Istituto Torquato Tasso di Rodelinda (/viewuser.php?uid=23176)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione & Prologo ***
Capitolo 2: *** Alex ***
Capitolo 3: *** Cassandra (prima parte) ***
Capitolo 4: *** Cassandra (seconda parte) ***
Capitolo 5: *** Sachiko - la geisha ***
Capitolo 6: *** La Cantastorie ***
Capitolo 7: *** Bellissima ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Introduzione & Prologo ***
Introduzione&Prologo
Introduzione
Come in tutti i miei racconti
l’introduzione è ridotta ai minimi termini,
quindi, se avete deciso di leggere la seguente storia, siete pregati di
darci una scorsa.
“Istituto
Torquato Tasso” è, per me, una sorta di fabbrica
del Duomo: per quanto sia la mia opera più apprezzata
è quella che mi soddisfa costantemente di meno; le revisioni
non si contano, così come i bruschi cambi di rotta sia in
corso di pubblicazione che dopo, le appendici aggiunte,
l’epilogo che, originariamente, non era previsto. Per quanto
mi sforzi di trovare per essa una versione definitiva, non riesco.
Quindi ho deciso di rimuoverla per qualche tempo, e di ripubblicarla
poco a poco, man mano che i capitoli verranno corretti. Questa manovra
comporterà la perdita di tutte le vostre recensioni, e mi
spiace molto, ma le ho accuratamente copia-incollate
affinché non dimentichi le vostre costruttive critiche e i
vostri graziosi complimenti. Vi ringrazio moltissimo, consideratelo un
tardivo regalo di Natale.
Questa
storia è una raccolta di profili femminili in una scuola
privata, anno 1994.
Sono
capitoli laboriosi, descrittivi, introspettivi.
A
volte hanno risvolti drammatici anche pesanti, spesso presentano
aspetti sentimentali.
C’è
un accenno yuri (= yuri ai, amori omosessuali femminili), pur essendo
l’io narrante un ragazzo; uomo avvisato mezzo salvato: se la
cosa vi offende, non leggete e andate via. Il racconto potrebbe non
avere un plot continuo, visto che la discontinuità
è la sua essenza: e molte delle figure ivi descritte non
sono in relazione tra loro.
È
una cosa puramente sperimentale, quindi insolita.
Concludendo,
vorrei ringraziare alcune persone che mi hanno ispirato – sia
pure involontariamente – con i loro scritti.
1)
Susy, per le sue bellissime storie (in particolare “Profondo
cremisi”, che sta subendo un processo di
revisione simile a quello di “Istituto
Torquato Tasso”);
2)
Lisachan, perché è la miglior scrittrice sul
fandom Molko/Bellamy di mia conoscenza;
3)
MusicAddicted, alias Happy, perché la sua “Try something
new” mi ha iniziato al fandom Molko/Bellamy;
4)
Milako, sia per “Songmaker’s
cry” che per la mitica, fantastica,
spassosissima “De
Ignoto Silmarillion”;
5)
Riccardo, che seguo dai tempi de “Il
mangaprocesso del Lunedì – prima serie”
e che persiste, con le sue creazioni (“Crazy
School” per citarne una) a farmi ridere come una
pazza.
6)
Egle ed Elivi, bravissime ficwriter comiche che sono, purtroppo,
piuttosto linfatiche. Ogni volta che, a tre anni di distanza, leggo “Il signore delle Palle”
mi diverto ancora un casino.
7)
Promethea, per la sempre mitica “Saint
Luna”, connubio perfetto tra comicità
e azione, “Sliding
sancuary”, unione assolutamente riuscita tra
drama e avventura e, infine, “Favola”,
parodia sconosciuta ai più ma che fa svenire dalle risate.
8)
Enedhil, per la tetralogia di Legolas e Aragorn che mi ha avvicinato al
fandom del Signore degli Anelli e che ha creato in me la persistente
supposizione che a Lorien quei due abbiano fatto ben altro che
scofanarsi di lembas e ascoltare i lamenti per Gandalf;
9)
Tutti coloro che ho dimenticato in quest’elenco compulsivo e
scritto di getto, perché hanno contribuito a creare il mio
io narrante personale. Le parole sono sempre la miglior colonna sonora.
Bene,
ora che avete letto (e magari vi siete riscoperti tra i nomi
dell’elenco)… buona lettura!
Prologo
Io sono un “ragazzo
normale”.
Al
liceo, tutti quelli che parlavano di me, invariabilmente finivano per
dire: « Francesco? Hum… sì, un ragazzo
a posto… normale. »
Non
ero né il più bello, né il
più intelligente, né quello più dotato
nello sport. Non avevo particolari attitudini per nulla, se si eccettua
una certa padronanza della matematica. Il mio aspetto fisico era, ed
è, indiscutibilmente nella media: capelli castani corti,
naso piuttosto irregolare, bocca mediamente carnosa, occhi scuri e
piccoli. Mediamente alto, abbastanza magro.
Non
mi distinguevo assolutamente in niente, rispetto ai miei compagni di
classe: vestiti come quelli di tutti, opinioni più o meno
nella massa… ho avuto la prima ragazza a sedici anni, come
tutti i miei amici, e non era né una bellona né
un cesso. Anche lei normale.
Ovviamente,
anche adesso, a quindici anni di distanza, conduco una vita
assolutamente nella norma. Lavoro come impiegato presso la banca
cittadina, e ho sposato Chiara, che ho conosciuto un anno dopo la
maturità all’università
(facoltà di Economia e Commercio).
Anche
lei, perfettamente nello standard.
Non
so perché, all’età di trentadue anni,
mi sia venuto in mente di parlare di loro.
Forse
perché ho rivisto Sachiko, ieri. Forse perché
oggi è l’anniversario della morte di Cassandra.
Non lo so.
***
Essendo sempre stato un ragazzo
normale, non mi sono mai messo molto in luce in alcun modo
né a scuola né ora in ambito lavorativo. Ero
quasi invisibile: se non fosse stato per la borsa di studio annuale in
matematica, in effetti, l’intera classe si sarebbe
dimenticata della mia esistenza.
Non
che mi dispiacesse: stare defilati ha anche i suoi vantaggi.
Tuttavia,
nella storia che voglio raccontare ora, la capacità di
osservare gioca un ruolo determinante.
E
io, in quanto invisibile spettatore, ho imparato a osservare gli altri.
Il
liceo scientifico privato Torquato Tasso si trova in via dei Pini.
È un edificio piuttosto grande, con un ampio
giardino ben curato e una biblioteca di medie dimensioni che ospita
libri di pubblica consultazione.
Quando
lo frequentavo io aveva smesso da meno di due anni di essere solo
femminile e c’erano pochissimi ragazzi.
Io
ero uno di questi.
Le
storie che voglio raccontare riguardano quelle ragazze che io, proprio
perché “normale”, potevo solo osservare.
Carezzare un po’ con gli occhi. Guardare con la fiducia
incondizionata di chi affida a qualcosa la propria attenzione.
Perché erano troppo belle, troppo intelligenti, troppo
colte, troppo folli. Troppo.
La
normalità non si può accompagnare
all’estremo. Mai.
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Capitolo 2 *** Alex ***
Alex
Alex
Alessandra era in classe con
me, ed era famosa in tutta la scuola.
Era
pazza. Completamente pazza.
Non
perché fosse triste, o passasse il tempo a tagliuzzarsi le
braccia. Alessandra, detta Alex, era tutto tranne che depressa.
Era
un vulcano in eruzione perenne, uno splendido fuoco
d’artificio, una pioggia d’allegria eterna.
Qualcuno
aveva distribuito strani volantini con su poesie di Emily Dickinson e/o
versetti satirici (spesso di pregevole fattura) in giro per la scuola?
I professori astanti si guardavano negli occhi, scuotevano le spalle e
commentavano, con aria rassegnata: «
Alex! ».
Un’entità
ignota aveva formattato tutti i terminali dell’aula di
informatica, due giorni prima della verifica decisiva, e,
misteriosamente, su tutti i desktop era apparsa la scritta “tre a chi
legge”? Tutti gli alunni esclamavano con aria
trionfante: «
Alex! ».
Per
quanto potesse sembrare assurdo, ad Alex riusciva di fare praticamente
qualunque cosa; era l’incarnazione vivente del detto
“la fortuna aiuta gli audaci”.
Aveva
il coraggio di tentare tutto quello che le saltava in mente: e,
paradossalmente, più l’impresa sembrava disperata,
più avevi in lei una sostenitrice sicura.
Occupazioni,
autogestione, liberazione di rane in classe… qualsiasi
cazzata, magari anche la più assurda, Alex era in grado di
tentarla quasi senza pensarci su.
Ogni
cosa, quantunque fatta da lei, aveva sempre esiti positivi: mio nipote
sostiene che si parli ancora di quando ha dipinto un murales con gli
Uniposca neri sul tettuccio dell’auto del preside.
All’epoca dei fatti chiunque sapeva che era stata lei, e il
corpo docenti prese a detestarla.
Gli
insegnanti, incredibile ma vero, non potevano mai fare nulla per
inchiodarla alle sue responsabilità: con
l’abilità di un ninja, infatti, Alex evitava di
lasciare qualsiasi indizio sulla “scena del
delitto” di turno che potesse ricondurla al
“delitto” stesso.
Inoltre,
fatto non del tutto trascurabile, era la perenne vincitrice delle borsa
di studio in Latino e Inglese, cosa che la rendeva decisamente
inattaccabile dal punto di vista dei voti; insomma, un po’
per proprio diritto, un po’ per fortuna sfacciata, non
c’era nulla da fare: Alessandra Piretti, ricercata numero uno
dello staff di presidenza, era intoccabile.
E,
per quanto ci fossero persone (come la Vicepreside) il cui scopo nella
carriera fosse trovare le prove per riuscire a dimostrare che la
colpevole dei fatti era incontestabilmente lei, nessuno ci
riuscì mai.
A
vederla, non era niente di speciale.
Alta
appena un metro e cinquantacinque, piuttosto paffuta; a notarsi, oltre
alla figura assolutamente non da mannequin,
inoltre, erano i suoi capelli.
Castano
scuro, di media lunghezza, né lisci né ricci;
perennemente arruffati, non riuscivano ad assumere una forma nemmeno
dopo ore e ore di seduta dal parrucchiere. E lei non se ne curava
affatto: a volte dava l’impressione di non pettinarli neppure.
Li
lasciava sciolti, oppure, se voleva tenerli lontani dal viso,
li tratteneva approssimativamente con cerchietti o fasce multicolori.
Riguardo
ai capelli di Alex circolava una voce strana: quando compariva in
classe con la folta chioma acconciata in una coda era il segnale che
stava per compiere una delle sue “epiche azioni”.
Nessuno,
ovviamente, aveva le conferme di questo pettegolezzo; e io,
personalmente, non l’ho mai vista coi capelli raccolti se non
in due occasioni: sotto la cuffia per le selezioni
dell’annuale torneo scolastico di nuoto (cui arrivava sempre
ultima) e, avvolti in uno chignon, al funerale di Cassandra.
Dopo
i capelli, si notava, com’è ovvio, il viso: aveva
un volto perfettamente ovale, con zigomi alti e rotondi e un mento a
cupola. A parte la forma, non c’era nulla di notevole nella
sua faccia: le labbra erano sottili, il naso piuttosto pronunciato e
gli occhi neri erano di medie proporzioni, un po’ allungati
verso il basso. Le ciglia erano quasi inesistenti, compensate dalle
folte sopracciglia che disegnavano due archi perfetti attraverso quella
faccia dalla carnagione pallida.
Altre
caratteristiche fisiche degne di nota, Alex non le aveva: si vestiva
come una squatter dei centri sociali, con larghe tute, pantaloni
militari, magliette che le arrivavano più meno alle
ginocchia dalle fantasie più svariate (le sue preferite
erano informi camicioni batik decorati da ricami orrendi, eseguiti
sicuramente da un qualche alcolista).
Per
sua stessa ammissione, comprava ogni cosa su bancarelle e in negozi di
abiti usati, senza molto curarsi della provenienza dei capi.
Non
portava né trucco né alcun tipo di gioiello: non
aveva neppure i buchi per gli orecchini. Inoltre si mangiava le unghie
tanto che, a volte, erano rosicchiate anche le pellicine intorno e la
punta del dito stessa.
Alex
era tutta alchimia chimica: il viso perennemente sorridente o segnato
da una smorfia buffa, sembrava congegnato per far ridere o infondere
allegria in chi la guardava.
Era
simpatica, ovviamente, e di un buonumore perfetto e incrollabile: aveva
il dono di saper tirar su il morale solo con la sua semplice presenza.
A
volte, entrando in classe alla prima ora, buttava lì una
battuta delle sue: in quel momento, credeteci o no, ho sempre avuto
l’impressione che, per quante interrogazioni ci potessero
essere quel giorno o per quanto i prof esibissero il loro sadismo,
sarebbe stata una buona giornata.
Decine
di persone avrebbero voluto esserle amiche, tranne - forse
– i secchioni e i leccaculo più irriducibili (che,
ovviamente, si professavano d’accordo con
l’ostilità dei professori e la giudicavano
pressappoco una delinquente) o quelli che, come me, erano spaventati
dalla sua eccentricità, dal suo travolgente entusiasmo per
la vita.
Anche
in un corridoio vuoto, quando passava Alex pareva esserci tantissima
gente e spesso era attorniata da una piccola folla. Sembrava essere
ignara della sua popolarità, e non si accorgeva
né degli sguardi adoranti dei primini né delle
pacche sulle spalle di rispetto e ammirazione dei maturandi.
Era
come se vivesse in un suo fantastico mondo dove quelle attenzioni erano
dovute a tutti, e a tutti, perciò, dispensava sorrisi a
trentadue denti e allegria incondizionata. Era democratica nel fare una
smorfia divertente a una ragazzina di seconda come nel raccontare una
barzelletta al bidello; sfoggiava una tolleranza impressionante nei
confronti di chiunque e di qualunque categoria.
Spesso
organizzava distribuzioni di opuscoli ciclostilati anonimi a favore di
questa o quella minoranza (dai gay ai magrebini), e non si perdeva mai
un’autogestione o una manifestazione della CGIL; non so
quanto credesse in ciò che faceva e quanto non considerasse
questo, più che altro, un modo di divertirsi e far baccano.
Eppure,
pian piano, cominciai a rendermi conto di un particolare inquietante.
Alex,
pur essendo costantemente accerchiata da un folto gruppo di persone che
la trovavano simpatica e volevano la sua amicizia, era come…
separata da loro.
Nessuno
aveva avuto con lei altro che una frequentazione superficiale e si
sapeva pochissimo della sua vita privata; era come se, oltre alla sua
perenne allegria, non ci fosse altro.
Se
Alex avesse passioni, aspirazioni o talenti particolari era ignoto.
Che
avesse qualche problema, qualcosa che la rendeva triste o la faceva
star male, sembrava impossibile.
Era
come sola pur in mezzo alla gente.
Eppure,
qualcosa che la spingeva – seppure inconsciamente –
a tenere lontane le persone intorno a lei con il muro della sua
contentezza doveva esserci.
Perché,
altrimenti, una ragazza che avrebbe potuto uscire con chiunque volesse
aveva quest’atteggiamento di perenne isolamento?
Un’isola
felice, certo. Ma pur sempre abbandonata in mezzo al mare.
La
vidi solo due volte con il viso serio.
La
prima era perché non sapeva che la stavo osservando. Fissava
qualcosa fuori dalla finestra, con lo sguardo perso in lontananza; quel
giorno era nuvoloso, e grandi cumuli bianchi galoppavano attraverso un
cielo di un profondo blu lacca, specchiandosi nelle sue iridi nere.
Le
labbra sottili erano perfettamente orizzontali, gli angoli non si
alzavano verso l’alto in un sorriso come al solito, e neppure
il volto era contorto in un’espressione buffa; non sembrava
neanche lei, senza la sua maschera perpetuamente felice. Comunque
durò poco: non appena si rese conto che la stavo scrutando
strizzò gli occhi e mi fece un gran sorriso.
Non
la vidi più guardare fuori. Non vidi più il suo
sguardo perdersi nel vuoto.
La
seconda fu al funerale di Cassandra. Tutti coloro che erano venuti (e,
nonostante l’impopolarità della morta, non erano
pochi), quel giorno fecero fatica a riconoscerla. E, da allora, non fu
più la stessa.
Mi
chiedevo, a volte, se la sua felicità fosse fittizia. Non so
se qualcun altro si fosse mai posto la stessa domanda.
Forse
i sorrisi erano una sorta di maschera, le facce divertenti come una
calda coperta di Linus che non poteva abbandonare. Una protezione.
Da
cosa, francamente non lo so. Non l’ho mai capito.
Alex
era una persona in cui si mescolavano verità e menzogna,
realtà e finzione.
Penso
che nemmeno lei si rendesse più conto di quando questi due
aspetti si univano: si comportava come se fosse perennemente sul
palcoscenico di un immaginario teatro comico, e interpretava la sua
parte in modo impeccabile; i costumi con cui copriva la
realtà erano ricchi, il fondale sontuoso, la musica
assordante e la trama un vago canovaccio che lei doveva costantemente
riempire con battute sempre nuove.
L’unica
cosa in cui, consciamente o inconsciamente che fosse, non mentiva mai,
era il suo amore incondizionato per la vita; forse perché la
sua concezione di vita era così travolgente e divertente,
senza un attimo di respiro, da impedirle il semplice atto di pensare
all’improcrastinabile fine che attende tutti noi.
“La vita è
un enorme cono gelato del tuo gusto preferito. L’unica cosa
che devi fare è mangiarlo, fino a quando non ce
n’è più.”.
Lo
ripeteva continuamente.
A
chiunque fosse disposto ad ascoltarla.
Per
questa ragione sentiva di dover compiere tutte quelle sue spericolate
imprese, avvertiva come un obbligo il saltare, gridare, ridere e
giocare fino a essere sfinita, per godere ogni singolo minuto.
Forse
era per questo che non faceva mai nulla (a parte il bungee jumping e il
parapendio, che appagavano la sua voglia di rischio) che potesse
nuocerle. Eccetto una birra ogni tanto non beveva, e, ovviamente,
l’uso di qualsiasi sostanza più pesante era fuori
questione.
Alex
dava per scontato che tutti amassero la vita quanto lei, quindi era
affezionata a tutti coloro che condividevano la sua fascinazione, e a
tutti riservava calore, allegria, entusiasmo come se stesse saldando un
debito originale.
Tutti,
tranne una persona. Una persona che odiava il semplice atto di
esistere, e che quindi Alex non poteva fare a meno di detestare a sua
volta, con un’ostilità che si mescolava al
disprezzo.
Cassandra.
***
Se
mi chiedono che cosa abbia fatto Alex dopo la fine del liceo rispondo
sinceramente che non lo so, così come, a tutt’ora,
non sono a conoscenza di chi fossero i suoi genitori né so
di altri particolari sulla sua vita privata.
Quel
che è certo è che uscì dalla
maturità con novantotto su cento e, successivamente, si
iscrisse all’università alla facoltà di
Filologia Romanza (unica del nostro anno a imboccare tale strada).
Nessuno
la sentì più, e non si presentò mai
alle rimpatriate con i nostri vecchi compagni di classe.
Le
ultime voci mi dicono che si sia sposata con un ballerino di tango
proveniente da Buenos Aires, e che adesso vivano nel sud della Spagna,
gestendo una milonga1 con ristorante a Granada; questo è
certamente segno che, dopo la laurea (che mi dicono conseguita con
tanto di lode e bacio accademico), qualcuno ha trovato modo di
penetrare il suo costante oceano di allegria ed è riuscito
ad avvicinarsi a lei.
Non
posso che esserne felice; ma devo constatare che, evidentemente, non
dev’essere rimasto molto dell’Alex che conoscevo.
È come se fosse morta. Anche lei.
***
Milonga= tipico
locale, diffuso soprattutto in Argentina ma anche in altri paesi
dell’America Latina, in cui si ballano samba, salsa ma,
soprattutto, il tango.
***
Ebbene, eccomi qui con il primo capitolo, revisionato e corretto, con
alcune parti aggiunte e modificate.
Ringrazio
immensamente Ilychan e JiuJiu che mi hanno ricommentato per i loro
gentili complimenti: non sapete nemmeno lontanamente quanto mi abbiano
fatto piacere, perché trovo che il costante sforzo di
migliorarsi sia una caratteristica preziosa quanto, ormai, rarissima su
EFP e nel mondo delle fanfiction in generale. Vi ringrazio molto, e
aspetto le vostre opinioni riguardo al resto della revisione.
Ringrazio,
oltretutto Babyjenks (alias Chiara) perché mi ha inserito
non solo tra i preferiti, ma anche tra gli autori preferiti! Wow!
È la primissima volta, e mi sento molto orgogliosa!
Inoltre
rispondo al primo commento della prima nuova lettrice di
“Istituto Torquato Tasso” (incredibile!), ossia
Mabychan!
Benvenuta!
Passo
immediatamente a ringraziarti per i complimenti, e ti informo che sto
dando un’occhiata ai tuoi lavori, per cui presto ti troverai
qualche mia recensione tra capo e collo! Spero non ti
dispiaccia…
Ciao
a tutti, e alla prossima!
|
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Capitolo 3 *** Cassandra (prima parte) ***
Cassandra (prima parte)
Cassandra (prima parte)
Come ogni scuola anche il
Torquato Tasso aveva la sua “bella
e maledetta”. Ogni istituto ha la sua Kate Moss,
oggi come oggi; a sentire mio nipote, che ora frequenta anche lui il
Tasso, si sono addirittura moltiplicate!
Tuttavia,
la nostra Baudelaire in gonnella era molto, molto di più di
una bamboletta standardizzata che si comporta da Syd Barrett per fare
scena.
Il
suo vero nome era Maria Eva, ma già all’inizio del
mio primo anno non se lo ricordava più nessuno; non si
sapeva chi l’avesse chiamata per primo con il nome della
profetessa troiana sorella di Paride, ma quello era il suo soprannome e
tale rimase fino alla fine: Cassandra.
Non
era particolarmente bella, in effetti, ma a riconferma
dell’aggettivo maledetta c’era materiale a josa.
I
suoi capelli neri erano lunghi e poco curati; spesso si chiudevano come
un sipario davanti al suo lungo viso magro e pallido. La sua pelle,
originariamente, era olivastra; ma il non uscire mai e la
scarsità di sole l’avevano resa di un candore
malsano, soprattutto in contrasto con la vera natura della sua
carnagione.
Quando
scostava quelle tende dal proprio volto, la prima cosa che si notava
erano le sue labbra: un bocciolo carnoso e scarlatto come il sangue, in
un conflitto quasi osceno con il colorito del viso.
Risalendo
si poteva vedere un naso lungo e appuntito, sotto gli occhi di un vago
celeste slavato.
Le
rare volte che ho visto bene quegli occhi erano sempre vacui, vuoti. A
volte vi si poteva leggere un dolore intensissimo o una malinconia
terribile.
Le
sue lunge sopracciglia sottili erano sempre aggrondate e la sua fronte
candida e spaziosa era solcata orizzontalmente da lunghe rughe
d’espressione premature.
Il
suo look era, in un certo senso, la proiezione dei suoi incubi
interiori.
Il
fisico magro – tanto esile dall’essere
sull’orlo della patologia – era rivestito da golf
infeltriti, magliette informi, jeans scuri, larghi e consunti, tenuti
su da spessi cordoni e cinture in pelle consunta.
Tutto
era di un unico colore: nero, come le ciglia folte che sottolineavano
il suo sguardo triste. Talvolta, forse nel tentativo di porre una
barriera fisica tra il proprio corpo scheletrico e il mondo
circostante, indossava più magliette sopra i maglioni,
calzettoni pesanti o persino gonne lunghe sopra i jeans.
Non
usava gioielli di nessun tipo, a parte uno.
Verso
la fine del secondo anno, infatti, al suo polso sinistro comparve un
bracciale d’argento a larghe placche di filigrana.
Quell’oggetto
fu all’origine di decine di pettegolezzi.
Infatti,
nonostante la sua impopolarità diffusa, Cassa era una
persona di cui si parlava. Parecchio, anche.
Certo,
anche Alex era molto chiacchierata. Tutte le figure che devo ancora
descrivere erano celebri o oggetto di pettegolezzi, ma mai
così contraddittori quanto quelli che si riferivano a
Cassandra; e lei, col suo costante fregarsi della pubblica opinione,
contribuiva solo a fomentare la cosa.
Cionondimeno,
era anche la persona più solitaria e introversa che avessi
mai visto.
Non
parlava mai, studiava quel tanto che bastava a non sostenere esami di
riparazione e non mostrava chiaramente alcun talento particolare,
passioni o interessi specifici. La sua misantropia, veramente
eclatante, sarebbe stata una sfida all’ultimo
sangue persino per Freud.
Credo
che il suo isolamento derivasse in massima parte dal dolore: aveva
perso prima il padre, morto di cancro quando aveva dodici anni, e poi,
a brevissima distanza, la madre, suicida. Era stata Cassandra stessa,
tornando da scuola, a trovare il corpo impiccato alle travi della
mansarda.
Dicono
che prima di allora fosse una ragazza abbastanza allegra, con molti
amici; ma dopo essere rimasta orfana aveva abbandonato tutto.
Era
una di quelle persone per cui superare la sofferenza è
impossibile e che, invece di cercare la pace dentro la propria mente,
preferiscono restare con l’anima mutilata.
Come
un uomo senza un braccio che rifiuta di usare la protesi, Cassandra
scelse di esibire la propria menomazione piuttosto che riempire il
vuoto con qualcosa che non fossero le persone che aveva lasciato.
Io
penso che ognuno di noi abbia una molla interna, uno scatto animale
alla sopravvivenza che ci permette di vivere nonostante il dolore:
anzi, di maturare grazie ad esso.
Per
alcuni quella molla interna non esiste, o la sofferenza stessa le
infligge un colpo tanto mortale da impedirle di funzionare; quella di
Cassa si era irrimediabilmente inceppata. Non aveva speranze,
né presente o futuro: solo un passato che molti avrebbero
cercato di dimenticare, ma che lei, ostinatamente, voleva riportare in
vita.
Sachiko
spesso diceva che Maria Eva (era l’unica persona a chiamarla
ancora così, oltre ai nonni con cui la ragazza viveva) era
un guscio che conteneva ricordi per lei più preziosi della
sua stessa salute mentale.
Cassa
era il momento in cui aveva trovato sua madre prolungato
all’infinito, e non viveva nel presente ma in un enorme
emisfero sospeso sulla morte o sulla follia.
Prova
ne era il fatto che non sentisse precisamente di avere dei bisogni:
mangiava il minimo indispensabile a sopravvivere, dormiva pochissimo,
riempiva il resto del tempo leggendo o facendo cose di cui non le
importava affatto.
Cassandra
non si considerava veramente viva.
Però
questi ricordi sopravvivevano in un corpo: un corpo che soffriva,
straziato dai maltrattamenti autoinflitti e dall’angoscia.
Quindi
Cassandra cercava, come chi ha una ferita aperta e prende gli
antidolorifici, di soffocare il dolore. Ma non muovendosi, facendo
sport o cercandosi degli amici (oltre a Sachiko); quello sarebbe stato
un ritorno alla vita. E Cassa aveva smesso di essere un essere vivente
da tempo, ormai…
Inseguiva
la pace assumendo sostanze delle più varie nature; e man
mano che le sostanze suddette si facevano inefficaci aumentava la dose,
le combinava tra loro, passava ad altre più potenti. La sua
era una ricerca fatua e senza scopo: una fuga infinita.
Cassandra
non voleva vivere. Voleva tornare a prima che suo padre morisse di
cancro e che sua madre si suicidasse.
Voleva,
in poche parole, infondere nuova esistenza ai propri ricordi. Anche a
costo della propria vita.
Allontanati
dalla sua indubbia depressione, dalle sue eccentricità e
dalla sua introversione lapalissiana, le persone intorno a lei le
stavano lontane.
Alcuni
la disprezzavano, altri erano del tutto indifferenti alla sua presenza
(finendo per considerarla una specie di
“accessorio” dell’istituto stesso). Alla
fine solo le nuove voci su di lei stupivano e nessuno la fissava
più quando, vestita di nero e accompagnata dalla fredda e
dignitosa Sachiko, si trascinava con la sua andatura svogliata per i
corridoi (tranne i primini che spesso erano affascinati e insieme
disgustati dalla fama di tossica che la precedeva ovunque).
Quindi
posso dire che, nonostante tutti parlassero di lei, Cassandra fosse una
delle studentesse più impopolari del Torquato Tasso.
Malgrado
ciò, e a dispetto della propria misantropia, Cassa aveva
un’amica. L’unica persona che la comprendesse
appieno, che tentasse, in qualche modo, di invertire il suo processo
autodistruttivo e che cercasse di farle superare il dolore. Quella
ragazza era Sachiko.
Cassandra
e Sachiko avevano un rapporto elitario, di esclusività.
Erano
sempre insieme, stavano in banco assieme ed era assolutamente
impossibile tentare di separarle. In compagnia di Sachiko, Cassa
sembrava quasi normale. A volte sorrideva, con quel suo sorriso
più simile a una smorfia tragica.
Qualche
volta l’ho sentita ridere… un suono basso e
gorgogliante, simile all’acqua che scorre nei tubi prima di
giungere al rubinetto.
La
quotidianità su cui si reggeva il loro rapporto era
affrontata da Sachiko ogni giorno con rinnovato entusiasmo, mentre
Cassa si lasciava trasportare dalla marea dell’esistenza con
assoluta atarassia.
In
gita a Parigi, a metà del loro secondo anno, riuscirono a
mettersi in due in una camera singola: ancora non lo sapevano, ma dal
giorno della visita a Versailles sarebbe scoppiato una sorta di
scandalo.
Infatti
le videro baciarsi in un angolo del parco, credendo di non essere
viste; evidentemente avevano un legame che volevano tenere nascosto, ma
non ci riuscirono.
Sachiko
è stata l’unica delle figure che voglio raccontare
con cui intrattenni rapporti d’amicizia. Quindi posso dire
d’aver avuto un ruolo da comprimario (anche se, lo ammetto,
non uno dei comprimari più importanti) nella successiva
faccenda che seguì e che portò, poco prima della
sua maturità, alla morte di Cassandra.
***
Il legame fra Sachiko e
Cassandra era complicato. Non so se fosse più amicizia o
più amore.
Forse
un connubio di tutte e due le cose.
Certo
è che non fosse solo semplice simpatia, anche se poteva
sembrarlo.
Cassandra
si fidava di Sachiko più che di sé stessa, ed era
la sola persona con la quale amasse confidarsi. Si erano conosciute a
metà della prima liceo, quando Sachi si era trasferita in
Italia, e divennero amiche immediatamente.
Non
so come mai lei avesse deciso di scavalcare brutalmente tutte le
barriere che Cassandra si era costruita attorno; non so neppure come ci sia riuscita.
O
Cassa stessa era più morbida in prima, o Sachiko aveva una
personalità granitica.
Comunque,
decise che Cassandra sarebbe diventata la sua migliore amica.
E
ci riuscì.
Quando
arrivai ad entrare nella vita della giapponese (che, come ripeteva
spesso, sosteneva che avessi il merito di saper ascoltare e di essere
abbastanza perspicace da leggere il silenzio), venni gradualmente
assorbito dalla sua relazione con Cassandra; relazione che Sachiko si
sforzava di non ridurre allo schema cura/gratitudine, gratitudine/cura.
Sostanzialmente,
Sachi temeva che per ogni atto disperato che Cassandra compisse, ella
desse per scontato che ci fosse la sua migliore amica a prendersi cura
di lei, e che quindi contraccambiasse con la gratitudine e il
sentimento come se fossero moneta di scambio per continuare a ottenere
cure e comprensione.
Anche
Cassa si sforzava di non ridurre ai minimi termini l’unico
affetto fisso che le fosse rimasto, ma la sua anima era troppo
esacerbata per fare un qualunque sforzo emotivo.
Inizialmente
non capivo perché Sachiko, così bella e
affascinante, avesse scelto Cassandra, la tossicomane sofferente di
depressione. Forse aveva l’istinto della crocerossina?
Poi
i fatti risposero da soli.
Perché
non c’era nessuno che sapesse amare come Cassandra.
Pienamente
consapevole che il giorno dopo avrebbe potuto essere morta, stroncata
dall’ennesimo acido o dall’ultima pasticca di
imprecisata natura, Cassa riversava su Sachiko un amore devastante.
Puro, completo. Nei suoi abbracci c’era l’affezione
del primo giorno e nei suoi baci la malinconia dell’ultimo.
Sachiko
era l’unica creatura vivente che potesse rappezzare quel
vuoto immenso dentro di lei senza creare una sofferenza ulteriore da
ricucire con la droga o con l’alcool.
Anche
quando non riusciva ad alzarsi dal letto, quando vomitava o vedeva cose
orribili in preda alle allucinazioni, la giapponese c’era.
Con una fermezza e una forza d’animo incrollabile, la
caricava sul motorino e la portava in ospedale se esagerava, tentava di
fermarla e di trattenerle la mano, le versava sciroppi, pillole e
flaconi nel water (tirando scrupolosamente lo sciacquone), le reggeva
la fronte quando il suo stomaco si ribellava, rigettando, alle sostanze
che vi venivano introdotte.
Cercava
anche di farla mangiare: Cassa era perennemente sull’orlo
dell’anoressia, visto che non ne sentiva mai il bisogno.
Per
Cassa, Sachiko era la persona che l’amava di più
al mondo: più di quanto l’amassero i nonni con la
quale viveva (due anziani signori molto ricchi che non si prendevano
alcuna cura di lei, e che pur di non mandarla in clinica –
permettendo così alle loro conoscenze di sparlare della
nipote - le passavano tutti i soldi che voleva per la dose quotidiana).
Quanto
l’avevano amata i suoi genitori.
E,
per quanto il suo cervello potesse essere turbato e la sua anima
distrutta, sapeva che Sachiko sarebbe venuta a baciare le sue palpebre
pallide, a carezzare il suo viso sconvolto.
Nell’ultimo
periodo, a tamponare le braccia bucate come un pizzo sangallo.
Come
poteva non amarla?
Sachiko
tentava di persuaderla a farsi disintossicare. La portava da
psicoterapeuti, psichiatri, qualsiasi cosa sentisse che Cassa avesse
bisogno, investendo in essi i soldi che la ragazza riceveva dai nonni
quasi quotidianamente.
La
liberava di tutte le sostanze che teneva in camera, e Cassandra
(contrariamente a quanto di solito fanno i tossicodipendenti) non la
malediva per questo, né smetteva di volerle bene.
Le
diceva, con aria rassegnata, che era tutto inutile.
E,
regolarmente, Sachiko si arrabbiava.
«
Se non vuoi vivere per te stessa, fallo almeno per me! »
«
Questa non è vita. Io non voglio farlo. »
«
Maria! »
«
Lo sai. Se non posso annegare il dolore in qualcosa,
annegherò io dentro di lui. E conoscermi, per te,
sarà stato inutile. »
***
E con la revisione della prima
parte su Cassandra, vi ringrazio per i vostri complimenti (finirete per
farmi diventare una gran presuntuosa!) e passo a rispondere alle vostre
recensioni (in ordine cronologico)…
Lidiuz93= Un
po’ criptico il tuo commento, ma comunque lusinghiero! Spero
che tornerai a recensire i prossimi capitoli (magari con qualche parola
in più).
Ilychan= E rieccoti
qui! Grazie, come sempre le tue recensioni danno molta
soddisfazione… che dire di Alex? In effetti, per me almeno,
inventare personaggi e dare loro un vago canovaccio di base non
è particolarmente faticoso. Il difficile è
costruirli bene sia nella loro fisicità che nella loro
psicologia; dato che questa storia è una raccolta di profili
femminili a livello sperimentale, è molto difficoltoso dare
a tutti la medesima possibilità di evolversi. È
per questo che non me ne sento completamente soddisfatta, ma nella
revisione sto cercando di dare il massimo (ed è per questo
che a mettere online ogni capitolo impiego un po’,
considerando anche che sto scrivendo un’altra long-fic, sul
Signore degli Anelli).
Mabychan= Grazie di
nuovo, prima nuova lettrice della stesura nuova (troppi
“nuovo”. Scelta lessicale imprecisa) ! Mi piace
generare sconcerto nel lettore, spesso ricorrendo a contrasti, ed
è appunto questa l’idea che volevo dare di Alex.
L’immaginavo come un tipino un po’ mascolino,
quindi mi pareva che il nome le si adattasse bene, ma evidentemente
ognuno legge nel personaggio ciò che preferisce.
Sì, sto dando una scorsa anche alle tue fic, solo che,
ultimamente, non ho molto tempo. Per il momento mi piace (e mi suscita
il riso) soprattutto “Convivenza”.
Aspetto sviluppi di questa particolare storia, nel frattempo
vedrò di lasciarti una recensioncina (per il momento posso
solo dirti che la grammatica è impeccabile e che i
personaggi sono ben riusciti, anche se dovresti mettere un OOC negli
avvertimenti). Grazie ancora, ti lascio alla lettura!
Contessa= Grazie
mille per i complimenti… sul serio! Meriti la palma di
“Seconda nuova lettrice della stesura nuova” (anche
qui la scelta morfologica è limitata!). Ti lascio a
Cassandra, o meglio, alla prima parte di Cassandra, in tutto il suo
splendore!
A
proposito, sai che avevo letto la tua “Solo un nome”?
Mi aveva incuriosito come avevi caratterizzato la coppia Lestrange. Era
venuta molto bene. Noto però che scrivi solo one-shot: come
mai? Hai talento, sai gestire bene la trama e la grammatica non
è niente male. Posso sapere il perché di questa
scelta (se non sono indiscreta, ovvio…)?
Chiara (Babyjenks)=
dunque… in effetti, da quando feci la prima stesura di
questa fanfiction molte cose sono cambiate, compresa – almeno
un po’ – la mentalità
dell’autrice. Sono successe moltissime cose; per me, a un
certo punto, si è capovolto il mondo. Era inevitabile, in un
certo senso, che almeno un po’ di questi mutamenti si
riflettessero sul mio modo di scrivere e, soprattutto, di descrivere
(non dimentichiamo che questa storia è una descrizione,
prima di tutto). Quindi Alex, che conteneva più di me di
quanto non sospettassi, è cambiata un po’. Da un
personaggio energico e decisamente positivo ha acquisito più
sfumature, quasi indipendentemente dalla mia volontà:
rileggendo la riscrittura mi rendo conto che ha acquisito quasi
più spessore. Mi fa piacere che, nonostante sia cambiata, e
parecchio, ti sia piaciuta comunque.
Ti
ringrazio di nuovo.
A
tal proposito, volevo dirti che (anche se non l’ho recensita
– ultimamente ho a stento il tempo per leggerle, le storie
– e mi riprometto di farlo quanto prima) ho letto la tua “Talk dirty to
me” e mi ha fatto divertire
immensamente. Sul serio, è venuta proprio bene! Complimenti!
Ebbene,
detto questo, vi lascio alla lettura.
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Capitolo 4 *** Cassandra (seconda parte) ***
Cassandra (seconda parte)
Cassandra (seconda
parte)
La parabola di Cassandra fu
breve come la sua vita.
Quando
lei e Sachiko erano in seconda io ero un primino; ma nel gennaio del
mio primo anno di biennio entrai nelle grazie della giapponese.
E,
da allora, assistetti al naufragio graduale della mente di Cassa sotto
i suoi stessi colpi.
Fino
alla metà della seconda l’amore di Sachi
sembrò riuscire ad arginare la sua sofferenza in modo
radicale.
Lei,
che prima beveva e fumava più di Keith Richards, aveva
improvvisamente smesso di indulgere in qualsiasi attività
anche solo rischiosa. Appena una sigaretta ogni tanto.
Era
uno spettacolo strano vederla arrivare a scuola perfettamente sobria:
di solito era già ubriaca di prima mattina, o, a scelta,
stava smaltendo la sbronza della sera prima.
Il
colorito naturalmente ambrato aveva nuovamente preso possesso delle sue
guance smunte ed era persino un po’ ingrassata.
Non
dico che dimostrasse passione per l’atto di vivere, ma certo
aveva trovato da qualche parte nella propria anima sofferente gli
ultimi brandelli di forza per andare avanti in modo quasi normale; se
non altro per vedere felice Sachiko.
Poi
cominciarono gli screzi con i nonni.
Questi
due anziani signori erano figure assolutamente singolari:
l’avevano accolta in casa perché erano gli unici
suoi parenti rimasti, e da parte loro, Cassa era l’unica
erede.
Forse,
se non le avessero fatto pesare il suo vuoto e la sua
diversità (la sua “mutilazione esibita”,
come la definiva Sachiko), Cassa non sarebbe ritornata nel tunnel delle
sostanze psicotrope.
Forse,
se avesse avuto una famiglia pronta a sostenerla, Cassandra non sarebbe
morta.
Ma
nella disgrazia c’erano parecchi aspetti tragici minori.
Il
nonno di Cassa era un uomo ricco, ed estremamente decisionista.
Pretendeva di controllare le vite di tutti coloro si trovassero sotto
la sua podestà: Cassandra era tra questi, purtroppo.
L’anziano
signore non tollerava la nipote perché, per lui, chi
tentasse di sfuggire alla realtà era debole. Sua nipote non
era riuscita a riprendersi dalla morte dei genitori, quindi rientrava
in questa categoria; e lo era ancor di più perché
faceva uso di tutto ciò che prendeva.
I
suoi tentativi di farla reagire andarono dalle sberle, alle punizioni,
al lasciarla senza cibo fino ai sermoni, in cui addossava a Cassa tutta
la colpa della sua sofferenza. Da parte sua non esisteva, e non aveva
alcuna intenzione di porsi in essere, un tentativo di comprensione.
Sì,
il nonno lo sapeva. E non fece nulla.
La
nonna di Cassandra era l’incarnazione del classico
clichè della “signora del Country Club”.
Sì, quelle ridenti anziane perbeniste, vestite con
improponibili tailleur pastello e leggiadri cappellini con veletta
(portabili al massimo dalla regina d’Inghilterra), il cui
unico scopo nella vita sembra spettegolare su altra gente, dei figli di
Tizio e del matrimonio di Caio, e punteggiare la conversazione con
sciocche risatine.
Ovviamente,
piuttosto che ammettere che la nipote aveva un problema – o
meglio, più d’uno e parecchio seri – si
sarebbe fatta crocifiggere con i tacchi delle sue orrende scarpe Manolo
Blanhik.
Sì,
la nonna sapeva. E non fece nulla neanche lei.
Forse,
se avessero tentato di riempire il vuoto affettivo di Cassa, lei non
sarebbe tornata tra le braccia dell’alcool e della droga; ma
ormai è troppo tardi per scoprirlo. Fatto è che
Cassa si sentisse ancor più triste e mutilata; forse aveva
nutrito la speranza che i suoi unici parenti potessero essere un
simulacro della sua famiglia, o che l’avrebbero sorretta nel
suo sforzo di ricordare.
Aveva
sicuramente sottovalutato il dispotismo del nonno, il quale si
rifiutava di esternare il proprio dolore, ritenendolo un segno di un
segno di fragilità e, non riconoscendo gli indubbi problemi
della nipote nell’affrontare il suo lutto, pretendeva che
ella dimenticasse in toto ciò che aveva vissuto con i suoi
genitori. E, purtroppo, Cassandra era i propri ricordi: cancellarli
avrebbe significato eliminare Cassandra stessa.
Non
capendola, lui la maltrattava additandola come debole; e
l’animo di Cassa, incapace di reagire, non riusciva a
tamponare anche la delusione nel rendersi conto che i suoi nonni non
solo non sarebbero potuti essere immagine di una famiglia, ma avrebbero
cercato di strapparle quel poco che della sua famiglia era rimasto.
Fu
per questo, per questa disperazione dell’essere, credo, che
Cassandra prese la prima decisione in svariati anni di apatia.
Sachiko
percepì quello che stava per succedere, ma non fece in tempo
ad impedirlo.
Forse
non voleva vedere: aveva tentato con tanta ostinazione di far reagire
Cassa, e non si rese conto che i suoi demoni interiori
l’avevano catturata di nuovo.
Un
pomeriggio andò a trovarla per fare i compiti assieme, come
al solito. I nonni erano assenti, pare per un breve viaggio
all’estero.
Trovò
la porta aperta ed entrò: dopo averla chiamata a gran voce
(senza ottenere risposta), colta da un orrendo presentimento,
salì a velocità folle le scale: la
trovò sdraiata nella vasca da bagno del secondo piano. Aveva
tentato di svenarsi, ma era riuscita (probabilmente per il dolore) a
tagliarsi solo il polso sinistro.
Ciononostante
l’acqua era rosa e Cassa stava per perdere conoscenza.
La
reazione di Sachi fu immediata: chiamò
un’ambulanza e le fasciò immediatamente il polso,
stringendo il braccio con un nastro a mo’ di laccio
emostatico.
Cassa
arrivò all’ospedale in condizioni disperate. Per
fortuna se la cavò.
Passò
diversi giorni all’ospedale; nessuno a parte Sachiko
andò a farle visita, tranne i nonni nel giorno in cui la
dimisero.
Non
so per quale ragione il tribunale dei Minori non la tolse alla
famiglia, visto che era chiaramente questa una delle radici del
problema, ma il signor Evandri (tale era, infatti, il cognome di Cassa)
aveva amicizie in alto loco che, probabilmente, evitarono tale
“vergogna”.
Poco
prima di tornare a scuola, Sachiko le regalò il famoso
bracciale in filigrana d’argento di cui ho già
parlato. Era un bell’oggetto, largo a sufficienza da
nascondere tutto il polso, composto da più placche quadrate
lavorate con tale perizia da mostrare diversi motivi, frutti, fiori e
foglie; al centro del membro principale vi era uno spazio concavo che
recava incisa la scritta (in hiragana giapponesi) “Quando
avrai smesso di amarmi, ricorda che io ti amerò
ancora”.
Nacquero
molte voci su quell’oggetto; la prima sosteneva che fosse un
pegno d’amore. Sachiko, infatti, ne sfoggiava uno identico
sul medesimo polso.
C’erano
anche alcune leggende parallele sul momento in cui Sachi
gliel’aveva dato; la più romantica diceva che i
bracciali erano appartenuti alla nonna giapponese di Sachiko, una
famosa geisha, e che Sachi ne avesse passato uno a Cassa dopo la
“prima notte” in cui avevano consumato il loro
amore, in ricordo eterno del loro legame.
Ovviamente,
la totale ignoranza sugli avi di Sachi e sulle loro occupazioni di
fatto invalidava tale diceria, benché avessero certamente
azzeccato sul fatto che fosse un dono pensato per ricordare ogni giorno
a Cassa che la giapponese l’amava.
Il
secondo pettegolezzo sul gioiello era straordinariamente veritiero e so
anche da chi partì.
Una
mia compagna di classe, tale Giovanna Refraschini, si accorse che Cassa
si rifiutava di toglierlo anche quando sarebbe stato più
ragionevole farlo: ad esempio alle selezioni per il torneo scolastico
di pallavolo o quando, nel corso pomeridiano d’arte, si
dipingeva a olio.
Una
volta un ragazzo tentò di sottrarglielo per scherzo, e
Cassandra si riscosse come miracolosamente dal suo torpore. Divenne
rossa dalla rabbia, si protesse il polso e tirò allo
sfortunato burlone un tale calcio in mezzo alle gambe che questi si
accasciò a terra mugolando.
Giovanna,
che era un tipo perspicace, capì che quel monile nascondeva
qualcosa.
In
preda a un impeto deduttorio, in puro stile Sherlock Holmes, si mise a
raccogliere le prove che qualcosa non andava:
1.
Cassa aveva qualcosa sul polso che voleva nascondere;
2.
Cassa era stata ricoverata per alcuni giorni, ufficialmente a causa di
un’intossicazione alimentare;
3.
Sachiko sapeva qualcosa, ma non parlava e aveva, evidentemente, parte
in quella stessa faccenda che Cassa stava tentando di nascondere;
4.
Sachiko stava proteggendo Cassa col suo silenzio;
Tenendo
conto di queste cose, Giovanna ci vide giusto: disse che,
poiché non era il polso stesso a dover essere nascosto,
Cassa voleva con il bracciale celare la cicatrice che un tentativo di
suicidio recentemente aveva provocato; inoltre, sostenne (e a ragione)
che Cassandra non fosse stata ricoverata per intossicazione, ma per il
tentativo di uccidersi, fortunatamente non andato in porto.
Io,
a conoscenza di tutta la storia, mi rendevo conto che Giovanna era
stata inopportunamente acuta.
In
effetti, anche perché aveva una base di prove a sostenerlo,
questo pettegolezzo ebbe un successo eccezionale, tanto da essere
assurto per vero praticamente da tutti.
In
ogni caso, da quel gesto disperato, Cassa sembrò non
riuscire più a fare a meno né
dell’alcool né della droga.
Già
in seconda aveva superato da tempo lo stato delle semplici canne, ed
era passata da un po’ alle sostanze psicotrope e agli
oppiacei pesanti.
I
cocktail descrittimi da Sachiko, nei momenti in cui lo sconforto
riusciva a scardinare la sua impeccabile riservatezza, erano
allucinanti: mescolava la codeina al whisky, assumeva cristalli di LSD
a giorni alterni e, quando né calmanti né Prozac1
né Ritalin2 e neppure
l’acido riuscirono più ad acquietare i suoi incubi
mentali, passò al crack.
Inizialmente
lo assumeva con circospezione, visto l’elevato costo e la
potenza della sostanza stessa. Ma presto iniziò a dare i
primi segni d’assuefazione. E, anche in questo caso, emerse
che i nonni non volevano fare nulla per aiutarla.
Quando
la nonna di Cassa si rese conto che la nipote non era un prodigio di
salute mentale (evidentemente tutti e due dovettero subodorare qualcosa
quando la videro attaccata alla flebo all’ospedale con un
polso tutto fasciato) non reagì come il marito –
ossia attribuendo alla nipote e solo alla nipote stessa
l’unica responsabilità della sua
incapacità di reagire e sgridandola per questo –
bensì come ci si aspettava che una benpensante dovesse fare.
Ossia coprendo la cosa. Non cercò nemmeno di curarla, o di
farla smettere. Si limitò a prendere atto della
tossicodipendenza di Cassa, e arrivò al punto di dare alla
nipote tutto il denaro che voleva (anche diverse centinaia di migliaia
di lire per volta) pur essendo cosciente che sarebbe stato investito in
qualche altra strana pillola, qualche altro sacchetto di sostanze
sconosciute che avrebbe poi rinvenuto tra le cose di Cassandra.
Tutto
questo per evitare di divenire oggetto di pettegolezzo nel loro
esclusivo club di amici altolocati.
Sachiko,
dopo il tentato suicidio, ebbe un colloquio assolutamente surreale con
l’anziana coppia di coniugi. Colloquio che le fece
chiaramente capire che era inutile sperare nel loro aiuto per sostenere
la mente provata dell’amata.
L’anziano
signore uscì recisamente dalla stanza non appena Sachi
tentò di introdurre (con delicatezza estrema) il tema della
depressione di Cassandra. La nonna, nervosamente, si limitò
a invitarla a uscire dalla loro casa e ad informarla che la salute
fisica e mentale della loro unica nipote era sotto la loro
giurisdizione e non sotto la sua.
Sachi
tentava di aiutarla come meglio poteva. Le sequestrava il denaro,
versava nello sciacquone tutte le sostanze sospette che le capitassero
sotto mano. La portava da uno psicoterapeuta, investendo in modo
proficuo il danaro che quasi quotidianamente la signora Evandri dava
alla nipote.
Ma
Cassa no, non reagiva. Smetteva finché non aveva nulla, ma
ricominciava appena aveva la possibilità di farlo.
Sachiko,
amandola profondamente, si prendeva cura di lei. Capiva che la mente di
Cassa era ancora più contorta di quanto immaginasse; e che
la droga non era una fuga, ma una semplice necessità.
Perché le probabilità di morire non preoccupavano
la ragazza, che non si sentiva veramente viva, e l’unica cosa
che l’atterriva era la possibilità di trovarsi di
nuovo di fronte al dolore che provava quando era lucida e si rendeva
conto che riportare in vita i suoi ricordi era impossibile.
L’unica
volontà effettiva di Cassandra consisteva nel voler passare
più tempo possibile con Sachiko.
Quando
stava con lei quel vuoto non faceva male, e lei non aveva bisogno di
assumere nulla.
Ma
quando Sachi era lontana, magari di notte, sola, nel suo letto, Cassa,
puntualmente, si sentiva sull’orlo dell’abisso.
Perché
Cassandra non moriva?
Sì,
ci aveva provato, in effetti, ma perché non tentava
ripetutamente fino a riuscire?
Credo
che il merito fosse in massima parte di Sachiko. Pur non considerandosi
viva nel puro senso del termine, quando aveva conosciuto la Giapponese
il suo nulla interiore aveva iniziato a placarsi (almeno parzialmente).
Cassandra
viveva solo per lei; sapeva che avrebbe sofferto se fosse morta, quindi
si aggrappava a quei pochi stimoli che le rimanevano per non farla
finita.
Ma,
man mano che il tempo passava, ogni cosa funzionava sempre meno. Quando
sia il crack che la cocaina persero il loro effetto, o comunque lo
ridussero di molto, Cassa rimase un po’ interdetta,
Era
conscia che le rimaneva ancora solo una cosa: e che, una volta provata
quella, non le rimaneva altra soluzione perché ne sarebbe
diventata sicuramente dipendente e non avrebbe mai avuto abbastanza
forza di volontà per liberarsene.
Prima
di cominciare a bucarsi, perciò, Cassa trascorse un periodo
di relativa tranquillità, ma Sachiko non si illuse. Sapeva
che erano gli ultimi residui di coscienza a trattenerla e non il
desiderio di smettere del tutto con gli stupefacenti.
Infine,
a metà del quinto anno, Cassa cominciò con
l’eroina. A spingerla fu una gravida, pesante sensazione di
solitudine: il Natale per lei era un periodo orrendo, come per tutti
gli orfani. Vedeva tutte queste pubblicità e programmi TV
pieni di famiglie felici, consapevole che per lei erano rimasti solo
dei ricordi, o i rimasugli di essi. E che quando tornava da scuola
trovava non una casa accogliente, ma freddezza e perbenismo, cattiveria
e indifferenza.
Quindi,
spinta dalla depressione, scelse di iniziare a bucarsi.
Sachiko
capì che aveva cominciato dai segni sulle braccia,
dall’indolenza ancor più accentuata e dalle
classiche pupille a spillo (oltre che dallo sguardo vacuo).
Tentò
di persuaderla a lasciar perdere intanto che era in tempo, ci
provò in tutti i modi possibili: suppliche, proteste, scazzi
feroci.
Non
riuscì, ovviamente. Sachiko scoppiava spesso a piangere, in
quel periodo, chiamando quella roba “L’anticamera
della morte.”
La
carriera di eroinomane di Cassa procedeva attraverso
un’escalation incredibile di dolore e terrore: verso febbraio
Cassa si iniettò una dose eccessiva e andò in
overdose; ancora una volta Sachiko la trovò casualmente e
appena in tempo.
Mi
racconto che l’aveva trovata, fredda e immobile, sdraiata sul
divano nel salotto che precedeva la sua camera; aveva ancora la siringa
in mano e il laccio emostatico legato all’avambraccio.
L’ambulanza
arrivò tempestivamente, e l’iter di degenza
ricominciò daccapo.
Quella
fu la prima e unica volta che vidi Cassa da vicino, visto che andai a
trovarla in ospedale con dell’uva e un mazzo di fiori.
Fu
uno spettacolo che non dimenticai mai più.
Cassa
era sdraiata su un letto, di fianco a lei stava seduta Sachiko, che
indossava un complicato kimono di seta grigia e azzurra e le tamponava
il viso smunto con morbide salviette umide e profumate.
Cassandra
giaceva semicatatonica, magrissima e quanto mai fragile. I lunghi
capelli neri erano ordinatamente raccolti in due trecce che facevano da
cornice al suo volto, le guance incavate; le grandi iridi celesti erano
fisse sul viso di Sachi e la osservavano con uno sguardo amoroso e
insieme melanconicamente interrogativo; sembravano chiederle:
« Perché mi hai salvato? »
La
quieta rassegnazione, la passiva accettazione del dolore che si
potevano leggere in quelle iridi mi sconvolse; Cassandra pareva un
angelo trattenuto a terra dalle flebo.
Non
mi rivolse la parola: per lei nella stanza c’era unicamente
Sachiko. Solo lei.
Forse,
le stava dicendo addio.
Quando
la dimisero, la fine della scuola era imminente e molti pensavano
già agli esami; ma quella maturità tanto agognata
Cassandra non la raggiunse mai.
Rimase
cristallizzata nella propria eterna giovinezza, perché un
martedì maledetto si arrampicò in qualche modo
sul tetto dal balcone del soggiorno e, nonostante le urla del
giardiniere che avevano fatto accorrere la servitù allarmata
e la nonna, si buttò giù.
Cadde
di testa sul selciato, e morì sul colpo.
Mi
dicono che ci fu un’infinitesimale esitazione prima che i
suoi piedi lasciassero la solida superficie delle tegole per buttarsi
nell’ultimo, infinito vuoto.
Pensava
a Sachiko? Chissà.
Il
dolore di Sachi fu immenso. Passò tre giorni chiusa in
camera sua a piangere, disperata. Quando tornò a scuola era
irriconoscibile. Non era truccata come al solito, i capelli erano
arruffati e avevano l’aria di non essere stati pettinati da
parecchio, mentre il kimono che indossava era sghembo e stirato male.
Quando
entrò in classe e vide il banco vuoto di Cassa, realizzando
che non sarebbe mai più stato occupato da lei, ebbe un
crollo nervoso e iniziò a mugolare, piangendo, dondolandosi
avanti e indietro. Dovettero farla ricondurre a casa, dove le diedero
un sedativo.
Rimanemmo
tutti stupiti di fronte al modo di reagire di Sachi, che era
solitamente fredda e dignitosa. Anche coloro che dubitavano che tra le
due potesse esistere un rapporto d’amore si dovettero
ricredere.
Ad
ogni modo, gli esami furono eccezionalmente posticipati di una
settimana per permettere a tutti gli studenti di partecipare alla
veglia e andare al funerale.
Nonostante
l’impopolarità della morta, molta gente prese
parte alla cerimonia; la chiesa, quel mattino, straripava di gente.
Il
funerale si fece a bara aperta, cosicché anche chi non era
venuto alla veglia poté vedere Cassandra.
Mi
stupii nel constatare quanto il viso smagrito della ragazza fosse
sereno, così diverso dalla sua solita espressione vacua. Un
piccolo sorriso increspava verso l’alto le labbra pallide, e
non penso che fosse causato dal rilassamento post-mortem dei tessuti.
Sachiko
era vestita tutta di bianco, colore che in Oriente rappresenta il
lutto, ed era seduta in una posizione defilata, quasi non si volesse
far vedere. Ma spiccava come un pugno su tutti i convenuti.
Fissava
la bara, i grandi occhi scuri a mandorla sgranati, le lacrime che non
smettevano di scendere, lasciando lunghi solchi di rimmel sul
fondotinta.
Continuava
a toccarsi il bracciale al polso sinistro. Cassa, nella bara, portava
l’altro.
Molte
persone fecero le condoglianze a lei, piuttosto che ai nonni.
Oltre
a Sachi, la cosa più sorprendente fu Alex.
Da
principio non la riconobbi nemmeno.
Indossava
un elegante tailleur giacca e gonna nero con collant scuri.
I
suoi capelli non erano più una criniera ribelle, ma lisci e
lucenti, raccolti in un alto chignon sul sommo del capo.
Era
lievemente truccata e, cosa ancor più anomala, la sua
espressione era mortalmente seria: tanto che non fui solo io a non
identificarla, di primo acchito.
Molti
si chiesero perché fosse venuta al funerale della sua
vecchia nemica.
Credo
di avere una risposta: come disprezzava e insieme amava sé
stessa (connubio che la spingeva a nascondersi dietro la propria
maschera di perpetua allegria), Alex odiava e stimava Cassa.
Perché
Cassandra era la proiezione visibile di ciò che lei aveva
ricusato: la sua parte triste, tormentata.
Più
che al funerale di Cassa, quindi, era andata a veder seppellire una
parte di sé stessa.
***
Dopo di allora, ad ogni
rimpatriata dei compagni del liceo, si evita di accuratamente di
parlare di Cassandra: è come un argomento tabù e
se, per caso, il suo nome salta fuori, scende il silenzio.
È
stata sepolta al cimitero-parco della città, tra i suoi
amati genitori. I nonni, deceduti la prima quattro anni fa e
l’altro l’anno passato, invece, sono stati tumulati
al cimitero monumentale.
Ancora
oggi, nell’anniversario della sua morte, arrivano mucchi di
fiori sulla tomba di Cassandra e, muti, si possono vedere molti ex
liceali del Torquato Tasso fare silenti pellegrinaggi sulla semplice
lapide scura.
Tra
i fiori spiccano due mazzi.
Le
rose rosse sono da parte di Sachiko.
I
girasoli, invece, si dice che siano di Alex.
In
mezzo a quei colori, non posso che ricordare il sorriso sul viso di
Cassandra, quando giaceva nella bara.
Credo
che sia riuscita, volando giù dal tetto, a veder rivivere i
suoi ricordi.
***
Ritalin e Prozac= psicofarmaci. Il primo è uno stimolante
(usato, tra le altre cose, per curare
l’iperattività), il secondo è contro la
depressione.
Chiedo
infinitamente scusa per la lentezza impressionante con cui correggo e
rivedo i capitoli, ma al momento ho cose piuttosto importanti di cui
occuparmi, che esigono gran parte della mia attenzione.
Anche
“Illegittima Eternità” procede molto
più lentamente di quanto vorrei, e ciò non
è incoraggiante, ma sto cercando di fare del mio meglio.
Ed
eccoci giungere di nuovo allo spazio risposte alle recensioni.
Hinata Hyuuga= Ti
ringrazio veramente molto per i complimenti. Mi crea sempre molta
soddisfazione ricevere apprezzamenti sinceri per ciò che
faccio, anche quando questo non mi soddisfa pienamente. Di nuovo grazie.
Lidiuz93= Anche qui,
più che ringraziare non posso dir molto, se non, come ho
già detto e ribadito ripetutamente, amo moltissimo ricevere
apprezzamenti sulle mie opere. Fondamentalmente perché esse,
spesso, non soddisfano me in prima persona e allora amo che qualcuno
comunque riesca ad amarle. Grazie.
Ilychan= Ribadisco
che le tue recensioni mi riempiono di soddisfazione, per una ragione
piuttosto semplice: mi danno uno spaccato sui sentimenti personali che
il singolo prova trovandosi al cospetto del personaggio. Tu fornisci
tue opinioni; e amo rispondere a tono. Sì, è
vero, per vivere occorre forza: soprattutto per vivere davvero.
Altrimenti il tuo cuore batte, e i tuoi polmoni si gonfiano e
sgonfiano, ma non stai vivendo. Stai esistendo. Ed esistere
è brutto. Semplicemente. È tempo, è
respiro, è sangue sprecato. Più sprecato che
morire.
Però
(mi si permetta una citazione), forte come la morte è
l’amore. L’amore è pulita
dignità.
Cassa
rappresenta molto questo concetto. Nella riscrittura, ci è
scivolato dentro, e lei l’ha rivestito.
Lady Ligeia= Grazie
mille per i complimenti! Per me le riscritture sono un metodo per
fornire precisione nelle descrizioni psicofisiche e nelle storie
personali di ciascun personaggio.
Grazie
di nuovo!
Hikari= Il tuo
commento mi è piaciuto, perché contiene una
critica velata. Una critica che tu forse hai scambiato per un
complimento.
Dici
che ti piacciono “una scuola, un gruppo di studenti un po'
strano e una morta” , come se fossero situazioni assodate.
Questo, in corso di correzione, mi ha portato a pensare che i
personaggi, la storia, soprattutto Sachiko e Cassandra, fossero troppo
stereotipati. Purtroppo era troppo tardi per correggere, per rivedere
tutto. Mi spiace. Credo che “Istituto Torquato
Tasso” rimarrà per sempre una spina nel fianco
della mia produzione creativa. Non sono mai soddisfatta di niente.
I
personaggi mi sfuggono, non riesco mai a definirli come vorrei io.
Dannazione.
Contessa= Come ho
già detto, anche se Cassa è stata un
po’ ridimensionata, non riesco a liberarmi del sospetto che
sia venuta troppo carica come una saint honoré con troppa
vaniglia.
Lei
e Sachiko non riescono a rendermi appieno convinta. Non capisco cosa ci
sia che non va; nemmeno la riscrittura basta a soddisfare il mio
desiderio di perfezionismo!
Accidenti…
Comunque grazie per i complimenti…
Miss Black_Lady Riddle=
Come ti devo chiamare? Miss Black o Lady Riddle? Che nick complicato!
Comunque grazie per essere venuta a leggere e a commentare, e
soprattutto grazie per essere venuta a complimentarti! Mi fa piacere
che tu li trovi concreti: magari non mi soddisfano in tutto il resto,
però ho ottenuto almeno un risultato. E con tutto questo
spero di riuscire, almeno in un capitolo, ad avere quello che mi sono
imposta di conseguire con questa storia.
Grazie
di nuovo, e tanto!
E
con questo, vi dico un sincero a presto!
|
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Capitolo 5 *** Sachiko - la geisha ***
Sachiko - la geisha
Sachiko - la geisha
Sachiko Castelli altri non era che un connubio
bellissimo di oriente e occidente.
Quando varcò per la prima volta l’entrata del
Torquato Tasso, alle otto di mattina di quel fatidico quattro febbraio,
su tutti i presenti calò un silenzio assordante.
Ricordo che ero lì per puro caso: le medie del Tasso erano
nell’edificio vicino e mio fratello mi aveva accompagnato a
scuola in motorino.
Sachiko sfilò per la prima volta sotto i nostri sguardi
indagatori con una nonchalance
impressionante (come se essere giudicata e osservata da seicento
persone e rotti per lei fosse all’ordine del giorno);
indossava un kimono, sul cui sfondo giallo si rincorrevano farfalle e
un dragone verde dagli occhi d’oro, le cui maniche
lunghissime le giungevano poco prima delle caviglie, nascondendo le
mani e dando l’impressione che il suo corpo esile fosse
dotato di due grandi ali.
Le forme erano racchiuse e insieme occultate da un’altissima
cintura di pesante raso rosso e blu, detta obi1,
che la copriva dall’inguine fino sopra il seno; esso
terminava, sul dietro, in una specie di fiocco dalle ampie
estremità pendenti, lunghe fino a sfiorare il suolo, che la
sbilanciavano all’indietro.
Nonostante il tutto dovesse pesare parecchi chili, ondeggiava in
equilibrio precario su di sandali in legno (il cui nome, come scoprii
in seguito, era okobo)
con una suola di oltre quindici centimetri.
La sua capigliatura nera era un ammasso complicato di onde e volute,
perfettamente immobili, dentro cui erano infilati o intrecciati
spilloni, pettinini di madreperla e ciondoli carichi di fiori e
campanelle.
Ma la cosa più impressionante era il suo viso: volto, collo
e spalle erano ricoperti da una sorta di fondotinta bianco che faceva
rassomigliare la sua pelle a una maschera di cera, atarattica come la
faccia di un morto, mentre le sopracciglia erano accuratamente
disegnate col carboncino e le labbra ripassate con una mano di rosso di
cartamo a formare un cuore molto più piccolo della bocca.
Unica nota stonata era l’amplissima borsa che portava in
mano, che evidentemente conteneva i suoi libri.
Mentre si guardava intorno, ferma sulla soglia, pensai che era lei a
valutare noi, più che il contrario.
Ne ebbi conferma quando proseguì, straordinariamente sicura
su quei suoi sandali altissimi, a testa alta e senza degnare la folla
che le faceva ala del minimo sguardo.
Ondeggiava aggraziata, abituata alle lunghe maniche che la
intralciavano, perfettamente in equilibrio sugli okobo, senza che le
code del suo obi
paressero in alcun modo renderle più difficile
l’impresa (perché eravamo certi di impresa si
trattasse) non solo di stare in piedi, ma persino di muoversi vestita
in quel modo.
In un silenzio carico di elettricità, tirò
indietro con un gesto del tutto naturale lo strascico della veste per
poggiare un piede sul primo gradino della scalinata che portava al
piano superiore.
Arrivata a metà del pianerottolo (con noialtri seicento che
la fissavamo, intervallando risatine e bisbiglii), si accorse di
qualcosa.
Un elemento di disturbo nella sua entrata altrimenti perfetta.
Infatti, all’inizio della seconda rampa, c’era
Cassandra.
Quello fu il loro primo incontro.
Cassa era seduta, tranquillissima, su un gradino, le gambe magre
allungate attraverso lo stesso.
Con una calma del tutto innaturale se ne stava lì,
alternando un tiro di sigaretta a un sorso di Jameson dalla bottiglia
che aveva in mano, dimostrando come suo solito di fregarsi bellamente
delle regole scolastiche. Non diede segno di essersi accorta di
Sachiko, né si mosse nonostante l’altra
stazionasse, senza minimamente scomporsi, aspettando che le cedessero
il passaggio.
Infine, Sachiko chiese:
« Potresti spostare le gambe, per favore? »
Parlava un italiano perfetto, con una vaga musicalità nelle
consonanti e una durezza nelle L; nel sentire la sua voce chiara e
fredda tutti sobbalzammo. Non ci aspettavamo conoscesse la nostra
lingua.
Cassa volse la testa verso di lei, un’azione che parve
costarle molta fatica.
« Hum… piacere di fare la tua conoscenza.
» disse, la voce impastata di sonno e chissà
cos’altro.
La giapponese alzò un sopracciglio, rimanendo ostinatamente
immobile
« Sono lieta di questo scambio di convenevoli. Ora, potrei
passare? »
Faticosamente, Cassandra spostò le gambe. Senza dire
un’altra parola, Sachiko passò oltre, camminando
con straordinaria rapidità sui piedini racchiusi nei
sandali; aveva appena superato la schiena magra di Cassa che questa le
parlò.
« Mi piacciono i tuoi kanzashi2
con le campanelle. »
Come fulminata, Sachiko si girò a fissarla, con quei suoi
eccezionali occhi neri.
Le porse due dita e l’aiutò ad alzarsi.
Ricordo come Cassandra fissò quelle dita. In seguito Sachi
mi disse che erano anni che tutti i suoi compagni evitavano volutamente
di sfiorarla. Come se Cassa, come se il corpo stesso di Cassandra fosse
repellente.
Da quel giorno, Sachiko iniziò la sua grande operazione
“sfondiamo le barriere dell’animo di
Cassa”, che riuscì anche troppo bene.
Il che era strano, perché la mente stessa di Sachiko era
piena di fosse, avvallamenti, meandri tortuosi che era meglio non
esplorare.
Lo stesso attaccamento che nutriva per il Giappone, sua patria
d’elezione, era morboso.
Sachiko aveva madre nipponica e padre italiano; aveva vissuto a Kyoto
fino alla prima liceo, cioè sin quando suo padre, Giovanni
Castelli, era stato trasferito nella sede italiana della ditta per cui
lavorava, dopo un avanzamento di carriera.
Sachi era bilingue, ed era stata allevata in un binomio culturale
oriente-occidente. Cionondimeno, era cresciuta nel Paese del Sol
Levante, e rimaneva ancorata al mondo che aveva lasciato.
Agli amici, agli usi, alle festività, all’universo
di tranquilla diversità cui il suo cuore era rimasto
attaccato.
Quanto era giunto in Italia era il guscio di quel cuore spezzato. Forse
aveva visto in Cassa tracce di quello stesso vuoto. Sicuramente era per
questo che Sachiko (che in Giappone si vestiva
all’occidentale) ora sembrava una maiko3
in carriera.
Forse voleva mantenere un legame con quella terra che aveva lasciato
controvoglia, o magari sentiva di doverlo fare per non cadere
in una sorta di tunnel fatto di ricordi. Un tunnel simile a
quello che aveva inghiottito l’anima di Cassandra.
Sachiko era una ragazza estremamente attraente. Non solo per
quell’aura di mistero e di stranezza che la circondava, ma
perché era oggettivamente molto bella.
Sotto il trucco, aveva enormi occhi neri a mandorla: gli occhi
più grandi, profondi, ammalianti che avessi mai visto,
circondati dalle lunghe sopracciglia disegnate col carboncino che
proseguivano fin quasi alle tempie.
Il naso era piccolo e ben proporzionato e la bocca un minuscolo
bocciolo (sembrava ancora più minuscola per via del rossetto
con cui la dipingeva a cuore).
Ad accentuare la sua aura di bellezza erano anche i suoi capelli. Per
chiunque avesse avuto il privilegio di vederli sciolti, costituivano
una specie di miracolo. Le arrivavano molto sotto la linea inferiore
delle natiche, quasi fino alle ginocchia: una cascata nera come la
notte, liscissima e profumata di olio d’orchidee.
Solitamente li acconciava in fogge e nodi complicati, che, seppi in
seguito, le faceva l’anziana cameriera di sua madre.
Sachiko era ossessionata dalla cura della propria chioma: la lavava
ogni giorno e la pettinava per quasi un’ora tutte le mattine.
A volte dormiva seduta per non sciuparsi le acconciature.
Tuttavia, pur essendo così bella, Sachiko non permetteva a
nessuno di avvicinarla.
Vagava per i corridoi scortando Cassandra, ammantata di una freddezza
altera, regale; rivolgeva i propri saluti con noncuranza, quasi
indifferenza, e appariva inumana nella sua perfezione.
Molti ragazzi, ricordo, si erano infatuati di lei, ma Sachiko li teneva
a distanza con una decisione che rasentava l’intolleranza.
Diverse volte mi sono chiesto perché elesse me quale suo
confidente, e in qualche occasione gliel’ho anche domandato:
lei si limitava a ridacchiare e a dirmi che avevo il grande dono di
saper ascoltare e parlare solo al momento opportuno.
In realtà, credo che la relazione con Cassa assorbisse tutte
le sue energie, e che non avesse molto tempo per altro. E Sachi non era
mai stata tanto lieta di farsi assorbire da qualcosa.
Quasi subito, a qualcuno venne l’idea di darle un soprannome.
Probabilmente era perché ci si ricordava poco il suo nome
(nel 1994 non eravamo ancora abituati alla multiculturalità,
così capitava che Mae-fong diventasse Mattia e che
Françoise si trasformasse in Francy) e perché
qualcuno si era spinto più in la di Goldrake
nell’approfondimento della cultura nipponica.
Fatto sta che Federica Massifreddi cominciò a chiamarla
“geisha”
e, da allora, geisha rimase.
***
Quando si seppe del sentimento che la legava a
Cassandra, ricordo che la reputazione di quest’ultima
ricevette il colpo finale, ma che, nonostante il perbenismo che
permeava gli adolescenti allora più di oggi, non si smise di
trovare attraente Sachiko.
Semmai la relazione saffica che aveva con Cassa le aggiungeva quel
fascino peculiare che solo i peccati esibiti sanno dare. Un
po’ come il rossetto e il fard per David Bowie o
l’eroina per Kurt Cobain.
Tuttavia, molta gente stentò a capire che quello che le
legava era vero amore.
L’omofobia, di tutti pregiudizi e le intolleranze,
è quella col comportamento più strano: non solo
perché anche le categorie solitamente discriminate (ad
esempio extracomunitari o neri) la praticano, ma perché le
persone di un medesimo sesso tendono a essere indulgenti nei confronti
degli omosessuali di sesso opposto, mentre con quelli del medesimo si
rivelano sovente spietati.
Così come molti ragazzi picchiano maschi gay e poi si
masturbano di fronte a foto di playmate in atteggiamenti saffici, anche
le ragazze praticano una simile forma di discernimento, ma
più velata e, come spesso accade, più micidiale.
Infatti, spesso queste fanciulle intrattengono rapporti
d’amicizia con ragazzi omosessuali (purché non
commettano atti osceni
– che personalmente definirei atti d’affetto
– in loro presenza, sia chiaro), salvo creare il vuoto
pubblico intorno a qualche altra componente della loro cerchia
perché commette lo stesso nefando peccato sociale.
Similmente ad Hester, l’adultera protagonista de “La lettera
scarlatta” di Hawthorne4,
anche queste ragazze vanno incontro al più totale
isolamento, al disprezzo delle loro stesse amiche o confidenti.
Così successe anche a Cassandra e Sachi; ma a tutte e due
bastava unicamente la compagnia dell’altra.
Perché quello tra le due era vero amore; solo il vero amore
avrebbe potuto resistere alle tremende botte che i comportamenti
autodistruttivi e la depressione di Cassandra sapevano dare a qualsiasi
tentativo, seppur labile, di relazionarsi col suo mondo.
Cassa che non era mai sobria, Cassa con le braccia bucate, Cassa
sigaretta nella mano e pipetta da crack nell’altra.
Sachiko perfettamente padrona di sé, Sachiko che chiama il
113, Sachiko che scatta con la bravura di un’infermiera
professionista a rianimare l’amata in overdose.
Ma anche Cassandra e Sachiko che fanno il bagno insieme, Cassandra che
prepara il brodo a Sachiko con la febbre, Sachiko e Cassandra
abbracciate a coccolarsi sul tappeto di quella stessa stanza in cui
Cassandra, poco prima, si è scolata un’intera
bottiglia di rhum.
La morte di Cassa fu un colpo mortale, e nulla in Sachiko rimase che
potesse farle sopportare il peso del ricordo; dopo, di Sachiko rimase
ancor meno di quello che eravamo abituati a conoscere, la sua mente
ancora concentrata sul Paese del Sol Levante e su quella cultura e
quelle persone a lei care e tanto lontane dall’Italia.
Se la sua freddezza prima era dignità, dopo divenne
indifferenza e nient’altro che questo.
Non parlava più nemmeno con me e, quando qualche professore
veniva a chiedermi sue notizie oppure quando un compagno mi chiedeva se
si fosse ripresa, non sapevo cosa rispondere. Per quanto potei
percepire, posso dire solo che solo la morte di Cassa riuscì
ad appannare il fuoco dell’orgoglio che ardeva nel fondo dei
suoi occhi neri.
Diede esami da privatista, uscì col massimo dei voti,
alzò i tacchi e se ne tornò quanto prima in
Giappone.
Capii che solo Cassandra l’aveva trattenuta in Italia da
quando era diventata maggiorenne in quarta (Sachi era nata a gennaio),
e che i suoi antichi legami col paese in cui era nata erano
l’unica cosa che le impedisse di raggiungerla.
Ma Sachi aveva un alto senso della propria dignità e
valutava di più la propria vita di quanto non avesse mai
fatto Cassa.
Quindi tornò a Kyoto.
***
Ieri l’ho rivista.
Stavo armeggiando con un PC sballato sul mio posto di lavoro, quando
Giacomo, il mio capo, mi ha chiamato con voce concitata dicendo che una
signora giapponese voleva parlare con me.
Ha aggiunto anche alcuni apprezzamenti piuttosto volgari
sull’aspetto della signora in questione, che io non ho
raccolto.
Tutto potevo immaginare, tranne che fosse proprio lei.
Quando ha lasciato lo Stivale, non mi aveva nemmeno salutato e, anche
se a volte pensavo a cosa stesse facendo, non ho più
considerato di mettermi in contatto con lei.
Eppure eccola lì, elegantissima e vestita
all’orientale (come al solito), anche se qualcosa mi
suggeriva che (come al solito) in Giappone si vestisse ancora
all’occidentale.
Sarà stato il trucco più sobrio e
l’acconciatura (un comune carré), o il kimono
scuro ed elegante che indossava, del tutto diverso dalle pirotecniche mise che amava
esibire da giovane; forse era una certa indifferenza di fondo che
aleggiava ancora nei suoi occhi neri, solo leggermente segnati agli
angoli.
Era venuta appositamente per l’anniversario della morte di
Cassa, e, mi ha confidato, lo fa tutti gli anni a partire da quello
dopo la sua morte.
Non è mai riuscita a venire a trovarmi, anche solo per
scusarsi del suo comportamento increscioso – parole sue
– di quando se n’è andata. Aveva come
una specie di blocco e voleva evitare di ricordare.
La capisco – è lo stesso atteggiamento che abbiamo
noi nei riguardi della fu Maria Eva.
E non è mai riuscita a dimenticare quell’amore
nervoso, autodistruttivo che ha segnato la sua adolescenza.
Quel sentimento che si è portata via Cassandra
più di dieci anni fa.
Nonostante ora sia sposata e madre di due figli, Cassandra no, non la
si può dimenticare.
Portava ancora il bracciale d’argento.
***
Obi=
cintura e, spesso, emblema di un kimono. Il nodo dell’obi
è considerato vera e propria arte nella cultura tradizionale
giapponese, ed esistono trecento e più modi di creare il
caratteristico fiocco decorativo.
Kanzashi= spilloni
decorativi che si portano tra i capelli, elemento importante delle
acconciature tradizionali nel Paese del Sol Levante.
Maiko=
geisha apprendista.
“La lettera
scarlatta”, di Nathaniel Hawthorne= libro
stupendo, che personalmente consiglio a tutti, ne riporto qui di
seguito la trama (attenzione, spoiler!).
Il romanzo si apre con Hester mostrata al popolo di Salem, sul
patibolo. È il risultato del processo che è stato
intentato contro di lei per adulterio. Hester infatti ha dato alla luce
una bambina, Pearl, nonostante il marito sia assente da anni dalla
città. Oltre al pubblico ludibrio, Hester deve sottostare a
un'altra pena per la sua colpa: deve portare sul petto una A scarlatta
(che sta per "Adultera"), diventando così la pecora nera
della comunità puritana, assai poco incline al perdono e
alla comprensione.
Hester non vuole rivelare chi sia il padre della bambina. Ma dopo
qualche capitolo Hawthorne ci svela che il suo amante è il
giovane reverendo Dimmesdale, colto teologo, eccellente predicatore,
uno degli uomini più rispettati e venerati della
città. Si capisce allora che se Hester tace, lo fa per
amore, cioè per proteggere Dimmesdale. Il quale
però si tormenta per la propria vigliaccheria e la propria
falsità: predica ripetutamente contro il peccato, ma il
primo a peccare è stato proprio lui; ed è
un'altra, cioè Hester, a scontare la pena per entrambi.
La situazione si complica quando il marito di Hester, che in
città nessuno conosce, torna dalla sua lunga assenza, che si
spiega con la sua cattura da parte degli indiani e la successiva
prigionia. Il marito di Hester impone alla moglie di non rivelare la
sua identità: questo perché vuole indagare in
incognito sull'identità dell'amante, il cui nome Hester si
rifiuta categoricamente di rivelare anche al marito. Quest'ultimo
assume così il nome di Roger Chillingworth, e prende a
esercitare l'attività di medico in città, forte
dei suoi studi in Inghilterra, ma anche delle cognizioni di medicina
indiana che ha appreso durante la prigionia.
La vicenda si snoda quindi nel patologico triangolo che si viene a
formare tra Hester, Roger e Dimmesdale, con un crescendo di tensione,
sofferenza e angoscia che porta alla rivelazione finale.
(Informazioni
copincollate da Wikipedia – perdonatemi, ma non ho molto
tempo per raccontare tutta la storia)
Nike87= mi
fa piacere che Cassa ti sia piaciuta. Mi è sempre sembrata
tremendamente carica, e non mi ha mai soddisfatto fino in fondo, ma se
qualcuno la trova gradevole forse varrà qualcosa. Purtroppo
ultimamente ho ancora meno tempo di quanto disponessi in
precedenza, ma spero di riuscire a portare avanti tutto con
relativamente pochi sacrifici!
Ilychan= il
ricevere tanti commenti significa certamente che la storia piace, ma
non significa precisamente che essa sia di qualità. Il primo
commentatore e critico di uno scrittore è l’autore
stesso; conosco molti recensori spietati, ma la prima a essere spietata
con le mie opere sono soprattutto io!
In ogni caso, adoro ricevere complimenti, come credo chiunque, e mi fa
piacere che molte persone degne di fiducia trovino gradevole la storia.
Voglio dire, se un’ amiketta tra quelle fanciulle che leggono
e commentano entusiaste quegli aborti di fic che vengono pubblicati
nella sezione “Cantanti” (quelle sui Tokio Hotel
soprattutto) trovasse bella la mia storia, personalmente inizierei ad
avere qualche dubbio sul suo valore. Ma, dato che generalmente
ritengono la mia fissazione per la grammatica eccessiva e il mio stile
verboso e prolisso, credo di essere sulla buona strada.
Una sola piccola segnalazione: un po’ si scrive con
l’apostrofo!
HinataYuuga= accidenti!
Che sfilza di complimenti! Va’ che ad andare avanti
così diventerò una montata assurda e nessuno
riuscirà più a leggere le mie ciance agiografiche
(un po’ come non riesco più a leggere le
interviste a Giovanni Allevi, che oltre a essere un pianista non
geniale come sostiene di essere è il più
grandioso apologeta di se stesso)!
In ogni caso ho un piccolissimo appunto da fare alla tua recensione: io
non credo che Cassandra sia coraggiosa. Anzi. Morire, nel suo caso,
è stato un atto di spossatezza e assoluta codardia. Secondo
me vivere è la cosa più coraggiosa che chiunque
possa scegliere di fare.
Hikari= no,
non è il fatto che tu ti sia espressa male, sono
semplicemente io che vedo ogni più piccola parte dei vostri
commenti in luce del mio assoluto perfezionismo. Sono un grosso
problema per la mia stessa autostima…
In ogni caso mi fa immensamente piacere che tu, a dispetto di tutto,
non pensi che Cassa sia stereotipata; e spero che questo capitolo,
tutto su Sachi, ti piaccia.
Lidiuz93=
Grazie per i complimenti, e per la considerazione. Non ho mai
considerato l’ipotesi che la vita di Cassa apparisse come una
caduta finché non me l’hai fatto notare:
l’idea non è male, ma io ho sempre pensato a lei
come a un personaggio che “ha già toccato il
fondo” e che è gnoseologicamente impossibilitata a
risalire. In ogni caso le tue lodi sperticate mi hanno inorgoglito
parecchio! Grazie mille!
Ecco, con questo vi lascio alla lettura! Tanti saluti alla prossima
recensione!
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Capitolo 6 *** La Cantastorie ***
La Cantastorie
Nota dell’autrice
Questo
capitolo è dedicato a Ilychan, per il suo incondizionato
sostegno che segue “Istituto Torquato Tasso” sin
dalla sua prima stesura e per il suo incessante lavorio di recensione
che mi ha accompagnato facendomi sentire più vicini sia i
lettori dall’altra parte dello schermo che la storia stessa.
Grazie, grazie, grazie.
La Cantastorie
Federica
Massifreddi era nota anche come “la
Cantastorie”.
A
vederla non la si sarebbe detta una di quelle splendide, eteree
creature troppo che voglio descrivere.
Era
di corporatura media, piuttosto bassa, con un viso rotondo dominato
dalla bocca carnosa e dalla fronte decisa, bombata; i suoi sottili,
obliqui occhi grigi scrutavano il mondo con aria ora vaga ora attenta,
ombreggiati dalle ciglia rade e dalle sopracciglia incolori.
La
folta chioma castano scuro, che pettinava raramente; aveva una passione
per le mollette curiose, eccentriche, a forma di coccinella o farfalla,
insomma, quegli ornamenti per capelli buffi e graziosi che solitamente
piacciono alle ragazze.
Il
suo look era nella norma – normali jeans e magliette,
t-shirt, a volte qualche top, e maglioni comodi e colorati
d’inverno.
Infatti
il suo aspetto non aveva niente di particolare.
Federica
era in classe con me, e io la trovavo fantastica; come molti, del
resto; era ciò che diceva e faceva a renderla speciale: la
creatura più ammaliante, ipnotica che avessi mai visto.
Quando
raccontava, parlava o qualsiasi altra cosa dicesse, non riuscivi a
toglierle gli occhi di dosso. E la cosa ancora più
incredibile era che lei stessa ne era completamente inconsapevole.
Non
era semplice charme il suo: bensì una combinazione esplosiva
di carisma e fascino.
Molte
volte assistetti a scene incredibili; poniamo che Alex stesse
raccontando la sua ultima escursione in parapendio davanti a una
piccola folla, e che, contemporaneamente, dall’altra parte
del corridoio, stesse passando Sachiko, splendida, altera, circondata
da ammiratori.
Ecco,
in quel momento poteva succedere che, dai bagni, uscisse Federica con
una sua amica; e poteva anche accadere che Fede le stesse raccontando
una storia, o la cronaca di una gita, oppure semplicemente di come era
arrivata la mattina in autobus.
Quando
la risata argentina di Federica rimbalzava sui muri scrostati e sulle
piante ornamentali trasformate ormai in enormi posacenere, gli
ammiratori lasciavano la corte di Sachiko e la piccola folla
abbandonava Alex (che adorava Federica, e si univa a loro) per sentire
quello che stava dicendo.
Ecco,
Federica viveva in un suo fantastico mondo tutto fatto di storie; e
aveva un tale richiamo che, quando le raccontava, non potevi fare a
meno di lasciarti avvolgere dalla sua voce dolce e credere che quanto
stesse narrando fosse vero.
Così
poteva accadere che la settimana bianca con la classe si trasformasse
in una missione intergalattica, o che da dietro la cattedra,
all’improvviso, spuntasse un dragone cinese sputafuoco che
aggrediva sistematicamente ogni prof che provasse a sedervisi.
Da
dietro ogni angolo la fantasia poteva emergere esplodendo prepotente, e
lei la prelevava a piene mani, spennellando l’esistenza con
il suo colorato, stupefacente splendore.
La
vita per Federica era un’incredibile sequela di racconti, di
esperienze fantastiche e ai confini del reale. La realtà
stessa, per lei, costituiva un optional trascurabilissimo.
Era
meravigliosa, fanatica, folle.
E
qui, in quest’emisfero di eccentricità
inconsapevole, stava quel fluido magnetico che non ti permetteva di
evitare di ascoltarla quando parlava, o raccontava, o Dio solo sa cosa
faceva.
Per
questa sua particolarità la chiamavano “la
Cantastorie”, come l’omino barbuto
delle musicassette di fiabe per bambini.
Un’altra
cosa che apprezzavo personalmente moltissimo della Cantastorie era la
sua immensa cultura.
La
chiamavano anche TreccaFede
(fusione tra Treccani, l’enciclopedia, e il nome Federica)
per la grandiosa quantità di informazioni più
svariate che stazionavano in quel cervello apparentemente svagato e
distratto.
Al
momento giusto riusciva a tirar fuori di tutto dalle nebbie della sua
mente: la formula chimica dell’acido cianidrico, la data di
nascita di Lugi XIV, la definizione di cesaropapismo.
Con
una precisione quasi matematica.
Tuttavia,
benché il suo stupefacente nozionismo destasse stupore, la
cultura di Fede non era a senso unico: approfondiva molto
ciò che la interessava, era estremamente curiosa e si
appassionava a molti argomenti diversi contemporaneamente.
Leggeva
molto, visitava musei e mostre, ascoltava musica di tutti i tipi (dal
glam rock alla lirica) e cercava di stimolare la propria
attività ed elasticità mentale con tante
sollecitazioni differenti.
Aveva
il cervello più ricettivo che avessi mai visto.
Giravano
un mucchio di leggende sul suo conto, e la maggior parte erano anche
vere poiché Federica non era circondata da
quell’alone di mistero che avvolgeva invece Cassandra,
Sachiko o anche, in una certa misura, Alex.
La
Cantastorie era estremamente sincera su sé stessa e non si
faceva problemi a dire che viveva in via Nicola Porpora 16 con sua
madre Anna, suo padre Luigi e due fratelli gemelli di due anni
più grandi, Giovanni e Antonio.
Inoltre
non teneva lontana la gente come Alex, gli altri alunni non la
scansavano come Cassa né era lei stessa ad essere superba e
altera come Sachiko.
Anzi,
la Cantastorie aveva moltissimi amici, e usciva con un bel gruppo.
Molte
persone non aspettavano altro che di esserle amiche, e lei non aveva
che l’imbarazzo della scelta.
Ebbe
anche un paio di ragazzi, durante tutti i cinque anni; il primo, Marco,
era dell’altra sezione: un ragazzo come me, normale. Infatti,
durò solo un paio di mesi!
Il
secondo, che poi Federica sposò, lo conobbe in quarta liceo.
Aveva diciannove anni, ed era un deflagrato totale.
Si
chiamava Andrea Persani, e già a vederlo ti sorgeva il
dubbio che fosse matto quanto e più della Cantastorie.
Benché
fosse, a detta di quasi tutte le ragazze, decisamente attraente, era
anche stordente.
Piuttosto
basso, sul metro e sessantacinque, ma per una come Federica (che non
raggiungeva il metro e cinquantotto) sembrava alto; aveva un cespo di
capelli biondo cenere ricci, striati da larghe méches
blu, grandi occhi azzurri circondati da ciglia incolori e sopracciglia
sottili, un naso leggermente appuntito e labbra sottili e ricurve.
Fisicamente
era snello, con le unghie della destra molto più lunghe
delle altre perché suonava la chitarra (peraltro piuttosto
male) ed era un convinto assertore dell’inutilità
dei plettri.
Chiunque
li vedesse di primo acchito avrebbe potuto credere che fossero diversi
come il giorno dalla notte, ma non era così:
benché Fede fosse certamente più colta, la
pensavano esattamente alla stessa maniera su moltissimi argomenti e
avevano una quantità impressionante di cose in comune, a
partire dal colore preferito per finire con la marca di whisky.
E
proprio la marca di whisky fu la cosa che li fece conoscere;
più precisamente a metà della quarta, alla festa
di compleanno di Alssandra Persani, la sorella minore di Andrea, la
quale si era dimenticata di avvertire che il fratello sarebbe stato
presente.
In
effetti, nemmeno Alessandra lo sapeva; fatto sta che nel bel mezzo
della festa il tipo scese dalle scale con aria minacciosa brandendo una
chitarra elettrica mezza smontata in una mano e un mazzo di corde
nell’altra, ringhiando di abbassare im-me-dia-ta-me-nte
quella ”lagna del cazzo” (nello specifico, i Take
That) e indicando lo stereo con un cenno del mento.
E,
vicino allo stereo, c’era la Cantastorie, una fiaschetta di
Laproaigh’s in mano, che guardava i vecchissimi vinili
abbandonati accanto al medesimo.
In
quel momento lei stava esaminando un LP di Janis Joplin originale con
aria ammirata; colpito più dalla bottiglia che dalla
ragazza, in effetti, Andrea si diresse come ipnotizzato verso di lei
che, tra parentesi, era già piuttosto partita e si
lasciò sottrarre il superalcolico senza protestare, e
passò tutta la serata a chiacchierare con lui degli
argomenti più disparati: da Bob Marley alla Seconda Guerra
Mondiale, da quanto facesse schifo Melrose
Place all’algebra.
Non
si sa se Fede incantò anche lui con la sua incredibile
capacità di raccontare, ma è certo che quella
sera tra di loro scattò qualcosa… qualcosa
ulteriormente confermato dal fatto che, a fine serata, vennero
rinvenuti dall’ultima persona sobria di tutta la festa (ossia
la solita, intuitiva, geniale Giovanna Refraschini che aveva svelato il
mistero del braccialetto di Cassandra) sullo stesso divanetto consunto
su cui erano rimasti seduti tutta la sera; posso solo commentare che le
loro lingue non erano più nella bocca del rispettivo
proprietario.
E
non era la solita cazzata fatta da ubriachi.
Ricordo
che nel vedere quella scena mi si strinse il cuore.
Perché,
per quanto potessero essere diversi, insieme Andrea e Federica erano
bellissimi. Non avevano il fascino pericoloso di Sid Vicious e Nancy
Spungen1, come l’altra coppia famosa
della scuola (Cassandra e Sachiko), ma l’armonia di Jean-Paul
Sartre e Simone de Beauvoir2, mescolata alla
passione di Abelardo ed Eloisa3.
Non
era un amore distruttivo come quello di Cassandra per Sachiko,
né volto all’accudimento come quello della geisha
verso Cassa.
Era
un sentimento delicato che si alimentava delle piccole cose quotidiane,
nato su quanto avevano in comune e cresciuto nelle poche, grandi
differenze.
Era
l’amore che io invidiavo.
Perché
per me Federica è stata la cotta, l’ossessione
della mia adolescenza. E il fatto che lei stesse con un altro, che
donasse le sue carezze, la sua anima, la sua mente ad Andrea mi
riempiva di dolore ogni volta che lo vedevo.
L’unica
volta che mi sono ubriacato l’ho fatto per dimenticare lei,
per non pensare a lei, per togliere l’immagine del suo
sorriso largo, con gli incisivi larghi e distanziati, dalla mia mente.
Per
convincermi di non aver perso nulla, anche se lei era così
lontana da me.
Per
la cronaca, sono riuscito a non rivolgere la mia mente verso di lei
solo per la durata della sbronza. Il giorno dopo non solo la
rimpiangevo, ma ho sofferto anche i postumi della mia bravata giovanile.
***
I
miei sentimenti nei confronti della Cantastorie nacquero in seconda
liceo, alla gita di una settimana a Roma.
Prima
di allora non ero mai rimasto in alcun modo vittima del suo carisma,
né della sua non troppo latente pazzia, tranne che nei modi
in cui la sua brillantezza coinvolgeva tutti. La consideravo un
po’ troppo eccentrica e quella sua impressionante cultura mi
faceva sentire troppo inferiore, troppo limitato per pensarla anche
solo avvicinabile.
Non
so ancora bene come, ma finii seduto accanto a lei sul pullman durante
l’andata e, dopo la prima mezz’ora di smarrimento,
la sua impressionante capacità di attaccar bottone con
chiunque mi colse e iniziammo a chiacchierare.
Per
la verità, fu lei ad iniziare con una sorta di soliloquio
sui Nirvana (credeteci o no, fu così convincente che iniziai
ad ascoltarli anche io e tutt’ora li trovo
bravissimi…), e nel giro di un paio d’ore ero
innamorato perso di lei.
Così.
Semplicemente.
Non
era uno di quegli amori studiati a tavolino, né una di
quelle affezioni autodistruttive, e neppure una passione sfrenata. Era
un tipo di sentimento più devastante: un amore a senso
unico, adolescenziale, immaturo e senza la minima
possibilità di maturare, timido.
E
non ebbi neppure il coraggio di dirglielo.
***
In
singolare contrasto per una persona tanto colta, Fede non aveva affatto
una media stupefacente. Studiava solo quello che le piaceva, nelle
misure in cui le andava e quando le pareva.
Diceva
spesso che il liceo sarebbe durato solo cinque anni, e che sputare
l’adolescenza sui libri non era il suo ideale di vita.
L’ammiravo
molto anche per questo: benché non si facesse problemi a
lasciare che le cose che sapeva trasparissero all’esterno
(non sembrava rendersi conto di essere in una posizione intellettuale
privilegiata e non si preoccupava di prendersi della secchiona) aveva
il coraggio di vivere la propria vita senza essere schiava del suo pur
notevole cervello e della nomea che esso le dava.
In
classe era molto attiva, ma senza adulazioni e leccapiedismi: capiva
sempre tutto prima degli altri, ed era la più brillante in
quasi tutte le materie umanistiche. Naturalmente portata al
ragionamento e all’astrazione, partecipava con stupefacente
entusiasmo alle lezioni; l’unica materia in cui avesse seri
problemi era matematica.
In
effetti, talvolta la sua eccezionale lucidità destava in me
invidia o rabbia: era sempre due passi davanti a tutti noi, sembrava
riuscire a comprendere tutto senza sforzo apparente. Ma poi sorrideva,
faceva una battuta e tutte le mie emozioni contrastanti svanivano come
neve al sole.
Credo
che si rendesse conto di essere molto eccentrica, almeno parzialmente.
Ma, invece di sentirsi isolata per questo, considerava la propria
latente anormalità come un’arma, una riserva, un
modo per sentirsi libera.
La
sentii parlare con Stefano una volta; non ha mai saputo che quella
conversazione tanto intima dietro le quinte del teatro della scuola,
alla festa di fine quarta, aveva avuto un terzo spettatore non
desiderato.
Nell’aria
c’era l’odore dolciastro della cannabis, che,
inizialmente, mi fece storcere il naso nello scoprire che la mia
piccola isola di sospirata tranquillità era stata turbata da
quelli che credevo due primini pregni del desiderio di trasgredire.
Stavo per uscire allo scoperto con una filippica fenomenale, quando mi
accorsi che le voci arrochite dal fumo che chiacchieravano in
sottofondo mi erano singolarmente familiari.
«
Quindi, » stava dicendo Andrea. « tu ci fai o ci
sei? Voglio dire… qui tutti dicono che sei matta. No, per
quello lo dicono anche di me… » risatina, non so
se provocata dal fumo o dall’effettiva assurdità
dell’affermazione. « Ma mi chiedo, quanta di questa
presunta pazzia è vera? »
Qualche
secondo di silenzio pensoso, interrotto solo dal nervoso espirare di
Federica.
«
Be’, diciamo che ci sono e ci faccio. »
«
Che intendi dire? »
«
Sai, la mia stravaganza è in parte dovuta al fatto che quasi
tutti sono massificati in un unico stampo… » cara
vecchia Cantastorie, unica creatura sulla terra capace di utilizzare
termini come “massificato” sotto
l’effetto dell’erba… e, se per questo,
anche senza
cannabinoidi di sorta! « Ma il fatto che la mia pazzia sia,
in un certo senso, riconosciuta come un dato di fatto… mi
da’ la possibilità di parlare e comportarmi come
voglio. Dal mio punto di vista è un ottimo metodo per
conservare il mio modo di pensare intatto e di esprimermi senza temere
qualche forma… di ostracismo sociale… »
«
E quindi? »
«
Sì, si può dire che ci sono, ma anche
che… colorisco, ecco, sì, colorisco un
po’ il tutto. Sai, mi diverte molto provocare, e, a volte, mi
diverto a farlo così, anche senza ragione. Giusto per il
gusto di farlo… »
Lo
schiocco di un bacio.
«
Ma… sai… » stavolta fu Andrea a
prendere per primo la parola. « certo… un matto
può dire quello che vuole. Ma poi… poi chi sta ad
ascoltarlo? »
Inconfondibile
suono di un altro bacio, una risata calma e sincera di Fede.
«
Tu, Andre. Tu sei matto come me… e tra matti ci si ascolta!
»
Risate,
stavolta di tutti e due.
«
Ma… tu… insomma… » stavolta
parlava di nuovo Andrea, con tono esitante. « Voglio
dire… mi sembra che tutti ti ascoltino. Certo, non ti danno
ragione ogni volta, ma ti ascoltano. Non tutti stanno a sentire quanto
dico, o faccio, o scrivo io… »
Mi
sporsi un po’ dal sipario, riuscendo a vedere la testa della
Cantastorie che si scuoteva, una sua mano che stringeva con due delle
sue dita minuscole e affusolate lo spinello.
«
Vedi, Andre… in parte è
un’abilità che ho sempre avuto… in
parte esprimersi è qualche cosa che si può
imparare. » sorriso. Vedevo la sua piccola mano tremare.
« Io… ecco… mi piace troppo provare a
rifare la realtà. Vedere se con una tavolozza e un
po’ di colori il mondo può diventare migliore! E
ho scoperto che la fantasia è molto meglio della
realtà in sé. »
Trascorse
qualche minuto, poi la voce di Andrea si fece sentire di nuovo. Non era
ferma, ma tremava.
Si
rendeva conto che Federica gli stava aprendo uno spaccato della propria
anima, forse lo scorcio più importante. Mi sentivo
orgoglioso e insieme un ladro, per averlo potuto cogliere anche io.
«
Ma… tu… non arrivi a desiderare di barattare la
realtà con il sogno, in questo modo? »
Altra
risata, ma stavolta non era sincera. Semplicemente era nervosa, stanca,
quasi sfibrata.
«
Sì, Andre, lo desidero continuamente. Vorrei che il sogno
potesse affogare la terra, ripulire questa prosaica morte lenta che
è vivere. » si fermò per dare un tiro
alla canna. « Ma non è possibile. Quando ho capito
che non potevo, per un po’ mi sono resa conto che avevo perso
la ragione per accettare,
sì, accettare di essere stata buttata nel mondo
contro la mia volontà… »
Vidi
la sua piccola mano tremante sommersa dalla destra decisamente
più grande di Andrea; per afferrare un solo dito di lui
Federica doveva usare tutto il palmo.
«
E allora ho imparato a portare la fantasia nel mondo reale. E, per non
dimenticarmi cosa fare… ho imparato a scrivere. E a mettere
su carta quello che non volevo venisse sommerso dagli sforzi combinati
della realtà circostante e delle altre fantasie che
sorgevano prepotenti a sostituire o arricchire quelle vecchie.
»
Fu
in quel momento che, sopraffatto dalla sensazione di
intimità che si prova a spiare da una serratura, mi dovetti
allontanare.
***
Sì,
io amavo quella sua follia, quell’essere fiera della sua
diversità. Tanto fiera che evitava l’ostracismo
sociale.
L’amavo
con l’intensità dell’adolescenza, quando
un amore può essere conservato senza nessun incentivo
esterno, quando immaginare me che la salvavo da qualche situazione di
pericolo mortale bastava per farmela sentire vicina.
Per
questo quando, dieci anni dopo la maturità, ormai fidanzato
con Chiara, seppi all’annuale rimpatriata del liceo che
Federica si era sposata, sentii improvvisamente una pugnalata al cuore.
Sentii
Giovanna Refraschini e Carola Giovanardi che ne parlavano, la prima
stupefatta e quest’ultima che sputava le parole con astio e
disprezzo.
«
Oh, io l’ho sempre saputo che lei era matta, e che quel
Persani era peggio di lei… » stava malignando,
come al solito, la Giovanardi, masticando rapace una tartina e
rimettendosi a posto sul naso gli enormi occhiali dalla pesante
montatura in corno.
«
Ma no… Fede era simpatica… ma dimmi dimmi, cosa
è successo? »
«
Oh, uno scandalo! Uno scandalo! La sposa si è presentata in
camicia e frak di seta bianca, con un cappello a cilindro dal quale
pendeva il velo come una specie di veletta! Come bouquet aveva un mazzo
di rose blu in cera! Lui invece aveva una sorta di kilt nero, che
assurdità!, e come musica c’erano cose tipo i
Nirvana, Patti Smith, i Deep Purple… Pensa, la marcia
nuziale era “Smoke
on the water”! Tzé, sempre detto io
che quella tipa era bislacca! »
Mi
avvicinai, fingendo di ascoltare interessato.
«
Be’, pensa, io scommettevo che non si sarebbe mai sposata,
guarda tu un po’… » disse Giovanna,
serafica, addentando una tartina.
«
Mah, ti ho già detto che la cerimonia si è svolta
sull’isola di Wight, con rito celtico e davanti a un druido?
Che roba… »
Pur
nella mia sofferenza, non potei far altro che scoppiare a ridere nel
venire a sapere di quest’ennesimo colpo di testa di Fede,
che, nel frattempo, era dall’altra parte della sala a
intrattenere Guido, ora l’ingengner Guido Fioravanti,
l’unico altro maschio della classe, con una storia assurda su
un concerto dei Pixies che era andata a vedere a luglio.
«
Non trovo proprio cosa ci sia da ridere, Francesco. »
gracchiò Carola, guardandomi come una sorta di viscida
lumaca nella lattuga. « E’ scandalosa una simile
presa in giro della religione e del matrimonio… »
«
Oh, ma piantala! » sbottò Giovanna, a quel punto.
« Presumo che se tu avessi avuto la possibilità di
sposarti, l’avresti fatto pure davanti al diavolo in persona!
»
«
Già… » assentii, di fronte alla
Giovanardi, immagine di una stupefatta, rapace gallina. «
D’altronde, dalla Cantastorie non ci si poteva aspettare
niente di meno… »
E,
in quel momento, volsi la testa verso la diretta interessata.
Federica
era sempre bassina, sempre piuttosto paffuta… ma era
bellissima. Era bellissima perché nei suoi occhi verde-grigi
potevo leggere qualcosa che le dava una forza a me ignota. Era felice,
e credo di sapere perché.
Non
ha avuto figli, ma ha riempito la sua vita con viaggi, libri,
esperienze di ogni tipo.
Ha
inseguito il mondo con la tenacia di un segugio, cercando i punti in
cui esso si incontrava meglio colla sua fantasia. E, a giudicare dai
suoi libri, che puntualmente vendono migliaia di copie, ce
l’ha fatta.
Lei
sì, era riuscita a portare i suoi sogni dentro la
realtà.
***
Sid Vicious e Nancy Spungen=
la più celebre “coppia maledetta” del
punk. Pare che sia stata Nancy (ex prostituta) ad avviare Vicious sulla
strada della droga, che alla fine l’ha perso. Sono morti
entrambi di overdose.
Simone de Beauvoir e Jean-Paul
Sartre= personalmente una delle mie storie
d’amore preferite. Senza essersi sposati né
fidanzati ufficialmente, la relazione tra la madrina del movimento
femminista francese e il celeberrimo filosofo esistenzialista
andò avanti per oltre sessant’anni. Dopo tutto
questo tempo Jean-Paul dava ancora dei lei a Simone, come segno del suo
rispetto.
Riposano
uno fianco all’altra nel cimitero Montparnasse, a Parigi.
Abelardo ed Eloisa=
Lei era la più bella e colta tra le fanciulle di Parigi del
XII secolo; lui era il più illustre tra gli studiosi della
sua epoca, e aveva circa 15 anni più di lei. Tra di loro
scoppiò un'ardente passione, dove si intrecciarono ragione e
religione.
Il
loro amore fu fortemente ostacolato dalla nobile famiglia di lei sia
dall’occupazione di lui: costretti a nozze segrete
poiché lui era chierico, e gli era perciò
precluso il matrimonio, Abelardo mandò Eloisa nel monastero
di Argenteuil dove era stata educata. I parenti pensarono che Abelardo
avesse costretto Eloisa a farsi monaca per liberarsi di lei e decisero
di vendicarsi: una notte, mentre Abelardo dormivano nella sua casa, tre
uomini lo aggredirono e lo evirarono. In seguito due di essi verranno
catturati e, secondo la legge del taglione, accecati ed evirati a loro
volta, mentre Fulberto, il mandante dell’aggressione,
verrà solo sospeso dai suoi incarichi.
Da
questo momento le loro strade si separeranno e i due amanti non si
rivedranno mai più. Due drammi paralleli si svolgeranno
insieme: Eloisa prende i voti e trascorre il resto della sua vita in
convento; Abelardo, diventato eunuco, ritorna alla sua vita accademica
ed ecclesiale. Eloisa avrà comunque un atteggiamento
completamente diverso rispetto a quello del suo amato, il quale,
nonostante due condanne da parte della Chiesa per le sue idee
teologiche, godrà comunque la fama di grande maestro.
Continueranno
a scriversi per tutta la durata della loro vita, e verranno seppelliti
insieme. La leggenda dice che le braccia del cadavere di Abelardo si
aprirono quando la salma di Eloisa fu posta insieme a lui nel loculo
ove era stato deposto.
Ora
riposano in un sarcofago monumentale al cimitero di
Pére-Lachaise, a Parigi.
(informazioni in parte prese da
Wikipedia)
***
Ed
eccoci, nuovamente, allo Spazio Recensioni e Commenti A Ruota Libera.
Posso informarvi che ho finito la revisione del capitolo relativo
all’ultima figura, e che quindi presto sarà tutto
online, ma che la sua figura ha subito qualche cambiamento
perché non mi ha mai convinto fino in fondo in tutta la sua
delineazione. In ogni caso, ringrazio vivamente tutti coloro che mi
hanno seguito, recensito o anche solo letto per tutta la durata e il
parto definitivo di questa giganclopica Fabbrica del Duomo.
Ci
risentiremo presto!
Ilychan= la tua
defezione, mia cara, mi colpisce alquanto profondamente,
perché tenevo in gran conto le tue articolate, lunghe,
oneste recensioni. Mi piaceva molto vedere che a ogni singolo capitolo
c’erano le tue parole (quasi sempre d’elogio) a
incentivare il mio lavoro: era qualcosa che mi faceva godere
profondamente sia l’atto di scrivere, ricevere opinioni
franche e dirette. Mi mancherà sul serio la tua opera di
recensore accanito. Riguardo alle recensioni, la mia non voleva essere
una critica a ciò che avevi precedentemente detto, ma
l’espressione di una mia opinione! Contrariamente a circa
l’80% di tutti gli autori presenti in questo sito, infatti,
io tengo molto al libero scambio d’opinioni tra me e chi
legge, anche perché un autore che pubblica lo fa,
ovviamente, oltre che per se stesso anche per far conoscere
ciò che redige con fatica ad altri. E il parere e
ciò che pensano questi altri è fondamentale per
incrementare la bravura, gli orizzonti e le capacità dello
scrittore medesimo!
Riguardo
alla tua opinione su Sachiko, ammetto che un po’ di me
è scivolato dentro di lei ma che (oltre a Bellissima)
è il personaggio che mi somiglia complessivamente di meno, a
parte un certo modo di concepire l’affezione e la separazione
(soprattutto quest’ultima). In ogni caso la tua supposizione
è esatta, perché sia Sachi che Cassa si
assomigliano più di quanto traspaia a una prima lettura:
sono nichiliste, contraddittorie, sofferenti e hanno grandi separazioni
alle spalle. Solo che Sachi ha una molla dentro di se che le permette
di superare il dolore e rialzarsi. Credo sia una molla che tutti
abbiamo, ma che in alcuni si inceppa, talvolta per non disincastrarsi
mai più. Ecco, Cassa ha subito un processo simile, mentre
Sachi ha tentato di rimettere insieme i cocci e si è rifatta
una vita. Sachiko è infinitamente più ammirevole,
coraggiosa e forte di Cassandra, e, anche se è uscita dalle
mie mani, la stimo.
Ti
ringrazio ancora infinitamente, e spero che continuerai a seguire tutto
il resto della storia, sia pure senza recensione alcuna. Grazie mille!
Hinata Hyuuga=
carissima Hinata (o Costanza? Come preferisci essere chiamata?), mi ha
fatto immensamente piacere vedere i tuoi complimenti, e le tue
considerazioni – assolutamente pertinenti – su
Cassa e Sachiko a confronto. Amo molto quando i miei lettori
inseriscono nelle recensioni dei riferimenti alle loro personali
opinioni, anche quando non sono molto d’accordo,
perché ciò alimenta e arricchisce
l’emisfero mio come autrice e adoro tenere i contatti con
voi. Soprattutto perché nei commenti siete educati e civili
(a volte addirittura adulatori!).
Sì,
come mi pare già di aver affermato, Sachiko è
forte. Molto più forte di tutti i personaggi ivi descritti,
persino della Cantastorie: perché Sachi non si appoggia, nel
momento del più nero bisogno, ad altri che a se stessa, alla
propria fierezza, al proprio orgoglio. Cassa, secondo me, è
stata codarda, ma quella è una codardia ingiudicabile,
perché chiunque commetta un atto simile lo fa
perché non in grado di alzarsi di nuovo in piedi e di
riprendere a vivere. Vivere è faticoso, impegnativo,
impossibile se hai il cuore spezzato: e la vita è crudele
nel suo proseguire implacabile anche se tu non vuoi più
farlo.
In
ogni caso, grazie mille! Un bacio e alla prossima!
Lidiuz93= grazie
mille! Le tue lodi sperticatissime mi riempiono sempre di orgoglio (e
finiranno per farmi diventare un qualsiasi Allevi o Einaudi mediocre!).
Mi fa piacere quando un lettore giovane – come sei tu
– viene catturato dal ritmo della narrazione tanto da
desiderare di andare sempre avanti a leggere, perché
è ciò che provo anche io nei confronti dei miei
libri e delle mie storie preferite! In ogni caso vai tranquilla: non mi
offendono mica i complimenti, anzi!
Druggedseele= cara
Luna, il tuo commento mi fa arrossire e mi inorgoglisce parecchio,
anche se non posso far altro che darti torto; infatti, in questo sito,
ci sono molti autori molto più bravi di me (e anche di un
bel pezzo!) che non sarebbero affatto contenti di sentirsi deprezzati
in questa maniera, quindi diamo a Cesare quel che è di
Cesare. In ogni caso mi fa sempre comunque molto piacere ricevere
recensioni positive, e spero che quell’immagine da Cerbero
che ti sei fatta di me svanisca nel momento in cui leggerai questa
risposta: la motivazione per cui sono spesso – per citare le
tue parole – “dura e professionale”
è che EFP, pur essendo un bel sito, è strapieno
di ragazzine che scrivono tanto per fare, senza mettere il minimo
impegno in quello che fanno. Temo che tu abbia letto solo le mie
recensioni negative (che sono molte), e mi spiace, perché
agli autori che le merito ne scrivo anche di positive, molto articolate
e complimentose. In ogni caso, se posso permettermi, la ragione della
mia cosiddetta professionalità è che io quando
scrivo lo faccio con estrema serietà: e non mi pare troppo
aspettarmi la medesima cosa dagli altri. In ogni caso, vivissimi
ringraziamenti per i complimenti.
Un
bacio a tutti e a risentirci al prossimo capitolo!
|
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Capitolo 7 *** Bellissima ***
Bellissima
Bellissima
Ylenia Grammonti aveva vari
nomi, tanto che poca gente si ricordava il suo.
Comunque
fosse, tutti ruotavano intorno al suo aspetto, più che per
sue caratteristiche particolari o per i suoi interessi. Del resto, per
quanto concerne gli interessi, oltre alla cura di sé non
sembrava averne.
“Barbie”,
“Marilyn”,
“Miss
Tasso”… i soprannomi si sprecavano.
Federica
Massifreddi, con una certa sfumatura d’ironia, la chiamava “Bellissima”,
come il film di Visconti che Ylenia sicuramente non conosceva, e, per
la nostra classe, lei Bellissima fu battezzata e tale rimase fino alla
fine del suo quinto anno.
Era
in terza quando io cominciai la prima, e, in assoluto, fu la figura qui
raccontata con cui ebbi meno contatti.
Bellissima,
come suggerisce facilmente il suo soprannome, era considerata la
ragazza dal personale più attraente dell’intero
Scientifico Torquato Tasso: era alta almeno un metro e settanta,
snella, con le curve al posto giusto e delle misure perfette, lunghe
gambe perfettamente diritte, folti capelli di un biondo grano
assolutamente naturale, lineamenti delicati e regolari: naso piccolo e
all’insù, labbra carnose naturalmente rosse,
zigomi alti, grandi occhi color pervinca rotondi come monete sormontati
da sopracciglia delicate e da ciglia piene senza l’uso del
rimmel. La sua pelle aveva il timido fulgore di una perla e la
trasparenza dell’alabastro, la sua voce melodiosa e
gradevole, non pareva soffrisse di sindrome premestruale, avere
problemi di salute o sudorazione, come le altre ragazze… e,
purtroppo per lei, corrispondeva pressoché perfettamente
allo stereotipo della bella oca.
Falsa
come Giuda, smancerosa, leccapiedi, si può tranquillamente
dire che Ylenia incarnasse un personaggio qualsiasi di quei telefilm
per adolescenti ambientati in California dove la povera ragazza di
turno viene presa di mira dalla solita cricca di bellissime e
cattivissime cheerleaders.
Tuttavia,
Bellissima aveva anche un neo inquietante: la sua falsità,
la sua tortuosità e superficialità non
nascondevano una mente fredda e calcolatrice né
un’astuzia lucida e consapevole.
Ammantata
di cattiveria, giacché altri manti non ne aveva trovati,
Bellissima nascondeva l’inquietante neo di una
mediocrità pressoché illimitata.
Bisogna
riconoscerle che, almeno nel cercare di nascondere la propria idiozia
dietro un comportamento stereotipato, Ylenia aveva trovato una
soluzione (se non altro temporanea) a un problema che certo
l’affliggeva.
Ignorante
come una capra, tendente all’ipocrisia, di
capacità intellettive persino più basse della
media, Bellissima nutriva un odio spietato nei confronti di chiunque
avesse capacità superiori alle sue.
E,
poiché non poteva contare su altro che non fosse la propria
stupefacente venustà, la sfruttava per ottenere
ciò che le era stato precluso da chi, nella sua perfidia,
aveva pensato di fornirla di capelli lucenti come campi di grano e
occhi profondi come laghi himalayani ma non di un cervello brillante.
Non
capitava di rado che qualche professore maschio rimanesse invischiato
in reticolati di pettegolezzi infiniti su una sua (reale o presunta)
relazione con la procace alunna, la quale smentiva categoricamente tra
risatine che suggerivano di più il contrario.
Anche
io, inizialmente, rimasi affascinato dalla sua bellezza, ma poi
– e mi pregio di essere riuscito a capirlo prima di quasi
tutti gli altri maschi del primo anno – Bellissima
iniziò a farmi pena.
Non
tanto perché fosse ottusa, giacché questo era
evidente e sotto gli occhi di tutti, ma perché non aveva
nessuna amica.
A
parte Cassandra (che ebbe poi Sachiko), infatti, tutte le ragazze di
mia conoscenza godevano della compagnia di almeno una o due amiche
inseparabili con cui giravano a braccetto e con cui, almeno
esteriormente, intrattenevano relazioni a diversi gradi
d’intimità.
Ylenia,
invece, aveva solo compagnie maschili, con cui i legami erano tutto
tranne che platonici o meramente amichevoli. Incapace di coordinare lo
studio di una materia contemporaneamente a un’altra,
Bellissima era dotata di un’incredibile capacità:
riusciva, singolarmente, a gestire più relazioni
sentimentali per volta, aiutata dal fatto che conosceva
l’arte del tenere sulla corda i corteggiatori da quando era
giovanissima. Ogni suo movimento, sorriso, risata, smorfia, qualsiasi
gesto erano studiati accuratamente in una sorta di “scienza
della civetteria” di cui era una cultrice abile e consumata;
aveva un certo discernimento, in questo, nonostante la sua insulsaggine
intellettiva.
Tuttavia
tutti i suoi spasimanti la lasciavano presto tra le braccia di qualcun
altro non appena si rendevano conto che, oltre al guscio lussuosamente
avvolto in vestiti griffatissimi delle dimensioni di fazzoletti da
naso, non c’era molto in lei.
Apparentemente
senza sofferenza alcuna, lei veniva lasciata e lasciava chiunque a una
velocità vorticosa, quasi senza sforzo. Forse era realmente
indifferente, forse credeva di poter continuare a sostituire gli amanti
a piacimento. Non l’ho mai saputo, né lo seppi mai.
Comunque
fosse, Bellissima era come il cigno nel pollaio: spiccava sugli altri
per un po’, ma poi non era in grado di mescolarsi alla folla
né di reggersi sulle proprie gambe per distinguersi da essa
e veniva scartata, lasciata da parte.
Sempre
sola.
La
solitudine era l’essenza vera e propria della sua esistenza,
e nessun legame sembrava durare molto per lei.
Poiché
era sciocca, ma non tanto dal rendersi conto di essere perennemente
isolata (perlomeno dai membri del suo stesso sesso), Ylenia riempiva il
suo vuoto organizzando eterne minicongiure – con
l’aiuto e il sostegno delle sue cosiddette
“amiche” (che, perlopiù, dividevano la
sua compagnia per sfruttarla) e del ragazzo di turno - ai danni delle
categorie di ragazze che lei più detestava: non quelle
felici, né quelle carine quanto e forse più di
lei (Sachiko per dirne una), ma quelle che possedevano
l’unica qualità che lei non aveva e la cui
mancanza le guastava l’esistenza, ossia
l’intelligenza.
La
sua vittima preferita era anche quella che era più al di
fuori della sua portata, poiché non si degnava minimamente
di reagire: la Cantastorie.
Federica
faceva opposizione con assoluta noncuranza alle sue stoccate, agli
insulti rispondeva con raffinata ironia, anche se talvolta si irritava
violentemente per quella che, una volta, definì “L’impressionante
serie di puttanate che riesce a cacciar fuori da quella
bocca!”.
Cos’avesse
la mediocre d’aspetto Federica che Ylenia non possedeva?
Tutto.
Fede
era intelligente, colta, spiritosa, carismatica, piena di amici. Era e
sarebbe stata tutto ciò che Bellissima non avrebbe potuto
diventare mai.
Per
questo, con i pochi mezzi che aveva, Ylenia tentava di rovinare almeno
un po’ quella che avrebbe potuto essere la perfetta
felicità che lei non avrebbe mai posseduto.
***
Credo che il vero problema di
Ylenia non stesse nella stupidità vera e propria, anche se
questa costituiva, com’è ovvio, un deficit
notevole.
Bellissima
non era in grado di distaccarsi dalla sua disperata invidia nei
confronti di chi non avesse quelle qualità che lei
fortemente desiderava.
Questo
sentimento inghiottiva e distruggeva tutto. Era troppo impegnata a
odiare da non rendersi conto che poteva anche amare, accettandosi
così com’era, con i propri limiti e i propri
confini. Sarebbe stata una persona indefinitamente più
apprezzabile, più
bella, e quella macchia di fatuità che
adombrava (sia pur poco) la sua venustà sarebbe svanita per
sempre, riempiendo i vuoti del suo guscio. Ma Bellissima non
arrivò mai a comprendere questa realtà: appariva
sinceramente convinta che, poiché lei non poteva avere
qualcosa, non dovessero esserne forniti neanche gli altri; e, ben lungi
dal sentirsi grata per aver avuto se non altro la bellezza, considerava
tutti coloro che le stavano intorno come esseri di seconda categoria.
Le
uniche persone cui sentiva dovesse andare la propria attenzione, ma non
il rispetto, erano coloro che erano provvisti di cervello, astuzia,
logica o intelligenza, ma che odiava proprio perché dotati
di almeno una o tutte queste qualità.
Disperatamente
immersa nella propria mediocrità, come ogni mediocre
incapace di emergere da essa, Bellissima più tentava di
sfuggirle più vi rimaneva invischiata senza appello.
E
vedeva svanire tutti intorno a lei.
La
caratteristica principale di Bellissima è che, a differenza
delle altre figure che ho descritto, non cambiava. Non cresceva. Non
maturava.
Mentre
sia Alex che Cassa, per arrivare a Sachi o alla Cantastorie, avevano
una crescita interiore ed esteriore notevole, Ylenia non si sviluppava.
Rimaneva
sempre la stessa stupenda, biondissima Barbie con nessun altro pensiero
per la testa che non fossero il colore delle scarpe o come mollare
Giovanni Prestalacqua.
Dalla
prima alla quinta, non cambiò mai. E, tranne
l’evidente disfacersi della sua stupefacente
beltà, non è cambiata neanche adesso.
L’incapacità
di evolversi è sempre stato un suo grande, enorme limite.
Infatti, per quanto ci provasse, Bellissima era incapace di imparare
dall’esperienza.
Forse
era quello a non segnarla, a fare rimanere anche la sua
esteriorità sempre uguale a sé stessa.
Forse…
Confrontandola
con la splendente e imperturbabile felicità di Alex, con la
fredda maestà di Sachiko, con l’autodistruttiva
follia di Cassandra, con la splendente fantasia della Cantastorie,
Ylenia sembra un verme insignificante. Aveva solo l’ardente
fulgore della bellezza, non l’attendere quieto ma duraturo
dell’intelletto.
Tuttavia,
possedeva anche l’immobilismo forzato
dell’ignoranza: una mancanza di mobilità, di
elasticità che permea anche troppo la società che
vedo intorno a me, un mondo imperniato
sull’esteriorità, sull’invidia,
sull’odio, sul disimpegno. Per questo ho deciso di parlare di
lei. Perché era il simulacro vivente di tutto ciò
che non dovrebbe essere, e invece è.
***
L’ho rivista di
recente: pare si sia sposata con un medico chirurgo e che ora conduca
una vita tranquilla tra botulino, palestra e maquillage, allietata da
un unico figlio maschio, basso, occhialuto, magro da far paura e
appassionato di letteratura ugro-finnica.
Ironia
della sorte…
***
Rodelinda alla tastiera senza
coerenza
Questo
è il penultimo capitolo: presto posterò
l’epilogo e anche la revisione di “Istituto
Torquato Tasso” sarà finalmente terminata. Per
quanto riguarda il resto, non ho altre storie all’attivo, se
non un progetto che ho in cantiere da due anni a luglio e
“Illegittima Eternità”, che prosegue,
sebbene a rilento, tra un’ora di stage e l’altra.
Sto
faticando parecchio, sebbene mi sia guadagnata i sacrosanti tre mesi di
vacanza dopo un anno di duro lavoro, perché – se
possibile – l’anno prossimo mi toccherà
un anno ancor peggiore; nel frattempo hanno pensato bene di guastarmi
l’estate costringendomi a quaranta ore di stage presso uno
studio notarile (l’unica cosa che non mi da fastidio
è, appunto, il fare lo stage nello studio notarile),
cioè a quaranta
ore di lavoro estivo e gratuito.
Ma
bando alle ciance e via alle risposte alle vostre recensioni!
Hikary= ma figurati,
nessun problema! Anche io spesso mi dimentico di recensire capitolo per
capitolo le storie che mi piacciono, ma né io né
gli autori ne fanno un dramma (a chiunque dei miei autori preferiti
leggesse questa frase: invoco clemenza per la mia
pigrizia!)… basta che, almeno ogni tanto, ci si ricordi di
lasciare un bel commento lungo e articolato!
Mi
fa piacere che Federica ti ricordi te stessa, perché
è il personaggio in cui ho messo più di me stessa
(anche se io ho un carattere un pelino peggiore e molto meno
conciliante), quindi la Cantastorie è la mia preferita in
assoluto.
Comunque,
che dire, ti ringrazio moltissimo per i complimenti, e spero che anche
Bellissima (in assoluto la più detestabile tra queste
figure) incontri il tuo favore! Un bacio!
Hinata Hyuuga= cara,
dato che preferisco le idee con le loro nobiltà avulse dalle
umane miserie, preferisco riferirmi a te col nickname medesimo.
Federica è forse insieme la più reale e la
più irreale tra le figure sopra descritte; parlando di lei
ho spesso immaginato una creatura perfettamente normale che cammina nel
sogno, e, invece di perdercisi, riesce a trovare la strada in esso. Ti
ringrazio moltissimo per i complimenti, e anche per
l’adulazione: mi capita raramente di esserne
l’indirizzo, e quando è smaccata (quanto, spero,
meritata) fa sempre piacere. Ancora grazie!
Druggedseele=
c’è una cosa che devo dire di tutti i miei
personaggi: la mia è una curiosità quasi morbosa,
verso di loro, mista a un senso di indiscrezione simile a quello di
qualcuno che sbircia dal buco di una serratura; è un modo di
rapportarsi con loro che accresce la delicatezza della narrazione e la
sensazione di realismo che deriva da questa. Inoltre, apprezzo che tu
mi ponga quasi su un piano di parità con chi in questo sito
mi è molto migliore: l’autostima è
indispensabile per chiunque, anche per un autore! Grazie mille!
Black Lolita=
allora, veniamo a noi. Sono estremamente felice che Ilychan abbia
gradito il mio modesto omaggio, e sono lieta di ricevere sue notizie,
sia pure in forma indiretta. Rinnovo con calore la mia gratitudine nei
suoi confronti, per il suo sostegno e per il suo apprezzamento
(addirittura al punto di stamparsi la presente storia, non ci posso
credere!). È una cosa che commuoverebbe chiunque, penso, e
in particolar modo me, che tengo molto a questa storia, così
come ritengo importanti tutti i vostri pareri, e specialmente di chi mi
segue da tempo.
Spero
di avere presto altre sue notizie! Un bacione Ily!
E
con questo un saluto al prossimo capitolo!
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Capitolo 8 *** Epilogo ***
Epilogo
Ed eccoci giunti, tutti
insieme, alla fine di questa rosa di ricordi profumati o sbiaditi.
Alex, Cassandra, Sachiko, la Cantastorie, Bellissima ed io, il loro
spettatore.
Un
ragazzo completamente, angosciosamente normale, a confronto con chi
sfidava la normalità quotidianamente – in modo
conscio o meno – per poter esistere.
Forse
la società non si è mai adattata a loro, alla
loro splendente stravaganza, alla loro esplosiva, intellettiva
avvenenza.
Questo
mondo non era fatto per ospitare senza remore l’allegria
imperturbabile di Alex, l’abisso disperato e vuoto di Cassa,
la grazia e la freddezza di Sachiko, l’intelligenza e la
fantasia della Cantastorie o la bellezza vuota e senza significato di
Bellissima che, pur rispecchiando la collettività attuale,
ne era così prepotentemente schiacciata.
No,
decisamente non potevamo far altro che starle a guardare.
La
loro vicenda può sembrare lontana e senza significato, ma
per me ha contato molto. Perché io non riuscivo che stare ad
aspettare lì, immobile, ciò che avrebbero detto,
fatto o tentato.
Attendere
di sapere la prossima impresa di Alex, o vedere se Cassa sarebbe
tornata viva a scuola il giorno dopo. Solo questo. Non ero una presenza
attiva nelle loro esistenze, ma soltanto un muto testimone. Anche nella
vita di Sachi non potevo che costituire una comparsa sullo
sfondo… quella con cui ci si confida, ma che si lascia senza
rimpianto.
Forse
proprio perché potevo cogliere solo pochi brandelli qua e
là mi sono sembrate tanto preziose da doverle raccontare.
Perché
per me rimarranno sempre uguali. Cristallizzate nella loro remota,
splendente giovinezza. Loro,
meglio che chiunque altro, rappresentano la mia gioventù,
quelle persone di cui – anche ad ottant’anni,
nonostante la vita ne abbia assorbite parecchie sulla via –
ti ricordi e pensi “che bei tempi!”.
Riuscirai
a rammentare con affetto non solo la voce ammaliante di Fede o il
sorriso luminoso di Alex, ma anche Cassa (membro tipico della generazione X) e il
dolore, l’alterigia tutta orientale di Sachiko o la vuota
venustà di Bellissima… e ti sentirai meno solo,
accompagnata dal loro fuoco quieto o esplosivo.
Perfette,
immote, conservate sotto spirito dai ricordi, dalla giovinezza, dai
sentimenti che si sono affastellati uno sull’altro la loro
luce - per quanto una folta colorata e, col passare del tempo, sempre
più sbiadita – non potrà mai svanire.
A
ognuno che abbia assistito il loro quieto, continuo brillare, il loro
buio totale, la loro fiammeggiante esplosione o la totale mancanza di
fuoco alcuno, hanno lasciato una piccola scintilla del loro essere;
c’è chi l’ha colta e chi no.
E
io sono stato come un albero che ha creduto di poter immergere i rami
nell’incendio senza bruciarsi: sono, invece, stato
carbonizzato fino alle radici. E ora, quella cenere fertilizza la mia
mente e il mio cuore.
Ho
voluto descriverle perché loro sono uno scrigno di forza,
una sicurezza, un tesoro che va tutelato con ogni cura possibile.
Ho
voluto fermarle nella mia testa così come le ho viste per la
prima ed ultima volta: Alex con la sua esuberanza, Cassa e il suo viso
triste dagli gli occhi spenti, Sachiko splendente di amore, sete e
broccato, Fede accompagnata dalla sua cultura e stravaganza, ornata del
mio acerbo amore, Bellissima decorata coi suoi capelli biondo grano, la
testa piena solo d’aria.
Ho
tentato di conservare, almeno nei loro sguardi, la mia
gioventù sfumata, il mio amore esaurito, le mie emozioni
amplificate dalla mia innocenza presente eppur tradita.
Richiudo
la scatola dei miei profumati ricordi… la
riaprirò alla prossima occasione.
***
Rodelinda
alla tastiera senza coerenza
Eccola.
Finita. Ho impiegato più tempo a correggerla che a
scriverla, “Torquato Tasso”, e finalmente ho
portato a termine questa colossale impresa. Potrò finalmente
cliccare sul tasto “sì” di fianco alla
voce “finita” nel mio account, spiacendomi un
po’ nell’abbandonare questo colorito gruppetto ma
compiacendomi nel fatto che la loro creazione e stesura vi abbia fatto
trascorrere momenti piacevoli, e vi abbia – magari
– anche veicolato qualcosa, qualche messaggio, qualche
intenzione.
Non
vi ringrazierò mai a sufficienza per il vostro sostegno, i
vostri consigli, i vostri complimenti, la vostra gentilezza e
perseveranza nel leggere questo scritto, la mia personalissima Fabbrica
del Duomo.
Senza
timore alcuno di scadere nel ridicolo, posso dirvi che senza le vostre
recensioni non ce l’avrei mai fatta.
Per
cui ringrazio le seguenti persone che hanno inserito questo lavoro nei
loro preferiti
Aqua90
Dastrea
Druggedeele
Hinao85
Hinata Hyuuga
JiuJiu91
Lady Ligia
Lidiuz93
MabyChan
Miss
Black_Lady Riddle
Nacchan
Tisia
Susy
Coloro
che mi hanno inserito nei loro autori preferiti (ben tre persone, onore
e gloria!)
Babyjenks,
alias Chiara
Ferie
Susy
E,
soprattutto, coloro che non hanno fatto né l’una
né l’altra cosa, ma hanno commentato.
Il cibo dell’autore è la recensione, che lo sprona
a migliorarsi e a proseguire con cuore lieto nel proprio lavoro.
Quindi
un grazie a
Ilychan
MabyChan
JiuJiu91
Lidiuz93
Babyjenks
alias Chiara
Contessa
Lady Ligeia
Hikary
Nike87
Black Lolita
DruggedSeele
Miss
Black_Lady Riddle
Hinata Hyuuga
E
grazie anche a chi ha letto la storia senza commentare né
inserirla tra i preferiti.
Auguro
a tutti una felice e serena estate dal profondo del mio cuore!
Bacioni
e alla prossima
Vostra
Rodelinda
P.S.
No, non mi sono dimenticata di voi, che avete recensito
l’ultimo capitolo! Ecco le vostre risposte!
Hinata Hyuuga= sono
contenta che ti dispiaccia per la fine di “Istituto Torquato
Tasso”: significa che ti ha lasciato qualcosa, dentro, e che
attraverso le parole sono riuscita a esplorare te stessa, anche se
questo era solo uno scopo collaterale che non era mia intenzione
raggiungere. Sono altresì contenta che la presente ti abbia
convinto a tal punto che desideri proseguire nella lettura delle altre
mie opere! È meraviglioso!
E
sono altresì lietissima che Bellissima abbia incontrato il
tuo favore, per la semplice ragione che è la più
diversa dalle altre, e quella che mi convince di meno, tanto
che, inizialmente, avevo predisposto una riscrittura solo e soltanto
per lei.
Mi
trovi d’accordo con le tue opinioni sulle condizioni della
realtà attuale, in tutto; posso solo aggiungere che in ogni
epoca la cosa più difficile da fare è vivere, e
combattere perché sia possibile migliorarla. Io, almeno in
questa esistenza, credo di aver fallito in entrambe le missioni.
In
ogni caso, ti ringrazio nuovamente, per il tuo sostegno, per la tua
gentilezza: rispondere individualmente alle vostre recensioni
è un dovere anche quando constano di una sola riga, a
maggior ragione quando provengono da una lettrice fedele e competente
quanto te.
Druggedseele=
Sì, in effetti mi sono ispirata molto anche ad alcuni
aspetti della realtà che incontro tutti i giorni per creare
la figura di Bellissima. Non importa, io penso, se di belle oche ne
esistono moglie: è vero l’adagio secondo cui la
madre degli imbecilli è sempre incinta, è
così dall’inizio dei tempo e così
sempre sarà. L’importante, l’essenziale
direi, è non conformarci al punto da diventare anche noi
delle belle oche; non è lotta, questa, è un
diplomatico scappare.
Per
quanto riguarda le altre idee ingegnose, le troverai di volta in volta
nel mio account.
Ancora
grazie mille per i tuoi complimenti, non sai quanto mi faccia piacere
riceverne.
Un
grosso bacio, e felice estate!
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