Istituto Torquato Tasso

di Rodelinda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione & Prologo ***
Capitolo 2: *** Alex ***
Capitolo 3: *** Cassandra (prima parte) ***
Capitolo 4: *** Cassandra (seconda parte) ***
Capitolo 5: *** Sachiko - la geisha ***
Capitolo 6: *** La Cantastorie ***
Capitolo 7: *** Bellissima ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Introduzione & Prologo ***


Introduzione&Prologo
Introduzione

Come in tutti i miei racconti l’introduzione è ridotta ai minimi termini, quindi, se avete deciso di leggere la seguente storia, siete pregati di darci una scorsa.
“Istituto Torquato Tasso” è, per me, una sorta di fabbrica del Duomo: per quanto sia la mia opera più apprezzata è quella che mi soddisfa costantemente di meno; le revisioni non si contano, così come i bruschi cambi di rotta sia in corso di pubblicazione che dopo, le appendici aggiunte, l’epilogo che, originariamente, non era previsto. Per quanto mi sforzi di trovare per essa una versione definitiva, non riesco. Quindi ho deciso di rimuoverla per qualche tempo, e di ripubblicarla poco a poco, man mano che i capitoli verranno corretti. Questa manovra comporterà la perdita di tutte le vostre recensioni, e mi spiace molto, ma le ho accuratamente copia-incollate affinché non dimentichi le vostre costruttive critiche e i vostri graziosi complimenti. Vi ringrazio moltissimo, consideratelo un tardivo regalo di Natale.

Questa storia è una raccolta di profili femminili in una scuola privata, anno 1994.
Sono capitoli laboriosi, descrittivi, introspettivi.
A volte hanno risvolti drammatici anche pesanti, spesso presentano aspetti sentimentali.
C’è un accenno yuri (= yuri ai, amori omosessuali femminili), pur essendo l’io narrante un ragazzo; uomo avvisato mezzo salvato: se la cosa vi offende, non leggete e andate via. Il racconto potrebbe non avere un plot continuo, visto che la discontinuità è la sua essenza: e molte delle figure ivi descritte non sono in relazione tra loro.

È una cosa puramente sperimentale, quindi insolita.

Concludendo, vorrei ringraziare alcune persone che mi hanno ispirato – sia pure involontariamente – con i loro scritti.
1) Susy, per le sue bellissime storie (in particolare “Profondo cremisi”, che sta subendo un processo di revisione simile a quello di “Istituto Torquato Tasso”);
2) Lisachan, perché è la miglior scrittrice sul fandom Molko/Bellamy di mia conoscenza;
3) MusicAddicted, alias Happy, perché la sua “Try something new” mi ha iniziato al fandom Molko/Bellamy;
4) Milako, sia per “Songmaker’s cry” che per la mitica, fantastica, spassosissima “De Ignoto Silmarillion”;
5) Riccardo, che seguo dai tempi de “Il mangaprocesso del Lunedì – prima serie” e che persiste, con le sue creazioni (“Crazy School” per citarne una) a farmi ridere come una pazza.
6) Egle ed Elivi, bravissime ficwriter comiche che sono, purtroppo, piuttosto linfatiche. Ogni volta che, a tre anni di distanza, leggo “Il signore delle Palle” mi diverto ancora un casino.
7) Promethea, per la sempre mitica “Saint Luna”, connubio perfetto tra comicità e azione, “Sliding sancuary”, unione assolutamente riuscita tra drama e avventura e, infine, “Favola”, parodia sconosciuta ai più ma che fa svenire dalle risate.
8) Enedhil, per la tetralogia di Legolas e Aragorn che mi ha avvicinato al fandom del Signore degli Anelli e che ha creato in me la persistente supposizione che a Lorien quei due abbiano fatto ben altro che scofanarsi di lembas e ascoltare i lamenti per Gandalf;
9) Tutti coloro che ho dimenticato in quest’elenco compulsivo e scritto di getto, perché hanno contribuito a creare il mio io narrante personale. Le parole sono sempre la miglior colonna sonora.

Bene, ora che avete letto (e magari vi siete riscoperti tra i nomi dell’elenco)… buona lettura!

Prologo

Io sono un “ragazzo normale”.
Al liceo, tutti quelli che parlavano di me, invariabilmente finivano per dire: « Francesco? Hum… sì, un ragazzo a posto… normale. »

Non ero né il più bello, né il più intelligente, né quello più dotato nello sport. Non avevo particolari attitudini per nulla, se si eccettua una certa padronanza della matematica. Il mio aspetto fisico era, ed è, indiscutibilmente nella media: capelli castani corti, naso piuttosto irregolare, bocca mediamente carnosa, occhi scuri e piccoli. Mediamente alto, abbastanza magro.
Non mi distinguevo assolutamente in niente, rispetto ai miei compagni di classe: vestiti come quelli di tutti, opinioni più o meno nella massa… ho avuto la prima ragazza a sedici anni, come tutti i miei amici, e non era né una bellona né un cesso. Anche lei normale.

Ovviamente, anche adesso, a quindici anni di distanza, conduco una vita assolutamente nella norma. Lavoro come impiegato presso la banca cittadina, e ho sposato Chiara, che ho conosciuto un anno dopo la maturità all’università (facoltà di Economia e Commercio).
Anche lei, perfettamente nello standard.

Non so perché, all’età di trentadue anni, mi sia venuto in mente di parlare di loro.
Forse perché ho rivisto Sachiko, ieri. Forse perché oggi è l’anniversario della morte di Cassandra. Non lo so.

***

Essendo sempre stato un ragazzo normale, non mi sono mai messo molto in luce in alcun  modo né a scuola né ora in ambito lavorativo. Ero quasi invisibile: se non fosse stato per la borsa di studio annuale in matematica, in effetti, l’intera classe si sarebbe dimenticata della mia esistenza.
Non che mi dispiacesse: stare defilati ha anche i suoi vantaggi.

Tuttavia, nella storia che voglio raccontare ora, la capacità di osservare gioca un ruolo determinante.
E io, in quanto invisibile spettatore, ho imparato a osservare gli altri.

Il liceo scientifico privato Torquato Tasso si trova in via dei Pini. È  un edificio piuttosto grande, con un ampio giardino ben curato e una biblioteca di medie dimensioni che ospita libri di pubblica consultazione.
Quando lo frequentavo io aveva smesso da meno di due anni di essere solo femminile e c’erano pochissimi ragazzi.
Io ero uno di questi.

Le storie che voglio raccontare riguardano quelle ragazze che io, proprio perché “normale”, potevo solo osservare. Carezzare un po’ con gli occhi. Guardare con la fiducia incondizionata di chi affida a qualcosa la propria attenzione. Perché erano troppo belle, troppo intelligenti, troppo colte, troppo folli. Troppo.

La normalità non si può accompagnare all’estremo. Mai.


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Capitolo 2
*** Alex ***


Alex
Alex

Alessandra era in classe con me, ed era famosa in tutta la scuola.
Era pazza. Completamente pazza.
Non perché fosse triste, o passasse il tempo a tagliuzzarsi le braccia. Alessandra, detta Alex, era tutto tranne che depressa.

Era un vulcano in eruzione perenne, uno splendido fuoco d’artificio, una pioggia d’allegria eterna.
Qualcuno aveva distribuito strani volantini con su poesie di Emily Dickinson e/o versetti satirici (spesso di pregevole fattura) in giro per la scuola? I professori astanti si guardavano negli occhi, scuotevano le spalle e commentavano, con aria rassegnata: « Alex! ».
Un’entità ignota aveva formattato tutti i terminali dell’aula di informatica, due giorni prima della verifica decisiva, e, misteriosamente, su tutti i desktop era apparsa la scritta “tre a chi legge”? Tutti gli alunni esclamavano con aria trionfante: « Alex! ».

Per quanto potesse sembrare assurdo, ad Alex riusciva di fare praticamente qualunque cosa; era l’incarnazione vivente del detto “la fortuna aiuta gli audaci”.
Aveva il coraggio di tentare tutto quello che le saltava in mente: e, paradossalmente, più l’impresa sembrava disperata, più avevi in lei una sostenitrice sicura.
Occupazioni, autogestione, liberazione di rane in classe… qualsiasi cazzata, magari anche la più assurda, Alex era in grado di tentarla quasi senza pensarci su.
Ogni cosa, quantunque fatta da lei, aveva sempre esiti positivi: mio nipote sostiene che si parli ancora di quando ha dipinto un murales con gli Uniposca neri sul tettuccio dell’auto del preside. All’epoca dei fatti chiunque sapeva che era stata lei, e il corpo docenti prese a detestarla.

Gli insegnanti, incredibile ma vero, non potevano mai fare nulla per inchiodarla alle sue responsabilità: con l’abilità di un ninja, infatti, Alex evitava di lasciare qualsiasi indizio sulla “scena del delitto” di turno che potesse ricondurla al “delitto” stesso.
Inoltre, fatto non del tutto trascurabile, era la perenne vincitrice delle borsa di studio in Latino e Inglese, cosa che la rendeva decisamente inattaccabile dal punto di vista dei voti; insomma, un po’ per proprio diritto, un po’ per fortuna sfacciata, non c’era nulla da fare: Alessandra Piretti, ricercata numero uno dello staff di presidenza, era intoccabile.
E, per quanto ci fossero persone (come la Vicepreside) il cui scopo nella carriera fosse trovare le prove per riuscire a dimostrare che la colpevole dei fatti era incontestabilmente lei, nessuno ci riuscì mai.

A vederla, non era niente di speciale.
Alta appena un metro e cinquantacinque, piuttosto paffuta; a notarsi, oltre alla figura assolutamente non da mannequin, inoltre, erano i suoi capelli.
Castano scuro, di media lunghezza, né lisci né ricci; perennemente arruffati, non riuscivano ad assumere una forma nemmeno dopo ore e ore di seduta dal parrucchiere. E lei non se ne curava affatto: a volte dava l’impressione di non pettinarli neppure.
Li lasciava sciolti, oppure, se voleva  tenerli lontani dal viso, li tratteneva approssimativamente con cerchietti o fasce multicolori.
Riguardo ai capelli di Alex circolava una voce strana: quando compariva in classe con la folta chioma acconciata in una coda era il segnale che stava per compiere una delle sue “epiche azioni”.
Nessuno, ovviamente, aveva le conferme di questo pettegolezzo; e io, personalmente, non l’ho mai vista coi capelli raccolti se non in due occasioni: sotto la cuffia per le selezioni dell’annuale torneo scolastico di nuoto (cui arrivava sempre ultima) e, avvolti in uno chignon, al funerale di Cassandra.

Dopo i capelli, si notava, com’è ovvio, il viso: aveva un volto perfettamente ovale, con zigomi alti e rotondi e un mento a cupola. A parte la forma, non c’era nulla di notevole nella sua faccia: le labbra erano sottili, il naso piuttosto pronunciato e gli occhi neri erano di medie proporzioni, un po’ allungati verso il basso. Le ciglia erano quasi inesistenti, compensate dalle folte sopracciglia che disegnavano due archi perfetti attraverso quella faccia dalla carnagione pallida.

Altre caratteristiche fisiche degne di nota, Alex non le aveva: si vestiva come una squatter dei centri sociali, con larghe tute, pantaloni militari, magliette che le arrivavano più meno alle ginocchia dalle fantasie più svariate (le sue preferite erano informi camicioni batik decorati da ricami orrendi, eseguiti sicuramente da un qualche alcolista).
Per sua stessa ammissione, comprava ogni cosa su bancarelle e in negozi di abiti usati, senza molto curarsi della provenienza dei capi.
Non portava né trucco né alcun tipo di gioiello: non aveva neppure i buchi per gli orecchini. Inoltre si mangiava le unghie tanto che, a volte, erano rosicchiate anche le pellicine intorno e la punta del dito stessa.

Alex era tutta alchimia chimica: il viso perennemente sorridente o segnato da una smorfia buffa, sembrava congegnato per far ridere o infondere allegria in chi la guardava.
Era simpatica, ovviamente, e di un buonumore perfetto e incrollabile: aveva il dono di saper tirar su il morale solo con la sua semplice presenza.
A volte, entrando in classe alla prima ora, buttava lì una battuta delle sue: in quel momento, credeteci o no, ho sempre avuto l’impressione che, per quante interrogazioni ci potessero essere quel giorno o per quanto i prof esibissero il loro sadismo, sarebbe stata una buona giornata.

Decine di persone avrebbero voluto esserle amiche, tranne  - forse – i secchioni e i leccaculo più irriducibili (che, ovviamente, si professavano d’accordo con l’ostilità dei professori e la giudicavano pressappoco una delinquente) o quelli che, come me, erano spaventati dalla sua eccentricità, dal suo travolgente entusiasmo per la vita.
Anche in un corridoio vuoto, quando passava Alex pareva esserci tantissima gente e spesso era attorniata da una piccola folla. Sembrava essere ignara della sua popolarità, e non si accorgeva né degli sguardi adoranti dei primini né delle pacche sulle spalle di rispetto e ammirazione dei maturandi.
Era come se vivesse in un suo fantastico mondo dove quelle attenzioni erano dovute a tutti, e a tutti, perciò, dispensava sorrisi a trentadue denti e allegria incondizionata. Era democratica nel fare una smorfia divertente a una ragazzina di seconda come nel raccontare una barzelletta al bidello; sfoggiava una tolleranza impressionante nei confronti di chiunque e di qualunque categoria.
Spesso organizzava distribuzioni di opuscoli ciclostilati anonimi a favore di questa o quella minoranza (dai gay ai magrebini), e non si perdeva mai un’autogestione o una manifestazione della CGIL; non so quanto credesse in ciò che faceva e quanto non considerasse questo, più che altro, un modo di divertirsi e far baccano.

Eppure, pian piano, cominciai a rendermi conto di un particolare inquietante.
Alex, pur essendo costantemente accerchiata da un folto gruppo di persone che la trovavano simpatica e volevano la sua amicizia, era come… separata da loro.
Nessuno aveva avuto con lei altro che una frequentazione superficiale e si sapeva pochissimo della sua vita privata; era come se, oltre alla sua perenne allegria, non ci fosse altro.
Se Alex avesse passioni, aspirazioni o talenti particolari era ignoto.
Che avesse qualche problema, qualcosa che la rendeva triste o la faceva star male, sembrava impossibile.
Era come sola pur in mezzo alla gente.

Eppure, qualcosa che la spingeva – seppure inconsciamente – a tenere lontane le persone intorno a lei con il muro della sua contentezza doveva esserci.
Perché, altrimenti, una ragazza che avrebbe potuto uscire con chiunque volesse aveva quest’atteggiamento di perenne isolamento?
Un’isola felice, certo. Ma pur sempre abbandonata in mezzo al mare.

La vidi solo due volte con il viso serio.
La prima era perché non sapeva che la stavo osservando. Fissava qualcosa fuori dalla finestra, con lo sguardo perso in lontananza; quel giorno era nuvoloso, e grandi cumuli bianchi galoppavano attraverso un cielo di un profondo blu lacca, specchiandosi nelle sue iridi nere.
Le labbra sottili erano perfettamente orizzontali, gli angoli non si alzavano verso l’alto in un sorriso come al solito, e neppure il volto era contorto in un’espressione buffa; non sembrava neanche lei, senza la sua maschera perpetuamente felice. Comunque durò poco: non appena si rese conto che la stavo scrutando strizzò gli occhi e mi fece un gran sorriso.
Non la vidi più guardare fuori. Non vidi più il suo sguardo perdersi nel vuoto.

La seconda fu al funerale di Cassandra. Tutti coloro che erano venuti (e, nonostante l’impopolarità della morta, non erano pochi), quel giorno fecero fatica a riconoscerla. E, da allora, non fu più la stessa.

Mi chiedevo, a volte, se la sua felicità fosse fittizia. Non so se qualcun altro si fosse mai posto la stessa domanda.
Forse i sorrisi erano una sorta di maschera, le facce divertenti come una calda coperta di Linus che non poteva abbandonare. Una protezione.
Da cosa, francamente non lo so. Non l’ho mai capito.
Alex era una persona in cui si mescolavano verità e menzogna, realtà e finzione.
Penso che nemmeno lei si rendesse più conto di quando questi due aspetti si univano: si comportava come se fosse perennemente sul palcoscenico di un immaginario teatro comico, e interpretava la sua parte in modo impeccabile; i costumi con cui copriva la realtà erano ricchi, il fondale sontuoso, la musica assordante e la trama un vago canovaccio che lei doveva costantemente riempire con battute sempre nuove.

L’unica cosa in cui, consciamente o inconsciamente che fosse, non mentiva mai, era il suo amore incondizionato per la vita; forse perché la sua concezione di vita era così travolgente e divertente, senza un attimo di respiro, da impedirle il semplice atto di pensare all’improcrastinabile fine che attende tutti noi.


“La vita è un enorme cono gelato del tuo gusto preferito. L’unica cosa che devi fare è mangiarlo, fino a quando non ce n’è più.”.
Lo ripeteva continuamente.
A chiunque fosse disposto ad ascoltarla.

Per questa ragione sentiva di dover compiere tutte quelle sue spericolate imprese, avvertiva come un obbligo il saltare, gridare, ridere e giocare fino a essere sfinita, per godere ogni singolo minuto.
Forse era per questo che non faceva mai nulla (a parte il bungee jumping e il parapendio, che appagavano la sua voglia di rischio) che potesse nuocerle. Eccetto una birra ogni tanto non beveva, e, ovviamente, l’uso di qualsiasi sostanza più pesante era fuori questione.
Alex dava per scontato che tutti amassero la vita quanto lei, quindi era affezionata a tutti coloro che condividevano la sua fascinazione, e a tutti riservava calore, allegria, entusiasmo come se stesse saldando un debito originale.

Tutti, tranne una persona. Una persona che odiava il semplice atto di esistere, e che quindi Alex non poteva fare a meno di detestare a sua volta, con un’ostilità che si mescolava al disprezzo.
Cassandra.

***

Se mi chiedono che cosa abbia fatto Alex dopo la fine del liceo rispondo sinceramente che non lo so, così come, a tutt’ora, non sono a conoscenza di chi fossero i suoi genitori né so di altri particolari sulla sua vita privata.
Quel che è certo è che uscì dalla maturità con novantotto su cento e, successivamente, si iscrisse all’università alla facoltà di Filologia Romanza (unica del nostro anno a imboccare tale strada).
Nessuno la sentì più, e non si presentò mai alle rimpatriate con i nostri vecchi compagni di classe.

Le ultime voci mi dicono che si sia sposata con un ballerino di tango proveniente da Buenos Aires, e che adesso vivano nel sud della Spagna, gestendo una milonga1 con ristorante a Granada; questo è certamente segno che, dopo la laurea (che mi dicono conseguita con tanto di lode e bacio accademico), qualcuno ha trovato modo di penetrare il suo costante oceano di allegria ed è riuscito ad avvicinarsi a lei.

Non posso che esserne felice; ma devo constatare che, evidentemente, non dev’essere rimasto molto dell’Alex che conoscevo. È come se fosse morta. Anche lei.

***

Milonga= tipico locale, diffuso soprattutto in Argentina ma anche in altri paesi dell’America Latina, in cui si ballano samba, salsa ma, soprattutto, il tango.

***

Ebbene, eccomi qui con il primo capitolo, revisionato e corretto, con alcune parti aggiunte e modificate.

Ringrazio immensamente Ilychan e JiuJiu che mi hanno ricommentato per i loro gentili complimenti: non sapete nemmeno lontanamente quanto mi abbiano fatto piacere, perché trovo che il costante sforzo di migliorarsi sia una caratteristica preziosa quanto, ormai, rarissima su EFP e nel mondo delle fanfiction in generale. Vi ringrazio molto, e aspetto le vostre opinioni riguardo al resto della revisione.
Ringrazio, oltretutto Babyjenks (alias Chiara) perché mi ha inserito non solo tra i preferiti, ma anche tra gli autori preferiti! Wow! È la primissima volta, e mi sento molto orgogliosa!
Inoltre rispondo al primo commento della prima nuova lettrice di “Istituto Torquato Tasso” (incredibile!), ossia Mabychan!
Benvenuta!
Passo immediatamente a ringraziarti per i complimenti, e ti informo che sto dando un’occhiata ai tuoi lavori, per cui presto ti troverai qualche mia recensione tra capo e collo! Spero non ti dispiaccia…
Ciao a tutti, e alla prossima!

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Capitolo 3
*** Cassandra (prima parte) ***


Cassandra (prima parte)
Cassandra (prima parte)

Come ogni scuola anche il Torquato Tasso aveva la sua “bella e maledetta”. Ogni istituto ha la sua Kate Moss, oggi come oggi; a sentire mio nipote, che ora frequenta anche lui il Tasso, si sono addirittura moltiplicate!
Tuttavia, la nostra Baudelaire in gonnella era molto, molto di più di una bamboletta standardizzata che si comporta da Syd Barrett per fare scena.
 
Il suo vero nome era Maria Eva, ma già all’inizio del mio primo anno non se lo ricordava più nessuno; non si sapeva chi l’avesse chiamata per primo con il nome della profetessa troiana sorella di Paride, ma quello era il suo soprannome e tale rimase fino alla fine: Cassandra.
 
Non era particolarmente bella, in effetti, ma a riconferma dell’aggettivo maledetta c’era materiale a josa.
I suoi capelli neri erano lunghi e poco curati; spesso si chiudevano come un sipario davanti al suo lungo viso magro e pallido. La sua pelle, originariamente, era olivastra; ma il non uscire mai e la scarsità di sole l’avevano resa di un candore malsano, soprattutto in contrasto con la vera natura della sua carnagione.
Quando scostava quelle tende dal proprio volto, la prima cosa che si notava erano le sue labbra: un bocciolo carnoso e scarlatto come il sangue, in un  conflitto quasi osceno con il colorito del viso.
Risalendo si poteva vedere un naso lungo e appuntito, sotto gli occhi di un vago celeste slavato.
Le rare volte che ho visto bene quegli occhi erano sempre vacui, vuoti. A volte vi si poteva leggere un dolore intensissimo o una malinconia terribile.
Le sue lunge sopracciglia sottili erano sempre aggrondate e la sua fronte candida e spaziosa era solcata orizzontalmente da lunghe rughe d’espressione premature.
 
Il suo look era, in un certo senso, la proiezione dei suoi incubi interiori.
Il fisico magro – tanto esile dall’essere sull’orlo della patologia – era rivestito da golf infeltriti, magliette informi, jeans scuri, larghi e consunti, tenuti su da spessi cordoni e cinture in pelle consunta.
Tutto era di un unico colore: nero, come le ciglia folte che sottolineavano il suo sguardo triste. Talvolta, forse nel tentativo di porre una barriera fisica tra il proprio corpo scheletrico e il mondo circostante, indossava più magliette sopra i maglioni, calzettoni pesanti o persino gonne lunghe sopra i jeans.
Non usava gioielli di nessun tipo, a parte uno.
Verso la fine del secondo anno, infatti, al suo polso sinistro comparve un bracciale d’argento a larghe placche di filigrana.
Quell’oggetto fu all’origine di decine di pettegolezzi.
 
Infatti, nonostante la sua impopolarità diffusa, Cassa era una persona di cui si parlava. Parecchio, anche.
Certo, anche Alex era molto chiacchierata. Tutte le figure che devo ancora descrivere erano celebri o oggetto di pettegolezzi, ma mai così contraddittori quanto quelli che si riferivano a Cassandra; e lei, col suo costante fregarsi della pubblica opinione, contribuiva solo a fomentare la cosa.
Cionondimeno, era anche la persona più solitaria e introversa che avessi mai visto.
Non parlava mai, studiava quel tanto che bastava a non sostenere esami di riparazione e non mostrava chiaramente alcun talento particolare, passioni o interessi specifici. La sua misantropia, veramente eclatante,  sarebbe stata una sfida all’ultimo sangue persino per Freud.

Credo che il suo isolamento derivasse in massima parte dal dolore: aveva perso prima il padre, morto di cancro quando aveva dodici anni, e poi, a brevissima distanza, la madre, suicida. Era stata Cassandra stessa, tornando da scuola, a trovare il corpo impiccato alle travi della mansarda.
Dicono che prima di allora fosse una ragazza abbastanza allegra, con molti amici; ma dopo essere rimasta orfana aveva abbandonato tutto.
Era una di quelle persone per cui superare la sofferenza è impossibile e che, invece di cercare la pace dentro la propria mente, preferiscono restare con l’anima mutilata.
Come un uomo senza un braccio che rifiuta di usare la protesi, Cassandra scelse di esibire la propria menomazione piuttosto che riempire il vuoto con qualcosa che non fossero le persone che aveva lasciato.
Io penso che ognuno di noi abbia una molla interna, uno scatto animale alla sopravvivenza che ci permette di vivere nonostante il dolore: anzi, di maturare grazie ad esso.
Per alcuni quella molla interna non esiste, o la sofferenza stessa le infligge un colpo tanto mortale da impedirle di funzionare; quella di Cassa si era irrimediabilmente inceppata. Non aveva speranze, né presente o futuro: solo un passato che molti avrebbero cercato di dimenticare, ma che lei, ostinatamente, voleva riportare in vita.
 
Sachiko spesso diceva che Maria Eva (era l’unica persona a chiamarla ancora così, oltre ai nonni con cui la ragazza viveva) era un guscio che conteneva ricordi per lei più preziosi della sua stessa salute mentale.
Cassa era il momento in cui aveva trovato sua madre prolungato all’infinito, e non viveva nel presente ma in un enorme emisfero sospeso sulla morte o sulla follia.
Prova ne era il fatto che non sentisse precisamente di avere dei bisogni: mangiava il minimo indispensabile a sopravvivere, dormiva pochissimo, riempiva il resto del tempo leggendo o facendo cose di cui non le importava affatto.
Cassandra non si considerava veramente viva.
 
Però questi ricordi sopravvivevano in un corpo: un corpo che soffriva, straziato dai maltrattamenti autoinflitti e dall’angoscia.
Quindi Cassandra cercava, come chi ha una ferita aperta e prende gli antidolorifici, di soffocare il dolore. Ma non muovendosi, facendo sport o cercandosi degli amici (oltre a Sachiko); quello sarebbe stato un ritorno alla vita. E Cassa aveva smesso di essere un essere vivente da tempo, ormai…
Inseguiva la pace assumendo sostanze delle più varie nature; e man mano che le sostanze suddette si facevano inefficaci aumentava la dose, le combinava tra loro, passava ad altre più potenti. La sua era una ricerca fatua e senza scopo: una fuga infinita.
 
Cassandra non voleva vivere. Voleva tornare a prima che suo padre morisse di cancro e che sua madre si suicidasse.
Voleva, in poche parole, infondere nuova esistenza ai propri ricordi. Anche a costo della propria vita.
 
Allontanati dalla sua indubbia depressione, dalle sue eccentricità e dalla sua introversione lapalissiana, le persone intorno a lei le stavano lontane.
Alcuni la disprezzavano, altri erano del tutto indifferenti alla sua presenza (finendo per considerarla una specie di “accessorio” dell’istituto stesso). Alla fine solo le nuove voci su di lei stupivano e nessuno la fissava più quando, vestita di nero e accompagnata dalla fredda e dignitosa Sachiko, si trascinava con la sua andatura svogliata per i corridoi (tranne i primini che spesso erano affascinati e insieme disgustati dalla fama di tossica che la precedeva ovunque).
Quindi posso dire che, nonostante tutti parlassero di lei, Cassandra fosse una delle studentesse più impopolari del Torquato Tasso.
 
Malgrado ciò, e a dispetto della propria misantropia, Cassa aveva un’amica. L’unica persona che la comprendesse appieno, che tentasse, in qualche modo, di invertire il suo processo autodistruttivo e che cercasse di farle superare il dolore. Quella ragazza era Sachiko.
 
Cassandra e Sachiko avevano un rapporto elitario, di esclusività.
Erano sempre insieme, stavano in banco assieme ed era assolutamente impossibile tentare di separarle. In compagnia di Sachiko, Cassa sembrava quasi normale. A volte sorrideva, con quel suo sorriso più simile a una smorfia tragica.
Qualche volta l’ho sentita ridere… un suono basso e gorgogliante, simile all’acqua che scorre nei tubi prima di giungere al rubinetto.
La quotidianità su cui si reggeva il loro rapporto era affrontata da Sachiko ogni giorno con rinnovato entusiasmo, mentre Cassa si lasciava trasportare dalla marea dell’esistenza con assoluta atarassia.

In gita a Parigi, a metà del loro secondo anno, riuscirono a mettersi in due in una camera singola: ancora non lo sapevano, ma dal giorno della visita a Versailles sarebbe scoppiato una sorta di scandalo.
Infatti le videro baciarsi in un angolo del parco, credendo di non essere viste; evidentemente avevano un legame che volevano tenere nascosto, ma non ci riuscirono.

Sachiko è stata l’unica delle figure che voglio raccontare con cui intrattenni rapporti d’amicizia. Quindi posso dire d’aver avuto un ruolo da comprimario (anche se, lo ammetto, non uno dei comprimari più importanti) nella successiva faccenda che seguì e che portò, poco prima della sua maturità, alla morte di Cassandra.

***
 
Il legame fra Sachiko e Cassandra era complicato. Non so se fosse più amicizia o più amore.
Forse un connubio di tutte e due le cose.
Certo è che non fosse solo semplice simpatia, anche se poteva sembrarlo.
 
Cassandra si fidava di Sachiko più che di sé stessa, ed era la sola persona con la quale amasse confidarsi. Si erano conosciute a metà della prima liceo, quando Sachi si era trasferita in Italia, e divennero amiche immediatamente.
Non so come mai lei avesse deciso di scavalcare brutalmente tutte le barriere che Cassandra si era costruita attorno; non so neppure come ci sia riuscita.
O Cassa stessa era più morbida in prima, o Sachiko aveva una personalità granitica.
Comunque, decise che Cassandra sarebbe diventata la sua migliore amica.
E ci riuscì.
 
Quando arrivai ad entrare nella vita della giapponese (che, come ripeteva spesso, sosteneva che avessi il merito di saper ascoltare e di essere abbastanza perspicace da leggere il silenzio), venni gradualmente assorbito dalla sua relazione con Cassandra; relazione che Sachiko si sforzava di non ridurre allo schema cura/gratitudine, gratitudine/cura.
Sostanzialmente, Sachi temeva che per ogni atto disperato che Cassandra compisse, ella desse per scontato che ci fosse la sua migliore amica a prendersi cura di lei, e che quindi contraccambiasse con la gratitudine e il sentimento come se fossero moneta di scambio per continuare a ottenere cure e comprensione.
Anche Cassa si sforzava di non ridurre ai minimi termini l’unico affetto fisso che le fosse rimasto, ma la sua anima era troppo esacerbata per fare un qualunque sforzo emotivo.
 
Inizialmente non capivo perché Sachiko, così bella e affascinante, avesse scelto Cassandra, la tossicomane sofferente di depressione. Forse aveva l’istinto della crocerossina?
Poi i fatti risposero da soli.
 
Perché non c’era nessuno che sapesse amare come Cassandra.
Pienamente consapevole che il giorno dopo avrebbe potuto essere morta, stroncata dall’ennesimo acido o dall’ultima pasticca di imprecisata natura, Cassa riversava su Sachiko un amore devastante. Puro, completo. Nei suoi abbracci c’era l’affezione del primo giorno e nei suoi baci la malinconia dell’ultimo.
Sachiko era l’unica creatura vivente che potesse rappezzare quel vuoto immenso dentro di lei senza creare una sofferenza ulteriore da ricucire con la droga o con l’alcool.
Anche quando non riusciva ad alzarsi dal letto, quando vomitava o vedeva cose orribili in preda alle allucinazioni, la giapponese c’era. Con una fermezza e una forza d’animo incrollabile, la caricava sul motorino e la portava in ospedale se esagerava, tentava di fermarla e di trattenerle la mano, le versava sciroppi, pillole e flaconi nel water (tirando scrupolosamente lo sciacquone), le reggeva la fronte quando il suo stomaco si ribellava, rigettando, alle sostanze che vi venivano introdotte.
Cercava anche di farla mangiare: Cassa era perennemente sull’orlo dell’anoressia, visto che non ne sentiva mai il bisogno.
Per Cassa, Sachiko era la persona che l’amava di più al mondo: più di quanto l’amassero i nonni con la quale viveva (due anziani signori molto ricchi che non si prendevano alcuna cura di lei, e che pur di non mandarla in clinica – permettendo così alle loro conoscenze di sparlare della nipote - le passavano tutti i soldi che voleva per la dose quotidiana).
Quanto l’avevano amata i suoi genitori.
 
E, per quanto il suo cervello potesse essere turbato e la sua anima distrutta, sapeva che Sachiko sarebbe venuta a baciare le sue palpebre pallide, a carezzare il suo viso sconvolto.
Nell’ultimo periodo, a tamponare le braccia bucate come un pizzo sangallo.
 
Come poteva non amarla?
 
Sachiko tentava di persuaderla a farsi disintossicare. La portava da psicoterapeuti, psichiatri, qualsiasi cosa sentisse che Cassa avesse bisogno, investendo in essi i soldi che la ragazza riceveva dai nonni quasi quotidianamente.
La liberava di tutte le sostanze che teneva in camera, e Cassandra (contrariamente a quanto di solito fanno i tossicodipendenti) non la malediva per questo, né smetteva di volerle bene.
Le diceva, con aria rassegnata, che era tutto inutile.
E, regolarmente, Sachiko si arrabbiava.
« Se non vuoi vivere per te stessa, fallo almeno per me! »
« Questa non è vita. Io non voglio farlo. »
« Maria! »
« Lo sai. Se non posso annegare il dolore in qualcosa, annegherò io dentro di lui. E conoscermi, per te, sarà stato inutile. »

***

E con la revisione della prima parte su Cassandra, vi ringrazio per i vostri complimenti (finirete per farmi diventare una gran presuntuosa!) e passo a rispondere alle vostre recensioni (in ordine cronologico)…

Lidiuz93= Un po’ criptico il tuo commento, ma comunque lusinghiero! Spero che tornerai a recensire i prossimi capitoli (magari con qualche parola in più).
Ilychan= E rieccoti qui! Grazie, come sempre le tue recensioni danno molta soddisfazione… che dire di Alex? In effetti, per me almeno, inventare personaggi e dare loro un vago canovaccio di base non è particolarmente faticoso. Il difficile è costruirli bene sia nella loro fisicità che nella loro psicologia; dato che questa storia è una raccolta di profili femminili a livello sperimentale, è molto difficoltoso dare a tutti la medesima possibilità di evolversi. È per questo che non me ne sento completamente soddisfatta, ma nella revisione sto cercando di dare il massimo (ed è per questo che a mettere online ogni capitolo impiego un po’, considerando anche che sto scrivendo un’altra long-fic, sul Signore degli Anelli).
Mabychan= Grazie di nuovo, prima nuova lettrice della stesura nuova (troppi “nuovo”. Scelta lessicale imprecisa) ! Mi piace generare sconcerto nel lettore, spesso ricorrendo a contrasti, ed è appunto questa l’idea che volevo dare di Alex. L’immaginavo come un tipino un po’ mascolino, quindi mi pareva che il nome le si adattasse bene, ma evidentemente ognuno legge nel personaggio ciò che preferisce. Sì, sto dando una scorsa anche alle tue fic, solo che, ultimamente, non ho molto tempo. Per il momento mi piace (e mi suscita il riso) soprattutto “Convivenza”. Aspetto sviluppi di questa particolare storia, nel frattempo vedrò di lasciarti una recensioncina (per il momento posso solo dirti che la grammatica è impeccabile e che i personaggi sono ben riusciti, anche se dovresti mettere un OOC negli avvertimenti). Grazie ancora, ti lascio alla lettura!
Contessa= Grazie mille per i complimenti… sul serio! Meriti la palma di “Seconda nuova lettrice della stesura nuova” (anche qui la scelta morfologica è limitata!). Ti lascio a Cassandra, o meglio, alla prima parte di Cassandra, in tutto il suo splendore!
A proposito, sai che avevo letto la tua “Solo un nome”? Mi aveva incuriosito come avevi caratterizzato la coppia Lestrange. Era venuta molto bene. Noto però che scrivi solo one-shot: come mai? Hai talento, sai gestire bene la trama e la grammatica non è niente male. Posso sapere il perché di questa scelta (se non sono indiscreta, ovvio…)?
Chiara (Babyjenks)= dunque… in effetti, da quando feci la prima stesura di questa fanfiction molte cose sono cambiate, compresa – almeno un po’ – la mentalità dell’autrice. Sono successe moltissime cose; per me, a un certo punto, si è capovolto il mondo. Era inevitabile, in un certo senso, che almeno un po’ di questi mutamenti si riflettessero sul mio modo di scrivere e, soprattutto, di descrivere (non dimentichiamo che questa storia è una descrizione, prima di tutto). Quindi Alex, che conteneva più di me di quanto non sospettassi, è cambiata un po’. Da un personaggio energico e decisamente positivo ha acquisito più sfumature, quasi indipendentemente dalla mia volontà: rileggendo la riscrittura mi rendo conto che ha acquisito quasi più spessore. Mi fa piacere che, nonostante sia cambiata, e parecchio, ti sia piaciuta comunque.
Ti ringrazio di nuovo.
A tal proposito, volevo dirti che (anche se non l’ho recensita – ultimamente ho a stento il tempo per leggerle, le storie – e mi riprometto di farlo quanto prima) ho letto la tua “Talk dirty to me”  e mi ha fatto divertire immensamente. Sul serio, è venuta proprio bene! Complimenti!

Ebbene, detto questo, vi lascio alla lettura.

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Capitolo 4
*** Cassandra (seconda parte) ***


Cassandra (seconda parte)
Cassandra (seconda parte)

La parabola di Cassandra fu breve come la sua vita.
Quando lei e Sachiko erano in seconda io ero un primino; ma nel gennaio del mio primo anno di biennio entrai nelle grazie della giapponese.
E, da allora, assistetti al naufragio graduale della mente di Cassa sotto i suoi stessi colpi.

Fino alla metà della seconda l’amore di Sachi sembrò riuscire ad arginare la sua sofferenza in modo radicale.
Lei, che prima beveva e fumava più di Keith Richards, aveva improvvisamente smesso di indulgere in qualsiasi attività anche solo rischiosa. Appena una sigaretta ogni tanto.
Era uno spettacolo strano vederla arrivare a scuola perfettamente sobria: di solito era già ubriaca di prima mattina, o, a scelta, stava smaltendo la sbronza della sera prima.
Il colorito naturalmente ambrato aveva nuovamente preso possesso delle sue guance smunte ed era persino un po’ ingrassata.
Non dico che dimostrasse passione per l’atto di vivere, ma certo aveva trovato da qualche parte nella propria anima sofferente gli ultimi brandelli di forza per andare avanti in modo quasi normale; se non altro per vedere felice Sachiko.

Poi cominciarono gli screzi con i nonni.
Questi due anziani signori erano figure assolutamente singolari: l’avevano accolta in casa perché erano gli unici suoi parenti rimasti, e da parte loro, Cassa era l’unica erede.

Forse, se non le avessero fatto pesare il suo vuoto e la sua diversità (la sua “mutilazione esibita”, come la definiva Sachiko), Cassa non sarebbe ritornata nel tunnel delle sostanze psicotrope.
Forse, se avesse avuto una famiglia pronta a sostenerla, Cassandra non sarebbe morta.
Ma nella disgrazia c’erano parecchi aspetti tragici minori.

Il nonno di Cassa era un uomo ricco, ed estremamente decisionista. Pretendeva di controllare le vite di tutti coloro si trovassero sotto la sua podestà: Cassandra era tra questi, purtroppo.
L’anziano signore non tollerava la nipote perché, per lui, chi tentasse di sfuggire alla realtà era debole. Sua nipote non era riuscita a riprendersi dalla morte dei genitori, quindi rientrava in questa categoria; e lo era ancor di più perché faceva uso di tutto ciò che prendeva.
I suoi tentativi di farla reagire andarono dalle sberle, alle punizioni, al lasciarla senza cibo fino ai sermoni, in cui addossava a Cassa tutta la colpa della sua sofferenza. Da parte sua non esisteva, e non aveva alcuna intenzione di porsi in essere, un tentativo di comprensione.
Sì, il nonno lo sapeva. E non fece nulla.

La nonna di Cassandra era l’incarnazione del classico clichè della “signora del Country Club”. Sì, quelle ridenti anziane perbeniste, vestite con improponibili tailleur pastello e leggiadri cappellini con veletta (portabili al massimo dalla regina d’Inghilterra), il cui unico scopo nella vita sembra spettegolare su altra gente, dei figli di Tizio e del matrimonio di Caio, e punteggiare la conversazione con sciocche risatine.
Ovviamente, piuttosto che ammettere che la nipote aveva un problema – o meglio, più d’uno e parecchio seri – si sarebbe fatta crocifiggere con i tacchi delle sue orrende scarpe Manolo Blanhik.
Sì, la nonna sapeva. E non fece nulla neanche lei.

Forse, se avessero tentato di riempire il vuoto affettivo di Cassa, lei non sarebbe tornata tra le braccia dell’alcool e della droga; ma ormai è troppo tardi per scoprirlo. Fatto è che Cassa si sentisse ancor più triste e mutilata; forse aveva nutrito la speranza che i suoi unici parenti potessero essere un simulacro della sua famiglia, o che l’avrebbero sorretta nel suo sforzo di ricordare.
Aveva sicuramente sottovalutato il dispotismo del nonno, il quale si rifiutava di esternare il proprio dolore, ritenendolo un segno di un segno di fragilità e, non riconoscendo gli indubbi problemi della nipote nell’affrontare il suo lutto, pretendeva che ella dimenticasse in toto ciò che aveva vissuto con i suoi genitori. E, purtroppo, Cassandra era i propri ricordi: cancellarli avrebbe significato eliminare Cassandra stessa.

Non capendola, lui la maltrattava additandola come debole; e l’animo di Cassa, incapace di reagire, non riusciva a tamponare anche la delusione nel rendersi conto che i suoi nonni non solo non sarebbero potuti essere immagine di una famiglia, ma avrebbero cercato di strapparle quel poco che della sua famiglia era rimasto.
Fu per questo, per questa disperazione dell’essere, credo, che Cassandra prese la prima decisione in svariati anni di apatia.

Sachiko percepì quello che stava per succedere, ma non fece in tempo ad impedirlo.
Forse non voleva vedere: aveva tentato con tanta ostinazione di far reagire Cassa, e non si rese conto che i suoi demoni interiori l’avevano catturata di nuovo.
Un pomeriggio andò a trovarla per fare i compiti assieme, come al solito. I nonni erano assenti, pare per un breve viaggio all’estero.
Trovò la porta aperta ed entrò: dopo averla chiamata a gran voce (senza ottenere risposta), colta da un orrendo presentimento, salì a velocità folle le scale: la trovò sdraiata nella vasca da bagno del secondo piano. Aveva tentato di svenarsi, ma era riuscita (probabilmente per il dolore) a tagliarsi solo il polso sinistro.
Ciononostante l’acqua era rosa e Cassa stava per perdere conoscenza.
La reazione di Sachi fu immediata: chiamò un’ambulanza e le fasciò immediatamente il polso, stringendo il braccio con un nastro a mo’ di laccio emostatico.
Cassa arrivò all’ospedale in condizioni disperate. Per fortuna se la cavò.
Passò diversi giorni all’ospedale; nessuno a parte Sachiko andò a farle visita, tranne i nonni nel giorno in cui la dimisero.
Non so per quale ragione il tribunale dei Minori non la tolse alla famiglia, visto che era chiaramente questa una delle radici del problema, ma il signor Evandri (tale era, infatti, il cognome di Cassa) aveva amicizie in alto loco che, probabilmente, evitarono tale “vergogna”.

Poco prima di tornare a scuola, Sachiko le regalò il famoso bracciale in filigrana d’argento di cui ho già parlato. Era un bell’oggetto, largo a sufficienza da nascondere tutto il polso, composto da più placche quadrate lavorate con tale perizia da mostrare diversi motivi, frutti, fiori e foglie; al centro del membro principale vi era uno spazio concavo che recava incisa la scritta (in hiragana giapponesi) “Quando avrai smesso di amarmi, ricorda che io ti amerò ancora”.

Nacquero molte voci su quell’oggetto; la prima sosteneva che fosse un pegno d’amore. Sachiko, infatti, ne sfoggiava uno identico sul medesimo polso.
C’erano anche alcune leggende parallele sul momento in cui Sachi gliel’aveva dato; la più romantica diceva che i bracciali erano appartenuti alla nonna giapponese di Sachiko, una famosa geisha, e che Sachi ne avesse passato uno a Cassa dopo la “prima notte” in cui avevano consumato il loro amore, in ricordo eterno del loro legame.
Ovviamente, la totale ignoranza sugli avi di Sachi e sulle loro occupazioni di fatto invalidava tale diceria, benché avessero certamente azzeccato sul fatto che fosse un dono pensato per ricordare ogni giorno a Cassa che la giapponese l’amava.

Il secondo pettegolezzo sul gioiello era straordinariamente veritiero e so anche da chi partì.
Una mia compagna di classe, tale Giovanna Refraschini, si accorse che Cassa si rifiutava di toglierlo anche quando sarebbe stato più ragionevole farlo: ad esempio alle selezioni per il torneo scolastico di pallavolo o quando, nel corso pomeridiano d’arte, si dipingeva a olio.
Una volta un ragazzo tentò di sottrarglielo per scherzo, e Cassandra si riscosse come miracolosamente dal suo torpore. Divenne rossa dalla rabbia, si protesse il polso e tirò allo sfortunato burlone un tale calcio in mezzo alle gambe che questi si accasciò a terra mugolando.
Giovanna, che era un tipo perspicace, capì che quel monile nascondeva qualcosa.
In preda a un impeto deduttorio, in puro stile Sherlock Holmes, si mise a raccogliere le prove che qualcosa non andava:
1. Cassa aveva qualcosa sul polso che voleva nascondere;
2. Cassa era stata ricoverata per alcuni giorni, ufficialmente a causa di un’intossicazione alimentare;
3. Sachiko sapeva qualcosa, ma non parlava e aveva, evidentemente, parte in quella stessa faccenda che Cassa stava tentando di nascondere;
4. Sachiko stava proteggendo Cassa col suo silenzio;
Tenendo conto di queste cose, Giovanna ci vide giusto: disse che, poiché non era il polso stesso a dover essere nascosto, Cassa voleva con il bracciale celare la cicatrice che un tentativo di suicidio recentemente aveva provocato; inoltre, sostenne (e a ragione) che Cassandra non fosse stata ricoverata per intossicazione, ma per il tentativo di uccidersi, fortunatamente non andato in porto.
Io, a conoscenza di tutta la storia, mi rendevo conto che Giovanna era stata inopportunamente acuta.
In effetti, anche perché aveva una base di prove a sostenerlo, questo pettegolezzo ebbe un successo eccezionale, tanto da essere assurto per vero praticamente da tutti.
In ogni caso, da quel gesto disperato, Cassa sembrò non riuscire più a fare a meno né dell’alcool né della droga.
Già in seconda aveva superato da tempo lo stato delle semplici canne, ed era passata da un po’ alle sostanze psicotrope e agli oppiacei pesanti.
I cocktail descrittimi da Sachiko, nei momenti in cui lo sconforto riusciva a scardinare la sua impeccabile riservatezza, erano allucinanti: mescolava la codeina al whisky, assumeva cristalli di LSD a giorni alterni e, quando né calmanti né Prozac1 né Ritalin2 e neppure l’acido riuscirono più ad acquietare i suoi incubi mentali, passò al crack.
Inizialmente lo assumeva con circospezione, visto l’elevato costo e la potenza della sostanza stessa. Ma presto iniziò a dare i primi segni d’assuefazione. E, anche in questo caso, emerse che i nonni non volevano fare nulla per aiutarla.
Quando la nonna di Cassa si rese conto che la nipote non era un prodigio di salute mentale (evidentemente tutti e due dovettero subodorare qualcosa quando la videro attaccata alla flebo all’ospedale con un polso tutto fasciato) non reagì come il marito – ossia attribuendo alla nipote e solo alla nipote stessa l’unica responsabilità della sua incapacità di reagire e sgridandola per questo – bensì come ci si aspettava che una benpensante dovesse fare. Ossia coprendo la cosa. Non cercò nemmeno di curarla, o di farla smettere. Si limitò a prendere atto della tossicodipendenza di Cassa, e arrivò al punto di dare alla nipote tutto il denaro che voleva (anche diverse centinaia di migliaia di lire per volta) pur essendo cosciente che sarebbe stato investito in qualche altra strana pillola, qualche altro sacchetto di sostanze sconosciute che avrebbe poi rinvenuto tra le cose di Cassandra.
Tutto questo per evitare di divenire oggetto di pettegolezzo nel loro esclusivo club di amici altolocati.

Sachiko, dopo il tentato suicidio, ebbe un colloquio assolutamente surreale con l’anziana coppia di coniugi. Colloquio che le fece chiaramente capire che era inutile sperare nel loro aiuto per sostenere la mente provata dell’amata.
L’anziano signore uscì recisamente dalla stanza non appena Sachi tentò di introdurre (con delicatezza estrema) il tema della depressione di Cassandra. La nonna, nervosamente, si limitò a invitarla a uscire dalla loro casa e ad informarla che la salute fisica e mentale della loro unica nipote era sotto la loro giurisdizione e non sotto la sua.

Sachi tentava di aiutarla come meglio poteva. Le sequestrava il denaro, versava nello sciacquone tutte le sostanze sospette che le capitassero sotto mano. La portava da uno psicoterapeuta, investendo in modo proficuo il danaro che quasi quotidianamente la signora Evandri dava alla nipote.
Ma Cassa no, non reagiva. Smetteva finché non aveva nulla, ma ricominciava appena aveva la possibilità di farlo.
Sachiko, amandola profondamente, si prendeva cura di lei. Capiva che la mente di Cassa era ancora più contorta di quanto immaginasse; e che la droga non era una fuga, ma una semplice necessità. Perché le probabilità di morire non preoccupavano la ragazza, che non si sentiva veramente viva, e l’unica cosa che l’atterriva era la possibilità di trovarsi di nuovo di fronte al dolore che provava quando era lucida e si rendeva conto che riportare in vita i suoi ricordi era impossibile.

L’unica volontà effettiva di Cassandra consisteva nel voler passare più tempo possibile con Sachiko.
Quando stava con lei quel vuoto non faceva male, e lei non aveva bisogno di assumere nulla.
Ma quando Sachi era lontana, magari di notte, sola, nel suo letto, Cassa, puntualmente, si sentiva sull’orlo dell’abisso.

Perché Cassandra non moriva?
Sì, ci aveva provato, in effetti, ma perché non tentava ripetutamente fino a riuscire?
Credo che il merito fosse in massima parte di Sachiko. Pur non considerandosi viva nel puro senso del termine, quando aveva conosciuto la Giapponese il suo nulla interiore aveva iniziato a placarsi (almeno parzialmente).
Cassandra viveva solo per lei; sapeva che avrebbe sofferto se fosse morta, quindi si aggrappava a quei pochi stimoli che le rimanevano per non farla finita.

Ma, man mano che il tempo passava, ogni cosa funzionava sempre meno. Quando sia il crack che la cocaina persero il loro effetto, o comunque lo ridussero di molto, Cassa rimase un po’ interdetta,
Era conscia che le rimaneva ancora solo una cosa: e che, una volta provata quella, non le rimaneva altra soluzione perché ne sarebbe diventata sicuramente dipendente e non avrebbe mai avuto abbastanza forza di volontà per liberarsene.
Prima di cominciare a bucarsi, perciò, Cassa trascorse un periodo di relativa tranquillità, ma Sachiko non si illuse. Sapeva che erano gli ultimi residui di coscienza a trattenerla e non il desiderio di smettere del tutto con gli stupefacenti.

Infine, a metà del quinto anno, Cassa cominciò con l’eroina. A spingerla fu una gravida, pesante sensazione di solitudine: il Natale per lei era un periodo orrendo, come per tutti gli orfani. Vedeva tutte queste pubblicità e programmi TV pieni di famiglie felici, consapevole che per lei erano rimasti solo dei ricordi, o i rimasugli di essi. E che quando tornava da scuola trovava non una casa accogliente, ma freddezza e perbenismo, cattiveria e indifferenza.
Quindi, spinta dalla depressione, scelse di iniziare a bucarsi.
Sachiko capì che aveva cominciato dai segni sulle braccia, dall’indolenza ancor più accentuata e dalle classiche pupille a spillo (oltre che dallo sguardo vacuo).
Tentò di persuaderla a lasciar perdere intanto che era in tempo, ci provò in tutti i modi possibili: suppliche, proteste, scazzi feroci.
Non riuscì, ovviamente. Sachiko scoppiava spesso a piangere, in quel periodo, chiamando quella roba “L’anticamera della morte.”

La carriera di eroinomane di Cassa procedeva attraverso un’escalation incredibile di dolore e terrore: verso febbraio Cassa si iniettò una dose eccessiva e andò in overdose; ancora una volta Sachiko la trovò casualmente e appena in tempo.
Mi racconto che l’aveva trovata, fredda e immobile, sdraiata sul divano nel salotto che precedeva la sua camera; aveva ancora la siringa in mano e il laccio emostatico legato all’avambraccio.
L’ambulanza arrivò tempestivamente, e l’iter di degenza ricominciò daccapo.

Quella fu la prima e unica volta che vidi Cassa da vicino, visto che andai a trovarla in ospedale con dell’uva e un mazzo di fiori.
Fu uno spettacolo che non dimenticai mai più.
Cassa era sdraiata su un letto, di fianco a lei stava seduta Sachiko, che indossava un complicato kimono di seta grigia e azzurra e le tamponava il viso smunto con morbide salviette umide e profumate.
Cassandra giaceva semicatatonica, magrissima e quanto mai fragile. I lunghi capelli neri erano ordinatamente raccolti in due trecce che facevano da cornice al suo volto, le guance incavate; le grandi iridi celesti erano fisse sul viso di Sachi e la osservavano con uno sguardo amoroso e insieme melanconicamente interrogativo; sembravano chiederle: « Perché mi hai salvato? »
La quieta rassegnazione, la passiva accettazione del dolore che si potevano leggere in quelle iridi mi sconvolse; Cassandra pareva un angelo trattenuto a terra dalle flebo.
Non mi rivolse la parola: per lei nella stanza c’era unicamente Sachiko. Solo lei.
Forse, le stava dicendo addio.

Quando la dimisero, la fine della scuola era imminente e molti pensavano già agli esami; ma quella maturità tanto agognata Cassandra non la raggiunse mai.
Rimase cristallizzata nella propria eterna giovinezza, perché un martedì maledetto si arrampicò in qualche modo sul tetto dal balcone del soggiorno e, nonostante le urla del giardiniere che avevano fatto accorrere la servitù allarmata e la nonna, si buttò giù.
Cadde di testa sul selciato, e morì sul colpo.
Mi dicono che ci fu un’infinitesimale esitazione prima che i suoi piedi lasciassero la solida superficie delle tegole per buttarsi nell’ultimo, infinito vuoto.
Pensava a Sachiko? Chissà.

Il dolore di Sachi fu immenso. Passò tre giorni chiusa in camera sua a piangere, disperata. Quando tornò a scuola era irriconoscibile. Non era truccata come al solito, i capelli erano arruffati e avevano l’aria di non essere stati pettinati da parecchio, mentre il kimono che indossava era sghembo e stirato male.
Quando entrò in classe e vide il banco vuoto di Cassa, realizzando che non sarebbe mai più stato occupato da lei, ebbe un crollo nervoso e iniziò a mugolare, piangendo, dondolandosi avanti e indietro. Dovettero farla ricondurre a casa, dove le diedero un sedativo.
Rimanemmo tutti stupiti di fronte al modo di reagire di Sachi, che era solitamente fredda e dignitosa. Anche coloro che dubitavano che tra le due potesse esistere un rapporto d’amore si dovettero ricredere.
Ad ogni modo, gli esami furono eccezionalmente posticipati di una settimana per permettere a tutti gli studenti di partecipare alla veglia e andare al funerale.
Nonostante l’impopolarità della morta, molta gente prese parte alla cerimonia; la chiesa, quel mattino, straripava di gente.
Il funerale si fece a bara aperta, cosicché anche chi non era venuto alla veglia poté vedere Cassandra.
Mi stupii nel constatare quanto il viso smagrito della ragazza fosse sereno, così diverso dalla sua solita espressione vacua. Un piccolo sorriso increspava verso l’alto le labbra pallide, e non penso che fosse causato dal rilassamento post-mortem dei tessuti.
Sachiko era vestita tutta di bianco, colore che in Oriente rappresenta il lutto, ed era seduta in una posizione defilata, quasi non si volesse far vedere. Ma spiccava come un pugno su tutti i convenuti.
Fissava la bara, i grandi occhi scuri a mandorla sgranati, le lacrime che non smettevano di scendere, lasciando lunghi solchi di rimmel sul fondotinta.
Continuava a toccarsi il bracciale al polso sinistro. Cassa, nella bara, portava l’altro.
Molte persone fecero le condoglianze a lei, piuttosto che ai nonni.
Oltre a Sachi, la cosa più sorprendente fu Alex.
Da principio non la riconobbi nemmeno.
Indossava un elegante tailleur giacca e gonna nero con collant scuri.
I suoi capelli non erano più una criniera ribelle, ma lisci e lucenti, raccolti in un alto chignon sul sommo del capo.
Era lievemente truccata e, cosa ancor più anomala, la sua espressione era mortalmente seria: tanto che non fui solo io a non identificarla, di primo acchito.
Molti si chiesero perché fosse venuta al funerale della sua vecchia nemica.
Credo di avere una risposta: come disprezzava e insieme amava sé stessa (connubio che la spingeva a nascondersi dietro la propria maschera di perpetua allegria), Alex odiava e stimava Cassa.
Perché Cassandra era la proiezione visibile di ciò che lei aveva ricusato: la sua parte triste, tormentata.
Più che al funerale di Cassa, quindi, era andata a veder seppellire una parte di sé stessa.

***

Dopo di allora, ad ogni rimpatriata dei compagni del liceo, si evita di accuratamente di parlare di Cassandra: è come un argomento tabù e se, per caso, il suo nome salta fuori, scende il silenzio.
È stata sepolta al cimitero-parco della città, tra i suoi amati genitori. I nonni, deceduti la prima quattro anni fa e l’altro l’anno passato, invece, sono stati tumulati al cimitero monumentale.
Ancora oggi, nell’anniversario della sua morte, arrivano mucchi di fiori sulla tomba di Cassandra e, muti, si possono vedere molti ex liceali del Torquato Tasso fare silenti pellegrinaggi sulla semplice lapide scura.
Tra i fiori spiccano due mazzi.
Le rose rosse sono da parte di Sachiko.
I girasoli, invece, si dice che siano di Alex.
In mezzo a quei colori, non posso che ricordare il sorriso sul viso di Cassandra, quando giaceva nella bara.
Credo che sia riuscita, volando giù dal tetto, a veder rivivere i suoi ricordi.

***


Ritalin e Prozac= psicofarmaci. Il primo è uno stimolante (usato, tra le altre cose, per curare l’iperattività), il secondo è contro la depressione.


Chiedo infinitamente scusa per la lentezza impressionante con cui correggo e rivedo i capitoli, ma al momento ho cose piuttosto importanti di cui occuparmi, che esigono gran parte della mia attenzione.
Anche “Illegittima Eternità” procede molto più lentamente di quanto vorrei, e ciò non è incoraggiante, ma sto cercando di fare del mio meglio.
Ed eccoci giungere di nuovo allo spazio risposte alle recensioni.
Hinata Hyuuga= Ti ringrazio veramente molto per i complimenti. Mi crea sempre molta soddisfazione ricevere apprezzamenti sinceri per ciò che faccio, anche quando questo non mi soddisfa pienamente. Di nuovo grazie.
Lidiuz93= Anche qui, più che ringraziare non posso dir molto, se non, come ho già detto e ribadito ripetutamente, amo moltissimo ricevere apprezzamenti sulle mie opere. Fondamentalmente perché esse, spesso, non soddisfano me in prima persona e allora amo che qualcuno comunque riesca ad amarle. Grazie.
Ilychan= Ribadisco che le tue recensioni mi riempiono di soddisfazione, per una ragione piuttosto semplice: mi danno uno spaccato sui sentimenti personali che il singolo prova trovandosi al cospetto del personaggio. Tu fornisci tue opinioni; e amo rispondere a tono. Sì, è vero, per vivere occorre forza: soprattutto per vivere davvero. Altrimenti il tuo cuore batte, e i tuoi polmoni si gonfiano e sgonfiano, ma non stai vivendo. Stai esistendo. Ed esistere è brutto. Semplicemente. È tempo, è respiro, è sangue sprecato. Più sprecato che morire.
Però (mi si permetta una citazione), forte come la morte è l’amore. L’amore è pulita dignità.
Cassa rappresenta molto questo concetto. Nella riscrittura, ci è scivolato dentro, e lei l’ha rivestito.
Lady Ligeia= Grazie mille per i complimenti! Per me le riscritture sono un metodo per fornire precisione nelle descrizioni psicofisiche e nelle storie personali di ciascun personaggio.
Grazie di nuovo!
Hikari= Il tuo commento mi è piaciuto, perché contiene una critica velata. Una critica che tu forse hai scambiato per un complimento.
Dici che ti piacciono “una scuola, un gruppo di studenti un po' strano e una morta” , come se fossero situazioni assodate. Questo, in corso di correzione, mi ha portato a pensare che i personaggi, la storia, soprattutto Sachiko e Cassandra, fossero troppo stereotipati. Purtroppo era troppo tardi per correggere, per rivedere tutto. Mi spiace. Credo che “Istituto Torquato Tasso” rimarrà per sempre una spina nel fianco della mia produzione creativa. Non sono mai soddisfatta di niente.
I personaggi mi sfuggono, non riesco mai a definirli come vorrei io.
Dannazione.
Contessa= Come ho già detto, anche se Cassa è stata un po’ ridimensionata, non riesco a liberarmi del sospetto che sia venuta troppo carica come una saint honoré con troppa vaniglia.
Lei e Sachiko non riescono a rendermi appieno convinta. Non capisco cosa ci sia che non va; nemmeno la riscrittura basta a soddisfare il mio desiderio di perfezionismo!
Accidenti… Comunque grazie per i complimenti…
Miss Black_Lady Riddle= Come ti devo chiamare? Miss Black o Lady Riddle? Che nick complicato! Comunque grazie per essere venuta a leggere e a commentare, e soprattutto grazie per essere venuta a complimentarti! Mi fa piacere che tu li trovi concreti: magari non mi soddisfano in tutto il resto, però ho ottenuto almeno un risultato. E con tutto questo spero di riuscire, almeno in un capitolo, ad avere quello che mi sono imposta di conseguire con questa storia.
Grazie di nuovo, e tanto!

E con questo, vi dico un sincero a presto!

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Capitolo 5
*** Sachiko - la geisha ***


Sachiko - la geisha
Sachiko - la geisha

Sachiko Castelli altri non era che un connubio bellissimo di oriente e occidente.
Quando varcò per la prima volta l’entrata del Torquato Tasso, alle otto di mattina di quel fatidico quattro febbraio, su tutti i presenti calò un silenzio assordante.
Ricordo che ero lì per puro caso: le medie del Tasso erano nell’edificio vicino e mio fratello mi aveva accompagnato a scuola in motorino.

Sachiko sfilò per la prima volta sotto i nostri sguardi indagatori con una nonchalance impressionante (come se essere giudicata e osservata da seicento persone e rotti per lei fosse all’ordine del giorno); indossava un kimono, sul cui sfondo giallo si rincorrevano farfalle e un dragone verde dagli occhi d’oro, le cui maniche lunghissime le giungevano poco prima delle caviglie, nascondendo le mani e dando l’impressione che il suo corpo esile fosse dotato di due grandi ali.
Le forme erano racchiuse e insieme occultate da un’altissima cintura di pesante raso rosso e blu, detta obi1, che la copriva dall’inguine fino sopra il seno; esso terminava, sul dietro, in una specie di fiocco dalle ampie estremità pendenti, lunghe fino a sfiorare il suolo, che la sbilanciavano all’indietro.
Nonostante il tutto dovesse pesare parecchi chili, ondeggiava in equilibrio precario su di sandali in legno (il cui nome, come scoprii in seguito, era okobo) con una suola di oltre quindici centimetri.
La sua capigliatura nera era un ammasso complicato di onde e volute, perfettamente immobili, dentro cui erano infilati o intrecciati spilloni, pettinini di madreperla e ciondoli carichi di fiori e campanelle.
Ma la cosa più impressionante era il suo viso: volto, collo e spalle erano ricoperti da una sorta di fondotinta bianco che faceva rassomigliare la sua pelle a una maschera di cera, atarattica come la faccia di un morto, mentre le sopracciglia erano accuratamente disegnate col carboncino e le labbra ripassate con una mano di rosso di cartamo a formare un cuore molto più piccolo della bocca.
Unica nota stonata era l’amplissima borsa che portava in mano, che evidentemente conteneva i suoi libri.

Mentre si guardava intorno, ferma sulla soglia, pensai che era lei a valutare noi, più che il contrario.
Ne ebbi conferma quando proseguì, straordinariamente sicura su quei suoi sandali altissimi, a testa alta e senza degnare la folla che le faceva ala del minimo sguardo.
Ondeggiava aggraziata, abituata alle lunghe maniche che la intralciavano, perfettamente in equilibrio sugli okobo, senza che le code del suo obi paressero in alcun modo renderle più difficile l’impresa (perché eravamo certi di impresa si trattasse) non solo di stare in piedi, ma persino di muoversi vestita in quel modo.
In un silenzio carico di elettricità, tirò indietro con un gesto del tutto naturale lo strascico della veste per poggiare un piede sul primo gradino della scalinata che portava al piano superiore.

Arrivata a metà del pianerottolo (con noialtri seicento che la fissavamo, intervallando risatine e bisbiglii), si accorse di qualcosa.
Un elemento di disturbo nella sua entrata altrimenti perfetta.
Infatti, all’inizio della seconda rampa, c’era Cassandra.
Quello fu il loro primo incontro.
Cassa era seduta, tranquillissima, su un gradino, le gambe magre allungate attraverso lo stesso.
Con una calma del tutto innaturale se ne stava lì, alternando un tiro di sigaretta a un sorso di Jameson dalla bottiglia che aveva in mano, dimostrando come suo solito di fregarsi bellamente delle regole scolastiche. Non diede segno di essersi accorta di Sachiko, né si mosse nonostante l’altra stazionasse, senza minimamente scomporsi, aspettando che le cedessero il passaggio.
Infine, Sachiko chiese:
« Potresti spostare le gambe, per favore? »
Parlava un italiano perfetto, con una vaga musicalità nelle consonanti e una durezza nelle L; nel sentire la sua voce chiara e fredda tutti sobbalzammo. Non ci aspettavamo conoscesse la nostra lingua.
Cassa volse la testa verso di lei, un’azione che parve costarle molta fatica.
« Hum… piacere di fare la tua conoscenza. » disse, la voce impastata di sonno e chissà cos’altro.
La giapponese alzò un sopracciglio, rimanendo ostinatamente immobile
« Sono lieta di questo scambio di convenevoli. Ora, potrei passare? »
Faticosamente, Cassandra spostò le gambe. Senza dire un’altra parola, Sachiko passò oltre, camminando con straordinaria rapidità sui piedini racchiusi nei sandali; aveva appena superato la schiena magra di Cassa che questa le parlò.
« Mi piacciono i tuoi kanzashi2 con le campanelle. »
Come fulminata, Sachiko si girò a fissarla, con quei suoi eccezionali occhi neri.
Le porse due dita e l’aiutò ad alzarsi.

Ricordo come Cassandra fissò quelle dita. In seguito Sachi mi disse che erano anni che tutti i suoi compagni evitavano volutamente di sfiorarla. Come se Cassa, come se il corpo stesso di Cassandra fosse repellente.

Da quel giorno, Sachiko iniziò la sua grande operazione “sfondiamo le barriere dell’animo di Cassa”, che riuscì anche troppo bene.
Il che era strano, perché la mente stessa di Sachiko era piena di fosse, avvallamenti, meandri tortuosi che era meglio non esplorare.
Lo stesso attaccamento che nutriva per il Giappone, sua patria d’elezione, era morboso.
Sachiko aveva madre nipponica e padre italiano; aveva vissuto a Kyoto fino alla prima liceo, cioè sin quando suo padre, Giovanni Castelli, era stato trasferito nella sede italiana della ditta per cui lavorava, dopo un avanzamento di carriera.
Sachi era bilingue, ed era stata allevata in un binomio culturale oriente-occidente. Cionondimeno, era cresciuta nel Paese del Sol Levante, e rimaneva ancorata al mondo che aveva lasciato.
Agli amici, agli usi, alle festività, all’universo di tranquilla diversità cui il suo cuore era rimasto attaccato.
Quanto era giunto in Italia era il guscio di quel cuore spezzato. Forse aveva visto in Cassa tracce di quello stesso vuoto. Sicuramente era per questo che Sachiko (che in Giappone si vestiva all’occidentale) ora sembrava una maiko3 in carriera.
Forse voleva mantenere un legame con quella terra che aveva lasciato controvoglia, o magari sentiva di doverlo fare per non cadere in  una sorta di tunnel fatto di ricordi. Un tunnel simile a
quello che aveva inghiottito l’anima di Cassandra.

Sachiko era una ragazza estremamente attraente. Non solo per quell’aura di mistero e di stranezza che la circondava, ma perché era oggettivamente molto bella.
Sotto il trucco, aveva enormi occhi neri a mandorla: gli occhi più grandi, profondi, ammalianti che avessi mai visto, circondati dalle lunghe sopracciglia disegnate col carboncino che proseguivano fin quasi alle tempie.
Il naso era piccolo e ben proporzionato e la bocca un minuscolo bocciolo (sembrava ancora più minuscola per via del rossetto con cui la dipingeva a cuore).
Ad accentuare la sua aura di bellezza erano anche i suoi capelli. Per chiunque avesse avuto il privilegio di vederli sciolti, costituivano una specie di miracolo. Le arrivavano molto sotto la linea inferiore delle natiche, quasi fino alle ginocchia: una cascata nera come la notte, liscissima e profumata di olio d’orchidee.
Solitamente li acconciava in fogge e nodi complicati, che, seppi in seguito, le faceva l’anziana cameriera di sua madre.
Sachiko era ossessionata dalla cura della propria chioma: la lavava ogni giorno e la pettinava per quasi un’ora tutte le mattine. A volte dormiva seduta per non sciuparsi le acconciature.
Tuttavia, pur essendo così bella, Sachiko non permetteva a nessuno di avvicinarla.
Vagava per i corridoi scortando Cassandra, ammantata di una freddezza altera, regale; rivolgeva i propri saluti con noncuranza, quasi indifferenza, e appariva inumana nella sua perfezione.

Molti ragazzi, ricordo, si erano infatuati di lei, ma Sachiko li teneva a distanza con una decisione che rasentava l’intolleranza.
Diverse volte mi sono chiesto perché elesse me quale suo confidente, e in qualche occasione gliel’ho anche domandato: lei si limitava a ridacchiare e a dirmi che avevo il grande dono di saper ascoltare e parlare solo al momento opportuno.
In realtà, credo che la relazione con Cassa assorbisse tutte le sue energie, e che non avesse molto tempo per altro. E Sachi non era mai stata tanto lieta di farsi assorbire da qualcosa.

Quasi subito, a qualcuno venne l’idea di darle un soprannome. Probabilmente era perché ci si ricordava poco il suo nome (nel 1994 non eravamo ancora abituati alla multiculturalità, così capitava che Mae-fong diventasse Mattia e che Françoise si trasformasse in Francy) e perché qualcuno si era spinto più in la di Goldrake nell’approfondimento della cultura nipponica.
Fatto sta che Federica Massifreddi cominciò a chiamarla “geisha”  e, da allora, geisha rimase.

 ***

Quando si seppe del sentimento che la legava a Cassandra, ricordo che la reputazione di quest’ultima ricevette il colpo finale, ma che, nonostante il perbenismo che permeava gli adolescenti allora più di oggi, non si smise di trovare attraente Sachiko.
Semmai la relazione saffica che aveva con Cassa le aggiungeva quel fascino peculiare che solo i peccati esibiti sanno dare. Un po’ come il rossetto e il fard per David Bowie o l’eroina per Kurt Cobain.

Tuttavia, molta gente stentò a capire che quello che le legava era vero amore.

L’omofobia, di tutti pregiudizi e le intolleranze, è quella col comportamento più strano: non solo perché anche le categorie solitamente discriminate (ad esempio extracomunitari o neri) la praticano, ma perché le persone di un medesimo sesso tendono a essere indulgenti nei confronti degli omosessuali di sesso opposto, mentre con quelli del medesimo si rivelano sovente spietati.
Così come molti ragazzi picchiano maschi gay e poi si masturbano di fronte a foto di playmate in atteggiamenti saffici, anche le ragazze praticano una simile forma di discernimento, ma più velata e, come spesso accade, più micidiale.
Infatti, spesso queste fanciulle intrattengono rapporti d’amicizia con ragazzi omosessuali (purché non commettano atti osceni – che personalmente definirei atti d’affetto – in loro presenza, sia chiaro), salvo creare il vuoto pubblico intorno a qualche altra componente della loro cerchia perché commette lo stesso nefando peccato sociale.
Similmente ad Hester, l’adultera protagonista de “La lettera scarlatta” di Hawthorne4, anche queste ragazze vanno incontro al più totale isolamento, al disprezzo delle loro stesse amiche o confidenti.
Così successe anche a Cassandra e Sachi; ma a tutte e due bastava unicamente la compagnia dell’altra.

Perché quello tra le due era vero amore; solo il vero amore avrebbe potuto resistere alle tremende botte che i comportamenti autodistruttivi e la depressione di Cassandra sapevano dare a qualsiasi tentativo, seppur labile, di relazionarsi col suo mondo.
Cassa che non era mai sobria, Cassa con le braccia bucate, Cassa sigaretta nella mano e pipetta da crack nell’altra.
Sachiko perfettamente padrona di sé, Sachiko che chiama il 113, Sachiko che scatta con la bravura di un’infermiera professionista a rianimare l’amata in overdose.
Ma anche Cassandra e Sachiko che fanno il bagno insieme, Cassandra che prepara il brodo a Sachiko con la febbre, Sachiko e Cassandra abbracciate a coccolarsi sul tappeto di quella stessa stanza in cui Cassandra, poco prima, si è scolata un’intera bottiglia di rhum.

La morte di Cassa fu un colpo mortale, e nulla in Sachiko rimase che potesse farle sopportare il peso del ricordo; dopo, di Sachiko rimase ancor meno di quello che eravamo abituati a conoscere, la sua mente ancora concentrata sul Paese del Sol Levante e su quella cultura e quelle persone a lei care e tanto lontane dall’Italia.
Se la sua freddezza prima era dignità, dopo divenne indifferenza e nient’altro che questo.
Non parlava più nemmeno con me e, quando qualche professore veniva a chiedermi sue notizie oppure quando un compagno mi chiedeva se si fosse ripresa, non sapevo cosa rispondere. Per quanto potei percepire, posso dire solo che solo la morte di Cassa riuscì ad appannare il fuoco dell’orgoglio che ardeva nel fondo dei suoi occhi neri.
Diede esami da privatista, uscì col massimo dei voti, alzò i tacchi e se ne tornò quanto prima in Giappone.
Capii che solo Cassandra l’aveva trattenuta in Italia da quando era diventata maggiorenne in quarta (Sachi era nata a gennaio), e che i suoi antichi legami col paese in cui era nata erano l’unica cosa che le impedisse di raggiungerla.
Ma Sachi aveva un alto senso della propria dignità e valutava di più la propria vita di quanto non avesse mai fatto Cassa.
Quindi tornò a Kyoto.

 ***

Ieri l’ho rivista.    
Stavo armeggiando con un PC sballato sul mio posto di lavoro, quando Giacomo, il mio capo, mi ha chiamato con voce concitata dicendo che una signora giapponese voleva parlare con me.
Ha aggiunto anche alcuni apprezzamenti piuttosto volgari sull’aspetto della signora in questione, che io non ho raccolto.
Tutto potevo immaginare, tranne che fosse proprio lei.
Quando ha lasciato lo Stivale, non mi aveva nemmeno salutato e, anche se a volte pensavo a cosa stesse facendo, non ho più considerato di mettermi in contatto con lei.
Eppure eccola lì, elegantissima e vestita all’orientale (come al solito), anche se qualcosa mi suggeriva che (come al solito) in Giappone si vestisse ancora all’occidentale.
Sarà stato il trucco più sobrio e l’acconciatura (un comune carré), o il kimono scuro ed elegante che indossava, del tutto diverso dalle pirotecniche mise che amava esibire da giovane; forse era una certa indifferenza di fondo che aleggiava ancora nei suoi occhi neri, solo leggermente segnati agli angoli.

Era venuta appositamente per l’anniversario della morte di Cassa, e, mi ha confidato, lo fa tutti gli anni a partire da quello dopo la sua morte.
Non è mai riuscita a venire a trovarmi, anche solo per scusarsi del suo comportamento increscioso – parole sue – di quando se n’è andata. Aveva come una specie di blocco e voleva evitare di ricordare.
La capisco – è lo stesso atteggiamento che abbiamo noi nei riguardi della fu Maria Eva.

E non è mai riuscita a dimenticare quell’amore nervoso, autodistruttivo che ha segnato la sua adolescenza.
Quel sentimento che si è portata via Cassandra più di dieci anni fa.
Nonostante ora sia sposata e madre di due figli, Cassandra no, non la si può dimenticare.

Portava ancora il bracciale d’argento.

 ***

Obi= cintura e, spesso, emblema di un kimono. Il nodo dell’obi è considerato vera e propria arte nella cultura tradizionale giapponese, ed esistono trecento e più modi di creare il caratteristico fiocco decorativo.
Kanzashi= spilloni decorativi che si portano tra i capelli, elemento importante delle acconciature tradizionali nel Paese del Sol Levante.
Maiko= geisha apprendista.
“La lettera scarlatta”, di Nathaniel Hawthorne= libro stupendo, che personalmente consiglio a tutti, ne riporto qui di seguito la trama (attenzione, spoiler!).

Il romanzo si apre con Hester mostrata al popolo di Salem, sul patibolo. È il risultato del processo che è stato intentato contro di lei per adulterio. Hester infatti ha dato alla luce una bambina, Pearl, nonostante il marito sia assente da anni dalla città. Oltre al pubblico ludibrio, Hester deve sottostare a un'altra pena per la sua colpa: deve portare sul petto una A scarlatta (che sta per "Adultera"), diventando così la pecora nera della comunità puritana, assai poco incline al perdono e alla comprensione.
Hester non vuole rivelare chi sia il padre della bambina. Ma dopo qualche capitolo Hawthorne ci svela che il suo amante è il giovane reverendo Dimmesdale, colto teologo, eccellente predicatore, uno degli uomini più rispettati e venerati della città. Si capisce allora che se Hester tace, lo fa per amore, cioè per proteggere Dimmesdale. Il quale però si tormenta per la propria vigliaccheria e la propria falsità: predica ripetutamente contro il peccato, ma il primo a peccare è stato proprio lui; ed è un'altra, cioè Hester, a scontare la pena per entrambi.
La situazione si complica quando il marito di Hester, che in città nessuno conosce, torna dalla sua lunga assenza, che si spiega con la sua cattura da parte degli indiani e la successiva prigionia. Il marito di Hester impone alla moglie di non rivelare la sua identità: questo perché vuole indagare in incognito sull'identità dell'amante, il cui nome Hester si rifiuta categoricamente di rivelare anche al marito. Quest'ultimo assume così il nome di Roger Chillingworth, e prende a esercitare l'attività di medico in città, forte dei suoi studi in Inghilterra, ma anche delle cognizioni di medicina indiana che ha appreso durante la prigionia.
La vicenda si snoda quindi nel patologico triangolo che si viene a formare tra Hester, Roger e Dimmesdale, con un crescendo di tensione, sofferenza e angoscia che porta alla rivelazione finale.
(Informazioni copincollate da Wikipedia – perdonatemi, ma non ho molto tempo per raccontare tutta la storia)

Nike87= mi fa piacere che Cassa ti sia piaciuta. Mi è sempre sembrata tremendamente carica, e non mi ha mai soddisfatto fino in fondo, ma se qualcuno la trova gradevole forse varrà qualcosa. Purtroppo ultimamente ho ancora meno tempo di quanto disponessi in  precedenza, ma spero di riuscire a portare avanti tutto con relativamente pochi sacrifici!
Ilychan= il ricevere tanti commenti significa certamente che la storia piace, ma non significa precisamente che essa sia di qualità. Il primo commentatore e critico di uno scrittore è l’autore stesso; conosco molti recensori spietati, ma la prima a essere spietata con le mie opere sono soprattutto io!
In ogni caso, adoro ricevere complimenti, come credo chiunque, e mi fa piacere che molte persone degne di fiducia trovino gradevole la storia. Voglio dire, se un’ amiketta tra quelle fanciulle che leggono e commentano entusiaste quegli aborti di fic che vengono pubblicati nella sezione “Cantanti” (quelle sui Tokio Hotel soprattutto) trovasse bella la mia storia, personalmente inizierei ad avere qualche dubbio sul suo valore. Ma, dato che generalmente ritengono la mia fissazione per la grammatica eccessiva e il mio stile verboso e prolisso, credo di essere sulla buona strada.
Una sola piccola segnalazione: un po’ si scrive con l’apostrofo!
HinataYuuga= accidenti! Che sfilza di complimenti! Va’ che ad andare avanti così diventerò una montata assurda e nessuno riuscirà più a leggere le mie ciance agiografiche (un po’ come non riesco più a leggere le interviste a Giovanni Allevi, che oltre a essere un pianista non geniale come sostiene di essere è il più grandioso apologeta di se stesso)!
In ogni caso ho un piccolissimo appunto da fare alla tua recensione: io non credo che Cassandra sia coraggiosa. Anzi. Morire, nel suo caso, è stato un atto di spossatezza e assoluta codardia. Secondo me vivere è la cosa più coraggiosa che chiunque possa scegliere di fare.
Hikari= no, non è il fatto che tu ti sia espressa male, sono semplicemente io che vedo ogni più piccola parte dei vostri commenti in luce del mio assoluto perfezionismo. Sono un grosso problema per la mia stessa autostima…
In ogni caso mi fa immensamente piacere che tu, a dispetto di tutto, non pensi che Cassa sia stereotipata; e spero che questo capitolo, tutto su Sachi, ti piaccia.
Lidiuz93= Grazie per i complimenti, e per la considerazione. Non ho mai considerato l’ipotesi che la vita di Cassa apparisse come una caduta finché non me l’hai fatto notare: l’idea non è male, ma io ho sempre pensato a lei come a un personaggio che “ha già toccato il fondo” e che è gnoseologicamente impossibilitata a risalire. In ogni caso le tue lodi sperticate mi hanno inorgoglito parecchio! Grazie mille!

Ecco, con questo vi lascio alla lettura! Tanti saluti alla prossima recensione!

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Capitolo 6
*** La Cantastorie ***


La Cantastorie
Nota dell’autrice
Questo capitolo è dedicato a Ilychan, per il suo incondizionato sostegno che segue “Istituto Torquato Tasso” sin dalla sua prima stesura e per il suo incessante lavorio di recensione che mi ha accompagnato facendomi sentire più vicini sia i lettori dall’altra parte dello schermo che la storia stessa. Grazie, grazie, grazie.

La Cantastorie

Federica Massifreddi era nota anche come “la Cantastorie”.

A vederla non la si sarebbe detta una di quelle splendide, eteree creature troppo che voglio descrivere.
Era di corporatura media, piuttosto bassa, con un viso rotondo dominato dalla bocca carnosa e dalla fronte decisa, bombata; i suoi sottili, obliqui occhi grigi scrutavano il mondo con aria ora vaga ora attenta, ombreggiati dalle ciglia rade e dalle sopracciglia incolori.
La folta chioma castano scuro, che pettinava raramente; aveva una passione per le mollette curiose, eccentriche, a forma di coccinella o farfalla, insomma, quegli ornamenti per capelli buffi e graziosi che solitamente piacciono alle ragazze.
Il suo look era nella norma – normali jeans e magliette, t-shirt, a volte qualche top, e maglioni comodi e colorati d’inverno.
Infatti il suo aspetto non aveva niente di particolare.

Federica era in classe con me, e io la trovavo fantastica; come molti, del resto; era ciò che diceva e faceva a renderla speciale: la creatura più ammaliante, ipnotica che avessi mai visto.
Quando raccontava, parlava o qualsiasi altra cosa dicesse, non riuscivi a toglierle gli occhi di dosso. E la cosa ancora più incredibile era che lei stessa ne era completamente inconsapevole.
Non era semplice charme il suo: bensì una combinazione esplosiva di carisma e fascino.
Molte volte assistetti a scene incredibili; poniamo che Alex stesse raccontando la sua ultima escursione in parapendio davanti a una piccola folla, e che, contemporaneamente, dall’altra parte del corridoio, stesse passando Sachiko, splendida, altera, circondata da ammiratori.
Ecco, in quel momento poteva succedere che, dai bagni, uscisse Federica con una sua amica; e poteva anche accadere che Fede le stesse raccontando una storia, o la cronaca di una gita, oppure semplicemente di come era arrivata la mattina in autobus.
Quando la risata argentina di Federica rimbalzava sui muri scrostati e sulle piante ornamentali trasformate ormai in enormi posacenere, gli ammiratori lasciavano la corte di Sachiko e la piccola folla abbandonava Alex (che adorava Federica, e si univa a loro) per sentire quello che stava dicendo.
Ecco, Federica viveva in un suo fantastico mondo tutto fatto di storie; e aveva un tale richiamo che, quando le raccontava, non potevi fare a meno di lasciarti avvolgere dalla sua voce dolce e credere che quanto stesse narrando fosse vero.

Così poteva accadere che la settimana bianca con la classe si trasformasse in una missione intergalattica, o che da dietro la cattedra, all’improvviso, spuntasse un dragone cinese sputafuoco che aggrediva sistematicamente ogni prof che provasse a sedervisi.
Da dietro ogni angolo la fantasia poteva emergere esplodendo prepotente, e lei la prelevava a piene mani, spennellando l’esistenza con il suo colorato, stupefacente splendore.

La vita per Federica era un’incredibile sequela di racconti, di esperienze fantastiche e ai confini del reale. La realtà stessa, per lei, costituiva un optional trascurabilissimo.
Era meravigliosa, fanatica, folle.
E qui, in quest’emisfero di eccentricità inconsapevole, stava quel fluido magnetico che non ti permetteva di evitare di ascoltarla quando parlava, o raccontava, o Dio solo sa cosa faceva.
Per questa sua particolarità la chiamavano “la Cantastorie”, come l’omino barbuto delle musicassette di fiabe per bambini.

Un’altra cosa che apprezzavo personalmente moltissimo della Cantastorie era la sua immensa cultura.
La chiamavano anche TreccaFede (fusione tra Treccani, l’enciclopedia, e il nome Federica) per la grandiosa quantità di informazioni più svariate che stazionavano in quel cervello apparentemente svagato e distratto.
Al momento giusto riusciva a tirar fuori di tutto dalle nebbie della sua mente: la formula chimica dell’acido cianidrico, la data di nascita di Lugi XIV, la definizione di cesaropapismo.
Con una precisione quasi matematica.
Tuttavia, benché il suo stupefacente nozionismo destasse stupore, la cultura di Fede non era a senso unico: approfondiva molto ciò che la interessava, era estremamente curiosa e si appassionava a molti argomenti diversi contemporaneamente.
Leggeva molto, visitava musei e mostre, ascoltava musica di tutti i tipi (dal glam rock alla lirica) e cercava di stimolare la propria attività ed elasticità mentale con tante sollecitazioni differenti.
Aveva il cervello più ricettivo che avessi mai visto.

Giravano un mucchio di leggende sul suo conto, e la maggior parte erano anche vere poiché Federica non era circondata da quell’alone di mistero che avvolgeva invece Cassandra, Sachiko o anche, in una certa misura, Alex.
La Cantastorie era estremamente sincera su sé stessa e non si faceva problemi a dire che viveva in via Nicola Porpora 16 con sua madre Anna, suo padre Luigi e due fratelli gemelli di due anni più grandi, Giovanni e Antonio.
Inoltre non teneva lontana la gente come Alex, gli altri alunni non la scansavano come Cassa né era lei stessa ad essere superba e altera come Sachiko.

Anzi, la Cantastorie aveva moltissimi amici, e usciva con un bel gruppo.
Molte persone non aspettavano altro che di esserle amiche, e lei non aveva che l’imbarazzo della scelta.
Ebbe anche un paio di ragazzi, durante tutti i cinque anni; il primo, Marco, era dell’altra sezione: un ragazzo come me, normale. Infatti, durò solo un paio di mesi!

Il secondo, che poi Federica sposò, lo conobbe in quarta liceo. Aveva diciannove anni, ed era un deflagrato totale.
Si chiamava Andrea Persani, e già a vederlo ti sorgeva il dubbio che fosse matto quanto e più della Cantastorie.
Benché fosse, a detta di quasi tutte le ragazze, decisamente attraente, era anche stordente.
Piuttosto basso, sul metro e sessantacinque, ma per una come Federica (che non raggiungeva il metro e cinquantotto) sembrava alto; aveva un cespo di capelli biondo cenere ricci, striati da larghe méches blu, grandi occhi azzurri circondati da ciglia incolori e sopracciglia sottili, un naso leggermente appuntito e labbra sottili e ricurve.
Fisicamente era snello, con le unghie della destra molto più lunghe delle altre perché suonava la chitarra (peraltro piuttosto male) ed era un convinto assertore dell’inutilità dei plettri.
Chiunque li vedesse di primo acchito avrebbe potuto credere che fossero diversi come il giorno dalla notte, ma non era così: benché Fede fosse certamente più colta, la pensavano esattamente alla stessa maniera su moltissimi argomenti e avevano una quantità impressionante di cose in comune, a partire dal colore preferito per finire con la marca di whisky.
E proprio la marca di whisky fu la cosa che li fece conoscere; più precisamente a metà della quarta, alla festa di compleanno di Alssandra Persani, la sorella minore di Andrea, la quale si era dimenticata di avvertire che il fratello sarebbe stato presente.
In effetti, nemmeno Alessandra lo sapeva; fatto sta che nel bel mezzo della festa il tipo scese dalle scale con aria minacciosa brandendo una chitarra elettrica mezza smontata in una mano e un mazzo di corde nell’altra, ringhiando di abbassare im-me-dia-ta-me-nte quella ”lagna del cazzo” (nello specifico, i Take That) e indicando lo stereo con un cenno del mento.
E, vicino allo stereo, c’era la Cantastorie, una fiaschetta di Laproaigh’s in mano, che guardava i vecchissimi vinili abbandonati accanto al medesimo.
In quel momento lei stava esaminando un LP di Janis Joplin originale con aria ammirata; colpito più dalla bottiglia che dalla ragazza, in effetti, Andrea si diresse come ipnotizzato verso di lei che, tra parentesi, era già piuttosto partita e si lasciò sottrarre il superalcolico senza protestare, e passò tutta la serata a chiacchierare con lui degli argomenti più disparati: da Bob Marley alla Seconda Guerra Mondiale, da quanto facesse schifo Melrose Place all’algebra.
Non si sa se Fede incantò anche lui con la sua incredibile capacità di raccontare, ma è certo che quella sera tra di loro scattò qualcosa… qualcosa ulteriormente confermato dal fatto che, a fine serata, vennero rinvenuti dall’ultima persona sobria di tutta la festa (ossia la solita, intuitiva, geniale Giovanna Refraschini che aveva svelato il mistero del braccialetto di Cassandra) sullo stesso divanetto consunto su cui erano rimasti seduti tutta la sera; posso solo commentare che le loro lingue non erano più nella bocca del rispettivo proprietario.
E non era la solita cazzata fatta da ubriachi.

Ricordo che nel vedere quella scena mi si strinse il cuore.
Perché, per quanto potessero essere diversi, insieme Andrea e Federica erano bellissimi. Non avevano il fascino pericoloso di Sid Vicious e Nancy Spungen1, come l’altra coppia famosa della scuola (Cassandra e Sachiko), ma l’armonia di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir2, mescolata alla passione di Abelardo ed Eloisa3.
Non era un amore distruttivo come quello di Cassandra per Sachiko, né volto all’accudimento come quello della geisha verso Cassa.
Era un sentimento delicato che si alimentava delle piccole cose quotidiane, nato su quanto avevano in comune e cresciuto nelle poche, grandi differenze.
Era l’amore che io invidiavo.
Perché per me Federica è stata la cotta, l’ossessione della mia adolescenza. E il fatto che lei stesse con un altro, che donasse le sue carezze, la sua anima, la sua mente ad Andrea mi riempiva di dolore ogni volta che lo vedevo.
L’unica volta che mi sono ubriacato l’ho fatto per dimenticare lei, per non pensare a lei, per togliere l’immagine del suo sorriso largo, con gli incisivi larghi e distanziati, dalla mia mente.
Per convincermi di non aver perso nulla, anche se lei era così lontana da me.
Per la cronaca, sono riuscito a non rivolgere la mia mente verso di lei solo per la durata della sbronza. Il giorno dopo non solo la rimpiangevo, ma ho sofferto anche i postumi della mia bravata giovanile.

***

I miei sentimenti nei confronti della Cantastorie nacquero in seconda liceo, alla gita di una settimana a Roma.
Prima di allora non ero mai rimasto in alcun modo vittima del suo carisma, né della sua non troppo latente pazzia, tranne che nei modi in cui la sua brillantezza coinvolgeva tutti. La consideravo un po’ troppo eccentrica e quella sua impressionante cultura mi faceva sentire troppo inferiore, troppo limitato per pensarla anche solo avvicinabile.
Non so ancora bene come, ma finii seduto accanto a lei sul pullman durante l’andata e, dopo la prima mezz’ora di smarrimento, la sua impressionante capacità di attaccar bottone con chiunque mi colse e iniziammo a chiacchierare.
Per la verità, fu lei ad iniziare con una sorta di soliloquio sui Nirvana (credeteci o no, fu così convincente che iniziai ad ascoltarli anche io e tutt’ora li trovo bravissimi…), e nel giro di un paio d’ore ero innamorato perso di lei.
Così. Semplicemente.

Non era uno di quegli amori studiati a tavolino, né una di quelle affezioni autodistruttive, e neppure una passione sfrenata. Era un tipo di sentimento più devastante: un amore a senso unico, adolescenziale, immaturo e senza la minima possibilità di maturare, timido.
E non ebbi neppure il coraggio di dirglielo.

***

In singolare contrasto per una persona tanto colta, Fede non aveva affatto una media stupefacente. Studiava solo quello che le piaceva, nelle misure in cui le andava e quando le pareva.
Diceva spesso che il liceo sarebbe durato solo cinque anni, e che sputare l’adolescenza sui libri non era il suo ideale di vita.
L’ammiravo molto anche per questo: benché non si facesse problemi a lasciare che le cose che sapeva trasparissero all’esterno (non sembrava rendersi conto di essere in una posizione intellettuale privilegiata e non si preoccupava di prendersi della secchiona) aveva il coraggio di vivere la propria vita senza essere schiava del suo pur notevole cervello e della nomea che esso le dava.
In classe era molto attiva, ma senza adulazioni e leccapiedismi: capiva sempre tutto prima degli altri, ed era la più brillante in quasi tutte le materie umanistiche. Naturalmente portata al ragionamento e all’astrazione, partecipava con stupefacente entusiasmo alle lezioni; l’unica materia in cui avesse seri problemi era matematica.
In effetti, talvolta la sua eccezionale lucidità destava in me invidia o rabbia: era sempre due passi davanti a tutti noi, sembrava riuscire a comprendere tutto senza sforzo apparente. Ma poi sorrideva, faceva una battuta e tutte le mie emozioni contrastanti svanivano come neve al sole.

Credo che si rendesse conto di essere molto eccentrica, almeno parzialmente. Ma, invece di sentirsi isolata per questo, considerava la propria latente anormalità come un’arma, una riserva, un modo per sentirsi libera.
La sentii parlare con Stefano una volta; non ha mai saputo che quella conversazione tanto intima dietro le quinte del teatro della scuola, alla festa di fine quarta, aveva avuto un terzo spettatore non desiderato.
Nell’aria c’era l’odore dolciastro della cannabis, che, inizialmente, mi fece storcere il naso nello scoprire che la mia piccola isola di sospirata tranquillità era stata turbata da quelli che credevo due primini pregni del desiderio di trasgredire. Stavo per uscire allo scoperto con una filippica fenomenale, quando mi accorsi che le voci arrochite dal fumo che chiacchieravano in sottofondo mi erano singolarmente familiari.

« Quindi, » stava dicendo Andrea. « tu ci fai o ci sei? Voglio dire… qui tutti dicono che sei matta. No, per quello lo dicono anche di me… » risatina, non so se provocata dal fumo o dall’effettiva assurdità dell’affermazione. « Ma mi chiedo, quanta di questa presunta pazzia è vera? »
Qualche secondo di silenzio pensoso, interrotto solo dal nervoso espirare di Federica.
« Be’, diciamo che ci sono e ci faccio. »
« Che intendi dire? »
« Sai, la mia stravaganza è in parte dovuta al fatto che quasi tutti sono massificati in un unico stampo… » cara vecchia Cantastorie, unica creatura sulla terra capace di utilizzare termini come “massificato” sotto l’effetto dell’erba… e, se per questo, anche senza cannabinoidi di sorta! « Ma il fatto che la mia pazzia sia, in un certo senso, riconosciuta come un dato di fatto… mi da’ la possibilità di parlare e comportarmi come voglio. Dal mio punto di vista è un ottimo metodo per conservare il mio modo di pensare intatto e di esprimermi senza temere qualche forma… di ostracismo sociale… »
« E quindi? »
« Sì, si può dire che ci sono, ma anche che… colorisco, ecco, sì, colorisco un po’ il tutto. Sai, mi diverte molto provocare, e, a volte, mi diverto a farlo così, anche senza ragione. Giusto per il gusto di farlo… »
Lo schiocco di un bacio.
« Ma… sai… » stavolta fu Andrea a prendere per primo la parola. « certo… un matto può dire quello che vuole. Ma poi… poi chi sta ad ascoltarlo? »
Inconfondibile suono di un altro bacio, una risata calma e sincera di Fede.
« Tu, Andre. Tu sei matto come me… e tra matti ci si ascolta! »
Risate, stavolta di tutti e due.
« Ma… tu… insomma… » stavolta parlava di nuovo Andrea, con tono esitante. « Voglio dire… mi sembra che tutti ti ascoltino. Certo, non ti danno ragione ogni volta, ma ti ascoltano. Non tutti stanno a sentire quanto dico, o faccio, o scrivo io… »
Mi sporsi un po’ dal sipario, riuscendo a vedere la testa della Cantastorie che si scuoteva, una sua mano che stringeva con due delle sue dita minuscole e affusolate lo spinello.
« Vedi, Andre… in parte è un’abilità che ho sempre avuto… in parte esprimersi è qualche cosa che si può imparare. » sorriso. Vedevo la sua piccola mano tremare. « Io… ecco… mi piace troppo provare a rifare la realtà. Vedere se con una tavolozza e un po’ di colori il mondo può diventare migliore! E ho scoperto che la fantasia è molto meglio della realtà in sé. »
Trascorse qualche minuto, poi la voce di Andrea si fece sentire di nuovo. Non era ferma, ma tremava.
Si rendeva conto che Federica gli stava aprendo uno spaccato della propria anima, forse lo scorcio più importante. Mi sentivo orgoglioso e insieme un ladro, per averlo potuto cogliere anche io.
« Ma… tu… non arrivi a desiderare di barattare la realtà con il sogno, in questo modo? »
Altra risata, ma stavolta non era sincera. Semplicemente era nervosa, stanca, quasi sfibrata.
« Sì, Andre, lo desidero continuamente. Vorrei che il sogno potesse affogare la terra, ripulire questa prosaica morte lenta che è vivere. » si fermò per dare un tiro alla canna. « Ma non è possibile. Quando ho capito che non potevo, per un po’ mi sono resa conto che avevo perso la ragione per accettare, sì, accettare di essere stata buttata nel mondo contro la mia volontà… »
Vidi la sua piccola mano tremante sommersa dalla destra decisamente più grande di Andrea; per afferrare un solo dito di lui Federica doveva usare tutto il palmo.
« E allora ho imparato a portare la fantasia nel mondo reale. E, per non dimenticarmi cosa fare… ho imparato a scrivere. E a mettere su carta quello che non volevo venisse sommerso dagli sforzi combinati della realtà circostante e delle altre fantasie che sorgevano prepotenti a sostituire o arricchire quelle vecchie. »

Fu in quel momento che, sopraffatto dalla sensazione di intimità che si prova a spiare da una serratura, mi dovetti allontanare.

***

Sì, io amavo quella sua follia, quell’essere fiera della sua diversità. Tanto fiera che evitava l’ostracismo sociale.
L’amavo con l’intensità dell’adolescenza, quando un amore può essere conservato senza nessun incentivo esterno, quando immaginare me che la salvavo da qualche situazione di pericolo mortale bastava per farmela sentire vicina.

Per questo quando, dieci anni dopo la maturità, ormai fidanzato con Chiara, seppi all’annuale rimpatriata del liceo che Federica si era sposata, sentii improvvisamente una pugnalata al cuore.
Sentii Giovanna Refraschini e Carola Giovanardi che ne parlavano, la prima stupefatta e quest’ultima che sputava le parole con astio e disprezzo.

« Oh, io l’ho sempre saputo che lei era matta, e che quel Persani era peggio di lei… » stava malignando, come al solito, la Giovanardi, masticando rapace una tartina e rimettendosi a posto sul naso gli enormi occhiali dalla pesante montatura in corno.
« Ma no… Fede era simpatica… ma dimmi dimmi, cosa è successo?  »
« Oh, uno scandalo! Uno scandalo! La sposa si è presentata in camicia e frak di seta bianca, con un cappello a cilindro dal quale pendeva il velo come una specie di veletta! Come bouquet aveva un mazzo di rose blu in cera! Lui invece aveva una sorta di kilt nero, che assurdità!, e come musica c’erano cose tipo i Nirvana, Patti Smith, i Deep Purple… Pensa, la marcia nuziale era “Smoke on the water”! Tzé, sempre detto io che quella tipa era bislacca! »
Mi avvicinai, fingendo di ascoltare interessato.
« Be’, pensa, io scommettevo che non si sarebbe mai sposata, guarda tu un po’… » disse Giovanna, serafica, addentando una tartina.
« Mah, ti ho già detto che la cerimonia si è svolta sull’isola di Wight, con rito celtico e davanti a un druido? Che roba… »
Pur nella mia sofferenza, non potei far altro che scoppiare a ridere nel venire a sapere di quest’ennesimo colpo di testa di Fede, che, nel frattempo, era dall’altra parte della sala a intrattenere Guido, ora l’ingengner Guido Fioravanti, l’unico altro maschio della classe, con una storia assurda su un concerto dei Pixies che era andata a vedere a luglio.
« Non trovo proprio cosa ci sia da ridere, Francesco. » gracchiò Carola, guardandomi come una sorta di viscida lumaca nella lattuga. « E’ scandalosa una simile presa in giro della religione e del matrimonio… »
« Oh, ma piantala! » sbottò Giovanna, a quel punto. « Presumo che se tu avessi avuto la possibilità di sposarti, l’avresti fatto pure davanti al diavolo in persona! »
« Già… » assentii, di fronte alla Giovanardi, immagine di una stupefatta, rapace gallina. « D’altronde, dalla Cantastorie non ci si poteva aspettare niente di meno… »
E, in quel momento, volsi la testa verso la diretta interessata.

Federica era sempre bassina, sempre piuttosto paffuta… ma era bellissima. Era bellissima perché nei suoi occhi verde-grigi potevo leggere qualcosa che le dava una forza a me ignota. Era felice, e credo di sapere perché.
Non ha avuto figli, ma ha riempito la sua vita con viaggi, libri, esperienze di ogni tipo.
Ha inseguito il mondo con la tenacia di un segugio, cercando i punti in cui esso si incontrava meglio colla sua fantasia. E, a giudicare dai suoi libri, che puntualmente vendono migliaia di copie, ce l’ha fatta.

Lei sì, era riuscita a portare i suoi sogni dentro la realtà.

***

Sid Vicious e Nancy Spungen= la più celebre “coppia maledetta” del punk. Pare che sia stata Nancy (ex prostituta) ad avviare Vicious sulla strada della droga, che alla fine l’ha perso. Sono morti entrambi di overdose.
Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre= personalmente una delle mie storie d’amore preferite. Senza essersi sposati né fidanzati ufficialmente, la relazione tra la madrina del movimento femminista francese e il celeberrimo filosofo esistenzialista andò avanti per oltre sessant’anni. Dopo tutto questo tempo Jean-Paul dava ancora dei lei a Simone, come segno del suo rispetto.
Riposano uno fianco all’altra nel cimitero Montparnasse, a Parigi.
Abelardo ed Eloisa= Lei era la più bella e colta tra le fanciulle di Parigi del XII secolo; lui era il più illustre tra gli studiosi della sua epoca, e aveva circa 15 anni più di lei. Tra di loro scoppiò un'ardente passione, dove si intrecciarono ragione e religione.
Il loro amore fu fortemente ostacolato dalla nobile famiglia di lei sia dall’occupazione di lui: costretti a nozze segrete poiché lui era chierico, e gli era perciò precluso il matrimonio, Abelardo mandò Eloisa nel monastero di Argenteuil dove era stata educata. I parenti pensarono che Abelardo avesse costretto Eloisa a farsi monaca per liberarsi di lei e decisero di vendicarsi: una notte, mentre Abelardo dormivano nella sua casa, tre uomini lo aggredirono e lo evirarono. In seguito due di essi verranno catturati e, secondo la legge del taglione, accecati ed evirati a loro volta, mentre Fulberto, il mandante dell’aggressione, verrà solo sospeso dai suoi incarichi.
Da questo momento le loro strade si separeranno e i due amanti non si rivedranno mai più. Due drammi paralleli si svolgeranno insieme: Eloisa prende i voti e trascorre il resto della sua vita in convento; Abelardo, diventato eunuco, ritorna alla sua vita accademica ed ecclesiale. Eloisa avrà comunque un atteggiamento completamente diverso rispetto a quello del suo amato, il quale, nonostante due condanne da parte della Chiesa per le sue idee teologiche, godrà comunque la fama di grande maestro.
Continueranno a scriversi per tutta la durata della loro vita, e verranno seppelliti insieme. La leggenda dice che le braccia del cadavere di Abelardo si aprirono quando la salma di Eloisa fu posta insieme a lui nel loculo ove era stato deposto.
Ora riposano in un sarcofago monumentale al cimitero di Pére-Lachaise, a Parigi.
(informazioni in parte prese da Wikipedia)

***

Ed eccoci, nuovamente, allo Spazio Recensioni e Commenti A Ruota Libera. Posso informarvi che ho finito la revisione del capitolo relativo all’ultima figura, e che quindi presto sarà tutto online, ma che la sua figura ha subito qualche cambiamento perché non mi ha mai convinto fino in fondo in tutta la sua delineazione. In ogni caso, ringrazio vivamente tutti coloro che mi hanno seguito, recensito o anche solo letto per tutta la durata e il parto definitivo di questa giganclopica Fabbrica del Duomo.
Ci risentiremo presto!
Ilychan= la tua defezione, mia cara, mi colpisce alquanto profondamente, perché tenevo in gran conto le tue articolate, lunghe, oneste recensioni. Mi piaceva molto vedere che a ogni singolo capitolo c’erano le tue parole (quasi sempre d’elogio) a incentivare il mio lavoro: era qualcosa che mi faceva godere profondamente sia l’atto di scrivere, ricevere opinioni franche e dirette. Mi mancherà sul serio la tua opera di recensore accanito. Riguardo alle recensioni, la mia non voleva essere una critica a ciò che avevi precedentemente detto, ma l’espressione di una mia opinione! Contrariamente a circa l’80% di tutti gli autori presenti in questo sito, infatti, io tengo molto al libero scambio d’opinioni tra me e chi legge, anche perché un autore che pubblica lo fa, ovviamente, oltre che per se stesso anche per far conoscere ciò che redige con fatica ad altri. E il parere e ciò che pensano questi altri è fondamentale per incrementare la bravura, gli orizzonti e le capacità dello scrittore medesimo!
Riguardo alla tua opinione su Sachiko, ammetto che un po’ di me è scivolato dentro di lei ma che (oltre a Bellissima) è il personaggio che mi somiglia complessivamente di meno, a parte un certo modo di concepire l’affezione e la separazione (soprattutto quest’ultima). In ogni caso la tua supposizione è esatta, perché sia Sachi che Cassa si assomigliano più di quanto traspaia a una prima lettura: sono nichiliste, contraddittorie, sofferenti e hanno grandi separazioni alle spalle. Solo che Sachi ha una molla dentro di se che le permette di superare il dolore e rialzarsi. Credo sia una molla che tutti abbiamo, ma che in alcuni si inceppa, talvolta per non disincastrarsi mai più. Ecco, Cassa ha subito un processo simile, mentre Sachi ha tentato di rimettere insieme i cocci e si è rifatta una vita. Sachiko è infinitamente più ammirevole, coraggiosa e forte di Cassandra, e, anche se è uscita dalle mie mani, la stimo.
Ti ringrazio ancora infinitamente, e spero che continuerai a seguire tutto il resto della storia, sia pure senza recensione alcuna. Grazie mille!
Hinata Hyuuga= carissima Hinata (o Costanza? Come preferisci essere chiamata?), mi ha fatto immensamente piacere vedere i tuoi complimenti, e le tue considerazioni – assolutamente pertinenti – su Cassa e Sachiko a confronto. Amo molto quando i miei lettori inseriscono nelle recensioni dei riferimenti alle loro personali opinioni, anche quando non sono molto d’accordo, perché ciò alimenta e arricchisce l’emisfero mio come autrice e adoro tenere i contatti con voi. Soprattutto perché nei commenti siete educati e civili (a volte addirittura adulatori!).
Sì, come mi pare già di aver affermato, Sachiko è forte. Molto più forte di tutti i personaggi ivi descritti, persino della Cantastorie: perché Sachi non si appoggia, nel momento del più nero bisogno, ad altri che a se stessa, alla propria fierezza, al proprio orgoglio. Cassa, secondo me, è stata codarda, ma quella è una codardia ingiudicabile, perché chiunque commetta un atto simile lo fa perché non in grado di alzarsi di nuovo in piedi e di riprendere a vivere. Vivere è faticoso, impegnativo, impossibile se hai il cuore spezzato: e la vita è crudele nel suo proseguire implacabile anche se tu non vuoi più farlo.
In ogni caso, grazie mille! Un bacio e alla prossima!
Lidiuz93= grazie mille! Le tue lodi sperticatissime mi riempiono sempre di orgoglio (e finiranno per farmi diventare un qualsiasi Allevi o Einaudi mediocre!). Mi fa piacere quando un lettore giovane – come sei tu – viene catturato dal ritmo della narrazione tanto da desiderare di andare sempre avanti a leggere, perché è ciò che provo anche io nei confronti dei miei libri e delle mie storie preferite! In ogni caso vai tranquilla: non mi offendono mica i complimenti, anzi!
Druggedseele= cara Luna, il tuo commento mi fa arrossire e mi inorgoglisce parecchio, anche se non posso far altro che darti torto; infatti, in questo sito, ci sono molti autori molto più bravi di me (e anche di un bel pezzo!) che non sarebbero affatto contenti di sentirsi deprezzati in questa maniera, quindi diamo a Cesare quel che è di Cesare. In ogni caso mi fa sempre comunque molto piacere ricevere recensioni positive, e spero che quell’immagine da Cerbero che ti sei fatta di me svanisca nel momento in cui leggerai questa risposta: la motivazione per cui sono spesso – per citare le tue parole – “dura e professionale” è che EFP, pur essendo un bel sito, è strapieno di ragazzine che scrivono tanto per fare, senza mettere il minimo impegno in quello che fanno. Temo che tu abbia letto solo le mie recensioni negative (che sono molte), e mi spiace, perché agli autori che le merito ne scrivo anche di positive, molto articolate e complimentose. In ogni caso, se posso permettermi, la ragione della mia cosiddetta professionalità è che io quando scrivo lo faccio con estrema serietà: e non mi pare troppo aspettarmi la medesima cosa dagli altri. In ogni caso, vivissimi ringraziamenti per i complimenti.

Un bacio a tutti e a risentirci al prossimo capitolo!

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Capitolo 7
*** Bellissima ***


Bellissima
Bellissima

Ylenia Grammonti aveva vari nomi, tanto che poca gente si ricordava il suo.
Comunque fosse, tutti ruotavano intorno al suo aspetto, più che per sue caratteristiche particolari o per i suoi interessi. Del resto, per quanto concerne gli interessi, oltre alla cura di sé non sembrava averne.

“Barbie”, “Marilyn”, “Miss Tasso”… i soprannomi si sprecavano.
Federica Massifreddi, con una certa sfumatura d’ironia, la chiamava “Bellissima”, come il film di Visconti che Ylenia sicuramente non conosceva, e, per la nostra classe, lei Bellissima fu battezzata e tale rimase fino alla fine del suo quinto anno.

Era in terza quando io cominciai la prima, e, in assoluto, fu la figura qui raccontata con cui ebbi meno contatti.

Bellissima, come suggerisce facilmente il suo soprannome, era considerata la ragazza dal personale più attraente dell’intero Scientifico Torquato Tasso: era alta almeno un metro e settanta, snella, con le curve al posto giusto e delle misure perfette, lunghe gambe perfettamente diritte, folti capelli di un biondo grano assolutamente naturale, lineamenti delicati e regolari: naso piccolo e all’insù, labbra carnose naturalmente rosse, zigomi alti, grandi occhi color pervinca rotondi come monete sormontati da sopracciglia delicate e da ciglia piene senza l’uso del rimmel. La sua pelle aveva il timido fulgore di una perla e la trasparenza dell’alabastro, la sua voce melodiosa e gradevole, non pareva soffrisse di sindrome premestruale, avere problemi di salute o sudorazione, come le altre ragazze… e, purtroppo per lei, corrispondeva pressoché perfettamente allo stereotipo della bella oca.

Falsa come Giuda, smancerosa, leccapiedi, si può tranquillamente dire che Ylenia incarnasse un personaggio qualsiasi di quei telefilm per adolescenti ambientati in California dove la povera ragazza di turno viene presa di mira dalla solita cricca di bellissime e cattivissime cheerleaders.
Tuttavia, Bellissima aveva anche un neo inquietante: la sua falsità, la sua tortuosità e superficialità non nascondevano una mente fredda e calcolatrice né un’astuzia lucida e consapevole.
Ammantata di cattiveria, giacché altri manti non ne aveva trovati, Bellissima nascondeva l’inquietante neo di una mediocrità pressoché illimitata.
Bisogna riconoscerle che, almeno nel cercare di nascondere la propria idiozia dietro un comportamento stereotipato, Ylenia aveva trovato una soluzione (se non altro temporanea) a un problema che certo l’affliggeva.

Ignorante come una capra, tendente all’ipocrisia, di capacità intellettive persino più basse della media, Bellissima nutriva un odio spietato nei confronti di chiunque avesse capacità superiori alle sue.
E, poiché non poteva contare su altro che non fosse la propria stupefacente venustà, la sfruttava per ottenere ciò che le era stato precluso da chi, nella sua perfidia, aveva pensato di fornirla di capelli lucenti come campi di grano e occhi profondi come laghi himalayani ma non di un cervello brillante.
Non capitava di rado che qualche professore maschio rimanesse invischiato in reticolati di pettegolezzi infiniti su una sua (reale o presunta) relazione con la procace alunna, la quale smentiva categoricamente tra risatine che suggerivano di più il contrario.

Anche io, inizialmente, rimasi affascinato dalla sua bellezza, ma poi – e mi pregio di essere riuscito a capirlo prima di quasi tutti gli altri maschi del primo anno – Bellissima iniziò a farmi pena.
Non tanto perché fosse ottusa, giacché questo era evidente e sotto gli occhi di tutti, ma perché non aveva nessuna amica.
A parte Cassandra (che ebbe poi Sachiko), infatti, tutte le ragazze di mia conoscenza godevano della compagnia di almeno una o due amiche inseparabili con cui giravano a braccetto e con cui, almeno esteriormente, intrattenevano relazioni a diversi gradi d’intimità.
Ylenia, invece, aveva solo compagnie maschili, con cui i legami erano tutto tranne che platonici o meramente amichevoli. Incapace di coordinare lo studio di una materia contemporaneamente a un’altra, Bellissima era dotata di un’incredibile capacità: riusciva, singolarmente, a gestire più relazioni sentimentali per volta, aiutata dal fatto che conosceva l’arte del tenere sulla corda i corteggiatori da quando era giovanissima. Ogni suo movimento, sorriso, risata, smorfia, qualsiasi gesto erano studiati accuratamente in una sorta di “scienza della civetteria” di cui era una cultrice abile e consumata; aveva un certo discernimento, in questo, nonostante la sua insulsaggine intellettiva.
Tuttavia tutti i suoi spasimanti la lasciavano presto tra le braccia di qualcun altro non appena si rendevano conto che, oltre al guscio lussuosamente avvolto in vestiti griffatissimi delle dimensioni di fazzoletti da naso, non c’era molto in lei.
Apparentemente senza sofferenza alcuna, lei veniva lasciata e lasciava chiunque a una velocità vorticosa, quasi senza sforzo. Forse era realmente indifferente, forse credeva di poter continuare a sostituire gli amanti a piacimento. Non l’ho mai saputo, né lo seppi mai.

Comunque fosse, Bellissima era come il cigno nel pollaio: spiccava sugli altri per un po’, ma poi non era in grado di mescolarsi alla folla né di reggersi sulle proprie gambe per distinguersi da essa e veniva scartata, lasciata da parte.
Sempre sola.
La solitudine era l’essenza vera e propria della sua esistenza, e nessun legame sembrava durare molto per lei.

Poiché era sciocca, ma non tanto dal rendersi conto di essere perennemente isolata (perlomeno dai membri del suo stesso sesso), Ylenia riempiva il suo vuoto organizzando eterne minicongiure – con l’aiuto e il sostegno delle sue cosiddette “amiche” (che, perlopiù, dividevano la sua compagnia per sfruttarla) e del ragazzo di turno - ai danni delle categorie di ragazze che lei più detestava: non quelle felici, né quelle carine quanto e forse più di lei (Sachiko per dirne una), ma quelle che possedevano l’unica qualità che lei non aveva e la cui mancanza le guastava l’esistenza, ossia l’intelligenza.
La sua vittima preferita era anche quella che era più al di fuori della sua portata, poiché non si degnava minimamente di reagire: la Cantastorie.
Federica faceva opposizione con assoluta noncuranza alle sue stoccate, agli insulti rispondeva con raffinata ironia, anche se talvolta si irritava violentemente per quella che, una volta, definì “L’impressionante serie di puttanate che riesce a cacciar fuori da quella bocca!”.

Cos’avesse la mediocre d’aspetto Federica che Ylenia non possedeva?
Tutto.
Fede era intelligente, colta, spiritosa, carismatica, piena di amici. Era e sarebbe stata tutto ciò che Bellissima non avrebbe potuto diventare mai.
Per questo, con i pochi mezzi che aveva, Ylenia tentava di rovinare almeno un po’ quella che avrebbe potuto essere la perfetta felicità che lei non avrebbe mai posseduto.

***

Credo che il vero problema di Ylenia non stesse nella stupidità vera e propria, anche se questa costituiva, com’è ovvio, un deficit notevole.
Bellissima non era in grado di distaccarsi dalla sua disperata invidia nei confronti di chi non avesse quelle qualità che lei fortemente desiderava.
Questo sentimento inghiottiva e distruggeva tutto. Era troppo impegnata a odiare da non rendersi conto che poteva anche amare, accettandosi così com’era, con i propri limiti e i propri confini. Sarebbe stata una persona indefinitamente più apprezzabile, più bella, e quella macchia di fatuità che adombrava (sia pur poco) la sua venustà sarebbe svanita per sempre, riempiendo i vuoti del suo guscio. Ma Bellissima non arrivò mai a comprendere questa realtà: appariva sinceramente convinta che, poiché lei non poteva avere qualcosa, non dovessero esserne forniti neanche gli altri; e, ben lungi dal sentirsi grata per aver avuto se non altro la bellezza, considerava tutti coloro che le stavano intorno come esseri di seconda categoria.
Le uniche persone cui sentiva dovesse andare la propria attenzione, ma non il rispetto, erano coloro che erano provvisti di cervello, astuzia, logica o intelligenza, ma che odiava proprio perché dotati di almeno una o tutte queste qualità.
Disperatamente immersa nella propria mediocrità, come ogni mediocre incapace di emergere da essa, Bellissima più tentava di sfuggirle più vi rimaneva invischiata senza appello.
E vedeva svanire tutti intorno a lei.

La caratteristica principale di Bellissima è che, a differenza delle altre figure che ho descritto, non cambiava. Non cresceva. Non maturava.

Mentre sia Alex che Cassa, per arrivare a Sachi o alla Cantastorie, avevano una crescita interiore ed esteriore notevole, Ylenia non si sviluppava.
Rimaneva sempre la stessa stupenda, biondissima Barbie con nessun altro pensiero per la testa che non fossero il colore delle scarpe o come mollare Giovanni Prestalacqua.
Dalla prima alla quinta, non cambiò mai. E, tranne l’evidente disfacersi della sua stupefacente beltà, non è cambiata neanche adesso.
L’incapacità di evolversi è sempre stato un suo grande, enorme limite. Infatti, per quanto ci provasse, Bellissima era incapace di imparare dall’esperienza.
Forse era quello a non segnarla, a fare rimanere anche la sua esteriorità sempre uguale a sé stessa.
Forse…

Confrontandola con la splendente e imperturbabile felicità di Alex, con la fredda maestà di Sachiko, con l’autodistruttiva follia di Cassandra, con la splendente fantasia della Cantastorie, Ylenia sembra un verme insignificante. Aveva solo l’ardente fulgore della bellezza, non l’attendere quieto ma duraturo dell’intelletto.
Tuttavia, possedeva anche l’immobilismo forzato dell’ignoranza: una mancanza di mobilità, di elasticità che permea anche troppo la società che vedo intorno a me, un mondo imperniato sull’esteriorità, sull’invidia, sull’odio, sul disimpegno. Per questo ho deciso di parlare di lei. Perché era il simulacro vivente di tutto ciò che non dovrebbe essere, e invece è.

***

L’ho rivista di recente: pare si sia sposata con un medico chirurgo e che ora conduca una vita tranquilla tra botulino, palestra e maquillage, allietata da un unico figlio maschio, basso, occhialuto, magro da far paura e appassionato di letteratura ugro-finnica.
Ironia della sorte…

***

Rodelinda alla tastiera senza coerenza

Questo è il penultimo capitolo: presto posterò l’epilogo e anche la revisione di “Istituto Torquato Tasso” sarà finalmente terminata. Per quanto riguarda il resto, non ho altre storie all’attivo, se non un progetto che ho in cantiere da due anni a luglio e “Illegittima Eternità”, che prosegue, sebbene a rilento, tra un’ora di stage e l’altra.
Sto faticando parecchio, sebbene mi sia guadagnata i sacrosanti tre mesi di vacanza dopo un anno di duro lavoro, perché – se possibile – l’anno prossimo mi toccherà un anno ancor peggiore; nel frattempo hanno pensato bene di guastarmi l’estate costringendomi a quaranta ore di stage presso uno studio notarile (l’unica cosa che non mi da fastidio è, appunto, il fare lo stage nello studio notarile), cioè a quaranta ore di lavoro estivo e gratuito.
Ma bando alle ciance e via alle risposte alle vostre recensioni!

Hikary= ma figurati, nessun problema! Anche io spesso mi dimentico di recensire capitolo per capitolo le storie che mi piacciono, ma né io né gli autori ne fanno un dramma (a chiunque dei miei autori preferiti leggesse questa frase: invoco clemenza per la mia pigrizia!)… basta che, almeno ogni tanto, ci si ricordi di lasciare un bel commento lungo e articolato!
Mi fa piacere che Federica ti ricordi te stessa, perché è il personaggio in cui ho messo più di me stessa (anche se io ho un carattere un pelino peggiore e molto meno conciliante), quindi la Cantastorie è la mia preferita in assoluto.
Comunque, che dire, ti ringrazio moltissimo per i complimenti, e spero che anche Bellissima (in assoluto la più detestabile tra queste figure) incontri il tuo favore! Un bacio!
Hinata Hyuuga= cara, dato che preferisco le idee con le loro nobiltà avulse dalle umane miserie, preferisco riferirmi a te col nickname medesimo. Federica è forse insieme la più reale e la più irreale tra le figure sopra descritte; parlando di lei ho spesso immaginato una creatura perfettamente normale che cammina nel sogno, e, invece di perdercisi, riesce a trovare la strada in esso. Ti ringrazio moltissimo per i complimenti, e anche per l’adulazione: mi capita raramente di esserne l’indirizzo, e quando è smaccata (quanto, spero, meritata) fa sempre piacere. Ancora grazie!
Druggedseele= c’è una cosa che devo dire di tutti i miei personaggi: la mia è una curiosità quasi morbosa, verso di loro, mista a un senso di indiscrezione simile a quello di qualcuno che sbircia dal buco di una serratura; è un modo di rapportarsi con loro che accresce la delicatezza della narrazione e la sensazione di realismo che deriva da questa. Inoltre, apprezzo che tu mi ponga quasi su un piano di parità con chi in questo sito mi è molto migliore: l’autostima è indispensabile per chiunque, anche per un autore! Grazie mille!
Black Lolita= allora, veniamo a noi. Sono estremamente felice che Ilychan abbia gradito il mio modesto omaggio, e sono lieta di ricevere sue notizie, sia pure in forma indiretta. Rinnovo con calore la mia gratitudine nei suoi confronti, per il suo sostegno e per il suo apprezzamento (addirittura al punto di stamparsi la presente storia, non ci posso credere!). È una cosa che commuoverebbe chiunque, penso, e in particolar modo me, che tengo molto a questa storia, così come ritengo importanti tutti i vostri pareri, e specialmente di chi mi segue da tempo.
Spero di avere presto altre sue notizie! Un bacione Ily!

E con questo un saluto al prossimo capitolo!

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Epilogo

Ed eccoci giunti, tutti insieme, alla fine di questa rosa di ricordi profumati o sbiaditi. Alex, Cassandra, Sachiko, la Cantastorie, Bellissima ed io, il loro spettatore.
Un ragazzo completamente, angosciosamente normale, a confronto con chi sfidava la normalità quotidianamente – in modo conscio o meno – per poter esistere.

Forse la società non si è mai adattata a loro, alla loro splendente stravaganza, alla loro esplosiva, intellettiva avvenenza.
Questo mondo non era fatto per ospitare senza remore l’allegria imperturbabile di Alex, l’abisso disperato e vuoto di Cassa, la grazia e la freddezza di Sachiko, l’intelligenza e la fantasia della Cantastorie o la bellezza vuota e senza significato di Bellissima che, pur rispecchiando la collettività attuale, ne era così prepotentemente schiacciata.
No, decisamente non potevamo far altro che starle a guardare.

La loro vicenda può sembrare lontana e senza significato, ma per me ha contato molto. Perché io non riuscivo che stare ad aspettare lì, immobile, ciò che avrebbero detto, fatto o tentato.
Attendere di sapere la prossima impresa di Alex, o vedere se Cassa sarebbe tornata viva a scuola il giorno dopo. Solo questo. Non ero una presenza attiva nelle loro esistenze, ma soltanto un muto testimone. Anche nella vita di Sachi non potevo che costituire una comparsa sullo sfondo… quella con cui ci si confida, ma che si lascia senza rimpianto.
Forse proprio perché potevo cogliere solo pochi brandelli qua e là mi sono sembrate tanto preziose da doverle raccontare.

Perché per me rimarranno sempre uguali. Cristallizzate nella loro remota, splendente giovinezza. Loro, meglio che chiunque altro, rappresentano la mia gioventù, quelle persone di cui – anche ad ottant’anni, nonostante la vita ne abbia assorbite parecchie sulla via – ti ricordi e pensi “che bei tempi!”.
Riuscirai a rammentare con affetto non solo la voce ammaliante di Fede o il sorriso luminoso di Alex, ma anche Cassa (membro tipico della generazione X) e il dolore, l’alterigia tutta orientale di Sachiko o la vuota venustà di Bellissima… e ti sentirai meno solo, accompagnata dal loro fuoco quieto o esplosivo.
Perfette, immote, conservate sotto spirito dai ricordi, dalla giovinezza, dai sentimenti che si sono affastellati uno sull’altro la loro luce - per quanto una folta colorata e, col passare del tempo, sempre più sbiadita – non potrà mai svanire.
A ognuno che abbia assistito il loro quieto, continuo brillare, il loro buio totale, la loro fiammeggiante esplosione o la totale mancanza di fuoco alcuno, hanno lasciato una piccola scintilla del loro essere; c’è chi l’ha colta e chi no.
E io sono stato come un albero che ha creduto di poter immergere i rami nell’incendio senza bruciarsi: sono, invece, stato carbonizzato fino alle radici. E ora, quella cenere fertilizza la mia mente e il mio cuore.

Ho voluto descriverle perché loro sono uno scrigno di forza, una sicurezza, un tesoro che va tutelato con ogni cura possibile.
Ho voluto fermarle nella mia testa così come le ho viste per la prima ed ultima volta: Alex con la sua esuberanza, Cassa e il suo viso triste dagli gli occhi spenti, Sachiko splendente di amore, sete e broccato, Fede accompagnata dalla sua cultura e stravaganza, ornata del mio acerbo amore, Bellissima decorata coi suoi capelli biondo grano, la testa piena solo d’aria.
Ho tentato di conservare, almeno nei loro sguardi, la mia gioventù sfumata, il mio amore esaurito, le mie emozioni amplificate dalla mia innocenza presente eppur tradita.

Richiudo la scatola dei miei profumati ricordi… la riaprirò alla prossima occasione.

***

Rodelinda alla tastiera senza coerenza

Eccola. Finita. Ho impiegato più tempo a correggerla che a scriverla, “Torquato Tasso”, e finalmente ho portato a termine questa colossale impresa. Potrò finalmente cliccare sul tasto “sì” di fianco alla voce “finita” nel mio account, spiacendomi un po’ nell’abbandonare questo colorito gruppetto ma compiacendomi nel fatto che la loro creazione e stesura vi abbia fatto trascorrere momenti piacevoli, e vi abbia – magari – anche veicolato qualcosa, qualche messaggio, qualche intenzione.
Non vi ringrazierò mai a sufficienza per il vostro sostegno, i vostri consigli, i vostri complimenti, la vostra gentilezza e perseveranza nel leggere questo scritto, la mia personalissima Fabbrica del Duomo.
Senza timore alcuno di scadere nel ridicolo, posso dirvi che senza le vostre recensioni non ce l’avrei mai fatta.
Per cui ringrazio le seguenti persone che hanno inserito questo lavoro nei loro preferiti

Aqua90
Dastrea
Druggedeele
Hinao85
Hinata Hyuuga
JiuJiu91
Lady Ligia
Lidiuz93
MabyChan
Miss Black_Lady Riddle
Nacchan
Tisia
Susy

Coloro che mi hanno inserito nei loro autori preferiti (ben tre persone, onore e gloria!)

Babyjenks, alias Chiara
Ferie
Susy

E, soprattutto, coloro che non hanno fatto né l’una né l’altra cosa, ma hanno commentato. Il cibo dell’autore è la recensione, che lo sprona a migliorarsi e a proseguire con cuore lieto nel proprio lavoro.
Quindi un grazie a

Ilychan
MabyChan
JiuJiu91
Lidiuz93
Babyjenks alias Chiara
Contessa
Lady Ligeia
Hikary
Nike87
Black Lolita
DruggedSeele
Miss Black_Lady Riddle
Hinata Hyuuga

E grazie anche a chi ha letto la storia senza commentare né inserirla tra i preferiti.

Auguro a tutti una felice e serena estate dal profondo del mio cuore!
Bacioni e alla prossima

Vostra
Rodelinda

P.S. No, non mi sono dimenticata di voi, che avete recensito l’ultimo capitolo! Ecco le vostre risposte!
Hinata Hyuuga= sono contenta che ti dispiaccia per la fine di “Istituto Torquato Tasso”: significa che ti ha lasciato qualcosa, dentro, e che attraverso le parole sono riuscita a esplorare te stessa, anche se questo era solo uno scopo collaterale che non era mia intenzione raggiungere. Sono altresì contenta che la presente ti abbia convinto a tal punto che desideri proseguire nella lettura delle altre mie opere! È meraviglioso!
E sono altresì lietissima che Bellissima abbia incontrato il tuo favore, per la semplice ragione che è la più diversa dalle altre, e quella che mi convince  di meno, tanto che, inizialmente, avevo predisposto una riscrittura solo e soltanto per lei.
Mi trovi d’accordo con le tue opinioni sulle condizioni della realtà attuale, in tutto; posso solo aggiungere che in ogni epoca la cosa più difficile da fare è vivere, e combattere perché sia possibile migliorarla. Io, almeno in questa esistenza, credo di aver fallito in entrambe le missioni.
In ogni caso, ti ringrazio nuovamente, per il tuo sostegno, per la tua gentilezza: rispondere individualmente alle vostre recensioni è un dovere anche quando constano di una sola riga, a maggior ragione quando provengono da una lettrice fedele e competente quanto te.
Druggedseele= Sì, in effetti mi sono ispirata molto anche ad alcuni aspetti della realtà che incontro tutti i giorni per creare la figura di Bellissima. Non importa, io penso, se di belle oche ne esistono moglie: è vero l’adagio secondo cui la madre degli imbecilli è sempre incinta, è così dall’inizio dei tempo e così sempre sarà. L’importante, l’essenziale direi, è non conformarci al punto da diventare anche noi delle belle oche; non è lotta, questa, è un diplomatico scappare.
Per quanto riguarda le altre idee ingegnose, le troverai di volta in volta nel mio account.
Ancora grazie mille per i tuoi complimenti, non sai quanto mi faccia piacere riceverne.
Un grosso bacio, e felice estate!

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