Attacchi di broncio di Sophie Hatter (/viewuser.php?uid=16304)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Parte I - They Say Life Carries On ***
Capitolo 3: *** Parte II - Can't have you, can't leave you ***
Capitolo 4: *** Parte III - I suppose, life sometimes, it doesn't go the way it was meant ***
Capitolo 5: *** Parte IV - I know fine well that what I did was wrong ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Nota di inizio fanfic: ed eccomi qua, finalmente, con la mia prima
Sirius/Remus
Nota di inizio fanfic: ed eccomi qua, finalmente, con la mia prima
Sirius/Remus. No, tranquilli, a questa affermazione non seguirà un “siate
clementi”. Potete bastonarmi quanto vi pare e piace, proprio perché è la prima
fanfic che ho composto su questa coppia, e ci vorrà dell’esercizio prima di
arrivare a scrivere bene a riguardo. Ho iniziato ad amare Sirius e Remus come
coppia grazie alle meravigliose creazioni di TwinStar, che consiglio
vivamente a tutti gli amanti del pairing. Riguardo al mio lavoro, posso
soltanto dire che è nato per caso. Non ha uno scopo particolare, se non quello
di scrivere su questa coppia, fornendone l’idea che si è formata nella mia
testolina. Avevo già buttato giù da tempo l’inizio di questo breve lavoro, ma non
sapevo davvero come portarlo avanti, né dove sarebbe andato a parare; dopo un
bel po’ di tempo, è arrivata l’illuminazione. La vicenda è ambientata nel
periodo delle vacanze di Natale del quinto anno di Harry & Co., all’incirca
a partire dal capitolo 23 dell’Ordine della Fenice. Ci saranno quattro capitoli
(due narrati dal punto di vista di Remus, altri due narrati dal punto di vista
di Sirius), più un prologo e un epilogo narrati da un punto di vista esterno e
onnisciente. Per quanto mi riguarda, mi sono divertita un sacco a scrivere
questa fanfic; spero qualcuno possa anche apprezzarne la lettura.
Saluti
Jane
Attacchi
di broncio
Prologo
“Voglio venire anch’io”.
L’uomo dai capelli ingrigiti e il volto segnato da
acciacchi prematuri mollò di scatto la presa sulla pesante maniglia d’ottone
per voltarsi a fissare il suo interlocutore, con un’espressione incredula
dipinta in faccia.
“Come, scusa?”
“Ho detto che voglio venire anch’io!” ripeté l’uomo in
piedi dall’altra parte della stanza, avanzando di qualche passo in direzione
della porta. L’uomo dall’aspetto sciupato si affrettò a richiuderla, come per
tentare di prevenire una possibile fuga dell’altro.
“Ti rendi conto che le tue pretese sono totalmente assurde,
vero?” domandò, in tono retorico. In tutta risposta, ricevette un’occhiata
assassina.
“Voglio uscire da questa casa, dannazione!”
Remus Lupin esalò un profondo sospiro.
“Senti, Sirius, lo sai che mi dispiace e che se potessi ti
aiuterei senza pensarci due volte, ma di venire con me a Diagon Alley non se ne
parla proprio”.
Sirius Black guardò l’uomo in cagnesco.
“Non è giusto, e lo sai” sbraitò, stringendo i pugni e
prendendo a camminare nervosamente su e giù per la stanza. Lupin lo fissava con
un’espressione tormentata, con l’aria di chi si ritrova a svolgere un compito
niente affatto piacevole.
“Lo so, Sirius. Ma tu sai che non è possibile fare tutto
ciò che vuoi”.
“Tutto ciò che voglio?! Andiamo, Remus, chiedo solo di
uscire da questa putrida casa, non mi sembra di aspirare a qualcosa di
impossibile! E poi non mi fido di te, tu non hai mai saputo fare regali decenti”.
Una lieve smorfia di disappunto intaccò il volto di Lupin,
che a quell’affermazione si irrigidì appena. Subito dopo, però, quelle tracce
di contrarietà svanirono, inghiottite da un’espressione neutrale.
“Fidati di me, ho già un paio di idee. Piacerà anche a te,
puoi starne certo” disse, in tono conciliante.
“Oh, già. Posso sicuramente fidarmi del buon gusto di un ex
professorino di Hogwarts”.
Anche stavolta, la manifestazione di fastidio di Lupin per
le parole dell’amico durò ben poco.
“Non credo che tu sia nella posizione migliore per poter
fornire delle idee alternative, riguardo al regalo per Harry” replicò, in tono
lievemente più secco di poco prima. Voleva far capire a Sirius che stava
esagerando, e che non era disposto a sorbirsi i suoi insulti gratuiti ancora
per molto, ma non aveva alcuna intenzione di mostrarsi irritato e dargli così
la soddisfacente impressione di sortire un qualche effetto con le sue
provocazioni infantili.
Sirius andava trattato esattamente come un bambino.
“E dai, Remus”.
Gli si avvicinò, fino a posargli una mano sulla spalla.
“Non voglio rimanere recluso qui dentro per tutto il resto
della mia vita. È da un sacco di tempo che non usciamo più, io e te”.
Remus Lupin inclinò il capo, fissando il suo amico con
sguardo grave.
“I tempi delle nostre uscite amichevoli sono finiti da
quando sono morti Lily e James, e lo sai anche tu. Non siamo più dei ragazzini”.
Sirius chinò lo sguardo a terra, con aria contrita, poi
tornò a fissare Remus negli occhi.
“Hai ragione, ma non sarebbe bello se ogni tanto, in nome
dei vecchi tempi, tu ed io…”
Remus Lupin sembrò vacillare un attimo, e la sicurezza
finora ostentata parve abbandonarlo, lasciando il posto ad un’espressione di
affettuoso rimpianto. Poi, di colpo, la sua espressione si fece sospettosa.
“Che cosa intendi, esattamente?”
Sirius Black lo scrutò con aria confusa.
“In che senso?”
“Lascia perdere” lo liquidò Lupin, con un gesto rassegnato.
Corrugò la fronte mentre fissava di sbieco il pavimento, e spostava poi lo
sguardo alla mano di Sirius, ancora poggiata sulla sua spalla.
I loro occhi si incontrarono, e il piglio di Lupin tornò
serio come prima.
“Devo andare, o farò tardi e troverò tutti i negozi chiusi”.
Sirius Black si riscosse soltanto dopo un paio di secondi,
poi interruppe il contatto e si rassegnò a lasciarlo andar via senza di lui.
“Va bene. Ci vediamo a cena” gli disse, in tono più dimesso
del consueto. Se fosse stato un cane, avrebbe avuto la coda fra le gambe. Lupin
indugiò con lo sguardo su di lui per qualche attimo, mentre apriva la porta e
si accingeva ad andarsene. Un lieve sorriso di compassione gli si dipinse sul
volto.
“Perché non provi qualche canzone di Natale, nel
frattempo?”
Sirius Black si girò a guardarlo, spiazzato.
“Canzone di Natale?”
“Sì, esatto. Ci vorrebbe un po’ di spirito festivo, in
questa casa. Soprattutto adesso che avremo così tanti ospiti”.
Sirius Black assunse per un attimo un’aria pensierosa,
guardandosi intorno con circospezione, poi un sorriso spontaneo gli illuminò il
volto.
“Devo ammetterlo, Moony: le tue idee non sono così pessime
come pensavo”.
Lupin gli sorrise di rimando, in modo sinceramente
affettuoso. Le guance gli si colorirono un po’, probabilmente per essersi
sentito di nuovo chiamare con il suo soprannome dei tempi di scuola. Gettò un
altro paio di occhiate furtive all’amico, poi si decise ad uscire e inforcò le
scale, scendendo i gradini a passo rapido.
Non aveva ancora raggiunto la porta d’ingresso quando la
voce di Sirius gli riecheggiò alle spalle.
“Mi raccomando, niente libri noiosi!”
“Contaci” gli rispose, sorridendo, contagiato dal tono di
voce gaio che l’amico aveva di colpo assunto. Non smise di sorridere nemmeno
quando, prima di richiudersi l’uscio alle spalle, sentì una calda voce
baritonale intonare un vecchio motivetto natalizio.
Nota: il regalo per Harry a cui ho fatto
riferimento è il libro Magia Difensiva Pratica: Come Usarla contro le Arti
Oscure, che viene indicato come regalo ricevuto appunto da Harry per Natale
da parte di Remus e Sirius. L’ultima battuta di Remus, pertanto, è un pochino
ironica; alla fine comprerà sì un libro, ma non noioso come pensa Sirius.
Per quanto
riguarda le canzoni di Natale, che Sirius si mette effettivamente a cantare nel
capitolo 23, ho immaginato una genesi un po’ particolare, e cioè che Sirius
inizi a mettersi a cantare su suggerimento di Remus.
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Capitolo 2 *** Parte I - They Say Life Carries On ***
Parte I – They Say Life Carries On
Parte I – They Say Life
Carries On
Così come si
provocano o si esagerano i dolori dando loro importanza, nello stesso modo
questi scompaiono quando se ne distoglie l'attenzione.
(Sigmund Freud)
La signora Weasley li chiamava “attacchi di broncio”.
Sirius sembrava sentirsi oltremodo infastidito da quella
definizione, ma forse non avrebbe potuto essercene una più calzante:
semplicemente, si alzava al mattino presto, quando già si percepivano i rumori
di qualcuno che trafficava giù in cucina, si raccoglieva silenziosamente per
qualche secondo - giusto il tempo di realizzare dove si trovava, che cosa ci
faceva lì e quale preoccupazione l’avesse tormentato per tutta la notte
togliendogli il sonno – e, una volta che gli era tutto chiaro, decideva che per
il resto della giornata il suo umore non avrebbe potuto fare a meno di essere
pessimo.
Logorava se stesso senza una ragione particolare, e
l’aspetto ironico della questione era che lo intuiva anche lui.
Quello che non concepiva era come potessero gli altri non
fare il minimo sforzo per cercare di comprenderlo.
Ogni giorno, dopo essersi svegliato e aver compiuto quel
breve bilancio interiore – e dopo aver deciso se fosse il caso o meno di radersi
– scendeva le scale con la sua solita andatura pesante e svaccata, come di chi
si muove per pura inerzia, arrivava di sotto, esalava un saluto generico e
indifferente che si sforzava di tirare fuori per una semplice questione di
educazione (e soprattutto, per evitare ulteriori rimproveri da parte della
signora Weasley, che ormai aveva preso l’abitudine di bacchettarlo su ogni suo
minimo dettaglio comportamentale), sgraffignava qualcosa da mangiare
occupandomi esclusivamente dei fatti suoi con una sfacciataggine che
probabilmente irritava ognuno degli eventuali presenti, e infine, senza
preoccuparsi delle tracce che lasciava in giro, se ne tornava di sopra,
trascinandosi su per le scale con l’aria di un moribondo, raggiungeva la stanza
dove riposava Fierobecco e ci si chiudeva dentro sbattendo la porta con un
gesto secco, alle volte anche con un incantesimo.
I suoi sbalzi di umore rischiavano di diventare
proverbiali, di quel passo. Solo qualche giorno prima lo si sentiva cantare per
tutta la casa ad ogni ora del giorno; non si era nemmeno arrabbiato con me
quando aveva scoperto che a Harry avevo preso proprio un libro, come regalo di
Natale da parte nostra (“Non fare quella faccia. Ti avevo detto niente libri noiosi,
e tu hai rispettato il patto, una volta tanto” mi aveva detto, quando con un
certo scetticismo dubbioso gli avevo mostrato la mia scelta, di ritorno da
Diagon Alley), ma in poco tempo tutta la sua euforia era andata scemando, e
aveva finito per sfociare negli stessi musi lunghi dell’estate appena
trascorsa. Non che non lo capissi, ma mi faceva piacere vederlo allegro, una
volta tanto, e quelle facce da funerale che sfoggiava quando tentavo di
intrattenerlo non erano esattamente ciò che preferivo vedergli esibire.
Si comportava da asociale in una casa in cui tutti erano
stati abituati alla massima collaborazione, e risultava essere così l’elemento
stonato del gruppo, quello che giocava a fare il disadattato per attirare
l’attenzione su di sé.
“Pensi per caso che io non conosca a menadito tutti i
discorsi che imbastiscono alle mie spalle, pur non avendone mai ascoltato
direttamente nemmeno uno?” mi chiese, una di quelle fredde mattine, dopo che
avevo cercato di metterlo in guardia a proposito del suo comportamento di quei
giorni. In tutta risposta mi limitai a stringermi nelle spalle,
complimentandomi con lui per la sua incommensurabile sagacia.
Ad ogni modo, la sua opinione era che tutti lì dentro
conoscevano le sue ragioni. Ed era per questo che gli risultava impossibile
tollerare la loro insofferenza nei suoi confronti. Era una conseguenza diretta
dei fatti che lo riguardavano, e non vedeva perché quella comprensione che
esigevano da lui verso ciascuno di loro dovesse vedersela negata quando si
trattava di lui.
In fondo, non era colpa sua né di nessun altro se ormai
Voldemort e i suoi tirapiedi erano in grado di riconoscerlo anche trasformato
in un cane, se il tempo non si fermava ma continuava inesorabilmente a
trascorrere senza dargli tregua dal pensiero che di lì a poco Harry sarebbe
dovuto tornare a Hogwarts privandolo della sua compagnia, e se “quel bastardo
di Piton continua a lanciarmi frecciatine riguardo alla mia forzata inutilità”.
L’opinione generale era che, se solo avesse evitato di immusonirsi e di prenderla
così a male, forse avrebbe potuto godersi al meglio quel che restava delle
vacanze, senza rivolgere il pensiero al domani. Ma questo, per lui, era un
discorso campato in aria. Immaginavo che non sarebbe mai riuscito a scacciare
quel chiodo fisso dalla sua mente, e avrebbe finito soltanto per combinare
guai, tentando di scaricare un’ansia che gli si sarebbe comunque ritorta
contro. E in fondo, io pensavo di capirlo; nessuno poteva imporgli di bloccare
la mente e di forzare i suoi pensieri a non vagare oltre un certo limite. Prima
o poi, in qualche occasione, ci avrebbe comunque dovuto pensare lo stesso. Sirius
non era mai stato un tipo ottimista, perciò domandargli di vivere con serenità
il tempo che gli era stato concesso in compagnia di Harry era davvero una
pretesa troppo elevata. E l’aspetto peggiore di tutto quello spiacevole intrico
era che, non potendo dare la colpa a nessuno, in quanto non c’era un diretto
responsabile delle sue disgrazie con cui potersela prendere, finiva per
scaricarsi sugli altri. Era una cosa che aveva sempre fatto, per quanto
l’opinione comune potesse giudicarla deplorevole.
Anche con James capitava non di rado.
Lui quando era arrabbiato si isolava da tutti, per
ricomparire dopo ore con un qualche segno visibile del suo sfogo. Di solito
prendeva a pugni le pareti. Sirius invece diventava insopportabile, tagliente,
un cane feroce. Riversava tutta la sua crudeltà gratuita sulle persone che non
gli avevano fatto niente, ma che in quel dato momento avevano avuto la
malaugurata idea di rivolgergli la parola, ignari di quello a cui andavano
incontro. E nella maggior parte dei casi non se ne pentiva. Non ce la faceva a scegliere
la strada di James, perché nutriva sempre un impellente bisogno di scaricare la
sua misera frustrazione su un altro essere umano. Era sempre stato un gran
bastardo, ma era fondamentalmente la sua natura. E gli volevamo bene anche per
questo, dopotutto.
Spesso mi diceva che io non mi arrabbiavo mai, e che non
capiva come facessi. “Se anche qualcosa concorre ad urtarti, nel giro di
qualche secondo hai già fatto sparire quella ruga dalla fronte”. Diceva che mi
aveva sempre invidiato per questo, in un certo senso. Non aveva mai capito che
razza di fatica mi costasse, ogni volta, ingoiare l’irritazione e tornare ad
essere imperturbabile. Sorridendo silenziosamente tra me, mi dicevo che
probabilmente quella sua invidia ammessa a metà era soltanto la contorta
manifestazione del desiderio di ricevere affetto dagli altri, nonostante si
fosse sempre orgogliosamente dato da fare per piacere a meno gente possibile. Imparando
a schivare abilmente ogni tipo di compassione, era arrivato a far sì che nessuno
riuscisse a considerarlo una creatura che ispirasse dolcezza. Del resto, la sua
famiglia di dolcezza non gliene aveva mai data. Con il tempo, probabilmente,
aveva imparato a disprezzarla, per una sorta di meccanismo di autodifesa e di
orgoglio personale.
Se c’era una cosa che potevo dire con sicurezza, era che
ormai lo conoscevo bene. Avevo avuto dodici interminabili anni per riflettere
su ogni singolo dettaglio delle nostre misere esistenze, prima che venissero
spazzate via con un colpo di spugna. Sirius aveva trascorso dodici anni in
prigione ad Azkaban, e quei dodici anni era come se non li avesse mai vissuti;
perciò, quando le nostre strade si erano di nuovo incrociate, non era stato
difficile riallacciare i rapporti, poiché nessuno dei due era cambiato poi così
tanto, almeno caratterialmente. C’era stato il problema di quegli ultimi anni
trascorsi all’insegna di una certa freddezza tra me e lui, complici quel clima
di sospetto che aveva segnato le nostre vite durante la guerra e quella
faccenda mai veramente risolta dello scherzo giocato a Piton, quando Sirius
aveva ben pensato di spifferargli in che modo entrare nel tunnel del Platano
Picchiatore e finire per imbattersi in un Lupo Mannaro in completa
trasformazione. Ma nel momento in cui me l’ero trovato di fronte dopo dodici
anni, sentendomi dire che era innocente, era stato fin troppo bello per
ritirare fuori vecchi dissapori ormai accantonati. Rivederlo, per me, era stato
un vero colpo al cuore, la cosa più inaspettata che potessi mai concepire.
Perché ormai mi ci ero rassegnato, ad essere rimasto solo.
“Sirius?” lo chiamai, dando un paio di leggeri colpi alla
porta.
“Uhm, sei tu?” borbottò lui, dall’altra parte dell’uscio.
La sua voce mi arrivò ovattata, come se fosse accasciato sul letto con la testa
sotto il cuscino.
“Già. Disturbo?” domandai, in tono cortese. Lui grugnì.
“Dacci un taglio con queste inutili smancerie, Remus. Entra”.
Scossi la testa con un mezzo sorriso, poi posai una mano
sulla pesante maniglia d’ottone e feci il mio ingresso nella stanza del
principino.
La sua congenita mancanza di gentilezza e di educazione mi
avevano sempre fatto sorridere, dopotutto. Non valeva la pena di prendersela.
“Volevo… soltanto avvisarti che la cena è quasi pronta”
dissi, in tono cauto. Non solo non vi era nemmeno una luce accesa, ma scrutando
nella penombra mi sembrò di intravedere Sirius esattamente dove avevo ipotizzato
che potesse trovarsi: stravaccato sull’antico letto a baldacchino, con un
guanciale sopra la faccia.
“Mmm. Fantastico” mormorò, senza scomporsi. Lo osservai con
un sopracciglio inarcato.
“Ne deduco che non ti interessa granché” gli dissi. Lui mi
fece eco con una risata.
“Sei un genio. Ci hai quasi azzeccato”.
“Che intendi?” domandai, perplesso.
“Che non è esatto dire che non mi interessa granché. Non mi
interessa proprio per niente” esclamò lui, platealmente soddisfatto di se
stesso e della sua arroganza. Io scrollai le spalle, cercando di abituarmi al
buio.
“La signora Weasley ha minacciato di lasciarti digiuno, se
non dai una mano ad apparecchiare” lo informai.
“Umpf, ci sono i suoi amorevoli figlioli che adorano darsi
da fare in cucina” ribatté Sirius, in un confuso borbottio.
“Ti rendi conto che Molly fa sul serio, vero?” gli chiesi,
giusto per verificare che sapesse a cosa andava incontro continuando a
comportarsi in quel modo.
“Piantala, Remus, non ci credo nemmeno un po’. Non oserebbe
mai negarmi un pasto in casa mia” replicò lui, in tono aspro. Io non feci una
piega. Ero abituato ad essere bistrattato da lui, quando non era esattamente di
ottimo umore; ma con il tempo avevo imparato a non dargli la soddisfazione di
sentirsi posto al centro dell’attenzione anche da me.
“Se ne sei così convinto… allora buon appetito”.
Mi voltai e ripercorsi il pavimento scricchiolante e
polveroso a grandi falcate, pronto ad inforcare l’uscita e a dileguarmi il più
in fretta possibile, ma lui mi bloccò prima che potessi mettere in atto il mio
piano perfetto.
“Remus, ehi, aspetta un attimo”.
Indugiai sulla soglia, voltandomi indietro a fissare il
punto della massa amorfa stesa sul letto dove ipotizzavo ci fosse la sua
faccia, che ovviamente non potevo guardare, cosa che riusciva ad infastidirmi
non poco.
“Che c’è?” gli chiesi, celando a malapena una nota di
scarsa sopportazione.
“Senti, io… non ho voglia di scendere”.
Sembrava davvero un bambino, seppure ormai fosse giunto
alla veneranda età di trentasette anni.
“Così faciliti di gran lunga le cose a Molly” commentai,
stringendomi nelle spalle.
“No, aspetta… io voglio mangiare, per la barba di Merlino”.
Già, stava proprio facendo i capricci. Come se credesse di
potermi suggestionare con quel tono burbero da persona che ce l’ha con il mondo
intero. Sfortunatamente per lui, lo conoscevo fin troppo bene.
“E allora ti conviene muoverti, tra poco avranno già
finito…”
“No, Remus. Non hai capito”.
Qualcosa mi diceva che in realtà fosse lui che non aveva
capito, ma mi rassegnai ad ascoltarlo e mi appoggiai allo stipite della porta,
incrociando le braccia. Sentii che lui si tirava su a sedere, e ora mi fissava
dal bordo del letto.
“Ti sto chiedendo di portarmi da mangiare” mi disse, in
tono risolutivo. Io lo fissai con aria scettica, come se avesse bevuto troppo.
“Cioè dovrei farti da cameriere?” domandai. Sirius scoppiò
di nuovo a ridere.
“Cos’è, la carriera dell’Elfo Domestico non ti attira?”
“Hai già Kreacher, ti consiglio di divertirti a dare ordini
a lui invece che a me” gli dissi, seccamente, poi mi voltai di nuovo verso la
porta, afferrando la maniglia con decisione.
“Remus, per favore. Non ho voglia di vedere il lurido muso
di Kreacher in camera mia. Ho voglia di vedere solo la tua faccia, in camera
mia”.
Mi sentii inspiegabilmente confuso e imbarazzato per un
motivo che non riuscii a decifrare, e tentai di guardarlo bene negli occhi. Poi
capii cos’era che non andava.
“Non si vede un accidenti di niente in questa stanza,
Sirius” gli feci notare, accantonando la gentilezza. Lo sentii sbuffare, e un
attimo dopo il vecchio lampadario pendente dal soffitto della camera prese a
gettare una fioca luce sulle pareti.
“Ecco, ora ci vedi. Per favore, Remus”.
Lo guardai, riuscendo finalmente a scorgere i tratti del
suo viso. Aveva l’aria spossata, e i suoi occhi grigi erano cerchiati da
occhiaie scure. Sembrava una figura costruita su un insano contrasto, con la
pelle cerea del volto che risaltava sotto la chioma nera completamente
arruffata e in disordine. Nonostante questo, constatai che riuscivo ancora ad
intravedere, su quel volto scarno e segnato, i segni della sua famigerata
bellezza giovanile.
Mi stupii di me stesso per il modo in cui mi ero incantato
a contemplarlo, ma poi mi riscossi e decisi che l’avrei accontentato, anche se
in via del tutto eccezionale.
“Va bene, Sirius. Ma è l’ultima volta che lo faccio” lo
redarguii, aprendo la porta e preparandomi ad uscire.
“Sì, certo. Portami le braciole, okay?” mi voltai di nuovo,
squadrandolo con un’espressione visibilmente sconcertata.
“Hai anche il coraggio di avanzare delle pretese?!”
esclamai, incredulo.
“E va bene, Remus, portami quello che ti pare, ma sbrigati,
che ho fame” mi disse, capitolando. Io non mi commossi.
“Sai benissimo che devo rimanere a tavola con tutti gli
altri. A differenza di te, sono rimasto una persona educata” gli dissi, in tono
asettico, lasciandomi sfuggire un pizzico di sarcasmo. Lui grugnì di nuovo,
incrociando le braccia con dispetto e bofonchiando qualcosa riguardo al mio
essere insopportabile e saccente.
“Se morirò per gli stenti mi avrai sulla coscienza, sappilo”
mi rinfacciò. Io mi strinsi nelle spalle, indifferente di fronte alle sue
scenate.
“Se preferisci vivere, alzati da quel letto e scendi di
sotto”.
Lui mi gettò un’occhiata velenosa.
“Sei un perfido ricattatore, Remus Lupin” mi disse.
“E tu sei un indolente approfittatore, Sirius Black”
replicai io, senza scompormi.
“Vai, e cerca di darti una mossa” mi intimò lui, con
impazienza. Io gli feci un cenno volutamente pigro.
“Oh, certo. Farò tutto il possibile” lo rassicurai, in tono
ironico. Per punirlo adeguatamente delle sue assurde pretese, rimasi a tavola
il doppio del necessario. Mi profusi in chiacchiere e mi attardai a raccattare
gli avanzi che avevo messo da parte mentre aiutavo Molly e Arthur a sparecchiare,
dopodichè mi decisi a tornare ai piani alti per servire la cena al principino,
che probabilmente stava imprecando contro di me da almeno mezzora.
“Diavolo, Remus, ti avevo detto di sbrigarti” mi ringhiò
contro, quando mi vide entrare.
“Se hai così fame, concentrati sul cibo invece che su di me”
gli risposi io, gettandogli il pasto.
“Oh. Fantastico” esclamò, avventandocisi sopra come un
avvoltoio. Dischiuse l’involto e frugò tra le cibarie, scrutandole con sguardo
critico. Poi alzò gli occhi verso di me.
“Lo sai che non mi piacciono le patate” mi disse, in tono
di rimprovero, dopo essersi infilato in bocca un pezzo di carne.
“Ti posso assicurare che quelle sono divine” replicai io,
imperturbabile. Lui mi restituì uno sguardo scettico e diffidente.
“Non ho mai capito come diavolo faccia un Lupo Mannaro ad
apprezzare gli ortaggi, se devo essere sincero” osservò, rimestando le patate
con la forchetta con aria dubbiosa.
“Già, nemmeno io ho mai capito come faccia tu a parlare e
masticare contemporaneamente, senza che un solo boccone ti vada di traverso”.
Lui mi sorrise beffardo, inghiottendo un’altra forchettata.
“Dev’essere un’abilità congenita”.
“Già, hai ragione”.
Rimasi lì a fissarlo mentre mangiava, come se ci fosse
bisogno di controllarlo. Mi sentivo abbastanza ridicolo, ma non riuscivo a
trovare un pretesto efficace per abbandonare il campo, e lui, stranamente, non
mi aveva ancora cacciato via. Dopotutto, la sua compagnia riusciva ancora a
farmi piacere, anche se era rimasto lo stesso indisponente ragazzino di
quattordici anni fa.
“Siediti” mi disse dopo un po’, indicandomi il letto con un
cenno del capo. Dapprima reagii con un’occhiata confusa, sentendo di nuovo
sorgere in me quell’inspiegabile imbarazzo, poi recuperai la padronanza di me e
scossi prontamente la testa.
“No, grazie. Preferisco non guardare da vicino mentre ti
avventi sul cibo come un morto di fame”. Sirius mi guardò storto, come se
avessi appena detto un’eresia.
“E dai, vedi di piantarla. Vieni qui e siediti”.
Non volevo dare inizio ad una lite per un argomento così
stupido, perciò decisi di ubbidirgli e mi avvicinai al letto, sedendomici sopra
con cautela. Le molle del materasso cigolarono, ma Sirius non fece una piega,
troppo impegnato a concentrarsi sul suo piatto.
“Oserei dire che, nonostante le tue insopportabili
lamentele, la cena è di tuo gradimento” gli dissi, cogliendolo a masticare con
gli occhi socchiusi, come in estasi.
“Uhm, chiudi la bocca, Remus” mi zittì perentoriamente,
inghiottendo l’ennesimo boccone.
Mi accorsi in quel momento che c’era una strana atmosfera,
in quella stanza.
Eravamo soli, io e lui, e non so per quale motivo la cosa
mi faceva sentire a disagio. Io stavo lì a fargli compagnia mentre mangiava, ed
ero l’unico che tollerava di vedere in quel periodo in cui non faceva altro che
rispondere male e isolarsi, spesso in compagnia di una bottiglia di
Firewhiskey. Mi resi conto con sorpresa che mi sentivo intimamente lusingato
della sua preferenza nei miei confronti, anche se sapevo bene che l’unico
motivo per cui stava male era per via di Harry, e che aveva designato me come
sua compagnia soltanto perché, fra tutti coloro che andavano e venivano in
quella casa fatiscente, io ero quello che lo conosceva meglio, e che sapeva
come prenderlo. Ma Sirius, in passato, non aveva mai preferito me. Il suo
prediletto era sempre stato James, e in quel momento io ero l’unica possibilità
rimasta.
“Spiegami una cosa, Sirius”.
Lui mi guardò, con aria evidentemente interrogativa. Esitai
un attimo, dopodichè mi decisi a fargli quella domanda che mi premeva sulle
labbra.
“Per quale motivo sei arrivato a sospettare che il
traditore fossi io, invece che Peter?”
Per un attimo mi fissò come se non avesse idea di che cosa
stessi parlando. Poi diede segno di aver compreso, e roteò gli occhi con
disappunto.
“Diavolo, Remus, perché vuoi parlare proprio di queste
cose? Non ti sembro già abbastanza di cattivo umore?”
“La mia era una semplice curiosità” mi schermii a mezza
voce, in tono indifferente. Sentii il suo sguardo su di me, e intuii che mi
stava guardando storto, probabilmente pensando che fossi pazzo. Poi lo sentii
sospirare, preparandosi a rispondermi controvoglia.
“Beh, io e te non andavamo più molto d’accordo. Lo sai”.
Fissai il pavimento con sguardo vacuo. Non avevo bisogno di
sforzarmi per capire a che cosa si riferisse.
“E quindi, per questo…”
“Sì, per questo. Peter, quello schifoso, ci stava sempre
intorno, e fingeva così bene di avere a cuore James e Lily che io…” Si bloccò,
stringendo i pugni per la rabbia.
“Non devi sentirti in colpa” gli dissi, gentilmente,
sfiorandogli il braccio.
“Non mi sento in colpa” replicò lui, in tono secco.
Mentiva, e lo sapevo benissimo. Solo che non gli piaceva prendere coscienza del
fatto che avesse commesso un errore.
“Ah, no?” domandai, con una vena d’incredulità.
“Remus, diavolo, ti ho già spiegato e chiesto scusa più di
una volta…”
“Lo so”.
Feci un sorriso amaro, mentre le sue parole mi
riecheggiavano nella testa, evocando ricordi di un passato che sembrava
appartenere ad un’altra vita. Quando per fare uno stupido scherzo a Severus
Piton aveva tirato in ballo me e il mio piccolo problema peloso, come soleva
chiamarlo James. Mi sembrava passata un’eternità, e non era così piacevole
constatarlo.
“Non volevo che qualcuno si facesse del male. Cioè,
trattandosi di Piton probabilmente questo non è del tutto vero, ma… andiamo,
smettila di guardarmi come se stessi bestemmiando!”
Sorrisi, scuotendo la testa di fronte alla sua
indignazione.
“Tu non crescerai mai, Sirius”.
Lui sembrò rabbuiarsi, e mi gettò un’occhiata torva.
“Tu invece non hai intenzione di perdonarmi, a quanto pare”.
“Io ti ho già perdonato, razza di idiota, da molto prima di
quanto tu creda” ribattei, in tono più colorito, alzando la voce. Non amavo
alterarmi in quel modo, ma quando era troppo…
“E allora perché rivangare queste cose già morte e
sepolte?” mi chiese Sirius, fissandomi con aria scettica. Io ricambiai lo
sguardo, assumendo un’espressione grave.
“Perché ormai non abbiamo altro di cui parlare, se non del
passato”. Lui corrugò la fronte, poi si mise a ridere.
“Sei solo un maledetto sentimentale. Senti, che ne dici se
un giorno di questi ci ubriachiamo insieme? In ricordo dei bei vecchi giorni
passati. Magari arriveremo ad essere talmente sbronzi da poter credere di essere
tornati ai tempi della scuola”. Mi lasciai sfuggire un sorriso, osservando con
condiscendenza la sua improvvisa eccitazione bambinesca.
“Io non mi sono mai ubriacato, a differenza di te e di
James” gli rammentai.
“Oh, me lo ricordo bene. Ma credimi, caro mio, ti potrebbe
soltanto giovare. Il tuo complesso del sopravvissuto si dissolverebbe
magicamente nell’alcool nel giro di pochi secondi”.
“Per poi tornare il mattino dopo insieme ad un gran mal di
testa”. Sirius sbuffò sonoramente.
“Come sei noioso” mi disse.
“Sei tu che sei fuori di testa” ricambiai io, con una mezza
risata.
“Oh, finalmente ti degni di insultarmi come si deve. Mi
sento lusingato della tua attenzione” mi fece notare, con un sorriso di
soddisfazione.
“Che vuoi dire?” gli chiesi, perplesso. Lui se ne uscì con
una risata beffarda.
“Che sei così preoccupato a mantenerti sul tuo piedistallo
di superiore indifferenza che ancora non hai capito che anche se i Malandrini
non esistono più io sono ancora vivo, dannazione”.
Lo fissai ad occhi sgranati, pensando che se c’era qualcuno
in grado di sorprendermi sempre e comunque anche dopo tutti quegli anni, quello
era Sirius Black.
Mi sforzai di capire che cosa volesse dire, dato che non
ero certo io quello che stava continuando a vivere ancorato al passato; parlava
proprio lui che mi aveva appena proposto di ubriacarci per illuderci di essere
tornati indietro nel tempo e poter fare finta che James fosse ancora vivo e che
Peter non ci avesse mai traditi, lui che continuava a ripetermi quanto Harry
assomigliasse a suo padre e quanto avrebbe voluto che l’avesse conosciuto, lui
che continuava a litigare con Piton come quando eravamo a scuola.
Non riuscivo davvero a comprendere da dove originasse tutta
quella improvvisa indignazione nei miei confronti, né per quale motivo si
sentisse in diritto di rimproverarmi per il mio comportamento, dopo che gli
avevo persino portato da mangiare.
D’accordo, se avesse smesso di dire assurdità non si
sarebbe più chiamato Sirius Black.
Ma ad ogni modo non aveva senso.
Sollevai lo sguardo con il timore di incontrare i suoi
occhi, e rimanemmo a fissarci senza sapere che dire. In preda all’incertezza,
non trovai niente di meglio da fare che stringergli amichevolmente una spalla
ossuta. Rimanemmo per qualche secondo in silenzio, quasi immobili, senza
guardarci negli occhi. Forse dovevo intenderlo come il nostro modo di fare
pace.
“Ti ringrazio, comunque. Il malumore per Harry mi è
completamente passato” mi disse lui, con aria melanconica. Io inarcai
lievemente un sopracciglio, ancora più confuso di prima.
“Lieto di esserti stato utile” risposi, sentendomi
abbastanza idiota. Forse avrei dovuto semplicemente chiedergli perché si fosse
arrabbiato con me in quel modo poco prima, ma alla fine non ne ebbi il
coraggio, e dopo qualche minuto di imbarazzante silenzio durante i quali non
avevo trovato la forza di staccare la mano dalla sua spalla mi alzai per
andarmene, senza aggiungere altro.
“Vai già via?” mi chiese lui, sfiorandomi il braccio.
“Si è fatto tardi” gli dissi, con aria di scusa. Lui mi
sfoderò quel suo vecchio e accattivante sorriso beffardo.
“Cos’è, Molly Weasley ti ha imposto il coprifuoco serale?”
mi domandò, con aria canzonatoria. Io scossi la testa, alzando gli occhi al
soffitto.
“È quasi mezzanotte, Sirius…”
“Perché non rimani qui a dormire?”
Spalancai gli occhi più che potei, non riuscendo in alcun
modo a contenere il mio enorme stupore. Sirius reagì con un’occhiata di
sufficienza.
“Il letto non ti sembra abbastanza largo, per caso?” mi
chiese, con asprezza. Io corrugai la fronte, grattandomi la testa.
Volevo chiedergli perché. Mi sentivo agitato e imbarazzato,
ma non riuscii ad aprire bocca. Desideravo ardentemente poter recuperare il
controllo di me stesso ed esibire il mio superiore distacco prendendolo
bonariamente in giro con qualche battuta ironica, ma inspiegabilmente non ne
fui capace. Guardavo Sirius negli occhi, scrutando la sua espressione
spazientita e imbronciata, e pur continuando a ripetermi mentalmente che si
trattava soltanto dell’ennesima pretesa capricciosa del momento, continuava a
sembrarmi tutto fin troppo assurdo.
“Va bene” risposi, dopo diversi secondi di imbarazzante
silenzio, e senza aggiungere altro feci il giro del letto e feci per sedermi
sul bordo.
“Ah, no, non se ne parla. Il lato vicino alla finestra è
mio” mi bloccò Sirius, scuotendo un dito in segno di diniego. Io mi coprii il
volto con una mano, esalando un pesante sospiro.
“Sei ridicolo” gli dissi, e desistetti dalla tentazione di
assalirlo di domande o di inforcare la porta e andarmene. Ricordai che una
volta James mi aveva detto che io ero l’unico veramente in grado di sopportare
Sirius, e io l’avevo smentito con un sorriso: Sirius era sempre stato il
fratello di James, avevano trascorso separati l’uno dall’altro sempre il minor
tempo possibile, ed era impensabile che, con il legame che sussisteva tra loro,
quello più in grado di sopportare Sirius fossi io, anziché James. Eppure, in
quel momento cominciai a pensare che forse James non aveva avuto tutti i torti,
nel fare un’affermazione del genere. Nessun altro avrebbe mai accettato di
assecondare le astruse richieste di Sirius Black, e io ero soltanto un povero
idiota: chiunque altro l’avrebbe lasciato a cuocere nel suo brodo già da tempo,
invece che rimanergli a fianco. Eppure, anche se ero perfettamente cosciente di
avere questa possibilità a disposizione, sapevo altrettanto bene che non
l’avrei mai sfruttata. Forse sarebbe stato il caso che mi domandassi il perché,
ma cominciavo ad essere stanco e il letto di Sirius ormai mi sembrava il più
invitante del mondo.
“Ti avverto, però” dissi, reprimendo uno sbadiglio. “Domani
mattina mi devo alzare presto perché mi hanno assegnato delle commissioni da
fare per l’Ordine, perciò non voglio sentire storie sul fatto che vuoi venire
anche tu, perché non se ne parla” sentenziai, con severità. Mi volsi a
guardarlo, osservando la sua espressione faticosamente rassegnata.
Inspiegabilmente, mi sentii cogliere da un moto di tenerezza.
“Non fare quella faccia da cane bastonato” lo presi in
giro, con calore, rendendomi improvvisamente conto che avevo una certa
nostalgia di Padfoot, nonostante quando si trasformasse avesse sempre avuto la
brutta abitudine di poggiarmi le zampe sulle spalle e tentare di atterrarmi.
“Non sei affatto spiritoso” grugnì lui, con aria offesa. Io
gli sorrisi.
“Già, me l’hai sempre detto”.
“Significa che sarà vero”.
Scossi la testa, sempre sorridendo, poi scostai le coperte
e mi ci infilai sotto, sbadigliando di nuovo. Indugiai un attimo prima di
distendermi e mi voltai a guardarlo; si era di nuovo disteso sul letto, in modo
scomposto e privo di decoro, con le braccia incrociate sotto la testa. Mi gettò
una schiva occhiata di sbieco che non durò più di un attimo, poi spense la luce
e si avvolse nelle coperte.
“Buonanotte, Sirius”.
“’Notte” mi rispose lui, laconico, la voce impastata dal
sonno.
Rimasi a fissare il buio per qualche minuto, prima di
decidermi a chiudere gli occhi e dormire.
Mi resi conto che non mi pesava affatto essere lì per
riempire un suo vuoto affettivo.
Nevermind the words
that came
Out of my mouth when
all that I could feel was pain.
The difference in the
two of us
Comes down to the
way,
You rise over things,
I just put down.
(Grant Lee Phillips, “Happiness”)
Nota: il titolo è un verso della canzone “I Grieve” di Peter Gabriel. Per
quanto riguarda il capitolo, posso solo dire che mi è servito per iniziare ad
introdurre la mia idea di rapporto Sirius/Remus, che è fatta di cose non dette
o dette al rovescio, di incomprensioni, di silenzi e soprattutto di un
sentimento che non si spiega. Ho fatto in modo che si avverta molto
sottilmente, in quanto è ben lontana da me l’idea di un Sirius e un Remus che
tutt’ad un tratto si dichiarano amore eterno e decidono di darsi alla pazza
gioia; ho sempre pensato che nonostante le enormi diversità caratteriali siano
in grado di capirsi meglio di quanto loro stessi non riescano a riconoscere, ma
tutto, in questa fanfic, si gioca su segnali impliciti che chi riesce a
cogliere è bravo, ma che personalmente ritengo essere in sintonia con i caratteri
di questi due personaggi, chiusi e non disposti mai a parlar chiaro e semplice
a proposito di se stessi.
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Capitolo 3 *** Parte II - Can't have you, can't leave you ***
Parte II – Can’t Have You, Can’t Leave You
Parte II – Can’t Have
You, Can’t Leave You
Si vive per anni
accanto a un essere umano, senza vederlo. Un giorno ecco che uno alza gli occhi
e lo vede. In un attimo non si sa perché, non si sa come, qualcosa si rompe:
una diga tra due acque. E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano.
(Gabriele D’Annunzio)
Lo sentii subito, quando si svegliò.
Non era così difficile capirlo.
I suoi muscoli erano entrati di colpo in tensione, e il suo
corpo si era irrigidito in un attimo. Provai ad immaginare che cosa gli stesse
passando per la testa in quel momento, ma anche senza saperlo con certezza era
comunque molto divertente. Di una cosa ero certo, e cioè che non si aspettava
di svegliarsi e trovarmi completamente avvinghiato a lui.
Del resto, non era colpa mia. Quando avevo aperto gli occhi
mi trovavo già in questa posizione. Dovevo essermi rigirato nel sonno, tutto
qui. In effetti, mi ero proprio scordato di fargli presente questo piccolo
particolare; da quando ero uscito da Azkaban passavo sempre delle notti
piuttosto agitate. Ma in fin dei conti, per me non era certo un problema. Non
vedevo perché avrebbe dovuto esserlo per lui, di conseguenza.
Dopotutto, era piacevole. Remus emanava uno strano tepore,
quando dormiva. Io invece avevo sempre un freddo cane, e considerata la mia
doppia natura l’espressione calzava perfettamente. In più, dato che era
soltanto l’inizio di gennaio, era praticamente impossibile che una montagna di
coperte riuscisse ad appagare il mio desiderio di calore.
Avevo un bel ricordo di quella volta in cui io e Remus
avevamo dormito vicini, da ragazzi. Era stato dopo una delle notti di Luna
piena, quando noi quattro scapestrati, invece di tornare dentro il Platano
Picchiatore, ci eravamo incoscientemente appisolati fuori, al limitare della
foresta. Ma mi ero scordato di questo bizzarro tepore che emanava. La sua pelle
scottava, quasi avesse la febbre; eppure, il suo sonno era stato perfettamente
tranquillo, tant’è che non si era mosso di un centimetro dalla posizione in cui
si era coricato ieri notte. Era ancora lì, girato su un fianco, dandomi le
spalle, rannicchiato su se stesso, con un braccio infilato sotto il cuscino.
Io invece avevo annullato la distanza che era stata
inizialmente stabilita fra me e lui, mi ero abbarbicato al suo corpo da dietro,
avevo passato un braccio intorno ai suoi fianchi e avevo incassato la testa fra
la sua spalla sinistra e il suo collo.
E ora sorridevo beffardamente, ad occhi chiusi.
Dopo qualche minuto di silenzio, durante i quali riuscivo a
percepire in modo palpabile la sua tensione e la sua indecisione sul da farsi,
lo sentii muoversi leggermente tentando di liberarsi con cautela dalla stretta
in cui l’avevo rinchiuso, che modestamente avrebbe potuto far concorrenza al
Tranello del Diavolo, per quanto era salda. La sua si rivelò ben presto
un’impresa disperata, e allora decise di ricorrere ad altri mezzi.
“Sirius?” mi chiamò, a bassa voce, come se temesse di
disturbarmi. Io feci finta di niente e rimasi immobile. Lo sentii sospirare, e
poi ripetere il mio nome con una leggera punta d’insistenza in più.
“Sirius…”
Il mio sorriso si allargò, in modo del tutto spontaneo. Mi
stavo prendendo gioco di lui alle sue spalle, letteralmente. E lui non se ne
rendeva neanche conto.
“Sirius, forse sarebbe il caso che tu—”
“AHO!”
Mi ritirai di scatto premendomi le mani sull’occhio, con un
guaito di dolore. Accidenti. Il bastardo mi aveva centrato con una gomitata.
“Sirius mi dispiace, non l’ho fatto apposta…”
Una sfilza di imprecazioni misconosciute mi uscì dalle
labbra in tutta risposta, mentre mi dondolavo su me stesso in preda ad un
dolore folle.
“Beh, devo dire che se non altro Azkaban ti è servita ad
ampliare il tuo vocabolario” osservò lui, con un certo ironico scetticismo. Io
lo guardai con il mio occhio sano e scoppiai a ridere, fragorosamente.
“Allora non è vero che tu non scadi mai nelle battute di
cattivo gusto, eh, Moony?” gli dissi, tra le risa. Lui mi guardò con un mezzo
sorriso sfuggitogli da una finta espressione imbronciata, e fu costretto a
capitolare di fronte alla mia ilarità.
“Magari potresti illustrarmi il significato di qualcuno dei
termini scurrili che hai appena usato, non sono tanto sicuro di saperlo…”
Ci guardammo ridendo, entrambi con i capelli arruffati dal
sonno e le palpebre ancora pesanti.
“Vedi? Io l’ho sempre detto, che consumarti sui libri non
ti serviva a niente” commentai, mentre una fitta di dolore mi attraversava di
nuovo la zona contusa, facendo scemare la mia risata in una smorfia sofferente.
Un guaito mi uscì dalle labbra, mentre ci premevo la mano sopra con più forza,
nel tentativo di ricacciare lo spasimo all’interno del mio corpo. Accidenti a
lui, e al suo grazioso modo di svegliarmi la mattina.
“Sirius, ti ho detto che mi dispiace. Non l’ho fatto
apposta. Smettila di fare tutte queste scenate melodrammatiche”. Mi limitai a
rispondere con un grugnito, pregando che la piantasse di fare il saccente. Era
proprio necessario che si desse da fare per trovare una qualsiasi scusa per
rimproverarmi anche quando era lui dalla parte del torto?
“Sì, va bene, ti perdono, però mi hai fatto un occhio nero,
dannazione” replicai, inviperito, quando lui tenta di scostarmi la mano
dall’orbita.
“Fammi vedere” mi disse. Lo respinsi con un gesto secco.
“Lascia perdere” replicai, ringhiando. Lui reagì con un sorriso
bonario.
“Non ti agitare, voglio solo vedere se è vero che ti verrà
un occhio nero”.
“Se mi esce fuori il livido mi dai venti Galeoni”.
“E secondo te dove diavolo li vado a pescare, venti
Galeoni?” mi chiese lui, scoppiando a ridere di gusto. Già, ero davvero uno
spettacolo esilarante. Non avevo mai capito perché ci trovasse tutta questa
soddisfazione nel prendermi in giro.
“Non è un problema mio” gli risposi, seccamente.
“Così mi sei decisamente d’aiuto” commentò lui,
stringendosi nelle spalle con ovvietà.
“In qualche modo dovrai cercare di farti perdonare, e ti
assicuro che non sarà facile”.
Remus scoppiò di nuovo a ridere, divertito, guardandomi con
tenerezza, come si fa di solito con i bambini che fanno i capricci. Lui e la
sua stramaledetta superiorità da persona equilibrata, alle volte, riuscivano a
darmi veramente sui nervi. Però non riuscivo mai a tenergli il broncio a lungo.
Rideva così di rado che, quelle poche volte che lo faceva – e che di solito
implicavano la mia presenza a sostenere la parte del buffone di turno – non
potevo fare a meno di trovarlo adorabile.
“Ho fatto un sogno bizzarro, stanotte, sai” mi disse,
soprapensiero. Io lo fissai con curiosità, raddrizzandomi a sedere sul letto.
“Che genere di sogno?” gli chiesi. Lui rimase in silenzio
per qualche secondo, in meditazione, probabilmente tentando di richiamare alla
memoria i dettagli.
“Non ricordo tutto. C’eri tu. Solo che eri… un po’ più
simile a com’eri una ventina d’anni fa” mi disse, incerto. Io gli gettai
un’occhiata torva.
“Ehi. Il mio fascino ce l’ho ancora, e se solo mi faceste
uscire di qui te lo dimostrerei in un attimo. Certo, mi concentrerei su qualche
Babbana, perché non credo che chi conosce la mia identità possa pensare di
soffermarsi sul mio aspetto fisico…”
“Smettila, non hai bisogno di uscire di qui” mi zittì, in
tono esasperato. Io scossi la testa, poco convinto.
“Oh, sì, certo. Grazie tante. Le tue infondate garanzie mi
confortano davvero. Vai avanti”.
“Va bene. Insomma, c’eri tu sdraiato su questo letto, che
ti fingevi moribondo. Arrivavo io, e per tirarti su ti proponevo di
architettare uno scherzo ai danni di Piton… non ridere, me ne vergogno già di
mio… solo che, beh, Piton era adulto, e… ti ricordi quando avevamo scavato
quella buca nel parco per farcelo cadere dentro…? Ecco, dovevamo farla più
grande, perché lui era inaspettatamente cresciuto… solo che, prima che
potessimo mettere in atto lo scherzo…”
Remus si fermò, indugiando. Assunse una strana espressione
colpevole, e io subito mi insospettii.
“Che c’è? Guarda che non mi offendo, qualsiasi cosa tu
abbia sognato”. Ormai ero fin troppo curioso di scoprire come andava a finire.
Lui sembrò esitare ancora un attimo, poi si decise, e riprese a raccontare.
“Beh, arrivavano i membri dell’Ordine a portare via Harry
da Hogwarts. Tu davi fuori di matto, e decidevano di riportarti ad Azkaban… mi
sono svegliato nel momento in cui stavo tentando di farti da avvocato difensore
in Sala Grande. I membri della giuria erano gli esaminatori dei nostri
M.A.G.O”.
“Oh. E poi?”
“Basta, mi sono svegliato”. Cercai di incrociare il suo
sguardo, ma lui teneva gli occhi fissi su un punto imprecisato del pavimento, e
sospirava. Aveva l’aria di sentirsi come se avesse appena detto qualcosa di
indelicato nei miei confronti.
“Mi dispiace” mi disse, con quell’espressione contrita. Io
mi sentii paradossalmente male per lui.
“Non dire sciocchezze. È solo uno stupido sogno. E poi,
potrebbe averti indicato la tua prossima carriera” risposi, cercando di
sdrammatizzare; riuscii perlomeno a strappargli un mezzo sorriso, cosa che mi
rese felice come un bambino.
“No, ne dubito. Mi sembrava di essere un pessimo avvocato”
ammise lui, chinando lo sguardo.
“Scommetto che ti saresti risollevato presto, se la posta
in gioco fosse stata davvero farmi finire di nuovo ad Azkaban” affermai con
convinzione, battendogli una mano sulla spalla. Mi sembrò di cogliere un
leggero rossore sul suo viso, celato da quello sguardo di gratitudine.
“Me lo auguro. Se fosse stato tutto vero, non me lo sarei
mai perdonato”.
“Avresti fatto il possibile, e questo mi basta” lo liquidai
in tono bonario, sentendomi stranamente compiaciuto da quei momentanei
sentimentalismi che ci stavamo scambiando.
“Cioè, non avresti mai inveito contro di me…?”
Mi strinsi nelle spalle, incerto.
“Solo qualche volta. Come in effetti ho fatto”. Remus mi
guardò con una strana apprensione.
“Che vuoi dire?”
“Che, beh… nonostante tutto, nonostante fossi in prigione
da innocente e James fosse morto per colpa mia… alle volte pensavo che ero
contento che alla fine non fossi tu la spia”. Mi guardò ancora con quella
faccia, come se fosse stato assalito da un inspiegabile rimorso. Mi posò una
mano sulla spalla, con un sospiro.
“Sirius, non è stata colpa tua”. Sbuffai, spazientito.
“Non ricominciamo con questo discorso, okay? Tanto non sei
mai riuscito a convincermi della tua opinione”. Lui si rasserenò, sfoggiando un
sorrisetto obliquo.
“Chissà perché” mormorò, con l’aria di chi la sa lunga.
“Perché ho ragione io, ecco perché” replicai io, ostentando
una fiera aria di superiorità. Lui sorrise, scuotendo la testa.
“E va bene, come vuoi”. Lo scrutai con sospetto, mentre
stirava un lembo del lenzuolo con un distratto gesto della mano.
“Ora mi assecondi anche, pur di farmi contento?”
Remus mi rispose con un’espressione lievemente spazientita,
inarcando un sopracciglio.
“Spero tu ti renda conto da solo di essere un tantino
assurdo, considerato che se ti contraddico non va bene perché la ragione è
sempre e comunque dalla tua parte, e se ti assecondo non va bene perché ti sembra
che lo faccia solo per farti contento”. Corrugai la fronte, fissandolo con aria
perplessa.
“Ma infatti è per questo che lo fai” risposi.
“Dunque non c’è modo per farti smettere di polemizzare”
concluse lui, reclinando il capo in un gesto di rassegnazione.
“Hai ragione” confermai, passandomi una mano tra i capelli.
Remus esibì un perfido sorriso divertito.
“Grazie a Godric, stavolta non hai nulla da ridire” esultò.
Io alzai gli occhi al soffitto, esasperato.
“Ti salvi soltanto perché è mattino presto e le mie
capacità ragionative sono ancora parzialmente assopite” capitolai, scuotendo la
testa. Per una volta, potevo anche dargliela vinta, se lo faceva sentire così
bene. In fondo, vederlo ridere per merito mio mi aveva sempre procurato una
strana e calda soddisfazione.
Rimanemmo lì fermi per qualche minuto, in silenzio, come se
fosse il momento di chiudere il sipario, alzarci dal letto e andare a sbrigare
le rispettive faccende, ma nessuno dei due avesse molta voglia di farlo. Io men
che meno.
Ormai, in quel periodo schifoso, riuscivo a sopportare solo
la vista di Remus. Lui, del resto, non sembrava farsene un problema, se dopo
aver sbrigato le faccende per conto dell’Ordine io finivo per richiedere la sua
presenza ai piani alti, in genere in camera mia. Non mi interessava indagare
sul perché. Remus era quello che di me sapeva ogni cosa, persino quante volte
andavo abitualmente in bagno. C’erano stati quei dodici anni di silenzio e
distanza tra noi, ma ci sforzavamo di comportarci come se non fossero mai passati,
e ci riuscivamo anche piuttosto bene; la cosa migliore era far finta di non
aver mai perso la fiducia l’uno nell’altro, di modo che né io né lui dovessimo
faticare per riguadagnarcela. Adesso che la verità era nota ad entrambi – anche
se io per quei dodici anni ne avevo conservato l’esclusiva assoluta – e che
tutti i dubbi erano stati chiariti quella notte alla Stamberga, non c’era
motivo di ripartire da zero. Io, a parte le ovvie conseguenze che dodici anni
di prigione possono comportare, non ero sostanzialmente cambiato, e lui era
rimasto sempre il solito scolaretto impeccabilmente saccente, che non solo non
si lasciava intimorire dai miei scatti di malumore, ma riusciva ogni volta ad
ostentare quella sua pacata indifferenza mista al costante e sottilmente
perfido sarcasmo che non mancava mai di rivolgermi, finendo poi per prendermi
con le buone anche nella peggiore delle situazioni, senza mai darmi la
soddisfazione di mostrarsi davvero irritato per il mio modo di fare. Riusciva
seriamente a darmi sui nervi, ma avevo bisogno solo di lui, per sfogare tutto
il mio malumore accumulato. Sapeva già tutto, non mi giudicava per il mio modo
di fare e non mi guardava con superiore disprezzo come se fossi soltanto un
povero pazzo che soffre di manie di persecuzione, non dovevo spiegargli niente
del mio passato e non sfoggiava mai quella filosofia spiccia del genere “Sirius
è fatto così, c’è poco da fare”, che pareva essere così cara agli altri membri
dell’Ordine. Ormai il mio era una specie di attaccamento morboso di cui non
riuscivo a fare a meno, ma finché ad entrambi andava bene così, non c’era
bisogno di condurre nessun tipo di indagine psicologica sul sottoscritto.
Era piuttosto strano. Spesso pensavo che, se non fossimo
finiti nella stessa Casa, non avrei mai legato con uno come Remus. Non era
stato per niente facile da avvicinare, nemmeno per instaurarci un rapporto di
odio reciproco: se provavo a provocarlo con qualche battuta offensiva, lui
rispondeva con quell’indifferenza distaccata che non regalava proprio nessuna
soddisfazione. Mi faceva sempre sentire un idiota, quando si comportava così.
Sembrava che niente lo sfiorasse, e che io fossi soltanto un meschino essere
umano che si affannava per delle sciocchezze come cercare un pretesto per
litigare. Poi però io e James iniziammo a prenderlo in simpatia, perché se ne
stava sempre per i fatti suoi e non voleva legare con nessuno. In pratica, lo
costringemmo a legare con noi. Non era certo il tipo da elemosinare la
compagnia altrui, anche se poi si era trovato subito bene e aveva iniziato a
sorridere un po’, cosa che in precedenza nessuno gli aveva mai visto fare.
“A che pensi?” mi domandò, reclinando lievemente il capo
verso la spalla destra e osservandomi con affettuosa curiosità. Io mi lasciai
sfuggire un mezzo sorriso, mentre mi scostavo i capelli dagli occhi.
“Mi chiedevo come diavolo abbiamo fatto io e te a diventare
amici” risposi, osservandolo ridere in quel modo così raramente genuino. Prese
a tormentarsi uno dei lembi sfrangiati della veste, lo sguardo timidamente
chino sul copriletto e un lieve rossore sulle guance, in un’immagine che lo
rendeva così simile a quello schivo ragazzino undicenne che avevo conosciuto
tanti anni fa, così tanti che non riuscivo nemmeno a contarli, e che pure mi
sembravano trascorsi in un lampo, con il senno di poi, mentre stavo lì a
rimirarlo imbambolato in una vecchia stanza polverosa in cui i raggi della
fredda alba d’inverno filtravano attraverso le pesanti tende verde scuro.
“È stato strano” disse Remus, con un lieve sorriso. Io
annuii, passandomi una mano fra i capelli.
“Ti ricordi quando tuo fratello è arrivato a Hogwarts e ti
ha visto in giro con me?”
“Sì, è scoppiato a ridere e ci siamo presi a pugni”
ricordai, con una stretta al cuore. Quel giorno, io e Remus avevamo appena
finito di bisticciare perché lui voleva convincermi a mettermi subito a
studiare Artimanzia, dato che, stando alle sue convinzioni, era una materia
difficile e mi sarei dimostrato molto meno irresponsabile se avessi cominciato
a seguirla adeguatamente fin dall’inizio, in modo da evitare di ritrovarmi alla
fine del semestre con i compiti in classe imminenti senza averci capito un bel
nulla.
“Ho pensato un sacco di volte che non sarei più riuscito a
reggerti ancora per molto. Senza offesa” gli dissi, correggendo leggermente il
tiro nella speranza che non se la prendesse a male. Ma Remus non se la prendeva
mai. Si era dimostrato capace di sopportare le mie frecciatine per pomeriggi
interi, e non aveva mai accennato al desiderio di infilarsi una corda al collo
per tutte le volte che a lezione mi ero seduto di fianco a lui con la chiara
intenzione di dargli fastidio.
“Nessuna offesa, lo stesso vale per me” rispose, ed era
evidente che ci eravamo capiti all’istante. Ognuno di noi due si era dimostrato
insopportabile a suo modo, ed era così bello poterne ridere, ora, anche se il
passare del tempo aveva comportato perdite irrimediabili per entrambi.
“Non hai proprio una bella cera,” osservai, facendo
scuotere la testa al mio amico licantropo a causa della mia inguaribile
mancanza di delicatezza, “vuoi che ti faccia compagnia per la prossima luna
piena?”
Sapevo che sarebbe successo tra poco, ed io ero ancora più
che capace di trasformarmi in un cane. Era sempre stato piacevole, trascorrere
le nottate insieme sotto sembianze animalesche. Lui non era più nella posizione
di rimproverarmi, io non ero più nella posizione di provocarlo sadicamente. Gli
facevo compagnia e basta, come desideravo fare.
“Non è necessario, lo sai” mi rispose lui, con quella sua
tipica aria dimessa e schiva da persona che non vuole aiuto da nessuno. Ma io
del suo atteggiamento da povero martire me n’ero sempre cordialmente fregato.
“Potrà non esserlo per te, ma per me lo è, mi dispiace.
Padfoot ha bisogno di risvegliarsi, ogni tanto” replicai, appoggiandomi sui
gomiti con un sorriso sornione.
“Non ci sarà da divertirsi, ti avverto. Prendo la Pozione
Antilupo da due anni, ormai, e…”
“Sì, sì, lo so, ti è di grande aiuto, eccetera. E che
importa? Ci rannicchiamo in una stanza in forma animale e schiacciamo insieme
un pisolino” gli spiegai, con ovvietà.
“Francamente, Sirius, non capisco davvero perché ti
incaponisci con queste sciocchezze”.
Lo fissai diritto negli occhi eludendo con un sorriso il
suo sguardo indagatore, poi mi strinsi nelle spalle, facendo vagare lo sguardo
all’interno della stanza e sentendomi mancare il fiato nell’avvertire ciò che
mi stava per uscire di bocca.
“Francamente, Remus, potrebbe essere perché ho una cotta
per te”.
Il silenzio più profondo e greve calò nella stanza dopo
questa mia affermazione.
Non avevo mai fatto fatica a non frenare la traduzione dei
miei pensieri in parole pronunciate ad alta voce, e l’abitudine non mi tradì
nemmeno in quel momento. Ma la faccia che fece Remus mi fece andare molto
vicino a pentirmi di non averci pensato su due volte prima di aprir bocca, per
la seconda volta in vita mia – la prima restava quella in cui avevo spifferato
a Snivellus come accedere al passaggio segreto dentro il Platano Picchiatore.
Ma questa era peggio. Mille volte peggio.
“Non guardarmi come se fossi pazzo, Merlino… va bene, può
darsi che Azkaban mi abbia fatto andare leggermente fuori di testa, però evita
di farmi sentire un idiota, per favore” gli dissi, con un sorriso forzato,
cercando di sdrammatizzare la situazione. Non ci riuscii. L’atmosfera rimase
terribilmente pesante, e lui mi fissava ancora con gli occhi spalancati,
pallido come un cencio.
“Se volevi scioccarmi, ci sei riuscito” mi disse, a mezza
voce, dopo diversi secondi di puro silenzio.
“Ah, dici… Okay, lascia stare. Era uno scherzo” capitolai,
dopo essermi reso conto che non l’aveva presa troppo bene. Sarebbe stato meglio
se me lo fossi tenuto per me, ma ormai il danno era fatto, e potevo soltanto
cercare di fregarlo se volevo salvarmi la faccia.
“Davvero?” mi chiese lui, confuso.
“Sì, tanto sei abbastanza ingenuo per credere a tutto ciò
che ti dico” risposi, spazientito. Dire che non lo capivo era poco. Dopo
avergli detto che era uno scherzo avrebbe dovuto come minimo mostrarsi
sollevato, se proprio la cosa lo sconvolgeva a tal punto.
“Smettila di prendermi in giro, Sirius. Non mi sembra il
caso” mi disse lui, con aria grave. Io sfoggiai la mia migliore espressione di
sprezzante indifferenza, e mi lasciai ricadere di schiena sul materasso.
“Come preferisci” lo accontentai, agitando una mano come
per liquidarlo. Mi misi a fissare il soffitto, ben deciso a non incontrare il
suo sguardo, in attesa che si convincesse davvero che ero completamente matto o
che avevo un pessimo senso dell’umorismo.
Per diversi secondi non si mosse affatto, e sentire il suo
sguardo su di me mi fece piombare nel disagio più nero. Intuivo già cosa gli
stava passando per la testa. Che Azkaban non mi aveva reso pazzo, mi aveva reso
finocchio.
Grandioso. Era esattamente ciò che desideravo che pensasse
di me.
“E va bene, te la sei voluta tu” disse, dopo un po’. Sentii
il letto cigolare, e la sua mano posarsi sul mio avambraccio.
“Che…?”
Non feci in tempo a dire altro, né ebbi la prontezza
necessaria a reagire tempestivamente. Prima che potessi anche solo decidere che
cosa fare, Remus si era chinato su di me e aveva cominciato a baciarmi, e io
avevo chiuso gli occhi di scatto, per non guardare.
Perché mi sembrava incredibile.
Riuscivo a malapena a realizzare che lo volevo vicino, e
ora c’erano le sue labbra sulle mie, in un gesto consapevole e dettato dalla
coscienza, un gesto che inizialmente mi lasciò spiazzato. Dopodichè, sentendomi
assalire dal terrore che potesse pensare di staccarsi da me, con il respiro
mozzato cominciai a reagire.
Non fu come pensavo che sarebbe stato. Fu una cosa cieca,
irrazionale. Sentivo solo quell’impulso che cresceva dentro di me, l’impulso di
rispondere a quel bacio con una forza eguale e contraria, e non facevo altro
che assecondarlo. Non ero dolce, o gentile, non badavo alle sue reazioni.
Volevo soltanto che durasse il più a lungo possibile, prima che la sua
petulante razionalità tornasse a galla e gli imponesse di finirla, per tornare
a burlarsi di me dopo che ero cascato in pieno nel suo tranello. Mi aveva fregato,
ma capii che non me ne importava. Mi sentivo più che disposto a sopportare
l’umiliazione imminente, pur di compiere quel gesto folle che sembrava darmi
tanta soddisfazione.
“Lupin! Dove ti sei cacciato?”
Era la voce di Moody, che ci fece sobbalzare violentemente
e staccarci seduta stante. Distogliemmo lo sguardo l’uno dall’altro, nel più
cocente degli imbarazzi, e io scattai in piedi, di colpo, con il terrore che
Malocchio salisse di sopra e scrutasse dietro la porta della mia camera. Mi ero
completamente scordato che Remus avesse da fare con l’Ordine, stamani, e anche
lui pareva esserselo dimenticato, tanto da potersi permettere di perdere tempo
a baciarmi.
“Arrivo, Malocchio!” gridò, con un tremito nella voce.
“Scusami, devo andare” mi disse poi, bruscamente, rimettendosi le scarpe con la
velocità di un Cercatore che ha appena avvistato il Boccino. Io rimasi a
fissargli la schiena, sentendomi svuotare di ogni impulso vitale.
Dopo avermi baciato per provocazione, il suo brillante
piano era quello? Andarsene, e piantarmi lì come un povero scemo con
l’implicito consiglio di riflettere bene sul mio orientamento sessuale?
No, non poteva funzionare così. Se c’era una cosa di cui
ero sempre stato sicuro, era di non essere un maledetto finocchio. Ma in quel
momento, le cose erano diverse. Probabilmente l’avevo davvero detto per
scherzo, per vedere come avrebbe reagito, probabilmente ero stato io ad aver
fregato lui spingendolo fino a trovare il coraggio di osare un gesto del
genere. C’era una motivazione sensata, dovevo soltanto trovarla.
“Senti, io… mi dispiace. Non volevo arrivare a questo”
dissi, a fatica. Non sapevo perché mi sentissi in dovere di dargli una
spiegazione. Ma l’impulso di dare voce a tutto ciò che mi passasse per la testa
era sempre stato troppo forte da reprimere, per me. Non avevo la capacità di
selezione e di controllo superiore di cui era dotato Remus. Non ero in grado di
non dire cose che avrebbero ferito me stesso e gli altri, seppure sapessi a che
cosa andavo incontro.
Non ero in grado di pormi un freno.
“Lascia perdere, Sirius. Meglio se non ne parliamo, per
ora” sospirò lui, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi, con aria
inerme. Lo osservai con dispiacere, come se mi stessi rendendo conto che con
lui mi ero appena giocato la mia unica possibilità.
E avevo perso.
Ma aveva ragione. Sarebbe davvero stato meglio fingere che
non fosse mai successo. Era una cosa sbagliata, inverosimile, e se l’avessimo
raccontato in giro ci avrebbero squadrato da capo a piedi con gli occhi fuori
dalle orbite, dopodichè saremmo stati spediti diritti al San Mungo, nel reparto
per le malattie mentali. Tutti si sarebbero interrogati sul tipo di maleficio
che ci era stato lanciato contro per spingerci al punto di poter pensare che io
e lui potessimo provare dei sentimenti l’uno per l’altro, e noi avremmo
consumato i nostri ultimi giorni costretti in una camicia di forza, a fissare
immobili una parete bianca.
E poi, lui per me non provava niente.
“Ho sentito spesso la tua mancanza, mentre eri in prigione”
mi disse, in tono melanconico. Già, in effetti immaginai che non dovesse essere
stata una pacchia nemmeno per lui. Era rimasto completamente solo, dopo che
Peter aveva tradito Lily e James; e noi eravamo sempre stati gli unici in grado
di tenergli compagnia in ogni attimo della sua esistenza.
Anche lui mi era mancato, ma non avevo mai avuto la forza
di ammetterlo.
E non ci riuscii nemmeno in quel momento.
“Senti, Sirius, lasciamo perdere. Dimentichiamocene. Non
voglio che tu faccia cose sbagliate solo perché senti che stai perdendo Harry”.
Lo fissai, spalancando gli occhi.
“Non essere ridicolo” gli dissi, con una smorfia di
disgusto. Non riuscivo a crederci che potesse davvero pensare che io soffrissi
di carenze d’affetto.
“Che cosa intendi per non essere ridicolo?”
“Intendo smettila di psicanalizzare, smettila di credermi
una creatura così meschina come cerchi di farmi sembrare”.
Mi fissò come se avessi assunto le sembianze di un
Vermicolo, prima di sospirare con aria spazientita. Io lo fissai stringendo i
pugni con forza.
“Sei sempre stato estremamente bravo a rigirare la frittata
a tuo vantaggio” commentò, dandomi freddamente le spalle. Mi sentii di colpo
ribollire il sangue nelle vene, e feci il giro del letto a grandi falcate per
riuscire ad averlo di fronte e poterlo guardare direttamente in faccia.
“Eh, no, Remus. Sei tu che pretendi di sapere che cosa mi
passa per la testa!”
“Tu non hai una spiegazione soddisfacente per il tuo
comportamento, io sì”.
Lo guardai con rabbia, sentendomi contrarre il volto in una
smorfia. Doveva sempre essere tutto così facile da spiegare, secondo lui. Come
al solito. Io non avevo il diritto di far valere la mia opinione, non avevo il
diritto di lottare per fargli capire che c’era qualcosa di più, che anche se in
quel momento lo stavo odiando non volevo che andasse via.
“Che ne so, senti, io… io non sono un pervertito. E non
sono nemmeno frustrato. E men che meno soffro di carenze d’affetto. E non
provare a pensare che qualcuno mi abbia fatto un maleficio”.
Lo osservai stringersi nelle spalle e alzare le mani in
segno di difesa, con ironica rassegnazione.
“Stai facendo tutto da solo” mi disse, e io storsi la bocca
in una smorfia.
“Bene. Comunque, togliti dalla testa tutte queste possibili
soluzioni. Se proprio ne vuoi un’altra, forse, può darsi che prima io…”
Mi bloccai, osservando la sua espressione malinconicamente
rassegnata.
“Sirius, io e te a scuola litigavamo spesso”.
“E questo che cosa vorrebbe…”
“…e abbiamo anche due caratteri completamente opposti.
Siamo riusciti ugualmente ad essere ottimi amici, ma se prima ho fatto quello
che ho fatto, è perché io credo di… provare qualcosa per te, ma… è sbagliato. E
non credo che per te sia lo stesso”.
Distolsi lo sguardo da lui per evitare di incenerirlo,
mentre mi sentivo ribollire per la rabbia e l’umiliazione. Era assolutamente
ingiusto. Per quale assurdo motivo lui poteva permettersi di nutrire i
sentimenti che gli pareva mentre per me doveva necessariamente esserci
un’altra spiegazione? Perché giocava con me in quel modo riuscendo perfino a
farsi passare per quello che aveva tutta la ragione dalla sua parte?
Ma ne avevo abbastanza, di sentire tutte quelle
sciocchezze. Ne avevo abbastanza di osservarlo sputare sentenze in tutta
tranquillità, calpestare i miei sentimenti con quella spietata ovvietà,
ignorare le mie proteste come se stessi vomitando idiozie.
“Bene. Allora, facciamo a modo tuo. Ignoriamo tutto,
torniamo alla normalità. Prima di tutto, ricomincerò a starmene chiuso qui
dentro da solo”.
Lui mi guardò con aria corrucciata, dispiaciuta. La durezza
del suo sguardo di bronzo non riuscì a celarlo. Sì, lo stavo cacciando; aveva
capito benissimo.
Non volevo averlo tra i piedi, se davvero la pensava in
quel modo.
“Perfetto”. Si alzò in piedi, e mi sentii percorrere da un
brivido quando ci trovammo faccia a faccia per quei pochi secondi, a una
distanza che per quanto minima ormai non poteva più essere annullata.
Fronteggiai la sua espressione impeccabilmente neutrale con occhi di fuoco,
esultai silenziosamente quando chinò lo sguardo in segno di sconfitta, poi lo
guardai camminare fino alla porta con il suo passo leggermente rigido e aprire la
porta per andarsene, ubbidendo con precisione ai miei ordini.
“Buona giornata, Sirius”.
Gli risposi con una risata beffarda, dato che
dell’educazione non me ne importava niente.
Dopo una discussione di quel genere, l’ultima cosa che
desideravo era sentirmi salutare ipocritamente. Che se ne andasse sbraitando e
sbattendo la porta, una volta tanto… ma no, lui no. Non poteva mai mostrarsi in
preda all’ira, o al risentimento. Tutte connotazioni troppo deboli per uno come
lui.
E va bene, poteva anche darsi che in quel periodo fossi di
malumore soprattutto per via di Harry. E poteva anche darsi che il fatto che
Remus fosse la persona che mi capisse meglio di tutti tra quelli che avevo
attorno non fosse sufficiente per spiegare quell’impulso che mi aveva spinto a
confessare candidamente qualcosa di cui non mi ero nemmeno reso davvero conto,
ma ero sincero, maledettamente sincero, e lui non aveva motivo di negarlo con
le sue supposizioni da quattro soldi. Senza contare che non capivo
assolutamente da dove fosse saltata fuori quella sua dichiarazione dell’ultimo
minuto. Non mi ero particolarmente soffermato a riflettere sul suo
comportamento, e il fatto che avesse assecondato alcune mie richieste alquanto
bizzarre non mi era risultato nemmeno lontanamente sospettoso: ero sempre
riuscito a far cedere Remus, di fronte alle mie infantili pretese. Magari in
occasioni precedenti avevo dovuto insistere di più per combattere la sua debole
reticenza, ma non ci avevo visto nulla di strano nel fatto che avesse deciso di
accontentarmi; e ora, se ne saltava fuori con il fatto che lui provava qualcosa
per me. Quando nemmeno mi stava a sentire, e mi trattava come un bambino.
Quando mi osservava sempre con quella sua aria di ironica e pacata superiorità
e criticava puntualmente ogni mia affermazione.
Dire che non riuscivo a crederci era soltanto un pallido
eufemismo.
Ma non ero più così sicuro di voler indagare sulla
questione.
Never opened myself this way
Life is ours, we live it our way
All these words I don't just say
And nothing else matters
(Metallica, “Nothing Else Matters”)
Nota: il titolo è un verso della canzone “Shy” dei Sonata Arctica.
Preciso che se Sirius vi è sembrato contraddittorio, in certi punti del
capitolo, beh, era proprio quello che doveva risultare. Il fatto è che
personalmente sono stata parecchio influenzata dallo studio della “Coscienza di
Zeno”, che in quanto a trama non mi ha particolarmente entusiasmato, ma di cui
adoro il metodo innovativo di scrittura e di stile. Zeno, parlando delle sue
esperienze, spesso mistifica la realtà, mente e si contraddice, ma dato che
parla in prima persona non c’è un narratore onnisciente che intervenga nel
racconto a dire dove sta la verità: questo compito, Svevo lo lascia al lettore,
con la consapevolezza che una verità definitiva non la si potrà mai trovare. È
una concezione della scrittura che mi ha profondamente segnata, e sta a poco a
poco contagiando tutti i “miei” personaggi. Insomma, è con questo atteggiamento
che bisogna leggere quanto racconta Sirius. Remus ha già una maggiore
consapevolezza di sé, anche se poi in ultima analisi trova sempre una
spiegazione falsata da fornirsi per mettersi l’anima in pace; comunque, si
avvertiva l’intuizione che provasse qualcosa per Sirius nel modo in cui reagiva
di fronte alle sue azioni o parole, mentre Sirius avverte soltanto qualcosa che
preme dentro di lui per uscire allo scoperto, non sa da cosa è causata ma non
vuole farsi accusare di soffrire di carenze d’affetto o di essere sotto un
maleficio, insomma, non capisce una beata mazza di quello che sta passando, e
affronta tutto come se fosse un gioco, un capriccio, perché se si comporta come
un bambino spera che nessuno pretenderà delle spiegazioni logiche e razionali
da parte sua. Certo, anche Remus fa un errore madornale nel non dare credito
alla sincerità di Sirius, rimanendo arroccato sulle sue posizioni; ha delle
ragioni per farlo, perché in fondo sarebbe un comportamento “da Sirius”, ma
alla fine si giunge ad un attrito tra i due in cui sbagliano entrambi, e la cui
conclusione si vedrà nell’epilogo.
Intanto,
rispondo a chi mi ha lasciato una recensione^^
x sanzina89: sono contenta che tu ti trovi d’accordo con la mia visione
di Sirius e Remus, e ti ringrazio per i complimenti. A Remus non pesa proprio
sopportare Sirius; si avverte che c’è qualcosa, se ne rende sottilmente conto
anche lui, nonostante poi trovi mille scuse stupide per giustificarsi. Proprio
da far cadere le braccia. Ma Remus è fatto così, sono entrambi molto
particolari. Grazie ancora e a presto, spero!
x LCasssieP: uhm, no, a dire il vero non ho mai pensato di far entrare
Harry nella storia, almeno non direttamente. Questo è il mio primo esperimento
Sirius/Remus e ho preferito concentrarmi sulle due creature, se devo essere
sincera^^ comunque, sì, ci hai visto giusto, nello scorso capitolo si avvertiva
che Sirius manifestava qualcosa verso Remus; allo stesso modo, si avvertiva che
Remus non è affatto indifferente a tutti questi segnali piuttosto ambigui, ma
maschera abbastanza abilmente le sue reazioni. Grazie per il commento!
x sibil: a prescindere dal fatto che amo gli Oasis, il mio nick non deriva
da loro, bensì dal personaggio omonimo di “Il Giovane Holden”, o se preferisci,
“The Catcher In The Rye”, di J.D. Salinger. Siccome leggo molto volevo prendere
il mio nick da un libro, e in quel periodo stavo leggendo questo^^ comunque,
grazie davvero per i complimenti: anche per me Remus è un personaggio
magnifico, pur con tutti i suoi difetti, così come Sirius. Contenta anche che
ti piaccia il tono della fanfic: le storie malinconiche mi sono sempre piaciute,
e quando scrivo cerco di ispirarmi a quello che incontra i miei gusti
personali^^
x nischino11: non si direbbe che è la prima? Wow ma ti ringrazio! Se c’è
una delle mie paure folli, è quella di non saper rendere i personaggi, perciò
sentirmelo dire mi rassicura molto, dato che in materia non posso considerarmi
un’esperta, almeno per quanto riguarda la parte della scrittrice. Prima di
questa fanfic, infatti, le due creaturine erano comparse in una mia shot come
protagonisti soltanto una volta, ed era più una cosa a libera interpretazione,
in cui potevano anche essere letti come semplici amici; però, affrontarli dal
punto di vista di una coppia è decisamente più impegnativo. Certo, se ci
fossero errori di grammatica mi suiciderei; dopo cinque anni di liceo classico,
dovrei soltanto vergognarmi^^ Insomma, sono contenta che la fanfic ti piaccia,
e spero continuerai a seguirla.
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Capitolo 4 *** Parte III - I suppose, life sometimes, it doesn't go the way it was meant ***
Parte III – I suppose, life sometimes, it doesn’t go in the way it was
meant
Parte III – I suppose,
life sometimes, it doesn’t go in the way it was meant
Ognuno ha la pretesa
di soffrire molto più degli altri.
(Honoré de Balzac)
La fine delle vacanze di Natale arrivò per Sirius con lo
stesso greve incedere con cui la luna piena soleva giungere per me ogni mese.
Sembrò davvero essere giunto al limite della sopportazione: una sera, mentre
cercavo di sistemare i turni di guardia dell’Ordine di modo da non dover
rimanere da solo con lui a Grimmauld Place una volta che Harry e i ragazzi se
ne fossero andati – mossa meschina, ma che ritenevo necessaria per evitare lo
scoppio di altri litigi fra me e lui – lo sentii gridare in tono aspro,
dabbasso. Sulle prime, feci per precipitarmi di sotto, spinto da non so quale
impulso di inutile altruismo, nato in quella parte di me che ci teneva a
sincerarsi delle sue condizioni, ma poi decisi che non erano affari miei, se
Sirius era riuscito a trovare qualcun altro con cui accapigliarsi.
Personalmente, ritenevo di aver già dato abbastanza.
Nei giorni scorsi, tra noi si era verificata una spiacevole
esplosione di contrasti; da allora, avevo preferito ritirarmi nel mio silenzio,
chiuso in una stanza vuota, camminando avanti e indietro su un pavimento
coperto da due dita di polvere, volgendo lo sguardo verso l’alto al vecchio ed
imponente lampadario di cristallo, e desiderare di non aver mai compiuto un
gesto che mi aveva lasciato completamente scoperto e che, come del resto avevo
sempre sospettato, aveva condotto me e Sirius ad un alterco serio, come non ne
avevamo avuti da anni.
Gliel’avevo ricordato io stesso, che durante i nostri anni
a Hogwarts quel genere di occasioni non mancavano mai.
Bastava un qualsiasi pretesto; io che mi rifiutavo di
fargli copiare un compito, lui che rientrava in dormitorio alle quattro di
mattina dopo le sue scappatelle facendo un incredibile macello per svegliarci e
metterci al corrente dei particolari, la sua nuova trovata per dar fastidio a
qualcuno che mi rifiutavo di approvare, la sua pessima abitudine di scrivermi
stupide frasi divertenti sui libri di scuola, o di trasformarsi in Padfoot e
ricoprirmi di bava di cane da capo a piedi, e poi quei momenti in cui si
spingeva troppo in là, il cui apice era stato lo scherzo a Piton al sesto anno.
Già. Quello stupido scherzo riusciva a pesarmi ancora, per
quanto mi aveva fatto male.
L’avevo perdonato, mi sarebbe risultato impossibile non
farlo. Ero troppo attaccato a Sirius per sbattergli per sempre una porta in
faccia, e lui si umiliò e mi chiese scusa in ogni maniera possibile, cosa che
mai gli avevo visto fare per nessuno al mondo, nemmeno per James. Era capitato
che litigassero anche loro due, più di una volta, ma Sirius l’aveva sempre
presa come un’offesa personale – come se nessuno potesse permettersi di avere
da ridire sul suo conto senza il suo permesso – e in genere, anche se dopo
qualche ora erano già tornati a parlarsi, la loro riconciliazione avveniva
secondo determinati canoni che imponevano loro di fingere di trovarsi per caso
insieme nella stessa stanza, di rivolgersi la parola con una scusa, di
sfoggiare un paio di battute di repertorio e infine di sghignazzare insieme,
rompendo il gelo del litigio e finendo per prendersi amichevolmente a pugni e
ricominciare come se niente fosse successo.
Per noi due non era andata così.
Fu la prima – e pensavo sarebbe stata anche l’ultima –
volta in cui vidi Sirius sinceramente pentito per come si era comportato, senza
la benché minima traccia di astiosa superbia negli occhi. Mi implorò di
perdonarlo praticamente in ginocchio, non appena trovò il coraggio necessario
per rivolgermi la parola senza il timore di vedersi respinto in maniera
definitiva e inevitabile. Sirius sapeva bene che non trascuravo facilmente le
sue bravate, e sapeva anche che io, a differenza di James, ero perfettamente in
grado di tenergli il broncio per ben più di un paio d’ore. Credo che l’orgoglio
sia sempre stato il nostro principale, e forse unico, punto in comune, e che
quando Sirius si ritrovava a dover gestire il mio risentimento nei suoi
confronti ne aveva un certo timore, perché era così simile, nella sostanza, a
quello che lui riserbava agli altri quando era il suo turno di essere
arrabbiato. Sirius sapeva che se voleva vedersi perdonare un gesto del genere
avrebbe dovuto strisciare, e così aveva fatto; forse, se fossi stato più sadico
e maligno, la cosa avrebbe potuto farmi piacere, ma benché io non abbia
sfruttato l’occasione per trarne soddisfazione i risultati non furono quelli
sperati. Il mio rapporto con Sirius era sempre stato una specie di strana
simbiosi, all’interno della quale nessuno di noi due sentiva il bisogno di
mostrare apertamente che viveva, oltre che per se stesso, anche per l’altro, ma
che al di là delle apparenze piene di discussioni accese, di dialoghi
sarcastici e di velate frecciatine, c’era una base di affetto che nessuno si
sarebbe mai sognato di mettere in discussione. Quando qualcuno accennava anche
solo a desiderare di potermi torcere un capello, Sirius diventava una bestia.
Non riusciva a passare oltre nessuna minaccia, anche se palesemente buttata lì
soltanto per provocarlo. Diceva che era per principio. Era sempre stato molto
protettivo, tant’è che James lo chiamava “mamma” per prenderlo in giro. Ma
anche se mi risultava difficile spiegarmi razionalmente una simile tutela nei
miei confronti, dato il nostro particolare tipo di rapporto – che prevedeva,
tra l’altro, la sua decisa convinzione che io, anche se disgraziatamente Lupo
Mannaro, non avessi diritto a particolari trattamenti da femminuccia indifesa
–, sapevo benissimo che Sirius per me ci sarebbe sempre stato, anche se avessi
avuto bisogno di lui cinque minuti dopo aver finito di litigare. Sarebbe
arrivato con la furia negli occhi, sbraitando e sfogando i suoi impeti violenti
su qualcuno che magari non lo meritava fino a quel punto, e poi avrebbe inveito
nei miei confronti per mezzora in ogni maniera possibile per essermi cacciato
un’altra volta nei guai, ma la sua difesa non mi sarebbe mai venuta meno. E lo stesso
valeva per me nei suoi confronti, anche se poi avrei finito per sospirare e
dirgli “te l’avevo detto”. In realtà, sotto sotto mi divertivo un mondo a farlo
ammattire con i miei interminabili predicozzi; non solo perché lui era il mio
oggetto di tortura preferito in quel campo, ma anche perché poi finivamo sempre
per riderne.
Gran parte di tutto questo finì, dopo lo scherzo a Piton.
In quel periodo non capii cosa fu che mi impedì di darmi da
fare veramente per dimenticare e ricominciare, e solo anni dopo ci arrivai,
quando ormai ero solo e non mi rimaneva altro da fare che riflettere sulla mia
squallida vita. Compresi che in quell’occasione il patto fra me e Sirius si era
rotto, che lui si era dimostrato capace di tradire la mia fiducia; ragione per
cui negli anni successivi, anche se mi sembrò incredibile dal primo all’ultimo
istante, non feci fatica ad accettare la versione dei fatti che lo voleva
colpevole del tradimento dei Potter.
Forse fu per tutto quel tempo e quell’amicizia gettata via
in modo stupido che fui così contento di riaverlo a fianco, quando due anni
prima me lo ritrovai davanti, evaso da Azkaban, più morto che vivo e animato
dal solo desiderio di uccidere. E gli diedi manforte, ero pronto a finire Peter
a sangue freddo insieme a lui, al suo fianco, più per quello che aveva fatto a
lui che per gli amici che aveva portato via a me. Il vecchio patto era
improvvisamente tornato a ristabilirsi fra noi, e la possibilità di essere
rinchiuso ad Azkaban per essermi fatto giustizia da solo non destò in me la
benché minima preoccupazione, convinto com’ero di voler assecondare la
legittima pretesa di Sirius di vendicarsi per quei dodici anni passati a
marcire in una cella con l’atroce consapevolezza di essere innocente.
Mentre lo sentivo gridare, poco fa, intuivo che, con
un’altra persona al suo posto, non avrei mai avanzato una proposta del genere.
Rimisi mano alle carte che avevo trascurato per cercare di
tendere l’orecchio, nel tentativo di tornare a concentrarmici sopra. Avevo
parecchio lavoro da sbrigare per l’Ordine, ed ero ben consapevole di non
potermi concedere troppe distrazioni; per questa ragione, quanto udii dei passi
pesanti trascinarsi fino alla porta della stanza in cui mi ero rinchiuso, mi
sentii leggermente innervosire. Senza contare il fatto che riconobbi
immediatamente la camminata, e il pensiero di non sapere assolutamente che cosa
dire mi gettò in temporanea apprensione.
“Arthur è tornato, se ti interessa saperlo” mi disse lui,
levandomi da ogni impaccio, con quel tono cupo e quell’espressione che non dava
adito alla benché minima manifestazione di allegria.
“Ti… ringrazio di avermi avvisato” risposi, osservandolo
con circospezione, mentre lui sfuggiva visibilmente il mio sguardo. Il fatto
che sembrasse non voler affrontare l’argomento scottante lasciato in sospeso
qualche giorno prima mi dava un certo meschino sollievo, ad essere franchi, ma
non poteva fare a meno di provocarmi una qualche preoccupazione, considerato
che, a quanto mi era parso di sentire poco prima, aveva appena avuto un
diverbio con qualcuno di cui ignoravo l’identità.
“Ti dispiace così tanto?” gli chiesi, mentre, dopo avermi
gettato un’occhiata obliqua, Sirius stava per uscire richiudendosi la porta
alle spalle.
La riaprì con un gesto secco nel momento in cui mosse un
passo indietro per tornare ad affacciarsi sulla soglia, e mi piantò in faccia
due occhi ardenti di collera, che mi fecero passare la voglia di condurre una
conversazione ironica.
“Non essere ridicolo” mi rispose, in tono brusco,
sferzandomi con ogni singola parola. “È che… prima è stato qui Piton, e, sai
com’è, ha ben pensato di cogliere l’occasione per insultarmi di nuovo. A quanto
pare, nell’ultimo periodo sembra essere un desiderio piuttosto diffuso, quello
di gettarmi fango addosso”.
Naturalmente. Quello era il suo modo di farmela pagare. Sfoggiare
tutta la cattiveria di cui un Black poteva essere capace, combinandola con un
sottile sarcasmo tutto tipico di Sirius: una miscela indubbiamente esplosiva,
che fin dai tempi di Hogwarts riusciva a far cedere i nervi della persona
bersagliata da tali attenzioni dopo un tempo decisamente breve.
Increspai le labbra, feci per ribattere a tono ma poi
desistetti, e decisi di passare oltre.
“Che voleva, stavolta?” domandai, fingendo di non aver
colto l’allusione. Sirius sembrava fin troppo arrabbiato per potersi permettere
di non sfogare tutta quell’ira accumulata.
“Dare lezioni di Occlumanzia a Harry, e ricordarmi quanto
sono pateticamente inutile” rispose, gesticolando rabbiosamente. Io mi lasciai
andare contro lo schienale della sedia, osservandolo con una certa
preoccupazione.
“Quando pensate di smetterla di comportarvi come se fossimo
ancora a scuola?” domandai, in tono piuttosto retorico, dato che già in un paio
di occasioni precedenti avevo avuto modo di constatare che ciò sembrava non
essere possibile.
“Stavolta io non ho fatto niente, è stato lui” si difese
Sirius, con veemenza. Io mi strinsi nelle spalle, rassegnato, distogliendo lo
sguardo dai suoi occhi infuocati. In un’altra occasione, probabilmente, avrei
esibito un’aria scherzosamente scettica e avrei finito per riserbargli qualche
frecciatina densa di ironia che lui, dopo un primo momento di animosità,
avrebbe finito per prendere sul ridere. Ma qualche giorno fa io avevo dato
fuori di matto e l’avevo volontariamente baciato, motivo per cui la situazione
non poteva più essere affrontata nello stesso modo in cui l’avrei fronteggiata
se quello che avevo fatto non fosse mai successo.
Cominciavo a davvero pentirmene, in effetti.
“Non hai niente da ridire? Strano” mi bersagliò lui,
mettendo consapevolmente il dito nella piaga.
“Dipende,” risposi, inarcando un sopracciglio e stringendo
le labbra, mentre fingevo di fissare con aria assorta le mie carte, “è stato
particolarmente più pesante del solito?”
“Ci puoi giurare!” esclamò lui, rosso in viso per la
rabbia. “Mi ha detto che casualmente Lucius Malfoy mi ha riconosciuto l’ultima
volta che sono andato in giro trasformato in cane, e che sembra proprio che in
questo modo io abbia trovato la scusa perfetta per rimanere qui come un
codardo… Mi ha dato del codardo, ti rendi conto? Io venderei l’anima al diavolo
per respirare una boccata all’aria aperta, e Piton osa darmi del codardo!”
Lo fissai camminare avanti e indietro con gigantesche
falcate, i muscoli che si tendevano in spasimi nervosi sotto le vesti. Sapevo
benissimo quanto gli bruciasse, essere sepolto a vita a Grimmauld Place; ne
avevo osservato ampiamente gli effetti durante quelle ultime vacanze ormai
quasi concluse. Se avessi potuto, l’avrei senz’altro consolato; ma ormai avevo
timore perfino ad avvicinarmi troppo, visto che cosa avevo avuto il coraggio di
fare l’ultima volta, dopo un periodo passato a sentirmi inspiegabilmente in
imbarazzo di fronte a un suo gesto o parola qualsiasi, come una stupida ragazzina
con una cotta adolescenziale per quello che era uno dei migliori amici che
avessi mai avuto.
“Credimi, ci guadagni molto di più se lasci perdere e vai
avanti per la tua strada. Sai benissimo che non è come dice lui, perciò
ignoralo ed evita di farti il sangue amaro…”
“Ignoralo? Certo, perché tu ne saresti capace, Remus… Tu
sei capace di ignorare qualsiasi spiacevolezza incomba sul tuo cammino! Sei
capace di ignorare perfino il fatto che, guarda un po’, qualche giorno fa hai
ben pensato di saltarmi addosso all’improvviso, e… Ah, al diavolo”.
Ero abituato a sentirmi ritorcere contro le sue disgrazie,
quando Sirius era di umore particolarmente nero, ma in quel momento mi bruciò
sentirmi dire certe cose, e fu solo sforzandomi di inghiottire il risentimento
che mi trattenei dal rispondergli per le rime.
Di sicuro non pensavo che si meritasse una simile
indulgenza da parte mia.
“Almeno io non sprizzo bile da tutti i pori” replicai
dunque, a bassa voce, in un tono che mi sforzai di rendere più scherzoso che
sarcastico. Ma Sirius non sembrò comunque prenderla bene.
“Bene, la prossima volta allora ci verrai tu a raccogliere
le ceneri di Piton dal pavimento, e mi raccomando, fai pure con calma. Sono
sicuro che la cosa non ti turberà, come tutto il resto”.
Sollevai uno sguardo preoccupato dalla mappa che stavo
studiando e fissai Sirius come se dovesse esplodere da un momento all’altro, e
io dovessi sforzarmi di trovare in fretta un modo per impedirlo.
“Non dirai mica sul serio. Vero?” domandai, storcendo la
bocca in una smorfia carica di disagio. Quello era il guaio, con Sirius; non
avevo mai compreso fino a che punto avrebbe avuto il coraggio di spingersi. O
forse, pensavo di averlo compreso, dopo tutti gli anni che gli avevo passato a
fianco, ma poi i fatti mi avevano necessariamente costretto a demolire questa
mia certezza, nel momento in cui, dal nulla più completo, senza nemmeno un
segnale d’avviso o un’atmosfera particolare, mi aveva confessato di avere una
cotta per me.
Ormai ero sicuro che l’avesse detto senza pensarlo, ma la
cosa mi aveva comunque lasciato spiazzato.
Non avevo ancora analizzato a posteriori la faccenda nel
migliore dei modi, considerato che c’erano ancora un paio di punti che mi
rimanevano oscuri: il più importante di tutti, sicuramente, riguardava me e il
modo in cui ero riuscito, senza averlo pianificato né averci pensato sopra, a
confessargli che in realtà ero io quello che provava qualcosa per lui.
Continuavo a comportarmi come se niente fosse, per il
momento, perché per entrambi era sicuramente meglio così. Sirius, tra noi due,
era quello con le idee confuse; io dovevo continuare a sostenere il mio ruolo
di persona consapevole di se stessa, altrimenti tutto quel complicato e
precario castello di carte sarebbe crollato in un soffio.
“Per il momento, siamo arrivati ad estrarre le bacchette.
Lascio giudicare a te, se dico sul serio o no” mi rispose lui, risvegliandomi
dai miei pensieri. I miei occhi si spalancarono di colpo.
“Avete… Sirius, sei impazzito?!”
“Non so se tu stia diventando sordo o se molto
semplicemente non mi stavi ascoltando, ma ti ho detto che mi ha insultato
pesantemente!”
“Questo non significa proprio un bel niente!”
“Perché non la vuoi piantare, di dare sempre la colpa a me?
Ti ho già detto che è stato lui a cominciare, e io sono chiuso qui dentro da
mesi, non ho nemmeno visto la neve, Godric, e anche per quanto è successo
qualche giorno fa, sei stato tu a cominciare… Ammettilo, una buona volta”.
“Se ritieni che le parole che hai pronunciato poco prima
che ti baciassi fossero totalmente innocenti ed innocue, allora sì, direi che
hai ragione tu” risposi, stizzito, voltandomi verso il muro. Non erano certo
rare le occasioni in cui mi capitava di pensare che Sirius non sarebbe mai
cresciuto, nemmeno se l’avessero innaffiato di Pozione della Crescita, ma in
quel momento il pensiero fu formulato con rabbia, e non riuscii ad evitare che
mi invadesse la mente.
“Già, certo. Non eri tu a sostenere che ciò che conta sono
i fatti, non le parole” mi disse lui, beffardamente, e io mi voltai a guardarlo,
stringendo le mani con forza sul bordo del tavolo, fino a farmi sbiancare le
nocche.
Ciò che conta sono i fatti, non le parole.
Erano le esatte parole con cui mi ero rifiutato di
accettare le sue scuse il primo giorno dopo l’incidente con Piton, precisamente
vent’anni fa.
Aveva sempre avuto un’ottima memoria, e lo sapevo. Lo avevo
intuito fin da subito, per il modo in cui riusciva sempre a strappare dei voti
brillanti in ogni disciplina pur avendo sfogliato il libro soltanto per una
ventina di minuti la mattina stessa, mentre faceva colazione. Mi ero sempre
domandato come diavolo ci riuscisse, dicendomi che avrei dovuto studiarlo,
aprirgli il cervello alla maniera Babbana e carpire i segreti del suo
funzionamento per poter smettere di spendere ore a star chino sul testo di
Pozioni.
Ma anch’io ricordavo bene quel giorno, e il suo bellissimo
volto in lacrime aveva tormentato il mio sonno non di rado, negli ultimi anni.
Uno strano misto di senso di colpa e di desiderio di prenderlo a calci per ciò
che si era dimostrato capace di fare si univa a quelle rievocazioni oniriche
così amare che mi avevano fatto stare male per tutto il giorno successivo,
senza che fossi riuscito ad andare avanti e a considerare Sirius come un
capitolo chiuso della mia vita. Uno di quegli incubi era stato particolarmente
orribile, era quello in cui i suoi occhi grigi invasi dal pianto mi fissavano
da dietro le sbarre di Azkaban, in mezzo ad urla atroci e rumori di catene.
Non ero riuscito a perdonarmi di sognarlo in quello stato
di supplica quando ero più che convinto che fosse colpevole, e ora non riuscivo
a perdonarmi di non essere mai andato a trovarlo, anche solo per insultarlo e
dirgli che mi faceva schifo, dato che pensavo che avesse ucciso Lily e James.
Almeno, magari, lui avrebbe potuto fermarmi, dire che le cose non stavano come
credevo, e forse, spinto dal sospetto, sarei ritornato a trovarlo, e avrei
scoperto che era Peter, e non lui, a doversi meritare il mio odio, e forse
Sirius non avrebbe trascorso dodici anni in prigione, privato della possibilità
di vivere, costretto ad ascoltare le grida di colpevolezza a cui lui non poteva
mischiarsi, senza nessuno che gli credesse.
Dodici anni in una cella, e ancora io non ero riuscito a
capire quanto gli costasse veramente rimanere segregato a Grimmauld Place da
sei mesi, dopo aver appena riacquistato la libertà.
Mi sentii improvvisamente schiacciato da quel senso di
colpa, e quella sensazione terribile tornò.
La sensazione di essermi comportato da perfetto idiota, di
aver gettato via tutto il mio rapporto con lui per un suo errore che non
riuscivo a dimenticare nel terrore che potesse commetterlo di nuovo, la
sensazione di aver sbagliato tutto, la sensazione di essere condannato e
insieme di aver scelto di provare le sue stesse sofferenze, perché quello a cui
aspiravo era soltanto a un nostalgico, agognato ricongiungimento.
Corsi il rischio di spaventarmi per ciò che avevo appena
pensato, ma riuscii a ricacciarlo indietro, e presi la decisione che in quel
momento mi sembrava la migliore, sia per me che per lui.
“Va bene. Vuoi vedere la neve?” gli domandai, bruscamente,
alzandomi di scatto e facendo un paio di passi verso di lui, mentre recuperavo
la bacchetta dalle pieghe della veste.
Sirius mi fissava con aria perplessa, ovviamente ignaro di
tutto ciò che mi era passato per la testa in quel momento.
“Che vuoi fare, rimpicciolirmi e rinchiudermi in una di
quelle campane di vetro natalizie per Babbani?” mi domandò, inarcando un
sopracciglio con aria scettica. Io scossi la testa, alzando gli occhi al cielo,
lo raggiunsi e lo afferrai per un braccio, senza badare alla sua espressione
spiazzata.
Stavo per pronunciare l’incantesimo quando mi venne in
mente una cosa importante, e mi staccai un attimo da lui per andare verso
l’attaccapanni e afferrare un paio di mantelli, anche se erano piuttosto logori
e poco protettivi. Dopodiché, tornai a stringere con forza il braccio di
Sirius, e dopo qualche secondo lo strappo allo stomaco mi colse e mi risucchiò
via, mentre mi sforzavo di tenerlo ancorato a me con tutta la disperazione di
cui ero capace, e di nuovo mi accorgevo di quanto fosse dimagrito e di quanto
sembrasse più fragile adesso che pure avrebbe dovuto essere un uomo fatto,
ancora imponente nella sua nobile altezza ma spento come se avesse già finito
di vivere ciò per cui veramente valeva la pena, e probabilmente era davvero
così.
Terminato quel breve vortice di coscienza, ci ritrovammo
improvvisamente immersi in una soffice nevicata, in un mondo che sembrava
essere completamente bianco, in cui l’occhio si perdeva fino a smarrirsi dietro
l’orizzonte, sbarrato da catene di montagne ricoperte di ghiaccio.
Sirius era completamente pietrificato.
Non dava segni di vita, né accennava ad aprire bocca. Fissava
solamente il bianco che si depositava incessantemente ai nostri piedi con la
bocca aperta per lo stupore, il suo braccio ancora saldamente ancorato al mio.
Mi misi a contemplarlo con aria beata e sorrisi, fiero di
me, una volta tanto, per essere stato io a sorprenderlo, contrariamente alla norma.
“Tu… tu mi hai…”
“Sì” risposi, troncando il suo stentoreo balbettio. L’avevo
Materializzato insieme a me sulla cima di una montagna, per fargli vedere la
neve.
“Ma… dico, Remus… sei impazzito, per caso?”
Gli sistemai uno dei mantelli sulle spalle con un gesto
professionale, soffermandomi solo per una frazione di secondo sul contorno
delle sue spalle.
“Conosco il posto, e so perfettamente che è poco
frequentato, perciò non hai da temere che da un momento all’altro ti compaia di
fronte Lucius Malfoy o chi altri”.
“Ma…”
“Inoltre,” ripresi, sovrastando il suo debole tentativo di
protesta con un sorriso divertito, “come ti sei gentilmente premurato di
informarmi, Arthur è appena tornato dal San Mungo, perciò, con tutti i calorosi
benvenuti che dovrà giustamente ricevere, è molto improbabile che qualcuno si
accorga della nostra momentanea assenza. E da ultimo, dato che in questi giorni
eri diventato davvero insopportabile, non ringraziarmi troppo. Consideralo come
un gesto compiuto per farti passare il malumore, e permettere così a tutti di
tornare a vivere serenamente, una volta privati della tua influenza negativa”.
Ero bravo a parlare, e lo sapevo bene. Era il miglior modo
di detenere il controllo della situazione. Ma Sirius non sembrava disposto a
competere su quel piano, e dopo avermi lanciato uno sguardo raggiante si gettò
in una folle corsa lungo il pendio, gridando di felicità come un bambino un po’
troppo esuberante. Rimasi ad osservarlo mentre si faceva cadere a terra e si
rotolava in maniera degna del suo alter ego animalesco, seppellendo la faccia
in mezzo alla neve e riemergendone con le guance rosse, gli occhi accesi,
bianco ovunque. E intanto i fiocchi continuavano a cadere dal cielo, e si
depositavano con grazia sul suo mantello scuro e sui suoi capelli, ancora così
neri come un tempo.
“Non restare lì impalato come una mummia, Remus!” mi gridò,
ridendo come non lo vedevo fare da secoli, non sapevo nemmeno io da quanto.
Sorrisi in risposta e mi avvicinai stringendomi nel mantello, le mani in tasca,
avanzando a fatica in mezzo alla neve che mi arrivava al ginocchio.
“Ti serve aiuto per costruire un pupazzo di neve?” gli
domando, in tono ironico, mentre lo osservo abbracciare un cumulo bianco. Le
nostre impronte si perdono in quel sentiero precario, e io mi guardo intorno
per cercare la grotta dove venivo a nascondermi qualche anno fa durante le
notti di luna piena, quando ancora non avevo nemmeno sentito parlare della
Pozione Antilupo, e ritenevo più opportuno isolarmi in un luogo così
meravigliosamente desertico piuttosto che correre il rischio di attaccare
qualcuno, ormai privato della possibilità di trascorrere una divertente nottata
insieme ai miei vecchi compagni di avventure.
Imparare a reagire alla loro assenza in quei momenti era
stato tremendamente difficile, tanto mi ero abituato ad averli a fianco e, di
conseguenza, a non avvertire la pressante necessità di stare attento a tutto
ciò che facevo. Avevo ricominciato a perdere il controllo, durante le
trasformazioni, e spesso mi ero domandato se non avessi dovuto essere contento
di poter diventare una bestia, almeno per una notte al mese, garantendomi così
la possibilità di sfogare tutto il mio carico di frustrazioni emozionali in
modo violento e animalesco.
Forse quella voce maligna che insinuava in me simili
sospetti non aveva poi tutti i torti.
Ma persi troppo tempo a rimuginarci sopra, perché l’attimo
dopo qualcosa mi colpì diritto in faccia.
“Ahuff… SIRIUS!” gridai, rosso in viso, squadrandolo con
aria truce mentre rideva.
Avrei voluto adirarmi sul serio, ma non ci riuscii, perché
mi si strinse il cuore.
Quella risata canina, così forte, fragorosa, contagiosa,
enfatica, da quanto non mi risuonava nelle orecchie.
L’immagine di lui, più giovane di una ventina d’anni, mi si
sovrappose davanti agli occhi, e mi ricordai improvvisamente di quelle vacanze
di Natale trascorse a Hogwarts soltanto per rimanere insieme a loro, perché
c’era la neve, e Sirius adorava la neve. Due settimane intere trascorse nel
cortile di Hogwarts a congelare ridendo e mirando alle nostre teste, e che
disgrazia se era proprio un colpo di Sirius a beccarti, perché tirava delle
cannonate micidiali. Poi ti guardava e rideva, rideva…
Come adesso.
“Che ti prende? Mi ci hai portato tu, in questo posto, non
mi dire che ti mette la depressione!”
Tentai un mezzo sorriso, chinando lo sguardo verso terra.
“Non dire assurdità” gli risposi, scompigliandogli i
capelli. Rise di nuovo, e io mi sentii morire.
Mi sembrava incredibile, essergli davvero così
visceralmente attaccato come temevo.
Addirittura più di quanto temevo.
Capii improvvisamente che non avevo affatto esagerato
quando gli avevo confessato di provare qualcosa per lui, perché era così
terribilmente vero. Per quanto una simile definizione potesse sembrare
riduttiva, non era possibile definire semplice amicizia quella morsa che mi
stringeva le viscere. Mi sembrava che nulla avrebbe potuto rendermi più felice,
in quel momento, della possibilità di restare per sempre sulla cima di quella
montagna con lui, soli, lontani da tutto ciò che in passato ci aveva divisi e
costretti ad un distacco che non desideravamo veramente.
Eppure, mi dicevo, era anche in virtù di una separazione
durata dodici anni che, alla fine, mi ero reso conto di quanto dannatamente mi
mancasse.
Forse, se non fossi stato così cieco, l’avrei potuto capire
anni prima.
Il germe di quella morsa era sempre stato presente in me,
me ne rendevo conto mentre tutti gli avvenimenti passati mi scorrevano davanti
agli occhi come in un’improvvisa rievocazione epifanica. Tuttavia, non era
facile, non era neanche normale, secondo una certa ottica, e non avevo
la più pallida idea di dove sarei andato a finire.
“Dobbiamo tornare indietro” gli dissi, con un filo di voce,
sollevando appena lo sguardo da terra.
“Cosa? Ma dai, siamo qui da pochissimo… Chi ti ha detto che
io non voglia fare davvero un pupazzo di neve?” mi disse, ironico.
“Se ne accorgeranno presto, che siamo spariti, e allora per
te saranno guai seri, credimi”.
“Sì, per me” rispose, in tono beffardo. “Il tuo problema è
difendere la tua reputazione di uomo ineccepibile”.
Non avevo per nulla voglia di litigare, perciò mi limitai a
lanciargli un’occhiata torva.
“Se mi fossi preoccupato così tanto di difendere la mia
ineccepibilità, puoi star certo che non ti avrei mai portato fin qui”.
Non capivo più se era colpa mia o sua il fatto che
continuassimo a trovare un pretesto per scannarci anche in una situazione che,
forse, avrebbe potuto far sì che tutto andasse a posto da sé.
O forse mi ero semplicemente lasciato trasportare da un’altra
delle mie gigantesche chimere.
“Non te l’ho chiesto io, ad ogni modo. Se l’hai fatto
soltanto per placare i tuoi ridicoli sensi di colpa…”
“L’ho fatto per te, razza di imbecille!”
Ci fronteggiammo con la rabbia negli occhi per una manciata
di secondi carichi di tensione, mentre la neve continuava a caderci addosso, e
la notte si lasciava presagire da un cielo sempre più tinto di scuro.
“Quindi non sei pentito per quello che mi hai detto?”
Boccheggiai, fissandolo con aria completamente confusa. La
sua espressione dura e tagliente non dava adito ad esitazioni, tuttavia ci misi
un po’ prima di comprendere a che cosa si riferisse.
“Io non… Sirius, andiamo, cerca di capire…”
“Perfetto, allora per quanto mi riguarda non abbiamo più
nulla da dirci”.
Mi sentii improvvisamente pesante come un macigno. Dire che
non riuscivo ad intendere perché ne avesse fatta una questione di stato era
poco. Avevo ancora bisogno di fare chiarezza, fino a poco tempo prima, ma ora
che avevo compreso che il mio gesto non era stato insensato, o semplicemente
impulsivo o provocatorio, mi rendevo conto che non avrei nemmeno saputo come
dirglielo; e adesso, come se non bastasse, insisteva ancora con quella storia
delle mie accuse nei suoi confronti, come se non fosse stato evidente che il nostro
straordinario riavvicinamento in quei giorni non fosse stato causato dalla
situazione del suo rapporto con Harry. Avevo a malapena avuto il tempo di
riflettere riguardo a me stesso, come potevo pretendere di riuscire a giungere
altrettanto in fretta ad avere un’opinione chiara e precisa riguardo a lui?
Faticavo ancora a fidarmi, questo purtroppo era un dato di
fatto indelebilmente evidente.
Non sarebbe dovuto succedere. Niente di quanto era accaduto
a Lily e James, a lui e a me. Non sarebbe dovuto succedere per nulla al mondo.
Perché se avessi avuto la possibilità di rimanergli vicino, per tutti quegli
anni, lentamente quella fiducia di cui avevo bisogno per credergli sulla parola
l’avrei riacquistata. Ne ero automaticamente certo. Il nostro rapporto avrebbe
continuato ad essere solido e costante, e con il passare del tempo le ferite si
sarebbero sanate.
E invece, era andata in un modo diverso, un modo in cui non
avrebbe dovuto andare, e mi resi conto che non sapevo nemmeno a chi dare la
colpa, se alla sfortuna, al destino, a Voldemort, a Peter, a me che avevo
sospettato ingiustamente di Sirius, a Sirius che aveva sospettato ingiustamente
di me, e non mi aveva detto che lui e Peter si erano scambiati, e tutto era
irrimediabilmente precipitato in un baratro da cui non riuscivo ancora a
risollevarmi.
“Va bene” capitolai, mesto, senza sapere che altro dire.
Forse avrei potuto tentare di spiegargli, ma con Sirius era praticamente
impossibile riuscire a ragionare. E se avesse avuto ragione lui, avrei finito
soltanto per accusarlo ingiustamente, un’altra volta.
Anche se ormai c’era in ballo qualcosa di profondamente
differente.
Qualcosa che era soltanto fra me e lui. Come non succedeva
da anni.
Ritornammo indietro senza dire una parola, e mi lasciai
indietro le montagne con gli occhi appannati per il vento sferzante.
Quando ci trovammo di nuovo nella stanza in cui lui aveva
fatto irruzione poco prima, lasciai il suo braccio reprimendo un sussulto
angoscioso.
Probabilmente stavo sbagliando, per l’ennesima volta.
Ma il tempo a nostra disposizione era scaduto, e per il
momento non c’erano possibilità di prendere in considerazione l’idea di
chiarire tutto con calma.
“Scusami, ora devo proprio andare” gli dissi, osservando
l’ora, senza guardarlo negli occhi. Raccolsi le mie carte e uscii di corsa
salutando a malapena gli ospiti di Grimmauld Place, voltandomi solamente una
volta indietro ad osservare quelle scale scricchiolanti che avevo ormai salito
e sceso innumerevoli volte, la maggior parte soltanto per andare a fargli
compagnia.
Yes, and I feel too young to hold on,
I'm much too old to break free and run.
Too deaf, dumb, and blind
To see the damage I've done.
(Jeff Buckley, “Lover You Should’ve Come Over”)
Nota: il titolo è un verso della canzone
“Don’t Say A Word” dei Sonata Arctica (come se non si fosse capito che mi
piacciono XD). Con questo capitolo ho voluto provare a fornire le prime
spiegazioni per quanto è accaduto nel precedente; la fanfic sarà breve, ma
erano necessari dei chiarimenti. Senza contare che io ormai ci ho preso la mano
e mi sto davvero esaltando, a scrivere di queste due teste di rapa. Un paio di
piccole precisazioni tecniche: 1) i fatti qui ambientati li immagino, come
intuibile da riferimenti vari, un completamento al capitolo 24 dell’Ordine
della Fenice, il che mi calzava a pennello anche per la risoluzione finale,
perché Remus, tra i partecipanti alla cena di quella sera, non c’è; ricomparirà
solo la mattina dopo, in compagnia di Tonks, per riportare Harry e gli altri a
Hogwarts; 2) non sono proprio sicura riguardo alla possibilità di
Materializzarsi e Smaterializzarsi all’interno di un luogo protetto da Incanto
Fidelius per due persone che pure ne conoscono l’ubicazione, però non essendoci
modo di verificarlo ho deciso ugualmente di far andare le cose in questo modo.
Rispondo
alle recensioni che mi avete gentilmente lasciato:
x suni: non ti preoccupare per il caos con
le recensioni, mi sa che c’è qualche problema ma non ha importanza ^^ dunque,
mi pare di capire che quindi hai letto solo il prologo. Beh, se ti ha fatto
un’impressione così favorevole non posso che esserne davvero lieta: certo, ci
tengo assai ad un tuo commento anche al resto, perché come sai ormai amo JUST A
BLACK e amo il modo in cui scrivi, perciò ti ritengo assolutamente degna di
stima, ma non ho intenzione di far pressioni di nessun genere su nessuno. Resta
il fatto che sentirmi dire da te che riesco a rendere bene i personaggi, per me
è motivo di grande euforia, dato appunto come amo il modo in cui scrivi di
Sirius e Remus. Ho corretto gli “a capo” dove ci andavano, grazie per la
segnalazione, mi erano proprio sfuggiti. Ti ringrazio tanto per questo
commento, che mi ha fatto immensamente piacere.
x Faith
Lupin: wow, sono
lusingata dal tuo commento. Poi hai già la mia stima per il fatto che ami
“Shy”, dato che la reputo una canzone meravigliosa. Anche a me, quando leggo
una bella Sirius/Remus, viene voglia di picchiarli XD penso sia parte
integrante del loro modo di relazionarsi nel momento in cui tra loro si fa
accadere qualcosa che vada al di là dell’amicizia, per il modo in cui sono
fatti è inevitabile che cozzino l’uno contro l’altro. Mi dispiace per
l’aggiornamento un po’ tardivo, purtroppo sono in periodo di maturità – anche
se ho quasi finito, grazie a Dio – ma comunque spero ti sia piaciuto anche
questo capitolo.
x
sanzina89: dici
che il termine “cotta” ti pare più appropriato per Sirius, e ti do ragione,
anche se nel prossimo capitolo si capirà qualcosa di più a riguardo, dato che
sarà lui a parlare. Per il momento, di Remus si vede – spero – una sorta di
amore/devozione viscerale, qualcosa che è tutt’uno con l’amicizia eppure la
trascende. Fingere che niente sia accaduto non è facile per nessuno dei due e
Sirius non è nemmeno tanto d’accordo, ma solo perché Remus si comporta come se
non gliene importasse nulla, dopotutto; però, date le circostanze, non era
possibile per nessuno dei due dire “Va bene, adesso ci mettiamo seduti e ne
parliamo con calma”. Non sono due persone che esternano con chiarezza e
facilità ciò che pensano e provano, e queste sono le conseguenze. Grazie mille
per i complimenti ai personaggi, comunque: ci tengo un sacco che risultino IC,
perché ci tengo a loro proprio per come sono stati creati, anche se ovviamente
poi ci ricamo sopra di mio. Non credo proprio che toccherò l’argomento della
morte di Sirius, almeno, finora non è nei miei programmi, dato che preferisco
concentrarmi sul tema degli “attacchi di broncio”: tuttavia, la fanfic non è
un’AU, perciò poi, dopo la sua conclusione, resterà comunque implicito che
Sirius morirà. Aspetto il tuo prossimo commento ^^
x ivy_: contentissima che la storia ti
piaccia, davvero. Mi dispiace di non aver potuto aggiornare molto presto, dato
che ho avuto gli esami di maturità in questo periodo, ma scrivere per me è
indispensabile, in qualsiasi momento, anche se lo faccio meno di quanto vorrei
per cause di forza maggiore. Grazie ancora.
x
nischino11: a dire
la verità, il mio intento era proprio quello di giocare sul tema degli
“attacchi di broncio”, e, con questa “scusa”, portare prima a far accadere
qualcosa tra i due, e poi a cercare di darne una spiegazione tramite gli eventi
successivi; perché in effetti a prima vista può sembrare che da un momento
all’altro si siano svegliati e abbiano deciso di essere innamorati l’uno
dell’altro, però leggendo oltre, per il momento riguardo a Remus, si capisce –
spero – che non è successo tutto così, dal nulla. Remus dice chiaramente di
essere rimasto estremamente scosso – anche se inteso in senso positivo – dal
ritorno inaspettato di Sirius, una persona che pensava di aver perso, per cui
già nutriva un attaccamento molto forte anche se la storia dello scherzo a
Piton li aveva fatti allontanare, e una volta che l’ha riavuto, questo ha
scatenato qualcosa, cioè un attaccamento ancora più forte, che però ormai
valica i confini dell’amicizia, anche se la comprende in sé e ne è parte
inscindibile. Spero che così la situazione ti risulti più chiara, anche se
manca ancora la versione di Sirius. A presto e grazie ^^
x
sibil: grazie per il
consiglio, ma io guardo già Lost, come una droga! XD ho capito che ti riferisci
a Charlie, ma io non lo reggo molto, questo personaggio, se devo essere sincera
– preferisco Sawyer, anzi, diciamo che lo adoro incondizionatamente. Il mio
amore per gli Oasis nacque l’estate scorsa, anche se già prima mi
piaciucchiavano, e da allora – dato che ho un gruppo di amici che mi ha
trasmesso la passione – ogni occasione è buona per cantare “Wonderwall” a
squarciagola in macchina tutti insieme XD a parte questo, ti ringrazio molto
per i bei complimenti: adoro Sirius, e riuscire a renderlo bene mi fa davvero
felice. In questi capitoli, come hai potuto notare, sono presenti diverse
rievocazioni del passato, anche se non si tratta direttamente di flashback,
perché la storia dello scherzo a Piton ha giocato – e Remus se ne sta rendendo
conto – un ruolo cruciale per quanto riguarda il suo rapporto con Sirius prima
della morte dei Potter. Ti saluto, alla prossima!
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Capitolo 5 *** Parte IV - I know fine well that what I did was wrong ***
Parte IV – I know fine well that what I did was wrong
Parte IV – I know fine
well that what I did was wrong
Come può qualsiasi
cosa finire?
(Jack Kerouac)
Fu con il volto contratto dalla rabbia e le mani
spasmodicamente chiuse a pugno che decisi finalmente di dirgliene quattro, dopo
tutti quei giorni trascorsi a fingere che non ci fosse nulla che non andava. Ne
avevo abbastanza, di lui e della sua faccia tosta.
“La sai una cosa, Remus? Io non ti sopporto. Forse non ti
ho mai sopportato, in effetti, ma adesso hai veramente superato ogni limite. Mi
hai sempre tacciato di instabilità mentale, ma stavolta non sono stato io a
baciarti e poi sparire come se niente fosse successo!”
Non ci fu alcuna risposta alle mie irose esclamazioni. Fissai
con rabbia la mia immagine riflessa nello specchio, sospirando, mentre iniziavo
lentamente a sentirmi un completo idiota.
Cercai di calmarmi e di riprendere il controllo di me
stesso; era la terza volta in un giorno che mi succedeva di lasciarmi andare a
simili sfoghi, ma non potevo permettermi di esplodere in quel modo, o sarei
finito per prendere a pugni la mia immagine riflessa, e non mi sembrava proprio
il caso di scadere in simili patetismi.
“…E quello con problemi psichici sarei io, secondo te?”
Sobbalzai di scatto, voltandomi verso la porta e sfoderando
la bacchetta nella frazione di un secondo. Inconsapevolmente, avevo
riconosciuto fin da subito la sua voce; ma o l’influenza delle tendenze
paranoiche di Malocchio Moody stava cominciando a produrre gravi danni sulla
mia psiche, o avevo accumulato talmente tanto astio nei suoi confronti da
essere perfino pronto a scagliargli contro un incantesimo.
“Che diavolo ci fai qui?” lo aggredii, senza mezzi termini.
Il mio orgoglio si sentiva profondamente offeso per essere stato colto in pieno
in un momento di debolezza, e quell’ombra di un sorriso divertito che gli
aleggiava sulle labbra mentre mi fissava mi stava veramente facendo irritare.
“Dovevo passare per assicurarmi che fossi vivo. Nessuno ha
più avuto tue notizie in questi tre giorni, e a tutti è sembrato piuttosto
strano, dato che di solito trovi il modo di assillare chiunque per sapere come
vanno le cose”.
Esplosi in una risata beffarda, allontanandomi dallo
specchio.
“Lo dici come se ti dispiacesse che io abbia smesso di
assillare te” gli risposi, sfoggiando il mio miglior tono tagliente.
Remus non batté ciglio.
“Non prenderla come una questione personale, Sirius. Non lo
è” ribatté, in tutta calma, entrando nella stanza a passi silenziosi e
misurati, perfettamente calmo e padrone di se stesso.
Mi irritava profondamente, questa sua capacità di contenere
le emozioni. Da una parte lo invidiavo, perché se anch’io l’avessi posseduta
non avrei avuto certo bisogno di mettermi a gridare ad alta voce contro uno
specchio per dar modo di esplodere alla mia carica di frustrazioni represse;
dall’altra, invece, trovavo quella sua caratteristica altamente detestabile, in
quanto non mi riusciva mai di comprendere che cosa realmente gli passasse per
la testa.
Per esempio, in quel momento non ero affatto in grado di
intendere se davvero fosse venuto fin lì solo per sedare le preoccupazioni
degli altri membri dell’Ordine o se almeno un po’ si fosse impensierito, dopo
aver osservato che da qualche giorno non avevo più fatto avere mie notizie.
Mi faceva andare fuori di testa, tutto quel mistero con cui
Remus persisteva nel coprire le sue azioni. Mai una volta che parlasse chiaro,
che dicesse senza mezzi termini come stavano le cose; i suoi comportamenti
dovevano sempre dare adito a molteplici interpretazioni, e di conseguenza io
dovevo essere condannato ad eterni grattacapi nel tentativo di convincermi che
una delle numerose ipotesi possibili era più convincente delle altre.
Almeno di qualcosa potevo farmi vanto: io non mandavo in
confusione le persone con discorsi o atteggiamenti equivoci. Io mettevo in
chiaro fin da subito come la pensavo circa un determinato argomento, di modo da
non lasciare spazio a dubbi di nessun genere.
Come quando gli avevo detto di avere una cotta per lui.
Nessuna esitazione, nessun giro di parole, soltanto la
pura, sacrosanta e indubitabile verità.
“Bene, ti sembro per caso un cadavere che cammina? Non
credo, perciò dato che hai svolto il tuo compito puoi anche andartene”.
Anche adesso ero stato perfettamente chiaro.
E invece lui continuava a rimanere lì fermo sulla porta,
osservandomi con un’espressione indecifrabile.
“Credi che andrà avanti ancora per molto?”
“Che cosa?”
“Questo”.
Lo fissai con rabbia, stringendo gli occhi, come se
desiderassi incenerirlo.
“Andrà avanti finché ne avrò voglia. Finché continuerai a
pensare che tu sei sempre quello che ha ragione e io sempre quello che pesta i
piedi e fa i capricci”.
Detto questo, per me la faccenda poteva considerarsi
chiusa. Non avrei tollerato di sentir pronunciare una parola di più. Sapevo
perfettamente che Remus era testardo almeno quanto me, e che pertanto non
avrebbe certo ritrattato le sue affermazioni da un momento all’altro senza
alcun motivo. Non l’aveva mai fatto, del resto, perciò non avevo ragione di
sperare in una sua straordinaria clemenza.
“Non perché io ci tenga ad essere pignolo, ma in questo
momento stai esattamente facendo i capricci” mi disse, con una velata
intonazione di rimprovero. Io lo fulminai con lo sguardo.
“Non dire assurdità”.
In tutta risposta, lui si strinse nelle spalle.
“Mi dispiace che la cosa ti ferisca, ma è vero”.
“Non mi dire!”
“No, infatti! Non ti rendi conto da solo che ti stai
impuntando per una sciocchezza soltanto perché hai detto cose che non volevi
dire e ora te ne stai pentendo?”
Lo fissai, incuriosito. Nella sua voce era comparsa una
marcata traccia di veemenza, cosa che mi stupì non poco: doveva crederci
fermamente, se davvero insisteva fino a tal punto.
“Io dico quello che penso, e lo dovresti sapere bene” gli
risposi, voltandomi e dandogli le spalle. Ne avevo abbastanza che non mi
credesse; non solo era frustrante, ma mi privava anche della voglia di
continuare a dargli fiducia. Remus mi aveva sempre conosciuto meglio di
chiunque altro: c’erano cose che a James non avevo mai confessato perché me ne
vergognavo come un ladro, per quanto fosse mio fratello e non mi facessi mai
problemi nel dirgli ogni genere di sciocchezze, mentre Remus aveva ascoltato
ogni singola parola che usciva dalla mia bocca riguardo a quanto mi sentissi da
schifo perché la mia famiglia mi aveva diseredato o quanto la morte di mio
fratello non mi avesse lasciato indifferente come avrei voluto che fosse, e se
mi ero confidato con lui era perché sapevo di poterlo fare. Non mi avrebbe mai dato
del rammollito, non avrebbe nemmeno pensato che fossi un rammollito.
Secondo lui era perfettamente normale che io, pur facendo costantemente un
vanto della mia condizione di rinnegato, provassi sofferenza di quando in
quando. Non si sentiva come se gli stesse crollando un mito se mi mostravo a
lui in tutto il mio meschino bagaglio di debolezze. E ora, non poteva essere altrettanto
normale che mi fossi… che provassi qualcosa per lui?
“Insomma, mi dici perché sei venuto qui?” gli domandai,
sfinito. Di colpo, lui assunse un’espressione chiusa, quasi tetra.
“Tu non te lo ricordi, vero?” mi chiese lui, in un tono
carico di sottintesi.
“Cosa?” domandai, leggermente confuso.
“Nocturn Alley”.
Continuavo a non afferrare, ma decisi che era meglio fare
lo spiritoso.
“Ho sempre sostenuto che nelle cantine di quel postaccio si
riesca a trovare il miglior Firewhiskey di Londra, ma non credevo che tu fossi
interessato a questo genere di cose…”
Remus scosse la testa.
“Mi riferivo a quando abbiamo incontrato quella strega”.
“Quale?”
“Quella donna anziana, che ti ha fatto degli strani segni
sul viso e…”
Oh. Allora era a questo che si riferiva.
Era successo tantissimi anni fa, se non ricordo male
andavamo ancora a Hogwarts. Un’estate, mentre eravamo a Diagon Alley a comprare
i libri e il necessario per la scuola, io avevo fatto l’incosciente e mi ero
infilato a Nocturn Alley di nascosto. Remus era venuto a recuperarmi. Mentre
cercavamo di uscire da lì, una vecchia incartapecorita vestita di nero mi aveva
fermato, si era messa a cantilenare qualche sciocchezza passandomi le dita
sulla faccia e poi mi aveva detto un paio di cose. Non me le ricordavo neppure
tanto bene. Aveva azzardato qualche generica previsione sul mio futuro,
dicendomi che avrei avuto una vita felice ma che non sarei riuscito a goderne
appieno, se non sbaglio, e poi aveva aggiunto che sarei morto prima di
quarant’anni.
Fissai Moony con un’espressione esasperata.
“Remus, ti prego. Qui non si tratta di Voldemort. Le
profezie ti stanno dando di volta il cervello…”
Lui fece un gesto spazientito con la mano, come per
zittirmi. Scosse la testa, lo sguardo perso nel vuoto.
“Non c’entra assolutamente nulla con l’Ordine o con Voldemort.
Ci ho solamente pensato, ieri sera”.
“Sì, dopo una piacevole visita all’Ufficio Misteri. A chi
vuoi darla a bere? Quella non era una vera profezia. E quella non era una vera
strega. Hai mai visto predire il futuro a qualcuno facendogli dei segni sulla faccia?
Potremo anche non aver mai frequentato Divinazione, ma non ti ritengo così
ottuso da non capirlo…”
Remus, ovviamente, non diede segno di essere d’accordo con
me. Continuò a pensare in silenzio, per qualche secondo.
“Quello che ti ha detto si è avverato, finora. Non credi?”
Scoppiai in una risata amaramente beffarda, distogliendo lo
sguardo da lui.
“Oh, sì, certo, la mia vita è stata davvero felice”
osservai, sarcastico.
“Ma non l’hai vissuta appieno” mi fece notare lui.
“Non è stata una mia scelta, va bene? Per quanto tu possa
ritenermi stupido per aver deciso di scambiarmi con Peter, non è stata una mia
scelta marcire ad Azkaban per dodici anni. È stato Crouch a spedirmici senza
processo. Certo, immagino che se anche avessi avuto questa possibilità nessuno
avrebbe testimoniato in mio favore…”
Mi resi conto che l’avrei ferito un attimo prima che
quell’ultima frase mi uscisse di bocca, ed infatti l’espressione con cui
accolse la mia replica non fu delle più felici. Ma trovò comunque la forza di
rispondermi per le rime, come sempre aveva fatto, anche nei miei momenti di più
acuta cattiveria.
“Se tu ti fossi confidato con me, magari avrei potuto davvero
farti da avvocato difensore” disse, con un lieve sorriso. Io scrollai le
spalle, spazientito.
“Oh, andiamo, non è divertente. Hai cominciato tu ad
allontanarti da me”.
Stavolta, la sua reazione fu ancora peggiore. Lui non si
offendeva mai per nulla, eppure ora sembrava sentirsi insultato per ciò che
avevo appena detto. Ma io non capivo certo perché dovesse.
“Credi che l’abbia fatto senza motivo?” mi chiese.
“Credo semplicemente che tu, Remus Lupin il licantropo
vittima dei pregiudizi, ti sia fatto contagiare come tutti gli altri dal mio
simpatico bagaglio familiare, sebbene avessi fatto di tutto per prenderne le
distanze”.
Questa volta, Remus mi fulminò con uno sguardo truce.
Cominciai a pensare che ci fosse davvero qualcosa che mi sfuggiva, a parte il
suo perenne desiderio di aver ragione.
“Allora non hai capito proprio un bel niente”.
“Spiegamelo, se pensi di essere tanto bravo”.
“Non sei sempre tu la vittima della situazione, che
diavolo! Sirius, io ho cominciato ad allontanarmi da te da quando tu hai
deciso di tradire la mia fiducia per uno stupido scherzo!”
Rimasi a bocca aperta per qualche secondo. Quello era
l’argomento che più di tutti mi ero sforzato di evitare, da quando io e Remus
ci eravamo ritrovati; era ciò che più mi vergognavo di aver fatto in vita mia, l’unica
cosa capace di farmi davvero sentire un verme della peggior specie, e da un
tempo interminabile speravo che lui se lo fosse dimenticato.
E invece, era colpa mia. Dannatamente solo colpa mia.
“Pensavo che la faccenda fosse stata dichiarata chiusa” gli
dissi, a mezza voce. Lui sospirò.
“Non si è mai chiusa, e non dirmi che non te ne sei
accorto”.
“Può darsi, ma ho cercato di umiliarmi in ogni modo per far
sì che tu potessi metterci una pietra sopra, finché non mi sono stufato”.
Non riuscivo ad accettarlo, che per colpa di un errore che
avevo compiuto quando ero soltanto un ragazzino incosciente fosse successo
tutto il resto. Avremmo potuto fermare Peter, avremmo potuto salvare James e
Lily, avremmo potuto essere ancora tutti qui, se soltanto io e lui fossimo
restati uniti.
“Magari ho sbagliato a covare delle remore in merito, ma
evidentemente doveva andare così”.
“Doveva? Remus, niente doveva andare in un certo modo
perché una vecchia strega con il cervello in fumo mi ha detto che non avrei
potuto godere appieno della mia felicità!”
Sentivo che sarei potuto esplodere da un momento all’altro.
Cercai di calmarmi.
“Sapeva già che sarebbe andata così, molto semplicemente”.
Sospirai, arrendendomi. Stavo lottando da troppo tempo.
“Ti stai lasciando abbindolare da un mare di sciocchezze”
gli dissi soltanto, scuotendo la testa. Lui continuò a guardarmi con quell’espressione
dolorosa negli occhi, che invece di smorzarsi aumentò terribilmente
d’intensità.
“Non ci hai pensato, allora? Al fatto che potresti morire
entro pochi anni, forse mesi, vuoi farmi credere che non ci hai mai pensato?”
chiese lui, con una stravolta disperazione negli occhi. Poche, pochissime volte
in vita mia l’avevo visto lasciarsi travolgere così. Mi passai una mano fra i
capelli, lasciandomi cadere a sedere sul letto.
“Ho desiderato che succedesse con sufficiente intensità da
aver esaurito la voglia di pensarci, ora come ora. Sai com’è, l’argomento
finisce per diventare un po’ monotono se ripetuto in tutte le salse per dodici
anni di galera”.
Ecco, ora avevamo decisamente toccato il fondo. Era
riuscito a farmi parlare anche del carcere, la seconda cosa che ancora non
riuscivo ad ammettere di aver vissuto davvero.
Continuare in quel modo era semplicemente una tortura. Non
avevo fatto altro che pensare al perché gli avevo confessato di avere una cotta
per lui, durante i giorni precedenti, e mi ero reso conto che c’era una sola
risposta possibile a quella domanda: l’avevo fatto perché era vero. Non mi ero
mai innamorato di nessuno, in vita mia, perché nessuna donna era mai giunta a
rappresentare per me quello che lui rappresentava da un tempo interminabile.
Non l’avevo mai detto a nessuno tranne a lui, quello che pensavo dell’amore:
che se tra due persone non c’era un’intesa pressoché totale, era stupido
innamorarsi. Ma nessuno mi aveva mai capito bene quanto Remus, o mi aveva dato
il tormento al pari di lui. Mi resi conto che mi faceva un male incredibile il
fatto che non mi volesse credere.
“Mi dispiace. Mi dispiace veramente” esalai, col capo
chino. Mi sentivo uno schifo, per quanto fosse una sensazione che avevo sempre
cercato di non provare. A quel punto, però, non riuscivo più a farne a meno.
“Considerati fortunato, perché se si fosse trattato di
qualcun altro non l’avrei mai ammesso” aggiunsi, e improvvisamente Remus mi si
era avvicinato e mi stava abbracciando. Strinsi le braccia intorno ai suoi
fianchi e posai la guancia contro il suo stomaco, mentre lui stava in piedi di
fronte a me e mi accarezzava la testa, come faceva sempre quando mi trasformavo
in Padfoot.
Capii in quel momento che Remus aveva ragione. Non c’era
futuro per due come noi, che persistevano nel rifugiarsi nel passato e nei suoi
attimi di confortante intensità che sapevamo di aver vissuto appieno. Anche
ora, il motivo per cui Remus era tornato da me affondava le sue radici nel
passato. Nel presente, entrambi non eravamo che straziati brandelli di esseri
viventi.
“Non voglio che tu muoia” lo sentii sussurrare, ed era la
prima, vera confessione dei suoi reali sentimenti che ottenevo da tempo. Mi costrinsi
a sorridere.
“Morirò comunque” gli dissi, sforzandomi di essere
filosofico. Ma non mi riuscì molto bene. Di solito quello saggio e pragmatico
era lui, non io. Io non sapevo recitare quella parte.
Rimasi in attesa di una risposta a tono, di un commento
sarcastico per smorzare la tensione. Ma non udii niente, non una sola parola.
Mi ricordai della rabbia smarrita con cui mi aveva chiesto se avevo mai pensato
alla possibilità di morire, poco fa, e mi resi conto, forse per la prima volta
da quando ci conoscevamo, che Remus mi aveva a cuore sul serio. Era una cosa
che avevo sempre dato per scontata, ma più per comodità mia che perché lui me
l’avesse mai esplicitamente detto. Era sempre riuscito a far sì che la parte
più insicura e nascosta di me si domandasse per tutta la vita se forse, a
dispetto del nostro essere amici, Remus in segreto non mi detestasse. Ovviamente
non avevo mai esplicitato la cosa, ma ora mi sentivo stranamente commosso
al pensiero che gli importasse così tanto di me.
“Senti, non… non fare così. Diavolo, Moony, non è
necessario. Non sto morendo ora”.
Era imbarazzante, per me. Avevo sempre fatto schifo a
consolare la gente. Quando i genitori di James erano morti non avevo saputo che
dire, eppure avrei voluto con tutte le mie forze farlo smettere di piangere.
Adesso, perlomeno, ero riuscito a mettere insieme una frase, il che forse
poteva considerarsi un segno del fatto che ero cresciuto, anche Remus sarebbe
riuscito a mettere in discussione anche quel dato di fatto. Lui ci riusciva con
tutto ciò che dicevo, ed era per quello che aveva cominciato a darmi sui nervi,
quando ci eravamo appena conosciuti. Eppure, non avevo mai messo in discussione
il fatto che fosse mio amico, né avrei mai permesso che qualcuno lo facesse. Mi
ero attaccato a lui in maniera contorta ed inconscia, e anche se alle volte non
facevamo altro che beccarci, facendo quasi concorrenza a James e Lily prima che
si mettessero insieme, per me lui doveva esserci, sempre. Doveva prendere parte
ad ogni dettaglio della mia vita. Era una cosa che non aveva senso, una cosa in
cui mi ero buttato senza neanche pensarci, ma forse aveva ragione lui, doveva
andare così. In tutti gli anni precedenti non avevo mai capito, neppure in
prigione ci ero riuscito, ma ora comprendevo benissimo che cosa mi rendesse
così attaccato a lui.
Mentre pensavo, lui si sciolse dal mio abbraccio. Si
inginocchiò di fronte a me, mi prese il viso tra le mani e mi baciò, per la
seconda volta. Fu il bacio più delicato e più carico di sentimento che avessi
mai dato.
Did I say that I loathe you,
Did I say that I want to
Leave it all behind?
(Damien Rice, “The Blower’s Daughter”)
Nota di
fine capitolo: il
titolo è un verso della canzone “Make This Go On Forever” degli Snow Patrol.
Mi scuso
profondamente per aver aggiornato così tardi. Per questa fic è stato un periodo
critico, lo ammetto, dovuto al fatto che in estate ho dovuto studiare come una
pazza per superare il test d’ammissione all’università e poi, dopo aver
cominciato, mi sono ritrovata con pochissimo tempo libero. Ho finito per perdere di
vista la storia e mi è dispiaciuto un sacco. Il desiderio di vederla
completata era sempre rimasto grande come una casa – non perché non ne potessi più,
ma per potermi confrontare con il prodotto finito e anche per farmi perdonare
da chi la seguiva. Non ho mai avuto alcuna intenzione di lasciarla incompiuta,
solo che trovare il tempo per terminarla mi è risultato profondamente
difficile. Mi mancava quel qualcosa che permettesse alla
trama di arrivare dove volevo, non riuscivo a venirne fuori e non volevo buttar
giù qualcosa di banale solo per terminare la storia. Ho avuto il lampo di genio
poco tempo fa, dopo aver letto un articolo che promulgava ipotesi sulla
possibilità che Remus si fosse avvicinato ai Mangiamorte rompendo con i
Malandrini – ipotesi assurda, ma che tirava in ballo anche il fatto che, al
momento della morte di Sirius, Remus reagisce con una rassegnazione che,
all’autore dell’articolo, sembrava quasi distacco. Ed è vero, l’ho sempre
notato anch’io. Poi ho pensato a tutte le profezie dell’Ufficio Misteri, e con
un paio di voli di fantasia ho costruito una spiegazione che mi soddisfacesse per rendere l'idea che, in un certo senso, Remus se l'aspettasse, di perdere Sirius di nuovo.
Alla fine mi rendo conto che la trama di questa fanfiction è un bel po’
confusionaria e forse troppo piena di spunti, ma essendo la mia prima storia su
questa coppia mi ha fatto comunque bene sperimentare. Tutta questa lunga nota
solo per dire che sono contenta di essere tornata a scrivere di loro :)
Rispondo
alle recensioni per l’ultimo capitolo. I miei ringraziamenti più sinceri a tutti quelli che hanno commentato perché facevo davvero fatica a credere di aver ricevuto delle recensioni del genere.
x ivy_: mi dispiace di non aver potuto
aggiornare presto. Ti ringrazio comunque per i complimenti, mi hanno fatto
molto piacere.
x Ginny
W: ti ringrazio
molto ^^ il seguito è arrivato tardi, ma l’importante per me è che sia
finalmente riuscita a sbloccarmi, anche se mi dispiace per i miei lettori. A
presto!
x
sanzina89: hai
steso proprio un’analisi accurata, non c’è che dire. I problemi erano
esattamente quelli che hai elencato: il risentimento che ancora covava tra i
due, e l’incapacità di Remus di aprirsi. Ora che gli è tornato in mente tutto
questo, però, è riuscito a fare uno sforzo. Grazie ancora per il bel commento
^^
x
Kaya86: mi sento
davvero onorata per averti fatto tornare la voglia di commentare una
Sirius/Remus… non l’avrei mai creduto, dato che è la prima che scrivo. Il
sarcasmo è pane per i miei denti e mi fa piacere che l’apprezzi, e anche che il
modo in cui hai sempre immaginato il rapporto tra i personaggi coincida con il
mio… per me come autrice non c’è cosa più bella. Grazie ancora.
x suni: chissà se leggerai mai questa mia
risposta, o il capitolo stesso… cara, ricevere i tuoi complimenti mi ha
ovviamente fatto un immenso piacere. Non mi stancherò mai di ripetere che adoro
le tue storie. Se la seconda parte ti era sembrata campata in aria lo capisco,
ma per me partiva così: prima i fatti, poi le spiegazioni. Ora che ho scritto
anche questa parte, il quadro dovrebbe risultare completo. Ti ringrazio tanto
per il tuo sostegno.
x
Sibil: grazie per
il giudizio positivo al capitolo, e grazie anche per i complimenti allo stile…
ci tengo a non scadere, cavoli, dopo 5 anni di liceo classico…! Magari riuscirò
ad apprezzare Charlie, un giorno o l’altro, non ti preoccupare ^^ a presto.
x
LCasssieP:
spiacente, per quanto mi riguarda niente scene hot ^^ la storia è shonen-ai, e
non yaoi, non a caso… sia perché sono alle prime armi, sia perché la fanfic è
prevalentemente basata sui sentimenti di Sirius e Remus, e non sentivo il
bisogno di tirare in ballo altro. Grazie comunque per i complimenti, come vedi
la situazione migliora e spero ti faccia piacere ^^ a presto.
x
twinkle: grazie
mille… e hai ragione, son proprio destinati a stare insieme.
x Chu: non sai quanto mi abbia fatto
piacere ricevere la tua recensione. Davvero, è stato bello sapere che
nonostante la tua lontananza da EFP e il tuo semi abbandono del fandom la
storia ti sia piaciuta così tanto… ho apprezzato ogni singolo complimento che
mi hai fatto, soprattutto perché hai colto ognuno degli aspetti che mi è caro
di questa storia, ed è anche questo che mi ha dato la spintarella necessaria
per rimettermici al lavoro. Mi dispiace averti fatto aspettare,
e lo dico sinceramente; ho detestato il mio blocco per giorni e giorni, quindi
ora sono più che mai felice di avercela fatta. Sicuramente continuerò a
scrivere sulla coppia, ormai li amo alla follia; spero dunque di risentirti
presto. Grazie ancora, di cuore.
x
magnolia: sai che
ho letteralmente adorato la frase che mi hai scritto? Che ha centrato alla
perfezione il rapporto fra loro due, fatto di cose dette e non dette, di paura,
ansia e smarrimento, ma anche di un sentimento che non si riesce a definire
nella sua complessità, fra affetto e sensi di colpa e timore e rimpianto. È
bellissima. Davvero. Io stessa non avrei saputo dirlo meglio. Sono contenta di
averti fatto amare la coppia, e ti sono grata per i complimenti.
x Evan88: ti piace “Lei non è una di noi”…
io la adoro. Ho gustato ogni virgola di quella fanfic. Mi fa strapiacere che
andiamo d’accordo per il modo di vedere Sirius e Remus, io come te non sopporto
quel genere di fanfic. Davvero, non per lanciarmi in un’invettiva, ma che hanno
di dolce? Sirius è la persona più caustica e Remus quella più chiusa di questo
mondo, dovrebbero lanciargli un Imperius per far uscire dalle loro bocche frasi
stucchevoli… detto questo, recupero il mio contegno e ti dico che i tuoi complimenti
mi han fatto venire i lucciconi. Sono contentissima di aver soddisfatto i tuoi
gusti, è una delle cose che più mi riesce a render fiera di ciò che scrivo.
Grazie, grazie davvero.
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