Paper and Ink

di SeleneLightwood
(/viewuser.php?uid=116329)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inkheart ***
Capitolo 2: *** On written skin ***
Capitolo 3: *** They'll fade ***
Capitolo 4: *** Blinding Lights ***



Capitolo 1
*** Inkheart ***


What happens when you fall in love with someone who doesn’t actually exist?

“I feel like your waste of paper”. I think I kind of fell in love with you when you were just paper, Kurt.

“Come here, Inkheart".

“At least we see the stars”

"Everybody should do it, now and then: you should take a book from the shelf, open it in the middle and close your eyes while you take a deep breath. And here it is. Paper and ink".

“You can’t buy happiness. But hey, you can buy books, and that’s kind of the same thing”.

 

There are times when Blaine can still smell paper and ink on Kurt’s skin.

 

dfg

 

 

 

A G e M, che non lo sanno, ma sono una costante fonte di ispirazione. Se ce l'hanno fatta loro, posso farcela anche io.

E a Ila, perché mi sopporta. 



PAPER AND INK

 

Uno

sdf



*



Dicevano che l'olfatto fosse, dei cinque sensi, il primo a svilupparsi.

Forse era per quello che il primo ricordo che Blaine possedeva era l'odore delle copertine polverose dei libri ordinatamente riposti sugli scaffali color crema dell'Inkheart, la piccola libreria gestita da sua nonna Christine.

Cuore d'inchiostro.

Da bambino si soffermava spesso ad ammirare l’insegna di legno lucido, a pensare che fosse un nome semplicemente perfetto: quella vecchia libreria indipendente racchiudeva tra le pagine dei libri il cuore e l’anima di un intero universo. O almeno così gli piaceva pensare.

Blaine amava immaginare il suo nome su una di quelle meravigliose copertine rigide o un bambino con in mano il suo libro di favole; era un po’ come consegnare un pezzo della propria anima nelle mani di qualcun altro.

Non era stata affatto una sorpresa quando aveva annunciato di voler diventare uno scrittore, come potrete ben immaginare. Dopotutto aveva passato la maggior parte della sua infanzia tra vecchi libri d'avventura  e antiche macchine da scrivere, assorbendo l'odore delle pagine fresche di stampa e il profumo dell'inchiostro non del tutto asciutto fino a rendere quel mondo così intrigante una parte di sé troppo grande per potervi rinunciare.

La vera sorpresa era stata scoprire ad un passo dal diploma che suo padre non lo avrebbe supportato nelle sue scelte.

 

Segreteria Telefonica del 19 Aprile 2012

Speeeeak*.

“Blaine, sono io, mamma. Non capisco perché accidenti hai sempre il telefono irraggiungibile. Sei di nuovo al negozio della nonna? Tuo padre ti vuole puntuale per cena, non dimenticarlo. Dì a Christine che la sua macchina la porteremo a riparare quando abbiamo tempo, ok?” 

 

"Smetti di giocare al narratore di favole, Blaine" gli aveva detto l’uomo una sera a cena in tutta tranquillità, come se non stesse strappando in mille pezzi il suo sogno una parola alla volta. Sua madre aveva gli occhi lucidi ma taceva. Come sempre.

"Voglio che tu scelga un lavoro dignitoso, come il ragioniere, nonostante la tua...condizione”. Omosessualità. Dillo, papà, non ti ucciderà. “Non hai la tenacia necessaria a sfondare nel mondo della letteratura, ti stufi terribilmente in fretta delle cose, ragazzo, e non ho intenzione di pagarti l'università per vederti gettare al vento l'azienda di famiglia”.

Scrivo da tutta una vita, tu non hai idea. Non puoi togliermi anche questo. “Così sei solo uno - uno spreco di carta, figliolo".

Se John Anderson si riferisse ad un effettivo spreco di denaro contante o direttamente alle sue attività letterarie, Blaine non lo seppe mai: quella sera stessa passò la polizia ad avvisarli che Christine Anderson, sì, siete voi la sua famiglia?, aveva avuto un incidente d'auto ed era morta sul colpo.

Suo padre rilevò l'Inkheart e quattro miseri giorni dopo affittò i locali ad una giovane coppia, la quale decise di aprirvi una caffetteria.

Mentre guardava dall'altro lato del marciapiede la ditta di trasloco intenta a impacchettare rudemente libri su libri Blaine non aveva potuto fare a meno di pensare, arrabbiato, deluso e ferito, che quella fosse la fine del Cuore d'Inchiostro.

Del suo, di cuore di inchiostro, quello nascosto nel petto che continuava a mantenere il suo ritmico tumptumptumptump anche quando, dopo la morte di Christine, non era più riuscito a scrivere; anche mentre i fogli di appunti giacevano abbandonati sulla scrivania.

Anche se la lettera d'accettazione al corso di letteratura della NYU non era altro che - uno spreco di carta?

Quel cuore continuava a battere solo perché non poteva semplicemente fermarsi. Fino all'apertura del testamento, almeno.

 

Segreteria Telefonica del 19 Maggio 2012

Speeeeak.

“Blaine, sono io, mamma. Devi – devi venire dal notaio, tu – vieni e basta. Sei in giro con Sebastian come al solito? È importante, riguarda il testamento di Christine. Sbrigati.”

 

Sua nonna gli aveva lasciato in eredità due milioni di dollari e un libro.

Tipico di Christine, comunicare con il proprio nipote in modi che nemmeno lui avrebbe potuto  comprendere: sulla prima pagina di As the light slowly dies, meravigliosamente ingiallita e rovinata dal tempo, proprio sotto al titolo in Courier New, c'era una dedica scritta a mano.

"Non rinunciare mai al Cuore d'Inchiostro, Blaine, nemmeno quando è il Cuore d'Inchiostro a rinunciare a te. Christine

Blaine aveva fissato la scrittura spigolosa di Christine per ore, cercando di imprimere nella memoria la curva soffice delle elle, quel suo particolare modo di tracciare le erre o la firma semplice ed obliqua nel disperato tentativo di cancellare gli strilli di suo padre riguardo all’utilizzo che avrebbe fatto dell’eredità.

Non aveva pianto.

Aveva passato quella nottata a pancia in su, invece, disteso sul letto a cercare di interpretare le parole della donna. Non si riferiva al locale, lo sapeva. Christine era stata, di fatto, l'unica persona ad incoraggiarlo nel perseguire il suo sogno sempre e a qualsiasi costo, l'unica che sembrasse capire perché Blaine desiderasse passare il resto della propria vita a riempire intere pagine di parole, l’unica che condividesse quel suo bisogno bruciante di raccontare una storia.

Quel cuore d'inchiostro era il modo in cui lei era solita riferirsi all'amore per la scrittura di suo nipote: perché avrebbe dovuto rinunciarvi? Era un richiamo al quale non poteva sottrarsi nemmeno volendo.

Così l'estate dopo il diploma Blaine aveva cercato un minuscolo appartamento a New York City, aveva detto addio all'Inkheart - dove la pallida insegna Tavola Calda da Rufus e Mary aveva sostituito quella allegra tutta ghirigori della libreria - e si era trasferito, mandando al diavolo l'azienda di famiglia e tagliando i ponti con suo padre sulla soglia di casa a soli diciott’anni, senza essere davvero in grado di cancellare le sue parole.

Sei solo uno spreco di carta.

Di quante altre cose era stato solo uno spreco, per quell’uomo, esattamente?

 

Segreteria telefonica del 1 Settembre 2012

Speeeeak.

“…B-Blaine? Sono io, mamma. Ti trasferisci o-oggi, non è vero? Hai il telefono s-spento. Perché hai sempre il telefono spento? Tuo padre ha buttato l’indirizzo che ci hai lasciato m-ma l’ho recuperato. Perché mi hai lasciato da sola? Sto b-blaterando, scusa. Mi dispiace, Blaine, mi dispiace. Christine non avrebbe voluto questo, e cosa dirà Cooper? Lei voleva bene a tuo padre, e io non posso non- Blaine, questa è la mia ultima chiamata, e ti-

Bip.”

 

La prima notte che aveva passato da solo nel nuovo appartamento a New York, ad inizio settembre, era stata dolorosa e l’aveva lasciato sveglio per ore a sfogliare una serie di rimorsi e rimpianti: era servito che sua nonna morisse perché lui si decidesse a cercare di realizzare il proprio sogno nonostante suo padre lo ostacolasse e sua madre fosse troppo debole per fare qualsiasi cosa. Il suo ultimo messaggio in segreteria non era stata una sorpresa; Blaine si era chiesto se fosse normale che se l’aspettasse. Le voleva bene, naturalmente, non si smette di amare un genitore dalla mattina alla sera; e sì, un giorno sperava di poter riallacciare i rapporti con lei e persino con suo padre. Solo che ora doveva cavarsela da solo.

Tuttavia, invece che cercare conforto in una tisana, nel programma di letteratura della NYU o addirittura nella scrittura, quella notte aveva raggiunto il borsone ed estratto il libro di sua nonna.

L'aveva aperto e avvicinato al viso e, mentre respirava piano, aveva pensato che la gente avrebbe dovuto farlo più spesso, questo: chinarsi sulle pagine e prendere un profondo respiro, assaporando il profumo di carta e inchiostro.

Nonostante tutto sapeva ancora di casa.

 


 

 

Christine diceva sempre alle sue amiche che Blaine possedeva un cuore d’inchiostro perché credeva fermamente che per poter scrivere fosse necessario mettere a nudo i propri sentimenti. Non che Blaine ci riuscisse davvero – anzi, solitamente tendeva a schermarli dal resto del mondo, l’esatto opposto – ma lei sembrava convinta che il nipote avesse, nascosta in fondo, questa capacità di imprimere nella carta, con quel tratto nero, non solo le parole ma anche il cuore.

 

Doveva solo riuscire a trovarla ma la ricerca si stava rivelando ogni giorno più ardua.

 



New York City, East Village,

22 settembre 2013

 

"Ti dico che appropinquarsi è un termine decisamente più appropriato di avvicinarsi" insistette Sebastian dall'altro capo del telefono, cercando di sovrastare con la propria voce il rumore del traffico newyorkese. Da cantante con le corde vocali particolarmente allenate, non gli riusciva poi così difficile. “È una parola figa”.

Blaine si prese il viso tra le mani per non cedere all'impulso di sbattere la testa sulla tastiera fino a farsela sanguinare. Il portatile di fronte a lui sembrò quasi lanciargli uno sguardo di rimprovero e pietà.

"Sì, escludiamo il fatto che appropinquarsi sia un termine ripugnante per un romanzo e che le tue competenze letterarie sono pari a quelle di un bradipo che si è fatto di LSD. Non è un sinonimo che cambierà le cose, sai? Non c'è niente da fare" sospirò appoggiando la fronte contro il palmo della mano. "Il capitolo di certo non si scriverà da solo, e nemmeno il saggio sull'importanza della Didattica. Faccio schifo".

Sebastian gridò un paio di macabri insulti in francese contro un'altra auto prima di riportare l'attenzione su di lui. Era un guidatore molto… rumoroso.

"Sono tre giorni che sei chiuso in casa sopra quelle cinque righe spelacchiate" gli fece notare il suo migliore amico con un vago tono di rimprovero. “Quand’è stata l’ultima volta che siamo andati ad una festa? Te lo dico io: l’anno scorso. Ti sei almeno fatto una doccia? No, non rispondere”.

“Lo so, lo so” borbottò Blaine, raccogliendo la tazza di caffè ormai vuota e abbandonando la sua postazione per sbirciare fuori dalla finestra. In autunno la luce della tramonto aveva su New York un effetto da mozzare il fiato.

“Però non me la sento di uscire, Bas, te l’ho detto, specialmente per un ridicolo party, senza contare che domani ho addirittura lezione alle otto di mattina. E poi non puoi convincermi a fare qualsiasi cosa ti passi per la testa”.

“Quest’estate in Ohio ti ho convinto a salire su una torre idrica” gli fece argutamente notare l’ex Warbler.

Sebastian”.

Sebastian emise un sospiro contrariato ma non disse nulla. Blaine non aveva bisogno che parlasse, grazie tante, si faceva pena anche da solo.

Non aveva ancora compiuto diciannove anni, viveva a New York da un anno ed era single.

Non che l’ultima voce dell’elenco fosse fondamentale. Aveva avuto un ragazzo al liceo ma non era stato niente di importante, né era durato molto. Solo esperienza. Certo, di ragazzi carini e disponibili in Ohio ce n’erano a bizzeffe – Sebastian era il suo migliore amico, quindi non contava – ma nessuno aveva mai attirato abbastanza la sua attenzione, così erano rimasti solo lui, gli Warblers e le sue amate pagine. Persino ora che frequentava il college le cose non erano cambiate: preferiva la compagnia di un libro ad una festa alcolica. Un potenziale sfigato, insomma.

Solo che era diventato tutto terribilmente difficile, perché aveva perso – aveva perso l’ispirazione.

Da quando si era trasferito nella Grande Mela e aveva iniziato a frequentare la facoltà di Lettere alla New York University non era più riuscito a scrivere, o almeno non in maniera decente. Le lezioni erano fantastiche, le amava ed erano terribilmente stimolanti ma erano durissime ed ogni volta che apriva il portatile e tentava di scrivere qualcosa di suo si bloccava.

E poi c’era il suo romanzo, ricco di trama eppure ancora privo di un titolo, lasciato a metà. Scriveva tre righe al giorno, le rileggeva e le cancellava, disgustato. Passava notti intere a cercare un titolo. Il coro del McKinley? Will Schuester e i suoi ragazzi? Quegli sfigati? Glee?

Era diventata quasi un’ossessione, più che una sfida. Una procedura che si ripeteva senza fine, un dolore fisico il non poter continuare. Perché non riusciva a dargli un titolo? Perché si bloccava ogni volta?

Ultimamente pensava sempre più spesso che sua nonna si fosse clamorosamente sbagliata e che suo padre avesse sempre avuto ragione: forse davvero non aveva la tenacia adatta a questo genere di lavoro.

Magari era la solitudine: avere Sebastian come unico amico – o quasi – in tutta la città aveva i suoi lati positivi ma anche quelli negativi. Tutti gli amici che si era fatto alla Dalton o tra gli Warblers erano sparsi per l’America. Wes era addirittura finito a studiare medicina a Londra.

Così il libro che cercava di portare avanti da una vita se ne stava lì, a fissarlo dal tavolino da caffè, in attesa di essere scritto.

Persino il protagonista della sua storia sembrava ribellarsi a lui, come se si rifiutasse di seguire il corso degli eventi, ormai non tanto chiari nemmeno nella sua mente. Non era una favola felice, certo, ma neppure triste. Era semplicemente realistica e Blaine avrebbe tanto voluto portarla a termine e trovare un editore disposto a pubblicarla.

Prima però doveva scriverla, e il suo personaggio principale non collaborava.

“Senti” ringhiò Sebastian dopo che il telefono ebbe riportato il suono metallico di una brusca inchiodata e dell’ennesima imprecazione in francese. Blaine si preparò al peggio. “Ora scendo e prendo regalmente a pugni questo cazzo di tassista. Ti do altri tre giorni, Anderson, non un minuto di più, dopo di che mi fai leggere la porcata di capitolo che hai buttato giù e ci lavoriamo insieme. Ti farò resuscitare entro tre giorni, o la considererò una sconfitta personale”.

Prima ancora che potesse acconsentire con un sospiro Sebastian gli attaccò in faccia, lasciandolo solo con il ritmico tu tu tu tu tu della linea ormai persa e i suoi cupi pensieri.

 


 

 

Una volta Sebastian l’aveva convinto a salire fino in cima alla torre idrica a qualche chilometro da Westerville nel cuore della notte solo per chiedergli, una volta lassù, come andasse la sua crisi da pagina bianca.

 

Segreteria Telefonica del 23 Agosto 2012

Speeeeak.

“Oh, per l’amor di dio, Blaine. Sono io, mamma. Spero per te che non fosse Sebastian quello alla porta. So che è sconvolto per i suoi fratelli, ok, ma ti sta trascinando nel burrone con sé! Ti sembra il momento di sparire così, nel cuore della notte, con la situazione familiare in cui ci troviamo? Cos’è, stai cercando di indispettire tuo padre? Smettila di fare i capricci e torna a casa. Possiamo parlarne, se solo smetteste di urlarvi contro ogni cinque minuti. Vuole solo il tuo bene e quello della nostra famiglia. Vuoi fare la fine di Cooper? Torna a casa appena senti il messaggio, ok? Ma che parlo a fare, tanto non li ascolti mai”.

 

Era passato poco tempo dal funerale di Gustave e Camille ed entrambi erano ancora incatenati in quel periodo di incertezze, paure e rimorsi che veniva subito dopo il diploma, prima del trasferimento a New York. Sebastian stava dando il peggio di sé in quei mesi ma durante quei pochi momenti di lucidità in cui non era ubriaco o stava dormendo Blaine riusciva a intravedere un’ombra di quello che era stato il suo migliore amico.

Era allora che riusciva a sentire la speranza che quel ragazzo non fosse del tutto scomparso, soffocato dai sensi di colpa e dal dolore.

“Non va. Non ho scritto nemmeno una riga” aveva risposto Blaine sinceramente, prendendolo per un gomito per tirarlo indietro. “Bas, soffri di vertigini. Perché siamo quassù?”

Sebastian aveva alzato le spalle. “Se stai aspettando che me ne esca con una patetica frase da emo tipo le vertigini sono solo voglia di volare puoi anche scendere direttamente dal parapetto. E comunque lei adorava venire qui”.

Blaine l’aveva osservato a lungo. “Beh” aveva commentato infine, appoggiando i gomiti al metallo freddo che li divideva dal vuoto e lasciando che il vento gli scompigliasse i capelli. “Almeno qui si vedono le stelle”.

 


 

 

New York City, East Village,

22 Settembre 2013

 

Blaine quella sera non aveva cenato. In realtà non si era mosso dal divano nella vana speranza che fissare il file aperto di word senza battere le palpebre neanche una volta lo avrebbe portato ad avere chissà quale improvvisa illuminazione sul punto in cui si era bloccato.

La verità era che non aveva fatto altro che fargli venire gli occhi rossi e gonfi di stanchezza e procurargli un rimprovero dalla sua vicina vecchia e completamente pazza, Meg Giry, che allevava piante carnivore e lo sgridava per via del troppo poco rumore almeno una volta al giorno.

“Il ragazzo scivolò lentamente lungo l’armadietto fino a finire seduto a terra, aggrappato alla tracolla della sua borsa di pelle come un’ancora. Fissava la schiena del giocatore di football troppo”, erano le ultime frasi che aveva scritto. Non aveva idea di come continuare, di che parole usare. E, dannazione, quella frase risaliva al pomeriggio precedente alla morte di Christine.

Da lì in poi il buio, come se insieme a sua nonna se ne fosse andata anche la sua bravura, lasciandolo solo con un migliore amico infelice e depresso e nient’altro che un avvertimento sulla prima pagina di un vecchio libro.

"Non rinunciare mai al Cuore d'Inchiostro, Blaine, nemmeno quando è il Cuore d'Inchiostro a rinunciare a te. Christine"

Frustrato, afferrò il foglio stropicciato con gli appunti sulla trama e vi scrisse sopra a caratteri cubitali il nome del protagonista, come se poter guardar male quelle dieci lettere potesse in qualche modo sbloccare la sua situazione.

Suo padre aveva ragione, aveva deluso sua nonna, aveva deluso se stesso.

“Sei solo uno spreco di carta” ripeté al foglio con amarezza, quasi aspettandosi di vederlo protestare, di sentirsi rispondere ‘no, tu lo sei’. La cosa non lo fece stare affatto meglio, anzi: pesava come se fosse la verità. Era un fallito.

Si chiese cosa avrebbe pensato di lui il protagonista, davanti al quale nel corso della storia aveva posto una difficoltà dietro l’altra, una sofferenza per ogni piccola conquista. Probabilmente avrebbe riso di lui. Se fosse stato reale lo avrebbe odiato, se non altro per ciò che gli aveva fatto patire.

Un lampo, fuori dall’ampia finestra della sala, squarciò il cielo.

Alla fine Blaine optò per andare a farsi una doccia e abbandonare il lavoro almeno per un po’ – rivaluti l’utilità del getto d’acqua bollente quando scopri di poterci nascondere lacrime su lacrime – e si spogliò con disattenzione, impaziente di poter sciacquare via parte della tensione.

Iniziò a piovere proprio in quel momento e lui quasi non ci fece caso.

Rimase sotto al getto caldo e rilassante finché non esaurì tutte le lacrime di rabbia che aveva da versare e la lieve pioggerellina che aveva colpito New York non si trasformò in un temporale.

Stava per uscire dalla doccia e tornare ad una realtà più asciutta quando sentì il primo rumore provenire dal soggiorno, come di una tazza che cadeva.

Sebastian, grazie a Dio, non era mai riuscito a rubargli le chiavi dell’appartamento per farne una copia ed intrufolarsi a suo piacimento, e Blaine non aveva animali domestici. Un altro rumore, stavolta più somigliante ad un gemito soffocato, giunse tremolante fino alla porta del bagno.

Ci manca solo la rapina finita in tragedia.

Cercando di mantenere la calma – non posso morire, non ho finito di scrivere la storia – chiuse l’acqua e si avvolse un asciugamano intorno alla vita senza perdere tempo ad asciugarsi.

Afferrò il primo oggetto a portata di mano vagamente somigliante ad un’arma– una spazzola, se fosse sopravvissuto Sebastian l’avrebbe preso in giro per anni. Ma cosa avrebbe potuto usare, il tubetto del gel? – e aprì lentamente la porta della sala, immersa nel buio e illuminata fiocamente solo dal lampione fuori dalla finestra.

Per poco non gli cadde la spazzola di mano per lo spavento.

Al centro della stanza, in piedi vicino al tavolino da caffè, c’era un ragazzo.

Stringeva in una mano il suo foglio degli appunti e aveva come delle cicatrici cosparse su ogni punto visibile di pelle, perfino in alcune parti del viso. Un’impossibile quantità di liquido scuro e viscoso colava dai suoi vestiti fino al pavimento, tanto che per un istante Blaine pensò che fosse sangue, e il ragazzo lo stava fissando con degli enormi, terrorizzati occhi blu.

L’idea che potesse trattarsi di un ladro scivolò via dalla sua mente in fretta, sostituita da una ben più assurda.

Lui quegli occhi li conosceva.

C’erano volute ore e ore per deciderne il colore, la forma, ogni singola sfumatura. Li aveva descritti con tanta cura da arrivare a sognarli.

Conosceva quel ragazzo e non perché era un amico d’infanzia, un parente o un vecchio compagno di scuola.

Era Kurt Hummel.

Kurt Hummel che non esisteva perché era il protagonista del suo romanzo ma che in quell’esatto istante si trovava nel suo salotto e stava sgocciolando inchiostro sul pavimento, più reale che mai.

 



 

 

Note dell’Autrice


*speeeeak: se qualcuno ha visto Rent il musical (versione film con Idina Menzel, per capirci), saprà che è la frase che introduce i messaggi in segreteria telefonica di Mark & Roger!

Bene, cercherò di essere breve! Bentornati a tutti! So che questo primo capitolo vi lascerà un po’ perplessi – scioccati.

Sì, Blaine sta scrivendo la storia di Glee. Sì, Kurt è il protagonista. Sì, Kurt non esiste.

Detto questo, un paio di cose da chiarire:

1 – questa storia è una Klaine. Sebastian è il migliore amico di Blaine e ricoprirà un ruolo estremamente importante nella storia (vedrete, ahahaha). In ogni caso, non ci saranno interazioni romantiche né con Blaine né con Kurt. Questo lo chiarisco subito perché è giusto che sappiate cosa andrete a leggere J

2 – Christine, la nonna di Blaine, deve il suo nome a Christine del Fantasma dell’Opera. Stessa cosa per Meg Giry!

3 – Per non complicarvi la vita con i salti temporali (e per non complicarla a me stessa) vi consiglio di leggere le date dei messaggi in segreteria telefonica, che introducono sempre un pezzo del passato, o le altre date, che introducono sia il luogo sia il giorno corrente, e chiaramente quello è il presente. Spero si capisca!

4 -  La storia sarà interamente dal punto di vista di Blaine, ma Kurt avrà modo di far sapere la propria opinione, vedrete!

5 – La storia è romantica, è un po’ angst ma niente di insopportabile, e personalmente non so che dire, se non che ci sto mettendo l’anima, e che sto facendo del mio meglio.

I soliti ringraziamenti vanno a Medea00 (Farina), che si deprime con le trame delle mie storie, a Rin che mi sostiene sempre nei miei scleri, e a Elisa che ha fatto da voce del popolo e letto i primi pezzi della storia in anteprima.

E naturalmente a Ila, che si becca sempre una menzione a parte perché sì.

Bene. Penso di aver detto tutto. AH, il mio giorno di aggiornamento (?) è il GIOVEDI’. Quindi ci si vede la settimana prossima con il secondo capitolo!

Fatemi sapere cosa ne pensate, cruciatemi, ditemi che fa schifo, quello che volete.

 

Selene






Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** On written skin ***


sdfd

 

 

 

PAPER AND INK

 

 

Due 


sddfh



*



New York, East Village

22 settembre 2013

 

Non appena Blaine si riscosse ed ebbe la prontezza di riflessi di accendere la luce, il ragazzo al centro della stanza sobbalzò come se fosse stato colpito da una scarica elettrica. 

La possibilità di osservarlo chiaramente non lasciava spazio a molti dubbi: per quanto la cosa fosse sconvolgente e il suo cervello si rifiutasse di ammetterlo – tu sei pazzo, Anderson, devi essere scivolato sotto la doccia e aver preso una bella botta in testa – sotto allo strato di inchiostro che gli macchiava la pelle e le cicatrici scure che la percorrevano c’era Kurt.

Ma Kurt non esisteva, non era mai esistito: era frutto della sua immaginazione, una creatura nata dalla sua mente che aveva preso sulle proprie spalle il peso di una storia da raccontare attraverso un libro. Nulla più.

Eppure più reale di così, immobile ed impaurito al centro del suo soggiorno, proprio non poteva essere.

Blaine  ricordava di aver aggiunto i dettagli dell'aspetto fisico del protagonista del suo romanzo quasi per caso; sovrappensiero, ecco, facendo scivolare le descrizioni tra una frase e l'altra come se la penna, come se le sue mani sulla tastiera, fossero guidate da qualcun altro.

Ora quelle  risultavano essere alcune delle caratteristiche fondamentali di – beh, Kurt?, tanto che l'avrebbe riconosciuto ovunque: il naso all'insù, gli occhi chiari come l’acqua ed altrettanto incredibilmente luminosi, dal taglio un po' obliquo, la linea perfetta della mascella, le labbra sottili.

Persino i vestiti che indossava e il modo in cui gli occhi si arrossavano quando era spaventato o stava per piangere lo rendevano così terribilmente Kurt Hummel da fargli quasi paura.

Era come se fosse saltato fuori da solo dall'ultimo capitolo, o direttamente dalla sua mente.

Sicuramente stava sognando. Non era possibile.

Non era. Non.

Lo era?

Non era possibile che tutto quello fosse vero, eppure c'era un ragazzo stupendo, incredibilmente identico al suo protagonista, che lo fissava impaurito e spaesato dal suo angolino vicino al tavolo, e Blaine indossava nient'altro che un asciugamano in vita. Ed era armato di una spazzola.

Tutto divenne terribilmente reale quando il primo singhiozzo scivolò dalle labbra del ragazzo – Kurt, Dio, è Kurt - e questi fece un passo indietro, forse nel tentativo di scappare, chissà.

Non riuscì ad andare da nessuna parte: le ginocchia gli tremavano talmente tanto che quando tentò di spostarsi non seguirono il movimento e non ressero più il suo peso: scivolò in ginocchio e si accucciò ai piedi del divano, singhiozzando più forte.

Blaine rimase immobile come una statua ad osservare il modo in cui il ragazzo si avvolse le ginocchia con le braccia, come per proteggersi, senza avere la più pallida idea di cosa fare. Non esisteva nessun protocollo in grado di spiegare come comportarsi quando il tuo protagonista salta fuori dal libro che stai scrivendo e finisce per avere un crollo psicologico nel tuo soggiorno.

"Oh, Dio” rantolò Kurt chiudendo gli occhi. Lasciò che le prime lacrime gli scivolassero lungo le guance e affondò il viso nell’incavo che si era creato tra il suo petto e le ginocchia.

Fu la sua voce rotta, spezzata, sbagliata eppure in qualche modo stupenda a svegliare Blaine dal suo stato di shock. Poteva essere lui come poteva non esserlo, ma era pur sempre reale e forse era persino ferito.

Che diavolo stava facendo ancora lì in piedi?

La spazzola gli sfuggì dalle mani e finì a terra con un tonfo. Blaine scattò in avanti e cadde in ginocchio davanti al ragazzo, sollevando le mani e lasciandole a mezz’aria senza sapere come avrebbe reagito l’altro se avesse provato a toccarlo.

“È tutto ok” provò a gracchiare debolmente nonostante la gola fosse chiusa in una morsa e il suo intero corpo dolesse per l’improvvisa necessità di toccarlo e assicurarsi che stesse bene. Non lo conosci neanche.

“Sei al sicuro, non voglio farti del male” aggiunse, spostando freneticamente lo sguardo lungo il corpo di fronte al suo alla ricerca di ferite o sangue. Cerca di mantenere la calma, non è il momento di dare di matto. Non ora, Blaine.

Kurt – forse, sottolineò la sua mente con testardaggine – fu scosso da un brivido e si strinse di più le braccia intorno al corpo, cercando di appiattirsi contro il divano il più possibile mentre i suoi respiri veloci erano spezzati dal pianto.

Aveva un attacco di panico.

E Blaine sapeva cosa fare, doveva riuscire solo a-

“Va tutto bene” ripeté cercando con difficoltà di mantenere un tono calmo e rilassante, quasi conciliante, e allo stesso tempo ignorare la voce nella sua testa che gli gridava che era pazzo. “Non può succederti niente, qui sei al sicuro. Devi aiutarmi, però, ok? Fai dei respiri profondi”.

Kurt all’inizio singhiozzò più forte ma dopo mezzo minuto in cui Blaine continuò a sussurrargli “È tutto ok” come un mantra, stando attento a non toccarlo, riuscì a prendere un respiro tremolante, quasi inaudibile al di sopra del rumore della pioggia. Blaine osservò attentamente mentre il ragazzo lo lasciava scivolar via dalle proprie labbra insieme ad un singhiozzo.

Stava cercando di seguire le sue direttive. “Sì, così, perfetto. Inspira, respira. Piano” ordinò dolcemente. I muscoli di Blaine stavano finalmente riprendendo sensibilità e avrebbe voluto sospirare di sollievo, ma la strada era ancora lunga e non sapeva se lui fosse ferito o meno, perciò cercò di stamparsi in faccia il più convincente e sereno dei sorrisi e si avvicinò appena.

“Ci stai riuscendo, ottimo, continua così. Ora però devi aiutarmi. Ho bisogno che sollevi il viso. Continua a respirare e tira su la testa lentamente, ti farà stare meglio. Fidati di me”.

Quante volte aveva ripetuto quelle parole a Sebastian durante uno dei suoi terribili attacchi di panico? Quante volte era riuscito a calmarlo?

Continua così, respira. È tutto ok. Fidati.

Sperò che il ragazzo lo ascoltasse. Se era quel Kurt, ‘fidarsi’ sarebbe stato molto più difficile del previsto.

Lui riprese a tremare ma, dopo un momento di indecisione che lasciò cadere il cuore di Blaine dal petto al fondo dello stomaco, spostò di poco le braccia e alzò impercettibilmente il viso.

Quando quello sguardo azzurro spuntò da sopra le sue ginocchia a Blaine quasi girò la testa: il ragazzo aveva gli occhi arrossati e spalancati dalla paura, eppure continuò a prendere respiri tremanti e vigili. Non sembrava intimorito dalla vicinanza di Blaine, ma lui non si azzardò comunque a toccarlo. Probabilmente non aveva idea di dove si trovava, né di come ci era arrivato.

“Va tutto bene” ripeté per la millesima volta sorridendogli con dolcezza. “Visto? Respiri molto meglio”. Kurt lo fissò mordendosi il labbro con forza. Un debole cenno di assenso fu tutto ciò che ricevette Blaine, ma per il momento era abbastanza.

Un altro passo avanti, almeno ora aveva la sua attenzione.

Anziché vomitargli addosso una serie pressoché infinita di domande – ti ricordi chi sei, cosa ci fai qui, hai idea di cosa ti sia successo, cosa si fa ora? Sai chi sono? - Blaine alzò molto lentamente le mani, senza staccare gli occhi dai suoi, e chiese con calma: “Posso controllare se sei ferito? Non devi fare niente, solo spostare anche le braccia. Va tutto bene, ho dei cerotti e – disinfettante, bende. Se stai male posso curarti”.

Non era del tutto vero. Ovvio, aveva una cassetta di primo soccorso e sapeva disinfettare delle ferite, ma se la situazione fosse stata più grave del previsto Blaine avrebbe dovuto portarlo in ospedale. E come avrebbe spiegato ai medici che il suo personaggio era uscito ferito dal suo libro senza finire per essere ricoverato nel reparto psichiatrico?

Kurt abbassò gli occhi e dopo un altro momento di esitazione -  Fidati di me – lasciò che le sue braccia scivolassero ai lati del suo corpo, sollevando appena le maniche della camicia zuppa d’inchiostro che indossava.

Di nuovo nessuna ferita visibile, ma…

Ecco, quell’odore era ovunque, impregnava l’aria fino a renderla quasi opprimente.

Carta e inchiostro. Veniva da Ku – lui?

Dopo. Pensaci dopo.

“Grazie” mormorò Blaine al ragazzo. Lui alzò di nuovo gli occhi di scatto e li portò sul viso di Blaine, studiandolo al di sopra del rumore della pioggia e degli ultimi singhiozzi. Blaine avvicinò una mano alla sua spalla. “Posso?” chiese con cautela, arrivando quasi a sfiorare il tessuto. Cercò di non pensare al fatto che, a parte il primo sussurro in preda al panico, lui non aveva ancora detto una parola. O a quanto volesse sentire di nuovo la sua voce.

Un altro debole cenno di assenso, ma almeno sembrava essersi calmato. Lo sguardo di Blaine scivolò accidentalmente su uno degli avambracci scoperti del ragazzo e allora le notò.

Le cicatrici.

Non erano davvero delle cicatrici, ora che riusciva a vederle così da vicino. In effetti sembravano tantissime scritte tatuate sulla pelle chiarissima di – ma il suo Kurt non aveva tatuaggi.

Eppure quella calligrafia gli era familiare.

Decidendo di ignorare momentaneamente la cosa e fingendo di non aver visto niente Blaine sorrise incoraggiante a Kurt e lo aiutò ad alzarsi, posandogli una mano sulla spalla e avvolgendogli la schiena con l’altro braccio. Tuttavia il ragazzo si appoggiò su di lui solo per il più breve degli istanti: non appena fu in piedi si staccò come se fosse stato scottato, diventando di una gradevole sfumatura rosso fuoco e lasciandosi sfuggire l’ennesimo singhiozzo – ma stavolta era di sorpresa.

Fu allora che Blaine si ricordò di essere praticamente nudo. Lui doveva averlo appena notato.

Ops.

“Riesci a stare in piedi? Ti fa male da qualche parte?” chiese dopo aver deglutito pesantemente l’imbarazzo.

Lui gli lanciò un’occhiata veloce e diventò, se possibile, ancora più rosso. “S-sto b-bene” mormorò con voce stanca ma melodiosa fissandosi le mani con aria persa. Blaine seguì il suo sguardo e si accorse che anche il polso, fino al dorso della mano, era ricoperto di scritte. Giravano tutto intorno al braccio e risalivano fino al gomito, scomparendo sotto la camicia chiazzata di macchie bluastre che si stavano lentamente asciugando sul tessuto.

Osservandolo di sottecchi riuscì a vedere anche intere frasi oltre il colletto della camicia, lungo la linea della gola, attraverso il collo.

Tre parole – come aveva fatto a non notarle prima? – erano impresse sullo zigomo destro. Chissà se aveva quelle scritte ovunque.

Anderson, lo rimproverò il suo cervello. Che cosa stai pensando?

Blaine scosse la testa e prese l’ennesimo respiro profondo prima di sorridere, un po’ incerto, a Kurt.

Non era il momento di bombardarlo di domande, probabilmente era ancora scosso e – e poi erano domande che andavano fatte con calma, per la miseria. Non poteva mica stringergli la mano e dire: “Piacere, presunto protagonista, sono l’idiota che sta scrivendo la tua storia”. (Non poteva essere vero).

“Ok” disse, attirando la sua attenzione. Gli occhi azzurri di Kurt saettarono verso di lui, di nuovo cauti. “Non sei ferito. Per prima cosa… Scusa per – beh, per il non-abbigliamento? Mi hai colto un po’ di sorpresa”. Il che è un eufemismo. Sei saltato fuori dal mio libro. Non può essere reale.

Kurt spalancò gli occhi e si portò una mano tra i capelli, esclamando: “No, scusa tu, io- non so come- e non-“

Il ragazzo aveva davvero una bella voce. Blaine lo zittì con un gesto ed un sorriso ma, nonostante stesse cercando di sembrare calmo, dentro stava per esplodere. Affronta un problema alla volta, Blaine.

“Facciamo così” propose avvicinandosi appena a Kurt per sfiorare delicatamente un lembo della camicia grondante inchiostro. Lui sobbalzò appena ma non si ritrasse, costringendo lo stomaco di Blaine a fare una capriola. “Visto che nessuno dei due ha la più pallida idea di cosa stia succedendo, che ne dici di farti una doccia e toglierti questa roba appiccicosa di dosso? Io nel frattempo mi – uhm, vesto” Ti prego non pensare che sia un maniaco. “Ti trovo dei vestiti e metto su del caffè. E ne parliamo, ok?”

Di cosa, sinceramente, non ne aveva la più pallida idea. Eppure cos’altro avrebbe dovuto fare, sbatterlo fuori dalla porta?

Lui gli rivolse il primo, debole sorriso, che illuminò letteralmente la stanza, e Blaine pensò che poteva farcela. Doveva esserci una spiegazione a tutto ciò.

“Sono Blaine, comunque” disse porgendogli la mano.

La stretta del ragazzo era, sorprendentemente, decisa. Blaine notò che aveva le mani fredde e che stava ancora tremando un po’ ma che i suoi occhi erano colmi di gratitudine e curiosità.

“Kurt” confermò lui, sciogliendo la stretta troppo presto. Blaine si ritrovò con il cuore in gola. “Kurt Hummel”.

Beh. Almeno ad una delle domande aveva già dato una risposta.

Sono l’autore del libro che racconta la tua storia. Tu non esisti davvero.

Blaine non lo disse e lasciò che Kurt lo seguisse fino in bagno, portando con sé un intenso odore di carta e inchiostro. 




La mente di Blaine scivolava da un pensiero all’altro, cullata dal suono della doccia che penetrava oltre la porta chiusa del bagno.

Dopo l’imbarazzante operazione che era stata trovare a Kurt dei vestiti che gli andassero – il ragazzo aveva arricciato il naso di fronte ai pantaloni della tuta e alla t-shirt in maniera assolutamente adorabile e lo stomaco di Blaine aveva fatto una capriola – Blaine l’aveva lasciato solo e si era adoperato per pulire dal pavimento le macchie d’inchiostro, finendo per perdersi nei propri pensieri. 

Di Kurt Hummel ne conosceva uno solo. E quello che conosceva non era mai esistito, perché l’aveva inventato Blaine stesso. 

Aveva iniziato a scrivere quella storia a sedici anni: stava scendendo l’ampia scalinata della Dalton, in ritardo per l’ennesima esibizione improvvisata degli Warblers, di cui era il solista, e mentre riponeva l’orologio da taschino l’idea lo aveva colpito come un fulmine. 

Aveva immaginato questo ragazzo dai lineamenti delicati e gli occhi azzurri pieni di tristezza e una storia forse troppo dolorosa, ma realistica, con una chiarezza impressionante, quasi come se stesse scendendo le scale al suo fianco. L’idea era stata talmente improvvisa e fulminea da costringerlo a fermarsi e guardarsi intorno, come se si aspettasse di vederlo sbucare da un momento all’altro alle sue spalle. Come se il ragazzo, l’idea, avesse chiamato il suo nome, facendo riecheggiare quel richiamo nella sua testa. 

Nessuno era arrivato, ma ormai il seme era stato piantato nella sua testa: era corso a cantare Teenage Dream, aveva saltato tutte le lezioni della giornata e si era chiuso nella sua stanza per prendere appunti su ogni foglio che gli capitasse a tiro, circondato da post-it, tazze di caffè semi vuote e una cartina dell’Ohio. 

Era nata così la storia di Kurt Hummel, controtenore, membro del Glee Club, unico ragazzo gay del Liceo McKinley di Lima: scritta sui bordi del libro di storia medievale europea e tra le coniugazioni dei verbi francesi, su post-it giallo fosforescente e le note del cellulare, perfino sul palmo della mano. Impressa a fuoco nella sua mente. 

Un lampo di luce su una scalinata della Dalton Academy. 

I dettagli erano venuti con il passare del tempo, come le caratteristiche fisiche di Kurt, il suo carattere o i suoi amici del Glee Club, una lunga, variopinta serie di sfigati; la sua famiglia allargata, una cotta per il proprio fratellastro, l’infarto di suo padre, i tormenti dei giocatori di football e il bullismo, le eterne battaglie per ottenere degli assoli, e quel Karofsky che l’aveva minacciato. 

Blaine inorridì davanti alla portata del suo elenco. 

La solitudine, la mancanza di un’anima gemella, la tenacia nel lottare nonostante tutto per essere se stesso…

In pratica Blaine gli aveva rovinato la vita.

Ora Kurt Hummel era sotto la sua doccia, stava per indossare i suoi vestiti e presumibilmente non sapeva di non essere reale.

Forse lo era, vero. Insomma, Blaine l’aveva toccato, Kurt era una persona, respirava, aveva un battito cardiaco, era – era ricoperto di scritte, grondava inchiostro e si trascinava dietro l’odore di un libro.

Forse, per qualche assurdo scherzo del destino, Blaine aveva scritto la storia di una persona che esisteva realmente. Certo, questo non spiegava come avesse fatto Kurt ad arrivare dall’Ohio al suo appartamento a New York.

Aveva indagato sul liceo McKinley, certo, ma non aveva mai chiesto di nessun Kurt Hummel. Chi è l’idiota che cerca il proprio protagonista su Google? E poi la sua storia l’avevano letta due persone: sua nonna e Sebastian. Nessun altro.

Del liceo pubblico di Lima aveva scoperto che aveva avuto un Glee Club, qualche anno prima, ma che era stato chiuso perché nessuno si era iscritto, e che i bulli erano soliti lanciare granite in faccia agli sfigati della scuola. Tutti i personaggi che aveva inserito – la rompiscatole Rachel, il direttore del coro, Schuester, Mercedes, la migliore amica di Kurt, Burt, suo padre... erano tutti frutto della sua immaginazione.

Fondamentalmente la storia di Kurt Hummel era l’opposto della sua: un Glee Club pieno di voci eccezionali ma considerato un covo di perdenti, il contrario di quello di Blaine. Un padre in grado di poter dare accettazione – così differente dal suo – e una migliore amica dolce, una famiglia che lo supportava, il coraggio di tenere la testa alta ed affrontare i propri tormentatori. Tranne David Karofsky.  

La storia si era fermata un attimo prima del punto di svolta, in realtà: Kurt era stato spinto per l’ennesima volta contro un armadietto da Karofsky, il peggiore dei suoi bulli, e – e Blaine non aveva saputo come andare avanti.

Mancava qualcosa di fondamentale alla storia, uno stimolo. Avrebbe voluto permettere a Kurt di affrontare una volta per tutte il ragazzo che rendeva la sua vita un inferno ma la verità è che il Kurt di cui aveva scritto non aveva ancora trovato quel genere di coraggio dentro di sé. Ed ecco che era arrivata la crisi da pagina bianca, i tentativi di Sebastian, già devastato da sé, di tirarlo su di morale, e ora questo.

Kurt che era saltato fuori dal libro direttamente nel suo soggiorno, come per magia.

Continuò a sembrargli un’assurdità anche quando le chiazze d’inchiostro sulla moquette vennero via, lasciando delle semplici zone umide.

Eppure le macchie bluastre sulle sue dita erano più reali che mai, in contrasto con la sua pelle.




Una volta Blaine aveva chiesto a sua nonna cosa ne pensasse dei libri di Harry Potter. Aveva nove anni e la sua maestra lo aveva rimproverato  perché stava litigando con un altro bambino.

Ma insomma, quell’antipatico di Michael stava dicendo che la magia non esisteva e che Harry Potter era da sfigati, femminucce e checche – una delle prime volte in cui aveva sentito quella parola – e che se stava davvero aspettando di ricevere la sua lettera per Hogwarts poteva anche diventarci vecchio, perché tanto niente di tutto quello era reale.

 

 

Segreteria Telefonica del 17 Marzo 2004

 

Avete raggiunto Christine Anderson, lasciate un messaggio.

 Christine, sono Anne, Blaine è lì da te, vero? Cos’ha combinato a scuola? La mamma di Michael Collins pretende che io parli con lei! Oh, perché non rispondi mai al telefono? Comunque, riportalo a casa appena puoi, mhm? Devo andare da David in ufficio per portargli delle scartoffie. Poi se ho tempo ci penserò io. 

Sua nonna gli aveva sorriso dolcemente, si era inginocchiata davanti a lui – Blaine era sempre stato minuto, per la sua età – e gli aveva messo in mano una copia delle fiabe dei fratelli Grimm. 

“Non fa mai male credere ad un po’ di magia, Blaine” gli aveva detto facendogli l’occhiolino. “Solo perché gli altri non la vedono non significa che non ci sia”. 

Possibile che Christine avesse disseminato durante la sua vita consigli ai quali Blaine avrebbe dato un senso solo quando era ormai troppo tardi per dirle grazie?


 

 


 

New York, East Village

22 settembre 2013

   

Blaine aveva appena finito di versare il caffè in due tazze della NYU quando il suono dei passi soffici di Kurt che attraversava il soggiorno attirò la sua attenzione.

Chiuse gli occhi per un istante – un problema alla volta, Blaine – e quando li riaprì si ritrovò a sorridere al ragazzo che stava facendo nervosamente capolino dalla porta della cucina, con indosso la sua vecchia maglia e finalmente privo di tracce di inchiostro. 

Aveva i capelli umidi che gli cadevano in ciocche scure e disordinate sulla fronte, le guance arrossate e le labbra leggermente gonfie; sembrava completamente perso. 

Dalle maniche, arrotolate fino al gomito, erano ancora visibili le scritte, e quando alzò la mano per fargli un cenno Blaine notò alcune parole anche all’altezza dell’anulare della mano sinistra. Nemmeno quelle sul suo collo erano scomparse, né in qualche modo sembravano sbiadite. 

“Grazie” disse Kurt in tono sincero e imbarazzato quando Blaine gli porse una delle due tazze, facendogli segno di seguirlo in sala. 

Si sedettero ai lati opposti del divano color crema: Kurt incrociò le gambe e prese un lungo sorso del suo caffè, socchiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo, come per riordinare le idee. 

Finalmente Blaine riuscì a distinguere le tre parole incise sulla curva dello zigomo destro. 

Never been kissed.* 

“Sei un medico?” chiese Kurt all’improvviso, imbarazzato. Blaine lo guardò incredulo per un istante e lui si affrettò ad aggiungere: “Perché sapevi cosa fare quando – quando ho avuto quel piccolo momento di panico, e ho pensato –“ 

Blaine ridacchiò con leggerezza. “No, no, è una domanda lecita!” lo tranquillizzò scrollando le spalle. “Non sono un medico, non ho neanche diciannove anni. Studio letteratura alla New York University e sono al primo anno. Sapevo cosa fare perché non è la prima volta che mi capita di assistere ad un attacco di panico, tutto qui”. Sebastian ne ha uno al mese. 

Blaine attese fino a che gli occhi azzurri dell’altro non trovarono i suoi. 

“Bene” disse infine, sorridendo caldamente a Kurt. “Ti va di raccontarmi cosa ti è successo?” 

Kurt gli lanciò un’occhiata spaventata e deglutì a fatica. 

“Io – io non me lo ricordo”.



 


 




Note dell'Autrice


Ebbene, eccoci a questo secondo capitolo, che spero non vi abbia confuso ancora di più le idee! 

In realtà è tutto molto semplice (hahaha). BLAINE STA SCRIVENDO LA STORIA DELLE PRIME DUE STAGIONI DI GLEE. 

Prima del suo arrivo, naturalmente. La self-ins è il male 

Kurt è il suo amato protagonista, e ora si trova nella sua cucina, ricoperto di scritte. Tatuaggi. Chissà di chi è la scrittura che a Blaine sembra così familiare, visto che è lui l'autore della storia :P

E il loro primo incontro - ovvero quando Blaine ha avuto questa lampante idea per la storia di Kurt - vi è per caso familiare? :P

BENE. Detta questa serie inutili di note, passiamo a quella importante: non l'ho detto nelle note del primo capitolo, quindi lo dico ora. Questa storia è un grandissimo cliché letterario (lo scrittore che si innamora del personaggio e viceversa, non è niente di nuovo/incredibilmente originale. Geniale sì, quello sì, ma non farina completa e totale del mio sacco!) quindi troverete veri e propri libri/film/fumetti con la trama base autore/personaggio. Questa fanfiction, tuttavia, non è ispirata in modo particolare a nessuno di questi :) Io sto solo giocando intorno al cliché! :)

Ora me ne torno al mio angolino a farmi venire l'ansia per questo capitolo, fatemi sapere cosa ne pensate!

Il solito ringraziamento speciale va alla mia formidabile beta, Ilaryf90, che più che beta è una sorta di psicoanalista per casi disperati quali il mio. 


A giovedì prossimo, recensite numerosi bla bla bla


Selene 



Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** They'll fade ***


 

PAPER AND INK

 

 

 

Tre

 

dsfg

 

 

*

 

 

Blaine e Christine, una volta, avevano passato parecchie ore sopra ad un vecchio tomo.

 

Nonostante Blaine avesse già compiuto tredici anni non aveva mai smesso di rifugiarsi all’Inkheart quasi ogni giorno dopo la scuola per dare una mano con i clienti, fare i compiti sul tavolino all’angolo o sfogliare qualche enciclopedia. Era un bambino piuttosto vivace, di solito, eppure passare qualche pomeriggio tranquillo non gli dispiaceva, specialmente quando era di malumore.

 

Sua nonna un pomeriggio aveva notato che era estremamente giù di morale – Jack Slopper del secondo anno continuava a dargli della femminuccia davanti a tutti – e senza pensarci due volte aveva girato il cartellino sulla porta verso la scritta Chiuso. Gli aveva accarezzato affettuosamente i ricci ribelli e l’aveva convinto a osservare con lei un vecchio libro dai bordi ingialliti e la copertina a brandelli.

Blaine ricordava che Christine gli aveva suggerito di passare la mano sulle pagine e di osservare con attenzione e lui si era guadagnato uno sguardo orgoglioso quando le aveva fatto notare che tutte le parole del primo capitolo che iniziavano per S erano in rilievo rispetto alle altre.

“Infatti” aveva confermato sua nonna, prendendo una matita. “Ora guarda”.

Aveva passato la matita delicatamente sopra ad un paio di righe, come se stesse disegnando, e sotto alle parole salire, semplici e sembrava erano comparse delle lettere, bianche in contrasto con il grigio della matita.

“È davvero carino”.

“Era il modo che io e la mia amica Sophie usavamo da ragazze per comunicare in segreto” aveva spiegato con entusiasmo, riportando alla luce altre scritte. “Non che fosse molto utile o avessimo chissà quali segreti, ma è divertente, non trovi? Basta scrivere sotto alle parole che iniziano con la stessa lettera con cui inizia il titolo del libro, in questo caso Secret Garden, con una penna che non scrive più. In questo modo quando ci passi sopra la matita si vedono le parole, e quando cancelli scompaiono quasi del tutto, perché la gomma spiana la carta”.

 

“È bellissimo, nonna” aveva commentato Blaine con sincerità, sporgendosi per abbracciarla. Lei lo aveva avvolto nel suo scialle e gli aveva spostato un ciuffo ribelle dalla fronte. “Ciò che condividi in segreto con qualcuno che ami è sempre bellissimo, tesoro” aveva sussurrato al suo orecchio.

Blaine ricordava di aver pensato che forse sua nonna si stava riferendo più a lui che alla sua amica Sophie.

Segreteria Telefonica del 06 Novembre 2007

Speeeeak.

Blaine, sono io, mamma. Oh, santo cielo, tua nonna ti ha fatto vedere di nuovo Rent, non è vero? Quello non è un film adatto a- no, ci rinuncio, tanto né tu né lei rispondete mai alle mie chiamate. Qual è il vostro problema, esattamente? Senti, tuo padre vuole sapere se più tardi potete lavorare un po’ alla macchina, sai, per – per legare un po’? Richiamalo.

 

“Se ci pensi è la stessa cosa che succede con le cose che ti fanno soffrire, come ad esempio tutte le cose orribili che ti dice Jack. Certe parole rimangono impresse sulla pelle anche se non puoi vederle, Blaine. Un po’ come se fossero state incise con una penna che non scrive. Rimangono lì, dove tu sai che ci sono, fino a che qualcuno non le riporta in superficie passandoci sopra una matita”.

“Allora qual è la cosa positiva, nonna?”

Christine aveva sorriso. “Il bello è che dopo puoi cancellarle, piccolo”.

 


 

New York City, East Village,

22 settembre 2013

 

Kurt stringeva il proprio caffè come se stesse cercando di trasferire energia direttamente dal calore del liquido alle mani.

“Non mi ricordo niente” ripeté debolmente, cercando gli occhi di Blaine come se lo stesse supplicando di capire. “L’ultima cosa che mi viene in mente è la scuola, ricordo di essere arrivato, e l’attimo dopo – io –“

Il McKinley, rifletté velocemente Blaine mentre osservava le spalle di Kurt alzarsi e abbassarsi in un respiro profondo. L’ultima scena che Blaine aveva scritto prima che Christine morisse si svolgeva a scuola: David Karofsky spingeva Kurt contro l’armadietto.

“Penso di essere svenuto, ma non ne sono sicuro” continuò Kurt strofinando il pollice lungo il bordo della tazza. Blaine si soffermò a lungo sulle frasi impresse sul dorso di una delle sue mani, perplesso, fino a che Kurt non parlò di nuovo. “Non volevo finire qui, giuro, non ho idea di come ci sono arrivato, devi credermi” mormorò velocemente, tremando.

Probabilmente pensava che Blaine l’avrebbe buttato fuori di casa e abbandonato da solo chissà dove. Come se ne fosse capace.

“So solo di aver sentito qualcuno che parlava – ma non so cosa stesse dicendo, non riesco a ricordarmelo – e poi è diventato tutto buio”.

Blaine tentò un sorriso incoraggiante al di sopra del bordo di ceramica della sua tazza per fargli capire che andava tutto bene. L’ultima cosa che voleva era che Kurt avesse un altro attacco di panico.

“Pensi che qualcuno ti abbia aggredito?” chiese con delicatezza, lottando contro l’impulso di raggiungerlo e abbracciarlo quando Kurt sbiancò e scosse la testa velocemente.

Bugia. Blaine aveva scritto che Kurt era stato sbattuto contro l’armadietto da Karofsky. Tuttavia qualcosa gli diceva che non fosse quello il motivo della presenza di Kurt nel suo – universo, a questo punto.

L’espressione spaventata di Kurt scatenava tutto il suo istinto protettivo. Il ragazzo si morse nervosamente un labbro. “Oddio, è tutto così confuso e so cosa può sembrare, ok? Potrei benissimo essere un rapinatore professionista o un serial killer e tu ti sei ritrovato uno sconosciuto nel tuo soggiorno che ora porta i tuoi vestiti e tutto quello che riesco a dirti è che non ricordo niente! Capisco se non mi credi, davvero, non mi credo nemmeno io, ma –“

Kurt” lo interruppe Blaine sporgendosi verso di lui e prendendogli la mano d’istinto. Lui ammutolì e sgranò vagamente gli occhi. Proprio come il suo personaggio, quando Kurt si agitava iniziava a blaterare cose ad una velocità inverosimile. Scrivere i suoi dialoghi con se stesso era sempre un’odissea, ma Blaine li adorava. “Ti credo, ok? E poi qual è il serial killer che ha un attacco di panico di fronte alla propria vittima?”

Kurt avvampò di vergogna e Blaine iniziò a chiedersi quando il panico avrebbe preso anche lui, esattamente. Ma se per ora riusciva a reggere la situazione con calma, tanto meglio. Avrebbe avuto tempo per dare di matto dopo.

“D’accordo, l’importante è rimanere calmi” cercò di ragionare, gesticolando ampiamente con la mano libera. L’altra stava ancora stringendo delicatamente le dita di Kurt, fredde come il marmo. “…e cercare di capire cos’è successo. L’unica cosa che non riesci a ricordare è come sei arrivato qui?”

Kurt esitò per un istante, probabilmente nel tentativo di riordinare le idee, e abbassò lo sguardo per fissarsi le ginocchia. “Sì” rispose dopo un po’, spostando lo sguardo incredulo sulle loro mani intrecciate sul divano. “Ma non è l’unica cosa che non va”.

Appoggiò la tazza sul tavolino lì di fianco e prese a tormentarsi il bordo della maglia con la mano libera. Alla fine arrotolò ancora più su la manica e gli mostrò il braccio.

“Io – perché ho questi tatuaggi?” chiese preoccupato mentre Blaine allungava la mano, esitante come a chiedere il permesso, e sfiorava il contorno delle parole con l’indice, leggero come una piuma. L’illuminazione lo colpì mentre seguiva la linea di una delle frasi sulla pelle nivea dell’incavo del gomito. Quella era la sua scrittura. Quelle erano le sue parole, la sua storia. Kurt aveva incisi addosso pezzi del suo libro.

Never been kissed, la frase sulla sua guancia. Kurt confessava a Mercedes, nel primo capitolo, di non essere mai stato baciato.

“Tutte queste parole sparse in giro” riprese Kurt, ignaro della sua scoperta. “Alcune sono intere frasi. Ma io sono agofobico, non mi farei mai dei tatuaggi, quindi non capisco come – come siano comparse e perché”. Io forse lo so. “Non posso essere svenuto mentre me ne facevo uno. Ero a scuola”. Kurt arrossì e prese a giocherellare con un ciuffo, sottraendo il braccio all’analisi di Blaine. “Scusa, informazioni inutili. Neanche ci conosciamo”.

Però questo non lo sapevo, notò Blaine mentre sorrideva a Kurt. Credevo di sapere tutto di te.

Tentò di alleggerire la tensione, sollevando entrambe le mani in segno di resa e commentando: “Giuro che non arrotondo il mio stipendio inesistente facendo il tatuatore e che non ti ho trascinato qui dopo averti tramortito. E io svengo ogni volta che vado a farmi le analisi del sangue, quindi ti capisco”.

A Kurt sfuggì una risatina e Blaine sorrise soddisfatto. Chissà, forse si nascondeva un intero universo dietro alle cose che Blaine non aveva mai pensato di scrivere su Kurt. Chissà se gli piacevano gli spaghetti o la pasta corta, o se preferisse il tè con lo zucchero o con il latte.

“È che – scritte” ripeté Kurt sgomento come se stesse cercando di convincersi della loro esistenza solo fissandosi le mani. “Non sono fatte con il pennarello, ho strofinato tantissimo sotto la doccia e non vengono via”. Blaine pensò che quello non fosse affatto il momento di immaginarsi il protagonista del suo romanzo sotto la doccia. “E poi ero ricoperto di inchiostro da capo a piedi, i vestiti sono tutti macchiati, neanche fossi caduto dentro un calamaio. E le scritte sono – sono orribili”.

L’enorme senso estetico di Kurt iniziava a farsi sentire attraverso il panico e l’ansia.

Non sono orribili. E tu sei meraviglioso.

Ops. Questo non avrebbe dovuto pensarlo.

“Ok, partiamo da capo” disse Blaine ostentando una sicurezza che era consapevole di non possedere affatto. Dei due, però, era quello che aveva alcune delle risposte. Doveva solo trovare il modo di rivelarle a Kurt senza sembrare fuori di testa. 

Non stava più stringendo la sua mano, così sentì il bisogno di tenere le mani occupate e iniziò a sfilare piume dal cuscino del divano. “Ti chiami Kurt Hummel, fin qui ci siamo” snocciolò, sperando che Kurt non cogliesse lo sguardo colpevole che era certo di avere in faccia. “Che altro? Voglio solo aiutarti” aggiunse quando Kurt si passò una mano sulla nuca, esitante.

“Aspetta” disse lui alla fine, sciogliendo l’intreccio delle sue gambe e frugandosi in tasca con le mani che ancora non avevano smesso di tremare. “Avevo il cellulare e il portafoglio con me, ci sono i miei documenti”.

Estrasse la carta di identità da un elaborato portafoglio il pelle e la passò a Blaine. “Vivo a Lima” spiegò mentre Blaine osservava la fototessera in cui un Kurt più giovane e sorridente arrossiva verso l’obiettivo. “Ho diciotto anni – li ho compiuti a maggio – e ho appena iniziato l’ultimo anno al Liceo McKinley, non so se lo conosci, e… uhm, abito con mio padre, sua moglie e il mio fratellastro Finn. Mio padre è un meccanico, il suo garage si chiama Hummel Tire & Lube”.

Ancora una volta le informazioni che Kurt gli stava dando corrispondevano con quelle del libro. C’era un altro modo per essere sicuri che quello fosse Kurt, nonostante fosse ormai piuttosto ovvio.

“Diciotto anni a maggio?” chiese Blaine cercando di sembrare vago. Ti prego, non prendermi per uno stronzo. “Non dovresti essere un senior*?”

Era una domanda estremamente invadente e ne era consapevole perché sapeva il motivo per cui Kurt fosse ancora un junior, al penultimo anno. Dopotutto l’aveva inventato lui.

Gli occhi azzurri di Kurt scivolarono verso il basso e lui avvampò. “Sì, dovrei, ma ho perso un anno di scuola quando avevo nove anni, quindi sono indietro”.

 La carta d’identità tremò tra le sue dita.

Kurt aveva saltato un anno quando Elizabeth Hummel si era ammalata ed era morta. Ed era tutta colpa di Blaine.

“Ho – Avrei due domande” mormorò timidamente Kurt, strappandolo ai suoi pensieri. Blaine lo trovò intento a scrutarlo come se stesse cercando di carpire informazioni direttamente dalla sua testa. Attese pazientemente, cercando nel frattempo di non essere schiacciato dall’assurdità della situazione. “Uno. Dove mi trovo? Perché quella là fuori non è Lima” disse, lanciando un’occhiata veloce ai vetri bagnati della finestra.

Blaine prese un respiro profondo prima di rispondere. “Non farti prendere dal panico, ma – siamo a New York. East Village, per la precisione”.

Kurt sembrò dimenticare per un istante l’assurdità della situazione, perché spalancò la mascella e fissò Blaine. “New York” ripeté lentamente, immobile come una statua. Blaine sapeva che Kurt aveva una vera e propria venerazione per quella città. “New York City”.

Sembrava che fosse meno propenso a credere a questo che all’essere scomparso da Lima e riapparso nel soggiorno di uno sconosciuto.

“Se guardi fuori dalla finestra si vedono le luci dell’Empire State Building, oltre Central Park. Molto in lontananza, certo, ma si vedono” gli disse Blaine facendosi sfuggire un mezzo sorriso di fronte alla sua espressione completamente sconvolta.

Kurt non si mosse dal divano, forse troppo stupito persino per alzarsi e controllare. “Ma io vivo in Ohio” obiettò logicamente, con un tono di voce che faceva pensare che iniziasse a non crederci più nemmeno lui. “Lima Schifezza Ohio, con il più alto tasso di patetici omofobi provinciali dalla mente sigillata dentro scatoline per le caramelle di tutta l’America. Non posso essere a New York”.

Se la situazione non fosse stata così complicata e tesa Blaine probabilmente avrebbe riso del suo acume.

“So che è assurdo, ma è la verità. Riusciremo a capire cos’è successo, ne sono sicuro” cercò di confortarlo.

Kurt lo osservò con attenzione. Nonostante si fosse rivestito Blaine si sentì nudo di fronte a quello sguardo azzurro che sembrava intenzionato a sondargli l’anima. “Le domande sono improvvisamente diventate quattro” disse a voce bassa, avvicinandosi impercettibilmente.

 Ah, giusto. Kurt amava fare elenchi.

“Numero due: perché sento di potermi fidare di te anche se non ci conosciamo? Numero tre: “Perché vuoi aiutarmi? Non che non mi faccia sentire terribilmente meglio, lo fa, ma perché?”

Blaine si morse il labbro, indeciso. Doveva spiegare a Kurt quello che sapeva – ovvero che era quasi sicuramente saltato fuori dal libro – ma poteva dirgli di esserne l’autore?

“Numero quattro” mormorò Kurt spostando lo sguardo da Blaine al tavolino. Blaine ne seguì la traiettoria e scoprì che stava guardando il foglio di appunti. “Perché lì c’era scritto il mio nome, e ora non c’è più?”

Kurt lo stava guardando come se si aspettasse che Blaine gli dicesse che era tutto uno scherzo da un momento all’altro. Peccato che Blaine non poteva farlo. Non poteva semplicemente cancellare le scritte sulla sua pelle e rispedirlo a casa, non sapeva cosa fare.

“Ok” disse, forse più a se stesso che a Kurt. “Ti puoi fidare di me, Kurt. Ti prego, fidati di me” lo supplicò, prendendogli di nuovo la mano. Kurt osservò rapito il modo in cui le loro dita si intrecciavano con naturalezza. “Devo spiegarti alcune cose ma tu devi credermi, voglio aiutarti. E il perché voglio farlo è parecchio complicato. Promettimi che mi ascolterai fino alla fine”. 

E, nonostante non si conoscessero, nonostante l’assurdità della situazione che si erano ritrovati a condividere, nonostante Kurt Hummel non si fidasse mai di nessuno all’infuori di suo padre, il ragazzo piantò gli occhi chiari nei suoi e annuì.

 


 

Blaine aveva scoperto, con il passare del tempo, che le parole segrete che cercavi di cancellare non scomparivano mai definitivamente.

Se vi si ripassava una matita sopra dopo averle cancellate riemergevano più deboli e meno visibili di prima, ma riemergevano.

Ne era stato deluso – l’ennesima cosa che avrebbe dovuto essere semplice e invece possedeva una quantità infinita di complicazioni – ma non lo aveva detto a sua nonna.

Chissà perché, aveva pensato che fosse quello l’insegnamento che lei aveva voluto dargli: ogni volta che le ritiri fuori e poi le cancelli si vedono di meno. Forse un giorno sarebbero scomparse del tutto. Forse, se continuava a cancellare…

Avrebbe tanto voluto promettere a Kurt che le parole sulla sua pelle sarebbero scomparse, se avessero strofinato abbastanza.

 


 

Kurt era stato coraggioso.

Aveva ascoltato Blaine mentre il ragazzo gli spiegava che pensava fosse uscito dal libro del quale era protagonista. Aveva pianto, aveva urlato che non era possibile, che lui aveva una famiglia, una vita, esisteva.

“Non è vero, Blaine! Dimmi che non è vero, ti prego!”

“Kurt, mi dispiace così tanto. Questo libro racconta la tua storia, e –”

“Ma non è possibile, io – io –“

“Le scritte che hai addosso sono dei pezzi, leggi tu stesso, sono parti del libro”

 

Aveva affondato il viso tra le mani e singhiozzato senza sosta quando Blaine gli aveva detto che era sicuro che Kurt esistesse, solo forse in un’altra dimensione. Aveva sorriso debolmente quando Blaine aveva commentato “chi lo dice che questa è la dimensione giusta? Magari sono io il libro”.

 

“Forse il libro non è altro che un mondo parallelo. Nessuno dice che quello in cui ci troviamo adesso sia quello giusto. Non lo so, Kurt”.

Aveva chiuso gli occhi e si era lasciato abbracciare quando gli aveva chiesto “dimmi qualcosa di me che so solo io” e Blaine gli aveva risposto: “Tua madre ti cantava Look with your eyes tutte le sere per farti addormentare. Tua zia Caroline ti aveva regalato il disco di Love Never Dies e tu avevi sentito quella canzone e avevi chiesto a tua madre cosa significava. E lei ti aveva risposto che era una canzone d’amore che una mamma cantava al suo bambino”.

Kurt era stato coraggioso mentre Blaine gli accarezzava i capelli e gli sussurrava che sarebbe andato tutto bene.

Buffo; non vi era nessuna prova concreta dell’esistenza di Kurt Hummel, tranne il fatto che stava piangendo tra le sue braccia.

 

“Non so cosa fare. Che succede se rimango bloccato qui e non posso più tornare a casa? Incastrato qui senza un futuro, con queste cose orribili addosso, senza – senza –“

“Andrà tutto bene”.

 

Blaine era stato un vigliacco.

Aveva mentito quando Kurt gli aveva chiesto perché sapesse tutte queste cose. Aveva pensato Perché le ho scritte io, è colpa mia, sono io l’autore e aveva risposto: “Perché quel libro è incompiuto e io conoscevo l’autrice, mia nonna. Me l’ha lasciato e io l’ho letto tutto fino a dove era arrivata a scrivere. Ho anche i suoi appunti, forse pensava che avrei potuto continuarlo”.

Aveva mentito, aveva mentito, aveva mentito.

Vigliacco, vigliacco, vigliacco.

“Blaine, tua nonna…?”

“È morta quasi un anno fa”

 

Kurt si meritava la verità ma lui non ce l’aveva fatta.

Si era nascosto dietro ad una patetica scusa – se scopre che sono io ad avergli causato tutte quelle sofferenze non si fiderà di me – e l’unica cosa vera che era uscita dalla sua bocca era stata: “L’ho scritto io il tuo nome sul foglio. Stavo ragionando sulla trama, l’ho fatto quasi sovrappensiero. Forse è quello il tramite, o qualcosa del genere. Il tuo nome dev’essere scomparso quando sei comparso tu”.

Blaine aveva stretto a sé Kurt come se si conoscessero da una vita.

Dopotutto era la verità: si erano incontrati su quella scalinata alla Dalton. Solo che Kurt era parte dell’immaginazione di Blaine. Solo che Kurt non esisteva.

Anche se in quel momento era più reale che mai.

“È colpa mia se sei qui, voglio aiutarti a tornare a casa. Ti riporterò indietro, troveremo un modo”.

L’aveva stretto e Kurt aveva incastrato il viso nell’incavo del suo collo; profumava del suo shampoo, di carta e inchiostro e gli aveva sussurrato: “Grazie”.

Allora Blaine l’aveva detta, l’ennesima bugia: “Le scritte scompariranno, Kurt. Te lo prometto”.

Se anche Kurt avesse capito che Blaine non poteva esserne certo, fece finta di crederci lo stesso.

Ci sono volte in cui la speranza spaventa più della paura stessa. Ma questo Kurt, a differenza di quello del libro, era coraggioso.

 


 

Blaine riempì le due tazze fino all’orlo e tornò in soggiorno, porgendone una a Kurt. Il ragazzo teneva tra le mani il vecchio foglio per gli appunti e ne stava sfiorando i bordi con i polpastrelli.

“Grazie” mormorò sentitamente e Blaine colse uno scorcio di occhi azzurri ancora un po’ lucidi. “Guarda” disse, porgendo il foglio a Blaine e avvicinando il polso. “È la stessa scrittura”.

Lui gli sfiorò il braccio delicatamente, sentendosi come se, osservando quelle scritte, stesse invadendo qualcosa di intimo e personale. Come se l’anima di Kurt si fosse riversata nelle parole tracciate sulla sua pelle. Annuì. “Sì, queste frasi sono passaggi del libro” spiegò tracciando il contorno di Sometimes you can’t make it on your own, A volte non puoi farcela da solo, con l’indice, fermandosi sul dorso della sua mano. È la mia scrittura.

“Voglio leggerlo” rivelò Kurt con determinazione, cercando il suo sguardo come per chiedere il permesso. Blaine lasciò andare la sua mano e sospirò.

“Sì, sono d’accordo” rispose passandosi una mano tra i capelli. “Se non altro perché potrebbe esserci utile o darci un’idea su come riportarti a casa. Ma non stanotte. Dovremmo dormirci sopra e pensarci domani mattina”. Un problema alla volta, Blaine.

Kurt si morse il labbro, preoccupato. “Secondo te la storia lì dentro sta andando avanti anche senza di me? Si saranno accorti che manco? O è come se fosse tutto – tutto congelato in un attimo?”

Blaine si perse per un istante nei suoi occhi. Dopo aver pianto così tanto diventavano di una delicata sfumatura di grigio, limpidi e luminosi. Un’altra cosa che non sapeva di Kurt, nonostante l’avesse creato lui. Doveva pur significare qualcosa.

“Non lo so” rispose sinceramente corrugando le sopracciglia. “Non riesco a capire come funziona. Però fintanto che non c’è nessuno a scrivere, probabilmente è fermo”.

Kurt continuò a giocherellare con il bordo della maglia. “Quand’è stata l’ultima volta che qualcuno ha scritto qualcosa?”

Oggi pomeriggio. Prima che dicessi al foglio – a te – che era solo uno spreco di carta.

“Oggi” rispose, perché almeno un minimo di sincerità glie la doveva. Blaine si sentiva male, all’idea di mentire così. “Ogni tanto provo a scrivere, aggiungere pezzi, ma di solito finisco sempre per cancellare tutto”. E questa era la verità, se non altro. Non una singola parola era stata cambiata definitivamente da quando Christine era morta.

In effetti non capiva come mai Kurt fosse arrivato proprio ora. Però non potevano sapere cosa fosse successo dopo che Karofsky l’aveva spinto contro l’armadietto. Kurt non lo ricordava.

Il ragazzo si stava osservando il polso con aria persa, dove le parole si rincorrevano fin oltre la manica.

“Fin dove arrivano?” chiese Blaine senza pensare, indicando con un cenno del capo il braccio di Kurt. Lui socchiuse gli occhi e scosse la testa.

“È… strano. Quasi ovunque, ma non sul petto. E – non lo so, è come se fosse stato lasciato uno spazio vuoto appositamente per qualcosa, capisci? Tutte le scritte convergono verso il centro, ma – ma al centro non c’è niente”. Kurt si portò la mano in mezzo al petto, all’altezza del cuore. “Come se mancasse qualcosa”.

Manca la conclusione, la chiusura, pensò osservando Kurt spostarsi un ciuffo di capelli dagli occhi. Manca la fine della storia.

 


 

Blaine appoggiò la schiena sul cuscino e le mani dietro alla testa, intrecciate tra i ricci ribelli, socchiudendo gli occhi nella speranza di prendere sonno.

Aveva insistito per far rimanere Kurt a casa sua – dove altro sarebbe potuto andare, a New York, da solo, di notte e senza soldi? Alla fine l’aveva avuta vinta: Kurt sarebbe rimasto da lui fino a che non avrebbero trovato un modo per riportarlo a casa  – e aveva sistemato il divano in modo che potesse dormirci.

Kurt gli aveva augurato una timida buonanotte, ma Blaine sapeva che era ancora sveglio, forse intento a riflettere, forse ad esaminare i ghirigori di parole sulla sua pelle.

Si domandò se avesse fatto la cosa giusta a nascondergli di essere l’autore del libro che lo riguardava. Per quanto ne sapeva, poteva benissimo aver scritto di una persona esistente senza saperlo.

Una cosa era certa: Kurt era reale. Erano spaventosamente veri i suoi occhi azzurri, i suoi sorrisi, la sua pelle chiara solcata dalle parole, il suo profumo di carta e inchiostro, la sua mano intrecciata a quella di Blaine.

Fu quella consapevolezza, probabilmente, che lo spinse ad alzarsi e camminare a passo felpato verso il soggiorno.

Aveva ragione: Kurt non stava dormendo. Era accucciato sul davanzale della finestra e avvolto in una coperta. Si stava distrattamente accarezzando il polso tatuato mentre le luci della città gli danzavano in volto.

Si avvicinò e Kurt lo notò e gli sorrise, facendogli spazio sul davanzale in silenzio. Di nuovo, era come se si conoscessero da una vita. Blaine stava iniziando a pensare che fosse davvero così.

“Probabilmente lo sai” sussurrò Kurt ad un certo punto, rompendo il silenzio. “Ma ho sempre amato questa città”.

Blaine spostò lo sguardo su una goccia di pioggia che scivolava lungo il vetro. “Sì, lo sapevo. Sai che anche io vivevo in Ohio? Westerville, per la precisione”.

Kurt gli lanciò uno sguardo sorpreso. “E ora che abiti qui?” chiese piegando la testa di lato e lasciando che il vetro si appannasse a causa del suo respiro caldo. “Cos’è che ti manca dell’Ohio? Mi sono sempre chiesto cosa mi sarebbe dispiaciuto lasciare indietro, una volta a New York”.

Blaine distolse lo sguardo dalla goccia che colava lungo il vetro e lo posò su Kurt. “In Ohio si vedono le stelle”.

 

 



 

 

Note dell'Autrice

 

E niente, stavolta ho pochissimo da dire!

Si ringrazia come sempre Ilaryf90 per il tempestivissimissimo betaggio (thanks, dear!) e boh, spero che si capisca qualcosa.

Spero.

 

A giovedì prossimo, non esitate a domandare se vedete che ho scritto qualche baggianata!

 

SeleneDiCorsa

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Blinding Lights ***


PAPER AND INK

 

Quattro

Blinding lights

 

 

*

 

New York City, East Village,

23 settembre 2013

 

 

­­­­­­­­­­­L’alba portava sempre con sé nuove consapevolezze. Forse era il sorgere del sole, l’idea di svegliarsi al buio ed ammirare il modo in cui, un raggio alla volta, la stanza si illuminava di vita; forse era semplicemente il fatto che Blaine amava sedersi sul davanzale della finestra della sua camera per vedere la luce nascere la mattina e morire al tramonto senza mai riuscire a frenare i ritmi della città che non dorme mai.

Quella mattina, tuttavia, il cielo era grigio piombo, evidente preludio ad un altro temporale autunnale: il vento faceva scricchiolare i cardini delle finestre e le prime gocce di pioggia avevano già schizzato i vetri. Blaine si era svegliato dieci minuti prima che suonasse la sveglia e si era ritrovato immerso nella luce opaca emanata da quel grigio improvvisamente tetro e compatto, privo di sfumature, semplicemente poco più che bianco.

Una nuova consapevolezza era arrivata anche senza la luce. Era scivolata lentamente attraverso la nebbia che si era posata sulle strade, tra una goccia ed un’altra, lungo gli inesistenti raggi di sole, fino a Blaine: Kurt esisteva.

Non sapeva perché, come, o cosa sarebbe successo dopo, ma non importava perché quello che contava era adesso. E adesso Kurt dormiva nell’altra stanza, era timido, dolce e spaventato e senza un posto dove andare – né un posto dove tornare.

Non potevano chiedere aiuto a nessuno. Blaine avrebbe potuto telefonare a sua madre, certo, ma a quale scopo? Lei non avrebbe capito, non avrebbe saputo come aiutarlo proprio come non ci era riuscita mesi prima, quando Blaine aveva avuto bisogno di lei, dopo la morte di Christine.

Christine era morta. Non avrebbe potuto aiutarli in alcun modo.

Non potevano far altro che avanzare un passo alla volta nella speranza di trovare una soluzione durante il tragitto. Non potevano certo aspettare tutta la vita che Kurt venisse risucchiato di nuovo dal libro. Tutta la vita era un tempo discretamente lungo.

Blaine soffocò uno sbadiglio e scivolò fuori dal letto, passandosi una mano tra i capelli sparati in tutte le direzioni. Il suo cellulare segnava già due chiamate perse da Sebastian, ma le ignorò miseramente, inserendo la vibrazione. Al momento aveva cose più importanti per la testa.

Si diresse verso il soggiorno mentre la pioggia iniziava a cadere violentemente: Kurt era ancora profondamente addormentato sul divano.

Era steso a pancia in giù e aveva affondato il viso tra il cuscino e il braccio nudo, finendo per intrecciarsi con la coperta dalla vita in giù; la maglia di Blaine gli stava un po’ grande – Kurt era più alto, ma aveva le spalle più strette – così durante la notte doveva essergli scivolata lungo la spalla, lasciandogliela scoperta quel tanto che bastava da intravedere le scritte lungo le scapole.

Blaine si fermò un attimo ad osservarlo, intenerito. Il sonno aveva disteso le rughe di preoccupazione e paura sul suo viso e finalmente sembrava tranquillo.

È carino, si ritrovò a pensare osservando il fisico sinuoso ed i ciuffi disastrosi che gli ricadevano sul polso.

C’era qualcosa in lui che meravigliava Blaine: nonostante avessero passato insieme molto meno di ventiquattro ore riusciva a cogliere sprazzi della personalità di Kurt che non aveva mai scritto o dettagli della sua vita che mai avrebbe immaginato.

Dopotutto non c’era da stupirsi di questa scoperta: il Kurt Hummel che ora dormiva placidamente di fronte a lui era molto più del personaggio che Blaine aveva creato, mille volte più intenso del pallido fantasma che aveva immaginato scendendo quella scalinata della Dalton un lontano giorno qualunque.

Per qualche incomprensibile motivo, più lo guardava più sentiva il bisogno di proteggerlo, di conoscere ogni aspetto della sua vita, della sua personalità brillante e travolgente, di rimanere per ore a contemplare la curva delle labbra, il naso all’insù, la pelle chiara. Chi l’avrebbe mai immaginato che Kurt avesse qualche lentiggine qua e là?

Era stato stupido a pensare di conoscere il suo personaggio come le sue tasche. Di fronte a lui c’era qualcuno che era semplicemente di più.

Era un po’ come provare a suonare un brano di Mozart senza averlo mai ascoltato prima. Poteva coglierne i tratti fondamentali, certo, ma non le sfumature, non i dettagli mozzafiato o i crescendo al momento giusto, non il cuore.

Kurt era questo: un’anima talmente vitale da togliere il fiato, fatta di miliardi di sfumature in contrasto con il cielo plumbeo prima di un temporale. Un’anima che Blaine, fino a quel momento, aveva colto solo in parte. Una melodia suonata a metà.

 


 

Quando Blaine tornò in sala una decina di minuti dopo trovò Kurt sveglio ed intento a stiracchiarsi come un gatto al sole, flettendo le braccia dietro la testa e scostando appena la coperta con una gamba.

“Buongiorno” disse con voce tranquilla, sperando di non spaventarlo. Kurt si voltò velocemente verso di lui e gli rivolse un sorriso un po’ triste, come se la presenza di Blaine fosse la conferma che quello che stava vivendo non era solo un brutto sogno ma la realtà.

“Buongiorno” rispose, alzando timidamente una mano a mo’ di saluto. “Posso riprendere a ringraziarti per l’ospitalità, adesso, visto che stanotte non me l’hai lasciato fare?” aggiunse alzandosi in piedi ed avvicinandosi a Blaine a passo felpato.

Le parole incise sul suo corpo sembravano vivide esattamente come il giorno precedente.

“Assolutamente no”. Blaine si lasciò sfuggire un sorriso quando Kurt fece una smorfia di fronte al proprio riflesso sullo specchio della sala. Si strinse nelle spalle. “Però puoi preparare la colazione, se vuoi. Mi pare di ricordare di aver letto che sei un ottimo cuoco”.

Kurt sorrise raggiante, distogliendo lo sguardo dallo specchio, e batté le mani, lasciando che la t-shirt gli scoprisse di nuovo la spalla. “Oh, vedrai! Preparati a dipendere dalle mie frittelle, Blaine”.

Blaine si sciolse nel modo in cui Kurt pronunciò il suo nome e lasciò che la stranezza del loro rapporto scivolasse oltre. “Vediamo che sai fare, Hummel”.

Kurt era già arrivato sulla porta della cucina quando si voltò e gli gettò un’occhiata pensierosa da sopra la spalla.

“Per caso hai della crema idratante che posso prendere in prestito dopo?” chiese passandosi una mano sulla guancia priva di barba. “Il mio regime di pulizia della pelle non può saltare solo perché sono in un universo parallelo”.

Blaine scoppiò a ridere e scosse la testa. “Nel terzo cassetto del mobiletto del bagno. Sei fortunato, il mio migliore amico è fissato con le creme idratanti francesi”.

Gli occhi azzurri di Kurt luccicarono un po’ più di soddisfazione e un po’ meno d’ansia. “Fa bene” fu il suo unico commento.

 


 

Intorno all’anulare della mano sinistra di Kurt, proprio come se fosse il cerchio di un anello, c’era una frase. Blaine riusciva a vederla perché aveva passato gli ultimi dieci minuti a fissare le mani di Kurt sfiorarsi lentamente l’una contro il dorso dell’altra – un gesto che il ragazzo sembrava compiere spesso, soprattutto quando era a disagio o non sapeva cosa dire. Un altro dettaglio da aggiungere alla melodia – anziché prestare attenzione al suo saggio di inglese.

Erano seduti ai lati opposti del bancone della cucina, uno di fronte all’altro: Kurt aveva ritardato il fatidico momento il più possibile, ma alla fine si era fatto coraggio e aveva chiesto a Blaine di poter leggere la sua storia; Blaine lo aveva riempito di raccomandazioni e frasi inutili prima di passargli il computer portatile e la scatola con tutti gli appunti.

“Se vuoi – compagnia mentre leggi, insomma, io sono in cucina a fare un saggio per l’Università, uhm” aveva balbettato, prendendo un nuovo pacco di post-it dalla scrivania. “Ecco, sì, sono di là”.

Le labbra di Kurt si erano piegate leggermente all’insù e l’aveva seguito docilmente in cucina, arrampicandosi sullo sgabello e immergendosi nella lettura con un respiro profondo, come se si stesse preparando piuttosto per stare sott’acqua.

Così Blaine aveva finito per farsi distrarre dalla presenza di Kurt di fronte a lui e dalle sue dita affusolate che scivolavano sulla pelle ricoperta di parole, dimenticando completamente Dickens e il saggio.

“Blaine” mormorò Kurt ad un certo punto, alzando gli occhi dallo schermo per posarli su di lui. Blaine arrossì e distolse in fretta lo sguardo dalle sue mani. Fa che non si sia accorto che lo sto fissando da mezz’ora.

Kurt girò verso di lui il computer con un’espressione indecifrabile in viso e posò proprio il polso a pochi centimetri dalla sua mano. “Guarda qui, è la stessa identica frase. Avevi ragione”.

Blaine sfiorò delicatamente il tendine lungo l’interno del braccio di Kurt con l’indice, confrontando le parole.

Sometimes you can’t make it on your own, erano quelle incise sulla pelle.

Nel documento la frase continuava: “Sometimes you just want something or someone to believe in when God doesn’t seem to be enough. But the only thing Kurt believes in is his father, and the truth is that Burt might not wake up.”

“A volte non puoi farcela da solo” lesse Kurt con voce tremante. “A volte vuoi solo qualcosa o qualcuno in cui credere quando Dio sembra non essere abbastanza. Ma l’unica cosa in cui Kurt crede è suo padre, e la verità è che Burt potrebbe non svegliarsi”.

“Ti fa venire in mente qualcosa?” chiese cautamente Blaine, lasciando andare la sua mano.

Kurt si morse il labbro inferiore e si fece improvvisamente pensieroso. “Beh, si tratta del periodo in cui mio padre ha avuto un infarto ed è finito in coma, quando avevo sedici anni” mormorò lanciando un’occhiata veloce a Blaine, che annuì per fargli capire che lo sapeva. Ma certo che lo sapeva. “E ricordo di aver pensato la stessa cosa. Qui, nel libro, non è una frase che dico ad alta voce, è semplicemente parte della narrazione, però ricordo di averla pensata, Blaine. Ero lì, seduto vicino al suo letto d’ospedale, e stavo pensando che se anche avessi creduto in Dio non sarebbe stato abbastanza; e che credevo in mio padre, ma l-lui non s-stava reagendo agli stimoli. N-non si stava svegliando”.

“Va tutto bene” cercò di rassicurarlo Blaine. Improvvisamente l’idea di fargli rileggere tutte le sofferenze che lui stesso gli aveva inflitto gli sembrò infinitamente idiota. “Poi si è svegliato, no? Ed ora sta bene e ha sposato Carole”.

Kurt annuì debolmente e tornò alla sua lettura in silenzio, lasciando Blaine tra i sensi di colpa. Passò un’altra ora e mezza prima che parlasse di  nuovo. Blaine aveva ormai definitivamente rinunciato a finire il suo saggio e aveva iniziato a girare ansiosamente per la cucina, fingendo di mettere a posto utensili mai usati prima, quando Kurt aveva richiamato di nuovo la sua attenzione.

“Eccone un altra” disse tirandosi su la manica del braccio sinistro e scoprendo l’avambraccio. Lungo la curva del gomito c’erano un altro paio di righe. “Stavolta è sul Glee Club” commentò Kurt facendo vagare gli occhi azzurri sullo schermo.

“Non è giusto” mormorò Blaine, leggendo le parole direttamente dalla pelle di Kurt. “Perché non può cantarla? È nato per questa canzone, è il perfetto riassunto della sua intera vita, è la sua canzone: cerca di sconfiggere la gravità da una vita”.

Di nuovo, la frase continuava nel libro con “Maybe he’s just tired fighting Rachel for solos. Let her have them all, he thinks. Mr Schuester won’t help him anyway: it is funny how he spend entire days talking about acceptance, joy, music and equality when he’s the first to say Kurt Hummel, a damn countertenor, cannot sing Defying Gravity because he’s a guy”.

“Ricordo anche questo” borbottò Kurt contrariato passandosi una mano tra i capelli perfettamente sistemati. “Insomma, succede sempre. Sono così stanco di fare la guerra a Rachel per tutti gli assoli. Tanto finisce per averli lei in ogni caso e il professor Schuester continua a blaterare di musica, uguaglianza, essere speciali, e poi è il primo ad impedirmi di cantare Defying Gravity perché sono un ragazzo”. Sbuffò sonoramente dal naso e Blaine non riuscì a non trovarlo adorabile. “Sono un controtenore, posso arrivare a quelle note tanto quanto lei, probabilmente meglio. Ho più fiato, fisiologicamente parlando. E sono vestito meglio di lei”.

Blaine tentò – senza successo – di nascondere una risatina in un colpo di tosse. Il personaggio di Rachel Berry era, dopo la temibile Sue Sylvester, uno dei più divertenti da scrivere. Tuttavia il suo talento causava un bel po’ di problemi a Kurt e alla sua scalata per il successo.

“Facevo anch’io parte di un Glee Club, quando andavo al liceo, quindi conosco bene la lotta per gli assoli” rivelò dopo un momento di pausa. Che male c’era nel condividere quel dettaglio, dopotutto? “Più o meno è così che ho conosciuto Sebastian, il mio migliore amico” mormorò cercando lo sguardo di Kurt. “Sì, insomma, ero il primo solista degli Warblers della Dalton Academy di Westerville”.

Kurt piegò la testa di lato, lasciandogli intravedere la frase sulla sua guancia, e parve di nuovo perso nei propri pensieri.

“È davvero molto brava” disse alla fine con un lieve sorriso, arrotolando la manica fino a coprire la scritta.

Blaine gli lanciò uno sguardo confuso. “Rachel Berry?”

“Tua nonna” rispose Kurt enigmatico. “Deve aver preso spunto dalla tua vita per – per scrivere questo. Ed è davvero molto brava. Certo, mi fa strano leggere certe cose, però devo ammettere che se non fosse un libro su di me, lo comprerei. Probabilmente diventerebbe il mio preferito”.

Non sapendo che dire, entrambi tacquero e Kurt si immerse di nuovo nella storia. Blaine tornò a far finta di riordinare la stanza, poi tentò di cucinare il pranzo. Ogni tanto lanciava qualche occhiata di nascosto a Kurt, più che altro per controllare le sue reazioni – o almeno così continuava a ripetersi nella sua testa – e scoprì che quando era pensieroso arricciava il naso in modo adorabile, che quando sorrideva di rado apriva la bocca, e che quando leggeva alcuni pezzi del libro, forse gli unici davvero felici, i suoi occhi si illuminavano.

Più Blaine passava del tempo in sua compagnia, più dettagli coglieva di lui. La cosa lo spaventava ed entusiasmava insieme. Chissà, forse col tempo sarebbe riuscito a cogliere tutte le sfumature.

 


 

Alla fine, senza nemmeno sapere come, si erano entrambi ritrovati sul divano, spalla contro spalla, a leggere insieme il sedicesimo capitolo.

Dopo un passaggio particolarmente doloroso riguardo al peggioramento del bullismo, inciso sulla pelle di Kurt proprio sopra la caviglia, Blaine si era seduto accanto a lui e gli aveva passato una coperta, cercando di distrarlo e chiacchierando di altro. Aveva finito per raccontargli, a grandi linee, la storia del suo bullismo, della sua fuga alla Dalton dopo l’incidente del Sadie Hawkins, di come molte volte si sentisse come in una gabbia dorata.

Lui aveva ascoltato attentamente, negli occhi azzurri uno sguardo talmente comprensivo da far male. Alla fine aveva aggiunto un paio di episodi al racconto, scorrendo con il mouse la storia fino a tornare indietro e dimostrare per l’ennesima volta che Blaine non sapeva tutto di Kurt Hummel.

Affatto.

Per esempio, non sapeva di quella volta in cui, alle medie, alcuni ragazzi più grandi lo avevano chiuso in un armadio*. Kurt non aveva mai detto niente a nessuno, nemmeno a suo padre. Blaine non l’aveva mai scritto, non ne aveva idea.

Era rimasto lì quando Kurt aveva iniziato il capitolo successivo, commentando di tanto in tanto qualche paragrafo o qualche frase, ignorando la terza chiamata di Sebastian della giornata e il temporale che ad un certo si era affievolito, trasformandosi in pioggerellina delicata.

 


 

Segreteria Telefonica del 25 Gennaio 2010

Speeeeak.

Blaine, sono io, mamma. Ha chiamato l’ospedale, perché accidenti sei al pronto soccorso? Non dovresti essere al Sadie Hawkins Dance con quel tuo – mhm, amico? Tuo padre ed io siamo in riunione per un importantissimo contratto, non possiamo muoverci di qui. Nonna sta arrivando. Cos’hai combinato stavolta? Il dannato telefono, Blaine, accendilo ogni tanto, eh?

 

Christine era stata la prima a raggiungere l’ospedale, quella notte di diversi anni prima. Nonostante il numero di emergenza di Blaine fosse quello di suo padre, era stata lei a correre attraverso il pronto soccorso, scavalcando medici, pazienti ed infermieri fino a raggiungere la sua stanza.

Camera 411*, Blaine ancora se la ricordava, con quelle pareti bianche ed anonime, il dolore opprimente di due costole rotte, un polso slogato e l’orgoglio a pezzi, e gli infermieri che lo guardavano con pietà mentre gli ripulivano tutto quel sangue di dosso e disinfettavano i tagli che aveva in viso.

Sua nonna aveva spalancato la porta della stanza e Blaine aveva avuto ancora più paura di quanta non ne avesse avuta mentre lo picchiavano, mentre le grida di Josh, l’altro ragazzo, si affievolivano fino a spegnersi, mentre nell’ambulanza gli dicevano di rimanere sveglio, perché Christine manteneva sempre la calma, mentre in quel momento sembrava sul punto di rompersi in mille pezzi.

“Blaine” aveva singhiozzato senza fiato sedendosi frettolosamente sulla sedia di fianco al suo letto. “Va tutto bene, piccolo, va tutto bene”.

Blaine non si era accorto di star piangendo fino a quel momento.

 

“Perché non mi hai detto che le cose erano peggiorate, a scuola?” aveva chiesto dopo un po’, prendendogli la mano non fasciata con cautela e stringendola tra le sue per scaldarla. “O che saresti andato al ballo con un altro ragazzo? Avrei potuto accompagnarvi, venirvi a prendere, qualcosa”.

Blaine, forse per la vergogna, forse per l’anestesia che cominciava finalmente a fare effetto, non aveva risposto, limitandosi a scuotere la testa velocemente per scacciare le lacrime.

“Oh, tesoro” aveva sospirato sua nonna, tentando un sorriso incoraggiante. “Sistemeremo tutto, te lo giuro, ma devi promettermi che me lo dirai immediatamente, se dovesse succedere di nuovo”.

Blaine si era lasciato sfuggire un singhiozzo e aveva scoperto che con due costole rotte faceva male anche solo respirare. “Mi dispiace” aveva sussurrato. “Volevo – volevo cavarmela da solo”.

Christine aveva stretto delicatamente le sue dita intorpidite e gli aveva baciato la fronte. “Certe volte non puoi farcela da solo, Blaine. Certe volte devi lasciarti aiutare, devi volere qualcuno o qualcosa in cui credere, anche quando sembrano non essere abbastanza. Ci sono io, piccolo. Non ti lascerò da solo”.

Ma Blaine si era sentito un vigliacco, perché non era riuscito a smettere di avere paura.

 


 

New York City, East Village,

23 settembre 2013

 

Blaine non aveva mai smesso di avere paura. Era il motivo per cui si era nascosto alla Dalton, dopotutto.

Ora osservava Kurt di sottecchi, studiando la sua espressione tirata e controllata o il modo in cui il respiro gli si incastrava in gola in passaggi particolarmente dolorosi da ricordare, e non vedeva un personaggio sbiadito: vedeva un ragazzo fragile eppure spaventosamente coraggioso, qualcuno che condivideva la sua paura, che conosceva ogni angolo buio del dolore eppure non lo lasciava vincere, mai. Qualcuno che nonostante si trovasse lontano da casa, solo ed in difficoltà, andava avanti.

Lo invidiava.

Blaine non era mai stato davvero coraggioso: persino con Kurt non era riuscito ad essere sincero e confessare di essere l’autore del libro per paura della sua reazione. Prima semplicemente era scappato dalle situazioni che avrebbero potuto metterlo in gioco.

Guardando Kurt ora, incredibilmente impaurito, impossibilmente bello, iniziava ad avere voglia di smettere di essere spaventato e scappare dalle cose per le quali valeva la pena rischiare.

“Kurt?” lo chiamò piano, senza quasi distogliere gli occhi dallo schermo fino a che non fu lui a cercare il suo sguardo. Smettila di correre, Blaine. “Mancano solo due capitoli ed è quasi ora di cena” gli fece notare, costringendosi a non posare la mano sopra alla sua, per quanto la tentazione fosse forte.

Kurt sospirò e si stropicciò gli occhi, spostando il computer portatile dalle sue ginocchia al tavolino. “Hai ragione, ho letto tutto il giorno, per te dev’essere stato noiosissimo” si scusò mestamente, regalandogli uno splendido mezzo sorriso. I suoi occhi azzurri si illuminarono. “Posso cucinarti qualcosa per farmi perdonare?”

Ma Blaine aveva un’idea di gran lunga migliore. “Non voglio offendere le tue doti da cuoco, le ho già sperimentate e abbiamo già appurato questa mattina a colazione che sei ufficialmente assunto, però in realtà stavo pensando che magari noi due potremmo -  se ti va, naturalmente -  andare a cena. Fuori”. Gli occhi di Kurt si allargarono fino a raggiungere le dimensioni di due lampadine e lui si sentì meravigliosamente bene. “Hai detto che adori New York” spiegò, un po’ più tranquillo. “Quei due capitoli possono aspettare e non è che abbiamo nient’altro da fare stasera. Sarebbe un peccato andarsene senza non aver visto la città, non credi?”.

Kurt lo fissò per un istante, si girò lentamente verso la finestra ed infine di nuovo verso Blaine, sconvolto.

Poi lanciò un mezzo urlo e gli gettò le braccia al collo, cantilenando: “Grazie grazie grazie grazie!”

Blaine gli cinse la vita con le braccia quasi d’istinto, più per tenersi in equilibrio sul divano che altro. Fece scivolare le mani alla base della sua schiena e rise leggermente mentre Kurt cercava di strangolarlo e iniziava a parlare a velocità inumana. Stringere quel corpo tra le braccia lo fece sentire, per la prima volta da quando si era trasferito a New York, a casa.

Un po’ era l’allegria improvvisa del ragazzo, che evidentemente aveva bisogno di essere salvato dai vecchi ricordi dolorosi che il libro portava con sé, un po’ era perché non aveva mai stretto nessuno così, semplicemente perché sentiva il bisogno di farlo. Un po’ era il profumo della pelle di Kurt: shampoo, carta ed inchiostro.

Un po’ era semplicemente lui.

Kurt si staccò da lui, particolarmente rosso in viso, ma i suoi occhi brillarono di eccitazione.

“Oh, mio dio” esclamò coprendosi la bocca con la mano, sconvolto. “E adesso che mi metto?”

 


 

New York, nonostante la pioggia leggera ed i residui di nebbia ai margini delle strade, era una città fatta di luci accecanti.

Blaine aveva sempre desiderato vivere qui, fin da bambino. Sognava di poter avere un piccolo appartamento con delle ampie finestre per potersi sedere sul davanzale ed ammirare la città, far entrare la luce, trasmetterla nelle cose che scriveva. Quando era arrivato a New York e aveva visto quelle luci per la prima volta aveva pensato che fossero la cosa più speciale che avrebbe mai avuto la fortuna di vedere.

Si sbagliava, naturalmente.

C’era qualcosa di immensamente più bello. Quelle stesse luci, riflesse negli occhi meravigliati di Kurt, che aveva passato la serata a naso all’insù, intento ad assorbire le meraviglie di New York e riempire Blaine di domande sulla città, sulla sua vita, su tutto.

Per la prima volta, Kurt aveva conosciuto il vero Blaine.

“Dimentica il libro, per stasera” gli aveva gridato Blaine in cima al Rockafeller Centre per sovrastare il vento urlante, mentre ammiravano l’Empire State Building di fronte a loro e la notte che scendeva su New York City, accendendola di luci accecanti.

Kurt aveva sorriso ed aveva chiuso gli occhi e preso un bel respiro, come se stesse cercando di sentire la città.

Era quasi un balsamo, passare la serata a scherzare con lui dopo tante ore di tensione ed ancor prima un periodo faticoso costellato di fallimenti e sensi di colpa: Kurt aveva una risata contagiosa, sapeva essere dolce ed allo stesso tempo cinico ed ironico; non era affatto timido, aveva ben chiaro in mente ciò che voleva dalla sua vita e aveva tutte le intenzioni di ottenerlo; era una fiammella di vitalità e passione che nessuno era ancora riuscito a spegnere, una melodia che Blaine stava scoprendo pian piano. Era una persona compassionevole ed incline al perdono, innamorata della vita nonostante tutto; era qualcuno che Blaine desiderava conoscere sempre di più, sempre meglio.

Quando sarebbe tornato a casa, in Ohio – nel libro? - gli sarebbe mancato.

Perché Kurt non poteva rimanere. Vero?

 


 

Fecero ritorno all’appartamento di Blaine alle tre di notte, bagnati fradici a causa della pioggia e ancora scossi dalle risate.

“Non avevo idea che il Glee Club avesse messo su delle audizioni, il primo anno!” esclamò Blaine piegato a metà, infilando non senza difficoltà la chiave nella toppa. “E si è presentata davvero tutta quella gente ridicola?”

Kurt si asciugò una guancia e lo seguì in casa, spostandosi i ciuffi bagnati dalla fronte. “Assolutamente sì. Mi stupisce che nel libro non ci sia, è stato esilarante. Quei tizi vestiti da banane, poi” commentò con leggerezza, togliendosi la giaccia – la sua, miracolosamente pulita dall’inchiostro – ed appendendola con cura all’attaccapanni.

Si girò verso Blaine, che aveva le mani congelate e stava ancora litigando con gli alamari della sua giacca blu notte.

“Oh, santissima Gaga, sei un disastro, Blaine Anderson. Vieni qui” esclamò con un mezzo sorriso, camminando verso di lui ed aiutandolo a liberarsi dalla giaccia zuppa, non senza arrossire violentemente.

 “Grazie” sussurrò sinceramente Blaine lasciandolo fare e fissando un punto al di sopra della sua testa. “Non passavo una serata così da una vita”.

Gli occhi di Kurt brillarono di gioia e gratitudine. “No, grazie a te per avermi fatto vedere New York. E per la cena ed il caffè. E per l’aiuto in tutta questa faccenda, non sei obbligato a farlo, eppure lo stai facendo lo stesso. In pratica mi stai salvando la vita”.

Blaine tentò di scacciare i pensieri che gli suggerivano amaramente che prima glie l’aveva rovinata, la vita, e tentò un sorriso. “Evidentemente la mia era estremamente noiosa e banale, prima” commentò, rendendosi conto di aver detto la pura e sconcertante verità.

Kurt sorrise e liberò l’ultimo bottone, facendo un passo indietro come per ammirare la sua opera.

 “Domani mattina possiamo finire di leggere gli ultimi capitoli, poi pensiamo a cosa fare, d’accordo?” chiese Blaine appendendo la giacca di fianco a quella di Kurt ed ammirandole per un secondo lì, una vicino all’altra. Era – era una bella sensazione.

Kurt si morse il labbro, esitante. “Sei sicuro di non avere da fare per l’università, o cose del genere? Ti tocca farmi da babysitter, mi dispiace e-“

“Ma no” lo rassicurò Blaine per la millesima volta. “Te l’ho detto, ho tutte le intenzioni di aiutarti, quindi ti toccherà sopportarmi e cucinarmi le frittelle a colazione”.

Le guance di Kurt non avevano ancora abbandonato la loro tonalità rosso fuoco. Si avvicinò a Blaine cautamente e lo avvolse in un abbraccio leggero come una piuma.

“Grazie” sussurrò al suo orecchio, sciogliendosi tra le sue braccia. “E così vuoi diventare uno scrittore, come tua nonna” commentò Kurt senza muoversi. “Come mai? Cosa ci trovi di speciale nello scrivere da sapere che è ciò che vuoi fare del resto della tua vita? Insomma, io so perché voglio finire a Broadway, quindi cos’è per te scrivere?”

“È una sensazione magnifica” rispose Blaine socchiudendo appena gli occhi. “Come se stessi salvando il mondo una persona alla volta”.

“Dev’essere stupendo” mormorò Kurt, rabbrividendo tra le sue braccia quando Blaine si lasciò andare ed affondò il viso nella curva tra il suo collo e la spalla.

“Lo è” rispose Blaine inspirando profondamente il suo profumo. Carta e inchiostro. “Buonanotte, Kurt”.

 



 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1666809