Tutto è bene quel che finisce con l'amore

di hellostrangerimadisaster
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Abbassò lo sguardo e le vide, vide le gambe di quella ragazza: s'allungavano e si ritraevano di nuovo, prendendo forma, quasi come un animale che esce dal proprio guscio; e il suo era di raso, una floreale gonna blu, corta fin su il ginocchio, ricamata di bianco all'estremità.

Poggiato alle gambe teneva un pugno chiuso, lasciando in disparte il pollice.

Un raggio di luce si posava proprio sulle sue gambe opalescenti, intervallato da una striscia d'ombra, quella della finestra.

E sul tavolo invece, sopra le sue gambe, si stendeva una tovaglia di foglie che finiva con frange dorate.

Era lievemente messa di sbieco, la ragazza: la vecchia sedia di legno su cui era seduta la reggeva solo in parte; ma non perché questa non fosse abbastanza robusta, bensì perché era la ragazza stessa ad avere quella tendenza che la faceva rimanere per metà sulla terra, per metà sulle nuvole in quel momento quasi assenti.

“Cercavo la signora Cordero” il ragazzo si rivolse a lei, perché era la sola a trovarsi in quella soleggiata stanza.

“Mia nonna dorme” sussurrò, chiedendogli gentilmente di parlare a sommessa voce mettendosi l'indice davanti alle labbra.

Allora il ragazzo tacque, rimase zitto e s'avvicinò al tavolo soltanto col busto: vi lasciò dei fogli di giornale.

“Per chi sono?” chiese così la ragazza dalla gonna floreale.

“Be', quelli sono per tua nonna” rispose, tenendo il tono di voce il più basso possibile.

Poi si voltò, raggiunse la porta in fondo al corridoio e poco prima di uscire alzò il braccio per un saluto: la ragazza lo fissava da lontano, si era voltata e rivoltata dalla parte opposta del tavolo per guardare i fiori dentro la carta di giornale e, col busto incrociato, alzò un braccio e ricambiò il saluto.

Lui si richiuse la porta alle spalle e andò via, scese le scale, raggiunse la macchina.

E intanto lei guardava fuori alla finestra, i lunghi capelli castani, lievemente ondulati di spazzola, le scendevano lungo le spalle come scivoli sull'acqua.

L'aveva notato, quando se n'era andato.

Lo vide salire in macchina, non allacciarsi la cintura e far manovra; con lo sguardo lo seguì, finché un palazzo dai mattoni color pesca, bloccò la sua visuale.

E intanto si chiese, tra sé e sé, chi lui potesse essere; si domandò: “perché nonna non me ne ha mai parlato? perché vengo a scoprir di lui soltanto ora?”.

Decise di farsi avanti: Ofelia si sarebbe svegliata e le avrebbe parlato di quel così gentile ragazzo.

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Capitolo 2
*** 2 ***


E venne il crepuscolo, e gli alberi divennero scuri, quasi confondibili con l'asfalto che saliva e scendeva. Tommaso guidava, il sedile affianco era vuoto eppure non si sentiva solo: il pensiero di lei l'aveva piacevolmente inghiottito.

Il contachilometri a luci rosse segnava oltre gli ottanta, Tommaso superava un viale di alberi; la strada deserta, verso il sole che muore, i cartelli a forma di triangolo, l'orizzonte di montagne, montagne dai piedi di nebbia e ancora gli abeti in lontananza.

Allora lasciò la prateria per tornare in città, a casa. Come al solito.

Quel giorno aveva finito il suo turno un po' prima, così decise di passare da Ofelia Cordero per darle un mazzo di fiori invenduto, che di lì a poco sarebbe appassito.

Dunque arrivò a casa e baciò i cari genitori, poco prima di dirigersi fin su le scale chiudendosi in camera sua.

“Tommaso, non ceni stasera?” chiese la signora Mariani.

E lui fece segno di sì: avrebbe fatto una doccia e poi sarebbe venuto a tavola.

“Aspetta ad apparecchiare, ma': ci penso io quando vengo” aggiunse il ragazzo.

E la madre annuì e sorrise, guardò il marito che intanto leggeva un giornale e, poco prima di aver acceso una padella sui fornelli della cucina color perla, sorrise di nuovo, con l'orgoglio del figlio nel petto, e sorrise anche il marito.

Tommaso trovò sua sorella che dormiva nel suo letto, ancora vestita. Allora si soffermò per qualche minuto ai piedi del letto, a guardarla; inclinò la testa e sorrise: pensò all'intensità della sua bellezza. Infine aprì il suo guardaroba e prese le mutande pulite da un cassetto: si diresse al bagno.

 

A casa Cordero anche lei, la ragazza dalla floreale gonna blu, si diresse al bagno: come per telepatia decise di fare un bagno caldo.
Sinora aveva atteso il risveglio di sua nonna facendo un dolce. Non preparò niente di speciale, solo una crostata alle ciliegie.

“Nonna, io vado a fare un bagno: se mi cerchi sai dove sono” disse, soffermandosi davanti alle scale.
E intanto sua nonna le stava cucendo un maglione verde di cashmere per l'inverno che di lì a poco sarebbe arrivato.

Quest'inverno avrebbe spogliato alberi, ricoperto strade, e montagne, portato il Natale e l'inizio di un nuovo anno e magari persino una ruga in più sul viso della signora Cordero, così dedita alla sola nipote che si fosse affezionata a lei.

E i capelli di Beatrice – così si chiamava – che saliva, senza parlare, sfiorando il corrimano con le dita della mano sinistra dalle unghie pitturate di rosso, come se anche queste ne avessero preso il colore, intaccavano la moquette delle pallide scale di pasta frolla fusa alla marmellata di ciliegie.

 

Aprì il rubinetto della vasca e si lasciò trasportare dal perpetuo ribollire dell'acqua che si faceva sempre più calda; e la vasca di porcellana si riempiva.

Dopo essersi sfilata i vestiti di dosso ed aver chiuso il rubinetto, vi si immerse, lasciando cadere a penzoloni la testa dal bordo, chiudendo le palpebre e sussurrando una melodia al pianoforte.

Si lasciò cullare dalle onde dell'acqua evaporante e dalle sommesse onde sonore, prodotte dalle sue corde vocali; e lasciò cadere dal bordo anche le mani e poi le braccia, lievemente ciondolanti, cantando la colonna sonora del pensiero che nel frattempo non si rese conto d'avere: inconsapevolmente, pensava a Tommaso. Così. Senza volontà. Senza un perché.

 

Nello stesso istante questo suo pensiero s'intrecciava inesorabilmente con quello del ragazzo, che lasciandosi schizzare gocce d'acqua calda addosso ancora permetteva che quel pensiero da quel momento non più solitario lo inghiottisse.

Sorrise e poi si poggiò un palmo delle mani sulla fronte, come per dire: “ma che cavolo sto facendo?”, ma allo stesso tempo si sentì... felice. Così. Senza motivo.

O per meglio dire, lui un motivo ce l'aveva (e anche lei): si stava innamorando.

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Capitolo 3
*** 3 ***


Allora dalla doccia, dal pensiero di quelle gambe di fiori lo fece uscire la voce di sua madre, che dal piano di sotto chiedeva di scendere perché la cena era pronta.

Si rivestì e svegliò la sorella: le sfiorò una caviglia, coperta da un paio di collant nere e lise dalle quali, salendo verso le cosce, traspariva la pelle evanescente.

Con tono pacato, le disse: “Melania, guarda che è pronto” e dopo scese al piano di sotto per andare ad apparecchiare la tavola, come promesso.

Melania non s'alzo subito, ma non perché non sentì la sua voce.

In realtà è vero, non la sentì direttamente; stava sognando, stava facendo un sogno bellissimo: si trovava in un bosco e dietro ad un albero guardava un cerbiatto brucare il prato. E quel sogno si interrompette.
Fu interrotto da Tommaso, dal suo odore, il profumo che Melania avrebbe riconosciuto persino e soprattutto a distanza d'intuito. Lì ritornò alla realtà, fu quel momento a dare alla luce il risveglio della ragazza.
Poco prima di scendere prese una scala, una di quelle scalette in legno dei letti a castello; aprì la botola sul soffitto e vi entrò: prima di tornare nella sua stanza lasciò cadere dall'alto, fino alle lenzuola, un piccolo cofanetto in legno.
Posata la scaletta lo recuperò e velocemente, a due a due e senza tenersi al corrimano, scese le scale.

“Melania, vieni pure a sedere” la invogliò suo padre, accennando un sorriso.

Tommaso le sedeva di fronte con il volto basso, il suo sguardo rivolto verso le posate d'argento.

Si guardavano ogni tanto: i loro animi che si volevano bene permettevano ai propri sguardi di guardare l'altro solo quando questo non compieva la medesima azione, quasi giocassero con gli occhi.

Lei non vedeva l'ora di vedere quella tavola vuota per parlargli del cofanetto che teneva stretto nelle mani, che sudavano.

 

Come ogni sera i genitori dei due fratelli guardavano la televisione dopo cena, abbracciati sul divano e, come ogni sera, Melania conduceva Tommaso alla soffitta. Ma questa non era una sera delle tante, non era come le altre: questa era una serata speciale.

“Ma si può sapere che hai di così importante da costringerti a spingermi così bruscamente?” chiese Tommaso alla sorella.

“E dài, Tom, sbrigati! Non ce la faccio più ad aspettare: è da oggi che aspetto!” le rispose, voce di un'anima necessitante di pietà.

Finalmente salirono in soffitta: la luce soffusa di un'abat-jour era l'unico punto di riferimento grazie al quale distinguere i propri corpi e qualunque oggetto presente in quella stanza.

Melania prese il cofanetto e lo porse al fratello, che lo aprì: dentro vi ci riposava la corolla di un fiore di glicine agonizzante e Tommaso rimase perplesso.

“Tutto qui, Mel?” le chiese, con la fronte corrugata.

“Tu non sai che significato ha, per me” disse lei.

“Allora dimmelo” le rispose, fissandola più intensamente negli occhi.

Persistette del silenzio, prima che la ragazza riprendesse a parlare, poi, finalmente, disse: “Oggi ci siamo incontrati e mi ha portata in un posto strano; c'era un albero di glicine: ha staccato un fiore e me l'ha messo tra i capelli”.

Lui a quel punto rimase in silenzio, sorrise e l'abbracciò. Poco prima di andarsene le disse: “Sono felice per te, Mel”; lei, con gli occhi lucidi, ricambiò il sorriso.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Le coincidenze. Chissà perché esistono, le coincidenze.
Respirano. Ti guardi intorno e le incontri, sono lì, le cupole di quell'edificio ottocentesco se affogassero nell'acqua di fronte ai loro sguardi si mimetizzerebbero lungo il fondale.
Hanno lo stesso colore. Lo stesso colore dell'acqua, lo stesso colore degli occhi di lui. Così limpidi che non riuscirai mai a guardarci a fondo.
Magari al di là di quella superficie esiste un mondo, ma non puoi saperlo perché non ti è permesso entrare, non ti è permesso andare oltre. Con quel colore, con quelle sfumature, con quegli occhi, con quell'acqua a loro di fronte, già ti sei teletrasportato altrove.
Sei solo un essere umano e a fare di più non sei in grado, è questo il punto.
Allora ti senti maledettamente piccolo. Ti senti irrilevante. Ti senti solo. Vulnerabile. Incompreso. È lì che ti ritrovi quella riflessione risalire a galla.
Nell'acqua si riemerge, non ci si immerge. E adesso sta riemergendo quella riflessione fatta svariate volte, della quale stai per convincerti: da soli non si sopravvive.
E ti ci specchi pure. L'acqua ti sta dicendo che forse è dentro di te che devi guardare, che forse quel mondo inaccessibile è proprio dentro di te.
Chissà come fanno a respirare lì le coincidenze, sott'acqua.
A un certo punto riaffiorano, ma non perché manca loro il respiro. Forse riaffiorano perché la vita ha ordinato loro di fare come i pesci, che nell'era paleozoica erano usciti dall'acqua e avevano preso una nuova forma. Due anfibi che si incontrano per caso e che adesso si ritrovano di fronte casa, dopo esser stati via per tanto tempo. Si ritrovano lì, insieme, per riuscire a sopravvivere.
Ecco riemergere pure la conclusione: la verità è che la vita va vissuta in due, per questo esiste l'amore.

E i due anfibi erano due farfalle, adesso. Avevano abbandonato il rifugio materno, avevano abbandonato i rispettivi bozzoli per spiccare il volo, alla ricerca di un battito d'ali che avesse potuto ricolmare la propria mancanza.

Si incontrarono. Per coincidenza accadde... o forse no.

"Perché non ti ho mai vista, prima di ieri?" le chiese.

Lei, inizialmente, finse di non averlo mai visto: continuò a guardare rigorosamente in basso, ad osservare i crateri sulla superficie dell'acqua, la pioggia di meteoriti, a impatto sulla superficie della Luna.

Posa il telescopio, Beatrice, posalo che una stella è caduta, che una stella è precipitata sulla superficie terreste e ora ti è di fronte.

"Non lo so... Vengo a trovare mia nonna tre volte a settimana”, rispose, quasi senza farsi sentire.

E lui si avvicinò, la stella si avvicinò di più alla fontana, si avvicinò di più alla fontana e a lei, che si sentiva un cratere lunare, che era più vicino alla fontana e avrebbe voluto tuffarcisi, in quella fontana su cui vi si specchiava quell'edificio a loro di fronte, sparire una volta per tutte, avrebbe tanto desiderato uno di quegli occhiali da sole scurissimi per proteggersi dal sole, quelli che quando ci vai in giro devi stare attento a non inciampare perché la scarsa luminosità ti rincoglionisce – ché si sentiva inadeguata, ché si sentiva inadatta più che mai, lei, nella sua innocente bellezza di cratere lunare –, e si sporse sull'acqua, osservò il suo riflesso e poi quello di lei, come per constatare semmai potessero esser compatibili, come se in qualche modo ci sarebbe potuta essere una qualche possibilità che quei due riflessi diventassero un riflesso solo.

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Capitolo 5
*** 5 ***


La venne a prendere sotto casa con l'auto della madre. Andarono in gelateria, vicino alla fontana del centro.

“Due coni gelato, grazie” disse Tommaso.

“Ecco a voi il gelato.
Complimenti giovanotto, mi raccomando: trattala bene!” disse il commesso, un uomo sulla sessantina che dopo aver guardato Beatrice con sguardo gentile consegnò i coni: Tommaso diede uno dei due alla ragazza. Cioccolato lui, nocciola lei.
Lui e lei. Chissà l'avessero pronunciato un noi. O perlomeno pensato. In sincrono.
Noi. Nella mente, ma ad alta voce. Un pronome urlato nel silenzio, soffocato dall'acqua che corre e che scorre nella fontana in mezzo alla piazza.
“Mia nonna sarà in pensiero” disse lei, fissando gli spruzzi d'acqua fuoriuscire dalla fontana.

“Non se sa che sei con me...

Andiamo, Beatrice: tua nonna mi conosce da quando ero piccolo così!” disse lui, indicando con la mano l'altezza che avrebbe dovuto avere da bambino e buttando via, in seguito, la cialda del cono gelato ormai vuota.

“Perché non la mangi la cialda?” chiese lei, perplessa.

“Non ci ho mai pensato. È un'abitudine.

Io le cornici le scarto” rispose lui, fissando il vestito a pois smosso dal vento sulle gambe di lei.

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Capitolo 6
*** 6 ***


Lei suonava, lui la guardava.
Era una specie di “consecutio amorum”: una matrioska dentro l'altra.

Lei la più piccola delle matrioske, lui e il suo amore per lei a racchiuderla, cingerla, proteggerla dal resto del mondo. Quel mondo troppo grande, l'eccessiva quantità d'amore che lei sapeva donare quand'era così piccola, con quella chitarra in mano.
Con quella chitarra in mano lei l'avrebbe deriso, il mondo. Quel mondo cieco; quel mondo superficiale. Un Polifemo saccente, inconsapevole della propria ingenuità.
Beatrice che arrossiva pur essendo seria (perché dentro di lei era il cuore a sentirsi colorito più del solito, in quel momento), Tommaso che le sorrideva, consapevole del suo interno tepore d'imbarazzo.

Lei suonava e lui la stava guardando: fissava le dita di lei muoversi sulla tastiera della chitarra con insicura disinvoltura: tanta esperienza di corde ma non di occhi fissi sulle sue dita che si muovevano su quella tastiera di legno.

Lui molto prima di lei imparò, eppure in quel momento si sentì come un bambino alla prima lezione di chitarra: perché lui, da lei, stava prendendo lezioni di vita.

“La conosci?” chiese lei, dopo aver smesso di suonare, riferendosi alla canzone.

Stairway to Heaven dei Led Zeppelin”, rispose lui.

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Capitolo 7
*** 7 ***


La trovò lungo un viale di cespugli di rose. Cespugli di rose in un viale più grande, un viale di alberi affusolati, proprio come le dita di lei. Lei che si trovava lì, a pochi metri da lui, dandogli le spalle.

Immobile, impassibile, abulica.

“Cos'è successo, Beatrice?” le chiese, con una nota di terrore tra le onde sonore alimentate dalle corde vocali pressoché rotte.

Lei non rispose. Rimase zitta. Come se a lei le corde vocali si fossero già spezzate.

Poi lui si avvicinò, le sfiorò una spalla con una mano e lei si scansò.

Lui non capì, allora s'avvicinò di più, le si mise di fronte. E lei lo spinse in avanti, cominciò a picchiarlo. Di nuovo lui non capì, non capì perché lei lo stesse facendo.
“Beatrice, cos'ho fatto!?” chiese, disperato.

Lei cominciò a urlare, ad emettere frasi insensate che degenerarono in un pianto soffocato e poi lasciato scivolare via, come quando tieni in mano un bicchiere di cristallo e senza pensarci te lo ritrovi davanti ai piedi in mille pezzi. Così.

“Se la sono portati via!” continuava a ripetere, sempre più forte, sino allo sfinimento.

S'abbandonò al petto di lui, e le sue lacrime pesavano di vetro. Opache, dense, intense: lacrime di crema al vetro. Vetro che si incastonava tra le fibre della maglia di lui, che con le sue mani le sfiorava i capelli ramati, quei capelli di legno tenero, di corteccia appena impregnata di pioggia.

E sul viso di lei era scoppiato un temporale. Uno di quei temporali estivi che si lamentano di notte senza problemi, senza preoccuparsi di svegliare qualcuno o di terrorizzare qualche brontofobico.

Ma stavolta dell'insonnia e della fobia se ne sarebbero dovuti fare una ragione: Beatrice piangeva e tutti avrebbero atteso in un silenzio bagnato, di un bagnato corrosivo.

Lui l'abbracciò ancora più forte, scesero anche a lui delle lacrime. Ma erano lacrime semi-invisibili le sue, scivolavano in fretta sulle guance, si dissolvevano, la pelle le assorbiva più velocemente.

Lei abbandonò le proprie, ormai depositate nel cotone scuro, e bagnò anche lei il viso di lui.

Per un attimo i loro sguardi si incrociarono, ma lei chiuse subito gli occhi e posò le sue labbra sopra quelle di lui: era un bacio acido. Era un bacio al limone. Un bacio aspro, giallo, pallido e maturo. Un bacio pieno di disperazione, di tristezza.

E la tristezza è pallida, incolore, aspra, amara, vuota e alle volte decisamente ineluttabile. Non ci si può lottare contro. È così. Arriva e devi subirtela. Come la morte.

La morte, che arrivò così, all'improvviso. La morte, che mette le orecchie ai libri, come quando leggi e devi interromperti perché la realtà ti impone di fare altro. Non è ignorabile. Arriva raramente, ma se arriva devi darle retta. Non hai scelta.

Arriva, arriva un giorno, e ciò che puoi fare, quando la morte arriva, insieme alla tristezza, quel giorno, è solo sperare che il tempo passi a portarsela via, con sé. Sperare che il tempo sbiadisca la realtà, che abbassi quelle orecchie al libro che stavi leggendo affinché tu possa riprendere la lettura, con calma anche se, a quel punto, il tempo avrà potuto sbiadire anche quelle parole, e le tue parole, i silenzi.

E adesso era qui, dovevi lasciarla fare: questione di morte, sì, e non di vita, sicuro, ma, soprattutto, questione di sopravvivenza: soffrire fino a morire, perché la vita è questo: per esser vita vera, la vita è per prima amore ma con dolore, dolore per amore e dolore dopo l'amore. Ma, se morirete, ma dentro, se morirete dentro, non importa: bisogna vivere e morire per rinascere, una volta vinti dalla vita; ché se lasci che la vita vinca su di te facendoti arrivare la morte a casa, sei tu il vero vincitore, alla fine. Soffrire è la prerogativa. Veleno e antidoto? L'amore. Oh, speriate che la vita riservi per voi quella parte di ognuno che in partenza è venuta a mancarvi: l'amore.

E l'amore mica si sceglie, però. Arriva quando vuole. Se ne va quando vuole. Se lo vuoi chissà se arriva, se invece non lo vuoi chissà se va via.

Ma Beatrice a Tommaso erano veleno e antidoto l'uno per l'altra.

 

E anche il temporale arrivò, arrivò per davvero: livido, luminoso, silenzioso ma intenso. Come se la natura fosse una bambina che aveva preso ad imitare Beatrice, con il suo temporale interiore ormai scaturito sulla sua pelle evanescente.
“Andiamo a casa” disse lui, allora, temendo per lei.

Sotto quel viale erano troppo vulnerabili. E non solo perché avrebbero rischiato la vita. Sotto quel viale avrebbero lasciato che il dolore filtrasse fino in fondo, da dentro, come un'emorragia, che c'è anche se non si vede.

Così si misero in macchina.

Beatrice seguì Tommaso grazie alla forza di lui: lei era così debole che se lui non l'avesse presa per mano, sarebbe svenuta sull'asfalto.

A pochi passi dalla macchina il ragazzo dall'oceano negli occhi la prese, la portò in braccio e la fece sedere sul sedile in pelle.

Entrambi in lacrime; lei che vi ci affogava, lui che vi ci era dentro ma pur non sapendo nuotare, per lei era come un salvagente: l'avrebbe salvata sempre.

 

Arrivarono. Si rifugiarono in soffitta.

Tommaso l'aiutò a spogliarsi, e si spogliò anche lui: si misero a letto, con i nasi all'insù verso il cielo oltre un vetro, a contare le stelle ancora invisibili, dalla finestra sopra le loro teste.

E lei s'addormentò con gli occhi gonfi di pianto, tra le lacrime.

E lui la guardava con gli occhi gonfi di pianto, tra le lacrime.

 

E sbirciando quel cielo che man mano scopriva le stelle appena nate, o forse solo rinate, vide Ofelia.

Vide il suo sorriso. Il labiale che lo ringraziava ancora una volta, forse per l'ultima, dei fiori più belli che le avesse mai lasciato: le rose dei venti. Incolori: potevi immaginarle tu, rosse o blu, gialle o bianche.

E Tommaso pensò che Beatrice le stava sognando di un colore insolito: le rose oniriche di Beatrice erano verdi. Verdi come la speranza sul vestito della Beatrice delle Beatrici, l'amore più segreto e interiore di Dante che, arrivato in Paradiso, ritrova la sua felicità che, poco prima era, forse, proprio speranza: il verde, verde speranza.

Mai li avrebbe sognati gialli, quei fiori: quel sogno si sarebbe trasformato in un incubo selvatico di rose piangenti, non vere, seminate da Efialte, artefice dell'incubo spartano.

Ofelia le avrebbe buttate via, Tommaso non gliele avrebbe mai portate dentro ad un foglio di giornale, lasciato sul tavolo del soggiorno, dopo aver intrecciato le maree del suo sguardo con rami d'edera nelle iridi di Beatrice.

Beatrice, che le avrebbe buttate via.

E Tommaso e Beatrice non si sarebbero mai rincontrati. Non si sarebbero mai innamorati. Non si sarebbero mai sfiorati.

Non si sarebbero mai amati. Amati alla follia. Amati tanto da odiarsi, alle volte, ma, una volta riappacificati, da amarsi ancor di più, alla morte e ri-morte ed oltre.

Lui non l'avrebbe mai salvata. Salvata dal mondo, dalla vita... da se stessa.
Lei non gli avrebbe mai chiesto di salvarla, di proteggerla, di farla sentire abbastanza, come mai si era sentita, prima d'ora, in tutta la sua vita; lui non sarebbe mai venuto a prenderla, non sarebbe mai venuto a prenderla per portarla al mare, dentro i propri occhi, e con sé, via, in capo al mondo, da soli, per sempre.

Quel fottuto mazzo di rose gialle, avrebbe fatto andare a male tutto il resto. Perché giallo è il colore della stella Sole, ché le persone sole non alzano mai lo sguardo verso il cielo: guardano sempre in basso.

Lungo le rotaie, lungo i binari di un treno in corsa, quando decidono per un attimo di risalire a galla, per ritornare alla realtà squallida e lacerante – ma non per captare ossigeno, altro ossigeno, ossigeno puro – levando gli occhi dalle pagine di un libro.

E Tommaso e Beatrice ne leggevano di libri, durante i loro viaggi in treno; ne leggevano a palate. Le loro mete, lungo andare, non erano mai precise: il treno era un semplice pretesto per immergersi in vite altrui anche se, per la prima volta, le proprie, bastavano loro: l'uno aveva l'altra, avevano fottuto Zeus e, sì, erano ancora due anime infuocate, ma che, adesso, bruciavano in una sola fiamma: ognuno aveva trovato la propria metà perduta. Ognuno aveva trovato l'altro. Adesso erano insieme.

L'uno stringeva l'altra tra le lenzuola bianche candide di un letto, quel letto in soffitta, nella loro soffitta del pianto; l'uno respirava l'altra nel dolore, le baciava le ciocche dei capelli, le palpebre dalle ciglia sbavate di mascara, e poi le lacrime, e ancora le guance umide, e le clavicole sporgenti, e le mani sudate, così: tra la veglia e il sonno, o nel sonno e basta.

Ora si sarebbero dovuti rassegnare, ora sarebbe stato inutile dirsi di lottare, ora sarebbe stato inutile continuare a ripetersi di poter vincere contro la vita.

La verità, pensava Tommaso, è che se perdi contro la morte, perdi anche contro la vita e non puoi farci niente. Assolutamente nulla. Il nulla. Lo zero. Il bianco. Il nero?

Il nero.

Te ne devi fare una ragione; devi accettarlo, accogliere la sconfitta, renderti consapevole del fatto che sei un fottuto essere umano e che un giorno, magari domani, magari oggi, magari già da ieri, sarai, sei morto. Morto dentro, morto fuori, morto per metà... ma in ogni caso, morto.

E pensi di voler dormire i secoli, fino a che il legno del letto non comincia a rientrare e a perdere la sua forma innaturale, ritornando al suo stato originario, ritornando zucca, passata la mezzanotte, dopo esser stata carrozza per un'ora e forse anche meno, come se la vita fosse una fiaba e come se di quella fiaba tu potessi farne parte, quasi all'anagrafe risultassi Cenerentola, o il principe di Cenerentola.

Ma poi ti svegli e di riaddormentarti non se ne parla. L'insonnia arriva e ti ruba il cuscino: ti ruba il sonno, cleptomane onirica, lei.

E pensi di aver perso un senso, il senso che davi alla tua esistenza, al fatto che un giorno qualunque avevi preso a respirare, a percepire e a trasmettere, e che un giorno ti spegnerai, come fanno le candele, esaurita la cera da sciogliere.
Ma poi ti accorgi di non essere una candela, e ti accorgi anche di esser rimasto al buio come un coglione, nonostante la lampadina non si sia fulminata.

E pensi a quanto tu possa sentirti schifosamente inutile, in queste circostanze; voler far qualcosa ma restare impotenti, come se non fosse successo per davvero.

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Capitolo 8
*** 8 ***


Ofelia Cordero morì all'alba del 4 novembre 1972, all'età di 71 anni: sua nipote Beatrice la trovò priva di vita tra le lenzuola gelide di un letto ormai troppo vecchio e morto.

Si dice che Ofelia Cordero fosse morta d'infarto, mentre sognava di un sogno bellissimo tanto da morire col sorriso sulle labbra, nel sonno. Priva di sofferenze, lungo il labile confine.

Priva di sofferenze tuttora, si dice.

Ai funerali vennero i familiari, gli amici e i conoscenti tutti.

Tutti tranne Tommaso.

Tutti tranne Tommaso, che rimase con Beatrice tutto il tempo.

Beatrice, che per ultima vide sua nonna. Che la vide lì, sempre bellissima, solo ora priva di un'anima, solo ora un po' più livida ma allo stesso tempo opalescente: ora solo un po' più livida solo un po' più perla, dopo il temporale: dopo la tempesta silenziosa dei sogni culminanti.

Beatrice soffrì di brontofobia. E Tommaso fu lì a coprirle i timpani con le sue mani dalle vene in rilievo.

Beatrice strizzava le palpebre come per uno sforzo di pianto: come se non riuscisse a farlo, come se non l'avesse mai fatto, come se non avesse mai iniziato a piangere nella sua vita. Nelle mani la collana di perle di Ofelia.

La collana di perle, che le cadde dalle mani e finì a terra, scoppiando in un fuoco d'artificio opalescente. Le perle dappertutto. Sotto il letto senza un'anima, tra le sedie, tra l'armadio, tra i comodini pieni di oggetti e di cornici.

 

Sotterrarono Ofelia di fianco a suo marito: finalmente insieme, dopo anni e anni di legame cardiaco-mentale: si sarebbero pensati sempre. Si sarebbero tenuti per mano ripassando continuamente dalle parti del cuore: ricordando. Ricordando com'erano. Ricordando gli occhi. Ricordando le mani. Ricordando le urla. Ricordando i baci. Ricordando i respiri. Ricordando l'amore.

Si sarebbero amati sempre. Non avrebbero fatto come due pianoforti o come due chitarre. Mai si sarebbero scordati. Avrebbero sempre ricordato. Perché, l'amore, vince anche sulla morte. 

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Capitolo 9
*** 9 ***


Andò via la luce. Il sole era lì che moriva e anche una parte di Beatrice se n'era andata.

Venne la notte, e venne la luna per far credere una volta ancora che stavolta il sole era morto per davvero.

Tommaso rimase lì. Non la lasciò. Era la luna di lei dopo la morte del sole.

Le lacrime s'erano asciugate e s'erano appiccicate sul viso di Beatrice, che ora provava a prendere fiato, dopo un grande sforzo. Dopo quella dura battaglia durata un temporale quasi interminabile.

Era ora di posare le armi. Via l'elmo, via la lancia, via lo scudo: la battaglia prima o poi sarebbe finita comunque. Era ora di ritrovare la pace smarrita.

“Andiamo via di qui, ti prego”, sussurrò, con l'ultimo filo di voce rimasta, rotta dal pianto isterico di qualche minuto prima.

Lui la guardò, si alzò dalla sedia su cui sedeva e, prendendole la mano, la portò via da quella casa.

Altrove. Ovunque. Dovunque. Ora avrebbero saputo dove andare.

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