La sindrome di Sherlock Holmes di CarolPenny (/viewuser.php?uid=7917)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - John. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Molly. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Ogni persona, ogni dubbio. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - L'ispettore Lestrade di Scotland Yard. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Nel posto sbagliato. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - La mia verità non sarebbe bastata. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Mycroft. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - La vittima consapevole. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - La casa piena. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Verità e priorità. ***
Capitolo 12: *** Epilogo. ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
INTRODUZIONE
E PRECISAZIONI.
- Fan fiction
POST-REICHENBACH
- Capitoli scritti in prima persona, ognuno dal punto di vista
di un personaggio diverso (ad alcuni ho dedicato più
capitoli di altri).
- Un doveroso ringraziamento a Charme e al tempo che dedica sempre
alle mie fan fiction.
Buona lettura.
Passeggiare
era diventato il mio hobby preferito. Preferibilmente di giorno,
preferibilmente con il sole. E
quando
pioveva, non c’era affatto da disperarsi. Una bella tazza di
the era sempre
un’ottima soluzione. Vivevo in un nuovo appartamento,
decisamente più piccolo
di quello di Baker Street, ma abbastanza ampio, e il salotto aveva
anche il
camino. Ero riuscito ad avere un prezzo speciale, grazie
all’aiuto della
signora Hudson (santa donna!), conoscente del proprietario e mi ero
subito
trasferito senza pensarci due volte. L’anziana amica aveva
compreso fin dal
primo momento il perché. Durante i primi mesi eravamo
riusciti a parlarne con
tranquillità, ma più il tempo passava,
più paradossalmente non c’era più nulla
da dire. In realtà, più il tempo passava,
più sembrava assurdo pensare
all’accaduto.
Nella
mia mente era diventata una visione surreale e neanche le visite
periodiche al
cimitero erano riuscite a farmi cambiare idea.
“Buon
pomeriggio, dottor Watson!” mi salutò qualcuno
dall’altro lato della strada.
“Salve,
signora Pool!” risposi subito, riconoscendo la donna.
Era
stata una mia paziente diverse settimane prima.
Alla
fine, dopo sei mesi o poco più di semi precarietà
ero riuscito ad ottenere il
posto fisso in un ambulatorio. Inizialmente, si trattava ancora del
‘ambulatorio di Sarah’ (che nella mia disperazione
aveva deciso di darmi una
seconda possibilità – ovviamente solo da un punto
di vista professionale), ma
dopo circa un anno di attività, si era sposata ed era andata
a vivere a
Liverpool. Così il nuovo proprietario era diventato la sua
più stretta
collaboratrice ed io a mia volta ero stato nominato vice.
Un
salto di qualità non indifferente.
Ma se
la mia vita lavorativa stava ormai andando a gonfie vele, non si poteva
dire lo
stesso del resto.
Nei
primi mesi dopo l’accaduto avevo ripreso la mia terapia in
modo più frequente,
ma dopo quasi un anno avevo deciso di prendermi una pausa anche da
quello,
perché le sedute erano diventate noiose, asfissianti ed ero
praticamente
diventato apatico e poco collaborativo. Avevo completamente abbandonato
il mio
blog, nonostante capitasse, ogni tanto, di visitarlo e mi accorgevo che
molte
persone continuavano a seguirlo, per via di commenti di
supporto o simili ai miei vecchi articoli.
“Perché
sono tutti così interessati alla mia vita?” mi
ritrovavo a pensare il più delle volte, con molto fastidio.
Dopo un po’, anche
quelli però cessarono.
In
ogni caso, era stato proprio il lavoro a salvarmi. Erano gli unici
momenti in
cui riuscivo ad esprimermi al meglio, ed ero soddisfatto di
ciò che facevo.
Proprio all’ambulatorio avevo conosciuto un paio di persone
con cui ero uscito,
ma nessuna di queste relazioni era durata a lungo. Non più
di qualche settimana
ciascuna. Ero proprio svuotato, e non riuscivo a comprendere il
perché. Al
momento però, stavo uscendo con una nuova ragazza, e le cose
sembravano andare
decisamente meglio. La storia stava durando da quasi tre mesi e lei
sembrava
essere molto comprensiva con me, lasciando che io avessi i miei spazi.
Ed era
durante quelle ore che mi dedicavo a lunghe passeggiate per il centro
di Londra.
Il più delle volte mi ritrovavo ad osservare le persone e
cercavo di capire di
cosa stessero parlando, o cosa facessero nella vita, o magari quanti
anni
avessero. Mi rimproveravo il più delle volte. Questo era
quello che faceva
sempre lui.
Ma non
me ne accorgevo. Era diventata un’abitudine inconscia.
Improvvisamente
la mia attenzione si rivolse verso la donna che avevo davanti, a cui si
era
rotta una busta della spesa, da cui erano cadute diverse arance e delle
mele.
“Accidenti!”
esclamò lei, con tono lamentoso.
Mi
mossi velocemente per aiutarla.
“Aspetti,
le do una mano.” dissi subito.
Lei
sbuffò, ma poi mi ringraziò, raccogliendo nel
frattempo tre arance e cercando
di inserirle nella busta che aveva nell’altra mano.
“Si
figuri. Questi nuovi materiali sono economici ma il più
delle volte non molto …
” mi fermai improvvisamente guardando più
attentamente il volto della donna e
lei fece lo stesso con me.
Ci fu
un attimo di silenzio.
“John?”
“Clara?!”
esclamai incredulo.
“Oh, mio
dio, da quanto tempo!”
Mi
diede un leggero abbraccio, ma il gesto fece nuovamente cadere le
arance a
terra.
“Povera
me! Sono una pasticciona!” disse facendo una piccola risata.
Io ero
ancora senza parole.
Clara,
la ex moglie di Harry. Erano anni che non la vedevo.
L’aiutai
a mettere le ultime cose all’interno dell’altra
busta, ormai
traboccante.
“Meno
male che abito proprio qui.” continuò a dire,
indicando due porte più in là di
dove ci trovavamo.
“Già,
meno male.” mi ritrovai a rispondere.
Ci
muovemmo verso la sua abitazione.
“Sembri
dimagrito. Non sei mica tornato in servizio?” mi chiese,
prendendo dalla borsa
una chiave e aprendo la porta.
“Oh
no, assolutamente no. Ma sto svolgendo comunque un lavoro.”
Lei
sorrise ed entrò, posando le buste a terra: le arance
caddero di nuovo.
“Prego,
entra pure, John.
Preparo del the, così
parliamo un po’. Mi
fa piacere vederti,
dopotutto.”
Sì,
nonostante ciò che era successo con mia sorella, anche io
ero contento di
vederla. Clara mi
era sempre stata
simpatica.
“Va
bene. Accetto volentieri il the.”
Clara
sorrise e mi fece spazio.
Mi
guardai un po’ intorno e notai subito l’ampiezza
dell’appartamento. Entrammo in
cucina, dove lei appoggiò le buste della spesa sul lavandino
e mise subito
dell’acqua a riscaldare.
“Siediti”
fece verso di me e mi accomodai sulla prima sedia che trovai.
“Hai
una bella casa.” le dissi in modo spontaneo.
“Grazie”
rispose lei con un mezzo sorriso. “Dopo la separazione, vivere nella casa che
avevamo preso insieme
non è stato più così entusiasmante e
stimolante, così sono venuta qui…”
Ok,
pessima domanda. Avevo iniziato nel modo sbagliato, probabilmente.
Lei
però non parve essere imbarazzata e continuò la
conversazione.
“Allora”
si sedette di fronte a me “Dove stai lavorando?”
Le
raccontai dell’ambulatorio e lei mi disse che stava ancora
lavorando nella
stessa azienda di design dove era stata assunta nel periodo in cui si
era
sposata con Harry.
“Seguivo
il tuo blog” disse poi, prendendo due tazze e servendo il
the. “Ma non ci
scrivi da un pezzo.”
Inizialmente
rimasi sorpreso, poi ci pensai meglio. Chi
è che non seguiva il mio blog?
“Beh,
sai… in realtà era solo un mezzo alternativo per
proseguire la terapia di
recupero a cui ero sottoposto. Sono due anni che ho
rinunciato.”
Abbassò
lo sguardo. “Mi dispiace, forse non avrei dovuto chiedertelo.
Dopo tutto quel
periodo di sciacallaggio e speculazione fatti sul tuo amico Sherlock
Holmes…”
Mio dio…
da quanto tempo non sentivo pronunciare il suo nome
da qualcuno?
“Se
ti
può consolare, non ci ho mai creduto.” Clara
ricominciò a parlare guardandomi
con più decisione.
“Una
mia collega vi contattò tempo fa. Mi disse che il signor
Holmes era
bravissimo.”
Eccezionale. Unico.
“Gli
bastò solo un pomeriggio per capire chi avesse fatto sparire
quella somma di
denaro.”
Terminai
il mio the e la osservai mentre sparecchiava e metteva la spesa in
frigorifero.
Non era
cambiata affatto dall’ultima volta che l’avevo
vista, anni prima. I capelli
color caramello (come amava definirli mia sorella) che le arrivavano
giusto
sopra le spalle, gli occhi nocciola, il corpo esile, le labbra sottili
arricciate spesso in un sorriso leggero.
“Come
sta Harry?”
Mi ero
aspettato quella domanda e notai che il tono della conversazione era
diventato
più grave.
“Sta
meglio.” risposi semplicemente e sperai scioccamente che le
bastasse.
“Alla
fine ha accettato di andare in cura?”
“Ci ha
provato e sta meglio” ripetei di nuovo.
Finalmente
sorrise, ma questo mi fece star male.
Le
stavo mentendo spudoratamente, senza che se ne accorgesse, solo
perché non
volevo che sapesse che mia sorella non aveva mai smesso di bere,
aggravando
sempre di più il suo stato di salute. Un giorno, forse,
avrebbe dovuto
ringraziare il cielo per averle dato un fratello medico.
“Ma
certo! Harry e Clara. Lo avevo rimosso.” mi
aveva detto Sherlock il giorno seguente la nostra avventura con il
taxista e la
signora in rosa.
“Rimosso?”
“Harry
Watson, l’assistente del professor De Angelis,
docente di Diritto ed Economia (sicuramente molto più
competente nella prima
disciplina). E’ all’università che
probabilmente si sono conosciute lei e Clara. La proposta di matrimonio
che tua
sorella le ha fatto non è stata di certo durante un momento
intimo. C’erano
almeno duemiladuecento persone intorno a loro.”
Ero
rimasto a fissarlo per diversi secondi.
“Ok, la proposta di matrimonio
è stato un
evento pubblico. Quel giorno a Trafalgar Square si stavano radunando
per un Gay
Pride e la notizia finì su alcuni giornali, ma…
l’assistente del professor De
Angelis, e l’incontro con Clara?”
Lui mi
aveva rivolto quello sguardo pieno di superiorità che era
solito mostrare e mi
aveva risposto con determinazione.
“Conoscere tutti gli ambienti
universitari di
Londra ha i suoi vantaggi. L’incontro con Clara è
stata una deduzione casuale.”
“Dovresti
giocare alla lotteria le tue deduzioni casuali” gli
avevo risposto, facendolo sorridere.
“E
comunque” aveva poi proseguito
“Clara avrebbe dovuto pensarci un po’ meglio prima
di accettare una proposta
così impegnativa. Ci sono sondaggi che indicano , anche se
in piccole
percentuali, che l’alcolismo può essere un vizio
maturato prima dell’eventuale
drammatico episodio che è solitamente causa di azioni
autocommiserative… e
credo che sia proprio il caso di Harry.”
Aveva
girato lo schermo del suo computer verso di me, mostrandomi la foto
famosa in
cui Harry, inginocchiata, aveva chiesto a Clara di sposarla e mi aveva
indicando prima l’anello che le stava porgendo e poi la
bottiglia di birra
stretta nell’altra mano.
Quell’amaro
ricordo si interruppe nel momento in cui Clara accese il lampadario,
visto che
ormai si stava facendo buio. Capii che era arrivata l’ora di
togliere il
disturbo.
Mi
alzai.
“Grazie
per il the, Clara. E grazie per la conversazione.”
“Grazie
per le arance.” rispose lei riferendosi al piccolo incidente
di prima. “Spero
di rivederti. Sei sempre stato gentile con me, John.”
Mi
accompagnò alla porta.
La
salutai alzando la mano e poi raggiunsi il marciapiede.
La
serata era limpida e fresca, tipico del mese di Maggio, e prima di
incamminarmi
presi un bel respiro.
Visto
che ormai si era fatto buio, ed ero a piedi, decisi di abbreviare il
percorso
fino al mio appartamento tagliando per un’altra strada. Mi
resi conto troppo
tardi che, seppur più breve, quel tragitto alternativo mi
avrebbe portato anche
a Baker Street.
Fermarmi
davanti al 221b non era stata la mia iniziale intenzione. Ma mi ero
sempre lasciato
guidare dai miei passi ed ora ero lì.
Alzai
lo sguardo verso il primo piano. Era tutto buio, era tutto immobile. Se solo avessi avuto
un’immaginazione più
sviluppata, probabilmente avrei visto quelle tende spostarsi, o qualche
ombra
muoversi proprio lì dietro, ma non c’era
più nessuno, ormai.
Era
una casa vuota.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 - John. ***
JOHN
“Dottor
Watson?”
Alzai immediatamente il capo e guardai l’infermiera
che era entrata nel mio studio.
“C’è la signorina Morstan proprio qui
fuori.”
Feci un mezzo sorriso sorpreso e continuai a
guardare la donna, che attendeva una risposta.
“Ehm, certo,
falla
entrare!” dissi infine “Ovviamente se non ci sono
più pazienti in sala
d’attesa.” aggiunsi. Troppo
tardi però,
perché Mary era già entrata.
“Ciao, tesoro!”
esordì lei, con allegria.
“Ciao!” le risposi subito, notando la busta
che aveva in mano, da cui fuoriusciva un odorino interessante.
“Ti ho portato il pranzo.” continuò,
dandomi
un bacio sulla guancia.
“Mary,
lo sai che per motivi igienici non mi è permesso mangiare
qui.”
Il suo sorriso si spense e la sua espressione
divenne triste, così pensai subito a qualcosa per poter
rimediare.
“Il mio turno è quasi finito però. Se
Susy mi conferma
che non c’è nessuno in sala
d’attesa posso uscire un po’ prima per mangiare
insieme a te. Potremmo andare al parco dietro
l’angolo.”
Mary sorrise di nuovo.
Che cosa mi aveva
colpito di lei la prima
volta che l’avevo vista? Probabilmente i suoi occhi chiari,
che quel giorno
erano in perfetta sintonia con il vestito verde acqua che indossava.
Era una
donna molto solare, di qualche anno più giovane di me. Era
solita vestirsi alla
moda ed amava parlare tanto. Conoscevo una piccola parte della storia
della sua
famiglia, che lei stessa mi aveva raccontato quando ci eravamo
incontrati la
prima volta, a Scotland Yard, alla fine dell’anno appena
passato. Suo padre le aveva
lasciato un’eredità misteriosa, e nessun detective
fino ad allora era riuscito
a capire da dove provenisse.
“Finalmente le temperature stanno aumentando.
L’estate sta arrivando.” Commentò lei,
la testa poggiata sulla mia spalla. Ci
eravamo seduti su una panchina e io stavo ancora terminando il panino
che mi
aveva portato.
“Già.” risposi semplicemente, ingoiando
il
boccone. Parlare del tempo meteorologico non era il mio forte.
“Sai a cosa pensavo?” continuò lei,
noncurante “Che ne dici di venire a cena da me,
stasera?”
Cucinare era decisamente una sua qualità, e
io non avrei potuto chiedere di meglio, soprattutto dopo una giornata
di
intenso lavoro, che avrei terminato alle otto e mezzo.
“E’ un’ottima idea!” risposi
entusiasta.
Lei mi strinse un braccio.
“Arriverò per le nove.”
*
Finalmente il turno
era finito e non vedevo
l’ora di poter tornare a casa per una doccia ed andare poi da
Mary per la cena.
Chiusi l’agenda e la rimisi in borsa. Presi i
vari strumenti usati quel giorno e li riposi nel cassetto della
scrivania. Mi
tolsi il camice e lo andai ad appendere all’interno
dell’armadietto.
Infine, presi giacca e borsa e uscii.
Avevo appena messo piede fuori
dall’ambulatorio quando il mio cellulare squillò.
Prima pensai si trattasse di
Mary, o al massimo di Harry, invece mi sorpresi di leggere sul display
il nome
di Gregory Lestrade.
Mi schiarii la voce.
“Pronto?”
“John, sono Lestrade. Spero di non
disturbarti. Ho assolutamente bisogno del tuo aiuto.”
Inizialmente non seppi cosa rispondere. Non
sentivo il commissario di Scotland Yard da diversi mesi.
“Che cosa succede?”
Dall’altra parte, sentii l’uomo sospirare.
“Ho bisogno che tu visiti un corpo. Oggi due
medici sono in malattia e Anderson è assegnato ad un altro
caso.”
Cominciai a riflettere tra me e me in cerca
di una risposta.
Come poteva Scotland Yard essere a corto di
medici? E perché dopo tanti mesi Lestrade doveva chiamare
proprio me? Tra
l’altro, avevo la cena da Mary e non avrei potuto
assolutamente tardare.
“Un corpo, dove?”
La mia risposta invece fu decisamente diversa
rispetto ai miei ragionamenti.
“Vicino alla Battersea. Puoi venire?”
La mia mente ormai era volata direttamente a
quel cadavere e al mistero che si celava dietro di esso. Era il solo
modo per
scoprire il motivo per cui Lestrade aveva chiamato proprio me. La mia
curiosità
aveva sempre superato di gran lunga ogni pensiero razionale.
Così era stato
anche in quel momento.
“Sono al centro di Londra” risposi
guardandomi intorno in cerca di un taxi. “Dovrei
chiamare…”
“Dimmi esattamente dove sei. Mando qualcuno a
prenderti.”
C’era decisamente qualcosa sotto. Terminai la
chiamata con Greg e mandai un sms a Mary
“Farò
un po’
tardi. Per favore, aspettami.”
*
Come avevo previsto,
l’incontro con Lestrade
fu parecchio strano. Mi accolse con serietà, dandomi
però un’ affettuosa pacca
sulla spalla.
La nostra non poteva definirsi proprio un’amicizia
profonda, neanche dopo quegli anni di indagini seguite insieme, e non
lo era di
certo diventata neanche dopo il tragico evento di tre anni prima. Si
era messo
in contatto con me diverse volte dopo quel giorno, ma pian piano sempre
più di
rado.
Gregory Lestrade aveva passato un periodo
d’inferno nel quale la sua posizione all’interno di
Scotland Yard era stata
messa seriamente a rischio.
Dopotutto, il processo contro Sherlock Holmes
era partito proprio da lì.
Testate giornalistiche, reti televisive e
siti web non avevano parlato d’altro per mesi. Era stato il
motivo per cui
avevo deciso di lasciare Baker Street, troncando per un po’
ogni tipo di
rapporto di amicizia instaurato fino ad allora.
Ma in quel momento fu come se tutto quel
tempo in cui non ci eravamo rivolti la parola non fosse mai passato.
Eravamo
uno di fianco all’altro, separati da uno spazio vuoto che un
tempo era stato occupato
da un amico comune.
Cercai di non farci caso e iniziai a visitare
il corpo che mi aveva indicato.
Notai subito che la vittima indossava vestiti
sporchi e di seconda mano, e lo stesso si poteva dire delle scarpe e
del
cappello. Sembrava un senzatetto a tutti gli effetti.
Dopo un paio di minuti, mi alzai.
“Ehm… sul corpo della vittima sono presenti
evidenti segni dovuti a delle percosse. Dei bruttissimi lividi, uno
sullo
zigomo destro, e altri due al livello del ventre. Poi ci sono tracce di
sangue,
fuoriuscito da naso e bocca. Tuttavia, non credo affatto sia morto a
causa di
queste ferite. Sono superficiali. Penso abbia avuto un infarto,
probabilmente
per la paura, o per il dolore. Ed è morto, su per
giù, non più di tre o quattro
ore fa.” mi inumidii le labbra con la lingua e terminai.
“Ovviamente l’autopsia
saprà darvi delle risposte definitive.”
Guardai Lestrade direttamente negli occhi e notai
che stava sorridendo sommessamente.
“Grazie, John” disse “Sapevo che saresti
stato veloce e affidabile.”
Poi sorrise un po’ di più.
“Ehm, sì, certo. Prego” tossii
leggermente,
cercando di capire il perché della sua allegria.
“Avete scoperto chi era?” ricominciai
riferendomi alla vittima.
Lestrade si fece più serio.
“Non abbiamo trovato documenti. Si tratta di
un clochard.”
Sorrisi tra me e me, felice di averci visto
giusto dal primo momento.
“La nostra speranza è quella di ricavare
qualche altro indizio grazie alle telecamere presenti nella
zona” riprese
Lestrade, di nuovo sorridente, anche se era evidente che cercasse di
nasconderlo.
Mi guardai intorno.
“Non vedo il sergente Donovan” notai.
Greg mi sorrise ancora, si guardò intorno a
sua volta e prendendomi per una spalla mi fece allontanare dai suoi
colleghi.
“E’ stata mandata ad esaminare un altro caso
stasera, insieme ad Anderson” rispose, poi abbassò
la voce “E devo ammettere
che è un vero sollievo per me.”
Mi stupii leggermente di sentire quelle parole,
ma tutto sommato, in cuor mio, ne fui decisamente felice.
Donovan e Anderson. Avevo cercato di
rimuovere quei nomi dalla mia vita. Tutto quello che avevano fatto per
infangare il nome di Sherlock in quegli anni era bastato a farmi
prendere
quella decisione e niente mi avrebbe fatto cambiare idea.
“Beh, dunque questo è il vero motivo per cui
sono qui? Hai approfittato del fatto che loro non ci fossero?”
Lestrade rise silenziosamente.
“Vorrei tanto che fosse così e magari
assumerti a tempio pieno, John, ma non è il vero motivo per
cui ti ho chiamato.
Ci sarebbe ancora una cosa che vorrei tu facessi per
me…”
Dunque i miei sospetti si erano rivelati
fondati. Mi indicò di nuovo il corpo.
“Speravo tu potessi dirmi qualche altra cosa
riguardo l’uomo morto.”
Guardai Greg senza capire.
“Quello che ti ho detto poco fa è tutto
quello che sono riuscito a ricavare, non posso…”
Lui mi interruppe.
“Non intendo da un punto di vista medico”
precisò “Forse lo conosci”
Ci avvicinammo di nuovo al corpo e guardai attentamente
il viso della vittima. Rimasi a fissarlo per molti secondi, poi scossi
la
testa. Non mi diceva assolutamente nulla.
“Mi dispiace, non so chi sia. Perché mai
pensi che dovrei conoscerlo?”
“Beh…” rispose subito lui “Era
uno dei
senzatetto amici di Sherlock.”
Aprii la bocca ma poi la richiusi subito,
senza sapere bene cosa rispondere.
“Speravo potessi dirmi come si chiamava, se
questa è la zona in cui viveva, perché mai
qualcuno avrebbe dovuto aggredirlo
in questo modo…”
Lo interruppi.
“Greg, aspetta un attimo. Ho capito bene? Mi
stai chiedendo se conosco quell’uomo solo perché
era uno dei tanti senzatetto
in contatto con Sherlock?” dissi quel nome senza pensarci,
anche se non lo
pronunciavo da tanto tempo. “Io non sono un detective, anzi,
io non sono lui. Sì, lo
aiutavo, sì, mi
piaceva dovermi mettere alla prova, anche
se inevitabilmente non sarei mai riuscito a raggiungere neanche un
quarto dei
risultati che la sua mente elaborava in un minuto.”
Mi fermai un attimo per riprendere fiato,
guardando Lestrade scuotere la testa. Improvvisamente mi sentii
stranamente
irritato.
“Questo è il tuo lavoro, non il mio. Ed io
non sarò mai come lui. Non potrei mai arrivare a
sostituirlo.” terminai
amaramente.
Avevo cercato di smettere. Avevo cercato disperatamente
di non pensare a quello
che Sherlock avrebbe detto o fatto di fronte ad una qualsiasi
situazione, ma i
suoi commenti sarcastici, sbrigativi e dannatamente
esatti, erano rimasti indelebili nella mia mente.
Il sorriso di Lestrade si spense improvvisamente.
“Ho capito” disse “E hai ragione. Tu non
sei
Sherlock. Ma se mi fido di te è soltanto per merito
suo.”
“Ti ringrazio per la fiducia, ma non credo
che Scotland Yard voglia avere il migliore amico dell’impostore Sherlock Holmes tra i
piedi.”
Greg sorrise di nuovo. Lo stesso sorriso di
quando ero arrivato.
“Le cose cambieranno, John”
Non capii l’allusione e lui se ne accorse
notando la mia espressione confusa.
“Non pensiamoci ora.” disse
sbrigativamente “Grazie
per il tuo
aiuto. Trasferiremo il corpo al Barts. Dovrai firmare alcune carte per
la
visita di stasera. Ti aspetto domani mattina, per le otto e
mezzo.”
Annuii.
“Buona serata.”
Mi congedò con un sorriso. L’ennesimo di
quella serata, di cui proprio non riuscivo a capire il senso. In
realtà, avevo
sperato di incontrare Lestrade per avere delle risposte, per
comprendere il
motivo reale del nostro incontro, ma allontanandomi, l’unica
cosa di cui mi
resi conto fu che invece mi stavo portando dietro più
domande di prima.
Quando il taxista
mise in moto, dopo avergli
dato il mio indirizzo, notai l’ora segnalata dalla
televisione accesa. Erano
quasi le undici.
Imprecai sottovoce.
Mary. La
cena. Ed io ero in ritardo.
Recuperai il cellulare dalla tasca, che scoprii
essere scarico.
Ovviamente
sempre nei momenti meno opportuni.
Chiesi al
taxista di fare una deviazione, ma
quando arrivai sotto casa di Mary nessuna luce era accesa, quindi
probabilmente
era già andata a dormire. Così, proseguii verso
il mio appartamento.
La prima cosa che feci appena entrai, fu mettere
il cellulare sotto carica e quando finalmente lo accesi mi arrivarono
cinque
sms e due chiamate che avevo perso. Tutti da parte di Mary, ovviamente.
“Stai
arrivando? La cena è quasi pronta.”
Era il primo sms, delle 21:07.
“Spero
che non sia successo nulla di grave.
Avrei voluto passare questa sera con te, visto che
è un giorno
importante. Fatti sentire appena puoi.”
Era invece l’ultimo messaggio, delle 22:33.
A quanto pare, non era arrabbiata. Questo mi
fece sentire un po’ più sollevato, ma allo stesso
tempo sentivo comunque di
essermi comportato male. Per di più, di quale giorno
importante stava parlando?
Mi ero per caso dimenticato il suo
compleanno? No, cadeva in Novembre, ne ero quasi sicuro. Cercai di fare
un paio
di calcoli mentali e arrivai alla conclusione che probabilmente in quel
giorno
festeggiavano tre mesi insieme.
Strano. Già così tanti? Più che altro,
non mi
ero reso conto di come il tempo fosse passato così
rapidamente. Dopotutto,
quando ripensavo al mio
trasferimento in quell’appartamento, sembrava sempre che ci
fossi entrato il
giorno prima, o al massimo due.
Nonostante gli anni, non ero mai riuscito a chiamare casa quelle piccole stanze.
Mi feci una doccia veloce, mi preparai un
panino e poi andai a letto.
Avrei trovato il modo di farmi perdonare da
Mary, magari invitandola a cena fuori. Alla fine del mese, quando mi
sarebbe
stata data la paga dall’ambulatorio, avrei potuto anche
permettermi un buon
ristorante. Sì, avrei fatto decisamente così.
Mi addormentai quasi subito, dopotutto, la
serata era stata inaspettatamente faticosa e più lunga del
previsto.
Entrai in un sonno disturbato, e sognai dei
rumori fastidiosi, prima di aprire gli occhi e scoprire che in effetti
il mio
cellulare stava squillando.
Mi ci vollero parecchi secondi per rendermene
conto e risposi con una sorta di grugnito.
Dall’altra parte, si sentì respirare
faticosamente e poi la voce di una donna.
“John?”
Ripresi un po’ di conoscenza, riconoscendo
subito mia sorella.
“Harry? Sei tu? Cosa succede?”
Accesi la lampada del comodino e guardai
l’orologio. Erano l’una e mezza del mattino.
Harry fece una piccola risata.
“John” un’altra risata “Devi
venire qui”
Mi misi a sedere.
“Qui dove? Non sei a casa?”
Dall’altra parte sentii altre voci. Voci
maschili.
Harry rise ancora.
“Qui. Non lo so dove sono.”
Era ubriaca. Ancora una volta.
Sospirai gravemente e le risposi, cercando di
non alterarmi.
“Guardarti intorno e fammi una descrizione
del luogo.”
Iniziai a vestirmi, prendendo le prime cose
trovate sulla poltrona vicino al letto.
“Sei da sola?” chiesi ancora, perché
sentivo
nuovamente, anche se non chiaramente, delle voci.
Harry non rispose e sentii un paio di rumori
strani. Poi un uomo mi parlò.
“Il signor John Watson?”
Deglutii
“Sì, sono io.”
“Sono l’agente King. Harriet Watson è
sua
sorella?”
Mi venne un colpo.
“Sì. E’ mia sorella.”
“E’ in stato di fermo, perché coinvolta
in
una rissa.”
Mi passai una mano sul volto.
Una rissa?
Prima che l’agente potesse continuare,
risposi.
“Vengo a prenderla immediatamente. Dove devo
venire?”
Un tempo l’avevo tenuta per mano, il suo
primo giorno di scuola. Si era stretta a me, impaurita e con gli occhi
lucidi
di chi non voleva lasciare la propria famiglia per andare in un luogo
sconosciuto.
Ora cercavo di sostenerla, con un braccio
stretto attorno ai fianchi e il suo intorno alle mie spalle. Aveva gli occhi
semiaperti e sofferenti, la fronte
madida di sudore.
“Harry! Harry! Cerca di restare in piedi.
Siamo quasi arrivati!”
Le dissi dopo l’ennesimo cedimento delle sue
gambe.
Una volta a casa, la stesi subito sul letto e
andai a recuperare la valigetta con le medicine.
Secondo gli agenti della polizia, Harry aveva
vomitato fin troppo prima del suo arrivo, quindi, l’unica
cosa di cui avrebbe
avuto bisogno in quel momento sarebbe stato soltanto farsi una lunga
dormita.
Quando le arrivai accanto, mi accorsi che
stava piangendo.
“John. Sto male.” Singhiozzò
rumorosamente
“Ho la testa che scoppia… e lo stomaco in
fiamme…”
Le strinsi una spalla.
“Non preoccuparti, Harry. Ci sono io. Rimarrò
qui accanto a te fino a quando non ti sentirai meglio.”
Lei continuò a piangere e a lamentarsi, e nei
due minuti successivi cercai di farle prendere un sonnifero. Almeno
avrebbe
dormito, e non avrebbe pensato al dolore.
Così, dopo circa venti minuti, finalmente
smise di piangere e chiuse gli occhi.
Sospirai e la coprii con le lenzuola.
Quella era un’altra parte della mia vita con
cui era difficile convivere e che mi faceva stare male da morire. Ogni
volta
combattevo contro me stesso, contro la mia stessa rabbia e il desiderio
di
colpire mia sorella e di farle capire con la violenza che stava
mandando
all’aria la sua vita.
Ma puntualmente mi tornava in mente il suo
viso sorridente da bambina. La mia sorellina Harriet.
Mi asciugai le lacrime e mi sedetti sulla
poltrona accanto al letto.
Le presi una mano e la strinsi.
Badare ad Harry, in realtà, mi aveva salvato.
Mi aveva ricordato che avevo ancora delle responsabilità,
che potevo essere
ancora capace di aiutare qualcuno. Che lo scopo della mia vita era
sempre stato
aiutare gli altri.
Ma chi
avrebbe aiutato me?
Pensavo di
aver trovato quella persona e non
ero riuscito a fare niente quando mi era stata portata via. Non avrei
permesso
che anche Harry mi avesse lasciato per sempre.
Le scostai qualche ciocca di cappelli dal
viso e la osservai mentre dormiva, serena.
Le strinsi ancora di più la mano. Nonostante
tutto, nonostante quello che le era successo quella sera, di cui non
conoscevo
ancora le cause, ero felice che fosse lì con me.
Perché non ero solo.
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Spero
che nessuno di voi sia troppo prevenuto/a nei confronti di Mary. Vi
chiedo di non farlo. Grazie a tutti per le letture e per i commenti.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 - Molly. ***
MOLLY
La casa era avvolta
nella
semioscurità e l’orologio indicava le 23:47.
Quasi dieci minuti alla
mezzanotte, l’orario in cui sarebbe arrivato. Avevo
cominciato a muovere
freneticamente le gambe, a causa del nervosismo. Tutta la stanchezza
accumulata
in quella dura giornata di lavoro era improvvisamente svanita quando mi
era
arrivato quell’sms, all’inizio della serata, da
parte di Mycroft Holmes, in cui
mi comunicava che suo fratello sarebbe arrivato da me a mezzanotte in punto.
Avevo fissato lo schermo del mio
cellulare per diversi secondi, incredula.
Sherlock era tornato a
Londra. Erano passati tre anni. Ed ora sarebbe entrato dalla stessa
porta da
cui era uscito l’ultima volta che l’avevo visto.
Guardai di nuovo
l’orologio.
Le 23:55.
Mi alzai nervosamente dal
divano e camminai avanti e indietro per la stanza.
Il mio comportamento non mi
piaceva per niente. Quando lui se ne era andato, mi ero data un
obbiettivo
preciso, in cui avevo decisamente fallito: non avere più sue
notizie, non
vederlo ogni due o tre giorni nell’obitorio del Barts mi
avrebbero aiutato a
dimenticare ciò che provavo per lui.
Cioè
che provavo ancora, a dire il vero.
Il mio incontro con
lui era
diventato un ricordo indelebile. E a ripensarci, mi veniva quasi da
ridere. Ero
entrata in obitorio, (dopo poco più di sei mesi da quando
ero stata assunta), e
avevo trovato un uomo che rovistava tra i cadaveri, odorando, toccando,
osservando.
Mi ero schiarita la voce.
“Mi scusi. Ha bisogno di
qualcosa?”
Lui aveva subito rivolto lo
sguardo verso di me. Era serio, e calmo.
“Sto controllando che sia tutto in
ordine.” aveva risposto con
nonchalance. “Sono stato mandato dal
ministero della salute.”
Ero entrata quasi nel
panico. Non ero molto sicura circa il comportamento da mostrare durante
quelle
situazioni.
“Prego,
all…ora…” la mia voce
aveva tremato “Le faccio fare il
giro del
piano”.
Lui mi aveva sorriso e mi
aveva seguito.
“Il suo nome?” mi
aveva chiesto subito.
“Sono la dottoressa Molly
Hooper”.
Ci stringemmo la mano,
entrambi con i guanti di lattice.
“Io sono il signor
Harington.”
Dopo diversi giorni di ispezione
(in realtà, l’unica cosa gli
avevo visto fare era stato osservare i cadaveri), mi ero fatta coraggio
e gli
avevo parlato. C’era qualcosa che non riuscivo a capire.
“Mi scusi, signor
Harington” lui non aveva distolto la sua
attenzione dal corpo vicino. “Per
quanto
tempo ancora è prevista questa ispezione? Sa, non per darle
noia, ma con lei
qui, che osserva corpi tutto il giorno, il mio lavoro ha subito un
leggero
rallentamento.”
Finalmente mi aveva
guardato, e notai in lui un’espressione diversa. Non era
sembrata più la stessa
persona incontrata qualche giorno prima.
“Signorina Hooper. Anzi, Molly,
giusto? Ascoltami. Questo posto, questi
corpi, sono proprio ciò che cercavo. Ho bisogno di materiale
su cui lavorare, e
trovo che questi cadaveri rendano i miei studi più
stimolanti e divertenti.”
Ero rimasta senza parole.
“Studi?
Non capisco… lei non è un ispettore
sanitario?”
“Certo che no!”
“E
allora chi è?”
“Il
mio nome è Sherlock Holmes.”
Ero rimasta
ancora più incredula,
senza sapere cosa fare.
Lui si era avvicinato a me
e mi aveva stretto le spalle.
“Ascolta, Molly. Ti ho osservata in
questi giorni, sembri una ragazza
intelligente, forse un po’ triste, sì, una ragazza
triste, e credo che questo
posto non ti valorizzi molto, ma la questione è
un’altra. Qui dentro ci
sono molti cadaveri che vengono utilizzati
a favore della ricerca scientifica e quello che faccio io è
sostanzialmente ma
non ufficialmente la stessa cosa. Quindi, ho bisogno che tu mi faccia
‘studiare’ in assoluta segretezza.”
Avevo sospirato e mi ero
fatta forza.
“Signor Holmes, questi cadaveri sono
proprietà del…”
“Verrebbero
utilizzati per degli esperimenti!” aveva
cominciato a girare per la stanza, gesticolando furiosamente. Mi ero un
po’
spaventata.
“Ho letto bene tutti i documenti. Ci
sono circa dodici cadaveri qui
dentro, e le ricerche sono ferme, ad un punto morto! Lascia che sia io
ad
usarli!”
Mi ero sentita parecchio
dubbiosa.
“Perché
dovrei farlo? Io non la conosco affatto. Mi ha mentito, ed ora dovrei
aiutarla?”
A quel
punto, si era
spostato verso una delle scrivanie, dove vi era un computer acceso, e
mi aveva
mostrato un sito web. Il suo.
Ero rimasta completamente
sconvolta da ciò che avevo letto, e allo stesso tempo
affascinata perché in
quelle parole c’era non solo una notevole conoscenza della
medicina, ma anche
una ricca dose di genialità.
Avevo deciso di dargli una
chance, anche se per un po’ non gli avevo permesso di usare
il laboratorio e
l’obitorio senza il mio permesso e senza che io fossi
presente.
Così era nato e cresciuto
il mio amore per lui.
Averlo avuto accanto
quotidianamente per interi mesi, aver ascoltato i suoi ragionamenti,
osservato
i suoi gesti.
Anche se il suo vero essere
era uscito fuori ben presto.
Non sempre mi aveva
prestato attenzione, e ogni tanto lo avevo trovato già
all’interno
dell’ospedale. Aveva lasciato parecchie volte il laboratorio
di chimica in
disordine e mi aveva fatto prendere un vero colpo quando mi ero accorta
che ad
un cadavere mancavano gli occhi.
Dopo diverse settimane,
avevo scoperto che non ero l’unica persona
all’interno dell’edificio con cui
aveva fatto conoscenza. Lo avevo visto parlare con Mike Stanford.
Poi, un giorno, ero venuta
a sapere che era in cerca di qualcuno con cui condividere un
appartamento e
pensai che fosse l’occasione giusta per poter finalmente
avere un contatto
reale con lui. Ma proprio nella stessa giornata, qualcun altro mi aveva
preceduto, ed era diventato immediatamente il coinquilino di Sherlock.
Avrei
quasi potuto dire che dopo quel giorno, dopo l’arrivo di John
Watson, le cose
erano decisamente cambiate.
Infatti, successivamente,
durante le sue visite al Barts, non era stato più solo, e
tutto quello che un
tempo era stato abituato a fare con me, o quasi, adesso lo faceva con
John.
Ero davvero diventata una
ragazza triste, non solo per la mia esclusione, ma per il fatto di
essermi resa
conto che, in fin dei conti, non avevo mai realmente conosciuto
Sherlock
Holmes.
Non sapevo niente su di lui,
ed ero stata sempre convinta del contrario.
Il momento era arrivato. Il
mio orologio indicava la mezzanotte.
Il mio cuore cominciò a
battere all’impazzata e le mie orecchie divennero molto
più sensibili ai
rumori. Sul mio
viso doveva essere
stampato uno stupido sorriso, me lo sentivo, ma
il pensiero che da un momento all’altro sarebbe arrivato mi
fece sentire
euforica.
Ero una ragazza triste, sì,
ma avevo anche motivo di sorridere alla vita, e molto spesso quel
motivo era
stato proprio Sherlock. Pensare a lui, semplicemente, mi bastava.
Mezzanotte e due minuti.
Ormai era questione di attimi.
Mezzanotte e tre minuti.
Che fosse successo
qualcosa? Magari non aveva preso l’aereo, oppure per qualche
oscuro motivo lo
aveva perso, oppure avevo letto male l’sms e non stava
venendo a casa mia?
Mi precipitai a prendere il
cellulare, ma nello stesso istante, qualcuno bussò.
Presi un bel respiro e mi
avvicinai piano alla porta. Controllai dall’occhiolino della
porta, nello
stesso momento in cui il campanello suonò di nuovo.
“Molly?” sentii dall’altra
parte, a voce bassa.
Mi decisi ad aprire.
La figura di Sherlock
Holmes entrò velocemente.
“Chiudi la porta a chiave.”
Fu la prima cosa che mi disse, andando a posare il borsone che aveva in
mano
sul divano.
Io trasalii e chiusi la porta
in modo un po’ maldestro.
“Cosa?... Siamo in
pericolo?”
Lui si schiarì la voce e
riprese fiato.
“No, ma è sempre bene
essere prudenti.”
Io annuii e chiusi con il
lucchetto. Poi, mi girai verso di lui.
“Beh…” feci una pausa e
sorrisi nervosamente “Bentornato.”
“Grazie” rispose
semplicemente e poi mi guardò più attentamente,
muovendo velocemente gli occhi,
come solo lui sapeva e usava fare.
“C’è qualcosa che non va?”
mi chiese, infatti.
Feci un altro sorriso
nervoso e guardai distrattamente l’orologio.
Lui, allora, annuì.
“Non sono in ritardo, è il
tuo orologio ad andare avanti di tre minuti.”
Dopo così tanti anni,
ancora mi sorprendevo quando dava quel tipo di risposte, quando
riusciva a
capire quali erano i pensieri e le preoccupazioni delle persone.
Alzai le spalle.
“Ti ha chiamato Lestrade?”
mi chiese, togliendosi la giacca che indossava.
“Sì.” Risposi
immediatamente. L’ispettore mi aveva chiamato non
più di un’ora prima.
“Cosa ti ha detto?”
“Voleva sapere se io fossi
al Barts, perché stava portando un corpo per
l’autopsia, ma oggi è il l’unico
giorno in cui non ho il turno di notte.”
Sherlock non batté ciglio.
“Nient’altro?” chiese
ancora. Aveva le braccia incrociate dietro la schiena, e si guardava in
giro.
Annuii, schiarendomi la
voce.
“Mi ha anche detto che John
non ha riconosciuto la vittima.”
A quel punto, prima si girò
verso di me, poi fece un verso di disapprovazione.
“Accidenti a lui e al fatto
che guarda, ma non osserva mai!” riprese il giubbotto e
tirò fuori il
cellulare. “Mi toccherà venire al Barts domani
mattina per il riconoscimento. A
che ora vi siete dati l’appuntamento? Alle 8:30?”
Cominciò a muovere le dita
sullo schermo del telefono.
“Esatto.” Tanto valeva
non farmela proprio quella
domanda!
Ci furono diversi secondi
di silenzio, in cui terminò di scrivere l’sms.
“Sarò lì per le otto, se
non ti dispiace…”
Non capii.
“Ma l’appuntamento è
alle…”
“John non deve sapere che
io sono qui”
Lo guardai sconvolta.
“Cosa? Perché?”
“Non sa che sono vivo.”
Mi portai una mano sul
petto, assimilando la frase che avevo appena sentito, ancora
più sconvolta di
prima.
Lui alzò gli occhi al cielo
e sospirò.
“È una questione troppo
delicata, Molly. John è immischiato in una brutta storia di
cui non è neanche a
conoscenza.”
“E allora perché non glielo
dici?” esclamai.
La situazione mi sembrava
assurda.
“Perché sono coinvolto
anche io.” rispose Sherlock e assunse un’aria
più grave “E non voglio che John
sia usato come mezzo, o esca, per farmi uscire allo scoperto. Come mia
debolezza”.
Abbassai lo sguardo ma
subito dopo mi sentii premere le spalle dalle mani di Sherlock,
così lo guardai
di nuovo.
“Fidati di me, Molly. So
che puoi farlo. Non è ancora il momento di dire a John che
sono vivo. E non
voglio che anche tu venga coinvolta.”
Mi guardò fisso per qualche
secondo, e desiderai che quel momento durasse per
l’eternità, che quegli occhi
non smettessero di fissarmi.
Me
e
solo me.
Annuii.
“Grazie.” Rispose lui,
allentando la presa. “Posso usare il tuo computer,
vero?” il tono di voce divenne
repentinamente più leggero, ma ormai ero abituata a questa
sorta di cambi di
umore così veloci. Sempre se si poteva parlare davvero di cambi di umore.
“Certo.”
Si sedette alla scrivania e
accese la lampada.
In quel momento, riuscii a
vederlo meglio. Il volto illuminato sembrava scarno e notai un accenno
di
barba, che da quando lo avevo conosciuto non
gli avevo mai visto.
Anche i capelli sembravano
leggermente diversi. La sua chioma nera era meno folta, i ricci meno
numerosi.
Gli occhi color ghiaccio invece erano sempre gli stessi. Si muovevano
velocemente, ad indicare che Sherlock era immerso nei suoi ragionamenti.
Rimasi a fissarlo per
parecchi secondi, lasciando che la mia immaginazione avesse il
sopravvento, con
il desiderio sempre più forte di andargli accanto e di
prendergli le labbra.
Il suo cellulare squillò
improvvisamente e io sobbalzai. I miei pensieri vennero interrotti.
“Lestrade ha confermato.
Alle otto al Barts.”
Annuii. Avevo fatto solo
quello durante tutta la conversazione.
“Allora…” iniziai però a
dire,
ma Sherlock mi interruppe subito.
“Buona notte.”
“Se hai fame, ti ho
lasciato della pasta nel…”
“Sì, grazie.”
Mi arresi. Al momento
sembrava troppo impegnato a fare altro per prestare attenzione a
ciò che gli
stavo dicendo.
Mi avviai verso la camera
da letto, ma non ebbi neanche il tempo di aprire la porta della stanza
che, con
mia enorme sorpresa, Sherlock mi chiamò di nuovo.
“C’è qualche problema?”
Lui stava rovistando nel
suo borsone.
“Assolutamente no!” tirò
fuori una bustina bianca “Ti ho portato un souvenir da
Roma.”
Me lo porse, e mi fece segno
più di una volta di prenderlo.
Io ero scioccata.
“Io… non so cosa dire…”
“Sono sicuro si tratti del
genere di cianfrusaglie che piacciono a te.”
Aprii la bustina e tirai
fuori una di quelle sfere contenenti acqua.
“Ho cercato qualcosa che
fosse meno banale del solito, anche se tecnicamente non l’ho
proprio comprato…”
Lo guardai senza capire.
“Il proprietario di quella
bottega mi doveva un favore.” si giustificò lui.
Agitai la palla. Niente
neve. Osservai i quattro monumenti al suo interno.
Riconobbi subito il
Colosseo e la torre di Pisa. A fatica invece mi ricordai del duomo di
Milano.
Il quarto oggetto non era
un edificio invece, ma una statua scura.
“È uno dei famosi Bronzi di
Riace.” mi spiegò Sherlock “Una scultura
bronzea del quinto secolo avanti
Cristo. Sono esposti nel sud dell’Italia.”
Sorrisi.
“Non la conoscevo.” feci
una pausa “Grazie.”
Strinsi il souvenir e mi
sbilanciai, spontaneamente, verso Sherlock, per dargli un bacio sulla
guancia.
Lui non disse nulla, ma si staccò rapidamente.
“Prego.”
Ritornò alla scrivania e al
computer.
Lo osservai ancora per
qualche secondo, prima di chiudermi in camera da letto.
Poggiai la sfera sul
comodino, mi svestii e poi indossai la camicia da notte, lasciando
ancora una
volta che i miei pensieri andassero decisamente oltre la
realtà, e mi trovai ad
immaginare un’eventuale reazione di Sherlock, qualora mi
fossi presentata
nell’altra stanza con nient’altro che quella veste
semitrasparente che lasciava
gambe, spalle e braccia completamente scoperte.
Probabilmente non si
sarebbe proprio girato, non ci avrebbe fatto caso. Oppure mi avrebbe
guardato e
avrebbe fatto qualche commento sgradevole. Al massimo mi avrebbe detto
qualcosa
giusto per liquidarmi.
O chissà, avrebbe detto che
ero più carina, così al naturale, con
quell’indumento che mostrava realmente il
mio corpo.
“Sei
proprio disperata” mi ritrovai a
pensare.
Guardai per l’ultima volta
il regalo che mi aveva fatto, poi spensi la luce e mi infilai sotto le
lenzuola.
Io contavo per Sherlock. E
lui si fidava di me. Forse, per tanti anni non lo aveva dimostrato, ma
poi si
era riscattato grazie a pochissimi gesti. Mi aveva abbracciato e dato
un bacio
sul capo quando era andato via tre anni prima. Era ritornato sempre da
me.
Aveva scelto la mia casa appena rientrato a Londra. Mi aveva stretto le
spalle,
dicendo che non avrebbe permesso che anche io fossi coinvolta nella
situazione
pericolosa in cui, accidenti a lui, si era immischiato.
Mi aveva portato un regalo
da Roma.
Un regalo, solo per me.
Aveva
pensato a me.
Forse
c’era ancora qualche
speranza. Forse gli serviva del tempo.
Adesso era in casa mia,
nella stanza accanto a dove mi trovavo, come un fidanzato o un marito
appena
tornato e che a breve mi avrebbe raggiunto a letto dopo una giornata di
duro
lavoro.
Sentivo che si trattava
solo di illusioni.
Ma quelle illusioni mi
facevano chiudere gli occhi, stringere il cuscino e cadere in un sonno
profondo, tranquillo, privo di preoccupazioni. Che mi cullava
dolcemente.
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Ho adorato scrivere questo capitolo, perché adoro Molly e la
sua dolcezza. Ringrazio infinitamente tutti per le letture e commenti. Ringrazio
anche le persone interessate a questa fan fiction che l'hanno
inserita tra le preferite e le seguite! Alla prossima!
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 - Ogni persona, ogni dubbio. ***
JOHN
C’erano
delle persone in cerchio, intorno ad un corpo steso a terra. Qualcuno
urlava.
Mi
precipitai verso di loro e mi feci spazio. Sull’asfalto
c’era una
donna bionda, il cui viso era completamente ricoperto di sangue. Mi
sentii male, perché la riconobbi. Era mia sorella. Le presi
subito il polso per controllare i battiti, ma mi accorsi che in
realtà non era bionda. I suoi capelli erano neri e ricci, e
aveva
gli occhi color ghiaccio, spalancati e inespressivi.
Non era
Harry, era Sherlock…
Mi svegliai
di soprassalto e quasi caddi dalla poltrona. Avevo un dolore atroce
al collo e ad una spalla. Mi
stropicciai gli occhi e mi resi conto con sollievo che si era
trattato solo di un incubo. Harry era a
letto e dormiva ancora, serenamente. Quella visione mi fece
tranquillizzare, ma l’angoscia provata mentre stavo dormendo
era
stata forte.
Allungai
una mano sul comodino e presi la sveglia. Erano da poco passate le
sette.
Mi alzai,
dolorante, feci una doccia giusto per riprendermi un po’ e
infine
andai in cucina per preparare il caffè. Nel frattempo,
decisi di
chiamare Mary. Quasi sicuramente sarebbe stata in viaggio verso il
negozio di abbigliamento che gestiva.
E infatti,
quando rispose, notai la sua voce affannata, segno che era in strada
e stava camminando. Le spiegai velocemente degli imprevisti della
sera prima e sembrò totalmente comprensiva.
Il più
delle volte, tutta quella gentilezza mi sorprendeva. Non ero affatto
abituato.
“Chi è
Mary?”
Non appena
ebbi terminato la chiamata, mia sorella entrò in cucina,
facendomi
quella domanda. Aveva i piedi scalzi, i capelli arruffati, il trucco
completamente sciolto e i vestiti stropicciati.
Non so
perché, ma quella visione mi fece un po’ sorridere.
“Sono tre
mesi che sto uscendo con lei, non ricordi?” le risposi.
Harry
raggiunse il tavolo, si sedette e sembrò pensarci su.
“Tre
mesi? Ero convinta vivessi con lei, a questo punto.”
Incrociai
le braccia al petto.
“Cosa?
Perché?”
Mia sorella
si versò del caffè.
“Hai
superato i quaranta, fratellone…”
“E con
questo?”
“Beh, un
tempo non avresti aspettato neanche un giorno per andare a vivere con
qualcuno.”
Non capii
subito l’allusione. Sempre se era a quello che voleva
riferirsi.
“Tre anni
fa le cose erano diverse. Non potevo permettermi un appartamento come
questo e di certo non ho ricevuto alcun aiuto dalla mia
famiglia.”
La mia
invece, era stata un’allusione voluta e palese. Forse
suonò
addirittura come una provocazione.
Harry non
rispose e la vidi massaggiarsi la fronte. Mi pentii subito di quanto
avessi detto.
“Come ti
senti?” le chiesi. Il mio tono di voce si addolcì.
“Mi gira
la testa.”
Annuii,
avvicinandomi a lei.
“Inutile
dirti il perché. Però mi sorprende vederti
sveglia a quest’ora.
Ieri notte ti ho dato un sonnifero. Come minimo avresti dovuto
dormire fino alle undici.”
Lei sorrise
e fece una smorfia.
“I
sonniferi non mi fanno più effetto. Dopo averli presi
così tante
volte, il mio corpo ha imparato a combatterli. ”
La guardai
con aria grave. Questa non era affatto una buona notizia. Non solo
alcolista, anche insonne.
“Sarebbe
meglio che tornassi a letto comunque…”
“Credo
invece che mi farò una doccia.”
Harry mi
interruppe, si alzò e si diresse verso il bagno ma io
continuai a
parlare.
“Cosa è
successo ieri sera?”
Lei allora
si fermò e ci volle qualche secondo prima che si girasse
verso di
me. Sospirò.
“Non me
lo ricordo.”
“Avanti,
Harry! Fa’ uno sforzo! Gli agenti mi hanno detto che sei
stata
coinvolta in una rissa, e anzi, forse sei stata proprio tu a
provocarla!”
“Non me
lo ricordo.” ripeté lei, decisa.
“Eri di
nuovo in quel
locale!”
Lei scosse
la testa, sbuffando, e sembrò essere sul punto di alterarsi.
Lo
stesso stava accadendo a me.
“Ti ho
già detto che tipo di persone sono i due proprietari e anche
gran
parte degli individui che lo frequentano. Per l’amor di Dio,
Harry!
Ci sono tantissimi altri bar o pub in cui poter fare quello che vuoi,
ma ti prego, non tornare più lì dentro!”
Lei si
mosse repentinamente e si fece davanti a me. Era senza scarpe, ma
eravamo comunque della stessa altezza.
“Ma cosa
ne sai tu?” parlò ad alta voce tanto da farmi
arrivare un po’ di
saliva in faccia “Se ciò che dici è
vero, allora perché la
polizia non ha mai fatto niente? Perché il JIM’S
è ancora aperto?”
Ci
guardammo per diversi secondi, senza staccare gli occhi l’uno
all’altra.
“Non
abbiamo i mezzi per dimostrarlo, John.”
“In
che senso?”
“Il
signor Kelly è un uomo astuto. Ha insabbiato ogni singola
prova, e
sarà difficile convincere le autorità.”
“Ma tu
sai…”
“NON
ABBIAMO LE PROVE.” Sherlock mi aveva guardato fisso.
“La mia
parola non conta quasi nulla per la polizia. E tantomeno la
tua.”
Non avrei
potuto dare nessuna risposta alla domanda di mia sorella.
Molto tempo
prima, Sherlock aveva scoperto la vera identità del
proprietario del
JIM’S
e lo stretto contatto che aveva avuto con Jim Moriarty (il nome del
locale, ai nostri occhi, sembrava una prova palese). Ma come ogni
uomo vicino a lui, aveva sempre saputo come sfuggire alla polizia e
agli agenti di Scotland Yard. Conosceva tutti i trucchetti per creare
un’identità falsa, senza lasciare alcuna traccia
del suo vero
essere.
Per
Sherlock era stata una questione come un’altra, in
realtà neanche
troppo grave perché nessuno si era fatto male, e non era
stato
nemmeno un vero e proprio caso.
Ma al
contempo era stata una scoperta non molto felice e sicuramente, anche
se non lo aveva mai ammesso, era rimasto rammaricato per non essere
riuscito a dimostrare la verità a chi di dovere.
A volte non
bastava sapere di avere ragione, sapere di aver risolto qualcosa.
Doveva dimostrarlo.
E a volte,
la mia presenza non gli era bastata.
“Lo so e
basta.” dissi amaramente. “Sono tuo fratello,
fidati di me.”
Harry
scosse nuovamente la testa, guardandomi con rabbia. Poi
lasciò la
stanza, in silenzio.
Rimasi
immobile per molti secondi, pensando per l’ennesima volta
cosa
avesse mia sorella.
Ormai avevo
accettato il suo problema, avevo accettato la questione
dell’alcolismo, ma lei sembrava ogni giorno più
distante. Sentivo
che il motivo fosse un altro, che mi stava nascondendo qualcosa.
Era la
terza volta in sei mesi che rinunciava alla terapia ed era la terza
volta che le dicevo di stare alla larga dal JIM’S.
In realtà,
io ed Harry non eravamo mai andati d’accordo. Da
sempre.
Da bambino
mi ero sempre sentito in dovere, essendo il maggiore, di vegliare su
di lei, e quando un giorno, cadendo dai pattini a rotelle, si era
sbucciata un ginocchio, asciugandole sangue e lacrime le avevo
giurato che non avrei mai più permesso che si facesse del
male, e
che se fosse successo, io sarei stato lì a curarla.
Quel
pensiero di bambino, successivamente, si era ingrandito, ed Harry
non era più stata l’unica persona di cui ero
occupato.
Durante i
miei anni di formazione al Barts, poi, le cose erano decisamente
cambiate.
Harry era
entrata a fare parte di un gruppo, composto interamente da maschi, di
cui era stata nominata leader. Era diventata meno comunicativa, con
i miei genitori forse anche più che con me,
a
dire il vero,
e un
giorno si era
improvvisamente tagliata i capelli. I
suoi bellissimi riccioli d’oro…
Infine, la
notizia inaspettata, il giorno del suo diploma:
Era
lesbica.
Ero rimasto
sconvolto per parecchie settimane.
Per di più,
mia sorella aveva cominciato ad odiarmi per via della mia formazione
militare, adulata in modo assoluto da mio padre, a cui invece non
andavano giù le sue scelte.
Harry… ci
era voluto tanto anche per abituarmi a chiamarla in quel modo.
Ma, ai miei
occhi, si era riscattata parecchio durante gli anni
dell’università,
laureandosi con ottimi voti e vedendosi subito offrire il posto di
assistente dal professor De Angelis.
Un giorno,
poi, era anche arrivata Clara, la dolce Clara, che i nostri genitori
non avevano però mai conosciuto. In quel periodo
avevo
invidiato mia sorella
tantissimo, perché avevo visto nei suoi occhi una luce
diversa,
e
quando mi avevano
annunciato il loro matrimonio
ero
rimasto nuovamente
sconvolto, ma anche decisamente felice. Le cose sembravano aver preso
una piega differente tra noi. Harry sembrava fidarsi nuovamente di
me, di suo fratello maggiore, ma quando ero tornato dall'
Afghanistan, ad accogliermi erano stati i documenti per il divorzio,
e un numero non indifferente di bottiglie contenenti alcolici sparse
per tutta la casa.
Guardai
l’orologio. Se non mi fossi dato una mossa avrei fatto tardi
al mio
appuntamento con Lestrade, e soprattutto all’ambulatorio.
Forse,
però, c’era qualcosa su cui mia sorella aveva
ragione. Per certe
persone, andare in analisi o in ‘cura’, non serviva
a nulla.
L’avevo potuto constatare sulla mia pelle e lei sembrava
reagire
allo stesso modo, quindi avevo preso una decisione. Mi sarei occupato
personalmente della situazione.
Dopotutto,
era stata lei a lasciare Clara. Perché allora
quest’ultima
sembrava essersi ripresa (erano passati più di tre anni
ormai) e
invece mia sorella no? C’era qualcosa che ancora non sapevo
riguardo la loro rottura? O magari qualcos’altro di cui Harry
non
voleva parlarmi?
Indossai
velocemente le scarpe e la giacca e scrissi un bigliettino veloce che
attaccai alla porta.
”Chiamami,
quando torni a casa. Chiamami, se dovessi avvertire qualche dolore.
Chiamami in ogni caso, per favore.”
Scesi dal
taxi, e mi resi conto di essere davvero in ritardo. Erano le otto e
quarantacinque.
Attraversai
velocemente l’entrata dell’ospedale, evitando di
alzare la testa
verso il tetto o di girare la testa verso il marciapiede limitrofo,
ma con la coda dell’occhio guardai in
entrambe
le direzioni, e
sentii un leggero disturbo allo stomaco.
Strinsi i
pugni ed entrai nell’edificio, dirigendomi direttamente verso
l’ascensore. Conoscevo la strada a memoria, ormai.
Appena
entrai nell’obitorio notai che Lestrade non era solo. Era
impegnato
in una fitta conversazione con Molly Hooper (era passato molto tempo
dall’ultima volta che l’avevo incontrata!), ma
appena mi videro
si interruppero e si allontanarono leggermente l’uno
dall’altra.
“Buongiorno.”
salutai, un po’ incerto.
Loro
ricambiarono con un sorriso.
“Ciao,
Molly” ripresi. Non so perché, ma da una parte
vederla mi aveva
reso triste, dall'altra invece,
mi ero rallegrato notando il suo sorriso. Le sue guance erano di un
leggero colore rosso e i suoi occhi erano ravvivati da quello che
credo
fosse un ombretto
azzurro.
“Ti trovo
bene.” le dissi.
“Grazie.”
mi rispose, forse leggermente imbarazzata.
Lestrade
invece sorrise di nuovo.
Eccolo
lì.
Lo stesso sorriso della
sera prima.
Tossì
leggermente e poi si
fece passare da Molly una cartellina, da cui tirò fuori un
fascicolo.
Sfogliò le
prime due pagine, poi mi disse di firmare alla fine della terza.
Strano, non
ricordavo affatto di aver detto tutte quelle cose sul cadavere. Di
sicuro non immaginavo potessero riempire così tanti fogli.
Infatti, mentre firmai, con la coda dell’occhio cercai di
leggere qualche
frase.
“Qualcun
altro ha visitato il corpo?” chiesi, innocentemente.
I due si
guardarono e ci fu un attimo di indecisione, o almeno così
mi era
sembrato, poi Molly parlò.
“Sono
stata io. Sai, è la procedura…”
Sfogliai la
prima pagina. Sul documento c’era un nome.
“Avete
scoperto chi era, dunque?” chiesi a Greg che annuì.
Roger
Hughes.
Il nome non mi diceva
proprio niente.
“Bene,
direi che abbiamo finito.”
Prese il
fascicolo e lo ridiede a Molly.
La mia
attenzione nel frattempo era stata attirata dal corpo avvolto nel
lenzuolo, da cui però fuoriusciva un braccio. Forse, con la
poca
luce avuta a disposizione il giorno prima, non lo avevo notato, o
magari non ci avevo fatto molto caso, ma il signor Hughes aveva una
grossa cicatrice sul palmo della mano.
Non era la
prima volta che vedevo quella ferita. Ma non riuscivo a collegarla a
niente in particolare.
Mi girai di
nuovo per dire a Greg che purtroppo davvero non riuscivo a ricordarmi
di quell’uomo,
ma ancora una volta mi fermai cercando di capire perché
stava
sorridendo, e perché lo stesse facendo anche Molly.
Di certo
non si poteva dire che l’obitorio fosse un posto allegro. E
c’era
un corpo morto, proprio al nostro fianco.
Improvvisamente
fui colto da strani pensieri.
I loro
sorrisi, gli sguardi che si lanciavano di sottecchi, possibile
che…
Dopotutto,
Lestrade aveva divorziato e Molly… Molly era davvero una
cara
ragazza, intelligente e nel suo genere anche carina.
Mi venne
un’idea. Tutto sarebbe dipeso dalla loro risposta, che
avrebbe
confermato o meno i miei sospetti.
“Sono
davvero felice di averti aiutato, Greg e… ehm…
sapete? Mi ha
fatto piacere rivedervi” dopotutto era la verità
“Sapere che
nonostante quello che sia successo, noi siamo ancora qui”.
Fu un
momento veramente strano. Pensare che l’unica persona ad
averci
unito non c’era più, ma che continuava comunque ad
essere il
motivo per cui eravamo amici.
Li guardai,
rendendomi conto di quanto mi fossi perso in quegli anni. Provavo
dolore e gioia nello stesso tempo. Non mi ero mai sentito
così.
“Quindi…”
continuai “Che ne dite di organizzare una cena?”
La buttai
lì e forse entrambi dovettero pensare che fossi impazzito.
Notai la
sorpresa nei loro occhi, ma non si guardarono e non risposero.
“La mia
nuova fidanzata, Mary, mi ha chiesto più volte di poter
conoscere i
miei amici, ed io… mi dispiace essere stato così
distante durante
questi...”
“John”
mi interruppe Lestrade “Non ti devi giustificare.”
Lo
interruppi a mia volta.
“No,
Greg. Mi sto rendendo conto che forse ho sbagliato ad isolarmi
così.”
feci un sorriso incerto, loro invece non stavano più
sorridendo.
“È stato
difficile per tutti” rispose Molly, arricciando le labbra in
un’espressione malinconica “E ognuno reagisce in
modo diverso.
Nessuno di noi ce l’ha con te.”
Annuii.
“Grazie.”
Sorrisero
di nuovo.
“Allora è
un sì?”
Questa
volta i due si guardarono, anche se con parecchia incertezza. Alla
fine però acconsentirono.
Sorrisi a
mia volta.
“Bene. Vi
chiamerò al più presto, allora.”
Strinsi la
mano di Greg e diedi a Molly un’affettuosa carezza sulla
spalla.
Non avrei
mai immaginato che quell’incontro avrebbe scaturito in me
determinati sentimenti. Per la prima volta mi resi conto di quanto
fosse stato surreale quel mio isolamento, e che in realtà
stavo
nascondendo a me stesso più cose di quante ne volessi
ammettere.
*
“Dottor
Watson, non si dimentichi di aggiungere nella sua agenda il signor
Green.”
“Non
ricordo alcun signor Green. È un nuovo paziente?”
“Sì, ha
preso appuntamento con noi proprio oggi. È per suo figlio, a
dire il
vero.”
“E
Thompson non può occuparsene? È lui il
pediatra.”
“Il
ragazzo ha già undici anni e il dottor Thompson è
pieno fino a
lunedì prossimo.”
Annuii e
presi l’agenda dalla mia borsa. La sfogliai, cercando uno
spazio
vuoto.
“Non
posso visitarlo prima di venerdì. A meno che non si tratti
di
qualcosa di urgente.”
“Il
signor Green parlava di bronchite”
Guardai
meglio l’agenda.
“Bene…
allora inseriscilo giovedì alle 12:00. Abbiamo finito, per
oggi?”
L’infermiera
annuì e poi uscì dalla stanza.
Un’altra
giornata di lavoro era terminata e con mio sollievo, constatai che
avrei
avuto il pomeriggio
libero da poter dedicare ad una delle mie solite passeggiate. Mary
sarebbe stata entusiasta della cena a cui avevo pensato. In
realtà,
mi rallegrava più il fatto di cenare con Greg e Molly,
anziché
l'idea di organizzare la cosa solo per far piacere a lei.
Immaginai
cosa avrebbe potuto dire Sherlock se avesse saputo del fidanzamento
di due dei suoi amici.
Probabilmente
non avrebbe fatto nessun commento, continuando a digitare sms sul
cellulare o a dedicarsi al computer e alle sue assurde
ricerche…
“Che
amarezza” pensai. Tanti mesi
a cercare di non pensare a lui o a qualunque cosa lo riguardasse e
adesso stavo ignorando tutti i miei sforzi con facilità.
Avrei
dovuto cercare qualche altro argomento con cui tenere impegnata la
mia mente per tutto pomeriggio. Pensai di andare a trovare nuovamente
Clara, visto che conoscevo il suo indirizzo, ma quell’idea
mi
fece tornare in mente
Harry, che non mi aveva ancora chiamato. Durante il passeggio avrei
potuto allungare verso casa sua per vedere se c’era e sapere
come
si sentiva.
E durante
quella lunga passeggiata mi resi conto che c’era qualcosa che
non
andava. L’incontro di quella mattina con Greg e Molly aveva
provocato in me una strana sensazione. Non volevo pensare che, in
realtà, ero stato felice dell’imprevisto della
sera prima, e della
cena rimandata. Che forse, in cuor mio, avevo sempre sperato che
durante quei tre anni Lestrade avesse continuato a chiamarmi qualora
ci fosse stato un caso fuori dal comune, che Molly avesse continuato
a partecipare alle cene di Natale e che la signora Hudson avesse
comunque preparato la colazione, il pranzo o la cena borbottando di
non essere la governante.
Ma era
stata colpa mia. Io avevo deciso di lasciarmi tutto alle spalle,
abbandonando l’appartamento di Baker Street,
e
adesso pentirmene mi
faceva sentire strano.
Pensai alla
conversazione avuta con il commissario la sera prima. Forse non sarei
mai arrivato a sostituire Sherlock, ma ciò non mi avrebbe
impedito
di provarci.
Perché
le cose erano cambiate, forse però non più di
tanto. Gli
anni erano passati, ma Greg, Molly, la signora Hudson e tutte le
persone con cui Sherlock mi aveva messo in contatto erano ancora
lì. Avevo perso lui, ma non tutto il resto. Che stupido ero
stato a
pensarlo.
“Che
cosa avresti fatto tu?”
Glielo
avevo chiesto tante volte durante quegli anni, durante le mie visite
al cimitero.
Sherlock
aveva spesso dato scarsa importanza alla morte delle persone a lui
vicine o lontane e di certo sarebbe andato oltre, avrebbe proseguito
per la sua strada.
Ma io non
ero come lui. Io davo importanza a molte cose, ma a mia volta sarei
andato avanti.
E lo avrei
fatto proprio per lui.
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Ben ritrovati!:) Devo dire che
non sono propriamente soddisfatta di questo capitolo. Spero
però che lo abbiate apprezzato lo stesso. Buon weekend! Al
prossimo aggiornamento!
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 - L'ispettore Lestrade di Scotland Yard. ***
LESTRADE
Aspettai
che la porta si fosse
chiusa completamente, poi guardai Molly Hooper.
“Ci ha invitati ad una cena!” la
mia esclamazione suonò quasi come una domanda.
“Sì.” confermò lei.
“Pensa che siate una coppia!”
tuonò Sherlock, dietro di noi, tanto che entrambi
sobbalzammo per lo
spavento. Era
seduto su una delle
barelle e si stava togliendo un lenzuolo di dosso.
“Ti sei divertito, lì sotto?”
domandai con un po’ di impazienza e fastidio.
“Avevo rimosso quanto fosse scomodo
far finta di essere morto.”
commentò, aggiustandosi la giacca.
A volte proprio non riuscivo a
capirlo. Anzi, forse sarebbe stato meglio dire spesso.
La sera prima mi aveva chiesto di
incontrarci lì un po’ prima per non essere
costretto ad incrociarsi con John,
poi aveva deciso di assistere alla nostra conversazione.
A
modo suo, ovviamente.
“Come fai a dire che pensa che
stiamo insieme?” gli domandò Molly, dubbiosa e
forse leggermente imbarazzata.
“Eravate lì davanti a lui. Come
avete fatto a non notarlo?”
Eccolo
che cominciava.
“Avete
sentito il tono con cui vi
ha chiesto di organizzare quella cena. Balbettava. Era sorpreso e
incerto,
dunque qualcosa lo turbava, e non si può di certo dire che
abbia capito che gli
sguardi e i sorrisi che vi siete scambiati erano dovuti al fatto che io
ero
steso proprio a pochi metri da voi.”
“E non poteva essere turbato per
qualche altro motivo?” ribattei, con le mani sui fianchi.
Sherlock alzò gli occhi al cielo.
“E quale?”
Colpito
e affondato. In
effetti, non mi veniva in mente proprio niente. E poi, come
aveva fatto a vedere gli sguardi e i
sorrisi che io e Molly ci eravamo scambiati?
Era
sotto un lenzuolo, per la miseria!
Dopo
tanto tempo, mi stupivo
ancora delle sue capacità fuori dal comune.
“Direi che abbiamo finito qui” continuò,
camminando verso l’uscita “Ho una faccenda urgente
da sbrigare, e anche tu,
vero?”
Mi indicò, aprendo
contemporaneamente la porta della stanza con l’altra mano.
Annuii.
“Entro la fine della giornata
sarà tutto sistemato.” risposi.
Lui sorrise di nuovo, salutò Molly
e andò via.
Mi passai una mano tra i capelli e
guardai nuovamente la ragazza, che stava raccogliendo il lenzuolo che
Sherlock
aveva lasciato a terra.
“Quindi ci tocca andare a questa
cena.”
“Ci tocca far finta di essere
fidanzati, che cosa assurda!” rispose lei ridendo, ma poi si
fermò e mi guardò
in modo strano.
“Scusa, non volevo dire che…”
“Lascia stare” dissi
interrompendola “A Sherlock piace mettere in imbarazzo le
persone, lo sai bene.”
E
giusto un minuto prima ci era riuscito decisamente.
Molly
continuò a piegare il
lenzuolo e poi coprì il braccio di Roger Hughes, che era
rimasto fuori.
“Ci risentiamo presto, allora.
Grazie per la collaborazione.” terminai.
Il mio desiderio, in quel momento,
fu di abbandonare l’obitorio al più presto
possibile e terminare
quell’imbarazzante conversazione.
“Figurati, è il mio lavoro”
rispose lei con gentilezza.
“Sei
fin troppo buona!”
mi ritrovai a pensare, ricordando le innumerevoli altre volte in
cui ci eravamo visti, sempre in compagnia di Sherlock, e talvolta anche
di
altri. Ma soprattutto pensai al modo in cui lui l’aveva
sempre trattata.
“È una di noi. Come me,
come John e anche come Mycroft Holmes. Resiste.
E ha qualcosa che la tiene ancora legata a Sherlock.”
E non ero difficile
capire cosa fosse quel qualcosa.
Prima di uscire, la ragazza mi
fece inaspettatamente una domanda.
“Ispettore Lestrade”
“Ti prego, Molly, puoi anche
chiamarmi Gregory.”
Lei sorrise e continuò.
“Per quale motivo Sherlock non ha
ancora detto a John di essere vivo? Perché ha organizzato
questa farsa? Insomma,
loro vivevano insieme, loro stavano sempre insieme. Al
funerale… lui era
distrutto.”
Vidi lo sguardo della ragazza
incupirsi e probabilmente, come me, stava ricordando i momenti passati
tre anni
prima.
“È una storia complicata” spiegai
“Sherlock sta inseguendo un uomo, e
quest’uomo sta inseguendo Sherlock. John è
inconsapevolmente coinvolto in tutto
questo. Non chiedermi il perché. Sherlock non me
l’ha ancora spiegato. Mi ha
detto solo che farlo riavvicinare a lui significherebbe mandare
a monte il suo piano.
E la vita di John sarebbe a rischio decisamente di più
rispetto a quanto non lo
sia già, e probabilmente non solo la sua.”
“Nessuna novità” rispose subito
lei “Ha detto lo stesso a me, più o
meno.”
“Ottimo, allora è diventato più
comunicativo, a quanto pare!” la mia voleva suonare come una
battuta, ma mi
resi conto che forse non era più il momento di scherzare,
perché lei non
sorrise.
“Suppongo che tu sappia il nome
di quell’uomo.”
Scossi la testa.
“Mi dispiace. Non posso darti
questa informazione.”
“Perché no? Non vedo come
possa…”
“Sherlock mi aveva avvertito del
fatto che avresti provato a chiedermi di essere coinvolta di
più nella
questione.”
Lei si fece rossa e io non
riuscii a trattenere un sorriso. Dovevo ammettere che era decisamente
carina in
quel momento.
“Ti fidi di lui, vero?”
Annuì.
“Allora lascia che le cose vadano
come devono andare. Perché è sempre stato
così.
Risolverà le cose e tornerà da
John.”
“E John saprà perdonarlo?”
Quella domanda mi spiazzò. Non
riuscii a capire il motivo per cui eravamo arrivati a parlarne.
“Io ho saputo che Sherlock era
vivo non più di sei o sette mesi fa. Devo ammettere di
essere rimasto sotto
shock per qualche settimana, per un momento ho anche creduto di essere
uscito
fuori di senno, ma poi sono riuscito a passarci sopra. L’ho
superato. E mi sono
incazzato, a dire il vero! Me lo sarei dovuto aspettare.
Perché è una cosa
tipicamente da lui. La sua eccentricità non ha
limiti!”
Riuscii a strapparle di nuovo un
sorriso.
“Ma se vuoi la verità” continuai
“Non so quale potrebbe essere la reazione di John. Loro
due… non ho mai capito
che tipo di rapporto ci fosse tra loro. Erano coinquilini, amici,
conviventi.
Di sicuro John ha sempre avuto molta pazienza e Sherlock lo ha
praticamente
trasformato nella sua ombra. Per un uomo solitario come lui direi che
è stato
decisamente un passo avanti. Qualcosa dovrà pur significare!
Quindi troverà il
modo di tornare da John, e John saprà come perdonarlo. Forse ci vorrà
del tempo, forse no, ma
riuscirà a farlo. Di questo ne sono certo.”
Molly aveva lo sguardo basso.
“Non mi piace mentire alle
persone. Non mi piace mentire a John.” sibilò.
“Non piace neanche a me, credimi”
le strinsi dolcemente una spalla “Hai detto di avere fede in
Sherlock” lei
annuì vistosamente “Allora dobbiamo farlo,
dobbiamo mentire a John. Forse non è
una giustificazione valida, ma non è neanche una
colpa.”
Mi staccai da lei.
“Spero tu abbia ragione.”
“Lo
spero anche io”
pensai prendendo due borse completamente uguali e nascondendone
una sotto la mia giacca a vento.
Salutai di nuovo Molly con un
sorriso che sperai potesse esserle di conforto e uscii
dall’obitorio. A pochi
metri dal Barts, una macchina nera si fermò proprio accanto
a me e uno degli
sportelli si aprì. Senza esitazione entrai
nell’autoveicolo.
L’ambiente era avvolto nella
semioscurità a causa dei finestrini scuri, come se fosse una
limousine, ma
rendeva il tutto anche più intimo. C’era una
figura accanto a me, ma non
riuscii a distinguerla. In ogni caso, dopo pochi minuti di silenzio,
essa
parlò. Era la voce di una donna.
“Ha i fascicoli con sé?”
“Certo.” risposi con serietà
“Sono le ultime due cartelle, le più
importanti.”
“Ottimo.”
Recuperai la borsa dall’interno
della giacca e gliela porsi.
“Il mio capo vi manda i suoi
ringraziamenti e i suoi saluti. Forse potrebbe mettersi in contatto con
lei in
serata.”
“Sarò felicissimo di parlare con
lui, se crede sia necessario.”
Finalmente riuscii a vedere il
viso della donna, grazie alla luce proveniente dal suo cellulare, che
aveva
appena preso in mano per mandare un sms. Stava sorridendo leggermente.
Dei
morbidi boccoli castani le coprivano gli occhi azzurri. Più
di una volta fece
volteggiare la testa all’indietro nella speranza di
allontanarli dal viso.
Rimanemmo in silenzio per il resto
del viaggio, che non durò a lungo e dopo un saluto formale,
con l’altra borsa,
scesi dalla macchina. Quest’ultima si allontanò
immediatamente, confondendosi
nel traffico.
Sospirai con sollievo. Mi ero
tolto un gran peso. Entrai a Scotland Yard a testa alta, pronto a
mettere in
atto la seconda parte del piano.
*
“Le
conviene star fermo, altrimenti sarò obbligato ad usare la
forza!”
“Non sono sicuro su chi avrebbe la meglio,
ispettore”
Mi aveva risposto l’uomo che avevo appena fermato contro il
muro e
a cui avevo fatto incrociare le braccia dietro la schiena.
“Come fa a sapere chi sono?”
La mia presa era diventata più forte.
“Difficile capire
chi sia
il capo, quando
tutti gli uomini intorno a
noi obbediscono ai suoi ordini.”
Quell'insolenza, aggiunta anche ad un’
incomprensibile confidenza,
mi avevano dato molto fastidio, così, lo avevo strattonato
per bene e lo avevo
fatto girare verso di me.
“Senta, non faccia lo spiritoso, perché non
è il momento. Mi dia
le sue credenziali e mi dica cosa diavolo ci faceva qui!”
Mi ero aspettato il silenzio assoluto da parte sua, invece durante
tutto il viaggio fino alla centrale non aveva fatto altro che parlare
di quanto
tempo stessimo perdendo con lui, che l’assassino era ancora a
piede libero e
che il nostro procedere così lento avrebbe causato senza
dubbio altre vittime.
Aveva parlato del caso di cui ci stavamo occupando con molta
precisione,
conosceva praticamente tutti i dettagli e, avevo notato, anche qualche
particolare a cui noi non avevamo ancora pensato e la cosa mi aveva
fatto
indispettire non poco.
Non si trattava sicuramente di un membro di Scotland Yard,
né del
governo inglese, neanche dei servizi segreti, perché nessuno
lo aveva
riconosciuto, allora le possibilità prese in considerazione
erano state solo due:
o eravamo alla presenza di un membro di una qualche organizzazione
criminale, o
finalmente eravamo riusciti a prendere il ‘Killer spacca
teste’, il nome che
avevamo affibbiato all'assassino coinvolto nel caso di cui ci
stavamo
occupando, uno dei più strani mai visti fino ad allora.
Quell’ultima
possibilità mi
era stata suggerita dal sergente Donovan.
Avevamo portato l’uomo, che doveva avere circa
trent’anni, nella
stanza dedicata agli interrogatori, ma lui aveva continuato a parlarci
del
tempo che stavamo perdendo, il tutto con un’incredibile e del
tutto
inaspettata, almeno secondo il mio punto di vista,
tranquillità.
Ad un certo punto avevo mandato via Sally e mi ero seduto di
fronte a lui. Mi aveva guardato in modo fisso.
E io avevo notato una luce di sfida nei suoi occhi azzurri
ed enormi,
che sembrava aumentare secondo dopo secondo.
“Ricominciamo tutto dal principio, le va?” avevo
domandato, con
calma.
Lui, di tutta risposta, mi aveva rivolto un verso di impazienza e
aveva ripreso il discorso iniziato quando lo avevo fatto portare
lì, come se
non fosse stato mai interrotto.
“Avete individuato due elementi fondamentali che compongono
il
filo logico con cui il vostro assassino sceglie le proprie vittime,
ossia l’età
e il sesso. Ottimo! Ma ce n’è un terzo, ed io sono
quasi sul punto di scoprire
quale sia!”
Quei discorsi mi avevano fatto venire il mal di testa. Non che non
fossi abituato, ma l’uomo aveva parlato ad una
velocità incredibile e già avevo
dimenticato gran parte di quello che aveva detto pochi minuti prima.
“Qual è il suo nome?” gli avevo chiesto
(per almeno la quarta
volta in quella serata).
“Lasci che vi aiuti! Ho esaminato la scena del crimine
e…”
“IL SUO NOME!” avevo cominciato di nuovo a perdere
la pazienza.
“Non vedo quale importanza possa avere!
C’è un killer spietato lì
fuori e lei vuole sapere chi sono?”
“Sì.” avevo risposto in modo deciso
“Per quel che ne sappiamo, il
killer potrebbe anche essere lei!”
A quel punto, il suo sguardo era diventato più severo e
più
freddo.
Avevo immediatamente mosso una mano verso la tasca della giacca
dove portavo la pistola. Lui non si era scomposto.
“Può anche metterla via, ispettore
Lestrade” aveva fatto un mezzo
sorriso “Se fossi stato l’assassino, le avrei senza
dubbio già spaccato la
testa.”
Ero rimasto decisamente sconvolto da quell’esclamazione, ma
non
ero riuscito a rispondere, perché la porta della stanza si
era aperta e Sally
era entrata di nuovo.
“Signore” aveva fatto una pausa e si era guardata
alle spalle ed
infatti avevo intravisto qualcuno proprio dietro di lei. “Il
signor Mycroft
Holmes è qui e desidera parlare con lei. È una
questione urgente.”
Mi ero alzato velocemente, guardando di sfuggita l’altro
uomo, che
aveva rivolto lo sguardo altrove, e li avevo raggiunti.
Mycroft Holmes, figura imponente soprattutto, e non solo, grazie a
postura e altezza, indossava un soprabito marrone, dei pantaloni scuri,
delle
scarpe lucide e manteneva con la stessa mano una valigetta e un
ombrello.
Mi aveva sorriso.
“Signor Holmes!” gli avevo porto una mano e con
l’altra avevo
afferrato il pomello della porta “Non credevo di vederla
tanto presto...”
Mi aveva interrotto
“Non si scomodi a chiudere la porta, ispettore”.
Mi aveva raggiunto e superato, entrando nella stanza.
Non avevo avuto neanche il tempo di pensare al motivo della sua
visita e al perché stesse guardando l’uomo che
avevo fermato ed interrogato,
perché i due avevano cominciato a parlare.
“Puoi anche andare via, Mycroft. Non ho bisogno del tuo
aiuto. Ho
tutto sotto controllo!”
“Certo. Lo vedo. Infatti non sei in una stanza di Scotland
Yard e
non vi ho interrotti nel bel mezzo di un
interrogatorio…”
L’uomo aveva sbuffato.
“Sei venuto per portarmi a casa?” si era alzato e
aveva raggiunto
Mycroft Holmes. “E per scusarti personalmente per la
confusione che ho
procurato loro? Io credo che,
a prescindere
da me, stiano perdendo molto tempo seguendo una falsa pista!”
aveva fatto una
pausa, sgranando gli occhi, e poi aveva riso “Ah ah! Ma
certo! Non è nulla di
tutto questo! Una delle vittime era un funzionario del
governo…”
I due si erano guardati mentre a me continuava a girare la testa.
Mi ero voltato verso Donovan e le avevo intimato di mandare via tutti i
curiosi
che si erano aggiunti fuori nel corridoio, e chiusi definitivamente la
porta.
“Scusate. Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?”
Mycroft Holmes si girò subito verso di me.
“La prego di accettare le mie scuse, ispettore Lestrade.
L’uomo
che ha fermato è mio fratello minore, Sherlock.”
“S… suo fratello?”
“A prima vista non sembrerebbe. Di certo non si
può dire che abbia
ereditato l’educazione della famiglia
Holmes…”
“È SOLO UNA PERDITA DI TEMPO!” Sherlock
aveva urlato “So dove
avverrà il prossimo omicidio! E ci sarei potuto arrivare
almeno un’ora fa se
non mi aveste fermato per questo stupido interrogatorio!”
“Sherlock, è per questo motivo che ti ho proposto
di lavorare a
Scotland Yard, ma hai sempre rifiutato!” aveva detto Mycroft.
“Lavorare per loro? Hai visto il livello di incompetenza che
c’è
qui dentro? Per non parlare dell’ inefficienza totale di
molti membri della
scientifica!”
“Ehi!” avevo sbottato infastidito. “Come
si permette di dire una
cosa del genere? I miei uomini lavorano sodo e duramente!”
“Evidentemente non abbastanza.” Mi aveva rivolto di
nuovo quello
sguardo pieno di sfida, poi si era mosso verso la porta.
“Forse siamo ancora in
tempo!” l’aveva aperta “Chiami tutti gli
uomini che ha a disposizione,
ispettore, meglio se si tratta di tiratori scelti. Andrò a
piedi, voi siete
troppo lenti!” aveva lasciato la stanza “A due
isolati a nord da qui!” aveva
aggiunto infine, correndo lungo il corridoio e scomparendo poco dopo.
Io ero rimasto completamente senza parole. Mycroft Holmes aveva
sospirato gravemente.
“Le conviene fare come dice, Lestrade. A prima vista mio
fratello
potrebbe sembrarle completamente fuori di testa e in altre circostanze
le darei
anche ragione, ma non in questo caso. Lui ha, come dire, una certa
predilezione
per questo tipo di cose. È un buon ascoltatore, un buon
osservatore e un buon
analizzatore, ma come tutti ha anche dei difetti. Tende ad esasperare
qualsiasi
cosa, specialmente quando gli si impedisce di pensare.” Aveva
poi guardato
fuori la stanza “Temo di essermi perso in chiacchiere. Ha
sentito Sherlock,
potreste essere ancora in tempo per fermare il vostro uomo.”
“Ma lui non…” Mycroft mi aveva
interrotto di nuovo.
“Non le sto chiedendo di farlo obbligatoriamente, non le sto
chiedendo di farmi un piacere. Le sto solo dicendo di fidarsi di me.
Sarà poi
in grado di prendere da solo una decisione…”
Mi aveva salutato garbatamente.
“Quale decisione?”
Non mi aveva risposto, ed era andato via.
Erano
passati moltissimi anni da
quando mi ero incontrato per la prima volta con Sherlock e ricordavo
sempre con
incredulità a quello che era accaduto quella notte. Non solo
eravamo riusciti
ad evitare un ulteriore omicidio, ma avevamo anche catturato il killer spacca teste. Dopo giorni di
incessanti indagini e difficilissimi blitz, grazie a quel giovane
sconosciuto
avevamo chiuso quel delicato caso a cui stavamo lavorando da almeno un
mese e
mezzo, e tutto nel giro di pochissime ore. Avevo capito, a quel punto,
il senso
dell’ultima frase rivoltami da Mycroft Holmes riguardo suo
fratello.
La mia decisione equivaleva ad
accettare o meno Sherlock, la sua persona e il suo modo di essere. Di
accettarlo nella mia vita.
C’era una certa insolenza nei
suoi modi di fare che avrebbe infastidito chiunque, e sicuramente aveva
infastidito me, ma il suo talento era qualcosa di unico, ed io lo avevo
capito
fin da subito.
Pensai a quello che mi aveva detto
durante la nostra breve conversazione telefonica, il giorno prima del
suo
ritorno a Londra:
“Il Colonnello Sebastian
Moran. Cerca di scoprire quanto più possibile su di lui,
anche se probabilmente
non troverai quasi niente, o meglio, di non-ufficiale troverai ben
poco. Alto
un metro e novantuno, occhi azzurri, capelli neri. Potrebbe portare la
barba al
momento.”
“Perché
cerchiamo quest’uomo? Cosa ha fatto?”
“Ha fatto molte cose” Sherlock
aveva fatto una pausa “Ma non ho
tempo per raccontartele, ora. Cercalo,
Lestrade, e non parlare con nessuno. Nessuno, capito? Soprattutto, non
parlarne
con John. Non parlargli neanche di me. Moran rappresenta una minaccia
per lui,
ma non può e non deve saperlo. Rovinerebbe i miei piani! E
potrebbe finire male
per lui e per chi gli sta vicino.”
Ero rimasto così sorpreso da
quella scoperta. John non sapeva nulla. John non doveva
sapere nulla. Ero
proprio a corto di idee. Naturalmente, come previsto da Sherlock, non
ero
riuscito a trovare nulla su Moran, se non i documenti di quando era
stato in
guerra in Afghanistan. E avevo scoperto, con rammarico, che lui e John
non si
erano mai incontrati lì perché mandati in due
luoghi completamente diversi del Paese.
Il prossimo passo sarebbe stato quello di individuare il periodo di
addestramento di entrambi. E il luogo in cui si era svolto. Magari si
erano
conosciuti lì. Che ci fossero dei
vecchi
rancori tra i due militari?
A parte quello, non riuscii ad
immaginare alcun motivo che potesse collegare John a Moran.
Riportai la mia attenzione sul
fascicolo che stavo leggendo poco prima di iniziare a ricordare tutte
quelle
cose, ma dopo qualche secondo qualcuno bussò alla porta.
“Signore.”
Il sergente Donovan entrò nel mio
studio.
“Sally” continuavo a chiamarla
per nome, ma i nostri rapporti si erano un po’ raffreddati da
qualche anno,
ormai. “C’è qualche problema?”
Lei aspettò che Anderson ci
raggiungesse, poi chiuse la porta e parlò.
“Si tratta dei fascicoli del caso
Sherlock Holmes.”
Io li guardai facendo ruotare gli
occhi dall’uno all’altra sperando che continuassero
a parlare. Ma fui io, poi, ad
interrompere il silenzio.
“Perché vi state rivolgendo a me?
Entrambi sapete bene che mi è stato proibito categoricamente
di partecipare a
tale questione, pena il mio licenziamento. E questo è
ciò che
ho fatto durante questi anni. Mi sono tenuto
fuori.”
E
ad un caro prezzo.
I
due si guardarono. Non
sembravano essere arrabbiati o sospettosi nei miei confronti, anzi, al
contrario, sembravano preoccupati.
“Le cartelle e i fascicoli sono scomparsi.”
Cercai di rimanere serio.
“Scomparsi?”
“Sì, signore” rispose Anderson
“Da diversi mesi erano stati inseriti nell’ufficio
dedicato ai casi non ancora archiviabili
e quando
stamattina siamo andati lì per riprenderli e analizzarli
nuovamente, non
c’erano più.”
“Qualcuno potrebbe averli
spostati altrove, oppure li avete portati a casa vostra
inconsapevolmente. Con
la confusione che il trasloco vi ha procurato…”
Anderson aveva deciso di divorziare
dalla moglie e lui e Sally si erano appena trasferiti in una nuova
casa. A dire
il vero, non avevo
intenzionalmente
accennato alla cosa per rinfacciarglielo, però il momento
del trasloco si era
rivelato assolutamente adatto per poter mettere in atto il compito che
mi era
stato assegnato, ed era stato per loro motivo di distrazione.
“Non capisco perché siate venuti
da me. Non voglio essere coinvolto. Era un vostro compito, siete stati
voi a
volerlo e voi a gestirlo. Potrei coprirvi, per qualche tempo, ma se
succede
qualcosa, se quei fascicoli non vengono trovati, non
sarò di certo dalla vostra parte. Io
rimarrò
escluso come lo sono sempre stato in questi tre anni. Questo
è quanto.”
Il tono severo che usai li
impressionò senza dubbio, perché non dissero e
fecero nulla, se non salutarmi
garbatamente e poi uscire fuori.
La mia soddisfazione in quel
momento aveva raggiunto livelli mai provati prima, anche se, ancora una
volta,
il prezzo pagato era stato veramente altissimo.
Ma le mie bugie non sarebbero mai
state paragonabili alle montagne di fesserie e diffamazioni che i miei
due
colleghi - insieme ad altri collaboratori - avevano scritto su quei
fascicoli.
Fascicoli che io stesso avevo rubato e custodito preziosamente.
Nessuno di loro aveva mai
compreso Sherlock Holmes. Nessuno di loro ci aveva neanche lontanamente
provato. Di certo
non potevo dire di conoscerlo
totalmente, ma avevo messo da parte il mio orgoglio, messo da parte
tutte le
mie convinzioni e avevo lasciato che lui e la sua
eccentricità mi insegnassero,
seppur a fatica, a vedere le cose da un punto di vista diverso.
E lui non mi aveva mai deluso.
Per questo mi fidavo di lui. Per questo avevo deciso di rischiare. Lui
probabilmente non mi avrebbe ringraziato, ma avrebbe continuato a
considerarmi
come un suo amico, a modo suo.
Diedi uno sguardo fuori dalla
stanza e notai che Sally e Anderson stavano discutendo.
Prendere quelle cartelle non era
stato facile, ma ero stato molto attento, e nessuno avrebbe mai potuto
trovare
alcuna prova contro di me.
Escludendo Sherlock stesso,
ovviamente. Lui ci sarebbe riuscito subito.
Sospirai di nuovo. Quello era
solo l’inizio. Quando il minore degli Holmes fosse miracolosamente e ufficialmente tornato
si sarebbe sicuramente
scatenato l’inferno.
Molto meglio affidare quelle
cartelle e quelle menzogne a qualcuno che avrebbe saputo,
più di chiunque
altro, come disfarsene. Ed ero convinto, senza ombra di dubbio, che si
trovassero nel posto più sicuro del mondo: tra le mani di
Mycroft Holmes.
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Buon
sabato, cari lettori/care lettrici. Devo dire che, se del precedente
capitolo non ero molto soddisfatta, di questo invece lo sono
decisamente. Mi è piaciuto molto scrivere dal punto di vista
di
Lestrade e spero che anche voi l'abbiate apprezzato.
Come al solito
vi ringrazio per le letture e le recensioni e spero che anche qualcun
altro possa scrivere la propria opinione. Mi farebbe molto piacere.
Al prossimo aggiornamento.
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 - Nel posto sbagliato. ***
MOLLY
- Presi
lo specchietto dalla borsa e controllai che il rossetto non avesse
delle
sbavature, poi mi sistemai la sciarpa. Quel giorno si era alzato un
vento molto
forte e non avevo assolutamente intenzione di prendere un raffreddore o
di
farmi venire mal di gola, visto che Sherlock girovagava ancora per casa
mia.
- “Resterò
solo un paio di giorni, Molly” mi aveva detto
la mattina successiva il suo
arrivo,
e per il momento
era
ancora lì. O
meglio, usava ancora casa mia come
rifugio, ma in realtà passava l’intera giornata
fuori. Ci eravamo incrociati sì
e no solo un paio di volte.
- Guardai
l’orologio (che adesso andava tre minuti indietro e quindi
l’orario esatto
secondo Sherlock) e notai che Lestrade era in ritardo. Cominciai a
dondolare
nervosamente sul posto, facendo toccare continuamente le punte delle
scarpe
l’una con l’altra.
- E
sentii nuovamente fastidio allo stomaco, dovuto al pensiero di
incontrare John
e di dovergli mentire. Tutto quello che l’ispettore mi aveva
detto pochi giorni
prima
non
era servito a molto, perché nel mio caso, il tempo passato a
mentire era stato
molto più lungo. Per tre anni, avevo portato dentro di me un
peso e non ero più
sicura di riuscire ancora a farlo.
- Il
rumore improvviso di un clacson mi fece sobbalzare nello stesso istante
in cui
una macchina si stava fermando proprio davanti a me.
- Gregory
Lestrade abbassò il finestrino dell’autoveicolo,
mi salutò e mi invitò a
salire. Io scesi dal marciapiede, feci il giro ed entrai, con non poco
imbarazzo. Notai subito i suoi abiti molto casual, e lui
notò me che invece
indossavo un vestito da sera. La cosa mi fece sentire notevolmente a
disagio.
- “Ricordi
l’indirizzo?” mi chiese, distogliendo lo sguardo e
mettendo subito in moto.
- Io
pensai al sms mandatomi da John.
- “Proprio
alla fine di HydePark Street, prima di arrivare al parco.”
- “Beh,
non è molto vicino, ma arriveremo in meno di quindici
minuti, traffico
permettendo.” Mi sorrise e fece una pausa, poi
continuò a parlare, guardandomi
di nuovo.
- “Il
vestito ti sta bene. Sei molto carina.”
- Sentii
il mio viso in fiamme e non riuscii a girarmi verso di lui. Ero
completamente
spiazzata.
- “Non…
non… “ balbettai “Non
c’è bisogno che tu lo dica solo
perché…”
- “Non
volevo metterti in imbarazzo” mi interruppe lui “Lo
penso davvero, comunque.”
- Continuai
a guardare avanti e non risposi. Il sole era ormai tramontato e il
cielo era
coperto da nuvole color arancio e rosa. Sentii Lestrade sospirare.
- “Lo
so bene che preferiresti essere con qualcun altro.” a quel
punto riuscii a
muovere la testa “Con Sherlock.”
- Quasi
ammutolii, ma per fortuna lui non mi vide perché stava
guidando. Cominciai a
pensare a una risposta. Non era proprio il momento adatto per lasciare
una
conversazione del genere in sospeso, ma lui mi precedette.
- “Sai,
in questi giorni ho avuto modo di pensare a ciò di cui
abbiamo parlato qualche
mattina fa” fece una breve pausa “In
realtà, da quando ho divorziato con mia
moglie, ho molto tempo libero da poter dedicare a questo tipo di
cose… a
pensare. ” aggiunse con amarezza “E sono arrivato
ad una conclusione. ” frenò e
la macchina si fermò un po’ bruscamente.
- Io
lo guardai senza capire.
- “Che
tipo di conclusione?”
- “Su
John.” Riprendemmo a camminare “A nessuno di noi
due piace mentire, quindi non
credo sia necessario far finta di stare insieme e non credo servirebbe
a
coprire ciò che realmente gli stiamo nascondendo.”
- Sorrisi.
Non seppi bene il perché ma lo feci.
- “Ma…
abbiamo accettato l’invito a cena! È lì
che stiamo andando.”
- “Sarà
una serata tra amici.”
- Sorrisi
di nuovo, anche se i miei pensieri volarono a una frase in particolare
che lui
aveva pronunciato:
- “In
realtà, da quando ho divorziato con mia
moglie, ho molto tempo libero da poter dedicare a questo tipo di
cose… a
pensare.”
- Lo
guardai più attentamente (lui nel frattempo aveva rivolto di
nuovo lo sguardo
verso la strada) e mi resi conto che, in realtà, non lo
avevo mai guardato
davvero. La mattina in cui avevamo parlato in obitorio aveva della
barba
incolta e delle occhiaie orribili, mentre quella sera si era rasato e
sembrava
decisamente di buon umore e in buona salute.
- Improvvisamente
riprese a parlare.
- “E
poi
devo
fare un paio di domande a John.”
- Feci
un sorriso malizioso, ma non se ne accorse, probabilmente.
- “Per
il caso di Sherlock, immagino.” dissi.
- Rise.
- “Come
fai a saperlo? Lui te ne ha parlato?”
- Lo
vidi un po’ confuso.
- Risi
anche io.
- “No.
Solo che tu hai detto devo fare un paio
di domande a John, non devo parlare
con John.”
- Lui
fece una smorfia.
- “Ragazza
sveglia. Sherlock sa scegliere bene i propri amici.”
- Questa
volta ci sorridemmo a vicenda, e a lungo.
Avevo sempre desiderato di poter essere guardata da
Sherlock nella
maniera in cui mi stava guardando Lestrade in quel momento. Sembrava
così
allegro, sincero e pieno di vita. Invece Sherlock era sempre stato
attento e
profondo, ma anche molto distante. Forse, avevo sperato fin troppo in
quell’amore, dimostratosi sempre più lontano
dall’essere vero.
- Pensarci
era
doloroso.
Rendersene conto era anche peggio.
- Rimanemmo
di nuovo in silenzio, ma questa volta non mi sentii più in
imbarazzo come
all’inizio del viaggio e finalmente svoltammo verso Hyde Park
Street.
- “Morstan
Mary… sì, siamo nel posto giusto.” Fece
Lestrade suonando il campanello.
- Io
ero nuovamente nervosa. Lui se ne accorse.
- “Il
padre della signorina Morstan è scomparso circa sei mesi fa
e il caso è stato
affidato a noi. Purtroppo
non siamo
ancora riusciti a trovarlo quindi immagina il mio imbarazzo. Non so
davvero
cosa dirle.”
- Non
seppi se la cosa mi fece sentire meglio o peggio.
- “Sherlock
non può aiutarti?” il nome lo sussurrai.
- “Dice
che lo sta facendo. Non vedo come, però, visto che al
momento si sta occupando
di…”
- La
porta venne aperta e lui si interruppe immediatamente.
- Ad
accoglierci (molto calorosamente, tra l’altro) fu il viso
allegro e sorridente
di una donna bionda, dagli occhi grandi e verdi. Mary, ovviamente.
- “Salve.
Tu devi essere Molly. ”
- Le
porsi una mano, che mi strinse, poi mi tirò dentro,
inaspettatamente. Vidi
subito John dietro di lei e gli sorrisi.
- “Ispettore
Lestrade, è un piacere rivederla” disse la donna.
- “Anche
per me, signorina Morstan.” ispose Greg, stringendole a sua
volta una mano e
dandole una pacca leggera sulla spalla.
- “Credo
sia arrivato il momento di superare ogni formalità e darci
del tu” disse ancora
lei “Quindi, chiamami Mary.”
- “Va
bene.” Rispose subito Lestrade “Puoi chiamarmi
Gregory, allora. Ciao, John”
terminò salutando anche lui.
- “Sono
felice che siate qui” disse proprio Watson, prendendo le
nostre giacche.
- Noi
sorridemmo.
- Mary
chiuse la porta e poi si rivolse di nuovo a me.
- “John
mi ha detto che lavori al Barts. Sei una dottoressa, quindi”
- “Sono
un’anatomopatologa” risposi sinceramente
“Lavoro in obitorio.”
- Il
sorriso della donna divenne più incerto, ma non parve
perdersi d’animo,
perché
mi prese
di nuovo per un polso.
- Durante
i primi dieci minuti, Mary ci mostrò la casa,
e
parlando con
lei scoprii anche che era la proprietaria dell’atelier ModernModel, che produceva degli abiti
decisamente alla moda.
- Più
di una volta mi soffermai ad osservare John e le sue reazioni. Sembrava
molto rilassato, e la cosa mi
colpì positivamente, ma allo stesso
tempo mi fece star male, sempre per lo stesso motivo. Sperai con tutta
me
stessa che quella sera nessuno avesse avuto l’idea di mettere
in mezzo
l’argomento Sherlock Holmes.
- Come
aveva detto Greg, probabilmente sarebbe stata una serata tra amici, e
forse,
avrei anche trovato una nuova amica. Mary mi piaceva. Era una donna
estroversa
e allegra.
- Ammiravo
il suo modo di porsi e sembrava possedere molta sicurezza, cosa di cui
io, invece,
ero spesso priva.
- Ad
un certo punto mi portò in cucina, e lasciammo i due uomini
in salotto.
- “Stasera
ho preparato pollo e patate. Sono ancora in fase di cottura, comunque.
Ci vorrà
mezz’ora. Spero tu non sia vegetariana. John non ha saputo
rispondere quando
gliel’ho chiesto…”
- Le
sorrisi.
- “Non
lo sono.”
- Lei
ricambiò.
- Rimanemmo
in silenzio per diversi secondi, durante i quali controllò
il forno. Mi morsi
un labbro e cercai di superare il mio imbarazzo.
- “Da
quanto tempo vi state frequentando tu e John?” domandai,
finalmente.
- Mary
si sistemò una ciocca di capelli fuori posto.
- “Tre
mesi, circa, ma per me è come se fosse passato
più tempo. Non sono mai stata
molto fortunata con gli uomini e poi, dopo la morte di mio
padre…” fece un sospiro
“Avevo bisogno, in quel momento più di altri, che
qualcuno mi stesse accanto.
Mi trovo bene con John.”
- “Credo
che anche lui si trovi bene con
te. Lo spero. Lo spero per lui e lo spero anche per te.” Mi ritrovai a
pensare.
- “Quando
ci siamo conosciuti, mi disse che anche lui aveva perso qualcuno. Che
il dolore
provato era ancora molto forte e presente, nonostante fosse passato del
tempo e
che poteva capirmi. Non si può
superare, mi
disse.”
- Cercai
di trattenere le lacrime. Lei continuò senza fermarsi.
- “Poi,
però, arrossì improvvisamente e mi chiese scusa.
Disse che probabilmente il suo
discorso non era stato molto consolante. Risi, nonostante fossi triste,
e fu in
quel momento che decisi che avrei volentieri continuato a parlare con
lui.
Credo proprio che lui pensò la stessa cosa,
perché due giorni dopo ci
incontrammo di nuovo.”
- Mi
ripresi subito e cercai di sorridere.
- “E tu,
invece?” mi domandò Mary, controllando di nuovo il
pollo “Da quando tempo stai
insieme all’ispettore Lestrade?”
- Eccolo.
Il momento era arrivato. Greg mi aveva detto di essere sincera, ma
provai
comunque molta incertezza nel rispondere.
- “A
dire il vero, noi…”
- Ma
non riuscii a terminare la frase perché sentimmo il
campanello suonare.
- “Devono
essere Simon e sua moglie Martha!” esclamò Mary
allegramente, chiedendomi poi
scusa e uscendo dalla stanza.
- Simon e Martha?
- La
seguii fuori, ma poi guardai Greg con aria interrogata.
- Fece
lo stesso, così raggiunsi lui e John.
- “Simon
è un amico di infanzia di Mary. Ho saputo che lui e sua
moglie sarebbero venuti
solo un’ora fa, quando sono arrivato. ”
- Una
serata tra amici, aveva detto Lestrade. Senza neanche saperlo, era
stata
proprio la definizione più adatta.
- Sentimmo
le voci dei nuovi arrivati e ci girammo.
- Simon
era un uomo molto magro, capelli brizzolati tendenti al grigio e due
occhi
color ghiaccio. Martha invece era mulatta, capelli castani e occhi
neri, aveva
il pancione. Incinta di cinque mesi, probabilmente.
- “Allora
è lei il famoso John Watson!” esordì
Simon, con non poca confidenza.
- “Famoso?”
fece proprio John, incerto.
- “Mary
ci ha parlato di te.” Rispose l’altro, guardando
proprio la diretta
interessata, che sorrise.
- Tutta
la sala fece lo stesso.
- “Il
pollo sarà pronto tra dieci minuti; nel frattempo potete
trovare qualche
antipasto sul tavolo ” disse la padrona di casa,
accompagnando poi Martha in
bagno.
- Io
guardai Greg di sfuggita e ci facemmo di nuovo accanto a John, che
Simon stava
guardando insistentemente.
- Lestrade
allungò un braccio, prese e mangiò qualche oliva.
Simon lo osservò.
- “Quindi
lei
è
l’ispettore Lestrade”
- Greg,
masticando, annuì.
- “Come
fa a sapere chi sono?”
- “È
un ispettore di polizia e la gente legge i giornali, sa?”
- Lestrade
sorrise incerto.
- “Da
quanto tempo lavora a Scotland Yard?”
- Simon
continuò le sue domande, riempiendo un bicchiere con del
vino rosso.
- “Poco
più di quindici anni.” rispose Greg restando sul
vago e inizialmente sembrò
bastare.
- L’altro
annuì, sorseggiando il vino, poi si rivolse a me.
- “Lei
invece lavora al Barts, vero?”
- Mossi
la testa e risposi di sì, precisando ancora una volta quale
fosse la mia
specializzazione. Lui mi guardò per qualche altro secondo,
ma non fece più
domande. Infine si girò verso John.
- “E
lei, dottor Watson, lavora in un ambulatorio, ora. Certamente
più tranquillo
rispetto al lavoro svolto in precedenza.”
- John
annuì a sua volta.
- “In
Afghanistan non è stato facile.”
- Simon
rise.
- “Non
mi riferivo al periodo in cui è stato
nell’esercito” disse “Lei era il medico -
o possiamo anche azzardare -
l’assistente
del famoso
Sherlock Holmes.”
- Ammutolimmo
tutti e tre
nello
stesso istante in cui il suono di una risata echeggiò per la
casa e Mary e
Martha andarono in cucina.
- Tutti
i buoni propostiti della serata erano andati in fumo, decisamente.
- “Come
ha detto, scusi?” chiese John. Le sue parole si sentirono
appena.
- Simon
bevve ancora e sorrise nuovamente.
- “Eravate
tutti e tre suoi amici!” esclamò e mise una mano
nella tasca della giacca.
“Lei, ispettore, dice di lavorare a Scotland Yard da quindici
anni. Da quanto
tempo, invece, Sherlock Holmes si era unito a voi?”
- “Sherlock
Holmes non ha mai lavorato per Scotland Yard” rispose Greg,
con voce profonda e
sicura. Io notai John di fianco a lui, con il viso basso e il respiro
pesante.
- “Certo,
infatti lui era il vostro consulente,
non è vero?”
- Simon
rise.
- “E
diciamo pure che è stato lui ad architettare quei casi.
Scotland Yard ne era
forse a corto?”
- “Le
ripeto che…”
- “Dove
era lei, ispettore, durante il processo? Alcuni dei suoi colleghi hanno
parlato
a lungo mostrando alla corte…”
- “Sono
solo sciocchezze!” questa volta Greg aveva alzato la voce.
- John
emise un lamento quasi impercettibile, ma io riuscii a sentirlo e
continuai ad osservare
il
suo
torace alzarsi e abbassarsi più affannosamente.
Mi mossi verso di lui.
- “John?
Ti senti bene?”
- “In
quanto a lei, signorina Hooper, quanti dei corpi di
proprietà dell’ospedale
sono stati utilizzati dal signor Holmes per i suoi scopi? O magari,
quanti di
loro sono finiti al Barts proprio per colpa sua?”
- Io
ero completamente spiazzata e anche spaventata. Quell’uomo
stava esagerando.
- “Allora,
cosa mi dice?” insisté Simon.
- “La
smetta!”si intromise Greg, in mia difesa.
- “Sto
solo cercando di conoscere meglio gli amici di Mary”
- “No.”
Rispose John “Ci sta importunando, e non poco. Sta rovinando
questa piacevole
serata.”
- Mary
e Martha risero di nuovo e si sentì il campanello del timer
del forno suonare.
- “Vi
sto solo facendo delle domande. Avete così paura di
rispondere? Forse perché in
fondo sapete che Sherlock Holmes non era altro che un criminale a
cui…”
- “Credo
che lei abbia detto abbastanza!” lo interruppe nuovamente
Lestrade “Visto che
continua ad insistere credo proprio che dovrò chiederle di
uscire di qui. Mi
dispiace per la cena organizzata dalla signora Morstan,
ma…”
- “Cos’è,
questo? Abuso di potere per caso?”
- “Lei
sta importunando me, la signorina Hooper e il signor Watson con delle
domande
personali, su questioni fin troppo private.”
- “Private?
Lei ha idea di quante persone sono morte a causa di quel folle che voi
state così
ardentemente proteggendo? È morto, ormai, perché
continuare a mentire?”
- “La
smetta, LA SMETTA!” John alzò la voce notevolmente.
- “Cosa
succede?” ci arrivò la domanda di Mary, ancora in
cucina, ma nessuno rispose.
- “Durante
il processo sono state spiegate tutte le dinamiche, tutte i possibili
motivi
per cui…”
- “Il
processo è stata solo una farsa!” urlò
ancora Greg “Un evento organizzato da e
per i giornalisti. Come si può processare una persona che
è morta?”
- “Esatto,
come? Ma soprattutto, perché? Mi sembra ovvio che sia
importante!”
- Simon
sembrava avere una risposta a tutto, e io avrei voluto urlare e
piangere e andare
subito via di lì, a casa, nel mio letto, sotto le coperte,
isolata da tutti.
- John aveva stretto i pugni, mentre Lestrade aveva
continuato
a battibeccare con Simon.
- “Lei
era in terapia! E ha continuato ad esserlo durante la sua convivenza
con il
signor Holmes!” puntò un dito contro John, che lo
guardò in cagnesco.
- “Solo
perché ho continuato a scrivere sul blog che la mia analista
mi aveva
consigliato di aprire non significa obbligatoriamente che sentissi il
bisogno
di andare avanti con la terapia.”
- “Però
poi ci è tornato!”
- “Senta,
io non so come lei faccia a sapere queste cose, ma sta
esagerando!” fece
Lestrade.
- “Informarsi
è il mio mestiere, sono un giornalista. Simon Coleman del The Sun” rivelò
l’uomo.
- “Giornalista,
eh? I soliti incompetenti piantagrane” commentò
Lestrade
- “Attento,
ispettore. Tutto quello che è stato detto stasera
verrà molto presto letto da
moltissime persone.”
- “Lei
non ha il diritto! Potrei denunciarla!”
- “E
con quali accuse, sentiamo?”
- Simon
cacciò dalla tasca una scatolina nera che subito dopo notai
essere un
registratore, e che poi rimise velocemente via.
- Mary
e Martha ci raggiunsero. La prima trasportava un vassoio da cui
fuoriusciva del
fumo leggero, l’altra invece una brocca d’acqua.
- “E
pronto!” esclamò Mary verso di noi.
- Quello
fu senza dubbio il momento più imbarazzante e strano della
mia vita.
- Mi
sarei dovuta sedere al tavolo e avrei dovuto cercare di far finta di
nulla, che
la conversazione con il giornalista, scandalistico
senza dubbio, non fosse mai avvenuta. Ma come? Le sue accuse e le sue
paranoie
erano state gravissime e avevano provocato in me un senso di disagio
mai
provato prima.
- “Fareste
meglio a stare alla larga da Mary, d’ora in poi” ci
sussurrò il diretto
interessato
- “La
ragazza sembra innocua.” fece poi riferendosi a me.
“Non vorrei, in ogni caso,
che frequentasse degli psicopatici con dei problemi di
coscienza…”
- Successe
tutto in pochi secondi, fu quasi impercettibile e mi ci vollero molti
secondi
prima di capire cosa fosse accaduto.
- Martha
urlò e io mi aggrappai al braccio di Greg.
- Simon
cadde a terra, dolorante, con una mano sull’occhio destro. Il
bicchiere da cui
aveva bevuto il vino precipitò sul pavimento e si ruppe.
- John,
con il respiro affannoso, era in piedi proprio sopra al giornalista. Lo
aveva
colpito al volto e sembrava intenzionato a continuare. Lestrade si
staccò dalla
mia presa e cercò di trattenerlo, perché sembrava
completamente fuori di sé. Io
guardai terrorizzata la scena, e così fecero anche Mary e
Martha.
- L’unico
ricordo che mi sarebbe rimasto di quella serata
sarebbe
stato lo
sguardo di John.
- Non
avevo mai visto nulla del genere. I suoi occhi sembravano rispecchiare
un odio
profondo, viscerale, violento e contemporaneamente una gelida
malinconia,
nascosta e repressa probabilmente per tanto tempo.
-
- *
-
- Durante
il viaggio di ritorno regnò il silenzio assoluto, almeno per
un po’, e dal suo
sguardo severo, e anche da come guidava, Lestrade doveva essere molto
agitato.
- Alla
fine, il giornalista se l’era cavata con un occhio nero e un
taglio
superficiale al sopracciglio, che avevo prontamente medicato. Il
giornalista
aveva comunque deciso di andare in ospedale.
- “Quel
pazzo ci causerà un sacco di guai!”
sbottò Greg improvvisamente.
- “Credi
che metterà davvero su carta ciò che ha
registrato?”
- Lui
mi guardò confuso.
- “Non
parlo di Simon Coleman.” rispose e cacciò dalla
tasca il registratore “L’ho
preso quando gli ho dato una mano ad alzarsi. Acqua in bocca,
naturalmente.”
- Annuii
convinta. Sapevo che quello che aveva fatto non era strettamente
legale, ma lì
dentro c’era un mucchio di sciocchezze e sarebbe stato
difficile affrontare la
stampa. L’incubo di tre anni prima stava tornando a
tormentarci tutti.
- “Mi
riferivo a Sherlock, comunque.” Riprese Greg “Da
morto o da vivo, che sia
presente o assente, non si riesce mai a fare a meno di parlare di
lui!”
- Aveva
assolutamente ragione, ma non risposi.
- “Scusa”
sussurrò poi sbuffando “Ti sto ammorbando con
queste paranoie...”
- “Non
credo che a casa avresti occasione di farlo” risposi
sinceramente, ripensando
alla questione del divorzio e sperando che bastasse a fargli capire che
poteva
sfogarsi liberamente con me.
- Sorrise
sorpreso, ma poi mi ringraziò con un cenno della testa.
- Quando
ci fermammo sotto casa mia
mi
strinse un braccio
con la mano.
- “Sicura
di stare bene? La scena di prima non è stata molto
allegra.”
- All'inizio
della serata mi sarei sentita in imbarazzo per il gesto, ma in quel
momento non
ci diedi molto peso, o almeno, non mi sentii affatto a disagio.
- “Mi
sono leggermente spaventata, ma è tutto ok.” gli
assicurai.
- “Se
hai fame, c'è un fast food proprio dietro
l'angolo...”
- “Sto
bene, non preoccuparti.”
- A
quel punto, lasciò il mio braccio.
- “Buona
notte.”
- Scesi
dall'auto e lui aspettò che fossi entrata prima di mettere
in moto ed andare
via.
- Salendo
le scale del pianerottolo, ebbi una visione sconfortante e spaventosa.
- John
aveva dato di matto al solo sentir parlare di Sherlock. Quando
l’avrebbe
rivisto, allora, cosa sarebbe mai potuto accadere? Ero sempre stata
abituata ad
analizzare e riconoscere sui corpi a me assegnati ogni tipo di violenza
o
ferite. Ma vederle infliggere, quello forse mai, e John mi aveva dato
l'impressione di poter fare molto peggio...
- Sperai
che anche le mie fossero solo paranoie e cercai di pensare ad altro.
- Il
mio appartamento era immerso nell'oscurità quando entrai, ma
sentii dei
movimenti all'interno del salotto, ed infatti, appena accesi la luce,
Sherlock
stava indossando giacca e sciarpa.
- Mi
guardò con sospetto.
- “Sei
già tornata...”
- Io
chiusi la porta.
- “La
cena è terminata. Come può essere già
terminata? È troppo presto.”
- Improvvisamente
sentii tutta la stanchezza che gli avvenimenti di quella serata mi
avevano
provocato e non ebbi alcuna voglia di ascoltare le analisi di Sherlock.
- “È
successo qualcosa. Ma cosa? John e la sua fidanzata hanno avuto una
discussione? No, no, improbabile. Qualcuno deve essersi fatto male e tu
hai
fatto la medicazione...”
- “Sherlock...”
- “Hai
dell'ovatta sul vestito”
- Io
mi guardai subito addosso e mi pulii.
- “In
ogni caso” continuò “Me lo racconterai
un altro giorno, adesso devo uscire.”
- “John ti ha
difeso. E ha difeso la tua
memoria. Ha difeso me e Lestrade dalle domande inopportune di un
giornalista
incompetente e decisamente impertinente.” lo
pensai, ma non riuscii a
dirglielo.
- Lui
prese il proprio borsone e aprì la porta.
- “Non
aspettarmi” disse.
- “Vuoi
che ti lasci le chiavi?” gli domandai, porgendogliele.
- “Casa
tua è stato un rifugio molto sicuro, devo
ammetterlo” rispose, ignorando il mio
gesto “Ma devo andare via. Torno a Baker Street.”
- Quell’ultima
frase mi colpì,
e
così
lo
guardai più attentamente.
- “Ma…”
- “Questo
non significa che sono davvero tornato.” precisò
“Non ancora.”
- Mi
congedò con quella frase e uscì fuori, ma io lo
fermai.
- Quello
era il momento adatto e probabilmente l’unico possibile prima
del caos che
sarebbe scaturito dopo la sua ricomparsa nel mondo. Nulla avrebbe
potuto
giustificarmi ancora, dovevo chiederglielo, una volta per tutte.
- “Sherlock…”
- Lui
si girò velocemente, con un piccolo sbuffo, ma non disse
nulla.
- “Ho
una domanda da farti e voglio che tu mi risponda in modo sincero, senza
commenti sarcastici o insulti. Voglio solo un sì, o un
no.”
- Continuò
a guardarmi, senza scomporsi.
- “Sono
anni che io…”
- “So
cosa stai per chiedermi, Molly” mi interruppe
improvvisamente, ma con calma “E
credevo tu conoscessi già la risposta…”
- Iniziai
a sentire lo stomaco girare e presi un bel respiro, lui però
continuò.
- “Quello
non è il mio stile di vita. I sentimenti confondono la mente
e rendono
vulnerabili. Non me lo posso permettere. Non quando ci sono delle vite
in gioco,
e
sai bene di
cosa parlo.”
- Si
interruppe per diversi secondi.
- “E
in questo momento, i tuoi mi stanno rubando del tempo
prezioso.”
- “Tu”
non seppi neanche da dove riuscii a prendere tutto quel coraggio
“Tendi a
vedere sempre tutto in modo negativo, Sherlock. Amare qualcuno
dà
anche
gioia,
tanta gioia.”
- “Non
credo sia il mio caso, il nostro. Tutti coloro che mi stanno intorno
preferirebbero il più delle volte spaccarmi la faccia o
rinchiudermi in una
clinica psichiatrica.”
- Il
suo sguardo si incupì.
- “Non
io…” risposi “E neanche John,
né Lestrade, o la signora Hudson e forse neanche
tuo fratello Mycroft.”
- “La
mia risposta è no, Molly.”
- Ed
era quella che non avrei mai voluto lui mi desse.
- Il
mio naso cominciò a pizzicare e sentii il viso in fiamme,
oltre
ad avere
il battito accelerato.
- Entrambi
distogliemmo lo sguardo, poi sentii il rumore di passi e guardai la sua
figura
allontanarsi e scomparire giù per le scale.
- Chiusi
la porta deglutendo, tirai su con il naso e cercai di trattenere le
lacrime. Mi
mossi velocemente verso la camera da letto, recuperai il cellulare e
composi il
numero dell’unica persona che sarebbe stata in grado di
sopportare il mio sfogo
e che avrebbe trovato le parole giuste: mia sorella Daisy. E appena
sentii la
sua voce, scoppiai a piangere.
- Sherlock
aveva ragione, sempre. E anche quella volta la ebbe.
I sentimenti rendono vulnerabili, e quella sera io mi ero
lasciata andare più di altre volte. Ma non solo per la sua
risposta. Avevo
imparato ad essere forte, volevo davvero dimostrare di non essere
più quella
ragazza triste che aveva conosciuto tanti anni prima, ma ero troppo
amareggiata
e troppo delusa, anche da me stessa. Quello era stato il momento di
svolta, in
cui finalmente avevo capito che arrendersi non significasse
obbligatoriamente
perdere, ma avere una nuova opportunità per cominciare. Ed
ecco anche il
secondo concetto espresso da Sherlock concretizzarsi.
I sentimenti confondono. Non avevo riconosciuto chi davvero
meritava di essere amato e chi meritavo di avere al mio fianco.
- Avevo
semplicemente cercato nel posto sbagliato.
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BUONA SERA! Ebbene sì,
sono tornata ad aggiornare. Scusate se vi ho fatto attendere, cause di
forza maggiore mi hanno impedito di scrivere/aggiornare. Volevo
precisare che con questo capitolo termina la parte dedicata a Molly, e
in particolar modo la questione Molly-Sherlock. Spero di non aver
deluso nessuno. Questo, in ogni caso, è il mio punto di
vista ^^
Sono comunque felice che
voi siate sempre quì e seguiate la mia storia e la
commentiate, la leggiate semplicemente, insomma, grazie come sempre! Alla
prossima!
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 - La mia verità non sarebbe bastata. ***
JOHN
Mary era di fronte a me, in piedi e con le braccia incrociate al petto. Io invece ero seduto, le mani mi tremavano ancora un po', ma ero decisamente più calmo.
Amico di Mary o no, quel Simon se l'era cercata! E dire che avevo davvero immaginato che quella serata sarebbe andata bene, che avrei potuto riallacciare i rapporti con Greg e Molly... invece avevamo avuto a che fare con un giornalista folle in cerca di uno scoop.
Per questo anni prima mi ero tanto isolato. Per questo avevo cambiato casa. Per questo non avevo avuto nulla a che fare con il processo. Perché sapevo quanto fosse stato difficile raccontare la verità. Non avrei saputo neanche da dove cominciare. O forse sì, ma non avevo mai avuto il coraggio di farlo, il coraggio di rileggere gli articoli del mio blog e di associare a loro tutte le giornate e le conversazioni passate con Sherlock Holmes. Avevo seguito il processo in televisione e sui giornali. La mia verità non sarebbe bastata, probabilmente. Le loro tesi sembravano così convincenti – o almeno lo erano per i giudici – e io non sarei riuscito a sopportare gli insulti e le accuse, quando ancora ero tormentato da incubi in cui il mio migliore amico si buttava giù da quel tetto.
In quell'ultimo anno avevo fatto di tutto per evitare di pensare al suo nome, e soprattutto al fatto che la mia speranza di rivederlo comparire da un momento all'altro fosse stata solo una stupida utopia. Lui non avrebbe mai potuto compiere quel miracolo, ed io avrei dovuto smettere di credere il contrario.
Proprio per quel motivo avevo colpito Simon. Volevo che stesse zitto, che non mi ricordasse quanto mi fossi illuso, ma soprattutto mi aveva infastidito sentirlo insultare e incolpare i miei amici e infine mi aveva addirittura intimato di stare lontano da Mary.
Ma come diavolo si era permesso?
“Allora?” cominciò proprio lei, avvicinandosi un po' di più a me “Siamo fermi qui da venti minuti, ormai, finalmente ti sei calmato?”
“Sì” le risposi subito. Lei prese una sedia e si sedette.
La tavola era rimasta lì, apparecchiata di tutto punto. Il pollo era ormai freddo, le posate neanche minimamente spostate e i residui del bicchiere infranto di Simon raccolti in un fazzoletto.
“Vorrei che tu mi spiegassi cosa è successo, ma soprattutto, perché hai così tanto perso la pazienza.”
Il suo tono era calmo, ma dal suo sguardo notai che era molto preoccupata.
“Se proprio vuoi saperlo, non mi pento affatto di ciò che ho fatto.”
Lei sembrò molto colpita da quelle parole, ma non si scompose.
“Che amico simpatico che hai, davvero!”
“Questo non giustifica il tuo comportamento, John. Insomma, gli hai quasi rotto un sopracciglio!”
Avrebbe meritato molto di più.
“Insomma, sei un medico.”
“E anche un soldato!”
“Non sei più in servizio da tanto tempo, ormai...”
“Certe abitudini non si dimenticano tanto facilmente.”
Lei si zittì per diversi secondi ma poi riprese.
“Non credo che sia per questo che lo hai fatto.”
Fui io a zittirmi e ci guardammo attentamente.
“Ho sentito Simon farfugliare qualcosa mentre Molly lo stava medicando. Qualcosa su Sherlock Holmes.”
Presi un respiro profondo e iniziai a raccontarle della conversazione che io, Greg e Molly avevamo avuto con il suo amico.
“È stato del tutto inopportuno fare quel tipo di domande.”
“Simon è sempre stato così...”
“... insopportabile?” azzardai.
“Un po' impiccione, devo ammetterlo.”
Io sbuffai. Era stato anche peggio.
“John.”
Lo sguardo di Mary era diventato molto più severo.
“Vorrei che tu ti aprissi con me, perché la tua rabbia è stata causata da una sola cosa, a quanto pare...” sospirò “Vorrei che tu mi parlassi di Sherlock Holmes.”
Per un breve istante, ricordai come quelle stesse identiche parole mi fossero state rivolte dalla mia analista, e mi venne quasi da ridere, perché trovavo la coincidenza decisamente buffa.
“No.” risposi poi “Non posso.”
“Non puoi, o non vuoi?”
Mary mi guardò con apprensione.
“Quando ci siamo conosciuti io sapevo già chi fossi, perché i giornali scrissero dell'accaduto, del suicidio...”
Trattenni il fiato.
“E io naturalmente mi interessai alla questione, ma non in modo così approfondito, tra l'altro...”
Si interruppe improvvisamente e assunse un'aria terrorizzata.
“Mi dispiace, John. Non avrei mai immaginato, non... oh, sono stata una stupida!”
Io ero confuso.
“Di cosa parli?”
I suoi occhi divennero lucidi.
“Io e Simon abbiamo ripreso i contatti quando ho iniziato ad uscire con te, più o meno... ero così contenta di sentirlo –perché abbiamo passato praticamente tutta l’infanzia e l’adolescenza insieme - da non rendermi conto...”
Iniziai a capire, il mio viso di nuovo in fiamme.
“Quello che lessi su Sherlock Holmes era stato scritto da lui.” terminò.
“Saranno tutte idiozie, allora” risposi con fastidio “Sono felice di sentire che il giornalismo inglese stia cadendo così in basso...”
Mi alzai. Ero di nuovo arrabbiato, e molto.
Un dubbio atroce si impossessò di me.
“Ti prego, dimmi che non eri d'accordo con lui.” le chiesi.
Lei sgranò gli occhi, sconvolta.
“No!” mi rispose con sicurezza e a voce alta.
La guardai attentamente, mi soffermai ad analizzare il suo sguardo ed ebbi l'impressione che stesse dicendo la verità.
Chiusi gli occhi per un momento e poi sospirai gravemente, poi mi sedetti di nuovo.
“La verità è che nessuno capirebbe...” ammisi.
Che cosa avrei dovuto dirle? Che Sherlock amava ardentemente ricevere telefonate o sms da parte di Greg quando a Scotland Yard si presentava un complicato caso di omicidio, o di rapimento, o di qualunque altro tipo? E amava ancora di più presentarsi nell'obitorio del Barts e usare i corpi assegnati alla povera Molly per singolarissimi esperimenti? E parlarle del modo in cui si rivolgeva a chiunque, con quel tono saccente e tagliente? E dirle anche perché faceva tutto ciò? Non per lavoro, non perché sapeva fosse utile alla società. Per divertimento, forse, ma più che altro perché era semplicemente il suo modo di sopravvivere...
“Mi prenderesti per pazzo.”
Magari lo sono davvero...
Ad interrompere il silenzio che si era creato dopo quell'affermazione, fu la suoneria del mio cellulare, che mi avvisava dell'arrivo di un messaggio.
Lo presi con molta calma, immaginando si trattasse di Greg, invece il mittente era sconosciuto.
“Corri, John. Qualunque cosa tu stia facendo, dovunque tu sia, corri e vieni a prendere tua sorella.”
Rimasi a fissare lo schermo per qualche secondo, rileggendo il messaggio.
Corri e vieni a prendere tua sorella?
Forse qualche 'amico' con un po' di coscienza, o che forse era ancora sobrio, mi stava avvertendo dell'ennesima sbronza di mia sorella?
Corri, John. Qualunque cosa tu stia facendo, dovunque tu sia.
Il tono del messaggio sembrava, però, leggermente più grave.
Un'altra rissa?
O forse qualcosa di peggio?
“Cosa succede?” chiese Mary, sporgendosi verso di me e cercando di leggere l'sms.
“Qualcuno mi chiede di andare a prendere mia sorella...”
Mary naturalmente sapeva di Harry, solo che non le avevo approfondito la tipologia di problemi da cui era afflitta.
“Quindi adesso vai via?” esclamò, leggermente contrariata. “Non abbiamo terminato la nostra conversazione!”
Io nel frattempo mi ero alzato.
“Dimmi almeno se sai perché l'ha fatto. Se sei convinto che tutte le cose dette su Sherlock Holmes siano solo bugie, allora perché si è suicidato?”
Sentii lo stomaco contrarsi così tanto che quasi persi il fiato.
Si era messo contro le persone sbagliate...
“Non lo so” risposi, invece e con non poca fatica.
Mi arrivò un altro sms.
“Per l'amor di Dio. Corri, John! Waterloo Station.”
Quella volta rimasi colpito da ciò che lessi. C'era troppa confidenza in quel sms, ma quello che la mia mente mi aveva immediatamente suggerito sarebbe stato praticamente impossibile. Che qualcuno mi stesse facendo uno scherzo, dunque?
Vidi Mary aprire di nuovo la bocca, ma l'anticipai.
“È morto, ormai! Perché diavolo dobbiamo continuare a parlare di lui?” sbottai, urlando. Lei allora si zittì.
Stavo male. Perché non se ne rendeva conto?
La guardai per l'ultima volta, prima di girarle le spalle e dirigermi verso la porta.
Non mi sarebbe costato nulla andare nel luogo indicatomi nel messaggio. La serata si era già rivelata deludente, cosa sarebbe potuto succedere ancora?
E se magari si fosse trattato di Simon? Di una sua rapidissima vendetta?
Scossi la testa, indossando la giacca e pensando all'assurdità di quell'ipotesi.
Per un attimo, credetti anche di sentire un singhiozzo.
Un altro sms in arrivo mi costrinse ad ignorare qualunque pensiero la mia testa stesse per formulare.
“Segui Cajkovskij.”
*
Mi ero svegliato con dolori atroci per tutto il corpo e uno particolarmente fastidioso e intenso alla spalla sinistra. La vista era sfocata, tanto che ero riuscito a scorgere soltanto delle ombre intorno a me. Qualcuno aveva parlato, ma non avevo capito assolutamente nulla. Non seppi neanche se si fosse rivolto a me.
Una luce fastidiosa aveva improvvisamente colpito il mio occhio destro, poi era toccato al sinistro. Dopo parecchi secondi di confusione finalmente ero riuscito a vedere qualcosa. Un uomo era chinato verso di me.
“Si è svegliato, sì. Vai a chiamare il comandante Thompson.” aveva detto, rivolto a un'altra persona, posizionata di fronte a lui, che si era subito allontanata.
“Ricorda il suo nome, soldato?” mi aveva domandato l'uomo, anche se inizialmente non avevo capito.
“Io... io sono il capitano John Hamish Watson, sono il medico della squa...” una fitta atroce alla spalla non mi aveva lasciato terminare la frase.
L'uomo era prontamente intervenuto con un tamponamento nella zona lesa.
“Bentornato tra noi, dottor Watson.” aveva detto, con un mezzo sorriso.
“Cosa è successo?” avevo domandato a mia volta, cercando di non pensare al dolore.
“Speravo potesse dirlo lei a noi” era stata la sua immediata risposta.
Mi ero subito messo a pensare. L'immagine di un'esplosione era ciò che ricordavo con più facilità, ma c'era altro, tanto altro.
“Per quanto riguarda le sue ferite” l'uomo aveva ricominciato a parlare “Ha riportato diverse ustioni, in particolare sulle braccia e sul viso, ma sono già in via di guarigione. Non posso dire lo stesso della sua spalla. È stata colpita da un proiettile in prossimità del muscolo sottoscapolare e dell'omero, che però non ha subito danni. Non si può dire lo stesso del muscolo. Il proiettile glielo ha perforato. Ha perso molto sangue.”
Avevo fatto una smorfia.
“Lo avete già estratto?”
“Certo, ma non è tutto: probabilmente, nella caduta, ha poggiato troppo forte il ginocchio destro sul terreno, ma per fortuna, non c’è nulla di rotto. Potrebbe avvertire comunque dei fastidi. Abbiamo preferito farle una fasciatura.”
Avevo provato a muoverlo e il dolore si era presentato immediatamente, ma di certo non era paragonabile a quello alla spalla.
“Chi è lei?” avevo domandato al soldato.
“Sono il capitano Andrew Smith, signore.”
“Da quanto tempo sono qui, capitano? A proposito, dove ci troviamo esattamente?”
“Siamo nella capitale, signore. A Kabul. Questa è la sua seconda mattina. Mi sono occupato personalmente di lei da quando è arrivato ieri.”
“Quindi lei è un medico?”
Lui avevo annuito.
“Faccio parte della squadra Delta A.”
“Non eravate a Kandahar?”
Avevo cercato di mettermi seduto, ma muoversi si era rivelato più difficile di quanto avessi immaginato.
Andrew Smith mi aveva aiutato prontamente. Era di corporatura robusta, (decisamente più della mia) e riuscì a sollevarmi con facilità e allo stesso tempo con molta delicatezza, tanto che ero riuscito a non lamentarmi per il dolore.
“Siamo stati trasferiti qui quattro giorni fa. La sua squadra era già partita per Charikar.”
La mia squadra, sì. Eravamo in otto ed eravamo partiti il martedì precedente, alle quattro del mattino.
Mi ero girato per dare un'occhiata a ciò che avevo intorno.
“I miei compagni, stanno bene?”
L'uomo mi aveva guardato con aria grave.
“Philips, Kelly, Jones e Bean hanno riportato solo delle ustioni, sono in un’altra stanza.”
Poi mi aveva indicato un uomo, proprio alla mia destra.
“Lui è Hall. È stato colpito da due proiettili. Uno proprio sotto allo zigomo, l'altro al torace. Abbiamo fatto il possibile. Ora è in coma.”
“Charlie Hall era proprio dietro di me.” mi ero ritrovato a pensare.
“Gilliam invece ha riportato delle ustioni gravissime, è stato spostato proprio stamattina in terapia intensiva. Non sappiamo se ce la farà.”
Lui invece era davanti a me e a Charlie.
“E Joyce? Harry Joyce?”
Andrew Smith mi aveva guardato per qualche secondo e io avevo subito capito.
“Harry Joyce è morto. L'esplosione lo ha preso in pieno. I suoi resti sono stati portati...”
Il soldato si era poi subito interrotto, poiché nella stanza erano entrate altre due persone. Io riconobbi subito la prima: il comandante Thompson.
Il capitano Smith aveva alzato un braccio per salutarlo e l'altro aveva fatto lo stesso. Avevo cercato di imitarli, non riuscendo però a muovermi.
“Riposo, soldato” mi aveva detto Thompson.
La sua voce era molto profonda.
“Siamo molto sorpresi” aveva subito ripreso a parlare “La missione della sua squadra a Charikar si è rivelata più pericolosa di quanto immaginassimo. Può raccontarci cosa è successo? Se lo ricorda?”
Io avevo guardato sia lui che Andrew Smith e poi avevo iniziato il mio racconto.
“Io e la mia squadra siamo partiti da qui alle quattro e siamo arrivati nei pressi di Charikar poco prima di mezzo giorno, martedì mattina, 10 Luglio.” avevo poi fatto i nomi di tutti i componenti.
“Il mercoledì mattina abbiamo abbandonato la città e abbiamo proseguito a nord. Lì ci sono numerosissime piantagioni e campi arati che si estendono fino ai piedi della catena montuosa che si trova ad ovest. La nostra missione era quella di mettere in sicurezza quella zona, infatti abbiamo richiesto alla base che una squadra più numerosa ci raggiungesse.”
Il capitano Thompson mi aveva guardato con attenzione, e a quell'ultima esclamazione aveva annuito.
“Abbiamo superato diverse colline, avvicinandoci sempre di più ad un piccolo centro abitato. Io, Joyce, Hall e Gilliam eravamo più avanti rispetto agli altri quattro. Joyce apriva la fila, Hall la chiudeva. Abbiamo scorto delle case in lontananza, così, abbiamo aumentato il passo, ormai stava per farsi buio, ma poi è comparso un uomo...”
A quel punto, l'attenzione del capitano Thompson si era intensificata.
“Chi era?”
“Penso fosse un nostro soldato. Portava la nostra divisa, e ci ha parlato in inglese. Un inglese fluido e chiaro.”
Thompson si era sporto verso l'altro soldato al suo fianco e gli aveva intimato di andare a chiamare un altra persona.
“Vada avanti, capitan Watson. Ricorda l'aspetto di quell'uomo?”
Avevo chiuso gli occhi, per cercare di ricordare meglio.
“Di sicuro, posso dirle che non aveva il casco. Lo portava legato ad un fianco. Questo lo ricordo bene... poi, aveva una chioma abbastanza folta e anche della barba, sì. Scura, probabilmente.”
“Si è identificato?”
Scossi la testa. La conversazione con quell'uomo misterioso era stata breve, e di sicuro non aveva pronunciato il proprio nome.
“È arrivato puntando il suo fucile contro Joyce, e ne aveva anche un altro. Poi ci ha osservato con più attenzione e ci ha detto di essere inglese, e che potevamo abbassare le armi. A quel punto, Gilliam gli ha chiesto di identificarsi. Lui non ha risposto. Gilliam ha continuato a fare domande, gli ha chiesto il nome della squadra di cui faceva parte e se c'erano altri nostri soldati nella zona. L'altro ha detto di essere solo.”
E aveva aggiunto anche coloratissime bestemmie contro la popolazione locale, aggiungendo subito dopo che però erano bravissimi con i fucili. Quel particolare decisi di non rivelarlo.
“A quel punto, gli ho chiesto a mia volta di identificarsi, ma si è rifiutato di farlo per l'ennesima volta. Così, la tensione è cresciuta decisamente. Gilliam ha perso la pazienza e si è mosso verso lui e Joyce. A quel punto, ho notato in lontananza gli altri quattro della squadra imboccare la strada verso la collina dove ci trovavamo noi. Non mi sono accorto degli spari, e a dire il vero non ho neanche capito da dove provenissero. So solo che sono stato colpito e prima di cadere c'è stata l'esplosione.”
Nella stanza era caduto un silenzio rispettoso. Thompson si era guardato intorno pensieroso, fino a quando un altro uomo era entrato nella stanza e i due si erano messi a parlare.
“Potrebbe essere lui.” aveva sussurrato sempre Thompson.
“Il capitano lo ha visto bene? Vi ha detto se aveva delle cicatrici?” aveva detto l'altro, poi si girarono verso di me e io dovetti ripetere la descrizione dell'uomo in questione.
“Purtroppo non ho notato nessun particolare e nessuna cicatrice sul viso, sono desolato. Era Joyce, quello più vicino. Prima di essere colpito ho visto lui e Gilliam rincorrere il vostro uomo, se si tratta davvero di lui.”
A quel punto, i due comandanti avevano ricominciato a parlare tra loro.
“Quanti giorni sono passati dalla fuga del colonnello Moran?” aveva chiesto Thompson.
“Non più di venti. Penso abbia trovato degli appoggi, quel figlio di puttana!”
Di nuovo silenzio, poi si erano girati per ringraziarmi ed erano usciti dalla stanza, insieme al terzo soldato.
Io avevo sospirato confuso e avevo chiesto dei chiarimenti ad Andrew Smith, se avesse potuto darmeli.
“Un caso di diserzione, intrecciata all'attacco compiuto sulla vostra squadra, a quanto pare. Se davvero dovesse trattarsi del colonnello Moran, credo proprio che non abbia fatto che aggravare la sua situazione già fortemente critica.”
“Diserzione, quindi...” avevo commentato, leggermente stupito. Non avrei mai immaginato che nel nostro esercito fosse potuto accadere qualcosa del genere.
“Non è solo quello, dottor Watson” aveva risposto Smith. “Moran faceva parte della mia squadra, ed era con noi da molto tempo. Lo conoscevo bene, e di certo non si può dire che fosse una persona onesta. Per di più, si è sempre rivolto, anche ai suoi superiori, con molta aggressività. Un ottimo soldato, senza dubbio, ma ossessionato dalla voglia di uccidere.”
Smith aveva cambiato la medicazione fatta alla mia spalla e poi aveva continuato.
“Sono stato io a curargli la ferita, diventata poi una lunga cicatrice che si estende dal naso fino quasi all'orecchio. Con gli anni sarà sempre meno visibile, ma per ora... Per questo il comandante le ha chiesto se l'aveva notata. Con quello ci avrebbe confermato la sua identità.”
Non avevo risposto, e mi ero messo a pensare di nuovo all'accaduto, con grandissima amarezza. Probabilmente mi ero poi appisolato, perché quando avevo riaperto gli occhi era diventato buio.
I miei pensieri erano andati a Joyce.
Era solo un ragazzino, probabilmente non aveva neanche compiuto venticinque anni, ed era stato scelto per la nostra missione. Il giorno prima della partenza lo avevo visto parecchio nervoso e mi aveva confidato di non aver chiuso occhio per giorni, quando aveva saputo quale sarebbe stato il suo compito. Io e Hall lo avevamo rassicurato durante tutto il viaggio verso Charikar, mentre Gilliam, invece, lo aveva preso in giro. Joyce era il più giovane, forse il più vulnerabile, ma anche molto volenteroso… e a lui era toccata la sorte peggiore.
Qualche settimana dopo l'accaduto, Smith mi aveva comunicato che Thompson aveva accettato la mia richiesta di congedo quasi immediatamente, viste le mie condizioni di salute. Il comandante sarebbe tornato in Inghilterra con me. Prima di abbandonare la guerra, mi aveva detto, ci sarebbe stata un'ultima missione che avrei dovuto compiere.
Lui sarebbe stato lì con me quando avrei bussato alla porta di casa Hall, di casa Gilliam e di casa Joyce e avrei dato alla loro famiglia la notizia che i loro figli erano morti. Conoscevo i genitori di Harry Joyce. Lo avevano accompagnato all'aeroporto quando eravamo partiti, diversi anni prima, e, incredibilmente, ricordavo perfettamente i loro volti. Sarei stato lì, davanti a loro, e avrei raccontato ciò che era successo.
“Vostro figlio è stato molto coraggioso” avrei detto.
In realtà aveva avuto paura.
“È morto con onore, combattendo” avrei sostenuto.
In realtà era saltato in aria per colpa di una mina.
“Avevo promesso di badare a lui”
Era stata più una promessa fatta a me stesso. Ma il rammarico era ancora tanto e probabilmente non se ne sarebbe mai andato.
Ritornare alla vita civile sarebbe stato decisamente difficile, ma ero sicuro di una cosa: non avrei mai più permesso che qualcuno fosse morto sotto i miei occhi, senza poter fare nulla per salvarlo.
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Ci sono due notizie: La prima è che siamo arrivati a metà della storia, quindi, altri cinque capitoli, compreso l'epilogo e terminerà çç. L'altra è, invece, che per me è iniziato un momento un po' critico quindi gli aggiornamenti non saranno molto frequenti (questo si era capito, mi sa!). Per il resto, ringrazio, come sempre, tutti voi per l'attenzione che dedicate alla mia storia.
Alla prossima!!!
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 - Mycroft. ***
MYCROFT
“Il livello di protezione sulla signorina Hooper deve essere cambiato, signore?”
Mi girai verso Anthea, in piedi proprio alla mia sinistra.
“No” risposi con calma “Il trasferimento di mio fratello non le garantisce sicurezza, anzi, il contrario, quindi lasci tutto invariato.”
Lei annuì.
“Questo vale anche per tutti gli altri?”
“Assolutamente.”
Anthea annuì di nuovo e digitò qualcosa sul suo cellulare.
“È tutto per oggi, signore?”
“Sì, cara. Metta a posto i documenti e poi può andare.”
La ragazza si girò, facendo svolazzare dolcemente i suoi capelli castani, e si diresse verso la mia scrivania, dove cominciò a mettere in ordine.
Rivolsi nuovamente lo sguardo verso il finestrone che avevo di fronte, anche se si era ormai fatto buio e non si riusciva più a scorgere la vegetazione del giardino.
Ero seduto sulla poltrona del salotto, e avrei potuto affermare che non ci fosse nulla di più bello. La stanza era calda al punto giusto. Una sola luce, quella della lampada sulla scrivania, lasciava tutto nella semioscurità e rendeva l'ambiente più intimo e sereno.
Amavo la tranquillità.
Qualcuno avrebbe potuto dire che la mia appartenenza al Diogenes Club dipendesse solo da quello, dal diritto di avere unasala in cui regnava il silenzio più assoluto.
Naturalmente, non era il solo motivo.
Insieme alla tranquillità, amavo anche la solitudine.
Non avevo mai sentito il bisogno di avere qualcuno al mio fianco, tanto che le poche persone degne della mia fiducia erano state segnate prontamente sulla mia agenda.
La mia agenda mentale.
Mia madre era la prima della lista. Aveva ormai superato i settant'anni e l'età poteva averla colpita nel fisico, ma sicuramente non nello spirito. L'amore per la famiglia era sicuramente il suo miglior pregio, la cosa più importante che mi avesse mai insegnato e che continuava ancora ad insegnare.
C'erano poi i miei più stretti collaboratori: il mio autista Roger, macchina sempre pronta, conoscenza precisa di ogni singola strada di Londra e discrezione assoluta.
Anthea, che era stata assunta a diciannove anni grazie ad una raccomandazione e che si era poi rivelata all'altezza dei compiti assegnati e quindi degna di stima. E infine c'era Ronald, il genio informatico dietro la rete di telecamere di tutta la città.
Molte altre persone, invece, si erano rivelate decisamente più interessanti solo negli ultimi anni.
La signora Hudson, per esempio, era una donna stravagante, ma dopotutto anche molto buona e coraggiosa. Sherlock amava ricordare agli altri il ruolo che aveva avuto durante il processo contro il marito della donna, ma io avrei potuto senza indugio parlare di ciò che avevo fatto per lei. Forse mio fratello non l’avrebbe neanche conosciuta,se non fosse stato per il mio intervento.
La signorina Molly Hooper, invece, era una di quelle persone di cui, a prima vista, non ti saresti mai fidato, a causa del suo carattere insicuro e riservato. Aveva, il più delle volte, un senso dell’umorismo un po’ macabro, probabilmente perché lavorava in un obitorio, ma era anche piena di buona volontà,e svolgeva i suoi compiti con grande diligenza e professionalità. Sherlock si era fidato di lei e le aveva affidato un incarico davvero impegnativo, dal quale non si era tirata indietro, dimostrando una grande forza d’animo. Forse il suo unico difetto era quello di fidarsi troppo di lui, di credere a tutto quello che le aveva sempre detto. Conoscevo senza dubbio il motivo per cui lei era così affezionata a Sherlock, ma le questioni di cuore non mi avevano mai interessato, in modo particolare se riguardavano mio fratello.
Entrato a far parte della mia lista in tempi più recenti, come Molly Hooper, c’era poi l’ispettore Gregory Lestrade. Il nostro primo incontro era avvenuto a causa di uno spiacevole avvenimento che aveva coinvolto il governo, un omicidio spietato contro una delle personalità più vicine al primo ministro inglese. Non avrei mai immaginato che, dopo l’involontario coinvolgimento di Sherlock in quella storia, l’ispettore avrebbe seguito il mio consiglio e avesse poi accettato di fidarsi di lui. Per di più, anno dopo anno gli aveva permesso di partecipare a molti dei casi affidati a Scotland Yard, come se gli agenti all’interno del servizio di polizia londinese non fossero sufficientemente competenti e come se Sherlock fosse il miglior investigatore del paese. Probabilmente, entrambe le ipotesi erano vere, ma tutto ciò mi aveva comunque stupito.
Il silenzio con cui aveva difeso mio fratello durante gli ultimi anni, vista la sua posizione, e le azioni da lui compiute nell’ultimo mese erano state davvero notevoli. Non avevo mai conosciuto uomo più onesto.
Mi stiracchiai, togliendomi le scarpe e allungando le gambe. Il mio corpo affondò un po’ di più nella poltrona. Era una posizione davvero molto comoda. Mi girai di sfuggita, notando alcuni fascicoli che Anthea stava mettendo via.
“Quelli li lasci sulla scrivania” dissi.
Lei annuì leggermente.
Prima di addormentarmi avrei dovuto terminare la lettura dei fascicoli che l’ispettore Lestrade mi aveva procurato. Non avevo trovato nulla di interessante, a parte fantasiose teorie su come Sherlock avesse architettato i falsi casi affidati a Scotland Yard, poi risolti da lui stesso. Il materiale rimanenteavrebbe potuto fare sicuramente concorrenza alle riviste scandalistiche. Certe affermazioni erano parecchio esilaranti.
Ero fermo al fascicolo dedicato interamente a John Watson.
Il medico, il soldato. Ovviamente, avevo inserito anche lui nella mia agenda mentale.
Tra quelle poche persone, lui era di gran lunga la più interessante. Sherlock sembrava tenere particolarmente a John, ma non ero ancora riuscito a capire il motivo di tale interessamento.
John Watson era un uomo che, in apparenza, amava la tranquillità, e che invece era di certo molto più felice di entrare in azione, di muoversi, di essere d’aiuto. Vivere con uno schizofrenico come mio fratello di certo gli aveva giovato, su questo non avevo dubbi. Cosa aveva invece lui, oltre alle competenze in campo medico, da poter offrire a Sherlock?
Anthea si fece di nuovo di fianco a me e mi augurò la buona notte. Io ricambiai sorridendo e chiusi gli occhi. Ascoltai il suono dei suoi passi allontanarsi sempre di più, poi il rumore della porta che si apriva.
“Signore!”
Mi voltai di scatto, allarmato.
Ronald era sull’uscio, ansimante, Anthea lo stava guardando con preoccupazione.
“Cosa succede?” gli domandai, maledicendo mentalmente quell’interruzione e chiunque l’avesse provocata.
Immaginavo già chi, tra l’altro.
“Si tratta di suo fratello!”
Appunto.
“Non è diretto a Baker Street. Sta andando verso Dereham Place”
Feci un bel respiro e cercai di mantenere la calma.
“Anthea, cara, può per favore controllare chi dei nostri agenti è in quella zona e avvertirli?”
“Certo, signore” mi rispose la ragazza, prendendo il suo cellulare e cominciando a digitare sulla tastiera.
Io indossai di nuovo le scarpe, mi alzai e mi unii a loro.
Raggiunta la ‘sala delle telecamere’, mandai un messaggio all’ispettore Lestrade dicendogli di stare allerta.
“Guardi… sta per imboccare French Place”
Ronald mi indico lo schermo in altro a destra.
“Perché stai andando lì, Sherlock?” mi ritrovai a pensare “Proprio nella tana del lupo… ”
“Anthea, chiami Roger.”
“L’ho già fatto, signore. È fuori, al cancello.”
Ottimo. L’efficienza dei miei collaboratori era davvero inimitabile.
“Signore” Ronald parlò di nuovo “Ha appena imboccatoDereham Place, le nostre telecamere non…”
“Ne sono perfettamente al corrente, hai fatto bene ad avvertirmi”
Lui annuì e si scambiò uno sguardo veloce con Anthea, la quale tornò subito a dedicarsi al suo cellulare.
“Mi tenga informato in ogni momento. Qualunque cosa succeda, qualunque cosa veda tra Dereham Place e il Jim’s”
Annuì di nuovo.
Un tempo, mandare sms a mio fratello era molto più semplice. Se non rispondeva, c’era sempre il dottor Watson a farlo per lui. In quel momento, mi avrebbe sicuramente ignorato.
Più di quanto non facesse di solito.
In realtà, anche Sherlock era nella lista delle persone presenti nella mia agenda mentale, ma il più delle volte era davvero difficile fidarsi di lui, o ascoltarlo.
Ma era mio fratello, e questo mi bastava.
Forse era un’idea un po’ troppo sentimentale, ma proprio per questo,la tenevo per me e me soltanto.
Probabilmente anche io ero stato colpito da qualcosa che non volevo ammettere. Un insieme di sensazioni comuni a tante altre persone quando venivano in contatto con Sherlock.
Rabbia, nervosismo, invidia, come una sorta di istigazione alla violenza. Contro di lui, ovviamente. E poi lo stato avanzato in cui si provava comprensione, pazienza, persino divertimento.
L’esatto opposto, in pratica.
Ma se c’era una persona che si potesse dire l’avesse seguito sempre, quello ero io, senza dubbio. Ero rimasto nell’ombra, il più delle volte, a osservare la sua figura crescere e gli effetti devastanti che il suo contatto con il mondo esterno avevano sempre provocato. Il suo innalzamento, e infine anche la sua caduta. Quella sindrome a cui non si era immuni, quando lo si conosceva.
La sindrome di Sherlock Holmes.
Il più delle volte una vera e propria ossessione, che non aveva risparmiato neanche lui, uno degli uomini più pericolosi che avessi mai conosciuto: James Moriarty.
“Questo è tutto quello che le serve per conoscere Sherlock. Il suo passato, i suoi casi, e i suoi rapporti sociali.” gli avevo detto durante il nostro ultimo incontro.
“Il suo lungo raccontino non è nulla in confronto a ciò che ho in serbo per lui”
Mi aveva risposto sorridendo maliziosamente.
“Non ne dubito” gli avevo confidato, con calma “Io le ho dato Sherlock, ma non sono sicuro che accetterà queste condizioni. Potrebbe sorprenderla.”
“Lo spero!” aveva esclamato ridendo.
Lo avevo guardato a lungo e per l’ultima volta.
“Buona fortuna”
*
Quella era stata senza dubbio una delle estati più calde mai avute in Inghilterra, per cui i miei genitori avevano deciso di trasferirsi nella nostra residenza in campagna, Silent Garden, che si trovava nei pressi di una piccola cittadina di nome Hever, a sud del Paese.
Mio padre aveva comprato quella villa subito dopo il matrimonio con mia madre e l’avevano sempre utilizzata, appunto, in estate.
Era un elegante edificio in pietra, con un piano superiore ed uno inferiore. Quest’ultimo includeva l’ala ovest, completamente dedicata ai domestici, in cui c’erano le loro camere, un bagno e una grande cucina. Nell’ala est, invece, c’erano la nostra sala da pranzo e un salotto, che affacciava sul giardino. Al primo piano c’erano tutte le nostre stanze da letto (io e mio fratello ne avevamo una a testa, con il bagno al loro interno), e infine la stanza dei miei genitori e lo studio di mio padre.
Intorno alla villa c’era un enorme giardino, che si sarebbe potuto confondere con la campagna circostante, se non fosse stato per il recinto e le staccionate. Il verde si estendeva per chilometri. La pianura era interrotta per un tratto molto breve da un boschetto molto fitto. Al di là di esso c’era un’altra abitazione, la casa della famiglia Andrews, e a pochi chilometri verso est la residenza dei Rivers, che recentemente era diventata Edenbridge, cognome originario della signora Rivers, ripreso dopo il divorzio.
Era davvero fresco lì, l’aria era pura e l’ombra degli alberi era decisamente utile nelle ore in cui il sole era più forte.
Il giorno del mio dodicesimo compleanno ci eravamo spostati verso il centro abitato e avevamo festeggiato insieme a tutte le famiglie, come se si fosse trattato di una festa di paese. Purtroppo, però, i festeggiamenti non erano durati a lungo. Quella stessa sera, un terribile avvenimento ci aveva colpiti tutti: la scomparsa della piccola Jenna Andrews, la figlia minore di Juliet e Mark Andrews, di soli due anni.
Quella calda estate si era raffreddata, così come i rapporti tra chi viveva lì.
Così, avevamo passato le ultime due settimane di Agosto nell’isolamento più totale. E Silent Garden era, tra le residenze, la più isolata di tutti, infatti.
La sera precedente al nostro ritorno a Londra, Julia, la nostra cuoca, aveva preparato una cena davvero squisita: da una parte, pollo arrosto con purè di patate e piselli, dall’altra, anatra all’arancia con contorno di pistacchi e mandorle. I due piatti preferiti dei miei genitori.
Mio padre si era seduto a tavola e aveva guardato mia madre con aria grave.
“Che cosa ha detto Mark Andrews?” aveva chiesto proprio lei.
“Nessuna novità” mio padre aveva sospirato “La villa è stata perlustrata tre volte. Idem per quanto riguarda le case di Hever.”
“Stanno cercando nel posto sbagliato.”
Sherlock si era intromesso, mischiando contemporaneamente e violentemente i piselli nel purè che aveva nel piatto.
“Sherlock” aveva detto mia madre “Prima di iniziare a mangiare avresti dovuto aspettare che avessimo tutti il piatto pieno.”
“Non sto mangiando, infatti” aveva subito risposto lui “Non mi piace questa roba. Il pollo sembra vecchio di due settimane…”
“Sherlock!” mia madre lo aveva ammonito con lo sguardo.
Subito dopo, era caduto un silenzio imbarazzante in cui entrambi i miei genitori avevano guardato Julia, in fondo alla stanza, accanto alla porta, come a volersi scusare.
“Gli agenti di polizia verranno di nuovo qui?” avevo domandato improvvisamente.
“Non credo proprio.” rispose mio padre “Ma se ce ne sarà bisogno, Silent Garden sarà a disposizione. Noi ce ne andremo domani.”
A quel punto, avevamo iniziato a riempire i piatti e a mangiare.
“A proposito.” proseguì mio padre “Poiché la settimana prossima entrambi inizierete un nuovo anno scolastico, io e vostra madre abbiamo preso una decisione, ed è giusto che ne veniate a conoscenza.”
Aveva addentato un pezzo di anatra, così era stata la mamma a continuare.
“Naturalmente, siamo molto orgogliosi dei risultati che quest’anno hai ottenuto, Mycroft.”
Io avevo sorriso, compiaciuto, e avevo messo in bocca un pezzo di pollo.
“Non si può dire lo stesso di te, Sherlock” era stato di nuovo mio padre a parlare, pulendosi le labbra con un tovagliolo.
Mio fratello aveva continuato a giocare con piselli e purè.
“Quando parlo con te, signorino, esigo che tu mi guardi in faccia!”
Quell’esclamazione severa lo fece smettere quasi subito di giocare con il cibo e lo fece girare verso di lui. I loro sguardi di ghiaccio, così uguali, si scrutarono a lungo.
Mia madre aveva allungato un braccio e aveva stretto la mano che mio padre aveva sul tavolo, parlando al suo posto.
“Cosa c’è che non va, Sherlock?” il suo tono era molto dolce e comprensivo.
Mio fratello l’aveva guardata subito.
“Odio la scuola. Odio i miei compagni e le insegnanti. Vogliono che si faccia solo quello che dicono loro.”
A quel punto, mi ero intromesso, di nuovo. Era stato più forte di me.
“È quello che fanno, è il loro lavoro. Sono ‘insegnanti’, quindi ‘insegnano’.”
Sherlock mi aveva fulminato con lo sguardo. Io lo avevo guardato a mia volta, notando tra i suoi folti ricci neri qualche filo d’erba.
“Non è questo il vero problema.” aveva continuato mio padre “Hai rubato quelle rane dal laboratorio di chimica delle classi superiori! Per non parlare dell’anno scorso, quando hai quasi incendiato la mensa!”
Mia madre strinse di nuovo la mano di mio padre per farlo calmare. Lui era nervoso, ma almeno non stava urlando.
“Non mi interessano i tuoi capricci. Sei un Holmes e devi comportanti come tale! Non ti permetterò di infangare il nome della nostra famiglia.”
Allora ero ancora troppo giovane per capire che forse mio padre stava esagerando.
Era un uomo molto legato alle antiche tradizioni e dava molta importanza al prestigio che il nome della nostra famiglia ancora aveva. Ma sapevo che c’era anche un’altra questione dietro quella rabbia. Lui aveva già programmato la nostra vita, i nostri studi, il nostro futuro lavoro. Lo avevo sentito parlare con la mamma più di una volta ed ero già a conoscenza dell’università che avrei dovuto frequentare, e anche i nomi dei colleghi a cui intendeva raccomandare me e mio fratello.
Non avere più tutto sotto controllo lo mandava in crisi, ed era il motivo principale per cui il più delle volte era così arrabbiato, soprattutto con Sherlock, che sembrava avere una notevole predilezione per i guai.
“Pertanto” aveva continuato “Io e vostra madre abbiamo deciso di trasferirvi entrambi in una scuola privata.”
In un primo momento avevo pensato di non aver sentito bene.
“Ti trasferirai anche tu, Mycroft. In questo modo, potrai tenere sotto controllo tuo fratello.”
Io avevo guardato prima Sherlock, che ancora continuava a mischiare purè e piselli e poi i miei genitori, con sconvolgimento.
“Ma… perché?” avevo risposto “Non mi sembra giusto! Ho un buon rapporto con gli insegnanti e uno discreto con i miei compagni di classe. Per di più, ho buone possibilità di diventare il rappresentante degli studenti l’anno prossimo. Perché dovrei pagare per ciò che ha fatto Sherlock?”
“Proprio perché possiedi disciplina e autocontrollo. Sono sicuro che riuscirai ad ottenere gli stessi risultati anche in un’altra scuola, e nel frattempo, cercherai anche di dare un aiuto a tuo fratello.”
Avevo scosso la testa con disappunto.
“Non sono d’accordo! Non voglio che i miei compagni pensino che io abbia un fratello matto, con l’ossessione per navi, pirati e…”
Ma a quel punto qualcosa di freddo e appiccicoso mi era arrivato dritto in faccia e mi aveva costretto a chiudere occhi e bocca.
“Tu sei il fratello peggiore del mondo!”
Aveva urlato Sherlock, lanciandomi un’altra manciata di pollo e purè.
Mio padre si era alzato immediatamente e lo aveva afferrato.
“Questo è troppo!” aveva esclamato, strattonando Sherlock in modo che si alzasse.
“Adesso andrai subito nella tua stanza, e lì rimarrai fino a domani mattina!”
Io avevo preso un tovagliolo e mi ero pulito la faccia.
Papà e Sherlock erano andati fuori e avevo sentito indistintamente il suono di uno schiaffo e il pianto di mio fratello. Mia madre si era alzata, ma non li aveva raggiunti. Si era invece avvicinata a me e mi aveva aiutato a pulirmi.
“Non è giusto, mamma! Hai visto cosa ha fatto?”
“Lo so, tesoro…”
Mi aveva dolcemente passato il tovagliolo attorno all’occhio sinistro.
“Vostro padre è molto orgoglioso di te e vorrebbe che tuo fratello ti somigliasse…”
“Ma Sherlock è…”
“Fammi finire” mi aveva interrotto lei, ma con gentilezza, pulendomi anche il colletto della maglietta.
“Naturalmente, Sherlock non è come te. È più esuberante e pieno di energie. Dopotutto, ha ancora sette anni.”
“Io non ero così.”
“Lo so.” aveva fatto una pausa e aveva sospirato, assumendo un’aria più severa.
“Sono molto preoccupata per Sherlock. E lo è anche vostro padre, credimi. Si è molto arrabbiato quando, dopo i recenti avvenimenti, gli ho chiesto di parlare con uno psichiatra.”
Ero rimasto scosso da quelle parole, ma non ero molto sorpreso.
“‘Un Holmes dallo psichiatra? Assolutamente no!’ Ha risposto tuo padre. Lo conosci. Ma conosci anche tuo fratello…”
Eccome se lo conoscevo. Quando faceva tutti quei discorsi sulle ferite, sulle cause di morte di un qualche conoscente e addirittura quello che aveva detto sulla questione della scomparsa della povera Jenna Andrews… perché un bambino doveva essere interessato a cose così tanto orribili?
“Te lo sto dicendo perché sei un ragazzo molto intelligente e anche molto maturo per la tua età.”
Avevo fatto un mezzo sorriso. Sentivo la mia faccia ancora sporca e appiccicaticcia.
“Quindi, devo chiederti una cosa molto importante, tesoro.”
Io e mia madre ci eravamo guardati negli occhi attentamente.
“Sii paziente e veglia su Sherlock.”
Io avevo iniziato a tenere il broncio, e lei lo aveva notato.
“Devo ritirare tutto ciò che ho detto poco fa?” mi aveva chiesto, ma,come al solito, sorrideva ed era tranquilla. Mi aveva poi stretto un braccio.
“ Aiutalo, Mycroft. Aiutalo fino a quando ne avrà bisogno” aveva fatto una brevissima pausa “So che puoi farlo.”
Mi aveva dato un bacio sul capo e poi mi aveva consigliato di finire di mangiare in fretta e di andare a fare un bagno.
“Prima di andare a letto, vai in camera di Sherlock e vedi come sta. Credo che sia il caso che facciate pace.”
Avevo annuito e lei mi aveva dato di nuovo un bacio, questa volta sulla guancia.
Fare un bagno caldo era stato molto rilassante, e mi ero trattenuto dentro la vasca per un po’.
Soprattutto, mi ero messo a pensare a ciò che era accaduto poco prima.
Non ero affatto d’accordo con i miei genitori riguardo la decisione presa di trasferirci entrambi in una nuova scuola. Più che altro, non ero d’accordo di dover dipendere da Sherlock.
Io ero il fratello maggiore.
Appunto. Era proprio quello che mia madre mi aveva fatto capire tra le righe. Da fratello maggiore mi sarei dovuto occupare di lui e avrei dovuto offrirgli appoggio e aiuto.
Sempre.
Fino a qualche anno prima, ero stato abituato a passare molto tempo con Sherlock. Giocavo volentieri con lui, e condividevo i miei giocattoli. Di solito, anzi molto spesso, mi chiedeva di interpretare il capitano della marina militare britannica, mentre lui era l’invincibile ‘pirata solitario’. Passavamo pomeriggi interi a combattere con spade di cartone o di legno e la sera non voleva mai andare a dormire se una delle nostre avventure non era finita.
Ma poi, gli impegni scolastici erano diventati più importanti e avevo deciso di dare priorità allo studio. Avevo preso l’abitudine di chiudermi nella mia stanza, studiare e fare ricerche, e anche lui, in un certo senso, sembrava aver fatto lo stesso. Non aveva abbandonato i suoi sogni da pirata, ma avevo sentito una delle nostre domestiche dire a mia madre di aver trovato strani liquidi e pezzi di costanze non identificate sulla sua scrivania, a terra e anche sotto il letto. Sherlock aveva detto che erano esperimenti fatti con gli strumenti del gioco ‘il piccolo chimico’. In pochi mesi, mio padre glielo aveva sequestrato.
Forse era stata colpa mia? Forse lo avevo portato io all’isolamento?
Mi ero messo il pigiama e avevo guardato l’ora. Le 23:25.
Ero rimasto parecchi minuti seduto sul letto, indeciso se andare a parlare con Sherlock. Il tono gentile e il bacio che la mamma mi aveva dato furono i motivi che mi spinsero a uscire e a raggiungere la camera di mio fratello. Avevo preso la chiave appesa a un chiodo al muro (poiché era stato chiuso dentro) e l’avevo inserita nella serratura.
Avevo poi aperto la porta, lentamente, ed ero entrato. La stanza era al buio, a parte per una striscia di luce lunare proveniente dalla finestra che illuminava il pavimento e un po’ della scrivania accanto al suo letto.
“Sherlock?” avevo sussurrato.
Non mi aveva risposto, così lo avevo chiamato di nuovo.
Ero arrivato alla conclusione che, vista l’ora, si fosse già addormentato, poi, qualcosa aveva attirato la mia attenzione.
La finestra della stanza era socchiusa e c’era qualcosa di bianco sospeso tra il letto e le ante. Riuscivo a vederla poco a causa della luce scarsa. Mi ero inoltrato di più all’interno della stanza per cercare di riconoscere la figura di mio fratello tra le lenzuola, ma invano.
“Sherlock?”
Arrivando accanto alla finestra, avevo visto qualcosa di sconcertante.
C’era una corda molto spessa e bianca, che subito dopo avevo capito essere il lenzuolo, che legato al letto si allungava fino a fuori e arrivava fin giù al giardino.
“Sherlock?!”
Avevo velocemente chiuso la porta e acceso la luce. Non avevo mai provato così tanto panico in vita mia.
Mio fratello non era nel suo letto.
“Sherlock? Se ti sei nascosto, sappi che non è un gioco divertente!” avevo esclamato, a voce bassa.
Non era proprio il caso di far alzare mio padre e di fargli prendere un’altra arrabbiatura.
Avevo iniziato a cercare Sherlock per tutta la stanza, cercando di fare in silenzio. Avevo aperto armadi, controllato sotto il letto, persino in bagno, ma era stata solo una perdita di tempo. Conoscevo già la risposta, ma ero assolutamente terrorizzato all’idea di ammetterlo.
Ero tornato accanto alla finestra, cominciando a pensare a una soluzione, guardando di sfuggita le due spade di cartone ancora legate sui pomelli di ferro ai piedi del letto.
Il mio primo pensiero fu quello di tornarmene in camera e di andare a dormire, ma qualcosa di estremamente doloroso, proprio allo stomaco, mi aveva suggerito di non farlo.
Perché in realtà non avevo mai ignorato mio fratello del tutto. Anche se non giocavo più con lui, sapevo quali fossero le sue preferenze, sapevo cosa faceva durante la giornata.
E facevo solo finta di ignorarlo, per poter poi scuotere la testa con disappunto e superiorità quando i miei genitori lo rimproveravano.
In quel momento però, una strana preoccupazione si era impossessata di me, e quindi avevo deciso di rischiare. Sapevo esattamente dove fosse andato, e probabilmente, sapevo anche il perché.
Mi ero velocemente messo una felpa sopra il pigiama e le prime scarpe che avevo trovato ed ero rientrato nella sua stanza.
Avrei dovuto obbligatoriamente percorrere la sua stessa strada. Non avrei potuto attraversare la casa e aprire la porta principale senza essere scoperto. Sarei dovuto scendere anch’io appeso a quella corda.
Avevo spalancato la finestra e mi ero arrampicato. Avevo stretto le mani attorno al lenzuolo e contato fino a tre prima di saltare. Le mani avevano sfregato violentemente contro il tessuto e avevo sentito un forte bruciore. A fatica, avevo cercato di non urlare.
Dopo diversi secondi, mi ero finalmente reso conto di essere sospeso a tre metri e mezzo dall’asfalto e mi ero fatto coraggio. Non avevo mai particolarmente amato giochi di quel genere, anzi, avevo di gran lunga sempre preferito i libri, i giochi da tavolo, ascoltare la musica seduti sul divano. Insomma, cose ‘tranquille’.
Avevo iniziato a respirare affannosamente, cercando comunque di non fare rumore e finalmente avevo aperto la mano destra e l’avevo spostata più giù.
Non so quanto tempo, in totale, ci avevo messo per fare quella discesa ma, per me, doveva essere passata più di mezz’ora.
Ero caduto in ginocchio sull’erba del giardino e avevo cercato di alleviare il dolore alle mani soffiando sui palmi.
Mi ero subito guardato intorno. Le luci di Silent Garden erano tutte completamente spente e regnava il silenzio più assoluto. L’aria era fresca e la luna molto luminosa. Infatti, era l’unica fonte di luce, l’unico mezzo che quella sera mi aveva fatto da guida. Per fortuna, in ogni caso, non avevo mai avuto paura del buio.
Conoscevo le campagne di Hever e conoscevo la strada che portava alle altre abitazioni. Ma il mio istinto mi aveva suggerito una sola di quelle, e lì avrei trovato sicuramente Sherlock: la casa degli Andrews.
Lo avevo visto fin troppo interessato alla questione della figlia scomparsa, e la cosa mi era sembrata decisamente preoccupante, ma in quel momento, il mio unico pensiero era stato quello di trovarlo, a tutti i costi.
Avevo percorso la lunga strada in pianura, cercando di seguire i punti illuminati dalla luna e avevo raggiunto il piccolo boschetto che faceva da spartiacque tra la zona di Silent Garden e la dimora degli Andrews. Farsi strada tra gli alberi non era stato facile, e più di una volta ero stato costretto a fermarmi e a cercare la luce lunare per orientarmi, ed ero anche inciampato, graffiando gambe e ginocchia. Poi, finalmente, ero uscito da lì e la pianura era ricominciata.
Di giorno, probabilmente avrei potuto metterci metà del tempo impiegatoci quella notte, poco meno di un’ora, quindi doveva essere passato molto tempo dall’ultima volta che avevo visto l’orologio, in camera mia.
Quando avevo avvistato la villa degli Andrews avevo tirato un sospiro di sollievo, ma contemporaneamente era tornato quel senso di terrore provato quando non avevo trovato Sherlock nel suo letto.
Mi ero avvicinato furtivamente e avevo scavalcato, con non poca fatica, la recinzione di legno. Mi ero avvicinato sempre di più all’ingresso, cercando di guardare attentamente in ogni angolo del giardino, ma sempre con molta fatica a causa della poca luce.
“Sherlock?” lo avevo chiamato a voce molto bassa, anche se con quel silenzio, era suonato quasi come un urlo.
Mi era tornato il panico. Sherlock non c’era ed io avevo cominciato a dubitare dell’idea - oggettivamente assurda - di trovarlo lì.
Avevo fatto il giro dell’abitazione, ed ero arrivato sul retro. Mi ero guardato di nuovo in giro, anche se lì la luce della luna non arrivava, e quasi mi era preso un colpo, quando avevo visto qualcosa muoversi nell’erba. Inizialmente, avevo pensato a un animale. Un gatto, o forse un porcospino - nella zona ce n’erano molti - ma poi avevo sentito dei lamenti leggeri ed era comparso un cerchio luminoso che mi aveva colpito.
Mi ero subito coperto gli occhi con una mano.
“Mycroft!”
Quella era la voce di Sherlock.
Avevo sospirato sollevato e mi ero avvicinato.
“Sherlock, cosa diamine stai facendo qui?”
Lui aveva puntato la luce, che apparteneva a una torcia, verso una buca proprio ai suoi piedi.
“È qui, Mycroft!” aveva esclamato.
“Di cosa stai parlando? E abbassa la voce.”
Lui aveva fatto un risolino.
“Jenna è qui.”
Lo avevo guardato, sperando di aver capito male. Lui si era inginocchiato e aveva iniziato a scavare.
“Non essere stupido, Sherlock. Qui non si tratta di una delle tue storie. È una cosa seria.”
Lui aveva continuato a scavare e mi aveva buttato del terreno sulle scarpe.
Io mi ero inginocchiato a mia volta e avevo cercato di fermarlo.
“Jenna è scomparsa durante la festa…”
“È stata presa…”
“Rapita…” lo avevo corretto.
“Ho ragione, allora.”
Avevo sbuffato e gli avevo afferrato le braccia.
“Sherlock, adesso smettila. Siamo in piena notte, ti rendi conto che tutto questo non è normale?”
“Lasciami andare, Mycroft!” non si era curato minimamente di abbassare la voce e mi aveva violentemente strattonato per farmi allontanare , ricominciando poi a scavare più forte, lanciandomi, questa volta di proposito, il terreno addosso e in faccia.
“Mamma e papà vogliono mandarti da uno psichiatra, e se verranno a sapere quello che hai fatto stanotte penso proprio che lo faranno…”
Ero stato quasi sul punto di dirglielo, ma avrebbe capito? Sherlock aveva solo sette anni, e quello era probabilmente tutto un gioco per lui.
L’unico che avrebbe potuto spifferare tutto, tra l’altro, ero io, e io soltanto.
E non ero assolutamente convinto di volerlo fare.
Avevo lasciato che mio fratello scavasse ancora un altro po’, magari si sarebbe stancato e avrebbe capito che il tempo di giocare era finito.
“Mi dispiace, Sherlock. Tu sei malato…”avevo pensato, a malincuore.
“È qui…” aveva detto di nuovo lui, fermandosi. Riuscivo a vedere le sue braccia completamente inzuppate di fango ed erba attraverso la luce della torcia, che lui poi prese, puntando verso la buca.
Ero rimasto senza parole. Sconcertato, senza riuscire a credere a ciò che avevo davanti.
No, doveva trattarsi di un osso messo lì da un cane, o di una radice, non poteva davvero essere…
“È Jenna! Questa è la sua mano! Se scaviamo più a fondo…”
Avevo preso la torcia e avevo guardato più attentamente.
“Andiamo via.” erano state le mie parole. “Sherlock, andiamo via!”
Lo avevo preso con forza per un braccio e lo avevo fatto alzare.
Ero rimasto davvero sconvolto, e quasi sul punto di avere un attacco di panico.
“Lasciami! L’abbiamo trovata! Ho risolto il caso!” aveva urlato mio fratello.
Risolto il… caso?
Una luce si era improvvisamente accesa al piano terra della villa.
Tutto quello che avevo fatto in quegli attimi, la paura che avevo provato in quel momento, erano ricordi indelebili nella mia mente:
Avevo iniziato a riempire di nuovo la buca con il terreno, il più velocemente possibile, e mio fratello doveva aver fatto lo stesso, perché non aveva più parlato. Altre luci si erano accese. Non avevamo avuto più tempo per fare nient’altro, se non prendere uno dei vasi del giardino e metterlo lì dentro.
Avevo preso Sherlock per mano e avevamo iniziato a correre, sentendo voci dietro di noi, ma senza girarci. Ad un certo punto, la luce della torcia era diventata più debole, fino a spegnersi poi del tutto.
Avevo aiutato Sherlock a scavalcare la staccionata, ma proprio in quel momento, due figure ci avevano raggiunto.
Ero stato nuovamente colpito dalla luce di una torcia.
“Chi sei?” la voce di un uomo. Avevo subito riconosciuto il signor Andrews.
“Mark…” la voce di una donna, sicuramente la signora Andrews “Questo è Mycroft. Il figlio maggiore degli Holmes.”
Si erano avvicinati. Io non ero riuscito a muovermi. Mi ero reso conto che ormai fosse troppo tardi per scappare.
“Che cosa ci fai qui? È successo qualcosa?”
Non ero riuscito a trovare la forza di parlare.
“C’è Jenna in una buca del vostro giardino!”
Aveva urlato Sherlock arrampicandosi di nuovo sulla staccionata e facendosi vedere.
I signori Andrews lo avevano guardato con sconcerto e sorpresa.
Io non avevo fatto niente. Ero spaventato e confuso quanto loro.
I nostri genitori erano stati chiamati immediatamente. Gli Andrews ci avevano fatto entrare in casa e ci avevano offerto una tazza di the.
Spiegare loro cosa fosse successo era stata la parte più difficile, ma ero stato ben attento a non dire loro che in realtà era stato Sherlock a fare quella scoperta. Non volevo dare ad altri il sospetto che mio fratello avesse davvero qualcosa che non andava. E per fortuna, mi avevano preso in disparte e avevo potuto raccontare loro quella bugia.
Il momento più critico era stato senza dubbio quando era stato ritrovato il cadavere. Le prime luci dell’alba si stavano facendo spazio nel cielo e mi era stato chiesto di indicare il punto esatto in cui avevo visto ciò che avevo visto.
L’urlo e il pianto di Juliet Andrews erano stati strazianti. Lo stomaco aveva cominciato a girare.
Sherlock si era fatto spazio tra i poliziotti, per vedere meglio, ma mio padre lo aveva afferrato e fatto arretrare.
“Sei stato tu a trovarlo? Che cosa…”
“Sono stato io.”
Ero subito intervenuto.
Mio padre mi aveva guardato con sospetto e per un momento avevo anche avuto l’impressione che fosse estremamente deluso.
“Sono stato io a coinvolgere Sherlock. Era solo un gioco all’inizio… come una caccia al tesoro…”
Mi ero reso conto solo dopo della stupidità di tale scusa. Ma mio padre non aveva commentato, perché il piccolo corpicino di Jenna Andrews era stato recuperato e stava passando proprio accanto a noi.
Sherlock aveva iniziato a muoversi scompostamente sul posto.
“Io l’ho trovata! Io l’ho trovata!”
Mia madre lo aveva allontanato, anche se a fatica.
Io e mio padre eravamo rimasti a guardare il cadavere. Il vestito era strappato in più punti e la pelle bianchiccia era in moltissimi punti sporca di terra. I suoi occhi erano spalancati.
Sherlock aveva continuato a lamentarsi e la signora Andrews a piangere.
Io avevo deglutito, poi mi ero girato e mi ero vomitato sulle scarpe.
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Buon inizio settimana a tutte/i. Questa volta, il mio commento sarà un po’ più lungo perché ho bisogno di fare delle precisazioni:
Per prima cosa, voglio specificare che, naturalmente, tutti i nomi dei personaggi inventati e tutti gli avvenimenti che li coinvolgono, sono semplicemente frutto della mia immaginazione, quindi ogni riferimento a qualcosa di reale è puramente casuale, sia in questo capitolo, sia in quelli precedenti.
Per quanto riguarda i luoghi descritti che non sono Londra, e cioè Hever e Edenbridge, e quelli presenti nel flashback in Afghanistan del capitolo precedente, Kabul, Kandahar e Charikar, sono tutti esistenti e li ho trovati attraverso Google Maps e ho cercato di fare una descrizione basandomi sulle immagini. Invece, come penso abbiate intuito, non esistono le ville delle famiglie Holmes, Andrews e Rivers.
Infine, una piccola curiosità: originariamente, ho immaginato che i due fratelli Holmes riuscissero a scappare dall'abitazione degli Andrews, per poi essere scoperti appena tornati a Silent Garden. Ho pensato, poi, che fosse più credibile che andasse diversamente. Spero la pensiate così anche voi.
Spero che Thiliol legga il capitolo, visto che in un commento mi scrisse che le sarebbe piaciuto leggere il punto di vista di Mycroft, e spero di non averla delusa!
Al prossimo aggiornamento. Un grazie di cuore a tutti/e, come sempre.
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 - La vittima consapevole. ***
[Consiglio l’ascolto di
questo brano, che mi ha in parte ispirato questo capitolo:
http://www.youtube.com/watch?v=u1TwT2OVZE4 ]
Avevo bevuto solo mezzo boccale di birra, e già
mi girava la testa.
“Ehi, Lance!” urlai al barista, che subito si
girò verso di me “Cos’è che
mi hai servito, stasera?”
Lui rise sguaiatamente e mi si fece di fronte.
“Il solito” rispose “Non ti piace
più, Harry?”
A piacermi, mi piaceva eccome, ma l’alcool non mi aveva mai
fatto effetto in così poco tempo.
Sorrisi, e bevvi un altro sorso, per fargli capire che dopotutto la mia
non era una lamentela.
Da lucida o no, quella sarebbe stata un’altra serata da
dimenticare.
Tanto meglio.
Il bar era popolato dai soliti sei o sette uomini: quattro al biliardo
e tre seduti al tavolino più lontano dalla porta, con
cellulari e iPad, intenti a confabulare tra loro. La stanza era
illuminata quanto bastava. Tre lampadari in tutto, lunghi e piatti, e
luci al neon sparse qua e là. Poi c’era il
bancone, dove amavo passare il mio tempo, seduta su uno di quei
seggiolini dai cuscini in pelle.
Era un posto stranamente elegante, forse anche troppo per un pub, ma di
certo non era il motivo per cui lo frequentavo.
Entrarono altre quattro persone, tra cui due ragazze. Una di loro era
molto alta e aveva dei bellissimi capelli castani. Fui in grado di
notare i suoi occhi chiari quando si girò verso di me,
sorridendo, o almeno quella era stata la mia impressione. Un attimo
dopo, poi, prese uno dei ragazzi per un braccio e poi lo
baciò. Mi voltai altrove, bevendo a gran sorsi
l’altra metà del boccale.
Lance rise di nuovo.
“Secondo giro?” chiese, e, senza aspettare una mia
risposta,riempì il calice nuovamente e me lo rimise davanti.
“Questa gliela offro io” esclamò una
persona, una donna.
La vidi uscire dal retro del bar e raggiungermi. Lì dietro
succedevano le cose più interessanti, di solito. E con
‘interessanti’, non mi riferivo obbligatoriamente a
cose piacevoli.
Le rivolsi un mezzo sorriso, e la vidi prendere a sua volta un boccale
di birra.
“Lui ti
aspetta.” sussurrò.
Chiusi gli occhi.
Di già?
“Mi dispiace, ma lei ha già un appuntamento con
me” fece una voce alla nostra destra.
Ci girammo di scatto. C’era un uomo, seduto due seggiolini
più in là.
Mi sorpresi. Da dove era uscito fuori? Fino a pochi attimi prima non
c’era nessuno di fronte al bancone, a parte me. Non
l’avevo assolutamente visto arrivare, ed evidentemente
neanche l’altra donna.
“Dovrà aspettare” ribatté
proprio lei.
“Oh, devo insistere” rispose lui di rimando
“Harry verrà con me”
Cosa?
E come diavolo faceva a
conoscere il mio nome?
Mi prese per un polso.
“Ma cosa accidenti fai? Lasciami!” dissi subito,
costringendolo a mollare la presa.
Si guardò in giro, allarmato, e io lo imitai per capire cosa
lo avesse colpito improvvisamente.
Tutti le persone presenti nella sala ci stavano fissando.
Non ebbi il tempo di rendermi conto della situazione. L’uomo
mi prese di nuovo, questa volta con più decisione e mi fece
alzare.
“Corriamo!”
Mi trascinò velocemente fuori dal locale e io iniziai
davvero a non capire nulla.
Mi fermai di scatto, perché la testa aveva cominciato a
girare più forte e mi appoggiai al muro più
vicino.
Lui lo notò e prese il mio volto tra le mani.
“Quante birre hai bevuto?” mi chiese.
Riuscii a sentire il suo alito, ma avevo la vista leggermente sfocata e
quindi non riuscii a mettere a fuoco il viso.
“Una” risposi.
“Quante?” insistette.
Non ebbi il tempo di continuare. Si sentirono dei passi e delle voci,
così mi prese per mano.
“Non lasciare la mia presa e corri, corri più che
puoi!” esclamò e ricominciammo a muoverci.
Fu una corsa lunghissima e stancante, e più di una volta fui
incitata dall’uomo al mio fianco a non mollare. Si
susseguirono strade, marciapiedi, palazzi, poi alcune macchine e un
pullman. Sentii indistintamente delle urla dietro di noi e altri rumori
forti. Ad un certo punto, l’uomo mi strattonò
violentemente e io rischiai di cadere sull’asfalto, ma lui
aveva ancora la mano stretta alla mia e mi trattenne.
“Si può sapere chi diavolo sei e cosa sta
succedendo?” chiesi.
Sentii qualcosa sfiorarmi l’orecchio e quando mi girai notai
tre degli uomini che ci stavano rincorrendo con in mano delle pistole.
In realtà, sapevo esattamente cosa stesse accadendo.
Io stavo scappando e lui
aveva mandato quegli uomini a prendermi, o magari anche ad uccidermi.
Ogni giorno mi chiedevo perché continuasse a tenermi in
vita. Rappresentavo una possibile minaccia, e nonostante
ciò, continuava a giocare con me, perché sapeva
quanto inutile potesse essere la mia presenza ovunque andassi.
E lo sapevo anche io.
Nessuno aveva più bisogno di me, nessuno dava più
importanza alle mie opinioni. Ero solo la ragazza alcolizzata che
rifiutava la famiglia e che veniva rifiutata a sua volta da essa. Ero
la donna che aveva sposato una giovane coetanea e che poi aveva
distrutto quel breve matrimonio con menefreghismo.
Ero una frequentatrice di bar che per puro caso aveva assistito ad un
terribile omicidio.
Ci ridevo su, una sera sì e l’altra no, a dire il
vero. Poi, dopo la sbronza, mi svegliavo ai piedi del letto e piangevo
amaramente. Rimanevo a fissare il pavimento tra i ricordi confusi e la
realtà di un nuovo giorno appena cominciato, il quale non
sarebbe stato diverso da tanti altri.
Non volevo scappare, non era stata una mia idea. Quell’uomo
mi aveva presa con la forza e mi stava trascinando chissà
dove.
Cercai di fermarlo.
“Ti prego, ti prego!” urlai cercando di fermarmi.
“So che sarebbe successo. So che mi
avrebbero…”
“Sta’ zitta e corri!” rispose lui,
interrompendomi con non poca impazienza, e addirittura
aumentò l’andatura.
Girammo un angolo e poi scendemmo delle scale. Eravamo in
metropolitana, ma non avevo la più pallida idea di dove
fossimo esattamente. Attraversammo corridoi, saltammo i tornelli, poi
lasciò la mia mano, mi prese per le spalle e mi spinse
dentro il treno appena arrivato. Io andai a sbattere contro i vetri
dell’altro lato e questa volta caddi. Lui si
guardò velocemente intorno e poi entrò, proprio
un istante prima che le porte si chiudessero. Io tossii. Avevo il fiato
corto e mi premetti una mano contro il petto. Anche lui stava
respirando affannosamente.
Continuai a chiedergli chi fosse, perché mi avesse portato
via dal bar, come facesse a conoscere il mio nome, ma mi resi conto che
lo stavo facendo solo nella mia testa. Non riuscivo proprio a parlare.
Nei momenti che seguirono, mi ritrovai in uno stato di dormiveglia,
tanto da non ricordare che avevamo addirittura cambiato treno e che poi
eravamo scesi.
Quando aprii nuovamente gli occhi, l’uomo mi stava tenendo il
viso tra le mani.
“Una sola birra, eh?” commentò
“Forse. Ma anche qualche altra cosa. Doveva esserci qualcosa
in quel boccale…”
“Cos…”
“Sei stata drogata” fece, sicuro.
Io non risposi subito, forse il mio cervello non aveva ancora elaborato
quell’informazione.
“Chi sei?” chiesi nuovamente e cercai di mettere a
fuoco il viso che avevo davanti.
Lui fece un mezzo sorriso.
“Non importa. Probabilmente non lo ricorderai
neanche.”
Si alzò in piedi, allora mi resi conto che ero seduta su una
panchina e ci trovavamo di nuovo in una stazione della metropolitana. E
non c’era nessuno, a parte noi. Lessi di fronte a
me il cartello con scritto Waterloo, poi osservai di nuovo
l’uomo, che aprì un borsone e prese qualcosa di
colore marrone da cui estrasse un oggetto che somigliava ad una piccola
chitarra. No, era un violino.
Lo guardai meglio. Aveva una folta chioma nera, un viso allungato e
degli occhi chiarissimi.
Prese il cellulare e digitò qualcosa sul display.
Fu l’unico momento di lucidità della serata.
“Io ti conosco. Tu…”
Non poteva essere. Eppure era proprio identico a lui, identico. Non che
me ne fosse mai importato qualcosa, ma era stato il convivente di mio
fratello, era…
“Tu sei… sei così
simile…” davvero non riuscivo a crederci.
Ero stata drogata, no? Forse era solo l’effetto di quella
sostanza. Mi stava confondendo.
“Sei così simile a Sherlock Holmes.”
Lui sorrise, prendendo l’archetto del violino e suonando
qualche nota.
La testa cominciò a girare di nuovo.
“Non ci siamo mai incontrati, ma suppongo che John ti abbia
parlato di me. O meglio, avrai letto il suo blog e probabilmente anche
quei dannatissimi giornali.”
Cominciò di nuovo a suonare.
“Tuo fratello sta venendo a prenderti, comunque. Ti consiglio
di restare a casa nei prossimi giorni, sono sicuro che Mycroft
avrà pensato a qualcosa, dopo stasera. Aumenterà
la sorveglianza su di te.”
Non capii nulla di ciò che aveva detto.
“Finirà tutto al più presto, vedrai.
Non dovrai più preoccuparti di Sebastian Moran.”
sussurrò, dandomi un’altra occhiata più
da vicino.
Io non commentai, ancora una volta.
“È stato un piacere conoscerti, Harry.”
Furono le ultime parole che mi rivolse, prima di allontanarsi
nuovamente. Indossò la tracolla del borsone e riprese a
suonare. Questa volta non più delle note a caso, ma una vera
e propria melodia. O almeno, fu quello che ricordai di aver sentito. Lo
vidi ondeggiare qua e là, sempre più lontano da
me e più vicino all’uscita dall’altra
parte della stazione.
Poi chiusi gli occhi.
JOHN
Il taxi mi lasciò a pochi metri dall’entrata della
stazione. Prima di entrare, controllai di nuovo gli sms che mi erano
arrivati una ventina di minuti prima.
Waterloo Station. Sì, ero nel posto giusto.
Presi un bel respiro e salii la scalinata con passo veloce. Non appena
fui dentro, mi fermai, guardandomi velocemente intorno, girandomi
addirittura indietro, da dove ero appena entrato.
La Waterloo Station era una delle più grandi della
città, e nonostante l’ora tarda, c’erano
molte persone, forse non quante ce ne sarebbero state di giorno, ma un
numero notevole. Un gruppo numeroso era in procinto di salire su uno
dei treni appena arrivati. Altri, invece, mi superarono e uscirono.
Altri ancora stavano raggiungendo la linea metropolitana. Alcuni
ragazzi stavano bevendo seduti ad un bar. E tra quelle persone, quasi
mi ero aspettato di vedere Simon, o qualche fotografo, o
chissà chi che poi mi avrebbe raggiunto. Ma non successe
nulla di tutto ciò.
Nessuno si mosse. Tutti continuarono a fare ciò che stavano
facendo quando ero arrivato. Nessuno sembrò badare a me.
Forse l’idea che ci fosse mia sorella lì non era
poi tanto improbabile, e imprecai tra me per non averci creduto
seriamente. Dopotutto, avevo provato a chiamarla, sia a casa che al
cellulare, ma non mi aveva risposto. Solitamente, quando non le andava
di parlare con me, staccava il telefono, lo spegneva, invece quella
sera aveva continuato a squillare a vuoto. Mi sarei dovuto preoccupare
dal primo momento.
Iniziò a salirmi un po’ di ansia. Da dove
cominciare a cercare? E chi aveva portato Harry lì?
E soprattutto, perché? Cosa era successo?
Finalmente mi mossi, e iniziai a cercare tra la folla. Chiesi anche a
qualcuno se avesse visto una ragazza bionda sui trent’anni
passare di lì, ma mi risposero tutti di no, facendo
spallucce.
Avevo provato anche a chiamare allo sconosciuto - o sconosciuta
– che mi aveva mandato quegli sms, ma ancora una volta, non
avevo ricevuto alcuna risposta.
Lessi di nuovo l’ultimo sms arrivatomi.
“Segui Cajkovskij”
Cosa poteva significare?
Perché Cajkovskij?
Sbuffai gravemente.
Era esattamente il tipo di messaggio che avrebbe potuto mandarmi lui.
Ma l’assurdità di tale pensiero mi rendeva
assolutamente diffidente.
Continuai ad attraversare la stazione, facendo attenzione ad ogni
immagine o scritta che potesse ricollegarsi al compositore russo.
E per la cronaca, non ero mai stato un esperto di musica classica,
quindi conoscere Cajkovskij non rientrava sicuramente nelle conoscenze
acquisite durante gli anni di studio, ma solo successivamente. Aver
avuto un coinquilino che suonava il violino mi aveva aiutato
senz’altro, almeno in quel senso.
Mi fermai davanti all’entrata della metropolitana,
perché improvvisamente avevo sentito proprio della musica,
anche se in lontananza. Scesi le scale e seguii quel suono.
Non era di certo la prima volta che sentivo della musica
all’interno di una stazione ferroviaria. Molti erano gli
artisti di strada che si fermavano lì, in modo particolare
coloro che suonavano il violino.
Continuai ad attraversare corridoi, ad un certo punto,
dovetti allontanarmi perché il suono si fece più
lontano. Poi, ritornai sui miei passi. Anzi, aumentai
l’andatura.
Magari, chi aveva portato mia sorella lì, mi aveva dato un
punto di riferimento. Magari l’avrei trovata a fianco ad un
musicista che stava suonando Cajkovckij…
Ero proprio vicinissimo a risolvere quell’enigma,
più vicino a quella musica, che era diventata più
forte. Un gruppetto di persone voltò un angolo e raggiunse
il corridoio dove mi trovavo io.
“C’è qualcuno che suona il violino qui
giù?” chiesi.
Due di loro annuirono e mi indicarono il binario che avevano appena
abbandonato.
Li ringraziai e scesi le scale.
Riuscii a vedere solo il violino e l’archetto scomparire
dietro l’angolo dell’altra uscita, ma non
l’uomo che suonava. Iniziai a correre per raggiungerlo, ma
frenai immediatamente, perché vidi mia sorella stesa su una
panchina.
“HARRY!”
La raggiunsi di corsa e le presi il viso tra le mani. Continuai a
chiamarla, sperando non le fosse successo nulla di grave e cominciai ad
osservare tutto intorno se avesse delle ferite, se stesse perdendo
sangue da qualche parte. Poi, però, aprì
leggermente gli occhi.
“Harry! Harry!”
Lei aprì la bocca, ma non riuscì a parlare. I
suoi furono solo dei versi scomposti.
“Harry, cosa è successo?”
Non mi rispose, di nuovo.
Dopo essermi assicurato che non fosse ferita in alcun modo, o almeno
che non avesse ferite esterne, la aiutai a mettersi in piedi.
Poteva essere semplicemente ubriaca – e sicuramente lo era
– ma perché allora avvertirmi, perché
usare un tono così grave in quei messaggi?
La tenni ben stretta tra le mie braccia e iniziai a camminare.
“Harry? Cosa è successo?” provai di
nuovo “Chi ti ha portato qui?”
Aveva gli occhi semiaperti, e a camminare quasi non ce la faceva.
Ovviamente, non rispose.
Fu una lunga risalita verso l’uscita della stazione. In molti
si fermarono ad osservarci e più di una volta avevo urlato a
qualcuno che ero un medico, e che lei era mia sorella.
Scendemmo anche la scalinata all’uscita, ma poi le mie
braccia cedettero sotto il peso di Harry e la feci poggiare a terra.
Cercai di riprendere fiato, poi subito avvistai un taxi. Alzai un
braccio per attirare l’attenzione, ma nello stesso istante,
una grossa macchina nera mi si fermò davanti e una testa
conosciuta sbucò dal finestrino.
Rimasi con il braccio a mezz’aria, incredulo - o sarebbe
stato meglio dire sorpreso - di vedere Mycroft Holmes.
“Hai bisogno di un passaggio, John?”
Non aspettò una mia risposta, fece un cenno con la mano al
suo autista, che scese dall’auto e raggiunse me e mia
sorella. Prese quest’ultima per le spalle, per farla alzare.
A quel punto mi destai, e aiutai l’uomo a sollevare Harry.
Entrambi entrammo nell’auto, proprio accanto a Mycroft,
mentre l’altro ritornò alla guida. Chiusi la
portiera e partimmo immediatamente.
Tenni mia sorella tra le braccia e notai che aveva definitivamente
chiuso gli occhi.
Mi girai verso l’uomo.
“Cosa succede?”
Fu la prima cosa che istintivamente mi venne da dire. Adesso le cose
stavano cominciando a diventare un po’ più chiare.
Se Mycroft Holmes era coinvolto in quella storia, avrebbe dovuto dirmi
tutto. E io non sarei uscito da quella macchina fino a quando non
l’avesse fatto.
“Anche io sono lieto di rivederti.” rispose con
quell’espressione ironica che solitamente rivolgeva a suo
fratello minore.
“No, davvero” intervenni subito “Che cosa
sta succedendo? Non sei qui per caso. Non sei mai per caso da nessuna
parte. Quindi perché non la smettiamo di tenere sempre
questi segreti? Sono stufo di essere sempre quello all’oscuro
di tutto! E visto che la questione riguarda anche mia sorella, ho tutto
il diritto di sapere!”
“La signorina Watson è stata drogata.”
mi rispose immediatamente.
Io sgranai gli occhi, poi subito mi dedicai di nuovo ad Harry,
allarmato.
“Non è nulla di grave”
continuò Mycroft. “Ne ha ingerita solo una piccola
dose, diluita in un boccale di birra. Penso che resterà in
uno stato confusionale per tutta…”
“Conosco i sintomi provocati dall’assunzione di
sostanze stupefacenti” sbottai.
Stavo tremando. Non seppi se per la rabbia o se per la preoccupazione.
“E chi è stato? Dove?”
Mycroft mi rivolse di nuovo quel sorriso.
“Credo che tu sappia benissimo dove.”
Ero stato quasi sul punto di dargli un pugno in faccia, soprattutto per
il tono usato, ma d’altra parte, aveva davvero ragione.
Io sapevo.
“Possibile che con tutto il potere che hai sempre avuto, tu
non sia mai riuscito a far chiudere quel locale? La
proprietà era intestata a lui, a Moriarty!”
Forse avevo urlato, nonostante avessi avuto delle indecisioni mentre
pronunciavo il nome di quel pazzo criminale.
Questa volta Mycroft assunse un’aria più seria e
sospirò gravemente.
“Invece stiamo facendo tutto il possibile, credimi. Da quando
Jim Moriarty è morto, la protezione di cui nutriva quel
locale si è decisamente indebolita, ma non nei punti in cui
potevamo toccarla.” Fece una brevissima pausa
“L’ha lasciato in buone mani.”
Io non riuscii a capire.
“La signorina Harry Watson ci è stata davvero di
grande aiuto.”
“COSA?”
Ero sconvolto.
La macchina si fermò.
“Mia sorella vi aiutava?”
Mycroft guardò velocemente fuori e poi rispose.
“Inconsapevolmente”
“E avete permesso che si riducesse in questo modo?”
A quel punto mi ero davvero mosso scompostamente, ma lui rispose di
nuovo tranquillamente. “Come ti ho appena detto, lei non era
al corrente di nulla. Tutto quello che vedeva e tutto quello che
sentiva era ciò che voleva vedere e sentire. Avremmo dovuto
ammonirla per il troppo bere? Tre psichiatri e le preoccupazioni di suo
fratello non sono bastati. Conosci tua sorella. Magari conosci anche le
parole che ci avrebbe rivolto in risposta.”
A quel punto mi zittii. Ero incredulo e confuso. Ancora una volta non
mi ero accorto di ciò che stava accadendo intorno a me.
“Siamo di fronte casa di sua sorella. Il mio consiglio
è quello di rimanere con lei fino a quando non si
sarà ripresa. E con questo intendo che tu debba
accompagnarla durante la riabilitazione.”
L’autista scese di nuovo e venne ad aprirci la portiera.
“L’estate è alle porte. Prenditi una
bella vacanza. Porta Harry con te, e magari anche la signorina
Morstan.”
Non mi sorpresi di sapere che conoscesse Mary.
“Mi pare di capire che continui ancora a spiarmi.”
Fece una mezza risata.
“Spiarti? No.”
“Controllarmi, allora.”
“Proteggerti.”
Questa volta fui io a ridere.
“Non credo che tu ci sia mai riuscito. Con nessuno”
terminai.
Ci scrutammo per diversi secondi, ma non rispose.
Presi mia sorella e a fatica uscimmo dalla macchina. Dovetti prenderla
in braccio, ormai era probabilmente e completamente addormentata.
L’auto partì immediatamente, ma io non mi fermai a
guardarla. Sentii solo il rumore del motore, mentre si allontanava.
Ero confuso.
E sconfortato.
Il coinvolgimento di Mycroft Holmes nella storia non mi aveva
rassicurato per niente. Harry avrebbe dovuto fidarsi di me, questa
volta, e raccontarmi la verità. Altrimenti, non sarei stato
in grado di aiutarla.
*
Harry si svegliò nel primo pomeriggio del giorno successivo.
Per diversi minuti, rimase in dormiveglia e io ne approfittai per
visitarla e assicurarmi che stesse bene. Alle mie domande rispose piano
e con voce molto bassa, ma a quanto pare non aveva dolori troppo forti.
Giramento di testa e mal di stomaco, come previsto, e che sarebbero
durati sicuramente tutto il giorno, ma nulla di più. Decisi,
poi, di fare un paio di telefonate, soprattutto alla clinica. Quando mi
alzai dalla poltrona accanto al suo letto, Harry mi trattenne,
prendendomi un braccio.
“John…”
“Cosa c’è, sorellina? Hai qualche
dolore?”
Lei scosse la testa e tossì. Le diedi da bere.
“Come sono tornata a casa?” mi chiese.
“Ti ho portato io, non ricordi? Sono venuto a prenderti alla
Waterloo Station”
A quel punto, aprì gli occhi completamente, allarmata.
“E lui era con te?”
“Lui? Lui chi?”
“Il tuo amico. Oh, John, è stato lui a portarmi
via da lì e… adesso mi
cercheranno…”
Le presi le mani e cercai di tranquillizzarla.
“Harry, sta calma, è tutto apposto. Adesso
rilassati e dimmi di chi stai parlando.”
“Il tuo convivente detective, Sherlock Holmes!”
Mollai immediatamente la presa.
“Harry, non…”
“Era lui!” mi interruppe “Ne sono
sicura!”
“Forse ti stai confondendo. È stato Mycroft Holmes
a portarci qui, non…”
“Io non ricordo come sono tornata qui a casa, ma ricordo di
essere arrivata alla stazione.” mi interruppe
nuovamente “È stato lui a portami via
dal Jim’s!”
Scossi la testa. Probabilmente la droga stava ancora facendo
effetto, o forse era la sbronza, o entrambe le cose.
“Ci ho parlato, John! E lui mi ha detto che stavi venendo a
prendermi!”
Mi alzai e allontanai dal letto.
“Non credevo saresti arrivata a questo punto. Guarda come ti
sei ridotta!”
“Lo so che sembra assurdo, so cosa gli è
successo… ma mi ha parlato…”
Avrei voluto urlarle che era pazza, ma ricordai che forse era ancora la
droga che le stava facendo dire quelle cose. Che le stava dando visioni
e falsi ricordi.
“Credo che tu abbia bisogno di altro riposo. Ed ho preso una
decisione. Quest’estate di poterò in una clinica
riabilitativa. Non posso sopportare di vederti
così.”
Mi ero davvero documentato, nelle ultime settimane, e avevo trovato una
clinica specializzata nella riabilitazione delle persone alcolizzate,
che sembrava proprio l’ideale. Per di più, si
trovata in una località marittima. Il posto perfetto per
poter fare una vacanza.
Lei iniziò a piangere.
“Era lui.” riuscii a capire tra le lacrime
“Non ti sto mentendo, non questa volta!”
“Come posso crederti?” cercai di rimanere calmo,
per farla calmare a sua volta e ragionare.
“Lui è morto.”
Perché negli ultimi giorni dovevano ricordarmelo tutti?
Perché Harry aveva dovuto immaginare proprio lui? Lo aveva
incontrato una volta, forse due. Quale importanza aveva per lui? Che
stesse iniziando a dare di matto?
“Riposa, Harry. Vado a prendere delle cose a casa mia, e poi
torno.”
Lasciai la stanza, e quando chiusi la porta della sua stanza, la sentii
singhiozzare più forte.
Ci sarebbe stata una sola cosa da fare, e probabilmente sarei riuscito
a spazzare via il fantasma di Sherlock Holmes.
Presi un taxi e mi feci lasciare davanti al 221b di Baker Street. Avrei
dovuto ridare le chiavi dell’appartamento alla signora
Hudson, solo così avrei realizzato che lì non
c’era più nulla per me, più nulla che
mi apparteneva. Era solo una casa vuota e io avrei dovuto dimenticarla.
---------------------------------------------------------------------------------------------------
In ritardo di un mese dall’ultimo aggiornamento,
lo so, ma studio e altri problemi hanno avuto il sopravvento, ma ci
sono sempre!
Macano solo tre capitoli,
ormai, e siate sicuri che dal prossimo, tutti i dubbi e il mistero
cominceranno ad essere sciolti (anche se sicuramente avrete
gia’ fatto qualche ipotesi!).
Alla
prossima, allora. Un ringraziamento a tutti, come sempre.
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 9 - La casa piena. ***
Salii
lentamente le scale che portavano al primo piano. Il dolore
all’anca
ormai era sempre più frequente. Ogni giorno ero costretta a
fermarmi e a
sedermi per fare in modo che passasse, anche se solo momentaneamente.
Il mio
stato di salute stava peggiorando e - ahimè -
l’età avanzata si stava facendo
sentire sempre di più. Presi un bel respiro, massaggiai la
parte dolorante e
salii gli ultimi scalini.
Il salotto era quasi completamente al buio, così mi mossi
per accendere la
luce.
“Non lo faccia.”
Mi fermai di colpo, l’indice già sul pulsante.
Ritrassi subito la mano.
Sherlock era appena uscito dalla cucina.
“Non vedo che fastidio possa darti un po’ di
luce.” dissi “Per
di più anche fuori ce n’è
così poca. Non
so se ha visto le numerose nuvole che…”
Mi interruppe.
“Le nuvole non mi preoccupano affatto, signora
Hudson.”
Attraversò la stanza e accese la lampada accanto alle
poltrone. Con la
luce, finalmente riuscii a guardarlo in
volto.
“Si sente bene?” mi chiese, avvicinandosi.
Io mi massaggiai involontariamente.
“È la mia anca.” risposi, ma non lo
guardai.
“Senza dubbio. Dovrebbe cambiare medico curante.”
commentò.
Mi accigliai.
“Ma no.” continuò “Sta
cercando semplicemente di capire se sono davvero io
qui davanti a lei. Mycroft avrebbe dovuto dirglielo un po’
prima,
probabilmente.”
“O magari non saresti mai dovuto andare via così,
senza un avvertimento.”
risposi. “Immagino l’angoscia che avrà
dovuto provare la povera signora
Holmes!”
Sherlock non rispose, e si allontanò, raggiungendo di nuovo
l’altra parte
della stanza.
Suo fratello Mycroft mi aveva fatto spesso visita, durante gli ultimi
tre
anni, e finalmente avevo capito il motivo per cui aveva continuato a
pagare
l’affitto della casa in cui aveva abitato suo fratello.
In ogni caso, non sarei riuscita ad affittare l’appartamento
a nessuno.
Erano troppi i ricordi che ancora aleggiavano tra quelle stanze.
“Si sieda, signora Hudson,
perché sto
per dirle una cosa molto importante. Sherlock è vivo, e tra
circa tre settimane
tornerà a Londra e si trasferirà nuovamente
nell’appartamento del 221 b.”
Ero rimasta a fissarlo per diverso tempo senza capire. Lui si era
seduto al
mio fianco e mi aveva raccontato ciò che era successo, o
almeno una buona
parte. Come avesse fatto Sherlock a sopravvivere a quel salto nel vuoto restava
ancora un mistero irrisolto, però, ed io non
riuscivo a rendermi conto del tutto che era tornato.
“Mia madre sta bene.” disse Sherlock, ad un certo
punto. “Come mai è salita
qui? C’è qualcosa che vuole dirmi?”
Io deglutii, iniziando a sentire di nuovo dei forti dolori.
“Sì, volevo chiederti se desiderassi qualcosa da
mangi…” mi interruppi improvvisamente,
notando qualcosa di strano.
La stanza era, come solitamente era sempre stata, molto in disordine,
ma
qualcosa di davvero particolare aveva attirato la mia attenzione. Sopra
una
delle poltrone accanto al camino, quella dove di solito sedeva
Sherlock, c’era
un lenzuolo bianco, che copriva sicuramente qualcosa di grande. Quando
ero
entrata l’ultima volta in quella stanza, non più
di due giorni prima,
sicuramente non c’era.
Doveva averla portata Sherlock.
“Che cos’è?” gli domandai,
indicando la poltrona.
Lui si fece accanto ad una delle finestre, spostando la tenda e
sbirciando
fuori.
“Nulla di importante. La prego, signora Hudson, torni
giù e rimanga lì.”
Aprii la bocca per rispondere, ma lui mi anticipò.
“È palese che lei non si senta bene, quindi le
consiglio di mettersi a
letto. Non ho bisogno di lei, ora!”
Questa volta usò un tono più aggressivo. Io mi
zittii, dispiaciuta.
Lentamente iniziai la discesa, ma dopo l’ultimo scalino, mi
sentii chiamare
di nuovo, anche se a voce bassa.
“Signora Hudson!”
Volsi lo sguardo in alto, verso la scalinata. Sherlock era sceso
velocemente ed era visibilmente allarmato.
“John è fuori alla porta. L’ha chiamato
lei?”
Mi accigliai di nuovo, poi scossi la testa.
“Allora non gli apra. Ignori il campanello e si chiuda in
casa.”
“Ma…”
provai a dire, lui però mi
interruppe ancora una volta.
“E non risponda neanche al telefono.”
Si sentì un rumore metallico.
“Ha ancora le chiavi…” sibilai.
Lo vidi sgranare gli occhi.
“Vada a casa sua e faccia finta di non esserci!”
esclamò velocemente,
facendomi segno con le mani di muovermi.
Io camminai più in fretta che potei, nonostante il dolore
all’anca, di
nuovo forte. Chiusi la porta di casa e mi precipitai verso la camera da
letto.
Mi stesi.
Sherlock era tornato soltanto la notte prima, quindi da neanche un
giorno,
e già si stava occupando di un nuovo caso?
Anzi, già aveva pure litigato
di
nuovo con John?
Stavo davvero cominciando a pensare di essere diventata troppo vecchia
per
quelle cose.
JOHN
Una
quantità non indifferente di nuvole grigio scuro si stava
ammassando
minacciosamente e stava raggiungendo Baker Street. Probabilmente a
breve
avrebbe piovuto. Presi le chiavi dalla tasca e mi mossi velocemente
verso
l’entrata. Quasi mi meravigliai di me stesso e della mia
determinazione, ma
infatti, appena arrivato davanti la porta, mi fermai di botto e per
poco non
fui invaso dall’istinto di tornare indietro.
Presi un bel respiro e puntai i miei occhi verso ciò che
c’era scritto
affisso sul legno: 221B.
Improvvisamente la porta si aprì, e fui ammanettato e
sbattuto contro la
portiera di una macchina della polizia. Mi lamentai per la botta presa.
“Ti unisci a me?” mi chiese Sherlock, con ironia.
Mi misi le mani davanti al volto e stropicciai gli occhi.
Mi era successo di nuovo. Avevo immaginato perfettamente uno dei miei
ricordi che lo riguardavano. L’ultima volta che entrambi
eravamo usciti insieme
– o quasi – da quella casa.
Dalla nostra casa.
Eravamo stati arrestati entrambi – il mio era in
realtà più uno stato di
fermo che reale arresto – ma poi Sherlock aveva fatto di
testa sua, tanto per
cambiare, ed eravamo riusciti a scappare.
Avevamo iniziato a correre. Una corsa senza fine e senza
meta,
apparentemente.
Quella era stata una lunga notte, una delle più lunghe che
avessi mai
vissuto senza chiudere occhio. Forse non proprio l’unica.
Quando ero stato in
guerra ne avevo passate tante, ma quella di sicuro era stata la
peggiore.
Era da tempo che non mi succedeva di ricordare quegli avvenimenti.
Pensavo
di essere riuscito a smettere. E invece, per colpa di uno stupido
numero e di
una stupida lettera inchiodati alla porta avevo capito che la terapia
non era
servita proprio a nulla.
Infilai la chiave nella serratura. Non ricordavo fosse così
dura, così mi
aiutai con l’altra mano e riuscii ad aprire. Quando entrai,
l’ingresso era
immerso nell’oscurità.
Accesi il cellulare per farmi luce. Vidi di sfuggita che qualcuno,
più
precisamente Mary, mi aveva chiamato, ma decisi che non era il momento.
L’avrei
richiamata più tardi.
“Signora Hudson!” urlai. “Signora Hudson,
sono John!”
Mi accorsi di avere la gola secca.
Chiusi la porta e andai ad accendere il lampadario poggiato sulla
piccola
mensola di fronte le scale.
Provai a chiamare di nuovo la padrona di casa, ma non ricevetti alcuna
risposta. Mi mossi verso la porta del suo appartamento e bussai.
“Signora Hudson? È in casa?” provai
ancora, ma a quanto parve, non c’era.
Strano. A sentire il mio collega, Charles Wood, che era il suo medico
curante, lo stato di salute della mia anziana amica era diventato
decisamente
più precario e le era stato intimato di restare in casa e
riposare il più
possibile. Questo mi era stato detto neanche due settimane prima.
Forse era andata a trovare qualche parente; sì, sembrava
un’ipotesi
possibile.
Dopo aver risolto il problema di mia sorella, l’avrei
chiamata per dirle
delle chiavi e anche per chiederle come stava. Mi mossi di nuovo verso
la
mensola dell’ingresso e iniziai a staccare le due chiavi di
quella casa dal
mazzo in cui tenevo tutte le altre, cioè quelle del nuovo
appartamento, quelle
di Harry e quelle dell’ambulatorio. Durante
l’operazione, mi graffiai pollice e
indice, ma riuscii a staccare la chiave della porta
d’ingresso e la posai.
Poi mi fermai. Non seppi bene il perché, ma lo feci.
Mi girai ed osservai le scale e rimasi lì a fissarle a
lungo.
Sarei dovuto salire sopra. Lo avevo desiderato dal primo istante in cui
ero
entrato, solo che non lo volevo ammettere. A quanto pare, la signora
Hudson non
aveva venduto l’appartamento a nessuno. Non si sentivano
rumori e nessuna luce
proveniva da lassù.
Distolsi lo sguardo e quasi sbuffai.
Perché stavo reagendo così? Era solo una casa, e
quella, probabilmente, sarebbe
stata l’ultima volta in cui ci avrei messo piede.
Deglutii e poi mi decisi a salire. Feci le scale salendo due gradini
alla
volta, come spesso avevo fatto in passato, ma inizialmente non ci feci
neanche
caso.
La porta del salotto era aperta, ed era tutto al buio. Accesi subito la
luce. Le finestre erano tappezzate con tende rosso scuro che non
ricordavo
affatto. Erano decisamente coprenti, tanto che quasi non si riusciva a
vedere
attraverso di esse. Spostai la mia attenzione dalle tende sulla la
stanza.
Rimasi letteralmente a bocca aperta. Il divano, il tavolo e il
pavimento
erano occupati da scatole, fogli di giornale, utensili vari , e su una
sedia
c’era anche un violino.
“Cosa diavolo?” feci tra me e me, ma non riuscii a
terminare la frase. Vidi
un lenzuolo bianco coprire interamente la poltrona di Sherlock.
Come se qualcuno si fosse trasferito lì e avesse dimenticato
di scoprire
un’ultima cosa.
No. Come se non fosse stato portato
via niente di quello che era appartenuto al mio coinquilino.
Mi avvicinai. Sulla mia poltrona c’era ancora il cuscino con
sopra stampata
la bandiera della Gran Bretagna.
Mi lasciai scappare un sorriso amaro.
Quando me ne ero andato, quello era stato l’unico oggetto che
avevo
desiderato portare via con me, ma che poi avevo deciso di lasciare
all’ultimo
momento.
Avevo dato le spalle alla cucina, che aveva le porte scorrevoli chiuse,
e improvvisamente
mi sentii osservato, una sensazione sinistra che mi portò a
girarmi
improvvisamente. Ma le luci dell’altra stanza erano spente, e
non c’era
nessuno. Il mio movimento fece alzare una piccola nuvoletta di polvere,
così
tossii. Subito dopo, ritornai a guardare la poltrona e il lenzuolo
bianco.
Non era lì solo per coprirla. Doveva esserci
qualcos’altro lì sotto, e di
una forma precisa.
Sollevai un po’ il tessuto e notai una scarpa nera. Decisi di
toglierlo
interamente.
Per poco non mi scappò un urlo. Dovetti mettermi una mano
davanti alla
bocca per evitare di farlo e con l’altra strinsi
più forte il mazzo di chiavi,
che era quasi scivolato a terra.
Rimasi fermo in quella posizione per un bel minuto intero, con il cuore
che
batteva forte, il respiro decisamente irregolare, cercando di
trattenere le
lacrime.
“Sh… Sherlock?”
Era lui, ma allo stesso tempo non lo era davvero.
Era vestito di tutto punto, elegante, come vestiva di solito: pantaloni
e
giacca abbinati, la camicia viola. Era seduto, con le gambe accavallate
e le
braccia divaricate poggiate sui braccioli della poltrona.
Gli occhi erano spalancati.
Ma non erano davvero occhi. Fissavano un solo punto, ed erano freddi,
inespressivi.
Come quando li avevo visti l’ultima volta, privi di vita.
Tossii di nuovo, presi più di un respiro profondo e cercai
di calmarmi.
Quello non era Sherlock, ormai me ne stavo convincendo, ma era qualcosa di estremamente simile a lui,
una sorta di manichino.
La pelle e gli occhi erano lucidi, sembravano fatti di plastica
– proprio
come un manichino – così allungai un
braccio e
gli toccai una mano.
Sì, sembrava plastica, ma al tatto sembrava leggermente
più ruvida.
“Che cos’è
questo? Che cosa significa?”
mi ritrovai a pensare, cominciando seriamente a dubitare
della mia sanità
mentale.
Dovevo assolutamente contattare la signora Hudson. Lei sapeva, lei doveva sapere.
Mi allontanai dal manichino, dandogli un’ultima occhiata.
Iniziai a pensare che fosse molto simile alle statue di cera di Madame
Tussauds.
Ma perché, perché?
Uscii dalla stanza velocemente, scesi le scale, e nel frattempo provai
a
chiamare la signora Hudson tramite cellulare. E se lei non mi avesse
risposto,
avrei contattato Mycroft Holmes.
Ormai era evidente che c’era qualcosa che mi stavano
nascondendo. Ancora
una volta.
Uscii dal 221B e chiusi la porta con forza.
Ero arrabbiato, ero confuso. Ero… qualcosa di indefinibile.
La signora Hudson non rispose, così raggiunsi il marciapiede
di fronte e
provai a chiamare Mycroft.
Baker Street era deserta. Le nuvole ormai erano arrivate e cominciai a
sentire qualche leggera goccia di pioggia colpirmi
sul viso.
“John Watson?” mi sentii chiamare e mi girai
immediatamente.
Non riuscii neanche a guardare chi fosse stato a pronunciare il mio
nome.
Qualcosa mi colpì la testa e io caddi
all’indietro, sull’asfalto.
*
La
prima cosa che sentii fu un dolore atroce alla testa e un forte odore
proprio sotto il naso, accompagnato da qualcosa di appiccicaticcio.
Aprii gli occhi. Le immagini che avevo davanti erano alquanto sfocate,
così
in un primo momento non capii dove fossi, mossi le mie mani per capire
cosa
avessi alla testa, ma mi accorsi di avere le braccia bloccate dietro la
schiena
ed essere seduto su una sedia. Mi lamentai.
“Dottor Watson, si è svegliato!”
Il volto di un uomo si fece più vicino al mio.
“E giusto in tempo, direi. Altrimenti si sarebbe perso lo
spettacolo!”
Io dischiusi gli occhi per un attimo e feci un altro verso di dolore
che
probabilmente era dovuto ad una botta in testa.
Lo guardai meglio, non appena si allontanò, anche se di poco.
Aveva una folta chioma e una barba castane, molto ben curate, e gli
occhi
chiarissimi. Ma ciò che mi colpì fu un lungo
segno color carne che dal naso gli
arrivava fino quasi all’orecchio sinistro.
Improvvisamente, riconobbi quella
cicatrice.
“Moran…” sussurrai, ma lui dovette
sentirmi, perché si girò di nuovo e
sorrise.
Diedi un’occhiata
intorno a me, ma
ciò che vidi fu soltanto una stanza priva di mobili, vuota,
a parte due sedie -
tra cui quella su cui ero seduto io. Fu allora che notai il fucile,
perché
l’altra sedia era sistemata proprio lì dietro.
C’era anche un’unica grande
finestra coperta da delle tende semitrasparenti. La canna del fucile
arrivava
quasi fino a fuori dalla cornice.
“Dove
siamo?” chiesi.
Moran sembrava ben disposto a conversare. Mi sorrise di nuovo,
avvicinandosi, spostò la tenda e mi indicò la
strada.
Io strizzai gli occhi e guardai fuori.
“Siamo a Baker Street!”
esclamò.
Mi prese per le spalle improvvisamente e mi fece voltare.
“Sta comodo?” mi chiese, ma non fu una vera
domanda, perché non aspettò una
mia risposta.
“Non vorrei che si perdesse la parte migliore della serata!
Tra l’altro,
non mi aspettavo il suo arrivo.”
Mi guardò più attentamente. Io non stavo capendo.
“Ma questo rende le cose più
interessanti” si sfregò le mani.
La luce improvvisa di un lampo ci fece girare entrambi di nuovo verso
la
finestra. Il tuono che seguì fece tremare le vetrate.
“Oh!” esclamò lui “Abbiamo un
altro ospite!”
Io guardai la strada, e solo dopo capii che avrei dovuto rivolgere
l’attenzione verso le finestre di fronte a noi. Quello era il
221b.
“Faccio scegliere a lei, dottor Watson”
continuò Moran “A
chi dei suoi amici vuole che spari per
primo?”
Le tende del mio vecchio appartamento erano tirate e si riuscivano a
scorgere due persone al suo interno.
“L’ispettore di Scotland Yard” fece
ancora l’uomo “Oppure Sherlock Holmes?”
Guardai più attentamente e riuscii a scorgere Greg, che si
muoveva
nervosamente, facendo svolazzare il suo impermeabile beige. Stava
parlando con
qualcuno, e gesticolava.
Cosa diamine stava succedendo?
COSA?
Nella mia testa c’era così tanta confusione da non
riuscire a formulare un
pensiero che potesse avvicinarsi a qualcosa di reale, di concreto, e
questo mi
stava facendo andare su tutte le furie.
“Dal suo silenzio, mi pare di capire che non ha intenzione di
scegliere”
disse Moran “Non mi sarei aspettato diversamente”
ridacchiò, poi si abbassò
verso il fucile e si fece più vicino a me.
Fu un’azione decisamente rapida, quasi impercettibile, e
all’interno del
221b vidi Lestrade ripararsi dietro un tavolo e un altro corpo cadere a
pochi
passi da dove si trovava lui.
Mi tornò subito in mente il manichino, ma il mio pensiero fu
interrotto
bruscamente, perché una voce che non era quella di Moran
attirò la mia, anzi, la
nostra attenzione.
“Posa immediatamente il fucile e metti le mani dietro la
testa.”
Vidi l’ex colonnello sorridere, poi, proprio dietro di lui,
comparve un viso.
Ma non riuscii a vederlo attentamente, perché Moran si
girò e lo colpì
forte.
I due uomini cominciarono rapidamente a lottare, io invece sentivo
nuovamente la testa farmi male. Entrambi urtarono contro il fucile, che
cadde a
terra, e fu in quel momento che notai la mia pistola, il mio cellulare
e le mie
chiavi sul pavimento.
Se avessi preso la mia arma, nonostante le mani legate (durante il
servizio
militare ci era stato insegnato ad usarla anche in casi estremi come
quello),
avrei potuto fare qualcosa, ma rimaneva un’operazione molto
difficile. Avrei
dovuto agire d’istinto.
Mi alzai e cercai di superare il fucile, ma sentii
un’imprecazione.
“Non si muova, dottor Watson”
Moran aveva una pistola puntata contro di me.
“Gettala a terra!” esclamò
l’altra persona nella stanza, e io mi girai,
nello stesso istante in cui Moran gli rispose.
“Pessima scelta di parole, Sherlock.”
Sherlock…
Sherlock?
“Getta la pistola!” urlò ancora lui, ma
l’altro per
tutta risposta, si avvicinò di più a
me.
Improvvisamente si sentì un rumore fortissimo provenire
dalla stanza
accanto. Questo fece girare e distrarre Moran, che infatti cadde a
terra
urlando.
“John!”
Greg Lestrade si precipitò verso di me e cominciò
a squadrarmi con
preoccupazione.
“Stai bene?” mi chiese, e notando la mia ferita sul
capo e le mani legate
non aspettò ancora e cercò di sciogliere i lacci.
Io probabilmente non risposi. Forse annuì, forse no. Non
riuscii proprio a
rendermene conto.
Avevo paura di guardare l’uomo che aveva lottato con Moran, e
che gli aveva
sparato a una
gamba. Intorno a noi c’era
una dozzina di agenti della polizia, e
tutti puntavano contro l’ex colonnello le proprie armi. Ma io
guardavo sempre e
solo nella stessa direzione, senza alzare lo sguardo.
Più che incredulo, più che sconvolto. Senza
capire cosa provassi.
Probabilmente un termine per descrivere i miei sentimenti non esisteva
neanche.
Lestrade mi liberò definitivamente le mani e a quel punto
decisi di
recuperare le mie cose.
“Sapevo che non sarebbe stato facile ucciderti, Sherlock
Holmes” fece Moran
con una risata che sembrò più una smorfia di
dolore.
Mi girai di nuovo e notai che era seduto e teneva tra le mani il
ginocchio
sinistro, che sanguinava. Il mio primo istinto fu quello di andare a
vedere
cosa avesse, ma lui continuò a parlare.
“Ma sono venuto preparato!” rise ancora
“Harry ha tenuto la bocca chiusa.
Brava ragazza. E ora che mi avete preso pensate che sia al sicuro e che
parlerà”.
Io mi passai una mano intorno alla testa. Stavo ancora sanguinando.
“Harry?” chiesi, ma nessuno sembrò
sentirmi.
“Cosa le hai fatto?” domandò invece
Lestrade.
“Che ore sono?” fece ancora Moran, con
tranquillità.
Io puntai istintivamente la pistola contro di lui.
“Che cosa c’entra Harry? Cosa le hai
fatto?” urlai.
Greg mi prese per un braccio e mi guardò scuotendo la testa
leggermente.
Sembrava essere dispiaciuto, come se mi avesse nascosto qualcosa, e
probabilmente era proprio così.
“Che ore sono?” esclamò di nuovo Moran.
“Le ventuno e cinquantatre” rispose
l’uomo che non volevo guardare.
“Come immaginavo. È troppo tardi per lei, mancano solo
sei minuti all’esplosione.”
Ebbi solo un momento di indecisione, in cui Lestrade diede
l’ordine di
chiamare delle ambulanze, poi mi precipitai fuori
dall’appartamento. Qualcuno
mi chiamò, ma lo ignorai, continuando a muovermi velocemente
e scendendo le
scale.
Presi il cellulare, ma le mie mani tremavano e rischiai quasi di farlo
cadere. Composi il numero di mia sorella.
Avevo bisogno di una dormita, o almeno di fermarmi un attimo e capire
cosa
stesse succedendo.
Ma Moran aveva parlato di Harry, aveva detto che era troppo tardi per
salvarla.
Il colonnello Sebastian Moran. Per
molto
tempo avevo creduto che fosse rimasto anche lui vittima di
quell’esplosione in
Afghanistan. L’ultima persona che avevo visto prima di cadere
a terra, privo di
sensi.
Come faceva a conoscere Harry? Perché?
“Rispondi. Ti prego.”
Pensai tra
me e me.
Il cellulare di mia sorella stava squillando già da
parecchio.
Ero ormai arrivato in strada e avevo iniziato a correre, in cerca di un
taxi.
“John!”
Lestrade mi raggiunse e mi fece segno di salire su un’auto
della polizia.
Nello stesso momento, Harry rispose.
“Harry! Harry, stai bene?” urlai.
Lei mi rispose piano, con la voce di chi si era appena svegliata.
“Harry, ascoltami bene” mi mancava il respiro
“Esci immediatamente da casa
tua.”
“John, ma cosa…”
“Esci immediatamente! Prendi qualcosa di duro… un
ombrello, ed esci
immediatamente. Non parlare con nessuno e non salire in nessun taxi. Se
qualcuno
vuole farti del male, usa l’ombrello. Io… sto
venendo a prenderti.”
Lei provò a parlare di nuovo, ma le urlai ancora di muoversi
e di uscire di
casa.
“Va bene…” aveva ancora la voce
impastata e bassa.
“Descrivimi i tuoi movimenti. Non smettere di
parlare.”
“Sono appena scesa dal letto. Cerco la vestaglia, ma non la
vedo.”
“Lascia stare la vestaglia. Sei in pericolo! Esci!”
“Sono fuori dalla camera da letto, ecco, ora ho raggiunto le
scale. John,
mi dispiace.”
Sentii lo stomaco contrasi a quelle parole.
“Qualunque cosa sia, non importa. Sto arrivando, esci di casa
e allontanati
da lì.”
Intorno a me Lestrade e altri agenti stavano parlando furiosamente ai
propri telefoni.
Harry iniziò a piangere. A quel punto, anche io cedetti alle
lacrime.
“Sono… sto scendendo… sono alla fine
della scalinata” continuò a dire mia
sorella “Sono davanti alla porta” sentii il rumore
metallico della serratura
“L’ho aperta… sono…”
Allontanai l’orecchio dal cellulare a causa di un rumore
fortissimo e poi
la chiamata si interruppe.
“Harry… Harry…” le parole mi
si fermarono in gola. Non cercai più neanche
di trattenere le lacrime.
Provai a chiamare mia sorella per tutto il tempo rimanente, poi, fu una
nube nera a guidare l’ultima tappa del nostro viaggio.
Mi precipitai fuori dall’auto ancora prima fosse ferma del
tutto. Davanti a
me c’era uno spettacolo devastante. I due piani
dell’appartamento di Harry
erano completamente in fiamme, le vetrate in frantumi. Blocchi di
pietra e
cemento erano sparsi un po’ ovunque. Un ombrello bruciava.
Gocce leggere di pioggia continuavano a cadere.
Un piccolo gruppo di gente invece era ammassato in un punto non molto
lontano,
a pochi metri dall’edificio. Mi feci spazio tra loro. Harry
era lì, a terra. Il
suo corpicino era ricoperto di polvere e sangue, soprattutto in viso.
Provai a
parlare, provai a chiamarla, ma ancora una volta dalla mia gola non
provenne
alcun suono.
Sentii di sfuggita Lestrade, che intimava a quel gruppo di persone di
allontanarsi. Io mi inginocchiai e presi mia sorella tra le braccia con
il
terrore di tastarle il polso e di non sentire alcun battito.
Harry aveva preso tante decisioni sbagliate nella sua vita, ma,
nonostante
ciò, non avrebbe meritato di morire così. Non
le avrei permesso di morire prima ancora di provare a ricominciare a
vivere.
Le presi il braccio e premetti le mie dita intorno al suo polso.
------------------------------------------------------------
Salve! Vi prego di scusarmi
per questo
ritardo, questa volta è passato più di un mese e
mi dispiace. Spero comunque
che voi ci siate sempre. Ormai siamo quasi alla fine!
Spero anche che tutti conosciate il
racconto “L’avventura della casa vuota” di ACD a
cui mi sono liberamente ispirata, in
questa mia fan fiction e in questo capitolo in particolare .
Alla prossima! (Ora
sono un po’ più
libera, quindi sicuramente non vi farò aspettare di nuovo
così tanto).
Grazie,
buona giornata e buon
compleanno a Benedict Cumberbatch! :D
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 10 - Verità e priorità. ***
JOHN
Forse ero riuscito a dormire per un’ora o due. Quando mi destai avevo ancora la mano stretta a quella di Harry ed era tutta sudata. Me l’asciugai sul pantalone, mi stropicciai gli occhi con l’altra e cercai di capire che ora fosse, visto che il cellulare era scarico. Il mio sguardo vagò in cerca di un orologio, ma nello stesso istante la porta si aprì e Gregory Lestrade entrò nella stanza. Ci squadrammo a vicenda per diversi secondi, poi mi salutò. Io ricambiai con un cenno del capo.
Raggiunse il letto, prese una sedia e si sedette proprio di fronte a me.
“I dottori mi hanno detto tutto.” fece “Vedrai che si riprenderà e che si sveglierà a breve.”
“Lo spero.” sussurrai, atono.
Lo guardai di sfuggita e poi invece mi fermai, ancora una volta, ad osservare Harry. Aveva i segni visibili delle ustioni, punti di sutura e medicazioni su viso e braccia. La gamba sinistra ingessata fin sopra al ginocchio.
Sospirai.
Rimanemmo in silenzio ancora per un po’. Lestrade guardò a sua volta mia sorella, dispiaciuto.
“Che ore sono?” chiesi.
Greg spostò la manica della camicia per guardare l’orologio.
“Le quindici e trenta.”
Mi stropicciai di nuovo gli occhi. Non pensavo fosse addirittura pomeriggio.
“Le analisi all’interno dell’appartamento di Harry sono ancora in corso ma… sembra proprio che l’esplosione sia partita dalla camera da letto, essendo la stanza più danneggiata.”
Annuii e calò di nuovo silenzio.
C’era una parte di me che avrebbe iniziato a fare domande a raffica su quello che era successo già dalla notte precedente. L’altra invece era così tremendamente scossa e confusa da vivere in uno spazio surreale tutto suo e mi rendeva fastidiosamente apatico. No, dovevo assolutamente sapere la verità. Mi avrebbe fatto sentire meglio. O almeno, ci speravo.
“John.” riprese Lestrade “So che potrebbe essere il momento meno adatto, quindi… quando avrai bisogno di sapere, io sono a tua dis…”
Lo interruppi senza neanche accorgermene.
“Voglio saperlo. ”
Ecco. Mi ero fatto finalmente coraggio.
“D’accordo.” prese un bel respiro, guardandosi intorno prima di iniziare. “Innanzitutto, Sebastian Moran è stato portato qui per la ferita alla gamba, poi è stato trasferito a Pentonville, giusto tre ore fa. Naturalmente ci sarà un processo. Le accuse contro di lui sono pesanti: svariati crimini di guerra e omicidi…”
“Diserzione” intervenni. Lui si interruppe, ma poi annuì e continuò.
“Sì, anche quello e il tentato omicidio contro tua sorella…”
Guardai Harry di sfuggita, poi riportai la mia attenzione su Greg.
“So che probabilmente preferiresti che fosse lei a raccontarlo, ma potrebbe essere troppo scossa e confusa, una volta sveglia.”
Scossi la testa.
“Voglio solo saperlo.” ripetei semplicemente.
Basta. Volevo solo la verità!
Lestrade annuì di nuovo e riprese il suo discorso.
“Durante gli anni di latitanza, il colonnello Moran è entrato in contatto con molti membri della criminalità organizzata, tra cui Jim Moriarty.”
Chiusi gli occhi per un attimo e subito pensai al Jim’s.
“Così, tornato a Londra dopo un altro periodo di latitanza, ha trasferito il suo quartier generale al numero 5 di Dereham Place, dove c’è…”
“Il Jim’s. Sì, lo so.” lo anticipai, interrompendolo nuovamente “E so che mia sorella lo frequentava.” feci una pausa. “Mycroft Holmes mi ha detto che Harry spiava il locale per lui, anche se inconsapevolmente.”
Iniziò di nuovo a salirmi della rabbia a causa di quella conversazione avvenuta due notti prima.
Lestrade sembrò confuso.
“Mycroft Holmes ti ha detto cosa?” si passò le mani tra i capelli “Farò una chiacchierata anche con lui… ma posso assicurarti che, per quel che sappiamo, Harry frequentava quel locale perché era minacciata da Moran.”
“Minacciata?”
Greg si sistemò la giacca e accompagnò la spiegazione con diversi movimenti delle braccia.
“Quando Moran è tornato a Londra, è tornato per un motivo preciso. Tua sorella è stata una testimone involontaria di un suo omicidio, avvenuto all’interno del Jim’s.”
Sgranai gli occhi.
“Così come anche Roger Hughes, il clochard trovato morto settimane fa.”
Improvvisamente iniziai a ricordare qualcosa su quell’uomo. Quasi mi venne un colpo, e maledii la mia mente per averlo rimosso.
Io e Sherlock, nei pressi di Dereham Place. Un barbone ci aveva chiesto se potevamo dargli qualche spicciolo e aveva allungato una mano, su cui avevo notato un’evidentissima cicatrice.
Sherlock gli aveva lasciato diverse banconote e aveva detto:
“Solo se vai a bere qualcosa al Jim’s. Servono una birra artigianale squisita.”
Gli aveva chiesto di controllare quel locale per lui. Aveva chiesto per l’ennesima volta a uno dei senzatetto di aiutarlo…
Se solo ci fossi arrivato prima! Se solo mi fossi ricordato e avessi ricollegato prima quell’uomo al Jim’s, forse avrei spronato ancora di più mia sorella a dire la verità e non saremmo mai arrivati a quel punto.
“E voi sapevate tutto. Tu e Mycroft Holmes…”
Lestrade mi interruppe.
“Sappi che non ho mai odiato tanto la famiglia Holmes come nelle ultime settimane, John.” esclamò. “Posso assicurarti che sono venuto a sapere tutto solo questa notte. Credimi.”
Ci guardammo attentamente.
Sì, gli credevo. Conoscendo la famiglia Holmes, gli credevo eccome!
Qualcosa di doloroso si fece spazio nel mio stomaco.
Holmes.
“Non è tutto, naturalmente…”
“Naturalmente.” gli feci eco, ironicamente.
I primi segni di nervosismo.
“L’omicidio di Sebastian Moran è stato compiuto ai danni del signor Morstan, il padre di Mary.”
Per un attimo quasi mi sentii male per le troppe scoperte e informazioni, arrivate tutte insieme.
“Era un ricercatore e un collezionista.” continuò Greg “Soprattutto di oggetti antichi o rari. Durante il suo ultimo viaggio si è fidato della persona sbagliata.”
Abbassai lo sguardo. Mary mi aveva confidato di sperare che suo padre fosse ancora vivo, e che una volta trovata l’eredità, nascosta chissà dove, avrebbero trovato anche lui.
“Notizie della famosa eredità? Mary deve essere distrutta.” dissi.
Greg scosse la testa.
“Non sappiamo da dove cominciare. È come una caccia al tesoro e non riusciamo a decifrare i messaggi lasciati nel testamento.” fece una brevissima pausa “Ma per quanto riguarda Mary, posso assicurarti che sembra essere molto più forte di quanto tu creda.”
Probabilmente feci una smorfia.
“A dire il vero, ci credo.” feci una breve pausa “Ma ho paura di non potermi più prendere cura di lei… non in questo momento.”
Guardai di nuovo Harry.
“Perché non lasci che sia lei a deciderlo?” esclamò Lestrade, di tutta risposta.
Quando mi girai di nuovo verso di lui, stava indicando la porta. Guardai verso quella direzione e inizialmente non capii, poi il mio sguardo andò oltre le vetrate trasparenti e intravidi il viso di Mary, che sembrava impegnata in una conversazione telefonica.
“Cosa ci fa qui?” domandai, sorpreso.
“Ha più di un motivo per essere qui: prima di tutto, è stato trovato l’assassino di suo padre che guarda caso ha anche tentato di uccidere la sorella del suo fidanzato!”
Una strana sensazione mi colpì, e sentii il viso in fiamme. Stavo per chiedere a Lestrade come avessero fatto a scoprire che era stato proprio Moran ad uccidere il signor Morstan, se era stato trovato il corpo, quale era stata la precisa reazione di Mary, quando qualcosa si mosse proprio accanto a noi e, girandomi, mi accorsi che Harry si stava svegliando.
Tossì più volte prima di aprire gli occhi, così Greg si alzò e mi disse che avrebbe chiamato i medici.
Io annuì di sfuggita e poi accarezzai mia sorella sul capo. Il risveglio non sembrava essere stato molto traumatico e questo mi fece tranquillizzare.
“John.” disse flebilmente.
Sorrisi e continuai ad accarezzarla.
“John.”
Aprì gli occhi definitivamente e cominciò a guardarsi intorno.
Le spiegai velocemente cosa fosse accaduto e l’aggiornai riguardo le sue condizioni mediche. Poi, cominciò a piangere, scusandosi con me.
Cercai di tranquillizzarla il più possibile, ma pronunciò il nome di Clara e allora mi fermai ad ascoltare.
“Sapevo che non sarei più riuscita a fermarmi, che avrei continuato a bere. E lei… lei non lo meritava. Non meritava di stare con me, perché avevo deciso di non volermi più occupare di quella vita. Ma ti giuro…” singhiozzò più forte “Prima del nostro divorzio non avrei voluto spingerla giù da quella scala.”
Davvero non avevo idea di ciò di cui stesse parlando, così assimilai semplicemente quell’informazione dentro di me – così come avevo fatto con tante altre cose nell’ultima giornata – e non commentai, lasciandola alle cure dei medici e degli infermieri appena arrivati.
Uscii dalla stanza demoralizzato e iniziai a guardarmi intorno, in cerca di Mary, ma vidi qualche metro più in là Lestrade che stava parlando con Molly Hooper senza toglierle gli occhi di dosso neanche per un secondo stringendole una spalla.
“Se sta cercando la signorina Morstan” disse qualcuno e sobbalzai leggermente al suono di quella voce “Temo che sia andata a casa.”
Mi girai immediatamente, pronto ad affrontare Mycroft Holmes.
“Possibile che tu sia sempre ovunque?” chiesi, ma in tono non era aggressivo. Inizialmente ne avevo avuto intenzione, ma non ce la facevo proprio, ero stanco.
“Non hai un incarico importante nel governo inglese? Eppure sei sempre ovunque e sai tutto in anticipo…”
Non mi fece terminare.
“Sai, è una qualità di noi Holmes, quella di capire le cose prima di chiunque altro.”
Risi nervosamente.
“Non vi sopporto.”
“Non è vero.” ribatté prontamente sorridendo. “E comunque, ho accidentalmente ascoltato ciò che la tua fidanzata stava dicendo al cellulare.”
“Certo, come no! E ora mi dirai che eri in ospedale per una visita medica o magari per delle analisi del sangue.”
Fece un’espressione compiaciuta.
“Analisi del sangue, in effetti. Una volta al mese, ahimé. Brillante deduzione, John, sono davvero sorpreso. ”
Non seppi come reagire.
“Ho incontrato l’ispettore Lestrade nell’atrio e lui mi ha aggiornato circa le condizioni di salute di Harry. Spero che si riprenda presto.”
Fece per allontanarsi.
“Fai sul serio?” mi uscì spontaneamente.
“Certo.” Rispose lui tranquillo, salutandomi con un cenno.
La porta della stanza di Harry si aprì e medico e infermieri uscirono. Il dottor Hollow si avvicinò subito a me.
“Le condizioni di sua sorella sono stabili, ma è necessario che non si muova per nessun motivo e per almeno due o tre settimane. Siamo costretti a tenerla sotto sedativo per dodici ore al giorno, temo.”
Annuii.
“Sì, credo sia necessario.” concordai con lui e rientrai nella stanza.
Harry aveva gli occhi aperti, quindi era ancora sveglia, ma il sedativo avrebbe fatto effetto da un minuto all’altro. Questa volta, pensai, sarebbe finalmente riuscita a dormire, non si trattava di sonniferi e non si trattava di farle passare una sbornia.
Mi osservò mentre la raggiungevo, senza staccare lo sguardo.
Le feci un mezzo sorriso.
“Riuscirai a perdonarmi, John? Per tutte le bugie che ti ho detto?” disse subito, sussurrando.
Io mi inumidii le labbra.
“Sì.” risposi senza esitazione e ripensando al racconto di Lestrade.
Lei mi guardò alzando gli occhi al cielo.
“Se fossi in te, non mi perdonerei.”
Sbuffò.
“Per quanto tempo dovrò stare qui? Già mi annoio.”
Non riuscii a trattenermi e risi, perché se Harry era capace di fare quel tipo di battute, allora voleva dire che stava bene.
Le accarezzai la testa.
“Un mese come minimo, ma non preoccuparti, troveremo qualcosa da fare.”
“Non sei bravo a mentire. Cosa diavolo vuoi che faccia senza potermi muovere?”
“Ti porterò dei libri e il computer.”
Cacciò la lingua e poi tossì leggermente.
Rimanemmo in silenzio per parecchi minuti e sperando che non stesse già dormendo parlai di nuovo.
“Ti perdono perché non mi hai mentito del tutto.”
Notai il suo sguardo confuso.
“Io credo che lui sia vivo.”
“Lui?”
Lo dissi con la voce spezzata, ma lo dissi.
“Sherlock. Sherlock è vivo.”
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Con enorme, ma davvero ENORME ritardo (di quasi sei mesi), ecco l'ultimo capitolo. Inutile dire che non ci sono scuse. Sono stata ferma nonostante avessi scritto praticamente quasi tutto quest'ultimo capitolo e solo dopo aver visto la 3x01 uscita pochi giorni fa, mi sono decisa a scrivere, a terminare ciò che avevo iniziato, perché mi sembra giusto. Domani pubblicherò anche l'epilogo (che ho scritto mentre terminavo questo). Spero che la storia vi sia piaciuta e che il finale vi abbia soddisfatto, che abbia risposto alle domande che vi eravate posti.
Per gli ultimi ringraziamenti, vi rimando all'epilogo.
P.s. ancora non ho visto la 3x02, quindi, evitate spoiler nei commenti, nel caso :D grazie!!!
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Capitolo 12 *** Epilogo. ***
Chiusi la porta del 221 B. La signora Hudson venne immediatamente verso di noi. Sherlock le disse subito che una tazza di the sarebbe stata l’ideale in quel momento e io gli feci eco.
Lei sbuffò, ma poi disse che sarebbe stata pronta in circa cinque minuti. Noi ridacchiammo e salimmo al primo piano.
“Incredibile” commentai.
“Cosa?” chiese lui, accigliandosi.
“Anderson che ti chiede scusa e tu che eviti di fare battute, o magari di offenderlo.”
Sherlock si tolse il cappotto e lo buttò sul divano.
“Com’è che si chiama? Senso di colpa?” rispose.
“Da parte sua o da parte tua?”
Fece un sorrisetto strano e prese il violino dalla custodia poggiata sul tavolo.
Io mi andai a sedere sulla mia solita poltrona, senza neanche togliermi la giacca. Lo sguardo mi cadde subito su una copia del The Sun che era poggiata sul bracciolo e sull’articolo in prima pagina. Non lessi neanche il titolo perché notai immediatamente chi l’aveva scritto.
“Beh” dissi “Almeno le scuse di Anderson mi sembravano sincere. Non come quelle di un voltagabbana come Simon Coleman…”
Sherlock si girò verso di me.
“Simon Coleman?”
Feci segno con la mano di lasciar perdere e scossi anche la testa.
“Non è mai stato un grande giornalista.” concluse, per poi accennare qualche nota.
Sorrisi leggermente e mi guardai intorno, ancora incredulo di essere lì. C’erano momenti in cui pensavo fosse solo la mia immaginazione.
“Ho letto l’ultimo articolo del tuo blog.” riprese subito dopo.
“Ti è piaciuto?” gli chiesi, gettando la copia del The Sun sul tavolo e poggiando lì anche il cellulare.
“Sì” e suonò una scala, poi una seconda e poi una terza, aumentando la velocità.
“Cosa?”
“Hai sentito, John. Mi è piaciuto.”
Non so se fossi rimasto più incredulo quando, appena conosciuti, aveva ammesso di non aver apprezzato il mio articolo sulla donna in rosa, o se in quel momento in cui, invece, era rimasto soddisfatto.
“Anche se avresti potuto fare meglio con il titolo.”
C’era sempre qualcosa. Lo avrei dovuto sapere.
“E c'era proprio bisogno di scrivere nel minimo dettaglio di quel pugno sul naso?”
“Sì!” risposi categoricamente e con orgoglio. Quella era stata la parte migliore del post. Quella che aveva riscosso più successo tra i lettori, visti i commenti. Persino mia sorella, dal letto di ospedale, non aveva evitato di commentare. E avevo anche ricevuto alcune impressioni da parte di Mycroft Holmes.
Non ce l'avevo più con lui. Non dopo le sue scuse, e dopo aver saputo che dopotutto, il suo piano di 'sorveglianza' aveva funzionato e che più di una volta la mia vita e quella di Mary erano state salvate. Il caso di Harry era stata solo una terribile fatalità. Forze maggiori erano intervenute e nessuno era riuscito a capire che all'interno della giacca di mia sorella, qualcuno del Jim's, a quanto pare, aveva inserito degli esplosivi.
“Sono sorpreso, però.” disse sempre Sherlock “Pensavo avresti rivelato a tutti come fossi riuscito a sopravvivere dopo il mio salto dal tetto del Barts.”
Non risposi e mi limitai a sorridere.
“Ti vedrai con Mary tra mezz’ora, vero?” mi chiese improvvisamente.
“Sì, perc... no! No, Sherlock, non verrai con noi. Andiamo a cena fuori.” mi resi conto subito dello scopo di quella domanda.
Si avvicinò repentinamente a me con sguardo falsamente supplichevole.
“Mary stessa ha accettato che mi occupassi del caso dell’eredità di suo padre, l’hai sentita! Quindi non capisco perché non vuoi farmi parlare con lei.”
“Perché da quando sei tornato posso contare sulle dita le volte che ho potuto passare del tempo con lei… da solo. Capisci?”
Sembrò pensarci su.
“No.”
Sbuffai.
“Non possiamo aspettare l’inefficienza di Scotland Yard, sai che posso farcela!”
Lo guardai alzando un sopracciglio.
Sbuffai di nuovo e mi arresi.
“Va bene. Ma Greg dovrà saperlo.”
“Cosa? Dell’inefficienza dei suoi colleghi?”
“Sherlock!”
Si zittì subito e mi voltò le spalle e continuò a suonare.
“Ma questa sarà l'ultima volta che ti imbuchi ad un mio appuntamento.” continuai.
“Suvvia, John. Le hai chiesto di sposarla, lei ha accettato, credi ancora si tratti di appuntamento?”
Non risposi. E comunque, fu sempre lui a parlare.
“Ci vediamo tra un’ora e mezza da Angelo, a lei andrà bene.”
“Ho prenotato in un ristorante, e le ho detto di raggiungermi qui tra circa venti minuti.”
“Non arriverete in tempo. La sua macchina è in panne, in Maddox Street, quindi dovrete prima portarla dal meccanico più vicino, poi ritornare a casa e cambiarvi e poi prendere la metro o un taxi. Non mi pare che il ristorante in cui hai prenotato accetti volentieri i ritardatari, o una persona in più ad un tavolo di ritardatari. Quindi molto meglio andare da Angelo.”
Aprii la bocca per chiedergli come avesse fatto ma poi mi interruppi, incrociando le braccia al petto.
“Ti sono arrivati un paio di sms e ho dato un’occhiata al display del tuo cellulare.” disse innocentemente.
In effetti, non mi ero accorto che il cellulare aveva squillato e mi ero anche dimenticato di attivare la suoneria. Scossi la testa, sorridendo perché dentro di me sentivo che tutto quello mi era mancato e non potevo negarlo. Non era stato facile. Certo che no. Ma dopo la sorpresa e l’incazzatura iniziale mi ero stranamente calmato. Tutto era tornato alla normalità? Non proprio. Sentivo che Sherlock era cambiato, e probabilmente lo ero anche io. Mary mi aveva reso la vita migliore e adesso riuscivo a vedere il ritorno di Sherlock come un elemento aggiuntivo alla mia felicità. Ma soprattutto, anche se forse sarebbe potuto sembrare strano, ero contento che il 221 B non fosse più una casa vuota.
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Questo è il vero finale della storia. Forse non ve lo aspettavate. Probabilmente vi sarebbe piaciuto leggere dell'incontro tra John e Sherlock. Ebbene, non ho mai avuto veramente intenzione di scriverlo. Non perché non volessi esprimere la mia, ma semplicemente perché le dinamiche sarebbero state le stesse, comuni ad altre storie, l'incontro, l'incredulità di John, il pugno in faccia. No, così come per il modo in cui Sherlock è sopravvisuto, voglio che voi lettori abbiate la vostra visione delle cose. Lo so, è un ragionamento un po' strano, ma è così, quindi spero accettiate la mia sincerità.
Avrete notato in questo epilogo qualche riferimento alla 3x01. Sì, mi sono permessa di prendere qualche elemento dalla nuova stagione, ma sappiate che i dialoghi non sono cambiati del tutto (compreso il fidanzamento di John e il matrimonio con Mary che erano già nella mia testa e naturalmente nel canone).
Insomma, io qui vi saluto e vi ringrazio. Vi ringrazio per le letture e per i commenti, insomma, per esserci stati e per avermi accompagnata in questo percorso. Davvero ringrazio singolarmente ognuno di voi.
Poi, ringrazio la mia beta 'Charme', che mi ha aiutata a migliorare, capitolo dopo capitolo e che mi ha saputo sempre consigliare.
E' possibile che possiate ritrovarmi in futuro (a proposito, sto per cambiare nickname in "shmaug").
Intanto, buona settimana.
Un saluto affettuoso.
Carol.
p.s. se avete domande, o se dovete fare chiarimenti, sono a disposizione :)
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