La dolce favola della buona notte

di Nivees
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First night - Dolls ***
Capitolo 2: *** Second night - Sword of Drossel ***
Capitolo 3: *** Third night - Hello Again ***
Capitolo 4: *** Fourth night - Kokoro ***
Capitolo 5: *** Fifth night - Paper plane ***
Capitolo 6: *** Sixth night - Dreamy Dance Party ***



Capitolo 1
*** First night - Dolls ***


Sono tornata! Vi sono mancata? *un coro di 'no' la abbatte*
Ma non fa niente, vi voglio bene lo stesso. Ebbene, stavolta sono tornata con una storia sui Kagamine che è stata scritta per un contest - ma per mancanza di tempo alla fine non ho più partecipato. Ma alla fine l'ho portata a termine, quindi tanto vale pubblicare queste piccole sciocchezzuole invece che lasciarle prendere la polvere nel computer.
In poche parole, saranno dieci capitoli: dieci notti dove Rin si ritroverà nel letto di Len (non a fare porcate, che pensate!) e il fratellone le racconterà ogni notte una storia tratta da una delle loro canzoni, per farla addormentare. L'idea è piaciuta abbastanza a chi mi ha sopportata durante la stesura - e spero che piaccia anche a voi.
Sarei moolto contenta se lasciaste anche solo una recensione minuscola, per farmi sapere se questa raccolta sia decente o no.



 

La dolce favola della buona notte

First night ~ Dolls

 

 

La notte era arrivata pigra, quasi come se non avesse avuto voglia di far calare le tenebre sul mondo e di far così addormentare tutti gli esseri viventi. Len però non era d'accordo con lei: sentiva addosso tantissima stanchezza che, ne era più che certo, non appena avesse toccato il soffice letto che lo attendeva sarebbe crollato inevitabilmente nel sonno più profondo, senza avere nemmeno il tempo di mettersi sotto le coperte.
E così fu: si buttò a peso morto sul materasso e chiuse gli occhi, lasciandosi andare tra le braccia di Morfeo.
«Leeeeen!».
Aveva davvero sperato di riuscire ad addormentarsi senza alcuna difficoltà? Si diede dello scemo da solo.
Aprì un occhio verso l'accecante luce che arrivava dalla porta della sua stanza, spalancata per poter fare entrare la persona che aveva urlato così poco delicatamente il suo nome. Sua sorella lo guardò con uno strano cipiglio sul volto, prima di prendere quasi la rincorsa e di buttarsi anche lei nel letto al suo fianco.
Len sospirò, senza scansarla via. «Neh, Rin. Posso sapere come mai non ti trovi nel tuo bel letto caldo caldo?» chiese, un po' scocciato per il fatto che il suo sonno era stato così bruscamente interrotto.
«Non riescivo a dormire» espose con molta semplicità la ragazza, «Così mi chiedevo cosa stesse facendo il mio bel fratellino! Sai pensavo che forse avevi bisogno di compagnia perché ti sentivi tutto solo nella tua stanza e allora ho deciso che questa notte dormirò insieme a te, Len Len!» concluse, stringendosi un po' di più al suo petto.
Len sospirò di nuovo – non del tutto scontento, però. Infondo andava bene che Rin dormisse accanto a lui, era rassicurante – quasi – la sua presenza durante la notte. Gli faceva fare sonni più tranquilli.
«Va bene» acconsentì lui, dandole degli affettuosi buffetti sulla testa, «Ti chiedo solo di cercare di contenerti nel darmi i calci durante la notte, quando ti muovi».
Di risposta ottenne solo un pizzicotto piuttosto dolorante sulla pancia, poi ci fu finalmente il silenzio – dopo un ʻbuona notteʼ appena accennato da parte di entrambi.
E Len sperava davvero, stavolta, che sarebbe riuscito una volta per tutte a chiudere occhio. Purtroppo, Rin non aveva assolutamente intenzione di farlo dormire così presto.
«Len, continuo a non riuscire a dormire!» sbottò dopo qualche minuto silente, e Len si ritrovò ad aprire di nuovo con lentezza le palpebre e portare lo sguardo su sua sorella, che lo guardava con le guance gonfie – segno che era almeno più scocciata di lui.
«Facciamo così» disse, mettendosi meglio con il busto appoggiato alla testiera del letto e abbracciando Rin con un braccio, «Se ti racconto una favola, prometti che quando ho finito non mi sveglierai mai più?».
«Ci sto!» esultò Rin, pimpante, «Ti sveglierò direttamente domani mattina!».
«Sul tardi».
«Sul tardi» concordò.
Len sospirò una terza volta, poi prese fiato e iniziò: «C'era una volta...».

... una bambola. Aveva la pelle chiara di porcellana, biondi capelli che parevano fatti con fili d'oro e un vestito color dell'erba che risaltava a meraviglia il colore ceruleo delle sue iridi vitree.
Quella bambola non era come tutte le altre. Da dietro la sua vetrina dove veniva esposta, osservava quel ragazzo che di lei si prendeva cura – e che era finita irrimediabilmente con l'innamorarsi. Lei era una bambola che amava, non era un solo e semplice involucro vuoto che altro non faceva se non cantare; ogni nota che la sua voce pronunciava le usciva dal profondo del suo cuore d'argento, perché lei cantava solo per lui.
ʻLenʼ si chiamava il giovane. Lei adorava pronunciarlo nella sua mente o cantarlo timidamente al vento quando lui non era presente. Chiamava il suo nome quando le mancava – e le piaceva pensare che anche lui facesse lo stesso, dal giorno preciso in cui lui stesso le donò un nome:ʻRinʼ.
La bambola Rin era felice. Ogni volta che era al suo fianco anche solo per cantare tutto il giorno e facendo così nascere un dolce sorriso sul suo bel viso.
Andava tutto bene, ma anche una bambola come lei si sarebbe dovuta aspettare che prima o poi sarebbe tutto finito.
Quel giorno il vento soffiava violentemente. Persino lei, rinchiusa all'interno della sua vetrina, riusciva a sentirlo attraverso le fessure delle finestre; ma nonostante questo, il sole splendeva alto nel cielo.
Rin non stava comunque perdendo tempo ad osservare quella sfera luminosa, piuttosto aveva i suoi occhi puntati su Len che sembrava indaffarato su qualcosa, tra pezzi di stoffa gialla e forbici che tagliavano.
Incuriosita, si avvicinò lentamente a lui. Quando l'altro se ne accorse le donò un piccolo sorriso, allungando una mano tra i suoi capelli d'oro; a quel gesto, la bambola arrossì. «Sei una bambola speciale» le disse, prima di rigirarsi per finire il suo lavoro.
Quella frase glielo ripeteva spesso: sapeva anche lei di essere speciale, comunque. Lei arrossiva, piangeva, amava. Non agiva come qualsiasi altra bambola, e ne era consapevole. In cuor suo, sperava che questo suo essere così ʻspecialeʼ valesse qualcosa per lui. Che la considerasse qualcosa in più che una bambola, ecco.
Quel che successe dopo, accadde nell'arco di un battito di ciglia.
Rin sentì soltanto la porta spalancarsi con un rumore assordante e tutto ciò che sentì di voler fare, presa dal terrore, fu cercare di raggiungere il suo amato allungando una mano verso di lui, cercandolo con lo sguardo e inorridendo quando degli sconosciuti la trascinarono via, e altri armati di una pistola presero Len, che fu portato lontano persino dalla sua vista – e dalla sua vita.
Era successo tutto velocemente, troppo per rendersi subito conto di quel che significava quella scena a cui aveva appena assistito. Ebbe il tempo di capire finalmente ciò che aveva perso per sempre quando fu abbandonata sul freddo pavimento, da sola. E calde lacrime scesero lungo le sue guance di porcellana.
Da quel maledetto giorno erano passate minuti, ore. Forse mesi o anni. Rin non contò più il tempo.
Nonostante Len non fosse più lì ad ascoltarla, da dietro la sua vetrina lei continuava a cantare – a cantare il suo dolore, ciò che ormai il suo cuore d'argento spezzato sentiva, sperando che ovunque fosse lui riuscisse in qualche modo a sentirla.
Ma alla fine, anche le bambole finiscono con il stancarsi.
Rin si stancò di cantare da sola, così smise di farlo per sempre. Si rese conto che l'unica cosa che la spingeva a danzare e intonare melodie era proprio il fatto che c'era sempre Len ad ascoltarla e a lodarla; ora che lui non c'era più, nulla aveva più senso.
Fu così che lei decise di uscire da quella vetrina, correre attraverso i corridoi di quella casa silenziosa e vuota ed uscire per la prima volta in tutta la sua esistenza in quel mondo che non aveva mai visto se non attraverso una finestra.
La prima cosa che si accorse, fu che anche quel giorno – proprio come quello dove perse ogni cosa – tirava un forte vento, ma non se ne dispiacque. Quasi era piacevole sentire qualcosa, qualsiasi cosa fosse, accarezzarle la pelle di porcellana. Capì anche che aveva dimenticato come cantare, non ci riusciva più.
Il suo corpo finto non era abituato a tutto quello sforzo; cadde a pezzi lentamente e dolorosamente, divenendo così una semplice bambola rotta, su quel campo adornato di fiori – tanto bello che in lontananza si riusciva a sentire il suono del mare e percepirne persino l'odore.
«Ora posso riposare in pace e restare insieme a lui» mormorò Rin al vento, riconoscendo in qualche modo che quel posto era proprio dove il suo amore riposava in eterno.
Ma poco prima che il suo intero corpo divenisse solo polvere, davanti a lei apparve un pezzo di stoffa gialla e...

... Rin restò in attesa, trepidante, ma il finale di quella frase non arrivò mai alle sue orecchie.
«E cosa?» chiese, curiosa e ancora pienamente sveglia. Dato che gli stava dando le spalle, si girò verso il fratello e quasi ebbe la tentazione di buttarlo giù dal letto, quando si rese conto che Len si era ormai addormentato.
Gonfiò le guance indispettita: avrebbe tantissimo voluto sapere quale sorte fosse toccata alla bambola – e in cuor suo, sperava che in qualche modo lei fosse riuscita a raggiungere il suo amato e a vivere felice insieme a lui, come tanto lei desiderava. Eppure, lui era morto e lei si stava sgretolando al vento. C'era speranza per loro due...?
Sospirò, decisa a non svegliare Len proprio come gli aveva promesso, anche perché il ragazzo era evidentemente molto stanco. La storia gliel'aveva raccontata dopotutto, anche se non aveva ricevuto un degno finale – un bel ʻvissero per sempre felici e contentiʼ le sarebbe piaciuto, ma era troppo banale e non si sarebbe accontentata in ogni caso.
Si ripromise però, mentre si avvolgeva nelle calde coperte del letto di Len, gli donava un leggero bacio su una guancia e si accucciava al suo petto, che la notte dopo lo avrebbe costretto a raccontarle un'altra favola, dato che quella di questa notte non aveva avuto una fine.
E almeno, sorrise a quel pensiero, aveva trovato una scusa per poter dormire una notte in più accanto al suo adorato fratellone.

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Capitolo 2
*** Second night - Sword of Drossel ***


Non passerà molto tra la pubblicazione dei vari capitoli, dato che sono già terminati. Per questo mi ritroverete spesso in questo fandom - nonostante la fic non piaccia, yee! (?) Ma non importa, pubblico giusto per quelle poche anime che hanno messo questa raccolta tra le seguite e quelli che l'hanno visualizzata.
Bene, siamo arrivati alla seconda notte. Noterete che il racconto di Len è narrato in un modo leggermente diverso da quello scorso, giusto perché si basa appunto da come si sente Len in quel momento preciso. La prima notte era stanco, e la storia era corta e poco accurata, ma era tutto calcolato perché Len era stanco!
Saranno un po' tutte un po' diverse l'una dall'altra, quindi non preoccupatevi.
Well well, godetevi con tanto love questi due piccioncini e la seconda storia, e se magari volete lasciare qualche commentino ne sarei molto lieta!




 

La dolce favola della buona notte

Second night ~ Sword of Drossel

 

 

Chiuse gli occhi e si portò due dita sulla fronte, quasi esasperato, chiedendosi perché Rin si trovasse anche quella sera nel suo letto con un mega sorriso che le partiva da un orecchio e le arrivava all'altro. Avvolta nel suo pigiamone giallo con delle arance disegnate sopra – ma quanto poteva essere carina anche a quel modo? – lo fissava in attesa di qualcosa, e Len proprio non riusciva a capire cosa volesse.
«Ieri» gli venne in aiuto lei, incrociando le braccia al petto, «La storia non mi è piaciuta. Era corta, la narravi con un tono strascicato e ti sei addormentato proprio sul più bello!».
Len alzò un sopracciglio a quelle parole: a malapena riusciva a ricordare cosa avesse fatto la sera – o notte, veramente non ricordava – prima, né tantomeno cosa avesse detto o raccontato. Era vero che le aveva esposto la prima storiella che gli era venuta in mente, non arrivando a narrarle nemmeno i particolari, ma durante il racconto Rin sembrava piuttosto presa... almeno, questo prima che lui cadesse addormentato.
«E con ciò?» chiese allora, confuso.
«Con ciò pretendo che anche questa sera tu mi debba raccontare una storia. Una più bella, più lunga e che abbia una fine, possibilmente!» lei ampliò il sorriso, come ad incoraggiarlo – o ad impaurirlo, «Tanto hai dormito fino a tardi oggi, giusto? Non sei stanco, vero onii-chan?».
Sconfitto come ogni volta che anche solo tentava di andare contro Rin, Len si stiracchiò e si lasciò trascinare sul letto dalla biondina tutta contenta, che subito lo abbracciò e restò in attesa della sua storia.
«Dato che quella di ieri non ti è piaciuta» le fece il verso, «Dimmi tu cosa vuoi che ti racconti, così almeno non ti lamenti» optò per quella soluzione, stringendo il suo corpicino un po' di più a sé senza nemmeno rendersene conto.
«Voglio che mi racconti di una principessa. Ma non voglio le classiche fiabe che la mamma ci raccontava quando eravamo bambini, voglio che sia una storia che non ho mai sentito prima d'ora».
Len si grattò la testa, «Vuoi un po' troppo, Rin...».
«Ti prego, Len Len» e dopo avergli fatto persino gli occhi dolci, Len non poté non cederle – ancora una volta.
Fu così, che anche quella sera iniziò a narrare: «C'era una volta...».

... una principessa. Era una dolce fanciulla che amava il suo paese e che avrebbe dato persino la vita per il bene del suo popolo; era bella e di regale portamento, chiunque a palazzo la guardava affascinato ogni volta che la incontrava.
«Rin».
Era quello il suo nome e colui che lo pronunciò fu il giovane principe suo fratello, che in quel preciso momento le stava porgendo una mano per invitarla a fare un giro tra i roseti nel giardino del palazzo, e lei non rifiutò affatto quell'invito: accettò quella mano con un sorriso e insieme a lui si recò ad osservare quelle rose aprirsi al sole primaverile.
Rin adorava suo fratello Len. Era merito suo se lei era cresciuta perfettamente come una principessa doveva essere, amante della propria patria, giusta e leale. Suo fratello era così, e lei voleva essere come lui, alla sua altezza. Voleva meritare di essere al suo fianco, quando lui sarebbe diventato re.
«Rin» la chiamò di nuovo il principe, guardandola con un sorriso nascente sul viso, «Ho un regalo per te» annunciò, con tono solenne mentre la mano non occupata a tenerle cavallerescamente il braccio affondava in una delle tasche del suo mantello scuro.
Rin arrossì e incuriosita guardò con insistenza la mano del fratello finché non riuscì a scorgere cosa vi celasse. «Ma... ma quella è la tua spilla, Len!» la indicò con un sottile dito, stupita quando Len fece il gesto di cedergli quell'oggetto che gli era tanto caro.
Quella spilla che la loro defunta madre regalò al futuro re significava molto per Len, proprio per quel motivo. Rin non poteva essere più incredula a quel punto, e una parte di sé non riuscì a non pensare che ciò voleva dire che sarebbe successo qualcosa a breve e non per forza era una cosa bella.
Cercò di non pensarci, accettando in automatico quel regalo quando Len glielo appoggiò nel palmo della mano.
«Vorrei che la tenessi tu, Rin» mormorò gentilmente il ragazzo, chiudendole la mano attorno alla spilla, «Nostra madre me lo cedette poco prima di morire; non avrò lo stesso destino – spero – ma mi piacerebbe che questo gesto significhi per te ciò che significa per me».
«Stai per partire, Len?» chiese lei, in un fil di voce.
Il fratello annuì, «Partirò domani. Ma non devi preoccuparti, tornerò presto» le carezzò una guancia, dicendo quelle parole, «E se ti sentirai sola, tieni stretta a te questa spilla e sarà come avermi accanto».
Rin abbassò gli occhi, cercando di trattenere le lacrime. Non voleva separarsi dal fratello, nemmeno se fosse stata questione di pochi giorni perché Len era tutto ciò che aveva e il solo pensare di allontanarsi da lui la terrorizzava. Ma cercò di essere forte, proprio come lui le aveva insegnato: una principessa non abbassava mai la guardia per così poco, e men che meno si faceva vedere in quello stato quasi pietoso.
«V–Va bene» la sua voce tremò appena, ma riuscì a tenere comunque un tono fermo, prendendo coraggio, «Lo farò. Solo... Promettimi che tornerai presto».
Len sorrise e le baciò la fronte con dolcezza, mormorando un «Tornerò presto» prima di lasciarla da sola in quel roseto dove lei restò fino a sera, stringendo al petto quella spilla.

Il giorno dopo, scoprì l'orrenda verità che celava il comportamento di suo fratello.
Len non stava affatto partendo, ma non aveva nemmeno intenzione di restare. Aveva deciso di abbandonare il suo paese, il suo popolo, lei. Aveva dato le spalle a quella gente che avrebbe dovuto aiutare una volta che sarebbe divenuto un re, invece aveva lasciato la sua patria – che rimase a quel punto senza un futuro re.
Rin non credette subito a ciò che le fu detto: non credette che suo fratello, proprio lui, avesse potuto fare una cosa simile. Corse in lungo e in largo per il palazzo nella sua ricerca, perché voleva vederlo e convincere quelle persone che si sbagliavano, e che Len non aveva fatto nulla del genere. Eppure, una volta arrivata nella lunga scalinata davanti al portone, quando lo vide non era affatto come si era immaginata.
Len non la guardò. Era avvolto nel suo mantello nero, e aveva uno sguardo freddo come la pioggia che cadeva violentemente quel giorno e impenetrabile mentre varcava la soglia del portone. Non ebbe nemmeno il coraggio di chiamare a voce alta il suo nome, per fermarlo prima che fosse troppo tardi, né andargli incontro e bloccarlo tra le sue braccia. Si limitò solo ad osservare la sua figura rimpicciolirsi sempre di più, sempre più lontana, finché non fu più visibile.
Rimase immobile in cima alle scale, stringendo i pugni così forte che le unghie si conficcarono nel palmo della mano. Poi gridò, lasciandosi andare ad un pianto disperato, poco adatto ad una principessa del suo calibro – e in quel preciso momento, quella stessa spilla che le aveva regalato suo fratello appena il pomeriggio prima s'illuminò, ma il suo cuore era troppo dolorante per poterci fare caso.
«Len» mormorò tra iracondi singhiozzi, mentre attorno a lei accadeva il putiferio per quell'abbandono improvviso da parte del re, e l'agitazione data dal fatto che adesso il paese era rimasto senza un sovrano. L'incoronazione sarebbe dovuta avvenire al suo ritorno da quel finto viaggio con cui l'aveva mentito il giorno prima, ma arrivati a quel punto non ci sarebbe stata nessuna festa e nessun ragazzo da chiamare ʽmaestàʼ. «Silenzio!» tuonò la principessa tra le lacrime, attirando inevitabilemente l'attenzione – e chiunque si accorse dei suoi occhi rossi dal pianto e dalla rabbia, «Diversamente da colui che non ho più il coraggio di chiamare mio fratello, io non ho abbandonato il mio popolo! Io resterò al vostro fianco fino alla fine, permettetemi dunque di divenire io la vostra regina!» annunciò con tono solenne.
E poco importò che in quel momento la futura regina stesse piangendo, la servitù e i ministri presenti a quel discorso non poterono fare a meno di esultare un «Lunga vita alla regina!» programmando la sua stessa incoronazione il più presto possibile.
I festeggiamenti durarono ben poco per Rin, però. Si ritirò subito nelle sue stanze, non aveva affatto voglia di restare in quella confusione un momento di più; preferì restare sola nel suo dolore e nel suo odio pensando che l'unica persona che le era rimasta a quel mondo, il suo adorato fratello, colui che aveva ammirato con tutto il cuore alla fine si era rivelato come un vigliacco, tanto da abbandonare tutto.
Lo odiò, lo odiò come non aveva mai odiato in vita sua. Nella mente della futura regina si susseguirono i vari momenti di felicità che aveva passato insieme al suo adorato – adorato? – fratello, da quando erano due bambini fino a che la sventura non si era abbattuta su di loro. Lo odiò fin dal profondo, tanto che nella sua mente non c'era altro se non quel sentimento tanto orribile.
E fu così che la giovane regina impazzì.

La sua, più che pazzia, era vera e propria ossessione. Era ossessionata da quello che aveva fatto quella persona, arrivando persino a sognarla durante la notte in dolorosi incubi, che non facevano altro che farle tornare nella sua mente quelle immagini che tanto voleva dimenticare, quello sguardo freddo e la sua figura regale che si allontanava sempre di più.
Da quel giorno in poi, comunque, Rin non venne mai meno al suo voto: fu una regina rispettabile, buona e generosa, pronta a qualsiasi cosa pur di far del bene al suo popolo, nonostante nel suo cuore albergava un odio incontrollabile. Ciò che era successo non la lasciò affatto indifferente, perché era sì una regina degna di nota, ma non sembrava più la stessa persona che era stata un tempo. I suoi occhi cerulei non sorridevano più, non osava più andare a passeggiare tra i roseti – quelle abitudini le ricordavano troppo quella persona, e non andava bene per la sua salute mentale.
Non venne mai meno ai suoi doveri di regina però. Fu proprio per questo motivo se, quel giorno, Rin si ritrovò al cospetto proprio di
lui. Si era mossa personalmente verso quella terra straniera per stipulare un patto di alleanza in prossimità dell'avvicinarsi della guerra. Come suo preciso dovere di regina, doveva permettere innanzitutto la sicurezza del suo popolo, e niente era meglio che fare un'alleanza con uno dei paesi confinanti più forti.
Non si sarebbe mai aspettata di ritrovarsi davanti quella stessa figura che mesi addietro aveva rivolto le spalle a lei e al suo paese. Al solo vedere il suo volto – che tanto le somigliava – le fiamme dell'odio arsero dentro di lei, e la spilla che continuava ad indossare – per qualche oscuro motivo, non riusciva a separarsene nonostante le ricordasse troppo quella persona – s'illuminò.
Lui non disse nulla, la fissò immobile mente le lacrime – di rabbia? Di odio? – iniziarono a sgorgarle dagli occhi.
«Tu» sibilò, perdendo il controllo di se stessa, «Il traditore della mia gente, colui che ha tradito
me».
Suo fratello rimase comunque in silenzio persino dopo quelle parole, ma il suo sguardo non era affatto come quello di mesi prima, freddo e indifferente. Bensì la guardò addolorato, impietosito quasi. Ciò però non attirò l'attenzione della ragazza, che controllata dal suo odio urlò, brandendo la spada che usava portarsi dietro per ogni evenienza, quando lasciava la sua adorata patria.
Non vide affatto quando lui allargò le braccia, come ad accoglierla in un abbraccio; non si accorse del suo sorriso un po' triste che gli nacque sul volto: la spada trapassò da parte a parte il suo petto e macchiò di rosso le sue vesti e le sue mani. Nello stesso istante, Len spezzo il legame che legava quella spilla, rompendola e lanciandola lontano, prima di darle un bacio sulla fronte e giacere immobile tra le sue braccia.
«A–Ah» tremò Rin, lasciando la presa sulla spada e rendendosi conto di ciò che aveva fatto, «Len?» lo chiamò, prendendogli il volto tra le mani e sporcandolo con il suo stesso sangue, ma il fratello non diede cenno di vita.
Rin non era una ragazza stupida. Si rese ben presto conto di cosa era successo, cosa lei aveva fatto e quale erano state le conseguenze.
Si rese conto che quella spilla aveva raccolto dentro di sé tutto l'odio verso quel paese che lei – non vedendo cosa celasse dietro quel falso splendore – aveva amato, ma che invece era solo un'utopia da cui sia sua madre prima di morire che suo fratello volevano scappare, e che avevano provato a portare via anche lei. Ma lei era stata debole, fin troppo, lasciandosi controllare da quell'odio invece che usarlo come arma contro il male intorno a lei.
Aveva brandito la sua spada per uccidere, e lei non aveva mai osato fare del male nemmeno ad una mosca. E cosa ancora più grave, aveva ferito e inevitabilmente ucciso il suo adorato fratello Len – e ormai era troppo tardi per tutto, troppo tardi per rimediare ai suoi sbagli e troppo tardi per...


... «Basta!».
Len si fermò a metà frase proprio come la sera prima, ma stavolta non si era addormentato e non era comunque colpa sua. Rin lo aveva interrotto innervosita, prima di avvolgersi tra le coperte e formare una specie di bozzolo accanto a lui.
Confuso, il ragazzo provò a toccarla e a scuoterla, «Oi, che è successo? Che ho fatto?» chiese, non riuscendo veramente ad afferrare cosa non andasse in quello che aveva fatto – questa volta sarebbe arrivato alla fine, in più era la storia che trattava di una principessa ed era più che sicuro che Rin non la conosceva affatto!
«C–C'è che racconti sempre stupide storie, b–baka Len!» si lamentò, con voce ovattata dalla coperta che ancora la ricopriva, «Sei proprio scemo a raccontare una storia... del genere! Una sorella che... che ammazza suo fratello! Scemo Len!» inveì ancora contro di lui, senza abbandonare il suo morbido rifugio.
Finalmente Len capì, e quando la comprensione si fece largo dentro di sé inevitabilmente sorrise proprio come uno scemo, abbracciando quel fagottino che tanto amava, «È solo una storia, Rin!».
Era adorabile, la sua sorellina. Gli voleva bene a tal punto che non sopportava nemmeno di sentire una storia con un tale significato, sentendosi troppo presa? A quel pensiero, strinse di più la presa, mentre Rin mugugnò qualcosa senza però spingerlo via – come molto probabilmente voleva fare, dato che era molto irritata.
«Prometto che domani ti racconterò un'altra storia senza fratelli degeneri nel mezzo, a patto che adesso tu ti metta in modo un po' più composto e la smetti di lagnarti. Ci stai?».
Sentendo quelle parole, Rin piano piano uscì dal suo nascodiglio e annuì, «Se questo è il patto, allora va bene».
Len alzò gli occhi al cielo, «Ora dormi».
«Avrò gli incubi».
«Non avrai gli incubi!».
«Uhm» mugugnò un altro po', prima di accoccolarsi al suo petto, «Forse no, se dormo qui con te».
Il biondo fece un finto gesto irritato – non era affatto dispiaciuto per quello, per niente. Anzi, ne era contento! «Adesso dormi, rompiscatole».
«Buona notte, baka Len!» ridacchiò lei, dandogli un bacio sulla guancia e chiudendo gli occhi.
E anche la seconda notte era passata. Adesso, Len doveva prepararsi – almeno mentalmente – alla terza.

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Capitolo 3
*** Third night - Hello Again ***


Ed eccoci, dunque, alla terza notte.
Ammetto che questa shot è la mia preferita tra tutte. Mi piace. Per una volta, finalmente, vado fiera di ciò che ho scritto. Non so, è tanto dolce e poi io adoro questa canzone: la voce di Rin e Len, con sottofondo questa melodia che ricorda tanto un carillon, sono bellissime. E poi le parole (quelle comprensibili, almeno) mi hanno fatta scendere una lacrimuccia. ;u;
Btw, non ho molto da dire, quindi vi lascio subito alla lettura.
Ringrazio come sempre i... beh, i lettori dato che nessuno recensisce e chi ha messo la storia tra le seguite (siete aumentati, wow). xD Un ringraziamento speciale va a quell'unica persona che ha capito che non mangio, e mi ha lasciata un commentino. Grazie! :3




 

La dolce favola della buona notte

Third night ~ Hello Again

 

 

La porta della stanza si aprì di scatto, rivelando la bionda ragazzina scattante e dietro di lei, come un fedele cagnolino, suo fratello la seguiva docilmente, con ancora lo stomaco pieno da tutto quello che avevano mangiato quella sera a cena.
Rin ancora rideva, ripensando a quello a cui avevano appena assistito. Len, invece, preferì non ricordare la scena di Meiko – ubriaca, naturalmente – mentre biascicava qualche parola incomprensibile e nello stesso tempo picchiava il povero Kaito e... accidenti, ci stava pensando. Len si schiaffeggiò una mano in faccia, pensando con che razza di amici lui e la sorella erano costretti a dividere la casa.
«Sto ancora ridendo» mormorò Rin, asciugandosi una lacrima, «È stato troppo divertente, non è vero Len?».
No. «Certamente. Non vedi come sto scompisciando dalle risate?» le fece notare, sarcastico. Ma la sorella non si accorse del suo tono decisamente troppo ironico, ma continuò a ridacchiare, mentre si coricava nel letto.
«Ci vorrebbe...» disse, senza spegnere il sorriso, «Ci vorrebbe qualcosa che mi faccia dimenticare quella sce–», non riscì a finire la frase, che un altro attacco di riso la colpì al ricordo della cara Meiko in quelle condizioni, facendola quasi piegare in due, mantenendosi la pancia.
Len sbuffò. Poi una piccola lampadina si accese nella sua testa e ghignò nella direzione della ragazza, dicendo: «Ho un modo per farti smettere di ridere. Dovevo raccontarti una storia anche questa sera, se non sbaglio».
«Sì!» si accese subito di entusiasmo lei, «Voglio che mi racconti...».
«Aspetta, aspetta, Rin» la fermò, prendendo posto accanto a lei, «Ho già una storia da raccontarti, che ti farà dimenticare quella scena così... beh, ridicola forse è il termine giusto».
Rin cercò con tutta se stessa di non ridere, con scarso successo però. «Non ci riuscirai mai! Che storia è? Di che parla?».
«Parla di un'amore corrisposto e ricambiato, ma nessuno dei due riesce a capirlo».
Quando Rin piegò la testa, confusa, Len capì che a spiegarglielo così in due parole non sarebbe mai riuscito a farglielo intendere. «Lascia stare, stai a sentire e capirai» le spiegò con dolcezza, accarezzandole i capelli, poi iniziò: «C'era una volta...».

... una parola. O meglio, quella sera c'erano molte parole che echeggiavano nel buio e tra le onde del mare che si infrangeva contro gli scogli. Ad ascoltare quelle parole – apparentemente incomprensibili – c'era un ragazzo, che sostava accanto ad un letto, in attesa di qualcosa, aguzzando più che poteva le orecchie per poter cogliere ogni sfaccettatura di quella voce cristallina che mormorava parole a lui completamente sconosciute.
Il ragazzo si chiamava Len. Viveva in una piccola baita vicino al mare, perché era un ragazzo che adorava guardare il cielo cambiare colore all'alba e al tramonto, quando all'orizzonte saliva o calava il sole sull'acqua che brillava grazie alla sua luce; e poi adorava ancora di più sentire il rumore dell'acqua vicino a lui, persino durante la notte, che lo accompagnava nel sonno – e gli teneva compagnia, essendo un ragazzo relativamente solo.
Fino a quella sera, almeno.
Quella voce e quelle parole lo avevano attirato come una calamita verso il mare. In un misero attimo, pensò persino di aver sentito una sirena – le leggende su quegli esseri, in quella città dove marinai e pirati sbarcavano quasi ormai tutti i giorni, erano molte e lui ne aveva sentite alcune, tanto che non poté non pensarci. Quando, in riva al mare, appoggiata delicatamente sulla sabbia bianca, non trovò una ragazza.
Era una ragazza giovane e bella, tremendamente bella. I suoi vestiti sembravano asciutti, se non fosse per la gonna leggermente bagnata a causa delle onde che le si infrangevano contro, quindi la teoria della sirena fu accantonata – per il momento, almeno.
Sembrava dormisse; i suoi occhi non accennarono ad aprirsi, nonostante una parte di lui desiderasse vederli come mai aveva desiderato niente prima di allora. Continuò a ʻdormireʼ persino dopo che Len la prese tra le braccia – e fu in quel momento che capì che era proprio lei quella voce che aveva sentito fino a quel momento.
«
Werra svey jhno jhno. Werra svey jhno mrrau». Erano quelle le parole strane che uscivano dalle sue labbra rosse, totalmente incomprensibili per lui.
Che fosse un'altra lingua? Non somigliava a nessuna di quelle che lui – anche se in minima parte – conosceva.
Che fosse un'aliena? ... Quasi si schiaffeggiò da solo a quel pensiero.
Qualcosa significavano, su quello era certo. Len non si perse d'animo: decise che glielo avrebbe chiesto direttamente a lei una volta che si sarebbe svegliata. Anche a gesti, se necessario.
Per questo motivo, ora, Len si trovava accanto a quel letto, dove la bella ragazza sconosciuta continuava a dormire, sussurrando ogni tanto quelle parole.
E a guardarla con il passare del tempo, Len si sentiva sempre più attratto.

Soltanto tre giorni dopo che la incontrò, la ragazza aprì i suoi occhi. Len era rimasto al suo capezzale per tutto il tempo, lasciandola solo quando era strettamente necessario. Aveva persino dormito su quella sedia rotta e scomoda, pur di non allontanarsi e di non perdersi il suo risveglio.
Non se ne pentì affatto, dopotutto.
Aprì i suoi occhi blu chiaro – molto simile al colore nel mare calmo – e lo fissò, un po' come se sapesse già che lui si trovasse al suo fianco. La ragazza non disse niente, non fece nemmeno una faccia stupita, non chiese chi diavolo lui fosse o cose del genere; si limitò ad osservarlo in silenzio, con un espressione che Len catalogò come ʻdolceʼ.
«Chi sei?» le chiese, incantato. Era la ragazza più bella che avesse mai visto, con i suoi capelli biondi e i suoi begli occhi cerulei. «Qual è il tuo nome?».
La ragazza gli sorrise teneramente, sembrando addirittura contenta che lui le avesse rivolto la parola. «
Werra svey jhno mrrau» le rispose, ma Len aggrottò le sopracciglia, non capendo cosa stesse dicendo, e il sorriso della ragazza si spense.
«N–Non capisco» ammise, riluttante. Non voleva renderla triste, ma veramente non riusciva a comprendere quelle strane parole, «Mi dispiace, ma davvero non capisco cosa dici. Ma non preoccuparti, questo non significa che ti butterò fuori di casa!».
La ragazza sconosciuta sgranò impercettibilmente i suoi occhi, poi sorrise annuendo. Len considerò quel gesto come un ringraziamento per la sua ospitalità, ma lei forse non sapeva che proprio per lei lui avrebbe fatto questo ed altro. Chissà se era proprio questo quello che intendevano i marinai, quando dicevano che il canto della sirena incantava gli uomini per trascinarli nelle profondità degli abissi più oscuri. Se lei fosse davvero una sirena, e lui ne era ormai già affascinato, gli sarebbe toccato quel destino senza alcuna ombra di dubbio. E a quel punto, Len non era nemmeno tanto certo di tirarsi indietro, quando sarebbe stato il momento; soprattutto se a portarlo negli abissi del mare era proprio lei. Avrebbe accettato il suo destino, in tal caso.
«Ti chiamerò Rin. Ti piace?».
Decise di darle comunque un nome. Scelse quello, perché credeva che la rispecchiasse completamente data la sua musicalità – un po' come quelle parole strane che continuava a ripetere, e che lui continuava a non capire.
Le diede un nome, e si disse che non sarebbe bastato questo ad allontanarla da lui.

Ed infatti, Rin restò sempre accanto a lui.
Ogni volta che restava incantato ad osservarla, sembrava sempre più bella. Era inutile persino pensare al fatto che lui fosse terribilmente innamorato di lei, l'amore nei suoi confronti era visibile da lontano. Era quasi palpabile nell'aria, quasi come se ci fosse dell'elettricità attorno ad entrambi. Lui l'amava, non c'erano altri dubbi.
La osservava sempre dormire nel suo letto, tranquilla. Persino nel sonno, Rin continuava a mormorare quelle parole strane e Len divenne quasi ossessionato da ciò, quasi come se maledisse se stesso per il fatto di non riuscire a comprenderla.
«Ripeterò ciò che dici, sperando che siano parole d'amore» le mormorava ogni notte, accarezzandole dolcemente i capelli lasciati liberi sul cuscino.
Ed in effetti...


«... erano senza alcun dubbio parole d'amore, sai? La ragazza continuava a ripeterle ogni giorno, ininterrottamente, per dirle quanto lo amasse. E sentirle pronunciare anche a lui la rendeva più che felice, ma sapeva in cuor suo che lui le ripeteva senza saperne il significato. Lei non credette mai al suo cuore che le metteva in testa che lui ricambiava il suo amore, e viceversa anche lui stesso non capì mai che quelle parole erano per lui, per amarlo nell'unico modo che conosceva. Restarono per sempre insieme, questo sì, ma nessuno dei due seppe mai che l'altro l'amava con tutto se stesso».
Len smise di narrare. Guardò al suo fianco, dove Rin era stesa supina a guardare il soffitto, con uno sguardo terribilmente serio in volto.
«Ci sono modi e modi per far capire l'amore alla persona amata» concluse Rin, dopo aver pensato con accuratezza a ciò che aveva appena sentito, «Insomma, lei poteva... poteva abbracciarlo, o b–baciarlo» arrossì a quelle parole, ma non diede peso, «Cielo, poteva dimostrarglielo in altri modi, sapendo che lui non riusciva a capire quelle parole!».
Len non rispose. Non a parole, almeno. Si limitò a scoppiare a ridere, cercando di nascondere il rossore sulle sue guance e quello strano calore che sentiva all'altezza del petto. «Buona notte, Rin! Quando inizi a pensare troppo, forse è meglio che ti addormenti!» la prese in giro, scompigliandole ancora di più i capelli e mettendosi comodo nel letto – maledicendosi per ciò che sentiva, chiaro.
Furono attimi di silenzio dove nessuno dei due fiatò. Len non vide cosa stesse facendo la sorella e perché non aveva né replicato con qualche sua lamentela, né tantomeno aveva ricambiato la sua buona notte, perché aveva chiuso gli occhi nel vano tentativo di addormentarsi.
Quando ad un certo punto, Rin gli diede finalmente il saluto che tanto bramava, ma non era il solito... Non era il solito bacio sulla guancia e il solito ʻbuona notteʼ.
«Werra svey jhno mrrau» mormorò al suo orecchio, schioccandogli poi un grosso e rumoroso bacio sulla guancia, «Sono parole d'amore, giusto Len?».

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Capitolo 4
*** Fourth night - Kokoro ***


Kokoro.
Questa canzone è stata la primissima canzone dei Vocaloid che ascoltai (proprio questo video, con le due versioni insieme *^*) taanto tempo fa, e da altrettanto tempo sono diventata una Kagamineshipper. Forse proprio grazie a Kokoro, che è stata la prima fottuta canzone che mi ha fatto piangere - anche se dopo, ce ne sono state molte altre.
Non ho tanto da dire, solo godetevi questo capitolo che è stato scritto con il cuore (non è detto a caso, eh!) e che, soprattutto, da questa quarta notte ci saranno delle svolte nel rapporto di Rin e Len 'oltre le favole narrate'.
Yeep. Vi lascio dunque alla lettura, senza dimenticarmi di ringraziare tutte le persone che hanno recensito e che hanno messo la fic tra le preferite/ricordate. Aumentate sempre di più, wow. ♥




 

La dolce favola della buona notte

Fourth night ~ Kokoro

 

 

Una gocciolina di sudore iniziò a colargli dall'attaccatura dei capelli dietro la nuca lungo tutto la schiena. Evitò di guardare Rin che, osservandolo con un cipiglio confuso, restava seduta sul suo letto in attesa che Len si avvicinasse come le sere appena trascorse e iniziasse a raccontarle una bella fiaba.
Diversamente da Rin, però, l'animo di Len era veramente in subbuglio: la notte prima aveva fatto finta di dormire anche dopo aver sentito quelle parole e aver ricevuto il suo bacio quotidiano sulla guancia – ma non ne era rimasto affatto indifferente. Cioé, a dirla tutta il ragazzo sapeva perfettamente che i sentimenti che provava verso la sorella erano un po' tanto oltre il semplice amore fraterno e con il passare del tempo aveva imparato anche a conviverci bene o male. Soprattutto perché non vivevano da soli, e cosa più importante non dividevano la stanza – come invece facevano da bambini.
Erano bastate solo tre notti passate con lei così tremendamente vicini, e il suo autocontrollo stava andando a rotoli.
«Uhm... Len? Che stai facendo impalato davanti al letto?».
Len sobbalzò al sentire il suono della sua voce, troppo preso dai suoi pensieri che stavano prendendo una strana piega che non gli piacevano per niente. «N–Niente!» urlò in modo stridulo, beccandosi così un'occhiataccia ancora più strana dalla sorella, «Mi... fa male la schiena! Ecco, sì, mi fa male la schiena. Per questo non mi muovo, eh eh» arrancò la prima scusa che gli passò per la testa, sperando che Rin ci cascasse.
Credeva davvero che la sorella fosse così tonta da cascare in una balla come quella? Nah, non sarebbe da Rin dopotutto. Ed infatti... «Baka Len, non capisco perché, se hai mal di schiena, tu debba stare in piedi. È un controsenso! Sul letto non saresti più comodo, e di conseguenza sentiresti meno male?».
«Ho... Ho i miei modi per combattere il dolore» sbottò, rosso in viso. Poi sospirò e si sedette stancamente sul letto, portandosi le mani sulle guance – sentendole scottare, «Piuttosto, posso sapere che fai qui? Non è ora di andare a letto?».
Vide benissimo, con la coda dell'occhio, Rin al suo fianco torturarsi distrattamente le mani, per poi mormorare: «Mi chiedevo... Mi chiedevo se prima non ti andava di raccontarmi un'altra storia».
Dopo la sera prima, forse non era una buona idea. «Sono stanco, Rin...».
«Ti prego, Len Len!».
Imprecò mentalmente. Quando Rin s'intestardiva su qualcosa, non c'era verso di farle cambiare idea. Soprattutto quando iniziava a fargli gli occhietti dolci, metteva le mani a preghiera sotto il mento e gli dava nomignoli a caso, sapendo benissimo che il fratello non sarebbe mai riuscito a resisterle. E dannazione, aveva ragione.
«Io... Okay» si arrese, facendo finta di nulla quando Rin saltellò contenta fino a stendersi al suo fianco. Prese fiato, e anche quella sera iniziò: «C'era una volta...».

... un robot. Fu creato molto tempo fa da uno scienziato solo – e fu proprio un ʻmiracoloʼ.
Il robot aveva le sembianze di una graziosa ragazzina, dai capelli biondi e gli occhi color del cielo. E forse non era del tutto un caso che avesse proprio quell'aspetto; somigliava tremendamente al giovane scienziato che le aveva donato la vita, ma nessuno seppe mai perché.
«Buon giorno» mormorò lui, non appena lei aprì per la prima volta gli occhi.
«Buon giorno» rispose automaticamente lei. Lo scienziato – il suo nome era Len – sorrise con amarezza, vedendo in quegli occhi troppo simili ai suoi solo il vuoto, senza alcuna scintilla ad illuminarli. Era felice di vederla vivere, ma ancora non bastava.
Accarezzò con tenerezza la sua chioma bionda, «Bene. Vedo che funzioni perfettamente, anche se ti manca ancora qualcosa...», aggrottò le sopracciglia, avanzando verso i numerosi macchinari e lasciandosi indietro il cyborg che lo seguì solo con lo sguardo. Poi sembrò pensarci su, girandosi verso di lei in una giravolta contenta, «Il tuo nome sarà Rin. E ora, creerò quel che ti manca, in modo che tu possa essere felice».
Dopo quelle parole, Len si mise all'opera.
Per crearle un ʻcuoreʼ.

Gli anni passarono, ma Rin non ebbe mai il suo cuore. Il robot attese centinaia di anni, ma quella persona non tornò mai più quando se ne andò – nonostante lo avesse sentito bene che le aveva mormorato con voce rauca un «Torno subito, aspettami».
Lui non tornò più. Attese davanti a quella porta, che con il tempo era invecchiata e cadeva in pezzi, guardando il punto preciso dove lui era sparito, lì accanto a quell'albero di ciliegio. Probabilmente aspettare non valeva niente ormai, ma a Rin non restava altro da fare.
Infine, espresse un desiderio. Non sapeva cosa la spingeva ad attendere il suo ritorno, ma ad un tratto volle conoscere a tutti i costi a cosa aveva lavorato quella persona per tutto quel tempo, spendendo i giorni, i mesi e gli anni della sua vita – e nonostante ciò, non lasciandola mai sola.
Si avvicinò con lentezza a quei macchinari tanto complicati, con i suoi occhi spenti che fissavano le luci intermittenti emettere dopo un po' di tempo un lieve ʻbipʼ che non le dava nemmeno fastidio. Toccò con la punta delle dita proprio una di quelle luci, quella più grande e luminosa, di un appariscente color giallo.
Pochi istanti dopo, sbarrò gli occhi. Sentì le sue braccia formicolare fastidiosamente, del liquido caldo scivolarle lungo le guance e qualcosa battere furioso nel suo petto. Rin ansimò, perdendo l'equilibrio e scivolando per terra: era del tutto estranea a quelle sensazioni, era tutto completamente nuovo per lei. Eppure non le sembrava niente di brutto, anzi era tutto così piacevole.
Nella sua mente, immagini di una vita passata la colpirono, facendole ricordare tutti i momenti belli passati insieme a quella persona, delle sue carezze, dei suoi baci e di quelle piccole – e grandi – cose che aveva fatto per lei, solo per lei. Sorrise tra le lacrime, Rin, rimpiangeno quei momenti che aveva sprecato, non riuscendo a provare niente di tutto quello che sentiva in quel preciso istante.
«Len!» chiamò, alzandosi in piedi, barcollando un po'. Iniziò a correre, uscendo per la prima volta da quel laboratorio che stava ormai cadendo a pezzi sotto i suoi occhi – e che lei non ci aveva mai fatto caso. Adesso tutto ciò che importava era ritrovare quella persona, portarla a casa e ricominciare da capo.

Non sapeva che, però, quelle sensazioni l'avrebbero potuta anche far male.
Rin non trovò mai Len, una volta che lei ebbe raggiunto quell'albero di ciliegio dove lo aveva visto allontanarsi tanti anni prima. Trovo solo un mucchio di ossa abbandonate, e della terra smossa.
Ma non importava molto. Rin era contenta lo stesso, sentendo quella persona così vicina, tanto da poterla immaginare accanto a sé. Sorrideva, Rin, ascoltando quelle parole mormorate da lui, sedendosi ai piedi di quello stesso albero – come fece anche Len anni prima, senza che lei lo avesse mai saputo.

«Il primo miracolo,
è stato che sei nata.
Il secondo miracolo,
è stato tutto il tempo trascorso insieme.
Il terzo miracolo... non si è ancora verificato.
Non fino ad ora.»

Chiuse gli occhi, ascoltando quella voce.
Strinse le braccia intorno all'aria al suo fianco, sentendo che in qualche modo stesse abbracciando proprio lui.
Poi mormorò: «Grazie... onii... chan...».
E proprio in quel momento...


«... il robot smise di muoversi. Probabilmente, quel programma chiamato ʻcuoreʼ era troppo grande per lei, tanto che non durò che soli attimi in quel corpo. Però, sembrava tanto che il robot abbia smesso di funzionare con serenità, perché il suo sorriso non smise mai di illuminare il suo volto, nemmeno dopo... Rin? Rin, mi stai ascoltando?».
Di risposta, Len ottenne solo un mugugno sconnesso, mentre Rin – profondamente addormentata – si rigirava nelle coperte, attirandole tutte a sé. Il ragazzo rimase a guardare per un bel po' la sorella, chiedendosi da quanto tempo stesse parlando a vuoto, e di quanto potesse essere furba a volte Rin, che proprio colei che voleva sentire quella storia si era addormentata alla grossa.
Probabilmente, quella sarebbe stata l'ultima notte. Meglio così, si disse Len. Le cose stavano degenerando, e soprattutto, ormai le storie in cantiere che aveva stavano finendo... cioè, non era proprio il vero, ma sicuramente quelle che avrebbe preferito sentire Rin non gliele avrebbe raccontate mai.
Storie d'amore. «Tzé» sibilò Len a bassa voce, tra sé e sé, «Non ci penso nemmeno...».
Abbracciando da dietro una Rin immersa nel mondo dei sogni, Len si avvicinò un po' troppo al suo viso, mormorando, «Buona notte, rompiscatole». Si fermò appena prima che le sue labbra di posassero su quelle della sorella, allontanandosi di scatto – fortuna che Rin aveva il sonno pesante, dunque a quel movimento così brusco non si smosse di un centimetro – e allontanandosi più che poté dal suo corpicino caldo, maledicendosi più e più volte e prendendosi quasi a testate con la sveglia.
E adesso, cosa diavolo doveva fare?!

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Capitolo 5
*** Fifth night - Paper plane ***


Oh? Chi c'è qui?
... Scusatemi! Dico davvero, non immaginate quanto mi dispiaccia di questo terribile ritardo con cui pubblico questo capitolo, e quanto mi dispiace dirvi che non sarà l'ultima volta perché, ahimé, tra scuola e esami incombenti il tempo di correggere i capitoli successivi non c'è nemmeno a pregarlo. *sigh*
Ma ce l'ho fatta. Vi ho fatto aspettare un'eternità, ma la Niv torna sempre - presto o tardi. Questo tanto atteso quinto capitolo è preso da una canzone che non è tra le mie preferite in assoluto, ma la cui storia mi ha fatto piangere come un'idiota per un quarto d'ora pieno, quindi si è meritata un posticino in questa long.
Btw, godetevi il capitolo! Sperando tanto di non metterci DUE MESI per correggere il sesto D:
E ringrazio infinitamente quelle anime pie che mi hanno supportata, che hanno atteso con pazienza, chi ha messo la long nelle preferite/seguite/ricordate e chi, ovviamente, recensisce e anche chi legge in silenzio. E' solo per voi che faccio i salti mortali per pubblicare, sappiatelo! ♥




 

La dolce favola della buona notte

Fifth night ~ Paper plane

 

La notte dopo arrivò troppo in fretta per Len. Ormai doveva essere sincero con se stesso: stava diventando un'abitudine arrivare al letto – stanco e assonnato – accompagnato da una Rin pinpante che di voler dormire non ne aveva la più pallida intenzione. E quella sera, proprio come le altre, stesa accanto a lui c'era la sorella, che attendeva trepidante la sua favola quotidiana.
«Non avevamo detto che ieri era l'ultima?» ripeté ancora una volta Len, non molto convinto di ciò che stesse dicendo. Era diventato un ragazzo diviso in due: da una parte, voleva che quella routine finisse per non rischiare di fare qualche stupidaggine; dall'altra, per tutto il giorno non riusciva a pensare ad altro che al momento in cui sarebbe potuto restare solo con lei.
«Certo, l'avevamo detto» gli diede ragione Rin, ma il ghigno con cui glielo diceva non lo rassicurava per niente, «Ma vedi, onii-chan, ieri mi sono di nuovo persa metà della mia storia – non lo faccio apposta, giuro! – e oggi Miku mi ha confessato di quanto è gelosa di me, perché anche lei vorrebbe qualcuno che le raccontasse una favola per farla addormentare e quindi... beh, quindi... Ne voglio un'altra, ecco».
La guardò con gli occhi a mezz'asta, mentre lei ridacchiò sotto i baffi. Osservò le sue guance arrossire, le sue labbra seminascoste dalle dita stirarsi in un sorriso e i suoi occhi chiusi tremare leggermente a causa delle risa. Anche in quelle condizioni, era dannatamente bella – o forse era solo lui a vederla troppo irrestistibile, perché ormai... ormai...
«Neh, Len!» lo chiamò lei, vedendo che lui stesso non accennava a fare niente, troppo perso nei suoi pensieri, «Ti ricordi quella storia che ci raccontava Kaito nii-chan quando eravamo piccoli? Quella degli aeroplanini di carta?».
«Sì, me la ricordo» annuì, ricordando vagamente brevi momenti passati in compagnia del ragazzo, tempo fa – quando ancora non era occupato a farsele dare da Meiko – che canticchiava loro delle canzoncine per farli stare buoni, dato che toccava sempre a lui fare da babysitter. «E ricordo anche che era una storiella talmente stupida che probabilmente fu allora che capimmo che lui era, e lo è ancora sia chiaro, stupido».
«Già. Dieci minuti a canticchiare di come lui creava gli aeroplanini di carta a scuola e li lanciava verso la maestra, centrandola persino in un occhio. Hey, però era divertente ascoltarlo!».
Len sorrise, «Se lo dici tu. Io però ho un'altra storia, che ha decisamente molto più senso di quella di Kaito».
«Aaah~ Proprio questo stavo aspettando, Len Len! Su, sono tutta orecchi!» si rianimò tutt'a un tratto, mettendosi comoda abbracciando il cuscino e facendo segno al fratello di mettersi steso accanto a lei.
E Len, come ormai tutte le sere, acconsentì con un sospiro annoiato – che camuffava la sua effettiva felicità – e cominciava a narrare: «C'era una volta...».

...un prigioniero. Era un giovane ragazzo di all'incirca la sua stessa età, che continuava a guardare il cielo e i gabbiani che volavano liberi.
Rin lo osservava da lontano, nascosta dagli alberi. Si recava lì ogni giorno e lo osservava quel poco che faceva ingabbiato in quel posto, pensando a cosa potesse mai aver fatto di male per essere finito lì, quanto tempo sarebbe passato prima che potesse riavere indietro la sua libertà che, forse, tempo addietro aveva e che adesso aveva perso – e che bramava tanto di riaverla, e Rin lo poté giurare, perché i suoi occhi cerulei non mentivano, e brillavano malinconici ogni volta che guardava il cielo sopra di lui.
Voleva conoscerlo, non riuscì a non ammetterlo a se stessa. Voleva parlargli almeno una volta, e fargli tutte le domande che le vorticavano nella testa dalla prima volta che lo aveva visto.
Eppure, ogni volta che si avvicinava un po' di più a quelle spine di ferro che lo dividevano da lei, le parole le si fermavano in gola, e non riusciva più a parlare.
Che fare? Ormai il suo desiderio non la faceva nemmeno più dormire la notte; continuava a sognare il momento in cui avrebbe scoperto il suo nome, che avrebbe finalmente sorriso – solo e soltanto a lei – e avrebbe potuto accarezzare in suo volto, anche se si sarebbe poi fatta male a causa delle spine di ferro. Non le importava.
Durante quelle notte insonni, Rin scrisse.
Scrisse quello che sentiva in fondo al proprio cuore, quello che provava per quel ragazzo sconosciuto, arrivando a comporre delle vere e proprie lettere. E fu in quel momento, che Rin capì come fare per poter comunicare con lui, nonostante gli ostacoli, nonostante la sua voce che le si bloccava in gola.
Gli avrebbe lanciato quelle lettere, da quel giorno in poi.
Così, nascosta dietro un albero, Rin lo guardava ancora, prendendo ampi respiri per infondersi coraggio. Strinse al petto quel misero pezzo di carta che conteneva tutto ciò che provava, ormai tutto stropicciato dalle sue dita che continuava a muovere nervosamente. Fece un passo, poi un altro. Continuò così finché non gli fu davanti.
Lui la vide, e la guardò con i suoi grandi e bellissimi occhi cerulei.
Rin gli sorrise, e lanciò l'aereoplanino di carta che aveva creato con la sua lettera, sperando in cuor suo che il ragazzo non ignorasse quel gesto, che leggesse il suo contenuto e che le ricambiasse il sorriso.

E così fu.
Giorno dopo giorno, Rin gli lanciava aereoplanini di carta che contenevano pezzi del suo cuore, e lui rispondeva con sorrisi e con parole gentili, che Rin conservava nella sua mente con tanto amore. Ma giorno dopo giorno, lei continuava a volere di più, e ad essere sempre di più innamorata di lui, tanto da rifugiarsi spesso nei suoi sogni per potergli restare accanto almeno lì.
Il suo comportamento non restò incompreso da suo padre, però. L'uomo capì perfettamente cosa stesse accadendo alla figlia, tanto da arrivare a prendere quelle lettere che scriveva e stracciagliele davanti ai suoi occhi. Ma Rin non capiva, non riusciva a comprendere cosa ci fosse di sbagliato ad amare una persona. Forse perché era un prigioniero? Forse perché lei era proprio la figlia del capo delle guardie? O forse perché non le era permesso proprio di amare, a causa della sua condizione fisica?
Non riuscì mai a darsi spiegazioni, e le sue lacrime di dolore non scalfirono minimamente il genitore.

Arrivò presto il momento che Rin non riuscì più a camminare stabilmente. La sentiva, la ragazza. Sentiva la morte avvicinarsi a lei sempre di più, ma non aveva paura. O almeno, aveva solo paura di lasciarlo, di lasciare quel ragazzo che la stava ancora aspettando, come tutti i giorni, con i suoi sorrisi e con le sue calde parole che le scaldavano il cuore.
E se proprio per loro non c'era alcun destino, voleva almeno dirgli addio.
Così raccolse le ultime forze che le restavano e si mise in piedi, alzando da quel letto dell'ospedale che stava diventando troppo freddo per lei, si vestì velocemente ed indossò il suo cappello preferito, che sapeva che lui adorava. Prese carta e penna, e scrisse poche e semplici parole, ma che contenevano più di quanto lei potesse dire ad alta voce.
ʻDevo andare in un posto lontano, ma starò bene. Ti amo.ʼ
Arrivò davanti a lui affaticata, stanca ma felice di poterlo vedere almeno un'ultima volta. Non lo guardò subito, lanciò soltanto l'ultimo aereoplanino di carta e attese che lui l'avesse letto, prima di mostrare il suo volto prima celato dal capello e sorridegli contenta, mandandogli un bacio con la mano.
Lui non disse niente, e forse fu meglio così. Gli diede le spalle e con passo lento riprese la sua strada verso l'ospedale, verso un posto troppo freddo che sapeva di solitudine e morte, ma la sua voce la fermò.
«Perché te ne vai? Tu sei la mia ragazza, giusto? Devi restare con me, io voglio restare con te!».
Rin non gli rispose, né di voltò. Il suo cuore si strinse in una morsa, come se qualcuno lo stesse stringendo così forte da fargli un male tremendo.
«Ti aspetterò finché non tornerai, Rin. Stringerò le tue lettere ogni giorno, attendendo il tuo ritorno».
Scoppiò a piangere, la ragazza, un po' per contentezza un po' per tristezza. Era così contenta che lui l'amasse così tanto da aspettarla anche per sempre, ma si sentì così male al pensiero di doverlo far aspettare davvero per l'eternità, perché lei non sarebbe mai più tornata.
Corse via per quanto le sue forse glielo permettessero.
E quella fu l'ultima cosa che ricordava, perché...
«... il giorno dopo, la ragazza si aggravò e non si svegliò più dal suo sonno, finché non morì poco tempo dopo. Suo padre fu l'uomo che pianse più di tutti per la scomparsa prematura della figlia, perché in fondo al suo cuore sapeva che se avesse liberato l'altro ragazzo e avesse permesso alla figlia di essere felice, forse la malattia che aveva non l'avrebbe divorata, ma quando se ne rese conto fu ormai troppo tardi».
«Ma...» lo interruppe Rin, seminascosta dalle coperte e con il viso quasi completamente premuto contro il petto del fratello, «Il ragazzo che fine ha fatto?».
«Si dice che il padre della ragazza abbia dato la colpa a lui per la sua morte, probabilmente perché non riusciva a darsene una completa colpa. Chi lo sa, del ragazzo non si seppe più nulla. Forse è ancora lì, ad attendere invano il ritorno la ragazza» spiegò Len, poi sbadigliò, stanco e assonnato. Era così tardi e aveva un sonno incredibile.
Rin ridacchiò leggermente, «Neh, Len...».
«Mh?».
«Se anche io dovessi andarmene via – che so, forse in un viaggio in America con Miku e Luka – anche tu mi aspetterai, vero? Anche se ci metterò tanto tempo, vero?» chiese, con voce timida e facendosi sempre più piccola contro il suo petto.
Ma Len scosse il capo, prendendola in contropiede, «No, non ti aspetterò» disse, con voce tremendamente seria che per un attimo Rin ebbe paura che dicesse il vero, ma dovette aspettare poco prima che le sue paure ebbero fine, sentendo le parole che seguirono: «Non ti aspetterò, perché io sarò semplicemente lì con te, Rin».
«Ah, Len! Mi hai fatto prendere un colpo! Baka Len!», gli diede un debole ceffone tra i capelli, «Però sono contenta di questa risposta», rise, «Grazie per essermi vicino, Len Len!», gli schioccò un bacio sulla guancia e gli diede la buonanotte, stringendosi forse a lui – come tutte le sere. E come tutte le sere, Len le ricambiò il bacio tra i capelli e le diede la buonanotte...
... Sperando e pregando di non combinare un casino durante la notte, con Rin così vicina.

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Capitolo 6
*** Sixth night - Dreamy Dance Party ***


Gente, sono libera. Cioè, ancora non posso credere che sono definitivamente in vacanza e che la scuola maledetta sia terminata, ma che soprattutto sono libera da ansia, studio, esami fino a settembre (si fa per dire, insomma, lasciatemelo credere anche se ho comunque esami imminenti). E dunque, dato che sono libera, ho avuto modo di correggere il sesto capitolo - di già, sì! *^* - ed eccolo qui a voi, tutto vostro pronto ad essere letto!
Noterete un piccolo - insomma xD - particolare che nelle altre storie non c'era. Non è piccolo, stavo scherzando, e lo noterete presto. Spero che l'idea vi piaccia, e che capirete perché la storia è narrata in modo piuttosto infantile e che... beh, sembra appunto una storia per bambini. xD
Come sempre, ringrazio tutti tutti. Le vostre recensioni mi fanno sempre immensamente piacere, sappiatelo! Se non fosse per il vostro supporto, ci avrei messo anni a finire questa long, e non sto scherzando! xD




 

La dolce favola della buona notte

Sixth night ~ Dreamy Dance Party

 

«Ho un'idea».
La ragazzina restava ferma sulla soglia della stanza di Len, con un sorriso che le partiva da un orecchio e le arrivava all'altro. Aveva bussato con instistenza alla sua porta, esordendo poi con quella semplice e allegra frase che aveva insospettito il gemello più di ogni altra cosa. Solo lui sapeva quanto poteva essere pericolosa Rin, quando aveva un'idea.
«Sentiamo» la provocò, incrociando le braccia al petto e guardandola in attesa.
Rin si portò le mani dietro dietro la schiena, entrando nella stanza con passo quasi danzante. Era contenta, non c'era che dire. Len era felice di sapere questo – se era contenta lei, lo era di conseguenza anche lui – ma sapeva bene che se un'idea di Rin la rendeva estremamente felice e esaltata in quel modo, sicuramente consisteva in qualcosa che lo avrebbe messo nei guai. In guai molto grossi. «Ci ho riflettutto tutto il giorno, a tua completa insaputa tra l'altro», Len rabbrividì, «Ma sono arrivata alla conclusione che oggi è arrivato il momento di ricambiarti il favore».
«Quale favore?» chiese lui, confuso. 
«Dopo tutte le sere che hai passato a raccontarmi favole su favole, mi chiedi anche quale favore?» rise e gli saltò addosso, facendolo cadere sul letto con un leggero tonfo. Si mise comoda sopra di lui, incurante del fatto che lo stava schiacciando in maniera alquanto dolorosa – e piacevole, nonostante tutto. Ah, ma che diavolo andava a pensare? «Comunque, dicevo: è arrivato il momento che questa volta sia io a raccontare una fiaba a te, non ti pare?».
Il ragazzo alzò un sopracciglio, semmai ancor più confuso di prima. Con questo non metteva affatto in dubbio le doti della sorella in quanto narratrice, ma ciò che dubitava era proprio il fatto che lei volesse raccontare una storia. Una storia proprio a lui. Una storia che sicuramente sarebbe stata d'amore, e non se ne sarebbe stupito nemmeno; ma in quel caso, che fare? Come resisterle allora, sentendo ciò che lei bramava tanto ricevere – perché Len lo sapeva, che Rin metteva un pizzico di se stessa ovunque, e se raccontava di una donna innamorata persa che desiderava questo e quello, significava che era quello che voleva oltre ogni limite – e, soprattutto, desiderando lui stesso donarle ciò che lei voleva, ovvero amore, amore e ancora amore?
Voleva amarla oltre ogni limite! Ormai non riuscì nemmeno più a nasconderlo a se stesso.
Quindi Len fece una smorfia che sarebbe dovuta somigliare ad un sorriso – un sorriso un po' forzato, però. «A–Ah, sì...?».
«Sì!» annuì lei, rotolando al suo fianco e lasciandolo finalmente respirare, «Non sarò alla tua altezza, Len Len, ma ci proverò, okay?». E senza dargli il tempo nemmeno di rispondere, Rin iniziò a narrare: «C'era una volta...».
 
... un sogno. Era sicuramente un sogno, perché non sapeva in quale altro modo classificare quel meraviglioso posto che la circondava. Era un bosco bellissimo, ricco di vegetazione, con i canarini che canticchiavano e il sole che illuminava il paesaggio circostante. Rin si sentì in paradiso, al momento. 
Eppure, c'era qualcosa che stonava, in quel posto.
«Sono io che non vado bene» mormorò, abbassando lo sguardo su quello che aveva addosso in quel momento, «Sto indossando gli stessi vestiti da quando sono qui, e sono ormai due settimane!» sbuffò, contrariata.
Si guardò attorno, alla ricerca di non sapeva nemmeno lei cosa. Non poteva mica cercare un abito giusto per quel posto, in un bosco che – seppur bellissimo – non c'erano negozi dove comprarlo?
Però poi Rin pensò: quello era il suo sogno, dopotutto. Era il suo paradiso, chi le diceva che non avrebbe trovato ciò che cercava? Con di nuovo il sorriso sulle labbra, Rin corse attraverso quel bosco che tanto le piaceva, guardando a destra e a manca alla ricerca di qualcosa di utile.
Trovò uno scrigno. «Oh!» esclamò, «Questo mi servirà sicuramente!».
Lo aprì, tutta eccitata. Ed ecco che trovò, finalmente, ciò che tanto bramava. «Ma è bellissimo!» esultò, prendendo il vestito al suo interno, di un color pesca dolcissimo, «Così diventerò bellissima!».
Lo indossò velocemente, con una felicità troppo estrema per essere solo un cambio di vestiti. 
E da quel momento in poi, qualunque cosa incontrò, al suo passaggio si inchinava a lei ed esclamavano: «Guardate! Guardate tutti! Una principessa! Vedete come è bella? Visto come è bello il vestito che indossa?».
Alberi, canarini, usignoli, fiori, rocce, lepri, conigli, scoiattoli e persino le nuvole nel cielo la osservavano e la ammiravano, la consideravano la cosa più bella del bosco, nonostante fosse un posto paradisiaco.
«Grazie!» rispondeva lei, ogni volta. «Grazie, ma come siete gentili!».
Ma mancava qualcosa – o per meglio dire, qualcuno.
 
«Mia principessa, mi concede l'onore di questo ballo?».
Rin si girò, attirata da quella voce incantevole e che conosceva ormai benissimo. Vide il principe-gatto – il suo nome era bello come lui: si chiamava Len – avanzare in sua direzione, con una mano tendente verso di lei. 
Era stata organizzata una festa, una festa tutta per lei. Rin era felicissima, e desiderò ardentemente che tutto quello non avesse mai una fine, che avrebbe continuato a sognare per sempre perché non voleva lasciare quel posto e tutte quelle belle persone che erano con lei.
«Ma certo! Con te ballerei sempre!» gli rispose, contenta come una pasqua. Trotterellò verso di lui e accettò la sua mano. Si sentì stringere da quelle calde e accoglienti braccia, e il suo cuore incominciò a battere furioso nel petto, insieme alle sue guance che andarono irrimediabilmente a fuoco. Il suo sorriso, poi, era incantevole; era bello, felice e dolce, Rin non riusciva a resistergli nemmeno un po'. 
«Sono contento che ballerebbe sempre con me. Mi fa estremamente felice così». Ed era anche estremamente educato, il suo bel principe-gatto! Era quasi sicura di essersene ormai innamorata, con i suoi occhioni azzurro cielo e i suoi bei capelli d'oro. Era il suo principe azzurro, e nessuno gliel'avrebbe portato via.
Per questo lei non si sarebbe svegliata mai da quel sogno.
 
«Non sarebbe l'ora di svegliarsi, principessina?».
La festa era andata benissimo. Rin aveva ballato con il principe tutto il tempo, poi aveva parlato con gli altri invitati, aveva rifiutato le avances dello scoiattolo e del castoro dicendo semplicemente «Io ballo solo con il principe!», e infine era esausta ma contenta. Felice soprattutto perché era lì con loro - con lui - e lo sarebbe stata per sempre.
Fino a che la lepre non parlò, almeno.
«Svegliarmi? Perché dovrei svegliarmi?» chiese, leggermente innervosita.
Non voleva andare via. Perché doveva farlo, se lì stava così bene? Non aveva senso, e poi non voleva abbandonare il suo principe, mai e poi mai.
«Perché tu, dopotutto, non appartieni a questo posto. Non è qui che dovresti essere» aggiunse la lepre, con gli occhietti leggermente incattiviti.
«Non voglio. Io faccio ormai parte di tutto questo» rispose Rin, incrociando le braccia al petto. Eppure, non poté fare a meno di pensare che forse aveva un po' ragione, la lepre. Perché lei fino a due settimane prima non viveva lì, aveva una famiglia che aveva lasciato indietro e andava a scuola come tutti i ragazzi della sua età. Ma lei era così sola a casa, non aveva amici e non aveva nemmeno un bellissimo principe che la faceva ballare per tutto il tempo e le mormorava quanto fosse bella nel suo vestito nuovo. «Ma io non voglio svegliarmi!» sbottò, con le lacrime agli occhi.
Scappò via, lontano dalla lepre che sorrideva trionfante, correndo nel bosco attorno a lei, fin quasi a perdersi forse, ma non riuscì nemmeno a rendersene conto, perché mentre correva via piangendo andò a finire proprio tra le braccia del bel principe Len.
La strinse a sé, con tutto l'amore che riusciva a dimostrarle in quel modo. Senza parole, solo facendole sentire quel calore che possedeva e consolandola con dolci carezze sulla schiena per tranquillizzarla.
«Non si preoccupi, mia principessa» gli mormorò poi nell'orecchio, con voce dolce e carezzevole, «Mi sveglierò anche io con lei. L'accompagnerò, ma adesso non pianga più».
Rin sgranò gli occhi. Len veniva con lei...? Allora, se questi erano i patti, poteva anche lasciare quel bosco.
Perché dopotutto, ciò che lo rendeva paradisiaco era proprio la presenza del principe, e non di altro. Se Rin desiderava così tanto restare in quel posto, era solo per restare al suo fianco, nient'altro.
Allora si asciugò le lacrime e gli fece un sorriso grande quanto una casa, «Se ci sarai tu, allora mi sveglierò!».
Chiuse gli occhi e...
 
«... e la ragazza si svegliò» concluse Rin.
Len non poteva credere a ciò che aveva appena sentito. I suoi timori si erano dimostrati infondati, dopotutto, e ne era stato quasi sollevato. Quasi, perché nonostante non fosse proprio un'ordinaria storia d'amore, Len aveva colto dei particolari durante la narrazione che gli avevano fatto contorcere le viscere.
Quanto era stato difficile trattenersi! Soprattutto quando Rin, mentre raccontava quasi come una bambina, lo guardava con uno sguardo particolare che di bambina non aveva niente. O forse era solo una sua impressione – anzi, quasi sicuramente. Ormai le sue emozioni lo stavano coinvolgendo un po' troppo, veramente troppo per resistere.
«W–wow» mormorò, dopo attimi interminabili di silenzio. «Certo, sembrava più una favoletta raccontata ad un bambino ma... mi è piaciuta. Grazie, Rin» ammise nonostante tutto, sporgendosi verso di lei cercando di darle un bacio su una guancia, come segno di ringraziamento.
Non aveva calcolato il fatto che Rin potesse farne una delle sue, però.
Nel momento esatto che si era avvicinato quel tanto che bastava alla sua morbida e profumata pelle – non poteva permettersi di andare oltre il minimo indispensabile, altrimenti non avrebbe più risposto di se stesso –, Rin girò la testa e gli schioccò un bacio sulle labbra, prendendolo completamente alla sprovvista. Len si staccò da lei – Dio, quanto avrebbe voluto non farlo! – con un urlo poco mascolino in realtà, allontanandosi di scatto e portandosi una mano sulla bocca. Se non l'avesse fatto, non osava pensare a quello che avrebbe rischiato di combinare: quando si trattava di Rin, il cervello andava a farsi benedire e ciò che governava il suo corpo era solo il suo cuore.
«Len?» lo chiamò Rin, guardandolo confusa. Davvero non capiva cosa diavolo aveva fatto? Davvero non riusciva a capire quel che provava, prendendo tutto come se fosse solo un gioco? «Qualcosa non va?».
«N–Niente». Deglutì e guardò da un'altra parte. «Rin, forse è meglio se vai a dormire in camera tua, stanotte».
Non poteva starle accanto, adesso che sapeva quanto fosse morbida la sua bocca, quanto profumassero le sue labbra anche se le aveva provate solo per pochi secondi e sarebbe stato difficile resisterle.
Non riusciva più a resisterle.
Era forse nei guai, quelli proprio seri, adesso?

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