delle uova strapazzate./ -Jeordie, piantala -, disse Brian, intravedendo della stoffa azzurra da dietro il bancone, seminascosto da una pianta. -D'accordo, allora vorrà dire che prenderò anche le salse...-, disse, e gli strizzò l'occhio. -Era quello il segnale?- bisbigliò Brian. -Sì, idiota!- sussurrò di riamando l'amico. 3...2...1. Si raddrizzò alla svelta sistemandosi i capelli e dandosi un'aria normale. E poi la vide. Osservò ogni dettaglio della divisa azzurra che scopriva i polpacci perfetti, il grembiulino bianco, le scarpe di tela dello stesso colore, e la sua espressione che si raffreddava non appena lo identificò. Ciò lo fece soffrire come un cane, ma inghiottì il dolore. -Ragazzi! Ma che sorpresa! Prego, ditemi pure.   Aveva parlato al plurale ma continuando a fissare Jeordie. Brian aveva la lingua incollata al palato. All'improvviso, quella che gli era parsa una buona idea, diventò un emerita cavolata. Il bassista sorrise un po' imbarazzato, e si lanciò in una lunga e dettagliata ordinazione, indicando il cibo sul menù plastificato. Carol lo seguiva con eccessiva attenzione, scribacchiando sul suo taccuino. Stava facendo di tutto per ignorarlo,e la cosa lo fece sentire peggio. Pensò terrorizzato al momento in cui anche lui avrebbe dovuto inventarsi qualcosa, e tutto il cibo che Jeordie stava ordinando era solo un modo per fargli prendere tempo. La sua espressione diceva "ora o mai più". Fece una piccola pausa,per dargli il tempo di intervenire. Il cervello di Brian si frisse come tutte le cose elencate dall'amico. La prese per il polso (quant'è sottile!) e disse: -Ti devo parlare.  Carol si voltò lentamente verso di lui. -Non credo proprio-, ribadì con fermezza. -Sto lavorando, nel caso non te ne fossi accorto./-Lo so, ma io devo farlo lo stesso.  Possibile che quando parlava con lei, tutte le cose intelligenti da dire sparivano? Vide l'indecisione attraversare quel viso così bello, facendo breccia nella freddezza. Con la voce che si ritrovava, ogni cosa detta sembrava un ordine. E ciò, in quel momento, giocò a suo favore. Vide le labbra rosse e carnose serrarsi e schiudersi, poi sentì il polso che fuggiva dalla sua delicata stretta. -Jeordie, puoi scusarci un momento?-, chiese con un filo di voce. Il musicista sorrise quasi fino ad aprirsi da solo la faccia. -Ma certo, ovvio, sicuro!-, disse, così in fretta da mangiarsi le parole. Stavolta fu Carol a prendergli il polso con le sue ditine sottili, a guidarlo verso il retro del locale. Brian si sentiva leggero, come se gli avessero tolto un'incudine dallo stomaco. Vide Carol appoggiare distrattamente l'ordinazione sul bancone, facendo un cenno all'altra cameriera, un po' attempata. Aprì la porta sul retro, rivelando una piazzola con dei cassonetti e qualche cartaccia per terra. Non era decisamente un posto romantico, ma a lui andava bene lo stesso. La ragazza si strinse le braccia sul petto. La divisa non aveva le maniche. Lui subito si sfilò la giacca e gliela porse. Vide una certa esitazione, ma poi la prese e la indossó. Sembrava ci fosse caduta dentro. -Allora?-. Si finse impaziente, ma si vedeva che era stanca. E triste. Si sentì male, per averla fatta rattristare. -Sai, qualche giorno fa, fuori da scuola...- non aveva parlato con troppa convinzione. Carol lo interruppe: -Se é per la storia di Amy, o come si chiama, non devi darmi nessuna spiegazione. Vi ho visti per sbaglio, non volevo spiarvi, ma me ne sono andata subito - stava guardando altrove.-non erano affari miei, e so di aver sbagliato. Mi dispiace. Ho ritenuto opportuno non infastidirti con 'sta storia dell'accompagnarmi perchè, sai, se sei già impegnato con Amy... -si interruppe per cercare il termine giusto. -Non dovrei tenere il piede in due scarpe?- azzardò lui, per maledirsi subito dopo. -Esatto-, disse lei. Ora sembrava davvero triste, e anche disillusa. Come se si fosse ripetuta la stessa cosa per molto tempo, e ora aveva avuto l'amara conferma. Brian si stava mentalmente insultando. -Amy e io non stiamo insieme. -  La vide spalancare quegli occhioni che amava tanto, come se fosse davvero una sorpresa, per lei. Con un dolore sordo nel petto continuó, deciso a concludere il discorso. -Sai il ragazzo che è stato espulso? Quel secchione sfigato, quello.... - la ragazza annuì in fretta, per fermare il fiume di epiteti non molto gentili. -C'entra la Sullivan in questa storia. Era venuta da me per quelle foto: voleva che gliele pubblicassi io. Era..disgustosa - fece una smorfia, ricordando l'odore dolciastro del profumo della cheerleader. -Disgustosa? Amy Sullivan? - Carol rise senza divertimento. Sembrava più sollevata di prima. Aveva ripreso colore. Ma un dettaglio, che sperava non dipendesse da lui, gli risultava diverso. Ricordava bene il corpo della ragazza contro il proprio e, grazie all'uniforme relativamente stretta, poteva avere una prova visibile che confermasse i suoi sospetti: Carol era dimagrita. Un sacco, anche. Rimaneva bella ugualmente, tuttavia quella perdita di peso così significativa in poco tempo... -Volevo chiederti una cosa.  Non era riuscito a fermarsi. Averla così vicino, dopo tanto tempo, lo faceva sentire strano. E, come altre volte gli era capitato, le parole gli erano sfuggite dalle labbra, non poteva più rimangiarsele. -Che cosa?-, domandò lei, titubante. -Ecco, vedi, stavo pensando, sempre che tu non abbia nulla da fare, o che non ti dia fastidio, sai, non voglio spaventarti, io.... - Ma che idiota che sono, ma che idiota che sono, ma che idiota che sono. Era sicurissimo di essere arrossito, garantito al 100%. Inoltre, il suo discorso non andava da nessuna parte. Carol lo guardava divertita, forse prendendosi gioco di lui. -Brian.- La sua voce era molto autoritaria. -Vai dritto al punto./ -Io... Volevo invitarti al ballo.-. Ecco. L'aveva detto. Non era morto nessuno, ma aveva fatto una fatica bestiale. La ragazza lo fissò per un lungo istante. La fretta di prima era completamente svanita. Chissà cosa pensava di lui. Naturalmente avrebbe detto che era patetico, oppure che era stato gentile, ma ci andava già con altro. E in quel momento il "crack" del suo cuore spezzato sarebbe stato udito fino al Polo Nord. La risposta che ricevette, invece, andava contro ogni aspettativa. -Dici sul serio?-, aveva mormorato la sua Regina. Lui aveva annuito, in preda a forti emozioni. Sentiva il battito cardiaco rimbombare in tutto il corpo, come se fosse vuoto. Vide gli occhi di Carol, nerissimi, riempirsi di luce, anche se non credeva che potesse succedere. La ragazza, come in un sogno, annuì, lentamente, ma senza indecisioni. Prima di poter riflettere, tutta la tensione si manifestò in un sospiro, lungo e atteso, e vide le sue braccia come se appartenessero ad un altro stringere quel corpicino esile e magnifico. Sentì la rigidità iniziale di Carol dovuta alla sorpresa e poi, con suo stesso sconvolgimento, si ritrovò a baciarla. Dapprima piano, dolcemente, sentendola come paralizzata. Fu incitato a continuare quando sentì le labbra meravigliose della sua Regina schiudersi in un movimento bellissimo. Un misto di emozioni fortissime lo travolse. Il suo corpo era tempestato da sentimenti impazziti, ma nel punto di contatto, bollente, c'era una calma assoluta. Sentiva il corpo di lei tra le sue mani, ma non permise a se stesso di andare oltre, lasciando solo scorrere le dita colpevoli sulla schiena, a fermarsi sui fianchi dolci della giovane donna. Con l'ultimo brandello di autocontrollo che gli rimaneva, frenò la sua passione quel tanto che bastava a trattare quell'agognato corpo con tutto il rispetto che meritava. Sentì quasi di fondersi con lei, mentre reagiva come un assettato immerso in una fresca sorgente. Il freddo, il vicolo, i cassonetti, l'amico che si era goduto tutta la scena, scomparvero. Lei si staccò, e gli sussurró a fior di labbra: -Brian, scioglimi i capelli. Lui, ebbro di gioia e ormai completamente suo, cercò delicatamente l'elastico della coda di cavallo, rubando qualche carezza. La sua ragione era in completo blackout. Trovò il suo obbiettivo e lo sfilò delicatamente, senza trovare la resistenza di nessuna forcina. Sentì subito quel torrente ramato simile a una cascata riversarsi sulle spalle della giovane, a solleticargli le guance. Ora non erano più solo le ciocche del cantante a giocherellare sulle guance altrui. La sentì sospirare, il corpo in preda ad un fremito incontrollabile, mentre lui le accarezzava i capelli, ora sciolti e fluenti. -Cosa c'é?, sussurrò lui, temendo di aver fatto qualcosa di male. Lei lo guardò dritto negli occhi. Aveva una mano sul collo del giovane e l'altra intrecciata nella sua chioma nera e ribelle. -Hai appena liberato la mia anima-, disse. E lui seppe, guardandola, che non era mai stata così felice.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Era una battaglia silenziosa tra lei e il telefono. Si stavano squadrando a vicenda da un pezzo, ormai, in una singolare gara di sguardi. Osservò la curva della cornetta che celava i tasti, guardò il filo arricciato attraverso la quale avevano scorso fiumi di parole, e a ogni dettaglio un pezzettino del suo coraggio si sbriciolava. Era ancora un po' intontita dagli eventi di quel pomeriggio. Appena tornati all'interno, avevano dovuto subire l'espressione sorniona di Jeordie, accompagnata dagli ammiccamenti di Doris. Doveva averlo raccontato anche a Bud, il cuoco, perché vi erano stati accenni non molto velati da parte sua. Sentiva le guance calde ancora adesso, mentre l'imbarazzo si manifestava come combustione sotto la sua pelle. Brian, invece, sembrava normalissimo, come se nulla fosse accaduto. L'aveva tenuta per mano e aveva chiesto, con assoluta tranquillità, se Carol poteva assentarsi per quel pomeriggio, causa impegno urgente. Il bassista si stava facendo una scorpacciata molto allegramente e sulle spalle dell'amico, che aveva saldato il conto. Uscendo, Jeordie imboccò la via opposta alla loro, commentando che Brian di buon umore era molto più generoso del solito. -Ciao Jeordie!- gli aveva urlato Carol, e il ragazzo aveva risposto con un cenno e un sorriso osceno. Si era ritrovata sola con Brian, quindi. Il ragazzo l'aveva guardata con un mezzo sorriso, facendola sciogliere. Forse non si rendeva conto di quanto effetto avesse su di lei, di tutto il fascino che custodiva. Si erano avviati verso il parco, senza dire una parola. Lei adorava quei silenzi così distesi, privi di qualsivoglia imbarazzo, dove poteva godere appieno della compagnia del suo amato e trasgressivo cantante. Lo spettacolo era meraviglioso. Ai bordi delle strade e sul marciapiede, la neve si raccoglieva in grumi, mentre era spaventosamente uniforme sulle chiome curate degli alberi. Le aiuole erano completamente ricoperte e splendevano, anche se il sole era timido e debole dietro la fitta coltre di nubi candide. Sbirciò di sfuggita gli occhi del giovane: erano incredibili. Quando l'aveva conosciuto, gli erano sembrati scuri, di un marrone intenso, ma con il grigiore della pioggia si erano schiariti. Poco prima, al locale, erano di un castano molto chiaro, e ora, a quel colore, si aggiungeva il verde delle foglie in bosco ombroso, mentre ogni raggio di luce ammortizzava sempre di più l'effetto aggressivo. Arrivarono dopo dieci minuti buoni di camminata, assolutamente piacevole. Naturalmente non c'era nessuno: faceva troppo freddo. In alcuni punti la neve si era ghiacciata e in altri sciolta. Un attimo. Faceva freddo, un freddo pungente e penetrante. Ma l'odore evanescente di Brian l'avvolgeva, e lei si sentiva protetta. E poi ricordò perchè. Lei aveva ancora la sua giacca di pelle addosso. -Accidenti! Che egoista sono stata! Brian, col freddo che fa! Tieni!- Si sfilò velocemente l'indumento, e sentì subito il morso del gelo sulla pelle nuda delle braccia. Lui la guardò di traverso, trattenendola. -Non dire sciocchezze-, disse soltanto, riappoggiando la giacca sulle spalle della ragazza. Fu un gesto così intimo e delicato, che Carol sorrise quasi involontariamente. I capelli ondeggiarono sul suo collo, lambendo la pelle fresca. Era proprio una bella sensazione. -Ci sediamo?- disse, indicandogli una panchina. Lui annuì, seguendola. Era così felice che l'avrebbe guidato in capo al mondo. Però...un pensiero cominciò a pungolarla. Se lui avesse saputo tutto, tutto, di lei, l'avrebbe amata lo stesso? Non si sarebbe mai perdonata di tenergli nascosto qualcosa. Inoltre, non aveva la scusante che l'aveva trattenuta con Kelly. Difficilmente il ragazzo si sarebbe impressionato e spaventato a morte, come invece avrebbe fatto la ragazza. Se doveva dirgli la verità, avrebbe tenuto per se i particolari, dicendogli tutto sotto forma di cronaca spoglia. Sì, decise con un peso sul cuore, era giusto che lui sapesse. Non solo perché si fidava ciecamente, come mai le era capitato, ma anche perchè lui aveva il diritto di conoscere i rischi in cui incorreva. L'avrebbe baciata di nuovo, sapendo di tutti gli altri baci rubati a forza dalle sue labbra? L'avrebbe sfiorata ancora, se avesse conosciuto il tocco rozzo che aveva scavato un solco laddove appoggiava le mani? Lei ne dubitava. Era sporca, contaminata. E non poteva contaminare anche lui. Aspettò che si fosse seduto. E poi gli disse: -C'è una verità che devi conoscere - E da lì, da quelle semplici parole, Carol raccontó tutto, le umiliazioni, gli abusi, il dolore e il silenzio. Non omise il fatto che il mostro se ne fosse andato, affatto, e si scusó mille volte di averglielo taciuto, di averlo esposto al rischio di essere contaminato. Si perse in singhiozzi, ma lui non ebbe paura di abbracciarla. Aspettò che la ragazza terminasse, poi la cullò con la sua voce profonda e bellissima. -Carol, tu non sei sporca. Sei la ragazza più speciale del mondo. Sporco è chi ti ha fatto questo, e ha anche avuto il coraggio di abbandonarti. Se fosse ancora qui, io... - sentì le braccia irrigidirsi e stringerla più forte. -Io non so cosa mi inventerei per farlo soffrire. Però tu sei meravigliosa, e non me ne frega niente. Sappi che io ci sarò, Carol, e che non ti faró mai del male.- Tacque, accarezzandole i capelli. -Dici sul serio?- chiese lei in un sussurro. Aveva paura che non fosse reale. Non aveva mai provato un sollievo così grande, così intenso da farla vibrare, da renderla più leggera di una piuma. Mai, nella sua vita, il terrore diventò solo un amaro ricordo. Sentì che rideva, piano, contro i suoi capelli, per poi sussurrarle un sì deciso e delicato. Si lasciò avvolgere, senza timore, da quelle braccia forti, così diverse da quelle del mostro. Perchè nelle sue c'era rispetto. Probabilmente aveva ripreso a nevicare, perchè aveva le guance umide. -Nevica?- La sua voce era attutita dalla stoffa della maglia di Brian. -No. - Lei alzò il capo, stupita. -Ma io non piango mai-, disse con disappunto. -Ah, sì? - chiese lui, mentre con infinita dolcezza raccoglieva una lacrima salata dalla guancia della giovane. Lei la guardò, stupefatta. Brillava sul polpastrello del ragazzo. Per sincerarsi che non fosse un'illusione, corse a toccarsi le guance. Era proprio vero, stava piangendo. Aveva definitivamente e completamente raggiunto la pace interiore. Dove non era riuscito il dolore, aveva trionfato la gioia. Sorrise debolmente al ricordo della risata scaturita dal suo corpo guarito. Era tutto merito di Brian. Senza di lui non ce l'avrebbe fatta. Guardò nuovamente il telefono, tornando al presente. Erano tornati da poco. Anche lui l'aveva resa partecipe del suo passato, del nonno e le sue perverse ossessioni e della scuola cattolica, di tutto il terrore che gli avevano inculcato a fondo e del fatto che, nonostante tutto, ció non l'avesse fatto diventare un bacchettone. Troppe emozioni, troppe rivoluzioni per un giorno solo. Aveva bisogno di smaltire un po' di felicità, perché era troppa per lei tutta in una volta. Si decise e alzò la cornetta. Compose a memoria il numero di Kelly. -Pronto? Ciao Kelly, sono Carol. Siediti e tieniti forte: ho una novitá assolutamente incredibile da raccontarti....

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Il camerino era terribilmente stretto, buio e privo di appendiabiti. Non riusciva ad infilarsi quel dannato vestito, e la tendina rossa che si frapponeva fra lei e l'esterno si stava agitando istericamente, mossa dal suo corpo contorto. Esclamò risentita quando sentì i suoi jeans cadere dall'altra parte. -Carol? Tutto bene lì dentro?- chiese Kelly, preoccupata. Avevano girato per circa ottomila negozi, fino ad arrivare a quello giudicato interessante. L'amica era fresca come una rosa, mentre Carol era esausta di provare tutti quegli abiti. -Sì...- mugugnó.-  Va tutto bene.-. Ma non andava tutto bene. Proprio per niente. Non riusciva ad infilare il corpetto, e la gonna la stava facendo sudare. Con un ultima contorsione riuscì ad allacciare il pezzo sopra, mentre si voltò si scatto per lisciare la gonna sul davanti. Si appiattì con la schiena lungo la parete del camerino, scivolando lentamente per mettersi le scarpe. -Arrivo! - annunciò, uscendo sollevata. Respiró avidamente l'aria fresca, mentre Kelly la squadrava con i suoi jeans piegati tra le braccia vicino ad alcune commesse. La reazione fu immediata. -Carol, ma sei splendida! - esclamó la ragazza, sotto le occhiate compiaciute delle due donne presenti. Tra tutti i vestiti che aveva provato, nessuno aveva scatenato quella reazione, quindi Carol era curiosissima. Si diresse a passo sicuro verso lo specchio a figura intera, abituata alle scarpe alte dopo un'intera giornata passata sui trampoli. E rimase impressionata. L'abito era davvero splendido: il nero forte e denso le ricordava la voce di Brian. Era stretto con una profonda scollatura  sopra, mentre la gonna addolciva i fianchi e, stranamente, faceva risaltare le gambe magre e sottili. Alzò l'orlo della gonna, a scoprire i tacchi, e rimase deliziata nel vedere l'effetto del nero contro la sua pelle chiara. I capelli le ricadevano elegantemente sulle spalle e, se non fosse stato per le guance arrossate dalla fatica, sarebbe potuta andare direttamente al ballo. Sembrava quasi un abito nuziale. Chissà cosa avrebbe pensato Brian. Il suo Cavaliere Oscuro, sarebbe rimasto soddisfatto dall'aspetto della Tenebrosa Sposa? Oh, ma cosa vado a pensare! Vide il riflesso sullo specchio diventare paonazzo, suscitando le risatine delle presenti, il cui gruppo si era notevolmente infoltito. Guardò il cartellino con il prezzo. Aveva racimolato, dopo settimane di intensi sacrifici, ben centoventi dollari e quarantatré centesimi, una bella cifra, tutto sommato. Così rimase sorpresa nel vedere che poteva permettersi l'abito, che veniva centotrè dollari. -Come mai costa così poco?- chiese incuriosita. Per i suoi standard era molto, ma in confronto ai vestiti precedenti era economico. -Per i balli studenteschi vanno i colori allegri. Il nero vende poco. Il rosa caramellato e il magenta pallido, per il momento, vanno per la maggiore- spiegò. Magenta pallido?, si chiese Carol. Chissà che cosa intendeva la donna. -Lo prendo- decise. La sua vita stava migliorando e, se la sua felicità valeva centotrè dollari, l'avrebbe pagata volentieri. E fu proprio quello che fece. ///// Al ballo mancavano ancora diverse settimane, ma il padre aveva insistito per andare a prendere subito lo smoking dalla soffitta. Erano dovuti salire entrambi dopo che il genitore era tornato indietro sconfitto e la madre gliele aveva dette di santa ragione per essere sceso tutto pieno di polvere. -Ma tanto sono io a pulire i tappeti, a voi che ve ne importa?- aveva concluso la donna, probabilmente rassegnata dal fatto di vivere con due uomini in casa. Dopo aver superato le cianfrusaglie varie, si erano messi a frugare nell' "armadio delle dimenticanze", come lo chiamavano loro, dove erano contenuti tutti i vestiti di recite scolastiche, balli e costumi di Carnevale sia del figlio che della coppia. -Tu ti metterai lo smoking che ho indossato io al ballo- aveva spiegato l'uomo la sera prima, - perchè a me ha portato fortuna-. Brian aveva finto di non notare l'occhiata intensa che i genitori si erano poi scambiati. Si concentrò sul presente, tuffandosi nell'armadio. Vi erano un sacco di vestiti avvolti da teli di plastica trasparente e spessa, ma l'impresa era resa ardua dalle torce, che dovevano usare dal momento che l'impianto elettrico in soffitta si era guastato. Il padre faceva più fatica a dannarsi ogni Natale a cercare l'abete finto che non a cambiare un fusibile. -Trovato!- esclamó l'uomo, trionfante. -Andiamo a vedere come ti sta.-. Brian non se lo fece ripetere due volte e di fiondò giù dalle scale, col rischio di spaccarsi l'osso  del  collo. Tutto pur di uscire dalla soffocante soffitta. Si chiuse in camera per provarsi l'abito. Ad impresa finita, prese ad osservarsi allo specchio. Aveva un'aria così...affidabile. Un vestito così sobrio sul corpo magro e spigoloso gli faceva un effetto strano, singolare, soprattutto con in capelli lunghi, a donare originalità. Chissà cosa ne avrebbe pensato Carol. Carol, la sua bella Regina, così delicata, così bella... Calmati, Brian, si impose. Non é il momento, adesso. Si preparò già alla reazione della madre, seduta in poltrona per l'occasione, ed uscì. Il padre, non appena lo vide, assunse un'espssione a metà fra la nostalgia e l'orgoglio, mentre stringeva la spalla della moglie. La donna, invece, ebbe l'istinto di alzarsi , abbracciarlo e sbaciucchiarlo, ma si trattenne per paura di stracciare il vestito. -Allora?- chiese il ragazzo. -Sei splendido, tesoro-, disse lei, prima di scoppiare in lacrime. -Il mio bambino...guarda com'è cresciuto....-. Il padre non era stato preso alla sprovvista e, dando un cenno d'apprezzamento al figlio e il permesso di andarsi a cambiare, si chinó ad accarezzare i capelli della moglie. -Su Barbie, non fare così...non sei contenta? Hai visto com'é bello? Eh?-. Lui si richiuse in camera e si diede un'ultima occhiata prima di spogliarsi. Lui, proprio lui che ogni tanto usciva cn le calze colorate e dei cappelli folli era elegantissimo per una ragazza. Proprio Brian Warner. Rimettendosi i jeans consumati, pensò che avrebbe voluto anche lui essere in una coppia così affiatata come quella dei genitori. Era un desiderio diverso dal solito "voglio diventare una rockstar". Aspetta, si disse, io diventereó una rockstar, però al mio fianco avrò la mia Regina speciale. Sì, decise. Quel desiderio era il migliore di tutti quelli fatti sino a quel momento.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Quel giorno a scuola prestare attenzione era molto difficile. Da quando Carol aveva cominciato a portare i capelli sciolti, la sua bellezza era esplosa in modo dirompente, quasi abbagliante e Brian faticava molto per trattenersi. Il suo fiorellino delicato era diventato una sorta di cristallo fragilissimo fra le sue dita, e aveva sempre il timore di esagerare. Lui l'amava, quindi poteva capitare che una mano scivolasse più velocemente del solito o che un bacio si facesse più ardito. E questo lo terrorizzava a morte. In quei momenti, com'era giusto che fosse, si perdeva completamente nel calore della ragazza, dimenticando il resto del mondo; il problema era che nel gruppo delle cose che scivolavano nell'oblio c'era anche l'autocontrollo. Con tutto ciò che la ragazza aveva subito, voleva essere delicato. Il racconto l'aveva profondamente turbato, ma non per quelle sciocchezze del tipo "ti sporcherò" o "rischi la contaminazione", assolutamente, più che altro era perché non riusciva a capire come si potesse fare del male ad una ragazza tanto perfetta. Aveva notato, una tra le prime volte in cui aveva cominciato ad osservarla, che sul polso c'erano dei segni rossi sospetti, ma non c'aveva neppure fatto caso. Adesso, l'intero puzzle andava al suo posto, tutti i dettagli assumevano un senso, per quanto macabro. Ma il pensiero che l'aveva fatto stare peggio, era quello che quando aveva cominciato ad accorgersi di lei, proprio in quel periodo, le violenze erano in pieno svolgimento e lui non aveva potuto fare niente. Si era sentito impotente: prima con Jeordie, la cui discesa nel baratro era sempre più vicina, e adesso con Carol. Se l'uomo raccapricciante che la ragazza aveva come genitore non se ne fosse andato, chissà se sarebbe mai venuto a saperlo. Lui, quell'essere infimo e schifoso, che possa bruciare all'inferno, avrebbe continuato a picchiarla senza tregua, e a farle anche di peggio. Perché Brian non era stupido fino a quel punto, aveva capito che non la picchiava e basta. Non si limitava a quello, il sudicio verme, faceva ben altro. La ragazza si era astenuta dal dirglielo, e lui non aveva chiesto, sapendo quanto fosse privilegiato da quella confessione spontanea, però era evidente che ci fosse qualcosa sotto. E quel qualcosa era l'atto più maledettamente sudicio che quell'avanzo di galera, sporco, dannato, imbecille, schifoso, lurido e infimo potesse compiere sulla SUA ragazza.... -Brian Warner...- disse la professoressa con un ghigno. -Perché non ci illumini con la tua ricerca?-. Ricerca? Quale ricerca? "Inventati una scusa in fretta, imbecille!". Vagò nella memoria, ma non si ricordò nulla di simile. Era impossibile che gli chiedesse la ricerca che aveva "svolto" il giorno in cui aveva incontrato Carol, perchè risaliva a quasi un mese prima, accidenti! Una manina delicata si alzò improvvisamente, richiamando l'attenzione della strega. -Prof, io e Brian abbiamo fatto la ricerca insieme- disse. Lui si perse nella contemplazione di quel fiorellino di campo perfetto, con quelle labbra rosse di cui conosceva anche troppo bene la forma e in cui avrebbe voluto perdersi... -É così, Brian?-. Il ragazzo si riscosse in fretta e annuì. -Molto bene, allora, andiamo avanti... Tu Susi?-. Pericolo scampato. Lanciò un'occhiata a Carol, dall'altra parte della classe, che ammiccò sistemando dei fogli. Persino la compagna di banco, Kate? Kelly?, gli sorrise. Si rimise composto e riprese a meditare. Ecco cosa aveva inteso la ragazza con il suo "mi farò perdonare"... ///// Era sicura al 100% che Brian non avesse fatto i compiti a casa. Le aveva raccontato della sala registrazioni, della nuova band e del fatto che lui cantasse, e lei era stata entusiasta della notizia, nonché orgogliosa di lui. Quindi, come conseguenza di tante preparazioni, lei si era preparata in anticipo. In fondo glielo doveva, no? L'ultima Campanella suonò, e Carol si godette la sensazione del suo unico giorno libero, che di fatto era appena iniziato. Kelly era un fiume di progetti; non solo riguardanti il ballo, ma anche la Chiesa che dovevano scegliere per il matrimonio, perché, naturalmente, avrebbero fatto la cerimonia nello stesso posto. Aveva riempito il suo quaderno di scritte come "Chad e Kelly Forever" e "Brian x Carol", più volte sottolineate dallo Sharpie nero e un pennarello rosa. Invece di concentrarsi nello studio, aggiungeva piccoli cuoricini con il glitter, assolutamente insopportabili, perché i brillantini viaggiavano ovunque soprattutto sui maglioni e quaderni di Carol, la quale faceva sempre più fatica a mantenere il controllo. E poi c'era Brian. Lui era come un balsamo, per il cuore della ragazza, così taciturno, così silenzioso, così...Tenebroso. Le piacevano un sacco quelle sporadiche uscite intelligenti dette con nonchalance, in aggiunta al fiume di parole che Carol non si stancava mai di pronunciare, da quando l'aveva conosciuto. Talvolta la baciava o la teneva per mano, con grande disappunto della ragazza. Questi episodi succedevano di rado, anche se il ragazzo era a modo suo affettuoso e sempre rispettoso, e quando la toccava, Carol sentiva come una forza trattenuta, in lui, che premeva per uscire, ma che il cantante celava in modo a dir poco eccellente. Meglio così, pensava lei a volte, perchè comunque non sarei pronta a dargli di più, però un pochino le dispiaceva. Necessitava di quel contatto, di quella Tenebra familiare e rassicurante, di quel cuore tanto caldo da avvolgerla e farla sentire speciale. All'uscita, lo attese come ogni tanto accadeva, soprattutto il lunedì, giorno delle riunioni del giornale scolastico. Si sedette sul suo angolo di marciapiede, dopo aver aspettato che tutti se ne fossero andati, e cominciò a studiare scienze, in vista del compito. I suoi occhi si confusero tra le righe, perdendo più volte il segno. Era scritto tutto fitto-fitto, senza nemmeno una figura, e lei non era sicura di aver capito di cosa si stesse parlando. Invertebrati, forse? -Scusami...- alzò lo sguardo e vide un paio di polpacci fasciati dai jeans. Ancora un po' ed ecco un giubbotto della squadra di football, assieme ad un cappellino con visiera calato in testa. La ragazza si alzò in piedi, posando il libro a terra. -Sì?- chiese. Cosa poteva volere un giocatore di football da lei? Lo osservò per bene. Era un bel ragazzo: alto, forte, dal fisico muscoloso e asciutto, biondo e con dei meravigliosi occhi azzurri. Però...la sua chioma non era lunga e fluente, per nulla femminea ma estremamente virile e i suoi occhi non celavano niente se non la passione per lo sport e  le ragazze come Amy Sullivan. La sua voce non era forte, vibrante e sconvolgente, e le sue labbra non le imploravano di baciarla, non con perentoria determinazione, almeno. Dov'erano i vestiti neri, le borchie e l'odore che la faceva impazzire, anche se gli altri non lo sentivano? Il ragazzo guardò a terra, sorridendo, per poi rialzare lo sguardo su di lei. -Ecco...sei nuova, per caso?- vide un gruppetto di ragazzi che li osservavano ridacchiando. Che stupidi. I denti del ragazzo erano molto regolari, ma non erano dell'ordinata misura di quelli di Brian, bianchi e mostrati solo di rado, in quei rari ma meravigliosi sorrisi... -No-, rispose con un sorriso gentile. Si chiese il perchè di quella domanda assurda. Prima mi emarginate per i miei lividi e poi vi dimenticate di me? L'atleta era un po' sorpreso. La sua espressione sembrava voler dire "ma che cavolo...?". Carol attese paziente che formulasse la successiva risposta. -E.. Com'è che ti chiami?-. Era titubante. Ah-ah! Ecco il momento della verità! -Caroline Hayes- disse soltanto, ma ciò fece subito cambiare espressione al giovane, che impallidì addirittura. Poteva giá sentire il commento di Brian: che finocchio... Il ragazzo si portò a mano dietro la testa raddrizzandosi improvvisamente, come se fosse stato punto. -Scu..scusami, i..io non pensavo che, cioè...- continuó così per qualche altro secondo. Lei lo interruppe con un sorriso. -É stato un piacere conoscerti, chiunque tu sia-. Era una chiara menzogna che lo invitava esplicitamente ad andarsene. Il ragazzo sorrise, grato ed imbarazzato, poi ritornò dai suoi amici che lo accolsero con risatine e pacche sulle spalle, prima di andarsene. La ragazza sospirò, si sedette e riaprì il libro. Ma quanto ci metteva Brian? //// Il cantante correva per i corridoi. La scuola era deserta, e poteva sentire il suono dei suoi passi rimbombare nei corridoi vuoti, accompagnati dal suo respiro ansante. Odiava correre, ma per Carol lo avrebbe fatto anche su un tappeto chiodato. Il lunedì lei lo aspettava per la questione del giornale scolastico, e a lui dispiaceva un po' farla attende, però rivestiva un ruolo abbastanza importante nella redazione, quindi non poteva proprio mancare. Se doveva dire tutta la verità, nell'ultima ora che non avevano in comune, venivano lasciati ai ragazzi responsabili del giornale quindici minuti prima della fine della lezione, purché non stessero a scuola quando non c'era nessuno. Così Brian approfittava di quei cinque o dieci minuti per osservarla, la schiena curva su un libro, i capelli ricciuti tanto amati sparsi sulle spalle o svolazzanti al vento, e si sentiva in pace con sé stesso. Come quel giorno. I capelli erano agitati dall'aria fredda, un mare ramato che risvegliava istinti profondi in lui. Quant'era bella....chissà cosa aveva fatto per meritarsi una ragazza così. Ma di certo non era l'unico a pensarlo. Notò subito un gruppetto di atleti da quattro soldi che ridacchiavano e guardavano Carol. La SUA Carol. Uno tra loro, quello che sembrava una femmina, si avvicinò a lei, cominciando a parlarle. Sebbene la vedesse solo di spalle, poteva già immaginare la sua sorpresa. Il ragazzo era proprio uno smidollato: continuava a fissare per terra nonostante tutto ciò che ci fosse da vedere davanti a lui, e si grattava la testa come un idiota. Incurvava le spalle e la faccia era nascosta da un cappellino, come facevano i terroristi. Brian rimase a guardare disgustato per un altro po'. Sentiva uno strano senso di calore montargli nel petto, e aveva una gran voglia di scendere nella piazzola e conciarlo per le feste; si sentiva letteralmente bruciare in un turbine di sensazioni spiacevoli, in un misto mai sperimentato prima. "Sono geloso", si accorse incredulo. E non gli dispiaceva affatto. Con sua enorme soddisfazione vide l'atleta andarsene con la coda tra le gambe, sbiancato. Aprì in fretta le porte e uscì fuori, immergendosi nell'aria fredda. Non voleva far trapelare nulla, avrebbe aspettato che fosse Carol ad introdurre il discorso. Si affrettò a raggiungerla. Aveva bisogno di sentirla vicina ora più che mai.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Quel giorno Brian era strano; camminava senza dire una parola e teneva la testa bassa. Carol poteva quasi sentite le rotelle del suo cervello al lavoro, ad arrovellarsi sempre attorno ad una sconosciuta questione. La ragazza l'aveva trovato più affascinante del solito, con gli occhiali scuri, la chioma al vento e la camminata da vero "boss", però quell'espressione cupa rovinava il quadro. O meglio: lo faceva sembrare così splendido che ogni suo piccolo e amabile difetto cadeva in secondo piano. Ma la cosa veramente sgradevole, era quella sorta di religioso silenzio, che minacciava di soffocarla. Quelle passeggiate erano l'unico momento veramente intimo della giornata, dove parlavano e, a volte, tacevano, ma sempre in modo piacevole. Adesso a Carol pareva di essere soffocata da una cappa di nervosismo, e la cosa non le piaceva affatto. Ad un tratto, esasperata all'inverosimile, decise di prendere l'iniziativa e parlare per prima, ma venne interrotta. -Chi era quel finocchio?-. Ma allora era questo il problema! Tutto il nervosismo si sciolse come ghiaccio al sole. Si strinse di più  nel soprabito, sforzandosi per trattenere una risata. -Non lo so, non mi ha detto come si chiama- si mantenne sul vago. Vide che una vena sottile cominciava a pulsare sulla fronte del ragazzo. Amava farlo impazzire. -Perchè?- chiese poi, quando sentì che il silenzio stava ripiombando tra loro. -Non sarai mica geloso, spero.-. Colpito in pieno. Brian alzò di scatto la testa e si fermó a guardarla, in mezzo al marciapiede. -Non sono affatto geloso-, chiarì, e poi riprese a camminare. Carol dovette faticare, per riuscire a stargli dietro. Camminava a lunghe falcate, distendendo quasi completamente le gambe. -E allora che cosa c'é?- era decisa a perseguitarlo, se necessario. Non avrebbe mollato così facilmente. -Mi ero soltanto preoccupato, Caroline. -. L'aveva chiamata Caroline. Brutto segno; lui non la chiamava mai così, solo Carol, e neppure tanto spesso. Adorava il modo in cui le lettere del suo nome rotolavano sulla sua lingua, l'intensità con cui venivano pronunciate. -Non é successo niente di male- disse lei. Non voleva che perdesse la fiducia nei suoi confronti. -Sì, invece-, ribattè lui, e con grande sollievo della ragazza si fermò,prendendola per le spalle. -Credi che non abbia visto tutti quelli che ti hanno messo gli occhi addosso? Li vedo ogni giorno, e sono sempre di più. Se devo essere sincero, Carol, ho paura. Ho paura che arrivi qualcuno migliore di me, e ce ne sono tantissimi, e che questo ti porti via.- aveva parlato tutto d'un fiato. Tacquero per un lungo momento. Carol si sentiva lusingata dai sentimenti del ragazzo, ma anche un po' sorpresa. Forse era solo la sua immaginazione, forse vedeva rivali laddove non ce n'erano. Le dispiaceva che avesse sottovalutato il suo amore per lui a tal punto. La cosa la faceva soffrire. -Nessuno è migliore di te-, disse piano. -Tu sei l'unico. Mi dispiace che tu non l'abbia capito.- silenzio. Il ragazzo scosse la testa. -Ho paura- ripetè. -Ma non perché non mi fido di te, ma perché non mi fido degli altri-. Gli tremò leggermente il labbro. Caro, lo strinse forte, lenendo il dolore di entrambi. -Non temere-, gli sussurrava all'orecchio. Sarebbe stata fedele soltanto a lui. Per sempre.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


-No, spostalo un po' più in la-, disse. Le preparazioni era ció che odiava di più di tutte le prove. In sala registrazioni gli era sembrato fantastico perchè era giá tutto pronto, lui aveva solo dovuto cominciare a cantare. Raddrizzare gli strumenti e metterli nella posizione giusta era una cosa complicata: lo rendeva nervoso, anche perchè la cantina di casa sua tendeva a spargere un'eco fastidiosa. Jeordie stava accordando il basso in modo maniacale; quando succedeva, tutto il mondo poteva anche andare a fuoco, tanto lui non se ne sarebbe accorto. Gli altri ragazzi della band si erano rivelati dei tipi a posto. Discreti, taciturni e capaci, erano andati subito d'accordo. Adesso erano presi dai loro strumenti, posizionandoli in angoli diversi e provando attentamente il sound. L'unico che non aveva nulla da fare era proprio lui; il suo strumento ce l'aveva piantato in gola, come gli piaceva pensare. Scoccò un'occhiata nervosa alla ragazza seduta a qualche metro da lui, che poteva tenere d'occhio tutti i musicisti. Appena lui si era fatto scappare che le prove si sarebbero tenute quel pomeriggio, Carol ne aveva subito approfittato. I suoi genitori l'avevano trovata adorabile, capendo all'istante cosa ci fosse sotto. Brian non aveva neppure provato a dissuaderli, tanto sapeva che sarebbe stato tutto inutile.  Provò il microfono per l'ennesima volta; i genitori non erano molto entusiasti della nuova sistemazione, quindi facevano di tutto per trovarsi fuori casa quando la band si riuniva, cioè quasi ogni pomeriggio. Forse era un toccasana per il loro matrimonio, che andava giá a gonfie vele. Vide Carol che gli sorrideva dolcissima, e la tensione un po' si sciolse. Nonostante in sala registrazioni ci fossero delle persone, non aveva mai cantato con un pubblico vero e proprio. Appena tornato a casa, aveva riflettuto bene sul pomeriggio passato a cantare, e aveva capito che la sua non era certo una folla urlante lì apposta per lui. Li avevano analizzati a fondo, singolarmente e in gruppo, dando anche qualche dritta, ma niente di che. Era stato elettrizzante comunque, ma ora, con gli occhi di Carol pieni di amore ed impazienza, era tutta un'altra storia. Sentiva delle farfalle impazzite vorticargli nello stomaco. Jeordie attirò la sua attenzione schiarendosi la voce, segno che era pronto. Guardò gli altri ragazzi, che si espressero con un segno d'assenso. Anche loro erano emozionati dall'avere un pubblico. Regnava una sorta di silenzio meditativo. Tutti erano in attesa, ma ciascuno per motivi diversi. Osservó Carol sistemarsi sulla sedia, attentissima. Sembrava che anche le prove degli strumenti fossero state interessanti, per lei. Brian si aggiustò i microfono alla giusta altezza, ma era solo una scusa. Era già a posto così. Senza neppure bisogno di parole, i ragazzi capirono subito che ci voleva un piccolo discorso per la loro ascoltatrice, e fecero un cenno a Brian di procedere con una veloce introduzione. Il ragazzo non ci aveva affatto pensato. Mentre incamerava una sorta di comunicazione telepatica col resto del gruppo fatta di grugniti e gesti, potè sentire lo sguardo incuriosito dell'amata su di sé. Alla fine la ebbero vinta. Schiarendosi la voce, Brian represse momentaneamente il bisogno di cantare, iniziando con parole brevi e semplici. -Allora, adesso ti faremo ascoltare un pezzo nostro, che abbiamo scritto noi. Dicci sinceramente cosa ne pensi- disse. Carol annuì, concentrata. Era il "via" definitivo. Sentì il batterista attaccare, e si preparò a far tonare le sue corde vocali, che fremevano d'attesa. ////// Il batterista aveva iniziato a scandire il tempo con le bacchette, prima di iniziare a martoriare di colpi il suo povero strumento. Poi, a turno, attaccarono tutti quanti. Lei non vedeva l'ora di poterli finalmente ascoltare, e adesso era in preda alla meraviglia. Quando li aveva incontrati, pensò riferendosi a tutti quanti i membri della band, li aveva trovati quasi incapaci di interagire normalmente con le persone. Ma ora, strumenti alla mano, sembravano perfettamente in sintonia con loro stessi. Erano forti, potenti, e anche un po' arroganti. Quello era il suo primo concerto, se così lo si poteva chiamare. Brian era l'emblema della concentrazione: sopracciglia aggrottate, occhi chiusi, le labbra che mimavano la melodia. Il suono era duro e aggressivo, ma travolgente ed eccitante. Sembrava obbligare il corpo a scatenarsi. Lo vide aprire gli occhi e, con assoluta naturalezza, schiudere la bocca per iniziare a cantare. E rimase sconvolta. Ogni volta che il ragazzo le parlava, sembrava quasi che ogni fibra del suo essere si mettesse a fremere di piacere; la sua voce era corposa e densa, forte e vigorosa, tanto che era un piacere sentirlo parlare. Ora ogni sensazione era acuita. Si ritrovò costretta a chiudere gli occhi. Gli strumenti avevano alleggerito la loro aggressività, come per  lasciare il  posto alla voce incantevole. Il ragazzo cantava con tutta l'anima, dapprima molto dolcemente, come migliaia di carezze, poi urlando quasi sul ritornello, sconvolgendo l'ascoltatore. Era un misto di sensazioni fortissime, troppe da provare tutte insieme. Il suo cuore accelerò i battiti, trascinandola nel turbine di tanta forza. Ogni cosa che aveva sempre creduto era sbagliata, la sua mente venne proiettata a pensare in modo differente, inverso, ogni sofferenza e tutto il passato poteva essere annegato senza rimorsi in quella musica assolutamente divina. Il petto le si scaldò, mentre sentiva il proprio corpo vibrare e seguire il ritmo. Con estrema semplicità, il ritornello si spense, seguito dagli strumenti, spossati dalla magia. Ma prima che la ragazza tornasse alla realtà, prima che il sortilegio sparisse, ci volle ancora qualche istante. /////// Era stata senza dubbio la migliore esecuzione del brano. Guardò il batterista, ancora un po' stordito dai movimenti frenetici della testa, il chitarrista, stanco ma soddisfatto, il tastierista che si schioccava le dita ed infine Jeordie, che sorrideva raggiante. Sorrise anche lui: era stato fantastico lasciarsi trasportare completamente. Poi fissò Carol. Sembrava aver perso le antiche certezze per averle subito rimpiazzate con altre di nuove. Riprese fiato, mentre si godeva la bellezza della ragazza. Le fece un cenno del capo, ad invitarla ad esprimersi, ma la ragazza si prese del tempo per parlare. Tutti la fissavano col fiato sospeso. Era il primo parere non professionale che sentivano, ed erano impazienti. -É stato...- disse. -Stupefacente. - sorrise, leggermente scossa ma profondamente sincera. -Peccato che sia durato così poco- aggiunse, rafforzando il sorriso. Fremiti uscirono dai corpi dei musicisti, a manifestare il loro sollievo. Sorrisero e si scambiarono pacche sulle spalle, complimenti non troppo gentili e anche bonarie offese. Erano tutti molto sollevati, Brian sorpreso, che sorrise e fece per andare da lei. -Come avete deciso di chiamarvi?- chiese. L'aria si fermò. Il nome era destinato a lasciare tracce scandalose che avrebbero segnato il loro passaggio. L'avevano scelto di forte impatto apposta, dal momento che avevano tutta l'intenzione di sconvolgere gli odiati "benpensanti". Ma la titubanza si ripercosse fra loro al pensiero della reazione che Carol avrebbe potuto avere. Se fosse rimasta disgustata? Se se ne fosse andata? Se non avesse voluto più vederlo, pensando che fosse impazzito? Troppi se. Raccolse il coraggio a due mani, scegliendo le parole con cura. -Abbiamo scelto di chiamarvi in modo molto singolare, ognuno con un scema identico. Il gruppo si chiama Marilyn Manson and the Spooky kids- disse tutto d'un fiato, per non lasciare il tempo di interromperlo. -E il mio nome d'arte è Marilyn Manson, appunto. - Calò il silenzio, denso e spiacevole. I membri del gruppo gli lanciarono occhiate fulminanti, ma non dissero nulla. Erano immobili come statue di pietra. La ragazza rimase in silenzio. -Marilyn Monroe e Charles Manson, dunque-. Non era una domanda, ma Brian annuì lo stesso. Lei sorrise, un sorriso meraviglioso e caldo. -Bé, ragazzi, sicuramente non verrete dimenticati!- esordì, facendoli scoppiare a ridere di sollievo. Brian la guardó sorridendo, e seppe che l'avrebbe amata per tutta la vita.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Da quel giorno, Carol volle assistere a tutte le prove, e fu accontentata. Il proprietario di Sak's  aveva deciso che lei avrebbe saltato tutti i pomeriggi a parte quelli del week-end, ma solo perchè la ragazza aveva insistito. Il personale aveva detto di averla trovata molto dimagrita e spossata, credendo che per una ragazza fosse troppo dura mantenere quel ritmo bestiale. Sotto insistenza di Carol, tuttavia, il titolare cedette e le concesse di poter lavorare quattro ore ogni giorno, potendo fare gli straordinari. E la ragazza si era ritirata vittoriosa. Con il nuovo orario più flessibile poteva uscire con Kelly e assistere alle prove di Brian. Con suo grande stupore, aveva notato che lo stipendio era rimasto invariato. Aveva cercato di protestare, ma il proprietario aveva minacciato di licenziarla, così Carol non fece più storie, e si godette la nuova sensazione di avere del tempo libero. Ormai pensava sempre meno a suo padre. Guardava le cicatrici sparire e sbiadirsi ogni giorno sempre di più, e quasi aveva dimenticato il terrore, l'umiliazione e il dolore che il genitore le provocava. Aveva smesso di interrogarsi su dove fosse, se era vivo o meno, e si concentrava sempre di più su Brian. I Marilyn Manson andavano forte. Una sera, arrivata prima degli altri ragazzi, prese il tè con la madre del cantante, una donna dolcissima. Lei raccontò non senza un po' di preoccupazione, che ormai la maggior parte dei circoli religiosi odiava la band, e che la loro notorietà era in crescita. Erano persino stato chiamati in alcuni locali per suonare, ricevendo un piccolo compenso a serata. Questa cosa Carol la sapeva già; Brian era stato entusiasta, quando gliel'aveva annunciato. Così adesso la sua vita stava andando per il meglio: aveva un ragazzo che la amava, aveva un lavoro, un'amica fantastica, una casa tutta per sè che stava ricominciando a valutare ospitale e anche del tempo libero. Tutti, nella band, le si erano affezionati e, come Brian le aveva confidato, senza di lei le prove non avevano più lo stesso sapore. -Sai, sono felice- disse, non riuscendo più a trattenersi. Erano durante una delle loro passeggiate, e il ragazzo le camminava a fianco guardandola ridere per un nonnulla e parlare a raffica. Brian sollevò un sopracciglio, poi comprese e la attirò a sé, scatenando dei risolini dalla parte di lei. La fece vorticare in aria tenendola stretta, e poi la depose a terra. Lei rideva di gusto; non si era mai sentita tanto leggera, mentre lo baciava ricambiando l'abbraccio. Lì, in mezzo alla strada, tra lo sguardo incuriosito di passanti, lei si tenne ben stretto il suo tesoro personale, il suo Cavaliere della Tenebra, perchè sapeva che non esisteva Tenebra più confortante di  quella che stringeva al petto. ///// Arrivarono sotto casa di Carol prima del solito. Brian cominciava a sentire la mancanza della ragazza già quando la osservava sparire dentro al condominio, gli risultava insopportabile doverla lasciare lì ogni giorno. Però era fin troppo consapevole che la casa era vuota, e che quello era il suo giorno libero, e che quel giorno Jeordie aveva chiamato per dire che le prove non si sarebbero fatte, e che i suoi genitori erano andati a fare spese e sarebbero tornati tardi.... Questi pensieri si agitavano nella sua testa quel giorno, e lui dovette faticare non poco per trattenere il battito frenetico del cuore sotto al cappotto e la sua mano, che voleva allungarsi ad accarezzare anche solo l'avambraccio della sua amata Regina... Si riscosse. Al ballo mancavano solo due settimane. Si concentrò ossessivamente su quel pensiero, cercando di obliare momentaneamente il ricordo di Carol che lo baciava in mezzo alla strada, infischiandosene del resto del mondo. -Brian? Mi ascolti?- gli chiese, preoccupata. Lui annuì. Vide l'imbarazzo depositarsi come una rossa nuvola temporalesca sulle guance della ragazza. -Ecco, vedi, ti volevo chiedere...vorresti salire?- disse tutto d'un fiato, mordicchiandosi il labbro inferiore. Una corrente di sensazioni infuocate lo ustionò dall'interno. Ci sarebbero state migliaia di domande da porre, ma la sua lingua era incollata al palato, il cervello reso fin troppo lucido dall'eccitazione. La gioia era così grande che minacció di sopraffarlo. Milioni di sottintesi esplosero nella sua mente come dinamite. Per lui, Carol era disposta a cedere al presente, a fare questo enorme passo avanti. Solo per amor suo. -Sei...sicura?- chiese cauto. Non voleva farle fare nulla di affrettato. Avrebbe aspettato anche in eterno, se fosse stato necessario. La vide annuire, senza esitazione. Lo prese per mano, con le divina sottili che gli sfioravano il palmo. -Vieni- sussurrò, un ordine che non era un ordine.  -Sappi che io ti amo, e sono disposto ad aspettare- disse lui. -Anche io ti amo- disse lei. Era la prima volta che se lo dicevano, e aveva un effetto fantastico. Lei strinse la presa. -Quando vuoi mandami via- sussurró lui, prima di seguirla all'interno del palazzo.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Tirò lo sciacquone aggrappandosi alla catenella, guardando la sua colazione sparire nello scarico. Si sentiva bene come non mai, eppure il suo corpo sembrava voler dimostrare il contrario. Erano già cinque o sei mattine di seguito che aveva la nausea, destinata a sparire solo verso il primo pomeriggio. Lavorava ancora instancabilmente, anche se era più sensibile agli odori della cucina e poteva mangiare solo determinati cibi. Le veniva una voglia incredibile di questo o di quello, e doveva correre al supermercato più vicino per comprarlo, altrimenti avrebbe sicuramente vomitato una sfilza di succhi gastrici maleodoranti. Non aveva detto nulla al suo ragazzo, perché lo vedeva così impegnato nella band, preso dai nuovi incarichi, che non voleva turbarlo inutilmente. Di fatto stava benissimo, quindi perchè preoccuparsi? Si rialzó in piedi a fatica, ancora scossa dai conati di poco prima. Sentiva il ventre caldo ed intorpidito, ma non era il calore che avvertiva quando stava con Bria, al contrario, era qualcosa di più sofisticato, ben diverso dall'attrazione fisica. Si sciacquò il viso e la bocca. Per fortuna aveva tirato i capelli all'indietro appena in tempo! Si guardó allo specchio, attaccato sopra al lavandino del bagno scolastico. Era pallida, ma il suo viso era luminoso, gli occhi luccicanti. Si sentiva in pace con sé stessa e il cosmo, una sensazione scalfita solo dalle nausee. Sospirò, grata che lo stomaco le desse un po' di sollievo. In quel momento desiderava solo stendersi, ma doveva tornare in aula. Si sarebbero insospettiti troppo, se si fosse trattenuta ancora a lungo, e chiedere di andare via prima era fuori discussione: doveva portarla a casa un genitore, in quel caso, ed era un lusso di cui non disponeva. Osservò di nuovo i familiari dettagli del suo viso, stupita di trovarsi tanto diversa. "Sembro più bella", pensó stupita, per poi arrossire subito dopo. "Ma che vado a pensare", si disse ridacchiando. Anche se la prospettiva di passare il resto della mattinata ingabbiata nelle strette seggiolone di legno della scuola la faceva ammattire, si raddrizzò,  sentì com'era il suo alito e, soddisfatta, si avvió verso l'aula con rinnovato vigore. ////// Brian era un po' preoccupato. Quel giorno, a scienze, Carol aveva chiesto il permesso di andar in bagno, praticamente fuggendo dall'aula dopo averlo ottenuto. Era quasi una settimana ormai che sembrava più bella, raggiante, ma anche pallida e provata. Lui non capiva, e quando le aveva chiesto se stesse bene, lei aveva risposto di non essersi mai sentita meglio. Si rasserenó un poco quando la vide rientrare, pochi minuto dopo. Era come se sorridesse: non stava sorridendo realmente, ma i suoi occhi esprimevano tutto ció che le labbra tacevano. Molto strano. Da una parte era contento di vederla tanto splendida, ma dall'altra sapeva che c'era qualcosa che non andava. La osservó sedersi al suo solito posto, mentre sussurrava qualcosa a Kelly, o come si chiamava. Sembrava fosse tutto normale. Mah. Cose da donne, si disse, ma quella maledetta sensazione non se ne voleva andare. //////// Quel pomeriggio, appena finito da Sak's, era tornata a casa, dal momento che non c'erano prove in vista. Si gettò esausta sul divano, ma dovette subito cambiare posizione: la schiena minacciava di spezzarsi. Strano, pensó. Era la posizione che assumeva di solito. Osò accendere la TV, ma non facevano nulla d'interessante. Era da un secolo ormai che lo schermo non si illuminava, e la cosa le sembró quasi una novità, nonostante avesse visto l'elettrodomestico in funzione milioni di volte. Si mise un cuscino dietro il collo, distendendo le gambe. Sentiva gli arti pesanti, e un leggero mal di testa si stava facendo strada dietro ai suoi occhi, spingendo proprio sulla fronte. Prese il telecomando, cominciando un annoiato zapping. Si imbattè in una serie televisiva che sembrava meno peggio delle altre. Erano un gruppo di adolescenti che stavano parlando tra di loro di personaggi di cui Carol non conosceva l'esistenza. Seguì il dialogo per un po', ma ben presto si perse nelle sue riflessioni. Al ballo mancava meno di una settimana. Il suo vestito era pronto nell'armadio, in attesa di essere indossato. Se l'era provato qualche giorno prima, e ancora una volta si era riscoperta deliziata dalla linea sinuosa ed elegante del vestito, che la facevano sembrare una femme fatale. Vide sullo schermo una ragazza in lacrime, rannicchiata in bagno con una stilografica tra le dita. Aguzzó la vista. No, non era una penna, ma aveva una forma simile, allungata e.... Arrossì. Un test di gravidanza! Si fece inconsapevolmente attenta mentre prendeva a cuore le vicende della sconosciuta, perduta in singhiozzi da più di mezz'ora, ormai. -Ecco cos'erano le nausee, le strane voglie, il calore...- lamentava la poveretta. -Sono incinta!- concluse disperatamente. Il cuore della spettatrice si chiuse in una morsa, ma non per l'attrice, bensì per sé stessa. Nausee? Sì, lei aveva la nausea da quasi dieci giorni, più il vomito, ogni tanto, pur continuando a sentirsi bene. Strane voglie? Bè, se non mangiava il cibo che aveva in mente, sarebbe volentieri morta di fame. Calore? Innegabile, il basso ventre era immerso in un bagno turco. Sono....? No, concluse. É impossibile. No, no e no. Contó i giorno che la separavano dal suo ultimo disturbo mensile, facendo più volte il calcolo. Due settimane di ritardo. E lei se ne stava placida senza fare nulla! Si alzó in preda ad una strana frenesia, per poi essere costretta a risedersi da un capogiro. No, non puoi farmi questo, pensó disperatamente aggrappandosi alla pancia. Ritiró subito le dita, massaggiando la parte appena stretta. Se é vero, non posso fargli dl male. Provò, misto alla paura, al terrore e alla disperazione, anche uno strano senso di protezione. E una strana calma scese su di lei. Fosse incinta o meno, avrebbe protetto quella creaturina da mondo intero. Anche se non era sicura, in fondo al cuore la risposta positiva pretendeva di essere la realtà. Calmò il respiro affannato, tanto disperarsi non sarebbe servito a nulla. Il giorno dopo sarebbe andata col bus nella città vicina, dove non la conosceva nessuno, a comprare un test, poi ne avrebbe parlato a Brian. Fu presa da un groppo alla gola. Lei sentiva di amare già entrambi, ma non sapeva se per lui sarebbe stato lo stesso. Le sue elucubrazioni furono spezzate dal trillo del telefono. Spense la TV e alzó la cornetta. Era Kelly.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Appena arrivato a casa aveva trovato un biglietto dei  genitori, i quali sarebbero stati via per un paio di giorni a causa del malessere di una vecchia zia. Erano dovuti partire subito, ma comunque l'avrebbero lasciato a casa lo stesso, per via della scuola e delle imminenti vacanze natalizie. Si gettò sul divano prendendo persino la rincorsa, gettando all'aria cuscini e piume, mentre affondava nella stoffa. Era felice, felice come quando aveva passeggiato per la prima volta con Carol, quando l'aveva baciata e anche quel giorno delle prove, dove lei aveva accettato senza turbamento alcuno i Marilyn Manson. Jeordie l'aveva chiamato avvertendolo che non si sarebbe tenuta alcuna prova, quel giorno. Ma non era tutto. A sorpresa, aveva annunciato tronfio, quelli con cui avevano fatto le registrazioni avevano contattato una casa discografica. Quest'ultima voleva proporre loro l'incisione di un disco e la presentazione al pubblico con un po' di sana pubblicità in una serata dove avrebbero potuto esibirsi con il monopolio dell'attenzione, in quanto sarebbero stati gli unici artisti sul palco. E questo significava entrare a tutti gli effetti nel magico e trasgressivo mondo della musica, con conseguenti successo, ricchezza e fama mondiale. Un solo dettaglio, estremamente importante, intaccava la sua eccitazione: la data del concerto coincideva con quella del ballo. Come dirlo a Carol? Se persino lui si era emozionato alla prospettiva, figuriamoci lei! Ci sarebbe rimasta malissimo, lui l'avrebbe delusa. Sicuramente avrebbe iniziato a pensare che per Brian tutto era più importante di lei, che la musica valeva cento volte di più della sua compagnia e altre menate varie. Forse avrebbe offuscato la certezza del suo amore sconfinato con l'umiliazione, perché essere invitata e poi non andarci più non doveva certo essere piacevole. Si stava mordicchiando spasmodicamente il labbro, afflitto da quelle riflessioni. Doveva dirglielo. Carol doveva assolutamente saperlo. Era suo pieno diritto, era un dovere indiscutibile di Brian metterla al corrente della situazione. Prese un lungo sospiro per schiarire tutti i pensieri confusi. Carol era calma e razionale, sicuramente avrebbe trovato una soluzione più che soddisfacente. Il problema restavano le parole con cui dirglielo. Voleva essere elegante, semplice e diretto, senza trascurare il tatto e il tono disponibile, per lasciarle tutto il tempo per rifletterci su. In effetti non c'era tempo. Mancava pochissimo, sicuramente aveva già comprato il vestito e tutto il resto, avrebbe fatto mille e una illusioni su una notte magica che lui le avrebbe negato.... Perché, per quanto lei fosse importante, anche la musica, una carriera e la band erano importanti. Inoltre, se lui rinunciava dovevano farlo tutti. E i ragazzi morivano dalla voglia di sfondare. Erano nati, per questo. Si trovava in un dilemma di proporzioni epocali, e doveva risolverlo da solo. Agguantó in uno slancio indefinibile il suo block-notes, di solito usato per i testi delle canzoni, e cominció a buttare giù idee per esporre il problema a Carol. Fu molto più difficile del previsto.//////// -Kelly, calmati. Fai un respirone profondo, ok?- Era la quinta o sesta volta che lo diceva. La testa aveva preso a ronzarle per la preoccupazione della sua situazione e di quella dell'amica. Infatti, appena sollevata la cornetta, era stata investita da un fiume di singhiozzi in cui era stato udibile solo "ingiustizia", "Chad" e "non capiscono". Era spossante cercare di calmarla, anche perchè sembrava proprio disperata. E non era affatto dell'umore adatto per consolare qualcuno, dal momento che lei stessa si trovava in una situazione critica. In un gesto familiare e automatico prese ad accarezzare protettiva il proprio ventre, per poi ritrarsi subito dopo. -Carol.....Oh, Carol!- gemette Kelly, distraendola da quel nuovo timore. Ci volle mezz'ora per calmarla. Perché facesse frasi articolate e di senso compiuto un'altra decina di minuti. Poi, all'improvviso, divenne una cascata di parole, come se si fosse rotta una diga in lei e adesso tutto straripasse:- Stasera a cena mi é sfuggito della dichiarazione di Chad, mio padre urlava, mia madre urlava, hanno chiamato i suoi di lui, gliene hanno dette di tutti i colori, mi hanno dato della sgualdrina, che non mi dovevo permettere, che non faró nulla del genere, non potremmo mai stare insieme...-. Non prese fiato. Semplicemente, riprese a piangere. Carol intervenne subito, prima che fosse troppo tardi. Non aveva le idee chiare, ma aveva compreso la situazione. -Tranquilla, ci sono io, ok? Chad non rinuncerà così facilmente. Lui ti ama, Kelly, farebbe di tutto per te. Vedrai, un po' di pazienza e...- Venne interrotta da una voce molto più ferma di prima. -Carol, ascoltami. Io.... Abbiamo un piano - prese un profondo respiro, senza darle il tempo di replicare. -Chad e io siamo nati per stare insieme. Nessuno potrà mai dividerci, mai. Ci amiamo. Quindi... Al diavolo il college, ci sposeremo lo stesso. Partiremo in segreto, andremo via, tanto siamo maggiorenni, ormai. -. -A..aspetta un secondo....- Kelly la interruppe con un singhiozzo, la voce incrinata di nuovo. -Ti prego, non renderlo più difficile. Dammi la tua approvazione. -Silenzio. Quello che le stava chiedendo non era facile. Le stava dicendo che se ne sarebbe andata via, che non si sarebbero mai più riviste, e questo per amore. Carol doveva approvare la sparizione dell'unica amica che avesse mai avuto, colei che la capiva davvero, per fare in modo che si sposasse e vivesse un futuro incerto chissà dove. Peró sarebbe stata felice. Lei sapeva che se si fosse rifiutata, Kelly non sarebbe mai partita, e io suoi avrebbero fatto in modo che sposasse un riccone snob e che vivesse infelice quasi quanto sua madre. Sarebbe stato egoista rispondere così ad una domanda altrettanto egoista. Con un macigno sul cuore, chiese: - E quand'è che dovreste partire?     Ci fu un lungo silenzio. Kelly prese fiato. -Stasera stessa.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Tristezza. Un mare infinito e agitato di tristezza, viscida e opprimente. Il ventre era caldo, ma a parte quello il gelo della notte, la luce dei lampioni e l'asfalto umido sotto le scarpe passavano totalmente inosservati. Non si era mai sentita così sola con dentro quella creaturina minuscola attaccata tenacemente alla vita, che non aveva bisogno di ulteriori conferme per proclamare la propria esistenza. Tristezza. La notte era silenziosa e triste, i suoi passi formavano un rumore attutito. C'erano molti suoni che amava: la voce di Brian, il fischiettio di Doris, il frusciare delle foglie e la risata di Kelly. Kelly. Una pugnalata al cuore ogni volta che il suo nome le si affacciava in mente. Era al suo fianco, camminava nella notte mano nella mano con Chad, gli occhi lucidi, i vestiti sgualciti e un piccolo fagotto condiviso con lui. Dentro, gli averi degli sposi, a mo' di una grottesca dote. Tristezza. Il suo cuore era arido, rischiarato appena dall'amore infinito per Brian, onnipresente e rassicurante. Brian. Altro dolore. L'aveva chiamata quella sera, anche lui aveva composto il suo numero, e le aveva spiegato del live, del problema e del ballo. L'aveva messa di fronte ad una scelta, egoista come tutti lo erano stati con lei, e Carol aveva urlato, avevano litigato, ma alla fine avevano ritrovato la pace: il risultato? Il ballo sarebbe stato sacrificato. L'anno seguente, forse, sarebbe stato ripreso in esame. Scosse la testa. Non le dispiaceva più di tanto, anche se non era una sensazione spiacevole, perchè sarebbe stata onorata di seguire il concerto da vicino, di poter gustare il vero Brian, di tenerlo tutto per se ed assiste alla sua gloria. Forse era addirittura meglio così. Tristezza. Tristezza, amara compagna. Mai una camminata le era parsa così lunga. Il marciapiede svoltò, e il deprimente corteo lo seguì obbediente. Cominció a piovere. Strano che tutti i momenti importanti della sua vita fossero stati caratterizzati dalla pioggia: quando aveva conosciuto Kelly, quando il mostro l'aveva derubata della propria purezza e la prima passeggiata con Brian, tutto sotto la pioggia. Il sarcasmo del destino appare divertente solo a lui. Tristezza. Nuova ed infinita. Sconosciuta e nota. Acuta e dolorosa. Videro delle fioche luci avvicinarsi al loro passaggio. Era il contrario: erano loro ad avvicinarsi. Guardò la mano dell'amica, serrata su dei pezzi di carta. Biglietti per il treno. Che scelta romantica. Si fermarono davanti alla piccola stazione, dove un uomo sonnecchiava su uno sgabello e pochi annoiati passeggeri stavano infreddoliti a guardassi intorno. Nessuno riusciva a dire nulla. Non si sarebbero riviste mai più. Una lacrima segnó la guancia dell'amica, il dolore rispecchiato anche negli occhi del ragazzo. Davanti a loro incertezza e miseria, ma sarebbero rimasti insieme. Era questo l'importante. -Sai cos'è comico? -disse inespressiva Carol, all'improvviso. Il vento aveva iniziato a sibilare discreto tra la cortina di pioggia sottile. Kelly scosse la testa. Era un dialogo privato. -Entrambe abbiamo il ragazzo, ma nessuna andrà mai al ballo. -. Sorrise amaramente. Kelly si sforzó di ricambiare. Le prese le mani tra le proprie, nascoste dai guanti. Sussurrò:- Non é forse la vita, un eterno ballo? - Era la frase che Carol le ripeteva per tirarla su di morale quando l'elezione di Miss inverno non le comprendeva, cioé ogni anno in quel periodo. Si abbracciarono strette. Non ci fu bisogno di dire nient'altro. Si guardarono, si espressero i propri sentimenti, l'amicizia, l'affetto, il bisogno reciproco e la tristezza. La tristezza c'era sempre. Poi si separano. L'amica si avvió verso il treno con Chad, mentre Carol stava a guardare. La sofferenza era inimmaginabile. "Addio", pensó. Li guardò sparire nei vagoni, vide i capelli biondi di Kelly svolazzare fuori dal finestrino, mentre si sporgeva per salutarla. Poi, l'enorme macchina partì, portandosi via un pezzo della vita di Carol. E lasciandosi dietro un'infinita tristezza.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


La teneva stretta da ore, scusandosi silenziosamente, chiedendo perdono per i propri peccati ed offrendole tutto il proprio conforto. Ascoltava i suoi singhiozzi disperati e convulsi, lasciandole bagnare di lacrime e muco la propria maglietta. Aveva la testa sulla spalla e piangeva disperatamente, da quando lo aveva visto. Gli aveva chiesto urgentemente da un telefono pubblico di raggiungerla a casa, perché aveva estremo bisogno di vederlo. E lui aveva corso a perdifiato, giusto il tempo di infilarsi gli stivali, nella notte buia e fredda indossando solo dei jeans strappati e una t-shirt. Sapeva cos'era successo, a grandi linee lei lo aveva sputato fuori con rabbia ma anche con un profondo dolore, ma a lui non importava affatto. La cosa importante era che lei, la sua Regina, stava male, in condizioni pessime, e lui era lì per consolarla. Era anche un modo per esprimere il suo dispiacere riguardo al ballo, di pentirsi del proprio egoismo facendole vedere che lu ci sarebbe sempre stato. Poi, i tremiti si fermarono e Carol si addormentó esausta appoggiata al suo petto. Brian le tolse le scarpe e la mise a letto, un po' impacciato sul fatto dello svestirla o meno. Decise di lasciarla così. Si preparò un caffè con ció che trovò nell'impeccabile credenza, trovando strano per l'ennesima volta il fatto che un'adolescente potesse essere così ordinata. Insomma, sua madre aveva avuto una crisi isterica quando aveva intravisto sull'uscio semiaperto la camera del figlio. Mescolò la sostanza calda ed amara senza aggiungerci nemmeno un granello di zucchero, assaporandolo in modo nudo e crudo. Il suo animo poteva specchiarsi in quella bevanda: rovente e amareggiato. Aveva parlato poche volte con Kelly, ma Carol era legatissima a lei, più o meno come lui con Jeordie. Ma l'amicizia femminile é tutta un'altra cosa rispetto a quella maschile, e lui poteva comprendere solo un po' di ciò che Carol provasse veramente, ed era pronto a soffrire assieme a lei, a rendersi partecipe del suo dolore per alleviarle la pena. Si sedette al tavolo cercando di non far rumore, e vide un libro sgualcito col marchio della biblioteca sistemato vicino ad una sedia scostata, segno che si era seduta per poi essersi dimenticata di rimetterla a posto. Lui sorrise tra sé e sé: ogni tanto accadeva che si facesse distrarre da qualcos'altro, e che lasciasse ciò che stava facendo così, di punto in bianco. Guardò la copertina, talmente rovinata che il titolo era a stento leggibile. "Adolescenza", recitavano i caratteri sbiaditi. Incuriosito, cominciò a sfogliarlo, e un groppo in gola si formava ad ogni pagina. Dapprima annoiatamente, poi sempre più partecipe, lesse righe e titoli, con crescente agitazione. Vide un elenco di sintomi che precedevano la gravidanza, una dettagliata sezione sui disturbi femminili e sui periodi più fertili di una ragazza tra i 12 e i 19 anni, guardò con attenzione delle pagine riguardanti invece gli uomini e tutto ciò che poteva portare al concepimento di una nuova creatura. Ignorò i capitoli sull'educazione alla prima infanzia analizzando invece i sintomi vari disturbi, e tutti coincidevano con quelle che aveva riscontrato in Carol. Si era imbattuto in un manuale scientifico estremamente preciso, che cominciò a leggere con estrema partecipazione, senza perdere neppure una parola. Lo richiuse di scatto, quando terminò circa un paio di ore dopo la lettura. I suoi occhi bruciavano, ma il suo cuore faceva molto più male. Il sangue veniva pompato a velocità assurda, mentre nel cervello erano impresse a fuoco le lettere appena viste. Se aveva capito tutti i dati, se le sue comparazioni erano esatte, se il presentimento che quel libro non fosse casualmente finito a casa di Carol era esatto e se ciò che avevano fatto quel pomeriggio era la causa di tutto la conclusione era solo una. Presto sarebbe diventato padre. ///////// Intorpidita, si mise faticosamente a sedere. Sentiva gli occhi gonfi e le guance umide e mollicce. Era stanca come non lo era mai stata. Automaticamente trovò conforto nel calore alla pancia, che la rassicurò nonostante tutto. Il pensiero di Kelly la investì come un treno in corsa, ed inizialmente fu difficile ricollegare tutti i ricordi. Con la bocca impastata, si trascinó giù dal letto, mentre i piedi nudi incontravano il pavimento gelido. Aveva dormito vestita. O meglio: Brian aveva lasciato che dormisse vestita. Non sentiva l'odore del ragazzo accanto a sè, né avvertiva l'impronta del suo corpo impressa nel materasso. Appoggiandosi alla parete, raggiunse la cucina, con la testa che le girava e una vaga e familiare nausea. Ormai, provare un amore incondizionato per la creaturina nel suo ventre era spontaneo, una parte di lei. Si chiese come avesse fatto a vivere senza, senza quel calore e quel senso di integrità. Sì, integrità. Vide subito il ripiano disastrato, e un odore forte di caffè le invase le narici sensibili. Una sedia era lontana qualche passo dal tavolo, e una tazza piena di liquido freddo stava vicino ad un libro aperto. Un'ondata di panico la travolse. Brian aveva letto il libro. Che avesse capito tutto e se ne fosse andato? Che avesse scelto la musica invece della famiglia? Nuove lacrime si insinuarono nei suoi occhi, e stava per crollare a piangere quando due braccia robuste la sostennero. Scoppiò di nuovo in singhiozzi, per le troppo emozioni e per il fatto che era rimasto. -Hey, piccola, va tutto bene...shh....- le sussurrò una voce calda contro il suo orecchio, mentre la guidava dolcemente verso il pavimento. E, per la seconda volta, Brian la consolò fino a quando non prese sonno di nuovo.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Domenica, tanto amata domenica. Dovevano essere circa le quattro e mezzo del mattino, quando la coscienza riprese il possesso del cervello di Carol. La schiena le doleva: avevano dormito sul pavimento. Brian aveva trascinato un lenzuolo e un paio di cuscini lì, nel tentativo di rendere più comodo il loro giaciglio, ma senza troppo successo. Stranamente si sentiva riposata. Piangere così tanto l'aveva esaurita del tutto, singhiozzare disperatamente per ore sembrava quasi un'attività da palestra. Guardò il profilo rilassato dal sonno di Brian: il naso allungato, il viso ovale e liscio, gli occhi chiusi con le ciglia corte a formare delle delicate mezzelune sulle sue guance e la bocca, così...unica. Dormendo, il ragazzo non sbavava né grugniva, anzi, russava solo leggermente, in modo quasi impercettibile e neppure regolare. Il suo respiro faceva alzare ed abbassare lentamente il petto ampio, dove mille volte aveva trovato riparo. Si mise a sedere con estrema cautela, per paura di svegliarlo, ma non c'era pericolo: dormiva come un sasso. Si alzò, si trovavano in cucina. Il suo occhio cadde subito sul ripiano vicino al forno, dove era stato compiuto un vero e proprio scempio. Si potevano sporcare così tante cose per una sola tazza di caffè? Scosse la testa sorridendo, mettendosi a riordinare il più silenziosamente possibile. Lo sbirciò da sopra il tavolo; sembrava un bambino, così rilassato e terso dai sogni. Svuotò la tazza mezza piena e il tanto familiare nodo di apprensione tornò a tormentar la come una sgradita presenza alla vista del libro. Lo chiuse subito: era troppo doloroso guardarlo. Anche lei si interrogava sul perché avesse voluto prenderlo. Forse, dal momento che non poteva permettersi una visita all'ospedale, voleva semplicemente saperne di più. Non sapeva se fosse stato un madornale errore oppure no, fatto sta che Brian aveva capito. Poteva vederselo, turbato dalla lettura che faceva combaciare tutti i pezzi del puzzle mentale che aveva cercato di costruire, finalmente riuscendoci. Se si era spaventato, non lo disse. Non spicciccò parola, in verità. La consolò, la tenne stretta, la cullò e la baciò senza tregua, fino a quando l'animo della ragazza non si era placato. Non aveva menzionato minimamente al libro, peró era lampante che ormai sapeva. Era successa la stessa cosa, a lei: dopo aver visto quel film la sua mente si era aperta e il cuore l'aveva accettato, accolto senza remore nè paura, a donare un amore che non credeva di possedere. Un pensiero la folgorò. E se Brian le avesse chiesto di abortire? Un puro terrore le morse violentemente le viscere. Prese a tremare esattamente come quando vedeva il mostro davanti a sè, ubriaco e dal sorriso lascivo, quando erano chiarissime le sue intenzioni. Era il SUO bambino. Lo amava sopra ogni altra cosa. Non avrebbe mai acconsentito ad ucciderlo. Provò un moto di disgusto al solo pensiero. No. Brian non avrebbe mai potuto darle un'alternativa così spaventosa, così abominevole. La responsabilità era di entrambi, divisa in parti uguali. Era parte di lei esattamente come Brian, come l'amore che provava per loro,  solo distinto in due sfere diverse. Il ragazzo era la passione, il brivido, l'amore più forte e sconsiderato, come lanciarsi a bordo di una macchina da corsa giù da un burrone.....lui era il puro desiderio. Il suo bambino, invece, era una amore tenero, protettivo, delicato e assoluto. Qualsiasi cosa fosse successa niente e nessuno, neppure il proprio padre, avrebbe potuto fargli (o farle) del male, perché Carol l'avrebbe impedito con tutti i suoi mezzi. Si aggrappò saldamente al lavello, le riflessioni l'avevano sconvolta. Sentì un fruscio alle sue spalle, un rumore di passi lenti che si avvicinavano, delle braccia a cingerle la vita ancora sottile. Una testa si poggiò alla spalla della ragazza, nella posizione che lei adorava di più al mondo. Sentiva i capelli di lui scivolarle lungo la schiena, e fu percorsa da un brivido. -A voi ci penso io- disse. Carol sorrise piano. La sua voce così profonda, sentita tanto vicino, era strabiliante. Era la dichiarazione d'amore più....meravigliosa dell'universo. Non solo stava dicendo di rimanerle a fianco, ma anche di amare e proteggere il loro bambino per sempre, vederlo crescere, assistere alle sue gioie e partecipare ai suoi dolori. -Dici sul serio?- sussurrò. Aveva paura che potesse essere solo un sogno. Lo sentì annuire contro di lei. Premette il naso contro il suo collo, inspirò lentamente il suo profumo e poi cominciò a parlare. -Dal primo momento in cui tu ho vista, ho pensato che stavo sprecando la mia vita. Non avevo uno scopo, un motivo per andare avanti. Tu mi hai illuminato su moltissime cose, e non potró mai esprimere a parole tutto l'amore che provo per te. Quando, ieri sera ho....visto quel libro, ho capito di avere delle responsabilità. Sono consapevole di quale sia la causa, e ti posso assicurare di non pentirmi di nulla. Sai, anch'io avevo iniziato a desiderare un rapporto come quello dei miei genitori, una famiglia. E tu mi stai facendo questo immenso regalo. Non so se sarò degno, ma ti giuro che ce la metterò tutta.- Tacque. Non c'era bisogno di dire nient'altro. Rimasero abbracciati a lungo, loro due. Anzi, pensò Carol sorridendo, adesso erano in tre. E per la prima volta, questo pensiero non le fece paura.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Portare i pantaloni di pelle dopo così tanto tempo gli parve un sollievo immenso. Si adattavano in modo a dir poco perfetto alle sue esigenze: erano stretti, traslucidi per richiamare l'attenzione e anche sobri, dal momento che erano completamente neri. I polpacci erano coperti dalle calze a righe colorate, che sbucavano dagli stivali con la suola spessa e pieni di lacci. Amava quello stile eccentrico e unico, perché aveva il potere di fargli liberare se stesso da tutte le catene imposte dalla vita in società, che dovevi autoinfliggerti per essere un individuo normale, come tutti gli altri. Ma quella sera sarebbe stato sé stesso. Vide Jeordie concentrato davanti ad uno specchio minuscolo appeso alla parete, intento a truccarsi. Con tutto quel cerone bianco e il rossetto sbavato non sembrava nemmeno lui. Gli altri ragazzi erano nell'unico e grande camerino a provare e riprovare i vestiti di scena, colorati e provocatori. Ridacchiò per l'ennesima volta quando notò le calze color zucca che fasciavano le gambe magre dell'amico, sopra le quali si affacciava un vestitino rosa corto dal colletto bianco. Sembrava un'infermiera oscena. -Smettila- gli disse senza voltarsi, dal momento che non aveva neppure bisogno di sapere il motivo dell'ilarità del cantante. Brian si aprì una birra, sorseggiandola lentamente. Gli alcolici avevano un effetto calmante su di lui, riuscivano a fargli rilassare i nervi tesi. Non voleva esagerare perché aveva bisogno di essere lucido, inoltre il sapore amaro della birra lo infastidiva un po'. Odiava i sapori troppo forti: preferiva i dolci e gli altri cibi spazzatura. Era nervoso all'inverosimile, e si agitava camminando avanti e indietro per la sala senza tregua. Era il suo primo concerto davanti ad una folla che non fosse più interessata al cibo che a loro, quindi era come se stesse per sverginarsi. Il posto che avevano a disposizione era stato immagazzinato in ogni minimo dettaglio nella sua mente dallo strazio dell'attesa: le cartacce per terra, i muri scrostati, le stanze grandi e rettangolari, il grosso tavolo vicino alla porta e il loro camerino, nell'altro salone, pieno di sedie, trucchi, vestiti, banchi e specchi circondati da file di lampadine nude, che si fulminavano dopo pochi minuti di accensione. Era tutto nuovo e snervante, per lui. Si chiese se avrebbe fatto successo, se si sarebbe mai abituato a quella sensazione, a quel trambusto. Avrebbe cantato all'aperto, il palco situato poco distante da lì. C'era una stanza che i tecnici chiamavano "Purgatorio", perchè era piccola con un solo tavolino portatile con sopra l'indispensabile per rinnovare il trucco tra una pausa e l'altra e delle bottiglie d'acqua. Se si apriva la porta davanti, ci si ritrovava innanzi a degli scalini che portavano dritto al palco, il cui spazio che si estendeva ai suoi piedi (che normalmente era un parcheggio) sarebbe stato strapieno di adolescenti socialmente rigettati. Da qui arrivava il nome: era solo un luogo di passaggio. Posò la lattina sul tavolo. Aveva optato per un trucco leggero, solo un velo di matita nera sugli occhi, che gli aveva prestato Carol. Si era sentito un po' ridicolo, quando lei gli avrà insegnato ad usarla. -Hey, Marilyn! C'è una tipa che vuole parlare con te! - urlò un uomo basso e grassoccio, Ted presumibilmente. Lui si voltò verso la porta, ancora disabituato a ricevere visite annunciate. -La faccio entrare?- chiese l'uomo. Lui annuì. Voleva usare la sua voce solo per cantare, quella sera. Ma per la persona che gli apparve davanti, avrebbe volentieri fatto un'eccezione. /////////// Carol si era sentita umiliata quando un uomo l'aveva squadrata divertito all'ingresso appena gli aveva detto che voleva parlare con Brian. -E i pass dove sono, tesoro?- disse lascivo. Lei lo aveva fulminato chiedendo una visita urgente, fino a quando quest'ultimo non si era rassegnato. Quella era stata già di per se una giornata snervante. Si sentiva irritabile perchè Kelly le mancava terribilmente, inoltre quella sera, invece di usare il suo favoloso vestito per volteggiare con Brian su una pista da ballo, avrebbe dovuto pigiarsi in mezzo ad una folla urlante di sconosciuti e seguire il ritmo sfrenato delle canzoni. Come se non bastasse, Brian le aveva detto di indossare quei maledettissimi pantaloni in pelle, che si appiccicavano fastidiosamente alla carne e tiravano ad ogni movimento. Era come se attirassero il freddo: si era ritrovata subito congelata, appena messo piede fuori da casa. Le venne aperta una porta da un uomo scettico che la mangiò letteralmente con gli occhi, facendola sentire quasi una prostituta. Non era abituata a truccarsi così esageratamente. La scena che vi fu la seguente: Brian, vestito da rockettaro impazzito, si era pietrificato in mezzo alla stanza (che era lurida e in completo disordine), mentre Jeordie, oscenamente truccato, si era voltato incuriosito, girando per metà la testa verso di lei. Era vestito come una sottospecie di infermiera, solo che appariva quasi ridicolo con delle calze tanto attillate. Entrambi sorrisero all'istante al suo indirizzo, sembrando ancora di più delle maschere perverse. A Brian, tuttavia, la matita donava, e portava i pantaloni con estrema naturalezza. Si abbracciarono stretti, a mo' di saluto. -Allora? - chiese lei. Era un po' in apprensione, perché sapeva che erano tutti molto agitati e sovraccarichi di emozioni. -Tutto ok- disse Brian, mentre  Jeordie le strizzava l'occhio per confermare. Sorrise, mentre si scostava dal cantante. Nonostante tutto, stava bene. Non aveva avuto nausee o altro in tutta la giornata, e sentiva di aver recuperato un po' di forza. Era tranquilla, accompagnata dal suo familiare calore. Si sedette su una sedia, perché i due dovevano finire di sistemarsi. -Ma ti vuoi muovere? Sei lì da anni.- disse Brian a Jeordie. - Hey, amico, relaaax. Dal momento che il cantante non può rimorchiare, allora ci pensa il bassista-. Carol ridacchiò. Conciato così non avrebbe avuto molte possibilità. -Rettificazioni, bambolina?- le chiese, strizzandole nuovamente l'occhio. -Non potrei essere più d'accordo, soprattutto per quanto riguarda il cantante- disse, suscitando l'ilarità del musicista. Per tutta risposta, Brian grugnì. Furono interrotti dalla porta che si apriva, mentre sull'uscio sbucava quello che lei aveva incontrato all'ingresso. -Tra 20 minuti- annunciò. Sullo sfondo videro per un attimo il batterista che faceva il dito all'uomo. "Allora non sono l'unica", pensò ironicamente. Senza aggiungere altro, la porta venne richiusa fulmineamente. Il ragazzo scosse la testa, vuotando il contenuto della lattina in un solo sorso. Era così sexy, quando lo faceva....-Br...ehm, Marilyn? Potresti venire un secondo?- ora era il chitarrista ad affacciarsi nella stanza, tenendo celato il resto del corpo. Anche lui si contraddistingueva per il trucco esagerato e i capelli lunghissimi, come quelli spettinati di Jeordie. -Che altro c'è, adesso?- chiese il suo amato Cavaliere delle Tenebre, mentre lo seguiva. "Scusami", le mimò con le labbra, anche per dirle che sarebbe tornato subito. Lei gli sorrise comprensiva. Essendo il leader, aveva anche molti obblighi e responsabilità. -Ehm...Carol? Mi aiuteresti un secondo con 'sto coso?-. Lei si alzò, grata di aver qualcosa da fare. -Certo, vediamo- gli disse. Lo fece sedere su una sedia davanti a lei, poi gli si avvicinò per cominciare a mettere l'eye-lyner (ovvero il "coso" in questione). Lui le descriveva l'effetto che voleva ottenere, mentre lei cercava di essere il più fedele possibile alla richiesta. Non le dava fastidio la vicinanza tra loro due, perché non c'era affatto malizia. L'unica persona che ormai le suscitava qualcosa con la sua vicinanza era Brian, e basta. -Ecco- disse soddisfatta. Jeordie le aveva chiesto di mettergli anche un po' d'ombretto. Il ragazzo allampanato di alzò analizzandosi allo specchio, guardandosi il viso da più direzioni. Era impossibile, per lei, vedere la sua espressione. Si voltò con un sorriso enorme. Assomigliava molto ad un giullare diabolico che, nel tempo libero, faceva il travestito. Era evidente che fosse più che soddisfatto. Si profuse in ringraziamenti e guardandola con occhi brillanti, le disse: -È perfetto.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Era arrivato il momento. Nessuno l'aveva detto, niente era stato annunciato, al magazzino nessun tecnico aveva avvertito di nulla. A pensarci, c'era un vuoto assoluto, lei e Twiggy (così si faceva chiamare Jeordie) in silenzio, uno di fronte all'altra. Le aveva fatto vedere come si accordava un basso, e aveva anche suonato qualche canzoncina sporca per farla ridere, riuscendoci. Il musicista era proprio un bravo ragazzo: tranquillo e simpatico. Insomma, tutto era pronto: si sentivano le risate degli altri membri al di là della porta, nei camerini, mentre gli assistenti allestivano il palco. Doveva già essere arrivato qualche fan, perché si sentivano delle voci e risatine di un gruppo di persone all'esterno. Lei, le avevano detto, avrebbe assistito al concerto direttamente dal backstage, un posto privilegiato. Era stato Brian ad insistere, perché la ragazza si sarebbe accontentata anche di un posto qualunque. Si passò una mano sul ventre, in un gesto familiare. Il bassista la guardò incuriosito, ma lei scosse la testa con un sorriso. Aveva deciso con Brian di annunciare la bella notizia a concerto finito, per avere un secondo motivo per festeggiare o per avere una buona notizia a risollevare il morale. Inoltre, se l'avessero detto subito, i ragazzi si sarebbero distratti, invece quella sera dovevano dare tutto il meglio di sé, senza farsi deconcentrare da nulla. Ora, però, una strana eccitazione aveva invaso la stanza, in cui erano soli. Twiggy si sistemò sulla sedia, mettendosi più comodo e guardando apprensivamente, per l'ennesima volta, la custodia nera e rovinata dell'amato strumento. Brian aveva promesso che sarebbe tornato subito, invece mancava già da diversi minuti. Tra un po' sarebbero dovuti andare in scena, e lui non era affatto un tipo ritardatario. Cominciò involontariamente a preoccuparsi, fino a quando non sentì la mano dell'amico che sfiorava la sua. Il ragazzo sfoggiò un sorriso rassicurante, se non si contava la maschera di trucco che gli opprimeva il viso. -Tranquilla- disse calmo. E poi, raggiustandosi sulla seggiolina di plastica: -Te l'ho mai raccontata quella...- e prese a narrare una barzelletta. Come tutte le altre era vietata ai minori, però faceva morire dal ridere. Carol cercò di trattenersi, ma vuoi per la serietà con cui le diceva, il costume ridicolo e la storiella, proruppe in una forte risata, che le alleviò l'animo per un attimo spazzando via il dolore degli ultimi giorni. -Grazie, Jeordie- disse Carol. Il bassista intese a cosa si riferisse, limitandosi ad alzare le spalle. In quel momento la porta si aprì, ed entrambi si voltarono all'unisono. Era Brian, ma al tempo stesso non era lui. Entrò con una certa urgenza, mentre il resto dei movimenti era fin troppo rilassato. Le pupille erano dilatate, rendendo gli occhi quasi completamente neri. Sulla maglietta scura, Carol notò uno sbaffo bianco, ma venne subito catturata dalla sua espressione, leggermente spiritata. Era seguito dal chitarrista, che prese tranquillamente posto mangiucchiandosi le unghie corte. -Ti devo parlare un secondo- le disse, la voce più gutturale del solito. Lei annuì, senza capire il motivo di tanta stranezza. Le lasciò il tempo di alzarsi e raggiungerlo, poi chiuse la porta alle loro spalle e si appoggiò con la schiena contro il muro. Tirò su col naso, abbandonando la testa verso la porta. Carol lo guardava, sorpresa. C'era qualcosa di strano, una carica che sembrava venirgli all'esterno, come se si trovasse in una bolla di elettricità statica, e tutto il suo essere stesse per esplodere. Non l'aveva mai visto così. E quegli occhi..... Un brutto presentimento si fece strada in lei, ma cercò di soffocarlo il più velocemente possibile. -Non è stata una scelta facile- esordì. -Ci ho pensato, e non sono pronto. Ho scoperto di volermi dedicare alla musica-. Tacque, e chiuse gli occhi. Carol, dal canto suo era sconvolta.  Solo qualche sera prima era stato così dolce, verso di lei e del loro bambino! E ora, le diceva che la carriera ed i soldi erano più importanti di lei. Una rabbia cieca prese possesso del suo corpo, facendola quasi tremare da tale violenza. I suoi occhi si riempirono di lacrime sbigottite, che non permise sgorgassero. Tutt'a un tratto la disgustò immensamente: era bastata solo qualche settimana di gloria per farlo sentire onnipotente. Dopo tutto quello che lei aveva passato, dopo la fiducia riposta in lui, l'unico uomo che non la disgustasse o impaurisse, il suo più folle amore, le stava dicendo che...in poche parole, che doveva andarsene. Non era affatto intenzionata a cedere alla tristezza o al dolore, non in quell'istante, quindi lasciò sgorgare l'ira. Con voce a stento controllata, disse: -Ma io aspetto un figlio- la voce le si incrinò. -Da te-. Lo vide riaprire gli occhi e sperò che fosse stato solo un orribile, tremendo scherzo, ma quando le prese il viso tra le mani con infinita dolcezza, capì che il suo sogno di felicità era svanito per sempre, se non addirittura mai esistito. -Devo andare a cantare- le sussurrò. E Carol seppe che era definitivamente finita.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Tutto, intorno a lui, era molto confuso. Le luci sembravano abbaglianti il doppio, ogni figura si sdoppiava in continuazione, mutando in mille altre forme diverse. Dentro, l'adrenalina era tutta convogliata verso le corde vocali, che pizzicavano per la voglia di vibrare. Ogni testo, nel suo cervello, era chiaro e leggibile. Non aveva il timore di sbagliare anche solo una parola. Il suo chitarrista aveva ragione: le donne sono piacevoli, ma nei momenti veramente importanti distraggono. E poi... Bè, quella farina bianca faceva miracoli. Aveva avuto fin da subito un effetto portentoso. Anche quando le aveva parlato faccia a faccia, nonostante non credesse nemmeno a mezza parola di ciò che stava dicendo, tutto era sembrato sciolto, un discorso di senso compiuto. Forse, pensava in quello stato che non era lucidità, era quasi meglio così. Il suo cuore piangeva in mezzo a quel caos, perché voleva Carol, la desiderava ardentemente la suo fianco, con quel suo sorriso così splendido, però è anche vero che per fare musica bisogna soffrire. E la sua lontananza lo faceva stare male come un cane, vero come....qualsiasi cosa vera. Quella farina speciale gli impastava i pensieri. E gli bruciava il naso, terribilmente. Non aveva mai visto della farina che si prendesse per il naso, ma il musicista gli aveva detto che era l'ideale, quindi...perché non dargli ragione? Inoltre era stato singolare anche il modo di spargerla: righette sottili su uno specchietto da borsa, una cannuccia per aspirare fatta con un dollaro arrotolato. All'inizio non gli era sembrata per nulla una buona idea, ma poi la ragione era sparita di colpo, ed erano bastati solo pochi granelli. Come si chiamava quella cosa, poi? Chi se lo ricordava. Un nome strano, di questo era sicuro. Ma le certezze, in quel momento, erano stranamente sfocate. Sapeva solo che aveva un disperato bisogno di cantare, di sfogarsi e lasciare che la musica lo travolgesse come un mare tempestoso, che lo facesse naufragare su sponde lontane e sconosciute, dove poteva scarnificarsi fino a quando non fosse rimasto solo il suo vero io. Di quella roba- a che cos'è che assomigliava?- già sentiva la mancanza. Era uno stordimento lucido, fatto di suoni, sensazioni e visioni innaturali e fantastiche. Se solo il suo cervello non fosse stato avvolto dalla melassa... -Si va in scena!- urlò qualcuno, e vide tutti schizzare su dalle sedie. Era stato un rumore fastidiosissimo, però strinse i denti. Il desiderio di un po' di sano rock era troppo forte, per fermarsi davanti a tali scaramucce. Vide l'amico, e gli venne da ridere. Era conciato in modo assurdo. Ma il mondo, in quel momento, era assurdo. Nessun colore era al proprio posto. Se si guardava le mani, era sicuro che fossero attraversate da striature giallognole. Aprirono la porta di una stanzetta, mentre i tecnici stavano ancora blaterando riguardo a questo o a quello. Che. Noia. Salirono impazienti i piccoli gradini, e poi Bum! Dritti sul palco! Che esplosione di suoni, colori, facce! Era tutto un vortice sconosciuto e familiare allo stesso tempo. Con la sicurezza di un cantante vissuto, prese il microfono e disse poche parole che non sentì neppure di pronunciare. La folla andò in visibilio. Era una sensazione a dir poco mistica. Era sicuro di averli insultati, eppure erano impazziti lo stesso. Si portò nuovamente il microfono alle labbra, annunciando il titolo della prima canzone. Nuove urla, un'altra esplosione nella sua testa. Poi, mentre si preparava a cantare, finalmente, la parola che aveva tanto cercato si illuminò nella sua testa. Ecco cos'era la farina bianca. Si chiamava droga.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


In fondo, se lo sentiva. Sapeva che sarebbe stato solo un sogno effimero, bellissimo, ma solo una fantasia. Con assoluta freddezza, quella sera stessa ripose tutti i suoi miseri averi in una valigia. Constatò sarcastica che lo spazio era più che sufficiente per vestiti, stoviglie ed indispensabile. Pulì la casa da cima a fondo in piena notte, senza curarsi del rumore o di disturbare i vicini. Una cappa di freddezza aveva avvolto il cuore di Carol. Mentre strofinava in modo quasi ossessivo tutte le spoglie superfici, pensava e ripensava a Brian. Lo amava ancora, concluse. Ma non permise che ciò disturbasse la sua opinione su quello che le aveva detto. Era stato chiaro: togliti dai piedi. E lei non si sarebbe umiliata accettando magari dei soldi per il mantenimento del piccolo. Al contrario. A suo figlio serviva un padre, non un centinaio di dollari una volta ogni tanto. Aspettò che sorgesse l'alba controllando, per l'ennesima volta, che fosse tutto in ordine, e che nessun oggetto personale fosse rimasto nell'appartamento.  Poi, si truccò e vestì sobriamente, prese una gruccia e coprì la sua divisa da cameriera con un telo di plastica, mentre usciva con passo determinato da casa. Da quel giorno, sarebbe diventata più grande, sia nell'aspetto che nell'animo. Brian era più vecchio di lei di 11 mesi, lei compiva diciotto anni a metà Dicembre, lui ad inizio Gennaio. Il ragazzo era già maggiorenne. Lei lo sarebbe diventata quel giorno. Nonostante avesse percorso migliaia di volte quella strada, si godette ogni singolo sassolino, tombino, giardino curato, parco, panchina, crepa sul marciapiede, auto parcheggiata, vialetto, casa imbiancata di fresco, cane nella cuccia e parcheggio che incontrava praticamente ogni pomeriggio, imprimendosi tutto nella memoria. Sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe camminato su quel tragitto. Non avendo la patente né un titolo di studi, le sarebbe stato difficile ricominciare daccapo, però ce l'avrebbe fatta, come sempre.  Suo padre l'aveva lasciata in una situazione in cui doveva essere perennemente guardinga, per evitare che qualcuno si insospettisse e andasse a trovarlo a casa. Avrebbe rischiato il trasferimento in una casa famiglia, o peggio: magari altri approfittatori. Quindi, ora che era sola nel senso più letterale del termine però maggiorenne, le cose non sarebbero andate tanto diversamente. Mentre camminava, ripensava a Kelly con infinita nostalgia. Le mancava il suo sorriso, la sua risata, la sua leggerezza da bambina. Anche Chad, sotto sotto, le mancava un po': con la sua stazza da quarterback e quella sorta di timidezza impacciata che strideva completamente con l'aspetto era impossibile non prenderlo in simpatia. Chissà se erano felici. Chissà se si erano sposati, oppure se il trauma li aveva divisi. Un dolore sordo si accese a questa prospettiva. No, si amavano troppo perché ciò succedesse.  Si fermò davanti all'amato locale, laddove aveva passato parte della sua vita. Quante cose erano successe lì dentro...troppe! Sorrise, scuotendo la testa, assaporando ogni dettaglio e congelandolo malinconicamente nella sua memoria. Entrò poi a passo deciso nel locale, aggredita dal riscaldamento. Sentì il campanellino suonare, ad avvisare il personale dell'arrivo di un nuovo cliente. Attirò subito l'attenzione di Doris, che stava lavando il pavimento. La donna alzò lo sguardo, e si fissarono per un lungo istante. Non era ancora orario d'apertura, lo si vedeva dalle luci solo parzialmente accese e Bud, che fischiettava raschiando le piastre. Doris non disse nulla. Le sorrise, comprendendo all'istante e, prima che Carol andasse dal titolare, la invitò a prendere una tazza di caffè appena fatto, il primo della giornata. Non si dissero nulla. Solo la donna fu irremovibile nel farle accettare una busta sigillata, che la ragazza voleva a tutti i costi respingere. -No- aveva obiettato Doris, scuotendo la testa. -A me non servono.-. Fine della discussione. La ringraziò, la baciò sulla guancia e poi andò in ufficio. Dieci minuti dopo, abbracciò tutti, tra lacrime e sorrisi tristi. -Auguri ragazzi, che Dio vi benedica- aveva detto loro, mentre guardava le guance del cuoco attraversate dalla tristezza. Da donna disoccupata, uscì dal locale. Un tale dolore nel petto quasi non le permetteva di andare avanti. Tanta era la frustrazione e la pena che...se non avesse avuto il calore di suo figlio nel ventre, probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di andare avanti. Era strano come tutte le persone che avevano popolato la sua vita stavano sparendo tutte. Prima Kelly, la sua amata amica Kelly, poi Brian, il suo più grande e tenero amore, Doris, quella che era stata come una madre per lei e tutto il personale di Sak's, che aveva amato e apprezzato, che l'avevano distratta dai suoi problemi colmandola di affetto. Era grata a tutti loro, anche se non avrebbe mai più avuto loro notizie. Si asciugò la cortina di lacrime che le offuscava la vista, trovandosi davanti a casa sua, di nuovo. Prese la valigia, affidò le chiavi alla sua vicina di casa e se ne andò dritta alla stazione, con l'intento di cambiare radicalmente vita.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Quando l'effetto delle droghe sparì, Brian partì alla ricerca febbrile della donna della sua vita. Si fiondó fuori dallo studio ancora barcollante e con gli strascichi di una sbornia, però determinato a risolvere la questione. Non c'era nessunissima giustificazione per ciò che aveva fatto; era stato imperdonabile, anche se sotto effetto di allucinogeni. Era la sua amata Regina, come aveva potuto tradirla così? E poi...suo figlio. Dio, il suo bambino! Come aveva potuto? La musica ci sarebbe stata sempre, e anche se non avesse sfondato, chi se ne frega! Gli bastava solo Carol. Lei era tutto, per lui.  Si era permesso di scacciarla, voleva picchiarsi per questo. Ma come poteva essere stato così stupido da farsi incastrare da un po' di cocaina datagli da quel deficiente di un chitarrista? Quella mattina stessa fra i due era scoppiata una violentissima lite, sfociata poi in una rissa. Come struttura fisica, Brian era preso peggio, ma la rabbia e la disperazione furono determinanti. Il musicista fu cacciato dalla band, e il posto era ancora vacante. Ma a lui non importava nulla, solo di ritrovarla. Era quella la cosa importante, al momento. Andò subito a casa sua, bussò violentemente chiamandola a gran voce, supplicando di aprirgli, perché senza di lei Brian era un uomo finito, consumato, vuoto. Doveva aver fatto parecchio baccano, perché dopo un po' era uscita la vicina di casa, una ragazza giovane ma scialba, e gli aveva detto che era tutto fiato sprecato, che la ragazza se n'era andata e blaterò anche al riguardo di un certo atto di proprietà, o qualcosa del genere. Preso da un torrente di ansia, corse a perdifiato fino al suo posto di lavoro, entrò trafelato e chiese all'attempata cameriera se avesse visto la ragazza. -Non lavora più qui- fu la secca risposta. Il mondo gli crollò addosso in quel preciso istante. Ogni singolo pezzo di felicità cadde dal suo cuore, e franò a terra. E sapere di essere stato lui la causa di tutto gli fece ancora più male. "Pensa", si disse disperato, "pensa, maledizione!". E poi ebbe l'illuminazione. La scuola. Ringraziò velocemente la signora, poi schizzò per strada fino quasi a perdersi nelle vie familiari della città. La scuola, non illuminata e ancora reduce dei bagordi del ballo e delle partite di football, sembrava uno studente che si sta riprendendo da un'ubriacatura epocale. Sapeva per certo che la segreteria era aperta, perché ci si doveva riconfermare ogni quadrimestre. Scavalcò il cancello nonostante fosse aperto e, salendo due gradini alla volta la scala antincendio, arrivò davanti alla segretaria, famosa per i suoi candidi capelli. Chiese della studentessa Caroline Hayes, mentre un'ansiosa urgenza gli faceva saltare letteralmente il cuore in gola. La risposta lo annientò definitivamente. Il macigno che cominciò ad avvertire nel petto- senso di colpa, dolore, tristezza e rabbia- gli mozzò il respiro, appena le labbra rinsecchite scandirono le parole che mutarono per sempre la sua vita: -Stamattina é venuta una vecchia zia della ragazza, una certa signora Doris e ha detto che si è dovuta trasferire urgentemente-. -Ha detto dove?- chiese, un barlume di speranza simile ad una candela in mezzo ad una bufera di neve. La donna scosse la testa. Bang. Se gli avessero sparato, sarebbe stato quasi meglio di quel diniego. All'improvviso, la fretta che lo aveva animato fino ad allora scomparve, evaporò. Si sentiva triste e stupido, abbattuto nel profondo. Se solo l'avessi portata al ballo, pensava amaramente. Se solo le avessi detto quanto la amavo. Non poté impedire a delle lacrime gelide e perfide di solcargli le guance. Bruciavano come il fuoco degli inferi, da quanto fredde erano. Era stato lui a rovinare tutto. Era lui la causa di questa rottura, del fatto che se ne fosse andata, del fatto che la sua vita non sarebbe mai più stata felice. Ma non solo la sua: quella di Carol, segnata indelebilmente dall'essere lasciata senza un motivo, marchiata a vita dalla sua nuova esistenza di ragazza madre; e anche il loro bambino, quella creaturina minuscola, desiderosa di amore e di affetto, di attenzioni e di crescere con entrambi i genitori. Aveva tradito suo figlio quasi prima ancora che fosse un vero e proprio essere umano, quando ancora era un minuscolo embrione. L'aveva condannato a chiedersi per tutta la vita:" chi è mio padre"? Non avrebbe mai assistito ai suoi primi passi, non avrebbe mai sentito il nome papà sulla sua boccuccia innocente, mai lo avrebbe visto giocare, ridere, diventare grande. Sentiva che era un maschio. In fondo al cuore lo sapeva. Ma che importanza ha, ormai, che sia maschio o femmina? Non vedrò mai il suo volto. Questa consapevolezza gli spaccò il cuore a metà. Non vedrò mai mio figlio. Era arrivato allo studio. Alzò ciondolando la testa, diventata di piombo. Ora nulla aveva più importanza. Incontrò Jeordie, che stava passando per il corridoio. -Ho deciso- disse, riferendosi all'offerta fattagli poco prima. Il bassista lo guardò confuso, ma Brian non gli diede il tempo di parlare. -Andiamo in tour.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Ben presto, il calore familiare e tenero al ventre si era trasformato in un incendio rovente. In pochi attimi si era ritrovata piegata a metà aggrappata al lavello della sua nuova e minuscola cucina, con Nina china sopra di lei. -Tesoro, stai bene? Che cos'hai? Rispondimi ti prego!- singhiozzava la vicina, nonché sua unica amica. -Sto per partorire!- urlò Carol, mentre un'altra fitta le mozzava il respiro. La ragazza cacciò un urlo spaventato, non sapendo come gestire la situazione. Alla fine, tra denti digrignati, mugugni, strilli e lamenti, era riuscita a portarla giù dalle scale reggendola per le ascelle, caricarla in macchina e guidare verso l'ospedale. Carol le doveva molto: si era dimostrata subito cordiale e le aveva trovato lavoro come assistente di un'estetista,nonostante potesse vivere agiatamente anche solo con la busta di Doris, la quale conteneva quasi dieci anni di mance. Semi distesa sui sedili posteriori, la mascella serrata dal dolore dell'imminente parto, la ragazza guardava la città scorrerle sotto gli occhi. Ormai le era diventata familiare, in otto mesi e mezzo di residenza. L'aveva raggiunta dopo quattro notti e cinque giorni di viaggio, per essere sicura di non conoscere assolutamente nessuno. La sua ex compagna di lavoro si era finta sua zia, agevolandole molto la partenza occupandosi degli aspetti burocratici. La pensava spesso, ringraziandola silenziosamente per il suo gesto gentile. Accarezzò la pancia gonfia nel tentativo di placare quella furia, ma non c'era verso. Calmati figlio mio, calmati, cominciò a cantilenare fra sé, e questo un po' la distrasse. Arrivarono dopo pochi momenti all'ospedale. Con la schiena dolorante per i sobbalzi, la partoriente venne affidata alle cure di alcuni infermieri, mentre Nina la seguiva in lacrime. -Fammi un bel nipotino!- urlò quando la vide sparire dietro ad una porta. Carol le sorrise nonostante il dolore. La ragazza faceva la spogliarellista in un night club vicino al palazzo dove viveva. Una ragazza incinta che non si era permessa di giudicarla si era quindi rivelata un buon alleato, e avevano fatto subito amicizia. Il fatto che fossero entrambe sole al mondo aveva aiutato, però. Quindi, giustamente, Nina si riteneva zia a tutti gli effetti, e non mancava mai di viziare il piccolo che doveva ancora nascere con le mille attenzioni riservate alla madre. Era stata lei ad accompagnarla a tutte le visite in ospedale, e aveva partecipato alla sua gioia quando avevano scoperto che si trattava di un maschietto sanissimo, e una vena di preoccupazione la percorreva assieme alla futura madre ogni volta che il ginecologo assumeva strane espressioni guardando lo schermo per le ecografie. Insomma, era stata come un padre, per il piccolo. E di questo le era immensamente grata. Un'altra fitta, molto più forte delle precedenti, la fece gemere e piegare in due dal dolore. -Signorina- le disse gentilmente un'infermiera.- Siamo prossimi al parto. Ora ascolti le istruzioni del dottore e andrà tutto bene.- . A Carol sembrò quasi una minaccia, ma annuì e basta. Non era in vena di fare storie. -Vuole che facciamo entrare il padre?- chiese poi la donna, sistemando delle flebo. Il padre. Il suo cuore si gonfiò e minacciò di spezzarsi, mentre il dolore divenne improvvisamente acuto e lacerante. Scosse la testa. La donna annuì e scomparve, lasciando Carol con una gran voglia di piangere, o strangolare qualcuno. Pensa che tra poco vedrai il tuo bambino, si disse, il tuo, non il suo. Così la rabbia lasciò il posto all'emozione, perché dopo quasi nove mesi di attesa, nausee e sbalzi d'umore, avrebbe potuto vedere il faccino del figlio. Un'altra fitta. Stavolta fu talmente forte che dovette urlare. Un nugolo di infermiere stava sistemando flebo, bisturi e altri oggetti dall'aspetto poco rassicurante senza quasi curarsi di lei, ma tutte si riscossero subito appena entrò il dottore. Carol si allarmò subito appena lo vide: doveva avere pochi anni più di lei, un decina al massimo. Era alto, dal fisico asciutto e dai folti capelli bianchi, ma il viso era giovane e grazioso, privo di rughe e anche tranquillo, rilassato. Per un attimo, la ragazza si vergognò dei suoi capelli sudaticci e scomposti, del viso paonazzo e delle labbra morse a sangue, ma poi la ragione le suggerì che se il medico sembrava tanto fresco era perché non stava per scodellare un bambino di quasi quattro chili. -Buongiorno,signorina. Mi chiamo Richard Bentley, e la assisterò durante il parto.- disse. Ricevette un mugugno come risposta. -Bene, le chiedo solo di rilassarsi e seguire le mie istruzioni- aprì un plico e scarabocchiò qualcosa nella scrittura incomprensibile dei dottori, quindi si concentrò sulle infermiere e diede loro ordini freddi e marziali. A lei, però, riservava un tono più dolce, mite, e questo le fu di immenso sollievo. Chissà perché, il dottore cominciava a piacerle.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


Per un po' ci furono solo le droghe. E la musica. Quando il gruppo si trovava con l'intenzione di scrivere un pezzo, il tutto si trasformava in un vero coca-party. C'era chi portava le ragazze, chi l'alcol, chi la roba...e poi si svegliavano tutti fatti e in preda ai postumi, completamente disorientati e frastornati. Di solito si mettevano a litigare e a incolparsi l'un l'altro per la mancata riuscita delle prove, o del fatto che la maggior parte del budget andava spesa in bagordi. Ma succedeva sempre la stessa cosa. Da un lato, nonostante il mal di testa, i giramenti, l'autolesionismo e la dipendenza, Brian era lieto di questa situazione perché gli impediva di pensare a Carol. Era frustrato perché erano passati quasi  nove mesi da quando se ne era andata, e in quel periodo era diventato un vero e proprio relitto umano. Si rasava solo per andare sul palco a cantare, e si sfogava in quel modo, mentre combatteva con il rasoio durante i backstage per non tagliarsi le vene e farla finita una volta per tutte. Ma nonostante questo, i fan crescevano a dismisura, venivano odiati e più questo succedeva, più diventavano popolari. Tutti ignoravano che il leader dei Marilyn Manson aveva abbandonato la donna della sua vita e il suo bambino, persino Jeordie. Povero Jeordie. Questa storia della droga l'aveva distrutto. Erano mesi che combatteva contro la dipendenza e ora la coca gli veniva sventolata sotto il naso implorando una sniffatina prima di scatenarsi sul palco. Il cantante non era sicuro che avesse ricominciato. Di solito durante i festini si rinchiudeva in bagno a mugolare o strimpellare col basso. Che schifo che faccio, si diceva ogni volta. Aveva abbandonato Carol, suo figlio e ora anche il suo migliore amico. E non poteva permetterselo. Perché i suoi problemi potevano essere risolti almeno in parte. Era stato così stupido da abbandonare il motivo della sua vita, e lasciarsi scivolare alla deriva lentamente e inesorabilmente. Così decise, in un attimo di lucidità che non rasentava la depressione, di dare un taglio alla droga, alle donne e all'alcol, mentre stabilì che si sarebbero concentrati solo ed esclusivamente sul gruppo, e nient'altro. -Siamo all'inizio, ragazzi.- aveva esordito.- Quindi basta fare i cazzoni. Solo le star consumate possono permettersi tutta 'sta roba, e noi vogliamo diventarlo, giusto? E allora muovete il culo. Datevi da fare. Volevate la musica, no? E adesso potete averla. Ma non se continuate a fare così.-.    Era stato diretto e coinciso perché sapeva che non avrebbe potuto continuare così. Il suo fisico si stava deteriorando. Un giorno era svenuto perché, dopo lo smaltimento dell'ennesima sbornia, si era reso conto di non mangiare da due giorni. I ragazzi avevano accettato tutti, chi prima chi poi. Avevano capito che anche loro rischiavano grosso con questo ritmo, e avevano iniziato seriamente a darsi da fare. Avevano compiuto una scelta, e ora vi si stavano gettando completamente. La loro vita privata era sballata, per chi ce l'aveva: spesso dormivano di giorno e stavano svegli la notte, oppure suonavano e basta per anche quindici ore di seguito, fino a quando non crollavano esausti sul divano sudicio dell'appartamento che condividevano, o sul pavimento di legno scrostato, che accoglieva anche lattine vuote e cartoni di pizza sporchi. Quando si sentivano pieni di ispirazione, buttavano giù delle idee, poi cercavano di adattarle alle note che snocciolavano i loro strumenti. Fu un periodo mistico: il mondo non esisteva, c'era solo musica. Parole, d'amore o d'odio, critiche verso il Paese, la società e ciò che lo aveva perseguitati per tutta la vita.  Si esprimevano con enigmi spesso osceni, per sensibilizzare le persone al loro grido, alla loro frustrazione, per fare aprire gli occhi a tutti coloro che cadevano nella banalità o, come il gruppo, si sentiva insoddisfatto ed incatenato. E ne venne fuori un disco. ////////// Jeordie lo guardava sconvolto dall'altro capo del tavolo. Brian, invece, faceva di tutto per non fissare il suo viso. Erano un paio di giorno di tregua da concerti, presentazioni, scandali pubblici e feste, che i musicisti avevano deciso di usare per riprendersi. E quando il bassista lo aveva invitato a casa sua per prendere un caffè e gli aveva chiesto di Carol, Brian non aveva potuto impedire a sé stesso di dirgli tutto, in un fiume di parole. Il ragazzo, ora, non sapeva che dire. Quel che aveva fatto l'amico era più che grave. Aveva abbandonato un bambino. E non uno qualunque, ma il suo. -Ma...- disse dopo un po', però non riuscì a continuare, troppo turbato per mettere in file delle parole sensate. Il cantante provava un immenso sollievo, ma anche una grande pena. Quello era un segreto troppo grosso da mantenere e la colpa troppo schiacciante per non fargli fare un infarto o lasciarlo dormire. Però ora poteva perdere anche il suo migliore amico, l'unica persona che gli fosse rimasta. Sapeva quanto trovasse Carol fantastica, e aveva ragione. Una parte del suo cuore era vuota, marcia, e neppure la droga era riuscita a colmarla. Alla fine l'amico parlò:- Perché l'hai fatto?- mormorò. Brian scosse la testa, e poi la lasciò cadere violentemente sulla dura superficie di legno. Il tonfo fu assordante, e il dolore dell'urto cominciò subito a farsi sentire. Sentì il sangue bagnargli la fronte, e la freddezza del tavolo contro la guancia. Jeordie non accorse. Semplicemente stava lì, attonito, ancora incredulo di quanto appena sentito. -Io l'amo. La amo con tutto me stesso. Sarei pronto ad uccidermi, se questo la rendesse felice.- rialzò la testa. -Sto pagando il mio sbaglio con....una serie di schifo infinita. Io mi pentirò ogni singolo giorno di averlo fatto e se comincerà a ricattarmi....- disse, ma l'amico lo interruppe. -Sai benissimo che lei non lo farebbe mai. Carol é una persona stupenda, non ne troverai un'altra così. Lei era tutto per te, e l'hai buttata via come una cartaccia. Ma non era la sola. Aveva il tuo bambino in grembo, Brian. E tu l'hai condannata-. Non lo disse con freddezza, ma solo constatando dei fatti. Il sangue bagnò l'occhio di Brian per un istante, scivolando lungo il sopracciglio. Seppe riconoscere lo stesso però le lacrime, salate e amare, che cominciarono a colare lungo le sue guance. -Sono un mostro- singhiozzò.-Sono un mostro. Li amavo, Jeordie. Li amavo...ma sono stato troppo stupido, troppo egoista per...tenermeli stretti-. Il peso che aveva sul petto quasi gli impediva di respirare, era dome un mattone incastrato fra i polmoni: un pezzo di lamiera conficcatogli in gola, che faceva solo passare le lacrime e accrescere il groppo al suo stomaco. Ogni dettaglio della sua vita gli sembrò insignificante se paragonato alla sua Regina. Fammi tuo schiavo, implorò, ma perdonami, ti prego. Ma sapeva di non meritarsi più il suo amore. Il LORO amore. Lasciò che l'amico lo abbracciasse. -Ti sei pentito. Non vivi più, ed è una punizione giusta, se non troppo lieve. Ma la troveremo. La troveremo. E tu le chiederai perdono.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


Ogni dolore scomparve quando quel fagottino urlante le fu posato tra le braccia. Che cosa meravigliosa e stupenda può essere la vita! Carol, seppe, in quel preciso istante, di essere nata per vivere quel momento. Ogni singolo millesimo della sua vita era riassumibile in quei secondi preziosi, che avevano la consistenza della sabbia tra le sue dita e la dolcezza dl cioccolato sulla sua pelle. Inizialmente, il figlioletto da poco messo al mondo aveva iniziato ad urlare e ad agitarsi nei confronti del resto dell'universo. Si era calmato subito, invece, quando un'infermiera l'aveva posato delicatamente tra le braccia della madre, esausta ma sollevata che fosse tutto finito. Dopo quattro ore, infatti, si sentiva esausta, però era felice che tutto fosse andato per il meglio, e mai prima di allora apprezzò così tanto la salute e la mancanza di sofferenza. Il medico e tutto lo staff si era fatto da parte, per rispettare quella gioia così silenziosa ed intensa. Con dita tremanti e curiose, Carol scostò di un po' la stoffa spugnosa e azzurra con cui avevano avvolto il figlio, e vide il suo visetto rosso e rugoso. Gli occhi piccoli e scuri la fissavano curiosi; aveva letto da qualche parte che i bambini non vedono fin da subito, ma solo dopo un po' di tempo dalla nascita. Ma a lei sembrava che il piccolo la stesse memorizzando in ogni millimetro. Lì per lì non vide somiglianze: gli sembrava quasi una patata paonazza. Il neonato si guardò poi intorno, con la sua testina piccola e dotata di un bel ciuffo di capelli neri, per riappuntare ad esplorazione finita lo sguardo sulla madre. Era così...bello. Così piccino e in cerca di protezione. Non seppe esprimere a parole l'emozione che provò in quel momento quando, con un movimento incerto, dalla stoffa spuntò una manina, perfettamente formata in miniatura. Subito la neo-mamma avvicinò l'indice a quello del figlioletto, che lo prese senza esitazioni e vi si aggrappò. In uno slancio naturale, la ragazza lo baciò teneramente laddove le ditina stringevano convinte. -Congratulazioni signorina- disse piano il dottore, sorridendo. Le assistenti erano già passate ad altro. Carol sentì le lacrime solcarle le guance prima che riuscisse a fermarle. -È così...bello- disse. Il dottore la guardò sorridendo. -Se solo lui potesse vederlo...- si lasciò sfuggire, ma non terminò la frase, mordendosi invece la lingua. Tornò a riconcentrarsi sul figlio, senza permettere alla tristezza di farsi strada in lei. Era stata una sua decisione scaricarli, e ora quell'ingrato ne avrebbe pagato le conseguenze. Una creaturina così innocente...come si faceva a non amarla? Il medico era rimasto a guardare intenerito. -Lei é giovane- disse Carol, più che altro per fargli dimenticare l'uscita di prima. Lo vide annuire mentre si riscuoteva. Poi sorrise di nuovo, ma stavolta era indirizzato a lei. -Già, è vero. Lavoro qui da due anni, ormai.- spiegò. -La mia immagine di medico è sempre stata di un uomo di mezza età coi capelli bianchi e un camice immacolato. Lei lo rispetta solo in parte- osservò la ragazza. L'uomo rise: - Mi dispiace averla delusa- commentò divertito. -Nient'affatto- replicò la ragazza, lasciandosi andare ad un sorriso, mentre sistemava il piccolo placidamente appoggiato sull'incavo del gomito, sulla buona strada per addormentarsi. -È normale che dorma di già?- chiese. Lo vide diventare professionale di nuovo, ma non in modo meccanico. -Per quanto possa sembrarle strano, anche per loro è una fatica venire al mondo- disse. La ragazza ridacchiò quando lo vide stiracchiarsi beatamente, come se non ci fosse nessun problema al mondo. -Hey....canaglietta...é stancante far penare la mamma, eh?- sussurrò dolcemente. In quel mentre entrò Nina. Aveva il trucco sbavato a rigarle le guance e teneva fra le dita una margherita con lo stelo lungo. -Oh Carol!- disse piano, come per timore di spaventare qualcuno.-Sarà la quinta stanza che passo, ormai!- si zittì. Vide l'involto azzurro e si fermò, rapita. -È...?- balbettò.  La ragazza annuì. Il dottore le fece un cenno e scomparve, lasciandole sole. L'amica si avvicinò, sporgendosi per vedere meglio il "nipotino". -È meraviglioso- sussurrò. E lo era davvero.

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


Non sapeva cosa fosse successo alla sua felicità. Sapeva invece benissimo la causa del naufragio del suo matrimonio: l'alcol, la droga, gli spettri del suo passato, i tradimenti ripetuti e smascherati...colpa mia, colpa mia, colpa mia, si diceva. E non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto lasciarsi sfuggire una donna come Dita, che era non solo splendida, ma anche di animo buono. Sapevano entrambi che il loro fidanzamento si stava spegnendo come fuoco sotto la pioggia, ma lui aveva voluto negare fino alla fine,  perché con lei stava veramente bene, e riusciva anche a darsi l'illusione di essere felice. Così l'aveva sposata, nella pallida illusione di riuscire a salvare la loro relazione e dimenticare il suo passato. Indubbiamente l'aveva amata. Ma non abbastanza. Non nel modo tenero e passionale con al quale aveva amato Carol, ormai quasi dieci anni prima... Era solo di nuovo, un faccia a faccia macabro e brutale con i suoi peccati. A fargli compagnia solo i suoi vecchi compagni stupefacenti, che, in fondo, erano gli unici ad essergli sempre stati fedeli. Un forte bussare insistente alla porta accompagnato da uno scampanellio decisamente irritante lo svegliò da quello che era uno svenimento protrattosi per tutta la notte, dopo un'ubriacatura bestiale di vodka, birra e qualche pasticca. Aprì gli occhi, che sembravano incollati alle palpebre, mentre il mondo si presentava sotto forma di un mix psichedelico di colori e forme indistinte e turbinanti, come se si trovasse dentro ad una lavatrice gigante nel bel mezzo di una centrifuga. Si  alzò in  piedi a fatica, reggendosi al primo mobile che trovò, ed impiastricciandosi le dita di qualcosa di denso ed appiccicoso, probabilmente vomito. Ecco le sue occupazioni degli ultimi mesi: vomitare, bere, vomitare di nuovo, svenire. Ah, e assumere pasticche per il mal di testa, tra un'azione e l'altra. -Arrivo- mugugnò infastidito, poiché il suono gli stava trapanando il cervello. Camminare con le ginocchia molli era un impresa assai ardua, soprattutto se il pavimento era ingombro di cartoni di pizza semipieni, buste unte del McDonalds e lattine vuote. La casa puzzava di chiuso (dal momento che le tapparelle erano serrate da quando la moglie se ne era andata e l'unica lampadina che non si era ancora fulminata brillava debolmente in soggiorno) e cibo non esattamente salutare sparso un po' dappertutto, ricoperto da uno strato di polvere e alcolici. Fortunatamente era accasciato vicino al soggiorno, così la strada da fare non fu poi così lunga, soprattutto con le scarpe dalla suola altissima che indossava da settimane, non esattamente ideali per barcollare nelle sue condizioni. Si aggrappò alla maniglia e tirò verso di sé con il rischio di cadere all'indietro. La luce accecante che lo sorprese lo accecò per un momento, non permettendogli di mettere a fuoco il suo ospite. Tenne gli occhi chiusi, però. Sapeva già che se avesse guardato avrebbe trovato un teschio con un lungo mantello nero che reggeva una falce e una lista col suo nome scritto in cima. -Amico, lasciatelo dire, sembri proprio una merda- esordì Jeordie, entrando e chiudendo la porta dietro di sé. -Accomodati- ringhiò Brian, trovando a tentoni il divano e buttandovisi sopra, parandosi gli occhi con l'avambraccio. Sapeva benissimo che aspetto doveva avere: trucco sbavato e incrostato sparso ovunque, capelli impastati con cibo e succhi gastrici, occhi rossi, gonfi e cerchiati e occhiaie da far paura. Lo sentì posare qualcosa sul tavolo in cucina, e cominciare lentamente ad aprire spiragli su tutte le finestre, fino a quando non si poté distinguere le sagome degli oggetti disseminati per la casa. -Sai già cosa ti aspetta, vero?- disse il bassista con noncuranza, dopo aver finito di commentare il porcile disastroso e puzzolente e lo stato pietoso in cui si trovava la casa un tempo splendida. -Doccia fredda e caffè forte?- azzardò Brian. -Oh yes, baby- cantilenò l'amico. Con un grugnito/gemito il rocker si alzò e si trascinò in bagno. Chiuse la porta dietro di sé e, stando attento a non essere notato, vomitò.////////// Sfregò quasi a sangue la pelle e il cuoio capelluto fino a quando non si vide tutto arrossato. Poi, lentamente, spense il getto di acqua ghiacciata, si insaponò nuovamente, e si abbandonò al dolce torpore di una bella doccia calda. Si riasciugò godendo del contatto di un asciugamano pulito, passando la superficie spugnosa su tutto il corpo con estrema cura e attenzione. Davanti allo specchio, passò una vigorosa strofinata di latte detergente ad eliminare le ultime ed invisibili tracce, poi si rase con attenzione ed infine si lavò più e più volte i denti, consumando quasi lo spazzolino. Si sentiva fresco e lucido, mentre indossava una maglietta scolorita e dei pantaloni del pigiama, un look da uomo normale che si sveglia alla mattina, e poi esce dal bagno e corre incontro ai suoi adorabili figlioletti e bacia con passione la moglie devota. Carol, pensò con amarezza, dal momento che i sentimenti per lei non erano affatto cambiati. Uscì ciabattando dalla stanza, e il suo naso di nuovo sensibile venne schiaffeggiato dal puzzo indicibile che albergava nelle altre stanza. Respira con la bocca, si impose, mentre schifato camminava come su un campo minato. Jeordie lo aspettava in cucina. "Quindi lui dovrebbe rappresentare la mia adorabile mogliettina", pensò sorridendo, osservandolo intento a mescolare il caffè in una tazza della "Columbia University". -Siediti- gli disse come benvenuto, e Brian obbedì. Era in arrivo una ramanzina. Dal momento che i suoi bagordi avevano a malapena sfiorato quella stanza (se ne era tenuto alla larga dopo aver provato a sniffare farina in un momento di profonda ubriachezza) era quella tutto sommato presa meglio, quindi il bassista corse a chiudere la porta che la metteva in comunicazione con il resto della casa, sparando in aria quasi un'intera bomboletta di deodorante per ambienti. Si sedette davanti a lui, porgendogli la tazza. -Bevi- ordinò perentoriamente. Il cantante eseguì all'istante. Si scottò leggermente il palato, ma questo contribuì a mantenerlo lucido, scacciando anche il ronzio alla testa. Solo allora notò i fascicoli che l'amico aveva portato. -Ti ricordi di Carol?- chiese a bruciapelo. Per la sorpresa, l'amico sputacchiò il caffè tossendo e boccheggiando. -Cosa?!- chiese poi, in un'esclamazione strozzata. Il bassista ripeté la domanda, imperturbabile e leggermente infastidito. -Come potei dimenticarla?- rispose truce. Quella giornata, sebbene rischiarata da un attimo di benessere, si era rivelata nuovamente disastrosa. Lei era sempre stata un argomento tabù. Jeordie sapeva benissimo cosa il cantante provava, qual era il motivo che aveva fatto naufragare tutte le sue relazioni, prima d'allora, e anche conosceva il perché del suo nervosismo prima di ogni live, il suo essere intrattabile nei backstage. Quindi, come mai così di punto in bianco riaprire una ferita in modo violento? Alla fine era vero, non l'aveva cercata con convinzione, perché non aveva più nessun diritto su di lei, niente di niente, anzi. E aveva anche paura, questo sì, paura di ciò che avrebbe potuto scoprire, o vedere. Suo figlio, ad esempio. Chissà che dolore rivedere il padre adesso, a quanti? 10 anni? Sarebbe stato un trauma fortissimo. Ma per quanto cercasse non riusciva a smettere di pensarci, proprio non ci riusciva....-Vorresti rivedere le uniche persone veramente importanti della tua vita?- chiese poi, freddo come prima. Brian era smarrito. Ma dove voleva arrivare? Scattò in piedi rovesciando la sedia, incollerito. -Sì- sbottò, quando vide che il bassista non aveva fatto una piega. -Bene, allora. Qui dentro c'é tutto ciò che dovresti sapere su di loro- indicò i plichi abbandonati sul tavolo. -Dove vivono, che abitudini hanno, tutto quanto. In teoria dovresti saperlo, ma...- alzò le spalle. Il cantante era completamente basito, invece. Non riusciva a muovere un muscolo. -Io adesso me ne vado- disse l'amico, sciogliendo un po' il tono.- Domani torno. Se non ti trovo, vuol dire che avrai preso una scelta. Se sarà come oggi, allora mi riporterò via i fascicoli, e non ne parleremo mai più- . Silenzio. Vedendo che l'uomo non reagiva, aggiunse:-Brian, te lo dico da amico. Lascia stare i Marilyn Manson e tutte le altre boiate. Ci siamo divertiti e continueremo a farlo, ma sono queste le cose importanti. Come facesti tu quel giorno prendendo in mano la band, adesso farò io aiutandoti con la tua vita. Sappiati regolare- . Detto questo, uscì.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


Con il pennarello indelebile rosso segnò una crocetta bella evidente sul quadratino del calendario, per segnalare l'inizio di un'altra giornata. Poi lo ripose nel cassetto assieme agli altri, che di solito Alex usava per andare a scuola. Un'ondata di calore materno la invase pensando al figlio, che quella notte aveva dormito da un suo amico. All'inizio era stato difficile; a parte Nina, l'unica cosa che aveva era il suo amore per il bambino. Inaspettatamente, però, riuscì a crearsi un'attività a casa, licenziandosi dal suo posto di lavoro e continuando la sua vita nel modo più normale e tranquillo possibile. Dopo qualche mese, di ritorno all'ospedale per una visita di controllo al piccolo- sanissimo e forte- Carol rivide il dottor Bentley. E da quel giorno cominciarono a frequentarsi. Era un uomo brillante, con uno spiccato senso dell'umorismo, che si innamorò praticamente subito di lei. Non chiese mai nulla riguardo al padre di Alex, né sul suo passato. Dopo un paio d'anni di frequentazione si fidanzarono, fino a sposarsi l'anno seguente. Carol continuava a lavorare per conto proprio e a prendersi cura della casa, ora più spaziosa. Nina era un'ospite fisso in casa Bentley, e Richard non aveva mai fatto storie, anzi. Furono loro tre a gioire dei progressi del bambino. Se avessero conosciuto il padre, anche solo visto in mezzo ad una folla per pochi istanti, avrebbero subito notato la somiglianza. Alex era un ragazzino sveglio, intelligente, e di aspetto in tutto simile a Brian, tanto che per Carol guardarlo era un dolore immenso, che riusciva a sopperire prendendosi amorevolmente cura di lui. C'era da dire, però, che laddove il padre non possedeva la bellezza ma il fascino, il figlio in questo era l'opposto. Aveva dei magnetici occhi verdi, il viso ovale e un bel naso dritto e importante, che non stonava affatto col resto della faccia. Inoltre non si stancava mai di omaggiate i presenti col suo sorriso magnifico. Era allegro e spensierato, ma non di certo uno stupido. E Carol era immensamente fiera di lui; lo guardava ridere felice con gioia, perché Alex era l'unica cosa bella della sua vita. Anche se suo marito era stato disposto a dargli il cognome come se fosse figlio suo, Carol aveva preferito continuare a dargli il proprio. Pensava che Alexander Hayes suonasse bene, ma in fondo c'era molto di più. Se lei avesse dato al bimbo il nome di Richard....era come se avesse dimenticato totalmente Brian, e proprio non ci riusciva. Amava suo marito, ma non così intensamente come era successo col ragazzo, ormai dodici anni prima, e quell'amore continuava tutt'ora, anche se sotto forma di ferita aperta e dolorosa. D'altra parte, però, era molto grata al consorte; era un uomo splendido. Lavoratore instancabile nonché fumatore incallito, voleva un bene dell'anima ad entrambi, e non si stancava mai di giocare con Alex, il quale gli era molto affezionato. Lui e Carol avevano deciso di dire fin da subito la verità al bambino, che l'aveva accettata senza problemi né domande. Gli era sembrato giusto così. Ma oltre ad essere sempre stato un marito devoto e fedele, non aveva mai detto nulla neppure quando aveva scoperto il cassetto della moglie, pieno di foto, dischi e ritagli di giornale raffiguranti una rockstar oscena che, nonostante il trucco pesante, non riusciva a celare del tutto la somiglianza con il bambino, e non aveva fiatato neanche quando, una sera alla TV, aveva visto la ragazza scappare in lacrime dal soggiorno, quando era stato annunciato il matrimonio della burlesche star Dita Von Teese. Piccoli dettagli che Carol non smetteva mai di adorare in lui. Fino a quando, una sera di due anni prima, non arrivò la tragica notizia che il medico, di ritorno dal lavoro, era rimasto ucciso in un incidente stradale. Lì, come per ringraziarlo di tutta quella devozione, si era occupata di tutto da moglie perfetta: aveva organizzato e pagato il funerale e la lapide, aveva consolato Alex, che era disperato, aveva accettato le condoglianze dei vicini e si era occupata anche del cattering dopo la cerimonia. Aveva smaltito con Nina tutti i pasticci di carne ricevuti come segno di tristezza da parte dei vicini e aveva ingranato lentamente la marcia per ripartire daccapo, ancora una volta. Adesso, seduta nella sua cucina lucidata a specchio, stava sfogliando tutte le vecchie foto, trovando sbalorditivo che, nonostante avesse quasi trentun anni, fosse cambiata di poco da quando ne aveva diciotto. Era una giornata nostalgica, quindi l'album non poteva mancare. Guardando fuori dalla finestra, non riusciva a capire se avrebbe piovuto o meno. Il cielo era carico di pioggia, grigio e burrascoso, e un'aria fredda spazzava i vialetti al posto dei pigri mariti. Ma al contrario delle apparenza, non era ancora scoppiato nessun temporale, e la situazione era stabile da ore, ormai. Si riconcentrò sulle foto, sorridendo mentre accarezzava quelle di Alex da piccolo. Lui, che cresceva gradualmente, con Richard quando li aveva portati al cinema e tutte quelle del matrimonio. Poi la nuova casa, Nina, il loro gatto, lei con una cliente che sorrideva soddisfatta e alcune che ritraevano il defunto marito che andava a pesca. Perché, se c'era una cosa che non era mai mancata nella sua nuova vita, quella era la macchina fotografica. Aveva immortalato ogni singolo istante delle loro vite nella pallida speranza che Brian tornasse e le rivedesse. Il tintinnio del forno la distrasse. Si alzò in fretta e tirò fuori il pollo dal frigo, prima di metterlo a cuocere aggiungendo l'indispensabile. Erano ore che spadellava, e si trovava in condizioni pietose. Molti degli ingredienti, infatti, le erano finiti addosso. Mise il timer e fece per risedersi, ma fu distratta dal campanello. "Chi mai può essere a quest'ora?", si chiese, perché non aspettava Nina prima di pranzo, e la donna non era certo il tipo da arrivare così in anticipo. Dubbiosa, raccolse uno strofinaccio e, pulendosi le mani, andò ad aprire.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 ***


Non pensava che un mucchietto di fogli potesse metterlo in crisi fino a quel punto, ed invece eccolo lì, a sudare davanti al tavolo della cucina, immobile da diversi minuti. Che fare? Quale diritto avrebbe avuto di guardare lì dentro? Lui non c'era mai stato. Non aveva fatto nulla per loro, se non farli soffrire. Non poteva ripiombare nelle loro vite, perché aveva fatto una cosa abominevole, e poi non era neppure detto che lei lo perdonasse. Anche perché non se lo meritava. Non li aveva cercati se non per i primi tempi, e aveva affogato nell'alcol i suoi sensi di colpa, senza fare niente di concreto, per nessuno dei due. Li aveva amati con struggimento e codardia, e aveva pagato con una vita insoddisfacente i suoi riprovevoli misfatti ma...non poteva pretendere nemmeno un briciolo dalla donna della sua vita e da suo figlio. E poi quello di conoscerli attraverso dei volgari fogli di carta stampata era l'atto più viscido che potesse fare. Insomma, stava per spiarli. Perché, vedere le vite degli altri senza che questi  ne siano conoscenza si chiama spiare. Si sarebbe sentito un maniaco. Eppure, nella sua situazione, che altro avrebbe potuto fare? Non poteva certo recuperare o cancellare gli anni perduti, ma se anche fosse andato da Lei e fosse stato respinto, come avrebbe potuto conoscere anche solo qualcosa del figlio? Perché, constatò con amarezza, il bambino era uno sconosciuto, per lui. Non ne conosceva nemmeno il nome. Raccolse da terra la sedia, e vi si lasciò cadere sopra. Brian, Brian, in che pasticcio ti sei cacciato?, si domandò. Tutta colpa di quella stupida cocaina... No. Perché scaricare le colpe sugli altri quando sono solo nostre? Aveva fatto tutto lui. Anche se non era nel pieno delle sue facoltà mentali e la amava, Dio se l'amava!, aveva avuto comunque delle paure e delle insicurezze, che si erano trasformate in rimorso e afflizione profonda. Ogni giorno, ogni Alba frustigava il suo cuore, ridotto ad un ammasso di carne sfilacciata dalla lontananza della sua Regina. E, nonostante fossero passati dodici anni, ricordava perfettamente il suo viso, il sorriso splendido, l'espressione che assumeva quando era annoiata, quella di quando era euforica, la concentrazione e la frustrazione, la rabbia e la tristezza, tutte gemme preziose che arricchivano i suoi connotati in modo dolce. Ricordava perfettamente il suo corpo slanciato e perfetto, il sapore delle sue labbra, la consistenza dei capelli fra le dita e ancora adesso, in quel preciso istante di trentunenne accasciato su una sedia di una cucina lurida, il suo cuore perse un battito emozionato al pensiero della prima volta che aveva visto il suo corpo nudo alla fioca luce di una candela. Tutto quel prezioso pomeriggio a guardarla dormire, tranquilla, scompigliata e soddisfatta, quando per la prima volta il sesso non era stato violenza o costrizione, ma solo uno spontaneo gesto d'amore. Fatto solo per lui. Si rese conto, per l'ennesima ed improvvisa volta, di quanto difficile dovesse essere stato per lei abbandonare il fardello opprimente del suo passato e questo solo per lui. Lo stesso che le aveva messo davanti agli occhi lo spettro si una vita felice, poi crudelmente infranto e che l'aveva anche abbandonata con un bambino, verso un futuro incerto e...non si era più fatto vedere. Si sentì un verme; poi una terribile ansia lo invase. Chissà come doveva essere stato tremendo per lei scoprire del suo matrimonio! Forse avrà accolto la notizia con freddezza, o con disperazione, ma non voleva attribuirsi tale presunzione, ovvero di occupare ancora un posto nel suo cuore, sia pure come presenza sgradita. Eppure...se l'avesse dimenticato, com'era giusto che fosse? Se l'avesse totalmente ed irrimediabilmente escluso dalla sua nuova vita? Magari era sposta, con altri figli. Deglutì. E se fosse...morta? Scosse la testa con violenza. Muore lei, muoio io. Certo, ipocrita, gridò una voce sarcastica nella sua testa, ma se non sai neppure che faccia ha adesso! Magari si era logorato tutta la vita e lei...era morta di parto! Cominciò a sudare ancor più di prima. Decise di eliminare quella possibilità con la forza della logica, perché se fosse...( non riusciva neppure a dirlo )...Jeordie non gli avrebbe mai dato quell'ultimatum. Si sentì un po' stupido, però. Non era mai riuscito a pensare prima alla possibilità di un detective privato. Forse gli sarebbe sembrato da vigliacchi, chi lo sa. Però...adesso i fascicoli erano un'attrattiva allettantissima, a cui non poteva sfuggire. E poi l'amico era stato chiaro: non era obbligato, e se fosse rimasto, l'argomento sarebbe stato morto e sepolto. Parola di bassista. Quindi...perché non dare una sbirciatina? Deglutì sonoramente. Poi, nella calma assoluta della casa sporca e puzzolente, Brian allungò una mano, e prese il primo fascio di fogli. Lo aprì, ed iniziò a leggere. //////// Furono e ore più strane della sua vita. Da un lato immensamente tristi, perché vide tutto ciò che non era riuscito a tenersi stretto. Da un lato emozionanti, perché scoprì tantissime cose sul figlio, anche se pochissime rispetto a quelle che un padre dovrebbe sapere. Di certo quelle più ricchi di emozioni da quando l'aveva lasciata. L'amore che aveva sempre provato per lei rinacque dalle ceneri mai veramente spente come una fenice, e prese subito a fargli martellare il cuore nel petto. Si sentì trasportare in un'altra dimensione, e più leggeva, più aveva voglia di leggere. Gioì suo malgrado della vedovanza della ragazza, nonostante comprendesse di quest'ennesimo fardello. E se fosse ancora innamorata del marito defunto? Preferì non pensarci. Anche lui pensava a Dita con affetto, dopo la rottura, ma sapeva che non l'aveva mai amata profondamente come invece era successo con la ragazza. Scorse tutte le notizie con famelico interesse, leggendo più volte questa o quella notizia, fino a quando, dopo aver divorato letteralmente tutte le carte senza trovare lo straccio di una fotografia, si trovò fra le mani un biglietto di Jeordie, scritto con il suo solito tono canzonatorio e insolente. "Volevi una foto? Bè, cercali di persona, perché quelle ce le ho io ;)". "Da quando fa le faccine?", pensò borbottando. Senza indugiare oltre, quindi, lasciò le carte sul tavolo, così come le aveva trovate, poi corse di sopra e buttò l'indispensabile in una borsa da viaggio grande e munita di più tasche, per sua stessa comodità. Fece una colazione/ pranzo veloce con del cibo in scatola non ancora scaduto e si fiondó all'aeroporto, dove acquistò il biglietto per il primo volo verso la casa dell'amata Regina. In aereo dormì e si fece portare anche qualcosa da mangiare di vagamente salubre e poco condito, viaggiando in incognito. In totale, prese due analgesici per il mal di testa e una pastiglia per l'ansia. Il resto dei flaconi lo buttò via arrivato a destinazione, disgustato dalla sola idea di farsi ancora di quella robaccia. Si era scritto su un pezzettino di carta l'indirizzo della famiglia (la SUA famiglia), e non riusciva a smettere di pensare al fatto che la scelta fosse stata geniale: non gli sarebbe mai venuto in mente di andarla a cercare così lontano. Prenotò velocemente una stanza di un albergo la vicino, cercando di non farsi riconoscere. Il suo orgoglio rimase ferito quando scoprì che nessun faceva caso a lui. L'unica persona che l'aveva indicato, e che aveva stoicamente ignorato, era stata una bambina, che aveva sussurrato alla madre:"Mamma, guarda che brutto, quello". Aveva finto di non sentire. Buttò le sue cose sul letto. Quand'era in tour, si faceva preparare una camera completamente dipinta di nero, con tutti i comfort. Questa volta dovette accontentarsi, però. Partì subito alla sua ricerca, noleggiando un'auto. Era deciso ad arrivare fino in fondo, anche se le sue certezze vacillarono mentre passava in rassegna tutti i quartieri ordinati e puliti, tutti simili tra loro, in cui ci si poteva perdere. Ma capì subito di essere arrivato quando vide La Casa. Era uguale a tutte le altre come struttura: facciata bianca, fiori alle finestre, steccato immacolato, un piccolo garage, un fazzoletto di terra citatissime e un'aiuola colorata. Un'unico dettaglio, peró la rendeva speciale. I balconi erano neri. Scuri, lucidi e spavaldi, erano la cosa che li distingueva dalla massa, come Carol. Ripensare alla sua Regina, e al fatto che fosse così vicina dopo tutti questi anni lo riempì di triste palpitazione. Come in trance, scese dall'auto ricordandosi a malapena di chiuderla, attraversò la strada deserta senza neppure guardarsi intorno e,saliti i pochi gradini che lo portavano alla porta...suonò il campanello.

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Capitolo 35
*** Capitolo 35 ***


Aprì la porta tirando con forza. Erano anni che i cardini avevano qualche problema, ma Richard era un completo incapace in certe cose, quindi in famiglia si erano abituati tutti ad avere braccia forti. Trovò sull'uscio un singolare ospite. Era un uomo alto e magro, con dei folti capelli neri dal taglio bizzarro e degli occhiali scuri che coprivano un volto ovale molto strano per un  uomo. Era sicura di non averlo mai visto da quelle parti, perché se lo sarebbe di certo ricordato: stivali borchiati e completamente vestito di scuro, con tanto di maglietta teschiata. Doveva avere più o meno la sua stessa età, ma era impossibile fare delle ipotesi, in quella situazione. Ma...dove aveva già visto quelle labbra che sapeva essere così morbide? E quei capelli, di cui aveva ben presente la lucentezza? Lo sconosciuto si tolse gli occhiali in un gesto lento, senza staccare lo sguardo da lei e...fu come se quei dodici anni non fossero mai esistiti davvero: si ritrovò ancora sotto la pioggia, i capelli e i vestiti fradici, voltarsi lentamente e rivivere quell'istante prezioso che aveva cambiato la sua esistenza. Due occhi scuri, a fissarla sotto un'ombrello, come un tacito invito, e la naturalezza nell'accettare, come se fosse nata esattamente per prendere la sua mano e passeggiargli a fianco sotto la pioggia. Come se tutta la stoffa nera potesse avvolgerla e cullarla per sempre, come se fra le sue braccia il male non esistesse, ma fosse solo una fantasia umana, creata apposta per spaventare i bambini disubbidienti. E...che meraviglia rivedere quel colore indefinibile! L'espressione così solenne, il marrone forte e sicuro delicatamente ammortizzato dal verde ombroso, in un infinito gioco a rincorrersi, senza che mai nessuno dei due potesse riuscire a raggiungere e sopraffare l'altro. Quanto..dolore, e gioia, fusi assieme fluirono in quel momento! Quanta rabbia, sorda e cieca, e quanta felicità, scoppiettante e malsana! La sua nuova vita non era destinata a durare, non senza quegli occhi così unici, così amati. Quanto tempo aveva aspettato quello sguardo? Quante volte aveva sperato di rivederlo riflesso in un vetro, negli occhi del marito, dietro alla porta? Quante volte aveva pregato affinché il destino glielo riportasse? Ma mai, mai prima d'ora, un torrente tanto puro di terrore ed emozione si mischiò in due corpi umani, così ebbri che a stento potevano contenere tutte quelle sensazioni. Tornare alla realtà, tanto dolorosa e sgradita e triste, non fu facile. Sapeva benissimo cosa quegli occhi le avevano fatto, e non era sicura di riuscire a perdonare, non questa volta. Se l'era domandato spesso, cosa avrebbe fatto in quel momento, se mai fosse capitato, ma le sembrava così assurdo, così egoista, che non aveva mai preso seriamente il pensiero. Eppure, adesso, benché la ragione le dicesse di prenderlo a calci e ributtarlo fuori dalla sua vita, rigurgitarlo nella sua nuova esistenza come lui aveva fatto con lei, il suo cuore la spinse a prendergli la mano tanto amata e trascinarlo dentro alla casa, pronta ad essere contagiata da quella nuova, bizzarra presenza. Lo trascinò nell'entrata, lasciandolo impalato in mezzo al corridoio mentre si affacciava furtivamente alla porta, per assicurarsi  che nessuno avesse visto la scena. Poi richiuse l'uscio dietro di sé. Avrebbe voluto guardare ovunque, ma non lui; eppure era più forte di lei: era stato lontano dopo tutti quegli anni e le era mancato così a lungo che...ora non Poteva non osservarlo nei minimi dettagli. Aveva un unico nemico, però: l'orgoglio. Era stata ferita così duramente che non voleva dargli la soddisfazione di essere un ospite atteso. Appoggiata alla lastra di legno, era grata alla superficie dura e reale, perché le impediva di pensare che fosse tutto un sogno, un miraggio. Era così...assurdo. Cosa dire dopo tutti quegli anni di lontananza, di sofferenze, di squallore? Lui non aveva mai smesso di guardarla, e la osservava rapito. Ma, come sempre quando si sentiva guardata da lui, non poteva verto dire di essere analizzata. Il suo era un contatto tacito e discreto, che scivolava rispettosamente aggirandosi su di lei, ma senza diventare lascivo. Voleva a tutti i costi interrompere quel momento così spiacevole. Frugò in modo spasmodico e disperato nella sua mente in cerca di qualcosa da dire, giusto per spezzare l'odioso silenzio. E se ne uscì con la cosa più stupida e banale che avrebbe mai potuto dire:-Si può sapere cosa diavolo ci fai qui? //////// Negli istanti seguenti all'aver suonato, Brian fu tentato in modo irresistibile dal suo istinto di nascondersi in stile guardone colto con le mani nel sacco dietro ad un cespuglio, in attesa che, chiunque avesse aperto, dopo essersi sincerato che non ci fosse nessuno, se ne ritornasse all'interno. Ma una sorta di paura paralizzante gli impedì qualsiasi movimento, e così rimase fermo immobile davanti all'entrata. Pochi secondi dopo, (i più lunghi della sua vita), sentì la porta aprirsi con uno schiocco terribile, e vide una donna dall'aria trafelata affacciarsi nell'aria fredda di fuori. Riconobbe subito, in lei, la sua Regina. Era così..bella, che il suo cuore dilatò i tempi, e gli parve di fluttuare in uno stato che non era realtà, ma neppure un sogno. Fantastica, mitica, bellissima, Regina. Dall'aspetto adorabile e caldo, era come se fossero passati solo pochi minuti da quella maledetta volta nel backstage, prima che il chitarrista lo chiamasse, come se avesse appena finito di abbracciarla e ora la stesse guardando, sua e solo sua. Aveva in mano uno straccio macchiato di una qualche salsa, e una traccia della stessa sostanza c'era anche sulla sua guancia. Le labbra rosse si erano dischiuse per la sorpresa, e la tentazione di prenderla e baciarla, finalmente, per interrompere il gelo della sua anima, fu irresistibile. L'espressione era sconvolta: in un certo senso poteva capirla. Dodici, dodici lunghi e maledettissimi anni senza assaporarla sotto di sé, senza accarezzarle i capelli e senza baciarla ovunque, su quelle labbra splendide, sul collo allungato e morbido, sulle dita, così sottili e aggraziate e sul suo corpo meraviglioso, per nulla intaccato dagli anni. L'unica cosa che vedeva di diverso era un segno di maturità che ne aveva rilassato il volto, rendendolo se possibile più elegante e ancora più bello. I capelli erano scompigliati in modo sublime,e si intonavano perfettamente con le guance leggermente arrossate dalla sorpresa e dalla fatica di donna di casa. A sorpresa, dopo lo sconvolgimento iniziale, prese la sua mano (paradiso!) e lo trascinò dentro, in un'entrata accogliente che però manteneva la sua originalità. La vide assicurarsi che nessuno li avesse notati, e poi appoggiarsi stancamente alla porta, guardandolo come una Dea furente. E poi sbottò la sua sentenza:-Si può sapere cosa diavolo ci fai tu qui?-. Ah, quindi non era l'unico che non sapeva cosa dire! Sentire la sua voce dopo così tanto tempo fu quasi paradisiaco, un piacere mistico e universale. -Sono...venuto ad implorare il tuo perdono-. Stupido Brian. Stupido Brian. Stupido Brian. -Ah, ma davvero?- disse in tono pungente. -Tu credi che io ti perdoni solo per questo? Mi sono rifatta una vita, senza di te. Ho sofferto, ti ho amato, ma tu devi rispuntare proprio quando penso di averti dimenticato?- sputò fuori con rabbia. -Io non sto dicendo che mi devi perdonare, né che voglio recuperare il tempo perduto. Solo....mi piacerebbe conoscere mio figlio- disse di getto, -mi piacerebbe vedere il suo viso, e sentire la sua voce, anche solo per una volta-. -E che cosa ti aspetti che gli dica?- esclamò. -"Ciao Alex, vedi questo signore? Sorpresa! É tuo padre!". Non viviamo in un telefilm, schifoso bastardo-. Quelle parole lo ferirono nel profondo, ma sentì il bisogno di controbattere ugualmente. -Non serve che gli dici che sono suo padre- deglutì. -Mi basta solo...essere uno sconosciuto di passaggio. Tutto qui-. All'improvviso gli parve tutto privo di senso, tutto superfluo. Ogni cosa non aveva uno scopo, e lui stesso si era gettato in un'impresa disperata. La vide scuotere la testa. Troppo dolore, troppo amore, per una vita soltanto, e troppa stupidità per riuscire a gestirli. Negli attimi che seguirono, entrambi si sedettero in cucina, e cominciarono a parlare. Furono diretti, coincisi e profondamente addolorati. Lui raccontò di come fosse praticamente morto da quando aveva commesso quella colossale cazzata, di come si fosse sfasciato ogni singolo giorno alla ricerca del motivo per cui aveva abbandonato la sua stessa felicità. Le disse di come si illudesse ogni volta di poterla dimenticare, e di come finisse sempre annegato dall'alcol. Lei, invece, espose la verità nuda e cruda: il dolore, la difficoltà, l'odio e l'umiliazione. Tutta la sua vita gli venne spiattellata davanti, senza filtri né censure. Ogni parola detta, per Brian era un dolore. Sapere di essere la causa di tanta sofferenza gli torse le budella un'ennesima volta. Sentì la solita e nota fitta di gelosia quando venne rispolverato l'argomento matrimonio, ma lui spese solo poche parole sul suo. L'amore tra i due, infatti, si era spento ancor prima della cerimonia. E poi si sentì in dovere di spiegare che non era andato lì per trovare il suo perdono, anche se non avrebbe potuto chiedere di più, perché non se lo meritava. Lei rimase sorpresa da tali parole, e lui continuò. Non era degno di vedere suo figlio, né di ripresentarsi alla sua porta, ma finalmente aveva trovato il coraggio di riscattarsi. Gli era mancata terribilmente, e per quanto fosse stato stupido, sarebbe potuto morire in pace anche solo per averla vista. -Non ho mai smesso di amarti- le sussurrò alla fine. Ci fu un lungo silenzio, perché la verità di quelle parole era schiacciante quasi quanto la loro ipocrisia. -Neppure io- mormorò la sua Regina, mentre una lacrima solitaria le scorreva pigra lungo la guancia. -Però non posso ri-accoglierti a braccia aperte- disse, senza guardarlo. Confidarsi i reciproci sentimenti era stato molto difficile. -Lo so- azzardò a prenderle le mani, e non sentì alcuna resistenza. -Adesso me ne vado, e ti lascio in pace- sussurrò. La donna non rispose. Si alzò con un macigno sul petto, si voltò, e varcò la soglia della cucina, imprimendosi a mente ogni dettaglio nella certezza che non l'avrebbe rivista mai più. -Domani...- esclamò improvvisamente la sua Regina, perdendo la forza sia di guardarlo che di tenere alto il tono di voce. -Torna. Ti prego- concluse in un mormorio appena udibile. Lui la guardò per un lungo istante, assorbendo ogni minuscola particella di un sollievo che non provava da tempo. -Stavolta non fuggirò. Te lo prometto.

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Capitolo 36
*** Capitolo 36 ***


Per Brian fu molto difficile dormire, quella notte. Anzi, fu pressoché impossibile. Dopo ore interminabili e strazianti giunse finalmente il mattino, e lui ne approfittò per lavarsi, rasarsi e cambiarsi in tutta calma. Si sentì stupido per aver portato solo vestiti scuri, ma si rese conto di possedere solo quelli, ormai. "Pronto per un funerale", ironizzò l'eterno ragazzo, sentendosi come un verginello al primo appuntamento. Lui e Carol erano infatti d'accordo di trovarsi in un parco là vicino nella tarda mattinata. Cercò di essere il più sobrio possibile sull'abbigliamento: non voleva farla sentire a fianco di un fenomeno da baraccone. Optò per una camicia bianca e dei pantaloni neri, dal momento che non aveva altro. I bottoni erano minuscoli teschietti, e sperò che nessuno ci facesse caso. Gli mancava un po' il trucco; un po' per abitudine, un po' per nascondersi, sentiva il bisogno dell'eye-liner ora più che mai. Hey, si ammonì, devi fare la persona normale, ricordi? Così lasciò perdere, anche se a malincuore. Fu dura occupare tutto quel tempo senza avere nulla di concreto da fare. Passò in rassegna tutti gli abiti che si era portato, la biancheria e i soldi, ma finì penosamente presto di controllare tutto. Così, inforcati gli occhiali da sole, decise di andare circa tre ore prima dell'appuntamento sul posto, giusto per studiare la situazione. Si rese improvvisamente conto, che da quando aveva iniziato la carriera di cantante non era mai entrato in un parco. Una volta, per fare gli scemi, lui e Jeordie avevano passato la serata in un luna-park, ma non era la stessa cosa. Nonostante la frescura del mattino, trovò il luogo molto rilassante. C'era uno stagno con delle anatre dentro, e alcuni bambini correvano sul bordo per tirare loro delle briciole di pane, ridendo e scherzando. Fantasticò che fossero figli suoi, mentre rideva con loro e Carol al suo fianco, una busta marrone in mano a porgergli il cibo per gli animaletti. Meglio di no, pensò poi, non sono stato in grado di gestirne uno, figuriamoci tre. Camminò un altro po' , guardando alcuni malati di fitness fare jogging a quell'ora scandalosa, e si sedette su una panchina. All'altro lato c'era una signorina semi-celata dal bavero del cappotto, alzato quasi fin sopra la testa ma che non impediva comunque ai capelli di svolazzare in giro. Aveva visto ben poche persone, però, tenersi il cappotto in quel modo singolare: le spalle erano alzare per far scivolare il più possibile le mani nelle maniche e il bavero era tirato al massimo. E quei capelli...-Carol?- disse. In caso contrario avrebbe fatto una figuraccia. La ragazza invece si voltò verso di lui e strabuzzò gli occhi. -Brian?- disse, sorpresa. Si sistemò meglio sulla panchina, voltandosi verso di lui. Poteva vedere il suo imbarazzo dal fatto che si mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio, anche se il vento gliela strappò via ancora. Fosse stato per lui, sarebbe rimasto volentieri a godersi lo spettacolo per tutta la giornata, perché era bellissimo vederla litigare coi capelli, però decise che non era un buona idea. -Vuoi che ci sediamo là dietro? È più riparato- disse. La vide annuire ed entrambi si spostarono. Anche lui si strinse nel cappotto: faceva davvero freddo. Trovarono una panchina all'ombra, e se ne stettero in silenzio per un po'. Il laghetto si vedeva anche da lì, in mezzo agli alberi, però c'era meno vento, fortunatamente. La loro contemplazione venne interrotta da lei. -Ho pensato...ehm...alla tua visita di ieri. A quello che mi hai detto. - fece una pausa, ma non volle esse interrotta. -Brian, io...quando Richard mi chiese di sposarlo, accettai subito, perché era un uomo straordinario, e mi amava davvero. Però, proprio mentre mi trovavo a camminare nella navata centrale, col mio bel vestito bianco e Alex in braccio a Nina, per un attimo...ho visto, te al posto suo, sull'altare- fece una lunga pausa. La vide che stava combattendo contro le lacrime. -Mi sono data della stupida non so quante volte, dopo d'allora. In cuor mio sapevo che non saresti mai più tornato e che...ero solo un'illusa. Ma non credere che sia stato facile. Perché...ho sempre sperato che tu tornassi da me-. Non pianse, non aggiunse nulla. Semplicemente, continuò a guardare assorta il paesaggio, come se avesse parlato a sé stessa. -All'inizio ero così drogato da non sapere cosa stessi facendo- era il momento delle confessioni? Bene, erano anni che doveva espiare i propri peccati. -Un fottutissimo tossicomane. Bello, no? Non distinguevo il giorno dalla notte. Delle volte credevo di averti a fianco, ma era solo un'illusione. Poi, quando abbiamo tagliato con la roba, mi sono accorto di ciò che avevo fatto, e per poco non morii sul serio. Stavolta fu la musica a salvarmi ma credimi: l'avrei lasciata volentieri per stare con te.-. Carol si voltò a guardarlo, ma non aggiunse nulla. Lo vide come un'incitamento a continuare. -Invece che cercarti, ho preferito il senso di colpa, fino a quando non divenne troppo tardi per..entrambi. Ma l'idea di mio figlio era così...lacerante che non ho potuto ignorarla-. Tacque. -Non credo che mi perdonerai-. La guardò abbozzando un sorriso. Era così tremendamente bella....-Baciami- disse lei, all'improvviso. Lui la guardò, spaesato. -C-Cosa?- balbettò. -Hai forse dimenticato come si fa?-chiese la ragazza con tono di sfida. Poi, visto che Brian non si era mosso, continuò. -Andiamo, ci siamo fottuti l'esistenza per queste cose. E allora...al diavolo!- esclamò. Non l'aveva mai sentita dire parolacce, ma doveva dire che gli piaceva un sacco. -Allora obbedisco- disse tutto d'un fiato, e in un rapido movimento la prese con una mano dietro la nuca e la baciò con passione. La assaporò in ogni millimetro, lasciando che fosse lei a condurre il gioco. Le era mancata così tanto, che ora risentirla su di sé era una gioia immensa. La baciò, la accarezzò e godette del suo contatto fino in fondo. Non c'era nulla nella vita di più sublime e meraviglioso, niente che potesse eguagliare quel fuoco ardente e passionale, inestinguibile ed eterno. Niente.

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Capitolo 37
*** Capitolo 37 ***


Non ci fu tempo per la vergogna, né per i ripensamenti. In un intrico di braccia e gambe, la porta della camera d'albergo si richiuse dietro di loro, lasciando fuori il dolore, la tristezza, il passato e il tempo,le lacrime che non avevano risparmiato nessuno dei due. Accesero la luce, così come avevano fatto in quel magico pomeriggio, e si abbandonarono l'uno nelle braccia dell'altro in cerca di ciò che si erano negati a vicenda per anni, per una stupida scelta che ne aveva rovinato le esistenze. Fu una mattinata magica: si rincontrarono, si riconobbero, si riabbracciarono e tutto nel modo più dolce, folle e suadente che potessero immaginare. Si dissero tutto ciò che avevano taciuto a forza, estrassero ad uno ad uno i pugnali dai loro cuori e non tacquero nulla di ciò che era successo, senza trascurare neppure il minimo dettaglio. Lo spazio, il tempo, non esistevano in quella stanza; nella luce soffusa, si affacciavano non più timidamente due persone nuove, affamate di amore nella loro nudità e attenti ora ai bisogni l'uno dell'altra. Rimasero abbracciati a lungo, sudati e scompigliati, ma finalmente in pace dopo tanti anni di sofferenze. -Dimmi di Alex- sussurrò Brian contro i capelli di Carol, morbidi e amati. La ragazza sorrise contro la sua pelle, tracciando linee immaginarie sul petto del ragazzo. -È un bambino fantastico- mormorò intorpidita. -E non lo dico perché è mio figlio. Ama ridere, giocare e leggere, e anche nei momenti difficili non si è mai lasciato scoraggiare da nulla-. Tacque per un attimo. -Ti assomiglia, lo sai?- disse soprappensiero. -Ah sì?- chiese Brian, sorpreso. -Sì- specificò la ragazza. -Solo che lui è più bello- esclamò. Brian fece finta di offendersi, la prese per la vita e le montò sopra, facendole il solletico e scatenando l'ilarità della sua Regina. -Ma davvero?- chiedeva tra una risata e l'altra, godendo di quell'attimo di leggerezza. Carol continuava sulla sua strada urlando di sì ogni volta e ridendo sempre più forte, come lui, del resto. Il solletico divenne una serie di appassionate carezze, che si trasformarono in baci che si trasformarono in abbracci e risate senza motivo, fino ad arrivare un misto tra tutte e tre le cose. Era un momento di leggerezza che valeva come tutto l'oro del mondo, e forse anche di più. Erano sorrisi genuini, finalmente, venati solo d'amore reciproco. Entrambi recisero per un momento i contatti col mondo esterno, e solcarono le strade verso le loro intimità più profonde. Dopo ore e ore guardarono l'orologio: era ancora prestissimo. -Dov'è Alex?- chiese poi Brian, illuminandosi all'improvviso a quel pensiero. Carol gli baciò la curva del collo, scendendo fino alla clavicola. -Mi ha chiesto se poteva allungare il suo soggiorno dal vicino di casa- spiegò contro la pelle dell'amato. -Capisco...- mormorò Brian, mentre sospirava del contatto morbido e caldo con la sua Regina. Lei alzò lo sguardo all'improvviso appoggiando il mento sul suo petto. -Ti andrebbe ti conoscerlo?- chiese. Brian rispose senza nemmeno pensarci su. -Certo-. La ragazza sorrise: non era mai stato così bella. -Allora credo proprio che tu debba fermarti a pranzo da noi. ////////// Fu imbarazzante vedere Carol scoprire nel suo beauty case diverse matite, eye-liner e altri oggetti tipicamente femminili, ma non si pentì di averli portati quando la vide usarli per rifarsi il trucco completamente nuda davanti allo specchio. Anzi, ciò lo convinse che era meglio averli sempre a portata di mano, da quel momento in poi. Nelle ore successive, per occupare il tempo, passeggiarono come dei fidanzatini del liceo ed, infine, si separarono. Brian era un po' contrariato: avrebbe voluto starle accanto per tutto il resto della sua vita, appiccicato al suo amato corpo dal tramonto all'alba, però la ragazza si giustificò col fatto che doveva cucinare, quindi preferì gestire la situazione dell'ospite come non-premeditata. Lui non sapeva che scusa avrebbe tirato fuori, né tantomeno cosa avrebbe detto al bambino, come avrebbe potuto gestire la situazione. La cosa più importante, che sovrastava tutte le altre, a dire la verità, era che da lì a poco avrebbe conosciuto Alex. Ovvero suo figlio.

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Capitolo 38
*** Capitolo 38 ***


La porta di casa si aprì all'improvviso. -Ciao mamma!- urlò una voce allegra. -Sono a casa!-. Carol sorrise di riflesso. Brian, invece, si irrigidì subito. Gli fece cenno di rimanere calmo, mentre raggiungeva il figlio in entrata. -Ciao tesoro! Com'è andata?- gli chiese, mentre vedeva il ragazzino togliersi il soprabito e metterlo sull'appendiabiti. Diventava di giorno in giorno più alto: appena un mese prima non arriva nemmeno allo spioncino. Lo aiutò con lo zaino, mentre Alex non la smetteva di parlare: era un fiume eccitato di dettagli entusiasti. Carol ascoltava in silenzio, sorridendo divertita. -Tesoro...- disse, approfittando di un secondo di pausa. Gli occhi brillanti del figlio si appuntarono subito su di lei, curiosi ed interessati. -Oggi avremo un ospite a pranzo-, annunciò. Il bambino si illuminò, prima di cominciare a parlare entusiasta di nuovo. -Davvero? E chi è? È Nina?-, diceva eccitato, sparando nomi a raffica. -No, non lo conosci- disse Carol conducendolo in cucina. Brian era immobile sulla sedia, nell'esatta posizione di pochi attimi prima. Gli occhiali da sole erano posati sul tavolo, e l'espressione era come inebetita. Sfoderò un sorriso meccanico quando li vide apparire sulla soglia. La ragazza, una mano posata sulla schiena del figlio, fece le presentazioni. -Alex, questo signore si chiama Brian. Brian, lui è Alex-. Il bambino ridacchiò deliziato da tanta riverenza, e allungò la mano per tenere in piedi la solennità, con un sorriso abbagliante. L'uomo accettò la mano come se la stringesse ad un coetaneo, senza poter evitare di sorridere in risposta. Il ragazzino, naturalmente, aveva già ricominciato a parlare, facendo domande a raffica, mentre Brian lo guardava rapito, come se faticasse a credere che il figlio esistesse davvero. Carol si fece volontariamente da parte, ultimando gli ultimi dettagli del pranzo, che aveva tutta l'aria di spostarsi di almeno un paio d'ore. Li guardava con apprensione ma anche soddisfazione. Era un quadro così allegro (il botta e risposta assolutamente serio fra i due) che le faceva quasi ridere. Alla fine, dal momento che entrambi avevano asserito di morire di fame, avevano pranzato fra risate e racconti entusiasti da parte del ragazzino, il quale non si stancava mai di stupirsi dei resoconti del padre, di piccoli episodi innocenti buttati lì con noncuranza, e che affascinavano il bambino molto più dei libri di avventura che amava tanto. Appena finito, si ritirarono in cortile a giocare col pallone, e persino da dentro si potevano sentire le loro risate. Il posto sul lavello per lavare i piatti era strategico: la finestra permetteva una completa visuale dei due, che avevano l'aria di divertirsi un sacco. Più tardi, portò loro una limonata fresca; la giornata si era rischiarata parecchio, e ora faceva caldo. Entrambi erano sudati e accaldati, e la accettarono con gratitudine, mentre trangugiavano in lunghe sorsate la bevanda ghiacciata. Carol non risparmiò a nessuno dei due una bella tirata d'orecchi. -Hey, andateci piano! È fredda!- esclamò, e li vide entrambi arrestarsi con la stessa aria sorpresa. Si assomigliavano tremendamente. -Bè...- borbottò, spiazzata da quella reazione identica. -Fate piano, ok?-. Entrambi sorrisero furbi. -Ok!- dissero in coro, e dopo scoppiarono a ridere come due ragazzini. La ragazza rientrò in casa, dedicandosi ad un libro. Ma leggere era difficile: pensava sempre e costantemente alla sintonia che entrambi avevano avuto sin da subito, e da come le fosse sembrato bello Brian quando giocava allegro col bambino, e a quante volte avesse fantasticato su una scena simile. Era stranissimo, il destino, regalarle una gioia così grande ma fargliela guadagnare dopo tanto dolore. Comunque di una cosa era sicura: ne era valsa la pena. Vivere quei momenti, felici e spensierati, caldi e familiari, per l'espressione di Brian, distesa e lieta, e del suono delle loro risate che risuonavano scoppiettanti nell'aria. A proposito...si erano fatti insolitamente silenziosi. Si affacciò curiosa alla finestra; il pallone era abbandonato in un angolo, e li vide seduti a gambe incrociate sull'erba, Brian con un libro sulle ginocchia e Alex che ascoltava e interveniva di tanto in tanto. Carol ridacchiò. Era una cosa fantastica da vedere. Li osservò per un altro po', colma d'amore. La somiglianza era quasi spaventosa, e non si limitava all'aspetto fisico, ma anche alla postura, all'espressione, a come si illuminasse il viso quando avevano qualcosa da dire, e un'altra serie di piccoli, forse insignificanti gesti che si riflettevano a specchio sia nel padre che nel figlio. Le ore letteralmente volarono, persino per lei che non aveva nulla di concreto da fare. Alla fine, Brian si alzò, ed entrambi tornarono dentro. Si vedeva distante a un chilometro che la giornata era piaciuta ad entrambi. -Allora io vado- disse l'uomo, sorridendo. -Alex- gli diede la mano, -é stato un vero piacere-. Il bambino ridacchiò stringendola. -Grazie a te, Brian, è stata una bellissima giornata-. Tacque, ma era evidente che qualcosa lo tormentava. -Sì?- disse Brian, alzando un sopracciglio. -Tornerai?- chiese il figlio. L'uomo rimase impassibile, poi sorrise e inforcò gli occhiali da sole, nonostante fosse sera. Sfoderò un sorriso holliwoodiano che annientò Carol facendola sciogliere e disse:- Ma certo- scompigliando in modo assolutamente naturale i capelli del figlio, che rise di gusto. I saluti si protrassero più del previsto e, rimasti soli in veranda, si scambiarono furtivamente un bacio, stando attenti a non farsi vedere da nessuno. Lei gli accarezzò una guancia: -Sei stato fantastico- sussurrò sorridendo, attaccata a lui. Anche Brian era recalcitrante a staccarsi. -Avevi ragione- disse. -È un bambino straordinario-.  Lei sorrise contro la sua camicia. -Devo andare- sussurrò lui di malavoglia, con voce roca. -Come mai?- chiese. -Sono assolutamente...- ciondolò, -....distrutto.

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Capitolo 39
*** Capitolo 39 ***


Quella mattina, aprì le imposte insolitamente presto. Aveva bisogno di aria, anche se gelida e pungente. Lasciò la finestra aperta mentre andava in bagno a vestirsi e lavarsi i denti, azioni che compì con la porta comunicante spalancata. Carol si sentiva leggera: Alex era andato a dormire da un suo amico che abitava in fondo alla strada, e non sarebbe tornato prima di quella sera. Al telefono aveva spiegato che avevano intenzione di andare al parco, e chi era lei per spezzare l'entusiasmo dei due? E poi, anche se si vergognava ad ammetterlo, avrebbe potuto pranzare con Brian. L'uomo era diventato una presenza costante nelle loro vite: telefonava ogni sera, veniva a trovarli spesso e giocava instancabilmente con il bambino, svolgendo la sua attività di shock-rocker con il massimo impegno. Insomma, era il padre in incognito migliore del mondo. La settimana prima, Jeordie aveva insistito per rivederla, dopo averla sentita al telefono. Entrambi avevano pianto come fontane, mentre Brian assisteva divertito. -Non hai idea di quanto mi sei mancata!- continuava a ripetere l'amico. Si erano dati appuntamento tutti e tre nel giorno del compleanno della donna, e cioè....oggi!, pensò euforica. Sarebbe passato per cena, dal momento che era all'estero. Sentendosi una ragazzina, si truccò e vestì con attenzione, dopo anni che non lo faceva. Scelse un sobrio abito verde pallido, usando una collana d'argento regalatale da Brian un paio di giorni prima e un braccialetto che possedeva da anni e non aveva mia messo. Si pettinò per ore, provando mille acconciature diverse, fino ad arrendersi a chiedere consulenza a Nina. Il risultato? Li tenne sciolti, ricci e morbidi, così com'erano. L'amica la aiutò a preparare la tavola, nonostante mancassero ore a pranzo, e promise di passare quella sera stessa, come stabilito. Rimasta sola, Carol provò tutte le scarpe che aveva, e alla fine ne scelse un paio di vernice nera, sexy ma non esageratamente, che facevano la loro figura. Si rimirò allo specchio: guardò tutte le angolazioni possibili e, avendo cura di non essere vista, provò anche una serie di espressioni per vedere come doveva risultare il suo viso. Ma si sa, più ci si guarda, più difetti si trovano, così alla fine era tentata di rifare tutto daccapo. "E se non gli piacessi?", pensava, torturandosi. Forse il look che aveva scelto era troppo complicato, forse troppo trucco, o il vestito, un tubino che arrivava al ginocchio e metteva in risalto le sue curve da fare invidia, era troppo provocante, forse per una madre andava meglio qualcosa di meno scollato o corto.... Il campanello la salvò da questa situazione. Non ebbe tempo di cambiare una virgola. Tutto sarebbe andato bene: la tavola era pronta, preparata per due, il pollo era nel forno e lei era truccata e vestita perfettamente. Scese lentamente le scale, facendo tintinnare i braccialetti (non gli daranno fastidio?) e aprì la porta, che strisciò con un sonoro schiocco sul pavimento, incidendo il milionesimo solco. Non riuscì ad elaborare la situazione; due grandi mani tiepide le si posarono sui fianchi, un lieve respiro le accarezzò la pelle e delle labbra bollenti si posarono sulle proprie. -Buon compleanno, mia Regina- sussurrò una voce suadente e profonda, che avrebbe riconosciuto fra altre mille. Non poté fare altro che sorridere. Brian tenne una mano nell'incavo della sua schiena e chiuse con una sola mano la porta, la quale non diede alcun tipo di problema, stavolta. La ragazza lo notò appena: era troppo concentrata a fissare quegli occhi magnetici, che erano stati liberati dagli occhiali da sole appesi alla scollatura di lui. -Grazie- mormorò, quando il suo cervello riacquistò la supremazia sul sistema nervoso. Era sempre così: quando la toccava, o la sfiorava, andava completamente in tilt. Lui le lanciò un sorriso accattivante. Si sfilò il giubbotto di pelle, onnipresente in qualsiasi stagione e la ammirò come solo lui sapeva fare. -Splendida- disse infine, con un tono così innamorato che Carol sentì un forte senso di calore dilagarle nel petto, sentendosi amata e desiderata tanto intensamente. Brian la abbracciò di nuovo, perdendosi nel calore dei suoi capelli. -Sei stupenda- mormorava baciandole il collo, e tracciando con le dita linee immaginarie sui suoi dolci fianchi. -Oh, aspetta- disse dopo un attimo. Riluttante, si scostò leggermente, rimanendo unito a lei solo grazie alle labbra, intrappolate in un focoso bacio. -Per te- sussurrò, prima di baciarla di nuovo. Le mise una piccola scatola in mano, e mentre Carol cercava di capire di cosa si trattasse mentre era totalmente inebriata dal suo contatto, l'uomo riprese a baciarla fino alle clavicole, descrivendo più e più volte la curva del suo collo fino ad arrivarle all'orecchio. Lo scartò con dita distratte, mentre accarezzava a tratti la schiena ampia del suo amato, chiedendosi di cosa si trattasse. Proprio quando ebbe tolto del tutto l'involucro, lui si fece da parte, cingendole da dietro la vita e appoggiandole teneramente la testa sulla spalla. Ora che poteva vederci meglio, notò un elaborato marchio argentato impresso sullo sfondo blu notte. Fu subito assalita da un timore reverenziale. -Ma..Brian, cosa..- farfugliò, l'oggetto ancora chiuso sul suo palmo. -Aprilo- disse lui, un ordine che non era un ordine. Lei obbedì; era impossibile non dare ascolto a quella voce... Aprì con mani tremanti il coperchio e...rimase abbagliata da ciò che vide. Immerso nel morbido e ammiccante tessuto rosso, brillava un anello semplice e bellissimo, adatto alla perfezione alle sue dita affusolate. Aveva una linea sinuosa ed elegante, mentre il luccichio del diamante non era né troppo appariscente ma neanche trascurabile. Era perfetto. Lui si stava evidentemente godendo la sua reazione, mentre scivolava piano davanti a lei e le parlava dolcemente. -Mia Regina- disse con voce profonda. -So che quest'anello non vale nemmeno un po' per rimediare a ciò che ho fatto, ma...- una piccola pausa. -Per me significherebbe ricominciare daccapo, rimediare in una piccola parte alla mia infinita stupidità giovanile-. Il suo sguardo, dritto negli occhi della donna, minacciava di sopraffarla. Inoltre ogni singola parola pronunciata era intrisa di una verità disarmante. Aveva davanti a sé un uomo denudato di tutte le bugie e le false promesse, pronto davvero a ricominciare di nuovo per amore. E non un amore qualsiasi, ma per amor suo. -Quindi- proseguì schiarendosi la voce e prendendo delicatamente l'anello, -volevo farti una domanda ipocrita, in cui sei liberissima di rifiutare-. La guardò di nuovo. -Posso?- chiese. Carol poté solo annuire. Brian annuì quasi impercettibilmente. -Carol, mia Regina....so che non ho il diritto di chiedertelo ma..vuoi sposarmi?-.                    Silenzio. Una lacrima le rigò una guancia, ma non era mai stato così lontana dalla tristezza. Era la dichiarazione d'amore più commuovente ed implicita che qualcuno le avesse mai fatto, e non aveva mai visto un animo del genere, pronto a ripartire da zero, a cambiare la sua vita solo per lei. Sapeva che non era stata una scelta facile, e neanche la risposta lo era. Lei lo amava, con tutto il cuore: non esistevano dubbi, non c'erano mai stati. Ma non voleva soffrire, perché si era logorata nel dolore per troppo tempo, per poter riuscire a sopportarne ancora. E poi adesso aveva anche un figlio, un bambino adorabile, e come l'avrebbe presa lui? Anche se gli avesse detto che era lui il suo vero padre, in realtà, avrebbe sofferto moltissimo lo stesso, e lei aveva giurato a sé stessa che suo figlio doveva essere una persona felice. Eppure, per un attimo, divenne egoista; non perché si fosse stancata di dover prendere decisioni modellandole al benessere di Alex, niente affatto, solo ne aveva bisogno. Per una volta, voleva essere lei nel pieno delle sue facoltà a fare qualcosa, a donarsi della felicità spontaneamente. Voleva disperatamente la felicità, l'aveva sempre desiderata, ma per averla aveva bisogno di Lui. Senza Brian, Carol non poteva essere una donna completa, perché le sarebbe sempre mancato qualcosa. E quel qualcosa era troppo importante per essere trascurato. -Sì- pronunciò, già mentre l'espressione dell'amato si era fatta sconfitta. Lui alzò la testa di scatto, sorpreso. Si riscosse subito, però, gli occhi lucidi. Con un gesto lento e solenne, prese la sua mano vellutata con rispetto reverenziale, e infilò l'anello sul suo indice. Poi le loro dita si intrecciarono, e le fronti coincisero sostenendosi a vicenda. Entrambi avevano le guance rigate di silenziose lacrime, ma non potevano dirsi più felici di quel preciso istante. ///////////////// -Carol? Ma dove sei?- urlò Nina. -È andata a rifarsi il trucco- rispose Brian, mentre la accoglieva all'ingresso. Lei lanciò un'esclamazione sorpresa. -Mamma mia, mi hai fatto prendere un colpo, ma ti pare il modo di sbucare così all'improvviso?- esclamò, ma si vedeva che non era affatto adirata. Lui fece un mezzo sorriso in risposta. La donna era in piedi vicino al punto in cui Carol era nuda fino a poco prima. Uno dei tanti, si corresse mentalmente. -Vieni- le disse, prendendole il soprabito. Lei andò ad accomodarsi in cucina. -Che hai da sogghignare?- disse col suo solito tono insolente. -Niente- rispose, ma questo lo fece ridacchiare ancora di più. Alex, alla fine, aveva telefonato che si sarebbe trattenuto un'altra sera. Erano tranquilli: era alla casa in fondo alla strada e, stando a Carol, la madre dell'amico era una persona splendida. La donna cominciò a lamentarsi di qualcosa, tanto per cambiare, ma lui la lasciò ai suoi drammi. Salì invece le scale, ed entrò nel bagno senza neppure bussare. -Hey!- disse la sua Regina, intenta a chiudere la cerniera del vestito. -Eddai! Non dirmi che ti fai problemi per queste cose- aggiunse malizioso. Lei arrossì e sbuffò, continuando ad armeggiare davanti allo specchio. Lui arrivò subito dietro alle sue spalle e, facendo risalire lentamente le mani lungo la sua schiena dai glutei alle spalle, le richiuse l'abito. -Grazie- disse lei, dandogli un bacio veloce. Era ancora scompigliata per le ore frenetiche di quel pomeriggio. La vide sparire in fretta oltre il corridoio, e sentì le voci sua e di Nina che si scambiavano mille convenevoli. Sospirò e scese anche lui, rimanendo appollaiato sullo stipite della porta. Godersi lo spettacolo dell'amata ai fornelli era la cosa migliore di tutta la cena, deliziosa come la solito. -Sembri un corvo, così magro e vestito di scuro- osservò la donna, mentre Carol le lanciava un'occhiata torva. -Lo so- rispose sornione. -Lo preferisci in giallo?- domandò sarcastica la sua Regina, commentando il vestito di Nina, proprio di quel colore. Lei alzò le mani in segno di resa. -Colpita e affondata- commentò, e la ragazza rise soddisfatta. Anche Brian si lasciò sfuggire un sorriso. Poi il campanello trillò. -Nina- disse Carol, con uno sguardo complice a Brian, -andresti tu per favore?-. La donna sbuffò, ma si alzò e Brian la fece passare, beccandosi pure un'espressione raggelante. Poco dopo avvertirono lo schiocco di una porta e l'allegra e sfrontata voce familiare dire:"Oh, ma chi è questa incantevole signorina?". Subito dopo, apparve in cucina un uomo allampanato, con la barba e i capelli che gli arrivavano alle spalle. -Jeordie!- urlò subito la ragazza. -Carol!- rispose il bassista, spalancando le braccia e accogliendola in un caldo abbraccio. -Mi sei mancato un sacco! Quanto tempo!- dicevano entrambi, e Nina e Brian se ne stavano in disparte, a sorridere davanti alla scena. Risero e si abbracciarono più e più volte. Carol non lo trovava così cambiato, in effetti: un accenno di maturità avevano segnato il suo viso, ma nulla che l'avesse distorto. Lo sguardo vispo e sfrontato era rimasto intatto, a far brillare la pelle abbronzata. -Sembri Gesù- commentò Brian guardandolo. -E tu un corvo- rispose il bassista. Nina contenne a fatica una risatina. Solo allora Carol notò che l'amico aveva le mani occupate; in una c'era una bottiglia di vino e nell'altra un pacco. -Carol, ti dispiace se ho portato il dolce? Sono appena stato in Italia, la pasticceria era una tappa obbligatoria-. La ragazza rise. -No, non preoccuparti, appoggialo pure lì-, disse dedicandosi alle pentole. Seguirono minuti di piacevole chiacchierata, dove Nina non smetteva mai di stupirsi dei loro viaggi lunghissimi e faticosi, e di come Jeordie non fosse mai stanco. -Lo ammetto, è stata una bella tirata- raccontò, -ma ormai ci ho fatto l'abitudine. E poi l'Italia è splendida. C'è mai stata?-. Inutile dirlo, ma era un oratore fantastico. Era impossibile non ascoltare meravigliati le sue storie o non rimanere incantati dai suoi discorsi, fatti con una naturale disinvoltura e simpatia. Inoltre, il suo modo velato di flirtare con Nina e condire i discorsi con qualche parola esotica non faceva altro che accrescere la sua aura di uomo fantastico. Si sedettero tutti e cominciarono a mangiare. Dopo pochi secondi, Jeordie aveva già gli occhi che brillavano:-Dio, Carol, è squisito! Quanto tempo che non mangiavamo così, eh?-. Diede una gomitata a Brian, che rise in risposta, annuendo.           Fu una serata magica: parlarono, risero e scherzarono come se quegli anni non fossero mai esistiti, ma fosse passato pochissimo tempo dai giorni della scuola e della loro gioventù. Una certa leggerezza li invase e li trascinò nell'allegria generale. Poi, in un orario impreciso vicino alla mezzanotte, Carol e Brian si alzarono e lui cominciò a dire, nel silenzio stupito. -È passato tanto tempo dall'ultima volta in cui noi tre ci siamo riuniti-  una piccola pausa. -Ma sento che è tutto come allora. Quindi, abbiamo un importante annuncio da farvi-. Fece passare una mano attorno ai fianchi della donna, e la strinse a sé. Fu lei a concludere:-Brian e io abbiamo deciso di sposarci.

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Capitolo 40
*** Capitolo 40 ***


Era completamente una frana in romanticismo. Se ne rese conto guardando Jeordie: era galante ma non smielato, carismatico ma non insopportabile. Sembrava che tutto, in lui, fosse calibrato al punto giusto, che il bruco fosse finalmente diventato farfalla, e nel migliore dei modi. Era inevitabile che il bassista si sentisse attratto da Nina, ed era altrettanto prevedibile che lei si sentisse attratta da lui. Ciò non gli aveva impedito di intraprende un lungo e discreto corteggiamento, nel quale dedicava in modo velato la sua attenzione completamente all'oggetto dei suoi desideri. Lo si capiva dalle parole, dagli sguardi e dai gesti. Brian aveva cercato di comportarsi allo stesso modo, ma si era sentito ridicolo; era come se non riuscisse ad andare oltre una risata, una carezza veloce quando non si era osservati, o una lunga occhiata complice traboccante di passione. Dimostrava il suo amore profondo con dei particolari insignificanti, che nessuno notava. Il pericolo era che forse passavano inosservati persino a chi li riceveva, e cioè Carol. La ragazza si dedicava a lui e al figlio (che aveva reagito entusiasta alle notizie anche se doveva ancora abituarsi al concetto di padre, come Brian, del resto) in maniera assoluta, e ogni cosa fatta era effettuata per loro, senza equivoci. Era una moglie perfetta e un'amante straordinaria, mantenendo viva quella fiamma inestinguibile di originalità. Con lei non era affatto strano trovarsi la sera sul divano a leggere in silenzio con un bel bicchiere di vino rosso, o ballare a musica dal volume oscenamente alto in soggiorno, rischiando di rompere tutto. Fare passeggiate e riscoprirsi da tutt'altra parte era parte della routine: la sera si permettevano di tornare dal cinema anche se avevano dovuto mandare all'aria un appuntamento o chissà cos'altro. Con lei niente era noioso: la vita di famiglia era calda e accogliente, stare a casa nelle giornate uggiose era piacevole come qualsiasi altra cosa, o forse anche di più. Perché tutto, grazie alla sua Regina, diventava ricco e straordinario, con qualità del tutto nuove anche sulle azioni più banali e quotidiane. Eppure, nonostante la sua vita non fosse mai stata tanto felice e rilassata, non riusciva ad evitare quel pensiero costante, quel pungolo fastidioso che gli martellava le tempie, il cruccio che prendeva il sopravvento sulla sua mente ogniqualvolta pensava a Lei, o se la vedeva davanti. Tutto era migliorato- quotidianità, lavoro, vita in generale e umore- però pensava di doverla rendere più felice. Non voleva sentirsi l'unico grato della vita che conduceva. Non voleva che per lei fosse, ancora una volta, tutto dato e nulla ricevuto. Così, seduto al tavolo della cucina, il block notes aperto davanti a lui e una matita appena temperata che aveva da poco finito di rotolare sulla superficie liscia, sentiva il bisogno di scrivere qualche testo. Jeordie e Nina erano fuori a cena. Alex era in campeggio. Carol si stava lavando. Il pensiero di lei nuda ad un solo piano di distanza lo fece sudare, ed era uno dei tanti motivi che gli impedivano di sfoderare la solita cattiveria di sempre, il tono aggressivo di cui necessitava per buttare giù l'idea di una canzone, un embrione di suono, che sarebbe poi diventato uno scandalo da milioni di dollari di incasso. Sempre così. Ma non quella sera. Chiuse gli occhi, appoggiando la fronte sui fogli gialli, fastidiosamente intatti. Nel silenzio della casa, poté sentire il getto d'acqua scorrere sopra la sua testa, dopo aver scorso sull'amato corpo. Che rabbia non essere lì. La sentì canticchiare con voce leggera; era andata da sola perché se ci fosse stato anche lui si sarebbe lavata ben poco, e inoltre il cantante aveva bisogno anche solo di uno straccio d'idea, che non arrivava. Non gli era mai stato difficile scrivere, neanche in quel periodo di profondi cambiamenti, però non era proprio serata. La sua testa vagava negli anfratti di pensieri incompiuti perdendosi in mille ghirigori. Ecco. Si era distratto un'altra volta. Sospirò, si passò le mani sul viso. E poi, ebbe una folgorazione: perché non progettare una sorpresa per Carol? Non era una brutta idea, effettivamente. E più ci pensava, più gli sembrava divertente. Prese la matita (abbondavano in quella casa, a differenza della sua, che ne era talmente prima che si era ritrovato a comporre usando la scia di un fiammifero spento) e cominciò con dei segni incerti nella sua orrida grafia. Regalarle dei fiori. La prima cosa, la più stupida e banale. Scartata. Portarla fuori a cena. Uhm, ardua scelta. Poi sbarrò anche la seconda; Carol odiava i ristoranti, soprattutto se di lusso. Troppi ricordi, diceva. Cioccolatini?, scrisse. Cancellò il punto interrogativo, seguito dal resto. Che idea idiota. Portarla al cinema. Ecco, questo sembrava già più ragionevole. La sala era un luogo scuro, illuminato solo dalla luce dello schermo, e se avesse scelto uno spettacolo serale forse ci sarebbe stata anche poca gente, in modo da poterla abbracciare e tenerla stretta durante lo svolgimento. Ma la tentazione fu troppo forte: un ennesima sbarra. L'irritazione montava di nuovo, proprio quando pensava di averla scacciata. L'idea si sbattere il blocchetto contro il muro e spezzare la matita a metà era molto suadente, ma dover infangare la casa di Carol gli parve un'atrocità, così lasciò perdere. Squillò il telefono, appena in tempo. Si alzò e andò a rispondere, appoggiandosi alla parete della cucina. -Sì?-. -Prooooontooo??- chiese una vocettina allegra. -Ciao campione!- esclamò appena riconobbe Alex. -Come va?-. Si sorbì ridacchiando il dettagliato resoconto delle ultime ore, e gli chiese con apprensione leggermente più bonaria di quella materna se stesse bene. Il bambino affermò di stare benissimo, ribadendo il concetto con forza. Lo trattavano bene, si divertiva e c'erano un sacco di cose interessanti da fare e vedere. -La mamma?- chiese poi. -Si sta lavando, ma se le vuoi parlare di faccio richiamare quando ha finito-. Gli piaceva il tono confidenziale adottato dal ragazzino, e anche sentire la parola "mamma" riferita alla sua Regina. Sperò che un giorno potesse provare il brivido di quell'emozione anche sulla propria pelle. -Oh, non importa!- disse con la solita spensieratezza. -Abbiamo poco tempo prima del barbecue. Salutala da parte mia, ok?-. -Ok-, disse sorridendo, e sentì la gioiosa risata del figlio. -Ops, tempo scaduto. Devo andare- disse. -Ma certo- fece subito Brian. -Divertiti-. Sentì l'esitazione nella voce del piccolo. -Sì?- chiese. Sapeva che non era tutto. La sua voce incerta fu a malapena udibile. -Buonanotte...papà-. Un battito saltato. -Buonanotte, figliolo-. Sentì una risata sollevata e un ultimo saluto, poi riattaccò. Ci volle un po' di tempo prima che rimettesse a posto la cornetta. Si sentiva come un liceale al suo primo amore: un uccellino spaurito e al colmo della felicità. Si sedette al tavolo, meccanicamente. Era diventata la sua parola preferita, improvvisamente, e ricambiare gli era sembrata la cosa più meravigliosa del mondo.///////////////////. I tempi di Carol erano davvero interminabili. Stette quasi un'ora a prepararsi in bagno, e lui, dopo lo stordimento iniziale, decise di dover trovare qualcosa in fretta perché voleva farle una sorpresa subito, coglierla alla sprovvista. E non aveva la scusante di non aver avuto tempo per prepararsi. Camminava nervosamente avanti indietro per la cucina, scervellandosi sempre sulle stesse questioni. E alla fine capì che, se voleva davvero sorprenderla, doveva ricreare la situazione più agognata e mai successa dalla ragazza: il ballo. Ma certo, che stupido era stato! Il ballo, ecco la cosa che le avrebbe fatto più piacere. Un sentimentalismo assolutamente elegante senza però rivangare il passato. Corse di sopra, e spalancò la porta della camera. La trovò che canticchiava nuda davanti allo specchio, mentre armeggiava con la biancheria. Lanciò uno strillo sorpreso mentre la porta veniva richiusa a chiave. Brian le sorrise lupesco:-Ho una sorpresa per te- disse soltanto, e la sua Regina lo guardava attonita. Poi realizzò e mormorò:-Cosa devo fare?                                Le diede una carezza veloce. Chiuse bene le tende e le finestre, infine rischiarò la stanza con delle candele trovate in bagno. Lei lo fissava muoversi ancora lì impalata, svestita quasi completamente. -Carol- disse piano, -vorrei invitarti ad un ballo come non ho potuto fare quel giorno. Ero troppo egoista, e mi piacerebbe molto poter..assaporare quel momento con te-. Sorrise, per farsi coraggio. All'inizio la ragazza non replicò. Poi, con voce a malapena incrinata, gli chiese se poteva aspettare un momento, e scomparve. Lui si sedette sulla sponda del letto, con la testa fra le mani. Aveva fatto bene a rispolverare quel particolare periodo delle loro vite? In fondo, la sera del ballo, coincideva con la fine della loro storia. Si pentì di averglielo detto: forse si era rattristata così tanto da andare a piangere da qualche parte. Sarebbe stato straziante vederla tornare con gli occhi rossi e gonfi, e per un attimo pensò di andarla a cercare. Si alzò, ma dovette risedersi subito. Carol era sulla soglia, lo sguardo basso e un filo di esitazione a colorale le guance. Era..stupenda. La sua figura snella e modellata alla perfezione era fasciata in modo elegante e sobrio da un vestito nero né troppo corto né troppo scollato, che metteva in discreto risalto le sue forme. Aveva legato i capelli con un fermaglio, in un'ordinata rinfusa, senza poter evitare che alcune ciocche le accarezzassero il collo, su cui brillava un piccolo ciondolo. Non era truccata, e il suo viso appariva perfetto anche solo acqua e sapone. Lentamente, come se avesse paura di spaventarla, si alzò e le poggiò una mano sul viso, adattando il palmo alla guancia di lei, morbida e vellutata. Lei, l'amore della sua vita e la madre di suo figlio. -Questo era il vestito che avrei dovuto indossare quella notte- sussurrò. -Sei bellissima- disse lui. -Anche se purtroppo non ho qui lo smoking di mio padre-. Lei ridacchiò. Posò le mani sulle sue spalle e, con un gesto abile, Brian accese lo stereo, e mise a volume bassissimo la canzone da cui era iniziato tutto: Falling In Love, di Elvis Presley. Ballarono come se fossero due goffi adolescenti per la seconda volta, un amore alle prime armi, come se i loro corpi fossero sconosciuti l'uno per l'altra. E poi, con infinita dolcezza, un bacio terminò la canzone, ma non la loro storia d'amore.

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Capitolo 41
*** Capitolo 41 ***


"Tieni duro, amore", pensava. Correva affannosamente per la strada buia, senza riuscire a vederne la fine. L'avevano chiamato d'urgenza  quella sera stessa, appena uscito da una dannata première. Ecco, una curva. Il fiato gelido gli tagliava la gola e si infilava dolorosamente nei polmoni. Non era affatto l'ideale correre in smoking, ma nel suo stato se ne accorgeva appena: si dannava per essere il marito peggiore dell'universo. Un fallimento su tutti i punti, persino quello sportivo, visto che non riusciva a correre più veloce di così. I pochi lampioni che costeggiavano la stradina erano fulminati, o almeno quasi tutti, in modo che non riusciva quasi a vedere dove metteva i piedi. Finalmente, le suole semi-consumate, riuscì a intravedere le luci dell'ospedale. Schizzò nella corsia per le ambulanze senza pensarci due volte e, schivando medici e infermieri, entrò ansante nell'atrio, incollandosi al banco informazioni. Lì c'era un'infermiera di colore grassa e annoiata, dall'aria decisamente poco gentile. Il suo turno doveva finire tra poco: lo si capiva dall'impazienza con cui guardava l'orologio appeso alla parete anonima e bianca. -Sì?- chiese guardandolo storto. -Caroline- riuscì a dire a fatica. -Caroline Warner-. La donna scartabellò qualche fascicolo con esasperante lentezza, fino a trovare quello giusto. -Secondo piano, stanza 15-. Con un cenno del capo la ringraziò. Si chiamava Doreen. Riuscì ad infilarsi nell'ascensore appena in tempo, come unica compagnia un paramedico completamente ricoperto si sangue fresco e ancora caldo. -Piano?- domandò, come si trovasse in una situazione qualsiasi. Brian riuscì solo ad indicare il numero con le dita. Il fiato era tutto concentrato a regolarizzarsi all'altezza dei polmoni, mentre la milza doleva così tanto da esse insopportabile. -Dovrebbe fare più esercizio fisico- commentò l'uomo guardandolo divertito. Se avesse potuto far vibrare le corde vocali senza che la sua voce suonasse stridula, gli avrebbe risposto che lui invece doveva smetterla di ammazzare la gente. Si limitò ad un'occhiata torva all'uniforme sudicia in modo disgustoso. -Non ce l'ha fatta- confermò dispiaciuto lui, pulendosi la mano su un'area intonsa dei pantaloni. Brian rimase in silenzio; aveva recuperato un po' di fiato, ma non gli andava di parlare. Il cantante non era mai stato così preoccupato: un'ansia che gli torceva le viscere e gli faceva girare la testa. Era come se fosse la prima volta che si trovava in una situazione di emergenza, e in effetti era proprio così. Non gli era mai capitato di dover correre fra corridoi esasperamente uguali, tutti asettici e adornati da sporadici quadri mono soggetto: un vaso di plastica con dentro un paio di fiori color pastello, palesemente finti. Il bello era che, nonostante se lo doveva aspettare, non si era minimamente preoccupato, anche perché Carol aveva fatto in modo che lui rimanesse rilassato e calmo durante tutto il periodo. Finalmente le porte metalliche sibilarono aprendosi, liberandolo da quello strazio. Il paramedico rimase dentro, e gli fece un cenno prima di sparire oltre gli altri piani. Brian rabbrividì, avviandosi lungo il corridoio. Le luci, l'aria, il pavimento, i muri, davano un senso di impersonale pulizia. Tutto era estraneo, per nulla accogliente, solo inquietante e terribilmente opprimente. Vide un vecchietto passargli accanto, munito di flebo e ciabatte rosa. Sperò di non aver sbagliato piano. Si avvicinò alla prima porta che vide per prendere riferimento del numero, perché le poche infermiere che bazzicavano la intorno erano già impegnate ad andare avanti e indietro per le stanza, senza dar nessun segno di vedere la gente intorno a loro. Guardò il numero. Un tuffo al cuore. Era la camera 347, e lui doveva arrivare alla numero 15, in pochi minuti di tempo, per giunta. Senza poter correre.                        Sfruttò al massimo le sue gambe lunghe, stendendo i muscoli il più possibile e mangiando passi di secondo in secondo, senza poter sprecare un solo attimo di tempo. Svoltò un paio di volte sullo spazio infinito, tortuoso in modo straziante, guidandosi solo con dei cartelli che, ne aveva il sospetto, lo fecero girare in tondo un paio di volte. Nulla, nella sua vita, gli era parso tanto urgente.  Finalmente, dopo una decina di minuti abbondanti, riuscì a focalizzare la porta giusta. Si sentì fremere e morire e rinascere in un momento soltanto. Recuperò la sua lucidità con molta fatica, e poggiò la mano sulla maniglia tiepida con una sorta di timore reverenziale. Spalancò la porta di getto, ed entrò.      Non fece fatica a trovare Carol, in quanto era l'unica presente (a parte un'infermiera) stesa su un letto di fortuna, le lenzuola di carta macchiate di sudore. Vederla dolorante e affaticata lo fece stare male sul serio, impallidita e provata, e le si avvicinò. Sapeva benissimo come doveva apparire: gelido, con i capelli tutti scompigliati dalla corsa, il colletto della camicia stracciato, i bordi della giacca spiegazzati, le scarpe graffiate e gli orli dei pantaloni sporchi. La sua Regina lo guardò con occhi stanchi, ridacchiando malgrado tutto. -Hey- disse lui. -Sei qui-. Era come se nemmeno ci credesse. -Mi dispiace di non essere venuta, io...- una smorfia e una nuova fitta di dolore non le permisero di terminare la frase. -Shh, non essere stupida, come facevi nelle tue condizioni? Sono io che non sarei dovuto andare-.       -Non darti la colpa- mormorò lei. Parlare stava diventando difficile. Le avevano messo un camice e, evidentemente, stavano ancora preparando la sala. Le accarezzò una guancia. Al posto suo, sapendo quello che stava per succedere, quello che doveva affrontare, il dolore e i brutti ricordi, non sapeva se ce l'avrebbe fatta a rimanere così tranquillo e presente. L'altra donna le disse qualcosa, ma lui non ascoltava neppure, preso com'era dal guardarla. Entrarono altre infermiere ed un medico, che le assicurò che avrebbero fatto presto, e poi uscirono di nuovo. Lui era preoccupatissimo: un mix agitato di sensazioni ingarbugliate sotto forma di uomo. Rimasero soli abbastanza a lungo, poi i dolori di Carol lo indussero ad andare a cercare aiuto. Uscì ed entrò un paio di volte, poi arrivò al colmo della disperazione quando non lo fecero più entrare ed infine la vide uscire. Il dottore lo guardò torvo. -E lei chi è?-.     -Sono il marito- replicò infastidito. Gli disse di seguirlo. Brian deglutì sonoramente. Stava per nascere il loro secondo bambino. ///////////////////// Aveva ripreso a mangiarsi le unghie quella sera stessa. Per volere stesso della partoriente non lo avevano lasciato entrare, e quindi era dovuto rimanere nella saletta attigua ad aspettare incastrato su scomodissime sedie in plastica arancioni, che scricchiolavano ad ogni movimento. A quell'ora della notte non c'era nessuno. Camminava su e giù per il corridoio come un idiota, troppo agitato per stare fermo. Ogni tanto riguardava le lunette delle unghie della moglie impresse sulla sua carne, che gli aveva involontariamente conficcato nel polso prima di essere portata via, durante una fitta particolarmente dolorosa. Il pensiero che dodici anni prima lei avesse dovuto vivere la stessa cosa senza però nessuno al proprio fianco lo faceva sentire un verme, e quella sensazione se la meritava tutta. Ma assieme alla paura, si mischiava l'euforia: sarebbe diventato nuovamente padre! Carol gli avrebbe dato un altro figlio! O meglio, una figlia, per essere precisi. E questo lo agitava maggiormente. Una bambina in casa...chissà come doveva essere.     Il suo stato di ansia era però cominciato già dalla sera della rivelazione. Per una coppia come la loro, era solo questione di tempo: quando non era chiamato al lavoro, le notti erano quasi sempre bollenti. Però questo non gli aveva impedito di rimanere più che mai sorpreso lo stesso.  Da quel momento si era interamente dedicato alla moglie preoccupandosi e prendendosi pure, qualche volta, delle occhiate divertite quando diventava particolarmente ridicolo. Era stupito che la donna non avesse assurde voglie di dolci ad orari strambi della notte o non fosse più irritabile del solito, perché le gravidanze lui se le era sempre immaginate molto diverse, e non ne aveva mai seguito nessuna da vicino. Carol era amabile come sempre e, fino a quando le fu possibile, fece tutti i lavori di casa con una tranquillità sorprendente perché, "cosa vuoi che sia portare un bambino dentro di sé? La parte divertente arriva solo alla fine".     E così lui non poteva mettere bocca su niente nelle questioni di casa ed era stato esplicitamente invitato a dedicarsi alle sue solite attività, ovvero di farsi gli affari propri ed essere meno ossessivo. Jeordie e Nina erano rimasti anche loro a dir poco sconvolti dalla notizia. Ma era durato poco: già il giorno dopo si erano presentati con un sacco di roba da vestire, giocattoli e pannolini come se la piccola fosse già nata. I genitori di Brian, amabili e assolutamente carinissimi sia con lei che con Alex, si erano entrambi commossi. Era stato bellissimo: il padre dava pacche sulle spalle al ragazzo, la madre in lacrime e Carol che si accarezzava soddisfatta il ventre già più rotondo. Erano anche loro ospiti assidui in casa Warner da quel momento, e la coppia apprezzava molto il fatto che avessero posto relativamente poche domande riguardo al loro incontro dopo così tanti anni. Lei li apprezzava molto per questo.    Da non dimenticare era stato Alex. Brian l'aveva segretamente incaricato di prendersi cura della madre quando lui non c'era, e il bambino aveva preso in seria considerazione il suo incarico, e ci si era dedicato in modo lodevole. Quando la vedeva cucinare, la fermava dicendo che non poteva affaticarsi, diceva "ma mamma, il pavimento è pulitissimo" se la vedeva tirare fuori l'aspirapolvere oppure cercava di lucidare lui stesso le finestre. I due genitori gli avevano spiegato della sorellina in arrivo, e lui aveva già programmato quali romanzi sarebbe stato più opportuno leggerle, e ne scartava altri perchè contenevano scene d'azione che avrebbero potuto sconvolgerla. Insomma, aveva accolto la notizia nel migliore dei modi e non vedeva l'ora di potersene occupare.      Un altro uomo trafelato entrò nella sala, spezzando il ritmo dei passi del cantante. Il tizio si guardava in giro con aria spaesata. Sembrò accorgersi di lui solo in quell'istante, un rocker struccatosi in fretta e che non era più elegante da quando aveva cominciato a correre, circa due ore prima, coi capelli al vento e l'espressione spiritata. Curvo e agitato, sembrava un rapace. -Ma lei...è...M..- cominciò a dire, ma Brian lo bloccò subito. -La prego- disse con voce profonda, sufficiente a farlo zittire. -È il primo figlio?- disse poi. Aveva bisogno di parlare, di sentire un minimo di contatto umano in quel momento di forte tensione. Ogni tanto, infatti, poteva sentire delle grida e degli ordini abbaiati in fretta. E ciò non contribuiva a tranquillizzarlo. -Terzo- rispose l'uomo con un sospiro. Si accasciò sulla sedia. -Sono ore che giro in tondo....ho girato mezzo ospedale ma è tutto un labirinto-. Scosse la testa sconsolato. Aveva i capelli folti color castano chiaro, e degli occhi sul verde, un fisico atletico e asciutto, l'espressione da bravo ragazzo. Dovevano avere più o meno la stessa età. -E lei?- chiese alzando la testa. -La seconda- rispose, passandosi una mano sul viso. -Però la prima bambina-. L'altro ridacchiò. -Si prepari a una principessa- commentò sorridendo. Anche Brian sorrise. Quel ragazzo gli era in qualche modo familiare: gentile, pacato, tranquillo, un gigante buono. -Come si chiama?- gli chiese. Erano in una situazione tale che nessuna domanda era inopportuna, ma solo una distrazione da ciò che stava realmente accadendo nella camera affianco. Due bambini che stavano per nascere e due padri preoccupati per le rispettive mogli. -Chad- disse con un sorriso solare, e i due si strinsero la mano.                Brian era un po' perplesso: non aveva sentito tante volte nella sua vita quel nome. Una volta si era trattato di un tecnico audio basso e grassoccio. Un'altra volta, il poliziotto che l'aveva arrestato, un tipo prossimo alla pensione. Ancora più indietro, un passante e la sua identità svelata grazie ad un altro che, passando, aveva urlato a gran voce il suo nome per attirarne l'attenzione. Ma se scavava ancora più a fondo, era sicuro di ricordare una persona entrata e uscita repentinamente nella sua vita, come avevano successivamente fatto tante altre, ma che lì per lì l'aveva abbastanza sconvolto, col suo passaggio, o meglio, non lui in prima persona ma.....Carol. Il fiato gli si mozzò in gola. Lo guardò meglio: era lui, non c'erano dubbi, era il Chad dell'amica della sua Regina, che era sparita assieme a lui, il cui padre si era suicidato dopo poco...il caso che aveva fatto scandalo nel paese, ma a cui lui non aveva dato troppa corda per ciò che era successo alle loro vite nel frattempo! Ma certo! Non c'erano dubbi. Ed era un caso su un milione ritrovare una persona dopo così tanto tempo, anzi, una cosa più unica che rara. Quindi, a meno che il destino non fosse crudele fino a tal punto, la ragazza in sala doveva essere...ehm....com'è che si chiamava? Kelly, sì, doveva essere Kelly. Deglutì sonoramente, e si passò una mano fra i capelli. -Per caso sua moglie si chiama Kelly?- domandò col cuore in gola. Non era emozionato per sé, perché non aveva un legame sentimentale così forte con la coppia, ma lo era per Carol.               Il ragazzo cambiò subito occhiata, guardandolo circospetto. -E lei come fa a saperlo?- più che una domanda, gli sembrava un'affermazione, una risposta positiva. Lasciò andare il fiato tutto d'un colpo. -Non so se ti ricordi di me, ma sono il marito di Carol, la migliore amica di Kelly al liceo-. In caso contrario (ovvero ammettendo l'esistenza di un altro giocatore di football, con una fidanzata o moglie dallo stesso nome e con un età corrispondente) avrebbe fatto una figuraccia.     Il viso dell'altro, invece, si illuminò, dopo un attimo di blackout. -Quella Carol? Caroline Hayes?- chiese strabuzzando gli occhi. -Carol sposata con Marilyn Manson?-. Il cantante alzò gli occhi al cielo. -Brian è Marilyn Manson- ribatté seccato. Una nuova sorpresa. -Brian?!?- esclamò. Dalla faccia sembrava non ci capisse più nulla. La scena fu interrotta da un'infermiera, che entrò nella sala reggendo un foglio. -Mister Warner?- chiese. Come de fosse stato punto, Brian scattò. -Sì?-. Un attimo di palpabile agitazione. Il ragazzo gli fece cenno di non andarsene dall'ospedale. -Può venire se vuole-, disse la donna. Il rocker guardò un secondo Chad e poi la seguì.

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Capitolo 42
*** Capitolo 42 ***


Non appena le posarono la bambina in braccio -dopo averla opportunamente lavata e avvolta in un spugnoso asciugamano rosa- Carol fu investita da un treno di ricordi. Le tornò in mente la gravidanza senza Brian, quasi dodici anni prima, la fatica e l'umiliazione, il piccolo Alex che urlava e piangeva come se volesse tornare nel ventre caldo della giovane madre e quello che sarebbe diventato il suo futuro marito, che la guardava e si chiedeva come una donna meravigliosa come lei avesse potuto essere abbandonata. Ma il senso di vuoto venne subito colmato dalla stanchezza e dai residui di dolore. Con dita tremanti dalla gioia, accarezzò leggermente la guancia rugosa e arrossata della sua bambina, che spalancò i suoi occhi grigi come se la stesse guardando veramente. Era così...piccola. E delicata, per lo più. Mentre nella sala tutti si stavano muovendo, seppur lentamente, il tempo per lei si era fermato: era concentrata esclusivamente sul visetto della bimba, curioso e per ora non somigliante a nessuno dei due genitori. Poi fece una cosa che adorava fare, e con cui aveva disturbato molti sonnellini di Alex quand'era un neonato; allentò l'asciugamano e, piano piano, accarezzò quei piccoli piedini. A differenza del fratellino, la piccola mosse le dita in miniatura in un movimento allegro, come se fosse stata solleticata scherzosamente. Questo strappò un sorriso alla giovane, che la osservava rapita. -Signorina- disse discretamente il ginecologo. Si sentiva un po' dispiaciuto ad interrompere il momento: aveva il viso di chi doveva fare quel lavoro da tanto tempo. Carol sobbalzò per la sorpresa:-Sì?- chiese. Era stata colta alla sprovvista. Il dottore le annunciò la possibilità di far entrare il marito che scalpitava oltre la porta. Lei, naturalmente, accettò senza nessuna indecisione; era giusto che anche lui la vedesse subito. Non aveva potuto godere della nascita di Alex e, a dirla tutta, la giovane moglie era curiosa di sapere cosa si provava ad avere un marito che partecipava alla nuova nascita. Un nodo le si strinse nelle viscere quando non annunciarono l'arrivo del figlio maggiore. Era al cinema con Nina e Jeordie, era da così tanto che programmavano una serata! Chissà se sapevano della novità, ma soprattutto a che ora sarebbero tornati...     Vide l'uomo scansarsi dalla porta e uscire, parlottare per qualche minuto (che lei sfruttò per godersi la bambina e la sua bocca tutta gengive) e poi sparire oltre il corridoio, lasciandola abbastanza perplessa. L'infermiera di turno, col camice leggermente sporco di sangue, smise di sistemare i fiori secchi e clamorosamente falsi per trovare qualcosa da fare fuori dalla stanza. La ragazza era stupita: era sola. Si sentì profondamente abbandonata, ma mentre stava per cedere alla depressione sentì la porta aprirsi con un movimento incerto. Spuntò una zazzera di capelli scarmigliati color dell'inchiostro, che aveva accarezzato mille volte, seguiti da un viso ansioso e raggiante, due sentimenti completamente diversi ma assolutamente appropriati, e poi quel petto, ampio e forte, che la faceva sentire al sicuro. Lo smoking tutto stracciato non riusciva a sciupare la sua eleganza. Fu totalmente impreparata all'arrivo delle lacrime, ma era inevitabile quando ci si sentiva stanchi, doloranti e felici fino a traboccare. Lo vide strabuzzare i suoi occhi fantastici e correre da lei. Sussurrava "shh, non piangere, amore mio" con infinita dolcezza, mentre i singhiozzi la scuotevano minacciando di far piangere la neonata. Si calmò sentendo le sue mani forti sulla sua schiena e le carezze dolci, i baci sulla sommità dei capelli sudati e attorcigliati. Dei "va tutto bene" a malapena sussurrati contro il suo orecchio bastarono a farla sentire subito bene, protetta e amata. Si asciugò le lacrime con la mano libera, sentendosi anche un po' stupida, ma lo sfogo aveva contribuito a fare passare un po' il bruciore residuo che sentiva nel basso ventre. Capì subito, voltandosi verso il marito, che la creaturina l'aveva rapito: la guardava con occhi quasi increduli. -Vuoi tenerla?- disse piano lei. Il contatto visivo fra padre e figlia era forte e curioso, l'uno scrutava l'altro con una sorta d'incredulità sorprendente. Lo vide deglutire e annuire come se non ci credesse veramente, come se si trovasse in un sogno da cui faticava a svegliarsi. Leggermente, per paura di farle male, la sollevò verso le braccia di lui, ancora impacciato nei movimenti in quanto, ne era certa, quella era la prima volta che prendeva in braccio un fagottino così tenero e delicato. -Attento alla testa- disse la giovane madre, come facevano tutte, anche se sapeva benissimo che lui sarebbe stato fin troppo premuroso. Era lampante che la bimba l'aveva subito catturato: se vedeva da come la teneva sul petto e dall'espressione ebete che aveva preso sopravvento sui suoi connotati. La cullò dolcemente, spostando il peso da una gamba all'altra. -Ho paura di spaventarla con la mia voce- sussurrò a Carol senza guardarla. -Che sciocchezze- ribadì lei sorridendo, -è stata quella a farmi innamorare di te-.   Lo vide sorridere. Il sortilegio l'aveva investito in pieno. Non era sicura riuscisse veramente a ragionare o a fare un discorso come si deve, così lo lasciò a godersi il momento osservandoli, esausta, appoggiata al cuscino.         Il secondo parto era stato leggermente più difficile di quello precedente. Non per via delle complicazioni, perché non ce ne erano state, bensì in quanto a stanchezza e spossatezza. Si era concluso tutto abbastanza in fretta, eppure ripensò un po' nostalgica a come il suo corpo di un tempo fosse stato più elastico e preparato alla fatica e allo sforzo. Non che fosse diventata pigra tutto d'un tratto: ma quei dodici anni, per quanto poco, si facevano sentire. Ripensò tutt'a un tratto alle violenza subite in passato, a quanto fosse stato umiliante per lei la scoperta delle cicatrici da parte dei medici. Neppure Brian aveva detto nulla quando le aveva viste, semplicemente aveva finto di non accorgersene. Richard, addirittura, vi aveva posato le labbra dolcemente, in quella porzione di coscia che le impediva di indossare serenamente un costume da bagno. Ma non riuscì ad evitare, neppure in quel momento, di avvampare per l'imbarazzo, anche se nessuno avesse mai dato segno di averle scoperte.      Quando aspettava Alex, aveva passato un periodo in cui era sola al mondo, senza alcuna compagnia. La notte si svegliava sudata e terrorizzata al pensiero che il mostro potesse trovarla di nuovo, e tornare in casa a fare quello che aveva sempre fatto. A spezzare quel poco di serenità che le era rimasto. Piangeva spesso, quand'era a casa da sola, ma le lacrime uscivano ad intermittenza, e una sola una alla volta. Ciò la frustrava e la mandava in crisi, che combatteva accarezzando pazientemente il ventre giurando di essere una buona madre. E poi l'aveva assalita il folle pensiero che il luogo da cui suo figlio sarebbe nato non fosse adatto, fosse sporco, contaminato, orripilante per un bambino, e non era assolutamente il caso di farglielo conoscere. Fortuna che poi era arrivata Nina nella sua vita, a scacciare certe cose dalla sua testa. Nella situazione in cui si trovava, non poteva permettersi assolutamente di crollare come stava facendo. E il bambino l'aveva impegnata quanto bastava per essere all'altezza del suo compito.        Non si era accorta che Brian la stava chiamando, ancora con la piccola in braccio. -Carol, tutto a posto?- domandò preoccupato. Lei sorrise:-Ma certo, sono solo un po' stanca-. Meglio non farne parola con lui, si diceva, altrimenti il senso di colpa lo avrebbe schiacciato più del dovuto. E poi era tutta acqua passata, no? Il suo passato non poteva intaccare il presente, non più di quanto avesse già fatto, perché lei non glielo avrebbe lasciato fare. -Comprensibile- ammise l'uomo, sciogliendosi. Poi il suo viso si indurì di nuovo. Guardò un attimo la figlia, tranquilla fra le sue braccia, poi sembrò trovare il coraggio di parlare. -Quando ti sentirai un po' più in forze, c'è una persona che vorrei farti vedere, d'accordo?-. La ragazza annuì. -Bene- le ridiede recalcitrante la piccola. -Vado a chiare Jeordie. È giusto che Alex veda la sua sorellina.

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Capitolo 43
*** Capitolo 43 ***


Una sensazione devastante nel petto. Una ritrovata serenità accompagnata da un'emozione così forte da non essere quantificabile a parole.  La lingua le si seccò in gola: erano prese allo stesso modo. Ma nonostante gli occhi arrossati, l'espressione confusa, i capelli in disordine, la divisa d'ospedale, non poteva che essere lei. -Carol- aveva sussurrato, prima di spalancare gli occhi di fronte all'amica in lacrime, esplosa in singhiozzi increduli. -Adesso sai piangere!- aveva esclamato.  All'altra venne quasi da ridere. Non si vedevano da tredici anni, e l'unica cosa che si potevano dire era solo una sciocca constatazione, la più familiare e dolce osservazione che avesse mai udito nella sua vita. Il tempo si era fermato; le stanze, corridoi, gli altri pazienti, gli infermieri, la nursery. Solo quelle due figure, in piedi ed immobili, senza coraggio di dirsi nulla, ma che non riuscivano a fare niente, ad esprimere la loro gioia. Due corpi sconquassati da quella cascata, da quella diga esplosa. Quando anche l'altra scoppiò in un pianto tremendamente triste e disperato, finalmente si mossero, per far aderire i loro corpi stanchi in un abbraccio intenso, unendo lacrime, dolori, emozioni e tutta la loro vita. Un intreccio unico e assolutamente sublime. -Pensavo che non ti avrei rivista mai più- singhiozzava Kelly. -Pensavo che sarei morta senza rivederti-. Carol non era presa peggio: dalla gola usciva solo degli strozzati "sei qui, sei di nuovo con me", ma non riusciva ad articolare nient'altro. E non avrebbe nemmeno voluto.      Brian era rimasto del tutto spiazzato, mentre guardava la scena, dalla loro reazione. Entrambe si aggrappavano spasmodicamente l'una alla traversa dell'altra, come se fosse l'unico gancio in grado di rimanere ancorate per sempre, indivisibili. Quando l'aveva portata nella stanza di Kelly, con Chad alla porta nella stessa posa di un bodyguard abbastanza aggressivo, non si era certo aspettato che si riconoscessero e avessero quella reazione spropositata, fatta di farfuglii, singhiozzi e lacrime. Gli si stava spezzando il cuore a vederla soffrire così, ma si ammonì dicendosi che in realtà non poteva essere più felice di così. L'inquietudine, però, non voleva andarsene.    Quando entrambe recuperarono un po' di controllo, Brian scese a prendere del caffè per tutti, lasciandole nelle mani di Chad. Kelly, qualche ora prima, aveva dato alla luce una bambina che avevano chiamato Amy, in onore della madre di Chad che non li aveva mai abbandonati, e che era morta di cancro circa un mese prima. Non riuscivano ancora a dare un nome a quello che sentivano, o a parlare in generale, semplicemente ridacchiavano complici e cercavano di costruire una sorta di normalità discorrendo a fatica del più e del meno. Carol fu informata dell'arrivo degli amici e del figlio, Alex, e chiese che entrassero subito, in quanto non vedeva l'ora di riabbracciarli. I nuovi arrivi entrarono anch'essi tutti scompigliati dalla fretta, e le raccontarono con occhi luccicanti che avevano visto la bimba e l'avevano trovata bellissima, sopratutto il fratellino che era rimasto rapito, perdendo momentaneamente la parlantina di sempre. La donna fece le presentazioni, e Jeordie fu più che sorpreso di rivedere la compagna del liceo perché, anche se la conosceva di vista e le aveva parlato poco, aveva subito avuto una buona impressione di Kelly.    Quando anche l'altro marito tornò nella stanza, si sistemarono tutti nella camera, chi sul letto chi sulle sedie. Carol teneva Alex stretto a sé, accarezzandogli i capelli come quando era un bambino e Brian aveva un braccio intorno alle spalle della moglie; Jeordie era seduto davanti alla coppia, con Nina sulle ginocchia; Kelly, stesa sul suo letto, era circondata dai suoi bambini e dal marito, tanto da sembrare una cartolina.      -Bene. Ora che ci siamo tutti, credo sia arrivato il momento dei ricordi- sentenziò Chad. E da lì cominciarono le ore magiche.

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Capitolo 44
*** Capitolo 44 ***


Kelly e Chad, quando se ne furono saliti sul treno, avevano iniziato a piangere come bambini. Quella fu la loro prima notte da fuggitivi.  Si trasferirono poi, dopo aver esaurito i soldi per pagarsi i vari biglietti di scalo, in un paesino al confine col Canada, dove la vita costava poco e trovare lavoro era relativamente facile.  Essi faticarono non poco per inserisci nella cerchia abbastanza ristretta degli abitanti, però ben presto riuscirono a godere per lo meno del loro rispetto. Non dissero mai che fu facile, perché non lo fu. Chad venne assunto da un falegname, rischiando di tranciarsi un dito ogni giorno, e Kelly cercava di amministrare decentemente la casa e i loro magri guadagni dividendosi fra la propria casetta minuscola e il suo lavoro da badante ad un'anziana vicina, che alla morte le lasciò un'esigua sommetta.   Un paio d'anni dopo, quando credettero di aver superato il trauma ed essendosi ben inseriti nella comunità, decisero di sposarsi: era il 15 luglio, un'estate calda e soleggiata. Il vestito era abbastanza economico, ma Chad asserì che lei era bellissima lo stesso, causano l'imbarazzo lusingato della consorte.  Inevitabilmente la sposina rimase incinta pochissimi mesi dopo, e si fece aiutare da alcune signore di cui si occupava a mandare avanti la gravidanza e a farsi accompagnare all'ospedale, in quanto non aveva una patente di guida.  Poi, nove mesi e mezzo più tardi, nell'ospedale della contea, lanciò il primo acuto strillo la piccola Carol, come decisero di chiamarla i genitori.   L'amica quasi si commosse a sentirla dire così, e incontrando gli occhi dolci e assonnati della bambina, la quale stava placidamente stesa fra le braccia materne, ripensò a quando Alex era un bambino circa della sua età, e a Brian ancora lontano. Ma passò in un attimo, decisa com'era a concentrarsi sul racconto.      Fu lui a continuare: la vita era proseguita tranquilla per diversi anni, durante i quali nacque un secondo figlio, Michael, ed entrambi i genitori cercavano di non far mancare nulla alla famigliola e di dedicarsi anche a loro stessi, se ne avevano il tempo.    Purtroppo, dal momento che la casa si stava facendo decisamente troppo stretta per tutti e anche perché il lavoro di Chad richiedeva un trasferimento, dovettero traslocare ad uno stato di distanza dall'amato paesino, dove si recavano ancora a scadenza annuale.  La città, essendo più grande di un centro contadino, richiedeva meno rapporti umani rispetto all'altra, e integrarsi non fu difficile come prima.   Il ragazzo, infatti, aveva seguito dei corsi serali sotto pressione della moglie incinta, ed era riuscito ad ottenere un diploma che gli assicurò un posto in un ufficio legale.    Conducevano una vita tranquilla, anche se lo spettro del passato gravava su di loro senza abbandonarli mai. -C'erano dei giorni- ammise Kelly, -in cui resistere era difficilissimo, soprattutto quando non avevamo i bambini. Poi, però,  divenne tutto via via più facile, e riuscimmo a conviverci, anche grazie ai ritmi snervanti delle nostre vite-.    Così si concluse la loro storia, in una vacanza fatta in un periodo di quiete, fino a quando la giovane non dovette partorire di nuovo, abbastanza in anticipo rispetto al previsto.     Fu allora il momento di Brian e Carol, i quali dovettero guardarsi negli occhi e deglutire prima di continuare. Alex dormiva: la madre non avrebbe mai sopportato che udisse quei discorsi.  Spiegarono alternandosi cos'era successo immediatamente dopo la loro fuga.   Kelly rimase a dir poco scioccata e lanciò un'occhiata terribile a lui, prima che la donna rettificasse e spiegasse alcuni dettagli. Nonostante la fatica del parto, la donna sembrava più che mai intenzionata a saltargli al collo.   Spesero poche parole sui reciproci matrimoni e vite separate; dedicarono un po' più di tempo al ricongiungimento, alla vita insieme e alla nuova gravidanza, che il marito non si aspettava proprio.  Anche per Jeordie era la prima volta in cui capiva realmente cos'era successo: e con lui facevano due possibili assassini ai danni del cantante, che era letteralmente stretto fra due fuochi. Anche Chad era molto sorpreso, perché mai avrebbe immaginato anche solo che i due sarebbero rimasti insieme.  Ad un tratto, la radio cambiò musica, da ripetitiva e monotona ad un pezzo speciale.  Di nuovo, la voce di Elvis colmò la stanza, nella canzone che aveva fatto da colonna sonora alle loro esistenze, che li aveva accompagnati all'altare e anche durante il loro personalissimo "ballo studentesco", fatto nella camera matrimoniale cercando di non rompere il mobilio.    -Un momento!- esclamò Jeordie. -Ti ricordi quando ti avevo raccontato del tizio nel vicolo, quello che suonava il basso?- disse rivolgendosi a Brian.   -Certo- rispose.   -Ecco, non mi ricordavo la canzone, ma adesso, sentendola....sì, suonava proprio questa! Il buon vecchio Elvis mi ha salvato la vita!- esclamò sorridendo.    -Ma questa è anche la nostra canzone- disse Carol, sorpresa.  -Ed era anche quella che sentimmo quella sera in treno- mormorò Kelly, subito confermata da Chad.   Si guardarono tutti, ad uno ad uno, anche Nina. Poi, anche se non c'era nulla di divertente, scoppiarono a ridere all'unisono, come dei ragazzini. La situazione, che non era affatto comica, aveva però risvolti incredibili: tutte le loro vite vissute separate erano state accomunate da una musica, una traccia incisa su vinile, un disco che a suo tempo aveva fatto molto successo e che rimaneva ancora un classico senza età, un'armonia spaventosamente dolce e delicata che aveva fatto inconsapevolmente da sfondo a tutte le loro vicende.   -Direi che qui si deve festeggiare- disse Jeordie con aria furba, prima che Nina tirasse fuori dalla borsa una bottiglia di champagne.  -In bagno dovrebbero esserci dei bicchieri- disse pensieroso.    -Ma Jeordie!- affermò Carol ridendo. -Siamo in ospedale, non possiamo bere-, ma era evidentissimo che voleva dire tutto il contrario.   -E perché no, scusa? Dobbiamo celebrare adeguatamente la nascita di due splendide creature, e quando ci ri-capiterà mai una cosa del genere?- il suo sorriso smorzò ogni replica.    Alzarono i bicchieri recuperati da Chad, fecero un brindisi e bevvero ognuno tutto d'un fiato la propria dose, abbondantemente riversata appena fu stata ingerita.   -A proposito- chiese il bassista, bloccandosi. -Come la chiamerete?-.     I due genitori si guardarono sotto lo sguardo attento dei presenti.  Fu Carol a parlare:-Avevamo già deciso per Barbara, come la madre di Brian, però io suggerirei una modifica: che ne dite di Barbara Kelly Warner?-.     L'altra sorrise in modo speciale, prima di ridere allegra. -Mi sembra perfetto- disse, felice.  Levarono di nuovo i calici. -E Barbara Kelly sia!                      //////////////.      ATTENZIONE: è la prima che mi prendo uno spazio nella storia, e purtroppo non avrò il tempo di ripeterlo. Il prossimo sarà l'ultimo capitolo. Mi scuso e mi dispiace che la mia sia diventata una storia tutto zucchero e moine, ma, che ci volete fare? Penso sia l'effetto di EFP. Bè, grazie a tutti coloro che mi hanno sempre seguito, tutti i recensori e tutti coloro che mi hanno sempre sostenuto in questa titanica impresa. Prometto che nel prossimo farò i ringraziamenti fatti bene. The Queen vi ama tutti, ora e sempre. Grazie di cuore (sto piangendo, lo giuro). Al prossimo capitolo.

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Capitolo 45
*** Capitolo 45. ***


Guardava il suo profilo attraverso il vetro che dava sulla veranda: indossava un vestito leggero con una fantasia estiva, allegra e colorata, su sfondo acqua-marina, con quelli che presumeva essere dei minuscoli fiorellini stampati sopra. Nonostante l'abito cadesse largo, la sua figura impeccabile riusciva ad essere messa in risalto comunque, e nel modo migliore.  Aveva un libro appoggiato sulle gambe rannicchiate, che si erano ritagliate un posto sulla poltrona di vimini.    Un cappello color panna a larga tesa la proteggeva dal sole, anche se sullo spazio in legno i raggi non arrivavano.   Inutile dire quanto fosse elegante, anche se aveva una matita a farle da fermaglio per capelli e ogni tanto, lanciando un'occhiata protettiva ai bambini che giocavano sul prato verde, si mordicchiava il bordo di un'unghia, per quante volte lui gliel'avesse fatto dolcemente notare, baciandole il dito affusolato con un "non si fa" sussurrato a fior di labbra.    Accanto a lei, alla sua Regina, si sentiva felice, e non sapeva assolutamente come aveva fatto a meritarsi tutto ciò.  Era una donna splendida, una mamma attenta e una moglie focosa, che riusciva a dare spazio alla vita di famiglia mischiandola a quella di coppia in maniera a dir poco eccellente.     E poi, beh, lo viziava in continuazione, come se fosse un bambino bisognoso d'amore e attenzioni.  Lo cullava finché non si addormentava quando, tornato esausto dalla sala prove, non riusciva nemmeno a chiudere occhio pensando a ciò che lo aspettava il giorno dopo, oppure cucinava dei manicaretti speciali quando tornava per una pausa al volo, e spariva di nuovo pensandola sempre e costantemente. Aveva sempre un sorriso dolce da dedicargli anche se era stanca e affaticata quanto lui, o forse anche di più, e si occupava più che volentieri di tutte le incombenze di casa.   Era sempre stata una ragazza molto attiva, e il non lavorare le stimolava la fantasia in quanto a mansioni: anche se non le mancavano, si sforzava per trovarne sempre di nuove. Passeggiava, puliva sul pulito, cucinava a tutte le ore, rammendava ogni buco possibile e immaginabile sulla biancheria, stirava, appaiava i calzini, metteva in ordine i cassetti, sistemava le cianfrusaglie, si occupava della mansarda, ascoltava tutti i racconti di Alex, leggeva favolette alla piccola Kelly che, più che capirle, rideva per il suono delle parole, cuciva vestiti tutti pizzi e merletti per la bambina e si occupava di qualsiasi cosa con una minuziosità ammirevole.    E Brian, tornando stanco, anzi distrutto, trovava sempre la casa linda e pulita, la cena pronta, i bambini in pigiama (bambini; ormai Alex, per quanto si illudesse, stava crescendo a vista d'occhio, e stava per compiere quindici anni in piena maturità intellettuale e una delicatezza appena accennata da bravo ragazzo, serio e diligente) e una consorte sorridente che lo abbracciava e lasciava che si rilassasse sul divano.   Poi, parlava un po' con Alex, guardava imbambolato la bambina dormire e si dedicava alla moglie, che si lasciava accarezzare e sbaciucchiare quasi fossero tornati al liceo.  Delle volte non aveva la forza di fare altro. Ma quando il lavoro lo permetteva, avendo ritmi molto irregolari, si concedevano completamente l'uno all'altro, e lei lo punzecchiava con un'ardore unico nel suo genere.    Si sentiva amato e protetto, ed era la sensazione migliore del mondo.  Aveva due figli splendidi e una moglie stupenda: cosa poteva desiderare di più?            Andò in cucina, impeccabile come sempre, aprendo il frigo e afferrando una confezione di succo ghiacciato. Se Carol l'avesse visto, gli avrebbe dato una tirata d'orecchi pazzesca, dicendo che le bevande non andavano consumate così gelide, e lo avrebbe obbligato a tenere la confezione fuori sul ripiano per una decina di minuti, come sempre quando lo beccava. "Così impari", gli diceva poi facendogli la linguaccia, e lui la inseguiva su per le scale ridendo come un bambino. Naturalmente la cosa aveva il risvolto più ovvio solo se erano a casa da soli. E, guarda caso, si dimenticava persino della sete, in quelle occasioni.       Seduti al tavolo, c'erano Alex e Carol (la figlia di Kelly e Chad), che facevano i compiti e ridacchiavano con complicità.   La madre aveva ragione: il ragazzo gli somigliava terribilmente, ma con i capelli tagliati come si deve, il fisico atletico e i tratti mitigati dall'influenza materna era proprio un bel giovanotto, per dirla in termini quasi ottocenteschi. Vederlo così cresciuto, e tanto in fretta poi, gli fece venire una fitta di nostalgia, ma non lasciò che ciò intaccasse il suo buon umore mattutino, derivato dal mese di riposo. Era pieno d'orgoglio per il ragazzo, e tanto bastava. Però...il modo in cui i due adolescenti ridevano, parlavano, si muovevano...sottintendeva un risvolto decisamente più tenero della semplice algebra. Insomma, va bene che i tempi erano cambiati, ma non ci si divertiva di certo mentre si facevano calcoli letterali.   Appena fece la sua apparizione, però, si interruppero, ritornando seri di botto e sistemandosi meglio sulle sedie, recuperando distanza fra i loro quaderni. O i loro visi.   Quando avvertiranno chiaramente lo sguardo del cantante su di loro avvamparono simultaneamente, e lo scribacchiare delle matite sulle pagine si fece frenetico e inconcludente.    Chissà perché, quell'immagine gli ricordò lui e Carol da giovani, quando camminavano insieme e giocavano a sorprendersi con piccole tenerezze.   Trangugiò il suo bicchiere di spalle, un po' per sfuggire al caldo afoso di fuori, un po' per lasciare ai due un po' d'intimità.   Prima di uscire, però, non poté impedire a sé stesso di lanciare ad entrambi un'occhiata in tralice che li fece arrossire ancor più violentemente.   Uscì dalla stanza. Ricordava bene quei tempi, e se ci ripensava, trovava ancora più strano essere un padre alle prese con un figlio innamorato. Preferì non pensarci: voleva mantenere ancora un po' l'immagine di un bambino innocente che gli sorrideva chiedendogli cosa ne pensava delle avventure di Tom Sawyer. Perché l'innamoramento faceva parte dell'età adulta, e suo figlio vi stava piano piano entrando. Aveva abbandonato la luce gioiosa degli occhi sostituendola con qualcosa di più mite e tranquillo, che ogni tanto gli davano un'aria riflessiva e intelligente. La sua eccellente applicazione allo studio e allo sport lo lasciava sempre piacevolmente sorpreso, e aveva cercato di prepararsi da tempo all'idea che, a contatto con tutti quei poeti che leggeva ogni giorno, si sarebbe prima o poi innamorato. Ma si sa che, per quanto pensieri si facciano, la realtà è ben altra cosa, e rimase abbastanza turbato. Anche se sempre in modo stupito, accogliendo il tutto come parte naturale della sua nuova, fantastica vita.   Fremette al pensiero di diventare nonno: quella sera ci voleva un discorsetto, non per fare il guastafeste, bensì perché non voleva che succedesse come era stato per i genitori.  Sarebbe stato troppo crudele da sopportare, ancora una volta.      Col bicchiere ormai vuoto, uscì in veranda; le voci chiassose di Michael, Amy e la piccola Kelly riempivano l'aria rendendola allegra e frizzante.  Giocavano a rincorrersi, e le due bambine sembravano un po' malferme sulle gambe, ma non meno agguerrite. Il piccolo non poté che rimanere sopraffatto.     Avvicinandosi silenzioso come un gatto, le lasciò un bacio leggero sopra l'orecchio, sentendola sussultare. Amava sorprenderla.   Gli regalò uno splendido sorriso. -Hey ragazzaccio- sussurrò, baciandolo sulla bocca, stavolta. -Sai di succo di frutta- constatò poi. Storse il naso, con aria vagamente di rimprovero. -E hai la lingua fredda-.   Lui alzò le mani in segno di resa. -Beccato- disse lupesco, affatto dispiaciuto ma intenzionato a rubarle un altro bacio.       La sentì sospirare, ma sempre col sorriso. Era così...tremendamente bella.  Soprattutto nella luce del pomeriggio, protetta dal cappello, vestita così leggera, tanto che le si indovinavano le forme.  Brian stette per un po' a guardare i bimbi giocare, assieme alla moglie seduta lì al suo fianco. -Kelly e Chad?- chiese solo.   La donna sorrise: -Li ho invitati a cena-.     -Saggia scelta-, osservò Brian. Avevano ancora un bel po' di vacanza a disposizione, quindi avevano deciso di sbrigare la faccenda ospiti, fra l'altro molto gradita, nella prima settimana, dedicandosi alla loro famiglia nel tempo rimanente. Il giorno dopo venivano Jeordie e Nina a pranzo, poi la domenica era dei genitori e, il giovedì e il venerdì erano dedicati ad alcuni amici della coppia, conosciuti prima o dopo il matrimonio.   -Senti....- disse il marito dopo un attimo di silenzio. Era la questione che gli premeva di più. La moglie si voltò verso di lui, guardando preoccupata le sue sopracciglia aggrottate: -Cosa c'è?- chiese allarmata.   -Quei due, là dentro...- la sua espressione doveva dire tutto, perché Carol rise come una ragazzina, sembrandolo anche nei lineamenti distesi.   -Shhh-, disse dolcemente. -Lasciali stare-.  Poi gli fece l'occhiolino. Ah, ma allora era un complotto fra madri...non avrebbe mai capito i meccanismi della mente femminile. Tornarono a guardare la scena, sereni e tranquilli.   Tutto, nelle loro vite, si era risolto, e il passato adesso faceva molta meno paura. Le fratture si erano saldate, le ferite rimarginate, e piano piano avevano ingranato la marcia per ripartire meglio di prima, creandosi la loro personale e assoluta felicità.     Carol lo guardò, uno sguardo pieno d'amore e gioia: era grata a quell'uomo per tutto quello che le stava offrendo, per i loro figli e la vita insieme, per tutto quanto. Era felice, come mai prima d'allora.     Tutte le cicatrici sbiadivano, seppur lentamente, ma in modo assolutamente indolore.   Osservò il suo profilo per la milionesima volta, guardando rapita il naso importante, la pelle liscia e chiara, gli occhi di un colore indecifrabile fra il marrone intenso e il verde ombroso. Un colore in costante mutamento ma dalla rara bellezza, soprattutto se trafitto dalla luce calda dell'estate.   Sorrise al vento, che portava un dolce profumo di fiori e allegre risate di bambini: era riuscita, finalmente, a portare il suo principe oscuro in una vita felice, ed era questa la cosa che contava di più.   Finalmente, il mondo non faceva più paura, là, in quel posto che si trova Oltre le Tenebre.                      ::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::  Dunque, il momento è giunto.  Quando ho iniziato quest'avventura, non credevo che sarei riuscita a finirla, pensando piuttosto che avrei interrotto tutto a metà come mio solito. Invece, recensione dopo recensione, ero spronata a scrivere con rinnovata energia, perché scoprii che mi faceva sentire bene, che mi aiutava a dare una sorta di normalità alla mia vita sconclusionata. Sono molto affezionata a questi personaggi,( i quali li ho un po' manipolati, lo ammetto), in quanto sono stati i primi con cui io mi sia mai destreggiata. Inizialmente, infatti, tutte le mie storie erano raccontate a voce oppure rimanevano rinchiuse per sempre nella mia mente caotica.    Ma bando alle ciance, parliamo di cose importanti, non voglio annoiarvi. Vorrei ringraziare tantissimo tutti i lettori che hanno seguito la mia storia fino alla fine, a chi si è fermato prima e a chi ha saltato capitoli; per molti saranno anche solo numeri sul contatore, ma per me sono la cosa più importante del mondo, il sale della scrittura. Senza di voi tutti questo non sarebbe stato possibile.     Sono infinitamente grata a tutti i recensori, che mi hanno aiutata con entusiasmo a capire se i miei capitoli non facevano squarciare le vene e potevano restare online, mi rallegravano davvero tanto le giornate.   Grazie alle mie compagne di classe, la maggior parte delle quali non sono su EFP (ma le due più accanite sì, u.u) per avermi dato un sostegno esterno non indifferente, magari senza neppure saperlo.                   Un grazie anche alle persone inconsapevoli che popolano la mia vita in modo più o meno stabile, per avermi tenuta stressata quanto bastava per non addormentarmi sulla tastiera.  Grazie mille, davvero, è stato tanto importante per me (questa ragazza in lacrime vi chiede di non abbandonarla).   E poi, beh, mi scuso per vari errori di battitura, formattazioni deludenti, ritardi e recensioni a cui non ho risposto, ma ero troppo emozionata per trovare le parole. Che dire? Vi lascio alla vostra vita sperando di averla allietata un po'.   Continuate a seguirmi, se vi va :) Alla prossima, The Queen.

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