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Il campo delle lucciole -
Parte
I
Ciao.
Sembra
una parola
così vuota, rispetto a tutto quello che avrei da dirti.
Sembra
così banale.
Ma
è l’unica cosa che
mi è venuto in mente.
Ho
appena saputo che
sei in paese.
È
troppo piccolo
questo posto per non incontrarsi.
E
per quanto mi
sforzassi con tutte le mie forze di trovare una frase
d’esordio divertente, non
ho pensato a nient’altro.
Ho
solo la tua
immagine davanti agli occhi, e in quelli, tanto, tanto dolore.
Da
me causato.
Sarai
ancora
arrabbiata? Chissà.
In
fondo sono passati
dieci anni.
Anche
se non abbiamo
mai avuto la possibilità di confrontarci.
Anche
se non ti ho
mai detto che mi dispiaceva da morire.
Avrei
così tante cose
da raccontarti.
Come
il fatto che tu
mi sia mancata tanto.
O
che quella
maglietta, l’ultima che mi regalasti, alla fine è
diventata la mia preferita.
Mi
ricorda te, e a
volte quando la indossavo, sembrava di sentire ancora il tuo profumo.
Che
quando ci vedemmo
l’ultima volta, a quell’incontro tra ex-alunni,
sarebbe stato bello, poter
parlare meglio.
Ma
tu eri circondata
dalle tue vecchie amiche del liceo che non ti lasciavano un momento da
sola.
Ma
ti vedevo, gettare
uno sguardo ogni tanto al mio tavolo.
Era
per me?
Non
lo so, ma mi
piace illudermi.
Potrei
dirti che per
me, tu sei stata davvero importante.
Che
non è stato un
errore.
Che
quella sera,
avevo paura.
Tu
mi conoscevi, sai
bene che avere una ragazza per me, sarebbe significato non poter
più partire.
Avrebbe
significato
lasciare qualcosa qui, qualcosa che mi avrebbe tenuto stretto a questo
posto.
E
sai bene che era
l’ultima cosa che volevo.
Negli
ultimi anni ci
sono tornato solo durante le feste di Natale, per salutare i miei.
Ricordi
quando andavamo
a fare compere insieme in città?
E
mi costringevi a
stare fino a tardi per negozi?
Ed
io imprecavo, e tu
ridevi.
A
volte, ancora oggi,
quando passeggio tra i negozi illuminati a festa, e gli alberi di
natale,
sembra di vederci.
Di
sentirci ridere, di
vedermi rincorrerti per la piazza.
Due
ragazzi
innamorati.
Con
mille sogni,
andati spezzati dal tempo, dalle situazioni, dalle mille strade della
vita.
So
che sei diventata
una giornalista locale.
Ho
letto i tuoi
articoli, e vedo qualche tuo servizio in televisione.
È
bello sentire la
tua voce - di donna ora - anche se registrata, mentre cucino.
È
come averti in
casa.
E
mi sembra di
ritornare ragazzo, quando, in quelle splendide sere d’estate
ci sedevamo sul
gradini di casa mia chiacchierare del più, del meno, di te,
di me, di niente.
Ed
erano quelli i
momenti che preferivo.
Quando,
nella brezza
della sera, il campo si colorava di mille luci dorate, mille insetti
incantati.
E
l’unico rumore che
si sentiva erano le cicale, e il vento tra gli steli di grano.
E
restavamo lì a bere
una tazza di the, guardando il cielo stellato.
E
dopo un po’ la
macchina di tuo padre che ti veniva a riprendere perché si
era fatto tardi, o
perché tu non avevi avvisato.
Ed
io ti difendevo.
E
tu mi prendevi la
mano e la stringevi, fino a quando tuo padre non veniva a tirarti via
dalle mie
braccia.
E
in queste ultime
feste passate al paese, nelle ultime sere, ho sentito la tua mancanza,
più di
sempre.
Più
di quando metto
in ordine l’armadio e ritrovo quella maglietta, che oramai
non mi va più.
Più
di quando vedo
una tua fotografia sul giornale di cui hai la rubrica.
Più
di quando vado
agli incontri con i nostri amici e tu non vieni, perchè sei
impegnata!
Sempre
Jane.
Sempre
mi manchi.
E
ancor di più quando
vedo qualcosa- qualsiasi cosa- di rosso.
Era
il tuo colore
preferito, ricordo.
È
il colore della mia
maglietta.
Era
il colore della
gonna che avevi quella sera.
Quando,
presi il
coraggio a due mani, e te li dissi.
Ti
dissi tutti, ma
proprio tutti i motivi per cui ti lasciavo.
Ti
lasciavo perché
dovevo partire.
Ti
lasciavo perché
non volevo restare qui.
Ti
lasciavo perché mi
saresti mancata troppo.
Ti
lasciavo perché ti
amavo.
Che
cosa squallida.
Eppure
è successo.
Eppure
era quel che
in fondo ti stavo dicendo.
Ricordo
che urlasti,
cosa non ne ho idea.
Ricordo
che scappasti
via dalla festa e non ti rividi fino a quel dannato giorno.
Tu,
tra i fili di
grano che tanto amavi ed io, pronto a salire sul taxi che mi avrebbe
portato
lontano da tutto...lontano da te.
Ci
guardammo un’ultima
volta per un paio di secondi, poi, la macchina partì.
Ed
ho ben impressa
l’immagine di una ragazza che con un leggero vestito rosso e
con i capelli
mossi dal vento, tra il grano del mio campo, mi guarda.
Poi
le mani strette a
coppa contro al viso, e la fuga.
Ero
partito, l’avevo
fatto davvero.
Ti
avevo lasciato,
Jane.
In
quel posto che
odiavamo entrambi, che non ci dava futuro.
Di
cui avevamo
discusso a lungo, ed avevamo deciso di scappare insieme.
Ed
invece, arrivò
quella borsa di studio ed io ti abbandonai.
Fui
egoista, lo
ammetto.
E
tu non me lo
avresti mai perdonato.
Continuai
a ripetermi
questo concetto in mente un milione di volte, prima di arrivare
all’aeroporto.
Poi,
tutto ciò che
venne dopo, ora è quasi...sbiadito per me.
È
strano da descrivere...come
se non l’avessi vissuto a fondo.
Come
se avessi
premuto il tasto FFW e la mia vita abbia viaggiato così
velocemente da non
accorgermi di cosa accadeva intorno a me.
Ed
eccomi dopo dieci
anni a rimpiangere una vita che avrei potuto avere.
Seduto
su quei
gradini che conoscono ogni nostro segreto, per svelare anche questo.
Ti
amo ancora Jane.
Non
so quando me ne
sono reso conto, non so per quanto tempo lo sto nascondendo, non so
nemmeno se
riuscirò ad avere la faccia tosta di tornare da te.
Non
so, Jane.
So
solo che questa
tazza di the, è fredda senza te.
So
che senza te, il
vento tra il grano urla parole che non conosco, e che non
riuscirò mai più ad
andare per negozi sotto Natale.
Questa
notte, non è
poi così stellata e le lucciole non sono poi così
magiche.
Il
rombo del motore
della macchina di tuo padre però, mi pare quasi di sentirlo.
Chiudo
gli occhi, per
immergermi in quel ricordo, che sembra così vivido.
Il
rombo si ferma.
Rumore
di una
portiera che sbatte.
Colpo
di terrore
“Non
hai avvisato.”
Colpo
di rabbia.
“È
tardi.”
-
George?
La
tua immagine
sembra quasi irreale.
Come
se fossimo in un
cartone animato.
Come
se questa fosse
solo un’altra delle mie fantasie e tu non fossi davvero
dinnanzi a me.
Non
riesco a
proferire parola, accecato dalla tua semplicità, da modo in
cui tieni i capelli
legati alla base della nuca.
Vorrei
poterli
toccare. Questo mi viene in mente.
Ma
cosa posso dirti,
ora?
Dopo
tutto quello che
ti ho fatto.
-
Vuoi una tazza di
the?
Non
sembri
arrabbiata.
Mi
sorridi e ti siedi
accanto a me, stringendo le gambe al petto, come facevi da bambina, per
non far
gonfiare il tuo vestito - allora come ora - rosso.
Ignori
la mia
domanda.
-
Come va la vita
nella grande città?
-
Bene. Eppure quando
torno qui, sento la nostalgia di questo posto. È sempre
bellissimo.
-
È vero. Mi
dispiace. Ho…saputo di tuo padre.
Annuisco.
-
Per fortuna è
successo nel sonno. Almeno non ha sofferto.
-
Già.
La
sera sta calando
ormai.
Vediamo
la prima
lucciola emergere dal campo e rimaniamo entrambi incantati.
Poi
lo spettacolo che
rivedo solo nei miei ricordi di ragazzo, mi si materializza davanti
agli occhi.
È
stupendo ed è come
ricordavo.
È
incredibile come
certe cose non cambino mai.
Il
campo sembra
prendere vita, il vento si fa più forte, ma forse
è solo il mio cuore che ha
accelerato i battiti.
Minuscole
luci dorate
si alzano contemporaneamente quasi, fatte a posta per far godere noi,
di quel
meraviglioso spettacolo.
Danzano
insieme, si
incrociano, si allontanano, volteggiano nel buio della notte, che
ancora una
volta fa da palcoscenico alla loro innata bellezza.
Quasi
mi dimentico
della tua presenza, troppo preso da ripercorrere con la mente momenti
che
sembravo aver dimenticato.
Io
da bambino che
cercavo di raggiungerne una e catturarla.
Mia
madre che mi richiamava.
Non potevo spezzare il ritmo, distruggere la magia.
Era
vietato.
Quella era la danza delle fate, mi diceva sempre.
Ancora
non parli,
quando le lucciole cominciano a dileguarsi, forse per cercare cibo.
Io
lancio delle
occhiate dalla tua parte, ma sembri concentrata su qualcosa.
Forse
un ricordo.
Forse
di noi due.
-
Questo ce l’hanno
anche lì? Nella grande città?
Questa
volta le tue
parole sono aspre, ironiche quasi.
-
No.- ammetto, senza
riuscire ad aggiungere altro.
Ridacchi,
senza
ilarità.
-
Lo immaginavo.
Piomba
nuovamente il
silenzio, solo che questa volta è più pesante del
precedente.
-
Sai, ho pensato a
lungo a cosa mi dicesti quel giorno...-
La
gola mi si secca
improvvisamente.
-
Cosa intendi dire?
-
Forse avevi ragione
tu. Restare qui, ti avrebbe rovinato. Ma avrebbe rovinato anche me- fa
una
pausa, per voltarsi a guardarmi- Non mi chiedesti se avessi voluto
venire con
te.
Sono
spaesato,
spaventato dalla piega che ha preso la conversazione, e ammetto di
essere
terrorizzato di aver fatto un grosso errore.
Per
paura di farne un
altro, preferisco tacere, che è meglio.
-
Io ci sarei venuta
George. Ti avrei seguito anche in capo al mondo...se solo me
l’avessi chiesto.
Non
provo neanche a
trovare una scusa decente, un banale “mi dispiace”,
che tu scappi via.
Mi
dispiace Jane.
Io...non
credevo.
Io...non
ho pensato.
Sono
stato stupido,
ma avevo solo diciotto anni e volevo scappare da qui...mi dispiace.
Tu
non immagini
quanto.