Iniziò tutto quella sera.
Mi stavo esercitando al pianoforte in camera mia. Suonavo un’aria di Bach, del
quale non ricordo più nemmeno il nome, quando suonò il campanello. DRRRRRIIIIN! Un suono assordante.
Mi alzai controvoglia, lasciando riecheggiare l’ultima nota per la sala e mi
diressi verso la porta. Il campanello suonò di nuovo. DRRRRRIIIIN! Un altro suono
assordante.
– Arrivo, arrivo! – esclamai. Aprii la porta, dove vidi una strana figura.
Anzi, oserei dire quasi buffa. Portava una mantella nera, lunga fino alle
caviglie, come se stesse piovendo, ma senza il cappuccio. Al suo posto vi era
un cappello… simile a quelli da pesca, e infine i mocassini. Avrà avuto sì e no
sedici anni. La sua faccia era coperta dall’ombra del cappello, ma riuscii
comunque a identificare i lineamenti. In una parola: perfetti. Era un po’ più
alto di me, anche perché c’è da dire che io non ero così tanto alta, ma sono
dettagli. I suoi occhi invece erano di un colore strano, simile ad ambra. Con
tutta questa perfezione si poteva ripagare il danno che facevano quei vestiti.
O quasi.
Sentii un rumore di passi e a malincuore distolsi lo sguardo dalla perfezione
che avevo davanti e notai un'altra figura che si avvicinava, vestita nella
stessa insolita maniera. Si avvicinò con calma, come se avesse tutto il tempo
del mondo. Poteva anche essere così, ma io non ce l’avevo. Quando mi fu
abbastanza vicino, potei osservarlo bene: lui era un’altra cosa, rispetto al
ragazzo. Sembrava sulla quarantina. Aveva una faccia simpatica, rotonda come
una palla da bowling. Anche i suoi occhi erano di quello strano color ambra, ma
sul ragazzo facevano più effetto.
Loro mi guardarono intensamente, anzi, mi squadrarono. Dalla testa ai piedi.
Poi, dopo una lunga osservazione dei miei occhi, si guardarono, e notai che si
intesero
– Annabell Davis? – mi chiese il ragazzo
“Si”avrei voluto rispondergli, sicura di me, ma
suonò più come:
– Uhm, ehm, gah.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio.
– Mi spiace ma dobbiamo portarti via.
Okay. Potevo sentirmi dire qualsiasi cosa, persino che questi tipi venissero da
Jumanji, ma che dovevano portarmi via no. Anche se era quel gran pezzo di
ragazzo a dirmelo. E poi il suo tono non mi piaceva. Era meglio quando se ne
stava lì zitto a fissarmi. Questi arrivavano fuori da casa mia, alle otto e
mezza di sera, interrompendo il mio allenamento al piano, e dovevano pure
portarmi via?
– Jason, vacci piano, per l’amor del cielo! – lo
rimproverò l’altro, prima che potessi inveirgli contro – Non puoi iniziare così
un discorso di questa portata, senza spiegarle…
– Spiegarmi cosa? – lo interruppi
– Ma Dalton, dovevo pur iniziare dicendo qualcosa,
no? – si difese Jason, ignorando completamente la mia voce
– Devi andarci piano, questa è una faccenda seria!
– Ehm… scusate… – li interruppi – potreste dirmi
VELOCEMENTE cosa ci fate a casa mia? I miei genitori tra poco torneranno e
dovrei apparecchiare la tavola per cenare…
Jason mi guardò e poi guardò Dalton, che sospirò. Ancora.
– Bambina, i tuoi genitori non verranno – disse poi
con un tono più calmo possibile – E’ successo tutto così in fretta: la moto, il
guard-rail… – fece una breve pausa nella quale mi mise una mano sulla spalla –
Mi dispiace. – concluse
Neanche questo era nelle cose che mi aspettavo potessero dirmi. Ci misi qualche
secondo per capire la faccenda. Quando ne fui certa, un buco si creò nel mio
petto, come quando ero stata sulle montagne russe, ma molto più grande, e
profondo.
– Sono… morti? –
chiesi, dopotutto è risaputo che la speranza è l’ultima a morire.
Potevano essere in coma, o in ambulanza, o in ospedale…
– Mi dispiace – ripeté Dalton – non c’è stato nulla da fare.
Sentii salirmi le lacrime agli occhi, poi qualcuna iniziò a ricadermi calda
sulle guance. Distrutta le mie gambe cedettero e caddi sullo zerbino con il
viso tra le mani dove piansi.
Jason, con mia grande sorpresa mi si sedette accanto. Non pensavo lo facesse,
dato che si era presentato dicendo che dovevano portarmi via.
– Ehi, devi essere forte, bambina.
– Ho quindici anni. Non sono più una bambina.
– Oh, okay. Posso chiamarti Annie? – mi chiese con
un sorriso. Avrei voluto ricambiare il sorriso ma in quel momento non ero
dell’umore adatto per sorridere, così annuii e continuai a singhiozzare per un
po’. Quando rimisi in moto il mio cervello mi accorsi che Dalton non c’era più.
Forse si era già avviato. Ma soprattutto, mi accorsi che avevo la testa sulla
spalla di Jason, e che lui mi accarezzava la schiena e i capelli, mormorando
parole di conforto. Imbarazzata, (rossa come un peperone) mi tolsi dalla sua
presa e mi asciugai le lacrime in fretta e furia, poi da non so dove trovai la
forza per sorridergli
– Grazie – mormorai
– Figurati, Annie – disse lui sorridendo. Si alzò e
mi porse la mano.
– Dai, alzati.
– Dove mi portate?
– Ora ti portiamo a Londra, dai tuoi zii.
– Ho zii a Londra?
– Certo i tuoi non te l’hanno mai detto? – chiese
con una smorfia confusa sulla faccia
– Forse è per questo che siamo ad Amburgo… –
indovinai
– Può darsi… In ogni caso preferiresti un
orfanatrofio?
– Ehm, passo – affermai scostandomi i capelli dietro
l’orecchio con un gesto impacciato e fissando il pavimento
– Allora alzati.
– E’ un ricatto questo?
Rise – Certo che no.
Accettai la sua mano e mi alzai. Era molto calda.
Mentre scendevo le scalinate mi ricordai di una cosa.
– Aspettami, torno subito! – gli urlai risalendo di
corsa le scale, tantoché quando fui in cima non avevo più fiato. Corsi dentro
casa e presi l’album di famiglia dal cassetto della credenza dietro al divano
di pelle bordeaux. Poi andai in camera dove mi misi una felpa, presi il
cellulare e il caricabatterie. Mentre tornavo in sala mi ricordai di prendere
più foto possibili dei miei amici, per ricordarmeli, ora che andavo via. Ne
presi il più possibile: Foto dell’asilo, di classe delle elementari e delle
medie, foto con i miei più cari amici, foto dei miei compleanni… le infilai
tutte quante nell’album di famiglia. Diedi un ultimo sguardo alla mia casa: i
muri gialli, i lampadari, il parquet, il pianoforte… mi sarebbe mancata la mia
solita vita. Tornerò? Che cosa mi avrebbe aspettato? Chi? Come
erano gli zii? Avevano figli? Perché mamma e papà non mi avevano mai raccontato
nulla su di loro? Domande alle quali avrei saputo rispondere solo una volta
a Londra.
Chiusi la porta dietro di me. Mi fermai un attimo. Sospirai. Scesi velocemente
le scale con gli oggetti in mano e il cellulare in tasca. Rivolsi un’ultima
occhiata alla facciata bianca della mia casetta e mi strofinai il naso con la
manica della felpa.
Decisi che avrei chiamato i miei amici solo una volta a Londra, anche se mi
sarebbe costato una fortuna. Per loro
questo ed altro.
Salii in macchina e Jason mi chiuse la portiera sempre sorridendomi. Dalton
accese la macchina.
L’avventura era appena iniziata.