Il campo delle lucciole

di makeba
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Ricordi di te ***
Capitolo 2: *** Incontri ***
Capitolo 3: *** La nostra danza ***



Capitolo 1
*** 1. Ricordi di te ***


- Il campo delle lucciole -

Parte I

 

 

 

 

Ciao.

Sembra una parola così vuota, rispetto a tutto quello che avrei da dirti.

Sembra così banale.

Ma è l’unica cosa che mi è venuto in mente.

Ho appena saputo che sei in paese.

È troppo piccolo questo posto per non incontrarsi.

E per quanto mi sforzassi con tutte le mie forze di trovare una frase d’esordio divertente, non ho pensato a nient’altro.

Ho solo la tua immagine davanti agli occhi, e in quelli, tanto, tanto dolore.

Da me causato.

Sarai ancora arrabbiata? Chissà.

In fondo sono passati dieci anni.

Anche se non abbiamo mai avuto la possibilità di confrontarci.

Anche se non ti ho mai detto che mi dispiaceva da morire.

Avrei così tante cose da raccontarti.

Come il fatto che tu mi sia mancata tanto.

O che quella maglietta, l’ultima che mi regalasti, alla fine è diventata la mia preferita.

Mi ricorda te, e a volte quando la indossavo, sembrava di sentire ancora il tuo profumo.

Che quando ci vedemmo l’ultima volta, a quell’incontro tra ex-alunni, sarebbe stato bello, poter parlare meglio.

Ma tu eri circondata dalle tue vecchie amiche del liceo che non ti lasciavano un momento da sola.

Ma ti vedevo, gettare uno sguardo ogni tanto al mio tavolo.

Era per me?

Non lo so, ma mi piace illudermi.

Potrei dirti che per me, tu sei stata davvero importante.

Che non è stato un errore.

Che quella sera, avevo paura.

Tu mi conoscevi, sai bene che avere una ragazza per me, sarebbe significato non poter più partire.

Avrebbe significato lasciare qualcosa qui, qualcosa che mi avrebbe tenuto stretto a questo posto.

 

E sai bene che era l’ultima cosa che volevo.

 

Negli ultimi anni ci sono tornato solo durante le feste di Natale, per salutare i miei.

Ricordi quando andavamo a fare compere insieme in città?

E mi costringevi a stare fino a tardi per negozi?

Ed io imprecavo, e tu ridevi.

A volte, ancora oggi, quando passeggio tra i negozi illuminati a festa, e gli alberi di natale, sembra di vederci.

Di sentirci ridere, di vedermi rincorrerti per la piazza.

 

Due ragazzi innamorati.

Con mille sogni, andati spezzati dal tempo, dalle situazioni, dalle mille strade della vita.

 

So che sei diventata una giornalista locale.

Ho letto i tuoi articoli, e vedo qualche tuo servizio in televisione.

È bello sentire la tua voce - di donna ora - anche se registrata, mentre cucino.

È come averti in casa.

E mi sembra di ritornare ragazzo, quando, in quelle splendide sere d’estate ci sedevamo sul gradini di casa mia chiacchierare del più, del meno, di te, di me, di niente.

Ed erano quelli i momenti che preferivo.

Quando, nella brezza della sera, il campo si colorava di mille luci dorate, mille insetti incantati.

E l’unico rumore che si sentiva erano le cicale, e il vento tra gli steli di grano.

E restavamo lì a bere una tazza di the, guardando il cielo stellato.

E dopo un po’ la macchina di tuo padre che ti veniva a riprendere perché si era fatto tardi, o perché tu non avevi avvisato.

Ed io ti difendevo.

E tu mi prendevi la mano e la stringevi, fino a quando tuo padre non veniva a tirarti via dalle mie braccia.

E in queste ultime feste passate al paese, nelle ultime sere, ho sentito la tua mancanza, più di sempre.

Più di quando metto in ordine l’armadio e ritrovo quella maglietta, che oramai non mi va più.

Più di quando vedo una tua fotografia sul giornale di cui hai la rubrica.

Più di quando vado agli incontri con i nostri amici e tu non vieni, perchè sei impegnata!

Sempre Jane.

Sempre mi manchi.

E ancor di più quando vedo qualcosa- qualsiasi cosa- di rosso.

Era il tuo colore preferito, ricordo.

È il colore della mia maglietta.

Era il colore della gonna che avevi quella sera.

Quando, presi il coraggio a due mani, e te li dissi.

Ti dissi tutti, ma proprio tutti i motivi per cui ti lasciavo.

Ti lasciavo perché dovevo partire.

Ti lasciavo perché non volevo restare qui.

Ti lasciavo perché mi saresti mancata troppo.

Ti lasciavo perché ti amavo.

 

Che cosa squallida.

 

Eppure è successo.

Eppure era quel che in fondo ti stavo dicendo.

Ricordo che urlasti, cosa non ne ho idea.

Ricordo che scappasti via dalla festa e non ti rividi fino a quel dannato giorno.

Tu, tra i fili di grano che tanto amavi ed io, pronto a salire sul taxi che mi avrebbe portato lontano da tutto...lontano da te.

Ci guardammo un’ultima volta per un paio di secondi, poi, la macchina partì.

Ed ho ben impressa l’immagine di una ragazza che con un leggero vestito rosso e con i capelli mossi dal vento, tra il grano del mio campo, mi guarda.

Poi le mani strette a coppa contro al viso, e la fuga.

Ero partito, l’avevo fatto davvero.

 

Ti avevo lasciato, Jane.

 

In quel posto che odiavamo entrambi, che non ci dava futuro.

Di cui avevamo discusso a lungo, ed avevamo deciso di scappare insieme.

Ed invece, arrivò quella borsa di studio ed io ti abbandonai.

Fui egoista, lo ammetto.

E tu non me lo avresti mai perdonato.

Continuai a ripetermi questo concetto in mente un milione di volte, prima di arrivare all’aeroporto.

Poi, tutto ciò che venne dopo, ora è quasi...sbiadito per me.

È strano da descrivere...come se non l’avessi vissuto a fondo.

Come se avessi premuto il tasto FFW e la mia vita abbia viaggiato così velocemente da non accorgermi di cosa accadeva intorno a me.

Ed eccomi dopo dieci anni a rimpiangere una vita che avrei potuto avere.

Seduto su quei gradini che conoscono ogni nostro segreto, per svelare anche questo.

Ti amo ancora Jane.

Non so quando me ne sono reso conto, non so per quanto tempo lo sto nascondendo, non so nemmeno se riuscirò ad avere la faccia tosta di tornare da te.

Non so, Jane.

So solo che questa tazza di the, è fredda senza te.

So che senza te, il vento tra il grano urla parole che non conosco, e che non riuscirò mai più ad andare per negozi sotto Natale.

Questa notte, non è poi così stellata e le lucciole non sono poi così magiche.

Il rombo del motore della macchina di tuo padre però, mi pare quasi di sentirlo.

Chiudo gli occhi, per immergermi in quel ricordo, che sembra così vivido.

Il rombo si ferma.

Rumore di una portiera che sbatte.

 

Colpo di terrore

“Non hai avvisato.”

Colpo di rabbia.

“È tardi.”

 

- George?

La tua immagine sembra quasi irreale.

Come se fossimo in un cartone animato.

Come se questa fosse solo un’altra delle mie fantasie e tu non fossi davvero dinnanzi a me.

Non riesco a proferire parola, accecato dalla tua semplicità, da modo in cui tieni i capelli legati alla base della nuca.

Vorrei poterli toccare. Questo mi viene in mente.

Ma cosa posso dirti, ora?

Dopo tutto quello che ti ho fatto.

- Vuoi una tazza di the?

Non sembri arrabbiata.

Mi sorridi e ti siedi accanto a me, stringendo le gambe al petto, come facevi da bambina, per non far gonfiare il tuo vestito - allora come ora - rosso.

Ignori la mia domanda.

- Come va la vita nella grande città?

- Bene. Eppure quando torno qui, sento la nostalgia di questo posto. È sempre bellissimo.

- È vero. Mi dispiace. Ho…saputo di tuo padre.

Annuisco.

- Per fortuna è successo nel sonno. Almeno non ha sofferto.

- Già.

La sera sta calando ormai.

Vediamo la prima lucciola emergere dal campo e rimaniamo entrambi incantati.

Poi lo spettacolo che rivedo solo nei miei ricordi di ragazzo, mi si materializza davanti agli occhi.

È stupendo ed è come ricordavo.

È incredibile come certe cose non cambino mai.

Il campo sembra prendere vita, il vento si fa più forte, ma forse è solo il mio cuore che ha accelerato i battiti.

Minuscole luci dorate si alzano contemporaneamente quasi, fatte a posta per far godere noi, di quel meraviglioso spettacolo.

Danzano insieme, si incrociano, si allontanano, volteggiano nel buio della notte, che ancora una volta fa da palcoscenico alla loro innata bellezza.

Quasi mi dimentico della tua presenza, troppo preso da ripercorrere con la mente momenti che sembravo aver dimenticato.

Io da bambino che cercavo di raggiungerne una e catturarla.

Mia madre che mi richiamava. Non potevo spezzare il ritmo, distruggere la magia.

 Era vietato. Quella era la danza delle fate, mi diceva sempre.

 

Ancora non parli, quando le lucciole cominciano a dileguarsi, forse per cercare cibo.

Io lancio delle occhiate dalla tua parte, ma sembri concentrata su qualcosa.

Forse un ricordo.

Forse di noi due.

- Questo ce l’hanno anche lì? Nella grande città?

Questa volta le tue parole sono aspre, ironiche quasi.

- No.- ammetto, senza riuscire ad aggiungere altro.

Ridacchi, senza ilarità.

- Lo immaginavo.

Piomba nuovamente il silenzio, solo che questa volta è più pesante del precedente.

- Sai, ho pensato a lungo a cosa mi dicesti quel giorno...-

La gola mi si secca improvvisamente.

- Cosa intendi dire?

- Forse avevi ragione tu. Restare qui, ti avrebbe rovinato. Ma avrebbe rovinato anche me- fa una pausa, per voltarsi a guardarmi- Non mi chiedesti se avessi voluto venire con te.

Sono spaesato, spaventato dalla piega che ha preso la conversazione, e ammetto di essere terrorizzato di aver fatto un grosso errore.

Per paura di farne un altro, preferisco tacere, che è meglio.

- Io ci sarei venuta George. Ti avrei seguito anche in capo al mondo...se solo me l’avessi chiesto.

Non provo neanche a trovare una scusa decente, un banale “mi dispiace”, che tu scappi via.

Mi dispiace Jane.

Io...non credevo.

Io...non ho pensato.

Sono stato stupido, ma avevo solo diciotto anni e volevo scappare da qui...mi dispiace.

 

Tu non immagini quanto.

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Capitolo 2
*** Incontri ***


- Incontri -

II parte

 

 

Fotografie.

Piccoli frammenti di te.

Momenti che sembravo di aver dimenticato, riprendono vita dinnanzi ai miei occhi, guardando volti che avevo rimosso.

Guardando luoghi che mi avevano emozionato.

È strano, osservare il passato attraverso questi piccoli pezzi di carta.

E ritrovarti, sempre bella, allegra e testarda.

Ritrovare le lentiggini che ti puntellavano dolcemente il naso e le gote. L’avevo dimenticato questo piccolo particolare. Avevo dimenticato quanto amavo percorrerle, fingere di poterle toccare.

Di colpo sembra non essere passato nemmeno un mese.

Ed invece ne è passato di tempo.

 

Troppo forse.

 

Cercando i documenti dei miei, ho trovato la mia scatola.

Quella dei ricordi.

Un trenino di legno, un foglio di carta ingiallito con una data di cui non ricordo l’avvenimento, un fiore secco e un nastro rosso.

E poi tante, tante foto.

Ieri sera è stato...incredibile sentirti parlare con quel tono pieno di rimorsi e rabbia repressa.

Mi sento un verme per essermene andato.

Ma mi sento ancor più viscido quando mi rendo conto che in fondo non mi dispiace affatto che tu sia stata male per me.

 

Almeno mi hai pensato.

 

Getto nella scatola l’ennesima tua foto sorridente e con un sospiro la lascio il fondo all’armadio dove l’ho trovata.

Questa casa mi sembra così vuota dalla morte di mia madre.

Ricordo quando successe.

Appena due anni dopo la mia partenza.

Ricordo il tuo volto rigato dalle lacrime, e mio padre che non riusciva nemmeno a guardarmi negli occhi, tanto il dolore che aveva dentro.

Mia madre...la donna che ci fece incontrare, ricordi?

Quando eravamo piccoli, e giocavamo ancora con trenini e bambole.

Quando non sapevamo ancora niente del mondo al di fuori di questo piccolo paese di campagna.

Quando non sapevamo cosa fosse l’amore, la sofferenza, la delusione e la morte.

 

Quando non sapevamo ancora cosa fossero le lucciole.

 

Ricordo che avevi lunghe trecce castane, e ti dondolavi continuamente su un’altalena improvvisata con tre metri di corda e un pezzo di legno.

Parlavi con Mel, la tua sorellina immaginaria.

E io ero un bambino come tanti, un tantino più grande di te.

Dicevo a tutti che aiutavo mio padre a lavorare il campo per far colpo sugli altri bambini.

Ma tu non ci credesti, perciò mi colpisti.

“Secondo me tu sei solo un bimbo stupido. E non è vero che lavori con tuo padre, perché sei pigro e giochi ancora con la plastilina. Me l’ha detto Mel!”

Mentre correvi via, riuscii ad urlarti:“Mel non esiste, bambina viziata!”

Cominciò così la nostra amicizia, se così è possibile chiamarla.

Per quanto abbia apprezzato e a volte addirittura amato le donne con cui ho vissuto e sono stato, ti posso assicurare, che tu le batti tutte.

Non c’è nessuna come te, Jane.

Non c’è mai stata.

Almeno per me.

 

La grossa finestra della cucina fa un po’ di capricci prima di aprirsi del tutto.

Ed il campo, con le prime luci del mattino, è se è possibile, ancor più bello della sera.

Un uomo passa in bicicletta e mi saluta con una mano.

Io ricambio, pur non sapendo il suo nome.

È un’abitudine che ho sempre apprezzato in posti come questo.

Non conosci le persone, eppure loro ti salutano, e non vi trovano niente di strano pur non avendoti mai visto prima.

È qualcosa che non trovi in nessuna grande città.

La fiducia reciproca.

L’armonia.

È fantastico.

Decido di andare a fare una passeggiata in paese.

Il mio arrivo di un paio di giorni fa è stato un po’ improvviso.

Sapevamo che la morte di mio padre sarebbe stata imminente, ma non credevo che accadesse così in fretta.

Anche se, tutto sommato, non ci vedevamo spesso, sono in momenti in cui la perdi che ti rendi conto davvero della persona splendida che ti ha accompagnato per tutti gli anni della tua vita.

Non voleva un funerale. Ha sempre odiato le manifestazioni dei sentimenti, qualunque essi fossero.

Era un po’ scorbutico, con due grosse sopraciglia che mettevano paura i bambini più piccoli.

Ma era affettuoso a modo suo ed è stato un buon padre.

Così ho esaudito il suo desiderio di essere seppellito nel campo. Solo io come testimone, insieme al vento che sempre lo accompagnava quando lo guardavo dalla finestra, passeggiare tra i fili di grano.

Poi ho saputo, dall’uomo che mi ha aiutato negli scavi, che eri in paese per qualche giorno, come me, e mi si è riempito il cuore.

Ma il testamento e le varie proprietà, mi hanno tenuto completamente occupato.

Ok, lo ammetto, non ho avuto il coraggio di farmi vedere in paese per paura di incontrarti.

Di incontrare il tuo sguardo infuriato, o peggio, i tuoi occhi indifferenti.

Ora che ho finito, non ho più scuse.

Credo che mi divertirò a rivedere i posti dove giocavo da bambino e dove oziavo, una volta adolescente.

Prendo la bici che sta sul retro della casa.

Ogni volta che venivo, i miei mi obbligavano ad usarla, anche in dicembre inoltrato, perché si ostinavano a credere che il rumore e lo smog dell’auto rovinasse il raccolto.

Ed in effetti, è un peccato distruggere il paesaggio con un’auto grigia, nuova di zecca.

Pedalo fino alla panetteria e mi fermo a salutare i proprietari.

Poi è la volta del piccolo super market, unico nella zona, del barbiere e dei proprietari del bar.

Loro li lascio per ultimi.

Sono i tuoi genitori.

Entro un po’ imbarazzato, ma Grechel, tua madre, mi accoglie con un caloroso abbraccio.

- Oh, caro, che piacere averti qui! Mi dispiace tanto per il tuo caro padre.

- Grazie Grechel.

- Ma siediti, vieni, raccontami del tuo lavoro.

- Mi sto specializzando per diventare chef, per ora lavoro in un ristorante vicino al mio appartamento.

I suoi occhi si illuminano.

- Oh, Louis, senti come parla? Il mio appartamento! È proprio un uomo di città, ormai.

Sorrido a Louis e gli stringo la mano.

Da quando ero bambino, l’ho sempre ed inevitabilmente, paragonato ad un grosso orso bruno.

Ed il suo carattere premuroso, non ha influito affatto nell’ammorbidire la sua figura possente.

- Lo so cara, l’ho sempre saputo. È un piacere rivederti, giovanotto.

- Grazie.

Louis e Grechel sono un po’ come i miei due secondi genitori.

Tua madre è sempre stata molto affettuosa con me, come se fossi figlio suo, mentre Louis, ben sapendo ciò che c’era tra noi, mi guardava con un po’ più di sospetto.

Ma ora sembrava che quel periodo fosse sparito.

Mi tratta come se io non fossi l’uomo che ha spezzato il cuore a sua figlia, tanto tempo fa.

O forse sto esagerando troppo.

Forse ciò che è successo per gli altri non è importante quanto lo è per me.

 

E per te?

 

- Hai già incontrato Jane?- chiede ingenua tua madre.

Louis le da una leggera gomitata, impossibile da passare inosservata.

Non posso fare a meno di sorridere.

- Si, l’ho incontrata ieri sera.

- Oh! Ricordi quando vi fidanzaste?- chiede ancora, ignara dei segnali che le lancia tuo padre.

Si, certo che ricordo.

Un giorno qualunque, alla fermata dell’autobus.

Pioveva ed era mattino presto. Dovevo andare in città per un affare di mio padre che era a casa influenzato.

La sera prima avevamo litigato, una cosa stupida mi pare di ricordare.

Magari qualcuno che aveva allungato troppo le mani su di te...

Non era neanche colpa tua, ma mi arrabbiai lo stesso.

Così ti trovai lì, ad aspettarmi, nonostante piovesse.

Mi dicesti che non dovevo essere geloso, che tu non avevi occhi che per me.

È stato strano sentirtelo dire, ho provato qualcosa che provai solo quando stemmo insieme per la prima volta...

Dentro di me si è acceso un fuoco...e di colpo la pioggia ed il freddo sono scomparsi.

Ti ho baciato, mosso dal sentimento più grande che potessi provare.

Tremasti.

- Fa troppo freddo qui. Andiamo a casa?- dissi.

- Perché no?

 

Perché no?

 

Sono rimasto imbambolato qualche secondo di troppo.

Tuo padre prende la parola, lanciando un’occhiataccia a Grechel.

- Vieni con me, George, ti faccio vedere una cosa.

Mi porta sul retro del bar, oltre una piccola serra.

Il vostro vigneto si estende a vista d’occhio dinanzi a me.

Bello come lo ricordavo.

Viola come lo ricordavo.

È stato lì, una sera che non era andata come speravamo, che mi hai donato la tua giovinezza.

È stato lì, che abbiamo fatto parte l’un dell’altra, per minuti che sono sembrati un’eternità.

Per minuti che sono sembrati troppo perfetti per essere reali.

 

E tu sei lì, un cappello di paglia in testa, china su una vite.

Ti giri appena e poi ti allontani lentamente, cercando di passare inosservata.

- Jane, cara, visto chi ci è venuto a trovare?

- Si, papà.

Restiamo in silenzio per un po’.

Evidentemente tuo padre si è reso conto che non mi hai né degnato di uno sguardo né salutato.

Decide che sia meglio lasciarci soli.

- Mi sa che mi sta chiamando Grechel. George, tu resta a controllare l’uva.

Mi fa l’occhiolino e sparisce dentro.

Mi avvicino a te, cautamente, quasi avessi paura di una tua fuga improvvisa, come fanno i gatti.

- Che ci fai qui?

- Sono venuto a salutare i tuoi. Tu che fai?

- Controllo che vengano su bene.

- Il colore è perfetto. Come sempre, giusto?

- Giusto.

Cambi un’altra volta vite, allontanandoti ancor di più.

Ti seguo.

- Come va il giornale?

- Bene.

- Come mai sei qui?

- Qui al paese?

- Sì.

Esiti.

- Ho pensato di farci un salto. Non fa male ogni tanto tornare alle proprie origini.

- Quando partirai?

- Il prima possibile.

- Che sarebbe...?

Mi guardi, con aria di sfida.

- Se te lo dico cosa farai? Metterai le crocette sul calendario?... Ops, scusa tu ora hai un palmare! Oppure cercherai di trovare un volo prima di me, così che mi batterai ancora una volta. No, George?

Sono ferito da ciò che mi hai detto.

Come hai potuto pensare queste cose?

 

Possibile che una cosa successa dieci anni fa, torni a bruciare così tanto, anche solo attraverso uno sguardo?

 

- No.

Taci, spostandoti di nuovo.

So che la conversazione è finita qui.

 

Quando esco per salutare i tuoi genitori, Frank è al bar, che beve una birra. Mi vede.

Forse non mi riconosce subito, ma quando lo fa mi salta quasi addosso.

Siamo cresciuti insieme ed è sempre stato il bambino che m’ha protetto dagli altri bulletti.

Ora è un uomo, sulla trentina, in jeans strappati, i capelli castani lunghi sino alle spalle e quel maledetto pizzetto che porta da quando aveva sedici anni.

- George, amico mio! Ti sei degnato di tornare tra noi! Se ti vedesse Mary!

Mary e Frank si conobbero ad una festa, nel paese accanto al nostro, ricordi?

Le chiedemmo un indicazione e la rincontrammo poi accanto all’uomo dello zucchero filato.

Frank si innamorò del suo sorriso, e da quel giorno sono diventati inseparabili.

E dopo dieci anni eccoli, ancora insieme, ormai sposati.

È incredibile come certe cose siano scritte chissà dove.

Come un amore è destinato ad andare avanti, per così tanto tempo.

 

Non pensi, Jane?

 

- Giusto in tempo per la festa del paese. Stasera verrai?

- Credo di sì.

- Ci saranno anche le majorette!- dice, facendomi l’occhiolino.- Io sono un uomo sposato ormai, ma tu, hai ancora la libertà!

Sorrido.

- A proposito, sai che Jane è in paese?

- Si, l’ho incontrata...- dico restando appositamente sul vago.

- E cos ha detto?

Stringo involontariamente i pugni, senza però abbandonare il mio sorriso.

- Non mi va di parlarne Frank, raccontami un po’ tu invece!

Restiamo a parlare di come vanno le cose nel suo ranch, di come sia l’uomo più felice sulla faccia della terra e poi racconto io, di cos ho fatto in tutti questi anni. Di come sia riuscito a diventare ciò che desidero.

E nonostante sbirci ripetutamente su quella porta che conduce alla serra, tu non esci.

Dopo un po’ mi porta a casa sua.

Mary è sempre più bella, nonostante la gravidanza.

E il piccolo Tommy ha quegli enormi occhi azzurri della madre che potrebbe incantare tutti.

Quando torno a casa è ormai buio.

Giusto il tempo per cambiarmi, e sento la banda cominciare a suonare.

Ricordi Jane, quando ci divertivamo a prendere in giro i musicisti, per quei tremendi abiti tradizionali?

Ricordi quando correvamo tra la folla, tenendoci per mano, per raggiungere uno stand di caramelle?

E l’odore della festa, dei biscotti della signora in fondo alla strada?

E ricordi quella strega che ci predisse il futuro?

Ricordi cosa disse?

 

- Cosa vedo qui...?
Ridacchi e mi guardi sconcertata alzando le spalle.
Non so perché mi sono fatto trascinare in questa roulotte che puzza di gatto morto per ascoltare una vecchia pazza che guarda dentro un palla di vetro.
Ah, certo.
Perché sei tu che me l’hai chiesto.
- Vedo un albero di mele... e un cane.
Ti mordi il labbro inferiore per non scoppiare a ridere.
La donna alza lo sguardo:- Vi potrebbe ricordare qualcosa?
- Beh, si, il melo che abbiamo piantato da bambini.- dici.
Mi dai una gomitata ed io annuisco.
Non abbiamo mai piantato un melo, a dire il vero, non abbiamo mai piantato niente.
- Esatto! Ma rappresenta anche l’albero della vita. Lo vedo rigoglioso. Avrete una vita fortunata. E una bella famiglia. Il cane sta a significare questo.
- Ma  insieme?- chiedi con un gesto della mano.
La vecchia pazza ci scruta per un momento.
- Aprite la bocca e guardate in alto.- dice.
Un po’ esitanti, obbediamo.
Lei borbotta qualcosa per un po’, mentre noi stiamo cercando in tutti i modi di sembrare seriamente concentrati in quel che facciamo.
- Si. Direi di si. Le vostre anime sono complementari. E due anime così sono inscindibili

 

Inscindibili.

Quante risate facemmo ripensando a quel momento.

Solo ora temo che quella donna abbia davvero avuto ragione.

Che non sia stata un pazza.

Che quel che ha detto sia vero.

 

Entrambi abbiamo sempre amato questa festa.

Dovresti essere di buon umore stasera.

Dovremmo esserlo entrambi.

E allora perché ora sembra così triste?

Perché tu non ci sei?

O per via di questo cielo nuvoloso che non promette niente di buono?

Chissà.

Forse stasera riuscirò a parlarti.

Forse stasera qualcosa cambierà.

Forse stasera non vedrò le lucciole

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Capitolo 3
*** La nostra danza ***


III parte

 

La nostra danza

 

 

 

 

Succedeva spesso, sai.

Nei miei sogni intendo. 

Di immaginare come sarebbe stato se fossi tornato a vivere qui.

I primi mesi in città sono stati terribili e la capacità di fantasticare sulla mia vita
quotidiana qui, era principio di sollievo per me. 

Ora che mi sento parte di tutto quello che desideravo riesco a capire quanto mi sia mancato realmente. 

Sono cambiate tantissime cose, certo.

Sono cambiate le attrazioni, i visi dei bambini accaldati dalle corse.

È cambiato il semplice piacere di star seduti in compagnia a ridere, sostituito dalle mille preoccupazioni della vita odierna. 

Sembra tutto così superficiale, addirittura rumoroso, non pensi?

Passeggio lentamente, attento a non perdermi nessun particolare, nessuna sfumatura di colore, con il sacchetto delle caramelle gommose che amavo – amavamo – tanto. 

- George! Ehi!- è Frank che mi fa segno di avvicinarsi al suo tavolo.

Ne sono stati disposti una dozzina, in fila indiana. 

Sono di legno scuro e sopra una candela a forma di fiore funge anche da anti-zanzare.

Solo quando mi avvicino al tavolo riesco a riconoscere le persone sedute intorno. 

C’è Mary, i tuoi genitori, Paul e Julia nostri ex compagni di scuola, che si alzano per salutarmi e farmi le condoglianze per mio padre.

Ma tu non ci sei. E questo è quel che fa più male. 

Non voglio credere che ti sia persa la festa che amavi più di ogni altra.

La agognavi talmente che eravamo sempre i primi ad arrivare, prima ancora del proprietario delle giostre. 

No, per nulla al mondo saresti mancata.

Neanche per me. 

Per questo sono confuso nel non vederti.

Senza neanche che me ne accorga, mi ritrovo sazio di una bistecca alla brace, cotta a puntino. 

- Mary è una gran cuoca!- sta dicendo Frank, facendo arrossire la moglie.- Non è vero, George

Lei gli tira una sberla sul viso.

-Ah, smettila di parlare a vanvera. Non potrei mai competere con uno chef.

-Un quasi-chef- precisa.- e scommetto che il vitello come lo fai tu, non sa neanche che sapore abbia!- afferma Frank e lei arrossisce ancora.

- La bistecca era buonissima.- dico, sorridendole.- Mi sa che Frank ha ragione! Mi piacerebbe assaggiare il tuo vitello…

- Beh…s-sa-rebbe un piacere…f-fartelo assaggiare…- dice, imbarazzata.

Poi all’orecchio del marito sento che sussurra: - Grazie.

 

Siamo in fila, stretti nel rettangolo che si è venuto a creare per lo spettacolo delle majorette che inizierà tra pochi minuti. Accanto al muro è ferma la banda, sempre in quel terribile abito tradizionale blu e giallo.

Mi viene da ridere e lo faccio, sperando un attimo dopo che tu faccia lo stesso, ovunque tu sia.

Che tu sia felice quantomeno.

Ed è in quel momento che i miei occhi si poggiano su di te.

Hai un bel sorriso, che ti illumina il volto, sei all’angolo opposto del rettangolo e parli con un uomo di molto più grande di te.

Ha i capelli brizzolati, ma uno sguardo vivace.

 Non ho il tempo di informarmi di chi sia da Frank o di avvicinarmi che comincia lo spettacolo e vengo distratto.

 Le ragazze sono brave, e qualche volta mi concedo uno sguardo veloce dalla tua parte e tu sorridi, le guardi rapita.

Noto con sollievo, piacere e nostalgia, un sacchetto di carta bianca simile a quello che ho in tasca.

Le caramelle gommose. 

Il numero non è ancora finito quando l’uomo ti tira per un braccio e tu ti lasci trasportare via dal rettangolo.

La mia mente lavora in fretta, ma il mio corpo è più veloce. 

Con Frank non c’è mai stato bisogno di spiegazioni, così basta un’occhiata e lui sa che vengo a cercarti.

A cercare te.

A tornare da te. 

Mi guardo intorno con furia, preoccupato da dove tu possa essere, da cosa tu possa fare.

Poi vi vedo, seduti entrambi ad uno dei tavoli di legno scuro. 

Tu ascolti in silenzio, mastichi caramelle e annuisci ogni tanto.

Lui parla animatamente e gesticola, senza mai staccare gli occhi dai tuoi. 

So perfettamente quanto sia difficile farlo.

Sarebbe come cercare di venir fuori da un pozzo. O da un buco nero. 

Mi avvicino.

- Scusate.- dico educatamente, interrompendolo. 

Tu sembri sorpresa, e un po’ infastidita.

- Avrei bisogno di parlarti. 

- Non mi sembra il momento, George. C’è la festa.

- Lo so. – dico soltanto, e spero che basti. 

Mi guardi perplessa e per nulla convinta.

Ma resto immobile, e capisci che non scherzo.

- Torno subito.- avverti l’uomo, con un sorriso. 

Ci siamo allontanati già di qualche passo quando mi rendo conto di ciò che sta accadendo.

Mi rendo conto che se non dico le cose giuste, tutte le cose giuste, rimpiangerò questo momento per il resto della vita. 

Vorrei che potessi leggere nel mio pensiero 

Vorrei che potessi vederli, tutti i momenti di nostalgia, che percepissi le sensazioni al ricordo del tuo sorriso.

Vorrei che potessi capirlo da te quanto mi sei mancata, perché non immagini quanto sia difficile spiegarlo, facendo in modo da non tralasciare niente.

 - George? Cosa c’è?- mi chiedi ora, un po’ preoccupata, visto che mi sono fermato di scatto.

Alzo gli occhi nei tuoi, illuminati dalle luci che provengono dalla piazza. 

Riesco a distinguere perfettamente la confusione, anche al di sotto di quel ciuffo che continua a coprirli, sospinto dal vento.

- Ti prego, chiudi gli occhi un attimo. 

Corruga la fronte, ma non credi che ti stia prendendo gioco di te.

- D’accordo.- sussurri quasi. 

- Prova ad immaginare di avere una sola possibilità per fare qualcosa che non avresti mai pensato di poter fare. Immagina di aver aspettato quel momento per così tanto tempo, che cominciava a sembrarti soltanto un sogno, una pallida utopia. Ed ora sai di non poter sbagliare, perché è il momento perfetto. Perché hai aspettato dieci anni solo per quegli occhi che ora hai davanti. Quelli che hai deluso, e che ora non vorresti fare altro che rivederli illuminarsi, a contatto con i tuoi. Come glielo fai capire che ti sono mancati?

Il mio silenzio è scandito dal tamburo della banda, che fa da sottofondo allo spettacolo degli sbandieratori.

 Resto immobile.

Tu hai ancora gli occhi chiusi, e dalle increspature che sono nate sulle tue labbra so che trattieni le lacrime.

 E in un certo senso, lo spero.

 - Jane?- ti chiamo.

 Ed è così strano pronunciare il tuo nome ad alta voce, dopo tutte le volte soltanto a sognarlo, a pensarlo, a bisbigliarlo al buio.

 Apri gli occhi e noto che sono umidi.

 - È passato così tanto tempo… - dici, quasi come se cercassi una scusa.

 
Ehi, Jane, non ce n’è mica bisogno?

Siamo solo noi due, ricordi? 

Solo io e te.

 
- Lo so.

Poi cambia la tua espressione. Diventa vaga, insicura. 

- Mi ha fatto davvero piacere rivederti George, ma penso… penso che debba tornare alla festa per il momento. Ho… sono confusa.

E cos è un momento soltanto confrontato a dieci interi anni? 

Resto immobile quando mi passi accanto, portandoti via il tuo profumo.

- Non hai comunque risposto alla mia domanda.- le ricordo però. 

- Quale?

- Come glielo faresti capire?

- Se ho avuto così tanto tempo per pensare, qualcosa troverò. 

Sento il rumore di un tuo passo sull’erba. Poi il tuo incedere si blocca di nuovo.

- Lui è il mio editore. Io… sto scrivendo un libro. Te lo dico perché mi sei sembrato un po’… sconvolto. Temevo che la storia si ripetesse. 

Non parlo e questa volta i tuoi passi non si fermano più.

Temevo che la storia si ripetesse. 

Capisco subito cosa intendeva dire.

 

Quell’ultima sera passata da amici – se mai lo siamo stati - litigammo.

Ricordo perfettamente che m’innervosii per qualcuno che era troppo vicino a te. 

E così volevo portarti via, ma tu ti rifiutasti di seguirmi.

Ero così geloso che capii quanto in realtà pendevo dalle tue labbra in tutto e per tutto. 

E quanto mi desse fastidio che anche gli altri potessero farlo.

Che potessero capire ciò che capivo io di te, che in fondo il rapporto che avevamo potesse essere uguale a mille altri.

Lo è stato, Jane? L’hai mai reputato tale?

 

Ed ora la tua frase. Cosa intendevi dire?

 Temevi potesse ripetersi la mia ira?

 O i dubbi sull’esclusività del nostro rapporto?

 O su ciò che ne è derivato.
 
Non mi è piaciuta quella frase, sai?

 

Il vento si è levato prepotente.

Con violenza, portando granelli di terra fin nei miei occhi, li costringe a lacrimare.

 Vedo la mia casa da lontano – la casa della mia vita -  e provo un moto di sollievo.

 Tutto ciò che vorrei in questo momento è potermi stendere e trovare il familiare buio dietro le mie palpebre.

Ma so già che sarà più dura di quanto pensassi. 

Il rosso ricordo di te è più forte di qualsiasi cosa.
 

Le mie narici sono invase del profumo della mia infanzia.

Tolgo subito le scarpe, e mi dirigo senza esitazione verso la camera da letto. 

Mi sono appena appisolato che qualcosa mi sveglia.

Un rumore secco e deciso contro la finestra. 

L’impellente bisogno di te, mi fa vedere cose che non ci sono, e sentire rumori e sensazioni che…

Di nuovo, lo stesso rumore.

Sono costretto ad alzarmi ed è stupendo vederti sotto casa, china a cercare una pietra per terra, come facevi quando eri piccola e ti piaceva questo gioco di segreti e spie che facevamo.

 Mi fai battere il cuore talmente forte che ho paura possa rimetterci la vita.

 Ma non accade.

 Lui si calma, e mi permette di respirare regolarmente.

 Scendo con la sola velocità che mi possano permettere le mie gambe tremanti.

 Tu sei lì.

Tu sei qui.

- Jane…- ti richiamo, dal portico. 

Ti volti di scatto, quasi come fossi sorpresa di trovarmi lì.

- Oh…- esclami imbarazzata, ravviandoti i capelli scomposti dal vento – Sei sveglio…

 Ti rivolgo un sorriso affettuoso.

 Non era forse il tuo scopo?

 - Dai, vieni dentro, che c’è un vento pazzesco.

 - Sì, sì…- avanzi incerta, attenta a non rivolgermi mai il tuo sguardo.

 Entri in casa, e nel momento in cui chiudo la porta, un peso mi cade sul cuore, come un macigno.

 Ho paura, Jane.

 Dì qualcosa tu.

Perché non parli, continui a guardarti intorno, sospiri?

Perché c’è questo terribile silenzio?

Neanche il vento si sente più così bene.

Neanche lui vuole aiutarci.

Tocca a noi. 

Finalmente ti volti e scopro un sorriso sulle tue labbra, e la paura nei tuoi occhi.

Non sono mai stato bravo ad individuare stati d’animo da uno sguardo.

Ma il tuo non mi lascia dubbi.

Sei terrorizzata, ma punti ugualmente i tuoi occhi nei miei.

- Sai… ho pensato alla domanda che mi hai fatto prima e… penso che se fossi stata in te… sarei andata a cercarla, anche a costo di svegliarla a suon di pietre contro la finestra della sua camera da letto.- tenti una risata nervosa, che non ti riesce. 

Mi avvicino velocemente, senza pensare - senza darti la possibilità di pensare.
 

Ti bacio. 

Ed è come se non fosse passato un minuto da quando ti ho lasciato così tanto tempo fa.

Noi siamo rimasti così, anche se la vita è passata sotto i nostri piedi.

Il sole è cambiato, la terra è cambiata, i suoni e i colori sono cambiati. 

Noi no.

Come le lucciole.

 

Eccola. 

Ora riesco a sentirla.

La nostra musica. 

Ti tengo stretta, impaurito che tu possa fuggire - che io possa fuggire, di nuovo.

E la nostra danza, accompagna il vento che frusta il grano dei campi. 

E sono convinto che non mi stancherò mai del tuo viso dinnanzi al mio, così vicino, di nuovo, così perfetto, ancora, così incredibilmente bello. 

Così pieno di me.


 

Il vento si è calmato.

Fa caldo adesso sul portico in legno. 

Le lucciole non ci sono.

Non danzeranno più per noi, Jane. 

La loro magia si è fermata, perché sei tornata da me.

E sai una cosa?

È la prima volta, in tutta la vita, che sono felice di non vederle.

 

Okay, finita questa infinita canzone.
Un amore che non avrei mai creduto di poter raccontare.
Ci ho messo un po’, ma ce l’ho fatta.
Una dedica speciale a Lei. So che ci sei.

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