Rette Mich - Salvami

di Lady Vibeke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Two Of A Kind ***
Capitolo 3: *** Dog & Cat ***
Capitolo 4: *** Misunderstadings ***
Capitolo 5: *** Come And Rescue Me ***
Capitolo 6: *** Just One Kiss ***
Capitolo 7: *** Leni's Song ***
Capitolo 8: *** Kaulitz vs Kaulitz ***
Capitolo 9: *** The Power Of Goodbye ***
Capitolo 10: *** White Lies ***
Capitolo 11: *** Broken ***
Capitolo 12: *** Sing For Your Lover ***
Capitolo 13: *** Heaven Out Of Hell ***
Capitolo 14: *** To-get-her ***
Capitolo 15: *** The Taste Of Forever ***



Capitolo 1
*** Intro ***


Nota dell'Autrice: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, nè offenderla in alcun modo.

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Leni non era del tutto entusiasta del suo nuovo lavoro.
Per essere il suo primo impiego, per la verità, le sembrava un po’ troppo impegnativo, nonché necessitante di una certa quantità di responsabilità. A dirla tutta, finire a fare la costumista per un gruppo di bizzarri rockettari tedeschi non era esattamente quello che si era immaginata quando la sua mentore Kyla Devore, una famosa stilista scozzese, le aveva detto che le avrebbe procurato un biglietto di sola andata per il successo.

Tant’è, pensò Leni, gettando uno sguardo sconfortato alla minuscola stanza d’albergo che le era stata assegnata. Era certa che i quattro piccoli prodigi, al momento, si stessero accomodando nelle loro principesche supersuite extralusso, con tanto di idromassaggio, bar e chissà che altro.

La vita era veramente ingiusta.

Non aveva avuto ancora modo di incontrare i ragazzi, ma da quel che le era stato detto erano giovani: un paio appena maggiorenni (gemelli, a quanto pareva), uno sui diciannove anni, e uno doveva avere la sua età.

Con un sospiro, lasciò cadere il borsone a terra e buttò la borsa sul divano senza nemmeno accertarsi di aver chiuso la porta. Il viaggio da New York l’aveva stremata, e tornare in Europa dopo sei anni era una dura sfida di riadattamento. I continenti Vecchio e Nuovo avevano ritmi di vita completamente diversi, e ora avrebbe dovuto dimenticare le sue tranquille giornate a fare la commessa di boutique e entrare nell’ottica priva di criteri e orari del mondo dello spettacolo. Senza contare che il viaggio l’aveva distrutta.
Si trascinò fino al bagno (un buco pulito ed elegante, ma praticamente inagibile) e si chinò sul lavandino, lasciando scorrere l’acqua finché non divenne gelida. Ne raccolse un po’ con le mani e se la spruzzò sul viso stanco e tirato, cosciente che la sua speranza che l’acqua avrebbe cancellato le occhiaie scure era pressoché vana. Quando sollevò lo sguardo sul piccolo specchio, infatti, ciò che vide non le piacque: il viso, già di per sé pallido, sembrava particolarmente esangue alla luce azzurrognola del neon, e l’azzurro degli occhi a stento si intravedeva da sotto le palpebre gonfie e livide per il sonno e il brusco cambio di ambiente, e le ciglia bionde non aiutavano certo a far sembrare il suo sguardo più vivace.

Si passò una mano tra i flosci capelli corvini, tentando disperatamente di dar loro una qualche remota parvenza di piega, ma quelli le ricaddero imperterriti lungo la schiena, più lisci e statici di prima. Maledisse il giorno in cui aveva deciso ti tingere il suo biondo cenere naturale di quel maledettissimo nero, che la faceva assomigliare ad un vampiro trasandato.

Gran bel modo per presentarsi ai nuovi datori di lavoro, davvero. Senza contare che il suo tedesco era molto più che arrugginito.

Si sfilò di tasca il tesserino di riconoscimento dello staff del gruppo: Tokio Hotel, Alhena Regan, Stylist, lesse. Accanto ai dati ed al timbro, la sua foto non suggeriva nulla di meglio dello specchio. Le era stata scattata appena venti minuti prima, perché il tesserino le serviva per avere libero accesso alle aree riservate, ma avrebbe di gran lunga preferito fare colazione al bar come i comuni mortali ed avere una foto decente, piuttosto che mangiare nel salone privato con il gruppo ed il resto della crew e sembrare un cadavere su un documento ufficiale.

Compiangendosi, si asciugò in fretta la faccia e si rassettò brevemente la maglia nera, domandandosi se il suo stile non fosse un po’ troppo sul gotico estremo per una band di livelli internazionale, ma, al diavolo, il suo abbigliamento era quello che era, non avrebbe influenzato le sue scelte per il look dei ragazzi.

Quando, due minuti più tardi, mise al collo il tesserino ed uscì dalla stanza, occhiali da sole sul naso, non poté fare a meno di domandarsi se Kyla non avesse un po’ esagerato a raccomandarla per quel posto di stylist.

---

Bill era seduto scompostamente sul divano della sua suite, la testa abbandonata all’indietro, un braccio a corprirgli gli occhi e le gambe divaricate in modo ben poco fine.

Il tragitto in pullman da Malpensa (o come diavolo si chiamava quel maledetto aeroporto) all’hotel era stato a dir poco massacrante e gli aveva sottratto tutto quel poco di energia fisica e psichica rimastagli dopo l’aereo.

“Dove hai detto che hai messo il cioccolato?” mugugnò Tom, immerso in una ricerca assennata all’interno di una delle valigie sparse per la stanza.

Bill sospirò. Invidiava suo fratello per la sua immunità assoluta da ogni sorta di stress da viaggio.

“Nella mia borsa,” mormorò, muovendo a stento le labbra. “Sul letto.”

“Grazie!”

Sentì Tom precipitarsi verso il letto a due piazze e cominciare a frugare nella sua borsa. Quando il fruscio cessò e fu sostituito da un secco rumore di carta, seppe che Tom aveva trovato la tavoletta di cioccolato.

“E’ l’ultima?” domandò Tom, andandosi a sedere accanto a Bill sul divano, accavallando le gambe sul tavolino lustro.

“Mmm,” confermò Bill. “Ora te ne torni nella tua stanza, per favore?”

Tom emise una risatina sommessa, leccandosi la bocca con gusto.

“Dobbiamo scendere per colazione tra cinque minuti, non vale la pena che mi prenda il disturbo di arrivare fino alla mia stanza.”

Bill lasciò che il suo braccio scivolasse via dal proprio viso in modo molto eloquente e sollevò un sopracciglio in direzione del fratello.

“Tom, la tua stanza è qui accanto.” Puntualizzò. Tom annuì saccente.

“Appunto.”

“Non ho voglia di scendere, comunque,” proseguì Bill stancamente. “Fammi mandare su un piatto di spaghetti o qualunque cosa si mangi in questo posto a colazione.”

Tom rise di gusto.

“Ho sentito dire che le colazioni italiane consistono in latte e biscotti, sai?” ghignò. “Ma se vuoi ti faccio preparare un bel mix internazionale…”

“Tom, abbi pietà,” lo supplicò Bill, massaggiandosi le tempie. I suoi livelli di esaurimento erano tali che non ricordava di aver mai sperimentato qualcosa di peggiore. “Sono sull’orlo dell’autodistruzione, perché non vai a tormentare qualche bella italiana?”

Tom rimase in silenzio per un istante scarso, poi scattò in piedi tutto pimpante e sorrise ampiamente.

“La sai una cosa? Credo proprio che lo farò.”

-------

A Tom l’Italia piaceva, tutto sommato. Il cibo era ottimo, gli hotel grandiosi e il clima mite, il che implicava orde di fan psicotiche in mise succinte che non attendevano altro che vederlo affacciarsi ad una delle finestre dell’albergo.

Assolutamente una pacchia.

Scese le scale snobbando l’ascensore. Il brutto di stare ad uno dei piani più alti di un hotel a Milano non era solo l’inconveniente del panorama tutt’altro che accattivante, ma anche l’impressionante quantità di tempo che occorreva per arrivare al piano terra, perciò lui e i ragazzi preferivano farsi le scale a piedi, unendo l’utile della discesa al dilettevole di un po’ di attività fisica tra un’intervista e l’altra.

Svoltando l’angolo del secondo piano, andò a sbattere contro qualcosa, e la collisione non fu quel che si dice un dolce impatto.

“Ouch!”

La sua esclamazione di dolore andò a confondersi con una seconda, mentre Tom si portava una mano alla fronte dolente.

“Mi dispiace!” disse subito una voce in inglese. Tom scosse la testa e aprì gli occhi: la prima cosa che incontrò fu un paio di occhiali da sole griffati ed un volto cereo.

“Non – non fa niente.” Borbottò lui in tedesco, massaggiandosi il punto in cui sentiva sorgere un intenso calore.

La ragazza davanti a lui tentennò un istante, come se stesse cercando di ricordare qualcosa, poi si morse il labbro inferiore incerta. Era alta e piuttosto magra, o forse era solo l’impressione che dava la maglietta extralarge firmata The Cure che portava. Lo sguardo di Tom cadde verso il basso e lui sentì il proprio naso arricciarsi in disappunto quanto notò i fuseaux neri e gli anfibi semidistrutti.
Non gli piacevano le ragazze poco femminili.

Quando guardò nuovamente in su, si accorse che la ragazza aveva un piccolo livido vicino all’attaccatura dei capelli.
Evidentemente lei si accorse di essere studiata, perché si affrettò a congedarsi:

“Non ti preoccupare, non è niente.” Disse sbrigativa, in un tedesco perfetto ma esitante, sfornando un sorriso di gelida professionalità che impressionò Tom non poco. “Ora scusami, ma è il mio primo giorno di lavoro e sono in ritardo.”

E ciò detto gli sgusciò accanto e si precipitò giù per le scale, lasciandolo al centro del pianerottolo con le braccia penzoloni e le dita che premevano contro la fronte che ancora pulsava per la botta.

Si rallegrò del fatto che quella ragazza non fosse italiana, perché se le italiane fossero state tutte così, allora i Tokio Hotel potevano tranquillamente fare marcia indietro verso casa.

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Capitolo 2
*** Two Of A Kind ***


Tom doveva ammettere che forse aveva esagerato con la colazione e che dopotutto il suo fisico non aveva veramente bisongo di tre croissant alla Nutella, una pila di waffles con panna, una cioccolata calda e un piatto stracolmo di bacon, uova e salsiccia con formaggio.

Cercò Gerog e Gustav con lo sguardo tutt’intorno alla sala privata del gruppo e dei vari addetti, ma ancora non c’era traccia di loro.

Pare che io sia il solo vero uomo, nella band, rifletté sornione, andandosi ad appartare ad un tavolo in un angolo della stanza luminosa, accanto ad un’ampia finestra. L’ambiente, doveva ammettere, era molto raffinato. Un po’ troppo, forse.

Era già pronto a rimpinzarsi, quando si accorse che nella foga del momento aveva dimenticato di fornirsi di un dettaglio non del tutto indifferente: le posate.

Grugnì infastidito, si tolse il tovagliolo che già si era infilato nel colletto della maglietta e si trascinò di nuovo fino al buffet, alla ricerca delle stoviglie. Quando finalmente le individuò, notò che era rimasta una sola forchetta.

Allungò in fretta la mano per afferrarla, ma qualcuno lo precedette di un infinitesimale di secondo.
Profondamente irritato, Tom si voltò verso il misterioso incriminato e per poco non si lasciò sfuggire un rantolo ben poco educato.

Era la ragazza delle scale.

Se ragazza si può chiamare uno stecchino sgraziato che porta gli anfibi.

“Quella è la mia forchetta.” Le disse con tutto il garbo che riuscì a riesumare da sotto i vari strati di impazienza. La ragazza scrollò le spalle con noncuranza assoluta.

“Non mi pare siano nominali, queste posate,” osservò con altrettanto garbo. “Puoi trovarne altre nel salone pubblico.”

Tom aggrottò la fronte, pronto per protestare, ma lei lo precedette:

“Vuoi che ti accompagni io?”

Sembrava seria. Non suonava affatto come una battuta, ed dal modo in cui lo stava guardando sembrava davvero convinta che lui avesse bisogno di essere scortato come un bambino smarrito.

Ma chi diavolo è questa?

Lo sguardo di Tom cadde sul badge che la ragazza portava appuntato al petto, che prima gli era sfuggito, e rimase interdetto per un paio di secondi. Fu solo quando guardò nuovamente verso il volto di Alhena (Alhena Regan, da quel che si riusciva a leggere sul badge, quasi del tutto coperto dai suoi lunghissimi capelli) che si accorse che il suo momentaneo stato di trance contemplativa poteva essere frainteso in modo veramente sconveniente.

“I – io…” tentò di scusarsi, ben sapendo di non essere credibile, pur essendo – per una volta –innocente. “Io non stavo guardando –”

Col cavolo, Kaultiz, sei un playboy di fama continentale, ti aspetti anche che ti creda?

Alhena incrociò le braccia e lo scrutò da dietro le lenti scure degli occhiali da sole. Perché diavolo li portava all’interno di un edificio, poi?

“Come ti pare,” La ragazza sembrava tutto fuorché convinta della sua onestà. “Ci vediamo...”

Lo fissò un istante, inclinando lievemente il capo di lato, come ponendogli una muta domanda.

“Tom.” Disse lui, prima ancora di rendersene conto, stupito della necessità di presentazioni. Lei annuì.

“Alhena.” Si presentò.

Tom si trattenne dal rispondere ‘Grazie, so leggere’ e le strinse la mano fredda.

“Ma tutti mi chiamano Leni.” Precisò poi la ragazza.

“E hai sempre l’educatissima abitudine di non permettere alle persone a cui ti presenti di guardarti negli occhi, Leni?” fece lui beffardo. Lei, però, non si scompose.

“A tuo rischio e pericolo,” Sollevò la mano libera e si sfilò gli occhiali, e Tom comprese immediatamente perché li portasse: il suo viso era così stanco e sciupato che avrebbe potuto far concorrenza a Bill.
Nonostante tutto, però, l’occhio esperto di Tom capì che con qualche ora di decente riposo alle spalle e magari un po’ di colore in faccia doveva essere vagamente guardabile. I suoi occhi a mandorla erano di un luminoso azzurro cielo, la bocca piena e rosea, particolarmente colorita rispetto all’incarnato candido, come se la sua pelle non avesse mai conosciuto il sole. Portava un anellino d’argento al naso, cosa che a Tom prima era sfuggita, e una fila di sette piercing le ornava l’orecchio destro, compensata da solo due al sinistro.

Tom, comunque, restava dell’idea che ci fosse qualcosa di insopportabile nei suoi modi distaccati e un bel po’ sopra le righe.

“Sei la figlia di qualche produttore o PR, per caso?” le chiese d’istinto, curioso di scoprire cosa ci facesse mai una ragazza così giovane e bizzarra tra i membri del loro staff.

Le labbra di Leni si incurvarono all’insù.

“No, dolcezza, sono la nuova stylist di un gruppo che alloggia qui, e faresti meglio a levare le tende, se sei un fan, perché passerai guai seri, se ti beccano.”

Tom si costrinse ad assumere un’espressione di compromesso, che potesse sia celare il sogghigno divertito che lottava per deformagli la bocca, sia mascherare quella punta di sdegno che sentiva scintillare nei propri occhi.

“Correrò il rischio,” la rimbeccò, deciso a stare al gioco. “Vediamo se e quando mi scoprono.”

La nostra nuova stylist non sa nemmeno chi siamo, si disse sconcertato, andiamo bene. Veramente bene.

“Sei un mocciosetto sfacciato e petulante, lo sai?” gli disse lei.

“Ah sì?”

“Sì,” insistette lei. “E dovresti dire a mammina che è presto perché tu ti lavi da solo, perché evidentemente hai difficoltà a togliere un certo tipo di macchie.”

Tom non aveva la più pallida idea di cosa quella piccola presuntuosa stesse parlando. La conosceva da poco più di trenta secondi e già aveva la sensazione che la pace nel mondo sarebbe stata di un passo più vicina alla realizzabilità se mademoiselle Alhena si fosse volatilizzata all’istante dalla faccia della terra.

Dettaglio fondamentale, per quanto minuscolo: apparentemente Sua Grazia era la nuova assunta come consulente d’immagine del gruppo, e dio solo sapeva quanto c’era voluto per trovarne una.

Tom si domandò perché Leni gli stesse fissando il collo con tanta acida significatività dipinta in volto, poi, come un fulmine a ciel sereno, ricordò.

La rossa. Quella stramaledetta rossa che si era fatto la sera prima, con quel suo orrendo rossetto scarlatto che sembrava gridare al mondo ‘Sono una meretrice’.

A Tom sovvenne che in effetti aveva preso appunto mentale di darsi una ripulita da tutto quel rossetto appena si fosse svegliato, ma poi nel trambusto della partenza se n’era completamente dimenticato.

Dannazione.

Nemmeno gli piacevano le rosse, poi.

“Hey, tu!”

Lui e Leni furono interrotti dalla voce possente di Samuel, uno dei tanti addetti al benestare del gruppo, che fece cenno ad Alhena di avvicinarsi.

“Be’, buon primo giorno di lavoro, allora.” Tom sollevò appena la visiera del proprio berretto in un ironico segno di saluto, le sfilò sfacciatamente la forchetta di mano e si affrettò ad allontanarsi, mentre lei gli imprecava dietro qualche colorito insulto inglese che lui si rallegrò di non comprendere e Samuel la chiamava di nuovo.

Tom si augurò di tutto cuore che stesse per assegnarle qualche compito o molto sgradevole o molto gravoso. O, possibilmente, entrambe le cose.

---

Leni stava fumando dalla rabbia. Da quanto diceva il suo contratto, era stata assunta per consigliare ad una manciata di concentrati di testosterone con le gambe ed un sacco di ferraglia addosso come sfruttare al meglio i loro gusti in fatto di vestiti e simili, ma non le risultava che l’incarico comprendesse fare la cameriera personale quando uno di loro era troppo regalmente pigro per prendersi la briga di abbandonare la propria torre d’avorio e degnare il resto della vile umanità della propria divina presenza e amenità simili.

Non che non fosse abituata ai capricci delle star, anzi. Lavorando in una prestigiosa boutique si era fatta una vaga idea dei livelli di idiozia che potevano raggiungere certi vip, ma che ora le si chiedesse di fare la sguattera di quattro mocciosi imberbi proprio non le andava giù.

Uscì dall’ascensore soffiando come una gatta inferocita e cominciò a passere in rassegna i numeri sulle porte del piano: 312, 313, 314…

Quando finalmente trovò la suite di Bill Kaulitz, trasse un profondo respiro e si impose di darsi una calmata, poi bussò tre volte. Volente o nolente, stava per incontrare per la prima volta uno dei suoi ‘clienti’, quindi avrebbe dovuto mostrare rispetto, anche se ad aprire la porta sarebbe stato un brufoloso bamboccetto alto un metro e mezzo con qualche stupida maglietta dallo slogan osceno, disgustosamente pieno di sé.

Ma Bill Kaulitz non era nulla di tutto ciò.

Quando la porta si aprì lentamente, non c’era nessun moccioso pomposo, dietro di essa. Il ragazzo che le stava di fronte era alto, dal fisico deliziosamente asciutto, con lunghi capelli neri cosparsi di meches bianche che sparavano in tutte le direzioni, diversamente da quelli di Leni stessa. E poi aveva quegli occhi di un indescrivibile color nocciola, incredibilmente dolci ed amichevoli.

Una morsa letale le afferrò lo stomaco, mentre uno strano campanello le trillava in qualche remoto angolo della testa.

“Mi hanno detto di portarti la colazione.” Sussurrò, mentre i suoi occhi saettavano su di lui avidi, la sua mente di esteta in preda ad una specie di estasi onirica davanti a tutto quel materiale di prima qualità.
Se quello era uno dei ragazzi che doveva vestire, allora poteva anche chiederle di lucidargli le borchie.

Si sentiva un po’ come una bambina che stringeva in mano la Barbie più bella del mondo: non vedeva l’ora di fargli provare un sacco di modelli che già aveva in mente.

Bill lanciò uno sguardo di apprezzamento alla sua maglietta e la invitò ad entrare. Sembrava assonnato, ma decisamente in forma.

“Tu devi essere la nuova stylist, giusto?” indagò, facendole strada attraverso la stanza immensa, che Leni ammirò con tanto d’occhi. La sua doveva essere grande più o meno come l’ingresso.

“Sì, mi chiamo Leni.”

“Io sono Bill,” Le sorrise. “Non badare al disordine,” aggiunse poi, grattandosi la nuca imbarazzato. “E’ passato l’uragano Tom.”

Lei batté le ciglia confusa, non del tutto certa di quel che aveva capito.

“Come, scusa?”

Bill emise una brave risata che probabilmente avrebbe messo fine all’Era Glaciale nel giro di uno schiocco di dita, le prese con delicatezza il vassoio dalle mani e lo andò a posare sul tavolino nell’ampia sala.
“Mio fratello,” spiegò lui, lievemente accigliato, come se fosse una cosa scontata che lei dovesse saperlo. “Non gli basta essere uno stronzo misogino e ninfomane, deve anche avere il difetto di portare il caos ovunque metta piede.”

“Tom, hai detto?” domandò Leni, colta da un improvviso senso di vertigine.

“Sì,” Bill tolse il coperchio argentato al vassoio e scoprì la smisurata quantità di vivande che costituivano la sua sobria colazione. “Cazzo, ma con questa roba ci sfamo il terzo mondo!”

Leni, però, non ascoltava.

Ecco chi mi ricordava, piagnucolò tra sé e sé, è la fotocopia dark di quell’idiota rastafariano di prima.

Eppure questo Bill, per quanto fisicamente somigliante al gemello Tom, sembrava essere completamente diverso.

“Credo di aver avuto un incontro ravvicinato con lui, poco fa,” disse. “Ha per caso partecipato a qualche programma tipo Pimp My Ego, di recente?”

Bill rise di nuovo, seduto sul divano bianco, prendendo un biscotto dal vassoio.

“Suppongo sarebbe il colpo di grazia per quel poco che resta del suo senso di umiltà,” rispose, poi le fece cenno di sedere. “Hai fame? Io non finirò mai questa montagna di roba.”

Leni si ritrovò ad accettare ancor prima che il suo cervello potesse effettivamente elaborare l’informazione.
Prese posto accanto a lui e si lasciò offrire una fetta di torta di mele. Dopotutto ancora non era riuscita a mangiare.

Con la coda dell'occhio, studiò Bill di soppiatto.

Quel ragazzo per lei era come una miniera, un succoso oggetto di studio più allettante di un forziere di diamanti: la affascinava il suo stile, il suo modo di porsi, ma soprattutto era stata completamente rapita dalla sua incommensurabile bellezza androgina. Poche cose la mandavano in estasi come un ragazzo dai lineamenti efebici e delicati, e Bill sembrava l’incarnazione dei suoi sogni più selvaggi.
Il suo interesse era puramente professionale, quasi scientifico, come accadeva quando un pittore trovava il soggetto perfetto, e quello che lei aveva davanti andava oltre ogni sua più delirante fantasia.

Lo osservò mentre si serviva di un’abbondante porzione di macedonia di frutta e si compiacque del suo salutismo.
Il suo fisico era magro per natura, era evidente, ma le piaceva il fatto che nonostante potesse permettersi di mangiare interi panetti di burro, lui preferisse cibi ben più sani. A giudicare dalla pelle pulita e luminosa, era anche piuttosto evidente.

Quando si accorse di essere osservato, Bill le rivolse un’occhiata interrogativa, senza però abbandonare il suo sorriso appena accennato.

“Scusami,” disse Leni senza arrossire. “Stavo meditando se su una scala da uno a dieci, undici sarebbe sufficientemente appropriato per valutare il tuo impatto visivo.”

Bill guardò timidamente verso il basso.

“So che è maleducato da chiedere a una donna, ma quanti anni hai, per curiosità?” le chiese senza guardarla.

“Giusto un gradino sotto la legalità per l’assunzione di alcolici negli States,” rispose lei, incuriosita. “Perché?”

Gli angoli delle labbra di Bill si arricciarono in un sorriso sornione.

“Perché alla tua età dovresti sapere che le lusinghe gratuite irritano le rockstar più degli insulti diretti.”

Leni lo guardò stupefatta.

Lusinghe? Ma quali lusinghe, bimbo, io ti sto sbavando addosso come se tu fossi il primo uomo che vedo in vita mia e tu hai finito ieri di poppare, cosa ne vuoi sapere delle lusinghe?

“Mi credi davvero il tipo che dispensa stronzate melense per puro spirito di leccaculismo?”

“Lecca-che?”

Bill, che stava versando del caffè in un paio di tazzine, aveva assunto un’adorabile espressione interrogativa, che ridusse in briciole i già esigui resti della professionalità di Leni.

Lei rise.

“Scusa, mi manca il termine tedesco ufficiale per esprimere il concetto.” Si schermì con tranquillità. “Comunque ti assicuro che il giorno che mi vedrai snocciolare moine davanti a qualcuno, sarò sotto l’effetto di qualche stupefacente.”

“Buono a sapersi.” Ironizzò Bill, e urtò la tazza contro quella di lei in un insolito cin cin mattutino.

Sorseggiarono il caffè in tutta tranquillità, e Leni non poté fare a meno di pensare che forse Kyla non aveva preso un granchio poi così grosso nel mandarla a fare la costumista di questi ragazzi. Chissà, magari anche gli altri erano persone piacevoli come Bill.
Sicuramente lei si augurava che non fossero degli sgradevoli palloni gonfiati come il principe Tomi.

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A/N: Grazie a coloro che hanno commentato, come avrete sicuramente notato, d'ora in poi i capitoli saranno decisamente più lunghi dell'Intro, quindi più godibili (spero ^^).
come sempre, i commenti non solo fanno piacere, ma servono anche per farsi un'idea delle proprie capacità e perfino migliorarsi, in caso, quindi fatemi sapere cosa ne pensate. :)

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Capitolo 3
*** Dog & Cat ***



Bill sbadigliò platealmente, stiracchiandosi le braccia sopra la testa. Il caffè lo aveva risvegliato ben poco.

Accanto a lui, Leni nascose uno sbadiglio dietro a cinque dita affusolate dalle unghie smaltate di nero.

Lo sbadiglio è contagioso, diceva sempre nonna Kaulitz, ed evidentemente aveva ragione.

Lui e Leni si scambiarono un’occhiata eloquente.

“Nottataccia anche tu, eh?” fece lui.

“L’hai capito dalla profondità delle mie occhiaie, dall’assenza della più lieve sfumatura di colore sulla mia faccia o dallo sguardo pieno di entusiasmo che avevo quando ho bussato alla porta?” scherzò lei.

Bill ridacchiò divertito. Non gli ci era voluto molto per capire di essere in sintonia con lei.

Era raro che desse confidenza alle persone, soprattutto se sconosciute, ma questa ragazza sembrava saperlo cogliere come se lo conoscesse da una vita, cosa decisamente insolita, visto che in genere la gente si limitava ad additarlo e dire ‘Sei figo!’, ‘Ti amo!’ oppure ‘Che razza di sudicio scapestrato’.

Sicuramente lei non mi darà del sudicio scapestrato, pensò divertito, ammirando ancora una volta l’accuratissima trasandatezza dell’abbigliamento di Leni. Non gli sfuggì nemmeno il baciamano di finissima catena d’argento che portava alla mano sinistra, né il simbolo celtico che faceva da pendente alla collana che lei portava al collo.

Se quella era la loro nuova stylist, allora doveva assolutamente dare un paio di pacche compiaciute al gran manager David per l’ottima scelta, era ora che arrivasse qualcuno che non avrebbe preteso di vestirli come una cocktail malriuscito tra Backstreet Boys e Metallica.

Il fatto che poi provenisse da un paese in cui i Tokio Hotel avevano la stessa fama del Proteo delle caverne caucasiche era un particolare senza alcuna importanza. Se non altro almeno lei non sembrava meditare di muovergli violenza sessuale da un momento all’altro, e, per quanto riguardava Tom, sembrava non esserci rischio, data l’apparente antipatia reciproca che correva fra i due.
Anche a Georg e Gustav sarebbe piaciuta subito, Bill ne era certo.

Non si poteva dire che fosse bellissima, ma Bill non era certo che quell’ora di mattina fosse il frangente più adatto per dare giudizi, visto che lui stesso al momento aveva tutto l’aspetto di un reduce da una settimana di sesso, droga e rock’n’roll.

“Posso farti una domanda?” esordì dopo una lunga pausa di silenzio.

Leni annuì semplicemente, vuotando la propria tazzina pensierosa.

“Cos’è che ti ha spinto a lasciare il tuo elegante impiego newyorkese dallo stipendio stellare per venire a vestire quattro rozzi barbari oltreoceano?”

La domanda parve mettere a disagio Leni, che si strinse nella sua oversize come se sperasse di poter essere inghiottita al suo interno. Bill si accorse che il suo sguardo si era oscurato.

“Scusa,” mormorò, costernato. “Domanda sbagliata?”

Gli sembrò di vedere una scintilla di malinconia negli occhi stanchi di lei, ma fu una sensazione fugace. Quando lei si voltò verso di lui, tutto ciò che c’era nei suoi occhi era una sorta di nostalgia mista a rabbia.

“No,” lo rassicurò lei. “E’ solo che…” Leni si mordicchiò il labbro inferiore, come cercando le parole giuste. “Hai presente quando ti ritrovi così circondato di aspettative che finisci per perdere di vista te stesso e diventare qualcosa di completamente diverso?”

Bill annuì lentamente.

‘Sempre’ conta come risposta, giusto?

“Per me era così,” raccontò Leni, fissando il fondo di caffè della propria tazza, catturando in modo quasi magnetico l’attenzione di Bill. “Alta società, gente famosa, vestiti eleganti, viscido servilismo, false cortesie, false gentilezze, falsi rapporti… Avevo bisogno di un tipo di ambiente più…”

“Libero?” offrì lui. Lei sorrise debolmente.

“Già.”

“Però per adesso hai firmato solo per un mese di prova, sbaglio?”

“E’ solo una formalità, sai… Per dare a voi divi la parvenza di avere una qualche influenza su decisioni del tutto insulse, come ad esempio la selezione il personale che vi sceglie i vestiti, o quello che vi porta da mangiare, o che vi aiuta a lavarvi il collo.”

A quest’ultima espressione, le sopracciglia di Bill tracciarono un arco interdetto che invitava ad ulteriori spiegazioni.

“Tuo fratello aveva addosso tanto di quel Rouge Dior, poco fa, che se solo ci fosse stato un toro nelle vicinanze, a pranzo avrebbero servito Tom allo spiedo.”

Improvvisamente era tutto chiaro. Era ovvio che Leni aveva avuto modo di constatare di persona le discutibili abitudini di suo fratello in fatto di compagnie femminili.

“E’ un playboy patentato, se vogliamo usare un eufemismo.” Commentò, non senza una punta di ilarità.

“Alla faccia dell’eufemismo,” ribattè Leni. “Li conosco quelli come lui, pieni di sé da fare schifo e del tutto incuranti dei sentimenti delle ragazze che passano per il loro letto. Siamo tutte un reggiseno dimenticato tra le lenzuola per quelli come lui.”

C’era un’amarezza sconvolgente nel suo tono, e Bill era certo che Leni non stesse parlando per sentito dire. La sua voce pungeva e tagliava come solo la voce della realtà può fare.

“Deve averti fatta soffrire di brutto.” Buttò lì lui, percependo il vago filo conduttore della storia di sottofondo. “Chiunque sia stato.”

Leni non tentò nemmeno di fare la gnorri. Serrò le labbra nel tentativo di reprimere un sorriso che sapeva di ferite ancora aperte e deglutì forzatamente, facendo cenno di sì con la testa.

“Si danno sempre per scontate un sacco di cose,” sussurrò flebile, leccandosi le labbra, le mani giunte, i gomiti appoggiati mestamente sulle ginocchia. “Vivi beatamente in una grande bolla di bugie e illusioni, poi un giorno ti svegli e capisci che non hai fatto altro che costruire castelli in aria. Ti crolla tutto, e improvvisamente tutto quello che vuoi è…”

“Scappare.”

I begli occhi stanchi di Leni si spalancarono di sorpresa posandosi su di lui. Bill avvertì distintamente una scossa elettrica intercorrere tra loro.

C’era qualcosa, in lei, che gli faceva venir voglia di raccontarle tutto di sé e farsi raccontare tutto di lei. Era una sensazione nuova, per la verità, ma piuttosto piacevole. Forse per una volta sarebbe riuscito ad avere un vero rapporto umano con qualcuno dei suoi collaboratori.

“Sarà il caso di scendere a presentarti agli altri, adesso,” suggerì Bill, tirandosi in piedi. “Anche perché avranno già cominciato a farsi idee strane, e non vorrei mai passare per il Tom della situazione.”

Leni gli regalò un sorriso che spazzò via il velo di malinconia che seppur brevemente l’aveva avvolta e lo seguì verso la porta, non senza rubare un ultimo biscotto al cioccolato dal vassoio.

-------

Come Bill aveva intuito, Leni si era ben presto conquistata le simpatie di Georg e Gustav. Con Gerog, soprattutto, sembrava particolarmente a proprio agio, forse per il fatto che avessero la stessa età, forse per via del confesso debole che lei aveva per i bassisti. L’unico con cui gli attriti sembravano inappianabili era Tom.

Era quasi divertente vederli battibeccare per ogni nonnulla e al minimo pretesto. Molti dello staff, David compreso, dopo una sola settimana avevano cominciato a chiamarli Cane e Gatto, per sommo diletto di Leni e indignata irritazione di Tom.

Al momento, davanti agli sguardi divertiti di Bill, Georg e Gustav, i due avevano ingaggiato una lotta all’ultimo insulto a causa di una cintura che lei a tutti i costi voleva far indossare a Tom, e che lui ovviamente aveva deciso di detestare.

“L’altro giorno alle prove ti sono caduti i pantaloni! Non puoi rischiare che succeda anche al concerto!” stava sbottando lei, brandendo freneticamente la cintura borchiata.

Dopo il primo, memorabile giorno, nessuno la aveva più vista in versione acqua e sapone, perché da allora Leni aveva sempre portato un pesante trucco nero attorno agli occhi e le sue labbra erano perennemente coperte da un impeccabile velo di rossetto scarlatto. Certe volte, quando si vestiva in modo un po’ più eccentrico, sembrava uscita da uno schizzo di Tim Burton.

Al momento, comunque, mentre di ergeva minacciosa davanti a Tom, una manciata di centimetri più bassa di lui, aveva un aspetto quasi comico. Tom, dal canto suo, roteava gli occhi insofferente.

“Le fans andrebbero in delirio, sai?” obiettò piccato, in un tono presuntoso che strappò a Bill un mezzo sogghigno schifato. Quando c’era da fare gli esibizionisti, suo fratello non si lasciava sfuggire una sola occasione.

Nemmeno minimamente impressionata, Leni gli sbatté la cintura fra le mani e lo fissò truce con i suoi occhi di ghiaccio, e per un momento Tom parve paralizzato dalla sua determinazione.

“Tu metterai questa cintura, Kaulitz,” abbaiò lei. “Perché se non lo farai, farò in modo che il tuo plotone di fans sbavanti venga a conoscenza di un nostro certo piccolo, imbarazzante segreto.”

Bill aggrottò la fronte, colto da un improvviso picco di attenzione, e con lui anche gli altri.

Hanno un piccolo segreto?

Bill era sollevato di non essere l’unico sembrava smaniare dalla voglia di sapere. L’unico terrorizzato era Tom, che fissava Leni sconvolto.

“Non oseresti!”

“Di che cosa state parlando?” indagò Georg, avido.

“Niente!” si affrettò a rispondere Tom, poi lanciò uno sguardo ostile a Leni e, controvoglia, si infilò la cintura.

“Bravo il mio piccolino.” Lo prese in giro lei. Tom strinse gli occhi in due fessure e le rivolse un gesto non del tutto signorile.

“Tu non mi piaci Regan.”

Leni rise.

“Quale novità, Kaulitz. Hai deciso di sorprenderci tutti rivelando il terzo segreto di Fatima?”

“Fottiti.” Sibilò Tom, ormai rosso nella zona orecchie. Lei gli soffiò un bacio che trasudava sarcasmo.

“Dopo di te, zucchero.”

Uno a zero per lei, pensò Bill, ridacchiando sotto i baffi, non però dimentico di quel segreto a cui lei aveva accennato poco prima. Tom rivolse anche a lui il medesimo gesto che aveva galantemente indirizzato a Leni.

“Tomi, non essere volgare.” Lo ammonì Leni, puntandogli un dito contro. Tom ringhiò spazientito.

“Perché non te ne vai a quel paese, tu?”

“Voi due vi amate così disperatamente?” intervenne Georg ridendo, conquistandosi un’occhiata assassina da Tom e Leni.

“Vaffanculo, G!” gli sibilarono entrambi. Gustav scoppiò a ridere di fronte all’espressione urtata di Georg.

“Abbiamo trovato una cosa che li mette d’accordo,” disse, allungando una gomitata all’amico. “Coprirti di insulti.”

Una risata generale si levò da tutti quanti, e Bill dovette ammettere che era piacevole avere una ragazza ad alleggerire le loro giornate: frizzante e vivace com’era, Leni era di ottima compagnia e la sua presenza sembrava alimentare le energie dell’intero gruppo.

A Bill piaceva ogni giorno di più, ma dopo il primo momento di grande complicità, lei era diventata un po’ fredda con lui, e questo, stranamente, lo aveva lasciato un po’ ferito.

Sono stato bellamente scavalcato da Georg, riflettè, chi l’avrebbe mai detto.

Per la verità, nella sua testa c’era una vocetta fastidiosa e saccente che continuava a sottolineare quanto fosse arrogante da parte sua ritenersi un personaggio più interessante dell’amico. Solo perché in genere era lui ad essere in cima all’indice di gradimento delle fans, questo non significava necessariamente che la cosa fosse universale.
Sapeva di essere indifferente a molte, e di riscuotere le antipatie di altrettante, ma aveva veramente avuto l’impressione di stare simpatico a Leni, all’inizio.

Apparentemente si sarebbe detto che tutto era esattamente com’era cominciato, ma Bill vedeva tutte le piccole differenze che lo avevano tanto deluso. Ridevano e scherzavano ancora, certo, e lui era il gemello che lei chiamava per nome, ma da qualche giorno Leni aveva smesso di guardarlo negli occhi, come se parlare con lui fosse un dovere che non le interessasse veramente.

Al di fuori della mente di Bill, gli altri scoppiarono in una fragorosa risata, e lui notò che Tom si era nuovamente imbronciato.

Era bello vederli tutti così briosi, nonostante lo stress del periodo.

In quella, la testa di david fece capolino dalla porta:

"Avete finito qui?" domandò con urgenza. "L'intervista comincia fra dieci minuti."

"Ci siamo quasi," lo rassicurò Leni, sollevando un pollice. "Metto a Tom il suo tutù rosa e sono pronti."

"'Fanculo, Regan!" le abbaiò dietro Tom, ma David, Georg e Gustav erano già scoppiati a ridere.

"Coraggio, gente," disse Georg, alzandosi dal divanetto. "Il mondo brama di sapere se Bill ha un Vero Amore e se Tom si è già fatto qualche groupie italiana."

Bill si alzò in piedi ed affondò le mani in trasca, dirigendosi cupo verso la porta.

"Se avessi un Vero Amore, il mondo dovrebbe aspettare." mormorò, senza preoccuparsi del fatto che lo avessere sentito o meno.

Durante l'intervista, la giornalista fece a lui e ai ragazzi molte domande, alcune vecchie come il tempo, altre decisamente fuori luogo, e Bill rispose a tutte senza sapere esattamente cosa stesse dicendo.

Quando la donna gli disse che aveva sentito che avevano una nuova curatrice d'immagine e gli domandò se era stata un'idea sua quel suo look un po' più tetro, i ragazzi irruppero in una risata diveritita.

Bill li osservava in disparte con espressione cogitabonda, senza ascoltare davvero. Inspiegabilmente, non si sentiva più dell’umore di ridere.

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Capitolo 4
*** Misunderstadings ***


Dopo l’intervista, Georg e Gustav si trascinarono in palestra, desiderosi di mettere la maggior distanza possibile tra le loro cellule celebrali scandalizzate e quella sottospecie di megera pettegola che li aveva appena tartassati di domande del tutto insulse ed invadenti.
Leni li guardò sparire oltre le porte scorrevoli di uno degli ascensori e si ritrovò da sola con David, Bill e il suo Kaulitz ‘prediletto’.

“Eccellente, voi due,” si complimentò David con i due ragazzi. “Ormai le vostre risposte diplomatiche sono così convincenti da ingannare anche me.”

“Oh, è vero!” cinguettò Leni, cogliendo al volo l’occasione per punzecchiare un certo biondo nei paraggi. “Tom mi ha quasi convinta quando ha detto che ciò che ammira di più nelle fans italiane è la solarità.”

Per tutta risposta, Tom le mostrò il dito medio, e lei finse di svenire per l’emozione. David rise di gusto, e si congedò.

Bill, invece, era silenzioso.

Leni lo scrutò sottecchi: sembrava un po’ giù di tono, come se il mondo intero gli pesasse addosso, e lei aveva una vaga idea del perché.

Cosa c’è, ora hai anche la presunzione di pensare che sia a causa tua?, le sussurrò perfidamente il suo lato razionale. Lui è Bill Kaulitz, non si scomoda per le nullità come te, quindi allontanati pure da lui quanto vuoi, non esiste il minimo rischio, bimba, credimi.

La verità era che Leni si era presto resa conto che il legame tra lei e Bill aveva fatto in fretta a discostarsi dal semplice rapporto professionale, e anche se non ci aveva messo molto di più a stringere amicizia anche con Georg e Gustav, di certo non poteva fingere che il sottile filo invisibile che la legava a Bill era lievemente diverso.

Contrariamente a Tom, che proprio non riusciva a digerire – e che sembrava non digerire lei – Bill le piaceva, e molto, e proprio per quello aveva deciso di risparmiare a sé stessa una lunga agonia e semplificare le cose, mettendo immediatamente dei paletti tra lei e lui. Aveva bisogno di quel lavoro come styler, e non poteva certo rischiare di giocarsi la reputazione prendendosi una sbandata per un ragazzo che in ogni caso aveva già fin troppe ammiratrici sparse per il mondo.

“Se volete scusarmi, io ora andrei a darmi una rinfrescata,” disse Leni, ansiosa di allontanarsi per almeno qualche minuto dall’atmosfera carica di tensione che si era creata nella stanza che era stata allestita per l’intervista. “Ci si rivede per cena.”

“Salgo anch’io,” borbottò Tom, secco. “Voglio farmi una doccia.”

“Tu? Una doccia?” Leni sgranò gli occhi sardonica, sfoderando uno stupore posticcio che strappò un mezzo sorriso perfino a Bill. “Dobbiamo richiamare quella giornalista, questo sì che è uno scoop!”

Tom le si palò davanti, le mani piantate sui fianchi, l’ala del cappello che le sfiorava la fronte, e la guardò in cagnesco.

“Ottima idea, così io potrò informarla dei soprusi che sono costretto a subire sotto la tua dittatura stilistica!”

Leni fece una smorfia insolente.

“Bravo, e lo sai lei cosa ti risponderà? ‘Complimenti, signor Kaulitz, era ora che lei smettesse di indossare quelle sottospecie di mise da obeso fallito e si vestisse come un vero diciottenne etero!’.”

“E dovrei prendere lezioni di eterosessualità da te?” berciò Tom, accennando con un gesto significativo ai jeans squarciati e alla maglia viola stinta di Leni, ma lei non demorse.

“Chissà, magari rischieresti di imparare qualcosa su come si trattano gli esseri umani…”

“Ti hanno mai detto che i buoi non dovrebbero dare dei cornuti agli asini?” replicò Tom.

Leni era sul punto di ribattere, quando un colpo secco e violento li fece sussultare. La porta aveva sbattuto alle spalle di Bill, che aveva lasciato la stanza senza dire una parola.

“Che diavolo gli ha preso?” si chiese Tom, aggrottando la fronte confuso.

“Non lo so,” fece Leni, altrettanto confusa. “Dovresti parlare con lui.” Aggiunse poi, seria.

Tom la guardò come se gli avesse appena proposto di buttarsi da un cornicione.

“Perché dovrei parlargli io?”

“Non so, fammi pensare…” Leni si portò una mano davanti alla bocca, fingendosi pensierosa. “Perché sei suo fratello, magari?”

Tom si esibì in una proverbiale scrollata di spalle menefreghista.

“La sua grande amicona sei tu, adesso, giusto?”

“Sento una punta di gelosia nel tuo tono così virilmente sprezzante.” Lo provocò lei, benché un po’ preoccupata per lo strano comportamento di Bill.

Forse dovrei parlargli davvero…

“Geloso di te?” si schermì lui. “Ma fammi il favore, potresti metterti a copulare con ogni essere respirante, per quanto mi riguarda, sai cosa me ne importa di te…”

“Un po’ come te, insomma,” replicò lei, sogghignando. “Ma quando ti ho chiesto se sei geloso, intendevo di Bill, mister Coda di Paglia.”

Tom boccheggiò interdetto, un lieve rossore a sfiorargli le guance. Leni non aspettò che si decidesse a parlare.

“Parlerò con lui,” gli comunicò freddamente. “Ma solo perché so che tu saresti di ben poco aiuto, e il tuo tatto è paragonabile a quello di uno scaricatore di porto coi reumatismi.” Ciò detto, Leni si voltò e corse dietro a Bill, lasciando Tom con un palmo di naso.

Non sentì mai il sospiro frustrato che lui si lasciò sfuggire quando lei se ne fu andata.

-------

Leni avrebbe avuto voglia di raggiungere Georg e Gustav in palestra e scaricare il suo nervosismo dilagante sul primo, sfortunato punchingball che avesse incontrato, ma si costrinse a reprimere il tutto e ad arrancare su per le scale fino al sesto piano, dove arrivò piuttosto accaldata ed ansante.

Fare da baby sitter a dei marmocchi non era compreso nel contratto, sbuffò tra sé, come del resto non lo era fare la cameriera o avere a che fare con dei galletti esaltati in crisi esistenziale.
Vagò per un minuto abbondante nei corridoi, maledicendosi per non essere ancora riuscita a capire come orientarsi in quel maledetto hotel dopo ben una settimana che alloggiavano lì.

Individuò la stanza di Bill quasi con gioia, ma la sensazione non impiegò molto a dissolversi in un ansia incalzante.

Cosa diavolo dovrei dirgli, esattamente?

Incrociò mentalmente le dita, sollevò la mano e bussò. Le rispose un silenzio assoluto.

Bussò di nuovo, con più vigore, ma ancora nessuna risposta, così appoggiò l’orecchio alla porta e si mise in ascolto. La stanza sembrava vuota.

Dove diavolo può mai essere andato quel pazzo?

“Bill?” Provò a bussare per l’ennesima volta, ma senza fiducia. “Bill, sono Leni. Se sei lì dentro, per favore, apri.”

Inaspettatamente, dall’altra parte della porta si sentì qualcosa sbattere ed un rumore di passi che si avvicinavano. Un istante dopo, la porta si aprì, e Leni per la prima volta si fece una vaga idea di cosa si provasse durante un arresto cardiaco.

“Che c’è?”

Bill la guardava in modo indecifrabile, una via di mezzo tra l’esausto e il ferito che trafisse Leni come un dardo avvelenato.
Doveva essersi appena lavato la faccia, perché il viso pallido gocciolava copiosamente ed era rigato dal trucco nero che gli colava dagli occhi. Qualunque cosa avesse, non era qualcosa di buono.

“Santo cielo,” esclamò sorpresa. “Cosa diamine ti è successo, così all'improviso, si può sapere?”

“Non ne voglio parlare.” Rispose lui asciutto, e fece per richiudere la porta, ma Leni fu più svelta e lo bloccò.

“Non mi liquidi così, ragazzino.”

Ci fu un istante di gelido silenzio. Negli occhi di Bill balenò una scintilla che Leni non riuscì ad identificare, poi il suo sguardo si fece oltraggiato, offeso, ostile, molto più simile agli sguardi che di solito le rivolgeva Tom.

“Io non sono un ragazzino.” Le sibilò, e le sbatté la porta in faccia.

Leni rimase immobile dove stava, scioccata dall’evento. Non era da lui comportarsi così.

“Tipico di Bill,” Disse una voce alle spalle di Leni; quando lei si voltò, vide Tom appoggiato allo stipite della porta che immetteva sul corridoio con fare saputo, un sopracciglio sollevato. “La sua indole da prima donna non sa resistere davanti all’occasione di fare l’enigmatico animo tormentato… Manie di protagonismo, sai...”

Leni si incrociò le braccia sul petto e sollevò a sua volta un sopracciglio.

“Cos’è che dicevamo poco fa in merito a buoi ed asini?”

Stavolta, stranamente, il sorriso con cui Tom le replicò sembrava veramente divertito.

“Lo sai, se tu non fossi la più fastidiosa creatura di sesso femminile che io abbia mai conosciuto, potrei anche trovarti simpatica.”

“Troppo buono, signor Kaulitz, troppo buono,” disse lei, portandosi una mano al petto con esagerata enfasi. “Una umile servitrice come me onorata da cotanta bontà… Sono toccata.”

“Sì, nella testa.”ghignò lui. Leni gli fece una linguaccia per mascherare l’ombra di un sorriso che lottava per comparirle sulle labbra.

Bella questa, Tomi, sul serio.

“Lascialo perdere, ti conviene,” riprese poi Tom. “Quando sta così, l’unica è lasciarlo sbollire un po’ e poi torchiarlo finché non confessa.”

“Stiamo parlando di tuo fratello o di un serial killer?”

“A volte non ne sono sicuro nemmeno io.”

“Lo sai, se tu non fossi la più fastidiosa creatura di ambo i sessi che io abbia mai conosciuto, potrei anche trovarti simpatico.”

In quel momento, una delle porte che davano sul corridoio si spalancò e ne emerse una testa bionda ricoperta di bigodini. Una donna di mezza età magra come un giunco, in vestaglia, cominciò a bersagliarli in russo o qualcosa di simile, la maschera di bellezza che portava sul viso che a stento le permetteva di muovere i muscoli facciali.

I due ragazzi esitarono per un paio di secondi, domandandosi se tutta quella frenesia poteva essere dovuta alle loro semplici chiacchiere, ma la voce della donna diventava sempre più arrabbiata, sempre più acuta ed isterica, e di questo passo l’intero hotel si sarebbe riversato in quel corridoio.

Brutta strega, ma che diamine ti abbiamo fatto?

Leni fece a malapena in tempo a farsi attraversare la mente da un pensiero omicida, che sentì la mano di Tom afferrarla e trascinarla con sé in una stanza. Quando la porta chiuse fuori le imprecazioni della pazza furiosa, Leni rammentò che la suite di Tom, in effetti, era proprio accanto a quella di Bill.

Quando si voltò verso Tom, notò che lui aveva un’espressione sconvolta, e per poco non le venne da ridere.

“Cristo, ma quella era sotto psicofarmaci!” commentò, seriamente scioccato.

“Credo che abbiamo rovinato il suo sonno di bellezza.” Osservò lei, cominciando a guardarsi intorno. La stanza era nelle stesse patetiche condizioni in cui era stata quella di Bill il primo giorno in cui l’aveva vista: sembrava fosse appena passato Attila, re degli Unni.

Sparsi un po’ ovunque c’erano vestiti, cartoni di pizza, lattine di birra e coca cola, incarti di vari ed ottimi esemplari di quello che a New York avrebbe chiamato ‘junk food’ e una considerevole quantità di riviste di musica e di un genere un po’ meno ortodosso.

Leni fece una smorfia e si soffermò di fronte ad un reggiseno di pizzo rosa che pendeva misteriosamente dal lampadario del salotto.

“Kaulitz, ti ho mai detto che sei un essere disgustoso?”

“Negli ultimi trenta secondi?” disse Tom. “No, non ancora.”

Tolse con nonchalance il reggiseno dal lampadario e lo gettò assieme ad un altro paio accanto al televisore. Leni volse lo sguardo al cielo, incredula.

“Non fare quella faccia, miss Puritania,” biascicò Tom, masticando una liquirizia che aveva appena ripescato da una tasca dei jeans. “Sono un uomo, ho dei bisogni da soddisfare.”

Una risatina di scherno sfuggì dalle labbra di Leni. Se non lo avesse conosciuto, avrebbe detto che era sulla difensiva.

“Consumare ragazze come se fossero caramelle non fa di te un uomo, ma un bambino viziato.” disse, sorpresa dalla sua stessa solennità. “Così come spezzare loro il cuore non ti rende potente, ma semmai crudele.”

“Mi fai la paternale, adesso?” la sfidò lui, mentre si levava il cappello e lo buttava sul divano, già di per sé affollato da una manciata di magliette e diversi giornali sgualciti.

A Leni sembrò di cogliere una vibrazione di incertezza nella sua voce, lieve, quasi impercettibile, ma guardare Tom scaraventare vestiti a destra e a manca, presumibilmente alla ricerca di qualcosa, le tolse ogni dubbio. Se l’era immaginato, decisamente, mossa forse dalla vana speranza che anche lui avesse un minimo sindacale di riguardo per il prossimo.

“Più che farti la paternale, diciamo che godo nel provocarti fastidio.” Rispose, in uno slancio di maliziosa sincerità, osservandolo mentre raccoglieva un pacchetto di sigarette da terra e se ne accendeva una. “E non dovresti fumare qui dentro, tanto per essere pedanti.”

Tom fece spallucce.

“Con quello che paghiamo queste stanze, dovrei poterci fare surf, qui dentro.”

“Nessuno vi obbliga a stare in queste suite iperlussuose da un migliaio di euro al giorno, Principino Tomi.” Puntualizzò lei, pensando al suo minuscolo letto bitorzoluto. “Se vedeste le stanze di noi comuni mortali, Vostra Altezza, ci pensereste due volte prima di lamentarvi dei vostri umili alloggi.”

Tom le si avvicinò e le soffiò una boccata di fumo in faccia.

“Quanta finezza.” Commentò Leni, diradando il fumo con una mano.

“Piano con i complimenti, potrei montarmi la testa.”

“Tranquillo,” lo rassicurò lei, ammiccando. “Il tuo ego ha raggiunto la sua massima espansione già da diversi anni.”

“Il tuo, invece, suppongo sia nato già così sconfinato ed irriducibile…” la stuzzicò lui.

Si guardarono torvi per un po’, poi gli occhi di Leni si abbassarono fugacemente sulle labbra schiuse di lui, poi si sollevarono di nuovo sui suoi occhi, quei meravigliosi occhi nocciola a cui, doveva ammettere, nessuna avrebbe potuto resistere.

Vide che Tom la scrutava nello stesso modo, e, lentamente, lasciò che i loro volti si avvicinassero.

Le loro labbra giunsero ad un soffio di distanza, e quasi stavano per sfiorarsi, quando Leni inclinò leggermente il capo ed avvicinò la bocca all’orecchio di lui, soffiando dolcemente. Lo sentì rabbrividire, e sorrise a sé stessa compiaciuta, poi sussurrò:

“Il mio reggiseno non finirà sul tuo lampadario, Kaulitz.”

Lo spinse via in malo modo e raggiunse in fretta la porta, ma non appena la aprì, Tom la afferrò per un polso e la trascinò verso di sé.

“Sei solo una sadica stronza, Regan.” La prese per le braccia e la strinse fino a farle male. “Mi dai la nausea.”

“Il sentimento è reciproco, per la cronaca.” Gli mormorò lei, velenosa.

“Non sai quanto mi faccia piacere sentirtelo dire.” Sussurrò lui di rimando.

Leni lo trafisse con un’occhiata feroce, premendogli le mani sul petto nel tentativo di divincolarsi, ma lui era troppo forte e la teneva sempre più stretta. Ormai sembrava che ogni centimetro dei loro corpi fosse in contatto, e Leni cominciava a sentire uno strano formicolio fastidioso dalle parti dello stomaco.

Fu così che, un secondo più tardi, Bill li trovò, bussando alla porta aperta.

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Capitolo 5
*** Come And Rescue Me ***


“Bill!”

Gli sguardi attoniti di Tom e Leni lo colpirono in pieno stomaco come il più letale dei pugni.

Erano lì, proprio davanti alla porta semiaperta, stretti l’uno all’altra come fosse un’abitudine, per loro, respirarsi sul collo tra un sussurro e l’altro.

Bill non riuscì a distinguere nemmeno una sillaba di quello che dissero, le loro voci mescolate l’una all’altra come un unico suono indefinito nella sua testa vorticante.
Non riusciva a sentirli, ma non gli importava un bel niente di qualunque cosa avessero da dire.

Non profferì parola, né li guardò in faccia. Girò sui tacchi e si allontanò con uno strano ronzio nelle orecchie, un nodo pulsante a serrargli la gola. Corse su per le scale, senza avere la più remota idea di dove stesse andando, avvertendo alle sue spalle una voce distante e confusa che forse chiamava il suo nome. Decise di non curarsene.

Continuò a salire, fino a che non si ritrovò davanti ad un portone. Senza farsi domande, abbassò il maniglione antipanico e spinse. Il portone si aprì sul tetto dell’albergo.

“Bill!” urlò di nuovo la voce indistinta. “Ma ti vuoi fermare?”

Mentre una parte del suo cervello gli ricordava che Tom non sarebbe mai riuscito a stargli dietro in una simile corsa, Bill si precipitò fuori, respirando con sollievo l’aria fresca di quella mite sera di ottobre. Fino ad un istante prima, aveva avuto la sensazione di soffocare.

Arrivò fino al parapetto e vi si appoggiò, stremato per lo sforzo, il respiro ansante. Alle sue spalle, qualcuno respirava con la stessa fatica.

“Se vai oltre, non ho la minima intenzione di seguirti.” Lo ammonì la voce di Leni, ora più chiara ed nitida che mai. “È tutto oggi che ti rincorro.”

Bill si voltò indietro, ansimando. Leni aveva il viso arrossato e i capelli tutti spettinati, e lo guardava con un misto di rimprovero e…

Rimorso?

“Bill –”

Lui sollevò una mano per farla tacere.

“Leni, per favore,” disse stancamente, appoggiandosi indietro alla ringhiera, le mani che stringevano il ferro come se fosse tutto ciò che lo teneva il piedi. “Non mi interessa.”

Leni assunse un’espressione perplessa e si avvicinò di qualche passo.

“Cos’è che non ti interessa?”

Bill guardò a terra.

Sapere i dettagli.

“Qualunque cosa tu stia per dire.” Rispose, cercando disperatamente di sembrare distaccato ed indifferente, ma scoprì di non esserne capace.

“Io non sto per dire un bel niente, sei tu quello che dovrebbe dare spiegazioni.” Replicò lei.

Bill stentava a credere alle proprie orecchie.

“E, se non è di troppo disturbo, ti spiacerebbe dirmi cos’è che dovrei spigare, esattamente?” fece lui, acido. Non voleva essere brusco, ma al momento la parte pensante di Bill Kaulitz era troppo occupata ad essere furiosa per prendersi la briga di interpellare la gentilezza.

Leni sembrava sinceramente confusa.

“Sono diversi giorni che hai un muso lungo da qui agli antipodi,” disse. “Eppure non fai che ripetere che è tutto a posto, che va tutto bene… Ma non va affatto bene, mi pare.”

Bill sospirò ed abbassò la testa.

“Hai mai mentito così spudoratamente da finire per crederci anche tu?” mormorò mesto.

Leni inarcò le sopracciglia con fare dubbioso. Si portò le mani sui fianchi e lo squadrò con l’aria di qualcuno che cerca di capire se si ritrova davanti ad un soggetto mentalmente instabile.

“Questa non è una scusa granché valida.” dichiarò risoluta. “E comunque non è che tu avessi l’aria di uno poi così convinto di star bene,” proseguì imperterrita, del tutto incurante dei tumulti interiori di Bill. “Non ti si può rivolgere la parola senza che tu ti dilegui in un istante, oggi, e sarebbe cosa gradita, da parte tua, indossare almeno un cartello d’avvertimento, così la gente eviterebbe direttamente di rivolgerti la parola, anziché farsi sbattere in faccia una porta.”

“A proposito di porte,” intervenne lui, senza riuscire a nascondere l’amarezza del suo tono. “La prossima volta che vi intrattenete in atteggiamenti lascivi, ricorda a Tom di assicurarsi che la porta sia chiusa, così le gente eviterebbe direttamente di assistere a certi spettacoli di dubbio gusto.”

Sulla fronte pallida di Leni comparvero una serie di rughe accigliate, e lei parve piuttosto stupita da quest’ultima affermazione.

“Da quando in qua litigare selvaggiamente rientra nella categoria ‘atteggiamenti lascivi’?” chiese in tono pratico. “Dev’essere una novità europea degli ultimi anni che mi sono sicuramente persa…”

“Leni, eravate abbracciati!”

“Eravamo sul punto di staccarci la testa a morsi,” precisò lei tranquilla. “E non so se hai notato il piccolo dettaglio di quei maledetti artigli che tuo fratello si ritrova al posto delle mani conficcati nelle mie braccia, o il mio disperato tentativo di renderlo sessualmente neutro per liberarmi di lui.”

Bill stette a guardare ammutolito mentre lei arrotolava le maniche della maglietta ed esponeva all’aria fredda le sue braccia esili. Poco sopra i gomiti, vicino alle spalle, una serie di piccoli lividi erano già intravedibili sulla pelle chiara. Cinque lividi per parte che avevano tutto l’aspetto di dita.

“Tom…” La osservò stupefatto, incapace di articolare le parole. “Tom ti ha fatto questo?”

Leni annuì.

“È assurdo,” disse Bill, sconcertato, gli occhi che non riuscivano a spostarsi dai lividi. “Non è da Tom comportarsi così…”

Leni gli sorrise dolcemente, riabbassando le maniche.

“Ha detto lo stesso di te.” Lo informò. “Anche lui è molto curioso di sapere perché il suo adorabile fratellino si è improvvisamente trasformato in un vecchio scorbutico.”

Bill rise sommessamente, lo sguardo abbassato sui suoi stessi piedi. Dire che aveva fatto la figura dell’idiota era estremamente riduttivo.

“Scusatemi tutti e due,” disse in un sussurro flebile. “Sono un po’ sotto pressione, in questi giorni.”

“Uh, hai giocato la carta dello stress, dev’essere un’emergenza.” Ironizzò lei. Bill rise di nuovo, più rilassato, e anche Leni si concesse una piccola risata, che accarezzò il cuore di Bill fino a rimetterlo completamente in sesto.

Ma come diavolo ci riesci, Leni?

“Ce ne andiamo giù a cena, che ne dici?” suggerì lei allegramente, facendo cenno con la testa verso la porta alle loro spalle. “Comincia a tirare un bel venticello polare, quassù.”

Le luci di una spettacolare Milano ormai notturna facevano sembrare i suoi occhi bistrati di nero due piccole lucciole azzurre, e a Bill non erano mai sembrati così mozzafiato.

Le sorrise. Stava per annuire, quando tutt’un tratto la ringhiera dietro di lui cedette ed il suo respiro fu smorzato dalla terrificante sensazione di vuoto improvviso che sentì alle proprie spalle.

Il lieve freddo dell’atmosfera circostante si trasformò istantaneamente in gelo assoluto, mentre Bill si sentiva precipitare all’indietro, solo la strada, sotto, ad attenderlo.

I suoi pensieri divennero un esplosione di colori, suoni ed immagini, come se tutto ciò che aveva conosciuto in una vita si stesse concentrando in quel singolo frammento di tempo, invadendo ogni fibra del suo corpo e suscitandogli un’infinità di emozioni contrastanti che nemmeno immaginava si potessero provare.

Pensò a Tom e allo sguardo di odio che solo una manciata di minuti prima gli aveva appioppato, e al bacio che sua madre gli aveva dato prima che lui e i ragazzi partissero per il tour. Si ricordò della tv rimasta accesa in camera, e della bottiglia di coca che si era ripromesso di finire, dopo aver parlato con Tom, e anche del paio di jeans che aveva macchiato con quella maledetta penna rossa.

Era tutto così stupido, eppure così importante…

Poi, ad un tratto, nella sua bolla di beata insensibilità, avvertì un violento strattone alla spalla sinistra, ed un dolore lancinante lo fece gridare disperatamente.

“Ti prego, resisti!”

La voce piena di panico di Leni lo risvegliò dal suo stato di torpore. Bill guardò verso l’alto: il viso della ragazza era contratto per lo sforzo con cui lo stava reggendo con entrambe le mani, tenendolo stretto per il polso. Bill serrò le proprie dita attorno al suo avambraccio sottile e strinse più forte che poté.

“Leni…”

La fissò terrorizzato, il cuore che gli pulsava ad una velocità disumana in fondo alla gola, e supplicò sé stesso di non mollare.

Percepì il tentativo di Leni di tirarlo su, ma anche se lui era così esile, lei lo era ancora di più, e sicuramente non avrebbe potuto reggerlo a lungo. Bill tremava da capo a piedi, non riusciva a formulare pensieri coerenti, e tutto ciò che sapeva era che si trovava appeso ad un filo sopra la morte. Il dolore alla spalla, intanto, aumentava vertiginosamente, ma quasi non riusciva più a sentirlo.

“Dobbiamo – dobbiamo fare qualcosa.” Esclamò Leni, agitata. “Bill, mi senti?”

Sì, lui la sentiva, ma era come paralizzato, e tutto ciò che riusciva a fare era contare le gocce di pioggia che stavano cominciando a cadergli sul viso, fitte e sottili come aghi.

Leni si guardò intorno, ma la terrazza era deserta e le uniche persone visibili erano gli ignari passanti che si aggiravano per la strada, un centinaio di metri sotto di loro.

“Bill!” lo chiamò lei. “Bill, ascoltami, devi dondolarti.”

“Devo cosa?”

Sono sospeso a non voglio sapere quanti metri sopra il suolo… Non sta parlando sul serio.

“Dondolati su te stesso!” ripeté lei. Lui non capiva, e intanto sentiva la presa di Leni allentarsi inesorabilmente.

“Se mi metto a dondolare, ti sarà ancora più difficile tenermi!” protestò, pervaso da un’improvvisa lucidità. “Finiremo in pappa tutti e due!”

“Sta’ zitto e fa’ come ti dico!” gli ordinò minacciosa.

Pur non riuscendo a cogliere le sue intenzioni, Bill obbedì e cominciò a dondolarsi da una parte all’altra. Dopo qualche secondo che oscillava pericolosamente, il suo stinco destro sfiorò qualche cosa, e solo allora si accorse della bocca della grondaia di metallo che sporgeva poco sopra i suoi piedi.

“Devi riuscire ad appoggiarti,” gli gridò Leni, attraverso lo scroscio della pioggia. “Hai capito?”

“Capito!” gridò lui, cercando di non perdere di vista la grondaia. Non sembrava molto solida, ma forse avrebbe retto abbastanza da permettergli e aggrapparsi al cornicione.

Avanti, maledizione…

Dopo vari tentativi, finalmente riuscì a posare un piede sul metallo scivoloso che rigettava un piccolo torrente d’acqua all’interno del tubo sottostante. Puntò l’altro piede sulla parete ruvida dell’edificio e, raccolte tutte le forse rimastegli, spinse verso l’alto, tentando di issarsi.

Era quasi impossibile; la grondaia stava per rompersi e le sue dita nemmeno riuscivano a sfiorare il bordo del cornicione.

Cazzo, cazzo, cazzo!

Ebbe appena il tempo di afferrare una sbarra della parte di ringhiera intatta, che la grondaia si piegò e finì penzoloni da un lato.

“Ci siamo!” esultò Leni, riuscendo finalmente ad afferrarlo meglio. Ansimando e lottando, riuscì a tirarlo su fino a che lui non le rotolò addosso, al sicuro oltre il perimetro della terrazza.

Sdraiati l’uno sull’altra in una sudicia pozzanghera di pioggia, lui con una spalla presumibilmente lussata, lei con le ginocchia sanguinanti, Bill e Leni si fissarono a vicenda per una quantità indefinibile di tempo, poi, come nulla fosse accaduto, scoppiarono a ridere.

È una reazione isterica, ragionò Bill, il cuore che gli martellava furiosamente nel petto per la scampata tragedia, una fottuta e purificante reazione isterica.

Risero incontrollatamente fino a che l’adrenalina non fu per la maggior parte smaltita e le loro facoltà mentali si riattivarono a poco a poco.

“È successo davvero?” riuscì a domandare Bill, dopo quella che gli sembrò un’eternità di meraviglioso sollievo.

Ancora sdraiata accanto a lui, con la pioggia che le scioglieva il trucco e le inzuppava i lunghi capelli, Leni annuì.

“Giuro che non mi lamenterò mai più delle mancanza di brividi nella mia vita.” Disse, sempre con il solito cinismo che Bill adorava.

Seguì una pausa di silenzio, in cui lui cercò invano di elaborare quanto era accaduto negli ultimi minuti, ma si trattava di qualcosa di così incredibile che la sua testa dolente non riusciva a riflettere.

“Credo che dovremmo scendere e prepararci qualche buona scusa.” Esordì Leni, voltandosi verso di lui. Bill ricambiò lo sguardo, chiedendosi se anche lui aveva l’aspetto di una maschera disciolta come lei. Ma era bella lo stesso, anche con quei lividi sulle braccia troppo magre, e le ginocchia coperte di sangue, e tutto il trucco sbavato.

Il suo viso aveva un’espressione insolitamente dolce, intenerita, o forse era solo perché il denso kajal nero stava lentamente abbandonando i suoi occhi, ingentilendole lo sguardo.

“Leni?” mormorò lui, fissandola ipnotizzato dalla folle intimità del momento.

“Mmm?”

Lei si leccò appena le labbra, rabbrividendo lievemente. C’era una sorta di elettricità sottile, nell’aria, che punse Bill alla sinistra del petto. Era una scena fin troppo bella per essere vera, e a Bill proprio non andava di rovinarla con un’osservazione del tutto inopportuna, ma non ce la faceva più a stare zitto. Incontrò di nuovo gli occhi di Leni, immobili sui suoi, deglutì a fatica e si costrinse a confessare:

“La spalla mi fa un male cane.”

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Capitolo 6
*** Just One Kiss ***


Il medico non aveva fatto molte domande quando Bill e Leni erano entrati nell’ambulatorio privato dell’hotel, scortati da Tom e da un corrucciatissimo David.

L’uomo si era limitato a squadrare lui e Leni con aria di sufficienza, poi aveva fatto accomodare Bill sul lettino, gli aveva controllato la spalla e, con un movimento secco e rapido che gli aveva strappato un urlo lancinante, aveva messo a posto la lussazione, congedandolo con una pomata e una prognosi di un paio di giorni.

Considerando che stava per morire, non se l’è cavata poi tanto male, pensò Tom, uscendo dall’ascensore, reggendo tra le mani un vassoio stracolmo di cibo.

Certo, la ramanzina di David in merito a buonsenso ed irresponsabilità era stata di proporzioni titaniche, e l’espressione straziata di Bill quando il dottore gli aveva sistemato la spalla era stata impagabile, ma il pensiero che il suo inseparabile gemello avrebbe potuto rimetterci le penne era qualcosa di raggelante, per Tom.

Erano diversi in tante cose, loro erano i primi a vantarsene, ma quando si trattava di legami, Tom e Bill erano un unico concetto inscindibile, due riflessi della stessa essenza che dimoravano in due corpi distinti, eppure perennemente uniti.

Avrebbe potuto vivere senza cibo, senza acqua, o senza aria – forse anche senza sesso – ma senza Bill, Tom non esisteva.

Represse un brivido di orrore e bussò alla stanza del fratello.

“Chi è?” chiese la voce di Bill dall’interno.

“Servizio in camera, signore.” Disse Tom in tono professionale, e la porta si aprì.

Lo sguardo di Bill indugiò su di lui un istante, come deluso.

“No, non sono Leni, sono costernato,” scherzò Tom, facendosi strada verso il salottino. “Ma ho pensato che il mio convalescentissimo fratellino potesse gradire un po’ di nutriente minestrone con crocchette di patate e torta al cioccolato.”

“Cosa ti fa pensare che stessi aspettando lei?” indagò Bill. Era a torso nudo, la spalla fasciata ed il braccio sorretto da un tutore.

Tom mollò il vassoio sul mobile della tv e sorrise in modo saputo.

“Sarà il fatto che ultimamente è lei che porta su il pranzo alle nostre regali persone,” disse. “O forse perché avevi già pronta la tua irresistibile faccia da cucciolotto sofferente.”

“Oh, certo,” disse Bill, laconico. “Anche il fatto che stessi per giocarmi l’osso del collo e dio solo sa che altro… Era tutto un piano, sì.”

Tom sogghignò con aria deliziata.

“Lo dicevo io.” Scoprì il vassoio, ed una piacevole fragranza calda si sollevò nella stanza. “Ha funzionato?”

Bill si accigliò, mentre le sue braccia si ricoprivano di pelle d’oca. Mosso a pietà, Tom gli mise sulle spalle una felpa che andò a ripescare dall’ampio armadio.

“La tattica di Adescamento Alhena,” esplicitò poi, chiedendosi se il tuo tono complice suonava così poco convincente come lo aveva percepito lui. “Mi chiedevo se Sua Intelligenza avesse abboccato a questo tuo squallidissimo tranello.”

“La vedi qui a prostrarsi affranta davanti al mio corpo agonizzante, per caso?” rispose Bill con indifferenza. “A me non risulta.”

Tom restò decisamente sorpreso da quel tipo di risposta, e non tanto per la disarmante tranquillità del fratello, ma più che altro per l’assoluta mancanza di tentativi di cambiare rapidamente argomento.

“Non tenti nemmeno di negare,” esclamò, esagerando di enfasi. “Dev’essere più grave di quanto pensassi.”

“Negare con te significa firmare una pubblica dichiarazione scritta.” Affermò Bill, risoluto, e senza guardarlo si strinse la felpa addosso meglio che poté.

Cominci a sentirti nudo, vero fratellino?, si compiacque Tom.

“Parlando di negazioni,” Tom si era appena ricordato di una cosa che Leni gli aveva detto un paio di giorni prima, tra un insulto incivile e l’altro. “Ha finalmente ascoltato Scream, sai?”

Come previsto, stavolta Bill non riuscì a fingere indifferenza. I suoi occhi erano così spalancati che da un momento all’altro avrebbero potuto schizzargli fuori dalle loro preziose orbite.

“Sul serio?”

“Sì,” Tom annuì. “Ha detto che l’ha completamente conquistata, conferma che non è altro che una leccaculo senza spina dorsale.”

“Innanzitutto,” intervenne Bill prontamente. “Non è una leccaculo. Non accusiamo le nostre fans di leccaculismo solo perché dicono di adorarci, sbaglio?”

Tom rise.

“Che cavolo di parola è leccaculismo?”

“L’ho sentito dire da… Una persona.”

Poi, Bill fece qualcosa che Tom non gli vedeva fare a almeno una decina di anni: arrossì. L’evento era pressoché sconvolgente.

Ora che altro farà, si ingozzerà di broccoli?

“Comunque,” riprese Tom, ancora incapace di comprendere lo strano comportamento di Bill. “L’album le piace, e le piacerebbe ascoltare anche i precedenti, anche se ha detto che tu canti come una Mariah Carey fatta di testosterone.”

“Ah, certo.” Convenne Bill, sornione. “E questo è stato prima o dopo che tu facessi voto di castità perpetua?”

La provocazione punse Tom un po’ troppo nel vivo, per i suoi gusti, ma era determinato a non darlo a vedere.

“Fidati,” disse compunto. “Non mi voterei mai alla triste vita astinenziale di Bill Kaulitz.”

Anziché sputargli la solita risposta sgarbata, come invece Tom si sarebbe aspettato, Bill si limitò a studiarlo circospetto. Tom, che aveva già cominciato a sbocconcellare una crocchetta di patate al curry, assunse un’espressione interrogativa.

“Bè? Si può sapere cos’è quella faccia?”

“Credo di doverti delle scuse.” Dichiarò Bill, spiazzandolo completamente. Tom non era abituato a ricevere scuse da lui, non in toni così seri, almeno.

Di cosa cazzo ti devi scusare, esattamente?

“Sai,” riprese Bill, camminando avanti e indietro davanti all’enorme finestra, da cui penetrava la luce arancione della via sottostante. “Credo di aver interpretato male alcune cose.”

Tom inclinò la testa, sempre più frastornato.

“Hai bevuto, per caso?”

“Tom, ti prego,” sbuffò Bill. “Sto cercando di essere un bravo fratello che sa riconoscere quando sbaglia, ti spiacerebbe almeno fingere di assecondarmi?”

Tom si accese una sigaretta e fece un cenno distratto di assenso. Aveva la netta impressione che ci fosse una di quelle conversazioni impegnative da uomo a uomo in arrivo imminente. L’unica domanda era: di cosa diavolo voleva parlare quello svitato?

“Prima, quando sono entrato da te senza bussare e vi ho visto così…” Bill fissava il vuoto avanti a sé, come in trance. “Credevo che vi steste baciando.”

A Tom andò di traverso la boccata di fumo che aveva appena inspirato e cominciò a tossire come un forsennato, cercando appoggio contro la parete.

“Io baciare quella sottospecie di strega?” bofonchiò, una volta riacquistato un respiro più o meno regolare. “Lo spavento ti ha rincoglionito definitivamente, per caso?”

Ma Bill sorrise indulgente, quasi con compassione, e gli si avvicinò.

“Lei ti piace.” Sussurrò in un tono indecifrabile, ad un palmo da suo naso.

Tom storse il naso quasi di riflesso, abituato com’era a ripetere quella smorfia ogni volta che si parlava di Leni.

“Non la sopporto.” Sbottò seccamente, ansioso di mettere le cose in chiaro.

“Però ti piace.” Insisté Bill, puntellandosi la mano libera su un fianco.

“La detesto!” rimbeccò Tom, le guance leggermente calde, cominciando ad irritarsi non poco.

Bill, però, aveva ancora la stessa aria cocciuta di prima, e non sembrava intenzionato ad abbandonarla entro la fine del secolo.

“Però ti piace.” Ripeté, e fu la goccia che fece traboccare il vaso di Tom.

“Cazzo, Bill, la odio, non la posso vedere, cosa c’è di non chiaro nel messaggio?” strillò, facendosi orrore da solo per l’acutezza della propria voce. Dio, sembrava una ragazzina stizzita.

Il sogghigno di Bill, in compenso, era sbiadito, sciogliendosi in una serietà inquietante.

“C’è che non ti ho ancora sentito dire che non è vero che ti piace.”

Restarono in silenzio per un po’, occhi negli occhi, e Tom si sforzò con ogni sua forza di trovare qualcosa di arguto o spiritoso da replicare, ma la lingua gli si era come annodata in bocca e non ne voleva sapere di collaborare.

Dì qualcosa, razza di idiota! Diglielo che non ti passerebbe neanche per l’anticamera del cervello di… Di…

“Sto aspettando.” Incalzò Bill, impietoso, il solito sopracciglio inarcato in quel fastidiosissimo modo onnisciente, ma lo sguardo smarrito di Tom era più eloquente di qualsiasi risposta.

Bill gli rivolse un sorriso fraterno, che però aveva qualche retrogusto amaro, come quello delle bugie dette a malincuore.

Tom ingoiò un immaginario macigno che gli ostruiva la gola si sforzò di aprire la bocca.

“Bill…”

“Tomi?”

No, no, no, e ancora no. Mi rifiuto di pesarci, anche solo per assurdo, grugnì il Tom Kaulitz interiore, dando voce a quel poco di ragione che sembrava ancora risiedere in lui. Non esiste, né ora, né tra un milione di anni, né mai. È solo un’acida spocchiosa, una perfida dispotica, è la mia nemesi, e… E…

Un senso di terrore diffuso si impossessò di Tom, che si mordicchiò il piercing del labbro con un certo nervosismo convulso.

“E se – e se lei mi piacesse?”

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Tom si sentiva il più immenso ed eclatante pezzo di cretino sulla faccia della terra. Se ne stava lì immobile, imbambolato davanti alla porta con un vassoio in mano e l’aspetto ebete di chi non ha la più pallida idea di quello che sta facendo.

La voce di Bill gli risuonava in testa da mezz’ora, insistente e dannatamente forte.

‘Lei ti piace…’

No, cristo santo, non mi piace! Non – mi – piace!

Ok, era tutto perfettamente chiaro: lei non gli piaceva, e fin qui nessun mistero.

E allora perché diavolo non riesco a bussare alla sua maledetta porta?

Il dilemma del bussare o non bussare, comunque, fu presto risolto, perché in quell’istante la porta della stanza 103 si aprì.

Tom non ebbe nemmeno il tempo di fare mente locale della situazione, che Leni uscì con disinvoltura ed una certa fretta, finendo per andargli a sbattere addosso. Nel giro di una frazione di secondo, si ritrovarono entrambi a terra, disorientati e zuppi di minestra.

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La dinamica degli eventi non era molto nitida nella mente di Leni. Un momento prima stava uscendo dalla propria stanza soprapensiero, e il momento dopo era con le spalle a terra, i vestiti puliti inzaccherati di una strana brodaglia calda.

“Ma cosa –?”

Sollevò appena la testa, tirandosi su a sedere, e solo allora notò che Tom era steso davanti a lei, nelle sue medesime condizioni, e si massaggiava il fondoschiena con espressione sofferente.

“Kaultiz!”

“Regan, ma è mai possibile che chiunque stia a meno di un metro di distanza da te debba rischiare la vita?” si lagnò Tom, gettando un’occhiata impotente ai cocci del piatto ed alla piccola pozza che si era creata tutt’intorno.

“Che ci fa la vostra graziosissima Maestà nei bassifondi, se posso ardire a chiedere?” azzardò lei, mentre si alzavano in piedi.

“Cercavo di dimostrarti la mia riconoscenza per non aver lasciato che quell’impiastro di mio fratello diventasse marmellata ariana, suppongo.” Borbottò lui, scorbutico come suo solito.

Lo stupore più assoluto si dipinse sul volto di Leni.

“Kaulitz,” Lo fissò incredula, gli occhi che rimbalzavano da lui ai resti di quello che una volta doveva essere stata una cena. “Tu stavi portando questa roba a me?”

Non aveva senso. A meno che, ovviamente, la minestra non fosse stata appropriatamente corretta con una buona dose di cianuro.

Tom non la poteva soffrire, lo sapevano anche i sassi, ormai, e lei non poteva soffrire lui, quindi Leni non riteneva umanamente concepibile un simile gesto da parte del piccolo principe.

Tom sembrava intenzionato a non guardarla.

Per quanto assurda fosse la situazione, Leni sentì un fioco barlume di gratitudine sorgerle dentro, e non riuscì a trattenere a lungo quel piccolo sorriso che le tirava agli angoli della bocca.

Abbassò lo sguardo sulla maglietta bianca di Tom, graziosamente macchiata di brodo e verdure, e dovette riconoscere con sé stessa di essere in debito con lui, anche se di fatto la sua cena giaceva miseramente a terra, quasi completamente assorbita dal tappeto di moquette che ricopriva il pavimento del corridoio.

“Forse sarà il caso di mettere a bagno quella maglietta, prima che il danno diventi irreparabile.” Disse, e lo invitò ad entrare.

Con suo sommo stupore, Tom accettò senza fare battute cretine.

Una volta entrati, chiamarono la reception perché qualcuno salisse a ripulire il disastro che l'incidemte aveva causato, poi Leni mostrò al suo ospite quel poco che c'era da vedere. Dall’espressione di Tom era facile intuire quanto fosse impressionato dalle ridotte dimensioni della stanza. Probabilmente, suppose Leni, perché dovevano essere anni che non metteva piede in un alloggio di seconda classe.

“Un vero bijou, vero?” commentò, dirigendosi verso il bagno, dove fece scorrere l’acqua fino a che divenne calda e cominciò a farla raccogliere nel piccolo lavandino.

Tom la seguì titubante, apparentemente ancora intento ad analizzare l’ambiente.

“È molto – ehm – raccolta…” mormorò lui, in chiara difficoltà, ma era ovvio che trovasse quella stanza solo un orrido ripostiglio claustrofobico.
Leni, del resto, era perfettamente d’accordo.

“È un buco invivibile,” lo corresse lei, sorridendo, poi si appoggiò allo stipite della porta con le braccia conserte.

Tom la occhieggiò tentennante senza capire.

“Allora, me la fai lavare, quella maglietta, o devo infilarti nel lavandino tutto intero?”

I lineamenti fini di Tom si contorsero in modo indecifrabile, ma Leni era certa che fosse imbarazzato.

“Non ti preoccupare, non ho intenzione di mangiarti, sono vegetariana.” Lo rassicurò, ed allungò la mano, invitandolo a porgerle l’indumento in questione. “Ti ricordo che ti ho già visto a torso nudo almeno un migliaio di volte…”

Ma lui ancora esitava.

“D’accordo,” disse alla fine, e con un gesto frettoloso e, per somma delizia di Leni, anche molto nervoso si tolse la maglietta e gliela gettò in mano.

“Tusen takk.” Gli disse lei, e la mise subito a bagno nell’acqua bollente.

“Che diavolo di lingua è?” domandò Tom, alle sue spalle.

“Norvegese,” rispose Leni. “Vuol dire ‘grazie mille’.”

“Per quel che ne so io,” disse lui. “Potrebbe anche voler dire ‘muori, coglione’…”

Leni rise sommessamente, asciugandosi le mani.

“Non ti si può proprio nascondere niente, mh?”

Quando si voltò di nuovo verso di lui, lo trovò immerso nella luce fioca proveniente da fuori, il petto glabro solleticato dai rasta che gli scendevano dalle spalle. Se, come al solito, avesse portato il cappello, la visiera gli avrebbe nascosto gli occhi, che invece erano perfettamente visibili, anche nella penombra, scuri e stupendi, scintillanti di quell'innata malizia sfacciata che solo lui aveva.

Leni si riscoprì meno insensibile di quanto ricordasse di fronte a quella visuale.

Sei un poppante bastardo e maschilista, Kaulitz, ma sei un maledetto, schifoso concentrato di sensualità.

Tom fece un passo in avanti, facendosi più vicino. Leni avvertì l’odore dolciastro di fumo nel suo respiro.

Lui la osservò, inumidendosi le labbra schiuse. Un brivido percorse la schiena di Leni quando la lingua di Tom sfiorò il piercing, facendolo luccicare nel buio.

“La tua maglietta non la lavi?” le chiese, la voce più bassa e roca del solito.

Anche Leni osò avanzare di un passo, poi, quasi inconsciamente, sollevò le mani e le posò sul petto di Tom, e la sua pelle fredda entrò in contatto con quella calda di lui, facendolo sussultare impercettibilmente.

“Non ci contare.” Sussurrò lei, con lo stesso identico tono di voce.

Le mani di Tom le afferrarono di nuovo le braccia, nel punto esatto in cui c’erano i lividi da lui stesso lasciati, ma stavolta lo fece con dolcezza, con un tocco delicato, che scivolò silenzioso verso l’alto, fino a che le prese il viso tra le mani.

Lo conosco il tuo gioco, pensò Leni, mentre il suo corpo veniva avvolto da una specie di paralisi improvvisa. So che intenzioni hai, e non mi piacciono…

Rimase immobile davanti a lui, come pietrificata, e stette a guardare mentre lui avvicinava il proprio viso al suo, con inesorabile lentezza.

Eppure…

Lui era sempre più vicino, e lei sentiva un campanello d’allarme squillare lontano, in qualche recondito recesso della sua mente, ma diventava sempre più debole e soffocato, coperto dall’intensità dei battiti accelerati del suo cuore.

Non riesco a…

Tom le diede qualche secondo per fermarlo o respingerlo, ma nulla di ciò accadde.
Bill era da qualche parte con una spalla dolente e sotto una massiccia dose di antidolorifici, reduce da uno spiacevole vis-a-vis con la morte, e Tom, incurante di questo, le si stava avvicinando pericolosamente, e Leni non fece nulla. Assolutamente nulla.

Muovermi.

Così, Tom la baciò.

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Capitolo 7
*** Leni's Song ***


I kneel before her, beneath this frozen sky
Beneath her shoulder, beneath her evil eye
She towers over this male who is a fly
My sci-fi lullaby

I kneel before her, beneath this frozen sky
I beg below her, my limbs are paralyzed
She beats me harder than any kind of guy
My sci-fi lullaby


Mentre Brian Molko gli cantava nelle orecchie quella canzone che si chiamava come lei – e così tremendamente azzeccata, date le circostanze – Bill non riusciva a non pensare a Leni e a come lei si fosse nuovamente allontanata da lui, dopo quel breve riavvicinamento della notte che gli aveva salvato la vita. E poi c’era Tomi, anche lui più strano di quanto già di per sé non fosse, chiuso in un invisibile muro di innaturale silenzio, che non sembrava più lo stesso da qualche giorno.

Bill sapeva che qualcosa non andava.

Conosceva Leni abbastanza bene per poter affermare con una certa sicurezza che la ragazza fosse tormentata da qualcosa, e senz’altro poteva considerare Tom come un libro aperto, per lui, e nel suo atteggiamento più spaccone del solito riusciva a leggere l’ombra di un’inquietudine misteriosa.

Tuttavia, non ci voleva un gran genio per mettere insieme due più due e farsi un’idea approssimativa di quello che stava succedendo o era successo.

Si levò con un gesto secco gli auricolari, spense il riproduttore mp3 e infine lasciò che il suo sguardo si perdesse fuori dal finestrino, mentre fuori la pioggia cadeva imperterrita.

La permanenza a Milano era stata momentaneamente interrotta, ed ora ai Tokio Hotel ed alla loro crew spettavano sette lunghe ore di pullman per arrivare a Roma. Avrebbero rilasciato un paio di interviste, sostenuto l’ennesima conferenza stampa, e poi di nuovo su, ancora a Milano, dove si sarebbe tenuto il colossale concerto di fine ottobre.

In tutta onestà, Bill non aveva idea di come avrebbe fatto a reggere dieci giorni con il dubbio logorante di quello che era o non era successo tra Tom e Leni.

“Sono un po’ emozionata,” La voce concitata della ragazza lo riscosse dai suoi pensieri. “Non sono mai stata a Roma.”

In genere nessuno dello staff viaggiava mai con loro, a parte David ed un paio di guardie del corpo, ma Leni era praticamente parte della famiglia, ormai, ed era stato dato per scontato che dovesse stare nella loro confortevole dimora su ruote, piuttosto che sul misero bus riservato agli altri.

“Noi sì,” rispose la voce di Georg. Con la coda dell’occhio, Bill vide che erano seduti al tavolo in fondo al bus, Tom stravaccato dall’altro lato del tavolo, iPod nelle orecchie, immerso nel suo mondo. Gustav si era saggiamente appisolato nella propria cuccetta, e sicuramente non si sarebbe risvegliato prima dell’arrivo.

“È una gran bella città,” proseguì Georg, sgranocchiando patatine. “Ma non è che abbiamo visto granché…”

“Bè, avreste rischiato di essere divorati vivi da orde di fans scatenate,” rise Leni, allungandogli una gomitata. “Temo che la clausura, ormai, sia l’unica via di salvezza per la vostra incolumità.”

Bill cercò di chiudere la conversazione fuori dalla propria testa, vergognandosi della rodente gelosia che provava.

Con Georg non era cambiato niente, rifletté amaramente, mentre con lui invece si comportava in modo sempre più calibrato, come se dovesse essere gentile per forza, come se…

Come se mi dovesse qualcosa.

La sentì ridere, e, suo malgrado, gli tornò in mente la sera sulla terrazza dell’hotel, e quanto fosse stato piacevole, nonostante tutto, vivere con lei quel momento di assoluta spontaneità, senza bugie, senza finzioni, un semplice spaccato di sincerità in cui ciascuno di loro non era stato altro che sé stesso, solo per quella sera, solo per un po’.

E poi? Poi cos’è successo per ribaltare in questo modo la situazione?

Ma Bill, in definitiva, forse preferiva non saperlo.

La risata cristallina di Leni riempì di nuovo l’aria, accompagnata da quella più vigorosa di Georg, infastidendo Bill più di quanto fosse consentito entro i canoni della sanità mentale. Lei e Georg erano amici – ottimi amici – ed era quindi perfettamente normale che si divertissero insieme, che ridessero insieme, così come Bill stesso aveva spesso fatto con lei.

Ma perché diavolo, allora, mi da così fastidio?

Quando ebbe esaurito il suo ultimo residuo di pazienza e sopportazione di tanta e tale intimità fra i suoi due amici, decise di trascinarsi al piano superiore, che, anche se ingombro di bagagli, se non altro aveva il vantaggio di essere deserto.

Nessuno sembrò far caso a lui mentre si arrampicava su per la stretta scala. Incespicò in un paio di borsoni, zigzagò in mezzo a scatoloni e valigie e finalmente riuscì a lasciarsi cadere in una delle poltrone, senza però riuscire ad evitare di incappare in una borsa nera che vi era appoggiata, finendo così per rovesciarne il contenuto. Raccolse in fretta le poche cose che erano fuoriuscite, riconoscendo immediatamente il portafogli di Leni, e rificcò il tutto nella borsa. Stava per richiuderla, quando notò che a terra era rimasto un piccolo quadernino dalla copertina nera.

E questo da dove sbuca?

Sapeva di non avere alcun diritto di aprirlo, ma la curiosità vinse contro ogni fibra di onestà, così lo aprì delicatamente. Sembrava un diario, scritto in inglese, e anche se ancora era un disastro per quanto riguardava il parlato, Bill poteva vantare una certa abilità di comprensione della lingua, benché di fatto non la studiasse da molto. Ne sapeva abbastanza, però, per capire che si ritrovava di fronte ad un piccolo scrigno di incredibili sorprese.

Scrive anche poesie, constatò, sfogliando le pagine, assorto nel suo profano e morboso interesse.

La sua attenzione fu attirata da una delle ultime annotazioni, che, a giudicare dalla struttura, sembrava una specie di canzone.

I’m keepin’ a secret I can’t share
‘cause I woke up with your taste on my lips
A new lie to hide old tears
My once whole heart now’s split apart
And the other half of you
Is sleeping in the dark

Torn between two worlds
A girl who dreamed to kiss a star
Our guilt will be revealed
And someone will get hurt for this
Weak and frail, breaking as we fall
I never meant to ruin it all

I know I told you I don’t care
But the time for honesty has come
The show must go on
We should have seen this right from the start
And the other half of you
Is sleeping in the dark

It burns on my skin
The kiss of betrayal and sin
Forgive me for not having seen
All we had to lose to win
And I beg for your forgiveness now
I know we’ll all forget somehow
I know we will
Time will heal

Please, let’s just rewind until the start
Begin over again
‘cause we made a stupid mistake
And the other half of you
Now holds a broken heart


Era senza parole per la bellezza del testo. C’era una sorta di amarezza nella supplica di perdono di sfondo alla malinconia che permeava le parole; Bill, pur non sapendo spiegarsi come, lo sentiva.

Cazzo, ci sa fare…

Al piano di sotto, intanto, era partita l’intro di una delle canzoni metal che Leni ascoltava dalla mattina alla sera, e che Bill aveva scoperto di apprezzare non poco, ma che al momento non era proprio interessato a stare ad ascoltare.

Stava per proseguire con la lettura, sebbene divorato dai sensi di colpa, quando l’occhio gli cadde sulla data riportata sopra il testo che aveva appena letto: 12 ottobre 2007.

Il giorno della mia quasi morte.

Fu allora che Bill ricordò una cosa che Tom aveva detto quel giorno, uscendo dalla sua stanza.

‘Porto qualcosa da mettere sotto i denti anche a mademoiselle Regan, giusto per fare finta che mi importi qualcosa del fatto che ti abbia salvato le chiappe…’

Ora che ci pensava, Bill realizzò che in effetti era stato dal mattino dopo che le cose avevano cominciato a farsi strane, perciò, qualunque cosa fosse successo, doveva essere per forza successo tra la sera del 12 e la mattina del 13. Nella sua testa che si faceva vorticante, le parole ‘Tom’, ‘Leni’ e ‘notte’ emersero nel mezzo di una miriade di altri pensieri, e si sentì cogliere da una vago senso di nausea, mentre la voce di Tom gli echeggiava distante nella memoria..

‘E se lei mi piacesse?’

E all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, i diversi tasselli del puzzle cominciarono a disporsi in un senso terribilmente logico.

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Al piano inferiore, Georg si era appena congedato per andare a farsi una doccia, e Tom aveva colto al volo l’occasione per sfilarsi le cuffie e puntare su Leni il suo sguardo insistente.

Da tre giorni, ormai, non facevano che discutere in gran segreto di quello che era successo quella fatidica sera, e sebbene entrambi sostenessero fermamente che quel bacio non aveva significato un bel niente, Tom sapeva che era una frottola grossa come l’Atlantico.

Personalmente, non sapeva bene che significato attribuirvi, ma, d’altro canto, era consapevole che ogni volta che si sentiva ripetere la frase ‘Era solo uno stupido sfizio che mi volevo togliere’, le parole perdevano sempre più convinzione, lasciando invece spazio a ben altri sentimenti.

La verità è che ti è piaciuto, gli disse la sua coscienza, ma Tom si affrettò a metterla a tacere, perfettamente abituato a non darle retta.

E poi non è vero che mi è piaciuto.

Anche Leni, come lui, sembrava molto preoccupata di chiarire quanto poco per lei avesse contato quel gesto; troppo, forse, perché Tom potesse credere che ne fosse seriamente convinta.

“Piantala di fissarmi.” lo ammonì lei, senza sollevare gli occhi dal cruciverba su cui era concentrata.

“Non ti sto fissando.” Si difese lui, ben conscio di non essere neppure lontanamente credibile.

Leni corrugò la fronte, finalmente degnandolo di un’occhiata.

“Se lo dici tu,” Lo esaminò per un breve istante, poi aggiunse, “Ancora non ci siamo stancati di parlare di argomenti che ormai dovrebbero essere morti e sepolti?”

Tom prese a giocherellare con le patatine avanzate da Georg, mostrandosi del tutto indifferente.

“Non so di cosa tu stia parlando.” Mentì. In realtà era stato sul punto di riaprire per l’ennesima volta il dibattito, non pago delle precedenti – tanto logoranti quanto inutili – sessioni.

Leni tacque per diversi secondi, mordicchiando il tappo della penna che teneva tra le labbra, poi disse:

“Quanto fa due più due?”

“Quattro,” fece Tom, automaticamente, poi la scrutò accigliato. “Ma che c’entra?”

“Nulla,” Leni sollevò le spalle. “Ma visto che ‘Non so di cosa tu stia parlando’ non si può propriamente dire una delle tue scuse più brillanti, controllavo che il tuo neurone fosse ancora vivo ed attivo.”

“Perché, il tuo si sente solo?”

“No, più che altro si domandava come mai non affitti il tuo cranio. È un peccato, sai, tanto spazio inutilizzato…”

Tom imbronciò le labbra sprezzante.

“Sei un essere riprovevole.” mugugnò.

Anziché rispondere, Leni sfilò un foglietto di carta dal fondo dell’enigmistica e si mise a scribacchiarci sopra.

“Che diamine stai scrivendo, ora?” indagò Tom. Leni finse di non sentirlo.

“Caro diario,” recitò a voce alta. “Oggi Tom ha usato un termine che non fosse ‘fottiti’ o ‘vaffanculo’, e ciò mi fa sorprendentemente supporre che il suo vocabolario comprenda in totale ben tre parole…”

“Oh, ma che ridere!” Per niente divertito, Tom le scagliò addosso una patatina.

“Non fare il bambino permaloso,” lo blandì lei, restituendogli il lancio. “E, per favore, accantoniamo una volta per tutte l’argomento che concerne tu-sai-cosa?”

A Tom non sfuggì il suo abbassamento di tono.

“Dipendesse da me, lo cancellerei direttamente dall’album dei ricordi,” dichiarò. “E comunque, ad essere sincero, non è che tu sia una grande tu-sai-cosatrice.”

Leni emise una breve risatina di scherno.

“Un vero peccato,” replicò affranta. “Perché tu, invece, sei un tu-sai-cosatore da manuale,” Ammiccò in modo ambiguo, e Tom non seppe mai se scherzasse o dicesse sul serio. “Non mi sorprende che tu abbia collezionato più ragazze che termini lessicali civili… La tua lingua lavora meglio quando non è impegnata a dire stronzate.”

Tom ce la mise tutta per impedire alla propria mascella di cadere senza uno straccio di dignità, ma, sincere o non, le parole di Leni lo avevano completamente spiazzato.

Ignorandolo deliberatamente, lei si alzò e si diresse verso le scale, lasciandolo solo ad arrovellarsi su quell’ultimo brandello di conversazione, e lui si rese conto di essere rimasto piuttosto compiaciuto.

Forse, infondo, si disse, lei gli piaceva veramente.

Resta il fatto che ancora non riesco a capire quando mi prende per il culo e quando invece è seria…

Molto infondo.

-------

Leni si sentiva incredibilmente stanca, ultimamente. L’avvicinarsi del concerto aveva messo addosso ai ragazzi una certa inquietudine, che aveva finito per contagiare anche lei. Erano giorni che lavorava senza sosta, presa da una specie di laboriosità compulsiva.

Aveva perlustrato Milano in lungo e in largo, esplorando boutique di grandi firme e piccoli negozietti locali, dandosi da fare per scovare i capi d’abbigliamento più esclusivi ed adatti alle personalità di ciascuno dei ragazzi, e David si era complimentato con lei per la sua solerzia, ma Leni, dentro di sé, sapeva che quella sua inarrestabilità era dovuta a ben altri motivi, e molto meno nobili.

Il fatto era che lasciarsi baciare da Tom – e, ovviamente, rispondere al bacio – era stato un clamoroso errore.

Leni si sentiva una vera stupida per essersi lasciata trasportare così ingenuamente dall’aura di sottile erotismo che Tom emanava. Lui era il genere di ragazzo che lei aveva imparato a temere, e di conseguenza evitare, e proprio non si sapeva capacitare di come avesse potuto permettere a sé stessa di lasciarsi trascinare fino a quel punto da un paio di occhioni invitanti.

Tom era chiaramente conscio delle proprie doti e palesemente consapevole di possedere per natura la rara, preziosissima arte della seduzione, e Leni lo aveva capito fin dal principio.

Quello che non aveva previsto, era che gli avrebbe permesso di avvicinarsi a lei abbastanza da riuscire a baciarla.

E non ho nemmeno mosso un muscolo.

Il problema vero, però era un altro.

Leni si sentiva in colpa in modo dilaniante, come chiunque si sarebbe aspettato, ma verso Bill.

Che senso ha?, si rimproverò severamente. Lavoro per lui, è mio amico, ma non gli devo niente, da questo punto di vista… Assolutamente niente.

Il senso di colpa, comunque, sembrava del tutto immune a questo tipo di razionalizzazione degli eventi.

Salì i gradini lentamente, anelando disperatamente ad un’aspirina per calmare quell’odiosa emicrania, ma quando la sua testa sbucò al piano superiore, vide qualcosa che non si era aspettata di trovare: Bill sedeva in una delle poltrone in fondo alla stanzetta e sembrava assorto nella lettura di qualcosa.

Non mi ero nemmeno accorta che fosse salito…

Leni dovette avvicinarsi per capire che cosa lui tenesse in mano.
Sorprendendo perfino sé stessa, però, non si arrabbiò.

“È consuetudine di voi tedeschi leggere i diari personali altrui senza nemmeno chiedere il permesso?” chiese placidamente.

La testa leonina di Bill scattò verso l’alto con rapidità considerevole, un’espressione abbondantemente allarmata impressa sul suo viso.

La guardò a bocca aperta, a quanto pareva incapace di articolare un suono di senso compiuto, e Leni intuì che stava cercando di chiederle scusa, non a parole, ma con lo sguardo.

“Non ti preoccupare,” lo tranquillizzò, onorandolo con un piccolo sorriso mite. “Mezzo mondo ha avuto l’onore di conoscere i tuoi pensieri sentendoti cantare le tue canzoni, suppongo sia giusto che tu ti aspetti che qualcuno ti restituisca il favore, anche se in modo un po’ scorretto.”

Leni si lasciò cadere nella poltrona accanto alla sua, incapace di spiegarsi per quale strano miracolo i suoi nervi non avevano ceduto di una virgola. Normalmente, se qualcuno avesse osato anche solo pensare di leggere quel quaderno, sarebbero partite minacce di morte ed eventuali relative esecuzioni capitali, ma al momento, per ragioni a lei oscure, tutto ciò che provava era una profonda tristezza.

Si accorse che Bill sembrava pervaso dallo stesso sentimento, la sua mente persa da qualche parte nella sua psiche, mentre teneva gli occhi fissi su una pagina del diario, e Leni capì.

“Hai letto, vero?”

Bill annuì, ma non la guardò. Non potendo vedere i suoi occhi, Leni non riusciva ad immaginare cosa stesse veramente provando.

“Non volevo che lo venissi a sapere così.” Mormorò, dispiaciuta.

“Non volevi che lo venissi a sapere. Punto.” Puntualizzò lui, acido, e lei non poté certo biasimarlo.

“È vero,” ammise a malincuore. “Ma solo perché era inutile turbarti per qualcosa completamente privo di significato.”

Bill emise una breve risata tetra, e scosse appena il capo.

“Posso sapere cosa ti ha indotta a pensare che la cosa mi avrebbe turbato?”

“La stessa cosa che ha permesso a te di intuire il significato di quelle parole, immagino.” Rispose lei, pronta.

Bill, finalmente, sollevò lo sguardo su di lei. Sembrava profondamente ferito, e Leni odiò sé stessa per averlo trattato così freddamente negli ultimi giorni.

Perdonami, se puoi.

“E cosa sarebbe questa fantomatica cosa?” le domandò in tono piatto. Leni si morse il labbro inferiore, non trovando una risposta.

“Non ne ho idea,” confessò. “Ma non può essere nulla di buono.”

Seguì una pausa di silenzio, colmata dalle note della musica che Leni aveva avviato nel lettore cd prima di salire.

Lei ne ascoltò le parole, desiderando di non essere dove invece si trovava, pregando che la sua avventatezza non avrebbe rovinato il già di per sé complicato rapporto che aveva con Bill.

“Sapevo che gli saresti piaciuta,” esordì Bill, interrompendo il momento morto. Si guardò le mani, come se cercasse in esse una qualche risposta a troppe domande. “Sei il tipo di ragazza che lo intriga: intelligente e cinica… Irraggiungibile.”

Leni ascoltava taciturna, stregata dall’emozione che trasformava la voce di Bill in un sussurro vibrante.

“Tom ha sempre amato le sfide,” continuò lui, quasi coperto dalla musica alta. “Ma se devo essere sincero, non credevo che con te l’avrebbe spuntata,” Si interruppe ed il suo sguardo melanconico incontrò quello rapito di lei, togliendole il respiro. “E nemmeno che scoprirlo mi avrebbe fatto così male.”

Lenì non comprese subito quello che intendeva, ma la delusione che adombrava il bel volto di Bill era così intensa da non poter essere attribuita alla presa di coscienza di un semplice bacio.

“Bill,” Leni si sporse in avanti, colta da una specie di presentimento. “Si è trattato di un bacio,” chiarì in fretta. “Solamente uno stupido bacio.”

L’espressione assunta da Bill era qualcosa di molto vicina allo shock allo stato più puro.

“Voi non avete…”

“No!” esclamò Leni, indignata. “Certo che no, per chi diavolo mi hai preso?”

Tutta la tensione che finora aveva avvolto Bill sembrò diradarsi come nebbia al sole a quella rivelazione, e Leni sentì il suo stesso volto rilassarsi di conseguenza.

Si sorrisero, proprio mentre Tom spuntava dal piano inferiore.

“Desolato per il disturbo,” disse sgarbato, studiandoli entrambi con un distacco che ferì non poco Leni, e probabilmente anche Bill. “David ci deve illustrare un paio di dettagli per Roma, ci vuole tutti di sotto.”

Lanciò un’occhiata indecifrabile a entrambi, poi voltò loro le spalle e se ne andò. Leni ci rimase molto male.

Perché fai così, Kaulitz?



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A/N: Se qualcuno volesse la traduzione delle due canzoni, lo dica pure, provvederò ad editare il capitolo ed aggiungerle. La prima, quella in apertura, è Leni, by Placebo (gruppo che, peraltro, la sottoscritta adora).


Ecco le traduzioni delle canzoni:

Leni, by Placebo


Sono inginocchiato davanti a lei, sotto a questo cielo gelato,
Sotto alla sua spalla, sotto al suo sguardo crudele,
Lei incombe su questo maschio che è una mosca
La mia ninnananna sci-fi
Sono inginocchiato davanti a lei, sotto a questo cielo gelato,
Supplico sotto di lei, le mie membra sono paralizzate,
Mi picchia più forte di qualunque ragazzo,
La mia ninnananna sci-fi

E l'altra:

Sto custodendo un segreto che non posso condividere
Perché mi sono svegliata con il tuo sapore sulle mie labbra
Una nuova bugia per nascondere vecchie lacrime
Il mio cuore una volta integro, ora è spezzato a metà,
E l'altra metà di te
Dorme all'oscuro di tutto

Combattuta fra due mondi
Una ragazza che sognava di baciare una stella
La nostra colpa sarà rivelata
E qualcuno finirà ferito per questo
Deboli e fragili, infrangendoci mentre cadiamo
Non avevo intenzione rovinare tutto

So di averti detto che non mi importa
Ma è giunto il momento dell'onestà
Lo spettacolo deve continuare
Avremmo dovuto capirlo fin dall'inizio
E l'altra metà di te
Dorme all'oscuro di tutto

Brucia sulla mia pelle
Il bacio del tradimento e del peccato
Perdonami per non aver capito
Tutto quello che dovevamo perdere per vincere
E ora imploro il tuo perdono
So che dimenticheremo tutti quanti, in qualche modo
So che lo faremo
Il tempo curerà

Ti prego, ritorniamo indietro all'inzio
Ricominciamo daccapo
Perché abbiamo commesso uno stupido errore
E l'altra metà di te
Ora ha un cuore spezzato

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Capitolo 8
*** Kaulitz vs Kaulitz ***


La stanza per la conferenza stampa era già gremita di giornalisti quando Bill e Tom vi furono scortati dentro da Saki. Bill doveva riconoscere che non si sarebbe mai aspettato tanta mobilitazione da parte della stampa italiana, ma, del resto, non si era aspettato tante cose, venendo in Italia.

E le sorprese sembrano destinate a non finire…

Lanciò uno sguardo furtivo alle proprie spalle, e scorse Leni in un angolo dietro ai pannelli che facevano da sfondo al piccolo soppalco. Appena si accorse di essere osservata, lei distolse lo sguardo.

Nel bene e nel male.

Lui e Tom presero posto davanti ai microfoni, una forte tensione ad aleggiare fra loro. Da quando, appena un’ora prima, erano scesi dall’autobus, non si erano più nemmeno guardati in faccia, anche se nessuno dei due sembrava saperne il vero motivo.

Sì che lo sapete, invece, gli disse la solita voce saggia nella sua testa, ma Bill non ebbe nemmeno il tempo di tentare di zittirla, che la conferenza cominciò.

“Sorridete e salutate,” li istruì David, dall’auricolare. “E cercate di essere convincenti, per pietà.”

Bill obbedì. Sfoderò il suo sorriso posticcio migliore e si mise a distribuire convenevoli ai presenti, imitato in modo per niente credibile dal fratello.

“Tom,” gracchiò Dave nell’auricolare. “Fingi almeno di sforzarti, lo sai che questa gente fa in fretta a ricamare storielle coi fiocchi sopra i vostri bronci.”

E allora Tom stiracchiò le labbra verso l’alto, ma era ancora ben lungi dall’ispirare sincerità.

“Non so che cos’abbiate voi due in questi giorni, ma vedete di dare una parvenza di entusiasmo, dovete molto a questo paese.” Li ammonì di nuovo David, poi la conferenza cominciò.

Bill aveva previsto praticamente tutte le domande, e rispose a ciascuna di essere con meccanica sterilità edulcorata da un altrettanto meccanico sorriso, e così fece Tom.

Invidiava Gerog e Gustav, impegnati in una semplice intervista per qualche rivista di musica in una delle altre sale dell’hotel.

“Tom, hai già avuto modo di notare qualche ragazza che ti piacerebbe conoscere?” stava chiedendo una donna sulla trentina, vestita in un modo che Bill avrebbe definito semipornografico.

Tom si sporse in avanti, poggiò i gomiti al tavolo e fece spallucce.

“A dire la verità non ancora…”

“Oh, no, certo.” Confermò Bill. “Preferisce le inglesi, ultimamente.”

Tom si voltò glaciale e sogghignò perfidamente.

“E loro preferiscono me.”

“Sbagliando si impara, del resto.” Ribatté Bill, ricambiando il sogghigno.

“Ragazzi, basta così.” Ingiunse David, allarmato.

I due ragazzi si scrutarono truci per un momento, poi tornarono a guardare verso i giornalisti. Uno di loro si era già alzato in piedi per porre una nuova domanda.

“E tu, Bill, hai qualche novità che potrebbe interessare al tue fans?”

Interessante è un concetto relativo… Vuole sapere se mi drogo o se ho qualche figlio sparso per il mondo?

“Nulla di interessante, temo.” Rispose diplomatico, chiedendosi se anche ai presenti le sue parole suonassero false come suonavano a lui.

“È solo un po’ depresso perché io conosco la lingua inglese molto meglio di lui…” si intromise Tom. Bill boccheggiò.

Era come se una lama affilata lo avesse attraversato da parte a parte e con un taglio netto gli avesse spezzato il cuore.

Era stato così sollevato dallo scoprire che Leni non fosse finita tra le fila delle ragazze passate per il letto di Tom, che quasi non aveva realizzato che, in ogni caso, qualche cosa di fisico c’era effettivamente stato.

E questo ti rode, non è così?, inveì la sua coscienza.

“Sta’ zitto.” Sbottò, senza sapere a chi si stesse rivolgendo di preciso, ma Tom ormai era partito per la tangente, e fermarsi non sembrava essere contemplato nelle sue intenzioni.

“Ti brucia arrivare secondo, una volta tanto, vero?” sussurrò, senza farsi sentire dai giornalisti, che seguivano comunque con avido interesse. “Non sopporti che io abbia ottenuto qualcosa che anche tu volevi…”

Fu un attimo. Bill scattò in piedi con una scintilla di folle rancore negli occhi e gli sferrò un pugno secco sul naso.

Tom urlò e si piegò su sé stesso. Si strinse le mani attorno al naso, gli occhi che lacrimavano dal dolore, e in meno di un secondo cominciò a sanguinare copiosamente.

Un turbinio di flash e voci concitate invase la stanza, e i fotografi lottarono per farsi avanti ed immortalare ogni singolo istante di quella scena eclatante che sarebbe valsa loro un bel gruzzoletto.

Bill era senza fiato, come pietrificato davanti a Tom, riverso su sé stesso mentre il sangue continuava a scendere inarrestabile e gli macchiava la maglietta bianca.

Che cos’ho fatto?

Nel suo orecchio arrivò chiara e furiosa l’imprecazione di David:

“Merda!”

-------

Tutti erano accorsi ad aiutare Tom. David lo stava sorreggendo mentre, scortato da Saki ed un altro paio di bodyguards, lo accompagnava verso l’uscita posteriore della stanza.
Nessuno pareva curarsi di Bill, che se ne stava impalato al centro del palco, investito da valanghe di flash spietati, a fissare il vuoto.

Leni si affrettò a raggiungerlo; lo prese per mano e lo trascinò via più in fretta che poté, conducendolo verso gli ascensori. Alle loro spalle, una protesta di massa si levò dai giornalisti.

Lei quasi correva attraverso il corridoio, e lui la seguiva inespressivo, come un automa senza volontà. Leni pigiò dei tasti a caso sul display, poi, quando le porte scorrevoli dell’ascensore si richiusero alle loro spalle, finalmente scoppiò:

“Ma sei impazzito?” esclamò isterica, mentre lui si accasciava a terra impotente, lo sguardo sempre vacuo.

“Ha esagerato.” Disse in un mormorio piatto. “Lo ha fatto di proposito.”

Lei roteò gli occhi con impazienza, torreggiando su di lui dall’alto, le mani puntellate sui fianchi.

“Cosa può aver mai detto di così terribile per meritarsi –”

“Ha detto che non sopporto il fatto che lui abbia ottenuto qualcosa che volevo anch’io.” Rispose Bill, gli occhi fissi su un punto indefinito della parete a specchio, poi guardò in su, verso di lei, e un’ombra passò sul suo volto. “Aveva ragione.”

Leni appoggiò le spalle allo specchio e si lasciò scivolare a sedere sul pavimento, proprio di fronte a lui. Lo studiò attentamente, la fronte corrugata. Non lo seguiva.

“Qualcosa che volevi anche tu?”

L’ascensore si fermò, le porte si aprirono, ma nessuno entrò, così partì di nuovo.

“Dai, Leni,” Bill le rivolse un’occhiata eloquente. “Non venirmi a dire che non l’hai capito, perché non me la berrò mai.”

Lei dovette sforzarsi per carpire ciò che lui stava tentando di dirle. Aveva impiegato talmente tante energie a cercare di fare in modo che non accadesse, che ora che si trovava di fronte al fatto compiuto, nemmeno se n’era accorta.

“Dimmi che non hai quasi spaccato il naso a tuo fratello per motivo così stupido…” lo supplicò, pur sapendo che era una domanda puramente retorica, perché la risposta era scontata.

“Trovi l’amore una cosa stupida?” le chiese laconico, i gomiti stancamente appoggiati alle ginocchia piegate. Leni si rifiutava di credere che avesse detto quello che lei gli aveva appena sentito dire.

“Trovo stupido che siate riusciti a mettere da parte il vostro legame per una ragazza qualunque.”

“Non per una ragazza qualunque,” affermò lui deciso. “Per te.”

Leni sospirò e si nascose il viso tra le mani, sforzandosi di fare un po’ di ordine nel caos assoluto che ormai regnava dentro di lei.

Non doveva andare così, maledizione…

Era stato davvero difficile per lei essere così distaccata nei confronti di Bill, ma aveva voluto evitare complicazioni che avrebbero solo danneggiato tutti. Con Tom, poi, si era sentita sicura, perché il fatto che lei e lui non riuscissero a stare nella stessa stanza senza ingaggiare lotte verbali all’ultimo sangue era parsa una buona garanzia, ma nulla era andato come aveva sperato.

“Non dici niente?” domandò Bill, con lo stesso tono di qualcuno che sa che sta per essere condannato a morte. E Leni non voleva essere il suo carnefice, per nulla al mondo avrebbe mai voluto fargli del male, ma c’era una sola via d’uscita sicura da quella situazione, e se ormai i danni erano inevitabili, era almeno suo dovere cercare di limitarli, anche se il prezzo da pagare sarebbe stato alto.

“Che cosa vuoi che dica?” sospirò, il cuore che le affondava lentamente in un baratro nero in vista di quello che stava per fare. “Che sono rimasta colpita dal tuo eroico gesto cavalleresco? Che trovo molto romantico che due fratelli si siano messi l’uno contro l’altro per me?”

Ogni sua parola sembrava schiaffeggiare Bill, indebolirlo dentro come veleno, facendola sentire un mostro crudele.

“Dimmi solo la verità,” sussurrò Bill debolmente. “Hai baciato Tom perché hai già fatto la tua scelta?”

Leni abbassò lo sguardo e serrò le labbra, mentre l’ascensore si fermava.

“Non posso risponderti.” Disse, alzandosi in piedi.

La voce le tremava. Dopo la brutta relazione che aveva avuto a New York, aveva creduto che non sarebbe più riuscita a fidarsi di un uomo, ma questi ragazzi erano così straordinari da essere riusciti a smentire tutti i suoi timori nel giro di una manciata di giorni. Il guaio, però, era che con due di loro le cose erano andate oltre il previsto.

Le porte si aprirono e Leni fece per uscire, ma Bill con uno scatto fu in piedi; le afferrò i polsi e la trattenne sulla soglia.

“Tu devi rispondermi, Leni, o sia io che Tom ci impazziremo su questa domanda!” gridò. Una cameriera, in fondo al corridoio, si voltò a guardare incuriosita, ma poi si affrettò a sparire in una stanza.

“La verità vi dividerebbe, Bill,” disse mesta. “E io non ho intenzione di permetterlo.”

La presa di Bill su di lei si allentò all’istante. Leni si divincolò ed uscì dall’ascensore un attimo prima che le porte le si richiudessero davanti, portandosi via Bill e la sua espressione distrutta.

Leni sentiva il bisogno disperato di un amico.

-------

Delle svariate ipotesi che Georg aveva fatto riguardo a chi avrebbe trovato dietro alla porta, di sicuro nessuna si era anche lontanamente avvicinata a Leni.

La squadrò circospetto, soffermandosi sugli occhi vagamente lucidi e sulle braccia conserte protettivamente, e si rese subito conto che doveva esserci qualche problema.

“E tu che ci fai qui?” domandò, facendosi da parte per farla entrare. Leni aspettò che la porta fosse chiusa per rispondere a capo chino.

“Chiedo asilo.”

Ho un brutto presentimento, pensò Georg, guidandola verso il salotto. La fece accomodare sul'enorme divano e poi le sedette accanto, scrutandola premuroso.

“Da chi o cosa stai scappando, per curiosità?” domandò di nuovo.

“Dalla premiata ditta Kaulitz & Kaulitz.” rispose lei, e dal suo tono Georg capì che il suo brutto presentimento si stava avviando verso la concretizzazione.

So che mi pentirò di averlo chiesto, ma...

“È successo qualcosa?”

“Nulla di rilevante," Al suo fianco, Leni si strinse nelle spalle con fare incurante. "Se tralasciamo il fatto che le se sono date davanti ad un nugolo di giornalisti estasiati.”

La mandibola di Georg cedette per l'assurdità dell'idea.

“Hanno fatto cosa?”

“Aspetta, adesso arriva il meglio." proseguì lei, cupa. "È stato a causa mia.”

“Che diavolo c’entri tu?”

“Hai presente la fatidica sera in cui Bill per poco non è passato a miglior vita?” gli rammentò Leni, e lui non poté che assentire.

Come dimenticare?

“Eravamo tutti molto scossi, e vulnerabili…” aggiunse lei, e a Georg parve che parlasse più a sé stessa che a lui, ma improvvisamente le cose si stavano facendo piuttosto chiare, nella sua mente.

“Stai forse cercando un modo indiretto per dirmi che ti sei fatta Bill?”

Leni tacque per un breve istante, poi si morse il labbro, scuotendo il capo.

“Non lui," disse. "Tom.”

Georg sentì i propri occhi dilatarsi incontrollatamente davanti ad una rivelazione di un simile calibro. aveva intuito che il caratterino di Leni aveva solleticato tacitamente l'interesse di Tom, ma ora le cose sembravano sconfinare nella fantascienza.

“Gesù, ma cosa ti è saltato in testa?” esclamò, incredulo, ma Leni stessa non sembrava molto più conscia di lui dei fatti.

“Non lo so…” riconobbe, il viso ancora più cereo del solito mentre se lo sfregava stancamente. “Ma la situazione sembra essere degenerata.”

L'hai detto, sorella.

“Dire degenerata è niente,” Georg si sentiva come se gli avessero appena detto che la terra era piatta. “Bill e Tom che arrivano alle mani tra di loro non è un fenomeno che credevo verificabile in natura.”

Leni abbassò lo sguardo contrita e si portò una mano sulla bocca.

“Ho cercato di evitarlo…” mormorò. “Non avrei mai dovuto accettare questo impiego.”

Georg le si avvicinò e le posò esitante una mano sulla spalla. Non era abituato ad avere a che fare con una ragazza in veste fraterna, ma il profondo affetto che nutriva per Leni dissipò ogni incertezza.

“Ma dai, ti sei conquistata la troupe al gran completo,” la confortò, facendole scivolare un braccio sulle spalle e tenendola stretta a sé. “Io e i ragazzi non sapremmo che fare senza di te.”

Leni rise flebilmente.

“Avete sempre fatto senza di me, veramente…”

“Questo è vero,” puntualizzò lui. “Ma è come quando scopri il cioccolato… Lo provi una volta e non puoi più vivere senza.”

Leni lo guardò piena di gratitudine, con una dolcezza che sciolse Georg fino al midollo.

“Sono davvero felice di lavorare con voi, G.” gli disse lei, appoggiando la propria testa all’incavo della sua spalla. “Vi voglio bene, siete la famiglia che non ho mai avuto, e…” Indugiò, chiudendo gli occhi. “Nessuno rovinerebbe mai la propria famiglia per…”

Non finì mai la frase, ma Georg sapeva comunque cos’avrebbe voluto dire. Aveva capito, nell’ultimo periodo, che qualcosa di grande e silenzioso era successo, e lei era al centro di tutto, vittima ed artefice di qualcosa che ora sembrava spaventarla a morte.

“Avanti, dillo, che male c’è?” la esortò dolcemente. “Sei innamorata.”

“No!” negò lei. “ Io non –”

Ma Georg le sorrise incoraggiante.

“Andiamo Leni, non saresti qui a farti questi problemi se non provassi qualcosa per uno di loro due.” le disse comprensivo. “Ti conosco, se ti fossero entrambi indifferenti da quel punto di vista, non esiteresti un istante a chiarire la situazione, e lo sai meglio di me.”

“Se dico la verità, renderò felice un Kaulitz e ne distruggerò un altro.” Sospirò lei, e lui percepì tutto il suo sconforto. La capiva, le era solidale, ma l’ignavia non era mai la via giusta per risolvere le questioni come quella.

“Stai per perderli entrambi, te ne rendi conto?” le fece presente con tutto il tatto possibile. Leni fece cenno di sì con la testa.

“Né vincitori, né vinti,” disse. “È giusto così, è la cosa migliore per il gruppo.”

“E la cosa migliore per te?” Interloquì Georg, deciso a farla ragionare. “L’hai detto tu, siamo la tua famiglia.” Le posò un bacio sulla tempia e la abbracciò. “Non avevo mai avuto una vera amica, prima d’ora, lo sai? Mi mancheresti da morire.”

Leni ricambiò l’abbraccio, affondando il proprio viso nel suo petto. Non avrebbe pianto, Georg lo sapeva, ma sapeva anche che ne avrebbe avuta una gran voglia.

“Mi mancheresti anche tu, e non sai quanto,” disse in un soffio. “Ma se tu li avessi visti, poco fa…”

“Non riesco ad immaginarmi quei due che fanno a cazzotti,” rifletté lui, pensieroso. “In pubblico men che meno. Devono averti davvero molto a cuore…”

Sciolsero l’abbraccio, e Leni si passò stancamente una mano tra i capelli che le solleticavano la vita.

“Non hanno esattamente fatto a cazzotti,” spiegò, intercettando lo sguardo interrogativo di Georg. “Bill ha steso Tom con un gancio micidiale.”

A Georg per poco non sfuggì una risata divertita. Non fosse stato per la situazione di contorno, la scena sarebbe sicuramente stata esilarante.

“L’Apocalisse è passata di qui e io me ne stavo a rilasciare interviste per degli stupidi giornaletti per dodicenni?” esclamò, fingendosi indignato. Leni gli allungò una gomitata tra le costole.

“Georg, sto parlando sul serio!”

Lui si scusò.

“Lo so,” Sollevò le mani in segno di difesa. “È che da quando sei arrivata tu, qui non ci si capisce più niente.”

La vide abbassare gli occhi e cominciare a tormentarsi gli orli delle maniche. Nel linguaggio di Leni, questo significava nervosismo e brutte notizie.

“A questo proposito,” disse, lasciando trasparire un rammarico che quasi spaventò Georg. “Ci sarebbe una cosa che volevo dirti…”

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Capitolo 9
*** The Power Of Goodbye ***


Tom se ne stava pietrificato davanti allo specchio della deserta sala ricreativa che era stata riservata ai Tokio Hotel, non molto distante dal bar dell’albergo, da cui proveniva un chiacchiericcio intenso ma sommesso.
Fissava la propria immagine riflessa come se si trattasse di uno sconosciuto, ancora sporco di sangue dopo la visita tempestiva all’infermeria. Era quasi buffo pensare che, nel giro di pochi giorni, due diversi membri del gruppo avevano dovuto far visita alle infermerie di due diversi hotel. Di questo passo, si sarebbero fatti una pessima nomea, degna delle peggiori rockstar dedite a droga ed alcol.

Tom si faceva pena.

Da quando Bill e io lasciamo il nostro rapporto in secondo piano per una ragazza?

Avrebbe voluto poter essere meschino e dare tutta la colpa a Leni, ma la realtà era ben altra. Lei aveva chiaramente messo dei paletti fin da subito, soprattutto con Bill, ma l’espediente era servito a ben poco.

Non era stata lei a provocarli, a cercare di sedurli, e Tom sapeva che molto probabilmente era stato questo, tra le altre cose, a far sì che l’effetto ottenuto fosse l’esatto opposto dell’intento.

Maledetta femmina.

Tom aveva provato ad odiarla per tutto quello che – pur inconsciamente – aveva causato, ma tutto l’impegno che ci metteva sembrava sfumare nel nulla ogni volta che gli venivano in mente i suoi occhi azzurri imperscrutabili, la sua voce un po’ pungente e un po’ provocante, e l’immagine ricorrente delle sue mani che gli sfioravano il petto era ormai un’ossessione ineluttabile.

Tom non era per niente abituato ad essere soggiogato in quel modo umiliante da una banalissima ragazza.

Infatti lei non è una banalissima ragazza come quelle con cui sei solito intrattenerti, lo punzecchiò il sé stesso raziocinante, è stupefacente scoprire quanti e quali tesori a volte si celino dietro le porte dell’anima delle persone, mh? Non ti eri mai soffermato ad aprire, non ti interessava sapere cosa ci fosse oltre quello che vedevi… Non eri preparato a questo salto nel vuoto, e ora sei fregato.

Aveva sempre considerato l’amore una schiavitù dalla quale esentarsi, perché un uomo innamorato finiva sempre per perdere di vista sé stesso, completamente accecato dai propri sentimenti, ed ora più che mai ne aveva avuta conferma.

Mi piacerebbe poter dire che vorrei che lei non fosse mai arrivata, confessò al proprio riflesso, ma non ci riesco.

Sentiva di essersi meritato quel pugno da parte di Bill, ed ora era sinceramente pentito per tutto ciò che aveva detto, preso da chissà qualche raptus di folle vendicatività, ma le parole di Leni gli erano rimaste marchiate dentro, ed aveva la sensazione che non sarebbe mai più riuscito a cancellarle.

‘Solo uno stupido bacio…’

Si appoggiò con i palmi allo specchio che rivestiva l’intera parete e chinò il capo a terra, serrando gli occhi nella vana speranza di riuscire a scacciare l’immagine di lei e Bill che si sorridevano così vicini, in un quadro così crudelmente perfetto.

Sentì la porta alle proprie spalle che si apriva, ma non si mosse. Di chiunque si trattasse, avrebbe dovuto fare marcia indietro, e in fretta, perché non era nelle condizioni di sostenere una conversazione di qualunque tipo.

“Tom…”

I suoi occhi si sgranarono nell’istante in cui la porta si richiuse. Si era preparato ad essere rude con chiunque si fosse azzardato a disturbarlo, ma non aveva previsto che quel chiunque potesse essere lei.

E c’era stato qualcosa, nella sua voce, che lo aveva privato di ogni difesa preventiva che si era prontamente innalzato intorno, e la cosa lo spiazzò del tutto.

Vattene, sentenziò il suo cervello, ma le sue labbra non obbedirono.

Si limitò a sollevare appena la testa, quel tanto che gli bastò per incontrare il riflesso di Leni nello specchio.

Sembrava distrutta almeno quanto lui.

Il suo istinto era di abbracciarla, e stringerla fino a toglierle il respiro – forse per la rabbia, forse per motivi completamente opposti – ma non voleva che lei capisse quanto seria fosse l’intera faccenda, così strinse i denti, ed attese.

“Tom,” ripeté Leni, quasi supplichevole, avvicinandosi. “Possiamo parlare, per favore?”

“Non c’è granché da dire, non ti pare?” replicò, più brusco di quello che avrebbe voluto.

La squadrò furtivamente: sembrava ancora più magra con quella salopette extralarge addosso, e l’onnipresente nero della maglietta, combinato con quell’espressione contrita, le faceva sembrare quasi malata, come se potesse svenire da un momento all’altro, ma tornando a guardare sé stesso, Tom si accorse di avere il medesimo aspetto.

Leni non disse altro. Restò ad aspettare in silenzio, e la sua muta preghiera fu impossibile, per Tom da ignorare.
Dopotutto, forse qualcosa da dire c’era.

“D’accordo,” cedette alla fine, senza voltarsi. “Parliamo, tiriamo fuori tutto, una volta per tutte. Chissà, magari potrei riuscire a capirci qualcosa in tutta questa storia, finalmente…”

Leni non si mosse da dove si era fermata entrando. Tentennò nell’esordire, quasi non fosse sicura nemmeno lei di quello di cui avrebbero dovuto discutere.

“Quello che è successo oggi è un allarme di avvertimento,” disse pacata. “Bisogna fare qualcosa, prima che la cosa sfugga di mano.”

Tom si irrigidì, intuendo vagamente dove lei volesse andare a parare, e già sapeva che la piega che la conversazione stava per prendere non gli sarebbe piaciuta.

“E cos’è che vorresti fare, precisamente?” chiese, schioccando la lingua.

Aveva già presagito che si sarebbe trovato in disaccordo con qualunque risposta lei avrebbe dato, ma quello che lesse nei suoi occhi, incontrandoli, gli fece avvertire un senso di panico raggelante.

Non pensarlo nemmeno per scherzo, Regan.

Ma lei non sembrava in grado di intercettare i suoi pensieri.

“C’è un’unica cosa che può risolvere una disputa come questa,” dichiarò con adamantina fermezza. Il cuore di Tom sembrò fermarsi. “Eliminare l’oggetto della discordia.”

Tom si voltò indietro di scatto, sentendosi bruciare di un male irrazionale e soverchiante.

“Non dire stronzate!” esclamò, minaccioso. “Se è questo che sei venuta a dirmi, non sono disposto a starti a sentire.”

“È la soluzione più semplice, non capisci?” si ritorse lei, con la stessa animosità. “Via il dente, via il dolore, qual è il problema?”

Il calore che Tom all’inizio aveva avvertito sul viso divampò per tutto il suo corpo, facendolo fremere da capo a piedi.

“Qual è il problema?” sbraitò, gonfio di collera. “Leni, tu non stai parlando sul serio!” Le si piantò davanti, incombendo su di lei dall’alto della sua statura. Strinse i pugni per evitare di toccarla, perché se l’avesse fatto, non era certo che sarebbe più riuscito a lasciarla andare. “Lo vuoi sapere qual è il problema? Mi hai invischiato in questa cazzo di trappola da cui non riesco ad uscire, tu e le tue battute argute, e se proprio lo vuoi sapere, non era propriamente il mio sogno nel cassetto finire a litigare con mio fratello per una donna, e per te tanto meno!” Riprese fiato, quasi febbricitante per il fiume incontrollato di emozioni che stava lasciando uscire tutte insieme. “Il problema, Regan, è che se tu te ne vai, io…” Tom si fermò, sorpreso dal suo stesso pensiero. Rimase a guardarla immobile, smarrito, e per la prima volta dopo anni, ricordò cosa si provasse a sentire il bisogno di piangere. “Io sentirò la tua mancanza.”

L’ho detto, Tom soppesò stupito le sue stesse parole, l’ho detto, cazzo.

“Che cos’avrò mai di tanto speciale?” sospirò Leni, la voce malferma nella tensione del momento.

Lei e Tom si scrutarono a vicenda, così vicini per vedersi specchiati l’uno negli occhi dell’altra, ma non abbastanza da sentire le loro pulsazioni rallentare in sincronia.

“Niente di niente.” Sussurrò lui duramente, la gola improvvisamente secca. “Sei solo una viscida strega qualunque, schifosamente piena di sé ed insopportabile, che non sa mai tenere a freno quella sua maledettissima lingua biforcuta,” Indugiò, intimorito dalla portata di quello che stava per dire, perché, sì, lui era quello spavaldo e disinibito, ma era anche quello non aveva dimestichezza con i rapporti umani. Si passò la lingua sulle labbra, chiedendosi se il mondo sarebbe finito non appena lui avesse aperto bocca, e alla fine lo ammise: “E sei anche l’unica che mi abbia mai fatto perdere il sonno con un banalissimo bacio.”

Leni incassò in colpo con stoica imperturbabilità, reggendo il suo sguardo senza batter ciglio.

“È stato uno sbaglio, Tom,” disse affranta. “Un grossissimo sbaglio.”

“No, invece!” insisté lui, sorprendendosi a sorridere lievemente. “Sai, era la prima volta che baciavo una ragazza di cui fossi veramente innamorato.”

Era la verità. Non se n’era reso conto, fino ad ora, preoccupato com’era stato a negare il semplice avvenimento, ma ora che ci rifletteva, con lei davanti, tutto appariva sotto una luce diversa.

Leni, però, sembrava schermata da una specie di barriera emotiva, ed era impossibile per Tom capire cosa pensasse, e la cosa era logorante.

Smettila di guardarmi come se fossi un criminale, Regan… Non capisci quanto mi costi dirti queste cose?

“È stata una bella sensazione,” proseguì placidamente, ignorando – o cercando di ignorare – la sensazione di vuoto cosmico che stava sorgendo in lui. “Ti devo un grazie per avermi permesso di farlo.”

Leni scosse la testa, evitando il suo sguardo.

“Ho risposto a quel bacio, Tom.” Mormorò, come se stesse confessando un omicidio, e forse in qualche modo era così, ma Tom non aveva ancora detto tutto.

“Lo avrebbe fatto praticamente ogni ragazza dotata di un minimo di senso estetico.” Rispose allegramente, ed allargò di un poco il sorriso che già non sentiva più suo. “Ma sta’ tranquilla, sono un tipo realista, anche se non sembra. Non mi sono mai illuso che per te significasse lo stesso.”

“Il punto non è questo, Tom,” disse lei, lasciandosi cadere sulla poltrona alle proprie spalle. Posò su di lui i suoi occhi limpidi, più solenne che mani. “Il punto è che tu e Bill avete litigato a causa mia, e io non starò a guardare mentre le due persone più unite che abbia mai conosciuto si comportano da nemici mortali.”

Tom si appoggiò ai braccioli della poltrona, chinandosi su di lei.

“Non vuoi proprio capire, vero?”

A meno di un palmo dal suo naso, Leni deglutì.

“Capisco benissimo, invece,” sussurrò. “Più di quanto tu creda, ma…” Scosse di nuovo la testa, facendosi triste in volto. “Tom, io non valgo tanto.”

La stessa tristezza che era scesa su di lei si impossessò anche di Tom. Si tirò su, passandosi una mano sul viso.

Sì, invece. È solo che non lo sai.

“E cosa vorresti fare, sentiamo?” le chiese, una volta recuperato un minimo di autocontrollo. “Sparire dalla faccia della terra?”

Si rese conto di quanto l’idea avesse terribilmente senso solo quando incrociò l’occhiata nervosa di Leni.

“L’idea sarebbe più o meno quella.”

Tom aveva tutta una serie di osservazioni più o meno garbate da esprimere, e anche se sapeva che avrebbe fatto meglio a tenerle per sé, proprio non riuscì a trattenersi.

“Vuoi tornare a fare la commessa in una boutique per vecchie snob a recitare quella parte che ti andava tanto stretta?” infierì, incapace di lasciare da parte l’amarezza. “Quello non è il tuo mondo, Leni, lo sai anche tu. Il tuo posto è qui. Sembravi felice di stare con noi…”

“Lo ero,” convenne lei. “Lo ero davvero, prima che cominciaste a litigare per colpa mia.”

“Parli come se fossi stata tu ad istigarci…”

“Mi sento in colpa lo stesso.”

“Allora smetti di sentirti in colpa!” sbottò lui, con un moto d’ira. “Sono disposto ad accettare e rispettare qualunque tua condizione e decisione con serenità, se resti. Ti prego,” Tom si chiedeva se lei riuscisse a sentire quanta disperazione ci fosse in lui. “Io sono un misogino insensibile, posso anche trovare il modo di sopravvivere senza di te, ma Bill…” A quel nome, Leni sollevò lo sguardo di scatto, e il sorriso di Tom si inasprì. “Lui non è forte come me, non riuscirebbe mai ad accettare un tuo eventuale abbandono… Preferisco dichiararmi sconfitto ed avere un fratello felice, piuttosto che rimanere in stallo per sempre e vederlo ogni giorno più triste.” Si fermò per guardarla, gli occhi che gli bruciavano come da anni non accadeva. “Resta,” la pregò. “Per lui.”

Leni parve chiudersi in sé stessa per non ascoltarlo. Chinò il capo in diniego, irremovibile.

“Ho già sistemato tutto.” Annunciò in tono definitivo.

Personalmente, Tom avrebbe di gran lunga preferito un responso più violento, se non altro per potersi sentire in diritto di mettersi a urlare come avrebbe voluto. Ma Leni non sembrava intenzionata a lasciar trapelare nemmeno l’ombra di un’emozione, e lui scelse di lasciar correre.

Sei una gran cocciuta, e anche una gran stupida…

“Allora te ne andrai…”

Leni annuì lentamente.

“Mi dispiace, Tom.”

“Sì, anche a me,” ribatté lui, glaciale. “Forse ti ho sopravvalutata… Ora come ora, non mi sembri più poi così speciale come credevo.”

Leni non reagì, e Tom non seppe mai se avrebbe trovato il coraggio di rispondergli, perché prima che lei potesse aprir bocca, qualcuno entrò nella stanza.

“Eccoti qui, finalmente,” David rivolse a Tom un sorriso amichevole. “Va meglio?”

Tom grugnì un assenso ed affondò le mani nelle tasche, tornando davanti allo specchio.

“Mi fa piacere,” rispose David, sollevato, poi il suo sguardo puntò altrove, sullo schienale della poltrona. “Leni, ci sei tu lì?”

Lei si alzò semplicemente in piedi, senza guardare Tom, né emettere un suono.

“Ti spiacerebbe venire di là un momento?” le chiese Dave, gentile come sempre, ma qualcosa nel suo tono mise Tom in allarme. “Vorrei scambiare due parole con te.”

Avrebbe voluto fermarla, mettersi fra lei e David ed impedirle di andarsene, invece non si mosse.

Senza ulteriori indugi, Leni gli lanciò un’ultima occhiata fugace ed uscì a passo deciso.

-------

Leni seguì David nel vasto giardino sul retro dell’hotel. Il tempo era buono, piuttosto caldo, per il periodo, ma Leni sentiva un freddo che non aveva nulla a che vedere con la temperatura.

Camminarono per un po’ in silenzio, ma Leni sapeva perché si trovavano lì, e perché erano soli. David, che passeggiava al suo fianco, era visibilmente a disagio.

“So di cosa vuoi parlare.” Esordì lei, nel tentativo di facilitargli le cose. Andavano molto d’accordo, loro due, e poteva immaginare quanto dura fosse per lui affrontare l’argomento con lei.

Dave si fermò e si voltò verso di lei, scuro in volto.

“Allora saprai anche cosa sto per dirti.”

“Sì.”

Ci siamo, Leni cercò di farsi coraggio. And if our final day has come, let’s pretend to carry on…

“Ti voglio evitare inutili e noiosi preamboli, Dave,” proseguì, mentre una parte di lei si sentiva morire. “Me ne vado, non appena scade in contratto di prova.”

David parve impreparato a questo dettaglio.

“Ma sarà il giorno del concerto…” esclamò, corrugando la fonte.

“Ho già parlato con Kyla,” tagliò corto lei, desiderosa di accorciare il più possibile quel piccolo calvario. “Non era affatto contenta di quello che avevo da dirle, ma ha capito.”

David si portò le mani ai fianchi ed abbassò lo sguardo, stringendo le labbra.

“Che cosa farai?”

“Sono stata invitata ad un cocktail party, la sera del trenta,” spiegò, calciando via un sasso. “Incontrerò un pezzo grosso della moda londinese, e poi si vedrà. Sarò fuori dai piedi entro le cinque del pomeriggio.”

“Mi dispiace che debba andare così,” L’espressione addolorata di David era sincera, ma non esistevano terze vie, lo sapevano bene entrambi. “Ti adoriamo tutti quanti, ma io sono il loro manager, devo pensare al bene del gruppo prima di tutto…”

“Dave,” Leni si sforzò di rassicurarlo con un abbozzo di sorriso. “Non mi devi nessuna spiegazione, avevo già preso questa decisione per conto mio. Sul serio.”

Dave restituì il sorriso con altrettanto rammarico.

“Ci mancherai molto, Alhena.”

Mai quanto mancherete voi a me.

“Sei una ragazza formidabile, lo sai?” aggiunse lui, ma lei era di diverso avviso.

“No, non lo sono,” affermò categorica. “Ma ti ringrazio, comunque. Infondo è stato merito tuo se ho potuto avere il piacere di conoscere i ragazzi… E anche se le cose devono finire così, sono davvero felice di aver avuto l’occasione di lavorare con voi. Mi avete dato molto.”

“È stato uno scambio equo, mi pare.” Disse in tono nostalgico.

Una folata di vento scompigliò la lunga chioma nera di Leni, portandosi via il fantasma di una lacrima che non aveva nemmeno avuto il tempo di nascere.

“Prenditi cura di loro,” si raccomandò. “Fa’ in modo che restino sempre le splendide persone che sono, e soprattutto assicurati che la loro carriera sia lunga e brillante come meritano, così potrò sentirli vicini, anche da lontano.”

David assentì con un cenno, le mani nella tasca della giacca.

“Te lo prometto.” Le assicurò. La scrutava colpevolmente, ma quello che stava succedendo non era una sua responsabilità.

Non è neanche tua, s’intromise la voce che dimorava nell’angolo più buio e remoto della mente di Leni, ma scarificarsi come una martire è senz’altro più nobile che ammettere che sei terrorizzata da quello che provi, giusto?

Ma Leni non voleva ascoltare.

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Capitolo 10
*** White Lies ***


Georg andò da lei, quella sera, e anche se Leni non aveva la minima voglia di parlare, lo lasciò entrare.

L’essersi ripromessa di cercare di prendere le distanze dai ragazzi, viste le circostanze, andò in fumo non appena lui riuscì a stabilire un contatto visivo.

Sembrava triste, e Leni sapeva bene perché.

Non guardarmi così, G, lo supplicò mentalmente, è già abbastanza difficile di per sé.

“Facevi sul serio, allora…”

Leni non aprì bocca. Continuò ad allacciarsi le scarpe, inginocchiata a terra, pronta ad uscire per la sua ora di jogging quotidiana.

“Ho parlato con Tom,” Continuò Georg, mettendosi a sedere sul pavimento, accanto a lei. “Sai, non credo che tu ti renda veramente conto di quello che sta capitando…”

“Un gran casino.” Disse lei semplicemente, mettendosi a gambe incrociate davanti a lui. “E deve finire al più presto.”

Georg si sporse in avanti con fare cospiratorio, i gomiti appoggiati alle ginocchia piegate.

“Tom ha detto che è furioso con te per questa decisione.” La informò.

Lei fece una smorfia scettica.

“Tom è furioso con me per il novantanove percento del tempo, ed è incazzato nel rimanente uno percento,” osservò. “Hai qualcosa di non noto da dirmi?”

“Mentre me lo diceva, io gli fasciavo una mano livida ed insanguinata.”

Leni impiegò qualche istante per elaborare l’informazione.

“A quanto pare la sua galanteria l’ha portato a prendere a pugni il muro, anziché te.” Spiegò Georg, che a quanto pareva trovava la cosa molto ilare. Leni, dal canto suo, non sapeva cosa pensare.

Dio, ma il naso ammaccato non gli bastava?

Che Tom fosse un pazzo sconsiderato non era certo una gran novità per nessuno, ma Leni non avrebbe mai pensato che addirittura fosse così idiota da prendersela con un avversario indiscutibilmente superiore come una parete.

“E magari già che c’era, giusto per farmela pagare, si è tagliato i suoi amati rasta ed ha minacciato di diventare gay, se non cambiavo idea?”

Faceva la leggera, e sapeva che era solo un meccanismo di autodifesa, perché in realtà si sentiva tutt’altro che in vena di scherzare, e Georg ne era ben conscio.

Le chiese se avesse voglia di parlare o sfogarsi, ma lei disse di no. Era troppo tesa, al momento, per riuscire a sostenere un discorso di senso compiuto.

“Che cos’hai intenzione di fare, allora?” le domandò con un sospiro.

Leni ci rifletté su. Non voleva parlare, perché c’era così tanto da dire che, se avessero cominciato, probabilmente sarebbero invecchiati sull’argomento, ma nemmeno aveva voglia di restarsene sola a piangersi addosso per l’infelicità a cui sembrava destinata.

L’unica cosa che desiderasse davvero era una pausa da tutto, un ritaglio di tempo in cui non dover pensare a nulla se non il nulla più assoluto.

Guardò Georg e gli regalò un mezzo sorriso.

“Ti va una corsa turistica per il centro di Milano?” propose. “Magari ti camuffiamo per bene,” aggiunse in fretta, con una punta di malizia. “Non vorrei mai che tu finissi vittima di un’aggressione di feromoni in delirio.”

Sulle prime, lui sembrò colto alla sprovvista, ma poi i suoi lineamenti si rilassarono, ed anche lui sorrise.

“A Dave verrà un infarto, se lo scopre,” disse sornione. “Me li dai dieci minuti per passare alla modalità ‘sportivo’?”

Leni notò i suoi jeans e le scarpe costose, e rise.

“Dieci minuti? Vuoi fare concorrenza a Bill?”

Le si spense la voce sul finire della frase, e sapeva che sperare che lui non se ne fosse accorto sarebbe stato ingenuo, ma se non altro Georg ebbe l’accortezza di fare finta di niente.

“Ripasso tra dieci minuti,” disse, controllandosi l’orologio. “Tu preparati a supplicarmi di rallentare.”

“Sogna, Listing, sogna.”

Una volta rimasta di nuovo sola, Leni si guardò intorno: la stanza era diversa da quella che aveva avuto la volta prima, molto più ampia e decisamente più elegante, e la vasca aveva perfino l’idromassaggio. Si chiese se fosse un caso, o se Tom ci avesse messo lo zampino con David.

Figuriamoci…

Afferrò la felpa dalla sedia accanto all’ingresso e fece per infilarsela, quando la sua attenzione ricadde sulle proprie braccia, dove i lividi erano quasi del tutto scomparsi, ma ancora visibili.

Ebbe un flash delle mani di Tom che la stringevano con tanta foga, ricordò le sue unghie impresse nella propria pelle, il calore del suo tocco contro tutto il freddo che c’era stato intorno.

Le piacevano, quelle mani.

Grandi, forti eppure delicate, ma soprattutto le amava per l’abilità con cui sapevano accarezzare le corde di una chitarra come se si trattasse di una donna che amava con tutto il cuore, ed era proprio tutto quell’amore che lui, e Bill, e Georg, e Gustav mettevano nella loro musica che li rendeva qualcosa di più di semplici rockstar.

I Tokio Hotel erano degli artisti, e lei non poteva minare a quel loro amore comune per un’insignificante cotta passeggera.

È questo che è, dopotutto, rifletté, solo un abbaglio passeggero. Passerà.

Quando finalmente, un quarto d’ora più tardi, lei e Georg sgattaiolarono circospetti fuori dai garage dell’hotel (per evitare le fans appostate davanti all’ingresso), Leni si sentì finalmente libera.

Quella sera, con Georg accanto, corse come se non dovesse più tornare indietro.

-------

La settimana seguente fu per tutti quanti un vero inferno, piena zeppa di eventi e promozioni vari, ma almeno, tra un impegno e l’altro, il tempo di soffermarsi a pensare o litigare era pressoché inesistente.

Quello che dispiaceva di più a Leni, era di non aver avuto molte occasioni per stare un po’ con i ragazzi, ma, a conti fatti, probabilmente era meglio così.

Quando rimisero piede a Milano, la sua anima era un cimitero di ricordi, e lei si sentiva sempre più schiacciata dall’inesorabile avvicinarsi dell’ora dell’addio.

La vigilia del fatidico trenta ottobre, tutto era già pronto nella sua stanza, e per quasi tutta la notte lei se ne rimase sdraiata sul letto, ad ascoltare la musica dei ragazzi.

Erano bravi davvero.

Oltre la bellezza degli arrangiamenti, oltre la magia dl ritmo, oltre la profondità dei testi, la voce di Bill la cullava ed accarezzava come una mano amica, a volte confortando, altre volte ferendo, ma sempre con dolcezza.

E così aveva avuto voglia di urlare con Shrei e Scream, e si era commossa con In Die Nacht, ed aveva avuto i brividi con Spring Nicht e Don’t Jump, e aveva pianto tutto quello che finora si era tenuta dentro sulle note struggenti di Rescue Me e Rette Mich.

Domani, tutto sarà finito.

Era il pensiero ricorrente degli ultimi giorni, quel capitolo che si chiudeva. ‘Morto un papa, se ne fa un altro’, diceva il detto, ma non esistevano detti a proposito delle persone che si amavano, e Leni non riuscì a fare a meno di chiedersi se e quando si sarebbe mai più sentita a casa come si sentiva con quei quattro adorabili folli.

Mai, probabilmente.

Alla fine si addormentò con Bill che cantava le ultime battute di Love Is Dead.

It’s over now…

Quando riaprì gli occhi, la luce del sole mattutino era già piuttosto forte, ed entrava a fiotti dalle tende aperte.

Leni stava guardando in faccia l’alba del suo ultimo giorno.

Si rese conto di non essersi svegliata spontaneamente quando udì dei colpi decisi alla porta, e se da una parte avrebbe preferito starsene da sola a rimuginare, dall’altra sapeva che era meglio evitare di perdersi in maree di rimpianti e rimorsi.

Dev’essere il cameriere con la roba che ho lasciato in lavanderia.

Aprì la porta fiduciosa, ma anche se in effetti i suoi vestiti puliti c’erano, non era affatto un cameriere a portarli.

-------

Leni lo stava guardando come se si trovasse di fronte qualcosa di estremamente doloroso, ma Bill ormai era abituato a quel tipo di sguardi, e non solo da parte di Leni.

“Non dovresti avere le prove della voce?” gli domandò lei, senza nemmeno salutarlo, con un remoto accenno di panico.

Lui si strinse nelle proprie spalle.

“Non è urgente, al momento.”

Le porse i vestiti accuratamente piegati e stirati con un piccolo sorriso. Leni prese il pacchetto trasparente, quasi strappandoglielo di mano, e lo guardò severamente.

“C’è il concerto, stasera,” Disse brusca. “Se permetti, la cosa è un tantino urgente.”

“Volevo salutarti.” Si difese lui, ricacciando indietro l’angoscia che provava nel vederla lì, davanti a sé, identica alla prima volta che si erano incontrati: struccata, stanca, e provata.
L’unica cosa che era cambiata, rispetto ad un mese prima, era che non sorrideva più.

“Ci sarà tempo più tardi per i saluti,” affermò rigida. “Tu non –”

“Non ci sarà tempo per niente, più tardi,” la interruppe lui, secco. “So che scapperai via non appena sarai sola.”

Leni sembrò colpita, e Bill sapeva di essere stato sottovalutato, ma anche se effettivamente era da poche settimana che si conoscevamo, lui aveva capito molto di lei, forse anche più di quanto avesse mai capito di sé stesso, ed aveva la matematica certezza che lei non volesse addii strappalacrime, e che molto probabilmente le sue intenzioni erano di buttare giù quattro righe di congedo e sparire in fretta.
Ne era certo, glielo leggeva negli occhi.

“Bill, tu dovresti essere alle prove.” Insisté Leni, marcando ogni parola.

“Io non vado da nessuna parte finché non mi lascerai dire tutto quello che ho da dire.” Ribatté lui, adamantino.

Non l’avrebbe lasciata andare senza perlomeno averle detto come stavano davvero le cose, senza averle spiegato i motivi di quel pugno sferrato a Tom, e del suo umore depresso dell’ultimo periodo, senza tentare, almeno, di farle capire che andarsene non sarebbe servito a nulla, perché, anche se non poteva parlare a nome di Tom, quello che lui stesso provava non sarebbe stato cancellato dalla sua partenza, e lei doveva saperlo.

“Le cose non cambieranno, anche se tu te ne vai,” le disse. “La sola cosa che cambierà sarà il viso che vedrò quando dovrò provare dei nuovi vestiti, ed ogni santo giorno mi chiederò come tu ti sia potuta illudere che la tua partenza potesse fare qualche differenza.”

“Saresti costretto a dimenticare, prima o poi…”

Stavano in piedi sulla soglia della stanza, a studiarsi a vicenda come se le parole fossero superflue, perché tutto ciò che avevano da dirsi ce l’avevano scritto in faccia. Era sempre stato così, fin dal primo giorno, e questo Bill non lo avrebbe mai dimenticato.

“Mi fa piacere che almeno tu sia riuscita a convincertene,” mormorò, incapace di impedire alla propria voce di tremare. “Onestamente, dal mio modesto punto di vista le cose appaiono leggermente più complicate.”

“Allora perché stai facendo di tutto per complicarle ulteriormente?” fece lei, con un tono che era a metà strada tra una sfuriata ed un lamento.

Bill fece un passo in avanti, gli occhi fissi nei suoi, e lei arretrò automaticamente, ma di troppo poco perché Bill potesse sentirsi respinto.

Non riesco a capire cosa vuoi veramente, Leni.

Le si avvicinò ancora, e stavolta lei non si mosse.

Non riesco a capire se è da me che sei tanto ansiosa di scappare

Rimasero così, l’uno di fronte all’altra, immobili davanti alla porta ancora aperta sul corridoio.

O da te stessa.

Bill era stato innamorato altre volte, prima, ma ora, ascoltando i battiti rapidi ed assordanti del proprio cuore, stava cominciando a capire quanto ciascuna delle sue storie passate, anche quelle più importanti, fosse stata in realtà solamente una piccola goccia in quella tempesta in cui ora si ritrovava immerso.

“Non farmi questo, Leni.” La pregò.

Lei evitò il suo sguardo. Abbassò la testa e tirò su con il naso, incrociando le braccia sul petto. Quando lo guardò di nuovo, i suoi occhi erano vitrei e lucidi.

“Stammi bene a sentire, perché lo dirò una volta sola,” esordì con calma ostentata. “Dopodiché questa porta si chiuderà e tu te ne andrai alle prove.” Si inumidì le labbra, l’espressione buia e malinconica. Vederla così non faceva altro che alimentare il desiderio di Bill di stringerla in un abbraccio, almeno per una volta. L’ultima.

“Tu mi piaci, ok?” disse Leni, con un evidente sforzo. “Sei un ragazzo eccezionale, affascinante, carismatico, pieno di talento, e l’unica descrizione calzante che mi sovvenga per il tuo aspetto fisico è ‘da stupro’,” L’accenno di un vago sorriso le comparve sulle labbra stranamente pallide, e scosse tristemente il capo. “Io invece non sono niente.”

L’impulso di Bill fu quello di schernire quell’affermazione insensata. Avrebbe voluto che lei potesse vedersi con gli stessi occhi con cui la vedeva lui, ma sarebbe stato come cercare di spiegare ad un cieco cosa fossero i colori.

“Non sono né interessante né particolarmente attraente,” proseguì Leni, sempre più caustica, sempre più amara. “Non ho nessun talento, nessuna abilità, nessuna prospettiva veramente soddisfacente…” Sospirò. “Non so cosa tu o quell’altro idiota che condivide i tuoi geni abbiate mai potuto vedere in me, onestamente. Ok, Tom sarebbe disposto a farsi qualunque essere umano femmina vagamente decente, ma tu… Non so quale folle capriccio tu ti voglia togliere con me, come sia potuto anche solo passare per l’anticamera di quel tuo insano cervello da rockstar viziata il solo pensiero di considerarmi materiale papabile, ma fidati, non morirai senza di me.”

Stavolta fu Bill a scuotere il capo.

Io non ci giurerei.

“Ti passerà,” Il tentativo di persuasione di Leni, benché deciso, era – almeno alle orecchie di Bill – ben poco sentito. “E molto presto, vedrai. Troverai una bella ragazza che sia degna di te, magari dell’età giusta, e riderai al pensiero di aver anche solo pensato di volere merce di seconda mano come me.” Il sorriso che Leni gli rivolse aveva un forte retrogusto di fittizio. “Trovatevi la vostra principessa, Vostra Maestà, e lasciate che le serve se ne restino a sognare.”

“E se non la volessi, una stupida principessa?” sbottò lui, infuocato. Perché si rifiutava di capire? “Se io volessi un’umile ma fantastica serva che mi capisca e con cui io possa sentirmi me stesso?”

“Un principe che sposa una popolana perde sempre la sua corona, non lo sapevi?”

Ci fu una pausa densa di significato, durante la quale Leni lo osservò quasi sfidandolo.

Cosa c’è?, le chiese silenziosamente, credi forse che non ne sarei capace? Credi che non sia abbastanza pazzo da fare una cosa simile?

“Lo farei, per te.” Dichiarò.

Leni non si lasciò impressionare.

“Buffo, ero certa di aver letto da qualche parte che tra carriera ed amore, avresti senz’altro scelto la carriera.”

“Non avevo la minima idea di cosa stessi parlando.” Ammise Bill, ed era sincero.

Leni gli aveva insegnato qualcosa di più dell’autoironia e del fascino della semplicità, ma forse non gli avrebbe mai dato l’occasione di dirglielo.

“Forse era meglio così.” Replicò lei.

“Se solo tu volessi darmi ascolto per un momento –”

“Cresci un po’, Bill,” esclamò Leni con impazienza. “Esci dalla tua gabbia dorata e guarda in faccia la realtà: le persone come te hanno tutto ciò che vogliono, tranne quell’unica cosa che desidererebbero davvero. È ingenuo, da parte tua, sognare il Vero Amore, e se tu fossi veramente consapevole della situazione lo sapresti, e ti accontenteresti delle avventure di una notte, come Tom. È lui quello con i piedi per terra, Bill, non tu. È lui quello che ha capito come funzionano le cose.”

Bill la ascoltava come se non la conoscesse, eppure non poteva negare che, almeno in parte, avesse ragione. D’altra parte, però, su un particolare si sbagliava.

“Tom ha dimostrato di considerarti qualcosa di più delle sue solite squallide avventure usa e getta, mi pare.” Puntualizzò, sentendo di doverlo a Tom.

Leni, però, non era disposta a cedere.

“Allora siete entrambi dei visionari.”

“Non sono la persona immatura che credi tu.”

“Provalo, allora.” Disse Leni a denti stretti, gli occhi che luccicavano nella penombra dell’ingresso della stanza. “Dimostrami che hai capito quali sono le tue priorità. Vai a queste maledette prove e metticela tutta, stasera. Dai l’anima più che mai per questo concerto. Allora saprò che sei davvero chi dici di essere.”

Aveva di nuovo ragione. Aveva maledettamente ragione, come sempre, ma Bill non aveva la forza di voltarle le spalle, perché sapeva che non appena l’avesse fatto, lei avrebbe colto al volo l’occasione.

“Se lo faccio, tu te ne andrai.”

“Se non lo fai, me ne andrò lo stesso.”

Bill le si fece ancora più vicino, e, arretrando, Leni si ritrovò con le spalle al muro. Bill guardò in basso, verso il suo volto serio, e dovette impiegare ogni briciolo di forza di volontà che aveva in corpo per non chiuderle quella sua dannata bocca a modo suo.

“Che senso ha tutto questo, Leni?” chiese in un sibilo rabbioso. “Che senso ha stare al gioco se non c’è speranza di vincere?”

Forse era solo la sua immaginazione, o forse era vero, ma a Bill sembrava che una catena invisibile li stesse avvolgendo entrambi, trascinandoli l’uno verso l’altra e, contemporaneamente, soffocandoli.

“È questo che non hai ancora capito, Bill.” Fu la piatta risposta di Leni. “Certe volte c’è solo da perdere, e allora tanto vale perdere con onore.”

“Perdere te con onore?”

“Non puoi perdere qualcosa che non hai mai avuto.”

Ci fu un flashback indesiderato nella mente di Bill, qualcosa che era convinto di aver ormai superato, ma che evidentemente ancora lo tormentava, e la voce di Tom parlò di nuovo nella sua memoria.

‘Non sopporti che io abbia ottenuto qualcosa che anche tu volevi…’

Già…

“Non potrai scappare per sempre, lo sai?” replicò, aggrappandosi all’unica cosa che gli martellava nella testa. “Se non sarà con me, o Tom, allora sarà con qualcun altro, ma prima o poi dovrai ammettere i tuoi sentimenti.” Schioccò la lingua con disappunto. “Scusami, ma l’immaturo, qui, non sono solo io.”

“Non mi aspetto che tu capisca.” Ribatté Leni, ormai quasi accasciata contro il muro.

Sembrava respirare a fatica, addirittura malata, ma un vago rossore le coloriva appena le guance, e per la prima volta Bill notò un velo quasi impercettibile di efelidi che le punteggiava il naso sottile e un’esigua parte degli zigomi pronunciati. Dovevano essere deliziose, con un po’ di sole a scurirle.

Ma che fai?, intervenne la sua solita voce interiore, lei sta per piantarti in asso senza un minimo di riguardo e tu ti metti a pensare alle sue lentiggini?

Bill si costrinse a riscuotersi dalle proprie riflessioni.

“Vuoi mollarci senza nemmeno assistere al concerto per il quale tu stessa ci hai tanto incoraggiati, cosa cazzo c’è da capire?” berciò con quanto fiato aveva in corpo.

Un sorriso triste increspò le labbra di Leni.

“Sei una bellissima persona, dico sul serio,” sussurrò, e lo trascinò di nuovo fino alla porta. Lui la lasciò fare, passivo, inerme. “E non posso negare che tu non mi sia indifferente… Ma sei un ragazzino,” I suoi occhi lucidi si sollevarono su di lui mentre lei scuoteva lentamente il capo. “Nient’altro che un ragazzino.”

Era come se una mano invisibile avesse sfondato il petto di Bill e gli avesse strappato il cuore, graffiando e lacerando a più non posso. Sentiva ogni cellula sensibile del suo corpo sanguinare per quella ferita crudele, i suoi sensi lottare l’uno contro l’altro per non cedere all’apatia dilagante.

Nient’altro che un ragazzino…

“Bill,” gli posò una mano sulla spalla, a stento guardandolo in viso. Lui tremava. “Mi odierai per quello che sto per dire, ma io… Io vorrei che tornassimo ad essere i buoni amici che eravamo all’inizio.”

Lui poté percepire l’esatto istante in cui il suo cuore si spezzò. Fu la stessa sensazione di quando si era sentito precipitare sulla terrazza: il vuoto assoluto, poi l’agonia.

“Sono cambiate troppe cose, Leni,” le disse con un insopportabile groppo alla gola che quasi gli impediva di parlare. “Non posso più essere tuo amico, e tu lo sai bene.”

Lo sguardo addolorato che lei gli rivolse fu il colpo di grazia. Bill poteva quasi presagire le esatte parole della sua sentenza finale, che indugiavano sulle labbra rosse di Leni come una freccia letale che stava per essere scoccata.

“Allora per me non sei niente.”

-------

Leni sapeva di avergli fatto del male con quella sua ultima uscita, e la cosa peggiore era che era stato intenzionale, ma Bill non avrebbe mai sofferto come soffriva lei in quel momento.

Ormai continuava a parlare per inerzia, senza sapere con quale forza riuscisse a pronunciare le singole parole, né con quale coraggio potesse ancora guardarlo in faccia. Fino ad ora, non aveva mai conosciuto il vero significato dei sensi di colpa.

Leni rimase a guardarlo per lunghi secondi, suo malgrado incapace di abbandonare quello sguardo intenso che la supplicava di restare. Ma lei sapeva che non era possibile.

Mi dispiace, Bill… Mi dispiace così tanto…

Senza dire una parola, Leni gli voltò le spalle e chiuse la porta dietro di sé, sforzandosi con tutta la volontà che aveva in corpo di non lasciare andare quelle lacrime che le premevano agli angoli degli occhi.

Al di là della porta, l’urlo ferito di Bill mandò definitivamente in frantumi quel che era rimasto del suo cuore.

“LENI!”

And when it hurts you, scream it out loud…

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Capitolo 11
*** Broken ***


Nessuno aprì bocca, quando Bill si presentò alle prove con un’ora buona di ritardo e una faccia scontrosa che sembrava voler invitare il mondo ad evitarlo.

Tom, comunque, non ne era granché stupito. Si dava il caso, in effetti, che la sua espressione fosse all’incirca la stessa del fratello.

Dall’umore di Bill, Tom intuì che anche lui era stato liquidato da Leni con un benservito degno della più glaciale regina delle nevi.

Sarai soddisfatta del tuo poker di Kaulitz, Regan, pensò Tom, accordando la propria chitarra in un angolo del palco, e per che cosa, poi? Per mollarci tutti quanti come se nulla fosse…

Tom imprecò quando la seconda corda della giornata gli si spezzò tra le dita.

Dietro le quinte, sentiva il fermento di tecnici ed addetti ai lavori che provvedevano agli ultimi preparativi, a meno di cinque ore dall’inizio del concerto vero e proprio.
Sapeva che fuori c’era già uno stuolo infinito di fans, appostate già dal primo mattino, ansiose di potersi riversare all’interno dell’ampio palazzetto ed accaparrarsi i posti più vicini al palco.

Tom si chiese se Leni sarebbe passata di lì per un ultimo saluto, possibilmente un po’ più umano della stretta di mano che aveva concesso a ciascuno di loro prima che lasciassero l’hotel.

O magari se ne andrà così, senza nemmeno degnarci di un in bocca al lupo…Bella stronza.

Checché il suo lato orgoglioso ne dicesse, però, Tom avrebbe sinceramente voluto poterla almeno salutare in modo decente, vederla un’altra volta soltanto ed esorcizzare una volta per tutte quella sua assurda ansia da separazione.

Con la coda dell’occhio, vide Bill salire sul palco, ma non aveva quella sua solita aria disinvolta da dominatore del mondo. A capo chino, un piccolo asciugamano buttato attorno al collo, lo guardò trascinarsi su per i gradini quasi a fatica, con indosso la più anonima ed asettica maglietta bianca che Tom avesse mai visto in vita sua.

Sapeva che il suo commento sarebbe stato del tutto gratuito e fuori luogo, ma la sua lingua ebbe il sopravvento sul buonsenso:

“L’hai presa da uno di quei sacchetti per i poveri, quella?”

Armeggiando con il microfono, Bill gli lanciò uno sguardo vacuo e distratto.

“Uh?”

“La maglietta,” Tom fece un cenno eloquente. “La Führer non sarebbe molto fiera di te, sai?”

Führer, così Tom la chiamava, quando lei non c’era.

Ora, rifletté, potrò sempre chiamarla così.

“La Führer non ha più voce in capitolo, ormai.” Replicò Bill, secco.

Tom colse subito l’acre rassegnazione nel tono forzatamente casuale di Bill: poteva anche fare finta di niente e tergiversare ad oltranza, ma il legame che li univa era qualcosa di più di un fattore genetico, e Tom sapeva interpretare ogni segno di Bill, e viceversa, e quello che si stavano dicendo ora, con quel breve silenzio, era che forse, ora che Leni sarebbe diventata solo un ricordo, avrebbero fatto meglio a riconciliarsi.

“Avresti vinto tu, comunque, se la cosa ti può consolare.” Esordì Tom, di punto in bianco, mentre tentava di riparare la corda della chitarra.

Bill smise di trafficare con l’attrezzatura e lo fissò con un’espressione vuota.

“Cosa te lo fa pensare?”

“Tu hai qualcosa che io non avrò mai.” Rispose Tom, enigmatico. Bill inarcò un sopracciglio.

“E sarebbe?”

Tom sogghignò.

“Il fascino dello sfigato.”

Lui e Bill si scambiarono un’occhiatina fugace, un sorriso complice e carico di reciproco affetto, poi, senza aggiungere alcunché, tornarono ciascuno alla propria occupazione, ma il sorriso sui loro volti rimase.

Immer werden wir uns tragen, egal wohin wir fahr'n, egal wie tief…

“Mi dispiace per quel pugno.” mormorò Bill, pochi secondi dopo.

“Anche al mio naso, ti dirò,” replicò Tom, serio. “Ma non è che non me lo sia cercato.” Aggiunse poi, in tono scherzoso, ma sincero.

“Ferirci a vicenda per una ragazza,” Bill scosse il capo, incredulo. “Neanche fossimo all’asilo…”

“Be’, non è che non ne valesse la pena,” precisò Tom, provando qualche accordo. “Il fatto è che credo che lei ci amasse di più insieme, che divisi, se sai cosa intendo.”

Bill annuì sapientemente.

“Se ci pensi, è impressionante la rapidità con cui ci ha inquadrato,” constatò. “Era consapevole che Bill e Tom Kaulitz non sono articoli vendibili separatamente, e che sarebbe stato paradossale sceglierne uno o scartarne un altro.”

In quel momento, Gustav cominciò a riscaldarsi un po’ alla batteria, cuffie alle orecchie. Poco lontano, Georg si dedicava al proprio basso, accennando qualche nota svogliata di Break Away.

L’atmosfera mancava di energia, di entusiasmo, ma Tom sapeva che l’adrenalina stava già accumulandosi nel loro sangue, e che da lì a sera si sarebbero trasformati in quattro mine vaganti in attesa di esplodere. In qualche modo, aveva la sensazione che il concerto sarebbe stato memorabile.

“Lei non doveva più scegliere.” disse Tom, concentrandosi completamente sulla chitarra.

Bill sembrava sinceramente interdetto, una mano che reggeva il microfono e l’altra ferma a mezz’aria, in procinto di afferrare l’asta.

“Le ho detto che mi sarei fatto da parte,” precisò Tom. “Perché io sono abbastanza macho da incassare la sconfitta ed andare avanti, ma tu e il tuo cuore tenero ne sareste usciti distrutti.”

La bocca di Bill si muoveva, ma senza emettere suoni.

“Hey, ragazzi!” li chiamò David, da dietro le quinte. “Meno quattro all’apertura dei cancelli, quindi vediamo di darci una mossa.”

Tom sbuffò.

Non avevano fatto altro che provare, durante gli ultimi giorni, e sicuramente non sarebbero riusciti a rimediare ad eventuali difetti in quella manciata di ore che li separavano dall’arrivo ufficiale del pubblico.

Quattro ore, e questo posto sarà un campo di concentramento per volontari.

Improvvisamente, gli venne da domandarsi che cosa ci facessero lì, i Tokio Hotel, e come diavolo ci fossero arrivati, visto che solo un minuto prima, così gli pareva, stavano suonando in un minuscolo garage casalingo.

Dave aveva ragione, dovevano molto ai loro fans, e anche se l’umore di Tom non era esattamente adatto per un concerto coi fiocchi, lui si ripromise che, quella sera, non avrebbe permesso alle proprie remore interiori di interferire con tutto il resto.

Lo show deve continuare.

-------

Bill tornò al proprio microfono borbottando tra sé e sé e, assieme agli altri, si mise in posizione.
Abbracciò con lo sguardo l’immenso spazio del forum e la sua immaginazione lo riempì di ragazze urlanti ed eccitate, ma la cosa non si dimostrò corroborante come di solito.

Sarà che non me ne importa un fico secco di quella mandria di ragazzine che aspetta là fuori, pensò, c’è una sola persona che vorrei vedere stasera, e quella persona non verrà.

Non era vero che non gli importava delle fans, ma ora come ora aveva troppo per la testa per pensare a loro.

“Ok, ragazzi,” Hermann, il tecnico del suono, sventolò una cartelletta dal fondo del palco. “Seguiamo la scaletta, apriamo con Monsoon, poi Scream e Ready, Set, Go.”

Attesero la conferma, poi Gustav batté il tempo, e la melodia di Monsoon si levò nell’aria, seguita dal canto di Bill.

Stavano procedendo bene – meglio di quel che ci si sarebbe aspettato, date le circostanze – e Bill aveva appena cominciato a rilassarsi un po’, quando, nel bel mezzo di Ready, Set, Go, Georg prese una stecca clamorosa suscitando lo shock di tutti i presenti.

Georg Listing che stecca? Ma quando mai?

La cosa era in sé inconcepibile.

Bill si voltò, accigliato, imitato da Tom e Gustav: Georg fissava un punto in fondo al palco, gli occhi sgranati e un’espressione strana in faccia.

Bill e gli altri guardarono nella stessa direzione, ed immediatamente tutto fu chiaro: Leni se ne stava seminascosta dietro ad un pannello scenografico, con le braccia conserte ed il fantasma di un sorriso nostalgico sulle labbra. Alle sue spalle, David si passava una mano sul viso.

“Leni!”

Bill fu da lei prima degli altri. Non sapeva bene cosa dire o fare, perché la presenza della ragazza non era spiegabile, perlomeno entro i canoni dell’umana logica.

“Hey, che bella sorpresa!” esclamò Gustav, facendosi avanti.

“Avevamo già accantonato ogni speranza di essere degnamente congedati da Vostra Illustrissima Altezza.” Ironizzò Tom, senza però riuscire ad impedire ad una scintilla di emozione di balenargli negli occhi.

Bill la fissava stordito, con la stessa insistenza con cui lei lo evitava.

“Sono passata a riconsegnare badge e pass,” spiegò lei, mostrando i due tesserini che di solito portava appesi al collo. “Non mi servono più, ora.”

Leni fece per porgere le due tessere a David, ma questi le respinse con garbo.

“Tienile,” le disse. “Come ricordo. Il pass tanto ha valore solo per oggi, e il badge di riconoscimento era comunque provvisorio.”

Lei ringraziò ed infilò gli oggetti in questione in una delle tasche del lungo cappotto di vinile nero, sorridendo impacciata.

“Da quanto eri qui?” domandò Bill, riscossosi dal suo momentaneo stato di trance. C’era un’altra cosa che avrebbe voluto chiederle, ma non ne aveva il coraggio, perché non sapeva se e quanto sarebbe stato urtato dalla risposta.

Te ne saresti andata senza dire nulla, se non ci fossimo accorti di te?

“Qualche minuto.” rispose Leni, poi controllò l’orologio che aveva al polso destro.

“Scommetto che non ti puoi trattenere.” La precedette Georg, che, come sempre, sembrava avere una connessione speciale con lei.

“Ho appuntamento con l’estetista tra un’ora, poi seduta di manicure, parrucchiere, poi ancora devo ritirare un abito e qualche accessorio in centro, ed infine, ciliegina sulla torta, devo essere pronta per le otto, in modo da essere al cocktail per le nove, cosa che riuscirò sicuramente a fare, se la Fata Madrina mi verrà a dare una mano.”

“Guarda che le Fate Madrine fanno magie, non miracoli.” La punzecchiò Tom.

“Te l’ha detto la tua quando le hai chiesto un cervello?” ribatté lei, senza perdere un colpo.

“No,” le tenne testa lui. “Quando l’ho supplicata di renderti sopportabile.”

“Come minimo ti avrà suggerito di cominciare a preoccuparti delle travi nei tuoi occhi, prima di andare a cercare le pagliuzze in quelli altrui.”

“Oh, tranquilla, con quelle pagliuzze mi ci sono fatto una casa in montagna.”

È tutto come prima, constatò Bill, assistendo al battibecco con una punta di invidia, sono tornati ad essere quelli che sono sempre stati…

“Complimenti,” Leni ammiccò leziosa. “Fammi sapere quando sfrutterai le tue travi, invece, conosco un centinaio di famiglie che cercano casa.”

Tom la mandò a quel paese, Leni gli mostrò il dito medio, e Bill notò che il solito smalto nero era sparito, facendo in qualche modo apparire vuote le sue mani sottili, anche se il baciamano e gli anelli d’argento erano ancora al loro posto.

“Temo che l’ora sia giunta, ragazzi,” sospirò Leni, passandoli in rassegna uno ad uno. “E stavolta sul serio.”

In circostanze normali, la band e la crew avrebbero fatto una festicciola di addio per lei, e magari si sarebbero ubriacati tutti insieme davanti ad un pallosissimo film d’azione, ma con Leni il concetto di normalità sembrava essersi estinto.

Bill la guardò abbracciare Gustav ed avvertì una stretta alla bocca dello stomaco.

Mi stai dicendo addio per la seconda volta nel giro di poche ore, e io ancora non so come fermarti.

“G,” Leni passò a Georg, gli occhi inconfondibilmente velati dalla commozione mentre si lasciava stringere dalle braccia possenti del ragazzo. “Abbi cura di te e di questi mocciosi, e non ti azzardare ad esibirti senza prima esserti raccolto i capelli, stasera.”

Per tutta risposta, Georg le mostrò l’elastico che teneva pronto al polso e le sorrise, in un modo non ben definibile che racchiudeva una gamma di emozioni discretamente vasta.

Quando Leni giunse a Tom, le mani di Bill ebbero un fremito istintivo, e lui dovette serrarle in due pugni per sopprimere quel prurito fastidioso.

Lei e Tom rimasero l’uno di fronte all’altra un istante più a lungo del dovuto, poi, lentamente, lui si chinò verso di lei ed indugiò ad un soffio dal suo viso. Per una folle frazione di secondo, Bill credette che l’avrebbe baciata, ma alla fine Tom si spostò verso destra e le sfiorò la guancia con le labbra, accanto all’angolo della bocca.
Mentre si risollevava, Tom le sussurrò qualcosa che Bill non riuscì ad afferrare, e Leni annuì, poi, tutt’un tratto, i due si abbracciarono, con tanta forza e sincerità che a Bill si strinse il cuore.

Una cosa che Bill non realizzò subito, però, era che, una volta finito con Tom, il turno dell’addio sarebbe stato il suo, ed infatti un attimo dopo Leni gli era davanti, e lo guardava come se si aspettasse qualcosa da lui. Forse un semplice saluto, forse un abbraccio sentito, o forse, semplicemente, una bandiera bianca.

La sensazione che Bill aveva di essere rinchiuso in una bolla fuori da tempo e spazio non era solo una sensazione: tutti si erano improvvisamente allontanati e si erano messi a fare altro, lasciandoli soli sotto al megaschermo.

“Se hai qualche malattia contagiosa, è mio diritto saperlo.” scherzò lei, condividendo la sua sorpresa per il vuoto che si era fatto loro intorno.

Bill, però, non era in vena di scherzi.

“Sei arrivata al contatto fisico spontaneo,” affermò compunto. “È davvero la fine, allora…”

Gli occhi a mandorla di Leni non batterono ciglio, ma erano tristi, e sembravano più grigi che azzurri, ma forse era colpa dei giochi di luce dei riflettori. O forse no.

“Sì, direi che è la fine.”

“Posso ribadire per l’ennesima volta quanto sia colossale la cazzata che stai per fare?”

“Per quanto la cosa potrebbe sorprenderti, io so perfettamente che andarmene così è uno sbaglio,” ammise lei. “Ma non hai mai sentito parlare di male minore?”

“E tu hai mai sentito parlare di ragionevoli compromessi?”

Leni parve colpita. Lo studiò a lungo pensierosa, ma Bill sapeva di non potersi illudere. Lei aveva già deciso, e nulla l’avrebbe fatta tornare sui propri passi.

“Ora è meglio che io vada,” disse alla fine. Fece per aprire le braccia verso di lui, ma Bill la respinse.

“Non lo voglio il tuo abbraccio,” le disse. “Non così finto. Quando vorrai darmene uno sincero, io sarò qui ad aspettarti, ma fino ad allora risparmiami quest’ipocrisia, grazie.”

Leni assunse il suo atteggiamento composto e distaccato più professionale, rigida come l’asta del microfono che Bill stringeva.

“Nient’altro?” gli chiese in tono formale.

“Dimmi solo una cosa,” rispose lui. “Poi prometto di lasciarti andare.”

“Se riguarda quello di cui abbiamo già discusso, non sprecare fiato.”

“Voglio una semplice risposta. Una risposta onesta.”

“E io non voglio mentirti,” replicò lei, testarda. “Non te lo meriti, quindi, ti prego, non me lo chiedere.”

Bill, in uno scatto di rabbia, sbatté a terra il microfono. Molti curiosi si girarono per guardare, ma nessuno, saggiamente, insistette.

“Cazzo, Leni, sei impossibile!”

“Ci sei arrivato, finalmente.”

Ma perché sto qui a perdere tempo con te? Perché combatto ancora per una battaglia già persa?

“Me lo devi. Me la devi una strafottuta risposta!” esclamò Bill, sull’orlo dell’esasperazione, ma Leni scuoteva la testa come se la cosa non dipendesse da lei.

“Non voglio ferirti, Bill…”

Senza perdersi d’animo, Bill la bloccò per le spalle e la immobilizzò.

“Sono davvero niente per te?” chiese con voce malferma. Leni guardò a terra, annuendo.

“Sì.”

“Davvero?”

“Bill –”

“Hai detto di non volermi mentire,” sussurrò lui, accalorato, ad un palmo dal suo naso. “Se eri sincera, ripetilo.”

Ma lei non si mosse di un millimetro.

“Leni,” Bill parlava sottovoce, e non sapeva a cosa imputare il lieve tremore nella sua voce, se al nervosismo, o alla rabbia, o a che altro. “Guardami negli occhi e dillo di nuovo. Guardami e dimmi che sono niente per te.”

Leni era come una fredda statua di marmo. Guardava fisso un punto ai suoi piedi e non fiatava, lasciando Bill a consumarsi nell’incertezza.

“Leni…”

Le pose un dito sotto il mento e la forzò a sollevare lo sguardo su di lui, ritrovandosi così a fissare – inaspettatamente – due occhi privi di difese, limpidi e languidi, che sembravano soffrire nel vederlo.

“Tu – tu non…” Una lacrima solitaria scivolò lungo la guancia diafana di Leni, mentre le sue labbra tremavano senza emettere un suono. Lo guardò negli occhi, come lui le aveva chiesto, e gli permise di posarle una mano sul viso, asciugandole la lacrima con una carezza insicura.

“Hai mai mentito così spudoratamente da finire per crederci anche tu?” gli domandò, una forte emozione che le vibrava nella voce.

Bill non sapeva più cosa pensare, cosa provare, perché era tutto così improbabile che a stento sembrava reale.

Cosa fai, ti metti a tirare in ballo le mie citazioni filosofiche, adesso?

“Come devo interpretare questa risposta?” domandò, sentendo il ticchettio di un orologio immaginario che scandiva impietoso i secondi che passavano, strappandogli Leni dalle mani ogni istante di più.

“Ti lascio il beneficio del dubbio,” disse, e Bill odiò con tutto sé stesso quel suo improvviso sfoggio di crudele diplomazia. “Addio, Bill. Mi mancherai.”

Per un attimo Leni sembrò volersi allungare verso di lui per salutarlo con una casto bacio sulla guancia, come aveva fatto con gli altri, ma poi ci ripensò, e Bill sapeva perché.

‘Quando vorrai darmene uno sincero, io sarò qui ad aspettarti, ma fino ad allora risparmiami quest’ipocrisia.’

Leni gli rivolse un’ultima occhiata intensa, come se avesse voluto scolpirselo nella mente in ogni più minuzioso dettaglio, poi gli fece un cenno veloce e gli voltò le spalle, allontanandosi tra la piccola folla di addetti ai lavori.

Bill la guardò sparire, mentre un fiume di ‘e se…?’ gli inondava la testa, dove già la sua stessa voce stava riecheggiando cantando.

We lost a dream we never had…


__________________________

A/N: La frase in Tedesco nella prima parte è tratta da In Die Nacht (dei Tokio Hotel, ovviamente), e tradotta significa: "Noi ci supporteremo l'un l'altro, non importa dove andremo, non importa quanto in fondo".
A tutti coloro che anelano alla parte 'migliore', consiglio di mettersi comodi e prepararsi al prosssimo capitolo. ;)

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Capitolo 12
*** Sing For Your Lover ***


Gli specchi non erano mai stati molto graditi a Leni, e quello in cui era riflessa ora le sembrava particolarmente sgradevole ed infido.

Si trovava in uno spazioso camerino della celeberrima Rinascente di Milano, con indosso il vestito che Kyla le aveva personalmente scelto per il cocktail party. La visuale, a sua modesta opinione, era pressoché desolante.

Il vestito a tubino era troppo corto, e anche se quel color porpora le donava parecchio, di certo la tipologia del modello non la faceva sentire a proprio agio, né tanto meno le conferiva l’aria sicura e sofisticata che invece avrebbe dovuto avere.

“Signorina, è tutto a posto?” esclamò la voce della personal shopper, al di là della tenda, in un inglese corretto ma orribilmente accentato.

“Assolutamente perfetto.” Rispose Leni, senza riuscire ad inculcare nemmeno un briciolo di convinzione nelle proprie parole.

Riusciva a stento a stare in equilibrio su quei tacchi a spillo vertiginosi, e aveva la spiacevole sensazione che le sue caviglie si sarebbero rotte da un momento all’altro.

Maledizione, Kyla, dovevo sembrare una professionista, non un fenomeno da baraccone!

Il profumo intenso e stucchevole della lacca che le fissava l’acconciatura le stava facendo venire le vertigini, e a malapena aveva sensibilità al viso, accuratamente esfoliato, purificato e ristrutturato – almeno secondo Anna, l’estetista – con un make up sobrio e naturale, ma al contempo di grande effetto.

“Se esce, le sistemo i dettagli.” La esortò la commessa, sempre ostentando una fittizia, disarmante cordialità.

Ah, be’, Leni sospirò, ormai siamo in ballo… Balliamo.

Uscì esitante, pregando la ragazza di non essere così formale, e nel giro di due minuti si ritrovò agghindata come un albero di Natale: gli orecchini di Swarovski somigliavano più che altro a piccoli lampadari ottocenteschi, tutti luccichii e riflessi, e il punto luce che aveva al collo doveva valere minimo come l’amata Benteley che aveva lasciato a New York.

Ottimo… Sembro una stupida Barbie con i capelli neri. Eccellente, davvero.

“Ecco qui, un ultimo tocco indispensabile, e puoi andare.”

Leni si voltò: la personal shopper, Katia, le stava porgendo con devozione una gruccia a cui era appeso un soprabito di raso grigio perla che sembrava appena uscito da una sartoria.

Aveva un’aria dannatamente inconsistente da un punto di vista termico.

“Ehm… Che cos’è?”

Katia fece un risolino deliziato.

“Il tuo cappotto, ovviamente.” Rispose in tono disinvolto.

Doveva avere un paio d’anni più di Leni, ed era la ragazza più esile e spigolosa che lei avesse mai visto, ma decisamente dotata sul davanti, alta e di un biondo platinato che non combaciava con le sopracciglia scure.
Leni dubitava che i suoi denti candidi e perfetti avessero toccato cibo nelle ultime quarantott’ore.

“Ah.”

Leni aggrottò la fronte, perplessa.

Forse in Italia le cose avevano tutte una diversa sfumatura, ma la definizione che Leni conosceva della parola ‘cappotto’ riguardava qualcosa di più robusto, caldo e sicuramente più pesante.

“Non è un piccolo capolavoro?” pigolò Katia, ammirando il capo estasiata.

Leni mugolò qualcosa, ancora occupata a fissare incredula il leggerissimo tessuto dell’indumento, già immaginandosi a battere graziosamente i denti mentre entrava zoppicando nel locale del party.

È uno scherzo? È praticamente novembre, ci sono tre gradi, là fuori, e io sarò vestita di carta velina…

La sua attenzione cadde sulla poltroncina nel camerino, dove aveva ammassato a casaccio i vestiti che si era tolta, e scorse sul fondo del mucchio un lembo di lucida vernice nera.

Ok, magari non sarà proprio una mossa di classe, ma occhio non vede, cuore non duole, no?

“Oh, sei davvero bellissima, sai?” tubò Katia, battendo le mani elettrizzata, e a Leni ricordò molto le sue ex colleghe petulanti e servili della Bachelorette Boutique di Soho, dove aveva lavorato fino a solo un paio di mesi prima.

Si osservò con aria critica nell’immenso specchio sulla parete in fondo alla stanza e represse a fatica una smorfia scettica.

De gustibus.

Non aveva idea di che cosa ci fosse di ‘bellissimo’ in un metro e settanta di nervi sull’orlo del collasso travestiti – e per giunta in modo affatto convincente – da bambolona sexy, ma probabilmente mentire ed adulare le clienti era previsto dal contratto di tutte le personal shopper, e Katia stava solo facendo il suo lavoro.

Da che mondo e mondo, del resto, l’ipocrisia era il marcio meccanismo che teneva in piedi il sistema.

“Parteciperai a qualche party, scommetto!” disse Katia sottovoce, con fare cospiratorio. “So che ce ne sono diversi qui a Milano, in questi giorni, e molto esclusivi.”

“Veramente non –”

“Proprio stasera ce n’è uno in grande stile in una villa subito fuori dalla City, organizzato da Versace,” Proseguì Katia, con una parlantina inarrestabile. Leni fu non poco colpita dalla vastità della sua competenza in fatto di eventi mondani. “Ma secondo me il vero evento sarà il concerto che si tiene al Forum di Assago.”

Leni batté le ciglia con espressione vacua, ma prima che potesse profferir parola, la logorrea cronica di Katia si riaccese.

“Oh, non sei di qui, dimenticavo,” si scusò garbatamente, lisciandole gli abiti in lungo e in largo con una spazzola di velluto. “Intendevo dire il Datchforum. Per noi milanesi resterà sempre il Forum di Assago.”

“Mmm.”

Leni non voleva essere scortese, ma avrebbe preferito parlare del nuovo intervento di chirurgia plastica di Madonna, piuttosto che di quel concerto.

“Mai sentito parlare dei Tokio Hotel?” Indomita, Katia sembrava genuinamente intenzionata a non lasciarle pace. “Sono un gruppo rock piuttosto famoso, ormai. Giovani, tedeschi, belli da morire…”

Leni roteò gli occhi, nauseata.

Oh, no, taci, ti supplico…

“Suonano qui, tra qualche ora, l’unica tappa italiana del tour,” Katia si concesse un sospiro lamentoso. “Ci sarei andata, se solo non avessi avuto da lavorare… E in ogni caso la data è finita sold out nel giro di pochi giorni. Veramente ingiusto, non trovi?”

Leni cercava di non ascoltare, ma l’impresa non era semplice, dati acutezza e volume della voce di Katia. Rabbrividì e ne diede la colpa ai numerosi centimetri di pelle nuda che il suo abbigliamento imbarazzantemente succinto non arrivava a coprire.

Decise subito che, se voleva arrivare viva alla festa, avrebbe dovuto correre ai ripari, anche se per vie non proprio ortodosse.

Va bene, il mio vero cappotto è un po’ troppo dark per un’occasione come questa, ma, al diavolo, non voglio diventare un’acciuga comica e pure congelata. Lo toglierò prima di entrare.

Così, mentre Katia la aiutava ad infilarsi il soprabito e le rassettava l’abito (sempre mitragliando pettegolezzi e indiscrezioni ricchi di stupefacenti dettagli), Leni incrociò mentalmente le dita e pregò che tutto filasse liscio, anche se, in verità, tutto ciò a cui ormai riusciva a pensare era l’imminente inizio del concerto.

Coraggio, ragazzi. Fate vedere al mondo chi siete.

-------

David aveva messo in chiaro che le previsioni per quella data erano molto approssimative, ma Bill aveva creduto che intendesse in difetto. Quello che invece stava innanzi a lui e agli altri, invece, era tutto fuorché qualcosa di anche lontanamente prevedibile: il Datchforum di Milano era gremito, saturo fino all’ultimo centimetro di spazio agibile, e a perdita d’occhio ragazze delle più disparate età si accalcavano e urlavano in attesa che le luci si spegnessero e tutto cominciasse.

“Tre minuti, gente!” gridò qualcuno dello staff, tra la confusione che regnava incontrastata all’interno del palazzetto.

Bill, abbigliato di tutto punto e più elettrico di un parafulmini, fu percorso da capo a piedi da un brivido di eccitazione.

Ci siamo, pensò con freddo autocontrollo.

Ormai i livelli di tensione di ogni singola anima nel raggio di centinaia di metri erano all’esasperazione massima, ed era come se dodicimila – cazzo, dodicimila! – persone stessero trattenendo il respiro in quel breve preludio all’inizio del grande show.

“Due minuti!”

Il cuore di Bill saltò un battito.

Si avvicinava l’ora x, il momento in cui avrebbe dovuto salire sul quel palco e dimostrare agli italiani tutta la gratitudine dei Tokio Hotel nei loro confronti. Ricordava per filo e per segno tutte le raccomandazioni di Leni, i suoi consigli, e sapeva che li avrebbe messi in pratica tutti quanti.

Ora che aveva toccato il fondo, ora che non gli restava più niente da perdere, sentiva che poteva solo dare il meglio di sé, proprio come gli aveva detto lei.

Tutto intorno a lui, l’agitazione cresceva, le voci si facevano sempre più concitate, le grida più impazienti, e lui se ne stava lì, impalato come un involucro vuoto, e aspettava.

“Un minuto!”

Tachicardia a mille.

Bill cercò con lo sguardo Tom, Georg e Gustav: erano in piedi dietro di lui, tesi ma sorridenti. Tom e Georg imbracciavano i loro strumenti come un guerriero avrebbe tenuto un’arma, e Gustav si roteava le bacchette tra le mani a velocità impressionante.

“Trenta secondi!”

Le luci si spensero e un boato di strilli isterici scoppiò dal pubblico. Bill e gli altri si scambiarono un cenno di intesa, presero un respiro profondo e si prepararono ad entrare in scena.

“Meno dieci…”

I Tokio Hotel, nel buio più assoluto, presero posto alle rispettive postazioni.

“Tre, due, uno…”

Le luci del palco si accesero su di loro. Le urla cessarono per meno di un battito di ciglia, poi il finimondo divampò altrettanto rapidamente, ed il pavimento vibrò sotto i loro piedi a causa delle violente onde sonore.

Bill inspirò, ed il suo sguardo si perse in quell’oceano umano che gli stava davanti, letteralmente pendendo dalle sue labbra. Si mosse in avanti, sollevò in aria una mano e si portò il microfono alla bocca, pronto a dare il via alla magia della serata.

Ovunque tu sia, Leni, spero che tu stia guardando.

“Ciao a tutti!”

-------

Come previsto, Leni stava letteralmente morendo di freddo. Anche se il salone era abbondantemente riscaldato e la maggioranza delle donne presenti (apparentemente quasi tutte sotto i trenta) erano di gran lunga meno vestite di lei, non riusciva ad allontanarsi dal grosso camino che scoppiettava allegro ad un capo della stanza moderna.

In mano teneva il secondo brandy della serata (nulla di confortante, visto che era arrivata da poco meno di venti minuti), e i suoi già consistenti problemi di equilibrio dovuti ai tacchi, erano raddoppiati già dopo il primo sorso di alcol.

Si era figurata qualcosa di più modesto, e il centinaio di persone che già affollavano il luogo sembravano addirittura destinate ad aumentare ancora, e a questo punto Leni cominciò a chiedersi come sarebbe riuscita a sostenere un colloquio di lavoro in quella baraonda.

Bah, riccastri eccentrici…

Il fatto che il vestito non avesse spalline si era rivelato un dilemma molto più fastidioso del previsto, perché sembrava voler scivolare giù ogni due per tre, e questo aveva costretto Leni ad accettare il consiglio di Katia e lasciarsi infagottare in uno scomodissimo reggiseno push-up che se non altro sosteneva meglio l’infida scollatura del tubino.

C’era un megaschermo montato in fondo alla sala poco illuminata, che trasmetteva immagini di sfilate di moda e simili con qualche sottofondo di musica classica alternata a pezzi rock datati.

Dovette declinare educatamente le avances di un paio di giovani giornalisti intraprendenti e sorbirsi le chiacchiere vanesie di una modella in satin che fumava come una ciminiera, ma finalmente riuscì ad individuare l’uomo che le aveva mostrato Kyla via e-mail.

Evan Lewis era uno sgradevole uomo basso e tarchiato sulla cinquantina, con un atteggiamento grossolano e l’espressione volgare, fasciato in tweed da capo a piedi, come ogni magnate inglese che si rispettasse.

Leni si fece coraggio e si diresse verso di lui.

A questo punto mi servirebbe un’endovena di anfetamina, o perlomeno altri sei o sette brandy.

Fece uno slalom audace tra i vari invitati, bicchiere in mano, beccandosi qualche saluto un po’ troppo confidenziale da emeriti sconosciuti, e finalmente raggiunse l’ingresso del salone, dove Lewis era intento a conversare con una donna di mezza età la cui pelle era così tirata che a stento i muscoli del viso assumevano espressioni.

Restò in disparte, attendendo che la donna si congedasse, ma un nanosecondo prima che lo zigomo ossuto di lei sfiorasse quello di lui in saluto, accadde qualcosa che cancellò dalla mente di Leni ogni piano o intenzione.

In fondo alla stanza, sul megaschermo, le sfilate e le passerelle erano sparite, e così pure la musica classica, lasciando posto ad un’ampia panoramica di un luogo non ben definito che aveva l’aspetto di un’immensa distesa volti indefiniti. Non vedeva nulla di riconoscibile, ma non fu quella vista a distrarla.

Una nuova musica accompagnava il filmato, un andamento familiare che però si perdeva tra il vociare dominante.

“Ah, tu devi essere Alhena Regan, la pupilla di Kyla Devore!”

Evan Lewis le si avvicinò in fretta. Leni face appena in tempo a riscuotersi, che lui già si presentava, stringendole energicamente la mano.

“Lieta di conoscerla, signore.”

Lewis la radiografò da capo a piedi un paio di volte, mettendola profondamente a disagio. il suo sguardo senza inibizioni esplorò con interesse ogni centimetro del suo corpo, soffermandosi su alcuni punti strategici.

“Hai mai fatto la modella, Alhena?” le chiese, senza smettere di squadrarla.

Lei arrossì violentemente.

Mi prendi in giro, vecchio pazzo? Un clown probabilmente sembrerebbe più serio di me con questa roba addosso.

“No, veramente mi occupo solo di –”

Lewis si accese un sigaro e glielo puntò contro con una specie di sorriso sbilenco.

“Lo sai, potresti avere i numeri,” le disse. “Dovresti solo – che so – scegliere una nuance più chiara per i capelli, procurarti un po’ di tintarella, e magari ritoccare un po’ quelle labbra… Sono troppo carnose per la passerella.”

Devo farmi spiegare come delle labbra possano condizionare una sfilata…

“Signor Lewis,” intervenne placida. “Io non sono qui per fare la modella, Kyla le avrà senz’altro –”

“Kyla è Kyla, io sono io,” biascicò lui, spirando una boccata di fumo. “Io posso farti diventare qualcuno, lo sai? Dovresti solo farti qualche aggiustatina qua e là.”

Leni era senza parole. Non era mai stata insultata tanto in vita sua.

Si sforzò di racimolare una risposta per le rime, ma una forza a lei trascendente la spinse a voltarsi di nuovo verso lo schermo gigante, e quello fu l’inizio della fine.

L’inquadratura si era spostata su un palco, e a Leni non fu necessario vedere il doloroso primo piano sul volto concentrato di Bill per capire.

Era il concerto. Il concerto dei Tokio Hotel in diretta, trasmesso da qualche ignota rete italiana.

Ma com’è possibile?

Era pietrificata, troppo stupita e presa in contropiede per riuscire a fare mente locale di quello che stava succedendo.

Da una parte Lewis, che le parlava con quel tono saputo ed arrogante senza che nemmeno lei lo stesse a sentire, e dall’altra i Tokio Hotel – i suoi Tokio Hotel – e la loro musica che saliva di volume, sovrastando la confusione.

Si era psicologicamente preparata ad un ‘disintossicamento’ repentino, era uscita quasi indenne dall’imprevisto delle prove, ed era addirittura riuscita a presentarsi a quel dannato party senza mostrarsi eccessivamente goffa, ma al momento il suo sistema nervoso non era in grado di reggere, per non parlare della sfera emotiva.

Eppure, in tutto quel caos, le si era creata una specie di bolla attorno, isolandola da tutto e da tutti, lasciandola sola con sé stessa e con quelle note che aveva amato fin dal primo ascolto, con quella canzone che, ora più che mai, sapeva di solitudine e di supplica, e di un altro sentimento a cui Leni si rifiutava di pensare.

E la voce di Bill – così vera, così arrabbiata, così disperata – fu come una doccia di acqua gelida che la risvegliò dal suo stato di trance.

“I trusted you in every way, but not enough to make you stay…”

Era impossibile, doveva certamente essere una coincidenza.

“Turn around, I’ve lost my ground…”

Quasi tutti i presenti si erano voltati verso lo screen ed ammiravano l’esibizione con un notevole interesse.

“Che stile questo tizio!” osservò qualcuno. Qualcun altro concordò.

“Sono piuttosto bravi,” commentò una voce di donna. “Chi sono?”

“Non saprei, ma sono su tutti i giornali.”

“Sono i Tokio Hotel!”

All’interno della sua bolla, Leni restava a lasciarsi accarezzare dalle parole, incapace di trovarne lei stessa.

“Come and rescue me, I’m burning, can’t you see?”

Un primo piano sugli occhi di Bill, dritti in camera, mandò definitivamente in tilt la razionalità che Leni era finora miracolosamente riuscita a preservare, e tutto il resto scomparve, lasciandole solo un senso di vuoto mortale dentro e insensibilità assoluta in tutto il resto del corpo.

“Come and rescue me, only you can set me free…”

Le sfuggì il bicchiere dalla mano ghiacciata, e il brandy si riversò sul prezioso tweed di Lewis, che bestemmiò in modo ben poco inglese, e lei nemmeno se ne curò. Si guardò intorno, scrutò tutte quelle facce estranee ed insulse, la sovrabbondanza di lusso e opulenza, e tutto le apparve come un prolungamento del suo vestito: qualche cosa che non le apparteneva e che decisamente non la faceva sentire a proprio agio.

Lei si sentiva a proprio agio nei suoi vestiti neri e sgualciti, con delle persone vere e spontanee e, sì, anche un po’ bizzarre. Si sentiva a proprio agio a picchiare a casaccio sulla batteria con Gustav che la prendeva in giro, a bisticciare e punzecchiarsi con Tom fino allo sfinimento, a chiacchierare con Georg fino a notte fonda con quintali di pizza e birra a profusione. Si sentiva a proprio agio a ridere con Bill sotto alla pioggia mentre se ne stavano sdraiati sul tetto di un hotel.

Ma perché le cose non sono mai semplici?

Improvvisamente, Leni si sentiva smarrita e frastornata, là dentro.
E assieme a quella sensazione, venne anche il ricordo di un sussurro, dell’ultima frase rivoltale da Tom prima dell’addio. Qualcosa che al momento le era sembrato un po’ crudele, ma che non aveva veramente compreso. Finora.

‘Lui non si stancherà tanto presto di aspettarti, Leni, sappilo.’

Era già fuggita una volta da un ambiente come quel cocktail per vip, e di certo le cose non sarebbero cambiate, tentando una seconda volta. Non voleva più sentirsi in gabbia, ma del resto lo aveva sempre saputo.

Che altra scelta avrebbe avuto, però?

La sua presenza era stata nociva per la tranquillità della band, e, a meno che le cose non fossero cambiate di punto in bianco, non poteva azzardarsi a tornare.

D’altra parte, pensò, Tom ha dichiaratamente sepolto l’ascia di guerra…

Fuori dalla bolla, i Tokio Hotel suonavano ancora, Bill continuava a cantare con passione, come se la stesse chiamando.

“Come and rescue me…”

E anche se odiava l’incoerenza, anche se sapeva che era folle e completamente suicida, anche se sarebbe stato egoista e presuntuoso da parte sua, Leni lanciò un ultimo sguardo al cocktail party e a tutti i suoi partecipanti, mollò Lewis ed il suo sigaro pestilenziale e, senza osare interpellare la logica, seguì il proprio istinto e corse verso l’uscita.

“Rescue me…”





_____________________

A/N: Ora, so che avevo promesso che questo capitolo avrebbe avuto qualche cosa di cui spettegolare per bene, ma questa parte non era prevista, mi è venuta l'ispirazione ieri, mentre pensavo al concerto, e non ho resistito. Il prossimo, e stavolta lo giuro, sarà veramente più succoso. ;)

Infine, due paroline ad una paio di persone a cui devo dei chiarimenti:

Quoqquoriquo, aka Ele: innanzitutto, un grazie sincero per i complimenti, mi hanno fatto molto piacere. Inoltre, volevo sottolineare il fatto che Leni non è andata alle prove per salutarli di nuovo, ma per restituire i tesserini che aveva scordato. Infatti sarebbe rimasta nascosta, non fosse stato per Georg-occhio-di-falco. ^^

Mirandolina: inutile ribadire quanto sia fondamentale per me il tuo giudizio, visto che sono una tua devota ammiratrice e faccio tesoro di ogni tua singola sillaba. Spero che se non altro questo capitolo sia stato un po' più gradevole degli altri, da un punto di vista di livelli depressivi. ;)

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Capitolo 13
*** Heaven Out Of Hell ***


Trascinandosi dietro due cappotti (quello di raso e quello in vinile) e una pochette di ridicole dimensioni, Leni trottò giù dagli scalini della villa ed arrancò claudicante attraverso il viale alberato fino alla strada, schermandosi meglio che poté dalle fitte goccioline di pioggia.

Era incredibile quante auto trafficassero per quell’insulsa stradina secondaria.

Attese un paio di minuti sotto ad una specie di gazebo arrugginito, poi finalmente riuscì a fermare un taxi e vi si fiondò dentro prima ancora che la vettura potesse arrestarsi del tutto.

“Dove la porto?” chiese il tassista in italiano, osservandola dallo specchietto retrovisore con la stessa espressione che aveva avuto Lewis pochi minuti prima.

Leni si sforzò di recuperare le nozioni basilari di italiano che aveva appreso negli ultimi anni.

“Datchforum, per favore.” Rispose con urgenza.

L’uomo fece una faccia strana e grugnì qualche cosa che lei faticò a comprendere, qualcosa che somigliava orribilmente a ‘Non ne ho idea’.

Leni provò a spiegare del concerto, prima in un italiano decisamente scadente, poi in inglese, ma l’uomo continuava a non capire. Stava per perdere le speranze, quando ricordò qualcosa che Katia aveva buttato lì tra un gossip e l’altro.

Ti prego, fa’ che funzioni…

“Forum di Assago?” provò, esitante.

La faccia butterata dell’autista si illuminò all’istante.

“E perché non lo ha detto subito?” biascicò burbero, e partì con una manovra brusca.

Leni si rilassò leggermente, appoggiando la schiena al sedile malconcio, ed osservò il paesaggio saettare veloce fuori dal finestrino, nel buio della sera.

Non aveva soldi con sé, non aveva creduto che le sarebbero serviti, ma decise di rimandare il problema del pagamento all’ultimo momento. Per ora, tutto ciò che si concesse di fare fu essere in ansia ed iperventilare in tutta tranquillità.

Tu sei una pazza a piede libero, sentenziò la sua parte razionale, relegata in un cantuccio buio della sua mente, sei una pazza e hai una grandissima, enorme, immensa, vergognosa faccia tosta a tornare indietro così.

Per quanto l’avrebbe voluto, Leni non poteva certo dar torto alla vocina, la quale, oltre ad essere un po’ troppo sicura di sé, aveva fastidiosamente ragione.

-------

Tom aveva la matematica certezza che da lì a poche ore il suo organismo avrebbe ceduto. Aveva messo ogni goccia di sé nel concerto, ed ora si sentiva sfibrato fino al midollo.

Sfibrato, ma felice.

Il momento era epico, quasi surreale, con lui, Bill, Georg e Gustav parati davanti ad un pubblico infuocato che urlava, e piangeva, ed acclamava a gran voce ciascuno dei loro nomi come se fossero divinità scese in terra, e, per la prima volta, Tom si sentì davvero un dio onnipotente.

C’era qualcosa di mistico nel modo in cui lui e gli altri si stringevano le mani, e non servivano parole perché ciascuno di loro sapesse quello che gli altri pensavano.

Wow…

Era qualcosa da brivido.

Nonostante avessero già una nutrita collezione di concerti di successo alle spalle, invidiabile anche dai più veterani della scena musicale, quello che ora si ritrovavano di fronte era qualcosa di così immane e grandioso che tutto ciò che potevano fare era sorridere come una manica di ebeti lobotomizzati ed inchinarsi ad oltranza, salutando e ringraziando.

Si poteva avvertire l’affetto delle fans, la loro gioia, la loro soddisfazione, ed era tutto così affine ai sentimenti stessi di tutto il gruppo da far venire i brividi.

Tom avrebbe voluto sapere qualche parola italiana che non fosse ‘bella gnocca’ o ‘una botta’ per poter esprimere a dovere il proprio compiacimento.

Quella cervellona di Leni avrebbe senz’altro potuto darmi una mano, pensò con arida apatia, alla quale però subentrò subito un’inaspettata nostalgia.

Tom poteva raccontare in giro tutte le storie che voleva, e lasciar parlare i media in merito alla sua mancanza di riguardi di alcun tipo verso il genere femminile, ma sotto ai metri e metri di stronzate che gli si cucivano addosso, un cuore, dopotutto, ce l’aveva anche lui. Da qualche parte.

Di sicuro non mi si può accusare di superficialità per essermi invaghito di quella sottospecie di manico di scopa truccata come mio fratello…

Mentre lui e gli altri si ritiravano dopo lunghi minuti di saluti, Tom cercò di sopprimere certe riflessioni e si preparò a sorridere per le fans che aspettavano nel backstage con i loro inestimabili pass.

Quando scorse il piccolo capannello di ragazze, i suoi sensi per poco non vennero meno. Erano tutte carine, e le loro mise lasciavano ben poco all’immaginazione, eppure Tom non riusciva ad entrare nel solito spirito libertino da festeggiamenti.

Il problema era che l’aver perso Leni non solo aveva significato perdere l’unica ragazza che riuscisse a suscitare in lui voglie che addirittura esuberassero dal semplice sesso, ma anche un’amica. Un’amica reale, concreta, con la quale non aveva mai avuto bisogno di fingere di essere qualcosa che non era, perché lei lo aveva conosciuto al suo stato più puro e primordiale, senza maschere o inibizioni. Leni aveva conosciuto il vero Tom, e probabilmente era l’unica donna, oltre a mamma Kaulitz, che potesse vantare un tale prestigio.

Era piacevole, no?, la sua coscienza si era risvegliata dal momentaneo torpore causato dagli eccessi di eccitazione, ed era tornata più prorompente che mai. Insomma, quando era stata l’ultima volta che una ragazza ti aveva parlato come un essere umano e non come un messia cerebroleso?

La parola ‘mai’ gli rimbombò in testa più e più volte in modo avvilente.

“Ragazzi, una performance storica!” David accorse verso di loro e li riempì di pacche e congratulazioni, poi li guidò verso le fans, elencando le solite raccomandazioni di buona condotta. “Carini e coccolosi, mi raccomando.”

A-ha, molto divertante, Jost.

Tom finì quasi scaraventato di fronte ad una biondina che doveva avere ad occhio e croce sedici anni. Sembrava parecchio sicura di sé, anche troppo, e stava letteralmente sbavando.

“Ciao,” gli disse la ragazza, tirando in fuori il petto prosperoso e sbattendo le ciglia appesantite da strati su strati di mascara. “Il mio nome è Gloria.”

Il solo nome della ragazza gli suscitò una piccola smorfia istintiva. Sapeva che non aveva scelto lei di chiamarsi così, ma era un nome che gli comunicava superficialità e vanità, cosa che non gli aveva mai recato alcun problema, finora, ma che improvvisamente gli sembrava un forte deterrente.

“Io sono tanto felice di conoscere te!” esclamò Gloria, artigliandolo per le spalle e scoccandogli due baci appiccicosi sulle guance.

Il suo tedesco era molto scolastico, e si perdeva nella parlata flemmatica e strascicata, forse voluta, ma sicuramente non sensuale.

Gloria lo fissava come se stesse cercando di immobilizzarlo con lo sguardo – o di stregarlo – ma più che esserne ammaliato, Tom avrebbe voluto scappare. La ragazza aveva le palpebre cadenti e la forma degli occhi neri era una mezzaluna rivolta verso il basso, incastonati in una carnagione olivastra con una bella abbronzatura, ma lui non riusciva a farsela piacere.

Più la guardava, più gli sapeva di finto, di costruito, di posato. Avrebbe volentieri dato l’anima, al momento, per poter scambiare quattro chiacchiere pungenti con la proprietaria di un certo paio di vispi occhi a mandorla grigio-azzurri.

Buttò un’occhiata agli altri, e vide con sollievo che non erano messi molto meglio di lui: Gustav stava autografando la maglietta di una ragazzina che non dimostrava più di dodici anni, Georg sorrideva imbarazzato mentre una brunetta niente male gli porgeva civettuola un orrido orsacchiotto rosa che stringeva un cuore glitterato, e infine Bill, braccato in un angolo, veniva molestato da ben tre fanciulle, di cui due apparentemente gemelle – fantasiosamente vestite alla Kaulitz – ed una terza decisamente in carne.

Tom era già entrato nell’ottica del ‘sorridi e sopporta’ e si apprestava a lasciarsi consumare di moine smielate dalla bionda, quando alla sua vista comparve quello che ritenne un inequivocabile miraggio: in fondo al backstage, diverse decine di metri più in là, tra la piccola folla degli operatori vari, una ragazza bellissima in abito da sera stava litigando forsennatamente con un paio di armadi a due ante che controllavano gli ingressi dal retro.

Ne ammirò le gambe lunghe e flessuose e la vita sottile, i fianchi asciutti e il seno ben proporzionato, ed infine il viso, dolce e delicato, molto fine e femminile. La sconosciuta aveva delle belle labbra piene e curvilinee, lucide di gloss, e un modo di fare che a Tom ricordava qualcosa che non riusciva a focalizzare.

Quando finalmente la ragazza sollevò lo sguardo, Tom si ritrovò a fissare due felini occhi cerulei che gli bloccarono sistematicamente ogni funzione vitale.

Cristo santo!

Ovvio che la ragazza gli fosse familiare.

Non ci posso credere…

L’angelica apparizione era Leni.

-------

“Fammi passare, brutto bestione, sono dello staff!”

Leni non sapeva più che pesci prendere. I due bruti che le bloccavano il passaggio non facevano che silurare divieti in italiano e a ripetere ‘Niente pass, niente ingresso’.

“Ce l’ho il pass, cazzo!” strillò in inglese, presa dalla rabbia, frugando in tutte le tasche del soprabito di vinile. “È qui dentro, da qualche parte!” Mostrò il soprabito ed assunse un’espressione implorante. “Per favore!”

Ma i macigni umani non volevano saperne.

“Indietro, per favore.” Le disse il più grosso per la milionesima volta.

Sull’orlo di una crisi isterica, Leni ricontrollò nuovamente tutte le tasche del cappotto, senza successo.

Erano qui, maledizione, ce li ho messi io…

“Lasciatela passare.”

Leni sollevò lo sguardo nel sentire quella voce nota e si sentì sprofondare in un abisso di sollievo: Tom le sorrideva al di là dei due energumeni in nero, che avevano subito obbedito, facendosi da parte.

“Tom!”

Prima ancora di rendersene conto, Leni sbatté tutto ciò che reggeva in mano ad uno dei due uomini si precipitò tra le braccia di Tom, stringendolo con affetto.

“Dio, siete stati una bomba! Una cosa indicibile… Vi ho visti, siete dei fottuti animali da palcoscenico, tutti quanti!”

Mentre lei vaneggiava come una qualunque mocciosa fanatica, lui rimase rigido ed ammutolito, come se non la conoscesse.

“Tom,” fece, preoccupata. “Che diamine ti prende, ti senti bene?”

Lui deglutì e la guardò stralunato.

“Tu… Tu sei…”

“Leni,” Completò lei, cominciando pensare che i postumi da concerto dovevano essere più seri di quel che avesse creduto. “Ti ricordi di me? Sai, quella viscida serpe metallara con cui ti stavi amabilmente scannando a suon di aforismi sarcastici solo poche ore fa…”

“Che cosa ci fai qui?” chiese Tom, quasi non avesse sentito una sola parola.

Leni si sentì rosicchiare lo stomaco da un galoppante senso di colpa.

“Hai presente quando mi davi della sadica stronza?”

“Senti, mi dispiace se –”

“No,” Leni rise debolmente, lottando contro l’isteria che cercava di prendere il sopravvento su di lei. “Avevi ragione,” Gli sorrise amaramente, abbassando gli occhi. “Hai sempre avuto ragione.”

Tom la scrutò, chiaramente colto alla sprovvista. Leni era consapevole del fatto di averlo non poco sconvolto, visto che in genere preferiva ingoiare una scatola di spilli, piuttosto che ammettere di aver avuto torto, ma stavolta le cose erano diverse, e lo doveva a Tom. Almeno quello.

“Ascolta,” riprese afflitta. “Io ho una marea di pecche, lo so, e sono una megera insopportabile, e ti devo un milione di scuse, ma –”

Tom le tappò la bocca con una mano, le labbra increspate in un sorriso indecifrabile, a metà tra divertito e triste, che fece venire a Leni una gran voglia di abbracciarlo di nuovo.

“Va bene così,” La rassicurò. “Vederti abbassare la cresta è la rivincita più soddisfacente che tu potessi darmi.”

Leni rise sommessamente.

Ti adoro, Tomi, lo sai?

Lo vide voltarsi verso un punto alla sua sinistra, e, seguendolo, notò Bill con le spalle al muro e una faccia traumatizzata, in compagnia di un esiguo manipolo di estrogeni concentrati.

Tom scosse la testa e sorrise ancora.

“Vai a salvarlo.” Le disse dolcemente.

Leni tentennò incerta. Alcune delle ragazze con i pass al collo si erano voltate e le lanciavano occhiate assassine e gravide di rancore.

Oddio, forse sarebbe il caso che io…

Ma poi, come una doccia di acqua gelata, vide Bill alzare lo sguardo ed incontrare il suo, e se finora il mondo era rimasto in piedi nonostante tutto, adesso, mentre lui restava a guardarla a bocca aperta senza apparentemente ben capire chi fosse, tutto quanto crollò in un battito di ciglia.

-------

Bill non aveva idea di chi fosse la misteriosa ragazza con cui Tom stava parlando con tanta confidenza.

Non era la tipica ragazza su cui suo fratello normalmente avrebbe messo gli occhi: non era bionda, né particolarmente formosa, né tendente al volgare, ma anzi, aveva una velo di raffinatezza addosso che proprio non collimava con le necessità di rimorchio facile di Tom.

Portava un abitino corto, ed aveva la pelle d’oca per il freddo, ma a Bill non dispiacque che fosse così poco coperta, perché in effetti c’era molto da vedere: gli piacevano soprattutto i lunghi capelli neri, che le ricadevano sulle spalle in morbidi boccoli lucenti, mettendo in risalto l’incarnato candido e le labbra di un rosa intenso che sembrava naturale.

Era bella, veramente bella, e nemmeno un cieco avrebbe potuto negarlo, ma c’era qualcosa, in lei, che non convinceva, qualcosa che sembrava fuori posto, ma non avrebbe saputo dire cosa, con esattezza. Era più che altro una sensazione a pelle, e a Bill dava l’impressione di una pantera selvatica costretta al guinzaglio.

In quell’istante, la ragazza incrociò i suoi occhi ed all’improvviso impallidì, come se avesse visto un fantasma.

Una specie di scintilla crepitò tra i pensieri di Bill, mentre lei restava ferma a guardarlo e le ragazze che lui aveva intorno si voltavano verso di lei.

Perché mi sembra di conoscerla?

Bill ebbe un flash di Tom che la abbracciava, di lei che gli sorrideva, e poi ripiombò nella realtà frastornato, la mente che pian piano si faceva più lucida. Impiegò qualche istante a capire che si trattava di Leni.

Oh, mio dio…

E fu allora che la vide, la falsità di cui lei gli aveva parlato durante la loro prima conversazione. Il vestito, le scarpe, la pettinatura, perfino i gioielli… Era tutto una bugia, una bugia che si portava addosso con un certo fastidio, e che ciononostante mostrava una verità che Bill, finora, non era riuscito a vedere.

Era stato così preso da lei, dalla sua cocciutaggine, dal suo umorismo tagliente, e da tutto quello che da dentro di lei brillava al di fuori, da non accorgersi che c’era anche una superficie ad avvolgere la sua essenza.
I suoi occhi innamorati avevano sempre e solo visto la Leni interiore, senza quasi accorgersi che a custodirla, sotto ai soliti vestiti un po’ punk e un po’ gotici, c’era una donna a tutti gli effetti.

Una bellissima donna…

Come in un sogno, Bill si fece largo tra le fans e, senza nemmeno sapere come, le andò incontro.

Vide che Tom le faceva un cenno con la testa e la spingeva in avanti, ammiccando verso di lui.

Metà del cuore di Bill volò via spensierato, comunicando a Tom un 'grazie' telepatico.

Sei unico, fratellino.

Non gli importava che tutti fossero lì a guardare, né che le fans stessero per esplodere, oltraggiate, e nemmeno che le sue gambe si stessero muovendo in separata sede dal cervello, ormai concentrato su un’unica cosa.

Leni correva verso di lui, o almeno ci provava, visto che i tacchi delle scarpe che portava avevano tutto l’aspetto di congegni progettati per uccidere le caviglie, ma doveva riconoscere che gli piacevano.

Quando furono l’uno al cospetto dell’altra, Bill si sorprese a non ricordare come si articolassero le parole, mentre lei si sforzava di guardarlo negli occhi.

“Ciao.” Sussurrò Leni, mesta. Bill, completamente basito, deglutì a fatica, ancora incapace di formulare pensieri coerenti.

“Sei – sei assolutamente…”

Balbettare non era esattamente un tratto distintivo di Bill Kaulitz, il grande leader carismatico, ma, del resto, non lo era nemmeno starsene imbambolato come uno stoccafisso ad aspettare che la manna gli cascasse tra capo e collo dal cielo.

“In trappola.” Completò Leni per lui. In qualche modo, per intercessione di qualche fortunata congiunzione astrale, Bill riuscì a recuperare il lume della ragione:

“Stavo per dire stupenda.” La corresse, cercando di rammentare quali muscoli andassero interpellati per un sorriso, e in che modo, eventualmente, andassero gestiti.

A quanto pareva, comunque, nemmeno Leni sembrava ricordarlo.

“Guardami, Bill,” mormorò, tirando in su la scollatura e al contampo cercando di abbassare l’orlo sulle gambe scoperte. “Sembro una bambola pronta per essere venduta,” Sospirò, rabbrividendo. “Questa non sono io.”

“Sì che sei tu,” Bill le prese le mani e tentò di scaldargliele. “Sei solo un po’… Mascherata.”

Ma pur sempre stupenda.

“E piuttosto ridicola.” Interloquì lei, piccata.

“Sei una favola.” Ribadì lui.

“No,” Leni era arrossita lievemente. “Il vestito è una favola, il trucco è una favola, le scarpe, l’acconciatura, i gioielli sono una favola…” Dal suo tono, sembrava quasi rammaricata. “Io sono sempre la solita, vecchia Leni.”

“Per fortuna.”

Bill ricordò come si sorrideva. Si levò la giacca e gliela pose sulle spalle, sotto agli sguardi esterrefatti e gelosi del gruppetto di ragazze.

Lui non se ne curò. Per la verità, non gli era mai importato di meno di avere un’intera schiera di guardoni in un momento così intimo.

“Sai,” sussurrò a Leni. “Ormai ero sicuro che non ti avrei più rivisto.”

“Il proposito era quello,” ammise lei, torturandosi il labbro con i denti. “Ma non hai idea degli effetti che può causare vederti cantare Rescue Me su un megaschermo, con una lacrima che ti scende sul viso.” Gli sorrise radiosa, proprio come gli aveva sorriso la prima volta. “Era questo che intendevo, quando ti ho detto di metterci l’anima.”

“Cantavo per te.”

Lei annuì solennemente.

“Lo so.”

Bill provava il bruciante bisogno di riprendere in mano il microfono ed urlare a squarciagola; si sentiva così carico e vitale che sentiva che avrebbe potuto spostare una montagna con un dito.

“Sono ancora un ragazzino?” azzardò, con una punta di sfacciataggine.

“Non lo sei mai stato.” Rispose Leni, abbassando il capo in segno di scusa. “Cercavo solo di convincere me stessa che tra noi non avrebbe mai potuto funzionare.”

Bill sogghignò sornione, la gioia allo stato più puro a scorrergli nelle vene come argento vivo.

“A che scopo cercare di negare l’evidenza?”

“Sono vecchia per te.”

Oh, ti prego…

Bill volse gli occhi al cielo. Era incredibile quanto due teste dure potessero cozzare l’una contro l’altra senza mai incontrarsi.

“Leni, sono solo due anni,” sdrammatizzò. “Non ti arrampicare sugli specchi.”

“E sono così indegna di te…”

“Hey, ce li ho anch’io i miei difetti.” Disse Bill, scatenando un ondata di mormorii di disapprovazione dal pubblico di fans, accompagnato da battutine ironiche provenienti dai sui tre adorabili compagni.

Leni incrociò le braccia ed inarcò scettica le sopracciglia.

“Ad esempio?”

Bill si soffermò a pensarci.

“Ho gli incisivi storti.”

“Bill” rise lei. “Io parlavo in termini un pelino più profondi.”

“Allora sarà meglio che io non parta con la lista, altrimenti ci perdiamo la festa post-concerto.”

Leni si finse colpita.

“Non sia mai.”

Si scrutarono, l’uno riflesso negli occhi dell’altra, felici, finalmente, di quella vicinanza che tanto avevano desiderato.

Leni chiuse gli occhi e fece per allungarsi verso di lui, ma Bill si tirò indietro.

Non poteva baciarla. Non ancora.

C’era una cosa che ancora gli premeva di chiarire, prima qualunque altra, e doveva saperlo subito.

“Leni…” La guardò, e lei sembrava confusa dalla sua esitazione.

Bill non voleva rovinare l’atmosfera, e oltretutto aveva una voglia micidiale di lasciarsi andare ai suoi più infimi istinti, ma se non parlava ora, era certo che sarebbe impazzito. Inspirò e si tolse quel peso che da settimane lo attanagliava.

“Quale cazzo di segreto avete tu e Tom?”

Dapprima disorientata, l’espressione di Leni divenne velocemente incredula, e infine estremamente divertita.

“Non mi dire che è quasi un mese che ti arrovelli su questa cosa…”

“Taci,” la ammonì lui, cercando di trattenersi dal ridere con lei. “Dimmi qual è questo maledetto segreto.”

“Nulla di che… Una delle prime sere l’ho beccato mezzo ubriaco che stava per portarsi un po’ di compagnia in camera.”

“Che c’è di strano? Tom non si è mai vergognato delle ragazze che si porta a letto…”

Un sogghigno compiaciuto apparve sul viso di Leni.

“Non era una vera ragazza.”

Bill strabuzzò gli occhi, indeciso se scoppiare a ridere o lasciarsi scioccare dalla rivelazione.

“Tom stava per… Con un ragazzo?”

“A sua difesa,” intervenne lei. “Posso dire che l’inganno era notevole.”

Restarono in silenzio per qualche secondo, ma presto si resero conto che la loro piccola parentesi di chiarimenti e riappacificazioni stava bloccando sul posto all’incirca mezzo centinaio di persone.

“Il mondo ti acclama, Cesare.” Osservò Leni allegramente, stringendosi addosso la giacca.

Bill però non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Era così bello riaverla, che a questo punto tutto il resto poteva anche andare a rotoli, e non gli sarebbe importato.

Se è un sogno, svegliatemi ora, o lasciatemi dormire per sempre.

Sollevò lentamente le mani e gliele posò sul viso, sfiorando per la prima volta la sua pelle vellutata, e anche se gli zigomi erano spigolosi, era piacevole quel contatto che a lungo aveva solo immaginato. Si abbassò appena verso di lei e il suo viso si aprì in un largo sorriso ad un soffio dal naso di Leni.

“Il mondo aspetterà.” Mormorò, e, finalmente, al cospetto di numerosi testimoni più o meno partecipi del suo trionfo, la baciò.



___________________

A/N: Ho visto i primi commenti a questo capitolo e vi ho viste tutte in delirio... Bene! ^^ Volevo solo dare un paio di risposte veloci a due domande che mi sono state porte:

Blacklight: sì, la 'Leni's Song' che legge Bill qualche capitolo indietro l'ho scritta io. In effetti, scrivo un po' di tutto, da canzoni, a poesie, a ff, a racconti vari, sia in italiano che in inglese.

Mirandolina: mia adorata, tu non manchi mai. ;) Come Leni sia riuscita a pagare il taxi è qualcosa che avrete il piacere di scoprire nel prossimo capitolo (non fatevi idee strane, adesso). Questa cosa del pagamento alternativo l'avevo in mente da un po', non vedo l'ora di scriverla.

Per tutti coloro che chiedevano i 'dettagli', non preoccupatevi, lo show continua. ;)

Un bacio a tutti, e grazie ancora, ICH LIEBE DICH!

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Capitolo 14
*** To-get-her ***


Leni aveva conosciuto diversi ragazzi, in senso più o meno biblico, ma non le era mai capitato di sfiorare i confini dell’estasi con nient’altro che un semplice bacio.

Semplice bacio?, la Leni raziocinante si era ripresa relativamente in fretta dallo shock ormonale derivato dal contatto con le labbra morbide e voluttuose di Bill, contrariamente al suo corrispettivo alogico, ancora impegnato a bearsi nell’ebbrezza dell’aver toccato il cielo con un dito. Ma quale semplice bacio? Non so tu, bella mia, ma io qui ho sentito il coro di angeli ed arcangeli al gran completo, e forse anche qualche nota di Stairway To Heaven! Semplice bacio un emerito cazzo!

Leni dovette giustamente riconoscere che la definizione ‘semplice bacio’ non era adeguata. Il termine più consono che la sua mente – ben lungi dalla sobrietà, sia etilica che sentimentale – riusciva a raggiungere, era forse eccessivamente specifico e poco elegante, data la situazione.

Dopo un lasso di tempo indeterminato – che, per quel che ne sapeva lei, poteva comprendere pochi secondi o migliaia di anni – l’ossigeno riempì nuovamente i suoi polmoni, e lei, con sommo disappunto, seppe che Bill aveva interrotto il bacio.

Aprì lentamente gli occhi, temendo che fosse stato tutto frutto di tutti quei brandy che si era scolata nel tentativo di evitare di cadere in ipotermia, ma Bill era ancora lì, il viso vicinissimo al suo, ed era più vero che mai.

Ti supplico, non guardarmi così, o ti toccherà assistere ad un fenomeno di combustione spontanea.

Bill forse aveva imparato a leggerle il pensiero, perché si tirò su e guardò altrove, più precisamente verso l’immediata sinistra di Leni.

“Hai un orecchino solo.” Esordì, come se nulla fosse accaduto, anche se un sorriso a dir poco giubilante gli brillava sul volto. Lei si portò automaticamente una mano all’orecchio, anche se sapeva perfettamente che lo avrebbe trovato spoglio.

“Sì.”

Una serie di lievi increspature comparve sulla fronte imperlata di sudore di Bill.

“Posso avere l’ardire di chiedere come mai, di grazia?”

Non c’è una domanda di riserva meno imbarazzante, suppongo…

“L’altro l’ho usato per pagare l’autista del taxi.” Rispose Leni, con tutta la disinvoltura che le riuscì.

A giudicare dalla faccia di Bill, anche secondo lui la cosa aveva senso quanto innaffiare un anemone di mare.

“Un orecchino spaiato.” Ripeté lentamente.

“Sì,” asserì Leni, ma lui continuava a fissarla, stranito e divertito al tempo stesso. “Che c’è?” Protestò, sulla difensiva. “Sono d’argento placcato d’oro e cristalli Swarovski! Gli ho promesso che l’altro glielo avrei dato al mio ritorno, se mi avesse aspettata.”

Bill si passò la lingua sulle labbra, mettendo a dura prova la resistenza di Leni.

“Quindi lui ora è là fuori con uno dei tuoi orecchini ad aspettare che tu torni?”

“Esatto.”

Bill gettò uno sguardo di lato, e Leni notò che David stava cominciando a far preparare i ragazzi per lasciare il palazzetto, in mezzo ad un viavai di guardie del corpo e tecnici. Quando si voltò di nuovo verso di lei, Bill sfoderò un mezzo sorrisetto provocante.

“Dici che quel poveruomo se la prenderà quando capirà che non tornerai affatto?”

Leni vacillò, stupita. Era stata così presa dalla propria ansia di mettere ordine nella sua vita una volta per tutte, che aveva completamente scordato il trascurabile particolare del lavoro, tanto più che il suo pronostico riguardo la reazione ipotetica di Bill era stato un due di picche monumentale, corredato da un cordialissimo e categorico ‘chi è causa del propri mali, pianga sé stesso’.
Quasi avrebbe preferito un simile responso, che se non altro le sarebbe risultato più comprensibile di quell’inaspettata accoglienza calorosa da figliol prodigo redento.

Quasi.

“Tu – tu vuoi davvero che io resti?” farfugliò, meravigliata.

In cuor suo, Leni sapeva di meritare l’esatto trattamento opposto rispetto a quello che Bill le stava riservando, ma probabilmente l’equilibrio karmico universale le voleva concedere un piccolo sconto di pentimento, e forse era il caso di cogliere al volo l’offerta, prima di fare altri danni, e magari irreparabili.

“Che strano,” Bill si prese il mento fra le dita con fare pensoso, poi abbassò lo sguardo su di lei. “Ero convinto di avertelo detto,” Un impercettibile ghigno gli si dipinse sulla bocca. “Quel milione o due di volte…”

Leni fece del suo meglio per restare seria, ma tra gli spropositati livelli di alcol che già da un po’ le circolavano nel sangue e la gioia incontenibile di essere stata perdonata su due piedi e senza penitenze erano una commistione imbattibile.

“Idiota d’un Kaulitz!” Esclamò, asciugandosi gli occhi, senza ben sapere se fosse per l’eccesso di risate o per la tensione che finalmente la abbandonava definitivamente.

Senza aggiungere altro, Bill la prese per mano per condurla dagli altri.

“Lo so che stai morendo dalla voglia di strapazzarti un po’ Georg.” Le sussurrò in un orecchio, mentre si incamminavano.

“Geloso?” lo stuzzicò lei.

“Cazzo, si!” rispose lui, serio. “Ma Georg non è mica gracile come Tom… Con i muscoli che si ritrova, mi stende senza passare dal via.”

Con la coda dell’occhio, Leni lo osservò con affetto.

Ma come ho fatto pensare di poter vivere senza di te? Senza tutti voi…

Quando giunsero nei pressi delle scale, dove il resto del gruppo si era radunato con David e le ragazze, assieme ad una manciata di bodyguards, Georg e Gustav non ci pensarono due volte ad accoglierla con un abbraccio caloroso, e Leni, abbracciandoli in risposta, si sentì di nuovo a casa.

“Leni,” David si fece avanti, gioviale, senza però riuscire a nascondere un certo stupore mentre la studiava di sotto in su. “Che bello rivederti così presto, sarai dei nostri, stasera?”

“A dire il vero,” Intervenne Tom. “Ci piacerebbe che fosse dei nostri per sempre.”

David occhieggiò lui e Bill con aria dubbiosa, ma Tom sorrideva, ed era palesemente sincero.

“Abbiamo chiarito tutto,” annunciò, rivolgendo a Bill un’occhiata in tralice. “Leni resta, e tutti vissero felici e contenti.”

Seppur incredulo in un primo momento, David ci mise poco a passare ad un umore piacevolmente brioso. Leni, comunque, aveva la netta sensazione che la questione non fosse finita lì, ma era prevedibile, e, almeno per ora, si sarebbe goduta la serata.

“Molto bene, allora direi che possiamo andare.”

Riunite in disparte, le sei ragazze stavano confabulando fittamente in italiano, ed un paio di loro stavano cercando di scattare delle foto a Leni con i cellulari.

Senza lasciare la sua mano, Bill se la trascinò dietro ed andò da loro con un sorriso mite.

Con la mano libera abbassò i cellulari delle due ragazze e le scrutò intensamente.

“No, per favore.” Disse in italiano, sfruttando con ogni probabilità ogni sua competenza nella lingua.

Le ragazze sembravano intimorite e vagamente offese, ma obbedirono rispettose e riposero i telefonini nelle borse.

Bill concesse loro un sorriso un po’ più luminoso, poi si riportò via Leni e tornarono dagli altri.

Lei gli strinse la mano più forte, mentre lui guardava David e gli faceva un cenno di conferma.

Ora possiamo andare.”

-------

Il tragitto fino all’hotel non fu paragonabile a nulla che Leni avesse mai esperito in quella vita o in una delle precedenti. A lei e Bill era stata concessa un’auto a parte, e Tom si era accomodato con Georg e Gustav in una Mercedes così vasta e lussuosa che Leni era sicura che avrebbero potuto tranquillamente abitarci in pianta stabile.

Non avrebbe mai creduto che una metropoli finanziaria e commerciale come Milano potesse avere una tale aura di eleganza e bellezza. Ma forse Milano non aveva niente di tutto ciò, forse le sembrava così solo perché la stava ammirando con Bill seduto accanto, le loro mani ancora solidamente intrecciate.

Non dissero nulla per tutto il tempo, né osarono guardarsi, temendo forse che l’incanto potesse dissolversi se avessero osato crederci troppo.

Eppure è tutto vero, lo so che lo è…

Una volta arrivati all’hotel – quello stesso fatidico hotel dove tutto aveva avuto inizio – Leni veleggiò al fianco di Bill, subito dietro a Tom, Georg e Gustav, tra due possenti muraglie di guardie del corpo, al di là delle quali interi fiumi di ragazze si accalcavano per vedere e scattare qualche foto.

Il cuore di Leni si strinse un poco nel sentire certe esclamazioni deluse o indignate da parte delle fans del gruppo, quando la videro passare. Non capiva granché di italiano, ma era piuttosto evidente che tutte quelle ragazze non stessero esattamente gioendo, e Leni poteva facilmente farsi un’idea approssimativa del significato della parola ‘puttana’.

La presa della mano di Bill sulla sua aumentò, e, una volta varcata la soglia dell’ingresso, Leni si sentì subito meglio.

Quando giunsero al salone che era stato preparato per i festeggiamenti, si accorsero che c’era già un discreto affollamento ad attenderli, e nel giro di una manciata di secondi, il numero di ospiti raddoppiò.

“Oddio,” esalò Leni, lievemente atterrita. “Scappo da un manicomio, e mi catapultano in un altro.”

Ridendo, Bill la trainò energicamente fino al buffet, così stracolmo di cibi e bevande che il lunghissimo tavolo imbandito sembrava sul punto di sbriciolarsi su sé stesso.

“A proposito,” disse Bill, premurandosi di essere nascosto da una provvidenziale colonna in marmo dal diametro di almeno un metro, versandole da bere (e, con immenso sollievo di Leni, scelse del succo analcolico di frutti tropicali). “Com’era il cocktail party?”

Lei accettò il sontuoso bicchiere da champagne e prese a sorseggiarlo, individuando il resto dei Tokio Hotel al lato opposto della stanza, assaliti da un nutrito gruppo di giornalisti.

“Una vera meraviglia. Pieno di vecchi riccastri spocchiosi, modelle anoressiche nel corpo e nell’intelletto, e una serie mista e variegata di individui molesti.”

Bill riempì il proprio calice di virilissima coca cola e si scambiarono un cincin.

“Cavoli, e io che perdevo il mio tempo per questo stupido concerto insignificante…”

Leni si sentì illuminare alla semplice menzione del concerto.

“È stato incredibile, sul serio!” esclamò, infiammata. “Siete stati… Be’, non conosco la parola tedesca per esprimermi a dovere, ma complimenti davvero, a tutti quanti. Soprattutto a te.” Non arrossire, Leni, non ti azzardare. “L’energia che avevi, l’emozione che hai trasmesso… Altro che professionista, sei un vero divo, nell’accezione latina del termine!”

Bill, appoggiato con la schiena alla colonna, una mano in tasca e l’altra che teneva il bicchiere, le sorrise da dietro a qualche ciuffo sottile di capelli che gli ricadeva sugli occhi.

“Vacci piano, lo sai cosa ne penso delle lusinghe.”

Leni non ricordava di aver mai visto qualcosa di più sensuale. La maglietta nera ornata da disegni tribali bianchi sembrava essere stata disegnata sul suo corpo dalla mano esperta di qualche Raffaello contemporaneo, così come i jeans scuri, tagliuzzati qua e là, che Leni aveva subito riconosciuto, visto che era stata lei stessa a sfrangiarli con tanta accuratezza.

Merda, avevo scordato il dettaglio del Fattore Kaulitz… Maledetta strafighezza congenita!

“Credi ancora che io sia una sporca ruffiana?” chiese, cercando di mantenere almeno l’ultima scorta di dignità che aveva per evitare di mettersi a sbavare come un morto di fame davanti ad una succulenta ciambella.

“Non esattamente,” Una luce subdola baluginò negli occhi di Bill. “Ma ho come la sensazione che il mio atto estremo di romanticismo melenso ti abbia un tantinello corrotta.”

Puoi dirlo forte, bimbo.

Leni si appoggiò alla parete di fronte a lui.

“Galeotta fu la canzone e chi la scrisse.”

Le sopracciglia di Bill disegnarono un fittizio arco perplesso.

“Mi metti in mezzo Dante mentre io cerco disperatamente di farti crollare ai miei piedi?” domandò in tono innocentemente offeso.

“Riconosci Dante,” Leni si portò una mano alla bocca, esibendo la sua migliore espressione stupita. “Sono impressionata.”

“Non per vantarmi, ma credo di avere ancora un’ampia selezione di assi nella manica.”

“Ti ricordo che sono in possesso di entrambe le tue maniche, al momento.”

Leni si accomodò addosso la sua giacca con disinvoltura. Lui inclinò la testa di lato remissivo, roteando la coca nel bicchiere.

“Touché.”

Le capacità di concentrazione di Leni sfumarono una volta per tutte mentre lui vuotava il bicchiere tutto d’un fiato, il pomo di Adamo appena visibile che saliva e scendeva in alternanza con la bevanda.

Prese appunto mentale che, se mai fosse diventata qualche figura di politica rilevanza, avrebbe fatto varare una legge che vietasse la visione di un Kaulitz nell’atto di bere ai minori di diciotto anni.

Lo stette ad ammirare per un minuto buono, fino a che lui le rivolse un’occhiata interrogativa.

“Pecco di superficialità se dico che stasera sei perfino più sexy del solito?” esordì lei, posando il proprio drink sul tavolo lì accanto.

Bill fece spallucce, passandosi il dorso della mano sulle labbra, e Leni era certa che lo avesse fatto di proposito, per provocarla.

E c’è riuscito, il caro Herr Schön.

“Guarda che tanto lo so che ti piaccio solo perché sono bello, ricco e famoso.” Le rispose con indifferenza, avvicinandosi al tavolo per lasciare il bicchiere vuoto di fianco a quello di lei.

“Dimentichi modesto.” Puntualizzò Leni, allungandogli un colpo d’anca scherzoso, che Bill le restituì senza troppe riserve.

“E modesto.” Convenne.

Accanto a loro era comparso un giovane benvestito e molto corpulento che sembrava più interessato alle tartine che a loro due, e costrinse Bill a scostarsi per non essere calpestato.

“Oh, scusami.” Mormorò lui, finendo inavvertitamente addosso a Leni, spingendola contro la parete.

Si puntellò con le mani al muro per tirarsi su, ma lei, anziché aiutarlo a risollevarsi, lo trattenne per la maglietta. Se avesse saputo mentire ignobilmente, avrebbe potuto dire che averlo così premuto addosso non le faceva né caldo né freddo, ma siccome le menzogne non erano una delle sue arti migliori, Leni dovette ammettere che tutt’un tratto il freddo era svanito, e cominciava anzi a fare piuttosto caldo.

“Bill…”

Le mani di lui scivolarono in giù, verso i suoi fianchi, e la carezzarono quasi senza toccarla.

“Sì?”

“Mi piacerebbe molto poter avere quel famoso abbraccio, adesso.”

Restarono così per un attimo, e il modo in cui si scrutavano vicendevolmente avrebbe probabilmente dovuto essere incluso come comma speciale nella legge a cui Leni aveva pensato, anche se ormai l’unica cognizione che le restava era il calore bruciante delle mani di Bill su di lei, e le sue braccia nude che le si avvolgevano lentamente attorno, sfiorando la pelle della sua altrettanto nuda schiena, mentre qualcosa cominciava a formicolarle nel bassoventre.

C’era tutta una serie di cose che ora avrebbe desiderato poter fare, la metà delle quali sarebbe stata definita dalla maggior parte dei presenti come oltraggio al pubblico pudore, ma le era rimasto abbastanza buonsenso da tenersi a bada.

Anche perché ci saranno si e no mezzo milione di flash pronti a scattare, dovesse succedere qualcosa di anche remotamente piccante.

Lo lasciò andare dopo un interminabile minuto di puro eye-sex, e solo allora si accorse che la mezza dozzina di fans li stava fissando con delle facce da funerale, nonostante i notevoli sforzi di Tom, Georg e Gustav di tenerle distratte.

Bill, dal canto suo, sembrava frustrato.

“Va’ da loro.” Lo esortò Leni, dandogli una piccola spinta incoraggiante. Lui la guardò allibito.

“Come?”

“Hanno diritto al pacchetto Tokio Hotel completo,” disse lei. “E io non voglio interferire.”

“Ma –”

Leni fece una smorfia incurante.

“Vai, falle felici. Già ho la vaga impressione che non mi trovino granché simpatica, non vorrei che andassero in giro a dire che Bill Kaulitz ha snobbato le sue fans per un’ignota sgualdrinella qualsiasi.”

Bill le sorrise indulgente, scostandole una ciocca di capelli dal viso.

“Lo faranno comunque, lo sai, vero?”

“Sì, lo so,” Non solo lo sapeva, ma era anche stato uno dei motivi per cui si era tanto data da fare per cercare di evitare l’inevitabile. “Ma almeno avrò la coscienza pulita.”

“Dì la verità, vuoi liberarti di me.” Bill lo disse con tanta genuina dolcezza che poco ci mancò che Leni gli si sciogliesse davanti.

“Diciamo che unirei l’utile al dilettevole, per così dire, e ne approfitterei per scambiare due parole con Tom.”

Dapprima sorpresa, l’espressione di Bill divenne di serena rassegnazione.

“Capisco.” Recuperò il bicchiere e lo riempì di nuovo, stavolta di champagne, e ne prese un sorso. “Allora me ne vado ad immolarmi, mentre tu mi rimpiazzi col sangue del mio sangue.” Fece per andarsene, ma all’ultimo momento si voltò indietro. “Se qualcuna di loro dovesse saltarmi addosso, devo essere accondiscendente?”

Leni si sorprese a ribollire di gelosia al solo pensiero.

Neanche per sogno!

“Magari portati dietro Saki.” Suggerì casualmente. Bill approvò con veemenza.

“Mmm, buona idea.” Fece un paio di respiri profondi, poi la salutò. “A tra poco, allora.”

Una volta che lui le ebbe voltato le spalle, Leni si versò dello champagne e cercò di rilassarsi e godersi la festa, anche se in realtà c’era ancora un’ultima cosa di cui avrebbe dovuto occuparsi.

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A/N: Solo un appuntino veloce, prima di passare alla vera ragione di questa noticina: Herr Schön è ovviamente tedesco, ed è traducibile con un approssimativo italiano Signor Figo (e chi non è d'accordo, può accomodarsi nella sala d'aspetto del proprio oculista di fiducia). Inoltre, vorrei farvi soffermare sul titolo del capitolo, Together (cioè Insieme), che è stato volutamente spezzettato in tre parti, che dall'inglese significano "per avere lei". Mi è parsa una buona idea per questo capitolo, e ci tenevo che tutti la potessero comprendere.

Ora, devo proprio spendere qualche parola per la carissima Samia, che mi ha lasciato una recensione lunghissima e stupenda. Grazie dal più profondo del mio cuore, mi hai commossa, è una delle recensioni più belle che io abbia mai ricevuto. ^^

E mando anche un bacio a tutte (o magari tutte/i?) coloro che hanno recensito l'ultimo capitolo, perché siete tutte dei tesori: Ladynotorius, nena, Giuly Kaulitz, anna9223, revege, ninilke, Muny_4Ever, Blacklight, Mirandolina (smack!), Ruka88 e, chiunque tu sia, anonima.

Küss!

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Capitolo 15
*** The Taste Of Forever ***


L’arrivo di Bill fu come una calamita universale per le ragazze: non appena abbozzò un ‘ciao’ (peraltro foneticamente pietoso), tutte quante gli si radunarono intorno, chiocciando come uno stormo di tortore in amore, e tirarono fuori diari, cd e macchine fotografiche, sommergendo il povero Bill di risolini irritanti e un gran sbattere di ciglia che provocò a Tom un violento attacco di nausea.

Assurdo… Peggio che falene davanti al fuoco.

Passando praticamente inosservati, Georg e Gustav ne approfittarono per svignarsela e correre al buffet per mettere finalmente qualcosa sotto i denti. Anche Tom si allontanò di soppiatto, e si andò ad infilare in un angolo del salone, dietro ad un’enorme pianta tropicale che sgorgava dal pavimento come una verde fontana rigogliosa. Scovò una scorta reggimentale di bottiglie di birra ghiacciata e si precipitò ad accaparrarsene una.

Non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi dove si fosse andata a cacciare Leni, che lei gli si materializzò accanto, tutta gambe e scintillii di cristalli, e lo salutò briosa.

“Hey.”

Tom le sorrise, osservandola per bene: sembrava brillare di luce propria.

“Guarda, guarda, My Fair Lady in carne ed ossa,” disse, con un piccolo inchino, approfittandone per soffermarsi rapidamente su una zoommata completa delle gambe, fino a risalire all’orlo dell’abito più superfluo che avesse mai visto: lasciava – per la gioia di Tom e di un’altra decina di gentiluomini nei paraggi – ben poco all’immaginazione, e le stava da dio, ma lui non aveva certo intenzione di dirglielo. “Era un vero vestito, quello, prima che ti si restringesse in lavatrice?”

“Ma quanto siamo spiritosi, stasera.” Commentò lei, facendogli segno di ripulirsi una guancia. Tom si rese conto che doveva avere addosso più lucidalabbra lui di tutte le donne del mondo messe insieme, visto che il plotone delle isteriche arrapate se l’era spupazzato come una qualunque bambola gonfiabile.

“Devo pur ripiegare su qualche intrattenimento alternativo, se la mia prima scelta se l’è cuccata il mio amato fratellino.” Borbottò in tutta nonchalance, ma si morse la lingua appena si accorse di ciò che effettivamente aveva detto. Lesse il senso di colpa sul volto di Leni con lo stesso rammarico con cui avrebbe letto un epitaffio su una pietra tombale.

“Dai, era una battuta!” sdrammatizzò in fretta e furia, sventolando una mano per sminuire la cosa. “Non fare quella faccia. L’ho presa con filosofia, sai?” Trangugiò mezza bottiglia di birra in una volta, inalberando un’espressione fiera. “Da vero uomo.”

Vide gli angoli della bocca di Leni solleticati appena da un paio di riccioli rivolti all’insù.

“Lo so. E non sai quanto io sia orgogliosa di te.”

Però preferisci Bill, s’intromise la solita vocina indesiderata, più spietata del solito. Tom cominciava ed essere stufo marcio di dover condividere la testa con una presenza tanto irritante, tanto più che la maledetta sapeva sempre come andare a colpire i tasti più dolenti, e sempre al momento sbagliato, per giunta.

“Tu stai cercando di mettermi in imbarazzo, confessa.” Glissò abilmente, combattendo contro un profondo desiderio di annegarsi nel punch sul tavolo accanto per la pur involontaria inclemenza con cui l’aveva appena trattata.

Leni gli appioppò uno di quei suoi sguardi compunti e maturi che sembravano volerlo richiamare all’ordine.

“Tom, ce la facciamo a sostenere un dialogo serio, per una volta?”

Lui le sorrise.

Chi l’avrebbe mai detto che un giorno sarei stato felice di farmi infastidire da te?

“Io sono serio,” si difese, l’espressione che contraddiceva ogni singola sillaba. “È che il concetto di noi due che facciamo i seri ha la sua comicità intrinseca, capisci…”

A Leni non restò che concordare.

“Sì, forse hai ragione.”

L’aborto di un sorriso le indugiò sulle labbra per meno di una frazione di secondo, ma abbastanza a lungo perché Tom lo notasse e se ne dispiacesse.

“Hey,” Cercò i suoi occhi, e sperò che lei potesse percepire la sua onestà. “Tu hai scelto Bill, e a me sta bene – all’incirca – ok?” Fece una pausa, cercando di capire se lei gli credesse o meno. Sembrava di sì. “L’unica cosa che mi premesse veramente era non perderti, perché, ad essere sincero, trovo piuttosto gradevole parlare con una ragazza senza che lei mi sbavi sulle scarpe ed annuisca a tutto ciò che dico solo perché sono Tom Kaulitz.”

I lineamenti di Leni, addolciti dal leggerissimo velo di trucco, si aprirono in un’espressione sorpresa che lasciò Tom lievemente basito.

“Oddio, tu sei Tom Kaulitz? Dei Tokio Hotel?” Il tono canzonatorio di Leni era musica per le sue orecchie. “Oh, ho tutti i vostri cd e un sacco di poster in camera! Siete bravissimi e bellissimi, vi adoro!”

Tom roteò gli occhi, anche se, ad essere sincero, era piuttosto divertito.

“Ti spiace se non rido?” fece in tono annoiato. “Tendo ad avere problemi di ipossia dopo certe esibizioni impegnative…”

“L’ipossia è l’ultimo dei tuoi problemi, credimi, cheri.”

“Hai ragione. La tua traboccante petulanza ha la precedenza su ogni altro tedio.”

Leni si portò una mano alla bocca, ritraendo magistralmente una parodia di stupore.

“Sbaglio o Vostra Sboccatezza ha appena inforcato un’eccelsa triade di colti latinismi?”

Tom non poté che sorridere di cuore.

“Siamo di nuovo noi,” osservò, sentendosi improvvisamente leggero e rasserenato. “Cane e Gatto, sempre e comunque.”

“Quindi,” Leni sembrava temere di incontrare il suo sguardo. “Non ce l’hai con me… O con Bill…”

Ah, ecco, mi pareva che la conversazione fosse un po’ troppo sul leggero… Avrei dovuto immaginare che ci fosse il trucco.

Tom dovette fermarsi a pensarci sopra, perché in effetti non era poi così sicuro della risposta. Insomma, era ovvio che si sentisse un – bel – po’ abbattuto per via della situazione, ma non ne avrebbe mai fatta una colpa a lei, e a Bill ancor meno. Come lui stesso aveva recentemente avuto modo di constatare, infondo, il nocciolo della questione era proprio l’impossibilità di prevedere, prevenire o curare certi sentimenti.

“Ma che domanda idiota!” sbuffò. “Certo che ce l’ho con voi, per colpa vostra mi è toccato sorbirmi la versione Kaulitz delle gemelle Olsen che si prodigavano in strane digressioni sull’importanza delle relazioni interculturali.”

Leni sollevò un sopracciglio, un adorabile broncio disegnato sulle labbra.

“Credevo ti piacessero quelle due ochette decerebrate.”

“Chi, le Olsen o le loro repliche italiane?”

“Le Olsen.” Rantolò lei, schifata.

“Oh, sì,” Tom annuì, del tutto privo di entusiasmo. “Tu prova a dire davanti ad una telecamera o ad un microfono che l’umorismo di Jim Carrey non ti fa completamente schifo… Tempo due ore e scopriresti di avere una rovente attrazione per lui.”

Leni non rise alla battuta. Piuttosto, lo guardò con un misto alquanto inquietante di affetto e rimpianto che le rendevano gli occhi due specchi vagamente tremolanti.

“Kaulitz?”

“Mmm?”

“Sarai anche uno schifoso misogino ninfomane, ma –”

“Ti prego,” la interruppe senza riguardi, mettendo le mani avanti, quasi ci fosse bisogno di difendersi da lei. “Se non vuoi seriamente minare all’integrità sadico-decadente della serata, non dire che mi vuoi bene.”

Leni lo scrutò severamente, corrucciata.

Sì, sì, lo so, borbottò lui tra sé, stronzo, coriaceo, immaturo, menefreghista, infantile, bla bla bla…

Ma alla fine Leni liquidò il tutto con una misera scrollata di spalle.

“Ok, non lo dico.”

“Bene,” approvò lui, nascondendo un ghigno compiaciuto e, sì, anche un po’ commosso. “Non lo dico nemmeno io.”

“Bene.”

Si concessero una pausa per sgranocchiare qualche strano biscotto dal forte sapore di cannella, che però ben si accompagnava allo champagne servito, che Tom aveva fatto presto a sostituire alla birra. Strano ma vero, fu solo dopo che ebbe tracannato il terzo bicchiere che si rese conto di un particolare buffo che stonava nel look impeccabile di Leni.

“Hai perso un orecchino.” Le fece notare.

“Non l’ho perso.” Rispose lei, leccandosi le dita una per una, e per un fugace attimo Tom si sentì autorizzato a fremere di frustrazione repressa.

Va bene, l’aspetto sentimentale scemerà, prima o poi, ma come la mettiamo con il fatto che le farei un check-up completo qui e ora, e probabilmente anche più tardi e altrove?

Un parte di Tom, però, era cosciente che quell’attrazione fisica così viscerale non era sempre esistita. Dopotutto, aveva sempre trovato Leni un manichino secco e nero senza un briciolo di femminilità (anche se poi la realtà si era rivelata essere ben differente), ed era decisamente ipocrita da parte sua, adesso, mettersi a piagnucolare perché non sarebbero state le sue mani a toglierle quel vestito, quella notte.

In ogni caso, Bill che si da da fare con una ragazza non ce lo vedo proprio, ragionò, calmandosi un poco, con la competenza che ha in materia, ci sono buone probabilità che nemmeno sappia cosa sia un bacio alla francese…

“Ti rimando a tuo fratello per la tragicomica storia dell’orecchino perduto.” Leni terminò il discorso ravviandosi la cascata di lustri boccoli con fare un po’ seccato.

Tom scorse una certa attitudine al natural sexy che si celava latente dietro a quel semplice gesto apparentemente casuale.

Giochi tanto a fare la tisica asociale, ma c’è una gattina che fa le fusa dentro di te, mia cara, pensò beffardo.

“Cioè mi condanni a morire di curiosità?” replicò, tenendola d’occhio. “Perché dubito che lo squadrone di arpie assatanate lo mollerà entro la prossima glaciazione.” E fece un cenno verso il lato opposto del salone.

“Fossi in te, farei appello al mio senso del dovere ed accorrerei in suo soccorso.”

“Mmm, dici? Forse in effetti sarebbe il caso che riacciuffassi il duo sbevazzante e li arruolassi per una crociata in nome della salvaguardia del giovane martire.” Lanciò uno sguardo in tralice a Georg e Gustav, che si stavano facendo fare un paio di cocktail all’angolo bar, e poi a Bill, che sorrideva al massimo della sua plasticità pochi metri più in là.

“Mi pare una buona causa.” Sostenne Leni.

Ansiosa che io protegga il tuo bello dalle grinfie delle Sei dell’Apocalisse, mh?

“Magari, invece,” fece lui. “Visto che io ho già dato, potrei lasciarlo in pasto alle allegre comari e cercare di farti ubriacare.”

Leni fece schioccare la lingua con un moto di stizza.

“Oh, credimi, non dovresti faticare più di tanto, ho il sospetto che quegli otto brandy che mi sono ingollata al cocktail party potrebbero tornare su da un momento all’altro.”

“Dopo questa, credo che mi dedicherò definitivamente al salvataggio di Bill.”

“Già, povero piccolo Tomi,“ le prese in giro lei. “Quale ingrato onere… So quanto odi essere circondato da belle ragazze.”

Tom storse il naso, inorridito.

“Belle, appunto. Sembravano decenti, da lontano, ma a ben guardarle sono ibridi malriusciti tra Britney Spears ed Avril Lavigne. Il che sarebbe già abbastanza stomachevole da sé, anche non contando tutto quel loro starnazzare emicraniogeno.”

“Carino il neologismo. Molto calzante.”

“A proposito di calzante,” Tom abbassò gli occhi a terra per un momento. “Ti ho già detto che quei deliziosi strumenti di tortura che hai ai piedi ti conferiscono un’alquanto conturbante andatura felina?”

“Peccato solo che il gioco non valga la candela,” Leni si guardò le caviglie, sconsolata. “Credi che qualcuno sia mai morto di tendinite fulminante?”

No, ma se mi dai un’altra scusa per sbirciare quei chilometri di gambe che ti ritrovi, io non rispondo di me.

“Non che io sappia,” disse distrattamente. “Ma vedo che Bill sta per cedere alla disperazione, sarà meglio che vada a dargli man forte.”

Leni spostò la propria attenzione in direzione di Bill e del piccolo manipolo flirtante che lo teneva in ostaggio.

“Per la gioia delle allegre comari.” Ironizzò.

Tom rimase ad osservarla mentre lei, a sua volta, osservava Bill, e lo smisurato affetto che vedeva nei suoi occhi, l’ammirazione, la devozione, la stima… Era tutto un mondo che lui non conosceva, che non aveva mai incontrato, e doveva ammettere che aveva il suo arcano fascino.

“Lo sai,” le disse lentamente, preso da un’improvvisa ondata di sincerità. “Vorrei che qualcuna mi guardasse come tu guardi lui, prima o poi. A semplice titolo cognitivo, s’intende,” puntualizzò prontamente, davanti all’espressione sgomenta di lei. “Io non sono tagliato per il Vero Amore.”

Leni annuì, senza nemmeno sforzarsi di apparire convinta.

“Certo.” Lo assecondò, maliziosa.

Razza di strega che non sei altro, ridacchiò Tom dentro di sé.

Si sollevò appena l’aletta del cappellino da baseball e si allontanò a larghe falcate, alla volta di Bill e delle gaie pulzelle.

Mai dire mai, comunque.

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Vedere Tom tornare da loro sembrò rappresentare per le sei ragazze la conferma definitiva che il Nirvana non solo esisteva, ma era anche comodamente raggiungibile. Addirittura, nel vederselo comparire davanti, la penosa copia femminile di Bill quasi annegò nella sua stessa aranciata, tossendo e sputando come un grazioso lama con la bronchite.

Leni si impegnò a reprimere le manie possessive che nutriva per entrambi i gemelli e decise che era giunto il momento di godersi una bella chiacchierata con la metà della band che aveva avuto la bontà di non causarle attacchi di cuore vari ed eventuali.

Raggiunse Georg e Gustav all’angolo bar, e fu accolta dai due sorrisi più ambigui che avesse mai visto.

“Hai un aspetto meravigliosamente orribile,” le comunicò Georg, sorseggiando tranquillamente il proprio Cuba Libre, appoggiato con un gomito al bancone. “O orribilmente meraviglioso, come preferisci... È questo che un’overdose di Kaulitz può causare?”

Lei lo trafisse con un’occhiata penetrante e lui rise. Leni lo adorava ancora di più quando sorrideva.

Come lei gli aveva praticamente imposto, aveva i capelli raccolti in una coda e con quell'attillata maglietta bianca stampata a caratteri gotici faceva la sua porca figura.

G, sei uno schianto, i miei più vivi e sinceri complimenti, constatò deliziata.

“Ti faccio presente che nelle ultime settimane ne sono successe di tutti i colori, e mi sento in diritto di arrivare a fine mese con l’aspetto di un facsimile di essere umano passato al frullatore.”

“Non dire cavolate,” l’apostrofò Gustav. “Sei splendida.”

Oh, Gusti, tu e quei tuoi occhioni adorabili…

Leni si ritrovò a sorridere radiosa, fluttuando beata a mezzo metro da terra.

È così bello essere di nuovo con voi…

“È davvero bello riaverti con noi.” Aggiunse Gustav, come se avesse ricevuto il dono celeste della telepatia giusto in tempo per intercettare il suo pensiero.

“Grazie.” Rispose lei, raggiante.

”Lo sai, a Georg è scappata una lacrimuccia quando Bill ha cantato In Die Nacht.”

“Ma davvero?”

La testa di Leni si voltò di scatto verso il diretto interessato, il quale si era convenientemente tuffato nel bicchiere di coca e rum.

Georg tergiversò con aria innocente, fino a quando non ci fu più niente da bere dietro a cui nascondersi.

“Tu,” Leni incrociò le braccia, divertita e lusingata al tempo stesso. “Georg Listing, il grand’uomo tutto d’un pezzo, il virile e mascolino bassista, il fiero re dei musoni patentati,” L’angolo destro della bocca le sfuggì di controllo e si piegò all’insù. “Hai pianto per me.”

Lui incrociò a sua volta le braccia muscolose, e le rivolse un sguardo quasi di sfida, imbronciando le labbra.

“E allora?” borbottò alla fine. “Mi sono tornate in mente le nostre nottate bianche e le nostre chiacchierate, tutte le volte che hai massacrato impietosamente la batteria di Gusti, i tuoi impagabili battibecchi con Tom, gli sguardi trasognati che strappavi a Bill…” Esalò una breve risata sommessa e nostalgica. “Avevi lasciato un certo vuoto.”

Sta’ un po’ zitto, dannato romanticone… Ho una dignità da difendere, io!

Ma l’altra Leni, quella realista e schietta, le ricordò che la sua dignità era andata perduta per sempre nell’esatto istante in cui quell’isterica estetista psicopatica l’aveva convinta a sottoporsi a quella terrificante ceretta brasiliana, solo qualche ora prima.

“Va bene, questo era un vile colpo basso, gente,” disse, ricacciando indietro la commozione. “Molto scorretto da parte vostra, viste le mie condizioni di semiubriachezza.”

“Nah,” Gustav fece un gesto distratto. “Se avessimo voluto commuoverti davvero, ti avremmo parlato della toccante scena di David che si domanda disperato chi avrebbe mandato Tom a cuccia, ora che tu te n’eri andata.”

“Be’, comunque sia,” intervenne Georg, elargendo a Leni un ampio sorriso. “Bentornata a casa.”

Leni si ripeté quella frase un’infinità di volte, gustandosi il sublime suono che aveva, l’incredibile bellezza del suo significato.

In quella, Bill e Tom le si materializzarono alle spalle, reduci dal tête-à-tête con le sei fortunate fans. Sembravano un po’ sfibrati, ma lieti di trovarsi lì, e non più altrove.

Leni trasalì impercettibilmente quando la mano di Bill le si andò a posare alla base della schiena, attirandola più vicina.

Lei restò come imprigionata tra una pulsazione e l’altra del suo cuore in fibrillazione.

Ecco, pensò, ci siamo. Questo è uno di quei momenti che si aspettano per tutta la vita, uno di quelli che ti rendono felice di essere nata e che ti ripagano di tutte le sofferenze… L’attimo perfetto.

“Che fate, brindate senza di noi?” protestò Tom, brandendo con eloquenza una bottiglia di champagne appena stappata che aveva trafugato dal bancone.

“Già,” ironizzò Leni. “Che celebrazione sarebbe senza Castore e Polluce?”

“Oh, le stelle gemelle,” intervenne Bill, afferrando uno dei calici che Tom e Gustav stavano riempiendo. “Molto appropriato.”

Lei fu piacevolmente sorpresa dalla sua risposta erudita. Doveva ammetterlo, sotto questo punto di vista lo aveva sottovalutato.

“A tutte le stelle che hanno brillato stasera,” esclamò Tom, levando il proprio calice in aria con fare cerimonioso. “Siano esse dei giovani musicisti di gran fascino e talento, o eccentriche stylist scriteriate.”

“Ai Tokio Hotel e alla loro indispensabile Leni!” soggiunse Georg, imitando il gesto di Tom, seguito a ruota da tutti gli altri.

“Ai Tokio Hotel e alla loro indispensabile Leni!”

Il suono del cristallo che tintinnava in un teatrale brindisi fu presto sopraffatto da un coro di risate complici, e cinque paia di braccia si strinsero fra loro, mentre la musica di sottofondo faceva da perfetta didascalia a quell’istantanea di un momento che ciascuno di loro si sarebbe sempre portato nel cuore.

I am here, doesn’t count far or near, I am by your side, just for a little while…

“Maledizione,” Imprecò Leni seccata, districandosi dall’abbraccio comune, costretta per l’ennesima volta ad aggiustarsi addosso il tubino, onde evitare che la scollatura le scivolasse giù fino all’ombelico e contemporaneamente impedire che l’orlo salisse oltre i confini della morale decenza. “Non vedo l’ora togliere di mezzo questo stupido vestito.”

Bill le cinse la vita con le sue braccia sottili e le affondò il viso tra i capelli, inspirandone il profumo soffuso, accarezzandola con la punta del naso nel modo più erotico che Leni avesse mai saggiato.

“Ti dirò,” le sussurrò sornione, stringendola più forte, ancora più vicina. “Nemmeno io.”

We’ll make it if we try.



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THE END

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A/N: Dunque, eccoci qui, la storia è finita. Voglio che tutti sappiate quanto sia stato un piacere ed una gioia per me scriverla e poter leggere l'entusiasmo nei vostri bellissimi commenti. Spero con tutta me stessa che quest'ultimo capitolo sia una degna conclusione.
Sto meditando su un possibile sequel, ma non vi assicuro niente, tutto dipende dalla sacra Musa. ^^

Ora, per concludere, l'angolo della posta privata:

Tecla: oddio, un'altra che vuole a tutti i costi farmi arrossire! Ti ringrazio dal più profondo per la montagna di complimenti, è un peccato che tu sia arrivata solo ora che la storia è finita.

Quoqquoriquo: tu, invece, sei una fidata veterana ;) Vorrei solo puntualizzare che l'esperito scientifico che ho utilizzato, era voluto. Inoltre, un grazie enorme anche a te, mi procuri ogni volta una buona dose di orgoglio.

Mirandolina: tu resti sempre al top delle cause prime del mio gongolamento. La tua sacra parola mi rende felice oltre ogni dire, e sono davvero curiosa di sapere cos'avrai da dire di questo capitolo. ;) Ti lascio un bacio preventivo, per quest'ultimo capitolo (e scrivi, cavoli, sono in astinenza!)

Pia (ex anonima ^^): anche tu, devo dire, sai come lusingare un'umile scrittrice in erba... E vedo che anche tu, come molti, hai apprezzato il gioco di parole del titolo del capitolo, e questo mi compiace alquanto.

Marti483: gentilissima e carinissima anche tu. Quando i miei lettori mi dicono di essersi immedesimati in qualche mio personaggio, mi sento (per citare Catherine di CSI ^^) un King Kong sotto cocaina.

Samia: per te ho finito le parole, sappilo. Le tue lunghissime recensioni mi fanno talmente piacere che me le rileggo più e più volte, tutta fiera. ^^ Anche a te, un meritatissimo bacione.

E poi ancora grazie, danke, thanks, merci, gracias, takk, tack, tak, kiitos, arigato (etc) a Ladynotorius, Giuly Kaulitz, Muny_4Ever, ruka88, anna922e e ninilke... Tokio Hotel für Immer! :)

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