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di Sueisfine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Boys don't Cry ***
Capitolo 2: *** World War ***
Capitolo 3: *** Sorry, Wrong Number ***
Capitolo 4: *** Other Voices ***
Capitolo 5: *** In Your House ***
Capitolo 6: *** Icing Sugar ***
Capitolo 7: *** One Hundred Years ***
Capitolo 8: *** Wailing Wall ***
Capitolo 9: *** Last Dance ***
Capitolo 10: *** It's Not You ***
Capitolo 11: *** I'm Cold ***
Capitolo 12: *** If Only Tonight We Could Sleep ***
Capitolo 13: *** A Short Term Effect ***
Capitolo 14: *** Siamese Twins ***
Capitolo 15: *** Going Home Time ***
Capitolo 16: *** Closedown ***
Capitolo 17: *** Sinking ***
Capitolo 18: *** The Holy Hour ***
Capitolo 19: *** Torture ***
Capitolo 20: *** The Snakepit ***
Capitolo 21: *** This Twilight Garden ***



Capitolo 1
*** Boys don't Cry ***


Chapter One

~ Boys don’t Cry

Pensavo che vederlo di nuovo, in questo contesto, lo stesso dell’ultima volta, non mi avrebbe causato una qualche reazione particolare. Confidavo nel mio autocontrollo, nella mia occasionale freddezza, quella che ogni tanto lasciava intravedere un temperamento dalle venature colleriche.
E, beh, su quel punto mi sbagliavo alquanto. Decisamente. La sua voce quest’oggi aveva un tono diverso, timida usciva dalle sue labbra.
A quel ‘Ciao’ sussurrato non potei che rispondere con un sorriso.
La sua voce. Me la ricordavo diversa. Melliflua. Una di quelle persone da cui potevi tranquillamente pendere dalle labbra. Potevi navigarci nei suoi discorsi, come un piccolo marinaio. In balia delle onde senza temere nulla al mondo.
Era sempre stato così. La mia insicurezza lui la faceva semplicemente svanire.
E adesso se ne stava in piedi lì, e mi guardava, senza dare l’impressione di essersi accorto di me. Sperduto in chissà quale dei suoi pensieri.
Chissà se mi aveva visto. Magari si accorse di me istanti dopo.
Oggi non sembrava affatto il tipo di persona adatta a proteggere e confortare qualcuno. Anzi, in quel momento la sua fragilità trapelava in modo talmente chiaro che chiunque, in qualsiasi condizione, se ne sarebbe accorto. La sua carnagione pallida si mescolava al colore delle sue ossa. Dio, era più pallido del solito.
Oh, se lo era.
Così pallido da far male agli occhi. Il contrasto tra il colore dei suoi capelli e il resto era insopportabile. Mi venne voglia di distogliere lo sguardo, ma non potevo.
Catturato in quella rete. Nella sua rete.
Come sempre.
Avrei voluto scuoterlo, dargli un po’ di calore, ed anche un po’ di colore.
Da quel che avevo capito, sono praticamente giorni che non lascia gli studi di registrazione. Lo vedono completamente assorto, catturato da penne, matite e fogli di carta, tutto intento a buttar giù qualcosa che poi cestinava inesorabilmente. Un fantasma.
E beveva, beveva molto.
Sì, è vero, beveva anche quando c’ero io, però così è diverso, non so. Quando si è da soli è tutto diverso. Tutto più… Desolante.
Le occhiaie erano l’unica nota di colore su quel volto ancora tremendamente fanciullesco. Sembrerà azzardato, ma posso assicurare che aveva la pelle così perlacea e traslucida che sembrava uno di quei fogli sui quali amava tanto scrivere.
E mi faceva rabbia, una rabbia tremenda. Perché si doveva comportare così ? Perché di fronte a me, che, ora, avevo finalmente deciso di mettere da parte le mie ragioni e tornare da lui.
Forse, comportandosi così, rimproverava neanche tanto implicitamente il mio egoismo.
E questo non faceva altro che aumentare la mia rabbia. «Ma hai dormito stanotte ?»
L’avevo quasi abbaiata questa domanda.
E l’esordire così, dopo mesi di pesanti, massacranti silenzi, non era proprio il massimo.
Un applauso al re della diplomazia e del tatto. Bravo Simon, complimentoni.
«Che problemi avresti nel caso io non avessi dormito ?» Ecco, tipica risposta. Un classico. Se c’era una persona che riusciva a farmi irritare sopra ogni limite, quello era Robert. Mi portava continuamente all’estremo. Dopo queste reazioni, il vuoto, solo il vuoto poteva seguire.
Non so quale antico dio greco mi trattenne dal girare i tacchi ed andarmene, perché se ero lì in quel posto, in quel momento, un motivo c’era. Un dannatissimo motivo c’era.
E lui lo sapeva. Cosa diamine gli passava in testa ?
Rispondendomi così pensava di concludere cosa esattamente ?
In questo modo dimostrava di non conoscermi affatto come credevo.
«Sai perché te lo chiedo. Sai perfettamente che se sono qui è perché sono preoccupato. Mi è stato detto che, beh…».
Perché mi ero fermato, adesso ? Dio mio, proprio ora. Non doveva succedere.
«Sì, già. Immagino quello che ti è stato riferito. Ti avranno detto qualcosa del tipo ‘Da quando te ne sei andato dal gruppo è caduto nel vortice !’, oppure, ‘Torna in tempo per riprenderlo, metti da parte l’orgoglio !’» Mentre parlava si torturava la manica destra del cappotto grigio, gli occhi incollati a terra.
«Che teatrino melodrammatico. Siete patetici. Tutti quanti.» Alzò gli occhi sui miei.
Avrei giurato di vederli lucidi di lacrime.
Mi spaventai, non volevo ferirlo così. Stavo per rantolare un ‘Mi dispiace, Rob, ti prego, lo sai che non volevo, perdona tutte le sciocchezze e tutto quello che ti ho ingiustamente vomitato addosso in questo periodo’, ma improvvisamente mi ricordai che erano giorni che non chiudeva decentemente occhio, quindi mi limitai ad osservare in silenzio.
Ero così atterrito, e lui mi leggeva dentro, lo percepivo. Mi sentivo violato.
Non riuscivo a sostenere il suo sguardo.
Sentivo che mi stava lentamente versando addosso un bollente miscuglio di disprezzo e sensi di colpa.
Non riuscivo a fare niente, ora. Immobile, nella speranza che lui facesse qualcosa.
E lui agì.
Troncò tutto, voltandosi.
Stava per tornarsene dentro l’edificio dal quale l’avevo visto uscire appena dieci minuti fa.
Avrei voluto fermarlo, ‘D’altronde sei venuto fin qui per chiarire, no ?’, mi ripetevo.
Beh, sì, ero venuto fin lì per chiarire. Ma non potevo forzare qualcosa che non voleva accadere. Non potevo forzare qualcuno che di me non ne voleva, attualmente, sapere.
Mi passò, fulmineo, il pensiero che lui si comportasse così proprio perché ferito, abbandonato.
Ma lo scacciai prontamente.
Lui non era solo, c’erano gli altri, e c’era Mary. Avrebbe condiviso con loro altri momenti.
Attraversai la strada.
La tensione mi stava divorando, è per questo che me ne sono andato. E, no, non mi stavo giustificando. Però era accaduto così.
Come sempre. Quando le cose si mettono male, Simon scappa. Pensandoci bene, è triste.
Ed oggi fa così freddo. Fuori e, soprattutto, dentro. E questa stupida situazione non ha migliorato l’insieme delle cose, tutt’altro.
Che stupida idea quella di uscire di questi tempi con addosso il mio giubbino di pelle.
So perfettamente che non tiene affatto caldo.

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Capitolo 2
*** World War ***


Chapter Two

~ World War

In fretta salii le scale dell’edificio in cui era situato lo studio di registrazione. Anche se lo studio si trovava al terzo piano, optai per le scale anziché usare l’ascensore. Pensavo che un po’ di moto mi avrebbe svegliato. Invece mi stancò oltremodo.
Mezzo sfiancato, mi diressi verso quella che per le ultime session avevo ribattezzato stanza delle buone idee. Era lì che scrivevo i miei pezzi. Sì, insomma, una specie di luogo di raccoglimento delle energie positive.
Aprii di scatto la porta e mi ritrovai di fronte all’unica cosa che non mi avrebbe mai ispirato.
Lol, come un cencio appena usato, era abbandonato sul divanetto, che aveva ormai assunto una squallida tonalità di verde bottiglia chiazzato qua e là da bruciature di sigarette.
Se la dormiva della grossa. La bocca semichiusa, il braccio destro penzolante. Reggeva in mano una lattina di Heineken quasi vuota, a giudicare dalla pozza sottostante che segnava la moquette.
Indossava gli stessi vestiti con cui l’avevo lasciato ieri sera. Una maglia bianca profilata di rosso, a maniche corte, giacché all’interno delle stanze faceva veramente molto caldo, jeans neri e scarpe da ginnastica.
Per poco non inciampai sul posacenere, che rigettava cicche di sigarette. Ma da quanto tempo Lol era lì ?
Sì, è vero, fuma così tanto che di sicuro era lì lì per poter far concorrenza ad un inceneritore, però mi sembrava di essere stato via solo una mezzora.
Sarà.
Mi chinai e cercai di svegliarlo.
«Ehi, cazzone. Dai, svegliati, abbiamo da fare.»
Niente. La mia flebile voce si perdeva nel suo russare. Ero talmente scocciato quella mattina, causa il recente incontro, che non esitai ad afferrare dalle mani di Lol la lattina ed a versargli il contenuto restante in testa.
«Ma che cazz… !», sussultò.
Beh, almeno l’avevo svegliato.
E poi tanto avrebbe dovuto cambiarsi d’abito. Prima o poi.
«Ma uffa, Rob. Potevi svegliarmi in maniera più consona alle mie abitudini, almeno».
«Ho provato. E con insistenza, credimi» mentii spudoratamente.
«Mmh, ok. Dov’è che sei stato finora ?».
«Non ho voglia di parlarne, ora» risposi seccato. «Vorrei rimanere da solo, se non ti dispiace».
«Uff. Va bene. Ma ricordati che abbiamo da fare».
Ora sembrava seccato anche Lol. Difatti se ne andò trattenendosi dallo sbattere la porta.

*

Mi tolsi il cappotto, iniziavo a sentire davvero caldo dentro quella sottospecie di forno rivestito di moquette beige. Lo buttai sul divanetto, raccolsi il posacenere e lo posai sul tavolino al centro della stanza.
Aprii la finestrella.
Un improvviso quanto piacevole venticello mi carezzò il viso.
E mi tornò in mente Simon.
Simon e quella mattina. Simon e quel maledetto giorno in cui lui decise di lasciare tutto. La band, i progetti, le speranze, me, Lol. Me.
Aveva per caso dimenticato quanto fossimo legati ? Le parole di quel giorno non facevano di certo presumere il contrario. “Non ce la faccio più, Robert, veramente. Sono stanco, mi sento prosciugato. Mi prosciughi. Non ce la faccio davvero più. Un egoista. Ecco quello che sei. Non puoi avere tutto e tutti, lo sai questo ? Lo sai ? E smettila di giocare all’alienato. Tu sei qui, sei qui con noi, Robert.
Non mi chiamava mai col mio nome per intero, se non quando stava cercando di prendere le distanze.
Mi fai schifo, mi fa schifo tutto questo !”.
E allora cos’aspetti ad andartene ? Nessuno ha bisogno di te, come puoi ben vedere”.
Inutile dire che non se lo fece ripetere due volte.
Mi ricordo la sua faccia, i muscoli tesi per lo sforzo.
Voleva gridare chissà quali parole, voleva inveire ancora contro di me. Ma si limitò ad aprire la bocca ed a lasciar uscire solo aria consumata. Avrei potuto fantasticare ore ed ore su quali appellativi avrebbe preferito appiccicarmi addosso in quegli interminabili istanti.
Se avessi appoggiato un orecchio sul suo collo, sono sicuro che avrei sentito il sangue ribollire dentro la sua giugulare.
È un tipo infiammabile, Simon. Prima ti scruta dentro, apprende le tue debolezze. Poi, alla prima occasione, te le sputa addosso, con veemenza terribile. Tu non puoi far altro che tentare di proteggerti con qualsiasi cosa a portata di mano. Fossero anche le sue, di debolezze, l’unica cosa disponibile per evitare il crollo.
Io sono bravo in questo. Dolente, lo ammetto.
Le nostre erano litigate epocali ! E sembra quasi che ricordare certe cose mi metta di buonumore, ma non è così.
L’ultima volta non è stata piacevole. Una rotta di collisione da cui non potevamo uscire illesi.
E lui, al solito, scappò. Serrò la mascella e se ne andò. Non tentai neanche di fermarlo. ‘Pazienza’, mi dissi, ‘Se è questo che vuole, ben venga’.
Lo conosco abbastanza bene, ha bisogno di un po’ tempo per mettere da parte l’orgoglio, quasi centellinandolo.
Metabolizzare.
Pensavo, speravo che ci riuscisse anche stavolta.
Ma, a dispetto delle mie chissà perché scontate previsioni, non accadde.
Non si fece sentire per giorni. Ad un certo punto mi ritrovai a fare i conti con colpa, delusione e solitudine, alcuni dei miei peggiori nemici.
Finché non sopraggiunse anche la disillusione.
No, non poteva continuare ancora così.
Scostai la sedia, su cui ero seduto, dal tavolo. Cercavo inutilmente di buttar giù qualcosa, ma la mia testa sembrava piena d’acqua. Mi alzai, ed accartocciai con violenza il foglio.
Avevo deciso, gli avrei telefonato. Una cosa da fare assolutamente, non potevo trascinarmi in questo modo. Era come se avessi un cappio al collo legato con poca forza. Il mio capo pendeva in maniera indecente, a metà strada tra la vita e la morte.
Prima della telefonata, però, dovevo recuperare del sonno. La stanchezza si ricordò solo in quel momento di esistere, e mi invase senza preavviso.
Fatto sta che mi ributtai sulla sedia e mi risvegliai chissà quante ore dopo, con un lancinante dolore lombare e il rivoltante primo piano della faccia di Lol, che mi scrutava, interrogativo.

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Capitolo 3
*** Sorry, Wrong Number ***


Chapter Three

~ Sorry, Wrong Number

Una tazza di caffè non sarebbe senz’altro bastata a farmi riprendere dall’alzataccia della mattina appena sfumata nel sole di mezzogiorno. Ma di mangiare non se ne parlava, anche perché il frigo si trovava ad essere vuoto quasi quanto me, in questo frangente.
Sul borbottio della caffettiera, sentii il telefono squillare.
‘Avrei dovuto staccarlo, dannazione’, pensai.
Quel trillo mi rimbombava infido in testa. Me la stava letteralmente spaccando in due.
Al quinto squillo, mi decisi a rispondere.
‘Se è così insistente, magari è qualcosa di importante, urgente. O, quantomeno, spero che lo sia’.
Alzai la cornetta e la avvicinai piano all’orecchio.
«Sì ?».
«Erm, ciao Simon, sono Mary».
«Oh, ciao» risposi, con una nota che poteva suonare come delusione. Ma deluso da cosa, poi ? Non che mi aspettassi chissà chi, al telefono.
O forse sì.
Mary, la compagna di avventure “storica” di Robert. Si conoscono fin da giovanissimi. Lei è amabile e graziosa. Riservata, ma molto autoironica. Solare.
E anche molto, molto fragile. Solo lei riesce a calmare Rob quando dà in escandescenze.
Sì, insomma, completamente l’opposto del sottoscritto.
«Scusami tanto se ti disturbo a quest’ora, magari stavi anche pranzando…», si scusò prontamente. Che cara, Mary.
«No, tranquilla. Oggi niente pranzo, sono a dieta !».
Sì, certo. La mia voce funerea stonava un po’ troppo con la battuta. Speravo non se la fosse presa a male se riuscivo a scherzare anche in certe situazioni.
«Sai, volevo… parlarti», esordì timidamente.
«Immagino vagamente di cosa». Ma togliamo anche il “vagamente”.
Silenzio. Stava accumulando coraggio per la frase successiva.
«E’ che non sopporto di vederlo così, spero tu mi capisca. Si sente solo da morire, Sim, e se solo tu potessi aiutarlo… Lui sa benissimo di aver sbagliato, ma aspetta che sia tu a fare la prima mossa… Credo sia molto dispiaciuto per tutta questa storia».
«No Mary, non attaccare con le arringhe difensive, stavolta non funziona così. Io il primo passo l’ho anche fatto. Stamattina sono andato da lui. E non sembrava molto dispiaciuto, ti dirò». Mi fermai un attimo. Sentivo una specie di singulto ripetuto, dall’altro capo del telefono. Ripensai a ciò che mi aveva appena detto, parola per parola. Un sospetto mi rabbuiò. «E poi cosa intendi con “Credo” ? Tu sai senza ombra di dubbio più di me in merito. Vi parlate praticamente sempre. No… ?».
Di nuovo quel singhiozzo. Sembrava soffocarla.
«No, non è più così, Simon», ribatté laconica, quasi strascicando le parole, spingendole con la forza fuori dalle labbra «Non è più così da un po’…».
Mi sentivo intrappolato, avrei voluto mozzare il cavo telefonico per non dover ascoltare il resto della frase. «Da quando tu te ne sei andato».
Allora è così. Il detonatore era stato piazzato anche vicino al piccolo, fragile cuore di quella Mary tanto innamorata. Non ero stato l’unico ad essere stato spiazzato dall’onda d’urto.
Così forte, assordante. Era un dolore atroce, quello di Mary, e me lo sentivo addosso. Mi stavo sporcando del suo dolore.
Non avrebbe dovuto farle questo, no. Non può mettere da parte lei. Vada per me, ma lei no, lei no.
I singhiozzi aumentavano, e il mio silenzio sarebbe voluto esplodere in tanti piccoli ed inutili convenevoli pronti lì per l’occasione.
‘Mi dispiace’, ‘Cerca di essere forte’, ‘Tornerà presto da te’. No, mi risparmiai tutto questo. Glielo dovevo.
«Se può farti stare meglio,» ripresi, tentando di frappormi tra lei e i disperati spasmi del suo cuore, «proverò a parlare con lui, di nuovo». E stavolta mi ascolterà, gli imporrò di ascoltarmi.
«Io… Scusami, Simon, non era mia intenzione farti sentire in colpa… Non devi, se non te la senti, veramente».
«No, non devi scusarti, dannazione, ho detto che lo farò, e non ci sono problemi a riguardo». Ecco, al solito, delicato come un pezzo di carta vetrata che raspa sui polpastrelli.
«Sì… Perdonami».
No, scusa Mary, è colpa mia. Come sempre.
«Tranquilla, non è nulla. Me la caverò, puoi giurarci. E tutto tornerà a posto, ok ? Promettimi però di stare tranquilla nel frattempo. Ci puoi riuscire ?».
Sentivo allentarsi le corde attorno al mio ed al suo discorso. Forse sarei riuscito a far terminare questa chiacchierata, che aveva tanto l’aria di assomigliare ad una folle e silenziosa corsa in autostrada, senza ferite particolarmente brucianti.
Dopo averla rincuorata e salutata speranzosamente, riposi la cornetta con estrema delicatezza, come se fossi stato colto dall’improvvisa paura di romperla.
Bel rompicapo, adesso. Dovevo affrontare Robert, di nuovo.
Stamattina mi aveva preso contropiede, e c’ero rimasto un po’ male, a dirla tutta.
E poi Mary… Mioddio, da quant’è che la conosco, non l’avevo mai sentita così giù di corda.

*

Quando finalmente mi decisi a bere il caffè, era ormai gelido, e dava quella sensazione sgradevole in bocca che solo il caffè freddo sa dare. Aveva completamente perso la sua efficacia, e lo scopo per cui lo avevo messo sul fuoco non era stato affatto raggiunto.
Mi sedetti al tavolo, incerto sul da farsi.
Fissavo quel liquido scuro nella tazzina, che vibrava in cerchi concentrici ad ogni rumore, ad ogni macchina che passava di sotto, in strada.
Cosa avrei dovuto fare, ora ?
Mi tornò improvvisamente in mente una scena dal tepore familiare, sepolta chissà dove nella mia memoria.
Tornai indietro a quel Simon di sette anni, con la fissa del “Perché le cose accadono, papà ?”. Mio padre. Bob. Dolce Bobby, come lo chiamava mia madre.
Non è stato facile andare avanti, giorno dopo giorno. “Tante bocche da sfamare e pochi soldi”. Lo ripetevano in continuazione. Che significa ‘sfamare’, papà ? E amore, papà, amore, cosa significa ? Sai, papà, ancora oggi io non so cosa significhi.

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Capitolo 4
*** Other Voices ***


Chapter Four

~ Other Voices

Guardavo fuori dalla finestra. Il cielo si stava tristemente addensando di nubi grigiastre.
Avrebbe piovuto ? Chi lo sa, probabilmente sì.
Il mio sguardo andava altalenando dalla finestra al foglio, dal foglio alla finestra, come impazzito. Una giornataccia, si preannunciava proprio una giornataccia.
Non ero riuscito a chiudere occhio neanche quella notte. Ero rimasto in studio, e Mary aveva chiamato verso le sette di sera per sapere come stessi, e soprattutto il motivo per il quale durante la giornata non l’avessi contattata. Reagii un po’ freddamente, non ero dell’umore.
Al ricordo di quella nottata, in cui non avevo fatto altro che rimanere immobile a fissare il soffitto, come aspettando un segno divino da qualche parte in quel soffitto che di bianco ormai aveva ben poco, mi alzai ed andai a prendermi una bottiglia d’acqua nel frigobar. Avevo proprio bisogno di un analgesico.
Frugai ovunque, ma non ne trovai. Però di scendere a fare acquisti non mi andava affatto.
Finì che mi tenni il mal di testa.
Lol aveva lasciato sopra il tavolo una rivista.
‘Potenzialmente rilassante’, pensai.
La presi ed iniziai a sfogliarla. Pagine, pagine, pagine. Chi diavolo era questa gente ? Aveva un senso ciò che stavo facendo ?
Fui colto da un’improvvisa frenesia. Presi a sfogliare sempre più velocemente. Che ci faceva qui questa gente così insulsa e per me insignificante ? Perché stava invadendo il mio campo visivo con questa prorompenza ? Perché perdevo tempo con questi visi tirati e i loro ipocriti sorrisi al vetriolo ?
Provai un senso di straniamento. Assurdo. I miei pensieri evaporavano come acqua sul fuoco. Volti sconosciuti, non mi soffermavo a leggere né didascalie né articoli. Famiglie felici, bambini fittizi, foto di pompose cerimonie mascherate da eventi mondani, abiti bianchi, abiti sportivi, un ragazzo di colore che pubblicizzava una marca di calzini, modelle, modelle, modelle, modelli, ancora modelle, luci, case lussuose, discoteche.
Scagliai la rivista contro il muro, furioso. La rabbia ed il nervosismo avevano ormai preso il sopravvento. Inevitabile. E prevedibile.
Tutto questo non contava. Il vuoto che provavo dentro si era fatto più incolmabile che mai.
Ma cosa contava ? In quel momento, cosa veramente contava ? Perché tutto sembrava sfuggirmi, di continuo ? Sentivo la mia presa sulla vita allentarsi di giorno in giorno, ormai non avevo più la forza per aggrapparmi alle mani tese verso di me. Brava gente che faceva di tutto per non lasciarmi sprofondare.
Tutto ciò che toccavo, finiva per pungermi.
Perché ?
Mi venne voglia di piangere, e non so cosa fu a trattenermi. Sanguinava, tutto quanto sanguinava. Non riuscivo a farlo smettere, il mio cuore.
Questa ira nascosta lo stava consumando. Stavo ferendo me stesso. E le persone che con tanto affetto si prodigavano per me.
Dovevo fare qualcosa.
Mi guardai intorno. Decisi di uscire, avevo bisogno di scrollarmi di dosso questo pesante odore di chiuso che avevo acquisito nei giorni passati all’interno dell’edificio. Presi il cappotto dall’appendiabiti, lo infilai. Un dolce tepore mi riportò alla normalità.
Come rinvigorito, aprii la porta, scesi le scale ed uscii in strada.
La pelle irradiata da quel poco di sole che ancora riusciva a fare capolino dietro le nuvole mi permetteva di lasciarmi alle spalle, per un solo, bellissimo istante, un modo di essere che stavo disperatamente cercando di evitare.

*

In strada era bello passeggiare, mi piaceva. Si era anche attenuato il mal di testa, non lo sentivo quasi più. Non erano molte le persone in giro a quell’ora, anche perché, come mi accorsi dopo, erano da poco passate le otto. La mia cognizione del tempo scarseggiava al momento. E, a dirla tutta, non era neanche una delle mie priorità.
Vidi due bambini attraversare la strada, probabilmente in cammino verso la scuola, dato che si portavano appresso due cartelle così stracolme di libri da non riuscire neanche a star chiuse.
La bambina era deliziosa. Due lunghe trecce nere le rimbalzavano sulle spalle. Credo avesse le lentiggini.
Rideva e scherzava rivolta al suo amichetto, spensierata, la risata cristallina e a tratti contagiosa. Avrei voluto riempirla di baci.
Dal suo sorriso trapelava quella gioia tipicamente infantile. Una fiamma che non vorrebbe affievolirsi mai, ma che, con l’età, viene incontro a questo mondo grigio. Ed è costretta a tacere, a sottostare a queste irremovibili regole, per poi spegnersi lentamente.
Il ragazzino che accompagnava quella deliziosa creatura guardava quasi fisso a terra. Sembrava la controparte maschile dell’altra, in quanto ad aspetto. Capelli scuri e lentiggini.
Ma il suo volto lasciava intravedere solamente le ceneri di una fiamma assopita da tempo.
Ogni tanto si voltava verso la sua compagna, caracollante sotto il peso dei libri, e le rivolgeva un sorriso vuoto, amaro.
Provai improvvisamente una tristezza infinita ed indescrivibile. Mi fermai di scatto.
I due bambini, dopo aver attraversato, stavano venendomi incontro. Al loro passaggio, rimasi come impietrito, non potevo muovermi.
Il maschietto, passando, mi squadrò con gli occhi acquosi, laconico.
Mi sentii soffocare. Si era improvvisamente spento tutto. Iniziai a ricordare, ed era quello che temevo. Le mie tempie pulsavano, avevo un bombardamento in testa. Me la presi tra le mani, impossibile farli smettere.

Le uniche cose a tenermi in vita erano le voci.
Le voci, calde e familiari. A volte più distanti, tanto da sembrare solo soffici rumori, altre volte più vicine. Voci maschili, femminili, di persone che amavo, di persone che non conoscevo. Mi chiamavano, mi facevano tornare al mondo. Rinascevo ogni volta.
Mary, Lol, Steven, mia madre, mio padre, Simon, e chissà quanti altri. Un vortice di suoni delicati che mi vibrava in testa ogniqualvolta sfioravo il crollo.
Non ora. Ora stavano urlando. Urlavano tutti insieme, all’unisono.
Mi appoggiai alla prima parete disponibile, la testa ancora tra le mani.
Piano mi accasciai al suolo, quasi in lacrime. L’ultima cosa che riuscii a vedere nitidamente era lo sguardo allarmato di un anziano che mi veniva incontro.
E la pioggia. Vidi anche la pioggia, che iniziava a cadere. Piccoli pugnali trasparenti che non aspettavano altro che trafiggermi.
Poi tutto diventò confuso, e scoprii che mi mancava. Moltissimo.

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Capitolo 5
*** In Your House ***


Chapter Five

~ In Your House

«Smith, per favore».
Ero decisamente trafelato. Appena sceso dall’autobus mi fiondai dentro l’ospedale, un palazzone grigiastro su più piani.
«Smith, ha detto ?».
«Sì, Smith. Robert Smith».
Questo posto aveva qualcosa di inquietante, ma non saprei spiegare precisamente cosa.
La puzza di disinfettante mi aveva ormai anestetizzato le narici, non ci facevo più caso.
«Stanza 306».
L’infermiera all’accettazione era grassoccia, i capelli grigi appiccicati al viso e i denti un po’ macchiati, dal caffè o forse dalle troppe sigarette.
Una ragazza incinta stava passando in carrozzella, guidata da un giovane infermiere.
C’erano molte persone quel giorno in ospedale, constatai.
«Mi scusi, sta ascoltando ? Stanza 306».
Evidentemente sembravo un po’ fuori dal mondo. E, beh, era così.
Avevo ricevuto una chiamata da Lol, una ventina di minuti prima. “Presto Sim, Robert ha avuto un incidente”, fu l’unica cosa che riuscì a balbettare. Mi feci dare l’indirizzo dell’ospedale e in meno di dieci minuti ero già sul primo autobus.
Non sapevo di che natura fosse questo ‘incidente’, ma in quegli istanti di viaggio non ero riuscito a pensare a nulla.
Fu nella sala d’attesa che riflettei sulla parola ‘incidente’. Era un po’ generica, Lol, come definizione. Un incidente d’auto ? Un incidente domestico ? Come poteva essere accaduto ? Quando ? E soprattutto, perché ? Dannazione, avrei potuto chiedere spiegazioni ed evitarmi tutta quest’ansia.
Speravo ovviamente che non fosse nulla di grave. Mioddio. La paura, eccola tornare, la sentivo di nuovo.
Avevo una paralizzante paura che niente sarebbe più stato come prima. Ero pronto a pentirmi di tutti gli errori commessi. L’avrei giurato su ciò che avevo di più caro. Se solo fosse andato tutto bene anche questa volta, avrei promesso…
L’arrivo di Lol, Steven e Mary mi salvò da questa miriade di insane elucubrazioni mentali che finivano sempre per portarmi ad un vicolo cieco.
Mi alzai di scatto e la prima cosa che mi uscì di bocca fu un misero e concitato «Allora ?».
«Allora cosa ? Siamo arrivati solo adesso», fece Lol, «Dacci almeno un momento». Avevano tutti e tre i visi accaldati, per l’ipotizzabile corsa fin lì, e i capelli bagnati. Fuori pioveva ancora molto.
Steven si guardò intorno, dandosi un’arruffata ai capelli biondissimi. Lol si tolse il piumino e lo appoggiò su una sedia lì nella sala d’aspetto. «Se almeno smettesse di piovere…» mugugnò, gettando un’occhiata fuori.
Un’ombra scura scese sul viso di Mary, che si sedette, in silenzio.
Beh ? Cosa aspettavano ad accennarmi qualcosa ?
«Allora ?!» ripetei, stremato, «Si può sapere che cavolo è successo ?».
«Pare che abbia avuto un collasso nervoso» partì all’attacco Steven, un po’ imbarazzato, «O, meglio, questo è quello che ci hanno detto al telefono… Sai, quando sei troppo stressato credo sia normale. Lui non dormiva e non mangiava decentemente da giorni, era praticamente inevitabile».
«Era evitabilissimo, invece» ribatté Mary con tono di voce ostile, e anche se le davo le spalle sentivo i suoi occhi perforarmi la schiena.
«Beh, hai visto qualche dottore nei dintorni, Sim ?».
Non era stata colpa mia Mary. E tu lo sai.
«Sim ?».
E non eri affatto l’unica a cui dispiacesse una situazione del genere.
«Simon ! Ma mi ascolti ? Dannazione». La voce di Lol mi fece tornare alla realtà.
«Ah, scusami…».
Sentimmo la porta della stanza di Robert aprirsi di scatto, e ci trovammo di fronte ad un medico, che presentò subito le sue credenziali, spiegandoci che il nostro amico aveva avuto un collasso nervoso. Un cedimento di nervi o cose simili, come ci aveva già accennato Steven. C’era bisogno di riposo e tranquillità assoluta, perché per ora non si trattava di una cosa seria, ma alla lunga poteva diventarlo.
Tranquillità assoluta. Insomma, era come se mi avesse implicitamente detto di starmene fuori dai piedi.
«Noi andiamo dentro, vieni Simon ?» mi chiese Steven.
Aveva bisogno di tranquillità assoluta. Avrei tanto voluto vedere come stesse, se non altro per calmarmi un po’.
Ma, per il suo bene, scossi la testa in direzione degli altri, limitandomi a biascicare un «Magari dopo».
Inutile dire come mi sentissi dannatamente in colpa. Anche se nell’incidente non ero direttamente coinvolto, logico che tutto riportasse al nostro precedente incontro, ed ai malumori che avevo causato in Robert. In quel momento avrei solo voluto dirgli che mi dispiaceva, mi dispiaceva immensamente. E stavolta il mio orgoglio poteva andarsene all’inferno.
Le disgrazie uniscono, è vero.
Ma perché le persone sono così stupide da dover aspettare che accada qualcosa di grave per sistemare le cose ? E se poi non fosse più stato possibile ? Se la suddetta disgrazia avesse portato a conseguenze irreparabili ?
Dio, meglio non pensarci. Sarebbe stato come vivere una non-vita, fino alla fine dei miei giorni.
D’un tratto sentii aprirsi di nuovo la porta. Sbucò la testa di Steven.
«Ehi Sim, Robert chiede di te». Sul suo viso si allargò un sorrisone, sembrava veramente felice per questa neanche tanto insolita richiesta. Steven era davvero una persona meravigliosa. Risposi al suo sorriso, ringraziandolo con lo sguardo, in silenzio.

Mi fece entrare, e lo vidi lì, disteso. Pallido, come al solito, ma sicuramente meno pallido della volta scorsa. ‘Ringraziamo le flebo’, mi dissi. I capelli scarmigliati che si allargavano a raggiera sul cuscino.
«Ehi, Simon». Lapidario. Faceva un po’ fatica a parlare. Aveva le labbra molto secche, e se le inumidì con la lingua. Le coperte intirizzite lo facevano sembrare quasi mummificato.
«Ehi». Non riuscivo ancora a guardarlo, quindi distolsi subito lo sguardo e mi misi ad ispezionare con minuzia le tendine alla finestra.
«Posso… Rimanere un po’ solo con Sim ?», chiese delicatamente agli altri.
Mary spense un po’ della luce che era rinata sul suo viso, e si incupì nuovamente. Sì, ora mi odiava, ne ero più che convinto.
«Certo…» rispose Lol, «Basta che non vi prendete a pugni come l’ultima volta. Intesi ?», specificò, guardandomi duramente.
«Sissignore signorsì !» esclamai, mettendomi in posizione.
«Idiota». Ed uscirono, in fila indiana. Quando la porta si chiuse, l’ansia che mi ero portato dietro mi si avvinghiò in gola. Non riuscivo a distogliere gli occhi dalla maniglia della porta, tanta era la paura di incontrare i suoi, di occhi. Erano due buchi neri. L’ultima volta mi avevano quasi risucchiato del tutto.
«Beh ? Non mi chiedi neanche come sto ?» disse in un risolino, cercando di issarsi a sedere.
Almeno aveva trovato un po’ di forza per ironizzare un po’ sull’accaduto.
O si trattava solamente dell’ennesimo colpo basso ?
Mi voltai verso di lui, dopo aver finalmente raccolto un po’ di coraggio.
«Come stai, allora ?». Banale, come al solito.
Ora guardava dritto davanti a sé.
Presi una sedia e mi accomodai accanto al letto.
«Adesso sto bene, sì. Ma prima non sono stato molto bene, Sim». Si voltò, andando ad incontrare nuovamente i miei occhi, «E neanche l’altra volta stavo bene».
«Me n’ero accorto». Cristo, possibile che non riesca mai a fare una figura quantomeno decente ?
«Sai, poco prima di accasciarmi al suolo sotto la pioggia, ho incontrato lo sguardo di un bambino, e in testa mi risuonava una sola ed unica canzone», affermò, secco.
Anche se non avevo la benché minima idea di cosa stesse parlando, mi venne spontaneo chiedergli quale.
«It ain’t easy», rispose, «di David Bowie».
Cercavo di richiamare alla memoria il testo della canzone, ma lui prese subito ad accennarmela, notando il mio stato semi-confusionale.
«It ain't easy to get to heaven when you're going down», canticchiò, «Massì Sim, dall’album di Ziggy, insomma ! Non ricordi le cose fondamentali della vita, come posso volerti bene. Dannazione !», e scoppiò a ridere, «Sei un caso perso».
A me non scappò più di tanto da ridere. Avevo l’amaro in bocca. Tutto questo non aveva senso di esistere.
«Mh. E come mai proprio quella canzone ? Cosa c’entra il bambino ? Ti eri appena fatto, per caso ?» chiesi stizzito. Stavo andando su tutte le furie. «Non sarebbe stata una novità, in fondo. So del tuo incidente, mi precipito qui perché stavo morendo di paura, e ti dirò che le ho pensate davvero tutte. Vengo qui, afflitto, disperato, ansioso, e cosa trovo ? Tu che ridi !». Ormai urlavo, sbraitavo, fuori da ogni controllo.
Il sorriso di Robert si spezzò, sotto i suoi occhi increduli.
«Tu che ridi ! Te ne stai lì, canticchi canzoni e ridi ! Te ne rendi conto ? Sei solo un egoista ! Io mi sono preoccupato da morire per te e tu mi ridi in faccia, cazzo !».
Gli occhi mi si inondarono di lacrime, avevo i nervi a pezzi. Me li coprii con le mani, non riuscivo a smettere. Tutto quello che avevo dentro si era incrinato grazie ad una sola sua risata.
Era questo il potere che esercitava su di me ?
Mentre piangevo ormai fuori di me, sentii una mano poggiarsi sui miei capelli, tastando prima il terreno, e poi iniziando a sfiorare lentamente. La mano di Robert. Procedeva con insicurezza.
Alzai il viso dai palmi bagnati delle mie mani, e lo guardai.
Stava piangendo anche lui.

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Capitolo 6
*** Icing Sugar ***


Chapter Six

~ Icing Sugar

Sometimes, you make me feel like I'm living at the edge of the world.

Continuavo lentamente ad accarezzargli il capo. Non l’avevo mai visto piangere.
E può sembrare strano, perché ci conosciamo da veramente molto tempo. Abbiamo vissuto tantissime esperienze insieme, condiviso momenti. E ci siamo confidati, spesso e volentieri.
Io mi sono sempre aperto tantissimo, lui mi ha visto piangere e andarmene in pezzi decine e decine di volte. Le sue lacrime invece… Le sue lacrime, oggi, erano qualcosa di nuovo, inaspettato. Mi ferirono, lì per lì. Mi colsero così di sprovvista che richiamarono anche le mie, di lacrime. Un incontro di cuori aperti. Sentivo che niente ci poteva più dividere, avevamo visto tutto l’uno dell’altro. Ero dispiaciuto, seriamente mortificato per averlo fatto arrivare fino a questo punto. Immaginavo non volesse lasciarsi andare, l’avevo come obbligato con i miei comportamenti assurdi. Una coercizione bella e buona.
Però sentivo comunque una parte di me che si stava scrollando di dosso la tensione accumulata in giorni e giorni di duri arrovellamenti mentali. Delusioni, rancori, vecchie ferite… Via. Tutto spazzato via da quella manciata di pure, purissime stille di chissà quali dolori, celati e rinchiusi a doppia mandata per anni dentro quel fragile uomo.
E dentro di me ecco brillare, finalmente, dopo così tanto tempo, una scintilla di gioia.
Gioia assoluta, come quella che prova un bambino alla prima spinta in altalena. L’ebbrezza del volo. La sentivo espandersi, prima piano, poi a macchia d’olio. Stava contagiando tutto.
E quei piccoli frammenti di emozioni che si schiudono e si sciolgono sulle guance.
Ero felice, immensamente felice che si fosse aperto a tal punto con me.
«Sei bello quando piangi».
Mi uscì così, dal nulla, questa affermazione. Ed era la più sincera verità.
Gli occhi arrossati, lucidi. Ecco cosa intende la gente quando dice che “gli occhi sono gli specchi dell’anima”. Lo vedevo finalmente.
Io vedevo Simon; potevo scorgere i suoi pensieri, leggere le sue emozioni, fragili come vetro.
Lui arrossì violentemente. Imbarazzato, si voltò.
Ritirai la mano dai suoi capelli e mi asciugai gli occhi con le maniche del pigiama.
«Come ti viene in mente di dirmi una cosa simile ?».
Rieccola di nuovo, la sua maschera di fredda pietra. Perché non dismetti gli abiti della farsa e non inizi a farmi capire chi sei ?
Il suo tentativo infantile di nascondere i postumi di questo complimento un po’ fuori luogo mi fece sorridere. Non riuscivo più a trattenermi, e risi, risi a squarciagola.
Lui mi guardò con gli occhi sgranati, ma io gli puntai un dito in fronte e lo fermai.
«No ti prego, non dirmi che non devo ridere. Sei buffo, che c’è di male !».
Roteò gli occhi, sbuffando.
«Lo dici solo perché non ti sei guardato allo specchio, caro mio».
«Oddio, sto così male ?».
«Beh, non proprio male. Malissimo», e scoppiò a ridere anche lui. «Facciamo entrare Lol, dai, così poi vediamo chi si aggiudicherebbe il primo posto», aggiunse.
«Ehi, ehi, non toccare Lol, è il mio migliore amico !» ribattei io, atteggiandomi ironicamente. Ma cedetti subito alle smorfie che stava facendo in mia direzione.
Ancora risate. Tintinnavano dentro di me come il suono più dolce del mondo.

*

Passammo diversi minuti a farci i dispetti a vicenda, come non succedeva da tempo.
«Mioddio, sembriamo una coppia di settantenni alle prese con problemi della serie “chi chiuderà prima in ospizio chi”», si ritrovò a pensare, ad alta voce, Simon.
Che sensazioni deliziose. Sembrava passato un secolo dall’ultima volta che mi ero sentito così dannatamente frizzante.
Vivo.
Potevo finalmente tastare la pienezza della vita. Era tutta qui, in questi attimi di assoluto compiacimento. Era come scongelarsi dopo un lungo, lunghissimo, interminabile inverno.
Avevo voglia di scendere dal letto. Avevo voglia di cantare. Cantare fino alla fine dei miei giorni. Suonare. Girovagare, conoscere persone. E scrivere canzoni su tutto questo.
«Fatti da parte, voglio scendere», dissi, imperativo.
Simon, preso contropiede, mi guardò di traverso.
«Credo tu sia ancora un po’ debole… No ? Il dottore ha detto che devi riposare», rispose lui categorico.
«Frega un cazzo quello che dicono i dottori, io mi sento bene così, e voglio andarmene. Adesso».
Ero sceso, stavo per incamminarmi verso l’armadietto. Volevo i miei vestiti addosso.
Passai velocemente accanto alla sedia di Simon, ma lui mi afferrò repentino per il polso, quasi strattonandomi.
«Ehi, a te non fregherà un cazzo», ora mi stava fissando con immenso rimprovero, «ma a me frega abbastanza invece, se permetti».
Il bivio era palese: o tu, od io.
La sua mano era gelata.
Per alcuni secondi, lunghi come ore, rimanemmo così, a fissarci. Due statue di sale in un romantico museo degli orrori. Lui, seduto, ed io, catturato tra le sue dita gelide.
Sfruttai la momentanea immobilità dei nostri corpi per osservarlo. Non aveva più gli occhi arrossati. I capelli, sempre rigorosamente scarmigliati, gli stavano crescendo molto in fretta, notai, e, se non avesse tagliato quanto prima la frangia, il suo sguardo sarebbe affogato in mezzo a quella sterpaglia scurissima ed informe.
Era tanto tempo che non ci vedevamo, eppure i suoi capelli non avevano smesso di crescere. Questo mi rese improvvisamente triste.
Ecco, Robert, vedi ? Questa è solo l’ennesima conferma che il mondo non ruota attorno alla tua persona. Se ne infischia della tua presenza.
Il tempo scorre, inesorabile. Indipendentemente dalle tue azioni. Che tu sia qui o meno.
«Non puoi comportarti così», riprese, tagliente come al solito, «E ora siediti, devo parlarti di una cosa importante». Sembrava non parlassimo da secoli.
Come un cucciolo ammansito che si ritira sconfitto, mi accasciai nuovamente sul letto.
«Dimmi». Facile smontare le persone così. Lo sbalzo d’umore mi causò un breve giramento di testa, ma mi ripresi quasi subito.
«Si tratta di Mary, le avevo promesso di parlartene».
Mary… Mi ero quasi dimenticato di lei, tanto ero euforico. Non l’avevo vista affatto bene, prima, sembrava veramente molto preoccupata. E non l’avevo trattata per niente come si deve. Dannazione.
Pur sapendo tutto questo, rimasi a fissarmi i piedi, aspettando che Simon continuasse con le ramanzine, perché sapevo ne avrebbe avuto per un po’. I miei sensi di colpa stavano riaffiorando in superficie.
«Tu devi assolutamente chiarire le cose con lei. È palese che tenga a te più della sua stessa vita. Avresti dovuto sentirla l’altro giorno, era preoccupatissima Rob, davvero». Il tono della sua voce era a dir poco sconsolato. «Devi salvare quella povera ragazza, è persa senza di te. E tu… Beh, l’hai trattata malissimo. Sei stato un vero stronzo con lei, scusa se mi permetto. Io capisco anche come ti senti, però…». Fermò quella frase a mezz’aria, cercando le parole giuste nella sua testa.
«Lo so, Sim», esordii, precipitandomi in quelle che poi si sarebbero rivelate come banalissime scuse, «Sono stato proprio uno… Stronzo, ecco, mi hai apostrofato bene».
Mi stava sfuggendo tutto di nuovo. Lui non capiva affatto come mi sentivo.
È vero, poteva sforzarsi, provare lontanamente a comprendere. Ma non avrebbe mai capito.
Negli ultimi tempi, concludevo quasi tutti i nostri concerti in lacrime. Mi ubriacavo oltre ogni limite pur di non pensare a nulla. Alcuni live neanche li ricordo, tanto ero strafatto. Era in quelle piccole divagazioni dal tracciato, era lì che, imbottito di alcool, lsd e chissà che altro, smettevo di pensare.
Smettevo di desiderare. Smettevo di sognare. Allucinavo il mio ego, giorno dopo giorno. Quando i limiti della sopportazione mi stavano ormai stretti, io semplicemente ne aumentavo esponenzialmente l’ampiezza. L’infinito.
Ed il ritorno al mio conscio era ogni volta peggiore. Ma ne ero consapevole.
Io sapevo.
E, nonostante tutto, continuavo ad imbrattarmi di quel sudiciume, pur di sfuggire ai miei fantasmi. No, non volevo trascinare anche loro in questo vortice di commiserazione. Era una situazione già desolante di per sé.
Pesantezza. Insostenibile pesantezza.
Lui che mi scrutava. Anche se avevo lo sguardo abbassato, i suoi occhi su di me erano percepibilissimi. Mi cercava.
Cercava di capire.
«Stai bene… ?». Gli tremava la voce. Alzò una mano su di me, come se volesse sollevarmi il capo.
Non era giusto trascinarti con me, Simon. Ancora lacrime, che cercavo di ricacciare dentro con la forza.
«No, non proprio. Io… Sono veramente stanco». Mi dispiace.
«Allora ti lascio riposare». Abbassò la mano. Si alzò. «Io… Mh, se hai bisogno di qualcosa, beh, sai dove trovarmi, Rob», concluse, un po’ impacciato.
«Sì, grazie. E tranquillizza Mary. Io le voglio bene. Dille che mi dispiace». Mi dispiace. «Per tutto quanto».
«Va bene, riferirò. Ora però, un’ultima cosa».
«Dimmi». Gli occhi erano ancora incollati al pavimento.
«Guardami». Un brivido mi si allungò giù per la schiena. «Quando stai male, puoi dirmi quello che vuoi. Puoi scacciarmi, puoi farmi rimanere solo per essere insultato, scagliarmi addosso oggetti». Un altro brivido. «Ma, ti prego, fallo guardandomi in faccia».
Non scapperai per sempre, Robert.
Sollevai lo sguardo.
Ma lui se n’era già andato.

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Capitolo 7
*** One Hundred Years ***


Chapter Seven

~ One Hundred Years

Mentre pronunciavo quelle parole, anche io guardavo con insistenza il pavimento, la mano incollata sulla maniglia. Appena misi il punto a quella frase, un po’ troppo condita per i miei standard, piano aprii la porta e scivolai fuori. Non credo si fosse accorto della mia uscita.
In corridoio c’era aria meno consumata, così respirai a pieni polmoni, traendo un sospiro infinito. Feci alcuni passi in direzione della saletta d’aspetto.
Steven, Lol e Mary se ne stavano lì seduti, ed appena mi scorsero presero a fissarmi con insistenza. Lol aveva in mano un bicchiere di carta con del caffè. Detesto il caffè dei distributori.
Steven si alzò e mi venne incontro. Mi si parò di fronte, placcandomi, e mi scrutò serio da cima a piedi.
«Bene… Non vedo occhi neri, né tantomeno del sangue… Non ho sentito neanche gridare ! Questo significa che è andato tutto bene», osservò ironico, «A meno che tu non nasconda qualche ossa rotta».
«Ah-ha», ribattei seccato, «E’ in un letto d’ospedale, non l’avrei picchiato per nessuna valida ragione».
«L’avresti fatto», intervenne Lol, che nel frattempo si era avvicinato. Il solito impiccione.
Ci ragionai su. Effettivamente avrei picchiato Robert anche in punto di morte, qualora mi avesse fatto perdere le staffe.
Deluso dal fatto che questo mio lato troppo irascibile fosse ormai di dominio pubblico, non mi restò che confermare i sospetti.
«L’avrei fatto», asserii.

*

A ribbon tightens round my throat
I open my mouth
And my head bursts open
We die one after the other
It feels like a hundred years


La prima cosa che feci appena arrivato a casa fu accendermi una sigaretta.
L’accendino che scatta, la fiamma che brucia la carta, il primo tiro aspirato.
Non era una sensazione impagabile, tutt’altro. Avrei voluto smetterla definitivamente con questo vizio, ma al momento non ero granché in vena di moralismi dell’ultim’ora.
Rimandai i buoni propositi all’anno prossimo.
Presi una cassetta di Kate Bush e la inserii nello stereo. Attaccò con le sue perfette ottave sulle note di Moving. The Kick Inside, un album che ti mozza il fiato.
Amo quella donna.
Mi allungai sulla poltrona, pronto a farmi cullare da Kate. Ormai mancava veramente poco al nuovo anno. Lanciai un’occhiata all’anonimo calendario appeso al muro. Era il quattro novembre. 1981. Sul calendario intravidi un tondino rosso che cerchiava l’otto del mese, ma ero troppo stanco per alzarmi ed andare a controllare di cosa si trattasse. Aspirai ancora dalla sigaretta. Soffiai il fumo in alto, e lo vidi rarefarsi in aria, per poi svanire, confondendosi con l’ossigeno circostante.
Quando si tirano le somme dei 365 giorni passati, c’è sempre quel velo di malinconia in agguato, pronto a rovinarti il capodanno. E, nel mio caso, più che di un velo si trattava di una pesante coperta di lana. Con qualche delizioso ricamo floreale, ma pur sempre di lana.
Gli ultimi sei mesi per me non erano stati esattamente la ricetta della felicità. Anzi, ripensandoci bene si rivelarono talmente penosi da far precipitare l’intero bilancio annuale pericolosamente in basso.
Il tour di Faith ci aveva stremati, psicologicamente e fisicamente. Il più provato, neanche a dirlo, era stato Rob. La mente dell’album, e dell’intero gruppo, era lui.
Aveva passato giorni e giorni sopra quei testi e sopra quelle melodie. Si era girato tutte le chiese del paese, riflettendo sul significato della religiosità. Mi faceva uno strano effetto vederlo così assorbito dal suo lavoro. Sì, è vero, lui è una persona estremamente pignola, ma in alcuni frangenti cadeva nel paranoico.
Più di una volta mi ritrovai a fissarlo mentre scriveva, mentre cantava o mentre suonava, o semplicemente mentre si districava nella routine.
Ed ero terribilmente a disagio.
Forse perché avrei voluto fare di più, collaborare, rendermi partecipe. Semplicemente aiutarlo. Ma non ne ero in grado. Non era nelle mie limitate possibilità.
Io ero “il ragazzo del basso, quello con le influenze punk”. Lui era “la mente, il genio”.
La sua persona mi prevaricava involontariamente, di continuo. Sentivo ogni giorno la pressione su di me.
Guardandolo, pensavo al fatto che prima o poi avrebbe commesso un passo falso, di modo da rivelarmi per errore il segreto di quelle incredibili potenzialità. Del suo potere.
Io ne ero affascinato. E più desideravo essere alla sua altezza, più lui si alienava. Faceva di tutto per allontanarsi da me, come se fossi sbagliato. Implicitamente, mi rifiutava.
Mi feriva.
E più lui mi feriva, più io lo detestavo.
Un meccanismo a tratti inconscio.
L’ambivalenza che mi suscitava era quantomeno straziante. L’amore fraterno e le colpe che gli attribuivo per i suoi comportamenti sempre più strani erano decisamente inconciliabili.
Cercai di mettere la parola fine in qualche modo, giacché la situazione stava prosciugando anche me. Colsi l’occasione dell’ultimo nostro litigio, e decisi di prendere le distanze.
Ero io, per la prima volta, a porre le condizioni. Avrei smesso di incolparlo per cose che non capivo. Ed il sacrosanto diritto di sentirmi in colpa spettava a me e a me soltanto.
Non avrei però mai immaginato che la situazione potesse ribaltarsi in questo modo improvviso.
Ed ecco che tutto era tornato in mano sua. Come sempre, era lui a decidere cosa farne di me. Poteva uccidermi o rendermi immortale con un solo gesto.
Spensi la sigaretta nel posacenere di terracotta dipinta, e mi alzai. Kate Bush ormai stava facendo danzare le sue adorabili corde vocali sulle note di The Man With The Child In His Eyes.
Mormorai un accorato «Scusami, Katie» in direzione dello stereo, prima di spegnerlo.
Aprii il frigo e presi una birra, quindi andai in camera. Mi tolsi il gilet di pelle e la maglia bianca a maniche corte. Buttai tutto sul letto. Avevo la pessima abitudine di rimandare le pulizie e l’ordine ad un ‘poi’ imprecisato e senza tempo.
Guardai la confusione che, sovrana, regnava in quella stanza, e mi passai una mano tra i capelli. ‘Cavoli, stanno crescendo tantissimo’, dissi tra me e me. Mi osservai bene allo specchio. Dovevo decidere cosa fare della mia acconciatura, se lasciarla andare per i fatti suoi oppure tagliare tutto. Era bello potersi concedere ogni tanto a queste inutili e deplorevoli frivolezze da uomo di palcoscenico. Senza esagerazioni, però. ‘Sembro una checca quando faccio questi discorsi’, pensai sorridendo, continuando a tastarmi le punte dei ciuffi ribelli. Lo specchio mi sorrise di rimando. Mi voltai, deciso.
L’unica cosa che risaltava lì dentro era il mio Gibson Thunderbird nero, costantemente tirato a lucido, tanto che non sembrava appartenere a quel mondo.
Lo inforcai. Tastai il metallo delle corde, e le feci risuonare debolmente una ad una. Erano perfettamente accordate.
Lo collegai all’amplificatore, spensi la luce ed iniziai la mia personale discesa agli inferi. Passai una buona mezzora a rimescolare, avanti ed indietro, tutto il mio repertorio. Era necessario riprendere il ritmo, poiché dovevamo già rientrare in studio.
Sì, stavo usando il plurale.
Noi.
Tecnicamente, dopo ciò che era successo, ero fuori dalla band. Lo ero stato per due mesi, mesi lunghi come milioni di anni, tempi in cui non avevo smesso di impugnare il basso, rimpiangendo la vita a cui mi ero precedentemente abituato. Ma non me la sentivo più di abbandonare tutto. Sarebbe stato un po’ come tradire la fiducia di Robert. E dopo l’incontro di quella mattina, la prospettiva non mi appariva così allettante.
Ero scappato fin troppe volte nella mia vita. Stavolta dovevo resistere. Mi tenni stretto alla lealtà che provavo per i miei amici, all’amore che mi legava inscindibilmente alla musica, e, perché no, cercai di focalizzarmi anche sul bisogno che io avevo di tutto questo. Una dipendenza che mi faceva sentire straordinariamente bene. Agli occhi di un altro, ciò che avevo sarebbe potuto sembrare misero, insulso, privo di valore.
In fondo non avevo nient’altro che un tetto sopra la testa, degli amici e la musica. Era esattamente questa la mia vita, la vita che desideravo adesso e sicuramente avrei desiderato tra dieci, venti, trent’anni. Non dovevo e soprattutto non volevo privarmene, desideravo più di ogni altra cosa riempire la mia routine di amplificatori e facce sorridenti.
Combatti per le cose che ami, con le unghie e con i denti.
In fondo, cosa diavolo avevo risolto in quei giorni rinchiuso nel mutismo, piangendomi addosso, commiserandomi e mandando al diavolo qualsiasi cosa riguardasse la band ? Niente, ecco cosa. Un po’ mi vergognavo di questa mia fuga, che ora mi sembrava completamente insensata.
Staccai il plettro dalle corde e le lasciai vibrare. Mi asciugai il sudore della fronte con il dorso della mano, posai il plettro sulla scrivania e mi aprii la lattina di Heineken che avevo precedentemente prelevato dal frigo. Se c’era una cosa che non mancava mai in casa mia, era l’alcool.
Fu solo allora che mi accorsi dei violenti colpi che venivano assestati alla porta di casa.
Mi sfilai il basso e corsi subito a vedere chi fosse, ‘Prima che mi buttino giù la porta’.
Aprii di scatto e mi ritrovai di fronte un ragazzo di qualche centimetro più alto di me, smilzo e con i ricci stopposi e biondastri.
«Porl !», esclamai, quasi sconvolto.
Porl, all’anagrafe Paul Stephen Thompson, ex chitarrista del gruppo ed amico di vecchia data della band. Continuava a frequentarci soprattutto perché si faceva Janet, la sorella minore di Rob.
Una visita comunque a dir poco inaspettata.
«Ciao Simon», rispose lui, «Dovevo buttare giù la porta per farti staccare da quel dannato basso ?». Mi sorrise.
«Ehm, scusa, ero un po’ preso», farfugliai imbarazzato, «Entra pure».
«Un po’ ? Se quello era solo un po’… E non sono solo» disse, indicando dietro le sue spalle.
Un colpo di tosse risuonò nel pianerottolo, riconoscibilissimo.
«Lol, che testa di cazzo». Scoppiai a ridere e li spinsi in casa, «Entrate, forza».
«Questione di pochi minuti, Sim» si fece subito avanti Lol, «Porl voleva solo invitarti alla sua festa, l’otto novembre».
«Potevi anche lasciare a me l’onore di invitarlo, deficiente», lo rimproverò Porl.
Alzai gli occhi al cielo, «Neanche fossimo all’asilo». Aprii il frigo e tirai fuori due birre per loro, sicuro che avrebbero gradito. «Festa per cosa poi ?», chiesi.
«Beh, è il mio compleanno», rispose lui, secco.
D’un tratto mi tornò in mente la data cerchiata di rosso sul calendario.
«Ah, erm, è vero… ! E l’ho anche segnato eh», feci notare, picchiando il dito sul giorno otto. Passai loro le birre.
Si sedettero. Un minuto di silenzio, e poi la voce di Porl. «Ho sentito che Robert sta poco bene… Cioè, me l’ha detto Janet a dire la verità» disse in fretta, sorseggiando la sua Heineken, «Come sta ora ?».
Lol mi guardò, poi prese a parlare rivolto a Porl. «E’ solo molto molto stanco. Ha avuto un calo di pressione, un piccolo collasso nervoso. Nulla di grave per ora. Era decisamente provato, nel corpo e nello spirito. Faith è stato… Durissimo». Non trovò altre parole per descriverlo.
Presi a fissare la mia lattina, con noncuranza.
«E’ stata colpa mia», ammisi, continuando a scrutare i riflessi della luce sulla latta come se fossero l’unica cosa degna di attenzione nel raggio di cento metri, «Litigavamo spesso… Mh, sempre, a dire il vero. Siamo due bastardi arroganti, ecco la verità. Ed alla fine me ne sono andato. Non ci siamo parlati né visti per un paio di mesi, giorno più giorno meno». Incredibile come riuscissi a gesticolare anche senza guardare in faccia le persone. «Ecco la sola ed unica spiegazione a questo casino». Sollevai lo sguardo, e sorrisi tristemente.
Porl si alzò e mi diede una pacca sulla spalla. «Ma smettila, non è colpa tua, i litigi sono normali quando ci sono due personalità forti come le vostre».
«Beh», si intromise Lol, incrociando le braccia sul petto, «"Personalità forti" è decisamente un eufemismo, Porl, credimi. Tu non li hai mai visti litigare. Fanno veramente paura. Non sembrano neanche umani. Delle… Bestie, cazzo. Vero, Sim ?» chiese voltandosi verso di me.
Grazie tante dell’aiuto, amico mio, ci voleva proprio. Ora sì che mi sentivo veramente di merda.
Stavo, con estrema difficoltà, cercando di dimenticare quelle innumerevoli volte passate a scambiarci insulti su insulti come se fosse la normalità più assoluta.
Così cambiai repentinamente discorso.
«Comunque ci sarò alla festa, Porl», dissi.
«Oh, bene !» commentò lui entusiasta, «E spero che anche Robert si riprenda in tempo, mi dispiacerebbe non vederlo».
«Oh, non ti preoccupare per lui» lo rassicurò Lol, «Lo dimettono domani».
'Buono a sapersi', pensai.
Dopo circa venti minuti passati a chiacchierare del più e del meno, se ne andarono, ed il loro passaggio era reso ancora più evidente dai mozziconi di sigarette miei e di Lol e dalle tre lattine vuote. Chiusi la porta dopo averli salutati, e mi meravigliai di come quell’asse di legno riuscisse ancora a stare in piedi dopo tutte le botte ricevute.
Ero veramente stanco. Mi trascinai in camera e mi buttai pesantemente sul letto, senza neanche spogliarmi. Notai dalla sveglia che non erano neanche le otto di sera, ma la collocazione spazio-temporale del mio io attualmente non mi interessava granché. Desideravo solamente spegnere il cervello per almeno dodici ore.
Avevo bisogno anche io di assoluta tranquillità.

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Capitolo 8
*** Wailing Wall ***


Chapter Eight

~ Wailing Wall

La notte che passai all’ospedale prima di essere dimesso fu stranamente tranquilla. Niente incubi notturni, nessun pensiero paranoico. Dormii pacatamente.
Ero un po’ emozionato per l’indomani. Sì, insomma, sarei uscito da lì per buttarmi in pasto al resto del mondo, indifeso. Emozione e paura.
Quei due giorni trascorsi in osservazione mi avevano ridonato, più o meno, la calma che sembravo aver perso. Era stato quasi un sollievo venir meno su quel marciapiede, in balia dei miei pensieri.
Ripensai a quel bambino. Chissà dov’era adesso. Chissà se la sua amichetta stava ancora raccontandogli divertenti aneddoti scolastici.
Chissà se lui fingeva di stare bene. Se anche lui fingeva. Avevo scorso la finzione in quegli occhi.
Perché mai un bambino di quell’età avrebbe dovuto fingere ?
Grazie a lui, ed al palesarsi di quell’inquietante rivelazione, in me era scattato un meccanismo, diabolico. Lo stesso che avevo in testa quando scrissi una delle canzoni di Faith, Primary.
Quelle parole, e quello sguardo, che nulla aveva di reale se non il copione da recitare, io le avevo già sperimentate più di una volta nell’ultimo anno.
Mi ritornò in mente l’estate appena passata, immerso in quei ricordi che avevano scavato dentro di me un solco eternamente profondo. Lucidi ed intensi come alla presa visione di un film.
Il tour, l’albergo, il rientro dopo l’ennesima serataccia. Una telefonata, gli occhi di Lol, paralizzati verso di noi, che si gonfiano di lacrime. Le gambe che sembrano cedergli sotto il peso di troppo dolore. E allora butta la cornetta, cercando di scappare. Se ne va, si rifugia in bagno. Piange, piange tanto, piange troppo. Simon riprende in mano la chiamata, e mi fissa disperato.
La madre di Lol se n’era andata.
È stato orribile e debilitante vederlo in quello stato. Non avevo mai provato una sensazione del genere.
Daphne si era sempre presa cura di noi. Mi adorava, ci adorava, tutti quanti. Era un po’ come avere una seconda madre, sempre disponibile ed attenta. Ed anche con Lol era lo stesso. Si volevano un bene così semplice ma così immenso da scavalcare con facilità qualsiasi ostacolo, qualsiasi problema.
Pochi mesi prima si era ammalata, e da allora Lol si fece giustamente più distratto. C’era, ma non poteva esserci. Voleva, ma l’attenzione andava per i fatti suoi.
Per un momento, appena appresa la triste notizia, egoisticamente pensai ‘Finalmente ora Lol avrà un po’ di pace’. Mi sentii così schifoso ad aver formulato simili pensieri che cercai di rifuggirli immediatamente. Per qualche minuto mi tenni occupato raccogliendo le scartoffie in giro per la stanza. Ma i gemiti di Lol che trapassavano la porta del bagno andavano a conficcarsi direttamente sulla mia nuca. Era un’agonia scioccante.
Simon era rimasto come pietrificato dalla notizia, immobile al centro della stanza. Aveva il suo giubbino in mano, e non so esattamente cosa stesse pensando. Lo sentivo solo tirar su col naso ogni tanto.
Abbandonai, non proprio delicatamente, i fogli che avevo radunato, in tutto una trentina, sopra il tavolo. Il rumore fece sobbalzare la statua di cera con le sembianze del mio amico bassista, che si voltò terrorizzato verso di me. Aprì la bocca come per parlare, ma non disse nulla. Mi fissò per qualche secondo, poi andò a sedersi.
Lo raggiunsi subito.
Avevo paura, ancora paura. Io non riuscivo a tirarle fuori, le lacrime. Questa mia reazione mi stava seriamente spaventando. La questione sembrava non avermi toccato affatto.
Cos’era successo ? Mi ero lasciato andare tantissime volte a pianti liberatori, anche per miserevoli sciocchezze. Invece adesso… Adesso che uno dei miei migliori amici aveva un assoluto bisogno di me, adesso che tutto quello che avevamo costruito rischiava di essere trascinato via dalla triste caducità della vita umana… Non ero in grado di far uscire allo scoperto ciò che provavo.
Incapace. Un burattino che sente smuovere le sue fila, ma non è padrone dei suoi movimenti. Dei suoi pensieri.
Volevo disperatamente mostrare agli altri che dentro questo corpo di legno anche in certi momenti crepitava un fuoco. Ma evidentemente non ero ancora pronto.
Lol si riprese dopo qualche ora, ed io e Simon eravamo ad attenderlo nel salottino della stanza, senza essere riusciti a rivolgerci parola per tutto il tempo.
Gli occhi, arrossati e vitrei, non indugiarono affatto su di noi. Andarono dritti alla bottiglia di vodka sul tavolino. Trascinò piano i suoi passi fin lì. La aprì, se la portò alle labbra e ne mandò giù due lunghissimi e brucianti sorsi. Con la coda dell’occhio vidi Simon accanto a me voltarsi dall’altra parte, come a volersi privare di quel tragico spettacolo. Strinsi i pugni.
Lol continuava a scolarsi la vodka, incurante di tutto ciò che lo stava circondando.
Mi venne spontaneo alzarmi, andare da lui ed abbracciarlo. Non sapevo cosa altro fare. Mi sentivo impotente, inutile, sciocco. Pensai che un po’ di calore familiare avrebbe potuto farlo rimanere con noi, qui, evitandogli di scivolare inesorabilmente verso quel terribile abisso senza nome. Lui non si abbandonò al mio abbraccio, rimase teso, impassibile.
Mormorò solo un flebile «Grazie, Rob», prima di lasciare andare la bottiglia di vodka sul pavimento, in frantumi.
Fu in quel momento che mi accorsi di avere il terrore del tempo. Un terrore meschino, che mi bloccava il flusso del sangue al cervello. Volevo fermare il tempo, impedirgli di scorrere ancora, staccare questi momenti dalla mia personale cronologia e lasciarli fluttuare per sempre nell’aria.
Ma non potevo.
Non ero Dio, ero solo un uomo. E come tale avevo il preciso dovere di accettare questa sconfitta.
Lo sguardo di Lol da quel giorno in poi si fece vacuo.
Sorrideva, scherzava, era il solito Lawrence Tolhurst che a cinque anni mi picchiò nel cortile della scuola. Ma il suo cuore era lontano. Sapevo che anche lui aveva le mie stesse paure.
Ed anche quel bambino incrociato casualmente per strada era come noi, la sua mente ferma a chissà quale giorno, soffocata nella perdita.
Io non potevo però farci nulla.
Cercai solamente di rendere più accettabile quest’amara disfatta, stringendo al petto Lol e il suo dolore, in quella stanza d’albergo.
Ritornare alla realtà, ed a quel letto d’ospedale, non era mai stato tanto doloroso.

The innocence of sleeping children - dressed in white - and slowly dreaming
Stops all time.


*

Dopo aver firmato le carte per le dimissioni, raccolto la mia roba ed assicurato ai dottori un lungo futuro di pochi impegni e calma piatta, fu un enorme piacere vedere che c’era qualcuno ad aspettarmi.
Era Mary. La vidi da lontano, mi stava cercando con gli occhi. Non appena mi scorse si illuminò in viso. Mi fece un cenno con la mano, al quale risposi allegramente.
«Rob !», esclamò abbracciandomi, «Come stai ?».
«Benissimo, ora che ti vedo», risposi, sfiorando le sue labbra con le mie.
Lei arrossì violentemente, poi spostò lo sguardo allo zaino che portavo in spalla, «Se per te è troppo pesante lo portò io», propose.
«Ma va’, sciocchina», dissi ridacchiando, «Uno zaino riesco a portarlo».
«Come desideri», fece, un po’ delusa. Mi affiancò, e ci incamminammo fuori dal quel triste posto.
«Ah !», esclamò mentre attraversavamo il corridoio, «Lol mi ha detto che l’otto novembre ci sarà la festa per il compleanno di Porl, e siamo invitati», disse. Mi guardò.
«Oh, è vero, compie gli anni…». Non sapevo mai cosa regalare ai miei amici per i loro compleanni.
«Non ti preoccupare per il regalo» fece lei, risoluta, «Ci ho già pensato io». Mi conosceva proprio bene.
«Perfetto M ! Sei fantastica, veramente», le dissi sorridendo.
Lei ricambiò il mio sorriso.
In strada, la presi per mano. La vidi sussultare leggermente per quel gesto per lei così improvviso, inaspettato ma sicuramente desiderato. La sua mano era calda, e il suo tepore mi rincuorò, scacciando dalla mia mente il contatto ghiacciato con Simon. Mary era esattamente ciò di cui avevo bisogno in quel momento.
«Andiamo a casa mia ?», le suggerii.
Lei, sorpresa, rispose impacciata con un «C-Certo», poi mi sorrise, stringendosi a me.
Prendemmo l’autobus, in tutto una decina di minuti di viaggio. Salimmo le scale fino al mio appartamento, quindi, facendo tintinnare le chiavi, aprii la porta. Posammo i cappotti sopra il divano. Che bello essere a casa.
«Hai dormito bene stanotte ?», mi chiese, mentre aprivo il frigo alla ricerca di qualcosa di commestibile con cui preparare il pranzo.
«Sì, stranamente bene», ammisi. Avevo trovato solo delle uova, che non erano esattamente il piatto preferito di Mary, e un po’ di formaggio. E birre, logico. «Purtroppo M ci sono delle uova, possono comunque andare ? Altrimenti possiamo anche scendere alla tavola calda qui sotto…» dissi pensieroso.
«Allora ti ricordi ancora che le uova non mi piacciono», commentò timidamente.
«Ovvio che sì». Chiusi il frigo e mi avvicinai a lei. Le accarezzai la guancia sinistra con il dorso della mia mano. La sua pelle era morbidissima.
Lei chiuse piano gli occhi, e le nostre labbra si incontrarono di nuovo per alcuni brevi istanti.
«Come posso dimenticare i gusti culinari della donna che amo ?», domandai retoricamente.
Sorrise, e ci baciammo di nuovo, con intensità sempre crescente.
Lasciammo perdere il pranzo, le uova, la tavola calda e tutto il resto. La presi per mano e la portai nel buio denso della camera da letto, dove i nostri corpi si congiunsero nuovamente in un tutt’uno, come non succedeva da tempo.

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Capitolo 9
*** Last Dance ***


Chapter Nine

~ Last Dance

L’acqua era calda. Tremendamente rilassante.
Dopo essermi spogliato, mi immersi in quella coltre di tepore che era la mia vasca. Non c’era cosa che amassi di più al mondo che un meraviglioso e salutare bagno di prima mattina. Sembrava svegliarmi.
O forse no, mi cullava tranquillamente in direzione opposta, in ritorno tra le braccia di Morfeo. Ma non potevo farci niente, amavo quei momenti.
Eravamo solo io, l’acqua, il profumo del sapone che aleggiava tutt’intorno e queste goccioline di umido che si posavano con tenerezza su di me.
I giochi di luce che si riflettevano sullo specchio, il vedo/non-vedo che appannava le superfici, l’aria pesante tipica della sauna… Tremendamente rilassante.
La sera prima eravamo stati insieme, di nuovo, in studio. Noi tre, proprio come una volta. Io, Lol e Robert.
Sì, l’avevo visto. Era finalmente tornato tra noi comuni mortali.
Maglioncino di lana leggera, pantaloni scuri. Pallido. Gli occhi cerchiati di nero. Occhiaie o matita che fossero, non ci feci troppo caso. Sembrava un ragazzo come tanti.
Ma non lo era, affatto. Io lo sapevo. Lui lo sapeva. Ed i nostri sguardi complici facevano solo vagamente intendere il nostro piccolo segreto.
Beh, non che ci fossimo detti molto, sostanzialmente.
Arrivai in ritardo, e loro stavano già provando. Lol, con tono scocciato, mi chiese se questo ritardo fosse dovuto all’atteggiamento da star che stavo acquisendo nell’ultimo periodo.
Dopo averlo genuinamente mandato a quel paese, iniziammo la session.
Picchiavo il mio basso con estrema veemenza. Troppa. E sapevo che Robert mi stava guardando.
Tra una canzone e l’altra, bevevamo birra, fumavamo. Le solite cose, insomma.
«Ma ora è tutto a posto, Rob, vero ?». Niente, sono fatto così, mi dispiace. Le frasi mi cadono di bocca e neanche me ne accorgo. Tergiversare non è mai stato il mio forte, dopotutto.
Il suo sguardo che si posa su di me, comprensivo.
«Certo, sto benone», sospirò, «E sono contento che tu sia tornato».
Ehi, un momento. Io non sono tornato. Sei tu che mi hai trascinato da te ancora una volta. Hai impedito che mi mettessi in marcia e me ne andassi per sempre. È questo ciò che fai, ogni volta.
«Già», e probabilmente il mio tono non sembrava uno dei più convincenti.
«Io non ne posso più», sbuffò Lol, «Vado in bagno, scusate. Troppa birra». Si alzò dal divanetto, qualche passo e girò l’angolo.
Un altro sorso. I suoi occhi erano incollati sulla mia lattina.
«Sei sicuro di aver fatto la cosa giusta ?», sentii mormorare. Il suo tono di voce era distante, ovattato, quasi come provenisse da una fiaba. Ma la domanda odorava tristemente di realtà.
La risposta era così ovvia che mi sembrava stupido e quasi retorico starselo a chiedere.
Certo che ho fatto la cosa giusta. La cosa giusta. Cosa avrei dovuto fare, d’altronde ? Nessuna scelta. Non un bivio, ma un gigantesco senso unico.
Non potevo lasciarvi così, lasciarti così.
«La musica è la mia vita, Rob», dissi semplicemente, come se fosse la sola giustificazione ammissibile, al momento.
«Ed io, Sim ?». Quelle tre parole affettarono l’atmosfera intorno a me.
E tu cosa ? Che significava ?
La cosa giusta. Questa frase continuava a ronzarmi nelle orecchie. La cosa giusta. Giusta per chi ? Per me ? Per lui ?
«Ciò che è giusto per te, lo è anche per me. Sempre». Ecco firmata la mia resa.
Affogai la testa sotto la superficie trasparente, bagnandomi i capelli.
Rimasi immobile, in apnea, ad occhi chiusi.
Sott’acqua non c’era moto. Rumori, suoni, voci, arrivava tutto in differita. Calma, pace.
Chissà che ora si era fatta. Avevo da fare. Dovevo prepararmi per la festa.
Ma all’acqua tutto questo non sembrava importare.
Aprii gli occhi. Ogni cosa era cristallizzata. Ogni centimetro della mia pelle sembrava essere lì da secoli. Lasciai galleggiare le braccia. Avrei voluto galleggiare come loro in quella vasca, per l’eternità. Svuotare la testa. Fissare me stesso come se fossi lontano, talmente lontano da sembrarmi irriconoscibile.
Ma l’aria fredda mi pungeva la schiena, mi graffiava le costole, ed i miei sensi intorpiditi dovettero svegliarsi. Rischiare un malanno di questi tempi era un bruttissimo affare.
Ma il ritorno al mondo è sempre così angosciante ?

*

«Sono in ritardo, Porl ?».
«Oddio Sim, scherzi ? Sei il primo, diamine». Mi guardò allibito. Sì, in effetti non ero solito arrivare in orario, né tantomeno in anticipo.
Porl aveva un’assurda camicia di flanella a scacchi rossi e verdi. Addosso a me sarebbe stata da schifo. A lui invece donava. A Porl donavano le cose assurde.
«Questo è per te, ragazzo mio, tanti auguri per i tuoi ventiquattro anni !», dissi, facendo il vocione e dandogli una gomitata paterna sul fianco. Gli porsi il mio regalo. Un pacchetto quadrato, bello grande, piatto.
«Mmh, secondo me è un nuovo amplificatore !» replicò, ironico.
«Come siamo perspicaci quest’oggi», e gli allargai un sorrisone.
Era passato a prendermi Gary Biddles, un mio amico di vecchia data che, grazie al più o meno intimo rapporto col sottoscritto, era entrato a far parte della crew del gruppo. Agli altri non era granché simpatico, ma l’invito era arrivato, sfortunatamente per loro, anche alle sue orecchie.
«Ehilà, Gary», gli fece Porl. Gary lo squadrò da cima a piedi. Era bassino, e la zazzera castana sopra quegli occhi cristallini lo facevano sembrare decisamente antipatico. Ma io lo conoscevo bene, era una persona fidata, nonostante le apparenze. Un po’ rude, magari.
«Ehi Thompson, felice compleanno !», rispose, sorridendo beffardamente. Di solito chiamava per cognome chi non conosceva molto bene. Era un’abitudine che personalmente detestavo.
«Almeno in giorni come questo potresti chiamarlo per nome», sussurrai al suo orecchio poco dopo, mentre scendevamo di sotto. La festa si sarebbe svolta nel garage di Porl.
“C’è tutto in garage. Bagno, frigorifero, stereo e molte casse di birra. Non manca nulla, direi”, aveva spiegato lui stesso, “E poi qua sotto potremo sicuramente fare il casino che di sopra turberebbe alquanto i vicini”.
«Chiamarlo per nome ? Intendi… Cioè, quell’orribile soprannome che gli avete dato voi ? Porl ? Meglio Thompson a questo punto», disse Gary guardandomi di traverso.
«Bah, come ti pare». Sapeva essere di una testardaggine unica. L’avrei malmenato volentieri in quel momento.
Per far sfumare la voglia di pestare Gary, andai ad aiutare Porl a sistemare il locale. Ripulimmo il tavolo e lo imbastimmo, prendendoci poi delle birre ghiacciate dal frigo.
«Gli altri quando arrivano ?», gli chiesi di sfuggita, mentre stappavo la mia bottiglia.
«A momenti, credo», rispose lui, fermandosi un momento, pensieroso, «Lol mi ha chiamato da casa di Robert, e mi ha detto che sarebbero passati a prendere anche Mary e Janet».
«Bene». Finimmo di sistemare le sedie. Faceva proprio freddo là sotto. Avevo fatto bene a lasciarmi il giubbino. «Ma qualcosa per scaldarci non c’è ?», chiesi, sfregando assieme le mani.
Porl aprì lo sportello dell’unica credenza che arredava lo stanzone. Prese una scatolina e la aprì. Davanti ai miei occhi apparvero una ventina di piccole tavolette dai colori sgargianti. «Credi che questa basterà a scaldarci ?». Annuii sorridendo, «Direi che può andare».

Gli altri arrivarono circa mezzora dopo, e noi tre stavamo già scolandoci la seconda birra.
Li sentimmo bussare alla porta del garage. Porl si alzò ed aprì, spiegandomi di aver già detto loro che ci saremmo accampati qui.
Entrarono tutti e quattro. Lol si tolse la cuffia di lana ed i guanti e li buttò su una sedia. «Ma si gela fuori !», esclamò, arruffandosi i ricci castani.
Janet era imbacuccata per bene, ed aveva entrambe le guance rosate per il repentino cambio di temperatura. Si sfilò la giacca ed andò a baciare Porl, mormorandogli «Buon compleanno, tesoro» all’orecchio.
Mary e Robert si tenevano per mano. Lei reggeva, con la mano libera, un pacchetto identico al mio, quadrato e piatto.
Salutarono a turno Porl augurandogli un buon compleanno, poi i loro sguardi si posarono su di me.
Li salutai buffamente con un cenno della mano.
Successivamente si accorsero di Gary, cui fecero un demotivato cenno di assenso con il capo, accompagnato da sorrisini decisamente falsi.
Robert si allontanò da Mary, dirigendosi verso di me.
«Sim», disse tutto eccitato, togliendosi la sciarpa, «Credo di avere uno spunto per il nuovo album. Ne ho già parlato con Lol, e volevo giustamente renderti partecipe».
Non mi stupii più di tanto, d’altronde Rob era un pensatore brillante. Però finsi di non aspettarmela, uscendomene fuori con un «Oh, racconta !» alquanto sorpreso.
Si sedette ed iniziò a parlarmi concitatamente di uno stupido talk-show che aveva visto in tv quella mattina, in cui si parlava di pornografia. Che strano, non mi intendevo granché di pornografia. Sapevo perfettamente di cosa si trattasse, ma non mi consideravo di certo un esperto in materia, ecco. Beh, certo che parlare di pornografia dopo un disco come Faith, in cui le uniche ossessioni di Robert sembravano essere morte e spiritualità… Mi sembrava un salto di qualità al contrario.
Secondo lui, dietro questa concezione popolare di pornografia, intesa come distribuzione plastificata del sesso alle masse, c’era qualcosa di più. La morte di tutti i valori, la morte dell’amore così com’era stato inteso nel romanticismo o addirittura nell’età cortese, e via dicendo.
Dopo pochi minuti avevo già smesso di ascoltarlo. Non che mi annoiasse, semplicemente perché era bello osservarlo anche da questa muta prospettiva. L'enfasi che metteva in quel discorso sembrava averlo allontanato dai giorni passati. Ciò che era stato semplicemente non c'era più. Come fosse rinato.
Lo guardavo muovere gli occhi e le labbra verso di me, limitandomi ad annuire ogni tanto. Sentivo il rumore delle risate degli altri, e chissà cosa si stavano raccontando.
Mi estraniai dal mio corpo. Li sentivo parlare ma non li capivo. Neanche mi stavo sforzando. Forse era la terza birra che stava facendo il suo effetto ?
«Allora, cosa ne pensi ? Comunque domani visioneremo la videocassetta, giacché non ho perso tempo e mi sono registrato la replica di stasera», concluse Robert, soddisfatto del suo sermone.
Ritornai nel mio cervello, prendendo possesso delle parole e connettendo i pensieri.
«Sì, insomma, vuoi parlare di sesso», risposi semplicemente, sorseggiando ancora la mia birra, «Pervertito».
Scoppiò in una fragorosa risata. «Qui ci vuole della vodka», sentenziò.
«Ehi Thompson !», urlò Gary a Porl, «Quando diavolo hai intenzione di aprire i regali ?».
«Ah, giusto !», esclamò il festeggiato, «Venite tutti qui !».
Iniziò a scartare il mio. Un vinile di Captain Beefheart, Safe As Milk, per la precisione. Lui adora Captain Beefheart, ed io e Gary ci eravamo accordati su questo come miglior regalo.
Alla vista del disco, Mary ebbe un sussulto. «Ma no, non è possibile… !», esclamò. Robert però la zittì con lo sguardo.
«Oddio, grazie ragazzi», disse Porl, guardandoci quasi commosso.
«Ma figurati, dovere», risposi un po’ imbarazzato.
«E adesso il vostro !», continuò, indicando Robert, Mary e Lol.
Strappò la carta dal loro regalo.
Safe As Milk, di Captain Beefheart. Mary si coprì gli occhi con le mani. Ora finalmente capivo il significato della scenetta di prima.
«Oh…Grazie anche a voi», mormorò Porl, mettendo vicini i vinili ed esaminandoli accuratamente, «Mh…».
Si allontanò un momento, e tornò con un pennarello nero in mano.
«Ci voglio i vostri autografi, sopra !», esclamò sorridendo.
Sollevati, Robert, Mary e Lol firmarono il loro regalo, passando poi il pennarello a me ed a Gary, di modo che firmassimo anche noi il nostro.
«Avranno un posto d’onore in camera. E poi così avrò altre due buone ragioni per continuare ad amare Captain Beefheart», ci comunicò a gran voce, ringraziandoci poi nuovamente per il pensiero, che disse di aver apprezzato moltissimo.
Ci sedemmo quindi al tavolo, chiacchierando animatamente.
Lol aveva portato diverse bottiglie di vodka, ed io ero già un po’ su di giri con la birra.
‘Però un po’ di alcool portato da un amico fidato non si rifiuta mai’, mi dissi.
Dopo non so quanti bicchieri di vodka liscia “con molto ghiaccio”, come non facevo altro che ripetere, ormai avevo perso la cognizione del tempo. Le parole, sconnesse, mi si impastavano in bocca. Non facevamo altro che bere e ridere. Si stava rivelando decisamente una piacevole serata.
Avevamo anche suonicchiato qualcosa, per la gioia del resto del gruppo, ma sbronzi com’eravamo non azzeccammo una singola nota. Robert fissava imbambolato il muro grigio di fronte a sé, toccando a malapena le corde della sua chitarra ed aspettando che qualcuno iniziasse a cantare.
Aveva temporaneamente rimosso di essere lui stesso il cantante.
Dopo dieci abbondanti minuti di quella che doveva essere l’intro di The Drowning Man, strimpellata alla meno peggio, la sua risata convulsa si diffuse nel microfono, e dal microfono alle casse. Si era appena reso conto dell’accaduto.
«Altra birra ?», chiese Lol alle mie spalle.
«Ommioddio, vorrai scherzare», risposi. Stavo sudando parecchio. Avevo la sensazione che se avessi bevuto ancora sarei esploso in mille piccoli pezzi, imbrattando tutto il garage di Porl. Il freddo che mi aveva intirizzito tempo addietro era solo un lontano ricordo.
Cercai di sedermi a terra, ma dopo qualche istante, per chissà quale oscuro motivo, mi ritrovai supino. Mi tirai su di peso, ero decisamente andato. Porl e Janet si erano eclissati da un pezzo. Mary era momentaneamente in bagno.
Gary stava fumando, lontano da me, Lol e Robert. Mi trascinai vicino a lui e gli rubai la sigaretta di bocca. «Ehi !», fece, cercando di sembrare stizzito. Il risultato fu invece un urletto da donnicciola, che suscitò ilarità in tutti e quattro. Feci un paio di tiri, per poi restituirgli la cicca, ormai inutilizzabile perché troppo vicina al filtro. Lui la fissò per un momento, poi la spense di forza sul posacenere.
«Allora, vi ho già detto di cosa voglio parlare nel prossimo album», esordì Robert, rivolto a quella piccola comunità di impenitenti che lottavano contro i fumi dell’alcool per preservare un minimo di dignità.
«Sì Rob, di bambole gonfiabili», rispose Lol. Una risata, ancora risate. Iniziavano a rimbombarmi troppo in testa.
«No, dai, dico seriamente». Sembrava aver improvvisamente riacquistato la fermezza e il vigore che avevano in precedenza lasciato posto all’euforia.
«Dai, dicci Smith». Ora era Gary a parlare. «Sono proprio curioso di sapere cosa ti passa per la testa».
Cercavo di identificare le voci senza ruotare eccessivamente la testa. I movimenti veloci riuscivano a confondermi più che discretamente in quello stato.
«Visto che tra qualche anno morirò, voglio che questo disco sia ricordato come il mio testamento». Stava palesemente vaneggiando. Incespicava nelle parole. «Perché non importa se moriamo tutti. A me non importa se moriamo tutti. Prima o poi accadrà, d’altronde. Appena nati iniziamo già a morire. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, non facciamo altro che morire. Anche adesso, noi stiamo morendo. Ed è strano… C’è chi arriva ad una certa età, chi invece muore prima. O chi sparisce senza preavviso, come tua madre», disse, voltandosi verso Lol, «E tutto questo lascia un vuoto apparentemente incolmabile… Ma sappiate che, davvero, a me non importa se moriamo tutti», concluse, in tono lugubre. Il suo volto era sereno, però, come se non avesse detto nient’altro di diverso dal banale “Che ore sono ?”.
«Interessante…», commentò Gary, concentrato su una crepa che si allungava sul soffitto.
Vidi gli occhi di Lol allargarsi di disperazione. Era passato in pochi secondi attraverso l'ebbrezza, lo sconcerto ed il terrore. Una commistione spaventosa.
Si alzò lentamente, sconvolto, in silenzio, ed uscì dalla stanza. Anche se non aveva proferito parola, sapevo che quel discorso aveva incrinato qualcosa dentro di lui. E quel qualcosa era divenuto insopportabile. Insostenibile.
Il sangue mi scorreva gelato. Le cose, che prima mi apparivano nebulose, acquistarono di colpo una lucidità inquietante. Era tutto troppo veloce, ed io non riuscivo a fermarlo. Non ero riuscito a fermare tutto questo, ad impedirlo.
Perché ? Cosa diavolo stava blaterando Robert ?
Mi alzai anche io. Cercai di riappropriarmi di una buona dose di equilibrio, e lo guardai con disprezzo.
«Io proprio non ti capisco».
Lui scosse la testa. «Che bisogno c’è di capirmi, Simon», disse piano, «Non ce n’è davvero alcun bisogno, credimi». I suoi occhi bassi, che evitavano ancora di guardarmi.
Ennesimamente sfuggente.
Era una scena pietosa.
Bastardo. «Sei un bastardo». Odio. «Ti odio».

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Capitolo 10
*** It's Not You ***


Chapter Ten

~ It’s Not You

«Sei un bastardo, ti odio».
Le ultime parole che mi rivolse Simon, prima di allontanarsi, non lasciavano presagire niente di buono. Lo sentii camminare lontano, gli anfibi che risuonavano sconnessamente sul pavimento. Mi aveva marchiato a fuoco col suo sguardo.
E questo mi terrorizzava enormemente. La sua espressione lasciava trasparire senza alcun dubbio ciò che provava nei miei confronti in quegli istanti.
Avrei potuto scusarmi, ma l’interesse al momento era poco. In ogni caso, non ero stato in grado di controllarmi. E forse avevo esagerato.
La mia testa era pesante. Avevo bevuto troppo, ma non mi importava affatto dell’alcool.
«Dove posso trovare da bere ?», chiesi a Gary, lì vicino. Dio mio, lo trovavo decisamente insopportabile. Ed immagino la cosa fosse reciproca. Ma d’altronde l’unica persona che avevo lì accanto, purtroppo, era lui. Intendiamoci, non era rimasto di certo per sua volontà. Non riusciva neanche a tenere gli occhi aperti.
Ruotò piano la testa verso di me, lo sguardo vuoto. «Ed io cosa ne so, Smith», biascicò.
«Fanculo», gli risposi. Certo che Simon se li sceglieva proprio bene gli amici.
Provai ad alzarmi. Il passo era pesante, stanco.
Non mi interessava continuare in questa direzione. Non mi interessava approfondire i rapporti con gli amici, con i conoscenti. Non mi interessava l’amore. Non mi interessava la musica. Non volevo continuare, non più. Ero sfibrato, completamente sfinito.
Non c’era salvezza, per me.
Trovavo tutto così effimero… Su questa terra niente mi sembrava avere importanza. Noia e sofferenza, tutto ciò con cui riuscivo ad avere familiarità. Ogni cosa veniva inesorabilmente distorta e trasformata da questo crescente nichilismo che mi pervadeva.
Le mie reazioni però non erano comprensibili dall’esterno. Le mie distanze, le mie risposte, i miei discorsi… Nella loro assurdità avevano un senso. Non sopportavo di dover trascinare anche loro in quest’oscurità infinita. Forse c’era una luce, piccola, microscopica, in fondo a tutto questo. Se solo l’avessi trovata, avrei potuto aggrapparmi ad essa per un poco, prima di essere spazzato via. Ma quel flebile bagliore non era visibile ai miei occhi.
E la cosa triste era che mi stavo gradatamente abituando al buio. In questo modo facevo semplicemente sì che mi odiassero, tutti quanti. Sarebbe stato per loro più facile lasciarmi andare senza troppi rimorsi di coscienza.
Se c’era un senso in tutto questo, io non l’avevo ancora scoperto. E di questo passo non sarei andato molto lontano.
Sentivo che ormai tutto stava svanendo. La velocità con cui le situazioni mi scivolavano addosso era impressionante. Faceva paura. Ed io avevo paura, costantemente. Non volevo invecchiare, non volevo diventare vecchio e rimpiangere. Il tempo era troppo poco, e il terrore che mi accompagnava premeva sempre di più sulle mie tempie. Volevo solo morire. Sparire. Perdere tutto quanto, il prima possibile.
Ciò che di bello mi accadeva veniva strangolato da quel sottile ed indistruttibile sospetto che si insinuava di notte, nel buio delle mie coperte. Ciò mi aveva reso inconsolabile. Le domande erano troppe, e le risposte ricevute insoddisfacenti, o praticamente nulle.
Non potevo più permetterlo. Non potevo permettere a me stesso di soffrire ancora.
Quella sera, in mezzo a tutta la desolazione che l’alcool ed i miei discorsi corrosivi avevano portato, scoprii il modo per dare un taglio a tutto questo.

A prayer for something better
But the fear takes hold
Creeping up the stairs in the dark
Waiting for the death blow


*

Non so quanto tempo dopo presi il coraggio di alzarmi dalla sedia su cui mi ero appisolato ed andare a vedere come stesse Lol. Ci tenevo molto a lui, nonostante fino a quel momento i miei comportamenti lasciassero percepire dell’altro.
Salii lentamente le scale. Di sotto Gary era collassato su un fianco. Dormiva profondamente. Mi chiesi che fine avesse fatto Mary. Magari si era addormentata anche lei, da qualche parte. L’avrei cercata poi.
Al momento sentivo le viscere contrarsi dentro di me. Avevo voglia di vomitare tutto quanto. Sensi di colpa, inquietudine, alcool, tutto.
Ogni passo che facevo mi avvicinava al patibolo. Immaginavo la rabbia di Simon, ed il dolore di Lol. Non sarebbero stati molto contenti di vedermi. Ma dovevo.
So per certo di non essere granché coerente.
Li trovai di sopra, nel salotto di Porl, entrambi seduti sul divano. Simon si reggeva la testa con le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia. Lol invece aveva la testa riversa all’indietro, gli occhi chiusi. Forse dormiva. Chissà di cosa avevano parlato in mia assenza. O magari non avevano parlato affatto. In questi casi bastava un’occhiata per capirsi a vicenda.
Notai diverse cicche nel posacenere, e qualche bottiglia di birra sul tavolo.
Lol, quando era estremamente depresso, riusciva a trovare conforto solo nell’alcool. Si chiudeva completamente, rimaneva ore senza proferire parola. Dimenticava, non faceva altro che dimenticare. Quando lo conobbi non era una persona triste. Scherzavamo parecchio. È stato il mio primo migliore amico. Quando a scuola mi chiedevano chi fosse il mio migliore amico, rispondevo «Lawrence !», entusiasta. Ero fiero della nostra amicizia. Ci volevamo un gran bene.
Era diventato triste col tempo. Da quando sua madre si ammalò, divenne intrattabile.
Dopo la sua morte, il suo caratteraccio si amplificò di quindici volte. Era insopportabile, e le sue meditazioni alcoliche iniziavano a farmi rabbia sul serio. L’ombra di se stesso, ecco cos’era in quel momento. Ogni volta che lo vedevo in quello stato, in testa mi risuonavano le grida di quella sera d’albergo, il suo dolore che trasudava dalla porta del bagno. Non avrei voluto mai più sentire niente del genere. Mai più.
E forse uno degli obiettivi delle cattiverie uscitemi dalla bocca poco prima era proprio quello di evitare l’ennesima, opprimente tristezza di Lol, che non lasciava intravedere né fuga né tantomeno speranze di alcun genere.
Simon, sentendo dei passi, alzò lo sguardo, e mi vide. Rimase a fissarmi per alcuni interminabili secondi. Era stranamente lucido.
‘Tutte quelle birre le ha bevute Lol, allora’, conclusi tristemente.
Mi avvicinai a loro. Presi posto nella poltrona lì accanto. Stavo per dire qualcosa, ma Simon, freddamente, mi precedette.
«Cosa diavolo vuoi ancora ?». Ora toccava a lui evitare il mio sguardo. «Cosa… Come ti sei permesso di…». Strinse i pugni, irato. Non riusciva a terminare la frase, vedevo le sue parole inabissarsi di continuo.
Allora si alzò di scatto, furioso. ‘Ora mi ammazza’, pensai. Invece bisbigliò tra i denti «Vieni di là in cucina, non voglio svegliarlo», indicando Lol.
Lo seguii, mestamente. ‘Lì avrà modo di uccidermi con più calma’.
«Fossi in te nasconderei il mio cadavere a piccoli pezzetti nel freezer di Porl. Lui mangia di tutto», cercai stupidamente di ironizzare una volta raggiunta la cucina, ma i lineamenti del suo volto si fecero ancora più duri.
«Esigo che tu ti scusi con Lol», iniziò sveramente, «Ma come diavolo ti è venuto in mente di tirare fuori il discorso di sua madre ? Ti sembra giusto, Robert ? Sei stato scorretto, sleale, privo di tatto, un vero idiota. Puoi avere tutti i problemi del mondo, ma noi siamo tuoi amici e pretendiamo il tuo rispetto». Gesticolava con veemenza. Adoravo vederlo gesticolare mentre parlava, come se muovere le mani lo aiutasse a formulare le frasi con maggior fluidità. «Non puoi pensare realmente ciò che hai detto». Mi guardò sconsolato, per poi incrociare le braccia, aspettando una mia risposta.
«Invece è proprio così, Simon», ribattei, appoggiandomi alla credenza, «Ho capito che è così. A me non importa di morire. Anzi, vorrei lasciare tutto questo il prima possibile, non riesco…». Non riesco più ad andare avanti, Sim.
Ancora le voci. Evitarle era impossibile, ormai. Gridando, cancellavano ogni grammo di gioia accumulata con fatica negli anni. Mi svuotavano inesorabilmente, togliendomi il respiro.
Lui si avvicinò a me, come se avesse percepito la mia confusione. Come se anche lui sentisse quelle voci. «Non riesci a fare cosa ?», chiese ingenuamente.
Se solo tu potessi ascoltare, Simon… Se solo tu tendessi l’orecchio con più attenzione, sapresti di cosa parlo…
«Io mi sento… Prosciugato, Sim. E’ come urlare a squarciagola in una stanza vuota, in cerca di aiuto, e sentire solamente l’eco della tua voce». Alzai lo sguardo su di lui. I suoi occhi limpidi mi fissavano intensamente. Il suo viso era decisamente stanco.
«Non credo che questo malessere ti dia comunque il diritto di parlare così al tuo migliore amico. Tu lo fai ogni volta, Rob», proseguì, «Con noncuranza. Come se tutto quello che abbiamo passato insieme fosse… Fosse meno di niente. La morte della madre di Lol è stata devastante per lui. L’hai visto. Sei il suo migliore amico, ti adora Rob. E tu, invece di consolarlo, ci marci sopra ? Come puoi non vergognarti di questo ? Mi dispiace doverlo dire, ma non sei più la persona che ho conosciuto». Mi stava accusando. Era rabbia, rancore o preoccupazione quella che sentivo provenire da lui ? «Lol, io, Mary… Siamo stati così in pensiero per te. E tu, per ricambiare il favore, ci stai gettando via come spazzatura. Non è giusto, non è affatto giusto». Scosse la testa, fissandosi le scarpe. Un momento di pausa. «Noi siamo spazzatura per te ?». Tornò a guardarmi.
Non riuscivo a riconoscere il tono assunto da quella domanda. Sembrava implorarmi. Implorarmi di rispondere negativamente, di rassicurarlo. Voleva piangere, in quel momento, lo vedevo chiaramente. Era indifeso. Il suo desiderio più grande era la liberazione data dalle lacrime. E presi a desiderare intensamente anche io.
Il cuore iniziò a battermi velocemente. Stava per evadere, ed io stavo per scoppiare.
Mi accasciai a terra, il volto fra le mani, fiumi di lacrime che mi scivolavano addosso, chiedendo scusa. Ero io ad implorare, adesso.
«Mi dispiace». Lo ripetei non so quante volte. In quel momento non riuscivo a balbettare altro. «Io ho solo paura… Di perdervi. Di perdere tutti voi… Non voglio trascinarvi giù con me», dissi alla fine, «Io non so dove sto andando, non so come sarà la mia vita, non so cosa sarà di me… Ho il terrore di questa vita, di questo buio. Non odiarmi, ti prego…». Non potevo guardarlo, era troppo doloroso quello che stava fuoriuscendo da me, per la prima volta in tanto tempo. Un silenzio assordante che mi circondava. Il solo rumore udibile erano i miei singhiozzi.

E poi arrivò, il tanto atteso tepore.
Le sue braccia attorno a me. Il suo respiro sul mio collo. Il suo profumo e l’odore di alcool che alleggerivano di un po’ la cruenta densità dell’aria.
«Se è giù che dobbiamo andare, Rob, andremo giù. Toccheremo il fondo insieme», sussurrò, «E se ti smarrirai, ti prenderò per mano, e risaliremo in superficie. Insieme».
Piansi amaramente per tutta la durata dell’abbraccio, che al momento non saprei quantificare. Piansi per la mia stupidità, e per la sua comprensione.
Forse, vagando senza meta in quell’oscuro calvario, avevo trovato ciò che cercavo.
Qualcosa a cui aggrapparmi. Così luminoso da far male agli occhi.
Ed era immensamente confortante sentirlo addosso a me.

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Capitolo 11
*** I'm Cold ***


Chapter Eleven

~ I’m Cold

Bodies may be made of fire - but souls are made of ice.

Non so cosa mi avesse spinto in quella direzione, verso di lui. Non credo di averlo mai più abbracciato con così tanto vigore come quella volta.
Vederlo affogare in quel mare di sua personale disperazione aveva fatto completamente svanire le mie precedenti convinzioni.
Avrei dovuto sgridarlo, rimetterlo sulla retta via. Dovevo prendere in mano la situazione una volta per tutte, perché tutto ciò non era più sopportabile. Il suo modo di reagire era impossibile da sostenere, ancora. Volevo tornasse il Robert Smith che avevo conosciuto a casa di Michael Dempsey, tre anni prima. Quel ragazzo che favoleggiava su Jimi Hendrix, che suonava in quella sua band sperando, sognando di diventare famoso, il ragazzo che un giorno si presentò ad una festa vestito come David Bowie sulla copertina di The Man Who Sold The World.
Io desideravo ardentemente quei momenti di spensieratezza tipicamente giovanile. Non volevo averli persi per sempre.
Cercai di sciogliere tutte le nostre questioni nel modo che al momento mi sembrava più semplice. Abbracciandolo. Era l’unica cosa che potessi fare. Le parole passano velocemente, ma il contatto fisico si imprime addosso alle persone, e si sarebbe rivelata sicuramente l’arma più efficace.
Non sono un tipo che si lascia trasportare dai sentimenti e si cimenta in effusioni con facilità. Però quella sera non provai affatto a ragionare sulla mia eventuale reazione, fosse sbagliata o meno, opportuna oppure no. Volevo fargli sapere che in quegli attimi io c’ero, e ci sarei stato sempre.
Chissà cosa stava pensando mentre la rumorosa pelle del mio giubbino si piegava, stiracchiandosi tutta attorno a lui.
Avrebbe accettato le mie rassicurazioni, o mi avrebbe ennesimamente respinto ? Dovevo prendere tempo, avevo una paralizzante paura della risposta.
Lo lasciai piangere ancora. Poi, dopo non so quanto, lo liberai dalla stretta.
Non dissi nulla, aspettavo solo che si riprendesse. E nel frattempo lo fissavo. Le sue braccia erano abbandonate al loro destino, lungo i fianchi. Sembrava un pupazzo senza vita. Eravamo entrambi in ginocchio sul pavimento freddo della piccola cucina di Porl. Mi si stavano addormentando i piedi sotto il peso del resto del corpo, ma non ci feci troppo caso.
«Grazie, Sim», mormorò finalmente, rompendo l’incanto silenzioso di poco prima. Si asciugò frettolosamente gli occhi con le dita, «Scusami davvero, non so cosa mi sia preso…».
Ma perché ora si stava giustificando ? Non poteva ammettere a se stesso la disfatta una sola, unica volta nella sua vita ? Per un momento mi attraversò il pensiero che tra i due il più orgoglioso in questo senso fosse lui.
«Non devi scusarti, cavolo… Voglio dire, capita ogni tanto», risposi tranquillamente con un’alzatina di spalle. Lui sembrava fissare un punto imprecisato dietro di me. Guardare le persone, sguardo nello sguardo, gli dava veramente molto fastidio. Avevo imparato a conoscerlo. I suoi occhi riflessi in quelli altrui erano una specie di nudità per lui, un’imperdonabile debolezza. Era scostante, con tutti. La sua non era mancanza di rispetto, ma semplice paura di essere scoperto nei suoi più intimi pensieri. Doveva risultare impenetrabile agli altri.
Per me invece tutto questo era una forma di sincerità imprescindibile ed assoluta. Sì, spesso non riuscivo a sostenere lo sguardo, ma quantomeno ci provavo.
Abbassò il capo. Il silenzio lo stava innervosendo, immagino.
«Non dovrebbe capitare», ribatté infine seccamente, alzandosi con uno scatto da terra ed avviandosi verso la porta.
No, non era possibile, non avrei tollerato un minuto di più quelle situazioni. Tutti i discorsi intrapresi con lui si concludevano sempre nello stesso identico modo. Si ripetevano all’infinito, come in una commedia scialba e monotona. Uno dei due contendenti che ad un certo punto sbrocca e se ne va. Due perfetti idioti. Due codardi.
Insopportabile.
Il voltarsi le spalle. Chiudere tutto, fuggire, troncare. Senza possibilità di replica.
Ero sinceramente stanco di quei giochetti, che per me ormai non avevano più alcun senso. Stavolta ne avevo veramente abbastanza.
«Vuoi piantarla di essere sempre così duro con te stesso ?», sbraitai. Ormai gli davo le spalle, e non mi curai affatto di voltarmi verso di lui. Strinsi i pugni a terra. «E, soprattutto, piantala di trattare noi come se fossimo te». La mia voce si era fatta un sibilo minaccioso.
Ora avrei accettato di buon grado le conseguenze di questa mia improvvisa ed eccessiva schiettezza, ma l’importante era essermi liberato da quel peso. Quindi mi alzai anche io, e lo raggiunsi sullo stipite della porta, perché era lì che aveva frenato la sua marcia per chissà dove. Gli passai accanto senza fermarmi. «E adesso vieni a scusarti con Lol».
Sentivo i suoi passi dietro di me, ma non mi voltai comunque per verificare se mi stesse realmente seguendo.
Arrivai di fronte al divano su cui Lol continuava a sonnecchiare, e lo scossi un poco.
«Lol, ehi Lol», sussurrai. Lui spalancò gli occhi terrorizzato, come se fosse stato interrotto nel bel mezzo di un incubo spaventoso.
«Che succede ?», chiese trafelato. Si guardò intorno, e vide Robert dietro di me. «Oh», fu la sua unica considerazione. Ributtò indietro la testa, gli occhi rossi e stanchi fissi al soffitto.
Mi voltai verso Robert come in cerca di aiuto. Vidi nel suo sguardo una strana determinazione.
«Lol, ascolta», disse, facendosi avanti, «Io… Beh, lo sai. Mi dispiace, ecco».
Lol scoppiò in una risatina isterica, «Tutto qui ?», chiese incredulo, sollevando il capo e guardando prima lui, poi anche me, «Mi ha svegliato solo per dirmi che gli dispiace ?».
«Beh, ma gli dispiace… Molto molto», risposi, tentando, in modo alquanto stupido, di salvare la situazione.
«Ma per favore, piantatela, tutti e due», tagliò corto lui, alzandosi. «Tu», iniziò, dirigendosi verso Rob con l’indice puntato, «Sono stanco di essere trattato come la ruota di scorta da te. Sei il mio migliore amico, e ti voglio bene, ma questo non ti scusa affatto per tutto quello che mi fai sempre sopportare. E ti assicuro che quello che passo a causa tua non è poco». Robert lo stava fissando, in silenzio. Sembrava seriamente intenzionato a sistemare le cose. «E tutto il bene che ti voglio non ti dà il diritto di scherzare su mia madre», concluse, freddo.
Io stavo a guardare, unico spettatore muto di quel triste faccia-a-faccia.
Robert prese un po’ di tempo per radunare le idee. Era come sentire i suoi pensieri frusciare come leggeri fogli di carta nel suo cervello, sparati in tutte le direzioni.
Ed ecco la calma. Lui che apre la bocca ed incanta di nuovo tutti.
«Io non stavo scherzando su tua madre, Lol, stavo solo facendo delle considerazioni su una questione un po’… Come dire, ostica, ecco, in preda ai fumi dell’alcool, oltretutto… Non mi permetterei mai di insultare Daphne, e tu lo sai…», gli spiegò mitemente, guardandolo dritto negli occhi, «Io le volevo veramente molto bene, così come ne voglio a te… Mi dispiace, davvero. Non so cos’altro dire. Scusami. Non volevo disonorare né tua madre né tantomeno il ricordo che hai di lei. Perdonami, se puoi».
«Stai parlando con me Robert, non usare queste frasi piene di tecnicismi. Non stai rilasciando un’intervista», replicò Lol, sempre molto distaccato. Poi abbassò l’indice che aveva ancora rivolto sull’amico a mo’ di arma, e si avvicinò di più a lui. «Ma che problemi hai, Robert ?».
Il tono della voce non era accusatorio, ma, piuttosto, comprensivo.
Non mi sarei mai aspettato una simile domanda da Lol, in quel momento almeno. Credevo fosse furioso. Credevo che tutto questo l’avesse intristito, che detestasse dover affogare il dolore nell’alcool, e che volesse farla finita con Robert per sempre, in quello stesso istante.
Ma, a quanto pare, aveva capito anche lui che dentro Rob qualcosa si era improvvisamente spezzato, chissà quando e chissà perché, e che queste sue ferite mettevano in pericolo lui stesso e tutto ciò che lo circondava.
Robert abbassò lo sguardo, come sconfitto. Touché.
«Non lo so, Lol…Non lo so», mugugnò.
Lol lo affiancò e gli cinse le spalle con il braccio destro. «Cerca di prendere le cose meno seriamente, Rob», disse, sorridendo, «E smetti di essere sempre così dannatamente cervellotico. Le persone semplici come me poi si sentono in difficoltà».
Venne da sorridere anche a me. Lol con quella manciata di parole aveva riassunto alla perfezione tutto il mio complesso di inferiorità nei confronti di Robert, e per questo mi sentii molto più leggero. Gliene fui tacitamente grato. Evidentemente era un problema che interessava anche lui, ed era bello avere un alleato, qualcuno con cui giocare ad indovinarsi i pensieri.
Alle sue parole, Robert lo guardò speranzoso, come un bambino con la propria mamma dopo aver combinato un guaio. Era come sentirlo dire “Allora mi perdoni ?”.
Mi sembrò quello il momento giusto per lasciarli da soli a chiarire. Non so, avevo come la sensazione di essere di troppo in quel momento. Decisi di scendere a vedere come stesse quel caso perso di Gary.
«Io vado a vedere a che punto del trip è arrivato Gary», annunciai, «Voi fate pure con comodo, erm», conclusi, grattandomi la testa.
Non lasciai loro il tempo di rispondere, perché già balzellavo sugli scalini per il garage.
Gary era letteralmente devastato. Mormorava in silenzio frasi sconnesse, riverso sul pavimento. Mi sedetti a terra, vicino a lui. Presi dalla tasca dei suoi pantaloni un pacchetto di sigarette e me ne accesi una. Gli soffiai il fumo in faccia. Lui sobbalzò, bisbigliando qualcosa tipo «Da dove esce tutta questa nebbia adesso ?».
Dubito mi avesse visto. O, comunque, nel remoto caso si fosse accorto di me, mi avrebbe sicuramente scambiato per un mostro palmato gigante che mangia vesciche umane, urlandomi addosso cose incomprensibili.
Aspirai un’altra boccata di fumo dalla sigaretta, e mi guardai attorno. Lì vicino a lui c’era, aperta e con diversi elementi mancanti, la scatolina piena di tavolette colorate che mi aveva mostrato Porl ore prima.
‘Povero, patetico deficiente’, mi ritrovai a pensare guardando Gary. Ed in fondo lì, vicino a lui, mi sentivo immensamente patetico anche io.
Ormai l’alcool era praticamente evaporato dalle mie vene. Ero sobrio. Sobrio, ma, per qualche strana ragione, insoddisfatto.
Mi stesi supino sul pavimento, continuando a fumare. La presenza di Gary che farneticava era quasi rassicurante. Come se la sua voce impedisse al silenzio di avvolgermi.
Il silenzio era una di quelle cose che mi rendeva immensamente triste. Mi rammentava la solitudine.
Non ero mai stato un ragazzo particolarmente solo. Voglio dire, mi è sempre piaciuto essere circondato di gente. Amici, parenti, o semplici conoscenti. Le loro voci, i loro visi, i loro sorrisi, le loro risate.
Forse proprio a causa di questa mia abitudine rimanere solo mi spaventava ed intristiva indicibilmente.
E forse per questo mi aggrappavo in maniera viscerale alle persone, anche quando, per loro volontà, mi lasciavano indietro.
Oggi era successo di nuovo. L’ennesima delusione, l’ennesimo tentativo di sopravvivenza. Quell’abbraccio era l’unica ancora di salvezza, l’unico salvagente a cui avevo accesso. Non avevo la più pallida idea di quanto questo mio gesto avesse scaldato il cuore di Robert, né per quanto tempo tutto questo sarebbe durato.
Dentro di me sentivo che lui stava pian piano svanendo dalla mia visuale. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento di abbandonare anche lui. Lo vedevo soffrire, e non era giusto per lui. Ma, nonostante tutto, non ero comunque riuscito a lasciarlo andare. Era stato più forte di me, ancora una volta. Stavo rischiando il tutto per tutto.
Volevo salvare lui, e volevo salvare anche me, ed il nostro rapporto. Consapevole del dolore che causavo, eppure resistevo strenuamente.
Ma la mia risaputa obiettività stava mandando tutto al diavolo.
Sì, solo un egoista si crogiolerebbe in pensieri del genere. Ma in fondo era una vita che mi crogiolavo, che sguazzavo in questa pozza apparentemente rassicurante. Il cambiamento, la novità, cominciare tutto da capo… Solo se strettamente necessario. Solo se non vi era altra possibilità.
Ho da sempre preferito la tortura alla solitudine.
‘Non mollare, Simon’, mi dissi, spegnendo la sigaretta nel posacenere.
Gary, ai miei piedi, si era addormentato. Non russava. Ora c’era uno spaventoso silenzio.
‘Torturati ancora un po’, finché puoi. Sei bravo in questo’.

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Capitolo 12
*** If Only Tonight We Could Sleep ***


Chapter Twelve

~ If Only Tonight We Could Sleep

Aprii gli occhi, lentamente. Ero in una sorta di stato confusionale, dovuto forse all’alcool, o più probabilmente allo stress accumulato durante la serata. Mi ero addormentato dopo aver parlato un po’ con Lol. Tra noi era tutto estremamente semplice ed immediato.
Sollevai piano la testa. Intorno a me era tutto avvolto in una pesante coltre scura. Non ero sicuro di aver aperto gli occhi, perciò mi tastai il viso. Sì, ero sveglio.
Ed ero in piedi. In piedi in mezzo al nulla. Eppure mi ero addormentato seduto sul divano. ‘Strano’, pensai tra me e me. Ma non riuscivo a vedere ad un palmo dal mio naso. Poi all’improvviso una luce fortissima, puntata su di me, illumina di poco il luogo.
Mi trovavo su un palco. Avevo in mano una chitarra, e, beh, prima non me n’ero accorto. Non era pesante, e neanche ingombrante. Sembrava essere fuoriuscita da me all’occorrenza. Però al momento io non sapevo decisamente che farmene.
L’abbagliante luce si rivelò essere un riflettore, puntato su di me. Schermai la luce dal viso con un braccio.
Fastidiosissima.
Il palco era completamente illuminato; sotto, invece, non c’era nulla. O, almeno, io non vedevo nulla. Il vuoto più totale, buio assoluto.
Ero disorientato. Non sapevo cosa fosse successo, né tantomeno perché mi trovassi in quel luogo. Più mi sforzavo di ricordare, più mi sembrava inutile. La luce del riflettore era fortissima, accecante. Provai a muovermi. Ma i miei piedi non volevano saperne. Incollati, inchiodati, immobili.
Distolsi lo sguardo dal riflettore e presi a fissare la chitarra. Come era arrivata lì ? E perché, soprattutto, io ero lì ?
I miei vestiti, guardai anch’essi. Mi stringevano, erano stretti. Mi stavano soffocando, piano. E comunque non ricordavo di averli mai visti prima.
Iniziavo seriamente a spaventarmi.
«Se questo è uno scherzo, non è affatto divertente ragazzi !», gridai.
Ma la mia voce si perse nel buio. Nessuna risposta, nessun rumore.
‘Mantieni la calma, avanti’, mi dissi.
Mentre cercavo di richiamare alla mente delle risposte sufficientemente plausibili, laggiù, nell’oscurità, intravidi qualcosa di bianco, quasi lucente. Avrei voluto vedere di cosa si trattasse, ma ovviamente non potevo. Le mie gambe non rispondevano ai comandi.
Il bagliore, però, sembrava avvicinarsi a me.
Ed ora era talmente vicino che potevo distinguerne la sagoma. Era un uomo.
«Ehi !».
Ma non ottenni risposta.
L’uomo si fermò appena sotto il palco.
Ed ecco un altro riflettore illuminare il suo viso. I capelli neri scarmigliati, e gli indisponenti occhi castani che mi fissavano. Il foulard rosso legato al collo. La giacca di pelle. E la sua espressione, che non lasciava trapelare nulla.
«Suonami qualcosa», disse Simon, in tono neutro. «Sim, grazie al cielo, mi avete terrorizzato… Che ci facciamo qui ? Dove sono gli altri ? Dov’è Lol ?», chiesi, rincuorato dalla presenza del mio amico.
«Lol non è qui da molto tempo», rispose calmo.
«Come non è qui da molto tempo ? Ma che ore sono ? Dannazione, Simon». Mi stavo infastidendo.
«Suonami qualcosa, presto», ripeté lui, «Prima che tornino».
«Prima che tornino… Chi ? Di chi stai parlando ?». Continuavo a fare domande, ma in cuor mio già sapevo che le risposte non sarebbero state esattamente soddisfacenti.
«Di cosa, al limite», rispose.
«Cosa, allora ? Cosa tornerà ?». Ero esasperato. «Ti prego Sim, portami via da qui…».
«Le cose morte torneranno», spiegò Simon, con l’intento di chiarirmi le idee, «Le cose morte tornano sempre».
«Le cose morte… Ma di che diavolo stai parlando Simon ?», chiesi ancora, ormai sull’orlo delle lacrime, «Non riesco a muovermi, Sim, ho paura… Portami via…».
«Suonami qualcosa, ti prego», ripeté per la terza volta, implorante.
Chiusi gli occhi, cercando di tranquillizzarmi. Avrei suonato qualcosa, se proprio lo desiderava tanto. Speravo vivamente che questa pagliacciata finisse al più presto. Iniziavo seriamente ad irritarmi.
C’era bisogno di tutta questa messa in scena per farmi pentire di ciò che avevo detto quella sera ? Eppure con Lol avevamo chiarito…
Mi avevano per caso drogato ?
Guardai per un attimo verso Simon, cercando di individuare un passo falso nella sua espressione. Lui non riusciva a trattenersi dal ridere quando le cose si facevano divertenti. Ma in quel momento era concentrato su di me, assorto, lo sguardo quasi assente.
Stranito e deluso, andai con le dita a tastare le corde della chitarra. La chitarra, però, non c’era più.
Alzai gli occhi, incredulo. «Io… Era qui un minuto fa… Simon, lo giuro, era qui», spiegai, guardandolo, «Oddio…Uff, senti, smettiamola con questo stupido scherzo, ne ho abbastanza».
Lo vidi scuotere la testa al rallentatore, come se si trovasse di fronte ad uno sciocco. Si mise le mani nelle tasche del giubbino, come faceva sempre, e prese a salire le scale di legno che portavano al palco.
Era scalzo. E le assi di legno scricchiolavano sotto i suoi passi. Guardava fisso a terra.
«Non è divertente», gli dissi, «Non è affatto divertente, Simon. Sono stanco, dimmi dove sono tutti e piantala.
Piantatela. Se intendevate spaventarmi, beh, ci siete riusciti, complimenti, un applauso agli ideatori di questo teatrino orrendo».
Ormai eravamo quasi faccia a faccia.
Si fermò di fronte a me. Solo allora mi accorsi che stava sanguinando abbondantemente dalla fronte.
«Ommioddio Sim», esclamai, cercando di toccargli la fronte. Lui si scostò al tocco delle mie dita. «Ma tu sanguini…». Come diavolo avevo fatto a non accorgermene prima ? Alcune gocce di sangue gli cadevano sulla maglia bianca. Mi fissai per un momento le dita sporche di rosso, riflettendo. «O magari è solo sangue finto. Ah-ha, fantastico, sì, decisamente ben congeniato. Ora però smettila, dacci un taglio».
Ma lui non sembrava ascoltarmi. Doveva averla imparata bene, la parte.
«Le cose morte tornano sempre, Rob. Tu non puoi mandarle via», disse semplicemente.
«La smetti di dire cazzate ?!», gli urlai addosso. «Ho capito, sì, sono stato uno stronzo, e con questo ? Ho imparato la lezione, adesso basta !». Tentai di scagliarmi contro di lui, consapevole però di avere le gambe immobilizzate. Stavolta, però, riuscii a muovermi, e venni scaraventato in avanti.
Caddi rovinosamente a terra. Cercai di rialzarmi. Pensavo di essere caduto sopra Simon, ma lui non c’era. Era nuovamente tutto buio. Mi sentivo i vestiti bagnati e pesanti, come se fossi caduto in acqua.
«Simon… ?», bisbigliai.
Ero in piedi, ma non vedevo nulla.
Ed eccole tornare, le voci. Di nuovo loro, sempre loro. Ora però erano chiare, riuscivo a distinguerle. Erano i miei amici, le persone che amavo. Desideravo vederle, volevo vederle adesso, ne avevo assoluto bisogno.
Andai a tentoni per qualche passo, poi si accese, improvviso, di nuovo, il riflettore.
Mi sembrava di essere in un dramma shakespeariano. Tutto così improvviso e così… Assurdo.
I miei vestiti erano sporchi di rosso, ero fradicio. E il rosso era dappertutto, imbrattava ogni centimetro. Il palco era un unico, grande lago vermiglio.
Mi voltai a destra ed a sinistra, gli occhi pieni di terrore. Ero terrorizzato.
Dietro di me c’era Lol, chino sulla batteria. Sporco anche lui, i capelli gocciolanti, lo sguardo vitreo. Mi avvicinai, ma non ebbi il coraggio di toccarlo.
Alla mia destra, Porl e Janet, distesi ed abbracciati l’uno all’altra, gli occhi sbarrati.
E poi Mary, Michael, Gary… Li vidi tutti. C’erano anche mio padre, e mia madre, e il dottore che mi visitò quel giorno in ospedale, e i due bambini che incontrai per caso la mattina di un paio di settimane fa. Il palco era colmo di corpi riversi e macchiati di rosso.
Urlai, urlai con tutta la voce che avevo in corpo, a pieni polmoni, non potevo smettere. Mi rendevo conto che tutto ciò era ai limiti dell’improponibile, ma nonostante questo non riuscivo a frenarmi.
«Se non sarai forte, loro ti avranno ancora». La voce di Simon, alle mie spalle. Neutra, atona. Mi voltai verso di lui.
«Che è successo ?», chiesi, scosso. Non sapevo cos’altro chiedere, al momento.
Lui mi guardò, severo. Aveva ancora la fronte macchiata di rosso, ma l’emorragia sembrava essersi fermata.
«Un altro giorno come questo e ci ucciderai», rispose. Poi mi sentii scuotere con violenza.

Aprii gli occhi, stavolta realmente. Ero seduto, e di fianco a me c'era Lol, che mi fissava con la sua solita espressione a metà tra lo sconcerto e lo spavento. Una braccio teso verso di me, e la sua mano sulla mia spalla destra. Stava fumando. Non una novità, insomma. Sigaretta prima di addormentarsi e sigaretta appena sveglio. Un’abitudine che aveva contagiato anche me, purtroppo.
«Ma che hai da mugolare ?», chiese, soffiando fumo, «Se ti muovi ancora un po’ lo sveglierai».
Mi resi conto allora che, con la testa appoggiata sulla mia spalla sinistra e le mani dentro le tasche del giubbino, Simon dormiva profondamente, senza emettere un singolo rumore.
I capelli arruffati, al solito. La sua vita era una continua lotta, per questo i suoi capelli erano sempre così in disordine.
Istintivamente gli tastai la fronte, e fui sollevato quando la trovai asciutta. Niente sangue, niente di niente.
Solo uno stupido incubo. E, sì, l’avevo leggermente intuito verso la fine. Ma la cosa orribile dei sogni è che non sai quando né come ne uscirai. Questo rendeva il tutto ancor più inquietante.
Avevo bisogno di scrivere di questa esperienza. Carta e penna, ecco cosa mi serviva in quel momento. A pensarci bene, si era trattato di un incubo veramente bizzarro… Non avevo affatto riposato a causa sua. Spiegazione apparente non v'era. Magari buttare giù qualcosa mi avrebbe aiutato a fare chiarezza. Ne avrei sicuramente ricavato qualcosa.
«Hai paura che si sia preso l’influenza ?», mi si rivolse ironicamente Lol, notando la mia mano che indugiava sulla fronte di Simon.
«Ah, no, no, è che… Ho fatto un sogno un po’ strano, prima», cercai di spiegare, ritraendomi velocemente dal mio amico, «Ma che ore sono ?».
Lol, con la sigaretta in bocca, si alzò, andò alla finestra principale del soggiorno, che si trovava proprio di fronte a noi, ed aprì le tende. Il cielo pallido e perlaceo dell’alba mi sfiorò il viso, ed il suo chiarore ebbe immediatamente su di me un effetto benefico. «Mh», mormorò, sempre stringendo la cicca tra le labbra, «Saranno, toh, le sei».
Se ne rimase lì, a fissare il mondo dietro il vetro, con le mani sui fianchi. Sembrava essere una bella giornata. L’alba ha sempre un che di magico.
«E’ bella l’alba», mormorai, rivolto ad un interlocutore inesistente.
Accanto a me Simon stava per uscire dal sonno. I bagliori mattutini avevano risvegliato anche lui. Era veramente carino quando dormiva. Sembrava un buffo scoiattolo.
«Già», rispose Lol, dopo un poco, «E’ come se l’alba ti curasse da tutti i mali. Ti trascina di peso fuori dal dolore». Si voltò verso di me, «Ed è tutto ciò di cui ora abbiamo bisogno».

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Capitolo 13
*** A Short Term Effect ***


Chapter Thirteen

~ A Short Term Effect

Le tenere carezze della luce solare si facevano finalmente strada sul mio viso, e piano uscii dal torpore. Il mio corpo si scosse in un brivido.
Sollevai con cautela le palpebre, e scorsi un sole pallido, che mi accoglieva scialbo da dietro il vetro. Fissai per qualche secondo, abituandomi alla luminosità mattutina, il panorama che mi si proponeva davanti.
Il cielo era terso, chiaro, senza nuvole. Gli spogli alberelli, reduci dal desolante mese di ottobre, non si prendevano il disturbo di fremere. Niente vento. Nessun rumore.
Calma piatta.
O forse calma apparente.
Una situazione spiacevole da “quiete prima della tempesta”. ‘Che strano’, pensai.
Mossi il capo verso sinistra, provando ad identificare meglio la mia posizione. Ero rannicchiato in posizione fetale sul divano di pelle marrone di Porl, ed ero stato coperto con un’insulsa coperta di lana a fantasia scozzese. Le mani erano pressate tra di loro all’interno delle cosce, intente a trovare un po’ di tepore.
Sbadigliai. Ripresi a poco a poco il controllo delle mie funzioni motorie, connettendo il tutto agli addetti neuroni efferenti. Pronto per alzarmi. Sbadigliai di nuovo.
Chissà dov’erano tutti. Chissà perché mi avevano lasciato lì tutto solo.
Che noia.
Stiracchiai gambe e braccia, e mi misi seduto. Mi girava la testa.
Con sguardo assente scansionai la stanza in tutte le sue minuzie, cercando di individuare qualche indizio di recente vita umana. Ma niente inizialmente mi colpì.
Deciso, scattai in piedi, le vertigini che salivano come formiche. Trascinai i piedi in giro per qualche minuto, indeciso sul da farsi.
Mi affacciai di sotto, e provai un intenso sollievo nello scorgere Gary ancora paciosamente accoccolato sul pavimento. ‘D’altronde sono l’unico che può riaccompagnarlo a casa in queste condizioni’, mi dissi. Ritrassi la testa, e continuai ad ispezionare.
Ed ecco un rumore metallico proveniente dalla cucina, improvviso. Con fare svogliato lì mi diressi. Avrei voluto essere più ricettivo, al momento.
«Caffè, Sim ?».
La voce calda e tranquillizzante di Porl ebbe su di me lo stesso piacevole effetto della morfina.
Lo guardai. Aveva i capelli crespi legati in un’improponibile coda di cavallo.
E, diamine, era in boxer.
«Ma tu non hai un po’… Freddo, conciato a quel modo ?», biascicai, in evidente stato confusionale.
Si voltò verso di me. «Caffè ?», ripeté, venando la domanda di scocciatura ed agitando la tazza nella mia direzione.
«Erm, sì, te ne sarei estremamente grato», risposi, ricacciando indietro l’imbarazzo ed avvicinandomi ai fornelli. L’odore del caffè appena caldo rinvigoriva il mio olfatto.
L’orologio sulla parete alla mia destra segnava le nove. Avevo dormito un bel pezzo.
Ma mi sentivo ancora terribilmente stanco. Le palpebre pesanti, la testa, che qualche ora fa era in procinto di esplodere, ora era semi-fluttuante nell’aria vuota odorante di colazione.
Una cosciente incoscienza, ecco.
«Dove sono gli altri ?», chiesi dopo essermi accomodato al tavolo, stringendo una fumante tazza verde, colma fino all’orlo di liquido scuro.
Il padrone di casa si sedette di fronte a me. «Robert, Mary e Lol se ne sono andati un’oretta fa, circa», disse, pensieroso, alzando gli occhi al cielo e portandosi l’indice alle labbra, «E Gary, il tuo amico… Penso proprio sia ancora di sotto, a dormire. O, meglio, a smaltire».
Bevvi un sorso, ma mi bruciai un poco la lingua. Con una smorfia contrita, commentai «Ah sì, l’ho visto. Gary, intendo».
«Ecco, fammi il piacere di portartelo via, dopo», ribatté lui prontamente, facendo intuire in maniera alquanto esplicita che la presenza di Gary non era esattamente ciò che di più gradito esisteva al mondo. Lo fissai addentare distrattamente un biscotto.
«Non c’è problema», risposi prima di soffiare sulla tazza. Chiacchierammo sottovoce, fornendo la nostra versione dei fatti riguardanti la notte appena trascorsa, e ridacchiando soavemente per gli aneddoti più comici, tra un sorso di caffè ed un biscotto integrale.
Trascorsero forse venti minuti, e così alla fine decisi di rientrare. Avevo voglia di quel poco di normalità che ancora mi era concessa.
Scesi in garage per svegliare Gary, che alla mia vista imprecò con disprezzo. Riuscii faticosamente a portarlo di sopra, dove Porl gli offrì del caffè. Era sempre gentile con tutti, il caro, vecchio Porl, anche con chi non incontrava nella totalità le sue simpatie. Diplomatico, ecco una definizione che gli calzava a pennello. E quel largo, oramai familiare sorriso che mi rivolse prima di richiudere la porta alle nostre spalle lasciava intravedere un animo sinceramente interessato alla salute ed alla felicità dei suoi più cari amici.
Lo ringraziai dentro di me diverse volte per questo.
Camminammo per qualche metro, io e Gary, infagottati nelle sciarpe e stretti nelle spalle, sulla ghiaia che costeggiava la casa di Porl, prima che quest’ultimo riaprisse di nuovo la porta di casa, chiamandoci a gran voce.
Ci raggiunse, ancora in boxer nonostante le temperature sconvenienti della mattinata, e mi porse accaldato un foglio.
«Sim», disse rivolto a me, ansante, «Mi ero dimenticato questo. Robert l’ha lasciato per te».
L’unico mio commento fu uno spaesato «Oh», come se fossi improvvisamente e rovinosamente caduto dalle nuvole.
Rigirai il foglio per diversi minuti tra le mani, dopo aver ringraziato il mio amico, incitandolo a rientrare per non rischiare una polmonite.

Ho bisogno di parlarti Sim, ho un sacco di idee, e dobbiamo discutere del nuovo album, per la miseria..
Stamattina, mentre tu dormivi beatamente (haha), io ho buttato giù degli appunti ed ho organizzato diverse tracce interessanti. O, almeno, a me sembrano interessanti.
So che sicuramente avrai da ridire, perché ti conosco. Sei un maledetto rompicoglioni e sappi che ti odio per questo. Stanotte ho avuto un freddo terrificante, cazzo. Sono ancora qui che tremo.
Credo che userò la parola “freddo” molto di frequente nei miei prossimi elaborati, sai ? Quest’agghiacciante umidità ha lasciato un’impronta infima ed indelebile nelle mie ossa !
Visto ? Inizio ad essere poetico anche quando non occorre. Per me è veramente giunta la fine ( a questo proposito, cosa ne penseresti di una canzone sulla fine del mondo ? ).
Eh, comunque… Boh, volevo solo avvisarti.
Robert

P.S. Se oggi vieni agli studi, tieni in conto l’ipotesi neanche tanto remota di fare nottata. Però non farci aspettare troppo, come al solito. Per le quattro ti voglio lì.

Niente più, niente meno.
La scrittura nervosa, quasi convulsa di Robert tracciava segni imprecisi lungo tutta l’ampiezza del foglio. Forse tremava veramente per il freddo mentre si concentrava su queste due righe.
Che senso aveva scrivermi ? Avrebbe potuto telefonarmi in giornata, come sempre aveva fatto.
Mah, capire i suoi gesti e le sue intenzioni è sempre stato un problema non indifferente per il sottoscritto.
Nonostante ciò, però, avevo la sensazione che quelle poche parole scritte da lui emanassero un calore preciso e particolare, richiamando la mia memoria ad una ritrovata, insperata intimità che pensavo perduta per sempre. Quella confidenza, il modo in cui, scherzoso, mi apostrofava, decantando di conoscermi come le sue tasche… Io non ci speravo veramente più in tutto questo. Era bello sentirlo riaffiorare tutto insieme, di nuovo, in una sorta di prezioso tesoro fatto di carta ed inchiostro, qualcosa da conservare gelosamente.
Parole scritte per me. Pensieri rivolti a me, a me ed a me soltanto. Lontano da occhi indiscreti, eravamo io e lui, a nudo l’uno di fronte all’altro, spogliati da paure, inutilità, pregiudizi e veleni. Io e lui, ancora una volta.
«Che scrive ?», chiese Gary, tentando di sbirciare da sopra le mie spalle il contenuto del messaggio.
«Mah, niente di che», risposi poco convinto, voltandomi verso di lui ed infilando tutto, pensieri fluttuanti e parole scritte, dentro le tasche del giubbino, con veemenza, «Voglio dire, lo conosci Robert, non fa altro che dare ordini».
Gary guardò le mie mani infilarsi scompostamente nella fodera, poi aggrottò le sopracciglia, annuendo con decisione e storcendo impercettibilmente la bocca.
Tirammo dritti ancora per diversi metri, l’aria pungente a farsi beffe del nostro già precario calore corporeo, prima di fermarci ad aspettare il primo autobus.

*

Alle tre e mezza mi tirai su dal letto. Avevo messo la sveglia per le tre ed un quarto, a dire la sincera verità, ma a quell’ora ero ancora immerso nella catalessi dovuta alla brava nottata precedente. Quindi temporeggiai un po’, gli occhi fissi al soffitto, destreggiandomi tra coperte e cuscini raccattati dalle altre stanze.
Era la seconda volta in poche ore che uscivo, con estrema difficoltà, dal sonno.
Però il mio buon senso ebbe la meglio su tutta la stanchezza accumulata. Non li avrei fatti aspettare proprio quel giorno.
Tempo dieci minuti ed ero già pronto. Basso in spalla e sfrontatezza da vendere.
La mia frangia stava diventando insopportabilmente lunga. La rigirai sotto i polpastrelli. Mi donava l’aspetto di un emulo un po’ sfigato di Glenn Danzig, più scapestrato e decisamente meno affascinante e carismatico.
Rivolsi una smorfia di disgusto allo specchio. Non ero quello che si dice esattamente un buon partito.
E pensare che all’inizio far parte di una band per me era solo una delle tante scuse passabili per rimorchiare. Mai avrei pensato che tutto questo potesse diventare di vitale importanza.
Mi scappò da ridere per come la vita sappia alle volte essere veramente bizzarra, ed il riflesso di fronte rise con me. Con malcelato entusiasmo infantile mi abbottonai il giubbino ed uscii.
Fuori l’aria era fresca, come l’avevo lasciata quella mattina. Per un momento, prima di attraversare la strada, contemplai, occhi chiusi e naso all’insù, la rigidità delle temperature. La mia ombra si stagliava per un bel pezzo sull’asfalto, nonostante non fossi molto alto, ed i miei anfibi scalpicciavano disordinatamente sotto il peso del corpo.
Aspettai un po', per finalmente vedere l'autobus fare capolino da dietro la curva, sbandando un poco.
Salito, mi accomodai accanto ad un ragazzino. Capelli scuri molto corti, pelle diafana e lentiggini che si allargavano dal naso sulle guance.
«Posso ?», gli chiesi. Lui annuì, senza neanche alzare il capo. Stava leggendo un libro, e sembrava molto concentrato. Lo fissai per un po’ con la coda dell’occhio, mentre chiudeva con cura il volume e lo sistemava dentro una cartella troppo grande per lui, che era invece decisamente gracilino. Le gambe gli penzolavano impazienti dall’altezza del sedile. Avrà avuto sì e no otto anni. Guardava davanti a sé adesso, e sembrava molto pensieroso, quasi triste.
Improvvisamente, con uno scatto isterico che mi fece quasi sobbalzare, riaprì la cartella, e prese a frugare al suo interno.
Nella foga gli cadde un quaderno sotto il sedile, e non riusciva a prenderlo. Lo vidi agitarsi. Spontaneamente allora mi alzai e lo raccolsi per lui. «Tieni», dissi. A quel gesto, i suoi occhi si illuminarono, e mi ringraziò con un filo di voce.
La luce nel suo sguardo era però fredda, artificiale, quasi finta. Non credo di aver mai visto un ragazzino così spento. Gli occhi chiari sembravano svuotati da qualsiasi tipo di emozionalità. Per un attimo rimasi in piedi, fissandolo incredulo. La mia infanzia era stata felice, nonostante i sacrifici e le frequenti privazioni. L’avevo vissuta in assoluta spensieratezza, lontano dalle crudeltà tipicamente adulte.
Ma lo spettacolo che invece mi mostrava quel ragazzino era un deserto asciutto ed invalicabile.
Ripresi il controllo della situazione, e delle mie funzioni, solo quando l’autobus frenò di colpo, e per poco non caddi a terra.

Salta, salta, danza e canta
Da un lato all’altro del deserto
Un volto scuro come il carbone
Mi morde la mano
Il tempo è dolce
Confonde e districa ogni cosa
L’atmosfera si corrompe col tempo
Colora il bagliore nell’acqua
Un effetto a breve termine
Un’eco
E la mano di uno sconosciuto
Un effetto a breve termine

Se quello che c’è scritto qui sopra non ti piace, gira i tacchi e vattene.

Di nuovo la calligrafia di Robert, stavolta più rilassata e morbida.
Il foglio che stavo leggendo era attaccato con dello scotch alla porta della stanza in cui provavamo solitamente.
Quelle parole, che sarebbero sicuramente confluite in una delle canzoni del nuovo album, mi ferirono non poco. Stavo ancora annaspando nel vuoto degli occhi di quel ragazzino, e quei versi sembravano descrivere perfettamente ciò che avevo visto, o creduto di vedere. Non so dire precisamente perché quell’episodio mi avesse reso così inquieto. ‘In fondo è solo un ragazzino con dei probabili traumi irrisolti’, mi ripetei diverse volte, facendo sfoggio della mia psicologia da quattro soldi.
Staccai il pezzo di carta dalla porta, spingendola col braccio.
Lol era seduto dietro la batteria, le bacchette in mano, senza muoversi. Uno stecchino in bocca e lo sguardo stanco. Robert, camicia grigia e jeans neri, stava armeggiando con l’amplificatore della sua chitarra.
Entrambi stavano già fissando nella mia direzione quando entrai, come se avessero sentito la mia presenza avvicinarsi da dietro le pareti.
Mostrai il foglio in segno di saluto. «So che non ci crederete ma… Direi che è perfetto», asserii, mostrando finta incredulità.
Rob mi sorrise. «Allora forza, non c’è tempo da perdere», disse pacatamente.
Quella scena mi rincuorò. Una strana ma piacevole accoglienza.
Perché ero finalmente tornato.

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Capitolo 14
*** Siamese Twins ***


Chapter Fourteen

~ Siamese Twins

I giorni scorrevano con velocità angosciante. Ormai l’irrespirabile aria dei Rhino Studios mi costringeva a metter sempre più spesso il naso fuori.
Ossigeno, la mia mente necessitava di ossigeno.
Sembrava non riuscissi veramente a pensare. Una delle poche cose che metteva, precariamente, in moto quei complessi ingranaggi all’interno della mia calotta cranica era l’alcool. O qualsiasi cosa fosse stata in grado di intorpidirmi e sensibilizzarmi all’eccesso nello stesso momento. A contatto con la “normalità” mi rimaneva difficile comporre.
Le notti si erano trasformate improvvisamente in proficue ed interminabili ore mattutine, mentre il ruolo di riposo assolto dall’oscurità era passato al tardo pomeriggio. Non avrei mai recuperato un fuso orario decente, lo sentivo.
In preda all’eccitata ed eccitante alterazione delle sensazioni mi si presentavano agli occhi idee, pensieri, sentimenti, parole e frasi che da lucido non avrei mai neanche osato immaginare, né tantomeno trascrivere e concretizzare.
Un pomeriggio sul tardi, tanto per citare uno dei tanti esempi citabili, mi alzai, in preda a dei giramenti di testa allucinanti, e scorsi vicino a me delle righe buttate giù su un foglio, abbandonato sul pavimento.
All’inizio vi era una piccola premessa, “Stanotte ho vagato nudo per il giardino di casa, e tutto ciò che ho visto mi ha ispirato, fulminato. Lo scrivo nel caso, molto probabile, che non lo ricordassi”. Seguiva una canzone intitolata Il Giardino Sospeso.
Fu in quel momento che iniziai seriamente a considerarmi un pazzo pericoloso. Credo di essere anche arrossito violentemente, tanta era la vergogna provata al solo pensiero di aver girato nudo fuori, ad appena qualche metro dalle teste addormentate dei miei genitori. Nudo ! Fuori ! A quelle temperature ! Mioddio. Ripensandoci ancora ho dei leggeri brividi.
C’erano giorni più carnali degli altri, in cui mi veniva voglia di fare a pezzi tutto ciò che avevo intorno. Momenti in cui sarei voluto scappare lontano, fuggire per sempre da tutto quello che sembrava passato ma che invece passato non era affatto, tornava di continuo a bussare alle porte del mio cuore. Ed io, stupidamente, aprivo e mi lasciavo invadere, la corrente scura che mi spazzava tra i capelli, la vita che si faceva scudo di me contro quel tormento. E non c’era tempo per pensare, non mi rimaneva niente. Ne uscivo sconfitto, ogni volta.
L’illusione che tutto si fosse concluso in un abbraccio, con un raggio di sole a vegliarmi nel sonno, per un lasso di tempo troppo breve era riuscita a tranquillizzarmi.
Però adesso era come guardare i miei movimenti dall’alto, una pallida astrazione di me stesso. Avevo temporaneamente messo in pausa la mia vita per paura delle conseguenze. I giorni passavano, ed io stavo lì, sospeso sopra la mia testa. Immobile a galleggiare nell’aria. Mi sentivo quasi obbligato in quel ruolo, non avevo scampo. Andavo avanti senza muovermi.
L’automatismo delle mie azioni, però, era ben visibile anche agli altri. Gli occhi attenti degli amici, che cercano di scrutarti sempre dentro, rovistandoti la scatola cranica e la cassa toracica, facevano il loro dovere, alla costante ricerca di indizi, anche minuscoli, sul tuo stato d’animo.
«Tutto bene Bob ?», mi chiese una mattina Lol, avvicinandosi al tavolo con le bacchette in mano. Era tipo la quinta volta che la penna mi cadeva di mano.
Lo guardai un momento. Indossava quegli stupidissimi ed orripilanti occhiali da sole tondi e marroncini per cui era in fissa in quel periodo.
Trattenni a stento una risata. «Ma non puoi toglierteli ?», chiesi, indicando con la testa lo sconcio accessorio appoggiato sul suo viso.
«Ma cosa ne vuoi sapere tu di moda», rispose, facendo il finto offeso.
«Ah, io niente», contrattaccai, raccogliendo ennesimamente la biro e tornando a concentrarmi sul foglio bianco, «Ma neanche tu, se è per questo», conclusi, sorridendo beffardamente.
Sorrise anche lui, e fece per voltarsi. Poi ci ripensò. «Sei un fottuto bastardo, Robert. Eludi sempre le mie domande». Si tolse gli occhiali da sole e mi scrutò, presumibilmente attendendo un mio commento.
«Beh ? Che vuoi che ti dica ?». E la cosa preoccupante è che non sapevo sul serio cosa dire. Per una volta non avevo risposte programmate, né tantomeno battutine spinose da lanciargli addosso.
«E’ inutile, inutile, inutile che cerchi di nasconderti», disse, con voce cantilenante, «Tanto io lo so che c’è qualcosa che non va. E, beh, mi dispiace ma si capisce anche. Credimi, non sono di certo l’ultimo degli stupidi».
«No, infatti», continuai io, «Diciamo che sei sicuramente tra i primi dieci». Alzai lo sguardo su di lui e scoppiai a ridere. Che espressioni ridicole che aveva.
Si stava però spazientendo. «Rob, piantala», replicò, le sopracciglia corrucciate, punto sul vivo.
«Maddai Lol, questa era bella !», mi giustificai, temendo di incappare nei suoi attacchi d’ira. Se Lol si infuriava, potevi aspettarti veramente di tutto. Ancor più terribile era quando le sue emozioni si disinibivano, arrendevoli, all’alcool. Una volta arrivò a lanciarmi in testa il posacenere di vetro, mancandomi per un soffio.
Però stavolta si arrese. Abbassò gli occhi, scrollò le braccia. «Vabbè, quando ti va di parlare, io ci sono». E si voltò.
Soffocai un mesto «Grazie» dentro il tappo della penna che stavo mordicchiando, guardandolo uscire dalla stanza.
Mi sentii tremendamente in colpa. Lol non si meritava trattamenti del genere, ne ero assolutamente conscio. E, se solo avessi saputo come evitare questo, l’avrei già messo in pratica.
Ma il problema è che, sì, mi sentivo male, ma non sapevo identificarlo, io, questo male. Non sapevo dargli un nome. E quando ti mancano le parole, non puoi esprimerti agli altri come vorresti, ed il dialogo si trasforma in monologo, in qualsiasi caso.
Mi venne improvvisamente da piangere. Ricacciai con forza le lacrime, col risultato che la vista mi si annebbiò, e dovetti cedere alle contrazioni muscolari delle palpebre, bagnando irrimediabilmente il foglio sui cui avevo scarabocchiato qualche parola alla rinfusa.
Fissai quegli ammassi di lettere.
Eternità. È sempre così ? Per l’eternità. I muri ed il soffitto si muovono a tempo. Niente. È sempre così ? Questo, per l’eternità. Il primo bacio. Lasciami morire.
Squadrai dubbioso il rettangolo di carta. Non avevano molto senso, lo ammetto. ‘Ma cos’è il senso, in fondo, Robert ?’, dissi tra me e me. Mi compiacevo di queste mie decurtazioni filosofiche di nessuna importanza. Misi da parte il foglio, deciso ad uscire.
Sollevai stancamente il mio fondoschiena dalla sedia e mi avviai alla porta.
Per poco non inciampai sul basso di Simon, abbandonato sul pavimento, proprio lì davanti.
«Ma che…», mugugnai, riacquistando equilibrio. Cercai il padrone dello strumento lungo il corridoio, ma non lo vidi. ‘Ma si è rincretinito o cosa ?’, pensai, portando dentro il povero basso svenuto sulla moquette.
«Ah, eccolo», fece tranquilla la voce di Simon dietro le mie spalle. La sua esile figura scivolò piano all’interno della stanza per entrare a far parte del mio campo visivo.
Arrampicai lentamente i miei occhi su di lui. I suoi capelli color pece sembravano appena usciti da una centrifuga in lavatrice. Indossava un cappotto nero, stretto in vita. Gli stivali di pelle che scalpitavano morbidamente, facendo di tutto per rimbombare sul pavimento foderato di pelliccia sintetica. Sembrava una ragazzetta sinuosa che ha voglia di essere notata. Cercai, sotto la frangia che sembrava trovarsi lì per puro caso, di individuare i suoi vispi occhi marroni. «Volevi farmi ammazzare ?», chiesi contrariato, indicando il basso.
«Eh ?». Come al solito cadeva dalle nuvole, ingenuo e sognante come un moccioso.
«Stavo per uscire, ed il tuo basso avrebbe tranquillamente fatto crash sotto i miei piedi. O io avrei fatto crash sopra di lui, dipende», spiegai, gesticolando, «Ringrazia i miei pronti ed acuti riflessi».
«Ah… Scusami tanto Rob, avevo un'urgenza in bagno, sai», replicò lui, ancora quell’espressione imbambolata ad addolcirgli i lineamenti.
Si abbassò per estrarre il basso dalla custodia. «Dove andavi di bello ?». Una domanda distratta la sua, senza doppi fini. Neanche mi guardò mentre la formulava.
«Da Mary», risposi, convinto. Non era mia intenzione andare da lei, a dire il vero. Mi era uscito di bocca per caso, una reazione incondizionata. Però, pensandoci intensamente, era proprio ciò che volevo, era la cosa giusta da fare in quel momento.
Fosse tutte le volte così semplice. Ciò che ti serve avviene spontaneamente. Un attimo prima neanche ci pensi, ed un attimo dopo è esattamente quello che desideravi. Puff, eccolo comparire per magia. Fantastico.
Lui, ancora in ginocchio, alzò il viso verso di me. Sembrava brillare di luce propria mentre sorrideva nella mia direzione, esclamando un sinceramente emozionato «Bene !».
Sembrava esserne veramente contento.
Sorrisi a mia volta. Quella sua aria frizzante ed infantile mi aveva regalato il giusto quantitativo di buonumore di cui necessitavo. «Allora vado», dissi, voltandomi.
«Rob», mi chiamò lui, prima che riuscissi ad aprire la porta. La sua voce mi fece ruotare la testa di scatto. Le sue mani pallide tendevano verso di me il mio giaccone di lana grigio. «Se non prendi questo temo ti congelerai», spiegò, ancora sorridendo.
«Oh», feci, afferrando la morbida lana, e nel movimento sfiorai anche le sue dita gelate. Chissà perché le sue mani riuscivano ad essere così costantemente fredde. Come se dentro di lui non scorresse il calore del sangue, ma una cascata d’acqua cristallina. «Grazie Sim». Ed in quel “grazie” c’era molto più di un semplice ringraziamento per la piccola gentilezza dedicatami.
Mi fece l’occhiolino. «Divertiti».
Chiusi la porta dietro di me. Il rumore dell’amplificatore che lotta con l’elettricità, e le sue dita sulle corde spesse del basso. Le sue dita gelate. Non capivo cosa stesse suonando, e non mi interessava. L’importante era sentire le note, le note di Simon, la magnanimità con cui le elargiva a chi era in ascolto e l’avidità con cui voleva tenerle per sé.
E mi riscoprii anche io avido. Avido ed egoista. Avrei voluto tenerlo per sempre lì, dentro quella stanza, come un pupazzetto chiuso in una teca di pelliccia sintetica.
Nessuno avrebbe potuto godere di quelle note che, incavolate, pendevano dal suo strumento. Nessuno avrebbe dovuto sfiorare quelle dita di ghiaccio.
Con questo pensiero, a cavallo tra il buonumore instillatomi da Simon ed il rammarico per non poter vedere il mio assurdo desiderio realizzato, mi incamminai verso casa di Mary.
Respiravo piano, quasi timoroso di sciupare quell’aria fredda che mi pungeva le guance.
La villetta di Mary emanava profumo di pulito, sia da dentro che da fuori. La terra battuta disseminata intorno al perimetro dava una certa sensazione di novità. Nuova vita che si fa spazio tra le zolle umide, per risalire senza fretta e sbucare silenziosa, agognante l’azzurro del cielo. E, avendo preso coscienza di non essere l’unico a desiderare ardentemente la luce del sole, mi sentii improvvisamente meno solo.
Lei rispose subito al suono del campanello, e si fece più radiosa che mai alla mia vista. Indossava un completo bianco, camicia e pantaloni. Le donava tremendamente il bianco.
«Rob ! Che ci fai qui ?», chiese dolcemente. Le sue labbra erano rosse, come i frutti maturi d’estate. Le assaggiai subito, avevo voglia di lei in quel momento. E lei non si ritrasse. Sentii il suo calore su di me, un tepore piacevole, di cui mai avrei voluto privarmi. Men che meno in quel momento.
«Avevo voglia di te, M», risposi con estrema naturalezza. Lei arrossì e mi sorrise.
Cercai le sue mani. Le sentii morbide e le strinsi, una stretta ferma e sicura.
Ed eccomi, ancora avido.
Avido di questo calore, così com’ero stato avido del gelo di Simon.
Erano sensazioni che volevo e dovevo sperimentare solo io. Non avrei permesso ad altri di appropriarsene. Sarei stato disposto ad uccidere per tutto questo.
Bramosia. Desiderio. Salivano insieme, a braccetto, lungo la mia spina dorsale, e non riuscivo a fermarli. Ma stavano solleticando punti piacevoli. Tutto sommato gradivo essere in loro balia. Premetti istintivamente il corpo di Mary contro il mio.
In poco tempo ci ritrovammo fra le lenzuola, dove parole e pensieri non avevano più alcun significato. Stavo ascoltando le ragioni della mia carne, che desiderava ardentemente quella della mia compagna.
Ci incastravamo perfettamente, come pezzi unici di un enorme puzzle. Ci allontanavamo e ci ritrovavamo in assoluta complicità, ed in silenzio ci dicevamo tutto.
Annaspavo nei suoi sospiri, scavavo dentro di lei con tenerezza, cercando di non spaventarla. Non volevo che se ne andasse, doveva rimanere lì.
E la strinsi, la strinsi ancora, forte. Il mondo sembrava sparire attorno a noi. Mi lasciavo cullare dal candore di questa ragazza, e dall’amore che provavo per lei, immutato ed incondizionato.
Però poi, con orrore, mi accorsi che stava svanendo anche lei, che quello che tenevo tra le braccia era un misero involucro vuoto. Il viso di una bambola che mi squadrava, pieno di amarezza.
La stanza si mise a girare. Dov’era la mia Mary ?
La cercai disperatamente con le dita, con la lingua, con i denti, gli occhi sbarrati per il terrore. Sentivo il fuoco crescere dentro di me, ed io non potevo soddisfarlo, perché la mia metà era stata risucchiata nel buio, dal tempo. Mi sembrava di morire.
«Robert…». La voce vellutata di lei che mi scuoteva, dolcemente. Eccola ! E' qui !
Entusiasta, la guardai. Focalizzai il suo viso. Lei al contrario non era felice di avermi di nuovo con sé. Era atterrita. Aveva paura.
Allora finalmente mi desisi a tornare, da non so quale luogo. Il sudore che scivolava sulla mia pelle ormai troppo pallida per sembrar appartenere ad una persona in salute.
«Mary, io…», ma non sapevo che dire. Per tutto il giorno mi ero sforzato di individuare parole esaustive per gli orecchi altrui, e sin dal principio ero incappato in un gigantesco fallimento, che sembrava non avere fine.
Cercai di avvicinarmi a lei, di accarezzarla, di farle capire che ero io, e non ero un nemico. Ma lei si tirò indietro, coprendosi, vergognandosi della sua nudità di fronte a me.
Mi chiese gentilmente di andarmene, che ne avremo riparlato nei prossimi giorni e che, no, non era arrabbiata, era solo stata colta alla sprovvista. Da cosa non lo saprò mai.
Incassai il colpo, e, continuando ad inveire contro me stesso, la salutai con un fugace bacio sulla guancia. Non mi permise di osare dell’altro.
Cercai di capire cosa mi avesse di nuovo trascinato in quel limbo fatto di montagne che non riuscivo a valicare, sentieri scivolosi e spaventosi burattinai invisibili.
Pensai per tutto il tragitto fino a casa, con l’unico tangibile risultato di un pesante mal di testa.
Non riuscivo più a distinguere la realtà dalle mie fantasie malate. Ero terrorizzato anche io, come tutti coloro che avevano la sfortuna di starmi attorno.
E la cautela che mettevo nei miei movimenti serviva solo a rendere più duro il colpo finale.
Impedirlo mi era oramai impossibile. Potevo solo tentare di salvare i pezzi. Ciò che sarebbe rimasto l’avrei protetto come qualcosa di immensamente prezioso.
Ammesso che, alla fine, ci fosse rimasto qualcosa da proteggere. Qualcosa per cui sarebbe valsa la pena vivere e morire.
Guardai in aria. Il cielo rossastro salutava cordialmente il sole, che stava sparendo paffuto appena dietro l'orizzonte.
Anche lui per oggi aveva dato abbastanza.

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Capitolo 15
*** Going Home Time ***


Chapter Fifteen

~ Going Home Time

Yeah, this is how it ends
After all these years
Tired of it all
Hopelessly
Helplessly
Broken apart
He finally falls


Ci sono svariate cose che non ricordo di quei giorni.
L’enorme quantità di alcolici che girava era pari solo alla mia voglia di suonare. E di suonare avevo molta, moltissima voglia.
Certe mattine diventava tutto talmente confuso da farmi semplicemente accasciare sul pavimento, aspettando inerme che la sbronza magicamente volasse via.
Se ci penso intensamente, mi tornano alla memoria caotici spezzoni di nottate passate a fare a cuscinate, il sottofondo destabilizzante di alcune canzoni dei Doors, patatine ed altre schifezze mangiate a chissà che ora, perché bere alcool a stomaco vuoto è la cosa peggiore che tu possa fare. Fumo ? Sì, ce n’era parecchio. Ed avevamo a disposizione anche talmente tanto acido che potevamo tranquillamente corrodere l’intero palazzo degli studi Rhino.
Ma non ci interessava. Noi avevamo un lavoro da compiere.
Il problema subentrava, però, nel momento in cui dimenticavamo quale precisamente fosse il nostro lavoro. E ciò accadeva alquanto spesso.
Residui di cibo tra le dita. Aprire gli occhi, piano. Muovere la mandibola, che scatta dolorosamente dal suo torpore anestetico. Trovarsi di fronte una pila di lattine vuote di Heineken. Tante lattine, l’una sopra l’altra, ammucchiate, che troneggiano lì, nell’angolo. Sì, perché ti sei addormentato proprio lì, tu, nell’angolo, e da un po’ di tempo cerchi di combattere il freddo rannicchiato su te stesso come un moccioso nel lettino. Quell’improbabile costruzione è una cosa che inizialmente ti inquieta. Non sai com’è possibile che sia proprio in quel posto, né tantomeno come sia arrivata lì, o chi ne sia responsabile. E rimani a domandartelo per interminabili minuti. Ma poi, gradualmente, ti abitui a quella strana presenza che emana un pesante odore di malto. E la lasci lì, immobile, sovrana indiscussa della sua piccola porzione di mondo, destinata senza dubbio alcuno a crescere.
Scalciai la coperta, o quello che, almeno a prima vista, sembrava essere una coperta, e mi guardai intorno. Era buio pesto lì dentro. L’aria era irrespirabile, pesantissima. Mi venne quasi da tossire.
Stavo tentando a forza di rientrare nella logica e nel susseguirsi degli eventi tipicamente umano, riappropriandomi della mia coscienza, andandola a recuperare nei polverosi antri bui in cui l’avevo lasciata assopirsi la sera precedente.
La bocca impastata mi impediva di produrre suoni che non fossero mugugni. Scrollai la testa, arruffandomi i capelli, e decisi di uscire dalla stanza.
Avevo un bisogno impellente di nicotina. Tastai la moquette intorno a me, alla ricerca di qualcosa che somigliasse vagamente ad un pachetto di sigarette, senza però alcun risultato.
Controvoglia, mi alzai. Dirigendomi verso la porta, andai ad inciampare contro un ingombrante fagotto che si rivelò poi essere Lol, arrotolato dentro il suo cappotto come un baco da seta. Urtandolo sentii un «Ahm» di disappunto, ma fortunatamente il suo sonno era così pesante che non mi riuscì semplice destarlo.
Proseguii fino alla porta e la aprii. Il sole abbagliante delle prime ore del mattino che proveniva dalle finestre del corridoio mi attraversò rapidamente la cornea, arrivando sottoforma di fastidiosi impulsi elettrici alla mia corteccia. Tutta quella luce mi svegliò improvvisamente, facendomi però un male atroce.
Mi incamminai verso la terrazza. Necessitavo di aria fresca, assolutamente.
E non mi stupii affatto di trovare lì anche Robert.
Appigliato al suo cappotto chiaro come unica arma contro la pungente aria del mattino, fumava tranquillamente una sigaretta, appoggiando il peso del suo corpo prima sui gomiti, quindi sul davanzale.
Mi schiarii la voce alle sue spalle, ma lui non si voltò.
Inclinai un po’ la testa per osservarlo meglio. «Rob», mormorai atono, con le corde vocali ancora fuori allenamento.
Mi fece un cenno con la mano, continuando a darmi le spalle. Inalò l’ennesima boccata di fumo, sputandolo nell’aria poco dopo.
Timorosamente mi avvicinai a lui, ed appoggiai anche io i gomiti, il mio sinistro quasi a toccare il suo destro.
Restammo così un po’, rincorrendo le nuvole con lo sguardo, respirando piano, nell’attesa che fosse l’altro a rompere quel fragile silenzio.
Chinai il capo, incastonandolo tra le braccia. Iniziavo a sentire un po’ freddo.
Robert colse questo mio momento di debolezza, esordendo con un «Tutto bene Sim ?».
Buttai fuori a fatica le parole. «Sonno e freddo», borbottai, limitando la risposta allo stretto necessario, con il viso sprofondato ad ovattare la mia voce già flebile.
«Torna dentro allora». L’accendino scattò ancora, pronto ad infiammare un’altra sigaretta.
Alzai la testa. «Tu invece ?». Mi venne spontaneo chiederlo. Anche perché non avevo mai visto Robert fumare così tanto di prima mattina. In generale, le abitudini di Robert non comprendevano molte sigarette giornaliere, anzi, direi tutt’altro. Specie ultimamente.
Sbuffi di fumo dalla sua bocca. «Mh, normale». Non era una risposta convincente. Neanche lui sembrava granché convinto. Lo guardai di traverso. Continuava imperterrito a fissare un qualcosa di imprecisato di fronte a lui. Gli tremavano le dita. Che fosse il freddo ? O qualcosa di più pesante da sopportare delle basse temperature mattutine ?
«Ah, capisco… E’ tutto normale e tu fumi così tanto. Wow». Una sfacciataggine invidiabile, la mia.
Lui si volta, e mi punta addosso i suoi occhi cristallini. Non capisco più nulla quando mi guarda in quel modo.
Imperscrutabile, impenetrabile. Lui è lontano, inarrivabile, irraggiungibile. Prosegue e ti lascia da solo. Uno sguardo che fa razzia delle tue emozioni. Uno specchio. Non ci leggi niente, non puoi leggerci niente. Non vedi che il tuo riflesso, perché lui ha sbarrato tutte le porte.
«Forse faresti meglio a rientrare, potrebbe prenderti un malanno», ribatté lui. Insomma, mi stava mandando gentilmente a quel paese.
«Preoccupati della tua di salute, piuttosto». Mi innervosiva il suo essere così schivo. «Se continui a fumarti una sigaretta dopo l’altra con questo ritmo, i tuoi polmoni tra un paio d’ore se ne partono per l’Antartide».
«Piantala». Fece una smorfia e ritornò al suo cielo.
«Piantarla io ? Se tu evitassi di comportarti come se esistesse solo quel tuo grasso ego che ti porti sempre dietro come un fardello, non sarei neanche qui a chiederti certe cose. Se ti chiedo come va, è perché voglio sapere come stai, e gradirei risposte sincere, non qualcosa che butti lì per zittirmi. Tu piantala, tu.» Ora gli stavo puntando un dito addosso. Stavo cercando di schiacciarlo con la sola forza del mio indice e del mio più genuino disappunto. Ma la mia sfilata di parole poco gentili non aveva intenzione di esaurirsi in così poco tempo. «Perché io esigo che tu mi dica cosa cazzo ti passa per la testa ultimamente, e lo voglio sapere adesso». Una mattinata cominciata nel peggiore dei modi.
Robert mi fissava, allibito. Poi sorrise. «Sei ancora sbronzo, eh ?».
Era solo questo ciò che aveva da dirmi ?
«Porca puttana, Robert, ma che cosa cazzo ti dice il cervello ?», ormai ero fuori di me. Avevo sbattuto un pugno sul cemento con una tale veemenza che più tardi mi accorsi di essermi addirittura procurato un livido. Ma al momento, no, non era nelle mie priorità occuparmi del dolore. Avevo ben altro a cui pensare. Ero inebriato dalla rabbia. La sentivo invadermi, dalla testa ai piedi, espandersi ed occupare tutti i capillari. «Io non sono affatto sbronzo, non sottovalutarmi».
«Figurati se ti sottovaluto, Simon», commentò sarcastico lui. E, con quel sorrisetto beffardo ancora spalmato in faccia, fece per rientrare nel caldo degli studi.
Ma io non avevo ancora finito con lui. Ridisegnai la sua camminata con la mia, fissando indispettito la sua schiena. «Dove diavolo credi di andare !», gli urlai addosso. Lui accelerò la camminata. Ed io, per non rimanere indietro, accelerai la mia. «Non pensare… Non pensare che scappando si risolvano le cose, Robert !». Ma lui sembrava non ascoltarmi. Arrivato dentro percorse un pezzo di corridoio, per poi svoltare ed infilarsi in bagno. Io avevo il fiato corto. Lo seguii.
Spalancai la porta, con l’intenzione di chiarire tutto questo una volta per tutte. Mi ero svegliato da poco, e probabilmente aveva, in parte, ragione lui ad incolpare l’eccesso di alcool per le mie parole a sproposito. Ma la misura si colmò quella mattina in maniera inspiegabilmente celere, come mai prima di allora, e Simon Gallup era in procinto di svuotare l’insieme di fatti e misfatti proprio in testa al suo amico. Il suo amico che, finalmente, si sarebbe preso le dovute responsabilità del caso. Il suo amico che era lì, nel bagno di quegli studi di registrazione ricoperti di moquette, quasi ad aspettarlo, appoggiato con una mano al lavandino di ceramica.
Non poteva trattarmi come un idiota. L’avevo deciso in fretta, in quel preciso istante. Ma non poteva. Non più. E la mia voce si fece squillante ambasciatrice delle mie pene. «Smettila di comportarti come se avessi davanti un deficiente, un minorato mentale, qualcuno da calpestare. Smettila». Stavo sfogando finalmente tutto quello che avevo raggrumato dentro per mesi e mesi.
Lui non sembrava appoggiare la mia tesi. Abbassò lo sguardo, scuotendo la testa. «Sei tu, caro mio, tu e solamente tu a voler essere trattato in questo modo», affermò, con una punta di ovvietà nella sua voce. Come se ciò fosse di un’evidenza allarmante. «E’ sempre stato così, no, Simon ? Sei tu a darmi il permesso di agire così». I suoi occhi nei miei. «Ogni volta».
Una sentenza, la sua, che mi trapassò da parte a parte, come la lama di un fioretto, ben preciso, in direzione del cuore. Stava, in parole povere, esplicando il poco rispetto che aveva per me. Parole che mi raggelarono e mi incendiarono allo stesso tempo.
«Smettila».
E fu l’ultima cosa che riuscii a boccheggiare prima di assalirlo.
Mi avventai su di lui, scaraventandolo sul pavimento freddo del bagno. Le mie nocche contro i suoi zigomi bianchi e perfetti, con una forza che non sospettavo di avere. Sentivo pulsare la mia ira dentro le orecchie. Vibrava assordante per tutta la stanza. E sapevo che anche lui la sentiva. Lui che aveva fatto di me un animale in gabbia. Lui che mi aveva prima sedotto e poi sedato. Lui che anche in quel momento mi fissava come se volesse sfidarmi. Ed io sapevo che in ogni caso avrebbe vinto.
Un calore improvviso si fece strada nel mio corpo, ed iniziai a sudare nonostante l’aria ghiacciata ed il pavimento gelido.
Lui non si muoveva, stava subendo la mia ira, con l’aria di chi sa come andrà a finire. Con una sufficienza detestabile stampata sul volto. E questa sua apparente passività manipulatoria non faceva altro che accrescere la mia rabbia. Ne ero accecato, al punto tale da non riuscir più a distinguere le forme ed i colori. Perché io gli appartenevo, ecco il punto. Il nocciolo della questione.
Io gli appartenevo.
Mi aveva fatto suo dal primo momento. Sin da quando, prendendo una birra dal tavolino di casa di Michael, mi chiese se ero il Simon con cui, da piccolo, aveva fatto a botte diverse volte. Alla mia risposta affermativa, lui mi raccontò di come avesse conosciuto anche il suo migliore amico, Lawrence, picchiandolo. Al che io gli chiesi se per conoscere nuove persone dovesse per forza ricorrere alla forza bruta. Lui rise. E mi offrì da bere.
Era bastata una risata, una risata ebbra di birra, per capitolare ai suoi piedi.
Era tutto perso in partenza, ormai da tempo. Eppure non riuscivo a non lottare, la mia natura era fondamentalmente litigiosa, e ne ero perfettamente conscio. Lui sapeva come calmarmi, ma aveva da sempre intuito anche il modo perfetto ed infallibile per innervosirmi. Per spingermi al limite.
Robert aveva su di me un’influenza terribile. Ed io davo battaglia per ottenere un minimo di autonomia. Non volevo più essere legato in questo modo a lui. Era tutto troppo malato. Era sbagliato. Eravamo sbagliati.
Il suo viso si offuscò ancora, ed i miei occhi si inondarono di lacrime.
Eravamo sbagliati. «Non capisci», mormoravo, confuso, continuando a picchiarlo, «Quello che mi fai mi distrugge». La mia voce era un sussurro. «Tutti i giorni, sempre, tu mi distruggi». Un sussurro che lui però riusciva a captare benissimo. «E mi ucciderai prima o poi, lo sai questo, vero ?». Non avevo più il controllo su parole e pensieri, e nonostante tutto continuavo a dimostrare il mio disagio. «Lo sai ?». Sempre più forte. E sempre più in alto andava la mia voce. «Puoi fare di me ciò che vuoi ! Stavolta hai il mio permesso !» Eravamo sbagliati. «Mi vuoi morto, Rob ?». Le mie lacrime cadevano sul suo viso. «Mi vuoi morto ?». Il mio pugno che torna di nuovo ad aggredirlo. «Mi vuoi morto ?». Un altro. «Mi vuoi morto ?!». Ancora. «MI VUOI MORTO ?!».
Fu Lol a fermare la mia furiosa cavalcata verso quella che sembrava la fine di tutto.
Mi afferrò per le braccia e mi separò da Robert, trascinandomi a forza. Ma io mi dimenavo, non avevo ancora concluso il mio lavoro.
«Cazzo Simon, calmati !», urlò lui dentro le mie orecchie. Riuscii con fatica a riacquistare un po’ di autocontrollo, alzandomi. Le mani mi facevano male. Il freddo e la furia della lotta le avevano come rattrappite. Le articolai con vigore, mentre fissavo il mio oppositore rimettersi, anche lui, in piedi. E mi puntò senza preavviso gli occhi addosso, quegli occhi cerulei senza pietà, che ti denudavano completamente. Non potevo più fuggire adesso.
Ma Robert aveva paura. E questo mi sconvolse, perché finalmente, dopo così tanto tempo, riuscivo a leggere qualcosa lì dentro, in quelle profondità trasparenti io finalmente vedevo.
Ciò che scorsi era terrore, un terrore folle ed insano. Paralizzante.
«Ma che cazzo… Posso lasciarvi da soli per qualche dannato minuto ? Dio». E d’un tratto mi chiesi cosa sarebbe accaduto se Lol non mi avesse interrotto. «Mi spiegate che diavolo è successo ?». La voce di Lol risuonava lontana, rimbalzando sulle piastrelle del bagno, finendo per infossarsi nelle tubature del lavandino e riemergendo in qualche pozza d’acqua, a svariati chilometri di distanza.
Robert distolse gli occhi da me, asciugandosi un rivolo di sangue che scendeva dal labbro superiore, spaccatogli da me poco prima. «Niente Lol», sospirò, alzando le spalle e massaggiandosi lo zigomo destro, «Siamo tutti e due ubriachi marci, come al solito. E quando siamo sbronzi basta un nonnulla per farci uscire dai gangheri». Soffermò il suo sguardo di nuovo su di me, cercando come una conferma. «Vero, Sim ?».
Ma io non sapevo rispondere in quel momento. Perché mi stava giustificando ? Che avesse realmente capito il perché della mia aggressività ?
Provai un attanagliante senso di vergogna.
«Anche io sono ubriaco, ma non vado di certo in giro a picchiare la gente ! Cazzo». Lol si girò di scatto verso di me, facendomi sobbalzare, «Tu comunque sei un proprio un coglione, Simon, lasciatelo dire. Mi hai fatto prendere un colpo». Si portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi. «Sempre così voi eh. Neanche foste delle bestie». Poi, riaprendoli, prese a guardarci. Prima Robert e poi me. «Io vado a fumare in terrazza. Guai a voi se vi sento litigare ancora». La mano in cenno di ammonimento. «Altrimenti sarò io a gonfiarvi di botte. Intesi ?». E si passò l’indice sotto il mento. Voltando le spalle ad entrambi, si avviò stizzito di fuori.
«Scusa, Lol», bisbigliai in direzione del pavimento, su cui avevo incollato gli occhi da diversi secondi. La mia rabbia era svanita. Evaporata d’improvviso. Avevo preso a sentire nuovamente freddo, e la pelle delle braccia si stava accapponando. Mi strinsi su me stesso.
Ora sentivo solo un greve disagio. Una colpa che, sottile, mi scavava dentro. L’angoscia per ciò che avrei potuto fare stava lentamente prendendo campo, ed il pensiero di rimanere in quel posto anche solo per altri cinque minuti mi nauseava.
Realizzai quindi che era giunto il momento di levare le tende. Non credevo di dover spiegare ulteriormente la mia improvvisa decisione, per cui scattai, a testa bassa, verso la porta del bagno. Non avevo più niente da dire, più niente da fare. Almeno per il momento. ‘Via da qui’, era il mio unico pensiero.
Una mano calda però mi afferrò il polso, mentre stavo per attraversare la soglia.
Era Robert. La sua stretta era ferma ed irremovibile. Non riuscii a voltarmi.
Così fu lui a tirarmi indietro, piazzandosi di fronte a me.
E lo guardai.
Il viso accaldato e leggermente tumefatto per le botte lo facevano apparire diverso. Come se si fosse privato inaspettatamente di quella patina di semi-divinità con cui viaggiava sempre.
E la sua voce tremava.
«Piuttosto mi uccido io».
Anche se le sue parole erano tremolanti, lui sembrava decisamente convinto di ciò che stava dicendo.
«Piuttosto che fare del male a te, mi uccido io».
Desiderava semplicemente farmelo sapere.
Piuttosto mi uccido io.
Mi lasciò andare. Ed io scappai.
In fondo era quello che volevo. Che lui mi lasciasse andare.
Per poi ritornare di mia spontanea volontà in quella che era diventata per me una consapevole e rassicurante prigionia.

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Capitolo 16
*** Closedown ***


Chapter Sixteen

~ Closedown

«Ehi».
Una voce dalla porta. Mi stavo giusto sciacquando il viso, poco dopo essere stato pestato da Simon. Ero un ammasso di acciacchi fisici.
Mi voltai, gocciolante d’acqua. Era Phil, Phil Thornalley, il nostro nuovo produttore.
Il volto affilato, l’aria perplessa contornata dalle nere sopracciglia ed i capelli lunghi e scuri tirati dietro le orecchie lo facevano sembrare quasi affascinante.
«Ciao Phil», lo salutai distratto, afferrando un asciugamano e premendolo delicatamente contro i gonfiori del volto.
«Ma, ehi», riprese lui, senza badare al mio saluto, ma anzi scrutandomi da lontano. «Che diamine hai fatto alla faccia ?». Il tono era velato di preoccupazione paterna, nonostante non fosse di molto più vecchio di me. Sentii i suoi passi mentre si avvicinava a controllare la mia pietosa situazione, le sue scarpe da ginnastica che scrosciavano contro la polvere e le gocce d’acqua lasciate cadere da me poco prima sul pavimento. «Mh ?», mugolò, tastandomi con le lunghe dita affusolate le evidenti chiazze rosse sulle guance, «Che significa questo ? Immagino ti faccia anche abbastanza male…».
«Abbiamo litigato», risposi evasivo, «E comunque no, sto bene. Mi sento solo un po’… Indisposto… ? Boh, gonfio, quello sì, senz’altro». Il taglio sul labbro mi stava al momento facendo vedere le stelle per il dolore.
«Abbiamo ?», chiese lui, la perplessità mista al crescente nervosismo, «Abbiamo chi ?».
Abbassai con finta noncuranza lo sguardo sul lavabo. «Simon ed io».
«Oh», commentò, laconico. Ed io erroneamente pensavo che le sue considerazioni fossero finite lì. Riprese però solo dopo avermi esaminato ancora per qualche secondo, gli occhi scuri che sentivo andare su e giù su di me, mentre io mi osservavo minuziosamente allo specchio, controllando le ferite e sistemandomi i capelli in maniera semi-decente. «Cristo Robert, finirete per farmi impazzire di questo passo». Cercava di dimostrarmi il suo disappunto con lo sguardo, che io invece evitavo accuratamente. «E posso sapere almeno il perché di questa geniale improvvisata ?». Si prese il mento tra il pollice e l’indice, in attesa di spiegazioni.
«Ma Phil, tu fai troppe domande», ribattei secco, chiudendo con forza i rubinetti, che emettevano un’irritante perdita.
«Come ?». La sua voce si era alzata di mezzo tono. «No, cioè, voi, che siete i miei musicisti, fate a botte, compromettendo il lavoro di tutti quanti, compromettendo un progetto in cui io ho investito le mie risorse, e mi vieni anche a dire che faccio troppe domande ? Lo considero un po’ fuori luogo, non trovi anche tu ?».
Lo guardai, fissai le pupille muoversi in maniera decisamente indignata, e mi sentii colpevole. Aveva ragione. Lui aveva scommesso su di noi, ed era giusto che noi non lo deludessimo, almeno in apparenza.
«Sì, scusami, hai ragione», ammisi, cercando di apparire cosciente delle mie responsabilità ma al tempo stesso risoluto. «Il problema, Phil, è che sostanzialmente beviamo troppo, e siamo irascibili. O lo diventiamo dopo aver bevuto». Alzai le spalle, in una sorta di rassegnazione. «Cercheremo però di controllarci in futuro, hai la mia parola». Sorrisi leggermente, anche se mi faceva un male cane sollevare gli angoli della bocca in quel modo, stirando così al massimo l’apertura sanguinolenta. Cercai di tener su il mio sorrisetto ebete, mascherando il dolore e risultando, credo, assolutamente poco credibile.
«Mh». Mi stava squadrando, ancora. «Vabbè. Vatti a riposare adesso», disse infine, puntando le sue lunghe dita in analisi al mio stato attuale, «Perché dubito riuscirai a combinare qualcosa così conciato». Poi indicò con gli occhi un punto dietro le mie spalle. «E dubito che anche a Simon sia sbollita del tutto», aggiunse.
Udii sbattere una porta dietro di me, e mi voltai all’istante, riuscendo a scorgere solamente la scia di un cappotto nero che svaniva per le scale, accompagnata dal passo pesante di anfibi frettolosi e dall’ingombrante custodia di un basso.
«Sì… Credo che andrò a casa», conclusi, la voce assente e lo sguardo come sospeso nel punto esatto in cui avevo visto la sottile ombra di Simon sparire.
Phil mi posò una mano sulla spalla, per poi salutarmi, augurandomi buon riposo. Poi passò davanti ai miei occhi, che non riuscivano a distaccarsi dal ricordo scuro di poco prima. Incantato da quell’apparizione e contemporaneamente sconvolto per la sua perdita.
«Un’altra giornata di lavoro andata al diavolo. E siamo già a dicembre inoltrato… !», commentò Phil rientrando nella stanza adibita al gruppo, assicurandosi, con un’occhiata di disappunto nella mia direzione, che avessi udito anche io.

*

«Ma perché non ti decidi a lasciar perdere quei due bambocci una volta per tutte. Non fanno che procurarti grane su grane d’altronde».
Steven se ne stava sdraiato sul mio divano di pelle, fumando languidamente, quasi stesse corteggiando la sua sigaretta, mentre con la mano sinistra penzoloni reggeva un bicchiere con dei rimasugli di gin, che lasciava dondolare a tempo con Suffragette City di David Bowie.
«Ancora con questo discorso Steve». Sbuffai, accasciandomi sulla sedia e guardandolo con la coda dell’occhio mentre si gingillava. Ogni volta che qualcosa con Lol o Simon o chiunque altro andava storto, Steven cercava di portarmi dalla sua parte. “Vieni a suonare coi Banshees, che aspetti !”, “Abbiamo bisogno di un chitarrista eccezionale come te, Rob !”. Non faceva che ripetere lo stesso concetto in milioni di modi diversi. “Susan ed io ti aspettiamo e blabla !”.
«Se suoni con dei mocciosi, babbei oltretutto, non puoi mica prendertela con me, Robert», continuò imperterrito, scolandosi il resto del gin dal bicchiere.
«Ma basta. Simon e Lol non sono dei bambocci. Né tantomeno dei mocciosi. Non li insultare di nuovo o mi incazzo». Lo osservai tirarsi su e mettersi seduto. «E non ho nessuna intenzione di lasciare i Cure, al momento».
«Ma tanto prima o poi cederai, dico bene ?», disse sorridendo, stringendo la cicca tra le labbra rosse, che tanto contrastavano con l’incarnato pallido e il platino dei capelli. Poggiò le mani sulle ginocchia. «Tu e Simon siete due teste calde ai ferri corti», spiegò, col piglio da narratore di documentario. Mi guardò pensieroso. «O meglio, siete due teste calde di nuovo ai ferri corti. Da quando vi conosco non avete mai avuto un periodo tranquillo. E vi conosco da un po’ eh». Sorrise ancora. «Vi sopportate a malapena», continuò, vagando con lo sguardo per la stanza, «C’è talmente tanta tensione… Eppure ti ostini a lavorare insieme a lui !». Appoggiò la schiena ed accavallò le gambe. «Ora, le questioni sono due». Agitò la sigaretta in aria, disegnando strane geometrie con la scia di fumo. «O sei una povera vittima che per amore del suo lavoro sopporta anche le pene dell’inferno», posò il suo sguardo luciferino su di me, «Oppure vuoi vedere fino a dove ti porterà questa strada… Perché in fondo ci provi gusto, e ti piace».
Lo guardai, scettico. «Cosa ne vuoi sapere tu, biondino», lo apostrofai scherzoso. Mi alzai e mi diressi verso la dispensa. La aprii. Avevo fame, sì, ma in casa mia non c’era quasi mai qualcosa di commestibile. Scorsi rapidamente la non troppo varia gamma di cibarie a mia disposizione.
Biscotti. Patatine. Burro di arachidi. Biscotti. Miele. Ancora biscotti. Ancora patatine. Pizzette. Del pane. Mostarda. Di nuovo biscotti. Ma come diamine riuscivo ancora a mantenere il peso-forma ? Milioni di calorie erano posizionate beatamente lì dentro.
Presi in mano una confezione di wafer al cioccolato, e la scartai avidamente. «Vuoi qualcosa da mangiare Steve ?», chiesi piano al mio amico, tutto intento a fissarsi le scarpe.
«Comunque», riprese, ignorando completamente la mia proposta, come se la mia voce avesse ridonato l’input ai suoi pensieri, «Qualunque dei due casi rispecchi la tua situazione, sappi che io, Susan e Bud non aspettiamo altro che averti a bordo». Ecco, di nuovo lo stesso consiglio opprimente, trito e ritrito. Steven era incorreggibile. Sollevò lo sguardo su di me che sgranocchiavo wafer e mi fece l’occhiolino, scuotendo il bicchiere. «Ed ora offri da bere al tuo caro amico Banshee, da bravo».

*

La mia immagine riflessa nello specchio aveva un che di minaccioso.
Mi aveva sempre un po’ spaventato guardarmi. Era… Strano. Non saprei descriverlo con esattezza.
Me ne stavo in piedi, davanti allo specchio del bagno un po’ appannato. Ero appena uscito dalla doccia, e mi sentivo abbastanza rilassato. L’asciugamano stretto intorno alla vita mi procurava un fastidioso senso di costrizione, quindi lo sfilai. Rimasi nudo per un po’ a fissarmi, con la curiosità di chi guarda una persona per la prima volta in vita sua. Attento ad ogni dettaglio.
Mi lasciai cullare per un po’ dalla nebbiolina vaporosa che ammorbidiva l’aria all’interno del bagno. Calore. Sentivo che era calore benefico. Chiusi gli occhi e li riaprii, lentamente.
Di nuovo a scrutare il mio volto, un po’ incavato, troppo pallido. Quasi a detestarlo.
La classica sensazione di inadeguatezza che provavo nell’osservarmi era questa volta accresciuta per via delle guance, ancora goffamente pronunciate. Solitamente mi soffermavo sul mento – provavo un profondo odio nei confronti del mio mento – ma quella volta di andare oltre le rotondità delle guance non mi riusciva.
‘Dannazione’. Mi tastai gli zigomi. Sembravano bruciare al solo contatto con le dita. ‘Quel bastardo ci sa fare a cazzotti’, pensai.
Quel bastardo era, ovviamente, Simon.
Buffo. Non appena lo conobbi, finimmo subito per litigare. Per un motivo tra i più futili ed infantili, oltretutto.
Un pallone sgonfio.
Cioè, il pallone non era sgonfio, l’avevo bucato io. Io avevo bucato il suo pallone. Mi piaceva, non potevo averlo, e così lo bucai. Che stronzo, eh ?
Lui, neanche a dirlo, non si lasciò minimamente mettere i piedi in testa. Ed io ci rimasi abbastanza male, perché una cosa del genere all’epoca non te la saresti mai aspettata da Simon Gallup. Un ragazzino così piccolo e fragile, dai lineamenti quasi femminili, dai modi gentili. Mi picchiò perché avevo bucato il suo pallone. Avevo distrutto con un gesto il suo piccolo mondo. E lui, in tutta risposta, mi picchiò. Me le diede di santa ragione. Così forte che ad un certo punto scoppiammo a piangere entrambi.
Anche io sono un attaccabrighe nato, nonostante il mio aspetto tutt’altro che virile.
A dispetto di tutto, inizio a pensare che io e Simon ci assomigliamo molto.
E, come se si vivesse in un nietzschiano eterno ritorno dell’identico, eccoci di nuovo qui, a fare a botte. Il motivo magari sembrerà ai nostri occhi meno futile paragonato a quello di allora. Ma in fondo anche dieci anni prima un pallone sgonfio appariva come una ragione più che sufficiente per fare a pezzi un altro essere umano. La classica relatività delle cose.
E quel giorno, proprio quel giorno, come tanti anni prima, avevo distrutto il suo piccolo mondo. Ancora. Per l’ennesima volta.
Una fitta allo stomaco. Mi premetti la mano sul ventre nudo. E se questa fosse stata l’ultima volta ? La fine di tutto. È terribile pensare ad una situazione in questi termini. Rendersi conto che la fine può essere dietro l’angolo, aspettarsela da un momento all’altro e non poter, non voler fare nulla per evitarla. Anzi, a dirla tutta a me sembrava quasi di star accelerando la catena di eventi. La conclusione, l’addio. Diversi termini per una sola, unica ed amara sensazione. Mi sembrava quasi di vederlo lì davanti a me il burrone, il dirupo di fronte al quale mi sarei dovuto fermare. Ed avrei dovuto trovare un’altra strada, perché di lì non si poteva più proseguire.
E’ la fine ? Davvero la fine ? Allo stesso modo in cui è iniziata, termina la nostra avventura.
Violentemente. Con ferocia inaudita.
Mi vuoi morto ?
Le sue parole risuonano nella mia testa come una condanna, una maledizione. Non riuscivo a pensare ad altro.
No, certo che non lo volevo morto, che domande assurde, come diavolo ragioni Sim ?, ovvio che non l’avrei voluto morto per alcuna ragione al mondo, più che naturale che non ti avrei mai voluto fare del male, né tantomeno farti soffrire, e per questo mi dispiace Simon, tu lo sai, vero ?, lo sai, tu, che mi dispiace. Lo sai ?
Stavo ancora distrattamente fissando il mio viso pallido allo specchio. Osservai meglio, colto da un’improvvisa curiosità. I capelli. Il mento. Le labbra. I miei occhi guizzavano da un particolare all’altro.
Patetico. Quel pallore accecante tutt’un tratto iniziò a disgustarmi. Presi in mano il contenitore del sapone liquido e lo lanciai in direzione del mio riflesso. Neanche me ne resi conto e la mia immagine si fece a pezzi. Andò in frantumi proprio davanti ai miei occhi guizzanti.
Quello sguardo doveva sparire.
Io dovevo sparire.
Avevo bisogno di una pausa, senza dubbio. Mi passai una mano tra i capelli, realizzando come all’improvviso che era tutto troppo complicato. Ero nel bel mezzo di un gran casino, e non sapevo come uscirne. E proprio in quel casino io ci stavo annegando. Il fiato mi mancava.
Lasciando lo specchio in pezzi, abbandonato al suo triste destino, mi diressi in camera, vestendomi frettolosamente. Presi dall’armadio un borsone nero, ed iniziai a riempirlo di roba. Libri, un blocco note e delle penne. Un mangianastri. Unknown Pleasures dei Joy Division, Astral Weeks di Van Morrison, e qualcosa di Bowie che ora non ricordo. Probabilmente Low.
Sigarette. Anche se non fumavo regolarmente, avrei potuto averne bisogno.
Passai in cucina a prendere una decina di birre, che infilai in un sacchetto di plastica, insieme a due pacchi di biscotti presi a caso dalla dispensa.
Cacciai dentro al borsone anche una bustina di tavolette colorate, portatemi da Steven nel pomeriggio. Ormai era diventato un dosaggio strettamente necessario.
Misi su un paio di scarpe e, senza curarmi troppo del mio aspetto, attraversai a grandi falcate il corridoio, deciso sul da farsi, tenendo nella mano destra il mio misero bagaglio a mano ed afferrando con la sinistra le chiavi di casa sopra la mensola accanto alla porta.
E fu proprio lì che sentii bussare. Rimasi interdetto.
Con un tonfo lasciai cadere borsone e sacchetto a terra.
Aprii e mi ritrovai di fronte l’espressione un po’ stupita ed un po’ spaventata di Lol. Le mani in tasca ed i capelli arruffati. Dietro di lui scorsi le vetrate del palazzo, ed il cielo che si faceva lentamente più scuro.
«Ciao, Lol», dissi, un po’ seccato per questa sua interruzione.
«Oddio Rob, frena l’entusiasmo, per carità», fece lui, con tono ancora più seccato del mio. Poi scorse il borsone accanto ai miei piedi. «Vai da qualche parte per caso ?», chiese, l’aria interrogativa.
«Mh, beh, sì», risposi io, vago, «Prima che tu mi interrompessi, sì, stavo decisamente andando da qualche parte».
Mi guardò, quasi scandalizzato. Come se avessi detto un’eresia.
«Ma senti con che tono rispondi ? Ci credo che Simon poi finisce per picchiarti», commentò acido, puntando gli occhi scuri nei miei.
«Senti Lol, se sei venuto fin qui per farmi la predica, potevi risparmiarti il viaggio», lo ammonii, chinandomi a riprendere il borsone e lanciandolo praticamente sul pianerottolo, poco più in là. Valicai l’arco della porta, costringendo il mio amico a spostarsi, e la chiusi a chiave.
Lui aspettò che avessi chiuso a doppia mandata per riprendere il filo del suo discorso. «Figuriamoci, Robert. E, visto che la mia presenza è cosa poco gradita, me ne vado, tranquillo». Si quietò improvvisamente, voltandosi per tornare da dov’era venuto.
Un piccolo senso di colpa venne a galla dentro di me. «Dai, aspetta un momento», lo richiamai, quasi supplichevole.
Si volse verso di me al terzo scalino sceso, «Facciamo così, Rob. Parleremo quando sarai più calmo, eh ?». Si appoggiò al corrimano. «E comunque ero passato solo per un saluto, dato che non ti sei degnato di rivolgermelo stamattina, quando te ne sei andato dagli studi».
«Scusami Lol, è solo che…». Non sapevo come spiegarmi.
«Solo che cosa ?», chiese lui, apparendo quasi insistente ai miei occhi, quando invece l’unica cosa che aveva sempre voluto era aiutarmi.
Non sapevo come spiegarmi ma, soprattutto, non sapevo cosa, per l’appunto, dover spiegare.
Rinunciai quindi momentaneamente ai chiarimenti. Mi arresi. «Forse ti saprò dire tutto quando sarò più… Calmo, come hai detto tu». Ecco, sì, era proprio il caso. «Ho bisogno di rilassarmi, ho bisogno di staccare, di allontanarmi da tutto e da tutti, di concentrarmi sul mio lavoro ed al tempo stesso di starmene un po’ per conto mio», sputai fuori tutto d’un fiato, nella speranza che lui fosse comprensivo.
E lui capì.
Perché era Lol, e Lol mi capiva. Sempre. «Su, ora vai, non voglio mica trattenerti. Trova te stesso, fai quello che devi fare e poi torna qui». Il tono della sua voce si era fatto più dolce. «Però torna, Rob, e fallo in fretta, mi raccomando. Abbiamo bisogno di te. Se non ci sei siamo un po’ persi, e personalmente non mi vergogno ad ammetterlo». Mi sorrise, e mi sembrò quasi di intravedere una nota lucida nei suoi occhi. Stavo per proferire parola, ringraziandolo ennesimamente per il suo così importante ruolo nella mia vita, quando lui mi fermò col cenno di una mano. «E non temere, ci penso io a Simon. Lui sì che si vergogna ad ammetterlo, invece». Rise di gusto. Poi sospirò, e si incupì. Pensai per un momento a Daphne, sua madre. Questo flash mi riempì di tristezza. «Ci vediamo Rob, stammi bene», e si voltò, proseguendo per le scale.
«Lol». Lo chiamai di nuovo, volevo dirgli grazie, dovevo dirgli grazie.
Lui si fermò nel pianerottolo sottostante, e, anche se le scale erano alquanto in penombra, sentii il suo sguardo su di me. «No, niente ringraziamenti», mi precedette lui, calmo, «Gli amici se ci sono è perché vogliono esserci, nel bene e nel male. Niente ringraziamenti, quindi. A presto, Robert». Udii i suoi piedi continuare la discesa per lui. Poi il portone che sbatte, un paio di piani più sotto.
Rimasi immobile per qualche minuto, al buio, finché non mi decisi ad accendere la luce.
Scesi piano fino in garage, e salii in macchina. Sarei stato via il tempo necessario. A dire la verità non avrei saputo quantificarlo, questo “tempo necessario”. Ed anche lo scopo di questo mio breve viaggio mi era ancora poco chiaro.
Era egoistico questo mio allontanamento, lo sapevo bene, ma volevo far funzionare le cose. Con tutto me stesso. Davvero.
E, mentre premevo l’acceleratore in direzione di Guildford, continuavo a ringraziare Lol dentro di me.

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Capitolo 17
*** Sinking ***


Chapter Seventeen

~ Sinking

Tirai su a fatica la testa dalla tazza del water. Ceramica e plastica.
Sentivo il chiasso della festa attraverso le pareti del bagno. C’era anche qualcuno che, con insistenza, picchiava il pugno sulla porta. Nell’aria riconobbi, inconfondibile, Denial dei New Order.
Quella canzone, in quel momento, una sorta di persecuzione. La voce di Sumner, il basso di Hook, here I am in a house full of doors but no exits - in a light that is grey like the stain on my windows - it's just something I know, the answer's not there - it comes and it goes and it frightens me. Era come se a parlare fossi io, e non il buon Bernard. Time worked so well upon us, inside of me - Inside my soul, Inside my soul. Dentro di me, dentro di me.
Strizzai gli occhi verso l’inquietante contenuto di imprecisato colore che mi sottostava, galleggiante disgustoso a pelo d’acqua.
“E Robert, dov’è ?”. Quella mattina avevo voglia di chiarire, di riprendere in mano la situazione, di andare avanti, finalmente.
Lo sguardo di Lol che tronca di netto la mia mera illusione. “Robert è andato via per un po’. Ma non chiedermi dove, io non lo so”.
Robert è andato via.
“Ma via dove ?”, “Ti ho detto che io non lo so”, “Non può mica lasciarci qui, così, mentre se ne sta per i cazzi suoi, lui… Se lo sai, se sai dov’è, dimmelo Lol, che vado lì a finire quel che ho cominciato ieri”, “Piantala Sim, smettila, falla finita, ho detto che non lo so”, “…”, “Ha bisogno di stasarsene da solo, tutto qui”, “…”, “Ma tornerà, ovvio che tornerà, non può mica lasciarci qui, così”, “No, certo che non può”, “Hai ragione, ovvio, non può”, “E allora cosa facciamo, noi, qui, Lol ?”, “Andiamo a casa”, “Andiamo”. Da soli. Ognuno per la sua strada. All’improvviso, senza spiegazioni. Così.
La fretta con cui passa una giornata piena è sconcertante. Sconcertante, quasi come la lentezza con cui passa una giornata vuota. Piena di vuoti da colmare. Vuoti che non sai come colmare. Vuoti che forse non vuoi colmare.
E allora anneghi, sprofondi. In qualsiasi cosa. Che sia aria, musica, letteratura, alcool. Con facilità e leggerezza, senti che non riesci a risalire, ma per ora non è necessario, perché laggiù si può stare. Lentamente affondi, senti i tuoi piedi risucchiati, ed i passi farsi pesanti, ma non ci fai caso. Tanto hai tempo da perdere. E vuoti da colmare.
È ora di risalire ? No, ancora un poco.
Perdere tempo è la cosa più difficile del mondo. L’attesa è furba, non si lascia ingannare.
Dopo aver bevuto tutto il bevibile, perché di distrarti in modo sano non ti riesce, ecco il campanello che suona. È Lol. Io però sono quasi sbronzo, e lo saluto forse con troppa euforia. “Hai bevuto ?”, “Che, si vede ?”, “No, affatto”, “Meglio così allora”.
Parla di una festa, però ne parla in modo troppo convulso, o forse sono io a non capirci niente. Fatto sta che mi sfugge chi sia l’organizzatore del suddetto party, però siamo ugualmente invitati.
Decidiamo di andare a piedi, perché “Almeno smaltisci un po’ di quel veleno”. E poi il posto è anche vicino. “Cosa ne sai tu di veleni”. “Lo so e basta”.
L’aria frizzante che ti aggredisce il viso poco prima del calare del sole. Le giovani stelle che si stagliano nell’azzurrino, e le gambe foderate di jeans che dopo qualche metro si intorpidiscono. Arrivi in quella villa circondata da un enorme e verde e rigoglioso giardino, e, toh, una palma, non avevo mai visto palme nei dintorni di Londra, ma c’è sempre una prima volta, e ti ritrovi a pensare a come farà a sopravvivere una palma con la nebbia e lo smog.
Una sfilata di volti che non conosci. Ma un sorriso non si nega a nessuno, quindi tutto diventa un finto cerimoniale, bizzarro e grottesco.
Ho riacquistato un po’ della mia lucidità, ma non mi serve a nulla in quel posto. L’alcool scorre a fiumi impetuosi, puoi solo star lì e goderne. La sera precedente ero stato però colto da tremendi dolori addominali, che avevano castigato il mio sonno lungo tutta la sua durata, ed ora il mio corpo iniziava a reagire in maniera quasi scostumata ai miei eccessi.
Una corsa repentina in bagno ed eccomi qui, da tempo imprecisato, chino sui miei resti, a lottare contro la digestione precoce. Fitte di dolore e desiderio di sputare tutto fuori, il prima possibile. Vomitavo convulsamente da un po’.
Rimasi a fissare il rigetto delle mie viscere, aspettando che gli spasmi si quietassero.
Dopodiché, con le mani poggiate sulla ciambella di plastica, mi issai. E poi lo sciacquone. Acqua pulita. Il mio riflusso intestinale che và giù, nello scarico.
Sulle note di Denial, tum. «Ehi !». This feeling inside me can't confront the decay - to fall down on my knees and resume this charade, tum tum. Believe me, this distance, it's not what I need, «Ma c’è nessuno qua dentro ?! Ehi !». Una voce maschile roca e vagamente familiare si staccò dal brusio di sottofondo, risuonando improvvisamente dietro il legno.
Il tempo di ricordarmi chi fossi, «Arrivo, eccomi, un momento». ‘Che palle, neanche in bagno si può stare in pace’.
«Ehi !», e la voce si fece più distinta. Inside of me, inside my soul.
«Ho detto un momento, cazzo !», sbottai in direzione della porta, ammutolendo per un attimo lo sconosciuto interlocutore. Le corde vocali intorpidite mi costrinsero a dare qualche colpetto di tosse.
Mi fiondai diretto allo specchio sopra il lavabo. Ero un cencio. Sistemai i capelli, ma il sudore e l’aria pregna di fumo avevano reso la mia capigliatura un informe pagliaio scuro. Inguardabile. Mi bagnai le guance con dell’acqua, cercando di ridarmi un po’ di tono. Risultati scarsi. Quindi mi chinai sul rubinetto, bevendo avidamente. Le labbra secche e la gola stanca a riprendere vita.
Con lo sguardo vitreo di chi ha decisamente bevuto troppo, nonostante gli scompensi enterici della sera prima, asciugandomi la bocca col dorso della mano, mi avvicinai alla porta chiusa a chiave, poi la aprii.
Mi stavo lisciando la maglia, quando, con estrema sorpresa, trovai di fronte a me Matthieu, Matthieu Hartley, alto ed imponente, lì davanti che mi bloccava il passaggio, con il pugno ancora alzato nell’intento di bussare.
«Simon !», esclamò, strabuzzando gli occhi.
«Ciao Matthieu !». Era trascorso del tempo da quando Matthieu, Matthieu Hartley, aveva abbandonato i Cure, per evidenti ed oramai insostenibili divergenze di pensiero con Robert. Sì, insomma, la solita giustificazione, fondatissima per altro, adottata da ogni membro che abbandona la band. Da allora i miei contatti con l’ex-tastierista si erano fatti sempre più sporadici, così come i nostri incontri. Robert e Matthieu non si sopportavano, quindi anche le sue visite agli studi si erano drasticamente ridotte.
Matt, Matthieu, era di molto più alto di me, ed anche più robusto. Capelli castani e sguardo poco sveglio.
Io e lui ci conoscevamo già da tempo. Prima che entrasse a far parte a tutti gli effetti dei Cure suonammo in un paio di band insieme. Niente di rilevante, giusto qualche dilettevole espediente per darsi delle arie.
A guardarlo bene, Matthieu, lo avresti scambiato per il classico “gigante buono”, il tontolone sempliciotto del gruppo.
Niente di più errato.
Nonostante la sua aria poco intelligente, Matt era un acutissimo intellettuale, come pochi. Voleva che le sue idee, per quanto strambe, fossero accolte. Non ammetteva dinieghi.
Pugno di ferro ed arroganza da vendere.
Nonostante la sua poca versatilità, con le tastiere ci sapeva fare, ed il suo contributo, forse alla resa dei conti poco influente, aveva dato al nostro precedente disco quell’atmosfera decadente ed un po’ eterea che Rob da sempre sognava. Quest’ultimo, però, voleva proseguire di lì, mentre l’obiettivo di Matt era di invadere la scena, diventando personaggio integrante e fulcro delle composizioni. E con Robert da questo punto di vista c’era ben poco da discutere.
Una dittatura, la sua. Dolce, tremendamente piacevole, ma pur sempre una dittatura.
E Robert, da bravo dittatore qual era, perfettamente calato nel suo ruolo, tendeva a far uscire dal retro, possibilmente a calci, i personaggi scomodi. Come aveva fatto con il buon Michael, Michael Dempsey, chitarrista dallo spirito allegro, così fece con Matt.
“Assoli di tastiere ?! Ma tu ti sei bevuto il cervello, Matthieu”. Ricordo ancora lucidamente l’ultima accesa discussione tra loro due a cui ebbi il dispiacere di assistere. Matthieu soleva chiamare Robert “brutto hippie”, e Robert questo lo detestava. Detestava un po’ tutto di Matt, veramente, e si aggrappava a delle scemenze per far notare il suo continuo disappunto. “Solo perché ascolto Jimi Hendrix ? Non ti permettere”.
Una mattina arrivai in studio, dannatamente puntuale come al solito, e Robert mi disse, con estrema semplicità, scadendo quasi nella noncuranza, “Matt non viene più, è fuori”. Io mi limitai a non chiedere spiegazioni. Annuendo, ci lasciavamo dietro l’ennesima vittima.
«Cosa ci fai qui Matt ?». Domanda banale, ma d’obbligo.
«Beh, è una festa, mi diverto». Sorrisone. Mi era quasi mancato. Lui ed il suo sorrisone. Mi squadrò per un istante. «Oh, ma stai bene ? Sei proprio pallidino». Aveva sagacemente notato il mio più che palese pessimo stato.
«Mh, no Matt, a dirti la sincera verità non sto affatto bene… Sai, ero chiuso in bagno per quello». Sorrisino. Io ed il mio sorrisino, strozzato su quella faccia color delle pareti.
Passammo dei discreti momenti quella sera, l’uno in compagnia dell’altro, a squadrare ragazze ed a bere, ricordando i vecchi tempi. Come ai vecchi tempi.
«Che capellone che sei diventato… Non mi piaci con questi capelli, sai ?». Risatina. I miei capelli non dovevano essere oggetto di discussione.
«A me piacciono», risposi, mettendo il muso e rigirando scettico una ciocca tra le dita. Lo guardai. «Tu invece adesso cosa fai ?».
Tutto serio risponde «Io ? Lavoro in uno zoo». Mi sembra quasi di vederlo impettirsi per un attimo. Però scoppio a ridere lo stesso. E lui si arrabbia. Bonariamente, ma si arrabbia.
«Che cavolo hai da ridere ? E’ un lavoro bellissimo e gratificante ! E poi è grazie a voi che la mia carriera nel mondo animale si è avviata. Durante le session mi sembrava di essere un domatore di circo, brutte bestie che non siete altro». Oh, sì, povero caro, eh ? Ride anche lui. Ridiamo tutti e due, per un po’, finché la risata non scema.
Silenzio. Mi fisso le unghie delle mani. Sono troppo corte. Alzo lo sguardo ed una bella ragazza con i capelli ramati, che mi sembra di conoscere, passa. Mi sorride. Sorrido anche io di rimando. Silenzio. Mi volto verso Matt. Lui beve, e mi sbircia dal vetro del bicchiere. Silenzio. Prende fiato dopo l’ultimo sorso.
Poi, «Come sta procedendo il nuovo album ?», chiede all’improvviso, lo sguardo ora immerso nel contenuto del suo bicchiere. Cercava di nascondere l’imbarazzo per quella domanda e la nostalgia che parlare di queste cose gli procurava.
«Beh», iniziai, cercando di dosare bene le parole, per paura di ferirlo in qualche modo, «Diciamo bene, sì, dai, bene, siamo ancora senza canzoni ma bene, tra gli alti ed i bassi delle registrazioni, e siamo tutti un po’ irascibili, ma sai com’è, ci conosci ormai, e conosci soprattutto me quando sono sotto stress, poi ci punzecchiamo a vicenda, in continuazione, e non abbiamo ancora registrato nulla di serio, e, che vuoi farci, siamo sempre incasinati». Lo dissi tutto d’un fiato. Senza guardarlo, gesticolando imbarazzato. Al diavolo il dosare le parole, Matt. Ancora un sorriso, stavolta più goffo. Lì dietro, però, c’era la memoria del giorno prima, e della terribile, violenta e furiosa litigata con Robert.
«E con Robert, tutto bene ?». Eccolo, sì, proprio lui. Perché doveva tirarlo fuori adesso ? Silenzio, ancora. Matt alzò gli occhi su di me. Tutto bene ? Ma che vuol dire. Che domanda sarebbe, Matt, Matthieu. Non è mica facile rispondere. Non puoi pretendere una risposta che non mi faccia male, adesso. «Ho visto Lol, ma lui no… E’ qui nei dintorni ?», e fece per voltarsi, cercandolo con lo sguardo. Non è qui nei dintorni, non è qui.
Ma lo era mai stato veramente ?
«No, no», lo fermai in tempo, «Lui non c’è». Lo sguardo lontano, che si infrange sulle vetrate del grande salone e si perde nel giardino che circonda la casa e corre, corre, forse nella speranza di rintracciare ciò che ricerca da tempo immemore, disperatamente, affannosamente, perversamente. Si arrampica, scavalca, nuota, vola, lontano. Lontano da quella casa, da quella festa sconosciuta, di chi era quella festa ?, dal baccano e dalle luci e dalle voci e dai sussurri e dall’ammasso di corpi che si premono e si pigiano e ridono come per dare un senso a quella sera, come per dare un senso a quel tutto. Ma io non sono più lì, io sono lontano. Lontano. E non c’è, lui, qui, nei dintorni. No, non c’è.
Silenzio.
Dov’è ? Non lo so. Io sono assente. Sto correndo via, come ha fatto lui. Fingo di esserci, ma non ci sono.
«E dov’è ?».
«Non lo so».
“Non ti preoccupare, tu, lui se la cava da solo, se l’è sempre cavata da solo, pensa a stare su e concentrati sul tuo lavoro, Sim”. Questo ciò che mi aveva detto Lol stamani. Non devo preoccuparmi. No, non mi preoccuperò, non lo farò.
Matt mi guarda, stranito da quella risposta leggermente scorbutica. Infastidita. Sì, perché mi dava sempre eccessivo fastidio ammettere la mia ignoranza. Mi armai di silenzio. Questo maledetto silenzio che mi scende addosso come un pesante sipario di velluto.
«Scusami Matt, temo andrò a casa». Mi alzo.
«Ho detto qualcosa che non va ?».
La sua faccia preoccupata, «No, sono io, è colpa mia, non preoccuparti».
Nessuno qui si deve preoccupare. Nessuno.
«Ok… Mi ha fatto piacere rivederti». Sorrisone. «Davvero».
«Anche a me». Sorrisino. «A presto». Poi me ne vado, stavolta anche fisicamente. Perché io non sono più lì da un pezzo. Il chiasso mi circonda, ma io so che è solo silenzio mascherato. Giù il sipario. Believe me, this distance, it's not what I need. Fine primo atto.

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Capitolo 18
*** The Holy Hour ***


Chapter Eighteen

~ The Holy Hour

Al buio le cose assumono un diverso colore. Guardarle mutare è divertente.
Il buio ti nasconde. Il buio ti protegge. Puoi ridere, piangere, amare, danzare.
Il buio non ti chiederà mai perché.
Ogni cosa sembra infinita, nel buio. Senti che potrebbe durare per sempre.
Il buio ti scava dentro, ti spinge a toglierti le maschere del mattino. Scivola via te stesso, nel buio.
Ed è per questo che io, il buio, lo vivo. Non mi lascio afferrare, non permetto che mi possieda, non mi faccio vivere. Sono io che vivo lui. Ogni notte è una battaglia. Io e le ombre combattiamo fino all’alba.
Ma non c’è storia. Sono sempre io il più forte.

Accasciato sul sedile del guidatore, con la testa appoggiata al freddo vetro del finestrino, riflettevo. Annacquato dalla birra, riflettevo. Per quanto possibile. Attraverso le macchioline lasciate dalla pioggia fissavo il cielo, muto.
Non so quante miglia avessi fatto. Avevo accostato la macchina nei pressi del fiume, nascosto da un boschetto, nella ridente e pittoresca Guildford.
Guildford è sempre stata una cittadina tranquilla, senza troppe pretese. Mi rilassava aggirarmi da queste parti, era un po’ come ritornare a casa senza però ritornarci mai veramente. L’innegabile voglia di essere di nuovo bambino si fece sentire. Pulsava dentro ogni volta che vedevo un giardino fiorito, o un aquilone. Sarebbe stato bello tornare a quell’epoca in cui bastava un pezzo di tela legato ad un filo per renderti felice. Quell’epoca in cui non importava quanto alto il tuo aquilone volasse, né come volasse, né per quanto tempo volasse, né tantomeno di che colore fosse. Quell’epoca in cui la sola cosa che avesse valore era che il tuo aquilone stesse lì, sospeso. Che il tuo aquilone volasse, indipendentemente dagli altri secondari fattori. La mente del bambino è così splendente, pura e disinteressata che spesso ci fa spavento. Le nostre schermaglie di significati e significanti non servono, e riuscire a conservare anche un solo granello di quell’antica brillantezza sarebbe un immenso traguardo per l’uomo comune.
Ma, nonostante queste belle parole, il mio aquilone si perse inevitabilmente, tempo fa.
Trastullavo il mio ego in mezzo a quelle casette graziose, circondate da verde, tanto verde, casette silenziose, che aspettavano un’ennesima, asettica alba. Spento il motore, spenti i fari. Poi avevo iniziato a bere. Operazione ormai automatica, quella di aprire una lattina. Uno scatto metallico, la schiuma, il malto giù per la gola. Una. Due. Tre. Alla quarta mi appoggiai al finestrino. Alla quinta alzai gli occhi verso il cielo color inchiostro. Una sola stella riuscii ad individuare nel mio campo visivo, piccola e sperduta in quel brodo scuro, e questo un po’ mi stupì.
Iniziavo ad avere freddo, nonostante l’alcool in circolo.
‘Fantastico Robert. Sei fuori casa, ubriaco, in macchina da solo in un posto in cui non conosci praticamente nessuno, ed è metà dicembre. Cristo, una notte di metà dicembre e tu vuoi dormire in macchina. Geniale. Fantastico’.
Infilai la cassetta di Van Morrison nel mangianastri, e le tenere e strazianti note di Astral Weeks pervasero l’abitacolo. Mi accoccolai, cercando calore e conforto nel cappotto. Chiusi gli occhi. Che giornata assurda avevo passato. Al momento, a dire la verità, ricordavo ben poco della giornata appena trascorsa. Phil, lo specchio rotto, Lol che mi grida cose, Steve, il suo gin e la sua lsd, la macchina, la notte, il cartello di Guildford, Simon. I pugni di Simon. Le sue dita a stringere sul mio collo. I suoi occhi brucianti. Le sue parole che mi feriscono come dardi avvelenati. In mente avevo solo queste poche, confuse immagini, in un susseguirsi tutt’altro che logico. Ciò che avevo ancora negli occhi, e fermo in mente, era l’assurdità. Non sembrava neanche la mia vita, quella. Era come guardare un esilarante film, in cui il protagonista è un povero sfigato che non riesce mai in quello che fa. Lo vedi inciampare, goffo ed incredulo ogni volta, fallimento dopo fallimento. Un po’ deprimente forse, ma in fin dei conti è proprio la faccia afflitta del pavido eroe a provocare ilarità nello spettatore. E stai lì a rassicurarti, bello comodo nella tua poltroncina da cinema, mentre sgranocchi noncurante i tuoi popcorn, ‘Per fortuna non sono io quello lì’.
E invece – meraviglia delle meraviglie – quello lì sei proprio tu. Quello lì sono proprio io. Pagliaccio triste e deriso. Orribile scoperta, straziante e scomoda verità. Come un cappio spinato attorno al collo.
And I'm conquered in a car seat
Not a thing that I can do -
I may go crazy.

Presi carta e penna dal sedile accanto, su cui li avevo precedentemente buttati. Parole confuse caddero sul foglio, in più che discutibili risultati, tant’è che, pochi minuti dopo, fui costretto a lasciar perdere. Per il freddo stavo perdendo la sensibilità delle dita, non riuscivo a scrivere una parola.
Irritato, scesi dall’auto, con in mano sempre il blocco, infilandomi la penna nella tasca posteriore dei pantaloni e sbattendo con veemenza la portiera. Dovevo scaldarmi in qualche modo. Iniziai quindi a camminare, lentamente.
Osservavo il cielo, che mi sembrava ovattato – forse per il fatto che ero sbronzo ? Poi, preso da una qualche ignota fretta, accelerai il passo. But my heart keeps beating faster - And my feet can't keep still.
Distese buie e sconfinate, ma alla vista terribilmente intricate, mi si prostravano davanti, inchinandosi scure e soffici, come se fossi il re di quelle lande. L’erba si piegava dolcemente sotto le suole delle mie scarpe. Gli alberi ondeggiavano con leggerezza, danzando armoniosamente in balia del vento. Rumore d’acqua. Acqua che scroscia, zampilla e scorre lenta verso l’entroterra. Mi sentii pervadere da un vago sentimento di onnipotenza.
Sovrano incontrastato del buio, una sorta di piccolo monarca di terra e tenebre. Iniziai a correre, la mente intorpidita ma mai sazia di quel rumore acquoso che mi riempiva le orecchie. Mi fermai, aprii le braccia e respirai a fondo.
Aria che entra, aria che esce e che entra di nuovo e che esce di nuovo. Era l’aria più dolce e pura che avessi mai esperito da qualche tempo a questa parte. Le mie papille olfattive accantonarono per un po’ l’odore stantio delle stanze d’albergo e degli studi di registrazione. Niente birra, niente calzini, niente sudore, solo aria.
Una brezza leggera che ti spazza la fronte, aria che ti entra dentro gelida ma che ne esce cocente e rassicurante.
Preso dalla frenesia, mi fermai aprendo le braccia a quell’immensità, chiudendo gli occhi e roteando su me stesso un paio di volte, un pazzo ubriaco. Poi mi colsero le risa, inaspettate, improvvise, quasi isteriche, acute. Pensando al mio aquilone casualmente ritrovato, mi accasciai, gemente per il troppo ridere, chiedendomi cosa diavolo mi fosse preso e stringendo inconsapevolmente tra i pugni chiusi alcuni fili d’erba.
Aprii gli occhi. Prima fissando la cupezza del terreno, umido e scivoloso, che rivelava la vicina presenza del corso d’acqua, e poi sollevando lo sguardo su quella mostruosa costruzione che mi stava di fronte. Il mulino. Il mulino di Guildford.
Sembrava essersi materializzato lì per magia, come se io fossi destinato sin dall’inizio del mio viaggio ad imbattermi in esso.
L’avevo sempre ammirato da lontano, questo gigante alla guardia del fiume, ma non avevo mai azzardato un contatto fisico, quasi pervaso da una sorta di timore reverenziale.
Mi alzai, e con la curiosità tipica di un bambino ingenuo, mi avvicinai. Nessuna cautela, no. Toccai la superficie ruvida dei mattoni rossastri, come per assicurarmi che non fosse un mero prodotto della mia mente ebbra, e, con passo sicuro, sgusciai all’interno, rapito da quella strana e mistica apparizione. La sottile ed argentea falce di luna appesa nel petrolio del cielo illuminava candidamente il pavimento, timida e gentile, ed io mi innamorai. Mi innamorai del suo riflesso sulla pietra e sul legno, mi innamorai di quella luce pallida, mi innamorai della notte, del fiume e del mulino. Mi accomodai sotto la finestra, la schiena appoggiata alle fredde mura, e presi a scrivere. Scrissi per moltissimo tempo, tutto ciò che mi si affacciava alla mente trovava posto sotto la mia penna.
Segreti, urla silenziose che squarciano la mia pelle, ambizioni, storie, e la stessa immagine che mi perseguita da tempo immemore da qui all’eternità, paure, rabbia, tanta ed incontenibile rabbia, risate e polvere, giorni passati agognanti l’oblio, e lo specchio, la mia immagine pallida, e sangue, sangue ovunque, sui pavimenti lindi, sui muri, sui soffitti, tutto addosso, accecante, un dolore che si protende per sempre, un lunghissimo momento di agonia, il desiderio di sparire, sparire, sparire, sparire, sparire, dissolversi e sparire, forse fuggire ? E poi ritrovarsi di nuovo nello stesso punto, interminabile, la mente annebbiata, è follia a cui non puoi porre rimedio, e una canzone che mi rammenta che ora è la fine di tutto, il sottofondo di una marcia funebre verso l’inevitabile.
Quell’alito di ghiaccio che fa male al cuore, e agli occhi. Agli occhi, fa male al cuore, e agli occhi. Gli occhi.

Li chiusi per un attimo, ero esausto. La sbronza sembrava essersi svampita. Perché non avevo ancora mandato al diavolo tutti ? Ero enormemente stanco. Stanco di quella vita, stanco dei miei continui rigurgiti e ripensamenti, stanco di essere trattato e di trattarmi in questo modo. Avevano bisogno di me ?
O alla fine ero solo io ad aver bisogno di loro ?
Con questa vana e presumibilmente effimera speranza, mi addormentai. Noncurante dell’orario, noncurante del cielo grigio chiaro dietro cui il sole stava facendo capolino all’orizzonte, noncurante delle persone che avevo lasciato in balia di loro stesse, miglia e miglia lontano da me. Tronfio d’egoismo, mi addormentai.
Era freddo, l’aria pungente mi penetrava a forza nei pantaloni, quell’alito di ghiaccio, sei venuto a prendermi ? So che hai un nome, ma non riesco a ricordarlo. I miei occhi puntati su di te, ma cosa sei ? Non riesco a vedere, c’è solo torpore, ed è così freddo da far male al cuore, esatto, al cuore. Non ti vedo, ho freddo, cosa sei ? Chi sei ? Morirò ? No, non voltarti adesso, non ora. Io conosco questa sensazione, ci siamo già incontrati io e te, e se solo riuscissi a ricordare, a vederti per quello che realmente sei… E’ troppo freddo, non sopravviverò ancora, ti prego, non andare. Un nastro rosso tra i capelli, sono lunghi capelli scuri, la pelle lattiginosa e delicata, se lo penso intensamente riesco a toccarti e a sentire il tuo calore. E’ freddo, qui. E sento questa voce rauca che mi sgrida, perché ? Non volevo farti preoccupare, credimi, io ci tengo davvero a te, non voltarmi le spalle, ti prego, no, è ancora così freddo, e non riesco a ricordarmi nulla, qui, anche il mio sangue scorre gelato, quella luce, io l’avevo vista, ora dov’è ? Uno specchio. La mia immagine brilla malefica su quello specchio. E quegli occhi di ghiaccio che mi fissano. E’ lui. Ride di me. Il mio riflesso ride di me. Fare a pezzi il vetro non servirà a nulla, perché la sua risata mi rimbomba in testa, non vuole andarsene, squarcia la carne, puntella il mio cervello, in un crescendo di follia e desiderio, mi vuoi morto ? Mi vuoi morto ?!
Mi risvegliai improvvisamente, bianchiccio e con la fronte imperlata di sudore. La testa tra le mani, che mi pulsava irrimediabilmente, e piansi a lungo. Poi caddi in un tormentato e profondo sonno, dal quale mi risvegliai, acciaccato ed ancora più fiacco, il pomeriggio di quello stesso giorno che avevo visto appena accennato. Attorno a me ogni cosa era avvolta nel buio più totale.
Mi issai in piedi, barcollando ed in preda a tremiti improvvisi, causa freddo dicembrino, quindi raccattai le mie cose, tastando con la mano sulla fredda pietra del pavimento.
Con passo deciso mi affrettai verso la mia auto, ma fui colto dal terrore quando mi accorsi di non ricordare dove l’avessi lasciata. Tentai di forzare la mia mente a compiere il suo dovere, inutilmente. Spaventato, iniziai una ricerca affannata, con sottofondo di ruscello ed uccellini cinguettanti. Una pace surreale, a tratti inquietante. Ed ecco di nuovo il nostro eroe, sguardo avvilito, bocca aperta ed occhiaie, ansante tra gli alberi alla ricerca dell’oggetto perduto del suo desiderio e circondato da una cornice naturale pacifica e florida all’inverosimile. Una pesante coltre di stanchezza si fece strada tra le mie membra, rendendo il tutto ancora più orrendamente comico. Arrancavo stremato, scivolando ogni tanto tra i sassolini ed il terriccio umido. Finché eccola lì, proprio sul ciglio di un sentiero battuto che serpeggiava tra gli alberi. La mia macchina, lamiera color amaranto, mezzo di salvezza su quattro ruote.
Pescai le chiavi nelle tasche del cappotto, le dita congestionate, e mi introdussi dentro con enorme sforzo.
Abbandonai la testa contro il sedile di pelle color crema, ancora terrorizzato. Pensavo che l’essermi allontanato dall’oziosa e straziante routine avesse giovato al mio stato d’animo. Niente di più falso. Ora mi sembrava quasi di agognare il mio imminente ritorno alla fumosa city, alla moquette bruciacchiata dalle sigarette, all’aria irrespirabile e viziata degli studi, a Lol, a Phil, e anche a Simon, sì, e alla mia chitarra. Mi mancava la mia chitarra. E poi avevo un impellente bisogno di parlare, di esprimermi, non di tenermi tutto dentro, non ancora, non più. Stavo soffocando in tutto questo. La mia inesorabile discesa accelerava di ora in ora, e chi lo sa dove mi avrebbe portato di lì a poco, se non fossi fuggito ennesimamente, da codardo. La decisione di allontanarmi da quel luogo era già stata presa una manciata di minuti prima, quel luogo, quel mulino immerso nella campagna inglese che per me era stato fin troppo invasivo, ed il mio tentativo era proprio quello di tornare alla vita di sempre, come se nulla fosse mai accaduto. Rientrando a passo felpato nell’abitudine, troppo sconvolto per sopportare ancora quella pungente aria invernale, che odorava disgustosamente di pulizia, fresco e novità. Ora mi sarei concentrato sul mio lavoro, fiducioso nel fatto che la mia piccola e quasi insignificante assenza non avesse prodotto cambiamenti profondi nell’assetto attuale delle cose.
Ma, purtroppo, mi sbagliavo anche su questo.

Voglio che le stagioni mi consumino.
A te, Natura, m'arrendo, e la mia fame e tutta la mia sete: e ti piaccia nutrirmi, abbeverarmi.
Più nulla ormai m'illude.
Ridere al sole è ridere ai padri.
Ma io non voglio ridere a nulla.
E libera sia questa sventura.

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Capitolo 19
*** Torture ***


Chapter Nineteen

~ Torture

«Togli questa merda».
«Ma perché ?». Il suo sguardo implorante faceva più che altro venire i brividi.
«Ma come perché, Lol. Fa schifo, ecco perché». Pigiai l’indice sul tasto di stop del registratore, interrompendo bruscamente la voce di Simon Le Bon che faceva disgustosamente capolino tra le note sintetiche di quella che era una delle hit dell’anno, Planet Earth. «Cristo, che merda».
«Dai, non è proprio male in fondo…», cercò di giustificarsi Lol.
«Cosa ?». Mi voltai verso di lui. «Ma hai sentito come canta ? E’ orribile, è frocio, usa troppi sintetizzatori e mi fa veramente, ma veramente, vomitare. E non capisco come, nello stesso anno, la gente abbia potuto comprare sia il nostro Faith che questa merda di disco dei Duran Duran. Non lo capisco». Stizzito, mi buttai a sedere sul divano di pelle, con un tonfo sordo. Mi accesi una sigaretta.
Lol corrugò le sopracciglia, guardandomi indispettito, «Mi stai proprio sul cazzo quando fai così Sim, lo sai, vero ?».
Si diresse verso il tavolo al centro della stanza – o, meglio, verso la bottiglia di vodka sul tavolo al centro della stanza – e si piazzò di modo da darmi le spalle.
«Dico solo ciò che penso». Aspirai lentamente il fumo dalla sigaretta. «Sono schietto».
Per essere schietto, sì, ero schietto.
«No Sim, non sei schietto». Girò il capo per rivolgermi uno sguardo di severo rimprovero, «Sei stronzo, che è ben diverso».
Per essere stronzo, sì, ero anche stronzo.
Mi concentrai sulla mia sigaretta, prima di scattare di nuovo in piedi e riprendere in mano il basso. Strimpellai qualche accordo confuso. Lol nel frattempo si era messo seduto al tavolo, e guardava fisso davanti a sé, il bicchiere pieno di liquido trasparente stretto nella morsa della mano destra.
«Proviamo ?», gli chiesi. Mi sentivo abbastanza energico, giacché quella mattina avevo dormito beatamente. Era domenica, e Robert non si faceva sentire da due giorni. Da venerdì, per la precisione. Da quando l’avevo picchiato. E mi sentivo stranamente tranquillo da allora, come immerso in una specie di dolce sollievo che sembrava rasserenarmi un poco. Un timeout che forse mi ci voleva.
Il mio interlocutore, benché perso in chissà quali reminescenze offuscate dall’alcool, rispose lucidamente, strascicando però le parole. «Ma cosa vuoi provare, Sim… Non abbiamo i testi, non abbiamo gli accordi, non abbiamo niente di niente», disse, senza distogliere lo sguardo dal muro che aveva di fronte, «Ci manca Robert, in sostanza. Magari non tornerà più, magari», ingurgitò ancora della vodka in un rapido sorso, «magari lo troveranno morto da qualche parte, domani, o dopodomani, oppure mai, e il suo corpo marcirà lontano dai suoi amici e dai suoi cari, come si merita, e tutti quanti lo crederanno rapito dagli alieni», si voltò verso di me, sorridendomi, «come Elvis !», e rise di gusto.
La smorfia che comparve sul mio volto evidentemente lo spaventò, giacché corresse subito il tiro, «Ma scherzavo eh». Poi ritornò a fissare sobriamente il muro, come a riprendere un discorso in sospeso.
Robert morto che marcisce lontano dai suoi amici e dai suoi cari, come si merita.
Ma l’alcool fa veramente dire queste cose, o forse mi sono perso qualcosa ? Sentivo questo rancore sotterraneo fluttuare ormai nei discorsi di ognuno ed impregnarne irrimediabilmente le parole. Una sensazione davvero sgradevole. Una teatralità che veniva sempre meno. Un bene ? Probabile.
«Ti farebbe piacere ?».
Non distogliendo gli occhi un momento dalla parete bianchiccia, chiese di rimando, nascondendo la sua voglia di evitarmi dietro l’ebbrezza momentanea, «Cosa mi farebbe piacere, Sim ?».
«Quello che hai detto poco fa, Lol», spiegai, «Il sapere Rob morto ti farebbe piacere ?». Calzai di un peso particolare la parola “morto”, dopodiché mi schiarii la gola.
Lasciò passare qualche secondo, come se la domanda fosse arrivata leggermente in differita alle sue orecchie, infine rispose, versandosi dell’altra vodka, «Ti ho detto che scherzavo, no ?». Continuava ad evitarmi, e, per ribadire il concetto, continuò, «Sai cosa significa “scherzare”, vero ?», con una nota di estrema noncuranza nella voce, ed una punta di saccente scontrosità.
Le mie tempie presero a pulsare. Ero sfinito da quei giochetti di parole. A me piaceva parlare chiaro, e tutte le forbite allusioni a cui ero continuamente sottoposto non mi andavano per niente giù. Specie se ostentate in quel modo.
«Sai», ripresi, posando il basso sulla moquette ed avvicinandomi lentamente a lui, l’ira che montava anch’essa, lenta, «La cosa che mi fa veramente incazzare», procedevo senza fretta, con passi e parole, adagio sul pavimento, «E’ che qui ultimamente si scherza un po’ troppo, e si fa costantemente finta di dimenticarsi fin dove arrivano i limiti degli altri», ora mi trovavo di fronte a lui, dalla parte opposta del tavolo, frapponendomi fra i suoi occhi ed il tanto rimirato muro di calce, «Si è perso il gusto dello scherzo, non c’è più ironia, e siamo, per giunta, tutti più permalosi», mi appoggiai in cerca del suo sguardo, e stavo però fissando la sua nuca, poiché, in un probabile moto di vergogna, aveva chinato il capo. «Tu sai come sono io, Lol», stringevo il tavolo con forza, le nocche delle mani che sbiancavano rapidamente, «Io sono disposto al dialogo, e farei veramente qualsiasi cosa per voi due, te e Rob intendo», le unghie graffiavano il legno, «Ma la mia pazienza ha un limite», e la mia collera ormai aveva raggiunto l’apice. Davanti agli occhi mi passavano, invisibili allo sguardo altrui, scene terribili, bocconi di memoria, fresche ferite ancora parzialmente sanguinolente che non facevano che aumentare il mio stato ansioso. Neanche mi resi conto del pugno chiuso con cui ferocemente colpii il tavolo. «Non dovete prendermi per il culo», abbaiai. Il colpo lo fece sobbalzare, e finalmente alzò gli occhi su di me. Era terrorizzato. Gli occhi lucidi e stanchi che, sgranati all’inverosimile, cercavano di non cedere alla mia rabbia. Ripresi in fretta il controllo della ragione, riportandola sul selciato con le redini ben strette, e per farlo dovetti dare momentaneamente le spalle al mio amico. «Scusami, Lol», dissi mestamente, nonostante avessi la convinzione di non dovermi scusare di alcunché, «E’ che sono nervoso, per motivi che tu sai e che non starò qui a spiegarti, e per questo perdo facilmente la pazienza».
«Sì, ho notato…». Le prime parole che il mio interlocutore mi rivolgeva da diversi minuti, e suonavano strane. Un filo di voce, fiacco e quasi ansante, come uscito dall’oltretomba. «Mi dispiace che tu ti senta così, Simon, mi dispiace». Un sospiro. Provai un’improvvisa tenerezza per lui, e mi girai di scatto, quasi a volerlo ghermire con un abbraccio. Ma l’immagine che mi trovai davanti riuscì a deviare i miei affettuosi propositi.
Lol teneva gli occhi, umidi ed iniettati di sangue, fissi sul bicchiere di vetro, che tremava sorretto da entrambe le mani, le guance biancastre ed incavate – così apparivano in penombra, anche se la sua corporatura abbondante avrebbe potuto dar ad intendere il contrario - , ed il volto che cercava di mantenersi immobile, in bilico su un sottile fascio di nervi nel bel mezzo di un’evidente crisi di qualche tipo. La fronte imperlata di sudore imprigionava radi capelli neri, e la visione di un malessere così profondo mi lasciò interdetto per qualche secondo. L’unica cosa che riuscii a fare fu quella di portarmi una mano alla bocca, e chiedergli in un sussurro se stesse bene. Una malriuscita e stupida domanda retorica dalla risposta scontata.
«No Sim, io…», ma il battere dei denti lo ostacolava, quindi spinse il bicchiere lontano cercando di alzarsi, ed ancora una volta il suo corpo gli impedì di reagire, le gambe che sembravano non reggere sotto il peso del suo corpo. Si appoggiò con le mani al tavolo, con attorno solo il mio respiro affannoso e il rumore innaturale dei suoi denti che sbattevano tra loro incessantemente.
Finalmente mi mossi, ma non verso di lui, bensì verso la porta. Non so bene se avessi intenzione di scappare e lasciare lì Lol, da solo, oppure se il mio intento fosse quello di cercare aiuto. So solamente che aprii di scatto la porta e, barcollando sgraziatamente, come sotto l’effetto di droghe, percorsi, a ritmo però sostenuto, il corridoio. Sembrava non finire mai. Volevo allontanarmi da quell’orrore, prendere le distanze dal nauseante scenario del momento, ma le grandi ed intermittenti falcate non facevano altro che darmi la sensazione di rimanere incollato al pavimento, senza mai procedere. Dovetti fermarmi e riprendere fiato, stavo per soffocare, la testa mi girava ed avrei dovuto soccorrere Lol, ma conoscevo fin troppo bene la mia incapacità in queste situazioni. Volevo solo gridare aiuto, ma il respiro mi veniva meno. Accasciandomi a terra, la gola tra le mani e le tempie ancora pulsanti, pensavo a tutta questa disgustosa situazione. Saremmo morti tutti ? Era quindi questa la fine, forse meritata, come era stato detto poco prima, per tutti e tre ?
Lol… Lawrence Tolhurst. Ragazzino goffo ed impacciato, ma dal cuore grande. Fino ad allora ero stato così preso dal mio dolore da non accorgermi che lì, in quel posto, assieme a me, accanto a me, c’era un’altra persona. Ed anch’essa soffriva. E soffriva così intensamente ed immensamente da rischiare l’esasperazione. E sicuramente l’angoscia di Lol era di gran lunga superiore alla mia. Sua madre l’aveva lasciato pochi mesi prima, in maniera devastante ed inaspettata, ed apparentemente la metabolizzazione del lutto era perfettamente riuscita. La sua situazione familiare ed economica non era delle migliori, e Dio solo sa quanto lui si sentisse in colpa per tutto questo. Ma ai nostri occhi funzionava tutto alla grande, io e gli altri immersi solo nei nostri crucci momentanei e Lol che sembrava riprendersi poco alla volta. E questo non certo grazie a noi. Quando Lol soffriva, c’era l’alcool. Alcool dappertutto, sempre. Negli ultimi mesi non riuscivo a ricordare un solo istante in cui il nostro amico ne fosse stato sprovvisto. E fu solo in quel momento che realizzai quanto Lol non potesse fare a meno di bere in qualsiasi parte della giornata, a qualsiasi ora ed in qualsiasi momento, opportuno o meno. E noi due eravamo stati così ciechi ed egoisti da lasciarlo andare, libero di elucubrare ed inveire contro se stesso, sottovalutando la situazione, e senza confortarlo neanche un poco, anzi, dandogli addosso ad ogni buona occasione. Non era più un nostro confidente ed una persona su cui contare, ma un pasticcione sempre depresso e sempre ubriaco, facile e deteriorata valvola di sfogo per due adolescenti capricciosi.
E poi c’era la questione Robert. Robert dagli occhi di ghiaccio, che prima ti giura amicizia eterna suggellando il tutto con i più meravigliosi segni d’affetto, e Robert che subito dopo ti insulta e sputa sulla tua dignità, pulendosi le suole interrate delle scarpe sul tuo cuore spezzato.
Robert che c’è solo quando gli fa comodo e poi, in un moto di ritrovata tranquillità, ti porta a pranzo fuori; Robert che se ne sta per i fatti suoi, rimuginando oscuramente e covando disprezzo e rancore per il mondo intero, e Robert che poi si premura di farti gli auguri di compleanno – con tanto di regalo - alla mezzanotte esatta, perché lui ci tiene a queste cose. Quella creatura complessa, tanto amata e tanto odiata, che adesso, invece di affrontare i propri fantasmi, aveva preferito sparire. Lui che aveva lasciato che tutto quanto andasse a rotoli, lui che, seminata sufficiente zizzania, si volatilizza. Provai un profondo disprezzo per quel suo gesto vigliacco e scrupolosamente crudele, quasi premeditato. La sua intenzione era quella di sospendere i giochi, e tutti noi avremmo dovuto ubbidire senza batter ciglio.
No, non è così che funziona, caro il mio dispotico amico. Non puoi lasciare me e Lol in questo putrido inferno. Chiusi gli occhi e li riaprii, piano. Ero svuotato da ogni forza. La battaglia era infine giunta al termine, per me. Tanto valeva lasciarsi morire lì, su quel pavimento setoloso e ruvido, della sola fine che un pusillanime come me potesse meritare.
E, come se i miei pensieri l’avessero evocato, in fondo al corridoio lo vidi, Robert, esile figura scura che si aggira nei dintorni con il passo felpato ed etereo di uno spettro. Inizialmente pensai ad una sorta di quelle percezioni senza oggetto tipiche della schizofrenia, un’allucinazione in piena regola. Ma mi ravvidi quando con il tocco, prima lieve, poi deciso, della mano cercò di scuotermi dal torpore, e la sua voce lontana che chiamava il mio nome mi riportò alla realtà.
«Simon, per l’amor del cielo», i suoi occhi cerulei, infossati e spaventati, «Rispondi…».
«Lol», riuscii a dire, tra un colpo di tosse e l’altro, «Lol sta male». Le parole raschiavano come pezzi di vetro contro le pareti della mia gola.
«Dov’è ? E tu come stai ? Che è successo ?». Sembrava veramente terrorizzato, voltava il capo convulsamente da una parte all’altra, in cerca presumibilmente di qualche indizio di altra umana presenza, a parte noi tre, su quel piano dell’edificio.
«Lol», ripetei, «Vai da lui, è…». Non riuscii a terminare la frase. Indicai però a Robert la stanza, e lui corse in quella direzione. Passarono alcuni secondi lunghi come vite. Il capo tra le mani, e nessun rumore attorno. Come in una bolla di sapone.
Cercai di deglutire, ma sentivo ancora questo nodo opprimente che non voleva sciogliersi. La testa fortunatamente aveva smesso di girare, quindi provai ad alzarmi, reggendomi con le mani alla parete. Con andatura caracollante ed estrema difficoltà riuscii a raggiungere la nostra saletta. Appoggiato allo stipite della porta, guardai furtivamente dentro.
Lol e Robert discutevano tranquillamente, l’uno accanto all’altro, seduti sul solito divano di pelle consumata. Quella scena apparentemente pacifica mi riportò celermente alla completa lucidità. Lol sembrava stare meglio. Uno spavento per nulla. Sarei anche potuto morire là fuori. «Sarei anche potuto morire là fuori». Placidità all’esterno, e la rabbia che sale dentro di me. «Mi stavo preoccupando». La voce che si alza di due o tre toni. La loro chiacchierata bruscamente interrotta. Si voltano verso di me. Io avanzo verso di loro. «Stai meglio», dissi, lo sguardo puntato su Lol.
«Ho avuto la nausea», noncurante, «Mi hai lasciato qui, e poi ho vomitato. Freddo, blocco digestivo e troppo alcool fanno un effettaccio».
«Direi», ribatté subito Robert. «Bevi un po’ troppo ultimamente, eh Lol ?». Tutto questo gelo. Perché sembrava che non fosse successo niente ? Negli occhi vitrei Lol nascondeva un male silenzioso ed invasivo, che lentamente lo deteriorava, eppure Robert sembrava non farci troppo caso. «E anche tu ti sei ripreso in fretta Simon, eri fuori di te prima», un’occhiatina divertita, «Mi avete fatto prendere un colpo, tutti e due».
L’ultima goccia che cade con leggerezza dal mio vaso, ormai letteralmente stracolmo, e si appiattisce a terra.
«Potevo morire là fuori, lo sai ? Lo sapete ?». Forse stavo esagerando, ma l’aleggio di morte tra i capelli io l’avevo percepito. Ed ecco di nuovo i loro occhi incollati su di me, su ogni centimetro della mia pelle li sentivo addosso. «Come ti permetti di fuggire in quel modo per poi tornare come se nulla fosse successo e ridere dei nostri malesseri ? Eh, Robert ? Nessuno è infallibile, nessuno è invincibile, neanche tu. Devi smetterla di calpestarci, di calpestare il nostro amor proprio e la nostra dignità, di mollarci e riprenderci a tuo piacimento». Sconquassato. Definitivamente abbandonato a me stesso. «Non sei solo, Robert, non sei solo».
«Sono tornato per questo, Simon», rispose lui, con naturalezza, «Sono tornato perché qui ho voi». Rivolse per un momento lo sguardo al cielo grigio londinese fuori dalla finestra. «Là fuori non ho nessuno». Sospirò.
«Bel modo di tenerti strette le persone», sbottai con sprezzante sarcasmo, «Ci pianti in asso perché ti girano le palle, ci lasci sommersi dal lavoro, e torni per poi fare la vittima ? No grazie, non ho bisogno di questo».
«E di cosa hai bisogno tu, eh ?». Mentre parlava stringeva i pugni per soffocare probabilmente una malsana voglia di farmi pagare con gli interessi le botte subite giorni addietro. «Cosa ne sai tu cosa sto passando io in questi giorni ? Cosa ne sai ? Scrivere è la mia ragione di vita, eppure per farlo sto così dannatamente male…». Chinò il capo, sommessamente. Ma non avevo intenzione di lasciarmi intenerire, non stavolta.
Lol nel frattempo stava seguendo quel match di frasi sparate a caso con addosso un palese desiderio di sparire. Lo vedevo imbarazzato, ed ancora ubriaco. E tremava. Impercettibilmente agli occhi di Robert, in modo paurosamente evidente ai miei. Lol e l’alcool. Io volevo difenderlo da quel mostro che era diventato. Dovevo difenderlo.
«Tu, tu e tu, sempre tu, vero Robert ? Tu che sei tornato, tu che stai male, tu qui, tu là», rivolsi a Lol uno sguardo solidale, «E noi ? Cosa ci dici di noi ? Cosa siamo noi per te ? Io e Lol, che ruolo abbiamo in questa tua stupida rappresentazione teatrale di dubbio gusto ?», le pupille di Lol che si dilatano perché sa benissimo cosa ho intenzione di tirare in ballo, anche se io e lui non avevamo mai affrontato il discorso prima di allora, «Anche noi stiamo male, sai ? Anche noi siamo esseri umani che soffrono come soffri tu, e forse ancora più profondamente… Perché le nostre sofferenze sono radicate, perché il nostro passato è pesante come un macigno e piano piano ci sta sotterrando, perché abbiamo subito perdite che non possiamo risanare semplicemente scrivendo, o cantando, o suonando… Siamo malati, Robert, e lo siamo tutti e tre in egual misura, e tu sei solo uno sciocco egoista se pensi il contrario». Mi fermai, non perché non avessi più nulla da dire, tutt’altro. Volevo una sua reazione.
«Io… Non mi sento molto bene, vado in bagno». Gli occhi di Lol sull’orlo delle lacrime, che sapevo sarebbero riuscite a traboccare poco dopo. Il suo sgusciare fuori dalla stanza è silenzioso, e lui si sente inerme di fronte a quel monolite che non riesce a superare, e che strozza le sue viscere sino a farle collassare. Col mio discorso speravo di aver fatto breccia nel cuore di Robert, almeno un minimo.
«Vedi cosa riesci a fare ?». Sospirai, poi presi posto accanto a lui. «Ti rendi conto dell’enorme potere che hai sulle nostre vite ?». Avrei voluto recidere quel legame, ma la sofferenza si preannunciava mortale.
«Vorrei tanto», non tardò a replicare lui, con voce atona, lo sguardo fisso sul pavimento lercio, «Riuscire a rapportarmi a voi allo stesso modo in cui vorrei che voi vi rapportaste a me, e gioire con sincero entusiasmo di tutto questo, rallegrarmi ed essere in pace con me stesso. Ma poi ho semplicemente compreso che non è possibile abbandonarsi a certi ragionamenti». Respirava piano, senza affanno, come se avesse finalmente cavato fuori la conclusione di mille anni di pensieri e ragionamenti notturni, nascosti. Prese a guardarsi le mani bianche con minuzia, scrutandosi le unghie mordicchiate. «Ciò che voglio far capire agli altri», alzò gli occhi azzurri su di me, «E’ che, se voglio, io posso essere orribile proprio come loro lo sono con me. E qui risiede il senso di queste parole». Prese dalla tasca del cappotto dei fogli di carta piegati alla rinfusa.
La sua scrittura minuta e disordinata riempiva pagine e pagine, frasi scritte, cancellate e poi riscritte. Matita, penna, parole sghembe e frasi monche che presi a leggere con insaziabile curiosità. Sembravano il frutto di una devastazione profonda, parole, figlie miserabili di un qualche demonio intrappolato sotto le spoglie del mio amico. Pensieri terrificanti, quasi atroci, resuscitavano paure fino ad allora soffocate. Un’apocalisse definitiva, straziante, sanguinante, da cui però non riuscivo a staccare gli occhi. Seguivo morbosamente il fluido scorrere dei testi, pagina dopo pagina, incollato a quel degradante paesaggio, e fu solo la voce di Robert, di nuovo la sua voce, a riportarmi al principio di quel percorso che, vorace, mi aveva inghiottito senza il benché minimo preavviso.
E tutto sembrò improvvisamente acquistare senso.
«Cosa ne pensi ?».
I must fight this sickness.
«Mi piace».
Find a cure.
«E cosa faremo ora ?»
I must fight.
«Suoneremo fino alla fine, Sim».
Fino alla fine.

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Capitolo 20
*** The Snakepit ***


Chapter Twenty

~ The Snakepit

O Capitano ! Mio Capitano ! Il nostro viaggio tremendo è finito,
La nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto,
Il porto è vicino, odo le campane, il popolo è esultante,
Gli occhi seguono la solida chiglia, l’audace e altero vascello;
Ma o cuore ! Cuore ! Cuore !
O rosse gocce sanguinanti sul ponte
Dove è disteso il mio Capitano
Caduto morto, freddato.


Chiusi piano il libro che stavo distrattamente sfogliando, un romanzetto scialbo e stucchevole che avevo trafugato dalla libreria della madre di Mary. Mi alzai dal pavimento soffice di cuscini, sofferente di dolori al collo e stanchezza, quindi mi avvicinai alla finestra. Un leggero manto di candida neve ricopriva come glassa i tetti di Londra, donandole un aspetto nuovo e forse un po’ fuori luogo. Facevo quasi fatica a guardare il paesaggio con occhi fissi, tanto era il bagliore. E mi sorpresi a volere lì davanti, di nuovo, la Londra fumosa e grigiastra, la triste Londra, la mia Londra, fedele compagna di tanti malumori, con i suoi indimenticabili ed indimenticati parchi immersi nel verde nebbioso, incontrastata regina di lusso e povertà, che ora si era tramutata in una gentile Biancaneve, danzante su scarpette di lago ghiacciato. Eravamo ormai a febbraio, e nessuno di noi era riuscito a prendersi una pausa degna di questo nome.
Io avevo visto i miei genitori per appena quattro giorni, giusto per festeggiare insieme il Natale, e lo stesso fece Simon. Lol rimase un paio di giorni in più, a causa di suo padre, che si era sentito poco bene. Il mese di gennaio quindi passò con estrema velocità, quasi non ci fosse mai stato. Il tutto inghiottito dall’enorme disagio provato da tutti – e dal quantitativo esorbitante di droghe ed alcool che circolavano alla completa luce del sole.
Le tensioni tra noi tre sembravano essersi allentate, ma solo grazie al fatto che parlavamo lo stretto indispensabile. Ci scambiavamo informazioni relative al lavoro, ma ormai poco o niente di estremamente personale. Il divertimento era quasi ridotto a zero, ed io sentivo i miei passi affondare in una sempre più intensa e melodrammatica solitudine, che il costante tasso alcolico sopra la norma mi faceva inevitabilmente esagerare. In particolar modo Lol sembrava il più provato del trio. Il suo ruolo era quello di mediatore/banderuola, tra me e Simon. Lo vedevi trotterellare da una parte all’altra degli studi, scambiando battute, commentando, ridendo o lamentandosi per via dell’aria consumata, chiedendo un po’ di cocaina, dando sporadici consigli sulla ritmica delle canzoni, o semplicemente cercando di smaltire l’alcool che aveva continuamente in circolo. Dal mio bivacco fatto di coperte e cuscini a ridosso del divano fino all’accampamento che Simon condivideva con quell’emerito imbecille di Gary Biddles. Lui e il cretino ormai facevano coppia fissa, e questo non poteva far altro che accrescere la mia irritabilità. La confidenza che si prendeva con Simon mi assaliva assieme ad un perenne senso di nausea, e la sopportazione, già labile di suo, che avevo nei confronti di quel patetico parassita nelle ultime settimane era pericolosamente arrivata al limite. Non potevamo fare una session in santa pace senza che quell’idiota mi si presentasse costantemente tra le palle. Non che facesse chissà cosa di particolarmente fastidioso, ma il suo solo guardarmi con quegli occhietti scuri, socchiusi in tono derisorio mi faceva salire una voglia matta di pestarlo a sangue, fino a sentirlo implorare pietà. E il modo in cui ti girava intorno, come una mosca più che molesta, sempre ubriaco e strafatto, e la sua risatina !, lui che rideva di me, con Simon come complice, loro che ridevano di me… Tutto questo mi mandava in bestia. Dentro di me lo apostrofavo nei modi peggiori – e non solo dentro di me. Ogni tanto mi scappava qualche cattiveria, ma alla fine erano davvero sentite. Se esisteva una cosa che non riuscivo proprio a sopportare era che qualcuno mettesse bocca nel mio lavoro, e lui puntualmente si esercitava in questa maledetta arte, riuscendo in poco tempo a farmi andare fuori di testa.
«Non lo sopporto, lo ammazzerei», dissi una sera a Lol, che stava passando il suo “turno” assieme a me dietro il divano. Lui si stava scolando l’ennesima birra, il faccione rossastro e gli occhi infossati e lucidi. Completamente ubriaco.
«Ma perché ti dà tanto fastidio ? Che fa di male, eh ?». La sua risposta suonava un pochettino annoiata, come se stesse rispondendo allo stesso quesito da mesi. E, beh, in effetti la presenza di Biddles mi dava da pensare da qualche tempo, e Lol era l’unica persona con cui potessi sfogarmi. Nei limiti della sua sporadica lucidità. «Ah, aspetta un momento qui, faccio una cosa e poi torno», fece per alzarsi ed uscire da sotto la “tenda”, «Pensa bene alla risposta mi raccomando». Dopo una manciata di secondi lo sentii tirare su col naso in maniera poderosa, e poi tossicchiare. Tornò dopo un paio di minuti, con una nuova lattina di birra, «Eccomi, di nuovo tutto per te». Mi sorrise, per poi tossire di nuovo. Il naso arrossato attorno alla zona delle narici riusciva a darmi una neanche tanto vaga idea di ciò che aveva appena fatto.
Ero comunque troppo nervoso e pieno d’alcool, così ci passai sopra con disinvoltura. «Ma come diavolo faccio a sbarazzarmi di lui, Lol, dimmelo tu…», dissi, con vocina lagnante, «Voglio che se ne vada… Cioè, ma l’hai visto prima ? Stavo suonando Siamese Twins, e secondo me era perfetta, perfetta, cioè, quando inizia a ridere dal nulla in quel suo cazzo di modo, perché secondo lui il testo era veramente ridicolo ! Ha usato proprio questa parola qui, “ridicolo”, sì, ed ha rovinato le prove, e anche Simon a dargli corda, ma come cazzo si permette, come cazzo…».
«Mh, sì, c’ero anche io Rob. Prima, intendo», mi interruppe Lol, aprendo con uno scatto la lattina, «Si è comportato di merda, sì, concordo, sì». Bevve un sorso.
«Stai cercando di zittirmi per caso ?». Inarcai un sopracciglio.
«Mannò Rob, è che sei un tantino paranoico ultimamente, ti dirò. Cerca di stare più calmo». Alzò gli occhi e agitò la lattina verso di me, «Vuoi ?».
Paranoico. Ah è così che mi vedevano tutti adesso ? Solo perché mi stavo lamentando, più che giustamente oltretutto, dei fastidi che quel cazzone ci arrecava ? «Ma cristo Lol, ha interrotto l’ennesima prova ! Ma che andasse a ingozzarsi di quella merda che prende da qualche altra parte. Ovunque, ma non qui ! Voglio che se ne vada». Ribadii il concetto, e non potevo fare a meno di sbraitare, «E non cercare di cambiare discorso offrendomi da bere».
«Ma dove cavolo vuoi che vada, eh ? E’ praticamente ubriaco 24 ore su 24…».
«E lo difendi anche ?! Frega un cazzo dove va, basta che stia lontano da me, dalla mia musica e dai miei amici, i miei amici, con cui non può prendersi certe libertà. I Cure sono composti da tre persone, tre, e lui non ne fa parte. Sempre qui a rompere i coglioni… Ma non ce l’ha una famiglia ?». Non potevo mica permettere che il primo sfigato con l’aria da saccente mi soffiasse via tutto ciò che avevo da sotto il naso.
«Se vuoi che se ne vada, vai a dirglielo in faccia, dai, vediamo che ti risponde». Lol si voltò verso di me ridacchiando scherzosamente, ma il suo risolino si spense nel realizzare che sarei realmente corso all’istante da Biddles a chiedergli gentilmente di andarsene – o, meglio, a spaccargli la faccia. «Rob, dai, fermati, scherzavo !», cercò di urlarmi da dietro, ma io avevo già deciso sul da farsi.
Attraversai a grandi falcate il corridoio, e piombai nell’altra stanza, quella che Simon e Gary condividevano. Quest’ultimo dormiva, rannicchiato a terra, mentre Simon era alla finestra, in piedi ed apparentemente sveglio, fumando quella che immagino fosse stata una delle tante sigarette della giornata. Entrando venni investito da una zaffata mista di birra e calzini. Simon si voltò immediatamente, schermandosi gli occhi arrossati con la mano, giacché la porta aveva improvvisamente lasciato entrare un po’ di luce nella penombra di quella dimora soffocante e poco accogliente.
I suoi capelli nerissimi in completo disordine, l’aria stravolta, le scarpe abbandonate a loro stesse da qualche altra parte, e la maglia nera che indossava sembrava chiazzata in più punti, ma evitai accuratamente di indagare sulla natura delle suddette macchie.
«Ah», disse, rivolto a me, «Pensavo fosse Lol». Spense la sigaretta, ancora a metà, nel posacenere, con vigore tale da sbiancargli le falangi.
«Io voglio che se ne vada». Esplosi.
Simon cercò di apparire disorientato, ma era troppo stanco per riuscirvi. «Eh ? Tu vuoi che se ne vada chi ?», chiese, con evidente sorpresa nel tono della voce.
Indicai il pallone gonfiato che ronfava a terra. «Lui. Lui deve sparire».
Il suo volto si rabbuiò. Abbassò lo sguardo, e la sua voce si fece improvvisamente cupa e tetra. «Ah ecco, arrivi qui in questo modo e dai ordini, certo Robert, è così che funziona, continua pure. Ma non è detto che ti ascolterò», ribatté, voltandosi nuovamente a guardare fuori dalla finestra.
Scattai rapidamente verso di lui e lo presi per la spalla, facendo in modo che tornasse a fissarmi, «E’ fastidioso ed insolente, hai visto come mi ha trattato prima». Cercavo di giustificarmi.
Simon mi fissava con una durezza che non vedevo da un po’ nei suoi occhi. Si liberò dalla mia stretta. «Sì, sarà anche fastidioso ed insolente, ma è mio amico», esalò tra i denti.
Suo amico ? Cosa aveva fatto questo stronzo in più del sottoscritto ? «E che dici di me Sim, eh ? Sono anche io tuo amico, e da più tempo !». Una scenetta da scuola elementare. Ma in quel momento risultavo talmente su di giri che queste scemate non riuscivo ad evitarle.
«Sì, certo. E, dimmi, sei mio amico solo quando ti fa comodo ? Quando io ho bisogno di te, tu dove sei ? Te lo dico io dove sei. Sei altrove. In un’altra stanza, in un altro mondo, sei dovunque ma non dove io e Lol abbiamo bisogno di te. Tu non ci sei mai Robert, mai». Vedevo i suoi occhi scuri come fiammeggiare al buio, e mentre mi puntava il suo indice bianco sul petto, battendo proprio sul cuore come per smuoverlo alla vita, seppi con certezza che avevo agito nel peggiore dei modi. E come sempre avevo finito per fare un gran casino. «A te basta il nostro appoggio solo quando sei giù, mh ? Ricevere, ricevere, ricevere. Beh, ti informo che hai un concetto di amicizia un po’ distorto. Questa cosa non mi piace più».
Rimase alcuni istanti a sostenere il mio sguardo perso, poi si allontanò in direzione del tavolo nell’angolo, dove aveva lasciato il pacchetto di sigarette. Quindi se ne accese un’altra, appoggiandosi con la schiena alla parete. Avevo l’impressionante capacità di farlo innervosire oltre ogni limite, e quando litigavamo il suo tasso giornaliero di nicotina aumentava in maniera preoccupante.
Io rimasi lì, in piedi, cementificato nel terreno ed inebetito, intento a leccare le mie ferite ad occhi bassi, pulendomi il viso da tutto il veleno che il mio amico mi aveva appena sputato addosso. Evitavo accuratamente di guardarlo, avevo accumulato troppa vergogna per me stesso. Sapevo come le sue parole rispecchiassero la pura verità, ed anche lui lo sapeva. Aspettavo con terrore che infierisse, supportato dall’evidenza dei fatti, come ogni amico ferito a morte avrebbe potuto tranquillamente fare, senza obiezioni di sorta. Ma lui no. Non aprì bocca per diversi minuti. E la sua splendida onestà così mi stupì di nuovo, riuscendo in poco tempo a spazzar via ogni putridume dal mondo. Sentivo i suoi occhi su di me, riuscivo a percepire il loro movimento convulso alla disperata ricerca di una traccia, anche minima, dell’amico perduto. Ma quest’amico da lui tanto agognato non abitava più qui - passato, finito, superato.‘Questa cosa non mi piace più’.
Questa cosa.
Le sue parole mi trapassarono da parte a parte come tanti piccoli ed appuntiti pezzi di vetro, marchiando a fuoco il mio dolore.
Però una vocina dentro di me continuava a ripetermi che non potevo lasciarmi abbattere così, e lo ripeteva fino allo stremo.
Combatti per le cose che ami, con le unghie e con i denti. Non ricordo chi me lo disse, ma me lo disse, questo è certo.
E, mentre pensavo queste cose, eccolo lì, il maledetto bastardo, la causa dei miei mali, che si stava rumorosamente svegliando dal torpore sonnolento. Biddles. Un ritorno all’odio. In quel momento l’unica cosa che riuscivo a vedere con chiarezza è che avrei voluto ucciderlo. Non desideravo più semplicemente che se ne andasse da lì.
Io volevo la sua morte.
Si tirò su a sedere, sbadigliando. Gli occhi gonfi, ancora visibilmente sballato e ubriaco, nonostante la pesante dormita. Guardò prima Simon, poi si voltò verso di me. «Toh, guarda chi si vede, il Boss !», esclamò a gran voce, quello stupido sorrisetto beffardo appiccicato in faccia. Maledetto piccolo bastardo, sei tu ad aver rovinato tutto quanto. «Beh, non si usa più salutare ?». Inclinò leggermente il capo, cercando di capire il perché del mio sguardo ferino. «Vedo che comunque ti sei degnato di far visita a questi due poveri derelitti» disse storcendo la bocca in un mezzo sorriso, indicando anche Simon.
«Fosse per me avrei fatto volentieri a meno di vedere la tua faccia», risposi secco.
«Ehi ehi, calma, mi sono appena svegliato e non ho le forze per reagire». Sbadigliò di nuovo, senza curarsi di coprire la bocca con la mano, «Cosa sono ‘ste facce da funerale ? Morto qualcuno ?». Si alzò in piedi, scacciando coi piedi scalzi la coperta grazie alla quale aveva potuto farsi una dormita più o meno al caldo. Guardò ancora entrambi, le mani sui fianchi come una massaia indispettita, aspettando che qualcuno dei due gli rivolgesse uno straccio di spiegazione. «Beh ?».
La voce bassa e pastosa di Simon spezzò finalmente il silenzio. «Niente di rilevante, Gary. Robert era venuto per darmi qualche consiglio riguardo le parti di basso di alcune canzoni, ma stava giusto andandosene», disse, sputando il fumo di sigaretta in aria e piantando gli occhi nei miei, gelido e distaccato.
Però io non avevo alcuna intenzione di abbandonare il campo di battaglia, almeno non fin quando il mio obiettivo fosse stato raggiunto.
«No Simon, è lui a doversene andare», sbottai, indicando Biddles.
«Eh ? Io me ne dovrei andare ?», chiese sorpreso lui, «E dove ?».
Simon fece qualche passo, per poi fermarsi di nuovo ad aspirare dalla sua cicca, «Rob, abbiamo già discusso di questo, adesso basta».
Il suo tono perentorio iniziava ad agitarmi. «Non abbiamo discusso di un bel niente invece, ed io non posso lasciare che questo… Questo stronzetto presuntuoso rovini tutto quanto, ok ?».
Biddles sembrò resuscitare dal dormiveglia, sobbalzando. «Ehi, brutto pezzo di merda, stronzetto presuntoso lo dici a qualcun’altro», strepitò nella mia direzione, ed era la prima volta che vedevo un filo di rabbia inorgoglita su quella sua faccia strafottente.
Ma al momento sinceramente non v’era proprio posto per la sua incazzatura, perché era la mia che stava per sommergerlo fino al collo.
«No, lo dico proprio a te, guarda un po’. Chi è che continua a starmi tra le palle mentre suoniamo, a correggermi quando sbaglio e anche quando non sbaglio, a credersi chissà quale grandissimo musicista vissuto quando neanche un flauto traverso sai tenere in mano… Cos’è, sei invidioso perché io sono parte di una band e tu no ? Cosa ci trovi di tanto gratificante nel rompere i coglioni alle persone che ti stanno intorno ? Ti credi mister simpatia ? No perché, se così fosse, sappi che non vali proprio un cazzo. Sei solo un povero patetico deficiente e borioso, che crede di aver capito le regole del gioco. Ma ora il “Boss” ti comunica che sei fuori, totalmente e definitivamente. Torna da dove sei venuto, devi sloggiare, levarti di torno». Cercavo di colpirlo alla cieca con affermazioni varie e casuali, e questo mio sfogo mi stava pian piano rendendo più leggero ed aggressivo al contempo. «Nessuno di noi vuole più vedere la tua schifosa faccia sbronza in giro per gli studi, né tantomeno ad un’altra session». Affondare il mio coltello nella sua piccola piaga mi donava una sensazione di immensa goduria, e vedere i suoi occhietti socchiudersi lentamente in preda all’ira mi caricava di una nuova energia. «Preferirei vederti sotto un treno piuttosto che di nuovo in tour con noi». Stoccata finale.
L’arringa è stata appena completata e già sento la mascella tremare sotto i pugni di Biddles. Mi attacca, spingendomi verso la parete, incastrandomi ed inchiodandomi lì, senza dire una parola, io che arranco nel vano tentativo di una difesa. Ma il piccoletto picchia duro, nonostante sia magrolino.
«Che cazzo fate, piantatela !». Simon ci urla contro e si mette in mezzo, cercando con estrema violenza di staccarmi il pidocchioso di dosso, che sembra veramente inviperito. Passa una frazione di secondo ed è come se non fosse successo nulla. Biddles di fronte a me, io che mi asciugo il mento – il bastardo è riuscito a spaccarmi un labbro – e Simon che fa da paciere, guardando in modo truce prima me poi Gary. «Beh ? Ma si può sapere che cazzo avete nel cervello tutti e due ?».
«Ma hai sentito che m’ha detto lo stronzo ?» fa Biddles, incredulo, tentando di giustificarsi, «Ma come minimo che gli spacco il muso». Però intanto chi le prende di continuo è il sottoscritto. Bella fregatura.
«A me basta non vedere più la tua faccia e sto a posto, credimi» ribatto, alzando lo sguardo su di lui e cercando di caricarlo con un bel po’ di disgusto.
«Col cazzo che me ne vado». Dio, se odio il suo ghigno.
«Ti farò passare la voglia di ridere, pezzo d’un demente». Sì, sarebbe bello strapparti i denti ad uno ad uno.
«Ma la volete piantare ? Dove siamo, all’asilo ? Porca puttana», geme Simon, le mani che torturano nervosamente i capelli. «Porca puttana». Non riesco a capire se quella nel suo sguardo sia delusione o amarezza. L’ho messo davvero in difficoltà, ed il vederlo così, con quasi le lacrime agli occhi, mi fa male. Un male che si somma a quello precedentemente esperito. «Non va bene, non va affatto bene, è impossibile, con voi è impossibile». Indietreggia, piano. Ci guarda, di nuovo. Bianco come un cencio. «Andate affanculo, tutti e due». Si volta e, deciso ma palesemente sfiancato, esce, sbattendo rumorosamente la porta dietro di sé.
Io e Biddles rimaniamo immobili per qualche istante, ognuno aspettando che sia l’altro a proferire parola. Per quanto mi riguarda, non ho alcuna intenzione di star qui un minuto di più con questo imbecille, così mi mobilito per uscire anche io dalla stanza, e magari andare a chiarire con Simon. Ma la voce impertinente di Gary si schiarisce, prima di esplodere in un «Ehi, aspetta». Mi giro a fissarlo. Sembra preoccupato e anche un po’ imbarazzato. La sbronza gli è passata a furia di menar le mani.
«Che c’è, vuoi picchiarmi ancora ? Non t’è bastata ?» gli faccio io, sperando di irritarlo a tal punto da indurlo a scomparire magicamente.
«Mh, no, anche se mi prudono veramente le mani, ti assicuro, e se non avessi uno straccio di coscienza ti avrei già fatto a pezzi», risponde, guardandomi con malcelato disprezzo, «Ma hai visto anche tu come ha reagito Simon, e non mi va’ che si scazza per colpa nostra, per cui io direi che può anche finire qui».
Il suo discorso non faceva effettivamente una grinza in quanto a logicità da “vero amico”, ma il tutto mi lasciò un po’ interdetto. Da lui non mi sarei aspettato simili frasi. Il senso di colpa saliva lentamente, pronto ad affogarmi definitivamente, ed inutile dire che mi sentii un perfetto idiota. Ingrato ed insensibile. Per di più col torto più marcio dalla mia parte.
Biddles sembrava invece tutto pompato dalle sue splendenti ed altruistiche parole, così tanto che mi appariva più alto di una decina di centimetri. Dentro di me si faceva pian piano strada l’idea che lui fosse senz’altro un amico migliore per Simon di quanto non lo fossi mai stato io, e poco contava la mia considerazione per lui in tutto questo. Ero io che avevo intimato a Gary di andarsene, in malo modo, arrogandomi il diritto di scegliere al posto di Simon.
Simon.
Non avevo neanche pensato un solo istante a lui, preso com’ero dal mio orgoglio ferito.
Egoista.
Accecato così tanto dall’invidia per il loro nuovo e apparentemente profondo rapporto – perché alla fine di questo si trattava – da permettermi di agire nel modo più sbagliato che potessi scegliere. E non solo ! Ora anche questo stronzetto mi superava in sensibilità ! Uno smacco che il mio povero cuore non poteva sopportare, non ora.
«Hai ragione, era proprio quello che stavo pensando», dissi, rivolgendomi a Biddles con falsa affabilità, «Per il bene di Simon e per la tranquillità della situazione, forse è meglio mettere da parte certi rancori. Per ora, almeno», conclusi, lasciandogli intendere che il mio taglio sul labbro sarebbe costato un bel po’ a quei suoi capelli scuri e stopposi. Riecco comparire sul suo volto quel sorrisetto che detestavo dal più profondo dell’anima, ed ero lì lì per rimangiarmi quello appena detto. «Bene, visto che ora siamo finalmente d’accordo… Io andrei a pisciare. E’ da quando mi avete svegliato che la tengo, cazzo». Questa sì che si chiama poesia.
Mi precipitai subito alla ricerca di Simon, pensando di dover chiarire l’equivoco prima di Biddles. Non volevo che lui si prendesse il merito di questa genialata della tregua. Svoltai l’angolo ed eccolo lì, a parlottare con Lol di chissà cosa, una lattina di birra in mano e la cicca penzolante dalla bocca. Lol mi vede e mi sorride, salutandomi calorosamente.
«Roooob». Completamente andato. «Ma dov’eri ?», mi chiede tutto concitato. Poi sembra che il ricordo di una mezzora fa lo folgori improvvisamente, ed esclama un «Aaaah, è vero !». Si accosta all’orecchio di Simon, il cui sguardo non avevo ancora avuto il coraggio di incontrare, e borbotta «Doveva picchiare Biddles, sì», facendo cenno con la testa. E bravo il mio caro, sbronzo Lol.
«No Lol, è successo il contrario, sai» ribatte Simon, la voce allegramente tetra.
«Vuoi dirmi che…», e Lol torna a fissare me, con quegli occhioni languidi ed i riccioli sulla fronte, «Ti ha picchiato ?» domanda incredulo. Io, beh, annuisco leggermente, nella speranza che l’alcool gli sia d’aiuto per dimenticare questa poco produttiva confessione, e lui mugugna un «Cazzo» a mezza voce, prima di chinarsi a raccogliere il pacchetto di sigarette sfuggitogli di mano. Ed è in quel frangente che Simon, soffiando fumo dalla bocca, mi fa cenno di seguirlo.
Io, la coda tra le gambe e la testa bassa, tengo dietro al suo passo fino in terrazza.
Quassù fa così freddo. Il vento gelido si insinua sotto il mio maglione. Mi incanto a fissare il cielo lattiginoso mentre avanzo, e per poco non scivolo sul trabocchetto di ghiaccio che si allarga sopra il cemento.
Simon si appoggia con il fianco destro al davanzale, una delicatezza quasi femminile, disinvolta ed insita nel suo modo di fare, incrocia le gambe ed inizia a fissarmi quasi con malizia.
«Allora, Mr Tutto-mi-è-dovuto ?». La sua voce ora è quasi divertita, come se la sceneggiata di prima fosse ormai storia vecchia. Massì, ridiamoci su, che importa.
«Ho detto le cose come stanno a quello lì e lui in tutta risposta mi ha picchiato». Sì, è l’ennesima stupida giustificazione, una difesa inutile, ed anche Simon lo sa.
Annuisce compiaciuto, e sembra che io abbia detto esattamente ciò che lui si aspettava che dicessi. «Sì, sì, so perfettamente ciò che avresti da dire in tua discolpa. Che Gary è un fesso, un idiota senza cervello che dà solamente noie e che si meritava ogni tuo singolo insulto o mala parola… Ma adesso cosa vuoi aspettarti da me ?». C’è pena nei suoi occhi ? Pena per me ? «Cosa vuoi che ti dica ? O, meglio, cosa vuoi sentirti dire ?». Distoglie lo sguardo e lo precipita di sotto, sulle londinesi distese bianche. Io, a dirla tutta, inizio a sentire un gran freddo. «Vuoi che ti dica che va tutto bene ? Che siamo felici di come sta andando il lavoro, che sprigioniamo allegria da tutti i pori ogni singolo secondo, che ci divertiamo addirittura ? Vuoi che», e si volta di nuovo a guardarmi, «Vuoi che il nostro rapporto torni ad essere com’era prima ?». Sì, ecco, aveva centrato il punto ! Era esattamente quello che desideravo in quel momento ! Desideravo che tutto – tutto quanto – tornasse com’era qualche mese prima. «Ma tu, Robert, sai che questo non è più possibile». Quell’espressione, quei lineamenti che si fanno intensi nell’affrontare un discorso impegnativo, quel viso che sembra indurirsi, sfocando la sua aria sorniona e simpatica. «Tu sei incostante. Oggi fai di tutto per la mia amicizia e domattina potresti odiarmi. E da qualche tempo a questa parte i tuoi comportamenti si stanno estremizzando in maniera eccessiva. Sarà lo stress, sarà l’alcool, ma questo mi spaventa. Io sono stanco di avere paura. Sono sfinito. Non voglio più temere le tue reazioni, e non voglio tornare a quell’assetto di cose che tu ora brami. No, non è più possibile. Semplicemente perché sono cambiato, ho bisogno di altre cose, di altre compagnie che non siano sempre e solo tu e Lol. Gary non è un ripiego, perché a lui voglio bene sul serio… Sai che non prenderei mai in giro nessuno su questo fronte». La sincerità è scritta nei suoi occhi. Sì, lo so. Lui è fedele fino alla fine. Ed io che l’avevo trascinato sino a questo punto. Così dilaniato da essere costretto a mollare la presa. «Se tu sei disposto a scendere a compromesso con me, ed accettare quello che io ora sono – quindi spesso anche con Gary al fianco – ne sarò felice. Ma quello che c’era prima non c’è più, non potrà più ritornare. Non lo voglio. E faresti bene a non volerlo nemmeno tu». La sincerità e la dolcezza che si sciolgono insieme in un acido e letale miscuglio di avvilente sconforto.
E cosa può esserci di più buio e desolante ?
Guardare il tuo migliore amico, quello con cui hai condiviso gioie e dolori degli ultimi anni, di cui punzecchi ogni difetto e decanti ogni pregio, sì, proprio lui, voltarti le spalle e tornarsene al caldo, imprimendo le suole delle sue scarpe su una neve che non avevi mai visto così bianca.

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Capitolo 21
*** This Twilight Garden ***


Chapter Twenty-one

~ This Twilight Garden

Dondolare.
Avanti – indietro. Senza mai fermarsi.
Le piccole gambe che si distendono.
Salita – discesa. Avanti – indietro.
È una cosa che si impara col tempo, se sei troppo piccolo non ci riesci mica. Ed è una cosa che non ti può insegnare nessuno, la impari e basta.
Ma una volta imparato non ti puoi fermare, no, nemmeno volendo. Sei in volo, vedi così lontano, vuoi andare ancora più in alto, oltrepassare le siepi del parco, e le querce, ed i lampioni, e su ancora sopra i tetti delle case, della tua casa… Ma ecco che la forza di gravità ti ritrascina pesantemente al suolo, con veemenza. E tu ti vedi costretto a far di nuovo leva sulle gambe, stanche, per riprendere in mano il tuo volere. Sperando che stavolta il brivido duri più di qualche misero secondo.
Ecco quello che rovina i sogni.
La forza di gravità.

Sette anni. Mi piaceva la marmellata di prugne. E il latte, oh sì.
Ed andare in altalena. Ci passavo le ore.
Mio zio ne aveva fatta costruire una nel piccolo pezzo d’erba dietro casa. Non era ben, fatta - traballava. Ma io ne andavo letteralmente pazzo. Se mia madre non riusciva a trovarmi in casa, sapeva esattamente dove andare a cercare. Ore, ore. Lì sopra a fissare la finestra della casa di fronte allontanarsi e poi riavvicinarsi di colpo. Chiudere gli occhi ed assaporare la discesa. Chissà cosa succederà una volta a terra. A volte canticchiavo strofette imparate a scuola, per poi ridere a squarciagola sul finale, con lo stomaco scosso dalle piccole vertigini. Ancora attualmente non riesco a capacitarmi di come si possa ridere per il nervosismo.
«Simon vieni, dai, che è pronta la cena !». La finestra che sbatte, ed io che punto i piedi sul terriccio secco. Mi fisso le mani, sporche di ruggine.
‘Che schifezza, ma perché si deve arrugginire tutta ?’. Anche questo avrei imparato col tempo. Le cose che non vengono curate a dovere finiscono per arrugginirsi. Ed una volta arrugginite, sono irrimediabilmente da buttare.
Passi delicati sul parquet opaco, vocina leggera dalla tonalità bassa, puntata sul lamentoso, «Mamma, uffa, l’altalena si sta arrugginendo».
Gli occhi scuri della mamma, quasi a biasimarmi, «Tesoro mio, se non le curi tu le tue cose…».
«Ma non è colpa mia ! Cioè, se piove e si arrugginisce…». Dov’è mio fratello quando serve ? Almeno un minimo di sostegno mi farebbe piacere.
«Magari piovesse caro, magari. Le mie freesie sono così cadenti, poveracce».
«La mia altalena è più importante dei tuoi fiori però».
Occhi scuri. Biasimo. «Piuttosto, domani ricomincia la scuola. Fila a prepararti la roba».
Inizio settembre, l’estate che si smorza ed il ritorno al legno sporco dei banchi di scuola mescolato al profumo dei libri nuovi. La consapevolezza dolceamara del dovere.
«Ma i libri sono già dentro la cartella». E non mentivo. Presumibilmente erano rimasti lì dentro dall’ultimo giorno.
«Va bene, va bene», sentenziò la voce calma di mamma, le mani incastrate in un ceppo d’insalata, «ora fammi il piacere di andare a chiamare il resto della truppa». «Sissignora», risposi, carico ed in posizione come un bersagliere prima di una battaglia.
Stanare i miei fratelli dalle loro camere mi piaceva molto, fin da quando ero piccolissimo. Era come irrompere all’improvviso nelle loro vite. Stuart ormai era grande, aveva compiuto vent’anni a gennaio. Ed anche gli altri lo erano - perlomeno molto più di me. David mi sorpassava di ben dodici anni, Duncan di dieci, Monica di nove e, insomma, l’unico di loro con cui un po’ riuscivo a trovarmi era Ric. Sempre stato così. Dividevamo anche la camera assieme. Entravi nella mia, nostra, stanza e potevi vederlo lì, un quasi quattordicenne smilzo, lo sguardo luminoso dei suoi piccoli occhi scuri a fissare un libro d’arte, o di fotografia. Oppure lo trovavi semplicemente alla finestra, intento a scrutare chissà cosa fuori. Usciva di rado, era un tipo molto introspettivo, chiuso. Ma rassicurante. E, a dispetto delle apparenze, si poteva scherzare con lui, eccome. Le sue battute argute erano uno degli intrattenimenti tipici delle serate in famiglia.
Io lo trovavo tremendamente interessante. Per questo mi piaceva parlare con lui - la mia inesperienza comparata alla sua cultura semi-adolescenziale e messa costantemente a dura prova. E lui non si vergognava mai di abbassarsi al mio livello per farmi capire le cose. Ho sempre adorato ricevere spiegazioni da Ric, così tanto che alle volte fingevo appositamente di non capire.
Però mi era difficile indovinare cosa gli passasse veramente per la testa. Un lato della sua persona era cupo ed abbastanza misconosciuto anche dai più intimi, ed alle volte, quando i suoi freni si allentavano e il suo autocontrollo veniva a mancare, riusciva quasi ad incutermi timore.
Era sostanzialmente il mio migliore amico, e lo rimase per molto tempo.

«Gallup, Simon». Occhi che si posano su di me.
Sedia che striscia, «Presente».
«Non far strisciare la sedia, Gallup».
«Mi scusi, signore».

Correre nell’erba alla ricerca di qualcosa, di qualcuno. Un po’ d’ombra, un albero gigantesco e maestoso. ‘Fantastico’.
La mia maglia a righe bianche e nere si era imbrattata con l’inchiostro durante l’ora di matematica. La biro aveva preso a buttare inchiostro, la maledetta biro. ‘Non devi masticare le penne, Simon, non devi’.
A mamma piaceva molto il modo in cui la maglia a righe bianche e nere mi stava addosso.
Non sarebbe stata contenta di vederla macchiata, no. Il cielo. ‘Voglio volare’.

Il ritorno a casa era solitamente di una noia tremenda. Sassolini sull’asfalto grigio, cocente, e il calore emanato dalle giornate primaverili si mescolava all’odore di catrame e cemento. Ad acuire la sgradevolezza della sensazione c’era sole, che in quelle ore picchia sulla nuca, il sudore che si fa spazio tra i capelli e tu sommerso dal peso dell’educazione. L’unica cosa da guardare sono le ombre di chi cammina, o corre, nella tua stessa direzione. Non puoi voltarti, c’è il sole, sempre il sole. Però dentro di te hai questa certezza, sai che sono dietro di te. Possono sorpassarti, certo, ma sarà difficile incontrare i loro sguardi.

«Simon, come diavolo hai fatto a sporcarti la maglia in quel modo ?».
La mia ossessione per gli occhi della gente – l’ennesimo scorcio di un’infanzia passata ad osservare. Come se, guardando in quella direzione, avessi potuto vedere il mondo come loro volevano.
«La maledetta biro, mamma».
«Maledetta ?! E che modo di parlare è mai questo ?».
«A scuola ci dicono sempre di attenerci al registro linguistico usato dall’interlocutore». Una risposta più da Ric che da me.
E’ bello crescere.

«A che ti serve quello ?», accennando all’ombrello che Ric aveva in mano. Il sole sempre più caldo, nonostante fossero le sei di pomeriggio.
«Mh, pioverà». Le sue risposte così scarne e distaccate. Come se fosse sempre in possesso dell’onniscienza più totale e scontata.
«Dici ?».
«Sì, certo».
Ascoltavo sempre Ric. Nonostante spesso le sue affermazioni mi mettessero alquanto a disagio.

Il mio taccuino sta per finire, ne voglio già un altro. Stringo tra le mani la terra seccata al sole. Un pallone viene improvvisamente scagliato contro di me. Mi manca la spalla sinistra per un soffio. Dannati sport di gruppo. Mi alzo, e la mia intenzione momentanea è quella di buttare quell’oggetto quasi-contundente dritto nel fossato. Sono arrabbiato. Il mondo è così colmo di arroganza.
«Ehi, potresti rilanciarci la palla ?».
Gridolino strozzato, fiatone. Mi volto. Ha le mani sulle ginocchia, per poter riprendere fiato. Colpo di tosse. Calzoni corti, ma il colore della maglia, no, quello non lo ricordo così nitidamente.
Gli occhi, di nuovo gli occhi. Li strizza per un attimo, poi mi fissa. Ghiaccio incastrato, lì come per caso. Contrasto netto con le guance arrossate dalla corsa. I capelli scuri appiccicati alla fronte. Chissà da quanto tempo stava correndo dietro alla sua palla.
«Ehi, mi senti ?», ‘Sveglia bello, torna dal mondo delle fiabe e cresci’.
Una di quelle voci che ti entrano sottopelle e si insinuano dentro di te.
Voglio ricordarla proprio così.
Lacerante.
«Come ?». Sussurro basso e flebile. Avevo capito benissimo, solo che mi andava di risentirla di nuovo.
La mia, di voce, suonava sempre così strascicata e pastosa. Decisamente una brutta voce.
«La palla, ce l’hai in mano, è mia e del mio amico… Per favore, puoi ridarmela ?».
Niente a che fare con la sua, melodica.
Un gesto di assenso, mani che si sfiorano.
«E scusa se ti è arrivata addosso, non si ripeterà».
Mentirei spudoratamente se affermassi di non aver amato quella voce sin dai primi istanti.

Il dubbio.
Posso davvero andare avanti, bloccandolo là fuori, bloccando lui ed ogni sua speranza di rivalsa su quello che ormai palesemente non gli apparteneva più, oppure è solo un mero tentativo di fuga ? Io sto fuggendo, di nuovo ?
Gli anfibi lasciano solo impronte bagnate dietro di me, e lui le può seguire. Potrebbe seguirle. Seguire la neve sciolta che piange dalle mie suole ed afferrarmi la mano, chiedere perdono per il suo egoismo, forzarmi in un abbraccio, ed io forse cederei. Forse, cederei.
Ma allora perché ostinarsi ? Perché seguitare a farsi del male in questo modo ?
Schizofrenia.
Tutti notano le impronte, ma nessuno sembra in grado di seguirle.
E, nel frattempo, il dubbio. Riuscire a rimangiarsi le proprie parole in meno di cinque minuti. Il dubbio striscia qui vicino, mi accarezza le tempie, ed io lo sento.
Tutte le convinzioni, tutto ciò di cui mi sono fatto scudo sino a poco fa, ora stanno svanendo come fumo, ed il dubbio, il dubbio, solo lui –
Posso.
Si può ?
E’ concepibile ?
Se solo potessi resistere. Se solo mandassi giù ancora il boccone amaro.
Tu puoi farcela.
Tu puoi farcela ?
Riusciresti a sacrificare ancora un po’ della tua vita per dei deboli spiragli di luce, per dei rari momenti tranquilli.
Riusciresti a demolire il tuo amor proprio per poter risentire ancora quella voce, la sua voce.
Abbi fiducia.

Fermarsi.
No, niente più fughe. Congelarsi nel bel mezzo del corridoio, tutto il corpo teso, aspettando il suo arrivo.
E la mano, quella mano, inaspettatamente calda, che afferra la tua. Ma non è un moto d’affetto, quello. Lui infila nell’incavo qualcosa, e poi sparisce. Tu, senza nemmeno voltarti, sai perfettamente che è sparito. Riesce a dileguarsi in qualsiasi situazione. Sa riconoscere il momento del congedo.
Schiudere la mano, e trovare al suo interno un bigliettino.
La sua inconfondibile scrittura.
Poche parole – una frase. Apparentemente buttata lì, così.
Ma tu a quelle parole avresti dato un significato solamente molti anni dopo.
Se allora le avessi comprese, non avresti preso il tuo basso in spalla, non saresti sceso per le scale, non avresti deciso che, dopotutto, valeva la pena continuare, ancora per poco, fino allo stremo delle forze, oltre i tuoi limiti, oltre te stesso.
Se allora le avessi comprese, avresti colto la sorpresa negli occhi di tutti nel rivederti il giorno dopo, e ti saresti concentrato su ben altro che non fosse in quella stanza, ricoperto di polvere, e gli odori fino a quel momento familiari li avresti dimenticati.
Se allora le avessi comprese, non avresti pensato a come sarebbe stato senza. Avresti invece sfruttato le potenzialità di quella situazione, avresti volto a tuo favore le circostanze, e ti saresti risparmiato in sostanza un bel po’ di grane.
C’è chi comprende tutto, subito, e non è frustrato dal continuo porre domande per cercare di arrivare laddove in un primo momento non arriva - o non osa arrivare.
C’è invece chi ha bisogno di sopportare, di crollare perfino, e, solo infine, comprendere. Per poi riappacificarsi con se stesso. Raggiungere il fallimento, viverlo, e passarci attraverso.
Tu – tu sei uno di questi.

Nel caso in cui non dovessimo più incontrarci.



*

Ed è a questo punto che ho deciso di interrompere la mia storia. Ritengo che abbia già ampiamente fatto il suo corso.
Ringrazio chi mi ha seguito ed incoraggiato finora, specialmente la mia chicca :*
Ringrazio poi le innumerevoli fonti di ispirazione, letterarie, musicali ed artistiche in genere.
Un grazie sentito, infine, a loro, ai Cure, per avermi dato, e per continuare a darmi, sempre così tanto <3

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