Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Che si pronuncia con
le due e iniziali marcate e la terza muta come si usa dopo la consonante in
francese. Perché io sono francese. Almeno per metà. L’altra metà di me
appartiene al Marocco, dove mio padre è nato e vissuto fino agli anni venti,
quando ha conosciuto mia madre francese doc e per amor suo si trasferì nella Ville
Lumiere.
E’ Parigi dunque la
città dove sono nata. Dicono nella migliore decade mai vista; Picasso, Dalì, Modigliani, le grandi attrici e ballerine di
charleston, il mouline Rouge.. la belle epoque.
Davvero tutto molto
bello. Ma la Parigi che mi piace è la città che è ora; asfissiata sì da
un'altra guerra mondiale ma dove le donne hanno maggiori opportunità . Se parlo
così è perché mi piace scrivere e detesterei l’idea di non vedere pubblicato
qualcosa che porti la mia firma, solo perché sono nata con il cromosoma sbagliato.
Mio padre sorriderebbe
nel sentirmi parlare così, lo fa ogni volta, ma per lui è diverso.
Nato in una famiglia
borghese marocchina ha sposato una francese perbene ed ereditaria di una
fortuna, studi con massimo dei voti alla Sorbona ed oggi al comando delle
aziende di mia madre.. può ritenersi fortunato ad essere uomo. Per me non è
così.
Purtroppo la guerra ci
ha portato un ventaglio di cause/effetto che hanno affossato i nostri affari e questo
lo ha reso molto negativo riguardo al futuro, ma cerca di mantenere una
facciata perfetta per il bene mio e di mia madre. Io cosa c'entro con tutto
questo?!
Avete mai sentito
parlare di matrimonio di interesse?
Può accadere fra due
aziende, se entrambi i vertici si fondono per risanare questa o quella; bene
qui non c’è in ballo solo un matrimonio finanziario ma.. quello mio e
dell’altra controparte. Ricca.
Ricchissima a dire il
vero.
Aurelien Chedjou, nipote di Jacque Chedjou
suo nonno e potente industriale del settore metallurgico.
E questa.. beh questa è
la mia storia.
***
NDA:
Se vi ha stuzzicato
almeno un pochino non esitate a lasciarmi le vostre impressioni!
Non si tratterà assolutamente
di una fanfiction storica ma semplicemente una storia
d’amore ambientata in un periodo storico che mi ha sempre affascinato; beh due
a dire il vero, anni 20 e 40 (anche se il primo viene solo menzionato).
“No, no, no! Il nero non va bene. Mi sembrava di
essermi spiegata bene, signorina. La prego di chiamare madame Chantal, le dica
di venire subito qui.”
Arrivammo alla boutique delle rose appena in tempo
perché a mia madre non prendesse un infarto; erano giorni che aspettava questo
momento, lo stress le aveva riempito la faccia di orribili bolle, avrei giurato
di vederla andare in mille pezzi tanta l’agitazione con cui si dimenava. Le
cose non erano andate tanto meglio perché neanche dieci minuti dalla nostra
apparizione aveva già trovato da che ridire.
Il motivo era un elegantissimo abito di satin nero
che se stava in tutta la sua beata bellezza appeso a una gruccia pregandomi di
essere messo alla prova; un bel vestito, non c’è che dire, forse troppo austero
ma decisamente bello.
“Clorine cara, che
piacere vederti! E questa è Deesire? Ma è una
meraviglia.” Madame Chantal e le sue moine apparirono nel salotto privato
riservatoci per l’occasione; la donna era la proprietaria del prestigioso atelier
in rue Saint Honorè. “In cosa posso esserti utile mia
cara?!”
“Credo che il colore sia inadatto.” Dissi, mal
celando imbarazzo.
“Petit, conduci mademoiselleBonnet alla prova e falle avere anche tutti gli
accessori.” Le bastò dare un colpetto di mano perché una gracile ragazzina
bionda mi prendesse delicatamente per mano e mi conducesse dietro delle pesanti
tende bianche. Tutto questo mi divertiva, lo ammetto. I vestiti, la moda,
trovavo fossero motivo di allegria, spensieratezza da non riuscire proprio a
capacitarmi come mia madre e quasi tutte le donne ricche o nobili di Francia
potessero riporre aspettative così alte in una cosa così frivola. Mi lasciai
svestire e adornare poi come una bambola; la seta del vestito aderiva perfettamente
al mio corpo, era fresca e leggera come avevo immaginato, Petit mi aveva legato
in vita un nastro blu cobalto tempestato di gemme dello stesso colore e sulle
spalle aveva appoggiato una stola di ermellino morbida come una nuvola, un paio
di guanti scuri e lunghi fino al gomito avevano poi chiuso il delizioso
rituale.
Uscii e quelle che sembravano le proteste di mia
madre smorzarono in un sussulto. “Ma come…”
“Un vestito non è niente senza l’anima di chi lo
indossa.” Madame Chantal mi invitò allo specchio; pensai di non aver visto mai
nulla di tanto bello. Quella stoffa che prima sembrava solo nero, ora sotto le
luci soffuse della lampada rifulgeva di riflessi bluette satinati. “Stai
d’incanto, mia cara.” Sorrisi, aveva ragione.
“Questa madame Chantal è un diavolo. Sei
bellissima.” Mia madre mi schioccò un bacio umido, danzandomi intorno, non
appena le due donne ci avevano lasciate sole. Aveva gli occhi lucidi e le
aspettative di cui parlavo appese allo sguardo addolcito.
Avevo diciotto anni. Molte ragazze della mia età
erano già maritate. Seppur si trattava del vestito che avrei indossato durante
il gala in cui avrei conosciuto quello che forse sarebbe divenuto un giorno mio
marito non riuscivo a provare nessuna emozione che non fosse per il vestito
stesso; non avevo paura e non avvertivo nessuna pressione, nella mia testa
Aurelien era il giovane perfetto che tutte le donne ambivano ad impalmare non
potevo che essere grata per questo… solo, mancava il romanticismo. Del tipo
uomo e donna che si incontrano per caso, magari in un giorno di pioggia in un
caffè di Parigi, lei che urta inavvertitamente la spalla di lui e lui che la
prega di non scusarsi e le offre una cioccolata. Quello dagli sguardi prima
timidi, indagatori poi voraci. Quello della promessa di rivedersi presto, per
una passeggiata. Quello della passeggiata al chiaro di luna ma sorvegliati,
delle parole dolci sussurrate nell’orecchio per non farsi scoprire, le mani che
si sfiorano sotto al tavolo del thè del pomeriggio. Quello che la proposta arriva
in un giorno qualunque, con un fascio di rose rosse profumate, nel salotto
buono di casa con tua madre emozionata e tuo padre teso seduto in poltrona.
Quello che si racconta alle figlie e alle nipoti e che si tramanda da donna a
donna.. e se non proprio così, almeno una copia fedele.
Una settimana dopo, il mazzo di rose che aspettavo
arrivò accompagnato da un biglietto scritto in corsivo.
“Sono molto ansioso di fare la vostra conoscenza.
Spero che le rose siano di vostro gradimento.
Aurelien”
Lo riposi con cura nel settimino, dopo averlo letto
almeno dieci volte e studiato quella grafia così minuta e perfetta
nell’insieme, con il cuore un po’ più leggero. La macchina venne a prenderci
alle otto in punto, Jerome il nostro autista mi fece strada aprendomi la
portiera. Ero emozionata come una bambina, ma anche ansiosa di vederlo e
poterci parlare finalmente. Tutto ciò che mi era stato raccontato di lui non
era sufficiente a placare la sete di curiosità che si accendeva ogni qualvolta
lo pensavo; era nato in primavera, primogenito e unico figlio di Martin Chedjou e Ines Lefebvre ballerina molto in voga nella belle
epoque e cosa non trascurabile erede dell’impero
tirato su da suo nonno. Si raccontava fosse di grande intelligenza e
assennatezza, amante dell’arte e stratega in erba, come se i milioni ereditati
non bastassero a voler sottolineare di aver preso il meglio di entrambi i
genitori… perlomeno, l’amore per l’arte lo rendeva molto affine al mio
carattere che delle strategie di mercato ho sempre lasciato che se ne occupasse
Cedric, il mio fratellino minore. Per ora avevamo solo questo in comune ma ciò
che interessava a me era carpire la sua anima.
Noi artisti siamo così, i beni materiali sono nulla
dinnanzi la ricchezza dell’essere.
L’edificio che mi trovai davanti era talmente
imponente da farmi mancare il fiato; un palazzo stile liberty con elementi
barocchi antichi di almeno duecento anni, il tutto prepotentemente bianco. A
giudicare dalla fila di auto posteggiate nel viale antistante dedussi che c’era
abbastanza spazio perché quello che sembrava in apparenza un galà per pochi
intimi si fosse trasformato in breve nel galà dell’anno.
Mi lasciai percuotere dal tremolio delle gambe con
la voglia improvvisa di darmi alla fuga; ero stata molto convincente fino ad
ora, che sarebbe successo se avessi tirato su il vestito e me la fossi data a
gambe?
Nulla, perché mia madre non mi dette neanche il tempo
materiale per riflettere qualora la mia fosse una reazione normale o meditavo
sul serio di mandare tutto al diavolo, prendendomi sotto braccio e scortandomi
verso l’entrata. Il lusso che ci investì ci dette il capogiro.
“Ti prego non mollare il mio braccio.” Le sussurrai
alla vista di un panciuto signore in frak.
“Quello è Baptiste
Moreau, non lo ricordi? Tu e suo figlio prendevate lezioni di canto insieme da
piccoli.”
“Che ne è stato della signora Moreau?!”Fissai la donna giovane che si teneva stretta
al braccio dell’uomo. Troppo giovane per essere una signora e troppo accalorata
per essere sua figlia.
“Si fa vedere in giro per Montmartre con un pittore
dalla metà dei suoi anni.”
Quando avevo voglia di pettegolezzi la mia esaustiva
mamma era la fonte ideale alla quale attingere. Baptiste
ci avvicinò baciandoci le mani, la graziosa giovane si limitò a un saluto
leggero con il capo; era elegantemente vestita di chiffon chiaro e portava i
capelli corti legati da un nastro di raso rosso. Perlomeno aveva buon gusto.
Ricambiò il mio sguardo con un sorriso all’angolo della bocca.
“Tutti parlano della tua bellezza cara, ma io dico
sempre che le parole tolgono i fatti, ed effettivamente non rendono giustizia
alla tua persona, Deesire.” Quando toccò al mio
baciamano non la lasciò tenendola stretta nella sua, paffuta e morbida come
velluto. “Aurelien è fortunato.”
“La bellezza è nei vostri occhi.” Ritirai la mano
tornando con lo sguardo alla sua dama, “e voi siete troppo gentile Monsieur
Moreau.” Mia madre sorrise e si affrettò a chiederle del figlio, degli affari
più tutta un’ innumerevole serie di chiacchiere che lo fecero dileguare in
breve tempo. Ringraziai il cielo e prosegui con lei per l’ampia sala adibita
per la cena.
Lasciati i soprabiti mi immersi nel nugolo di folla
che in breve tempo si strinse intorno a noi,blasonati nomi della ricca Parigi ed emergenti nuovi ricchi con mogli,
figlie e figli al seguito. Le conversazioni erano sempre le stesse, noiosi
trattati di finanza, commercio estero, complimenti sterili a voler nascondere
un pizzico di invidia per la fortuna che ci era capitata e una valanga di bla
bla bla che presto mi stufarono convincendomi ad allontanarmi e riprendere
fiato.
Mi guardai intorno; mio padre era braccato dai
Dupont, gioiellieri e mia madre faceva comunella con alcune donne imbellettate
come se fossero ad un galà regale. Per il momento non si sarebbero nemmeno
accorti della mia assenza quindi alzai le spalle e volteggiai per i corridoi.
Gironzolando mi ritrovai in una sala adibita a
biblioteca, decine di volumi rilegati giacevano fra gli scaffali alti quanto il
soffitto; la sala era piuttosto grande, arredata con tappeti e tavoli di
cristallo sulla quale se ne stavano poggiati manufatti in ebano. I signori Chedjou erano amanti dei viaggi, in particolar modo madame
Ines amava l’Africa e i safari che si dicesse costringesse il marito a lunghe
traversate mediterranee ogni anno per potervi partecipare. Una donna che sapeva
il fatto suo, adorabile dunque e già balzata in cima alla mia lista di
favoriti.
Sfilai da uno scaffale un libro alto quanto la mia
mano; vecchie poesie francesi di un poeta del quale non avevo mai sentito
parlare, annusai le pagine come ero solerte fare e mi accomodai su una delle
poltrone lasciando che la mano vagasse fra gli scritti.
“Quello è Prevert. Devi
fare molta attenzione è il preferito di mia zia.”
Mi girai in direzione della voce; un ragazzo biondo
e riccio se ne stava allegramente appoggiato allo stipite della porta ad
osservarmi. Avvampai, chiudendo il libro di scatto ed alzandomi per riporlo.
“Conosco Prevert. Ma qui
c’è un altro nome.” Mi giustificai dandogli le spalle, quello percorse pochi
passi e mi raggiunse; mi sfilò il tomo dalle mani sbatacchiando via alcune
pagine, quando ebbe fatto mi mostrò la firma piccola e inconfondibile
dell’artista.
“E’ uno pseudonimo. Non so come ma mia zia lo ha
convinto a cedergli questo manoscritto.. a patto che il suo nome restasse
celato. Fra qualche anno queste pagine varranno una fortuna.”
Mi sorrise invitandomi a prendere posto nuovamente
sulla poltrona; lo accontentai sorridendo, si appoggiò sul bracciolo al mio
fianco e cominciò a recitarmi una poesia.
“I ragazzi che si amano si baciano in piedi contro
le porte della notte..”
“.. e i passanti che passano li segnano a dito. Ma
i ragazzi innamorati non ci sono per nessuno.”
Si zittì quando lo incalzai. Mi fissò con
quell’aria divertita con la quale era arrivato; era molto bello, belle labbra
rosse, zigomi delicati, occhi di un verde-azzurro indecifrabile. Per un attimo
non pensai nemmeno di starmene su una poltrona accanto a uno sconosciuto bellissimo,
avevo la strana sensazione di conoscerlo da sempre. Ero stupidamente
imbambolata sui suoi ricci dorati e mi detti della cretina per essere caduta
nuovamente nelle mie fantasie da artista da strapazzo.
“Lo conosco.” Sorrisi beffarda e lui si accigliò.
“Vediamo se conosci questa. Demoni e meraviglie. Venti
e maree. Lontano già si è ritirato il mare..” Mi guardò accennando a
continuare. Mi schiarii la voce e proseguii “..e tu come alga dolcemente
accarezzata al vento..” ci fissammo sorridendo, lui ampiamente colpito e
proseguimmo insieme “nella sabbia del tuo letto ti agiti sognando.”
“E’ la mia preferita.
Grazie.” Lo canzonai ma accettò di buon grado restituendomi il libro.
“Lo ammetto sei
preparata. Ma dimmi sai anche che il maestro tornerà a Parigi per uno
spettacolo teatrale questa domenica? Dovremmo andarci, l’America lo ha reso
molto famoso non so ancora per quanto potremmo godercelo in anonimato.”
“Dovremmo?! Io e te?!”
“Sì, Deesire. So chi
sei, ma tu non sai chi sono io.”
E proprio mentre avrei
voluto ribattere la sua sfrontatezza, sull’uscio della sala comparve Monsieur
Moreau molto sorpreso di vederci insieme e in una posizione del tutto
confidenziale; mi alzai prendendo la via d’uscita ma mi fermai non appena Baptiste parlò.
“Stai pure Deesire ero solo venuto a reclamare mio figlio.” Il giovane
dietro alle mie spalle rise “ha la brutta abitudine di sparire in serate
particolarmente importanti come questa. Non so se te lo ha detto ma.. dopo
Aurelien lui è l’erede di Chedjou. Sua madre è una Chedjou e ho promesso a suo nonno di non deluderlo.”
Mi girò la testa. Troppe informazioni.
Il ragazzo si mosse nella mia direzione e mi
allungò la mano.
“Fabien Moreau, cugino di
Aurelien Chedjou. Ora sai chi sono.” Mi sorrise
incoraggiante, debolmente allungai la mano “avremmo modo di conoscerci meglio.”
Girò la mia mano portandola alle sue labbra; quel contatto mi fece tremolare
tutta. Ci guardammo intensamente, prima che un commesso di sala ci richiamasse
tutti per la cena.
Ero stordita.
Mi accomodai fra mia madre e mio padre al grande
tavolo rettangolare nella sala forse più bella e sfarzosa di tutto il palazzo;
arazzi alle pareti, soffitto incastonato da basso rilievi d’oro, marmo e
argenteria pesante ovunque mi girassi. Ad occhio e croce una trentina di
commensali se ne stavano in trepida attesa che le portate sopraggiungessero
dalle cucine; deglutii, incrociando gli occhi del giovane vicino al capotavola.
Capii che era lui perché mia madre mi pizzicò il
braccio. Sorrisi e inchinò il capo socchiudendo gli occhi.
Aurelien era l’esatta copia di sua madre, la donna
seduta alla sua destra; capelli folti e ramati, occhi verdi bottiglia e
lineamenti scolpiti. Il capotavola doveva essere senza dubbio Jacque dato
l’anzianità del viso e sedutogli accanto, Martin, dai capelli uguali al figlio.
Baptiste
e la giovane compagna sedevano subito dopo rispettivamente l’uno fronte
l’altra, Fabien stava accanto al padre e aveva
difronte una chiassosa ragazza bionda della stessa mia età.
Lo stomaco mi grugnì. Detti colpa alla fame.
“Il figlio di Baptiste ti
sta divorando con gli occhi. Dovrebbero dirgli di affondare i denti nel proprio
piatto..”
Mi sentii stranamente lusingata, tuttavia alzai le
spalle. “Mamma esageri come sempre..”
“Poverino con quella madre scanzonata..”
Posai la forchetta stizzita e la guardai. “Lo sai
che in linea diretta è un erede di Jacque?!”
“Non me lo ricordare.”
Abbandonai l’inutile guerra con mia madre e mi
deliziai con una meravigliosa creme brulle; Aurelien dietro al calice di
champagne non perdeva attimo per studiarmi e questo rendeva ancora più
stuzzicante il gioco. Ero al centro esatto di una contesa di sguardi, Fabien da un lato sfacciato e Aurelien dall’altro defilato.
Bene, avrei avuto di che raccontare.. se non fosse che la voce da soprano di
Jacque Chedjou riportò le mie fantasie
prepotentemente alla realtà.
“Miei gentili ospiti, come ben sapete siamo qui
stasera per festeggiare due buone
nuove.” L’uomo si alzò dalla sedia tintinnando una forchetta sul flute. “Il mio nuovo socio, Ahmed Bonnet
proprietario delle aziende Fontaine da oggi nostre
consociate e i nostri preziosi fiori, Deesire e Aurelien, il nostro futuro più prossimo. ” Ci guardarono
tutti; me, Aurelien, Jacque, poi di nuovo me, perfetti attori inconsapevoli del
motivo per cui i loro inviti citassero “evento privato” al di fuori della sorte
delle loro quote aziendali. “Avete udito bene signori miei. Il mio sodalizio
con il signor Bonnet va così oltre gli affari che
egli mi ha concesso lo straordinario onore di concedere la mano di sua figlia a
mio nipote.”
“Udite.. udite..” Un ironico Fabien
alzò il calice alla volta del cugino che di rimando alzò il suo sfidandolo a
sostenere lo sguardo; dal canto mio mi limitai a sorridere al vecchio Chedjou cercando di ignorare le schermaglie di due
ragazzini viziati. Che avevano in mente quei due? Contendermi come fossi un
giocattolo? Mi sentii indignata.
“Lo straordinario onore è tutto il nostro Monsieur Chedjou.” Mia madre parlò a voce alta distogliendo
l’attenzione dai due galli.
“ClorineFontaine, non vedo l’ora di avervi nella mia famiglia e
deliziarmi con i vostri racconti. Tuo marito dice che sei una fonte
inesauribile di storie.” Per la prima volta in vita mia vidi mia madre
arrossire, non tanto certa che avesse gradito il complimento, sicuramente
intenzionata a scuoiare papà.
“Avremmo tempo per deliziarci, Monsieur. Forse è il
caso di congedare i tuoi ospiti e parlare fra grandi.” Mio padre parlò risoluto
ma con una vena ironica nella voce; strinse forte la mano di mia madre
baciandola.
“Ben detto.
Prego mie cari dirigetevi pure nei saloni attigui per il dopocena. Le carte e i
noiosi dettagli vi verranno risparmiati.” Jacque sorrise sollecitandoci a
seguire i commessi di sala verso la serata danzante che ci aspettava; deposi il
tovagliolo sul tavolo lanciando occhiatine silenziose e cariche di
interrogativi alla volta di mio padre e degli uomini che si stavano
allontanando per un corridoio secondario.
“Posso
invitare la mia futura sposa per un ballo?!”
Quelle furono le prime parole che gli sentii
pronunciare.
Durante la cena era stato tutto un sussurro e
sorrisi cortesi rivolti alle dame che gli facevano questa o quella domanda che
non avevo avuto il piacere di ascoltare la sua voce incredibilmente profonda.
Acconsentii a farmi trascinare al centro della
pista sotto i gridolini eccitati delle giovani presenti; eccoci quà, la fiaba vivente del vissero per sempre felici e
contenti. O perlomeno questo era quello che gli altri vedevano in noi.
Soprattutto mia madre che nel momento esatto in cui le nostre mani si
sfiorarono si sciolse in un brodo di giuggiole.
Era alto ed incredibilmente piazzato, fra le sue
braccia sembravo un esile giunco sebbene i miei sessanta chili per un metro e settantatre non facessero di me proprio un barattolino;
aveva mani grandi e allungate, il colore della pelle abbronzato perfetto con il
mio da mulatta. Immaginavo che le favole non potessero avere protagonisti più
verosimilmente ben assortiti come noi. Il destino per lo meno aveva giocato
bene.
“C’è tempo, avete sentito mio padre?!”
“Già, se il cointreau non dovesse dar l’effetto
sperato, domani ci ritroveremmo di nuovo come estranei.”
Sorrisi. Ironico. Un altro punto a favore dopo
l’arte, beh non che il resto fosse da disprezzare.
“Dovreste ricordare però che non sono un trofeo da
conquistare, Chedjou.”
Mi guardò sorpreso dalle mie stesse parole. “Ti
prego non fare caso a mio cugino; siamo cresciuti insieme, quasi come fratelli.
Amiamo stuzzicarci, ma ti chiedo scusa se in qualche modo ti ho offesa. E ti
prego, diamoci del tu.”
Rimuginai giusto il tempo di vedere i suoi occhi
verdi adombrarsi. “Scuse accettate.. Aurelien. Tu sai già chi sono io
ovviamente e per quanto sembri che debba accettare tutto questo ti dico già da
ora che sarà un arduo compito; non sono esattamente la fanciulla più
accomodante che ti potesse capitare.. ”
“Lo so e mi piace. Non dovrai accettare nulla che non
ti renda felice. E’ mia intenzione fare di te una signora molto, molto, molto
felice.”
“Lo spero.” Biascicai poco convinta.
“Bando ai
convenevoli Deesire, entro la fine dell’anno dolenti
o volenti noi ci sposeremo.” Diretto. Nella mia testa anche questo era un punto
a favore. “Ho intenzione di sapere tutto di te, cosa ti piace, cosa no.. non ti
chiedo di innamorarti di me stanotte, ma di conoscerci e lasciare che il tempo
faccia il suo corso.”
D’un tratto la musica si era fermata e noi eravamo
lì ancora stretti a ballare.
Fuggii ansiosa con lo sguardo lontano e notai Fabien avvinghiato alla ragazza bionda della cena; le
sussurrava qualcosa di molto divertente all’orecchio dato la pena che si dava
la poveretta per ridere. Mi strinsi più forte al mio cavaliere che prese il
gesto per incitamento cingendomi contro il suo petto.
“Mi piace Prevert.”
Soffiai contro la seta del suo completo; odorava di lavanda e la cosa mi fece
sorridere. “Domenica terrà uno spettacolo e forse se ti compiace..”
“Passerò a prenderti, con il permesso dei tuoi
genitori. Spero non protestino troppo se andassimo soli.”
“Beh, potremmo non essere soli.” Mi scostai
indicando con il mento Fabien e la ragazza che a
forza di ridere era diventata dello stesso color porpora delle tende; provai a sentirmi
meschina per questo ma non ci riuscii, lo champagne doveva avermi resa un po’
troppo sciolta. Ma forse non era lo champagne e mi morsi la lingua l’esatto
istante in cui realizzai in cosa stavo andando a cacciarmi. Aurelien sorrise
alzando le spalle. “Ci sarà da divertirsi. Juliette è una ragazza molto
bizzarra.” Annui credendogli sulla parola, tornando a ballare, sempre senza
musica, con il mio capo sulla sua spalla e il suo naso fra i miei capelli.
Ero sicura che i miei non avrebbero protestato.
Come pure ero sicura che non volevo Fabien lontano da me.
***
NDA:
CARI LETTORI SE SIETE ARRIVATI FIN QUA
NON LASCIATE IL VOSTRO VIAGGIO INCOMPIUTO.
COMMENTATE
E FATEMI SAPERE COSA NE PENSATE! MI FARA’ SOLO CHE PIACERE.
Questo è il primo vero e proprio capitolo,
cominciamo a sapere qualcosa in più su Deesire e
Aurelien più un personaggio che darà molto filo da torcere ad entrambi.. ma non
voglio aggiungere altro ;)
Domenica arrivò
puntuale come la RollsRoyce
25/30 rossa di Aurelien.
Il ragazzo si presentò
a casa mia alle quattro spaccate, con un mazzo di tulipani per me e un
pacchetto della rinomata pasticceria “Allard” in zona
St. Germaine per mia madre; ClorineFontaine era in visibilio, se avessi avuto il dono
della predizione avrei predetto che fosse la donna più felice al mondo. E non
avrei sbagliato.
Mio padre lo accolse
piuttosto rigido, nel salotto buono della nostra casa nel Marais, elegante
quartiere di Parigi che vanta il commercio più ricco e fluente, con una vista
superba sulla Senna; nulla in confronto l’imperioso possedimento dei Chedjou, ma con un suo valore per noi nuovi ricchi.
“Buonasera signor Bonnet. Grazie per avermi concesso il permesso di passare a
prendere Deesire.” E sposarla ma a questo punto gli
sembrava un po’ troppo aumentare la dose di complimenti quindi sorrise
guardando alle scale che davano sul piano superiore. “Ah proposito, si farà
attendere vero?!”
Mio padre sorrise.
“Come tutte le donne. Ma lei devo dire che è molto furba, almeno finge
disinteresse per tutto ciò che sia moda, vestiti, acconciature… ma siediti
Aurelien non startene impalato. Desideri qualcosa, brandy? Whisky?”
“Un acqua e limone
andrà bene.”
Mia madre accompagnata
dalla cameriera fece apparizione nella sala come una diva; si lasciò baciare la
mano, accolse con gioia il vassoio dei dolci neanche fosse uno zaffiro di una
miniera alla fine del mondo e roteò intorno ad Aurelien come un ape sul miele.
Lo tempestò di domande, complimenti più tutta una serie infinita di racconti su
come si erano conosciuti lei e papà. Dopo pochi minuti, con il cuore in gola e
il corpetto del vestito tanto stretto da provocarmi un emorragia nasale, scesi
dalla scalinata affrettando i passi, sentendo dal basso solo la voce prepotente
di mia madre coprire il silenzio; avevo paura che il ragazzo fosse scappato o
peggio ancora addormentato.
E invece era lì, in un
completo chiaro che risaltava i suoi capelli ramati, il sorriso più bello e
solare del mondo, mentre la donna seduta difronte lo suonava come una campana
con dei racconti strampalati; nella sala scese il silenzio, mia madre si lasciò
scappare un sussurro e lui si voltò lentamente verso di me, alzandosi con uno
scatto da primatista per raggiungermi. Mi sorrise, ancora quel bel sorriso. Che
cattiveria avere un sorriso così bello e un mare di soldi a disposizione; sei
impossibile da odiare.
“Ciao Deesire” Mi sfiorò il polso con le labbra. “Sei ado…rabile.” Si leccò le labbra
arricciando il naso; avevo spruzzato del profumo alla rosa proprio dove si era
poggiato; mi guardò e un lampo di rassegnazione passò nei suoi occhi. “Sei
tremenda.” Sussurrò di spalle ai miei.
“E’ solo un bel
vestito.” Sghignazzai prendendo il suo braccio. “Noi andiamo, a più tardi.”
Fece i suoi ossequi
tenendomi sempre ben stretta al fianco, mi scortò all’uscita e con galanteria
mi aprì la portiera; mi accomodai sui sedili di pelle beige profumati di nuovo,
visto il sole aveva liberato la capote e l’auto era diventata una deliziosa coupè, sorrisi slegando il foulard dalla mia borsa
legandolo stretto sui capelli per un attimo immaginandomi una diva di altri
tempi.
“Siamo soli.”
Osservai, mentre il viale di casa mia si faceva sempre più piccolo alle nostre
spalle.
“Fabien
e Juliette ci aspettano al caffè Allard. Spero non..
ti dispiaccia.”
“Non mi dispiace.”
Arrossii perché la sua mano dal cambio aveva fatto una leggera deviazione sulle
dita della mia mano, prima di tornare saldamente al cambio.
“Prima di avvelenarmi
dicevo sul serio Deesire, sei molto bella.” Studiai
con attenzione il suo volto; la mascella marcata lo facevano sembrare molto più
adulto della sua età e il naso greco gli conferiva una fierezza degna di un
eroe. Sì, potevo tranquillamente asserire la medesima cosa.
“Anche tu Aurelien.
Peccato solo che la bellezza sia un qualcosa di effimero.”
“Sono quasi certo che
sotto il tuo viso di porcellana si nasconda un anima estrosa.” Mi guardò
gettando un occhio alla strada, prima di sorridere. “Per quanto riguarda me
sono solo un uomo che è molto bravo nel far spendere milioni franchi a uomini
ricchi.”
“Non volevo dire che
tu fossi bello e basta, perdonami.”
“Oh no tranquilla,
guardandomi è difficile credere che dietro le amministrazioni delle aziende Chedjou ci sia io.” Sorrise un po’ amaro. “Ci sono
abituato, ma non me ne preoccupo, anzi, ne faccio la mia forza. Se il nemico ti
crede debole faglielo credere, resterà spiazzato quando gli toglierai tutto con
il sorriso.”
Il concetto era chiaro;
avevo toccato il suo punto debole, ma anche la sua più grande forza. Mi
maledissi per il mio tatto da domatrice di elefanti e frugai nella mente alla
ricerca di qualcosa che potesse distrarlo.
“Non hai sbagliato
sull’anima estrosa.” Colpii la sua attenzione e tornò a guardarmi. “Sono una
scrittrice. Le storie leggere a fondo pagina tre del Regards
sono mie. Per questo non mi curo della mia bellezza è la mia voce che conta. E
la fantasia. Mi nutro di cose fantastiche e irraggiungibili.”
Mi guardò affascinato.
“Tipo?!”
“Amori impossibili.
Rapporti struggenti. Proprio l’altro giorno ho fatto innamorare una cacciatrice
di diamanti e un indiano d’America. Lei è molto ricca, lui è.. beh un indiano
dice tutto. Si innamorano e quando la sete di diamanti di lei arriva a
distruggere il mondo di lui lei si troverà davanti la scelta più cruenta di
tutta la sua vita; mollare tutto ciò che la rappresenta per amore o andare
avanti per quella che era la sua vita sudata, sofferta e meritata?!”
“E come va a finire?”
“Siccome sono
melodrammatica per natura… Cheyenne l’indiano muore per proteggere Sara.”
“E lei che fa molla
tutto?!”
“Non lo so.. ci sto
pensando. Che c’è vuoi rubarmi il mestiere?!”
Rise e a me sembrò di
non aver mai sentito nessuno ridere così bene. Poi diventò serio. “Io mollerei.
Non sopporterei di continuare a lottare per qualcosa che ha distrutto la mia
felicità.”
Ci pensai su, ma ero
certa della mia risposta. “Nella vita di Sara c’erano solo i diamanti, prima di
Cheyenne. Per quanto l’amore di lui l’avesse influenzata adesso sono i diamanti
la sola cosa che le rimangono. Questa certezza è più forte di correre il
rischio di scoprire che non si ha più nulla per cui combattere e a volte conta
più fare un passo indietro che camminare in avanti e bruciare tutto.”
Mi poggiai al sedile
lasciandomi andare, era come se avessi vuotato una parte di me; Aurelien mi
guardava con la coda dell’occhio sorridendo sghembo. Ero sconvolta, non ero mai
stata tanto sincera in vita mia.
“Io non ti priverò di
te stessa, te lo giuro.”
Sentirlo parlare così,
mi fece librare il cuore nel petto, pensai a mio padre e mia madre che avevano
scoperto la ricetta della felicità; lui aveva rinunciato alle origini, al
Marocco, lei gli aveva donato le aziende prima e un focolare caldo dopo, lui
amministrava gli affari lei riempiva i suoi spazi con la sua allegria. Si
compensavano, dandosi l’uno all’altro secondo le loro capacità e aspettative.
Non avevo mai sentito mio padre rimpiangere le terre aride del suo paese e non
avevo mai udito mia madre pentirsi delle scelte fatte. Era una vita che sognavo
un amore come il loro.
Aurelien cominciava ad
apparire come colui che me l’avrebbe potuto dare; voleva farmi felice e non mi
avrebbe cambiata… a cosa potevo ambire di più?!
“Voglio solo continuare
a scrivere.”
Ero sincera quando lo
dissi. Ma gli anni mi portarono a desiderare anche altro, ed Aurelien
nonostante tutto non venne mai meno a quelle promesse.
Juliette era
deliziosamente vestita di blu, un colore molto adatto alla sua pelle diafana e al
blu cobalto degli occhi, Fabien la teneva sotto
braccio, in un completo grigio, sembrava un perfetto damerino mentre ci
scortava al tavolo facendoci strada.
“Deesire”
Mi baciò le guance stavolta lasciandomi stordita in una nuvola di patchouli e
sandalo; lasciò il mio nome nell’aria prima di salutare il cugino con vigorose
pacche alle spalle. Era così naturalmente gioviale, sempre allegro, da metter
voglia di ridere solo a guardarlo. Era terapeutico averlo intorno.
Io e la sua dama ci
guardammo a lungo prima di cacciarci qualcosa di bocca, inevitabilmente rimaste
sole dal momento che i ragazzi erano andati ad ordinare ogni sorta di schifezza
calorica che a diciotto anni potevamo ancora permetterci.
“Aurelien Chedjou.” Juliette
fischiò e il gesto mi fece sorridere in bocca a lei, la chiassosissima ragazza
che alla mia cena di presentazione se la rideva e non poco. “Sei consapevole di
essere la donna più chiacchierata di Parigi al momento?!”
“Ne ho una vaga idea.” Le sorrisi grata per aver rotto
il ghiaccio. Non era affatto stupida come immaginavo e in più aveva un viso
sfacciatamente bello; bocca a cuore bella piena, zigomi alti, il volto ovale e
roseo. “Spero di non aver deluso le aspettative.” Aggiunsi ironica.
“Oh mia cara alla gente di questa città piace il
pettegolezzo talmente tanto che se te ne andassi in giro camminando sulle mani
a loro non interesserebbe minimamente. E’ il torbido che cercano.”
Ero pianamente d’accordo con lei. “Strano che con
tutte le cose da fare a Parigi la gente perda ancora tempo in chiacchiere. I
ricchi in questa città si annoiano spesso.”
Annuì. “Mia madre faceva l’attrice. Le bastò innamorarsi
di un Dupont perché la sua carriera andò in pezzi. Non aveva bisogno di lavorare
dissero, come se potessero decidere cosa è meglio o peggio per una persona.”
Guardò lontano. “Io sogno di andarmene via da qui, ne ho già abbastanza di
questo mondo dorato.”
Era figlia di un gioielliere e ne aveva abbastanza del
mondo dorato. Sorrisi, evidentemente lo scintillio era troppo per i suoi occhi.
Poi ripensai attentamente ai Dupont presenti al Gala e riconobbi Gerard, il
maggiore dei tre figli di Monsieur Dupont padre, sposato in passato ad
un’attrice franco svizzera. “Ah ma allora sei figlia di Charlene Mercier?!”
Le si illuminarono gli occhi. “In persona. Le ragazze
della nostra età hanno altri divi per la testa.. ma tu la conosci!” Sorrisi, sì
la conoscevo, mia madre e la sua fonte inesauribile di storie narrava che fosse
una donna di straordinaria bellezza e bravura, molto corteggiata. La chiamavano
Madame Glace, la signora di ghiaccio, non tanto per
la sua algida bellezza tanto più per i rifiuti che soleva dare ai suoi
pretendenti, salvo poi innamorarsi di Gerard Dupont che la conquistò donandole
un collier di diamanti così prezioso che la poveretta usava la scorta per
uscire a cena con quello che sarebbe divenuto suo marito e per il destino
avverso anche sua congiura. Purtroppo venne messa sotto accusa, che bisogno
aveva di lavorare lei che agli occhi di tutti era padrona del mondo, fu
estraniata dal giro che contava, le furono negati contratti e apparizioni, così
che la poveretta rifiuto dopo rifiuto cadde in una tremenda depressione
culminata con il suicidio da barbiturici e calmanti. Una storia molto triste e
d’un tratto capii perché una ragazza che ha perso la madre in maniera così
brutale sognava di scappare da tutto ciò che l’aveva portata via.
“Mi.. dispiace.” Ammisi con leggero imbarazzo.
“E’ passato. Mi manca mia madre, ma io voglio
dimostrare al mondo che posso farcela. Possiamo avere tutto Deesire.”
Annuii. “Quindi tu e Fabien
andrete via?!” Chiesi vagamente.
Guardò ai due ragazzi che ritornavano verso di loro
con un cameriere e sorrise. “Oh no, Fabien ha altro
per la testa.” E posò infine lo sguardo su di me, maliziosa.
Prevert fu insuperabile.
E Fabien non fece altro che ripeterlo per tutto il
tragitto dal teatro alla macchina; era un fiume di parole, lettere e poesie
così incantate sulle sue labbra che era un piacere starlo ad ascoltare.
Aurelien non era dello stesso avviso, dal momento che
non perdette occasione nel canzonarlo. “Ma se ti ho visto chiudere gli occhi al
terzo atto!”
“Ero in meditazione cugino. Si ascolta con il cuore
non solo con la mente.”
“Cosa ti diceva il tuo cuore?! Sono in catalessi?”
Juliette rise e io con lei, Fabien
sbuffò ma si lasciò andare anche lui.
Li salutammo a malincuore all’incrocio fra due vie in
zona Montparnasse dove Baptiste
Moreau possedeva una fra le lussuose dimore dislocate in città; Juliette mi
salutò calorosamente ripromettendoci altre chiacchiere fra donne.
Ero stanca ma
entusiasta per come era andata la serata, la macchina scorreva veloce fra le
strade della città e il silenzio che ci avvolgeva era carico di aspettative ed
elettricità; esatto elettricità, avete presente il momento in cui si arriva
alla fine di un appuntamento e ci si aspetta sempre che accada qualcosa, come
dire… di speciale?! Quello era il nostro momento, perché Aurelien sembrava così
teso mentre con lo sguardo teneva inchiodata la strada… e con la mano libera
cercava la mia abbandonata sul fianco.
“Questa città
è così romantica di notte. Dovremmo perderci e scoprirla.”
“Potremmo farlo… un
giorno. Io, te e la luna sulla Senna!”
“Ho l’impressione che
lei mi stia prendendo in giro MademoiselleBonnet..”
“Giusto un po’.” Allacciai
la mia mano alla sua, ridendo con lo sguardo lontano, verso i tremolii dei
lampioni dei ponti da sempre pacifici tramite delle due sponde della città;
eravamo proprio così io e lui in quel momento, due estremità sulla stessa scia
che cercavano si toccarsi.
Spense i fari
imboccando il viale di casa, il motore e fatto il giro dell’auto mi aiutò a
scendere; eramolto galante, profumato,
perfetto… bellissimo. Isuoi occhi erano
lucidi sotto il bagliore sfocato delle luci dalle lanterne ma il suo sorriso era
chiaro e significava una sola cosa; era felice, come lo ero io. Impacciato mi
sfiorò una guancia scostando i capelli dietro l’orecchio, sorrise ancora
incoraggiato da un mio sussurro e fece per avvicinarsi… se non fosse che un
rumore molesto e un movimento furtivo da dietro le tende delle finestre lo
gelarono in una risatina.
“Tua madre ci sta
spiando.”
Ritornai con lo
sguardo dalla casa al suo viso. “Già.. perdonami, non badare a lei è fatta
così.”
“E’ divertente invece.
Tu sei divertente e tuo padre è un grande uomo.”
“Grazie, sei gentile.”
Si schiarì la voce e
con fermezza cambiò tono. “Allora come finisce questa storia?!”
Lo guardai sorpresa ma
stetti al gioco. “Lui accompagna lei alla porta che distratta perde
l’equilibrio e finisce nelle sue braccia;lui la solleva e nel momento in cui i loro sguardi si incontrano le luci
in casa si accendono. Lasciano scivolare via le mani impauriti ma lei sorride e
lui scopre di non averne abbastanza, le prende il volto fra le mani e la bacia
agli angoli della bocca con una promessa. Ci perderemo.”
“Ci perderemo.”
Sottolineò la promessa
e mi avvicinò al portone, dietro la pesante colonna bianca di marmo che
spezzava la visuale delle finestre; si inchinò e prendendomi il viso fra le
mani mi baciò a un angolo e poi all’altro. Per un attimo sentii il leggero
tocco umido delle sue labbra accostato alle mie ed ebbi voglia di aggrapparmi a
quei folti capelli ramati e liberare la libido in una travolgente passione.. ma
restai ferma lì, immobile, con i pugni serrati ai fianchi, incapace di dire o
fare qualcosa. Non mi ero mai sentita così. Avevo diciotto anni e avere
diciotto anni nel millenovecentotrentotto non era
cosa semplice; l’amore era limitato a uno schema ben preciso che non prevedeva
sfori a meno che tu non fossi una meretrice. Diciamo che le mezze misure
nell’epoca in cui dovevo avere i primi sussulti d’amore non aiutavano molto ma
non avevano impedito certo che sperimentassi un mezzo bacetto con GaelPicard -un moccioso con cui
dividevo una classe di studi privilegiati- e un occhiata furtiva al suo membro
durante l’ora ricreativa nello sgabuzzino di Madame Eloise
la nostra maestrina e tenutaria della scuola; ero rimasta così turbata da
quell’immagine che mi ero rifiutata anche solo di sedergli accanto. Insomma
dell’amore.. fisico.. e pratico.. sapevo ben poco, quasi nulla; lavoravo più di
fantasia e miei ormoni giovanili facevano il resto.
“Ti passo a prendere
in una notte di luna piena.” Aurelien mi destò dai pensieri; mi stava lasciando
perché d’un tratto quell’elettricità e il calore del suo corpo erano svaniti.
Scrollai le spalle spazzando via i miei bassi istinti riprendendomi tutto
l’autoritario controllo, gli sorrisi e lo salutai con la mano rigida come un
pezzo di ghiaccio. Riflettei sulle sue parole e quando capii il senso muovendo
passi in avanti per fermarlo lui era già in auto pronto a sfrecciare via nel
tepore della notte.
Ci perderemo. Oh sì
noi ci perderemo.
Non riuscii a chiudere
occhio, non sfiorai nemmeno il letto. Parlare con Aurelien mi mise voglia di
stilare il finale del mio racconto con qualche giorno di anticipo, presi carta
e calamaio e passai la notte con Sara e Cheyenne e il loro amore spezzato. Alle
prime luci dell’alba, mio padre fece capolino nella mia stanza con un
biglietto, un mazzo di gerbere rosse e arancioni e dei pasticcini caldi; lo
guardai interrogativa e lui sorrise avvicinandomi.
“Qualsiasi cosa tu
debba aver detto o fatto sembra aver funzionato.”
Sfilai il biglietto e
lo lessi.
“In attesa di sapere quale è il tuo fiore preferito ti
faccio dono dei più belli, mio fiore.
Per me sei tu.
Aurelien.”
Lo poggiai al cuore,
lì dove nascono le emozioni. Afferrai carta e calamaio e scrissi a mia volta.
Chiusi il biglietto in una busta profumata alla lavanda color carta da zucchero
e la diedi a mio padre.
“Qualsiasi fiore ti faccia pensare a me.
Deesire.”
“Papà.. non potevi
scegliere uomo migliore.”
Gli baciai la guancia
e mi infilai nel bagno; il vestito vaporoso scivolò sul pavimento insieme alle
speranze di mia madre di vedermi un giorno in adorazione per la moda. Dopo il
bagno scelsi un vestito da giorno leggero e adatto alle temperature primaverili
che il mese di aprile ci stava regalando, optando per una tunica blu a
fiorellini bianchi che ostinatamente continuavo ad indossare seppur mia madre
la detestasse. Difatti sbuffò alla mia vista non appena ci vide passare, me e
mio padre, complici di ciò che era successo e lei ignara tutta presa da un
pranzo formale che stava organizzando. Sotto al braccio stringevo forte la
cartella con la copia originale del mio scritto e la busta alla lavanda che
dovevo spedire, papà sarebbe andato in azienda e mi avrebbe dato un passaggio.
Jerome ci salutò, gettando via la sigaretta; ero in trepidazione come sempre
quando mi recavo al Regards con una mia operetta fra
le mani.
“Vuoi che ti
aspetti?!” Dai vetri dell’auto mio padre mi guardò tornare soddisfatta dal
giornale.
“Ti ringrazio, faccio
due passi. Salutami Cedric.”
Mi salutò con la mano,
guardandomi fino a che il mio profilo non sparì dalla visuale. Lasciai che il
sole mi fagocitasse appoggiata al bordo Senna, deliziandomi di quel momento di
quiete mattutina; presto, molto presto, le strade si sarebbero riempite di
persone affaccendate, ministri, operai, suore e puttane e la città avrebbe
cambiato faccia come un cielo nero dopo la tempesta.
***
Ringrazio chiunque abbia
messo la storia in seguite o chi lo farà.J
Spero tanto che vi
piaccia e chi mi lasciate una traccia.
E’
risalendo per i viali dei Jardin du Luxembourg, che mi sentii chiamare; amavo
passeggiare, soprattutto in giornate come quella dove non avevo nulla altro a
cui pensare se non rilassarmi e il piccolo lusso verde a disposizione di noi
parigini era più che sufficiente ad esaudire tale richiesta.
“Di
qua! Deesire!” Un ragazzo biondo agitava la mano nella mia direzione, misi a
fuoco e riconobbi Fabien. Fabien in tutto il suo trasandato e chicchissimosplendore. Se
ne stava seduto fra le sedie di ferro simbolo del parco con una cartella color
cuoio sulle ginocchia, una camicia di cotone sblusata e dei pantaloni color
kaki.
“Non
ti avevo riconosciuto.” Mi misi seduta al suo fianco ed egli mi mostrò il
foglio bianco sulla quale se ne stavano in attesa schizzi di carbone. “tu
disegni!”.
“Quando
non ho da fare –cioè spesso- vengo qui.”
Sorrisi
sarcastica; suo padre era stato molto chiaro circa l’interesse del figlio per
gli affari di famiglia. Mi rilassai, sapevo così poco di lui che non lo avrei
biasimato se avesse preferito la sua arte all’arte del commercio. “Questo posto
mi.. ispira.” Sorrise di quel sorriso
che mi piaceva tanto.
“Anche
a me.” Annuii con il capo.
“Mi
hanno detto che sei una scrittrice.” Indicò la cartelletta che stringevo sotto
braccio. “Sono i tuoi scritti quelli?!”
Non
risposi e per tutta risposta me li sfilò senza porsi alcun freno; sobbalzai in
avanti nell’intento di bloccarlo e per poco non finii con la faccia sul prato.
“Fabien è buona educazione aspettare il consenso prima di prendere!” Mi alzai
stizzita piegandomi verso la sua faccia bellissima e provocatoria con quel
sorriso ironico di chi sa di avere davanti un bello spettacolo; ero a pochi
centimetri dalla sua bocca e me ne stavo lì a tener aperta la mia come un
dannato pesce senza ossigeno cercando di allargare le branchie –in questo caso
polmoni- per riuscire a sopravvivere.
“Sei
dannatamente buffa Deesire..” Mi soffiò sulle labbra soavemente. “Scusami.
Tieni. Non sono abituato a chiedere quando voglio qualcosa; in qualsiasi modo,
io la ottengo.” Gli arrivò un sonoro schiaffo sulla guancia. E le mie spalle
perché me ne stavo andando.
“Aspettami
dai..” Mi prese il braccio così saldamente che non potei fare altro che
fermarmi. “Ti chiedo scusa, sono un cretino. Ma non andartene, resta, la tua
compagnia.. mi rende felice.” Lo disse così soavemente che era difficile non
credergli, tuttavia misi il broncio per fargliela pesare. “Non si direbbe.”
“Credimi.
Ricominciamo, ti va?!” Mi condusse nuovamente alle sedie pregandomi di sedermi.
“Deesire che ci fai qui?!”
“Oh
Fabien gironzolavo per la città prima di incappare in un cretino, maleducato e
stolto!” Lo guardai con un sorriso finto come certi gioielli delle damine del
follie di Pigalle. “Tu, tutto bene?!”
Mi
guardò di sottecchi corrucciando le labbra. “Non me la darai vinta eh?!”
“Scordatelo.”
Rise
e mi sciolsi come burro. “Comunque so già tutto dei tuoi scritti, ti leggo ogni
sabato dal primo sabato.” Lo guardai interrogativa e si apprestò a rispondere.
“Non ti ricorderai di me ma da piccoli abbiamo frequentato lo stesso corso di
canto. Io ero piuttosto timido, quello che si direbbe un emarginato. Tu avevi già
la fissa dello scrivere, te ne stavi in mezzo alle principesse di Parigi ma ti importava
solo del tuo quaderno e dei tuoi disegni. Quando ho saputo che collaboravi al
Regards mi sono chiesto perché il Regards e non Le monde.” Rimasi senza fiato
quasi per quanto gli avevo sentito pronunciare; riuscii però a spiegarmi perché
mi sentivo così stranamente a mio agio in sua compagnia, riconoscendo in quei
ribelli capelli biondi quel ragazzino che se ne stava sempre all’angolo con la
testa bassa e le mani nere di china a scuola di solfeggio. Anche Baptiste lo
aveva detto a mia madre e d’improvviso provai tenerezza per quei ricordi
lontani e sbiaditi.
“Al
Regards mi tolgo le mie belle soddisfazioni. Ma anche tu a quanto vedo.”
Indicai i disegni, lui sorrise mostrandomi un ritratto di donna con le mie
fattezze; sussurrai nuovamente colpita e leggermente imbarazzata. “Per me?!”
Annuì.
“Punto
a togliermi anche io determinate soddisfazioni.” Diretto, ma non troppo.
Essenziale ma non troppo. Sostanzialmente il problema di stare accanto a Fabien
era il suo tono di voce; poteva dirti cose serissime con il sorriso in bocca e
dirti la più stupida delle cose con serietà teatrale. E riusciva ad incantarti,
non importa quanto tu volessi o desiderassi che non fosse così, lui ci
riusciva. Charmeur lo ribattezzai. Incantatore.
“Qualcosa
mi dice che non te importi molto delle aziende Chedjou, vero?!”
“Non
sono il mio pensiero primario, diciamo.. ho in mente altre cose.”
Era
la seconda volta che sentivo abbinare tale frase alla sua persona; mi
incuriosii e decisi di andare oltre. C’era qualcosa del suo animo che mi
affascinava molto.
“Non
credi di avere una fortunasfacciata e
di essere un po’ ingrato?!”
Inarcò
un sopracciglio. “Adesso chi è la sfacciata?!” Arrossii. “E comunque non voglio
rovinare la festa ad Aurelien, se capisci cosa intendo.” Era chiaro cosa
intendesse. “Dovresti essere felice per questo.” Era anche chiaro che se avessi
potuto suonargli su quella sua testa bionda la sedia sulla quale ero seduta lo
avrei fatto.
Era
stato arrogante. Arrogante e sfacciato.
“Bastava
che tu dicessi non è così.” Mi alzai e stavolta ero ben convinta di lasciarlo
ai suoi stupidi disegni e alla sua stupida presunzione da artista dannato. “Non
tutto gira intorno al denaro caro Fabien e per quanto possa essere frivolo
detto da una che è figlia del proprietario delle aziende Fontaine, credimi che
è così. Sposerò Aurelien per rispetto della mia famiglia e della sua, perché io
so cosa è il rispetto e non me ne sto a giudicare gli altri dall’alto al basso
come fai tu.” Non ascoltai nemmeno le sue proteste; me ne andai, incamminandomi
verso il laghetto centrale e di conseguenza verso la porta che dava sul
quartiere di Saint Germain des Pres con lo stomaco in subbuglio; abitavo
lontano ma camminai talmente svelta che quasi non mi accorsi di Jerome
l’autista e della sua mano che mi salutava. Entrai in casa defilata e salii
alla mia camera con il cuore un tamburo.
Fabien
Moreau era quanto di più sgradevole ci fosse a Parigi. Ma una cosa era certa..
sapeva farmi male.
Il
suo ritratto giaceva da giorni sullo scrittoio sotto altre carte; ogni tanto
spuntava un boccolo, poi l’angolo della bocca ne piccola ne carnosa, un occhio
fra le ciglia folte e scure che tradivano le origini della ragazza..
mediterranee come le mie. Guardandolo ripensavo a lui, ai giardini, alle parole
che gli avevo detto. Era un cretino e dovevo togliermelo dalla testa… semmai
avesse trovato modo di entrarci.
Due
colpi alla porta mi ridestarono; ero seduta sul letto a gambe incrociate
aspettando da giorni un ispirazione che non arrivava. Il sol pensiero di
tornare ai Jardin de Luxembourg –dove amavo perdermi e ritrovare la voglia di
scrivere- mi faceva venir voglia di mettermi a piangere.
“Deesire
c’è Aurelien in salotto.” Guardai mia madre stralunata. “Dice che eravate
d’accordo tu cenassi a casa loro stasera. Ti vesti così?!” Guardai il vestito
di chiffon giallo e la faccia dimia
madre per nulla contenta.
“Mi
cambio subito.” Non avevo voglia di protestare, ma avevo voglia di vedere
Aurelien alla svelta. Mi cambiai di fretta ma ricercata, con una tunica in
macramè e seta al ginocchio color avorio, di quelle che erano una via di mezzo
fra l’essere sopportabili alla vista di mia madre e comode come amavo io; non
ero longilinea come le ragazze francesi -vere mannequin nel più dei casi- ero
in carne seppur proporzionata, il mio fisico aveva tutte le caratteristiche del
popolo dalla quale discendeva mio padre –spalle larghe, vita stretta, fianchi
rotondi- e non amavo troppo metterlo in evidenza.
Pronta
annuii allo specchio, infilandomi un pettine di perle fra i capelli e scesi in
salotto.
Come
al solito, quando Aurelien mi vide si alzò per venirmi incontro; era vestito
informale, per la prima volta da quando uscivamo insieme, stringeva fra le mani
un mazzetto di lavanda tenuto da un nastro blu e mi sorrideva felice. E anche
io.
“Andiamo?”
Mi chiese con una strana bramosia addosso, conducendomi alla porta ed infine
alla sua macchina; aspettò che entrammo per voltarsi e chiarirsi. “Stanotte c’è
luna piena.”
Risi
e mi sentii terribilmente leggera; voleva scoprire Parigi di notte -io, lui e
la Senna gli avevo detto- e mi aveva regalato della lavanda; era stato attento
ai particolari e aveva mantenuto fede a una promessa. “Andiamo.” Affermai
sicura e partì.
Ci
spostammo dal Boulevard risalendo verso il quartiere latino, sfrecciando
accanto alla Sorbone e il Pantheon; in Rue de Morge scendemmo e mi comprò un
meraviglioso croissant alla crema, prendendomi in giro perché con lo zucchero a
velo avevo incipriato tutto il naso; mi baciò sulla punta per toglierlo via, io
sorrisi imbarazzata guardando altrove.
“Forse
dovremmo passare comunque da casa dei tuoi.”
“Non
ci aspettano, abbiamo tutto il tempo che vogliamo.” Poi guardando un punto
lontano, sorrise. “Ma immagino che è di tua madre che ti preoccupi, vero?!”
Annuii
vigorosamente con il capo prima di lasciarmi andare in una fragorosa risata; mi
abbracciò forte mettendo il naso fra i miei capelli, segno che la mia risata
doveva piacergli almeno quanto la sua a me.
“Hai
un buon odore…”
“Grazie.”
Sussurrai contro il suo petto che odorava di fresco e di lavanda. “Anche tu. La
lavanda è diventato il mio fiore preferito.” Ridemmo prendendoci per mano,
passeggiando sul Boulevard Saint Michel e i suoi bistrot prima di risalire in
macchina e spostarci dall’altra parte del fiume.
Riconobbi
il palazzo bianco prima ancora di imboccare Rue de Faubourg in St Honore, dove
Aurelien abitava e possedeva l’abitazione più imponente nel viale dei negozi di
lusso; sembrava passato un secolo da quando ero stata qui, da quando Aurelien
era solo il nome di un ragazzo ricco, da quando Deesire aveva smesso di essere
solo la ragazzina che scriveva ed era diventata una donna promessa sposa.
Mi
prese per mano, entrando; Martin e Ines stavano in piedi come sentinelle alla
quale avevano dato l’allarme di attacco. Sorrisi, ringraziandolo in un
sussurro. Restammo in piedi a fissarci come perfetti ebeti ma il Buon Dio volle
Aurelien dotato di sense of humor perché spalleggiando i genitori li invitò a
respirare e a comportarsi da perfetti padroni di casa quali erano.
Ines
era un incantevole come la ricordavo, una donna con ricci capelli più rossi che
ramati e due gambe lunghe come le ferrovie che attraversavano il paese, per
contro Martin era di statura media, la chioma folta e scura dagli stessi
riflessi del figlio, profondi occhi verdi e la bocca disegnata; un pool
genetico di tutto rispetto, alla quale Aurelien aveva attinto senza scrupoli.
La
donna mi guardava entusiasta. “Aurelien non fa che parlare di te è un piacere
averti qui, cara.” Vidi il ragazzo collassare sulla poltrona nella sala da
cocktail nel quale ci eravamo accomodati.
“Un
piacere assolutamente ricambiato, signora.” Le sorrisi mentre Martin mi passava
una coppa con due dita di ghiaccio e Martini bianco. “Suo figlio è un perfetto
gentiluomo.”
“Ti
ringrazio. Aurelien ha un fascino antico, lo dico sempre è nato in un epoca
sbagliata. Lo avrei visto bene in calzamaglia e parrucca.” Si abbandonò in una
risata cristallina e soave e a me sembrò d’aver sentito cantare una sirena; mi
portai una mano alla bocca cercando di soffocare una risata.
“Grazie
mamma se Deesire avesse avuto qualche ripensamento adesso è certo che
scapperà.” Poi lanciò uno sguardo accusatorio nella mia direzione. “Guarda che
ti sento..”
“Scusami
Aurelien ma saresti davvero carino..” E non mi trattenni più ridendomela
spassosamente.
“Ah
ma no fate pure voi due..” Berciò piccato quando ormai nella sala si udivano
solo le risate mie e di Ines; Martin ci guardava accigliato a un passo dal
trattenersi guardando me, Ines e poi Aurelien sempre più infossato nella
poltrona che si era fatta improvvisamente più grande di lui.
“Papà
anche tu ora?!” Si alzò stizzito, ma si fermò guardandoci; non resistette e si
lasciò andare in una risata fragorosa.
“Siete
sicuri che dovete andare?!” Martin ci stava trattenendo sull’uscio della porta
due ore dopo di risate e racconti dei loro viaggi; Ines mi aveva fatto
promettere che avrei lasciato a lei il compito di organizzare la luna di miele
e davanti a quegli adoranti occhi verde bottiglia non avevo saputo dire altro
che sì. Erano stati meravigliosi e pieni di apprezzamenti per me e la mia
famiglia.
“Non
stressarli caro, avremo sicuramente altre occasioni per avere Deesire con noi.”
Ines mi fece l’occhiolino stringendosi al fianco del marito.
“E
addio al fascino antico..” Aurelien rassegnato mi strinse la mano, “non
parleranno che di te da qui al nostro matrimonio.”
“In
realtà non così tardi,” Martin lo incalzò, “saremo ospiti dei signori Bonnet
molto presto. Il vostro fidanzamento è alle porte.”
Alla
parola fidanzamento io e Aurelien ci guardammo vagamente imbarazzati;
fantastico, pensai, la mia mamma fra i suoi deliri aveva sicuramente e
volutamente dimenticato di dirmi che il famoso pranzo che stava organizzando
con tanta premura mi avrebbe visto impalmare al dito un anello. L’anello.
Finsi
accondiscendenza sorridendo. “Dire che sarà un pranzo faraonico sarebbe
offendere mia madre.”
“Clorine
Fontaine.” Ines parlò con aria sognante. “Non vedo l’ora di perdermi ancora
nelle sue storie.”
“La
prego non glielo dica. E’ gelosa della sua stessa reputazione.”
Ines
rise abbracciandomi istintivamente. “Torna presto a trovarci Deesire.” Mi persi
fra il profumo dei suoi capelli e capii da dove nasceva quell’odore buono che
aveva il ragazzo dei miei sogni. Salutai Martin Chedjou porgendogli la mano ed
egli me la baciò portando ossequi alla mia famiglia.
“Wow!
Li hai stesi Deesire.” Aurelien mi cinse le spalle con il braccio mentre la
macchina ci portava per strade che sapevo di conoscere ma che il misto di
sensazioni che provavo in quel momento mi avevano fatto completamente
dimenticare; non era stato difficile fino ad allora e mi chiedevo dove fossero
nascosti i problemi, dove l’insidia del destino avesse messo la sua sorpresa.
Non
potevo credere di essere così schifosamente felice.
“Guarda
quanto è bella..” Appoggiati al parapetto del Petit Pont, ammiravamo Notre Dame
che si stagliava nel cielo notturno in tutta la sua algida forza; faceva
impressione guardarla dal basso, ci si sentiva piccoli e insignificanti. “E’
qui che mi piacerebbe sposarmi.” Lasciai che le parole accarezzassero i miei
sogni più reconditi ma il ragazzo posò su di me uno sguardo carico di
aspettative che mi indusse a correggermi. “Sposarti. Sposarci.”
“Non
posso prometterti Notre Dame ma.. il matrimonio sì.” Rise mandando via le
nuvole dai suoi occhi, gettando un occhiata veloce alla Senna placida.
“Non
ho nessun dubbio, Aurelien.” Rimarcai le parole perché volevo che le udisse;
vidi la gioia nei suoi occhi e continuai. “Io ti sposerei anche con la parrucca
e in calzamaglia.”
“Vuoi
dire che non lo fai per obbligo?!” Chiese, per nulla vago; mi sentii come se
stessi camminando su una lastra di ghiaccio sottile e sotto di me.. il baratro.
Presi tempo, cercando nella mia testa il modo più semplice possibile per
spiegargli che nonostante sembrasse non avessi scelta in realtà ero felice.
“Credo
che un domani sarà diverso, le donne forse saranno libere dallo status di
matrimonio e potranno decidere cosa sia meglio o peggio per loro. Ma io sono
figlia di questa epoca e le donne dipendono da questo status che ci vuole mogli
e poi madri ma.. per fortuna io ho te Aurelien. Capisci?!” Mi voltai cercando i
suoi occhi, “cosa posso dirti, sono stata fortunata. Non vivrò il tormento di
un uomo che disprezzo e non mi farò diseredare dalla mia famiglia, se ti sembra
poco.” Ero ironica, ma tornai seria l’esatto istante in cui il suo viso si
portò prepotentemente vicino al mio; eccola la sentivo.. l’elettricità.
Chiusi
gli occhi d’istinto, perché il cuore aveva preso a martellarmi nella cassa
toracica minacciandomi d’esplodere se non avessi messo fino allo spettacolo
della leggera inclinazione del suo volto contro il mio, delle sue labbra
morbide e carnose contro le mie, del tocco audace della sua lingua insinuatasi
nella mia bocca. Doveva sentirla anche lui, per lasciarsi andare in tale
maniera sconsiderata ne ero certa, perché le nostre lingue adesso stavano
lottando furiosamente l’una contro l’altra spargendo la passione tutta intorno;
non mi ero mai sentita così –ok non avevo mai baciato nessuno così- ma le
soddisfazioni che mi ero tolta nei miei diciotto anni di vita sembravano
sterili inutilità difronte a quello che mi stava capitando.
Un
bacio che trovò la sua pace solo perché due signorine un po’ succinte passando
di là avevano fischiato alla nostra volta, costringendoci a separarci; il
singulto che fuoriuscì dalla sua bocca lo costrinse a scusarsi.
“Per..
donami Deesire, non so che mi è preso.”
“Non
scusarti è stato così bello...” Tornai lievemente alla sua bocca, stringendo le
braccia alla sua schiena; rimasi ferma lì ad ascoltare il suo respiro e la
naturalezza di due bocche che si vogliono e tacciono. “Credo che potrei non
volerne mai abbastanza.” E il pensiero sfiorò cosa sarebbe stato quando i baci
fossero diventati secondi solo a qualcosa d’altro. Arrossii violentemente e il
lampo di malizia nei suoi occhi mi fece capire che anche lui stava pensando la
medesima cosa. “Anche io.” Si affrettò a dire scacciando via i tumulti
dell’animo giovane. “Ma questa notte è ancora lunga. Voglio baciarti in ogni
angolo, via, strada…”
“Paese…”
“Paese,
sì. Dovremmo fare un viaggio. E poi altri cento! Dimmi dove vuoi andare ed è li
che sarai!”
“Shh”
Gli tappai le labbra con una mia risata prendendogli il volto fra le mani; era
incredibilmente bello con la felicità appesa negli occhi, le gambe che
saltavano impazzite in preda a un raptus.. sembrava il bambino durante l’ora di
ricreazione. “Per ora mi basta anche Parigi.. con te. E la Tour Eiffel, che ne
dici?”
Sorrise
sfilando le chiavi dell’auto dalla tasca. “Tour Eiffel sia.”
Attraversammo
l’ile de la citè, imboccando la riva destra in tutto il suo perimetro,
tagliando in due la città; Place della Concorde, l’Opera, Saint Eustache
sfrecciavano veloci, nomi a noi familiari perché facenti parte della riva sulla
quale risiedevamo, ma affascinanti sotto l’occhio nuovo della luna che le
faceva brillare. Guardavo entusiasta tutto il bello che ci circondava, Aurelien
con il viso accigliato mentre teneva la guida con una mano e l’altra
intrecciata nella mia, la Senna alla nostra sinistra come un grande specchio
dove le cose si duplicavano e non desiderai essere da nessun altra parte se non
lì, in quella macchina, con quel ragazzo, in quella città.
Ripensai
spesso a quella sera negli anni; avevamo scritto i racconti per i nostri
nipoti, quella sera dei cento baci sotto la Tour, di Aurelien che si
inginocchiava, mentre il mondo era a dormire, che mi chiedeva di sposarlo come
se non fosse già successo, come se non fosse già stato scritto.
“Sì.”
Gli risposi con il cuore martoriato e pazzo. “Ti sposo.”
E
via così, verso altre mete a mangiare la notte, infinita, ma troppo corta per
due innamorati.
“Aurelien,
che è successo, stai bene?!” Rincasò che la luna era sbiadita; Martin
attraversò i corridoi in vestaglia temendo un incursione notturna di ladri, ma
sobbalzò, alla vista del figlio vestito di tutto punto e con la luce dell’alba
alle finestre.
“Domani
devi parlare con il prefetto. Voglio Notre Dame, papà.” Si accomodò in poltrona
fissando il padre con sguardo greve. “E’ lì che sposerò Deesire.”
“Notre
Dame, sì, sì.” Martin berciò assonnato. “E’ complicato ma non impossibile. C’è
altro?!”
“La
data.” Si guardarono per un po’ senza dire nulla, Martin ormai certo di non
ritrovare tanto presto le coperte calde che aveva lasciato si accomodò affianco
al figlio tutto orecchi.
***
N.D.A
Il
primo bacio di Aurelien e Deesire, signori e signore!
Vi
è piaciuto come è andata? Vi aspettavate di meglio? Fatemelo sapere!
Era
inevitabile, questo sì. Ho voluto parlare e voglio parlare di loro come due
ragazzi normali nonostante le privazioni che l’epoca imponesse sulla loro
educazione e considerata la situazione grazie alla quale si sono conosciuti;
non li immagino troppo bigotti insomma, rispettosi delle regole delle loro
famiglie ma non estremizzati e perlomeno felici perché si piacciono.. e forse
qualcosa di più. J
Intro
dedicato a Fabien e al suo amore per l’arte; ho voluto che si scoprisse un po’
più di lui attraverso la curiosità indomita di Deesire che l’attrae verso il
ragazzo senza –in fase iniziale- buone ragioni.
Che
altro dire.. continuate a seguirli!
Io
intanto ringrazio tutti coloro i quali hanno messo la storia nelle seguite e
chi lo farà; mi fate felice! J
Spero di avere
presto qualcuna di voi fra le recensioni.
C’era solo un'altra
cosa che amavo fare almeno quanto scrivere; cucinare.
Non ho mai capito bene
la pertinenza fra le due cose -semmai i gusti dovessero essere in qualche modo
pertinenti- ma era così, adoravo stare ore in cucina e rubare con gli occhi i
trucchi del mestiere da Gerald uno chef che saltuariamente si occupava della
mia famiglia e quando poi di spezie, carni e dolci ne avevo abbastanza tornavo
alla scrittura. A volte riportavo su un taccuino che avevo sempre con me, le
ricette che mi erano riuscite meglio e non era difficile trovare appunti di
storie di pirati alternati a che ne so la ricetta de la soupe de poisson, per esempio; la trovavo
oltremodo divertente questa fusione di cose, ero convinta che il cibo contasse
molto più delle parole a volte nei rapporti sociali, per cui nelle mie storie i
miei protagonisti potevano struggersi d’amore e d’invidia, ma non avrebbero
patito mai la fame.
Il mio forte era la patisserie; certo non
d’alto livello, ma ci stavo lavorando sodo. I biscotti di frolla erano la mia
specialità e per farli mi servivo spesso di alcune spezie che mio padre si
faceva inviare dal Marocco; quando aprivamo i pacchetti che li contenevano io e
lui ci infilavamo la testa dentro per sognare, avvolti da una nuvola di
zenzero, cannella, curcuma e coriandolo.
Quel dieci maggio del millenovecentotrentotto, in cucina, si stava preparando
quello che a tutti gli effetti poteva sembrare il pranzo di un Maharaja; Gerald
stava alternando piatti tipici della cucina marocchina al gourmet francese, ed
io ero lì ricurva sui pentoloni di vapore rovente ad assaggiare questo e
sistemare quello. Fino a quando mia madre non decise che si era fatta ora di
prendermi con se e passarmi alle arti magiche del trucco e parrucco.
“Ma è necessario? Non
credi che dopo un mese Aurelien conosca già il mio viso alla perfezione?!”
“E’ necessario.”
Armata di spazzola Clorine mi districava i nodi dalle
onde fluenti; capelli ne ricci ne mossi, di un castano scuro, come caffè. ”Oggi
è una giornata importante.”
“Lo so.” Berciai, “non
fai che ripeterlo.”
“Per quanto tu e
Aurelien siate ormai.. consapevoli, ci tengo che si dica che sei meravigliosa.
E lo sei figlia mia, bisogna solo evidenziarlo un po’ di più.”
ClorineFontaine era la quinta
essenza della vanità; lei non solo peccava, era il peccato stesso.
Qualcuno bussò alla
porta, Petit e un aiutante dall’atelier di Madame Chantal apparvero sull’uscio;
guardai mia madre implorante. Un altro vestito. Come se fra l’intera collezione
haute couture della stagione passata appesa alle grucce del mio armadio non ci
fosse qualcosa di sufficientemente adatto all’occasione. Le ragazze
sgambettarono verso di noi con un porta vestiti più alto della loro statura.
Sorrisi imbarazzata alzandomi quasi di getto, come a dire sono vostra, so già
che mi sbranerete. Difatti gli sguardi delle tre donne erano azzeccatissimi al
mio pensiero; tre donne, un vestito, una cavia.. praticamente il delirio.
Il rumore della zip
che scendeva e rivelava mano a mano il suo contenuto mi fece rabbrividire; ne uscì
fuori un tripudio di seta e organza in un abito dalla linea attillata sul busto
e svasata sul fondo, con un gioco di lunghezze -avanti corto al ginocchio,
dietro lungo e a coda- di un delizioso color cipria. Petit lo scrollò in avanti
per ridagli forma e farmi ammirare il gioco di luce delle piccole applicazioni
di cristalli sul corpetto; sussultai alla vista di quell’arcobaleno lucente, ma
delicato. Guardai mia madre in stato di grazia -come al solito quando madame Chantal
riusciva ad accontentarla- e mi arresi a indossarlo. Mi andava neanche a dirlo
perfetto, cominciando a sospettare che quelle due si fossero messe d’accordo
nel riuscire un giorno a convincermi che la moda era cosa bella e giusta.
“Tu non mi avrai preparato
anche il vestito da sposa.. vero?!” Girai su me stessa cercando gli occhi di
mia madre, in preda al panico; era ancora imbambolata sul riflesso dello
specchio, ma si ridestò non appena udì la mia voce farsi stridula e tremante.
“Vero mamma?!” Le due ragazzine sghignazzarono e non lo trovai per nulla
divertente. “Svelte, toglietemi questo vestito e sparite, devo fare due
chiacchiere con la signora.” Ero stata perentoria e maleducata, ma urgevano
assolutamente due chiacchiere mamma/figlia. Le due si affrettarono a spogliarmi
e dileguarsi sgambettando come erano arrivate. “Non sappiamo ne come, ne dove
mi sposerò e tu mi hai già confezionato un abito?! Ti prego è uno scherzo
vero?!”
“In realtà.. i vestiti
sono tre..” Credo fossi diventata verde di rabbia, ma si affrettò a continuare
prima di farmi esplodere, “sono dei campioni cara.. non.. non potrei mai
scegliere il vestito al posto tuo.”
“E quello?!” Indicai
il vestito innocentemente bellissimo ma colpevole di esser stato scelto al
posto mio.. come tutta la serie di vestiti appesi nell’armadio.
“E’ diverso. Madame
Chantal ha le tue misure, il cipria ti dona e..”
“Mamma!” Protestai a
gran voce.
“Deesire..”
Mi mise una mano sulla spalla cercando di calmarmi, “sogno questo momento da
quando ti ho stretta fra le braccia la prima volta, quando sei nata, ero lì che
ti guardavo piccola e gracile e pensavo un giorno sarà sposa.” Si asciugò
l’angolo dell’occhio umido e proseguì, “sono una sentimentalista, sciocca e
fanatica, ma voglio il meglio per mia figlia e non mi pento per questo. Ti amo
più di ogni cosa.”
Guardai
quell’incrollabile donna portarsi una mano al fianco quasi stizzita dal fatto
che avessi messo in dubbio il suo amore per me e provai tenerezza. “Vieni qui.”
Allargai le braccia per accoglierla nelle mie. ”Non sei una sciocca
sentimentalista mamma, sei forte.. troppo a volte, ma ti amo e capisco che
tutto ciò che sei e che mi fa arrabbiare è perché vuoi il mio bene.” Ci
abbracciammo forte e restammo lì, io in vestaglia con i capelli acconciati, lei
vestita di tutto punto e gli occhi umidi.
“Ma se le tre opzioni
non mi piacciono si passa ad altro, ok?!”
Annuì sorridendo; le
passai la gruccia con l’innocente abito bellissimo e l’invitai ad aiutarmi.
Passata la crisi
guardammo l’orologio; era quasi ora per gli invitati, scendemmo nella sala ai
piani inferiori e aspettammo impazienti. Mia madre dette le ultime direttive affinchè tutto venisse sistemato in maniera perfetta,
coordinò la servitù nelle loro posizioni e mi avvicinò; mi tremavano le gambe,
potevo sentire i cristalli del vestito tintinnare fra di loro, mi guardò con un
sorriso amorevole e mi strinse forte la mano nella sua.
Il portone si aprì e
la faccia paffuta di Baptiste Moreau ci venne
incontro, scortando sotto braccio la sua giovane dama; appena dietro di loro
Juliette e il suo bellissimo sorriso riempirono di luce l’ingresso tenuta
stretta da l’uomo che avrei voluto di meno fra gli invitati alla mia festa di
fidanzamento.. Fabien. Mi sfilarono accanto in una
processione lenta, Juliette mi strizzò l’occhio facendosi sfilare il soprabito
dal commesso di sala, Fabien mi urtò nel tentativo di
tenersi in piedi; lo uccido, pensai e subito dopo mi arrivò la scia dolce-amara
di contreau. Si era presentato ubriaco al mio pranzo.
Convenni di dover dare in escandescenze, ma mi ritrovai a sorridere
stupidamente a mia madre e ai suoi borbottii.
“E’ nervoso..”
Juliette alzò le spalle, sparendogli dietro.
“Baptiste
farà bene a tenerlo legato, parentela o meno non ammetto spettacoli al mio
tavolo.” Clorine sovrastò il silenzio imbarazzante,
mio padre gli cinse le spalle affettuosamente. “Clorine
è un giovane scanzonato, nullaltro..” E mi guardò
come se io potessi dare loro una conferma. Fabien
Moreau era un maleducato, cialtrone, cretino.. ed era di una bellezza
devastante. E mi aveva fatto male. Oh no, il suo maldestro tentativo di
baciamano mi aveva appena sfiorato, pensavo ai giardini ovviamente e al sol
accenno di pensiero mi venne l’orticaria. Mi morsi il labbro, cercando di
volgere le mie attenzioni altrove, come ad esempio ai Dupont fratelli e qui
ebbi ampie gomitate da mia madre. “Sembra dovrai ringraziare lui se la mano ti
peserà..” Grandioso, pensai, sa anche quanto peserà il mio stramaledettissimo
anello di fidanzamento; c’era qualcosa che poteva esserle nascosto?
Uno ad uno arrivarono
i circa venti ospiti del pranzo, con dieci minuti di ritardo –i dieci minuti
più sofferti della mia vita- arrivarono i Chedjou;
Jacques, Martin, Ines e Aurelien con un fascio di lavanda stretto al petto. Mi
era mancato, potevo avvertire la fastidiosa sensazione di un buco nel cuore che
si riempie.
“Sei bellissima.” Mi
porse i fiori ed mi ci tuffai dentro.
“Ti prego portami via
da mia madre..” Gli dissi afferrando il suo braccio e seguendo la processione
al buffet d’entrata; il corridoio apriva con due sale, noi ci infilammo in
disparte in quella più piccola adibita a solarium. Richiusi la porta alle mie
spalle e non appena il vociare si fece ovattato, Aurelien si piegò sulle mie
labbra sigillandole alle sue.
“Sembra che la mia
mano dovrà sopportare il peso della situazione oggi..” Sbuffai provocando nel
ragazzo una risata schietta. “Oh Aurelien ti prego fa che non mi debba pentire
di averti detto sì.”
“Qualche
ripensamento?!”
“Solo un po’ di
ansia.” Mi strinsi al suo petto, lui passò la sua grande mano sui miei capelli.
“Passerà.” Lo guardai
infondo agli occhi verde bottiglia e desiderai ardentemente che fosse così; fra
le sue braccia mi sentivo al sicuro ma c’era qualcosa che mi raschiava dal
fondo. Inquieta, mi sentivo inquieta. “E comunque non è così grande.” Mi
riacciuffò dalle tenebre e mi riportò nello sconforto. “Diciamo che ha il
giusto valore come somma dei miei sentimenti per te.” E questa cosa è una
dichiarazione? Calma, calma Deesire, i sentimenti
offrono un ampia gamma di sfaccettature e.. “Deesire
io credo di..” Le mani di Aurelien stavano vagando sui contorni del mio volto e
sentivo la potenza del suo sguardo nel mio, cosciente che ciò che avrei udito
mi avrebbe potuta fare a pezzi d’amore.
Ma tutto quello che
sentii aimè fu un grande botto, la porta spalancata e le sagome di due persone
che si fiondavano -nel vero senso della parola- nella stanza; la risata
chiassosa di Juliette fu la prima cosa che udii, forte e chiara, seguita in
coda dal risolino isterico di Fabien.
“Fantastico..”
Biascicò Aurelien. “Che gioia avervi qui, cugini..” Non so se mi urtò di più il
“cugini” chiaro segno che Juliette era ormai abbinata a Fabien
o la loro presenza stessa, cosa forse più fattibile visto che il mio quasi
fidanzato stava quasi per farmi una dichiarazione e i due avevano interrotto il
quasi momento epico della mia vita.
“Abbiamo portato i
rinforzi!” La biondina sfilò dalle spalle una bottiglia di champagne, la
guardammo talmente male che smorzò la risata e si morse le labbra. “Abbiamo
interrotto qualcosa?!” Lo dicevo che non era stupida. Era il tempismo che le
mancava. E un po’ più di sale in quella testolina bionda e bella perché se ne avesse
avuto avrebbe evitato al babbeo che aveva affianco di collassare sulle su
stesse gambe per quanto alcool gli girava nelle vene.
“Figurati..” Era vivo,
barcollante e poco lucido, ma ancora parlante. “Staranno sempre appiccicati.”
“E’ così che si
comportano le persone innamorate.” Aurelien lo rimbrottò ancora infastidito; a
me era quasi passata e dopo aver sentito sulle sue labbra la parola
“innamorate” ero decisamente molto contenta. Sì, decisamente tutto passato.
“Dovresti saperlo.” Indicò Juliette che per tutta risposta gli rise in faccia.
“Fra me e Fabien c’è un tacito accordo. Niente amore caro Aurelien,
quindi.. non darti pena e stai allegro è la vostra giornata!” Alzò la bottiglia
e ci si attaccò forsennatamente; la guardai accigliata, c’era una strana
tensione in quella stanza, al limite possibile della sopportazione umana,
qualche goccio di champagne in più avrebbe potuto scatenare una catastrofe, ne
ero certa.
“Va bene..” Le tolsi
la bottiglia dalla mano, prima che potesse rendersi conto del gesto stesso e la
lasciai su un settimino. “Questa resta qui, ma perché Aurelien non fai vedere
il resto della casa a Juliette mentre io penso al caro cugino e alla sua
sbronza?” Mi guardarono tutti un po’ perplessi, “voi non avete idea di cosa è
capace ClorineFontaine se
le cose non vanno per il verso giusto.” Cercai di essere simpatica ma il
risultato fu una frase isterica con un maledetto ghigno isterico che però
recepì solo il mio amato Aurelien –ben conscio di che genere di donna fosse la
sua quasi suocera- al punto che prese Juliette sotto braccio per andare fuori
senza batter ciglio.
“Ma che ti è saltato
in mente?!” Tuonai alla volta di Fabien una volta
rimasti soli.
“Deesire
non potevo immaginare che c’eravate voi al di là della porta.” Parlava
biascicando; stava messo proprio male. “Che poi cosa avremmo mai interrotto di
così importante..”
“Non mi riferisco a
quanto successo dentro a questa stanza Fabien..” Mi
toccò spiegarmi come si fa con i ragazzini ed anche la sua attenzione era come
quella di un ragazzino dal momento che stava tutto accartocciato su se stesso,
lo sguardo vacuo, la camicia sbottonata e il papillon tutto storto..
impossibile però non sorridere, riusciva ad essere comico anche in una
situazione del genere. Ma tu lo odi Deesire, ricordi?
Cercavo di non scordarlo ma era impossibile. “E comunque non sono affari tuoi.
Dai vieni con me, non te lo meriti ma voglio darti almeno una chance.”
“Dove mi porti?!”
“Nelle cucine, ti
serve un buon caffè e poi una rinfrescata.”
Ci allontanammo
eludendo i corridoi e le sale dove si era concentrata l’alta società di Parigi,
defilandoci per un corridoio secondario che mio padre aveva voluto per
dileguarsi in certe occasioni formali quasi quanto questa, dove al posto dei
pasticcini c’erano montagne di carte da firmare e discutere. Fabien mi era dietro e mi seguiva in stato mummificante, la
mano dentro la mia mano.
“MademoiselleDeesire, vostra madre mi ha pregato di tenervi
lontana dalle cucine.”
“E’ un emergenza
Gerald. Monsieur Chedjou ha bisogno del vostro aiuto..”
Avevo camuffato volutamente le cose per evitare che il cuoco facesse troppe
domande e che il nome altisonante lo costringesse a scattare senza dar noie;
difatti Gerald intuito il problema.. dall’odore.. aprì una cristalliera accanto
alla finestra, prese una bottiglia con del liquido verdastro e ne versò due
dita senza emetter fiato.
“Deve ingoiarlo in un
sol fiato. All’inizio è amaro, poi dolciastro.. ma la sbornia passa in fretta.”
Fabien allungò un braccio controvoglia, annussò ed arricciò il naso. “Cos’è questa roba?!”
Gerald sorrise. “Sono
erbe medicamentarie più un mio tocco segreto.” Fabien
negò con il capo allontanandolo dalle labbra; sbuffai impaziente.
“Puoi dircelo Gerald,
il tuo segreto è al sicuro. Chedjou è così ubriaco
che domani non ricorderà nemmeno di aver avuto questa conversazione ed io sarò
una tomba, promesso!” Mi baciai le dita incrociate sulle labbra pregando il
creato che si sbrigasse a parlare e convincere Fabien
lo schizzinoso a non fare storie. “Per favore..” Calcai la mano disposta anche
a rotolarmi sul pavimento pur di avere quella stupida ricetta.
“Erbe, un pizzico di
zenzero e tre parti di cannella.” Fu come condannare un uomo a morire, “sono
molto legato a questa ricetta. Lo zenzero e la cannella sembrano così distanti come
sapori, ma una volta uniti sono complementari.. come certe persone.” Guardò
lontano come se più di un segreto gli fosse sfuggito dalle labbra; sorrisi,
chissà chi era la sua parte distante.
“Nulla di pericoloso
per la tua vita, hai sentito? Adesso non puoi più fare storie, Gerald è stato
così gentile da svelarci la ricetta, glielo devi.” Mi accucciai al suo
orecchio, “e lo devi a me, ti ho salvato.” Mi guardò sconcertato e mando giù
controvoglia l’intruglio; qualcuno intanto con calderoni bollenti richiamava la
forza di Gerald che si scusò congedandosi.
“Sono sicuro che se
fosse veleno lasceresti che me lo bevessi.”
“L’idea mi stuzzica,
ma non sei così importante.” Lo canzonai, muovendomi nella cucina alla ricerca
di pezzuole pulite e una bacinella colma d’acqua. “Ma voglio darti una seconda
opportunità Fabien Moreau, puoi riscattarti dalla tua
reputazione di ragazzo maledetto. Un clichè
insopportabile.. artista bello e dannato. Sai fare di meglio.”
Feci scorrere la pezzuola
fresca sul suo viso e mi incantai sui tratti perfetti; era bello sul serio, di
una bellezza sfacciata, che ti ci posi su e per quanto tu possa distogliere lo
sguardo ci ritorni per controllare di non avere le traveggole.. pericoloso,
molto pericoloso se hai diciotto anni e stai per fidanzarti. Decisi di
distogliere lo sguardo e lasciare che continuasse da solo.
“Ce l’hai con me e lo
capisco, sono insopportabile anche per me stesso a volte, ma vorrei davvero
ricominciare da capo, Deesire.” Si tastò il viso con
l’acqua, “mi dispiace.. amici?!” Allungò la mano e gliela strinsi senza
indugio, sicura che non sarebbe stato facile –Fabien
era tutt’altro che malleabile, nonostante l’allegria e i sorrisi aveva l’anima
torbida, lo avevo percepito- ma ci si sarebbe potuto lavorare su con il tempo,
infondo avremmo fatto parte entrambi della stessa grande famiglia, dolente o
volente lo avrei avuto intorno. Ed ero sicura che infondo, non mi dispiaceva
affatto.
Riemergemmo dalle
cucine che la sala del banchetto era ormai gremita di persone; Fabien entrò per primo accomodandosi fra il padre e
Juliette nei primi posti del tavolo, poi venne il mio turno, ben calcolato da
dietro le colonne mentre mi allisciavo nervosamente il vestito e sistemavo i
capelli che il vapore mi aveva afflosciato. Perfetto, pensavo, mia madre
tenterà di soffocarsi il viso nella zuppa. Presi un bel respiro e feci il mio
ingresso, annuivo con il capo mentre con gli occhi scorrevo sui volti familiari
-e non troppo- intorno alla tavola elegantemente imbandita; i candelabri in
argento luccicavano sotto ai cristalli dei lampadari, le tovaglie bianche di
merletto odoravano di fresco e risaltavano con i centrotavola di lavanda –avevo
costretto mia madre ad adoperare il mio nuovo fiore preferito- le pietanze si
ergevano sui vassoi in un artistico gioco di cromie di colori e sapori, ed era
tutto perfetto come ci sarebbe aspettato da Clorine e
la sua squadra composta da dodici fra commessi di sala, camerieri e cuochi.
“Entrata perfetta.”
Mia madre tirò dietro l’orecchio un ciuffo ribelle del mio semi raccolto, ben
attenta a non farsi scorgere. “Fortuna nessuno ha notato quell’insignificante
Moreau prima del tuo arrivo.” Già, fortuna sfacciata; mia madre era capace di
devastare il mio umore come nessuno.
“Insignificante, non
direi.” Il papillon era tornato dritto e il vapore aveva ravvivato il cotone
blu del suo abito perfetto ed elegante, ma mia madre non avrebbe capito mai il
senso delle mie congetture per cui scossi il capo alla sua occhiataccia, “niente,
lascia stare.”
“Signori, sono lieto
di avervi come ospiti a questo tavolo.” Mio padre dal capotavola si alzò con un
calice di bollicine in mano. “E sono onorato del motivo per cui siamo riuniti
oggi, alla famiglia Chedjou vanno imiei ringraziamenti speciali, per il loro
Aurelien, questo brindisi è per lui e per la mia adorata Deesire.
‘A votresanté!” Tintin, molti calici si
sfiorarono, guardai furiosa Fabien, due posti dopo il
mio dall’altro lato del tavolo, agguantare un Cabernet Sauvignon ed il mio capo
energicamente dissentiva da tale, pericolosa scelta che lo avrebbe ricondotto
certo verso una via impervia e monosillabica.
Aurelien da sotto il
tavolo legò le nostre mani. “Finalmente sei qui..” Si avvicinò piano al mio
orecchio sussurrando, “non è stato facile tenere a bada Clorine.”
Sorrisi e lui con me… non lo avevo notato fin ad ora ma era dannatamente
perfetto nel suo smoking fumè. Si tirò sul con il
busto e con il mento indicò Fabien, “sembra rinato.
Non l’ho mai visto così, chissà cosa gli passa per la testa.”
“E’ nervoso, lo ha
detto Juliette.”
“Beh non lo capisco.
Juliette è giusta per lui, perdonami se uso noi come comparazione ma.. sarebbe
un altro matrimonio.. perfetto.. questa storia del non amore mi sembra così
infantile.”
Guardai ai due e mi
convinsi che per quanto una persona poteva farti ridere e avere i tuoi stessi
gusti, in quanto scelta “indirizzata” da qualcun altro restava comunque una
scelta non tua.. se non c’era amore. “Lui non ha te.. come me.” Sdrammatizzai
ridendo, perplessa da come non si poteva amare una come Juliette, se non per la
sua verve spiccata anche solo per il suo viso angelico. “Credo che Fabien adesso pensi ad altro.” Cercai di sopperire questa
frase con altro ma sentirla ripetere spesso mi aveva fatto credere che fosse
proprio così; non gliene fregava nulla che Juliette era bellissima, qualcosa
prima di questo, aveva la precedenza.
Anche se il qualcosa a
me restava comunque sconosciuto.
“E’ sempre stato sopra
le righe..” sul volto di Aurelien si aprì un sorriso di ricordi lontani, “una
volta, da ragazzini, mi confidò di essersi preso una cotta per una ragazzina
del corso di solfeggioe quando gli
dissi di invitarla a pranzo negò così arditamente che credetti non esistessi.
Ancora oggi lo prendo in giro con questa storia.. dovremmo chiedergli chi
fosse, tu hai frequentato la stessa scuola, magari la conosci.”
O magari quella
ragazzina ero io. D’un tratto la sala si era fatta vorticosamente movimentata,
nonostante le mille calorie e passa di porzione in porzione, vedevo le stelle
come un affamato; che Fabien avesse una cotta per me
mai sopperita?! Che il motivo di tanto nervosismo, della sbronza, delle
provocazioni al parco fossero solo una sorta di diversivo per sopperire tali
sentimenti?!
“Ma no, figurati se si
fa turbare da una donna. Non chiediamogli niente, ci prenderebbe in giro.” Ero
confusa, ma non a tal punto da credere di essere così importante nella vita di Fabien Moreau e soprattutto non potevo permettere ad
Aurelien di scavare in questa storia, perciò scossi animatamente il capo e mi
convinsi a lasciar perdere.
Era il mio
fidanzamento quello in cui ci stavamo tuffando.. non un menage
a trois.
Era arrivato il
momento, lo leggevo sui visi stravolti di Bordeaux e Cabernet, la tavola
svuotata e l’aria che sapeva di pasticcini caldi; il dessert, altre bollicine,
l’animo disteso.. il momento adatto per una dichiarazione. Aurelien mi guardò
carico di entusiasmo, allacciò le nostre mani tintinnando la forchetta sul
bicchiere mezzo pieno; eravamo in piedi, il brusio calò, il vino smise di
scorrere, il tempo si fermò.
“Monsieur Ahmed lei ha
ringraziato i miei genitori perché hanno me, ma sono io che la ringrazio per
questo fiore di donna che lei e Madame Fontaine avete
messo al mondo.. per me. Sono onorato di avere accanto a me una creatura come Deesire e vi spiego subito perché. La prima volta che l’ho
vista ho pensato ovviamente che fosse bellissima.. e sapete cosa mi ha detto
lei, la prima cosa? Non sono la fanciulla più accomodante che ti potesse
capitare.” Prese tempo, mi guardò sorridendo e poi tornò alla sala. “E’ stato
amore, capite?!” Tutti risero, mi sentii sollevata, vista da fuori dovevo
sembrare una specie di dittatrice isterica. “E mi disse che c’era tempo, per
sposarci.. io convenni che se brandy e sigari non ci avessero aiutato con le
nostre famiglie saremmo divenuti nuovamente estranei ma…” Sulla scia di una
risata e il ripiombare del silenzio, Aurelien si inginocchiò, sfilò dal
taschino un cofanetto di velluto blu e lo aprì; ecco, come descrivere ciò che
provai in quell’istante, se non morire e rinascere all’infinito?! “Deesire, la sbronza è finita, i nostri genitori si parlano
ancora –a proposito non vi offendete se non rispetto la tradizione, vero?- Deesire, mi vuoi sposare?!” Nessuno obbiettò a questa
domanda e io la trovai deliziosamente originale e irresistibile; era anche
meglio dei miei sogni romantici, mio padre, la poltrona.. roba superata, si era
inginocchiato difronte la crema di Parigi, con un anello che brillava quanto il
lampadario sui soffitti porgendomi la fatidica domanda. Feci del mio meglio
anche io per spezzare le tradizioni e mi gettai su di lui, quando si alzò per
guardarmi dritto negli occhi; mi acciuffò al volo stampandomi un bacio a fior
di labbra. Partirono gli applausi, mi rimise giù. “Devo prenderlo per un sì?!”
“Sì!” E lo abbracciai
ancora, guardando mia madre in un fiume di lacrime e quell’anello, un diamante
a forma di spiga incastonato su una fascia di piccoli diamanti, perfetto e
bellissimo e mio.
Ci spostammo nella
sala dei ricevimenti e mio padre dette il via all’orchestra di animare la
serata. Mi accorsi di non avere Aurelien al mio fianco da troppo tempo quando
passai la mia mano fra la mano della centesima ragazza che mi chiese di
mostrargli l’anello; ennesimo gridolino eccitato ed ennesimo sguardo al
cavaliere di turno, qualora fossero state accompagnate, come a voler dire guarda e impara. Mi guardai attorno
stranamente ansiosa di scorgere gli occhi verde bottiglia tanto amati e mi
ritrovai invece su una scenetta patetica di Juliette che urlava negli orecchi
di Fabien di smetterla con il vino; per un attimo i
nostri occhi si incrociarono, alzò la bottiglia verso la mia direzione e di
rimando scossi il capo afflitta. Perché si comportava a quel modo?! Che diritto
aveva di rovinare la serata ad una fanciulla così graziosa?! Perché non
riusciva ad essere il felice Fabien che avevo
conosciuto?! Ma soprattutto.. a me cosa importava?!
Mi strinsi nelle
spalle e nel voltarmi nella direzione opposta a loro venni accolta dalle
braccia di Aurelien; mi aspettava con un sorriso felice, pronto a ballare.
Lasciai che mi conducesse a passo di valzer al centro della sala, libera in
fretta quando in quella giovane coppia gli invitati riconobbero i futuri sposi,
per permetterci di volteggiare nell’aria e farci rimirare con la giusta e
consentita dose di invidia. Sotto questo aspetto dovevo riconoscere che il mio
futuro sposo era esattamente tutto ciò che ci si aspettava da uno Chedjou; amante del bello, egocentrico quanto bastava, dotato
di un accennato senso di protagonismo. E diciamo che non mi dispiaceva affatto
avere accanto un uomo così sicuro di se, ma io sapevo cosa costava quella
sicurezza, avevo letto nell’animo di Aurelien e sapere della sua sfaccettatura
sensibile sotto quell’armatura impenetrabile fatta di sorrisi e occhi sicuri mi
rendeva orgogliosa e privilegiata.
Molto più dell’avere a
disposizione i suoi incalcolabili franchi.
“Spero di non averti
messa in imbarazzo.” Mi sussurrò, tenendomi allacciata per la vita. “Appena
l’ho visto ho pensato a te.” Parlava certamente dell’enorme diamante posato sul
mio anulare e al posto di fissarlo come avevo fatto per la prima mezzora il mio
sguardo si posò invece su Juliette e Fabien ancora in
via di discussione in un angolo della sala.
“Credo non si parlerà
d’altro Aurelien. Da oggi ci sarete tu e il diamante!” Cercai di ridere ma non
riuscii ad essere simpatica come volevo risultato fu che mi uscì una specie di
miagolio sforzato e Aurelien che mi guardò seriamente preoccupato. “Scherzavo è
fantastico amore mio.” Imbrogliai ancora di più e mi buttai sulle sue labbra
goffamente, così che ne uscì uno scontro e il suo labbro graffiato da un morso.
Mi alzò il mento e mi penetrò con lo sguardo. “Deesire,
qualcosa non va?!”
Indicai Juliette
adesso rannicchiata su se stessa contro una delle colonne della sala e Fabien a poche spanne con una bottiglia sotto braccio. “Non
riesco a staccare lo sguardo da lei, mi fa pena.”
“Non dovrebbe. E’ una
delle ragazze più ricche di Parigi e mio cugino non è certo un cioccolatino,
voglio dire non sono costretti a stare insieme eppure si scelgono. Dicono di
essere a posto così ed eccoli là, controfigure di loro stessi.” Afferrò da un
vassoio due flute e me ne passò uno. “Non devi
pensare a loro, un giorno Juliette incontrerà un ereditiere della sua stessa
portata e Fabien la ragazza dei suoi sogni, fino ad
allora non è compito tuo preoccuparti della loro felicità.” Per quanto dure
fossero le parole di Aurelien mi rendevo conto che aveva ragione; noi tutti non
eravamo semplicemente dei ragazzi, eravamo dei destini già scritti, delle
storie da copione, delle vite da manuale, così Juliette avrebbe ereditato i
suoi milioni di franchi e li avrebbe fatti gestire dal ricco paperone che
avrebbe sposato, Fabien o non Fabien,
amore o non amore e lui, quel ragazzo biondo artista e dannato -come quasi
tutti i ventenni di buona famiglia di Parigi- avrebbe superato la fase nel
momento esatto in cui i suoi occhi avrebbero incontrato lo sguardo della donna che
avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Non c’era da preoccuparsi. O forse sì.
Per coincidenza i
nostri sguardi si incrociarono nuovamente a metà di un valzer e una quadriglia;
Juliette se ne era andata, attraversando grandi passi verso le uscite della
sala, quelle sul giardino interno una specie di museo verde voluto fortemente
da mia madre. Alzai le spalle colpevole di essere stata beccata nuovamente a
sbirciare le loro mosse da Aurelien, che sorrise ironico e slegò il suo
abbraccio. “Vai da lei.” Mi disse in tono soave, come se la sorellanza fra
donne fosse universalmente più importante di ogni nostra conversazione
precedente. Lo baciai delicatamente e mi allontanai, in un attimo alcune
giovani donzelle gli furono addosso, sorrisi guardandolo da lontano destreggiarsi
con la sua aria fiera.
“Auguri alla sposa..”
Una voce melliflua che conoscevo benissimo mi raggiunse alle spalle nel momento
esatto in cui mi apprestai a raggiungere il giardino; mi voltai, Fabien aveva di nuovo il papillon tutto storto e la matassa
di capelli biondi scomposta sulla fronte.
“Sei un capolavoro
disfatto. Di nuovo.” Gli passai veloce una mano fra i capelli, girando intorno
alla sua figura per andarmene ma mi afferrò il polso e mi trascinò oltre la
coltre di colonne, lontano dalle danze e dagli occhi di mezza città che contava.
“Fabien che ti prende? Sei impazzito?!” Non disse
nulla altro che non aggiunse con le sue labbra premute contro le mie in un
prepotente, lungo, disastroso.. bacio rubato.
***
NDA:
Svelato -quasi- il perché
del titolo della storia!
GRAZIE A TUTTI COLORO CHE HANNO MESSO LA STORIA FRA
LE SEGUITE.
E grazie a chi rinnova
il suo impegno continuando a leggere questa mia storia senza pretese.
Notre Dame era gremita
di gente alle ore dodici di quella domenica quasi estiva e molto calda.
I colombi appollaiati
sulla piazza erano ospiti aggiunti alla fiumana di persone ben vestite, in attesa
della sposa; tinte color sorbetto si alternavano a pregiate stoffe e gli
addobbi floreali color lavanda facevano sembrare l’ile de la citè quanto di più
vicino c’era a un dipinto di Monet.
Una bianca Rolls Royce
Princess avanzò fra la folla strimpellando il clacson a festa; dai vetri scuri
dell’auto il volto radioso di una ragazza faceva capolino dal velo di tulle
bianco. L’auto si fermò al centro esatto della piazza; la ragazza venne aiutata
da suo padre nel ridiscendere, un uomo impettito in uno smocking nero di satin
con un fiore di lavanda e il fazzoletto bianco nel taschino, mentre alcune
damigelle –sopraggiunte con una successiva auto- le furono subito intorno
danzando intorno alla lunga coda dell’abito che indossava.
Un raggio di sole la
colpì. Sorrise, bella come non mai. Uno sguardo complice con l’uomo che la
teneva sotto braccio fu il segnale del cadenzare i primi passi verso il portone
principale, dove ad attenderla c’era il principe azzurro di tutte le favole.
Ora della sua.
Quella ragazza, ero
io.
Era il dieci giugno
del millenovecentotrentotto, esattamente un mese dopo il nostro fidanzamento
Aurelien si apprestava a fare di me la signora Bonnet-Chedjou.
Era stato assai
difficile rimanere concentrata sulle parole del cardinale Jean Verdier, durante
la predica, perché le lacrime di mia madre avevano riempito la navata di sommessi
ansimi; guardavo estasiata i rosoni di vetro e le alte vetrate dai mille colori
sgargianti dipingere sul volto del mio compagno petali di meraviglia sul viso.
Non v’era altra luce se non quell’improvviso gioco che i raggi di sole
all’esterno conducevano con le nuvole, quando potenti le bucavano filtrando
all’interno della cattedrale sotto forma di arcobaleno. C’era un motivo, per
cui tutta la vita avevo sognato di essere sposa lì e quello che di lì a poco sarebbe
stato mio marito, sorrideva soddisfatto al di sotto del suo cilindro,
contemplando insieme a me l’incanto di tanta attesa; c’erano volute delle
promesse e onestamente qualche franco in più -Aurelien aveva posto come
clausola inscindibile il tempo, un mese esatto e non di più- per convincere il
prefetto a donare al rampollo di casa Chedjou lo straordinario consenso per
svolgere lo sposalizio in Notre Dame, ma alla fine ogni spasimo era stato ben
ricompensato e noi eravamo lì, mano nella mano a giurarci amore eterno in
quello che sembrava il paradiso in terra.
“Aurelien Jacque
Chedjou vuoi tu prendere la qui presente Deesire Anaelle Bonnet come tua
legittima sposa promettendo di essergli fedele sempre nella buona e nella
cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finchè morte
non vi separi?!”
“Lo voglio.”
“Deesire Anaelle
Bonnet vuoi tu qui prendere Aurelien Jacque Chedjou come tua legittimo sposo
promettendo di essergli fedele sempre nella buona e nella cattiva sorte, in
ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finchè morte non vi separi?!”
“Lo voglio.”
“Per i poteri
conferitemi dalla Santa Chiesa, Aurelien e Deesire, vi dichiaro marito e
moglie.”
Un bacio sugellò il
patto delle nostre famiglie.. e il nostro amore; agli occhi dimolti eravamo solo delle banconote che messe
insieme ad altre banconote assicuravano la sopravvivenza dei nostri imperi
–nonostante la romantica e diventata ormai argomento da salotto per signore
dichiarazione di Aurelien- ma per noi era tutto straordinariamente vero e vivo.
Le campane suonarono a
festa, mi voltai raccogliendo il mio abito, guardando verso l’uscita, dove le
damigelle ci aspettavano ordinate per il lancio del riso; guardai alla volta di
mia madre, ai suoi occhi rossi e il fazzoletto stretto fra le mani guantate di
raso, scorsi il viso di Martin e Ines visibilmente emozionati e infine a lui,
mio marito, l’uomo più compito e soddisfatto sulla faccia della terra e sentii
che ero esattamente dove volevo essere. Anche se le gambe avevano preso e
tremare.
“Sto tremando di paura.”
Sussurrai all’orecchio dello sposo.
“Il peggio è passato.”
Mi sorrise, stringendomi più forte la mano. “Madame Chedjou…” Mi presentò il
suo braccio e lo afferrai con determinazione; scendemmo solennemente per la
navata centrale, qualcuno sussurrava impaziente le proprie felicitazioni,
qualcun altro ci sorrideva e i più compiti annuivano con il capo. Le bambine
timide e speranzose da dietro le gonne delle loro mamme guardavano quella sposa
e il suo abito innovativo di pizzo e trasparenze con inserti di perle e
cristalli lungo tutta la figura aderente fino al ginocchio e più ampio sul
finire in una interminabile coda di tulle; una principessa moderna per una
fiaba dal sapore antico.
Le tre opzioni di mia
madre erano chiaramente andate a farsi un bel giro.
Mi resi conto che era
fatta solo nell’istante in cui il riso volò sopra le nostre teste, mentre
Aurelien mi teneva stretto a sé svicolando le sei damigelle che avevamo scelto
fra parenti e amici e mi alzò da terra, facendomi volteggiare nell’aria; sorrise
ai fotografi, mi condusse alla macchina dove inserì la sicura e ordinò
all’autista di partire.
“Aurelien dove stiamo
andando?! Dovevamo girare per..”
Mi azzittì con un
bacio. “Voglio mia moglie tutta per me.” Lo baciai a mia volta eccitata
dall’improvviso cambio di programma e perché no sollevata al pensiero di poter
rimandare di un po’ l’orda di donne super eccitate e le loro mille domande.
“Si fermi qui,
grazie.”
Scendemmo al caffè
Allard, dove avevamo avuto il nostro primo appuntamento; sorrisi nervosa mentre
un cameriere ci scortava in un tavolino appartato e prenotato per l’occasione. Di
certo non passammo inosservati vestiti a quella maniera meritandoci gli
applausi delle donne e i fischi degli uomini stile occasione di caccia, mentre
sfilavamo timidi e affrettati.
“La tua cioccolata e
il mio caffè.”
Aurelien spinse verso
di me una fumante tazza; aveva riprodotto quel giorno fedele all’originale, mi
rilassai abbassando le spalle e accucciando la testa sulla sua spalla. “Si
domanderanno dove siamo finiti.” Tirai su il cucchiaino portandolo alle labbra;
solo in quel momento mi accorsi di avere fame e di averla almeno da un mese,
cioè da quando le estenuanti prove dell’abito mi avevano costretta a
controllarmi.
“Deesire se potessi
resterei in questo caffè, solo con te, tutto il giorno.”
“Ansia da prestazione,
Monsier Chedjou?!” Mi guardò sgranando gli occhi e lì capii che aveva travisato
del tutto le mie parole. “Aurelien, no, volevo dire per il pranzo.. le
persone..” Arrossii violentemente incartandomi nelle mie stesse intenzioni; lui
si chinò su di me mettendomi a tacere per la seconda volta con un bacio.
Cominciava a piacermi questo suo modo di togliermi.. il fiato.
“Anche.” Soffiò sulle
mie labbra, ridendo malizioso. “Non ho molta pratica con questo genere.. di
cose.”
“Ah.” Sobbalzai, il
caro maritino aveva la virtù ancora intatta; mi sentii spudoratamente e
scioccamente sollevata a quelle parole. “Beh anche io.” Mi coprii letteralmente
la faccia nascondendola dietro la tazza.
“Ovviamente.”
Rimbrottò lui in maniera molto mascolina, come se avessi detto l’ovvietà del
secolo. “Non sarebbe bello vivere con il costante desiderio di uccidere
qualcuno.” Mi sorrise in modo affascinante e ipnotizzante; ero totalmente persa
nei suoi occhi verde bottiglia, ma una leggera sensazione di panico mi prese
alla bocca dello stomaco. Voltai lo sguardo altrove cercando di non fissarmi
sul pensiero di me e lui e i nostri corpi nudi incastrati come anaconde furenti;
fu tutto inutile, perché mi sentivo come un truciolo accanto alla scintilla..
presto, molto presto, avrei preso inesorabilmente fuoco.
Il nostro ricevimento
di nozze fu dato in una delle più importanti sale dell’Opera e non ricordo
granchè del resto della giornata, a parte il non aver toccato cibo, la miriade
di persone con cui mi ero intrattenuta, alcuni parenti giunti dal lontano
Marocco del quale ignoravo categoricamente l’esistenza, più tutta una serie di
consuetudini abbinate anche al peggior matrimonio mai visto; una cosa la
ricordo bene, Juliette Dupont aveva afferrato –dal suo metro e settantasette-
il mio bouquet di calle bianche e lavanda, lasciando a bocca asciutta tutte le
mademoiselle da marito di mezza Parigi che contava, fra cui le isteriche cugine
di Aurelien –le compativo, ai loro occhi ero quanto di più detestabile
esistesse e la sola vicinanza quando cercavano di intrattenermi mi faceva
venire l’orticaria- e l’incontro con Madeleine Chedjou, la famosa reietta delle
aziende più importanti della città, l’anticonformista della famiglia e madre di
Fabien.
Era una donna
straordinariamente elegante, sebbene frequentasse i pittoreschi vicoli di
Montmartre e la sua nomina da bohemien la precedesse, con lunghi capelli color
cenere e degli occhi verdi da far girare la testa, del tutto uguale a suo
figlio e del tutto differente da quello che era stato suo marito, Baptiste
Moreau. I due erano arrivati insieme, stavolta senza la giovane dama di
Baptiste –a letto con una terribile influenza- al seguito e rimasi colpita e
ammirata dal loro rispetto reciproco e affiatamento. Altra grande assenza che
non potei fare a meno di notare fu quella dello stesso Fabien; sì, era
presente, ma se ne stava così defilato e decisamente meno chiassoso e ubriaco rispetto
all’ultima volta che ci eravamo visti -e decisamente scontrati- che sembrava
non ci fosse. Non me ne preoccupai e gli fui grata, dato le cinque dita che gli
avevo rifilato sul viso e le parole infamanti che avevo pronunciato dopo il
tentativo maldestro di baciarmi.
“Vieni, comincia la
quadriglia!” Aurelien mi rubò ad un gruppo di attempate carampane e mi trascinò
sul lato della sala dove un altrettanto gruppo di attempate stavano
disponendosi per il ballo più faticoso e dispendioso del repertorio francese.
Declinai con il capo, ma sorrise così speranzoso che non potei fare altro che
accettare. A malincuore mio e dei miei poveri piedi.
“Solo questo! Ho
bisogno di respirare!” Annuì e ci lanciammo nella foga.
Quando la musica scemò
pregai mia madre di occuparsi del cambio d’abito; ero sudata, i capelli una
matassa informe, per di più il mio bellissimo abito era diventato d’intralcio
dato lo svolgimento della festa. Mio marito mi avrebbe costretta a ballare
tutta la notte e chissà, non ero proprio deliziata al pensiero di doverlo fare
per tutto il tempo racchiusa in un bozzolo di tulle, costoso, ma pur sempre
asfissiante e ingombrante. Neanche a dirlo il salottino per la rimise in forme
era pieno zeppo di grucce e scintillanti abiti; afferrai disinvolta il primo che
mi desse la sensazione di essere comodo, pratico ma sufficientemente
appariscente da accontentare le voglie di Clorine Fontaine; certo mi sarebbe
mancata la mia ingombrante mamma, ma il pensiero di non dover più dipendere dai
suoi sguardi accusatori quando aprivo un armadio, mi aveva fatto tirare più di
un sospiro di sollievo. Una coiffer si occupò di far sembrare la mia capigliatura
appena fresca di lavaggio, acconciandola con un semi raccolto di lato,
rianimando le mie onde attorcigliandole fra le dita. Annuimmo tutte e tre
soddisfatte, baciai Clorine e tornai dove ero.
Camminando per il
corridoio che separava i salottini privati alla sala principale del ballo di
nozze mi soffermai su una sala più piccola da quale uscivano zaffate di sigaro;
una voce a me familiare e una decisamente roca e sensuale sparlavano di questo
e di quello, infilando dentro un angusto di battito su l’oggettiva bellezza
architettonica del posto in cui ci trovavamo. Madeleine Chedjou mi intravide e
mi fece cenno d’avanzare; Fabien era seduto scomposto alla sua destra e mi
guardò per tutto il tempo ci misi a mettermi seduta; la donna aveva alle labbra
uno di quei sigari che si vedono solo a tizi con baffi alla Salvador Dalì.
“Spero non ti dia
fastidio.” Boccheggiò del fumo denso e dolciastro squadrandomi da capo a piedi.
“No Madame Chedjou.”
La vidi sorridere per aver accentuato il suo cognome da nubile, “Mio padre è
marocchino e un grande estimatore di tutto ciò che fa fumo.”
Sorrise porgendomi il
sigaro. “Ecco spiegato il bellissimo colore ambrato della tua pelle.”
Negai con il capo.
“Ahmed Bonnet non è quello che si direbbe un pallido francese.” Rise stavolta
veramente divertita, girando il capo verso Fabien.
“Non mi avevi detto
fosse così simpatica.” Tornò su di me, accorciando la distanza che ci separava.
“So che sei un estimatrice d’arte.” Annuii riflettendo su quanto altro Fabien
le avesse raccontato di me. “Perfetto, allora gradirai senza dubbio lo
splendido Bacio di Klimt che mi ha costretto a scovare per te.” Cosa c’era di
perfetto nella voglia di prendere a calci Fabien fino a sentirlo piangere? Lei
mi sorrise incantata ed io ero sempre più piccola e sprofondata nella mia
strana posizione su quel divano d’un tratto scomodo come una seduta su un rovo
di rose. Avvampai. Mi poggiò la mano sul braccio e sussurrando continuò.
“Tranquilla è il mio mestiere scovare occasioni. E’ stato un colpo di fortuna.”
Inspirai lieta che avesse interpretato in altro modo il mio rossore e quasi
certa che Fabien non avesse -diciamo- “spifferato” altro.
“Non doveva darsi
pena, signora Chedjou, ma la ringrazio.”
“Chiamami Madeleine,
cara. Allora, dato che siamo ormai parenti, posso dirti una cosa in tutta
franchezza?” Fabien la guardò piuttosto preoccupato, poi si fermò su di me e
alzò le spalle. “Auguri Deesire, ti serviranno cara ragazza, questa famiglia
è.. diciamo assai ingombrante. Spero tu sia sufficientemente pronta.” Non avevo
mai visto Ines e Martin sotto questo aspetto, ma chiaramente so che mirava al
Chedjou senior, Jacque, soffermandomi per un attimo alla austera figura dell’uomo;
sì poteva metter una certa sensazione di disagio ma.. io avevo Aurelien, ero
certa che non sarebbe successo niente con lui al mio fianco. Le sorrisi
benevola, non doveva essere facile vestire i panni della reietta, come non
doveva essere facile vivere una vita classificata da tutti “outsider” solo
perché si è perseguiti il sogno della libertà, accettando tutti i risvolti
della medaglia. Fabien le somigliava moltissimo, al di là dell’aspetto fisico,
i loro occhi erano accesi dal sacro fuoco dell’arte, in loro era vivo e potevi
toccarlo con la mano l’ardore dell’animale selvatico, l’istinto del cacciatore
e il volo dell’aquila. Erano affascinanti e ipnotici. Letali, da un certo punto
di vista. Ed io mi sentii stranamente a disagio con i loro quattro occhi verde-azzurro
puntati addosso.
“Pare che da stasera
mi converrà tenere una carabina sotto al letto.” Ero piuttosto ironica ma
Madeleine rise battendo energicamente la mano sul divano. “Ti ringrazio, sono
sinceramente contenta di averti conosciuto e di far parte della tua famiglia.”
La donna mi sorrise di
un bel sorriso di porcellana. “Credo che le mie chiacchiere possono bastare per
ora, vi lascio miei cari.” Sfilò dalla borsetta un ampolla di profumo e se ne
spruzzò una quantità tale da farci tossire, guardandoci. “Tuo padre mi sta
addosso come quando avevamo vent’anni.. un sigaro ogni tanto fa bene
all’anima.” E se ne andò volteggiando lasciando nella stanza un silenzio
assordante.
Feci per alzarmi e
andare via dal muto e laconico Fabien quando quest’ultimo sfilò dal suo posto
al mio; lo guardai agghiacciata spostandomi indietro verso il bordo più estremo
del divano, assottigliandomi affianco al bracciolo. “Ti prego resta, non ho
avuto modo di farteli, ma volevo porti i miei più sentiti auguri.” Lo guardai
come se avesse detto un ingiuria pesantissima, imbronciando il volto. “Sono qui
in pace.” Aggiunse con voce flautata, alzando le mani, ma non bastò a farmi
rilassare.
“Lo splendido bacio di
Klimt dice il contrario però.”
“E’ un quadro
bellissimo..” Sorrise isterico, prendendomi la mano; il contatto mi fece
irrigidire. “Non avercela per quel bacio è stato solo uno stupido errore.” Mi
guardai attorno nervosa e lo pregai con lo sguardo di calmare la voce, non che
se lo fosse dimenticato dato il modo in cui eravamo abbigliati, ma eravamo ad
un matrimonio, al mio matrimonio e se malauguratamente una pettegola da salotto
ci avesse udito ci saremo trovati a un funerale. Il suo funerale!
“Parliamo del quadro
Fabien?! Un bellissimo quadro, quanto al bacio uno stupido errore, certo. Uno
stupido errore da non ripetere.” Mi guardò accigliato ma non riusciva a
trattenersi dal ridere, riuscivo a percepire le sue smorfiette all’angolo della
bocca, trovandolo irritante, come i suoi costanti cambi d’umore. “Devo andare,
mio marito si starà domandando dove sia.” Alla parola marito guardò in basso,
quasi deluso. Cominciavo a dubitare che si rendesse conto dove si trovava e
cosa era venuto a fare. Mi alzai e lui con me, di rimando. Un riflesso cauto.
“Non succederà più
puoi stare tranquilla.” Si sistemò il colletto della giacca, prendendo un
respiro a pieni polmoni. “Auguri Deesire, che tu e Aurelien possiate godere
della felicità che meritate.” Oltrepassò la mia figura sfiorandomi con la
spalla; in quell’istante tutte le fiamme si spensero nei suoi occhi.
Tutto ciò che mi
raccontarono a seguire fu che la famiglia Moreau –pare che Baptiste si prodigò
in lunghe scuse- abbandonò il ricevimento a metà in preda ad urgenze
inderogabili. Tutti pensarono alla giovane damina di monsieur Moreau a casa
malata, ma la fretta dei passi di Fabien la diceva lunga.
Dieci ore dopo il
nostro sì, dieci ore di balli, cibo, chiacchiere e intrattenimento Aurelien
fece caricare la nostra auto con i nostri bagagli direzione St. Honore Fabourg;
i miei genitori ci avevano fatto dono di un delizioso appartamento pochi numeri
più giù di quello dei miei suoceri. Ero stata perentoria, niente di troppo
eccessivo e nulla di così sfarzoso da richiedere la presenza di troppa servitù;
eravamo così giovani da non desiderare di avere troppo spazio vuoto e troppo
via vai fra di noi.
“Stai attenta.” Mia
madre mi circondò le spalle con il soprabito; l’incrollabile fede di Clorine
cadde nell’istante in cui realizzò che la sua bambina stava lasciando il nido.
Era umana, dunque. Mi ritrovai a sorridere provando un misto di sensazioni
indecifrabili guardandola; ansia, aspettative, passione, ma anche felicità, gioia,
speranza. “Ricorda, non sono mai troppo lontana per te.”
Le sorrisi coprendola
con un largo abbraccio. “Sono solo dall’altra parte del fiume.” Mio padre ci
guardava come una sentinella vigile, feci segno con la mano di avvicinarsi e
restammo così, fermi in un abbraccio solidale e familiare. “Vi voglio bene, ma
adesso dovete lasciarmi andare..” Dissi quasi soffocata dal troppo amore e papà
rise slegandoci. “Ti vogliamo bene. Auguri figlia mia.”
“A presto papà.” Li
baciai sulle guance ed entrai in auto; la mia mano li accompagnò salutandoli
fino a quando i loro profili non si persero con il buio della notte.
“Aspetta.” Giunta al
grande portone con le maniglie di ottone Aurelien mi bloccò il passaggio. Mi
sollevò da terra prima di varcare la soglia, facendosi spazio nell’immensa sala
d’apertura; c’eravamo già stati ovviamente -Ines e Clorine ci avevano
scarrozzato nei sobborghi più malfamati alla ricerca di oggetti d’arredamento
unici- ma metterci piede da marito e moglie significava adesso tutta un'altra cosa.
Quello sarebbe stato ora il nostro nido d’amore, niente più fughe notturne,
niente lettere e inviti al prossimo appuntamento al sapor di lavanda, niente
più lunghe attese; avrei avuto Aurelien quando avrei voluto e lui avrebbe avuto
me alla stessa maniera, avremmo condiviso il quotidiano, le abitudini e in
qualche modo ci saremmo conosciuti più a fondo. Ero pronta, impaziente di
cominciare quell’avventura insieme a lui.
“Credo ci vorranno
anni prima di far entrare tutta quella roba.” Lo osservavo mentre gestiva i
facchini con i regali in una sala attigua che con più calma avremo sistemato
come piccola sala cocktail; mi sorrise di rimando, posando sul pavimento un
qualcosa dalla mole ingombrante. Fissai inorridita il trambusto e il caos
attorno a noi quando mi si avvicinò massaggiandomi le spalle.
“Perché non vai a
farti un bel bagno caldo amore mio?” Mi baciò il collo arditamente; mi sentii
improvvisamente accaldata. “Ti raggiungo appena mi libero di loro.” Sussurrò,
prima di accarezzarmi i fianchi. Lo guardai fintamente sconvolta e salii ai
piani superiori; c’era un odore di mobili nuovi, il marmo era perfettamente
lucido e le porte smaltate di fresco, i lampadari barocchi illuminavano le
stanze, ovunque mi girassi fiori. In punta di piedi entrai in quella che era la
camera padronale; sussultai come la prima volta che l’avevo vista, perché era
enorme, con una tappezzeria alle pareti di grandi fiori neri che si
intrinsecavano fra di loro e il letto a baldacchino di ferro battuto al centro.
Attigua alla stanza avevamo un bagno personale, dal quale si accedeva mediante
un arcata che nascondeva un corridoio circoscritto da panche in legno, dove la
santa donna che era mia madre aveva fatto riporre ciò che non era entrato nei
vagoni letto che erano gli armadi circostanti e questo, era tutto un dire circa
la mole di abiti, soprabiti e camicie da notte mi avesse fatto recapitare.
Aprii nervosa le ante sperando che non si fosse dimenticata che adesso avevo un
marito e notai con un certo stupore una fila di abiti freschi dal taglio
maschile suddivisi per colore e fattezza; mio marito doveva essere della
categoria più vicina a quella di mia madre.
Sbuffai richiudendole
con forza, andai spedita in bagno e lasciai scorrere dell’acqua nella vasca con
i piedi di ottone; l’adoravo, era grande da permettere a più di una persona di
starci comodamente dentro e… arrossii ai miei pensieri indecentemente arditi.
Quando fui ben soddisfatta della quantità e temperatura dell’acqua mi sfilai
l’abito a tunica togliendomi la soddisfazione di mandarlo in un angolo con un
calcio formidabile; mi rilassai non appena le membra entrarono in contatto con
l’acqua, immersi la testa espirando e lasciai che ogni peso e fatica scivolasse
sul fondo della vasca assieme a ogni pensiero.
“D-da quanto sei lì?!”
Aprii gli occhi dopo un tempo incalcolabile, Aurelien era appoggiato al bordo
della vasca e mi guardava. Lo guardai famelica; si era cambiato, indossava dei
pantaloni color kaki sorretti da un paio di straccali calati sui fianchi e dove
prima c’era una camicia capeggiava una canottiera di flanella scomposta e dei
bicipiti allungati dalla pelle dorata.
“Da troppo poco
tempo..” Lasciò cadere la frase innocentemente fra le labbra rosse. “Sei così
bella Deesire.”
Incoraggiata dalla sua
carezza fra i capelli, fermai la mano stringendola forte nella mia, con lo
sguardo più eloquente che potessi indossare; e capì, perché si alzò facendo
volare pantaloni e canottiera sul pavimento freddo, l’intimo, rimanendo nudo e
bello, forte e potente come non lo avevo mai visto prima. Accovacciai le gambe
al petto e lo aiutai ad entrare in acqua; non so dire se fossero i nostri fiati
sommessi dall’emozione di stare nudi così a contatto o i battiti dei nostri
cuori a far più rumore in quella grande ma allora piccola vasca, in quella
stanza, di quella casa, in quella notte di Parigi di quasi estate.
La brezza entrava
leggera fra le imposte, quando Aurelien posò delicatamente il mio capo sui
cuscini, baciandomi delicatamente; potevo sentire i grilli cantare dagli alberi
la loro litania dell’estate, il loro canto d’amore. Poi sarebbe tutto finito.
Ma non per noi.
La pelle di Aurelien
scottava contro la mia, ogni sua estremità aderiva perfettamente al mio corpo
giovane e voluttuoso; restò su di me ad osservare ogni declino, ogni curva,
ogni incavo, percorso dal suo sguardo vorace, aiutato da una mano coraggiosa
dal tocco gentile e da labbra ardenti a seguire. Mi sentii come se potessi
esplodere da un momento all’altro, come polvere di stella dopo l’incendio, un
micro cristallo in una notte buia e tempestosa. Aurelien era la terra brulla
sulla quale posarmi, il porto per i marinai dopo il viaggio di anni. Il suo
corpo potente, formato e per nulla infantile, visto dalla prospettiva inclinata
delle mie gambe intrecciate alle sue, era ancora più deliziosamente squisito,
come i movimenti leggeri che le sue spalle percorrevano dopo ogni risalita, come
i muscoli flessuosi delle gambe che creavano nuove spinte, le vene del collo
che pulsavano l’ardore con cui mi stava facendo sua. Avevo scritto fiumi di
parole mai pubblicate nei miei racconti, su che genere di fantasia e
aspirazione nutrivo per gli incontri amorosi dei protagonisti delle mie storie,
ma nessuna parola o immagine avrebbe mai potuto competere con quello che il
corpo mio e di Aurelien stavano creando, fra quelle coperte di seta scure, sul
letto grande in quella stanza, in quella casa nel cuore della città, durante
una notte quasi albache mai più avrei
dimenticato.
***
NDA:
Dire che sono contenta
è dire poco.
Sì lo so.. è solo una
recensione -che una storia la ami a prescindere e la scrivi per te prima di
tutto- ma sapere che almeno una fra voi mi ha concesso l’onore di
trascrivermi i suoi pensieri.. beh mi rende pazza di gioia! E non scherzo.
Quindi, grazie None to Blametu mi hai resa proprio orgogliosa J
Come ti sono sembrati gli altri capitoli?
Qui si va avanti,
nella mia testa la storia c’è già tutta, devo solo metterla in pratica; in queste
settimane ho scritto e cancellato questo capitolo almeno 10 volte. E mi succede
di rado, non perché sia ‘sta cima ma perché sono un irrazionale, istintiva
“scrittrice” che non guarda mai troppo ai suoi passi. O meglio, scritti.
Mi auguro comunque che
i capitoli vi piacciano.. ovvio.
Vi ringrazio tutte/i per le visite e per le nuove aggiunte
nei seguiti/preferiti.
“Margaret, non correre
tesoro!” La testolina castana e riccia di una bambina sbucò da dietro il
mobile; con una corsetta impacciata venne verso di me e si appigliò al mio
vestito con le sue manine; mi piegai su di lei prendendola in braccio. Adorava
quel gioco, ed io adoravo lei.
“Zia! Zia! Zia!” Non
la smetteva di chiamarmi, con la vocina acuta e strillante.
“Allora Deesire, a quando un pargolo Chedjou?!”
Erano passati appena
sette mesi dal nostro matrimonio e praticamente tutta la famiglia non faceva
altro che ricordarmi l’assenza di un figlio; come se per me e Aurelien fosse
impensabile desiderare almeno del tempo prezioso tutto nostro, prima di figli,
pappe e pannolini. Alzai le spalle, passando alla bambina il succo di frutta
poggiato sul tavolo.
“Stiamo bene così.”
Sapevo di essere vaga,
ma l’argomento mi rendeva ansiosa; in sette mesi di rotolamenti e
abbarbicamenti degni di contorsionisti circensi, del pargoletto in questione,
desiderato o non, non se n’era avuta traccia e nemmeno mezza avvisaglia;
continuavo come ogni donna a questa terra a dannarmi ogni ventotto giorni per
poi tornare in aggrovigliamenti degni di nota con il mio bellissimo marito.
Ero felice e al
momento non desideravo altro, ma il mondo a quanto pare no.
“Dovresti farli subito
invece..” Mi guardò maliziosa; sapevo esattamente cosa avrebbe voluto dire se
la sua stupida bocca a sedere di gallina avesse potuto pronunciarsi. Le sue
mire erano su chi sarebbe stato il primo erede Chedjou,
non le importava nulla del pargoletto in quanto tale e quando notò che arcuai
il sopracciglio proseguì vagheggiando. “A vent’anni si è giovani è forti.”
Come no, pensai. E
molto maturi, proprio come tuo marito Lolla –che era una delle cugine di
Aurelien- sempre chiuso in qualche locanda con donnine poco raccomandabili
della Parigi notturna. Si raccontava che Lolla fosse incinta quando conobbe
Lucas -figlio di un blasonato notaio in città- e che in qualche modo fosse
riuscita ad incastrarlo sulle prime convincendolo della paternità ma che lui
poi sia riuscito e smascherare l’inganno in un secondo momento, mentendo
tacitamente la verità per proteggere gli interessi suoi e della sua famiglia,
passando il tempo a sollazzarsi con allegre fanciulle e che lei gli perdoni
tutto per essersela tenuta. E per i sonanti franchi ovviamente.
Voci certo, ma si sa
in mezzo a un mare di bugie una goccia di verità c’è sempre.
Le sorrisi disarmante.
“Ma io ho diciotto anni, Lolla. E il matrimonio ormai è sigillato.” Le donne presenti in salotto risero. Quella mi
guardò sgranando gli occhi, mettendo a tacere le compagne intavolando vecchie
chiacchiere precedenti su vestiti, stoffe e colori alla moda. Scossi il capo,
adagiando Margaret nella culla; guardandola bene aveva ben poco di Lucas e
anche meno di sua madre, era vivace, allegra, intelligente. Una fortuna direi,
con i genitori che gli erano capitati. Le accarezzai il capo e tornai al mio
posto.
“Se vuoi ce ne
andiamo.” Ines mi avvicinò con una tazza di the e dei pasticcini al limone.
“Perché mai. E’ così
divertente stare qui..” La donna mi sgomitò divertita ed io agitai il capo in
segno di approvazione. “Sì, ti prego andiamocene.” La mia bellissima e
flessuosa suocera si congedò scusandosi per il cattivo tempismo e per impegni
inderogabili, sorrise molto spesso e sciorinò un repertorio di complimenti che
nel giro di dieci minuti ci portò in macchina, direzione casa. Amavo passare il
mio tempo in sua compagnia, era una donna incantevole, con mille storie di
viaggi da raccontare, posti da visitare –come minimo, grazie a lei, ho la
conoscenza di almeno tre quarti di botteghe e buchi di antiquariato, vecchie
librerie le sue preferite e le mie, presenti in città- più tutta una lista di
personaggi blasonati e meno catalogati per età, impegni culturali e sociali, favori
da chiedere o ricevere.
Ines Lefebvre era una
vera forza, il mio passatempo preferito, che magari può risultare come una cosa
poco carina.. ma avreste dovuto conoscerla per giudicare da voi.
Il tempo libero era
una cosa che non mi mancava, sebbene Aurelien avesse mantenuto la promessa di
continuare a farmi scrivere senza farmi subire strane pretese da marito, quella
parte di tempo passava in fretta e lui era spesso via per lavoro; ora che condividevamo
lo stesso tetto mi rendevo conto di quanto questa responsabilità verso le
aziende di famiglia lo assorbissero, da fidanzati era bello aspettare con
impazienza il momento di rivedersi, ma alla sera quando insieme ad Ygritte –una cameriera russa che mia madre aveva voluto a
tutti i costi rifilarmi- apparecchiavamo la tavola e il suo posto era ancora
vuoto sentivo una sensazione alla bocca dello stomaco come una pugnalata. Mi
mancava, volevo le sue risate, il suo profumo inebriante per la casa, i suoi
vestiti sparsi in camera. Avevo scatenato una vera avversione per l’ordine,
vietando severamente ad Ygritte di toccare qualsiasi
cosa Aurelien lasciasse in giro.
Sì, lo so cosa starete
pensando; ecco le paranoie da stupida signora ricca e annoiata.
Non era proprio così.
Avevo i miei interessi, oltre la scrittura certo, io e mia madre passavamo
dall’essere membri e in alcuni casi presidentesse di alcune charity umanitarie,
a pomeriggi socialmente inutili il cui tema principale era il mondo della moda;
mi davo da fare nell’organizzazione così che non mi scocciasse troppo per i
musi lunghi che mettevo su quando il mio Aurelien era via.. ma cosa volete,
essere moglie di uno degli uomini più ricchi di Parigi negli anni trenta mi
permetteva di avere -a dispetto di tutto- del tempo libero, troppo tempo libero.
“Che c’è?! Sei
pensierosa mia Deesire?!” Ines ed io eravamo solerti
confrontarci molto di ritorno dai salotti borghesi delle pettegole, ma stavolta
il mio profilo era stagliato contro il vetro dell’auto su di un tramonto sulla
Senna. “Ahimè Lolla non brilla d’arguzia.”
Sorrisi, guardandola
grata. “Ines.. dimmi la verità è così terribile non desiderare un figlio più di
tutto?!”
Mi toccò la mano,
penetrandomi con i suoi intensi occhi verde bottiglia. “Ci sono donne e donne Deesire. Prima di avere Aurelien ho perso due figli. Uno di
questi è nato morto, un vero shock, tu comprendi?!” La guardai a bocca aperta,
non sapevo nulla di questo, l’avevo sempre immaginata come la ballerina sinuosa
e perfetta che aveva prima centrato la carriera e poi messo su famiglia.
Perfetta da sembrare inumana. Mi sentii stupida. “Non ne volevo più sapere,
avevo pregato Martin di trovarsi un’altra donna, che forse io non ero fatta per
questo, gli dicevo che era la mia colpa perché per me, la vita, erano sempre
state solo le mie scarpette e il tutù e per questo punita per tanto egoismo.
Poi è arrivato Aurelien e ho dimenticato tutto, persino la danza.” Guardò
lontano, gli occhi lucidi. “Siamo così complesse Deesire,
il nostro cuore è una mappa con vie indecifrabili. Chi può dire dove ci porterà
domani?! Perciò no, non è così terribile, quando arriverà il momento te lo
sentirai dentro e allora nulla avrà più importanza.”
Sapevo che aveva
ragione e sapevo che sarebbe stato così. Avrei goduto dell’amore per mio marito
fino a quando un piccolo esserino mi avrebbe ordinato di essere il centro del
suo mondo ed io obbediente avrei accettato, perchè
anche se non avevo capito e provato fino in fondo cosa significava tutto
quell’amore, le lacrime di Ines si erano spiegate bene. E fu così, che mi
chiusi in silenzio tombale e mi persi su un volo di gabbiani portati via dal
vento.
Sfilai soprabito,
guanti e cappellino e lasciai tutto a Ygritte;
l’inverno più rigido che ricordassi si stava manifestando nella Ville Lumiere
in tutta la sua glaciale bellezza. Le strade si ghiacciavano in fretta, sarebbe
caduta la neve si diceva. Mi accomodai davanti al caminetto, sciogliendo le
mani al calore delle fiamme crepitanti, ed attesi con un buon libro e un
bicchiere di cognac l’arrivo della sera.
“Madame è pronto in
tavola.” La voce della cameriera mi arrivò distorta oltre la corte di cognac e
sonno; fissai l’elegante orologio a pendolo notando con stupore che erano quasi
le otto.
“Ti prego lascia tutto
dove è.” Mi alzai, sbadigliando. “Torna pure a casa Ygritte,
fa molto freddo e non vorrei che arrivassi tardi dai tuoi bambini a causa mia.”
“Come Madame
desidera.” Si affrettò a tornare nelle cucine, mentre varcavo i corridoi
ciondolando e rendendomi conto che Aurelien non era ancora rincasato; passai
per la sala dei pranzi e delle cene, Ygritte aveva
coperto i piatti e spento le candele. Sul tavolo un mazzo di rose rosse e un
biglietto.
“Farò tardi ma saprò farmi perdonare.
Ti amo.
tuo Aurelien.”
“Li ha mandati MonsierChedjou quando era via,
madame.” La donna tornò alle mie spalle con il cappotto fra le braccia, le
sorrisi annuendo, si congedò e richiuse la porta alle sue spalle.
“Addio alla bella
cena..” Sprofondai sulla sedia alzando uno dei coperchi; l’odore del cibo mi
nauseò e lo abbassai di nuovo. Qualcuno suonò alla porta, mi alzai ad aprire,
ma il movimento fu preceduto dal suono di un giro di chiavi nella toppa; mi
tremarono le gambe.
“Deesire?!”
La voce di Aurelien sopraggiunse prima di un mio pianto a dirotto e una crisi
isterica; si affacciò alla stanza e mi trovò ammusonita, con gli occhi gonfi e
lucidi bivaccata sulla sedia.
“Amore non stai
bene?!” Lasciò scivolare via le sue cose, la ventiquattrore, sciarpa e cappello
e mi fu addosso; mi misurò la temperatura con la mano, corrucciando la fronte
in una buffa espressione ansiosa.
“Aurelien sto bene, mi
ero solo addormentata.” Sorrisi scostando la sua mano fredda dal viso; passai
gli occhi sulle sue spalle, mi irrigidii percorsa da una scossa. “Hai un fiocco
di neve sulla giacca!” Cercai, come una bambina che vede la neve per la prima
volta in vita sua, di acchiapparlo con un dito, ma questo al contatto con il
calore si squagliò inesorabilmente. Risi, prendendo Aurelien per mano.
“Mia madre dice che
porta fortuna.” Ci spostammo vicino alle finestre, scostando le pesanti tende
di broccato; nel frattempo il gelo si era fatto prepotentemente bianco e le
strade andavano cambiando colore.
”Hai preso un fiocco
Aurelien, ora puoi esprimere un desiderio.”
“Cosa potrei chiedere
di più?!” Mi strinse teneramente al suo petto, baciandomi i capelli.
Restammo in silenzio
ad ascoltare il “rumore” sordo della neve, abbracciati e nudi, sui tappeti
bianchi di pelo attorno al caminetto, l’aria era fredda dagli spifferi dei
vetri e il cielo si era tinto di arancio riflesso della luce dei lampioni
contro il bianco della neve; fuori un cane abbaiava alla luna nascosta dalle
nuvole, le candele era spente da un po’ e la cena fredda come il marmo nelle
nostre stanze.
“Ti riscaldo
qualcosa.”
“Non osare alzarti..”
Mi buttò il suo peso addosso, muovendosi alla ricerca del piacere. “Non ho
ancora finito!” Mi soffocò di baci le guance, il collo, le braccia, facendomi
ridere a crepapelle, poi un sussulto, il mio, quando con le mani smise di
giocare e cominciò a fare sul serio. Di nuovo.
“Mi chiedevo..” Finito
di fare l’amore Aurelien era un fiume in piena di parole, come se donarsi a me
lo sbloccasse nei pensieri, ogni tanto scherzando lo chiamavo liege, sughero, come il tappo che conserva il
vino dalla rovina, così Aurelien preservava il suo meglio per momenti come
questo. “E se ce ne andassimo per un po’ad Auvers? Potremmo
trascorrere qualche giorno lontano da tutto e tutti.”
Avevo sentito già
parlare di Auvers-sur-Oise, un piccolo borgo di
campagna fuori città, noto alle cronache per il pittore Van Gogh che ci aveva
passato gli ultimi mesi di vita prima del tragico suicidio, ma anche perché
Aurelien, da piccolo per problemi di salute aveva vissuto lì, lontano dagli umori
nefasti della città; da ragazzina trovavo la vita da campagnolo assolutamente
allettante, lì dove il tempo sembrava fermarsi nonostante il lavoro da
spaccarsi le mani, i ruscelli cristallini, gli animali delle fattorie, i
fiori.. sì, dovevamo andarci, non avevo alcun dubbio. “ Il prima possibile, ti
prego!” E mi appesi al suo collo.
“Mah vediamo.. questo
fine settimana?! Prima che la neve attecchisca.”
“Sì! Mi farò aiutare
da Ygritte.” Mi alzai e corsi dal corridoio alle
scale, in stanza afferrai una vestaglia, alzai i capelli e tornai in basso; con
la velocità di un fulmine mi recai in cucina e ne uscii dopo una ventina di
minuti con dei fumanti piatti da portata. Aurelien mi guardò esterrefatto. “Che
c’è?! Non voglio farti morire di fame.. non prima di andare ad Auvers!” E scoppiammo a ridere all’unisono.
All’indomani della nostra
chiacchierata avevamo la casa piena di valigie e borsoni da caricare in auto;
la luna di miele che non avevamo mai avuto –Ines e Martin ci avevano regalato
una traversata via mare per l’Africa che non avevamo avuto il tempo materiale
di compiere dato i giorni di navigazione necessari, ripromettendoci di farlo
presto che però.. non era ancora arrivato- era solo un vago ricordo fastidioso,
adesso avremmo goduto come tutti i novelli sposi di un momento di quiete tutto
nostro, lontano dal chiacchiericcio della città e questo mi rendeva assai
felice, liberarmi delle pettegole.. non avrei potuto chiedere di meglio.
“Quindi non ti ha
detto quanto resterete là?!” Avevo invitato mia madre a colazione per darle la
notizia ma neanche il tempo di far freddare il latte in tazza che mi stava
riempiendo la testa di chiacchiere.
“No mamma, non l’ha
detto.” Alzai gli occhi al cielo e mi sorrise. “E tanto meglio. Non mi mancherà
questa città per un po’. Papà come sta? Non si fa vedere spesso dalla sua
figlia maritata. Digli che andrò fino ai sobborghi a cacciarlo fuori da quelle
aziende se necessario.”
Mi scrutò guardinga,
posò una mano sulla mia. “Glielo dirò. Tu pensa solo a stare bene, alla tua
felicità e a quella di tuo marito.. che alle chiacchiere ci penso io.” Non usò
un tono minaccioso, ma da lei ci si sarebbe potuti aspettare di tutto, era
stata un vero genio a rigirare la crisi delle nostre aziende facendo passare la
fusione quasi un vantaggio più per i Chedjou che per
noi.
“Ben detto Clorine.” Aurelien ci raggiunse vestito con abiti leggeri e
informali; si avvicinò a mia madre baciandole la mano prendendo posto fra le
vettovaglie da prima colazione. “Ahmed sta bene?!”
“Impegnato ma forte
come una roccia. Si scusa se non può raggiungerci e vi augura un buon viaggio.”
“Dirò a mio nonno di
allentare la presa, serve a tutti un po’ di tregua.” Guardò mia madre
sorridendo angelico; lei lo ringraziò, prese il fazzoletto dalle sue gambe
pulendosi gli angoli della bocca e guardandoci soddisfatta si alzò. “Fate buon
viaggio. E siate prudenti.” Suonai la campanella sul tavolo e Ygritte apparì in sala come un fulmine; qualsiasi
raccomandazione mia madre le avesse fatto prima di assumerla aveva funzionato,
ritrovandomi stupita ogni volta di quanto la donna fosse celere nel suo lavoro.
Mi alzai per scortala all’uscita e Aurelien con me, ma ci congedò con una
veloce battuta lasciandoci a mezzaria vederla andare via.
“Giurerei che è
passata solo per la tregua.” Sorrisi ad Aurelien che per mascherare una risata
d’approvazione si nascose dietro la tazza. “Non l’ho mai vista abbandonare una
colazione a quel modo.”
“E’ molto
determinata.” Posò la tazza, ridendo all’angolo della bocca. “Sappiamo da chi
hai preso..”
“Monsieur Chedjou c’è una nota di sarcasmo nelle sue parole?!”
“No madame Chedjou. Una nota di verità, piuttosto.” Si avvicinò
scalando le innumerevoli sedie che ci separavano, ridendo di me e del mio
broncio. “Ma ti amo per questo.” Mi baciò la mano e si alzò. “Faccio portare i
bagagli in auto, un ora o ti serve altro tempo, amore?!” Lo guardai annuendo,
non mi sarebbe servita più di un ora. Fremevo. Fremevo d’andare via.
Auvers era esattamente come me l’aspettavo, nel verde
distretto dell’ile de la France spiccava e rispecchiava in pieno il termine
campagna, o meglio quello che la mia immaginazione avrebbe assegnato a tale
posto; la neve aveva per lo più coperto le dolci colline degradanti -che
Aurelien mi aveva spiegato nella bella stagione si ricoprivano di distese di
grano, campi di papaveri e girasoli- un lungo e unico viale dissestato di bruno
terriccio, deliziose case di mattoni rustiche con i comignoli sbuffanti e le
stalle serrate per la rigidità dell’inverno. Rimasi delusa alla vista del fiume
ghiacciato ma sorrisi per una famigliola di anatre che attraversarono la lastra
andandosi a nascondere fra l’erba non ancora ammantata di neve. Defilammo senza
intoppi fino ad un incrocio, la famosa chiesa dipinta da Van Gogh a fare da
spartiacque, imboccando la salita verso sinistra e poi oltre un ponte dove la
strada si rimpiccioliva e la macchina sbuffò un po’; Aurelien mi sorrise
stringendomi la mano per tutto il tempo, Jerome gentilmente “prestatoci” dai
miei stringeva il volante come se dovesse cedere da un momento all’altro, ma
per fortuna capii di aver superato il difficile quando Aurelien indicò un
casale sulla sinistra, circondato d’edera e rovi di rose sui muri alti.
Alcune testoline
giovani sbucarono da dietro le mura, all’entrata del vialetto di ciottoli,
sorridendoci nei loro camici celesti e bianchi inamidati; accennai ad una
protesta ma Aurelien mi baciò i capelli.
“Si occupano della
manutenzione della casa, mia signora.” Mi guardai attorno, difatti quella che
avevo difronte a me non sembrava proprio l’antico rustico che Ines mi aveva
descritto; tutto era in ordine, i roveti spogli data la stagione ma curati, il
giardino molto più grande dell’impressione che dava all’esterno, nessun segno
d’abbandono davano subito all’occhio una sensazione di caldo focolare domestico.
“Prego, prima le signore.”
Entrai e fui avvolta
dal profumo di pane caldo e un tepore rilassante; una giovane ragazza mi salutò
con affetto e cordialità. “ Madame Chedjou è un
piacere fare la vostra conoscenza. Il mio nome è Rose e mi occupo di questa
casa da due anni ormai e prima di me mia madre. Vogliate lasciarmi le vostre
cose, prego vi mostro il resto della casa.” Guardai mio marito entusiasta, lui
annuì avvicinandosi al giovanotto che trafficava con la legna nel camino.
“Cuocete voi il
pane?!” Rose camminava svelta per le camere ed io le stavo dietro chiedendo il
perché di questo o quello; scoprii che i pavimenti in pietra e cotto erano
originali di almeno cinquanta anni e che la casa fu rilevata dai Chedjou trenta anni dopo la sua costruzione, esattamente,
calcoli alla mano, pochi anni prima che Aurelien nascesse. Lo immaginai
sgambettare per quelle stanze grandi e pensai alla felicità di un bambino nel
giocare libero, senza freni, in un posto così altamente stimolante. Benedissi
il mio taccuino sempre a portata di mano.
“Oh sì madame, se ha
qualche preferenza lo comunicherò a maitre Gerald.”
“Gerald.. Picard?!”
“Sì madame, proprio
lui.”
Il nostro aiuto cuoco.
L’uomo salvatore dei banchetti organizzati da mia madre, la persona alla quale
avrei affidato io stessa l’intero sostentamento del paese; ecco dove andava a
cacciarsi quando non era in città.
“Lui è di Auvers, ma come ogni grande chef ovviamente è di Parigi.”
Sottolineò l’ovviamente con una nota di sarcasmo, lasciandomi difronte un
enorme porta di legno massiccio. “Questa è la vostra stanza Madame. Resto a
disposizione.” Fece un leggero inchino e andò via. Aprii la porta cauta, ma
delle mani grandi accompagnarono il gesto; Aurelien dietro il mio orecchio
inspirava flebile.
“La nostra stanza..” Spinse
via la porta lasciandomi una visuale completa; dire che fosse bellissima
sarebbe stato superfluo. Il pavimento era di un caldo cotto color miele, i
mobili odoravano del legno scuro che avevo scorto nel resto della casa e per
tutto il perimetro di larghezza la stanza era attraversata da ampie finestre
che davano sul giardino sottostante e la campagna aperta difronte a noi. Ad
occhio e croce ci trovavamo esattamente al centro della casa, intorno a noi
poche costruzioni al quale buttai un fugace occhiata; nessuna casa era
lontanamente paragonabile alla nostra se non una, dal lato opposto e nascosta
dagli alberi della radura circostante. Sembrava deliziosa e disabitata.
Immaginai già il titolo per una storia.
“E’ meravigliosa
Aurelien.” Mi abbracciò, baciandomi la spalla; so che mi avrebbe spogliata
nell’esatto istante in cui avvertii l’impercettibile –ma per me ormai
chiarissimo- sfregamento delle sue labbra contro la mia pelle –chiaro segno di
desiderio- e il tremolio della mano. Non aveva smesso di essere nervoso neanche
dopo l’empasse della prima volta e i chiari approcci
che da sette mesi a questa parte avevamo avuto modo di sperimentare; per me era
una goduria, lo trovavo straordinariamente tenero e dolcissimo.
Chiusi la porta,
serrai le tende e mi buttai sul letto portandolo giù con me.
Riemergemmo dalle
coltri di lenzuola e desiderio due giorni dopo; dormimmo per ore lunghissime,
facevamo l’amore come se non ci fosse domani, spiluccando ogni tanto i caldi
piatti che Gerald ci faceva arrivare dalle cucine. Quella mattina misi piede a
terra per la prima volta dal nostro arrivo, la casa era stranamente silenziosa,
si sentivano solo i miagolii da baruffa di due gatti lontani; infilai la
vestaglia ed uscii dall’alcova rovente. C’era caldo, il camino nei piani bassi
crepitava, alcune ceste con ortaggi e frutta erano state lasciate sulle panche
sotto alle finestre in attesa di esser riordinate.
“Madame Chedjou!” La nota di colore e di stupore di Gerald mi fece
arrossire; credo che a tutto si riferisse tranne che al tempo passato
dall’ultima volta di un nostro incontro. “Le preparo subito un ricostituente.”
Appunto, questo mi fece decisamente arrossire; presi una mela dalla cesta, la
spolverai sulla vestaglia e diedi un morso. Avevo decisamente anche fame.
Dopo un po’ riapparì
con una ciotola con dello zabaione e -a giudicare dall’odore forte- marsala amalgamati,
ordinandomi di buttarlo giù senza proteste. “Quindi è ad Auvers
che si rifugia in periodi come questo?!” Lo guardai distratta, ben attenta a
non ferire i suoi sentimenti; non che mi importasse la provenienza di un genio
simile, ma se lui ci teneva tanto ad ometterla non ero certo io che potevo
impedirglielo. E poi odiavo il silenzio fra estranei –anche se in passato mi
aveva permesso di aiutarlo in cucina non mi sarei mai permessa di ritenerlo mio
amico- e ancora di più odiavo mangiare con una persona muta che mi osservava.
“Mi preparo per la
stagione della cucina, madame Chedjou.”
Mi guardò come se
sapessi di cosa stava parlando. “Cioè?!”
“Tutte le estati
organizzo corsi di cucina per giovani aspiranti delle accademie e.. ricche
signore annoiate,madame.” Lo guardai
accigliata. “Quindi io sarei fra queste?!”
“Oh no, no..”
Tossicchiò. “Auvers non è Parigi, qui è diverso. La
ricchezza è intesa in altro modo; se per esempio io posseggo trenta vacche e
cinquanta pecore.. io sono ricco. Se ho solo galline ma buona terra per
sementi.. non sono ricco, ma vivo che è già tanto.” Sorrise guardandomi
lievemente rosso in viso. “Non oserei mai paragonarla a noi, madame.”
“E perché mai?!
Preferirei essere viva e ricca alla vostra maniera che ricca e morta alla mia
maniera!” Risi raschiando il fondo della ciotola con il cucchiaino. “Facciamo
così Gerald, adesso mi cambio e lo fai anche tu, ti togli quel grembiule che
tanto monsieur Chedjou ne avrà per molto da dormire,
mi accompagni per Auvers e mi fai vedere un po’ come
si vive da queste parti, ok?!”
“Sì!” Si affrettò a
rispondere, “faccio portare subito la macchina.”
“Eh no Gerald.. così
non vale. Ho detto alla tua maniera. Non ho visto macchine qui, perciò a
piedi!”
“A piedi?!”
“Sì.” Salii le scale
di fretta. “Forza! Forza!”
Non avevo il minimo
senso del gusto che invece possedeva mia madre, ma reputavo che fossi il genere
di ragazza assennata che va incontro alle situazioni di testa ed è per questo
che quando tirai fuori dai borsoni il tipo di abbigliamento che mi madre
avrebbe usato certo per appiccare il fuoco nel caminetto, sorrisi tutta
entusiasta; potevo sfoggiare stivaloni degni di uno svuota pozzanghere, vestiti
di lana informi come piacevano a me e coprirmi con cappotti larghi che non
avessero nulla a che fare con i tagli sartoriali appesi nell’armadio a Parigi.
Ero veramente soddisfatta di me, sarei stata al caldo, pratica e decisamente
anti glamour. Perfetta.
Arrotolai una grande
sciarpa al collo, scrissi due righe ad Aurelien tanto da non fargli credere che
fossi scappata a gambe levate ed uscii con Gerald sotto braccio; era una
giornata piuttosto fredda, non nevicava ed il cielo era talmente terso che
dubitavo in altra magia bianca, l’aria frizzante e pungente. Scendendo a valle
il maitre mi accompagnò nei punti di maggiore
interesse del borgo, ammirammo la chiesa tanto famosa per il dipinto universale
che girò in Europa grazie a Van Gogh, passammo per il Ravoux
la pensione dove l’artista passò i suoi ultimi giorni e soffrì il martirio
della ferita mortale che si inflisse e per incanalare energie sufficienti per
risalire le colline – dalla quale si godeva a suo dire di una vista
meravigliosa- mi offrì la colazione in un tipico forno del posto proprio lì
vicino, salutando energicamente le tre persone che occupavano le panche più
defilate del negozio una volta entrati. Tutto era un tripudio di bontà, i
croissant morbidi e fragranti e la baguette al burro si scioglieva in bocca.
Comprammo alcune specialità per Aurelien ed attraversammo di nuovo il viale per
la sua lunghezza, stavolta deviando, alla chiesa, verso destra per una salita
ripida; avevo ripreso colore e forze ne ero certa, sentivo le guance pizzicare
e come l’impressione che il freddo non centrasse nulla. Gerald mi guardava
divertito e allo stesso tempo chiacchierava di aneddoti e storie che solo chi è
originario del posto poteva conoscere. Lo ascoltavo rapita e rapita mi fermai
dinnanzi a quello che sembrava un castello abbandonato, poche spanne dalla
vetta della collina.
“Quello cos’è?! Sembra
un fortino.”
“Oh madame, la sua
vena artistica è stupefacente.” Gerald si portò le mani ai fianchi riprendendo
fiato. “Quella era la torretta di controllo, ai tempi medievali. Il castello
apparteneva a ricchi feudali che si racconta furono i primi uomini ad insediare
il territorio.” Prese il respiro alterando il tono della voce. “Per me, un
inutile roccaforte che non vogliono lasciarmi usare.” Berciò, con l’amaro in
bocca.
“Usare.. per cosa?!”
“Un idea folle. Se
vuole seguirmi, manca ancora poco al punto più alto..”
Mi misi in marcia ma
non lasciai il fortino con lo sguardo per tanto che la visuale me lo
permettesse; il castello era piccolo e in rovina, il tetto crollato sotto le
intemperie e le mura perimetrali tutto ciò che rimanevano di quel fantasma. La
torre era il suo proseguimento e forse la cosa più intatta che esisteva là
attorno. Qualsiasi cosa ci avesse visto Gerald costava un certo sforzo di
fantasia.
“Mi permetta.. quale
sarebbe questa idea folle?!” Lo vidi arrestarsi e guardarmi perplesso. “Voglio
dire, cosa c’è di tanto poetico in un mucchio di macerie che la turba così
tanto, maitre?!”
Tentennò a rispondere
e lo fece solo dopo essersi rimesso in marcia. “Sono un sentimentalista madame Chedjou, ci ho visto una scuola di cucina, i ragazzi di Auvers con un futuro e storie d’amore legate al cibo. Ma
purtroppo la burocrazia è un male per il progresso, quindi non mi permettono ne
di avere un prestito, ne di metterci le mani.”
E questo poteva essere
assolutamente un buon motivo per avercela con chi mette freni a un sogno;
guardai ancora alle rovine e poi a Gerald, mi convinsi a lasciar perdere ma una
vocina dentro di me continuava a dirmi dillo, diglielo! “Magari potrei metterci
io una buona parola, maitre Gerald.” Esordii come un
pallottola impazzita. “Come ben sa il cognome che ho acquisito mi permette di
aprire anche porte arrugginite.” Scherzai cercando di sdrammatizzare quella che
dal mio tono di voce sembrava una cospirazione allo stato; l’uomo abbassò le
spalle, un tremolio di speranza e agitazione infondo agli occhi.
“Il signorino Chedjou certo.. è un po’ meno biondo di come lo ricordavo
l’ultima volta.” Sorrise ricordando la curiosa scenetta e la piccola bugia che
gli avevo rifilato al pranzo di fidanzamento. “Ma non le chiederei tanto
madame. E’ stata così gentile anche solo nel propormelo ma..”
“I ma sono peggio
della burocrazia mio caro maitre e comunque non
portano da nessuna parte. Non sto dicendo che gliela regalo, le propongo un
accordo. Vuole sentire?!” Annuì divertito. “Io ci metterei il capitale, lei il
suo genio. La scuola porterà il nome di mio marito il che le favorirà quanti
più alunni lei immagina di ricevere e ci fornirà inizialmente un introito
diciamo del.. trentacinque percento per iniziare. Quando tale somma raggiungerà
il costo dell’impresa.. beh la scuola sarà sua. Ovviamente a mio marito e i
suoi collaboratori spetterà l’andamento finanziario, lei guadagnerà pur
riscattando il debito. Che ne dice maitre, ha ancora
ma davanti a se?!”
Mi guardò incerto e
balbettante. “La p-prego.. a-almeno il cinquanta per cento.”
“Quindi è un sì?!”
Allargò le braccia
verso il basso, rassegnato dai suoi stessi sogni; passandogli accanto gli posai
la mano sulla spalla colpendola affettuosamente due volte. Mi sorrise con gli
occhi blu cobalto velati ed io mi sentii stranamente bene; lì, ad Auvers, davanti a un mucchio di rovine su di una salita
ripida di campagna avevo compiuto la mia prima opera finanziaria da signora Chedjou. Mio marito ne sarebbe andato fiero.. se solo
avessi trovato parole sufficientemente necessarie per spiegargli come e cosa
era accaduto.
“Deesire..”
Lo trovai accoccolato difronte il camino in vestaglia e con bicchiere di latte
adagiato accanto a se; ci sorrise divertito vedendoci arrivare mentre
discutevamo sulla morte di Van Gogh e il piccolo cimitero dal quale stavamo
tornando dove riposava ancora il maestro. “Fatto spese?!” Guardò ai pacchetti
che stringevo fra le mani, li lasciai a Gerald che in tempo record sparì nelle
cucine. Mi portai su di lui e mi accomodai sulle sue gambe, rannicchiandomi in
un abbraccio. “Ti sei divertita?” Strofinò la guancia contro il mio naso
freddo.
“Auvers
è deliziosa..”
“Sei stata sulla
collina alta?!”
“Sì, ho visto la
chiesa, ho mangiato brioche, sono passata per la pensione Ravoux
e.. ho comprato una scuola.” Mi soffermai sul suo sguardo non più di tanto
incredulo, più curioso e divertito che accigliato. “E.. ho stipulato un accordo
con Gerald. Mi servono le tue arti intermediarie, il nostro buon nome, dei
documenti..”
“Ok Deesire non ci sto capendo nulla! Che ne dici se cominci
daccapo?!”
Gli raccontai del
sogno del maitre e del mio di aiutarlo, sebbene non
trovassi un recondito motivo a questa voglia se non la certa disponibilità
economica che avevamo a disposizione. Potevamo permettercelo, ma non era tutto;
quel fortino era stato un richiamo, un qualcosa che avevo sentito dentro.
Aurelien mi ascoltò rapito, spostandomi ciocche di capelli dal viso quando
parlavo concitata delle meravigliose cose che avevo visto e fatto. Poi rimuginò
al fortino.
“Sai che il feudatari
che lo possedevano sembra discendano dai Moreau?!”
“I Moreau?!” Era mai
possibile che Fabien fosse ovunque mi girassi?
“Oh loro sono molto
legati a questo posto. Diciamo che è stato il padre di Baptiste
ad indirizzare mio nonno all’acquisto di questa proprietà. I primi uomini di Auvers potrebbero essere nostri lontani parenti, forse è
questo che ti ha attratta.”
Deglutii scacciando la
fastidiosa associazione attrazione-parenti ridendo isterica. Rimasi un po’
delusa dalla scoperta, mi ero immaginata un'altra storia, un’altra fantasia..
ma la terribile famiglia Moreau era sempre fra i piedi. Scossi il capo
inorridita, gettandomi la loro presenza alle spalle.
“Sono fiero di te
Dee.” Amavo il modo in cui usava quel diminutivo, “non solo ci hai visto del
potenziale, sei stata anche coraggiosa nel proporre un accordo. Chiama Gerald e
digli che se vuole possiamo discuterne. Appena rientreremo a Parigi cercherò di
smuovere le acque.” Mi baciò imprimendo forte le sue labbra alle mie; lo amavo,
era chiaro. Il suo modo di ascoltarmi, di darmi fiducia, il suo modo di
comprendermi e assoggettare le mie paure e le mie gioie mi rendevano fiera di
essere sua moglie.
“Ti amo Deesire.”
Eravamo in simbiosi, questo bastava.
*
NDA:
Ringrazio davvero
tanto tutte le persone che passano di qui.
E chi lascia una
traccia di sé al suo passaggio: _Nihil_ ti ho scritto una risposta lunga un papiro, ma
sono davvero contenta delle tue parole. J Resta connessa
e.. a presto! ;)
Rientrammo a Parigi
quattordici giorni dopo e ci vollero altri quattordici giorni per sistemare le
nostre cose, ritrovare gli amici, i parenti e tutta la successione di
creditori, finanziatori e via discorrendo. Una cosa positiva c’era, eravamo
sereni, Aurelien aveva ripreso il lavoro ed io era tutta dedita al progetto
della scuola di cucina; neanche a dirlo Ines e Clorine
mi avevano tempestato di domande e prese dalla foga scorrazzato in giro per
botteghe alla ricerca degli interni.
“E’ una scuola di
cucina vi dico, non un atelier!” Sbuffai cercando di farle desistere nel
continuare questo estenuante dibattito sulle differenze fra le due cose, ma le
pericolose donne si erano alleate fracassandomi i timpani; quando vidi Aurelien
raggiungerci in sala, tirai un sospiro di sollievo.
“Sai amore credo
proprio che adesso avranno un valido motivo per tampinarti..” Mi guardò
allusivamente sventolando la lettera fra le mani; lo fulminai con lo sguardo
perché se per me era stato un piacere aver sopportato per diciotto anni Clorine la pazza non so se avrei potuto sopportare anche
Ines la pazza e per giunta tutto il resto della vita. “I lavori.. sono partiti!
Si comincerà dal tetto, se tutto procede per il meglio Gerald avrà i suoi primi
corsi in estate.” Lo guardai allucinata, incapace di dir nulla se non emettere
gridolini soffocati e applaudire con le mani come una foca ammaestrata.
Le donne non vedendomi
oltremodo reattiva se ne approfittarono ripartendo alla carica, ancor più
motivate dall’esito positivo della transazione; il castello abbandonato era
nostro, i lavori potevano partire e per di più dalle stime del restauro si
prevedeva la fine entro l’estate. Non avrei potuto chiedere di più in quel
momento, solo azzittire le due pazze. “No! Non ci sarà il rosa..” Guardai mia
madre, “e no non ci saranno mobili d’ebano!” Guardai Ines. “Gerald avrà carta
bianca e solo lui di decidere come e con cosa verrà arredata la sua scuola.
S-c-u-o-l-a, avete capito? Fine della questione.”
“Lo hai consegnato
dritto nelle loro mani, te ne rendi conto?!” Aurelien si avvicinò al mio
orecchio ridacchiando; lo guardai avvilita.. poi rinsavita.
“Che se le sorbisca un
po’ anche lui.” E risi anche io.
Giorni dopo, ci
trovammo a contare assegni e ad organizzare un ricevimento per ringraziare i creditori
e la loro generosità; la voce si era sparsa in fretta, Gerald poteva contare
già due classi miste fra età ed esperienza, un bel gruzzolo dalla quale partire
e un nome che la diceva lunga su qualsiasi fama di bravura o no; la Chedjou-Bonnetecole.
“Grazie CapitaineFournier, maitre Gerald sarà lieto della vostra offerta.” Vidi
passarmi fra le mani il centesimo assegno della giornata, sorrisi e passai
oltre, ma l’uomo tentennava ad andarsene. “C’è altro Fournier?!”
Guardai l’uomo brizzolato starsene impalato incerto o no se parlare.
“Mi chiedevo..” Si
guardò attorno guardingo, abbassando la voce di un tono. “Come è questa Auvers?!”
“Ci ha fatto una così
bella donazione, chieda a mio marito di organizzarle una visita se ne renderà
conto con i suoi occhi.” Volevo liquidarlo perché il suo modo un po’ mellifluo
mi stava mettendo addosso una certa irritazione, ma quello non demorse, anzi si
piegò verso il mio orecchio. “Volevo dire.. è discreta?!” E nell’attimo in cui
tale parola uscì dalle labbra, una damina dalle fattezze evidentemente non
appartenenti a madame Fournier passò fulminea, gesticolando
all’uomo di sbrigarsi; incrociai le mani e sorrisi maliziosa.
“Immagino che possa
trovare la discrezione che cerca.”
“Ah bene!” Si sfregò
le mani soddisfatto. “Chi meglio di lei può saperlo; la donna che ha creato
tutto questo clamore con una scuola di cucina..”
“Fournier
venga al dunque.”
“Mi servirebbe un
posto in quella scuola madame Chedjou, a-al di fuori
del corso.. un aiutante, la lavandaia.. qualsiasi cosa, pur che discreta.”
“Capisco.. e immagino
che Madame Fournier non debba essere informata di
tale “occupazione”, dal momento che è iscritta al corso e non come lavandaia.”
Quello si guardò le mani colpevole. “Ehm, ecco no.” E immagino che la biondina
che sta cercando di rifilare nel corso è l’amante dalla quale non vuole
privarsi, pensai seccata; ero combattuta tra lo stampargli l’assegno in faccia
o mettermi ad urlare, ma non feci nessuna di queste cose, presi un bel respiro
e lo congedai malamente con un freddo “vedrò cosa posso fare.”
Maitre Gerald, intanto braccato dalle effusioni delle
signore –a trarre vantaggio dalla serata non erano stati solo i suoi affari
futuri ma anche le quotazioni come maitre personale,
tanto che ricevette offerte a destra e a manca per pranzi e cene più o meno
mondani- vedendomi ansimante ne approfittò per divincolarsi raggiungendomi al tavolo
delle donazioni. “Madame è stanca. Si goda la festa, resto io qui.”
“Con vero piacere
Gerald. Ti renderai conto in che razza di guaio ci stiamo ficcando.” presi la
testa fra le mani, “ i muri della scuola non sono ancora in piedi e già
fioccano raccomandazioni.” Girai l’assegno e glielo feci leggere. “Cinquemila
franchi?!” Mi chiese pallido.
“Per la scuola.. e per
il costoso vizio del tradimento.” Indicai discretamente l’uomo che lo aveva
lasciato scuotendo il capo, “a volte bisogna sapere a chi pestare i piedi; quell’uomo
discende da una famiglia tradizionale di gendarmi di Parigi, si dice che siano
influenti nella politica come.. è proprio il caso di dirlo.. la farina nella bechamelle.”
Gerald annuì compito. “Avremo comunque bisogno
di personale.. cosa saprà fare?!”
“E’ qui che viene il
bello maitre.” E gli sorrisi sarcastica, “vado a
ripescare mio marito.. si diverta.”
La vita scorreva
veloce in quel di Parigi, venne il tempo di togliersi guanti e cappotto e
passare in rassegna abiti più freschi e poche coperture. Non potevamo ancora
ritenerci liberi dalle basse temperature, ma perlomeno si sarebbe cominciato a
veder rifiorire, in tutti i sensi, la città. I parchi sarebbero tornati a
riempirsi di bambini festanti, gli alberi sugli ChampElisees avrebbero scacciato il grigiore tornando
verdi e rigogliosi e i fiorai, sulle strade e nei vicoli, avrebbero cantato ai
passanti con le loro ceste di rose, tulipani e gerbere.
Era passato un anno da
quando io Aurelien ci eravamo conosciuti e presto sarebbe stato un anno da
marito e moglie; le chiacchiere si erano leggermente assopite e il merito non
era solo di Clorine, maitre
Gerald con la sua scuola e la scappatella del prefetto con una ballerina di
jazz avevano distolto tutta l’attenzione dai coniugi più chiacchierati
dell’inverno passato. Non c’erano novità sul fronte “famiglia”; la nostra vita
scorreva piacevole e in duetto come sempre, ma constatavo con una certa
soddisfazione, che il mio liegeandava
migliorando con il tempo, rendendo me una donna soddisfatta e consapevole della
fortuna d’averlo accanto.
Ma, come nei migliori
romanzi d’amore, la calma e la quiete possono perdere in fretta il loro posto..
e per noi, il momento si era fatto vicino. Quello che ci successe dopo io lo
definirei come il secondo capitolo della nostra vita, dopo il romanticismo, la
quiete. La quiete.. prima della tempesta.
Correva l’anno millenovecentotrentanove e gli affari dopo un decennio d’affanni
si erano rialzati un po’ in tutta Europa, anche se un certo Hadolf
Hitler stava cominciando a minare le basi per la catastrofe mondiale che tutti
conosciamo; fanatismi di un dittatore a parte, successe che Aurelien grazie ai
fiorenti investimenti delle aziende di famiglia e di quelle che gli avevo
portato in dote, fu indotto a viaggiare molto in Belgio e in Germania paese in
pieno progresso tecnologico assolutamente dominante. Tutto a un tratto le nostre
aziende si ritrovarono a fabbricare montagne di segmenti per macchine belliche
e tutto questo ci dava sì un gran da fare, ma anche terribili presagi, più
ovviamente –meno importante difronte ad un imminente guerra- il pochissimo
tempo che trascorrevamo insieme.
Dopo Auvers era tornato tutto esattamentecome prima, io di nuovo annoiata e laconica
ed Aurelien colmo di lavoro. E proprio un giorno in cui mio marito era via da
Parigi, mi arrivò la notizia.
“Io ad Auvers? Per due mesi?! Gerald temo che lei abbia preso un
abbaglio.”
“Nessun abbaglio,
madame. Voglio farle questo regalo, lei ha l’arte nelle mani!”
Gerald si era messo in
testa di offrirmi il corso di cucina che sarebbe partito da lì a pochi mesi;
c’erano stati dei ritardi sulla tabella di marcia dei lavori, per cui il corso
si sarebbe protratto fino a fine estate, ma quando il maitre
mi vide arricciare il naso alla parola tre mesi, me ne aveva gentilmente
“concessi” almeno due. Ovviamente il mio cognome, il fatto che la scuola
esistesse grazie a me e mio marito e che fosse ormai a tutti gli effetti più un
amico che un subalterno, non mi avrebbero garantito alcun trattamento speciale,
sarei stata a tutti gli effetti un alunna come un'altra.
“Due mesi sono tanti
Gerald.. non so..” Vagai alla ricerca degli effetti che avrebbe portato la mia
assenza in quel dei salotti mondani; sentivo già il vociferare di fughe,
tradimenti, dipartite.. o forse avrei dovuto smettere di dare peso alle
chiacchiere sul serio e godermi di più la mia vita. Restavano comunque due
mesi, ed erano davvero tanti, necessari certo per poter apprendere tecniche
sempre migliori e perfezionarmi così in qualcosa che mi provocava già molte
soddisfazioni.. ma comunque lunghi e lontano da casa.
Ma era davvero questo
a spaventarmi?! La distanza da casa? La mia casa era Aurelien e se lui non era
qui non avevo bisogno di chiamare questo posto con questo nome; avremo fatto
come tutti gli innamorati della terra, ci saremo venuti incontro, magari chissà
al confine di un paese del tutto sconosciuto, avremo mangiato il nostro amore
in una squallida pensione in qualche squallido posto, o nei campi ad Auvers.. cosa importava d'altronde? Non sarebbe stata la
distanza a dividerci. O forse sì? Ero disposta a mettere a rischio la nostra
unione per un.. capriccio?! E se non avessi mai messo alla prova il nostro
legame, come potevo rendermi conto se eravamo esattamente così forti come
pensavo?
Al diavolo Deesire, pensai.. è uno stupido corso di cucina e ti stai
arrovellando il cervello per niente. E’ un sogno, il sogno di poter dire “lo
faccio perché voglio e posso decidere per me” e non è giusto chiudere la porta
a un sogno.. per insignificante che sia.
“Madame?” Notai dopo
un po’ che Gerald mi stava chiamando. “Se questo la mette in difficoltà, faccia
conto che non le ho chiesto nulla...” Era sinceramente preoccupato, avevo
imparato a capirlo guardando quegli occhi blu cobalto così dannatamente
limpidi. Me ne stavo lì a fissare l’aria incapace di dare una risposta,
aggiungere o togliere qualcosa; non mi accorsi nemmeno della sua assenza quando
andò via, perché iniziai a vagare per la casa con una certa frenesia,
costringendo Ygritte a tirare fuori da alcuni
scatoloni cose che avevo dimenticato risalenti al matrimonio. La donna mi seguì
fedelmente, assecondandomi nei miei deliri e fu così che scoprimmo di avere in
solaio cose dall’indubbia esistenza e che.. avevo un bacio dimenticato, nascosto
in soffitta.
“E’ molto bello
madame. Cosa è?!”
“Un vecchio ricordo.”
La cameriera sorrise complice di quel mezzo segreto che aleggiava su di noi e
senza proferir null’altro con il piumino scacciò via la polvere dal
meraviglioso “bacio di Klimt.” “Credi che Maitre
Gerald possa apprezzarlo, per la scuola? Non gli ho mai chiesto se ha bisogno
di dannati orpelli.. perché qui a quanto pare io ne sono piena. E questo.. ci
starebbe proprio bene.” La donna mi guardò accondiscendente. “Sì madame.” La guardai
convinta che mi credesse pazza; sorrisi fra me e me e continuai a far muovere i
pensieri lontano dalla richiesta di Gerald.
“Il maitre mi ha offerto un posto al corso.” Aurelien era
rincasato da un quarto d’ora ed io ero già addosso al suo collo come un vampiro
assetato; l’idea mi fece ridere e quando glielo feci notare rise insieme a me. Gli
raccontai tutto, mentre riordinava le cartelle con i documenti sulla scrivania
dello studio esposto a sud della casa, con più luce e una grande finestra,
della chiacchierata con il cuoco, più una serie di sfiniti pensieri sui pro e i
contro della mia assenza. Mi lasciò sfogare, quando esausta mi azzittii parlò
con il candore di un angelo e il sorriso beffardo da diavolo. “Mi stai
lasciando perché non abbiamo un figlio?”
“No.. e comunque non
mi passa per la testa.” La parola figlio stava deliziosamente bene sulle sua
labbra, per questo parlai sorridendo. “Li avremo.” Aggiunsi poi determinata.
“Giusto. Mi hai..” e
qui si fece un po’ più serio, “.. tradito?!”
“No!” Risposi
stizzita. “Io ti amo.” Non voleva essere una giustificazione –fra le altre cose
spesso poco influente- ma è così che suonò dalla mia voce miagolante.
Vidi trasformare quel
ghigno beffardo in un dolce sorriso, mentre si avvicinava alla mia figura cingendomi
le spalle con le mani. “Semmai ce ne fosse stato davvero il bisogno Deesire.. abbiamo constatato di non avere simili problemi.
Per cui.. vuoi davvero partecipare a quel corso? E non “mi piacerebbe”, “lo
farei”.. io voglio vederti felice. Ti ho promesso che lo saresti stata. Vuoi?”
“Si.” Ammisi,
guardandolo profondamente negli occhi. “Voglio partecipare a quel corso. Da
morire!”
Fu così che quattro
mesi dopo, all’inizio di un torrido luglio, mi ritrovai in macchina circondata
dai visi familiari della mia famiglia ed Aurelien sedutomi accanto, in
direzione di Auvers.
“Sarò da te
esattamente per il prossimo fine settimana.” Mi passò il braccio intorno alle
spalle, mentre Jerome canticchiava un vecchio pezzo della bella epoque. “Tutte le volte che tornerò dai miei affari passerò
per Auvers, così potremmo vederci almeno due giorni a
settimana.” Il piano mi andava bene, sostanzialmente questo mi garantiva di
vederlo ogni tot giorni – a secondo dei suoi impegni- in andata e ritorno per
l’Europa; non ci sarebbero state squallide pensioni in squallidi posti, ma solo
il mio amore a scaldargli il focolare ogni volta sarebbe passato.
“Sembra un vecchio
romanzo trito. “L’amante in campagna”..” Rise di gusto, baciandomi la guancia.
“Dee, puoi tornare
alla tua vita quando vuoi. Voglio solo che tu sia felice.”
“Lo so.” Alzai il
mento e lo baciai. E lo baciai ancora prima di vederlo sparire per il viale di
terra che lo riportava fuori Auvers, indietro sulla
statale per il Belgio. Avevo il cuore colmo di sensazioni miste; lo vedevo
salutarmi da lontano con quel sorriso che amavo e mi sentivo sicura, poi giravo
lo sguardo sul cielo, oltre le colline degradanti e mi sentivo in preda allo
sconforto più totale. Era paura, mi dicevo, paura dei traguardi, delle grandi
occasioni. E quella.. era la mia, la mia grande occasione.
Maitre Gerald il giorno seguente il mio arrivo mandò un
giovane cuoco che avrebbe provveduto alle cucine della casa; lo pregai di non
disturbarsi, che io e Rose ce la saremo cavate benissimo anche da sole, ma
insistette a tal punto che cedetti più per disperazione che gratitudine.
“Con il corso e le
ricette non avrà voglia di toccare altra padella all’infuori della scuola!” E
in realtà non aveva tutti i torti; i corsi cominciavano alle nove e finivano alle
quattro, estenuanti prove di questo e quello, assaggi vari.. mi facevano
tornare a casa sfinita e di certo poco affamata. C’era una cosa però.. avevo
moltissimo tempo a disposizione per dedicarmi con cura alle ricette che avevo
sempre desiderato mettere in pratica –a volte in casa costringevo Rose a vere e
proprie maratone fino a ora tarda per perfezionare un gusto o una pietanza- e
con sommo piacere mi riscoprivo ogni giorno più brava. Maitre
Gerald era entusiasta e fiero, nella sua divisa color cremisi con i bottoni
dorati; si destreggiava da vero padrone delle cucine, fra i nostri banchi di
acciaio impartendoci ordini come un gendarme. La scuola era venuta proprio
bene; le pareti di un pallido beige essenziale accompagnavano i corridoi e le
stanze delle classi, unico piccolo vezzo, il quadro che al mio arrivo consegnai
a Gerald come portafortuna; mi aveva parlato di amore e cucina quando al posto
di posate nei cestelli, forni e alunni, esistevano solo un mucchio di macerie, per
cui avevo immaginato, quale gesto più di un bacio avrebbe potuto rappresentare
al meglio la sua filosofia?
Va bene.. lo ammetto;
volevo solo liberarmi di quello stupido quadro. E il maitre
mi aveva servito la favoletta del connubio amore-cucina proprio, il caso di
dirlo, su un piatto d’argento.
Fortunatamente o anche
no, alcuni volti di Parigi dalla quale avevo avuto tantissima voglia di
scappare erano proprio in quel d’Auvers, fra quei banchi;
fortuna, perché la mia presenza in quanto madrina giustificava la mia assenza
in città e sfortuna perché mi sentivo sempre e comunque tutti gli occhi
addosso. Aihmè.. il prezzo della celebrità. Ma
sarebbe durata poco, alle madame di Parigi l’aria fine di campagna sarebbe
stata sopportabile per un solo mese.. dopo di che, con i loro attestati
–concessi in via straordinaria dato le più che generose offerte versate- e le
loro valigie di pelle di coccodrillo, sarebbero tornate ad infestare il loro
habitat naturale: i salotti buoni.
Non che ad Auvers ci fosse chissà cosa da scandalizzarsi sia chiaro..
mi sfrenavo con la cucina e lunghe pedalate nelle distese di grano e papaveri;
nella casina degli attrezzi avevo trovato due vecchie biciclette arrugginite,
con una buona scartavetratura e una verniciata ero riuscita a farle tornare
quasi nuove. Rose mi aveva raccontato –e sua madre prima di lei- che erano
state un dono di Jacque per madame Chedjou, la nonna
di Aurelien che io non avevo mai conosciuto, morta anni prima a causa di una
devastante malattia. Certo ogni tanto la catena scricchiolava e aveva bisogno
di frequenti unzioni d’olio, ma trovavo poetico il fatto di far rivivere la
memoria di madame Chedjou, portando a spasso la sua
bicicletta. Ed Aurelien aveva ragione, d’estate il borgo era bellissimo con i
campi fioriti, che tenerla riposta in un capanno era davvero un enorme peccato.
Non avrei osato desiderare di più; mangiavo bene e a parità di cibo inghiottito
mi muovevo altrettanto –anche se ero ingrassata e i vestiti me lo dicevano
chiaramente- il corso stava procedendo senza intoppi e Auvers
era diventata ormai un nido assai familiare… fino al giorno in cui, persa fra i
miei roveti, non mi vidi sbucare alle spalle un ombra.
Era passato appena un
mese, questo il tempo che il destino decise di darmi come tregua.
“C’è nessuno?!” Non lo
sentii arrivare, i passi sulla ghiaia erano leggiadri e la mia mente troppo
occupata sul profumo inebriante delle rose. ”Deesire?!
Tu..qui?!”
Mi voltai lentamente,
posando il mio sguardo sulla sua figura, fra l’imbarazzato e l’incredulo; era
proprio lui, non avevo avuto un allucinazione da sole di mezzogiorno. Passai in
rapida occhiata il volto, tirato e alquanto scarno, con occhiaie profonde a
cerchiare gli occhi verde-azzurro tipiche di chi non riusciva a farsi una bella
dormita da un pò; vestito in modo bizzarro, molto più
di quanto non fossi abituata a vedergli, fra le mani una valigia usurata e un
sacchetto da sporta.
“Fabien?!”
Esordii ironica, “ti sei perso?!” Mi guardavo attorno come cercassi in un
brutto sogno la mia risposta; ma la spina che mi aveva punto nel voltarmi verso
lui, mi aveva fatto sanguinare e lo sentivo chiaramente. “Ahi..” sibilai e lui
rise, poggiando in terra valigia e sporta avvicinandomi.
“Dai qua..” mi prese
la mano portandosela alle labbra; stava succhiandomi l’indice.
“Neanche sei
arrivato.. hai già qualcosa di mio in bocca.” Berciai arrogante e ingrata; lui
spostò il dito dalle sue labbra e sorrise all’angolo della bocca, amaro. “E’
sempre un piacere, cugina.”
Stavo per ribattere
con un sonoro schiaffo, ma quello mi anticipò indietreggiando –memore del
passato- prima che la mano compisse il gesto. “Vedo che non hai perso le buone
maniere.” Sorrise, “E Aurelien? E’ una vita che non lo vedo, hai fatto fuori
anche lui? Qualcuno dovrebbe rimbeccarti seriamente sulla tua educazione.” Si
affrettò all’entrata, quando spinse via la porta, Rose trovandoselo davanti,
arrossì.
“Monsieur Moreau.. non
l’aspettavamo,” mi guardò sgranando gli occhi, “chiamo subito mia madre per la
servitù, le sistemiamo la casa in un ora, la prego ci scusi e..”
“Calma Rose, prendete
tutto il tempo che vi serve.” Le passò una mano a coppa sul viso e quella
sospirò talmente forte che temetti si rompesse. “Ma sarei felice di salutare
mio cugino, puoi chiamarlo?!”
Quella ci guardò
perplessa; annuii alle richieste che Moreau aveva fatto e la congedai. Qualsiasi
cosa intendesse per casa e servitù non mi era chiaro, ma a loro si,
evidentemente; cominciavo a sentire una spiacevole sensazione alla bocca dello
stomaco.
“Lui non è ad Auvers, Fabien.” Inarcò il
sopracciglio e sorvolai su inutili perché, sicura che lo avrei visto sparire
nel giro di qualche ora. Ma sbagliavo; la bellissima proprietà nascosta fra gli
alberi, esattamente difronte alla nostra, era della sua famiglia e per oscure
ragioni Fabien aveva deciso di prendervi possesso
tempo illimitato.
“Certo.. le origini
dei Moreu.” Pensai ad alta voce, dandomi della
stupida per non averlo capito prima; se nonno Moreau discendeva dai signori
feudali del borgo, tutto ciò che avevo attorno probabilmente gli apparteneva. Fabien annuì, come se mi avesse letto nel pensiero. “Ti
farei vedere la casa ma.. meglio di no, sei già stata sulla collina alta?!”
Stavolta annuii io. “Beh non c’è molto altro per te ad Auvers
immagino.. mi domando cosa ci fa la Deesire dai
vestiti della boutique delle Rose in mezzo ad anatre e strade di campagna.”
“Molto più di quello
immagini Fabien. Sono qui da un mese, ti stupirei..”
“Racconta allora..”
Calciò una sedia per farmi sedere ma negai. “Vuoi che ti aiuti con le rose
allora?!” Negai di nuovo. “Oh Deesire, non so dove
andare.. fammi restare con te, non sono poi così male!”
“Togliti quella giacca
ridicola monsieur Moreau,” mi guardò perplesso e vagamente eccitato; alzai gli
occhi al cielo e prosegui, “te la faccio scoprire io Auvers.”
Uscii verso il capanno; la mia bici era poggiata allo stipite, inoltrandomi nel
buio riemersi con l’altra, blu di vernice, scampanellando alla volta di Fabien.
“E queste?!” Si avvicinò
testando i freni.
“Un cimelio di
famiglia.” Montai in sella, guardandolo seria. “Andiamo!”
Si lasciò condurre
fuori la strada sterrata, per un sentiero che avevo scoperto nelle mie giornate
di fuga, quando dal corso avevo una pausa -come in quel giorno- in cui ero
solerte sistemare la casa o appunto darmi a isolate passeggiate meditatrici; il
terreno era dissestato ma secco, per cui proseguimmo senza intoppi, per un
vialetto di pioppi ridondanti. Ci fermammo lungo il corso d’acqua dell’Oise, riparati da una collina alle nostre spalle degradante
sul fiume; c’era pace, tranquillità e la frescura che le fronde degli alberi
regalavano con la loro ombra.
“Allora Deesire, cosa ci fai sola ad Auvers?!”
Abbandonammo le biciclette e ci adagiammo sull’erba. Fabien
aveva srotolato delle carte dalle quali erano usciti deliziosi formaggi
austriaci ed olive italiane, alcune specialità basche e salumi di terre che in
vita mia avevo solo sentito pronunciare, cose che aveva portato con se, di
ritorno dai suoi viaggi; aveva passato l’ultimo anno nel vecchio continente,
frequentando scuole d’arte prestigiose e imparando a sua volta l’insegnamento
della materia. Era stato a Firenze, era passato per Vienna, poi ad Amsterdam
per ammirare i meravigliosi dipinti di Van Gogh, ed esaurito questo desiderio
d’apprendimento aveva fatto ritorno in Francia, precisamente ad Auvers dove avrebbe trascorso un po’ di tempo prima di
partire per nuove mete. Sembrava entusiasta del suo percorso, ed io non lo
avevo mai visto così appagato prima ad ora; a parte il viso scarno e più
maturo, i suoi occhi brillavano di una luce che avevo visto solo in quelli di
Aurelien quando l’ascoltavo parlare di finanza o nei miei quando il progetto
della scuola era divenuto realtà. Parlavano di soddisfazioni quegli occhi e di
cose magnifiche che aveva fatto e visto.
“Te l’ho detto, maitre Gerald ha aperto una scuola ed io..”
“Sì.. cucini, finanzi
e ti diverti.” Elencò il mio essere ad Auvers come si
elenca la ricetta di un brodino; lo guardai male, addentando dell’ottimo pane e
formaggio. “Io mi chiedevo il vero motivo. Sei così trasparente Deesire, ti si legge un mondo dentro quegli occhi.” Lasciò
che un canto di grilli sostituisse la sua voce, non aggiungendo altro se non un
sospiro, lieve ma lunghissimo. Rimasi interdetta e piuttosto infastidita dalla
sua esuberanza, ma sinceramente colpita dal suo voler sempre leggermi dentro;
non so che ne era stato della sua cotta infantile, dopo il mio matrimonio era
stato parecchio bravo nel delegare tutti gli impegni di famiglia e i viaggi
studio avevano fatto il resto; semplicemente le nostre vite erano andate
avanti, ed averlo qui felice nei suoi racconti mi dava se non altro un po’ di
speranza per il futuro.
“Sei sempre così
attento Moreu o è l’aria europea che ti ha reso
perspicace?!”
“L’una e l’altra.”
Sorrise fugacemente, aggrovigliandosi su un pensiero che rimase tale e morì in
un sussulto.
“Dopo queste
meraviglie, Fabien, te lo chiedo io.. perché sei
tornato?!”
“Nostalgia di casa.”
“Casa?!” Mi guardai
attorno e lui sorrise imbarazzato. “Beh qualsiasi cosa voglia dire casa, Auvers le somiglia. Non mi ha mai spaventato molto la
solitudine e di certo come sai non bramo di ritornare a Parigi.” Accidenti a Fabien Moreau e alla sua sincerità; mi sciolsi come burro
al sole, ricordandomi quanto in fondo ci assomigliavamo. “Non riusciamo ad
avere figli.” Sparai la mia cartuccia stretta fra i denti e mi alzai senza
attender risposta, sussulto o compatimento andandomene verso il lento fluire
dell’Oise.
Sentii i suoi passi,
poco dopo, frusciare sull’erba e poi il silenzio; era alle mie spalle, immobile.
“Ed egli non sa perché, vedendo passare una chiatta, la
nostalgia lo afferra. Anche egli vorrebbe partire, lontano, lontano, sull’acqua
e vivere una nuova vita.”
Parlò dolce scandendo
parole di Prevert, la mano allacciata alla mia, senza
dire altro.
*
NDA:
Capitolo di passaggio,
piuttosto incasinato lo ammetto, ma zeppo di informazioni al fine di
giustificare la mia mente contorta applicata al seguito della storia. Spero vi
piaccia.
Come sempre ringrazio
chiunque avrà voglia di spendere tempo per leggerla e lasciare un commentino; a
chi lo ha già fatto, milioni di grazie!
Grazie quindi a Benny Badflour per la recensione. J
Fabien andava e tornava dal suo porticato al mio, da ben
due settimane, ormai; due settimane di risate, pianti malinconici, racconti di
un passato che mi intrigava quasi quanto i suoi occhi fuggenti, ogni qualvolta
lasciava andare via un pezzo di sé. Con mio sommo stupore mi trovavo ad attendere
con ansia il momento -più o meno tutti i giorni verso le otto- in cui vedevo
aprirsi la grande porta di legno scuro della casa difronte, lui che si piegava
a raccogliere il giornale e portarlo sotto al braccio, vederlo attraversare il
giardino di siepi rigogliose con una buffa corsetta e il cancello di ferro
battuto richiudersi alle sue spalle, sullo stridio dei cardini arrugginiti. Un
rituale al quale rispondevo con una certa allegria, arrivando addirittura a
preoccuparmi se lo vedevo attardarsi troppo; facevamo colazione con montagne di
crepes dolci e sfogliando il giornale commentavamo ironici le ultime notizie da
Parigi, immaginavamo la fine di tizio e ridevamo delle sorti di caio, avevamo
addirittura scommesso su quale delle matrone di città avrebbe abbandonato per
prima il corso! Fabien mi aveva stracciato alla
grande; per quanto solitario era un attento osservatore, con un talento
naturale nel saper comprendere le persone. Sentirle.
Ad Auvers
ci conoscevano tutti come i “cugini inseparabili di città”; non rappresentavamo
nessun genere di istituzione ed inseparabili credo fosse l’aggettivo più
consono per noi due. Io, lui, le nostre biciclette e –per buona pace degli
orecchi di maitre Gerald- dopo mie sfinite suppliche,
anche compagni d’avventura in cucina; Fabien si era
guadagnato un ruolo nella scuola come tutto fare, la sua verve metteva di
buonumore tutti, me compresa. Averlo attorno, mi rendeva serena.
“Stucchevole.” Addentò
la quiche lasciando scivolare via le briciole dagli angoli della bocca; posai
esasperata le braccia in avanti, sul bancone di marmo dell’enorme cucina cui
disponevo. “Che c’è sei nervosa?! Oggi torna il maritino e non stai più nella pelle?!”
La sua ironia lasciava ai miei limiti di sopportazione un margine alquanto
basso; forse, la cosa che più di lui detestavo. L’unica, fra le altre cose.
“Così non mi aiuti. Maitre Gerald si è messo in testa di chiudere il corso con
una ricetta speciale e tutto quello che sto combinando sono enormi pasticci!”
Sbuffai, soffiando via la ciocca di capelli che mi era volata dinnanzi agli
occhi.
“E’ che ti stai
perdendo in cose complicate.” Afferrò un cartoccio di farina e lo gettò sullo
spianatoio; con accuratezza forò il centro della montagna bianca, sorridendomi
timidamente. “Devi applicarti su quello che sai già fare e che ti viene
meglio.” Si colpì le mani ripetutamente lasciando che si pulissero alla meglio,
mi voltò le spalle per raggiungere la finestra sul cortile.
“Fosse facile..” i
miei pensieri si trasformarono in mugugni.
“Lo è.”
Alzai le spalle poco
convinta, Rose interruppe il flusso dei pensieri bussando alla porta. “Madame..”
guardò Fabien arrossendo –quando le sarebbe passata
la cotta?- “persone in visita.”.
“Tu resta qui.” Puntai
l’indice contro Fabien, ora cianotico e impaziente
dinnanzi le finestre.
“Mamma!” Riconobbi
subito Jerome e lo sbuffo del suo sigaro; era la vigilia del mio compleanno ed
avevo totalmente rimosso l’evento più il pacchetto famiglia in andata da Parigi
venuto a festeggiarmi. Clorine se ne stava inebetita
a fissarmi e a fissare l’autista come a voler dire “i bagagli razza di
idiota!”. Mi sciolsi, sorridendole e andandole incontro. Nell’attimo in cui
l’abbracciai mi resi conto di quanto soffrivo la sua mancanza; era vestita di
tutto punto, con la piega fresca e quasi giustificai le sue occhiate torve al
mio grembiule bianco e gli abiti smessi, vergognandomi. Fortunatamente la gioia
di rivedermi non lasciò scampo ad alcun commento sarcastico.
“Fatti vedere..”
Tremai, ci siamo.. ramanzina in arrivo! “Sei ingrassata tesoro?!” Arrossii e
sospirai di gioia allo stesso tempo, “sei oltremodo bellissima.”
“Grazie mamma!” Ero
sinceramente colpita dalle sue parole; la lontananza cominciava ad assumere per
me le sembianze di una squisita rivelazione. “Andiamo, ti mostro il resto della
casa.”
“Ehm..” Qualcuno
tossicchiò alle nostre spalle. “Non vuoi dare un bacio al tuo papà prima di
andare?!” Non avevo notato la figura di Ahmed prima che si palesasse alla
nostra vista.
“Papà!” Non trattenni
l’entusiasmo volandogli letteralmente fra le braccia, baciandolo con infinito
amore. “Mi sei mancato tanto.”
“Anche tu..” il fiato
affievolì fra le labbra carnose, “ma il tuo papà non è più tanto giovane come
credi.” Sorrisi divertita, scendendo dalle sue braccia. “Come stai e come sta
Cedric?!”
“Santo cielo Deesire entriamo o restiamo qui ad arrostirci?!” Il tono da
soprano di mia madre sovrastò la voce di mio padre che concluse i suoi pensieri
ridendo e scortandomi verso l’entrata; li guardai, le due figure che mi avevano
messa al mondo e fui invasa da tanto amore da non saperlo descrivere.
“Rose mostra la camera
ai signori Bonnet” Li guardai, sbirciando con ansia
il corridoio per la cucina alle loro spalle, “vi lascio tutto il tempo per
sistemare le vostre cose e darvi una rinfrescata. Se avete bisogno di qualcosa
non esitate a chiamarmi.” Annuirono, sparendo per il piano superiore.
“Fabien?!”
La porta della cucina era socchiusa, spingendola capii che se ne era andato.
Sul tavolo un
biglietto svolazzava come un ala aperta.
“Super attacco improvviso d’ispirazione.
A presto, Fabien.”
Istintivamente posai
lo sguardo sulla porta/finestra che dava sul giardino e notai che era aperta.
Strinsi i pugni e
sorrisi amara; il super sottolineato era il suo chiaro e disperato messaggio di
disagio per l’intera situazione; l’ispirazione era una delle sue scuse
preferite quando qualcuno di famiglia passava a trovarmi e nel caso di Aurelien
osava anche uno sfrontato “non vorrei farlo ingelosire”, che per me era ormai
abitudine vederlo sparire, ma questo suo atteggiamento refrattario non mi
piaceva per nulla e mi rendeva poco serena. Per giorni nessuno sapeva dove se
ne andava, cosa faceva, dove mangiava.. la sua presenza era segnata solo dal
fioco baluginio delle lampade a olio che spezzava –non tutte le notti- il buio
dell’enorme proprietà Moreau.
I miei genitori ed io
pranzammo all’aperto, sotto la veranda che Aurelien aveva dato incarico di costruire,
dopo le mie incessanti richieste; se c’era una cosa che adoravo del poter
pranzare/cenare all’aria aperta era l’aria di convivialità che un porticato, un
tavolo e alcune sedie potevano regalare ad ogni incontro. Mi ero trasformata
dall’essere una damina ben cortese di città, ad una ragazza di campagna in soli
due mesi e tutto questo cominciava a piacermi sul serio, pensando con
agitazione ad un futuro -e quasi imminente- rientro a Parigi, ai suoi merletti
e alle sue ovvietà. Se adoravo il tavolo esterno poi il motivo era Fabien; con alcuni cocci recuperati dallo scantinato della
sua villa, mi aveva aiutato a ricavarne tanti piccoli tasselli trasformati in
mosaico che ora fungeva da lastra portante del suppellettile, donando vibrante
colore e vivacità all’insulso tavolo che era una volta. Intristii al suo
pensiero, al suo incostante rifuggire le persone ma scrollai le spalle,
aiutando Rose a servire il pane che avevo preparato la sera precedente e i
“disastri” culinari che proprio il ragazzo biondo delle mie pene, mi aveva
bocciato come prova d’esame.
“Quella è la proprietà
dei Moreau, non è così?” Ne avevamo approfittato della frescura di un banco di
nuvole per passeggiare fra i campi, quando Clorine
non si lasciò scappare occasione, indicando con un occhiata fugace la possente
villa difronte la nostra.
La guardai esitante.
“Sì.”
“Si dice che il
pittore sia da queste parti.” Il pittore; non trovai nessun aggettivo tanto
appropriato quanto dispregiativo come quello. Inspirai profondamente,
fulminando mia madre con uno sguardo.
“Si chiama Fabien. E non è qui.” Non era proprio una bugia e nemmeno
la verità ovvio, ma spiegare a Clorine cosa
significasse l’assenza del ragazzo, era un estenuante battaglia persa in
partenza. “Il tuo tesoro è al sicuro, tranquilla.”
“Meglio così. Che
buffa coincidenza sarebbe questa.”
Alzai le spalle; non
avevo mai pensato alla comparsa di Fabien in quel d’Auvers come una -ironicamente parlando- “buffa
coincidenza”; non era a conoscenza della mia presenza lì ed io credevo
ciecamente che mancasse da Parigi e da papabili informazioni sul mio conto, da
un bel po’ di tempo.
“Non direi dal momento
che quì anche l’aria che stai respirando, appartiene ai
Moreau.”
Mia madre incalzò
irritata. “Mi stupisco sempre di quanta fortuna a volte muova profonda incostanza.”
“Anche io.” Risposi
serafica, mettendo fine alla discussione.
Rientrammo in
religioso silenzio, la casa era addormentata e pervasa da un inebriante odore
di lavanda; gemetti ansiosa, accarezzando i mazzi di fiori sparsi sul mobilio e
poi quello più grande, avvolto in un alto nastro blu, sul tavolo centrale nel
salone.
“Aurelien?!” Lo trovai
sul retro, in giardino, piegato sulle vecchie tubature a vista del casale.
“Madame Chedjou, mi duole dirle che i suoi tubi fanno veramente
pena!” Si alzò non appena lo avvicinai, pulendosi le mani sui pantaloni.
Adorabili pantaloni di lino chiaro; la sua visione mi lasciava sempre a bocca
aperta. “Ma la casa ha un ottimo aspetto. C’è il tuo tocco ovunque.” Mi accarezzò
la guancia, posandosi dolcemente sulle mie labbra. “Mi sei mancata.”
“Anche tu.” Gli passai
le mani lungo le braccia. “Entriamo, Clorine ed Ahmed
ti hanno preceduto.”
Sorrise rinfrancato
sentendo nominare il nome di mio padre. “Mi era sembrato di sentire odore di
sigaro..” si posò sui miei capelli, annusando forte. Lo guardai perplessa,
vagamente eccitata e impaurita.
“Sei geloso monsieur Chedjou?!”
Si irrigidì,
scostandosi. “Sì.”
“Mi duole dirle però che
ho dei nuovi amici; cognac e sigaro..” Inspirai teatralmente, “deve farci
l’abitudine.. d'altronde le mie notti sono così solitarie.”
Mi guardò languido. “Ho
intenzione di riempire le tue notti molto a fondo.” Soffiò sensuale sulle mie
labbra, prima di posarvi un bacio all’apparenza molto casto; in breve mi trovai
schiacciata sotto la sua mole e con le spalle scoperte a premere sulla pietra
ruvida della parete. Guardai i suoi occhi verde bottiglia aprirsi ed
accendersi, belli come non erano mai stati prima.
“Via di qua Chedjou..” Sorrisi maliziosa, “non credo che questi tubi
reggeranno il peso delle tue promesse.” Scoppiammo a ridere, prima di rientrare
abbracciati stretti l’uno all’altra.
“Non ci posso
credere!” Poche ore dopo avevo accompagnato i miei ed Aurelien alla scuola di
cucina per mostrargli il nostro operato e dove sostanzialmente finivano i soldi
che stavo investendo; mia madre vagò per i corridoi tramortendo il povero
Gerald su ciò che secondo il suo –poco opinabile- gusto andava e non andava
bene, mentre mio padre parlottava fitto con Aurelien su possibili fusioni ed
espansioni. “Maitre Gerald avrà garantite classi
almeno per i prossimi due anni!” Mio marito aveva grandi doti mediatiche ed io
avevo dimenticato quanto fosse piacevole essere sposata ad un loquace uomo
d’affari; sostanzialmente nei suoi viaggi all’estero aveva convinto alcune
compagnie ad investire sul progetto di Gerald ed il mio facendoci apparire,
quello che all’inizio era solo il sogno di una scuola-futuro per i giovani di
campagna, una joint venture culinaria a livello europeo. Niente male per una
dilettante con la fissa per la scrittura e un maitre
dipendente dai capricci di cucina di qualche riccone.
“Monsieur Chedjou non so come ringraziarla, davvero se posso fare
qualcosa..”
“L’unica cosa che
spero è che lei mi restituisca al più presto mia moglie..” sorrise tornato
bambino, passandomi un braccio intorno al fianco, “sono un uomo perso senza di
lei.” Mi guardò con sincera beatitudine, annullando il resto del mondo intorno
a noi.
Gerald arrossì, lo
scartai dallo zuccheroso Aurelien pregandolo di accompagnare mia madre ai
locali lavanderia. “Ti divertirai a scoprire chi ci lavora.” Il gossip avrebbe
tenuta distratta Clorine per un po’ e reso il maitre un po’ meno pensieroso.
“Amore..” Passai le
braccia intorno al collo di Aurelien, “puoi non far scappare a gambe levate i
miei amici? Ho ancora più di due settimane da passare qui!” Risi, ma lui mi
guardò serio. “Mi manchi davvero, Deesire.
Non-credevo-tanto.” Scandì le ultime parole, accarezzandomi i capelli.
“Vuoi che rientri con
te?!”
“Non sono così egoista.
Ma voglio che non lo dimentichi.” Mi baciò la guancia. “Sono perso senza di
te.”
“Ci vediamo lunedì a
lezione, maitre.”
“A lunedì Deesire. Signori Bonnet, monsieur
Chedjou, arrivederci e a presto.”
Il sole era calato,
sulle colline dolci e degradanti.. i colori che tanto amavo; rimanemmo
incantati sulla discesa che ci riportava sulla strada principale, quando dalla
casetta defilata del guardiano una matassa di capelli biondi e una figura
femminile attirarono la nostra attenzione; Fabien e
Rose se la ridevano di gusto, mentre la ragazza con mani abili si sistemava la
chioma scura e fluente, scarmigliata da chissà quali “attività ricreative
pomeridiane”. Fantastico. Non si accorsero di noi sulle prime, ma quando Rose
incrociò il mio sguardo impallidì. Alzò il braccio verso la nostra direzione,
con un sorriso plastico sul volto.
“Il pittore e la
cameriera.” Mia madre sogghignò, sussurrandomi all’orecchio. “Clichè di indubbio gusto.”
Guardai il ragazzo
incredula del mio stesso stupore e rabbia; sì rabbia, lo immaginavo solo,
depresso, immerso nella sua arte ai confini di chissà quale paese.. ed invece
non aveva mosso neanche un passo lontano da Auvers e
si accompagnava alla mia cameriera! Non so quale delle due cose, in quale
ordine e in quale portata, mi desse più fastidio. Tornai ad assaporare il
fastidioso bruciore alla bocca dello stomaco, così come quando per la prima
volta, lo vidi avvinghiato a Juliette.
Aurelien mi guardò,
alzai le spalle ignorando il suo sguardo carico di interrogativi; gli avevo
raccontato che spesso passavamo del tempo insieme, ma la sua assenza durante i
soggiorni ad Auvers gli avevano indotto a pensare che
quello che si aggirava per il paese, fosse più il fantasma di suo cugino, che
la sua vera presenza in carne ed ossa; evidentemente si era sbagliato. Ed io
con lui, se non fosse stato per quelle maledette luci nel buio, avrei pensato che
il ragazzo con cui condividevo gran parte della settimana, era in realtà una
fantasia sviluppata dalla mia mente.. ma era chiaro che sbagliavo, Fabien era vivo e vegeto, felice ed accompagnato!
“Cugino..” Ci avvicinò
ben attento a non incrociare i miei occhi; Aurelien lo abbracciò sinceramente
entusiasmato dalla sua presenza. Era incredibilmente più alto e piazzato di lui,
che fra le sue braccia sembrava un esile giunco pallido, durante una tempesta.
“Fabien
accidenti a te, non ti fai mai vedere!” Lo colpì affettuosamente due-tre volte
sulla spalla, “come stai? Credo di non vederti dal giorno del mio matrimonio.”
“Oh no, non da così
tanto.” Arrossì e per un impercettibile secondo mi guardò, “Deesire
mi ha raccontato che gli affari vanno bene? Sono stato via anche io.”
“Gli affari vanno
bene, ma nostro nonno ti reclama come sempre.” Si guardarono carichi di domande
inespresse, dubbi, tensioni. “Non ne vuoi proprio sapere di passarlo a trovare?!
Gli farebbe piacere fare due chiacchiere con te.” Fabien
si guardò attorno chiudendosi sempre più nelle spalle; mia madre batteva
nervosamente un piede in terra pendendo da quella risposta, mio padre con la
scusa di accendersi un sigaro si era allontanato, io ero un tumulto di
sensazioni contrastanti. “Pensaci. Intanto perché non ti unisci a noi per la
cena?!”
“Aurelien ti ringrazio,
ma ho già altri programmi per la serata.”
Tutti guardammo Rose e
la poveretta arrossì violentemente. “Ci sarai almeno per il compleanno di Deesire, domani sera? E non dirmi di no perché mi ha
raccontato che passate un sacco di tempo insieme, penserei troppo male se non
venissi.” L’attenzione da Rose si spostò su di me; gli occhi di mia madre erano
spilli ardenti sulla mia schiena. Mi schernii.
“Non forzarlo
Aurelien, ci ha già detto che è impegnato.” Corrucciai le labbra in una
smorfia, un lampo di malizia percorse le pupille di Fabien.
“Però..” piegò le
labbra a un lato sardonico, appoggiandosi con tutto il peso sulla mia spalla,
“per il tuo compleanno posso anche liberarmi.” Maledetto sorriso sexy e
maledetta faccia tosta.
“Non darti questa pena
Moreau..” Sibilai fra i denti. “Non sentiremo la tua mancanza.” Risposi con il
mio sorriso migliore, ma il mio tentativo si trasformò in una smorfia ben
peggiore della precedente, tanto che Rose dovette appellarsi a tutte le sue
forze per non ridermi in faccia.
“Nessuna pena. A che
ora hai detto cugino?!”
“Alle otto andrà bene.”
Poi guardò la ragazza, “Rose spero sarà dei nostri? Mia moglie se la caverà per
un giorno senza il suo prezioso aiuto.”
Quella annuì, “Con
molto piacere monsieur, madame Chedjou è un ottima
amministratrice.”
E tutto ciò che avrei
desiderato amministrare in quel momento era il collo di Fabien..
fra le mie mani.
La pioggia ad Auvers era un fatto raro, specie d’estate. Ma quella notte
venne giù il finimondo. Mi giravo e rigiravo nel letto non trovando pace;
quella risata, le donne che si scioglievano ai suoi piedi, tutto di Fabien mi teneva sveglia e stanca. Ero arrabbiata, e lo ero
anche con Aurelien.. perché invitare degli ospiti senza neanche ascoltare il mio
parere? Beh forse perché era di suo cugino che stavamo parlando, ed Aurelien
era così affettuoso, gioviale.. aveva ammesso Rose al nostro tavolo, un vero
gentleman.
Che avevo da
blaterare?
“Deesire..
che ore sono?!”
Le sue mani vagavano
sulle coperte leggere ormai fredde; ero alla finestra che guardavo scorrere
l’acqua sulla strada ed abbattersi sull’enorme mausoleo spento che era la casa
dirimpetto.
“Non riesco a
dormire.” Mi strinsi nelle spalle. “Nessuno dovrebbe stare solo in una casa del
genere.”
“Chi ti dice che è
solo?” Aurelien si tirò su, facendo volteggiare il lenzuolo sulle mie spalle.
“Quando finirai di preoccuparti per gli altri madame Chedjou?!”
“Credo.. mai.” Mi
girai, allacciandogli le braccia al collo. “Sono un caso disperato.”
“Sei la mia
disperazione..” mi guardò divertito, posandomi un bacio sulla punta del naso.
“Se vado ad accettarmi che stia bene tornerai a dormire?!”
Guardai ancora una
volta la pioggia sferzante e mi si strinse il cuore. “Vado io.”
“No! Ti bagnerai e non
voglio.” Mi lasciò, afferrando vestaglia e scarponcini portandosi al piano
basso. “Voglio trovarti serena e dormiente al mio ritorno, non ammetto
repliche.” Mi soffiò un bacio dal buio e sentii il cuore tamburellarmi nel
petto; perché mi preoccupavo così tanto per la sorte di Fabien?
Perché il suo pensiero mi angosciava, mi teneva sveglia e le sue donne provocavano
in me profondi attacchi di bile?
Avevo una cotta per
lui, lo stupido artista da strapazzo, villano, irritante, sfuggente pittore.. ed
io, avevo una cotta per lui.
“Buongiorno.” Un bacio
dolce e morbido mi ordinò di aprire gli occhi; avevo un tremendo mal di testa,
i capelli arruffati come se avessi combattuto una personale guerra con il
cuscino e una spiacevole sensazione di sconfitta addosso. “Tanti auguri amore.”
“Voglio dormire.. sto
male.” Mi rigirai nelle lenzuola, Aurelien rise alzandosi.
“No che non stai male.
E’ solo un anno in più.” Afferrò cappello e giacca sistemandosi un ciuffo
ramato e ribelle, “ma puoi dormire sogni sereni mia bella addormentata.. sei
uno splendore.”
Alle sue parole mi
alzai di scatto correndo in bagno, mi piegai sulla tazza e svuotai il mio corpo
delle frustrazioni della sera precedente; non era stato un brutto sogno, avevo
ammesso nel mio inconscio di provare qualcosa per Fabien
Moreau e al sol pensiero rimisi di nuovo.
“Rimandiamo la cena,
non stai bene.” Gli occhi di Aurelien erano verdi spavento.
“Ma no, non
preoccuparti, non sto poi così male. Sarà stata quell’orribile quiche.”
Lo sguardo apprensivo
di Aurelien la diceva lunga su moltecose. “Ti prego non guardarmi così. Sono solo stanca e forse hai ragione
tu, devo tornare a Parigi il prima possibile.”
“Sei sicura.. che non
ci sia altro?!”
Lo guardai spaventata.
“Altro?!”
Arrossì prima di
parlare. “Quando hai avuto il tuo ultimo ciclo?!”
Ciclo. Gravidanza.
Bambino. Stavo per piangere, il suo candore poteva spezzarmi da un momento
all’altro. “E’ appena passato.” Ammisi consapevole di veder trasformare quella
curiosità da speranza in delusione. “Mi dispiace.” Biascicai e poi fu tutto,
crollai inesorabilmente fra le sue braccia lasciandomi andare in singhiozzi
devastanti.
Passai l’intera
giornata a rimuginare su me stessa, le otto arrivarono in un soffio.
Il giardino illuminato
dalle fiaccole, sedute sontuose e tavoli traboccanti di delizie, racchiudeva
tutta quella che occhio e croce poteva definirsi Auvers;
c’erano i proprietari dell’unica panetteria, i proprietari dell’unica pensione,
maitre Gerald a suo modo unico padrone di un attività
ancora nuova, i suoi alunni più le solite comari da sedie e uncinetto da
strada. Mia madre si destreggiava da un gruppo all’altro come solo lei era in
grado di fare, intrattenendo gli ospiti con la sua verve e humor così poco
francese; sapeva trasformarsi in una donna assai brillante, quando il buonumore
era puntato sul tasto on.
Che inesorabilmente
passò ad off.. quando dal vialetto spuntarono Fabien
e Rose a braccetto; posai il vassoio dei dessert così malamente sul tavolo, da
sentire la punizione tacita che maitre Gerald mi
inflisse con lo sguardo. Scappai in cucina chiudendomi la porta alle spalle. La
respirazione era fondamentale, se fossi riuscita a controllarla forse avrei
evitato di farmi venire un infarto.
“La festeggiata ha una
crisi di nervi?” Sentii la sua voce alle mie spalle e sorrisi sarcastica.
“Te l’ho già detto una
volta Moreau, non sei così importante.”
“Ahi- ahi Deesire, io non parlavo di me.” Mi sfilò accanto prendendo
i vassoi. “Ti aiuto, non vorrei combinassi qualche guaio.” Mi morsi un labbro nervosa,
afferrando delle bottiglie di vino dal tavolo. “Dunque sono fra i tuoi
pensieri?!” Bisbigliò cauto, con il sorriso sexy e laterale stampato in faccia.
“Taci Moreau.”
“Altro sì.” Soddisfatto
adagiò delicatamente tutto sui tavoli del buffet e raggiunse Rose in disparte
con alcune ragazzine vestite in stile charleston, il tema che Aurelien aveva
dato al party visto la mia totale adorazione per gli anni venti; tutto intorno
era un tripudio di broccato, perle nere, cuffie e piume.
“Quello cosa
sarebbe?!” Vidi mio marito scartare la folla e venirmi incontro agitando un
pacchetto con della carta da alimenti; me lo porse, “Il tuo regalo.”
Prese una forchetta e
la agitò contro il flute di cristallo. Tutti si
voltarono a guardarci. “Per quanto importante sia questo giorno, voglio
festeggiare anche il nostro primo anno insieme, Deesire.
Un anno da quando Ahmed Bonnet mi ha concesso lo
straordinario onore di farti mia sposa.” Guardò a mio padre, mimando un
brindisi tutto loro, poi tornò su di me, “Ti amo, più di qualsiasi altra cosa
al mondo.” Strappai avida la carta; un fascio di copie di Regards
arretrati se ne stava immacolato nella mia mano. Lo guardai grata e consapevole
della ponderazione che aveva avuto per quel dono; il suo tatto e la sua finezza
potevano arrivare a tanto, ed ero sinceramente commossa. Picchiettò sui
giornali e tornò con lo sguardo nel mio. “Per dirti quanto mi manchi e quanto
ti rivoglio nella mia vita. E questo..” Frugò fra le tasche estraendo una
scatola quadrangolare di velluto blu; lo aprì con deliziosa calma, scoprendo
una cascata di gocce in diamanti incastonati in una collana rigida d’argento.
“Diamanti unici nel loro genere, purissimi e irraggiungibili. Come te amore
mio.. preziosa.” Guardai esterrefatta il collier senza saper articolare nessuna
frase di senso logico; me lo adagiò al collo, mi prese la mano e sfiorò le
nocche con le labbra. “Proprio l’effetto che speravo.” Sorrise ed io con lui,
afferrai quelle labbra con un bacio e sospirai al suo orecchio. “Mi conosci
meglio di chiunque altro. Non sarai egoista, ma hai sempre la capacità di
riportarmi a casa. Tu sei la mia casa, Aurelien, dove devo essere, dove voglio
essere. Ti amo.”
Ed ero sincera, come
lo ero sempre stata, ero innamorata di Aurelien ma lo ero anche di Fabien.
“Siete sicuri che non
volete restare?!” La macchina che avrebbe riportato Aurelien e i miei genitori
a Parigi era pronta fuori al viale; Clorine era
arrivata al limite massimo di sopportazione fango/insetti/tempo incerto e
smaniava di tornare ai suoi pavimenti di marmo e agli abiti costosi, mentre ai
due spettavano delle conferenze sullo stato attuale delle attività.
“Ci vediamo fra due
settimane, puoi starne certa.” Aurelien mi passò la mano fra i capelli, ricordandomi
il restante tempo di solitudine che mi aspettava davanti. “Ho una sorpresa per
te quando torneremo a Parigi.”
“Un'altra?!” Lo
guardai stralunata.
“Ti piacerà.”
“Come tutto di te.”
Gli sorrisi, accompagnando la portiera dell’auto. “Ti amo.”
“Ti amo Deesire.”
Li salutai energicamente
con la mano finchè non sparirono fra le curve e gli
alberi, montai in sella alla bicicletta in direzione della scuola; trovai un maitre Gerald impaziente di assaggiare le mie proposte
d’esame e autoritario più del solito, con lunghe liste di ingredienti e ricette
da volerci far sperimentare.
“Non ci siamo madame Chedjou.” Sputò la quiche nel tovagliolo e mi sentii persa;
se non ero in grado di cucinare uno stupido tortino salato come potevo ambire
ad aiutarlo nella nostra nuova avventura europea? “Vada a casa e si metta
sotto, voglio la ricetta e non uno stuzzichino privo di gusto ed estro.”
Protestai un po’, ma a mezzogiorno ero già sulla via di casa.
“Madame non si sente
bene?!” Rose mi accolse con la sua ritrovata aria da stacanovista.
Alzai le spalle. “Vado
a riposare, non ci sono per nessuno.” Non che ambivo a qualche visita e
tantomeno non potevo sapere che da lì a poco la mia vita sarebbe stata
sconvolta per sempre.
“Cosa è questo
trambusto?!” Mi svegliai dopo un tempo incalcolabile, alle finestre era già
l’imbrunire.
“Monsieur Moreau è nel
vostro giardino.” Rose parlò trafelata, “l’ho pregato di andare via ma non ne
ha voluto sapere.” Scansai la domestica e mi portai fuori, per poco non ci
restai secca; Fabien aveva montato un palco di legno
nell’angolo morto del giardino, proprio accanto al capanno degli attrezzi.
“Moreau!” Lo richiamai
e quello si voltò guardandomi agitato. “Cosa diavolo stai facendo?!”
“Doveva essere il tuo
regalo di compleanno ma..” Mi guardò come un bambino beccato a rubare le
caramelle. “E’ un palco per il tuo charleston!” Aprii la bocca disegnando una O
precisa, indecisa se arrabbiarmi o essere maledettamente colpita; mi conosceva
bene. “Rose mi ha insegnato qualche passo.. ho pensato che potevamo
esercitarci, qualche volta, se ne avevi voglia.”
Sentii le gambe molli,
mi adagiai in terra sull’erba fresca. “Non ti piace?! Lo faccio sparire..”
“Fermo.. è.. è
perfetto. Tu.. è colpa tua.” Lo guardai seria, smise di ridere e si mise seduto
anche egli. “I tuoi sbalzi di umore mi fanno impazzire. La tua solitudine mi fa
impazzire.” Mi tremarono le labbra, ma soffiai flebile.
“Tutto-di-te-mi-fa-impazzire.”
I suoi occhi verde-azzurro
si velarono, si alzò di scatto indietreggiando. “Non sai quello che dici. Sta
zitta.”
Mi alzai stizzita,
stagliandomi contro la sua figura esile. “Sta zitta?! Ma chi ti credi di
essere? Sei insopportabile Fabien, sei inopportuno,
lunatico..”
“Io sarei lunatico?! Deesire sei la donna più controversa che io conosca!”
“Ah beh se lo dice FabienMoreu ci posso ben
credere! Lo charmeur colpisce ancora
signori e signore..”
“Stiamo discutendo
della mia vita sentimentale, adesso?!” Tornò il sorriso di scherno sulle sue
labbra. “Mi sono perso qualche passaggio?!” Alzò di un tono la voce, un
movimento fulmineo alle tende lo turbò.
“Per quel che
importa.” Alzai le spalle ma fui trascinata dalla sua furia fuori dal vialetto,
oltre la casa, in direzione della sua; gli arrancavo alle spalle strattonando a
momenti, ma la sua mano teneva stretto il mio braccio. “Lasciami charmeur, mi fai male!” Mollò la presa e
gli finii contro le spalle; si girò stringendomi le braccia ai fianchi. Mi penetrò
con uno sguardo furente. “Importa eccome Deesire, ti
rodi dalla gelosia, ammettilo!”
“Gelosa di te?!”
Potevamo sfiorarci le fronti da tanto che eravamo vicini. “Mai!” Il mio
temperamento diceva no, ma i miei occhi dicevano sì; cominciai a lacrimare,
dalla rabbia, dalla frustrazione e anche dal dolore per quella morsa imponente.
Fabien era forte, un leone nel corpo di una gazzella.
“Lasciami char..
Fabien, ti prego. Lasciami, mi fai male.” Le mie
lacrime e la mia supplica fecero scattare la sua mani dai fianchi al mio viso.
“Tu mi ami Deesire.”
“No.” Sì, urlava il
mio corpo tremante.
“Sì.” E mi baciò,
morbido, senza fretta.
“No.” Risposi al
bacio, protestando debolmente.
“Sì.” E ancora uno,
stavolta più sicuro.
“No.” Lo aspettavo, schiusi
le labbra accettandolo.
“Sì.” Mi parlò deciso
sulle labbra, ancora calde del suo sapore. “Ed è meglio se te ne vai, ora..
perché tutto ciò che voglio è prenderti fra le mia braccia, portarti dentro e
fare l’amore con te, Deesire.”
“No!” Urlai e scattai indietro mettendomi a correre
verso casa.
*
NDA:
Capitolo decisivo amiche
e amici miei! Cosa succederà da qui in poi?!
Per ora solo scintille
fra la tosta Deesire e lo charmeurFabien. Vi è piaciuto il capitolo?
Spero tanto di sì.
Vi aspetto numerosi,
intanto vi abbraccio virtualmente forte.
La cucina era il solo
posto in cui potevo sfogare le mie frustrazioni di moglie pseudo-fedifraga e
per giunta le mie mani fremevano di appiccicarsi alle guance di Fabien Moreau e dargli tanti, tantissimi sonori schiaffi.
Avrei fatto qualsiasi cosa per non pensare più agli uomini che avevano reso la
mia vita da dolce e spensierata quale era, una pozza di melma dal quale non
riuscivo ad emergere.
Peggio delle sabbie
mobili a questo punto c’era solo la mia vita sentimentale. E più cercavo di
farmi spazio a forza di bracciate, più venivo sopraffatta dagli eventi. Non mi
sarebbe costata molta fatica passare una notte in bianco in più, con le mani in
pasta. C’era di peggio là fuori e non avevo nessuna intenzione di aprire le mie
porte. Fabien Moreau a quanto pare non era dello
stesso avviso e trovò, nel coraggio e nella sua adorabile testardaggine, la
combinazione giusta per spalancarle tutte.
Mi accorsi di lui
l’attimo in cui richiuse violentemente la porta della cucina alle sue spalle,
mandando la serratura avanti di un giro; mi girai confusa e accaldata dalla sua
presenza così brusca, pronta ad attaccare con tutte le mie forze. Non ebbi il
tempo di fare o dire nulla, si buttò contro di me, con foga, portando le sue
stupide mani ruvide da artista sulle mie spalle, attirandole a se.
“Fabien..”
sussurai con voce greve e dannatamente sexy.
“Fabien
un corno!” Rispose risoluto e bramoso.
Mi infilò la lingua in
bocca che sembrò volesse mangiarmi; il sapore dolceamaro del Cointreau –che a quanto pare si era scolato per farsi
coraggio- mi inebriò, pizzicandomi il palato e.. non riuscii a fermarlo. Tutto
di me, cervello, arti, muscoli, fibre voleva fermarlo, ma c’era un organo al
centro esatto del mio petto che non voleva saperne. E non seppi fermarlo quando
con quelle stesse mani mi alzò la tunica fino alla vita, scoprendomi nuda e
vulnerabile, facendolo sussultare per la sorpresa e lo stupore. Non seppi
fermarlo quando mi alzò per i fianchi e mi adagiò su quel bancone sporco di
farina e burro -che tante ne aveva viste fino ad allora, ma posso giurare quasi
ad occhi chiusi mai nulla del genere- ne.. quando lo vidi armeggiare fra le
brache e con una mano farsi spazio fra le mie cosce tese, per entrare.
Urlai, ma non per lo
spavento.. urlai di gioia, di stupore e mi aggrappai ai suoi dannatissimi e
profumatissimi capelli biondi ansimando nel suo orecchio, aderendo con le
natiche ai suoi fianchi ossuti, stringendo sempre più forte le mie gambe alla sua
schiena. Fabien era dentro di me. Il tavolo tremò
sotto le sue spinte, una, due, tre, quattro volte; ero certa che il muro alle
mie spalle si stava sgretolando, le boccette di spezie di maitre
Gerald si agitavano le une contro le altre tintinnando al ritmo della nostra
passione.. e rotolarono in terra, quelle meno fortunate, andando ad infrangersi
ai suoi piedi nudi.
“Madame!” Nella nebbia
astratta della lussuria vidi il gesto fulminio della maniglia alzarsi e
abbassarsi, senza esiti positivi. Rose colpì la porta con le nocche. “Madame Chedjou, tutto bene?” La voce innocente e preoccupata della
giovane mi fece sorridere.
“Sto- sto bene..”
Risposi miagolando. “Sto- sto impastando!”
Sentii i passi incerti
della ragazza, contro il pavimento ruvido e tornai alle spalle di Fabien, al suo torace, alle mie mani furtive su quella
meraviglia acerba. Esplosi il mio piacere contro il suo viso sudato, senza
alcun ritegno, occhi negli occhi, fronte contro fronte, lui posò velocemente le
sue labbra alle mie, lasciandosi andare a sua volta; molto lentamente, sempre
più piano, si fermò respirando affannosamente contro il mio collo. Il battito
del suo respiro tornato regolare mi calmò, ma straziai di dolore quando dai
suoi occhi calde lacrime scesero contro il mio petto, dove il suo capo
riposava.
Piansi insieme a lui
ed aspettai inerme la caduta nell’inferno.
Mi rivestii nella
fretta e nella vergogna, al buio, nel salone ora freddo; Fabien
mi posò un leggero bacio fra i capelli prima di scappare verso la propria
vergogna, in un’altra casa vuota e ugualmente fredda.
Non so quanto tempo
restai seduta su un angolo del letto, a fissare quella stanza difronte; non
c’erano luci neanche per lui quella notte e il mio cuore e la mia testa
combattevano fra il desiderio di corrergli incontro -prenderlo fra le mie
braccia e continuare ad amarci- e la razionalità di fermarsi in tempo, che non
eravamo sporchi ancora del tutto, che forse potevamo dimenticare.
Le sue mani, i suoi
baci, la sua pelle candida contro la mia. Avrei dovuto dimenticare il modo
selvaggio in cui il mio corpo si era dato a lui e viceversa dimenticare l’onta
di passione con cui mi aveva posseduta; nulla di particolarmente memorabile o
romantico, ma assolutamente rovente, lascivo, le mie labbra scottavano al solo
ricordare. Come avrei potuto, quindi, dimenticare?!
Come una manna dal
cielo il sonno ebbe la meglio, ricordai solo le palpebre pesanti e lo sprofondo
in un sonno lungo e senza sogni. Ed è la che la sua vibrante voce mi raggiunse,
perché dalle coltri dei miei incubi, il suo richiamo mi riportò alla vita.
“Deesire..”
non era un sogno. Era lì, vicino al mio viso e stava soffiando il mio nome in
modo dolce. “Alzati, voglio farti vedere una cosa.” Aprii mio malgrado gli
occhi, puntandoli sulla sua immagine mattutina; era vestito esattamente come lo
avevo lasciato, ed aveva il viso sporco da quella che aveva tutta l’aria
d’essere farina. Accennai ad una protesta, quindi mi afferrò sotto le braccia e
mi tirò verso se.
“Devi assolutamente
vedere.” Mi issò in braccio, uscendo dalla stanza; per un attimo passarono
sotto al mio naso l’odore di burro fuso e spezie.
“Cosa è questo
odore?!” Scivolai dalle sue braccia, curiosa.
“Sono stato in piedi
tutta la notte. E’ successo un miracolo.” Lo guardai di traverso, spostando poi
l’attenzione su voci da basso; impallidii, pregandolo di darmi tempo.
Quando scesi giù, Rose
mi aspettava in cucina tutta contenta e insieme a lei maitre
Gerald; mi guardarono perplessi –non ero riuscita a domare i capelli
post-inferno- e poi accigliati, quando Fabien fece il
suo ingresso con uno scarso tentativo di sorpresa.
“Complimenti madame!
Li abbiamo assaggiati e sono buonissimi!”
Guardai Fabien in cerca di aiuto. “Dalla tua ricetta Deesire. Burro, farina..” poi indicò il tavolo dove qualche
ora prima eravamo avvinghiati e arrossii violentemente, chiudendomi la
vestaglia con reticenza. “Zenzero e cannella!” Arricciai il naso; che diavolo
di schifezza aveva preparato a mia insaputa?
“E come sono venuti?!”
“Visto che eri
indisposta..” sottolineò la frase come il compito di uno scolaro; e in quel
caso lo scolaro ero io.. “li ho messi in cottura per te. Assaggia.” Mi passò un
biscotto; per prima fui assalita dalla dolcezza del burro e della cannella e quasi
a seguire, per ridare equilibrio, la nota pepata dello zenzero. Era un mix
perfetto, un contrasto di sapori che si sposavano alla perfezione.
“Sono buoni..” diedi
un altro morso per constatare la fragranza della frolla e annuii soddisfatta
alla volta del ragazzo che mi guardava speranzoso. “Ottima frolla. Ottimo
abbinamento. Venti minuti di cottura e colore biondo, un terzo ingrediente a
scelta e possono dirsi perfetti.”
“Non lo sono già
così?!” Mi guardò tristemente. “C’è la cannella, scura e forte. Esotica. E lo
zenzero a seguire, chiaro, freddo. All’apparenza lontani, ma complementari.
Guarda il colore Deesire.. omogeneo, nessuno prevale
sull’altro. Si completano.”
Mi persi sul suo
discorso dal piglio deciso e non fui più sicura che stessimo parlando dei
biscotti; arrossii incapace di ribattere, mi salvò il maitre
tirandomi fuori dall’empasse con il suo solito estro
da artista.
“Madame, voglio le due
versioni per domani. Questa è la sua ricetta di fine corso.” Afferrò un altro
biscotto e portò Rose fuori dalla nostra portata. “Monsieur Moreau, se pensa di
aver trovato una vocazione per la frolla me lo faccia sapere.” E se ne andarono
così come li avevo trovati, allegri e festanti.
Ero a dir poco
esterrefatta e Fabien dal suo canto sorrideva come un
ebete.
“Cosa è successo qui?
Perché non sono sicura d’aver capito..”
“Maitre
Gerald mi ha appena offerto un lavoro..” Lo guardai torva, tornò serio
all’istante. “Quando ieri notte sono tornato e tu dormivi.. sono passato in
cucina e ho trovato questo.” Cercai di ignorare i battiti accelerati del cuore
al pensiero di averlo avuto in casa tutta la notte, “beh non che i biscotti
fossero lì ad aspettarmi. Sul tavolo.. lì.. dove abbiamo..” arrossì e farfugliò
in questo ordine esatto, “insomma, c’era la farina e il burro e le boccette con
lo zenzero e la cannella riverse dentro. Ho pensato a te, alla tua filosofia
che impastare concilia il buonumore e.. ho impastato, impastato fino a quando
non avevo fra le mani qualcosa di soddisfacente.” Tornò a guardarmi, gli occhi
verde-azzurri liquidi. “Mi sono ricordato di quella volta che il maitre mi fece bere quella cosa assurda alla festa..” Già,
la festa del mio fidanzamento. “..accennando a quella cosa sullo zenzero e la
cannella..”
“Sembrano così
distanti come sapori, ma una volta uniti sono complementari.. come certe
persone.”
Come avrei potuto
dimenticare?
“Non ho pensato ad
altro, Deesire.” Il suo tono di voce smise di essere
incerto e flebile, “non può essere solo una coincidenza e posso asserire con
convinzione che noi ci completiamo.”
Rabbrividii e confusi
il piacere con la paura. Fabien sospirò, toccandomi
la mano. “Sono. Innamorato. Di. Te.” Scandì ogni parola con un lento sussurro.
“Lo sono sempre stato mio malgrado. E per quanti sforzi abbia compiuto per non
esserlo, il destino mi ha giocato contro.”
Provai l’assurda
sensazione che si prova per un addio, ma lui era lì, con la mano sulla mia,
eppure vedevo annebbiato, sfocato, il panico nello stomaco e nei polmoni; anche
io sono innamorata di te.. lo pensavo, ma la lingua frenava contro i denti e
così cominciai a gorgogliare ed ansimare come un neonato che si sveglia nel
cuore della notte e vuole il calore della mamma. Mi trascinai nel suo abbraccio;
odorava d’amore, di fatica e di sudore.. e piansi mille lacrime oppresse.
Se ne andò lasciandomi
sola con il “miracolo” –come lo aveva chiamato lui- e senza il calore del suo
corpo, che andava affievolendosi piano piano. Mi bastò sfiorare il pianale,
entrare a contatto con la farina e guardare quei meravigliosi biscotti per
capire che ne volevo ancora e che non avevo nessuna intenzione di dimenticare.
Corsi fuori, dal mio
viale al suo, spinsi il portone d’entrata e fui in casa; era la prima volta che
mettevo piede nella proprietà dei Moreau, ma sapevo benissimo dove andare.
Avevo fantasticato su quella casa per giorni e notti intere, mi sembrava così
familiare, così accogliente.. salii per la scalinata centrale con il cuore a
mille, poche parole ma una gran voglia di stare con lui.
Fabien era steso sul letto, raggomitolato nelle lenzuola
che gli avevo mandato la notte del nubifragio, un fagotto esile, amorevole,
dolce; quando mi vide entrare si tirò su con il busto accogliendomi fra le sue
braccia e portandomi giù con lui.
Lo baciai piangendo,
le mie lacrime si confusero fra i suoi capelli e su quel corpo che bramava il
mio con la stessa intensità con la quale tremava sul suo; alzai le braccia
aiutandolo a sfilarmi la tunica, le mie mani lungo i pantaloni a cercare la via
di fuga da tutte quelle costrizioni. Lo baciai sul collo, fra le scapole, sul
petto glabro e pallido; le sue mani giocavano con i miei seni, mentre
intrecciava gli occhi intensamente languidi nei miei e lo baciai, lo bacia centomila
volte, quella bocca sensuale e carnosa, figlia di tutte le mie voglie e della
mia rabbia, a volte. Fu dentro di me e mi sentii piena, viva, al centro di un
universo che non mi sembrava più tanto astratto, lontano, assurdo; il mondo mio
e di Fabien, la piccola bolla di meraviglia e stupore
in cui abitavamo.
“Era così che doveva
andare.” Mi prese al suo petto, dopo essere scivolato fuori dal mio corpo;
sospirai e sorrisi nel vederlo addormentarsi contro i miei capelli, con un
sorriso appagato e leggero sulle labbra.
Facemmo l’amore tutti
i giorni e tutte le notti, ovunque; sul magnifico tavolo di cocci, nel capanno
degli attrezzi, nei campi e fra i papaveri, alla scuola, ancora nel suo letto e
poi nel mio. Il tempo si era come magicamente fermato; eravamo consapevoli di
quale strada stavamo percorrendo, ma tutto si dimenticava in fretta quando le
nostre carni si incrociavano. Cominciammo a dipendere dalla smania di trovarci
nudi e assenti, occhinegli occhi,
labbra contro labbra.
“Fabien..”
protestai, puntellando le mie dita contro il suo fianco, “devo andare, ho
ancora da migliorare una certa ricetta, sai?!” Mi guardò divertito, spostando
il suo peso da me.
“Ti posso aiutare se
vuoi.”
“Solo se mi sveli
l’esatta quantità di cannella e zenzero.” Infilai la testa nella scamiciata e
lasciai che scivolasse per conto proprio sul mio corpo. “Sto impazzendo, maitre Gerald è diventato pressante.”
“Non lo so Deesire.. te l’ho detto, le boccette erano riversate già lì
quando sono arrivato io.” Mi accarezzò i capelli amorevolmente, “ma possiamo
lavorarci. Non è la prima cosa che ci verrebbe bene..” rise, buttandosi
nuovamente su di me. “Ti prego..” lo implorai mentre la sua chioma vagava sui
bottoni della scamiciata un po’ troppo a sud del mio baricentro. “Oh!”
Sussultai, ero fritta.
“Assaggia!” Diversi
rotolamenti dopo avevo una teglia di biscotti tiepidi e in trepida attesa di un
esito; Fabien se ne portò uno alla bocca annuendo di
meraviglia. “C-cosa.. sembrano così diversi.” Ne presi uno e non appena lo
sentii sciogliere al palato saltellai di gioia. “Sono perfetti!”
“Parti uguali di
spezie più..” mi lanciai contro la dispensa e ne tirai fuori una bottiglia con
del liquido aranciato. “Estratto di lavanda!” Lo stappai annusandolo; sorrisi
beata, ma la gioia smorzò subito perché Fabien si
rabbuiò. “Cosa c’è?!”
“Lui è quì. Nella nostra ricetta.”
Mi morsi il labbro.
“E’ tutto ciò che avevo prima di te.” Posai la bottiglia e gli andai vicino,
“come puoi essere geloso di lui?!” Mi guardò torvo, la desolazione nelle
pupille.
“Devo andare.”
“No, non andartene.”
Gli sfiorai la mano, ma si divincolò. “Te ne vai, sparisci e io sto male. Tu
stai male. Fabien abbiamo bisogno di stare insieme
adesso, tutti i giorni, fino alla fine. Non andare.. ti prego.”
Si girò e vidi i suoi
occhi verde-azzurro spegnersi per sempre; non eravamo più ragazzini alla prima
cotta, ma non potevamo essere nemmeno degli innamorati, le mie parole gli
schiaffeggiarono addosso la verità. Il futuro era incerto, il presente molto
più consistente.. ed era a quello che dovevamo aggrapparci con le unghie e con
i denti. Quello.. e il nostro amore clandestino.
“Charmeur..” gemetti nel suo orecchio mentre con una mano mi teneva
in braccio, contro il suo ventre; il vetro della dispensa protestò sotto alle
sue spinte, piatti, bicchieri, forchette.. una sinfonia acuta. “Charmeur..” esplosi il mio piacere
gridando sulla sua bocca famelica dei miei baci, rallentò, mi tenne premuta
alle spalle, il vetro freddo contro la mia pelle e la musica a tacere.. ed
esplose dentro in una pioggia di fuochi d’artificio variopinti.
Nove giorni dopo la
deliziosa scoperta, ero alla scuola con la mia ricetta finale incartata
–pacchetti di velo chiaro chiusi in nastro di raso blu- ed il cuore che batteva
a mille. I miei compagni mi avevano letteralmente preceduta, guardavo i pochi
che si erano fatti attendere come me e trasalii alla vista dei loro porta-torte
voluminosi. Lo stomaco grugnì.
“Sono perfetti.” Il
pollice di Fabien risaliva cauto lungo la mia spina
dorsale, tremavo di paura, paura ed eccitazione, non distinguevo più la
differenza ne chi la provocasse. “E tu, una cuoca eccezionale.” Mi salutò con
un bacio soffiato dietro le colonne del portico che lo portavano ai suoi lavori
e ai suoi doveri per me insulsi, da quando avevo scoperto la sua arte sotto le
lenzuola. Scacciai il pensiero alla svelta ordinandomi di respirare e non
pensare a nulla che non fossero i biscotti, maitre
Gerald e l’attestato che dovevo assolutamente impugnare.. tutto ma non Fabien Moreau nudo, fra le mie mani.
Impossibile.
“Deesire
hai un delizioso colorito stamattina..” Elle una corpulenta ragazzona di
campagna con cui condividevo il banco, non mancò di farmi ripiombare
nell’imbarazzo dei miei torbidi pensieri. “Ti fa proprio bene la nostra aria.
Non ti ho mai vista così raggiante!”
“Ho colto le rose in
giardino ieri pomeriggio, sarà stato il sole.” Guardai in basso verso le mie
mani incerte e tremule, Elle mi guardò poco convinta. “Hai la ricetta?!”
Cambiai discorso alla svelta, riacquistando un po’ di sicurezza.
“Non ancora. E mancano
solo sei giorni alla fine del corso.”
Altri sei giorni di Fabien nudo e.. basta Deesire! Mi
intimai di non pensare e di guardare avanti, se avessi voluto sopravvivere alla
mia vita, al mio cuore accelerato, ad Aurelien, mia madre, la sua..
“Madame Chedjou?!” Maitre Gerald stava
schioccando le dita dinnanzi ai miei occhi e ci misi un po’ per capirlo, dato
il trambusto di pensieri. Via di qua.. tutti, pensai. Respirai a fondo.
“Maitre.”
Sfilai da sotto il banco i miei sacchetti con i biscotti, slegai il nastro e
glielo porsi. “La mia ricetta di fine corso.” Guardò compito la presentazione,
semplice ma efficace, annusò il biscotto prima di morderlo e sorrise enigmatico
nella mia direzione.
“Oserei dire che sono
profumati.” Annuii, la sicurezza pian-piano padrona dei miei gesti.
“Il mio terzo
ingrediente segreto.” Non vedevo l’ora di pronunciare quella frase e lui
sorrise complice.
“Certo.” Addentò e
masticò molto lentamente; una variante di emozioni passò sul suo viso.
Incredulità, stupore, compiacimento, approvazione.. nulla che mi facesse temere
il peggio, seppur preoccupata per l’attardarsi di risposte concrete. Gli piacevano
o no? Ero promossa?
“Peccato per
quell’ingrediente segreto..” mi sentii morire; avevo deciso di sperimentare la
lavanda in un precedente attacco di follia culinaria, quando avevo creduto di
poter ricavare dalla pianta e dello zucchero un liquore personale, convinta che
fosse stata una mossa geniale quella di mischiare poi qualche goccia di
quell’estratto in un dolce. Il mio personale dolce. La chiave di svolta del mio
rapporto con Fabien, tormentato e incerto e la
sicurezza della lavanda, di Aurelien e del nostro rapporto. Doveva andare
bene.. era tutto perfetto almeno per lo stupido dolce, cosa era successo?!
“Avrei voluto scoprire cosa rende questi biscotti la meraviglia profumata e
fragrante che sono.” Recepii solo la parola meraviglia e provai ad applicarla
ad un esito negativo pur certa che non mi era parso di udire “meravigliosa
schifezza”, perciò mi limitai a sorridere come un ebete.
“Madame Chedjou è su questo pianeta?!” Gerald mi riportò in terra
trascinandomi per i piedi.
“Non sono sicura di averla
capita bene maitre..”
“Le sto dicendo che
lei è una cuisinière. E che apporrò il timbro del ministero
dell’ecole francese sul suo attestato.”
Questo lo recepii
eccome; mi guardai intorno emozionata, tutti stavano applaudendomi. Anche Elle
che afferrò un biscotto e se lo infilò in bocca per intero. “Buonissimi!”
Sentenziò, sbriciolandosi sulla veste.
“E’ sicura di stare
bene? Non mi sembra si sia ripresa..”
“Sto benissimo maitre.” Gli strinsi la mano, “tutto ciò che ho imparato lo
devo a lei.”
Alle quattro volai
dritta nella casa del guardiano, poco più in là della scuola, passando come di
consueto per l’orto che il maitre aveva voluto
fortemente, per prodotti il più possibile genuini e reperibili; bussai alla
porta, Fabien stava riparando un mobile vecchio ed antiquato.
“Hai le mani d’oro.”
Gli allacciai le braccia al collo, lui si piegò a baciarmi la punta del naso.
“Come è andata?!” Mi
chiese impaziente.
“Hai davanti a te una cuisinière, monsieur Moreau!” I suoi occhi si
allargarono di gioia, mi sollevò da terra facendomi volteggiare in aria. “Oh charmeur mettimi giù, mettimi giù!”
“Lo sapevo.” Obbedì,
tornando ai suoi attrezzi.
Lo guardai accigliata.
“Tutto qua?!” Quando voleva sapeva essere sintetico da fare male.
Lo sentii ridere,
spostarsi verso il grammofono sul tavolo e trafficare con le mani nelle tasche,
mentre tornava nella mia direzione; non vi era più alcuna ironia nel suo
sguardo, solo sincera commozione credo.. e pathos. Tremai.. conoscevo bene il
silenzio prima di una dichiarazione. La voce sensuale di Rina Ketty che usciva graffiata dal corno, sparse nell’aria le note
di j’attendrai.
Aspetterò. Sorrisi enigmatica. Fabien mi prese le
mani, baciò una e poi l’altra, girandole con i palmi rivolti verso il suo viso.
“Aspetterò. Il giorno
e la notte. Per sempre aspetterò il tuo ritorno.” Non lo avevo mai udito
cantare, la sua voce era flebile e soffiata.. un brivido ghiacciato per la
pelle. Sfilò dalle tasche qualcosa di minuscolo e impercettibile persino nel
palmo della sua mano affusolata, facendolo scivolare dolcemente nella mia mano.
“Sei una bisbetica viziata Deesire, insopportabile e
assolutamente incostante.” Tornò il Fabien ironico e
petulante. “Però ti amo e non posso farci niente.” Ti amo anche io! Il mio
cuore era un tamburo impazzito nella minuscola cassa toracica; indicò la mia
mano, la guardai scoprendo un delizioso anello di vecchia filigrana d’oro. “Era
di nonna Moreau. Voglio che lo tenga tu.”
Oh mio Dio. Annaspai,
impaurita ed emozionata. “Fabien.. non posso
accettare. E’.. troppo importante.”
“Non c’è stata e sono
sicura che non ci sarà un'altra come te.” Ribatte’ sicuro, “voglio che lo tenga
tu. Voglio che resti con me. Che non te vada mai via. Voglio guardare avanti e
smetterla di pensare al passato. Eri mia Deesire, nei
miei sogni di ragazzino e di uomo lo sei sempre stata.” La voce sicura si
increspò, soffocando in singhiozzi, “non andare, resta con me.” Piegò
tragicamente il capo contro il mio petto e scivolò sul pavimento aggrappandosi
alle mie gambe; mi sentivo orrendamente responsabile di tutto quel dolore,
incapace di colmare le sue voglie, le sue aspirazioni e il suo amore come
volevo.
Che colpa potevamo
avere nell’esserci innamorati?
“Ti prego Fabien.. alzati..” mi piegai contro le sue spalle,
avvolgendole e stringendole forte, “charmeur
je t’aime, je
te prie.. je t’aime.”
Mi persi fra i suoi capelli e i singhiozzi e piansi insieme a lui.
Qualcuno bussò
violentemente alla porta; stropicciai gli occhi incrostati dal pianto,
controvoglia scostai il capo di Fabien dal mio petto
andando ad aprire. Nessuno ci aveva mai visti o sorpresi insieme. Tremai.
Scostai la tendina e vidi Rose, le guance rosse come dopo una corsa e il
respiro affannato.
“E’ Rose.” Parlai al
vento, Fabien non rispose e rimase immobile sul
pavimento.
“Madame!” Quando aprii,
la ragazza mi abbracciò; rimasi inerme e stupita, fra lo stipite e la porta
aperta quel tanto che bastava a far spazio al mio corpo. “Deve tornare a casa,
madame, deve tornare a casa!” La scostai guardandola negli occhi visibilmente
scossi. Sapeva, aveva capito tutto. Ebbi un fremito di paura. Guardai alle mie
spalle, il cuore straziato. “Ti prego, resta con lui.”
Salii in sella alla
bicicletta e pedalai fino a farmi scoppiare il cuore. Aurelien. Lo sentivo,
percepivo nell’aria il profumo della sua pelle, i miei ormoni da moglie segugio,
il campanello nella mia testa che suonava all’impazzata come una sirena di
guai.
Abbandonai la
bicicletta sul viale esterno, correndo in giardino; quando lo vidi scemai fra
le sue braccia, le gambe come gelatina.. quasi certa di avere un infarto. “Sei
qui..”
Mi sollevò dolcemente,
conducendomi sotto la veranda. “Sapevo di farti felice ma non credevo a tal
punto.” Passò una mano sul mio viso accaldato, sorridendo. “Ho.. chiesto a Rose
di preparare i bagagli ed è schizzata via come un fulmine. E’ strana quella
ragazza, ma sono felice che tu sia arrivata subito.” Avevo la testa sopraffatta
da mille sensazioni e da informazioni da ponderare, la piegai contro la stoffa
della sua giacca inalando forte; l’odore di lavanda mi evitò di avere un conato
di vomito da vergogna post tradimento. “Amore sei sicura di stare bene?!”
Annuii dovendo sforzarmi nel tenere le labbra sigillate.
“Dove stiamo
andando?!” Sibilai dopo essermi calmata. Era una domanda retorica e non se ne
accorse.
“Ho pensato al tempo
trascorso durante la tua assenza. Non mentivo quando ti ho detto che ti
rivoglio nella mia vita, Deesire. Maitre
Gerald mi ha tenuto al corrente dei tuoi progressi, quando ho saputo che ti
avrebbe promossa ho gioito come un bambino! Sono stato un pazzo a privarmi di
te e credere di stare bene con tanta leggerezza. Perciò..” mi baciò i capelli
inspirando forte. “Ho lasciato che la mia segretaria organizzasse la traversata
per l’Africa. Il nostro viaggio di nozze, ad un anno esatto. Perdonami se è
passato tanto tempo.”
Lui che mi stava
chiedendo scusa.. scusa per aver adempiuto ai suoi doveri di uomo e di marito;
no, non mi sentivo bene per niente. Vedevo annebbiato, tutto era confuso e
infondo all’oscurità le lacrime di Fabien, le mie e
gli occhi verde bottiglia speranzosi di mio marito. “Grazie.” Riuscii a
biascicare, appigliandomi saldamente al briciolo di dignità che m’era rimasto.
“Grazie a te.” Mi
baciò le labbra, ridendo sui conti da dover saldare che gli avevo rimasto in
giro per Auvers; si scusò, che ci avrebbe messo il
tempo necessario e sparì a bordo della bicicletta di sua nonna che avevo
riesumato dalle ceneri. E pregai che fossero le sole ad esistere.
Il fantasma bianco
pallido di Fabien si palesò sulla soglia del
cancello; rimanemmo a fissarci, consapevoli.
“E’. Tornato.” Non era
un domanda quanto un rassegnato, flebile, alito di respiro prima della morte;
alzai le spalle, guardai lontano evitando di incrociare i suoi occhi vitrei.
“Parlami. Ti prego.” Si avvicinò cautamente, era evidente che per quanto
sofferente non avrebbe ceduto facilmente.
“Stiamo andando via.
Non a Parigi, partiamo per l’Africa.” Cercai di articolare qualcosa, la testa
pesante e il cuore in debito di emozioni. “Non so cosa dire.” Ammisi, prima di
cercare nel cervello in panne altre parole che potessero giustificare il mio
silenzio e i miei occhi sfuggenti.
“Non andare.”
Protestò, alzandomi il mento. “Je te prei.”
Sentivo pungermi gli
occhi, mi morsi il labbro; non dovevo piangere, non dovevo farlo perché se
avessi ceduto non sarei più stata in grado di ammettere che me ne sarei andata,
che era tutto finito, che non avevamo speranze e che i suoi sogni da ragazzino
e da uomo sarebbero rimasti tali. E anche i miei.
Mi concentrai sulla paura,
sulla tristezza e sul male che gli avevo visto passare negli occhi. Sul dolore
che avrei causato ad Aurelien, a mia madre e mio padre; io potevo stare male,
era un mio sacrosanto dovere soffrire dopotutto, ma non sopportavo le sue
lacrime ne quelle di nessun’altro che amavo. Lo avrei dimenticato, lo avevo già
perso una volta, sarei sopravvissuta.
“Sapevamo sarebbe
successo. Prima o poi.” Mi alzai, lui si spostò disarmato da tanta freddezza;
oh no, non guardarmi così.
“Dove stai andando?!”
“Il momento è
arrivato.”
Balbettò ma dalle sue
labbra non uscì un gemito, vidi solo la sua mano che si stringeva contro il mio
polso e il suo corpo che mi intimava di camminare davanti al suo, in
processione, sul retro della casa; mi lasciò solo dopo essere certo che non
sarei scappata.
“Devi smetterla di
comportarti così.” Protestai fra i denti. “Sono una donna sposata, Fabien!” La mia voce si fece stridula e insicura, “sono. La.
Moglie. Di. Tuo. Cugino.”
Sorrise sarcastico,
l’ombra del fantasma volatizzato e al suo posto la solita faccia da bronzo. “Lo
eri anche i novi giorni che hai passato insieme a me. Non credo sia stato un
problema.”
Lo schiaffeggiai, lo
schiaffeggiai con quanta più forza avessi in corpo. “Tu non sai niente Moreau!”
Urlai, “vattene! Non voglio vedere la tua stupida faccia un solo minuto di più!”
Vidi il terrore nelle
sue pupille scure. “Ti prego, scusami.” Provò ad accarezzarmi la guancia, ma la
scostai con un gesto secco della mano. “Scusami. E’ evidente che sono
sconvolto.. abbiamo fatto l’amore, hai detto che mi ami. Perché questa
freddezza, non capisco?”
“Davvero non capisci?
Guardati attorno.. noi non abbiamo futuro.” Inspirai profondamente, “vuoi che
ti dica che sto male? Che sento la terra franare ai miei piede se solo penso dovrò
lasciarti? E’ così, ma non posso cambiare il destino. Sono. La. Moglie. Di.
Aurelien.” Sentii mio malgrado gli occhi inondarsi di lacrime. “Forse in
un'altra vita saremo stati perfetti, non lo so. O forse il tuo caratteraccio e
il mio ci avrebbero divisi per sempre. Non so nemmeno questo. So che ho detto
sì ad un uomo, ho accettato il suo anello ed ho promesso difronte a Dio che
sarei stata sua moglie e che mi sarei presa cura di lui.” A questo punto le
lacrime scesero senza che io me ne accorgessi, la voce era inflessibile, solo i
miei occhi tradivano la disperazione del mio animo. “Questa è la mia vita Fabien, non posso e non voglio farti altro del male. Non lo
sopporto.”
“E’ così che mi
uccidi.” Asciugò con i polpastrelli le lacrime che rigavano il mio volto,
guardandomi angosciato ed esasperato. “Non voglio che piangi per me.”
“Impossibile..”
soffiai, ma quando mi accorsi della luce infondo ai suoi occhi mi pentii di
averlo fatto. Rinvigorito dalle mie parole si parò con il viso pericolosamente
vicino al mio. “Resta allora! Resta con me, affronteremo la cosa insieme!”
“Non.. posso.”
“Hai detto di amarmi..
penso tu possa invece. Mi hai preso a schiaffi e sono sicuro abbatteresti un
uragano se ti si parasse davanti. ” Cercai di non ridere, il momento tragico stava
assumendo delle pieghe comiche che non mi facevano credere che io Fabien fossimo del tutto normali, perciò fermai il flusso
delle sue parole appoggiando una mano sulle sue labbra rosse.
“Ma non lo farai.”
Asserì deluso, espirando fra le mie dita e con la stessa delusione, lasciò il
mio viso e serrò le labbra in una smorfia dura. “Siamo nuovamente allo stesso
punto. Io che ti faccio gli auguri e tu che scegli lui. Con la sola differenza
che ti amo più che mai e vorrei tu restassi con me.” Calò la maschera
sofferente e indossò nuovamente i panni del ragazzo strafottente e insopportabile,
indietreggiando di qualche passo. “Pazienza.. sono abituato ad arrivare
secondo. E’ il mio marchio di fabbrica.” Sorrise indulgente ed io provai una
morsa di dolore ancora più forte. “Credevo mi amassi Deesire
e che fossi la ragazza forte e determinata che ho visto quì.
Ma sei solo un sogno, una fantasia. Non esisti.”
Era troppo per me. A
quel punto ero la versione annegata di me stessa e le sue parole dure non
fecero che spararmi il colpo di grazia; mi aggrappai ad una forza superiore che
mi trascinasse fuori dal bozzolo Deesire-la-spaventata,
ma soffocai sulle mie stesse intenzioni.
“Chiedimelo ancora.”
“Che cosa?!”
“Chiedimelo ancora.”
“Tu. Mi. Ami?!”
“Che sta succedendo
qui?!” La voce di Aurelien arrivò ai miei orecchi come un avvertimento di
panico e terrore; asciugai di fretta gli occhi come se fosse possibile
cancellare il mio totale stato di decadimento. “Sta piangendo.” Guardò al
cugino con occhi furenti, Fabien alzò le spalle.
“Non gradisce il mio
umorismo.”
“Moreau togliti di
torno.”
Inspirai profondamente
appellandomi alla mia -fuggita di casa- intraprendenza e lamentandomi mi coprii
un occhio con la mano. “Ho qualcosa nell’occhio, stava controllando.. e sai le
sue battute facili..”
Mi si avvicinò
premuroso, spostandomi con delicatezza la mano. “Fa vedere.”
Da dietro le sue
spalle, Fabien stava tornando il fantasma che era.
“Non c’è nulla.” Aurelien soffiò delicato sulle mie ciglia, sorridendomi
amorevolmente; si girò e con lo sguardo poi duro si rivolse a Fabien, “odio vederla piangere. E odio il tuo umorismo.
Cugino non fa per te.”
“Lo so.”Rassegnato, si incurvò nelle spalle; il
sottile confine del significato della sua conoscenza era in realtà un mare
agitato fra noi e lui.
“Vattene.” La voce
imponente di Aurelien mi fece tremare.
Fabien annuì compito ma ci lanciò un ultima occhiata,
soffermandosi a lungo nei miei occhi; era di nuovo angosciato. Angosciato e
disperato. Sparì dietro l’angolo, lo immaginai attraversare il vialetto, poi la
strada, aprire il cancello della sua villa, attraversare un altro viale, salire
al piano superiore e chiudersi fra quelle lenzuola dove poche ore e giorni
prima, noi ci stavamo amando.
Mi ritrovai sulla
statale per Parigi troppo esausta per elaborare ciò che stava accadendo; avevo
salutato in fretta e furia appena un quarto delle persone conosciute,
ritrovandomi la macchina piena di bagagli e Rose e Maitre
Gerald con le sue sporte piene di cibo sull’uscio del cancello, a salutarmi
vigorosamente con la mano. Auvers si era trasformata
improvvisamente in una prigione tanto stretta da farmi soffocare, intimamente
pregai di essere lontano da lì il prima possibile; sfogai tutte le mie lacrime
contro le mie mani e quel finestrino che mano-mano scolorava i bei paesaggi che
avevo adorato, incurante degli sguardi carichi di apprensione di Aurelien,
spaesato dalla mia reazione così potente. Quando aprii gli occhi, gonfi e
pesanti, lo trovai a guardarmi, carico di amore e pena. Mi sentii inadatta e
fuori posto.
“Siamo arrivati.”
Accarezzò il groviglio informe sulla mia testa -un tempo i miei capelli- e
sospirò ansioso; provai un moto di compassione, di vergogna e di stupore per il
suo tatto, la sua paura, la mia, di riscoprirci diversi, innaturali, in quella
grande casa con il portone alto, bianca come il mio viso stravolto. “M-madame Chedjou.” Ingoiò le sue stesse parole, facendomi strada per
l’atrio e il ripostiglio dove aveva appeso la mia fusciacca e la sua giacca di
lino; lo abbracciai da dietro, infondendogli sicurezza e amore. I miei
sentimenti non erano cambiati; ero sopraffatta dall’uragano Fabien,
dai suoi baci, dalla sua pelle e dai suoi maledetti occhi tristi.. ma avrei
dimenticato, dovevo dimenticare! Il mio ruolo nel gioco delle nostre vite mi
vedeva vicino e soprattutto moglie dell’uomo, che fra le mie braccia e in un
ripostiglio angusto e buio, stava tremando al tocco leggero del mio abbraccio
protettivo, ed io ero felice –nel senso non ancora pieno e vivo del termine, ma
reattiva perlomeno- di essere tornata a casa.
*
NDA:
Giuro che ho pianto
leggendo questo capitolo. Nel senso che leggevo e mi commuovevo.. e mi
domandavo, ma come caxx fai a scrivere certe cose?!
No, non mi sto auto-complimentando, mi sto dando della patetica, emo, sporcacciona scrittrice. :D
Mi auguro vi piaccia
quello che scrivo anche se sono così.
Scherzi a parte, ho
messo amore in questo capitolo, perché alla fine di tutto, mi sembrava giusto;
nella mia mente e spero di essere riuscita a farlo capire anche scrivendolo, Fabien e Deesire si amano, di un
amore carnale e a tempo residuo, ma pur sempre amore. Vi è piaciuto il
capitolo? Spero di sì! Restate connesse!
Vorrei ringraziare chi
mi segue, abituale e non; Ultimo Puffo, The Rocker, _Nihil_
. Grazie di cuore!
Grazie a chiaggiunge la storia in
preferiti/seguiti/ricordare. Vi
aspetto fra i commenti.
E anche se non centra
nulla qui, grazie a chi visita le mie storie in generale, vecchie e nuove; mi
emoziona sempre constatare l’afflusso di lettori nelle mie fanfic,
a volte resto secca quando si tratta di numeri a quattro cifre. Vi adoro.
La costa d’Africa, ci
salutò il dieci settembre del millenovecentotrentanove.
C’erano voluti quindici giorni di navigazione, almeno tutta la mia buona
volontà per non rimpiangere la cara terra ferma e un infinita pazienza nel
sopportare le smanie da nuovo mondo di Clorine; ma
alla fine arrivammo, sani e salvi e forse in preda a smanie di nuovo mondo un
po’ anche noi.
Aurelien mi aveva
deliberatamente rigirato, con la storia del viaggio di nozze; eravamo partiti
da Marsiglia in coppia e poco più di quindici giorni dopo il nostro arrivo,
eravamo stati raggiunti da Clorine e papà, Ines e
Martin. Il suo spirito conviviale aveva mosso il desiderio di condividere anche
con loro le meraviglie messe a disposizione da Dio per quel paese. Ovviamente
era stato facile convincermi, non sapevo dire di no ai suoi occhi imploranti e
alla sua vivacità così travolgente; era un nuovo Aurelien, non lo avevo mai
visto così leggero, entusiasta, poco inquadrato.. avevo i brividi di freddo nel
leggere nel suo sguardo; quanto gli ero mancata, quanto si rendesse conto che
infondo ai miei pianti si nascondeva qualcosa di irrisolto, quanto poteva
centrarci la sua mancanza nella battaglia del quotidiano, quella dell’assenza
di figli.
Ovviamente solo io ero
a conoscenza dei miei tormenti; e non c’era stato giorno in cui non avevo
pensato a Fabien. Fortunatamente i continui mal di
mare alternati alla bellezza incontrastata del viaggio via crociera, l’arrivo
in Africa e le miriadi di cose da fare che si moltiplicavano giorno dopo giorno,
mi distraevano dall’ossessione di quegli occhi verde-azzurro tristi; non avevo più
sue notizie, dopo Auvers tutto era tornato esattamente
come era e vigliaccamente marcivo in questo stato di inconsapevolezza, mancando
di coraggio. Il coraggio di indagare, chiedere, riaprire un vaso di pandora
carico di sentimenti.. e guai, privazioni, dolore. Fabien
era lontano ed aveva ragione; eravamo solo un sogno. Il nulla.
Alloggiavamo in una
tipica casa da steppa a Johannesburg, in Sud Africa; alcuni amici di Ines e
Martin, persone con la quale Aurelien era implicato in faccende aziendali, ci
avevano messo a disposizione un cottage dalla struttura bassa e sviluppata su
un unico piano rettangolare, con un ampio porticato a colonne dove mia madre e
Ines sorseggiavano i loro aperitivi o prendevano il the con le vicine, perfette
dame quali erano intorno al tavolo di vimini, mentre io, me ne stavo
comodamente seduta nella veranda più interna a godermi le mie letture
preferite, affacciata sul giardino piuttosto scarno e un agglomerato di piante
grasse dato le temperature non proprio ottimali per le amate rose. Il tempo
scorreva in fretta; c’era la costa di South beach, a poca distanza per ore ed
ore di passeggiate sul lungomare affacciato sull’Oceano Indiano, a dispetto di
tutto avevo scovato un piano di visite all’orto botanico più rigoglioso al
mondo -dove avevo preso residenza- riscoprendo la passione da giardino avuta ad
Auvers, tutta una miriade di etnie da conoscere e
ovviamente.. i safari tanto amati dai miei suoceri.
“Sono arrivati i
permessi!” Martin ci richiamò all’ordine, sventolando sotto al naso alcune
carte che ci permettevano di poter viaggiare per i deserti e le riserve
naturali del paese, “fate le valigie, si parte dopodomani!”
“Di nuovo?!” Bofonchiò
mia madre, altra vittima della vivacità di Aurelien che poco amava l’idea di
passeggiare fra leoni e zebre, ma chiaramente innamorata del genero a tal punto
da non aver saputo dire no. “Non ho tutta questa fretta di farmi sbranare da
quelle bestiacce!”
Martin sorrise,
prendendola sotto braccio, “Clorine.. credo che i
soli spaventati a morte siano loro!” E rise di gusto, “che lo sappiano!” tuonò
lei, assecondandolo, contagiata dal suono della sua risata.
“E’ tutto perfetto..”
Aurelien posò una ciotola di datteri sul tavolo che avevo difronte,
accarezzandomi la spalla; potevo percepire la sua felicità, vibrava nell’aria.
“Vorrei non andare via.”
“Abbiamo ancora un
mese davanti a noi.” Gli accarezzai la mano, serrandola poi nella mia, “e siamo
liberi, potremmo vivere qui se lo volessimo.” Non mi sembrava detestabile
l’idea di allontanarmi dalla dolce amara Paris; non mi era mai successo di
pensar questo prima di allora, sebbene ardessi di desiderio nel viaggiare per
il mondo, ma erano successe talmente tante cose che mettere un oceano e almeno
due mari, fra me e i miei fantasmi, mi sembrava il solo modo per rimettere
tutto in prospettiva.
“Lo sai che il
sottosuolo sud africano è ricco di diamanti?!” Mi guardò con un leggero
fanatismo nello sguardo, “potrei essere il nuovo Cheyenne..” lo guardai
incredula che ricordasse la mia storiella strappalacrime del nostro primo appuntamento.
“Potrei fare di te una signora molto.. brillante!” Mi trovai a sorridere della
sua buffa espressione incoraggiandolo con lo sguardo, “mi ci vedo bene!
Borsalino, pistola e frusta sarebbero i tratti distintivi della mia persona. Ah
e ovviamente avrei una di quelle giacche di cuoio e i pantaloni leggeri color
kaki, oltre oceano ribattezzeranno le mie gesta “Le avventure di Aurelien, il
cacciatore di tesori.”. Che ne pensi? Dovresti scriverci su.. e..” si rabbuiò
sfumando il fiume in piena delle sue parole. “Deesire,
mi stai guardando come se fossi un pazzo invasato.”
Mi alzai,
allacciandogli le braccia al collo. “Tu sei brillante!” E quasi senza
accorgermene scoppiai a ridere come non facevo ormai da molto tempo; era una
bella sensazione, liberatoria, da far venire le lacrime agli occhi dalla
felicità.. per la prima volta dopo Auvers mi sentii
serena, svuotata ed esausta.. ma più come una tela grezza, da dipingere o creare
da capo, nel mio caso. Aurelien mi abbracciò forte, sollevato, come se non
aspettasse che questo momento. “Deesire..” sospirò,
“credevo non saresti più tornata.”
“Sono di nuovo qui.”
Ricambiai l’abbraccio, sentendo accendersi il me un nuovo fulgore.
Il Botswana si rivelò
quanto più duro pensassimo; eravamo a bordo delle nostre jeep ormai da giorni,
sostavamo in alloggi di fortuna ed il nostro umore calò all’ennesimo attacco di
dissenteria. Se non fosse stato per Aurelien e il suo spirito da avventuriero
credo che qualcuno di noi si sarebbe gettato seriamente fra le fauci di qualche
coccodrillo nel fiume Limpopo, o fatto lasciare fra le dune del deserto del
Kalahari; il nostro gruppo era ben nutrito, francesi, inglesi e ricchissimi
germani, a Gaborone ci avevano raggiunto anche Tau e Rafiki
le nostre guide locali, tutti racconti e umorismo africano, era un sollievo
averli con noi; oltre che competenti, era davvero un momento magico, la sera
stretti intorno al fuoco, ad ascoltare le loro leggende sul posto. La notte
aveva sempre un che di speciale, difatti.. le temperature scendevano a picco
portando una frescura che non ti saresti mai aspettato e il silenzio cantava di
un rumore sordo, di sabbia trascinata dal vento e dei ruggiti dei signori della
savana; tutto ciò era incantevole e spaventoso allo stesso tempo.
Catherine Owen, altra
componente del gruppo, si prendeva cura di noi e con lei l’equipe specializzata
di medici britannici –il paese era allora ancora una colonia inglese- che
avevano sfruttato il passaggio aggregandosi alla nostra comitiva; insieme
avremmo risalito le paludi di Makgadikgadi e ci
saremmo spostati alla scoperta dello Zambia, dove sarebbe terminata la nostra
avventura. Ero elettrizzata, non stavo più nella pelle anche se i miei
diciannove anni non mi avevano salvata da nessun malumore dovuto ad acqua
scarseggiante, sole in picchiata e le tipiche allucinazioni da deserto.
“La tua caparbietà mi
spaventa..” Aurelien mi guardava ansioso avvicinarmi alle steppe lungo gli
argini delle paludi; una coppia di fenicotteri rosa se ne stavano pacifici ad
assaporare i raggi del sole e non avevo nessuna intenzione di godermelo sulla
jeep, oltre un vetro. “.. NON COSI’ VICINO! Ti prego!” Rafiki
lo ammonì con lo sguardo, per poi guardarlo sorridente, con la curva del
sorriso da un orecchio all’altro.
“Francese innamorato!”
“Francese testardo!”
Lo rimbeccai io, “a Parigi mi permette di sedere accanto alle pettegole e non
dice nulla, siamo dall’altra parte del mondo, a chilometri da casa, con questa
coppia di fenicotteri stupenda e ha paura!” Il gruppo che mi capì rise di
gusto, Rafiki afferrò qualche parola, ma il sorriso
per lui era una carta sempre valida da giocare e colpì affettuosamente la
spalla di Aurelien due tre volte. “Francese fortunato.”
“Francese innamorato.”
E mi raggiunse, stringendo la mia mano alla sua. “Sono bellissimi.”
“Sì.” E restammo a
guardarli finchè Tau non ci fischiò di rientrare in
coperta.
L’ultima notte in
Botswana la passammo accampati presso una tribù discendente dei boscimani, i Bantu;
fu entusiasmante il loro modo candido di accoglierci, offrirci il loro cibo,
tentare un approccio che andasse al di là delle nostre evidenti differenze culturali
e sociali, sebbene fossero ormai abituati alla presenza di noialtri e quindi
preparati.
Mia madre li guardava con
cauta diffidenza. “E’ impressionante come sembrino disinvolti con niente
addosso.” Sospirò, “mi piacerebbe sapere come fanno.”
La dottoressa Owen le
sorrise. “Oh madame Bonnet e non ha visto le altre
tribù! I Bantu sono un popolo pudico a differenza, i più vestiti.. diciamo..
per la loro società.”
Sorrisi guardando la
Owen. “Non tenti di convincerla dottoressa, mia madre è una couturièreesperta, pizzo e organza sono i suoi migliori amici.” Clorine si strinse nelle spalle, quando una boscimane
saltellando e gioendo come una bambina, tirò fuori da una sacca che teneva
stretta in vita, un foulard di pizzo.
“Lacy!
Lacy!”
Mia madre annuì sorridendole
entusiasta, “Oui, den-telle!”
E si fece prendere sotto braccio dalla donna, che le mostrò le altre meraviglie
racchiuse nella sacca. Guardai papà a bocca aperta, prima di essere catturata
da una piccola Bantu e dal suo calderone fumante.
“Na’weh.”
Si toccò il viso indicandosi, per poi toccare il mio e attendendo risposta.
“Deesire.”
Toccai anche io il mio viso, “francese.. difficile, come il tuo!”
“Bello. Molto bello.”
Parlò un francese quasi impeccabile e mi sorrise, passandomi il grande
cucchiaio di legno immerso nel porridge d’avena; la
contaminazione inglese era ovunque. In un altro calderone, dalla quale
capeggiava una donna alta e flessuosa, fumava il Potije
che Na’weh mi spiegò essere una specie di stufato di
carni miste, spesso accompagnato da verdure. Ero tornata nel mio habitat
congeniale, ed ovviamente osai dire la mia.. assicurando di non voler
avvelenare nessuno; in alcune ciotole in cui le boscimani conservavano le
spezie, pizzicai un po’ di questo e di quello ravvivando il blando porridge con qualcosa con più carattere. Il risultato fu
abbastanza apprezzato, ma come al mio solito mi ero trovata a rimettere fra le
latrine.
Uscita dai cespugli
trovai la piccola boscimane con un decotto di erbe, alzai le spalle negando con
il capo. “Basta esperimenti per oggi.”
Mi abbracciò e rimasi
di sasso. “Mtoto.” Esalò in swahili, la lingua dei
Bantu.
“Mto-to?!
Non ti capisco Na’weh.”
“Bambino.”
Arrossii. “Oh no,
nessun bambino. Caldo, cibo..”
Quella sorrise,
toccandomi la pancia. “Mtoto.” E sparì fra i
cespugli, in silenzio, leggiadra.
Il mattino seguente,
prima dell’alba, ci spostammo verso il confine dello Zambia, sulle orme di
David Livingstone, antico esploratore e medico della Bretagna di metà ottocento
che fu il primo europeo a scoprire le cascate Victoria Falls, fantastico gioco
di basamenti e cateratte del fiume Zambesi. Si narra che la famosa “depressione
da viaggio di ritorno” meglio conosciuto come Mal d’Africa, sia stata da lui
coniata, amante quale era del continente Africano a tal punto da spingersi in
missioni sempre più frequenti, quando era ancora in vita.
“Lo scopo del suo viaggio
era di aprire nuove vie commerciali, e di accumulare informazioni utili sul
continente africano per debellare malattie e combattere la schiavitù dei nostri
popoli.” Tau ci parlò della sua vita, dei suoi intenti con così tanta enfasi,
da farci sentire per un momento, un po’ Livingstone tutti noi; e non aveva
torto, non avevo mai provato così tanta suggestione per un luogo, ostile e
difficile solo all’apparenza. In dieci giorni e poco più di marcia avevamo
visto almeno dieci tramonti diversi, dieci paesaggi diversi, dieci albe
diverse.. e poi tutti quegli animali affascinanti, le affascinanti popolazioni
che vi abitavano; impossibile non rimanerne colpiti. “Purtroppo morì in questa
ricerca, ma il suo cuore è sepolto nel luogo in cui spirò, il lago Bangweulu, che significa il luogo dove l’acqua e il cielo
si incontrano.”
Proprio a Livingstone
ci fermammo quale prima tappa; la cittadina era un piccolo centro agricolo
molto quiete e tranquillo, a pochi chilometri dalle famose cascate; dalle finestre
dei nostri alloggi spartani, era ben visibile lo sbuffo d’acqua che dal grande
salto risaliva al cielo sotto forma di goccioline minuscole; Aurelien ed io
passavamo ore ed ore in finestra, ansiosi di poterle visitare. E non fummo
delusi, ben presto armati di parka e pantaloncini di tela, percorremmo il ponte
ferroviario, il primo di molti pochi esistenti sul fiume, per ammirare la
caduta del fiume nello strapiombo.
“Lo chiamano Mosioatunya.
Il fiume che tuona.” Tau si coprì scherzosamente gli orecchi con la mano;
effettivamente quello che gorgogliava chiassoso sotto ai nostri piedi, era
davvero un fiume tuonante.
“Viene quasi voglia di
fare un salto giù!” Gridai alla volta di Aurelien, ben stretto alla mia
schiena, ad immobilizzare ogni mia pazzia; mi guardò stralunato, indicando un
punto difronte a noi.
“E’ così placido.. non
ti aspetteresti mai tutto questo clamore.” Mi sorrise nell’orecchio e sorrisi
insieme a lui; il fiume aveva due facce ben distinte; a monte era un lento
fluire, fra isolotti di basalto riaffiorati dal fondo e sempre più frequenti
mano a mano che si avvicinava il salto, per poi cambiare completamente aspetto
dopo la caduta, rumoroso e tempestoso a valle. “Peccato non possa dire lo
stesso di lei madame Chedjou!” Mi baciò sul collo
divertito.
“E’ possibile farsi il
bagno?!” Sentii i pollici di Aurelien affondare nella mia schiena, mentre con
aria di sfida mi rivolgevo ad un Tau ora sardonico con l’espressione alla..
“non avresti mai il coraggio.”. Insistei. “Non sarà poi tanto pericoloso, no?!”
“C’è un sentiero che
permette di bagnarsi a monte, dove il fiume è calmo.”
“Andiamo!” Mi
divincolai dalla presa di Aurelien, ma non dalle sue lagne.
“Ma perché non sto mai
zitto?!”
“Perché vuoi farlo
anche tu.. solo che non hai il coraggio!” Lo canzonai e per tutta risposta mi
raggiunse e si mise a bofonchiare al mio fianco per tutto il tragitto che Tau
ci mostrò, oltre la ridondante vegetazione; il resto del gruppo ci seguì in
fila indiana, in assoluto silenzio. I meno coraggiosi restarono sul ponte; fra
di noi solo aria, la gola stretta a valle e il grande salto.
“Ci sono animali
pericolosi lì dentro?!” Mia madre dalla sponda mi guardava con assoluta
disapprovazione e angoscia, costringendo mio padre a tenerla in braccio tanta
era la fifa. “Buon Dio devo essermi dimenticata di metterle il sale in quella
zucca!”
“Non qui.” Rafiki capì il gioco e ci mise il carico, tuffandosi
insieme a Tau ed alcuni viaggiatori.
Mio padre le guardò
amorevolmente. “Tu eri esattamente come lei. Ti sei dimenticata che per poco non
ci cacciarono dal Marocco durante il nostro viaggio di nozze?!” Vidi gli occhi
nocciola di mia madre lampeggiare di malizia e mi ordinai di guardare altrove,
imbarazzata.
“Pronta?!” Aurelien
allacciò la sua mano alla mia.
“Pronta!” Ci tuffammo
in acqua; era fresca, molto fresca, e la sensazione affacciandosi al bordo
della cascata era di potenza assoluta, dominio, prevalenza sugli elementi. Il
mio liege
si liberò dei pensieri e come al suo solito, dopo un esperienza forte, tempestò
di domande e curiosità le due guide.. io ascoltai rapita e divertita dalla
magia dell’acqua e dalla magia di Aurelien.
I leoni ci attesero
come sentinelle, fra l’erba e le colline dolci nel parco nazionale di Kafue e insieme a loro una fitta vegetazione e altrettante
specie di animali che vivevano solo nella nostra immaginazione di bambini. Se
ne stavano stramazzati sul terreno a godersi la frescura sotto baobab millenari
e intorno a loro la vita scorreva tranquilla in una distesa chilometrica erbosa
e di foreste, ad alternarsi. Un grande fiume vi passava al centro, il Kafue e con nostro sommo piacere, rubammo con gli occhi lo
spettacolo di una famiglia di ippopotami durate l’ora del bagnetto. Elefanti,
zebre, le bellissime antilopi, ovunque ci girassimo eravamo circondati dalla
mano di Dio e dal suo magnifico lavoro. Sostanzialmente non ci era permesso
scendere, non ad un raggio ridotto da gruppi di felini, potevamo scattare
qualche istantanea ma vigeva assoluto il silenzio, si doveva fiatare poco e
farlo al minimo decibel. La nostra jeep era tutto un sussulto, mio padre, Ines
e Martin, Aurelien.. e mia madre che per l’occasione si era vestita da gran
signora esploratrice, con un’ampia gonna color fango fino ai piedi e la camicia
bianca infilata dentro.
“Perché mi guardi
così?! Se vengo azzannata da uno di quei bestioni, voglio farlo nelle mie vesti
migliori.”
Scossi il capo
incredula. “Non ti azzanneranno.”
“Non puoi saperlo!”
“Non mangiano
schifezze..” mirai alla sua gonna di renna tanto spessa da farmi venire la
febbre per il caldo solo a guardarla e a tutti quei bracciali, anelli.. avrebbe
avuto un indigestione la povera bestia. “Mireranno alle mie gambe scoperte e tu
sarai salva.” La vidi trasalire sul sedile, Aurelien mi colpì affettuosamente
la gamba. “La stai spaventando. Ed anche me a dire il vero.. smettila e goditi
lo spettacolo!”
Ciò che successe dopo
non so descriverlo a pieno, perché vidi un movimento fulminio con la coda
dell’occhio, alla mia sinistra, oltre il vetro, un guizzo dorato e impazzito
correre verso di noi e il petto di Aurelien venirmi addosso al viso; mio marito
mi aveva tirata giù, verso di lui, cercando di nascondermi, ma l’improvvisa
paura mi aveva fatta voltare di nuovo a sinistra e la scena mi fu chiara e
lampante. Un’antilope stava cercando di salvarsi la pelle ma -quando si dice
non è giornata- la nostra jeep stava esattamente al centro dell’unico passaggio
libero, fra lei e la sua salvezza. La vidi schiantarsi contro al vetro dove
stavo di posto, girare il capo incredula e accasciarsi sulle zampe; tutti
urlammo, Tau si alzò meccanicamente imbracciando il fucile e gesticolando a Rafiki sull’altra jeep, del tutto all’oscuro di ciò che
stava accadendo sul nostro lato cieco. Approfittai della presa lenta di
Aurelien sulle mia braccia per alzarmi di scatto e constatare cosa fosse
successo all’animale, quando sullo stesso rettilineo, esattamente difronte a me
e oltre il vetro, apparve un leone affamato e accecato d’ira, in tutta la sua
magnifica presenza di muscoli e nervi; mi accorsi solo allora che il vetro era
crepato e che la ragnatela sottile che lo teneva ancora assieme gridasse a gran
voce “sono fragile!”. Deglutii, immobile; Aurelien si alzò piano da sotto,
mugugnò vedendo l’animale e con la stessa lentezza passò le mani sui miei
fianchi, attento a non fare movimenti bruschi tirandomi verso di lui, sempre
più lontano dal vetro.
“Le tue meravigliose
gambe resteranno dove sono.” Soffiò.
L’animale ruggì, come
se contrastasse quanto detto; sorrisi isterica, sentii Tau caricare il colpo in
canna.
“No..” protestai, lo
avrebbero ucciso, quel bellissimo esemplare di leone adulto, con la criniera
rossa sfumata e copiosa.
“Non guardare..” il
leone aveva preso a camminare verso di noi, guardingo, gli occhi fissi nei
miei; c’era l’antilope malconcia e dolorante in terra e lui guardava me, con i
suoi assassini occhi gialli. Rabbrividii, ero stata sciocca, avevo scherzato
con la morte e quella era la vendetta suprema del destino.. ma la mia vita non
poteva finire lì, non ad un bivio, non dall’altra parte del mondo, non per
bocca di un leone! “Sono con te, buona piccola.” Aurelien parlava dolce al mio
orecchio perché si era accorto che tremavo come una foglia e dagli scossoni del
mio corpo, che sarei scoppiata a piangere quanto prima; mi accarezzava la
schiena, poi tornava ai fianchi, con sicurezza, mai indeciso, spaventato.
Annuii. L’animale si fermò, scrollò il capo quasi annoiato, guardò l’antilope,
poi la jeep; Tau non riuscì a schioccare il colpo, il fucile era inceppato,
imprecò ordinandoci di stare zitti, quando tornai con il viso sul leone lo vidi
acquattarsi verso la povera bestiola ferita e sospirai.. Aurelien con me, come
un tornado. “Deesire?! Deesire?!”
Non udii altro,
rigurgitai sul pavimento e svenni sopraffatta dalle emozioni.
“Chi abbiamo qui?!” La
voce soave di Catherine Owen mi condusse oltre il tunnel nero in cui ero finita.
“Deesire, tesoro mi senti?!” Mi sforzai di aprire gli
occhi, gemendo. “E’ con noi.” Parlò con qualcuno che non riuscivo a vedere e mi
sorrise dolce.
“D-dove s-sono?!” Mi
schiarii la voce, “acqua per favore.”
Mi passò un bicchiere
colmo e con gentilezza mi spiegò dove fossi; eravamo tornati a Livingstone,
dopo i primi soccorsi ero rimasta priva di sensi per tutto il viaggio, quello in
cui ci trovavamo era l’ambulatorio della città e a giudicare dall’odore forte
di disinfettante, constatai che aveva ragione. Girai il capo verso la barella
alla mia destra, il corpo inerme di mia madre vi giaceva sopra. “E’ ferita?!”
Chiesi spaventata.
“Oh no è in gran
forma, sta solo dormendo. Era molto spaventata.” Mi guardò cambiando
espressione, adottando un tono più professionale, “veniamo a noi, Deesire. E’ la terza volta che ci troviamo in tale
circostanza.”
Arossii, se voleva insinuare che fossi una cagionevole
ragazza di città aveva ragione, non per questo doveva farmelo notare con tanta
durezza. “Pensavo d’essere più forte.” Bofonchiai, sistemando la mia seduta in
modo da esserle ad altezza occhi.
“Quando hai avuto il
tuo ultimo ciclo?!” La sua dolcezza era sparita del tutto; fui presa dal panico
a quella domanda, stupendomi della consapevolezza di dovermi sforzare, per ricordare
quando c’era stato. Aurelien era stato l’ultimo ad avermelo chiesto.. ma era
successo almeno un mese e mezzo prima. “Il fatto che non lo ricordi conferma la
mia tesi, Deesire.” Prese un flaconcino e me lo
porse. “Mi serve un campione delle tue urine.”
“Quale tesi?!”
“Sono sicura che tu
aspetti un bambino, cara ragazza!”
Spalancai la bocca e
restai di sasso. Mia madre rinsavì come se nulla fosse, urlando di gioia; saltò
giù, abbracciandomi forte. La guardai di traverso, ma fui travolta dalla sua
buffa commozione e dal suo buffo tentativo di farmi respirare.
Ci provai a respirare,
ma ingoiare aria era doloroso come se ingoiassi vetro; dal nulla erano sbucati
gli occhi verde-azzurro di Fabien, che mi scrutavano
pensierosi, angosciati.. un brivido mi percosse la schiena.
“QUANDO?!” Mi trovai a
strillare, costringendo mia madre ad arretrare per lo spavento e fissarmi, come
se avessi qualche rotella fuori posto; ed in realtà l’avevo, l’avevo sempre
avuta, perché adesso quello che sembrava un miracolo a me pareva una catastrofe
di immane portata. La dottoressa sorrise distaccata, “il tuo campione e saprò
dirti tutto con precisione. Credevo lo desideraste. Mi sono fatta un idea
sbagliata?”
Avvampai, lei afferrò
il flaconcino e me lo spinse contro, ordinandomi di sbrigare il tutto in
fretta; quando tornai, scribacchiò alcune cose incomprensibili sulla cartella
clinica. “Non.. ci speravo più.” Lo restituii, accasciandomi esausta sulla
barella, la Owen guardò mia madre con aria complice e sparì.
“Mi spieghi perché ti
stai comportando così?!” Attendevo un suo intervento, come pioggia dopo i
tuoni; probabilmente si aspettava che mi mettessi a fare capriole, giravolte,
che dai miei orecchi uscisse fumo e cuori dagli occhi, ma limitai le mie azioni
girandomi dalla parte opposta, dandole le spalle. Tutto questo evidentemente
non le bastava. “Per un attimo mi hai fatto credere che..” decisamente non le
bastava, ed era anche peggio di quanto pensassi! Mi strinsi forte ai cuscini,
pregando che il sonno la raggiungesse seduta stante; non fui accontentata,
caparbia e motivata dal mio silenzio, fece il giro dal suo letto al mio e si
parò dinnanzi ai miei occhi. “Perché non vorrai farmi credere che..”
Annuii distrattamente,
più un tic di riflesso che un omissione. “Avanti, dillo.”
“Fabien
Moreau.” Recitò, come fosse la chiave a tutti i nostri problemi.
“Sì.” Fu come
liberarmi di un peso e mi stupii di quanto fu facile ammetterlo.
“Ma come è
possibile?!”
“Sicura che devo
spiegartelo?!” Risi isterica, sapevo d’esserlo!
“Oh Deesire..” Se piange sono nei guai pensai.. e invece la mia
altera, mondana, brillante mamma, mi avvicinò stringendomi al petto; il suo
calore mi rilassò, un gesto così naturale, perso nel tempo. “Fabien Moreau. Fabien Moreau. Fabien Moreau.”
“Mamma.. smettila.”
“Sei proprio sicura?!”
Alzai il viso, i nostri sguardi si trovarono complici.
“Abbiamo fatto
l’amore. Non sono sicura ma.. lo sento nella pancia.”
Dallo stupore, il
fastidio, la remissione e qualcosa di molto simile all’amore e la complicità
fra donne, passò negli occhi ardenti di Clorine. “Tua
nonna prima di sposare nonno Fontaine, ebbe una
scappatella con un pittore di Montmartre.” Si accoccolò al mio fianco, io
sempre stretta al suo seno, inspirò e sentii la magia di quando ero bambina e
si faceva sera e il momento delle fiabe tanto atteso. “Era bello, si chiamava
Jean; restarono chiusi in casa una settimana, prima che sua madre andò a
riprendersela per i capelli. Nove mesi dopo, nacqui io; una bimba minuta con
tanti capelli mossi e scuri.” C’era una lieve inflessione di tristezza nella
sua voce, corsi velocemente al ricordo del nonno, alla sua zazzera color
carbone, un tempo scura come il caffè, il temperamento forte e puntiglioso nel
corpo minuto e sorrisi.
“Tu sei decisamente
una Fontaine, mamma.”
“Lo penso anche io..
ma il dubbio è un tarlo che mi porto dietro da anni ormai.” La guardai
perplessa, mi accarezzò la guancia, sorridendo. “La tua bizzarra nonna mi
mostrò una sua foto, il giorno del mio diciottesimo compleanno, raccontandomi
ciò che era successo. Da allora penso spesso a lui.”
“Che fine ha fatto?!”
“Oh, questo proprio
non lo so. Conrad Fontaine è stato un padre
meraviglioso, mi ha cresciuta e mi ha dato tutto l’amore di cui avevo bisogno..
se non avessi saputo nulla dell’altro, non avrei mai nutrito dubbi in merito.
Il padre è chi ti cresce, Deesire.”
Annuii, non era forse
così? “Comprendi perché non volevo ti ronzasse intorno?!” Bello e pittore,
sciocche coincidenze, il motivo era più profondo; non voleva che scontassi
quello che scontò la nonna, amando clandestinamente un altro uomo e vivere una
vita con l’eterno dubbio, di quale sangue scorresse nelle vene della figlia.
Bel dilemma, ma io c’ero dentro con tutte le scarpe e tornare indietro era
impossibile nonché improbabile.
“Nel mio caso sarà un
erede Chedjou a tutti gli effetti ..” Clorine mi guardò accigliata, redarguendo con il capo la
mia avventata ironia. “Adesso che si fa?!” La voce mi si strozzò in gola.
“Vuoi veramente questo
bambino?!”
“Con tutta me stessa.”
I suoi occhi si addolcirono.
“Io sono con te, qualsiasi decisione prenderai. E tuo padre ti ama
incondizionatamente, lo sai. Se hai deciso di lasciare Aurelien..”
Sgranai gli occhi.
“Mamma.. io non lascerò Aurelien.”
“No?!” Ribattè perplessa.
“Non.. lo priverei mai
di suo figlio, se lo fosse. Non rovinerei mai la carriera di papà, la tua vita,
quella di Fabien, se il figlio non fosse il suo.” Mi
resi conto di quanto le mie scelte, tutte, non avevano nulla a che fare con me;
avevo seguito fin dall’inizio le decisioni dei miei genitori, ed ero stata
sempre accondiscendente, grata, perché mi amavano, ed avevano scelto il meglio
che la vita potesse offrirmi, ma d’ora in poi sarebbe toccato a me dirigere i
fili del teatrino, un piccolo essere mi stava crescendo dentro, ed ero
responsabile del suo bene e della sua vita, sopra ogni logica di felicità,
perché lo amavo, lo amavo già tantissimo. “Le mie prerogative, non sono più
importanti, dinnanzi a lui.”
Clorine sospirò. “Credevo di aver tirato su una figlia
viziata e indolente, ma davanti a me ho una donna saggia e coraggiosa.”
“Devo esserlo.”
“Noi saremo al tuo
fianco.”
“Lo so.”
Ci abbracciammo e mai
nella vita sentii mia madre vicina come in quel momento; ero una donna aveva
ragione lei, cresciuta nell’esatto istante in cui la dottoressa Owen mi
confermò i suoi sospetti. “Dovrai stare a riposo Deesire,
dalle nausee frequenti il tempo stimato della tua gravidanza è..” alzai una
mano, scuotendo il capo.
“Lo desidero con tutte
le mie forze dottoressa, arriverà quando è pronto!”
“Pronto?! Sai già che
sarà maschio?”
Sorrisi al ricordo
della piccola boscimane. “Una Bantu mi ha predetto questo evento.” E mi
abbracciai forte la pancia, con un sorriso ridicolo; mia madre e la Owen si
guardarono perplesse, “vado a chiamare il futuro papà. Sono sicura sarà
impaziente di sapere come stai.” Clorine mi fece
l’occhiolino, ed uscì. Pochi istanti dopo, Aurelien spalancò la porta con una
faccia da babbeo innamorato; alzai gli occhi al cielo, tutto era tornato come
era,il quarto d’ora di chiacchiere e
confidenze.. finito nei cassetti di ricordi di mia madre.
“Complimenti signor Chedjou.” La Owen gli strinse la mano e sistemò la cartelletta
ai piedi del letto. “Qui ci sono una serie di analisi per te Deesire, ti terrei un po’ in osservazione prima di
lasciarti andare.”
“Sta male?!” La voce
rotta dell’uomo che mi sedeva accanto, mi agitò.
“Oh no, assolutamente.
Precauzione, signor Chjedjou. Sa.. “
Cercai di leggere i
pensieri della dottoressa e mi intromisi nel discorso. “Aurelien dopo un anno
di tentativi.. un po’ di premura non guasta.” La mia sicurezza vacillò, dietro
una frase che mi sorpresi di aver detto sul serio; mi morsi la lingua, pregando
la me stessa interiore, di restare muta nei prossimi nove mesi.
“Un po’ di premura,
certo.”
E si lasciò andare,
come un bambino, camminando avanti e indietro, baciandomi, sorridendomi,
incapace di contenere la gioia; avevo il cuore colmo di amore nel guardarlo, il
mio liege..
e mi riscoprii a pregare, pregare perché la mia pancia si sbagliasse, pregare
perché dal cielo mi fosse stato mandato il segno concreto delle giuste scelte,
pregare arditamente.. che quel figlio fosse il suo.
“Dobbiamo rientrare
immediatamente a Parigi.”
Mi adombrai, percorsa
da fremiti. “Oh no.. questo è fuori discussione. Non intendo fare di nostro
figlio un bagaglio da spedire per il mondo.”
Mi guardò divertito e
spaventato allo stesso tempo. “Cosa intendi fare allora?!”
“Noi.. resteremo qui.”
“Qui?!”
“Un comodo letto e una
casa accogliente mi sembrano più di ideali di questo posto.. ma sì, vivremo in
Africa.” Asserii compita, con ponderazione, anche se le parole uscirono come un
flusso non calcolato. “Almeno per il tempo necessario a futuri spostamenti.
Sono squassata da nausee che tu nemmeno immagini amore perciò.. ho pensato a
tutto.” Mi toccai velocemente la tempia, “Cedric sarà il tuo sostituto, o
chiunque tu voglia ci sia al suo posto.. mentre da qui potrai seguire le aziende
via corrispondenza. Nessuna azienda è mai fallita per questo, no?!” Annuì poco
convinto, ma proseguii senza dargli il tempo di riflettere, “nel tempo libero potrai
dare la caccia ai diamanti o arrampicarti sui baobab se lo preferisci.. ti
prenderai cura della tua mogliettina lamentosa e sarai felice! Che ne dici? Non
ammetto dinieghi, monsieur Chedjou.”
“Ho un’altra scelta?!”
“Ti sono sembrata
troppo irruente?!”
“Giusto un po’, madame
Chedjou.” Mi baciò, portando istintivamente la sua
grande mano sulla mia pancia, “sarà un piacere prendermi cura della mia
lamentosa moglie e farò tutto quello che mi chiederai, come sempre. A parte
discutere i vari punti..”
“I vari punti non si
toccano Aurelien. Noi tre. restiamo qui.”
Sarà stato il noi tre,
la mia autorità, il suo cuore addolcito da quando aveva saputo del bambino.. ma
si azzittì e non replicò più nessuno dei punti; quella notte, con il rumore
lontano delle cascate, Aurelien mi fece sua in un modo che toccò anche le fibre
più profonde della mia anima .. e infondo al cuore le mie preghiere sussultarono
ancor più speranzose.
La notizia si sparse
più in fretta del previsto in quel di Parigi e il motivo lasciò perplesse ma
soddisfatte, i gazzettini ufficiali di città, Ines e Clorine;
mio padre e Martin erano ripartiti appena sette giorni dopo la scoperta -le due
donne sarebbero rimaste con noi finchè il mio bambino
fosse stato ritenuto dalla sottoscritta abbastanza forte per la rimpatriata- e
non avevano perso tempo nel far sapere che casa Chedjou
avrebbe avuto presto il suo erede. Non ero contenta di questo e la riservatezza
centrava ben poco -come stupirsi, dopo aver passato una vita accanto a Clorine e le sue storie- volevo tenere il mio segreto al
sicuro, ero diventata protettiva e già mamma chioccia in qualche modo.. e sì,
avevo una paura da togliere il fiato, dei miei fantasmi d’Auvers.
“Questa è di mio zio.”
Aurelien amava sedermi accanto in veranda, per controllare la corrispondenza
oppure dedicarsi ai suoi affaccendamenti; disponevamo di un alloggio più
piccolo ma comodo, le giornate trascorrevano pigre fra il nulla e il quasi
nulla da fare, la mia convalescenza –la Owen aveva obbligato la mia famiglia a
tenermi a letto a tal punto da farmi passare più per una malata, che per una
donna in stato interessante- e i primi biglietti d’auguri, una mazzetta alta
che il liege, teneva unita con uno spago; tremai
quando lessi l’incisione sulla carta bianca. “Felicitazioni, famiglia Moreau.”
Famiglia Moreau. Asettico, arido, privo di calore; anche i miei fantasmi,
avevano paura di me.
Sorrisi, noncurante
della sua stilografica a mezza aria. “Dovremmo rispondere prima o poi!”
“Dobbiamo?!” Proferii
ironica, mi guardò scuotendo il capo, posando la penna sul tavolo.
“Deesire
sai essere sempre così efficace..” mi baciò la mano, lasciandosela premuta
contro le labbra; ci guardammo intensamente, prima di scoppiare a ridere all’unisono.
“Sei un gran ruffiano,
lo sai?!” Mi sorrise con gli occhi, al di sotto delle lunghe ciglia scure,
picchiettai su un biglietto dalla carta chiara, color menta. “Leggimi questo.”
“E’ di maitre Gerald.” Strappò l’angolo della busta, sfilandolo. “Mia
dolce Deesire, mi unisco alla gioia di questa buona
nuova, augurando a te e monsieur Chedjou molta felicità.
Spero monsieur non protesti troppo al mio desiderio di rivedervi presto. Ho
buone nuove per tutti noi. Con affetto, Gerald.” Aurelien agguantò carta e
penna, fissandomi divertito. “Allora, cosa rispondiamo?!”
Sorrisi a mia volta;
il mio liege
sapeva sempre cosa volevo. “Caro Gerald..”
*
NDA:
Eccoci qua, ad
affrontare insieme un altro grande passo di Deesire; diventerà
mamma. Le sue sensazioni sono giuste? La sua pancia, il suo cuore, possono mai
mentirle?! Chi lo sa. Restate connessi!
Piccolo squarcio di
umanità di Clorine, mondana/austera/brillante mamma
della nostra protagonista, attraverso i racconti del passato delle donne Fontaine; mi sono divertita molto a parlare di questo
aspetto, di segreti delle nonne e del rapporto conflittuale ma profondo, fra Deesire e la sua mamma.
Voi che ne pensate mie
care lettrici/lettori? Mi auguro di non avervi deluso.
Si parla anche
sommariamente dell’Africa, non dispongo di grandi nozioni e non mi sono voluta
soffermare troppo sulla descrizione dei luoghi o altro, limitandomi ad un assaggio
veloce, giusto per dare l’idea del tempo trascorso.
Ringrazio tutti coloro
i quali continuano a seguirmi, dimostrandomi sempre grande partecipazione! Un
abbraccio forte a _Nihil_ e Ultimo puffo. A chi
aggiunge la mia storia fra i preferiti/seguiti/ricordare, grazie per la
fiducia, spero di trovarvi presto fra i commenti; mi farebbe tanto piacere
leggere i vostri pareri.
Se in passato, mi
avessero detto che avrei vissuto l’inverno in estate e l’estate in inverno,
probabilmente avrei riso di cuore; ma era proprio ciò che stava accadendo, in
Dicembre, a chilometri da casa, pronti quasi a pensare al Natale.. mentre
fuori, si sfioravano i trenta gradi. Aurelien aveva adornato l’albero farfalla
fuori alla nostra porta, con i frutti secchi e piccoli ornamenti in legno che i
bambini del vicinato, avevano costruito apposta per noi, ma a metà dell’opera
si era fermato, avvilito dal gran caldo e dallo sconforto di non essere a casa.
La nostra vera casa. Non lo disse mai apertamente, ma sapevo che soffriva, come
soffre un animale sradicato dal suo habitat naturale, così Aurelien, in punta
di piedi, muoveva in questa nuova vita, senza i suoi appuntamenti, i clienti,
le aziende e gli odori che a detta sua, contraddistinguevano un reparto
dall’altro. Passavo ore ad ascoltarlo, quando raccontava della sua infanzia, di
come suo nonno fondò l’impero Chedjou praticamente con nulla in mano,
accorgendomi della scintilla che ardeva infondo ai suoi occhi, beandomi della
determinazione di chi sa di avere un tesoro fra le mani e il fuoco sacro per
plasmarlo. Rimuginavo molto sulla nostra assenza, mi chiedevo se in qualche
modo non mi fossi fatta condizionare troppo dai miei mostri, le mie paure;
perché io avevo paura, terribile, soffocante, di rovinare tutto, di non essere
abbastanza forte come credevo, degli scheletri nell’armadio e di quelli fuori
che mi urlavano in faccia quanto ero stata fortunata e come avevo chiuso gli
occhi difronte a quella fortuna, che presto sarebbe arrivato il momento di
pagare lo scotto e il castello delle mie speranze e delle mie preghiere sarebbe
inesorabilmente crollato. Ma poi i suoi occhi si addolcivano, quando parlava
del bambino che sarebbe arrivato e tutto svaniva via come una bolla di sapone;
le paure, le ansie, i mostri.. scolorivano come i tramonti in Zambia. E tornava
la pace.
La mia pancia cresceva
a vista d’occhio e con lei la voglia di vedere il bambino, curiosare, scherzare
sulle somiglianze.. purtroppo all’epoca non disponevamo delle moderne
tecnologie di monitoraggio del feto, ci si affidava ai testamenti delle nostre
mamme e delle nostre nonne, si fantasticava sul sesso piuttosto che sul termine
della gravidanza; tutto era misterioso e magico, l’attesa che perdurava il
piacere. Un volo di fantasia perenne, insomma. Ed io ero diventata un pilota di
linea a forza di farmene.
“Aurelien!” La prima
volta che avvertii la sua presenza, per poco non svenni; incartavo i regali da
mettere sotto il nostro ipotetico albero –alla fine avevamo ceduto per una
simpatica statuetta in coccio dalle forme del più classico abete, da tenere
come ninnolo sul davanzale- quanto sentii con chiarezza come delle vibrazioni
dal basso ventre. Ululai di gioia, prima di accasciarmi sulla sedia che avevo
affianco.
“Cosa è successo?!”
“Lo sento!” Agitavo le
mani su e giù all’altezza del petto, incapace di controllare gli spasmi del mio
corpo. “Qui!” Mi allungai verso la sua mano che gentilmente mi porse, emozionato;
la posai sulla pancia, restando in ascolto. “Uhm.. mi sa che è un bambino
capriccioso.”
“Non mi dire?!”
Ridacchiò, prima di passare una carezza amorevole sulla rotondità prominente.
“Si è fatto desiderare tanto, credo mi farà aspettare anche questa volta.” Si
accucciò sulle ginocchia, con la guancia appoggiata sulle mie cosce, una
leggera malinconia negli occhi. “Un anno fa più o meno, ero nel salotto dei
tuoi genitori ad aspettare vederti scendere quelle scale, con il cuore a mille
da tanta l’emozione. Eri bellissima Deesire, ed io ti desideravo come non avevo
desiderato null’altro prima d’ora.” Alzò il viso trapassandomi con lo sguardo,
“e guardaci oggi, siamo qui, dall’altra parte del mondo e tu aspetti nostro
figlio. Non sei mai stata più bella di adesso amore mio, le guance rosse, la
tua adorabile felicità.” Si alzò di poco, accarezzandomi il viso con il dorso
della mano.
Sospirai. “ Sembra
tutto perfetto. A parte l’altra parte del mondo.”
“Mi sono rilevato un
pessimo cacciatore di tesori, lo ammetto!” Scosse il capo sorridendo, “ma non
dire così. A dispetto di tutto, amo questo posto.” Guardò la pancia, poi me,
poi di nuovo la pancia. “Quando sarai pronta, torneremo a casa.”
“E se fossi pronta..
oggi?!”
“Lo sei? Di notte
mugoli di voler far pellicce con la pelle delle pettegole.” Stava scherzando,
ma avvertii tensione nelle sue parole. Chissà che non pronunciassi altro, in
sogno..
“Ho paura Aurelien.”
Mi strinsi le braccia intorno al corpo, istintivamente. “Sono un mucchio di
paure, ma so anche che se non le supero.. loro mi schiacceranno. Siamo cambiati
tanto, non voglio che assurde inquietudini ci impediscano di essere felici.” Non
più di quanto lo avessero già fatto in passato, perlomeno. Aurelien aveva dato
una svolta alla sua vita per me. Cosa avrei potuto fare per ricambiare, se non
mettere da parte ciò che non ci avrebbe permesso di crescere ulteriormente ed essere
felici davvero?!
Avevo tutte le
risposte a disposizione, bisognava solo renderle fatti e concretezze.
“Lo sai che in
marocchino Hani significa felicità?!”
“Perché me lo dici?!”
“Perché desidererei
che nostro figlio lo sia.”
“Lui è già felice. E
lo sarà, te lo prometto.”
“Potrà esserlo e potremmo
esserlo veramente, solo partendo da dove tutto è cominciato. Torniamo a Parigi,
Aurelien.”
Non so dire come fu
possibile organizzare il rientro in breve tempo, ma ci riuscimmo, mossi
dall’insana pazzia della nostra giovane età, dalle poche cose materiali che
avevamo accumulato in Africa e sostanzialmente perché tutto ciò che
desideravamo portare indietro, era con noi; eravamo noi! Per questo quando a
poppa salutammo la costa dal porto di Durban, fu a cuor leggero, senza
rimpianti; era stato il periodo più entusiasmante e “catastrofico” di tutta la
nostra vita, ne erano successe di cose in sei mesi di convivenza con il sole a
tutto tondo, i tramonti lussureggianti oltre le pianure, la sabbia silenziosa e
scivolosa dei deserti, gli animali padroni del territorio, la magnifica
popolazione che colorava il paese di mille sfaccettature.. e un po’ lo provai,
sì lo ammetto, il Mal d’Africa di Livingstone, ma era più forte l’emozione di
riprendere ciò che avevamo cominciato; come tornare a un libro iniziato dopo
tanto tempo che non l’apri. Il viaggio fu più estenuante di ciò che ricordavo
ma con me avevo un bagaglio speciale, non previsto al ritorno; le nausee erano
quasi sparite eppure il mio corpo pretendeva riposo, costringendomi a lunghe
dormite alternate ad altrettanti pisolini fra un oceano e l’altro. Non me ne
dispiacqui molto, un taglio netto era ciò che cercavo, le mie energie andavano
incanalate nel nuovo, proiettate al futuro.
Come me, come noi.
Aprii gli occhi in
territorio francese. Marsiglia era un puntino oltre la coltre di nebbia
dell’alba, un sussurro nel deserto e mi emozionai; sarei tornata alla mia vita,
ai miei affetti, alle cose belle che avevo lasciato. L’aria era familiare, fresca,
tacita di ammonimenti ma carica di promesse. Saremmo stati felici.
Ci avremmo provato.
La sirena tuonò nel
porto addormentato, la città si stringeva attorno con le sue case una a ridosso
sull’altra quasi a pelo d’acqua; Jerome fu il primo viso familiare a venirci
incontro, appena toccato terra. Ci sarebbe voluto almeno un altro giorno per
arrivare a casa, ma il più era fatto ormai.
“Amore.. svegliati..”
aprii gli occhi di scatto; fuori era buio, non seppi distinguere dapprima se
notte o alba, ma riconobbi immediatamente la Tour Eiffel in lontananza, protesa
al cielo di nuvole scure. “Siamo quasi a casa.” Annuii con il capo, stringendo
forte la sua mano. “Mia madre ti saluta.” Si accostò al mio orecchio, “la tua
credo si stabilirà a casa nostra se non la rassicuri.” Bisbigliò, ridendo. Allungai
la mano, ancora con gli occhi mezzi chiusi, verso il sedile dove la mamma se ne
stava a bofonchiare sulla guida di Jerome; era già attiva e scattante,
perfettamente padrona della scena.
“Mamma..” protestai debolmente,
“ti prego torna a casa. Sto bene, non vedi?!”
“Oh Deesire, ti sei
svegliata.” Non si girò nemmeno, con un gesto secco spense l’aria calda e tornò
a stressare Jerome. Non demorsi, picchiettando due dita sulla sua spalla.
“Mamma sto bene. Mi hai sentita?” Mi guardò
con sconforto, annuendo; non volevo ferirla o cacciarla fuori dalla mia vita,
avevo solo un naturale bisogno di riprendere i miei spazi, senza la sua
protettiva e fin troppo calorosa presenza intorno. “Papà ha bisogno di te. E
anche la casa ne sono sicura.. non sei curiosa di valutare i danni?!” Sorrise
arrendevole, ammorbidendo le spalle tese, “Jerome devii pure per casa Bonnet,
grazie.” L’autista incanalò l’auto dolcemente verso la rive gauche, costeggiando
la quai de Montebello fino all’incrocio con il ponte Neuf; una piccola svolta a
sinistra ci addentrò per il quartiere latino, nei suoi profumi di pane caldo
dalle serrande dei fornai a mezza altezza e gli storici palazzi del ghetto.
“Devo aver dormito
parecchio..” Domandai ad Aurelien, con il viso sognante sulla strada; la
macchina stava risalendo l’ile de la citè, Notre Dame mi regalava flash di una
bellissima giornata di quasi estate passata, dove io ero vestita di bianco e
lui mi faceva volteggiare in aria come una piuma. La mamma era tornata senza
fare storie –salvo il piccolo pianto sulla spalla del genero- ed il cielo
cominciava ad albeggiare.
“Più o meno da
cinquecento chilometri e un giorno. Bentornata a casa Deesire.”
Dimenticato in fretta
l’appartamento spartano di Livingstone, mi trovai a gustare le delizie del mio
lussuoso appartamento sulla Saint Honore; che meraviglia essere tornata a casa.
Ygritte mi accolse con calore e un vassoio di pasticcini caldi alla crema,
Aurelien e Jerome schizzarono come saette su e giù per la scala con i bagagli e
–sono sicura- a constatare che tutto fosse in ordine; quale inutile perdita di
tempo, non avevo occhi che per i pasticcini e la visuale sulla città, persa in
qualche cassetto della memoria, di cui disponevo.
“Madame, la perdita di
memoria non è fatto raro in gravidanza.” Ygritte mi passò una tazza di the
caldo e una coperta, sebbene la casa fosse sufficientemente riscaldata; era
febbraio inoltrato e a Parigi torreggiava il freddo secco tipico del periodo,
una manna dal cielo per quanto mi riguardava. “Io stessa ho avuto qualche
problemino di concentrazione.”
“Questa città è una
donna fatale; ne puoi fare a meno, ma il suo odore ti rimane addosso.” Sospirai
stringendomi nelle spalle. “Raccontami Ygritte, mi sono persa qualcosa?!”
La donna sorrise,
sciorinando i fatti accaduti nella mia amata Parigi; scoprii così che Albert
Lebrun era ancora il nostro presidente della repubblica e De Gaulle nostro
generale delle forze armate, che la Francia si era opposta alla Germania di Hitler
e alla sua guerra -etichettandola “guerra fantasma”- entrando automaticamente
nelle file dei paesi schierati contro; rabbrividii alla parola guerra, pensando
a quel bambino che cresceva dentro di me. Avevamo lasciato Parigi con il
sospetto di futuri tempi bui e rientravamo che questo era già una certezza.
“Ma è terribile
Aurelien..”
“Ecco perché non
volevo che sapessi.” Gettò un occhiata torva ad Ygritte che sparì mortificata,
“non sappiamo ancora niente di questo conflitto, ho il sospetto che neanche i
vertici ci raccapezzino niente, perciò ti prego.. ti prego Deesire, non
agitarti.”
“Dovrei stare
tranquilla? Come? Con te che mi nascondi le cose? Una guerra Aurelien! Una
guerra vera!” Scossi il capo, alzandomi; d’un tratto l’immagine della mia bella
Paris mi sembrò come un lugubre avvertimento. Feroci erano le immagini del
conflitto precedente, nella mia testa; la famiglia di mio padre decimata dalla
follia dell’uomo, fame e povertà.. non credo sarei stata in grado di sopportare
una portata di dolore così grande. “Vado a farmi un bagno. Chissà che non sia
l’ultimo.” Uscii dalla stanza con malcelata indignazione, salendo le scale una
ad una, d’un tratto maledettamente ripide e faticose; mi fermai, appoggiandomi
al parapetto lasciando che le lacrime scendessero copiose e in silenzio. Desiderai
che fossimo ancora in Africa o in qualunque altro posto tenesse lontano l’ascia
del boia, desiderai persino Auvers e in un angolo, piccolo e all’apparenza
insignificante.. desiderai Fabien.
Trovai la governante
china sulla vasca intenta a misurare la temperatura dell’acqua; si girò a
guardarmi con aria triste. “Non stare in pena. Immagino nei salotti non si
parli d’altro.” Berciai, ancora sconvolta dall’omissione di mio marito. “Lo
avrei saputo.” Quella sospirò, impilando una serie di asciugamani su uno
sgabello e si congedò.
Aurelien bussò dopo
pochi minuti, aprendo cautamente la porta. “Non volevo lo sapessi così perché
non ho ancora i mezzi per comprendere ciò che sta succedendo.. e questo mi
spaventa. Ma non posso e non voglio farti carico di queste paure. Devo
proteggervi, sempre e comunque.”
“Dirmi la verità è un
bel modo per cominciare a farlo.” Con la mano gli feci segno d’avvicinarsi.
“Siamo una famiglia Aurelien. Le tue gioie, le tue preoccupazioni e persino le
tue paure.. sono le mie.” Sorrisi, “parlarne le esorcizza. Sei umano anche tu
monsieur Chedjou.”
“Sento la mia
mascolinità duramente colpita madame.” Finse risentimento, tradito da un
bellissimo sorriso all’angolo della bocca; si toccò i capelli con aria assente,
per poi tornare ai miei occhi. “Ti ringrazio Deesire, so che posso contare su
di te. A volte dimentico che sei una roccia.” Il suo umorismo si era ripreso
alla grande, mi issai per schizzarlo, ma arretrò in tempo. “Credo proprio andrò
a sbrogliare la mole di corrispondenza sul mio tavolo. E’ un arduo compito.. ma
qualcuno lo deve pur fare. Ah e dobbiamo assolutamente organizzare un evento;
tutti desiderano vederti.”
“Mhh.. preferisco il
tuo umorismo Chedjou.” E affondai la testa sott’acqua, mettendo il silenzio fra
me e la sua risatina vittoriosa.
Avevamo appena
sistemato le nostre cose, che ci era toccato far appello alle doti
organizzative di Clorine, per il tanto agognato –da tutti, tranne la
sottoscritta, tanto che cominciavo a credere che Aurelien e mia madre fossero
in combutta- party mostra/pancia perché tutti i sussurri sulla mia presunta
gravidanza diventassero certezze; ed era seriamente fuori discussione metterlo
in dubbio, a marzo inoltrato la mia pancia era una prosperosa rotondità
difficile da ignorare.
“Oh accidenti a me!” Ovviamente
mi ero svegliata con il piede sbagliato, ed ovviamente tutte le catastrofi
cosmiche avevano deciso di far squadra e venirmi a tartassare. “Non ho la
minima idea di dove sia finito il mio taccuino portafortuna!” Non mi ero svegliata
con il chiodo fisso, la cassettiera dei ricordi si era spalancata nell’attimo
in cui avevo aperto la porta al tizio delle consegne, con sporte di tartine
sufficienti a sfamare un esercito, ricordandomi di annotarne la ricetta quando..
cassettiera aperta, buio totale, smarrimento taccuino! “Questo bambino mi sta
mangiando la memoria.” Sbuffai sinceramente avvilita; come era potuto
succedere?! Aurelien mi guardava di sottecchi mentre annodava la cravatta,
enfatizzando i movimenti con un assoluta precisione; scossi il capo.. non sarei
mai stata come lui e ringraziai il cielo che ci fosse almeno un pragmatico in
famiglia.
“Prova a vedere nel
tuo cassetto..”
“Ci ho già visto.”
“Sicura?!”
Il suo sorriso mi
spinse a controllare nuovamente; frugai fra le mie cose, fra sete e raso uscì
fuori un pacchetto; lo alzai, domandando con gli occhi cosa centrava con tutto
ciò. Alzò le spalle stralunato, tornando alla cravatta e successivamente alla
giacca del completo scuro.
“Oh.. il mio
taccuino.” Sostanzialmente quello che avevo difronte non era il mio taccuino
originale; era stato rilegato con della pelle finissima e morbida al tatto, le
pagine di una carta spessa tenute insieme da filo e colla, con le mie ricette
riportate attraverso un carattere di stampa molto pulito e assolutamente privo
di sbavature e macchie a differenza dell’originale. I racconti non erano stati
eliminati, bensì alternati alle mie ricette, con dei collegamenti finemente
pensati, quasi un punto di vista ironico e personale sul mondo della donna a
cui appartenevano. “Cucine du Deesire.” Gli intarsi sul pellame erano stati
colati in oro, sorrisi al gioco di parole, sfogliando la prima pagina; una
dedica. “A mia moglie.” Sgranai gli occhi. “Un libro?!” Aurelien aveva smesso
di vestirsi e mi stava guardando attraverso il riflesso dello specchio; era
bello, il libro, ed era bello lui. “Cosa..”
“Te l’ho detto che
sarei andato a caccia di diamanti.” Mi raggiunse con passo vellutato, quasi un
evanescenza; mi aiutò ad allacciare la fila di bottoni in madreperla che avevo
lasciato a mezzaria, sistemandomi i capelli sulle spalle. “Ed ho trovato un
tesoro.” Mi posò un bacio sulla spalla, “ho solo creato un involucro per renderlo
ancora più bello.” Me ne stavo inebetita con il libro/taccuino fra le mani
incapace di chiedere altro. “Volevo farti una sorpresa alla festa, ma la tua
preoccupazione mi ha messo in allarme. Capisco perché eri preoccupata. Sei una
scrittrice nata amore mio.” Mi voltai, posando le mani sul suo petto, sull’orlo
della commozione, ma cercai di non guastare l’ora di tentativo trucco con le
mie lagne. “Quando.. come?!”
“Il come.. beh, vedo
un mucchio di gente tutti i giorni.” Annuii, proseguì coprendo le mie mani con
le sue. “In Africa mi annoiavo spesso. Poi ho buttato gli occhi sul tuo
taccuino e.. Deesire io amo le tue ricette. Amo la tua spontaneità. Amo ciò che
sei. Era perfetto. Mi sono ricordato di avere qualche conoscenza e.. spero ti
piaccia. Andrà in stampa se tu lo vorrai. Altrimenti.. e permettimi di dirti
che sarebbe un vero peccato, sarà solo un bel regalo.”
Razionalizzai le
parole stampa e regalo, stringendomi forte al bavero della sua giacca. “Questo
è molto più di un regalo Aurelien.”
“Mettila così, saprai
come spendere il tuo tempo da qui a.. diciamo quanto, due mesi?!” Ipotizzando
un veloce calcolo, era quello il termine della mia gravidanza. L’idea di
riempire i vuoti della sua assenza in un certo senso mi allettava.. era la
notorietà a provocarmi prurito. “La supereremo insieme. Ricorda, le tue paure
sono anche le mie.” E sorrise sornione, rubandomi un bacio veloce sulle labbra.
Non credevo di essere
un animale da feste, del tipo pantera sinuosa che si aggira fra gli alberi
districandosi dai mille impedimenti, sono sempre stata una persona determinata
ad affrontare l’ostacolo uno alla volta, esaminando il pericolo da lontano,
attuando il piano per abbatterlo ed attaccare solo quando sicura; la mia
razionalità era fin troppo razionale anche per me, eppure quando scesi le scale
e il vociare di sottofondo si attutì, mi sentii improvvisamente piena delle mie
forze, conscia della mia sicurezza al punto da lasciarmi cullare soavemente da
un abbraccio all’altro, da una smorfia all’altra e da uno stupore all’altro,
come se quell’insieme di volti non esistesse, ed esistessimo solo io e Aurelien.
E il bambino agitato nella mia pancia.
“C-complimenti
Deesire.” Lolla mi porse gentilmente la mano e gliela strinsi a mia volta; il
momento del gruppo delle pettegole era arrivato. Si erano strette intorno a
spirale, chiedendomi questo e quello del viaggio, qualcuna -con mio rammarico-
accennò anche ad Auvers, altre ritenevano il fatto che avessi scoperto di
aspettare un bambino in Africa un segno e molto romantico; mi sciolsi subito,
senza fatica, esibendo i miei racconti intriganti sul paese, le favole che lo
popolavano, parlai anche della piccola Na’weh e dei Bantu, le pettegole sempre
più strette l’una all’altra, i respiri smorzati. Le guardavo sorridermi con
ammirazione e applaudire, saltellare nelle loro scarpe costose e lo capii;
adesso ero una di loro, degna di salire sulla giostra del loro mondo impazzito.
Fu divertente e fu
divertente scambiarsi da lontano occhiatine complici con Aurelien. “Stai
bene?!” Mimò con le labbra, pronto a scattare. Annuii vigorosamente, prima
d’essere raggiunta da una mano che dolcemente si posò sulla mia schiena; le
pettegole si dileguarono come uno sciame d’api furiose, mi voltai. Era lì che
mi guardava con occhi grandi di quel verde-azzurro tanto familiare. “Madeleine..”
pensai subito a Fabien; fu un attimo, un calcio dal cuore, come quello che mi
stava tirando la creatura in grembo.
“Sei un incanto
Deesire.”
“T-ti ringrazio.” Mi
guardai attorno, angustiata. Lei sorrise, un sorriso debole, affranto. “Lui non
c’è. Ti fa i suoi migliori auguri.” L’avevo già sentita dire da qualche parte;
pare che fra i biglietti di auguri inviati dalla sua famiglia, il suo nome
venisse vagamente citato, ma Madeleine aveva capito tutto, forse sapeva ed
allora le mie sicurezze vacillarono e mi sentii inconsistente come aria. “S-sta
bene?!” Non brillai per arguzia lo ammetto, ma tutto ciò che mi premeva era
sapere che fosse così, che aveva guardato avanti, che non ero stata il
contrattempo che aveva falciato per sempre il suo destino, la sua vita.
“L’ultima volta che ha
scritto erano quattro mesi fa, ormai.” Sospirò, “noi mamme siamo sempre così
apprensive, tu forse mi capisci.” Mi sfiorai la pancia; si, comprendevo bene
quello che diceva, ed avevo voglia di piangere, di abbracciarla, di dirle che forse
il bambino che portavo in grembo era parte di lei, ma rimasi immobile, con i
suoi occhi addolciti dal mio gesto spontaneo e il rammarico per il troppo detto.
“Non voglio turbarti, perdonami Deesire.” Si perse nello champagne rimasto nel
flute; troppo tardi, pensai.
“Madeleine io..” Sentii
un onda di collera montarmi dallo stomaco; ero stupidamente arrabbiata con
Fabien, furente, l’istinto materno fermentato nelle viscere e pronto ad
esplodere. Guardavo la donna, i suoi occhi azzurri farsi piccoli e liquidi e
tutto ciò che riuscivo a provare era profonda pena. Era così indissolubilmente
distaccato, freddo, incostante. Strinsi forte i pugni, interdetta sulle parole
che facevano a cazzotti nella mia bocca per uscire. Aurelien -sicuramente non
in grado di carpire la situazione da lontano- ci raggiunse accigliato in viso, gli
occhi incollati ai miei; mi azzittii guardando imbarazzata Madeleine che
illuminò il sorriso prontamente, vedendo il nipote avvicinarci. “Ti ama
davvero.” Bisbigliò poi arrendevole, facendosi abbracciare calorosamente dal
ragazzo. “Il mio piccolo Aurelien, papà.” Si staccò, guardandoci nell’insieme.
“Auguri ragazzi.” E sparì silenziosa come era arrivata, volteggiando nell’aria
con innata leggiadria, una leggiadria che avevo imparato bene a conoscere nella
famiglia Chedjou.
“Ho sempre
l’impressione che ti facciano un
brutto effetto.” Aurelien allacciò la sua mano alla mia, rompendo il silenzio;
lo guardai stordita e completamente in tranche. “Proprio quello che intendo.”
Passò l’indice sotto al mio naso, attirando la mia attenzione. Quel ti non
mi piacque gran che.
“Sono
meravigliosamente attratta dall’inquietudine.” Lo guardai mettendo fra di noi
una lunga, lunghissima pausa effetto che recepì magnificamente, allargando
stupito e angosciato gli occhi verde bottiglia. “Ma amo di più il sole.” E
serrai le mie labbra alle sue. “Mi cercavi monsieur?!”
Ci volle un po’ prima
di una sua risposta, per un attimo fui atterrita dal mio stesso languido
sproposito, mancando un battito.. velocemente riacquistato quando Aurelien
sorrise lusingato. “C’è una persona che vuole salutarti.” Ero stravolta dalle
emozioni, cosa altro poteva succedere?
Mi condusse attraverso
il salone principale, passando oltre il corridoio che portava alle altre sale
più defilate della casa. “Amore sono sinceramente colpita da questo tuo gesto
ma se non te ne sei accorto abbiamo venti ospiti di là, mia madre è esausta e
il cointreau è finit..” Mi zittì con un bacio, girandosi verso la figura in
penombra sul fondo del suo studio; una figura bellissima, eterea. “Juliette?!”
Sbattei velocemente le palpebre, la ragazza si avvicinò prendendomi le mani.
“Dovevo constare con i miei occhi.” Sorrise con le labbra e con gli occhi,
“accidenti Deesire, sei uno schianto.” L’abbracciai per quel che il mio
involucro voluminoso mi permettesse, ridendo nel suo orecchio; Aurelien
tossicchiò imbarazzato, congedandosi. “Sono nei paraggi.”
“Dì un po’, ti aiuta
anche a respirare?!”
Mi staccai da lei, ma
le nostre mani erano intrecciate; sempre bellissima, il volto perfetto, il
colore del vestito azzeccato ai suoi occhi e il sottile filo di perle a
incorniciare il collo rosa. “Mia cara, ben presto capirai anche tu cosa
significa..” La notizia era giunta fino in Africa; Juliette sarebbe convolata
presto a giuste nozze.
Annuì, alzando la mano
sinistra ben vicino ai miei occhi; un diamante grosso quanto una nocciolina
brillava presuntuoso sul suo anulare affusolato. “Ti rendi conto cosa
significa? Non si parla d’altro, non posso neanche nasconderlo è così
maledettamente luccicante!” Rise chiassosa ed io con lei.
“Un Sully, Juliette.
Ne avrai di che luccicare..” Jamie Lawrence De Sully era l’erede di una
dinastia nobile molto antica e ovviamente ricca in tutta Francia; suo nonno
figurava come proprietario di mezza Parigi, banche, teatri, più tutta una serie
di immobili prestigiosi e tenute fuori città. La sua discendenza pare fosse da
ricercare in tale Massimiliano di Bethune duca di Sully, ministro delle finanze
al tempo di Re Enrico IV di Francia. Insomma proprio quello che si direbbe un
buon matrimonio, all’altezza di una Dupont, l’ereditiera dei gioielli di
Parigi. “E lui come è?”
“Talentuoso.” Strizzò
l’occhio, scossi il capo vivacemente. “Mi porterà nel continente, molto presto.
Sono tempi bui per la nostra civiltà e Parigi non è più quella di una volta.”
C’era rammarico nei suoi occhi, come in tutti noi; per un attimo mi parve meno
frivola, meno distaccata, una giovane donna invecchiata di colpo. “Non so
quando ci rivedremo amica mia, ma non mi sarei persa questo evento per nulla al
mondo.” Mi accarezzò la pancia, il bambino protestò; la ritrasse eccitata, gli
occhi umidi. “Un altro piccolo Chedjou a spasso per il mondo..” Ci scambiammo
subito un occhiata fugace, lei abbassò il capo per prima mordendosi il labbro.
“Sono stata ad Auvers, in autunno.” Ammise, “è davvero bella come dicono.”
“Lo hai visto?!”
Sparai serafica, lei annuì pensosa, guardandomi senza vedermi.
“Abbiamo saputo del
bambino da maitre Gerald. In realtà il maitre avrebbe voluto dirlo a me, era a
conoscenza della nostra amicizia, ma Fabien ha sentito tutto. Dal tatto che
l’uomo ha riservato nei suoi confronti per questa notizia, mi è parso subito
chiaro tutto.” Tornò lucida, prendendomi le mani nuovamente, “Il giorno dopo di
Fabien restava solo un biglietto come mille scuse. Non so cosa sia successo fra
di voi e non sono di fatto una moralista, sono solo rimasta.. scioccata. Non
credevo ti amasse così tanto.”
Un singulto muto e
senza lacrime si impadronì della mia gola; ero stremata, a pezzi, troppe
emozioni tutte insieme, troppe le cose non dette, i silenzi come urla e urla
invece mute. “C’è una probabilità considerevole che questo bambino sia il suo.”
Mormorai, appoggiandomi con le mani allo scrivano in noce; lei mi accarezzò la
spalla, aiutandomi a sedere. “Non dovrei dirtelo ma.. è sulla linea di Maginot,
Deesire. Arruolato volontario nell’ armee
francaise .” La linea di Maginot era un agglomerato di reparti, caserme,
artiglierie del nostro esercito, posizionato sul confine nord ed esteso lungo
tutto il perimetro; il generale Maginot l’aveva fortemente voluta per poter
difendere il territorio francese da incursioni nemiche.
Mi sentii morire. Ma
il dolore non era solo al cuore. Sentivo come delle fitte impazzite al basso
ventre, il piccolo agitarsi nella mia pancia quasi scalpitasse di uscire fuori.
“E’. Così. Fragile. Così.. fragile.”
“Deesire, respira.”
Juliette mi si parò dietro, muovendo mani esperte alla base della mia schiena;
risi isterica, guardandola oltre la spalla. “Sei pragmatica e forte Juliette.
Ahh..” protestai sentendo affondare la sua manina piccola su quello che aveva
l’aria di essere un nervo, ma sentii la muscolatura rilassata all’istante;
beato paradiso. Quando il respirò torno regolare la ragazza mi tornò davanti,
si alzò il vestito sontuoso accucciandosi alle mie ginocchia.
“Meglio?!”
“Sì.”
Ci guardammo
consapevoli. “Non siamo responsabili del destino degli altri Deesire. E Fabien
Moreau non è fragile. E’ tante cose, ma non è fragile. Credo tu possa capirlo
meglio di chiunque altro. Sei felice?!”
“A momenti. Li amo
entrambi Juliette, non credevo fosse possibile fino a quando non mi è
capitato.”
“Io ti credo. Se
fossimo di facile comprensione non esisterebbe la scienza. L’uomo non si
porrebbe domande e ci costringeremo a vivere una vita piatta, blanda, senza
trasporto. Siamo fatti di emozioni incalcolabili e imprevedibili. Credi nel
destino, Deesire?!”
Annuii; non ero forse
la miglior rappresentazione di foglio bianco sul quale si era sfogato?!
“Le cose accadono
perché siamo noi che vogliamo succedano. Dio mi liberi da questa società retrograda
e puritana, siamo donne e possiamo
decidere della nostra vita! Perciò ti dico: il destino è una bufala amica mia,
ascolta il tuo cuore e segui ciò che dice, senti la tua pancia, le vibrazioni
del tuo corpo, ascolta la mente ma filtra i divieti.. e non sbaglierai. Decidi.
Tu.”
Si alzò in piedi
sistemandosi il vestito e i capelli; ohh.. Juliette avrebbe conquistato il
mondo. “Mi mancherai.” Rivelai, sicura. Oh sì, mi sarebbe mancata averla
intorno, parlare della vita assieme a lei, discutere sulle cose frivole e
girare per Parigi come facevamo da ragazze.. appena cresciute, ma già donne.
“Anche tu.” Mi
abbracciò. “Sii felice. Sempre.”
Suonai il campanello e
un precipitoso Aurelien accompagnato da una spedita Ygritte, si palesarono in
stanza; la governante scortò Juliette per l’uscita posteriore assicurandoci
così che non venisse importunata troppo dalla morbosa curiosità che il suo
matrimonio provocava e l’uomo mi raggiunse offrendomi sostegno.
“Sono molto stanca
Aurelien.”
“Vai pure a sdraiarti,
penso io agli ospiti.”
“Voglio che mi
pubblichi. Aurelien.” La casa era tornata silenziosa e buia; mi tormentavo fra
le coperte pensando alle parole di Juliette, ed incessantemente a Fabien.
Dovevo smuovere la mia vita. Dovevo mandargli un segno. Non poteva finire tutto
così. “Ma il titolo sarà zenzero e cannella e i diritti delle vendite devoluti
per i soldati al fronte. Tutti i diritti. Mi occuperò io stessa delle pratiche,
se sei d’accordo.”
Mi guardò soddisfatto.
Era d’accordo.
Fu così che partì la
prima stampa del libro e con essa accoliti di personaggi che non avevano mai
bussato alla mia porta prima d’ora; la beneficenza era come il miele per le
api, con la storia dei proventi ai soldati avevo smosso non poche coscienze e
fra benefattori, editori, charity umanitarie gestite dalle pettegole, preti e
santoni.. avevo la casa piena a qualsiasi ora del giorno. Aurelien aveva
ripreso le sue attività a pieno ritmo, seguendo da lontano la cosa, come gli
avevo espressamente chiesto; mi barcamenavo alla perfezione nella direzione dei
lavori, provando gran soddisfazione quando buoni risultati tornavano indietro.
Sollecitavo la mia mente per non pensare al desiderio forte di scappare al
fronte anche io, assicurarmi che Fabien stesse bene, che si nutrisse, alleviare
le sue preoccupazioni, fornirgli la forza per affrontare il nemico.
Lavoravo per noi, in
un certo senso. Anche se da una casa al caldo e al sicuro.
“Maitre!” Quel giorno
d’aprile non lo avrei dimenticato presto; il maitre bussò alla mia porta, dopo
mesi che promettevamo di vederci e il suo desiderio criptico di volermi dare
buone notizie. “Vi siete fatto desiderare!” Lo abbracciai forte, lui ricambiò
impacciato, ma con calore.
“Sono stato molto
occupato, chiedo venia madame.”
“Già.. il vecchio
continente. Buon per lei, Gerald. E cosa ha fatto bello? E’ vero che in Italia
si mangia bene?”
“Deliziosamente, ma è
di Londra che voglio parlarvi.” Posò con ponderata calma il bicchiere di Kir
sul tavolo, guardandomi intensamente. “Memore di alcune ricette della
tradizione britannica, ho gentilmente proposto la ricetta dei suoi biscotti ad alcuni amici del settore
dolciario. L’hanno adorata madame! Mi chiedono un incontro. Sono disposti a
mandare dei collaboratori a Parigi anche questa settimana.”
Accidenti, pensai. Che
ne era stato della dolce Deesire scrittrice adolescente? Quando avevo smesso di
essere quello che ero per diventare una prestante donna d’affari?
“C-cosa dovrei
rispondere?!”
“Batta il ferrò finchè
è caldo, madame.” Sorrise, “l’estratto di lavanda è originale e gli inglesi
adottano già lo zenzero e la cannella in alcune ricette. Pensi.. nei dolci di
Natale. Magari l’anno prossimo serviranno anche i suoi biscotti sulle loro
tavole.”
Mi si profilarono
davanti immagini di famiglie felici a far festa con la leccornia uscita dalle
mani di Fabien, dal nostro fare l’amore in modo disperato e dall’essenza della
mia vita con Aurelien. Fantastico. Ma forse era tutto troppo afrodisiaco per i
bambini…
“La sua testa
ciondola. E’ forse un sì?!”
“Sì?!” Mi schiarii la
voce. “Sì, facciamolo.” Vidi Aurelien sfrecciare sul corridoio divertito; fu
allora che capii, non c’era nessuna combutta con mia madre, l’unica combutta
l’avevano combinata loro due, creando dalle mie passioni le idee la chiave per
il mio futuro.
Giorni dopo, mentre
camminavo distrattamente sul boulevard Hassmann, aprii proprio una di quelle
porte sul futuro; la più importante, la più bella, la più preziosa.
*
NDA:
Grandi cambiamenti
nella vita di Deesire; quella che sembrava solo una ricetta di biscotti è
diventata il fulcro dei principali avvenimenti nella sua vita. E ovviamente con
lei, il trenino carico di sentimenti nei riguardi di Fabien, che intanto è al
fronte anche egli calato in un nuovo ruolo.
Cosa succederà in
questa Parigi così lontana dai conflitti eppure così invischiata?
Quale è questa porta
ancora chiusa che nasconde la novità più bella e importante della vita di
Deesire?
Restate connessi cari
lettori e fatemi conoscere i vostri pareri riguardo la storia.
Ultimo puffo grazie per la recensione nel capitolo precedente.
Il venti aprile del millenovecentoquaranta, con un urlo a pieni polmoni e con
qualche settimana d’anticipo, si affacciò al mondo Benjamin HaniChedjou.
Quando lo vidi smisi
di respirare quasi, baciandolo, confondendo il mio pianto al suo; era
bellissimo, gli occhi mesti per la fatica e il faccino a cuore imbronciato, la
pelle ambrata sotto le crosticine bianche di muco e un infinità di capelli
castani chiaro. Molto chiaro.. quasi cenere.
Mi aspettavo
commozione e partecipazione, ma non credevo a tal punto; papà aveva preso
dimora sul divano da giorni, Ines e Clorine -pronte
da mesi- avevano allestito una piccola nursery nella stanza degli ospiti
accanto alla nostra degna di un principino, Martin andava e veniva perché qualcuno
doveva pur pensare agli affari di bis-nonno Chedjou
ed Aurelien era in visibilio, totalmente stregato dal nuovo arrivato.
“Stiamo bene vi dico.
Tornate a riposare. O fatelo finalmente.” Guardai il gruppetto di familiari Bonnet-Chedjou stipati intorno al letto durante l’ora della
pappa, “domani ci troverete sempre qui. Vero marmocchio?!” Benjamin approvò con
un gorgoglio profondo dalla gola; tutti risero, più rilassati e sereni.
“E’ un vero despota.” Aurelien
mi baciò i capelli, sparendo dietro la piccola processione.
“Mamma tu resta.” Ines
si allarmò, credo vagamente infastidita dall’esclusione, la guardai sfoderando
uno sguardo d’ammonimento da neo-mamma, “hai bisogno di riposare anche tu Ines.
Non farti pregare..” alzò le spalle, si accigliò e andò via.
“I suoi capelli.”
“Buon Dio Deesire, ha solo pochi giorni.. anche tu eri bionda. O forse
era Cedric?!”
“I suoi occhi.”
“Gli occhi dei neonati
sono mutevoli.”
Mi poggiai una mano
sulla fronte. “Occhi verde-azzurro.. mutevoli?!”
“Ok è un Moreau. Vuoi
sentirti dire questo?! Tecnicamente è anche uno Chedjou,
però. Guarda i suoi lineamenti, la sua pelle ambrata.. oddio il broncio è del
pittore senza dubbio.” Annegai nella sua indecisione senza però escluderla da
uno sguardo assassino. “Oh.. guarda cosa mi fai farneticare! E’ troppo presto
per dirlo, questa è la mia sentenza.”
Tempo. Era tutta una
questione di tempo, eppure nella vita –e questo lo imparai sulla mia pelle-
c’erano sentenze che non lo avevano a capo come giudice supremo, bastava
restare in ascolto del sesto senso o delle emozioni fate voi, per arrivare al
punto. Fatto sta che dal primo momento in cui avevo accolto Benjamin fra le
braccia, avevo respirato il suo odore forte di vita, lo avevo sentito urlare aggrappandomi
forte alle lenzuola di lino crema, i presentimenti che avvertivo nella pancia
come quando avevo scoperto d’aspettarlo si riproposero in pompa magna.
E non solo quelli.
A due settimane dal
parto ero già in piedi; il piccolino non voleva saperne di essere trattato come
l’esserino gracile che era e poppava forsennatamente tutto il latte di cui
necessitava. Un leone, nel corpo di gazzella, già.. avevo sentito parlare di
questo una volta. Mi districavo fra un impegno e l’altro, il libro, Gerald che
temporeggiava sui britanni al momento ingrovigliati nel conflitto contro il
terzo reich e l’operazione caritatevole che avevo mosso per i soldati al
fronte, con il massimo delle forze; ero giovane e in salute, inquieta e
incredibilmente appassionata. E a proposito di passioni.. sistemavo con molta
premura la corrispondenza nel disordine organizzato di Aurelien, quando una
busta scivolò dalla mia presa e finì in terra; Benjamin dalla carrozzina raso e
merletti rispose con un mugolio simile ad un “Oh” quasi canzonatorio, attirato
dalla mia imprecazione.
Mi chinai a
raccoglierla, era una busta bianca anonima ed era indirizzata a me.
“La mamma è
distratta.” Sfilai il taglia carte lungo tutto il bordo estraendo il biglietto;
avrei riconosciuto la sua scrittura anche ad occhi chiusi. Piccola e
tondeggiante. Sussultai.
“Mia dolce Deesire, le
oscenità di questo mondo sono oscurate dalla bellezza delle tue parole.
Le mie notti allo Zenzero
e Cannella ringraziano, anche se il loro sapore adesso è diverso.
Ho saputo della lieta notizia. I sogni si avverano,
dunque.
Sono tre volte che cerco di scrivere qualcosa di
sensato ma..
Ti prego, non cercarmi più per il mondo; è già così
difficile sopportarti dentro il mio cuore.
F.M”
Aveva avuto una copia
del mio libro, dalla felicità all’appagamento passai in breve alla frustrazione
dei suoi celati sogni infranti, al volerlo sottolineare, al suo modo dolceamaro
di respingermi; non cercarmi più.Stava
scherzando? Diceva il vero? Vacillai, nell’incertezza, lo sguardo fisso
sull’ultima riga a straziarmi il cuore; è
già così difficile sopportarti dentro il mio cuore. Mi amava ancora, il tempo passato lontani non
aveva cancellato nulla. Come in me del resto.. che dall’orribile sensazione di
disgusto, al pensiero che Aurelien sarebbe potuto entrare in contatto con quel
breve e coinciso messaggio, passai alla più infame sensazione di sollievo se lo
avesse fatto, perché sarebbe stato come frantumare il macigno che avevo posato
sul cuore e farlo diventare così polvere di fata.
D’un tratto non mi
sentii più confusa, indecisa; sapevo bene cosa volevo e guardando Ben decisi
che era ora di muovere un passo in più, che forse non ci sarebbero state seconde
occasioni e che in qualche modo la pena valeva il rischio; mi armai di
coraggio, del mio abito migliore, cappellino, guanti ed aria compita e mi
diressi nel covo d’oro della città potente e influente: il quartier generale
della famiglia Fournier.
Jerome fermò la
macchina all’entrata di ParcMonceau
con l’aria del tipico Parigino ancora scosso dalla sua nomea; luogo di
disordine e perdizione erano le effigi di quello che a mio avviso era solo un
boschetto dall’aria molto romantica e accozzaglia di stili architettonici rubati
qua e là, perfetto nascondiglio di quella società di ricchi esaltati con manie
grandi come il loro ego, restrittiva al contatto con altri esseri non alla
portata dei loro standard.
“Madame faccia
attenzione.”
“Ci vuole molto più
che due sussurri e qualche albero a spaventarmi Jerome.” L’uomo guardò
angosciato al piccolino che nella carrozzina dormiva pacioso; gli posai la mano
sul braccio rassicurandolo. “Sarà proprio come un sogno.”
“Per che ora desidera
che la passi a prendere?!”
“Passeggerò fino a
Montmartre. Prima del tramonto, direi.”
Mi guardò perplesso,
ma il suo ruolo e i miei ammonimenti verbali prima di metterci in viaggio, lo
indussero ad un silenzio, tormentato, ma pur sempre silenzio. Mi addentrai nel
parco e venni avvolta subito dalla frescura delle piante, veri polmoni a cielo aperto.
Non capivo come si potesse temere un parco solo perché nella sua memoria figuravano
accadimenti poco ordinari e spiacevoli; dato alle fiamme e ricostruito non so
quante volte, ritrovo di artisti da strapazzo in tutto le epoche, una natura
libera e selvaggia che cresceva senza ordine preciso mescolandosi ai resti di
antiche colonne romane, arcate, statue e un lago come fosse la riproduzione
dell’eden. Era il caos delle forme a spaventare l’uomo? La non convenzionalità?
Probabilmente, ma Benjamin continuò il suo pisolino senza disturbi ed io mi sentii
rilassata dopo tanto tempo.
Bussai ad un
portone a ridosso del prato, dopo un ansa del fiumiciattolo artificiale che lo
attraversava. Non ero attesa, la cameriera in tenuta scura e il grembiule
inamidato mi sorrise scortandomi frettolosamente in un salone piccolo e
dall’aspetto intimo; mi sentii fuori luogo e agitata, salvo riprendermi quando
il piccolo uomo che era Fournier -l’uomo che mi aveva
tormentata di trovare un posto alla scuola di maitre
Gerald per la sua giovane amante- apparì trafelato e in odore di chi sa di guai
in vista.
“Madame Chedjou, che piacere rivederla.” S’inchinò in un perfetto
baciamano, con quel tanto di enfasi tipico da uomo di potere; sorrisi gelida,
ritirando la mano.
“Lei mi deve un
favore Fournier.” Girai il capo sulla parete di
tessuto broccato, allacciando lo sguardo alla pacchianacornice dorata che custodiva l’attestato
della scuola, strategicamente al centro del muro; AnabelleFournier, più in basso, sorrideva in un istantanea
abbracciata a maitre Gerald.
“Oh Anabelle è stata così felice.”
“Immagino la sua
felicità se scoprisse che non era l’unica.”
Mi guardò come
se avessi proferito blasfemia, alzando gli occhi al cielo. Avrei scommesso di
vederlo farsi il segno della croce, ma restò immobile con le mani intrecciate
al petto. “Madame Chedjou nessuno le ha mai fatto
notare quanto sia petulante?!”
Addio buone
maniere, sorrisi compiaciuta; si iniziava a fare sul serio. “Un milione di
volte. Ma converrà con me che per gli affari serve un piglio deciso. E modestamente..
io ce l’ho.”
Si arrese. “Cosa
è che vuole?!”
“Il sergente Fabien Moreau.”
Strabuzzò gli
occhi affondando nella poltrona. “Ma..”
“E’ impegnato
alla linea Maginot, certo. E’ qui che entra in ballo lei; deve trovarlo,
tirarlo fuori di là e combinare un appuntamento per me.”
“Ha idea di
quello che mi sta chiedendo? E’ una missione segreta, lei non dovrebbe nemmeno
disporre di queste informazioni madame Chedjou!”
“Per cosa crede
che mi sia scomodata fin nei giardini dell’eden?!” Sorrisi sarcastica, “e non è
un rifiuto ciò che aspetto di sentire, monsieur Fournier.”
Mi alzai per il carrello dei liquori, versai del costoso cointreau
in due bicchieri e porgendoglielo appoggiai la mano alla sua spalla, addolcii
la voce e proseguii. “Non credevo di trovare il più tenero degli angeli ad
aspettarmi.. ma un uomo coscienzioso, che tiene alla sua famiglia e ai suoi
interessi sì. Nessuno dei due vuole uno scandalo, questo no, sono la prima a rammaricarmi
della mia posizione.” Mi inumidii le labbra innocentemente, “Non si dica che il
grande Fournier non sia un uomo di parola e di
cervello.. e nemmeno la sottoscritta; mi risulta che Valerie oggi abbia un buon
impiego e che maitre Gerald sotto mio ordine abbia a
cura certi suoi.. privilegi, che imbarazzo se la poveretta dovesse perdere
tutto in un colpo solo.” Giocai con li ghiaccio sul fondo del bicchiere prima
di tornare seduta, occhi fissi nei suoi. “Dunque sì, so cosa le sto chiedendo ma
so che è un piccolo prezzo per affermare la vostra.. lealtà.” Mi girava la
testa; ero passata dalle minacce velate a quelle più dichiarate, farcendo la
torta con indubbi sensi di colpa che mi aiutarono a strappargli un borbottio di
approvazione.
“E dove intende
farlo arrivare?!”
“Lo decida lei.
Le lascio carta bianca.”
“Dispongo di una
proprietà.. nel sobborgo di Vésinet. Appena fuori
Parigi ma.. non Parigi.”
“Perfetta.
Quanto tempo passerà prima che.. il pacco arrivi a destinazione?!”
“Oh molto
dipende dalla situazione sulla linea e..”
“Fournier le chiacchiere viaggiano in maniera veloce.
Velocissima.” Ostentai un sorriso, “vede? Io so darle la risposta certa qualora
si domandasse quanto ci metterebbe la sua reputazione a crollare.”
“Magari posso
farlo.. spedire.. con la staffetta dal contingente.”
“Che sia Moreau
a fare la staffetta. Non voglio altri occhi in giro.”
“Questo fornirà
l’alibi, bene Madame Chedjou. C’è altro?!”
Spazientiva di buttarmi fuori a calci.
“Oh sì. Qualcosa
c’è.” Posai rumorosamente il bicchiere sul tavolo. “Moreau non deve
assolutamente sapere chi c’è dietro questo.. imprevisto.. chiamiamolo così. Ovviamente
mi aspetto lo stesso riserbo che ho avuto io per la sua.. pratica.” Mi guardò
annuendo, “se qualcosa dovesse andare storto..”
“Massimo riserbo
garantito.” Fui felice del modo in cui mi azzittì, impaziente e sgarbato,
denominava quanto avesse preso sul serio la missione.
“Bene, allora
non c’è altro.” Mi alzai nell’attimo in cui agitò la campanella per la servitù
in modo spazientito. “E’ un vero piacere fare affari con lei monsieur Fournier.” Gli porsi la mano, con indolenza la strinse.
“Non posso
affermare lo stesso.”
Lo incenerii con
gli occhi. “Pessimo umorismo francese madame Chedjou.”
Si alzò vivace, riacquistando colore, “mi faccio vivo io con una missiva.”
“I giardini sono
un incanto, ma dorma sogni tranquilli. Non ho nessuna intenzione di ripetere il
viaggio, grazie.” Lasciai che la cameriera mi adagiasse il soprabito sulle
spalle, “disordine e perdizione; ha scelto per lei il luogo ideale in cui
vivere.” Mi guardò di sbieco, sfoderai il miglior sorriso di trionfo. “Pessimo
umorismo francese monsieur.”
Ed uscii
spingendo la carrozzina fuori dalla stanza, lasciandolo con un imprecazione a
mezzaria.
La parte che
sembrava più difficile era volata via senza che me ne accorgessi, capii che era
arrivato il difficile quando dinnanzi alla grande vetrina, sulla Rue Lepic in Montmartre, dove si affacciavano grandi quadri e
statue, rimasi a fissare l’entrata della bottega ad una distanza ravvicinata
senza entrare. Lei si accorse di me quando dal bancone alzò lo sguardo sulla
strada; mi sorrise di un sorriso che non avrei mai più dimenticato,
consapevole, sicuro, come se aspettasse di vedermi arrivare da un momento
all’altro; lasciò la tela su cui era ricurva a giacere sul tavolo, venendomi
incontro.
Non si accorse
subito del bambino, quando lo vide s’arrestò d’impeto. “Bon
Dieu!” S’avvicinò cautamente, cercando conferma nei miei
occhi; Benjamin muoveva gli occhietti curiosi su quella figura floreale che era
la donna, fasciata in maglia lunga e pantalone stampati con grandi camelie.
“Che bellezza di
bambino!” Agitò in aria il bracciale a campanelle che aveva al polso, Ben
s’irrigidì, per poi agitare le gambette e le mani smaniose. “I suoi occhi..”
fermò il braccio e tornò con il suo implacabile sguardo verde-azzurro nel mio.
“Benjamin Hani. Il resto.. te lo lascio immaginare.”
Annuì,
accarezzandomi la schiena, “entriamo. Anche le fogne hanno orecchi.”
Tornò dal retro
con due tazze di caffè fumante e una baguette divisa a metà. “Sei sciupata Deesire, ed ora hai urgente bisogno di forze.” Guardò il
bambino pregandomi con lo sguardo. “E’ nato con qualche settimana di anticipo..
ma puoi prenderlo in braccio Madeleine, non è così gracile come sembra.” Scosse
il capo divertita, facendo scivolare le braccia sulla carrozzina; Ben protestò
a pieni polmoni, Madeleine si succhiò il mignolo passandolo nello zucchero e lo
portò alla sua bocca; il bambino si rilassò. “Fabien
si calmava solo così. E’ sempre stato un bambino diffidente.” Cullò il piccolo
come i suoi ricordi, “Crescendo non è cambiato poi molto, ma tu mi hai dato
speranza Deesire.”
“Io?!”
“Per un po’, ti
accorgi subito delle stelle quando è sempre notte.”
“Non volevo che
rinunciasse alla sua vita a causa mia.”
“E’ indulgente e
testardo. Vuole cambiare il mondo, ha sempre desiderato essere la stella
piuttosto che il cielo nero; questa missione è la sua missione, non una
rinuncia.”
La guardai con
trepidante speranza. “Hai avuto sue notizie?!”
“Mi ha scritto
una lettera da sei pagine! Sei pagine ti rendi conto?! Giorni dopo ho saputo
della pubblicazione del tuo libro, ora tu sei qui e stringo fra le mani questo
fagottino così dolce. Qualcosa è successo..”
“Già.” Madeleine
ripose Ben nella carrozzina, sparendo nel retro per riapparire con una cornice
argentea fra le mani, porgendomela; un biondo neonato in braccio alla sua
mamma. Avevo gli occhi lucidi. “Occhi verde-azzurro mutevoli..” sussurrai, puntando
gli occhi sull’istantanea in bianco e nero ma di deducibile intuizione di che
trasparenza fossero gli occhi del bambino che guardava alla sua mamma pieno di
amore, ripensando ai discorsi fatti con Clorine, alle
mie preghiere vane, al destino-non-esiste di Juliette e mi ritrovai il viso
rigato da una lacrima. “Qualcosa è successo. Sto per incontrarlo Madeleine, un
incontro segreto, fuori città. Sono passata perché tu lo sapessi, nel caso
voglia fargli sapere qualcosa.”
Mi guardò
allarmata, “un incontro?!”
“Un favore da un
vecchio amico.” Sorrisi sarcastica, prendendole la mano. “Non posso rischiare
che non ci sia più un'altra occasione per rivederlo, dirgli quanto lo amo e
mettergli fra le braccia suo figlio.”
Quando il sole
calò Madeleine richiuse con cura dei fogli dentro una busta carta da zucchero,
destinati a Fabien, sfilò la foto dalla cornice
argentea e me la strinse fra le mani. “Voglio che la tieni tu. Buona fortuna Deesire.”
“A presto
Madeleine.”
“Lo spero
tanto.” Guardò a Benjamin con gli occhi imperlati di lacrime, prima di sparire
sul fondo della bottega e lasciarmi nel cuore di Montmartre al tramonto.
Giugno arrivò
cadenzando lentamente i suoi giorni e insieme a lui la missiva di Fournier, tempestiva come l’odore della paura che aveva
addosso nel salone buono della sua villa, ai giardini stregati; la lessi più
volte, con mani tremanti, prima di partire come un razzo per l’organizzazione
pratica della cosa. Usai senza mezzi termini mia madre come ombrello
parafulmini, giustificando la mia assenza a quel marito da giorni confuso dal
mio atteggiamento spesso assente o angosciato –avrei mandato le parcelle del
mio medico a Fournier, per la mole di ansiolitici
prescritti- e dalle sempre più pressanti minacce di un invasione da parte dei
tedeschi, ormai conquistatori del vicino Belgio; Aurelien e il suo staff erano
in pena per le sorti del paese e di conseguenza della città, perché se a
crollare fosse stata Parigi, tutta la Francia sarebbe crollata intorno a lei. A
me non interessava. Non interessava finire sul lastrico, non interessava che
dall’altra parte della Senna mio padre stava combattendo per i medesimi scopi e
non mi importava della guerra, dei tedeschi o di nessun altro che non fosse Fabien Moreau.
All’alba di un
insulsa giornata come un’altra -non per me, ma il resto del mondo era occupato
alle proprie pene- una macchina di Fournier era sul
viale ad aspettarci; Ygritte ed io ci infilammo
dentro come sentinelle ben istruite, senza fiatare, assottigliandoci ai sedili
posteriori. L’auto sfilò dritta per gli ChampsElisées in direzione de la porte Maillot
confine ovest della città, al di là della quale -il nulla per i Parigini- la
statale A quattordici -per tutti gli altri-. Lontano dai palazzi borghesi e i
bistrot, mi sentii leggermente più rilassata; piegai il capo all’indietro
portando Ben al mio petto, fino a pochi minuti prima fasciato dalle braccia
della cameriera. Lo guardai con infinito amore; gli occhi chiusi e le mani
piccole strette a pugno, il viso rilassato e il profumo della pelle ambrata
alle rose, per nulla turbato, ignaro che da quel giorno, qualcosa nelle nostre
vite sarebbe irrimediabilmente cambiato.
Mi addormentai
serena. E non ricordai più quant’è che non riuscivo a sognare.
La grande
vetrata che dava sul giardino rifletteva un tiepido sole estivo; lo stile
architettonico di quella casa di periferia rifletteva a pieno il genio
visionario di Fournier, la sua spiccata predilezione
alla ricerca del nuovo e l’ostentazione ossessiva dei suoi franchi. Guardavo
ammaliata Ygritte che cullava dolcemente Ben fra le
braccia e il piccolo rispondeva aprendo e chiudendo le manine sul suo viso.
Lo vidi
spuntare come un apparizione, un angelo terrestre.. ma ferito; mi colpì subito
la chioma rasata, campo arso dove prima crescevano rigogliosi i suoi ricci, gli
occhi infossati e grandi, più grandi del solito, verde-azzurro terrore. Guardò
interdetto la donna che gli sorrise calando il capo, proseguì sul ciottolato
verso la casa e fu allora che mi vide, attraverso il vetro; restò immobile,
parole vuote sulle labbra gonfie e rosse. Alzai la mano in vago saluto, tentò
un sorriso ma il suo volto era rigido.
Camminò
fino a quando non sentii la porta aprirsi.. e le nostre figure perfettamente
allineate.
Senza
tante cerimonie lo avvicinai, chiudendomi al suo petto - l’unica parte del
corpo recettiva, perlomeno percorsa da un fremito- prima di essere circondata
dalle sue braccia; odorava di divisa, di tessuto grezzo e pesante, di sudore e
infondo a tutto, la sua pelle, evocatrice di ricordi infernali.
Sospirò
fra i miei capelli, cullandoci, in silenzio, rotto solo dai suoi singulti e dai
miei.
“Immagino tu
voglia dirmi qualcosa.” Lasciò che le braccia gli scivolassero ai fianchi,
scostandosi per guardarmi bene in viso; era cambiato dall’ultima volta che lo
avevo visto, non mancavano solo i capelli, ma anche la luce brillante infondo
ai suoi occhi, il giocoso Fabien adesso spettro di
questo che avevo davanti, più teso, invecchiato, rude nei lineamenti. Aveva
perso la fanciullezza e chissà che non fosse per gli orrori che aveva visto,
per le notti al fronte, solo e infreddolito. Tremai d’orrore e lui desolato -quasi
mi avesse letto nel pensiero- mi passò le mani lungo le braccia, sfregandomi la
pelle vibrante sotto al suo tocco.
“Non so da
dove cominciare.”
“Tu parla.
Parlami Deesire. Ho voglia di sentire la tua voce.”
Si infilò nuovamente fra i miei capelli, inspirando e stringendomi forte.
“Devo
presentarti una persona.” Tornò al mio viso aggrottando le sopracciglia,
vagamente spaventato. “Là.” Indicai con l’indice Ygritte
e il fagottino brontolone fra le mani.
“Ci sono
una donna e un bambino.” Poi spalancò la bocca a cuore, “il bambino è tuo
figlio!” Disse in una quasi nota di delusione, una sorta di stupore e
repulsione.
“Mio
figlio, sì. E il tuo, Fabien.”
“Mio
figlio.” Asserì ironico, passandosi la mano sulla testa.
“Tuo
figlio.” Insistei senza alcuna inflessione ironica nella voce. “Benjamin HaniChedjou. Biologicamente..
Moreau.”
“Deesire,” Posò le mani sulle mie spalle, premendo forte. “c’è
in corso una guerra, i tedeschi ci sono addosso e sono lontano anni luce dai
miei compagni; pensi che ho voglia di mettermi a scherzare?” Sorrise incerto,
prima di valutare la pericolosità del mio imperioso silenzio. “Sono qui.. e sono
felice di vederti, ma se mi hai fatto chiamare per umiliarmi ancora..” gettò
indietro la testa, alla mia non reazione alle sue parole. “Perché tu non stai
scherzando, questo vuoi dirmi?!”Adesso
era disperato, lo percepivo dalle venature incrinate della sua voce.
“Guardalo.”
Gli ordinai, “guarda i suoi capelli. Guarda la sua bocca. Guarda. I. Suoi. Occhi.
E se non ti basta pensa ad Auvers. Alle volte che mi
hai amata anche con il corpo, a
quando ci svegliavamo stretti e tu mi eri ancora dentro. Pensa a tutto questo.
Ai biscotti. Al tavolo della mia cucina, al tuo letto.. non posso provartelo,
ma non serve una scienza per capirlo.”
“Mio
figlio.” Due parole di pura angoscia. “P-posso vederlo?!”Lo scortai fuori, un cenno del capo avvertì Ygritte di passarmi il bambino e sparire in casa.
“Prendilo.” Fabien allargò le braccia e nel momento
in cui l’infante esalò un vagito, scoppiò a piangere anche lui. Non un pianto disperato,
ma un pianto d’amore; i cromosomi che si riconoscono e scatenano una guerra
interiore.
Se ne era
innamorato nell’istante in cui lo aveva sentito piangere. Proprio come avevo
fatto io.
Accarezzai
la sua mano posata sulla testolina di Ben e lui mi guardò; ricambiai lo sguardo
annuendo, colpevole della più assurda verità. “Tutto di lui grida Chedjou. Ma dalla parte sbagliata.”
“E’
perfetto.” Sfiorò il suo profilo con un dito, leggermente, “Ha le fossette..”
“Come tua
madre, lo so.”
Lo
infastidii, lo capii, perché irrigidì le braccia guardandomi spaesato; il
bambino aveva ripreso a piangere, lo presi fra le mie braccia e lo cullai.
“Sono suo padre, dici.. ma la realtà è che non lo sono. Aurelien è il suo papà.
Io..”
“Io. Io.
Io. Tu cosa?!” Ondeggiavo fra una ninna nanna e la voce furiosa, “credi che non
ci abbia pensato un milione di volte prima di venirti a cercare?! E quel
biglietto poi.. i sogni si avverano! Sì, si avverano Fabien,
l’ho capito stringendolo a me per la prima volta; ma era un sogno incompleto,
perché tu non c’eri. Sono disperata perché ti
amo, ma amo anche mio marito. Ed ora c’è Benjamin..” il piccolo sorrise
come sorridono i neonati e mi addolcii, “questo bambino meraviglioso che amo
con tutto il cuore, più della mia stessa vita.” Lo guardai infondo a quegli
occhi adesso così carichi di stupore, ansia, felicità. “Non ho mai smesso di
pensarti e di sperare un finale diverso. Ma le favole sono concluse, il mondo
va a pezzi ed io non voglio più sognare.”
Le parole
uscirono dalla sua bocca come un ansimo. “C’è. Solo. Un. Modo.”
“Sono
pronta a rischiare.. se lo vuoi.”
“Lo
voglio?! Ho pensato a te giorno e notte! Tu sai cosa sei per me e questo
bambino è la dimostrazione di quello che provo io per te.” Mi infilò una mano
fra i capelli, attirandomi verso il suo viso. “Ti prego dimmi ancora che mi
ami.”
“Ti amo.”
“Ancora.”
“Ti amo.”
Probabilmente
se Benjamin non fosse stato un’adorabile presenza nella mia vita, quel giorno,
in casa di Fournier io e Fabien
avremmo fatto l’amore, arrendendoci a mesi di privazioni, dolore, sofferenza;
ma tutto ciò non accadde, godemmo della nostra presenza solo respirandoci
addosso, sdraiati a terra con le spalle contro l’angolo di una parete spoglia a
giocare con i nostri occhi incatenati, consci e affamati.
“Devi
tornare in città. Sarà buio presto.” Si alzò porgendomi aiuto con una mano,
dall’altra parte Ben appollaiato sul suo braccio libero. “Prima però ascoltami
attentamente; da qui ai prossimi giorni non avrai mie notizie. Voglio che ti
trovi un posto Deesire, allarma Aurelien..” deglutì socchiudendo
gli occhi, “chiudetevi in casa, sbarrate porte e finestre. Il nemico è vicino
ed io non so veramente come andrà finire questa storia.”
“L’esercito
francese è forte.. così dicono.”
“Balle.
Non abbiamo armi di resistenza sufficienti per difenderci. Difendervi. Ma tu mi
devi promettere che ti terrai al sicuro da ogni pericolo. Ti. Prego. Prometti.”
Soffiò le ultime parole sulle mie labbra protestanti; mugolai spaventata e
l’arrivo dei tedeschi non era il motivo. Me importava meno diniente. Provavo l’angosciante sensazione di
non rivederlo mai più. “Shh.. stai tremando.” Mi
baciò agli angoli della bocca, poi si posò sulle labbra e vi restò qualche
secondo. “Non voglio spaventarti ma devo essere sincero Deesire,
non abbiamo idea di come vogliono muoversi i maledetti crucchi. Ti prometto che
farò il possibile per ritornare da voi. Non voglio perdervi proprio adesso che viho ritrovato. Mi aspetterai?” Baciò Benjamin
sulla fronte, prima di metterlo al sicuro fra le mie braccia.
“J’attendrai.”
“Saremo
insieme. Noi tre. Come una famiglia.”
Mi baciò
ancora e ancora, al ricordo della nostra canzone, nella casetta d’Auvers, di nuovo un momento tragico, ma adesso ero certa
che sarei stata sua e che lui sarebbe stato mio, anche se l’ombra nera della
guerra era su di noi, nel mio cuore sapevo di voler appartenere per sempre a Fabien.
“Dove sei
stata?!” Aurelien, lo sguardo mesto e stanco, mi stava fissando dal buio del
salone senza luci.
“Da mia
madre. Sono stanca, vado a dormire.” Sentii i suoi passi veloci alle spalle,
poi le sue mani a bloccarmi il polso. “Che ti prende?!”
“Che mi prende?! Deesire
sei sfuggente. Assente. Cosa prende a te.”
“Sono
stanca.”
“Sì, mi
sembra d’avertelo sentito dire.”
“Stiamo
litigando Aurelien? Perché sì, sono stanca, Benjamin deve mangiare ed Ygritte è appena andata via. Se le tue lagne da marito
ansioso sono terminate, salirei le scale, adempierei ai miei doveri da madre e
poi mi farei una bella dormita. Dovresti farla anche tu, sei scosso.”
Mi guardò
dispiaciuto, per un attimo vacillai. “Ero preoccupato, tutti lo siamo. Tu no,
tu ti porti in giro per Parigi o chissà dove come se nulla fosse, ho creduto
perché sei sempre stata più forte di tutti noi.. fino a quando non ho trovato
questa.” Sventagliò sotto ai miei occhi la lettera di Fournier,
con data e appuntamento per l’arrivo del mio.. pacco. “Cosa state tramando tu e
quel verme viscido?!” Tremavo come una foglia, agghiacciata dalle mie stesse
menzogne. “A-affari.”
“Affari
che implicano la menzogna a quanto pare.” Scosse il capo incredulo e quando si
fissò su di me vidi i suoi occhi verde bottiglia persi per sempre. “Ovviamente
non eri da tua madre. E per quanto questo mi faccia male in un modo che neanche
immagini, lascerò a te il libero arbitrio; vuoi continuare a mentire? O vuoi
dirmi cosa sta succedendo? E posso assicurarti che la verità in questo caso farà
meno male. Qualsiasi. Essa. Sia.”
Mi
affannai in cerca di una risposta, in preda ai conati di rabbia e frustrazione;
“Fabien..” non dissi altro, il suo nome uscì come un
rantolo. Stavo piangendo ma non volevo, non volevo che mi vedesse fragile,
inerme, arresa; meritava la verità e con essa la dignità della mia persona, ma
non riuscivo a muovermi. A respirare. Tutto si era fatto più grande, mi sentivo
il niente a confronto.
La pedina
di un gioco che si era fatto improvvisamente mortale.
Lo vidi
portarsi le mani al viso, il capo chino sconfitto, come fosse già a conoscenza
di quel verdetto; mi lasciai andare a terra, le gambe flaccide, incapace di
sorreggere la mole di dolore che stavo provando in quel momento. Ma
d’improvviso qualcuno bussò al portone in modo agitato. Una. Due. Tre volte.
Sentimmo la chiave ruotare nel chiavistello e la porta spalancarsi; Martin
spiazzato dalla visuale guardò me in stato di panico, più livido in volto di
quanto non lo fosse prima d’entrare.
“I
tedeschi! I tedeschi hanno sfondato la linea!” Si portò le mani nei capelli; io
e Aurelien ci guardammo incapaci di dire nulla. “Dobbiamo andare Aurelien!
Presto! Alle aziende!” Vidi padre e figlio smontare i cassetti e prelevare
chiavi, documenti, borse, in un vortice impazzito e senza senso; afferravo
parole e discorsi ma non riuscivo a sentire nulla, se non il freddo marmo del
pavimento e le lacrime copiose sulle mie guance; quando aprii gli occhi,
Aurelien era riverso su di me a schiaffeggiarmi il viso dolcemente.
“Aurel..”
intorno a noi solo il baluginio di una candela fioca e un forte odore d’umido;
eravamo nello scantinato della nostra abitazione.
“Devo
andare. Sta arrivando tua madre.” Mi abbracciò, sfuggendo ai miei occhi, ”nella
dispensa c’è cibo a sufficienza per due persone e un bambino.” Spostò il suo
corpo adagiandomi Benjamin fra le braccia, avvolto in un manto spesso di
coperte. “Non dovete assolutamente muovervi di qui, capito? Non prima che la situazione
sia chiara, ci metteremo in contatto appena possibile.”
“Che sta
succedendo Aurelien?!”
“L’esercito
tedesco sta marciando verso Parigi.”
Era la
notte a cavallo fra il tredici e il quattordici giugno del millenovecentoquaranta;
alle cinque e trenta del mattino a bordo delle loro camionette, nei giubbotti
di pelle e le collane di proiettili al collo, i tedeschi ci occuparono. La
città era stranamente silenziosa, chi aveva avuto tempestiva notizia era
scappato da tempo, i pochi restanti e incerti, sfilavano nel loro silenzioso
cordoglio verso le arterie che portavano fuori dal centro; Parigi venne dichiarata
da subito “città aperta”, questo per evitare che la stessa venisse barbaramente
martoriata da bombardamenti aerei o d’artiglieria pesante. Da quel momento difatti,
appartenevamo al nemico, subivamo le loro regole e i loro ordini, i loro
sguardi accusatori e vessatori e per ultimo -non meno importante- l’umiliazione
per essere stati piegati e sconfitti; ma nessuno di noi venne toccato, donne,
bambini, anziani.. d’alta società o no, quello che cercavano gli uomini in
giubbe grigie con l’aquila sul braccio era ben chiaro.
E sapevano
esattamente dove andare a cercarlo.
La notte
era il momento peggiore. Si stabilì un coprifuoco che partiva dalle ore undici
e gli orologi tirati avanti di un ora per uniformarci all’orario di Berlino;
non si dormiva, le urla strazianti di chi veniva deportato fracassavano il
cervello, i pianti di tutte quelle madri, zie, nonne, nipoti.. gli
indesiderati.
La loro
sorte aimè restò oscura a noi tutti, come la più triste delle storie ha già
raccontato.
Tre giorni
dopo l’occupazione, quando la città era ormai roccaforte tedesca e le loro
bandiere sventolavano alte persino sulla Tour Eiffel, il generale di Francia Pétain firmò la resa, spaccando definitivamente il paese in
due; la parte nord –Parigi in testa- appartenente alla Germania e la parte sud
ricollocata ad uno nuovo governo comandato dallo stesso Pétain.
Fu allora che ebbi notizie di Fabien; un veloce messaggio
vergato con mano malferma, pari ad uno spiraglio di sole nel cielo plumbeo. Stava
bene e non era ferito grazie a Dio, citava il generale De Gaulle e il suo
accorato discorso via radio dalla capitale inglese in cui spronava i francesi a
non mollare, che era sua intenzione formare un esercito di resistenza chiamato
“Francia libera” e che Fabien quindi sarebbe partito
presto alla volta di Londra per prendervi parte.
“Prima di questo ho il disperato bisogno di
sentirti, toccarti, amarti Deesire.
Solo così troverò la forza e il coraggio per ritrovare la strada
di casa.
Capiscimi amore mio, voglio un mondo in cui
mio figlio cresca libero e felice.
Sempre Tuo ,
F.M.”
In
un'altra missiva mi aveva fatto avere l’indirizzo di una vecchia locanda nel quartier
Peupliers, nel profondo sud della città. Bruciai
tutto, cercando di mettere insieme le idee, d’ infondermi coraggio, nel mare di
confusione in cui navigavo da giorni; Aurelien presidiava le aziende notte e
giorno da tre giorni ormai, non avevo sue notizie dal disastro e le nostre
conversazioni erano frammentarie, via posta e volte solo alla situazione
politica del paese. Dall’altra parte c’era Fabien e
il più sublime dei suoi messaggi, la frustrazione di gettarmi nelle sue braccia
e amarlo nuovamente, chiedendomi con amarezza quando sarebbe venuto il momento
di appartenerci veramente.
Non servì
a molto pensare, avevo già deciso.
“Cosa?! E
te ne vai?!”
Clorine con il terrore negli occhi si
trascinava dietro al mio braccio. “Devo andare mamma.” Allentai la presa,
strattonandola. “Quando questa assurda guerra finirà –se finirà- io sarò con
lui. E non importa se questo non avverrà mai.. io sarò sempre con lui.”
*
NDA:
Capitolo
“caos” di avvenimenti mie cari lettori/ci; spero che non siate fuggite/i a
gambe levate!!!
Il piccolo
Benjamin Hani è venuto al mondo e a quanto pare le
sensazioni di mamma Deesire erano giuste; per la
prima volta mette in discussione la sua perfetta vita pronta a voler rischiare
tutto per stare finalmente insieme al suo Fabien. Sullo
sfondo però.. la Seconda Guerra Mondiale appena piombata a Parigi.
Cosa
succederà adesso?! Se ne avete
voglia continuate a seguirmi! J
Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, la conclusione della storia è alle porte.
(credo di
riuscire a terminarla in non più di altri due capitoli. Credo!)
O forse fu la
sensazione di panico quando vidi Martin sporco, con i vestiti bruciati e il
viso escoriato correre a piedi scalzi verso di me; pensavo fosse un miraggio, i
troppi giorni di buio in uno scantinato lontano dalle persone che amavo, dalla
realtà.. ma fui costretta a stropicciarmi gli occhi, che il sole non centrava
nulla, che mio suocero era lì, difronte a me che piangeva.
“Martin! Oh buon Dio!”
Lo presi per le braccia prima che si lasciasse cadere sulla strada, “che è
successo?! Clorine! Clorine!”
Mia madre aprì il portone trafelata, dopo un iniziale fase di panico si sollevò
la veste e mi aiutò a portarlo dentro. “Sul divano! Apri tutte le dispense
mamma, Ygritte deve aver riposto del disinfettante e
qualche medicinale.” Strappai delle fascette di tessuto dalla tunica di lino
che indossavo tamponandole sul viso stravolto di Martin; tossiva copiosamente,
dolorante per le ferite che riportava a gambe e braccia.
“E’ bruciato tutto..”
mi strinse forte la mano, bloccandola. “Aurelien ha impedito che li portassero
via..” delirava ed io con lui; fissavo la sua bocca con occhi sbarrati, una
crescente morsa di panico allo stomaco. “Qualcuno ha appiccato il fuoco.. per
farci scappare.. è bruciato tutto. Bruciato tutto..”
“Dov’è Aurelien?!”
“Ancora.. là.” E
svenne.
Percorsi la Saint Honorè de Fabourg con il cuore
stretto in gola; falcate il doppio dei miei passi mi portarono a casa del
dottor Arnauld Bertrand, il medico di famiglia Chedjou.
“Arnauld! Arnauld sono Deesire!” Bussai con impeto al
portone, prima che una servetta in camice bianco mi aprì; dietro di lei il medico
con lo stetoscopio infilato negli orecchi, mi guardò accigliato. “Arnauld c’è
stato un incendio alle aziende Chedjou! Mio marito è
là, mio suocero è a casa mia e ha bisogno di assistenza! Ti prego, aiutami!
Aiutami!”
“Svelta Pauline, un
bicchiere d’acqua per madame Deesire. Chiama il
dottor Russeau e prenota una carrozza per casa Chedjou; digli di portare con se la borsa con la morfina, unguento
e garze. Tante garze. Su! Su!”
Lo guardai spaventata.
“La carrozza, Arnauld?!”
“Noi useremo la
macchina fino ai sobborghi, Julien si occuperà Martin. Tranquilla Deesire, Aurelien sarà già stato medicato a quest’ora.”
Una colonna di fumo
nero e denso era quanto rimaneva delle aziende capeggiate da mio marito e la
sua famiglia; i due blocchi di cemento che costituivano il cuore pulsante
dell’attività, fra uffici e reparto costruzione, del tutto sventrati. Intorno
ammonticchiati, corpi di uomini senza vita, macerie e le sentinelle tedesche
nelle loro giubbe grigie. Potevo sentirli ridere in una lingua sconosciuta; mi
vomitai sulle scarpe, prima di farmi forza e avvicinarmi ai quei fantocci
inermi, un tempo vita.
“Nein!”
Un uomo in divisa usò un tono minaccioso al mio avanzare; strinsi i pugni,
scorrendo la fila da dietro la sua piazzata mole. “Nein,
madame!” Il suo francese ironico mi
fece infuriare.
“Mon mari !“ Graffiai fra i denti, indicando i cadaveri; Arnauld mi
trattenne per un braccio, rivolgendosi alla guardia in un perfetto tedesco.
Dopo alcuni istanti si voltò a guardarmi. “Sono morti per il crollo, Deesire, guardali, non hanno fori di pallottola. Se vuoi
avere una speranza di ritrovare Aurelien devi mantenere la calma, chiaro?!”
Annuii. “Che ti hanno
detto?!”
“Che è stato portato
dietro, con i feriti. Non hanno il permesso di toccare nessuno, per ora. E noi
dobbiamo sfruttare questa occasione. Andiamo!”
Ci allontanammo per il
retro. Il piazzale antistante era stato trasformato in un ospedale da campo.
Riconobbi qualche viso e fra questi Danielle la segretaria di Aurelien, sulle
prime file di barelle improvvisate.
“Oh Deesire! E’ stato così coraggioso..” la donna piangeva
attaccandosi con forza alle mie mani; aveva un brutto taglio sul capo, Arnauld
annuì sparendo fra le lettighe di fortuna. “Sono entrati all’improvviso. Quelli
là, quei crucchi. Portavano via le persone. Le picchiavano, si sentivano le
urla.. qualcuno di noi si è ribellato ed è scoppiata una rivolta, il caos.. è
stato lui ad appiccare il fuoco, ne sono sicura. Ci ha fatto uscire prima che
scoppiasse l’incendio.”
“E’ rimasto dentro?!”
“Sì è lì che l’ho
lasciato. Ci ha salvato.” Si frugò nella manica della giacca; tirò fuori da una
fettuccia cucita all’interno dell’orlo la catenina d’oro con il crocefisso e la
fede di Aurelien. “Mi ha detto di dartele quando ti avrei visto. Era sicuro saresti
arrivata.”
Rabbrividii; se non mi
fossi scontrata con Martin.. inspirai profondamente. No, Aurelien non poteva
essere morto. Ogni cellula del mio corpo si opponeva ad una tragedia dalla
portata così devastante; il mio dolce Aurelien.. sacrificato per gli altri.
Quante cose dovevo ancora da imparare da quell’uomo, quante volte ancora la
vita doveva farmi aprire gli occhi sul tesoro che avevo fra le mani?
Cosa c’era in me che
non andava? Perché ero così maledettamente sbagliata?
“Deesire!
Deesire l’ho trovato!” Il dottor Bertrand si stava
sbracciando all’incrocio di due tende; corsi immediatamente verso la sua voce.
Aurelien giaceva su una branda di paglia, con il capo fasciato, livido e privo
di sensi. “Non respira bene.” Auscultò i polmoni e scosse il capo. “Temo che
smetterà di farlo se non lo portiamo via immediatamente.” Barcollai, impaurita
e angosciata. “Deesire ricorda, concentrazione! Al
mio tre lo alziamo. Pronta?!” Annuii passando le sue braccia intorno al mio
collo, con Arnauld che lo alzava da dietro per i fianchi, tirandomelo addosso;
era un peso morto, del tutto privo di forza.
“Si riprenderà?!” Gli
accarezzai il viso contratto dal dolore, Arnauld mi guardò dallo specchietto
retrovisore alla guida di una vecchia Rolls. “Le
ferite sembrano superficiali, ma solo Dio sa cosa ha inalato lì dentro.”
Solventi chimici, rame, metallo, cemento.. la lista dei veleni scorreva
silenziosa nella mia testa; tremai vinta dal dispiacere. “Ma non avremmo
risposte certe fino a quando non lo visiterò per bene.”
“Ce la devi fare, mi
hai sentito?!” Sussurrai al suo orecchio incrostato di sangue rappreso; una
lacrima scivolò per la guancia, giù dal collo, frantumandosi sulla sua; sembrò
m’avesse udito perché per un attimo avvertii un fremito dalle sue viscere. Lo
abbracciai, “non ti farò più del male Aurelien. Mai più.”
E pregai, pregai Dio
di redimermi, di prendersi la mia stessa vita.. ma la sua no; non quella di mio
marito, il mio onesto marito che aveva abbattuto le fabbriche per cui suo nonno
prima di lui aveva dato il sangue, per salvare vite innocenti.. al prezzo della
sua stessa vita. Perché era coraggioso, affettuoso, l’uomo tutto di un pezzo
che mi aveva fatta innamorare per la sua autorità e concretezza; cosa altro mi
sarei aspettata da lui? Il mio testardo, pazzo e pragmatico Aurelien.
“Oh Dio ti prego.. non
portarmelo via.. non portarmelo via..”
E Dio m’ascoltò,
perché mentre la macchina scorreva veloce sulla QuaidesTuileiries e in Place de la Concorde vidi Fabien
e i nostri sguardi si trovarono attraverso il vetro dell’auto, per istanti
simili all’eterno; se ne stava andando, amareggiato e in pena, la sacca
pendente dalla spalla, di ritorno da un appuntamento mancato. Il nostro.
E suoi occhi nei miei
dissero addio. Addio per sempre.
Julienne e Arnauld
adagiarono Aurelien sul nostro letto; rovesciarono le coperte e armati di
forbici gli strapparono di forza gli abiti di dosso. Il corpo era un campo
martoriato di escoriazioni e bruciature, la sua pelle ambrata sporca di vivo
sangue rosso; i polmoni si alzavano a rilento, ogni fil di fiato un flebile
lamento. “Edema polmonare acuto.” I due medici sentenziarono senza pietà.
“Ha i polmoni pieni di
liquido.” Julienne perorò la causa trasformando un pensiero in parole. ”Otto
milligrammi di morfina per cominciare.”
“Sì” Annuì Arnauld,
sgombrando malamente il comodino per far spazio ai suoi attrezzi medici.“Servono tubi per la trachea e una bombola di
ossigeno.”
“Somministriamo anche
un diuretico per non sovraccaricare troppo i reni?!”
“Dopo la morfina.
Pensi tu all’ossigeno?!”
Quello scattò,
spogliandosi del camice e gettandolo alla rinfusa, ai miei piedi. Si accorsero
di me, rannicchiata sulla panca delle meraviglie di Clorine;
come avrei desiderato tornare indietro a quei tempi felici, dove eravamo solo
noi innamorati e contenti con l’unico stupido pensiero di arginare le smanie
d’alta moda di mia madre. “Deesire ci serve il tuo
aiuto. Puoi procurarci delle cannucce?!”
Balzai in piedi in
attenti. “Sì.”
“Ottimo e ci servono
tutti i bacili d’acqua che riesci a trovare. Julienne tornerà in studio per
procurarsi la bombola e una stecca per la gamba di tuo suocero. Se le trovi
portami tutte le bende che hai a disposizione e disinfettati le mani.”
Annuii, correndo in
cucina; Martin era ancora sul divano, bendato e ripulito, sospirai e guardai
Ines inerme ai suoi piedi, sembrava morta non fosse per il tremito delle labbra.
Mia madre giaceva imbambolata in un angolo fra la cucina e lo studio di
Aurelien con il capo fra le mani e i singhiozzi.
“Dov’è papà?!”
“Sarà qui a momenti,
con Cedric. Sono a dare una mano al campo. Una tragedia. Una tragedia.”
Ero circondata da
automi e non ero per nulla felice; riempii i catini d’acqua tiepida e ridussi a
brandelli tutte le pezzuole di lino e cotone che trovai. I regali del mio
matrimonio, inutili suppellettili che non avevo mai adoperato, in frantumi;
sorrisi arcigna. Non era stato così tutto il mio matrimonio? Un costoso
abbellimento che non era servito a tenerci uniti. Scossi il capo con vigore e
mi stupii dei miei repentini cambi d’umore. Anche l’aria si era fatta
irrespirabile, pesante, piena d’umori e disinfettante che mi dettero la nausea;
vomitai nel lavandino la mia frustrazione, il pianto, la fatica e la
disperazione di perdere Aurelien.
“Grazie Deesire, adesso ti prego aiutami a ripulire le ferite.”
Passai delicatamente
il cotone imbevuto di acqua ossigenata sulle lacerazioni del petto e delle
gambe, mentre Arnauld tagliava i tubi e li assemblava in un unico serpentone;
lo infilò nella bocca di Aurelien premendo finchè
questo scivolasse giù attraverso laringe e dentro la trachea. “Questo gli
permetterà di respirare prima che giunga la bombola. Continua così, brava.”
Sfilò dalla borsa una siringa dalla quale portò via il tappo, la picchiettò
facendo fuoriuscire l’aria e iniettò il liquidò nel braccio molle di Aurelien.
“Morfina.” Asserii
anticipandolo, mi guardò ed estrasse una seconda siringa; la iniettò all’altro
braccio.
“E anche il diuretico
è fatto. Manca solo il respiratore. Lascia fare a me adesso.” Mi sorrise
armeggiando ago e filo sulla pelle ora detersa di mio marito, tirandola e
ricucendo gli strappi; scottava ed era febbrile, sudato. Mugolavo ogni
qualvolta tirava e Aurelien vibrava dal suo sonno senza sogni.
Julienne arrivò con il
respiratore e mi sentii più leggera; la mascherina copriva naso e bocca, il
respiro sembrava acquistare vigoria anche se ogni dieci minuti lo puntellavano
con iniezioni di diuretico. Si divisero i compiti, alternandosi dal malato meno
grave sul divano –sempre vegliato da Ines- e quello da tenere sotto
osservazione, intubato nella mia stanza da letto.
“Deesire,
puoi andare a riposare adesso. Non c’è null’altro che possiamo fare.”
“Voglio restare qui.”
E calai il capo sul suo braccio inerme, fra una preghiera e un pianto silenzioso.
Aprì gli occhi dopo
sei giorni di coma artificiale.
“Deesire?!”
Sembrò una domanda incredula, come la mia commozione; lasciai cadere in terra
la pezzuola con la quale gli stavo detergendo il viso per prendergli le mani e
baciarle. “Sei qui..”
“Dove altro potrei
essere?!” Soffocai il pianto nel suo palmo, premendo forte la mano contro
lenzuola con la mia fronte che spingeva giù per attutire i colpi dei singhiozzi.
“Non è successo
niente.” Con l’altra mano, si posò debolmente sul mio capo, “sei qui, il resto
non conta.” E sospirò addormentandosi di nuovo.
Sentii una mano, dal
fondo di un sogno astratto, agitarmi la spalla. “Deesire..”
“Mamma!” Mi allarmai,
spaventata per aver chiuso gli occhi; era buio fuori le imposte. Controllai il
respiro di Aurelien, lineare; sorrisi e mi stupii di essere ancora capace di
farlo.
“Devi mangiare.” Alla
parola mangiare, sobbalzai inorridita.
“Benjamin!” Vibrai,
come colpita da una scarica elettrica; avevo dimenticato completamente mio
figlio.
Mi guardò
affettuosamente, parlando con estrema e dolce lentezza. “E’ con Cedric adesso.
Abbiamo comprato del latte artificiale, sta tranquilla.”
“Tranquillaaa?!”
Balzai in piedi, guardando Aurelien e poi l’ingresso. Poi di nuovo Aurelien,
con il cuore in frantumi e il richiamo viscerale da madre di nuovo arzillo.
“Urla, se dovesse aprire gli occhi! Chiaro?!” E schizzai via dalla stanza
spostando l’aria; Cedric era comodo su una poltrona da basso, con Benjamin
urlante di gioia sulle sue ginocchia.
“Oh-oh.. mamma
infuriata a ore tre!” Mi passò il piccolo senza batter ciglio, “ciao sorella!”
Non vedevo mio fratello da un secolo e mezzo, più o meno, ma non avevo il tempo
di sbrodolarmi in cerimonie stucchevoli. In salone c’erano papà con la faccia
tesa e svuotata, Arnauld con il giornale aperto a mezzaria ed io che armeggiavo
con i bottoni della camicetta per allattare Benjamin. “Ha appena mangiato..”
Cedric tentò di fermarmi paonazzo in viso, “.. ma immagino che a te non importi
un bel niente. Prego, fa pure.” Il bambino si attaccò immediatamente al mio
capezzolo, gli accarezzai la tempia piangendo.
“La mamma è qui adesso.”
E lo cullai fino alla cucina, dove riversai la poltiglia di farina e latte
vaccino nel rubinetto. “Niente più schifezze per il mio ometto.” Mi asciugai
gli occhi, conducendoci nuovamente al capezzale di Aurelien.
“Non può stare qui Deesire.” Rimbrottò Clorine,
vedendomi entrare con Ben.
“E chi lo dice?! Sono
sua madre, lui resta dove sto io.” La guardai con il fuoco negli occhi, “latte
artificiale! Se volevi uccidermi potevi servigli direttamente cianuro!”
“Sei cocciuta come un
mulo!” Si alzò di getto, facendo scivolare la sedia all’indietro. “Ti abbiamo pregata
di riposarti e tu no, ti abbiamo pregata di mangiare e tu sempre no. Sei
rimasta ostinatamente attaccata a questo letto per sei giorni di fila. Sei
lercia, hai i vestiti tutti strappati ma è tuo marito che rischia la vita, va
bene e lo capiamo. E’ di Benjamin che parliamo adesso, cosa dovevamo fare?!”
“Io ci sono. Mi farei
togliere la vita per lui.” Soffiai col muso duro e poi piansi maledette lacrime
di frustrazione e Dio solo sapeva cosa. Ero sensibile e agitata, troppo. Passai
Benjamin da un seno all’altro ma lo rifiutò, ormai sazio. “Come ho potuto..” la
guardai sul crollo di una crisi di nervi, lei mi sorrise accarezzandomi le
spalle. “Sei stata coraggiosa. Al posto tuo sarei crollata dietro tuo padre,
non avrei sopportato l’idea di vederlo immobile, vulnerabile, incerto. Ma è di
te che stiamo parlando, no?! La mia cocciuta e forte Deesire.”Allungò
le braccia per prendere Ben e glielo passai con estrema delicatezza.
“Faccio spostare la
culla qui se vuoi. Da come sbatte le palpebre questo ometto ha bisogno di
riposare. E non solo lui.. sono sempre la tua mamma apprensiva Deesire, certe cose non cambieranno mai.” Mi baciò la
guancia e sparì nella stanza accanto.
“Sempre a bisticciare
voi due..” Un fil di voce rauca proruppe nel silenzio; Aurelien aveva riaperto
gli occhi e stava.. ridendo. Ridendo! Aprii e chiusi la bocca incapace di dir
nulla, non c’era visione più bella e paralizzante del suo sorriso in contrasto
con la pelle pallida ed emaciata. Passi affrettati per le scale mi avvisarono
dell’arrivo della truppa –credo più per il baccano messo su da me e mia madre
che per l’ingente miracolo appena avvenuto- con Clorine
in testa riemersa dalla nursery, seguita da Arnauld –occhiali calati sul naso e
l’immancabile stetoscopio al collo- mio papà, Ines e Cedric che mi spodestarono
senza tante scuse dalla prima fila; finii a boccheggiare sola e spaurita dietro
la pienezza della nostra famiglia al completo.
Arnauld scansò la
mascherina dal suo viso, controllando pulsazioni, riflesso delle pupille e
lingua; annotò soddisfatto i parametri, si deterse le mani applicando i guanti
per rimuovere le bende dalle ferite, annusò gli umori delle stesse e sorrise.
“Bel lavoro Deesire. Stanno guarendo in modo
impeccabile. Come ti senti Aurelien?!”
“Come se mi fosse
passato un treno merci addosso.”
“Sì più o meno deve
essere questa la sensazione che si prova.”
“Che mi è successo
dottore?!”
“Non ricordi nulla?!”
Si accigliò. “Credo di
ricordare solo cose spiacevoli.” Guardò fuori la finestra, quella sui tetti
della città e rabbrividì. “Volevo sapere della mia salute, dottore.” Sorrise
ancora, era una benedizione guardarlo; i nostri occhi si trovarono nel mezzo
degli sproloqui di Bertrand su ciò che era accaduto, della sua situazione
clinica e ben presto restammo solo noi in quella stanza. Accarezzò la mia paura
con voce vellutata, invitandomi al suo capezzale. “Ti voglio vicina, qui.”
“Aurelien!” E come se
mi fossi svegliata dal torpore, corsi ad abbracciarlo; era dimagrito e le sue
spalle larghe ancora più prominenti. “Aurelien!” Baciai ogni centimetro di
pelle del petto nudo libero da garze e cerotti, poi il collo, gli occhi, le
labbra.. perdendomi nella disperazione dal sapore dolceamaro; era rimasto con
me, martoriato ma vivo e presente. “Non farmi mai più una cosa del genere! Mai
più!”
Asciugò con il pollice
le lacrime ai bordi delle mie ciglia, sospirando. “Ehi sono vivo adesso, non
piangere, sono qui.”
Lo guardai truce. “Tu
devi vivere sempre.” Premetti le mie labbra contro le sue con foga e abbandono
tanto che si accasciò all’indietro portandomi giù con lui, per le spalle. “Non
merito una gioia simile ma.. la tua vita è la cosa più preziosa per me ed io
sono felice, felice, felice di averti qui con me!”
“Deesire
devi aver battuto la testa da qualche parte, sai?!” Rise fra i miei capelli,
accarezzandomi la schiena. “Tu meriti di essere una signora molto felice. Ti
ricordi?!” Assentii ricordando la sua promessa al nostro primo ballo, “beh io
non l’ho dimenticato. Per me.. è ancora così.”
Annuii con gli occhi
umidi. “So che hai detto a Danielle che mi aspettavi.” Mi sfilai dal collo la
catenina con la fede e gliela porsi, infilandola al suo; baciò il crocefisso e
l’anello e mi guardò intensamente.
“Non ho mai smesso di
credere in te. Tu credi in noi?!”
Ci credevo? Avrei
varcato la soglia di casa, girato le spalle alla nostra vita bella e dura
perché eravamo giovani e impetuosi, percorso tutta la città e seguito quel
soldato fin capo al mondo?! Ero davvero pronta a rinunciare ad Aurelien? Cosa
era quel filo che ci legava, come una trottola che girando a lungo su stessa
tornava sempre al punto di partenza? Non avevo la risposta e non l’avevo avuta
per un sacco di volte, ma quel che era certo e che non avrei mai più lasciato
il mio posto.. perché quello era il mio posto; separati davamo vita alle grandi
catastrofi della nostra esistenza, insieme tutto era sicuro, dolce.. e mio da
poterlo toccare con le mani. Mi sentivo amata da questo uomo straordinario ed
io amavo lui, non c’era nessun copione da ripetere a memoria; amare Aurelien,
vivere con lui, era sempre stato così naturale, dopotutto. Fabien
Moreau sarebbe rimasto per sempre l’altro grande amore della mia vita; ma quella
vita era esasperante e sembrava un miraggio da deserto africano. Non si vedeva
mai la fine. Solo immagini sfocate e deliranti.. per quanto deliziose. Quella
vita un po’ pazza e irragionevole.. allo zenzero e cannella.
Ma.. era stato il
tocco di lavanda a rendere il tutto
davvero speciale.
“Io non funziono bene
se tu non ci sei.” Tirai su con il naso, affondando la testa nel cuscino alle sue
spalle, “oh Aurelien.. mi dispiace così tanto! Così tanto!” Mi abbracciò, lui
che infondeva coraggio a me. Si poteva chiedere qualcosa altro ancora al
creato?!
“Una volta mi hai
detto che la tua casa è dove sono io; entra dentro me Deesire
e stai comoda qui. Non chiedo altro, non desidero altro. So che ti ho
trascurata, so che i miei obbiettivi mi hanno distratto dall’unica cosa davvero
importante; te. E so che in qualche modo.. Fabien ha
avuto il privilegio di.. sentirti in un modo a me sconosciuto. Non voglio
sapere come, non adesso perlomeno. Non mi importa più di quanto mi importa
sapere che sei qui con me e ci vuoi restare. E questo non mi basterebbe comunque,
ho bisogno.. disperato bisogno di sapere che tu credi in me e soprattutto in
noi.” Mi portò in posizione eretta, affondando lo sguardo cerchiato e nero nel
mio; la mia bocca una linea dura e asciutta incapace di proferir verbo.
Sorrise, stemperando l’ansia e aggiunse il resto con un risolino ironico, “non
reggerei un altro colpo, stavolta.” Mi solleticò il labbro inferiore con
l’indice, gli occhi socchiusi.
Deglutii, inspirando
sul suo tocco leggero al mio viso. “Credo in te perché sei la persona migliore
che io conosca. Voglio amarti per il resto dei miei giorni, davvero.” Sfiorai
con i polpastrelli il petto rasato e mi fermai all’altezza del cuore. “Questo
lo lasciamo intatto. Ho passato una brutta giornata nell’incertezza che te ne
saresti andato.”
“Immagino.” Rise e
sospirò affaticato.
“Ti lascio riposare.
Hai bisogno di qualcosa?!”
“Solo del tuo amore.”
Scossi il capo; il mio
mieloso liege
era di nuovo con me. Tutto sarebbe andato a posto.
Uscii dalla stanza
incontrando gli occhi lucidi e rossi di Ines; ci guardammo a lungo prima di
abbracciarci forte. Non capii il senso ma ricambiai con trasporto.. era
confortante farsi consolare quando il mondo dal baratro scuro che ti ha fatto
saggiare, ti apre un spiraglio di luce. “Arnauld dice che si riprenderà. Ma a
che prezzo.. credo non voglia sbilanciarsi e tenerci alta la guardia.” Fu come
una doccia gelata, non avevo minimamente preso in considerazione le conseguenze
ammesso appunto ce ne fossero. “Ines è giovane e forte.. è il mio liege.. è
riemerso dal sonno per sgridarmi, santa pace!”
“Qualcosa di
profondo.. ha detto. Qualcosa di profondo..” si strinse ancora più forte,
improvvisamente singhiozzando; la strinsi per le spalle, accarezzandola. No,
Aurelien non sarebbe morto. Lo sentivo.
“Shh..
calmati Ines, una cosa alla volta. E’ con noi, adesso. Domani penseremo al
resto.” Sì, pensai con l’anima ferita, domani. Oggi no, Aurelien era vivo.
Aurelien era con noi.
Tremò, incrociando lo
sguardo ferito con il mio. “C’è dell’altro?!”
“Jacque ha avuto un
infarto. Martin è dovuto correre in ospedale.” Singhiozzò, scuotendo il capo.
“Non ha superato lo shock. Quando ha saputo che Aurelien era in fin di vita..
non ha retto il colpo.”
“Jacque è..” non
riuscivo nemmeno a pronunciarla quella parola, lei annuì sconfortata.
“Morto.” Sussurrò con
voce strozzata, “cosa sta succedendo Deesire?!” Cosa
stava succedendo? Perché lo chiedeva a me, supponeva che avessi tale risposta?
Erano poche le cose che sapevo con certezza; ero passata in fretta –e come un
tornado devastante- dall’essere una moglie in procinto di fuga a una moglie
redenta, Aurelien era tornato e mi chiedeva di restare e Benjamin il mio
adorabile figlio per una ragione a me sconosciuta, era stato cancellato dalla
mia memoria di madre in fase di tragedia. Ecco, questo era quello che sapevo al
momento, la morte di Jacque così improvvisa apriva porte sull’ignoto e
destabilizzava le poche certezze che mi tenevano con i piedi per terra; provai
una fitta di terrore al pensiero di occhi verde bottiglia tristi e sconsolati. “Qualsiasi
cosa stia succedendo, Aurelien non lo deve sapere. Non oggi.” Scacciai via gli
spauracchi dalle mie spalle e respirai a fondo, “ti prego Ines, sei sua madre.
Fatti coraggio.”
Asserì con il capo
asciugandosi gli occhi e si sistemò i capelli con mani svelte. La congedai,
guardandola entrare malferma sulle gambe nella stanza di suo figlio ed ebbi un
improvviso conato di vomito; Arnauld apparì alla mia vista risalendo per le
scale, con mano salda mi aiutò ad appoggiarmi al corrimano in ferro battuto.
“Dobbiamo fare quelle analisi Deesire.”
Sospirai, non potevo
più rimandare.
Tre giorni dopo nel
cimitero di Père-Lachaise, ci stringevamo tutti Bonnet e Chedjou per dare
l’ultimo saluto a quello che era stato il pilastro delle ormai ex aziende Chedjou; c’era aria di sconfitta fra noi, eppure nel vento
che mi scarmigliava e frustava percepivo una resistenza e una forza che non
avevo mai avuto, crescermi dentro. Non avrei permesso alle mia famiglia, la
vecchia e la nuova, di affondare. Mai. La casa era un via vai di gente
sconsolata, grigia e tenue come il cielo di Parigi; da quando i tedeschi erano
arrivati era quello il colore predominante, grigio tenue. L’umore -che non era già
dei migliori fra i concittadini causa invasione- era risollevato dai vecchi
racconti di Martin su suo padre e dagli amici di infanzia di Jacque, oggi
avvocati, notai ma anche marmisti, piastrellisti –pareva essere piuttosto
versatile nella scelta delle sue amicizie trovando questa caratteristica
squisitamente affine al nipote- spargendo tutto intorno una tranquillità che
non speravamo certo di trovare così presto. Jacque era stato un leone, un vero
dominatore, la sua vita era stata costellata di successi privati e personali
lasciando niente al caso e nulla di incompiuto. La sua morte, tragedia per
tutti noi, era esattamente ciò che lui rappresentava; un uomo che avrebbe dato
la vita per la sua famiglia e per l’impero dalla quale essa dipendeva. Per
ironia della sorte così era stato, ma Martin ci aveva convinto che se avesse
potuto, dall’al di là, avrebbe alzato un calice di champagne brindando alla
faccia dei nostri musi lunghi per la sua perdita, perdendosi in grosse risate.
“Deesire
fatti aiutare.” Maitre Gerald era stato così gentile
da aiutarmi con il buffet; erano giorni che lo vedevo gironzolare per la casa,
spesso chiudersi in camera con Aurelien a confabulare e ridacchiare. Era
l’unico che riusciva a strappargli un sorriso e benedii la sua presenza; il mio
liegeera cupo, si sentiva responsabile dell’accaduto
e riportarlo in alto era un compito arduo e stancante. L’aspetto clinico della
sua situazione invece andava migliorando per grazia di Dio, ma il dottor
Bertrand non si lasciava andare a positivismi eccessivi. Era frustrante e allo
stesso tempo essenziale; avere una finestra aperta sulla realtà mi permetteva
di non vivere di sogni e godermi realmente
e pienamente mio marito. “Va a sederti, torno subito.” E nell’attimo in cui mi
sbottonai il colletto del vestito accingendomi a sedermi, suonò il campanello;
alzai gli occhi al cielo inveendo sotto le cupe risate di Gerald.
Mi fermai di colpo. Un
uomo in divisa e armato della Waffen-SS teneva alto
il cartellino identificativo guardandomi sardonico. “Madame Chedjou,
suppongo?!”
“Proprio io.” Guardai
ansiosa alla pistola e quello la sfiorò alzando le spalle.
“Sono venuto ad
interrogare monsieur Chedjou circa l’accaduto alle
fabbriche.”
“Mio marito ha bisogno
di riposare, sono certa che può eseguire il suo interrogatorio in un altro
momento.” Stavo per chiudere la porta, ma l’uomo intrufolò il piede fra me e lo
stipite impedendo che si chiudesse. “Ha un preciso ordine, generale Steiner?!”
Imprecai con voce stridula.
“Ordini delle SS madame.” Storpiò l’appellativo come ero
abituata ormai a subire, ma se non altro fino a quel momento si era sforzato di
parlare un francese decente. “Suo marito è al piano di sopra?!” Ripiegò il
mandato guardando intorno, dentro la casa. Annuii irritata, aprendo del tutto
la porta e facendogli strada.
“Una casa bellissima.”
Inspirò alle mie spalle, camminando con eccessiva lungaggine. “Non è sola.”
“Una veglia funebre.
Una cosa triste e noiosa. La prego di seguirmi.” Vidi l’ombra di mio padre
spuntare da dietro la parete del salone principale, gli occhi subito sospetti e
circoscritti; proseguii con andatura sicura, gradino dopo gradino, senza
esitazioni. Dovevo liberarmi del panzer il prima possibile.
“Il lutto è per suo
nonno, giusto? Condoglianze.”
Deglutii, “il nonno di
mio marito. Per di qua.” Indicai la porta e bussai; Aurelien mi rispose con un
fil di voce. “Amore l’ufficiale Steiner delle SS vuole interrogarti. Te la
senti di parlare?!”
L’uomo mi scavalcò,
arricciando il naso per l’odore forte di disinfettante. “Ho un mandato monsieur
Chedjou.”
Entrai spazientita e
richiusi la porta con teatralità; mi avvicinai al letto aiutando mio marito ad
ergersi con il busto, impilandogli il cuscino dietro la schiena. Mi ringraziò
mimando con le labbra, pregandomi con lo sguardo angosciato di andare via, ma
gli strinsi forte la mano scuotendo impercettibilmente il capo. “Ufficiale
Steiner la prego di attenersi alle buone maniere, come può vedere con i suoi
occhi mio marito necessita di tranquillità.”
“La prego di perdonare
le mie maniere rudi madame. Solo
qualche domanda veloce.” Tirò fuori un taccuino e la penna e guardò Aurelien
con i suoi occhi glaciali. “Bene monsieur mi dica, cosa è successo esattamente
il giorno del crollo?!”
“Ero alle aziende come
di consueto. I suoi preposti hanno fatto irruzione e portato via delle persone.
Poi c’è stato il caos, il fuoco e il crollo.” Aurelien per nulla colto in fallo
recitò la sua versione dei fatti come il compito di un bambino delle
elementari; il soldato alzò un sopracciglio perplesso.
“Dove era lei al
momento dell’incendio?!”
“Ala est.”
“L’incendio è scoppiato
nell’ala ovest.”
“Questo deve dirmelo
lei.”
“Ala ovest, settore
produzione.”
“Un bel danno a quanto
pare.”
“Già, il cuore
pulsante della macchina.” Si infilò la penna dietro all’orecchio ghignando. “Mi
chiedo come faccia a starsene qui calmo quando ha perso tutto.”
“Ufficiale Steiner..”
sentii montarmi l’adrenalina, Aurelien allargò gli occhi spaventato. “Mio
marito è mezzo morto per difendere i propri interessi e guardi come si è
ridotto! Sa cosa gliene importa adesso delle fottute aziende?!”
Alzò le spalle,
guardandoci in segno di sfida. “Peccato.. una bella proprietà sulla quale
mettere le mani.”
“I nostri avvocati
sono ben pagati per lavorare a questo. Questo e.. altro. Pensi che coincidenza
se si scoprisse che l’incendio ha natura.. polverosa. Piombo per l’esattezza.
Piombo dalle nostre macchine e piombo nei vostri fucili. Che bel dilemma, eh?!
Dove pensa che andrebbe a cadere l’ago della bilancia?”
“Sulla verità,
madame.”
“Oh sì sulla verità. E
scommetto che lei l’ha già appuntata sul suo bel blocchetto proprio pochi
minuti fa.” Tentò di replicare ma ero un fiume in piena con argini
fragilissimi, “se non ha altre domande da farci la prego di andarsene da casa
mia, ufficiale. S.U.B.I.T.O.”
“Ha sentito cosa le ha
appena detto mia figlia, ufficiale?!” Ahmed spalancò la porta esibendo una
carta bollata, “qui ci sono elencati i nostri diritti. Ha il dovere di andarsene
se non è gradito; possedete il territorio, non le persone.” Quello ci guardò
stupefatto, infilzò la penna nel taschino, il blocchetto nella giubba e a passi
pesanti e cadenzati raggiunse l’uscita. Lo segui svelta, con i battiti
accelerati per la prova di coraggio appena compiuta; si richiuse la porta alle
spalle in una nuvola di imprecazioni incomprensibili sparendo per il boulevard
solitario.
“Perché fai tutto
questo?!” Aurelien era tornato angosciato e depresso, la vista dell’ufficiale non
lo aveva minimamente scalfito. “Quello che dice il crucco è vero: abbiamo perso
tutto.”
“Abbiamo perso tutto è
vero, ma non la dignità.” Sistemai il cuscino dalla sua schiena alla testa,
aiutandolo a distendersi; aveva i muscoli contratti e tesi, dimagriva a vista
d’occhio. “Ti amo Aurelien, se può sembrarti un buon motivo.. lo faccio per
questo.” Mi girai, papà ci guardava imbarazzato, lo pregai di aiutarmi a
servire la cena e congedare gli ospiti; c’era in corso una veglia funebre di
sotto e lo avevo completamente dimenticato. Sentii dopo poco scemare il vocio e
tornare la tranquillità sulle nostre teste.
“Se mi fossi fermato
forse..”
“Piangeresti la gente
che invece hai salvato.” Gli strinsi le mani, sedendogli accanto. “Hai avuto
coraggio, nessuno al posto tuo avrebbe fatto altrettanto.”
“Non ho pensato alle
conseguenze. Sentivo le urla.. nella testa le sento ancora.”
“Aurelien, guardami.”
Gli girai il viso di prepotenza, fisso su di me. “Ero sul lastrico quando tuo
nonno ha accettato di unire le nostre famiglie in una sola e tu mi hai sposata
senza remore; oggi ti guardo e penso che sei esattamente come lui.. altruista,
intelligente, un uomo assennato. Ti conosco, avresti vissuto una vita
tormentandoti se non avessi agito in quel modo.”
“Lo so. Tu mi conosci
proprio bene.”
“Allora fammi essere
per te quello che tu sei per me; ho parlato con Ahmed, riscatteremo delle quote
dalla fusione con le aziende Fontaine, qualcosa
attingeremo dalla vendita del mio libro e dai biscotti e.. rinasceremo. Credo
ci vorrà del tempo, non mi intendo di finanza.. ma accidenti! Qualcosa tireremo
fuori!”
Sorrise, portando la
mano verso la mia guancia, “non finirai mai di stupirmi.”
“Oggi non faccio
eccezioni, difatti.”
Mi guardò accigliato,
lo abbracciai nascondendomi sul suo collo. “Aspetto un bambino Aurelien.”
****
“Papà! Papà!”
“Benjamin aspettaci,
non correre!”
A dispetto di tutto,
Aurelien rimase con noi.. sette anni dopo l’incidente alle fabbriche; tre anni
prima, un venticinque agosto di tumulti e ribellioni, gli alleati sbarcati in
Normandia arrivarono finalmente a Parigi, debellandoci dalla morsa dei
tedeschi. Accadde tutto molto velocemente, ci trovammo spauriti e in balia di
noi stessi, ma ebbri di vita e gioia.. e di voglia di ricominciare, costruire,
pulirci del fango piombato su di noi sotto forma di malattia mondiale; quasi
tre milioni di soldati francesi persero la vita per perorare la libertà e darci
nuova vita, cinquecentomila civili ebrei, sinti, rom, omosessuali.. una vera
catastrofe che macchiò per sempre la dignità dei francesi, tutti. Ma imparammo
che dal male comune insieme si può rinascere e fu così che rinascemmo, francesi
di Parigi e non e gettammo basi per un futuro allora tutto ancora da scrivere.
“Preso!” Aurelien
sollevò Ben in aria, mettendoselo a cavalcioni sulle spalle; il mio frugoletto
dagli occhi azzurri grandi come pozze, rise di gusto. “Lo sai dove siamo?!”
“Sì.” S’accucciò con
il mento sui folti capelli ramati del papà; rosso contro cenere.. un
bell’effetto emotivo per il mio cuore tumultuoso. “Qui è dove ci sono i mostri
con le braccia di ferro che costruiscono le cose!”
Aurelien mi lanciò un
occhiata divertita, “è questo che ti racconta la mamma?!”
“Mh-mh.
Posso vederli papà?!”
“Oh sì certo e potrai
lavorarci come faccio io! Un giorno questo sarà tuo.” Aurelien circoscrisse lo
spazio dinnanzi a lui con mano aperta; due edifici già costruiti sugli
scheletri dei precedenti ceduti al crollo e altri due che mano a mano stavano
prendendo forma, voluti dal suo progetto di ampliamento mirato alle tecniche di
costruzione e vendita del futuro. “Proprio come lo è stato del nonno e di mio
nonno prima di lui.”
“Ma posso fare anche
il pasticcione come la mamma?!”
“Si dice pasticcere
Benjamin!” Gli arruffai i capelli alzandomi sulle punte, poi guardai Aurelien
con misto di divertimento e rassegnazione. “Ne riparleremo fra qualche anno,
ok?!” Ben annuì scalpitando, il suo papà si chinò lasciando che il ragazzino lo
scavalcasse. “Non oltrepassare il cancello!” Ed era già schizzato via da noi.
“Wow!” Aurelien si
lasciò andare ad un sospiro, passandomi un braccio sulle spalle. “Un altro
indeciso Chedjou.” Ci guardammo profondamente,
consapevoli e taciti di quella verità, prima di essere catturati dall’urlo di
stupore di Ben verso il gancio meccanico della gru che alzava i blocchi di
cemento. “Mostri dalle braccia di ferro eh?!” Ci incamminammo sempre stretti,
la mia mano sulla sua avvinta al mio braccio. “Mio nonno si starà rivoltando
nella tomba..”
“Tuo nonno sarebbe
fiero, invece. Guarda cosa sei stato in grado di fare.”
“Già. Ci pensi?!
Trecento operai e un reparto di spedizione tutto nostro.” Si fermò salutando
con la mano gli operai chini sui calcinacci o sulle impalcature; tutti si
tolsero il cappello alla sua vista, squadrando poi me da capo a piedi. Mi
faceva sempre sorridere questa cosa, a ventotto anni ero una bella donna in
carriera, mamma e moglie devota, con il viso segnato da qualche sofferenza ma
negli anni della guerra ognuno di noi aveva qualche cicatrice scritta in volto.
La mia più grande
aveva il nome di Fabien.
Non era mai più
tornato dalla guerra, al suo posto un giovane soldato aveva bussato alla porta
in un pomeriggio afoso di fine settembre consegnandomi la sua placchetta
identificativa; sembrava avesse espresso il desiderio di farmela avere, se mai
gli fosse accaduto qualcosa. E qualcosa purtroppo successe; disperso in
Normandia durante gli ultimi disperati tentativi dei soldati tedeschi di
ripiegare, il suo corpo non era mai stato ritrovato. I morti senza nome, li
chiamavano. Quello che mi restava di lui era soltanto una placca, la foto di
lui e sua madre ripiegata nel portamonete e un atto notarile in cui mi lasciava
degli immobili come eredità. Anche Madeleine era sparita, la sua bottega porta
i loro nomi ed è stata trasformata nel laboratorio di biscotti che mi ha aiutato
a rialzare la famiglia; penso spesso a loro e quando lo faccio è come se una
parte di me perisse insieme a loro. Non so se era tutto già scritto in un piano
ben preciso del destino; Fabien mi aveva salvato -e
sebbene io credessi il contrario- io avevo salvato lui da se stesso. Voleva
cambiare il mondo, dare un futuro a suo figlio in un posto migliore. Non so se
ci è riuscito, il futuro è ancora in costruzione ma di certo Benjamin è stato un
bambino fortunato soprattutto grazie
a lui; alla maggiore età avrebbe ereditato le aziende Chedjou
o se le sue voglie da pasticcione fossero
cresciute avrebbe portato avanti quello che sua madre e suo padre avevano
cominciato nel caldo agosto dell’anno della sua venuta; la produzione di
biscotti presto divenuta una joint venture europea. Ne avrebbe avuto tutte le
potenzialità, dotato di un grande intuito e genio artistico. Era ed è tutto suo
padre, ovunque lo si guardasse.. ma il padre è chi ti cresce, ed è per questo
che quando lo vedevo dare ordini, organizzare con metodo la sua piccola vita,
togliersi il cibo di bocca per darlo ai barboni sui boulevard io ci vedevo
tanto anche di Aurelien. Era così e andava bene, avevo giurato che mai più
avrei fatto loro del male, ed è per questo che mi svegliavo ogni mattina con la
forza e la voglia di andare avanti, per scoprire un altro giorno insieme ai
miei uomini del cuore; vivevo per i loro sorrisi, per il loro amore e non chiedevo
di più. Avevo camminato per l’inferno, portavo le miei cicatrici ma c’era
sempre qualche altro successo da festeggiare.
“Pensi a lui, vero?!”
Aurelien mi sfiorò la guancia con la mano; prese un casco allacciandolo alla
testa, sorridendomi. “Lo amavamo tutti, non devi essere triste o vergognartene.”
“Grazie, davvero. E’
che quando sono così felice..”
“.. pensi a lui. Sì,
capita anche a me. Non posso che ringraziarlo, ovunque esso sia.”
Sentii gli occhi
pizzicarmi, Aurelien mi guardò con infinito amore, stringendomi forte la mano. “Si
è preso cura di te quando io non ero in grado di farlo e lo ha fatto anche
dopo.” Pensai velocemente al momento in cui gli avevo comunicato delle eredità
lasciate a me dal cugino come ultimo desiderio e sorrisi al ricordo della sua
estrema razionalità e calma come reazione. Scossi il capo, guardandolo con
gratitudine; ricambiò lo sguardo, ma stavolta intenso e fermo. “Figlio mio,
figlio suo.. io vi amo incondizionatamenteDeesire.”
Gemetti, buttandogli
le braccia al collo. “E noi amiamo te.” Qualcuno dai piani alti fischiò,
strappandoci un sorriso. “Ma adesso è meglio che vai, i tuoi operai credono che
stiamo dando spettacolo.”
Annuì compito. “Faccio
un giro di ricognizione e vi porto in centro a prendere un gelato, promesso.”
Mi baciò delicatamente, per poi sparire all’interno dell’edificio ormai
completato, mano nella mano con Benjamin, il suo caschetto di protezione e il
sorriso del bambino che sta per entrare nel paese delle meraviglie. Sospirai
nuovamente, vinta d’amore.
Ero esattamente dove
dovevo essere. Dove volevo essere.
*
NDA:
Innanzitutto
perdonatemi la lunga assenza; ero in vacanza! Yeahh!
(Ma già in modalità
depressione per il rientro.) NoooL
Ho cercato di unire le
idee e fatemi dire che non è stato per niente facile, visto come è sviluppato
il finale di questa storia nella mia testa; vi avevo lasciato con Deesire pronta a mollare tutto per Fabien,
ma il destino si sa, quando ci mette lo zampino crea situazioni che non ti aspetti
e in questo caso la nostra protagonista, ha dovuto far fronte ad una situazione
del tutto inaspettata. Niente lieto fine dunque per lei e Moreau.
Non odiatemi. E non
fatelo neanche per il salto temporale di anni ma credo che parlare
ulteriormente di Deesire/Aurelien fosse insano e che
tutto ciò riguardasse la loro vita negli anni della guerra fosse naturalmente
esaurito. Li ho lasciati pieni di speranze e in attesa di un figlio stavolta “tutto
Chedjou” e ve li ho fatti ritrovare dopo sette anni alle
prese della rinascita post-guerra. Perché? Perché per me questa storia non è
finita, o meglio non ho ancora concluso “Zenzero e Cannella” di tutti i suoi capitoli;
apparentemente può sembrare terminata, ma ho ancora qualcosa da raccontare. La
mia intenzione è di postare un altro capitolo; per chi volesse continuare a
seguirmi GRAZIE DI CUORE, per chi ne ha abbastanza GRAZIE DI CUORE UGUALMENTE,
siete stati tutti meravigliosi.
Mi dispiace tantissimo
avervi fatto aspettare e aver notato che qualcuno ha tolto la storia dalle seguite
ma ok arrivo a capire le diverse motivazioni, solo mi sarebbe piaciuto aver
letto i vostri pareri anche se negativi! Sono masochista lo so!
Per il resto mi auguro
di avervi allietato e di non aver annoiato nessuno.
L’odore fuso di burro
si perde nell’aria come una nuvola dolce; i bambini di Montmartre giocano in
fila sul marciapiede, aspettando il loro turno per entrare in negozio. Adoro le
loro risate, sono un toccasana per il cuore. E la bottega ne è sempre piena.
Continuo a chiamarla così, anche se sono passati venti anni, due cuochi
pasticceri e parecchi metri quadri in espansione; è il mio piccolo tesoro
nell’antica Parigi, dove tutto è cominciato e sono partite le idee e i dolci,
per le altre cinque sedi in Europa. Sono un imprenditrice adesso, sebbene
conservi immutato nel tempo il mio aspetto da signora più intraprendente che viveusee senza guardare con disdegno giornate
come questa passate in cassa a consegnar resto.
“Buongiorno!”
Una ragazza dai lunghi
capelli castani sorride, venendomi incontro dalla strada; apre la porta
energicamente facendo tintinnare le campanelle appese alla porta. Con lei una
scia di profumo dolce, burro e spezie e un fascio di libri rilegati sotto al
braccio. E’ bella. E’ mia figlia, Najla Louise Chedjou.
“Aspettiamo che
Albertine si cambi e andiamo, ok?!” Le sussurro, vedendola battere
impazientemente il piede in terra; è irrequieta proprio come suo padre. Gli ha
rubato anche gli occhi, profondi e intensi di un verde bottiglia imbarazzante. “Oh Aurelien…”.
La cassiera spunta dal
retro trafelata, con il colletto del grembiule tutto storto; è giovane, una
studentessa della Sorbona al suo primo lavoretto. Le sorrido affettuosamente sistemandoglielo
con cura e rinnovo l’appuntamento all’indomani. Potrebbe essere mia figlia
penso, stupendomi del desiderio recondito di avere un altro figlio. Sto
invecchiando, penso fra me e me afferrando borsetta e soprabito.
“Mi domando spesso
perché lo fai.” Najla mi prende sotto braccio, mentre
ci addentriamo nei vicoli del quartiere, in direzione del marchèBarbès, un intrinseco di bancarelle della più
variopinta specie; abbigliamento, antiquariato, viveri da ogni paese, dischi,
libri.. il paradiso insomma, per due come noi che hanno fatto del sabato un
appuntamento fisso per girovagare fra quelle meraviglie. “Voglio dire adesso è
tutto sistemato, potresti benissimo stare a casa a poltrire sul tuo taccuino e
le tue ricette.”
Le stringo teneramente
il braccio, guardandola con rammarico. “Mi aiuta a non pensare.”
“Oh mamma.. non volevo
dire che..” Mi punta addosso uno sguardo affranto, stringendosi forte alla mia
mano, “perdonami, sono stata indelicata.”
“So cosa volevi dire,
tranquilla.” Le bacio la guancia, sentendola sospirare. “E’ come la medicina,
per te. Una missione che ti aiuta ad averlo vicino, suppongo. Così le mie cose,
mi aiutano alla stessa maniera. Tuo padre non se ne è mai andato veramente. E’
dentro di noi, in ogni cosa che facciamo.”
“Oh sì, vero! Quando
ho il capo chino sui tomi di medicina sento che è come se fosse lì con me e mi
sussurra dolcemente “moncherie, non
abbatterti! Troverai la cura per il male oscuro, credici e qualcosa succederà,
vedrai!”.”. Guarda lontano, poi al cielo terso di un inizio maggio con un lampo
di determinazione negli occhi. “Ce la metterò tutta papà, te lo prometto.”
“Era un inguaribile
ottimista.”
“Sì. Ti manca tanto,
vero?!”
“Moltissimo.”
“Un giorno spero di
vivere un amore come il vostro.” Sospira, alzandosi i capelli con il foulard
stretto al polso. “Nel frattempo cercherò di innamorarmi di quei vestiti
vintage laggiù. A dopo mamma.” Mi bacia leggera e scappa al banco saltellando
nel suo vestito a ruota color smeraldo. E’ una visione deliziosa; tocca tutto,
sbuffa, si acciglia, sorride, prova questo, poi quello in turbinio di colori e
movenze.
Aurelien ne era
innamorato cotto, ma il destino ha scandito un tempo troppo breve di vita
insieme per loro, per noi; un giorno, qualcosa nei suoi polmoni si è risvegliato
ed è cominciato tutto con una tosse tremenda. Il dottor Bertrand ci aveva
preparato a questo, ma viverlo realmente è stata tutta un’altra cosa. Non ci si
abitua mai veramente alla paura di perdere qualcuno che amiamo, anche se siamo
pronti, inconsapevolmente il nostro cuore ci chiede altro tempo, un po’ di
speranza, giustizia. Se ne è andato all’inizio di un freddo Novembre di cinque
anni fa, ormai. A Parigi c’era la neve. Quel giorno ha aperto gli occhi e
sorrideva, guardando fuori la finestra; non era pallido, non era emaciato, la
tosse sembrava persino scomparsa. Avevamo parlato tanto del desiderio di
acquistare una casa al mare, magari a Marsiglia per sentirci più “vicino” alla
nostra Africa e per il bene dei suoi polmoni, ma dal tono pacato e quasi
distante della sua voce avevo intuito che non si sentiva davvero parte di
nessun progetto che riguardasse il futuro; i suoi occhi erano lucidi e vacui,
tranne quando i nostri sguardi si incrociavano, allora divenivano ardenti e
pieni d’amore. Non c’era stato bisogno di aggiungere altro, ci eravamo assolti
dai peccati molto tempo prima, amandoci di un amore consapevole e in grado di
cambiarci l’esistenza. Le parole più belle furono per Benjamin, le aspirazioni,
i suoi desideri riposti in quel ragazzino quindicenne alto e magro come un
chiodo; lascialo andare, mi disse e sulle prime non capii.
“Fa che scelga ciò che lo rende davvero felice. Non
vorrei saperlo da solo con i suoi demoni in qualche parte del mondo. Vorrei..
che non si sentisse mai escluso. Me lo prometti, Deesire?!”
Solo allora capii. “Te lo prometto Aurelien.”
Gettai pezzi della mia dignità sul pavimento, assieme alle lacrime sull’orlo
del precipizio e i singhiozzi rotti dalla rabbia.
“Siete la cosa più bella che io abbia mai avuto
dalla vita. Non ho rimpianti.” Mi accarezzò i capelli, sorridendo flebile. “Ti
prego puoi portare qui la sedia a rotelle? Ho voglia di guardare oltre la
finestra.”
Annuii trascinandola da un capo all’altro della
stanza; si aggrappò alle mie spalle in una mossa collaudata che avevamo
ripetuto tante e tante volte da quando si era fatto troppo debole per
camminare. Era di una leggerezza commovente, quasi spariva fra le mie braccia.
Incrociai il suo sguardo mentre gli sistemavo le gambe e mi assicuravo che
fosse ritto con la schiena e tremai; mi sorrise glaciale, increspando le labbra
spaccate e rosse del rivolo di sangue che gli era risalito dalla gola. Poi
guardò fuori, oltre i tetti delle case e la tormenta in atto. Lo pulii svelta,
ma serrò la mia mano con la poca forza rimasta.
“I fiocchi di neve Deesire,
esprimi un desiderio.”
“Non. Andare. Via.” Era un desiderio sciocco. Come
me e la mia voce tremante. E la regola vale solo se lo si afferra, il fiocco,
non lo ricordi Aurelien? Pensai, amaramente.
“Vorrei poterlo avere fra le mie mani adesso.” Era
come se avesse udito i miei pensieri. Sospirò e tirò indietro il capo. “E’ così
bella. Bianca, soffice, morbida. Credo di non esser stato mai più felice come
in quel momento. O forse il giorno in cui ti ho vista vestita di bianco. Oh
no.. il momento più bello è quando ho preso Benjamin fra le braccia la prima
volta. Non riesco a decidermi. Sono stato un uomo davvero felice, ecco.” Mi ero
persa sulla descrizione della neve che il resto del discorso mi aveva
attraversato come una pallottola invisibile. “Sento freddo Deesire.”
Mi asciugai il bordo delle ciglia, voltandomi a
prendere la coperta di lana addormentata sul letto; l’adagiai sulle sue gambe
un tempo muscolose e forti, flettendomi sulle ginocchia; era troppo, mio marito
-il mio bellissimo marito- aggrappato alla vita come una foglia morta
sull’albero in autunno. Non potevo essere egoista, non più. Dovevo lasciarlo
andare, rassicurarlo; ci aveva dato tutto il suo amore e anche di più, non
aveva più senso combattere il dolore che lo stava riducendo a un corpo vuoto. Chinai,
vinta dalla sopraffazione del momento, il capo sul suo grembo, prontamente accarezzato
dalla sua mano incerta. “Ti amo Aurelien. Nemmeno io ho rimpianti; ci hai amati
profondamente e con devozione, sei stato il miglior marito e padre che potessimo
desiderare. Vorrei che tu restassi con noi, ma più di tutto voglio che sei
sereno e che trovi la tua pace, finalmente. Sarai con me e nei tuoi figli per
il resto dei nostri giorni amore mio. Ti amo.”
Fu così che udii solo un sospiro, attimi eterni di
silenzio e la sua mano sempre più immobile sulla mia testa e un secondo
sospiro, stavolta più forte, sommesso, il colpo di vento che spegne la fiamma.
Poi di nuovo il silenzio. E le mie urla; se ne era
andato guardando la neve.
“Mamma! Mamma!” Najla si agita dal fondo di una bancarella di spezie;
inspiro e caccio via i brutti ricordi, raggiungendola. Camminando in direzione
di quel banco vengo attratta da un altro, dove sono esposti libri usati e
antiche rilegature; in prima fila, fra manuali politici e biografie storiche,
capeggia un taccuino dall’aspetto a me familiare; sorrido come un ebete,
buttandomici sopra con una certa nostalgia.
“E tu da dove salti
fuori..” lo rigiro, la stampa è del millenovecentoquaranta,
sembra un originale, ancora intatto con solo la copertina in pelle un po’
usurata, “è tanto che non ci vediamo, eh?!” Con tristezza penso alla bozza che
mi aveva regalato Aurelien, andata persa dopo il trasloco dalla nostra lussuosa
-ma troppo carica di ricordi- casa a una di modesta eleganza in Montmartre,
ricordando con sommo dispiacere di non possedere uno straccio di copia di quello
che fu il mio libro. Guardo al titolo per ulteriore conferma rigirandomelo
ancora fra le mani.. e resto di stucco. “Cucine duDeesire”. Quel
gioco di parole. Incredibile! E’ lui e non so come sia possibile; il mio taccuino
originale! Gli intarsi in oro, il filo di cucitura per la rilegatura, quel
titolo poi rivisto.. come era possibile che non me ne fossi accorta prima? Wow
questo sì che è un colpo di fortuna. O la fortuna non centra nulla? Lo stringo
al petto e guardo oltre le nuvole del tendone. “Grazie Aurelien..”.
“Quanto le devo per
questo buonuomo?!”
Il signore scuro con i
baffi sta per rispondermi quando sento il calore familiare di una voce alle mie
spalle.
“Questo l’ho letto.
Gran bel libro..”
Mi volto lentamente,
il cuore accelerato, il cervello che fa le capriole per aver trasmesso ai
neuroni il ricordo di quella voce associandola ad un viso irrazionalmente
impossibile che sia lo stesso a cui penso. “Credo che potrei morire adesso. Sei
tu?!” Voltata del tutto mi avvicino alla figura, pensando di avere le
traveggole.
Mi guarda e sorride. Quel
sorriso sardonico, all’angolo della bocca. E’ lui, non servono altre prove.
“Come è possibile?!” Gli passo una mano fra i capelli corti e ricci spruzzati
di bianco e lui allarga gli occhi verde-azzurro come due pozze. “Come è
possibile, Fabien?!”
“Quanto tempo hai?!”
“Tutto il tempo che
serve.”
Fabien è vivo. Fabien è
tornato. Passa due franchi al tizio della bancarella e si fa impacchettare il
libro, se lo porta sotto braccio e con educazione mi porge l’altro libero,
conducendomi fuori dalla folla, su di una panchina nello spiazzo dove il
mercato si allarga. Ci guardiamo per attimi simili all’eterno, io incredula e
terrorizzata, lui imbarazzato e visibilmente emozionato.
“I tedeschi erano alle
strette,” comincia a parlare flautando la voce, come il racconto di una fiaba
in bocca a una madre, “gli alleati erano sbarcati in Normandia costringendoli a
riparare al confine dove ad attenderli a fucili spianati, c’eravamo noi. Ma il
crucco è un osso duro, c’è piombato addosso in ultimo disperato tentativo di
sopravvivenza, ed è là che sono stato ferito; credevano fossi morto e mi hanno
gettato in una fossa comune. Quando ho riaperto gli occhi, non so dire quanto
tempo dopo, ho desiderato che fosse realmente così.” Rabbrividisce,
stringendomi la mano di riflesso. “Ma qualcuno ha deciso che non si era fatto
ancora il mio tempo a quanto pare, così ho trovato la forza e mi sono rialzato;
da quel momento ho camminato per giorni senza sapere dove stavo andando. Tutto
ciò che desideravo era portarmi via dalla morte.”
“Oh Fabien è veramente terribile.” Gli sfioro le mani, i suoi
occhi si stringono a fessura; qualsiasi cosa abbia vissuto immaginarlo non sarà
mai pari.“Poi cosa è successo? Ti va di
raccontarlo?!” Annuisce, scansando le mani dalle mie, giocando nervosamente con
i pollici.
“Ho preso il primo
treno per la Spagna, la situazione non era tragica come qui. E nessuno sapeva
chi fossi.. per cui ho pensato bene di restare.” Sonda il terreno con una pausa
e prosegue solo quando mi vede respirare affannosamente. “Tempo dopo, quando
ero certo che le acque si fossero calmate ho richiamato mia madre da Parigi. E’
là che abbiamo vissuto fino ad ora.”
Cerco di mettere in
fila le idee; è scampato alla morte, la più orribile, la più tragica e si è
rifugiato in Spagna con Madeleine facendo credere a tutti noi che fosse morto.
“Perché?!” Sparo a bruciapelo.
“Me lo stai chiedendo
davvero?!”
“Sì. E’ terribile.”
“Lo hai già detto, ma
credevo ti riferissi ad altro.”
“Oh non scherzare Fabien! Ti credevamo morto! Abbiamo pianto per te, al tuo funerale.”
“Ah! Scusa tanto se
sono vivo..” bercia, sarcastico.
“Stupido.. sai a cosa
mi riferisco. Sei vivo e non c’è niente di meglio, ma perché la menzogna?”
“Perché la realtà
faceva schifo, ecco perché.” Si agita sul posto, sbuffando e calando il capo
fra le mani; poi alza di nuovo lo sguardo e lo inchioda nel mio, ardente. “Cosa
altro avrei potuto fare? Tornare a Parigi? E vivere una vita sbavando sulla vostra felicità? Quando ti ho vista in
quella macchina ho capito tutto; non avevamo speranze e la colpa non era ne mia
ne tua, semplicemente non era destino. Per qualche motivo Aurelien avrebbe
sempre vinto, eri sua moglie e lo amavi di un amore che non mi è stato concesso
di capire. L’ho accettato. La guerra ha fatto il resto. Quando ho aperto gli
occhi, in quel mare di fuliggine e cadaveri avrei preferito essere morto io
stesso sì, ma la speranza mi ha fatto andare avanti, il credere che la mia vita
non fosse stata tutta lì, che avevo ancora una possibilità, infondo, per
costruire qualcosa. Ci sono riuscito. O forse no. Ma ho combattuto e non starò
qui a spiegare oltre perché ho preferito costruire la mia esistenza su una
menzogna, quando da questa avrei ottenuto felicità. Felicità Deesire, non ho mai desiderato che questo.”
Mi sento stupida.
Stupida ed egoista, mi stringo nelle spalle ritrovandomi a singhiozzare come
una bambina; accidenti a Fabien Moreau e ai nostri
incontri così carichi e intensi. Non è cambiato niente; e mi accorgo dell’amara
verità di queste parole quando mi prende a se con trasporto e tenerezza,
affondandomi in un abbraccio stretto al petto. Odora di acqua di colonia
fresca, borotalco e sogni infranti. “Sei sempre stata nella mia mente. Tutti.
I. Giorni. Ho. Pensato. A. Voi.”
Parla fra i miei capelli, le labbra a sfiorarmi la fronte, “muoio dalla voglia
di vedere quei capelli biondi e quegli occhi azzurro-amore.” Sono un fiume in
piena; vorrei raccontargli tutto di Benjamin, di quanto gli somigli e di un
mucchio di altre cose frivole che lo riguardano, come di solito fanno le madri
atteggiate quando parlano dei loro figli come di trofei preziosi, ma non riesco
a fare altro che emettere singulti e gemiti. Lui mi stringe sempre più forte
deliziandomi con i suoi “Shh” sospirati fra i
capelli. Potrei morire. E Fabien Moreau mi fa sempre
lo stesso effetto. Dopo venti anni! “Non abbiamo fatto molti progressi se ogni
volta che ci vediamo finisco con il farti piangere.”
Rido, levando il capo
dal suo petto, “oh, ecco tieni.” Mi porge il fazzoletto turchese che ha nel
taschino, “Sbaglio o anche tu hai qualcosa da raccontare? Voglio sapere tutto. DeesireBonnet imprenditrice: chi
lo avrebbe mai detto!”
“Ho solo qualche
negozio in Europa, tutto qua.”
“Tutto qua?! Deesire sei vergognosa, so che hai fatto palate di franchi!”
“Smettila Fabien, mi imbarazzi!” Lo colpisco affettuosamente con una
pacca sulla spalla, “non starei qui a parlarne se non fosse stato per te. Non
ti ho mai ringraziato.”
“L’idea dei biscotti è
stata tua.” Alza le spalle, poi mi guarda serio, “il lascito delle eredità era
il minimo che potessi fare; quando ho saputo che Ben era figlio mio ho messo
subito per iscritto le cose. Non avrei mai immaginato che quei beni sarebbero
serviti così presto.”
“Già. Provvidenziale,
come sempre.”
“Ho saputo cosa è
successo alle fabbriche di mio nonno da un commilitone volato a Londra due mesi
dopo il mio arrivo. Avrei dato tutto quello che possedevo per esservi vicino,
ma era troppo tardi per tornare indietro, mi capisci?!”
“Fabien
stavi contribuendo a salvare il mondo, dovresti prenderti elogi, non sentirti
in colpa perché non eri qui.” Inspiro e proseguo a occhi chiusi, “tuo figlio è
cresciuto molto felice grazie al tuo coraggio.”
“Gli esempi non gli
sono mancati. So quello che ha fatto Aurelien per quella gente. Un vero eroe.”
Guardo lontano, lo
sguardo spento quando penso al mio liege, “un eroe, sì.”
“Mi dispiace Deesire. Mi dispiace tanto, mi credi?!”
Gli accarezzo la
guancia, confortandolo. “Era tuo cugino Fabien. E lo
amavi. Certo che ti credo.”
“Era il migliore.”
“Era.. Aurelien,
semplicemente.”Sorrido ricordando le
sfumature di quella semplicità; un arcobaleno di colori. Poi lo guardo, più
seria e più tranquilla. “Anche lui ti amava, in qualche modo ti era grato di
esserti preso cura di me.”
“Quindi lui..”
“Sapeva tutto. Stavo
correndo te.. quando è scoppiato l’incendio.”
Allarga gli occhi
incredulo, il labbro inferiore tremante. “Non era destino forse, ma ce l’abbiamo
messa tutta per rovinare la festa al fato, eh?!” Gli restituisco il fazzoletto,
assumendo una posizione più rispettabile; qualcuno ci guarda, qualcuno passa
dritto. Ho imparato già da molto tempo a ignorare tutti. Le voci. I giudizi, ma
non voglio affossare il nostro incredibile incontro con inutili patemi. “Sono
stata felice di rivederti Fabien, davvero felice. Ti
tratterrai a Parigi o andrai via?!”
Come se lo avessi
svegliato dal torpore di un bel sogno, si agita riacquistando vigoria. “Sono
tornato per restare. Insegnerò arte in un liceo dei sobborghi.”
“Insegni arte.” E
chissà come non mi stupisco; è sempre stato portato per il bello, dotato di
grande tatto e sensibilità quando si tratta di comprendere le persone.
“Vorrei rivederti
ancora, Deesire.” Sono ancora presa dall’idea di lui
circondato da ragazzi giovani e pieni di promesse che mi accorgo a malapena
delle sue mani sulle mie e delle sue parole condite di speranza. “Un incontro
ogni tanto, due, tre, dove vuoi.. anche qui. Vorrei tanto vedere Benjamin.. con
i tuoi tempi sia chiaro, senza disturbarlo o traumatizzarlo. Sarà un bel
giovane adesso, con un gran da fare suppongo.. andrà bene anche da lontano.”
Sento la portata della sua tristezza risuonarmi come una botta nello stomaco;
sto per piangere di nuovo, lo sento. “Non tirarmi fuori dalla tua vita, sarebbe doloroso e inutile. Ti
prego.”
“Oh Moreau, charmeur!” Lo abbraccio e lo tiro su,
verso l’alto, stringendomi forte alle sue spalle formate da ex soldato, “chi ha
il coraggio di tirarti fuori dalla mia vita, charmeur?” Mi allontano un po’ per guardarlo fisso negli occhi,
orlati di rughe ma di quell’azzurro-felicità che lo ha sempre contraddistinto.
“Ma le cose sono cambiate Fabien. Niente è come l’hai
lasciato.. ed anche io non sono più la stessa Deesire
di un tempo.”
“Oh, sei anche
meglio.” Risponde affrettato, arrossisco. “Non ti corteggerò se non lo vorrai,
promesso.” Ride ed io insieme a lui. “Un passo alla volta, solo questo. Un po’
di felicità.”
E chi non la merita
infondo un po’ di felicità? “Charmeur
ho un ultima domanda.”
“Tutto quello che
vuoi, ma so già cosa vuoi chiedermi.”
“Ho dimenticato la tua
perspicacia! E cosa vorrei dirti, sentiamo?!”
“Ciò che la donna
sicura dell’uomo che ha difronte, non avrebbe bisogno di sentirsi dire.” Mi
risento un po’ del suo tono troppo altezzoso, ma il suo sguardo dolce e la mano
portata leggermente sulla mia guancia mi fanno tremare la testa, il cuore, il
basso ventre! Aiuto! “C’è stata un’altra donna, ma nessun’altra.. come te. Non
avresti avuto bisogno di chiederlo, lo sai che è così.” Si guarda le mani, poi
torna su di me, sorridendo. “Non sono mai stato sposato e l’unico figlio che ho
è anche il tuo.”
Mi mordo il labbro,
arrossendo; mi impongo contegno, sono una donna adulta e rispettabile, con due
figli grandi e.. e sono ancora bella e il mio cuore è ancora giovane. Lo sento
come vibra forte nel petto. “Moreau sei il solito egocentrico! Non era questo
che volevo sapere!” Fingo come posso disinteresse e mi chiedo perché mi guarda
perplesso, come riesce a non notare il rossore colorare le mie guance,
l’effetto che mi fa la sua vicinanza e trattengo così, a stento, una risata;
ridere e piangere allo stesso tempo, questo siamo sempre stati io e lui e con
rammarico e felicità insieme, mi accorgo che è proprio così; non posso cambiare
quello che siamo e non posso non pensare a quello che proviamo quando siamo
vicini. “Adesso però devo andare Fabien, mia figlia
si starà domando dove sono finita.” Lo bacio castamente sulla guancia, ma
indugio sulla sua rasatura di un giorno e l’odore della pelle; mi trattiene a
sé e sospiro, inerme. “Hai una figlia..”
“Mamma!” La voce di Najla arriva come una sirena acuta; pericolo pungente!
“Appunto..” Rido
nell’orecchio di Fabien che sposta subito l’attenzione
sulla figura alta che è mia figlia; la guarda e poi guarda me, stupito. “Lei è Najla Louise Chedjou. Cara, lui è
Fabien Moreau, cugino di tuo padre; ti ricordi di
lui? Papà ne parlava spesso.”
“Sì, il soldato.” Gli
allunga la mano, “ma lei non era morto?!”
“Il piacere è tutto
mio maidemoiselleChedjou.”
C’è ironia e stupore nelle parole di Fabien che mi
guarda poi divertito, scuotendo il capo. Najla
arrossisce ma stempera l’imbarazzo sorridendo genuina. “La prego di scusarmi ma
non capita tutti i giorni di parlare con la specie di fantasia che avevo da
bambina in cui lei -e scusi la franchezza- è morto a cavallo di un destriero e
a spada brandita per salvare la patria!”
“Ah, se è così
allora.. l’ho già perdonata. Però.. spada? E cavallo? Ho sentito bene?”
“E’ una fantasia signor
Moreau! Mio padre mi ha fatto credere che fosse centenario.” Si guardano e
scoppiano a ridere, mi unisco a loro sentendomi felice come non mai. “Mamma ho
incontrato Cosette e mi sta aspettando allo stand delle spezie, laggiù.” Indica
un punto dinnanzi a se mordendosi il labbro. “Le ho proposto di andare a
studiare ai giardini.. tu eri sparita. Ti dispiace.. se vado?!” Mi volto e una
ragazza con folti capelli ricci e rossi ci saluta da lontano, alzo le spalle e
annuisco.
“Non fare tardi.”
“No..” risponde
annoiata, baciandomi la guancia. “Signor Moreau, piacere di averla conosciuta.
E di aver rovinato la mia fantasia di bambina..” Ride ma ci guarda con uno
strano lampo di malizia negli occhi. “Può provvedere lei affinché mia madre
torni a casa sana e salva?!”
Fabien nega con il capo, trattenendo a stento un risolino.
“Sarà un vero piacere. A presto maidemoiselle.” Le
bacia la mano e Najla corre via dalla sua amica.
“Accidenti Deesire è.. è..”
Lo prendo sotto
braccio, “la copia identica di Aurelien, lo so. A quanto pare i cromosomi Chedjou sono veri guerrieri.” Ironizzo delle nostre vite e
torno con il pensiero al mio liege. “Ne era innamorato pazzo, ma amava Benjamin allo
stesso modo.”
“Devi raccontarmi
tutto Deesire, tutto quanto.”
“Oh! Ne abbiamo di
tempo! Da qui a Montmartre, almeno.” Sospiro, voltandomi nella sua direzione; è
là che pende dalle mie labbra e mi guarda con occhi vivaci, “..e almeno per due
o tre incontri ogni tanto. Che ne dici, può andare bene signor Moreau?!”
Sospira, “più che
bene.”
E ci incamminiamo
verso casa, o verso il futuro se vogliamo essere poetici; io e lui a braccetto,
fra le facce della nostra amata e odiata Parigi, che ci ha unito e poi diviso,
che ci ha reso forti e utili, che ha intrecciato con la nostra vita una trama
fitta e indistricabile e in sottofondo uno chansonnier, che si infila fra un
banco e l’altro, intonando canzoni di vecchia gloria ma che si ferma, vedendoci
passare così indelebili, vicini, due colori che diventano una macchia sola. Ci
sorride pazzo, noi lo guardiamo attratti da quel sorriso e sorridiamo a nostra
volta, fermandoci. Un veloce scambio d’occhiate fra me e Fabien
fa sì che lui sposti la sua fisarmonica di nuovo sul cuore -la dove nascono le
emozioni- e cominci ad intonare una vecchia poesia.
“Demoni e meraviglie. Venti e maree. Lontano già si è ritirato il mare.
E tu come alga dolcemente accarezzata dal vento, nella sabbia del tuo letto
ti agiti sognando.
Demoni e meraviglie. Venti e maree. Lontano già si è ritirato il mare.
Ma nei tuoi occhi socchiusi, due piccole onde son rimaste.
Demoni e meraviglie. Venti e maree.
Due piccole onde , per annegarmi.”
Le note di Prevert terminano, restiamo senza fiato per lo stupore;
l’uomo ci guarda e piega il capo da un lato, sorride e intona un altro canto,
sparendo dietro alle gonne di due signorine più in là.
Fabien ride di cuore, piegandosi in avanti dalla
commozione; dai suoi occhi scendono lacrime come pioggia a valle, si infrangono
sulla strada e restano lì, memori di ciò che sono. Lo abbraccio e restiamo così,
senza tempo, il mio capo sulla sua spalla e i suoi occhi sul fondo.
“Credo il destino ci
stia dicendo qualcosa.” Ansima, disperato.
“Oh sì. Je t’aime, Charmeur. Je
t’aime.”
“Oui,
moiaussi. Je t’aime, Deesire.”
*
NDA:
Care lettrici e cari
lettori, probabilmente questa non sarà la f.f più
originale che abbiate avuto il piacere o il dispiacere di leggere, ma ci tengo
a spendere due parole su questa storia: io l’ho amata scrivere più di quanto si
possa arrivare a immaginare e non lo ritenevo possibile, ma ogni parola, ogni
virgola, ogni personaggio mi è entrato dentro e non andrà via tanto presto, lo
so. Mi affeziono sempre troppo a
tutto.
Io spero con tutto il
cuore che vi sia piaciuta, almeno quanto è piaciuto a me scriverla. (e sarebbe
già tantissimo!) se volete lasciarmi i vostri pareri sono sempre qui con il
sorriso ad attenderli J
Grazie a:
_Nihil_
Ultimo puffo
EliseeDobois
The Rocker
Benny Badflour
None to Blame
Per aver fatto di
questa storia, dodici recensioni meravigliose. Vi adoro, grazie.
Grazie anche ai
lettori silenziosi e a chi ha aggiunto la storia in
preferite/seguite/ricordare.
Grazie a:
Justin Timberlake. (vi
prego tenete le vostre risatine sarcastiche per voi. E anche i pomodori!) e il repeat forzato sul suo brano “Mirror”,
quale sottofondo ispiratore. C’è un video di questa canzone su Y.T che conta
settantadue milioni di visite, al momento: i due milioni saranno sicuro le mie.
Parigi. Città che ho
sempre destato perché certe romanticherie mi fanno venire il volta stomaco ma..
che bello ricredersi; l’ho amata dal primo momento che ci ho messo piede, ormai
un anno fa, nella giornata più romantica dell’anno. San Valentino. Lo so, sono
tutto e il contrario di tutto.
A me. Che posso ancora
migliorare; nel frattempo ce la sto mettendo tutta anche se sono otto anni che
sono iscritta su questo sito e prendo questa cosa dello scrivere così come è..
un passatempo per sognare un po’. Ah proposito, se vi va date un occhiata anche
alle altre mie storie (tutte datate e antecedenti al mio ritorno) “Ricordati di
me”. “Il punto e la sfera”. “Leave to me”. Quelle di
cui vado più orgogliosa e mi auguro piacciano anche a voi se mai ci passaste a
fare un giro!