Vendetta al Chiaro di Luna

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Cap.2 ***
Capitolo 3: *** Cap.3 ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 ***
Capitolo 6: *** Cap. 6 ***
Capitolo 7: *** Cap. 7 ***
Capitolo 8: *** Cap. 8. ***
Capitolo 9: *** Cap. 9 ***
Capitolo 10: *** Cap. 10 ***
Capitolo 11: *** Cap. 11 ***
Capitolo 12: *** Cap. 12 ***
Capitolo 13: *** Cap. 13 ***
Capitolo 14: *** Cap. 14 ***
Capitolo 15: *** Cap. 15 ***
Capitolo 16: *** Cap. 16 ***
Capitolo 17: *** Cap. 17 ***
Capitolo 18: *** Cap. 18 ***
Capitolo 19: *** Cap. 19 ***
Capitolo 20: *** Cap. 20 ***
Capitolo 21: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




‘Il sole s’è velato a lutto. Come lui,
luna della mia vita, incappùcciati d’ombra;
dormi o fuma quanto vuoi: sii muta, sii cupa,
e affonda tutta intera nel gorgo della Noia;
è così che mi piaci! Ma se oggi vuoi, tuttavia,
come un astro eclissato esce dalla penombra,
pavoneggiarti nei luoghi invasi dalla Follia,
fai pure! Bel pugnale, sguscia dal fodero!’ […]
XXXVII L’indemoniato-Charles Baudelaire

 
“Non è come nasci, ma come muori,
che rivela a quale popolo appartieni.”
Alce Nera (Hehaka Sapa)Lakota

 
 

 
 
 
 

1.

 
 
  
 
 

 
Non sapevo se avere più paura degli esami imminenti, o di ciò che mi stava aspettando a casa, a Matlock.
L’impatto iniziale con l’università era stato forte, violento se vogliamo.
E di violenza ne avevo vista fin troppa, e a troppo breve distanza in termini temporali, per non subire un lieve shock.
Grazie al cielo, ero riuscita a mantenere valida la mia iscrizione all’UCL di Londra, sebbene mi avesse pesato allontanarmi così presto da Duncan e dal mio branco, dopo quello che era successo.
Essere trasformata in un licantropo, lottare per la mia vita, diventare Prima Lupa sfidando Marjorie e, infine, condannare a una morte orrenda i traditori del branco, avrebbe sfinito psicologicamente e fisicamente chiunque, ma io non me l’ero potuto permettere.
Avevo dovuto gettarmi nelle mie personali Forche Caudine ed entrare a far parte delle matricole del corso di Immunologia alla UCL.
Inoltre, avevo dovuto adattarmi a convivere con una ragazza conosciuta su internet, e con cui avevo preso in affitto un appartamentino nei pressi di Gower Street, dove si trovava l’università.
In realtà, la mia nuova compagna di vita si era rivelata essere una ragazza estremamente simpatica e solare, dalla risata pronta e la mano più geniale che avessi mai visto ai fornelli.
I suoi manicaretti all’italiana erano qualcosa per cui battersi volentieri.
Naturalmente, non sapeva cosa fossi in realtà, o avrebbe dato sicuramente di matto.
Non era stato un grosso problema, per me, in quei primi mesi di convivenza con il mio nuovo stato di pelosa a lungo termine, uscire di casa per gironzolare per i parchi.
Mi era bastato dirle che ero un’amante delle passeggiate al chiaro di luna, e un’appassionata di fotografia. Cosa che ero davvero.
Oltre a essere una lupa mannara desiderosa di spazi per la sua parte ferina.
Figli della Luna. Così ci chiamavamo tra di noi.
Mostri, abomini. Così ci chiamavano i Cacciatori, umani a conoscenza del nostro segreto, che avrebbero tanto voluto farci diventare leggenda nel vero senso della parola.
A mie spese, oltre alla sete di vendetta dei Cacciatori, avevo anche imparato cosa volesse dire compiere delle scelte per il bene del branco, e avevo quasi perso il mio unico amore, per questo.
Fortunatamente, ero riuscita in qualche modo a rimanere al suo fianco ma, al mio ritorno a casa, dopo gli esami, mi sarebbe spettata una nuova prova, ben più dura delle precedenti.
Nessuna, prima di me, era mai stata sia licantropa, che Prima Lupa, che wicca.
Molti avrebbero potuto ritenere che io avessi troppo potere nelle mani, ed era questo che temevo più di ogni altra cosa.
Più di un brutto voto in Microbiologia.
Per il solstizio d’estate, si sarebbe tenuta una riunione tra i clan inglesi, nello Yorkshire, lontano da ogni centro abitato e immersi nelle selvagge e verdeggianti colline del Middle England.
Lì, saremo stati al riparo da sguardi e orecchie curiosi, e avremmo discusso della mia nuova condizione di Prima Lupa.
Fino a quel momento, le notizie su di me erano state mantenute molto vaghe e, dai tre Fenrir che conoscevano il mio segreto, non dovevo temere nulla; sia Frederick che Bright erano grandi amici e alleati di Duncan.
Joshua, capoclan del branco di Londra, infine, mi aveva accolto a braccia aperte, incurante della mia unicità a tutti i livelli.
O meglio, il suo Skoll lo aveva fatto per lui ma, a conti fatti, era la stessa cosa, per noi lupi.
Non potevo però sapere, nessuno di noi poteva, come l’avrebbero presa gli altri, soprattutto Alec che, purtroppo per noi, sarebbe stato il padrone di casa durante quella riunione tra clan.
Alec aveva già tentato una volta di far fuori me e Duncan, e non ero del tutto sicura che la notizia del mio attuale status lo avrebbe reso felice.
“Sei pensierosa, Brie… il tuo uomo non ti ha chiamata, oggi?” chiese dietro di me Amanda, sogghignando nel passarmi un bicchiere di the ghiacciato.
Scacciai immediatamente quei pensieri e, sorridendo alla mia coinquilina, chiusi il libro che se ne stava pacifico - e non letto - di fronte a me, replicando: “Oh, no, Duncan ha chiamato poco fa, mentre eri fuori a fare spese. Stavo solo pensando alla riunione di famiglia che mi aspetta al rientro a casa.”
Lei ridacchiò, sorseggiando del the alla pesca, e celiò: “Devi avere una famiglia tremenda, se l’idea di tornare a casa ti fa venire quelle occhiaie. O stanotte hai pensato a come intrattenere Duncan?”
Amanda aveva visto Duncan a Natale, quando era venuto a farci visita assieme a mio fratello, la mia matrigna Mary Beth, Jerome e Lance.
Asserire che aveva approvato la scelta, è dire poco.
Aveva poi divorato con gli occhi Jerome, e lanciato occhiate interessate a Lance, ma nessuno dei due aveva mostrato interesse – mischiarsi con gli umani era rischioso per entrambe le specie, e non solo dal punto di vista fisico.
Alla fine, però, aveva rinunciato a un insperato regalo natalizio, in favore di una bella giornata passata in compagnia di gente nuova e allegra.
Amanda non era tornata a casa in Italia – mi aveva detto che i suoi erano tremendamente impegnati sul lavoro, in quel periodo, e non avrebbero potuto passare le feste con lei, perciò sarebbe rientrata solo per le vacanze estive.
Era perciò rimasta volentieri con noi, preparandoci le migliori lasagne che avessi mai mangiato, e un coniglio alla cacciatora davvero buonissimo.
Tutti ne eravamo rimasti entusiasti e Duncan, nel sorridere ad Amanda, aveva detto di aver finalmente capito perché avessi messo su qualche chilo.
Naturalmente non era vero – sprecavo fin troppe energie per controllare il mio potere, studiare e mutare in lupa a ogni luna piena.
Lasciando perdere quel ricordo gradevole, la fissai, sollevando un sopracciglio con ironia, e chiosai: “Se avessi sognato Duncan, non avrei questa faccia pesta, ma sarei fresca e riposata.”
“Vero” assentì, sedendosi al mio fianco e chiedendomi poi più seriamente: “A parte tutto, credi davvero che il rientro sarà così brutto? I suoi genitori, per caso, pensano tu sia troppo giovane?”
“No. I genitori di Duncan sono morti da tempo, ma … certi cugini, beh, hanno un caratteraccio, diciamo” scrollai le spalle, come per minimizzare.
Un tale caratteraccio che, se avessero potuto, mi avrebbero staccato la testa a morsi, forse.
Amanda mi diede una pacca consolatoria sulla spalla, asserendo comprensiva: “Ah, conosco il tipo. Mio cugino Andrea è un tale testone! Sapessi che casino ha fatto, la prima volta che mi sono presentata a casa con un ragazzo! Mio padre è stato carino ed educato, ma lui… bbrrr,… davvero da manicomio.”
Sorrisi, gradendo di buon grado le sue premure. “Grazie, Mandy. Mi rincuora saperlo.”
“Di nulla, Brie. E ora ficca di nuovo il tuo naso su Microbiologia, se non vuoi che Swanson ti bocci” mi intimò bonaria, alzandosi e prelevando da uno scaffale il suo libro di Anatomia.
La guardai per un momento mentre, con una gestualità da vera comica, si preparava a studiare per il suo esame poi, con un risolino, tornai a puntare lo sguardo sul mio libro.
Avrei pensato dopo a zanne e pelo di lupo.

***

Sdraiata sul mio letto, in compagnia del chiaro di luna e del silenzio totale dell’appartamento – Mandy era uscita con un paio di studenti per un giro in centro – sorrisi deliziata nel sussurrare: “Duncan, amo sentirti a tutte le ore del giorno, ma quanto stai spendendo, per chiamarmi?”
Lui rise, quella sua risata profonda e roca che mi faceva tornare in mente cose ben più sensuali di un uomo divertito e basta e, sorridendo ancora di più, chiesi: “Ti manco così tanto?”
“Non puoi neppure sapere quanto” ammise, prima di aggiungere: “E Gab è diventato più irascibile di un cobra. Neppure Jasmine si avvicina più al suo box. Gli manchi. Manchi a tutti, per la verità.”
“Ancora poco, e sarò lì”  ma nel dirlo, mi sfuggì un sospiro.
“Preoccupata per la Riunione?” mi chiese subito, perspicace.
Storsi il naso – ero trasparente anche al telefono? – e mugugnai, mettendo il broncio: “Si capisce tanto?”
“Per chi ti conosce, sì. Ma devi stare tranquilla. Non ti succederà nulla. Ci saremo io e Lance a difenderti, e anche Sarah e Branson saranno con noi” mi rassicurò, cercando di essere convincente.
Già, Freki e Geri sarebbero stati con noi.
La cosa non mi riempiva per niente di gioia, perché poteva solo far presupporre che, durante la Riunione tra clan, sarebbe potuto succedere qualcosa di brutto.
E, visto che la loro presenza era una consuetudine, già qualcosa di storto doveva essere successo anche in passato.
“Sai se Alec ha sostituito il suo Freki?” chiesi dubbiosa.
“Vedremo. Alec non è uno che pubblicizza molto i suoi affari. Ma avrà sicuramente qualcosa nel cilindro, da mostrarci” ammise cupamente, per niente tranquillo.
“Spero non vorrà recriminare per qualcosa.”
“Non può. Era tuo diritto uccidere Freki, visto che eri la sua preda. Anzi, in merito, è meglio stia zitto, visto che tu eri ancora umana, quando è successo. Non farebbe una bella figura” nel dirlo, ridacchiò.
Sogghignai a mia volta, dicendo: “Potrei ricordarglielo io, però.”
“Brie…” mi richiamò subito all’ordine.
“Pace, grande capo. Non scatenerò un’Ordalia. Per un po’, non ne voglio più sapere di battaglie a fil di zanna” lo chetai subito. “A proposito, hai avuto notizie da parte di Bright? Come si comporta Marjorie?”
Un sospiro esasperato. E un risolino. Oh. Cos’era successo di così divertente?
“Marjorie ha colpito ancora. I maschi del branco non fanno che starle addosso come mosche col miele. Ci sono già stati sei combattimenti, da quando è ad Aberdeen” nel dirlo, però, era allegro, segno che Bright non era arrabbiato.
“Beh, bella è bella, perciò capisco perché si accapiglino per lei” commentai, atona.
“Non dirmi che sei ancora gelosa di lei!” mi scoprì subito Duncan, ridendo di gusto.
Il mio tono falsamente disinteressato aveva fatto rizzare immediatamente i suoi radar così, con un sospiro leggero, mugugnai: “Ammettilo. E’ più bella di me, e tu ne sei stato innamorato, un tempo.”
Duncan lasciò che la sua risata scemasse dolcemente – e io scivolai ulteriormente lungo il letto, deliziata da quel suono paradisiaco – e replicò: “Avevo quindici anni, Brie, e la mia era una cotta da adolescente. E credimi, non sei meno bella di lei. Sei diversa.”
“Ho letto nella tua testa quel che provavi per lei. Non era una semplice cotta. Era amore. Certo, l’amore di un ragazzino per una coetanea, ma era amore” precisai.
“Brianna Ann Smithson, mettitelo bene in testa perché non te lo ripeterò più. Amo te, e te sola. Ucciderò il primo che anche solo oserà avvicinarsi a te per nuocerti, o anche solo per farti delle avances. Non ti lascerò a nessun altro, neanche dopo la morte”  dichiarò Duncan, con una serietà che mi spiazzò.
Neanche dopo la morte.
Quella frase rimbalzò nella mia mente come il suono di un gong e, turbata e curiosa assieme, mi chiesi il perché di quella reazione.
Cos’aveva, di strano, quella frase?
Preferendo, però, non arrovellarmi il cervello proprio mentre ero al telefono con Duncan, cercai di ironizzare e ghignai: “Il tuo spirito mi perseguiterà finché non tirerò le cuoia?”
Ma lui non rise, limitandosi a soggiungere: “Dico davvero.”
“Lo so” sussurrai, piegandomi su un fianco e sorridendo nell’oscurità argentata della stanza.
“Non voglio farti fretta in nessun modo, Brie. Sei ancora troppo giovane per certi impegni, e l’università ha la priorità, per ora. Ma volevo solo che lo sapessi” mormorò, tornando a un tono di voce più leggero.
“Non farò mai la stupida con te, Duncan. Sei il mio lupo, come io sono la tua lupa. E sono la tua donna, come tu sei il mio uomo” gli promisi, chiudendo gli occhi e sentendo una lacrima scivolare lungo la gota. “Ma stanno succedendo così tante cose, e tutte assieme, che quasi non ho il tempo di respirare. Scusami se ti chiedo tempo.”
“Non ti devi scusare. Ero d’accordo anch’io, quando ne abbiamo parlato” replicò.
Durante la mia ultima visita, nel periodo pasquale, l’argomento era saltato fuori grazie ai buoni uffici di Jerome.
Preciso come un orologio svizzero, se n’era uscito con una battuta proprio nel bel mezzo del pranzo di Pasquetta, gelando me e Duncan sulle rispettive sedie e facendo impallidire visibilmente Gordon, che era quasi morto sul colpo, nel sentir parlare di matrimonio.
Jerome ci aveva chiesto con una leggerezza degna di una piuma – e con la sua stessa intelligenza – quando avremmo convolato a nozze, visto che aveva una voglia matta di vedermi in abito da sposa.
Avevo dovuto sperticarmi in dinieghi per più di un’ora, per chetare Gordon, mentre Duncan aveva ripreso il cugino con un’unica, glaciale occhiata da Fenrir.
Mary B aveva riso tutto il tempo, mentre Erika era partita in quarta per chiedermi quali abiti preferissi, o che fiori avrei visto meglio in chiesa.
Lance, da paciere nato quale era sempre stato, aveva liquidato il tutto con un laconico: “Date tempo al tempo.”
Sarah e John, invece, avevano scosso il capo con esasperazione prima di dare uno scappellotto a testa al figlio che, alla fine, con un risolino di scuse, mi aveva dato un bacio sulla guancia chiedendomi di perdonarlo per la gaffe.
Quella gaffe, però, aveva spinto me e Duncan sul terreno inesplorato di quell’argomento proibito: il matrimonio.
Coabitavamo fin da quando ero stata nominata Prima Lupa – Mary B aveva acquistato la villetta di Marjorie per abitarvi con Gordon, dopo aver trovato un impiego nel locale nosocomio di Matlock – ma, da lì a rendere il tutto ufficiale, ce ne correva.
Naturalmente, erano più le notti che passavo accanto a lui, rispetto a quelle che dormivo nel mio lettuccio solitario, all’altro lato del corridoio.
Ma questo non significava che volessi andare così avanti nel nostro rapporto. E lui si era dichiarato d’accordo con me.
Era tutto troppo nuovo per entrambi e, anche se sapevamo per certo che non ci saremmo mai allontanati l’uno dall’altra – erano troppi i legami che ci univano – nessuno di noi voleva accelerare i tempi, preferendo godersi appieno quei momenti di scoperta e unione.
La lontananza, poi, non faceva che rendere ancora più belli i riavvicinamenti tra noi.
No, il matrimonio poteva benissimo aspettare dopo la laurea.
“Mi sembra sempre di frenarti” mi sentii comunque di dirgli.
“Affatto. Mi piace questo stato continuo di attesa, e rivederti dopo tanti mesi di separazione, è quasi appagante” nel dirlo, abbassò di un’ottava la voce, rendendola più roca e sensuale.
Sospirai, esalando con un gemito: “Non mi parlare così, Duncan, o potrei scivolare fuori dall’appartamento e correre fino a Matlock.”
Lui rise di gusto, con una punta di sano orgoglio maschile, asserendo: “Mancano solo tre settimane, e poi sarai qui tra le mie braccia. Ti sto preparando una sorpresa coi fiocchi.”
Sgranando gli occhi, esclamai: “Cosa? Cosa?!”
“Lo scoprirai quando tornerai a casa” mi promise, ridendo divertito.
“Antipatico” brontolai, prima di chiedere: “Senti un po’… Mary B ti sembra stia bene, ultimamente? L’ho sentita distratta, al telefono.”
Dubbioso, replicò pensoso: “Non saprei. A me sembra sempre la stessa. Ieri sera, era qui a cena con Gordon. Non mi è parsa stesse male. Forse, rideva più del solito. Dopotutto, sono passati diversi mesi dalla morte di Patrick, e può darsi stia passandole lo stato di sconforto.”
Non era stato semplice capire come aiutare Mary B, dopo la morte del marito, e la presenza di tutto il branco era stata, in qualche modo, d’aiuto.
Caso del tutto unico, per un branco di licantropi, era stato concesso a Mary B  e Gordon di partecipare a una riunione degli alfa al Vigrond.
Lì, alla presenza dei Gerarchi e mia, avevano garantito il riserbo assoluto sul nostro segreto e sulle nostre identità.
Non contenti, alcuni Mánagarmr si erano trasformati di fronte a loro per metterli alla prova ma, né Mary B, né tantomeno Gordon, avevano battuto ciglio.
Anzi, Mary B si era dimostrata molto interessata dall’aspetto prettamente tecnico del cambiamento da una specie all’altra.
Alla fine, gli stessi membri del clan che, all’inizio, avevano avuto qualche difficoltà a credere nella loro buona fede, si erano dimostrati ben lieti di rispondere alle domande di Mary B.
Alcuni uomini, invero, le avevano promesso che si sarebbero prestati volentieri al suo terzo grado, ma solo dopo una cena a lume di candela.
Gordon, a sua volta, era diventato la mascotte del branco e, tra le ragazze più giovani, era visto come un’autentica celebrità – forse perché era la prima volta che capitava loro di poter parlare, da licantrope, con un umano.
La cosa aveva, però, messo leggermente in allarme Erika, la quale sembrava realmente interessata a portare avanti la strana storia che aveva con mio fratello.
L’anno di età che li separava non la turbava minimamente, mentre Gordon era certamente soddisfatto di aver al suo fianco una ragazza più grande di lui.
Certo era che, il periodo che avevo passato via di casa, l’aveva fatto maturare parecchio.
Gordon era sempre stato più grande dei suoi anni, vuoi per ciò che era successo ai nostri genitori, vuoi per una sua predisposizione naturale a prendere più seriamente le cose rispetto ai suoi coetanei.
Ma il fatto rimaneva; era maturato davvero molto.
“Gordon come se la passa?” chiesi dopo un momento di riflessione.
Duncan ridacchiò divertito, mettendomi al corrente delle ultime novità. “L’ho beccato con Erika a sbaciucchiarsi, mentre cambiavano la paglia ai cavalli. Sono arrossiti come due peperoni maturi.”
“Doveva essere veramente distratta, la nostra cara Erika, per non sentirti arrivare” ridacchiai, immaginandomi la scena. “Gordon ti ha fatto una scenata, per la tua interruzione?”
“Probabilmente ci avrebbe anche provato, ma ha preferito defilare, dopo aver dato una ripulita alla stalla assieme a Erika” rise ancora, prima di aggiungere: “Tuo fratello mi piace. E mi piace come tratta Erika. E’ dolce.”
Sorrisi, annuendo: “Sì, Gordon assomiglia molto a papà. Era sempre prodigo di attenzioni, con mamma, e non faceva che ricoprirla di regali.”
“Ho saputo che le ragazzine vanno da Claire quasi tutti i giorni, per farsi dare una sistemata ai capelli, e solo per vedere Gordon mentre tiene pulito il negozio. Claire, naturalmente, è contentissima. Sta facendo affari d’oro.”
Sogghignai, commentando ironica: “Gordon ha un futuro come sciupa femmine.”
“Credo anch’io. Non ho mai dovuto tenere a freno così tante ragazzine come in questo periodo” mi spiegò, con un risolino in sottofondo. “Vengono tutte da me per sapere dove sia, cosa faccia, con chi sia in compagnia. Mi sento come una casa di appuntamenti vivente.”
Scoppiai a ridere di gusto, a quel commento. “Secondo me, è il caso che Erika chiarisca a tutte cosa intende fare con Gordon, prima che si scatenino delle guerre intestine per lui.”
“Mi viene il sospetto che lo cerchino perché è una mosca bianca” dichiarò Duncan, pensieroso.
“Probabile. Sai cosa vuol dire, per un’adolescente irrequieta, e che non ha molta voglia di raccontare le proprie beghe ai genitori, parlare con gli amici dei propri dilemmi esistenziali? E da quel che ho capito, almeno a Matlock, la maggioranza dei licantropi tra i tredici e i diciotto anni, sono femmine. Pensa che strazio! Con Gordon, invece, possono parlare di tutto, anche se è umano, perché lui sa la verità, e ha già dimostrato ampiamente di tenere al benessere del branco” gli spiegai, ripensando a ciò che era successo poche settimane prima, nella scuola dove era iscritto.
“Oh, capisco a cosa ti riferisci. Gordon ha guadagnato parecchi punti, prendendosi quel pugno per difendere l’onore di Charlise” assentì Duncan. “Ovviamente, lei avrebbe potuto difendersi senza problemi da quell’idiota, ma sarebbe parso troppo strano che, una ragazza esile come Charlise, potesse tener testa a un giovane grosso il doppio di lei.”
Annuii convinta. “Gordon l’ha fatta sembrare una sciocchezza, ma immagino che sia stato un po’ peggio di come me l’ha raccontato.”
Ridacchiando, Duncan ammise: “Charlise si è presentata qui con Gordon, in sella al suo scooter, e mi ha pregato di rattopparlo prima di riaccompagnarlo a casa. Aveva le lacrime agli occhi e non faceva che guardarlo con occhi adoranti. Ci sa fare, il fratellino.”
“Basta che non si inimichi i pochi ragazzi del branco” replicai, un po’ preoccupata.
“Ah, beh, diciamo che vedrò di starci un po’ attento. Per lo meno, si è preso il plauso del fratello maggiore di Charlise. Justin gli ha già detto che, per qualsiasi cosa, può contare su di lui. Mi sembra una buona cosa” mi comunicò Duncan.
“Dovrò fare due chiacchiere con Gordon per capire che gli passa per la testa. D’accordo fare il cavaliere senza macchia, ma forse dovrebbe mettere in chiaro anche lui cosa pensa dell’attuale situazione con Erika. Tenere il piede in troppe scarpe è rischioso quando, dall’altra parte, i tuoi potenziali nemici hanno zanne e artigli” mugugnai, preoccupandomi un poco.
“Devono solo provarci, a toccarlo” decretò Duncan con una nota gelida nella voce.
Da quando il Consiglio era stato abolito, e tutto il potere era passato nelle sue mani – per me capacissime – , i suoi impegni erano, se possibile, raddoppiati.
Naturalmente, Duncan aveva cominciato a delegare alcune faccende minori a Jerome, il che lo aveva riempito di gioia per i primi due mesi, per poi catapultarlo nella crisi più nera quando si era reso finalmente conto di cosa volesse dire essere il secondo in comando.
Era più che ovvio che, in questa fase di transizione, Duncan volesse dimostrarsi forte a tutti i costi, e il fatto di essere lontana da lui per gran parte del tempo, non lo aiutava di certo.
Per fortuna, la Riunione tra clan era stata rimandata per permettermi di essere presente, senza rischiare di perdere lezioni importanti all’università.
Non ero certa però che, in seguito, si sarebbero dimostrati altrettanto solidali.
Dovevo ancora dimostrare di non essere pericolosa per tutti loro. Il troppo potere, a volte, fa nascere gelosie assurde, ed era quello che temevo per me e il branco.
“Siamo sicuri che non avranno da ridire sul mio duplice ruolo?” gli domandai, cambiando radicalmente argomento.
Un momento di silenzio, poi Duncan mormorò: “Ne parleremo a tempo debito, okay? Ora pensa a riposarti e a passare l’esame.”
“Quando mi nascondi le cose, mi verrebbe voglia di strangolarti. E’ un vero peccato che tu sia così distante, o mi rivarrei su di te in ogni modo, pur di sapere la verità” ammisi, brontolando.
Lui rise per un momento, prima di chiedermi gentilmente: “Puoi lasciare che mi occupi della cosa senza farti stare in ansia per un nonnulla?”
“Sei Fenrir, Duncan, e io non metterò mai in discussione questo fatto, ma io sono la tua Prima Lupa, e gradirei essere messa a conoscenza delle tue manovre, se è possibile” precisai, pur cercando di non apparire lamentosa.
“Quando saprò qualcosa di preciso te ne parlerò, va bene?”
“Accordato. E …” feci per altro, ma mi bloccai immediatamente quando udii un rumore insolito. “… aspetta un momento, Duncan.”
“Che succede?” mi chiese, adombrandosi subito.
“Devo chiudere. Ti richiamo più tardi” sussurrai, chiudendo lo sportellino del cellulare mentre lui mi chiedeva notizie.
Avevo bisogno di essere concentrata su ciò che stava succedendo, perciò potevo concedermi un pizzico di maleducazione.
Spensi preventivamente il cellulare, prima di scendere silenziosamente da letto e tendere ogni fibra del mio corpo, in attesa di eventuali problemi.
Le narici si dilatarono per raccogliere il maggior numero di odori – lucido da scarpe, cera per i mobili, una mela ormai da buttare, il dentifricio aperto, sudore – e, assottigliando le iridi dorate, lasciai che gli artigli mi spuntassero delicatamente, pronta eventualmente a un primo colpo di avvertimento.
Nelle mutazioni mediane stavo diventando bravissima, a detta di Duncan.
Un secondo rumore mi portò ad avvicinarmi alla finestra del corridoio.
In un fragore di vetri rotti e legno scheggiato, strillai per la sorpresa, balzando all’indietro di almeno tre metri, mentre una figura incappucciata e vestita di nero penetrava nell’appartamento con un balzo degno solo di un licantropo.
Il suo odore pungente mi penetrò le nari con una folata di olezzo rancido – da quanto non si faceva un bagno?! – e, piegandomi istintivamente in posizione di attacco, ringhiai: “Cosa vuoi da me?!”
Lui – quelle spalle erano decisamente maschili – non parlò, limitandosi a estrarre una pistola.
Già temendone il suo contenuto, mi volsi lesta per raggiungere la porta mentre, con il mio potere di wicca, erigevo una barriera a mia difesa.
La sua sola presenza, oltre a quella della mia bestia, mi permise di attingere a sufficiente energia per parare il primo colpo – che riverberò con il suo sinistro grido di morte tra le pareti dell’appartamento – e, con gesti frenetici, aprii la  porta d’ingresso per sgattaiolare fuori prima che facesse fuoco di nuovo.
Nel condominio dove mi trovavo, cominciarono a sentirsi voci sorprese, unite ad altre, cariche di paura. Non badai a loro, limitandomi a correre come una pazza giù dalle scale – tenendo sotto controllo il mio misterioso aggressore con l’udito e la percezione della sua aura.
Di colpo, una porta al piano inferiore si aprì di getto e uno studente del terzo anno di ingegneria mi guardò terrorizzato, urlando: “Entra, dai!”
Non mi feci pregare e, mentre un secondo proiettile mi sfiorava la coda di cavallo, chiusi la porta alle mie spalle e gracchiai con voce roca, il fiato spezzato dalla corsa: “La polizia, presto!”
La compagna di appartamento – nonché fidanzata – di Elliott, il ragazzo che mi aveva urlato di entrare, era già al telefono con il dipartimento quando, a spaventarci tutti, fu un terzo colpo di pistola, che fece esplodere la serratura della porta d’entrata con un fragore di metallo e legno.
Terrorizzati, ci dirigemmo in tutta fretta nella panic room , presente in alcuni degli appartamenti del condominio.
Un eccentrico quanto avveduto padrone di casa, aveva fatto costruire in alcuni locali dello stabile quelle magnifiche gabbie di ferro e cemento che, per la prima volta, non mi parvero solo inutili.
Tra me, lodai le paranoie del vecchio pieno di soldi che aveva messo in affitto quel palazzo, e mi infilai dentro assieme ad Elliott e Brittany.
Spingendo con forza sulla paratia liscia e fredda di metallo perché si chiudesse alla svelta, sentii con sollievo il clack della serratura a pistoni, nostra estrema difesa contro quel folle.
Elliott e Brittany, fissandomi con occhi stralunati, mi chiesero quasi assieme: “Che diavolo succede?!”
“Quel pazzo ha sfondato la finestra del corridoio per entrare, poi mi ha puntato la pistola addosso” riuscii a dire, scivolando lungo la parete fino a sedermi a terra, le mani e le gambe tremanti come gelatina.
Brittany si venne a sedere al mio fianco, circondandomi le spalle con un braccio e, sorridendomi pur essendo a sua volta spaventata, mormorò: “Vedrai che, a minuti, la polizia sarà qui. Si sbarazzeranno loro di quel delinquente.”
Annuii, guardando alternativamente quei due umani che, con sprezzo del pericolo, mi avevano aiutata nel momento del bisogno.
Chissà se lo avrebbero fatto ugualmente, avendo conosciuto la verità?
Provai un desiderio tremendo di piangere e, per evitarlo, strinsi la mano di Brittany per poi esalare: “Grazie, grazie davvero. Avete rischiato molto, per me.”
Elliott si inginocchiò accanto a me, sorridendomi, e replicò: “Ehi, chi è che ci da sempre lo zucchero, quando ci manca?”
“O le fettuccine?” rincarò la dose Brittany.
Ridacchiai, sciogliendomi un poco ma, quando sentii dei colpi violenti contro la porta blindata, strillai non meno di loro, terrorizzata e confusa.
Turbata, fissai il pesante battente di metallo, sperando che il mio ignoto assalitore non volesse dare bella mostra di sé, sfondandolo a suon di pugni.
Allargai la mia aura per tentare di percepire la sua mente, e perciò leggere le sue azioni, ma lui paralizzò ogni mia mossa, gridando da oltre la porta: “L’hai scampata, stavolta, puttana, ma non ti andrà sempre bene! Alla prossima!”
Okay, ora sapevo che ce l’aveva proprio con me.
Elliott mi guardò turbato, chiedendomi confuso: “L’hai riconosciuto, per caso?”
“No” scossi il capo. Ed era vero.
Non ero neppure riuscita a entrare nella sua testa, tanto le barriere che mi ero trovata davanti erano forti.
E, con il mio potere indebolito dalla presenza massiccia di ferro e cemento attorno a me, non avevo potuto far altro che ritirarmi senza tentare nessun assalto.
Sarei solo riuscita a farmi venire un collasso, provandoci.
Dovemmo attendere dieci minuti, prima di sentire dei passi concitati sulle scale, il rumore disturbato delle ricetrasmittenti e l’odore morbido dell’olio lubrificante per le pistole.
Bussarono alla porta, presentandosi come gli agenti Sparks e Colbie e noi, dopo un attimo di esitazione, aprimmo lentamente, trovandoci a fronteggiare due enormi omoni dalle spalle taurine e lo sguardo docile.
Erano entrambi umani, ma a me sembrarono forti e coraggiosi come un intero branco di licantropi.
Con un sorriso sollevato, dissi loro: “Non avete la più pallida idea di quanto siamo felici di vedervi.”
E io non ho la più pallida idea di quel che racconterò a Duncan, per salvarmi la pelle dalla sua tremenda vendetta, pensai poi tra me, rabbrividendo.



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N.d.A.: Eccoci di nuovo nel mondo di Brie e Duncan e le cose, a quanto pare, cominciano fin da subito a farsi complesse. Spero di vedervi numerosi e mi auguro che vogliate lasciare un commento. Grazie in anticipo! :)

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Capitolo 2
*** Cap.2 ***


2.

 
 
 
 
 
 
Ci permisero di prepararci una camomilla, prima di passare alle deposizioni.
Alcuni agenti salirono al piano superiore per controllare il mio appartamento, mentre Sparks e Colbie rimasero con noi per chiederci se avessimo dei sospetti, o cosa ricordassimo dell’accaduto.
Io sapevo solo che, nel più breve tempo possibile, avrei dovuto recuperare un telefono per chiamare Duncan, o avrebbe sguinzagliato tutti i licantropi di Londra per venire a controllare se stessi bene, o meno.
Spiegai ai poliziotti che, il tizio che ci aveva sparato addosso, era entrato dalla finestra del terzo piano, dove si trovava il mio appartamento.
Naturalmente, omisi la sua seconda identità; non era proprio il caso di accennarlo.
Dissi soltanto che, senza dare alcuna spiegazione, aveva minacciato di uccidermi.
Mi chiesero se conoscessi qualcuno che potesse avercela con me, ex fidanzati pericolosi, vecchi amici vendicativi, ma io scossi il capo ogni volta.
Sapevo per certo che, se Marjorie ce l’avesse avuta ancora con me, non avrebbe assoldato un sicario per ammazzarmi, ma si sarebbe sporcata da sola le mani.
Era stronza, ma non vigliacca.
Le stesse domande vennero rivolte anche a Elliott e Brittany, così da non lasciare vacante nessuna pista ma, alla fine, le uniche prove in loro possesso furono i bossoli della pistola, la porta dell’appartamento distrutta e la finestra in briciole.
Di impronte neanche l’ombra, come di peli o cellule epiteliali che potessero portare all’identità dell’assalitore.
L’unica cosa che sapevo, ovviamente, non potevo dirla.
Sparks mi assicurò che avrebbe lasciato uno dei suoi a controllare lo stabile, e io ringraziai tutti prima di dirigermi mesta al piano superiore, trovando i segni inequivocabili del passaggio della scientifica, oltre a quelli più discreti di chi mi aveva assalita.
La sua scia odorosa ancora si sentiva – non che fosse piacevole, visto che puzzava di fogna – e la traccia residua del suo potere latente permeava ogni particella fibrosa del muro, dove si era appoggiato nel risalire fino al terzo piano.
Le tracce erano evidenti ai miei occhi come cupe macchie dorate in decomposizione.
Con un sospiro, lasciai perdere la visione della parete esterna del palazzo dove alloggiavo e, con passo strascicato, tornai in camera per recuperare il mio cellulare, riaccendendolo.
Sei messaggi. Otto chiamate.
Ahia.
Prevedevo guai serissimi.
Aprii lo sportello per digitare il numero di Duncan ma lui mi precedette, chiamandomi per la nona volta e trovandomi finalmente all’altro capo del telefono.
Presi la chiamata e dissi subito: “Sto bene. Perciò, se hai sparpagliato il branco di Joshua in giro per Londra, richiamalo subito, perché non c’è bisogno che vengano qua a decine per vedere cose che non li riguardano.”
Un grugnito, e lui replicò: “Stai tranquilla, non l’avevo ancora chiamato. Ma l’avrei fatto nei prossimi venti minuti, se non mi avessi risposto. Allora?”
Sospirando, mi sedetti sul letto lanciando uno sguardo disgustato oltre la porta – dove potevo vedere i vetri a terra e il telaio divelto della finestra – prima di spiegargli: “Hanno cercato di ammazzarmi. Un licantropo, con una pistola caricata ad argento.”
Uno, due, tre secondi, poi Duncan imprecò vistosamente, ringhiando: “Cosa hanno osato fare?!”
“Quel che ti ho detto. Devo ringraziare quel folle del proprietario dello stabile, se sono ancora tutta intera. Mi sono rifugiata in una delle panic room che ci sono nel palazzo, così io e un paio di amici ci siamo salvati le penne. Ma quel tizio ha promesso di cercarmi per uccidermi.”
“Hai riconosciuto la scia?” mi chiese, la voce ridotta a un sussurro rabbioso e sfrigolante.
“No. E non ha lasciato tracce, né per me, né per la polizia. Era preparato, il bastardo” sbuffai, cominciando a provare una certa rabbia. Non ci si comportava così, con una Prima Lupa.
C’erano delle gerarchie da rispettare! Persino io che ero una neofita in materia, lo sapevo!
“Domani sarò lì da te”  disse perentorio.
“Come? No, non se ne parla. Posso cavarmela benissimo e…”
Non riuscii a terminare la frase. Aveva già messo giù.
Provai a richiamarlo, ma invano.
Ben ti sta. Così impari a chiudergli il telefono in faccia, pensai scocciata.
Mi lasciai crollare sul letto, gli occhi chiusi ermeticamente e le mani premute su di essi.
Mi sforzai di capire chi potesse aver mandato quel licantropo, o chi potesse avercela personalmente con me per commettere un atto simile.
Naturalmente, nulla venne in mio soccorso e, quando sentii il sospiro sconvolto di Mandy al suo rientro e il suo strillo spaventato, lasciai perdere le mie divagazioni mentali per sostenere lei.
Confusa da quello scenario apocalittico, aveva un pallore spettrale a dipingerle il viso, e la paura a trasudare dai suoi pori.
La abbracciai, spiegandole sommariamente ciò che era successo e lei, piangendo per me e per quello che avrebbe potuto succedermi, mi strinse con foga, promettendomi: “Non uscirò mai più, se tu sarai a casa da sola. Verrai sempre con me, d’ora in avanti, oppure faremo venire qui qualcuno dei nostri amici. E' chiaro?”
“Tranquilla. Duncan sarà qui domani. E non credo mi mollerà prima della fine degli esami” le spiegai, non sapendo se esserne contenta o meno.
Volevo vederlo, ma non per quel motivo. Doveva fidarsi di me.
“Ah, bene. Avere un uomo per casa mi aiuterà a star tranquilla” assentì rassicurata, lasciandosi andare a un ultimo brivido prima di guardare la finestra distrutta e i segni del passaggio della scientifica. “Possiamo ripulire? Detesto la confusione.”
Risi, e annuii. “Sì, hanno raccolto tutto quello che potevano.”
Ed era ben poco.
Con paletta, scopa e guanti rinforzati, togliemmo tutto ciò che fu in nostro potere togliere – la paura non avremmo potuto cancellarla neppure con litri di candeggina – e, dopo aver sigillato il vetro con un telo di plastica e tanto scotch, decidemmo di comune accordo di dormire nello stesso letto, per quella notte.
Spingendo a forza di braccia, posizionammo dinanzi alla porta la cassettiera e, di fronte alla finestra, il mobile degli abiti.
Sapevo che un licantropo sarebbe passato ugualmente, ma vedere quelle due potenziali vie d’accesso sbarrate, mi aiutò a prendere sonno.

***

 
La mattina seguente, risvegliata dal cinguettio degli uccelli che, grazie alle mie orecchie sensibili, riuscivo ad avvertire nonostante le imposte chiuse e sigillate da un armadio, mi sollevai da letto in silenzio, lasciando che Mandy continuasse a riposare.
Piano, spostai la cassettiera per uscire dalla stanza e raggiungere il bagno.
Rabbrividii leggermente, quando i primi raggi del sole mattutino ferirono i miei occhi.
Osservando ancora preoccupata la striscia di plastica trasparente che fungeva da finestra – laddove un tempo vi era stata quella originale – , mi chiesi se il mio potenziale assassino fosse ancora là fuori, in cerca di un’altra occasione propizia per aggredirmi.
“Idiota… pensaci ancora un po’ e lo vedrai anche nella tua ombra” mi derisi, andandomene in bagno a passo di carica.
Mi lavai viso e denti, e spazzolai i capelli quasi senza smettere di pensare alle parole raggelanti di quel tizio.
Quando, finalmente, misi piede in cucina, il mio umore era più nero del caffè che stavo per preparare.
Il mio cellulare colse quel momento spiacevole per squillare all’improvviso e, lanciato uno strillo ben poco onorevole, imprecai tra me per i miei nervi ultra-tesi e lo aprii, grugnendo: “Pronto?”
“Sono fuori dall’edificio. Puoi dire al poliziotto di guardia che sono a posto?” mi chiese, suadente, la voce di Duncan.
Cristo, già qui?, pensai sgomenta, non sapendo se trovare la cosa comica o piacevole.
“Passamelo” mugugnai ombrosa.
Un fruscio e sentii dire al poliziotto: “Buongiorno, signorina Smithson. Quest’uomo dice di essere il suo fidanzato. E’ vero?”
“Sì, lo faccia pure passare. E’ a posto” asserii, chiudendo la comunicazione.
Uno, due, tre, quattro… al quinto secondo, sentii un toc toc alla porta e l’onda del suo potere dilagare come una coperta morbida e calda, fino a raggiungermi.
Sorridendo nel riconoscerlo, corsi ad aprire e, a dispetto di tutte le mie migliori intenzioni, mi gettai tra le sue braccia protese e piansi come una vite tagliata, finché gli occhi non ebbero più lacrime per sostenere il mio scoppio di paura incontrollata.
In tutto quel tempo, Duncan mi tenne stretta a sé, le braccia simili a magli d’acciaio pronti solo a proteggermi.
Il suo potere mi tenne avvinta a sé finché non fu certo che fossi tranquilla e, quando la mia crisi fu terminata, entrammo in appartamento chiudendoci la porta alle spalle.
Nell’accompagnarlo in cucina, sorrisi imbarazzata e mormorai: “Alla faccia di quella che voleva sembrare indipendente e forte.”
Mi sorrise bonario, replicando: “Non hai motivo di fare né l’una, né l’altra cosa. Sono il tuo compagno ed è giusto che, se c’è bisogno, io ti protegga.”
“Ma so proteggermi da sola” protestai debolmente, pur sapendo che le prove mi smentivano alla grande.
Senza quella panic room, probabilmente, in quel momento mi sarei trovata su un tavolo dell’obitorio, con un avvelenamento da argento come causa di morte.
Lui si limitò a carezzarmi il viso, la mano grande e forte che indugiò a sfiorarmi i capelli lungi e morbidamente rilasciati sulle spalle. “Ti sono cresciuti ancora… sono così belli.”
Sorrisi deliziata – aveva sempre ammirato la mia ordinaria chioma castano dorata, anche se io non ci avevo mai trovato nulla di speciale – e mormorai: “Continua così ancora un po’.”
Duncan ridacchiò, chiedendomi curioso: “Hai bisogno di essere rassicurata sul tuo aspetto? Strano, per una che ha sempre detto di essere sorda ai complimenti degli uomini.”
“Oggi va così. Sopportami” scrollai le spalle, mettendo il broncio.
“Come vuoi” ammiccò, piegandosi in avanti per mordicchiarmi il labbro sporgente e imbronciato.
Apprezzai.
“I tuoi occhi mi ricordano l’oro più puro e la tua pelle, così soffice e vellutata, rivaleggia con la seta più pregiata” mi sussurrò all’orecchio, mordicchiandomi in prossimità dell’attaccatura dei capelli.
Mugolai come un gattino. “Continua…”
Lui rise roco, annuendo, e mormorò con tono profondo: “Quando corri con me nel bosco, il mondo si annulla, tu diventi il Tutto. Niente ha più importanza, solo tu.”
“Ti manco?” sussurrai, lasciandolo vagare sul mio corpo con le mani, il potere e lo sguardo.
“Più di quanto le parole potranno mai affermare, più di quanto i miei baci potranno dimostrarti” asserì in un sussurro, la voce non più controllata ma preda di un desiderio sempre crescente, che sentivo strisciarmi addosso come una pelliccia soffice.
Si sedette e mi attirò sulle sue gambe, cominciando a baciarmi con maggiore serietà il collo.
In quella posizione più che privilegiata, avvertii tutto il suo desiderio e la voglia che aveva di farmi sua, lì, in quel posto, a costo di farci beccare in flagranza di reato da Mandy.
Mi strinsi a lui, inarcando all’indietro il collo per facilitargli il compito e, sospirando, sussurrai a fatica: “Mandy è di là che dorme, quindi attento a quel che fai.”
Rise contro la mia pelle rovente di baci e, con un unico, fluido movimento, mi sollevò la maglietta che indossavo a mo’ di pigiama e mi baciò i seni, uno dopo l’altro, scatenando in me una fame divorante.
Fatto ciò, riabbassò l’indumento, si impossessò delle mie labbra, affondando in me con una sete e una disperazione quasi tangibili con mano e, dopo essersi – e avermi – saziato, si scostò con il viso un po’ accaldato e gli occhi che scivolavano dal verde all’oro.
Roco, mi promise: “Mi tratterrò, giusto per non spaventarla.”
Annuii, non proprio sicura di poter abbandonare le sue gambe senza crollare a terra priva di forze e, sorridendo un po’ scioccamente, celiai: “Certo che, come risveglio, questo è di gran lunga il migliore degli ultimi mesi.”
Storcendo appena la bocca, lui replicò torvo: “Spero ardentemente che non ci sia nessuno che ti sveglia a questo modo.”
Risi, baciandolo sul naso prima di sollevarmi in piedi – sì, il mio equilibrio era buono – e irriderlo bonariamente. “Tranquillo, solo tu hai questo piacere.”
“Ottimo” assentì, prima di sospingermi verso una sedia e aggiungere: “Resta lì. Preparerò io la colazione.”
“Abbondante. Mandy è una mangiona” lo avvertii, sorridendo nel vederlo muoversi per la piccola cucina.
“E sia. Preparerò una tonnellata di pancake, so che li adori. Piacciono anche a lei, se non erro” mormorò, trovando al primo colpo gli ingredienti. Beato olfatto di lupo!
“Abbonda, perché siamo due divoratrici sfegatate di pancake. Là dentro c’è anche lo sciroppo d’acero. E quello all’amarena. Mandy li preferisce con quello” lo instradai a dovere, indicando a più riprese i vari stipetti della credenza.
Duncan era davvero troppo grande per quella cucina formato Hobbit, ma era piacevole averlo vicino, e vedere con quanta premura si stesse prendendo cura di me.
Al diavolo le mie idee sull’indipendenza! Volevo Duncan qui con me, punto e basta!
Lo osservai avida mentre, con la competenza di un uomo abituato da anni a lavorare in cucina, preparava la colazione per me e Mandy.
Sorridendo, mi volsi non appena sentii i passi strascicati della mia amica, mentre si avventurava lungo il corridoio per raggiungere il bagno.
A mezza voce, giusto per non farla impaurire, la avvertii della presenza di Duncan in casa. “Ehi, Mandy, Mac è arrivato, perciò non arrivare in mutande, se non vuoi morire d’imbarazzo!”
I suoi passi si bloccarono per un momento, prima che uno sbadiglio si facesse largo nel bel mezzo del silenzioso appartamento, assieme a un borbottio di assenso.
“Ciao, Mac Duncan!” biascicò, allegra.
Un secondo dopo, la porta del bagno si aprì e si richiuse, e l’acqua della doccia venne aperta.
Duncan sogghignò, dicendomi: “Non mi sembra che Amanda si scomponga tanto.”
“Dopo ieri sera, le fa solo piacere saperti qui in casa” annuii, scrollando le spalle.
“E a te, fa piacere?” mi domandò per contro, facendo saltare con abilità i pancake sulla padella.
Ero felice? Sì, no. Non lo sapevo.
Sospirando, appoggiai il mento sul palmo della mano e, dopo un momento di riflessione, ammisi: “Naturalmente, sono felicissima di vederti e di saperti qui ma, al tempo stesso, sono irritata dal fatto di non poter gestire da sola la situazione. Non so se mi sono spiegata.”
Annuendo pensieroso, Duncan dedicò il proprio sguardo alla padella, mentre mi esponeva i suoi pensieri con fare tranquillo. “So che sei una ragazza indipendente, e non voglio intromettermi più del necessario, ma la cosa è grave. Non intendo lasciare che alla mia Prima Lupa, e wicca, succeda qualcosa. Spero comprenderai il mio punto di vista.”
“Lo comprendo, naturalmente, e credimi, se le parti fossero invertite, mollerei l’università per tornare a Matlock e proteggerti, anche se so che hai già Lance a guardarti le spalle” ammiccai complice. “E’ solo che mi è ancora difficile abituarmi a…”
“… a ragionare come una coppia, e non più come un singolo individuo?” terminò per me Duncan, sorridendo comprensivo.
Annuii, grata che avesse compreso, e gli sorrisi a mia volta. “Non fraintendermi, sono più che felice di far coppia con te. E penso che la cosa sia più che ovvia.”
“Lo è” ammiccò.
“Bene. Però, per me è ancora tutto nuovo. Con Leon non era così” mugugnai a mezza voce.
Duncan aggrottò la fronte per un momento, prima di rilassare i tratti del volto.
Incuriosita da quel momentaneo cambio d'umore, gli chiesi: “Non sarai mica geloso di Leon, spero? Sai che non provavo, per lui, le stesse cose che provo per te.”
“Lascia stare, Brie, non far caso a me” brontolò, abbozzando un sorriso fasullo.
Basita, sollevai le sopracciglia con aria meravigliata ed esalai sorpresa: “Ma dai? Non vorrai farmi credere che Mister-Fisico-da-Paura, e Fenrir di Matlock, ha timore di un ragazzo di vent’anni che non ha neppure un decimo del suo fascino?”
“Mister… Fisico-da-Paura?” ripeté confuso Duncan.
Ridacchiando, gli spiegai: “E’ così che ti ha chiamato una volta Gordon, e penso ti si addica.”
“Questa poi…” esalò, prima di riprendere il discorso e dire: “… ammetterai, però, che anche Leon è un bel ragazzo.”
“Dovrò evitare che tu guardi troppo spesso nella mia testa, se certi miei ricordi ti fanno venire tanti e tali dubbi” brontolai, indicando poi con un cenno del capo la porta della cucina.
Mandy aveva finito di fare la doccia e, entro pochi minuti, sarebbe giunta lì assieme a noi, per fare colazione.
Era decisamente meglio cambiare argomento.
Duncan annuì e aggiunse mentalmente: “La sostanza non cambia. Leon è molto affascinante, ed è molto più …”
Bloccandolo sul nascere, lo fissai malissimo e replicai per contro: “Non mi propinare di nuovo la storia dell’età, sennò ti faccio a fettine sottili e ti uso da salume affumicato per il toast. Sei tu l’uomo che voglio, e non me ne frega niente se hai ventinove anni. Non sei Matusalemme, quindi non ti preoccupare.”
“Se lo dici tu… ma sai che puoi essere Prima Lupa anche senza essere la mia compagna, vero?”
Sbuffai tra me e me, e gli ringhiai nella testa: “Sì, lo so, me l’avrai ripetuto fino allo sfinimento ma, a meno che tu non ti sia stancato di me, io sono ancora stra-convinta di aver fatto la scelta giusta.”
“Anch’io. Quindi, non mi devo preoccupare che tu scappi con qualcuno più giovane di me?” Lo disse ironicamente, ma sentii ugualmente una punta di panico in quel commento.
Sempre più sorpresa, replicai: “Perché hai così tanta paura, Duncan? Da dove ti vengono questi dubbi?”
“Samantha ha lasciato Fred” mi buttò lì su due piedi, facendomi spalancare la bocca per la sorpresa.
Samantha era una delle Mánagarmr più giovani del branco, assieme a Erika e poche altre e, un paio di anni addietro, si era fidanzata con il ben più vecchio Fred McAvoy, un licantropo di trentaquattro anni originario di Leek.
La cosa aveva sorpreso un po’ tutti – lui insegnante nella scuola di Samantha, lei sua allieva – ma, essendo loro entrambi licantropi, nessuno aveva mosso troppe obiezioni al riguardo, Duncan compreso.
Il tutto era andato avanti più o meno bene per un po’ ma, da quel che mi aveva appena detto Duncan, dovetti supporre che qualcosa, tra loro, si fosse spezzato. Timorosa, domandai: “Cos’è successo?”
“Samantha si è innamorata di un licantropo di Cambridge, dov’è andata a studiare.”
“Ah… ecco da dove salta fuori tutta questa paura.”
“Devi scusarmi, Brie, ma la lontananza non mi rende solo più piacevole rivederti.”
“Lo so. Ti rende anche più insicuro. Ma posso dirti che è lo stesso per me, anche se non so se questo possa esserti d’aiuto” gli sussurrai, sfiorandolo con il mio potere per rassicurarlo.
Lui mi sorrise e ammise: “Non ricordavo che amare facesse stare così male.”
“Io lo scopro adesso, perciò la botta è peggiore.”
“Forse” ammiccò, prima di aprirsi in un sorriso e dire: “Ciao, Amanda. Ben svegliata.”
I capelli ricci e umidi, trattenuti da una salvietta, e il corpo perfetto ricoperto da una bella tuta dell’Adidas color blu e nero, Amanda sorrise ed esordì con il suo solito saluto al mio ragazzo. “Ciao, Mac Duncan. Brie. Preparato la colazione? Sei un tesoro di uomo.”
“Grazie” sorrise Duncan, servendoci al tavolo.
Amanda si accomodò al mio fianco, mugolando soddisfatta: “Lamentati di un uomo simile, e giuro che ti prenderò a bastonate in testa!”
“Non mi permetterei mai” ridacchiai, affondando la forchetta nel mio pancake. “Hai capito, Duncan? Non mi permetterei mai di farti soffrire, quindi cancella quel che è successo a Sam e Fred, perché a noi due non succederà.”
“Come ordina la mia Prima Lupa” rise nella mia testa, riempiendo di caffè le nostre due tazze spaiate prima di servirsene una dose generosa.
Tra una boccata e l’altra di pancake, e un sorso di caffè, guardai Duncan e gli chiesi: “Ora che sei qui, cos’hai intenzione di fare? Pedinarci per tutto il tempo?”
Mandy ghignò, e celiò divertita: “Ci pensi, presentarci all’università con lui come guardia del corpo? Sbaveranno tutte d’invidia!”
Storcendo la bocca, scossi la testa, sbuffando: “Cosa da evitare, questo è sicuro.”
Duncan mi sorrise sornione, e si limitò a dire: “Vi seguirò a distanza.”
“Con la Volvo? Ti sarà difficile, col traffico che c’è in città” replicai, scettica.
Lui ammiccò, sempre più divertito. “Ma non sono venuto con la Volvo.”
Rizzando le orecchie, poggiai in fretta la forchetta sul piatto e, fissandolo curiosa, chiesi: “E con cosa sei venuto?”
“In moto” disse vago, sorprendendomi oltremodo.
E da quando in qua, Duncan aveva una moto? Di certo, in garage non gliel’avevo mai vista! Che novità era questa?!
Levandomi in piedi, andai di corsa alla piccola finestra della cucina e guardai dabbasso, sulla strada di fronte allo stabile.
Lì, sorpresa delle sorprese, vidi uno spettacolare esemplare di Ducati Multistrada 1200 rosso fuoco, parcheggiato proprio a lato dell’entrata.
Un lento sorriso mi si dipinse sul volto e Duncan, scoppiando a ridere, celiò: “Devo dedurre che ti piace?”
Annuii a più riprese, incapace di distogliere lo sguardo da quell’esemplare lodevole a due ruote e Duncan, sfiorandomi con il suo potere, mi fece capire che la mia gioia rallegrava anche lui.

***

Se già la scoperta della splendida Ducati Multistrada di Duncan mi aveva stupita, dovetti concedermi un nuovo tuffo al cuore quando vidi, allacciato accanto al sedile del passeggero, un bel casco integrale della Marushin a fantasie arabescate grigie e nere.
Lo fissai confusa, chiedendomi quando avesse escogitato quella sorpresa e, voltandomi a fissarlo con enormi occhioni sconcertati, esalai: “Ma… come… non sapevo che…”
Lui sorrise, annullando di fatto tutto ciò che mi circondava e rendendomi tremendamente consapevole della mia fame.
Con voce resa roca da un desiderio che non sembrava essere inferiore al mio, mormorò: “Ho pensato che ti sarebbe piaciuto andare in moto, per il tuo ritorno a casa, così ho deciso di sfruttare la mia patente per le due ruote, visto che era lì a vegetare da anni senza alcuno scopo.”
Mi aprii in un sorriso estasiato e, lanciandomi addosso a lui per stringerlo in un abbraccio soporifero, esclamai eccitata: “Oddio, tu non hai idea di quanto la cosa mi ecciti! Grazie, grazie, grazie!”
Duncan rise, replicando: “Sai, penso di avere una vaga idea di quanto la cosa ti stuzzichi.”
Risi con lui – stavo immaginando scorribande per le strade e corse folli in campagna – e mugugnai: “Beh, ammettilo, piacerebbero anche a te.”
“Non lo nego, ma vedrò di non farci sbattere in galera, se posso evitarlo” ammiccò, prima di veder uscire Mandy dal palazzo. “Forse è il caso che andiate a scuola, voi due. Io vi verrò dietro e vi aspetterò fuori.”
Mandy diede un’occhiata fuggevole alla moto, annuendo sentitamente, e disse: “Ottima scelta; la Ducati è la Ducati. Da brava emiliana, approvo alla grande.”
Duncan la ringraziò con un sorriso prima di chiederle: “Se non erro, tu abiti vicino a Borgo Panigale, no?”
“A una ventina di chilometri, sì” annuì Mandy. “La prossima volta che torno a casa, ti porterò un gadget originale dalla fabbrica.”
“Grazie” mormorò Duncan, ammiccando. “Coraggio, andate. Io mi apposterò fuori dall’università.”
Il poliziotto che controllava lo stabile aggrottò leggermente la fronte, a quelle parole, e lo ammonì immediatamente. “Spero non avrà intenzione di ostacolare la giustizia, signore.”
Duncan si esibì in un sorriso innocente e, sollevate le mani con fare tranquillo, asserì pacifico: “Oh, no, lungi da me. Mi limiterò ad aspettare la mia fidanzata e la sua amica, tutto qui. E poi, so che l’agente Perkins è già sul posto, per cui sono più che tranquillo.”
Sia io, che il poliziotto, che Mandy, lo fissammo sorpresi e l’agente, sollevando un sopracciglio con interesse, domandò curioso: “Conosce l’agente Perkins?”
“Sì, da molto tempo” annuì Duncan, dicendo poi solo per me. “Naturalmente, è uno di noi.”
“Non avevo dubbi, o non saresti stato così tranquillo, limitandoti ad aspettarci fuori dall’università” replicai, cercando di non fare smorfie di nessun genere al suo indirizzo.
“La priorità è la tua sicurezza, Brie, ficcatelo bene in testa. Non mi interessa se pensi che esagero, o che sono prevaricante nei tuoi confronti. Potremo discuterne ampiamente a casa, e anche scannarci, se vuoi, ma ora fammi contento. Qui, non posso proteggerti come vorrei, e devo innanzitutto affidarmi a Joshua, quindi non fare il bastian contrario.”
“E va bene, non ti annoierò con le mie recriminazioni da femminista convinta… per ora.”
“Grazie.”
Dovevo ammetterlo. Le sue attenzioni, in una certa qual maniera, mi facevano piacere.
Sentirmi pedinata e, peggio ancora, controllata a vista come poteva fare solo un licantropo, era qualcosa che, però, sconfinava, e di molto, nell’area che io chiamo privacy violata.
Spiegarlo a Duncan era impossibile, visto che si era elevato a mio paladino personale.
Sebbene sapessi che era del tutto ovvio questo suo interessamento nei miei confronti – diamine, lo avrei fatto anch’io, se le parti fossero state invertite – mi sentivo leggermente soffocare.
Non ero abituata a simili sollecitudini e, anche se sapevo che il motivo era più che fondato – una pistola ad argento era un ottimo motivo per preoccuparsi – il mio Io più ribelle fremeva, e la mia bestia reclamava spazi che, lì e in quel momento, non potevo concederle.
Un vero strazio, insomma.
Dopo avergli dato un bacio leggero sulle labbra, presi per mano Mandy e corremmo alla fermata dell’autobus, mentre Duncan inforcava la sua moto per seguirci.
Dovevo convincermi che quell’eccessiva dimostrazione di forza maschile - quanto lupesca - fosse una buona cosa, eppure ero più che convinta che non sarebbe servita assolutamente a niente, soprattutto non sarebbe servita a scoprire chi voleva farmi fuori.
Ombrosa, osservai le auto che ingombravano la strada mentre raggiungevamo l’università, rumorose e fumose come ciminiere.
Era uno strazio, tapparmi mentalmente in naso per non sentirle.
Quando finalmente giungemmo alla nostra fermata, l’agente Stephen Perkins, un armadio a due ante alto un metro e novanta e dalla pelle scura come l’ebano, si presentò a noi due povere studentesse spaventate – ma dove? – assicurandoci che ci avrebbe tenute d’occhio durante la nostra permanenza all’università.
E, ne ero più che sicura, avrebbe detto in tempo reale a Duncan tutto ciò che succedeva all’interno del plesso scolastico.
Lanciai un’occhiata esasperata a Duncan che, comodamente, si sedette su una panchina armato di giornale mentre Stephen ci seguiva all’interno, la sua aura in allerta non meno dei suoi sensi e lo sguardo di uno che, per nulla al mondo, si sarebbe fatto fare fesso da chicchessia.
“Posso contare sulla tua discrezione, almeno quando andremo al bagno?”
“Ma certo” assentì ironicamente, lanciandomi un fuggevole sguardo divertito.
Ammiccai nell’entrare assieme a Mandy e, prima di dedicarmi all’esame, gli dissi: “Ringrazia il tuo Fenrir da parte mia. Si sta prendendo anche troppo disturbo.”
“Lo farei in ogni caso, visto che sono un poliziotto. Comunque riferirò, wicca.”
Sapevo che la mia duplice condizione di wicca e Prima Lupa metteva in seria difficoltà chi già conosceva il mio segreto, poiché nessuno sapeva con esattezza come chiamarmi.
Io avevo specificato più di una volta che, in un modo o nell’altro, a me sarebbe comunque andata bene.
Avevo tenuto a precisare anche che, in nessun caso, mi sarei sentita offesa per la mancanza di questo, o quel titolo onorifico.
Come se la cosa mi desse qualche pensiero.
Sapevo che i licantropi tenevano molto alla tradizione, ma io ero talmente nuova a quel genere di mentalità, che la cosa non poteva farmi né caldo, né freddo.
Sapevo anche, però, quanto vi tenesse Duncan, per cui avevo dovuto per forza esprimermi in tal senso, anche se ero convintissima che la cosa avrebbe creato discussioni, all’interno dei clan.
Tutto questo mio rimuginare su titoli altisonanti e arrabbiature lupesche, però, non aveva nulla a che fare con quello che mi accingevo ad affrontare in quell’aula universitaria.
Per niente.
Quando mi sedetti al mio posto, perciò, chiusi le porte sull’argomento licantropi e mi concentrai su quello che dovevo portare a termine, e cioè quel benedetto esame di Microbiologia.
Non dovevo farmi distrarre da zanne, pallottole d’argento e riunioni tra branchi. Avrei pensato alla mia parte ferina più tardi. Molto più tardi.

***

Sbuffai esausta, quando uscii dall’aula e mi ritrovai nel corridoio assieme a Mandy, che appariva crucciata non meno di me.
In lontananza, avvertii l’aura guardinga di Stephen che, saggiamente, aveva mantenuto le proprie emissioni di energia al minimo per tutta la durata dell’esame, al solo scopo di non distrarmi.
Immaginavo quanto la cosa gli fosse costata – tenere l’aura sotto controllo, significava anche non poter sondare su largo raggio il perimetro dell’università – per cui, quando incrociai il suo sguardo, dissi mentalmente: “Grazie per la discrezione.”
“Immaginavo avresti voluto avere la mente sgombra, wicca.”
“Hai immaginato bene. Tutto okay, qui?”
“Tutto regolare. Anche perché, non credo che il tuo attentatore sarebbe così folle da presentarsi con due licantropi e un Geri che bazzicano intorno all’università.”
Cercai di non apparire basita per non impensierire Mandy ma, mentalmente, esalai: “Geri? Joshua ha scomodato il suo Geri?”
“Nessuno di noi desidera che succeda qualcosa alla wicca e Prima Lupa di Duncan. L’alleanza che abbiamo con il vostro clan è molto importante per tutti noi. E, oltretutto, l’idea stessa di perdere una wicca ci riempirebbe di orrore, credimi. Anche senza l’alleanza di mezzo.”
Sorrisi appena e, a voce alta, asserii: “Spero non si sia annoiato troppo, agente Perkins.”
“Nessun problema” replicò tranquillo, accennando un sorriso in risposta. Perfettamente professionale. “Dove vi posso scortare?”
“Alla fermata dell’autobus. Per oggi, basta massacri” sospirai, buttandomi sulla spalla la sacca coi libri.
Mandy mi prese sottobraccio e, rivolgendosi al poliziotto, disse: “Domani ci sarà il secondo round. Entro la fine del mese ce ne spettano altri sei, di esami, tra tutte e due.”
“Avete una bella gatta da pelare, allora” commentò il poliziotto, sollevando ironicamente un sopracciglio.
“Diciamo di sì” annuimmo all’unisono, facendolo sorridere maggiormente.
All’esterno, il sole era velato da radi cirri che solcavano il cielo azzurro sporco di Londra, mentre l’odore di gas combusti, asfalto surriscaldato e spezie orientali si confondevano tra loro creando un miasma insopportabile che mi diede il voltastomaco.
Non avevo ancora imparato ad annullare quelle sensazioni dal mio cervello, come solevano fare gli altri licantropi – si impiegavano anni, per eliminare definitivamente il problema – e, non appena quella cacofonia di odori investì il mio naso sensibile, rabbrividii leggermente prima di impormi l’autocontrollo necessario.
Duncan, seduto su una panchina, era intento a chiacchierare con una donna alta e dalle spalle toniche, da atleta, che non riconobbi per nulla.
Stephen, annuendo impercettibilmente, mi fece comprendere che quella ragazza sui trent’anni, dai biondi capelli lisci e tagliati alla paggetto, altri non era che la loro Geri.
Quando ci vide, si alzò in piedi risultando essere poco più alta di me e, sorridendomi, allungò una mano non appena fummo abbastanza vicini a loro, presentandosi allegramente. “Tu devi essere Brianna, tanto piacere. Io sono Gwendoline, un’amica di Duncan. Ma tu puoi chiamarmi Gwen.”
Strinsi quella mano inaspettatamente elegante e dalle unghie ben curate, replicando con un sorriso: “Ciao. Il piacere è mio, Gwen. E chiamami pure Brie” poi, scostandomi, aggiunsi: “Lei è la mia amica Amanda.”
Mandy si fece avanti e disse: “Mandy, per gli amici. Non sapevo che Duncan avesse tante conoscenze, qui a Londra.”
“Gwen è la sorella di un mio ex compagno di corso all’università” mentì su due piedi Duncan, sorridendo tranquillo.
“Quando ci ha chiamati per dirci che sarebbe stato in città, ne ho approfittato subito per invitarlo a pranzo da noi” aggiunse Gwen, ammiccando nella mia direzione. “Naturalmente, sei invitata anche tu, Mandy, se vuoi venire.”
“Ah, mi spiace, ma ho un impegno con un ragazzo, e non vorrei lasciarmi sfuggire l’occasione… se mi capisci” ridacchiò imbarazzata Mandy, scrollando indolente le spalle.
Sollevando un sopracciglio con ironia, Gwen annuì maliziosa: “Oh, capisco eccome. Sei più che scusata. Anzi, divertiti.”
Mandy fissò un momento Stephen ed esalò con un mugugno: “Lei mi deve seguire, vero?”
Il suo tono fu così disperato che Stephen non poté esimersi dal sorridere e, benevolo, le promise: “Sarò così discreto che non si accorgerà neppure di me.”
“E va bene” sospirò con esagerata angoscia Mandy, prima di darmi un bacio e mormorare: “Divertiti, cara, noi ci rivediamo stasera.”
“Okay. Poi mi racconterai tutto di Brandon” ammiccai, dandole un buffetto sulla guancia.
“Ovvio!” annuì, allontanandosi dopo aver lanciato un’occhiata esasperata all’indirizzo di Stephen.
Non appena furono abbastanza lontani, Gwen commentò: “Povero Stephen. Come poliziotto, è costretto a tampinarla, pur sapendo che non è lei la diretta interessata in questo caso.”
Duncan mi strinse una mano, chiedendomi: “Tutto bene, l’esame?”
“Te lo saprò dire tra qualche giorno” poi, guardando Gwen, osservai curiosa: “So dove porti le pistole, ma mi chiedo… come diavolo fai ad averle nascoste così bene?”
Gwen ridacchiò divertita. “Quando sei una donna, hai molte più possibilità di portarti dietro orpelli inutili, per cui è più facile ingegnarsi in tal senso.”
Le sorrisi – il suo modo di fare mi piaceva davvero – e le chiesi: “Che genere di pistole usi? Per averle nascoste così bene, non devono essere molto grosse.”
Gwen ammiccò e mi spiegò: “So che Branson ama girare con quelle sottospecie di cannoni che lui osa definire pistole - le 357 Magnum sono dei carri armati, poco ma sicuro - ma io sono molto più discreta. Ho una Derringer nel retro coscia e una Beretta Tomcat 3032 nella borsetta” poi, sorridendo divertita, si avvicinò, mostrandomi i bei bracciali che indossava. “Questi, però, sono il pezzo forte.”
Ne sfilò uno, una lamina argentea e bulinata a fantasie di fiori che, sotto il tocco esperto delle sue dita, si distese fino a diventare un pugnale dalla punta acuminata e letale.
Lo squadrai allibita, sentendole dire: “Me lo sono fatto preparare appositamente. E’ fatto come i bracciali che vanno tanto di moda adesso, ma il mio nasconde un segreto molto pericoloso.”
“Decisamente” annuii, deglutendo a fatica. “Sono tutti così, i tuoi bracciali?”
“Sì. È un’alternativa valida alle fondine da pugnale che, per esempio, usa di solito Branson” ridacchiò Gwen, sistemandosi nuovamente al polso l’arma letale che, magicamente, si ripiegò su se stessa tornando a essere un innocuo bracciale.
“Denoto una certa acredine, quando ne parli. Avete litigato, per caso?” ridacchiai, pensando al nostro Geri e ai suoi modi più che eleganti.
“Non esattamente” tergiversò, ammiccando in direzione di Duncan.
Sorridendo, lui mi spiegò meglio. “Branson ha certe … idee sulle Geri donne.”
“Oh. Un misogino?” esalai, sorpresa. “Non l’avrei mai detto.”
Gwen rise e chiosò ironica: “Non arriva al punto di insultarmi ma, secondo lui, Joshua ha commesso un errore dandomi il titolo di Geri. Naturalmente, io l’ho dissuaso dal pensarlo ancora ma, evidentemente, l’ultima batosta non è servita a fargli cambiare idea.”
“Oh, e perché?” chiesi, sempre più interessata.
Gwen poggiò le mani sui fianchi stretti e disse, orgogliosa: “Branson sarà anche bravo nel karate, ma con il kenpo l’ho steso, rompendogli il setto nasale.”
Sbattei le palpebre, sorpresa e sgomenta al tempo stesso.
Guardando Duncan, che stava ridendo abbastanza civilmente, esalai: “E tu e Joshua glielo lasciate fare?”
“Sono innocui” replicò Duncan, strizzando l’occhio a Gwen, che sorrise sorniona. “In realtà, si vogliono un gran bene, anche se non hanno esattamente le stesse idee su tutto.”
Sollevai le mani in segno di resa, troppo stanca per cercare di capire.
“Okay, non spiegatemi più niente. Andiamo a mangiare, o mi metterò ad azzannare il primo umano che passa per strada.”
Duncan mi prese sottobraccio e, incamminandosi al fianco di Gwen, chiosò: “Non sia mai che ti accontenti di misera carne umana di seconda scelta, mia Prima Lupa.”
“Ecco, bravo, pensa al mio stomaco raffinato” commentai sogghignando.
Gwen rise divertita e, per il mio sommo piacere, mi confidò: “Ci aspetta un ottimo ristorantino, a meno di un miglio da qui. Vedrai che mangerai benissimo, wicca.”
“Non scherzavo, prima, Gwen,... chiamami Brie. E’ più semplice” la pregai, sorridendole gentilmente.
Lei parve vagamente scettica, come se rinunciare a quel titolo, per lei, fosse quasi un’assurdità.
Sospirando, allora, le spiegai: “Considera che sono wicca da un anno, e Prima Lupa da meno ancora. Non sono abituata a certi titoli altisonanti, e non mi riterrò per nulla offesa se tu mi chiamerai solo per nome. Chiunque avesse da ridire, ne risponderà a me, Gwen, non temere.”
“E’ solo che mi sembra così strano” tentennò, guardando un momento il mio compagno in cerca di aiuto.
Duncan mi sorrise benevolo, asserendo: “Devi sapere, Brie, che il titolo di Prima Lupa è molto onorato all’interno del branco, ed essere Prima Lupa è considerato un privilegio enorme. L’essere wicca, poi, è ancora peggio, da quel punto di vista. Siete così rare che, quando una di voi giunge in un branco, viene portata in palmo di mano.”
“Questo lo so, ma dovete darmi un po’ di tempo per abituarmi. Non sono stata educata a essere trattata come una regina, per cui concedetemi un po’ per non sentirmi un’idiota, tutte le volte che mi vedo fare l’inchino” li pregai, cercando di sorridere.
In realtà, quella faccenda degli inchini, e degli sfregamenti contro la mano, mi mettevano parecchio più a disagio di quanto non fossi disposta ad ammettere.
La prima volta che, dopo il mio scontro con Marjorie, ero tornata al Vigrond per la presentazione ufficiale dinanzi a tutto il branco, ero quasi svenuta per l’imbarazzo quando tutti si erano inchinati di fronte a me.
Come tanti gattoni, si erano avvicinati per strusciarsi contro il mio corpo, come a voler essere marchiati dal mio potere e dal mio odore.
Naturalmente, ero rimasta stoicamente ferma sul posto e mi ero lasciata sfiorare dalle loro energie, lasciando che la mia penetrasse come acqua corrente nei loro corpi febbricitanti di eccitazione.
Dentro di me, però, mi ero sentita invadere da un’ansia tale che, alla fine della cerimonia, ero stata tentata di scoppiare a piangere.
Duncan aveva dovuto cullarmi tutta la notte tra le braccia per calmare i miei tremori e, alla fine, ero crollata in un sonno privo di sogni, risvegliandomi il giorno dopo nell’incavo sicuro del suo braccio, con il cervello spaccato in due da un mal di testa biblico.
Quella mattina, Duncan aveva continuato per ore a scusarsi con me, asserendo di non avermi di certo facilitato la vita, facendomi diventare sua Prima Lupa.
Per tutto il tempo, giusto per essere ligia al mio ruolo di bastian contrario, avevo continuato a mandarlo al diavolo per le idiozie che stava dicendo.
Ma, a onor del vero, quel giorno mi ero sentita davvero tradita da lui, pur sapendo che Duncan non era stato responsabile di nulla.
Ero stata io ad aver accettato quel ruolo, io ad aver voluto stare al suo fianco.
Non era stato giusto incolparlo, visto che quelle erano le tradizioni dei clan, eppure lo avevo fatto, sentendomi male al solo pensiero.
Avevo impiegato giorni per riprendermi e, alla fine, avevo pianto, stretta nel suo abbraccio, chiedendogli scusa per essermi comportata da egoista.
Guardandolo, apparentemente tranquillo nonostante la situazione abbastanza spinosa, mi chiesi se si sentisse ancora in colpa per ciò che stavo passando, da quando ero diventata la sua compagna.
Quando avevo accettato, non avevo minimamente tenuto conto di cosa avrebbe potuto significare, per me, diventare la Signora del branco.
Per loro, ero la guida spirituale, la matriarca di qualche migliaio di licantropi, che guardavano a me come un faro nell’oscurità, al pari di come vedevano Duncan nel suo ruolo di Fenrir.
L’amore per lui mi aveva fatta muovere d’istinto senza badare a tutto il resto e, per quanto non fossi pentita delle mie scelte, il peso del titolo di Prima Lupa era decisamente più gravoso, rispetto a quello di wicca.
Mi strinsi un momento a lui, sussurrando: “Nel bene e nel male, siamo assieme.”
Lui mi fissò sorpreso, aggrottando leggermente la fronte, prima di chiedermi: “Che ti prende?”
“Nulla. Sono solo stanca e vedo tutto nero” mugugnai, chiudendo gli occhi e lasciandomi guidare dall’olfatto e dall’udito, oltre che dal corpo di Duncan, stretto accanto a me.
Duncan allora mi avvolse le spalle, protettivo, e disse: “Siamo una coppia giovane, Brie, ma non pensare di essere l’unica ad aver patito simili crisi d’identità. Parlane con Estelle, e vedrai.”
“La disturberò in merito, se pensi che possa servire” assentii, sospirando.
“Credimi, può capirti meglio di altri” annuì, sicuro.
Gwen, con il suo tono di voce allegro e bonario, intervenne a sua volta. “Scommetto che ti senti schiacciare dal tuo doppio ruolo. E chi non si sentirebbe così, wicca?…cioè, Brie?”
Sorrisi per quella fulminea correzione, e la ascoltai proseguire nel suo monologo. “Io ci rimasi malissimo, quando seppi di non avere il gene giusto per diventare un licantropo. Mi sentii inadatta a essere parte integrante del branco, anche se tutti mi dissero il contrario. Quando Joshua mi diede il ruolo di Geri, impazzii di gioia ma lui mi disse che, con o senza quel titolo, sarei comunque rimasta un membro effettivo del clan, e come tale dovevo vedermi, peli o non peli addosso.”
“Pensavi che il tuo non essere licantropo fosse un peso per il branco?” le chiesi, riaprendo gli occhi per guardarla.
“Sì. Mi sembrava di non poter dare nulla quando loro, invece, mi davano tutto. Joshua mi fece capire che il solo fatto di esistere era di per sé un miracolo, e perciò andava benedetto, non maledetto” mi spiegò, sorridendo orgogliosa. “Ogni vita è importante, indipendentemente dal titolo che grava sulle nostre spalle. Questo mi ha insegnato Joshua. Al cospetto della Madre, siamo tutti uguali. L’importante è che la nostra vita sia vissuta appieno, al meglio delle nostre forze.”
“Per cui, non dovrei cavillare troppo su ciò che mi è capitato tra capo e collo” commentai comicamente.
Lei assentì, sorridente. “Un titolo non fa la persona. Ma è la persona che dà lustro al titolo. Visto come sei diventata Prima Lupa e, soprattutto, quanto è grande e puro il tuo potere di wicca, non hai nulla da dimostrare a nessuno. Le tue azioni parlano per te. Sii orgogliosa di te stessa, perché ne hai motivo.”
Mi aprii in un sorriso grato, dicendole: “Grazie per le tue parole, Gwen. Le terrò in debito conto.”
“Ne sono onorata, wicca” replicò, con un cortese cenno del capo.
Per la prima volta da quando ero diventata wicca, quell’inchino formale non mi diede noia.
Duncan, sorridendo orgoglioso, mi baciò i capelli senza dire nulla, limitandosi a godere di quel piccolo passo in avanti verso la nostra completa serenità.
Certo, ero più che sicura che non tutti si sarebbero dimostrati disponibili e comprensivi come Gwen, ma avere un amico in più nella lista non avrebbe fatto male.


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Capitolo 3
*** Cap.3 ***


 

3.

 
 
 
 
 
 
 


 

Camminammo per un bel po’, svoltando così tante volte che, alla fine, difficilmente avrei saputo dire in che parte di Londra mi trovavo.
Il traffico era caotico come sempre, i rumori infinitamente più fastidiosi dell’odore pungente dei combustibili bruciati, o dell’olezzo proveniente dalle fogne.
Ancora un po’, e avrei cominciato a urlare così forte da distruggere i timpani delle povere vittime sacrificali che mi stavano accanto, vale a dire Duncan e Gwen.
Quando, però, raggiungemmo un bellissimo locale nei pressi di Fitzrovia, dimenticai il mio malumore e lasciai che lo sguardo vagasse nel meraviglioso ristorante in cui stavamo entrando.
Crazy Bear.
Non avevo idea del perché del nome, visto che non mi sembrava vi fossero degli orsi impazziti in giro per il locale, tutt’altro.
L’ambiente era più che elegante, di quella sobria raffinatezza che mette a disagio al primo sguardo.
Le pannellature ai muri, di un lucido legno scuro, forse mogano o palissandro, erano decorate con intarsi dorati.
Ampi vetri riflettevano la luce calda e soffice delleapplique a muro, sostenute da massicce colonne rivestite da lustri pannelli lignei.
Accostati alle vetrate d’ingresso, così come addossati alle lucide pannellature, bei divanetti di velluto scuro si intervallavano a piccoli tavolini rotondi, su cui splendevano soffuse abat-jour a forma di calla capovolta.
Deglutii a fatica, sentendomi un’anatra in uno stagno di splendidi cigni – jeans e maglietta dei Red Socs non erano il massimo, per un posto del genere.
Volgendo uno sguardo disperato in direzione di Duncan, sussurrai: “Ma sei sicuro che non ci cacceranno fuori a pedate?”
Lui si limitò a sorridere divertito e Gwen, ammiccando al mio indirizzo, mi informò a bassa voce: “Stai tranquilla. Siamo amici dei proprietari. Non avranno nulla da ridire sul nostro abbigliamento.”
Sperai non stesse raccontando una fandonia solo per farmi stare calma e, dopo aver dato un’ultima occhiata all’ingresso del locale, mi accodai a loro cercando di diventare trasparente.
Un cameriere dalla livrea scura e il passo tranquillo ci diede il benvenuto, scortandoci a un tavolo prenotato per quattro persone.
Curiosa, mi accomodai al tavolo, nascondendo la sacca sotto i piedi, e chiesi a bassa voce: “Chi aspettiamo?”
“Il mio Fenrir, wic… Brianna” mi spiegò Gwen, ammiccando per quell’ennesimo quasi errore.
Sapevo che stava facendo una fatica tremenda per accontentarmi, perciò sorrisi e asserii: “Gwen, chiamami pure come vuoi. Risponderò in ogni caso.”
“Grazie. Mi sembra quasi di mancarti di rispetto, cancellando a piè pari i tuoi titoli, anche se hai chiarito benissimo che non è così” ridacchiò, prima di alzare lo sguardo e mormorare: “Eccolo.”
L’aura di Joshua Ridley, Fenrir di Londra e capo di uno dei più numerosi branchi di tutta la Gran Bretagna, era completamente azzerata, chiaro indice del fatto che giungeva a noi in pace.
Volgendomi a mezzo per osservarlo, sgranai leggermente gli occhi nel ritrovarmi di fronte a un albino.
I suoi occhi innaturalmente rossi mi diedero un brivido involontario e i suoi chiarissimi capelli, di recente tinti di biondo – a giudicare dal lieve sentore di ammoniaca che avvertivo nell’aria – sembravano quasi fuori posto, sulla sue pelle pallida e diafana.
Ovviamente, come tutti i Fenrir di mia conoscenza, era alto e robusto come una montagna, ma quel pallore lo rese in qualche modo più… delicato, ai miei occhi.
Cosa davvero assurda da pensare, ma mi venne spontaneo.
Lui sorrise come se avesse avvertito i miei pensieri, oppure fosse abituato a cogliere di sorpresa la gente al primo incontro.
Chinandosi verso di me per darmi un bacio di saluto – naturalmente, non dietro l’orecchio, o avremmo attirato l’attenzione delle poche persone umane presenti – mormorò sommessamente: “E’ un vero piacere conoscerti, Prima Lupa di Matlock e wicca del clan dei tre shires.”
Poiché il nostro clan copriva, per l’appunto, tre contee, il titolo era venuto spontaneo a più di un Fenrir e così, per non fare confusione o ripetizioni inutili, mi chiamavano in quel modo pomposo e altisonante.
Non che mi piacesse particolarmente, ma se stava bene a loro, chi ero io per lamentarmi?
Ricambiai il bacio leggero sulle sue guance ben rasate, e profumate con un dopobarba al sandalo.
Sorridendo lievemente nel vederlo accomodarsi al fianco di Gwen, asserii: “Davvero un’accoglienza degna di un re. Ti ringrazio, Joshua. Non meritavo tanto.”
Lui sorrise generosamente a Duncan prima di tornare a guardarmi, e replicò: “Per te, questo e altro, mia cara. Hai reso felice Duncan come non lo vedevo da… beh, come non l’avevo mai visto, a dir la verità, e hai portato tra noi la ventata del tuo potere inebriante. Credimi, stenderei un tappeto rosso per tutta Londra, se me lo chiedessi.”
Arrossendo leggermente – già in precedenza avevo notato la sua voce musicale quanto ipnotica –, ribattei: “Non ti preoccupare, va già benissimo così. Niente tappeti rossi.”
Ridendo sommessamente e con tono roco – Dio, che splendida risata! –, ammiccò a Duncan e asserì: “La tua compagna è davvero modesta come mi dicevi.”
“Ed è preda del tuo fascino come ogni licantropa del globo, a quanto pare” mormorò per contro lui, sorridendomi benevolo.
Che voleva dire? E perché sorrideva, invece di essere incavolato?
Tossicchiando imbarazzata per essere stata scoperta con così tanta facilità – dovevo davvero prendere dei provvedimenti, per la mia faccia trasparente – borbottai nervosamente: “Beh, ecco,… a dir la verità, io…”
Sorridendomi comprensivo, Duncan disse a mo’ di spiegazione: “Non ti devi preoccupare, Brie. E’ il potere di Joshua. La sua Voce è un po’ particolare.”
“In che senso?” esalai, voltandomi di colpo per fissarlo basita.
Quei suoi strani occhi rossi mi fissarono bonari prima che la sua voce, ora del tutto normale, e non più sensuale e morbida, dicesse: “E’ la Voce di Fenrir, quella che hai sentito prima. La mia, funziona così.”
“Eh? Oddio, davvero!?” esclamai, coprendomi la bocca per la sorpresa.
Abituata com’ero a quella di Duncan che, invece, esprimeva una forza e una violenza tali da stendere per la paura, quella di Joshua, letteralmente, mi aveva mandata in confusione totale.
Ridacchiando, Duncan mi spiegò: “E’ un dono rarissimo. Si sa di Voci del genere in non più di quindici, venti casi al massimo, nel corso della nostra storia. In pratica, la Voce di Joshua ammalia e stordisce, non intima e imprigiona.”
“Beh, l’effetto è uguale. Istupidisce forte” commentai, ora vagamente infastidita all’idea di essere stata usata come un giocattolo.
Joshua si passò una mano tra i corti capelli tagliati a spazzola e, arrossendo leggermente – difficile non accorgersene, vista la pelle così chiara – mormorò imbarazzato: “Non volevo certo offenderti, usando la Voce, ma ammetto di essere stato intrigato dal tuo potere e volevo vedere se… beh…”
“Se aveva effetti su di me?” terminai per lui, sollevando ironica un sopracciglio. “Ebbene sì, da quando sono licantropa, la Voce ha potere anche su di me. Il mio lupo non approva, ma è così.”
Lui rise, forse rincuorato dal mio sorrisino, forse dalle onde tranquille del mio potere, fatto sta che il rossore scomparve e, al suo posto, una maschera ombreggiata di tensione venne a sostituirlo.
Sapevo perché era in ansia. Ciò che mi era successo era grave, e probabilmente non aveva buone notizie da darci.
Il cameriere comparve, lasciatoci il menù e, preso nota della nostra ordinazione per le bevande, svanì con un fruscio di cotone inamidato e suole di cuoio nuove di zecca.
Dopo averlo seguito con lo sguardo per un paio di secondi, tornai con gli occhi sul viso di Joshua che, quasi scusandosi, disse: “Non sono riuscito a seguirlo, e neppure Freki lo ha trovato. Quel maledetto si è infilato nei condotti delle fogne, facendo perdere la sua traccia olfattiva.”
Ripensando all’odoraccio che avevo percepito quando era piombato in appartamento, storsi il naso e borbottai: “Ha fatto così anche all’andata. Di sicuro, è furbo. Non è un lupo alle prime armi.”
Annuendo, Joshua guardò con fervore Duncan e aggiunse: “Rimarremo comunque nei pressi dell’appartamento, finché non tornerete a Matlock. Ciò che è successo è molto più che increscioso, e non lasceremo che quel disgraziato si riavvicini alla tua compagna.”
“Ti ringrazio, Joshua. Non sai quanto saperti al mio fianco mi sia di conforto” dichiarò Duncan, apprezzando sinceramente il suo aiuto.
A giudicare dallo sguardo che si lanciarono, c’era altro, oltre al piacere di avere un compagno al fianco in questa strana situazione.
C’era la piacevole sensazione di avere le spalle coperte da un amico sincero, un amico stimato e amato profondamente.
Chissà come era cresciuta la loro amicizia? Chissà cosa li aveva legati tanto?
Non sapevo molto delle amicizie di Duncan, a parte quelle appartenenti al branco e questo, in un certo qual modo, mi spiacque.
Erano successe così tante cose che, a parte i fatti salienti della sua e della mia vita, non sapevamo altro, di noi.
In qualche modo avremmo dovuto recuperare ma, di certo, non in quel ristorante. Avrei dovuto ritagliarmi del tempo, per parlare con lui di tutto ciò che era rimasto in sospeso. Ce lo dovevamo.

***

Naturalmente, il cibo si dimostrò stupendo e, per le mie papille gustative superdotate, fu un autentico invito a nozze.
Gustai i piatti prelibati di carne, godendo di ogni salsa e di ogni spezia che il mio palato riuscì a registrare, annaffiando il tutto con – ahimè, soltanto – acqua Perrier e scorza di limone.
L’argomento aggressione venne ben presto soppiantato da altri, molto più leggeri e divertenti.
Quando Joshua venne a sapere della mia famiglia umana, e del fatto che loro fossero a conoscenza del nostro segreto, si dimostrò entusiasta e desideroso di conoscerli di persona.
Risi, di fronte alla sua strana frenesia, e Joshua sogghignò, spiegandomi i motivi di tanta allegria.
“Sai, è così strano che un umano sappia di noi e, soprattutto, che ci accetti che, ogni volta, questo evento va celebrato in modo degno. Inoltre, sapere che la tua matrigna è anche un medico, mi incuriosisce parecchio. Sarebbe divertente sottoporle il nostro sangue da esaminare, per sapere cosa ne direbbe in proposito.”
“Beh, lei è chirurgo, quindi il sangue non è la sua specialità. Ma, forse, ti tagliuzzerebbe volentieri per vedere di persona il processo di guarigione accelerato” ammiccai, divertita.
“Ah, no, grazie… non amo certi tipi di… intrattenimenti. Ma accetterebbe di uscire a cena con me?” mi chiese, facendomi scoppiare a ridere.
A tutti gli effetti, Mary B era ancora nel fiore degli anni, una splendida trentottenne dalla chioma castano rossiccia e gli occhi grigio-verdi più belli che avessi mai visto.
Certo, dalla morte del marito in quello spaventoso incendio, che aveva messo la parola fine sulla nostra vita a Glasgow, un po’ dello splendore dei suoi occhi e della sua vitalità si erano spenti.
Contavo comunque che, con il tempo, questo particolare si sarebbe aggiustato.
A fare star male Mary B, più della perdita in se stessa, era stato l’aver scoperto i sordidi e macabri misteri che avevano circondato il marito, fino alla tragica scoperta della verità.
Mary B, in più di un’occasione, mi aveva confessato che, se anche solo avesse immaginato la verità su Patrick , non si sarebbe mai potuta innamorare di lui, non di un assassino a sangue freddo.
Quello, più di tutto il resto, le impediva di recuperare la gioia perduta; il fatto di essersi fidata di un uomo che, in realtà, non era mai stato onesto con lei.
Né le mie parole, né quelle di Duncan o dei membri del branco, sembravano aver sortito alcun effetto benefico su Mary B. Speravo soltanto che il tempo avrebbe aggiustato tutto.
“Glielo chiederò quando la vedrò, Joshua. In effetti, le farebbe bene uscire” ammiccai.
Chissà. Forse un appuntamento al buio era la soluzione migliore.

***

Sdraiata nel mio lettuccio accanto a Duncan che, letteralmente, mi circondava con tutto il suo corpo, sospirai e ammisi: “Non mi piace questa situazione. Ho scomodato un sacco di persone, e non è giusto.”
“Christine è alla clinica al mio posto, quindi gli animali sono sistemati. I lupi di Joshua sono per la maggior parte poliziotti, quindi non fanno che il loro lavoro. Dove sta il problema?” replicò Duncan, sorridendomi e passando svogliatamente la punta del naso lungo il mio collo.
Rabbrividii e sussurrai: “Ti prego, non farlo, o Mandy sentirà più cose di quante non vorrei.”
Ridendo sommessamente, e facendomi tremare di desiderio, Duncan mormorò per contro: “Pensi che non se l’aspetti?”
“Non voglio pensare a quel che pensa lei…” brontolai, aggiungendo: “… so solo che non riuscirei a guardarla in faccia, domattina, se sentisse anche un solo mugolio.”
“E se ti prometto che, dalle tue labbra, non uscirà neppure un sospiro?” mi tentò, abbandonandomi momentaneamente per mettersi a cavalcioni su di me.
Ammettiamolo, averlo sopra di me, completamente nudo, e illuminato dalla luce rada proveniente dall’esterno, era uno spettacolo così stuzzicante che, anche la più frigida tra le donne, sarebbe crollata ai suoi piedi, desiderosa di farsi toccare ovunque.
E io non ero affatto frigida!
Sorrisi deliziata, sapendo che quel corpo magnifico, fatto di muscoli plastici e sodi, era tutto mio.
Annuendo impercettibilmente, lo minacciai scherzosamente. “Mi vendicherò in maniera orrenda, se lei sentirà qualcosa.”
“Non sentirà nulla” mi promise, aggredendo la mia bocca con la sua, mentre le sue mani cominciavano a sciogliere i lacci del mio pigiamino striminzito.
Annegai letteralmente in quel bacio divorante, sentendo bramosia, paura e rabbia, oltre al desiderio sempre crescente di farmi sua.
Era ancora in ansia, nonostante non lo desse a vedere, e quello era un ottimo metodo per pensare ad altro.
Lasciai perciò perdere quei sentimenti latenti per concentrarmi – sì, beh, per quanto fosse possibile – su quel che stavo facendo e, nell’avvertire le sue mani grandi e calde sui seni, sentii prepotente un singhiozzo salire alla bocca.
Subito, il bacio si fece più profondo, soffocando sul nascere quel sussurro.
Del tutto preda del suo corpo, del suo aroma, del suo potere, affondai sempre più dentro di lui, come lui dentro di me.
Percepii solo vagamente le sue spinte profonde e morbide, distratta com’ero dalla carezza prepotente del suo potere sul mio, quasi che le nostre due auree stessero facendo l’amore come i loro padroni di casa.
La sua bocca lasciò la mia giusto il tempo di appoggiarsi, morbida e vogliosa, su uno dei capezzoli.
Mordendomi un labbro per non erompere in un imbarazzante mugolio, lo sentii muoversi con leggerezza sulla mia pelle rovente, tracciando scie di baci su tutto il mio busto, prima di tornare a divorarmi le labbra.
E, mentre la bocca di Duncan pensava a soffocare i miei ansiti di passione, il resto del suo corpo accese in me vampate tali che, ne ero sicura, il letto sarebbe arso da un momento all’altro.
Durante l’amplesso, il corpo di un licantropo va come a fuoco.
E’ come se fosse febbricitante; il tutto è causato dall’energia emanata dall’aura che, senza freni inibitori, fuoriesce dal corpo per dare maggiore piacere al partner.
Non avendo mai fatto sesso, prima della trasformazione, non avrei saputo dire se fosse meglio o peggio, ma credevo di poter affermare con assoluta sicurezza che sì, i licantropi sapevano farlo decisamente meglio.
Raggiunsi l’acme due volte, due volte in cui ebbi l’impressione di sentire il mio cuore spezzarsi in mille piccoli pezzetti di cristallo, salvo poi rendermi conto che era integro, vivo e vegeto e completamente appagato.
Era difficile dire chi dei due lo fosse di più – non volevo mettermi a gareggiare con Duncan, per una cosa simile – ma fui abbastanza certa che anche a lui, piacque parecchio.
Si sdraiò al mio fianco madido di sudore, appagato come un bambino di fronte ai regali di Natale e gli occhi resi vacui dalla passione appena consumata.
Un dito, lento e leggero, giocherellava con la mia pelle accaldata, disegnando immaginari cerchi intorno al mio ombelico.
Io, ansante e completamente priva di forze, galleggiavo senza peso in quel mondo intermedio che stava tra la realtà e il sogno, persa completamente nel piacere che aveva saputo risvegliare in me.
Ero restia ad allontanarmi dal quel tepore, indecisa se tornare a respirare l’aria normale e viziata della mia stanza.
Alla fine, però, dovetti rientrare in me e, sospirando, lo osservai per alcuni istanti prima di chiedergli: “Non voglio sapere con quante lupe ci hai dato dentro, per diventare così bravo ma… quanta esperienza hai, Duncan?”
Lui si limitò a sorridere sornione, baciandomi la spalla senza mai smettere di tracciare ghirigori sulla mia pelle. “Per la verità, non ho mai fatto sesso con una licantropa.”
Quella notizia mi lasciò così sconcertata che mi levai a sedere, fissandolo a occhi sgranati, prima di esalare: “Non ci posso credere.”
Lui mi ricondusse giù, tornando a giocherellare con il mio ombelico – chissà perché gli piaceva tanto, poi? – e, con un sorrisino appena accennato sulle sue labbra carnose e tumide di baci, mi spiegò l'arcano.
“Ero più che sicuro che, se l’avessi fatto con una del branco, sarebbero sorti così tanti problemi da rendermi la vita un inferno. Sai bene, no, quanto ero ricercato?”
“Sì” grugnii.
Duncan ammiccò ironico e aggiunse: “Così, le mie uniche esperienze me le sono fatte all’università, con donne umane. Certo, è stata una faticaccia resistere e non usare tutta la mia forza, però… beh…”
“Credo abbiano apprezzato quanto ho apprezzato io” celiai, serafica.
“Sei tu che me l’hai chiesto” precisò, ridacchiando.
“Già, io e la mia curiosità mostruosa…” brontolai, voltandomi su un fianco. “…però, se non l’hai mai fatto con una lupa, non avevi mai provato…”
“L’unione delle auree? No, mai” scosse il capo, schiacciandomi contro il suo corpo come per voler fondersi con me.
Mi strappò il fiato dal petto e, leccandomi vogliosa le labbra, sussurrai: “Sai che effetto mi fai, no? Quindi, perché infierisci?”
“Perché mi piace vedere i tuoi occhi che cambiano colore” ammise, sfiorandomi la guancia con un bacio leggerissimo. “Ora sono quasi del tuo colore di lupa, ma hanno ancora qualche riflesso dorato… sono splendidi.”
Ridacchiai, leccandogli leggermente l’angolo della bocca, ed esalai: “Sai che bello! Un occhio azzurro, uno verde e tutti e due macchiati d’ambra.”
“Credimi, sono splendidi. Neppure Monet, pur con tutta la sua bravura, avrebbe potuto creare simili tinte di colore. Inoltre, avere gli occhi di due colori, è molto raro. Solo pochissimi licantropi li hanno avuti così” mi mise al corrente Duncan, scendendo con la mano a sfiorarmi il fianco morbidamente arcuato.
“Oh, e chi?” volli sapere, sorridendo melliflua.
“Fenrir e i suoi figli” mormorò, baciandomi la punta del naso. “Loro sono stati i primi, poi ne vennero pochissimi altri.”
Non appena sentii nominare Fenrir, un brivido sordo scivolò dalla radice dei miei capelli fino alla punta dei piedi, portandomi a rabbrividire per un attimo.
Duncan, sorpreso da quella reazione improvvisa quanto strana, si puntellò su un gomito per guardarmi, cercando nei miei occhi, confusi non meno dei suoi, qualche spiegazione a quel brivido involontario quanto imprevisto.
Non seppi cosa dirgli, né come rispondere ai dubbi che aleggiavano anche dentro di me.
Seppi soltanto che, non appena quel particolare degli occhi fu registrato dal mio cervello, qualcosa scattò dentro di me, mettendomi in allarme.
Dare un nome al pericolo che mi aveva scosso, però, non mi fu possibile, come non mi fu possibile mormorare parole di conforto a Duncan, o persino a me stessa.
E, di colpo, quella frase che tanto a lungo era rimasta sedimentata in me, con un enorme punto di domanda scritto a caratteri cubitali, tornò a tormentarmi.
Perché, un attimo prima di svenire, durante la mia prima mutazione in licantropo, avevo avvertito quelle parole nella mia mente ottenebrata dall’aconito?
Eccoti, finalmente!
Cosa potevano significare? E chi le aveva dette?
A tutte le mie interrogazioni, la quercia non aveva mai risposto, dicendomi unicamente che, quella frase, non significava nulla e, soprattutto, nulla che valesse la pena di essere vagliato in quel dato momento.
Perché, ogni tanto, la quercia sacra si divertisse a essere reticente, non l’avevo ancora capito.
Ricordava molto l’Oracolo di Delfi e le sue predizioni misteriose e confuse. E questo non mi era per niente di conforto.
“Tutto bene?” chiese a quel punto Duncan, notando il mio silenzio prolungato.
Annuii, non essendone per niente certa e, stringendomi a lui, sussurrai soltanto: “Sì, tutto bene, ma abbracciami forte.”
Lui annuì, accontentandomi e baciandomi più volte la fronte, carezzandomi nel contempo la schiena nuda in lenti e morbidi tocchi.
Con il passare dei minuti, mi portarono a un meritato quanto agognato riposo.
Sperai con tutta me stessa che quella strana sensazione, con il sonno, sparisse completamente dal mio cervello.
Avevo ancora troppi esami da affrontare, per pensare a misteriose voci provenienti da chissà dove, e oscuri misteri da dissipare.
No, dovevo concentrarmi su una cosa alla volta.
A ogni costo.







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Capitolo 4
*** Cap. 4 ***


4.

 
 
 
 
 
 


Infilare finalmente il casco in testa, con l’unico intento di tornarmene a casa, fu per me un sollievo.
Gli esami erano finiti, il misterioso licantropo che aveva cercato di farmi fuori non era più ricomparso – né era stato trovato, purtroppo – e io potevo tornare tra le mura amene di Matlock.
La mia speranza era quella di godermi qualche giorno di pace, prima del rendez-vous con gli altri clan.
Salii dietro a Duncan, sulla sella di pelle nera del Multistrada.
Il motore rombò sotto di me, con il caratteristico brontolio della Ducati e, sorridendo, mi strinsi alla sua vita – le maniglie le ignorai completamente –, decretando: “Parti quando vuoi.”
Mandy aveva preso l’aereo per l’Italia il giorno prima, con la promessa di tornare a ottobre con una marea di gadget per Duncan e un regalo culinario per me, che mi sapeva grande divoratrice di Salame di Felino.
Da quando me l’aveva fatto assaggiare, ne ero diventata schiava.
Grazie al mio metabolismo super accelerato, non rischiavo di ingrassare, pur mangiandone a più non posso. Buona cosa.
Quando sentii la moto prendere il largo lungo la via, lasciai perdere il mio succulento pensiero per dedicarmi alla bellezza del viaggio, sperando che potesse ridarmi parte della pace che avevo perso, da quando mi ero vista puntare addosso quella pistola.
Lasciammo Londra dopo una buona mezz’ora di traffico cittadino, in cui Duncan si districò con l’abilità di un equilibrista su una corda tesa.
Quando finalmente imboccammo la motorway M1, fu come se mi avessero tolto dalle spalle un peso enorme.
Liberarmi per qualche mese di quella città, per quanto io la adorassi - nonostante i suoi ritmi caotici e da svenimento -, era un sollievo.
Avrei riabbracciato i miei amici, i miei parenti, tutto il mio branco e, forse, avrei riacquistato la fiducia in me stessa che, quel tentato omicidio, mi aveva fatto perdere di colpo.
Detestavo sentirmi così dipendente dagli altri.
Sapevo però bene che, senza la presenza costante di Duncan e il controllo del territorio da parte di Joshua e i suoi, sarei impazzita molto prima della fine degli esami, rovinando tutto a causa della mia paura.
Era comunque un rospo enorme da mandar giù. Io, così indipendente e fiera!
Ma Duncan aveva ragione, qui non si trattava di essere indipendenti, ma di restare vivi. E, con quel tizio a piede libero, non era proprio concepibile, per me, rimanere da sola.
“Stai pensando così ad alta voce, che è persino complicato tenerti fuori dalla mia testa. Non puoi proprio smettere di pensare a quel che sta succedendo, almeno per un paio d’ore, e goderti l’ebbrezza della velocità?” mi chiese di punto in bianco Duncan, sorprendendomi.
“Scusa, non volevo disturbarti nella guida. Mi tapperò il cervello” ghignai, facendo la lingua dentro il casco. “E farò come dici. Mi godrò il viaggio. In fondo, non aspettavo altro. E poi, questa moto è fenomenale! Mi piace un sacco.”
“Sono contento ti piaccia. Potremmo organizzare una gita sulle Highlands, se ti va, più avanti.”
“Sarei felicissima di andarci…” ammisi, prima di chiedere: “… ma, con il lavoro, come farai? Non puoi sempre lasciare la clinica in mano a Christine, o comincerà a pensare che ne approfitti.”
Christine era una studentessa di veterinaria, che Duncan aveva trovato grazie ai buoni uffici di un suo collega di Matlock.
Da quando era entrata a far parte delle nostre vite, il lavoro di Duncan si era notevolmente alleggerito.
Inoltre, dopo aver conosciuto il suo fidanzato, e aver saputo dalle sue labbra che, nel giro di un anno al massimo, si sarebbero sposati, mi ero notevolmente tranquillizzata.
Lo so, era stupido pensare sempre e subito male, ma… beh, con un uomo al fianco bello come Duncan, i dubbi nascevano senza che io li cercassi.
Anche se avrei dovuto sapere con chiarezza quanto lui mi amasse, e non cercasse altre distrazioni a parte me.
Brutta cosa, la gelosia. Più ancora, l’insicurezza in fatto d’amore.
Con uno sbuffo infastidito, che annebbiò per alcuni attimi la visiera oscurata del casco, lasciai perdere anche il pensiero ‘Christine’ per dedicarmi completamente al viaggio, e alla nostra velocità di crociera.
Certo, come lupo avrei potuto andare anche più veloce – una volta, avevo provato a correre al fianco di Jerome lungo una strada deserta, e avevo toccato le cento miglia orarie, senza neppure arrivare al limite.
Trovarsi su una moto con il mio corpo di donna, accarezzata dalla brezza feroce che si abbatteva contro di me, era comunque davvero inebriante.
Chiusi gli occhi, ascoltai con maggiore attenzione il rombo del motore, il battere cadenzato e violento dei pistoni e il fluire veloce della benzina nella camera di combustione.
Il tutto avveniva a una velocità tale che, a stento, anche il mio udito sopraffino riusciva a distinguere.
Sorrisi tra me, chiedendomi il perché di quella mania per la velocità – non ero mai stata una dal piede pesante, al volante – e Duncan, intervenendo nei miei pensieri, asserì: “E’ solo perché ora sai di potertelo permettere. E’ la tua bestia che chiede la velocità. Ai lupi piace correre, e i licantropi corrono veloce.”
“Già” annuii, ridacchiando.
“E’ bello sentirti ridere, sai?”
“Scusami se, spesso e volentieri, sono musona.”
“Sei più che scusata, Brie, visto quel che hai passato in questi giorni. Ma posso assicurarti che, almeno per un po’, sarai coccolata, vezzeggiata e trattata da regina, tanto che dimenticherai ogni pensiero molesto.”
“Per un po’? Non per sempre?” lo irrisi bonaria.
Lui rise, solleticando corde dentro di me molto sensibili a quel suono gutturale e piacevole e, divertito, replicò: “Non sei tu quella che detesta essere coccolata?”
“Ah! Mi hai colta in castagna! Già! Ma per un po’, come dici tu, farò un’eccezione. Ormai mi conosci troppo bene, mi sa.”
“Cerco solo di renderti felice.”
“Come io spero di rendere felice te, anche se ti sto dando un sacco di grattacapi, ultimamente.”
“Sei la mia Prima Lupa, la mia compagna, la mia migliore amica. Non mi darai mai grattacapi” precisò, con la sua inconfondibile pacatezza.
“Se lo dici tu, ci credo. Mi piace essere anche la tua migliore amica, sai?”
“Non mi piaci solo come donna e amante” rise per contro, tornando col pensiero alla sera precedente.
Visto che Mandy era partita in anticipo, Duncan aveva approfittato dell’appartamento vuoto per farmi sperimentare un nuovo concetto di unione.
Il solo pensiero, mi fece infuocare per l’ennesima volta in viso.
Non avevo mai provato il desiderio così forte di farmi divorare da lui, per essere parte integrante del suo corpo, della sua anima.
Certo, lo volevo un po’ tutte le volte, ma mai come la sera appena passata.
Mi aveva baciata su ogni centimetro della pelle, accompagnando ogni sfioramento col mio corpo con un tocco caldo e sensuale del suo potere.
Mordicchiandomi ovunque, mi aveva avvolto da un’aura così morbida da farmi credere di essere avvolta dal velluto e, affondando dentro di me dolcemente e con forza assieme, mi aveva resa fuoco liquido, sotto il suo tocco.
Ci eravamo amati fino a poco prima dell’alba, senza mai interrompere il contatto con i nostri corpi accaldati, senza mai abbandonare le rispettive menti, lasciando che le nostre sensazioni si fondessero tra loro per renderci completamente partecipi del piacere reciproco.
Era stata la prima volta che io e Duncan ci eravamo immersi così tanto l’uno dentro l’altra e, in quei momenti, mi era parso di aver già provato emozioni così soverchianti e forti.
Era stato come un dejà-vu, un lampo istantaneo, brevissimo, ma mi era rimasto impresso nella mente.
“Comincio a capire perché i licantropi non abitino vicini” ridacchiai nel mio casco.
“Sì, eh?” ghignò in risposta.
“D’accordo che certi tabù non contino nulla, ma non credo che sapere quel che si combina a letto con il partner, interessi a qualcuno. O, almeno, lo spero.”
“No. Decisamente no. Quello proprio no” rise Duncan, sorpassando una BMW decisamente troppo lenta, per i nostri gusti.
Risi con lui, godendo di quei magici momenti di serenità e del ricordo che, quell’atto d’amore, aveva lasciato nel mio cuore.
Forse era dipeso dalla paura, o dall’ansia per me ma, quella notte, Duncan sembrava aver riversato tutto se stesso in quei gesti.
Come se avesse avuto timore di perdermi, come se avesse avuto il terrore di trovarsi nuovamente solo, senza aver dato tutto di sé alla persona amata.
“Non mi perderai, né io ti lascerò solo. Ci siamo scelti, siamo un unico essere, e neppure la morte potrà avere ragione di me.”
“Preferirei non parlassi di morte, Brie. Vorrei averti viva e vegeta al mio fianco ancora per parecchi anni a venire.”
“Rinascerei subito per te” replicai, cercando di fare dell’ironia.
“Io sarei Matusalemme, una volta che tu avessi raggiunto l’età adulta” brontolò, mollando un momento la presa dalla manopola sinistra per darmi un colpetto al ginocchio. “Piantala di dire idiozie.”
“Okay” annuii, stringendomi maggiormente a lui e colpendo il suo casco col mio.
Risi, quando lo sentii brontolare nuovamente e, divertita, dissi:“Scusa.”
“Ci penserò su.”
“Oh, ma dai!”
Lui non disse niente, limitandosi a ridere.
Inutilmente, cercai di dargli dei pizzicotti attraverso il tessuto della giacca di pelle sperando di prendere, almeno una volta, la sua carne soda.
Speranza vana, ovviamente.

***

Naturalmente, quando arrivammo a casa, trovammo un autentico comitato di benvenuto ad accoglierci.
Non feci neppure in tempo a scendere e togliermi il casco, che Erika mi avvolse in abbraccio profumato di mirtilli. “Benvenuta a casa, sorella. Che gioia, vederti!”
“Mi sei mancata tanto, Ery” sussurrai, stringendola a me e dandole un bacio sulla fronte, prima di strizzarle una guancia tra indice e medio.
Lei rise divertita, scostandosi da me per lasciare spazio agli altri per i saluti.
In un attimo, le braccia forti di mio fratello mi strinsero in un corpulento abbraccio, e io mi ritrovai ad affondare la guancia in un petto robusto, dove batteva un cuore che correva all’impazzata.
Il pacato Gordon così eccitato? Lui sì che sapeva riempirmi di sorprese.
Mi alzai in punta di piedi, baciandolo sulle guance. “Se cresci ancora, mi servirà la scaletta per arrivare a tiro.”
Lui rise divertito, dandomi un paio di pacche sulla testa – ormai era alto quasi come Duncan – e replicò: “Non è una prerogativa solo dei tuoi amiconi, quella di essere alti.”
“Già, ho notato” annuii, guardando le altre persone presenti e sorridendo loro.
Uno a uno, salutai Mary B – più solare rispetto al periodo di Pasqua –  Lance, Sarah, Jerome e John, prima di dedicare un abbraccio speciale a Jasmine.
Da brava gatta, aveva aspettato per ultima, già pregustando tutte le moine che avrei riversato su di lei nelle ore seguenti.
Accarezzandola e portandomela al viso più volte per stamparle teneri baci sul musetto, mormorai: “Tu mi sei mancata più di tutti, sai?”
Lei miagolò soddisfatta, prima di sistemarsi meglio tra le mie braccia e fissarmi con i suoi occhioni furbi, come a volermi dire: Io sono pronta per le coccole.
“Quella gatta è tremenda” rise Lance, guadagnandosi un’occhiataccia da parte sua.
“Attento a quel che dici, Lance, se vuoi tenerti tutte le dita delle mani” sghignazzai, entrando in casa con tutta la mia famiglia allargata.
“Riesco ad accarezzarla solo se la prende in braccio Mary. E’ più noiosa delle corna di una lumaca” ironizzò Lance, lanciando un’occhiata divertita a Mary B.
Mary B rise a quel commento e annuì. “Una volta sono dovuta addirittura intervenire per sedare un inizio di rissa.”
“Oh, sì, ricordo!” annuì Duncan, sorridendo divertito. “Mary era venuta a darmi una mano coi cavalli, quando Lance è entrato nella stalla e Jasmine stava cacciando fuori un topolino.”
“Quindi, era in assetto da caccia” asserii, sentendo contro il petto i familiari ron-ron di Jasmine.
Duncan annuì e Mary B, continuando per lui, proseguì il racconto.
“Si è gettata contro Lance come un missile terra-aria e lo ha graffiato al braccio, prima che io riuscissi a bloccarla. Soffiava come un treno a vapore, la micetta.”
La diretta interessata sbuffò tra i dentini, sollevando la testolina con aria impettita, e io scoppiai a ridere di gusto. “E brava Jasmine!”
“Brava un corno. Mi ha fatto un male cane” brontolò Lance, pur sorridendo.
Mary B ammiccò al suo indirizzo, commentando: “Beh, non dovresti lamentarti, dopotutto. I graffi si sono rimarginati subito, no?”
Lance la guardò con delicata ironia, ribattendo: “Vogliamo fare cambio, Mary?”
“No, grazie. Non ci tengo a farmi graffiare da Jasmine” scosse il capo la mia adorabile matrigna, prima di scoppiare a ridere.
Trovarla così su di morale mi fece piacere e, quando la vidi lavorare allegramente assieme a Sarah – che si trovava in cucina – , il mio cuore si rilassò gradatamente.
Forse, parte dell’apatia che l’aveva presa, dalla morte di Patrick, era scivolata via dal suo cuore.
Non speravo fosse già tornata la Mary B di un tempo, ma ero sicura che fosse a buon punto.
Quando, poi, la vidi sorridermi compiaciuta e felice, riuscii anche a godermi quel pranzo luculliano, cucinato dalle abili e sapienti mani di Sarah.

***

Accarezzando Gab sulla criniera liscia e sericea, sorrisi bonaria, mormorando: “Prometto solennemente che domani faremo una bella galoppata assieme.”
Lui nitrì allegro mentre io, volgendomi a mezzo nell’udire in lontananza i passi felpati di Gordon, sorrisi nel dargli il benvenuto.
Allungata distrattamente una zolletta di zucchero al mio adorato cavallo, gli chiesi: “Allora, come stai fratellino? Pronto per goderti le meritate ferie?”
“Direi proprio di sì” annuì, infilandosi le mani nelle tasche posteriori dei jeans, avvicinandosi poi a me con passo tranquillo. “Duncan non ci ha accennato molto, riguardo alla sua partenza improvvisa, ma ci è sembrato davvero preoccupato. Che è successo?”
Sospirai leggermente, passando una mano sul muso morbido e caldo di Gab.
“Un licantropo ha cercato di spararmi, ma non sappiamo chi sia.”
Un suo sopracciglio scuro si levò di scatto, unico segno evidente della sorpresa che lo scosse a quella notizia – che stesse imparando da Duncan a diventare ermetico in viso? – e, con voce il più controllata possibile, mi chiese: “Tu, però, non ti sei fatta male, vero?”
“No, neppure un graffio. Anche se ho provato una paura d’inferno” sospirai, sorridendo leggermente quando Gab si avvicinò per darmi un colpetto alla fronte con il suo lungo muso. “Il branco di Joshua non è riuscito a scovarlo da nessuna parte. Ha azzerato l’aura e, visto che puzzava di fogna, non sono riusciti a seguire la sua scia odorosa, una volta che si è infilato nei condotti.”
Gordon storse il naso per il disgusto e, dato un calcio a un sassolino – che rimbalzò contro il box di Rafael – bofonchiò: “A chi hai pestato i piedi, per ritrovarti puntata addosso un’arma caricata ad argento?”
“Vai a saperlo” scrollai le spalle, impotente. “Quel tizio non ha detto nulla di eclatante. Solo, che era giunta la mia ora. Quindi, non abbiamo molto su cui lavorare. E di gente che può avercela con me, ce n’è di sicuro.”
Non potevo sapere se, tra i clan presenti in Gran Bretagna, vi fosse qualcuno che ce l’avesse con me in particolare o, più in generale, con il nostro branco.
Di sicuro, la mia investitura a Prima Lupa aveva fatto scalpore così come il successivo smantellamento del nostro Consiglio e, forse, questo aveva messo addosso un certo nervosismo a qualcuno.
Oppure, senza saperlo, avevo infastidito qualcuno che, adesso, voleva farmela pagare senza rendere nota la sua identità, così da evitare rappresaglie.
Il delicato profumo di Erika, unito alla carezza del suo potere, giunse a me come un cordiale saluto, distogliendomi da quei pensieri.
Sorridendo nel vederla comparire oltre le porte scorrevoli, lasciate aperte sul cortile, la salutai con affetto.
“Ciao, Ery. Allora, com’è andato il rendez-vous con Eliza e Morgan?”
Lei mi sorrise, sistemandosi distrattamente una ciocca dei neri capelli dietro un orecchio.
Affiancatasi a Gordon, mi spiegò ciò che era successo.
“Eliza non la smetteva più di parlare, così ho dovuto minacciarla di rappresaglie, se non si fosse scollata dal cellulare in un minuto. Ho ancora l’orecchio in fiamme.”
Nel dirlo, ridacchiò, si sfiorò la curvatura dell’orecchio con un dito per poi allontanarlo di scatto, come se si fosse ustionata.
Gordon, sorridendole, la imitò, confermando lo status del padiglione auricolare della ragazza.
“Sì, confermo. E’ bollente.”
Sorrisi loro, vedendoli così disinvolti e tranquilli, vicini l’uno all’altra come solo una coppia affiatata può essere, con quella sicurezza nei movimenti del corpo e del volto che, unicamente la certezza di un sentimento profondo, può dare.
Avevo saputo per bocca di Erika – Gordon parlava solo per monosillabi, con me, quando gli chiedevo di lei – che il loro rapporto stava andando a gonfie vele.
Nonostante le evidenti differenze, dovute alla loro diversa natura, tra loro non esistevano problemi così insormontabili da non essere risolvibili con un patto o una chiacchierata.
Ovviamente, il fatto di essere un licantropo imponeva a Erika una certa attenzione, nelle loro effusioni.
A tal proposito, avevo insistito perché Duncan parlasse con Gordon di ciò che voleva dire aver a che fare con un mannaro, in simili situazioni.
Non so se Gordon avesse apprezzato o meno il mio intervento – non me ne aveva mai fatto parola – ma di sicuro, come sua sorella maggiore, il compito di aiutarlo mi spettava di diritto, e niente e nessuno mi avrebbe impedito di farlo.
“Non avete nulla di nuovo da raccontarmi, voi due?” chiesi allora, andando da Rafael per strigliarlo.
Erika scrollò le spalle con naturalezza, dicendo disinvolta: “Solo che tuo fratello sta facendo girare la testa a molte, e la cosa mi mette veramente a disagio.”
Gordon la guardò malissimo e ribatté: “Perché? Tu pensi di non essere l’oggetto del desiderio di almeno un paio di lupi di mia conoscenza?”
Sorrisi, di fronte a quel divertente battibecco, e intervenni a mia volta. “Insomma, tutto nella norma.”
“Direi di sì” annuì Erika, appoggiandosi alla porta del box mentre io prendevo in mano la spazzola, e Rafael nitriva soddisfatto. “Stare con tuo fratello mi piace, e non me lo farò portare via facilmente.”
Ammiccai all’indirizzo di Gordon, che arrossì, e ghignai. “Ti sai far volere bene, eh?”
“Non prendermi in giro” brontolò, sbirciandomi da sotto un velo di ciglia scure.
Come nostro padre, Gordon aveva capelli più scuri dei miei, sul castano rossiccio, simili a quelli di Mary B.
I suoi occhi, chiari come ali di colomba al pari di quelli di mamma, esprimevano più spesso del suo viso la bontà che si celava nel suo cuore.
Un timidone nel profondo, burbero fuori e tenero dentro. Ma io lo adoravo per questi suoi opposti.
E, a quanto pareva, non ero l’unica ad apprezzare questo suo lato, anche se non in egual maniera.
Erika sembrava stregata da lui e si muoveva ogni qual volta lui lo faceva, neanche fossero stati legati assieme.
Gli occhi di uno cercavano spesso quelli dell’altra e, a ogni occhiata, seguiva un sorriso.
Non erano smancerosi al punto tale da stare sempre a sbaciucchiarsi – Gordon non era un tipo così svenevole e, a quanto pareva, neppure Erika – eppure, il loro affiatamento era così evidente che, pur non toccandosi , riuscivano a esprimere la loro intesa alla perfezione.
Due anime affini.
Sarei stata curiosa di chiedere alla quercia se avesse da dirmi qualcosa, in merito, ma ero più che convinta che, ai due in questione, non importasse un fico secco di niente.
Come non importava a me e Duncan.
Sapevamo del nostro legame d'anima, e di quanto questo fosse potente, ma eravamo anche a conoscenza del fatto che questa intesa non ci aveva portati tra le braccia l’uno dell’altra.
Solo l’amore, nato tra di noi in circostanze uniche, ci aveva spinti a unirci.
Diversamente, avrei dovuto innamorarmi anche di Jerome e Lance, visto il legame d’anima che avevo anche con loro, e quello sì che sarebbe stato assurdo.
Kate mi aveva più volte detto che, legami come il nostro, oltre a essere rarissimi, erano assai potenti.
Poiché la quercia si rifiutava di dirci il perché di questa peculiarità, sapevamo soltanto come ci eravamo legati, ma non per quale motivo preciso.
Sperai soltanto non fosse così grave come Kate temeva.
Secondo il suo modo di vedere, scomodare addirittura una Triade di Potere, e creare un legame d’anima con una wicca potente come me, non poteva portare a nulla di buono.
Forse, l’attentato alla mia persona ne era il primo tassello.
Ora, restava solo da stabilire quanto grande fosse il puzzle che stava componendosi, e quanto pericoloso.
Sperai che Kate fosse solo un po’ paranoica, e non una veggente.

***

Semi sdraiata sul divano di casa, le gambe rilasciate su un bracciolo mentre la mia testa era ripiegata all’indietro, contro lo schienale, mi mossi mollemente di lato per lasciare spazio a Duncan.
Armato di pop-corn e coca-cola, si sedette al mio fianco e accese il televisore.
Missione: Avatar.
Avevo voluto prendere a tutti i costi il dvd, nonostante sapessi sarebbe uscita la versione deluxe, più avanti.
Volevo godermi nuovamente le atmosfere magiche di Pandora, e i bellissimi na’vi creati da James Cameron.
Quei luoghi così eterei, mi riportavano alla mente i ricordi ancestrali di un mondo antico, e molto simile a quello descritto nel film.
Non avevo mai mosso piede di persona, in quelle lande antiche, ma erano le memorie della quercia sacra del Vigrond ad avermi consegnato queste reminiscenze.
Foreste incontaminate, animali liberi e fieri, non minacciati dall’aggressione feroce della tecnologia, inquinamento inesistente.
Armonia.
Forse, più di tutto il resto, era l’armonia a farmi provare nel cuore quel senso di nostalgia.
Lo percepivo aleggiare ogni qual volta i miei occhi sfioravano un fiore, o le mie mani saggiavano la consistenza di un tronco d’albero o di una foglia appena nata.
O meglio, non mi sentivo nostalgica, ma bramavo di sperimentare a mia volta quell’armonia. Perché ora non era possibile, se non in rarissimi casi, viverla appieno.
C’era sempre qualcosa che mi ricordava dove, e in che tempo, vivessi.
Non che fossi tecnofobica – l’acqua calda e la TV mi piacevano da matti – ma sapevo che esistevano metodi più costruttivi, di vivere al fianco della Madre.
Il fatto che l'essere umano se ne infischiasse, mi irritava, a volte.
L’essere un licantropo, poi, aveva solo acuito questi miei sentimenti. Ora che ero doppiamente legata a questo mondo, ne soffrivo ancora di più.
E dire che, fino a qualche tempo prima, avrei pensato a guardare CSI, piuttosto che Avatar!
Duncan mi passò i pop-corn, il film iniziò a comparire sullo schermo ultrapiatto e la voce di Sam Worthington si espanse nella stanza attraverso le casse dell’Home Theatre. Il Subwoofer rilasciò toni bassi e vibranti, prodotti dal rombo dei motori dello Shuttle in discesa su Pandora.
Ingollando una manciata di pop-corn, sussurrai speranzosa: “Stordiscimi il cervello, te ne prego.”
“Se trovi la ricetta, dimmelo. Fai così tanto baccano che, neppure la voce tonante di Quaritch, riuscirebbe a zittirti” ridacchiò, sorseggiando la coca-cola.
Aveva ragione. Pensavo anche troppo, ultimamente.
“Vedrò di zittirmi” mi imposi, ingollando un altro po’ di pop-corn.
Magari ci fossi riuscita.




______________________________
N.d.A: un po' di vita casalinga prima della grande riunione.
Nota: Quando parlo di Gran Bretagna, per i territori dei licantropi, non tengo conto dell'Irlanda del Nord, perché è territorio considerato 'irlandese', per i lupi mannari. A suo tempo, questa informazione avrà una certa rilevanza.

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Capitolo 5
*** Cap. 5 ***


5.

 
 
 
 
 


Il piccolo studio di Mary B, ricavato nella villetta che un tempo era stata di Marjorie, era solare, ricco di fotografie che lei stessa aveva scattato e ricolmo di libri di medicina interna.
E della sua più grande passione; i gialli.
Deaver, Reichs, Doyle, Christie si intervallavano tra loro come un mosaico, messo insieme dalle mani maldestre di un bambino.
Alcuni, erano talmente consunti che le copertine morbide si ripiegavano su loro stesse, formando orecchie frastagliate e mangiucchiate dal tempo.
Sorrisi nello sfiorare un libro a me particolarmente caro – Il collezionista di ossa1 – e, lanciando uno sguardo a Mary B, che stava innaffiando un ficus benjamin, le chiesi: “Ricordi quando me lo prestasti la prima volta?”
Lei si volse a mezzo, ridacchiando brevemente e, scostando dal viso una ciocca dei mossi capelli rossicci, annuì.
“Oh, sì, ricordo perfettamente che non dormisti per una settimana. Non è proprio il tuo genere, quello. Sei troppo credulona.”
“Già” ammiccai, distogliendo lo sguardo dalla libreria di mogano intagliato dell’ottocento per guardarmi intorno.
Dall’ultima volta che vi avevo messo piede, Mary B aveva aggiunto una scrivania in stile Carlo X, che abbelliva l’intera stanza con le sue linee morbide ed essenziali.
Una dormeuse, dai bellissimi cuscini fiorati, se ne stava sotto la finestra in attesa di essere sfruttata appieno dalla padrona di casa, sua assidua frequentatrice.
Sedendomi lì, saggiai la morbidezza della gommapiuma e la sericea consistenza del tessuto ricamato, asserendo: “Questo pezzo è davvero bello. Hai avuto occhio, a prenderlo.”
“E’ l’ideale per ritemprarsi, o per passare un’oretta a leggere” ammise Mary B, poggiando l’innaffiatoio e accomodandosi sulla poltrona imbottita dietro la scrivania. “A volte mi siedo lì con un bel libro sotto mano, e leggo finché non ho i crampi alle braccia… e ricordo.”
Scrutai quel viso apparentemente calmo e mi chiesi quanta, della sua apparente serenità, fosse autentica e quanta, invece, derivasse dal suo desiderio di non rattristare nessuno.
Ero praticamente certa che sentisse la mancanza di Patrick o, quanto meno, che pensasse ai tanti anni passati assieme.
I suoi occhi chiari si posarono un momento sulla fotografia mia e di Gordon, che teneva sulla scrivania come un prezioso cimelio. La prese in mano e sorrise leggermente.
“Pensai che, adottandovi e tentando assieme l’esperienza di essere genitori, avremmo potuto… beh, salvare il nostro matrimonio ma, evidentemente, mi sbagliavo di grosso.”
Sorpresa, sgranai gli occhi ed esalai: “Che intendi dire, Mary B?”
Sorridendomi leggermente imbarazzata, rimise la foto sulla scrivania e proseguì dicendo: “Io e Patrick non andavamo più d’amore e d’accordo già da parecchio tempo, quando ci giunse la notizia della morte dei vostri genitori. Pensai che, adottandovi, avrei potuto riallacciare i rapporti con Patrick. Vivere con la responsabilità di due figli, anche se già grandi, forse ci avrebbe riunito quando tutto cospirava per allontanarci, ma non ottenni ciò che volevo. Subito, pensai che fosse colpa mia, che la mia decisione fosse stata sbagliata, ma…”
“… ma, quando venisti a conoscenza della cricca di Patrick, comprendesti che l’allontanamento di tuo marito non era dipeso da tuoi errori” terminai per lei, spiacendomi infinitamente per Mary B.
“Oh, in qualcosa ho sbagliato” replicò con un mesto sorriso. “Lui si fece ancora più distante, quando voi veniste ad abitare con noi. Patrick era come ossessionato da te. Ogni volta che uscivi nei boschi con le tue amiche, e tornavi allegra e soddisfatta, mi chiedeva sempre se avessi notato in te dei cambiamenti. Pensavo… oddio, pensavo che…”
Si coprì il volto, singhiozzando leggermente per il fastidio di quel ricordo drammatico.
Sobbalzando, arrossii e gracchiai incredula: “Pensavi… Dio, Mary B, pensavi che Patrick potesse essere interessato a me in quel senso?”
Rilasciò le mani in grembo e, fissandomi seria in viso, annuì.
“Vedevo con che occhi ti guardava, mentre tu non eri attenta, e lui pensava di non essere visto. Avevo solo travisato il motivo del suo interesse ma, all’epoca, mi aveva angustiato non poco."
Sospirò tremula, ma riuscì a proseguire nel racconto.
"Avevo temuto, in un primo momento, che la tua fuga da casa fosse dipesa dalle sue attenzioni morbose. Fu un sollievo, per me, scoprire che non era così, perché mi sarei sentita tremendamente in colpa nei tuoi confronti, se ti avesse toccata, e io non avessi vigilato a sufficienza su di te per impedirglielo.”
Sorridendole benevola, osservai con un certo divertimento: “Per questo, quando ti dicemmo la verità, non ti sconvolgesti più di tanto. Eri sollevata.”
“Sì, anche se scoprire l’esistenza dei licantropi, e di questo mondo parallelo, mi ha sorpresa e affascinata” ammiccò Mary B, rispondendo al mio sorriso. “Avrei anche accettato che tu fossi scappata con Leon, ma non che Patrick ti avesse toccata e costretta a fuggire.”
Tralasciando il commento su Leon – ma proprio tutti  avevano pensato che io fossi andata via con lui?! – la fissai seriamente e le chiesi: “Brutte esperienze?”
“Non personali. Ma ho curato fin troppe ragazzine massacrate di botte da padri e patrigni, perché non volevano più essere i loro … giocattolini” mi spiegò torva, il gelo nella sua voce solitamente dolce. “Non avrei mai sopportato che la stessa cosa fosse avvenuta anche in casa mia, e senza che io me ne fossi accorta.”
“Capisco” annuii, comprendendola appieno. “Beh, non è andata così, dopotutto.”
Scuotendo il capo, e sorprendendomi non poco, replicò: “In un certo qual modo è successo, invece. Lui ha cercato di farti del male, anche se non da quel punto di vista. Non ti ha accettata per quel che eri e, anzi, ha cercato in primo luogo di sfruttarti per i suoi scopi meschini e poi, quando si è reso conto di non poter ottenere nulla da te, ha cercato di ucciderti. Quindi, era pienamente colpevole, e meritava la fine che ha fatto.”
“Però…” la esortai, sapendo che c’era dell’altro.
Sospirando, Mary B si levò dalla poltrona per raggiungermi e, inginocchiandosi accanto a me, sfiorò le mie mani con le sue, calde e protettive.
“Avrei potuto fare di più, e fermarlo prima che arrivasse a perdere se stesso. Avrei potuto essere più coraggiosa, e intervenire quando ancora la situazione era risolvibile.”
Sgranando gli occhi per la sorpresa e l’indignazione, afferrai le sue mani con forza e replicai con veemenza: “Non puoi pensarlo! Neppure in mille anni! Tu hai fatto anche troppo, e io ti ho esposto a un pericolo così grande che, ancora adesso, tremo al pensiero di quello che avrebbe potuto succederti, se qualcosa fosse andato storto. Non credere mai, e ripeto, mai, che tu non sia stata all’altezza della situazione, perché non è vero! Mamma e papà non avrebbero potuto essere più bravi e in gamba di te, Mary B!”
Detto ciò, scivolai dalla dormeuse e la abbracciai strettamente.
“La Madre non avrebbe potuto dare a me e Gordon guida migliore di te. Sei il nostro sostegno, la nostra luce, non pensare mai di aver sbagliato. Ciò che c’era tra te e Patrick aveva raggiunto la fine del suo corso, come tu stessa ti sei resa conto, ma non hai nulla di cui rimproverarti. Hai fatto tutto ciò che era umanamente possibile, per salvare il vostro matrimonio.”
La sentii tremare tra le mie braccia, improvvisamente piccola e indifesa di fronte a me.
Accentuando la stretta, mormorai: “Lascia che la mia gente dilavi il dolore nel tuo cuore. Lascia che il calore della mia tana riscaldi la tua anima, e il mio artiglio provveda a sfamarti.”
Lei rise nervosamente nel sentirmi utilizzare le frasi di rito che si usavano, solitamente, quando un congiunto veniva a mancare, e il branco si occupava della famiglia in lutto.
Già da tempo, il branco considerava lei e Gordon parte integrante del clan.
Parlandole a quel modo, volevo sentisse con maggior forza il legame che ora li univa a tutti noi, sebbene loro non potessero mutare in lupi o ascoltare le voci nel vento.
Restammo inginocchiate a terra per un tempo indefinibile e, quando finalmente sentii la tensione nel corpo di Mary B scemare fino a svanire del tutto, mi alzai, trascinandola con me.
Sorridendole, la pregai di seguirmi.
“Vieni con me nel bosco. Voglio mostrarti una cosa.”
Lei annuì prima di baciarmi su una guancia e decretare: “Sei una brava licantropa.”
“Grazie.”

***

Una lieve brezza serpeggiava tra gli alberi verdeggianti, portando con sé il profumo dei fiori di bosco, dell’humus fresco e delle creature che vivevano nella ricca faggeta dietro la casa di Duncan.
Protetto da sguardi indiscreti, sorgeva il Vigrond, dove la quercia sacra cresceva rigogliosa e possente, segreta dignitaria delle memorie ancestrali del nostro popolo.
Lì, nel centro di potere della mia gente, lasciai che Mary B scendesse dalla mia groppa.
Dopo essere mutata in donna sotto il suo sguardo leggermente divertito – trovava affascinante il complesso meccanismo di distruzione e ricostruzione cellulare, che avveniva in alcuni attimi nei nostri corpi di licantropi – accettai dalle sue mani la vestaglia di seta che aveva portato per me.
Fu a quel punto che le spiegai il motivo per cui l’avevo condotta in quel luogo.
 “Quando mi sento schiacciata dalla mia posizione, o dalle troppe preoccupazioni, vengo qui a ritemprarmi alla sua ombra. Come wicca e Prima Lupa, posso concederti libero accesso al Vigrond e, se tu lo vorrai, potrai venire tutte le volte che lo riterrai necessario. Non è difficile venire qui, partendo dalla casa di Duncan, come hai potuto constatare. A piedi, ci vuole circa mezz’ora, non di più.”
Lei annuì, guardandosi intorno con apprezzamento, ammirando le enormi volte formate dai rami scuri della quercia, i colori cangianti della chioma accarezzata dal vento.
Sotto i raggi abbaglianti di quel pomeriggio assolato, scintillava di smeraldo e di giada, intervallando toni più cupi e bargigli biancastri.
Avvicinandosi lentamente all’enorme pianta che, silenziosa spettatrice dello spettacolo della vita e della morte, ai miei occhi appariva come un enorme faro del color del rame più puro, Mary B ne sfiorò la ruvida pelle, ricoperta di fine peluria muschiata.
“E’ una pianta davvero imponente, e incute rispetto e timore. Ma sa anche essere protettiva, con questo suo enorme cappello verdeggiante.”
Accostandomi alla quercia, annuii e posai la fronte contro la corteccia rugosa, mormorando: “Lei è ciò che hai detto, e molto altro. E’ come una saggia madre per noi tutti, e il suo abbraccio sa consolare in qualsiasi circostanza.”
“E abbraccerà anche me?” chiese Mary B, imitandomi e chiudendo gli occhi.
Sorridendo nello scorgere le onde di potere scarlatto avvolgere il corpo di Mary B, annuii e le spiegai: “Lo sta già facendo. Se solo potessi avvertirlo...”
“Mi accontenterò di averlo saputo dalle tue labbra” sorrise, lasciandosi andare a un pianto silenzioso quanto liberatorio.
La ascoltai piangere senza toccarla in alcun modo, conscia che quelle non erano lacrime di disperazione o di dolore, ma lacrime di sollievo, di epurazione, di rigenerazione.
Quando anche l’ultima fosse scesa a bagnare il suo viso, Mary B avrebbe potuto concedersi di sorridere di nuovo senza sentire su di sé il peso della sconfitta che, fino a quel momento, aveva gravato sulle sue spalle.
Anche tu devi sollevare dalle tue pesi che non dovrebbero gravare su te sola.
Sorrisi, ascoltando la voce stentorea della quercia all’interno della mia mente e, pacata, replicai: “Non sai che predico bene e razzolo male?”
Verrà il tempo in cui anche tu dovrai cedere parte dei tuoi fardelli, e lasciare che altri li portino con te.
“Per ora, sono abbastanza forte per portarli da sola.”
L’impertinenza non giova, a volte, Prima Lupa.
“Sono solo testarda” replicai, ghignando.
Ah, allora posso stare tranquilla.
Ciò detto, annullò la sua presenza dalla mia mente.
Con un ultimo pensiero a lei, tornai a dedicare la mia attenzione a Mary B, ancora immersa nella sua personale catarsi, ora più distesa in volto e maggiormente tranquilla.
Contavo che, da quel giorno in poi, avrebbe cominciato a sorridere senza più ombre nello sguardo.
Quando riaprì gli occhi e mi scrutò con sguardo perso, le chiesi: “Meglio?”
“Credo di sì” annuì, lasciando il contatto con la quercia per avvicinarsi a me.
Mi abbracciò, stringendomi a sé come se fossi per lei un’ancora di salvezza e, con voce resa rabbiosa dal dolore cocente che aveva provato fino a quel momento, a causa del tradimento di Patrick, sibilò tra i denti: “Perché il mio amore non gli è bastato?! Perché?!”
Ricambiai l’abbraccio, singhiozzando contro la sua spalla, divorata dai sentimenti strazianti che l’avevano fatta affogare lentamente per mesi.
Strizzando gli occhi come per non scorgere l’oscurità che Patrick aveva lasciato in lei, sussurrai: “L’amore da solo, a volte, non basta.”
“Già” esalò, prima di aggiungere: “Ma non devo lasciare che questo amore, morto ormai da anni, mi faccia perire dentro.”
“No, non devi” le sorrisi, scostandomi da lei per scrutarla in viso.
Appariva ancora pallida, ma sembrava aver recuperato in parte l’equilibrio.
Più sollevata, ammisi: “Pensavo di aver commesso un errore, ad amare così tanto i miei genitori. Per un certo periodo li ho odiati, perché loro ci avevano lasciati soli e, pur sapendo coscientemente che l’incidente non era stato causato da loro, li incolpavo di non essere più con noi.”
Mary B mi sfiorò il viso con le dita di una mano, fragile in apparenza, ma così forte nella sostanza.
Sospirai tremula, e proseguii dicendo: “Solo quando tu ci portasti a casa e ci donasti il tuo amore incondizionato, compresi quanto fosse stato giusto amarli così, senza freni.”
“L’amore donato non è mai uno spreco di tempo, o di energie” commentò Mary B.
“No, visto che mi ha insegnato ad amare te” sussurrai, scrutandola negli occhi, ora privi di lacrime.
“E a me ha insegnato ad amare voi” replicò, prima di darmi un bacio sulla fronte e domandarmi: “Torniamo a casa?”
“Sì, torniamo pure. Non vorrei mai mettere in ansia Gordon” risi sommessamente, ammiccando al suo indirizzo. “A piedi o in groppa?”
Lei mi fissò con una punta di desiderio negli occhi ed io, con un risolino, mi tolsi la vestaglia e mutai, sospingendola poi col muso perché salisse in groppa.
Il ritorno a casa fu più veloce, poiché intendevo dare a Mary B un assaggio di ciò che potevo fare nel mio corpo di lupo.
Nel sentirla urlare di gioia, o ridere felice quando balzai attraverso il torrentello che scorreva nel bosco, sentii il cuore colmarsi di una serenità che, da tempo, non provavo più quando pensavo a lei.
Probabilmente, avrebbe pianto ancora, nell’oscurità della sua stanza, o da sola nel suo studio in ospedale, ma sarebbero state lacrime dolci, non più condite dall’amaro della sconfitta e del rimorso.
Quando infine raggiungemmo il limitare della boscaglia, mutai in donna e, ripresa la vestaglia dalle mani di una eccitata quanto accaldata Mary B, ci dirigemmo insieme verso la casa di Duncan.
Quel giorno la clinica era chiusa, e non dovevamo temere occhiate indiscrete da parte di Christine o di eventuali clienti.
Aperta la porta – il profumo di Duncan mi disse che era al piano superiore, nel suo studio – salutai a gran voce il padrone di casa prima di correre in camera mia per cambiarmi alla svelta.
Mary B, nel frattempo, entrò in cucina per aspettare il mio ritorno.
Sbucando dall’ufficio, Duncan mi guardò sgusciare fuori dalla mia stanza già completamente vestita e, dandomi un bacio fuggevole, chiese: “Tutto bene, con Mary?”
“Tutto bene, tranquillo. Faccio un caffè. Ne vuoi uno anche tu?” mi informai.
“In effetti mi servirebbe” sospirò, passandosi una mano tra i mossi capelli neri.
Scrutandolo con maggiore attenzione, notai le occhiaie scure sotto i suoi occhi e l’aria stanca che permeava il suo viso stranamente pallido.
Cominciando a preoccuparmi, chiesi dubbiosa: “Qualcosa che dovrei sapere?”
“Niente di attualmente risolvibile. Stavo solo controllando ciò che Joshua mi ha mandato, riguardo alle indagini preliminari condotte all’interno del vostro appartamento, a Londra. In sostanza, non hanno trovato nulla di nulla. Un autentico buco nell’acqua.”
“Furbo, il nostro assassino scalatore” brontolai, intrecciando le braccia sotto il seno e accigliandomi in viso.
Adombrandosi, Duncan annuì. “La polizia archivierà il caso, visto che nessuno si è fatto male e non ci sono piste su cui proseguire le indagini. D’ora innanzi, si muoveranno solo le nostre, di forze dell’ordine.”
“Oh. Hanno anche un nome, i poliziotti licantropi?” chiesi io, curiosa.
Duncan rise senza veramente provare divertimento e, sfiorandomi una ciocca di capelli con la punta delle dita, mormorò pensieroso: “Sono le sentinelle a fare le veci dei poliziotti, per così dire, all’interno di un clan. Loro indagano e riportano ciò che scoprono a Fenrir, che poi deciderà se far intervenire Geri o Freki, a seconda dei casi.”
“Capito” annuii, prima di dire: “Ma è davvero necessario che…”
Interrompendomi con un’occhiata dura come selce, Duncan replicò: “Non cominciare. La tua sicurezza è primaria, e Joshua si è dichiarato disponibile ad aiutarci. Non complicare le cose con la tua testardaggine.”
“Comandi. Scendo a fare il caffè e te lo porto” tagliai corto, non volendo davvero imbarcarmi in una discussione simile, specialmente dopo aver ricevuto una tirata d’orecchie dalla quercia sacra.
In fretta, scesi le scale ed entrai in cucina, trovando Mary B seduta su uno degli sgabelli della consolle, intenta a leggiucchiare una rivista di musica.
Scusandomi con lei per averla fatta aspettare, accesi la macchinetta del caffè e le domandai: “Hai chiamato Gordon per dire che sei qui?”
“Segreteria telefonica” ironizzò, indicando il telefonino poggiato sul ripiano di marmo. “E’ sempre irreperibile, quando è con Erika.”
“Oh” esalai, ghignando divertita. Quei due l’avevano presa davvero sul serio, la cotta.
Tornando seria, Mary B prese distrattamente un pistacchio dal cestino che si trovava sul ripiano di marmo e, dopo averlo sgusciato, disse con un sorriso romantico: “Non sai quanto mi faccia piacere che Gordon stia con lei. E’ una ragazza così dolce e disponibile, anche se hanno quell’assurda passione per quei complessi spacca timpani.”
Scoppiai a ridere, servendole il caffè in una tazza di ceramica azzurro cielo.
Sorseggiando il mio, ammisi divertita: “Si sono davvero trovati, non c’è che dire.”
“Purtroppo per le mie orecchie, sì” annuì, sospirando con enfasi.
Ammiccando, versai una terza tazza di caffè per Duncan e le confidai: “Il mio segreto sono sempre stati i tappi per le orecchie. Ne avevo dozzine, in ogni angolo della casa.”
“Temo dovrò munirmi anch’io. Hanno il brutto vizio di tenere lo stereo altissimo, quando sono a casa. Forse per non farmi sentire che combinano in camera, chissà. Fatto sta che i miei timpani ormai cominciano a gridare vendetta” ridacchiò Mary, allungando la mano verso di me per afferrare la tazza di caffè per il mio licantropo preferito. “Lascia, lo porto io a Duncan.”
“Grazie” assentii, lasciandole la tazza.
Con un sorriso, mi lasciò sola in cucina mentre lei saliva al primo piano.
Non avendo nient’altro da fare, controllai che la marinatura delle bistecche che avremmo mangiato quella sera stesse procedendo bene.
Aprii il frigorifero per dare un’occhiata al piatto di portata, dove braciole e salamini erano ben stesi e ricoperti di rosmarino, scaglie di peperoncino e olio e, soddisfatta, lo richiusi prima di sobbalzare di sorpresa, quando squillò il mio cellulare.
Dandomi dell’idiota mentre prendevo in mano il telefonino, accettai la chiamata nonostante non comparisse il numero del chiamante e, con voce piana, mormorai: “Sì, pronto?”
“Per quanto tu faccia, non mi troverai mai. Ci rivedremo solo quando potrò vendicarmi. Nel frattempo, smetti di cercarmi o io colpirò il tuo cuore, prima di giungere a te.”
Detto ciò, la voce – schermata da un distorsore vocale – si ammutolì e la comunicazione cadde di colpo, lasciando al suo posto solo il tu tu della linea vuota.
Lentamente, a occhi spalancati, lasciai ricadere la mano lungo il fianco, comprendendo poco alla volta cosa volessero dire quelle parole sibilline.
Il mio cuore. La mia famiglia. La parte più vulnerabile di me.
Gordon e Mary B! Avrebbe colpito loro, prima di arrivare  a me!
Non feci in tempo a volgermi, per salire al piano superiore, che Duncan entrò in cucina – sicuramente richiamato dal mio urlo mentale di terrore – , lo sguardo percorso dalla paura come, sicuramente, doveva essere il mio.
Lasciandomi abbracciare dalle sue forti braccia, esclamai ansante: “Li vuole morti per ferire me, Duncan. Li ucciderà!”
“Ssst. Non ucciderà nessuno, Brie. Nessuno!” mi rincuorò con tono accorato mentre Mary B giungeva in cucina, sicuramente preoccupata per la fuga improvvisa di Duncan.
“Che succede?” chiese turbata, guardandomi pallida e seria.
Scossi il capo contro il torace di Duncan mentre lui, rigido come una statua, mormorava: “Il pazzo che ha minacciato di morte Brie. A quanto pare, preferisce agire contro di voi, per spezzare le sicurezze di Brianna. Ma io impedirò che ciò avvenga.”
Mary B si morse un labbro, pur restando impassibile di fronte alla minaccia appena esposta da Duncan e, con fiero cipiglio, dichiarò: “Beh, deve solo provarci, a farmi del male.”
Duncan accennò un sorriso, replicando: “Preferirei non fossi costretta ad affettarlo con il tuo bisturi, Mary. Chiamerò Lance ed Anthony, e dirò loro di pensare alla tua sicurezza. A Gordon penseranno Erika e Jessie.”
“Ma Lance dovrebbe pensare…” tentennai, non sapendo bene cosa pensare, in quel momento.
Il mio cervello sembrava un blocco unico di malta, del tutto inutile e privo di forma.
Azzittendomi con un dito posato sulle labbra tremanti, mi sorrise sicuro e replicò: “Ho maggiori possibilità di difendermi da solo che non loro, Brie, e poi sappiamo benissimo che la sua minaccia era diretta ai tuoi famigliari umani e non a me. Sa perfettamente che cercare di fare del male al sottoscritto sarebbe rischioso, e lui è tutto tranne che una persona coraggiosa, a quanto pare.”
“E’ solo un meschino figlio di…” cominciai col dire prima di trovarmi addosso gli occhi seri di Mary B. “… sì, va bene, non dico quella parola.”
“Bene” assentì, stringendo tra loro le mani per evitare che tremassero. “Cosa devo fare, ora, Duncan?”
“Dammi due minuti per fare un paio di telefonate, poi ti faremo accompagnare a casa da una delle tue guardie del corpo nuove di zecca” le spiegò, lanciandole un sorriso consolatorio. “Spero non avessi impegni speciali per questa sera, o per le prossime.”
Mary si leccò nervosamente le labbra, scuotendo il capo. “Niente di così pressante da non poter essere rimandato.”
“Mi spiace, Mary B” sussurrai, scostandomi da Duncan per stringere nella mia le sue mani intrecciate.
Lei mi fissò con serietà e una fierezza nuova, che non le avevo mai visto negli occhi, decretando con forza: “Siamo una famiglia. Nel bene e nel male.”
“Sì” annuii.
Non ero del tutto sicura di poter accettare che altre persone, specialmente loro due, venissero prese di mira dal mio personale attentatore, ma la verità era quella che aveva esposto con tanta sicurezza Mary B.
La famiglia non poteva esserci solo nei momenti belli della vita, ma doveva sostenersi anche in quelli brutti. Soprattutto in quei momenti.
Sperai comunque con tutto il cuore che, colui che voleva farmi del male, desistesse dai suoi propositi per tornare a fissare lo sguardo solo su di me.
Non credevo avrei potuto sopravvivere allo shock, se solo avesse toccato con un dito Mary B e Gordon.
“Non scervellarti più del necessario, Brie. Un problema alla volta” mi disse mentalmente Duncan, mentre telefonava a Lance e gli altri, informandoli di quanto era appena successo.
“Ci proverò, ma sappi che tutta questa situazione mi sta logorando peggio dell’acido muriatico.”
Gli sfuggì un sorriso, mentre attendeva che qualcuno rispondesse all’altro capo del telefono e, ironicamente, chiosò: “Se riesci a fare delle battutacce del genere anche adesso, vuol dire che non sei così tanto logorata.”
“Credimi, la sono, la sono” replicai con uno sbuffo infastidito.
Il problema, era un altro.
Fin quando avrei potuto sopportare di essere mangiata viva dal rimorso e dalla paura?

 

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Capitolo 6
*** Cap. 6 ***


 6.

 
 
 
 


 

L’imbrunire era alle porte, quando raggiungemmo la piccola vallata a forma di ferro di cavallo che era stata scelta per il nostro raduno tra clan.
Il cielo terso, tinto di arancione, rosso e viola, lasciava presagire una serata colma di stelle e uno spicchio di luna crescente, con il suo sorriso benevolo, mi diede il suo personale benvenuto in quel luogo di magia e incanto.
L’essere divenuta licantropo non aveva fatto che acuire il mio amore per la natura.
Trovarmi circondata da quello spettacolare pezzo di paradiso terrestre, mi fece sorridere spontaneamente, nonostante sapessi che non mi trovavo lì in gita di piacere.
Dietro di me, Freki e Geri controllavano ogni angolo visibile – e invisibile – che ci circondava, mentre Fenrir e Hati coprivano i miei fianchi, neanche si aspettassero un agguato da un momento all’altro.
Non che non ve ne fosse motivo. Quel che era successo a Londra mi aveva, ci aveva messi tutti in allarme.
Abbassare la guardia proprio in quel momento sarebbe stato da stupidi, cosa che non eravamo.
A casa, le difese erano state innalzate ai massimi livelli affinché, nei pressi dell’abitazione della mia famiglia, non si avvicinassero facce sconosciute.
In mancanza di Lance, che era dovuto venire con noi per sottostare alla formalità dell’incontro, alla sicurezza di Mary B badavano Anthony e un altro paio di sentinelle.
Erika, venuta a sapere della telefonata, non aveva perso di vista Gordon per più di un secondo.
Anche se Jessie aveva la sua piena fiducia, sapevo da fonti certe che la sorella di Jerome stava spendendo fior di sterline per telefonare alla sventurata sentinella, per essere certa delle condizioni del suo ragazzo.
Non invidiavo Jessie.
Mentre compiangevo silenziosamente la mia amica sentinella, lanciai uno sguardo intorno a me, lasciando perdere quei pensieri per dedicare la mia attenzione al luogo scelto per la riunione.
Poco lontano, intorno a un falò acceso, vidi alcune tende da campeggio già montate e pronte per la notte.
I primi clan erano giunti per quella riunione tra i branchi inglesi che, ogni anno, si svolgeva in uno shire differente.
Quest’anno era toccato al clan di Bradford, accoglierci. Nientemeno che ad Alec.
Piegandosi verso di me, Duncan sussurrò: “Come ti senti?”
“Nervosa come al mio primo giorno di università” ridacchiai, ammiccando.
L’odore dei licantropi – e di Kate – mi scivolò nelle nari come un dolce ed esotico profumo, e la mia bestia rispose al loro richiamo graffiando come un gatto contro le pareti del mio cervello.
Era desiderosa di uscire e di strusciarsi contro di loro, per rinsaldare un rapporto vecchio di secoli.
La azzittii – non era il momento per simili esibizioni – e mormorai: “Percepisco l’odore di Bright, del suo Hati e di Kate… e di una femmina con loro. Estelle?”
“Sì, è lei” annuì Duncan.
“E naturalmente, Alec è già arrivato. Poi ci sono Joshua e Frederick, … Gwen,… ma gli altri non mi dicono niente” ammisi, facendo l’elenco di ciò che sentivo.
“Avrai tempo per conoscere tutti” mi promise Duncan, balzando giù da un masso, subito seguito a ruota dalla sottoscritta e dagli altri membri del nostro gruppo.
Quando finalmente raggiungemmo i margini del campo improvvisato, l’odore del cibo messo a cuocere sulle griglie, e quello dei licantropi presenti, si fece così marcato che, per un momento, storsi il naso.
Era ancora difficile schermare le bordate sensoriali che il mio nuovo stato di licantropo mi obbligava a sopportare.
Concentrandomi maggiormente su quello che stavo percependo, mi sforzai di relegare il tutto in secondo piano, in modo tale da non esserne troppo distratta.
Quando, però, i miei occhi incrociarono quelli di una donna alta e flessuosa come un giunco, la mia concentrazione andò a zero.
Spalancando lentamente la bocca nel fissare la creatura più bella ed elegante che avessi mai visto, sbattei confusamente le palpebre prima di esalare: “Oh. Mio. Dio.”
La donna in questione sorrise con la bocca morbida e carnosa e, avvicinandosi a noi con andatura ferina – tipica di tutti i licantropi – protese una mano ed esordì allegramente: “E’ un vero piacere conoscerti, wicca, io sono Estelle McNamara.”
Riscuotendomi quel tanto che bastò per non apparire una completa deficiente, accettai la mano e, arrossendo mio malgrado, gliela strinsi.
“Il piacere è mio, Estelle. Io sono Brianna Ann Smithson.”
Ora che la vedevo da vicino, mi accorsi che i suoi occhi non erano grigi come avevo pensato in un primo momento, ma verdi.
Sottili pagliuzze nocciola tingevano quelle iridi brillanti e piene di una cortesia che, raramente, avevo visto nelle persone.
Lei ridacchiò, facendo tintinnare i begli orecchini a forma di campanella che indossava.
Ammiccando a Duncan, che ci osservò con un sorriso furbo sul volto, asserì maliziosa: “La tua Prima Lupa è molto più carina di quanto pensassi. Sono un po’ gelosa.”
A quel punto, lo sconcerto prese il sopravvento sulla sorpresa e, fissando quella splendida Venere dalla chioma dorata, esalai: “Io, bella? Qui c’è qualcosa che non quadra. Dovrei scavarmi una fossa e sotterrarmi, per fare un bel lavoro.”
La risatina di Estelle si trasformò in un’aperta risata di gola e Duncan, avvolgendomi le spalle con un braccio, rise del mio commento. “Ti sottovaluti sempre, mia cara.”
“No, ho gli occhi che funzionano bene. E’ un po’ diverso” replicai,  continuando a guardare Estelle per capire se mi stesse prendendo in giro o meno.
Ovviamente, essendo wicca, potevo percepire benissimo le menzogne. Poiché non avevo avvertito nessun prurito sotto il naso, sapevo perfettamente che le sue parole erano state sincere.
Ugualmente, non me ne capacitavo.
A grandi passi, possente di fisico e di aura, Bright ci raggiunse in poche, rapide falcate e, dopo aver stretto la mano a Duncan e Lance, mi sorrise, inchinandosi con fare comico.
Strizzandomi l’occhio, asserì: “E’ sempre un piacere vederti, wicca. Ed è una gioia sapere che sei la nuova Prima Lupa di Duncan.”
“Il piacere è ricambiato, Bright” replicai, alzandomi in punta di piedi per baciarlo sulle guance.
Avrei lasciato a dopo i saluti lupeschi. Per il momento volevo comportarmi da umana.
Lui mi lasciò fare, limitandosi a sostenermi con il tocco leggero di una mano su un braccio dopodiché, lanciando un’occhiata alla moglie – come per scusarsi – esalò: “E’ più forte di me, tesoro. Lo senti anche tu, no?”
“Oh, lo sento eccome…” ammiccò Estelle, sorridendomi comprensiva. “… e vorrei stritolarla in un abbraccio soffocante, tanto il suo potere mi ingolosisce. Ma sarebbe quanto meno… eccessivo.”
Io risi nervosamente – sapevo che il mio potere di wicca, combinato con quello di lupo, era peggio di un afrodisiaco, per loro – e dichiarai: “Non mi offenderò se mi abbracci. Ma lasciami qualche costola intera.”
Estelle ammiccò imbarazzata e annuì, prima di prendermi sottobraccio per accompagnarmi verso il centro del campo.
“Molte Prime Lupe vorranno toccarti, per non parlare dei Fenrir. Dovrai portare pazienza. E’ una cosa talmente nuova, per noi, che la curiosità dà forza al nostro desiderio di conoscerti. Facendoci diventare come delle mosche col miele.”
Lanciando un’occhiata divertita all’indirizzo di Duncan – che sogghignò – replicai bonariamente: “Mi sottoporrò stoicamente alla vostra curiosità. Spero solo di sopravvivere a tanto calore.”
“Sopravvivrai, te lo assicuro” mi promise Estelle, dandomi un colpetto con la spalla. “So cosa significa essere sbattuti nel bel mezzo della mischia, senza che nessuno ti aiuti.”
Annuendo, le confidai: “Duncan mi ha detto che tu hai avuto un battesimo del fuoco, per così dire, piuttosto burrascoso, e che potevi capirmi meglio degli altri.”
Estelle sorrise a Duncan, che asserì: “Ho pensato poteste parlarne un po’, se ti va.”
“Ma certo. Sarà un onore essere d’aiuto alla tua compagna” annuì Estelle. “Però, affronteremo l’argomento più tardi, perché credo che ora vogliano conoscerla tutti. Almeno i presenti.”
Il nostro arrivo nei pressi del falò, in effetti, sortì l’effetto di un cantante rock in mezzo a un branco di fan in delirio.
Tutti gli sguardi si posarono su di me con la velocità del fulmine e parecchi licantropi, annusando l’aria nell’avvertire il mio odore e il mio potere, sorrisero spontaneamente.
Il contegno impiegò qualche attimo per tornare sui loro volti, così rimasero passivamente fermi nelle loro posizioni, pur desiderando avvicinarsi.
La loro curiosità, mista a dubbio e timore, si infranse contro il mio cervello come le onde sulla battigia, stordendomi.
Passando velocemente una mano sulla fronte, chetai il mio respiro per controllare quel flusso di informazioni fino a bloccarle fuori dalla mia testa.
Quando fui in grado di parlare senza apparire dislessica, mi esibii in un breve sorriso e, con un grazioso cenno del capo, mormorai a mezza voce: “Buonasera a tutti. Io sono Brianna Ann Smithson. E’ la prima volta che incontro molti di voi.”
Un coro di buonasera si levò intorno al fuoco e Joshua, avvicinandosi al nostro gruppo con un sorriso, ci abbracciò a turno, dicendo: “E’ un piacere rivedervi così presto. Il rientro è andato bene?”
“Benissimo” asserii, prima di intercettare lo sguardo di Alec oltre le spalle di Joshua.
Vicino a lui, Frederick – Fenrir di Glasgow – era in posizione di attesa, quasi lo stesse tenendo d’occhio in previsione di guai.
Sorprendendo tutti, però, Alec si avvicinò a noi con l’aria di uno studentello timido e dichiarò: “E’ un piacere e un onore rivederti, wicca e Prima Lupa di Matlock. E’ stata una sorpresa venire a sapere del tuo nuovo status. Non si era mai sentito nulla del genere.”
“Amo stupire” commentai, accettando la sua mano protesa senza smettere di guardarlo negli occhi.
Quella sfumatura grigio ghiaccio non mi faceva più paura come un tempo.
La bestia dentro di lui, a stento trattenuta dalle sue buone maniere, era comunque da tenere sott'occhio.
La mia aura lo eccitava ancor più degli altri, e ne conoscevo bene il motivo.
La sua bramosia era molto superiore a quella di molti altri Fenrir poiché, più di ogni altra cosa, Alec desiderava il potere, e il mio era prelibato e succulento come un frutto maturo, pronto per essere colto.
Uno a uno, i Fenrir – con i relativi Hati e Prime Lupe – formarono un capannello intorno a noi,  mentre i Freki e i Geri continuavano a rimanere in disparte, nell’ombra, senza mai perdere di vista quel pericoloso concentrato di potere.
Conobbi così Gilbert, Fenrir di Skye, la sua compagna Stephanie e il loro Hati, Robert.
Finalmente, ebbi il piacere di fare la conoscenza con Becca, la Prima Lupa che Duncan aveva salvato a Glasgow, e il suo piccolo Matthew, che gorgogliò felice quando lo presi in braccio per qualche coccola.
E conobbi – anche se non mi fece particolarmente piacere – Sebastian, Fenrir dell’Isola di Man, che mi squadrò con il suo unico occhio nero come pece, prima di stringermi la mano e sentenziare: “Hai fin troppo potere, per i miei gusti, ma una wicca non si tocca, lo so bene.”
Duncan non commentò – non so se per educazione, o per altro – limitandosi a stare al mio fianco per tutta la durata di quelle presentazioni. Alla fine di quel balletto interminabile mi guardai intorno con aria dubbiosa, e chiesi: “Gli altri, quando arriveranno?”
“Pascal mi ha chiamato al cellulare mezz’ora fa. Sono bloccati sull’autostrada, e contano di arrivare domattina. Non possono certo piantare l’auto in mezzo alla strada” celiò Frederick, scrollando le spalle.
“Fenrir di Cardiff” mi sussurrò all’orecchio Duncan.
Annuii, prima di chiedere: “E Cecily, Fenrir di Falmouth?”
Ammettevo tra me e me che conoscere l’unico Fenrir donna dell’isola mi intrigava molto, e scoprire che era in ritardo mi aveva un poco deluso.
Sapevo di essere eccessivamente ansiosa, ma non potevo farci nulla.
Non avevo la più pallida idea di come fosse, sapevo solo della sua esistenza, e che Duncan nutriva un profondo rispetto per lei, il che non poteva che deporre a suo favore.
Da lì a sapere se le sarei stata simpatica, o se mi avrebbe trovato pericolosa per la sicurezza dei clan, non potevo saperlo.
Sebastian aveva messo ben in chiaro il fatto che, secondo lui, il fatto di essere sia Prima Lupa che wicca poneva nelle mie mani fin troppo potere.
Ero più che certa che, quando tutti fossero stati presenti, lo avrebbe riportato all’intero comitato di Fenrir.
Dalla mia avevo parecchi clan, era vero, ma dovevano ancora arrivare Pascal, Cecily, Eric, Fenrir di Colchester, e Bryan, il capo branco delle isole Orcadi.
Davvero non sapevo cosa aspettarmi.
Ma, soprattutto, non sapevo da che parte prendere Alec. Il suo apparente buonismo mi preoccupava.

***

Seduta su un ceppo, intenta ad aiutare Branson a pulire la canna di una delle sue Beretta 9 mm, lanciai uno sguardo curioso tutt’intorno a me.
In lontananza, notai il gruppo dei Fenrir al gran completo – Eric era finalmente arrivato, in compagnia di Bryan e soci – e il piccolo crocchio di Prime Lupe, sedute vicino al fuoco.
Avrei dovuto unirmi a loro? Restare con Branson? Onestamente, non lo sapevo.
“Non ti preoccupare, Brianna…” si intromise all’improvviso Branson, mettendo un po’ di olio lubrificante sullo stoppino, per poi pulire una delle canne “…fino a domani non ci sarà nulla di ufficiale, e la tua presenza o meno in mezzo al gruppo non darà adito a nessun pettegolezzo.”
“Sono così trasparente?” mi lagnai con lui, sospirando pesantemente.
“Abbastanza, per chi ti conosce” ammiccò Branson, dandomi un colpetto con la spalla.
Poco lontano, Gwen mi sorrise dalla sua postazione nei pressi della tenda di Joshua.
Memore delle sue parole, mi volsi verso Branson – che a sua volta aveva notato la collega – e gli chiesi: “Gwen mi ha detto che avete avuto alcune divergenze, voi due. E’ vero?”
“Non come crede lei” replicò, facendo spallucce. “Le ho solo salvato le penne durante un lavoro congiunto tra clan, e lei l’ha presa come un’offesa personale. Io le ho detto che, per essere una donna, ha un destro micidiale, ma che non sarebbe bastato contro un licantropo inferocito, e lei mi ha accusato di essere un misogino maschilista... e non dico il resto.”
Sollevando un sopracciglio con espressione interessata, insistetti in quello strano interrogatorio improvvisato. “Sei sicuro che sia andata esattamente così?”
Branson mi fissò con i suoi gelidi occhi da killer e, rabbrividendo leggermente, gli sentii dire: “Non sono problemi miei, se Gwen detesta gli uomini e le piacciono le donne, ma quel che va detto, va detto. Pur con tutta la ginnastica che potrà mai fare, il suo fisico è - e rimane - più debole del mio. Potrà essere agile, veloce e letale finché vuole, ma la sostanza non cambia.”
Gwen, omosessuale? Questa non me l’aspettavo. Non che me ne importasse qualcosa, ma forse poteva spiegare la vera acredine tra i due.
Poggiando il mento sul palmo della mano, fissai un momento Branson prima di chiedergli a bruciapelo: “Non è che tu avevi una cotta per lei e, quando ti ha dato picche, ti sei infuriato?”
Con mia somma sorpresa, Branson arrossì fino alla radice dei capelli scuri e, reclinando il viso, borbottò: “Non penso sia un argomento da trattare qui, dove ci sono troppe orecchie ad ascoltare.”
“Oh, giusto” annuii, infilando il caricatore nella pistola che avevo in mano, per poi inserire la sicura.
Fatto ciò, depositai l’arma nella fondina ascellare della mia guardia del corpo – Sarah si stava occupando, assieme a Lance, della sicurezza di Duncan – e, presolo per mano, dissi: “Vieni con me. Voglio arrivare in fondo alla questione.”
“Ma Brianna, perché?” esalò, seguendomi senza protestare troppo.
Sapevo di comportarmi da impicciona, ma non volevo ci fossero acredini del genere, tra il nostro branco e quello di Joshua.
Una sola incrinatura poteva portare a fratture ben più grandi, e io volevo un clan forte, così come alleanze altrettanto resistenti, per Duncan e me.
Quindi, dovevo arrivare in fondo alla questione.
Quando fummo a una distanza che giudicai accettabile – ora, eravamo immersi in un’oscurità densa e umida – dichiarai: “Bene. Fammi capire.”
Incrociando le braccia possenti sul torace, Branson brontolò: “Davvero non capisco perché tu voglia perdere del tempo per una bazzecola simile.”
“Non desidero ritrovarmi con una lite tra clan, e solo perché voi due non riuscite ad andare d’accordo. Siamo solo all’inizio del nostro governo senza il Consiglio, e non voglio per nessun motivo che ci siano increspature sul mio placido laghetto, okay?” gli spiegai succintamente, sospirando e passandomi una mano tra i folti e lunghi capelli.
Sbuffai, chetandomi, e aggiunsi: “So che ti può sembrare un’esagerazione, o una prevaricazione, ma credimi, lo faccio solo per il bene del branco.”
Sospirando a sua volta, Branson replicò: “Non metto in dubbio la tua buona fede, Prima Lupa…” nel sentirglielo dire, percepii quanto rispetto mi portasse nonostante, tra noi, ci fossimo sempre comportati con estrema disinvoltura. “…ma non so quanto potrà servirti sapere che sì, avevo un’infatuazione per Gwen prima che venisse dichiarata Geri, e sì, mi sono infuriato parecchio quando lei mi ha sbattuto in faccia la sua omosessualità… dopo essere stata con me per più di sei mesi.”
Quello, di certo, non me l’ero aspettato.
Sgranai gli occhi, arrossendo fino ai capelli e sentendomi tremendamente in colpa per averglielo chiesto.
Branson, del tutto tranquillo, continuò nel suo racconto. “Le feci notare che forse, se ci avesse riflettuto sopra prima, avremmo evitato di star male in due. Lei mi rinfacciò di aver tentato di amarmi e di non esserci riuscita, e così ogni occasione diventò buona per beccarci. Ma non farei mai nulla contro di lei né, meno ancora, contro il mio branco, o il suo. Non devi temere che i nostri battibecchi possano minare l’alleanza con Joshua.”
Reclinando il capo, mi avvicinai a Branson fino a poggiare la testa contro il suo petto, sentendo con maggiore chiarezza il battito affrettato del suo cuore e il sangue che pulsava nervosamente nelle vene gonfie.
Era agitato, nonostante non volesse apparirlo. E io ne ero la causa.
“Scusami, non pensavo che le cose fossero andate così” sussurrai, sollevando le mani per stringerle intorno alle braccia imponenti di Branson.
Lui rimase immobile, replicando pacatamente: “Una Prima Lupa non si deve scusare. Agisce per il bene del branco, e ogni sua domanda è lecita. Non sono offeso, ma mi spiace averti causato turbamento. Hai già fin troppe cose a cui pensare.”
Sollevai di scatto il capo per fissarlo in viso – che io vedevo chiaramente, nonostante l’oscurità che ci circondava – ed esclamai: “Ma no! Non devi preoccuparti di questo! E’ che temevo, insomma…”
Sorridendomi gentilmente, Branson mi sfiorò una spalla con l’enorme mano, mormorando: “…temevi che potessi essere un potenziale pericolo per la leadership di Duncan e, da brava Prima Lupa, te ne sei occupata personalmente.”
“Devi scusarmi se non faccio le cose come dovrei, ma …” brontolai, non sapendo bene cosa dire.
“Le fai esattamente come dovresti. Sono le Prime Lupe a occuparsi di questioni simili” replicò Branson, scrollando le spalle. “Solo, non pensavo che il mio… disaccordo con Gwen avrebbe potuto turbarti. Vedrò di parlare anche con lei, per chiarire le cose. In fondo, lo so che a volte esagero, con le battutine. Mi scuserò, promesso.”
Abbozzai un mezzo sorrisino di scuse e chiesi: “Sicuro che non sono stata un’impicciona?”
“Sei stata una brava Prima Lupa” mi rassicurò Branson, annuendo con forza.
Feci per ringraziarlo quando, di colpo, i miei sensi si tesero come corde di violino ben accordate mentre Branson, notando il mio irrigidimento improvviso, mi sussurrò turbato: “Problemi?”
Annuii mentre lui, con un movimento fluido di braccia e gambe, mi accompagnò lesto verso terra, inglobandomi completamente nella sua stretta protettiva.
L’Abbraccio della Morte.
Quella tecnica di protezione non era chiamata a quel modo per la fine a cui si andava incontro ma perché, ad applicare quel tipo di sistema difensivo, erano solo Freki e Geri che, di fatto, dispensavano morte.
Perciò, era come essere abbracciati dalla Falce Mietitrice.
Inginocchiata a terra e con i sensi in allarme, percepivo distintamente il tepore del braccio di Branson che mi avvolgeva il corpo, mentre il mio busto era premuto contro la sua gamba, ripiegata per darmi un appoggio laterale.
Di fatto, era come trovarsi all’interno di un bozzolo caldo e protettivo.
Rabbrividii comunque, nel sentire il click delle sicure delle pistole mentre venivano disinserite e, cauta, brontolai: “Alec, ho percepito il tuo odore. Vieni fuori e smettila di fare lo stronzo. Sia tu che il tuo amico, grazie.”
Una risatina stridula si fece largo nell’oscurità densa come melassa, mentre dei passi soffusi si avvicinavano a noi da due differenti direzioni.
“Anche se eravamo sottovento, ci hai percepito lo stesso. I miei complimenti, wicca” dichiarò Alec, a non più di tre metri da noi, nascosto fino a quel momento alla nostra vista grazie a una serie di affioramenti rocciosi.
“Uh, niente meno che l’Abbraccio della Morte” ridacchiò una seconda voce, poco lontana da noi. “Non siamo un po’ esagerati, Geri?”
“Mai, per la mia wicca” ringhiò tra i denti Branson, rialzandosi lentamente e portandomi con sé, senza mai lasciare la presa sulla mia vita.
“Hai un cagnolino davvero fedele, mia cara” convenne Alec, muovendosi a destra e a sinistra, come una iena di fronte a un animale morente. “In pochi mesi ti sei fatta amare e rispettare da tutto il branco?”
Aggrottai la fronte, stringendo una mano sul braccio possente di Branson perché non si scatenasse in tutta la sua furia omicida.
Gelida, replicai: “Ma come? Conosci la parola amore? Pensavo fosse bandita dal tuo vocabolario.”
Un’altra risata, più aspra, stavolta. Quindi a ridere, in precedenza, era stato il lupo misterioso, quello dall’aura così sinistra.
“Spiritosa e pungente proprio come ti ricordavo, piccola. La mutazione non ha cambiato il tuo caratterino. Ne sono lieto” commentò Alec, facendo un passo per avvicinarsi.
Ringhiai istintivamente, snudando le zanne e mostrandole ad Alec perché si rendesse conto di cosa fossi capace.
Potevo ancora avere dei problemi nel gestire i miei sensi sovra sviluppati ma, nella mutazione mediana, ero un asso non meno di Duncan.
Non appena lo notò, Alec bloccò i suoi passi e si fece un poco più guardingo, mormorando subito dopo: “Oh, bene. Pur così giovane, sai già mutare parzialmente?”
Con voce leggermente metallica, ringhiai: “E aspetta di vedermi domani. Farai meno il furbo.”
Fu la volta di Branson di calmare i miei bollori.
Sentivo distintamente la bestia ringhiare e graffiare dentro di me, desiderosa di uscire per dare una bella lezione ad Alec, che stava deliberatamente mancando di rispetto a un lupo alfa come io ero di diritto.
Era raro che la parte lupesca di me si facesse così aggressiva e sì, infastidita dalla mancanza di rispetto mostrata da un altro lupo.
Andava pur detto, però, che non avevo un gran feeling con Alec, e questo sicuramente peggiorava le cose.
“Mia wicca, ti prego. Niente risse” mi pregò Branson, tendendo i muscoli del braccio per trattenermi.
Non mi ero accorta di essermi già piegata in avanti per attaccare.
Alec rise ancora, ma pensò bene di arretrare di un passo, prima di asserire beffardo: “Ah, la nostra cara, bellicosa lupetta. E io che ero solo venuto per presentarti il mio nuovo Freki.”
Mi volsi un secondo verso destra per lanciare uno sguardo al lupo che, dall’ombra, era emerso come un’emanazione spettrale.
Con un inchino, irrispettoso al pari del ghigno ferale con cui si esibì, celiò: “E’ un onore conoscere colei che è riuscita a sconfiggere, da umana, il mio predecessore. I miei rispetti, wicca, io sono Gregory.”
Feci schioccare la lingua contro il palato, irritata dal suo modo di parlare così sfrontato, e replicai: “Dal tuo tono vuoi farmi capire che ora, pur essendo Prima Lupa e wicca, non avrei alcuna chance, contro di te?”
Sollevò un folto sopracciglio rossiccio, asserendo: “Oltre che bella e brava, sei anche acuta. I miei più vivi complimenti. Duncan si è scelto una buona compagna con cui scaldarsi la tana.”
Guardai il cielo, imprecando tra i denti mentre Branson si irrigidiva di fronte a tanta sfrontatezza.
Fissando poi Alec, ironizzai sardonica: “Devi avere un fiuto speciale, se riesci a sceglierli tutti stronzi come te.”
Entrambi i lupi scoppiarono a ridere di gusto, evidentemente divertiti dalla mia battuta.
Dando una pacca sul braccio a Branson perché mi lasciasse andare, mi avvicinai con due rapide falcate ad Alec, prima di sputargli in faccia: “Ridi finché vuoi, maledetto lupo dei miei stivali, ma non aspettarti gentilezza da parte mia. Sei e rimarrai uno stronzo presuntuoso!”
“E tu una lupacchiotta con la lingua troppo lunga” replicò, perdendo di colpo ogni voglia di fare dell’ironia e sollevando una  mano per colpirmi.
Era quello che volevo.
Sogghignai vittoriosa e, facendo appello ai miei poteri di wicca, accumulai dentro di me l’energia rilasciata dalla sua aura iraconda, rigettandogliela addosso decuplicata, mandandolo così lungo riverso a terra, a una ventina di metri da me e Branson.
Sorpreso e irritato – forse il giovanotto si era dimenticato che ero ancora una wicca – Alec si passò una mano sulla bocca, dove un rivoletto di sangue scendeva a macchiargli il pizzetto scuro sul mento.
“Hai imparato bene.”
Freki mi guardò torvo, indeciso sul da farsi così, ironica, gli chiesi: “Ne vuoi anche tu?”
Alec si alzò con la grazia ferina di cui solo i licantropi sono i padroni indiscussi e, fissando un momento il suo Freki per frenarne lo spirito battagliero, si limitò a dire: “Ho avuto la prova che cercavo.”
“E cioè?” volli sapere.
“Che hai troppo potere dentro di te. Sei una minaccia per i clan” mi riferì beffardo.
Sollevai un sopracciglio con evidente scetticismo e replicai: “E tu credi che, se raccontassi quel che è successo, gli altri avrebbero qualcosa da ridire sul mio comportamento?”
Quella frase lo colse di sorpresa. Forse non si era aspettato il mio silenzio.
Aggrottando la fronte, chiese dubbioso: “Che intendi dire?”
Ero veramente stanca di lui, e glielo dissi.
Passandomi una mano tra i capelli, asserii fiacca: “So che tu sei abituato a vivere in un mondo dove l’egemonia vale sopra ogni altra cosa, ma forse ti stupirai nel sapere che non tutti la pensano come te. Io non ho alcun bisogno di andare a spifferare a Duncan e agli altri quel che hai fatto stasera visto che, spero, tutto si risolverà con un pacifico buonanotte. Ma sei padronissimo di non crederci e spiattellare tutto tu alla riunione di domani sera, cercando di difenderti da accuse che non ti muoverò contro.”
Sprezzante, si volse per andarsene e sentenziò: “La tua generosità non ti porterà da nessuna parte, Prima Lupa.”
“Pensala come vuoi” sbottai, tornandomene al fianco di Branson che, fino a quel momento, aveva tenuto tra le mani le sue fide pistole.
Gregory seguì Alec dopo un attimo. Attesi che fossero abbastanza lontani, per sciogliermi contro il torace teso allo spasimo di Branson. “Sto per svenire, sai?”
“Ah, ecco. Pensavo fossi diventata la Regina di Ghiaccio tutto di colpo” ironizzò, pur con voce tesa.
Emisi una risatina tremula prima di cercare il suo braccio e lui, avvolgendomi protettivo le spalle, mi riaccompagnò verso il campo.
“Perché questa dimostrazione di forza con quell’idiota?”
“Volevo che fosse chiaro ad Alec che non ha a che fare con una giovane licantropa spaesata, ma con una Prima Lupa tosta, e per nulla ben disposta a farsi mettere i piedi in testa” ammisi, appoggiandomi quasi completamente a lui.
Se non ci fosse stato Branson, sarei sicuramente morta di paura, ma era meglio non dirlo ad alta voce. C’erano un po’ troppe orecchie indiscrete, in giro.





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N.d.A: ecco, finalmente, l'incontro tra clan e, come sempre, Alec si fa riconoscere! :)
Grazie a tutti/e voi che avete letto e/o commentato! Mi fa sempre molto piacere...^_^

 

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Capitolo 7
*** Cap. 7 ***


 

7.

 
 N.d.A: Ed ecco che arriva Cecily!!!
 
 
 
 
 

 

Non avevo fatto alcun accenno a Duncan del mio incontro-scontro con Alec.
Avevo altresì chiesto a Branson di fare la stessa cosa, poiché non volevo creare dei problemi prima ancora che la riunione iniziasse.
Non appena tutto questo fosse stato alle nostre spalle, forse glielo avrei accennato – ovviamente, quando fossimo stati abbastanza lontani da Alec – ma, di sicuro, non glielo avrei detto in quel momento.
Perciò, quando uscii dalla tenda che avevo diviso con lui, dopo aver dormito saporitamente tutta la notte, mi stampai un candido sorriso in volto e cercai di sfoderare la mia migliore faccia da poker.
(Sono una schiappa a giocare, per la cronaca).
Il sole splendeva all’orizzonte, lambendo le morbide colline in lontananza e tingendo di caldi colori la brughiera ricolma di erica, cardo selvatico, artemisia e tarassaco.
L’aria era fresca e frizzante, del tutto priva degli aromi di cibo affumicato e brace rovente della sera precedente.
Una leggera brezza portava con sé il profumo dei fiori che ci circondavano, dell’erba umida e della terra rigonfia di vita.
Calpestai a piedi nudi il terreno schiacciato di fronte alla tenda, inspirando a pieni polmoni l’aria del mattino e percependo sotto di me, tutt’intorno a me, il canto leggiadro della Terra al suo risveglio.
“Buongiorno” sussurrai tra me, allargando le braccia come a voler abbracciare tutto ciò che mi circondava.
Un attimo dopo, mi ritrovai ad abbracciare un corpo caldo e morbido, che avevo imparato a riconoscere dal profumo: Estelle.
Risi nel sentirmi stringere in un abbraccio stritolante, mentre la sua voce soave mi sussurrava: “Ah, mia cara, eri un bocconcino troppo appetitoso, per non essere divorato. Ho colto la palla al balzo non appena ti ho vista.”
Subito dopo, mi stampò un bacio sulla guancia e mi sorrise cordiale.
Avevo imparato in fretta che, l’estrema dolcezza di Estelle, era il suo tratto caratteristico.
Sebbene Bright avesse tentato, la sera precedente, di tenere a freno gli istinti predatori della moglie, niente e nessuno era riuscito a tenerla lontana da me che, di buon grado, avevo accettato le sue attenzioni.
Kate, giungendo accanto a noi assieme a Bright, sogghignò divertita e commentò: “Non sembra mamma koala con il suo cucciolo?”
Bright sghignazzò annuendo ed Estelle, voltandosi verso di loro per fare la linguaccia, replicò: “Sei tu, Kate, che non vuoi sottoporti allo stesso trattamento. Sai benissimo che sarei espansiva anche con te!”
Quest'ultima sollevò le mani in segno di protesta e, ammiccando nella mia direzione, mormorò: “Mi perdonerai se non voglio diventare il suo orsacchiotto di peluche.”
“Perdono accordato, Kate” ammiccai, prima di sentire la risatina di Duncan alle mie spalle.
“Buongiorno a tutti. Ma ti ha già placcata?” esalò, sorridendo comicamente a Estelle.
“Sì” annuii, prendendo sottobraccio la Prima Lupa di Bright per avere una scusa per poter respirare più agevolmente.
“Bene, se voi signori avete finito di divertirvi alle mie spalle, io e la mia nuova amica andremo a fare colazione assieme” decretò Estelle, rivolgendo poi i suoi abbaglianti occhi verdi dalle pagliuzze nocciola in direzione di Duncan. “Non hai nulla in contrario, vero, caro?”
“No, nessuno” scosse docilmente il capo quest'ultimo, lanciandomi uno sguardo divertito da sotto le lunghe ciglia scure.
Così deciso, ci dirigemmo a passo sostenuto verso il centro del campo, dove alcuni Geri stavano cercando di riaccendere il fuoco per poter preparare la colazione.
Le macchinette per i caffè, come le caraffe per il the, erano già state preparate a dovere.
Sperai non rimanessero a secco troppo presto, perché avevo bisogno di caffeina in quantità industriale.
Avvicinateci a uno dei tavoli da pic-nic, su cui era stato sistemato un po' di tutto, presi per me un po’ di torta al cioccolato e requisii un succo di frutta alla pera.
Assieme a Estelle, che aveva preso per sé brioche e succo di pera, ci dirigemmo su un basso promontorio roccioso poco distante.
Dabbasso, a un centinaio di iarde da dove ci trovavamo, un piccolo e stretto canale, scevro di vegetazione, si allungava sinuoso per diverse miglia.
Al suo termine, una piana rigogliosa e ricca di fiori dal profumo inebriante, si estendeva fin dove l'occhio poteva posarsi.
L’erica in fiore, con il suo aroma speziato, si confondeva con quello delicato delle margherite, o quello più dolce del cardo selvatico.
Era un'autentica gioia per l'olfatto. Quelli, più di altri, erano i momenti in cui gioivo maggiormente della mia nuova natura di licantropo.
Sorridendo spontaneamente alla mia compagna di colazione, sperai che anche lei condividesse il mio entusiasmo per quello spettacolo della natura.
Scrutandone incuriosita gli occhi lucenti, mi parve che anche lei stesse assaporando quei gradevoli effluvi, esattamente come me.
“Non ti stancheresti mai di ammirare ciò che ti circonda, vero?” mormorò sommessamente Estelle, lanciandomi una breve occhiata sorridente e ricca di mistero.
Era ovvio che non mi aveva condotta lì solo per guardare estasiata il bel panorama, ma ero restia a porre la prima domanda.
Preferivo di gran lunga fosse lei a parlare, quando l’avesse ritenuto opportuno.
Ero certamente curiosa di sentire da Estelle in cosa, le nostre esperienze, fossero simili, ma da lì a fare l’impicciona ce ne correva.
Avevo già dato, in quel frangente.
Quando ci accomodammo sulla roccia fredda e ricoperta di vecchi licheni grigiastri e bruni, Estelle  sorrise benevola e, sistemandosi dietro un orecchio una ciocca dei serici capelli biondi, mormorò: “Te lo si legge in faccia che vuoi parlare del mio passato.”
Grugnendo, borbottai: “Comincio a pensare di dover acquistare una maschera, e fare come il Fantasma dell’Opera.”
Lei rise un istante prima di farsi stranamente seria. Un attimo dopo, iniziò a raccontarmi la sua avventura nel mondo dei licantropi.
“Successe tutto sette anni fa. Stavo tornando dall’università quando l’autobus su cui mi trovavo ebbe un incidente. Al mio fianco, in silenziosa lettura, c’era Bright. Ricordo che indossava un pullover azzurro cielo e jeans neri. Stava leggendo Moby Dick. Lo avevo notato altre volte, su quell’autobus, ma non mi ero mai arrischiata a guardarlo in viso per più di qualche secondo alla volta perché, già allora, lo trovavo abbastanza affascinante da rischiare di fare una delle mie solite, magre figure.”
Io risi, immaginandomi la scena.
Ingoiando un pezzo di torta, lo sguardo incollato al suo viso, la scrutai mentre il suo sguardo si perdeva nel vuoto, immerso in ricordi agrodolci.
Con un’unghia, si grattò via distrattamente un peluzzo dai pantaloni, prima di proseguire nel suo racconto.
“Ero talmente stordita dal fatto che, quel giorno, lui si fosse seduto al mio fianco che impiegai un attimo più degli altri, per accorgermi di ciò che stava succedendo. L’autobus uscì di strada, ribaltandosi più e più volte, e io gridai di paura per tutto il tempo. In pochi attimi, fu il caos. Sentii le persone tutt’intorno urlare non meno di me, mentre il mezzo si capovolgeva, rotolando lungo una scarpata. Mi davo già per morta. D’impulso, lanciai uno sguardo verso il mio compagno di poltrona e, con mia gran sorpresa, lo vidi calmo, persino glaciale, proteso verso di me a formare una specie di bolla protettiva, perché non mi accadesse nulla di male. Non parve essere affatto turbato dai colpi che, per difendere me, prese alla schiena durante la caduta. Lo ammirai per il suo coraggio.”
Sorrisi maggiormente, immaginandomi Bright in quella situazione. Non faticavo a comprendere il fascino che poteva aver esercitato su Estelle.
Proseguendo nella sua narrazione, mormorò: “Quando il mezzo giunse alla fine del dirupo, il contraccolpo fu tremendo. Fummo sbalzati contro il fondo dell’autobus in un caos di borse, sedili e corpi inermi. Fu a quel punto che sentii un dolore atroce al braccio destro… e vidi gli occhi di Bright sgranarsi in preda al panico. Pensai che, finalmente, si fosse reso conto del casino in cui eravamo finiti. Compresi la realtà dei fatti solo un po' di tempo dopo. Nel tentativo di proteggermi dai corpi degli altri passeggeri che, in quel rocambolesco volo, avrebbero potuto schiantarsi contro di me, utilizzò una quantità eccessiva del suo potere di licantropo, mutando in parte le dita in artigli, e finendo col ferirmi leggermente.”
Sgranai gli occhi e lei, sorridendo, continuò a raccontarmi il suo curioso passato.
“Naturalmente, a parte quel graffio, uscii illesa dall’incidente, ma Bright non volle lasciarmi per nessun motivo. Pensai che il mio interesse per lui fosse ricambiato e, lo ammetto, il suo prodigarsi a quel modo mi fece molto piacere. Ma il motivo della sua preoccupazione era sorto da ben altro, in quel giorno così strano, e lui non sapeva come affrontare l’argomento.”
“Immagino. Si sarà sentito tremendamente in colpa” annuii.
Lei assentì, proseguendo la sua narrazione.
“Chiamò Kate perché venisse a prenderci in auto e, quando la polizia ci permise di andarcene, lui si offrì di accompagnarmi a casa. Beh, io gli fui grata per la sua solerzia, e naturalmente accettai. Ma, per tutto il tragitto, mi chiesi il perché del suo sguardo colpevole. Lo scoprii la sera successiva.”
“Cosa fece?” chiesi,curiosa.
“Si presentò sotto la finestra della mia stanza – all’epoca, abitavo ancora con i miei genitori – e mi chiese di poter parlare con me in segreto. Accettai. Mi sembrava divertente, in qualche modo” ridacchiò, arrossendo leggermente. “Ammetto candidamente che il suo salvataggio eroico mi aveva colpita.”
Sorrisi ancora di più. Probabilmente, avrei reagito alla stessa maniera, di fronte a un gesto così coraggioso.
“Fatto sta che scesi e mi sedetti sulla panchina che c’era sotto il melo, nel giardino che avevamo sul retro di casa. Lì, Bright, dopo avermi guardata per un po’, soffermandosi più e più volte sulla fasciatura che nascondeva la mia ferita, mi disse la verità su se stesso e su ciò che mi sarebbe successo” mi spiegò Estelle, ammiccando comicamente. “Puoi ben immaginarti le mie risate. Lo presi in giro, dicendogli che, se quello era il suo modo per attirare la mia attenzione, aveva sbagliato alla grande. Così lui sospirò pesantemente, mi tappò la bocca con una mano e, con quella libera, mutò le dita facendo uscire gli artigli.”
Sgranai leggermente gli occhi. Anche Bright non c’era andato leggero, con gli esempi. Forse, era una caratteristica dei licantropi, quella di non usare mezze misure.
Estelle lanciò uno sguardo dabbasso, scrutando le ombre tra le rocce con fare pensieroso.
“Naturalmente, mi divincolai per scappare, terrorizzata da quella scena assurda e ai limiti del film dell’orrore, ma Bright non mollò mai la presa e, alla fine, fece l’unica cosa che avrebbe potuto calmarmi. Mi baciò.”
“Wow. Diretto è dire poco” esalai, sorpresa.
Lei rise, chiaramente divertita dalle sue stesse parole.
“Non appena sentii il sapore delle sue labbra, e il calore del suo corpo stretto al mio, smisi di avere paura. Nessuna creatura malvagia avrebbe potuto avere quel profumo, quel sapore, quel calore, quell’aura protettiva. Così mi lasciai andare. E lui mi parlò di se stesso, di ciò che sarei diventata a causa del suo errore. Si scusò finché non ebbi più voce per ribattere alle sue scuse e, alla fine, promise che mi avrebbe aiutata ad affrontare il cambiamento, senza mai abbandonarmi un secondo. E così fece. La prima notte di luna piena, mutai. Non ti dico la paura.”
“Ne ho qualche idea” ammiccai, ironica.
Estelle annuì divertita, terminando il suo racconto.
“Quando mi ritrovai a poggiare le zampe sul terreno e ascoltai per la prima volta i pensieri di Bright, ebbi l’impressione di esplodere dalla gioia. Corremmo tutta la notte nel bosco, saltando e giocando assieme come due cuccioli e, alla fine, lui mi disse del branco e di ciò che avrei dovuto fare da quel giorno in poi." Mi lanciò un sorriso complice, ben sapendo come fossero andate le cose, per me.
"Affrontai i miei duelli per risalire la scala gerarchica e, nel frattempo, mi feci un’idea sempre più precisa di cosa volesse dire vivere in un clan di licantropi. All’inizio fu sconvolgente ma, poco alla volta, mi abituai, innamorandomi di questa nuova vita e del senso di appartenenza che riscalda ogni membro del branco.”
“E poi?”
“Una notte, durante un giro di ronda assieme a Bright, gli chiesi di poter stare con lui. Non avrei potuto trovare persona più sorpresa di lui in tutta la Scozia” ammiccò comicamente Estelle. “Pensava ancora, direi scioccamente, che io ce l’avessi con lui per il mio cambiamento di vita, e per il bacio che mi aveva rubato. Dopo quello strano momento passato sotto casa mia, quando mi raccontò tutto, Bright non provò più a baciarmi, e non fece più menzione a quella notte. Peccato che io, invece, non avessi aspettato altro che un suo nuovo approccio. A volte, gli uomini sono davvero ciechi.”
“Come ti capisco” sospirai, ripensando a quanto tempo fosse occorso a Duncan, per venire a patti coi suoi sentimenti.
“Morale della favola, mi trasformai in donna e lo feci mio quella stessa notte. Durante la prima riunione al Vigrond, Bright mi propose come sua Prima Lupa, e dovetti affrontare ben tre duelli, per averlo” disse con un certo orgoglio Estelle, finendo la sua colazione. “Alla fine ebbi la meglio, e il branco mi riconobbe come Signora del clan. Dopo solo sei mesi dalla mia trasformazione.”
“Accidenti!” esalai. “Ora capisco perché Duncan mi ha detto di parlarne con te. Pure tu hai subito un cambiamento radicale della tua vita, e in pochissimo tempo.”
“Sì. Ma è valsa la pena di affrontare tutti quei cambiamenti, e farmi venire qualche crisi isterica, visto quello che ho ottenuto in cambio” ammise Estelle, osservando il campo in lontananza. “Ora ho Bright, il mio branco, e l’amicizia di un sacco di persone. Non è poco, direi.”
“Direi proprio di no” asserii.
“So che, oltre a ciò, tu devi portare il fardello del titolo di wicca, Brianna, ma sappi che comprendo esattamente come ti senti. Per chi non è nato lupo, certe regole sembrano assurde ma, col tempo, tutto si appianerà e ti sembrerà normale, persino il mio atteggiamento da mamma koala” ammiccò Estelle, sorridendomi divertita.
Risi a quell’accenno e, abbracciandola d’impulso, esclamai: “Non mi fa che piacere!”
“Grazie” sussurrò, baciandomi dietro un orecchio prima di inspirare il mio profumo e il mio potere. “Dio, Duncan dovrà faticare un casino a non portarti a letto ogni volta che ne ha l’occasione. Fondere l’aura con te deve essere un’esperienza indimenticabile.”
Scoppiai a ridere di gusto, ammettendo tranquillamente che la fame di Duncan era abbastanza accentuata, specialmente a causa delle nostre separazioni prolungate.
Estelle, annuendo, si scostò da me, confidandomi: “La fame di un uomo lupo è direttamente proporzionale al suo grado all’interno del branco, quindi, immagina quella di Duncan, o di Bright.”
Sollevai un sopracciglio, divertita mio malgrado da quel discorso e, accennando una risatina diabolica, le domandai: “Quindi, se liberassi spontaneamente un po’ del mio potere, sarei peggio di una falena nel periodo degli amori?”
“Oh, molto peggio. Dovresti difenderti da parecchi lupastri in calore, mia cara. E a Duncan non farebbe di certo piacere” ridacchiò Estelle, divertita al pari mio. “Ti converrà tenere a freno la tua aura, durante la riunione, se non vuoi rischiare di ritrovarti le mani addosso da parte di un po’ troppi uomini.”
“Okay, messaggio ricevuto” annuii, pur continuando a ridacchiare.
Estelle si levò in piedi, passandosi una mano tra i folti e leggeri capelli dorati, sentenziando: “Non mi dire che non sei abituata ad avere gli occhi degli uomini puntati addosso. Sei una bella ragazza, e penso che tu abbia fatto girare la testa a parecchi tuoi compagni, a scuola.”
“Negativo. Mi reputavano troppo strana. L’unico ragazzo con cui sia mai stata, era un tipo tutto muscoli di nome Leon. Duncan è stato il primo uomo con cui sia andata a letto” ammisi, scrollando le spalle.
Da quando ero diventata un licantropo, parlare di me era diventato più semplice, come se le mie inibizioni umane fossero del tutto scomparse.
Ogni tanto, quel particolare mi faceva sobbalzare per la sorpresa e lo sgomento.
Era possibile che in un anno fossi cambiata tanto? Sembrava di sì.
“E scommetto che la cosa ti ha soddisfatto appieno” commentò Estelle, prendendomi sottobraccio per tornare all’accampamento.
“Eccome, ma non lo direi mai davanti a lui. Tende a essere un po’ geloso della nostra intimità” le spiegai, sorridendo.
“Normale amministrazione. I maschi possono essere davvero gelosi delle rispettive prestazioni, mentre noi lupe siamo chiacchierone all’inverosimile. A loro insaputa, ovviamente” sogghignò Estelle, con aria da cospiratore.
La sola idea mi fece scoppiare a ridere di gusto e, quando tornammo all’interno del perimetro del campo, ancora stavo ridendo, asciugandomi le lacrime che scivolavano sulle gote rosse d’ilarità.
Quando raggiungemmo i nostri due gruppi, Bright e Duncan ci fissarono curiosamente mentre Kate, sorniona, ammiccò nella nostra direzione.
“Estelle, sbaglio o hai battezzato la nostra nuova Prima Lupa?”
“Sì” ammiccò a sua volta Estelle, prima di smettere di ridere al pari mio.
Un’onda di potere fuori dal comune si riversò sul campo, scivolando tra le tende come una brezza calda e densa.
Scrutando un momento Duncan per avere spiegazioni, gli sentii dire: “Cecily.”
Fenrir della Cornovaglia. L’unica licantropa dal manto niveo che si conoscesse a tutt’oggi, in Gran Bretagna.
Beh, a giudicare dalle sue onde di potere, meritava ampiamente il titolo.
Alec comparve nel mezzo del campo, come disturbato da quell’ondata di potere allo stato puro e, sprezzante, borbottò: “La solita esibizionista. La smetterà mai?”
Frederick si avvicinò al nostro gruppetto, riunito nel centro dell’accampamento, con il suo solito sorriso gioviale, tenendo il piccolo Matthew in braccio.
Data una pacca sulla spalla ad Alec, celiò: “Le donne sono esibizioniste per natura, non lo sapevi?”
Detto ciò, lanciò un’occhiata divertita a noi femmine presenti che, ghignando, scrollammo quasi all’unisono le spalle con aria noncurante, facendo ridacchiare tutti tranne l’ombroso Alec.
Lasciando perdere il caratteraccio del nostro ospite, mi volsi in direzione della provenienza del potere di Cecily e, non senza sorpresa, vidi comparire un’enorme corazza vivente, alta due metri buoni: doveva essere il suo Hati.
Quello che mi sorprese più di tutto, però, fu vedere uno scricciolo di donna, alto poco più di un metro e sessanta, dalla folta capigliatura rosso fuoco e due occhi azzurri come il cielo primaverile.
Camminava con l’eleganza e la potenza a stento trattenuta di tutti i licantropi, e aveva in più una sensualità apertamente dichiarata, che la faceva apparire decisamente sexy.
Il suo completo da trekking interamente nero, le lasciava scoperte gambe perfettamente diritte e tornite, da atleta.
Un piccolo concentrato di pura forza e sensualità.
Accanto a lei, silenziosi e letali come ogni sicario doveva essere, i suoi Geri e Freki chiudevano il piccolo gruppetto di nuovi arrivati.
Oltrepassando la muraglia umana del suo Hati, Cecily si fece avanti a passo di carica, trasudando ancor più potere di prima – talmente tanto che dovetti innalzare una barriera psichica per non esserne infastidita.
Sogghignò poi nella mia direzione, ed esordì dicendo: “E così tu saresti il nostro nuovo scherzo della natura, eh?”
Duncan fece per muoversi nella mia direzione, come subodorando guai ma lei, digrignando i denti al suo indirizzo, sibilò: “Non la mangio, ragazzone, ed è mio dovere vedere come se la cava.”
Aggrottai leggermente la fronte – che intendeva dire? – e mi limitai a mormorare quieta: “E’ un piacere conoscerti, Fenrir delle terre di Cornovaglia. Io sono Brianna Ann, Prima Lupa di Matlock e wicca dei tre shires.”
Lei rise – una risata che trasudava miele, a dispetto del comportamento sprezzante – e mi fissò con i suoi chiarissimi occhi liquidi, replicando: “Oh, so chi sei, tesorino, e reggi bene le mie aspettative. Anche se ti immaginavo più piccola.”
“Di età, o di altezza?” ribattei ironica, sollevando un sopracciglio con aria comica.
Sentii parecchi lupi trattenere il respiro – l’argomento altezza doveva essere tabù, con lei, ma me ne infischiai – mentre Cecily mi squadrava come per decidere da quale pezzo iniziare a divorarmi.
Estelle si strinse al mio braccio, uno sguardo omicida puntato su Cecily che, intercettandone l’occhiata, ringhiò: “Lupetta zuccherosa, non sfidarmi, se non vuoi che ti morda quel tuo culetto rotondo.”
Bright ringhiò di rimando a quell’insulto velato, mentre l’Hati di Cecily si avvicinava prudentemente alla sua Fenrir.
Io, al contrario, sgranai leggermente gli occhi di fronte a quell’uscita, e celiai divertita: “Certo che fai le bizze come i cavalli!”
Duncan inarcò un sopracciglio con evidente contrarietà, sentendomi parlare a quel modo, ma io lo ignorai. Avevo una certa idea in mente, e avevo intenzione di portarla avanti.
Alec, dietro di noi, ridacchiò. Forse, quel battibecco tra donne lo divertiva.
Cecily tornò a guardarmi, mi mostrò i denti – due bei canini affilati erano in bella mostra in mezzo alla dentatura perfetta – ma io, imperterrita, la fissai con deliberata ironia.
“Allora è proprio vero che i cani più piccoli sono quelli che abbaiano di più.”
Ora tutti mi stavano fissando sconvolti, forse temendo le reazioni di Cecily, forse chiedendosi se fossi improvvisamente impazzita.
La diretta interessata, però, non disse nulla, limitandosi a guardarmi da capo a piedi con aria divertita, forse interessata.
Dopo alcuni secondi di nervoso silenzio, in cui ogni licantropo presente si tese al punto da rendere quasi visibile l’aura intorno a sé, Cecily scoppiò in un’allegra risata di gola.
Allungando una mano verso di me, esclamò: “Bene, pollastrella, finalmente una che non ha paura di dirmi quello che pensa! Mi piaci parecchio, ragazza!”
Strinsi quella mano piccola e aggraziata sotto gli occhi sorpresi e sollevati di tutti – tranne quelli di Alec, che erano ironici – e le spiegai: “Immaginavo che la tua fosse soltanto una posa. Ho un’amica che si comporta alla stessa maniera, perciò ho saputo riconoscere i segnali.”
“E brava” ammiccò Cecily, voltandosi verso Duncan per poi aggiungere: “Te la sei scelta furba, la lupetta, bravo!”
“Grazie, Cecily” mormorò educatamente Duncan, con un piccolo sorriso.
Lei sbuffò, tornando a guardarmi e dicendomi con fare cameratesco: “E’ sempre stato così stramaledettamente educato! Un vero spreco.”
Ridacchiai, replicando con ironia: “Tu, invece, di peli sulla lingua ne hai pochi, eh?”
“Una donna piccola come me, pur avvalendosi di un potere enorme, deve pur farsi valere, no?” mi strizzò l’occhio lei prima di guardare alle mie spalle, farsi rigida e ringhiare: “Alec, mal ritrovato. Speravo proprio di non vedere quella tua brutta faccia, quest’anno ma, visto che ci ospiti proprio tu...”
“La stessa cosa vale per me, Cecily” replicò lui, con tono altrettanto freddo. “Vedrò di cacciare il più lontano da te, così non rischierò di scambiarti per una preda e azzannarti le caviglie.”
Lei sogghignò maligna, asserendo: “Devo ancora trovare il lupo che sappia battermi in velocità.”
La guardai incuriosita e lei, scrollando le spalle, mi spiegò il perché della sua uscita.
“Sarò anche piccola in forma umana, ma la mia stazza da lupo è pari a quella di qualsiasi Fenrir maschio. E sono parecchio brava a far mangiare la polvere a molti di loro.”
“Buono a sapersi” ammiccai, lanciando un’occhiata divertita a Duncan, che sogghignò brevemente.
Cecily se ne accorse, e chiese curiosa: “Cosa nascondete, voi due?”
“E’ una sorpresa” mormorai, avvolgendole le spalle con un braccio per portarla vicino al tavolo delle torte e chiederle: “Mangi qualcosa?”

 

 

***

La notte era scura, priva di stelle a risplendere sui nostri capi. Un fronte nuvoloso rendeva invisibile persino la luna.
Non ce ne curammo.
I nostri occhi vedevano bene al buio e, quando avessimo preso le sembianze di lupi, tutto sarebbe andato anche meglio.
Un debole sentore di erba umida e terriccio si diffondeva nell’aria, grazie a un leggero venticello proveniente da est, che portava con sé anche gli odori forti e pungenti della notte e il profumo delle prede più a valle.
In lontananza, nessun umano disturbava il nostro rendez-vous  lupesco – avevamo avvertito i guardia-parco della nostra presenza, perciò non sarebbe parso loro strano scorgere i bagliori dei fuochi – e la campagna era sgombra da ospiti indesiderati.
Tutto era perfetto per mutare.
La cerimonia poteva avere inizio.
Il campo era circondato dai Geri in posizione di allerta – dotati di visori notturni per sopperire alle loro mancanze umane – mentre tutti i licantropi erano disposti attorno al fuoco, in attesa del segnale di via da parte del Fenrir più anziano della congrega, Pascal.
Quell’attesa mi diede la possibilità di ripensare fuggevolmente a cosa avrebbero detto i lupi, non appena mi fossi trasformata di fronte ai loro occhi.
Se già il mio potere aveva suscitato un certo scompiglio – in positivo e in negativo – le mie dimensioni avrebbero ulteriormente creato problemi? Non sarebbe occorso molto, per scoprirlo.
Senza far caso alle nostre rispettive nudità – era un problema che non mi ponevo più da tempo, ormai – mutammo in lupi alla luce altalenante del falò, che illuminò di rosso e carminio i manti nivei dei Fenrir, e macchiò di tonalità cangianti il pelo degli altri mannari.
Hati e Freki, a meno di qualche problema serio, non si sarebbero trasformati.
Quando raggiungemmo lo stadio ultimo da umano a lupo, cori di stupore - misti a meraviglia - giunsero nella mia mente, aperta ai pensieri altrui.
Più di tutti, avvertii lo sconcerto di Sebastian che, osservandomi con i suoi ferini occhi color whisky, esclamò disgustato: “Anche questo?! Ma cos’è? Uno scherzo? Che significa?”
“Non mi sembra si possa scherzare sulle dimensioni, Sebastian” precisò Duncan, snudando un momento i denti e mettendosi al mio fianco, come per proteggermi.
“Non è normale che una Prima Lupa sia possente come uno di noi. E’ assurdo!” protestò vibratamente Sebastian, muovendosi avanti e indietro nervosamente, le orecchie schiacciate sul cranio e i denti snudati a riflettere i bagliori rossastri del fuoco.
“Non è che ci possa fare granché. Non l’ho chiesto io di diventare così” precisai a mia volta, piegandomi leggermente in avanti in posizione di difesa.
Gli artigli affondarono nel terriccio schiacciato dal nostro passaggio e, per un attimo, avvertii il flusso energetico della Terra penetrare nel mio corpo.
“Questa sì che è una sorpresa davvero curiosa. Sapevo che la tua Prima Lupa era unica, ma qui davvero si rischia di entrare nel Guinness dei Primati”  celiò Joshua, tossendo una risata.
“Beh, di sicuro questa pollastrella ha giocato un jolly che nessuno si aspettava. Brava, piccola!”  esclamò a sua volta Cecily, con quel suo modo sboccato ma simpatico di esprimersi.
“Non ci trovo nulla di divertente, Cecily. Questa faccenda va chiarita una volta per tutte. Lei non può  essere così. Non ha l’autorità di essere al pari di un Fenrir” brontolò Sebastian, ringhiando.
“Razza di palla di pelo troppo cresciuta che non sei altro! Se lei volesse, con i suoi poteri di wicca, combinati a quelli del lupo, potrebbe friggerti il cervello, ma è così carina da farsi insultare gratuitamente da te, e solo perché tu hai troppo testosterone nel cervello, e poca materia grigia per capire che stai dicendo cretinate!”  sbottò Cecily, avvicinandosi a Sebastian a denti snudati per poi mimare un morso.
Sebastian si allontanò offeso, facendo un passo indietro mentre io, fissando il lupo dinanzi a me con aria dubbiosa, gli chiesi: “Da dove ti vengono tutti questi pregiudizi, Sebastian? Perché diffidi così tanto di me? Neppure mi conosci.”
“Ah! Il ragazzo odia le donne di potere e non ne fa mistero, eh?” celiò Cecily, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Sebastian, che la spinse via con un colpo di muso contro la spalla.
L’Hati di Cecily, Hugh, ringhiò un avvertimento a mezza voce, intimando al capoclan dell’Isola di Man di fare attenzione a quello che faceva.
Sebastian, indispettito, disse per contro: “Mordi il freno, Hugh. E' stata la tua cagna a fare la prima mossa.”
Io uggiolai sorpresa – dare della cagna a una licantropa era un’offesa bella grossa, figurarsi dirlo a Cecily, che era un Fenrir.
Duncan, snudando i denti e mettendosi in posizione di attacco non meno di Frederick e Joshua, ringhiò: “Non una parola di più, Sebastian, o vedrò di zittirti io. Porta rispetto a un tuo pari, o ritirati in buon ordine.”
“Chi sei tu per darmi ordini, Fenrir di Matlock? Ti fai bello solo perché hai al tuo fianco quella sottospecie di centrale nucleare di potere?!”  replicò Sebastian, rizzando il pelo sulla schiena.
Cecily, pur essendo stata deliberatamente offesa, si limitò a fissare Sebastian come se fosse stato una cimice, con aperto disprezzo.
Forse, riteneva non fosse neppure necessario rispondergli.
Io, però, non riuscii a tacere.
Emisi uno sbuffo tra i denti, mentre Alec mi fissava a metà tra il divertito e il curioso – forse, ancora non capiva perché non avessi aperto bocca con Duncan.
Senza mezzi termini, sibilai: “Senti, Sebastian, è chiaro che ti sto sulle scatole, e mi può star bene. Ma fammi il piacere di dirmi una sola motivazione logica per sentirti in diritto di offendermi gratuitamente e, soprattutto, di prendertela con un tuo pari a quel modo.”
Sebastian si volse verso di me, i canini in bella vista e lo sguardo di uno che sarebbe stato pronto a dar battaglia al minimo soffio di vento.
“Sei un’aberrazione della natura. Non c’è bisogno di altre motivazioni, per non fidarsi di te. E poi, quel che dico a Cecily non ti riguarda.”
“Oh, wow, ma che mentalità aperta che hai, Sebastian! E pensare che credevo che i licantropi avessero una visione del mondo un tantino più elastica. O forse dipende dal fatto che io, un tempo, ero umana? E’ questo che ti scoccia? Ce l’hai a morte con gli umani, per caso?”  lo irrisi deliberatamente, camminando in cerchio senza mai mollare lo sguardo da Sebastian, che mi ringhiò contro indispettito.
Pascal intervenne e disse conciliante: “Nessuno dubita di te, wicca, ma le tue potenzialità sono effettivamente importanti, e intimidiscono.”
Cecily si limitò a sbadigliare in direzione di Sebastian. Un aperto insulto sarebbe stato meno efficace.
Lo stava apertamente ritenendo un inetto, un nulla. Un ginnungagap.
Cercai di non ridergli in faccia, dedicando la mia completa attenzione a Pascal, mentre Sebastian lanciava uno sguardo di fuoco a Cecily.
“Posso accettarlo, Pascal, ma non credo di poter fare nulla in merito a questo. Non posso negare ciò che sono, anche se ne avete paura, o ribrezzo, come il nostro caro Sebastian” replicai, facendolo uggiolare per la sorpresa e lo sgomento. “Ti sei talmente concentrato su ciò che sono, che hai lasciato aperta la tua mente, sbandierando i tuoi pensieri con fin troppa chiarezza. Non pensavo di trovare una persona così chiusa mentalmente in un branco di licantropi.”
“Sono affari miei, come la penso su di te, strega!” sbottò Sebastian, abbassandosi in posizione d’attacco.
Io ringhiai di rimando, rizzando il pelo grigio chiaro e snudando le zanne.
Con veemenza, replicai: “Nessuno mi chiama strega senza pagarla cara!”
Duncan mi bloccò, ponendosi di fronte a me e, con uno sguardo che avrebbe ucciso anche il più coraggioso tra i lupi, sibilò:“Non ti permetto di offendere a questo modo la mia Prima Lupa, Sebastian. Puoi pensarla come vuoi, su di lei, ma senza usare toni, o parole, inadatti al suo titolo.”
Sapevo che toccava a Duncan difendere il mio onore ma fu molto, molto  difficile starmene zitta e ferma dietro la sua figura eretta e fiera.
Pascal si tirò indietro, sentenziando: “Fenrir di Matlock ha ragione. Le parole che hai usato contro la sua compagna meritano l’apertura di un’Ordalia. Ne sei consapevole, Sebastian?”
“Non ritirerò ciò che ho detto, perché lo penso. Nessuno merita un simile potere, per giunta concentrato in un unico corpo di donna!” sputò tra i denti Sebastian, facendosi ancora più nervoso.
Cecily si sedette in terra, lo sguardo fisso su Sebastian, e dichiarò: “Mi chiamo fuori. Non discuto con simili concentrati di stupidità.”
“Sono fuori anch’io. Non accetto si manchi di rispetto a un’amica, perciò lascerò che Duncan apra l’Ordalia” disse a sua volta Frederick, ammiccando nella mia direzione.
Io lo ringraziai con una carezza del mio potere.
Bright e Joshua seguirono l’esempio degli altri e si sedettero a terra mentre Gilbert, guardandomi dubbioso, mi chiese: “Saresti pronta a farmi entrare nella tua mente, se te lo chiedessi?”
“Nessun problema” annuii, facendo spallucce. Fatto da un lupo, era un gesto abbastanza comico.
Allora Gilbert si sedette e si chiamò fuori a sua volta, lasciando però in sospeso la sua richiesta.
A quel punto Sebastian, guardando in direzione di Alec, esclamò: “Tu hai più motivi degli altri di avercela con lei. Non mi dire che mi volterai le spalle pure tu?!”
Alec tornò a puntare i suoi occhi attenti su di me per alcuni secondi, prima di dire: “La ragazza ha seguito la legge del branco, quando ancora non ne faceva parte. Non ho nessuna recriminazione da addebitarle. E, pur trovando che nel branco di Matlock vi sia troppo potere, per di più concentrato nelle mani di una ragazza troppo giovane per saperlo gestire adeguatamente, so anche che Duncan non è lupo da lasciare che questo potere venga malamente usato. Posso non essere suo amico o alleato, ma riconosco le sue doti. E so che non è uno stupido.”
Un cavallo alato, con il carro del sole attaccato appresso, non mi avrebbe sorpreso più delle parole di Alec.
Lo fissai strabiliata al pari di Duncan, che lo omaggiò reclinando un poco il capo ma Alec, ghignando, replicò sprezzante: “Non ti aspettare altro, da me, lupo.”
“Non mi aspettavo neppure questo, Alec” replicò con ironia Duncan, prima di tornare a fissare malamente Sebastian. “Richiedo l’Ordalia, Sebastian. Non accetto che si parli così alla mia Prima Lupa.”
“Ti farò abbassare la cresta alla svelta, Duncan. A te e alla tua strega” replicò Sebastian, ringhiando ferocemente.
“Duncan, è davvero necessario?” sussurrai, tenendo fuori dal discorso gli altri lupi presenti.
“Non ti fidi di me?” ironizzò per contro.
"Non è questo. Ma non voglio che rischi solo per delle stupidaggini."
“Le hanno rivolte a te, e ciò le rende oscene, non stupide.”
Sospirai, annuendo, e mi limitai a mormorare:“Okay, ma vedi di non farti troppo male.”
“Come vuole la mia signora” dichiarò, snudando i denti in un sogghigno lupesco davvero ironico.
Che volesse la rissa? Non era da lui, ma tutto poteva essere.


 


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Capitolo 8
*** Cap. 8. ***


 

8.

 
 
 
 
 
 
 

 

Non avevo mai visto Duncan così infuriato, o meglio, lo avevo visto, ma non per una sciocchezza del genere.
A meno che lui non la considerasse una cosa seria, come invece io non ero in grado di vederla.
Allontanandomi dal centro dell’accampamento assieme agli altri licantropi non impegnati nell’Ordalia, scrutai preoccupata i sicari dei vari clan muoversi nell’ombra, simili a spettri silenziosi.
Tesa più di quanto avrei detto in un primo momento, mi volsi leggermente per guardare Estelle e, ansiosa, chiesi: “Ma è davvero così grave ciò che ha detto Sebastian? A me frega fino a un certo punto.”
“Sei una giovane licantropa, quindi badi poco a cose che, da umana, neppure ascoltavi. Ma i lupi sono fieri e indomiti, e non accettano volentieri che si denigrino le persone care, neppure un insulto velato. Lo scontro era quasi inevitabile.”
“Capisco. Quindi, non si tratta di un attacco di machismo di massa?”
Estelle ridacchiò assieme alle altre lupe e Rebecca – che teneva in groppa il piccolo Matthew, apparentemente tranquillo nonostante la strana compagnia – mi spiegò: “Devi capire, Brianna, che Duncan tiene molto a te e a ciò che rappresenti. Come, a loro volta, i nostri mariti o compagni tengono molto alle nostre nomee. Nessuno di loro lascerebbe passare sotto silenzio l’insulto gratuito che ti ha lanciato Sebastian.”
“Quindi, pensate anche voi che abbia esagerato?”
“Eccome. Se Sebastian si fosse rivolto a me con quel tono, avrei preteso la sua testa” replicò piccata Rebecca, ringhiando leggermente.
Matthew, sentendola ringhiare a quel modo, le tirò i peli della gorgiera ridacchiando allegro e Becca, sospirando, commentò: “Il mio piccolo distruttore. Quando mi sente alterata, si diverte un mondo perché sa che romperò qualcosa.”
Ridemmo tutte. Quel piccolo cucciolo d’uomo, abbarbicato sulla schiena dell’enorme licantropo che era sua madre, pareva del tutto inconsapevole delle possenti fiere che lo circondavano.
Mi chiesi quale strano istinto lo spingesse a fidarsi di una creatura che, normalmente, avrebbe potuto divorarlo in un sol boccone.
L’istinto di sopravvivenza dei figli dei licantropi era forse alterato?
“E’ solo diverso, nulla di più” ammise Becca, rispondendo alla mia muta domanda. “Percepisce che sono sua madre, anche se muto forma quando lui non è presente. Come per Fred. Sa sempre chi sono i suoi genitori, anche se si trova in mezzo a un branco di lupi enormi.”
“Perché ci si dovrebbe trovare, scusa?” chiesi forse scioccamente, prima di rabbrividire al mio pensiero successivo.
Non li mettevano in mezzo al branco da neonati, vero?!
Becca rise della mia espressione inorridita – anche da lupo, riuscivo a sgranare gli occhi tanto da sembrare allucinata – e mi spiegò l'arcano. “Non è niente di così tremendo. Il branco, semplicemente, riconosce il nascituro come membro del clan, e lo accoglie in seno al Vigrond. E’ una cerimonia piuttosto carina, a dir la verità.”
Lessi chiaramente nella sua mente i ricordi della cerimonia di benvenuto celebrata per il piccolo Matthew.
Era stato depositato su un letto di foglie fresche, e salutato da tutti i membri del branco con così tante strusciate di naso che, alla fine, il bambino aveva faticato a smettere di ridere.
La trovai una cosa così strana che ridacchiai mentalmente, esalando: “Beh, è decisamente meglio di quanto avessi pensato.”
“Deve essere complicato avere i ricordi dei tuoi pensieri umani, e dover ragionare anche come lupo. Non so cosa si possa provare” ammise Becca che, come le altre – a parte me ed Estelle – erano nate col gene della licantropia nel sangue.
“E’ un processo abbastanza difficile. Mi scontro piuttosto spesso con le regole degli umani e quelle dei licantropi” poi, indicando col muso Duncan e Sebastian, che si stavano preparando per combattere, aggiunsi: “Questo è un caso eclatante. Da umana, non avrei mai permesso che facessero a botte per me.”
“Mentre per noi è normale, anzi, necessario che succeda” annuì col muso Stephanie. “Hai tutta la mia comprensione, Brianna. Checché ne dica quel retrogrado di Seb.”
“Ancora non capisco perché abbia avuto quello scatto d’ira. E’ in andropausa, per caso?” celiai con il mio solito humour acido.
Tutte ridacchiarono, dandomi dei colpetti con le spalle mentre Estelle, con le lacrime agli occhi per l’ilarità a stento trattenuta, sussurrava: “Non pensarlo troppo forte, o rischi di peggiorare la situazione.”
“Non sia mai che turbi ulteriormente Seb” ghignai, mostrando i denti in un sogghigno divertito.
Quando infine raggiungemmo un punto abbastanza distante dal luogo del combattimento, dove avremmo potuto vedere Duncan e Sebastian senza dar loro alcun fastidio, l’ansia tornò ad assalirmi.
Cecily allora si avvicinò a me, asserendo: “Non devi preoccuparti per Duncan. Da quando sta con te, è molto più forte. Tu gli hai dato equilibrio. Quando era solo il cucciolo annacquato che sottostava alle bizze di Sheoban, non era neppure così lontanamente simpatico. O potente.”
“Quindi, dici che non devo rischiare di morire d’infarto per la paura?” cercai di ironizzare, pur non sentendomi affatto tranquillizzata dal suo dire.
“Affatto. Anzi, devi dimostrargli tutta la tua fiducia. Perché tu hai fiducia in lui, vero?” mi chiese per contro Cecily, fissandomi con i suoi profondi occhi gialli di lupo.
“Certo! E’ solo che… uffa, lasciamo perdere. Altro pensiero da umana” brontolai, scivolando a terra e poggiando il muso sulle zampe, allungate sul terreno.
Cecily rimase appoggiata sul posteriore, mantenendo ritte le zampe anteriori e, fiutando l’aria con il suo naso umido, mi chiese: “Non senti tutt’intorno a te il potere di Duncan?”
“Eccome se lo sento” assentii, quasi uggiolando. “Ma non per questo posso esimermi dal sentirmi male, all’idea che qualcuno possa ferirlo per causa mia.”
“Non è mai colpa dello strumento, ma di chi lo impugna” precisò Cecily, saggiamente. “Sebastian ha preso l’intera questione di petto, non comprendendo quanto sia importante, invece, la tua condizione unica di wicca e Prima Lupa.”
“In che senso?” volli sapere, incuriosita dal suo dire.
Lei scosse il muso, indicandomi i due contendenti, pronti per dare inizio alla lotta. Azzittendomi subito, lasciai perdere quel discorso per un altro momento.
Per quanto curiosa potessi essere, preferivo concentrarmi sul combattimento.
Alec, in quanto padrone di casa, si portò in mezzo alla spianata erbosa, mentre Duncan e Sebastian si guardavano in cagnesco – e non è un eufemismo – , pronti a dar battaglia non appena fosse stato dato loro il permesso.
Naturalmente, non ascoltai una sola parola mentale di Alec, troppo concentrata sul mio Fenrir per badare agli altri.
"Guai a te se ti fai anche un solo graffio, d'accordo?"
“Tornerò da te tutto intero, principessa, stai tranquilla.”
“Ci conto, o potrei decidere io stessa di fartela pagare.”
Lui scoppiò in una risata che fece innervosire non poco Sebastian.
Non appena Alec decretò l’inizio dell’Ordalia, quest'ultimo si avventò contro Duncan con il chiaro intento di terminare subito quel combattimento al primo sangue.
Ma trovò solo il nulla, ad attenderlo.
Con uno spostamento laterale che faticai a vedere, nonostante i miei allenati occhi di licantropo, Duncan schivò le sue zampe artigliate e mosse il muso per azzannarlo alla gola, trovando però solo qualche pelo di gorgiera.
Anche Sebastian era veloce, ma non come Duncan.
A tutti gli effetti, era la prima volta che lo vedevo combattere veramente – i nostri allenamenti non erano mai stati neppure lontanamente così violenti e feroci – e, per quanto fossi abituata a vederlo nelle vesti di lupo, rimasi abbagliata dalla sua possanza e grazia nel duellare.
Non avevo davvero mai immaginato che un lupo di quella stazza potesse muoversi a tale velocità e, soprattutto, riuscire nel contempo a mantenere un’eleganza di movimenti da far invidia al miglior ballerino dell’Opéra  di Parigi.
Non solo io, comunque, rimasi ammutolita di fronte a quello spettacolo di muscoli guizzanti, zanne snudate e artigli scintillanti.
Ogni lupo presente – non potevo parlare per i sicari o gli Hati, perché immaginai avessero altro a cui pensare – li osservava con attenzione, mista a un timore reverenziale che poche volte avevo visto in alfa di così alto rango.
Non si poteva dire nulla. Sia Duncan che Sebastian erano due grandi combattenti.
Ma io avrei preferito di gran lunga che quello spettacolo – per quanto di letale bellezza – terminasse alla svelta, o il mio cuore avrebbe sicuramente ceduto di fronte allo stress, che stava facendo tremare ogni fibra del mio essere.
Intorno a noi, il silenzio ovattato della notte era spezzato solo dai suoni prodotti dallo sfregare delle zampe sul terreno, dal loro ringhiare basso e sordo e dal tonfo ferale delle zanne, che sbattevano tra loro a ogni morso finito nel vuoto.
Quando, però, i denti acuminati di Duncan si chiusero come una morsa sulla zampa di Sebastian, un oh’  collettivo si levò tra noi che osservavamo rapiti l’Ordalia.
Sebastian, uggiolando per il dolore, si accasciò su un fianco mentre il suo avversario si ritirava in buon ordine, le zanne sporche del suo sangue a muta prova della sua vittoria.
Di colpo, la barriera di potere che avevamo eretto intorno a loro venne annullata, lasciando che intorno a noi tornasse la normalità.
Le loro auree, spinte al massimo della loro forza, durante la battaglia, avrebbero potuto spazzare via l'intera brughiera, senza quell'accorgimento.
Senza attendere un secondo di più, mi alzai di scatto e trotterellai accanto a Duncan, strusciandomi contro di lui per lasciare la mia scia odorosa e di potere sul suo corpo affaticato e stanco.
Leccandomi il muso, grato per il mio sostegno, mormorò: “Grazie, ne avevo davvero bisogno.”
“Di nulla. Sei stato meraviglioso” gongolai eccitata prima di volgere lo sguardo verso Sebastian, che si stava alzando caracollante.
Più freddamente, aggiunsi:“Anche tu sei stato un bravo combattente. Era la prima volta che assistevo a un combattimento al primo sangue tra due Fenrir, e devo dire che è stata un’esperienza unica. Mai visto due lupi muoversi con tanta grazia, velocità e forza messe assieme.”
Sebastian piegò stentatamente il capo nella mia direzione, per quell’ovazione.
Volendo però mettere a tacere una volta per tutte i suoi dubbi sul mio conto, mi avvicinai a lui e, piegandomi verso il basso, soffiai sulla ferita il mio potere di wicca.
“Non posso solo respingere le vostre auree, ma anche gli effetti dei vostri colpi.”
Detto ciò, osservai il morso profondo - che Duncan aveva lasciato sulla zampa di Sebastian - rimarginarsi più velocemente di quanto, una ferita inferta da un licantropo alfa, avrebbe dovuto fare.
Molti altri lupi si avvicinarono per ammirare quello spettacolo curioso e mai visto in precedenza e Duncan, affiancandomi, assentì al mio indirizzo.
“Hai fatto la cosa giusta, principessa.”
“Grazie” mormorai, lasciando ciondolare la lingua fuori dalla bocca.
Mentre la ferita di Sebastian si rimarginava in tutta fretta, notai non solo la sorpresa e l’ammirazione negli occhi dei presenti, ma anche lo sguardo torvo e dubbioso di Alec.
Cosa, nel mio agire, lo aveva reso tanto ansioso?
Avrei tanto voluto saperlo.

***

Mangiucchiando un sandwich, appollaiata su una roccia arrotondata da millenni di ghiacci e intemperie, salutai con un cenno del capo Cecily e Linda, la Prima Lupa di Bryan.
Si stavano avvicinando a me per fare colazione in mia compagnia.
Stranamente, non vidi Estelle nei paraggi ma, per quello, diedi la colpa alla potente quanto minacciosa Fenrir.
Estelle era molto più che intimidita da Cecily e se ne stava alla larga, quando lei bazzicava vicino a me.
“Quello che hai fatto ieri sera con Sebastian è stato davvero eccezionale, sai?” esordì Linda, sorridendomi prima di dare un morso al suo panino con asparagi e bacon.
“Dici? A me è sembrato normale farlo. Chiamalo istinto di wicca, se vuoi” scrollai le spalle, pensierosa.
“L’essere entrambe le cose ti rende sia le cose più facili, che più difficili” commentò Cecily, azzannando – letteralmente – il suo hot dog, rigonfio di cipolle e maionese. “Le wiccan  sono sostanzialmente esseri umani, con pensieri umani, perciò hanno una visione del mondo diversa da noi licantropi, che scrutiamo le cose con occhi differenti.”
“Già. Se poi aggiungi che è poco tempo che sono stata trasformata in licantropo, capirai la mia confusione” ammisi, ingollando un po’ di succo di frutta alla pera dal mio tetra-pack.
“E’ questo a renderti così unica e preziosa. E potente” sentenziò Cecily, sorridendomi. “Era questo che volevo dirti ieri sera. Invece di vedere il peggio di te, come fa Sebastian, io credo ci si debba soffermare sul meglio di te, e cioè sulle tue innumerevoli doti. Quello di cui Seb non tiene conto è che, in quanto wicca, non puoi arrecare danno ai licantropi in alcun modo per cui, anche volendo, non potresti mai complottare in nessun modo contro nessuno di noi, neppure ora che sei anche Prima Lupa. O sbaglio? L’istinto di wicca è predominante in te, vero?”
Annuii, sorpresa dal suo dire. Non ci avevo mai fatto caso, in effetti, però ciò che diceva corrispondeva alla realtà.
Quando mi ero mossa per curare la ferita di Sebastian, non avevo agito come Prima Lupa – che, sotto sotto, era infuriata a morte con lui per aver minacciato Duncan e insultato me – bensì come wicca che, prima di ogni altra cosa, aveva a cuore la sorte di ogni licantropo.
Mi era venuto spontaneo curare la sua ferita, nonostante sapessi che quel licantropo in particolare non si fidava di me. L’amore per loro aveva il sopravvento su tutto.
“Il mio nome parla chiaro. Io difendo l’amore che provo per coloro a cui tengo. E non fa differenza chi io abbia davanti. Non farei mai del male a un licantropo. A meno di non essere attaccata con violenza, è ovvio.”
Ammiccai con un risolino, e Cecily rispose con un ghigno furbo.
“Ovvio. Nessuna wicca si farebbe ammazzare con leggerezza, come nessun lupo” annuì Linda, sorseggiando un po’ di caffè da un’enorme tazza nera.
Percependo il profumo di quello squisito liquido scuro e caldo solo in quel momento - troppo interessata a parlare con le mie due nuove amiche, per badarci - , esalai sconvolta: “Quando l’hanno preparato?”
“Pochi minuti fa. Tu eri già qui in isolamento” celiò Cecily, ghignando divertita.
“Scusatemi un attimo!” esclamai, alzandomi e lasciando la mia colazione sul masso per catapultarmi a prendere una tazza di nero caffè salva-cervello.
Quando Gregory mi vide arrivare di corsa, sogghignò divertito dalla sua postazione al tavolo degli approvvigionamenti e, sprezzante, mi domandò: “Dove va tanto di corsa la nostra crocerossina pelosa?”
Lasciai perdere quella battutina di spirito, afferrando solamente una delle tazze vuote, sistemate sul ripiano di vinile che avevo davanti a me.
La allungai in fretta verso di lui – che reggeva le redini del potere sul dio Caffè – e, con aria seria, grugnii: “Un caffè, grazie. Nero, senza zucchero o panna.”
“Come la nostra regina ordina” mi irrise Gregory, prima di prendersi una gomitata nel fianco da Gwen, che sogghignò complice, rivolgendosi a me.
Ammiccai nella sua direzione, prima di vedere Branson avvicinarsi con un vassoio pieno di  sandwich appena preparati – la cucina da campo che avevano allestito funzionava meglio di quella del Marriott. Avvicinandomi a lui, gliene rubai uno e ironizzai: “Ora che so che sei così bravo a farli, ti ossessionerò a vita, ricordalo.”
Lui rise, passandomene altri due, e disse per contro: “Le attenzioni della mia Prima Lupa sono sempre gradite.”
“Non quel genere di attenzioni, caro” replicai, dandogli una pacca amichevole sul sedere prima di afferrare la tazza di caffè e avviarmi verso le mie compagne di colazione.
Vedendomi tornare con le braccia colme di roba da mangiare, ridacchiarono divertite, ma io feci spallucce.
Porgendo poi loro un sandwich a testa, spiegai succintamente: “Meritavano davvero troppo, per lasciarli là.”
“Hai ragione” annuì Linda, sbocconcellando il suo, mentre Cecily lo afferrava coi denti in maniera molto meno delicata.
Finendo il mio primo panino, già desiderosa di mangiare il sandwich, ingollai tra un morso e l’altro quello stupendo, bollente, caffè nero pece e, sospirando di sollievo e piacere, mormorai: “Questo mi potrebbe riportare alla vita anche se fossi morta stecchita.”
“Discepola del caffè?” ironizzò Cecily.
“Devota fino al midollo” ammiccai, prima di vedere Estelle, Kate e Becca ferme ad alcune decine di metri da noi, indecise sul da farsi.
Inclinandomi verso Cecily, le chiesi: “Ma perché sono terrorizzate da te?”
Lei scoppiò a ridere mentre io facevo un cenno alle mie amiche di avvicinarsi e, con voce divertita, mi spiegò: “Perché sono un Fenrir donna, e non sanno come prendermi. E, oltretutto, mi comporto più da maschiaccio, io, di tutti i loro uomini messi assieme.”
“Oh. Capito” annuii.
In effetti, come potevo dar loro torto? Cecily era tutto fuorché lo stereotipo di Fenrir donna che mi sarei immaginata di incontrare, ma mi stava decisamente simpatica.
Inoltre, si era apertamente schierata dalla mia parte, e questo era molto importante.
Solo Sebastian, che aveva chiesto unicamente scusa per il gergo usato, ma non per il senso delle sue parole, mi rimaneva ostile.
E Alec?
Beh, che dire di lui? Solo Dio, probabilmente, o la Madre Terra, sapevano cosa frullava nella testa di quel Fenrir dai modi di Cerbero.


 

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Capitolo 9
*** Cap. 9 ***


9.

 
 
 
 


 

La riunione tra clan, che io avevo tanto temuto, si era finalmente conclusa.
Pur se avevo vissuto dei momenti di autentica paura – vedasi Alec e Gregory e il combattimento di Duncan –  era anche vero che avevo annoverato nuove amicizie nel mio carnet.
Potevo dire, con ragionevole margine di sicurezza, di avere dalla mia parte la maggioranza dei Fenrir della Gran Bretagna, il che non era poco.
Certo, restava l’incognita di Sebastian che, ancor prima del termine della riunione tra Clan, si era ritirato in buon ordine assieme ai suoi sottoposti, per fare ritorno all’Isola di Man.
Non aveva fatto alcun mistero di non approvare in alcun modo la mia presenza, non solo come wicca e Prima Lupa di Duncan, ma anche sul suolo inglese.
Questo mi aveva portato a chiedermi se, anche solo innavvertitamente, gli avessi fatto qualche sgarro ben prima di conoscerlo.
Non lo ricordavo affatto, né mi pareva che la mia famiglia umana potesse aver mai avuto a che fare con lui, ma non volli chiedergli se, per disgrazia, Patrick avesse per caso ucciso uno dei suoi.
Saperlo non mi avrebbe aiutato e, di certo, non avrebbe migliorato i rapporti con Sebastian.
Dubitavo fortemente che a lui sarebbero interessate le mie eventuali scuse, fosse stata quella la causa della sua irritazione nei miei confronti, perciò, preferendo evitare guai, non avevo approfondito il problema.
Forse, col tempo, se la sarebbe fatta passare.
Era passata a Napoleone…
Di comune accordo con Lance, Branson e Sarah, loro tornarono verso casa, in direzione di Matlock, mentre noi risalimmo l’isola per raggiungere Glasgow.
Quella era la tanto sospirata sorpresa messa in piedi da Duncan.
Di nascosto – e dimostrando una dolcezza che raramente sbandierava pubblicamente – si era messo in contatto con le mie vecchie amiche.
Dopo essersi assicurato della loro presenza in città per quel periodo, aveva contattato Frederick per chiedere ospitalità, e permettermi così di passare un po’ di tempo con loro.
Perciò, seguendo il clan di Glasgow con la Volvo V50 di Duncan – la mia Volkswagen Lupo (che fantasia, eh?) era rimasta a casa – ci dirigemmo verso la città che mi aveva ospitato per tre anni, e che aveva segnato in maniera indelebile la mia vita.
Quando Duncan mi aveva presa da parte per parlarmi di quella sorpresa, avevo strillato come una pazza e lo avevo abbracciato con foga, stampandogli in faccia una marea di baci tanto.
Alla fine, aveva dovuto allontanarmi a forza per poter finire di parlare.
Pur senza più soffocarlo con la mia gioia, avevo continuato a saltellare intorno a lui per tutta la durata del suo monologo, non stando più nella pelle all’idea di ritrovarmi di nuovo in mezzo a Elspeth e socie.
Certo, la mia vita a Matlock mi soddisfaceva.
Erika era la migliore amica che avrei potuto sperare di avere, Eliza e Morgan erano compagne di party notturni davvero inimitabili, ma mi mancava un po’ la mia vecchia vita.
Insomma, ero incontentabile.
Duncan aveva perciò pensato bene di dar libero sfogo alla mia incontentabilità, offrendomi questa vacanza a sorpresa in mezzo alle mie vecchie compagne di scuola.
Ovviamente, loro sapevano soltanto che io e Duncan ci eravamo conosciuti grazie ai buoni uffici di un gatto (Jasmine, di cui avevo mostrato loro le foto), che avevo portato dal veterinario (Duncan, per l’appunto).
Non sapevano nulla della mia esperienza pre e post-licantropo, né avrebbero mai potuto – e dovuto – conoscerla.
Era il prezzo da pagare per poter vivere con Duncan e tutto il mio branco, ed era un prezzo che pagavo volentieri, ma a volte mi pesava.
Non avrei comunque rovinato la mia vacanza a Glasgow con quei tristi pensieri. Mi sarei divertita e basta.
E avrei escogitato un sistema per ringraziare degnamente Duncan per il suo gesto.
Quando alla fine raggiungemmo Glasgow, era quasi mezzogiorno.
Frederick ci invitò a pranzo in casa sua, una bella villetta in stile Tudor situata nell’hinterland della città, circondata da un filare di pini.
All'interno, nell'ampio giardino erboso, sottili betulle e aiuole ricche di erica multicolore crescevano rigogliose.
Sul lato sud di quello splendido giardino, nascosto da una serie di paraventi in legno, sorgeva anche un angolo interamente dedicato ai giochi del piccolo Matthew.
Non appena parcheggiammo le auto nel cortile in selciato, scesi e presi un gran respiro, inalando dentro di me i profumi e gli odori familiari di quella parte di mondo.
Questi, andarono a solleticare nella mente i ricordi della mia vita precedente, quella della teen-ager e della studentessa modello.
I profumi dei fiori, mescolati alle esalazioni delle auto e dei gas delle fabbriche poco lontane, non sminuirono la mia gioia per quel ritorno inaspettato.
Era davvero strano tornare dopo tanto tempo e, soprattutto, così cambiata, ma ero certa che questo non sarebbe stato uno svantaggio, per me.
Convivere con il mio lupo non era più un problema da tempo.
Annullai dopo alcuni istanti di concentrazione quelle sensazioni sensoriali troppo violente, dopodiché mi volsi per prendere la mia valigia dal baule. A Duncan, domandai: “Come ti sei messo d’accordo, a proposito?”
“Le tue amiche ti aspettano in centro, per le tre del pomeriggio. Ho pensato di disertare, per oggi, e concedervi un po’ di tempo per chiacchierare in santa pace, senza l’assillo di un uomo alle spalle” mi spiegò, chiudendo il baule dell’auto prima di seguire i padroni di casa.
“Grazie” gli sorrisi.
Mi conosceva fin troppo bene, e sapeva quanto avessi bisogno di stare sola con loro.
Lui mi strizzò l’occhio, complice, prima di sospingermi verso la casa e sussurrare: “Mi ringrazierai più tardi.”
Annuii, già pregustando il modo in cui l’avrei ringraziato per quel favore e, curiosa, dedicai un’occhiata interessata alla casa di Fred e Becca.
Le pareti esterne, bianco latte, erano state tinteggiate di fresco, tanto che potevo ancora percepire il sentore della vernice.
Le lunghe travi trasversali – che percorrevano, incrociandosi, tutta la facciata della casa – erano di un caldo color mogano, su cui iniziavano a vedersi i primi segni delle intemperie e del sole.
Nei pressi della porta d’ingresso, in enormi vasi panciuti, due cespugli di rose rampicanti si avvolgevano a spirale attorno a un arco metallico, che fungeva da entrata sulla veranda, ricoperta di sottile zanzariera.
Sotto il portico, notai un dondolo, alcune sedie e un tavolini in vimini chiaro, oltre ad alcuni giocattoli sparsi a terra.
Ridacchiando, Becca esalò, come per scusarsi: “Si vede che Matt abita qui?”
“Direi di sì” annuii, dando un buffetto sulla guancia al piccolo, che ridacchiò, accucciandosi contro la spalla della madre.
“Fa il timido” sorrise adorante Becca, dandogli un bacio sui capelli ricci e scuri.
Era pazzesco pensare che Rebecca, a soli ventotto anni, fosse già riuscita ad avere un figlio.
Sapevo fin troppo bene quanto potesse essere tremendo, per un licantropo donna, portare avanti una gravidanza in giovane età, e questo la diceva lunga su quanto fosse forte e potente Becca.
Nel vederla coccolare il figlio, però, non si sarebbe mai detto.
 Sorrisi deliziata nell’osservarli e, quando finalmente entrammo in casa, dovetti stupirmi ulteriormente.
Se, all’esterno, la casa appariva tradizionale e dai tratti antiquati, l’interno era l’esatto opposto.
I mobili erano moderni e dalle linee minimaliste, squadrati e caratterizzati da tinte chiare, che andavano dal grigio ghiaccio al lavanda pallido, il tutto interamente immerso in un enorme open-space bianco panna.
L’unico accenno di separazione era dato da un piccolo muretto di mattoncini faccia a vista, che divideva la cucina in acciaio cromato dal resto della zona giorno.
Al termine di un breve corridoio, una scala a vista in legno chiaro, ricoperta da tappetini damascati, portava al piano superiore e alle camere da letto.
Duncan salì assieme a Fred, lasciandomi in compagnia di Becca e Matthew, perché dessi un’occhiata al resto dell’abitazione.
Becca posò a terra il piccolo, dove cominciò a trotterellare un po’ instabile sul pesante tappeto dinanzi ai lunghissimi divani di pelle color lavanda chiaro.
Con un sorriso cordiale, Becca mi domandò: “Posso offrirti qualcosa da bere, mentre metto a scaldare il pranzo?”
“No, grazie. Sono a posto. Piuttosto, posso aiutarti in qualcosa?” replicai, seguendola in cucina.
“Se vuoi” ammiccò, indicandomi un cassetto. “Lì c’è il necessario per apparecchiare” poi, alzando la voce, aggiunse: “Matt, cosa vuoi da mangiare?”
“’Izza!” strillò per diretta conseguenza il bambino, lanciando poi alte risate.
Risi divertita, commentando: “E’ piccolo, ma si fa intendere.”
“Ci ha sorpresi tutti. A nove mesi se n’è uscito indicando Fred, dicendo ripetutamente ‘upo’, ‘upo’, ‘upo’. Ci abbiamo messo un po’ per capire che stava parlando di Fred in forma di lupo” sorrise Becca, lanciando uno sguardo orgoglioso al figlio che, in quel momento, stava cercando di tirare a terra uno dei cuscini del divano.
“Scommetto che Fred sarà stato orgogliosissimo di lui” sorrisi, immaginandomi la scena.
Annuendo, Becca commentò: “Ha pianto come un bambino.”
Dal piano superiore, Fred replicò piccato: “Ti ho sentito, Becca! Sai che non è assolutamente vero!”
Scoppiammo a ridere entrambe e Matt, vedendoci così allegre, si unì alla risata prima di riuscire nel suo intento.
Con un tonfo sul tappeto e ricoperto dal pesante cuscino, rise ancora più forte e Becca, scuotendo indolente il capo, decretò: “E’ proprio il dio della distruzione.”

***

La Willow Tea Room era esattamente come la ricordavo.
Gli specchi alle pareti decorati in stile liberty, le tinte tenui delle sue pareti, le sue stranissime lampade metalliche, che penzolavano insicure dal soffitto, i piccoli tavoli bianchi.
Non avevamo mai voluto salire al piano superiore, dove l’ambiente era diverso – molto più spartano e standardizzato – , perché ci saremmo perse lo spettacolo offerto dalle persone in passeggiata lungo la via.
Ci eravamo sempre accaparrate un tavolo al piano terra, sbirciando divertite in direzione della porta a vetri, chiedendoci chi sarebbe entrato e cosa avrebbe ordinato.
E, nel frattempo, avevamo speso ore a chiacchierare del nostro futuro, ammirandoci negli specchi che decoravano l’ambiente e chiedendoci scioccamente quale fosse, di volta in volta, l’acconciatura migliore o l’abbigliamento perfetto.
Sembrava essere passato un secolo. Eppure, quelle chiacchiere allegre e spensierate risalivano solo a un anno e mezzo prima.
A volte mi sentivo vecchia di decenni, specialmente quando i problemi del branco mi facevano dimenticare i miei vent’anni.
Quando, però, entrai nella Tea Room, oltrepassando l’arcata della porta, mi parve di tornare ai tempi della scuola, quasi non avessi mai abbandonato Glasgow.
Laggiù, in un angolo illuminato dai lampadari squadrati di metallo, sostenuti da robusti fili appesi al soffitto, stavano Elspeth, Maggie e Nancy.
Il quartetto era di nuovo assieme. Eravamo di nuovo pronte per far danni.
Sorrisi spontaneamente nel vederle e, dopo averle raggiunte, mi piegai per baciarle e stringerle in un abbraccio rapido quanto stritolante, pregandole nel contempo di non alzarsi.
Se mi fossi lasciata andare a un vero abbraccio orsesco, sarei scoppiata in lacrime.
Non volevo passare mezz’ora del nostro tempo assieme a asciugarmi gli occhi, dopo un attacco di sentimentalismo spicciolo.
Volevo godermi ogni attimo, ogni respiro assieme a loro, poiché sapevo quanto di rado avremmo potuto vederci, nei prossimi anni.
La cameriera raccolse le nostre ordinazioni – the alla menta per tutte, il nostro marchio di fabbrica, accompagnato da dolcetti al pistacchio – lasciandoci poi la privacy necessaria per riappropriarci del tempo passato lontane.
“Beh, che dire…” esordì Elspeth, lo sguardo brillante e felice “… sei splendida. L’aria del sud ti fa bene. Oppure è solo Duncan, chissà.”
“Concordo con Ellie. Ma speravamo di vederlo” precisò Maggie, storcendo appena la bocca generosa in una buffa smorfia.
“Ce lo vuoi tenere nascosto ancora per molto?” chiese a quel punto Nancy, intrecciando le braccia sotto il seno generoso.
Risi sollevata, riconoscendo in quei commenti classici le mie vecchie amiche di un tempo e, sospirando felice, esalai: “Non sapete quanto mi siete mancate, ragazze.”
“E tu manchi a noi” dissero in coro, sorridendomi generosamente.
“Ma non è un buon motivo per tener segregato Duncan!” obiettò poi Nancy, ghignando.
Ghignando, le strinsi affettuosamente una mano per un momento, prima di dire: “Prometto che domani sera verrà anche lui”
“Lo spero bene!” esclamò Elspeth, sollevando l’indice come una maestrina intenta a spiegare a recalcitranti studentesse. “Non ho prenotato un tavolo in uno dei più bei pub di Glasgow, per niente!”
Sollevando le mani in segno di resa, le spiegai: “Proprio in questo momento l’amica che ci ospita sta preparando i nostri costumi per la festa, per cui non preoccuparti.”
“E tu l’hai lasciato alle cure di un’altra donna? Ma non ti ho insegnato niente, tesoro?” protestò Nancy, scuotendo il capo con aria falsamente contrariata. “Questo è un errore gravissimo!”
Sollevai ironica un sopracciglio, replicando: “E’ sposata e con un figlio, e suo marito è presente. Che vuoi che facciano? Un ménage à trois?”
Nancy sgranò gli occhi, sentendomi parlare a quel modo e, portandosi le mani alle guance con aria fintamente inorridita, esclamò: “Oh, Dio! Ma cosa è successo alla mia amica Brie!? Lei neppure conosceva l’espressione ‘ménage à trois’!”
La fissai malamente – mi prendeva per scema? – e replicai abbastanza duramente: “Non sono nata ieri, e so perfettamente cos’è.”
“L’hai provato?” chiese allora Nancy, facendosi subito molto interessata.
Elspeth e Maggie scoppiarono a ridere di gusto mentre io, scuotendo il capo esasperata e passandomi una mano sul viso, ribattei con un grugnito: “Ma che ti salta in mente?”
Brontolando a sua volta, Nancy sbottò: “Mi metti addosso una gola assurda, e poi te ne esci con una frase così?”
Ridacchiai di fronte al suo sguardo falsamente adirato e celiai: “Non sei davvero cambiata, Nancy.”
“E perché dovrei?” ghignò per contro, dandomi un pizzicotto affettuoso su una mano. “Gli uomini sono un piacere. Se non li sfrutti, che piacere è?”
“No comment” decretò Elspeth, sollevando le mani per chiedere pietà.
“Mi dissocio completamente da ciò che ha detto” disse a sua volta Maggie, ridacchiando. “Non voglio essere scambiata per una mangia uomini.”
“Non sapete neppure di cosa state parlando, verginelle sante” sbuffò Nancy, sollevando nel contempo un sopracciglio con fare da cospiratore, nel guardare me. “Brie, invece, sa di cosa parlo.”
Arrossii leggermente – neppure con loro avrei ammesso quanto fosse piacevole stare con Duncan anche dal punto di vista fisico – e dichiarai lapidaria: “Non parlo in pubblico di certe cose.”
“Allora è bravo” ridacchiò a quel punto Nancy, scrutandomi con occhi curiosi e pieni di malizia.
“E da cosa lo deduci?” replicai serafica, cercando di contenere il mio imbarazzo.
“Dal rossore e dagli occhi. Hanno tante stelline, sai?” sghignazzò Nancy, mentre la cameriera ci consegnava le tazze per il the, oltre a un vassoio colmo di biscottini a forma di mezze lune, ricoperti di polvere di pistacchio.
“Sei matta come un cavallo, lasciatelo dire” risi nervosamente, afferrando in fretta un biscotto per infilarmelo in bocca.
Il sapore dolceamaro del pistacchio esplose sulle mie papille gustative, riempiendomi il palato di sapori deliziosi, mentre il biscotto – che si sciolse nella mia bocca come neve al sole – scivolò in gola, lasciandomi un piacevole aroma a ricordo del suo morbido passaggio.
Sospirai estasiata, chiudendo un momento gli occhi per approfondire il piacere di quegli istanti, prima di sussurrare: “Davvero squisito.”
“Mai vista una persona godersi tanto un singolo biscotto” chiosò Nancy, assaggiando il suo prima di accompagnarlo con un sorso di the fumante.
Sorrisi senza dire nulla, non potendo spiegare loro il motivo delle mie reazioni ai sapori o agli odori.
Da quando ero diventata un licantropo, tutto aveva assunto dei contorni e delle forme nuove, per me.
Anche ciò che, fino al giorno prima, avevo considerato insignificante poiché, visto con gli occhi di un lupo mannaro, era mutato in qualcosa di completamente nuovo e inaspettato.
Cibo compreso.
Mangiare, era diventata quasi una questione di Stato, almeno nei primi mesi dopo la mutazione.
Avevo passato intere settimane a mangiare qualsiasi cosa con un’attenzione e una meticolosità quasi ridicola.
Gordon aveva finito con il soprannominarmi Chef Ramsay1, tanto mi ero fissata con la scelta degli abbinamenti di sapori e odori.
Duncan aveva assistito al tutto con indulgenza spiegandomi che, per una neofita, era perfettamente normale provare quelle sensazioni così soverchianti.
Finché quella smania di provare ogni cosa non si era esaurita, mi ero sentita vagamente idiota.
Ora riuscivo a convivere meglio con quella parte di me ma, in ogni caso, percepire con così tanta precisione i sapori, attraverso i sensi sovrasviluppati, mi procurava ancora un piacere assurdo, ed era difficile dissimularlo.
Specialmente, quando ero in compagnia di persone con cui mi sentivo a mio agio.
Sorrisi, fingendo fosse tutto normale, e bevvi il mio the ma, quando risollevai gli occhi, mi ritrovai addosso lo sguardo curioso di Elspeth.
Quasi in trance, stava scrutando la mano che sorreggeva la tazza.
Incuriosita, la fissai a mia volta, prima di ricordare cosa vi fosse di particolare in quella mano.
Sorpresa, mi chiesi il perché dell’interesse quasi morboso che leggevo nello sguardo di Elspeth.
Duncan, durante la cerimonia ufficiale che si era svolta al Vigrond per riconoscermi come nuova Prima Lupa del clan, mi aveva fatto dono di un anello d’oro molto particolare.
Era un cimelio vecchio di secoli, ed era appartenuto ai suoi avi da tempi immemori, fin da quando il primo Fenrir era apparso nella sua famiglia.
Una testa di lupo in oro brunito adornava ora il mio anulare e, incastonati nei suoi occhi aperti, due piccole giade splendevano calde sotto le luci delle lampade, al punto da renderli quasi vivi.
Solitamente, non vi facevo caso – dopo i primi giorni, era diventato quasi un tutt’uno con me, tanto che a volte dimenticavo anche di averlo sempre al dito – ma, sotto lo sguardo interessato di Elspeth, mi ritrovai a scrutare attenta quel capolavoro di artigianato antico.
Dubbiosa, chiesi alla mia amica: “Ti piace?”
Elspeth si riscosse alla mia domanda, quasi si fosse addormentata per alcuni attimi in contemplazione dell’anello.
Maggie e Nancy che, fino a quel momento, avevano scherzato sulla mia ritrosia a parlare di Duncan, si ammutolirono per scrutare la nostra comune amica.
Amica che, ritrovandosi tre paia d’occhi addosso, divenne paonazza e, ridacchiando, si passò una mano tra i folti capelli castano scuri, esalando: “Scusate! Penso di essere andata in oca.”
“Ce ne siamo accorte!” esclamammo quasi all’unisono, mettendoci a ridere con lei.
Elspeth si grattò nervosamente il cuoio capelluto, apparendo veramente imbarazzata per quel suo strano comportamento – che in lei era diventato quasi una prassi, da quando ci eravamo conosciute.
Pur trovando la faccenda divertente, mi domandai turbata cosa avesse visto, nel mio anello, di così interessante. O preoccupante.
Sperai ardentemente non fosse un oggetto appartenente a riti esoterici, o vecchi credi pagani – Ellie era un’esperta in quel genere di cose – perché non avrei assolutamente saputo cosa dirle, per giustificarne la presenza al mio dito.
E sperai ardentemente che Duncan non mi avesse cacciata in un guaio, donandomi quell’anello. Perché non mi ero informata meglio sulla sua storia?!
Che domande.
Perché ero troppo impegnata a godermi il regalo, per pensarci.
Per ogni evenienza, afferrai la tazza con la mano destra e posai casualmente la sinistra sulle gambe, così da nasconderla allo sguardo di Elspeth che, passato il momento di impasse, non cercò più con lo sguardo il mio anello e si dedicò con me e le altre a ben altri passatempi.
Meglio non parlare di cose che non potevo spiegare.

***

Sdraiata sul letto accanto a Duncan, che osservava assieme a me un film alla televisione – sia lodata la passione di Becca per la tecnologia – mi stiracchiai e gli chiesi: “Com’è andata la giornata, qui?”
“Tutto bene. Abbiamo fatto giocare Matt e controllato gli ultimi resoconti della polizia di Londra. Tabula rasa. Non hanno trovato nulla” mi spiegò Duncan, abbassando leggermente il volume.
Non volevamo disturbare Fred e Becca, pur sapendo che le pareti erano insonorizzate e, decisamente, Die Hard era un film piuttosto rumoroso.
“Non mi sorprende” sbuffai. “Probabilmente, era solo un pazzo scatenato che, dopo aver visto quanti licantropi lo stanno cercando, avrà pensato bene di nascondersi a vita. Ora che ci ha mobilitati tutti, non sarà così stupido da riprovarci, ti pare?”
“Lo spero” mormorò Duncan, volgendo un momento lo sguardo per scrutarmi in viso. “Ti sei divertita?”
“Sì. Anche se è stato strano non poter parlare apertamente con loro, come facevo un tempo” ammisi, giocherellando con il ciondolo che Duncan portava al collo.
Anch’io gli avevo regalato un monile in oro, quando ero diventata ufficialmente la sua compagna.
Primo, perché mi era parso assurdo che solo lui potesse regalarmi qualcosa, secondo, perché pensavo fosse carino che, con lui, ci fosse sempre una parte di me.
Duncan lo aveva trovato buffo, asserendo che ogni parte di me era sempre con lui, anche grazie al nostro legame di sangue ma, a ogni modo, era parso lieto del mio dono.
Aveva scrutato con piacere il piccolo lupo in oro, affisso su uno spicchio di luna in alabastro.
Con un gesto che a me era parso quasi un rito, lo aveva infilato in una cordella di cuoio e se l’era legato al collo, promettendomi che mai e poi mai lo avrebbe tolto.
Ora brillava solitario alla base della sua gola, pallido al confronto della sua pelle bronzea.
Socchiudendo gli occhi nell’ammirare le venature più scure dell’alabastro, sussurrai: “Ricordo ancora quando te lo regalai. Mi sentivo tremendamente in imbarazzo.”
“Tu hai la capacità di tramutare in una difficoltà anche il gesto più semplice” ridacchiò, baciandomi sul naso. “Ritieni di essere più debole, quando ammetti di amarmi?”
“No!” esclamai, anche se troppo in fretta, smentendomi immediatamente.
Lui rise, e replicò: “Ammetterai che entrambi siamo stati abbastanza male, quando io non ho accettato ciò che provavo per te.”
“Eccome!” asserii con veemenza.
“E questo non ci ha reso deboli?” replicò allora lui.
“Sì.”
Mugugnai a mezza voce, rammentando molto bene quel tremendo periodo passato lontano da lui e dal branco. Il cuore mi faceva male ogni volta che la mia mente tornava a quei pochi giorni di inferno in terra.
“Quindi non è stato meglio, quando ho finalmente capito ciò che dovevo fare?” sorrise poi Duncan.
“Tu hai sbagliato, ma sono io a sentirmi una stupida. C’è qualcosa che non quadra” brontolai, stringendomi a lui.
“E’ solo che continui a credere che, ponendo al di sopra di tutto le tue emozioni e il tuo cuore, fallirai. Ti sei abituata a contare solo su te stessa, a essere una muraglia invalicabile per difendere tuo fratello dal dolore, dopo che esso vi ha attaccato con così crudele ferocia, e ora è solo difficile sbarazzarsi di tutte quelle difese” mi spiegò quietamente, avvolgendomi con un braccio e sussurrando dolci parole d’amore tra i miei capelli, sparsi sul cuscino.
“Dovevo difenderlo. Finché c’erano papà e mamma sapevo che, nell’eventualità avessi avuto bisogno di qualche aiuto, loro ci sarebbero stati. Si fidavano di noi e delle nostre scelte, e ci hanno insegnato a prenderle, ma erano loro la nostra muraglia. Da quando sono scomparsi, ho cercato di esserlo per Gordon, ma ora è difficile capire fino a che punto devo spingermi prima di tirarmi indietro per lasciare che tu e gli altri facciate la vostra parte. E, soprattutto, è difficile rendermi conto che lui non ha più così bisogno del mio sostegno” ammisi controvoglia, sentendomi tremendamente a disagio.
Tutto stava cambiando così rapidamente, intorno a me. In un solo anno, il mio mondo si era completamente stravolto.
Avevo scoperto l’esistenza di esseri ancestrali, di poteri sconosciuti dentro di me, di un mondo che non avevo neppure sognato di conoscere.
Avevo dovuto fare i conti con nemici fin troppo vicini a me, e che avevano fatto del male a persone a me care.
Oltre a tutto ciò, ero cambiata io stessa, evolvendomi in qualcosa di inaspettato e che aveva portato anche la vita di mio fratello a mutare drasticamente.
E di questo, non sapevo se esserne o meno fiera.
Era dovuto maturare nell’arco di una sola estate, passando dall’adolescenza tranquilla e spensierata all’età adulta e a tutti i problemi ad essa legati.
Avevo dovuto osservarlo mentre abbandonava i tratti del bambino, che avevo conosciuto da una vita, per diventare un adulto dallo sguardo impenetrabile e i modi di una persona controllata e seriosa.
Non ero sicura che fosse questo ciò che avevo voluto per lui, e lasciare le redini della sua vita e smettere di guidarlo era dura, per me.
Mi sembrava quasi di non prendermi cura di lui.
“Smettila di tediarti. Non è più un bambino già da tempo. Sarai sempre sua sorella, anche se allenterai la presa, e lui avrà sempre bisogno di te e della tua presenza, anche se in modo diverso.”
“Sei sicuro?”
“Fidati di me.”
“Vorrei solo avergli potuto dare…”
“Basta!” mi rimproverò gentilmente, aggrottando impercettibilmente la fronte.
“Scusa. Mi sto comportando come una chioccia apprensiva” ammisi controvoglia, facendo la lingua.
“Solo come una brava sorella. Forse un po’ melodrammatica, ma una brava sorella.”
“Grazie.”
“Di nulla, principessa. Ora pensa solo a dormire. Domani abbiamo un po’ di impegni mannari, prima di poterci preparare per la festa al pub, per cui è meglio se ci svegliamo freschi e riposati.”
“Perché, tu vuoi dormire subito?” lo presi in giro.
“No”
Quello era parlare.



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1 Chef Ramsay: Per chi non lo conoscesse tramite il programma Hell's Kitchen, é un famoso chef britannico.

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Capitolo 10
*** Cap. 10 ***


10.

 
 
 
 
 
 
 


 

Frankenstein ed io.
Avrebbe potuto essere il perfetto titolo di un B-Movie se non fosse stato che, realmente, mi ritrovavo a fissare la statua di Frankenstein a grandezza naturale nell’omonimo pub di West George Street, a Glasgow.
L’appuntamento fissato con le mie amiche per quella sera era per l’appunto lì, dove avremmo gustato una cena leggera a base di gamberetti fritti e patatine, per poi goderci il resto della serata nel bel mezzo di una festa a tema organizzata nel locale.
L’idea era venuta a Elspeth, ovviamente.
Da grande fanatica dei mostri e per tutto ciò che era soprannaturale – se solo avesse saputo la verità! – aveva colto la palla al balzo e aveva invitato me e Duncan, oltre alle ragazze, a quella festicciola con il chiaro intento di vedermi in maschera.
Cosa che odiavo.
Non ero mai stata una che si mascherava volentieri – lo ammetto, mi sono sempre vergognata un mondo – ma per le mie amiche, che mi mancavano un sacco, avrei anche accettato di girare con un sacco di tela in testa, se me l’avessero chiesto.
Quando l’avevo detto a Duncan, lui era scoppiato in un’allegra risata di gola e mi aveva confessato, con mia somma sorpresa, di essere stato uno dei bambini più scalmanati di tutta Farley, quando si era trattato di girare in maschera per Halloween.
Anche Fred e Becca ne erano rimasti sorpresi – ammettiamolo, Duncan non da l’idea di essere stato un bambino scalmanato – e lui, tra un risolino e l’altro, mi aveva spiegato che Halloween era sempre stata la sua festa preferita proprio perché poteva travestirsi.
Poi, con un mesto sospiro, aveva aggiunto che il motivo era sempre e solo stato uno; per alcune ore poteva dimenticare le aspettative dei genitori per diventare, vuoi un pirata, vuoi un mago, vuoi un pistolero.
Qualcuno che non fosse lui, insomma.
Ricordavo fin troppo bene le memorie della quercia e ciò che mi aveva mostrato su quel che era successo al Vigrond, per cui non avevo faticato a comprendere i suoi desideri di bambino e, ancora una volta, avevo desiderato poter cancellare per sempre quel dolore dal suo cuore.
Di comune accordo, per quella sera, ci eravamo travestiti da licantropi – davvero originali, eh? – con tanto di painting facciale, orecchie in testa, finti artigli e vestiti di pelle.
Nel complesso, sembravamo un incrocio sexy tra gli zombie del video di Thriller e i vampiri di Underworld, però l’effetto era davvero bello. E gli artigli erano spettacolari.
Ora che però eravamo lì, in mezzo a tante altre persone mascherate e agli odori forti e tremendamente aspri che ci circondavano, mi chiesi se l’aver accettato quell’invito fosse stata la scelta più saggia da farsi.
Era difficile, almeno per me, affrontare una così vasta folla in un ambiente chiuso, surriscaldato da luci al neon, impianti frigoriferi sparati a palla – coi relativi motori sovra riscaldati – e persone che avvampavano per via del ballo e degli alcolici.
Non ero del tutto sicura che un’intera serata in quel posto mi avrebbe giovato lo spirito o distrutto i nervi, ma tant’era. Ero lì e, visto che ero in ballo, dovevo ballare.
Letteralmente.
Duncan, vicino a me, mi sfiorò con una mano la vita sottile e abbracciata da un sensuale bustino rigido di pelle nera e pizzi rossi, sorridendomi malizioso.
Becca si era divertita un mondo nell’abbigliarmi a quel modo dichiarando senza tanti giri di parole che, quella sera, avrei dovuto essere la più sensuale e bella licantropa del circondario.
Io l’avevo lasciata fare anche per vedere l’effetto che avrebbe avuto su Duncan il mio travestimento e, quando avevo scorto i suoi occhi mutare di colpo in quelli di lupo, avevo compreso senza ombra di dubbio che Becca aveva fatto centro.
In ogni caso, ora mi ritrovavo con il volto dipinto in maniera strepitosa e con le sembianze di un lupo – Becca era una pittrice affermata, e si vedeva – mentre il mio corpo era abbracciato da impalpabile pelle nera, che scivolava sul busto e le gambe insieme a volute di pizzo argentato, nero e rosso.
Ai piedi, portavo degli stivaletti dal tacco decisamente alto per i miei standard, allacciati così strettamente da rendere al meglio la linea dei miei polpacci e lasciati in bella vista dalla minigonna sfilacciata che indossavo.
Duncan, a sua volta dipinto in viso non meno di me, indossava con evidente e sorprendente disinvoltura le sue orecchie da lupo in mezzo ai folti riccioli neri rilasciati sulle spalle.
Addosso, portava soltanto uno sbrindellato gilet di pelle nera borchiata e pantaloni dello stesso materiale, allacciati sui fianchi con una serie infinita di stringhe di cuoio nero che giungevano fino alle caviglie.
Come un motociclista di Harley Davidson, portava degli stivali neri dalle fibbie d’argento che, stranamente, lo rendevano ancor più sensuale.
E, splendente e solitario, il ciondolo a forma di lupo scintillava sulla sua pelle naturalmente abbronzata come una piccola stella argentea.
Nel complesso, avrei voluto divorarlo seduta stante, anche lì in mezzo alla gente.
Passandogli un dito artigliato sulla pelle nuda del petto – che Becca aveva depilato per l’occasione e ammorbidito con oli emollienti, con mio sommo divertimento e un po’ meno di Duncan – mi levai in punta di piedi per sussurrargli all’orecchio: “Prova a leggermi in testa cosa ti farei. Penso potresti trovarlo divertente.”
Lui mi assaporò con lo sguardo, gli occhi che, magicamente, mutarono dal verde smeraldo al più ferino biondo ambra ed io, addossandomi a lui con tutto il corpo, aggiunsi: “Perché non possiamo essere in mezzo al bosco, solo tu ed io?”
Duncan rise, una bassa risata di gola molto mascolina e decisamente sensuale che mi procurò un brivido freddo e caldo assieme lungo tutto il corpo immerso nel suo potere vibrante e, con voce resa roca dal desiderio che muoveva anche lui, mormorò: “Esaudirei ogni tuo desiderio, ma mi sembrerebbe scortese abbandonare qui le tue amiche.”
Ridacchiai, allontanandomi di un passo da lui per non finire col mettermi in mostra più di quel che avrei apprezzato in un secondo momento e, voltandomi per osservare la folla cacofonica che ci circondava, sollevai una mano non appena vidi arrivare Eslpeth vestita da strega, con tanto di cappello a punta e bacchetta alla mano.
Come al solito, appariva aggraziata e bellissima in tutta la sua mirabile altezza e perfezione.
Mi stupivo enormemente che nessuna agenzia di modelle l’avesse mai fermata per strada e convinta a fare un book per diventare una top model.
L’avevo incontrata solo il giorno prima eppure, nel rivederla, provai ancora nostalgia.
Gli occhi mi si riempirono immediatamente di lacrime che, però, non volli versare.
Era sciocco, eppure trovarmi lì con loro mi riempiva di emozioni così contrastanti che mantenere la calma era difficile.
“Vai da lei” mi sussurrò Duncan, sorridendomi.
Nel sospingermi, mi avvolse per un attimo con un’onda di potere caldo e profumato come cioccolato ed io, ringraziandolo mentalmente per quell’incoraggiamento, mi diressi verso Elspeth facendomi largo tra la folla di festanti.
Una volta raggiuntala, mi presi un istante per ammirarla in tutta la sua efebica bellezza dopodichè la abbracciai con foga ed esclamai: “Ellie, ciao!”
“La mia Brie, ciao!” urlò a sua volta Elspeth, circondandomi con le sue braccia sottili e il suo profumo inebriante di rosa.
Restammo così per diversi attimi a farci sbatacchiare dalla folla in entrata, senza badare a nulla se non a noi stesse e alla fine, quando ritenemmo giusto e appropriato separarci, ci guardammo negli occhi prima di scoppiare in un’allegra risata liberatoria.
“E ci siamo viste solo ieri! Ci fa un bell’effetto, ritrovarci!” commentò Elspeth, asciugandosi una lacrima ribelle.
Fin quando non me le ero ritrovate dinanzi dopo un anno di separazione, non avevo capito fino in fondo quanto allontanarmi da Glasgow mi fosse pesato.
Mi mancavano davvero, non sapevo dire quanto, ma la mia vita era a Matlock, e al mio fianco avevo tutto il branco. Non ero sola.
Dovevo solo imparare ad accettare quel genere di cambiamento.
“Dio, tesoro! Sei uno splendore…” cominciò col dire Elspeth, incamminandosi assieme a me per rientrare nella calca. “… e questo painting è eccezionale. E poi, lasciatelo dire. Sei maledettamente sexy.”
Io ridacchiai, ammirandola nel suo completo di seta nera lungo fino ai piedi, che le abbracciava il corpo flessuoso e morbido e, scrollando le spalle, replicai: “Perché, tu pensi di essere brutta? Farai star male parecchi maschietti, stanotte.”
“L’intento è quello!” Elspeth ridacchiò con me, dandomi di gomito prima di lanciare uno sguardo in direzione di Duncan e spalancare la bocca per la sorpresa. “Non mi dire che quel lupacchiotto dal fisico strepitoso è il tuo Duncan, perché potrei decidere di odiarti a vita.”
Io scoppiai nuovamente a ridere e annuii, prendendo Ellie sottobraccio per raggiungere con poche, rapide falcate Duncan che, tranquillo, ci stava aspettando vicino a una colonna, appoggiato languidamente ad essa con le braccia conserte sul petto nudo.
Il gilet scuro lasciava scoperto, più che nascondere, il suo ampio torace liscio e bronzeo ed io non sapevo se esserne felice o meno.
La sua posizione disinvoltamente mascolina esponeva i bicipiti scolpiti e gli avambracci robusti, oltre che a mettere bene in evidenza la sua prestanza fisica e, viste le occhiate che certe umane gli stavano lanciando, non avrebbe passato molto tempo prima che qualcuna ci provasse con lui.
Meglio delimitare subito il territorio.
Elspeth, letteralmente, lo divorò con lo sguardo da capo a piedi prima di stamparsi in faccia un sorriso a trentadue denti e dire: “Ho parlato con te, vero? Io sono Elspeth, tanto piacere.”
Duncan le sorrise gentilmente – facendo accelerare non solo il suo cuore, ma anche il mio, lo ammetto – e si scostò dalla colonna per prendere nella sua la mano protesa di Elspeth, asserendo con voce profonda e sonora: “Il piacere è mio, Elspeth. Sono Duncan McAlister.”
Lei si voltò per un attimo verso di me, sillabando la parola ‘FA-VO-LO-SO’ prima di tornare a guardare Duncan per spiegare a entrambi noi: “Nancy e Maggie arriveranno a breve. Stanno cercando di parcheggiare. Abbie ha detto che sarebbe arrivata da sola, con il motorino. Noi, intanto, possiamo andare a sederci. Ho prenotato un tavolo al piano di sopra.”
“Benissimo” annuì Duncan, lasciando che fossi io a seguire Elspeth per prima.
Insieme, salimmo le scale che portavano al piano superiore del locale, dove già molte persone erano accomodate per consumare una cena leggera in previsione di scatenarsi più tardi, sulla pista da ballo dabbasso.
Lì, una cameriera abbigliata con un succinto abitino bianco e nero e altissimi tacchi a spillo, ci accompagnò a un tavolo d’angolo e, dopo essersi lustrata gli occhi su Duncan, lasciò – a lui – il menù e se ne andò scodinzolando come una lupa in calore.
Ringhiai piano tra i denti, l’agrodolce sapore della gelosia che mi riempiva la bocca e Duncan, dandomi una pacca sulla gamba, mi sussurrò all’orecchio: “Ho occhi solo per te, Brie. Non far caso a nessuna di loro.”
“Sarà anche così, però… uffa…” brontolai per contro, strappando dal tavolo il libretto del menù e sfogliandolo nervosamente.
Elspeth ridacchiò del mio atteggiamento e, rivolgendosi a Duncan, gli chiese: “E’ un po’ gelosa o sbaglio?”
“Abbastanza. Diciamo che tira fuori le unghie, quando ci sono di mezzo io” celiò Duncan, sorridendomi un secondo prima di chiedere ad Elspeth: “Spero che la mia presenza qui non sia un impedimento. Non vorrei certo frenarvi in alcun modo.”
“Che?! E perderci l’occasione di conoscerti? Non se ne parla! E poi, abbiamo sparlato a sufficienza ieri” scosse il capo Elspeth, ridendo e scuotendo con noncuranza una mano dalle unghie laccate di nero. “Sono mesi che cerchiamo di capire come sei, visto che la nostra qui presente Brie non ci ha mandato un solo straccio di foto, di te.”
Più che mai sorpreso, Duncan mi fissò con un sopracciglio sollevato, come in cerca di spiegazioni ed io, chiudendo il menù, commentai serafica: “Se l’avessi fatto mentre io non ero a casa, Nancy sarebbe corsa fino a Matlock per conoscerti. E questo  che mi avrebbe dato parecchio fastidio.”
“Ci puoi giurare, bella! Sarei corsa là di volata!” assentì una voce sensuale a pochi passi da noi.
Voltandoci all’unisono, fissammo una splendida guerriera vichinga per alcuni attimi senza comprendere bene chi fosse.
Solo dopo qualche istante di attento esame scoppiai a ridere di gusto, esclamando: “Nancy! Oddio! Stentavo a riconoscerti!”
Mi alzai per un rapido abbraccio, lasciandomi stringere dalle sue braccia esili e stringendola a mia volta cercando di non usare troppa forza. A volte, era così difficile trattenere la mia bestia!
Evitando di baciarci sulle guance per non rovinare i rispettivi trucchi, Nancy passò la sua bipenne di gomma a Elspeth per avere le mani libere prima di essere presentata a Duncan.
Sapevo il perché di quel gesto, e non ero del tutto sicura che mi piacesse.
Come avevo previsto, gli occhi di Nancy si illuminarono come fari alogeni tanto da portami a chiedermi se, quella serata, avrei dovuto passarla a tenere le mani della mia amica lontane dal mio uomo.
Al solito, afferrò con entrambe le mani quella di Duncan, esplodendo nel suo sorriso fashion alla Halle Berry prima di lasciarlo andare e avvicinarsi al divanetto per accomodarsi.
La guardai male? Probabile.
Si sedette, accavallando le lunghe gambe nude – portava solo uno striminzito gonnellino di tartan a quadrettoni, e un top di pelle nera a borchie, con cinghie che le cingevano il torace esile.
Nancy annuì all’indirizzo di Duncan,  prima di dirmi: “Okay, bella, posso dire che il tuo gusto in fatto di uomini è sempre eccellente. Ma a testa, come siamo messi? Questo parla, o si esprime a monosillabi come Leon?”
Duncan ce la mise tutta per non ridere ed io, ghignando all’indirizzo dell’amica, mugugnai: “Duncan è estremamente intelligente. Niente a che fare con Leon.”
“E’ proprio necessario parlare del tuo ex, Brie?” domandò cortesemente Duncan, prima di vedere Nancy assottigliare le iridi color antracite e fissare qualcuno alle sue spalle.
Io mi feci curiosa al pari di Duncan ed Ellie e, voltandomi a mezzo per curiosare oltre la mia spalla, imprecai tra i denti, sbottando: “Ma io dico, di tutti i posti, proprio qui doveva venire?!”
Naturalmente, Duncan lo riconobbe subito, vista la quantità di volte che aveva scorto Leon nei miei vecchi ricordi.
Accigliandosi immediatamente, strinse la mia mano e chiese: “Devo spaccargli la faccia, o posso limitarmi a ignorarlo?”
Elspeth scoppiò subito a ridere mentre Nancy, allungandosi per dare una pacca sul braccio a Duncan, come per rabbonirlo, asserì serafica: “Non vale la pena di incavolarsi per un tipo come lui, Duncan, credimi. La nostra Brie ha capito piuttosto in fretta che non valeva neppure una cinghia del suo zaino.”
Io feci un ghigno al suo indirizzo, replicando: “Okay che non sarà stato un mostro d’intelligenza, Nancy, ma adesso non essere offensiva. Leon aveva anche dei lati interessanti.”
Duncan, a questo punto, mi fissò curioso e chiese con interesse: “E quali?”
"Io e la mia boccaccia!", pensai tra me, infuriata.

“Illuminami, sono curioso” mi disse per contro lui, mentalmente.
Io gli sorrisi bonaria e chiosai: “Beh, suo padre mi faceva entrare gratis al cinema.”
Scoppiarono tutti a ridere e Duncan, calando su di me per darmi un bacio dietro l’orecchio,  sussurrò roco: “Scusami. Non pensavo che vederlo mi avrebbe reso così… suscettibile.”
“Siamo pari, credo” asserii, sentendolo scivolare nuovamente al suo posto.
Fu un vero peccato, ma non potevamo certo metterci ad amoreggiare lì davanti alle mie amiche.
Primo, sarebbe stato imbarazzante per tutti, secondo, i nostri occhi sarebbero inevitabilmente mutati, e spiegare il perché di quello strano fenomeno era ben lungi dall’essere una cosa fattibile.
Quindi, niente strusciamenti… ahimè.
“Beh, mio caro, tu non hai nulla da temere da un tipo come lui, lasciatelo dire” lo rassicurò Nancy, prima di guardarmi e chiedermi maliziosa: “E’ per questo che ce lo tenevi nascosto?”
“Ovvio” annuii come se niente fosse.
Nel giro di mezz’ora giunsero anche Abegail – avevo insistito perché partecipasse anche lei alla festa – e Maggie.
Finalmente, potemmo iniziare a mangiare i gamberetti fritti tipici del locale, innaffiati da litri di Coca-Cola per noi ragazze, e birra per Duncan.
L’iniziale tensione sessuale venne presto a scemare e, nel giro di pochissimo tempo, ridevamo e scherzavamo tranquillamente, neanche le mie amiche avessero conosciuto Duncan da sempre.
Duncan, in questo, era maestro. Lui sapeva mettere a suo agio chiunque.
Ero più che certa che, se si fosse trovato allo stesso tavolo con un puma e un orso, sarebbe andato d’amore e d’accordo anche con loro.
Sorrisi ad Abegail, abbigliata come una splendida elfa boschiva, quando mi interpellò per sapere come stesse Gordon.
Scoppiò a ridere deliziata quando le dissi che era diventato il beniamino di tutte, all’interno della comunità di giovani di Farley.
Dovetti omettere la parola ‘branco’, ma compresi subito che Abbie aveva capito tutto. Era troppo percettiva, per non comprendere al volo quello che avevo realmente voluto dire.
Annuendo divertita, ammise che Gordon era proprio il tipo adatto per far cadere ai suoi piedi qualsiasi ragazza e, nel contempo, trovarsi anche un sacco di amici maschi.
Io non potei che essere d’accordo.
Nel sentirmi parlare di Gordon, anche le altre mi chiesero sue notizie.
Quando scoprirono che faceva coppia fissa con la cugina di Duncan, si congratularono tutte, dicendomi che era buona cosa tenere certe faccende in famiglia.
Preferii non indagare troppo, su cosa volesse realmente dire Nancy con quella frase sibillina.
Dopo cena, pieni come uova sode e soddisfatti per la buona cena, scendemmo per ballare e, naturalmente, io non mi scollai dal fianco di Duncan neppure un attimo.
Avevo avvertito la presenza di ben quattro licantrope, all’interno del locale, e non volevo loro lasciar pensare che Duncan fosse libero.
L’idea che ci fossero così tante presenze femminili della nostra razza, nel pub, non mi rallegrava per nulla.
Già avevo il mio bel daffare con le umane… se poi ci si mettevano anche le lupe, avrei finito per sguainare le zanne.
Sapevo quanto, il potere di un Fenrir, fosse una calamita ideale per gli estrogeni delle licantrope, e non volevo allontanarmi da lui, con il rischio di dover fare una scenata di gelosia in piena regola.
Di certo, però, non mi aspettavo che una di quelle lupe, avvertito l’odore di Duncan, avesse la sfrontatezza di avvicinarsi a lui per reclamare un ballo.
In teoria, il mio odore di licantropa avrebbe dovuto scoraggiarla dall’avvicinarsi.
Speranza vana.
Quando mi vidi affiancare da una bellezza bruna dall’aspetto dichiaratamente provocatorio, la scrutai per alcuni istanti nel suo abito di latex rosso fuoco prima di chiederle: “Hai dei problemi, per caso?”
Lei mi fissò con acquosi occhi azzurro spento mentre la bella bocca carnosa, piegandosi in una smorfia, lasciò uscire la laconica frase: “E tu chi saresti? La sua scommessa persa?”
Duncan allacciò un braccio attorno alla mia vita per attirarmi al suo petto – e tenermi contemporaneamente lontana dai guai – dopodiché, fissando gelido la licantropa dinanzi a lui, ringhiò: “Mostra degno rispetto a chi ti trovi davanti, ragazza. Stai parlando con una wicca, oltre che con la mia Prima Lupa, e io sono il suo Fenrir”
Se avessi avuto una telecamera, avrei avuto la soddisfazione immane di poter filmare, attimo per attimo, l’accrescersi del suo pallore, in contemporanea con il suo disagio e il suo sgomento.
Si allontanò di un passo, reclinando pudicamente il capo e, con voce ora balbettante e insicura, esalò: “Mille scuse. Con questo caos di odori e persone, non ho percepito la portata della sua aura, e non pensavo che…”
Duncan fece schioccare duramente la lingua contro il palato, liquidando così le sue scuse inutili e, duramente, asserì: “Non sei del branco di Glasgow, vero? Da dove vieni?”
“Siamo… siamo in visita da amici. Veniamo… veniamo da Aberdeen” balbettò, la voce ridotta a un sussurro inudibile, se non dalle nostre orecchie sensibili.
“Bright” mormorai, allontanandomi un poco dal fianco di Duncan, e rassicurandolo con lo sguardo. Non avrei fatto scenate.
La ragazza sollevò appena il capo per guardarmi di straforo, gli occhi ora immersi nella paura più elementare, e sussurrò contrita: “Chiedo umile perdono, wicca. Non avrei mai immaginato che…”
“Mi basta che tu stia lontana da Duncan e da me. Non voglio vederti più, per questa sera” sibilai, usando un tono di voce così freddo e metallico da sorprendere persino me stessa.
Era il tono del comando che una Prima Lupa poteva usare coi membri del branco, e che mi ero sempre rifiutata di usare, fino a quel momento.
Certo, non era potente né dai magici effetti come la Voce del Comando di un Fenrir, ma si capiva subito quando era una Prima Lupa, a parlare.
In quel momento, sgorgò dalle mie labbra senza che l’avessi cercata, ma eruppe fiera, senza incertezze.
Lei annuì a più riprese, allontanandosi tra la folla a suon di gomitate ed io, voltandomi verso Duncan, commentai aspra: “Ma è mai possibile che io debba sempre subire tutto questo, per te?”
Lui rise sommessamente nello stringermi in un abbraccio delicato, e replicò: “E’ solo perché io, fino a ora, ti ho tenuto lontano i mosconi che ti ronzavano intorno, fulminandoli con occhiatacce degne di un leone inferocito.”
“Non ci credo!” sbottai, incredula, pur sapendo che non aveva mentito.
“Vuoi che ti lasci da sola per un minuto, per vedere cosa potrebbe succedere?” mi minacciò bonariamente lui.
Sollevai un sopracciglio con ironia, dicendo per contro: “Scommetti che non succederà nulla?”
Lui si limitò a sogghignare, certo della vittoria e, con passo tranquillo, si allontanò per raggiungere Maggie e Nancy, che stavano chiacchierando a bordo pista.
Rimasta sola, mi ritrovai a muovermi al ritmo coi corpi che mi circondavano, come se fossimo stati un’unica entità.
Se prima il ballo non era mai stato la mia passione più sfrenata – non ero esattamente portata, ammettiamolo – da lupa, il mio modo di muovermi era notevolmente migliorato, e percepivo la musica davvero molto meglio.
Mi lasciai trasportare quel tanto per adeguare le mie movenze a quelle di chi mi circondava e, nel contempo, feci attenzione a non esagerare. Un conto era imitare gli umani, un altro era muoversi come un licantropo.
Se avessi lasciato il mio corpo libero di muoversi come nella danza al chiaro di luna, allora, più di una persona si sarebbe resa conto che qualcosa non quadrava, in me, specialmente le mie amiche.
Con la coda dell’occhio, a ogni modo, tenni sotto controllo Duncan, più preoccupata per lui che per me stessa.
Di colpo, però, un sussurro gelido proveniente dalle mie spalle, giunse alle mie orecchie con un chiaro messaggio.
“Sei mia, ora!”
Mi mossi il più velocemente possibile, qualsiasi cosa volessero significare quelle parole ma, come un’ondata di fuoco liquido, percepii un dolore tremendo al fianco, subito seguito dal mio urlo inarticolato, che venne inghiottito dai rumori assordanti della sala da ballo.
Per fortuna, lo sgomitare ignaro della gente costrinse il mio assalitore ad allontanarsi temporaneamente, impossibilitato a muoversi come avrebbe voluto.
Questo mi permise di emettere una richiesta di aiuto tra i denti, digrignati per il troppo dolore provato.
Solo Duncan e i lupi presenti percepirono il mio bisogno immediato e, mentre il mio fedele compagno si avvicinò per darmi una mano, gli altri lupi si disposero in posizione di allerta, come presagendo guai.
Non riuscendo più a reggermi in piedi, crollai a terra con il fianco squarciato, il sangue che, copioso, scivolava tra le dita, strette attorno alla carne lacerata.
Con l’aura azzerata, non avevo percepito l'avvicinarsi di un licantropo alle mie spalle, in quel mare di corpi frementi.
Nel sentirlo allontanarsi a tentoni tra la folla – forse spaventato dall’arrivo di Duncan – tentai con ogni mezzo di collegarmi a lui per capire chi fosse.
Niente di niente.
La sua mente barricata mi schiaffeggiò con ferocia, rimandandomi al mittente con l’accompagnamento di un bel principio di emicrania, corredato da un dolore sempre più cocente all’altezza della ferita.
Duncan, nel frattempo, si fece largo a spintoni e spallate tra gli ignari ballerini - che nulla avevano notato in quel gran trambusto - raggiungendomi in pochi secondi.
In quel mentre, grida di sorpresa e sgomento si levarono tra la folla, quando le luci si spensero a causa di un black-out improvviso.
Sicuramente, il mio personale licantropo killer aveva fatto saltare l’impianto di illuminazione per complicarci le cose, e rendere più agevole la sua fuga.
Le luci di emergenza scattarono dopo neppure un paio di secondi dal black-out, illuminando in maniera spettrale la sala, dove grida spaventate e corpi che si spingevano tra loro la facevano da padrone.
Ansante e scossa da un dolore lancinante, venni sollevata facilmente dalle braccia possenti di Duncan che, come una roccia, resistette alle spinte della gente spaventata, che cozzava contro di lui per scappare.
Poggiando il capo contro la sua spalla, esalai con la voce spezzata: “Aveva… l’aura azzerata… non …non l’ho sentito… arrivare…”
Annuì, troppo agitato anche solo per parlare, mentre le mie amiche cercavano di raggiungerci, sgomitando tra la calca di persone che, invece, cercavano di uscire freneticamente dal locale.
Alcuni buttafuori si fecero strada a fatica per mettere un po’ d’ordine tra la folla, preda di un panico autentico e profumato di adrenalina.
Duncan, notandoli in mezzo alla confusione, intenti a indirizzare le persone verso le uscite d’emergenza, richiamò l’attenzione di uno di loro, gridando a gran voce: “La mia ragazza si è fatta male! Dove posso portarla?!”
Il buttafuori annuì, comprendendo al volo la situazione e, dopo avergli fatto segno di seguirlo, scansò gente e urlò a tutti di portarsi ordinatamente verso le uscite.
Duncan, imperturbabile alle spinte, mi condusse al riparo in tutta fretta, ben deciso a fermare l’emorragia da lama d’argento di cui ero rimasta vittima.
Elspeth, Nancy e Maggie ci seguirono piangenti e tremanti mentre Abegail, chiudendo la fila, parlò fittamente al telefono, informando Frederick di quanto avvenuto.
Nonostante il dolore lancinante, potei sentire con sufficiente chiarezza la sua voce concitata al telefono, mentre ordinava sommariamente alla nipote di non mollarmi per nessun motivo.
Non appena ci ritrovammo al sicuro in uno degli uffici del locale, lontani dal caos convulso della folla, l’uomo che ci aveva accompagnati ci chiese: “Qui, starete tranquilli mentre chiamo l’ambulanza. Nel frattempo, ti porto il kit del pronto soccorso.”
“No!” riuscii a dire, ormai allo stremo. “Il mio ragazzo è un medico, e mi sistemerà lui. E’ solo un taglietto da poco. Sono caduta contro un tavolino e mi sono ferita con un bicchiere che ho rotto. Colpa mia. Mi basta una fasciatura e una buona dose di elisir dell’equilibrio.”
Il buttafuori ridacchiò, annuendo di fronte al mio sogghigno forzato e, frettolosamente, ci disse: “Vado a dare una mano ai miei colleghi per far uscire i ragazzi. Qui starete comodi. Spero che Bob – è il capo, qui – sia già nel seminterrato per sistemare il quadro centrale. Non sarebbe dovuto succedere.”
“Ce la caveremo senza problemi” sentenziò Duncan senza neppure guardarlo. Il suo sguardo era tutto per me.
Elspeth fece per replicare, ma io le lanciai un'occhiata tale che, ogni suo proposito di protestare, finì per evaporare nel nulla.
Capii che mi avrebbe assecondato, ma solo in cambio di risposte.
Dopo aver annuito al suo indirizzo, tornai a guardare il buttafuori per tranquillizzarlo circa le mie condizioni di salute.
Lui, per contro, fu ben felice di lasciarci fare da soli e, dopo aver consegnato a Duncan la cassetta del pronto soccorso, sgattaiolò fuori sbattendo la porta alle sue spalle.
Un attimo dopo, stava già correndo a perdifiato per tornare a fare il suo lavoro.
Fu a quel punto che tutta la preoccupazione delle mie amiche esplose ed Elspeth, sbattendo le mani sul tavolo su cui ero sdraiata, sbraitò: “Ma che ti salta in mente?! Ora chiamo l’ambulanza!”
Abegail intervenne lesta e le rubò il cellulare di mano, scuotendo il capo mentre Duncan, strappando un lembo del mio corpetto, poggiò una garza sterile sulla ferita sanguinante.
Atono, mormorò: “Non ce n’è davvero bisogno, Elspeth. Posso curarla meglio io, adesso, che un paramedico tra venti minuti.”
“Ma, ma…” tentennò Elspeth, guardando malamente Abegail prima di fissare me con aria sconvolta.
“Ma perché dovete fare così i testardi?!” brontolò Nancy, irritandosi maggiormente di secondo in secondo. “D’accordo essere gelosi della propria donna, Duncan, ma qui si esagera!”
Lui abbozzò una risatina feroce mentre mi fasciava stretta il fianco.
Guardando alternativamente le mie amiche, borbottai: “Preferisco farmi curare da lui. E poi, è solo un  graffietto da nulla.”
“E’ per quello che hai tutto l’abito e le gambe sporche di sangue?” sbottò Maggie, indicandomi nervosamente, gli occhi stralunati per la paura.
Duncan non fece neppure in tempo a parlare che rizzò il capo al pari mio e, un attimo dopo, simile a una furia, entrò quasi di corsa un uomo interamente vestito di nero.
Con aria estremamente professionale, da killer, esordì asserendo: “Il perimetro è sgombro. Siamo pronti per il trasporto.”
Non fu tanto quell’entrata in scena così melodrammatica, a spaventare le ragazze – tranne ovviamente Abegail – quanto le due pistole nere ed enormi che l’uomo teneva in mano.
Lo riconobbi subito come il Geri di Frederick e, con un mezzo sorriso, esalai frustrata: “Ehi, Burt! Stai terrorizzando le mie amiche. Ritira i ferri del mestiere, per favore!”
Con un fruscio di metallo e cuoio, le due pistole vennero rinfoderate e, guardandosi intorno per meglio comprendere la situazione, Burt mormorò: “Le mie scuse, signorine. Non intendevo spaventare nessuno.”
“E lui chi sarebbe?” esalò Nancy, aggrappata al braccio di Maggie, e spaventosamente pallida in viso.
Tutta la sua baldanza stava scivolando via come il mio sangue lungo la gamba.
“Un nostro comune amico” borbottò Duncan, ammiccando all’indirizzo di Burt. “Pensi tu a portarla all’auto? Io devo fare una cosa.”
“Nessun problema” annuì immediatamente Burt, mentre Duncan usciva con un diavolo per capello, il potere sparso attorno a sé come un branco di squali a caccia.
Stava per esplodere, lo sapevo bene. Se non fosse uscito entro breve, l’intero stabile sarebbe esploso sotto gli effetti della sua aura, lasciata del tutto libera di sprigionarsi.
“Ma come?! Prima fa il possessivo all’inverosimile, e ora ti molla con …con …Wild Bill Hickok?!” ringhiò Elspeth, mettendosi le mani nei capelli.
Il suo cappello da strega era finito chissà dove, forse schiacciato in mezzo alla calca di poco prima.
Burt sollevò con ironia un sopracciglio, indirizzando a Elspeth un sorriso divertito prima di fissarmi con estremo rispetto e dirmi: “Con il tuo permesso, Brianna, devo poterti prendere in braccio.”
“Procedi pure” annuii, avvolgendogli il collo con un braccio mentre Abegail si appostava sulla porta, per controllare che l’esterno della stanza fosse sgombro.
“Non uscirai con questo tizio, se prima non ci darai qualche spiegazione! Non ci fidiamo di lui!” protestò vibratamente Maggie, parandosi dinanzi a Burt con le braccia sollevate e lo sguardo adamantino, nonostante tremasse come una foglia.
“Ragazze” sospirai, indecisa se parlare aspramente o dire loro ogni cosa.
Abegail cercò di allontanare Maggie dalla porta, ma tutto fu inutile.
Burt, a disagio, mormorò: “Se vuoi, posso passare con la forza, ma…”
“No, grazie. Non esageriamo” scossi il capo, prima di avvertire l’aura inconfondibile di Frederick avvicinarsi all’ufficio.
In lontananza, fuori dal locale, percepivo quella furente di Duncan dilagare come un fiume in piena, sempre più forte, sempre più distruttiva.
Un uragano, in quel momento, mi avrebbe fatto meno paura.
Qualche attimo dopo entrò Fred, e le ragazze si ammutolirono di fronte alla sua presenza cupa e feroce.
Di certo, in quel momento, non appariva molto magnanimo, o propenso a chiacchierare.
Dopo aver guardato con sufficienza le mie amiche per un momento, salutò con un bacetto la nipote, prima di avvicinarsi letale a me ed esalare infuriato: “Dio! Ma come sei conciata!?”
“Bello, eh?” sogghignai.
Passò la sua mano sul bendaggio con il tocco leggero delle dita, prima di portarla al mio viso, scostare una ciocca di capelli dietro un orecchio e dirmi con un bel sorriso: “Ti rimetteremo in sesto subito, a leannan, vedrai. Burt, conducila alla mia auto.”
“Lei non esce di qui!” sbraitò allora Maggie, sempre più confusa e spaventata.
Fred mi guardò dubbioso, mentre la nipote scrollava il capo esasperata.
Che dire? Che le mie amiche erano delle testarde senza speranza? Che mi volevano troppo bene? Tutt’e due le cose.
Sospirando esasperato, Fred esalò: “E va bene, loro vengono con noi.”
Elspeth annuì soddisfatta, mentre Maggie e Nancy si dichiararono d’accordo con ampi gesti del capo.
Burt, vistosi finalmente libero di portarmi fuori, camminò lesto lungo un corridoio illuminato solo dalle luci d’emergenza.
Dopo aver aperto con una spallata una porticina metallica, mi fece sbucare sul retro del locale, dove un autentico comitato di benvenuto ci accolse alla nostra uscita.
Duncan, le spalle rigide e poggiate contro un furgone nero, grugnì un’imprecazione e salì con me e Burt, mentre le ragazze vennero caricate sulla Mercedes blu notte di Frederick. Tutti insieme, ci dirigemmo in fretta verso la casa di Fredd per sistemare la mia ferita da taglio.

***

Dovevo aver perso conoscenza, perché mi risvegliai sul letto della camera che dividevo con Duncan, a casa di Fred e Becca.
Il corpetto sparito, e le mani di Duncan, scrupolose, mi stavano controllando la ferita.
Sanguinava ancora copiosamente, e sarebbe stato necessario mettere dei punti.
La cosa che, però, mi dava noia, era che non avrei potuto farmi imbottire di antidolorifici per sopportare il male.
I licantropi sono immuni a qualsiasi tipo di medicina, perciò avrei dovuto sopportare stoicamente tutto il processo, e la cosa mi fece inevitabilmente rabbrividire.
“Sono stato un idiota, un emerito idiota” brontolò per la centesima volta Duncan, scrutando il vassoio su cui erano posizionati ago e filo sterile.
“Se lo ripeti ancora una volta, giuro che ti ammazzo” sussurrai, sorridendogli mesta. “Chi se lo poteva aspettare, Duncan? Nessuno.”
“Non avrei dovuto mollarti neppure per un attimo!” sbottò, prendendo l’ago tra le mani e infilando con competenza il filo da sutura nella cruna.
“Non siamo gemelli siamesi, Duncan. Avrebbe potuto succedere in bagno, e non avresti potuto prevederlo in ogni caso” replicai, allungando una mano per sfiorarlo. Avevo bisogno di sentirlo, in quel momento.
Gli sfuggì un singhiozzo, mentre si chinava per darmi un bacio divorante, pieno di tutta la paura che aveva provato in quegli attimi convulsi, in cui mi aveva raccolta da terra, sanguinante e impaurita.
Lo accarezzai sui capelli, cercando di calmarlo e calmarmi e lui, alla fine, si scostò, ricordandomi mestamente: “Farà un male dell’inferno, lo sai, vero?”
Annuii, mentre la porta si apriva per lasciar entrare Elspeth, ancora pallida in viso, ma con una determinazione nello sguardo che avrebbe fermato anche un Freki in caccia.
Lanciò uno sguardo spiacente alla ferita aperta e al mio reggiseno, macchiato di sangue, prima di fissare duramente il viso di Duncan.
Si sedette pesantemente sul fianco libero del letto, sotto lo sguardo torvo di Duncan, e disse a entrambi: “Io resto qui.”
“Non sarà un bello spettacolo” precisò Duncan, con voce piana.
“Se può sopportarlo lei, posso sopportarlo anch’io” borbottò Elspeth, prendendomi per mano.
La fissai con occhi resi vacui dal dolore che percepivo al fianco e, stringendole appena le dita, mormorai roca: “Elly, ti prego, lascia perdere.”
Lei sfoderò per diretta conseguenza due occhi di fuoco, che mi perforarono come raggi laser. prima di Con livore, questi andarono poi a posarsi sul viso teso di Duncan, occhi che sapevano di accusa e di condanna.
Senza troppo starci a pensare, dichiarò livida: “Non ti lascio da sola con lui. Non ti lascio da sola con una persona che ti ha mollata nelle mani di un altro, mentre lui se ne usciva dal locale, lasciandoti ferita e senza l’appoggio di un medico.”
Duncan aggrottò leggermente la fronte, senza però dire nulla e io, già sul punto di difendere l’onore del mio uomo, mi volsi sorpresa quando percepii l’aura di Fred in avvicinamento.
Dopo alcuni secondi, lui entrò senza troppi complimenti e, guardando malamente Elspeth, ringhiò: “Senti un po’, ragazzina, cerchi rogne o che? Mi sta bene che tu sia nervosa per ciò che è successo alla tua amica, ma…”
Il suo dire venne però bloccato da Elspeth che, come un treno in corsa, gli si buttò addosso con il chiaro intento di sbatterlo fuori dalla stanza.
Furibonda come non mai, la mia amica ringhiò contro quel corpo solido e inamovibile. “Non puoi stare qui, con Brie mezza svestita! Vattene!” poi, all’indirizzo di Duncan, sibilò: “E tu non dici proprio niente al tuo amico?!”
Sospirai, scuotendo il capo, mentre Fred, ancora allibito per la sfacciataggine di Elspeth, esalò: “Ma che diavolo…?”
“Elspeth, torna subito qui e lascia in pace Fred” sbottai, con un tono di voce abbastanza secco.
Lei mi fissò confusa e ferita e, lasciando calare le mani dal petto di Fred, esalò: “Ma Brie…”
Fred la oltrepassò senza neppure degnarla di uno sguardo e, avvicinatosi a me, si inginocchiò a terra, accostando il viso al mio collo per annusare il mio odore.
Un attimo dopo, aggrottò torvo la fronte e decretò: “Era avvelenato.”
“Speravo di essermi sbagliato, ma…” ringhiò Duncan, reclinando appena il capo. “… guarda come si sono infettate le labbra del taglio!”
Ma io non li ascoltavo affatto.
Il mio pensiero era tutto per Elspeth che, furiosa, indispettita e tradita dal mio comportamento apparentemente disinteressato, se ne stava nel mezzo della stanza a fissarmi come se non mi riconoscesse più.
Ed era vero, in parte. Non ero più la ragazza che lei aveva conosciuto.
La presenza di Fred nella stanza non mi arrecava alcun disturbo, cosa che in passato, invece, mi avrebbe fatto esplodere di rabbia e imbarazzo, e lei lo sapeva bene.
Non mi capiva, era evidente.
Allungando una mano verso di lei, mormorai: “Elspeth, per favore, avvicinati. Non ho la forza di venire da te.”
Lei si morse nervosamente un labbro ma si avvicinò e, fissando a dir poco furente i due uomini al mio fianco, sibilò accusatoria: “Ma perché ti comporti così, Brie? Fatti portare in ospedale e… oh, diavolo! Molla questo tizio, che ti sta solo causando un mare di guai!”
Sorrisi – era sempre stata una sorta di mamma leonessa, per me – e le afferrai saldamente una mano, replicando: “Non puoi capire, Elly. E’ giusto che io resti qui.”
“Insieme a un maniaco e a un egoista? Oh, ottimo!” sbottò Elspeth.
Fred trasalì, indicandosi comicamente e celiando: “Io dovrei fare la parte del maniaco, giusto?”
Ridacchiai, annuendo, e commentai: “Beh, ti riesce bene, Fred, ammettilo.”
Lui mi sorrise bonario, sfiorandomi il viso con la grande mano calda e, dolcemente, mi promise: “Ora ti libero della tua amica, così Duncan potrà curarti più agevolmente.”
Fu a quel punto che Elspeth fece la cosa più coraggiosa – e stupida – della sua vita.
Si sporse sopra di me, come per difendermi con il suo stesso corpo e, mostrando i denti a Duncan e Fred, ringhiò loro contro: “Dovrai passare sul mio cadavere per liberarti di me, è chiaro?! Non lascio Brie da sola!”
Fred inarcò ironico un sopracciglio, fissandomi divertito e, scrollando le spalle, dichiarò: “E’ la prima volta in vita mia che vengo redarguito da un gattino senza pelo.”
“Un bravo gattino, però” replicai, prima di guardare Duncan e chiedergli: “Che facciamo?”
“E’ amica tua. Dici che potrebbe accettare tutto, senza ammattire? O denunciarci?” mi domandò per contro Duncan, fissando gli occhi lividi di Elspeth e la sua espressione furiosa.
“Di che diavolo parlate?” grugnì Elspeth, sempre più irritata. “Brie, in che guaio colossale ti sei cacciata?!”
“In nessun guaio, ragazzina” brontolò Fred, passandosi una mano tra i capelli. “E ti pregherei di non parlare con quel tono, come se avessi a che fare con dei delinquenti.”
“Che cosa dovrei pensare, visto che non la volete portare in ospedale?” ribatté Elspeth. “Beh, se voi non ce la portate, ce la condurrò io. Fermatemi, se osate.”
“Ellie, ora basta!” sbottai, afferrandola per un braccio e riportandola al suo posto. “Siediti, stai zitta due minuti e ascoltami.”
Lei sgranò gli occhi, mi fissò turbata e annuì, pur desiderando sicuramente chiedere spiegazioni per il mio comportamento e insultarmi debitamente.
Sospirai, abbastanza irritata e stanca e, nel veder annuire Duncan, domandai: “Quanto sei disposta a sopportare, per me?”
La domanda la spiazzò e, sobbalzando leggermente, mi disse: “Tutto, dovresti saperlo.”
Duncan intervenne al mio posto e aggiunse, scuro in volto: “Non è una domanda a vuoto, e non deve esserlo la risposta. Brie non vuole metterti in pericolo perciò, se la tua amicizia non è abbastanza salda, esci da qui e non aprire più bocca.”
Elspeth mi sorprese nuovamente. E non seppi dire se in positivo, o in negativo.
Spintonò malamente – quanto inutilmente – Duncan, ringhiandogli in faccia: “Ho conosciuto Brie molto prima di te, fustaccio dei miei stivali! Non pretendere di conoscerla, e amarla, più di me!”
Duncan la fissò leggermente sorpreso, prima di asserire: “E’ tutta tua. Io, nel frattempo, comincio a ricucirti la ferita”
Guardando poi Elspeth, aggiunse: “Io non la terrei per mano, se fossi in te.”
“E perché mai non dovrei?!” brontolò Elspeth, fissandomi poi con occhi ora colmi di lacrime non versate. “Brie, ma che succede?”
Mi svincolai dalla sua stretta e mormorai: “Succede che… ahi! Fai piano, per l’amor di Dio!”
Duncan sussurrò uno ‘scusa’ prima di riprendere a cucirmi la ferita. prima di Stringendo i denti quando sentii l’ago penetrare nella carne, borbottai a fatica: “Non sono più la ragazza che conoscevi. Non del tutto, almeno.”
“Lo vedo” esalò, tremando. “Da quando in qua ti lasci trattare a questo modo? Non hai preso nessun antidolorifico, o sbaglio?”
E, nel dirlo, fulminò con lo sguardo Duncan.
“Non mi farebbe nulla, Ellie. Nessun tipo di medicinale potrebbe calmare il dolore che sento” riuscii a dire, affondando le unghie nel copriletto e tendendomi come una corda di violino.
“Rilassati, Brie. Ti farò ancora più male, se ti irrigidisci a questo modo” mi pregò Duncan, la voce percorsa da un dolore così cocente da portarmi a guardarlo con dispiacere.
“Certo che anche tu pretendi la luna!” gli sibilò contro Elspeth.
Duncan sospirò stancamente prima di mormorare: “Pagherei per avere la luna qui, credimi. Per lei, soprattutto.”
Elspeth sbatté le palpebre confusa ed io, riportando la mia attenzione su di lei, le chiesi: “Ricordi che ti raccontai di mia nonna, e della leggenda tramandata nella mia famiglia?”
“Sì, quella delle streghe e…” cominciò col dire prima di interrompersi, impallidire, e aggiungere: “…mi stai prendendo in giro, vero?”
Scossi il capo, esalando: “Se non accetti questo, come posso dirti tutto il resto?”
Fred si mosse verso di lei ma Elspeth, arrampicandosi nuovamente sul letto, avvolse le sue braccia attorno al mio bicipite sinistro ed esclamò lesta: “No, no, ascolterò! Ma non portarmi lontano da lei.”
Annuii a Fred e lui, andando ad appoggiarsi alla porta, asserì: “Come desideri tu, wicca. Sono ai tuoi ordini, ovviamente.”
A quella parola, Elspeth sobbalzò. Era lei la fanatica dei mostri e dell’occulto. Sapeva benissimo di cosa stavamo parlando.
I suoi enormi occhi fumosi mi studiarono come in cerca della negazione, ma non trovarono altro che la verità, mescolata alla bestia che stava tentando di uscire per sopportare meglio il dolore.
Digrignai i denti percependo, senza poterli fermare, i miei canini che si allungavano a causa del male che stavo patendo – non ero brava come Duncan, a sopportarlo. prima di Elspeth, fin troppo vicina per non accorgersene, esalò un sospiro di sorpresa, prima di allontanarsi di colpo da me ed esalare in un ansito strozzato: “Che ti succede? Cosa sei?!”
Non risposi, troppo indaffarata a sopportare il dolore causato dalla ferita e dall’argento, che era scivolato nel mio sangue come veleno.
La luna era debole, in quel momento, e io non potevo attingere ai poteri della Madre Terra, finché non mi fossi trovata fuori casa, a stretto contatto con la natura.
Prelevare da Duncan e Fred sarebbe stato inutile.
L’energia che mi serviva per annullare gli effetti del veleno era troppo grande, per chiederla a loro. prima di No, dovevo attendere che Duncan finisse di ricucirmi, poi mi sarei fatta portare in giardino.
Fred si mosse lesto per raggiungere Elspeth e, bloccandola per le spalle, le ricordò con veemenza: “Non hai detto di essere abbastanza forte per sopportare tutto? Bene, allora guardala mentre lotta per non soccombere.”
“Sì, ma…” tentennò, con voce rotta da un pianto silenzioso quanto straziante.
Osservai distrutta le sue lacrime scintillanti, sapendo perfettamente che le avevo causate io e, con voce impastata dal dolore, le promisi: “Presto dimenticherai tutto, te lo prometto.”
Lei sgranò gli occhi, a quel punto, le lacrime cristallizzate sulle sue guance ceree, e gracchiò: “Dimenticare? Perché?!”
“Perché non puoi sopportare ciò che sono diventata” decretai, con un peso sul cuore.
Lei si divincolò dalla stretta di Fred, fulminandolo con lo sguardo e, tornando cauta sul letto, deglutì un paio di volte e borbottò: “Okay, concedimi che, prima, l’apparizione di quelle zanne mi ha incasinato parecchio il cervello, come la frase uscita dalla bocca di mister maniaco, ma cavoli, sei ancora tu, no?”
Fred trasalì, a quelle parole.
Di certo, non gli capitava spesso di essere preso per i fondelli da un’umana.
Annuii a Elspeth prima di affondare ancora di più le unghie nel copriletto, finendo con lo squarciare la stoffa, che sibilò sotto le mie dita come il suono di vetri infranti.
Elspeth fissò le mie mani affondate nel tessuto ed esalò: “L’hai… sì è rotto?”
“Sì” annuii, sollevando una mano per mostrarle gli artigli.
Lei li fissò sorpresa e sgomenta per un attimo, prima di avvicinare guardinga un dito per toccarli.
Strette le mani a pugno, esclamai: “No! Se non vuoi diventare come me!”
Elspeth ritirò in fretta l’indice che aveva allungato verso di me ed io, chiudendo gli occhi, esalai: “Fred, per favore.”
“Come vuoi” sbuffò, guardando Elspeth con espressione dubbiosa.
Lei ricambiò lo sguardo, alternando rapide occhiate a me che, tra un ansito e l’altro, sopportavo stoicamente il lavoro di ricamo di Duncan, prima di decretare: “Che non siete vampiri l’ho capito. Almeno, spero di averci azzeccato.”
Fred ridacchiò, passandosi una mano tra i capelli, e borbottò: “Neanche so se esistono sul serio ma no, non siamo vampiri. Qualche altra idea balzana, prima che prosegua nella spiegazione che ha iniziato Brianna?”
Elspeth sbuffò, asserendo: “Voglio sapere perché ti sei preso così tante libertà con lei…” poi, indicando Duncan, aggiunse: “…e perché lui non ci ha fatto una piega.”
Percepii senza bisogno di vederlo il chiaro risentimento di Fred ma, ugualmente, disse con voce abbastanza controllata: “Per noi, la nudità non conta nulla. E’ solo un problema di voi umani, non certo nostro.”
Il cuore di Elspeth fece un sobbalzo, accelerò per qualche secondo prima di tornare a livelli quasi normali e, dopo aver deglutito un paio di volte, riuscì a gracchiare: “E ‘nostro’, sta per…”
“Licantropi” dichiarò semplicemente Fred, scrollando le spalle. “Brianna è la Prima Lupa di Duncan e la wicca del suo branco, la sua guida spirituale, per intenderci. E’ forse la creatura più rara e preziosa che ci sia in tutta la Gran Bretagna, per non dire del nostro intero mondo di uomini lupo. Quindi, capisci bene che io e il mio amico, qui, siamo ben lungi dall’essere disinteressati al suo benessere. Semplicemente, non potevamo caricarla su un’ambulanza e portarla all’ospedale.”
Riaprii gli occhi per scrutare il volto di Elspeth, temendo di leggervi paura, risentimento, mancata accettazione.
Invece, trovai solo i suoi occhi spalancati, il suo cuore che martellava, sì, nel petto, ma senza alcuna produzione di adrenalina dovuta al panico. No, c’era… eccitazione.
Duncan mise l’ultimo punto e tirò un sospiro di sollievo. Con un misto di rabbia e disperazione nella voce, poi, sibilò: “Ho finito. Ora pensiamo al veleno.”
Detto ciò, mi sollevò tra le braccia e, fissando Elspeth con una durezza che non mi sarei mai aspettata da lui, aggiunse: “Credimi, io la amo, e la conosco in un modo che tu non puoi nemmeno immaginare, perciò non accusarmi mai più di non tenere abbastanza a lei.”
“Duncan, no” sussurrai, cercando di chetarlo.
Elspeth allora si alzò in piedi, scuotendo il capo al mio indirizzo, e replicò: “No, Brie, ha ragione. L’ho offeso, ora lo capisco, e me ne scuso, ma non potevo comprendere ciò che stava facendo, in precedenza. Ora sì. Almeno in parte.”
Lui non rispose e si avviò verso la porta della camera – seguito a ruota da Fred ed Elspeth – trasportandomi in silenzio al piano inferiore perché, dal salotto, non potessero sentirci.
Solo dopo aver raggiunto il giardino immerso nell’oscurità della notte, Duncan si rivolse nuovamente a Ellie. “Ti chiedi ancora perché l’abbia lasciata nelle mani di Burt? E’ semplice. Sono andato a cercare il suo assalitore. E ho evitato di distruggere il locale. Ero vagamente nervoso, per così dire.”
Sbattendo le palpebre sinceramente sorpresa, Elspeth esalò: “Vuoi dire… che avresti distrutto il locale a suon di pugni?”
“No” grugnì soltanto, facendomi sedere accanto a una piccola betulla dai rami sottili e pallidi.
Sorridendo dolcemente, ora del tutto dimentico di Elspeth, mi chiese in un sussurro: “Qui va bene, principessa?”
“Sì, grazie. E sii gentile, con Ellie. Ce la sta mettendo tutta per accettare questa cosa” sorrisi di rimando, stringendogli una mano.
Lui me la baciò, tenendola stretta e portandosela al viso, asserendo con voce rotta: “Non sopporto di vederti star male, e sai che perdo la pazienza in un attimo, in questi casi.”
Ridacchiai, annuendo mentre Elspeth, sedendosi vicino a me, mi domandò curiosa: “Ora che facciamo? Ha a che fare con… con quel fatto di essere una strega?”
“Una wicca” precisò impettito Fred, in piedi dietro di lei, storcendo il naso.
“Fred, vale anche per te” brontolai, appoggiandomi alla pianta e risucchiando dentro di me le energie della natura che mi circondava.
Il dolore cominciò a calare gradatamente.
“Sì, Brianna” sbottò, scocciato.
Elspeth ammiccò nella mia direzione, prima di guardare le mie mani. “Gli artigli sono spariti. Posso tenerti per mano, ora?”
“Non ti conviene. Sto assorbendo energia da tutto ciò che mi circonda, per annullare gli effetti del veleno che ho nel sangue. Se mi toccassi, preleverei anche da te, …non riuscirei a evitarlo. Già così, è difficile escluderti” scossi il capo.
Lei indicò allora Duncan, che continuava a tenere la mia mano appoggiata al viso, così le spiegai l'arcano. “Me la sta offrendo spontaneamente.”
Elspeth sgranò leggermente gli occhi a quella notizia, e chiese: “Non è… doloroso?”
“Sì” annuii, non volendo spiegare altro.
Duncan si limitò a sorridere nella mia direzione e Fred, sedendosi con noi sull’erba, le spiegò: “Un licantropo come Duncan è dotato di notevole forza e poi, essendo Brianna la sua Prima Lupa, non credo risparmierebbe una sola goccia del suo potere, se sapesse di poter fare la differenza tra la vita e la morte della sua compagna.”
“Fred” esalai. Non volevo che spaventasse Elspeth più del dovuto.
“E’ giusto che sappia. O tutto o niente, no?” ammiccò Fred nella mia direzione.
Sogghignai. Era stata la mia politica fin dall’inizio, e ora me la stava rivoltando contro.
Elspeth annuì a sua volta, dicendo con voce solo leggermente strozzata: “Ho accettato io di sapere. Vai pure avanti, Frederick.”
Lui annuì, scrutandola con un mezzo sorriso prima di proseguire nella spiegazione. “Come wicca, Brianna ha la capacità di usare i poteri della luna per attingere a quelli della Madre Terra. Ora che la luna è in fase calante, però, il suo dono è meno efficace e, pur se lei è la wicca più potente che si conosca da tempi immemori, è comunque più difficile, ora, prelevare queste forze."
Sospirò, grattandosi una guancia con fare pensoso e infine mormorò: "Il lupo che è in lei le può dare una mano, come quello che è dentro di noi, ma è un processo più lento del dovuto, proprio a causa dello scarso potere della luna.”
“Quindi, se ci fosse stata luna piena, sarebbe guarita prima?” chiese a quel punto Elspeth, continuando a lanciarmi sguardi ansiosi ogni due secondi.
“Esatto. Inoltre, Brianna si sta imponendo di non attingere da me, ma solo da Duncan, che le sta offrendo energia, e dalla sua stessa bestia, perciò la cosa è ancora più lunga” borbottò Fred, vagamente contrariato.
Sorrisi, e replicai: “Con un pazzo squilibrato in giro, pensi che azzererei le forze di tutti i lupi del circondario?”
“Vero” ammise Fred, scrollando le spalle e facendosi ombroso in viso. “Ma sarebbe un suicida, se tentasse di avvicinarsi anche a un solo miglio da casa mia. Il branco è disseminato qui intorno.”
“Lo sento” sussurrai, prima di allontanare a forza la mano dal viso di Duncan. “Basta. Ti stai esaurendo.”
Lui riprese la mia mano e, guardandomi malissimo, replicò: “Ce ne vuole parecchio, principessa, prima che mi esaurisca. E tu dovresti saperlo meglio di tutti.”
Arrossii leggermente, mio malgrado e Fred, ridacchiando, esalò: “Oooh, questi sì che non sono discorsi da tenersi in pubblico!”
Elspeth sbatté un paio di volte le ciglia con aria stranita, prima di spalancare la bocca ed esibirsi in uno squittio divertito.
Mi fissò con aria ironica e, ridacchiando, commentò: “Devo supporre che…”
La bloccai, minacciandola senza troppi complimenti. “Non una parola di più, Ellie, o giuro che ti cancello la memoria!”
Lei annuì, pur sogghignando e, avvicinandosi ulteriormente a me, annusò un poco i miei capelli. “Non mi sbagliavo. Sanno di… di erba, di fiori… di natura.”
“A volte capita, quando divoro così tanta energia” annuii, portando la mano libera al fianco per togliere il bendaggio e controllare la ferita.
Duncan mi aiutò, annusando un momento l’aria prima di decretare: “Sembra non ce ne sia più. Fred?”
Fred si avvicinò a sua volta, imitando l’amico e, annuendo, disse: “Sì, l’argento sembra essere stato eliminato.”
“Argento? Allora è vero?” esalò Elspeth, ammirando sorpresa la mia ferita, tenuta assieme dal filo da sutura trasparente usato da Duncan.
“Purtroppo per noi, sì” esalai, storcendo la bocca nell’osservare la lunga linea rosea sul mio fianco. “Sembra che l’infiammazione sia passata.”
Duncan me la tastò debolmente, annuendo tra sé. “La carne non è tesa. Ti resterà una cicatrice da mostrare a Gordon, però. Spero che Mary B apprezzi il ricamo. Ho cercato di essere il più preciso possibile.”
Sapevo che stava cercando di ironizzare solo per far piacere a me ma che, dentro di sé, schiumava di rabbia a stento repressa.
Sorridendo, gli diedi una pacca su un braccio, asserendo: “Sarà così orgogliosa di te che ti riempirà di elogi.”
“Lo spero proprio” ammiccò, chinandosi a baciarmi sulla fronte. “Pronta per rientrare in casa?”
“Sì” annuii.
Elspeth si offrì subito di aiutarmi ed io, accettando il suo braccio, mi sollevai sentendomi vagamente stordita.
Ridacchiando, commentai: “Mi sembra di essere sbronza.”
“Beh, in effetti lo sei” ridacchiò Fred, osservandomi con un sorriso. “Sprizzi potere da tutti i pori della pelle. Viene quasi voglia di mangiarti.”
“E sarà così per un po’” ammiccai divertita, mentre Elspeth fissava stranita Fred per quello strano commento.
Rivolgendomi alla mia amica del cuore, le domandai: “Sei ancora sicura di volerti ricordare tutto ciò che hai visto e sentito?”
Lei annuì convinta, e mi domandò: “Non sei scappata di casa, vero, l’anno scorso?”
“Cosa te lo fa pensare?” ammiccai ironica.
“Di tutta la storia che ci hai propinato, non mi è mai tornato nulla. Come del vostro improvviso trasferimento a Matlock” mi disse Elspeth, guardando Duncan con curiosità. “O dell’incendio dove sono morti il tuo patrigno e tuo nonno.”
Aggrottai leggermente la fronte al ricordo di quelle alte fiamme che avevano lambito il cielo, firmando la condanna a morte di Patrick e il contratto per la mia libertà.
Non erano ricordi che rivivevo volentieri, ma era giusto che fosse a conoscenza anche di quello. Le due facce della medaglia, per così dire.
Annuendo brevemente, risalimmo in camera, procedendo lungo le scale con passi lenti, come se entrambe non fossimo ben bilanciate sulle gambe.
E in effetti, almeno per me, equivaleva alla realtà dei fatti.
Una volta raggiunto il piano superiore, mi sedetti sul letto, facendole segno di imitarmi e, dopo aver preso un bel respiro, ammisi: “Scappai davvero, ma per salvare Duncan, che trovai imprigionato nella cantina di Patrick.”
Lei sgranò gli occhi per la sorpresa ed io, con dovizia di particolari, le raccontai le nostre vicende, di come scoprimmo la verità su Patrick e su Abraham, e su come la casa prese fuoco, uccidendoli.
Con un ultimo sospiro, terminai dicendo: “Questo è più o meno tutto quello che c’è da sapere.”
“Perciò stanotte era un … un Cacciatore, che ti ha pugnalata?” mi chiese Elspeth, guardando un momento la mia ferita prima di tornare a fissare il mio viso nuovamente sano.
“No. Si trattava di un licantropo. Non sappiamo chi sia, né se appartenga o meno a un branco, né tanto meno perché ce l’abbia con me. E’ già la seconda volta che cerca di ammazzarmi” mormorai impotente, stringendo le mani in grembo per il nervosismo.
Duncan mi allungò una maglietta da indossare e, sorridendo a mezzo, asserì: “Indossa questa e stai un po’ in compagnia con le tue amiche. Cominciano a mordere il freno, di là con Becca e Matt.”
“Lo sento” annuii, ridacchiando nell’alzarmi in piedi. “Tu che farai?”
“Uscirò in perlustrazione. Qui rimarranno Fred, Hati e il suo Freki. Io andrò con i suoi alfa più forti. Non sarò solo” mi promise, stringendomi in un abbraccio consolatorio prima di uscire attraverso la finestra con un balzo aggraziato.
Elspeth sgranò leggermente gli occhi, le uscì un sospiro strozzato dalla bocca ma null’altro. Beh, se non altro, non era svenuta.
“Non invidio il malcapitato che finirà sotto i suoi artigli, casomai lo trovassero” sospirò Fred, accompagnandoci fuori dalla stanza quando fui nuovamente presentabile.
“Già” annuii.
“Era furioso?” ci chiese Elspeth, stando al mio fianco lungo il corridoio.
Annuendo, le spiegai: “Duncan è un mago nel rendere ermetico il suo viso, a differenza di me che, invece, sembro una lastra di vetro” ridacchiai, nel dirlo. “Ciò non vuol dire che non provi sentimenti forti e dirompenti, però. Più si fa di ghiaccio e più è infuriato.”
“Allora, era furibondo all’ennesima potenza. Anche se, con te, è sempre dolce” mi sorrise Elspeth, stringendomi a sé per un momento. “Vedrò di farmi perdonare da lui, per tutte le cattiverie che gli ho sputato addosso. Ora che so, capisco perché lo ami tanto.”
“E io? Non merito delle scuse anch’io?” intervenne Fred, sogghignando.
Elspeth meditò un momento sulle sue parole prima di annuire e dire con estrema serietà: “Sì, decisamente. Ti prego di accettare le mie scuse più sentite, Frederick.”
“Fred. Chiamami solo Fred” replicò, dandoci amichevoli pacche sulle spalle. “E ora, filate in soggiorno. Io esco di ronda qui fuori.”
Nel vederlo andare via, Elspeth mi chiese dubbiosa: “E’ un … alfa, un capo-branco anche lui?”
“Sì. E’ Fenrir del clan di Glasgow” annuii. “E’ così che si chiamano i capi clan.”
“Fenrir? Suona davvero mistico” sorrise lei prima di bloccarsi un momento e, tornata seria, asserire: “Te lo prometto solennemente. Terrò per me quanto mi hai detto. E non solo per il segreto in se stesso, ma perché così so che ti potrò difendere meglio.”
Abbracciandola stretta, le sussurrai all’orecchio: “Sarai una madre eccezionale, un giorno.”
“Ho fatto pratica con te” ridacchiò, con voce resa incerta dall’emozione.
La strinsi ancora più forte per un attimo, avvolgendola con il mio potere per poi sussurrare contro la sua spalla: “Sarai sempre nel mio cuore, in qualsiasi momento, Ellie.”
Lei sgranò gli occhi, scostandosi da me e toccandosi il petto e le braccia con aria stranita prima di sorridermi ed esalare: “Eri tu?”
Annuii, lieta che avesse potuto percepire almeno in minima parte il mio potere. “Menti particolarmente ricettive possono percepire un poco quello che sono e che faccio. Era una benedizione.”
“Grazie” sussurrò lei, prima di sentire Matt ridacchiare dal salotto, e aggiungere: “Raggiungiamole.”
Mi limitai ad annuire, sentendomi così leggera e in pace che avrei potuto galleggiare a mezzo metro da terra.
Elspeth sapeva.
Elspeth mi conosceva per quella che ero, e non ne era inorridita.
Certo, sapevo che non avrei potuto ottenere la stessa accettazione dalle altre – non avevano una mentalità aperta come Elly – ma il solo fatto di avere almeno lei, mi riempì il cuore di quella speranza che, il mio attentatore, aveva cercato di sottrarmi con quel colpo di coltello.
Pensare a lui mi fece pensare a Duncan e, tra me, pregai la Madre Terra perché lo proteggesse da qualsiasi pericolo.
Perché avrei potuto sopportare di morire, ma non di veder morire lui.



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N.d.A.: Lasciandovi con questa new entry nel mondo di Brianna e Duncan, vi auguro una Buona Pasqua! Alla prossima!

 

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Capitolo 11
*** Cap. 11 ***


11.

 
 
 
 
 
 
 


 

Lasciare Glasgow produsse in me un miscuglio indefinibile di emozioni.
Dopo miglia e miglia, passate a digerire la progressiva lontananza tra me e le mie amiche, ancora non ero sicura di ciò che sentivo dentro il mio cuore.
Ero felice di tornare a casa, tra l’abbraccio protettivo del mio branco e dei miei familiari, ma ero anche triste al pensiero che, almeno per molto tempo, non avrei potuto riabbracciarle.
Ma, più di tutto, non sapevo come comportarmi di fronte all’ostinato silenzio di Duncan.
Da quando eravamo saliti sulla Volvo, e avevamo imboccato la motorway per tornare a casa, nell’abitacolo era sceso un silenzio di tomba.
Il ronzio di una zanzara sarebbe parso assordante, alle mie orecchie.
Non aveva detto più nulla, dopo il suo rientro dal pattugliamento notturno attorno al quartiere.
Cosa ancora più strana, si era limitato a stendersi al mio fianco, abbracciandomi stretta senza fare null’altro, se non baciarmi ogni tanto i capelli.
Avevo quasi giurato che, dopo un evento simile, avrebbe fatto l’amore con me fino allo sfinimento, invece nulla.
Si era trincerato in quel maledetto silenzio, che tanto mi ricordava i primi giorni in cui ci eravamo conosciuti, quando lui taceva qualsiasi cosa, svicolando a qualsiasi mia domanda.
Beh, non gliel’avrei permesso oltre, questo era sicuro.
Intrecciando le braccia al petto, esordii dicendo: “Hai intenzione di tenere il muso fino a Farley, per caso? Perché, se è così, puoi mollarmi alla prima piazzola di sosta. Mi farò il viaggio di ritorno come lupo.”
Mi lanciò una breve occhiata, le mani ben salde sul volante di pelle nera e la lancetta del contachilometri fissa sulle ottanta miglia orarie.
Sbuffai innervosita ma, prima ancora di poter parlare, sentenziò lapidario: “Non ti muoverai mai più senza una scorta, quindi dimenticati pure di tornartene a Farley da sola, perché non lo farai.”
Strabuzzai gli occhi, inorridita dal suo tono autoritario e da quell’ordine perentorio. Sbottai immediatamente, esclamando: “Cos’è? L’ordine del mio Fenrir, questo?!”
“Esattamente. Non permetterò mai più che ti possa succedere qualcosa, perciò farai ciò che ti dico” assentì Duncan con un tono di voce così pacato e, nel contempo, così definitivo, che mi fece accapponare la pelle.
“Non ci penso proprio a farmi seguire ovunque da uno dei nostri lupi! Scordatelo!” ringhiai, innervosendomi non poco.
“Tu farai quello che ti si dice. Sono io l’autorità, nel branco” precisò, stringendo leggermente le mani sul volante. Ah, bene! Una reazione, finalmente!
“E io ti devo ricordare che una wicca non prende ordini da nessuno, neppure dal suo Fenrir!?” ribattei, assottigliando gli occhi con ferocia.
“Sei anche la mia Prima Lupa, perciò ho voce in capitolo, se permetti” mi fece notare, manifestando i primi accenni di rabbia.
Finalmente si stava scuotendo. Stavo frantumando la sua maschera compassata, ma non seppi dire se fosse un bene o un male.
“Beh, non mi obbligherai a fare qualcosa che non voglio. Tienilo bene a mente, Duncan. Non sono un oggetto che tu puoi sbatacchiare a destra e a manca a tuo piacimento” gli sputai addosso, guardando ostinatamente fuori dal finestrino con aria offesa.
Fu a quel punto che mi sorprese.
Rallentò di colpo e si fermò nella corsia di emergenza, mettendo le quattro frecce prima di voltarsi verso di me.
Con un ringhio che fece vibrare i vetri, fece esplodere tutta la sua rabbia e la sua paura
“Ma è mai possibile che tu non capisca quanto io tenga a te e quanto, quel che è successo ieri, mi abbia sconvolto a morte?! Pensi che io sia fatto di pietra, maledizione?!”
Sobbalzai, sorpresa di fronte a quello sfogo improvviso e violento che non era da Duncan e, spiacente, lo guardai negli occhi lucidi di lacrime, che non avrebbe mai e poi mai versato.
L’avevo ferito, e molto.
Mi stavo comportando da bambina insofferente e, con la mia testardaggine, avevo colpito al cuore la persona cui più tenevo al mondo.
“Duncan, io…” tentennai, mordendomi un labbro, indecisa su cosa dirgli.
Lui tornò a fissare la strada semi deserta di fronte a noi e, senza più dire nulla, ripartì e non si fermò più.
Dalla sua bocca, piegata in una smorfia, non uscì fiato per tutto il viaggio.
Ammutolita dalla vergogna e dal senso di colpa, me ne ristetti nel mio angolino, ascoltando la radio a basso volume e sperando che quel viaggio mostruoso avesse presto un termine.
Era assolutamente la prima volta che io e Duncan litigavamo a quel modo, da quando ero diventata la sua compagna.
Il senso di vuoto, che percepivo nell’animo, mi faceva stare così male che avrei voluto mettermi a urlare per la frustrazione.
Sapevo perfettamente che lo stesso dolore stava invadendo anche lui, simile a mille locuste desiderose di divorarci interamente, lasciando di noi solo polvere e nient’altro.
Sapevo anche che, la causa di quell’infestazione, era dovuta alla mia malsana abitudine di impuntarmi sulle cose, anche quando sapevo che era la mera stupidità a spingermi.
L’essere così a stretto contatto con Duncan, l’essere legata a lui con il sangue e con l’anima non era facile, in momenti come quello, perché il dolore era amplificato così tante volte da renderlo praticamente insopportabile.
E io gli avevo fatto questo.
Ero un mostro.
Con un sospiro, mi coprii il viso con le mani come per nascondermi di fronte all’immane errore che avevo commesso e, fino a Farley, non guardai più nella sua direzione, temendo di vedere condanna e dolore nei suoi occhi a me così cari.
Quando raggiungemmo il nostro ameno paesino nei pressi di Matlock, fu con un certo stupore che mi ritrovai a fissare la villetta dove vivevano Gordon e Mary B.
Si fermò e, nel vedere Duncan scendere dall’auto per suonare al citofono, mi chiesi cosa volesse fare.
Dopo neppure dieci secondi ne uscì Mary B che, raggiuntolo in strada, lo abbracciò e, con un sorriso, esclamò: “Ehi, ragazzi! Non vi aspettavamo che per sabato prossimo. Come mai questo ritorno frettoloso?”
Duncan era tornato a indossare la sua maschera di tranquillità fasulla e, sorridendo a Mary B, le spiegò: “Impegni improrogabili che non mi permettono di prendermi cura di Brie come vorrei. Può stare un po’ con voi, in questi giorni, finché non sistemo tutto?”
Mary B parve sorpresa da quella proposta – di certo, mai quanto la sottoscritta – ma annuì lieta e replicò: “So quanto possano essere gravosi i tuoi impegni, caro, e so quanto ci tieni che Brie non stia mai da sola. Certo che può rimanere qui.”
Chinandosi per baciarle una guancia con fare filiale, Duncan mormorò: “Ti ringrazio, Mary. Ti farò sapere appena avrò terminato tutto.”
“Non avere fretta. Sai che ci fa piacere avere Brie da noi” lo tranquillizzò Mary B, prima di sorridermi e asserire: “Coraggio, scarica la tua valigia. Non vorrai mica che faccia sempre tutto Duncan, no?”
Mi riscossi quel tanto che bastò per non apparire un’ebete e, annuendo a più riprese, mi affrettai ad aprire il bagagliaio per estrarre il mio trolley rosso fuoco.
Quando, però, mi ritrovai a fissare gli occhi apparentemente smarriti di Duncan, mi sentii sgretolare in mille piccoli pezzettini.
Se non fosse stato per la presenza di Mary B, mi sarei messa a piangere a dirotto per poi di buttarmi tra le sue braccia per scusarmi.
Invece, mi limitai ad alzarmi in punta di piedi e, dopo averlo baciato sulla guancia e averlo stretto in un dolce abbraccio, sussurrai debolmente: “Cerca di non stancarti troppo, in questi giorni. Sai che esageri sempre, quando non ci sono io a vigilare.”
Lui accennò un mesto sorriso, rispondendo al mio abbraccio che sapeva di dolore e di lacrime e, baciatami sui capelli, mormorò: “Non dimenticarti che ti amo.”
Annuii, lasciando scivolare la mano sulla manica della sua camicia finché non si fu del tutto allontanato da me.
Non appena lo vidi accendere l’auto per avviarsi verso casa, non potei esimermi dal sospirare pesantemente.
Mary B mi guardò un momento prima di prendere il trolley dalle mie mani e, incamminandosi verso casa, domandò: “Ora che non c’è, posso sapere che è successo per ridurvi in questo stato pietoso?”
Non mi stupii che Mary B avesse capito al volo che qualcosa era successo tra noi perciò, non appena misi piede in casa, esalai un laconico: “Abbiamo litigato.”
Quasi facendomi sobbalzare per la paura – il che la diceva lunga su quanto fossi sconvolta – Gordon sbucò dalla cucina con un tramezzino in bocca e una bibita in mano, bofonchiando: “Ehi, fao! Fi è fe ha litigato?”
Lo fissai con un sopracciglio sollevato e, scrollando il capo, mugugnai: “Ingoia quel panino, prima di affogare.”
Lui ingollò a fatica il boccone e si scolò un bel sorso di Coca-cola, dopodiché si avvicinò a me per stringermi in un breve abbraccio orsesco e chiedermi: “Allora. Hai litigato con il tuo bello?”
Spintonandolo, me ne andai in cucina, tallonata da Gordon e Mary B dopodiché, sollevai la maglietta per mostrare il mio fianco ricucito di fresco e sbuffai burbera: “Abbiamo litigato per questa.”
Come al solito, delicata quanto un treno in corsa spinto contro un muro a tutta velocità.
Mary B sgranò gli occhi a palla mentre Gordon, con un singulto strozzato, si piegò su un ginocchio per meglio osservare quel lavoro di ricamo.
Senza neppure avere il coraggio di toccarla, esalò: “Ma che… miseria, ma tu non puoi essere… chi diavolo…?”
Con un sospiro rabbioso e un gesto secco della mano, ricoprii la cicatrice e mi sedetti al tavolo della cucina, domandandogli aspra: “Quale domanda vuoi pormi, Gordon? Non posso leggere nella tua testa, a meno che non ti tocchi e usi un bel po’ di potere, e onestamente non ne ho voglia.”
“E io non te lo lascerei fare” precisò lui, balzando a sedere sul tavolo mentre Mary B si avvicinava con aria preoccupata. “Allora, che è successo? Deve essere per forza stata una lama d’argento a farti quel buco.”
“Colpita e affondata” annuii, prima di aggiungere: “Mary B, stai tranquilla, non è niente di grave. La ferita è pulita e non c’è più una goccia di argento nel mio sangue. E Duncan me l’ha ricucita perfettamente.”
“Non metto in dubbio le sue qualità, né le potenzialità del tuo potere, cara, ma ammetterai che una cosa del genere può turbare, così su due piedi” precisò Mary B, accennando un sorrisino.
“Perdonatemi” sospirai, reclinando il capo. “Sembra non sia capace di fare altro, in questo periodo. Mettere in ansia coloro che amo.”
“Ci sei nata, con questo dono” commentò Gordon con un sorrisone, passandomi un biscotto al cioccolato.
Ghignai in risposta, ammettendo: “Come al solito, sono sbottata perché Duncan voleva assegnarmi una scorta.”
“Cosa ovvia e giusta” annuì saggia Mary B.
“Già, ma io non l’ho capita subito, e abbiamo litigato. Gli ho fatto del male” sospirai nuovamente, passandomi nervosamente una mano tra i capelli.
“Sono convinto che gli passerà presto. E’ troppo innamorato di te per pensare di starti lontano per più di due ore” decretò Gordon con una certa ironia.
“Non è questione che gli passi, Gordon. E’ questione che io la smetta, una volta per tutte, di prendermela se lui vuole proteggermi” brontolai, portandomi le mani al volto per coprirmelo.
Mi sentivo maledettamente stupida, e lasciare che loro scrutassero il mio volto era troppo, per me, in quel momento.
“Tesoro, sei stata abituata fin da piccola a cavartela con le tue sole forze perciò, più la faccenda è difficoltosa, più questa tua indipendenza nel muoverti viene a galla. Duncan, per contro, è sempre stato abituato ad annullarsi completamente per il bene del branco e di coloro che ama, perciò gli viene naturale cercare di proteggerti in qualsiasi modo possibile, anche se tu non sei d’accordo” chiosò Mary B, sfiorandomi una spalla con la mano.
La fissai tra gli spiragli offerti dalle dita aperte a ventaglio sul mio viso e, borbottando, domandai speranzosa: “Quindi, cosa dovrei fare?”
“Cosa dovete fare. Siete entrambi giovani, ed entrambi state affrontando una marea di problemi, e nel giro di pochissimo tempo. Questo tuo aggressore misterioso non ha che complicato una situazione già di per sé difficile, quindi è naturale che siate esausti, nervosi e, oserei aggiungere, sessualmente frustrati.”
Gordon ridacchiò a quelle ultime parole mentre io, sbattendo più volte le palpebre, esalai: “Ah no, quello no.”
“Beh, meglio. Un problema in meno, direi” ridacchiò allora Mary B, prima di tornare seria e aggiungere: “Prendi tutte le precauzioni del caso, tesoro?”
Sbuffai, annuendo, e borbottai: “Sì, Mary B. Non stai per diventare nonna.”
“Ottimo. Non mi ci vedo proprio, in quei panni” precisò, scrollando una mano davanti al viso come per liquidare quella faccenda.
“Certo che non ti ci vedi” ghignò Gordon. “Non ti ci fanno davvero sentire, eh?”
Quella frase mi sconcertò e, fissando curiosamente Mary B, le chiesi: “Con tutti questi problemi, non te l’ho potuto chiedere, ma mi sembra tu stia meglio. O almeno, al telefono mi sei parsa più serena. Sbaglio?”
Mary B, che aveva fissato malissimo Gordon per quell’uscita imprevista, ora guardò me con un profuso, quanto inaspettato, rossore dipinto sulle gote.
Tastandosi nervosamente i capelli castano rossicci, come a voler aggiustare un inesistente ricciolo ribelle, esalò: “Eh? Oh, sì, tesoro, sto bene. Non devi preoccuparti per me, davvero. Qui mi trovo bene, i colleghi di lavoro sono gentili e il branco mi è stato molto vicino, in questi mesi di transizione. Inoltre, dopo la minaccia che abbiamo subito, sono ancora più prodighi di attenzioni. Non potrei chiedere niente di più.”
“Il branco, eh?” ironizzò ancora Gordon, guadagnandosi per diretta conseguenza una sberla leggera su un ginocchio.
Cercando di lasciare da parte il dolore derivato dal litigio con Duncan per concentrarmi sulla mia famiglia, fissai a occhi spalancati il viso vermiglio di Mary B e, con aria inquisitoria, tornai a chiedere: “Cosa c’è che mi vuoi nascondere di così tremendo? Hai una tresca con uno dei miei lupi?”
Miei lupi.
Ormai era naturale, per me, pensare a loro come miei protetti, quasi come se fossero stati miei figli.
Per altre cose, come i titoli altisonanti, potevo anche essere restia ad accettare la dura realtà, ma loro erano miei, e io li avrei protetti contro tutto e contro tutti, a costo della mia stessa vita.
Di certo, però, non mi ero aspettata un risvolto del genere.
Cioè, non che Mary B non meritasse le loro attenzioni, intendiamoci.
Più di un lupo si era dimostrato interessato ad approfondire la sua conoscenza, dopo quella prima presentazione al Vigrond, vuoi per la novità della cosa, vuoi perché lei era una donna dannatamente attraente, e a trentotto anni aveva ancora parecchie frecce al suo arco.
Ma non mi ero aspettata, da parte di Mary B, un interessamento reale a cercarsi una compagnia, specialmente dopo quello che era successo con Patrick.
Sì, mi aveva raccontato che, dopo aver scoperto la verità su di lui e su tutte le menzogne che le aveva propinato nel corso degli anni, nel suo cuore non aveva trovato più molto spazio per l’amore che, un tempo, lei aveva provato per Patrick.
Questo, era stato sostituito da un profondo senso di vergogna e di rimpianto, per i dodici anni sprecati accanto a un uomo che lei aveva creduto una persona diversa da quella che era stata in verità.
Inoltre, dopo la nostra chiacchierata e la nostra visita al Vigrond – una settimana prima di partire per la riunione tra clan – mi era parso che il problema fosse stato definitivamente cancellato dalla sua mente e dal suo cuore.
A quanto pareva, stando alle battute di Gordon, il rimpianto e la vergogna erano stati decisamente soppiantati da qualcos’altro.
Tornando a guardare Gordon con aria indispettita per alcuni attimi, Mary B sospirò sconfitta e mormorò: “Quel che Gordon ha così elegantemente esposto, direi con una grazia simile a quella di un elefante zoppo…” e lì, risatina di Gordon. “… è che sono uscita un paio di volte con Lance, prima della vostra partenza per la Riunione tra Clan.”
La caduta di un asteroide proprio sulle nostre teste mi avrebbe sorpreso di meno.
Lance, il contenuto, ermetico, idiosincratico Lance, aveva invitato fuori Mary B?
Scuotendo il capo diverse volte, come se quel concetto fosse troppo difficile da farmi entrare in testa, non solo da comprendere, guardai fuori da una finestra per essere sicura che non ci fosse la fine del mondo o non volassero per caso draghi e fatine.
Fissando poi basita Mary B, esalai: “Sei sicura che stiamo parlando dello stesso Lance che conosco io?”
Lei mi fissò apertamente infastidita, prima di rabberciarmi imbarazzata: “Non mi bastano le battute di Gordon. Ora ti ci metti anche tu?”
“Scusa, scusa, è che … insomma…” tentennai, non sapendo bene come esprimermi. “…beh, non so se Lance ti ha parlato del suo passato, e allora…”
“Intendi il perché sia rimasto celibe fino a ora? Sì, me l’ha detto” annuì, facendosi seria e triste al tempo stesso.
Gordon fece una smorfia, e mugugnò: “Ma non l’ha detto a me, quell’antipatico. Non posso proprio saperlo?”
“No” dicemmo all’unisono io e Mary B e Gordon, fissandoci malissimo, scese d’un balzo dalla tavola e se ne andò verso la sua stanza, borbottando qualcosa sui segreti delle donne e sulla loro testardaggine.
Io ridacchiai per un momento, prima di dirle: “Perdona la mia sorpresa, Mary B. Naturalmente, sono felicissima di questa novità. Ma, conoscendo i trascorsi di Lance, mi è solo parso strano che fosse tornato a fidarsi di … beh, di una donna umana, per intenderci.”
Lei sorrise appena, annuendo, prima di spiegarmi come fossero andate le cose.
“E’ nato tutto per caso. Già prima di questa situazione d’emergenza, io e lui abbiamo sempre parlato spesso, specialmente per quel che riguarda l’ambito lavorativo. Sai… essendo entrambi medici, ci è venuto naturale scambiarci opinioni.”
Annuii, preferendo lasciare che parlasse a ruota libera, senza porle alcuna domanda che potesse, eventualmente, metterla in difficoltà.
Mordendosi un momento il labbro inferiore prima di lanciare uno sguardo fuori dalla finestra, Mary B proseguì dicendo: “Abbiamo scoperto di aver avuto un professore in comune, e così… insomma…”
Sorridendole gentilmente, le afferrai una mano – che strinsi con delicatezza – e asserii: “Non è necessario che tu mi spifferi tutto, Mary B. Sono contenta che ci sia stata una persona, qui nel branco, con cui tu ti sia trovata bene fin dal principio.”
Annuendo di fronte al mio tentativo di metterla a suo agio, Mary B proseguì più tranquillamente nel suo racconto.
“Ho sempre trovato Lance molto simpatico e una persona estremamente intelligente, fin dal primo giorno in cui ci siamo conosciuti per telefono, quando tu hai avuto bisogno di me. Quando mi sono ritrovata qui, sbalzata in una nuova realtà e con il mio passato ridotto in frantumi a causa delle azioni di Patrick, beh, Lance mi è stato vicino."
Mi sorrise timida, neanche i nostri ruoli si fossero invertiti, e fosse stata lei, la figlia, e io la madre.
"E’ stata una fortuna averlo avuto qui, disponibile ad ascoltarmi quando avevo bisogno di parlare. Naturalmente, anche Sarah ed Erika sono state gentilissime con me, oltre a tantissimi membri del branco ma…”
“Lance ha una mente affine alla tua, vero?” le chiesi con un sorriso comprensivo.
“Forse perché siamo entrambi discepoli di Ippocrate, chissà…” ridacchiò, prima di tornare seria e aggiungere: “…fatto sta che, con lui, non mi sono mai sentita una sciocca. Buffo, eh?”
“Poteva capirti meglio di chiunque altro” replicai, scuotendo leggermente il capo.
Annuì, comprendendo a cosa mi stessi riferendo e, con occhi che esprimevano il profondo rammarico per ciò che era successo a Lance, sussurrò: “Me lo disse il giorno del mio compleanno. Non so neppure come entrammo in argomento. Forse mi vide triste, o arrabbiata, non saprei. Ma mi raccontò ogni cosa.”
“Non hai idea di quanto sia stato importante, per lui” dissi mestamente.
“L’ho capito, credimi” mi sorrise, stringendo appena la mia mano prima di scivolare via dalla mia stretta, per cominciare a passeggiare nervosamente per la cucina.
“Ho apprezzato tantissimo questa sua apertura, questo suo fidarsi di me nonostante ci conoscessimo da pochi mesi. Credo che il mio interesse per lui sia nato da lì.”
“Ma non ti sentivi ancora pronta, vero?” ipotizzai.
Annuendo, Mary B raggiunse il davanzale della finestra e lì, strette le mani a pugno sul bordo di granito, ammise: “Avevo i miei demoni da sconfiggere, sì. Non sarei mai riuscita a comprendere ciò che sentivo dentro di me se, prima, non fossi venuta a capo di ciò che provavo ancora per Patrick. Parlare con te è stato illuminante.”
“Sono lieta tu lo pensi” le sorrisi, felice di saperlo.
Si volse per guardarmi, poggiando la schiena contro la finestra e avvolgendo le braccia sotto il seno.
“I ricordi del passato possono farti commettere degli errori, o precluderti qualsiasi futuro. Se si rimane imbrigliati nelle proprie memorie, non c’è scampo alcuno. Continuerai a vivere e rivivere la tua storia senza mai progredire, senza mai andare avanti e crearti un futuro. Beh, io questo non lo volevo. E grazie a te e Lance ho compreso di non voler rimanere in quel mondo per me così triste. Sono stata la moglie di Patrick, nel bene e nel male, ma ora sono una persona nuova, con nuovi desideri.”
Allargai il mio sorriso, asserendo con calore: “E io sono felicissima di saperlo, Mary B. Anche se mi spiace che tu debba vivere questo tuo nuovo sentimento in una situazione così spiacevole.”
Mary B si limitò a sorridermi, scuotendo il capo come per liquidare le mie parole.
“E’ stata questa situazione spiacevole a creare l’opportunità di uscire insieme, dopotutto, quindi non posso lamentarmi, no?”
Ridacchiai debolmente, chiedendole: “Com’è successo?”
“Una sera, mentre Lance era di guardia in ospedale per controllare che nessuno mi facesse del male. Ha pensato che forse avrei gradito andare da qualche parte per svagarmi un po’ e…”
“…e…” la incitai, curiosa.
“Beh, parlandone in sala mensa, durante la mia pausa, è saltato fuori che lui, il giorno seguente, avrebbe avuto un convegno a Cambridge, così mi ha chiesto se fossi interessata a partecipare a mia volta” mi spiegò, tornando a farsi rossa in viso.
“Sempre professionale, direi” commentai.
“Sì, certo. Aveva pensato, giustamente, che potesse interessare anche a me e, visto che doveva andarci anche lui…” annuì in fretta, nervosa come una ragazzina.
Ridacchiai, trovando divertente e dolcissimo assieme il suo imbarazzo nei miei confronti e, con un ghigno divertito, le rammentai: “Non devi sentirti in imbarazzo, Mary B. Non hai bisogno del mio benestare per vedere una persona che amo e apprezzo.”
Lei sorrise timida, e disse per contro: “Sei la Prima Lupa del branco, e lui fa parte della tua Triade di Potere. Mi sembra  quanto meno giusto parlartene.”
Mary B si era sempre comportata in maniera molto formale quando il branco, e tutto ciò che lo riguardava, aveva fatto parte delle nostre chiacchierate di fronte a una tazza di the.
Pensava che fosse per lo meno il minimo che ci si dovesse aspettare da lei, vista l’accoglienza calorosa che avevano ricevuto lei e Gordon, e nulla era valso a convincerla del contrario.
Questo era un esempio eclatante.
Le sorrisi gentilmente, prima di replicare: “Ti ringrazio per questa cortesia, ma non sono la padrona del cuore di nessuno dei miei lupi. Hanno il diritto e il dovere di amare chi credono. E se lui ti rende felice e sorridente, non posso che esserne lieta.”
“Mi da pace, sì” ammise Mary B. “Non pensavo di potermi sentire così dopo… beh, dopo la morte di Patrick. L’ho amato quando ero ancora giovane e sciocca e, anche se col tempo quell’amore era scemato fino a divenire nulla più di una fiammella, mi ero sempre detta che, se c’erano l’affetto e il rispetto reciproco, un matrimonio poteva andare avanti anche così.”
La osservai spiacente mentre i suoi occhi si facevano di pietra. “Ma quando ho scoperto le sue menzogne, mi sono sentita così tradita che tutto è andato in pezzi. Trovare voi, per quanto tremendo fosse il motivo del nostro avvicinamento, è stato una manna dal cielo, per me.”
“E per noi” annuii, sfiorandole una mano con la mia.
Con un cenno del capo, asserì: “Posso capire benissimo Lance, perché anch’io sono passata attraverso un tradimento simile. Forse è per questo che si è fidato a parlarmi di sé e del suo passato.”
“Credo che la rispettiva compagnia potrà fare solo che del bene a entrambi” convenni, stringendole maggiormente la mano. “Hai tutta la mia approvazione, Mary B.”
“Grazie, cara. E’ molto importante, per me, sapere che approvi” sussurrò Mary B, prima di abbracciarmi e scoppiare in un pianto silenzioso quanto liberatorio.
Ora sapevo che il processo portato avanti in quei mesi, e conclusosi al Vigrond, era servito davvero a qualcosa.
Mary B poteva davvero ricominciare a vivere e se, nel farlo, anche un’altra persona a me cara avrebbe potuto tornare a sorridere alla vita, ero doppiamente felice.
Nell’avvicinarmi a lei per stringermela al petto, pregai di avere più tempo da dedicare alle persone che amavo, anche se sapevo perfettamente che neppure la Madre Terra avrebbe potuto mettere mano a una cosa del genere.
Ero ciò che ero, e i miei compiti, piacevoli o meno, gravosi o meno, restavano sempre gli stessi.
Il fatto che la mia famiglia avesse bisogno di me, o contasse su di me, non poteva distogliere i miei pensieri dal branco.
Duncan lo aveva fatto per anni, annullandosi per tutti coloro che lui doveva proteggere, relegando se stesso in un angolo, in attesa di avere un momento per sé. Cosa che non era mai avvenuta, se non con il mio arrivo.
Abbandonarlo a sé come avevo appena fatto, lasciando che le mie personali idiosincrasie ci separassero, era stato sciocco e puerile.
Era tempo di crescere e rispettare anche il volere degli altri, specialmente quando quel particolare volere era solo inteso ad aiutarmi e proteggermi.
Non dovevo più lottare da sola, ed era giunto il momento di capirlo e accettarlo.
Come aveva detto Mary B, non si poteva restare ancorati alle idee e ai ricordi del passato, ma andare avanti e crearsi un futuro nuovo, più felice.
Ma era così difficile abbandonare le vecchie abitudini!

***

Il Legame di Sangue tra una wicca e il proprio Fenrir non è solo un curioso, quanto intenso, rito legato a misticismi del passato, o a credenze vecchie di millenni.
E’ molto di più.
E’ come avere dentro di sé il cuore dell’altro, la sua mente, i suoi pensieri, le sue paure, le sue gioie. Tutto.
Aver litigato con Duncan non mi aiutava di certo a sentirmi bene.
Ogni mio dolore era amplificato dal suo e, per diretta conseguenza, ogni mio sospiro si rifletteva su Duncan, affliggendolo ancora di più.
Un cane che si morde la coda avrebbe fatto meno danni a se stesso.
Mi ero chiesta più volte se questo legame non fosse più un danno, che un utile, per wiccan e Fenrir.
A conti fatti, però, preferivo conoscere lo stato d’animo di Duncan – pur se magistralmente schermato dalla sua forza colossale – piuttosto che domandarmi se lui stesse male esattamente come stavo io.
Certo, se lui avesse voluto riversarmi addosso tutta la sua afflizione, Mary B avrebbe dovuto tramortirmi in ogni modo lecito, o illecito, possibile, perché non avrei resistito di sicuro.
Come Duncan avrebbe dovuto chiamare in tutta fretta Lance, al fine di farsi mettere sotto flebo per sopportare tutto il mio dolore, se solo lo avessi fatto fuoriuscire per intero dal mio cervello.
A ogni modo, quel poco che non potevamo controllare, proprio a causa del legame di sangue, ci stava riducendo a pezzi l’umore e l’animo.
Gordon, dopo neppure quarantottore di convivenza, cominciò a evitarmi in tutti i modi possibili e Mary B che, durante il giorno, era in ospedale nel reparto di chirurgia, sicuramente non pianse la mia lontananza.
Ero insopportabile, lo sapevo per certo, ma non potevo farci nulla.
Fu perciò con somma gioia che vidi giungere alla mia porta Lance, armato di un sorriso e di tutto il suo buonumore.
Erano passati i tempi in cui, quel viso da vichingo, non si prendeva neppure la briga di piegare all’insù quelle belle labbra, ed ero felice che parte di quel merito dipendesse da me.
Volevo molto bene a Lance, e saperlo più ilare di quanto non fosse prima del mio arrivo, mi dava quel po’ di gioia che mi bastava per non cadere nel baratro nero dello sconforto.
Sapere, poi, che il restante merito di quel sorriso dipendesse da Mary B, mi allietava ancora di più.
Se c’era una donna che poteva capirlo, era certamente lei.
Fu Gordon ad aprire e, mentre io mi alzavo dalla poltrona del salottino dove mi trovavo, gli sentii dire con voce sollevata e speranzosa: “Oh, meno male! Vedi di farla risorgere dalle ceneri. Se un lupo può fare qualcosa del genere, s’intende. Perché non si regge più in piedi.”
“E’ come il suo degno compagno” celiò Lance, dandogli una pacca sulla spalla. (Sentii chiaramente il suono e l’ugh di Gordon)
Due secondi e mezzo dopo, vidi comparire sulla porta del salottino la figura imponente e bellissima di Lance che, sorridendomi a mezzo nel vedermi ancora in pigiama e con i capelli arruffati, si avvicinò ed esclamò: “Principessa, sei messa davvero male, sai?”
Mi baciò sulla fronte, sempre con un sorriso stampigliato sul volto abbronzato, e si accomodò al mio fianco, quando andai a rintanarmi sul divano.
Proseguendo nel dire, ammiccò divertito. “Non che Duncan sia messo meglio. Non fa che sospirare davanti a una ciotola di corn-flakes. Persino Jasmine si è stufata di ascoltarlo lamentarsi.”
Ridacchiai flebilmente prima di esibirmi in un sospiro afflitto e Lance, sogghignando, rincarò la dose con ironia.
“Certo che siete due sagome. Per stare come state, nessuno dei due è più arrabbiato con l’altro, eppure non trovate il coraggio di parlarvi. Due bambini saprebbero far di meglio.”
Gli feci la lingua, brontolando: “Mi sono comportata come una bambina, quindi…”
“E lui mi ha detto di essersi comportato da dittatore, cosa di cui dubito, conoscendolo” scrollò le spalle Lance, dandomi un buffetto sul naso subito dopo. “Quel ragazzo ti ama alla follia, e pure tu sei bella presa, principessa, quindi, perché vi ostinate a farvi la guerra?”
“Le abitudini sono dure a morire” mi lagnai.
Non avrei mai pensato che la mia indipendenza e il mio sapermela cavare mi avrebbero dato così tanti problemi.
“Non fosti tu a dirmi che non ci si deve soffermare su ciò che è successo in passato, per guardare al futuro e a ciò che ci può riservare?” mi rimproverò dolcemente, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Annuii, rammentando la volta in cui, durante una passeggiata nei boschi per cercare more, gli avevo detto di non soffermarsi più sul ricordo della sua vecchia fiamma – che gli aveva spezzato il cuore e distrutto la fiducia nelle donne – ma di guardare oltre.
Aveva tutto il diritto di vivere appieno la vita nel branco, e tra gli umani.
Ero brava a predicare bene e razzolare male.
Fuori, il sole era debole, velato da esili cirri sfilacciati nel cielo d’estate, e rendevano quella giornata triste e tediosa, per me.
Un filo di vento sfiorava leggero le foglie della betulla che cresceva di fronte alla finestra del salottino e io, osservandola distrattamente, mugugnai: “Non so come chiedere scusa.”
“Nel modo più semplice” dichiarò Lance. “Noi licantropi non abbiamo bisogno di tanti fronzoli, Brie. Ormai dovresti averlo imparato.”
“Ma voglio che capisca quanto tengo a lui, e quanto mi spiaccia l’essermi comportata a quel modo” precisai, tornando a guardarlo in quei chiarissimi occhi da husky.
Era curioso che, in forma animale, diventassero neri. La prima volta che li avevo visti, ne ero rimasta più che sorpresa.
Lance mi sorrise per un momento, prima di guardare una foto di Gordon e Mary B, poggiata su un ripiano della cassettiera che si trovava dinanzi a noi.
Nella foto, erano entrambi sorridenti e se ne stavano seduti su un cumulo di neve, che avevano appena finito di raccogliere dopo un’abbondante nevicata natalizia.
Era stata la prima volta che avevo rivisto un sorriso spontaneo sul viso di Mary B, e avevo voluto immortalarlo con la mia fotocamera.
“Mary mi ha detto che ti ha parlato di noi due” mi espose all’improvviso Lance, sorprendendomi. Non ero del tutto sicura che avrebbe voluto parlarmene.
Annuii cauta e lui, continuando a fissare la foto, disse: “E’ successo quasi per caso. Erano già diversi giorni che ci pensavo, prima ancora della minaccia del nostro comune amico e…”
“…e…” lo incoraggiai timidamente.
“Mi è sembrato carino distoglierla dai pensieri che sembravano arrovellarla in quel momento. In seguito, scoprii che doveva affrontare una difficile operazione, da lì l’aria pensierosa” mi spiegò, lanciandomi una brevissima occhiata prima di tornare alla foto.
Non lo forzai a proseguire... volevo che fosse libero di dirmi ciò che sentiva, in piena libertà.
“Ho sempre apprezzato la tua matrigna. A pensarci bene, fin da quando la conobbi per telefono, neppure un anno fa. In seguito, mi è venuto naturale continuare a cercarla, parlarle, chiacchierare con lei del nostro comune ruolo di medici. A un certo punto, però, questo non mi è più bastato. Volevo sapere qualcosa di più della donna, non del medico. Cominciai a desiderare di conoscere lei.
“Mary B è stupenda, lo so” annuii, sentendomi un poco meglio, a parlare di lei.
Rise sommessamente, un suono imbarazzato, quasi infantile e io, sgranando gli occhi nel guardarlo per sincerarmi che quella risatina provenisse proprio da lui, esalai: “Okay, devo proprio preoccuparmi. Dov’è finito il mio Hati preferito?”
Lance rise ancora di più.
Nel dargli una pacca sul braccio, gli sorrisi e dissi: “Sono contenta che tu e lei vi troviate bene assieme. Un po’ di compagnia vi serviva davvero.”
Storcendo la bocca, Lance precisò: “Non ci siamo spinti fino a lì. Stiamo solo uscendo insieme.”
Ghignando, replicai: “Credimi, non voglio sapere fino a dove siete arrivati. Ma voglio molto bene a entrambi, e sapere di voi due mi ha resa felice.”
“Almeno quanto rende felice me” ammiccò Lance, chinandosi per darmi un colpetto alla testa con la sua. “Ammetto di aver temuto questo momento.”
“E perché? Anche Mary B sembrava in ansia. Mica sono vostra madre, no?” esalai, sbattendo le palpebre per la confusione.
“In un certo senso, sì. Sei la madre del branco e, volente o nolente, noi siamo legati al branco, anche se in modi differenti” sottolineò Lance.
“Il branco che ne pensa?” volli sapere a quel punto.
Sorrise sornione ed emise una risatina divertita, stavolta emettendo un suono più mascolino, quasi tronfio.
Scrutandolo con attenzione, e avvertendo nettamente i suoi sentimenti, sgranai gli occhi ed esclamai: “No! Non ci credo! Ci sono dei lupi gelosi di te e Mary B?!”
“Ebbene sì. In un primo momento, ho dovuto chiarire un paio di punti ad Anthony, circa la mia amicizia con Mary. Ma si è risolto tutto con una stretta di mano” commentò gongolando.
Sentii un pizzicore alla base del naso e, storcendo la bocca,  indicai me stessa prima di ricordargli: “Hai dimenticato che non sono solo la Prima Lupa, ma anche la wicca del branco?”
Lance mi fissò un secondo senza capire, prima di scoppiare a ridere di gusto e annuire. “Sì, scusa. Diciamo che la stretta di mano c’è stata dopo.”
“Dopo cosa?” chiesi sconvolta, prima di scuotere il capo e scorgere chiaramente nella sua testa quello che aveva omesso di dirmi.
Avevano combattuto al primo sangue. Non avevo davvero parole.
Come per giustificarsi, Lance replicò sulla difensiva: “Beh, si fa così, tra di noi. Pensavo lo sapessi. Evita battibecchi futuri.”
“Oh, sicuro. E così Mary B si assicura di avere anche il lupo più forte. Non fa una grinza” sogghignai, fissandolo con aria così maliziosa che, alla fine, Lance divenne rosso come un peperone maturo. “E tutto questo, senza dire nulla a Duncan. I miei complimenti. Davvero mooolto discreti.”
“E dai, non prenderti gioco di me” brontolò Lance mentre Gordon, correndo lungo il corridoio, si avviava verso la porta.
Con un ‘vado, ciao!’ si dileguò da casa e inforcò lo scooter per andarsene chissà dove.
Passandomi una mano sul viso, mormorai esasperata: “Speriamo vada solo da Erika. Non voglio venire a sapere che anche le lupe più giovani si battono per lui.”
Lance ghignò, chiosando: “Non arrivano a tanto solo perché Duncan gliel’ha espressamente vietato. Anche se, così facendo, ha attirato le ire di tutte su Erika. Ma, se la ragazza si decidesse una volta per tutte e lo marchiasse come suo, non avrebbe più problemi.”
Mi sollevai di colpo dallo schienale del divano per fissare sgomenta Lance e, con tono cauto e solo apparentemente calmo, chiesi: “In che senso, marchiare?”
Fissandomi esacerbato, grugnì: “Non come un capo di bestiame, Brie.”
Ridacchiai. Mi aveva letto nella mente.
“E’ una sorta di ufficializzazione di un rapporto. Ma capisco perché non l’abbia ancora voluto fare. Sono giovani, per l’amor di Dio” scrollò le spalle Lance. “Erika partirà per l’università a ottobre, mentre Gordon finirà gli studi qui solo l’anno prossimo, quindi che fretta hanno, queste ragazze? Che lo lascino respirare un po’.”
“Sai com’è il detto; chi ha i denti non ha il pane, chi ha il pane non ha i denti” motteggiai, prima di sospirare. “Come me al momento. Il mio pane sta ammuffendo davanti a una ciotola di corn-flakes.”
Lance mi passò un braccio dietro le spalle per scrollarmi delicatamente e, sorridendomi bonario, asserì: “Lo vuoi un consiglio? Incontratevi al Vigrond e state un po’ per conto vostro. Vi farà bene. La notte è fresca e riposante, in questi giorni. Calmerà i rispettivi animi.”
Mi aprii in un sorriso estatico e, lanciandomi contro di lui, lo abbracciai con foga, stampandogli una miriade di baci sul viso. “Oh, grazie, Lance, grazie! Hai avuto un’idea grandiosa!”
Ridacchiando e cercando di intercettare il mio viso con le mani, mi bloccò prima dell’ennesimo bacio e disse sorridente: “Trattieni la foga per lui, principessa.”

***

Era mezzanotte inoltrata e, per le vie di Farley, non c’era anima viva.
I giovani erano già scesi a Matlock per divertirsi mentre, il resto dei suoi abitanti, era comodamente addormentato a letto, a godersi la brezza notturna proveniente dalla faggeta.
Ne approfittai per giungere fino alla casa di Duncan direttamente in forma animale, confidando nel fatto che percepisse la mia presenza e mi seguisse nel bosco.
La luna sorrideva silenziosa nel cielo notturno, tinteggiato di stelle enormi e brillanti.
Dopo aver lanciato un breve sguardo alla mia pallida compagna di ventura, proseguii fino a raggiungere il cortile di casa McKalister.
Percepii distintamente gli odori dei cavalli, la scia di Jasmine, il profumo dei gelsomini e delle rose in boccio e, al primo piano, quello muschiato e a me tanto caro di Duncan.
Lo udii distintamente bloccarsi a metà di un passo, muoversi cauto lungo il corridoio per giungere fino alla finestra che dava sul cortile e lì, a luci spente, lo scorsi oltre il velo diafano della tenda, silenzioso e pensieroso mentre mi scrutava con i suoi fumosi occhi di smeraldo.
Trotterellai via, allontanandomi per addentrarmi nel bosco, desiderosa che lui mi seguisse, che capisse che quello era il mio tentativo di chiedergli scusa.
Lo percepii uscire di casa una decina di secondi dopo, anche lui in forma animale, silenzioso spettro nella notte stellata, nivea presenza alle mie spalle, evanescente figura ammantata dall’oscurità.
Camminammo nel bosco a una certa distanza l’uno dall’altra per diverso tempo, mentre le creature della notte si scostavano da noi, grandi predatori, per cederci il passo e prostrarsi al nostro passaggio con deferenza e paura mescolate assieme.
Ma non eravamo lì per la caccia, quella notte. Tutt’altro.
Avevo ben altri pensieri, che non cacciare un bel daino o una piccola e scattante lepre.
No, la mia preda aveva un nome diverso.
Ascoltando le voci degli animali mescolate allo stormire delle piante e il frinire delle cicale, raggiungemmo infine la radura del Vigrond, dove la grande quercia sacra splendeva d’oro e di bronzo ai miei occhi di wicca.
Come ogni volta, il suo coro d’archi e di flauti mi accolse, dandomi il benvenuto.
In un sussurro mentale appena accennato, la ringraziai per l’accoglienza e salutai l’essenza stessa di quell’enorme pianta che, unica nel suo genere, aveva la possibilità di interagire con me, e non solo per mostrarmi le memorie in essa contenute.
Mi volsi per guardare Duncan, i cui occhi ambrati mi stavano fissando colmi di domande inespresse.
Piegando il capo verso il basso, mi afflosciai sulle foglie secche del sottobosco e poggiai il muso sulle zampe, in posizione di totale sottomissione.
Scodinzolai ripetutamente, smuovendo il letto di fogliame e producendo uno sfrigolante suono che andò a sommarsi a tutti i sussurri della notte.
Ancora non parlammo. Stavamo limitandoci a comportarci come due veri lupi. E mi stava bene.
Ero troppo in imbarazzo, per parlare.
Lui si avvicinò, il muso basso, le orecchie calate sul capo e lo sguardo pensieroso, mentre le sue zampe affondavano leggermente tra l’erba e il fogliame, annullando passo dopo passo la distanza che ci separava.
Quando infine mi raggiunse, mi sfiorò il naso con il suo, freddo e umido e io, abbaiando una volta, lo portai a indietreggiare di un passo.
Mi rialzai, tenendo la coda tra le gambe per fargli comprendere quanto fossi pentita del mio comportamento.
Avvicinandosi nuovamente, Duncan sfiorò col suo muso la mia gorgiera, affondandovi il naso prima di emettere un suono molto simile alle fusa di un gatto.
Feci lo stesso con lui, immergendomi nella sua nivea gorgiera che profumava di bosco, di muschio e di Duncan e, aprendo finalmente la mia mente a lui, dissi: “Non sai quanto mi spiaccia. Mi sono comportata da vera idiota e ti chiedo di perdonarmi, Duncan, se puoi.”
“Non c’è nulla da perdonare. Dovrei sapere, ormai, quanto sei forte e indipendente, quanto le mie attenzioni morbose ti soffochino, eppure ci ricasco ogni volta.”
Lo disse con un tale strazio nella voce mentale, che uggiolai addolorata.
Gli leccai il muso più e più volte, replicando con veemenza:“Non pensarlo neppure! Adoro quando mi coccoli e ti prendi cura di me, è solo la situazione che mi ha fatto sbarellare, non tu! Non pensare mai più che io non apprezzi le tue attenzioni!”
“Ti arrabbi sempre così tanto, quando mi impongo per proteggerti” mi fece notare, colpendomi nel mio punto debole.
Lo sapevo eccome che mi arrabbiavo come una belva feroce, e sembrava che nulla potesse cambiarmi.
“Lo so, sono testarda oltre ogni ragionevole dubbio, ma tu non devi pensare di fare qualcosa di sbagliato. Sono io a sbagliare. Ti chiedo solo ancora un po’ di pazienza. Sto cercando di venire a patti con il mio caratteraccio, va bene?”
A quel punto rise così di gusto che sobbalzai per la sorpresa, chiedendomi stupita cosa avesse scatenato un’ilarità così marcata quando, pochi attimi prima, lo avevo sentito disperato e afflitto.
Che gli prendeva?
"Tu che vieni a patti con il tuo carattere? Brie, per favore, raccontamene un'altra."

“Beh, ci provo, per lo meno” precisai, vagamente indispettita dalla sua mancanza di fiducia.
E fu lì che mi bloccai.
Mancanza di fiducia.
Non mi fidavo abbastanza di lui da porre la mia vita nelle sue mani? Per quello mi infuriavo?
Nonostante tutto, preferivo ancora cavarmela da sola, piuttosto che affidarmi a lui? Da dove veniva quell’idiozia colossale?
Sbuffai contrariata, sedendomi a terra e poggiando il muso sulle zampe.
Duncan, imitandomi, mormorò: “Il problema sta tutto lì, Brie. Non nel tuo carattere o nel mio. Non nelle mie prese di posizione o nelle tue. E’ solo fiducia. Ti fidasti di me, quando ci conoscemmo in quella cantina, ti  fidasti di me quando mi  seguisti per mezza Inghilterra. Perché non ti fidi ora, quando il pericolo è maggiore?”
“Perché sono così stupida da pensare che, finché posso dare anche solo un minimo contributo, allora posso accettare l’aiuto degli altri, ma quando mi devo affidare completamente a qualcuno, vado fuori di matto” borbottai.
“E perché?”
“Perché se mi affidassi anima e corpo a una persona, e questa morisse, o se ne andasse, o la perdessi in qualche modo, soffrirei così tanto da morirne” ammisi finalmente a Duncan e a me stessa.
Il problema stava tutto lì.
Avevo affidato il mio cuore, il mio amore, le mie speranze ai miei genitori, e loro erano morti, distruggendomi dentro.
Certo, non gliene facevo una colpa. Non più, almeno. Ma il punto rimaneva.
Le persone potevano morire, lasciarti, e tutto ciò che tu avevi dato sarebbe scomparso assieme a loro, distruggendo una parte di te.
Duncan mi si accucciò accanto, sfiorandomi con il suo muso e, dolcemente, asserì: “So come ci si sente, Brie, e capisco le tue remore a lasciarti andare completamente una seconda volta, ma è così che si vive realmente. Mettendo in gioco se stessi. Se rinunci a combattere, non potrai mai vivere pienamente.”
“E se tu…”
Mi azzittì immediatamente, dichiarando con veemenza:“Io non andrò da nessuna parte e, se dovessi anche morire, vivrei in te e nei tuoi ricordi. I tuoi genitori vivono ancora nelle tue memorie e in te. Sono nel tuo sangue, nella tua mente, nel tuo cuore. Non hai perso nulla, in realtà. E’ solo una sensazione, derivata dal dolore profondo che si prova nel veder morire una persona cara. Ma, in realtà, non si perde che l’involucro fisico. L’amore, i ricordi, le passioni, le speranze, le parole, quelle non le perderai mai. Ma devi imparare a vivere il presente, non pensare solo al passato.”
Non mi resi conto di essere scoppiata a piangere finché non terminai la mia mutazione in umana e, tra le lacrime, abbracciai Duncan – tornato umano assieme a me.
Lui si limitò a tenermi stretta a sé, baciandomi i capelli di tanto in tanto, mentre le sue calde e rassicuranti mani mi massaggiavano la schiena nuda ed esposta al fresco della notte.
Non seppi dire quanto tempo passammo abbracciati e seduti tra le foglie, sotto l’ombrello protettivo offerto dalla quercia ma, alla fine, una volta sfogato quel mare di lacrime , riuscii a scostarmi quel tanto da lui per dirgli: “Ti amo”
Mi sorrise, baciandomi il naso, prima di rispondere: “Ti amo anch’io, e non devi sentirti turbata per ciò che è successo. Cristo, hai vent’anni, Brie! Sei passata in mezzo a un autentico cataclisma emotivo, in questo anno passato assieme. Di che ti stupisci se, ogni tanto, perdi il controllo? Posso capirlo. Ma devi imparare a fidarti completamente di me e del tuo branco. Siamo qui per amarti, per proteggerti, per vivere ogni giorno della nostra vita con te. Lunga o corta, non importa, ma ogni giorno della nostra esistenza va vissuto con pienezza, o avrai sempre dei rimpianti.”
Annuii, passandomi una mano sotto il naso umido, e gli chiesi: “Soffristi molto, quando i tuoi genitori morirono?”
Si adombrò in viso, annuendo mestamente prima di ammettere: “Soffrivo già da tempo, essendo a conoscenza delle loro mire nei miei confronti. Ma persi ugualmente metà del mio cuore, pur sapendo che loro non mi amavano come avevano amato Hope, quando li vidi sbranare dal branco. Io li amavo, nonostante tutto.”
“E non ti sei mai pentito di aver dato loro tutto quell’amore non corrisposto?” gli domandai allora, accoccolandomi nel suo abbraccio.
Duncan accennò un sorriso e mi rammentò un particolare adattissimo al momento.
“C’è una poesia di Walt Withman che parla proprio di questo. Lui è convinto che l’amore sia sempre una buona cosa, anche quando non è corrisposto, perché comunque ti regala qualcosa, non si è mai totalmente privi di ricompensa, ad amare.”
“E qual è stata la tua ricompensa?” mormorai, sollevando il viso per scrutare il suo nella penombra della notte.
“Aver trovato te” ammiccò, baciandomi sulla fronte.
Finalmente sorrisi, reclinando indietro il capo per appoggiarmi alla sua spalla. “Quindi, la mia ricompensa è stata aver trovato te?”
“Lo spero” rise, facendomi stendere teneramente sul fogliame secco mescolato all’erba fresca e umida. “Ma, soprattutto, mi auguro che tu pensi a tutti noi come alla ricompensa per il dolore che hai patito nella tua vita.”
“Amo e amerò sempre il mio, il nostro branco, come amo e amerò sempre te” sussurrai, avvolgendogli le braccia attorno al collo per attirarlo a me.
Mi baciò teneramente, sfiorando da principio le mie labbra. come se non fosse sicuro delle sue azioni.
Stringendo maggiormente la presa attorno al suo collo, gli feci capire subito che non doveva più preoccuparsi di nulla, che io ero più che disponibile a riallacciare il rapporto che, tanto maldestramente, avevo incrinato con le mie paure.
Duncan allora scivolò con la bocca lungo il mio collo ripiegato all’indietro, mentre mugolavo sotto i suoi baci e artigliavo le sue spalle, affondando le unghie nella sua carne accaldata.
Lo sentii muoversi contro il mio bacino, stimolandomi a danzare con lui senza però penetrarmi ancora.
Risi flebilmente.
Adorava stuzzicarmi e portarmi a supplicarlo, e anche quella volta glielo lasciai fare con sommo divertimento.
Sorrise contro la mia pelle, scendendo a esplorare i miei seni con le labbra e le mani, mentre io gli accarezzavo i capelli e scivolavo con i piedi lungo i suoi polpacci sodi.
Avrei voluto avvinghiarmi tutta attorno a lui ma, così facendo, gli sarebbe stato impossibile proseguire in quella piacevole tortura.
Mi frenai perciò a stento, limitandomi a toccarlo ovunque fosse possibile raggiungerlo con le parti mobili del mio corpo non impegnate a sottostare ai suoi baci divoranti.
Mugolai in preda a desiderio e disperazione, bramando di più, chiedendo di più da lui oltre a baci e carezze, per quanto sensuali e piacevoli fossero.
Volevo lui, interamente, pienamente, e alla fine mi accontentò.
Con una spinta improvvisa fu dentro di me, riversando contemporaneamente nel mio animo la sua aura, tanto da farmi gridare di sorpresa e piacere, quando avvertii quel duplice assalto al mio corpo.
Avvolsi le gambe attorno alla sua vita per assecondare i suoi movimenti sinuosi e cadenzati e, piegando indietro il capo, mi lasciai andare a un brontolio di gola molto simile a un ringhio di lupo.
Duncan ridacchiò debolmente nel sentirlo, sempre continuando a spingere dolcemente quanto implacabilmente dentro di me, inondandomi con la sua aura rovente.
Lo graffiai sulla schiena più volte, attirandolo verso di me per morderlo sulle spalle e sul collo, lasciando più di un segno rosso sulla sua pelle naturalmente bronzea
. A ogni morso o graffio, lui rispose con una spinta più forte e profonda, quasi volesse fondersi con il mio corpo, esattamente come io volevo fare con il suo.
Per quanto fare l’amore con lui fosse l’esperienza più bella della mia vita, sentivo di volere di più, e percepivo questo desiderio anche in lui.
Volevamo essere l’uno dentro l’altra completamente, divenire un'unica creatura, un’unica entità, pur sapendo che era fisicamente impossibile.
All’ennesima spinta, lo sentii mordermi alla base del collo, procurandomi un brivido così profondo da scuotere tutto il mio corpo, sottomesso completamente al suo, che mi ricopriva per intero.
Sorrise, e sussurrò roco: “Ti vorrei sempre così, in ogni momento del giorno e della notte. Non riesco a non pensare a noi due mentre facciamo l’amore.”
Riuscii a trovare la forza di ridere e dissi, con voce bassa e debole: “E’ un ottimo… passatempo.”
“Trovi?” ridacchiò, allontanandosi un poco da me per guardarmi in viso.
Sapevo cosa stava vedendo.
I miei occhi, completamente mutati, che lo fissavano torbidi, colmi di tutto l’amore e il possesso che, in quel momento, sentivo scivolare nel mio corpo fino a raggiungere il suo.
Lo ricondussi verso di me con un gesto della mano e, mentre le nostre bocche si univano in un bacio, l’energia del nostro amplesso ci portò all’orgasmo nel medesimo istante, lasciandoci esausti e completamente distrutti sul letto di foglie che era stato il nostro talamo.
Ansimando, e restando caparbiamente sopra di me e dentro di me, Duncan continuò a baciarmi lievemente lungo l’arco del viso mentre io, a occhi chiusi sotto di lui, sentivo le ossa liquide e il corpo privo di sostanza.
Era sempre così, con lui. Alla fine, mi sembrava di perdere completamente il contatto con il mondo, tanto ero in estasi.
Cominciai a tornare alla realtà solo quando lo sentii solleticare il mio ventre con le sue labbra tumide e, ridacchiando, esalai fiacca: “Non vuoi concedermi requie?”
“No” mormorò, con un basso brontolio di gola.
Il suo lupo bramava ben altro, e anche il mio, dovetti rendermi conto.
Le nostre auree si riunirono con una specie di schiocco sopra le nostre teste e io, attirandolo a me per baciarlo, lo sospinsi sull’erba mescolata alle foglie e mi misi a cavalcioni su di lui, fissandolo vittoriosa e bramosa.
Lui sogghignò, lasciandomi fare e, nel momento stesso in cui io mi chinai su di lui per dargli piacere, persi completamente il contatto con la sua mente. Evidentemente, lo stavo facendo davvero bene.

***

O ero impazzita del tutto, o un cardellino stava cantando allegramente, quanto freneticamente, all’interno della mia camera da letto.
Sonnacchiosa ma stranamente soddisfatta, aprii gli occhi, ritrovandomi a fissare il petto villoso di Duncan, dove un paio di formichine spericolate si erano irrimediabilmente incastrate nel groviglio di riccioli scuri che ricoprivano il suo torace.
Ridacchiando, le aiutai a districarsi prima di chiedermi, confusa, cosa ci facessero due formichine sul suo petto.
E perché io fossi accanto a Duncan, visto che avevamo litigato.
Ammetto che, dopo aver fatto l’amore a quel modo con Duncan, le mie percezioni mattutine tendevano a essere molto più che scarse del normale.
Sollevandomi su un gomito per capire meglio dove ci trovassimo, scoppiai immediatamente a ridere quando vidi il tronco nodoso e pluricentenario della quercia del Vigrond.
Nel sentire quel suono rilassato e gaio, Duncan si destò, fissandomi sorpreso prima di sorridere ed esalare: “Buongiorno, principessa.”
Lui era molto più veloce di me nel connettere.
“Ciao” sussurrai, piegandomi per baciarlo sulla bocca arcuata in un sorriso. “Siamo rimasti qui tutta la notte, a quanto pare.”
“Già, anche se non abbiamo dormito granché” ammise, rizzandosi a sedere e stiracchiandosi come un gatto.
Affamata – di lui – lo ammirai in quello splendido spettacolo di perfezione maschile e, leccandomi leggermente le labbra, sussurrai: “Tu vuoi istigarmi, vero?”
Lui si bloccò a metà di uno stiramento, fissandomi sornione, e mormorò roco: “Lungi da me, ma se vuoi assaggiare…”
Scoppiai nuovamente a ridere, alzandomi in piedi e spazzolandomi il corpo dalle foglie, il terriccio e le formichine più intraprendenti, che avevano deciso di scalare il mio corpo morbidamente rilassato.
Dopo averlo guardato fare lo stesso, gli chiesi: “Cacciamo?”
“Volentieri” annuì, prima di stringermi a sé in un abbraccio. “Stare così tanto tempo senza di te, sapendo quanto stavi male, mi ha quasi distrutto.”
“A chi lo dici” sospirai, affondando il viso nel suo petto. “Ti prometto che, prima di parlare, penserò fino a cento e, quando parlerò, lo farò usando il cervello.”
Duncan ridacchiò, passandomi una mano tra i capelli con fare giocoso prima di baciarmi dietro l’orecchio  e asserire: “Cacciamo insieme, mia Prima Lupa.”
“Sì, mio Fenrir” annuii, allontanandomi di un passo per mutare.
Avremmo sicuramente avuto altre discussioni, non dubitavo di questo, ma ora sapevo come affrontarle senza impazzire.

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Capitolo 12
*** Cap. 12 ***


12.

 
 
 
 
 
 
 


 

Sbadigliai sonoramente, mentre strigliavo Gabriel nel suo box – Duncan era in clinica assieme a Christine – e strillai di paura un attimo dopo, sentendo squillare il mio cellulare.
Supermassive Black Hole continuò a ululare per qualche altro secondo, prima che io riuscissi a prendere in mano il telefonino e accettare la chiamata con un: “Sì? Ciao, Ellie!”
“Ehi, ciao! Come stai? Il rientro è andato bene?” esclamò la mia super amicona con un tono di voce allegro e pieno di aspettative.
“Tutto bene, grazie” asserii, allargando il mio sorriso.
Per evitare problemi di qualsiasi genere, avevo cancellato dalla memoria di Maggie e Nancy ciò che era accaduto dopo il mio ferimento al pub.
Dopo averne parlato con Elspeth, le avevo fatto promettere di non accennare niente con loro, per non creare degli spiacevoli equivoci.
Naturalmente, Ellie aveva accettato con entusiasmo – il suo iniziale scetticismo era stato soppiantato da un’inguaribile quanto preoccupante curiosità – e aveva promesso con fervore il massimo riserbo su tutta la faccenda.
Aveva persino dato il suo numero di cellulare a Fred, per qualsiasi evenienza riguardante ‘la storia che non poteva essere raccontata’.
Fortunatamente, Becca l’aveva trovata immediatamente simpatica, e si era dichiarata d’accordo con la mia decisione di raccontare ogni cosa a Ellie e di cancellare, invece,  le memorie delle altre due mie amiche.
Avere il suo supporto, lo ammetto, mi aveva liberato da un peso non indifferente.
“Sai, pensavo a una cosa, Brie” mormorò Elspeth, con la sua voce sempre super eccitata e, devo ammetterlo, da cospiratrice.
“Cioè?” chiesi, un po’ sul chi vive.
“Il locale dove siamo andati ha un circuito interno di video sorveglianza e, da quel che so, registrano tutto e mantengono il girato in sede per un paio di settimane, prima di distruggerlo. Pensavo che, magari, visto che abbiamo evitato loro delle grane, potrebbero…” buttò lì, lasciando in sospeso la frase, come per pungolarmi a proseguire.
“…potrebbero farcele visionare per scoprire la faccia del mio assalitore, giusto?” terminai allora per lei, con un sorrisone stampato sul viso.
“Esatto!” esclamò, al settimo cielo.
Cercando di non entusiasmarmi fino ai suoi livelli – avevo una dignità da difendere, io – le domandai curiosa: “E tu come sei riuscita a scoprire questa perla?”
“Ehi! Mentre tu eri impegnata a strusciarti contro il tuo bell’uomo in mezzo alla pista, io facevo conquiste interessanti” ridacchiò, gongolando. “Stavo ballando con uno degli addetti alla sicurezza, fino a dieci minuti prima del gran casino, e lui mi stava appunto facendo vedere dov’erano installate le telecamere, spiegandomi tutto quello che c’è da sapere sui filmati, e su come farli sparire. Sai, non volevo prove compromettenti alle spalle, caso mai…”
Ridacchiai – che Nancy avesse contagiato Elspeth? – e mi premurai di dirle: “Non voglio sapere quanto sordido fosse il tuo tète-à-tète con Mister-Addetto-alla-Sicurezza, però la notizia è molto interessante. Visto che non abbiamo lo straccio di una prova, anche mezzo fotogramma potrebbe esserci utile. Grazie per la dritta, tesoro.”
“Di nulla. Speravo proprio di potervi essere d’aiuto” cinguettò, tutta contenta.
Ma che aveva preso? Red bull a secchiate?
“Sei sicura di sentirti bene, Ellie? Ti sento, come dire, su di giri” chiesi, cauta.
Ridacchiò con fare un po' esaltato, altro brutto indizio, ed esclamò: “Ma nooo! E’ che è eccitante, tutta questa situazione. Cioè, so che per te deve essere orrendo e tutto il resto, ma per me… Dio, io non pensavo che le mie fantasie si sarebbero trasformate in realtà, che avrei visto cose che noi umani non potremmo neppure immaginare.”
“Non hai visto i bastioni di Tannhäuser in fiamme, Ellie, frena” borbottai, riconoscendo al volo la sua citazione da Blade Runner.
“No, però ci sono andata vicino. E tu non sai come sia felice che sia successo. Per una vita, ho sempre pensato di essere pazza, di sognarmi le cose, e invece non erano solo impressioni, sensazioni illusorie, ma pura realtà.”
Aggrottando leggermente la fronte, le domandai dubbiosa: “Sensazioni? Che vuoi dire? Spiegati meglio.”
“Sì, dai, te l’avrò detto milioni di volte” rise divertita. “Quando ti dicevo, nel bel mezzo di una discussione, di aver percepito qualcosa di strano intorno a noi, per esempio.”
Aveva avvertito chiaramente il mio potere di wicca, quando l’avevo benedetta prima della partenza, quindi Ellie poteva benissimo essere più che semplicemente percettiva, poteva essere…
Scuotendo il capo, cercai di fare mente locale su quel che sapevo sulle Völva, ma nulla venne in mio soccorso, a parte il fatto che ero a conoscenza di alcuni licantropi che possedevano la Vista.
Se non ricordavo male, Lance mi aveva detto che anche gli umani potevano possedere quel dono, ma non ne ero certa. Dio, che memoria!
“Ellie, ti posso chiamare tra un minuto? Devo chiedere lumi a un mio amico, ma ti richiamerò subito, promesso” le proposi in fretta, rimuginando sempre più alla svelta su tutta quella faccenda.
“Aspetterò col cellulare incollato all’orecchio” mi promise, chiudendo la comunicazione.
Digitando il tasto di chiamata veloce per Lance, attesi trepidante che mi rispondesse e, dopo tre squilli, dichiarai: “Lance, ho una chicca per te.”
“Ciao. Di che tipo, principessa?” mi chiese allegro, forse divertito da quel mio esordio tanto strano.
“Le Völva possono essere anche semplici esseri umani, oltre che licantropi, vero?” gli chiesi, scrollando nervosamente la mano libera come se mi fossi ustionata le dita.
“Beh, sì, è possibile. La veggenza non ha a che fare con l’essere licantropi, anche se la percentuale è senz’altro maggiore, data la componente magica –  se così la vuoi chiamare – che abbiamo nel DNA. La veggenza ha a che fare con la possibilità di piegare le maglie del tempo, perciò non necessita dell’intervento dei poteri lunari, o terreni, ma soltanto divinatori. Perché me lo chiedi?”
“Perché credo che la mia amica Ellie sia una Völva o, quanto meno, credo ne abbia il potenziale. A parte il fatto che ha percepito il mio potere con maggiore intensità di quanto non mi sarei aspettata da una comune umana, ha anche fatto una cosa un po’ strana, e che potrebbe essere legata alla veggenza” borbottai, sempre più nervosa.
“Ti raggiungo. Tanto, ora sono libero. Sarò lì da te in cinque minuti” mi promise, chiudendo la chiamata.
Con un sospirone, richiamai alla svelta Elly e le chiesi: “Mi togli una curiosità? Come sei arrivata a chiedergli delle telecamere?”
“Beh, non so. Mi è venuto spontaneo, come se fosse importante chiederglielo, perché?” mugugnò, pensosa.
“Perché, forse, ci rivedremo presto, sai?” trillai, sempre più convinta che Ellie possedesse la veggenza.
Spiegherebbe come fece a trovarmi, quel giorno, quando ancora non conoscevo nessuno a scuola, pensai eccitata.
Rammentavo fin troppo bene quel periodo infame, in cui tutto mi era parso nuovo, ostile e minaccioso.
La scuola, i compagni, l’ambiente stesso. Mi era sembrato come se ogni cosa, attorno a me, volesse schiacciarmi, divorarmi, annullarmi.
Non mi sentivo gradita, amata, desiderata, ero in lotta con me stessa e con i sentimenti contrastanti che, all’epoca, provavo verso i miei genitori e la fine tremenda che avevano fatto.
Mi ero sentita fuori posto come un pesce su un ramo. Almeno, fino al giorno in cui Elspeth mi aveva trovata in lacrime, in un angolo buio della palestra.
Non pensavo mi avesse notata, lei, la bella della scuola, Miss Perfezione.
Eppure, mi aveva affiancata sulla panchina e, dopo essersi sistemata la lunga gonna, aveva sorriso e mi aveva detto: “Non essere triste, Brianna Ann. Lo so che questa scuola ti può sembrare orrenda, ora come ora, ma sono sicura che tutto si aggiusterà.”
L’avevo guardata male, accusandola di non sapere cosa si provasse a perdere i genitori, e a venire catapultati in un mondo completamente diverso, ma lei non se ne era curata.
Mi aveva cullata contro il petto finché non avevo smesso di piangere.
La nostra amicizia era iniziata quel giorno.
Aveva percepito il mio dono ancora sopito? Difficile dirlo, ma aveva avuto ragione. Tutto si era sistemato, anche grazie a lei.
“Beh, naturalmente io sarei contenta di vederti anche adesso ma, se vuoi i video, te li mando via e-mail” asserì, un po’ sorpresa.
“No, è meglio se vengo di persona” replicai con decisione.
Silenzio, e poi un risolino. “Sì, mi sa che hai ragione tu. E poi, certe cose, è meglio che non viaggino sul web, non si sa mai.”
In quel preciso istante, sentii chiaramente l’imprecazione mentale di Duncan e, più che mai sorpresa, chiosai: “Uhm, deve essere successo qualcosa in clinica. Ci risentiamo per i dettagli. Ciao!”
“Ciao, bella!” mi disse, allegra e pimpante.
Chiuso in fretta il cellulare, lo infilai in tasca e, lanciata la spazzola nel secchio, mi rivolsi a Gabriel.
“Torno subito. Tu non fare le bizze… beh, come un cavallo.”
Lui nitrì una volta, dondolando divertito il muso mentre io balzavo fuori dal box e correvo verso la clinica, chiedendomi cosa fosse successo di così grave da far imprecare Duncan a quel modo.
Non appena aprii, il campanellino sopra la porta richiamò l’attenzione di Duncan e Christine, fermi davanti al bancone, con un’identica espressione accigliata e furiosa assieme stampata in viso.
Non appena vidi i loro volti così adombrati, esalai: “Ma che è successo? Uno degli animali sta male?”
“Un idiota ha immesso un virus nella posta elettronica della clinica” brontolò scocciata Christine. “Abbiamo aperto una richiesta di aiuto per un cavallo e, … PAM!… tutto bloccato.”
Sbuffando contrariato, Duncan spinse via la tastiera del computer e ringhiò stizzito: “Va oltre le mie possibilità. Dovremo per forza chiamare un tecnico.”
“E meno male che ieri sera ho fatto un backup” brontolò Christine, passandosi nervosamente una mano tra i corti capelli tagliati alla paggetto.
Preso in mano il cordless, Duncan digitò in fretta un numero – probabilmente, quello della ditta cui erano appoggiati per il programma di contabilità e gestione dati – prima di dire: “Buongiorno, è la Clinica McKalister di Farley. Abbiamo un problema con un virus. Pensiamo sia un Trojan piuttosto robusto. Ci ha bloccato tutto il sistema.”
…certe cose, è meglio che non viaggino sul web… non si sa mai…
La frase di Elspeth mi balenò nella mente come un fulmine a ciel sereno e, aggrottando la fronte, borbottai tra me: “Se questa non è una prova...”
Duncan percepì quel mio brontolio strano e, fissandomi da sopra la testa di Christine – che stava gesticolando nervosamente all’indirizzo del computer – mi chiese mentalmente: “Che intendi dire?”
“Che forse Elspeth è una Völva e, giusto un minuto fa, ha previsto che sarebbe successo qualcosa alla nostra e-mail” gli spiegai, storcendo la bocca.
Duncan mi fissò con aperta sorpresa ma io, il pensiero già rivolto ad altro, mi scusai con loro e mi catapultai in casa, percorsa da un dubbio ancora più grosso.
Quello della clinica, non era l’unico computer che avevamo in casa.

***

“Cosa? Sarebbe… una veggente?” esalò Duncan, dopo avergli spiegato il contenuto della mia telefonata con Elspeth.
Annuii, guardando nervosamente il mio computer portatile, poggiato sulla consolle della cucina, dove Duncan in versione lupesca era esibito sfacciatamente sul desktop.
Non avevo osato aprire la mia casella e-mail per paura che, anche sul mio portatile, ci fosse quel potenziale nemico, pronto a bloccarmi tutto l’hardware.
Certo, era più difficile che l’attentatore conoscesse anche il mio indirizzo di posta elettronica – mentre era stato semplice trovare quello della clinica di Duncan – , ma non intendevo correre questo rischio.
Il punto era un altro.
Possibile che avesse tratto le stesse deduzioni di Elspeth? A quanto pareva, sì.
O peggio. Aveva in qualche modo ascoltato la nostra telefonata, e aveva preso dei provvedimenti immediati per evitare di essere scoperto?
Preoccupata, avevo chiamato Fred per metterlo al corrente del potenziale pericolo che stava correndo Elspeth – vittima ipotetica del mio aggressore.
 Dopo aver ricevuto rassicurazioni circa la sua sicurezza, avevo pregato mentalmente Duncan di raggiungermi in casa per parlare più agevolmente con lui dell’intera faccenda, mentre Christine sarebbe rimasta in clinica per tenere aperto il negozio.
“Tutto lo farebbe pensare. Certo, finché non ho collegato i punti, neppure io ci avrei mai pensato, ma ora... no, non può essere solo un caso” terminai di dire, scuotendo il capo. “Senti, so che potrà sembrarti assurdo, ma ascolta. Appena arrivata a scuola, non conoscevo nessuno, ero triste e sconsolata, e me ne stavo sempre per i fatti miei. Fin quando ho conosciuto Elly. Lei mi ha trovata in un angolo della palestra non visibile dal campo di allenamento, o dalle tribune, mentre piangevo in silenzio tutto il mio dolore. E so per certo che nessuno mi ha vista andare lì, perché la palestra era deserta, al mio arrivo e, nel corridoio che ho usato per raggiungerla, non c’era anima viva. Inoltre, in quel momento Elly aveva lezione, quindi non può avermi intravista in nessun modo.”
Duncan annuì cauto, così continuai nella mia spiegazione con maggiore convinzione.
“Ho il sospetto che abbia sentito, percepito la mia condizione di wicca latente, e si sia avvicinata istintivamente per questo. Inoltre, mettici pure la sua fame smisurata e il fatto che non mette su un etto. Usare i poteri mentali sfianca in maniera assurda, lo sai, e lei divora più cose di quante un corpo umano normale potrebbe assimilare, senza ingrassare. Credimi, l’ho vista ingoiare così tanti dolci che, a quest’ora, dovrebbe essere un pallone aerostatico, eppure…”
“…eppure è magra come una betulla” annuì Duncan, con un mezzo sorriso.
“Aggiungici anche che, per tutta la durata del mio, come dire, viaggio imprevisto qui a Matlock, lei si è sempre sentita a disagio. Mi ha confidato di non aver creduto a una sola parola del mio racconto. Sapeva che non era vero, ma non me ne ha fatto parola per non offendermi. Quando ci siamo incontrate di nuovo, a Glasgow, ha continuato a fissare il mio anello con aria imbambolata. Sapeva che aveva un significato particolare, ne sono certa! E ora la faccenda delle telecamere e dell’e-mail. Sono un po’ troppe coincidenze, non ti pare?” borbottai, appoggiandomi alla consolle della cucina, intrecciando le braccia sotto il seno.
“Vero. Sono un po’ troppe. Ovvio che, senza guida, percepisca solo le sensazioni più forti…” mormorò pensieroso, rimuginando sulle mie parole. “… ma forse, se addestrata, potrebbe essere più precisa di così.”
“Appunto. E’ per questo che voglio tornare a Glasgow con Lance e Jerome” gli confidai con una certa veemenza.
Lui sollevò un sopracciglio con evidente sorpresa, prima di domandarmi ironicamente: “Lance posso capirlo, ma Jerome?”
“Come mia guardia del corpo aggiuntiva” sorrisi, scrollando le spalle. “Con te rimarrebbero Sarah e Branson, inoltre, mi sono permessa di dire a Anthony e Jessie di bazzicare qui più spesso, nei prossimi giorni.”
Il suo sorriso si allargò, nel commentare: “Hai pensato proprio a tutto, eh?”
“Togliendoti la tua guardia del corpo e il tuo vice, volevo essere tranquilla che fossi comunque adeguatamente protetto. Mi fido di Sarah e Branson, ma desideravo sapere al tuo fianco anche uno degli alfa più potenti della zona, oltra a una delle sentinelle più veloci che abbiamo” mi premurai di dire, avvicinandomi a lui per sfiorare il suo torace con una mano. “Così facendo, tranquillizzerei anche te, perché sapresti che sono controllata a vista da persone di cui ti fidi ciecamente, da ben due fulcri del nostro quartetto.”
“Verissimo” annuì, chinandosi a baciarmi i capelli. “Spero solo non ti sentirai soffocare da tutto questo testosterone, principessa.”
“Da loro, mai” sorrisi per contro, prima di chiedergli: “Può andarti bene come ho organizzato le cose?”
“Sei Prima Lupa. Mi fiderò sempre del tuo giudizio” assentì Duncan, scrollando leggermente le spalle.
“Beh, tu dimmi sinceramente se ti va bene” brontolai a quel punto, pretendendo una risposta da parte sua.
Lui ridacchiò, annuendo con vigore e, dandosi un tono, decretò: “Sono d’accordo con te, Brie, stai tranquilla. Hai agito con lungimiranza, e con attenzione per i particolari. Sono fiero di te.”
“Grazie” sorrisi a quel punto, sentendomi tremendamente sciocca per aver cercato quell’approvazione a tutti i costi, ma gongolando dentro di me per averla ottenuta.
Duncan mi carezzò il viso con lo sguardo e con il tocco leggero delle dita di una mano, sussurrando: “Sarà uno strazio separarsi nuovamente da te, specialmente dopo esserci appena ritrovati.”
“Starò via solo qualche giorno” lo rassicurai in fretta, avvertendo un brivido in tutto il corpo. “Anche perché Lance non ha più di una settimana di permesso, per stare via dallo studio medico, e Jerome ha praticamente supplicato Erika di sostituirlo nel negozio, e non ho idea di cosa pagherà, per questo servizio.”
Sollevando ironicamente un sopracciglio, Duncan commentò: “Oh, pagherà sicuramente salato, ci puoi scommettere.”
Ne ero convinta anche io.

***

Il cielo plumbeo e scuro minacciava pioggia a secchiate, quando giungemmo alle porte di Glasgow.
Scrutando quei cumulonembi colmi di acqua, e bui come antri marini, sospirai afflitta dicendo: “Bella giornata davvero.”
“E’ tutta colpa di Lance e del suo sorriso idiota” brontolò Jerome, voltandosi verso di me dal sedile anteriore dell’Audi SW color antracite del nostro Hati.
Sorrisi divertita, sapendo bene a cosa si stesse riferendo Jerome.
Prima di partire per Glasgow, quella stessa mattina, Mary B aveva telefonato a Lance direttamente dall’ospedale.
Da quel poco che avevamo potuto capire, lei gli aveva augurato buon viaggio e promesso che, al suo ritorno, sarebbero andati a teatro assieme per vedere Otello.
Avevo scoperto con mia somma sorpresa che, non solo Lance amava l’opera, ma ne era anche un gran conoscitore.
Quando Mary B ne era venuta a conoscenza, ne era stata oltremodo contenta visto che lei, in gioventù, aveva recitato con buon profitto nella scuola dove aveva studiato.
“Non fare l’antipatico, J. Lance è felice, e tu devi essere felice per lui. Non è colpa mia se non hai ancora trovato la donna ideale per te” replicai pacata, sorridendogli però generosamente.
“Parli bene, tu, visto che sei già impegnata e il nostro stallone, qui, si è trovato una donna amabile, bellissima e interessante” brontolò nuovamente Jerome.
Lance gli lanciò un’occhiata fugace e ribatté ironico: “Sei tu che non ti guardi intorno, e preferisci saltare la cavallina con tutte le lupe che ti capitano a tiro.”
Sghignazzai spudoratamente – sapevo del suo stile da latin lover, e sentirne parlare dal pacato e serafico Lance era troppo divertente – e mi limitai a celiare: “J, lascia perdere, hai perso in partenza.”
“Lo so. Con voi due non si può parlare” borbottò Jerome, prima di chiedermi: “Credi che la tua amica Elspeth potrebbe piacermi?”
Rizzando subito le orecchie, lo fissai accigliata e dissi più seriamente: “Non siamo qui per farti da sensali, J, tienilo bene a mente. E poi, Elspeth ha la sua famiglia qui a Glasgow, e i suoi studi a… oh, cazzo!”
“Sì?” si interessò subito Jerome, sogghignando.
“A Cambridge” brontolai a quel punto, mettendo il broncio.
Davvero troppo vicino a Matlock, se Jerome avesse deciso di darle fastidio durante il periodo scolastico.
“Oh, bene” ridacchiò, sfregandosi le mani prima di tornare a guardarmi più seriamente e dichiarare: “Principessa, e dire che dovresti conoscermi, ormai. Pensi che farei del male a una persona a te cara?”
“Lo so, ma… cavoli, J, ho gli occhi, e pure Ellie ce li ha. Tu sei un gran bel ragazzo e, se solo ci provassi, o facessi il carino con lei, non pensi che si interesserebbe a te anche solo per pura curiosità? E poi, ora che conosce il nostro segreto, è ancora peggio. Ne è … abbagliata, per così dire. Tu saresti per lei come un frutto proibito, o qualcosa del genere” tentai di spiegargli, pregando che Ellie fosse abbastanza controllata, a livello ormonale, da non cadere vittima del fascino di Jerome.
Lui sollevò per contro un sopracciglio e commentò divertito: “Un frutto proibito?”
“Già. Lei ha sempre pensato di vedere cose che altri non vedevano, e si è sempre considerata strana, per questo. Ora, siamo quasi sicuri che questo dipenda dal fatto che sia una Völva. Se risultasse vero, si ecciterebbe ancora di più, e non so se sarebbe in grado di trovare la lucidità sufficiente per resistere ai tuoi sorrisi assassini” borbottai contrariata, passandomi nervosamente una mano tra i capelli rilasciati sulle spalle.
“Sorrisi assassini?” ripeté a pappagallo Jerome, ridacchiando.
“E piantala di ripetere tutto quello che ti dice!” sbottò Lance, ridacchiando suo malgrado.
Risi con lui, dicendo subito dopo: “Beh, in sostanza, cerca di contenerti, Casanova.”
“D’accordo. Se me lo chiede la mia Prima Lupa” ammiccò lui, improntando subito dopo il suo viso a una maschera di perfetto contegno.
Lo fissai scettica, decretando esasperata: “Non funzionerà mai.”
Ero più che sicura che Jerome, di fronte al bel visino di Elspeth, sarebbe crollato come una pera matura, finendo col fare quello che gli riusciva meglio; incantare le persone.
Non che vi fosse nulla di sbagliato, in questo, ma dovevo tenere d’occhio fin troppe cose e persone, senza dover badare anche ad altri due possibili amanti di razze diverse.
Ora Elspeth era eccitata, persino drogata da tutta questa situazione paradossale, ma non ero sicura che l’infatuazione per il nostro mondo sarebbe durata e, soprattutto, se sarebbe bastata per farle accettare pienamente un amante licantropo.
E io non volevo che nessuno dei due soffrisse.
“Ti prego, Madre, metti del sale in zucca a entrambi” sussurrai tra me, prima di vedermi addosso gli occhi gelidi di Jerome.
Sogghignai al suo indirizzo, ma non mi scusai. Avevo davvero paura per loro due.

***

Circumnavigammo quasi tutta la città, per raggiungere la casa di Fred – avevamo deciso che sarebbe stato più sicuro parlare con Ellie in un luogo protetto come l’abitazione di un licantropo – Lance parcheggiò l’auto di fronte all’entrata del villino in stile Tudor del capoclan di Glasgow.
Dopo essere scesi, ci dirigemmo alla porta d’ingresso per suonare il campanello.
A volte dimentico quanto certe cose, per un licantropo, siano inutili.
Prima ancora di aver allungato la mano verso il pulsante del campanello, la porta si aprì e Becca ci salutò con un sorriso stampato sul viso.
Lanciato poi uno sguardo alle nubi minacciose che vorticavano in cielo, ci invitò a entrare dicendoci: “Fred ha preferito andare a prendere di persona Elspeth. Non si fidava a lasciarla venire qui da sola.”
“Ha fatto bene. Non si può mai sapere. Quel pazzo potrebbe essere ancora nei dintorni” annuii, prima di prendere in braccio un trotterellante Matt e trillare: “Ciao ometto, come stai?”
“’ao, Bii” gorgogliò, con la sua vocetta squillante e il suo vocabolario limitato quanto creativo.
Sorrisi deliziata e gli stampai un bacio sulla guancia, prima di rimetterlo a terra e mormorare: “Grazie per l’ospitalità, Becca, e scusami ancora per questa riunione dell’ultimo minuto.”
Lei scosse il capo e, tranquilla, replicò: “Se non ci aiutiamo tra di noi...”
Jerome, nel frattempo, si era impadronito di Matt e lo stava facendo saltare allegramente tra le braccia.
Lo guardai con ironia, chiedendomi se, un’eventuale paternità, gli avrebbe fatto passare certi grilli che aveva per la testa.
Dopo un momento dissi tra me che, forse, sarebbe scappato a gambe levate.
Becca ci fece accomodare nel suo ampio salone in stile ultramoderno e, dopo averci offerto the e pasticcini, si accomodò su una delle poltrone, accavallando le lunghe gambe fasciate da neri fuseaux.
Affondando nel morbido divano di pelle, afferrai uno dei cuscini per stringermelo al petto – era un vizio che non avevo mai perso – e, guardando Lance accomodarsi al mio fianco, gli chiesi: “Come pensi di procedere, con Ellie?”
“Sostanzialmente, parte dei poteri di una veggente assomigliano a quelli di una wicca per cui, prima di tutto, ci assicureremo della portata del suo dono, analizzando la sua mente” mi spiegò Lance mentre, con il nostro udito finissimo, avvertimmo l’arrivo della Mercedes di Fred.
Un paio di portiere vennero aperte e chiuse e, avvolti dal rombo cupo di un tuono in lontananza, i passi cadenzati dei nuovi arrivati avanzarono sul selciato fino a salire i gradini della veranda, dove si fermarono un secondo per aprire la porta d’entrata.
“Eccola” mormorai, percependo il suo profumo e il battito vagamente accelerato del suo cuore.
Pochi attimi dopo, Fred ed Ellie entrarono in casa.
Vedendola avvicinarsi a noi, vagamente pallida e coi lunghi capelli rilasciati mollemente sulle spalle, non potei esimermi dall’alzarmi per abbracciarla e darle due sonori baci sulle guance.
Lei ricambiò con gioia prima di guardarsi intorno e dire, piuttosto confusa: “Oh, vedo facce nuove. Duncan non è con te, stavolta?”
“No, ma ho due fide guardie del corpo, al suo posto” le spiegai, facendo un cenno a Jerome e Lance perché si avvicinassero a noi. “Jerome Rowley e Lance Rothshield”
Ellie sbatté le palpebre un paio di volte, ora più meravigliata che spaventata, prima di ridacchiare vagamente divertita.
“Ma… è una prerogativa di voi licantropi, quella di essere bellissimi e giganteschi?”
Fred scoppiò a ridere mentre Lance e Jerome, sorridendo tra loro, le strinsero la mano prima di scrollare impotenti le spalle.
“Diciamo che, l’essere enormi, è una prerogativa di certi lupi, non di tutti. L’essere belli dipende dai geni, né più né meno come per gli umani” le spiegò Lance, sorridendole gentilmente.
“Beh, allora, complimenti alle mamme” ridacchiò Ellie prima di tornare seria.
Infilando  una mano nella sua borsetta, dichiarò: “Ecco i filmati di cui ti parlavo. Ho pensato di andarli a prendere prima che, al nostro comune amico, venisse in mente di fare una visita al pub. Quando Fred mi ha chiamata, dicendomi del pericolo, ho pensato di non dover perdere tempo ulteriore.”
Consegnandomi un cd-rom, mi chiese poi con curiosità: “Ora, mi vuoi spiegare cosa c’era di così misterioso che non potevi dirmi al telefono?”
“Lance” dissi per contro, guardando il mio Hati con un sorriso incerto.
Lui annuì, invitando Ellie a sedersi sul divano ed Elspeth, seguendolo guardinga, mi domandò: “Cosa mi farà, scusa?”
“Nulla. E’ un medico, quindi ti puoi fidare” la rassicurai, sfiorandole le braccia con le mani per darle coraggio.
Ellie allora mi sorrise più tranquilla e si accomodò, mentre Becca conduceva Matt in camera sua per lasciarci lavorare in santa pace.
Fred si sistemò sul divano di fronte al nostro, assieme a Jerome e io, lanciando un’ultima occhiata tranquillizzante alla mia amica, mi rivolsi a Hati per dargli l’okay a procedere.
“Comincia pure, Lance.”
“D’accordo, principessa” mormorò, sorridendomi lievemente.
Ellie si volse a mezzo verso di me e domandò divertita: “Perché principessa? Ho notato che anche Duncan ti chiama così.”
“E’ un nomignolo che mi hanno affibbiato Jerome, Lance e Duncan, tutto qui” scrollai le spalle, sorridendo.
“Carino” ammiccò, tornando a guardare Lance. “Vai, dimmi tutto.”
Lui annuì brevemente. “Allora, poiché Brie mi ha detto che ti piacciono l’occulto, la magia e la mitologia, partiremo da qui. Conosci bene i miti norreni?”
“Molto più di Brie, questo è sicuro” ridacchiò la mia cara amica, ammiccando un momento nella mia direzione prima di tornare a guardare Lance.
“Ottimo, quindi avrai sentito parlare delle Völva, giusto?” si informò Lance, con un mezzo sorrisino.
“Sì, certo, sono veggenti e…” cominciò col dire, prima di sgranare gli occhi, portarsi la mano di fronte alla bocca spalancata e sussurrare: “…no, non è possibile!”
“Direi di sì” replicò Lance, guardandomi soddisfatto. “Ho avvertito chiaramente un picco nelle sue onde cerebrali.”
“Puoi farlo?” esalò Ellie, guardandolo sempre più costernata.
“Solo con chi ha un dono come il tuo, o con altri licantropi” le spiegò gentilmente Lance. “Emettiamo onde di energia al di fuori dello spazio ristretto della scatola cranica. E quello che ti ho detto prima ha scatenato una reazione nella tua corteccia prefrontale.”
“Oh, cazzo” sbottò, prima di guardarsi intorno per sincerarsi che Matt non ci fosse.
Fece la lingua con aria infantile, nel rendersi conto di aver evitato per un soffio di farsi sentire dal bambino.
Tornando poco alla volta nuovamente seria, si rivolse a Lance, chiedendogli: “Quindi, non mi sono sognata tutte le cose che pensavo di vedere?”
“Direi di no. Puoi farmi qualche esempio di ciò che hai visto, o percepito?” le domandò a quel punto Lance, prendendole una mano quasi senza accorgersene.
Ellie vi fece caso, però e, guardando quella mano enorme che teneva debolmente la sua, dichiarò: “Curioso. Lo fate tutti?”
“Che cosa?” chiese Lance, distrattamente.
Ridacchiando, Ellie gli spiegò cosa intendesse dire.
“Brie non è mai stata smancerosa, o maniaca degli abbracci, dei baci, delle strette di mano,… di quelle cose lì, insomma. Mentre adesso ho notato che, invece, le viene spontaneo, e tu mi hai preso per mano, pur senza minimamente conoscermi, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E non credo sia stato per auscultarmi il cuore. Lo percepisci tranquillamente anche senza toccarmi, no?”
Lance la guardò ammirato, annuendo, prima di sorridermi. “La tua amica è un portento. Molto intuitiva. Il che mi lascia pensare che abbia un dono piuttosto sviluppato.”
“Non tanto, se non ho visto la fuga di Brie” brontolò Ellie, per contro.
“Ma hai detto di essere stata sicura che la storia che avevo raccontato fosse tutta una frottola” precisai, eccitata mio malgrado all’idea che Ellie potesse far parte del mio mondo molto più di quanto non avessimo in un primo momento ipotizzato.
Lei annuì, dubbiosa, socchiudendo gli occhi e mormorando: “Quando sei andata via, e tutti dicevano che eri scappata per un capriccio, io vedevo solo boschi, nei miei sogni, e tu che vi correvi all'interno. Oppure, branchi interi di lupi che procedevano al fianco di una figura di donna. Tu. Ero nella confusione più nera, lo ammetto. Quando poi tornasti e raccontasti di essere scappata per un viaggio on the road, sentii nella mia testa un coro di ululati e un rombo di tuono. Assurdo, eh?”
Seria, borbottai: “Mica tanto. Hai predetto ciò che sarebbe successo di lì a poco; il temporale, l’arrivo di Jerome e il mio mutamento in licantropo.”
“Colpa mia” ridacchiò Jerome, levando la mano come uno scolaretto.
Ellie lo fissò divertita, dicendo: “Ora finalmente vedo in faccia il fautore di tutto.”
“Ebbene sì” ammiccò Jerome, prima di farsi serio.
Lance riportò l’attenzione  della mia amica su di sé, decretando: “Bene, abbiamo chiarito che il dono c’è, ma non è sempre attivo.”
“Da cosa dipende?” chiesi allora io.
“Dall’esercizio. Emozioni molto forti possono risvegliare in lei la veggenza, ma non sempre avviene. Lavorando sulla concentrazione e la riflessione, il dono si dovrebbe stabilizzare”  ci spiegò Lance.
“Siete venuti qui apposta per questo, vero? Non solo per il video” dichiarò allora Ellie, apparendo più che mai sorpresa.
“Sarebbe imprudente lasciare una Völva senza addestramento” intervenne Fred, con un sorriso. “E a me farebbe molto piacere avere una veggente nel branco.”
“Anche se sono umana?” esalò lei, gli occhi illuminati dalla gioia, mentre fissava Fred con aria speranzosa.
Anche se sei umana” annuì Fred, intrecciando soddisfatto le braccia sul torace. “Non avrai gli stessi poteri della nostra primadonna qui presente ma, di sicuro, hai le tue carte da giocare, Elspeth.”
Fu in quel momento che compresi l’unica vera pecca, nella vita apparentemente perfetta di Elspeth.
Si sentiva sola, fuori posto.
Per tutta la sua breve vita, si era sempre sentita come un pesce fuor d’acqua.
A parte me, Maggie e Nancy, non aveva mai avuto nessuna amica sincera, pur essendo una vera bellezza e una delle ragazze più desiderate della scuola.
Ma a lei, tutte quelle attenzioni non erano mai interessate. Era altro ciò che cercava.
Un posto dove essere se stessa, un luogo dove il suo essere così singolare non fosse un fatto negativo, ma tutt’altro.
Stringendola a me in un abbraccio rassicurante, le sussurrai all’orecchio: “Perché non mi hai fatto capire quanto ti sentissi isolata e sola?”
“Non sapevo come fare. Tu sei sempre stata così coerente, così pragmatica, così… beh, coi piedi ben saldati per terra. Mi sarebbe sembrato di fare la figura dell’idiota, a parlartene più del dovuto eppure, con te, mi trovavo così bene” mi spiegò lei, tremante nel mio abbraccio. “Mi ascoltavi assorta quando ti accennavo qualcosa, e non mi davi mai della fuori di testa, nonostante sapessi che la tua mente analitica stava cercando senza sosta una spiegazione scientifica alle astrusità che ti dicevo.”
Ridacchiai, sapendo che era vero.
Le poche volte che Elspeth si era sbottonata con me, parlandomi delle sue strane sensazioni, avevo sempre cercato di spiegarmele con gli studi di Freud, o di altri psicanalisti altrettanto famosi.
Rimanendo ferma nel mio abbraccio, continuò dicendo: “Mi accettavi per come ero, anche se ti dicevo delle cose strane. Non cercavi di farmi cambiare idea, o di farmi capire che stavo scambiando lucciole per lanterne. Neppure a Maggie o a Nancy ho mai detto quello che dicevo a te.”
“Sapevi di potermele dire” convenni, stringendola ancora di più. “Mi spiace soltanto di non averti potuto dare tutto l’appoggio che speravi. All’epoca, ero piuttosto limitata.”
Lei ridacchiò nervosamente, chiosando: “Evidentemente, puntai su di te fin dall’inizio perché sapevo che, prima o poi, mi avresti capita come le altre non avrebbero mai potuto fare.”
“Già” annuii, prima di chiedere a Lance: “Che tipo di addestramento dovrà fare?”
“Respirazione e concentrazione. Come se stesse facendo una seduta di yoga” asserì Lance, sorprendendoci entrambe.
“Solo questo? Niente cose strane come ho dovuto fare io?” esalai, stupefatta.
Lance ci sorrise divertito, spiegandoci il perché delle sue parole. “Vedi, la mente di Elspeth è già pronta ad accettare ciò che è, contrariamente alla tua che, diciamolo, era piuttosto ermetica.”
“Vero” ammisi, facendo la lingua a Jerome, che stava sghignazzando.
Fred riuscì in qualche modo a non ridere e io, piccata, sbottai: “Ehi, dico! Un po’ di rispetto!”
Ellie ridacchiò di quel nostro allegro battibecco ma, dopo qualche istante, chiese a Lance: “Se mi concentro, i pensieri saranno più lineari e potrò capire meglio cosa vedo?”
“Esatto. Chiudi gli occhi e pensa a un foglio bianco, per cominciare. Quieta il respiro e ascolta il battito del tuo cuore” le spiegò Lance, con voce suadente.
Ellie sorrise mentre Lance prendeva tra le sue entrambe le mani di lei e, ironica, gli confidò: “Sai che potresti lavorare in radio, con una voce così?”
“Concentrati” ridacchiò Lance, ammiccando leggermente.
Lei annuì e io, scostandomi da Elspeth, mi sedetti a terra per guardarla meglio in viso, sfiorandola con il mio potere per leggere la sua mente.
Ora che sapevo di poterlo fare senza problemi, fu facile trovare l’entrata.
Come Lance aveva chiesto, la sua mente era un’immensa distesa di un bianco lattiginoso, dove alcune pagliuzze scure volteggiavano come pulviscolo portato dal vento.
Mano a mano che i secondi passarono, però, quelle pagliuzze informi e microscopiche presero una forma più definita.
Provai all'improvviso un atavico terrore e mi mossi per uscire dalla sua mente, trovandomi però imbrigliata da sottili fili nerastri che mi cingevano il corpo, reso come solido nel cervello di Ellie.
Gridai senza realmente emettere fiato, tendendo allo spasimo i muscoli per riuscire a liberarmi da quelle esili quanto diaboliche trappole, mentre memorie di un passato che non mi apparteneva, o almeno così credevo, mi affliggevano con la loro forza inusitata.
All’esterno della mente di Elspeth, strinsi convulsamente le mani sul morbido tappeto damascato di Fred, mentre rivoletti di sudore inumidivano il mio viso contratto dalla paura.
Subito, Jerome e Fred si alzarono per venire in mio soccorso, mentre Lance si occupava di Elspeth che, a occhi ora sgranati e con il panico dipinto sul viso, esalava frasi incoerenti come ‘il giorno del giudizio’ o ‘stavolta non ti perderò’.
Scuotendo con forza il mio corpo fisico, mentre quello mentale cercava di liberarsi dalla rete in cui ero caduta, Jerome mi prese il viso tra le mani.
Sorprendendo probabilmente tutti – me compresa – mi diede un bacio, schiacciandomi con forza le labbra.
Mi ripresi alcuni istanti dopo e mi scostai da lui, esalando sconvolta e vagamente sconcertata dal terrore che ancora stavo provando: “Wow! Meglio del risveglio della Bella Addormentata.”
Lui mi fissò con un suoi occhi cerulei, il sollievo stampato a caratteri cubitali sul viso mentre Elspeth, ora libera dalla mia presenza e dalla visione che l’aveva intrappolata al pari mio, ci fissò spaventata per alcuni istanti.
“Ma che diavolo è successo?!”
Presi un gran respiro, lasciando che le mani allentassero la stretta convulsa sul tappeto e, con voce un po’ impastata dalla paura residua che ancora sentivo serpeggiare in me, borbottai: “Era una visione molto potente e mi riguardava da vicino, visto che ci sono rimasta invischiata di brutto.”
Lei rabbrividì leggermente, annuendo con fare nervoso mentre Fred, scrollandosi come avrebbe fatto in forma di lupo, borbottò ansioso: “Ragazzi, queste cose mi fanno venire i brividi. Non so come Duncan riesca a sopportare tutto questo sfoggio di magia. Ho la pelle d’oca, a causa di tutto il potere che avete sprigionato in questa stanza.”
Come per dar credito alle sue parole, sollevò il braccio muscoloso, mostrandoci la sottile peluria chiara ben eretta sulla carne tesa e leggermente tremante.
“Cos’avete visto, ragazze?” chiese a quel punto Jerome, senza mai mollare lo sguardo dal mio viso.
Fece bene. Probabilmente, se avessi perso il contatto con la realtà in quel momento, sarei ripiombata in quella visione tremenda che mi aveva terrorizzata a morte.
Sollevai una mano per stringere quella di Jerome e lui, avvolgendola nelle proprie, se la portò alle labbra, sussurrando: “Tranquilla, principessa, ci siamo noi qui con te.”
Lance si mosse prima di me e, afferrando la mia mano libera, se la strinse al petto, aggiungendo con un sorriso: “Non ti lasceremo in balia del pericolo.”
Elspeth ci guardò confusa, forse chiedendosi il perché di quel comportamento.
Sorridendole più tranquilla, le spiegai ciò che stavano facendo per me, in quel momento.
“Duncan, Lance e Jerome sono la mia Triade di Potere. E’ un evento più che raro, anche tra licantropi. Solitamente, una wicca ha un legame di spirito con un solo lupo, mentre io sono legata alle loro tre anime.”
“Sono una specie di… cassa di risonanza?” chiese allora Elspeth, aggrottando leggermente la fronte, mentre il suo cuore tornava lentamente alla normalità.
“Sì. Amplificano il mio potere molto più velocemente, e in maniera più efficace, di qualsiasi altro licantropo. Posso attingere da qualsiasi mannaro, ma da loro è più facile, e l’energia che posso prelevare e molto maggiore. In casi come questo, è una gran cosa” annuii, sorridendo a entrambi i miei compagni.
“Eri veramente tu, quella che ho visto nella mia mente?” mi domandò allora Elspeth, con un leggero brivido.
Annuii. Era inutile girarci intorno.
Doveva sapere, visto il mondo in cui ormai, volente o nolente, era entrata a far parte di diritto.
 “Era la mia proiezione mentale, sì. Stavo curiosando per vedere se avresti predetto qualcosa, ma non immaginavo di rimanere imbrigliata nel tuo subconscio.”
“Ti sentivo annaspare nel tentativo di liberarti” annuì Elspeth, socchiudendo un poco gli occhi, come per concentrarsi sul ricordo della visione. “Una voce continuava a ripetere strane parole. Ho capito solo che tu hai tradito la sua fiducia, impedendogli qualcosa, e che ora otterrà la sua vendetta.”
“Hai mormorato qualcosa sulla fine del mondo, Elspeth. Rammenti altro?” le chiese gentilmente Lance, restando sempre in contatto con me.
Scuotendo il capo, lei sospirò dicendo: “No, mi spiace, quella parte proprio non la ricordo.”
Passandomi una mano sul viso, esalai un sospiro sconfortato proprio mentre Becca ricompariva in salotto, il viso pallido e gli occhi leggermente sgranati.
“Si può sapere che avete combinato, qui? Avevo una pelle d’oca di proporzioni bibliche” esalò, prima di accorgersi delle nostre facce peste. “Incontro di box, tesoro?”
“Qualcosa del genere” ammisi con un sospiro. “D’accordo, diamoci da fare con il computer prima di…”
Elspeth sorrise spiacente, e mormorò con occhi leggermente velati: “Temo non si potrà usare quello di Fred.”
Un attimo dopo, la luce saltò in tutto l’isolato, facendo scattare l’impianto di illuminazione d’emergenza.
Imprecando tra i denti, esclamai nervosamente: “Cazzo, è qui! Deve essere per forza da queste parti, se sapeva che eravamo da te!”
Fred si levò in piedi, nervoso e irritato e, aggrottando più e più volte la fronte mentre camminava avanti e indietro sul tappeto, ringhiò: “Deve trovarsi vicino alla centralina di zona, a qualche isolato da qui. Non può avere staccato la luce che da lì, per isolare tutto il quartiere.”
Becca annuì, intrecciando le braccia sotto il seno e, guardandoci accigliata, ipotizzò: “Deve averti vista con il video in mano, Elspeth. Oppure ti ha seguita al pub ma, per qualche motivo, non ti ha attaccata.”
Fred sollevò un sopracciglio con ironia e commentò: “Beh, quello posso spiegarlo io. Elspeth è sotto scorta fin da quando è uscita da questa casa, qualche giorno fa.”
“Oh, chiedo venia, tesoro, questa parte mi era sfuggita. Con Matt e tutto il resto, ho la testa un po’ in disordine” ridacchiò Becca, prima di borbottare pensierosa: “Evidentemente, immaginava avremmo visionato il video, così ha deciso di bloccarci.”
“Beh, non potrà togliere la corrente a tutta Glasgow” brontolai, alzandomi in piedi con fare deciso. “Porta la Mercedes in garage. Non voglio che ci veda.”
“Che intendi fare?” chiese Fred, curioso.
“Chiama qui un paio dei tuoi lupi. Giocheremo un po’ a guardie e ladri” gli spiegai, sogghignando. “Fortunatamente per noi, le tue auto hanno i vetri oscurati. Con un po’ di fortuna, riusciremo a ingannarlo.”
“Spiegati meglio” disse Fred, ghignando non meno di me.
“Io, Ellie, Jerome e Lance andremo in cerca di un computer. Escluderei quello di casa di Elspeth, perché sicuramente sarà già fuori uso, o pieno di virus come quello di Duncan” spiegai succinta. “Una biblioteca o un internet-point sarebbero l’ideale, per controllare il contenuto del cd-rom. Mi inventerò qualcosa sul momento. Voi, nel frattempo, andrete con il SUV e il furgone in due direzioni opposte. Avremo più possibilità di non essere seguiti, a questo modo. Azzerando l’aura, non avvertirà la nostra presenza in auto e, con un po’ di profumatori d’ambiente in più in macchina, non potrà percepire neppure il nostro odore.”
Storcendo il naso, Fred si lagnò di quella soluzione. “Odio i profumatori d’ambiente.”
“Dobbiamo tutti sacrificarci per il bene comune” ridacchiai, dandogli una pacca su un braccio.
Becca sorrise divertita e asserì: “Vado a prendere un po’ di Arbre Magique.
Detto ciò, si defilò lungo un corridoio e io, volgendomi a guardare Elspeth, le chiesi: “Te la senti?”
“Eccome, bella. Siamo sulla stessa barca, adesso, come ai vecchi tempi” mi sorrise, guardando ironicamente Jerome per poi confidargli: “Potevi risvegliare pure me con un bacio, sai?”
Lui scoppiò a ridere e, annuendo, celiò: “Lo terrò a mente per la prossima volta.”

 

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Capitolo 13
*** Cap. 13 ***


 

N.d.A.: Vi avverto che alcune parti sono un po' forti, perciò tenetevi pronti.



13.

 
 
 
 
 
 


Occorse più o meno una buona mezz’ora, per mettere in pratica il mio piano di depistaggio.
Quando uscimmo dal garage di Fred e imboccammo la via in direzione del centro città, non ci sembrò di essere pedinati da nessuno.
Forse, saremmo riusciti a visionare il contenuto del cd-rom senza essere scoperti o, peggio, raggiunti dal mio aggressore misterioso.
Lance, procedendo ad andatura tranquilla per non rischiare di essere fermato dalla polizia per eccesso di velocità – e quindi renderci visibili – mi fece notare con voce solo parzialmente tranquilla: “Sai che potrebbe non essere da solo, vero?”
“E’ un rischio che dobbiamo correre e poi, finché rimaniamo in un locale pubblico, con voi a guardarmi le spalle, non si avvicinerà. Non può entrare e uscire indisturbato da tutti i reparti riservati al personale di ogni cavolo di esercizio pubblico di Glasgow” gli rinfacciai, brontolando sul sedile posteriore della Mercedes.
“Se per caso sta seguendo noi, o un suo complice ci sta tenendo d’occhio, avremo comunque poco tempo per agire. Potrà anche non togliere la luce, ma ci sono una miriade di altri sistemi per romperci le uova nel paniere” commentò Jerome, turbato non meno di me.
“Dimentichi che hai Miss Malata del Computer, qui in auto” precisò Elspeth, sorridendomi con affetto.
Ghignai – mi aveva sempre presa in giro, per questo – e dissi: “Posso controllare quel cd-rom in pochissimo tempo, ma non sono un mago. Speriamo in bene, Jerome e, soprattutto, speriamo di riconoscere la sua faccia.”
Jerome non parve convinto ma annuì.
Sistemandomi meglio sui morbidi sedili dell’auto, mi chiesi quanto tempo avremmo impiegato, a tutti gli effetti, per scoprire che faccia avesse il mio misterioso nemico.
Ero turbata all’idea che quella anonima ombra riuscisse a seguirmi a quel modo, come se sapesse esattamente come trovarmi, o dove cercarmi.
Io, al contrario, ero inerme e senza alcuna possibilità di comprendere come anticipare le sue mosse.
Cosa non sapevo?

Gleip…

Rizzando le orecchie quando percepii nella mia mente quel sospiro affaticato, mi guardai intorno con aria confusa, chiedendomi chi fosse stato a parlare, ma nulla mi aiutò a comprendere quella stranezza.
Conoscevo a menadito le voci mentali di Lance e Jerome, ed Elly non poteva parlarmi mentalmente. Quindi, chi era stato?
E cosa significava quella parola smozzicata e pronunciata così a fatica?

***

Ammesso che il Presidente Obama avesse delle guardie del corpo così affascinanti, mi sentivo comunque un po’ come lui, in quel momento.
Avanzammo lungo il marciapiede come se fossimo stati in formazione: io ed Ellie nel mezzo, Jerome e Lance sui lati.
Tutti coloro che incrociammo sul nostro passaggio, si guardarono bene dal dirci che stavamo ingombrando lo spazio utile per camminare.
Non appena posavano lo sguardo sulle spalle massicce e lo sguardo incupito di Lance, tutti defilavano o ci lasciavano strada.
Pur sentendomi  tremendamente imbarazzata di fronte a quello sfoggio di pura forza, non me la sentii di dire qualcosa.
Volevo essere protetta, perché mai come in quel momento mi sentivo esposta al pericolo.
Secondo Elspeth non c’era nulla di cui preoccuparsi, al momento, non percepiva niente di anomalo, per cui potevo pensare solo a quello che dovevo fare, senza stare troppo a preoccuparmi.
Sì. In che film?
Una corda di violino non avrebbe potuto essere più tesa di me, e il mio cuore era accelerato all'inverosimile.
Se qualcuno mi avesse anche solo sfiorato per errore, avrei urlato così forte da perforare i timpani dei malcapitati che fossero stati troppo vicini, al momento dell’urlo.
Sentivo la mancanza di Duncan al mio fianco, la calma sicurezza che riusciva a instillarmi e, per quanto Lance e Jerome mi fossero cari e io mi fidassi di loro, non era la stessa cosa camminare al loro fianco.
Elspeth, che mi teneva per mano come se le potessi sfuggire da un momento all’altro, mormorò: “Se riusciamo a vedere la sua faccia, come la mettiamo? Non possiamo mandare l’immagine a nessuno dei nostri computer, perché sono stati sicuramente bloccati in qualche modo.”
“Non può aver bloccato tutti i computer di ogni licantropo d’Inghilterra. Penserò all’ultimo momento a chi mandare la foto” mugugnai, storcendo la bocca.
“All’ultimo momento? Credi sia così vicino da leggerti nella mente?” esalò, impallidendo.
“No, credo che in qualche modo sappia sempre cosa faccio, o cosa penso, altrimenti come si spiegherebbe la sua capacità di beccarmi ogni dove, e di mettermi sempre i bastoni tra le ruote?” brontolai, guardandomi intorno con aria scocciata.
Chi sei? Cosa vuoi da me? Rivelati!, pensai sempre più nervosa.
Naturalmente, nessuno venne a farmi il baciamano o a scaraventarmi un pugno in faccia, e neanche ci avevo sperato.
Tutta quella situazione, però, stava facendomi sentire sempre più inerme e indifesa. Cosa che odiavo.
Avevo la forza di dieci uomini, o forse di più, potevo correre più veloce di una BMW, ero in grado di vedere e sentire più cose di qualsiasi essere bipede o a quattro zampe che camminasse o volasse sulla Terra.
Eppure, non ero in grado di trovare il mio assalitore misterioso.
Peggio, lui si stava facendo beffe di me, precedendomi su ogni fronte, stando sempre un passo innanzi a me, bloccando qualsiasi mia mossa e annullando qualsiasi mio attacco nei suoi confronti.
Ero stanca di lui, dei suoi giochetti psicologici, delle sue manovre evasive. Stanchissima.
Stavolta, l’avrei battuto sul tempo, avrei giocato a lui un tiro mancino, e non il contrario.
L’avrei sistemato una volta per tutte, eliminando alla radice tutti i problemi e le ansie che mi aveva causato.
Mi aprii perciò in un sorriso soddisfatto quando, finalmente, scorsi le insegne del vecchio locale dove solevo andare un tempo per chattare con le mie amiche americane.
Sorridendo a Elspeth, dissi: “Bene, eccoci arrivati. Come ai vecchi tempi.”
“Peccato che i motivi siano un po’ meno futili del solito” replicò con un mezzo sorriso.
Jerome aprì la porta ed entrò per primo, tenendo poi aperto il battente in vetro perché entrassimo tutti.
Sempre guardingo e con l’aura in allerta, chiuse la fila restando dietro il nostro gruppetto.
Io ed Elspeth ci togliemmo leste dall’entrata, preferendo non rimanere troppo tempo in una posizione di potenziale pericolo.
Non appena ci trovammo all’interno del locale, completamente ricolmo di adolescenti e ragazzi di tutte le età, grugnii disgustata: “Impazzirò, qui dentro, lo so.”
“Controllo e accantonamento” mi ricordò succintamente Lance, guardandosi intorno per scorgere eventuali minacce.
Di auree di lupo non v’era traccia ma, visto ciò che mi era successo, non poteva bastarci per stare tranquilli.
Elspeth, nel frattempo, mi guardò confusa, non comprendendo la frase di Lance.
Ammiccando al suo indirizzo, ammisi: “Ho ancora qualche difficoltà a sopportare i luoghi chiusi con molta gente. Il mio naso e le mie orecchie sono un po’ troppo sensibili, e catalogare in breve tempo tutto ciò che percepisco, è difficile, e mi distrae parecchio.”
“E io ti ho portata in un pub per festeggiare il tuo ritorno” esalò spiacente.
“Non potevi saperlo” ridacchiai, prima di decidermi ad andare verso il bancone del bar per chiedere di poter usare uno dei computer.
Mi mancò il fiato.
Davanti a me, bello come il sole e tirato a lucido come un penny nuovo di zecca, Leon stava facendo uno scontrino a una signora, quando si accorse di me e della mia faccia sconvolta.
Elspeth, dietro di me, si lasciò sfuggire un ‘porca vacca’ che riassunse perfettamente il mio sbigottimento.
Lance e Jeorme, invece, mi fissarono confusi, non comprendendo la mia espressione basita né l’uscita elegante della mia amica.
Lui sorrise immediatamente, riconoscendomi e, poggiando un gomito sul bancone di laminato nero, sogghignò maliziosamente al mio indirizzo e disse con voce roca e maledettamente seducente: “Ehi, il mio bel fiorellino! E’ da un secolo che non ci vediamo, Brie. Come stai?”
“Leon. Ciao” riuscii a bofonchiare, ancora stordita dalla sua vista.
Di tutte le persone, io dico, di tutte le persone che potevo incontrare in quel momento, proprio lui doveva capitarmi?! Qualcuno ce l’aveva sul serio con me!
I suoi occhi nero pece si socchiusero, mentre un sorrisino malizioso piegava le sue labbra carnose e sexy.
Con quella voce maledettamente sensuale, che doveva aver sviluppato nei quasi due anni in cui non ci eravamo più visti, mormorò: “Non immaginavo che rivedermi ti avrebbe sconvolto così tanto. Mi fa piacere, tesorino.”
Jerome inarcò un sopracciglio e fissò disgustato entrambi noi, prima di grugnire indispettito un insulto.
“Il mio ex” gli spiegai mentalmente.
“Immaginavo. Ti guarda come se volesse spogliarti qui, in mezzo a tutti” brontolò nervoso.
"Tipico... niente di strano, credimi."

Riscuotendomi quel tanto per non apparire una completa idiota, sorrisi più tranquilla e replicai: “E’ solo che non mi aspettavo di vederti, tutto qui. Posso…”
Con un gesto inaspettato quanto stupido, si allungò sul bancone fin quasi a sfiorarmi il naso con il suo e, con un mormorio a fior di labbra, bloccò il mio discorso.
“Non devi sentirti in imbarazzo, se ti sono mancato tanto. Anche tu mi sei mancata, piccola.”
Quello fu veramente il colmo.
Sapevo benissimo che, da quando lo avevo scaricato, quasi due anni prima, si era fatto praticamente tutta la classe di chimica, quindi cosa veniva a raccontarmi?!
Feci per scostarlo da me ma, prima di poter fare qualsiasi cosa, intervenne Lance.
Da brava guardia del corpo, lo afferrò per una spalla e, dopo averlo spinto al suo posto, lo fissò con gelidi occhi di ghiaccio, ringhiando: “La signorina desidera utilizzare uno dei computer con il lettore cd-rom. E’ possibile?”
Leon fece per rispondergli male ma, dopo aver visto esattamente chi lo avesse rimesso in buon ordine, si premurò ben bene di tacere.
Annuendo, replicò in tono più che professionale: “Postazione quattro.”
“Ottimo” dichiarai, sorridendogli divertita prima di fargli l’occhiolino e andarmene a braccetto con Lance, seguiti da Jerome  ed Elspeth, che ridacchiavano spudoratamente.
“Il mio eroe” sorrisi melliflua a Lance, che ghignò.
“Ma come poteva piacerti un troglodita del genere?” commentò dietro di me Jerome. “D’accordo, sarà pure carino per gli standard femminili, ma andiamo, ti credevo più selettiva.”
“A diciassette anni sei più interessata ad altro che al cervello, e mi si potrà pur concedere di commettere degli errori. Inoltre, non era male, quando voleva” ridacchiai divertita, raggiungendo finalmente la fantomatica postazione quattro.
Jerome brontolò un ‘tutti i gusti sono gusti’ mentre io mi sedevo e, dopo aver acceso il computer e aver atteso che caricasse tutti i suoi programmi, inserii il cd-rom nell’apposito scomparto.
“Mi sembra che adesso io abbia scelto bene, no?”
“Nessuno potrebbe dire il contrario” mi sorrise Jerome, ironico.
Sorrisi appena prima di far partire il filmato e, acuendo lo sguardo, mi concentrai sull’orario posto in alto a destra – segnava le 23:35 – e sui fotogrammi che si rincorrevano a velocità sostenuta.
Cercai di non sentirmi imbarazzata nel guardare me stessa e Duncan, avvinghiati in un ballo sinuoso e rigonfio di una carica sessuale, visibile persino nel video.
Quando, però, sentii dietro di me la voce di Leon – cercava rogne? – , persi di vista la mia ansia e mi volsi per dirgliene quattro.
Uscito dalla sua postazione, era venuto a curiosare quel che stavamo facendo e, con un sorrisino divertito e ironico, commentò: “Non sapevo che fossi stata a quella festa anche tu. Davvero sexy con quel completino, sai? Per me, non ti conciavi mai così.”
“Leon…” ringhiai, mentre Lance e Jerome si irrigidivano dietro di me. “…ma che vuoi?”
Lui mi ignorò, avvicinando il naso al video del computer e, accentuando il sogghigno, aggiunse: “Esci con quella montagna, adesso? Mica male.”
Poi, scrutando i miei due accompagnatori, mi domandò ancora: “O con uno di questi due? Ti sei data ai ménage e non me l’hai detto?”
Calma, Brie, calma, non puoi mangiarlo, mi ripetei di continuo, come un mantra.
Elspeth ridacchiò, già pregustando il disastro che sarebbe seguito a quelle parole, mentre io mi alzavo con una lentezza esasperante e Lance e Jerome si posizionavano dietro a Leon, bloccandolo tra noi e la salvezza.
Quando se ne accorse, smise di ridere e, sollevate le mani in aria con aria pacifica, esalò: “E dai, scherzavo! Non si può più parlare, a questo mondo? Volevo solo sapere come te la passavi, visto che è un’eternità che non ti becco più in giro. Ho saputo quel che è successo a casa tua e, quando ti ho vista qui, volevo sapere come stavi, se te la passavi bene. Ho saputo che ti eri trasferita.”
Chiusi un momento gli occhi, come per concentrarmi – in effetti, stavo cercando di dominare la bestia che voleva dargli una lezione coi fiocchi – e, con una calma che non provavo, dichiarai a denti stretti: “Primo, non sono affari tuoi. Secondo, non offendere i miei amici. Terzo, non provare neanche a dire una parola sul mio uomo, o giuro che ti stacco la testa a morsi. Quarto, grazie per l’interessamento. Io, Gordon e Mary B stiamo benissimo. C’è altro che posso fare per te?”
“Sei diventata parecchio nervosetta, eh?” borbottò lui, infilandosi le mani in tasca con aria vagamente accigliata.
“Vuoi che lo allontani, principessa?” mi propose Jerome, con un sogghigno.
“No, grazie. Ora Leon se ne andrà e ci lascerà in pace” replicai, scrollando le spalle.
Davvero.
Non mi sarei mai aspettata che Leon fosse così intraprendente.
O così stupido.
Chinandosi verso di me con un lampo malizioso negli occhi, sussurrò sulle mie labbra: “Vedremo se vorrai ancora che me ne vada, dopo questo. Non mentivo; mi sei mancata.”
Detto ciò, fece per baciarmi.
Dico ‘fece’, perché non riuscì a raggiungere la mia bocca, sebbene mancassero pochi millimetri alla sua sensibile superficie morbida e calda.
Lo fermai immediatamente.
Spingendolo via grazie alla mia superiore forza di mannara, assottigliai le palpebre perché non si rendesse conto del mutamento dell’iride – che sentivo sfrigolare come se volesse esplodere.
Con una voce resa metallica dall’ira a stento trattenuta che stava montando in me, dissi roca: “Ora basta, Leon. Non sono più il tuo giocattolo, non sono più la tua piccola, non sono più il tuo bel fiorellino. Sono la donna di un altro, ficcatelo in testa!”
Lui mi fissò confuso, la mia mano premuta sul suo stomaco per tenerlo a distanza di sicurezza e, con voce non più tanto sicura, esalò: “Brie, ma…”
Elspeth lo prese per un braccio con l’intento di allontanarlo e, bonariamente, gli consigliò: “Fidati, è meglio se raccogli i cocci del tuo cuore e te ne vai, prima che qualcuno decida di fartela pagare cara per la tua spacconeria.”
“E tu di che t’impicci, Ellie?” replicò Leon, torvo. “Sto parlando con la mia ex ragazza, permetti?”
Okay, quando è troppo, è troppo.
“Lance, Jerome, pensateci voi” sbottai, tornando a sedermi al computer.
“Subito” dissero in coro, voltandosi all’unisono verso Leon.
Leon fu lesto a sollevare le mani per calmarli e, nel contempo, mettersi dietro Elspeth per proteggersi.
Volgendomi a fissandolo ironica, chiosai: “Che fai? Usi Ellie come scudo, ora?”
Ma lui non mi stava neppure ascoltando.
I suoi occhi si sgranarono colpiti e, improvvisamente, impallidì.
Chiedendomene il motivo, seguii la direzione del suo sguardo e mi volsi verso lo schermo del computer per capire cosa stesse osservando con tanto orrore.
Fu lì che capii.
Impallidendo a mia volta, vidi me stessa crollare a terra in mezzo alla gente, il fianco squarciato dalla pugnalata che mi avevano inferto, e la paura dipinta sul mio volto esangue.
Bloccai immediatamente l’immagine, mandando indietro di alcuni fotogrammi mentre i miei amici, del tutto dimentichi di Leon, ora, mi attorniarono e osservarono la scena con occhi tra lo spaventato e il furibondo.
“Ma che diavolo è successo, lì?” esalò Leon, confuso.
Ellie gli diede una gomitata nello sterno, sibilando: “Stai zitto, se non vuoi prendere un sacco di botte.”
Miracolosamente, tenne chiusa la bocca.
Io, nel frattempo, bloccai l’immagine alcuni secondi dopo l’uscita dall’inquadratura di Duncan.
In pochi attimi, la figura di un vampiro ammantato di nero si avvicinò a me, sussurrandomi qualcosa all’orecchio prima di piegare all’indietro il braccio e far scattare la lama del coltello d’argento.
Provai un brivido istintivo – i punti si stavano rimarginando più lentamente del normale, a causa del nitrato d’argento con cui era stata intrisa la lama – e poggiai una mano sul fianco ferito mentre Leon, dietro di noi, esclamava stizzito: “Ma che razza di stronzo!”
Non potei che essere d’accordo con lui, per una volta.
Rimandai indietro il filmato, feci un fermo immagine e salvai il file in formato bmp, per avere il maggior numero di pixel disponibili per un eventuale ingrandimento.
A quel punto, salvai tutto su chiavetta e, nel contempo, inviai una e-mail a Bright.
Infilata la mano in tasca, estrassi il cellulare e, digitato il numero di Kate, attesi ansiosa che mi rispondesse.
“Ciao, Kate. Ho un pacchetto regalo per Bright. Digli di aprire subito la sua e-mail e di scaricare il file che gli ho mandato, dopodiché digli di darlo in mano ai suoi per un raffronto. Sarà difficile, visto che il tipo era travestito da Conte Dracula, ma dobbiamo fare un tentativo.”
“Il tuo aggressore si è rimesso in pista?” mi chiese, intuendo quale fosse il problema.
“Mi ha pugnalata durante una festa” le spiegai, senza tanti giri di parole.
Sospirò indignata, prima di riferirmi: “Lo chiamo subito poi ti faccio sapere. A dopo, piccola, e riguardati.”
“Grazie, sorella” mormorai, chiudendo la comunicazione e voltandomi verso i miei compagni.
Leon era ancora lì.
Sbuffando, poggiai le mani sui fianchi e borbottai: “Ma sei ancora qui? Non hai capito che devi sloggiare?”
Ma lui non mi ascoltò affatto, concentrato sull’immagine del computer, lo sguardo percorso da una scintilla di intuizione che non gli avevo mai visto prima.
Che fosse maturato? Difficile dirlo.
Tutti noi lo guardammo in attesa che lui se ne andasse, o che ci desse spiegazioni circa il suo strano comportamento.
All’improvviso, sogghignò per poi esclamare: “Ecco dove avevo visto quel tizio!”
Sobbalzammo quasi contemporaneamente, preda di un’ansia improvvisa quanto carica di aspettativa.
Mostrandosi serio forse per la prima volta in vita sua – almeno a quanto ne potessi sapere io – si spiegò meglio.
 “E’ successo subito dopo il black-out. Stavo portando fuori dal locale la ragazza con cui mi stavo intrattenendo e…”
Io sollevai un sopracciglio con ironia e celiai: “Intrattenendo? Hai fatto un corso di lessico, ultimamente?”
Lui scrollò le spalle, degnandomi del suo solito sguardo malizioso, e replicò: “Ho imparato qualcosina, sai? Non sei solo tu a essere la specialista dei paroloni.”
Scrollai una mano come per liquidare il suo commento, facendogli poi segno di continuare e lui, annuendo, proseguì.
“Beh, fatto sta che questo tizio ci è arrivato alle spalle come se volesse aprire le acque del Mar Rosso a gomitate e, nel farlo, io e un paio di altri ragazzi siamo caduti a terra… assieme al suo coltello.”
La nostra attenzione si fece altissima, a quel commento.
“Sentii distintamente un tintinnio metallico, quando caddi sul marciapiede e, spaventato, allontanai con un calcio il coltello per evitare che qualcuno si facesse male. Ero anche pronto a dargli dell’idiota, per via di quell’affare, ma era già sparito tra la folla, quando mi volsi per cercarlo” spiegò Leon, irritandosi leggermente a quel ricordo.
“E sai dov’è finito, quel coltello?” chiesi ansiosa, sperando di trovarlo.
“Se non hanno ancora pulito le strade, dovrebbe essere a ridosso del marciapiede, nei pressi dell’uscita di sicurezza del pub, in mezzo a un altro bel po’ di sporcizia varia” scrollò le spalle lui.
“E chi se lo ricorda quando passano a pulirle?” si lagnò Ellie, infilandosi le mani tra i capelli con aria affranta.
“Non importa. Dobbiamo andare a controllare. Si sarà sicuramente accorto di aver perso il coltello, e potrebbe decidere di tornare a cercarlo, se già non l’ha fatto, visto che è al corrente della mia presenza qui a Glasgow. Noi, però, dobbiamo precederlo, se possiamo” dichiarai lesta, estraendo il cd-rom prima di alzarmi in piedi.
Senza perdere altro tempo, tirai fuori il mio portafogli per pagare l’uso del computer e, allungata una banconota da dieci sterline a Leon, asserii: “Tieni il resto, ora dobbiamo andare.”
Lui rifiutò i soldi e, sorridendomi, mi strizzò l’occhio con fare cameratesco. “Offro io.”
Lo guardai a occhi sgranati mentre Ellie ci fissava basita, e Jerome e Lance ci scrutavano senza capire bene cosa stesse succedendo.
Leon si limitò a scrollare le spalle e, dopo avermi dato un bacetto amichevole su una guancia, ironizzò nel dire: “In fondo, ti devo più di questo, se ci pensi bene.”
Ripensai alla nostra relazione, alle volte in cui avevo dovuto respingerlo per aver cercato di forzare i tempi, ma anche alle volte in cui mi aveva portato al parco perché aveva compreso quanto mi piacesse stare in mezzo alla natura.
Sorrisi. Non eravamo fatti per stare assieme ma, dopotutto, non era stato un cattivo ragazzo.
Mi allungai per afferrargli il collo con una mano e, dopo averlo abbassato alla mia altezza, gli restituii il bacio sulla guancia pungente di barba e mormorai: “Grazie, Leon. E, una cosa…”
“Sì?” ammiccò, scrutandomi con i suoi limpidi occhi scuri.
Un ricordo di lui che mi spingeva sulle altalene del parco mi fece sorridere spontaneamente e, scrollando le spalle, chiosai: “Ti stanno bene i capelli, tagliati così.”
Lui rise, attirando su di sé le occhiate desiderose di parecchie ragazze e, con aria solo in parte divertita, si raccomandò: “Vedi di non cacciarti in guai più grossi di quanto tu non sia già.”  
Poi, dandomi un pizzicotto affettuoso sulla guancia, mi sospinse verso la porta e aggiunse: “E di’ al tuo uomo che non è il caso ti lasci da sola, visto cosa riesci a combinare senza le spalle coperte.”
Risi sommessamente, annuendo e, di fretta, uscimmo dal locale per riprendere la Mercedes e dirigerci in tutta fretta verso il Frankenstein Pub.
Sperai con tutto il cuore che le strade non fossero ancora state pulite.
Nel montare sul sedile posteriore assieme a me, Ellie rise e dichiarò scioccata: “E chi lo immaginava che Leon fosse maturato?”
“Ha sconvolto pure me, credimi” ridacchiai a mia volta.
“Continuo a chiedermi cosa ci trovassi, in quello sbruffone” brontolò Jerome, mentre Lance metteva in moto l’auto.
“Sei solo geloso perché lui ha messo le mani dove tu non potrai mai metterle” ghignai per diretta conseguenza, prima di arruffargli i corti riccioli corvini.
“Sei cattiva, e sai di esserlo” replicò con un sogghigno, lasciandomi fare per alcuni attimi prima di scostarsi.
Di sicuro, non mi ero aspettata di rivederlo, ma ero contenta di aver chiarito con lui.
Almeno, quel pezzo del mio passato era in ordine, ben catalogato e, se vogliamo, riabilitato in parte.
Non mi era mai piaciuto pensare di essermi messa con Leon solo per la sua bella faccia. Sapere che fosse maturato un poco mi fece capire che, in fondo, avevo visto qualcos’altro, oltre alla confezione regalo, per prendere una sbandata per lui.

***

Le strade di fronte, e sul retro, del pub erano ancora completamente, e fortunatamente, ricca di tutto ciò che, in condizioni normali, mi avrebbe fatto rivoltare lo stomaco.
In quel momento, invece, mi ritrovai a sorridere quasi stupidamente.
Cartine, pezzi di plastica, polvere, mucchietti di ogni ben di Dio erano sparsi ogni dove e io, ghignando soddisfatta come da tempo non ero, dichiarai: “Il mio sangue è ormai secco, ma si dovrebbe sentire ancora la traccia del suo odore.”
Elly mi fissò un momento con aria smarrita, limitandosi a chiosare con una flemma del tutto fasulla: “Io cercherò con la vista. Il mio naso non è così sopraffino.”
Annuii, ridacchiando con lei, dopodiché mi misi a cercare, annusando attentamente tra le auto, vicino ai cassonetti, nei pressi dei tombini.
Jerome e Lance mi imitarono, mentre Ellie si dedicò alla ricerca aguzzando la vista, scrutando ogni dove come se stesse cercando il diamante Koh-i-noor, e non un coltello.
Era difficile percepire un aroma specifico, in mezzo a quel caos di odori provenienti da ogni meandro della città.
La puzza dei combustibili bruciati si confondeva con quella dei fumi delle cucine, oltre al sentore sottile e freddo degli eco-gas dei congelatori e dei condizionatori d’aria.
Il tutto, poi, era miscelato dal non ben identificato puzzo di smog che permeava ogni singola particella dell’intera Glasgow, e che mandava in totale confusione il mio apparato olfattivo.
Lance e Jerome non mi parvero meno in difficoltà di me, e neppure Ellie sembrò avere molto successo.
La frustrazione prese il posto della gioia provata fino ad alcuni minuti prima.
Non avevo notato se il mio aggressore avesse portato i guanti o meno ma, se li avesse indossati, tutta quella ricerca sarebbe stata infruttuosa.
Ci saremmo messi allo scoperto per nulla, rischiando che quel tizio uscisse dal primo tombino utile per uccidermi.
E se anche avessimo trovato le sue impronte, e lui non fosse risultato schedato? Stesso problema.  
Certo, potevamo provare con l’odore, ma se nessuno di noi lo conosceva, saremmo stati comunque a un punto morto.
In sostanza, trovare il coltello poteva risultare solo un’inutile perdita di tempo, e un rischio per tutti noi.
Ma dovevamo pur tentare.
Quando Elspeth urlò allegramente di averlo trovato, riuscii comunque a esprimere la mia gioia con un sorriso, per quanto fievoli fossero le speranze di ricavare qualcosa da quell’arma.
Le corsi incontro per vedere il coltello che mi aveva ferita quando un sibilo sinistro, e uno spostamento d’aria improvviso, attirarono la mia attenzione.
Anche Jerome e Lance udirono quel suono del tutto fuori luogo, per una città, e si lanciarono su di me per coprirmi con il loro corpo, mentre io proteggevo Ellie con il mio.
Tutto avvenne in pochi attimi, pochi attimi in cui tutto parve scorrere come al rallentatore.
Sentii, come se l’avessi ricevuto io, il proiettile perforare la carne della spalla di Lance, mentre Jerome ci spingeva dietro un’auto per permetterci di ripararci più agevolmente.
Gridai spaventata, allungando una  mano verso Lance che, a fatica, riuscì a raggiungerci dietro quel riparo improvvisato.
Tutt’intorno, le auto continuarono a percorrere rade la via, come se nulla fosse successo.
Come stupirsene! Nessuno aveva udito alcunché, visto che il colpo era stato esploso da un’arma dotata di silenziatore.
Inoltre, a nessuno sarebbe importato di quattro giovani su un marciapiede, magari già preda dell’alcool e incerti nel camminare.
Perché potevamo davvero essere apparsi così, agli autisti distratti.
Ellie, spaventata a morte, tremava come una foglia tra le mie braccia mentre Jerome, tenendo tra le sue Lance, ringhiava nervosamente, forse tentato di trasformarsi e dare la caccia al cecchino.
Ero furibonda con me stessa per non aver prestato maggiore attenzione e, carezzando distrattamente i capelli di Elspeth, mormorai tranquillizzante: “Qualsiasi cosa succeda, tu rimani al riparo.”
“E tu? Tu che vuoi fare?” esalò, aggrappandosi convulsamente alla mia camicetta.
“Mi libererò di lui una volta per tutte” dichiarai furibonda, digrignando i denti.
Al diavolo la segretezza, al diavolo tutto. Avrebbe assaggiato i miei poteri di wicca, così l’avrebbe pagata per tutte queste settimane di terrore assurdo!
Già pronta a convogliare dentro di me quel po’ di potere che avevo, sobbalzai spaventata quando vidi giungere – nel peggior momento possibile – una Ford Fiesta blu elettrico.
Incurante del pericolo potenziale che gravitava intorno a noi, parcheggiò a poca distanza dall’auto che ci proteggeva dai colpi del cecchino.
Fissai intensamente l’auto, già decisa a ingiuriare a male parole chiunque fosse sceso, con l’intento di allontanare il malcapitato dal pericolo.
Non riuscii mai a parlare.
Con gli occhi sgranati dallo stupore, scoprii attonita chi fosse il proprietario del veicolo.
Sentendomi morire dentro per la paura, osservai Leon scendere dalla Ford con un sorriso in faccia e l’aria di chi è tranquillo e in pace col mondo.
Vedendoci accucciati dietro l’auto che avevamo scelto come nostro rifugio improvvisato, si incamminò verso di noi ed esclamò: “Ehi, giocate a guardie e ladri? Pensavo doveste cercare…”
Si interruppe non appena vide Lance, ferito e sanguinante, tra le braccia di Jerome.
Lesto, si volse a mezzo per guardarsi intorno e io, temendo per la sua vita, mi alzai scioccamente in piedi per raggiungerlo e trascinarlo a terra assieme a noi.
Ben più che spaventata, gli urlai: “Abbassati, presto!”
Il sibilo di un secondo colpo infranse l’aria immota e, sotto i miei occhi sconvolti, venni investita da un’ondata di rosso sangue caldo.
Gli occhi sgranati di Leon mi fissarono basiti e confusi, bloccati nell’istante eterno della morte che, non invitata, lo strappò dal quel corpo mortale per farlo suo.
Un attimo dopo, lo vidi crollare addosso a me, il cranio fratturato in più punti e la carne squarciata dalla pallottola che ne aveva segnato il destino, mentre sangue e materia celebrale ne tingevano il viso e il corpo come una maschera grottesca.
Il grido di una donna, sull’altro lato del marciapiede, impedì altri colpi al nostro indirizzo.
Con quell’urlo straziante, automobilisti, impiegati negli uffici o semplici abitanti dei condomini vicini si accorsero di ciò che era successo e, come una fiumana impazzita quanto provvidenziale, si avvicinarono a noi, sporcando così la traiettoria di tiro.
Incurante di quel fortuito quanto imprevisto scudo umano, non guardai nessuno di coloro che stava osservando turbato e incuriosito la scena.
Non volsi lo sguardo per scrutare intorno a me, per comprendere se il nostro aggressore stesse scappando tra la folla.
Il mio sguardo era tutto per Leon che, morto, giaceva tra le mie braccia ancora caldo, con un’espressione sul volto che parlava solo di speranza e confusione.
Forse era venuto a darci una mano, forse aveva solo voluto stuzzicarmi un po’.
Non lo avrei mai scoperto ma, per colpa mia, un innocente era morto in una lotta a cui ancora non potevo dare né un nome, né uno scopo.
Piansi, cullandolo contro di me, mentre le sirene delle ambulanze si avvicinavano a noi, assieme a quelle della polizia.
Piansi, desiderando con tutta me stessa che Leon non fosse morto, pur con l’evidenza dei fatti stampata a chiare lettere di fronte a me.
Piansi, urlando dentro di me tutta la rabbia e il risentimento che provavo per l’uomo che mi voleva morta e che, per i suoi comodi, aveva ucciso un innocente solo perché si era trovato sulla sua traiettoria di tiro.
Piansi e basta.
Mi accorsi solo vagamente della polizia e dei paramedici che, zigzagando in mezzo alla folla, stavano raggiungendoci in quel luogo di morte.
Senza opporre resistenza alcuna, venni scostata da Leon da un paramedico solerte mentre lui, come una bambola di pezza, venne fatto stendere su una lettiga e poi caricato sul retro di un’ambulanza.
Fissai la scena senza parlare, lo sguardo perso nel vuoto e la mia forza ridotta al lumicino.
Era. Morto.
Riuscivo a pensarlo, pur odiando quelle parole feroci, ma sarei mai riuscita a dirlo ad alta voce?
Un bruciore improvviso quanto insistente mi strappò a quel macabro pensiero e, solo in quel momento, mi resi conto che un dottore si stava occupando di me e di un taglio che, apparentemente, avevo al collo.
Stringendo le mani a pugno, mi resi conto che quella ferita non poteva che averla procurata il proiettile che aveva strappato la vita a Leon.
Il fatto stesso che stesse ancora sanguinando provava che l’ogiva era in argento.
Volsi leggermente lo sguardo, cercando la figura di Lance che, seduto a terra, stava pazientemente subendo le cure di un’infermiera.
Trattandosi di ferite causate dal nostro più mortale nemico, sia io che Lance sanguinavamo abbastanza da non destare sospetto alcuno, ma vi badai fino a un certo punto.
Anche il sangue, di fronte a un eventuale controllo, sarebbe apparso del tutto normale.
Non correvamo rischi, da quel punto di vista ma, in tutta onestà, in quel momento non me ne importò nulla. L’unica cosa a cui potevo pensare era alla vita infranta di Leon. E alla mia piena colpevolezza.
Io l’avevo fatto uccidere. Io ero la causa della sua misera fine.
Solo io.





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Capitolo 14
*** Cap. 14 ***


N.d.A.: Capitolo breve ma davvero intenso. Attenzione, perchè c'è parecchio sangue.


14.

 
 
 
 


 

Ero seduta su un lettino del pronto soccorso del Queen Mother’s Hospital, in attesa di essere dimessa assieme a Lance.
Da quel che sapevo, gli stavano estraendo il proiettile dalla spalla nella saletta accanto all’astanteria.
I poliziotti avevano già preso nota di tutte le informazioni che avevamo potuto dare loro, e cioè molto poco.
Nel frattempo, i genitori di Leon erano giunti in ospedale per il riconoscimento del  figlio.
Non mi ero voluta far vedere da loro, ancora troppo turbata da ciò che era successo.
Mi sentivo  tremendamente in colpa, per la fine che aveva dovuto subire Leon a causa dell’uomo che mi dava la caccia senza alcuna pietà.
Ellie, accanto a me, mi teneva per mano pur senza realmente essere lì con la mente, persa a sua volta in mille pensieri, forse non dissimili dai miei.
Jerome, l’unico di noi a essere vigile e presente di spirito, controllava ogni minimo movimento del pronto soccorso, ben deciso a evitare che mi succedesse qualcos’altro, in quella convulsa giornata senza senso.
Kate non mi aveva ancora chiamata, segno che le indagini erano ancora in corso. Non che vi contassi molto, del resto.
Jerome, nel frattempo, aveva avvertito Duncan dell’accaduto, assicurandogli che nessuno di noi era in pericolo di vita.
Ero stata al telefono con lui un paio di minuti, prima di scusarmi e chiudere la comunicazione.
Non sarei stata in grado di sostenere altro, in quel momento.
Neppure gli odori intensi e aspri dei medicinali e dell’ammoniaca, usati nel pronto soccorso, mi diedero fastidio, per una volta.
Il mio cervello era come avvolto dall’ovatta, come se nessuno stimolo sensoriale esterno potesse toccarmi.
Ero come in coma. Ero sveglia, ma non del tutto.
Continuavo a rivivere, fotogramma dopo fotogramma, gli ultimi attimi di vita di Leon, in cui lui si avvicinava a me con un sorriso in viso e l’aria spavalda di sempre.
Poi quel sangue, quel mare di liquido denso e dal sapore metallico che mi aveva riempito il viso e il torace, dilagando su di me come una piena di fiume.
Quel sangue aveva portato via con sé una vita, e in modo così brutale che, a stento, riuscivo ad accettare come la realtà nuda e cruda.
Mi avevano ripulita in fretta dal sangue, imbottendomi di calmanti – che ovviamente non avevano funzionato – e infilandomi in una di quelle orrende camiciole di carta che usano negli ospedali.
Era di quel viscido color verde, che tanto fa pensare a cose rancide e andate a male.
Ero rimasta in stato catatonico per un’ora buona – facendo credere a tutti che i calmanti stessero funzionando, quando era stata la mia totale inedia a rendermi simile a un broccolo – mentre, dottori e poliziotti, raccoglievano le prove di ciò che rimaneva di Leon sui miei abiti e addosso a me.
Quando ebbero finito, mi ero concessa il lusso di piangere in silenzio, lasciata misericordiosamente sola assieme a Ellie, che mi aveva stretta a sé piangendo a sua volta.
Solo, fermo nel corridoio e con il cellulare sempre in mano, lo sguardo degno di un assassino professionista, Jerome era rimasto a vigilare su di me. Nel contempo, aveva avvisato di volta in volta i vari Fenrir britannici, coinvolti nelle ricerche del mio misterioso nemico.
Non avevo ancora idea di come avrei potuto ringraziarlo per quella presenza di spirito, per quella lucidità ma, in qualche modo, avrei fatto.
Ero lieta di aver portato con me Lance e Jerome. Ma… Dio, perché far morire proprio Leon? Perché?!
Lui, che del mio mondo non faceva, e non avrebbe mai fatto parte, era rimasto schiacciato nel bel mezzo di una guerra senza nome.
Rabbrividii, immaginando il dolore dei genitori, e mi chiesi come avrebbero fatto a spiegarsi quella morte così assurda.
Nessuno avrebbe detto loro la verità, e il caso si sarebbe chiuso come un episodio di violenza di un folle sanguinario.
Non avevo dubbi in merito.
“Brie… Lance è libero” sussurrò Elspeth, riscuotendomi in parte dal torpore.
Mi volsi appena in direzione della porta aperta e, quando vidi giungere Lance – con una vistosa fasciatura alla spalla e la maglia ancora sporca di sangue – riuscii in qualche modo ad abbozzare  un sorriso che, però, non raggiunse i miei occhi lucidi.
Lui si avvicinò in silenzio, stringendomi a sé con il braccio sano e io, avvolgendogli la vita con le braccia, mi appoggiai al suo torace e sussurrai: “Stai bene, ora?”
“Sì, tutto a posto. L’ogiva non conteneva nitrato d’argento. Il proiettile, però, lo era interamente” mi sussurrò, continuando a tenermi stretta a sé.
“Cos’ha detto la polizia?” chiesi, vagamente turbata.
“C’erano gli uomini di Fred, perciò la faccenda sarà insabbiata con facilità. Speriamo soltanto che a qualche altro zelante poliziotto non venga in mente di collegare il tuo nome a ciò che è successo a Londra, o potrebbero far incuriosire le persone sbagliate” sussurrò Lance prima di aiutarmi a scendere dal lettino, dov’ero ancora seduta.
“Ci mancherebbe solo che i Cacciatori della città ci piombassero addosso” ringhiai furente. “Non ci bastano già i problemi che abbiamo?”
“Sentirò Fred perché insista sul mantenere anonimi i nomi delle vittime, per il diritto sulla privacy. Così facendo, dovremmo ridurre a zero i rischi” dichiarò Jerome, entrando nella stanza nervoso come non mai. “A ogni modo, non credo dovremmo partecipare al funerale di Leon. Non vorrei che qualcuno degli amici del tuo patrigno ti riconoscesse, e si chiedesse che diavolo ci fai qui visto che, in teoria, dovresti essere a Matlock.”
I suoi occhi guizzavano da un angolo all’altro dello stanzone come se fosse preda di potenti scosse elettriche, quando invece era solo l’ansia a muoverlo.
Annuii mestamente, pur volendo gridare a tutti di andare al diavolo. Ma sapevo qual era il mio dovere.
Prima ancora che a Leon, io dovevo pensare al mio branco.
Essere Prima Lupa voleva dire anche passare sopra agli interessi personali, pur di difendere il clan.
Mai come in quel momento, però, odiai quelle leggi, come odiai i miei nemici, conosciuti o sconosciuti che fossero.
Non potei esimermi dal provare tali deprecabili sentimenti, nonostante sapessi a quanto poco servisse sentire dentro di me quel fuoco divorante e senza scampo.
Cosa avrei risolto, distruggendo ogni centimetro di Glasgow? O uccidendo tutti coloro che mi stavano intorno?
Nulla. Un accidente di nulla.
Avrei solo dato un motivo di più ai Cacciatori per stanarci e debellarci come se fossimo una pestilenza e, in ogni caso, Leon non sarebbe tornato in vita, né il suo assassino assicurato alla giustizia.
Lasciare libera la mia bestia era inutile quanto controproducente, ma era tremendamente complicato tenere a freno gli artigli che mi stavano squarciando il petto, desiderosi di uscire per distruggere ogni cosa si muovesse.
Volevo sangue e dolore, come sangue e dolore erano stati imposti a me.
Aiutami, Madre, ti prego! Non resisterò ancora a lungo!, gridai dentro di me, desiderando per una volta udire le sue parole, la sua presenza.
Lei, però, non venne. Non faceva parte dell’accordo, dopotutto.
Dove stava, il libero arbitrio, se la Madre interveniva?
Lance mi guardò comprensivo – doveva aver sentito, al pari di Jerome, il mio accorato richiamo – e, tenendomi per mano, sussurrò: “La Dolce Madre non può fare preferenze, lo sai.”
“Come dimenticarlo?” sussurrai a mia volta, prima di veder comparire nella stanza un paio di medici.
Mi controllarono con attenzione la medicazione e, dopo aver visionato la mia cartella clinica, mi permisero di uscire assieme ai miei amici.
In silenzio e in mesta processione, oltrepassammo le porte a vetri dell’astanteria.
Dopo essere usciti nel piazzale adiacente l’entrata, ci dirigemmo con passo strascicato verso la Mercedes, il coltello per cui Leon aveva perso la vita ben sigillato nella borsetta di Ellie.
Tenendoci per mano per tutto il tragitto lungo il parcheggio dell’ospedale, mormorò come ripetendo un mantra: “Non è colpa tua, Brie. Non avrebbe dovuto seguirci, tutto qui.”
“Stupido, stupido, stupido galletto” singhiozzai, cercando di non piangere.
Lance e Jerome non aprirono bocca, limitandosi a camminare al nostro fianco.
Sapevano benissimo che, qualsiasi cosa avessero detto in quel momento, non avrebbero migliorato il mio stato d’animo.
Ero troppo affranta per ascoltare alcunché.
Salii in auto, continuando a ripetere quell’assurda nenia e scivolai sul sedile, poggiando il capo sulle gambe di Elspeth.
Lei mi carezzò i lunghi capelli macchiati di sangue rappreso, sussurrando parole confortanti per tutta la durata del viaggio verso la casa di Fred.
Chiusi gli occhi, cercando di non pensare al sapore metallico e dolciastro del sangue di Leon, tentando in ogni modo di cancellare quegli attimi terribili, in cui tutto era diventato un incubo a occhi aperti.
Nulla, però, mi salvò da quell’aggressione mentale di immagini strazianti.
La mia mente fin troppo vigile rammentava benissimo ciò che era avvenuto in quella strada, e l’avrebbe ricordato per molto tempo a venire.
Speravo solo di prendere quanto prima il suo assassino, così da vendicarne almeno la memoria.
Non stavamo più insieme e, per certi versi, si era comportato solo da idiota, con me.
Ma era stato il mio primo ragazzo, a lui avevo dato il primo bacio, lui era stato il primo ad avermi regalato una rosa.
Meritava qualcosa di più di un semplice ricordo di sangue, nella mia mente.

***

Ero ancora nella vasca da bagno della casa di Fred, quando il cellulare squillò.
Lo fissai vacua mentre vibrava sul lavandino, indecisa se rispondere o meno o se, addirittura, distruggerlo a suon di pugni. Non ero certa di cosa volessi, in quel momento.
Ma poteva essere Kate, o Duncan, e loro meritavano che io li ascoltassi.
Con quel residuo di forze che mi restavano, usai il mio potere per accendere il vivavoce del cellulare e, con tono vacuo, mormorai: “Sì, chi è?”
“Brie, dove sei? Ti sento lontana” disse la voce di Duncan, proveniente dal telefono.
“Sto rilassandomi – o almeno ci provo – nella vasca superba di Fred” gli spiegai, cercando di apparire ironica.
“Mi spiace, Brie, davvero. Non sarebbe dovuta andare così” mormorò spiacente, con voce sinceramente distrutta dal dolore.
Sorrisi appena.
Duncan poteva anche essere stato geloso di Leon, ma di certo non avrebbe mai voluto questo, per lui.
Duncan era tante cose, ma non certo vendicativo, o crudele.
“Grazie.”
Scivolai un poco nell’acqua calda per immergermi ancora di più.
Mi sembrava di essere un ghiacciolo e, pur se l’acqua era bollente, niente sembrava togliermi questa sensazione di dosso.
“Mi sembra tutto così irreale, eppure so che è successo davvero.”
“Elspeth come si sente?”
“Oh, sta abbastanza bene. E’ forte, e si riprenderà. Ora è con Becca e Matt. Sembra che stare con il piccolino la rilassi un poco” gorgogliai roca, volgendo il capo verso il cellulare, come se potessi vedere in carne ed ossa Duncan.
Lo avrei voluto tanto lì.
“Mi manchi da impazzire.”
“Se potessi, correrei lì da te anche adesso” asserì Duncan, con voce spezzata dal dolore.
“Verrò io da te, tranquillo. Non appena avremo consegnato il coltello alla scientifica di Aberdeen. O meglio, agli scagnozzi di Bright” gli spiegai, chiudendo gli occhi.
Ancora flash del sangue di Leon, sparso come una nuvola scarlatta attorno al mio viso.
Quell’immagine avrebbe smesso di comparire, o mi avrebbe ossessionata per tutta la vita?
“L’avete trovato?” chiese curioso Duncan.
“Mentre eravamo all’internet-point, Leon ha visto l’immagine dell’accoltellamento, e ci ha detto che quel tizio ha lasciato cadere l’arma a terra, durante la fuga dal locale. Così siamo andati là per cercarla e lui, lui…” mi bloccai, singhiozzando irrefrenabilmente.
“E’ sicuramente passato per darvi una mano” intervenne Duncan, con una sicurezza nella voce che avrei voluto provare io.
“Quello sciocco, maledetto presuntuoso” riuscii a dire in un rantolo, affondando un attimo in acqua per poi riemergere, completamente grondante in viso.
Duncan non disse niente, lasciando che mi sfogassi in silenzio ma, prima di chiudere la comunicazione, sussurrò malinconico: “Ti aspetto, principessa.”
“Lo so” sussurrai, e la linea si interruppe.
Sbattendo la testa contro la superficie liscia e di porcellana della vasca, strinsi i denti fino a farmi male, fino a sentire il sangue scorrere sulle gengive.
Non potendo più resistere, lanciai un urlo roco e spezzato dai singhiozzi.
Continuai a picchiare il capo contro la vasca, urlai, urlai ancora e schiacciai i pugni contro la superficie schiumosa dell’acqua, inondando le mattonelle e il morbido tappeto di cotone del bagno.
Le lacrime si unirono all’acqua che scivolava via bollente sul mio viso e, mentre urlavo il nome di Leon più e più volte, la porta del bagno si aprì di botto.
Sgomento e pallido in viso, Fred mi guardò ammutolito, non sapendo bene cosa fare.
Lo fissai ai limiti della sopportazione fisica, conscia di stare perdendo la testa, ma impossibilitata a fermare quel flusso di dolore che mi stava sgretolando il cervello.
“Brianna…” sussurrò, prima di venire affiancato da Lance e Jerome.
Senza dire nulla, Lance non perse tempo.
Raccolto un asciugamano dall’appendiabiti, mi avvicinò e, con la diligenza degna di un medico quale era, mi estrasse dall’acqua e mi avvolse nella morbida spugna, io inerme e flaccida nel suo abbraccio.
Jerome, serio al pari di Lance, mi prese in braccio a un cenno dell’amico e Fred, lasciandolo passare, ci seguì lungo il corridoio mentre mi conducevano alla mia camera da letto.
Come un disco rotto, continuai a sussurrare il nome di Leon, la gola riarsa e la forza ormai nulla.
Jerome, facendomi stendere dolcemente sul letto, sussurrò preoccupato: “Becca e Matt?”
“In giardino, assieme a Elspeth. La ragazza non dovrebbe aver sentito nulla, visto che le pareti sono insonorizzate” spiegò turbato Fred, senza mai lasciarmi con lo sguardo.
“Bene. Ho la forza per affrontare solo una crisi isterica, stasera” commentò aspro Jerome, prima di carezzarmi il viso e sentenziare: “Principessa, ora ascoltami bene.”
Annuii, pur senza smettere di sussurrare tra le labbra quel nome, mille e mille volte.
Jerome imprecò e ringhiò roco: “Ti devi riprendere, o crollerai del tutto, principessa. Non serve a nulla ripetere all’infinito il suo nome. Non tornerà. E’ con la Madre, ora. E’ sereno.”
“E’ morto” precisai, digrignando i denti prima di fare l’atto di alzarmi da letto.
“Ah, no!” mi bloccò sul nascere, stando ben attento a non sfiorarmi al di sotto delle spalle. “Se hai deciso di fare la dura, allora mi costringi a fare altrettanto. Non ti permetterò di dare di matto. Non te lo puoi permettere!”
“Maledizione, Jerome, è morto per causa mia!” esplosi, sollevando le mani per allontanarlo da me.
Lance e Fred intervennero all’improvviso, bloccando le mie braccia contro il materasso e guardandomi spiacenti per ciò che stavano facendo.
Li ignorai, soffiando tra i denti come una gatta furiosa e Jerome, con un sospiro, reclinò il capo e dichiarò impotente: “Mi spiace, Brie. Tu non sai quanto.”
“Che intendi dire?” ringhiai, tesa come una corda di violino.
“Non posso permetterti di perdere la testa. Tu sei wicca ma, soprattutto, sei Prima Lupa e io sono il tuo Sköll. Poiché Fenrir non è con noi, adesso io ho potere decisionale su di te” mi disse, mesto in viso ma lapidario quanto la morte stessa.
Aggrottando la fronte, replicai sospettosa: “Cosa vuoi fare, Jerome?”
“Non mi lasci altra scelta, Brie. Il tuo potere è troppo grande, perché io possa permetterti di lasciarlo fuoriuscire a briglia sciolta come stai facendo ora” sussurrò, salendo sul letto e portandosi a cavalcioni sopra di me.
Mi divincolai, la bestia che graffiava dentro di me, presagendo qualcosa che io non comprendevo neppure.
Jerome, con occhi lucidi di lacrime che non avrebbe versato, si chinò su di me e ringhiò: “Assoggettati, Brianna. Devi calmarti, o noi tutti saremo perduti!”
“Non posso, Jerome, non riesco!” singhiozzai, prima di ansimare per la sorpresa e il dolore.
All’improvviso, con un movimento rapido quanto inaspettato, Jerome calò sul mio collo, mordendolo fino a farmi male, fino a che il mio sangue non sgorgò dalla carne.
A quel punto, risollevandosi per guardarmi negli occhi, sibilò ancora: “Assoggettati, Brianna!”
La bocca, sporca di sangue, era piegata in una smorfia addolorata e, quando tornò a calare su di me per un nuovo morso, gridai.
Gridai e piansi, perché finalmente avevo compreso quello a cui avevo costretto Jerome.
La sottomissione col sangue.
Era il modo più estremo, e violento, per chetare l’aura di un lupo inferocito.
E io, in quel momento, lo ero.
Ma, pur sapendolo, non riuscii a rimettere in gabbia la bestia, costringendo Jerome a mordermi per ben sei volte.
A quel punto, cedette alla rabbia e gridò: “Cedi, maledizione! Cedi!”
Continuando a piangere, piegai di lato il viso e, in un sussurro disperato, ansai: “La giugulare, ti prego.”
“Brianna…” ansò, impallidendo, divenendo una maschera grottesca color sangue e latte.
“La metterai a tacere, davvero” sussurrai ancora, chiudendo gli occhi senza smettere di piangere. Per me, per Leon, per Jerome. Per tutti noi.
Jerome scosse il capo, guardandomi affranto nei punti in cui mi aveva già morso invano ma io, senza alcuna pietà, sibilai: “Sei Sköll. Termina ciò che hai cominciato!”
Maledicendo se stesso, Jerome si avventò su di me con una rabbia e una frustrazione possenti e, affondando nella mia carne morbida, squarciò la giugulare, liberando un grido e un ululato di sconfitta dal mio petto.
Il sangue scarlatto fuoriuscì dalla ferita, inondandogli il viso prima di colare sul letto e i miei seni.
Subito, Jerome si scostò, inorridito dal danno procuratomi.
Rimase imbambolato di fronte a ciò che aveva compiuto fino a quel momento, tanto che Fred, per permettere a Lance di curarmi, dovette tirarlo via di peso dal mio corpo immoto.
Lo sentii piangere contro il torace di Fred, mentre le mani tremanti di Lance mi bendavano la ferita al collo e, in un sussurro pieno di disprezzo per me stessa, gracchiai: “Perdonatemi… tutti quanti.”
 
 

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Capitolo 15
*** Cap. 15 ***


N.d.A.: La verità viene a galla, e il nemico comincia a prendere forma. Tante domande, finalmente, avranno risposta. Buona lettura! :)


15.

 
 
 


 

Sedevo scompostamente sul sedile posteriore della Mercedes di Lance, lo sguardo vacuo puntato fuori dal finestrino e le mani rilasciate in mezzo alle gambe.
Non un fiato proveniva dai miei due compagni di viaggio mentre la radio, a basso volume, trasmetteva ininterrottamente vecchia musica anni ‘60.
Elspeth era quasi uscita di senno, quando aveva scorto la pesante fasciatura che Lance aveva dovuto applicarmi al collo.
Balbettando frasi incoerenti, si era rifugiata nell’abbraccio consolatorio di Becca.
La Prima Lupa di Glasgow le aveva spiegato, per sommi capi, ciò che era successo e perché apparissi pallida e sconvolta, al pari di Jerome.
Fred si era offerto di accompagnarla a casa verso sera, e solo dopo che Elspeth aveva ritenuto evitato un mio eventuale suicidio, causato dal dolore provato per la morte di Leon.
Salita in macchina con l’imponente licantropo, si era allontanata da me che, con il cuore a pezzi, l'avevo osservata finché l’auto non era scomparsa, nascosta dai profili seghettati delle case all’orizzonte.
Più ancora delle ferite che, pulsando e bruciando, mi rammentavano ciò a cui avevo costretto Jerome a causa del mio cedimento, era statoo affranto di Elspeth alla nostra separazione, a rendere tragici quei momenti.
Elspeth non meritava di affogare in quel caos primordiale, non aveva le armi necessarie per sopravvivere a noi creature della luna.
A cosa avevo condannato una delle mie più vecchie amiche?
Stringendo le mani a pugno quando, per l’ennesima volta, quel pensiero andò a rimbalzare violento contro le pareti del mio cranio, sibilai tra i denti un’imprecazione prima di strizzare a forza gli occhi, quasi volendo impedire alla realtà dei fatti di penetrare dentro di me.
“Brianna, calmati” sussurrò Lance, spezzando il silenzio dei miei accompagnatori.
Con un sospiro e un mormorio di scuse, esalai: “Pensavo ad Elspeth e a ciò che le ho fatto.”
“Se ben ricordo, ci hai detto che è stata lei a chiedere di poter ricordare. E tre giorni fa, quando avrebbe potuto tirarsi indietro e domandarti requie dai tristi pensieri che la arrovellavano, non l’ha fatto” precisò Lance, tenendo lo sguardo fisso sulla strada e le mani salde sul volante.
“Sì, ma…” tentennai, sospirando pesantemente.
“Ha compiuto la sua scelta, principessa,…” mi sorrise appena Lance, attraverso lo specchietto retrovisore. “… ed è una ragazza abbastanza caparbia e forte da non soccombere di fronte al risvolto della medaglia.”
“Ma io dovevo difenderla da questo orrore” sussurrai, sollevando le mani a schiacciare i pugni contro la mia fronte.
“E dove sta scritto? Tu sei custode della tua coscienza, Brie. Puoi guidare il tuo branco, ma non sei responsabile delle scelte personali dei tuoi lupi. Inoltre, Elspeth è la Völva del clan di Fred, non nostra, perciò è libera di scegliere indipendentemente dalle tue decisioni” precisò Lance, pacato.
“Ma è soprattutto mia amica!” protestai debolmente.
“Non più. Ora ha le sue responsabilità e, prima di ogni altra cosa, vengono quelle. E’ questo che ha scelto per se stessa."
Sorpassò un'auto decisamente lenta, prima di proseguire. "Avrebbe potuto rifiutare il suo dono e il suo ruolo all’interno del branco ma ha deciso di accogliere entrambi nel suo animo e, da quel momento, non è più stata solo e semplicemente Elspeth. E’ diventata un’entità parte del tutto che è il branco, non più un individuo a se stante. Esattamente come lo sei tu per noi”
Il suo tono fu così neutro, tranquillo e definitivo che non trovai neppure la forza di replicare.
Non era una sua opinione, ma un dato di fatto. Dovevo solo accettarlo.
Reclinando il capo, sussurrai: “Perciò, non dovrei sentirmi in colpa perché ha visto morire Leon davanti ai suoi occhi?”
“La colpa è dell’uomo che l’ha ucciso, non tua, né di nessun altro. Ed è lo stesso motivo per cui tu non devi sentirti in colpa per la morte di Leon. Nessuno avrebbe potuto prevedere ciò che è successo al tuo amico, come nessuno lo ha obbligato a seguirci. Si è padroni solo delle proprie scelte, non di quelle degli altri. Prima lo accetterai, prima ritroverai te stessa” mi disse lui, con voce ora leggermente tremante.
Un sorriso, mesto, e aggiunse: “Spero tu possa ritrovare la serenità quanto prima, principessa.”
“Quanto lo vorrei anch’io, Lance” sussurrai, tornando a chiudere gli occhi per isolarmi dal mondo che mi circondava.
“Se tu non recuperi te stessa, non potrò farlo neppure io, principessa” sussurrò Jerome, con voce a stento controllata.
“Non sentirti in colpa per ciò a cui io ti ho obbligato. Hai fatto la cosa migliore. Senza di te, non avrei mai ritrovato la calma”replicai, cercando di mettere, in quelle parole, tutto l’affetto che sentivo per lui.
“Ti ho squarciato la gola, principessa! Pensi non lo ricordi?! Se tu non puoi trovare il perdono per te stessa per una cosa su cui non hai avuto alcun peso, io come posso trovarla per una cosa che, invece, ho fatto in prima persona?!”
Ammutolii, di fronte alle sue parole straziate dall’orrore che provava nei confronti di se stesso e, non potendo fare altro per consolarlo, mi allungai verso di lui dal sedile posteriore e gli carezzai una guancia, estendendo la mia aura per abbracciarlo e consolarlo.
Nuovamente, come era successo tra le braccia di Fred, Jerome pianse in silenzio, trasparenti perle salate che scivolarono lungo le sue gote ricoperte di leggera barba scura.
Lance non ci disse nulla, limitandosi a spegnere la radio e accelerare il passo, forse desideroso tutti noi raggiungessimo casa per poterci meglio prendere cura di noi stessi.
Dubitavo, in ogni caso, che riprenderci dalle nostre relative orribili esperienze potesse avvenire in breve tempo.
La morte di Freki, l’anno passato, mi aveva scioccato perché ne ero stata la causa ma, a conti fatti, ero stata costretta dalla necessità di sopravvivere a compiere la malaugurata scelta di salvare la mia vita e quella di Duncan a scapito di quella di un’altra creatura vivente.
Qui, era molto peggio. Pur non avendo tirato io il grilletto, mi sentivo responsabile della fine di Leon perché un mio nemico aveva falciato la sua giovane vita.
E questo non avrebbe potuto cancellarlo nessuno, dalla mia mente.
Speravo solo che, la presenza di Duncan e del branco, potesse alleviare le nostre rispettive pene o, quanto meno, permetterci di sopravvivere ad esse.

***

L’imbrunire tinse di viola, lillà e amaranto il cielo agostano di quel giorno tanto triste.
Scendendo dall’auto senza particolare fretta, mi ritrovai stritolata dall’abbraccio caloroso di Duncan che, affondando il viso tra i miei capelli sciolti sulle spalle, sussurrò affranto: “Dio, Brie, quanto mi dispiace!”
Quel ‘mi dispiace’ mi fece crollare di colpo, costringendomi a buttar fuori tutte le lacrime che avevo trattenuto per tutta la durata del viaggio e, addossandomi completamente a lui, piansi in silenzio, imbrattandogli la camicia e il cuore.
Non seppi mai quanto tempo restammo nel cortile, lui e io un’unica entità dispersa nel vuoto oscuro del mio dolore.
Quando, finalmente, non ebbi più lacrime da versare, la luna era già alta nel cielo sgombro di nubi, e sembrava volesse darmi il suo silenzioso appoggio in quel momento di crisi.
Scostandomi con gli occhi pesti e una gran voglia di nascondermi, seguii Duncan in casa al pari di Jerome e Lance.
All’interno, trovammo ad attenderci in salotto sia Mary B che Gordon, entrambi già a conoscenza della morte di Leon e del nostro ferimento.
Non dissero nulla, limitandosi ad abbracciarmi e promettermi il loro sostegno, quando e se lo avessi voluto dopodiché, abbandonando la casa, ci lasciarono soli.
Il profumo dello stufato di carne galleggiava nell’aria, assieme a quello fresco dei pavimenti puliti e di lenzuola nuove stese sui letti.
Sentendomi male al solo pensiero, ma desiderosa di apparire il più tranquilla possibile, celiai: “Ti sei dato ai lavori di casa, in mia assenza, o hai assoldato  una domestica?”
Duncan mi sorrise angosciato, accomodandosi sul divano per poi trascinarmi con sé, sulle sue ginocchia.
In silenzio, cominciò a massaggiarmi la schiena in lenti, continui cerchi concentrici che, poco alla volta, rilassarono i miei muscoli tesi, permettendomi di poggiare il capo sulla sua spalla e respirare più agevolmente.
Jerome, in piedi sull’entrata del salotto, non aveva ancora avuto il coraggio di guardare Duncan in viso e Lance, non meno a disagio di lui, se ne stava a metà tra noi e Sköll, indeciso su cosa dire, o fare.
Fu Duncan a spezzare quel silenzio imbarazzato, allungando una mano verso il cugino prima di sussurrare: “Mio Sköll, vieni da me, te ne prego.”
Sobbalzando leggermente al suo tono di voce, che si spezzò nel momento di pregare Jerome di avvicinarsi, il giovane licantropo annuì rigidamente una volta prima di inginocchiarsi dinanzi a Duncan e ansare straziato: “Non … non sapevo cosa fare, Duncan. Perdonami, se le ho fatto del male. Non avrei mai voluto, ma…”
Interrompendo le sue scuse con una carezza sui folti capelli, Duncan lo fece sollevare quel tanto che bastò per farlo accomodare sul divano, accanto a noi.
Baciando il cugino alla base dell’orecchio, sussurrò grato: “Tu l’hai salvata nell’unico modo possibile, mio Sköll, Jerome… cugino mio. Non hai di che scusarti.”
“Ma Duncan…” gracchiò lui, non del tutto convinto del suo dire.
Fu il mio turno di rincuorarlo e, scostandomi dalla spalla di Duncan, poggiai le mani tremanti sul volto di Jerome, lo volsi verso di me prima di sfiorare le sue labbra con un bacio.
“Grazie per ciò che hai fatto, mio Sköll. Mi hai salvata dalla follia, quando io non ero in grado di trovare da sola la strada del ritorno.”
“Principessa!” ansò lui, allargando un braccio per avvolgermi e stringermi a sé.
Duncan ci strinse entrambi contro il suo petto e, nel guardare Lance con occhi colmi di affetto profondo, mormorò grato: “Siete stati i migliori difensori, per la mia compagna. Nessun ringraziamento sarà mai sufficiente, nessuna ricompensa sarà mai abbastanza.”
Sorridendogli, Lance si accomodò sulla poltrona dinanzi a noi e, scuotendo il capo, replicò: “Lei è viva ed è con noi. La nostra ricompensa è questa. Nessuna vita è tra noi, Fenrir, poiché la salvezza della nostra Signora sta a cuore a noi tutti.”
Reclinando il capo per ossequiarlo, Duncan asserì sommessamente: “Accetto le tue parole, Hati, ma mi riterrò in debito con voi finché lo riterrò necessario.”
“Sei Fenrir. Sia come vuoi” disse allora Lance, annuendo.
Jerome si scostò da noi e, riprendendo un minimo di controllo, si passò una mano sugli occhi prima di accomodarsi sull’unica poltrona libera.
Ridacchiando imbarazzato, esalò: “Mi sembra di essere tornato in terza elementare.”
Duncan gli sorrise benevolo, dicendo per contro: “Eri molto peggio, in terza elementare.”
Sorrisi appena, a quell’accenno, e gli chiesi: “Perché dici così?”
“Te lo racconterò solo se mi prometti che non ti vedrò più piangere… e non mi obbligherai mai più a fare quel che ho fatto” mi propose Jerome, fissandomi con i suoi occhi di cielo colmi di paure.
Mi sistemai meglio sulle ginocchia di Duncan e, annuendo grave, gli promisi: “Giuro sulla Madre che non sarai più obbligato a compiere una scelta del genere. Non voglio mai più costringerti a subire una simile pena.”
A quel punto, Jerome riuscì a racimolare un po’ forza per sorridermi e, intrecciando le mani in grembo, celiò: “Allora posso umiliarmi e raccontarti tutto.”

***

Il coltello e la foto del mio aggressore, erano in mano agli uomini di Bright ormai da giorni.
Forse, avremmo potuto dare un nome all’assassino di Leon e ottenere giusta vendetta ma, per il momento, nulla si sapeva su di lui, o da quale buco infernale fosse saltato fuori.
Erano già passati quattro giorni, dal nostro breve viaggio ad Aberdeen, in cui avevamo incontrato Estelle e l’avevamo pregata di consegnare il tutto a un assente Bright – impegnato fuori città per una disputa tra lupi.
Lei ci aveva salutati con baci e abbracci carichi di una comprensione e un amore indicibili e, pur se lontana, ancora ne sentivo il profumo e l’aura rassicuranti.
Ciò nonostante, i giorni passati tra le pareti amene di casa, e vicino a persone a me care, non era bastato ad alleviare il dolore per la scomparsa di Leon.
Ero ridotta uno straccio, e non sapevo come fare per uscirne.
Non ero più legata a Leon dall’amore adolescenziale che mi aveva colpita quasi tre anni prima, quando avevamo deciso di metterci insieme.
Però, dentro di me, avevo racchiuso ricordi piacevoli di lui e del nostro rapporto.
Vederli scomparire di colpo, soppiantati dai fotogrammi mostruosi che mi avevano ridotta a quel modo, era straziante.
Sentivo ancora dolore, dove il proiettile mi aveva ferita e nei punti in cui Jerome mi aveva morsa.
Più ancora, però, percepivo un’agonia tremenda tutte le volte che tentavo di ricordare Leon prima che, quel maledetto proiettile, gli perforasse il cervello senza alcuna pietà.
Le passeggiate al parco venivano subito spazzate via da un secco crack, lo schianto delle ossa di Leon perforate dal proiettile che aveva poi squarciato le sue carni.
I dolci baci all’ombra di un vecchio noce, che cresceva nel suo giardino, non riuscivano neppure a farmi sorridere, tanto l’odore del suo sangue innocente era forte e persistente in me.
Mi sembrava di assistere alla battaglia tra Davide e Golia, ...peccato che Davide stesse perdendo il derby, questa volta.
Il fatto di non aver neppure potuto partecipare al suo funerale, mi rendeva ancor più difficile convivere con quei ricordi.
Avevo accettato passivamente le domande della polizia prima di sentirmi dire che, con tutta probabilità, non sarebbero mai riusciti a trovare il suo assassino, a causa della totale mancanza di indizi a suo carico.
L’unico che avevamo era in possesso dei licantropi, e non potevamo fornirlo per ovvi motivi.
Oltre a ciò, per poter almeno dire addio per sempre a Leon, mi ero dovuta nascondere dietro a una delle enormi e vecchie cappelle del cimitero, che si trovava su una delle colline che sovrastavano Glasgow.
Avevo osservato in silenzio la processione di parenti e amici che, composti, avevano accompagnato Leon nel suo ultimo viaggio.
Di comune accordo, avevamo preferito non far sapere alla famiglia di Leon della mia presenza a Glasgow, visto che diversi amici dei Marquez, purtroppo per noi e all’insaputa della stessa famiglia, erano Cacciatori.
Fred ne aveva riconosciuti un paio e, con fermezza, mi aveva obbligata a restare al riparo della cappella più vicina alla tomba di famiglia dei Marquez, impedendomi così di rendere nota la mia presenza in città e scatenare perciò la curiosità dei nostri nemici giurati.
Il fatto che la polizia avesse accettato di tenere segrete le nostre identità – con la scusa di non volere giornalisti alla porta – ci aveva aiutato a non creare ulteriore scompiglio nella comunità dei licantropi.
Il particolare del proiettile in argento era stato a sua volta omesso, grazie al detective che seguiva il caso (e che era, tra l'altro, una delle sentinelle di Fred).
Non avevo potuto far altro che osservare la bara di Leon scomparire all’interno di una costruzione in marmo, sormontata da quattro piccoli angeli dalle ali raccolte.
La pioggia era caduta per tutta la notte, a seguito del suo funerale, ma io ero voluta rimanere lì ugualmente a pregare per lui, sostenuta dalla presenza silenziosa di Jerome e Lance.
Eravamo tornati a casa di Fred solo la mattina seguente.
Passandomi una mano sulla fronte per scacciare una ciocca ribelle di capelli, cercai di allontanare quei ricordi e la sensazione di gelo profondo che avevo provato quella notte.
Con un movimento strascicato quanto indolente, mi sdraiai sul divano del salotto.
Non avevo la voglia, né la forza, di fare alcunché.
Quando sentii la porta di casa aprirsi e richiudersi, non feci neppure l’atto di spostarmi.
Sapevo chi era giunto nel tentativo di salvarmi dalla caduta nell’oblio, e loro non avevano bisogno di vedermi caracollare fino all’entrata.
Come una carezza di velluto, avvertii il potere di Erika e il profumo di sandalo di Gordon.
Esitanti, si affacciarono in salotto, le facce smorte e l’aria di chi non sapeva cosa dire.
Volgendo appena il capo sul cuscino del divano, li fissai senza dire nulla, un velo di capelli a coprirmi parzialmente il volto.
Fu solo per mera forza di volontà che mi sollevai e, con una fluidità di movimenti pari a quella di un bradipo, mi misi seduta.
Sospirando stancamente, a causa della mancanza di sonno, esordii chiedendo loro: “Avete perso una scommessa, per essere qui?”
Erika ammiccò al mio indirizzo prima di sentir dire a Gordon: “Adesso devo pure scommettere, per venire a trovare mia sorella? D’accordo che sei la gran sacerdotessa e la regina di questo ammasso di palle di pelo, ma non pensi di esagerare con il divismo?”
Il suo tono scanzonato, e l’occhiata bonaria che lanciò a Erika quando ci definì ‘ammasso di palle di pelo’, fece sorgere un sorriso spontaneo sul mio viso.
Accigliandomi con ironia, celiai: “Vacci piano a offendere, cucciolo senza pelo, o potrei usarti da scendi letto.”
Lui si limitò a ghignare, dicendo per contro: “Non ne valgo la pena. Non sono per niente morbido.”
“Condivido appieno” annuì Erika, sorridendo maliziosa.
Sollevai curiosa un sopracciglio, scrutando mio fratello ma lui, da bravo allievo della scuola ‘Maschere di Pietra Duncan McKalister’, non lasciò scaturire nulla dal suo viso ermetico.
Si limitò a fissarmi con i chiari occhi grigio perla, imperturbabile.
Ridacchiai stancamente, asserendo: “D’accordo, sei più bravo di me a fare la faccia da poker.”
“Questo è sicuro, sorella. Tu sei e sarai sempre una schiappa, in questo gioco” chiosò prima di avvicinarsi a me e, a sorpresa, abbracciarmi. “E infatti, non posso sopportare di vederti con questi occhi così divorati dal dolore.”
Mi strinsi a lui reprimendo un singhiozzo e, attirandolo a me perché si sedesse sul divano, lasciai che mi tenesse avvolta nel suo caldo abbraccio umano.
Era del tutto privo di potere mistico, ma colmo di un amore che, in quel momento, valeva più di tutta l’energia del branco.
Erika ci guardò, sorridendo triste, e si accomodò sul mio lato libero per abbracciarmi a sua volta.
“Abbiamo fatto una scommessa, è vero, ma solo perché tutti volevano venire qui a confortarti, e sapevamo che troppe persone ti avrebbero sconvolta più del dovuto.”
“Forse no” sussurrai, lasciando che mi tenessero stretta a loro.
Avevo un bisogno tremendo di sentire calore attorno a me, perché io lo stavo perdendo a ogni respiro che compivo.
Era come essere immersi in un lago ghiacciato.
Ogni volta che inalavo ossigeno per sopravvivere, il gelo che sentivo nel mio animo si portava via una piccola parte di me, e solo il loro calore poteva impedirmi di soccombere.
Duncan era dovuto partire per un impegno gravoso che solo un Fenrir poteva risolvere, e io avevo dovuto mostrarmi stoica e far finta che tutto andasse bene.
Il nostro Legame di Sangue mi aveva impedito di essere del tutto ermetica con lui, ma Duncan era partito comunque, pur se di malavoglia.
Immaginavo comunque che sapesse che, ciò che gli avevo detto, non corrispondeva del tutto a verità.
In ogni caso, non potevo scaricare tutto il mio dolore su di lui.
Non sarebbe stato giusto pretendere che assorbisse tutto lo strazio e l’amarezza che provavo, e solo per evitare che io soffrissi.
Il fatto rimaneva. Leon era morto e io ne ero la causa, seppur in maniera indiretta.
Tutto il calore e l’amore del mondo non avrebbero mai potuto cancellare questo fatto; potevano solo mantenermi in vita, niente di più.
Restare sola era comunque impensabile, perciò non rifiutai quel che Erika e Gordon erano venuti a donarmi con tanta generosità d’animo.
Restai aggrappata a loro, piangendo in silenzio e chiedendomi cosa dovessi, o potessi, fare per migliorare lo stato delle cose, ma non mi venne in mente nulla di buono.
Anche Jasmine, con i suoi miagolii e i suoi ron-ron, venne a unirsi all’abbraccio, per una volta ignorando del tutto la presenza di Erika.
Con un mezzo sorriso, la guardò divertita prima di chiosare: “Deve amarti davvero molto se passa sopra al fatto che ci sia io accanto a te.”
“Già” ammiccai, allungando una mano per accarezzare il pelo sericeo e folto della gatta.
Gordon celiò divertito: “Sembriamo proprio un bel gruppo di piagnoni, ammettiamolo.”
“Chi può negarlo?” ammisi, appoggiandomi alla spalla di Gordon prima di mormorare: “Sii gentile con Erika, mi raccomando. Non voglio che si venga a lamentare con me circa le tue maniere.”
“Non corri questo pericolo, sorella” bofonchiò Gordon, dandomi un fuggevole bacio sulla fronte.
Sapevo quanto gli costava comportarsi in maniera così affettuosa. Non lo era mai stato. Nessuno dei due.
Era la mia condizione di licantropo ad avermi resa più desiderosa di un contatto fisico e lui, da bravo fratello quale sapeva essere - quando si impegnava - si era piegato alla realtà dei fatti, tirando fuori quel lato gentile di sé che, di solito, non esternava mai.
Non sapevo se con Erika si comportasse alla stessa maniera, o se tendesse a rimanere schivo come sempre, ma lei mi sembrava felice, perciò non volli indagare.
Non erano affari miei, in fin dei conti.
Con un sospiro e un sorriso mi scostai infine da loro, quando le lacrime ebbero smesso di scorrere a fiumi sul mio viso.
Gordon, asciugandomi gli occhi con un fazzoletto, mi chiese: “Va un po’ meglio, ora?”
Annuii, non sentendomi ancora pronta per mettere a parole ciò che sentivo.
Erika, stringendomi alle spalle e baciandomi sotto l’orecchio, mi confidò: “Tutto il branco è con te, Prima Lupa, ricordalo. Una tua parola, e ci avrai qui al tuo fianco a condividere il dolore assieme a te.”
“Lo so. Ma ora sarei troppo morbosa, e finireste con il desiderare di farmi la pelle. Meglio aspettare qualche giorno” ironizzai, abbozzando una risatina mentre mi alzavo dal divano.
Rimanere inerte sarebbe servito a poco e, se volevo evitare di ferire altre persone, dovevo scrollarmi di dosso l’apatia e fare qualcosa, qualsiasi cosa per trovare una soluzione al mio disagio interiore.
Anche se la voglia che avevo di lasciare le pareti domestiche, era pari a zero.
Erika e Gordon mi fissarono dubbiosi e io, scrollando le spalle, spiegai loro: “Ho bisogno di andare al Vigrond per un po’. Parlare con la quercia mi farà bene, ne sono sicura.”
“Sei certa di voler andare da sola? Io potrei seguirti. Altrimenti, chiamerò Branson. In due minuti sarà qui” brontolò Erika, un po’ turbata.
Evidentemente, l’idea di lasciarmi senza protezione alcuna la metteva in ansia.
Sorrisi, scuotendo il capo, e replicai: “Branson è al lavoro, adesso. Non puoi chiedergli di lasciare la cucina del ristorante solo per venire a fare da balia a me.”
Sbuffando, Erika replicò: “Sei la nostra Prima Lupa. Dobbiamo pensare al tuo benessere.”
“E io sono felice che tu tenga così tanto a me, ma non avere timore. Chi vuoi che mi faccia del male, nel nostro luogo di potere?” sorrisi bonariamente, scrollando le spalle.
Il mio nemico avrebbe dovuto essere letteralmente un folle, per pensare di entrare nel Vigrond senza un invito. Nessun licantropo avrebbe potuto.
Lo squillo del telefono ci fece sobbalzare tutti – smentendo di fatto la mia apparente tranquillità.
Ridacchiando di fronte a tanto nervosismo, mi allungai per prendere il cordless dal tavolino del salotto e dissi: “Pronto, casa McKalister. Chi parla?”
Uno, due secondi e poi: “Sono Alec.”
Se mi fosse apparso il fantasma di Freddie Mercury davanti al naso, non sarei stata ugualmente sorpresa.
Me ne stetti impalata in mezzo al salotto, la cornetta in mano e l’aria da ebete stampata in faccia.
Alec, dall’altra parte del telefono, continuò seccato: “Ehi, sei ancora lì?!”
“Eh? Oh. Sì! Sì. Dimmi” riuscii a dire, dopo quel momento di confusione totale.
Con voce resa roca da qualcosa di simile all’imbarazzo e alla rabbia, gli sentii bofonchiare: “Senti, ho ricevuto l’e-mail di Bright sul tizio che ti ha aggredita.”
“Ebbene?” chiesi subito.
Cosa sapeva? Non poteva essere lui il mandante, o non mi avrebbe mai telefonato per dirmelo. Neppure Alec era così stupido!
Ancora un attimo di indecisione, poi ammise: “Beh, so chi è.”
“COSA?!” strillai, facendo sobbalzare sul divano sia Erika che Gordon, che mi fissarono con occhi allucinati.
“Ehi, non ti ho detto di mandarmi all’ospedale con un timpano perforato. Per tutti i demoni dell’inferno, ragazza, hai una voce che ammazza!” brontolò Alec, sinceramente infastidito dal mio urlo.
In effetti potevo capirlo, visto il nostro udito sensibilissimo.
Mi scusai succintamente, prima di ansare: “Avanti, dimmi cosa sai.”
“Era il fratello del mio precedente Freki. Penso te lo ricorderai” mi spiegò succintamente, facendomi raggelare il sangue.
Occhi rossi, uno sguardo libidinoso su un volto lupesco. Oh, eccome se me lo ricordavo.
Non avevo più incubi da tempo, su di lui, ma il sapore della sua morte potevo ancora sentirlo sulla lingua, quando andavo a caccia con Duncan o con gli altri membri del branco.
Era stato l’unico licantropo che io avessi mai ucciso, e mi sarei ricordata per sempre di lui.
“Credo volesse vendicarsi di te, o solo la Madre sa cos’altro” continuò col dire, con un tono secco e infastidito.
“Già, forse” annuii, prima di notare di un particolare e bofonchiare: “Aspetta un secondo. Hai detto ‘era’. L’hai fatto uccidere per ciò che ha tentato di farmi?”
Se l’avesse fatto giustiziare, non avrei potuto ritenermi soddisfatta. Lui, lo avrei ucciso volentieri di persona.
“No, il punto è questo. Lo abbiamo trovato stamattina. Morto stecchito” mi spiegò, la voce ora percorsa dal dubbio.
“Non penserai che uno di noi abbia infranto il patto, venendo nel tuo territorio senza permesso, perché…” cominciai col dire, subito sulla difensiva.
“Cielo, ragazza, ma sei peggio di una mitragliatrice! Cuciti il becco per cinque secondi e fammi finire di parlare!” mi urlò contro Alec, azzittendomi. “Non so davvero come Duncan ce la faccia a sopportarti. Si vede che sei una maga a letto, chissà.”
Erika sgranò gli occhi, scioccata – dopotutto, lei poteva sentire la telefonata più che chiaramente – ed emise un basso ringhio di gola.
Dal canto mio, impallidii visibilmente prima di avvampare in viso e, scocciata, esclamare: “Le mie prestazioni sessuali non sono argomento di discussione, Alec! Dimmi quello che vuoi dire, e non pigliarmi per il culo!”
Gordon fece tanto d’occhi a quell’accenno, mentre il ringhio di Erika si espanse per la stanza come il brontolio di una pentola a pressione.
Ben sapendo quanto Alec non stesse simpatico praticamente a nessuno, lei compresa, non mi stupii della sua reazione.
Una risatina, dopodiché celiò: “Come siamo suscettibili! Allora è vero. Sei brava a letto, eh? Beh, vedrò di scoprirlo. Mi incuriosisce, questa cosa. Con un legame d’anima e uno di sangue, quanto potrete percepire, l’uno dell’altra?”
Avvertii quasi invidia, nella sua voce, e fu solo quello a bloccarmi dall’ingiuriarlo come avrebbe meritato.
Possibile che anche in Alec ci fosse un cuore? Non l’avrei mai detto.
Cercando di mantenere la calma, sibilai rigida: “Vogliamo andare avanti, per favore?”
Lui sbuffò, spiegandomi con dovizia di particolari ciò che sapeva.
“Aveva la gola tagliata in profondità, ma non abbiamo percepito puzza d’argento sulla ferita, né tanto meno di lupo, quindi non ho idea di come abbia potuto morire annegato nel proprio sangue.”
La cosa mi spiazzò. Quale poteva essere l’arma non argentata in grado di uccidere un licantropo?
E chi poteva aver avuto tutto il tempo di ammazzarne uno, vista la forza che possedeva un lupo mannaro?
La sola idea che esistesse qualcos’altro, o qualcun altro - a parte i Cacciatori - in grado di ucciderci, mi fece accapponare la pelle.
“Immagino che la cosa non faccia piacere a te, come a me” borbottò Alec, forse immaginando i miei pensieri. “E ora che Fitzroy è morto, non possiamo neppure sapere i motivi reali che l’hanno spinto a muoversi contro di te.”
“Si chiamava così?” chiesi con voce atona.
“Sì. Aveva cinque anni in meno, rispetto a suo fratello; un ragazzino. E una testa calda, con poco rispetto per le regole e per i suoi alfa, ma pensavo di averlo rimesso in riga a suo tempo. Di solito, non dovrebbero mai esserci rappresaglie di questo genere. E’ contro la legge. Tu hai ucciso Freki regolarmente” mormorò Alec, come se la sola idea che uno dei suoi lupi avesse violato il codice, fosse un peso immane da sopportare.
“Ti senti in colpa? E’ questo che stai cercando di non dirmi?” esalai, spalancando gli occhi per la sorpresa.
Un grugnito e un sì. Furono le uniche cose che ottenni.
Ma, ehi, mica si può pretendere la luna, no?
“C’è dell’altro, comunque” aggiunse, ombroso.
Avevo avuto qualche dubbio?
Dentro di me, per un paio di secondi, avevo sperato nel contrario.
Pur non provando alcuna soddisfazione nel saperlo morto – visto che non avevo potuto vendicare Leon di persona – mi ero sentita bene al pensiero di non averlo più alle calcagna.
Ma poi era sopravvenuta la ragione, e l’istinto. Un lupo non si fida delle apparenze, mai.
E neppure io mi fidavo di coloro che avevano ucciso a quel modo Fitzroy, specialmente considerando come lo avevano ammazzato.
Che diavolo avevano usato? E perché lo avevano fatto fuori?
“Ne avevo il sentore. Dimmi tutto” dichiarai, preparata – speravo – a qualsiasi cosa.
“Poco dopo aver trovato Fitzroy, Beverly è venuta da me per dirmi di aver visto un’ombra su di te. Un’ombra così oscura da far raggelare anche il più coraggioso tra i guerrieri” nel dirlo, la sua voce divenne quasi metallica.
La bestia, evidentemente, era d’accordo con la sua parte umana nell’emettere quelle atroci, quanto spettrali, parole.
Rabbrividii, nonostante mi fossi ripromessa di non farlo, mentre Erika mi osservava al colmo del panico e Gordon ci scrutava entrambe, preda della frustrazione più nera.
Con mano leggermente tremante, scostai il telefono dall’orecchio e, con voce non proprio controllata, borbottai: “Sei sul vivavoce, Alec.”
“Chi hai lì con te?” mi chiese a quel punto.
“La cugina di Duncan e mio fratello” spiegai succintamente.
“Ah, bene, una lupacchiotta alle prime armi e un senza pelo. Ottimo” brontolò l’uomo, sarcastico.
Mi astenni dal fare commenti, nonostante le facce accigliate dei due presi in causa.
“Fuori, a un centinaio di iarde da qui, c’è Anthony. Dovresti conoscerlo, no?”
“Lui, almeno, sa come si combatte” convenne Alec, prima di aggiungere: “Il problema è uno e uno solo, ragazza. Chi ha ucciso Fitzroy non è né un licantropo, né un umano. Quindi, mi chiedo cosa sia. L’odore che abbiamo percepito sul suo corpo non appartiene a niente che io, o gli altri, abbiamo mai incontrato sulle nostre strade. E se l’ombra che ha visto Beverly appartiene a quest’essere, nessuna precauzione sarà abbastanza, per mantenerti viva.”
“Vede… la morte?” chiesi con un gracidio, mordendomi istintivamente un labbro mentre le mani, tremanti, mostravano chiaramente la mia ansia.
“Ha visto dolore, sangue e morte. Ma non sa di chi. Sa solo che tu eri in questa visione, e urlavi. Fitzroy era con te, morto ai tuoi piedi, e gli occhi erano rivolti all’ombra che ti minacciava” aggiunse Alec, prima di imprecare vistosamente.
Non mi avrai mai! I tuoi sogni di distruzione e morte non si concretizzeranno!
Quella frase mi rimbalzò nella testa come una pallina da ping-pong, sparata a tutta velocità da una parte all’altra del campo immaginario che era il mio cervello.
Sobbalzando leggermente, esalai a stento: “Mi vogliono morta.”
“E’ una probabilità che non escluderei. Come non escluderei che Fitzroy fosse in combutta con quest’ombra che vuole eliminarti o, comunque, farti del male. Il ragazzo era troppo ingenuo, per pensare anche soltanto di poter avvicinare una Prima Lupa e ucciderla. Devono averlo aizzato a farlo, spiegandogli come fare” ipotizzò Alec, la voce roca e piena di un’ansia quasi palpabile.
“Posso capire Fitzroy, ma chi può essere l’ombra?” riuscii a dire a voce alta, pur tremando.
Gordon, senza dire nulla, si alzò dal divano per avvicinarsi a me.
Sedendosi sul bracciolo della poltrona dov’ero seduta, mi avvolse le spalle con un braccio e chiese ad Alec: “La tua Völva non ha visto altro? Un particolare di qualche tipo che ci possa far capire chi vuole fare del male a mia sorella?”
“Il giovane Smithson…” disse Alec, con un accenno di ironia nella voce “… le visioni non sono come spot pubblicitari. Sono flash di immagini, di suoni. Niente di chiaro o concreto che possa essere studiato alla moviola.”
Gordon arricciò il naso, forse infastidito dal tono da sapientone di Alec ma io, stringendogli una mano sulla gamba per chetarlo sul nascere, intervenni e dissi: “Ringrazia Beverly da parte mia. Il suo apporto è importante, per me. Non sapendo contro cosa stiamo tutt’ora difendendoci, ogni piccolo indizio è un passo in più verso il raggiungimento della risposta.”
“Glielo riferirò” brontolò burbero Alec. “Duncan non c’è? Ho bisogno di parlargli.”
“Non è a casa. E’ dovuto andare fuori città per dirimere una disputa tra giovani alfa. Come se non avessimo già abbastanza problemi” sbuffai.
Dopo un attimo, mi imposi di aggiungere: “Lo trovi sul cellulare, se è urgente. Vuoi il numero?”
“No, grazie, ce l’ho. Piuttosto, tu. Che contromisure avete adottato per la tua difesa?” mi chiese con il suo classico tono scontroso e secco.
Ah, questo era l’Alec che conoscevo!
“Beh, a turno, ho almeno un membro del branco nei pressi dell’abitazione, ventiquattrore su ventiquattro  e, quando Geri o Freki sono liberi dal lavoro, stazionano qui in casa, vista l’assenza di Duncan e Lance, che è con lui. Ci siamo regolati così fin da quando sono tornata da Glasgow. Sai che è successo?” gli chiesi, provando il consueto brivido.
Gordon rafforzò la stretta e io gli sorrisi. Erika, dal divano, ci scrutava rassicurante.
Avrei davvero voluto non vederli così in ansia per me, ma come pretenderlo?
Con un basso ringhio di gola, Alec ringhiò: “Sì, ho sentito dell’omicidio di quel ragazzo, e suppongo che l’uomo e la donna feriti siate tu e Lance. Lo conoscevi? Il tizio che hanno ammazzato, intendo.”
Cercai di non prendermela per quella domanda così insensibile – da Alec, non potevo aspettarmi la delicatezza dei miei lupi o dei miei amici – e ammisi: “Sì, era un mio amico. Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era lì per aiutarci a trovare il coltello che volevamo usare per smascherare il mio aggressore. A questo punto, oserei dire che il cecchino fosse proprio Fitzroy, anche se non posso esserne sicura. So solo che, da dove è partito il colpo, c’era odore di lupo.”
“Possiamo darlo praticamente per scontato” sbuffò contrariato Alec. “E dire che la prima regola di un mannaro è quella di essere invisibile, per gli umani. E lui va a usare un’arma caricata ad argento in mezzo a una città popolosa come Glasgow! Neppure un Cacciatore sarebbe stato così idiota!”
Condividevo appieno la sua rabbia, e non solo perché Fitzroy, con il suo folle gesto, aveva ucciso Leon, ma perché aveva messo in pericolo l’intera comunità di licantropi di Glasgow, con quel colpo di fucile.
Avevo cancellato le tracce del mio passato per evitare che la cricca di Patrick potesse darmi la caccia, forte di notizie che non dovevano possedere in alcun modo.
Quel colpo esploso in maniera così imprudente, però, mi aveva reso impossibile star vicina a Leon nel momento dell’addio definitivo.
Con un solo colpo, aveva rischiato di mettere anche loro sulle mie tracce, e io non desideravo anche le loro premurose attenzioni, visto quello che già stavo patendo.
La minaccia scorta da Beverly bastava e avanzava.
“Il perimetro del clan è sorvegliato?” mi chiese ancora, sempre più scontroso. E nuovamente preoccupato.
Se neppure Alec riusciva a mascherare l’ansia e la paura, cosa avrei potuto fare, io?
Perché Duncan non era con me?
Sospirai, afflitta, dandomi dell’idiota per quello che avevo appena pensato e, cercando di trovare il coraggio di parlare, dissi faticosamente: “Abbiamo aumentato la sorveglianza. Ci sono dodici sentinelle solo nella contea di Matlock.”
“Spero bastino, visto che non sappiamo chi ti sta braccando” brontolò Alec.
Portandomi una mano alla nuca, mormorai rauca: “Esistono altre creature mistiche, oltre a noi?”
“Le uniche di cui io sia a conoscenza sono i satiri, ma si sono estinti secoli fa. Non erano guerrieri, ma semplici creature boschive, dedite al divertimento e alla musica. Di certo, non girerebbero armati ad ammazzare gente” ringhiò Alec, apparentemente frustrato come me.
“Allora, cosa diavolo c’è, in giro?” esalai spazientita.
“Tu sei wicca. Sai se i tuoi poteri possono essere rubati?” mi chiese allora Alec.
“No, fanno parte di me come il cuore o una mano. Smetterebbero di esistere nel momento stesso in cui io morissi. Inoltre, non possono essere estrapolati dal mio cervello” gli spiegai automaticamente, ben conscia di quello che, nei secoli, molti alchimisti senza scrupoli avevano tentato di fare alle wiccan.
“Chi ti cerca, quindi, non vuole i tuoi poteri e, dando per scontato che fosse in combutta con Fitzroy, non vuole neppure sporcarsi le mani in prima persona” riassunse Alec prima di aggiungere con aspra ironia: “Ma a chi hai pestato i piedi, ragazza, per cacciarti in un casino simile?”
“A saperlo” sospirai, scuotendo il capo per la frustrazione.
Gordon fece scivolare una mano sui miei capelli per carezzarli dolcemente ed Erika, abbandonando il divano, si venne ad accoccolare ai miei piedi.
Poggiò il capo sulle mie ginocchia e, leggera, la sua mano mi carezzò un polpaccio.
Chiusi gli occhi per alcuni attimi, assaporando sulla lingua il loro calore e il loro affetto, così importanti, vitali per me. Neppure tutta la loro energia, però, bastò a scacciare il gelo che sentivo sfiorarmi la pelle come la carezza di una piuma insanguinata.
Percepii la pressione del nervosismo e della nullità delle mie azioni premermi contro le pareti del cervello ed, esasperata, dichiarai: “Alec, devo andare. Voglio consultarmi con la quercia e chiederle se esistono creature diverse da noi, nella sua memoria collettiva.”
Dopo un secondo, convenne con la mia decisione.
“E’ una buona idea, ragazza. La vostra quercia è abbastanza vecchia per poter contenere qualche indizio utile. Ma fatti accompagnare!”
“Pensi davvero che potrebbero avvicinarsi al Vigrond? E’ protetto dalla magia della quercia” replicai, vagamente dubbiosa.
“Non sapendo contro chi stai combattendo, io starei un po’ meno tranquilla, circa i poteri della quercia” precisò Alec, con il suo solito tono di voce irritante.
“Ci penserò. Comunque, grazie per le informazioni che mi hai dato” mormorai, scrollando le spalle nel tentativo di rilassare i muscoli irrigiditi. “Hai la mia benedizione, Fenrir.”
Dopo qualche secondo di silenzio imbarazzato, sentii il mormorio sorpreso di Alec giungermi all’orecchio.
“E io la accetto con onore, wicca.
Detto ciò, chiuse la comunicazione.
Mentre spegnevo il telefono, il viso ancora aggrottato, Erika sollevò il capo dalle mie ginocchia e mi fissò sconcertata, esclamando: “Perché hai concesso la tua benedizione a uno come lui? Sei impazzita?!”
Gordon ci fissò a momenti alterni con aria stranita e io, sorridendo, gli spiegai: “Devi sapere, Gordon, che la benedizione di una wicca non si da così a cuore leggero, e chi la riceve non ha in mano solo vuote parole, ma molto di più.”
Sbuffando, Erika intrecciò le braccia al petto e continuò per me.
“Già. Praticamente, gli ha offerto bandiera bianca. Ha messo Duncan nella condizione di non poter prendere a calci nel culo Alec, senza prima offendere lei.”
Nel dirlo, mi fissò malissimo.
Gordon ridacchiò, dandomi una stretta consolatoria prima di lasciarmi andare e, guardando con aria saputa Erika, celiò: “Ma non l’hai ancora capito che mia sorella è masochista?”
“Comincio a pensarlo” brontolò Erika, scuotendo il capo per l'esasperazione.
Sospirai nel rigirarmi i pollici e, nel tentare di calmarla, le spiegai i motivi che mi avevano spinta a concedergli la mia benedizione.
“Non devi vederla a questo modo, Erika. Alec non aveva nulla da guadagnarci a dirmi ciò che è successo al suo lupo, o a riferirmi le parole di Beverly.”
“Se non farti credere che lui è innocente!” protesto vibratamente lei.
Le sorrisi, comprendendo quanto il suo nervosismo fosse sintomo della sua preoccupazione nei miei confronti.
Allungando una mano per afferrare una delle sue, gliela strinsi e dissi per contro: “Dimentichi che le wiccan posso percepire le menzogne.”
“Anche al telefono?” esalò a quel punto, più che mai sorpresa.
“Io sì. Non so Kate, perché onestamente non gliel’ho mai chiesto. Ma io e Duncan abbiamo fatto delle prove, un po’ di mesi fa, e posso percepire chiaramente la menzogna, quando mi capita davanti” ammisi, sperando di averla chetata almeno in parte.
Gordon si piegò in avanti, poggiando gli avambracci sulle cosce e mi guardò attentamente.
“Quindi, puoi andare al Vigrond e leggere i ricordi della quercia come se fosse un’enciclopedia multimediale, dico bene?”
Annuii e lui, proseguendo, mi domandò ancora: “Funziona come un computer? Tu domandi e lei risponde?”
“Non è detto. A volte risponde in prima persona, a volte mi mostra delle immagini” scrollai le spalle, non sapendo che altro dire. “La quercia ha un modo tutto suo di aiutarmi e, in alcune occasioni, si è dimostrata davvero criptica.”
“Ottimo. Un’enciclopedia pensante. Sono le peggiori” borbottò schifato Gordon, facendomi ridere.
Alzandomi, baciai Erika sulla fronte e, rivolta a mio fratello, dissi: “Glielo riferirò, Gordon.”
“Grazie” bofonchiò.
La faccenda della quercia pensante lo aveva sempre lasciato piuttosto perplesso, e non avevo mai capito perché.
Ritenevo che, già trovarsi in mezzo a un branco di lupi mannari, fosse strano ma a lui, quel particolare, non aveva mai creato problemi. La quercia, sì.
Ognuno di noi ha il proprio limite di sopportazione; probabilmente, il suo era questo.
“Proverò a chiedere alla quercia quello che voglio sapere, e vedremo che mi dice” sentenziai, alzandomi in piedi, l’ansia e il dolore relegati momentaneamente in un angolo del mio cuore.
Ora dovevo solo pensare a trovare delle risposte e, se possibile, scoprire se coloro che avevano ucciso Fitzroy fossero potenziali nemici o, se l’ombra vista da Beverly, fosse un avversario del tutto diverso da loro.
Erika balzò subito in piedi a sua volta, bloccandomi per un braccio, facendomi notare un particolare non da poco.  
“Alec aveva ragione su una cosa. Io e Gordon non possiamo farti da spalla, ma Anthony sì. Fatti accompagnare, ti prego.”
Gordon la imitò, e mi fissò con occhi al limite della preoccupazione.
Davvero difficile che mi guardasse a quel modo, e il fatto che lo stesse facendo proprio in quel momento, mi fece crollare.
Annuendo, inviai un messaggio mentale ad Anthony perché mi raggiungesse a casa e, dopo aver atteso un minuto, lo sentimmo entrare con passo affrettato, l’aura distesa attorno a sé come un radar alla ricerca di nemici.
Lo accolsi con un sorriso e un abbraccio, dicendogli: “Penso dovrai accompagnarmi al Vigrond.”
“Ovunque tu voglia, Prima Lupa” replicò con un sorriso ossequioso.
Gordon fece l’atto di rimettere e, con ironia, celiò: “Dio, come li detesto quando ti trattano come una regina. Non te lo meriti proprio.”
Ridacchiai divertita, mentre Anthony guardava storto mio fratello.
La sua comicità aspra e, spesse volte, molto irriverente, era stata uno scoglio duro da far accettare ai miei fidati lupi.
Non avevano preso bene, nei primi tempi, le battutacce di spirito che lui soleva indirizzarmi.
Era occorsa tutta la buona volontà mia e di Duncan, per far accettare loro il fatto che qualcuno – soprattutto mio fratello – si potesse permettere di prendermi in giro.
I lupi sono molto radicati nelle loro idee, e il rispetto delle gerarchie è forse la cosa a cui tengono di più.
Ora si limitavano a storcere il naso o, nei casi peggiori, a rispondere alle battute, ma sapevo che Anthony era uno dei lupi più pazienti del branco, perciò non dovevo temere una battaglia verbale, o peggio.
Si limitò ad avvicinarsi con fare molto protettivo e, con un cenno grazioso del capo, asserì: “Andiamo pure, Prima Lupa. Penserò io a proteggerti.”
“Sì, ecco, andate, che è meglio” celiò ironico Gordon, prima di tornare serio e aggiungere: “Ma guai a te se ti spezzi anche solo un’unghia.”
“Farò attenzione, Capitano” gli promisi con un sorriso, allontanandomi da loro per uscire di casa assieme al mio lupo.
“Non l’ho mai visto così nervoso. E’ una cosa insolita” mi fece notare Anthony, una volta raggiunto il cortile.
“Gordon fa tanto il gradasso ma, quando mi caccio in qualche guaio, è più protettivo di una chioccia. E dire che è il mio fratellino minore” convenni, sorridendogli a mezzo.
“E’ giusto così. E’ suo compito proteggerti” annuì con compiacimento Anthony.
Ridacchiai – alcuni lupi avevano ancora la fissa antidiluviana di dover pensare alla salvaguardia delle proprie compagne, anche a costo della vita.
Spesso e volentieri, non ricordando che le lupe in questione sapevano difendersi benissimo da sole.
Mi limitai perciò a borbottare: “Coraggio, corriamo un po’. Ho bisogno di sgranchirmi le gambe. Sono troppi giorni che me ne sto distesa a piangere. E’ ora che combini qualcosa per vendicare il mio amico.”
“Come chiedi” annuì, attendendo di raggiungere il limitare del bosco.
Volesse il cielo che Christine non ci vedesse mai compiere qualcosa di strano, e proprio mentre lei era nei paraggi, perché davvero non avrei saputo come spiegarglielo.
Non mi andava di manipolare il suo cervello, ed era l’ultima cosa che volevo fare.
Attendemmo quindi che le ombre del bosco ci avvolgessero nel loro morbido abbraccio dopodiché, aumentando gradatamente l’andatura, volteggiammo sul sottobosco come due uccelli predatori.
Scivolammo tra le piante e i cespugli, senza quasi rendere nota la nostra presenza agli abitanti del bosco.
Sentirmi schiaffeggiare il viso dal vento era sempre un’esperienza esaltante e, per qualche secondo, le endorfine prodotte dalla corsa mi aiutarono a distogliere la mia mente da tutti i problemi che mi stavano arrovellando il cervello.
Era difficile accettare tutto ciò che stava succedendo, non di meno non potevo mentire a me stessa.
Leon era morto, il suo assassino anche e, con tutta probabilità, nemici ancora più pericolosi di un fratello irritato e vendicativo mi stavano cercando.
Per uccidermi o altro, non potevo dirlo, e forse appartenevano a una razza che neppure conoscevamo.
Cosa, o chi, avevo scatenato? E perché?
Gli spezzoni di frasi che, ogni tanto, e sempre per troppo poco tempo, correvano come schegge impazzite nella mia testa, non mi avevano aiutato a farmi un quadro d’insieme.
Avevano solo contribuito ad accrescere la mia frustrazione.
Detestavo i ricordi a pezzettini.
Procedendo a velocità sostenuta come stavamo facendo, non ci occorse molto tempo per raggiungere il Vigrond.
Con un sorriso e un sospiro di sollievo, mi lasciai invadere dal coro di voci, suoni e sussurri che appartenevano a quel luogo così mistico e ricco di magia.
Anthony ristette al limitare della radura, come era d’obbligo quando una wicca operava con le potenze del Vigrond.
Sedutami dinanzi alla quercia, affondai le mani tra il fogliame secco, i fili d’erba e il terriccio smosso dall’azione di qualche scoiattolo in cerca di ghiande.
“Il mio ringraziamento a te, o Sacra Fonte, per tutto ciò che mi offri e per la serenità che porti al mio cuore.”
La tua mente e la tua anima sono turbate. In cosa posso esserti utile, Figlia della Luna, Sacerdotessa  della Madre, Signora dei Lupi?
“Un pericolo incombe su di me, ma non viene né dai figli della Madre legati alla luna, né dagli esseri umani, temo. Puoi dirmi se esistono altre razze senzienti, oltre a quelle che ti ho citato?” chiesi sommessamente, chiudendo gli occhi per immergermi nella memoria a breve termine della quercia.
Vidi solo una rappresentazione spettrale e silenziosa della foresta che mi circondava.
Come se fossi nella pagina iniziale di Google, e dovessi inserire nella barra di ricerca il sito di mio interesse.
So dell’esistenza di creature legate alla Madre, ma che non sono Figli della Luna, e neppure esseri umani. Essi sono pervasi dallo spirito della guerra, e hanno sembianze di orso, quando sono spinti a lottare e distruggere.
“Sembianze… di orso?” esalai sorpresa.
Orsi mannari, dunque? Possibile fossero loro a darmi la caccia? E perché, poi?
Temo che la loro sia una vendetta personale, Figlia della Luna, e mi rammarico di non avertene parlato prima, ma non pensavo davvero che qualcuno avrebbe sguinzagliato i berserkir contro di te.
“Berserkir? E che diavolo sono?” sbottai confusa, prima di rammentare i fumetti di mio fratello.
Oh, ottimo. Se erano le stesse creature che avevo in mente io, erano dei pazzi invasati con la mania della guerra e del sangue.
Percepii l’ansia di Anthony al suono ancestrale di quel nome, mentre il mio corpo formicolava come se fossi stata percorsa da una scossa a basso voltaggio. Che mi stava succedendo?
Flash di immagini baluginarono nella mia mente e la quercia, con voce rammaricata, mi mise a conoscenza di un segreto, rimasto fino a quel momento sopito nei suoi ricordi… e nei miei.
E’ giusto che tu sappia a chi appartenne l’anima che ha dato il soffio della vita al tuo corpo, poiché la sua rinascita è forse strettamente collegata a ciò che ora sta avvenendo.
“Che intendi dire?” esalai preoccupata, reagendo ai flash nella mia testa con brevi movimenti del capo a destra e a sinistra, come se mi stessero sottoponendo all’elettroshock.
La tua anima immortale apparteneva a Fenrir, il capostipite della vostra razza, figlio del dio immortale Loki, e perciò gemma di stirpe divina. Per questo, i tuoi poteri di wicca sono unici, per questo il tuo corpo di lupo è uguale a quello degli altri Fenrir, per questo temo tu sia in pericolo.
Fenrir. La mia anima era appartenuta a Fenrir! E, peggio ancora, la parte del mito riguardante Loki era dunque vera! Fenrir era figlio di un dio!
Sgranai gli occhi, turbata e annichilita assieme da quella notizia sconcertante e, balbettando a fatica, gracchiai: “Dunque… Duncan e…”
Coloro che fanno parte della tua Triade di Potere sono i possessori delle anime che, un tempo, furono di Avya, Hati e Sköll, Figlia della Luna. Fenrir chiese loro un’alleanza in questa vita e loro accettarono, ma non mi è dato sapere cosa lo spinse a decidere di rinascere visto che, fino a quel momento, la tua anima era rimasta sopita, per sua stessa scelta, nel ventre della Madre.
“Oh, mio Dio” sussurrai, socchiudendo gli occhi e portandomi una mano alla gola come se stessi soffocando.
E forse era davvero così.
Avevo mentito a Duncan. Non era vero che il destino non ci aveva uniti assieme. E io che mi ero illusa fino a quel momento!
Non pensarlo un solo secondo della tua vita, Figlia della Luna!
La voce stentorea della quercia rimbombò tra le pareti della mia testa come il suono di un gong e io, sobbalzando, esclamai piccata: “Perché dovrei crederti?!”
Perché non è così che funziona. Le anime non forgiano il carattere. Le anime danno la vita, ma non decidono come camminerai su questa terra. Avresti potuto innamorarti di Jerome, o di Lance, o di nessuno di loro. Non a questo serve il vostro legame. È un legame che ha lo scopo di rafforzare i tuoi poteri, e loro hanno acconsentito a essere con te come compagni in questa vita, null’altro. Tu e Duncan vi siete innamorati perché vi siete piaciuti vicendevolmente, ma le vostre anime non c’entrano nulla con ciò che provate.
“Sei sicura?” sospirai a quel punto, non ancora del tutto certa di poter ricominciare a respirare agevolmente.
Non mi è dato di mentire, Figlia della Luna.
“Capisco, però,…” cominciai col dire, prima di percepire il grido d’allarme nella mente di Anthony.
Un attimo dopo, avvertii a mia volta un odore insolito e che non avrebbe dovuto trovarsi in quel luogo sacro, interdetto a chiunque non avesse il permesso di entravi.
Lasciando a un secondo momento la mia discussione con la quercia, mi alzai in piedi mentre Anthony mi raggiungeva. Afferratolo ad un braccio, gli chiesi turbata: “Senti quello che sento io?”
“Sì. Puzza di guai.”
Non avrei saputo esprimermi meglio.

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Capitolo 16
*** Cap. 16 ***


16.

 
 
 
 
 
 
 

Mi misi istintivamente in posizione di attacco, piegandomi in avanti e arcuando le mani ad artiglio mentre Anthony, parandosi di fronte a me, ammise preoccupato: “Non ho mai sentito un odore più insolito di questo.”
“Gran brutto segno” brontolai, guardandomi intorno con aria guardinga. “Sono almeno sei. Di certo, non sono molto sportivi.”
“Credo se ne freghino della sportività” ringhiò Anthony.
Al pari mio, sgranò gli occhi non appena scorgemmo, nella penombra del bosco, alcune figure grottesche e che ricordavano tanto i miei incubi di bambina.
Quegli esseri erano alti non meno di due metri, ritti su gambe massicce e forti – anche se definirle solo massicce era un eufemismo.
Il tronco e le braccia, interamente ricoperti di pelo scuro e folto, mi fecero tornare in mente l’orso Yoghi.  
Peccato che questi fossero i suoi cugini spaventosi.
Quelle creature da incubo circondarono per intero il perimetro del Vigrond, impedendoci di fatto qualsiasi fuga.
Impossibilitati a lanciare messaggi mentali – eravamo troppo distanti da Farley, perché qualcuno ci potesse sentire – ci ritrovammo nella spiacevole condizione di doverli affrontare da soli.
“Suggerimenti?” sussurrai, scrutando a fasi alterne quei mostri dalle zanne aguzze e le unghie spaventosamente lunghe.
“Non saprei proprio da dove cominciare” brontolò Anthony, prima di chiedermi: “Con i tuoi poteri di wicca percepisci qualcosa?”
“No. Zero assoluto. Temo che, contro di loro, i miei doni non servano a nulla, a meno di non sradicare tutte le piante del bosco e lanciarle contro di loro” borbottai, aggrottando la fronte per l’ansia.
Avevo tentato immediatamente un qualche tipo di approccio con le loro menti, ma era stato come cercare un fantasma.
Per il mio potere, loro erano inesistenti.
Se potevo vagamente percepire le menti degli umani, con loro questo era del tutto impossibile, perciò non potevo utilizzare la loro forza per contrastarli, né usare quella del mio lupo per ferirli col pensiero.
Potevo percepire la loro forza vitale, ma la faccenda finiva lì.
“Attacco diretto?” propose allora Anthony, prima di veder giungere un nuovo arrivato.
Se i primi mi avevano spaventato, quello mi terrorizzò, facendomi crollare a terra per il panico.
Era alto ben più di tre metri e le sue fauci erano così spaventose, che neppure il più feroce o terrificante dei licantropi, avrebbe fatto sorgere così tanta paura in me come, invece, era capace di fare quella creatura.
I suoi occhi, dotati di un’intelligenza umana che conferiva un aspetto ancor più sinistro a quell’essere, mi fissarono per alcuni attimi con cupa indifferenza.
Un attimo dopo le sue carni, squassate da brividi e scricchiolii, lasciarono scaturire le sue sembianze di uomo.
Quando la mutazione fu completa, mi ritrovai a fissare con occhi spalancati e membra tremanti un uomo alto più o meno due metri, dalla corporatura robusta e ricoperta interamente da fasce muscolari maledettamente sviluppate.
La sua ovvia nudità non mi colpì come, invece, lo fecero la sua distesa apparentemente infinita di tatuaggi rossi e bruni, che tingevano il suo corpo statuario.
La sua pelle naturalmente bronzea era ricoperta da un’intricata selva di simboli celtici, e una pesante torque d’oro con due teste d’orso ai capi attorniava il suo collo taurino.
Lunghe e morbide onde biondo platino incorniciavano il suo viso dai lineamenti feroci, solleticandogli le spalle enormi.
Scendevano fino a sfiorargli la vita, mentre un paio di treccine, strette da lacci di pelle, scivolavano sul suo torace robusto e cosparso da leggera peluria bionda.
Nel complesso, sembrava uscito dall’opera dei Nibelunghi.
Tutto ciò che avevo di fronte non poteva esistere, eppure, ciò che il mio naso percepiva erano carne, sangue e pelo, niente altro.
Perché il suo odore era così fuorviante?
Non poteva comunque trattarsi del parto della mia fantasia quanto, piuttosto, di un’altra creatura ancestrale.
Anthony, accucciandosi accanto a me, mormorò roco: “Qui la vedo davvero brutta. Stai bene?”
“Se la smetto di tremare, sì” replicai, accettando la sua mano per alzarmi da terra.
Le gambe sembravano fatte di gelatina, ma non potevo affrontare i miei nemici standomene seduta sulle foglie della quercia.
Dovevo dimostrare un po’ di spavalderia – per fasulla che fosse – o non mi avrebbero presa per niente sul serio.
Guardai perciò la più possente tra quelle creature e, cercando di controllare il tremolio che ancora scuoteva il mio corpo, domandai con tono inquisitorio: “Cosa volete da noi? Sapete di essere in un luogo sacro?”
Udimmo soltanto grugniti e bassi ringhi di gola che, sibilando minacciosi, fuoriuscirono dalle loro fauci ghignanti.
Deglutii un paio di volte, prima di ripetere la mia domanda.
Il guerriero che si era trasformato, allora, avanzò di un passo e sogghignò.
Stentoreo, esclamò: “Il bosco è sacro anche per noi, ma non tu, creatura immonda di cui non voglio neppure dire il nome per non insozzare l’aria che ci circonda.”
Non fosse stato che, a quanto pareva, ce l’aveva a morte con me, avrei trovato la sua voce molto bella.
Anthony si mise subito in posizione di attacco e ringhiò in risposta: “Non ti permetto di offendere così impunemente la nostra Prima Lupa!”
Lui non lo degnò neppure di uno sguardo, limitandosi ad asserire: “Io non vedo una Prima Lupa di fronte a me, ma l’immonda presenza di colui che cercò di uccidere Wotan e suo figlio Tyr!”
Il mio corpo vibrò al suono di quei nomi, mentre ricordi che non mi appartenevano rimbombarono nella mia mente spaventata, ma vigile.
Ora che sapevo, conoscevo la provenienza di quelle immagini, ma ciò non mi aiutò a sentirmi meglio.
Il fatto che l’anima di un semidio mi avesse dato la vita, non mi dava stimoli sufficienti per starmene tranquilla in panciolle a godermi lo spettacolo.
Piuttosto, mi faceva tremare di paura, ancor più dei nemici che stavamo fronteggiando in quel momento.
Sapevo a cosa si stesse riferendo quel berserkr, ma non capivo come mai tanto livore per un evento che, tra le altre cose, non si era mai verificato. A meno che…
Aggrottai la fronte e dissi: “Non penserai davvero che io sia qui per fare del male a qualcuno, spero?!”
“So da fonti certe che il tuo ritorno significa distruzione. E noi te lo impediremo! Sappiamo che, imprigionato per l’eternità, ti togliesti la vita piuttosto che sottometterti alle regole di Wotan! Beh, stavolta agiremo noi prima di te, impedendoti di distruggere tutto!”
Le ultime parole quasi me le sputò in faccia, tanto era furioso.
Sempre grazie ai ricordi di Fenrir, che ora mi stavano tempestando la mente di immagini e flash più o meno intensi, sapevo bene come fossero andate le cose, quel giorno. Dubitavo però fortemente che, quel berserkr, avrebbe ascoltato le mie parole.
Preso un gran respiro, posai una mano sulla spalla di Anthony per trattenerlo e, cauta, chiesi: “Se vengo con voi, lascerete in vita il mio lupo?”
“Non abbiamo nulla contro i servitori della Madre, che anche noi adoriamo” dichiarò il berserkr, con voce più calma, fissando Anthony senza animosità alcuna “E’ solo la tua presenza su questa Terra che ammorba l’aria. E te solo puniremo.”
Anthony mi fissò confuso e preoccupato così, a mo’ di spiegazione, mormorai: “Si riferisce all’anima che ho dentro di me. Perciò, parla al maschile.”
“Ma Prima Lupa, Brianna…” tentennò Anthony, afferrandomi un braccio per non lasciarmi andare.
Gli sorrisi mesta, chiedendogli: “Qual è il compito di una Prima Lupa?”
Anthony aggrottò la fronte e disse controvoglia: “Proteggere il branco. Proteggere i suoi figli.”
“Appunto. E tu sei figlio mio, Anthony. Non permetterò che ti facciano del male, perciò andrò con loro” dichiarai con sicurezza, sfiorandogli il viso con una mano e sorridendo debolmente.
“Ma Duncan,… lui mi ha…” tentennò ancora, indeciso se lasciarmi fare o meno.
Lo azzittii, posando un dito sulle sue labbra e, scuotendo il capo, replicai: “Capirà, quando gli avrai detto il perché della loro venuta. Digli di parlare con la quercia. Lui può farlo. Gli spiegherà ogni cosa e, beh, sarà poi lui a decidere il da farsi.”
Non ero sicura che, la notizia di avere l’anima di Avya dentro di sé, lo avrebbe reso felice.
Questo avrebbe fatto sorgere in lui antiche paure come era successo a me, ma era giusto che sapesse.
Un basso ringhio di gola mi giunse alle orecchie, segno che i miei ‘accompagnatori’ stavano mordendo il freno perciò, allontanandomi di un passo da Anthony, gli ordinai: “Non cercare di fare cose stupide. Aspetta che ce ne siamo andati, poi torna a casa.”
“Duncan mi ammazzerà” asserì Anthony, sorridendo mesto.
Sapevo che non era quell’eventualità a spaventarlo quanto l’idea che, quasi sicuramente, mi avrebbero fatto del male.
Sorridendogli nell’indietreggiare verso i miei silenziosi nemici, mormorai: “Quando leggerà la tua mente, capirà. Hai la mia benedizione, Anthony. Possa la luna esserti guida e compagna.”
“E’ un grande onore che mi fai, wicca” esalò con voce straziata Anthony, piegando il capo in avanti prima di tornare a guardarmi con occhi lucidi di lacrime.
Il berserkr più vicino a me, aggrottando la fronte nel prendermi per un braccio, mi domandò turbato: “Sei veramente wicca?”
“Hai qualche scrupolo di coscienza?” lo irrisi per contro, trattenendo un'imprecazione quando la sua stretta si fece più forte attorno al mio braccio.
Le sue sopracciglia chiare formarono una V sulla sua faccia accigliata e io, preferendo non prendere bastonature prima del necessario, mi azzittii.
Lanciai un ultimo sguardo al Vigrond e ad Anthony che, impotente, ci vide sfilare davanti a lui fino a scomparire nel bosco.
Rassegnata, strattonai il braccio per recuperarlo dalla stretta del mio nemico e, con voce piana, borbottai: “Non ho intenzione di scappare. Quindi, puoi anche lasciarmi intero il braccio.”
“Non ne avresti comunque alcuna possibilità, femmina” mi disse il berserkr, sogghignando al mio indirizzo prima di levare un braccio.
Un attimo dopo avvertii un possente colpo alla nuca, e poi più nulla.

***

Dondolavo leggermente, o almeno così mi sembrava.
Un fresco profumo di menta e miele mi solleticò le narici, mentre il rollio che mi stava cullando si fece un poco più prepotente, svegliandomi del tutto.
Ero avvolta dalla penombra, con rade lame di luce che sgusciavano furtive da sotto una porta – con tutta probabilità chiusa a chiave.
Tutt’attorno a me, un’angusta cabina mi abbracciava nella sua claustrofobica piccolezza.
Dove diavolo ero?
Volgendo lo sguardo verso l’alto dopo aver tastato con le mani il mio giaciglio – a quanto pareva, ero sdraiata su un lettino striminzito – vidi condutture idrauliche e corrugati grigiastri contenenti, presumibilmente, fasci di cavi elettrici.
Nell’aria, oltre al dolce profumo della menta mescolata al miele, potei avvertire chiaramente l’aspro sentore del mare e quello forte e pungente di molti umani, oltre a diversi berserkir.
Quando cercai di muovermi per scendere da letto, scoprii con un certo nervosismo di avere mani e piedi legati e, pur tentando con tutte le mie forze di liberarmi, non vi riuscii.
Dopo dieci minuti di tentativi infruttuosi, grugnii indispettita e fu a quel punto che la lama di luce sotto la porta venne adombrata.
Un attimo dopo, il battente si aprì con un clang secco e metallico e, dall’esterno, un fascio luminoso penetrò per un momento prima di scomparire lesto, lasciando al suo posto solo la figura del mio rapitore.
“Sei sveglia. Bene” mi disse soltanto lui.
Lo guardai muoversi nell’angusta stanzetta e chiesi: “Dove sono?”
“Su un bastimento, se può interessarti” mi spiegò il berserkr, sogghignando per un momento prima di afferrare una tazza dal tavolino grezzo di fronte al letto.
Con la mano libera mi sollevò con facilità, mettendomi a sedere – neppure fossi stata un fuscello – e, accostatomi alle labbra il the che aveva attirato la mia curiosità, disse ancora: “Questo ti manterrà in vita fino al nostro arrivo. E’ arricchito con miele e vitamine in polvere.”
“Per volermi morta, mi state trattando piuttosto bene” brontolai, pur apprezzando la bevanda calda lungo la gola inaridita.
Bevvi avidamente, scrutando nel contempo la stanza nel tentativo di scoprire qualche possibile via di fuga – che non trovai.
Mi leccai soddisfatta le labbra e chiesi: “Avete in previsione un gran finale, per me? Di solito si fa così, nei film. Si ingozza il maialino prima di metterlo allo spiedo.”
L’uomo sogghignò divertito, lasciandomi seduta mentre riponeva la tazza sul tavolo e, poggiatosi contro di esso, intrecciò le braccia possenti sul torace – ora ricoperto da una maglietta  a maniche corte color vinaccia.
“Forse preferiresti davvero la morte, a quello che realmente ti aspetta.”
“Detta così, suona davvero male” scrollai le spalle, muovendo i piedi avanti e indietro. Li sentivo intorpiditi, non meno delle mani.
“Per una che sta per subire una sorte orrenda, mostri un’insolita ironia” dichiarò il mio rapitore, sollevando curioso un folto sopracciglio chiaro.
“Colpa mia, non di Fenrir” replicai acida.
Lui si avvicinò nuovamente a me e slegò a sorpresa le corde sottili che mi tenevano imprigionate le caviglie, dicendo: “La nostra guida non ne sarà affatto contenta. Ma poco importa.”
“Non si può star simpatici a tutti” commentai aspra. “Grazie. Mi sembrava di non averli più, i piedi.”
“Devi giungere viva e integra al rito, o non ci sarebbe gusto” replicò neutro l’uomo, gelandomi con quelle semplici parole.
Sbattei le palpebre, confusa, prima di scrutare il laccio tra le sue mani e domandare dubbiosa: “Cosa può esistere di così resistente da tenere imprigionato un licantropo?”
“Non un licantropo, ma te” precisò l’uomo. “Ora cammina un poco per riattivare la circolazione, poi faremo la stessa cosa per le mani.”
Obbedii mio malgrado – non volevo perdere un arto prima del tempo e, soprattutto, prima di aver chiarito la marea di dubbi che affollavano la mia mente intontita – e cominciai a muovere qualche passo per la stanza angusta. 
“Mi avete dato dell’aconito? Mi sento come se mi fosse passato sopra un C-130.”
“Una quantità minima per tenerti buona, sì” annuì come se nulla fosse, scrutandomi come un falco osserva la preda prima di divorarla.
Rabbrividii mio malgrado, prima di chiedergli ancora: “Sei un berserkr?”
Non parve sorpreso, né della mia domanda, né del nome che usai per definirlo, quindi diedi per scontato che il suo fosse un implicito sì.
In ogni caso, mi rispose.
“Tale è il mio nome e, se tu potessi accedere ai ricordi della tua anima immortale, conosceresti molto altro di me e della mia razza poiché Fenrir ci conobbe, in gioventù, prima di dedicarsi al male e alla distruzione.”
Qualcosa non andava, riguardo alla storia di Fenrir, ma non avevo né la forza, né la voglia, di sostenere una discussione con lui.
Ero più che convinta che, se si fosse arrabbiato, qualche livido prima del gran banchetto in mio onore me lo avrebbe lasciato volentieri.
Tenni perciò la bocca chiusa – rarità! – e mi limitai ad annuire, continuando a camminare per la piccola cabina, chiedendomi dove fossimo diretti e quanto tempo avremmo passato in mare.
All’esterno, potevo udire il rombo cupo e lontano dei motori diesel del bastimento, lo scroscio dell’acqua contro le paratie metalliche della nave, il leggero fruscio del vento di nord-est, il respiro degli umani e dei berserkir.
Distante, un lettore cd stava riproducendo un brano dei Radiohead, mentre alcuni marinai canticchiavano seguendone il ritmo.
Le voci erano assonnate e leggermente gongolanti, come se fossero un po’ brilli o, forse, solo stanchi dopo una lunga giornata di lavoro.
Sembravano parlare russo, ma questo mi diceva poco o nulla, sulla nostra destinazione finale.
Potevamo essere diretti a Minsk, come alle Maldive.
Il mio rapitore sorrise divertito – forse aveva intuito cosa stavo tentando inutilmente di fare – e mi chiese ironico: “Vuoi vedere l’esterno?”
“Tanto non mi potrò orientare, giusto?” brontolai, storcendo la bocca. La sentivo amara. L’aconito era nella bevanda.
“Esatto” assentì con ironia, strattonandomi per un braccio e portandomi fuori dalla stanzetta.
La luce al neon del corridoio stretto e lungo dove sbucammo mi ferì gli occhi, così impiegai qualche attimo prima di comprendere dove i miei piedi si stessero appoggiando.
Era tutto ricoperto di metallo – una nave cargo, forse? – e non c’erano fronzoli come intarsi in oro o pannellature di legno, sulle pareti prive di ornamenti.
Dopo aver percorso quel lungo camminamento per almeno una ventina di metri, imboccammo una scaletta ripida e stretta, che conduceva a una porta tenuta chiusa da una pesante leva ricurva.
Lì, sempre tenendomi ai polsi per non concedermi libertà alcuna, l’uomo aprì con uno scatto improvviso della mano, celiando: “Ecco a te il ponte di prima classe.”
Lo guardai storto, borbottando: “Dimmi che non hai visto Titanic, o penso che vomiterò.”
Lui si limitò a scoppiare a ridere, ora sinceramente divertito e, sospingendomi fuori con malagrazia, disse soltanto: “Non mi abbasserei mai a guardare un film del genere.”
“Meglio. Mi sarei dovuta riempire di pugni, se avessi saputo che ti era piaciuto” commentai acida.
Non avrei mai accettato di avere gli stessi gusti cinematografici del mio nemico.
Un vento freddo e sferzante gelò qualsiasi mia altra arringa e, fissando sgomenta e pallida l’enorme distesa d’acqua che circondava la nave – completamente ricoperta di container – riuscii solo a deglutire, ogni volontà di fare battute spazzata via dalla ferocia degli elementi.
Una tempesta, all’orizzonte, tingeva di tonalità del viola e del blu il cielo all’imbrunire.
Lanciando uno sguardo ai flutti ingrossati ma non ancora minacciosi, chiesi: “Questa bagnarola regge una tempesta? Non mi sembra molto grande, e quelle bestiacce laggiù in fondo, invece, sembrano parecchio infuriate.”
“Colui che ci guida, preserverà le nostre vite” asserì soddisfatto il mio rapitore.
Sgranai gli occhi di fronte a una frase del genere, chiedendomi seriamente se fosse un pazzo furioso o semplicemente uno stupido.
Quella fiducia l’avevo vista solo nei filmati sui kamikaze, ma non ero del tutto sicura che, in quel particolare frangente, potesse esaltarmi.
Sospirai, scuotendo il capo, prima di dirgli: “Ho visto abbastanza, e comincio ad avere freddo. Possiamo rientrare?”
“Sì” annuì l’uomo, richiudendo dietro di sé la porta e facendo rimbombare le pareti metalliche attorno a noi.
Ero sconsolata e ai limiti del pianto.
Lontana da casa, impossibilitata a muovermi come avrei voluto, ero solo desiderosa del conforto e dell’amore di Duncan, del mio branco e della mia famiglia, e non sapevo che fare.
“Ho bisogno del bagno. E’ possibile…” tentennai, sperando non dovesse seguirmi fin lì.
Ridacchiò – già, la mia faccia trasparente – e mi disse: “Se sei in grado di slacciarti i pantaloni con le mani legate, non dovrò farlo io per te.”
“Ci riesco” sbottai subito, piccata e imbarazzata al tempo stesso.
Sarei morta, piuttosto che farmi toccare così da lui!
O magari dovevo sfidare la sorte e morire.
Se la sua subdola minaccia era vera, e mi aspettava qualcosa di peggio della morte, perché andarmela a cercare? Forse, dovevo farlo infuriare a tal punto da farmi ammazzare.
Idiota! Bei ragionamenti, che fai!, pensai tra me, scuotendo il capo per il fastidio.
L’aconito aveva dei bruttissimi effetti sul mio umore già nero.
In ogni caso, sarebbero cadute tutte le stelle del cielo prima che, un uomo che non fosse Duncan, toccasse i miei pantaloni per togliermeli!
Il mio rapitore indicò nel frattempo una porticina, che aprì dopo un attimo e, al suo interno, trovai una latrina piuttosto angusta, ma pulita.
Mi ci chiusi dentro, armeggiando con il bottone dei jeans e imprecando mentalmente tra me per non aver indossato, il giorno del mio rapimento, una tuta da ginnastica o una gonna.
“Come se avessi potuto prevederlo” brontolai tra me chiedendomi, nel contempo, come mai Elspeth o Beverly non avessero previsto quell’assalto.
Che colui che mi aspettava chissà dove, fosse così potente da bloccare le loro percezioni nel breve periodo?
Se era così, avevo di che preoccuparmi.
Sospirai forse per l’ennesima volta, mentre cercavo di riassestarmi e uscire dall’angusto bagnetto in cui avevo potuto espletare i miei bisogni.
Fermo contro una parete del corridoio, le braccia conserte e l’aria attenta, il mio rapitore mi scrutò per un momento prima di domandarmi: “Possiamo andare?”
“Direi di sì” assentii con tono mogio, fissandolo curiosamente. “Posso sapere il tuo nome?”
“I nomi hanno potere, per gli dèi, specialmente per creature malvagie come quella che dimora dentro di te…” mi spiegò, scrutandomi ironico per un istante. “… ma, se può rendere più piacevole il tuo ultimo viaggio verso l’inferno, allora puoi chiamarmi Alfgar.”
Storsi la bocca, riconoscendo il nome, e replicai: “Ti dai alla mitologia Arturiana?”
Lui sollevò un sopracciglio biondo platino, ghignando divertito.
“E’ solo un modo per ricordarti che sono un’arma che potrebbe ucciderti da un momento all’altro, se non fai la brava bambina.”
“Cosa vuoi che faccia?!” protestai, sollevando le mani dove il laccio di seta nera, che mi circondava i polsi, mi irritava a ogni secondo che passavo sveglia. “Questa specie di… di corda mi impedisce qualsiasi movimento, siamo su una bagnarola di ferro che inibisce i miei poteri e, oltretutto, mi tenete intontita con l’aconito!”
Annuendo, Alfgar – chissà qual era il suo nome, in realtà? – mi disse: “Ovviamente, tutto ciò che dici è vero. Nessuno di noi pretendeva non te ne accorgessi.”
“Allora non minacciarmi per niente. Non lo sopporto” brontolai, ringhiando poi torva: “Che diavolo è, poi, questa roba con cui mi avete legata?!”
“E’ gleipnir. Pensavo che ormai ci fossi arrivata” replicò Alfgar, sorprendendomi non poco.
Sgranai un momento gli occhi, cercando nella mia mente ottenebrata dall’aconito il significato di quella parola, ma trovai solo foschia e poco altro.
Alfgar, notando sicuramente la mia espressione confusa, annuì come rammentandosi un particolare che, in precedenza, non aveva tenuto in considerazione.
“Fenrir è bloccato non meno dei tuoi poteri, a causa dell’aconito. E così i suoi ricordi. Gleipnir era il laccio con cui fu legato alle pietre Gjöll e Þviti.”
“Oh” riuscii a dire, sorpresa.
Quindi, l’anima di Fenrir interagiva con il mio corpo più di qualsiasi altro spirito potesse normalmente fare.
Ottimo. Beh, avrei dovuto aspettarmelo. Da grandi poteri derivano… grandi rotture.





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N.d.A.: direi che qualche dubbio, ormai, comincia a svanire... :)


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Capitolo 17
*** Cap. 17 ***


17.

 
 
 
 
 
 
 


 

Sangue caldo e denso mi avvolgeva il viso, le mani, il corpo. Era come una coperta soffocante e intrisa di dolore.
La mia lingua lo assaggiò e, dalla mia bocca spalancata, eruppe un grido.
Quel grido perforò le mie orecchie, straziò i miei polmoni, divorò la mia anima.
E mi svegliai.
Ansante, spaventata, depressa, desiderosa solo di raggomitolarmi su me stessa e piangere fino a morire, mi rannicchiai sul lettino dove mi trovavo e singhiozzai. Le mani erano ancora bloccate da gleipnir, e l’ago di una flebo era infilato nella piega del gomito.
Le sacche trasparenti di soluzione fisiologica, che mi somministravano ogni poche ore, contenevano il quantitativo minimo necessario per farmi sopravvivere.
Assieme a liquidi e zuccheri, era presente anche una dose sufficiente di aconito, che manteneva intorpiditi i miei sensi e l’anima di Fenrir.
Cosa temessero da quell’anima, dovevo ancora capirlo.
In ogni caso, l’aconito mi stava indebolendo a ogni ora che passavo sotto il suo influsso.
La porta di ferro della mia cuccetta-prigione si aprì con uno stridio di cardini e ruggine, sfregati con malagrazia.
Scostando un poco il viso dal cuscino per scrutare il bagliore di luce penetrare temporaneamente nella stanzetta buia, mormorai roca: “Ah… sei tu.”
Alfgar. O come diavolo si chiamava.
Era l’unico berserkr che avevo visto, da quando mi ero risvegliata sulla nave cargo, su cui ero stata forzatamente imbarcata.
Non era stato mai violento con me, né mi aveva percossa, ma era evidente che non si sarebbe mosso a pietà decidendo di salvarmi.
Non ce l’aveva direttamente con me, ma con Fenrir.
Il fatto che io fossi il suo involucro di carne umana, contava poco per lui. Gli spiaceva, forse, ma non così tanto da impedire la mia condanna.
Di qualsiasi genere di condanna si trattasse.
Mi scrutò con i suoi chiari occhi di gelido ghiaccio siberiano prima di chiedermi: “Un incubo?”
Annuii, sospirando, e biascicai: “Brutti ricordi.”
Alfgar si appoggiò al tavolino sul fondo della stanza, le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans ed io, mossa dalla mia insaziabile curiosità, gli domandai: “Fitzroy… lo avete ucciso voi? Eravate in combutta con lui?”
Si accigliò leggermente al suono di quel nome, e rispose alla mia domanda con un altro quesito.
“Era questo il tuo incubo? La morte del ragazzo che ha ucciso Fitzroy?”
Quindi, era stato veramente lui.
Averne la conferma non mi fece stare meglio.
Non seppi neppure dire quale esatta reazione ebbe il mio cervello, a quella notizia, visto quanto era intorpidito dall’aconito.
Sentii solo altre calde lacrime scendere lungo il viso, silenziose come la morte cui avevo assistito e di cui ero stata causa.
“Fitzroy è morto per quello che ha fatto” mi confessò a sorpresa Alfgar, senza alcuna inflessione nella voce.
Fu come se avesse parlato del tempo, o del risultato di una partita di calcio.
Non gli interessava minimamente che il suo compagno licantropo fosse morto.
“Non. Capisco” riuscii a scandire, nonostante mi sentissi debole come un pulcino.
“Nessun innocente avrebbe dovuto morire durante la nostra caccia. Lui era stato avvertito.  Avrebbe avuto la sua vendetta su di te solo a queste condizioni, ma si è fatto accecare dall’ira e ha commesso un errore che gli è costato la vita” mi spiegò Alfgar, sempre con il suo tono piano.
“Perché non mi avete cercata voi fin da subito, allora?” gli chiesi a quel punto, sempre più confusa.
Perché nascondersi nell’ombra?
“Il nostro odore così insolito vi avrebbe messi in allarme. Non volevamo scoprire le nostre carte prima del tempo. Avvicinarsi a te non è facile, Prima Lupa. A Londra, troppi alfa controllavano ogni tuo passo e sarebbe stato impossibile, per creature come noi, giungere a te senza destare sospetti. Il vostro fiuto è molto più sviluppato del nostro, e i lupi del clan londinese avrebbero captato subito una presenza estranea sul loro territorio. Pur non conoscendone la natura, si sarebbero insospettiti. Così, abbiamo preferito affidarci a Fitzroy, che avrebbe potuto muoversi più agevolmente senza essere notato” ammise Alfgar, intrecciando le gambe con fare disinvolto.
Sospirando, annuii e dissi: “Joshua non ha problemi nell’accettare sul suo territorio lupi nomadi. Vi siete informati bene.”
“Abbastanza” annuì a sua volta Alfgar, con un leggero ghigno.
“Quindi, lui doveva portarmi da voi, giusto?” Non avrebbe cambiato la mia situazione, ma volevo sapere.
“Esatto. Ma è evidente che ci siamo affidati alla persona sbagliata” commentò aspro Alfgar. “Lo avevamo avvertito che, se avesse commesso un altro errore dopo la tua aggressione al pub, l’avrebbe pagata cara ma, a quanto pare, il suo desiderio di vendetta si è rivelato più forte rispetto alla paura scatenata dalle nostre minacce.”
“Mai far fare ad altri ciò che si potrebbe fare da soli” chiosai, chiudendo gli occhi.
Ero troppo stanca per sostenere il suo sguardo.
“Lo abbiamo notato. Così, abbiamo deciso di muoverci in prima persona. Abbiamo allontanato con l’inganno il tuo compagno, così che lui e il suo lupo più forte non fossero presenti per aiutarti, e ci siamo mossi contro di voi. Spero non ne avrai a male per la fine che hanno fatto i tuoi lupi sul confine” mi spiegò, attirando la mia attenzione.
Spalancai gli occhi, sorpresa e inorridita, ed esalai: “Non avrete… le mie sentinelle!”
“Si sono battute bene, ma erano troppo poche e, contro i berserkir scatenati in battaglia, esistono pochissime possibilità di sopravvivenza, se non si è preparati. Di fronte alla berserksgangr scatenata, esistono ben poche armi” asserì Alfgar, con un tono neutro della voce.
Non si stava vantando. Ne parlava come se fosse un dato di fatto. E forse era così.
“Cosa… che diavolo è la cosa di cui hai parlato?” chiesi, stringendo i denti per non dire cose di cui, forse, mi sarei pentita in un secondo momento.
“La berserksgangr è lo stato di furia dei berserkir. E’ ciò che ci rende invincibili in battaglia” mi spiegò Alfgar. “Per questo ti dico; i tuoi lupi hanno dimostrato coraggio e sprezzo del pericolo, ma non avevano scampo alcuno.”
Strinsi le palpebre, desiderosa di urlare tutto il dolore che stava crescendo dentro di me, come un’esplosione di magma all’interno di un vulcano, ma mi limitai a dire soltanto: “Vattene. Per favore.”
Non avevo neppure la forza di gridare il mio tormento e il mio strazio, per la fine che avevano fatto i miei valenti lupi, e tutto per colpa dell’aconito che mi stavano dando per tenermi buona.
Li odiai con tutta me stessa, per questo.
Alfgar non disse nulla, limitandosi a uscire dalla cuccetta.
Rimasta sola con la consapevolezza di avere altre morti sulla coscienza, piansi in silenzio al pensiero di Jessie, Albert, Stephenie e i tanti altri lupi che avevo inviato sul confine per proteggere il clan.
Ripensai alla prima volta in cui avevo conosciuto Jessie, sia in forma animale che umana, e il mio cuore si spezzò.
Rividi nella mente il volto sereno e indomito di Albert, uno dei più potenti alfa del branco, e le mie mani tremarono al ricordo della sua stretta possente e fiera.
E Stephanie, la dolce, caparbia lupa che si era offerta volontaria per controllare il lato nord della contea di Matlock.
Ventitré inverni, nulla più. E i berserkir, forse, l’avevano spazzata via come un colpo di spugna su una lavagna.
Gilbert, Hugh, Marlon, Gwenevère, Sam, Joseline.
Tutti i loro nomi mi balenarono nella mente come tanti flash confusi.
Non sapevo chi di loro era sopravvissuto al passaggio dei berserkir, e chi fosse rimasto vittima sul campo, ma il pianto e la disperazione vennero per ognuno di loro, finché il sonno e la stanchezza non mi strapparono all’angoscia.

***

Il suono della sirena della nave mi destò di colpo, liberandomi dal sonno privo di sogni in cui ero caduta dopo la scoperta della morte di alcune delle mie sentinelle.
Forse, non avrei mai saputo chi avevo perso, e solo questo mi bastava per avere il cuore pesante e afflitto.
Sapere che Duncan si era trovato lontano dai luoghi della battaglia, non bastava a rendermi speranzosa.
Alfgar aveva detto di aver attirato Duncan e Lance lontano da me con l’inganno.
Possibile che la disputa che si era accesa tra alcuni lupi, e che aveva richiesto la presenta del loro Fenrir, fosse stata orchestrata da loro? O da colui che attendeva il mio arrivo?
Chi avevo di fronte? Cos’altro poteva fare?
Rabbrividii, provando istintiva e spontanea paura e, rattrappendomi sotto le coperte di lana grezza, ascoltai intorpidita le gocce della soluzione fisiologica scendere a un ritmo cadenzato e costante.
Non potevo nulla, in quelle condizioni, e contro un nemico così potente.
Era davvero la fine, questa volta.
Non avrei mai più rivisto Duncan, o Gordon, o Mary B. I miei lupi! Elspeth! Nessuno di loro avrebbe più sfiorato il mio sguardo!
“Avrai presto compagnia, Leon” sussurrai, prima di sentire i passi ormai familiari di Alfgar lungo il corridoio.
Alcuni attimi dopo entrò, armato di bracciate di abiti pesanti e già vestito egli stesso per affrontare un clima rigido.
Sorpresa, lo guardai avvicinarsi a me prima di sentirgli dire: “Scendiamo. E’ ora di raggiungere il luogo in cui, finalmente, riceverai la tua degna punizione.”
Lo lasciai fare – ero più debole di un pulcino appena nato e, alla minima resistenza, mi avrebbe sicuramente malmenata.
Sollevandomi a sedere, mi liberò della flebo e dei lacci di gleipnir ai polsi, infilandomi subito dopo la pensante giacca a vento della Napapiri che mi aveva portato.
Fatto ciò, rimise a posto il laccio costrittivo mentre io lo fissavo vacua, stordita dall’aconito e resa debole dalla mancanza di cibo solido.
Lui si limitò a togliermi le scarpe da ginnastica – non le avevo volute togliere perché avevo avuto freddo ai piedi – per poi farmi indossare sopra i pantaloni un pesante paio di brache imbottite, come usano gli sciatori.
Da ultimo, infilò ai miei piedi due pesanti scarponi da trekking e, alla fine, disse: “Andiamo. La via è lunga e l’aria è fredda. Il viaggio non sarà di certo agevole, e tu devi arrivare viva.”
Annuii e mi lasciai aiutare a mettermi in piedi, prima di procedere verso la porta.
“Quanto è freddo, là fuori?” gli domandai con voce roca.
“Staresti meglio come lupo, questo è sicuro” replicò solamente Alfgar, sospingendomi senza eccessiva forza.
Lo osservai assorta mentre apriva la pesante porta di ferro e, come mio solito, svoltai verso destra – ormai avevo imparato a memoria quel tratto di corridoio, in quei giorni.
Mi diressi con passo strascicato verso il ponte, sperando di non trovare la Siberia ad attendermi.
Non avevo ben chiaro quanto tempo fosse passato – quattro, cinque, sei giorni, chi poteva dirlo? – perché l’aconito aveva reso le mie percezioni davvero confuse e poco affidabili.
Alfgar non aveva certo aiutato, in questo, dandomi risposte vaghe e, a volte, non rispondendomi affatto.
Di lui, sapevo solo che era educato e non violento ma che, all’occorrenza, mi avrebbe steso con un pugno, se mi fossi ribellata a lui in qualche modo.
Non era un tipo con cui si potesse scendere a patti.
Sarebbe stato gentile con me finché io mi fossi comportata bene, altrimenti me l’avrebbe fatta pagare cara.
Dovevo arrivare viva ovunque lui mi dovesse portare, ma non aveva specificato in che condizioni di salute.
Quindi, meglio non farlo innervosire.
Inoltre, che mai avrei potuto fare, coi poteri ridotti a zero, indebolita dalla mancanza di cibo, da sola e in un luogo che non conoscevo?
Nulla.
Raggiunsi perciò il portellone che sbucava sul ponte della nave.
Dopo aver aspettato in silenzio che Alfgar calasse per me la leva che la teneva chiusa, uscii all’aperto e inspirai l’aria più fredda e secca che avessi mai sentito in vita mia.
Sgranando gli occhi, vidi di fronte a me un piccolo paesino immerso in un paesaggio lunare, con alti picchi innevati all’orizzonte e una luce fin troppo vivida per i miei occhi abituati da giorni alla penombra.
L’agglomerato urbano non sembrava essere molto esteso, e anche il porto dove eravamo arrivati ne rispecchiava le dimensioni ridotte.
Al suono cupo e profondo della sirena della nave, gru e uomini a bordo cominciarono a muoversi sul ponte per dare inizio allo scarico delle merci.
Sul molo, gli operai portuali erano già in posizione per spostare con i carri-ponti gli enormi container.
Quando le gigantesche strutture metalliche cominciarono a muoversi, con il loro stridore di cavi e di olio idraulico spinto a forza dalle pompe all’interno dei tubi, capii che quel cargo non era stato solo il nostro veicolo per raggiungere quello strano posto.
Si trattava davvero di un bastimento carico di merce.
“Pensavi di essere l’unica mercanzia a bordo?” mi irrise bonariamente Alfgar, sospingendomi perché scendessi le scale di metallo per raggiungere il ponte dabbasso.
Io e la mia faccia di cristallo!
Sbuffai infastidita, replicando: “Si può sapere dove siamo? Nel paese di Babbo Natale?”
“Siamo a Longyearbyen”  mi spiegò succintamente, prima di chiedermi “Hai freddo alle mani? Vuoi che ti metta i guanti?”
“Sarà meglio, o perderò le dita” mugugnai contrariata. “Dove sarebbe il posto che hai citato? Russia? Norvegia?”
“Svalbard” precisò Alfgar, infilandomi due pesanti manopole nere, come il resto degli abiti che mi aveva fatto mettere.
Ora, sembravo un enorme omino Michelin in versione dark.
Lo fissai per alcuni attimi, come per sincerarmi che non mi stesse prendendo in giro ma, nulla notando sul suo viso ermetico e bellissimo, sospirai afflitta e borbottai: “Andiamo bene. Non mi troveranno mai.”
“Perché? Pensavi potesse arrivare la cavalleria?” ridacchiò Alfgar, mentre un gruppo di una quindicina di uomini si avvicinava a noi.
Tutti indossavano abiti adatti al clima e, come potei notare con un certo disagio, erano tutti grossi come montagne.
Avevano un’aria così arcigna che persino Rambo avrebbe chinato la testa senza dire bau.
Mi rattrappii, quasi che da loro provenisse una minaccia fisica immediata ma Alfgar, chetando subito i miei timori, dichiarò: “Non ti uccideranno, se è quello che temi. Sono solo qui per scortarti al tuo luogo di … riposo eterno.”
“Oh, molto meglio di quel che avevo pensato io” brontolai, lanciando uno sguardo distratto alle casse che venivano calate fino alla banchina del porto.
Forse, avrei potuto lanciare un classico urlo da film, e attirare l’attenzione dei portuali perché mi liberassero dalla scomoda presenza dei berserkir.
Ma poi?
Come minimo, parlavano tutti russo, quindi non avrei neppure potuto spiegare loro cosa mi stesse succedendo.
Inoltre, se i berserkir avessero attaccato quegli uomini pur di non farmi scappare, in barba ai loro propositi di non uccidere innocenti?
No, non potevo di certo rischiare.
Sarebbe stato un bagno di sangue, e non volevo anche le loro vite, sulla coscienza.
Quando mi trovai a terra, perciò, rimasi in silenzio, camminando al fianco di Alfgar.
Cercai di non incrociare lo sguardo di quei curiosi che si stavano sicuramente chiedendo come mai, un gruppo di turisti – perché tali sembravamo – fosse sbarcato da una nave cargo.
Nessuno, comunque, ci disturbò. Sicuramente la stazza dei miei accompagnatori dissuase i più.
In ogni caso, i portuali avevano il loro lavoro da svolgere e non potevano perder tempo a chetare le loro curiosità innocenti.
Io mi limitai a non rimanere indietro, così da non dare occasione alcuna a nessuno di loro di darmi spintoni, o ingiuriarmi in qualche modo.
Non avevo voglia di discutere e, tanto meno, di essere usata come sacco da pugilato da quelle montagne umane.
Camminando a passo spedito, uscimmo dal porto schivando carrelli elevatori e trans pallet, raggiungendo infine un parcheggio isolato.
Lì, trovammo ad attenderci un paio di Land Rover, con tanto di appendici attaccate al gancio di traino.
Cosa vi fosse all’interno, lo ignoravo, ma le slitte montate sui tettucci delle Rover non lasciavano ben sperare.
Attraversammo in fila indiana la piccola cittadina, dove alcuni veri turisti stavano scrutando curiosi le vetrine di un negozio.
Forse, erano indecisi se acquistare o meno qualche gadget del posto, oppure erano semplicemente attirati dai colori sgargianti della merce.
Li osservai con un nodo allo stomaco, desiderosa di gridare e di mettermi a piangere ma, al tempo stesso, vogliosa di liberarmi e di uccidere tutti.
Non ero sicura se fosse un effetto collaterale dell’aconito, o se fossi proprio io a voler così tante cose contemporaneamente.
In ogni caso, mi sentivo da schifo.
Dopo aver lasciato alle nostre spalle il piccolo paesino costiero delle Svalbard, ci immergemmo nella natura selvaggia e aspra dell’isola, prendendo uno sterrato che poco assomigliava a una strada, e molto di più a un tratturo di capre di montagna.
La Rover cominciò a sobbalzare furiosamente sul permafrost duro e compatto e le pietre modellate dal gelo, che affioravano dal terreno brullo color seppia e verde oliva.
Stringendo i denti per non sentirli sbattere furiosamente tra loro, lanciai un’occhiata malevola al mio autista, prima di scrutare allarmata il computer di bordo.
Sul piccolo visore a cristalli liquidi, oltre a comparire il giorno e l’ora – era davvero passato così tanto tempo?! – notai con sgomento anche la temperatura esterna che, di miglio in miglio, si abbassò gradatamente fino a raggiungere i meno otto gradi Celsius.
Per il mio termometro biologico faceva già troppo freddo, soprattutto considerando che era estate.
Ma lì, incuneati tra quelle alte montagne seghettate, che si facevano sempre più vicine e minacciose, mi chiesi se le normali leggi della natura avessero qualche valore.
Tutto sembrava immerso in un luogo senza spazio né tempo, e ogni cosa pareva essere stata strappata dai miei incubi per poi prendere vita.
Turbata, mi domandai dove si trovasse il luogo in cui intendevano portarmi e se, per arrivarvi, avrei dovuto scalare quei mostri che scorgevo dinanzi a me, ritti e fieri in lontananza e inquietanti a vedersi.
Ero brava, negli sport, ma non così tanto.
Tra i miei sospiri e il rollio tremendo dell’auto, procedemmo in mezzo alla tundra e al ghiaccio per almeno due ore abbondanti.
Due ore in cui nessuno, in auto, emise fiato alcuno, in cui nessuno dei berserkir presenti si lasciò sfuggire un indizio di cosa mi stesse aspettando.
Era evidente che il momento delle parole era passato.
Neppure Alfgar desiderava fare conversazione.
Io, di certo, non ero così disperata da volere qualcosa da loro, foss’anche una parola.
Ma quel silenzio di tomba, unito all’ambiente spettrale, non mi aiutò a rilassarmi e, almeno per me, quelle due ore passate in auto furono peggio di una tortura.
Quando, alla fine, scorsi un gruppetto di tende dai colori sgargianti in mezzo a quella distesa di nulla e di bianco che ci circondava, mi chiesi fuggevolmente se quel terribile viaggio fosse infine giunto al termine.
Trovai comunque piuttosto strano che il tutto si risolvesse in un accampamento di fortuna.
No. Non era ancora giunta la mia ora.
Le Rover si fermarono in prossimità di quel campo improvvisato, dove due mute di cani già ben impastoiati non attendevano altro che di essere legati alle slitte che si trovavano sopra le nostre teste.
Scesi a fatica – aprire la portiera con le manopole e le mani legate non fu facile.
Alfgar, subito al mio fianco, mi trascinò quasi di peso verso la prima delle due slitte, già tolta dall’auto dai suoi sottoposti.
Torvo, mi disse: “Adesso, ci aspetta una bella gita tra i ghiacci per raggiungere il lago Ámsvartnir. Spero che la scampagnata sarà di tuo gradimento.”
“Mai stata su una slitta” replicai acida, scrutando gli Alaskan Husky che mi abbaiarono contro, in segno di riconoscimento.
Sorrisi per un momento nel vederli scodinzolare allegri e Alfgar, facendomi sedere tra le coltri di pelliccia della slitta – fortunatamente, non di lupo –, sogghignò e celiò: “Tra cani, ci si intende.”
Lo fissai malissimo – ormai, quell’epiteto dava fastidio anche a me – e sibilai rigida: “Tieni certi commenti per te. Penso di essere già abbastanza nervosa per i fatti miei, senza dover sopportare anche la tua ironia di bassa lega.”
Lui si limitò a ridere in quel modo fastidioso che avevo ormai imparato a conoscere.
Un attimo dopo, giusto per coronare in bellezza quel momento, anche gli altri berserkir risero di gusto, guardandomi divertiti e sì, bramosi di vedermi ricevere il castigo divino.
Passandomi le mani inguantate sul viso pallido e teso, la mia capacità di sopportazione ormai ridotta al lumicino, sospirai e sussurrai tra me: “Perdonami, Duncan. Perdonami. Perdonatemi tutti.”
Sapevo che la mia morte, o qualsiasi altra cosa mi attendesse sulle rive del lago nominato da Alfgar, avrebbe lasciato strascichi pesanti sulle vite dei miei cari.
Avevo comunque dovuto allontanarmi dal clan per salvarli tutti o, per raggiungere me, avrebbero continuato a uccidere. E io non lo volevo.
Anche se quel viaggio verso l’inferno stava diventando veramente insopportabile.
Speravo solo che la mia preghiera potesse in qualche modo raggiungere il cuore di Duncan, e rassicurarlo.
Non ci speravo molto, in ogni caso.
Osservai solo distrattamente la mutazione di alcuni dei berserkir in uomini-orso – ormai non badavo più a certi spettacoli.
Mentre loro cominciavano a correre sulla neve, allontanandosi da noi come a voler fare da apripista, sentii Alfgar domandare:“Pronta?”
Era ovvio che non stesse chiedendo realmente la mia opinione, perciò rimasi in silenzio, soffocando un singulto quando la slitta partì con un colpo secco.
I cani cominciarono a correre sulla gelida neve compatta, allontanandosi dal campo base da dove eravamo partiti, e a cui non sarei mai più tornata.
Difficile accettare che, alla mia età, tutto fosse già finito eppure sembrava che, per me, il futuro fosse un argomento da non prendere in considerazione.
Piansi in silenzio, sentendo le lacrime ghiacciarsi sulle gote, ricoperte da un sottile strato di cristalli di ghiaccio.
Piansi in silenzio, ascoltando il battito del mio cuore, come a voler imprimere nella mia mente quel suono, in previsione della morte.
Piansi in silenzio, odiando il mio nemico senza volto e i suoi aiutanti senza anima, desiderando la loro morte più di ogni altra cosa.
In silenzio, piansi.




_______________________________
N.d.A.: E' probabile che alcune/i di voi siano in pensiero per Jessie, la sentinella (so che è un licantropo piuttosto apprezzato) ma, almeno per il momento, non posso dire nulla sulle sorti di nessuna delle sentinelle del branco. Verrà tutto svelato alla fine della storia.

 

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Capitolo 18
*** Cap. 18 ***


18.

 
 N.d.A.: Con questo capitolo si spiegano un sacco di cose. Ma, soprattutto, si scopre chi è il VERO nemico di Brianna. Buona lettura! :)
 
 
 
 
 


 

Non capii esattamente quanto tempo fosse passato, dal momento in cui mi ero addormentata sulla slitta fino al mio risveglio.
Supposi che la stanchezza mi avesse preso all’improvviso.
Di sicuro, sembrava esserne trascorso molto.
I miei occhi sfiorarono la luce tenue che ci circondava, illuminando in maniera sinistra le alture zannute che percorrevano interminabili l’orizzonte.
Doveva essere mezzanotte, più o meno.
Era la prima volta in vita mia che assistevo all’estate boreale e, pur apprezzando le tinte fioche del cielo, colorato di rosa, azzurro e violetto, non potei gioire come avrei voluto di quello spettacolare fenomeno della natura.
Rocce, terreni, vallate.
Un’immensa distesa di bianco uniforme si stendeva ogni dove – eccezion fatta per il cielo magnifico che ci sovrastava.
Il vento gelido che sferzava l’altopiano sollevava nuvole sottili di neve ghiacciata, simili a cristalli diamantati e purissimi.
Rabbrividii, stringendomi addosso le pellicce che mi avevano dato per non morire di freddo.
Guardandomi attorno con più attenzione, mi resi conto che i monti che, solo quella mattina, mi erano parsi tanto distanti, ora erano fauci spalancate intorno a me, pronte a divorarmi.
Le vette impervie erano denti affilati, scintillanti e mortali sotto la luce trasversale del sole morente.
Ogni cosa sembrava stata creata dalla Madre per incutere timore reverenziale. O una paura atavica.
Distolsi lo sguardo, cercando di non incrementare il terrore che già mi divorava e, con mosse rigide, tentai di sistemarmi meglio sullo scomodo sedile della slitta.
Armeggiai faticosamente con le mani legate tentando, contemporaneamente, di non cadere a terra.
Nel vedermi sveglia, Alfgar disse: “Ben svegliata, Bella Addormentata. Siamo quasi giunti a destinazione.”
Arricciai le palpebre – il riflesso di quel biancore uniforme mi feriva gli occhi – e biascicai: “E dove saremmo, con esattezza? Nel Walhalla?”
Lui ghignò sarcastico, forse divertito dalla mia acida ironia.
“Siamo vicini alla tua prigione eterna.”
Chiusi un momento gli occhi, sentendomi un po’ meglio rispetto ai giorni precedenti e, curiosa, asserii: “Non mi hai più dato aconito da almeno dodici ore. Perché?”
“E’ tempo che Fenrir riprenda in parte coscienza di sé. Non vorremmo mai che non comprendesse cosa sta per succedergli” ironizzò Alfgar, aprendosi in un sorriso soddisfatto.
Mi lanciò un'occhiata attenta, aggiungendo: “Sei troppo debilitata per poter approfittarne, e lui non può agire in vece tua. Tu sei una gabbia, e i tuoi occhi saranno lo specchio da cui Fenrir osserverà la sua disfatta, mentre le sue zanne non potranno far nulla per evitarlo. Non compirà una seconda volta il sacrilegio.”
Lo fissai confusa, chiedendomi di quale sacrilegio stesse parlando, e cosa avesse a che fare con le zanne di Fenrir, prima di rammentare un particolare.
Fenrir aveva mozzato la mano di Tyr, quando era stato imprigionato con gleipnir. Possibile che fosse lui, il mio nemico?
Un dio. Ottimo.
Sospirai afflitta, passandomi le mani sul viso per l’esasperazione e la rabbia, chiedendomi cos’altro vi fosse di peggiore rispetto all’ira di una divinità, ma non mi venne in mente nulla.
Forse, neppure la fine del mondo era così tremenda, al confronto.
Sentii ridere Alfgar – doveva essere evidente quanto fossi scioccata e spaventata, e la cosa lo divertiva – ma evitai di cercare il suo sguardo, perché avrebbe solo riso più forte.
Non ero spacciata. Ero definitivamente condannata all’eternità fra le fiamme dell’inferno.
“Ecco la tua tomba” mormorò all’improvviso Alfgar, attirando la mia attenzione.
Dinanzi a me vidi un’imponente montagna, ricoperta di ghiaccio azzurro come gli occhi di Lance.
Ai suoi piedi, un’oscura caverna dall’entrata circolare ci attendeva come una vorace bocca, pronta a fare fiero pasto di me.
Ai lati dell’entrata, i berserkir che ci avevano preceduto ci attendevano come un comitato di benvenuto, alte colonne di folta pelliccia e muscolo ardente, pronte a bloccare qualsiasi nemico si fosse messo contro la loro missione.
La slitta che ci precedeva inforcò l’entrata, scomparendo nell’oscurità come inghiottita da un buco nero.
Rabbrividendo quando entrammo a nostra volta, mi sorpresi non poco nel trovare, pochi metri dopo quell’angusta bocca dell’Averno, una serie infinita di torce appese ai muri.
Sembravano essere stati scavati a picconate nella nuda roccia e nel ghiaccio secolare.
Procedemmo per alcuni minuti, inoltrandoci nel ventre della montagna  come a voler raggiungere il centro stesso della Terra.
Fu all'improvviso che, di fronte ai miei occhi sgranati per la sorpresa, sbucammo in un’enorme sala circolare, colma di stalattiti e stalagmiti imponenti e bianche come ossa dilavate dal tempo.
Nel mezzo dell’enorme salone di pietra e ghiaccio, una piccola isola svettava per grazia e fragilità, lei stupenda e perfetta, immersa in un laghetto di acqua trasparente e cristallina.
“L’isola Lynvgi” mormorò Alfgar, fermando la slitta al pari dell’altra dinanzi a noi.
Continuai a fissare inebetita quel luogo di ancestrale e terrificante bellezza, mentre la mano di Alfgar mi sollevava dalla slitta senza troppa grazia.
Mi rimise in piedi dopo tante ore passate semisdraiata sulle pellicce, e il risultato fu scontato.
Incespicai, rischiando di cadere rovinosamente a terra, ma lui mi trattenne, anche se non certo per gentilezza.
Mi lanciò uno sguardo duro, come se il mio incedere tentennante fosse voluto.
Replicai alla sua occhiata con una altrettanto rigida, replicando: “Cosa pretendi che faccia, dopo tante ore di inattività, e debilitata nel corpo come sono?”
Non mi rispose, e neppure mi ero aspettata che lo facesse.
In ogni caso, allentò la presa sul braccio e mi aiutò a scavalcare un paio di grosse rocce, sempre seguiti a breve distanza dagli altri berserkir.
Per tutta la durata del viaggio, si erano tenuti ben distanti dalla sottoscritta, quasi avessero paura di venir contagiati da qualche morbo misterioso.
Ne contai una decina: quindi, in parte, erano rimasti all’esterno della grotta, per essere certi che nessuno interferisse.
Non si fidavano del tutto, alla fin fine.
Tutt’intorno a me, il ghiaccio sembrava cristallo molato, liscio sulle pareti e apparentemente setoso al tatto.
Paradossalmente, nonostante fosse lo spettacolo più affascinante cui fossi mai stata testimone, riuscii solo a spaventarmi ancor più di quanto già non fossi.
Avevo ormai capito cosa fosse quel luogo.
Avevo riconosciuto le due rocce, a forma di lancia, che spuntavano dal terreno della piccola isola che avevo di fronte, fin troppo simili ai canini di un vampiro perché potessi stare tranquilla.
Fu in questo luogo che io perii nel mio corpo mortale.
Non sobbalzai. Non ne avevo la forza.
Inoltre, attendevo la sua voce sin da quando mi si erano schiariti i sensi.
Fenrir.
“Ti legarono a quelle rocce, giusto?”
Con gleipnir a stringere le mie zampe e una spada conficcata tra le fauci. La spada che ora vedi immersa nella terra dell’isola, tra le due sporgenze rocciose.
Deglutii impercettibilmente.
Avevo intravisto il suo spettrale bagliore di morte, ma avevo preferito non soffermarmi troppo su quel particolare del paesaggio.
Non volevo pensare troppo a cosa avrebbero fatto, con quella spada.
Distolsi gli occhi per non infierire su me stessa più del necessario e, subitaneo, il mio sguardo cadde sulla figura di nero vestita di un giovane, apparentemente mio coetaneo, dai folti capelli castani e la pelle diafana e perfetta.
Slanciato e magro, tradiva però la forza insita nelle creature soggiogate dalla luna.
Un licantropo?
Cosa stava succedendo?
Il giovane, che ci aspettava su uno spuntone di roccia nerastra, a cui era legata una piccola barchetta di legno consunto, si volse per osservarci.
Bloccando i miei passi non appena me lo ritrovai davanti, fissai costernata quelle pupille cupe come l’inferno più buio e desolato.
Erano colme di un odio atavico, che trascendeva il tempo e lo spazio per perdersi nei millenni.
Tremai, sentendo nel contempo la stretta di Alfgar sul braccio farsi più feroce.
Il giovane, aprendosi in un sorriso di scherno nel vedermi per la prima volta, esclamò: “Il mio più sincero benvenuto, Prima Lupa del clan di Matlock e custode dell’anima di Fenrir.”
Cercai di trovare la voce, ma uscì solo un tremante: “Chi sei? E cosa vuoi da me?”
Lui sogghignò, un ghigno che avrebbe fatto impallidire anche il più feroce Freki.
Alfgar, con un leggero quanto ossequioso inchino, dichiarò: “Ecco qui la lupa come avevi ordinato di condurre a te, mio signore Tyr.”
Tyr? Quel Tyr?, pensai turbata.
“Ben fatto, Lot” annuì il ragazzo, rivelandomi così il nome del mio rapitore.
Lot mi fissò per un momento, come turbato dal fatto che Tyr avesse proferito il suo nome senza pensare alle possibili ripercussioni di quel gesto.
Dopo un istante passato nel dubbio, si rivolse nuovamente al giovane licantropo e chiese: “Preparo la ragazza per il rito?”
“Ancora un momento, Lot. Vorrei scambiare quattro chiacchiere con la ragazza, prima di sigillarla” replicò Tyr, sorridendo malevolo.
Lot si limitò ad annuire, allontanandosi da noi dopo avermi lanciato un’occhiata feroce.
Non vi badai. Mi reggevo a stento in piedi e, anche se avevo recuperato la lucidità sufficiente per poter entrare in contatto con Fenrir, non potevo usare i miei poteri – per quanto scarsi – se legata da gleipnir.
Ero più inerme di un neonato.
Tyr, nel frattempo, mi girò intorno, soppesandomi come se fossi stata un bue al mercato, sfiorandomi i capelli scompigliati e le guance fredde e scavate con il tocco leggero di una mano.
Non mi piacque essere toccata da lui. Aveva un che di sbagliato, di abominevole.
La carezza terminò sulle mie labbra, dove il suo dito indice indugiò per un attimo, prima di allontanarsi e terminare tra i suoi denti.
Lì, lo succhiò con avidità, sempre guardandomi negli occhi con quel suo sguardo colmo di furore cieco.
Prendendo un respiro a pieni polmoni, chiesi: “Perché adesso? Perché non strapparmi alla famiglia, quando ancora non ero wicca e Prima Lupa? Non capisco.”
Lappandosi le labbra come se il sapore della mia pelle lo avesse in qualche modo eccitato, Tyr  dichiarò divertito: “Perché non potevo sapere chi fossi, o dove fossi, in quanto wicca. Sorgendo a nuova vita, volevo spingerti a riemergere dalla stasi che ti eri autoimposto, ma ti persi di vista non appena varcasti le porte del mondo delle anime. Studiasti davvero alla perfezione la tua rinascita. Solo quando il tuo sangue si mescolò a quello di un licantropo, ti percepii.”
Eccoti. Finalmente!
Quella frase, sussurrata nel tempo e nel vuoto dello spazio siderale, tornò alla mia mente come il colpo di un gong.
Rammentai l’attimo in cui il mio sangue si fuse con quello di Jerome, facendomi diventare un licantropo.
“Ho sempre deprecato il dono che tu concedesti ad Avya” continuò col dire il mio giovane carnefice, arcuando minacciosamente le sopracciglia e gli angoli della bocca.
Aggrottando la fronte, mi domandai cosa volesse dire con quelle parole.
“Che intendi dire?”
“Perché credi che io non abbia avvertito l’anima di Fenrir, finché tu eri solo wicca?” mi chiese per contro, sempre più irritato, parlando finalmente con me e non con l’atavico nemico.
Scossi il capo, non comprendendo e lui, afferrandomi le spalle con ferocia, mi sibilò in faccia rabbiosamente: “Le donò il potere. Un potere che non meritava! Lei era una semplice, sciocca umana, e non meritava il potere degli dèi. Il suo sangue non ne era degno!”
“Sangue?” esalai confusa.
Un attimo dopo, scorsi Fenrir e Avya, sulla cima di una collina, eseguire lo stesso rituale che io e Duncan avevamo compiuto molto più frugalmente nella sua cucina, quando la nostra linfa vitale si era mescolata creando il Legame di Sangue.
“E’ così che nacquero le wiccan?”
Irridendomi con lo sguardo, lui mi lasciò andare con così tanta malagrazia da farmi barcollare e, irrigidendo la sua postura, mi ringhiò contro: “Conferì ad Avya il potere di sfruttare l’energia della luna per parlare con la Madre, a cui lui era legato in quanto creatura della notte. E questo non glielo perdonai mai.”
Sempre più confusa, fissai il giovane dinanzi a me che, come un puma in gabbia, sembrava contenere a stento l’enorme energia che si infrangeva contro le pareti del suo stesso corpo.
Turbata, borbottai: “Tu? Perché mai non glielo…”
Ma non terminai neppure la frase, colpita da un particolare che mi fece raggelare.
Tyr non avrebbe avuto motivi di avercela con Avya, per questo!
La voce preoccupata di Fenrir mi esplose nella mente come un colpo di fucile e io, indietreggiando di un passo, spaventata da ciò che quelle parole sottintendevano, esalai: “Non sei chi dici di essere.”
Fulmineo, lui mi afferrò al collo, sollevandomi di qualche centimetro da terra e stringendo così tanto la mano che, per qualche momento, temetti sarei morta soffocata.
“Pensi davvero che avrebbero dato una mano proprio a me, e solo per farti tornare da dove tanto scioccamente eri fuggito con la morte?” mi irrise il giovane ghignando divertito, parlando direttamente all’anima che dimorava dentro di me.
“Sei… sei Loki” singhiozzai spaventata.
“Chi altri, ragazza? Tyr sta marcendo tra le braccia della Madre, divorato dal rimorso, addolorato per aver tradito la fiducia del suo caro amico Fenrir. Ma io avevo ben altro in mente, che crogiolarmi nella rabbia per non essere riuscito nei miei intenti e, prima che sia troppo tardi per agire, tu dovrai aprire le porte per il Ragnarök.”
“Troppo tardi?” gracchiai, confusa non meno di prima.
Allargando maggiormente il ghigno, Loki asserì: “Sei così cieco da avere a cuore solo le sorti dei tuoi cari, così non percepisci altro che loro. Ma il quadro d’insieme è molto più ampio dei tuoi sciocchi figli e della tua inutile compagna, figlio.”
Che intende dire?
“A me lo chiedi? Che facciamo?!” replicai, sempre più terrorizzata.
Il manrovescio che Loki mi piazzò in faccia mi impedì di ascoltare la risposta di Fenrir.
Crollai a terra semisvenuta, il sangue in bocca a impregnarmi di amaro e metallico sapore la lingua, e la certezza che quello che aveva in mente per me Loki non era nulla di buono.
Cosa stava sfuggendo a me e Fenrir? Qual era la visione d’insieme che non scorgevamo?
Piegandosi su di me come un cobra pronto a mordere, Loki mi mise un bavaglio alla bocca e, ridacchiando divertito, disse: “Non vorrei mai che rovinassi la sorpresa al nostro caro Lot.”
Scostai il viso da lui per guardare in direzione del mio rapitore che, a poco meno di una ventina di passi da noi, attendeva paziente di poter fare la sua parte.
Pareva trepidante all'idea di poter mettere le mani su di me, apparentemente del tutto ignaro di ciò che Loki mi aveva detto.
Che l’udito dei berserkir non fosse sviluppato come il nostro? A giudicare dalla sua calma, parve proprio di sì.
“Sono bestie adatte alla guerra fisica e istintiva, non creature sopraffine come i lupi. Dopotutto, i figli di mio figlio non potevano che essere superiori a quelle misere creature” mi irrise Loki, strattonandomi a un braccio perché mi rialzassi in piedi.
Ghignò all'indirizzo di Lot, e asserì: “Sono servite allo scopo non meno di quello sciocco di Fitzroy. Talmente accecato dalla rabbia, e dalla sete di vendetta, da attirarmi come una mosca su dolce miele. E talmente tonto da non capire quanto lo stessi usando per i miei intenti."
Lo fissai al colmo dell'ira, ma lui non vi badò. Ero inerme nelle sue mani, e lui lo sapeva.
"E’ stato facile seguire te da un angolo all’altro dell’Inghilterra, una volta che ti avevo trovata, come è stato facile guidare lui nelle medesime direzioni. Niente più che due pedine su una scacchiera, al pari dei nostri amici uomini-orso. Anche loro sono stati ottimi attori nella commedia che ho messo in piedi. Sono stati bravi a tenere al sicuro da te la mia identità fino all’ultimo, mia cara, e darmi l’opportunità di vendicarmi sulla tua razza, e sui tuoi cari, nel modo peggiore possibile."
Si avvicinò al mio viso per sogghignare, uno squalo dinanzi alla sua preda, e terminò di dire: "Buffo che Fenrir e te, ragazza, amiate le stesse persone. La mia vendetta sarà ancora più dolce.”
Sgranai gli occhi, turbata, chiedendomi cosa intendesse dire e Fenrir, dentro di me, esclamò: Non vorrà scatenare una faida tra le due razze?!
“Come? Come!?”
“Lot! Conducila sull’isola!” gridò a quel punto Loki, lanciandomi un’occhiata vittoriosa.
Scossi il capo, dimenandomi con le poche forze rimaste ma lui, afferrandomi per i capelli con la mano libera, mi obbligò a bloccare le mie proteste.
“Non obbligarmi a spezzarti un braccio seduta stante, ragazza.”
Come a voler rendere più credibile la sua minaccia, tese all’indietro il mio avambraccio e, immediata, una scarica dolorosa riverberò in tutto il mio corpo, portandomi a singhiozzare per il dolore.
Non sfidarlo più del necessario. Non serve a nulla!
Fenrir aveva ragione. Farlo arrabbiare non sarebbe servito a salvarmi la pelle.
Ma, quando vidi lo sguardo di Lot posarsi su di me mi dissi che, qualsiasi cosa avessi fatto, nulla avrebbe potuto salvarmi.
Da qualunque parte io posassi lo sguardo, vedevo solo aspettative di dolore e morte.
Non v’era speranza tra quelle pareti d’azzurro ghiaccio e nera e gelida roccia .
“Non ucciderla, ma fa sì che la terra ne assorba la linfa vitale” ordinò Loki al suo sgherro.
Lo fissai sgomenta, mentre Lot mi caricava a forza sull’instabile barchetta, pronto a condurmi sulla riva dell’isola senza neppure porsi il dilemma se fosse giusto, o meno, quello che gli avevano ordinato di fare.
Perché ciò che Loki aveva voluto dire era chiaro a me, quanto a Fenrir.
Lot mi avrebbe inflitto ferite tali da farmi intridere la terra ai miei piedi con la mia linfa vitale ma, nel contempo, non mi avrebbe uccisa subito.
Questo, avrebbe reso possibile il compimento del rito che Loki aveva atteso per millenni.
Se fossi morta subito, Fenrir non si sarebbe scatenato.
Perché avvenisse il Ragnarök, io dovevo perdere il controllo sui miei poteri prima di perdere la vita, e il dolore era il sistema migliore per farlo.
Sapere che non è Tyr non mi solleva. Con lui avrei potuto scendere a patti, in un modo o nell’altro.
“Gli mozzasti una mano” precisai, mentre scrutavo impaurita la costa dell’isoletta avvicinarsi sempre di più.
Mi tradì, sottolineò per contro Fenrir. Mi rifiutai di seguire mio padre, di appoggiarlo nel suo piano per impossessarsi del trono di Wotan. Così, Loki aizzò gli altri dèi contro di me – Tyr compreso –  perché mi imprigionassero."
Sospirò stancamente, e aggiunse: "Disse a tutti che volevo uccidere gli dèi dell’Asgard perché avevano messo in pericolo Avya e i miei figli, di voler scatenare il Crepuscolo degli dèi perché divorato dall’odio verso di loro.
“Ma naturalmente non era vero” Sapevo che Avya e i suoi figli avevano patito sofferenze immani, a causa dei Cacciatori, ma sentirgliene parlare fu comunque strano.
Oh, li odiavo, e molto, replicò con aspra e dolente ironia. Rimasero veramente  a guardare, mentre Avya veniva braccata dalla sua stessa genia.
“Dov’eri, tu?” chiesi, spiacente per lui.
A volte con loro... altre volte, a caccia di altri Cacciatori che depredavano e uccidevano persone innocenti, ree di essere diverse dagli altri, e perciò considerate impure.
Rivissi nuovamente, attraverso le sue memorie, quei momenti strazianti, momenti in cui Fenrir, colmo di rabbia e di amore, mentre tentava di porre un freno alle follie dei Cacciatori.
Fu Tyr a riportarmi a Palazzo, promettendomi che, se avessi accettato di sottopormi a una prova che dimostrasse la mia buona fede nei confronti degli dèi, che io avevo maledetto, avrebbero protetto Avya dal'assalto degli uomini di Fryc.
“Cedesti” dissi soltanto, ben conoscendo la risposta.
L’amore è più che cieco. Ti rende sciocco.
“Ne so qualcosa” ammisi.
Accettai la prova, e loro mi legarono a quelle pietre con gleipnir. Quando mi accorsi del sorriso di trionfo degli dèi, tranciai la mano di Tyr per vendetta, perché mi aveva attirato con l’inganno dove io non sarei mai andato di mia spontanea volontà, se non mi avesse promesso la vita di Avya.
Non faticai a percepirne la rabbia. Sfrigolava dentro di me come fuoco vivo.
Mio padre cercò di persuadermi a cedere, ma io rifiutai ancora. Tentai di ribellarmi, di dire a Tyr e gli altri chi fosse veramente il nemico. Non mi fu concesso. Loki mi conficcò una spada tra le mascelle per impedirmi di parlare, adducendo come scusa il voler vendicare la mano mozzata di Tyr e, uno dopo l’altro, qui mi abbandonarono. Gli dèi se ne andarono baldanzosi, convinti che, così legato, non avrei più tentato di ucciderli. Loki, invece, mi lasciò soddisfatto, certo che avrei ceduto di lì a poco, e avrei finalmente scatenato il Ragnarök a causa del risentimento nei confronti di Odino, e per il tradimento del mio migliore amico.
“Tuo padre fece questo?”
Il concetto di paternità, tra gli dèi, non è affine a quello che esiste tra esseri umani. In ogni caso, sapevo perfettamente che, più fossi rimasto imprigionato lì, più avrei rischiato la follia, e quindi il Ragnarok, perciò usai la spada che mi teneva bloccate le mascelle e mi colpii mortalmente al cuore.
Rabbrividii al ricordo del suo dolore, ma lui proseguì incessante nel suo racconto.
Dovevo evitare che il mio potere si scatenasse, mosso dall’odio e dalla ferocia che sentivo nei confronti di coloro che mi avevano imprigionato, e l’unico modo per evitare la pazzia, e quindi la perdita del controllo, era perire di mia spontanea volontà.
“Perciò, Loki sta tentando di fare, con me, ciò che fece con te a suo tempo? Portarmi alla follia per far scatenare tutto il potere che risiede in me?”chiesi turbata, mentre lo scafo della barca sfiorava il terreno sabbioso dell’isola, arenandosi.
Temo proprio di sì.
Singhiozzai, strizzando gli occhi per evitare di piangere – cosa del tutto inutile, in quel momento – e Lot, voltandosi verso di me, sogghignò.
“Fai bene a disperarti. Perché non sarò gentile, con te.”
Non che mi aspettassi altro, da lui.
Perdonami.
“Non sei tu che mi legherai a quelle rocce, o che mi ferirai, procurandomi dolore e sofferenza” replicai, cercando di fare dell’ironia pur non avendone voglia.
Sei qui per causa mia, e nulla di quanto tu dirai potrà cancellare l’evidenza dei fatti.
“Sei rinato per proteggere la tua famiglia. Non l’hai fatto per fare del male” gli ritorsi contro, prima di chiedergli, titubante: “Sei tu che mi hai spinto tra le braccia di Duncan?”
La quercia ha detto il vero. Io non ho potere su ciò che fai, o che sei. Tanto meno, ho potere sui tuoi sentimenti più profondi. Il vincolo che creai con le anime di Avya e dei miei figli, serviva solo a proteggerli dalla rinascita di Loki, che io avevo avvertito svanire dalla Casa delle Anime.
Fu un misero sollievo, vista la situazione, ma riuscì ad alleviare per un attimo la paura e lo sconforto.
In un modo o nell’altro, vi sareste incontrati, ma tutto quel che fosse avvenuto tra di voi, io non avrei potuto gestirlo in alcun modo, come non avrebbero potuto farlo Avya e gli altri. Vi sareste spalleggiati a vicenda, solo questo avevo chiesto alla Madre. E solo questo mi avrebbe dato. Non si può giocare con le anime. Io ho potuto giostrare le corde del vostro destino solo per chiedere che vi trovaste, ma nulla più. Pur essendo un dio, non posso muovere le pedine sullo scacchiere della vita come voglio. Neppure la Madre può.
“Quindi, tutto ciò che mi è successo… non lo hai voluto tu?”
Non mi sarei mai permesso di far morire i tuoi genitori per riportarti in Inghilterra. Ho a cuore la sorte degli uomini, altrimenti non avrei sacrificato me stesso per salvarli dall’oscurità. Ciò che successe non dipese da me.
Lot mi sollevò dalla barca mentre io, intontita e fiaccata dal pensiero di ciò che sarebbe successo entro brevissimo tempo, non riuscii neppure a oppormi a quel lento trascinarmi verso l’ineluttabile.
Quell’aggrapparmi alla logica, al tentativo strenuo di comprendere perché fossi finita lì, era il mio modo per non impazzire, per non cedere alla follia e al dolore che, invece, Loki voleva per me.
Non ero mai stata una ragazza persa nei sogni e nelle favole.
Ero una persona affascinata dalla logica matematica, dallo studio analitico delle cose che mi circondavano.
Dare un ordine al caos primordiale in cui mi stavano infilando era la mia ancora di salvezza, il mio faro nell’oscurità.
Perciò, mentre Lot mi conduceva verso il mio destino, chiesi a Fenrir: “Per questo, contrariamente a tutte le altre wiccan, io posso usare i poteri della terra anche senza utilizzare necessariamente l’energia proveniente dalla luna?”
Il mio retaggio divino ha permesso questo. Avessi avuto un’altra anima, avresti posseduto solo i poteri delle altre wiccan, e i loro limiti.
“E ora non ne ho?”
Più o meno. Gleipnir ha effetto su di te perché ci sono io. Se non ci fossi stato, avresti potuto spezzarla senza problemi.
“Questo l’avevo notato.”
Per questo, ti chiedevo di perdonarmi. Il mio intento, nel rinascere dentro di te, era quello di tenere sotto controllo Loki, perché non volevo che facesse del male ai miei cari e a tutti coloro che ho imparato ad amare. Mi rammarico solo che la quercia sacra abbia deciso troppo tardi di liberarmi dalle catene che mi tenevano bloccato, perché avrei potuto aiutarti a riconoscere i segnali molto prima.
“I flash nella mia testa, e quelle parole smozzicate erano opera tua, dunque?”
Tentavo di liberarmi dalle catene imposte da Madre. Ogni richiesta ha un prezzo. Il mio, per avermi concesso la possibilità di avere l’appoggio di Avya e i miei figli in questa vita, era non allacciare alcun contatto con te, a meno che la quercia sacra non lo avesse ritenuto strettamente necessario.
“Per questo, lei mi ha chiesto scusa. Quindi, quelli erano i tuoi tentativi di liberarti. Temevi fosse Loki a perseguitarmi.”
Sì, ne ero quasi convinto. Anche se non comprendevo come mai, due Völva come Beverly ed Elspeth, non riuscissero a vederlo con chiarezza. Ora sappiamo. Non esponendosi mai in prima persona contro di te, velava le previsioni, rendendole quasi incomprensibili.
“Non a caso è il dio dell’inganno” mormorai afflitta, lo sguardo perso dinanzi a me.
Il suo potere è questo. L’inganno, il tradimento. Ed è per questo che ha bisogno di me, poiché la sua forza è basata interamente sull’intelletto. Con essa, non può aprire le porte del caos. Per questo, ripudiai la sua volontà. Non avrei mai permesso che i miei figli, e il genere umano, venissero spazzati via dalla sua folle idea di dominio.
“Il genere umano ti era divenuto così caro grazie ad Avya, vero?”
“Sì. Ero annoiato e privo di ogni stimolo, quando incontrai Avya. Loki non faceva che parlarmi dei suoi progetti di conquista, ma a me non interessavano. Nulla, mi interessava. Fu così che me ne andai da palazzo per girovagare nei boschi.
I suoi pensieri si fecero caldi, quasi colorati di rosso, e seppi che stava pensando al suo amore perduto.
Lì la vidi per la prima volta, intenta a raccogliere erbe odorose nella foresta, mentre un canto sommesso usciva dalle sue labbra. Colto da improvvisa curiosità, invece di divorarla come il lupo che ero avrebbe potuto fare, decisi di mutare in uomo per permettermi di conoscerla come, da fiera assetata di sangue, non avrei mai potuto fare. Era la creatura più buona e dolce che il mondo avesse mai visto, e non potei che cadere ai suoi piedi.
“Ma Loki e la famiglia di Avya non furono molto d’accordo.”
No. Loki istigò Fryc, il fratello di Avya, perché credesse che io la tenevo al mio fianco contro il suo volere, facendogli credere che l'avessi soggiogata, così scatenò la rappresaglia contro di noi… e ciò fece nascere i Cacciatori.
“Ottimo.”
Loki rappresenta il caos, l’incognita che scombina la sequenza, ma non può essere eliminato, perché altrimenti l’universo cadrebbe nel baratro.
“Lo so, lo so, la legge degli opposti. A luce deve contrapporsi tenebra, eccetera, eccetera.”
Esatto.
Era quasi assurdo pensare a quanto, questo nostro dialogare, ricoprisse in realtà lo spazio di un battito di ciglia.
Non era passato che un secondo o poco più, da quando avevo messo piede sull’isola, eppure mi sembrava di aver passato ore a parlare con Fenrir, nel tentativo di venire a capo dei miei dubbi.
Il tempo non esiste, tra l’anima e chi la detiene.
“Ma il tempo ha effetto su di me e, prima o poi, perderò la mia battaglia sul controllo delle mie emozioni e il tuo potere fuoriuscirà da me. Io sono mortale, Fenrir, non sono una divinità, e la mia resistenza al dolore ha un limite” sospirai afflitta, rabbrividendo al solo pensiero di cosa avrebbe potuto succedere una volta che il mio corpo avesse ceduto alle torture di Lot.
Gjöll e Þviti apparivano ancora più minacciose, viste da vicino e, quando anche il mio carceriere le sfiorò con lo sguardo, mi sentii perduta.
Era dunque giunto il momento.
Lot, a sorpresa, si volse verso di me con un sogghigno e mi tolse gleipnir dai polsi.
Prima ancora di poter gioire per quel gesto di apparente umana comprensione, raggelai quando lo vidi togliermi di dosso la pesante giacca a vento, con la quale mi ero riparata dal freddo fino a quel momento.
Continuò a guardarmi tronfio, mentre le sue mani scendevano a togliere anche i pantaloni imbottiti.
Cercai invano di bloccarlo, solo per vedermi sbattere a terra da un manrovescio, che mi fece esplodere nel cervello mille piccole stelle multicolori.
Quando recuperai un minimo di lucidità, Lot mi aveva già tolto anche gli scarponi.
Scalciai confusamente nel tentativo di tenere lontano da me le sue mani ma lui, irritandosi per questa mia mancanza totale di collaborazione, mi afferrò alle caviglie e ringhiò: “Stai ferma, piccola lupa, o ti spezzerò tutte le ossa, prima di legarti di nuovo.”
Fu un comportamento da pazzi, ma lo feci.
Sollevai una mano per schiaffeggiarlo ma il mio carceriere, bloccandola agevolmente dopo aver liberato una delle mie caviglie, ringhiò al mio indirizzo prima di prendersi in faccia un calcio ben piazzato sotto il suo mento.
Sentii un dolore tremendo – calciare senza scarpe fa un male cane – , cui tentai di non far caso per concentrare quel poco di forze che mi restavano per la fuga, ma tutto fu vano.
Con un’imprecazione a denti stretti e uno ceffone, Lot mi ributtò a terra e, come un lampo, fu su di me, premuto sul mio corpo come un macigno inamovibile, mentre il suo sguardo perforava il mio, annichilendomi.
“Non. Osare. Mai. Più. Una. Cosa. Simile” sillabò in un ringhio ferale mentre, dalla riva, Loki rideva divertito.
Li odiai con tutta me stessa.
“Problemi a tenere ferma quella lupa, mio caro Lot?” lo irrise Loki, intento a posizionare i berserkir in punti precisi attorno al lago.
Una sorta di barriera mistica come eravamo soliti usare noi lupi al Vigrond? O c’era qualcosa di più sordido, in quelle sue mosse?
Lot non rispose alla battuta di Loki, limitandosi a rialzarsi assieme a me, per poi piantarmi un pugno in pieno stomaco.
Quel colpo mi fece crollare in ginocchio, preda di spasmi violenti e conati di vomito.
Tutto ciò che uscì dalla mia bocca furono acidi, ma tanto bastò a farmi desistere dal tentare altre folli imprese.
Che avrei fatto, anche se mi fossi liberata di Lot?
Ero così debole da non percepire neppure l’energia della Terra, perciò non avrei potuto rivolgermi alla Madre per aver salva la vita.
Ero spacciata.
Con uno strattone, Lot mi tirò nuovamente in piedi e, senza più trovare intralci di alcun genere da parte mia, mi strappò di dosso maglia e pantaloni, lasciandomi solo gli indumenti intimi a proteggermi dal freddo polare di quel luogo.
Srotolata poi dalla tasca della sua giacca metri e metri di sottile corda setosa, mi legò a Þviti, sibilandomi contro: “Così non combinerai più guai, maledetta.”
Il mio calcio gli aveva spaccato un labbro ma, pur apprezzando il risultato, non potei esserne felice.
L’avevo solo fatto arrabbiare ancora di più.
Quando terminò di legarmi, sembravo la macabra pantomima del Cristo sulla croce, con le braccia tese fino allo spasimo e il capo reclinato su una spalla.
Ora, attendevo solo la mia personale corona di spine.
Che non tardò ad arrivare.
Lot mi si avvicinò, solleticando il mio volto con uno dei suoi artigli e, sorridendo, scrutò il mio corpo asservito al suo sguardo e celiò: “Mi divertirei con te, se non avessi ripugnanza per ciò che vive nel tuo animo.”
Non avrei subito quel genere di violenza, alla fine, ma dubitavo che, per inzuppare di sangue il terreno, sarebbe stato tenero con me.
Quando il suo artiglio non si limitò più a sfiorarmi ma penetrò nelle mie carni, seppi cosa voleva dire bruciare viva.






Note:Gjöll e Þviti sono le pietre a cui, stando al mito, fu legato Fenrir per imprigionarlo per l'eternità.

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Capitolo 19
*** Cap. 19 ***


brie19

19.

 


 

Un treno in corsa lanciato contro di me, lo scoppio di una bomba sulla mia testa e una colata di argento puro, non avrebbero potuto farmi più male di quanto stessi patendo in quel momento.

Mantenere la lucidità era quasi impossibile e, non potendo usare i miei poteri a causa di gleipnir , ero costretta a subire le torture di Lot senza poter far nulla per difendermi.

Ma dovevo continuare a controllare ciò che ero, o Loki avrebbe vinto.

Lot, dal canto suo, si stava divertendo un mondo a infliggermi quelle torture, convinto com’era che, prima o poi, avrebbe visto il compimento della sua vendetta su Fenrir.

Era quasi ironico conoscere la verità, e sapere che tutti i suoi sforzi di farmi patire il male maggiore possibile, a fronte di danni mediocri al mio corpo, serviva a tutt’altro scopo.

Loki voleva che perdessi il controllo di me stessa prima di morire, perché i miei poteri esplodessero e dessero il via al suo sogno di conquista.

Una volta perso il pieno possesso delle mie facoltà, avrei scatenato una forza tale che solo la Madre avrebbe potuto fermare. E ciò non sarebbe successo, poiché la Madre non ha di questi compiti.

Non è suo dovere controllare questo genere di energie, ma coloro che le detengono. E Loki lo sapeva meglio di chiunque altro.

Perciò, con le poche forze che mi rimanevano, cercai di non cedere all’oscurità che stava cercando di divorarmi centimetro dopo centimetro, mentre Lot continuava a infliggermi sottili ferite in ogni parte del corpo con l’ausilio dei suoi artigli.

Avevo scoperto fin troppo presto che i licantropi e i berserkir sono diversi sotto molti aspetti.

Una cosa in cui siamo differenti, sono gli artigli.

Come le ferite da artiglio di licantropo, o da argento – che stentavano a rimarginarsi come una ferita normale, e lasciavano cicatrici indelebili – quelle procurate da un berserkr lasciavano tracce permanenti e non si richiudevano in breve tempo.

Ma, a differenziarci, le ferite dei berserkir bruciavano come l’inferno in Terra, come se il corpo fosse stato immerso nel magma incandescente. .

Questo contribuiva a farmi perdere la battaglia contro l’oscurità dilagante che percepivo dentro di me, sempre più ampia, sempre più incontrollabile.

Non ero sicura di quanto tempo fosse passato dall’inizio di quella tortura ma, di certo, non avrei potuto continuare ancora per molto a contenere il potere che era in me, e che serviva a Loki per il Ragnarök.

Le mie forze erano ormai allo stremo e, presto o tardi, avrei ceduto, riversando in quell’enorme stanza circolare tutte le mie energie, riempiendola come un calderone fumante, in attesa che esplodesse sul mondo come una bomba atomica.

Loki, nel frattempo, osservava tranquillo l’intera scena, in piedi alle spalle di Lot. .

Era fiero e sicuro della sua vittoria, trepidante nell’attesa che io perdessi la lotta e rilasciassi tutto il mio potere.

Ancora non cedi, figlio?

Sobbalzai di sorpresa, nel sentire quella voce nella mia testa.

Nonostante fossi impegnata a resistere alla sottile quanto tremenda tortura di Lot, in quel momento impegnato a ferirmi una coscia con i suoi artigli ricurvi, percepii distintamente quel messaggio mentale.

Non avevo previsto che Loki avrebbe fatto una simile mossa.

Non cedetti allora, non cederò adesso, replicò Fenrir. E neppure la mia protetta lo farà.

Fenrir poteva rispondere lucidamente poiché solo io avvertivo dolore, non lui.

Non commetterò nuovamente l’errore di permetterti di uccidere il tuo corpo. Cederai a me!

Ancora oggi non comprendi perché lo feci?!, ringhiò Fenrir, adirato.

“Non puoi pretendere che lo faccia… non è nella sua natura”, replicai a Fenrir, ormai allo stremo.

Vincerò io, figlio, e tu non potrai fare nulla per impedirmelo!

Detto ciò, scomparve dalla mia mente e, sfiorata una spalla di Lot con la mano, Loki dichiarò: “Ora è il mio turno. Il sangue per il rito è sufficiente, e credo che tu ti sia divertito abbastanza, con lei.”

Chiusi gli occhi per un momento, indifferente a Loki e a tutto ciò che mi circondava, desiderosa soltanto di mantenere il controllo su me stessa. Solo a quello dovevo pensare.

Lot lasciò il suo posto a Loki che, divertito probabilmente dal mio strenuo tentativo di non cedergli, sfiorò con le mani il mio viso, portandosi poi le dita zuppe di sangue alla bocca, dove le leccò.

Sorrise maggiormente, gli occhi da invasato che mi fissavano vogliosi, e mormorò: “Il tuo potere è inebriante. Mai avevo assaggiato sangue di strega, e ora capisco quanto potere avesse Avya, tramite Fenrir. Il loro legame l’aveva eletta tra le donne, rendendola migliore e più potente.”

Il suo viso si contorse all’improvviso un attimo dopo e, feroce, concluse: “Un onore che non avrebbe mai dovuto avere! Nessuna di voi avrebbe dovuto vedere la luce! Nessuna di voi avrebbe dovuto avere sangue divino nelle vene!”

Scossi il capo, indispettita dalla mia impossibilità di parlare e lui, lappandosi le labbra per suggere le ultime gocce del mio sangue rimaste sulla sua bocca, dichiarò soddisfatto: “A ogni modo, ora tutto si compirà come avrebbe dovuto compiersi millenni fa, nonostante i tuoi goffi tentativi per impedirlo, figlio.”

A quel punto, sorrise ghignante in direzione di Lot, sorprendendomi non poco, mentre il berserkr ci osservava con una muta domanda negli occhi, per la prima volta percorsi dal dubbio.

Lo sguardo di Loki spaziò oltre la figura imponente di Lot, abbracciando l’intera caverna di ghiaccio ialino e le figure dei berserkir disposte intorno al lago.

Ritti sui vertici delineati da sottili linee biancastre – che il dio dell’inganno aveva tracciato sul terreno scuro, mentre il mio rapitore si era occupato di me – attendevano fieri che tutto si compisse.

Il fatto che non conoscessero la realtà dei fatti, rendeva quella macabra messa inscena ancor più triste, ai miei occhi.

Che cosa rappresentassero le linee tracciate da Loki, non mi era dato sapere, ma ipotizzai avessero a che fare con il rituale per sprigionare l’energia di Fenrir attraverso il mio corpo mortale.

Non immaginai neppure per un istante che le sue mire fossero ben altre.

Estratto il pugnale dalla lama nera che portava appeso in vita – era forse ossidiana? –, Loki si avvicinò di un paio di passi a Lot e, sollevando le sopracciglia con aria mefistofelica, esclamò: “Sacrifica te stesso per la fine di tutto!”

Avvenne tutto in pochi secondi.

Nel tempo che io impiegai per rendermi conto di cosa stesse facendo Loki, lui accoltellò al torace Lot..

A occhi spalancati, e con l’aria smarrita di chi non comprende cosa stia avvenendo intorno a sé, il berserkr crollò a terra con un rantolo soffocato, e una domanda sulle labbra socchiuse.

Il suo corpo scivolò innaturalmente sulle rocce, mentre le grida dei berserkir si levarono come tuoni nella caverna.

Nessuno di loro, però, poté muovere un passo verso il proprio comandante.

La griglia in cui Loki li aveva posizionati li imbrigliava a terra, anche se non pensai neppure per un momento che servisse solo a tenerli lontani da lui.

Un attimo dopo aver ferito a morte Lot, Loki si portò il coltello alla bocca, succhiò avidamente il sangue del berserkr e, esultante, gridò: “Figli della Luna e della Terra, col vostro sangue liberate il Caos! Cadano i nove regni, il Bifröst che da Asgard ci divide e Yggdrasil che tutto protegge!”

Uno dopo l’altro, i vertici ove i berserkir erano stati sigillati da Loki con l’inganno, si illuminarono come dotati di vita propria, espandendo luce dorata fino alla volta circolare della grotta.

 Avvolti da quel fuoco divino, i corpi dei figli della Terra perirono, donando la loro vita per una causa che mai, nelle loro esistenze di seguaci della Madre, avrebbero voluto perseguire, se avessero conosciuto la verità.

Lì, circondata da quelle luci che mi ferivano gli occhi, stavo io, immobilizzata da gleipnir, spettatrice muta di quell’orrenda morte e del trionfo ormai vicino di Loki..

Il dio, ridendo sprezzante – e incurante delle urla di dolore dei berserkir – ammirò fiero ciò che aveva fatto, e che lo stava portando verso la meta finale, senza alcun ostacolo a fermarlo.

Fu a quel punto che mi accorsi di piangere.

Calde e livide lacrime scivolavano sulle mie gote, impregnando il bavaglio che mi rendeva impossibile gridare il mio orrore.

Tutto era finito. Niente restava a fermare l’ascesa di Loki.

Strinsi le palpebre come a voler fermare quel fiume salato e inarrestabile mentre Fenrir, dentro di me, urlava: Non cedere! Non cedere ora!

“I berserkir sono morti, io non ho più forze. Che altro rimane?” replicai, ormai vinta.

La speranza.

Sempre ridendo, Loki afferrò la spada che un tempo aveva sigillato e ucciso Fenrir e, levatala alta sopra la testa, mi fissò con aria vittoriosa. .

Mentre le luci continuavano a divorare i berserkir, riducendoli a poltiglia sanguinolenta – che andava ad alimentare il cerchio di potere che anch’io, col mio sangue, avevo contribuito a fortificare – gridò al mio indirizzo: “La vittoria è mia!”

“Addio, Duncan” sussurrai tra me.

Le luci dorate si rifletterono sulla lama della spada, lanciando lampi luminosi attorno a me, mentre essa calava ferale sul mio capo.

Non sopportai oltre. Chiusi gli occhi e sperai soltanto di non vedere l’inizio della fine del regno della Madre.

Ma il colpo non arrivò mai.

Al suo posto, un sibilo.

E un grido.

Sorpresa, tornai a spalancare gli occhi, incredula di essere ancora in grado di comporre pensieri coerenti.

Sbarrando le palpebre fino a farmi male, scrutai senza comprendere il viso sconvolto e stupefatto di Loki, immobile dinanzi a me e apparentemente incapace di portare a termine la sua vendetta.

A bocca socchiusa e con sguardo confuso, osservava la punta di freccia argentata che spuntava dal suo petto, all’altezza del cuore, senza comprendere da dove essa potesse essere giunta.

Fu come un fiume, onda di piena, un uragano al suo massimo fulgore.

Arrivò come pioggia, e dilavò.

Uno, tre, dieci, venti…

Trenta licantropi irruppero nella grotta con grida e ringhi, i corpi segnati da un’aspra lotta. .

Una seconda freccia, scagliata da Duncan dalla sponda più lontana del lago, andò a conficcarsi nella mano di Loki, che reggeva la spada che avrebbe dovuto decretare la mia fine.

Il grido di Loki si confuse con quello dei lupi che, aggirando le luci spettrali, si gettarono nel lago per raggiungermi, Duncan e Alec in testa al nutrito gruppo di licantropi inferociti che erano giunti per salvarmi.

Crollando su un ginocchio, il suo sguardo che gridava forte il desiderio di portare ugualmente a termine il rito per il Ragnarök, Loki mi fissò torvo, appoggiandosi alla spada. .

Con un ringhio, ansò: “Possono colpire il corpo ma ho ancora i miei poteri, per quanto essi non siano forti come i tuoi!”

Mi scossi con violenza per cercare di liberarmi, tentando con ogni stilla di energia residua di impedirgli di far loro del male, ma ogni mio tentativo fu inutile.

Quanto fu inutile quello di Loki.

Prima ancora che lui potesse concentrarsi per chiamare a sé le energie divine che risiedevano nel suo giovane corpo di lupo, una terza freccia trapassò il suo cranio, uccidendolo sul colpo.

Le luci sui fulcri di potere si spensero di colpo così come si erano accese e, d’improvviso, nell’enorme grotta scese il silenzio.

Le mie membra si rilassarono, mentre lo sguardo restò inchiodato al viso di Loki, frizzato nell’istante della morte, i suoi occhi colmi di furore, spalancati e increduli.

Nulla veniva dal suo corpo, né un alito di vita, né il battito del suo cuore..

Dell’anima, nessuna traccia.

Era dunque finita?

Voci sommesse si allargarono attorno a me, mentre il calore delle auree dei lupi mi circondavano come coperte di spesso velluto.

Accennando un sorriso nonostante il pesante bavaglio, scrutai grata tutti coloro che erano giunti lì per me e, per la prima volta da giorni, fui felice.

Duncan fu il primo ad avvicinarsi, subito seguito a ruota da Alec e Lance. .

Insieme, mi liberarono da gleipnir e dal bavaglio e io, crollando tra le braccia di Duncan, esausta e ai limiti dello svenimento, esalai: “Sei… venuto…”

“Non ti avrei mai lasciata qui a morire” sussurrò, avvolgendomi delicatamente tra le braccia, mentre Lance controllava sommariamente i miei parametri vitali.

Lo vidi levare lo sguardo per cercare il mio e, sorridendo, mormorò: “Ehi, principessa. Stavolta te la sei vista brutta.”

“Già” sussurrai con un gracidio mentre Beverly, giunta subito dopo di loro, si tolse la giacca a vento per farmela indossare.

Sussultai parecchie volte, mentre le maniche sfioravano la mia pelle tumefatta e piena di lividi e ferite, effetto collaterale della tortura infertami da Lot. .

Già sul punto di ringraziarla, aggrottai la fronte al pari degli altri, quando avvertii un suono che non avrei mai pensato di sentire.

Un rantolo.

Tutti ci voltammo per capire se, contrariamente a quanto avevamo pensato, Loki fosse sopravvissuto alle frecce di Duncan ma, a emettere quel suono strozzato e sottile, si rivelò essere Lot.

Sgranando gli occhi, mi scostai a fatica da Duncan e, avvicinandomi gatton gattoni a lui – non riuscivo a fare altro, distrutta com’ero – sussurrai: “Lot… mi senti?”

Subito, gli altri lupi ci attorniarono, un po’ per sincerarsi che non mi succedesse nulla, un po’ per comprendere cosa stesse succedendo.

Tossendo sangue, Lot aprì gli occhi, fissandomi con aria smarrita, la consapevolezza di aver commesso un errore dipinta a chiare lettere sul suo volto, ora pallido e smunto, segnato dalla morte ormai prossima.

Mi piegai in avanti per non costringerlo a utilizzare più forza del necessario per parlarmi e lui, deglutendo a fatica un paio di volte, mi fissò spiacente, dicendo a stento: “Non volevamo tutto questo. Non volevamo aiutarlo a distruggere, ma a salvare. Avevamo creduto alle sue parole. Pensavamo davvero si trattasse di Tyr.”

“Vi ha ingannati nel peggiore dei modi. Ci ha ingannati tutti” sussurrai per contro, sfiorandogli una guancia con la mano in una carezza che sapeva di perdono.

“Non eri tu il nemico. Non lo sei mai stato” ansò Lot, riferendosi a Fenrir. “Abbiamo mosso guerra solo per salvare … Wotan…”

“Che vuoi dire, Lot? Cosa!” chiesi con una certa veemenza.

“Mi … dispiace…” sussurrò infine il berserkr, prima di chiudere gli occhi.

Con lo sguardo e le mani corsi subito al suo petto, cercando senza trovarlo il battito del suo cuore. .

Sapevo che era una ricerca del tutto inutile, le orecchie mi dicevano chiaramente ciò che le dita non avrebbero mai trovato ma, ugualmente, tastai il suo petto finché Duncan non mi bloccò, mormorando: “E’ morto.”

Levai lo sguardo a scrutare il suo viso e replicai: “E noi siamo nei guai.”

***

Sdraiata comodamente su un divano, e ricoperta da due belle coperte di lana color giada, osservai con occhio insonnolito i miei salvatori, impegnati a brindare davanti al fuoco acceso in un camino .

Non ricordavo nulla del nostro ritorno alla civiltà, né di cosa fosse successo nella grotta dopo il mio svenimento. .

Sperai che l’avessero distrutta.

In quel momento, sentivo solo un dolore assurdo alla coscia destra e un pulsare leggero alle tempie, sintomo dello stress emotivo, e di tutte le energie che avevo perso per evitare che i miei poteri distruggessero tutto e tutti.

Sbattei un paio di volte le palpebre per schiarirmi la vista, prima che Beverly si accorgesse del mio risveglio e venisse a sedersi al mio fianco..

“Ehi, ben risvegliata, Brianna. Come ti senti, ora?”

Sulla fronte portava una pesante fasciatura, risultato dello scontro contro i berserkir, che avevano trovato fuori dalla grotta.

Tutti loro erano segnati dai loro ferali artigli, ma sembravano essere fieri di quelle cicatrici, quasi tronfi mentre se le mostravano vicendevolmente di fronte al fuoco.

Sorrisi divertita, dinanzi a tanta giocosa teatralità e, roca, asserii: “Intontita, ma va molto meglio”

Immediatamente, Beverly mi allungò una tazza fiorata, da cui proveniva un buonissimo profumo di the al miele di castagno. .

Bevendo avidamente, chiesi dopo un momento: “Come siete riusciti a trovarmi?”

Alec e Duncan, nel vedermi sveglia, si avvicinarono a loro volta, lasciando che gli altri continuassero a gozzovigliare vicino al fuoco. .

Sorridendomi entrambi, si sedettero a terra accanto al divano, lasciando che a parlare fosse Beverly.

“E’ successo tutto mentre ti portavano via, a quanto ci è dato sapere” mi spiegò Beverly, lanciando uno sguardo in direzione di Anthony, che sorrideva felice e spensierato assieme a Lance e agli altri lupi. “Ho avvertito una forte scossa al costato e, d’improvviso, ti ho vista immersa nel ghiaccio, oltre che ferita.”

Intervenendo, Duncan aggiunse: “Nel contempo, Elspeth mi ha telefonato, terrorizzata, dicendomi di averti vista a Longyearbyen. Disse di esserne sicura, di averti visto passare dinanzi alla statua che c’è in centro al paese, proprio di fronte al negozio di souvenir. Un minuto dopo, mi ha telefonato Alec dicendomi della visione di Beverly, così abbiamo dato per scontato che, primo, ti fosse successo qualcosa, secondo, ti stessero conducendo ben lontano da noi.”

La fretta nel volermi al suo cospetto, aveva impedito a Loki di celare i suoi piani come, in precedenza, aveva fatto così astutamente, permettendo così a Beverly ed Elspeth di avere visioni più chiare, almeno per una volta.

Ed ecco spiegata anche la strana premonizione che Elspeth aveva avuto a casa di Becca e Fred. .

Loki non aveva potuto escluderla completamente dai suoi piani, ma aveva reso incomprensibile ciò che la mia amica aveva visto nel futuro, rendendo tutto vano.

Ciò che mi aveva imprigionato nella mente di Elspeth era gleipnir ma, in quel momento, nessuno di noi aveva potuto comprendere la pericolosità di quella visione, non essendo a conoscenza del mio retaggio.

Loki è l’ingannatore, è colui che destabilizza l’ordine, la sua forza non sta nell’energia che può sprigionare, ma nel saper manovrare gli eventi perché il bene e il male siano in equilibrio.

 “Distruggere la Terra, avrebbe portato equilibrio?” chiesi, scettica.

Paradossalmente, sì. Pensa soltanto a tutto ciò che l’uomo sta compiendo contro la Madre Terra, come se dalle sue azioni non dipendesse il futuro di tutto. Il Crespuscolo degli dèi avrebbe ripulito la superficie terrestre dalle mani lorde di sangue degli umani.

“Ma avrebbe ucciso anche coloro che, invece, stanno cercando con tutti i mezzi di salvarla.”

Precisamente. Per questo ci siamo battuti. Per la speranza di coloro che ancora credono di poter cambiare questo mondo perso nell’oblio.

Sorrisi, osservando Duncan seduto a terra di fronte a me, l’aria ancora vagamente preoccupata, ma non certo come lo avevo visto al suo arrivo nella grotta.

In quel momento, mi era parso in tutto e per tutto un dio vendicatore, pronto a distruggere ogni cosa pur di salvarmi dall’annientamento.

“Avya, Hati e Sköll hanno vissuto più vite, vero?”

Sì. Su loro non gravava il taglio della spada del Fato come su me.

“Per questo, Loki è risorto. Sapeva che minacciare loro era il modo giusto per farti uscire allo scoperto.”

Esatto.

“In linea di massima, però, mi sembra che gli dèi non abbiano più interesse a muovere i loro passi su questo mondo.”

Non è il mondo che hanno creato, in cui hanno mosso i loro passi e vissuto le loro esistenze. Non trovano stimolante vivere tra gli umani, vincolati dai loro corpi di carne e sangue.

“Perché sono vincolati alla necessità di un corpo umano, per muoversi tra noi? In passato, non ne avevano bisogno perché avevano il proprio.”

Poiché le nostre essenze possedevano consistenza fisica solo grazie a voi. Quando gli dèi vennero soppiantati dall’unico Dio, essi persero la loro fisicità divenendo puro spirito, perciò si rifugiarono nell’abbraccio della Madre, ove tutto nasce e tutto ritorna.

“Quindi, esistono anche gli dèi greci, e pure loro sono scomparsi lasciando il posto agli dèi attuali?”

Esiste un dio per ogni creatura vivente e sì, anche loro hanno lasciato il mondo del reale per l’immaterialità dell’eterno che è la Madre. Alcuni decidono di assurgere a nuova vita, colti da curiosità, o da sete di dominio...

“…le guerre?”

Sì. Principalmente, sono gli dèi amanti del sangue e della distruzione, a risorgere. L’abbraccio della Madre può essere noioso, a lungo andare, per creature come loro.

“Quindi, se tanto mi da tanto, quando questo avviene, risorge a sua volta qualcuno per fermarlo” ipotizzai, sollevando un sopracciglio con evidente interesse.

Sì.

“Allora, il riferimento a Wotan potrebbe… potrebbe voler dire che lui è risorto per fermare Loki? O te?”

Non so risponderti. Percepii l’ascesa di Loki al mondo umano perché ancora risiedevo all’interno della Casa delle Anime, perciò decisi di seguirlo e risorgere ma, ora che ne sono fuori, non potrei mai accedere all’anima di Wotan. Non è tra i miei doni come lo era, invece, per Loki. Sono figlio di una gigantessa, perciò i miei poteri non sono puri come quelli di dèi come Wotan, o Tyr, o mio padre Loki. Io non appartengo al Sole come loro, ma alla Terra e alla Luna. Perciò, tu puoi usare i poteri della Terra anche senza l’intervento della Luna. E perciò non ho riconosciuto mio padre, in quel giovane.

“Quel che mi preoccupa, ora, è la reazione dei berserkir. Non vedendo tornare nessuno, sicuramente andranno alla grotta e troveranno Lot ucciso e molti dei loro compagni straziati dagli artigli dei licantropi. Temo ci sarà una rappresaglia. Proprio ciò che voleva Loki. Distruggere tutto il mondo che tu avevi contribuito a creare con Avya.”

Naturalmente, il mio scambio di battute era durato quanto un battito di ciglia.

Ormai mi stavo abituando a rimanere abbastanza cosciente per seguire le dinamiche attorno a me e, nel contempo, parlare con lui, ma sarebbe stato difficile imparare a farlo senza sprecare un mare di energie.

Energie che, in questo momento, non abbondavano di certo.

Lasciando perciò la nostra dialettica a un secondo momento ascoltai Alec che, ammiccando a Beverly, disse divertito: “Ha praticamente sfondato la porta del mio ufficio, per fare più in fretta. Credo che alcuni cardini abbiano ceduto, sai?”

“Me ne scuso profondamente, Fenrir, ma la fretta era d’obbligo” mormorò compunta Beverly, arrossendo leggermente.

Alec si limitò a scrollare le spalle e io, fissandolo dubbiosa, gli chiesi: “Non che mi spiaccia, visto il risultato, ma tu, perché sei qui?”

Il suo sguardo di ghiaccio si fece cupo, quasi portasse con sé un senso di colpa troppo profondo per essere messo a tacere in breve tempo.

Con un sospiro, ammise: “Diciamo che te lo dovevo.”

Feci tanto d’occhi, prima di esalare: “E perché, di grazia?”

“Perché hai mantenuto fede alla parola data, e hai benedetto le mie azioni. Diciamo che, visti i nostri precedenti, non me lo meritavo, no?” mi fece notare Alec, ironizzando sulla sua domanda retorica.

Duncan mi fissò curioso – non gli avevo mai detto del nostro quasi scontro alla riunione tra clan – e dichiarò serafico: “C’è qualcosa che mi sfugge, in questa conversazione, ma sorvolerò.”

Ammiccai al suo indirizzo e Alec, proseguendo, aggiunse: “Inoltre, a quanto pare, ti sono debitore anche per un’altra cosa. Quel tizio che ti ha fatto rapire, era uno dei nuovi lupi del mio branco. Avrei dovuto rendermi conto che qualcosa non andava, invece…”

“Anche io” assentì Beverly, spiacente.

“Non avreste potuto fare nulla. Dentro di lui risiedeva un dio, perciò nessuno di noi avrebbe potuto prevedere le sue mosse con largo anticipo” mi premurai di dire loro, sorprendendo tutti, ma non Duncan. “Tu sai, vero?” gli chiesi, poi.

“Anthony mi disse di parlare alla quercia, quando scoprimmo ciò che era successo, e lei mi spiegò ogni cosa.  Mi disse anche di coloro che risiedono dentro di noi” mi spiegò, stringendomi una mano e sorridendomi.

A quel punto fu Alec a mostrarsi confuso, e ci chiese: “E’ qualcosa che possiamo sapere anche noi?”

Fu così che spiegai loro di Fenrir e di Avya, delle loro anime e di come, grazie e a causa di ciò, Loki fosse riuscito a trovarmi e bloccarmi grazie a gleipnir.

Dissi loro dei suoi piani e del perché io fossi una wicca e una lupa così singolare.

Al fischio sommesso di Alec, seguì il commento di Beverly, che dichiarò ammirata: “Un binomio del genere non avrebbe potuto che generare un licantropo dai poteri unici.”

“Direi di sì” annuii.

“Di certo, curiosa la sei” commentò Alec, appoggiando le mani dietro di sé per stiracchiarsi un po’ la schiena.

Era evidente che, per trovarmi, dovevano aver tenuto dei ritmi serrati e, dopo il combattimento che li aveva visti protagonisti fuori dalla grotta, la stanchezza ormai cominciava a trapelare dai loro volti.

I licantropi erano forti, ma non indistruttibili.

“Suppongo non siate arrivati qui in nave” mi informai a quel punto, rivolgendomi a loro con aria curiosa.

Alec scosse il capo, facendo scrocchiare il collo intorpidito.

“Beverly sapeva che eri su una nave e che, quindi, avresti impiegato giorni prima di giungere qui, quindi ci siamo organizzati per trovare un charter che ci portasse alle Svalbard in tempo per far combaciare il nostro arrivo con il tuo. Una volta giunti qui, avremmo seguito il tuo odore.”

Sorrisi a Beverly, dicendo commossa: “Non oso immaginare quanto tu abbia dovuto chiedere a te stessa, per avere delle visioni abbastanza chiare per guidarli.”

“Sono sacrifici che ho pagato volentieri, visto il risultato.” Scrollò le spalle con noncuranza, un lieve rossore di imbarazzo dipinto sul viso.

Potevo vedere chiaramente anche i segni della stanchezza fisica, oltre che mentale, su quel volto così serio e bello.

Ero a conoscenza dell’obolo da pagare per un utilizzo forzato e continuativo del potere, e non avevo bisogno di parole da parte di Beverly per sapere quanto le fosse costato cercarmi tra i meandri dell’indefinito cosmo delle visioni.

Anche per questo, mi si spezzò il cuore al pensiero di dover chiedere altri sacrifici a tutti loro, ma sapevo che non avrei potuto tacere oltre.

Quel passo andava fatto.

“Ora possiamo tornare indietro con più calma, questo è sicuro” dichiarò a quel punto Alec, sospirando soddisfatto.

“Purtroppo no” lo contraddissi, sospirando pesantemente all’idea di ciò che stavo per aggiungere.

Tutti loro mi fissarono basiti e io, mordendomi un labbro, mi spiegai meglio.

“Non so se Loki deciderà di darci ancora fastidio, durante l’arco di questa nostra vita ma, di certo, quest’ennesima sconfitta gli avrà dato parecchio noia, e non credo me la farà passare liscia a lungo. Ma c’è un problema più immediato di Loki, al momento.”

“Che intendi dire?” mi chiese Duncan, aggrottando la fronte.

“I berserkir. Abbiamo ucciso la loro gente, in quella grotta, e loro sono convinti, tutt’ora adesso, che il male alberghi in me. Lot e gli altri pensavano che il giovane che li guidava fosse Tyr redivivo."

Li fissai spiacente, ma aggiunsi: "Quando i suoi verranno a sapere che sono tutti morti, i berserkir rimasti cercheranno vendetta. Inoltre, Lot ha detto una cosa strana, prima di morire.”

Rivolgendomi ad Alec e Duncan, domandai loro: “Ricordate?”

Duncan annuì ombroso, lo sguardo che mi percorse tutta, memore di ciò che gli abiti e la coperta nascondevano; le ferite che il berserkr mi aveva procurato.

Scuro in volto, mormorò: “Parlò di Wotan. Ma non ho capito molto di quanto ha detto.”

“Prima del vostro arrivo, mi è parso di capire che Wotan non fosse solo una divinità da celebrare. Ho il forte sospetto che anche lui sia nel corpo di un essere umano, e che loro temano per la sua incolumità. Mi sono presa parecchie botte, per aver solo accennato l’argomento” asserii torva, massaggiandomi lo stomaco al ricordo del colpo di Lot.

Duncan coprì la mia mano con la sua, sorridendomi benevolo mentre Alec imprecava vistosamente, tanto da attirare l’attenzione degli altri lupi.

Avvicinandosi a noi, domandarono quasi in coro: “Che succede?”

Spiegai loro succintamente ciò che sapevo – e cioè ben poco – e, quando ebbi terminato il racconto, Lance commentò indispettito: “Insomma, ne abbiamo eliminato uno per trovarcene cento contro?”

“Qualcosa del genere. Da quel che ho capito dai loro discorsi, ce l’hanno a morte con Fenrir, il primo Fenrir e, visto che Loki è stato tanto carino da dirgli che il suo spirito risiede in me, temo mi daranno la caccia finché non faranno di me uno scendiletto” dichiarai ombrosa, facendo una smorfia di disappunto.

“E se la storia di Wotan è vera, avranno un dio dalla loro parte” sbottò Alec, grattandosi nervosamente i capelli scuri.

“Fenrir ha conferito alle wiccan la forza di contrastare il potere dei licantropi ma, se Wotan è rinato nel corpo di un berserkir, non credo potrò fare molto. Non ho alcun potere su di loro, purtroppo. Almeno, non a livello psichico” spiegai loro, mordendomi un labbro per la frustrazione.

Li scrutai tutti, e aggiunsi: “Inoltre, non ho idea di quanto Wotan possa usare il suo potere attraverso un mortale. Loki era in grado di deviare le visioni e sapere sempre dove mi trovassi, grazie al suo legame con Fenrir, ma non so davvero cos’altro potesse fare, in quanto dio redivivo. Non sarà facile, … per niente.”

“Beh, puoi sempre decidere di scaricare loro addosso una montagna” celiò Alec, senza neppure crederci tanto.

“Potrei tentare” sospirai stancamente, prima di chiudere gli occhi.

Duncan mi sfiorò la fronte con un bacio e disse perentorio: “Ora riposa. Devi riprendere le forze. Solo in seguito penseremo a questo problema.”

“Ma dovremo pensarci. Non voglio che distruggano ogni centimetro d’Inghilterra solo per trovarmi” sussurrai, prima di assopirmi.

Ci penseremo dopo, e insieme. Ora dormi.

“E mentre io dormo, tu non pensare” brontolai, rivolta a Fenrir, pur sapendo che sogni e ricordi non dipendevano da lui. Ero io ad avere il controllo. Ormai l’avevo capito.

Loki, maestro degli inganni e dei sotterfugi, fratello del sommo Wotan, aveva giocato con le nostre vite, lasciando dietro di sé morte, sangue e presagio di sventura. Ma tutto ciò avrei potuto affrontarlo solo quando il mio corpo avesse recuperato un poco le forze, o sarei stata inutile e, peggio, pericolosa.

Perché ormai lo sapevo. Il pericolo che Kate aveva soltanto intravisto in me ora io lo conoscevo da vicino. Io non potevo permettermi di cedere.

O tutti ne avrebbero pagato il prezzo.

Ci penseremo dopo, e insieme.


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Capitolo 20
*** Cap. 20 ***


6

20.

 

 

 


Quando riaprii gli occhi, scorsi la tela color cannella del sedile dell’aereo dinanzi a me, oltre alle luci soffuse del corridoio, dove una hostess stava chiedendo ai passeggeri se avessero bisogno di un cuscino.

Fuori dal finestrino, la notte.

Stavamo sorvolando il mare cupo e scuro per tornare a casa ma, prima di rimettere piede sull’amena terra inglese, avremmo dovuto fare scalo a Oslo.

Lì, avremmo atteso la coincidenza con Londra e, finalmente, avremmo potuto dire di essere giunti a destinazione.

Purtroppo, essere portate ai confini estremi dell’emisfero boreale, comportava dei problemi logistici non da poco.

Uno di questi, erano gli spostamenti aerei.

Solo poche compagnie facevano scalo alle Svalbard, e trovare abbastanza biglietti per imbarcare tutti in un’unica tornata, era già stata un’impresa titanica.

Fortunatamente, di tutto l’aspetto logistico si era occupata Beverly che, nel giro di mezza giornata, aveva risolto ogni cavillo e aveva trovato abbastanza posti per tutti sulla compagnia di bandiera norvegese.

Come avesse fatto non mi era dato sapere, ma tant’era.

Al mio prossimo viaggio, le avrei chiesto lumi. Sperando fosse una gita di piacere, e non un incontro con l’Apocalisse.

Apocalisse che, a dirla tutta, non avevamo ancora sventato del tutto.

I berserkir avrebbero impiegato poco tempo a scoprire quel che era successo a Lot e gli altri e, di tutto, saremmo stati incolpati noi lupi.

Da lì a uno scontro diretto, sarebbe occorso pochissimo.

Duncan, seduto accanto a me e apparentemente sopito, si piegò quel tanto per sussurrarmi: “Non pensare così forte.”

Sobbalzai leggermente prima di sorridergli e dire per contro: “Scusa, Duncan.”

“Di nulla, principessa. So quanto tutto questo ti metta in ansia, ma vedremo di risolvere anche questo problema.”

“Sembra crescano come funghi, da quando stiamo insieme. L’hai notato?” brontolai, appoggiandomi alla sua spalla e avvolgendo un mio braccio attorno al suo.

Lui annuì, sempre tenendo gli occhi chiusi e, pacato, dichiarò: “Vuol dire che il premio finale sarà maggiore.”

Sgranai gli occhi per un momento, basita, prima di esalare a bassa voce: “Premio? E di che premio si tratta?”

“Tu” replicò, aprendo un occhio per guardarmi ironico prima di aggiungere: “Mi sembra un ottimo motivo per continuare a giocare.”

“Per te è un gioco?” bofonchiai, incredula.

“Affatto. Ma comincio a pensare che, per altre entità più grandi di noi, lo sia. Io, comunque, farò in modo da render loro la vita il più difficile possibile. Saremo anche pedoni su una scacchiera, ma anch’io so giocare bene” asserì il mio Fenrir, tornando mortalmente serio.

Anche Loki aveva parlato di una scacchiera, e ci aveva paragonati a tanti pedoni da muovere a suo piacimento. L’abbinamento non mi era piaciuto, ma sapevo che in parte era veritiero.

Per mantenere l’equilibrio cosmico, qualche mossa doveva necessariamente essere governata da coloro che avevano una visione d’insieme più ampia di noi mortali ma, come aveva appena detto Duncan, alcuni giochetti di abilità potevamo farli pure noi.

Sai che non sei costretta a farlo, vero? Puoi attenderli al varco.

Sapevo che Fenrir non mi avrebbe permesso di crogiolarmi nei cattivi pensieri per molto tempo.

“Tu lo faresti? Sacrificheresti i tuoi figli per darmi l’opportunità di tenere i piedi nelle pantofole?” lo irrisi bonariamente io.

Decideresti tu in ogni caso. Io non prendo decisioni per te. Io ti ho solo…

“…lo so, dato il soffio della vita. Ed è davvero più movimentata di quanto mi sarei immaginata, ma credimi, non lo permetterei neppure se ce l’avessero solo con Brianna, e non con Fenrir. Come wicca amo tutti i licantropi, non solo quelli del mio clan, e li difenderò. Perciò, sarò io a cercare loro, e non loro me.”

Grazie.

“E di che?”

“Chiacchiera non meno di Avya” intervenne Duncan nella mia mente, vagamente divertito.

“L’hai sentito?” chiesi sorpresa.

“Come tu potresti sentire Avya se parlasse a me in questo momento” replicò lui. “Ma loro non possono sentirsi.”

“E’ un po’ triste” replicai.

“Fa parte del libero arbitrio. Se anime come le loro potessero parlare vicendevolmente, influenzerebbero i loro portatori” precisò lui, dandomi un bacio sulla fronte con un sorriso tranquillo.

“Non pensi, quindi, che Avya abbia manipolato la tua volontà per permetterle di stare nuovamente con Fenrir” dichiarai allora io, accentuando il mio sorriso.

“Ho imparato tempo fa la lezione, principessa. E avere l’anima di una wicca dentro di me mi fa comprendere anche alcune cose che, in precedenza, mi erano parse oscure.”

“Come la faccenda di poter relazionarti con gli animali senza che essi abbiano paura del lupo che è in te?” gli domandai, ben conoscendo la risposta.

“E’ il potere delle wiccan, sì. E con Avya dentro di me, ho potuto usufruire anch’io di questo dono” annuì leggermente lui. “Mi sono chiesto per anni se, questa mia peculiarità, fosse sintomo di una mia qualche debolezza. Scoprire da cosa derivi è per me un sollievo.”

“Nessuno avrebbe potuto tacciarti di debolezza” protestai, aggrottando la fronte.

“Hai visto com’ero, prima di scoprire ciò che Sheoban e Connor avevano fatto” precisò lui, ironico. “Non è stato facile convivere con loro, credimi.”

“Lo so” annuii, prima di dire: “Credi che soffriranno molto quando…”

“Sì”

Non mi disse altro, ma non vi fu bisogno di ulteriori spiegazioni.

Sospirai e, tornando a chiudere gli occhi, mi assopii in pochi attimi, la mente e il corpo ancora troppo debilitati e bisognosi di riposo.

***

La mia testa ciondolava da una parte all’altra, contro lo schienale della BMW che avevamo preso a noleggio per tornarcene a Matlock.

L’arrivo all’aeroporto di Londra mi aveva visto stordita e più nel mondo di Morfeo che delle persone deste, ma Beverly si era presa buona cura di me mentre Duncan e gli altri si erano impegnati ad affittare auto sufficienti per portare a casa tutti.

Nessuno di noi aveva avuto voglia di farsela di corsa fino ai rispettivi clan, perché le ferite riportate durante lo scontro contro i berserkir avevano cominciato a dare a tutti parecchi problemi, tra cui enormi lividi davvero poco simpatici.

Perciò, a nessuno era parso disonorevole procedere su ruote invece che su zampe. Per una volta, neppure Alec aveva protestato. Doveva stare più male di quanto non apparisse, per non puntare i piedi e mostrare il petto come un gallo cedrone.

In ogni caso, nel giro di un paio d’ore, tutte le auto furono pronte per il trasloco di massa.

Decidemmo di comune accordo di ritrovarci alla fine di agosto presso il nostro Vigrond assieme a tutti i clan d’Inghilterra. Era necessario decidere la migliore strategia da tenersi per contrastare i berserkir, perché ero più che sicura che, presto o tardi, si sarebbero fatti vivi. E noi dovevamo trovarli prima che loro trovassero me. E i miei lupi. Tutti i miei lupi.

Perché, che lo volessi o no, non ero più responsabile solo del mio clan, ma di tutti.

Avere dentro di me Fenrir comportava un impegno più gravoso di quello di wicca o di Prima Lupa. Erano miei figli. Tutti quanti. E non avrei mai permesso che venisse loro fatto del male a causa di ciò che avevo dentro di me.

Dopo aver provveduto a ringraziare e salutare Alec, Beverly e tutti i lupi del loro branco, noi di Matlock salimmo in auto per iniziare l’ultimo tratto di strada per giungere finalmente a casa.

Desideravo con tutta me stessa rivedere la mia famiglia, il mio branco, i miei cavalli, la mia bellissima gatta, ma agognavo anche a parlare con coloro che, a causa di Loki e della mano dei berserkir, avevano perso persone a loro care.

Per loro e per coloro che ora erano tornati nell’abbraccio caldo della Madre, avrei dedicato parole sentite e una celebrazione degna del sacrificio cui si erano immolati senza paura alcuna nel cuore.

Sapevo cosa significava perdere una persona cara e potevo comprendere perfettamente tutto il dolore che, in quei giorni, doveva essere cresciuto dentro di loro e, in cuor mio, sperai di poter alleviare quell’angoscia.

Non sarebbero bastate settimane, o mesi, ma il tempo e l’amore di tutto il branco avrebbe contribuito a ridare loro la pace. Di questo, ne ero sicura.

Con me era successo.

“Penseremo ai caduti in battaglia quando ti sentirai meglio. Non devi preoccupartene adesso” mi disse ad un certo punto Duncan, alla guida dell’auto.

Lance era seduto al mio fianco, pronto a intervenire in qualsiasi momento nel caso mi fossi sentita male, mentre Anthony era accomodato sul sedile anteriore, intento a parlare fittamente al telefono per avvertire del nostro prossimo arrivo.

Potevo sentire distintamente le voci di Mary B e di Gordon sopra a tutte e, sorridendo lievemente, mormorai: “Ti stordiranno l’orecchio, di questo passo.”

“Poco ma sicuro” annuì lui, chiudendo la comunicazione prima di strizzarmi l’occhio da sopra la spalla e aggiungere più serio: “Certo, il tuo aspetto non li aiuterà a rilassarsi, ma almeno sei viva.”

Sapevo di aver perso peso, di essere pallida come un cencio e di avere più lividi e fasciature di quanto fosse sopportabile per un occhio acceso dall’ansia, ma non potevo far nulla per apparire meglio di quanto non stessi in quel momento.

Tutte le mie energie erano spese per mantenere un continuo contatto con l’energia della Terra, unica in grado di restituirmi forze a una velocità maggiore di quanto, invece, avrebbe fatto il cibo.

Quello mi sarebbe servito per recuperare peso e colore ma, intanto, dovevo sfamare il mio animo e la mia bestia e, grazie a due Vertici della mia Triade, potevo farlo più facilmente di quanto non sarebbe stato possibile altrimenti, anche se mi trovavo in un’auto che, di naturale, aveva ben poco.

Una volta giunta a casa, sarebbe stata tutt’altra storia. Avrei potuto divorare l’energia della Terra in tutta tranquillità ma, per il momento, potevo accontentarmi di quel poco che riuscivo a prelevare.

“Prenderanno quel che viene, Anthony. Non è che possano fare granché altro, né io posso cambiare il mio aspetto” scrollai le spalle, prima di sentire un dolore sordo alle articolazioni.

Mi dolevano ancora a causa della posizione innaturale che avevo tenuto nello starmene legata in attesa dell’esplosione del mio potere.

Chissà cosa sarebbe successo? Avrei perso consistenza? Sarei stata dilaniata come i berserkir dalla luce?

Non potresti pensare ad altro?

Ridacchiai. A Fenrir non piacevano le mie congetture apocalittiche.

“Scusa, ma non posso fare a meno di pensarci. E’ la mia mente analitica che cerca una spiegazione a tutto.”

Sei decisamente differente da me, in questo. Io non ho mai rimuginato così tanto sui particolari, specie questo genere di particolari.

Ridacchiai ancora, prima di sorridere nel vedere il cartello di Matlock passarci a fianco in uno scintillio di metallo.

Eravamo a casa.

Entro pochi minuti saremmo stati sommersi dall’abbraccio familiare del branco e, finalmente, per un po’, avrei potuto dire di essere al sicuro.

Speravo soltanto che, almeno per quella vita, Loki mi lasciasse in pace. Già risolvere il problema dei berserkir mi avrebbe rubato sonni tranquilli, non volevo dover arrovellarmi anche su di lui.

Duncan mi sorrise attraverso lo specchietto centrale dell’auto e mi promise: “Ancora poco e potrai riposare in camera tua.”

“Non vedo l’ora” sospirai, chiudendo un momento gli occhi per godere dell’immagine di me stessa stesa sul mio lettone.

Anthony tornò a fissarmi spiacente e, mogio, asserì: “Se solo non avessi ceduto alle tue richieste, forse ora non saresti…”

“… forse ora saresti morto” replicai, senza lasciargli il tempo di finire la frase.

Da quando mi avevano salvata, Anthony si era scusato almeno un centinaio di volte e, a quanto pareva, il suo mea culpa non si era ancora concluso.

Duncan decise di intervenire, asserendo con veemenza: “Brie ha ragione. Se tu avessi anche solo tentato di fermarli, ora dovremmo piangere anche la tua scomparsa. La scelta di Brianna è stata l’unica possibile, in quel momento, Anthony. Non pensare mai più che il tuo agire sia stato scorretto nei suoi confronti, o nei miei.”

Annuendo col capo chino, Anthony bofonchiò: “Ma era sotto la mia tutela, e…”

“… e niente. Chiunque di noi avrebbe dovuto eseguire i suoi ordini, Anthony. Anche io” intervenne allora Lance, sorridendogli. “Si obbedisce alla Prima Lupa come se fosse lo stesso Fenrir a parlare, lo sai.”

“E poi, sei venuto a salvarmi, Anthony. E io certe cose non le dimentico” dissi infine io, allungandomi verso di lui per poggiare una mano sulla sua spalla. “Hai la mia benedizione, Anthony, non dimenticarlo mai.”

Una lacrima fuggevole scivolò dai suoi occhi prima di venire cancellata in fretta da un gesto nervoso della mano e, con voce rotta dall’emozione, sussurrò: “Sono onorato, wicca. Più di quanto potrò mai esprimere.”

“Sono io ad essere onorata di avere lupi così coraggiosi nel mio branco” replicai, tornando a poggiare la schiena contro il sedile. Quel semplice movimento mi aveva stremata.

Quanto avrei impiegato, per riprendermi?

***

La debolezza ebbe la meglio sulle mie intenzioni di scorgere con i miei occhi anche il cartello dell’abitato di Farley.

QQquando mi ritrovai a sfiorare con lo sguardo i cespugli fioriti delle rose multicolori e del gelsomino rampicante della casa di Duncan, mi chiesi stordita se avessimo usato il teletrasporto per giungere fino a lì senza che me ne accorgessi.

Al mio fianco, Lance mi sfiorò una spalla dicendo: “Ti occorrerà un po’ per riprenderti, principessa. Da quel poco che abbiamo provato sulla pelle, gli artigli dei berserkir sono velenosi, per noi. E tu hai subito una dura privazione fisica, oltre a una lunga tortura.”

Sbadigliai sonoramente, prima di stiracchiarmi e mugugnare: “Oltre che velenosi, sono anche soporiferi. Non mi sono neppure accorta di crollare.”

Duncan mi sorrise, spegnendo l’auto, e ammise: “Sei crollata non appena abbiamo imboccato la tangenziale. Sembravi narcolettica.”

“Bello” esalai io, sgranando leggermente gli occhi.

Ma in fondo, dormire un po’ dopo tutte quelle emozioni, non mi avrebbe di certo guastato. Anzi, ero quasi sicura che avrei finito col passare ancora parecchi giorni a letto, se non avessi avuto la certezza assoluta che il pensiero dei berserkir mi avrebbe tenuta vigile fino allo scioglimento del mistero.

Inoltre, dovevo prendere atto di tutte le morti che Loki aveva causato all’interno del branco e parlare con le famiglie delle sentinelle che, così coraggiosamente, si erano battute per me.

Fino a quel momento, non avrei potuto stare in pace con me stessa.

Ma ora avevo una famiglia da tranquillizzare, perciò avrei pensato al resto delle mie incombenze il giorno seguente, e avrei dato uno spazio più che degno a quelle anime coraggiose, piangendole come meritavano.

Scesi perciò dall’auto poco prima di vedere un’autentica orda umana uscire dalla porta di casa. In un lampo, venni stritolata dalle braccia di mio fratello che, letteralmente, mi sollevò da terra ed esclamò al mio orecchio: “Mi hai fatto invecchiare di vent’anni, idiota! Che ti è saltato in mente di fare la martire!?”

Cercando di scostarlo per respirare senza fargli male, rimisi i piedi a terra e, con un mezzo sorriso, replicai: “Di solito i martiri ci restano secchi, ma io sono ancora viva e vegeta.”

“Fortuna! Solo fortuna!” sbottò lui, prima di lasciar passare Erika e Mary B che, insieme, mi avvolsero in un abbraccio al sapor di miele mentre le loro calde lacrime scivolavano come perle sulle loro gote arrossate.

Dire che mi sentii in colpa, fu poco.

Lance si avvicinò sorridendomi comprensivo e, sfiorando la spalla di Mary B con la mano, commentò sereno: “Visto che l’abbiamo riportata a casa sana e salva?”

Non penso di aver mai visto Mary B con quello sguardo.

Levò il viso bagnato di lacrime e fissò con fiero cipiglio Lance prima di scivolare via da me e dare un sonoro pugno sul torace robusto dell’Hati, sbottando: “E’ inutile che fai il presuntuoso con me, Lance Gregory Rothshild. Ce n’è anche per te!”

Poi, detto ciò, si levò in punta di piedi e, di fronte ai nostri volti più che sorpresi, diede un sonoro bacio a Lance, facendolo diventare rosso come un peperone maturo. Evidentemente, tanta espansività non se l’era aspettata neppure lui, visto che il loro rapporto era, da quel che avevo capito, qualcosa di simile al platonico.

Gordon grugnì disgustato mentre Erika si infilava sotto il suo braccio e ridacchiava divertita. Io, per contro, sospirai leggermente e celiai: “Okay, ora posso dire di averle viste tutte.”

Scostandosi da Lance, che ancora sembrava avere qualche difficoltà a connettere, Mary B mi fissò con aria fiera e dichiarò pacifica: “Beh? Non dovrei salutare il mio uomo di ritorno da una missione a dir poco pericolosa e in cui, a quanto pare, ha riportato diverse ferite?”

Io sorrisi orgogliosa, stringendola a me in un frettoloso abbraccio, e replicai: “Ma certo Mary B. Anzi, speravo di vederti così felice e… beh… serena.”

“Lo sono” annuì lei, ricoprendosi un attimo dopo di un delicato rossore sulle gote non appena si rese conto della faccia tosta con cui aveva baciato Lance.

Ridacchiò imbarazzata e, volgendo lo sguardo verso di lui, ammiccò e disse: “Scusa.”

“E di che!” ridacchiò a sua volta lui, avvolgendole le spalle con un braccio e stringendola possessivo a sé.

Jerome decise di sbucare dalla porta di casa proprio in quel momento e, munito di pentola a pressione e canovaccio buttato negligentemente su un braccio, esclamò: “Tesori miei, il pranzo sarebbe quasi come in tavola! Ci vogliamo sbrigare?!”

Esplodemmo a ridere – avevo percepito la presenza di John, Sarah e Jerome in casa, e mi stavo giusto chiedendo come mai non fossero usciti per salutarci – ed io commentai divertita: “Ma che bravo ometto di casa che sei!”

“Ovvio… papino” commentò di rimando lui, strizzandomi un occhio prima di rientrare.

Gordon mi fissò confuso al pari di Mary B ed io, sospirando, scossi esasperata il capo ed esalai: “Vi spiegherò tutto dopo. E’ una lunga, lunghissima storia, e non ho la forza di raccontarvela ora.”

“E ti pareva” ridacchiò Gordon, incamminandosi per primo verso l’ingresso, il braccio di Erika sempre avvinghiato al suo.

Duncan mi prese per mano e, sorridendomi, chiosò: “Tutto come prima, eh?”

“Più o meno” ammiccai, lanciando uno sguardo a Lance e Mary B, che ci precedevano sull’entrata di casa.

“Beh, di quello non posso che essere felice. Meritano un po’ di felicità, no?”

“E come negarlo?”

***

Sono lieta che la mia reticenza non ti sia costata la vita, wicca.

“Diciamo che maggiore chiarezza tra noi sarebbe auspicabile, per il futuro, ma capisco bene perché  tu non mi abbia parlato subito della mia discendenza particolare.

Dirti così tante cose, e nel giro di pochissimo tempo, avrebbe mandato in frantumi il tuo autocontrollo, e forse anche il tuo cervello. Non è cosa di tutti i giorni venire a sapere di avere un dio dentro di sé. E specialmente questo dio. Motivo di più per non farti perdere il controllo sui tuoi poteri, con una notizia così scioccante.

“Questo è poco ma sicuro” ammisi, rabbrividendo un poco.

Tornare al Vigrond, dopo essere stata prelevata proprio in quel luogo dai berserkir, mi aveva fatto uno strano effetto, ma avevo preferito andarci da sola per riprendere confidenza con quei luoghi a me così cari.

Ovviamente, avevo un mezzo esercito alle spalle pronto a difendermi se anche il sentore di un nemico si fosse avvicinato a più di un miglio dal Vigrond ma, per lo meno, mi era stata concessa un minimo di intimità per parlare con la quercia.

Avevo bisogno di quel confronto a tu per tu con lei e, soprattutto, dovevo farmi passare la paura che era nata in me dopo il rapimento, avvenuto proprio nel luogo di potere dove avrei, invece, dovuto sentirmi al sicuro.

“Perché Lot si è sorpreso quando ha saputo che sono wicca? Loro non dovrebbero avere alcun legame con noi. Almeno, io non ne ho avvertiti.”

Le wiccan sono sempre state le Sacerdotesse della Madre, oltre che le Accolite della Luna, e perciò loro hanno sempre portato rispetto nei vostri confronti, anche se eravate legate a doppio filo coi licantropi, e non con loro.

“E il fatto che, fino ad ora, non abbiano mai cercato di attaccare i licantropi? Dipende dal fatto che non odiano la nostra razza, ma solo Fenrir?”

Esatto. E’ una faida personale che dura da millenni, e Loki ne ha approfittato. Come vi sia riuscito, però, non sono in grado di dirtelo.

“E’ quel che intendo scoprire. Non penso che quelli che Duncan e gli altri hanno ucciso fossero gli unici berserkir che ci sono in giro. Perciò, non appena i loro compagni verranno a sapere quel che è successo, la faida si farà ancora più aspra e si estenderà a ogni clan di licantropi d’Inghilterra, non solo al nostro, soprattutto quando troveranno il cadavere di Loki, che loro credono essere Tyr tornato sulla Terra.”

Del suo corpo ospite, precisò la quercia.

“Giusto. Lui non muore.”

Per molti anni ancora non potrà rinascere e, almeno per un po’, potrai vivere senza l’incubo incombente della sua ombra, wicca.

“Non dormirò sonni tranquilli finché non avrò trovato i berserkir che hanno dato il via a tutto, e avrò spiegato loro la verità. Non credo che Lot e soci fossero gli unici a sapere chi ero. Quindi, i loro fratelli mi verranno a cercare qui, cosa che voglio caldamente evitare. Non desidero una carneficina proprio nel mio territorio, perciò io troverò loro prima che loro trovino me.”

E come pensi di fare? Io non so nulla che possa aiutarti per giungere a loro.

“In qualche modo farò” scrollai le spalle, pur sapendo che mi stavo arrampicando sugli specchi.

Non ero famosa per la mia conoscenza del soprannaturale e, per quanto ne sapevo, neppure i lupi conoscevano granché dei berserkir. Ma, in un modo o nell’altro, avrei cavato qualche ragno dal buco. Forse Elspeth, che era tanto informata sulle bestie mitologiche, avrebbe potuto indirizzarmi. Oppure avrei potuto fare una chiacchierata con Fenrir, visto che conosceva approfonditamente l’argomento.

 Presta attenzione sul tuo cammino, wicca, e non rischiare più del necessario.

“Sentiresti la mia mancanza?” ironizzai, ammiccando.

Lei ovviamente non rispose – timida? – ed io, con un leggero sospiro, mi appoggiai un momento al tronco ruvido e centenario della quercia, sussurrando: “Credo in te. E sarò prudente.”

Bene.

Detto ciò, mi allontanai dal Vigrond ascoltando le voci nel vento, il sussurro della foresta, l’alito della vita che cresceva e prosperava tra quegli alberi e, sorridendo leggermente, mi riappropriai di quegli odori a me familiari mentre i miei piedi volavano leggeri sul muschiato sottobosco e tra i cespugli verdeggianti.

Chiusi gli occhi per alcuni attimi, ascoltando il cinguettio di alcuni cardellini e il beccare di un picchio in lontananza, intento a scavare col suo becco il tronco di un albero morto. Più in là, semi nascosto dai cespugli, vidi un cervo abbeverarsi al torrente e che, avvertendo la mia presenza, corse via veloce scalciando gli zoccoli a terra e falciando il terreno al suo passaggio.

Non avevo voglia di cacciare, ma solo di riunirmi alla mia famiglia perciò, lasciatolo perdere, proseguii la corsa finché non raggiunsi il mio personale corpo di guardia che, tenendo il mio passo, si unì a me nel ritornare a casa.

Anthony, sulla mia destra, mi sorrise e chiese: “Com’è andata?”

“Meglio di quanto sperassi. Solo qualche brivido qua e là” commentai, sorridendo.

“Passerà, davvero” mi promise, ammiccando al mio indirizzo.

“Ci conto” mi limitai a dire, prima di rallentare non appena fummo in prossimità dei confini del bosco.

Non era il caso che Christine ci vedesse piombare tutti fuori dal boschetto a velocità record e come un piccolo esercito in azione.

Uno a uno, la mia scorta si dileguò alle mie spalle ed io, raggiunto che ebbi il cortile, mi infilai nella stalla senza neppure pensarci e andai direttamente al box di Gab per rendermi conto di come stesse. Da quando ero tornata, non ero riuscita a passare con lui che qualche minuto, perciò era giunto il momento di rimediare.

Lui mi salutò con un nitrito e un colpo leggero del muso ed io, avvolgendogli il collo con le braccia, affondai il viso nella sua morbida criniera, chiedendo: “Sei stato in pensiero per me anche tu, vero, bello mio?”

“Di sicuro era ingovernabile” commentò sull’entrata Gordon.

Mi voltai a guardarlo – stava diventando bravo a muoversi in silenzio, ma al mio naso non sfuggiva nulla – e sorrisi, domandandogli: “Hai provato a sellarlo?”

“Sì. Volevo farlo correre un po’, ma non c’è stato verso. Solo Duncan riusciva in qualche modo a ragionarci” scrollò le spalle Gordon, avvicinandosi e lanciando un’occhiata ironica a Gab.

Lui rispose con uno sbuffo. Io ridacchiai. Uomini.

Gordon allora ammiccò e celiò divertito: “E’ davvero suscettibile.”

“Un po’, in effetti” ammisi io prima di chiedergli: “Mi cercavi per un motivo, o solo per accertarti che stessi bene?”

“Tutt’e due le cose” disse atono lui, scrollando indolente le spalle. “Forse ho un’idea per poterti aiutare.”

“Cioè?” chiesi curiosa, continuando ad accarezzare distrattamente la criniera di Gab.

“Ho pensato parecchio alla faccenda dei berserkir, e mi è venuto in mente un particolare. Cu Chulainn. Secondo il mito, la sua forza in battaglia era paragonabile a quella di un berserkr assetato di sangue, e anche il suo corpo mutava divenendo una specie di orso.”

Aggrottai la fronte, borbottando: “Il nome non mi è nuovo, ma sei tu l’esperto.”

Grattandosi dietro un orecchio con espressione pensierosa, aggiunse: “E’ legato ai miti dell’Ulster. Ho cercato anche sui berserkir, ma i luoghi in cui si diceva vivessero sono così disparati che ho pensato che partire da un luogo preciso, e un mito preciso, potesse essere la mossa giusta per iniziare la tua ricerca.”

Allargai il  mio sorriso e, lasciando Gab, raggiunsi Gordon prima di dirgli: “Ti sei dato parecchio da fare, a quanto vedo.”

“Sei mia sorella!” sbottò lui reclinando il capo, le sopracciglia aggrottate per l’imbarazzo e la rabbia. “Non mi ha fatto piacere scoprire che qualcuno voleva vederti morta, né tanto meno venire a sapere tutto quello che ci hai detto. E perciò…”

“… perciò hai pensato di darmi una mano. E’ stato carino da parte tua” dissi lieta, sollevando una mano per sfiorargli la guancia. Lui, però, si tirò indietro.

Sorpresa e, sì, un po’ ferita, feci a mia volta un passo indietro e lui, accorgendosene, se ne pentì immediatamente e mi attirò lesto tra le braccia, avvolgendomi nel suo calore umano. Con voce spezzata, ammise controvoglia: “E’ da quando hai conosciuto Duncan che rischi la vita. Sono stanco, Brie. Maledettamente stanco di saperti sempre in pericolo. Non voglio che tu muoia, lo capisci?! Sei tutto ciò che mi rimane!”

Una coltellata nel petto non avrebbe potuto farmi più male del dolore che avvertii nelle sue parole e, ricambiando l’abbraccio, sussurrai contro il suo petto: “Quello che mi sta succedendo non ha nulla a che vedere con Duncan, ma capisco i tuoi sentimenti, fratellino.”

“Vorrei… vorrei proteggerti, e non posso!” mugugnò lui, scosso da brividi che preludevano le lacrime che stava cercando di non versare.

“Ho un intero branco a difendermi, e non farò più l’errore di affrontare da sola i miei problemi. Troppe persone soffrirebbero, tu per primo, ed io non voglio causarvi alcun dolore. Voglio solo che siate felici” gli promisi con calore.

Non dovevo rimuginare troppo sui vecchi schemi che avevo tenuto buoni fino a quel momento. La vita che avevo vissuto con i miei genitori era ormai un capitolo chiuso; dovevo cominciare a capire che, all’interno di un branco, le cose funzionavano diversamente.

Ero la loro wicca, la loro Prima Lupa, e avevano tutti i diritti di volermi difendere fino alla morte. Non mi sarei più opposta a nessuno di quei precetti. Con il titolo di cui mi ero voluta fregiare, avevo preso su di me anche quel peso. Le loro vite asservite a me. Era il momento di accettarlo, e cambiare.

Mi scostai da lui e aggiunsi con veemenza: “Cercherò i berserkir, ma non sarò da sola. Ti prometto che con me verranno due lupi tra i più potenti che io abbia mai conosciuto. Non mi comporterò mai più da scellerata. Penserò anche, e soprattutto, alla mia vita.”

Tirando su col naso, Gordon mi fissò burbero e borbottò: “Allora, così, mi può star bene”

Circondandogli la vita con un braccio, lo sospinsi dolcemente verso l’uscita e gli proposi: “Andiamo a prenderci un the, è meglio. Ti rilasserà i nervi.”

“I miei nervi sono a postissimo” brontolò lui, pur seguendomi.

“Sì, come no” ammiccai, prima di appoggiarmi a lui per un attimo e avvolgerlo col mio potere.

Sapevo che poteva sentirne solo una minima parte, ma volevo che lui capisse quanto apprezzavo il suo interessamento e il suo affetto.

Gordon si limitò a baciarmi sul capo e sussurrò: “Grazie.”

Non c’era bisogno che io e lui parlassimo molto. Era sempre stato facile, per noi, capirci a vicenda.

E anche quella volta, lui era con me.

Non sapevo ancora bene dove sarei dovuta andare, o come avrei affrontato l’intera faccenda, ma lui era con me. Poteva bastarmi, per il momento.

Tuo fratello ha ragione. Partire da Cu Chulainn è la scelta migliore. Non potete perdere tempo a cercare i berserkir in giro per mezza Europa del Nord. Con tutta probabilità, trovare notizie su di lui vi porterà sulle tracce dei suoi simili.

“Lo spero, perché non ho alcuna voglia di saltare il primo semestre all’università” brontolai, mentre entravamo in casa uno dopo l’altro.

Non credo tu debba focalizzare la tua mente sull’università, al momento, quanto piuttosto sul pericolo che incombe su voi tutti.

“Se non ci penso, impazzisco. Dovresti averlo capito, ormai, che ho un metodo piuttosto particolare per non perdere la calma” replicai ironica, aprendo la porta della cucina e lasciando che Gordon mi precedesse all’interno.

In effetti, ho notato una tua certa tendenza a pensare a cose il più possibile logiche e lineari.

“E’ l’unico sistema che ha sempre funzionato e, nel caso specifico, è decisamente un bene se io non perdo sul serio le staffe.”

Decisamente un bene.

“Lieta che tu lo pensi” terminai di dire prima di afferrare il bricco per il the e infilarlo sotto il rubinetto del lavandino.

Dopo averlo riempito per metà, lo misi sul fuoco perché si scaldasse a sufficienza, già pronta a chiedere a Gordon se lo volesse semplice o aromatizzato ma, quando mi volsi nella sua direzione, arrestai la mia domanda sul nascere.

I suoi occhi chiari mi stavano fissando con una maturità che solo di recente avevo scorto in lui e, in quel momento particolare, sembravano ancora più seri del solito.

Involontariamente, tremai.

Lappandosi le labbra una volta con fare nervoso, intrecciò le dita in grembo prima di scioglierle nel giro di pochi attimi e passarsele tra i folti capelli, tirandoli subito dopo come se fosse preda di un attacco d’ira, … o di panico.

Muta, continuai a guardarlo in attesa che lui si esprimesse in qualche modo quando, d’improvviso, mi spiazzò dicendo: “Voglio diventare come te.”

___________________________________

N.d.A.: E dopo l'uscita in grande stile di Gordon, vi saluto per darvi appuntamento all'epilogo di questo secondo racconto cui seguirà, entro breve, un terzo, dal titolo "All'Ombra dell'Eclissi". Tenete perciò d'occhio la mia bacheca, perché le avventure di Brie e Duncan non sono finite. E naturalmente, grazie a tutti/e coloro che mi hanno seguito fiduciosi/e fino a qui. Le parole non bastano per esprimere la mia gratitudine, ma spero si capisca. :)

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Capitolo 21
*** Epilogo ***


3

Epilogo.

 

 

 

 

 

 

 

La brezza spirava da sud, calda e morbida come il sospiro di un amante, leggera come la carezza di una piuma sulla pelle.

Il sole, al suo massimo fulgore, splendeva sul Vigrond fiorito e profumato dei fiori di bosco, cresciuti rigogliosi nella terra ricca di vita e di memorie di cui era impregnato quel luogo di ancestrale bellezza.

Salda tra le mie mani, la teca contenente le ceneri delle sei sentinelle morte nel tentativo di salvarmi dal destino infausto che era calato come una mannaia su di me.

I loro spiriti fluttuavano leggeri e incorporei attorno a me, non ancora pronti per entrare nella Casa delle Anime, in attesa  che io le conducessi per mano verso il loro ultimo luogo di riposo.

Disposti a semicerchio nella grande spianata del Vigrond, si trovavano gli alfa più potenti, la mia Triade di Potere e le famiglie che, con orgoglio smisurato e cuore spezzato, avevano accettato l’ingrata sorte capitata ai loro congiunti.

Invasi solo dal dolore ma non da un possibile risentimento nei miei confronti, i famigliari attendevano solo di veder compiere il rito di saluto dalla loro wicca, e così sarebbe stato.

Levai lentamente il viso perché i raggi caldi del sole sfiorassero le mie gote pallide – non mi ero ancora ripresa del tutto dalla mia prigionia, ma era un compito che dovevo e volevo assolvere quanto prima – e cominciai a mormorare teneramente: “Possano le vostre anime danzare liete nell’abbraccio della Madre.”

Con mano leggermente tremante, aprii la teca di legno che tenevo su un palmo aperto e, presa tra le dita un po’ della cenere contenuta al suo interno, sollevai in aria la preziosa reliquia e continuai il rito, dicendo con più forza: “Possano i vostri ricordi e le vostre memorie divenire imperitura coscienza del Vigrond e sollievo per coloro che non possono seguire i vostri passi verso la Luce Eterna.”

Chiusi gli occhi, lasciando la presa ed espandendo attorno a me la cenere grigiastra perché il terreno la facesse propria. Dai licantropi presenti si levò, in un sussurro commosso, la medesima preghiera, che venne ripetuta sei volte, ad ogni mio gesto, perché ogni vittima dei berserkir fosse degnamente celebrata.

Quando la teca fu vuota, mi inginocchiai a terra sfiorando coi palmi il terreno ora ricoperto di cenere e, levato il capo a scrutare la quercia che tutto ombreggiava intorno a me, esclamai con voce ancor più forte: “Quercia sacra, Yggdrasil che il mondo sorreggi, concedi a loro l’onore dell’immortalità all’interno del tuo ventre! Prendi con te i miei lupi! Accogli a te Gilbert, Joseline, Albert, Hugh, Marlon e Stephenie, i miei figli cari e che fino all’ultimo respiro hanno combattuto per me.”

La brezza divenne vento, che sollevò la cenere sparsa sul prato rigoglioso e, come vortice, mi avvolse. La quercia, che ai miei occhi era parsa, fino a quel momento, ricoperta d’oro e di bronzo, divenne sfolgorante astro e mi abbracciò con la sua forza dirompente, espandendo se stessa fino a inglobare tutti i lupi presenti al Vigrond.

Chiusi gli occhi, accettando l’energia dirompente e incanalandola in me perché il corpo diventasse la via da cui i ricordi di quelle anime valorose sarebbero giunte alla loro destinazione finale.

Venni scossa da poderosi contraccolpi, da squarci di esistenze che non avrebbero più visto un’alba o un tramonto, di braccia che non avrebbero più stretto a sé corpi caldi e cuori straripanti d’amore, e piansi.

Le mie lacrime dilavarono il dolore provato da quelle anime nel momento della dipartita, aiutandole nel loro viaggio verso la Madre e, quando la luce della quercia si ritirò per far riemergere quella del sole, caddi a terra, sdraiata completamente sull’erba, il volto bagnato di  amaro sale.

Duncan fu subito da me, avvolgendomi nella sua stretta calorosa e, dopo di lui, Lance e Jerome lo imitarono.

Un attimo dopo, Jessie, ancora claudicante e con un braccio steccato, si inginocchiò al mio fianco e, assieme a lui, giunsero anche le sentinelle scampate al massacro.

Coccolata dal loro calore, accettai il tributo della morte di quei lupi coraggiosi e, quando anche il resto del branco venne a me per unirsi a quell’abbraccio consolatorio, seppi di aver fatto la cosa giusta, divenendo Prima Lupa.

Ora, eravamo veramente un clan e nessuno, neppure gli dèi, avrebbe potuto mettersi contro di noi.

 

 

 

 

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N.d.A: E qui si chiude questo secondo racconto. Direi che riparleremo del terzo racconto di Brie e Duncan, All'Ombra dell'Eclissi, per i primi giorni di agosto.

Per ora vi dico grazie. Per avermi sopportato, per essere stati al mio fianco, per aver riso, pianto e spasimato assieme a me.

Ci sarebbero mille altre cose che vorrei dirvi per esprimere la mia gratitudine nei vostri confronti, ma spero che dirvi ancora GRAZIE possa farvi comprendere quanto la vostra presenza sia stata, ed è, importante.

A risentirci presto con i nostri licantropi!

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