The Change.

di Jo Scrive
(/viewuser.php?uid=174834)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'incontro con la famiglia Parrington si rivela un disastro ***
Capitolo 3: *** Vedo me stessa ***
Capitolo 4: *** C'è il vento in casa ***
Capitolo 5: *** Rivedo un vecchio amico ***
Capitolo 6: *** Faccio un viaggio indietro di qualche secolo ***
Capitolo 7: *** Vedo il futuro ***
Capitolo 8: *** Una cosa su un milione mi è chiara, forse ***
Capitolo 9: *** Incontro una super mamma e piango dalla gioia ***
Capitolo 10: *** Qualcosa di buono mi capita, non sono maledetta ***
Capitolo 11: *** Prometto di aiutare un fantasma ***
Capitolo 12: *** Jason, cosa mi hai fatto? ***
Capitolo 13: *** Parola d'ordine: dimenticare ***
Capitolo 14: *** C’è qualcuno che aspetta una mia frase con ansia ***
Capitolo 15: *** Se la voce ascolterai, e non la ignorerai, nelle parole la risposta troverai ***
Capitolo 16: *** Rimedio un ragazzo ***
Capitolo 17: *** La facenda si complica ***
Capitolo 18: *** La mia relazione con Jason non va per niente bene ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


nuovo

Iniziò tutto quella sera.
Mi stavo esercitando al pianoforte in camera mia. Suonavo un’aria di Bach, del quale non ricordo più nemmeno il nome, quando suonò il campanello. DRRRRRIIIIN! Un suono assordante.
Mi alzai controvoglia, lasciando riecheggiare l’ultima nota per la sala e mi diressi verso la porta. Il campanello suonò di nuovo. DRRRRRIIIIN!  Un altro suono assordante.
– Arrivo, arrivo! – esclamai. Aprii la porta, dove vidi una strana figura. Anzi, oserei dire quasi buffa. Portava una mantella nera, lunga fino alle caviglie, come se stesse piovendo, ma senza il cappuccio. Al suo posto vi era un cappello… simile a quelli da pesca, e infine i mocassini. Avrà avuto sì e no sedici anni. La sua faccia era coperta dall’ombra del cappello, ma riuscii comunque a identificare i lineamenti. In una parola: perfetti. Era un po’ più alto di me, anche perché c’è da dire che io non ero così tanto alta, ma sono dettagli. I suoi occhi invece erano di un colore strano, simile ad ambra. Con tutta questa perfezione si poteva ripagare il danno che facevano quei vestiti. O quasi.
Sentii un rumore di passi e a malincuore distolsi lo sguardo dalla perfezione che avevo davanti e notai un'altra figura che si avvicinava, vestita nella stessa insolita maniera. Si avvicinò con calma, come se avesse tutto il tempo del mondo. Poteva anche essere così, ma io non ce l’avevo. Quando mi fu abbastanza vicino, potei osservarlo bene: lui era un’altra cosa, rispetto al ragazzo. Sembrava sulla quarantina. Aveva una faccia simpatica, rotonda come una palla da bowling. Anche i suoi occhi erano di quello strano color ambra, ma sul ragazzo facevano più effetto.
Loro mi guardarono intensamente, anzi, mi squadrarono. Dalla testa ai piedi. Poi, dopo una lunga osservazione dei miei occhi, si guardarono, e notai che si intesero
– Annabell Davis? – mi chiese il ragazzo

“Si”avrei voluto rispondergli, sicura di me, ma suonò più come:

– Uhm, ehm, gah.

Il ragazzo inarcò un sopracciglio.

– Mi spiace ma dobbiamo portarti via.
Okay. Potevo sentirmi dire qualsiasi cosa, persino che questi tipi venissero da Jumanji, ma che dovevano portarmi via no. Anche se era quel gran pezzo di ragazzo a dirmelo. E poi il suo tono non mi piaceva. Era meglio quando se ne stava lì zitto a fissarmi. Questi arrivavano fuori da casa mia, alle otto e mezza di sera, interrompendo il mio allenamento al piano, e dovevano pure portarmi via?

– Jason, vacci piano, per l’amor del cielo! – lo rimproverò l’altro, prima che potessi inveirgli contro – Non puoi iniziare così un discorso di questa portata, senza spiegarle…

– Spiegarmi cosa? – lo interruppi

­– Ma Dalton, dovevo pur iniziare dicendo qualcosa, no? – si difese Jason, ignorando completamente la mia voce

– Devi andarci piano, questa è una faccenda seria!

– Ehm… scusate… – li interruppi – potreste dirmi VELOCEMENTE cosa ci fate a casa mia? I miei genitori tra poco torneranno e dovrei apparecchiare la tavola per cenare…
Jason mi guardò e poi guardò Dalton, che sospirò. Ancora.

– Bambina, i tuoi genitori non verranno – disse poi con un tono più calmo possibile – E’ successo tutto così in fretta: la moto, il guard-rail… – fece una breve pausa nella quale mi mise una mano sulla spalla – Mi dispiace. – concluse
Neanche questo era nelle cose che mi aspettavo potessero dirmi. Ci misi qualche secondo per capire la faccenda. Quando ne fui certa, un buco si creò nel mio petto, come quando ero stata sulle montagne russe, ma molto più grande, e profondo.

– Sono… morti? –  chiesi, dopotutto è risaputo che la speranza è l’ultima a morire. Potevano essere in coma, o in ambulanza, o in ospedale…
– Mi dispiace – ripeté Dalton – non c’è stato nulla da fare.
Sentii salirmi le lacrime agli occhi, poi qualcuna iniziò a ricadermi calda sulle guance. Distrutta le mie gambe cedettero e caddi sullo zerbino con il viso tra le mani dove piansi.
Jason, con mia grande sorpresa mi si sedette accanto. Non pensavo lo facesse, dato che si era presentato dicendo che dovevano portarmi via.

– Ehi, devi essere forte, bambina.

– Ho quindici anni. Non sono più una bambina.

– Oh, okay. Posso chiamarti Annie? – mi chiese con un sorriso. Avrei voluto ricambiare il sorriso ma in quel momento non ero dell’umore adatto per sorridere, così annuii e continuai a singhiozzare per un po’. Quando rimisi in moto il mio cervello mi accorsi che Dalton non c’era più. Forse si era già avviato. Ma soprattutto, mi accorsi che avevo la testa sulla spalla di Jason, e che lui mi accarezzava la schiena e i capelli, mormorando parole di conforto. Imbarazzata, (rossa come un peperone) mi tolsi dalla sua presa e mi asciugai le lacrime in fretta e furia, poi da non so dove trovai la forza per sorridergli

– Grazie – mormorai

– Figurati, Annie – disse lui sorridendo. Si alzò e mi porse la mano.

– Dai, alzati.

– Dove mi portate?

– Ora ti portiamo a Londra, dai tuoi zii.

– Ho zii a Londra?

– Certo i tuoi non te l’hanno mai detto? – chiese con una smorfia confusa sulla faccia

– Forse è per questo che siamo ad Amburgo… – indovinai

– Può darsi… In ogni caso preferiresti un orfanatrofio?

– Ehm, passo – affermai scostandomi i capelli dietro l’orecchio con un gesto impacciato e fissando il pavimento

– Allora alzati.

– E’ un ricatto questo?

Rise – Certo che no.

Accettai la sua mano e mi alzai. Era molto calda. Mentre scendevo le scalinate mi ricordai di una cosa.

– Aspettami, torno subito! – gli urlai risalendo di corsa le scale, tantoché quando fui in cima non avevo più fiato. Corsi dentro casa e presi l’album di famiglia dal cassetto della credenza dietro al divano di pelle bordeaux. Poi andai in camera dove mi misi una felpa, presi il cellulare e il caricabatterie. Mentre tornavo in sala mi ricordai di prendere più foto possibili dei miei amici, per ricordarmeli, ora che andavo via. Ne presi il più possibile: Foto dell’asilo, di classe delle elementari e delle medie, foto con i miei più cari amici, foto dei miei compleanni… le infilai tutte quante nell’album di famiglia. Diedi un ultimo sguardo alla mia casa: i muri gialli, i lampadari, il parquet, il pianoforte… mi sarebbe mancata la mia solita vita. Tornerò? Che cosa mi avrebbe aspettato? Chi? Come erano gli zii? Avevano figli? Perché mamma e papà non mi avevano mai raccontato nulla su di loro? Domande alle quali avrei saputo rispondere solo una volta a Londra.
Chiusi la porta dietro di me. Mi fermai un attimo. Sospirai. Scesi velocemente le scale con gli oggetti in mano e il cellulare in tasca. Rivolsi un’ultima occhiata alla facciata bianca della mia casetta e mi strofinai il naso con la manica della felpa.
Decisi che avrei chiamato i miei amici solo una volta a Londra, anche se mi sarebbe costato una fortuna. Per loro questo ed altro.
Salii in macchina e Jason mi chiuse la portiera sempre sorridendomi. Dalton accese la macchina.
L’avventura era appena iniziata.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** L'incontro con la famiglia Parrington si rivela un disastro ***


bnbnbn

Quando arrivammo a Londra, era mattina presto. Non so dire esattamente quanto tempo passò, ma so che arrivammo all’aeroporto in macchina e ci imbarcammo in circa due ore. E poi, il tempo che facemmo in aereo è un vuoto totale. Sinceramente non mi ricordo nemmeno di essere scesa dall’aereo. Mi svegliai solo in mattinata, mentre ero in macchina. Di colpo si fermò. Scesi dalla macchina di Dalton e con mia grande sorpresa vidi che c’era il sole. Niente di che, però era comunque sole! Infatti, mi ero sempre immaginata il tempo di Londra più orrendo. Voglio dire: pioggia, grandine, e ancora pioggia ventiquattro ore su ventiquattro. Ma a quanto pareva mi ero sempre sbagliata. Davanti a me c’era una specie di reggia: facciata di un colore bianco un po’ antico, finestre enormi, balconi, bovindi, fiori, colonne, un mega giardino… per i miei standard sembrava un castello. Mi strofinai gli occhi dalla dormita.
– Eccoci! – esclamò Dalton – Benvenuta a Londra!
Inarcai un sopracciglio.
–Benvenuta a Londra! – ripeté accentuando la parola benvenuta e aprendo le braccia. Fu allora che capii.
Qui vivono i miei zii? – domandai con gli occhi sbarrati

– Esattamente dormigliona! – intervenne Jason ridendo –Benvenuta nella tua nuova casa.

– Uau! – fischiai. Mi strofinai ancora gli occhi per assicurarmi che non fosse un sogno e per scacciare anche l’ultima traccia di sonno.

Presi le mie cose dalla macchina e sospirai. L’agitazione prese il sopravvento. Ma perché i miei non mi hanno mai detto niente? Sospirai un’altra volta e mi diressi al cancello. Una figura stramba si avvicinò a noi, prima che potessi suonare il campanello. Si avvicinò talmente tanto che sembrava volesse annusarci. Indietreggiai.
– Sareste? – chiese il tipo. Sembrava un maggiordomo.
Feci per aprire la bocca ma Dalton mi precedette.

– Lei è la signorina Annabell Davis, nipote di sir e lady Parrington. Potremo scambiare due parole con loro?

Da dove arriva tutta questa formalità? Signorina? Sir? Lady? Ma dove siamo, nel XVIII secolo?
– Oh, non ce ne sarà bisogno – disse una voce alle spalle del maggiordomo. Gli posò una mano sulla spalla.

– Allora è così che ti hanno chiamato, dunque. Annabell.

Mi squadrò dalla testa ai piedi e viceversa, ma si fermò in particolare sui miei occhi. Anche lui come avevano fatto Jason e Dalton. Lo guardai anche io. Sembrava anche lui sulla quarantina, portati perfettamente. Era moro, con i baffi e un po’ di barba, ma in un ordine impeccabile. Era in giacca e cravatta, come se fosse appena tornato da una riunione di lavoro in cui i partecipanti sono tutti infighettati. Ecco, lui aveva quell’aria da lavoratore accanito londinese. Molto probabilmente lo era, dato che quella casa non si costruisce da sola. La cosa che mi colpì maggiormente fu il colore dei suoi occhi: erano di un azzurro zaffiro, delicato ma intenso. Mi fecero impressione, e incutevano quasi timore. Ma perché ‘sti qua hanno tutti gli occhi strani? Perché tutti mi fissano negli occhi e annuiscono?

– Mr. Mason, faccia la cortesia di aprire il cancello alla signorina Annabell e di scortarla alla sua camera. Poi la porti in sala dove faremo le presentazioni.
Scortarla? Ma come parlano questi? Sembra che devo andare in galera!
  Ma certo, sir Parrinton.

L’uomo infghettato, identificato come mio zio, sorrise di nuovo, si girò e tornò dentro casa. Il tipo identificato come Mr. Mason mi aprii l’enorme cancello.

– Dia pure tutto a me, signorina – mi disse gentile. Io gli diedi l’album di famiglia e il caricabatterie, mi voltai e feci un cenno di saluto a Dalton, mentre Jason mi alzava i pollici divertito. Io feci lo stesso e poi mi voltai.

La casa era fantasmagorica. Dire che era grandissima era dir poco. Già si capiva lo stile all’ingresso: una colonna si ergeva al centro della sala (non intendete “sala” come una sala qualunque, piuttosto della grandezza di un parco giochi), un divano, una poltrona marrone, una TV al plasma, e dei quadri nei quali vi erano enormi fiori. Forse erano la passione di mia zia. Mr. Mason mi condusse su per le scale. Anche nella prima rampa c’erano quadri di fiori e animali, ma salita la seconda rampa, nell’ampio corridoio, c’erano quadri di due  ragazze. Una era mora con gli occhi azzurri, e sembrava molto piccola, ma poi ce n’erano altri, sempre di quella bambina, che diventava a ogni quadro più grande. Dall’altro lato del corridoio la medesima cosa, solo di una splendida ragazza rossa con gli occhi dello stesso colore della bambina e dello zio. C’erano tantissime porte, e dentro di me sentivo che avrei aperto la porta mentre qualcuno si faceva il bagno in futuro. Mr. Mason si fermò davanti a una porta marrone come tutte le altre.

– Siamo arrivati, signorina. Questa è la sua camera – mi disse con la solita voce solenne.
Quando entrai nella mia “camera”, rischiai di avere un infarto. Era grande quanto la sala e la cucina messe insieme della mia vecchia casa. Era arredata a puntino, niente era fuori posto. I muri erano di un colore beige chiaro, e il pavimento era un parquet. C’erano quadri, vasi, sedie, poltrone, una tv al plasma, un tavolo e persino un bagno! Ci entrai subito di corsa. La vasca era una jacuzzi, il box doccia aveva persino uno spazio per sedersi e si illuminava e, cosa ancora più fantastica, nella camera c’era il bovindo! Aprii la finestra, mi appoggiai al davanzale e inspirai a fondo l’aria. C’era una vista mica male per essere a Londra!
– La stanza è di suo gradimento, signorina? –  mi chiese Mr. Mason mettendo il caricabatterie e l’album in un cassetto.
– Certo, Mr. Mason – risposi lanciandomi sul letto. Era morbidissimo. Era rifatto con il piumone, dato che probabilmente ad ottobre, a Londra fa già un freddo cane. Era un letto matrimoniale. Gli sorrisi – Non avrei di certo potuto desiderare di meglio!
Lui fece un sorriso storto. Probabilmente non aveva il permesso di sorridere o non ne aveva mai l’occasione e molto probabilmente non aveva fatto molta pratica negli anni.

– Ora signorina la prego di seguirmi. E’ ora di fare la conoscenza della famiglia Parrington.  

– Mr. Mason…

– Mi dica, signorina.

– Potrei avere un po’ di tempo per chiamare i miei amici ad Amburgo? Loro non sanno nulla ancora…

– Signorina, la stanno aspettando. Sir e lady Parrington non amano aspettare.

– La prego Mr. Mason! Li avvisi lei, io tornerò più in fretta possibile, glielo prometto! – feci la faccia più compassionevole che riuscivo a fare, e lui sospirò, rassegna dosi.

– E va bene, signorina. Ma si sbrighi, mi raccomando.

– La ringrazio di cuore, Mr. Mason.

– Quando scende, non si perda, mi raccomando, signorina.

Chiuse la porta. Io mi ributtai sul letto e composi il numero della mia amica Karol.
“Tu tu… tu tu... tu tu…”

Una voce rispose, preoccupata.

– Annie! Ma dove sei finita?

– Scusa Karol, non sono a casa…

– Come mai? Che cos’è successo?

– Beh, è una storia strana…
Iniziai a raccontarle la storia, a partire dalla casa in cui ero, ma quando iniziai a raccontargli di Jason, mi fermò

– Wow! Questo gran figo di Jason mi ricorda Edward Cullen…

– Ci ho pensato anche io!

– Ahahahahaha, Annie, non perderlo di vista, mi raccomando!

– Karo! Ormai è andato! Comunque, lasciami finire di raccontare. Sono qui perché i miei… i miei… – mi salii un groppo alla gola

– Oh… ssh, Annie, tranquilla, ci sono io con te…

– Già… – tirai su con il naso

– Cambiando argomento, a proposito di quel gran pezzo di figo… cerca di rintracciarlo! Voglio assolutamente vedere una sua foto! – deviò il discorso come solo lei riusciva a fare, ma quando si tratta di bei ragazzi, era una guerra persa

– D’accordo, ci proverò.

Lei sospirò – Mi mancherai tantissimo, lo sai?

– Anche tu, Karo! Ho comunque portato con me le nostre foto strampalate, per ridere quando mi manchi e… oh, non provare a cambiare numero!

– D’accordo, non lo farò. – tutto d’un tratto la sua voce era cambiata, singhiozzava e parlava come se avesse il raffreddore.

– Ehi, Karo, non metterti a piangere! Tornerò – le dissi infine, ma non ero del tutto convinta 

– Davvero?

– Certo! Ora scusami ma mi stanno aspettando per le presentazioni in famiglia…

– Ci sentiamo?

– Certamente – dissi sorridendo. Avrei tanto voluto essere lì con lei, per consolarla, ma lei non poteva nemmeno vedere il mio sorriso. Prima di riattaccare, mi ricordai degli altri.

– Ehm, Karo…

– Dimmi Annie.

– Potresti raccontare tutto anche a Nigel, Juli e a tutti gli altri? Ora non ho tempo per chiamarli… i miei zii mi fulmineranno viva, me lo sento.

– Contaci. Gli racconterò tutto domani, tranquilla. Poi ti chiameranno loro, okay?

– Okay, siamo d’accordo allora. Un bacio!

– Ciao, a presto Annie, ti voglio bene.

– Anche io Karo – e chiusi la chiamata. Sapevo che sennò saremmo andate avanti all’infinito, ma giù mi stavano aspettando. Erano già spazientiti, secondo me.
Aprii la porta e mi trovai un labirinto di porte di fronte. Dove vado? Mi sa che avrei dovuto chiamarla dopo Karol… oddio e adesso? Scesi le scale di corsa, senza fiato scesi un’altra rampa e fu lì la prima volta che lo vidi. Proprio lì, in fondo alla rampa di scale. Era un ovale verde, con delle sfumature rosse, color ambra e azzurre. All’interno, era come se ci fosse un’infinita spirale: continuava a girare. Mi avvicinai, scendendo uno scalino per volta, con calma. Quando fui vicina sentii riecheggiare nell’aria una nota grave. Come se un tenore stesse scaldando la voce prima di un concerto. Ero sicura comunque, che la nota in questione fosse un “Do”. Continuava senza sosta, non si fermava mai. Non me la sentivo di toccarlo, non mi fidavo di quella cosa FLUTTUANTE. Così, la ignorai, e passai avanti. Scesi le scale di corsa e mi scontrai con qualcuno. Pregavo che non fosse mio zio.

– Scusami, perdonami – dissi impacciata

– Tu… saresti? – era la voce di un ragazzo. Alzai lo sguardo, e lo vidi: due occhi verde smeraldo. Aspetta… erano del MIO STESSO colore! Magari era una coincidenza, ma erano identici! Anche lui sembrava avere gli stessi pensieri, perché mi guardava intensamente.

– Annabell.

– Nathan, piacere – mi porse la mano e io gliela strinsi

– Per caso… sei figlio di mio zio?

– Ehm… – ci riflettè un secondo – Certo! E’ casa mia questa.

– Allora tu sei mio cugino! – esclamai

– Uau! Ma perché sei… – si fermò – oh. Papà mi ha raccontato quello che ti è accaduto… mi dispiace per i tuoi genitori… i miei zii… – fece una pausa – strano che non sapevamo uno dell’esistenza dell’altra, eh? Eppure siamo cugini!

– A me sembra più che altro buffo… – volli fargli notare la faccenda degli occhi – e poi, è strano che abbiamo gli occhi dello stesso colore, e buffo. Non trovi?

Rise – Già, ci stavo pensando prima!

– Uo, ora siamo anche telepatici!

– Siamo cugini in fondo, no?

Ci fu un minuto buono di silenzio, dopo una risata. Finito di ridere, mi ricordai il motivo per cui ero scesa.

– Potresti accompagnarmi in sala? Mr. Mason mi aveva detto di trovarmi lì, ma non ho la minima idea di dove sia…

– Certo, cugina! Ti accompagno subito! Seguimi.

Mentre camminavo ebbi l’occasione di guardarlo interamente. Poteva solo essere appena tornato da scuola, a meno che non girasse in giro per Londra tutto infighettato come suo padre. Portava una cravatta nera e rossa, una giacca rossa e una camicia bianca. I pantaloni erano neri.

– Si, questa è l’uniforme scolastica– mi disse come se mi avesse letto nel pensiero – sono appena tornato da scuola. Non vedo l’ora di togliermela! Papà mi ha avvisato che c’era una persona speciale in casa, allora sono corso subito a casa! E poi… BUM! Ci siamo scontrati. Bello eh?

–Si, davvero… forte!

Arrivammo nella sala in pochi secondi. Iniziai a prendere confidenza con Nathan. Era un tipo simpatico. Quando sbucammo da un angolo avevo sì e no dieci occhi puntati addosso. C’erano due ragazze bellissime: una avrà avuto dodici anni, e l’altra la mia età. Poi mi resi conto che le due ragazze erano quelle dei ritratti al secondo piano. Mie cugine. La rossa, nonché la quindicenne, si guardava le doppie punte (che probabilmente non aveva), mentre la ragazzina di dodici mi guardava ridendo, e fu anche la prima a parlare.

– Benvenuta! Tu devi essere Annabell, giusto?

– Si, chiamami pure Annie…

– Iris, quanta confidenza che dai ad una sconosciuta! – intervenne la Rossa senza distogliere lo sguardo dai suoi capelli

– Non essere sgarbata, Sophie! – la rimproverò lo zio Parrington – Benvenuta Annabell. Ora, le presentazioni. Accomodati pure.

Mi sedetti sul divano in pelle.

– Allora, partiamo dai ragazzi. Come avrai ben capito, lui è Nathan, il maggiore – mi disse indicando Nathan. Io sorrisi – poi, lei è Sophie – disse indicando la Rossa, che alzò gi occhi giusto per vedere se non ero un mostro, e tornò ai suoi capelli – mentre, la più piccola è Iris.

– Annabell! Sono così contenta che sei qui! Potremmo fare così tante cose insieme! – esclamò Iris entusiasta

– Lo sono anche io Iris, mi piacerebbe tanto conoscerti meglio – dissi sorridendole. I suoi occhi azzurri si illuminarono e ricambiò il sorriso

– Oh, Iris! Non la farai giocare con le bambole, spero! – intervenne Nathan, ridendo

– Certo che no! Non ho più cinque anni, fratellone! – ribatté lei – E poi, ho sempre voluto una sorella più grande, come si deve… – rivolse un’occhiata a Sophie, che nemmeno la ascoltò

–Va bene, ragazzi – cominciò lo zio – vedo che andate d’accordo, mi fa molto piacere. Annabell si deve sentire a casa sua, qui okay?

– Okay – risposero i ragazzi in coro. Cioè, Iris e Nathan. Sophie era troppo impegnata nel caso “doppie punte che non ho”.

– D’accordo. E invece, questa è mia moglie, Annabell. Adrianne Parrigton.

Una donna bellissima si alzò dalla sua sedia, elegantissima. Aveva un lungo abito azzurro, che riprendeva il bellissimo colore dei suoi occhi, naturalmente azzurri come tutti gli altri. Tranne Nathan. C’era una somiglianza enorme con Sophie. Lady Parrington aveva i capelli intrecciati sulla spalla destra e una specie di tiara in testa.

– Piacere di fare la tua conoscenza, nipotina – mi disse gentile

Il piacere è tutto mio, zia – risposi in modo più disinvolto possibile. Lei sorrise. Era ancora più bella quando sorrideva.

–Forse i tuoi te l’avranno detto ma… assomigli moltissimo a Julia, quando aveva la tua età.

– Chi è Julia? – chiesi

– Dahlia e Darren non te ne hanno mai parlato?

– No, mai.

– Oh, peccato… ti mostrerò una sua foto a pranzo. Sei la sua esatta copia, ragazza mia.

– Bene – disse lo zio, ansioso di finire il discorso – questi sono i nostri “collaboratori” – indicò i maggiordomi. Mi stupii che non li avesse chiamati “camerieri” o “maggiordomi” o “servi” ma in quella casa si erano fermati al XVIII secolo, per cui…

– Nathan, Iris, mostrate ad Annabell la casa. – ordinò lo zio Parrington

– Sarà un vero piacere! – esclamò Iris

– Anche io sono d’accordo. Sarà divertente! – concordò Nathan

Risi – Grazie cugini

Ed eccolo di nuovo. Quel suono, quel “Do” riecheggiò di nuovo nelle mie orecchie. Mi girai e lo vidi, lì che girava come un’infinita spirale. Che cos’era quel coso?

– Cos… cos’è quello?

– Quello cosa? – chiese zia Parrington

– Quell’ovale verde… è lì, non lo vedete? – chiesi indicando l’ovale. Zio e zia Parrington si rivolsero uno sguardo complice

– Non c’è nessun ovale verde lì…

Ma come? E’ lì, sotto i vostri occhi!

– Non c’è niente lì… – mi disse Nathan

– Eppure io lo vedo, lo sento!

– Annabell, vai a vedere la casa… non pensare a quell’ovale verde… Il viaggio deve averti stancata parecchio.

– Non sono pazza! – sbottai

Tranquilla Annie, andiamo – mi disse Iris

– Vi chiameremo all’ora di pranzo, Annabell. Arrivederci.

Cosa c’è in quell’”arrivederci” che non mi convince?

Quell’incontro si era concluso parecchio male. Seguii Nathan e Iris su per le scale. Mi portarono in camera mia e io mi sdraiai sul letto, con un braccio sugli occhi. Zio e zia Parrington di sicuro sanno di cosa parlo. Ne ero certa.

– Non sei pazza. Io ti credo. – mi disse Nathan

– Anche io ti credo! – intervenne Iris

– Sul serio? Non vi sembro una psicopatica?

– Certo che no. – mi sorrisero entrambi

– Grazie… scusate se ho rovinato un incontro di famiglia.

– Traaaaaaanquilla, cugina – disse Iris – vanno sempre a finire con qualcuno che scappa. E’ un’abitudine ormai in casa Parrington.

Scoppiammo a ridere tutti nello stesso istante, qualche secondo dopo che Iris finisse di pronunciare la frase. Rimanemmo per un po’ tutti insieme poi, Nathan doveva svolgere i compiti, prima di pranzo, così aveva il pomeriggio libero per cui ci salutò e uscii. Chissà dove era la sua camera. In quel labirinto, non l’avrei di certo mai trovata. Iris doveva vedersi con delle amiche nel pomeriggio, per cui doveva preparare l’occorrente per studiare. La baciai sulla guancia e uscì anche lei. Rimasi quindi sola nella camera, a pensare all’espressione degli zii quando gli avevo detto dell’ovale verde.

Loro sanno di cosa parlo. Ma di cosa parlo io?

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Vedo me stessa ***


c

Il Big Ben suonò le dodici.
Ero rimasta a guardare il soffitto per… quante ore? Certo che in quella casa il tempo era come immobile. Sembravano passati pochi minuti, e invece erano già passate delle ore. Magari mi ero addormentata.
Dai piani sottostanti, provenivano infatti tintinnii di piatti e posate.
Mi alzai dal letto e controllai il telefono: nessuna chiamata, nessun messaggio. Meglio così.
Girai intorno al letto lisciando il legno e andai in bagno per lavarmi le mani. A minuti zia Adrianne ci avrebbe chiamato per pranzare e li avevo già fatti aspettare una volta.
La zia mi era sembrata buona, cioè, una brava persona, a prima vista. Speravo fosse stata la sua vera natura a dirmi: “piacere di fare la tua conoscenza nipotina ” e che non fosse una maschera, anche perché la prima immagine che mi venne in mente in quel momento era la zia Adrianne come Hitler, con tanto di pizzetto, a fare: “NEIN, NEIN, NEIN, NEIN, NEIN!” urlando e sbattendo le mani sul tavolo da pranzo, e non era proprio una bella prospettiva. Soffocai una risata.
Mi lavai la faccia, sciacquando via quei pensieri dalla mia mente e mi guardai allo specchio. Vidi la Annabell di sempre: capelli castani, mossi alle spalle, ciglia lunghe e occhi verdi. Quel verde intenso che avevo rivisto solo negli occhi di Nathan. Avevo visto parecchia gente con gli occhi verdi, ma mai come i miei. I miei erano di un verde smeraldo, intenso. Nessuno ci aveva mai fatto caso. Eppure, mia madre ripeteva sempre: “hai gli occhi della speranza, e della fortuna”, ma non ho mai saputo intendere il motivo. Non era neppure il mio caso, perché i miei genitori erano morti e avevo dovuto lasciare la mia città, Amburgo, con tutti i miei amici. A ripensare alla mia amica Karol che singhiozzava al telefono, mi venne un tuffo al cuore.
Probabilmente non saprò mai cosa intendeva mamma. E probabilmente non tornerò ad Amburgo.
Mi asciugai la faccia, e mi strofinai il naso con la manica della felpa, come facevo sempre quando stavo per piangere. Ma non potevo mettermi a piangere ora. sarei sembrata debole e io ODIO apparire debole.
Zia Adrianne non chiamava. Mi presi il tempo di esaminare la stanza a fondo. Camminavo, lisciando il legno della scrivania e canticchiando un motivetto improvvisato sull’ottava bassa. Giunta alla fine della scrivania, vidi una porta, che non avevo notato prima. Era una porta dorata con un la maniglia a forma di chiave di basso, una “C”. Mi avvicinai. Non dubitai un secondo che quella porta fosse fatta d’oro, dopotutto, la casa diceva tutto. Era impossibile che non ci fossero delle porte d’oro! Lisciai lo stipite e presi la maniglia. Feci un profondo respiro, feci forza sulla maniglia e la porta si aprì senza scricchiolare. La stanza sembrava lunghissima. Era buia, ma quando entrai si accesero delle torce a forma di note e chiavi di violino. Da una parte volevo percorrerla tutta, vedere dove mi portava, ma dall’altra volevo uscire, scappare e dimenticare. Adoravo tutto ciò che riguardava la musica, e in quella casa era sempre presente. L’ovale che suonava il do, quella stanza… non potevo lasciar perdere tutto. Questa era un’avventura, anche se strana. Nei libri che avevo letto, il protagonista veniva catapultato in un mondo nuovo all’improvviso, ed era esattamente quello che sta va succedendo a me. Come potevo far finta di niente? Il mio istinto di curiosona, musicista e lettrice accanita prese il sopravvento. Presi decisa una torcia e mi avviai. La porta si chiuse dolcemente alle mie spalle.
Mi guardavo intorno, e non vidi altro che pareti di marmo intorno a me.

– E-ehilà? C’è nessuno? – chiedevo, ma nessuno rispondeva. Continuai a camminare per un po’.
Qualche tempo dopo (non so esattamente quanto, finché sono in un cunicolo di marmo e senza orologio non posso fare numeri di magia), gunsi in un atrio rotondo, delle dimensioni di una sala da ballo, il parquet e le pareti di marmo. In mezzo c’era il mio piano, o meglio, il piano che avevo sempre desiderato, ma che non avevo mai potuto permettermi.
Era un pianoforte a coda d’oro, al centro della sala, come se stesse dicendo suonami, Annabell. Io opposi resistenza per un po’, ma non resistetti. Appoggiai la torcia al muro e mi sedetti sullo sgabello. Suonai un la. Perfettamente intonato. Misi le mani sulla tastiera, sospese.
Suona, Annabell.
Trassi un respiro profondo e iniziai a suonare a memoria le note di “Per Elisa” di Beethoven. La suonavo ogni volta prima di iniziare a fare gli esercizi, per testare se il piano era accordato. Mi lasciai trasportare dalla melodia, chiudendo gli occhi. Quel piano era magnifico. Aveva un nonsoché di magico. Suonai tutta la melodia, ma appena staccai a malincuore le mani dal pianoforte, sentii un dolore lancinante alla spalla sinistra. Riaprii gli occhi di soprassalto e mi misi una mano sulla spalla per il dolore e vidi l’ultima cosa che avrei voluto vedere. Ancora quell’ovale! Mi perseguita!
L’ovale era lì, con la sua infinita spirale verde. Mi alzai dallo sgabello dove ero seduta e mi misi a girargli attorno. Era un disco piatto, uguale da una parte e dall’altra.
– Cosa sei? – chiesi – Oh, bene. Ora mi metto anche a parlare con i dischi colorati.

– Non sei pazza. – disse una voce proveniente dall’interno. Era la voce di una donna, anzi, di una ragazza.

– Cosa sei? Chi sei?

– Devi venire qui. E’ l’unico modo.

– Da quando ti ho visto non mi hai portato altro che guai. Dovrei anche seguire i tuoi consigli? – poi mi resi conto che stavo parlando con un disco e sospirai. – Io me ne vado.

– Annabell! Ascoltami!

– Mi rifiuto di parlare con un ovale colorato!

– Ma io non sono un ovale colorato! Io ti parlo dall’altra parte del portale! Vieni qui, devo parlarti!

Eh? Portale?

Mi fidavo troppo. Dannazione, quella voce mi era familiare. Che avevo da perdere?

– Che cosa devo fare?

La voce sospirò, tranquillizzata – Devi sono entrarci… io ti aspetto qui.

Il battito del mio cuore accellerò. Dovevo entrare in un portale? Okay. Avevo pensato all’avventura, e mi ero intrippata nel tutto. Ma dovevo entrare in un PORTALE? Dove sarei finita, nello spazio? In mezzo agli Hobbit? Eppure quella sensazione di adrenalina mi piaceva. Amavo l’avventura. Mi avvicinai al portale, sospirai. Se è quello che devo fare…
Allungai una mano che mi sprofondò dentro. Infilai il piene destro e poi in sinistro ed entrai completamente. Una bagliore verde si sprigionò intorno a me e il male alla spalla tornò doloroso. Atterrai con un ginocchio a terra e una mano sulla spalla. Quando riaprii gli occhi mi trovavo… no, non era possibile! Era la mia cucina. Era casa mia! Eppure le foto erano diverse… non c’erano le foto delle medie, n’è delle superiori. Solo della prima elementare. Strano.

– Benvenuta, Annabell. – disse la voce del portale – Siediti, prendiamo un the.

Mi voltai e vidi una ragazza identica a me, solo un po’ più… ehm… matura. Aveva i miei stessi occhi, i miei capelli. Sembravo proprio io. La ragazza mi sorrise e si mise a fare il the.

– Julia? – chiesi. Mi ero improvvisamente ricordata della ragazza uguale a me di cui mi aveva parlato zia Adrianne.

– Adrianne ti ha parlato di me?

– Come fai a… beh, si, mi ha detto solo che eri uguale a me ed è vero! Incredibile!

– Hai la “r” dura, lo sai?

– Ovvio che ho la “r” dura, sono tedesca. Ma poi cosa c’entra?

– Come sai l’inglese così bene?

 – Mio padre mi insegnava il tedesco, e lo imparavo a scuola, mentre mia madre sosteneva che l’inglese mi sarebbe servito più che mai, una volta adulta.

– Aveva ragione…

Non capivo il filo del discorso, così chiesi – Ma perché siamo a casa mia?

– E’ una storia che ora non sta a te sapere.

– E allora cosa mi hai fatto venire qui a fare? – dissi scocciata. Mi stavo innervosendo.

– Per dirti delle cose.

– E allora parla. Sono tutt’orecchi.

– Tu hai una missione da compiere, Annabell. Una missione che solo tu, accompagnata dalla nota prima di te o da un Custode puoi portare a termine. Una missione che decreterà le sorti del mondo, e della nostra famiglia.

– Eh? – Non volevo sembrare idiota, ma eh? Note? Custodi? Missione?

– Hai un compito da svolgere, essendo la settima nota…

– Aspetta, aspetta. La settima nota?

– Si…

– In che senso?

Sospirò. – Non sta a me spiegarti tutto l’albero genealogico della nostra famiglia, N’è delle tre stirpi che lo diversificano da qualsiasi altra famiglia normale del mondo.

– Julia, dimmi quello che spetta a te di dirmi, altrimenti facciamo notte! – le feci il verso.

– Allora… vai dai Custodi con la sesta nota nel Big Ben, loro ti narreranno tutto ciò che per ora ti è concesso sapere.

– Ma chi sono questi custodi? Chi è la sesta nota Julia?!

– Lo sai, nel profondo. E’ dentro di te, secoli di storie ti hanno formata.

– La smetti di fare la prof. di filosofia?

– Tieni. Portalo sempre con te, non perderlo.

Perché continua a cambiare discorso?

Mi mise in mano una collana con un mega-ciondolo a forma di chiave di violino dorata, con un cordino nero e una pietra verde, probabilmente uno smeraldo, sul ricciolo in basso della chiave.

– Una collana? – chiesi – Io non metto mai collane, Julia…

– C’è sempre una prima volta. E ricorda, Big Ben, Custodi, sesta nota. D’accordo?

– Ci proverò.

– Non era la risposta che mi aspettavo…

In quel momento il campanello la porta si aprì ed entrarono due figure… MAMMA E PAPA’!

Non feci in tempo a correre ad abbracciarli che Julia mi spinse indietro nel portale e mi ritrovai di nuovo nella sala del piano con il sedere per terra. Iniziai a piangere a dirotto. Non riuscii a riflettere sull’accaduto, sui Custodi, la sesta nota… avevo rivisto i miei genitori, vivi. Non era possibile. Sono morti! Non potevano essere lì!
Rimasi lì a singhiozzare per qualche minuto, poi mi ricordai che dovevamo mangiare e senza nemmeno asciugarmi gli occhi, corsi per il cunicolo di marmo con le lacrime che continuavano a rigarmi le guance. Arrivai alla porta, la aprii e entrai nel bagno. Non so bene perché lo feci, forse per vedere in che stato ero ridotta. Mi guardai allo specchio: la mia faccia era completamente rigata dalle lacrime, e rossa. I miei occhi brillavano, e non avevano ancora esaurito le lacrime. Entrai nella cabina armadio, ma quando fui dentro sentii la porta aprirsi, e una voce che mi chiamava.

– Annabell! Cugina?

– Vattene, ti prego.

– Cugina, dove sei?

Qui.

– Non l’avrei mai detto! – disse con tono ironico la voce che avevo identificato come Nathan

– Nell’armadio…

Poco dopo l’anta dell’armadio si aprì e Nathan mi abbracciò. Non ci pensai due volte e mi strinsi forte al suo petto, piangendo ancora di più.

  Mi hai fatto prendere uno spavento! Hai saltato il pranzo… non ti ho vista e dopo il pranzo sono venuto a cercarti!

  Io… io… c’erano loro, ma non potevano essere loro!

– Ssh, va tutto bene. – Mi sussurrò all’orecchio

– Io li ho… visti, Nathan. Li ho visti!

– Ssh… calma, raccontami tutto per bene, che ne dici, cugina?

Così gli raccontai tutto cercando di farmi capire, ma evidentemente non ci riuscivo e ogni tanto Nathan mi guardava storto, e io cercavo di ripeterlo più chiaramente, ma anche lui sembrava non sapere nulla riguardo la sesta nota, i Custodi e le stirpi. Infatti, la conversazione era tipo:

  Custodi? Nota? Eh?

Eravamo ad un punto morto e io continuavo a piangere. Nathan era pensieroso, continuava ad accarezzarmi i capelli e a dondolarmi. Ad  un tratto, fece l’unica cosa che non avrei mai immaginato facesse.

– Cugina, ti va di cantare?

– Cantare?

– Si, abbiamo parlato di note… mi è venuta voglia. Ti va?

– Ehi, non sei stonato, vero?

  Ma anche no. Non per vantarmi, ma ho vinto più concorsi di canto io che qualunque altro cantante londinese. –  fece un inchino, alzandosi – E tu invece? Come te la cavi?

– Non per vantarmi – gli feci il verso – ma io sono la settima nota, cugino.

– Ah, allora… –  Rise – che cosa ti va di cantare?

– Ehm, non saprei…

– Eins, zwei, muoviti cugina!

– Non prendermi in giro! Credi che abbia un repertorio di canzoni per quando piango?

  Sarebbe una bella cosa…

– Si, bellissima. – Dissi con un tono che si avvicinava vagamente all’ironico che volevo fare. 

Cercai nel mio repertorio canzoni di duetti tra maschi e femmine e la prima canzone che mi venne in mente, e anche una delle mie canzoni preferite, era “Hero” di Skillet.

– “Hero”, la conosci?

Lui ridacchiò – Cugina, hai la “r” moscia?

– Non è moscia! E’ la “r” tedesca!

– La “r” moscia. – Concluse Nathan.

– E va bene, come ti pare.

Restammo in silenzio per un po’ e io mi schiarii la voce.

– La conosci, cugino?

– Ovviamente, cugina. – Corse in bagno, prese una spazzola e la impugnò. Risi di gusto.

– Come sei sexy! – Ridacchiai

– Più di te di sicuro, Mrs-erre-moscia.

– Ma guarda te…

Lui iniziò a canticchiare i primi accordi di Hero, e mi fece il segno di battere le mani. Io lo seguii e mi sedetti ai piedi del letto. Lui salì sul letto e mimò il suono e i movimenti della chitarra. Iniziò a cantare i primi versi della canzone.

I'm just a step away, I'm just a breath away   cantò benissimo. Aveva la voce simile a quella di Skillet. Una voce satanica, quasi. Ma era intonatissimo. –  losin’ my faith today

  Fallin' off the edge today – feci coro io. Continuavamo a cantare, cantammo tutta la canzone, e man mano che andavamo avanti eravamo sempre più in sintonia. C’era una strana armonia di sottofondo, ma non me ne accorsi solo io, ma anche Nathan. Quando finnimo di cantare mi tornò il dolore alla spalla che avevo provato nella sala e nel portale. Una fitta lancinante mi percosse dal collo all’avambraccio, e Nathan mi venne vicino.

– Cugina, che succede?

– Il male che ho sentito nel portale! E’ questo! –  un’altra fitta. Mi balenò un’idea nella mente, e mi vene un colpo. Poi tutto mi fu chiaro. – Cantando, insieme, abbiamo aperto il portale, ugino! Ci siamo dentro!

– Il portale?

– Si, il portale! Nathan, sei tu la sesta nota!

– La sesta nota? Io?

– Si, tu! Come ti è venuta l’idea di cantare?

– Non lo so… mi è uscito spontaneo!

Nathan era la sesta nota. Ma ora il portale dove ci avrebbe portato? Il dolore alla spalla era tremendo, insopportabile adesso. La mia faccia era imperlata di sudore, e le gambe non mi reggevano più. Non volevo apparire debole, così mi alzai.

– Cugina, stai giù!

– Non voglio apparire debole, e poi… siamo arrivati.

Il dolore alla spalla sparì e ci trovammo in un giardino. Ma non un giardino qualunque. Il giardino di casa Parrington.

– Che magie che fa ‘sto portale! – Disse Nathan deluso –  Mi aspettavo di trovarmi nel secolo scorso, ma non nel mio giardino.

Mi si accese una lampadina nel cervello.

– Cugino, sei un genio! – dissi abbracciandolo

– Ehi, cugina, lo so, ma non mi stringere così forte, soffoco!

– Perdonami. – Gli misi a posto la maglietta

– Comunque, perché sarei un genio?

– Non ne sono sicura… però credo che il portale porta indietro nel tempo. Voglio dire: quando sono andata nel portale, ho visto i miei genitori, il che è impossibile, perché sono morti. Ma lì erano vivi!

– Magari erano dei sosia…

Mi limitai a guardarlo.

– Era solo un’idea. Eheh, lo sai che scherzo io! – Mi diede una pacca sulla spalla con una faccia da ebete e si grattava la testa. Guardò oltre i miei occhi e per poco non urlò.

– Che c’è? – Chiesi

– Girati.

Mi girai e vidi delle cose assurde. Cose che non stavano insieme nemmeno per sbaglio. Vidi un bambino, che giocava con una ruspa, una bambina di sette anni, più o meno, rossa che si guardava allo specchio, e una bambina di dieci che giocava con un cane.

– Quello sei tu da piccolo? Che tenero!

– Non scherzare! C’è Sophie a sette anni, Iris a dieci e io a due! Non è normale!

– Non è normale, ma è una figata, cugino!

– Cugina… guarda là.

Ai piedi di un albero, nel giardino, esattamente dietro i bambini che giocavano, c’erano un ragazzo e una ragazza che si urlavano insulti a vicenda. Anzi, lei lo insultava. Lui era… ommioddio era Jason! Quello che mi era venuto a prendere ad Amburgo!

– Sei uno stronzo! – gli urlava lei

– Ehi, non ti scaldare, piccola.

– Piccola un par di palle! Sei uno stronzo, egocentrico, insopportabile…

–… figo.

– Ma smettila! Dimmi, piuttosto, perché mi hai portato qui? Che cosa devi dirmi?

Il ragazzo accarezzò la guancia della ragazza, le accarezzò i capelli e la baciò. La ragazza era immobile, impietrita. Aspetta un attimo… quei capelli, io li conosco. La voce è quella.

– Sono io! – urlai. Il ragazzo si staccò dalla ragazza e si guardò intorno. Poi tornò a guardare l’altra ragazza, cioè me. Come mai ero con Jason? Perché mi ha baciata?

– Sei un lurido bastardo! – urlò ancora lei.

Si. Non c’è dubbio. Sono io.

La ragazza, cioè me (che casino) cantò un sol e si materializzò un portale, verde e ambra, e ci andò dentro come se fosse la cosa più naturale del mondo. Presi Nathan per la maglietta e senza indugi ritornai nel portale. Il dolore alla spalla mi avvolse ancora, ma ero troppo intenta a pensare a Jason. L’avevo visto lì, davanti ai miei occhi. Avevo visto me stessa, nel giardino. Poteva essere possibile?

Mi ha baciata. Jason mi ha baciata.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** C'è il vento in casa ***


vvvvvvvvv

Io e Nathan avevamo creato il portale, okay. C’era un po’ di casino, e okay. Ma Jason, il gran figo, mi aveva baciata! Come poteva essere possibile? Cosa c’entra con la mia vita?! Feci un rapido ragionamento stile Karol, del quale mi vergognai immediatamente, perché, e non so come, mi
venne un pensieruccio… bacerò un figo. Forte! Scacciai quei pensieri dalla mente, molto meglio. Mi sdraiai sul mio letto, sbuffando.

– Lo conosci? – chiese curioso Nathan, anzi, impertinente.

– Ehm… gah. – dissi io, balbettando con la lingua intorpiata

Nathan incrociò le braccia, e mi guardò storto

– Che c’è?

– Dimmi tutto. So che lo conosci. Anche bene, da quello che ho visto.

– Te lo giuro, l’ho visto solo una volta!

Mi guardò come prima

– È vero!

– D’accordo, per ora ci credo.

Sbuffai. Nathan si passò una mano tra i capelli, che gli rimasero all’insù. Anche lui era un gran figo. Quegli occhi, i capelli, il fisico… no basta! Mi dissi. Non potevo diventare come Karol. E poi lui era mio cugino. Evidentemente si accorse che lo fissavo. Speravo che non leggesse anche nel pensiero.

– Okay, parliamo di quello che è successo… – iniziai

– Parliamo. – disse lui

– Allora. Secondo me, Julia sapeva che avremmo fatto il salto. È probabile che, facendomi vedere i miei genitori, mi abbia volutamente fatta deprimere, e sapendo che nell’animo di una nota, cantare è fondamentale… mi stai ascoltando?

– Oh, ehm… si, si.

– Io sto concentrando tutta la mia possibilità di ragionare, con te che sei un figo davanti ai miei occhi, e tu non mi ascolti nemmeno?

Rise – Ti sto ascoltando, cugina! E… lo so che sono un figo.

Arrossii – E va bene… per ora posso anche crederci. Dunque, dove ero arrivata?

– Cantare è fondamentale…

– Ah, sì. Dato che per una nota, cantare è fondamentale, per qualsiasi cosa, anche la più stupida, deve aver previsto che ci saremmo messi a cantare e quindi avremmo creato il portale…

– Okay. Io, non ci ho capito niente.

Schioccai la lingua, contrariata. – Beh, se mi ascoltassi.

– Ti sto ascoltando! Ma parli troppo veloce!

– Ah, perdono.

– Perché comunque era un… diciamo… universo ribaltato?

– Non lo so. – ammisi – So solo che a parer mio, Julia vuole che andiamo dai Custodi. È l’unico modo per capire tutta la faccenda.

– Aspetta. I Custodi?

– Si! Te ne ho parlato prima che iniziassimo a cantare…

– Ah… – scosse la testa – ma dove sarebbero?

– Julia ha detto che sono nel Big Ben. Ha detto di chiedere!

– Ah, immagino la scena: ehm, mi scusi, signore. Sa se in questa torre c’è una porta dorata o un ovale verde che suona una nota musicale con gente che ha gli occhi come Edward Cullen? – disse imitando una voce di una persona importante. Io scoppiai in una sonora risata.

– Ah, ma ci vedi? Noi, a fare una roba del genere? Io non chiedo niente.

– Ehi, bella. La più importante sei te, non mi contraddire.

– Ma tu sei il più grande, giusto?

– Ah… eh… ih…

– O, u ipsilon! Bom bom bom bom! – lo derisi io, girando gli occhi. – Ti ho beccato.

Lui sbuffò. – Ma guarda cosa mi tocca fare…

Gli diedi un bacio sulla guancia – Bravo il mio cugino grande!

Rimanemmo per un po’ a prenderci in giro, ad imitare le voci di film, ma evitando qualsiasi nota musicale. Non potevamo rischiare ancora. Parlammo per lunghissimo tempo, senza stancarci. A furia di ridere mi era venuto mal di pancia. Anche a lui sembrava essere la stessa cosa perché si teneva la pancia, dolorante. Io feci delle battute, della serie: “Oh mio Dio! Il bambino come sta?”e cose di questo tipo. Lui mi prese in giro per la “r moscia” come la chiamava lui. Io continuavo a ripetergli che non era moscia, ma era la “r” tedesca, che ti viene così già da quando pronunci la prima parola in tedesco, ma lui non capiva, né tantomeno riusciva ad imitarla, essendo un inglese D.O.C. Si divertiva ad inventare parole in “tedesco”, o quello che poteva somigliare ad un elfico. Secondo lui il tedesco era tutto scatarramenti, per cui iniziai a insegnargli delle cose piccole, le basi, come i colori, o gli animali. Alla fine, parlammo per tantissimo tempo, e si udivano tintinnii di piatti, posate e bicchieri.

– Okay, non posso scappare e saltare anche la cena… – dissi, poi mi rsi conto di quello che avevo appena detto – Aspetta… la CENA?

– Già, il tempo vola!

– Se cerco di scappare inchiodami con la forza al letto, d’accordo?

– Ci sto! – mi strinse la mano, e scoppiammo ancora a ridere. Se la mia milza avesse potuto parlare al momento, mi avrebbe di sicuro urlato le bestemmie più pesanti che esistono al mondo. Avevamo tanto in comune, io e Nathan. Eravamo tanto simili, in aspetto e carattere, che avremmo potuto essere fratelli. Nah, non era possibile. Lo guardai sorridere, e mi si scaldò il cuore. Era così… non so. Aveva qualcosa di particolare, oltre alla splendida voce e alla simpatia. Ma che cosa?
In quel momento, entrò nella camera aprendo la porta di colpo, Iris, la mia cuginetta.

– Ehi, ragazzi! Vi si sente ridere dal piano di sotto. – esordì.

Io e Nathan ci guardammo e scoppiammo a ridere ancora.

– Ragazzi! Sono ore che ridete! Tra poco la vostra milza farà le valigie e scapperà!

– Esatto! – Dissi, con le lacrime agli occhi, e con una voce da sbronza – Proprio così!

– Sorellina, hai ragione. La mia milza sta implorando il tuo aiuto! – disse Nathan, asciugandosi le lacrime. Stavamo piangendo, tutti e due, dal ridere. Non ce la facevo più.

– Comunque… – iniziò Iris – sono venuta ad avvisarvi che papà vuole parlare ancora a tutti, anche per riparare al disagio che si è verificato questa mattina…

– Iris… va tutto bene? – disse Nathan – Come parli?

– Come dovrei parlare fratellone? Sto riferendo un messaggio.

– Ahm… arriviamo subito. – Mi guardò e scoppiammo a ridere ancora. Iris roteò gli occhi.

– D’accordo. Calmatevi, poi scendete, okay? Basta che non ci mettete millenni, però, eh?

– Ci proveremo. – le assicurai io, ma non ero per niente convinta.

– Lo sai come è papà, Nat.

– Si, Iris. Ci diamo una calmata e arriviamo. – mi guardò, additandomi con fare che, magari se non avessimo riso per ore, poteva sembrare minaccioso – Basta che te, anche se vedi i portali non lo dici, cugina!

– D’accordo, li ammirerò in silenzio. – Dissi, e poi scoppiai a ridere, ancora. Non ero sicura di riuscire a smettere. Mi conoscevo. Partivo a ridere, e chi mi fermava più.

Iris roteò gli occhi, come per dire: “non ce la faranno mai”, ed aveva ragione. Io e Nathan tornammo seri, e poi scoppiammo a ridere ancora.

– Okay, cugino. Dobbiamo farcela! – dissi io

– Lo sai che non ce la faremo.

– Intanto hai smesso!

– Hai ragione! Ho smesso! – Urlò, abbracciandomi.

– Ehm… – gli diedi dei colpi sulla spalla – andiamo – mi alzai e gli tesi la mano. Lui la prese e scendemmo. Ci avevamo messo DECISAMENTE troppo poco tempo. Scendemmo le scale. Sempre nello stesso punto suonò. Una nota.

– Ma che palle! – urlai

– Che c’è?

– Ancora quel portale! Non ce la faccio! – improvvisamente sentii un dolore ancora a quella benedetta spalla sinistra. Mi sentii svenire.

– Cugina, fai finta di nulla – mi disse all’orecchio. Mi prese la mano e la mise sul suo fianco. – Ti tengo io.

– Grazie… ehm… mille… – riuscii a dire

– Andiamo.

Con un grande sforzo, scendemmo le scale. Nathan mi sorreggeva, e mi indicava la strada. Odio apparire debole, ma in quel momento non avevo scelta. Il dolore era intenso più che mai. Non avrete mai sentito un dolore del genere, e spero che non lo sentiate mai. Era come se, dal collo alla spalla, mi stessi prosciugando, oppure come se mi avessero versato dell’acido sopra. A malapena mi reggevo in piedi, e quel poco che riuscivo a fare, era tutto merito di Nathan. Giungemmo finalmente nella sala da pranzo. Nathan mi fece sedere su una sedia sul lato destro del tavolo da pranzo. Se Iris era sembrata diversa prima, ora era molto peggio: parlava con Sophie! Allegramente! Non era possibile. Non appena Nathan mi mollò, il dolore ricominciò, se possibile, più intenso di prima. Io mi strinsi la spalla.

– Che le succede? – Chiese lo zio

– Ha dolore alla spalla sinistra! Le tue conoscenze di medico possono aiutarla, papà? – chiese Nathan, altamente preoccupato.

Fantastico. Lo zio ha anche conoscenze mediche?

Mi venne vicino, e toccò la mia spalla. Un brivido mi percorse, come se mi avesse congelato dalla spalla in poi, tutto il lato sinistro del mio corpo – Dobbiamo stenderla, prima di tutto.

Mi fece accomodare sul divano, ma non capii benissimo quello che successe dopo, perché ero in bilico tra la sanità mentale e l’incoscienza. Di più l’incoscienza. Ero come stata drogata. Sentivo ogni tanto la voce di Nathan, preoccupato. Iris, non la sentivo. Sophie… boh, zia non era in casa, la voce e le dita dello zio sulla mia pelle. Vuoto.

 

Mi risvegliai dopo non so quanto tempo, ma probabilmente non dovevo essere sveglia.

– Dobbiamo evitarlo, ad ogni costo!

– Sssh, zitto, o si sveglierà!

– Lei non deve sapere niente, di tutto questo! E nemmeno Nathan! – riconobbi la voce dello zio, e della zia.

Cosa non devo sapere? E cosa c’entra Nathan?

– Non possiamo permettere di rovinare tutto! E’ andato tutto bene, fino ad ora, lei non sarebbe nemmeno dovuta nascere, così come Nathan!

Poi, il vuoto, di nuovo.

 

Mi risvegliai nel mio letto, ancora una volta senza la cognizione del tempo. Nathan era seduto di fianco a me, e mi teneva la mano.

– Ehi, bentornata nel mondo dei vivi, cugina!

– Che… cosa…?

– Sssh, tranquilla, non ti sforzare.

– Ma tu… io… che…? – cercai di alzarmi, ma ero come paralizzata. Nathan mi mise il dito indice sulle labbra, si avvicinò e mi baciò la fronte e mi accarezzò i capelli. Si sdraiò di fianco a me – Sssh, cugina, riposa.

– Non… devi… lo zio… e…

– Cugina, non ti preoccupare, stai bene! – mi interruppe, ancora. – Non si sa cosa ti è successo, ma sappiamo solo che stai bene ora.

– Nathan… lo zio… nascere… no…

– Eh? Annie, non ti spieghi… tranquilla – mi baciò ancora la fronte – io starò qui, fino a che non ti passa, okay?

– Si… quanto…?

– Sei rimasta priva di sensi due giorni… non sono andato a scuola, papà mi ha fatto un permesso speciale…

– Gra… zie…

Avete presente quelle persone che non riescono a formulare una dannatissima frase? Ecco, così mi sentivo. Avrei voluto dire a Nathan che suo padre aveva chiaramente detto che non sarebbe dovuto nascere. Avrei voluto dirgli di andare a cercare i Custodi, ma non ci riuscivo. Sarei riuscita a dire solo: “Torre… persone… lo zio…” e lui, giustamente, non ci avrebbe capito nulla. Non volli abbandonare la conversazione così.

– Iris… Sophie… lavaggio…? – dissi, ma me ne pentii subito. Nathan si sforzava di capire, ma proprio a questa! Iris, Sophie, lavaggio? Non si avvicinava nemmeno a quello che volevo realmente dire!

– Lavaggio di… cosa, esattamente?

Incredibile ma vero. Nathan stava riuscendo a capire. Ma come faceva?

– Non… so… preciso…

– Oh…

– Cervello… non… comporta… sì…

Bello. Del “così” era venuto fuori sì. Bello.

– No, non credo! Il lavaggio del cervello?! Annie, ma come ti vengono? – sorrise

– Diversa… prima… sala…

Okay, mi stavo innervosendo. Non è che lo zio mi aveva congelato le corde vocali?

– No, tranquilla. – disse Nathan, come se mi avesse letto nel pensiero. Ah, no, era la risposta alla “domanda” (che coraggio a chiamarla così) che avevo fatto prima. Magari l’aveva fatto anche a me il lavaggio del cervello…

– Comunque, cugina. Devo parlarti della scuola. – esordì Nathan, dopo essersi schiarito a dovere la voce.

Io roteai gli occhi. La scuola! Vi rendete conto?!

– Lo so che è brutto, così da dire… – si interruppe – ma andrai nella stessa classe di Sophie.

Eh?

– Lo so che non l’hai sentita molto parlare, ma lei è così! È anche un po’ scorbutica, devo ammetterlo.

Beh si.

– E… andrai alla Canons High School, così ha deciso papà.

ANCORA A SCUOLA?!? AIUTO!

Sbuffai. – Ma è anche la tua di scuola? – chiesi. Ehi, un secondo… ho chiesto?! – riesco a parlare! –  urlai entusiasta – vediamo… –  feci una delle cose più assurde che potessi fare, ma, sapete, è l’enfasi del momento. Mi schiarii la voce, e feci una rapida scala di do maggiore, per testare la voce, solo che, ignorante come ero, non sapevo che avesse portato a quelle conseguenze. Anzi, non l’avrei neppure immaginato. La scala era venuta benissimo. Nathan mi guardò con sguardo severo, quando, subito dopo, nella stanza si udì un forte vento. Da dove diavolo arrivava quella bufera? Mi alzai dal letto, non mi faceva più male la spalla, ma non avevo tempo per pensarci, in quel momento. Ero in pigiama… aspetta. Chi me l’aveva messo addosso il pigiama? Quando sono… ehm… “morta” avevo i vestiti  addosso, ne sono sicura! Tra l’altro non era nemmeno mio! Mi misi le ciabatte a coniglietto rosa, che non erano mie, ovviamente, e mi alzai.

– Basta! – tuonai severa. Mi ero sinceramente rotta di tutto ciò. – Andremo dai Custodi, va bene? – dissi. Subito dopo il vento si fermò di colpo, il male alla spalla c’era ancora, ma solo residuo. Le mie forze erano giunte al termine, anche perché c’è da dire che non le avevo ancora recuperate tutte. Caddi con un ginocchio a terra, e una mano sulla spalla. Nathan aveva visto tutta la scena, ed era perplesso e sbalordito allo stesso tempo.

– Chiudi la bocca, cugino. Sai, le mosche…

Lui obbedì. – Sì, è anche la mia di scuola.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Rivedo un vecchio amico ***


bbb

Devo tornare a scuola! Fu il mio primo, disperato pensiero. Nathan mi diede tante informazioni sulla scuola, la gente che la frequentava, gli insegnanti, ma soprattutto… la divisa! La divisa, dovete sapere, è sempre stato il mio incubo peggiore. Quelle minigonne, le calze lunghe… la cravatta! Per lo più la divisa della Canons High School era quasi interamente nera. La stessa appunto che avevo visto addosso a Nathan la prima volta che ci siamo… ehm… incontrati. Non sono un’amante del nero, però quello aveva scelto per me lo zio, e quello dovevo fare. Ad Amburgo, la mia divisa era blu e gialla. Sembravamo una squadra di pallacanestro, il che era buffo, perché la squadra scolastica aveva la divisa dello stesso colore. Per andare agli allenamenti, non dovevano nemmeno togliersi la divisa, e il coach non se ne accorgeva nemmeno. O perlomeno, questo era quello che mi aveva sempre detto Nigel, il mio migliore amico, che giocava nella squadra. Ma cambiamo argomento.
Avevo sentito, non mi ricordo dove, che la Canons, è una scuola molto prestigiosa a Londra, ed è per questo che dovrei andarne fiera. Peccato però, che io non sia così tanto prestigiosa, a scuola. Speravo e puntavo tutto nelle nuove amicizie.

Dopo aver affrontato la bufera in casa, e le spiegazioni di Nathan della scuola, mi resi conto che erano circa le nove.

Possibile che in questa casa non sia riuscita a mangiare ancora niente?

Non mangiavo da tantissimo tempo, a meno che qualcuno, mentre ero incosciente, mi aveva messo una flebo. Guardai le braccia, ma non vidi segni.

Ipotesi scartata.

– Cugino che dici, mangiamo? – chiesi, con la bocca asciutta, schioccando contrariata la lingua

– Cugina, non è che possiamo entrare in cucina e mangiare così! – disse lui, cupo

– Ma… cos’avete, il coprifuoco? Le belve feroci? I tuoi liberano i cani?  – chiesi ironica

– Ma no! È solo che… alla mamma danno fastidio le scorrettezze.

Eh beh, perfettina com’è! Ah, dimenticavo. Aveva detto, insieme al mio caro zietto che non dovevamo nascere, io e Nathan.

– Dai! Ti prego! – implorai, con una faccina da “gatto con gli stivali” di Shrek. Lui roteò gli occhi – Avanti! Non ti ho chiesto di derubare la cucina, ma di prendere solo qualche innocuo biscottino! Non se ne accorgerà nessuno!

– Ah, e va bene! Ma solo perché non mangi da due giorni!

– Così mi piaci!

Ci dirigemmo fuori dalla camera, rispettivamente in pigiama e pantofole, entrambi.

Ma che tenero il pigiamino di Nathan! Aw, ha le macchinine!

Scendemmo le scale, con fare più silenzioso che mai. Nemmeno i gatti sono così silenziosi. Scendemmo sempre di più, ma arrivammo su un gradino che fece uno sgradevole, e inquietante, scricchiolio. Mi fermai all’istante. Nathan, ovviamente, mi rimproverò mettendosi di scatto una l’indice sulla bocca. Mi stupii che non si fosse ficcato il dito nell’occhio. Scendemmo ancora, ancora e ancora.

Ma dannazione, queste scale non finiscono mai?!

Finalmente, arrivammo nella sala. Nathan si guardò intorno, e mi fece cenno di seguirlo. Obbedii. In casa mia, quando volevo prendere qualcosa, mi alzavo e lo facevo tranquillamente. Aprivo il frigo, mangiavo un panino, o qualsiasi cosa, a qualsiasi ora della notte.

Ma perché qui no? Cosa c’è di così grande da tenere nascosto, in questa casa, persino ai propri figli?
Con quei pensieri nella testa, non mi accorsi nemmeno che avevamo attraversato la sala, e che eravamo praticamente davanti a un ripostiglio di roba da mangiare. Soffocai un fischio di stupore. Tutta roba buona! Guardai Nathan e, non so come, capì con un solo sguardo quello che volevo.

Biscotti!

Entrò e facendo il minimo rumore, prese una scatola di biscotti al cioccolato.

Biscotti!

Mi passò la scatola, che io presi come fossero lingotti d’oro. Volli aprirla. Ci provai, ma niente da fare. Feci un piccolo rumorino, ma Nathan sobbalzò, e mi guardò con sguardo preoccupato.

Ma… ma… biscotti! – mimai con le labbra. Nathan tornò al suo lavoro, infilando nuovamente la testa nel ripostiglio, e non so come, con la bocca riuscì ad afferrare un sacchetto di cioccolatini. Non ci crederete, ma era sudato. Non pensai a nient’altro, in quel momento, perché l’unica cosa che il mio cervello formulava era:

Biscotti!

E fu quando stavamo per salire le scale, tutti belli riforniti di roba da mangiare, che sentimmo dei passi, sempre più vicini. Non sapevo dire con precisione se venivano da sopra o da sotto, perché sembravano venire da entrambi i lati. Persino da destra e sinistra. Una sola cosa sapevo: erano vicini. Nathan, con il sacchetto di… cosa? in bocca mi spinse dentro un sottoscala, praticamente invisibile, vicino ad una libreria della sala. Eravamo ancora in silenzio, non volevamo rischiare. Guardai dietro di me: c’era un tunnel. Aspetta, io avevo brutte esperienze con i tunnel, non ci sarei entrata in profondo.

– M-mh – dissi scuotendo la testa

– Si! – disse Nathan a bassa voce, bisbigliando – È l’unico modo!

Sentivo delle voci, riconoscibilissime. Iris.

– Aspetta! – bisbigliai – Vieni – gli feci cenno con la testa di avvicinarsi. Lui con estrema cautela appoggiò i sacchetti e buste varie a terra, come se volesse creare suspance. Come se non fossi già abbastanza spaventata.

– Non lo capisci? Devi stare con noi, dalla nostra parte! – urlava una voce, non definita.

– E per quale remota ragione? – ribatté Iris – Io non mi metto contro mio fratello.

Sì Iris! Vai così!

– Ma è l’unico modo! – ribatté la voce non identificata

– No che non è l’unico!

– Iris… non starai pensando ai Custodi, vero?

Dì di si, Iris, ti prego!

– In effetti…

– NO! Non devi nemmeno pensarci, a tradire in questo modo la tua famiglia!

– Papà…? – disse Natnan confuso

– Ma papà… io… – continuò Iris

– Tu sei una Parrington. È tuo dovere essere come noi!

– Ma io non voglio essere cattiva! Intralciare Nathan… no, mai!

– IRIS! – tuonò lo zio, severo 

Non avrei potuto ascoltare una parola in più di quella conversazione a senso unico. Presi i miei biscotti e mi diressi su per il tunnel. Non mi importava dove sarei finita, se ancora nel passato, o a Narnia. Chissenefrega.

Sono così dannatamente inutile!

Dannazione. Sentii le lacrime calde, scorrermi sulle guance, e non potei fare a meno di cadere per terra, con le ginocchia al petto, a piangere. Strano, eh? Mi ero dimenticata di Nathan.

– Na… Nathan? – chiesi.

– Annie! Annie, dove sei? – riconobbi la voce di Nathan.

– In fondo alla galleria!

– Anche io sono qui!

– Non può essere! Nathan!

– Annie… – la sua voce era sempre più lontana, distaccata – … nie… – e non lo sentii più.

– NATHAN! – urlai.

Fantastico. Ancora più sola.

Mi rimisi a piangere più di quanto non stessi già facendo.

– Nathan…

Mi abbandonai alle lacrime. Piangere era l’unica cosa che potevo fare al momento.

Ma che cosa diavolo sto dicendo? Non posso piangere e starmene qui, senza far niente! Annie, datti una svegliata, dannazione! Stiamo parlando di tuo CU-GI-NO!

Aspetta… sto parlando da sola?

Scossi la testa, e mi asciugai le lacrime. Tirai su per bene con il naso ed emessi una nota. Non mi ricordo bene quale fosse, ma mi ricordo che, davanti a me, apparve una specie di entrata al campo mezzo-sangue, illuminata da due torce, ovviamente a forma di chiave di violino. Non c’era nessun ovale verde, per cui un ingresso per il passato era scartato. Non si sentiva nessuna dolce melodia provenire dall’interno. L’unica via portava a quell’entrata. Feci spallucce, presi una torcia, sospirai ed entrai in quell’ingresso.

 

Cosa vi aspettavate? Unicorni, pegasi e una dolce melodia suonata dalle ninfe dei boschi? Bene, levatevelo dalla testa. Non c’era niente di bello in quel… ehm… paesaggio, sempre se così si può definire.
Era un… parco. O forse, era stato un parco, una volta. Poteva essere stato un parco con altalene, colline, percorsi vita e scivoli, ma ora era… marrone. Gli alberi sfioriti, spogli. Il cielo nero come la pece, senza uno straccio di stella.

– E-ehilà? – dissi, ripetendolo più volte, ogni volta alzando un po’ di più la voce, ma non arrivò nessuna risposta

Ma possibile che da quando sono a Londra non faccio altro che cacciarmi nei guai? E dov’è Nathan?

– Nathan! Nathan!

Nessuna risposta.

Si levò nell’aria un freddo vento, che mi fece rabbrividire. Mi sedetti su un albero che aveva un ramo a raso terra, e realizzai che ero vestita! Avevo la divisa della scuola! Triste e nera, con la cravatta annodata alla perfezione. La gonna era decisamente corta. Dopo aver analizzato la divisa, realizzai che avevo ancora in mano la torcia, spenta, e…

Biscotti!

Mi misi a mangiare avidamente i miei biscotti al cioccolato. Buonissimi! Non feci in tempo a finire la mia scatola, che sentii una voce vagamente familiare.

– Me ne daresti uno, per favore? – disse

Io sobbalzai. Di fronte a me si stagliò un uccello dorato, simile ad un grifone, ma non lo era…

– Chi… cosa? – domandai, anzi, cercai di domandare, data la bellezza che mi toglieva il fiato dell’uccello dorato

– Sono un Alicanto Annie…

– Come sai…?

– Noi ci siamo conosciute, in vita. Io ho fatto delle scelte sbagliate, durante il suo corso, ed è per questo che ora sono qui.

– Ma chi… sei?

– Questo non è possibile essere rivelato. Ti accorgerai di chi sono io, in futuro.

 

Di nuovo le frasi contorte. Ma si divertono ad incasinarmi le idee? Cambiamo argomento, altrimenti mi girano i cinque minuti.

– Dove sono? – chiesi, guardandomi intorno

– Questa è la dimensione senza la musica.

– M-mh. E sarebbe?

Sarebbe la fine del mondo, come la chiamate voi. Un mondo senza musica, suoni, colori o allegria.

– O mio Dio! Ed è il futuro?

– In un certo senso… si.

– Come? Sono nel futuro?

– Si e… no.

– Si o no?!

– Te lo spiego.

Sai, forse è meglio.

– Tu sei una nota, e come ti ha detto Julia, hai una missione…

– Come sai del mio incontro con Julia?! – la interruppi

Mi fulminò con lo sguardo – … da compiere, per il quale desterai le fila delle sorti del pianeta.

Eh?

– Questo, la dimensione senza la musica, è quello che succederà se non porterai a termine la missione.

OMMIODDIO.

– Mentre… questo – sbatté le ali e tutto intorno divenne rigoglioso: sole, luce, musica in sottofondo, il verde e i colori della natura – è quello che succederà se porterai a termine la missione.

Meglio portare a termine la missione, decisamente.

– E… in cosa consiste questa missione?

– Anche questo ti sarà rivelato.

E poi uno non si deve arrabbiare.

– Ma almeno puoi darmi un indizio? Siamo state amiche, no?

– Ti dico solamente di fidarti del colore degli occhi delle persone. Ne determina la persona e il ramo della famiglia da cui discende. Non posso dirti altro. – Sbatté le ali, e tutto tornò improvvisamente triste. Divenni triste anche io, per qualche ragione ignota del mio essere.

– Canta. – mi disse l’Alicanto

– Cantare?

– Si. Il canto cambia le cose. Il canto è tutto, qui per noi. E anche per te. La musica è il tuo potere. Tu non lo controlli, ma le persone sbagliate sanno cosa puoi fare, e cercheranno di impedirtelo, a tutti i costi. È quello che fanno da quando la musica è nata.

– Ma di chi devo fidarmi?

– Il tuo cuore, e la musica nel tuo cuore lo sa.

Ma una risposta completa e logica no eh?

– Canta.

Ma chi sono, la Sirenetta?

Decisi di obbedire, tanto che avevo da perdere? Sfogliai rapidamente le canzoni nel mio repertorio musicale, o nelle playlist del mio cellulare, e rimasi incerta sulla canzone da cantare. La canzone che mi viene in mente fu “Bodies”, di Robbie Williams, che adoravo. In quel periodo ero praticamente fissata. Ascoltavo tutto, purché fosse di Robbie Williams.
Mi schiarii la voce, e l’Alicanto chiuse gli occhi.

God gave me the sunshine, then show me my lifeline – cantai con un arrangiamento personale, facendola risulare più lenta e melodiosa dell’originale – I was told it was all mine, then I got on a lay line – continuai. L’Alicanto muoveva la testa e respirava a ritmo di musica. Cantai metà canzone, ma mentre cantavo il ritornello, un vento caldo mi sfiorò le guance e l’Alicanto parlò.

– È stato bello rivederti, amica mia. Spero di rincontrarti prima che il peggio accada…

– Ma per quale ragione mi hai fatto cantare? E che fine ha fatto mio cugino?

– Ora devi andare, hai compiuto il canto angelico, svegliati.

– Ma io non sto dormendo!

– A presto, amica mia.

E una vertigine allo stomaco mi avvolse, poi il nulla.

 

Quando aprii gli occhi sentii un fastidioso e cigolante orologio assolutamente da oliare, accompagnato da fastidiose voci stranamente familiari, intorno a me. Gli occhi mi pesavano e avevo male allo stomaco.

– Ha compiuto il salto?

– Ha cantato già?

– Quanto sa di tutto questo?

– Cosa le ha riferito il sol?

Che cosa?

– Ma dove… – domandai, aprendo gli occhi.

– Ben svegliata, dormigliona! – mi disse una voce decisamente  troppo familiare

– Ja… son?

– Esatto Annie! Come sono contento di vederti!

Diventai rossa come un pomodoro, ma lui sembrò non farci caso. Dannazione, come poteva essere così bello? Quegli occhi, quei capelli, quel fisico!

Cercai di alzarmi, ma non ce la feci.

– Aspetta, ti do una mano. – mi disse lui prendendomi per un polso, tirandomi su e afferrandomi, per tenermi in equilibrio, per la schiena. Sembrava volesse… stringermi. Fummo così vicini, che mi venne in mente l’immagine di una me che insultava un lui, ma lui che la baciava. Cioè… che mi baciava.

Come ha potuto insultarlo, la me del passato… o del futuro. È così gentile…

Jason mi aiutò ad alzarmi, e mi misi in piedi. Io persi l’equilibrio per cercare di camminare. Così, mi mise una mano sul fianco, e mi strinse, sorridendomi.

– Ti tengo.

Quelle parole… ti tengo, non sembravano solamente riferite a quel momento… sembrava che intendesse che mi sarebbe stato vicino. Insomma, una frase a doppio sbocco, come l’avrebbe definita mio padre.

– Cosa fai, ci provi con la mia cuginetta, Dale?

Appoggiato ad una colonna portante, con un piede appoggiato alla colonna, c’era…

– Nathan!

Ignorando il male ovunque, mi tolsi dalla presa di Jason, (non che mi dispiacesse, non fraintendetemi), e abbracciai forte Nathan. Avevo davvero temuto il peggio.

– Mi sono spaventata a morte!

– Ma che dici! Io mi sono spaventato a morte!

– Ma io…

– Ssh, cugina, ne parliamo dopo, ora sei al sicuro – disse lui accarezzandomi dolcemente i capelli

– Ma a proposito… dove siamo?

Nathan fece per aprire la bocca, ma Jason lo precedette. Riuscivo a vedere una saetta tra lui e Nathan.

– Benvenuta nella Gran loggia dei Custodi, settima nota – disse Jason, sfoderando il suo sorriso più raggiante.

– La Gran che cosa? – chiesi

– Vieni, cugina. Abbiamo molte cose di cui parlare. – disse Nathan, questa volta precedendo Jason, che fece comunque spallucce.

– Basta frasi contorte che mi incasinano la vita, però eh?

– Ci proveremo. Ma non posso assicurarti niente – sorrise Jason, passandomi un braccio dietro il collo e stringendomi.

Perché ho l’impressione che Jason mi voglia per sé?

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Faccio un viaggio indietro di qualche secolo ***


faaa

Finalmente è arrivato il giorno delle risposte!

Beh, quello pensavo, prima che iniziassero a “spiegarmi” la faccenda.

– Beh, devi sapere che i Parrington hanno sempre cercato di ostacolarci, fin da quando nacque la prima generazione di note. – iniziò a dire Jason, e già lì persi il filo.

Eh?

Cominciamo bene.

– La nostra famiglia è divisa in tre rami, che la distinguono da ogni altra normale famiglia del mondo. Siamo quasi tutti concentrati a Londra, ma ci sono altri membri a Dublino, ad Amsterdam, a Vancouver e persino a New York. – continuò

Ma che siamo? Conigli?

– Insomma, siamo ovunque… – borbottai io

– Esattamente. – intervenne Dalton, la palla da bowling – Ma l’aspetto negativo, è che non tutti sono Custodi…

– … ci sono anche i Parrington, o Zaffiri, come più ti piace – concluse Jason, raggiante, come sempre.

Ma se tipo io non li voglio chiamare, quei bastardi?

– Ehi! Io sono un Parrington! – se ne uscì Nathan

– Beh, ora vi spieghiamo anche questo…

– No, prima finisci la faccenda delle note – dissi io.

Mica che poi iniziano a parlare di tutte le complicatezze della famiglia e tutte quelle cose e poi va a finire che non mi dicono le cose fondamentali, continuano a mettere roba nell’impasto, e poi Annie non capisce niente.

– D’accordo. Nathan, puoi aspettare un attimo? – disse Dalton, Nathan annuii

Ah, grazie al cielo è lui che spiega. Fosse stato Jason, non avrei decisamente ascoltato e l’avrei solo fissato per memorizzarne i lineamenti.

– Dove eravamo rimasti…? – continuò

– Ci sono anche i Parrington, o Zaffiri… – suggerii Jason

– Ah, okay, giusto. I rami sono tre, ovvero Custodi…

– Quelli con gli occhi ambra.

– … Zaffiri…

– I cattivi della storia.

– … e le note.

– Voi.

– Jason la vuoi piantare? – inveì Dalton.

Ma perché Jason se non sta zitto per due secondi di fila non è felice?

Jason mi sorrise, fece spallucce e appoggiò i piedi sul tavolo che c’era di fronte al loro divano. Noi eravamo seduti nel divano di fronte, e io giocherellavo con la mia collana, quella che mi aveva regalato Julia, cercando di evitare lo sguardo di Jason.

– Continua, Dalton. – lo incitò Nathan

– Le generazioni di note, per ora sono state sette.

– Quanti siamo noi. – indovinai io

– Beh, devi sapere che una generazione di sette note non è tutta insieme.

– Come no? – chiese Nathan

– Parrington, ascoltalo parlare – intervenne Jason

– Dannazione, Dale, vuoi stare zitto? Sto cercando di capire! – urlò Nathan, alzandosi in piedi.

– Vuoi che ti dia una lezione? – ribatté Jason, a sua volta alzandosi.

– RAGAZZI! Basta, dannazione! Dovete starvene zitti una buona volta! – gli urlai io, alzandomi dal mio posto, scoccando un’occhiataccia a tutti e due, dato che l’unica cosa che li separava era il tavolo. Ero stanca di sentirli litigare. Era da quando avevo aperto gli occhi da quella specie di trans che litigavano. Quando mi arrabbiavo, non riuscivo a controllare la “r”, e sparai anche qualche imprecazione in tedesco, buttata lì. Tutti i presenti mi guardarono inarcando un sopraciglio. Nessuno aveva capito niente.

Dannazione, sto cercando di capire! Già sono dura di comprendonio, figurati se ci sono pure questi che si picchiano qua!

– D’accordo.

Jason fece spallucce, e tornò seduto. Nathan si sedette, continuando a guardare male Jason. Io mi risedetti, sbuffando.

– Continua pure, Dalton. Di nuovo.

– Grazie, Annie.

– Di nulla.

– Dicevo che la generazione delle note, non è tutta insieme. Nel senso che tutte le sette note non sono nello stesso tempo, ma sparse per i secoli. Di questa generazione, la prima nota, il “Do”, è stata lady Amanda Parrington, nata circa nel 1905, o qualcosa del genere. Dopo, c’è stato suo nipote, il lord Coleman Moore.

– Ma il… gene, non si trasmette di padre in figlio, per così dire?

– Non necessariamente. L’importante è che sia un Parrington.

– Ahm… d’accordo.

– La terza nota, il “Mi”, è stata lady Adina Moore, in questo caso, figlia di Coleman, nonché vostra bisnonna. – indicò me e Nathan. – Successivamente, il gene è passato a Julia, vostra zia… – si incupì, e nella sala piombò il silenzio. Persino Jason si rabbuiò, molto strano. Si sentivano solo i ticchettii dei secondi segnati dal Big Ben.

Beh?

– E poi? – chiesi

– I Parrington, ogni volta, sono stati sconfitti, perché alla nascita della settima nota, loro si indeboliscono, e le note, con l’aiuto dei Custodi, li hanno sempre sconfitti.

Ma non era quello che avevo chiesto!

– Ma questa volta non sta andando così…

– In che senso?

– Qualcosa è andato storto, e loro stanno acquistando sempre più potere. Stanno cercando di aumentare, e ci stanno riuscendo.

– Che cosa è andato storto, esattamente?

Silenzio.

E ma dai! Non è possibile però!

– D’accordo, cambiamo argomento – dissi scocciata. – io e Nathan cosa dobbiamo fare in questa faccenda?

– Aspetta, non ho finito. Questa, è la settima generazione, per cui la nota più potente è la settima, cioè tu, Annie.

– Ma perché non sono nato secoli fa?! – chiese Nathan

– Perché sei uno sfigato, caro cugino – dissi, facendogli un cuore con le mani e un viso angelico. Lui rispose con una smorfia, accompagnata da un mugolio strano.

– E perciò – continuò Dalton – devi stare molto attenta, perché, anche se tu non controlli i tuoi poteri, le persone sbagliate sanno come fare.

– Ah.

– Ed è per questo motivo, che Jason ti aiuterà.

COSA?

– Cosa?! – esclamammo in coro io e Nathan

– Non troppo entusiasmo, mi raccomando – se ne uscì Jason, che fino a quel momento era stato zitto.

– Ehi, io di questo non mi fido!

– E chi ti tocca a te! – Jason si alzò, avvicinandosi pericolosamente a me, tanto che riuscivo a sentire il suo respiro. Il mio non lo sentivo, ovviamente. Mi accarezzò la guancia dolcemente – Io aiuterò la piccola Annie.

Magari se ti allontani, così, sai com’è, torno a respirare…

– Osa solo toccarla ancora, e ti faccio nero, lurido verme! – gli urlò Nathan, mettendosi tra me e lui, così che tornai a respirare.

Grazie al cielo, ancora un secondo e altro che settima nota!

– Ehi, calmati, okay?

– Io non mi calmo! Toccala ancora e sei morto.

– Hai finito con le minacce di morte?

– No, ci sono parecchie cose che vorrei dire… – prese fiato

– BASTA! Ragazzi, vi ficco una ciabatta in bocca, a tutti e due, capito?

– Dai, avanti, fatti sotto Parrington!

– Accomodati pure tu, Dale.

– Ehi! Sto parlando inglese, non tedesco!

Parlo inglese da quando ero piccola, come se fosse la mia prima lingua, anche se preferisco di gran lunga il tedesco. Non è che hanno un dialetto e non capiscono?

Jason si avvicinò a Nathan, evidentemente pronto a fargli male. Dalton era sparito.

Ma perché sparisce sempre?

Iniziai a delirare in tedesco, Jason e Nathan si fermarono, prima di prendersi a pugni.

– Cos’è, se parlo in tedesco mi ascoltate?

Andiamo di sotto, è meglio se Annie non vede il sangue – disse Jason, con un sorrisetto di scherno che gli avrei tolto volentieri a suon di pugni.

– D’accordo, facciamo così – rispose Nathan, facendo spallucce.

Ma che… parlo inglese e tedesco, mica ostrogoto!

I due che le volevano proprio prendere, si diressero giù dalle scale, il che mi sembrava da pazzi, perché farsi tutto il Big Ben a piedi, di corsa… mmh… non era molto intelligente. Alla fine, li seguii, perché dovevo proprio picchiarli a quei due.

Ma quanto sono bambini? Dannazione, quanto sono lunghe ‘ste scale? Non mi sento più le gambe!

Arrivammo nel giardino, finalmente. I due bambinetti si misero uno di fronte all’altro.

– Allora, cosa ci giochiamo? – provocò Jason

– Dobbiamo pure giocarci qualcosa? – ribatté Nathan

Jason mi vide arrivare ­– Annie.

Aspetta… eh?

– Che cosa? – sbraitò Nathan. A quanto pare Jason aveva toccato il fondo

– Hai capito bene. La posta in gioco è Annie.

Aspetta… posta in gioco?

– D’accordo, Dale, ci sto.

E lui che ci sta pure!

Jason si tirò su le maniche, e si avvicinò a Nathan, tirandogli un pugno secco sulla faccia, esattamente sullo zigomo. Nathan sputò per terra, si alzò e correndo, arrivò davanti al naso di Jason e gli tirò un pugno sul naso. Jason, in tutta risposta, gli tirò un pugno nello stomaco, e Nathan si contrasse per il dolore. Era davvero un pugno forte. Mio cugino cadde a terra, mentre si teneva la pancia.

– Posso considerarla mia, allora? – Jason si tirò giù le maniche e si girò verso di me.

– Non… è… un… oggetto… NON MI ARRENDERÒ! E QUESTO VALE ANCHE PER QUELLA COSA CHE TU SAI!

Quale cosa?

Jason fece spallucce, e continuò ad avvicinarsi. Nathan era furibondo. Si alzò, correndo e tirò una gomitata nelle costole a Jason, che si contrasse. Poi, tornò all’attacco: prima un pugno sulla guancia, nello stomaco e un calcio… voi sapete dove. Jason non sembrava essersi arreso, comunque, e cercò di tornare all’attacco.

 – Scusate. MA VI SIETE FUMATI IL CERVELLO? – urlai, più furiosa che mai. Mi avvicinai a loro, a grandi falcate.

Ora sono anche una posta in gioco? Ma siamo matti?

– Mi avete rotto le palle, entrambi. Ma che cosa vuol dire mettermi all’asta? E picchiarvi, per me! Ora basta. Jason, prova a rialzarti e ti atterro io. – dissi, indicandolo – Nathan, Tiragli un altro pugno e vedi le stelle, CHIARO?

Okay, iniziavo ad urlare seriamente. Si iniziò a sentire un forte vento, accompagnato da un suono medio-grave. Come di una voce che cantava, ma sembrava più quell’angioletto di Marilyn Manson.
Il vento aumentava, sempre di più. Jason aveva uno sguardo perplesso, ma non riuscivo più a guardarlo come lo vedevo prima, ovvero come un gran figo. Ora lo vedevo come una specie di ibrido, un demone… non era più il ragazzo dolce che conoscevo. Nathan? Era pur sempre mio cugino, ma anche lui non era da meno.

– Annie, su cugina, ora fai calare questo vento… – disse Nathan

– Esatto… calmati Annie… – intervenne Jason

– Ah, adesso ve la fate addosso, eh?

– Annie… calmati!

Ma cosa mi prende? Perché sento il bisogno di continuare?

– Annie! Sta cercando di prenderti!

Che cosa?

– Non lasciarti andare!

Non sapevo cosa fare, così  mi misi a correre, verso Nathan. Lo abbracciai, e sentii un forte bisogno di piangere, così lo strinsi forte a me. Mi accorsi che gli sanguinava il labbro, e sentii il bisogno di piangere crescere ancora.

Ma che cosa mi sta succedendo? Perché prima sono sadica, e ora piango?

– Scusa, ti prego, scusami! – gli urlai

– Ma da quanto sei una piagnona? – mi chiese Nathan, ridendo.

– Grazie di questa sintesi illuminante – lo strinsi forte, probabilmente bagnando la sua maglietta con le mie lacrime. Magri sporcandola anche di mascara. Nathan non sembrava intenzionato a lasciarmi andare, ma sentivo il bisogno di imprecare contro Jason. Mi staccai dunque da Nathan e gli andai incontro. Quando fummo uno di fronte all’altra, rimanemmo per qualche nanosecondo a fissarci. Io iniziai a urlargli contro in tedesco, indicando Nathan e quello che gli aveva fatto.

– Ehi, piccola, calmati – mi disse lui

– No che non mi calmo! – tornai a parlare in inglese – se vi vedo ancora picchiarvi io vi… vi…

Non terminai la frase. Jason mi mise le braccia al collo e io rimasi esterrefatta. Sentii le sue mani calde sulla mia schiena, e il vento si fermò. Era una bella sensazione, quella.

Ma per quale assurda ragione prima volevo infilargli una ciabatta in bocca e ora voglio solo che mi stringa forte?  

Peccato, però, che quel bel momento durò poco: sentii una profonda fitta al braccio destro, e un suono decisamente troppo assordante mi penetrò le orecchie.

Dannazione, non bastava la spalla? Ora pure il braccio? E proprio adesso?

Sapevo cosa stava per succedere, ma non volevo accadesse. Non in quel momento. Mi ricordo di aver visto due colonne, e una pietra sopra, e subito dietro un cancello. Non c’era niente, a cosa serviva? Sentii uno scroscio d’acqua sulla testa, tutto d’un colpo, e rumore di carrozze. Mi ritrovai bagnata fradicia.

Ero sotto il Big Ben. Ma non nel XXI secolo, e senza nessuno insieme a me.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Vedo il futuro ***


bbbbbbb

Ma che…?

Mi guardai intorno, niente.

– Jason…? Nathan…? – chiamai, senza ricevere nessuna risposta. Riprovai diverse volte, urlando sempre di più. Un secondo prima abbracciata a Jason, un secondo dopo, doccia e solitudine. Uau. Alla ricerca di un riparo, mi misi sotto una tettoia lì vicino. Il cancello che circondava il giardino era sparito, il rumore delle macchine anche. Si sentiva solo la pioggia e il rumore degli zoccoli dei cavalli e delle carrozze che ogni tanto prendevano un buco. Un lampo squarciò il cielo in due, seguito da un tuono così potente da farmi sobbalzare. Mi strinsi nella mia felpa bagnata.

– Chi va là?! – sentii, e vidi due uomini avvicinarsi a me

– Un’intrusa!

– Guardate l’abbigliamento! Così volgare!

Mi guardai. Be’, la divisa lasciava desiderare però non era così male. Notai che però avevano delle giacche… strane.

– Giovincella, cosa ci fate sotto questa prorompente pioggia autunnale?

Proru… eh?

– Mi… mi sono persa, signore – riuscii a biascicare. – Do… in che anno mi trovo?

I tre uomini si guardarono, inarcando un sopracciglio – Giovincella, sicura di stare bene? Deve aver preso una brutta febbre… – disse uno

– È talmente ovvio, siamo nel 1918. – rispose un altro, socchiudendo gli occhi e facendo un gesto della mano, portandola con il palmo all’insù.

1918? Lady Amanda era già nata dunque… chissà se… oddio, perché sto iniziando a parlare come una colta del Novecento?

Mi stupii di essermi ricordata di quello che mi avevano detto sulla generazione delle note. Guardai la torre dell’orologio, (o meglio, quello che si riusciva a vedere), perché si, ero finita nello stesso punto del presente, solo qualche anno prima.

– Scusate, signori… stavo cercando lady Amanda Parrington. Potreste indicarmi la strada? Non sono londinese… – dissi, parlando inglese con un accento tedesco del quale persino io mi stupii.

– Che ne dite? – gli uomini si consultarono e poi annuirono. Mi portarono nella stessa stanza in cui eravamo prima che iniziasse la lite tra Jason e Nathan: la Gran Loggia dei Custodi. Vidi di fronte a me uomini vestiti in abiti eleganti, e donne con grandi, colorati e meravigliosi vestiti. In mezzo a tutti quanti, c’era una ragazzina, avrà avuto più o meno tredici anni, con grandi occhi verde smeraldo, come i miei, e lunghi capelli castani intrecciati sulla schiena, visibili grazie alla enorme scollatura sulla schiena. Aveva un bellissimo vestito rosa, con uno scialle fucsia (era stato inventato, come colore?) largo intorno al collo.

– Lady Amanda, ci sono visite per voi…

La ragazzina si girò e notai con enorme sorpresa che anche lei mi somigliava.

Ma cos’è? Siamo tutti gemelli?

Amanda mi vide e s’inchinò. – Ero stata avvertita del vostro arrivo, Lady Annabell.

Ma quanti anni ha? Tredici? Magari le tredicenni del XXI secolo fossero così!

– Oh… ehm… davvero?

– Certamente, mi ha avvertito lei stessa che questo giorno sarebbe arrivato…

– Si! Certamente… – dissi, facendo l’occhiolino e alzando un pollice, giusto per non sembrare un’idiota.

– Vuole del the? – mi chiese cortesemente

– D’accordo, Lady Amanda, se insiste…

Ci sedemmo su un divano decisamente troppo scomodo per me, ma Amanda non sembrava farci caso.

– Sir Monaco, porti da bere alla mia ospite.

– Subito, Lady Amanda – rispose un tizio in mezzo alla folla, smettendo di parlare con unaltro giovane. Era molto alto, con i “capelli” solo ai lati della testa.

– Allora, Lady Annabell…

– Oh, mi chiami Annie, la prego. – la fermai.

Fece una faccia stupita – Annie? – si picchiettò l’indice sulle labbra, poi fece spallucce – se così volete…

– E datemi del tu, per cortesia.

Amanda era scioccata. – Se ci… tieni, lo farò.

Ma è così strano dare del tu ad una persona? Non ho ottant’anni, eh?!

– Mi avevi avvertito che… saresti stata strana, ma non immaginavo tanto, Annie.

Mi grattai la testa. Come sono prevedibile!

– E… mi dica, Amanda. Deve dirmi qualcosa?

– Certo, sì. Ora ti spiego… – fece una pausa, in cui sospirò, come per cercare nel suo colto vocabolario le parole adatte. – Annabell… cioè, l’altra Annabell, mi ha detto che non ti devi fidare dei tuoi sentimenti, mai, e che dovrai compiere una scelta, che decreterà la sorte dell’intera umanità. – disse, senza minimamente scomporsi o gesticolare mentre parlava.

… che?

Aspetti… che significa?

– Non ne ho idea, Annie.

I nervi, Annie. I nervi.

– Come… non ne ha idea?

– Non ne ho idea, hai capito bene. Queste sono le parole che tu stessa mi hai riferito… credo dovresti fidarti.

Facciamo così… esco e aspetto il salto di ritorno. Odio queste persone. Che vuol dire ‘non fidarti MAI dei tuoi sentimenti, compiere una scelta, sorte dell’umanità’… chi sono, io? Superman?

– D’accordo, Amanda. Grazie per queste informazioni, mi saranno sicuramente d’aiuto.

Come sono brava a fingere! Come sono brava!

Feci una riverenza e mi voltai. – Con permesso…

Stavo letteralmente scappando da quel covo di amanti degli indovinelli, e quasi mi scontrai con Sir Monaco, che mi inarcò un sopracciglio

– Non prendete il the? L’ho fatto per voi! – protestò

Amanda parlò ancora, non ne aveva ancora abbastanza.

– Annie, non ho finito! Fidati solamente del colore degli occhi di una persona nuova! Non lasciarti stregare!

Oh, cielo, non ha ancora finito di blaterare?

– Annie! – protestò – L’altra te mi ha detto inoltre che innamorarsi di un ehm… cosa aveva detto? Figo? Si, si, quello. Ha detto che va contro le leggi della Loggia! Puoi correre gravi rischi!

Peccato che io non sentii nulla, o perlomeno, poco niente. Tornò il dolore al braccio, questa volta desiderato, però. In meno di un secondo ritornai sotto la torre dell’orologio, dove ero scomparsa. Davo le spalle alle due colonne con una lastra di marmo sopra, praticamente inutile, per come la vedevo io. Dal nulla comparve Jason, blaterando qualcosa che non afferrai, però non mi vide. Starnutii con tutta la forza che avevo in corpo, cadendo con un ginocchio per terra e il pugno impiantato nell’erba. Sputai per terra.

– ANNIE! – urlò Nathan, anche lui sbucato dal nulla. Mi si avvicinò e mi abbracciò. – Oh, Dio! Che hai fatto? Perché sei così fradicia? – mi accarezzò i capelli bagnati, che nel passato non si erano nemmeno presi la briga di darmi un colpo di Phon. Giusto, non era ancora stato inventato. In quel momento ci raggiunse Jason, correndo pure lui, che mi baciò la fronte.

– Annie, hai la febbre alta! – esclamò

Ma no, dai? Non l’avrei mai detto! Sono bagnata fradicia, mi sono teletrasportata nel passato, ho parlato con una pazza che ha parlato con una me del futuro e mi ha blaterato cose senza senso, e dovrei pure stare bene? Avresti la stoffa per vincere il premio nobel per il capitan ovvio, mio caro Jason!

Mi abbandonai nelle braccia di Nathan.

– Vieni, ti portiamo dentro… – Nathan mi sollevò di peso e mi condusse all’interno della torre dell’orologio, nella Gran Loggia dei Custodi. Svenni prima che mi sollevasse.

 

Al mio risveglio ero a casa. Cioè, non casa casa, ma a casa dei miei zii. Forse capite meglio se vi dico “la Reggia”. Ero sdraiata sul mio letto, senza una minima traccia di mal di testa o male a qualche parte del corpo. Riuscii ad alzarmi seduta con facilità La porta era aperta. Qualcuno bussò.

Mi chiedo perché devono bussare se c’è la porta aperta.

– Permesso? – riconobbi subito la voce di Nathan. Mi tolsi le coperte e mi buttai tra le sue braccia. – Va tutto bene? – mi chiese.

– Si, neanche un dolorino. – Lui mi sorrise in tutta risposta, ma non disse una parola. – Cugino, mi sai dire per quale assurdo motivo devo sempre svenire?

– Tranquilla, cugina. Non stai apparendo debole. Almeno, non per me.

Ha centrato il punto.

Mi accarezzò una guancia – Tu sei una ragazza molto forte, siamo in un mondo tutto nuovo per noi, all’improvviso. Ci abitueremo, vedrai.

– Che fine ha fatto Nathan?

– Che stupida! – rise lui e mi abbracciò. – Devo darti una pessima notizia.

– O Dio! Dimmi!

– Sono le dieci di sera, e domani si inizia seriamente la scuola.

NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!

– Posso svenire?

– Sei già svenuta troppo, non credi?

– Già.

– Su, prova a chiudere gli occhietti, o perlomeno a riposarti. Domani sveglia presto, giornata piena! – Mi baciò la fronte – devo presentarti ad alcune persone, non voglio che tu abbia l’aspetto di uno zombie.

– Io ho sempre l’aspetto di uno zombie, cugino.

– Be’, intendevo oltre a quello.

Gli tirai una pacca sulla spalla – Ehi!

Mi mandò un bacio da lontano e uscì dalla stanza.

Come posso dormire, dopo tutto quello che è successo?

Mi rigirai nel letto per varie volte prima di addormentarmi, e il mio sonno non fu per niente tranquillo. Sognai un ragazzo, che non avevo mai visto prima di allora. Non facevamo niente, stavamo lì, uno di fronte all’altro a fissarci. Lui mi sorrise, e la cosa che mi colpì maggiormente furono i suoi occhi: azzurro intenso. Non come quelli dello zio, di Iris, o di Sophie. Molto più azzurri.
Sembrava una persona innocua, a vedersi così. Aveva i capelli biondi in un taglio strano, e un anello al dito. Poi, si sdoppiava in due e una rimaneva là con il sorriso ebete, e l’altra con una faccia da demone mi veniva incontro con una mano tesa. Mi svegliai di soprassalto, sudata. Entrò nella mia stanza Nathan, in pigiama.

– Cugina! È ora!

Ci riflettei un attimo. – Ora? Ora per cosa?

– Per la scuola! Vestiti o faremo tardi!

Mi preparai velocemente. La divisa era appesa sulla cabina armadio, in perfetto ordine, insieme alle scarpe sotto di essa. Non mi preoccupai di chiedermi chi l’aveva messa l’, l’importante era che ci fosse.
Mi diedi una sistemata ai capelli, misi un lieve strato di mascara, giusto per far splendere i miei occhi. Vicino al letto c’era una cartella pronta, con libri e tutto. Anche quella misteriosamente in ordine. Scesi le scale in fretta, fianco a fianco con Nathan. Presi una fetta biscottata con la marmellata di fragole da un cestino che c’era sul tavolo, salutai la famiglia che pranzava allegramente, senza nessuna fretta e aspettai che Nathan si infilasse le scarpe, baciasse sua madre e le sue sorelle per uscire. Facemmo la strada di corsa, nessuno dei due parlò (anche perché non ce l’avrei fatta) e arrivammo a scuola anche in anticipo.

– Ti ammazzerei, cugino.

Lui mi ignorò. La scuola era molto in ordine, non dava segni di crepe o vecchiaia. A vederla potevo chiaramente dire che l'avevano costruita il giorno prima. Oltrepassammo il cancello di entrata e proseguimmo per il sentiero che portava all’ingresso, o meglio, a delle persone.
Mi bloccai. Lì di fronte a me, che si avvicinava a noi sorridendo c’era lui: il ragazzo del mio sogno.

 

Kat Notes:

Scusate per il vergognoso ritardo, davvero. Sono successi dei casini, ma comunque ora sono riuscita a scrivere questo dannato capitolo. Lo so che vorreste ammazzarmi, e avete tutte le ragioni. Comunque sto avendo delle idee pazzesche per i capitoli successivi, e cercherò di scriverli al meglio. Ho anche intenzione di continuare quella FF su Apollo e Artemide iniziata secoli fa e morta nel mio computer. Amen.

Ho detto tutto. Recensite, mi raccomando!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Una cosa su un milione mi è chiara, forse ***


ggg

Con tutte le persone in una scuola, proprio lui doveva conoscere Nathan?

Ci avvicinammo, dove i due si salutarono per bene.

– Ehi, Nat! Come butta? – gli batté il pugno

– Tutto a posto, Adrian. – gli disse lui, battendogli il pugno a sua volta. – Voglio presentarti Annie…

– Oh, e lei chi è? La tua ragazza? – disse lui tirando prima una gomitata nelle costole a Nathan e dopo posando i suoi occhi azzurrissimi nei miei

– Ma che dici, non è la mia ragazza! È mia cugina, ed è nuova a Londra… viene da Amburgo

Non so se era una mia impressione, ma sembrò che Adrian avesse arricciato il naso. Comunque, anche se l’aveva fatto, era stato un movimento velocissimo, magari stava scacciando una zanzara, chessò.

– Amburgo… Germania, no? Si vive bene lì? – mi chiese, probabilmente ignorando il fatto che quella domanda mi aveva ferita. In fondo, non sarei più tornata ad Amburgo, a casa mia… per molto tempo.

– S-si… – riuscii a biascicare, abbassando lo sguardo. Nathan lo fece allontanare e probabilmente gli disse perché mi trovavo a Londra. Adrian mi guardò con fare dispiaciuto, mentre parlava con mio cugino. Ad un certo punto mi venne vicino, e mi mise una mano sulla spalla, per confortarmi. Oramai non ce n’era più bisogno, basta che nessuno mi ricordava ciò che era successo quella sera a Dahlia Parrington ed a Darren Davis.

– G-grazie…

– Di niente! – e mi puntò ancora quello sguardo irresistibile addosso.

Ma cos’è ‘sta storia che a Londra sono tutti fighi?

Riuscii a formulare quel pensiero, dopodiché suonò la campana dell’inizio della prima ora. Mi attaccai a Nathan.

– Cugina, ti accompagnerò io in classe, poi ti lascerò nelle mani di Mr. Shuffle, d’accordo?

Perché chiamare qualcuno Mr. Mescolare? Che nome assurdo!

Acconsentii all’affermazione di Nathan e mi feci accompagnare dentro. Non ero un’esperta nel cambiare scuola, e nemmeno lo volevo diventare. Era stato strettamente necessario, io non l’avrei mai fatto, sia chiaro. Non avrei mai lasciato i miei amici di mia spontanea volontà. Ma era ora di cambiare spazi e ambienti, e amicizie. Entrai nella scuola, con armadietti in metallo e gli interni bianchi. Poteva assomigliare ad un riformatorio? Si, certo.

– Ecco, questa è la tua classe. La mia sta al piano di sopra. – Nathan mi riportò al mondo mortale.

Dalla classe provenivano rumori di banchi e di risate.

Okay, Annie. Forza, forza!

– D’accordo, cugino. Vai pure in classe, io ce la posso fare.

Sicura?

– Sì, sicura. Vai, i tuoi amici ti staranno aspettando.

– Sempre per questa storia che non vuoi apparire debole? – mi disse, sfidandomi

Tranquillo, cugino, so cavarmela, non ho due anni. Vai, ci vediamo all’uscita.

– Se lo dici tu… – mi fece un cenno e andò in fondo al corridoio, per poi salire le scale e dirigersi al piano di sopra, alla sua classe.

Respira, Annie. Sei forte.

In quel momento, quando stavo per mettere piede nell’aula arrivò un tipo alto, all’apparenza giovane e sportivo. Aveva i capelli grigi raccolti in una coda, con i jeans e una felpa della Nike. Forse era davvero giovane e sportivo. Mi squadrò con gli occhi di un nero penetrante che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro.

– Ehm… – iniziò, per poi fare una pausa e lanciarmi un sorriso lucente – tu sei la signorina Davis! Vieni, ti stavo cercando! – mi mise una mano sulla spalla e mi condusse in classe. La classe ammutolì a vedermi, così controllai di avere tutto a posto e quando fui sicura che era tutto in regola tirai un respiro di sollievo.

– Ragazzi, lei è Annabell Davis.

I miei compagni, se già li potevo definire così, erano muti. Nessuno osava parlare. A occhio e croce avevo ventidue paia di occhi che mi fissavano, ed erano abbastanza inquietanti.

Feci un gesto con la mano – Salve a tutti. – dissi, cercando di sembrare sicura di me

Dalla classe si levò un fischio, che non afferrai se si trattava di stupore o per dirmi: “a soggetta! Vattene, chitté vole?”, ma evitai di pensarci. L’atmosfera si fece tesa. Mr. Shuffle probabilmente voleva iniziare la lezione di… inglese?

– D’accordo, Annabell, siediti vicino a David, laggiù in fondo… – mi indicò un punto indefinito della classe, e un ragazzo si alzò.

– Annabell! Qui! – mi disse lui, che doveva essere David. Era un ragazzo grassottello, ma non troppo. Aveva i capelli scuri e gli occhi ambrati, come quelli di Jason.

Perché mi sa di familiare?

Mi avvicinai a lui, con la cartella in mano e mi sedetti al suo fianco. Lui mi strinse la mano e mi sorrise.

– Piacere, David.

– Annabell, ma chiamami Annie.

– D’accordo, Bell, da dove hai detto che vieni?

– Non l’ho detto…

– Fammi indovinare… dall’accento dovresti essere del sud.

Sud? E di che?

– No, no aspetta! – si corresse – Sei dell’Europa, giusto?

Misi la faccia nella mano destra, gesto comunemente conosciuto come facepalm. Trattenni una risata.

– Anche l’Inghilterra è in Europa, Dave! Posso chiamarti Dave?

– Oh… – si grattò la testa e si mise a ridere – già, sono una schiappa in geografia – ammise – quindi… da dove vieni?

– Vengo da Amburgo, in Germania.

– Uuuh! Ciamania! Me gusta la Ciamania! – improvvisò una musichetta – Comunque ci avevo preso sul fatto che venivi dall’Europa, però.

Risi – Be’, su quello ci hai preso perfettamente! – dissi, giusto per dargli la soddisfazione di essere un grande.

– Bene, mi fa piacere che andate d’accordo! – disse Mr. Shuffle, sbucato dal nulla.

Ma… ci hanno ascoltato tutti o cosa?

– Signorina Davis, mi farebbe il piacere di descrivere la sua città natale? Almeno facciamo un favore a Mrs. Pan, l’insegnante di storia e geografia.

Dalla classe si levò un ‘BUUUUUU’, ma quando mi portai alla cattedra tutti tacquero.

Ma sono sporca?

– Dunque… illustraci da dove vieni precisamente, che non tutti lo sanno.

Sentii in sottofondo il motivetto di David sulla Ciamania e mi si ficcò in testa.

Grazie, Dave, per avermelo messo in testa!

– Io vengo da Amburgo, in Cia… ehm… Germania.

Uuh Ciamania! Me gusta la Ciamania!
 … Ooh, vattene!

– Bene, allora… raccontaci com’è lì.

– Amburgo è… semplicemente meravigliosa. È situata dove l’Alster e il Bille sfociano nell’Elba. C’è… un grande porto, dove io e i miei amici ci trovavamo per passare interi pomeriggi… – iniziarono a salirmi le lacrime agli occhi, ricordando quei momenti con Jannis, Karol e tutti gli altri. Le risate e le stupidaggini che sparavamo, le porcate che ci mangiavamo a casa di Jannis… un groppo alla gola iniziò a farsi sentire, e una voragine nel petto si allargava man mano che continuavo a raccontare. Molti ragazzi mi fissavano con aria gentile, come se mi volessero consolare dal posto. Io continuavo a raccontare, interrompendomi solo per prendere un bel respiro e per ricacciare dentro le lacrime. Quando finii di raccontare la classe calò in un silenzio tombale per qualche secondo, poi Mr. Shuffle iniziò ad applaudire. Poco a poco altri si alzarono e applaudirono, finché non furono tutti in piedi. Dave mi sorrideva, e Mr. Shuffle mi fece l’occhiolino.

Perché è così tremendamente familiare quell’uomo?

– Che bel racconto, signorina Davis.

– Grazie mille, Mr. Shuffle… – e non riuscii a trattenere le lacrime. Troppe emozioni, troppi sentimenti. Rimasi lì, appoggiata alla cattedra, a piangere come una bambina che vuole la mamma all’asilo.

Ma perché è dovuto succedere a me?

Sentii delle mani calde su di me, e poi un leggero “Vai a fare una passeggiata nel cortile. Quando te la senti torni dentro, okay?”           

Io annuii debolmente

– Signor Johnson, puoi accompagnarla?

– Certo, Mr. Shuffle. – era la voce di Dave. Mi fece alzare la testa, e non appena vide le mie lacrime sorrise. – Andiamo, Bell.

Uscimmo dalla classe, e feci un rapido giro della scuola, anche se ero troppo impegnata a piangere per vedere meglio la scuola. Dave mi teneva un braccio sulla spalla, ed io ero appoggiata a peso morto su di lui. Arrivammo al cortile che avevo esaurito le lacrime, così mi asciugai gli occhi e tolsi le sbavature di mascara.

– Come ti senti?

– Va… tutto bene, grazie.

– È stato davvero un bellissimo racconto, sai?

Non risposi.

– Sai, sembrava quasi una canzone.

Canzone? Aspetta…

– Canzone, hai detto?

– Si, perché quella faccia?

– Fammi vedere bene gli occhi, Dave.

Lui, come per farmi ridere, si aprì gli occhi con due dita. Erano ESATTAMENTE come quelli di Jason.

– Dave… tu sei… – mi interruppi

– Io sono cosa?

– Un Custode.

Ci fu un momento di silenzio, poi scoppiò a ridere. Ma forte, non una risatina innocente, rideva di gusto.

Ma che ha da ridere questo?

– Un che cosa?

– Un Custode. Vuoi che ti faccia lo spelling?

– No, ho capito. So perfettamente di che cosa stai parlando.

– Come… sai?

– So tutto. Avevo capito che eri la prescelta fin da subito… – si tappò la bocca

– Chi?

– No, niente, lascia perdere. Sappi che non mi unirò a quegli amanti degli indovinelli, mai!

– Mi era sembrato di sentire la tua voce, David. –disse una voce

– Jason! Che vuoi?

– Io? Niente.

– Mi avete tentato per anni… – iniziò David

– Non sono qui per te. – disse calmo Jason, che spuntò da un cespuglio. – Io sono qui per Annie – e mi sfiorò la guancia con le nocche.

Ma da dove sbuca questo?

– Aspettate, aspettate. FRENA. Che ci fai qui? – puntai il dito verso Jason – E tu come sai dei Custodi? Perché ti tentano? – chiesi a David, che abbassò lo sguardo.

– Io…

Jason si intromise, al solito. – Lui ha una capacità fondamentale, che a noi serve.

– Jason, fatti i cazzi tuoi! – sbraitai – VATTENE!

Perché è diventato così cattivo? Non è il Jason di sempre…

– Io… – ricominciò David – ho delle capacità particolari. So delle profezie… utili ai Custodi. Sono anni che le custodisco, e loro sono anni che mi tentano per averle.

Profezie? Ci sono delle profezie?

– Si, Annie, ci sono. Ma io le terrò per me. – disse lui, come se mi avesse letto nel pensiero.

– Dove è finito il Dave che ho conosciuto poco fa? Quello della Ciamania… quello simpatico ed estroverso, dov’è?

– Non ti dovresti preoccupare di lui, ma di me. – disse Jason

– TU! Chi sei?

Quello che sembrava Jason rise, e scomparve in una nuvola nera come la pece.

Ma che…?

– Lo sapevo! Ecco perché sono diventato così aggressivo, scusami Bell. – se ne uscì Dave, come dopo un’ipnosi

Ma dove sono finita? Nel paese degli indovinelli? Potrei scriverci un libro.

– Ti spiegherò tutto più tardi, ora devo metterti in salvo.

In salvo? E da chi? Non c’è nessuno in giro!

Mi trascinò all’interno della scuola, correndo come dei pazzi a perdifiato. Dove lo trovava tutto quel fiato? Ad un tratto comparve una ragazza, con l’uniforme della scuola, con un cerchietto nero e dei capelli scuri fluenti lunghi fin sotto alle spalle.

– Dave, perché mi hai chiamato? Che cosa succede?

Chiamato? Ma se non ha aperto bocca! Dove sono finitaa?!

– È urgente, Hope. Lei è la settima.

– Oh, è arrivata. Dio, non dirmi che è già qui!

– Già, proprio lui. È venuto a cercarla sotto l’aspetto di Jason Dale e mi ha reso ostile. Dobbiamo andare a casa.

Eh…?

– Piacere, Annabell. Io sono Hope, e la nostra famiglia aspettava il tuo arrivo. Ti puoi fidare di noi, tranquilla. Ora andiamo a casa, o Mind cercherà di prenderti ancora.

Di prendermi… di prendermi… cos’è che mi ricorda questa frase?

– Andiamo, ho già detto a Mr. Shuffle che avete avuto un attacco di vomito, è tutto a posto.

Un attacco di vomito? Oddio che schifo.

Dave mi prese per la spalla e mi condusse fuori.

Ricapitolando, io devo andare a casa di questi pazzi con le visioni? Cielo, ora mi viene un attacco di vomito seriamente.

– Ehi, ti dispiacerebbe non pensare? Mi fai venire mal di testa.

Mal di testa?

– Perché il mal di testa?

– Hai uno scudo intorno alla tua mente, Annie. Non potendolo penetrare, a Dave viene il mal di testa.

Chi è che penetra cosa?

– Ahi, Bell! Smettila!

Come faccio a fargli venire mal di testa, se sto solo pensa…

E in un lampo capii chi erano David e Hope.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Incontro una super mamma e piango dalla gioia ***


ffghghkhj

David e Hope. Le profezie e la speranza.
La mia collana iniziò a brillare e ad emettere un lieve suono che penetrava nel fondo della mia anima e mi arricchiva di conoscenze. Vidi, ma non troppo. Per carità, altrimenti a chi incasinavano le idee quelli amanti degli indovinelli dei Custodi?
Vidi una persona che dava da bere qualcosa ad una ragazza. Ero io? No, era Julia. L’altra persona se ne andava e Julia si accasciava al suolo. Boccheggiava, indifesa. Certo, chissà cosa le aveva dato quel tipo.
Allungò una mano e pronunciò il mio cognome: Davis. Emise una nota, per quanto le fosse possibile, e si materializzò un portale. Ci entrò strisciando e sparì.

Presi una boccata d’aria, ma le visioni non erano finite.                          

Vidi lo zio Parrington, con un bambino in braccio. Nathan.

– No, non può essere… – mormorava lo zio tra sé e sé – Mind, non doveva succedere! Che cosa facciamo?

– Calma, Parrington. Sarà solo un incidente nel corso delle nostre lunghe vittorie. Non c’è niente da temere. Posso pro…

Il suono si spense e la collana smise di brillare.                

– Hai visto troppo in una sola volta, Bell. Le cose che non sai sono troppe per un’anima giovane come la tua, dovremo andare per gradi. – sorrise.

Annuii, ma non ero concentrata più di tanto sulle sue parole.

Cos’è successo VERAMENTE a Julia, quel giorno? Perché la visione di Nathan? Chi è questo Mind? Cosa stava per dire allo zio?

– T-tutto bene? – mi domandò Hope

– Non ti preoccupare, io ho vomitato per tre giorni di fila la prima volta che ho avuto una visione!­ – disse David, ma sua sorella gli scoccò un’occhiataccia.

– O-okay… –  dissi inarcando un sopracciglio. Questa cosa fece molto ridere a Hope che scoppiò a ridere.

– Rifallo! Rifallo ti prego! Ahahah! –  urlava tra una risata e l’altra.

Ma cos’ha questa ragazza che non va?

– Tranquilla, però ehi! Che faccia buffa che hai fatto! –  concordò Dave

Cos’ha di buffo un sopracciglio inarcato?! Bah.

Ci incamminammo verso casa loro qualche minuto più tardi, dopo che ebbi rifatto la “faccia buffa” che a Hope piaceva tanto e dopo averle dato qualche minuto per calmarsi, visto che ancora un secondo e si sarebbe ritrovata per terra con le mani sulla pancia. Mentre rideva la guardai con più attenzione: era molto bella, ma aveva gli occhi di un colore particolare (non che mi stupisse più di tanto ora come ora), erano dorati con qualche sfumatura di blu. I capelli, mossi a giudicare dai ciuffi che partivano da tutte le parti nonostante avesse il cerchietto, erano raccolti in una treccia lunga che le ricadeva sulla spalla destra (quando se l’era fatta?) ed erano nerissimi. Era davvero bella.
Mentre camminavamo iniziarono a discutere su chi avrebbe dovuto apparecchiare e chi cucinare. Mi chiesi se vivevano da soli o se avevano dei genitori. Dopo un lungo tragitto alzai a testa e mi trovai di fronte una casa alquanto stramba: sembrava la casa di un cappellaio matto.

– Eccoci! Casa dolce casa! – esclamò Dave alzando le braccia e sorridendomi

– Elegante, eh? – Hope riservò per me un sorriso

Elegante? Io direi una figata piuttosto! Non è che sbuca fuori dalla porta Johnny Depp in versione cappellaio matto?? AMO QUELL’UOMO!
… aspetta. Sembro una fan girl impazzita!

– Si, mi piace molto – ammisi ricambiando il sorriso.

– Vogliamo entrare?

– SI SI SI SI SI! – esclamai.

Oh… ops!

– Ehm… volevo dire… si, mi piacerebbe molto!

Dave scoppiò a ridere e mi mise il braccio intorno alle spalle – Andiamo Ciamania, nostra madre ti aspetta!

Ma-madre?

– Ehi! Non ti farà niente, cos’è quella faccia?

– N-niente.

Non so perché, ma quell’atmosfera mi faceva un po’ paura. Chi era la madre di David e Hope?

Cavolo, tremo. Aspetta, perché sto tremando? È solo una signora, no?

Entrammo e subito mi entrò nelle narici un fortissimo odore di incenso e di fiori di ibisco. Che accoppiata strana. La madre di Dave e Hope stava lì, seduta ad un tavolo rotondo con una tovaglia azzurra e una sedia di fronte, come se mi stesse aspettando.

  Cosa vedono i miei occhi? Una piccola anima circondata da una musica ora soave, ora pop, ora rock. Benvenuta, Annabell.

Cos’ha detto?

– Ha percepito la tua anima, è normale. – mi bisbigliò Hope

– Vieni avvicinati pure, giovane donna.

Ma perché non capisco quando parla?

La donna mi rivolse uno sguardo intenso: aveva gli occhi nerissimi. Non appena mi avvicinai le comparve in mano una sfera.

– Oh, bene, non l’ho nemmeno chiamata.

… aha, si, si.

– Mostrami la tua mano, ragazza.

Allungai la mano sinistra.

È una chiromante…?

– Oh, la tua linea della vita è molto lunga… OH! – sobbalzò – Non può essere, così giovane…

– Cos’ha visto, s-signora?

– Una vita turbolenta, pericolosa. Amori sbagliati, bugie, inganni, verità, tradimenti, vittime… tesoro, la tua mano è impressionante. Il modo in cui hai chiamato la sfera… Sei una ragazza speciale. Devi stare molto attenta e fare bene le tue scelte.

Io… credo di essermi persa.

– Ho fatto comparir- OMMIODDIO! – mi guardai la mano e per un instante vidi le linee della mia mano trasformarsi in parole, oscillare, tremolare per infine rimettersi al loro posto come semplici linee.

Cosa diavolo…?

– È un effetto della mia magia, tranquilla. Non ho cambiato niente della tua mano, l’ho solo letta.

Annuii – Grazie mille, signora.

– Mi chiamo Alice. Alice Truman.

Mi ritornò una sensazione di vertigine allo stomaco e la collana si illuminò di nuovo e vidi delle immagini veloci, riguardanti quella donna, ma non capii nemmeno io cosa vidi. C’erano due bambini… e lei stava passando un’aura blu sul maschietto. “Sei pronto” gli diceva.. Presi un respiro.

Non voglio vedere tutto questo, se non è inerente o strettamente necessario. Odio gli indovinelli e i giochi di parole ma… so quando qualcosa è importante e quando non lo è.

La luce pian piano si spense e tornai nel mondo dei comuni mortali, se quella casa faceva parte del mio insieme di normalità.

– Hai trovato le parole, complimenti.

– L-le parole?

– Per bloccare le visioni. Ognuno ha le sue parole per bloccare i flussi di conoscenza provenienti dagli oggetti. Creano una specie di barriera intorno alla mente e intorno all’anima…

– Madre, lei ha già una barriera intorno alla sua mente…

– Perfetto, ora anche intono all’anima. Non la percepisco più.

Ho perso ancora una volta il filo… di cosa stanno parlando? Ah, meglio non chiedere nulla, mi incasinerei ancora di più le idee a parlare con una chiromante…

Successe qualcosa di incredibile mentre pensavo a queste cose: Dave, che era di fianco a me si sollevò di qualche centimetro, gli occhi emettevano una luce dorata e un fumo blu lo circondava mentre blaterava frasi in rima.

Ma all’alba del settimo giorno
un’aquila volerà senza stormo:
una decisione verrà presa
così la scintilla sarà riaccesa.
– parlò come se ci fossero tre Dave con tre tonalità di voce diverse.

Alla fine del discorso, Dave tornò giù.

– Yahoo! È già la terza questa settimana! – esclamò

– Quello che hai detto ora non è che una parte della Grande Profezia che aveva predetto lady Amanda tempo fa. Significa che aveva ragione e che… siamo giunti a questa parte della profezia.

– Cosa dice la prima parte, lady Alice? – chiesi

Lei non ci pensò nemmeno, parlò e basta – Fino a quando la settima nota risuonerà
il potere degli zaffiri crudele sarà:
morte, dolore e persino schiavitù
nel mondo compiuta da seduttori con gli occhi blu.
– rispose lady Alice

– Quindi la Grande Profezia parla di Bell, è così? – domandò Dave

– Non è detto. E ora andate, Annabell deve tornare da suo cugino. La sta cercando. – detto questo la chiromante scomparve.

Ha fatto puff?

– Ha fatto puff. – sospirò Dave

Ma mica non poteva leggermi nel pensiero?

– Lo fa sempre. Di solito non è mai a casa quindi… sentiti importante. Su, andiamo dal tuo cuginetto, Ciamania!

– Andiamo! – feci per incamminarmi ma ero già nel bagno della scuola. Dave era sparito. Uscii ed era fuori che parlava con Nathan.

– Bell! Allora stai bene! Finito di vomitare? – mi fece l’occhiolino

– Cugina! Ero così preoccupato ma per fortuna ho incontrato David che mi ha detto che eri al bagno da ore ormai…

– S-si, sto bene ora… ­­­– finsi un colpo di tosse – il peggio è passato.

– Meglio così, perché volevo portarti fuori a magiare con qualcuno…

– Chi è questo qualcuno, cugino?

– Mah, nessuno di importante. –  Mi porse il braccio – Vogliamo andare?

– D’accordo… – lo presi a braccetto – arrivederci Dave! – lo salutai e gli mimai con le labbra “poi questa me la spiegherai”. Lui mi fece cenno di stare zitta, così mi lasciai condurre da mio cugino dove doveva.

– Allora? Come è andato il primo giorno di scuola? – mi chiese

– Tutto bene… mr. Shuffle mi ha fatto raccontare come era Amburgo, poi mi è venuto da piangere e poi il vomito e sono scappata al bagno con Dave… – Nathan mi guardò male – NO! Cosa pensa la tua mente contorta?!? – gli tirai un pugno sulla spalla – Mi ha solo accompagnata al bagno poi come hai visto è rimasto fuori!!

Nathan scoppiò a ridere – Cugina mi fai troppo ridere. – disse e poi mi strinse a sé.

– Idiota.

– Cosa?

– Te lo devo cantare? IIIDIOOOOOOTAAAAA – dissi cantando

– Eccoci, siamo arrivati.

– Ah, ma è sol-

Mi bloccai. Non riuscivo a parlare, a pensare, a muovermi. Non lo credevo possibile. Non lo credevo vero. Iniziai a tremare e le lacrime mi uscirono da sole, senza che io potessi fermarle. Non per tristezza, ma per gioia. Lì, davanti a me, all’entrata del Mc Donald’s c’erano loro: i miei  migliori amici, quelli di Amburgo.

 

Jo's corner:
Okay, vi chieo umilmente venia. So che ci ho messo secoli ma ho avuto un sacco di cose da fare e non mi ricordo nemmeno quando ho pubblicato l'ultimo capitolo, dannazione!
So che non è proprio il massimo per farmi perdonare ma... questo è quanto.
Vi voglio bene e ringrazio i recensori! <3

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Qualcosa di buono mi capita, non sono maledetta ***


cc

È un sogno, non può essere vero.

– Nat… come diavolo…?

– Ho i miei giri di amici. – fece spallucce e mi asciugò una lacrima con un pollice – Vai, ti stanno aspettando.

– Grazie…

Iniziai a correre e Karol, la mia migliore amica mi corse incontro lasciando cadere la borsa che si portava e iniziò a piangere a dirotto, quasi mi buttò a terra.

– Annie! Credevo di non rivederti mai più!

– Karol! Oddio quanto mi sei mancata!

– Annie! – Karol lasciò il posto a Jannis. Non l’avevo mai visto piangere, e lo conoscevo da tanto. Ora però stava proprio piangendo!

– Jannis… oddio non piangere!

– Sono io che lo devo dire a te, Annie! – lo disse stringendomi più forte

– ANNIE! LARGO LARGO! – sentii da lontano la voce di Nigel.

– NIGEL! CI SEI ANCHE TU? – gli gettai le braccia al collo di slancio

– Che domanda è? Non potevo perdermi l’occasione di vedere la mia petite! – disse con accento francese, ereditato da sua madre.

– Nigel… – le lacrime mi salirono ancora di più agli occhi, se possibile.

– Così mi soffochi! – implorò

– Scusa – dissi senza staccarmi da lui

– Cavolo, Annie, che ti salta in testa?! Sparisci e non chiami nemmeno!

Io mi limitai ad abbassare lo sguardo.

– Dio, Nigel, non ti vergogni?! – lo rimproverò Jannis – C’eri anche tu quando Karol ci ha raccontato…

– Tranquilli, ragazzi va tutto bene! – avrei voluto dire, sicura di me e con un sorrisone sulle labbra ma non andò esattamente così, infatti lo dissi con aria più tragica possibile. I miei amici mi sotterrarono con i loro abbracci i gruppo. Eravamo un quartetto, noi, e non eravamo mai divisi. Jannis, però era il migliore amico di Karol, e Nigel il mio. Veramente, la storia del nostro quartetto era ben diversa, ma questa è un’altra storia.

Gli occhi di Nigel si impiantarono nei miei, ma durò una frazione di secondo perché Karol urlò.

– E quello cos’è? È vero?!

Quello era Jason, appoggiato al muro di fronte a Nathan, che mi sorrideva. Sorrideva è una parolona, era piuttosto una piccola curvatura agli angoli della bocca, ma che lo rendeva sexy. Afferrai il braccio della mia amica, avvicinai la mia bocca al suo orecchio e le sussurrai – quello è il ragazzo di cui ti ho parlato, quello con gli occhi di Edward Cullen!

– Allora non dicevi una boiata quando dicevi che era tanto figo? Mamma mia, svengo. Non oso pensare ai suoi occhi!

– Già…

Nigel alzò gli occhi al cielo. – Avete finito di fangirlare voi due? Ho fame.

– Uuh, la gelosia. Una brutta bestia.

– Non dire idiozie, Jannis.

– Lalala, io dico solo la veirità, lalala – canticchiò Jannis

– Dai, su. Andiamo a mangiare, a lì le presentazioni. – dissi, calma. – Cugino? Jason? Venite anche voi, vero?

– Arrivo, cugina! – esclamò Nathan.

– Sono stato invitato? Uau, grazie Annabell. – disse Jason, questa volta sorridendo per davvero. Karol rischiò di morire sul colpo.

Fu un pomeriggio indimenticabile. Presentai mio cugino e Jason ai miei amici (Nigel guardava Jason in cagnesco, non chiedetemi il perché). Karol rischiò l’infarto quando Jason parlava o le sorrideva (meglio dire ogni volta che respirava). Passeggiammo lungo il Tamigi, salimmo sulla London Eye, nel quale Nigel mi fece mettere tra lui e Jannis, (cosa che alla povera Karol costò l’ennesimo infarto, così la mettemmo il più possibile lontana da Jason) però quando gli chiesi il motivo fece spallucce e disse che gli ero mancata, ma non ero convinta. Jason sembrava non accorgersene.

Ma perché deve una volta volermi per sé e poi essere così distaccato? Come fa?

– Qualcosa non va, Annie? – mi chiese Jason.

Pensi del diavolo…

– Va tutto bene, grazie Jason.

– Di niente. – lo vidi sorridere soddisfatto tra sé e sé. Sorrisi anche io.

Scendemmo dalla ruota, ma a quel punto capii cosa doveva succedere.

– Annie… – iniziò Jason

– NO! Io non li voglio lasciare! – abbracciai tutti i miei amici – Fateli restare qui!

– Cugina, li faremo venire quando ne sentirai la mancanza, te lo prometto… – disse Nathan

Petite, chiamaci quando vuoi, siamo un quartetto, ricordi? – disse Nigel e mi abbracciò, seguito da un abbraccio collettivo.

– Annie, tutte le volte che vuoi. – Jannis mi fece l’occhiolino

– Già, splendore, quando vuoi. – ripeté Karol.

– Vi voglio bene, ragazzi! – esclamai

Jason dovette caricarmi in spalla per portarmi via dai miei amici, mentre Nathan chiamava Mr. Mason, il loro maggiordomo, e accompagnava i miei amici all’aeroporto.

– Annie, bagnami pure la maglia se ti va. – mi disse Jason. Io lo accontentai.

Dopo un po’ giungemmo a Hyde Park.

– Siamo completamente fuori strada. – osservai

– Già, è vero. Tuttavia…

Jason mi fece accomodare su una panchina, di fianco a lui. Mi passò un pollice sotto gli occhi, probabilmente per togliere le striature di mascara. Ma perché me l’ero messo?!

– Va un po’ meglio? – disse sorridendomi

– Fa… un po’ male, ecco.

– Ti hanno assicurato che torneranno, tranquilla.

Provai il forte istinto di stringermi a lui, e mi riuscii anche bene, se non per il fatto che tremavo. Jason comprese male il messaggio.

– Hai freddo? – mi chiese, e non mi diede nemmeno il tempo di rispondere che mi aveva dato il suo giubbino di pelle nero da automobilista.

– Grazie… – a quel punto non resistetti più e mi appoggiai a lui.

– Di niente… a dire il vero io ho molto caldo. – mi sorrise, e prese a giocare con una ciocca dei miei capelli.

– Sai una cosa? – mi disse – E’ da un po’ di tempo che ogni volta che dormo, ti sogno.

Oddio, questa voce morbida dove l’ha trovata?

– Spero sia un sogno bello.

– È strano… e poi c’è una cosa che volevo fare da un po’…

– E sareb-

Mi girai per guardarlo negli occhi, ma avvertii il contatto delle sue labbra.

Mi sta…

Lui iniziò a baciarmi, e io non potei rifiutare. Come poteva essere successo? C’è una cosa che volevo fare da un po’ aveva detto. Ricambiai con trasporto il bacio, che però fu come qualcosa di veloce, vuoto, in un certo senso. Ma non così vuoto da farmi rimanere indifferente. Infatti, ero rimasta anche abbastanza scioccata da qual gesto, ma il mi cervello era temporaneamente in modalità stand-by. Ad un certo punto Jason, mentre cercò di accarezzarmi la guancia sembrò avere un brivido e si staccò da me e si alzò in piedi.

– Dannazione!

Dannazione?

– Hai freddo? – gli porsi la giacca.

– No, grazie.

– Scusa! Come mai così aggressivo?

– Non dovevo farlo, non dovevo farlo…

– Grazie, grazie mille.

Okay che non ho molta esperienza in fatto di baci, ma anche lui, potrebbe anche non essere così diretto.

– No, non è colpa tua!

– Vorrei anche dire! Cos’era quel brivido?

– Mmmh… – nessuna risposta

– Dai, considerato che mi hai appena baciata mi dovrai qualche spiegazione, no? – incrociai le braccia

– La verità è che non avrei dovuto farlo. Non devo farlo.

– Ma dai! Potresti evitare di essere così diretto, per favore?!

– Che cosa vuoi dire?

– Che, al contrario di te, non sono molto esperta in fatto di baci. Leggendo magari ho capito che bisogna stare tanto vicini, ma non è che si impara molto, sai? E potresti anche non guardarmi così!

– Così come?

– Come mi stai guardano adesso. Come una povera bambina che non ha mai avuto una caramella e ne vorrebbe una ad ogni costo.

– Non lo penso davvero.

– Ma il tuo sguardo dice questo. O qualcosa del genere. Lo so che sono un’incapace, non c’è bisogno che me lo ricordi.

– Ti senti davvero così incapace?

– Lo sono, è diverso.

– Non dovresti sminuirti così, sai?

– Che cosa… ma perché stiamo parlando di baci? – Mi alzai in piedi.

– Hai iniziato tu.

Come dargli torto – Si, ma…

– Dovresti parlare di meno, petite.

– È un soprannome di Nigel, quello

– Quello moro?

– Si, lui.

– È il tuo ragazzo? Non ha fatto altro che guadarmi in cagnesco per tutto il pomeriggio.

Sono tentata dal dirgli “Si, è il mio ragazzo, ci sposeremo e vivremo felici!” giusto per vedere la sua reazione.

– No, tra noi è finita tanto tempo fa…

Perché gliel’ho detto?

Mi sembrò sollevato.

– Come mai così spensierato?

– Pensavo fosse il tuo ragazzo, ma non lo è. Un pensiero in meno per la testa.

– Cosa…?

Mi accarezzò la guancia – Meglio per noi, no? –

– Non capisco cosa stai cercando di insinua-

Mi mise l’indice davanti alla bocca – Devi parlare di meno tu.

Di nuovo il contatto con le sue labbra, questa volta pieno di tenerezza, e il mio cervello in stand-by.

Dannazione.

Jason mi cinse la vita con le braccia e mi avvicinò a sé. Io non riuscivo a fare altrimenti, così gli gettai le braccia al collo. Non mi importava niente di quello che c’era intorno a noi; l’importante era la distanza ridotta a zero, e mi inebriava. Tutto sembrava più colorato. Non so se era per la fame, ma nella mia pancia si moveva qualcosa. Una centrifuga. Mi stavo innamorando? O lo ero già?

Dopo un po’, Jason si staccò da me.

– Vedi perché è un sollievo che quel Nigel non sia il tuo ragazzo? Non avrei potuto baciarti. – ebbe la sfacciataggine di sorridere dopo una spiegazione del genere.

Ri-baciarmi. Mi devi comunque delle spiegazioni.

– Coraggio, devo portarti a casa, domani giornata piena!

Sembra così… felice.

Sorrisi a quel pensiero.

– Vieni. – mi porse la mano – Andiamo.

Presi la sua mano, un po’ titubante e ci avviammo.

– Allora, domani ti insegnerò tutte le cose da nota che devi sapere, dopo scuola.

Mi spiegò durante quasi tutto il tragitto cosa avremmo fatto l’indomani, ma ero troppo impegnata a non far sudare la mia mano. Che figura ci avrei fatto?
Durante tutto il tragitto Jason sembrava sereno, sorrideva fra sé e sé e mi balenò più volte nel cervello l’idea di domandargli il perché, ma per qualche motivo idiota non lo feci.

Cosa diavolo mi sta succedendo? Perché mi sento così… non lo so. La sua vicinanza mi sta intimidendo ma anche sollevando e rendendomi felice. Non mi ero mai sentita così. Nemmeno con Nigel.

Arrivammo davanti a casa Parrington.

– Ci vediamo domani, allora?

– S-si, a domani.

Jason mi abbracciò e quando ritornò sui suoi passi avvertii un brutto presentimento. Preferii non pensarci. Mi diressi canticchiando alla mia camera (come l’avessi trovata era un mistero). Mi addormentai quasi subito, con il sorriso sulle labbra.

Una bella giornata, dopo tanto. Pensavo di essere maledetta. Menomale.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Prometto di aiutare un fantasma ***


ddd

Quella notte, devo ammetterlo, dormii profondamente. Niente sogni di ragazzi indemoniati, maledizioni, disgrazie, ma solo un sonno lungo e rinfrescante. Mi svegliai con le prime luci dell’alba.

Zzzt… zzzt… fu il primo suono che udii. Mi rigirai nel letto, cercando di ritrovare una posizione umana e comoda, ma dato che il telefono continuava a zunzare con quell’invenzione diabolica chiamata vibrazione, fui costretta ad alzarmi.

Quattro chiamate perse, tre messaggi… Karol. Lessi il primo messaggio.

“Allora? Il figo? Come hai detto che si chiama? Jasper?”

Tipico messaggio karoliano. Vediamo il secondo.

“Allora mi vuoi rispondere? YUHUUUUUU dormigliona pesaculo?!?!?”

Terzo messaggio.

“Sai, mi sa di stronzo. Attenta, non fare nulla di avventato. Dici che c’è su Facebook? Twitter?”

Soffocai un risolino. Selezionai lo spazio per scrivere il testo del nuovo messaggio sullo schermino della conversazione del mio Blackberry e risposi ai suoi messaggi. Mentre scrivevo, parlavo.

– No ahahahah il fiigo si chiaaama Jaason – iniziai – non saapreeei se avrebbe il tempo di staare su Facebook e nemmeeeno su Twittah punto prooova a ceerda… – sbagliai a scrivere –  no, cercaaarlo due punti si chiaaama Jason Dale punto – mi strofinai gli occhi – cooomunque virgola buongiorno bellissima cuoricino ti devo raaccontaare delle cose faccina. Invia.

Una volta che ebbi inviato il messaggio visualizzai le chiamate. Nigel. Scrissi anche a lui un messaggio di risposta, ma senza parlare questa volta.

“Babbione, cosa mi chiami alle unici e mezza?! Io stavo dormendo!! Cuoricino.”

Mi strofinai ancora gli occhi e scostai le tende. Il sole era già sorto del tutto.

Buongiorno Londra!

Aprii le finestre del bovindo e notai che il tempo era peggiorato rispetto al giorno prima. Cavolo, era stato bello, ma non avevo avuto il tempo di ammirarlo. Richiusi le finestre. Accesi lo schermino del cellulare e guardai l’orario: le sei e tre. Non sapendo cosa fare, mi rinchiusi nel bagno: mi feci una doccia. Ne avevo proprio bisogno. mi asciugai i capelli canticchiando allegramente, ripensando ancora al giorno precedente e ai baci di Jason.

Questo pomeriggio… mi dovrà delle spiegazioni.

Lo pensai comunque con il sorriso sulle labbra, mentre mi ravvivavo i capelli e mi mettevo la divisa. Rovistai nella borsa alla ricerca del mascara waterproof perduto e mi imbattei nell’album di foto di famiglia. Mi salii un groppo alla gola. Masochista come ero, lo aprii.

Mutti… io ero la speranza dicevi, cantando yellow sub marine. Perché non mi hai mai detto il perché di quella canzone? Papà… i tuoi occhi erano tanto… aspetta.

Mi avvicinai alla foto.

Ambra? Quelli della mamma… anche? I miei genitori erano…

– Custodi?

Ma che…?

Sfogliai le foto dell’album e loro erano sempre lì, sorridenti. Alla festa della scuola, a carnevale, in spiaggia, nella neve… con gli occhi ambra. Chiusi l’album.

A mio rischio e pericolo, lo chiederò a Dalton, oggi, se lo vedrò. Devo sapere se i miei sono davvero morti in un incidente.

Trovato e messo il mascara waterproof  mi tirai su le calze, mi misi le scarpe, presi la cartella e mi avviai verso la sala da pranzo. Lì trovai seduta al tavolo Sophie. Lei mi posò gli occhi addosso e mi scrutò attentamente.

– Ciao. – la salutai

– Ti sei annodata male la cravatta. – disse semplicemente lei.

Okay che è la prima volta che parliamo ma… un ciao sarebbe gradito da queste parti.

– Oh, non me n’ero accorta, grazie.

Mi annodai la cravatta bene, avevo imparato osservando mio padre.

– Fatto.

Sophie fece spallucce.

– Così… sei in classe con me, vero?

– Semmai io sono in classe con te.

– Non è la stessa cosa…?

– No, tu sei arrivata dopo.

– Oh, logico, logico.

QUANTO MI DA’ SUI NERVI!!!

– No, quello è il posto di papà. – disse, quando feci per sedermi capotavola.

– Oh… dove posso mettermi?

– Oh, mettiti là, dove c’è il piatto rosa.

– D’accordo. – appoggiai la cartella alla gamba del tavolo e mi accomodai. Feci per allungare la mano ma lei mi fermò.

– NO! Si mangia insieme.

– Ahm… d’accordo.

Il mio sguardo si era posato sulle uova e sui biscotti, ma non potendo prenderli mi accomodai sulla sedia.

– Una dama siede in modo corretto, nipotina. – riconobbi la voce di zia Adrianne.

AOOOO PERO’ NON SI PUO’ FARE NIENTEEEEEEEE!!

Mi misi seduta nel modo corretto.

– Oh, così va molto meglio.

Mia zia si accomodò in fianco a me.

– Sophie, oggi stai meglio?

– Si, grazie mamma.

– Bene.

In quel momento sentii saltellare giù dalle scale qualcuno. Quando girò l’angolo riconobbi la figura: Iris.

– Annabell!

– Iris! Tutto a posto?

Mentre si avvicinava a me vidi i suoi occhi cambiare colore da un azzurro intenso a un marroncino dorato. Non ci feci caso, pensando che fosse un riflesso creato dalla luce.

– Mmh, diciamo di si, tu? Ho saputo che ieri a scuola sei stata poco bene!

– Eh già, ma ora sto meglio, grazie. – le sorrisi e lei ricambiò.

In un lampo, mi ricordai di quel momento in cui io e Nathan eravamo nel cubicolo del sottoscala, dove poi non si era capito se io ero svenuta o lui si era allontanato. Prima avevo sentito a voce di Iris con quella dello zio Parrington, che la rimproverava, dicendo che doveva stare con loro e non poteva tradire la sua famiglia. Iris si voleva unire ai Custodi? Ma perché non poteva?

– Buongiorno, famiglia.

Mio zio entrò nella sala da una porta dietro di me, con un sacchetto di una pasticceria in mano.

– Buongiorno, zio. – lo salutai. Lui mi sorrise, mentre andava a baciare sua moglie e le sue figlie. In quel momento arrivò anche Nathan di corsa con la cravatta slacciata al collo.

– Salve a tutti!

Posò gli sguardi su tutti ma quando arrivò su di me mi sembrò offeso. In ogni caso sorrise subito, per cui non me ne preoccupai più di tanto. Si sedette di fianco a me, di fronte a Sophie.

– D’accordo, ora ci siamo tutti, potete mangiare.

Io mi avventai sui biscotti. Dopodiché uova e pancetta. Bevvi del succo all’arancia, e quando ebbi finito, volli ringraziare gli zii.

Saranno anche misteriosi, ma sono stati gentili a prendermi con sé e ospitarmi in casa loro. Una parola gliela devo.

– Zio Parrington…

– Dimmi, Annabell.

– Volevo ringraziare te e la zia per avermi ospitato in casa vostra e che mi facciate frequentare una scuola prestigiosa. Siete molto gentili.

– Oh, cara è nostro dovere. – intervenne la zia

– Dopotutto tua madre era sempre mia sorella, no? – lo zio mi sorrise, poi guardò l’ora – Ragazzi, per voi sarebbe meglio andare a quest’ora, no?

Guardai lo schermo del mio cellulare, le sette e trenta.

– Si papà, hai ragione. – Nathan mandò giù l’ultimo pezzo della sua brioche e si alzò. – Cugina, non ti ho ancora presentato a tutti, ieri non ne ho avuto il tempo. – disse.

Bevvi le ultime gocce del mio succo. – Già, andiamo allora?

– Certo, – disse alzandosi – hai finito?

Mi alzai anche io. – Si, ho finito.

– Allora noi andiamo. Sophie, ci raggiungi?

– Io arrivo più tardi. – confermò lei.

– Allora arrivederci a tutti! – salutai la famiglia e uscii. Nathan fece la medesima cosa.

Passammo un po’ di tempo in silenzio, finché Nathan parlò.

– Ieri te la sei spassata, vero?

– Cosa intendi?

– Con Dale.

– Oh… cugino, mi sento in dovere di dirtelo. Credo di essermi innamorata di lui. – dissi, con voce sognante. Mio cugino si fermò.

– Che?

Mi girai – Che c’è?

– Di quel… Dale?! Come?

– Non lo so come! Ma mi sento bene quando sto con lui.

– Ah, mi stai dicendo che con me non ti senti a tuo agio, è così?

– Che ti prende all’improvviso, cugino? Anche prima a tavola sembravi offeso. Io ti considero come un fratello, infatti mi esprimo come se lo fossi, ma per Jason… boh, non ne sono sicura nemmeno io.

– Sai, lui non è mai stato un buon amico. E pensare che da piccoli ci vedevamo spesso. Non per distruggere i tuoi sogni da ragazzina innamorata cugina, ma ritengo che di lui non ci si possa fidare.

In un certo senso potrebbe avere ragione. Basta ricordare quando io e Dave eravamo nel giardino, o quando aveva picchiato Nathan. Però quando mi ha baciata o quando mi è venuto a prendere ad Amburgo sembrava così dolce…

– Potrebbe anche essere. Comunque, perché Sophie ci raggiunge dopo?

Nathan sembrò irritato dal mio cambiamento d’argomento, ma rispose lo stesso.

– Non l’ho mai saputo per certo, ma credo che parlino di cose superipersegretissime della quale a noi babbani non è concesso sapere.

– Dici sul serio?!

– Ma boh, che ne so perché viene dopo.

– Potevi dirmelo subito.

– Beh, ma è sempre bello prenderti in giro, cugina. – mi sorrise come se mi avesse fatto un complimento

– Aha, divertente. – dissi io con una smorfia. Lui mi mise un braccio intorno alle spalle

– Scherzo, cugina. È solo che mi preoccupo. Non vorrei mai vederti soffrire. Vederti piangere è… straziante. Ti ricordi quando eri chiusa nell’armadio e piangevi dicendomi che avevi visto i tuoi genitori vivi?

– Si… mi ricordo, ma… cosa c’entra?

– Non vorrei mai venire a scoprire che quel Dale ti faccia soffrire.

– Non lo farà, secondo me. Se mai lo farà gli tireremo tante di quelle botte che neanche se le immagina. – sorrisi

– Era quello che volevo sentire.

Nel frattempo arrivammo davanti alla scuola quindici minuti prima del suono della campanella. Nathan avrebbe avuto più tempo per presentarmi ai suoi amici.

– Ehilà, Nat!

– Ciao, Nat!!

– Come butta, Nat?

Tutti lo salutarono, ognuno in un modo diverso. Mi sentivo un po’ fuori luogo senza il mio quartetto, a dirla tutta, ma con mio cugino stavo bene comunque.

– Nathan! – l’ennesimo saluto.

Questo è il  ragazzo del mio sogno, come si chiamava? Aiman?

– Ehi, Adrian!

Ecco, appunto.

– Ieri non te l’ho presentata come si deve, ora le presentazioni. Adrian, ti presento mia cugina, Annabell.

– Chiamami pure Annie, senza problemi. – sorrisi, allungando la mano. Lui la strinse e il mio ciondolo si mise a brillare.

Amori sbagliati, inganni, tradimenti, paure, miseria, tristezza, male, schiavitù, debolezza, tormento! Erano le parole, più o meno, che accompagnavano la visione: una ragazza e un ragazzo, con pochi anni di differenza di età si tenevano per mano, felici. Dagli abiti era molto indietro nei secoli quella storia. I due litigavano. Lei baciava un altro e il primo ragazzo, dopo averla vista, si toglieva la vita. Lei andava da lui, non sapendo che la aveva vista con l’altro e lo trovava morto. Lo compiangeva. Con una luce verde cercava più volte di far rimarginare la ferita, ma non ci riusciva. Piangeva ancora. Una parte di lei morì con lui. Si faceva forza e con un ragazzo molto simile a Nathan sbaragliava un esercito compreso il ragazzo con cui aveva tradito il primo. La ragazza rimane sola per tutta la vita.

Sbattei le palpebre, confusa. Guardai Adrian con gli occhi sbarrati, e lui per un petosecondo fece la stessa cosa, o forse me l’ero immaginato. Gli lasciai la mano, spaventata.

– Cugina, che hai?

– Niente, tutto a posto, solo una fitta alla bocca dello stomaco. – mentii – A chi altro mi presenti?

Mio cugino mi presentò una valanga di gente. E non esagero. I loro nomi mi entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. Alcuni mi chiesero cosa mi interessava, altri se volevo far parte della loro band, (dovetti dire di no perché se ogni volta che cantavo sparivo in qualche epoca passata sarebbe stata la fine) altri dissero che erano figli di quel e nome dimenticato oppure altri si facevano fighi cercando di parlare in tedesco, pur avendo le ragazze accanto. Lasciamo stare le ramanzine, le imprecazioni e tutto quello che sentivo quando gli voltavo le spalle. La campana suonò.

Non ne potevo più. Tutti simpatici eh, per carità ma… basta c’è.

– La campanella. Ci vediamo cugina! – mi salutò Nathan e poi con il suo gruppetto entrò nell’istituto.

– Bell! Bell! – mi sentii chiamare da dietro. Riconobbi subito quella voce.

– Dave! Come stai?

– Io bene, è Hope che non si sente bene. Comunque, si riprenderà.

– Oh, mi dispiace.

– Tu tutto bene, vomitosa?

– Che schifo! Ah, adesso mi spieghi. Come abbiamo fatto a tornare a scuola in… due nanosecondi?

Lui si avvicinò al mio orecchio – Teletrasporto. – mi sussurrò

– Oh… sei un parente di Goku, per caso?

– Non quel teletrasporto un altro tipo, bel più complesso…

– Spero stia introducendo alla signorina Annabell Shakespeare, David.

Ecco l’entrata in scena di “mr. Mescoliamo tutti insieme”!

– Si, Mr. Shuffle, certamente.

– Bene, sarà meglio entrare. Su, su! Animo!

Entrambi ci guardammo e roteammo gli occhi in direzioni opposte, sorridendo. Entrammo in classe, dove naturalmente c’era anche la signorina-seduta-nel-modo-corretto, mia cugina Sophie. Non mi degnò nemmeno di uno sguardo.

Le ore con il professore di inglese Mr. Mescoliamo e Shakespeare passarono e mi ritrovai con la vescica improvvisamente piena.

– Mr. Shuffle, posso andare al bagno?

– Si certo Annabell. Dunque, ragazzi, continuando a parlare di Shakespeare…

Per i corridoi, miracolosamente trovai il bagno. Come feci? Non ne ho la minima idea. Successe però qualcosa che non so se dovesse divertirmi o terrorizzarmi. Vicino alla porta, una ragazza, con un lungo vestito azzurro a sbuffo, camminava per i corridoi, piangendo un certo Ludovic.

– Scusa, come mai sei vestita così? Ad Halloween non ci si veste in modo da far paura?

La ragazza corse via. La inseguii.

  Scusami! Non intendevo offenderti! Perché non sei in classe?

Non rispose.

– Avanti! Come ti chiami?

Lei si girò e mi guardò. Era come guardarmi allo specchio, solo in un vestito a sbuffo circa tre volte più grande di me e pallida. Una professoressa uscì dalla sua classe.

– Con chi sta parlando? –  mi chiese

– Io non… nessuno, stavo solo canticchiando, signora. –  sorrisi innocente. La professoressa fece spallucce e richiuse la porta.

  Sei invisibile? –  chiesi alla ragazza

  Non sono invisibile, sto cercando il mio Ludovic! Aiutami a trovarlo! Ti prego!

– Qual è il tuo nome?

  Io mi chiamo Loraine.

– Ehm… Loraine… sicura di non essere un po’… come dire… trapassata?

– Questa parte di me è morta con il mio amato Ludovic. Aiutami a ritrovarlo, ti prego!

– D’accordo, troveremo questo Luovic.

– Me lo prometti?

No, non osare… non provare a promettere niente ad una trapassata invisibile, no no non lo fare, non lo fare…

– Te lo prometto.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Jason, cosa mi hai fatto? ***


bb

Non avrei mai pensato di dirlo ma… un fantasma mi sta simpatico.

Loraine, la trapassata della mia scuola, doveva ritrovare il suo amato Ludovic, ma non sapeva da dove cominciare. Ovviamente le promisi che l’avrei aiutata.

– Com’è fatto Ludovic?

– È il giovane più bello di tutta Londra. – fece un sospiro innamorato

– Un po’ vaga come descrizione, non trovi?

– Oh, ma è un conte, lo conosci di sicuro! Il suo nome completo è Luovic Victor Joseph Farrely.

Ludovic va più che bene.

– Beh, il nome non mi dice niente, Loraine… – suonò la campanella dell’ultima ora – scusami, ora devo tornare in classe, se non ti dispiace puoi metterti vicino al mio armadietto ad aspettarmi, oggi cercheremo il tuo amato, seguimi!

– Ti porgo i miei ringraziamenti, ehm… come hai detto di chiamarti?

– Annabell.

– Oh, che bel suono… Annabell… suoni uno strumento?

Avevo accelerato il passo, ma lei mi seguiva tranquillamente – Si, beh, la musica ce l’ho nel sangue, ma il mio strumento preferito è il piano.

  Il piano? E che strumento sarebbe?

– Il pianoforte, non lo conosci?

  Oh, mi dispiace ma non ne ho mai sentito parlare, l’hai inventato tu?

– No, è stato inventato nel 1698…

– Ma mia cara ragazza, siamo nel 1521!!

Okay…

– Perdonami, riprenderemo la conversazione più tardi, rimani qui, mi raccomando!

  A più tardi, Annabell.

Ritornai in classe, scusando la prolungata assenza con un semplice “mi sono persa”. Entrò in classe la professoressa di scienze. Dopo essersi accorta dopo circa venti minuti che ero nuova si è presentata e ha iniziato a parlare subito della biosfera, ma io persi il filo dopo dieci secondi, così presi a pensare a Loraine.

Non sa dell’esistenza del pianoforte, dice di essere nel 1521… quanto tempo fa è morta? E come lo trovo io quel Ludovic se è morto nel 1500?! Io te l’avevo detto che non dovevi promettere niente! Aspetta, sto parlando da sola? Prima parlo con un fantasma nella mia scuola e ora parlo con il mio grillo parlante? Non ha senso, sto diventando pazza.

– Bell – disse Dave massaggiandosi le tempie – la potresti smettere, per favore? Tra un po’ mi scoppierà il cervello.

– Ah, vero, la storia dello scudo.

– SSSH LI’ IN FONDO! – squittì la professoressa

– Già, almeno impara come puoi evitare che “annusi” i tuoi pensieri con una barriera più grande. Graazie. – e riprese a cantare il suo motivetto sulla Ciamania.

Uuh Ciamania, me gusta la Ciamania! Uuh Ciamania me gusta la Ciamania.

Suonò finalmente la campanella di fine mattinata. Mi stiracchiai.

– Mmh, pensieri proibiti a ore dodici, fuori dalla scuola, qualcuno ti vuole stuprare.

– Eh?!

– Menomale che non senti! UUUUUH che sfacciato! Come può pensare queste cose?!?!

  Ehm, sì Dave. Scusa, devo andare.

– Aspettami, tanto vengo anche io!

– D’accordo, muoviti però.

Uscimmo dalla scuola e feci cenno a Loraine di seguirmi ovunque, avevo bisogno di spiegazioni, dovevo capire qualcosa della sua storia se volevo trovare Ludovic.

– L’hai trovato?

– Loraine, non saprei dove cercarlo… mi darai informazioni più dettagliate, d’accordo?

– Con chi parli?

– Oh, con Lora… – mi ricordai che era un fantasma – è una canzone! LORAAAAAAINEEE! Alla ricerca del suo luuuui, canta e sentiraaai, sentiraaai, il calore del tuo Ludovic sentiraaaai.

– Uau, che bella voce che hai!

– Ehm, grazie, Dave.

– Vorrei anche sentire quella di tuo cugino, non credo sia altrettanto melodiosa.

– Io credo di sì, dopotutto è anche lui una nota, no? Mi ha detto di aver vinto numerosi concorsi canori qui…

– Ah, è vero. Il primo lo vinse a sette anni.

– Come lo sai?

– Ho fatto le mie ricerche.

– Fantastico, allora lo sai meglio di me.

– Beh, allora Bell ci si vede domani!

– Ciao Dave! – lo salutai con un gesto della mano. Lui si allontanò cantando la mia improvvisata canzoncina su Loraine e il suo lui.

– Hai davvero una splendida voce. Sembra la mia, ma non è così potente.

– In che senso, scusa?

  La tua voce emette magia, credo. Non ne sono sicura, ma l’avverto. LUDOVIC!!

– Che cosa vorresti di… Jason?

– È lui! È proprio lui! Il mio Ludovic è tornato da me, lo sapevo!

– Quello non si chiama Ludovic, il suo nome è Jason.

– Ti dico che è lui, so riconoscere il mio amato. Eppure come si è conciato!

Ma quello è solo Jason… beh, solo. Mamma mia dovrebbe andare in giro sempre conciato in quel modo. Potrebbe anche evitare di sorridermi. No, non lo fare, non metterti la mano nei capelli… l’ha fatto! Non ci posso credere! Com’è bello!

– Cugina!

Sobbalzai. – Madò, sei scemo? Mi hai fatto prendere un colpo!

Nathan rise –  Beh, per lo meno ora sei ancora in questo mondo! – non appena spostò lo sguardo oltre di me e vide Jason vicino al cancello cambiò espressione. – Cosa ci fa lui qui?

Basta, sto sentendo troppi lui, non ne posso più!

– Conrad, cosa ci fai tu qui? – domandò Loraine a Nathan, che ovviamente non sentì.

Conrad?

– Cugino, non dovresti essere anche tu come me, ora? Perché nemmeno Ludovic è come me? – Loraine sembrava davvero triste.

– Loraine, ne parliamo dopo, ti posso spiega… – Nathan mi guardò male – LORAAAAAAINEEE! Alla ricerca del suo luuuui, la voce del destino udiraaaaaai, se nel tuo cuore, a fondo cercheraaaaaaaaai. – aggiunsi una strofa alla mia canzone non ancora scritta. Nathan fece spallucce.

– Ora vado da lui e lo spezzo in due.

– Cugino, è lui che ci deve insegnare a dominare i nostri poteri, mi dispiace, ma non appena sapremo le basi faremo da soli, okay?

– Non può insegnarceli Dalton?

– Ma se è proprio Dalton che ha incaricato Jason di insegnarci!

– Conrad… – Loraine sembrava veramente ferita, ora. – tu non puoi… vedermi… – si strofinò il naso con la manica del vestito. Stava per piangere, nello stesso modo in cui lo facevo io.

– Loraine… – mi avvicinai a lei – stai tranquilla, ritroveremo il tuo Ludovic, e rimarrai con lui per l’eternità, te l’ho promesso e ora te lo giuro. Hai sofferto per secoli la solitudine, sei così simile a me, non mi permetterò che tu soffra ancora.

Loraine scoppiò in lacrime come avrei fatto io, peccato che non potessi consolarla. Non so che cosa mi legava a lei, ma era forte. Avrei trovato Ludovic, a ogni costo.

– Gr… grazie Annabell… – disse lei, rimanendo al suo posto, tremando per il pianto.

– Su, vieni con noi… rimani con me. – le sorrisi, lei annuii, piangendo.

Solo in quel momento mi ricordai che ero in mezzo al cortile della scuola e c’erano delle persone che mi fissavano, compreso Nathan, ad occhi sbarrati.

– Cugina… con chi stai parlando?

– Ahm… con nessuno, pensavo! Ho parlato?

– Si, hai nominato una certa Loraine…

– Largo, largo! Non c’è niente da vedere qui! – Jason ruppe la folla, le ragazze si strofinarono gli occhi farfugliando ma è vero? o cose di questo genere.

– Annie, è meglio andare prima che ti credano davvero una pazza scatenata.

Loraine vide Jason così vicino e cercò di toccarlo, ma non ci riuscì e ricominciò a piangere. Mi si strinse il cuore. Lui provò invece a toccare me, ma Nathan mi si parò davanti.

– Non la toccare.

Eccoli, ricominciano.

– Ragazzi, non ci provate nemmeno. Andiamo, altrimenti mi incazzo.

– D’accordo. – Jason fece spallucce ma mi tese comunque la mano. Nathan gli tirò uno schiaffo sopra e mi mise un braccio sulle spalle, stringendomi. Io alzai gli occhi al cielo.

– Anche Conrad si comporta così con Ludovic… – disse Loraine – e io mi comportavo esattamente come te. – mi sorrise

Sorrisi anche io – LORAAAAAAINEEEE! Vieni con noi, alla ricerca del tuo luuui, lo troveremo insieeeeemeee. – le cantai. Sorrise di nuovo.

– Allora, Annie, pronta? – mi chiese Jason, ignorando lo sguardo di mio cugino.

– Andiamo. – dissi, dopo un profondo respiro.

 

Ci venne a prendere Dalton con un Suv. Ci portò alla Gran Loggia dove mangiai solo un panino al salame, e successivamente, Jason iniziò con le basi.

– Innanzitutto il potere principale di una nota è quello di viaggiare nei secoli attraverso degli speciali portali.

– Che io posso vedere.

– Esatto. Tu li puoi vedere, Annie, ma li puoi anche creare. Se li vedi è perché loro ti stanno chiamando, e ti porteranno nel secolo corrispondente alla nota che senti risuonare.

– Oh, capito. E perché Nathan non li può vedere?

– Per non dire scortesie dico che non lo so.

Nathan si alzò. – Cosa intendi dire?!

– Niente, niente.

– Conrad non può vedere i portali, ma li può percepire. Lui li percepiva e io li vedevo subito dopo. Eravamo proprio una bellissima squadra. – disse Loraine, seduta di fianco a me.

– Nathan li può percepire. – dissi io

– Annie? – dissero in coro

– Che c’è?

I due si guardarono e per una volta non volevano scannarsi. Fecero di no con la testa.

– Comunque, continuiamo. Per crearli devi visualizzare l’epoca in cui vuoi andare e cantare una nota medio-alta per l’andata e medio-grave per il ritorno.

– Ehm…

– Sei una musicista, dovresti sapere cosa intendo.

– Si beh, se fossi un po’ più esplicito…

– Do, Si, La e Sol per l’andata, con le rispettive alterazioni e Fa, Mi, Re e Do per il ritorno, sempre con le sue alterazioni. – mi spiegò Loraine. Fu decisamente meglio. – Anche io non capii subito, ero come te.

– Grazie – bisbigliai – sei un’amica.

– Io sarei maschio… – disse Jason

– Si, si quello che è. Posso provarci?

– Conta che ti costerà molte energie le prime volte, so che sei dura di comprendonio, andremo per gradi.

– Grazie per considerarmi un’incapace.

– Prego. – mi sorrise.

– Bastardo… – bisbigliai. – Allora… provo?

– E io cosa farò? – chiese mio cugino

– Tu ti dovrai allenare con la spada, equitazione, arti marziali… – blaterò Loraine

– Tu ti dovrai allenare con la spada, equitazione, arti marziali… – ripeté Jason.

– Fiu, menomale con la spada e le arti marziali me la cavo.

– Io ti posso dare una mano con i cavalli! – mi offrii io – Di solito gli piaccio.

– Tu per ora pensa ai portali, che se ci aggrediscono spariamo davanti a loro. – mi disse Nathan – Comunque, grazie per l’interesse, cugina.

– Di nulla! Chiedi pure eh?

– D’accordo. Dove trovo un fioretto?

– Giù nella palestra ti aspetta Gerard per la divisa e per l’allenamento.

– Cosa? E lasciare Annie con te da sola?!

Jason mi passò un braccio intorno alle spalle – Beh, sono io che le insegno, no?

– Verme! Pensavi a questo dall’inizio, vero?

– Mmh… sì e no.

– Le arti marziali mi saranno davvero utili. – ringhiò Nathan a denti stretti – Torcile un capello e sarai finito, Dale.

– Ooh, guardami, tremo tutto! – Jason fece finta di tremare e recitò la parte del ragazzino pauroso. Nathan uscì a pugni stretti.

– Mi sembra di rivedere la mia vita. – disse Loraine – Era identica, credimi.

– Che scocciatore. – disse Jason – Non ti vuole proprio lasciare andare, eh? – si avvicinò pericolosamente a me, ma io lo allontanai.

– Ricordati che sei qui per insegnarmi, non per baciarmi, capito?

Mi passò le dita al lato del mento, sotto la guancia – Vuoi dire che non ti farai baciare da me, oggi?

– No. – dissi, ma non ero sicura.

Io voglio farmi baciare da te, ora, stupido.

Jason sembrò rimandare la cosa. – Beh, allora fai ‘sto portale, settima.

– Ah ah, divertente.

Feci combaciare le dita della mano come se volessi meditare come Buddha, ma cercai in me la concentrazione.

Jason non è qui, Jason non è qui…

– Cerca di sentire il tuo potere. – disse lui.

– Zitto! Mi sto concentrando.

– Chiudi gli occhi. – mi disse Loraine – Cerca la musica che c’è in te, accresci il tuo potere.

Feci come Loraine mi diceva: cercai la musica nel mio cuore, nel mio sangue. Sentii la musica della mia anima, un suono di un pianoforte. La mia anima sembrava ingigantita. Vento. Respirai profondamente.

– Così… – dissero Loraine e Jason insieme.

Non devo perdere la concentrazione, non perdere la concentrazione…

– Ora intona un Si pulito. – mi suggerii Loraine.

Feci come mi disse. Sentii una fitta dolorosa alla bocca dello stomaco. Caddi in ginocchio, riaprendo gli occhi. Jason mi aveva presa al volo.

–Sei stata bravissima. Uau, sei davvero la nota più potente di questa generazione.

– E ora il bacio. – anticipò Loraine.  

Fu esattamente quello che successe. Jason mi baciò subito dopo.  Non so perché, ma mi sentivo in colpa, peccato che il mio cuore non la pensava allo stesso modo. Jason si staccò da me.

– Cosa mi stai facendo? – mi chiese Jason, con la voce colma di tenerezza.

Io gli diedi un bacio sul naso – No, la domanda corretta è: cosa mi hai fatto tu?

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Parola d'ordine: dimenticare ***


bbc

Imparare come fare quei maledetti portali fu difficile, ma non per il fatto di cercare la musica nell’anima e bla bla bla, quello ci riuscivo anche abbastanza bene. Il difficile era resistere a Jason. Cavolo, sarebbe stato molto più semplice se, ogni volta che le gambe mi cedevano e Jason mi afferrava al volo, non mi avesse categoricamente baciata. Non dico che mi dispiacesse, anzi, ma era per il fatto che Loraine ci osservava, e aveva detto che Jason somigliava al suo Ludovic. Era più un senso di colpa cavolo.
Tanto a Jason non gliene fregava niente, ogni volta mi riprendeva, sorrideva e mi baciava, lì tranquillo e sereno.

– Come fai? – continuava a ripetermi.

Alla fine, fatto sta che imparai a fare quei cosi. Jason mi stava dando l’ennesimo bacio che io ricambiavo con trasporto quando nella stanza entrò Nathan. Io percepii la sua presenza, e cercai di staccarmi da Jason (non troppo violentemente) sapendo come avrebbe reagito, ma lui non ne voleva sapere.

– Cosa… – ecco, la voce di Nathan – TU!

Jason si staccò da me e lo guardò inclinando leggermente la testa, sfidandolo. Io mi misi in mezzo a loro.

– Cugina, levati. – disse Nathan con uno sguardo assassino verso Jason e sbuffando dalle narici con una voce grave e tenebrosa.

– No! Non dovete picchiarvi ancora.

– Su, Annie, levati. – Jason fece il verso a mio cugino – Vediamo cosa ha imparato oggi questo pivello.

– Jason! – urlai – Non osare!

– Cugina, lasciami fare. Non ti toccherà più dopo oggi.

– Vedremo.

Andai vicino a Nathan e gli afferrai la maglia ma lui mi spinse via violentemente. Mi afferrò proprio la faccia e mi buttò di lato. Sbattei la testa.

Quanto sono bambini. AHI PERO’!

Jason si scrocchiava le dita con un sorrisetto di scherno sulla faccia, nemmeno minimamente preoccupato né per me, tantomeno per l’imminente scontro. Nathan invece sembrava indemoniato, posseduto. I suoi occhi brillavano come scorie radioattive, lampeggianti di rabbia.

– Trema, Dale.

– Guardami, sono una fogliolina! – disse tremando tutto, per finta ovviamente.

Nathan lanciò un urlo agghiacciante.

– Vai, esci dannazione! Non opporre resistenza ancora! – urlò Jason – Finirai schiacciato dentro sennò! – gli scappò un risolino.

Cosa?

 – MAI! –  tuonò una voce, decisamente non Nathan, ma proveniente dal suo corpo.

– Oho, eccoti, quanto tempo, eh?

– BASTARDO! – tuonò ancora. Questa sembrava una voce più da Nathan.

Nathan si avvicinò molto rapidamente a Jason e gli tirò un calcio, che lui schivò con molta facilità. Capii che stavano andando oltre alla faccenda del bacio. C’era qualcos’altro in ballo o forse qualcun altro. La presenza che c’era nel corpo di Nathan sparì insieme alla voce satanica e continuò solo a picchiare Jason e Jason a picchiare Nathan. Dopo qualche minuto vidi del sangue dalla testa di Nathan e dal lato della bocca di Jason. Evitai di pensare come  si erano ridotti in quel modo.

– Vi prego, smettetela! – urlò Loraine.

– BASTA! – urlai, ma questa volta non mi calcolarono. Jason con un calcio rotante buttò a terra Nathan, esausto.

– SMETTETELA! – un altro sforzo vano. Nathan si girò e tirò un calcio nello stomaco di Jason. Lui sputò a terra e poi ringhiò. Loraine si mise entrambe le mani sulla bocca, spaventata.

– La sconfitta brucia, Dale? – disse Nathan a denti stretti.

– Te la devo chiudere con il sangue quella cazzo di bocca, Parrington?

Oddio che schifo.

– VI PREGO, ADESSO BASTA! – urlai, urlai con tutta la forza che avevo in corpo. Volevo farli smettere, non potevano ridursi così male. Mi sentivo impotente, piccola di fronte a due ragazzi così combattivi e aggressivi. Loraine guardava la scena scioccata, ma come se l’avesse già vista. Preoccupata, per entrambi. Mi fece di no con la testa. Non afferrai il messaggio, ma, mentre entrambi si avventavano uno sull’altro da distanze uguali mi misi in mezzo a loro rivolta verso Nathan. Mi arrivò un potente pugno nello stomaco e da Jason un pugno della schiena. Dolore. Giuro di aver sentito qualche vertebra rompersi.

Sorrisi, con gli occhi lucidi, forse stavo iniziando a piangere per il dolore – Fi… finitela, tutti e due… – mormorai, mentre mi accasciavo a terra per il dolore.

 

Riaprii gli occhi. Ogni movimento mi costava una fatica immensa.

– Annabell. – questa era Loraine – te l’avevo detto di non farlo! Erano due pugni molto potenti!

– Ma tu come… fai a sapere in anticipo tutto, Loraine?

Udii delle voci provenienti da dietro una porta chiusa.

  È tutta colpa tua, cavolo!

Jason.

– COLPA MIA?! SEI TU CHE OGNI VOLTA CHE CI SONO IO LA BACI, LO SAI CHE MI DA’ AI NERVI, DALE!

Nathan.

– Cosa vuoi? Non posso nemmeno innamorarmi ora?

I-innamorarmi?

– Già, così andò la prima volta. – Loraine sospirò innamorata. La imitai.

– Innamorato? Tu? AHAHAHAHAH NON FARMI RIDERE! Non ci credo che tu ti sia innamorato di mia cugina.

– Perché non dovresti? È dura di comprendonio, volgare, ma poco dopo diventa dolce, sensibile ed estremamente bella.

Vidi Loraine che ripeteva con il labiale quelle parole, arrossendo. Io probabilmente dovevo avere più o meno la stessa espressione.

Quella sembrava una vera e propria dichiarazione d’amore… diceva sul serio o ho preso una botta in testa troppo forte?

Abbassai lo sguardo e vidi che ero in mutande con una benda che mi passava sulla pancia, la schiena e sul seno. Ecco perché mi sentivo nuda.

Menomale che non ho peli. Fiuu.

Entrò Nathan sbattendo la porta. – Ah, così la ami? Guarda come l’hai ridotta! –  mi indicò senza guardarmi – Ti sembra un atteggiamento da innamorato questo?

– Veramente quel destro era destinato al tuo stomaco, non alla sua spina dorsale. – si difese Jason – E comunque anche tu l’hai colpita!

– Si ma io… – mi guardò – CUGINA! – mi corse incontro e mi si sedette accanto – Va tutto bene?

– S-si… credo di essere ancora tutta d’un pezzo. Voi? – sorrisi a entrambi – Avete finito di litigare?

Jason fece spallucce. – Tregua.

– Già, tregua. – Nathan aprì le gambe e mi fece accomodare con la schiena sul suo petto. – Un po’ più comodo? – mi chiese, lisciandomi i capelli.

Mi appoggiai con tutto il peso su di lui – Si, grazie. –

Decisamente meglio.

Loraine cercava ancora di toccare Jason, ma senza risultato.

– Jason… – gli feci segno di avvicinarsi.

Lui mi prese la mano.

– Ehi, non sto per morire, tiè. – feci le corna con l’indice e il mignolo. – Vorrei solo dirti grazie, per avermi insegnato a fare quei cosi.

– Portali. – Jason abbozzò un sorriso. – Quando lo imparerai?

Nathan mi sollevò di peso e mi appoggiò al muro. – Scusami, cugina, ma altrimenti la tregua va a quel paese. – disse semplicemente, per poi lasciare la sala.

– Ma tu guarda, appoggia la cugina e se ne va.

– Ma che cos’ha?

– Non ne ho la più pallida idea. – si mise come era messo Nathan, appoggiato al muro. Mi fece accomodare come ero messa con Nathan.  Restò in silenzio per un po’, rimanemmo in quella posizione senza dire nulla.

– Sai, forse eri già sveglia e hai già sentito qualcosa…

– Riguardo cosa?

– Io e Parrington stavamo parlando, fuori dalla stanza prima, dietro la porta…

– Ho solo sentito un mormorio… – mentii. – Non vi sarete ancora picchiati, spero.

– No, no. – Jason rise divertito – Parlavamo del colpevole delle tue ferite.

– Oh, niente di grave, tranquillo. – Ruotai la testa all’indietro, sulla sua spalla – Sono d’acciaio io. – sorrisi.

Ma quando si decide a dichiarare questo stupido?

– Sai, ci ho pensato molto…

– Riguardo cosa?

– Mi lasci finire? Cavolo dovrei dirti quanto ti amo!

– Come?

– Credo di amarti, Annabell.

– Eh?

L’ha detto. L’ha detto. Perché il mio cervello è in stand-by ancora?

– Mi aspettavo una reazione diversa, ad essere sincero. Fatto sta che anche se ti conosco da pochissimo, se siamo insieme devo averti tra le braccia, sempre. Devo toccarti, baciarti…

– Non lo credo possibile. Non sono bella, non sono dolce e non sono femminile.

– Non lo sarai per qualcun altro. Forse per quel Nigel, – lo disse con un filo di disprezzo nella voce – ma per me sei bellissima, dolcissima e… molto misteriosa.

– Ah! Femminilissima non l’hai detto, vedi?

– Quello potrai migliorare, a me non mi importa. Sei simpatica, di buona compagnia. Per non parlare poi dei tuoi occhi. Cavolo, non li posso fissare a lungo senza baciarti subito dopo.

– Qui non sono l’unica con due occhi fighissimi.

– Dici i miei? Bah, non sono tutto ‘sto granché.

– Lo dici tu. Non ti sminuire così tanto. Sei un figo da paura, sei alto, hai due occhi stupendi, una pronuncia perfetta. Sai suonare qualche strumento?

– Sapevo suonare il piano, ma non di sicuro come te.

– Quando mai mi hai sentita suonare?

– Quando siamo venuti a prenderti ad Amburgo. Stavi suonando Mozart, credo.

– Era Bach, veramente. Mi stavo esercitando.

– Era un’esercitazione? Cavolo, non voglio sapere come suoni in pubblico.

– A dire la verità non ho mai suonato in pubblico.

– Come no?

– Mai. Suono per i miei amici a volte, ma mai per tanta gente.

– Suonerai per me, vero?

– Mmh… non credo.

– E perché? – La sua voce poteva essere comparata a quella di un bambino al quale la mamma ha vietato di  vedere i cartoni.

Non te lo meriteresti. – buttai di nuovo la testa sulla sua spalla.

– Sono un bambino cattivo?

– Si, lo sei eccome. Posso far apparire un piano?

– Certo che puoi.

– Mi insegni?

– Lo devi solo visualizzare. Questo vuol dire che suonerai per me?

– Se ti fai perdonare, sì.

Jason spostò lo sguardo dai miei occhi alle mie labbra. – Così dovrebbe bastare.

 Mi posò le labbra sulle mie. Io avevo gi chiuso gli occhi e spento il cervello prima che lo facesse. Prese a baciarmi, io avevo sempre quel senso di colpa nei confronti di Loraine, ma avevo il cervello spento, il cuore che mi batteva a mille e una centrifuga nello stomaco. Jason era davvero un mago in fatto di baci. Cavolo se ci sapeva fare. Al contrario di me, invece, che potevo essere paragonata a un cavallo che tira in su il labbro superiore. Osceno.

– Bene. – disse Jason staccandosi da me – Ora suoni per me?

– Pff, e va bene. – unii le falangette delle dita e visualizzai un pianoforte a coda. Sentii uno sbadabam! aprii gli occhi per lo spavento e vidi il mio pianoforte.

– Né? – sorrisi a Jason

– Bello. Sei stata molto brava. – mi accarezzò una guancia, si alzò e mi diede la gonna dell’uniforme scolastica. – Così non suoni in mutande.

– Già – me la misi in fretta e furia – grazie del pensiero.

– Prego.

Mi sedetti al piano. – Felice di rivederti, piccolo. –  tolsi uno straterello di polvere dalla tastiera facendo una piccola scaletta. Suonai le prime note di “Per Elisa” per testare se era accordato. Ancora accordato.

– Cosa vuoi che ti suoni?

– Una canzone anche cantata. Voglio sentire bene la tua voce. – mi sorrise.

– Mmh… piuttosto vaga come richiesta. – sorrisi. Schiacciai ripetutamente un tasto a caso sulla tastiera – Buy it,use it, break it, fix it, trash it, change it, melt, upgrade it. – presi un respiro per continuare ma Jason si accorse che lo prendevo in giro.

  Annie, me l’avevi promesso.

– Io ti ho detto che avrei cantato per te, non gradisci?

– Voglio sentirti cantare una bella canzone. Dai, ti prego!

  Ah, okay. Ma dopo dovrai farti perdonare.

  Hai capito, furbacchiona.

Gli feci la linguaccia. Sfogliai tra le mie playlist e trovai la canzone che cercava. O almeno, me lo auguravo. Mi schiarii la voce. Il primo accordo. She's just a girl, and she's on fire. intonai la prima frase come Alicia Keys, guardando Jason, che mi sorrise, così continuai Hotter than a fantasy, longer like a highway. – altro accordo. Sembrava più una versione acoustic che l’originale, ma continuai così fino al ritornello. – This girl is on fire – sforzai la mia voce e ripetei – this girl is on fire  – altra pausa – she's walking on fire. This girl is on fire. – e continuai per tutta la canzone. Staccai le mani dalla tastiera.

Un applauso.

– Cavolo, sei davvero una musicista.

– Beh, ho imparato prima a suonare che a parlare. Sai, mio padre… – mi venne un groppo alla gola pensando che non avremmo più fatto i quartetti a due mani. Mi sfregai il braccio sul naso e serrai le labbra.

– No, Annie, ssh… – Jason mi abbracciò, intuendo che stavo per piangere.

– Mi-mi ha insegnato lui a-a suonare. – mi sforzai.

Jason mi accarezzò i capelli. – Non metterti a piangere, non lo sopporto. Non voglio vederti triste.

Tirai su con il naso, mi staccai da lui e mi asciugai gli occhi.

– Va meglio?

– Si, grazie.

– Mi suoni ancora qualcosa?

– Io ho un’idea migliore. – dissi. – Avvicinati, c’è spazio per tutti e due. – Picchiettai sulla sedia.

– No, non ci provare. Sono anni che non suono più.

– Aha, non si scappa.

Jason fece di no con la testa e incrociò le braccia – Scordatelo.

Io gli feci gli occhi dolci.

– No, non guardarmi così!

– Tipregotipregotipreeeego! – implorai io.

Jason tirò su le mani in segno di resa. – Mi arrendo. – disse e si sedette i fianco a me, avvicinandosi come se volesse baciarmi, ma quando fu vicinissimo a me io lo fermai.

– Prima Pretty Woman.

– Ah! Ma questa la sapevo suonare! – mi spostò un po’ più in là sullo sgabello – Spazio al maestro! – tirò fuori la lingua e si accanì sulla povera tastiera.

– EHI! Non vorrai uccidere il mio piccolino!?

– Che ho fatto di male? Le note sono giuste no?

– Si, ma chi ti ha insegnato a suonare? – risi. Lui abbassò lo sguardo – Dai, guarda e impara.

Mi misi a suonare la colonna sonora di Pretty Woman – Vedi? Le dita devono essere leggere sulla tastiera, così se hai dei larghi salti di ottava sei facilitato, non trovi?

– Credo che hai ragione. Mi permetti? – Mi spostò e ricominciò a suonare, sempre picchiando il mio povero piano.

Mi alzai e gli misi le mani sulle sue – Vai lentamente. Devi sentire la melodia uscire dal cuore, passarti nelle braccia e uscire dalle dita. Condussi le sue mani sui tasti –  La senti?

– Più o meno. – ammise lui

 Beh, perlomeno sei sincero.

– A chi è che hai insegnato, a quel Nigel?

 Cosa c’entra Nigel, ora?

 Cosa c’è stato tra voi?

 Niente di importante. –  mentii

 Non mentire. So che ti ha fatto qualcosa.

 No, non mi ha fatto niente, anzi… –  tirai su col naso. Un'altra balla. Mi strofinai la manica sotto il naso. –  Non m-mi ha f-fatto niente… –  mi morsi il labbro inferiore.

 Annie… –  Jason si avvicinò a me, come se volesse abbracciarmi –  non volevo…

 Oh, certo, non volevi. E non volevi nemmeno picchiare mio cugino, giusto?

– Beh… Annie…

 Annie un cavolo! – mi alzai e andai verso il muro.

Perché sto piangendo? Perché ogni volta che qualcuno mi chiede cosa mi ha fatto Nigel io lo tratto male e scoppio in lacrime?

Jason tese il braccio verso di me, ma io lo scostai, cosa che anche oggi mi chiedo il perché.

– Stammi lontano! – gli urlai.

– Non posso farlo. Non riesco.

– E allora impara, dannazione!

– Annie, che ti succede?

– Perché mi chiedi in continuazione di Nigel?

– Non…

– Non lo sai? Ah, questa è bella!

Non è che non lo so… è più forte di me!

Io continuavo a guardare dritto verso di me.

– So che ti ha fatto qualcosa, scusa per… tutto. Mi perdoni?

Mi asciugai le lacrime. – Non voglio parlarne. Non lo so.

 È già qualcosa, no? – mi abbracciò da dietro.

Sentii di nuovo le lacrime. –  Non ti arrendi mai tu, eh?

 Con te? Puah, mai.

Quelle parole bastavano. Mi girai e lo abbracciai.

– Shh… va tutto bene, ci sono io.

– Menomale che ci sei. Scusami, Jason.

– Stai tranquilla, sfogati.

– Menomale che ho messo il mascara waterproof! – dissi, tra un singhiozzo e l’altro, riuscendo a ridere, persino.

Jason mi sollevò dal mento, mi asciugò le lacrime – Già, menomale che hai messo quel coso waterproof. Altrimenti sembreresti uno scoiattolo striato.

Sorrisi, senza dire niente.

– Posso baciarti? – mi chiese Jason.

Annuii. Spensi il cervello, e l’unica cosa che volevo in quel momento era Jason. Solo lui, la sua presenza mi bastava. Grazie a lui, sarei riuscita a dimenticare, a lasciare andare quei ricordi. Mentre mi baciava, una lacrima mi rigò il viso. Solo una.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** C’è qualcuno che aspetta una mia frase con ansia ***


HGKEFJLKJ

Correvo. Correvo senza sosta. Avevo il fiatone, ma le gambe non cedevano.
Scappavo. Scappavo da qualcuno, o da qualcosa.

­­– Scappa! Scappa, Annie! – urlava una voce.

– Chi è là? – urlavo, senza smettere di correre.

La voce non rispose.

Continuai a correre, correre, correre. Mi voltai indietro ma sentii un dolore lancinante che mi percorse in tutto il corpo, a partire dal petto, dal cuore. Mi girai e vidi Jason. Aveva conficcato un pugnale nel mio petto e aveva un sorriso malvagio sul volto, gli occhi colmi di rabbia.

Mi svegliai di soprassalto.

– Ehi, che hai? – eccolo lì, che mi sorrideva, con lo sguardo preoccupato, stringendomi più forte. Ero sempre tra le sue gambe, contro il suo petto, e lui stava appoggiato al muro, con entrambe le mani su di me.

– Mmmh… – mi massaggiai le tempie – ah, no, nulla, solo un brutto sogno.

Dovrei dirglielo?

– Menomale. – rivolse lo sguardo altrove.

– Posso… farti una domanda?

– E lo chiedi? – mi rivolse uno dei suoi sorrisi più belli.

– Tu… mi faresti mai del male?

Silenzio.

Jason sembrò rifletterci a fondo.

– Intendo proprio male fisico... – gli ricordai

– Oh, ma che idea ti sei fatta di me? – uscì da quella specie di trans e mi sorrise ancora.

– No, scusami…

– Tranquilla, piccola.

– Quindi non lo faresti?

Mi baciò la fronte – Certo che no. Non ti farei mai del male.

Perché non mi sento convinta?

Gli sorrisi. Quel sogno era assurdo. Ricordai che mi ero addormentata subito dopo la “lezione” al piano di Jason, stanca morta, tra le sue braccia, al sicuro.

– Quanto ho dormito? – chiesi.

– Tre ore almeno.

Davvero?

– Davvero, davvero. – mi accarezzò una guancia – A proposito…

– Che cosa?

– Io mi sono dichiarato, ma tu no. O almeno, non a parole, e non so se vale lo stesso.

– Cosa c’entra con… – scossi la testa. – Sei furbo, eh?

– Oh, beh, ce la metto tutta. – mi mandò un bacio.

Sbuffai.

– Ehi, questa dichiarazione quando arriva?

Cercai le parole che volevo dire, ma non ce n’era nessuna che bastava. Non c’erano parole per descrivere quello che provavo per lui. Era forte, come una calamita, ma fragile e in bilico come su un dirupo. Con lui ero me stessa come se lo conoscessi da sempre. Eppure c’era quel qualcosa…

In quel momento Nathan entrò nella stanza con una mano sugli occhi.

– Okay, cugina, non guardo sennò potrei avere degli istinti omicidi, per cui… andiamo, i miei genitori vogliono parlarci.

– D’accordo, io andrei. – sorrisi a Jason.

– Uff, non è giusto però. – incrociò le braccia.

– Dai su, non fare il bambino offeso, stavo davvero cercando le parole. – gli bisbigliai all’orecchio –  Le cercherò e poi ti dirò tutto, okay? Mi alzai e mi vestii.

Jason sospirò, offeso.

Mi riavvicinai al suo orecchio – Su, figone, smettila di fare l’offeso. Lo sai quanto posso amarti.

– No piccola, non lo so! Per questo che devi dirmelo!

– Ora vado. –  lo baciai sulla guancia. –  Ho paura dei miei zii.

– Allora? – sbuffò Nathan, sempre con gli occhi coperti.

– Pff, okay, per ora ti credo. – mi sorrise – Allora ciao!

– Ciao. – ricambiai con un cenno della mano e mi avviai verso mio cugino. Finché non fui completamente fuori dalla stanza, sentii gli occhi di Jason su di me, ma non mi voltai neanche una volta.

 

– MAMMA, PAPÀ! SIAMO A CASA! – urlò Nathan, arrivati a casa. Diede le chiavi a Mr. Mason che sparì dietro un angolo.

– Oh, eccovi. – zia Adrianne sorrise.

– Sempre puntualissimi, vero Nathan? – anche lo zio sorrise.

– Certamente papà. – disse Nathan, sorridendo al padre. – Cosa dovete dirci?

I miei zii si scambiarono uno sguardo carico di preoccupazione.

– Cucciolo mio, vogliamo che tu sia al sicuro. – iniziò la zia, prendendo la mano di Nathan con entrambe le sue. – In giro ci sono delle sette molto pericolose, e io… io… – lasciò in sospeso la frase.

– Tua madre ed io vogliamo che tu sia al sicuro. – concluse mio zio. – Londra è piena di cattive persone, tua madre è seriamente preoccupata.

Oh, sì certo. E noi non dovevamo nascere? Qui l’unica setta cattiva siete voi. A chi volete darla a bere?

Nathan sembrava crederci. Forse stava pensando ai Custodi.

Davvero può credere anche ad una sola parola degli zii? Perché indugia?

La zia si ricordò della mia presenza. – Annabell, anche tu devi stare molto attenta. Sei sotto la nostra protezione, è nostro dovere pensare a te come nostra figlia.

Come se io potessi crederci.

– Grazie mille zii. – dissi invece, cortese. – Starò molto attenta, ve lo prometto.

La zia sospirò – Oh, meno male.

Anche lo zio sembrò sollevato, ma la sua espressione diceva l’esatto contrario.

Mangiammo tutti insieme a tavola, serviti e riveriti dai “collaboratori” che giravano per casa. Sembravano migliaia. Il cibo era sempre squisito, ma per tutta la cena non aprii bocca.

Ci congedarono, ma Nathan rimase in camera mia un po’.

– Tu credi… che siano proprio i Custodi ad essere i cattivi, la setta di cui parlavano i miei? – mi chiese a un certo punto.

– Cugino! Come puoi dire una cosa del genere? La setta di sicuro sono loro, ma non sono cattivi.

– Le parole di mia madre mi hanno fatto ricredere. Sembrava davvero preoccupata…

– Nathan, mentre io ero svenuta qualche giorno fa, ho sentito le loro voci.

– Davvero? Aspetta, in che senso?

– Lo zio diceva: “Dobbiamo evitarlo, ad ogni costo!” e la zia: “Sssh, zitto, o si sveglierà!” poi di nuovo lo zio: “Lei non deve sapere niente, di tutto questo! E nemmeno Nathan! Non possiamo permettere di rovinare tutto! E’ andato tutto bene, fino ad ora, lei non sarebbe nemmeno dovuta nascere, così come Nathan!”

– Cugina, sicura che non era un sogno?

– CUGINO! Ero sveglissima, so quello che ho sentito. L’hai sentita anche tu la storia dei Custodi, no?

– A dire il vero non ci ho capito molto…

– Nemmeno io, per colpa di Jason. E perché poi vi siete picchiati, interrompendo la spiegazione del povero Dalton per la milionesima volta!

– Si, ora mi ricordo.

– Diceva che i cattivi della storia, quelli che le Note hanno sempre sconfitto sono gli Zaffiri, o Parrington.

– Ah, così sarei anche io un cattivo?

– No, se magari non facevi a botte con Jason, Dalton ci avrebbe spiegato il perché di quella faccenda, non ti ricordi?

Lui non disse nulla.

– Pensa quello che ti pare. Io mi fido dei miei genitori. – rispose dopo un po’.

– Ma cugino! – protestai, solo che lui era già fuori dalla mia stanza.

Perché? Perché non si fida dei Custodi? Domani tornerò da loro e gli chiederò di raccontarmi tutta la storia. Convincerò Nathan.

– Il vostro potere funziona solo se siete insieme e conviti di quello che state facendo fino in fondo all’anima.

– Loraine! Scusami, perdonami per oggi.

– Non fa niente. Sono abituata alla gente che non mi vede… – la sua voce era carica di sofferenza e solitudine.

– Cosa intendevi dire, prima?

– Che se Conrad non si fida dei Custodi come ti fidi tu, il vostro potere messo in comune non funzionerà.

Conrad uguale Nathan. Okay, ci sono.

– Dobbiamo metterlo in comune?

– Certo. Il tuo potere è grande, ma ti servirà l’intuito di Conrad se vorrete compiere davvero la missione che vi è stata affidata.

– Dobbiamo essere… intonati, forse?

– Esatto. Intonati è la parola più adatta.

Ma certo! Posso domandare a Loraine di raccontarmi la sua storia, dato che sembra uguale alla mia! Così capirò di chi fidarmi e come convincere Nathan a fidarsi dei Custodi!

– Loraine…

– Dimmi, Annabell.

– Potrei farti una domanda?

– Di che si tratta?

– Potresti… raccontarmi la tua storia?

– GIAMMAI! – tuonò Loraine – IL FUTURO NON PUO’ ESSERE RIVELATO! MAI AD UNA NOTA CONOSCERE IL FUTURO E’ CONSENTITO, LA PROFEZIA INDICA LO SPARTITO. DELLE NOTE LA SCALA INTONERANNO, E NELLE MANI SBAGLIATE L’AMORE CADER FARANNO! – detto ciò, con una voce decisamente spaventosa, due occhi ribollenti di rabbia e rossi come il fuoco, Loraine passò attraverso la porta e uscì dalla mia camera. Non ce la facevo più, chiusi gli occhi e mi addormentai prima ancora di toccare il cuscino.

 

Di-din!

Un messaggio. Presi il telefono e aprì la schermata.

Da: FIGONE BELLISSIMO

Mentre dormivi ho memorizzato il mio numero sul tuo cellulare e ho salvato il mio. Spero non ti arrabbi. Visto che bello il mio nome? AHAHHAHA so che mi avresti memorizzato allo stesso modo, per cui…
Spero di non averti disturbata, volevo solo dirti questo.
Ti amo.

P.S: Ho messo anche una foto al mio contatto, ti piace?
Jason.

– Idiota. – mormorai.

Guardai la foto che si era messo. Era una foto bellissima, lui che sorrideva.

Mi sto sciogliendo.

Aprii un nuovo messaggio e scrissi.

Ciao, FIGONE BELLISSIMO. Tranquillo non sono affatto arrabbiata per aver memorizzato il tuo numero sul MIO cellulare mentre dormivo, MA PERCHE’ MI HAI SVEGLIATO ADESSO, DANNAZIONE!
Vabbè, per questa volta ti perdono.
È bellissima. Dovresti evitare di essere così bello, sennò mi fai innamorare ancora di più. Ops.
Ti dico tutto domani, non pretendere anticipazioni.

Annie.

Lo inviai, così tornai a respirare. La sua foto era salvata tra le immagini. Quel bastardo. Mi persi nella contemplazione del suo sorriso contenuta nel mini schermo del mio blackberry.

Di-din!

Presi un respiro e lessi il messaggio.

Da: FIGONE BELLISSIMO

Oh, scusami.
Se evito io di essere bello, anche tu dovresti andare in giro con solo un sacco dell’immondizia addosso e un topo morto in testa. No, cancella, saresti comunque bellissima.
Attendo con ansia.

Risi. Jason era davvero dolce. Mi convinsi ulteriormente che il sogno di oggi era un’idiozia, e che non potevo dargli neanche un po’ di corda.

Aprii un'altra schermata.

Scemo non è vero, puzzerei alla grande!
Ora mi metti a me ansia, se non riesco a dormire per formulare una frase giuro che domani ti picchio.
Adesso, lasciami pensare in pace.
‘Notte.

Ritornai con la testa appoggiata al cuscino, girata da una parte con il telefono in mano. Fece un altro di-din! ma avevo già chiuso gli occhi e mi ero addormentata.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Se la voce ascolterai, e non la ignorerai, nelle parole la risposta troverai ***


blbl

– ANNIE SVEGLIATI!

Mi svegliai di soprassalto.

– Forza, alzati o farai tardi per la colazione!

Ci misi un po’ a identificare Iris come la mia sveglia.

– Oh, ciao, Iris.

– Alzati pigrona!

– Arrivo, dammi cinque minuti. – mi rigirai nel letto e qualcosa cadde per terra.

– Se non arrivi veniamo io e Nathan e ti buttiamo giù con la forza.

– Si, si okay. – dissi, ancora tutta assonnata. Iris tornò nella sua stanza e iniziai a cercare il telefono. – Dove l’ho messo? Oh, è caduto.

Lo tirai su e schiacciai un tasto a caso, ma non si accese. Perfetto, scarico.

No, ora devo alzarmi!

Sbadigliai e mi tirai su controvoglia. Avevo ancora gli occhi che mi si chiudevano ma ero abbastanza lucida. E poi ero abituata ad essere in ritardo. Ricordai che quando ero arrivata il maggiordomo dei Parrington aveva messo il caricabatterie in un cassetto…

Eccolo lì.

Mi diressi a tentoni verso il comodino e aprii il cassetto. Mentre prendevo il caricabatterie la mia mano inciampò su qualcos’altro. Misi in carica il telefono e vidi di cosa si trattava: l’album di foto di famiglia. Mi ero completamente dimenticata di averlo portato con me da Amburgo. In un lampo però, mi ricordai che avrei dovuto chiedere a Dalton se i miei erano davvero morti in un incidente stradale.

Aprirlo significa piantarello. Lo porterò via.

Lo misi nella cartella e mi vestii. Mi ravvivai feci una coda abbastanza disordinata, e mi misi il mascara waterproof, che in quel momento era il mio migliore amico.
Scesi le scale con la cartella su una spalla sola e trovai solo Nathan a tavola.

– Uh, Iris fa tanto la sveglia ma alla fine non è nemmeno a tavola… – mormorai, accennando un sorriso a mio cugino, che però rivolse lo sguardo altrove. Decisi così di salutarlo. – Ehm, ciao cugino.

– Ciao.

Questa freddezza non era da Nathan.

Che stia ancora ripensando alla discussione di ieri sera?

– Va tutto bene, cugino? – gli chiesi.

– Si, tutto bene, grazie.

Freddo. Freddo. Freddo. Ho i brividi.

Mi sedetti in fianco a lui. Che dovevo fare, quello era il mio posto.

Arrivò anche Sophie.

– Ciao. –  la salutai.

Lei mi rivolse appena un cenno.

Pff, smorfiosa.

Dopo di lei arrivò zia Adrianne. Lei invece mi baciò entrambe le guance, ma sembrava avesse pianto a lungo e che non volesse darlo a vedere. Nathan lo notò.

Fantastico, di male in peggio.

Arrivò anche Iris seguita dallo zio Parrington. Si sedette vicino a me.

– Fai tanto l’arzilla ma alla fine sono arrivata prima io.

Lei sembrava persa nei suoi pensieri ma quando mi guardò riuscii a vedere i suoi occhi diventare da azzurrissimi ad ambrati. Mi fece solo una linguaccia. Io la ricambiai.

Ma perché gli occhi di Iris cambiano colore?

Non ci diedi molto peso per la seconda volta, ma ora che ci penso avrei dovuto farlo. Parlammo durante tutta la colazione allegramente, ridendo e scherzando. Iris mi ricordava molto mia madre, e questa cosa un po’ mi faceva sorridere e un po’ intristire, ma non lo davo a vedere. Invece, Nathan non disse nulla, era perso nei suoi pensieri e nella sua colazione. Oh, certo, mi chiese cose tipo: “mi passi il burro?” oppure “mi passi il succo?” e questa cosa mi dava sui nervi.

– Ragazzi, voi non dovete andare a scuola? – chiese lo zio Parrington.

– Si. –  acconsentii.

– Oh, di già? –  disse Iris, triste.

– Quando torniamo a casa potrai rimanere nella mia camera quanto vuoi, fino a che non mi odierai talmente tanto da scappare. – le sorrisi.

– Non ti odierei mai, cascasse il mondo.

Già, Iris era come la sorella minore che avevo sempre desiderato.

– Andiamo, cugino?

Nathan si ficcò in bocca un pezzo di pane con burro e zucchero sopra. –  Arrivo Annabell.

Annabell? Okay, la cosa si fa enigmatica.

Prese la sua cartella e aprii la porta – Ciao, famiglia!

Baciai Iris sulla testa. – Ciao, cugina!

– Ciao, Annie!

Io e Nathan ci catapultammo fuori di casa.

– Iris è davvero la sorellina che non ho mai avuto, sai?

Lui continuava a camminare.

– Era buono il pane con burro e zucchero? Mi piacerebbe tanto provarlo…

Non rispose.

– CUGINO – gli urlai in tedesco – potresti almeno degnarmi di uno sguardo?

Lui si limitò a fermarsi e a voltarsi verso di me.

– Oh, alleluia! Ora mi dici che cos’hai?

– Niente, non ho niente.

– Non fare il finto tonto, so che hai qualcosa. Ne ho avuto la certezza a tavola, quando mi hai chiamato Annabell, invece che cugina.

– Cosa c’è di male? È il tuo nome, no?

– Ma tu non mi chiami mai così! Un conto era se mi avessi chiamato Annie, ma Annabell no! Nemmeno Jason mi…

– Ora non mettere in mezzo quello lì, per favore.

– D’accordo. – alzai le braccia in segno di resa – Ora mi dici cosa c’è che non va?

– Come te lo devo dire? Non c’è niente che non va, cugina. Ora va meglio?

– Mi prendi per il culo o cosa? Sono tua cugina, siamo due Note, ti capisco come nessun altro.

– Io non sono come te. – e detto questo si avviò con passo veloce e deciso verso la scuola, ormai di fronte a noi.

Io non sono come te.

Mi avviai anche io verso la scuola.

– BUONGIORNO BELL!

Poteva essere solo una persona.

– Oh, David smettila!

– Ma l’hai vista com’è saltata?

– Ciao Dave, ciao Hope.

– Annie, perdona l’idiota di mio fratello.

– Ehi, sorellina!

– Non chiamarmi sorellina. Siamo gemelli, solo che io sono nata qualche ora dopo.

Dave si rivolse a me – È la più piccola. – mi bisbigliò.

Sorrisi.

– La smetti?

– No, mai. – Dave fece la linguaccia e Hope alzò gli occhi al cielo. In quel momento vidi Nathan con Adrian e circondato da ragazze e ragazzi che rideva. Probabilmente stava raccontando qualcosa di divertente. Eppure, il suo sorriso mi era incredibilmente mancato. Mi correggo: mi manca.

Io non sono come te.

In quel momento suonò la campana di inizio lezione.

– Ciao, Hope, a dopo! – la salutai.

– Ciao sorellina! – la salutò Dave, accentuando l’ ina. Hope alzò gli occhi al cielo e mi salutò con un cenno della mano e ci precedette all’interno dell’edificio. Nel frattempo ero tornata a guardare Nathan, che non aveva smesso di sorridere. Dave mi mise un braccio intorno alle spalle.

– Cos’è successo? – mi bisbigliò.

– ‘Non sono come te’ mi ha detto.

Dave inarcò un sopracciglio. – Okay, useremo la mia tattica per parlarne. – mi fece l’occhiolino.

– Aaaah a proposito – abbassai la voce – mi spieghi come diavolo hai fatto?

Dave si incamminò sempre cingendomi con un braccio e fece spallucce – Teletrasporto. La cosa più semplice del mondo, ma te l’avevo già detto.

Davvero?

– Si, davvero. Rapido ed efficace, non trovi?

Annuii.

  Quindi, mi stai dicendo che sprecheresti quest’abilità per un mio racconto? – gli chiesi.

Sprecare, che brutta parola. Io non spreco, la uso per aiutare un’amica. – mi sorrise.

Io gli sorrisi di rimando. – Grazie. Allora al’intervallo?

– Si, ma ora la morte. ABBIAMO STORIA!

Risi – Scienze? È così terribile studiare i Romani?

– No, è la prof che è terrificante.

– Dave, hai paura?

– No, ma che dici?

– Hai paura, hai paura, hai paura! – canticchiai.

– Voglio vedere quando la vedrai o ti interrogherà o…

– Dave, stai tremando?

– Si, problemi?

– No, nessuno.

– Meglio per te, Ciamania.

Gli sorrisi. – Dai, andiamo a fare storia.

 

– SIETE IN RITARDO!

Si, è davvero terrificante.

– METTETEVI SUBITO AI VOSTRI POSTI! – ci urlò. Io e Dave corremmo in fondo alla classe e ci sedemmo ai nostri posti.

– Te l’avevo detto io…

– SILENZIO! – urlò di nuovo con una voce stridula. – Aspetta, tu chi sei? – disse rivolgendosi a me.

– M-mi chiamo Annabell Davis, sono nuova.

– Bene, Davis, ti avranno detto come esigo che ci si comporti, vero? – feci per aprire la bocca ma lei mi zittì subito. – Io sono Mrs. Finley, ora stai attenta, potrei chiedere qualcosa anche a te.

Annuii e la prof iniziò a spiegare la sua lezione. Fu un incubo, una strage. Ogni persona in quella classe aveva lo sguardo terrorizzato.

Finita la sua ora, avevamo un’ora di tedesco.

Tedesco? Mi prende in giro?

La prof entrò nell’aula salutandoci in tedesco. Quando gli chiesi come stava lei e rimase evidentemente sorpresa, ma mi rispose comunque. Iniziò a spiegare un argomento di grammatica, il passato.

  C’è qualcuno che può intuire come può essere la struttura? –  chiese, ovviamente in tedesco.

Io alzai la mano e le dissi tutto mentre alcuni ragazzi dovevano ancora capire la domanda. Allora la prof si rivolse solo a me.

– Sei tedesca?

– Sono bilingue. Vivevo ad Amburgo, ma mia madre mi ha sempre insegnato l’inglese, come se fossi madrelingua.

– Fantastico. Non ero stata informata di questo. Ti terrò d’occhio, potresti essermi utile.

– D’accordo.

Oltre ad odiare di apparire debole, odio stare al centro dell’attenzione. Tutti i ragazzi e ragazze mi fissavano.

Fantastico, ora penseranno “è arrivata la secchiona, la favorita della prof.”

Passò quindi un'altra ora nella quale evitai di parlare, ma la professoressa, Mrs. Schule, continuava ad interpellarmi. Arrivò l’ora dell’intervallo.

– Vieni, Bell, so io un posto. – mi informò Dave. Mi condusse in un’aula fredda e buia.

Congelo.

Dave si sedette sulla cattedra, dopo aver acceso la luce. – Allora, dimmi tutto.

Iniziai il mio racconto dalla sera prima, gli raccontai di quello che avevano detto gli zii sulla setta, di come aveva reagito Nathan e di come non si fidasse più dei Custodi, di come era uscito spazientito dalla mia stanza e di come mi aveva allegramente ignorato durante tutta la mattina.

– Uau, che bel casino! – fu l’unico commento di Dave.

– Già… cosa pensi che debba fare?

– So com’è Nathan. Quando ha in testa qualcosa non da’ retta a nessuno.

– Fantastico! – mi sedetti di fianco a lui. Sbuffai.

– A che pensi?

– Se Nathan non si fida più dei Custodi è finita.

– Già, non sarete mai pronti. E di conseguenza non potremo vincere la Guerra.

– Oh, Nathan. – mi misi la testa fra le mani.

Se la voce ascolterai, e non la ignorerai, nelle parole la risposta troverai.

Fitta alla bocca dello stomaco.

Cos’è questa... canzone?

Un’altra fitta.

– Bell, va tutto bene?

– No, per niente!

Mi girava la testa. Avevo le vertigini.

Cosa mi succede? Qual è la voce che devo ascoltare?

– Che cos’hai? – mi chiese Dave, preoccupato.

– Fitte alla bocca dello stomaco, vertigini… sai di cosa si tratta?

– No…

Però io sapevo di cosa si trattava.

– AH!

Dopo le fitte, mi sentii strattonata, prima da una parte e poi dall’altra. Udii una nota in sottofondo: un si. Era successo di nuovo. Avevo di nuovo fatto un salto nel tempo.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Rimedio un ragazzo ***


hh

Ti prego niente acqua, ti prego, ti prego…

Atterrai in un giardino. Il sole era alto nel cielo.

Grazie.

Mi guardai intorno ma non c’era nessuno. Sentii un lieve mormorio, ascoltando meglio. Sì, erano due voci, una rideva.

Questa risata mi è familiare.

Mi resi conto di essere a Hyde Park. Le voci provenivano da dietro l’albero a cui ero appoggiata. Erano una ragazza e… un ragazzo. Non potevo sporgermi a guardare, così rimasi ad ascoltare. Evidentemente quei due ragazzi stavano insieme. Lei rideva timidamente, e mi ricordava qualcuno. Anche la voce del ragazzo mi era familiare.

– Allora, ho imparato che con te non devo fare tante cose. – disse il ragazzo.

– Non è vero – rispondeva lei, – c’è ancora qualcosa che puoi fare.

– Che Nota furba.

E fu allora che capii.

Siamo io e Jason…? Ancora?

Ci fu qualche minuto di silenzio nel quale probabilmente Jason baciò l’altra Annie. Io strisciai seduta contro l’albero, sorridendo.

– Sa che dovrebbe darmi del lei o addirittura del voi, Ludovic?

Ludovic.

– Certo, Mrs. Loraine. Ma non si dimentichi che sono lo stesso un conte.

Loraine. Quelli non siamo io e Jason. Sono Ludovic e Loraine. Quanto indietro nel tempo sono andata? Siamo nel 1500?

– Ma io sono più importante di lei.

– Per me, lei è più importante della mia stessa vita. Senza di lei, anche se fosse una vita ricca, spensierata, non avrebbe senso.

– Ludovic… – un altro istante di silenzio.

Perché mi sento così… strana? Sono un’intrusa, non dovrei essere qui.

– Si sbaglia. – ricominciò Loraine. – È la mia vita che non avrebbe senso senza di lei. Ho paura che un giorno possa dirmi addio, che non mi rivolga più la parola per giorni, come Conrad.

Come… Conrad?

– Conrad è uno stolto. Non capisce cosa è importante. Io invece sì. L’avete letta la mia lettera?

– No… l’ho dimenticata.

– Quando tornate dove l’avete lasciata, rispondetemi. È molto importante.

– Cosa c’è di così importante?

– Lo scoprirà.

Sentii di nuovo quell’insopportabile sensazione di vertigine e mi sentii strattonata in aria. Sentii un si bemolle, una nota triste.

Ah, tornare indietro era chiedere troppo?

Atterrai con la faccia contro il pavimento in una posizione abbastanza indecente. Questa volta ero in una stanza abbastanza luminosa. E che stanza. Sentii un rumore di passi. Si avvicinavano velocemente.

Mi nascosi dietro una tenda, ma era talmente poco spessa che mi avrebbero visto, ma poco importava, la persona ormai era entrata. Era elegante e… Jason. Aveva i capelli castano chiaro spettinati ma gli occhi erano i suoi. Avevano solo una differenza: erano rossi e colmi di lacrime. Non singhiozzava, ma le lacrime gli scorrevano lungo le guance. Era di profilo e non cercava minimamente di asciugarsi le lacrime, che cadevano sul pavimento.

– Come ha potuto farci questo… – sembrava mormorare tra le lacrime. L’istinto di andarlo a consolare, asciugargli le lacrime e baciarlo era fortissimo, ma dentro sapevo che non potevo farlo. Vederlo piangere senza poter fare nulla mi sbriciolava il cuore e in pochi secondi iniziai a piangere anche io. Dovetti fare ricorso a tutto il mio autocontrollo per evitare di singhiozzare. Mi strofinai la manica della divisa sotto il naso e feci un respiro profondo.
Ludovic continuava a fare no con la testa, e il peggio arrivò quando iniziò a singhiozzare.

– Lei non capisce cosa ha fatto.

Parla di Loraine?

– E io che le dissi anche che senza di lei non potevo vivere… sono stato uno stupido.

Non sei stupido, sei un ragazzo meraviglioso, hai mille qualità, sei gentile, dolce, e bello, sei il ragazzo che ogni ragazza vorrebbe al suo fianco, non dire così. Sei il ragazzo che mi fa sentire meglio al mondo, mi fai sentire speciale, diversa, tua. Tu mi hai fatto scoprire cos’è l’amore. Smetti di piangere, ti prego.

Mentre pensavo tutte quelle cose che provavo per Jason e che non avevo mai realizzato pienamente, le lacrime mi offuscavano la vista ma capii cosa stava facendo. Stava cercando qualcosa in un cassetto. Prese una piuma e scrisse su un foglio. Il suo volto addolorato e bagnato dalle lacrime era l’ultima cosa che avrei voluto vedere. Qualche lacrima cadde sul foglio.

– Non potrò guardarla negli occhi un’ultima volta. È l’unica cosa che ormai mi rimane da fare. Non posso vivere senza di lei.

Tirò fuori un coltello.

No. Ludovic, cosa stai facendo? Cosa vuoi fare?

Fece un respiro profondo, le lacrime gli continuavano a bagnare il viso. Singhiozzava. Impugnò saldamente il coltello con entrambe le mani. Un altro profondo respiro.

– Addio, Loraine.

Cosa… NO!

Con un gesto deciso si conficcò il coltello nel petto. Nel cuore.

– NO! – urlai, non riuscendomi a trattenere.

Ludovic crollò al suolo, la macchia di sangue gli sporcò gli abiti e si allargò sempre di più. Uscii dal mio ‘nascondiglio’ e mi accovacciai su di lui, piangendo e sporcandomi di sangue le mani e l’uniforme scolastica. Ignorai il fatto che fosse Ludovic e non Jason, erano identici. Appoggiai la guancia alla ferita, probabilmente sporcandomi anche lì di sangue.

– Perché…

Sentii un urlo e vidi una me stessa vestita con un abito azzurro meraviglioso sulla porta. Loraine. La visione durò poco perche sentii ancora una fitta alla bocca dello stomaco e la sensazione di vertigine e mi ritrovai nella stanza da dove ero saltata nel tempo, solo con una piccola differenza: la classe era piena di alunni che mi guardavano sbalorditi.
Avevo la coda messa peggio di prima, gli occhi rossi pronti a versare lacrime di nuovo e le guance rigate di lacrime. Dimenticavo, anche la faccia sporca di sangue così come le mani e la divisa. Una ragazza nella classe urlò, una svenne e io scappai via di corsa verso il bagno.

Non voglio sapere cosa stanno pensando di me in questo momento. Non voglio vedere nessuno. Ho appena visto il ragazzo che amo conficcarsi un coltello nel petto e morire sotto i miei occhi. Non ho fatto nulla. Non l’ho fermato. Ho il suo sangue addosso.

 

– So cos’hai visto.

Loraine.

– Perché?! – urlai. – Perché ho dovuto vederlo?!

– Per evitare che si ripeta. E’ una maledizione.

– Maledizione?

Ma Loraine era già sparita.

 

Mi svegliai nel bagno della scuola.

È stato tutto un sogno…?

Mi guardai le mani e capii che non era stato un sogno. Ero confusa sulla parte di Loraine. Quello doveva essere un sogno.

– Bell! Bell!

Dave entrò nel mio campo visivo.

– Perché sei spiaccicata contro il muro del bagno delle ragazze? Perché sei sporca di sangue?

Mi strinsi nelle spalle e ricominciai a piangere.

– No… Bell… non fare così…

Tirai su con il naso.

– È tutta colpa mia… solo mia! Non l’ho fermato, capisci?

– Bell. Le lezioni sono finite, devi uscire dalla scuola.

– Non voglio farlo! Mi hanno visto, conciata così.

– Tornata dal salto?

– Nella classe dove sono saltata. C’era gente. Una ragazza è svenuta.

– Be’, dovresti vedere come sei conciata!

– Non ci tengo, grazie.

– Dai, non c’è più nessuno in giro, vieni. – mi tese la mano.

Nessuno. Nathan è andato via senza di me.

Presi la sua mano e mi tirai su.

– Tieni, il tuo zaino. – me lo porse. Io gli sorrisi.

– Grazie.

Uscimmo dal bagno ma fuori trovammo Nathan che ci fissava. Nel suo sguardo non c’era emozione, nemmeno un po’ di compassione per la cugina sporca di sangue e con il viso inondato di lacrime.

– Io non vengo. – disse semplicemente. Girò i tacchi e se ne andò.

Basta sofferenza per oggi, vi prego.

– Non viene dove?

Stavo per rispondergli ma sentii qualcosa che attirò la mia attenzione.

– Valla a prendere, è sporca di sangue e piange. Io me ne vado.

Sentii le lacrime che rincominciavano a scorrermi lungo le guance e caddi in ginocchio.

– No, Bell, non ancora, ti prego!

– Cosa… ANNIE! – questa voce poteva essere solo di una persona. Volsi lo sguardo all’insù e lo vidi. Jason, vivo e vegeto. Lo guardai con una faccia triste e lacrimando, non riuscendo a fare altrimenti.

Jason si rivolse a Dave. – Cosa le è successo?

– Non lo so, l’ho trovata nel bagno della scuola già ridotta così!

– E perché è coperta di sangue? – Jason mi prese per il polso e guardò se avevo tagli, ma rimase abbastanza scioccato dalle mie mani.

– Secondo te mi taglio? – riuscii a dire, con un mezzo sorriso.

– Annie! – Jason appoggiò un ginocchio a terra e mi passò un pollice sotto l’occhio destro. – Cosa ti è successo?

– Tu sei vivo…

– Certo che sono vivo, Annie. Perché non dovrei?

Non sei stupido, sei un ragazzo meraviglioso, hai mille qualità, sei gentile, dolce, e bello, sei il ragazzo che ogni ragazza vorrebbe al suo fianco. Sei il ragazzo che mi fa sentire meglio al mondo, mi fai sentire speciale, diversa, tua. Tu mi hai fatto scoprire cos’è l’amore. – gli dissi, tutto d’un fiato, sempre lacrimando.

Potevo anche sbagliarmi, ma vidi i suoi occhi diventare lucidi.

– Volevo che tu lo sapessi.

Lui mi accarezzò la guancia. – Non mi aspettavo piangessi, piccola. Mi hai colto di sorpresa… non so cosa dire.

– Non dire niente allora. – le lacrime non volevano fermarsi.

Lui mi guardò per un tempo indecifrabile, poi mi baciò. Era vivo, davvero. Probabilmente una lacrima gli toccò una guancia così si staccò si alzò e mi porse la mano.

– Andiamo a darci una ripulita. – mi sorrise.

– Sono conciata così male?

– Per me lo sai che sei comunque bellissima, ma non puoi andare in giro così. Andiamo in macchina, ti do una sistemata. – sorrise.

Io gli sorrisi di rimando. – Ma va, sarò una schifezza ambulante.

Lui sbuffò. – Sei solo coperta di sangue, spettinata, con il volto allagato. Ma sei comunque una meraviglia. La mia.

Sorrisi. –  Tu non puoi dirmi queste cose, però.

 Be’, in effetti posso.

Lo guardai dal basso verso l’alto.

 Alzati, dai.

Allungai una mano e lui mi tirò su con uno strattone e mi strinse a sé. Prese la mia cartella senza mollare la mia mano e ci avviammo verso l’uscita.

 Di chi è tutto questo sangue?

Una cosa è certa: non posso dirgli di aver visto un ragazzo che gli somiglia tantissimo in un salto nel tempo che si è suicidato più di cinque secoli fa.

 Voglio la verità, Annie.

Piano andato in fumo. Fantastico.

 Ho fatto un salto nel tempo.

 Non hai usato il metodo che ti ho insegnato per tornare subito indietro?

 Ah… si può usare anche per i salti incontrollati?

 Soprattutto per i salti incontrollati. Annie, sei un disastro.

 Grazie per avermelo ricordato.

 Prego.

 Va be’, allora non ti dico di chi è il sangue.

 No, dai dimmelo!

 Pff, è di un ragazzo che ti somiglia tantissimo del passato, vissuto più di cinque secoli fa, si è ficcato un coltello nel petto sotto i miei occhi. Gli sono andata subito vicino e gli ho toccato la ferita per cercare i fermare l’emorragia, poi mi sono appoggiata su lui, per quello che ho il suo sangue addosso… –   Avevo rincominciato a piangere, ripensando alla visione di Ludovic, così simile a Jason, in quella pozza di sangue.

Jason sembrava perso nei suoi pensieri durante tutto il viaggio nella macchina di Dalton, anche se quando si accorgeva che lo guardavo mi sorrideva. Arrivammo a destinazione. Ci mettemmo nella sala del piano del giorno prima e Jason mi mise a posto la coda, fatta decisamente meglio di come l’avrei fatta io. Dalton mi portò dei vestiti puliti, un paio di jeans e una maglia verde con il numero sette dietro. Le scarpe erano delle vans bianche che mi andavano perfettamente. Andai verso Jason.

 Si, eri davvero messa male, ma così… – fischiò – te l’ho già detto che sei bellissima?

Sorrisi – Solo qualche milione di volte.

M-mh, non basta.

Jason lo sai che non lo sono.

Ma vuoi proprio andartene in quel posto?

Che posto? –  mi avvicinai pericolosamente a lui.

Qui! – Jason mi tirò con la schiena contro di sé e mi strinse. Non c’era posto più sicuro delle sue forti braccia.

Sai – dissi tampinandogli il muscolo – mi sono innamorata delle tue braccia.

AH! È così, allora?

M.mh può essere.

E io di te. Tutta tutta.

Gli diedi uno schiaffettino sulla guancia. – Ma anche io tutto tutto. È solo che ho un debole per le tue braccia.

Sono bellissime, lo so. Le ragazze le adorano.

Come scusa?

Uhm, niente.

Come niente? Quante ragazze ti cadono ai piedi a giorno?

Iniziò a contare poi fece spallucce. – Tutte. – sorrise – È bello sapere che sei gelosa, piccola.

– Non sono gelosa.

– Lo sei.

– Non è vero!

– Cosa c’è di male? È un bene.

– Certo, lo faccio io con gli altri ragazzi tu cosa fai?

Ci pensò su – Li sfascio.

– Ma stavo scherzando! Chi mi si fila a me?

– Scusa se sei bellissima.

– Ma va.

– Lo sei.

Sbuffai. – Come vuoi, io faccio un po’ di allenamento. – feci per incamminarmi ma lui mi tenne stretta.

– Aspetta. – mi disse

– Che c’è?

Mi girò verso di sé e mi baciò senza pensarci due volte. – Ora puoi andare. Anzi no. Hai letto il mio messaggio?

– Tutti tranne l’ultimo, ho lasciato il telefono a casa in carica.

Lui farfugliò qualcosa. – Vallo a leggere, a casa, è importante.

Mi ricorda la frase di Ludovic a Hyde Park.

– D’accordo però… mannaggia a te e la tua splendida faccia.

Sorrise e mi strinse ancora di più. – Io ti ho fatto una foto mentre dormivi tra le mie bellissime braccia.

– Come prego?

– Sei così bella, anche quando dormi.

– Quante volte me lo devi dire ancora?

– Finché sarai la mia ragazza.

– Ah, sono la tua ragazza?

– Per chi mi hai preso? Ti amo uguale sei la mia ragazza, pensavo l’avessi capito da sola.

– Nuova lezione: mai dare per scontato nulla con Annabell Davis.

– Voglio impararle tutte queste lezioni. Sottolineo mia nel mio discorso di prima.

Strofinai il mio naso conto il suo. – Tua.

– Okay ora puoi andare a fare i cosi colorati.

– Portali. – lo corressi.

– Vedi che impari?

– Con te come insegnante è sicuro.

Mi tolsi dalla sua presa e mi diressi al centro della sala dove feci allenamento con i portali per un po’ .

Alla fine ho rimediato un ragazzo.

 

Jo’s notes:
Vi rubo pochi secondi… volevo avvisarvi del cambiamento del capitolo precedente perché mi sono accorta delle ripetizioni della prof di scienze, del teletrasporto e dell’album di foto. jefehkwhdjas.
Ringrazio le persone che stanno seguendo questa storia dall’inizio, ma anche le altre che leggono in generale. Grazie. khfkjdk *u*

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** La facenda si complica ***


bb

Però, sto diventando brava.

Stavo facendo l’ennesimo portale intonando un La. Ormai non avevo nemmeno più bisogno di chiudere gli occhi o di non pensare a nulla. Non avevo più persino bisogno di cantare!

– Stai diventando davvero brava, piccola.

– Grazie, ci stavo pensando anche io.

– Allora adesso viene il passo successivo.

– Ossia? – inarcai un sopracciglio.                                                          

– Lanciarci dentro e andare a comprare il pane nel secolo scorso. – sorrise.

– Perché dovresti… ti vuoi imboscare? Furbacchione che non sei altro! – mi avvicinai a lui.

Rise. – Ma che razza di ragionamenti fai? Be’, ora che ci penso non sarebbe una cattiva idea. – sorrise malizioso cingendomi la vita con un braccio.

Gli misi le braccia intorno al collo. – Vedi?

Sorrise. – Comunque, servirebbe ad imparare a fare i portali per il ritorno.

– È vero, non li so fare.

Si avvicinò al mio orecchio. – E poi potremo imboscarci, non si sa mai. – mi bisbigliò.

– Alla fine ci vuoi arrivare però. – gli bisbigliai di rimando.

– Ovvio.

– Allora? – battei una volta le mani e le strofinai tra di loro, scostandomi dalla presa di Jason. – Quando partiamo?

– In teoria dovremmo avere dei vestiti adatti, ma… ci penseremo la prossima volta. Pronto quando lo sei tu, piccola.

– Allora andiamo. – dissi. – Sol. – lo dissi senza nemmeno cantare. Un portale verde, ambrato e rosso si materializzò davanti ai nostri occhi. 

Jason si avvicinò al portale e mi tese la mano. – Dopo di lei, milady.

Ridendo, presi la sua mano. – Ti aspetto di là.

 

Dentro il portale non era come fare i viaggi incontrollati. Era piacevole come fare un bagno nell’acido. Sembrava mi si stesse sciogliendo una spalla, con un dolore lancinante. Soffocai un grido conficcando gli incisivi nel labbro inferiore.

Mi auguro che Jason non senta nulla del genere.

Atterrai con la faccia nell’erba.

Ma è possibile atterrare in questo modo? Dove sono?

– Bell’atterraggio, piccola.

– Grazie. – dissi alzandomi. Sputai qualche filo d’erba. La spalla mi pulsava ancora per il dolore. La mossi un po’ ma il dolore non voleva lasciarmi, così lo ignorai.

– Tu non hai male da nessuna parte? – chiesi a Jason.

– Perché, tu si?

– Be’, abbastanza.

– Io no, da nessuna parte.

– Bene, sono felice per te. Dove siamo?

– Boh, non sono nemmeno sicuro di essere a Londra. – disse guardandosi intorno.

– Io ho solo visualizzato l’epoca…

– Tranquilla, piccola. Può capitare di fare cilecca qualche volta.

– Fantastico. Eppure, questo posto mi pare di averlo già visto…

– Be’, a volte i portali ti portano in posti familiari, o…

So dove siamo.

Mi venne un groppo alla gola. Mi misi una mano sulla bocca, sconvolta. Le gambe non reggevano più il mio peso.

Non piangere, Annie. Annabell Davis, non osare piangere ancora.

Caddi in ginocchio, mi coprii gli occhi.

– Che ti succede? – mi chiese Jason.

– Troppo… fa male.

– Cosa… dove siamo?

– Ad Amburgo. – riuscii a dire, il suono della mia voce era ovattato, chiuso tra le mie mani. Jason rimase in silenzio. Non mi toccò. Forse non voleva far finire questo pomeriggio con una ‘litigata’ come l’altra volta. Tirai su col naso.

Sei forte, Annabell. Sei forte.

Scoprii con grande soddisfazione che non avevo pianto nemmeno una lacrima. Feci un respiro profondo.

– Va tutto bene?

Annuii e riuscii persino a sorridergli. Mi alzai e lui mi tese la mano.

– Vogliamo tornare nel presente?

Feci di no con la testa. – È pur sempre la mia città natale.

– Non è vero. Tu sei nata a Londra.

– Ma va!

– È la verità.

Feci ancora di no con la testa, decisa.

Io sono nata ad Amburgo. Non a Londra.

– Andiamo a comprare il pane. – girai i tacchi e andai verso la piazza principale.

È così bello sapere dove vado! Uh, questa è la casa di Karol! Però, non pensavo fosse così antica…

Scossi la testa e sorrisi. Ero davvero felice. Volevo stare lì, non tornare nel presente.

– Annie, non allontanarti!

– Chissenefrega! – urlai, ma subito dopo mi bloccai.

Questa non è la voce di Jason. Non siamo finiti nel secolo scorso.

– Sono… io?

Di fronte a me che stava seduta nell’erba c’era una bambina. Chiaramente ero io. Avevo quattro anni, i capelli corti e riccioluti, gli occhi di un verde acceso come non mai e le lentiggini un po’ più chiare. Indossavo una salopette con sotto una magliettina bianca che ancora ricordavo. Adoravo vestirmi in quel modo. La bambina sorrideva.

– Sì, va bene papà! – urlò.

Papà…

E fu in quel momento che lo vidi. Darren Davis, raggiante come non mai, e allo stesso tempo preoccupato per la sua bambina. Sfoggiava una camicia azzurra con le maniche tirate sopra il gomito, un paio di pantaloni beige e i capelli scuri erano in disordine. Non ressi quella visione. Caddi ancora in ginocchio.

Non ancora, non piangere…

La piccola Annie mi venne vicino. – Perché sei triste? – mi chiese.

Alzai lo sguardo e non potei non sorridere. Stavo parlando con una me stessa di quattro anni!

– Cosa dice sempre papà? – le chiesi.

La bambina ci pensò un po’ su, poi annuì e sorridendo, imitando la voce di papà disse: – Non parlare con gli sconosciuti, bambina. Non va bene.

Scoppiai a ridere di gusto. Papà diceva davvero così, tutte le volte che parlavo con un bambino che non conoscevo.

– Tu sei una sconosciuta? – mi chiese di nuovo la piccola Annie. – Assomigli così tanto alla zia Julia!

Alla zia… Julia?

Ci pensai un attimo su. Mi si accese una lampadina.

Ecco perché Julia mi era così familiare quando l’ho vista! Quando quell’uomo ha cercato di ucciderla e credeva di esserci riuscito, Julia è tornata indietro nel tempo a casa mia e ci è rimasta, salvandosi la vita! Ecco perché io e Nathan non dovevamo nascere! Gli Zaffiri sono ancora convinti che Julia sia morta, invece è qua, nel passato!

– Grazie piccola Annie! – la baciai sulla testa. – Dì a papà e alla mamma che Annabell ha quasi sedici anni e sta bene! – detto questo la salutai e mi lanciai alla ricerca di Jason. Vidi la piccola Annabell che chiamava il papà e andava a dirgli quello che le avevo appena detto e in un lampo mi ricordai anche di quell’incontro, con una ragazza che consideravo bellissima, all’epoca.

Sono cresciuta con l’immagine di quella ragazza che diceva di chiamarsi Annabell come modello, come ispirazione e cosa scopro? Che ero io stessa!

– Jason! Jason! – lo chiamai.

– Piccola! – Jason sbucò da dietro un albero. – Dov’eri?

Lo abbracciai di slancio, entusiasta per quello che avevo appena scoperto.

– Jason, dobbiamo subito tornare indietro!

– Cosa… non ho ancora comprato il pane!

– Non sarebbe comunque del secolo scorso, siamo solo indietro nel tempo di dodici anni!

– Non dovevamo essere nel secolo scorso?

– In teoria sì! Non so cosa è andato storto, ma ho parlato con una me in minatura e…

– Annie! È proibito infierire nel passato!

– Sì ma… ho scoperto qualcosa di sensazionale! È molto importante, si tratta di Julia!

Jason si azzittì.

Ho capito perché fanno così! Conoscono solo la metà della storia!

– Jason, tu conosci solo la metà…

– Annie, basta.

– Ma perché?! Ho qualcosa che…

– ANNABELL, FINISCILA! – mi urlò contro lui.

– Che cos’hai? Perché mi urli addosso? Voglio solo dirvi delle cose!

– Sei così… testarda! Non capisci, non puoi sapere tutto! – disse, sempre urlando.

– Qui l’unico che non capisce sei tu. Fa. – un portale si materializzò davanti a noi. – Farai meglio ad entrare, non vorrei lasciarti qui. – dissi fredda.

Nel portale non feci minimamente caso al dolore lancinante alla spalla, ero troppo presa a pensare a Jason.

Perché mi ha trattata così?

Mi ritornò in mente la sua immagine che mi urlava addosso. Riuscii magicamente ad atterrare in piedi, con una mano sulla spalla. Lì trovai di fronte Dalton che parlava con Jason.

Probabilmente gli sta dicendo quanto sono idiota. Oh be’.

Presi il mio zaino e me lo misi su una spalla sola. – Chiamate se avete bisogno di sentire qualche stronzata da una ragazzina malata di mente, ma non dite che non vi avevo avvertito se gli Zaffiri mi tortureranno e cercheranno di strapparmele a forza. – gli dissi, poi rivolsi lo sguardo da un’altra parte. – Dopotutto, vivo nel loro covo malvagio. – accentuai le ultime due parole. – Arrivederci. – girai i tacchi e me ne andai. Evidentemente avevo fatto centro.

Tornai a casa, ma non vidi nessuno in sala, così andai in camera mia, ormai avevo capito come si arrivava. Presi il cellulare e accesi lo schermino.

Un messaggio non letto, tre chiamate perse.

Mi ricordai del messaggio di Jason.

Lo leggo, non lo leggo. Vedo prima chi mi ha chiamato. Karol. La chiamo.

Misi il telefono all’orecchio.

Tu… tu… tu…

– Annie! – eccola, la voce della mia migliore amica.

– Karo! Tutto bene?

– Certo bellissima, ma ora che ti sento meglio ancora! Tu? Cosa mi devi raccontare?

Ci pensai un attimo su. Dovevo raccontarle del bacio di Jason. A questo punto dei tanti baci di Jason. E anche del fatto che nonostante mi avesse giudicato la sua ragazza un attimo prima, di come mi avesse trattato male poco dopo.

– Be’– iniziai – sono successe delle cose…

 – Con Cullen? Racconta racconta! – me la immaginavo che si avvicinava a me con la sedia per sentire meglio e mi venne da ridere.

– Be’, a quanto ho capito sono la sua ragazza.

Silenzio dall’altra parte della cornetta, poi un urlo mi perforò il timpano.

– IIIIIIIIIIIIIIIH! NONCICREDONONCICREDONONCICREDO! ANNIE TUTTE A TE LE FORTUNE,  O DIO SONO COSI’ EMOZIONATA CREDO CHE MI METTERO’ A PIANGERE! –  urlò Karol alla cornetta.

– Ehi, credo che ti conviene piangere per un altro motivo. – sospirai.

– Cos’è successo? – tornò improvvisamente calma.

– Dopo nemmeno tre ore che stiamo insieme ufficialmente mi… – non potevo raccontargli la storia dei viaggi nel tempo, o almeno, non in quel momento – … cerco di dirgli delle cose ma lui mi urla contro.

Ancora silenzio dall’altra parte. – Che stronzo! – esclama poi.

Mi scappò da ridere. – Già. Ma domani mi farò spiegare, poco ma sicuro.

– Brava, imponiti! Fai vedere chi comanda!

– Comando io?

– Ovvio! – esclamò – Tu sei la colonna portante della relazione! Devi imporre il tuo volere!

– Certo, se no finisce come l’altra volta. – dissi con voce bassissima.

– Oh, cara ancora che ci pensi? Sorridi alla vita!

– Sì, ehm… lo farò!

– Brava ragazza. Oh, perdonami, mamma chiama per la cena, sai quanto odia aspettare…

– Amore vai, non c’è problema.

– Grazie, tienimi aggiornata eh?

– Sarà fatto, agente!

– Arrivederci allora. Sai cosa fare. – e attaccò. Lo faceva spesso, ama i film di spionaggio. Mi aveva persino costretto a vedere James Bond per più di sette volte in due giorni. Mi scappò un risolino.

Il messaggio. Devo leggerlo.

Aprii la schermata del messaggio di Jason. Presi un profondo respiro.

Da: FIGONE BELLISSIMO

Scusami, non potrò mai essere il Principe Azzurro che hai sempre sognato. Riguarda il brivido che ho avuto quando ti ho baciata nel parco. È una cosa complicata da spiegare, te la spiegherò quando sarà il momento adatto.

Inarcai un sopracciglio.

E questo?

Significava che non ero io la causa di quel brivido. O sì?

Fantastico, aggiungiamo una lineetta alla voce ‘misteri da risolvere’ e ‘odiamo le spiegazioni’.

Sbuffai e mi sdraiai sul letto. Non feci in tempo a rimanere un secondo in pace e tranquillità che la porta della mia camera si aprì di qualche centimetro. Sobbalzai e mi alzai.

– Cu… cugina… – disse una voce. Era una voce forzata, come se non riuscisse ad uscire del tutto.

Nathan.

– S… sei lì dentro? – Nathan entrò nella mia stanza. Camminava come uno storpio, come se non lo sapesse fare. Si trascinava le gambe.

– Cugino! – feci per abbracciarlo ma mi fermò.

– Cugina… io ti… ti voglio… bene.

– Anche io, cugino, tanto! Come mai mi eviti?

– Non… c’è tempo per… per le spiegazioni. – disse. – Io non so… non sono io. Ma… tornerò, te lo… prometto. – e detto questo uscì dalla mia stanza.

Nathan… non è Nathan? Bene, un’altra lineetta.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** La mia relazione con Jason non va per niente bene ***


ffff

Sono un po’ sfigata ultimamente.

Persa nei miei pensieri camminavo per la mia stanza, quando qualcuno si lanciò contro la porta. Mi prese un colpo.

È aperto, santo cielo! – urlai.

– Si può? – era la voce di Iris, intimidita forse dal mio urlo. Entrò in camera mia. – Mi… avevi detto che potevo stare in camera tua ‘sta mattina…

– Certo che puoi! Vieni! – mi lanciai sul letto e picchiettai su di esso vicino a me. Lei mi fece un radioso sorriso e si sedette di fianco a me a gambe incrociate verso di me. La imitai e le sorrisi di rimando.

– Grazie, Annie.

– Ma figurati, mi hai chiesto di venire in camera, non di mangiare i miei biscotti.

Lei trattenne una risata, io invece scoppiai a ridere.

– Ma cosa sto dicendo?

– Tu sei tutta matta! – incominciò anche lei a ridere. Ripensai a quello che avevo detto e ritornai seria.

– Non chiedermi mai una cosa del genere.

Ci guardammo per qualche istante e scoppiammo a ridere all’unisono. Andammo avanti a sparare idiozie per una mezz’oretta, ridendo come delle ebeti. Erano discussioni della serie:

Iris, lo sai che il mio ornitorinco Pruffidubbi ha perso una scarpa?

– Oh, di che colore era? Magari l’ho vista.

– Era arancione come gli occhiali da sole di una formica.

– Capisco, se o io o il mio unicorno Marcivisco la troviamo te la riportiamo.

Giusto per farvi un’idea. Eravamo arrivate ad un punto in cui io mi stavo asciugando le lacrime e lei si teneva la pancia, evidentemente dolorante. La guardai per qualche secondo: era incredibilmente bella, con le fossette sulle guance e i capelli scuri che le davano un’aria da sbarazzina. Anche lei riaprì gli occhi e rimasi incantata dai cambi di colore che avevano: prima azzurrissimi, poi marroni ed infine ambrati. Non resistetti più.

– Iris, ma i tuoi occhi…?

Lei tornò seria e vidi comparire delle lacrime sul suo viso.

– Scusa, non volevo… – ma era troppo tardi, Iris era già scappata via piangendo.

Sfiga tre, Annabell zero! Uaaaaaaaaaaaaaah vai così ragazza!

Mi misi la testa tra le mani, incapace di reagire, per tutto quello che era successo in così poco tempo.

Sono un’idiota. Stupida, stupida, stupida, stupida.

Non mi accorsi nemmeno che zia Adrianne stava chiamando per la cena. Ricacciai indietro le lacrime che scalpitavano per uscire quando Mr. Mason bussò alla mia porta.

– Signorina Annabell, siete richiesta giù nella sala da pranzo.

– Mr. Mason, addirittura del voi? Ti prego, dammi del tu.

– Come vole… ehm, come vuoi. – pronunciò ‘vuoi’ come se stesse per vomitare un arcobaleno. Io gli sorrisi.

– Molto meglio, vero?

– È un po’ strano ma… la tua felicità è anche la mia.

AAAAAAAAHW.

– Okay, posso andare di sotto ora. Grazie per avermi avvisato, Mr. Mason.

– Non c’è di che, Annabell.

Gli sorrisi un’ultima volta poi scesi. Andai nella sala da pranzo, e mi sedetti tra Iris e Nathan. Fu la cena probabilmente più deprimente della mia vita. Non parlai con nessuno dei Parrington. Nessuno. Tornai in camera mia e probabilmente piansi le ultime lacrime che mi rimanevano da versare.

Il mattino seguente mi svegliai di soprassalto. Avevo lasciato il cellulare vicino alla mia faccia sul cuscino e mi arrivò un messaggio. Mugugnai scocciata e mi alzai: come al solito era prestissimo. Troppo presto.
Decisi di vedere di chi era il messaggio.

Da: Nigel

Ehi, ti ho svegliata? Se sì scusami. Appena ti ripigli dalla dormiveglia mi chiami?
Manchi.

Sorrisi. Era vero, avevo ancora qualcuno dalla mia parte. Il mio quartetto.

Grazie, ragazzi.

Risposi al suo messaggio.

Ciao Nigel, grazie per esserci. Ti chiamo tra poco, fammi preparare.

Inviai il testo e mi fiondai in bagno. Mi lavai la faccia e mi misi il mio amato mascara waterproof. Misi la divisa della scuola, (la seconda, ovviamente, la prima era giusto un po’ sporca di sangue ed era… dai Custodi) lo zaino di scuola, preparato da non-so-chi come al solito, posizionato vicino alla porta, le scarpe ed uscii dalla mia stanza. Richiusi la porta dietro di me senza fare rumore e scesi lentamente le scale. Ovviamente ci fu quel dannato gradino che scricchiolò. Un suono del genere non si sarebbe nemmeno sentito in una situazione normale, ma nel buio e nel silenzio della casa sembrò un rombo di un tuono. Maledii la mia grande dote di casinara provetta, e chiusi gli occhi, pregando affinché nessuno mi avesse sentito.

Ti prego Fortuna, stai dalla mia parte per una volta…

Era così ovvio che non sarebbe stato così? Riaprii gli occhi e trasalii nel vedere che avevo una figura di fronte a  me che mi osservava.

Ovviamente.

Temetti che fosse lo zio Parrington. Mi ritrovai a ripregare la fortuna, che per una volta mi diede ascolto.

– Annabell? – riconobbi in quel bisbiglio la voce di Mr. Mason. Tirai un sospiro di sollievo.

Grazie.

– Mr. Mason… – bisbigliai, indecisa su come continuare.

– Annabell, che ci fai in giro a quest’ora?!

– Ehm… – mi grattai la testa. Mr. Mason mi ispirava fiducia, ma così tanto da dirgli che stavo cercando di ‘evadere’? Lui mi osservava, lo vedevo che voleva sapere tutto. Si portò una mano alla bocca.

– Davvero lo voi fare?! – mi chiese con voce così bassa che mi ci volle un po’ per interpretarlo.

Mi legge nel pensiero?

– Mi aiuteresti? – domandai scettica.

– Certo che sì! Non si vede un briciolo di azione in questa casa da… vent’anni! Allora, devi scappare, giusto? – persino i suoi occhi sorridevano, non potei non sorridere anche io. Qual’era il bello della conversazione? Bisbigliavamo!

– Sì, esatto. C’è per caso… mmh… una seconda uscita?

– Ce ne saranno anche sei o sette, Annabell!

– Mi ci puoi portare?

– Ovvio! Mi sento così giovane! – ripeteva mentre scendevamo piano le scale. Risi piano divertita, ma sembrava più una risatina isterica, in base alla situazione in cui ero. Scendemmo verso la sala da pranzo, ma svoltammo prima a destra. Mr. Mason si fermò davanti al muro grigio che si ergeva.

– Eccola. – mormorò, poi fece una cosa che mi lasciò alquanto scioccata. Di solito come si aprono le porte segrete? Parole magiche, tocco di alcune mattonelle, magia? Lui invece tirò un calcio allo stipite e il muro scomparve, lasciando vedere la porta che stava dietro. Oppure il muro si era trasformato in porta? Fatto sta che Mr. Mason prese il pomello e me la aprì.

– Io non posso proseguire oltre. Questo passaggio porta esattamente dall’altra parte dell’isolato, dalla parte opposta rispetto all’uscita principale. Ti conviene non fare rumore fino a quando non sarai del tutto fuori.

– Ti ringrazio Mr….

– Oh, non ringraziarmi. È un piacere aiutarti, chiedi pure se avrai bisogno ancora, okay?

– Lo farò di sicuro. – sorrisi.

– Ora vai, fai quello che devi fare. – mi indicò il passaggio con il mento.

Gli sorrisi un’ultima volta e l’ultima cosa che vidi fu la sua immagine che alzava i pollici divertita, prima di chiudere il passaggio dietro di me. Presi un respiro profondo e mi diressi verso il fondo della galleria buia. Continuai a camminare per un bel po’, finché non iniziarono i soliti avvenimenti strani che succedono solo ad Annabell Davis. Camminando sentii per prima cosa dei bisbigli, poi delle urla sofferenti. Dovevano essere di un bambino. Mi tappai le orecchie, ma i suoni erano nella mia testa, non c’era modo di fermarli. Ad essi, si aggiunsero delle immagini, non so dire se erano nella mia testa o nei muri. Era una macchina. Andava molto veloce, di fretta. A bordo c’era un bambino, lo avrei riconosciuto ovunque, era Nathan. L’immagine cambiò. Ora era nel porto di Amburgo ad osservare le navi che arrivavano, solo. I capelli erano più riccioluti, diretti verso l’alto. Gli occhi verdi brillavano contenti di fronte alle navi, ma sembravano anche tristi. Ora Nathan era nel parco, seduto contro un albero. L’immagine cambiò di nuovo. Nathan era ancora in macchina, i guidatori questa volta erano un uomo e una donna, che parlavano e gesticolavano animatamente poi… l’immagine si oscurò e si sentirono di nuovo delle urla di donna.

– Basta… BASTA! – urlai. Era troppo.

Cos’era tutta quella roba? Cosa c’entra Nathan con Amburgo?!

Scossi la testa e camminai ancora un po’. Vidi una luce, così pensai che finalmente ero uscita da quel tunnel degli orrori, invece mi sbagliavo. La luce era verde, ed ebbi l’intenzione di ritornare da dove ero partita.

Un coso colorato!

Non appena mi misi di fronte al coso, diventò rosso con un alone arancione. Ancora quegli urli di bambino e donna. Mi tappai le orecchie e mi misi a correre, ma la luce mi seguiva, questa volta, così come le urla nella mia testa.

Correvo, correvo più veloce che potevo. Stavo scappando da qualcosa che mi sarei portata dietro per sempre, qualcosa che non sarei mai riuscita a dimenticare. L’unica cosa che volevo era correre, correre via, ma ero in una dannatissima galleria da cui non trovavo uscita. La mia collana si illuminò e mi ritrovai con la faccia per terra, in mezzo alla strada. Non c’era nessuno.

– Nigel. Ho bisogno di Nigel.

Composi il numero di Nigel, che conoscevo a memoria e misi il mio Blackberry all’orecchio.

Tuu… tu-tuuuu…

– Pronto, petite?

– Nigel… Nigel… – non sapevo cosa dire. Avevo così tante cose da dire, mi uscivano persino i pensieri confusi, come gli avrei spiegato?

– Calma, petite prendo l’aereo e arrivo. – e mise giù.

Tuu… tu-tuuuu.

 

Non sapevo che fare. Non volevo pensare a nulla, a nessuno. Ero completamente sola in quel momento.

Non so nemmeno dove sono.

Guardai la schermata del telefono. Erano le sei.

LE SEI?!

Ero stata in quel tunnel per due ore. Due ore. Ora dovevo trovare la strada per la scuola.

Aspetterò davanti ai cancelli.

A quel punto feci qualcosa di cui mi stupii persino io. Presi in mano il ciondolo, quello a forma di chiave di violino che mi aveva regalato Julia e pensai ad alcune parole:

Ho bisogno di trovare la via, chiedo il tuo aiuto per ritrovare ciò che ho smarrito.

E in quel momento seppi dove andare. Mi diressi lentamente verso la scuola, finché non incominciai ad intravedere l’edificio da lontano.

Non ricordo nulla di quello che successe poi, so solo che mi appoggiai ai cancelli della scuola, con le urla che mi rimbombavano ancora nelle orecchie e che mi risvegliai in una stanza completamente bianca.

– Tranquilla, ora stai bene.

Mi misi seduta a fatica e vidi che di fronte a me c’era una signora che mi sorrideva appoggiata ad un tavolo con le braccia incrociate. Mi toccai la testa, scuotendola piano.

– Abbiamo intuito che eri una studentessa dalla divisa – mi indicò, – altrimenti ti avremmo lasciato là svenuta.

– Ero svenuta?

– Sì, eri appoggiata ai cancelli, quando ti abbiamo trovata non avevi polso, pensavamo fossi morta, così ce ne stavamo andando ma Adrian, un alunno di seconda, ha urlato che eri viva e ti ha portato fino a qui.

Ho sentito bene?

– Adrian?

– Sì, Adrian. Lo conosci?

– L’ho… l’ho visto poche volte. È amico di mio cugino.

– Ah, Parrington?

– Nathan, sì.

– Pappa e Ciccia quei due.

– Ho notato…

Parlare di mi cugino mi faceva venire male al cuore. Lui non era lui. Mi misi la testa tra le mani.

Cosa sta succedendo? Cosa mi sta succedendo?

– Tutto bene?

– Sì – mentii, – probabilmente ho una ricaduta…

L’infermiera aprii una cartella con scritto il mio nome sopra. Accorgendosi che la guardavo stranita parlò lei per prima.

– È stato sempre Adrian a dirmi come ti chiami.

– Lo sapeva?

– Lo ha detto con una naturalezza da far paura, ti teneva in braccio e ti sorrideva.

Arrossii. Non potei farne a meno. L’infermiera girò qualche foglio del mio fascicolo e poi mi riguardò sorridendo. Chiuse il fascicolo e mi toccò la fronte.

– La febbre non ce l’hai, prendi que…

– BELL! – Dave irruppe nella stanza e mi abbracciò – Avevano detto che eri morta, collassata davanti ai cancelli, ommioddio, non ci ho voluto credere, non potevi essere morta!

– Dave, che piacere vederti! – gli diedi qualche colpetto sulla schiena – Ma se molli un po’ la presa…

Lui si tolse subito – Sì, ehm, scusa.

– Tranquillo! – questa volta lo abbracciai io.

– Ehm-ehm! – questa era l’infermiera. – Johnson, non è questo il modo di entrare in un’infermeria!

– Mi scusi, signora Smith.

Lei sospirò. – Annabell sta bene, puoi portarla in classe ora. Avete… – ci pensò su per un attimo – inglese, no?

– Si, signora Smith. – Suonò la campanella.

– Beh? Cosa fate ancora qui? Correre, l’intervallo è terminato!

Dave mi prese per il polso e mi tirò giù dal lettino, per poco non caddi con le ginocchia per terra, iniziando a correre, ma appena girato l’angolo prese a camminare tranquillamente. Notai con un certo fastidio che le persone nel corridoio mi guardavano e mi fissavano, e quelle nelle classi sporgevano in fuori la testa.

– Ero così orrenda da collassata sui cancelli?

– Non sembravi morta, eri bellissima.

– Ma mica non c’eri…?

– Scusa, era un pensiero di quel ragazzo là. – indicò un biondiccio che pareva Justin Bieber.

– Vero, tu leggi nel pensiero. – ci pensai un secondo – Di tutti tranne che nel mio.

– Me lo devi rinfacciare ancora?

– Naah, ho finito.

– Comunque, non è solo perché eri collassata davanti ai cancelli. Che poi, perché eri collassata davanti ai cancelli? Vabbè, fatto sta che sono attratti da te. – disse, con tutta la naturalezza del mondo.

– D-da me?!

Ma chi è quello stupido che può anche solo immaginare di essere attratto da me? Oh, e comprendo anche Jason.

– Mi prendi in giro? – gli domandai.

– Perché dovrei, scusa? È la verità. È tutto questo strabumbum di potere che ti porti dietro che li attrae, ora che stai scoprendo i tuoi poteri ancora di più. Più diventi potente più loro sono attratti. Poi dobbiamo parlare dei tuoi occhi? Incredibilmente ipnotici.

… quadra.

– Ma con chi funziona? – dissi, pensando a Jason. Poteva essere stato attratto dal mio potere ma non appena la magia era finita mi aveva urlato addosso.

… no, non voglio che sia così.

– Ora ti interessa, eh? – disse Dave, ficcano il gomito nelle mie costole.

Arrossii.

– Dipende dal fandom a cui ti vuoi attaccare. – continuò – puoi chiamarli babbani, mortali, mondani…

– O semplicemente persone normali. – intervenni.

– Io volevo renderlo più interessante, ma il concetto è quello.

– Ah, okay…

– Per loro sei tipo una dea scesa in terra.

– Non esageriamo.

– Una dea un po’ rude, ma è così.

Questa volta fu il mio gomito a finire nelle sue costole.

– … e anche manesca. – rise lui. – Siamo arrivati, entri prima tu o io?

– Vado io prima.

– Vai, Mrs. Sicurezza. – mi diede una piccola spintarella.

– Che cosa… – mi ritrovai sulla porta, Mr. Shuffle mi osservava, insieme a tutta la classe, ovvio.

– Oh, ecco la nostra Bella Addormentata!

– Ehm… sarebbe un complimento, Mr. Shuffle?

– Prendilo come tale. – mi sorrise – Ora stai meglio?

– Sì, grazie.

– Brava, in tempo per l’ultima ora.

Sorrisi, non sapendo cosa dire e andai a sedermi al mio posto seguita da Dave.

– Complimenti Johnson, ce l’hai riportata viva.

– Oh, è troppo forte per arrendersi. Non è una che lo fa. – mi sorrise sedendosi.

– Evita, per favore. –  gli bisbigliai. Lui fece spallucce e tornò ad ascoltare Mr. Shuffle parlare. Io ovviamente lo ignorai. Ero troppo presa a pensare a tutto quello che mi era successo da quando ero arrivata a Londra. Troppe cose a cui pensare. Mr. Shuffle richiamò la mia attenzione quando disse: – Ed ora, le presentazioni! Suppongo che nessuno si sia ancora presentato decentemente, vero? Magari non sai nemmeno i nomi di tutti. – batté le mani due volte – Okay, ragazzi, presentatevi pure alla nostra nuova arrivata, Annabell Davis.

– Solo Annie, vi prego.

A quel punto tutti, e dico tutti, si alzarono e corsero verso il mio banco. Ognuno iniziò ad urlare il proprio nome, altri volevano che cantassi una canzone.

– Aspettate un secondo! Tutti fermi! – tutti mi obbedirono. – Come hai detto che ti chiami tu, George? D’accordo ora passi avanti un altro, per favore. – sospirai. Non stava nel mio carattere fare cose del genere. – Voglio conoscervi tutti ma… con calma.

– Io mi chiamo Sean! – urlò un altro.

– Ciao Sean.

Ed andò avanti così fino al suono della campanella. Finalmente. Mi ricordavo solo qualche nome: Michael, Ares (sì, uno si chiamava come il dio della guerra), Bob, Luciana, Crystal e… Louis. Gli altri… vuoto totale. Presi la mia cartella e me la misi su una spalla sola.

– Posso accompagnarti? – mi chiese Louis.

– Ehm… sto con Dave, grazie.

– Ci vediamo domani ai cancelli, allora!

– Non collassare ancora!

– Domani vieni al tavolo con me?

La testa mi scoppiava. – Dave! Vieni, ti prego. – presi Dave per un braccio e mi avvicinai al suo orecchio – Non ce la faccio.

– A chi lo dici! Troppi pensieri, mi sono scoppiati tutti i neuroni!

– Ommioddio, domani si mangia qua?

– Sì, solo al giovedì.

Tirai un sospiro di sollievo e mi diressi verso l’uscita. Lì, c’era Jason ad aspettarmi. Il mio cuore si fermò.

ORA non ho polso.

  Ciao. –  disse lui. –  Vogliamo andare?

  Pronta quando lo sei tu, Jason. – dissi fredda. Lui prese il mio zaino e se lo mise in spalla, avviandosi.

– Ciao Bell! – mi salutò Dave e si avviò raggiungendo sua sorella Hope. Erano gemelli, ma lui insisteva a dire di essere il maggiore, solo, testuali parole di Hope, perché era nato qualche ora prima.

Fatto sta che salii in macchina con Jason, alla guida stava Dalton. Jason guardava fuori dal suo finestrino in silenzio, e mi dovetti imporre di non guardarlo. Alla fine di quell’interminabile viaggio Jason mi aiutò a scendere dalla macchina e mi condusse nella sala del pianoforte, la ‘nostra’ sala, dove avrei dovuto svolgere gli allenamenti.

– Dai, cambiati. – Jason si diresse verso una pigna di vestiti e me li lanciò. Erano i vestiti del giorno precedente, la maglietta verde con il sette dietro, i jeans e le vans. Li presi al volo e gi feci segno di voltarsi. Lui fece spallucce, appoggiò il mio zaino al muro e si sedette, iniziando a smanettare con il suo iPhone. Io mi cambiai e mi feci una coda. Risciolsi i capelli.

Era più bella quella che mi ha fatto lui ieri…

Sospirai.

– Posso girarmi? – chiese lui.

– Sì, ho finito. – gli risposi con l’elastico in bocca e i capelli in mano.

Lui rimanendo seduto si girò verso di me e mi prese il braccio, attirandomi a sé.

– Faccio io. – e mi prese l’elastico dalla bocca sorridendo. Io mi girai dandogli la schiena e lui mi fece la coda. – Et voilà! – allargò le braccia.

Io lo scrutai mentre rideva. Mi resi conto che amavo la sua risata.

Avrà qualche difetto questo ragazzo?

– Prima i portali o i compiti, signorina?

– Leviamoci i compiti, dai. – dissi alzandomi e andando a prendere lo zaino.

– Oh, allora mi devo armare. – si frugò nella tasca e tirò fuori un paio di occhiali. Sembravano… ray-ban.

Occhiali da vista? Beccato, difetto.

Sbagliato. Se li mise ed era ancora più sexy di prima. Strizzò gli occhi.

– Non guardarmi così.

– Come ti sto guardando?

– Sono orrendo con gli occhiali, lo so.

– Non è assolutamente vero. – dissi prendendo il libro di inglese.

– Sarà…

– Sei figo sempre e comunque, a parte quando mi urli addosso.

Si azzittì.

Sospirai. – La. – un pianoforte si materializzò davanti a me. Mi schioccai le dita e mi sedetti aprendo il libro.

– Cosa devi fare, piccola?

– Imparare un sonetto di Shakespeare.

– Oh, facile.

– Per te è tutto facile.

– Non è vero.

– Sì che lo è.

Tu sei la cosa più difficile che mi sia mai capitata.

– Io sono un errore.

Inarcò un sopracciglio e fece spallucce. – Allora sei l’errore più bello della mia vita.

Alzai gli occhi al cielo.

– Cos’hai, piccola?

– Ieri mi hai urlato addosso, non è stato bello.

Ci pensò su. – Oh…

– Perché non hai voluto che ti dicessi quello che so?

– Perche tu non sai, piccola.

– Perché nessuno mi spiega! Siete degli amanti degli indovinelli, se mi date una spiegazione è solo la punta dell’iceberg, e la maggior parte delle volte non è quello che volevo sapere! Ora che ho io un’informazione per voi, mi trattate male?

– Questo non è un argomento che ti riguarda, piccola.

– Julia era mia zia! – urlai

– Devi tacere, dannazione! – mi urlò di rimando.

Non piangere, Annie, non te lo permetto!

Troppo tardi, le lacrime cominciarono a scorrermi lungo le guance, non singhiozzai. Mi girai di colpo: non doveva vedere quanto stavo soffrendo, e buona parte della colpa era sua. Chiusi il libro e feci per andarmene, ma Jason mi afferrò il polso.

– Dove vai, adesso?

– Il più lontano possibile da te.

– Menomale che ieri mi amavi.

– Non è cambiato nulla, è ancora così.

Jason strinse di più il mio polso. – Ah, sì? E perché allora non mi guardi in faccia quando parli?

A quel punto non ce la feci più, con uno scatto della testa mi girai.

– Ti piace farmi piangere, non è vero? gli urlai.

Jason mi guardò negli occhi e da dietro le lenti sembrò avere un guizzo. Potrebbe anche darsi di no, non vedevo nulla con le lacrime che offuscavano la visuale.

– La smetti di trattarmi come una merda, adesso?

Lui non rispose e questo mi fece scoppiare ancora di più. Mi liberai dalla sua presa e mi asciugai gli occhi, ricacciando indietro le lacrime.

– Hai ragione, sono solo un errore, un dannatissimo errore. Tu sei attratto dalla settima nota, dal mio potere, come i miei compagni di classe! Non ti interesso io veramente! Invece a me non è andata bene, sai? Io sono innamorata persa di te, mi perdo nei tuoi occhi ogni volta che ti guardo, la tua risata mi fa sorridere fino alla punta delle orecchie. Era troppo bello per essere vero. Tu farai presto a dimenticarti di me, con tutte le ragazze che ti corrono dietro non sarà difficile. Io invece dovrò guardarti e ammirarti da lontano continuando ad amarti, rimanendo per te solo una ragazzina bassa con le lentiggini che doveva allungarsi ber baciarti!

Jason mi abbracciò, tenendomi stretta per non farmi scappare dalle sue braccia.

– Queste cose non le devi neanche pensare. – mi passò un dito sotto il mento tirandomi su la testa. Teneva ancora gli occhiali, il che lo rendeva incredibilmente serio. – Tu sarai anche bassa, a me va bene. Hai le lentiggini? Amo le tue lentiggini. Ti chiami Annabell? Amo il suono della tua voce, passerei delle ore ad ascoltarti parlare. Sei rude? Lo sono anche io. E sei bellissima. Sei la mia piccola.

Mi tolsi dalla sua presa prima che lui potesse baciarmi. – Non sono una bambola! Proprio non riesci a essere sempre così, vero?

– Smettila di rendere le cose più difficili di quanto già non siano.

– Sei tu che rendi la mi vita ancora più complicata.

– Pensi che solo la tua vita sia complicata?

– Di sicuro di più rispetto alla tua, Custode. – mi girai – Re. – un portale si materializzò di fronte a me, mi girai. – Non sei costretto ad accompagnarmi. – con il libro sottomano mi buttai nel portale, e un dolore lancinante alla spalla mi avvolse.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1273820