Zenzero e Cannella

di Luna_R
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


ZENZERO E CANNELLA.

Capitolo 1.

 

Il mio nome è Deesire.

Che si pronuncia con le due e iniziali marcate e la terza muta come si usa dopo la consonante in francese. Perché io sono francese. Almeno per metà. L’altra metà di me appartiene al Marocco, dove mio padre è nato e vissuto fino agli anni venti, quando ha conosciuto mia madre francese doc e per amor suo si trasferì nella Ville Lumiere.

E’ Parigi dunque la città dove sono nata. Dicono nella migliore decade mai vista; Picasso, Dalì, Modigliani, le grandi attrici e ballerine di charleston, il mouline Rouge.. la belle epoque.

Davvero tutto molto bello. Ma la Parigi che mi piace è la città che è ora; asfissiata sì da un'altra guerra mondiale ma dove le donne hanno maggiori opportunità . Se parlo così è perché mi piace scrivere e detesterei l’idea di non vedere pubblicato qualcosa che porti la mia firma, solo perché sono nata con il cromosoma sbagliato.

Mio padre sorriderebbe nel sentirmi parlare così, lo fa ogni volta, ma per lui è diverso.

Nato in una famiglia borghese marocchina ha sposato una francese perbene ed ereditaria di una fortuna, studi con massimo dei voti alla Sorbona ed oggi al comando delle aziende di mia madre.. può ritenersi fortunato ad essere uomo. Per me non è così.

Purtroppo la guerra ci ha portato un ventaglio di cause/effetto che hanno affossato i nostri affari e questo lo ha reso molto negativo riguardo al futuro, ma cerca di mantenere una facciata perfetta per il bene mio e di mia madre. Io cosa c'entro con tutto questo?!

Avete mai sentito parlare di matrimonio di interesse?

Può accadere fra due aziende, se entrambi i vertici si fondono per risanare questa o quella; bene qui non c’è in ballo solo un matrimonio finanziario ma.. quello mio e dell’altra controparte. Ricca.

Ricchissima a dire il vero.

Aurelien Chedjou, nipote di Jacque Chedjou suo nonno e potente industriale del settore metallurgico.

 

E questa.. beh questa è la mia storia.

 

***

NDA:

Se vi ha stuzzicato almeno un pochino non esitate a lasciarmi le vostre impressioni!

Non si tratterà assolutamente di una fanfiction storica ma semplicemente una storia d’amore ambientata in un periodo storico che mi ha sempre affascinato; beh due a dire il vero, anni 20 e 40 (anche se il primo viene solo menzionato).

Spero vi piaccia.

A presto,

Lunadreamy.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 2.

 

“No, no, no! Il nero non va bene. Mi sembrava di essermi spiegata bene, signorina. La prego di chiamare madame Chantal, le dica di venire subito qui.”

Arrivammo alla boutique delle rose appena in tempo perché a mia madre non prendesse un infarto; erano giorni che aspettava questo momento, lo stress le aveva riempito la faccia di orribili bolle, avrei giurato di vederla andare in mille pezzi tanta l’agitazione con cui si dimenava. Le cose non erano andate tanto meglio perché neanche dieci minuti dalla nostra apparizione aveva già trovato da che ridire.

Il motivo era un elegantissimo abito di satin nero che se stava in tutta la sua beata bellezza appeso a una gruccia pregandomi di essere messo alla prova; un bel vestito, non c’è che dire, forse troppo austero ma decisamente bello.

Clorine cara, che piacere vederti! E questa è Deesire? Ma è una meraviglia.” Madame Chantal e le sue moine apparirono nel salotto privato riservatoci per l’occasione; la donna era la proprietaria del prestigioso atelier in rue Saint Honorè. “In cosa posso esserti utile mia cara?!”

“Credo che il colore sia inadatto.” Dissi, mal celando imbarazzo.

“Petit, conduci mademoiselle Bonnet alla prova e falle avere anche tutti gli accessori.” Le bastò dare un colpetto di mano perché una gracile ragazzina bionda mi prendesse delicatamente per mano e mi conducesse dietro delle pesanti tende bianche. Tutto questo mi divertiva, lo ammetto. I vestiti, la moda, trovavo fossero motivo di allegria, spensieratezza da non riuscire proprio a capacitarmi come mia madre e quasi tutte le donne ricche o nobili di Francia potessero riporre aspettative così alte in una cosa così frivola. Mi lasciai svestire e adornare poi come una bambola; la seta del vestito aderiva perfettamente al mio corpo, era fresca e leggera come avevo immaginato, Petit mi aveva legato in vita un nastro blu cobalto tempestato di gemme dello stesso colore e sulle spalle aveva appoggiato una stola di ermellino morbida come una nuvola, un paio di guanti scuri e lunghi fino al gomito avevano poi chiuso il delizioso rituale.

Uscii e quelle che sembravano le proteste di mia madre smorzarono in un sussulto. “Ma come…”

“Un vestito non è niente senza l’anima di chi lo indossa.” Madame Chantal mi invitò allo specchio; pensai di non aver visto mai nulla di tanto bello. Quella stoffa che prima sembrava solo nero, ora sotto le luci soffuse della lampada rifulgeva di riflessi bluette satinati. “Stai d’incanto, mia cara.” Sorrisi, aveva ragione.

“Questa madame Chantal è un diavolo. Sei bellissima.” Mia madre mi schioccò un bacio umido, danzandomi intorno, non appena le due donne ci avevano lasciate sole. Aveva gli occhi lucidi e le aspettative di cui parlavo appese allo sguardo addolcito.

Avevo diciotto anni. Molte ragazze della mia età erano già maritate. Seppur si trattava del vestito che avrei indossato durante il gala in cui avrei conosciuto quello che forse sarebbe divenuto un giorno mio marito non riuscivo a provare nessuna emozione che non fosse per il vestito stesso; non avevo paura e non avvertivo nessuna pressione, nella mia testa Aurelien era il giovane perfetto che tutte le donne ambivano ad impalmare non potevo che essere grata per questo… solo, mancava il romanticismo. Del tipo uomo e donna che si incontrano per caso, magari in un giorno di pioggia in un caffè di Parigi, lei che urta inavvertitamente la spalla di lui e lui che la prega di non scusarsi e le offre una cioccolata. Quello dagli sguardi prima timidi, indagatori poi voraci. Quello della promessa di rivedersi presto, per una passeggiata. Quello della passeggiata al chiaro di luna ma sorvegliati, delle parole dolci sussurrate nell’orecchio per non farsi scoprire, le mani che si sfiorano sotto al tavolo del thè del pomeriggio. Quello che la proposta arriva in un giorno qualunque, con un fascio di rose rosse profumate, nel salotto buono di casa con tua madre emozionata e tuo padre teso seduto in poltrona. Quello che si racconta alle figlie e alle nipoti e che si tramanda da donna a donna.. e se non proprio così, almeno una copia fedele.

 

Una settimana dopo, il mazzo di rose che aspettavo arrivò accompagnato da un biglietto scritto in corsivo.

 

“Sono molto ansioso di fare la vostra conoscenza.

Spero che le rose siano di vostro gradimento.

Aurelien”

 

Lo riposi con cura nel settimino, dopo averlo letto almeno dieci volte e studiato quella grafia così minuta e perfetta nell’insieme, con il cuore un po’ più leggero. La macchina venne a prenderci alle otto in punto, Jerome il nostro autista mi fece strada aprendomi la portiera. Ero emozionata come una bambina, ma anche ansiosa di vederlo e poterci parlare finalmente. Tutto ciò che mi era stato raccontato di lui non era sufficiente a placare la sete di curiosità che si accendeva ogni qualvolta lo pensavo; era nato in primavera, primogenito e unico figlio di Martin Chedjou e Ines Lefebvre ballerina molto in voga nella belle epoque e cosa non trascurabile erede dell’impero tirato su da suo nonno. Si raccontava fosse di grande intelligenza e assennatezza, amante dell’arte e stratega in erba, come se i milioni ereditati non bastassero a voler sottolineare di aver preso il meglio di entrambi i genitori… perlomeno, l’amore per l’arte lo rendeva molto affine al mio carattere che delle strategie di mercato ho sempre lasciato che se ne occupasse Cedric, il mio fratellino minore. Per ora avevamo solo questo in comune ma ciò che interessava a me era carpire la sua anima.

Noi artisti siamo così, i beni materiali sono nulla dinnanzi la ricchezza dell’essere.

 

L’edificio che mi trovai davanti era talmente imponente da farmi mancare il fiato; un palazzo stile liberty con elementi barocchi antichi di almeno duecento anni, il tutto prepotentemente bianco. A giudicare dalla fila di auto posteggiate nel viale antistante dedussi che c’era abbastanza spazio perché quello che sembrava in apparenza un galà per pochi intimi si fosse trasformato in breve nel galà dell’anno.

Mi lasciai percuotere dal tremolio delle gambe con la voglia improvvisa di darmi alla fuga; ero stata molto convincente fino ad ora, che sarebbe successo se avessi tirato su il vestito e me la fossi data a gambe?

Nulla, perché mia madre non mi dette neanche il tempo materiale per riflettere qualora la mia fosse una reazione normale o meditavo sul serio di mandare tutto al diavolo, prendendomi sotto braccio e scortandomi verso l’entrata. Il lusso che ci investì ci dette il capogiro.

“Ti prego non mollare il mio braccio.” Le sussurrai alla vista di un panciuto signore in frak.

“Quello è Baptiste Moreau, non lo ricordi? Tu e suo figlio prendevate lezioni di canto insieme da piccoli.”

“Che ne è stato della signora Moreau?!” Fissai la donna giovane che si teneva stretta al braccio dell’uomo. Troppo giovane per essere una signora e troppo accalorata per essere sua figlia.

“Si fa vedere in giro per Montmartre con un pittore dalla metà dei suoi anni.”

Quando avevo voglia di pettegolezzi la mia esaustiva mamma era la fonte ideale alla quale attingere. Baptiste ci avvicinò baciandoci le mani, la graziosa giovane si limitò a un saluto leggero con il capo; era elegantemente vestita di chiffon chiaro e portava i capelli corti legati da un nastro di raso rosso. Perlomeno aveva buon gusto. Ricambiò il mio sguardo con un sorriso all’angolo della bocca.

“Tutti parlano della tua bellezza cara, ma io dico sempre che le parole tolgono i fatti, ed effettivamente non rendono giustizia alla tua persona, Deesire.” Quando toccò al mio baciamano non la lasciò tenendola stretta nella sua, paffuta e morbida come velluto. “Aurelien è fortunato.”

“La bellezza è nei vostri occhi.” Ritirai la mano tornando con lo sguardo alla sua dama, “e voi siete troppo gentile Monsieur Moreau.” Mia madre sorrise e si affrettò a chiederle del figlio, degli affari più tutta un’ innumerevole serie di chiacchiere che lo fecero dileguare in breve tempo. Ringraziai il cielo e prosegui con lei per l’ampia sala adibita per la cena.

Lasciati i soprabiti mi immersi nel nugolo di folla che in breve tempo si strinse intorno a noi, blasonati nomi della ricca Parigi ed emergenti nuovi ricchi con mogli, figlie e figli al seguito. Le conversazioni erano sempre le stesse, noiosi trattati di finanza, commercio estero, complimenti sterili a voler nascondere un pizzico di invidia per la fortuna che ci era capitata e una valanga di bla bla bla che presto mi stufarono convincendomi ad allontanarmi e riprendere fiato.

Mi guardai intorno; mio padre era braccato dai Dupont, gioiellieri e mia madre faceva comunella con alcune donne imbellettate come se fossero ad un galà regale. Per il momento non si sarebbero nemmeno accorti della mia assenza quindi alzai le spalle e volteggiai per i corridoi.

Gironzolando mi ritrovai in una sala adibita a biblioteca, decine di volumi rilegati giacevano fra gli scaffali alti quanto il soffitto; la sala era piuttosto grande, arredata con tappeti e tavoli di cristallo sulla quale se ne stavano poggiati manufatti in ebano. I signori Chedjou erano amanti dei viaggi, in particolar modo madame Ines amava l’Africa e i safari che si dicesse costringesse il marito a lunghe traversate mediterranee ogni anno per potervi partecipare. Una donna che sapeva il fatto suo, adorabile dunque e già balzata in cima alla mia lista di favoriti.

Sfilai da uno scaffale un libro alto quanto la mia mano; vecchie poesie francesi di un poeta del quale non avevo mai sentito parlare, annusai le pagine come ero solerte fare e mi accomodai su una delle poltrone lasciando che la mano vagasse fra gli scritti.

“Quello è Prevert. Devi fare molta attenzione è il preferito di mia zia.”

Mi girai in direzione della voce; un ragazzo biondo e riccio se ne stava allegramente appoggiato allo stipite della porta ad osservarmi. Avvampai, chiudendo il libro di scatto ed alzandomi per riporlo.

“Conosco Prevert. Ma qui c’è un altro nome.” Mi giustificai dandogli le spalle, quello percorse pochi passi e mi raggiunse; mi sfilò il tomo dalle mani sbatacchiando via alcune pagine, quando ebbe fatto mi mostrò la firma piccola e inconfondibile dell’artista.

“E’ uno pseudonimo. Non so come ma mia zia lo ha convinto a cedergli questo manoscritto.. a patto che il suo nome restasse celato. Fra qualche anno queste pagine varranno una fortuna.”

Mi sorrise invitandomi a prendere posto nuovamente sulla poltrona; lo accontentai sorridendo, si appoggiò sul bracciolo al mio fianco e cominciò a recitarmi una poesia.

“I ragazzi che si amano si baciano in piedi contro le porte della notte..”

“.. e i passanti che passano li segnano a dito. Ma i ragazzi innamorati non ci sono per nessuno.”

Si zittì quando lo incalzai. Mi fissò con quell’aria divertita con la quale era arrivato; era molto bello, belle labbra rosse, zigomi delicati, occhi di un verde-azzurro indecifrabile. Per un attimo non pensai nemmeno di starmene su una poltrona accanto a uno sconosciuto bellissimo, avevo la strana sensazione di conoscerlo da sempre. Ero stupidamente imbambolata sui suoi ricci dorati e mi detti della cretina per essere caduta nuovamente nelle mie fantasie da artista da strapazzo.

“Lo conosco.” Sorrisi beffarda e lui si accigliò.

“Vediamo se conosci questa. Demoni e meraviglie. Venti e maree. Lontano già si è ritirato il mare..” Mi guardò accennando a continuare. Mi schiarii la voce e proseguii “..e tu come alga dolcemente accarezzata al vento..” ci fissammo sorridendo, lui ampiamente colpito e proseguimmo insieme “nella sabbia del tuo letto ti agiti sognando.”

“E’ la mia preferita. Grazie.” Lo canzonai ma accettò di buon grado restituendomi il libro.

“Lo ammetto sei preparata. Ma dimmi sai anche che il maestro tornerà a Parigi per uno spettacolo teatrale questa domenica? Dovremmo andarci, l’America lo ha reso molto famoso non so ancora per quanto potremmo godercelo in anonimato.”

“Dovremmo?! Io e te?!”

“Sì, Deesire. So chi sei, ma tu non sai chi sono io.”

E proprio mentre avrei voluto ribattere la sua sfrontatezza, sull’uscio della sala comparve Monsieur Moreau molto sorpreso di vederci insieme e in una posizione del tutto confidenziale; mi alzai prendendo la via d’uscita ma mi fermai non appena Baptiste parlò.

“Stai pure Deesire ero solo venuto a reclamare mio figlio.” Il giovane dietro alle mie spalle rise “ha la brutta abitudine di sparire in serate particolarmente importanti come questa. Non so se te lo ha detto ma.. dopo Aurelien lui è l’erede di Chedjou. Sua madre è una Chedjou e ho promesso a suo nonno di non deluderlo.”

Mi girò la testa. Troppe informazioni.

Il ragazzo si mosse nella mia direzione e mi allungò la mano.

Fabien Moreau, cugino di Aurelien Chedjou. Ora sai chi sono.” Mi sorrise incoraggiante, debolmente allungai la mano “avremmo modo di conoscerci meglio.” Girò la mia mano portandola alle sue labbra; quel contatto mi fece tremolare tutta. Ci guardammo intensamente, prima che un commesso di sala ci richiamasse tutti per la cena.

Ero stordita.

 

Mi accomodai fra mia madre e mio padre al grande tavolo rettangolare nella sala forse più bella e sfarzosa di tutto il palazzo; arazzi alle pareti, soffitto incastonato da basso rilievi d’oro, marmo e argenteria pesante ovunque mi girassi. Ad occhio e croce una trentina di commensali se ne stavano in trepida attesa che le portate sopraggiungessero dalle cucine; deglutii, incrociando gli occhi del giovane vicino al capotavola.

Capii che era lui perché mia madre mi pizzicò il braccio. Sorrisi e inchinò il capo socchiudendo gli occhi.

Aurelien era l’esatta copia di sua madre, la donna seduta alla sua destra; capelli folti e ramati, occhi verdi bottiglia e lineamenti scolpiti. Il capotavola doveva essere senza dubbio Jacque dato l’anzianità del viso e sedutogli accanto, Martin, dai capelli uguali al figlio.

Baptiste e la giovane compagna sedevano subito dopo rispettivamente l’uno fronte l’altra, Fabien stava accanto al padre e aveva difronte una chiassosa ragazza bionda della stessa mia età.

Lo stomaco mi grugnì. Detti colpa alla fame.

“Il figlio di Baptiste ti sta divorando con gli occhi. Dovrebbero dirgli di affondare i denti nel proprio piatto..”

Mi sentii stranamente lusingata, tuttavia alzai le spalle. “Mamma esageri come sempre..”

“Poverino con quella madre scanzonata..”

Posai la forchetta stizzita e la guardai. “Lo sai che in linea diretta è un erede di Jacque?!”

“Non me lo ricordare.”

Abbandonai l’inutile guerra con mia madre e mi deliziai con una meravigliosa creme brulle; Aurelien dietro al calice di champagne non perdeva attimo per studiarmi e questo rendeva ancora più stuzzicante il gioco. Ero al centro esatto di una contesa di sguardi, Fabien da un lato sfacciato e Aurelien dall’altro defilato. Bene, avrei avuto di che raccontare.. se non fosse che la voce da soprano di Jacque Chedjou riportò le mie fantasie prepotentemente alla realtà.

“Miei gentili ospiti, come ben sapete siamo qui stasera per festeggiare due buone nuove.” L’uomo si alzò dalla sedia tintinnando una forchetta sul flute. “Il mio nuovo socio, Ahmed Bonnet proprietario delle aziende Fontaine da oggi nostre consociate e i nostri preziosi fiori, Deesire e Aurelien, il nostro futuro più prossimo. ” Ci guardarono tutti; me, Aurelien, Jacque, poi di nuovo me, perfetti attori inconsapevoli del motivo per cui i loro inviti citassero “evento privato” al di fuori della sorte delle loro quote aziendali. “Avete udito bene signori miei. Il mio sodalizio con il signor Bonnet va così oltre gli affari che egli mi ha concesso lo straordinario onore di concedere la mano di sua figlia a mio nipote.”

“Udite.. udite..” Un ironico Fabien alzò il calice alla volta del cugino che di rimando alzò il suo sfidandolo a sostenere lo sguardo; dal canto mio mi limitai a sorridere al vecchio Chedjou cercando di ignorare le schermaglie di due ragazzini viziati. Che avevano in mente quei due? Contendermi come fossi un giocattolo? Mi sentii indignata.

“Lo straordinario onore è tutto il nostro Monsieur Chedjou.” Mia madre parlò a voce alta distogliendo l’attenzione dai due galli.

Clorine Fontaine, non vedo l’ora di avervi nella mia famiglia e deliziarmi con i vostri racconti. Tuo marito dice che sei una fonte inesauribile di storie.” Per la prima volta in vita mia vidi mia madre arrossire, non tanto certa che avesse gradito il complimento, sicuramente intenzionata a scuoiare papà.

“Avremmo tempo per deliziarci, Monsieur. Forse è il caso di congedare i tuoi ospiti e parlare fra grandi.” Mio padre parlò risoluto ma con una vena ironica nella voce; strinse forte la mano di mia madre baciandola.

“Ben detto. Prego mie cari dirigetevi pure nei saloni attigui per il dopocena. Le carte e i noiosi dettagli vi verranno risparmiati.” Jacque sorrise sollecitandoci a seguire i commessi di sala verso la serata danzante che ci aspettava; deposi il tovagliolo sul tavolo lanciando occhiatine silenziose e cariche di interrogativi alla volta di mio padre e degli uomini che si stavano allontanando per un corridoio secondario.

 

“Posso invitare la mia futura sposa per un ballo?!”

Quelle furono le prime parole che gli sentii pronunciare.

Durante la cena era stato tutto un sussurro e sorrisi cortesi rivolti alle dame che gli facevano questa o quella domanda che non avevo avuto il piacere di ascoltare la sua voce incredibilmente profonda.

Acconsentii a farmi trascinare al centro della pista sotto i gridolini eccitati delle giovani presenti; eccoci quà, la fiaba vivente del vissero per sempre felici e contenti. O perlomeno questo era quello che gli altri vedevano in noi. Soprattutto mia madre che nel momento esatto in cui le nostre mani si sfiorarono si sciolse in un brodo di giuggiole.

Era alto ed incredibilmente piazzato, fra le sue braccia sembravo un esile giunco sebbene i miei sessanta chili per un metro e settantatre non facessero di me proprio un barattolino; aveva mani grandi e allungate, il colore della pelle abbronzato perfetto con il mio da mulatta. Immaginavo che le favole non potessero avere protagonisti più verosimilmente ben assortiti come noi. Il destino per lo meno aveva giocato bene.

“C’è tempo, avete sentito mio padre?!”

“Già, se il cointreau non dovesse dar l’effetto sperato, domani ci ritroveremmo di nuovo come estranei.”

Sorrisi. Ironico. Un altro punto a favore dopo l’arte, beh non che il resto fosse da disprezzare.

“Dovreste ricordare però che non sono un trofeo da conquistare, Chedjou.”

Mi guardò sorpreso dalle mie stesse parole. “Ti prego non fare caso a mio cugino; siamo cresciuti insieme, quasi come fratelli. Amiamo stuzzicarci, ma ti chiedo scusa se in qualche modo ti ho offesa. E ti prego, diamoci del tu.”

Rimuginai giusto il tempo di vedere i suoi occhi verdi adombrarsi. “Scuse accettate.. Aurelien. Tu sai già chi sono io ovviamente e per quanto sembri che debba accettare tutto questo ti dico già da ora che sarà un arduo compito; non sono esattamente la fanciulla più accomodante che ti potesse capitare.. ”

“Lo so e mi piace. Non dovrai accettare nulla che non ti renda felice. E’ mia intenzione fare di te una signora molto, molto, molto felice.”

“Lo spero.” Biascicai poco convinta.

“Bando ai convenevoli Deesire, entro la fine dell’anno dolenti o volenti noi ci sposeremo.” Diretto. Nella mia testa anche questo era un punto a favore. “Ho intenzione di sapere tutto di te, cosa ti piace, cosa no.. non ti chiedo di innamorarti di me stanotte, ma di conoscerci e lasciare che il tempo faccia il suo corso.”

D’un tratto la musica si era fermata e noi eravamo lì ancora stretti a ballare.

Fuggii ansiosa con lo sguardo lontano e notai Fabien avvinghiato alla ragazza bionda della cena; le sussurrava qualcosa di molto divertente all’orecchio dato la pena che si dava la poveretta per ridere. Mi strinsi più forte al mio cavaliere che prese il gesto per incitamento cingendomi contro il suo petto.

“Mi piace Prevert.” Soffiai contro la seta del suo completo; odorava di lavanda e la cosa mi fece sorridere. “Domenica terrà uno spettacolo e forse se ti compiace..”

“Passerò a prenderti, con il permesso dei tuoi genitori. Spero non protestino troppo se andassimo soli.”

“Beh, potremmo non essere soli.” Mi scostai indicando con il mento Fabien e la ragazza che a forza di ridere era diventata dello stesso color porpora delle tende; provai a sentirmi meschina per questo ma non ci riuscii, lo champagne doveva avermi resa un po’ troppo sciolta. Ma forse non era lo champagne e mi morsi la lingua l’esatto istante in cui realizzai in cosa stavo andando a cacciarmi. Aurelien sorrise alzando le spalle. “Ci sarà da divertirsi. Juliette è una ragazza molto bizzarra.” Annui credendogli sulla parola, tornando a ballare, sempre senza musica, con il mio capo sulla sua spalla e il suo naso fra i miei capelli.

Ero sicura che i miei non avrebbero protestato.

Come pure ero sicura che non volevo Fabien lontano da me.

***

NDA:

CARI LETTORI SE SIETE ARRIVATI FIN QUA NON LASCIATE IL VOSTRO VIAGGIO INCOMPIUTO.

COMMENTATE E FATEMI SAPERE COSA NE PENSATE! MI FARA’ SOLO CHE PIACERE.

Questo è il primo vero e proprio capitolo, cominciamo a sapere qualcosa in più su Deesire e Aurelien più un personaggio che darà molto filo da torcere ad entrambi.. ma non voglio aggiungere altro ;)

Spero mi seguirete.

A presto.

Lunadreamy

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 3.

 

Domenica arrivò puntuale come la Rolls Royce 25/30 rossa di Aurelien.

Il ragazzo si presentò a casa mia alle quattro spaccate, con un mazzo di tulipani per me e un pacchetto della rinomata pasticceria “Allard” in zona St. Germaine per mia madre; Clorine Fontaine era in visibilio, se avessi avuto il dono della predizione avrei predetto che fosse la donna più felice al mondo. E non avrei sbagliato.

Mio padre lo accolse piuttosto rigido, nel salotto buono della nostra casa nel Marais, elegante quartiere di Parigi che vanta il commercio più ricco e fluente, con una vista superba sulla Senna; nulla in confronto l’imperioso possedimento dei Chedjou, ma con un suo valore per noi nuovi ricchi.

“Buonasera signor Bonnet. Grazie per avermi concesso il permesso di passare a prendere Deesire.” E sposarla ma a questo punto gli sembrava un po’ troppo aumentare la dose di complimenti quindi sorrise guardando alle scale che davano sul piano superiore. “Ah proposito, si farà attendere vero?!”

Mio padre sorrise. “Come tutte le donne. Ma lei devo dire che è molto furba, almeno finge disinteresse per tutto ciò che sia moda, vestiti, acconciature… ma siediti Aurelien non startene impalato. Desideri qualcosa, brandy? Whisky?”

“Un acqua e limone andrà bene.”

Mia madre accompagnata dalla cameriera fece apparizione nella sala come una diva; si lasciò baciare la mano, accolse con gioia il vassoio dei dolci neanche fosse uno zaffiro di una miniera alla fine del mondo e roteò intorno ad Aurelien come un ape sul miele. Lo tempestò di domande, complimenti più tutta una serie infinita di racconti su come si erano conosciuti lei e papà. Dopo pochi minuti, con il cuore in gola e il corpetto del vestito tanto stretto da provocarmi un emorragia nasale, scesi dalla scalinata affrettando i passi, sentendo dal basso solo la voce prepotente di mia madre coprire il silenzio; avevo paura che il ragazzo fosse scappato o peggio ancora addormentato.

E invece era lì, in un completo chiaro che risaltava i suoi capelli ramati, il sorriso più bello e solare del mondo, mentre la donna seduta difronte lo suonava come una campana con dei racconti strampalati; nella sala scese il silenzio, mia madre si lasciò scappare un sussurro e lui si voltò lentamente verso di me, alzandosi con uno scatto da primatista per raggiungermi. Mi sorrise, ancora quel bel sorriso. Che cattiveria avere un sorriso così bello e un mare di soldi a disposizione; sei impossibile da odiare.

“Ciao Deesire” Mi sfiorò il polso con le labbra. “Sei adorabile.” Si leccò le labbra arricciando il naso; avevo spruzzato del profumo alla rosa proprio dove si era poggiato; mi guardò e un lampo di rassegnazione passò nei suoi occhi. “Sei tremenda.” Sussurrò di spalle ai miei.

“E’ solo un bel vestito.” Sghignazzai prendendo il suo braccio. “Noi andiamo, a più tardi.”

Fece i suoi ossequi tenendomi sempre ben stretta al fianco, mi scortò all’uscita e con galanteria mi aprì la portiera; mi accomodai sui sedili di pelle beige profumati di nuovo, visto il sole aveva liberato la capote e l’auto era diventata una deliziosa coupè, sorrisi slegando il foulard dalla mia borsa legandolo stretto sui capelli per un attimo immaginandomi una diva di altri tempi.

“Siamo soli.” Osservai, mentre il viale di casa mia si faceva sempre più piccolo alle nostre spalle.

Fabien e Juliette ci aspettano al caffè Allard. Spero non.. ti dispiaccia.”

“Non mi dispiace.” Arrossii perché la sua mano dal cambio aveva fatto una leggera deviazione sulle dita della mia mano, prima di tornare saldamente al cambio.

“Prima di avvelenarmi dicevo sul serio Deesire, sei molto bella.” Studiai con attenzione il suo volto; la mascella marcata lo facevano sembrare molto più adulto della sua età e il naso greco gli conferiva una fierezza degna di un eroe. Sì, potevo tranquillamente asserire la medesima cosa.

“Anche tu Aurelien. Peccato solo che la bellezza sia un qualcosa di effimero.”

“Sono quasi certo che sotto il tuo viso di porcellana si nasconda un anima estrosa.” Mi guardò gettando un occhio alla strada, prima di sorridere. “Per quanto riguarda me sono solo un uomo che è molto bravo nel far spendere milioni franchi a uomini ricchi.”

“Non volevo dire che tu fossi bello e basta, perdonami.”

“Oh no tranquilla, guardandomi è difficile credere che dietro le amministrazioni delle aziende Chedjou ci sia io.” Sorrise un po’ amaro. “Ci sono abituato, ma non me ne preoccupo, anzi, ne faccio la mia forza. Se il nemico ti crede debole faglielo credere, resterà spiazzato quando gli toglierai tutto con il sorriso.”

Il concetto era chiaro; avevo toccato il suo punto debole, ma anche la sua più grande forza. Mi maledissi per il mio tatto da domatrice di elefanti e frugai nella mente alla ricerca di qualcosa che potesse distrarlo.

“Non hai sbagliato sull’anima estrosa.” Colpii la sua attenzione e tornò a guardarmi. “Sono una scrittrice. Le storie leggere a fondo pagina tre del Regards sono mie. Per questo non mi curo della mia bellezza è la mia voce che conta. E la fantasia. Mi nutro di cose fantastiche e irraggiungibili.”

Mi guardò affascinato. “Tipo?!”

“Amori impossibili. Rapporti struggenti. Proprio l’altro giorno ho fatto innamorare una cacciatrice di diamanti e un indiano d’America. Lei è molto ricca, lui è.. beh un indiano dice tutto. Si innamorano e quando la sete di diamanti di lei arriva a distruggere il mondo di lui lei si troverà davanti la scelta più cruenta di tutta la sua vita; mollare tutto ciò che la rappresenta per amore o andare avanti per quella che era la sua vita sudata, sofferta e meritata?!”

“E come va a finire?”

“Siccome sono melodrammatica per natura… Cheyenne l’indiano muore per proteggere Sara.”

“E lei che fa molla tutto?!”

“Non lo so.. ci sto pensando. Che c’è vuoi rubarmi il mestiere?!”

Rise e a me sembrò di non aver mai sentito nessuno ridere così bene. Poi diventò serio. “Io mollerei. Non sopporterei di continuare a lottare per qualcosa che ha distrutto la mia felicità.”

Ci pensai su, ma ero certa della mia risposta. “Nella vita di Sara c’erano solo i diamanti, prima di Cheyenne. Per quanto l’amore di lui l’avesse influenzata adesso sono i diamanti la sola cosa che le rimangono. Questa certezza è più forte di correre il rischio di scoprire che non si ha più nulla per cui combattere e a volte conta più fare un passo indietro che camminare in avanti e bruciare tutto.”

Mi poggiai al sedile lasciandomi andare, era come se avessi vuotato una parte di me; Aurelien mi guardava con la coda dell’occhio sorridendo sghembo. Ero sconvolta, non ero mai stata tanto sincera in vita mia.

“Io non ti priverò di te stessa, te lo giuro.”

Sentirlo parlare così, mi fece librare il cuore nel petto, pensai a mio padre e mia madre che avevano scoperto la ricetta della felicità; lui aveva rinunciato alle origini, al Marocco, lei gli aveva donato le aziende prima e un focolare caldo dopo, lui amministrava gli affari lei riempiva i suoi spazi con la sua allegria. Si compensavano, dandosi l’uno all’altro secondo le loro capacità e aspettative. Non avevo mai sentito mio padre rimpiangere le terre aride del suo paese e non avevo mai udito mia madre pentirsi delle scelte fatte. Era una vita che sognavo un amore come il loro.

Aurelien cominciava ad apparire come colui che me l’avrebbe potuto dare; voleva farmi felice e non mi avrebbe cambiata… a cosa potevo ambire di più?!

“Voglio solo continuare a scrivere.”

Ero sincera quando lo dissi. Ma gli anni mi portarono a desiderare anche altro, ed Aurelien nonostante tutto non venne mai meno a quelle promesse.

 

Juliette era deliziosamente vestita di blu, un colore molto adatto alla sua pelle diafana e al blu cobalto degli occhi, Fabien la teneva sotto braccio, in un completo grigio, sembrava un perfetto damerino mentre ci scortava al tavolo facendoci strada.

Deesire” Mi baciò le guance stavolta lasciandomi stordita in una nuvola di patchouli e sandalo; lasciò il mio nome nell’aria prima di salutare il cugino con vigorose pacche alle spalle. Era così naturalmente gioviale, sempre allegro, da metter voglia di ridere solo a guardarlo. Era terapeutico averlo intorno.

Io e la sua dama ci guardammo a lungo prima di cacciarci qualcosa di bocca, inevitabilmente rimaste sole dal momento che i ragazzi erano andati ad ordinare ogni sorta di schifezza calorica che a diciotto anni potevamo ancora permetterci.

“Aurelien Chedjou.” Juliette fischiò e il gesto mi fece sorridere in bocca a lei, la chiassosissima ragazza che alla mia cena di presentazione se la rideva e non poco. “Sei consapevole di essere la donna più chiacchierata di Parigi al momento?!”

“Ne ho una vaga idea.” Le sorrisi grata per aver rotto il ghiaccio. Non era affatto stupida come immaginavo e in più aveva un viso sfacciatamente bello; bocca a cuore bella piena, zigomi alti, il volto ovale e roseo. “Spero di non aver deluso le aspettative.” Aggiunsi ironica.

“Oh mia cara alla gente di questa città piace il pettegolezzo talmente tanto che se te ne andassi in giro camminando sulle mani a loro non interesserebbe minimamente. E’ il torbido che cercano.”

Ero pianamente d’accordo con lei. “Strano che con tutte le cose da fare a Parigi la gente perda ancora tempo in chiacchiere. I ricchi in questa città si annoiano spesso.”

Annuì. “Mia madre faceva l’attrice. Le bastò innamorarsi di un Dupont perché la sua carriera andò in pezzi. Non aveva bisogno di lavorare dissero, come se potessero decidere cosa è meglio o peggio per una persona.” Guardò lontano. “Io sogno di andarmene via da qui, ne ho già abbastanza di questo mondo dorato.”

Era figlia di un gioielliere e ne aveva abbastanza del mondo dorato. Sorrisi, evidentemente lo scintillio era troppo per i suoi occhi. Poi ripensai attentamente ai Dupont presenti al Gala e riconobbi Gerard, il maggiore dei tre figli di Monsieur Dupont padre, sposato in passato ad un’attrice franco svizzera. “Ah ma allora sei figlia di Charlene Mercier?!”

Le si illuminarono gli occhi. “In persona. Le ragazze della nostra età hanno altri divi per la testa.. ma tu la conosci!” Sorrisi, sì la conoscevo, mia madre e la sua fonte inesauribile di storie narrava che fosse una donna di straordinaria bellezza e bravura, molto corteggiata. La chiamavano Madame Glace, la signora di ghiaccio, non tanto per la sua algida bellezza tanto più per i rifiuti che soleva dare ai suoi pretendenti, salvo poi innamorarsi di Gerard Dupont che la conquistò donandole un collier di diamanti così prezioso che la poveretta usava la scorta per uscire a cena con quello che sarebbe divenuto suo marito e per il destino avverso anche sua congiura. Purtroppo venne messa sotto accusa, che bisogno aveva di lavorare lei che agli occhi di tutti era padrona del mondo, fu estraniata dal giro che contava, le furono negati contratti e apparizioni, così che la poveretta rifiuto dopo rifiuto cadde in una tremenda depressione culminata con il suicidio da barbiturici e calmanti. Una storia molto triste e d’un tratto capii perché una ragazza che ha perso la madre in maniera così brutale sognava di scappare da tutto ciò che l’aveva portata via.

“Mi.. dispiace.” Ammisi con leggero imbarazzo.

“E’ passato. Mi manca mia madre, ma io voglio dimostrare al mondo che posso farcela. Possiamo avere tutto Deesire.”

Annuii. “Quindi tu e Fabien andrete via?!” Chiesi vagamente.

Guardò ai due ragazzi che ritornavano verso di loro con un cameriere e sorrise. “Oh no, Fabien ha altro per la testa.” E posò infine lo sguardo su di me, maliziosa.

 

 

Prevert fu insuperabile. E Fabien non fece altro che ripeterlo per tutto il tragitto dal teatro alla macchina; era un fiume di parole, lettere e poesie così incantate sulle sue labbra che era un piacere starlo ad ascoltare.

Aurelien non era dello stesso avviso, dal momento che non perdette occasione nel canzonarlo. “Ma se ti ho visto chiudere gli occhi al terzo atto!”

“Ero in meditazione cugino. Si ascolta con il cuore non solo con la mente.”

“Cosa ti diceva il tuo cuore?! Sono in catalessi?”

Juliette rise e io con lei, Fabien sbuffò ma si lasciò andare anche lui.

Li salutammo a malincuore all’incrocio fra due vie in zona Montparnasse dove Baptiste Moreau possedeva una fra le lussuose dimore dislocate in città; Juliette mi salutò calorosamente ripromettendoci altre chiacchiere fra donne.

Ero stanca ma entusiasta per come era andata la serata, la macchina scorreva veloce fra le strade della città e il silenzio che ci avvolgeva era carico di aspettative ed elettricità; esatto elettricità, avete presente il momento in cui si arriva alla fine di un appuntamento e ci si aspetta sempre che accada qualcosa, come dire… di speciale?! Quello era il nostro momento, perché Aurelien sembrava così teso mentre con lo sguardo teneva inchiodata la strada… e con la mano libera cercava la mia abbandonata sul fianco.

“Questa città è così romantica di notte. Dovremmo perderci e scoprirla.”

“Potremmo farlo… un giorno. Io, te e la luna sulla Senna!”

“Ho l’impressione che lei mi stia prendendo in giro Mademoiselle Bonnet..”

“Giusto un po’.” Allacciai la mia mano alla sua, ridendo con lo sguardo lontano, verso i tremolii dei lampioni dei ponti da sempre pacifici tramite delle due sponde della città; eravamo proprio così io e lui in quel momento, due estremità sulla stessa scia che cercavano si toccarsi.

Spense i fari imboccando il viale di casa, il motore e fatto il giro dell’auto mi aiutò a scendere; era molto galante, profumato, perfetto… bellissimo. I suoi occhi erano lucidi sotto il bagliore sfocato delle luci dalle lanterne ma il suo sorriso era chiaro e significava una sola cosa; era felice, come lo ero io. Impacciato mi sfiorò una guancia scostando i capelli dietro l’orecchio, sorrise ancora incoraggiato da un mio sussurro e fece per avvicinarsi… se non fosse che un rumore molesto e un movimento furtivo da dietro le tende delle finestre lo gelarono in una risatina.

“Tua madre ci sta spiando.”

Ritornai con lo sguardo dalla casa al suo viso. “Già.. perdonami, non badare a lei è fatta così.”

“E’ divertente invece. Tu sei divertente e tuo padre è un grande uomo.”

“Grazie, sei gentile.”

Si schiarì la voce e con fermezza cambiò tono. “Allora come finisce questa storia?!”

Lo guardai sorpresa ma stetti al gioco. “Lui accompagna lei alla porta che distratta perde l’equilibrio e finisce nelle sue braccia; lui la solleva e nel momento in cui i loro sguardi si incontrano le luci in casa si accendono. Lasciano scivolare via le mani impauriti ma lei sorride e lui scopre di non averne abbastanza, le prende il volto fra le mani e la bacia agli angoli della bocca con una promessa. Ci perderemo.”

“Ci perderemo.”

Sottolineò la promessa e mi avvicinò al portone, dietro la pesante colonna bianca di marmo che spezzava la visuale delle finestre; si inchinò e prendendomi il viso fra le mani mi baciò a un angolo e poi all’altro. Per un attimo sentii il leggero tocco umido delle sue labbra accostato alle mie ed ebbi voglia di aggrapparmi a quei folti capelli ramati e liberare la libido in una travolgente passione.. ma restai ferma lì, immobile, con i pugni serrati ai fianchi, incapace di dire o fare qualcosa. Non mi ero mai sentita così. Avevo diciotto anni e avere diciotto anni nel millenovecentotrentotto non era cosa semplice; l’amore era limitato a uno schema ben preciso che non prevedeva sfori a meno che tu non fossi una meretrice. Diciamo che le mezze misure nell’epoca in cui dovevo avere i primi sussulti d’amore non aiutavano molto ma non avevano impedito certo che sperimentassi un mezzo bacetto con Gael Picard -un moccioso con cui dividevo una classe di studi privilegiati- e un occhiata furtiva al suo membro durante l’ora ricreativa nello sgabuzzino di Madame Eloise la nostra maestrina e tenutaria della scuola; ero rimasta così turbata da quell’immagine che mi ero rifiutata anche solo di sedergli accanto. Insomma dell’amore.. fisico.. e pratico.. sapevo ben poco, quasi nulla; lavoravo più di fantasia e miei ormoni giovanili facevano il resto.

“Ti passo a prendere in una notte di luna piena.” Aurelien mi destò dai pensieri; mi stava lasciando perché d’un tratto quell’elettricità e il calore del suo corpo erano svaniti. Scrollai le spalle spazzando via i miei bassi istinti riprendendomi tutto l’autoritario controllo, gli sorrisi e lo salutai con la mano rigida come un pezzo di ghiaccio. Riflettei sulle sue parole e quando capii il senso muovendo passi in avanti per fermarlo lui era già in auto pronto a sfrecciare via nel tepore della notte.

Ci perderemo. Oh sì noi ci perderemo.

 

Non riuscii a chiudere occhio, non sfiorai nemmeno il letto. Parlare con Aurelien mi mise voglia di stilare il finale del mio racconto con qualche giorno di anticipo, presi carta e calamaio e passai la notte con Sara e Cheyenne e il loro amore spezzato. Alle prime luci dell’alba, mio padre fece capolino nella mia stanza con un biglietto, un mazzo di gerbere rosse e arancioni e dei pasticcini caldi; lo guardai interrogativa e lui sorrise avvicinandomi.

“Qualsiasi cosa tu debba aver detto o fatto sembra aver funzionato.”

Sfilai il biglietto e lo lessi.

 

“In attesa di sapere quale è il tuo fiore preferito ti faccio dono dei più belli, mio fiore.

Per me sei tu.

Aurelien.”

 

Lo poggiai al cuore, lì dove nascono le emozioni. Afferrai carta e calamaio e scrissi a mia volta. Chiusi il biglietto in una busta profumata alla lavanda color carta da zucchero e la diedi a mio padre.

 

“Qualsiasi fiore ti faccia pensare a me.

Deesire.”

 

“Papà.. non potevi scegliere uomo migliore.”

Gli baciai la guancia e mi infilai nel bagno; il vestito vaporoso scivolò sul pavimento insieme alle speranze di mia madre di vedermi un giorno in adorazione per la moda. Dopo il bagno scelsi un vestito da giorno leggero e adatto alle temperature primaverili che il mese di aprile ci stava regalando, optando per una tunica blu a fiorellini bianchi che ostinatamente continuavo ad indossare seppur mia madre la detestasse. Difatti sbuffò alla mia vista non appena ci vide passare, me e mio padre, complici di ciò che era successo e lei ignara tutta presa da un pranzo formale che stava organizzando. Sotto al braccio stringevo forte la cartella con la copia originale del mio scritto e la busta alla lavanda che dovevo spedire, papà sarebbe andato in azienda e mi avrebbe dato un passaggio. Jerome ci salutò, gettando via la sigaretta; ero in trepidazione come sempre quando mi recavo al Regards con una mia operetta fra le mani.

 

 

“Vuoi che ti aspetti?!” Dai vetri dell’auto mio padre mi guardò tornare soddisfatta dal giornale.

“Ti ringrazio, faccio due passi. Salutami Cedric.”

Mi salutò con la mano, guardandomi fino a che il mio profilo non sparì dalla visuale. Lasciai che il sole mi fagocitasse appoggiata al bordo Senna, deliziandomi di quel momento di quiete mattutina; presto, molto presto, le strade si sarebbero riempite di persone affaccendate, ministri, operai, suore e puttane e la città avrebbe cambiato faccia come un cielo nero dopo la tempesta.

 

***

Ringrazio chiunque abbia messo la storia in seguite o chi lo farà. J

Spero tanto che vi piaccia e chi mi lasciate una traccia.

A presto,

Lunadreamy.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 4.

 

E’ risalendo per i viali dei Jardin du Luxembourg, che mi sentii chiamare; amavo passeggiare, soprattutto in giornate come quella dove non avevo nulla altro a cui pensare se non rilassarmi e il piccolo lusso verde a disposizione di noi parigini era più che sufficiente ad esaudire tale richiesta.

“Di qua! Deesire!” Un ragazzo biondo agitava la mano nella mia direzione, misi a fuoco e riconobbi Fabien. Fabien in tutto il suo trasandato e chicchissimo splendore. Se ne stava seduto fra le sedie di ferro simbolo del parco con una cartella color cuoio sulle ginocchia, una camicia di cotone sblusata e dei pantaloni color kaki.

“Non ti avevo riconosciuto.” Mi misi seduta al suo fianco ed egli mi mostrò il foglio bianco sulla quale se ne stavano in attesa schizzi di carbone. “tu disegni!”.

“Quando non ho da fare –cioè spesso- vengo qui.”

Sorrisi sarcastica; suo padre era stato molto chiaro circa l’interesse del figlio per gli affari di famiglia. Mi rilassai, sapevo così poco di lui che non lo avrei biasimato se avesse preferito la sua arte all’arte del commercio. “Questo posto mi.. ispira.” Sorrise di quel sorriso che mi piaceva tanto.

“Anche a me.” Annuii con il capo.

“Mi hanno detto che sei una scrittrice.” Indicò la cartelletta che stringevo sotto braccio. “Sono i tuoi scritti quelli?!”

Non risposi e per tutta risposta me li sfilò senza porsi alcun freno; sobbalzai in avanti nell’intento di bloccarlo e per poco non finii con la faccia sul prato. “Fabien è buona educazione aspettare il consenso prima di prendere!” Mi alzai stizzita piegandomi verso la sua faccia bellissima e provocatoria con quel sorriso ironico di chi sa di avere davanti un bello spettacolo; ero a pochi centimetri dalla sua bocca e me ne stavo lì a tener aperta la mia come un dannato pesce senza ossigeno cercando di allargare le branchie –in questo caso polmoni- per riuscire a sopravvivere.

“Sei dannatamente buffa Deesire..” Mi soffiò sulle labbra soavemente. “Scusami. Tieni. Non sono abituato a chiedere quando voglio qualcosa; in qualsiasi modo, io la ottengo.” Gli arrivò un sonoro schiaffo sulla guancia. E le mie spalle perché me ne stavo andando.

“Aspettami dai..” Mi prese il braccio così saldamente che non potei fare altro che fermarmi. “Ti chiedo scusa, sono un cretino. Ma non andartene, resta, la tua compagnia.. mi rende felice.” Lo disse così soavemente che era difficile non credergli, tuttavia misi il broncio per fargliela pesare. “Non si direbbe.”

“Credimi. Ricominciamo, ti va?!” Mi condusse nuovamente alle sedie pregandomi di sedermi. “Deesire che ci fai qui?!”

“Oh Fabien gironzolavo per la città prima di incappare in un cretino, maleducato e stolto!” Lo guardai con un sorriso finto come certi gioielli delle damine del follie di Pigalle. “Tu, tutto bene?!”

Mi guardò di sottecchi corrucciando le labbra. “Non me la darai vinta eh?!”

“Scordatelo.”

Rise e mi sciolsi come burro. “Comunque so già tutto dei tuoi scritti, ti leggo ogni sabato dal primo sabato.” Lo guardai interrogativa e si apprestò a rispondere. “Non ti ricorderai di me ma da piccoli abbiamo frequentato lo stesso corso di canto. Io ero piuttosto timido, quello che si direbbe un emarginato. Tu avevi già la fissa dello scrivere, te ne stavi in mezzo alle principesse di Parigi ma ti importava solo del tuo quaderno e dei tuoi disegni. Quando ho saputo che collaboravi al Regards mi sono chiesto perché il Regards e non Le monde.” Rimasi senza fiato quasi per quanto gli avevo sentito pronunciare; riuscii però a spiegarmi perché mi sentivo così stranamente a mio agio in sua compagnia, riconoscendo in quei ribelli capelli biondi quel ragazzino che se ne stava sempre all’angolo con la testa bassa e le mani nere di china a scuola di solfeggio. Anche Baptiste lo aveva detto a mia madre e d’improvviso provai tenerezza per quei ricordi lontani e sbiaditi.

“Al Regards mi tolgo le mie belle soddisfazioni. Ma anche tu a quanto vedo.” Indicai i disegni, lui sorrise mostrandomi un ritratto di donna con le mie fattezze; sussurrai nuovamente colpita e leggermente imbarazzata. “Per me?!” Annuì.

“Punto a togliermi anche io determinate soddisfazioni.” Diretto, ma non troppo. Essenziale ma non troppo. Sostanzialmente il problema di stare accanto a Fabien era il suo tono di voce; poteva dirti cose serissime con il sorriso in bocca e dirti la più stupida delle cose con serietà teatrale. E riusciva ad incantarti, non importa quanto tu volessi o desiderassi che non fosse così, lui ci riusciva. Charmeur lo ribattezzai. Incantatore.

 

“Qualcosa mi dice che non te importi molto delle aziende Chedjou, vero?!”

“Non sono il mio pensiero primario, diciamo.. ho in mente altre cose.”

Era la seconda volta che sentivo abbinare tale frase alla sua persona; mi incuriosii e decisi di andare oltre. C’era qualcosa del suo animo che mi affascinava molto.

“Non credi di avere una fortuna sfacciata e di essere un po’ ingrato?!”

Inarcò un sopracciglio. “Adesso chi è la sfacciata?!” Arrossii. “E comunque non voglio rovinare la festa ad Aurelien, se capisci cosa intendo.” Era chiaro cosa intendesse. “Dovresti essere felice per questo.” Era anche chiaro che se avessi potuto suonargli su quella sua testa bionda la sedia sulla quale ero seduta lo avrei fatto.

Era stato arrogante. Arrogante e sfacciato.

“Bastava che tu dicessi non è così.” Mi alzai e stavolta ero ben convinta di lasciarlo ai suoi stupidi disegni e alla sua stupida presunzione da artista dannato. “Non tutto gira intorno al denaro caro Fabien e per quanto possa essere frivolo detto da una che è figlia del proprietario delle aziende Fontaine, credimi che è così. Sposerò Aurelien per rispetto della mia famiglia e della sua, perché io so cosa è il rispetto e non me ne sto a giudicare gli altri dall’alto al basso come fai tu.” Non ascoltai nemmeno le sue proteste; me ne andai, incamminandomi verso il laghetto centrale e di conseguenza verso la porta che dava sul quartiere di Saint Germain des Pres con lo stomaco in subbuglio; abitavo lontano ma camminai talmente svelta che quasi non mi accorsi di Jerome l’autista e della sua mano che mi salutava. Entrai in casa defilata e salii alla mia camera con il cuore un tamburo.

 

Fabien Moreau era quanto di più sgradevole ci fosse a Parigi. Ma una cosa era certa.. sapeva farmi male.

 

 

 

Il suo ritratto giaceva da giorni sullo scrittoio sotto altre carte; ogni tanto spuntava un boccolo, poi l’angolo della bocca ne piccola ne carnosa, un occhio fra le ciglia folte e scure che tradivano le origini della ragazza.. mediterranee come le mie. Guardandolo ripensavo a lui, ai giardini, alle parole che gli avevo detto. Era un cretino e dovevo togliermelo dalla testa… semmai avesse trovato modo di entrarci.

Due colpi alla porta mi ridestarono; ero seduta sul letto a gambe incrociate aspettando da giorni un ispirazione che non arrivava. Il sol pensiero di tornare ai Jardin de Luxembourg –dove amavo perdermi e ritrovare la voglia di scrivere- mi faceva venir voglia di mettermi a piangere.

“Deesire c’è Aurelien in salotto.” Guardai mia madre stralunata. “Dice che eravate d’accordo tu cenassi a casa loro stasera. Ti vesti così?!” Guardai il vestito di chiffon giallo e la faccia di mia madre per nulla contenta.

“Mi cambio subito.” Non avevo voglia di protestare, ma avevo voglia di vedere Aurelien alla svelta. Mi cambiai di fretta ma ricercata, con una tunica in macramè e seta al ginocchio color avorio, di quelle che erano una via di mezzo fra l’essere sopportabili alla vista di mia madre e comode come amavo io; non ero longilinea come le ragazze francesi -vere mannequin nel più dei casi- ero in carne seppur proporzionata, il mio fisico aveva tutte le caratteristiche del popolo dalla quale discendeva mio padre –spalle larghe, vita stretta, fianchi rotondi- e non amavo troppo metterlo in evidenza.

Pronta annuii allo specchio, infilandomi un pettine di perle fra i capelli e scesi in salotto.

 

Come al solito, quando Aurelien mi vide si alzò per venirmi incontro; era vestito informale, per la prima volta da quando uscivamo insieme, stringeva fra le mani un mazzetto di lavanda tenuto da un nastro blu e mi sorrideva felice. E anche io.

“Andiamo?” Mi chiese con una strana bramosia addosso, conducendomi alla porta ed infine alla sua macchina; aspettò che entrammo per voltarsi e chiarirsi. “Stanotte c’è luna piena.”

Risi e mi sentii terribilmente leggera; voleva scoprire Parigi di notte -io, lui e la Senna gli avevo detto- e mi aveva regalato della lavanda; era stato attento ai particolari e aveva mantenuto fede a una promessa. “Andiamo.” Affermai sicura e partì.

Ci spostammo dal Boulevard risalendo verso il quartiere latino, sfrecciando accanto alla Sorbone e il Pantheon; in Rue de Morge scendemmo e mi comprò un meraviglioso croissant alla crema, prendendomi in giro perché con lo zucchero a velo avevo incipriato tutto il naso; mi baciò sulla punta per toglierlo via, io sorrisi imbarazzata guardando altrove.

“Forse dovremmo passare comunque da casa dei tuoi.”

“Non ci aspettano, abbiamo tutto il tempo che vogliamo.” Poi guardando un punto lontano, sorrise. “Ma immagino che è di tua madre che ti preoccupi, vero?!”

Annuii vigorosamente con il capo prima di lasciarmi andare in una fragorosa risata; mi abbracciò forte mettendo il naso fra i miei capelli, segno che la mia risata doveva piacergli almeno quanto la sua a me.

“Hai un buon odore…”

“Grazie.” Sussurrai contro il suo petto che odorava di fresco e di lavanda. “Anche tu. La lavanda è diventato il mio fiore preferito.” Ridemmo prendendoci per mano, passeggiando sul Boulevard Saint Michel e i suoi bistrot prima di risalire in macchina e spostarci dall’altra parte del fiume.

 

Riconobbi il palazzo bianco prima ancora di imboccare Rue de Faubourg in St Honore, dove Aurelien abitava e possedeva l’abitazione più imponente nel viale dei negozi di lusso; sembrava passato un secolo da quando ero stata qui, da quando Aurelien era solo il nome di un ragazzo ricco, da quando Deesire aveva smesso di essere solo la ragazzina che scriveva ed era diventata una donna promessa sposa.

Mi prese per mano, entrando; Martin e Ines stavano in piedi come sentinelle alla quale avevano dato l’allarme di attacco. Sorrisi, ringraziandolo in un sussurro. Restammo in piedi a fissarci come perfetti ebeti ma il Buon Dio volle Aurelien dotato di sense of humor perché spalleggiando i genitori li invitò a respirare e a comportarsi da perfetti padroni di casa quali erano.

Ines era un incantevole come la ricordavo, una donna con ricci capelli più rossi che ramati e due gambe lunghe come le ferrovie che attraversavano il paese, per contro Martin era di statura media, la chioma folta e scura dagli stessi riflessi del figlio, profondi occhi verdi e la bocca disegnata; un pool genetico di tutto rispetto, alla quale Aurelien aveva attinto senza scrupoli.

La donna mi guardava entusiasta. “Aurelien non fa che parlare di te è un piacere averti qui, cara.” Vidi il ragazzo collassare sulla poltrona nella sala da cocktail nel quale ci eravamo accomodati.

“Un piacere assolutamente ricambiato, signora.” Le sorrisi mentre Martin mi passava una coppa con due dita di ghiaccio e Martini bianco. “Suo figlio è un perfetto gentiluomo.”

“Ti ringrazio. Aurelien ha un fascino antico, lo dico sempre è nato in un epoca sbagliata. Lo avrei visto bene in calzamaglia e parrucca.” Si abbandonò in una risata cristallina e soave e a me sembrò d’aver sentito cantare una sirena; mi portai una mano alla bocca cercando di soffocare una risata.

“Grazie mamma se Deesire avesse avuto qualche ripensamento adesso è certo che scapperà.” Poi lanciò uno sguardo accusatorio nella mia direzione. “Guarda che ti sento..”

“Scusami Aurelien ma saresti davvero carino..” E non mi trattenni più ridendomela spassosamente.

“Ah ma no fate pure voi due..” Berciò piccato quando ormai nella sala si udivano solo le risate mie e di Ines; Martin ci guardava accigliato a un passo dal trattenersi guardando me, Ines e poi Aurelien sempre più infossato nella poltrona che si era fatta improvvisamente più grande di lui.

“Papà anche tu ora?!” Si alzò stizzito, ma si fermò guardandoci; non resistette e si lasciò andare in una risata fragorosa.

 

 

“Siete sicuri che dovete andare?!” Martin ci stava trattenendo sull’uscio della porta due ore dopo di risate e racconti dei loro viaggi; Ines mi aveva fatto promettere che avrei lasciato a lei il compito di organizzare la luna di miele e davanti a quegli adoranti occhi verde bottiglia non avevo saputo dire altro che sì. Erano stati meravigliosi e pieni di apprezzamenti per me e la mia famiglia.

“Non stressarli caro, avremo sicuramente altre occasioni per avere Deesire con noi.” Ines mi fece l’occhiolino stringendosi al fianco del marito.

“E addio al fascino antico..” Aurelien rassegnato mi strinse la mano, “non parleranno che di te da qui al nostro matrimonio.”

“In realtà non così tardi,” Martin lo incalzò, “saremo ospiti dei signori Bonnet molto presto. Il vostro fidanzamento è alle porte.”

Alla parola fidanzamento io e Aurelien ci guardammo vagamente imbarazzati; fantastico, pensai, la mia mamma fra i suoi deliri aveva sicuramente e volutamente dimenticato di dirmi che il famoso pranzo che stava organizzando con tanta premura mi avrebbe visto impalmare al dito un anello. L’anello.

Finsi accondiscendenza sorridendo. “Dire che sarà un pranzo faraonico sarebbe offendere mia madre.”

“Clorine Fontaine.” Ines parlò con aria sognante. “Non vedo l’ora di perdermi ancora nelle sue storie.”

“La prego non glielo dica. E’ gelosa della sua stessa reputazione.”

Ines rise abbracciandomi istintivamente. “Torna presto a trovarci Deesire.” Mi persi fra il profumo dei suoi capelli e capii da dove nasceva quell’odore buono che aveva il ragazzo dei miei sogni. Salutai Martin Chedjou porgendogli la mano ed egli me la baciò portando ossequi alla mia famiglia.

 

 

“Wow! Li hai stesi Deesire.” Aurelien mi cinse le spalle con il braccio mentre la macchina ci portava per strade che sapevo di conoscere ma che il misto di sensazioni che provavo in quel momento mi avevano fatto completamente dimenticare; non era stato difficile fino ad allora e mi chiedevo dove fossero nascosti i problemi, dove l’insidia del destino avesse messo la sua sorpresa.

Non potevo credere di essere così schifosamente felice.

 

“Guarda quanto è bella..” Appoggiati al parapetto del Petit Pont, ammiravamo Notre Dame che si stagliava nel cielo notturno in tutta la sua algida forza; faceva impressione guardarla dal basso, ci si sentiva piccoli e insignificanti. “E’ qui che mi piacerebbe sposarmi.” Lasciai che le parole accarezzassero i miei sogni più reconditi ma il ragazzo posò su di me uno sguardo carico di aspettative che mi indusse a correggermi. “Sposarti. Sposarci.”

“Non posso prometterti Notre Dame ma.. il matrimonio sì.” Rise mandando via le nuvole dai suoi occhi, gettando un occhiata veloce alla Senna placida.

“Non ho nessun dubbio, Aurelien.” Rimarcai le parole perché volevo che le udisse; vidi la gioia nei suoi occhi e continuai. “Io ti sposerei anche con la parrucca e in calzamaglia.”

“Vuoi dire che non lo fai per obbligo?!” Chiese, per nulla vago; mi sentii come se stessi camminando su una lastra di ghiaccio sottile e sotto di me.. il baratro. Presi tempo, cercando nella mia testa il modo più semplice possibile per spiegargli che nonostante sembrasse non avessi scelta in realtà ero felice.

“Credo che un domani sarà diverso, le donne forse saranno libere dallo status di matrimonio e potranno decidere cosa sia meglio o peggio per loro. Ma io sono figlia di questa epoca e le donne dipendono da questo status che ci vuole mogli e poi madri ma.. per fortuna io ho te Aurelien. Capisci?!” Mi voltai cercando i suoi occhi, “cosa posso dirti, sono stata fortunata. Non vivrò il tormento di un uomo che disprezzo e non mi farò diseredare dalla mia famiglia, se ti sembra poco.” Ero ironica, ma tornai seria l’esatto istante in cui il suo viso si portò prepotentemente vicino al mio; eccola la sentivo.. l’elettricità.

Chiusi gli occhi d’istinto, perché il cuore aveva preso a martellarmi nella cassa toracica minacciandomi d’esplodere se non avessi messo fino allo spettacolo della leggera inclinazione del suo volto contro il mio, delle sue labbra morbide e carnose contro le mie, del tocco audace della sua lingua insinuatasi nella mia bocca. Doveva sentirla anche lui, per lasciarsi andare in tale maniera sconsiderata ne ero certa, perché le nostre lingue adesso stavano lottando furiosamente l’una contro l’altra spargendo la passione tutta intorno; non mi ero mai sentita così –ok non avevo mai baciato nessuno così- ma le soddisfazioni che mi ero tolta nei miei diciotto anni di vita sembravano sterili inutilità difronte a quello che mi stava capitando.

Un bacio che trovò la sua pace solo perché due signorine un po’ succinte passando di là avevano fischiato alla nostra volta, costringendoci a separarci; il singulto che fuoriuscì dalla sua bocca lo costrinse a scusarsi.

“Per.. donami Deesire, non so che mi è preso.”

“Non scusarti è stato così bello...” Tornai lievemente alla sua bocca, stringendo le braccia alla sua schiena; rimasi ferma lì ad ascoltare il suo respiro e la naturalezza di due bocche che si vogliono e tacciono. “Credo che potrei non volerne mai abbastanza.” E il pensiero sfiorò cosa sarebbe stato quando i baci fossero diventati secondi solo a qualcosa d’altro. Arrossii violentemente e il lampo di malizia nei suoi occhi mi fece capire che anche lui stava pensando la medesima cosa. “Anche io.” Si affrettò a dire scacciando via i tumulti dell’animo giovane. “Ma questa notte è ancora lunga. Voglio baciarti in ogni angolo, via, strada…”

“Paese…”

“Paese, sì. Dovremmo fare un viaggio. E poi altri cento! Dimmi dove vuoi andare ed è li che sarai!”

“Shh” Gli tappai le labbra con una mia risata prendendogli il volto fra le mani; era incredibilmente bello con la felicità appesa negli occhi, le gambe che saltavano impazzite in preda a un raptus.. sembrava il bambino durante l’ora di ricreazione. “Per ora mi basta anche Parigi.. con te. E la Tour Eiffel, che ne dici?”

Sorrise sfilando le chiavi dell’auto dalla tasca. “Tour Eiffel sia.”

Attraversammo l’ile de la citè, imboccando la riva destra in tutto il suo perimetro, tagliando in due la città; Place della Concorde, l’Opera, Saint Eustache sfrecciavano veloci, nomi a noi familiari perché facenti parte della riva sulla quale risiedevamo, ma affascinanti sotto l’occhio nuovo della luna che le faceva brillare. Guardavo entusiasta tutto il bello che ci circondava, Aurelien con il viso accigliato mentre teneva la guida con una mano e l’altra intrecciata nella mia, la Senna alla nostra sinistra come un grande specchio dove le cose si duplicavano e non desiderai essere da nessun altra parte se non lì, in quella macchina, con quel ragazzo, in quella città.

Ripensai spesso a quella sera negli anni; avevamo scritto i racconti per i nostri nipoti, quella sera dei cento baci sotto la Tour, di Aurelien che si inginocchiava, mentre il mondo era a dormire, che mi chiedeva di sposarlo come se non fosse già successo, come se non fosse già stato scritto.

“Sì.” Gli risposi con il cuore martoriato e pazzo. “Ti sposo.”

E via così, verso altre mete a mangiare la notte, infinita, ma troppo corta per due innamorati.

 

 

 

“Aurelien, che è successo, stai bene?!” Rincasò che la luna era sbiadita; Martin attraversò i corridoi in vestaglia temendo un incursione notturna di ladri, ma sobbalzò, alla vista del figlio vestito di tutto punto e con la luce dell’alba alle finestre.

“Domani devi parlare con il prefetto. Voglio Notre Dame, papà.” Si accomodò in poltrona fissando il padre con sguardo greve. “E’ lì che sposerò Deesire.”

“Notre Dame, sì, sì.” Martin berciò assonnato. “E’ complicato ma non impossibile. C’è altro?!”

“La data.” Si guardarono per un po’ senza dire nulla, Martin ormai certo di non ritrovare tanto presto le coperte calde che aveva lasciato si accomodò affianco al figlio tutto orecchi.

 

***

N.D.A

Il primo bacio di Aurelien e Deesire, signori e signore!

Vi è piaciuto come è andata? Vi aspettavate di meglio? Fatemelo sapere!

Era inevitabile, questo sì. Ho voluto parlare e voglio parlare di loro come due ragazzi normali nonostante le privazioni che l’epoca imponesse sulla loro educazione e considerata la situazione grazie alla quale si sono conosciuti; non li immagino troppo bigotti insomma, rispettosi delle regole delle loro famiglie ma non estremizzati e perlomeno felici perché si piacciono.. e forse qualcosa di più. J

Intro dedicato a Fabien e al suo amore per l’arte; ho voluto che si scoprisse un po’ più di lui attraverso la curiosità indomita di Deesire che l’attrae verso il ragazzo senza –in fase iniziale- buone ragioni.

Che altro dire.. continuate a seguirli!

Io intanto ringrazio tutti coloro i quali hanno messo la storia nelle seguite e chi lo farà; mi fate felice! J

Spero di avere presto qualcuna di voi fra le recensioni.

Un saluto.

Lunadreamy.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 5.

 

C’era solo un'altra cosa che amavo fare almeno quanto scrivere; cucinare.

Non ho mai capito bene la pertinenza fra le due cose -semmai i gusti dovessero essere in qualche modo pertinenti- ma era così, adoravo stare ore in cucina e rubare con gli occhi i trucchi del mestiere da Gerald uno chef che saltuariamente si occupava della mia famiglia e quando poi di spezie, carni e dolci ne avevo abbastanza tornavo alla scrittura. A volte riportavo su un taccuino che avevo sempre con me, le ricette che mi erano riuscite meglio e non era difficile trovare appunti di storie di pirati alternati a che ne so la ricetta de la soupe de poisson, per esempio; la trovavo oltremodo divertente questa fusione di cose, ero convinta che il cibo contasse molto più delle parole a volte nei rapporti sociali, per cui nelle mie storie i miei protagonisti potevano struggersi d’amore e d’invidia, ma non avrebbero patito mai la fame.

Il mio forte era la patisserie; certo non d’alto livello, ma ci stavo lavorando sodo. I biscotti di frolla erano la mia specialità e per farli mi servivo spesso di alcune spezie che mio padre si faceva inviare dal Marocco; quando aprivamo i pacchetti che li contenevano io e lui ci infilavamo la testa dentro per sognare, avvolti da una nuvola di zenzero, cannella, curcuma e coriandolo.

Quel dieci maggio del millenovecentotrentotto, in cucina, si stava preparando quello che a tutti gli effetti poteva sembrare il pranzo di un Maharaja; Gerald stava alternando piatti tipici della cucina marocchina al gourmet francese, ed io ero lì ricurva sui pentoloni di vapore rovente ad assaggiare questo e sistemare quello. Fino a quando mia madre non decise che si era fatta ora di prendermi con se e passarmi alle arti magiche del trucco e parrucco.

“Ma è necessario? Non credi che dopo un mese Aurelien conosca già il mio viso alla perfezione?!”

“E’ necessario.” Armata di spazzola Clorine mi districava i nodi dalle onde fluenti; capelli ne ricci ne mossi, di un castano scuro, come caffè. ”Oggi è una giornata importante.”

“Lo so.” Berciai, “non fai che ripeterlo.”

“Per quanto tu e Aurelien siate ormai.. consapevoli, ci tengo che si dica che sei meravigliosa. E lo sei figlia mia, bisogna solo evidenziarlo un po’ di più.”

Clorine Fontaine era la quinta essenza della vanità; lei non solo peccava, era il peccato stesso.

Qualcuno bussò alla porta, Petit e un aiutante dall’atelier di Madame Chantal apparvero sull’uscio; guardai mia madre implorante. Un altro vestito. Come se fra l’intera collezione haute couture della stagione passata appesa alle grucce del mio armadio non ci fosse qualcosa di sufficientemente adatto all’occasione. Le ragazze sgambettarono verso di noi con un porta vestiti più alto della loro statura. Sorrisi imbarazzata alzandomi quasi di getto, come a dire sono vostra, so già che mi sbranerete. Difatti gli sguardi delle tre donne erano azzeccatissimi al mio pensiero; tre donne, un vestito, una cavia.. praticamente il delirio.

Il rumore della zip che scendeva e rivelava mano a mano il suo contenuto mi fece rabbrividire; ne uscì fuori un tripudio di seta e organza in un abito dalla linea attillata sul busto e svasata sul fondo, con un gioco di lunghezze -avanti corto al ginocchio, dietro lungo e a coda- di un delizioso color cipria. Petit lo scrollò in avanti per ridagli forma e farmi ammirare il gioco di luce delle piccole applicazioni di cristalli sul corpetto; sussultai alla vista di quell’arcobaleno lucente, ma delicato. Guardai mia madre in stato di grazia -come al solito quando madame Chantal riusciva ad accontentarla- e mi arresi a indossarlo. Mi andava neanche a dirlo perfetto, cominciando a sospettare che quelle due si fossero messe d’accordo nel riuscire un giorno a convincermi che la moda era cosa bella e giusta.

“Tu non mi avrai preparato anche il vestito da sposa.. vero?!” Girai su me stessa cercando gli occhi di mia madre, in preda al panico; era ancora imbambolata sul riflesso dello specchio, ma si ridestò non appena udì la mia voce farsi stridula e tremante. “Vero mamma?!” Le due ragazzine sghignazzarono e non lo trovai per nulla divertente. “Svelte, toglietemi questo vestito e sparite, devo fare due chiacchiere con la signora.” Ero stata perentoria e maleducata, ma urgevano assolutamente due chiacchiere mamma/figlia. Le due si affrettarono a spogliarmi e dileguarsi sgambettando come erano arrivate. “Non sappiamo ne come, ne dove mi sposerò e tu mi hai già confezionato un abito?! Ti prego è uno scherzo vero?!”

“In realtà.. i vestiti sono tre..” Credo fossi diventata verde di rabbia, ma si affrettò a continuare prima di farmi esplodere, “sono dei campioni cara.. non.. non potrei mai scegliere il vestito al posto tuo.”

“E quello?!” Indicai il vestito innocentemente bellissimo ma colpevole di esser stato scelto al posto mio.. come tutta la serie di vestiti appesi nell’armadio.

“E’ diverso. Madame Chantal ha le tue misure, il cipria ti dona e..”

“Mamma!” Protestai a gran voce.

Deesire..” Mi mise una mano sulla spalla cercando di calmarmi, “sogno questo momento da quando ti ho stretta fra le braccia la prima volta, quando sei nata, ero lì che ti guardavo piccola e gracile e pensavo un giorno sarà sposa.” Si asciugò l’angolo dell’occhio umido e proseguì, “sono una sentimentalista, sciocca e fanatica, ma voglio il meglio per mia figlia e non mi pento per questo. Ti amo più di ogni cosa.”

Guardai quell’incrollabile donna portarsi una mano al fianco quasi stizzita dal fatto che avessi messo in dubbio il suo amore per me e provai tenerezza. “Vieni qui.” Allargai le braccia per accoglierla nelle mie. ”Non sei una sciocca sentimentalista mamma, sei forte.. troppo a volte, ma ti amo e capisco che tutto ciò che sei e che mi fa arrabbiare è perché vuoi il mio bene.” Ci abbracciammo forte e restammo lì, io in vestaglia con i capelli acconciati, lei vestita di tutto punto e gli occhi umidi.

“Ma se le tre opzioni non mi piacciono si passa ad altro, ok?!”

Annuì sorridendo; le passai la gruccia con l’innocente abito bellissimo e l’invitai ad aiutarmi.

 

Passata la crisi guardammo l’orologio; era quasi ora per gli invitati, scendemmo nella sala ai piani inferiori e aspettammo impazienti. Mia madre dette le ultime direttive affinchè tutto venisse sistemato in maniera perfetta, coordinò la servitù nelle loro posizioni e mi avvicinò; mi tremavano le gambe, potevo sentire i cristalli del vestito tintinnare fra di loro, mi guardò con un sorriso amorevole e mi strinse forte la mano nella sua.

Il portone si aprì e la faccia paffuta di Baptiste Moreau ci venne incontro, scortando sotto braccio la sua giovane dama; appena dietro di loro Juliette e il suo bellissimo sorriso riempirono di luce l’ingresso tenuta stretta da l’uomo che avrei voluto di meno fra gli invitati alla mia festa di fidanzamento.. Fabien. Mi sfilarono accanto in una processione lenta, Juliette mi strizzò l’occhio facendosi sfilare il soprabito dal commesso di sala, Fabien mi urtò nel tentativo di tenersi in piedi; lo uccido, pensai e subito dopo mi arrivò la scia dolce-amara di contreau. Si era presentato ubriaco al mio pranzo. Convenni di dover dare in escandescenze, ma mi ritrovai a sorridere stupidamente a mia madre e ai suoi borbottii.

“E’ nervoso..” Juliette alzò le spalle, sparendogli dietro.

Baptiste farà bene a tenerlo legato, parentela o meno non ammetto spettacoli al mio tavolo.” Clorine sovrastò il silenzio imbarazzante, mio padre gli cinse le spalle affettuosamente. “Clorine è un giovane scanzonato, nullaltro..” E mi guardò come se io potessi dare loro una conferma. Fabien Moreau era un maleducato, cialtrone, cretino.. ed era di una bellezza devastante. E mi aveva fatto male. Oh no, il suo maldestro tentativo di baciamano mi aveva appena sfiorato, pensavo ai giardini ovviamente e al sol accenno di pensiero mi venne l’orticaria. Mi morsi il labbro, cercando di volgere le mie attenzioni altrove, come ad esempio ai Dupont fratelli e qui ebbi ampie gomitate da mia madre. “Sembra dovrai ringraziare lui se la mano ti peserà..” Grandioso, pensai, sa anche quanto peserà il mio stramaledettissimo anello di fidanzamento; c’era qualcosa che poteva esserle nascosto?

Uno ad uno arrivarono i circa venti ospiti del pranzo, con dieci minuti di ritardo –i dieci minuti più sofferti della mia vita- arrivarono i Chedjou; Jacques, Martin, Ines e Aurelien con un fascio di lavanda stretto al petto. Mi era mancato, potevo avvertire la fastidiosa sensazione di un buco nel cuore che si riempie.

“Sei bellissima.” Mi porse i fiori ed mi ci tuffai dentro.

“Ti prego portami via da mia madre..” Gli dissi afferrando il suo braccio e seguendo la processione al buffet d’entrata; il corridoio apriva con due sale, noi ci infilammo in disparte in quella più piccola adibita a solarium. Richiusi la porta alle mie spalle e non appena il vociare si fece ovattato, Aurelien si piegò sulle mie labbra sigillandole alle sue.

“Sembra che la mia mano dovrà sopportare il peso della situazione oggi..” Sbuffai provocando nel ragazzo una risata schietta. “Oh Aurelien ti prego fa che non mi debba pentire di averti detto sì.”

“Qualche ripensamento?!”

“Solo un po’ di ansia.” Mi strinsi al suo petto, lui passò la sua grande mano sui miei capelli.

“Passerà.” Lo guardai infondo agli occhi verde bottiglia e desiderai ardentemente che fosse così; fra le sue braccia mi sentivo al sicuro ma c’era qualcosa che mi raschiava dal fondo. Inquieta, mi sentivo inquieta. “E comunque non è così grande.” Mi riacciuffò dalle tenebre e mi riportò nello sconforto. “Diciamo che ha il giusto valore come somma dei miei sentimenti per te.” E questa cosa è una dichiarazione? Calma, calma Deesire, i sentimenti offrono un ampia gamma di sfaccettature e.. “Deesire io credo di..” Le mani di Aurelien stavano vagando sui contorni del mio volto e sentivo la potenza del suo sguardo nel mio, cosciente che ciò che avrei udito mi avrebbe potuta fare a pezzi d’amore.

Ma tutto quello che sentii aimè fu un grande botto, la porta spalancata e le sagome di due persone che si fiondavano -nel vero senso della parola- nella stanza; la risata chiassosa di Juliette fu la prima cosa che udii, forte e chiara, seguita in coda dal risolino isterico di Fabien.

“Fantastico..” Biascicò Aurelien. “Che gioia avervi qui, cugini..” Non so se mi urtò di più il “cugini” chiaro segno che Juliette era ormai abbinata a Fabien o la loro presenza stessa, cosa forse più fattibile visto che il mio quasi fidanzato stava quasi per farmi una dichiarazione e i due avevano interrotto il quasi momento epico della mia vita.

“Abbiamo portato i rinforzi!” La biondina sfilò dalle spalle una bottiglia di champagne, la guardammo talmente male che smorzò la risata e si morse le labbra. “Abbiamo interrotto qualcosa?!” Lo dicevo che non era stupida. Era il tempismo che le mancava. E un po’ più di sale in quella testolina bionda e bella perché se ne avesse avuto avrebbe evitato al babbeo che aveva affianco di collassare sulle su stesse gambe per quanto alcool gli girava nelle vene.

“Figurati..” Era vivo, barcollante e poco lucido, ma ancora parlante. “Staranno sempre appiccicati.”

“E’ così che si comportano le persone innamorate.” Aurelien lo rimbrottò ancora infastidito; a me era quasi passata e dopo aver sentito sulle sue labbra la parola “innamorate” ero decisamente molto contenta. Sì, decisamente tutto passato. “Dovresti saperlo.” Indicò Juliette che per tutta risposta gli rise in faccia.

“Fra me e Fabien c’è un tacito accordo. Niente amore caro Aurelien, quindi.. non darti pena e stai allegro è la vostra giornata!” Alzò la bottiglia e ci si attaccò forsennatamente; la guardai accigliata, c’era una strana tensione in quella stanza, al limite possibile della sopportazione umana, qualche goccio di champagne in più avrebbe potuto scatenare una catastrofe, ne ero certa.

“Va bene..” Le tolsi la bottiglia dalla mano, prima che potesse rendersi conto del gesto stesso e la lasciai su un settimino. “Questa resta qui, ma perché Aurelien non fai vedere il resto della casa a Juliette mentre io penso al caro cugino e alla sua sbronza?” Mi guardarono tutti un po’ perplessi, “voi non avete idea di cosa è capace Clorine Fontaine se le cose non vanno per il verso giusto.” Cercai di essere simpatica ma il risultato fu una frase isterica con un maledetto ghigno isterico che però recepì solo il mio amato Aurelien –ben conscio di che genere di donna fosse la sua quasi suocera- al punto che prese Juliette sotto braccio per andare fuori senza batter ciglio.

“Ma che ti è saltato in mente?!” Tuonai alla volta di Fabien una volta rimasti soli.

Deesire non potevo immaginare che c’eravate voi al di là della porta.” Parlava biascicando; stava messo proprio male. “Che poi cosa avremmo mai interrotto di così importante..”

“Non mi riferisco a quanto successo dentro a questa stanza Fabien..” Mi toccò spiegarmi come si fa con i ragazzini ed anche la sua attenzione era come quella di un ragazzino dal momento che stava tutto accartocciato su se stesso, lo sguardo vacuo, la camicia sbottonata e il papillon tutto storto.. impossibile però non sorridere, riusciva ad essere comico anche in una situazione del genere. Ma tu lo odi Deesire, ricordi? Cercavo di non scordarlo ma era impossibile. “E comunque non sono affari tuoi. Dai vieni con me, non te lo meriti ma voglio darti almeno una chance.”

“Dove mi porti?!”

“Nelle cucine, ti serve un buon caffè e poi una rinfrescata.”

Ci allontanammo eludendo i corridoi e le sale dove si era concentrata l’alta società di Parigi, defilandoci per un corridoio secondario che mio padre aveva voluto per dileguarsi in certe occasioni formali quasi quanto questa, dove al posto dei pasticcini c’erano montagne di carte da firmare e discutere. Fabien mi era dietro e mi seguiva in stato mummificante, la mano dentro la mia mano.

Mademoiselle Deesire, vostra madre mi ha pregato di tenervi lontana dalle cucine.”

“E’ un emergenza Gerald. Monsieur Chedjou ha bisogno del vostro aiuto..” Avevo camuffato volutamente le cose per evitare che il cuoco facesse troppe domande e che il nome altisonante lo costringesse a scattare senza dar noie; difatti Gerald intuito il problema.. dall’odore.. aprì una cristalliera accanto alla finestra, prese una bottiglia con del liquido verdastro e ne versò due dita senza emetter fiato.

“Deve ingoiarlo in un sol fiato. All’inizio è amaro, poi dolciastro.. ma la sbornia passa in fretta.”

Fabien allungò un braccio controvoglia, annussò ed arricciò il naso. “Cos’è questa roba?!”

Gerald sorrise. “Sono erbe medicamentarie più un mio tocco segreto.” Fabien negò con il capo allontanandolo dalle labbra; sbuffai impaziente.

“Puoi dircelo Gerald, il tuo segreto è al sicuro. Chedjou è così ubriaco che domani non ricorderà nemmeno di aver avuto questa conversazione ed io sarò una tomba, promesso!” Mi baciai le dita incrociate sulle labbra pregando il creato che si sbrigasse a parlare e convincere Fabien lo schizzinoso a non fare storie. “Per favore..” Calcai la mano disposta anche a rotolarmi sul pavimento pur di avere quella stupida ricetta.

“Erbe, un pizzico di zenzero e tre parti di cannella.” Fu come condannare un uomo a morire, “sono molto legato a questa ricetta. Lo zenzero e la cannella sembrano così distanti come sapori, ma una volta uniti sono complementari.. come certe persone.” Guardò lontano come se più di un segreto gli fosse sfuggito dalle labbra; sorrisi, chissà chi era la sua parte distante.

“Nulla di pericoloso per la tua vita, hai sentito? Adesso non puoi più fare storie, Gerald è stato così gentile da svelarci la ricetta, glielo devi.” Mi accucciai al suo orecchio, “e lo devi a me, ti ho salvato.” Mi guardò sconcertato e mando giù controvoglia l’intruglio; qualcuno intanto con calderoni bollenti richiamava la forza di Gerald che si scusò congedandosi.

“Sono sicuro che se fosse veleno lasceresti che me lo bevessi.”

“L’idea mi stuzzica, ma non sei così importante.” Lo canzonai, muovendomi nella cucina alla ricerca di pezzuole pulite e una bacinella colma d’acqua. “Ma voglio darti una seconda opportunità Fabien Moreau, puoi riscattarti dalla tua reputazione di ragazzo maledetto. Un clichè insopportabile.. artista bello e dannato. Sai fare di meglio.”

Feci scorrere la pezzuola fresca sul suo viso e mi incantai sui tratti perfetti; era bello sul serio, di una bellezza sfacciata, che ti ci posi su e per quanto tu possa distogliere lo sguardo ci ritorni per controllare di non avere le traveggole.. pericoloso, molto pericoloso se hai diciotto anni e stai per fidanzarti. Decisi di distogliere lo sguardo e lasciare che continuasse da solo.

“Ce l’hai con me e lo capisco, sono insopportabile anche per me stesso a volte, ma vorrei davvero ricominciare da capo, Deesire.” Si tastò il viso con l’acqua, “mi dispiace.. amici?!” Allungò la mano e gliela strinsi senza indugio, sicura che non sarebbe stato facile –Fabien era tutt’altro che malleabile, nonostante l’allegria e i sorrisi aveva l’anima torbida, lo avevo percepito- ma ci si sarebbe potuto lavorare su con il tempo, infondo avremmo fatto parte entrambi della stessa grande famiglia, dolente o volente lo avrei avuto intorno. Ed ero sicura che infondo, non mi dispiaceva affatto.

 

Riemergemmo dalle cucine che la sala del banchetto era ormai gremita di persone; Fabien entrò per primo accomodandosi fra il padre e Juliette nei primi posti del tavolo, poi venne il mio turno, ben calcolato da dietro le colonne mentre mi allisciavo nervosamente il vestito e sistemavo i capelli che il vapore mi aveva afflosciato. Perfetto, pensavo, mia madre tenterà di soffocarsi il viso nella zuppa. Presi un bel respiro e feci il mio ingresso, annuivo con il capo mentre con gli occhi scorrevo sui volti familiari -e non troppo- intorno alla tavola elegantemente imbandita; i candelabri in argento luccicavano sotto ai cristalli dei lampadari, le tovaglie bianche di merletto odoravano di fresco e risaltavano con i centrotavola di lavanda –avevo costretto mia madre ad adoperare il mio nuovo fiore preferito- le pietanze si ergevano sui vassoi in un artistico gioco di cromie di colori e sapori, ed era tutto perfetto come ci sarebbe aspettato da Clorine e la sua squadra composta da dodici fra commessi di sala, camerieri e cuochi.

“Entrata perfetta.” Mia madre tirò dietro l’orecchio un ciuffo ribelle del mio semi raccolto, ben attenta a non farsi scorgere. “Fortuna nessuno ha notato quell’insignificante Moreau prima del tuo arrivo.” Già, fortuna sfacciata; mia madre era capace di devastare il mio umore come nessuno.

“Insignificante, non direi.” Il papillon era tornato dritto e il vapore aveva ravvivato il cotone blu del suo abito perfetto ed elegante, ma mia madre non avrebbe capito mai il senso delle mie congetture per cui scossi il capo alla sua occhiataccia, “niente, lascia stare.”

“Signori, sono lieto di avervi come ospiti a questo tavolo.” Mio padre dal capotavola si alzò con un calice di bollicine in mano. “E sono onorato del motivo per cui siamo riuniti oggi, alla famiglia Chedjou vanno i miei ringraziamenti speciali, per il loro Aurelien, questo brindisi è per lui e per la mia adorata Deesire. ‘A votre santé!” Tin tin, molti calici si sfiorarono, guardai furiosa Fabien, due posti dopo il mio dall’altro lato del tavolo, agguantare un Cabernet Sauvignon ed il mio capo energicamente dissentiva da tale, pericolosa scelta che lo avrebbe ricondotto certo verso una via impervia e monosillabica.

Aurelien da sotto il tavolo legò le nostre mani. “Finalmente sei qui..” Si avvicinò piano al mio orecchio sussurrando, “non è stato facile tenere a bada Clorine.” Sorrisi e lui con me… non lo avevo notato fin ad ora ma era dannatamente perfetto nel suo smoking fumè. Si tirò sul con il busto e con il mento indicò Fabien, “sembra rinato. Non l’ho mai visto così, chissà cosa gli passa per la testa.”

“E’ nervoso, lo ha detto Juliette.”

“Beh non lo capisco. Juliette è giusta per lui, perdonami se uso noi come comparazione ma.. sarebbe un altro matrimonio.. perfetto.. questa storia del non amore mi sembra così infantile.”

Guardai ai due e mi convinsi che per quanto una persona poteva farti ridere e avere i tuoi stessi gusti, in quanto scelta “indirizzata” da qualcun altro restava comunque una scelta non tua.. se non c’era amore. “Lui non ha te.. come me.” Sdrammatizzai ridendo, perplessa da come non si poteva amare una come Juliette, se non per la sua verve spiccata anche solo per il suo viso angelico. “Credo che Fabien adesso pensi ad altro.” Cercai di sopperire questa frase con altro ma sentirla ripetere spesso mi aveva fatto credere che fosse proprio così; non gliene fregava nulla che Juliette era bellissima, qualcosa prima di questo, aveva la precedenza.

Anche se il qualcosa a me restava comunque sconosciuto.

“E’ sempre stato sopra le righe..” sul volto di Aurelien si aprì un sorriso di ricordi lontani, “una volta, da ragazzini, mi confidò di essersi preso una cotta per una ragazzina del corso di solfeggio e quando gli dissi di invitarla a pranzo negò così arditamente che credetti non esistessi. Ancora oggi lo prendo in giro con questa storia.. dovremmo chiedergli chi fosse, tu hai frequentato la stessa scuola, magari la conosci.”

O magari quella ragazzina ero io. D’un tratto la sala si era fatta vorticosamente movimentata, nonostante le mille calorie e passa di porzione in porzione, vedevo le stelle come un affamato; che Fabien avesse una cotta per me mai sopperita?! Che il motivo di tanto nervosismo, della sbronza, delle provocazioni al parco fossero solo una sorta di diversivo per sopperire tali sentimenti?!

“Ma no, figurati se si fa turbare da una donna. Non chiediamogli niente, ci prenderebbe in giro.” Ero confusa, ma non a tal punto da credere di essere così importante nella vita di Fabien Moreau e soprattutto non potevo permettere ad Aurelien di scavare in questa storia, perciò scossi animatamente il capo e mi convinsi a lasciar perdere.

Era il mio fidanzamento quello in cui ci stavamo tuffando.. non un menage a trois.

 

Era arrivato il momento, lo leggevo sui visi stravolti di Bordeaux e Cabernet, la tavola svuotata e l’aria che sapeva di pasticcini caldi; il dessert, altre bollicine, l’animo disteso.. il momento adatto per una dichiarazione. Aurelien mi guardò carico di entusiasmo, allacciò le nostre mani tintinnando la forchetta sul bicchiere mezzo pieno; eravamo in piedi, il brusio calò, il vino smise di scorrere, il tempo si fermò.

“Monsieur Ahmed lei ha ringraziato i miei genitori perché hanno me, ma sono io che la ringrazio per questo fiore di donna che lei e Madame Fontaine avete messo al mondo.. per me. Sono onorato di avere accanto a me una creatura come Deesire e vi spiego subito perché. La prima volta che l’ho vista ho pensato ovviamente che fosse bellissima.. e sapete cosa mi ha detto lei, la prima cosa? Non sono la fanciulla più accomodante che ti potesse capitare.” Prese tempo, mi guardò sorridendo e poi tornò alla sala. “E’ stato amore, capite?!” Tutti risero, mi sentii sollevata, vista da fuori dovevo sembrare una specie di dittatrice isterica. “E mi disse che c’era tempo, per sposarci.. io convenni che se brandy e sigari non ci avessero aiutato con le nostre famiglie saremmo divenuti nuovamente estranei ma…” Sulla scia di una risata e il ripiombare del silenzio, Aurelien si inginocchiò, sfilò dal taschino un cofanetto di velluto blu e lo aprì; ecco, come descrivere ciò che provai in quell’istante, se non morire e rinascere all’infinito?! “Deesire, la sbronza è finita, i nostri genitori si parlano ancora –a proposito non vi offendete se non rispetto la tradizione, vero?- Deesire, mi vuoi sposare?!” Nessuno obbiettò a questa domanda e io la trovai deliziosamente originale e irresistibile; era anche meglio dei miei sogni romantici, mio padre, la poltrona.. roba superata, si era inginocchiato difronte la crema di Parigi, con un anello che brillava quanto il lampadario sui soffitti porgendomi la fatidica domanda. Feci del mio meglio anche io per spezzare le tradizioni e mi gettai su di lui, quando si alzò per guardarmi dritto negli occhi; mi acciuffò al volo stampandomi un bacio a fior di labbra. Partirono gli applausi, mi rimise giù. “Devo prenderlo per un sì?!”

“Sì!” E lo abbracciai ancora, guardando mia madre in un fiume di lacrime e quell’anello, un diamante a forma di spiga incastonato su una fascia di piccoli diamanti, perfetto e bellissimo e mio.

 

Ci spostammo nella sala dei ricevimenti e mio padre dette il via all’orchestra di animare la serata. Mi accorsi di non avere Aurelien al mio fianco da troppo tempo quando passai la mia mano fra la mano della centesima ragazza che mi chiese di mostrargli l’anello; ennesimo gridolino eccitato ed ennesimo sguardo al cavaliere di turno, qualora fossero state accompagnate, come a voler dire guarda e impara. Mi guardai attorno stranamente ansiosa di scorgere gli occhi verde bottiglia tanto amati e mi ritrovai invece su una scenetta patetica di Juliette che urlava negli orecchi di Fabien di smetterla con il vino; per un attimo i nostri occhi si incrociarono, alzò la bottiglia verso la mia direzione e di rimando scossi il capo afflitta. Perché si comportava a quel modo?! Che diritto aveva di rovinare la serata ad una fanciulla così graziosa?! Perché non riusciva ad essere il felice Fabien che avevo conosciuto?! Ma soprattutto.. a me cosa importava?!

Mi strinsi nelle spalle e nel voltarmi nella direzione opposta a loro venni accolta dalle braccia di Aurelien; mi aspettava con un sorriso felice, pronto a ballare. Lasciai che mi conducesse a passo di valzer al centro della sala, libera in fretta quando in quella giovane coppia gli invitati riconobbero i futuri sposi, per permetterci di volteggiare nell’aria e farci rimirare con la giusta e consentita dose di invidia. Sotto questo aspetto dovevo riconoscere che il mio futuro sposo era esattamente tutto ciò che ci si aspettava da uno Chedjou; amante del bello, egocentrico quanto bastava, dotato di un accennato senso di protagonismo. E diciamo che non mi dispiaceva affatto avere accanto un uomo così sicuro di se, ma io sapevo cosa costava quella sicurezza, avevo letto nell’animo di Aurelien e sapere della sua sfaccettatura sensibile sotto quell’armatura impenetrabile fatta di sorrisi e occhi sicuri mi rendeva orgogliosa e privilegiata.

Molto più dell’avere a disposizione i suoi incalcolabili franchi.

“Spero di non averti messa in imbarazzo.” Mi sussurrò, tenendomi allacciata per la vita. “Appena l’ho visto ho pensato a te.” Parlava certamente dell’enorme diamante posato sul mio anulare e al posto di fissarlo come avevo fatto per la prima mezzora il mio sguardo si posò invece su Juliette e Fabien ancora in via di discussione in un angolo della sala.

“Credo non si parlerà d’altro Aurelien. Da oggi ci sarete tu e il diamante!” Cercai di ridere ma non riuscii ad essere simpatica come volevo risultato fu che mi uscì una specie di miagolio sforzato e Aurelien che mi guardò seriamente preoccupato. “Scherzavo è fantastico amore mio.” Imbrogliai ancora di più e mi buttai sulle sue labbra goffamente, così che ne uscì uno scontro e il suo labbro graffiato da un morso. Mi alzò il mento e mi penetrò con lo sguardo. “Deesire, qualcosa non va?!”

Indicai Juliette adesso rannicchiata su se stessa contro una delle colonne della sala e Fabien a poche spanne con una bottiglia sotto braccio. “Non riesco a staccare lo sguardo da lei, mi fa pena.”

“Non dovrebbe. E’ una delle ragazze più ricche di Parigi e mio cugino non è certo un cioccolatino, voglio dire non sono costretti a stare insieme eppure si scelgono. Dicono di essere a posto così ed eccoli là, controfigure di loro stessi.” Afferrò da un vassoio due flute e me ne passò uno. “Non devi pensare a loro, un giorno Juliette incontrerà un ereditiere della sua stessa portata e Fabien la ragazza dei suoi sogni, fino ad allora non è compito tuo preoccuparti della loro felicità.” Per quanto dure fossero le parole di Aurelien mi rendevo conto che aveva ragione; noi tutti non eravamo semplicemente dei ragazzi, eravamo dei destini già scritti, delle storie da copione, delle vite da manuale, così Juliette avrebbe ereditato i suoi milioni di franchi e li avrebbe fatti gestire dal ricco paperone che avrebbe sposato, Fabien o non Fabien, amore o non amore e lui, quel ragazzo biondo artista e dannato -come quasi tutti i ventenni di buona famiglia di Parigi- avrebbe superato la fase nel momento esatto in cui i suoi occhi avrebbero incontrato lo sguardo della donna che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Non c’era da preoccuparsi. O forse sì.

Per coincidenza i nostri sguardi si incrociarono nuovamente a metà di un valzer e una quadriglia; Juliette se ne era andata, attraversando grandi passi verso le uscite della sala, quelle sul giardino interno una specie di museo verde voluto fortemente da mia madre. Alzai le spalle colpevole di essere stata beccata nuovamente a sbirciare le loro mosse da Aurelien, che sorrise ironico e slegò il suo abbraccio. “Vai da lei.” Mi disse in tono soave, come se la sorellanza fra donne fosse universalmente più importante di ogni nostra conversazione precedente. Lo baciai delicatamente e mi allontanai, in un attimo alcune giovani donzelle gli furono addosso, sorrisi guardandolo da lontano destreggiarsi con la sua aria fiera.

“Auguri alla sposa..” Una voce melliflua che conoscevo benissimo mi raggiunse alle spalle nel momento esatto in cui mi apprestai a raggiungere il giardino; mi voltai, Fabien aveva di nuovo il papillon tutto storto e la matassa di capelli biondi scomposta sulla fronte.

“Sei un capolavoro disfatto. Di nuovo.” Gli passai veloce una mano fra i capelli, girando intorno alla sua figura per andarmene ma mi afferrò il polso e mi trascinò oltre la coltre di colonne, lontano dalle danze e dagli occhi di mezza città che contava. “Fabien che ti prende? Sei impazzito?!” Non disse nulla altro che non aggiunse con le sue labbra premute contro le mie in un prepotente, lungo, disastroso.. bacio rubato.

 

***

NDA:

Svelato -quasi- il perché del titolo della storia!

GRAZIE A TUTTI COLORO CHE HANNO MESSO LA STORIA FRA LE SEGUITE.

E grazie a chi rinnova il suo impegno continuando a leggere questa mia storia senza pretese.

Spero vi piaccia, fatemi sapere.

Lunadreamy.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 6.

 

Notre Dame era gremita di gente alle ore dodici di quella domenica quasi estiva e molto calda.

I colombi appollaiati sulla piazza erano ospiti aggiunti alla fiumana di persone ben vestite, in attesa della sposa; tinte color sorbetto si alternavano a pregiate stoffe e gli addobbi floreali color lavanda facevano sembrare l’ile de la citè quanto di più vicino c’era a un dipinto di Monet.

Una bianca Rolls Royce Princess avanzò fra la folla strimpellando il clacson a festa; dai vetri scuri dell’auto il volto radioso di una ragazza faceva capolino dal velo di tulle bianco. L’auto si fermò al centro esatto della piazza; la ragazza venne aiutata da suo padre nel ridiscendere, un uomo impettito in uno smocking nero di satin con un fiore di lavanda e il fazzoletto bianco nel taschino, mentre alcune damigelle –sopraggiunte con una successiva auto- le furono subito intorno danzando intorno alla lunga coda dell’abito che indossava.

Un raggio di sole la colpì. Sorrise, bella come non mai. Uno sguardo complice con l’uomo che la teneva sotto braccio fu il segnale del cadenzare i primi passi verso il portone principale, dove ad attenderla c’era il principe azzurro di tutte le favole. Ora della sua.

Quella ragazza, ero io.

Era il dieci giugno del millenovecentotrentotto, esattamente un mese dopo il nostro fidanzamento Aurelien si apprestava a fare di me la signora Bonnet-Chedjou.

 

Era stato assai difficile rimanere concentrata sulle parole del cardinale Jean Verdier, durante la predica, perché le lacrime di mia madre avevano riempito la navata di sommessi ansimi; guardavo estasiata i rosoni di vetro e le alte vetrate dai mille colori sgargianti dipingere sul volto del mio compagno petali di meraviglia sul viso. Non v’era altra luce se non quell’improvviso gioco che i raggi di sole all’esterno conducevano con le nuvole, quando potenti le bucavano filtrando all’interno della cattedrale sotto forma di arcobaleno. C’era un motivo, per cui tutta la vita avevo sognato di essere sposa lì e quello che di lì a poco sarebbe stato mio marito, sorrideva soddisfatto al di sotto del suo cilindro, contemplando insieme a me l’incanto di tanta attesa; c’erano volute delle promesse e onestamente qualche franco in più -Aurelien aveva posto come clausola inscindibile il tempo, un mese esatto e non di più- per convincere il prefetto a donare al rampollo di casa Chedjou lo straordinario consenso per svolgere lo sposalizio in Notre Dame, ma alla fine ogni spasimo era stato ben ricompensato e noi eravamo lì, mano nella mano a giurarci amore eterno in quello che sembrava il paradiso in terra.

“Aurelien Jacque Chedjou vuoi tu prendere la qui presente Deesire Anaelle Bonnet come tua legittima sposa promettendo di essergli fedele sempre nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finchè morte non vi separi?!”

“Lo voglio.”

“Deesire Anaelle Bonnet vuoi tu qui prendere Aurelien Jacque Chedjou come tua legittimo sposo promettendo di essergli fedele sempre nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finchè morte non vi separi?!”

“Lo voglio.”

“Per i poteri conferitemi dalla Santa Chiesa, Aurelien e Deesire, vi dichiaro marito e moglie.”

Un bacio sugellò il patto delle nostre famiglie.. e il nostro amore; agli occhi di molti eravamo solo delle banconote che messe insieme ad altre banconote assicuravano la sopravvivenza dei nostri imperi –nonostante la romantica e diventata ormai argomento da salotto per signore dichiarazione di Aurelien- ma per noi era tutto straordinariamente vero e vivo.

Le campane suonarono a festa, mi voltai raccogliendo il mio abito, guardando verso l’uscita, dove le damigelle ci aspettavano ordinate per il lancio del riso; guardai alla volta di mia madre, ai suoi occhi rossi e il fazzoletto stretto fra le mani guantate di raso, scorsi il viso di Martin e Ines visibilmente emozionati e infine a lui, mio marito, l’uomo più compito e soddisfatto sulla faccia della terra e sentii che ero esattamente dove volevo essere. Anche se le gambe avevano preso e tremare.

“Sto tremando di paura.” Sussurrai all’orecchio dello sposo.

“Il peggio è passato.” Mi sorrise, stringendomi più forte la mano. “Madame Chedjou…” Mi presentò il suo braccio e lo afferrai con determinazione; scendemmo solennemente per la navata centrale, qualcuno sussurrava impaziente le proprie felicitazioni, qualcun altro ci sorrideva e i più compiti annuivano con il capo. Le bambine timide e speranzose da dietro le gonne delle loro mamme guardavano quella sposa e il suo abito innovativo di pizzo e trasparenze con inserti di perle e cristalli lungo tutta la figura aderente fino al ginocchio e più ampio sul finire in una interminabile coda di tulle; una principessa moderna per una fiaba dal sapore antico.

Le tre opzioni di mia madre erano chiaramente andate a farsi un bel giro.

Mi resi conto che era fatta solo nell’istante in cui il riso volò sopra le nostre teste, mentre Aurelien mi teneva stretto a sé svicolando le sei damigelle che avevamo scelto fra parenti e amici e mi alzò da terra, facendomi volteggiare nell’aria; sorrise ai fotografi, mi condusse alla macchina dove inserì la sicura e ordinò all’autista di partire.

“Aurelien dove stiamo andando?! Dovevamo girare per..”

Mi azzittì con un bacio. “Voglio mia moglie tutta per me.” Lo baciai a mia volta eccitata dall’improvviso cambio di programma e perché no sollevata al pensiero di poter rimandare di un po’ l’orda di donne super eccitate e le loro mille domande.

“Si fermi qui, grazie.”

Scendemmo al caffè Allard, dove avevamo avuto il nostro primo appuntamento; sorrisi nervosa mentre un cameriere ci scortava in un tavolino appartato e prenotato per l’occasione. Di certo non passammo inosservati vestiti a quella maniera meritandoci gli applausi delle donne e i fischi degli uomini stile occasione di caccia, mentre sfilavamo timidi e affrettati.

“La tua cioccolata e il mio caffè.”

Aurelien spinse verso di me una fumante tazza; aveva riprodotto quel giorno fedele all’originale, mi rilassai abbassando le spalle e accucciando la testa sulla sua spalla. “Si domanderanno dove siamo finiti.” Tirai su il cucchiaino portandolo alle labbra; solo in quel momento mi accorsi di avere fame e di averla almeno da un mese, cioè da quando le estenuanti prove dell’abito mi avevano costretta a controllarmi.

“Deesire se potessi resterei in questo caffè, solo con te, tutto il giorno.”

“Ansia da prestazione, Monsier Chedjou?!” Mi guardò sgranando gli occhi e lì capii che aveva travisato del tutto le mie parole. “Aurelien, no, volevo dire per il pranzo.. le persone..” Arrossii violentemente incartandomi nelle mie stesse intenzioni; lui si chinò su di me mettendomi a tacere per la seconda volta con un bacio. Cominciava a piacermi questo suo modo di togliermi.. il fiato.

“Anche.” Soffiò sulle mie labbra, ridendo malizioso. “Non ho molta pratica con questo genere.. di cose.”

“Ah.” Sobbalzai, il caro maritino aveva la virtù ancora intatta; mi sentii spudoratamente e scioccamente sollevata a quelle parole. “Beh anche io.” Mi coprii letteralmente la faccia nascondendola dietro la tazza.

“Ovviamente.” Rimbrottò lui in maniera molto mascolina, come se avessi detto l’ovvietà del secolo. “Non sarebbe bello vivere con il costante desiderio di uccidere qualcuno.” Mi sorrise in modo affascinante e ipnotizzante; ero totalmente persa nei suoi occhi verde bottiglia, ma una leggera sensazione di panico mi prese alla bocca dello stomaco. Voltai lo sguardo altrove cercando di non fissarmi sul pensiero di me e lui e i nostri corpi nudi incastrati come anaconde furenti; fu tutto inutile, perché mi sentivo come un truciolo accanto alla scintilla.. presto, molto presto, avrei preso inesorabilmente fuoco.

 

Il nostro ricevimento di nozze fu dato in una delle più importanti sale dell’Opera e non ricordo granchè del resto della giornata, a parte il non aver toccato cibo, la miriade di persone con cui mi ero intrattenuta, alcuni parenti giunti dal lontano Marocco del quale ignoravo categoricamente l’esistenza, più tutta una serie di consuetudini abbinate anche al peggior matrimonio mai visto; una cosa la ricordo bene, Juliette Dupont aveva afferrato –dal suo metro e settantasette- il mio bouquet di calle bianche e lavanda, lasciando a bocca asciutta tutte le mademoiselle da marito di mezza Parigi che contava, fra cui le isteriche cugine di Aurelien –le compativo, ai loro occhi ero quanto di più detestabile esistesse e la sola vicinanza quando cercavano di intrattenermi mi faceva venire l’orticaria- e l’incontro con Madeleine Chedjou, la famosa reietta delle aziende più importanti della città, l’anticonformista della famiglia e madre di Fabien.

Era una donna straordinariamente elegante, sebbene frequentasse i pittoreschi vicoli di Montmartre e la sua nomina da bohemien la precedesse, con lunghi capelli color cenere e degli occhi verdi da far girare la testa, del tutto uguale a suo figlio e del tutto differente da quello che era stato suo marito, Baptiste Moreau. I due erano arrivati insieme, stavolta senza la giovane dama di Baptiste –a letto con una terribile influenza- al seguito e rimasi colpita e ammirata dal loro rispetto reciproco e affiatamento. Altra grande assenza che non potei fare a meno di notare fu quella dello stesso Fabien; sì, era presente, ma se ne stava così defilato e decisamente meno chiassoso e ubriaco rispetto all’ultima volta che ci eravamo visti -e decisamente scontrati- che sembrava non ci fosse. Non me ne preoccupai e gli fui grata, dato le cinque dita che gli avevo rifilato sul viso e le parole infamanti che avevo pronunciato dopo il tentativo maldestro di baciarmi.

“Vieni, comincia la quadriglia!” Aurelien mi rubò ad un gruppo di attempate carampane e mi trascinò sul lato della sala dove un altrettanto gruppo di attempate stavano disponendosi per il ballo più faticoso e dispendioso del repertorio francese. Declinai con il capo, ma sorrise così speranzoso che non potei fare altro che accettare. A malincuore mio e dei miei poveri piedi.

“Solo questo! Ho bisogno di respirare!” Annuì e ci lanciammo nella foga.

Quando la musica scemò pregai mia madre di occuparsi del cambio d’abito; ero sudata, i capelli una matassa informe, per di più il mio bellissimo abito era diventato d’intralcio dato lo svolgimento della festa. Mio marito mi avrebbe costretta a ballare tutta la notte e chissà, non ero proprio deliziata al pensiero di doverlo fare per tutto il tempo racchiusa in un bozzolo di tulle, costoso, ma pur sempre asfissiante e ingombrante. Neanche a dirlo il salottino per la rimise in forme era pieno zeppo di grucce e scintillanti abiti; afferrai disinvolta il primo che mi desse la sensazione di essere comodo, pratico ma sufficientemente appariscente da accontentare le voglie di Clorine Fontaine; certo mi sarebbe mancata la mia ingombrante mamma, ma il pensiero di non dover più dipendere dai suoi sguardi accusatori quando aprivo un armadio, mi aveva fatto tirare più di un sospiro di sollievo. Una coiffer si occupò di far sembrare la mia capigliatura appena fresca di lavaggio, acconciandola con un semi raccolto di lato, rianimando le mie onde attorcigliandole fra le dita. Annuimmo tutte e tre soddisfatte, baciai Clorine e tornai dove ero.

Camminando per il corridoio che separava i salottini privati alla sala principale del ballo di nozze mi soffermai su una sala più piccola da quale uscivano zaffate di sigaro; una voce a me familiare e una decisamente roca e sensuale sparlavano di questo e di quello, infilando dentro un angusto di battito su l’oggettiva bellezza architettonica del posto in cui ci trovavamo. Madeleine Chedjou mi intravide e mi fece cenno d’avanzare; Fabien era seduto scomposto alla sua destra e mi guardò per tutto il tempo ci misi a mettermi seduta; la donna aveva alle labbra uno di quei sigari che si vedono solo a tizi con baffi alla Salvador Dalì.

“Spero non ti dia fastidio.” Boccheggiò del fumo denso e dolciastro squadrandomi da capo a piedi.

“No Madame Chedjou.” La vidi sorridere per aver accentuato il suo cognome da nubile, “Mio padre è marocchino e un grande estimatore di tutto ciò che fa fumo.”

Sorrise porgendomi il sigaro. “Ecco spiegato il bellissimo colore ambrato della tua pelle.”

Negai con il capo. “Ahmed Bonnet non è quello che si direbbe un pallido francese.” Rise stavolta veramente divertita, girando il capo verso Fabien.

“Non mi avevi detto fosse così simpatica.” Tornò su di me, accorciando la distanza che ci separava. “So che sei un estimatrice d’arte.” Annuii riflettendo su quanto altro Fabien le avesse raccontato di me. “Perfetto, allora gradirai senza dubbio lo splendido Bacio di Klimt che mi ha costretto a scovare per te.” Cosa c’era di perfetto nella voglia di prendere a calci Fabien fino a sentirlo piangere? Lei mi sorrise incantata ed io ero sempre più piccola e sprofondata nella mia strana posizione su quel divano d’un tratto scomodo come una seduta su un rovo di rose. Avvampai. Mi poggiò la mano sul braccio e sussurrando continuò. “Tranquilla è il mio mestiere scovare occasioni. E’ stato un colpo di fortuna.” Inspirai lieta che avesse interpretato in altro modo il mio rossore e quasi certa che Fabien non avesse -diciamo- “spifferato” altro.

“Non doveva darsi pena, signora Chedjou, ma la ringrazio.”

“Chiamami Madeleine, cara. Allora, dato che siamo ormai parenti, posso dirti una cosa in tutta franchezza?” Fabien la guardò piuttosto preoccupato, poi si fermò su di me e alzò le spalle. “Auguri Deesire, ti serviranno cara ragazza, questa famiglia è.. diciamo assai ingombrante. Spero tu sia sufficientemente pronta.” Non avevo mai visto Ines e Martin sotto questo aspetto, ma chiaramente so che mirava al Chedjou senior, Jacque, soffermandomi per un attimo alla austera figura dell’uomo; sì poteva metter una certa sensazione di disagio ma.. io avevo Aurelien, ero certa che non sarebbe successo niente con lui al mio fianco. Le sorrisi benevola, non doveva essere facile vestire i panni della reietta, come non doveva essere facile vivere una vita classificata da tutti “outsider” solo perché si è perseguiti il sogno della libertà, accettando tutti i risvolti della medaglia. Fabien le somigliava moltissimo, al di là dell’aspetto fisico, i loro occhi erano accesi dal sacro fuoco dell’arte, in loro era vivo e potevi toccarlo con la mano l’ardore dell’animale selvatico, l’istinto del cacciatore e il volo dell’aquila. Erano affascinanti e ipnotici. Letali, da un certo punto di vista. Ed io mi sentii stranamente a disagio con i loro quattro occhi verde-azzurro puntati addosso.

“Pare che da stasera mi converrà tenere una carabina sotto al letto.” Ero piuttosto ironica ma Madeleine rise battendo energicamente la mano sul divano. “Ti ringrazio, sono sinceramente contenta di averti conosciuto e di far parte della tua famiglia.”

La donna mi sorrise di un bel sorriso di porcellana. “Credo che le mie chiacchiere possono bastare per ora, vi lascio miei cari.” Sfilò dalla borsetta un ampolla di profumo e se ne spruzzò una quantità tale da farci tossire, guardandoci. “Tuo padre mi sta addosso come quando avevamo vent’anni.. un sigaro ogni tanto fa bene all’anima.” E se ne andò volteggiando lasciando nella stanza un silenzio assordante.

Feci per alzarmi e andare via dal muto e laconico Fabien quando quest’ultimo sfilò dal suo posto al mio; lo guardai agghiacciata spostandomi indietro verso il bordo più estremo del divano, assottigliandomi affianco al bracciolo. “Ti prego resta, non ho avuto modo di farteli, ma volevo porti i miei più sentiti auguri.” Lo guardai come se avesse detto un ingiuria pesantissima, imbronciando il volto. “Sono qui in pace.” Aggiunse con voce flautata, alzando le mani, ma non bastò a farmi rilassare.

“Lo splendido bacio di Klimt dice il contrario però.”

“E’ un quadro bellissimo..” Sorrise isterico, prendendomi la mano; il contatto mi fece irrigidire. “Non avercela per quel bacio è stato solo uno stupido errore.” Mi guardai attorno nervosa e lo pregai con lo sguardo di calmare la voce, non che se lo fosse dimenticato dato il modo in cui eravamo abbigliati, ma eravamo ad un matrimonio, al mio matrimonio e se malauguratamente una pettegola da salotto ci avesse udito ci saremo trovati a un funerale. Il suo funerale!

“Parliamo del quadro Fabien?! Un bellissimo quadro, quanto al bacio uno stupido errore, certo. Uno stupido errore da non ripetere.” Mi guardò accigliato ma non riusciva a trattenersi dal ridere, riuscivo a percepire le sue smorfiette all’angolo della bocca, trovandolo irritante, come i suoi costanti cambi d’umore. “Devo andare, mio marito si starà domandando dove sia.” Alla parola marito guardò in basso, quasi deluso. Cominciavo a dubitare che si rendesse conto dove si trovava e cosa era venuto a fare. Mi alzai e lui con me, di rimando. Un riflesso cauto.

“Non succederà più puoi stare tranquilla.” Si sistemò il colletto della giacca, prendendo un respiro a pieni polmoni. “Auguri Deesire, che tu e Aurelien possiate godere della felicità che meritate.” Oltrepassò la mia figura sfiorandomi con la spalla; in quell’istante tutte le fiamme si spensero nei suoi occhi.

Tutto ciò che mi raccontarono a seguire fu che la famiglia Moreau –pare che Baptiste si prodigò in lunghe scuse- abbandonò il ricevimento a metà in preda ad urgenze inderogabili. Tutti pensarono alla giovane damina di monsieur Moreau a casa malata, ma la fretta dei passi di Fabien la diceva lunga.

 

 

Dieci ore dopo il nostro sì, dieci ore di balli, cibo, chiacchiere e intrattenimento Aurelien fece caricare la nostra auto con i nostri bagagli direzione St. Honore Fabourg; i miei genitori ci avevano fatto dono di un delizioso appartamento pochi numeri più giù di quello dei miei suoceri. Ero stata perentoria, niente di troppo eccessivo e nulla di così sfarzoso da richiedere la presenza di troppa servitù; eravamo così giovani da non desiderare di avere troppo spazio vuoto e troppo via vai fra di noi.

“Stai attenta.” Mia madre mi circondò le spalle con il soprabito; l’incrollabile fede di Clorine cadde nell’istante in cui realizzò che la sua bambina stava lasciando il nido. Era umana, dunque. Mi ritrovai a sorridere provando un misto di sensazioni indecifrabili guardandola; ansia, aspettative, passione, ma anche felicità, gioia, speranza. “Ricorda, non sono mai troppo lontana per te.”

Le sorrisi coprendola con un largo abbraccio. “Sono solo dall’altra parte del fiume.” Mio padre ci guardava come una sentinella vigile, feci segno con la mano di avvicinarsi e restammo così, fermi in un abbraccio solidale e familiare. “Vi voglio bene, ma adesso dovete lasciarmi andare..” Dissi quasi soffocata dal troppo amore e papà rise slegandoci. “Ti vogliamo bene. Auguri figlia mia.”

“A presto papà.” Li baciai sulle guance ed entrai in auto; la mia mano li accompagnò salutandoli fino a quando i loro profili non si persero con il buio della notte.

 

“Aspetta.” Giunta al grande portone con le maniglie di ottone Aurelien mi bloccò il passaggio. Mi sollevò da terra prima di varcare la soglia, facendosi spazio nell’immensa sala d’apertura; c’eravamo già stati ovviamente -Ines e Clorine ci avevano scarrozzato nei sobborghi più malfamati alla ricerca di oggetti d’arredamento unici- ma metterci piede da marito e moglie significava adesso tutta un'altra cosa. Quello sarebbe stato ora il nostro nido d’amore, niente più fughe notturne, niente lettere e inviti al prossimo appuntamento al sapor di lavanda, niente più lunghe attese; avrei avuto Aurelien quando avrei voluto e lui avrebbe avuto me alla stessa maniera, avremmo condiviso il quotidiano, le abitudini e in qualche modo ci saremmo conosciuti più a fondo. Ero pronta, impaziente di cominciare quell’avventura insieme a lui.

“Credo ci vorranno anni prima di far entrare tutta quella roba.” Lo osservavo mentre gestiva i facchini con i regali in una sala attigua che con più calma avremo sistemato come piccola sala cocktail; mi sorrise di rimando, posando sul pavimento un qualcosa dalla mole ingombrante. Fissai inorridita il trambusto e il caos attorno a noi quando mi si avvicinò massaggiandomi le spalle.

“Perché non vai a farti un bel bagno caldo amore mio?” Mi baciò il collo arditamente; mi sentii improvvisamente accaldata. “Ti raggiungo appena mi libero di loro.” Sussurrò, prima di accarezzarmi i fianchi. Lo guardai fintamente sconvolta e salii ai piani superiori; c’era un odore di mobili nuovi, il marmo era perfettamente lucido e le porte smaltate di fresco, i lampadari barocchi illuminavano le stanze, ovunque mi girassi fiori. In punta di piedi entrai in quella che era la camera padronale; sussultai come la prima volta che l’avevo vista, perché era enorme, con una tappezzeria alle pareti di grandi fiori neri che si intrinsecavano fra di loro e il letto a baldacchino di ferro battuto al centro. Attigua alla stanza avevamo un bagno personale, dal quale si accedeva mediante un arcata che nascondeva un corridoio circoscritto da panche in legno, dove la santa donna che era mia madre aveva fatto riporre ciò che non era entrato nei vagoni letto che erano gli armadi circostanti e questo, era tutto un dire circa la mole di abiti, soprabiti e camicie da notte mi avesse fatto recapitare. Aprii nervosa le ante sperando che non si fosse dimenticata che adesso avevo un marito e notai con un certo stupore una fila di abiti freschi dal taglio maschile suddivisi per colore e fattezza; mio marito doveva essere della categoria più vicina a quella di mia madre.

Sbuffai richiudendole con forza, andai spedita in bagno e lasciai scorrere dell’acqua nella vasca con i piedi di ottone; l’adoravo, era grande da permettere a più di una persona di starci comodamente dentro e… arrossii ai miei pensieri indecentemente arditi. Quando fui ben soddisfatta della quantità e temperatura dell’acqua mi sfilai l’abito a tunica togliendomi la soddisfazione di mandarlo in un angolo con un calcio formidabile; mi rilassai non appena le membra entrarono in contatto con l’acqua, immersi la testa espirando e lasciai che ogni peso e fatica scivolasse sul fondo della vasca assieme a ogni pensiero.

“D-da quanto sei lì?!” Aprii gli occhi dopo un tempo incalcolabile, Aurelien era appoggiato al bordo della vasca e mi guardava. Lo guardai famelica; si era cambiato, indossava dei pantaloni color kaki sorretti da un paio di straccali calati sui fianchi e dove prima c’era una camicia capeggiava una canottiera di flanella scomposta e dei bicipiti allungati dalla pelle dorata.

“Da troppo poco tempo..” Lasciò cadere la frase innocentemente fra le labbra rosse. “Sei così bella Deesire.”

Incoraggiata dalla sua carezza fra i capelli, fermai la mano stringendola forte nella mia, con lo sguardo più eloquente che potessi indossare; e capì, perché si alzò facendo volare pantaloni e canottiera sul pavimento freddo, l’intimo, rimanendo nudo e bello, forte e potente come non lo avevo mai visto prima. Accovacciai le gambe al petto e lo aiutai ad entrare in acqua; non so dire se fossero i nostri fiati sommessi dall’emozione di stare nudi così a contatto o i battiti dei nostri cuori a far più rumore in quella grande ma allora piccola vasca, in quella stanza, di quella casa, in quella notte di Parigi di quasi estate.

 

La brezza entrava leggera fra le imposte, quando Aurelien posò delicatamente il mio capo sui cuscini, baciandomi delicatamente; potevo sentire i grilli cantare dagli alberi la loro litania dell’estate, il loro canto d’amore. Poi sarebbe tutto finito. Ma non per noi.

La pelle di Aurelien scottava contro la mia, ogni sua estremità aderiva perfettamente al mio corpo giovane e voluttuoso; restò su di me ad osservare ogni declino, ogni curva, ogni incavo, percorso dal suo sguardo vorace, aiutato da una mano coraggiosa dal tocco gentile e da labbra ardenti a seguire. Mi sentii come se potessi esplodere da un momento all’altro, come polvere di stella dopo l’incendio, un micro cristallo in una notte buia e tempestosa. Aurelien era la terra brulla sulla quale posarmi, il porto per i marinai dopo il viaggio di anni. Il suo corpo potente, formato e per nulla infantile, visto dalla prospettiva inclinata delle mie gambe intrecciate alle sue, era ancora più deliziosamente squisito, come i movimenti leggeri che le sue spalle percorrevano dopo ogni risalita, come i muscoli flessuosi delle gambe che creavano nuove spinte, le vene del collo che pulsavano l’ardore con cui mi stava facendo sua. Avevo scritto fiumi di parole mai pubblicate nei miei racconti, su che genere di fantasia e aspirazione nutrivo per gli incontri amorosi dei protagonisti delle mie storie, ma nessuna parola o immagine avrebbe mai potuto competere con quello che il corpo mio e di Aurelien stavano creando, fra quelle coperte di seta scure, sul letto grande in quella stanza, in quella casa nel cuore della città, durante una notte quasi alba che mai più avrei dimenticato.

 

***

NDA:

Dire che sono contenta è dire poco.

Sì lo so.. è solo una recensione -che una storia la ami a prescindere e la scrivi per te prima di tutto- ma sapere che almeno una fra voi mi ha concesso l’onore di trascrivermi i suoi pensieri.. beh mi rende pazza di gioia! E non scherzo.

Quindi, grazie None to Blame tu mi hai resa proprio orgogliosa J Come ti sono sembrati gli altri capitoli?

Qui si va avanti, nella mia testa la storia c’è già tutta, devo solo metterla in pratica; in queste settimane ho scritto e cancellato questo capitolo almeno 10 volte. E mi succede di rado, non perché sia ‘sta cima ma perché sono un irrazionale, istintiva “scrittrice” che non guarda mai troppo ai suoi passi. O meglio, scritti.

Mi auguro comunque che i capitoli vi piacciano.. ovvio.

Vi ringrazio tutte/i per le visite e per le nuove aggiunte nei seguiti/preferiti.

Un saluto, a presto!

Lunadreamy.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 7.

 

“Margaret, non correre tesoro!” La testolina castana e riccia di una bambina sbucò da dietro il mobile; con una corsetta impacciata venne verso di me e si appigliò al mio vestito con le sue manine; mi piegai su di lei prendendola in braccio. Adorava quel gioco, ed io adoravo lei.

“Zia! Zia! Zia!” Non la smetteva di chiamarmi, con la vocina acuta e strillante.

“Allora Deesire, a quando un pargolo Chedjou?!”

Erano passati appena sette mesi dal nostro matrimonio e praticamente tutta la famiglia non faceva altro che ricordarmi l’assenza di un figlio; come se per me e Aurelien fosse impensabile desiderare almeno del tempo prezioso tutto nostro, prima di figli, pappe e pannolini. Alzai le spalle, passando alla bambina il succo di frutta poggiato sul tavolo.

“Stiamo bene così.”

Sapevo di essere vaga, ma l’argomento mi rendeva ansiosa; in sette mesi di rotolamenti e abbarbicamenti degni di contorsionisti circensi, del pargoletto in questione, desiderato o non, non se n’era avuta traccia e nemmeno mezza avvisaglia; continuavo come ogni donna a questa terra a dannarmi ogni ventotto giorni per poi tornare in aggrovigliamenti degni di nota con il mio bellissimo marito.

Ero felice e al momento non desideravo altro, ma il mondo a quanto pare no.

“Dovresti farli subito invece..” Mi guardò maliziosa; sapevo esattamente cosa avrebbe voluto dire se la sua stupida bocca a sedere di gallina avesse potuto pronunciarsi. Le sue mire erano su chi sarebbe stato il primo erede Chedjou, non le importava nulla del pargoletto in quanto tale e quando notò che arcuai il sopracciglio proseguì vagheggiando. “A vent’anni si è giovani è forti.”

Come no, pensai. E molto maturi, proprio come tuo marito Lolla –che era una delle cugine di Aurelien- sempre chiuso in qualche locanda con donnine poco raccomandabili della Parigi notturna. Si raccontava che Lolla fosse incinta quando conobbe Lucas -figlio di un blasonato notaio in città- e che in qualche modo fosse riuscita ad incastrarlo sulle prime convincendolo della paternità ma che lui poi sia riuscito e smascherare l’inganno in un secondo momento, mentendo tacitamente la verità per proteggere gli interessi suoi e della sua famiglia, passando il tempo a sollazzarsi con allegre fanciulle e che lei gli perdoni tutto per essersela tenuta. E per i sonanti franchi ovviamente.

Voci certo, ma si sa in mezzo a un mare di bugie una goccia di verità c’è sempre.

Le sorrisi disarmante. “Ma io ho diciotto anni, Lolla. E il matrimonio ormai è sigillato.” Le donne presenti in salotto risero. Quella mi guardò sgranando gli occhi, mettendo a tacere le compagne intavolando vecchie chiacchiere precedenti su vestiti, stoffe e colori alla moda. Scossi il capo, adagiando Margaret nella culla; guardandola bene aveva ben poco di Lucas e anche meno di sua madre, era vivace, allegra, intelligente. Una fortuna direi, con i genitori che gli erano capitati. Le accarezzai il capo e tornai al mio posto.

“Se vuoi ce ne andiamo.” Ines mi avvicinò con una tazza di the e dei pasticcini al limone.

“Perché mai. E’ così divertente stare qui..” La donna mi sgomitò divertita ed io agitai il capo in segno di approvazione. “Sì, ti prego andiamocene.” La mia bellissima e flessuosa suocera si congedò scusandosi per il cattivo tempismo e per impegni inderogabili, sorrise molto spesso e sciorinò un repertorio di complimenti che nel giro di dieci minuti ci portò in macchina, direzione casa. Amavo passare il mio tempo in sua compagnia, era una donna incantevole, con mille storie di viaggi da raccontare, posti da visitare –come minimo, grazie a lei, ho la conoscenza di almeno tre quarti di botteghe e buchi di antiquariato, vecchie librerie le sue preferite e le mie, presenti in città- più tutta una lista di personaggi blasonati e meno catalogati per età, impegni culturali e sociali, favori da chiedere o ricevere.

Ines Lefebvre era una vera forza, il mio passatempo preferito, che magari può risultare come una cosa poco carina.. ma avreste dovuto conoscerla per giudicare da voi.

Il tempo libero era una cosa che non mi mancava, sebbene Aurelien avesse mantenuto la promessa di continuare a farmi scrivere senza farmi subire strane pretese da marito, quella parte di tempo passava in fretta e lui era spesso via per lavoro; ora che condividevamo lo stesso tetto mi rendevo conto di quanto questa responsabilità verso le aziende di famiglia lo assorbissero, da fidanzati era bello aspettare con impazienza il momento di rivedersi, ma alla sera quando insieme ad Ygritte –una cameriera russa che mia madre aveva voluto a tutti i costi rifilarmi- apparecchiavamo la tavola e il suo posto era ancora vuoto sentivo una sensazione alla bocca dello stomaco come una pugnalata. Mi mancava, volevo le sue risate, il suo profumo inebriante per la casa, i suoi vestiti sparsi in camera. Avevo scatenato una vera avversione per l’ordine, vietando severamente ad Ygritte di toccare qualsiasi cosa Aurelien lasciasse in giro.

Sì, lo so cosa starete pensando; ecco le paranoie da stupida signora ricca e annoiata.

Non era proprio così. Avevo i miei interessi, oltre la scrittura certo, io e mia madre passavamo dall’essere membri e in alcuni casi presidentesse di alcune charity umanitarie, a pomeriggi socialmente inutili il cui tema principale era il mondo della moda; mi davo da fare nell’organizzazione così che non mi scocciasse troppo per i musi lunghi che mettevo su quando il mio Aurelien era via.. ma cosa volete, essere moglie di uno degli uomini più ricchi di Parigi negli anni trenta mi permetteva di avere -a dispetto di tutto- del tempo libero, troppo tempo libero.

 

“Che c’è?! Sei pensierosa mia Deesire?!” Ines ed io eravamo solerti confrontarci molto di ritorno dai salotti borghesi delle pettegole, ma stavolta il mio profilo era stagliato contro il vetro dell’auto su di un tramonto sulla Senna. “Ahimè Lolla non brilla d’arguzia.”

Sorrisi, guardandola grata. “Ines.. dimmi la verità è così terribile non desiderare un figlio più di tutto?!”

Mi toccò la mano, penetrandomi con i suoi intensi occhi verde bottiglia. “Ci sono donne e donne Deesire. Prima di avere Aurelien ho perso due figli. Uno di questi è nato morto, un vero shock, tu comprendi?!” La guardai a bocca aperta, non sapevo nulla di questo, l’avevo sempre immaginata come la ballerina sinuosa e perfetta che aveva prima centrato la carriera e poi messo su famiglia. Perfetta da sembrare inumana. Mi sentii stupida. “Non ne volevo più sapere, avevo pregato Martin di trovarsi un’altra donna, che forse io non ero fatta per questo, gli dicevo che era la mia colpa perché per me, la vita, erano sempre state solo le mie scarpette e il tutù e per questo punita per tanto egoismo. Poi è arrivato Aurelien e ho dimenticato tutto, persino la danza.” Guardò lontano, gli occhi lucidi. “Siamo così complesse Deesire, il nostro cuore è una mappa con vie indecifrabili. Chi può dire dove ci porterà domani?! Perciò no, non è così terribile, quando arriverà il momento te lo sentirai dentro e allora nulla avrà più importanza.”

Sapevo che aveva ragione e sapevo che sarebbe stato così. Avrei goduto dell’amore per mio marito fino a quando un piccolo esserino mi avrebbe ordinato di essere il centro del suo mondo ed io obbediente avrei accettato, perchè anche se non avevo capito e provato fino in fondo cosa significava tutto quell’amore, le lacrime di Ines si erano spiegate bene. E fu così, che mi chiusi in silenzio tombale e mi persi su un volo di gabbiani portati via dal vento.

 

Sfilai soprabito, guanti e cappellino e lasciai tutto a Ygritte; l’inverno più rigido che ricordassi si stava manifestando nella Ville Lumiere in tutta la sua glaciale bellezza. Le strade si ghiacciavano in fretta, sarebbe caduta la neve si diceva. Mi accomodai davanti al caminetto, sciogliendo le mani al calore delle fiamme crepitanti, ed attesi con un buon libro e un bicchiere di cognac l’arrivo della sera.

“Madame è pronto in tavola.” La voce della cameriera mi arrivò distorta oltre la corte di cognac e sonno; fissai l’elegante orologio a pendolo notando con stupore che erano quasi le otto.

“Ti prego lascia tutto dove è.” Mi alzai, sbadigliando. “Torna pure a casa Ygritte, fa molto freddo e non vorrei che arrivassi tardi dai tuoi bambini a causa mia.”

“Come Madame desidera.” Si affrettò a tornare nelle cucine, mentre varcavo i corridoi ciondolando e rendendomi conto che Aurelien non era ancora rincasato; passai per la sala dei pranzi e delle cene, Ygritte aveva coperto i piatti e spento le candele. Sul tavolo un mazzo di rose rosse e un biglietto.

 

“Farò tardi ma saprò farmi perdonare.

Ti amo.

tuo Aurelien.”

 

“Li ha mandati Monsier Chedjou quando era via, madame.” La donna tornò alle mie spalle con il cappotto fra le braccia, le sorrisi annuendo, si congedò e richiuse la porta alle sue spalle.

“Addio alla bella cena..” Sprofondai sulla sedia alzando uno dei coperchi; l’odore del cibo mi nauseò e lo abbassai di nuovo. Qualcuno suonò alla porta, mi alzai ad aprire, ma il movimento fu preceduto dal suono di un giro di chiavi nella toppa; mi tremarono le gambe.

Deesire?!” La voce di Aurelien sopraggiunse prima di un mio pianto a dirotto e una crisi isterica; si affacciò alla stanza e mi trovò ammusonita, con gli occhi gonfi e lucidi bivaccata sulla sedia.

“Amore non stai bene?!” Lasciò scivolare via le sue cose, la ventiquattrore, sciarpa e cappello e mi fu addosso; mi misurò la temperatura con la mano, corrucciando la fronte in una buffa espressione ansiosa.

“Aurelien sto bene, mi ero solo addormentata.” Sorrisi scostando la sua mano fredda dal viso; passai gli occhi sulle sue spalle, mi irrigidii percorsa da una scossa. “Hai un fiocco di neve sulla giacca!” Cercai, come una bambina che vede la neve per la prima volta in vita sua, di acchiapparlo con un dito, ma questo al contatto con il calore si squagliò inesorabilmente. Risi, prendendo Aurelien per mano.

“Mia madre dice che porta fortuna.” Ci spostammo vicino alle finestre, scostando le pesanti tende di broccato; nel frattempo il gelo si era fatto prepotentemente bianco e le strade andavano cambiando colore.

”Hai preso un fiocco Aurelien, ora puoi esprimere un desiderio.”

“Cosa potrei chiedere di più?!” Mi strinse teneramente al suo petto, baciandomi i capelli.

 

Restammo in silenzio ad ascoltare il “rumore” sordo della neve, abbracciati e nudi, sui tappeti bianchi di pelo attorno al caminetto, l’aria era fredda dagli spifferi dei vetri e il cielo si era tinto di arancio riflesso della luce dei lampioni contro il bianco della neve; fuori un cane abbaiava alla luna nascosta dalle nuvole, le candele era spente da un po’ e la cena fredda come il marmo nelle nostre stanze.

“Ti riscaldo qualcosa.”

“Non osare alzarti..” Mi buttò il suo peso addosso, muovendosi alla ricerca del piacere. “Non ho ancora finito!” Mi soffocò di baci le guance, il collo, le braccia, facendomi ridere a crepapelle, poi un sussulto, il mio, quando con le mani smise di giocare e cominciò a fare sul serio. Di nuovo.

“Mi chiedevo..” Finito di fare l’amore Aurelien era un fiume in piena di parole, come se donarsi a me lo sbloccasse nei pensieri, ogni tanto scherzando lo chiamavo liege, sughero, come il tappo che conserva il vino dalla rovina, così Aurelien preservava il suo meglio per momenti come questo. “E se ce ne andassimo per un po’ad Auvers? Potremmo trascorrere qualche giorno lontano da tutto e tutti.”

Avevo sentito già parlare di Auvers-sur-Oise, un piccolo borgo di campagna fuori città, noto alle cronache per il pittore Van Gogh che ci aveva passato gli ultimi mesi di vita prima del tragico suicidio, ma anche perché Aurelien, da piccolo per problemi di salute aveva vissuto lì, lontano dagli umori nefasti della città; da ragazzina trovavo la vita da campagnolo assolutamente allettante, lì dove il tempo sembrava fermarsi nonostante il lavoro da spaccarsi le mani, i ruscelli cristallini, gli animali delle fattorie, i fiori.. sì, dovevamo andarci, non avevo alcun dubbio. “ Il prima possibile, ti prego!” E mi appesi al suo collo.

“Mah vediamo.. questo fine settimana?! Prima che la neve attecchisca.”

“Sì! Mi farò aiutare da Ygritte.” Mi alzai e corsi dal corridoio alle scale, in stanza afferrai una vestaglia, alzai i capelli e tornai in basso; con la velocità di un fulmine mi recai in cucina e ne uscii dopo una ventina di minuti con dei fumanti piatti da portata. Aurelien mi guardò esterrefatto. “Che c’è?! Non voglio farti morire di fame.. non prima di andare ad Auvers!” E scoppiammo a ridere all’unisono.

 

 

All’indomani della nostra chiacchierata avevamo la casa piena di valigie e borsoni da caricare in auto; la luna di miele che non avevamo mai avuto –Ines e Martin ci avevano regalato una traversata via mare per l’Africa che non avevamo avuto il tempo materiale di compiere dato i giorni di navigazione necessari, ripromettendoci di farlo presto che però.. non era ancora arrivato- era solo un vago ricordo fastidioso, adesso avremmo goduto come tutti i novelli sposi di un momento di quiete tutto nostro, lontano dal chiacchiericcio della città e questo mi rendeva assai felice, liberarmi delle pettegole.. non avrei potuto chiedere di meglio.

“Quindi non ti ha detto quanto resterete là?!” Avevo invitato mia madre a colazione per darle la notizia ma neanche il tempo di far freddare il latte in tazza che mi stava riempiendo la testa di chiacchiere.

“No mamma, non l’ha detto.” Alzai gli occhi al cielo e mi sorrise. “E tanto meglio. Non mi mancherà questa città per un po’. Papà come sta? Non si fa vedere spesso dalla sua figlia maritata. Digli che andrò fino ai sobborghi a cacciarlo fuori da quelle aziende se necessario.”

Mi scrutò guardinga, posò una mano sulla mia. “Glielo dirò. Tu pensa solo a stare bene, alla tua felicità e a quella di tuo marito.. che alle chiacchiere ci penso io.” Non usò un tono minaccioso, ma da lei ci si sarebbe potuti aspettare di tutto, era stata un vero genio a rigirare la crisi delle nostre aziende facendo passare la fusione quasi un vantaggio più per i Chedjou che per noi.

“Ben detto Clorine.” Aurelien ci raggiunse vestito con abiti leggeri e informali; si avvicinò a mia madre baciandole la mano prendendo posto fra le vettovaglie da prima colazione. “Ahmed sta bene?!”

“Impegnato ma forte come una roccia. Si scusa se non può raggiungerci e vi augura un buon viaggio.”

“Dirò a mio nonno di allentare la presa, serve a tutti un po’ di tregua.” Guardò mia madre sorridendo angelico; lei lo ringraziò, prese il fazzoletto dalle sue gambe pulendosi gli angoli della bocca e guardandoci soddisfatta si alzò. “Fate buon viaggio. E siate prudenti.” Suonai la campanella sul tavolo e Ygritte apparì in sala come un fulmine; qualsiasi raccomandazione mia madre le avesse fatto prima di assumerla aveva funzionato, ritrovandomi stupita ogni volta di quanto la donna fosse celere nel suo lavoro. Mi alzai per scortala all’uscita e Aurelien con me, ma ci congedò con una veloce battuta lasciandoci a mezzaria vederla andare via.

“Giurerei che è passata solo per la tregua.” Sorrisi ad Aurelien che per mascherare una risata d’approvazione si nascose dietro la tazza. “Non l’ho mai vista abbandonare una colazione a quel modo.”

“E’ molto determinata.” Posò la tazza, ridendo all’angolo della bocca. “Sappiamo da chi hai preso..”

“Monsieur Chedjou c’è una nota di sarcasmo nelle sue parole?!”

“No madame Chedjou. Una nota di verità, piuttosto.” Si avvicinò scalando le innumerevoli sedie che ci separavano, ridendo di me e del mio broncio. “Ma ti amo per questo.” Mi baciò la mano e si alzò. “Faccio portare i bagagli in auto, un ora o ti serve altro tempo, amore?!” Lo guardai annuendo, non mi sarebbe servita più di un ora. Fremevo. Fremevo d’andare via.

 

Auvers era esattamente come me l’aspettavo, nel verde distretto dell’ile de la France spiccava e rispecchiava in pieno il termine campagna, o meglio quello che la mia immaginazione avrebbe assegnato a tale posto; la neve aveva per lo più coperto le dolci colline degradanti -che Aurelien mi aveva spiegato nella bella stagione si ricoprivano di distese di grano, campi di papaveri e girasoli- un lungo e unico viale dissestato di bruno terriccio, deliziose case di mattoni rustiche con i comignoli sbuffanti e le stalle serrate per la rigidità dell’inverno. Rimasi delusa alla vista del fiume ghiacciato ma sorrisi per una famigliola di anatre che attraversarono la lastra andandosi a nascondere fra l’erba non ancora ammantata di neve. Defilammo senza intoppi fino ad un incrocio, la famosa chiesa dipinta da Van Gogh a fare da spartiacque, imboccando la salita verso sinistra e poi oltre un ponte dove la strada si rimpiccioliva e la macchina sbuffò un po’; Aurelien mi sorrise stringendomi la mano per tutto il tempo, Jerome gentilmente “prestatoci” dai miei stringeva il volante come se dovesse cedere da un momento all’altro, ma per fortuna capii di aver superato il difficile quando Aurelien indicò un casale sulla sinistra, circondato d’edera e rovi di rose sui muri alti.

Alcune testoline giovani sbucarono da dietro le mura, all’entrata del vialetto di ciottoli, sorridendoci nei loro camici celesti e bianchi inamidati; accennai ad una protesta ma Aurelien mi baciò i capelli.

“Si occupano della manutenzione della casa, mia signora.” Mi guardai attorno, difatti quella che avevo difronte a me non sembrava proprio l’antico rustico che Ines mi aveva descritto; tutto era in ordine, i roveti spogli data la stagione ma curati, il giardino molto più grande dell’impressione che dava all’esterno, nessun segno d’abbandono davano subito all’occhio una sensazione di caldo focolare domestico. “Prego, prima le signore.”

Entrai e fui avvolta dal profumo di pane caldo e un tepore rilassante; una giovane ragazza mi salutò con affetto e cordialità. “ Madame Chedjou è un piacere fare la vostra conoscenza. Il mio nome è Rose e mi occupo di questa casa da due anni ormai e prima di me mia madre. Vogliate lasciarmi le vostre cose, prego vi mostro il resto della casa.” Guardai mio marito entusiasta, lui annuì avvicinandosi al giovanotto che trafficava con la legna nel camino.

“Cuocete voi il pane?!” Rose camminava svelta per le camere ed io le stavo dietro chiedendo il perché di questo o quello; scoprii che i pavimenti in pietra e cotto erano originali di almeno cinquanta anni e che la casa fu rilevata dai Chedjou trenta anni dopo la sua costruzione, esattamente, calcoli alla mano, pochi anni prima che Aurelien nascesse. Lo immaginai sgambettare per quelle stanze grandi e pensai alla felicità di un bambino nel giocare libero, senza freni, in un posto così altamente stimolante. Benedissi il mio taccuino sempre a portata di mano.

“Oh sì madame, se ha qualche preferenza lo comunicherò a maitre Gerald.”

“Gerald.. Picard?!”

“Sì madame, proprio lui.”

Il nostro aiuto cuoco. L’uomo salvatore dei banchetti organizzati da mia madre, la persona alla quale avrei affidato io stessa l’intero sostentamento del paese; ecco dove andava a cacciarsi quando non era in città.

“Lui è di Auvers, ma come ogni grande chef ovviamente è di Parigi.” Sottolineò l’ovviamente con una nota di sarcasmo, lasciandomi difronte un enorme porta di legno massiccio. “Questa è la vostra stanza Madame. Resto a disposizione.” Fece un leggero inchino e andò via. Aprii la porta cauta, ma delle mani grandi accompagnarono il gesto; Aurelien dietro il mio orecchio inspirava flebile.

“La nostra stanza..” Spinse via la porta lasciandomi una visuale completa; dire che fosse bellissima sarebbe stato superfluo. Il pavimento era di un caldo cotto color miele, i mobili odoravano del legno scuro che avevo scorto nel resto della casa e per tutto il perimetro di larghezza la stanza era attraversata da ampie finestre che davano sul giardino sottostante e la campagna aperta difronte a noi. Ad occhio e croce ci trovavamo esattamente al centro della casa, intorno a noi poche costruzioni al quale buttai un fugace occhiata; nessuna casa era lontanamente paragonabile alla nostra se non una, dal lato opposto e nascosta dagli alberi della radura circostante. Sembrava deliziosa e disabitata. Immaginai già il titolo per una storia.

“E’ meravigliosa Aurelien.” Mi abbracciò, baciandomi la spalla; so che mi avrebbe spogliata nell’esatto istante in cui avvertii l’impercettibile –ma per me ormai chiarissimo- sfregamento delle sue labbra contro la mia pelle –chiaro segno di desiderio- e il tremolio della mano. Non aveva smesso di essere nervoso neanche dopo l’empasse della prima volta e i chiari approcci che da sette mesi a questa parte avevamo avuto modo di sperimentare; per me era una goduria, lo trovavo straordinariamente tenero e dolcissimo.

Chiusi la porta, serrai le tende e mi buttai sul letto portandolo giù con me.

 

Riemergemmo dalle coltri di lenzuola e desiderio due giorni dopo; dormimmo per ore lunghissime, facevamo l’amore come se non ci fosse domani, spiluccando ogni tanto i caldi piatti che Gerald ci faceva arrivare dalle cucine. Quella mattina misi piede a terra per la prima volta dal nostro arrivo, la casa era stranamente silenziosa, si sentivano solo i miagolii da baruffa di due gatti lontani; infilai la vestaglia ed uscii dall’alcova rovente. C’era caldo, il camino nei piani bassi crepitava, alcune ceste con ortaggi e frutta erano state lasciate sulle panche sotto alle finestre in attesa di esser riordinate.

“Madame Chedjou!” La nota di colore e di stupore di Gerald mi fece arrossire; credo che a tutto si riferisse tranne che al tempo passato dall’ultima volta di un nostro incontro. “Le preparo subito un ricostituente.” Appunto, questo mi fece decisamente arrossire; presi una mela dalla cesta, la spolverai sulla vestaglia e diedi un morso. Avevo decisamente anche fame.

Dopo un po’ riapparì con una ciotola con dello zabaione e -a giudicare dall’odore forte- marsala amalgamati, ordinandomi di buttarlo giù senza proteste. “Quindi è ad Auvers che si rifugia in periodi come questo?!” Lo guardai distratta, ben attenta a non ferire i suoi sentimenti; non che mi importasse la provenienza di un genio simile, ma se lui ci teneva tanto ad ometterla non ero certo io che potevo impedirglielo. E poi odiavo il silenzio fra estranei –anche se in passato mi aveva permesso di aiutarlo in cucina non mi sarei mai permessa di ritenerlo mio amico- e ancora di più odiavo mangiare con una persona muta che mi osservava.

“Mi preparo per la stagione della cucina, madame Chedjou.”

Mi guardò come se sapessi di cosa stava parlando. “Cioè?!”

“Tutte le estati organizzo corsi di cucina per giovani aspiranti delle accademie e.. ricche signore annoiate, madame.” Lo guardai accigliata. “Quindi io sarei fra queste?!”

“Oh no, no..” Tossicchiò. “Auvers non è Parigi, qui è diverso. La ricchezza è intesa in altro modo; se per esempio io posseggo trenta vacche e cinquanta pecore.. io sono ricco. Se ho solo galline ma buona terra per sementi.. non sono ricco, ma vivo che è già tanto.” Sorrise guardandomi lievemente rosso in viso. “Non oserei mai paragonarla a noi, madame.”

“E perché mai?! Preferirei essere viva e ricca alla vostra maniera che ricca e morta alla mia maniera!” Risi raschiando il fondo della ciotola con il cucchiaino. “Facciamo così Gerald, adesso mi cambio e lo fai anche tu, ti togli quel grembiule che tanto monsieur Chedjou ne avrà per molto da dormire, mi accompagni per Auvers e mi fai vedere un po’ come si vive da queste parti, ok?!”

“Sì!” Si affrettò a rispondere, “faccio portare subito la macchina.”

“Eh no Gerald.. così non vale. Ho detto alla tua maniera. Non ho visto macchine qui, perciò a piedi!”

“A piedi?!”

“Sì.” Salii le scale di fretta. “Forza! Forza!”

Non avevo il minimo senso del gusto che invece possedeva mia madre, ma reputavo che fossi il genere di ragazza assennata che va incontro alle situazioni di testa ed è per questo che quando tirai fuori dai borsoni il tipo di abbigliamento che mi madre avrebbe usato certo per appiccare il fuoco nel caminetto, sorrisi tutta entusiasta; potevo sfoggiare stivaloni degni di uno svuota pozzanghere, vestiti di lana informi come piacevano a me e coprirmi con cappotti larghi che non avessero nulla a che fare con i tagli sartoriali appesi nell’armadio a Parigi. Ero veramente soddisfatta di me, sarei stata al caldo, pratica e decisamente anti glamour. Perfetta.

Arrotolai una grande sciarpa al collo, scrissi due righe ad Aurelien tanto da non fargli credere che fossi scappata a gambe levate ed uscii con Gerald sotto braccio; era una giornata piuttosto fredda, non nevicava ed il cielo era talmente terso che dubitavo in altra magia bianca, l’aria frizzante e pungente. Scendendo a valle il maitre mi accompagnò nei punti di maggiore interesse del borgo, ammirammo la chiesa tanto famosa per il dipinto universale che girò in Europa grazie a Van Gogh, passammo per il Ravoux la pensione dove l’artista passò i suoi ultimi giorni e soffrì il martirio della ferita mortale che si inflisse e per incanalare energie sufficienti per risalire le colline – dalla quale si godeva a suo dire di una vista meravigliosa- mi offrì la colazione in un tipico forno del posto proprio lì vicino, salutando energicamente le tre persone che occupavano le panche più defilate del negozio una volta entrati. Tutto era un tripudio di bontà, i croissant morbidi e fragranti e la baguette al burro si scioglieva in bocca. Comprammo alcune specialità per Aurelien ed attraversammo di nuovo il viale per la sua lunghezza, stavolta deviando, alla chiesa, verso destra per una salita ripida; avevo ripreso colore e forze ne ero certa, sentivo le guance pizzicare e come l’impressione che il freddo non centrasse nulla. Gerald mi guardava divertito e allo stesso tempo chiacchierava di aneddoti e storie che solo chi è originario del posto poteva conoscere. Lo ascoltavo rapita e rapita mi fermai dinnanzi a quello che sembrava un castello abbandonato, poche spanne dalla vetta della collina.

“Quello cos’è?! Sembra un fortino.”

“Oh madame, la sua vena artistica è stupefacente.” Gerald si portò le mani ai fianchi riprendendo fiato. “Quella era la torretta di controllo, ai tempi medievali. Il castello apparteneva a ricchi feudali che si racconta furono i primi uomini ad insediare il territorio.” Prese il respiro alterando il tono della voce. “Per me, un inutile roccaforte che non vogliono lasciarmi usare.” Berciò, con l’amaro in bocca.

“Usare.. per cosa?!”

“Un idea folle. Se vuole seguirmi, manca ancora poco al punto più alto..”

Mi misi in marcia ma non lasciai il fortino con lo sguardo per tanto che la visuale me lo permettesse; il castello era piccolo e in rovina, il tetto crollato sotto le intemperie e le mura perimetrali tutto ciò che rimanevano di quel fantasma. La torre era il suo proseguimento e forse la cosa più intatta che esisteva là attorno. Qualsiasi cosa ci avesse visto Gerald costava un certo sforzo di fantasia.

“Mi permetta.. quale sarebbe questa idea folle?!” Lo vidi arrestarsi e guardarmi perplesso. “Voglio dire, cosa c’è di tanto poetico in un mucchio di macerie che la turba così tanto, maitre?!”

Tentennò a rispondere e lo fece solo dopo essersi rimesso in marcia. “Sono un sentimentalista madame Chedjou, ci ho visto una scuola di cucina, i ragazzi di Auvers con un futuro e storie d’amore legate al cibo. Ma purtroppo la burocrazia è un male per il progresso, quindi non mi permettono ne di avere un prestito, ne di metterci le mani.”

E questo poteva essere assolutamente un buon motivo per avercela con chi mette freni a un sogno; guardai ancora alle rovine e poi a Gerald, mi convinsi a lasciar perdere ma una vocina dentro di me continuava a dirmi dillo, diglielo! “Magari potrei metterci io una buona parola, maitre Gerald.” Esordii come un pallottola impazzita. “Come ben sa il cognome che ho acquisito mi permette di aprire anche porte arrugginite.” Scherzai cercando di sdrammatizzare quella che dal mio tono di voce sembrava una cospirazione allo stato; l’uomo abbassò le spalle, un tremolio di speranza e agitazione infondo agli occhi.

“Il signorino Chedjou certo.. è un po’ meno biondo di come lo ricordavo l’ultima volta.” Sorrise ricordando la curiosa scenetta e la piccola bugia che gli avevo rifilato al pranzo di fidanzamento. “Ma non le chiederei tanto madame. E’ stata così gentile anche solo nel propormelo ma..”

“I ma sono peggio della burocrazia mio caro maitre e comunque non portano da nessuna parte. Non sto dicendo che gliela regalo, le propongo un accordo. Vuole sentire?!” Annuì divertito. “Io ci metterei il capitale, lei il suo genio. La scuola porterà il nome di mio marito il che le favorirà quanti più alunni lei immagina di ricevere e ci fornirà inizialmente un introito diciamo del.. trentacinque percento per iniziare. Quando tale somma raggiungerà il costo dell’impresa.. beh la scuola sarà sua. Ovviamente a mio marito e i suoi collaboratori spetterà l’andamento finanziario, lei guadagnerà pur riscattando il debito. Che ne dice maitre, ha ancora ma davanti a se?!”

Mi guardò incerto e balbettante. “La p-prego.. a-almeno il cinquanta per cento.”

“Quindi è un sì?!”

Allargò le braccia verso il basso, rassegnato dai suoi stessi sogni; passandogli accanto gli posai la mano sulla spalla colpendola affettuosamente due volte. Mi sorrise con gli occhi blu cobalto velati ed io mi sentii stranamente bene; lì, ad Auvers, davanti a un mucchio di rovine su di una salita ripida di campagna avevo compiuto la mia prima opera finanziaria da signora Chedjou. Mio marito ne sarebbe andato fiero.. se solo avessi trovato parole sufficientemente necessarie per spiegargli come e cosa era accaduto.

 

 

Deesire..” Lo trovai accoccolato difronte il camino in vestaglia e con bicchiere di latte adagiato accanto a se; ci sorrise divertito vedendoci arrivare mentre discutevamo sulla morte di Van Gogh e il piccolo cimitero dal quale stavamo tornando dove riposava ancora il maestro. “Fatto spese?!” Guardò ai pacchetti che stringevo fra le mani, li lasciai a Gerald che in tempo record sparì nelle cucine. Mi portai su di lui e mi accomodai sulle sue gambe, rannicchiandomi in un abbraccio. “Ti sei divertita?” Strofinò la guancia contro il mio naso freddo.

Auvers è deliziosa..”

“Sei stata sulla collina alta?!”

“Sì, ho visto la chiesa, ho mangiato brioche, sono passata per la pensione Ravoux e.. ho comprato una scuola.” Mi soffermai sul suo sguardo non più di tanto incredulo, più curioso e divertito che accigliato. “E.. ho stipulato un accordo con Gerald. Mi servono le tue arti intermediarie, il nostro buon nome, dei documenti..”

“Ok Deesire non ci sto capendo nulla! Che ne dici se cominci daccapo?!”

Gli raccontai del sogno del maitre e del mio di aiutarlo, sebbene non trovassi un recondito motivo a questa voglia se non la certa disponibilità economica che avevamo a disposizione. Potevamo permettercelo, ma non era tutto; quel fortino era stato un richiamo, un qualcosa che avevo sentito dentro. Aurelien mi ascoltò rapito, spostandomi ciocche di capelli dal viso quando parlavo concitata delle meravigliose cose che avevo visto e fatto. Poi rimuginò al fortino.

“Sai che il feudatari che lo possedevano sembra discendano dai Moreau?!”

“I Moreau?!” Era mai possibile che Fabien fosse ovunque mi girassi?

“Oh loro sono molto legati a questo posto. Diciamo che è stato il padre di Baptiste ad indirizzare mio nonno all’acquisto di questa proprietà. I primi uomini di Auvers potrebbero essere nostri lontani parenti, forse è questo che ti ha attratta.”

Deglutii scacciando la fastidiosa associazione attrazione-parenti ridendo isterica. Rimasi un po’ delusa dalla scoperta, mi ero immaginata un'altra storia, un’altra fantasia.. ma la terribile famiglia Moreau era sempre fra i piedi. Scossi il capo inorridita, gettandomi la loro presenza alle spalle.

“Sono fiero di te Dee.” Amavo il modo in cui usava quel diminutivo, “non solo ci hai visto del potenziale, sei stata anche coraggiosa nel proporre un accordo. Chiama Gerald e digli che se vuole possiamo discuterne. Appena rientreremo a Parigi cercherò di smuovere le acque.” Mi baciò imprimendo forte le sue labbra alle mie; lo amavo, era chiaro. Il suo modo di ascoltarmi, di darmi fiducia, il suo modo di comprendermi e assoggettare le mie paure e le mie gioie mi rendevano fiera di essere sua moglie.

“Ti amo Deesire.”

Eravamo in simbiosi, questo bastava.

 

*

NDA:

Ringrazio davvero tanto tutte le persone che passano di qui.

E chi lascia una traccia di sé al suo passaggio: _Nihil_ ti ho scritto una risposta lunga un papiro, ma sono davvero contenta delle tue parole. J Resta connessa e.. a presto! ;)

Un abbraccio,

lunadreamy.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 8.

 

“Aurelien, c’è una lettera dal consolato per te!”

Rientrammo a Parigi quattordici giorni dopo e ci vollero altri quattordici giorni per sistemare le nostre cose, ritrovare gli amici, i parenti e tutta la successione di creditori, finanziatori e via discorrendo. Una cosa positiva c’era, eravamo sereni, Aurelien aveva ripreso il lavoro ed io era tutta dedita al progetto della scuola di cucina; neanche a dirlo Ines e Clorine mi avevano tempestato di domande e prese dalla foga scorrazzato in giro per botteghe alla ricerca degli interni.

“E’ una scuola di cucina vi dico, non un atelier!” Sbuffai cercando di farle desistere nel continuare questo estenuante dibattito sulle differenze fra le due cose, ma le pericolose donne si erano alleate fracassandomi i timpani; quando vidi Aurelien raggiungerci in sala, tirai un sospiro di sollievo.

“Sai amore credo proprio che adesso avranno un valido motivo per tampinarti..” Mi guardò allusivamente sventolando la lettera fra le mani; lo fulminai con lo sguardo perché se per me era stato un piacere aver sopportato per diciotto anni Clorine la pazza non so se avrei potuto sopportare anche Ines la pazza e per giunta tutto il resto della vita. “I lavori.. sono partiti! Si comincerà dal tetto, se tutto procede per il meglio Gerald avrà i suoi primi corsi in estate.” Lo guardai allucinata, incapace di dir nulla se non emettere gridolini soffocati e applaudire con le mani come una foca ammaestrata.

Le donne non vedendomi oltremodo reattiva se ne approfittarono ripartendo alla carica, ancor più motivate dall’esito positivo della transazione; il castello abbandonato era nostro, i lavori potevano partire e per di più dalle stime del restauro si prevedeva la fine entro l’estate. Non avrei potuto chiedere di più in quel momento, solo azzittire le due pazze. “No! Non ci sarà il rosa..” Guardai mia madre, “e no non ci saranno mobili d’ebano!” Guardai Ines. “Gerald avrà carta bianca e solo lui di decidere come e con cosa verrà arredata la sua scuola. S-c-u-o-l-a, avete capito? Fine della questione.”

“Lo hai consegnato dritto nelle loro mani, te ne rendi conto?!” Aurelien si avvicinò al mio orecchio ridacchiando; lo guardai avvilita.. poi rinsavita.

“Che se le sorbisca un po’ anche lui.” E risi anche io.

 

Giorni dopo, ci trovammo a contare assegni e ad organizzare un ricevimento per ringraziare i creditori e la loro generosità; la voce si era sparsa in fretta, Gerald poteva contare già due classi miste fra età ed esperienza, un bel gruzzolo dalla quale partire e un nome che la diceva lunga su qualsiasi fama di bravura o no; la Chedjou-Bonnet ecole.

“Grazie Capitaine Fournier, maitre Gerald sarà lieto della vostra offerta.” Vidi passarmi fra le mani il centesimo assegno della giornata, sorrisi e passai oltre, ma l’uomo tentennava ad andarsene. “C’è altro Fournier?!” Guardai l’uomo brizzolato starsene impalato incerto o no se parlare.

“Mi chiedevo..” Si guardò attorno guardingo, abbassando la voce di un tono. “Come è questa Auvers?!”

“Ci ha fatto una così bella donazione, chieda a mio marito di organizzarle una visita se ne renderà conto con i suoi occhi.” Volevo liquidarlo perché il suo modo un po’ mellifluo mi stava mettendo addosso una certa irritazione, ma quello non demorse, anzi si piegò verso il mio orecchio. “Volevo dire.. è discreta?!” E nell’attimo in cui tale parola uscì dalle labbra, una damina dalle fattezze evidentemente non appartenenti a madame Fournier passò fulminea, gesticolando all’uomo di sbrigarsi; incrociai le mani e sorrisi maliziosa.

“Immagino che possa trovare la discrezione che cerca.”

“Ah bene!” Si sfregò le mani soddisfatto. “Chi meglio di lei può saperlo; la donna che ha creato tutto questo clamore con una scuola di cucina..”

Fournier venga al dunque.”

“Mi servirebbe un posto in quella scuola madame Chedjou, a-al di fuori del corso.. un aiutante, la lavandaia.. qualsiasi cosa, pur che discreta.”

“Capisco.. e immagino che Madame Fournier non debba essere informata di tale “occupazione”, dal momento che è iscritta al corso e non come lavandaia.” Quello si guardò le mani colpevole. “Ehm, ecco no.” E immagino che la biondina che sta cercando di rifilare nel corso è l’amante dalla quale non vuole privarsi, pensai seccata; ero combattuta tra lo stampargli l’assegno in faccia o mettermi ad urlare, ma non feci nessuna di queste cose, presi un bel respiro e lo congedai malamente con un freddo “vedrò cosa posso fare.”

Maitre Gerald, intanto braccato dalle effusioni delle signore –a trarre vantaggio dalla serata non erano stati solo i suoi affari futuri ma anche le quotazioni come maitre personale, tanto che ricevette offerte a destra e a manca per pranzi e cene più o meno mondani- vedendomi ansimante ne approfittò per divincolarsi raggiungendomi al tavolo delle donazioni. “Madame è stanca. Si goda la festa, resto io qui.”

“Con vero piacere Gerald. Ti renderai conto in che razza di guaio ci stiamo ficcando.” presi la testa fra le mani, “ i muri della scuola non sono ancora in piedi e già fioccano raccomandazioni.” Girai l’assegno e glielo feci leggere. “Cinquemila franchi?!” Mi chiese pallido.

“Per la scuola.. e per il costoso vizio del tradimento.” Indicai discretamente l’uomo che lo aveva lasciato scuotendo il capo, “a volte bisogna sapere a chi pestare i piedi; quell’uomo discende da una famiglia tradizionale di gendarmi di Parigi, si dice che siano influenti nella politica come.. è proprio il caso di dirlo.. la farina nella bechamelle.”

Gerald annuì compito. “Avremo comunque bisogno di personale.. cosa saprà fare?!”

“E’ qui che viene il bello maitre.” E gli sorrisi sarcastica, “vado a ripescare mio marito.. si diverta.”

 

 

La vita scorreva veloce in quel di Parigi, venne il tempo di togliersi guanti e cappotto e passare in rassegna abiti più freschi e poche coperture. Non potevamo ancora ritenerci liberi dalle basse temperature, ma perlomeno si sarebbe cominciato a veder rifiorire, in tutti i sensi, la città. I parchi sarebbero tornati a riempirsi di bambini festanti, gli alberi sugli Champ Elisees avrebbero scacciato il grigiore tornando verdi e rigogliosi e i fiorai, sulle strade e nei vicoli, avrebbero cantato ai passanti con le loro ceste di rose, tulipani e gerbere.

Era passato un anno da quando io Aurelien ci eravamo conosciuti e presto sarebbe stato un anno da marito e moglie; le chiacchiere si erano leggermente assopite e il merito non era solo di Clorine, maitre Gerald con la sua scuola e la scappatella del prefetto con una ballerina di jazz avevano distolto tutta l’attenzione dai coniugi più chiacchierati dell’inverno passato. Non c’erano novità sul fronte “famiglia”; la nostra vita scorreva piacevole e in duetto come sempre, ma constatavo con una certa soddisfazione, che il mio liege andava migliorando con il tempo, rendendo me una donna soddisfatta e consapevole della fortuna d’averlo accanto.

Ma, come nei migliori romanzi d’amore, la calma e la quiete possono perdere in fretta il loro posto.. e per noi, il momento si era fatto vicino. Quello che ci successe dopo io lo definirei come il secondo capitolo della nostra vita, dopo il romanticismo, la quiete. La quiete.. prima della tempesta.

Correva l’anno millenovecentotrentanove e gli affari dopo un decennio d’affanni si erano rialzati un po’ in tutta Europa, anche se un certo Hadolf Hitler stava cominciando a minare le basi per la catastrofe mondiale che tutti conosciamo; fanatismi di un dittatore a parte, successe che Aurelien grazie ai fiorenti investimenti delle aziende di famiglia e di quelle che gli avevo portato in dote, fu indotto a viaggiare molto in Belgio e in Germania paese in pieno progresso tecnologico assolutamente dominante. Tutto a un tratto le nostre aziende si ritrovarono a fabbricare montagne di segmenti per macchine belliche e tutto questo ci dava sì un gran da fare, ma anche terribili presagi, più ovviamente –meno importante difronte ad un imminente guerra- il pochissimo tempo che trascorrevamo insieme.

Dopo Auvers era tornato tutto esattamente come prima, io di nuovo annoiata e laconica ed Aurelien colmo di lavoro. E proprio un giorno in cui mio marito era via da Parigi, mi arrivò la notizia.

“Io ad Auvers? Per due mesi?! Gerald temo che lei abbia preso un abbaglio.”

“Nessun abbaglio, madame. Voglio farle questo regalo, lei ha l’arte nelle mani!”

Gerald si era messo in testa di offrirmi il corso di cucina che sarebbe partito da lì a pochi mesi; c’erano stati dei ritardi sulla tabella di marcia dei lavori, per cui il corso si sarebbe protratto fino a fine estate, ma quando il maitre mi vide arricciare il naso alla parola tre mesi, me ne aveva gentilmente “concessi” almeno due. Ovviamente il mio cognome, il fatto che la scuola esistesse grazie a me e mio marito e che fosse ormai a tutti gli effetti più un amico che un subalterno, non mi avrebbero garantito alcun trattamento speciale, sarei stata a tutti gli effetti un alunna come un'altra.

“Due mesi sono tanti Gerald.. non so..” Vagai alla ricerca degli effetti che avrebbe portato la mia assenza in quel dei salotti mondani; sentivo già il vociferare di fughe, tradimenti, dipartite.. o forse avrei dovuto smettere di dare peso alle chiacchiere sul serio e godermi di più la mia vita. Restavano comunque due mesi, ed erano davvero tanti, necessari certo per poter apprendere tecniche sempre migliori e perfezionarmi così in qualcosa che mi provocava già molte soddisfazioni.. ma comunque lunghi e lontano da casa.

Ma era davvero questo a spaventarmi?! La distanza da casa? La mia casa era Aurelien e se lui non era qui non avevo bisogno di chiamare questo posto con questo nome; avremo fatto come tutti gli innamorati della terra, ci saremo venuti incontro, magari chissà al confine di un paese del tutto sconosciuto, avremo mangiato il nostro amore in una squallida pensione in qualche squallido posto, o nei campi ad Auvers.. cosa importava d'altronde? Non sarebbe stata la distanza a dividerci. O forse sì? Ero disposta a mettere a rischio la nostra unione per un.. capriccio?! E se non avessi mai messo alla prova il nostro legame, come potevo rendermi conto se eravamo esattamente così forti come pensavo?

Al diavolo Deesire, pensai.. è uno stupido corso di cucina e ti stai arrovellando il cervello per niente. E’ un sogno, il sogno di poter dire “lo faccio perché voglio e posso decidere per me” e non è giusto chiudere la porta a un sogno.. per insignificante che sia.

“Madame?” Notai dopo un po’ che Gerald mi stava chiamando. “Se questo la mette in difficoltà, faccia conto che non le ho chiesto nulla...” Era sinceramente preoccupato, avevo imparato a capirlo guardando quegli occhi blu cobalto così dannatamente limpidi. Me ne stavo lì a fissare l’aria incapace di dare una risposta, aggiungere o togliere qualcosa; non mi accorsi nemmeno della sua assenza quando andò via, perché iniziai a vagare per la casa con una certa frenesia, costringendo Ygritte a tirare fuori da alcuni scatoloni cose che avevo dimenticato risalenti al matrimonio. La donna mi seguì fedelmente, assecondandomi nei miei deliri e fu così che scoprimmo di avere in solaio cose dall’indubbia esistenza e che.. avevo un bacio dimenticato, nascosto in soffitta.

“E’ molto bello madame. Cosa è?!”

“Un vecchio ricordo.” La cameriera sorrise complice di quel mezzo segreto che aleggiava su di noi e senza proferir null’altro con il piumino scacciò via la polvere dal meraviglioso “bacio di Klimt.” “Credi che Maitre Gerald possa apprezzarlo, per la scuola? Non gli ho mai chiesto se ha bisogno di dannati orpelli.. perché qui a quanto pare io ne sono piena. E questo.. ci starebbe proprio bene.” La donna mi guardò accondiscendente. “Sì madame.” La guardai convinta che mi credesse pazza; sorrisi fra me e me e continuai a far muovere i pensieri lontano dalla richiesta di Gerald.

 

“Il maitre mi ha offerto un posto al corso.” Aurelien era rincasato da un quarto d’ora ed io ero già addosso al suo collo come un vampiro assetato; l’idea mi fece ridere e quando glielo feci notare rise insieme a me. Gli raccontai tutto, mentre riordinava le cartelle con i documenti sulla scrivania dello studio esposto a sud della casa, con più luce e una grande finestra, della chiacchierata con il cuoco, più una serie di sfiniti pensieri sui pro e i contro della mia assenza. Mi lasciò sfogare, quando esausta mi azzittii parlò con il candore di un angelo e il sorriso beffardo da diavolo. “Mi stai lasciando perché non abbiamo un figlio?”

“No.. e comunque non mi passa per la testa.” La parola figlio stava deliziosamente bene sulle sua labbra, per questo parlai sorridendo. “Li avremo.” Aggiunsi poi determinata.

“Giusto. Mi hai..” e qui si fece un po’ più serio, “.. tradito?!”

“No!” Risposi stizzita. “Io ti amo.” Non voleva essere una giustificazione –fra le altre cose spesso poco influente- ma è così che suonò dalla mia voce miagolante.

Vidi trasformare quel ghigno beffardo in un dolce sorriso, mentre si avvicinava alla mia figura cingendomi le spalle con le mani. “Semmai ce ne fosse stato davvero il bisogno Deesire.. abbiamo constatato di non avere simili problemi. Per cui.. vuoi davvero partecipare a quel corso? E non “mi piacerebbe”, “lo farei”.. io voglio vederti felice. Ti ho promesso che lo saresti stata. Vuoi?”

“Si.” Ammisi, guardandolo profondamente negli occhi. “Voglio partecipare a quel corso. Da morire!”

 

Fu così che quattro mesi dopo, all’inizio di un torrido luglio, mi ritrovai in macchina circondata dai visi familiari della mia famiglia ed Aurelien sedutomi accanto, in direzione di Auvers.

“Sarò da te esattamente per il prossimo fine settimana.” Mi passò il braccio intorno alle spalle, mentre Jerome canticchiava un vecchio pezzo della bella epoque. “Tutte le volte che tornerò dai miei affari passerò per Auvers, così potremmo vederci almeno due giorni a settimana.” Il piano mi andava bene, sostanzialmente questo mi garantiva di vederlo ogni tot giorni – a secondo dei suoi impegni- in andata e ritorno per l’Europa; non ci sarebbero state squallide pensioni in squallidi posti, ma solo il mio amore a scaldargli il focolare ogni volta sarebbe passato.

“Sembra un vecchio romanzo trito. “L’amante in campagna”..” Rise di gusto, baciandomi la guancia.

“Dee, puoi tornare alla tua vita quando vuoi. Voglio solo che tu sia felice.”

“Lo so.” Alzai il mento e lo baciai. E lo baciai ancora prima di vederlo sparire per il viale di terra che lo riportava fuori Auvers, indietro sulla statale per il Belgio. Avevo il cuore colmo di sensazioni miste; lo vedevo salutarmi da lontano con quel sorriso che amavo e mi sentivo sicura, poi giravo lo sguardo sul cielo, oltre le colline degradanti e mi sentivo in preda allo sconforto più totale. Era paura, mi dicevo, paura dei traguardi, delle grandi occasioni. E quella.. era la mia, la mia grande occasione.

Maitre Gerald il giorno seguente il mio arrivo mandò un giovane cuoco che avrebbe provveduto alle cucine della casa; lo pregai di non disturbarsi, che io e Rose ce la saremo cavate benissimo anche da sole, ma insistette a tal punto che cedetti più per disperazione che gratitudine.

“Con il corso e le ricette non avrà voglia di toccare altra padella all’infuori della scuola!” E in realtà non aveva tutti i torti; i corsi cominciavano alle nove e finivano alle quattro, estenuanti prove di questo e quello, assaggi vari.. mi facevano tornare a casa sfinita e di certo poco affamata. C’era una cosa però.. avevo moltissimo tempo a disposizione per dedicarmi con cura alle ricette che avevo sempre desiderato mettere in pratica –a volte in casa costringevo Rose a vere e proprie maratone fino a ora tarda per perfezionare un gusto o una pietanza- e con sommo piacere mi riscoprivo ogni giorno più brava. Maitre Gerald era entusiasta e fiero, nella sua divisa color cremisi con i bottoni dorati; si destreggiava da vero padrone delle cucine, fra i nostri banchi di acciaio impartendoci ordini come un gendarme. La scuola era venuta proprio bene; le pareti di un pallido beige essenziale accompagnavano i corridoi e le stanze delle classi, unico piccolo vezzo, il quadro che al mio arrivo consegnai a Gerald come portafortuna; mi aveva parlato di amore e cucina quando al posto di posate nei cestelli, forni e alunni, esistevano solo un mucchio di macerie, per cui avevo immaginato, quale gesto più di un bacio avrebbe potuto rappresentare al meglio la sua filosofia?

Va bene.. lo ammetto; volevo solo liberarmi di quello stupido quadro. E il maitre mi aveva servito la favoletta del connubio amore-cucina proprio, il caso di dirlo, su un piatto d’argento.

Fortunatamente o anche no, alcuni volti di Parigi dalla quale avevo avuto tantissima voglia di scappare erano proprio in quel d’Auvers, fra quei banchi; fortuna, perché la mia presenza in quanto madrina giustificava la mia assenza in città e sfortuna perché mi sentivo sempre e comunque tutti gli occhi addosso. Aihmè.. il prezzo della celebrità. Ma sarebbe durata poco, alle madame di Parigi l’aria fine di campagna sarebbe stata sopportabile per un solo mese.. dopo di che, con i loro attestati –concessi in via straordinaria dato le più che generose offerte versate- e le loro valigie di pelle di coccodrillo, sarebbero tornate ad infestare il loro habitat naturale: i salotti buoni.

Non che ad Auvers ci fosse chissà cosa da scandalizzarsi sia chiaro.. mi sfrenavo con la cucina e lunghe pedalate nelle distese di grano e papaveri; nella casina degli attrezzi avevo trovato due vecchie biciclette arrugginite, con una buona scartavetratura e una verniciata ero riuscita a farle tornare quasi nuove. Rose mi aveva raccontato –e sua madre prima di lei- che erano state un dono di Jacque per madame Chedjou, la nonna di Aurelien che io non avevo mai conosciuto, morta anni prima a causa di una devastante malattia. Certo ogni tanto la catena scricchiolava e aveva bisogno di frequenti unzioni d’olio, ma trovavo poetico il fatto di far rivivere la memoria di madame Chedjou, portando a spasso la sua bicicletta. Ed Aurelien aveva ragione, d’estate il borgo era bellissimo con i campi fioriti, che tenerla riposta in un capanno era davvero un enorme peccato. Non avrei osato desiderare di più; mangiavo bene e a parità di cibo inghiottito mi muovevo altrettanto –anche se ero ingrassata e i vestiti me lo dicevano chiaramente- il corso stava procedendo senza intoppi e Auvers era diventata ormai un nido assai familiare… fino al giorno in cui, persa fra i miei roveti, non mi vidi sbucare alle spalle un ombra.

Era passato appena un mese, questo il tempo che il destino decise di darmi come tregua.

 

“C’è nessuno?!” Non lo sentii arrivare, i passi sulla ghiaia erano leggiadri e la mia mente troppo occupata sul profumo inebriante delle rose. ”Deesire?! Tu..qui?!”

Mi voltai lentamente, posando il mio sguardo sulla sua figura, fra l’imbarazzato e l’incredulo; era proprio lui, non avevo avuto un allucinazione da sole di mezzogiorno. Passai in rapida occhiata il volto, tirato e alquanto scarno, con occhiaie profonde a cerchiare gli occhi verde-azzurro tipiche di chi non riusciva a farsi una bella dormita da un ; vestito in modo bizzarro, molto più di quanto non fossi abituata a vedergli, fra le mani una valigia usurata e un sacchetto da sporta.

Fabien?!” Esordii ironica, “ti sei perso?!” Mi guardavo attorno come cercassi in un brutto sogno la mia risposta; ma la spina che mi aveva punto nel voltarmi verso lui, mi aveva fatto sanguinare e lo sentivo chiaramente. “Ahi..” sibilai e lui rise, poggiando in terra valigia e sporta avvicinandomi.

“Dai qua..” mi prese la mano portandosela alle labbra; stava succhiandomi l’indice.

“Neanche sei arrivato.. hai già qualcosa di mio in bocca.” Berciai arrogante e ingrata; lui spostò il dito dalle sue labbra e sorrise all’angolo della bocca, amaro. “E’ sempre un piacere, cugina.”

Stavo per ribattere con un sonoro schiaffo, ma quello mi anticipò indietreggiando –memore del passato- prima che la mano compisse il gesto. “Vedo che non hai perso le buone maniere.” Sorrise, “E Aurelien? E’ una vita che non lo vedo, hai fatto fuori anche lui? Qualcuno dovrebbe rimbeccarti seriamente sulla tua educazione.” Si affrettò all’entrata, quando spinse via la porta, Rose trovandoselo davanti, arrossì.

“Monsieur Moreau.. non l’aspettavamo,” mi guardò sgranando gli occhi, “chiamo subito mia madre per la servitù, le sistemiamo la casa in un ora, la prego ci scusi e..”

“Calma Rose, prendete tutto il tempo che vi serve.” Le passò una mano a coppa sul viso e quella sospirò talmente forte che temetti si rompesse. “Ma sarei felice di salutare mio cugino, puoi chiamarlo?!”

Quella ci guardò perplessa; annuii alle richieste che Moreau aveva fatto e la congedai. Qualsiasi cosa intendesse per casa e servitù non mi era chiaro, ma a loro si, evidentemente; cominciavo a sentire una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco.

“Lui non è ad Auvers, Fabien.” Inarcò il sopracciglio e sorvolai su inutili perché, sicura che lo avrei visto sparire nel giro di qualche ora. Ma sbagliavo; la bellissima proprietà nascosta fra gli alberi, esattamente difronte alla nostra, era della sua famiglia e per oscure ragioni Fabien aveva deciso di prendervi possesso tempo illimitato.

“Certo.. le origini dei Moreu.” Pensai ad alta voce, dandomi della stupida per non averlo capito prima; se nonno Moreau discendeva dai signori feudali del borgo, tutto ciò che avevo attorno probabilmente gli apparteneva. Fabien annuì, come se mi avesse letto nel pensiero. “Ti farei vedere la casa ma.. meglio di no, sei già stata sulla collina alta?!” Stavolta annuii io. “Beh non c’è molto altro per te ad Auvers immagino.. mi domando cosa ci fa la Deesire dai vestiti della boutique delle Rose in mezzo ad anatre e strade di campagna.”

“Molto più di quello immagini Fabien. Sono qui da un mese, ti stupirei..”

“Racconta allora..” Calciò una sedia per farmi sedere ma negai. “Vuoi che ti aiuti con le rose allora?!” Negai di nuovo. “Oh Deesire, non so dove andare.. fammi restare con te, non sono poi così male!”

“Togliti quella giacca ridicola monsieur Moreau,” mi guardò perplesso e vagamente eccitato; alzai gli occhi al cielo e prosegui, “te la faccio scoprire io Auvers.” Uscii verso il capanno; la mia bici era poggiata allo stipite, inoltrandomi nel buio riemersi con l’altra, blu di vernice, scampanellando alla volta di Fabien.

“E queste?!” Si avvicinò testando i freni.

“Un cimelio di famiglia.” Montai in sella, guardandolo seria. “Andiamo!”

 

Si lasciò condurre fuori la strada sterrata, per un sentiero che avevo scoperto nelle mie giornate di fuga, quando dal corso avevo una pausa -come in quel giorno- in cui ero solerte sistemare la casa o appunto darmi a isolate passeggiate meditatrici; il terreno era dissestato ma secco, per cui proseguimmo senza intoppi, per un vialetto di pioppi ridondanti. Ci fermammo lungo il corso d’acqua dell’Oise, riparati da una collina alle nostre spalle degradante sul fiume; c’era pace, tranquillità e la frescura che le fronde degli alberi regalavano con la loro ombra.

“Allora Deesire, cosa ci fai sola ad Auvers?!” Abbandonammo le biciclette e ci adagiammo sull’erba. Fabien aveva srotolato delle carte dalle quali erano usciti deliziosi formaggi austriaci ed olive italiane, alcune specialità basche e salumi di terre che in vita mia avevo solo sentito pronunciare, cose che aveva portato con se, di ritorno dai suoi viaggi; aveva passato l’ultimo anno nel vecchio continente, frequentando scuole d’arte prestigiose e imparando a sua volta l’insegnamento della materia. Era stato a Firenze, era passato per Vienna, poi ad Amsterdam per ammirare i meravigliosi dipinti di Van Gogh, ed esaurito questo desiderio d’apprendimento aveva fatto ritorno in Francia, precisamente ad Auvers dove avrebbe trascorso un po’ di tempo prima di partire per nuove mete. Sembrava entusiasta del suo percorso, ed io non lo avevo mai visto così appagato prima ad ora; a parte il viso scarno e più maturo, i suoi occhi brillavano di una luce che avevo visto solo in quelli di Aurelien quando l’ascoltavo parlare di finanza o nei miei quando il progetto della scuola era divenuto realtà. Parlavano di soddisfazioni quegli occhi e di cose magnifiche che aveva fatto e visto.

“Te l’ho detto, maitre Gerald ha aperto una scuola ed io..”

“Sì.. cucini, finanzi e ti diverti.” Elencò il mio essere ad Auvers come si elenca la ricetta di un brodino; lo guardai male, addentando dell’ottimo pane e formaggio. “Io mi chiedevo il vero motivo. Sei così trasparente Deesire, ti si legge un mondo dentro quegli occhi.” Lasciò che un canto di grilli sostituisse la sua voce, non aggiungendo altro se non un sospiro, lieve ma lunghissimo. Rimasi interdetta e piuttosto infastidita dalla sua esuberanza, ma sinceramente colpita dal suo voler sempre leggermi dentro; non so che ne era stato della sua cotta infantile, dopo il mio matrimonio era stato parecchio bravo nel delegare tutti gli impegni di famiglia e i viaggi studio avevano fatto il resto; semplicemente le nostre vite erano andate avanti, ed averlo qui felice nei suoi racconti mi dava se non altro un po’ di speranza per il futuro.

“Sei sempre così attento Moreu o è l’aria europea che ti ha reso perspicace?!”

“L’una e l’altra.” Sorrise fugacemente, aggrovigliandosi su un pensiero che rimase tale e morì in un sussulto.

“Dopo queste meraviglie, Fabien, te lo chiedo io.. perché sei tornato?!”

“Nostalgia di casa.”

“Casa?!” Mi guardai attorno e lui sorrise imbarazzato. “Beh qualsiasi cosa voglia dire casa, Auvers le somiglia. Non mi ha mai spaventato molto la solitudine e di certo come sai non bramo di ritornare a Parigi.” Accidenti a Fabien Moreau e alla sua sincerità; mi sciolsi come burro al sole, ricordandomi quanto in fondo ci assomigliavamo. “Non riusciamo ad avere figli.” Sparai la mia cartuccia stretta fra i denti e mi alzai senza attender risposta, sussulto o compatimento andandomene verso il lento fluire dell’Oise.

Sentii i suoi passi, poco dopo, frusciare sull’erba e poi il silenzio; era alle mie spalle, immobile.

 

“Ed egli non sa perché, vedendo passare una chiatta, la nostalgia lo afferra. Anche egli vorrebbe partire, lontano, lontano, sull’acqua e vivere una nuova vita.”

 

Parlò dolce scandendo parole di Prevert, la mano allacciata alla mia, senza dire altro.

 

*

NDA:

Capitolo di passaggio, piuttosto incasinato lo ammetto, ma zeppo di informazioni al fine di giustificare la mia mente contorta applicata al seguito della storia. Spero vi piaccia.

Come sempre ringrazio chiunque avrà voglia di spendere tempo per leggerla e lasciare un commentino; a chi lo ha già fatto, milioni di grazie!

Grazie quindi a Benny Badflour per la recensione. J

Lunadreamy.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 9.

 

“Salato.”

Fabien andava e tornava dal suo porticato al mio, da ben due settimane, ormai; due settimane di risate, pianti malinconici, racconti di un passato che mi intrigava quasi quanto i suoi occhi fuggenti, ogni qualvolta lasciava andare via un pezzo di sé. Con mio sommo stupore mi trovavo ad attendere con ansia il momento -più o meno tutti i giorni verso le otto- in cui vedevo aprirsi la grande porta di legno scuro della casa difronte, lui che si piegava a raccogliere il giornale e portarlo sotto al braccio, vederlo attraversare il giardino di siepi rigogliose con una buffa corsetta e il cancello di ferro battuto richiudersi alle sue spalle, sullo stridio dei cardini arrugginiti. Un rituale al quale rispondevo con una certa allegria, arrivando addirittura a preoccuparmi se lo vedevo attardarsi troppo; facevamo colazione con montagne di crepes dolci e sfogliando il giornale commentavamo ironici le ultime notizie da Parigi, immaginavamo la fine di tizio e ridevamo delle sorti di caio, avevamo addirittura scommesso su quale delle matrone di città avrebbe abbandonato per prima il corso! Fabien mi aveva stracciato alla grande; per quanto solitario era un attento osservatore, con un talento naturale nel saper comprendere le persone. Sentirle.

Ad Auvers ci conoscevano tutti come i “cugini inseparabili di città”; non rappresentavamo nessun genere di istituzione ed inseparabili credo fosse l’aggettivo più consono per noi due. Io, lui, le nostre biciclette e –per buona pace degli orecchi di maitre Gerald- dopo mie sfinite suppliche, anche compagni d’avventura in cucina; Fabien si era guadagnato un ruolo nella scuola come tutto fare, la sua verve metteva di buonumore tutti, me compresa. Averlo attorno, mi rendeva serena.

“Stucchevole.” Addentò la quiche lasciando scivolare via le briciole dagli angoli della bocca; posai esasperata le braccia in avanti, sul bancone di marmo dell’enorme cucina cui disponevo. “Che c’è sei nervosa?! Oggi torna il maritino e non stai più nella pelle?!” La sua ironia lasciava ai miei limiti di sopportazione un margine alquanto basso; forse, la cosa che più di lui detestavo. L’unica, fra le altre cose.

“Così non mi aiuti. Maitre Gerald si è messo in testa di chiudere il corso con una ricetta speciale e tutto quello che sto combinando sono enormi pasticci!” Sbuffai, soffiando via la ciocca di capelli che mi era volata dinnanzi agli occhi.

“E’ che ti stai perdendo in cose complicate.” Afferrò un cartoccio di farina e lo gettò sullo spianatoio; con accuratezza forò il centro della montagna bianca, sorridendomi timidamente. “Devi applicarti su quello che sai già fare e che ti viene meglio.” Si colpì le mani ripetutamente lasciando che si pulissero alla meglio, mi voltò le spalle per raggiungere la finestra sul cortile.

“Fosse facile..” i miei pensieri si trasformarono in mugugni.

“Lo è.”

Alzai le spalle poco convinta, Rose interruppe il flusso dei pensieri bussando alla porta. “Madame..” guardò Fabien arrossendo –quando le sarebbe passata la cotta?- “persone in visita.”.

“Tu resta qui.” Puntai l’indice contro Fabien, ora cianotico e impaziente dinnanzi le finestre.

 

“Mamma!” Riconobbi subito Jerome e lo sbuffo del suo sigaro; era la vigilia del mio compleanno ed avevo totalmente rimosso l’evento più il pacchetto famiglia in andata da Parigi venuto a festeggiarmi. Clorine se ne stava inebetita a fissarmi e a fissare l’autista come a voler dire “i bagagli razza di idiota!”. Mi sciolsi, sorridendole e andandole incontro. Nell’attimo in cui l’abbracciai mi resi conto di quanto soffrivo la sua mancanza; era vestita di tutto punto, con la piega fresca e quasi giustificai le sue occhiate torve al mio grembiule bianco e gli abiti smessi, vergognandomi. Fortunatamente la gioia di rivedermi non lasciò scampo ad alcun commento sarcastico.

“Fatti vedere..” Tremai, ci siamo.. ramanzina in arrivo! “Sei ingrassata tesoro?!” Arrossii e sospirai di gioia allo stesso tempo, “sei oltremodo bellissima.”

“Grazie mamma!” Ero sinceramente colpita dalle sue parole; la lontananza cominciava ad assumere per me le sembianze di una squisita rivelazione. “Andiamo, ti mostro il resto della casa.”

“Ehm..” Qualcuno tossicchiò alle nostre spalle. “Non vuoi dare un bacio al tuo papà prima di andare?!” Non avevo notato la figura di Ahmed prima che si palesasse alla nostra vista.

“Papà!” Non trattenni l’entusiasmo volandogli letteralmente fra le braccia, baciandolo con infinito amore. “Mi sei mancato tanto.”

“Anche tu..” il fiato affievolì fra le labbra carnose, “ma il tuo papà non è più tanto giovane come credi.” Sorrisi divertita, scendendo dalle sue braccia. “Come stai e come sta Cedric?!”

“Santo cielo Deesire entriamo o restiamo qui ad arrostirci?!” Il tono da soprano di mia madre sovrastò la voce di mio padre che concluse i suoi pensieri ridendo e scortandomi verso l’entrata; li guardai, le due figure che mi avevano messa al mondo e fui invasa da tanto amore da non saperlo descrivere.

“Rose mostra la camera ai signori Bonnet” Li guardai, sbirciando con ansia il corridoio per la cucina alle loro spalle, “vi lascio tutto il tempo per sistemare le vostre cose e darvi una rinfrescata. Se avete bisogno di qualcosa non esitate a chiamarmi.” Annuirono, sparendo per il piano superiore.

 

Fabien?!” La porta della cucina era socchiusa, spingendola capii che se ne era andato.

Sul tavolo un biglietto svolazzava come un ala aperta.

 

Super attacco improvviso d’ispirazione.

A presto, Fabien.”

 

Istintivamente posai lo sguardo sulla porta/finestra che dava sul giardino e notai che era aperta.

Strinsi i pugni e sorrisi amara; il super sottolineato era il suo chiaro e disperato messaggio di disagio per l’intera situazione; l’ispirazione era una delle sue scuse preferite quando qualcuno di famiglia passava a trovarmi e nel caso di Aurelien osava anche uno sfrontato “non vorrei farlo ingelosire”, che per me era ormai abitudine vederlo sparire, ma questo suo atteggiamento refrattario non mi piaceva per nulla e mi rendeva poco serena. Per giorni nessuno sapeva dove se ne andava, cosa faceva, dove mangiava.. la sua presenza era segnata solo dal fioco baluginio delle lampade a olio che spezzava –non tutte le notti- il buio dell’enorme proprietà Moreau.

 

I miei genitori ed io pranzammo all’aperto, sotto la veranda che Aurelien aveva dato incarico di costruire, dopo le mie incessanti richieste; se c’era una cosa che adoravo del poter pranzare/cenare all’aria aperta era l’aria di convivialità che un porticato, un tavolo e alcune sedie potevano regalare ad ogni incontro. Mi ero trasformata dall’essere una damina ben cortese di città, ad una ragazza di campagna in soli due mesi e tutto questo cominciava a piacermi sul serio, pensando con agitazione ad un futuro -e quasi imminente- rientro a Parigi, ai suoi merletti e alle sue ovvietà. Se adoravo il tavolo esterno poi il motivo era Fabien; con alcuni cocci recuperati dallo scantinato della sua villa, mi aveva aiutato a ricavarne tanti piccoli tasselli trasformati in mosaico che ora fungeva da lastra portante del suppellettile, donando vibrante colore e vivacità all’insulso tavolo che era una volta. Intristii al suo pensiero, al suo incostante rifuggire le persone ma scrollai le spalle, aiutando Rose a servire il pane che avevo preparato la sera precedente e i “disastri” culinari che proprio il ragazzo biondo delle mie pene, mi aveva bocciato come prova d’esame.

 

“Quella è la proprietà dei Moreau, non è così?” Ne avevamo approfittato della frescura di un banco di nuvole per passeggiare fra i campi, quando Clorine non si lasciò scappare occasione, indicando con un occhiata fugace la possente villa difronte la nostra.

La guardai esitante. “Sì.”

“Si dice che il pittore sia da queste parti.” Il pittore; non trovai nessun aggettivo tanto appropriato quanto dispregiativo come quello. Inspirai profondamente, fulminando mia madre con uno sguardo.

“Si chiama Fabien. E non è qui.” Non era proprio una bugia e nemmeno la verità ovvio, ma spiegare a Clorine cosa significasse l’assenza del ragazzo, era un estenuante battaglia persa in partenza. “Il tuo tesoro è al sicuro, tranquilla.”

“Meglio così. Che buffa coincidenza sarebbe questa.”

Alzai le spalle; non avevo mai pensato alla comparsa di Fabien in quel d’Auvers come una -ironicamente parlando- “buffa coincidenza”; non era a conoscenza della mia presenza lì ed io credevo ciecamente che mancasse da Parigi e da papabili informazioni sul mio conto, da un bel po’ di tempo.

“Non direi dal momento che quì anche l’aria che stai respirando, appartiene ai Moreau.”

Mia madre incalzò irritata. “Mi stupisco sempre di quanta fortuna a volte muova profonda incostanza.”

“Anche io.” Risposi serafica, mettendo fine alla discussione.

 

Rientrammo in religioso silenzio, la casa era addormentata e pervasa da un inebriante odore di lavanda; gemetti ansiosa, accarezzando i mazzi di fiori sparsi sul mobilio e poi quello più grande, avvolto in un alto nastro blu, sul tavolo centrale nel salone.

“Aurelien?!” Lo trovai sul retro, in giardino, piegato sulle vecchie tubature a vista del casale.

“Madame Chedjou, mi duole dirle che i suoi tubi fanno veramente pena!” Si alzò non appena lo avvicinai, pulendosi le mani sui pantaloni. Adorabili pantaloni di lino chiaro; la sua visione mi lasciava sempre a bocca aperta. “Ma la casa ha un ottimo aspetto. C’è il tuo tocco ovunque.” Mi accarezzò la guancia, posandosi dolcemente sulle mie labbra. “Mi sei mancata.”

“Anche tu.” Gli passai le mani lungo le braccia. “Entriamo, Clorine ed Ahmed ti hanno preceduto.”

Sorrise rinfrancato sentendo nominare il nome di mio padre. “Mi era sembrato di sentire odore di sigaro..” si posò sui miei capelli, annusando forte. Lo guardai perplessa, vagamente eccitata e impaurita.

“Sei geloso monsieur Chedjou?!”

Si irrigidì, scostandosi. “Sì.”

“Mi duole dirle però che ho dei nuovi amici; cognac e sigaro..” Inspirai teatralmente, “deve farci l’abitudine.. d'altronde le mie notti sono così solitarie.”

Mi guardò languido. “Ho intenzione di riempire le tue notti molto a fondo.” Soffiò sensuale sulle mie labbra, prima di posarvi un bacio all’apparenza molto casto; in breve mi trovai schiacciata sotto la sua mole e con le spalle scoperte a premere sulla pietra ruvida della parete. Guardai i suoi occhi verde bottiglia aprirsi ed accendersi, belli come non erano mai stati prima.

“Via di qua Chedjou..” Sorrisi maliziosa, “non credo che questi tubi reggeranno il peso delle tue promesse.” Scoppiammo a ridere, prima di rientrare abbracciati stretti l’uno all’altra.

 

“Non ci posso credere!” Poche ore dopo avevo accompagnato i miei ed Aurelien alla scuola di cucina per mostrargli il nostro operato e dove sostanzialmente finivano i soldi che stavo investendo; mia madre vagò per i corridoi tramortendo il povero Gerald su ciò che secondo il suo –poco opinabile- gusto andava e non andava bene, mentre mio padre parlottava fitto con Aurelien su possibili fusioni ed espansioni. “Maitre Gerald avrà garantite classi almeno per i prossimi due anni!” Mio marito aveva grandi doti mediatiche ed io avevo dimenticato quanto fosse piacevole essere sposata ad un loquace uomo d’affari; sostanzialmente nei suoi viaggi all’estero aveva convinto alcune compagnie ad investire sul progetto di Gerald ed il mio facendoci apparire, quello che all’inizio era solo il sogno di una scuola-futuro per i giovani di campagna, una joint venture culinaria a livello europeo. Niente male per una dilettante con la fissa per la scrittura e un maitre dipendente dai capricci di cucina di qualche riccone.

“Monsieur Chedjou non so come ringraziarla, davvero se posso fare qualcosa..”

“L’unica cosa che spero è che lei mi restituisca al più presto mia moglie..” sorrise tornato bambino, passandomi un braccio intorno al fianco, “sono un uomo perso senza di lei.” Mi guardò con sincera beatitudine, annullando il resto del mondo intorno a noi.

Gerald arrossì, lo scartai dallo zuccheroso Aurelien pregandolo di accompagnare mia madre ai locali lavanderia. “Ti divertirai a scoprire chi ci lavora.” Il gossip avrebbe tenuta distratta Clorine per un po’ e reso il maitre un po’ meno pensieroso.

“Amore..” Passai le braccia intorno al collo di Aurelien, “puoi non far scappare a gambe levate i miei amici? Ho ancora più di due settimane da passare qui!” Risi, ma lui mi guardò serio. “Mi manchi davvero, Deesire. Non-credevo-tanto.” Scandì le ultime parole, accarezzandomi i capelli.

“Vuoi che rientri con te?!”

“Non sono così egoista. Ma voglio che non lo dimentichi.” Mi baciò la guancia. “Sono perso senza di te.”

 

 

“Ci vediamo lunedì a lezione, maitre.”

“A lunedì Deesire. Signori Bonnet, monsieur Chedjou, arrivederci e a presto.”

Il sole era calato, sulle colline dolci e degradanti.. i colori che tanto amavo; rimanemmo incantati sulla discesa che ci riportava sulla strada principale, quando dalla casetta defilata del guardiano una matassa di capelli biondi e una figura femminile attirarono la nostra attenzione; Fabien e Rose se la ridevano di gusto, mentre la ragazza con mani abili si sistemava la chioma scura e fluente, scarmigliata da chissà quali “attività ricreative pomeridiane”. Fantastico. Non si accorsero di noi sulle prime, ma quando Rose incrociò il mio sguardo impallidì. Alzò il braccio verso la nostra direzione, con un sorriso plastico sul volto.

“Il pittore e la cameriera.” Mia madre sogghignò, sussurrandomi all’orecchio. “Clichè di indubbio gusto.”

Guardai il ragazzo incredula del mio stesso stupore e rabbia; sì rabbia, lo immaginavo solo, depresso, immerso nella sua arte ai confini di chissà quale paese.. ed invece non aveva mosso neanche un passo lontano da Auvers e si accompagnava alla mia cameriera! Non so quale delle due cose, in quale ordine e in quale portata, mi desse più fastidio. Tornai ad assaporare il fastidioso bruciore alla bocca dello stomaco, così come quando per la prima volta, lo vidi avvinghiato a Juliette.

Aurelien mi guardò, alzai le spalle ignorando il suo sguardo carico di interrogativi; gli avevo raccontato che spesso passavamo del tempo insieme, ma la sua assenza durante i soggiorni ad Auvers gli avevano indotto a pensare che quello che si aggirava per il paese, fosse più il fantasma di suo cugino, che la sua vera presenza in carne ed ossa; evidentemente si era sbagliato. Ed io con lui, se non fosse stato per quelle maledette luci nel buio, avrei pensato che il ragazzo con cui condividevo gran parte della settimana, era in realtà una fantasia sviluppata dalla mia mente.. ma era chiaro che sbagliavo, Fabien era vivo e vegeto, felice ed accompagnato!

“Cugino..” Ci avvicinò ben attento a non incrociare i miei occhi; Aurelien lo abbracciò sinceramente entusiasmato dalla sua presenza. Era incredibilmente più alto e piazzato di lui, che fra le sue braccia sembrava un esile giunco pallido, durante una tempesta.

Fabien accidenti a te, non ti fai mai vedere!” Lo colpì affettuosamente due-tre volte sulla spalla, “come stai? Credo di non vederti dal giorno del mio matrimonio.”

“Oh no, non da così tanto.” Arrossì e per un impercettibile secondo mi guardò, “Deesire mi ha raccontato che gli affari vanno bene? Sono stato via anche io.”

“Gli affari vanno bene, ma nostro nonno ti reclama come sempre.” Si guardarono carichi di domande inespresse, dubbi, tensioni. “Non ne vuoi proprio sapere di passarlo a trovare?! Gli farebbe piacere fare due chiacchiere con te.” Fabien si guardò attorno chiudendosi sempre più nelle spalle; mia madre batteva nervosamente un piede in terra pendendo da quella risposta, mio padre con la scusa di accendersi un sigaro si era allontanato, io ero un tumulto di sensazioni contrastanti. “Pensaci. Intanto perché non ti unisci a noi per la cena?!”

“Aurelien ti ringrazio, ma ho già altri programmi per la serata.”

Tutti guardammo Rose e la poveretta arrossì violentemente. “Ci sarai almeno per il compleanno di Deesire, domani sera? E non dirmi di no perché mi ha raccontato che passate un sacco di tempo insieme, penserei troppo male se non venissi.” L’attenzione da Rose si spostò su di me; gli occhi di mia madre erano spilli ardenti sulla mia schiena. Mi schernii.

“Non forzarlo Aurelien, ci ha già detto che è impegnato.” Corrucciai le labbra in una smorfia, un lampo di malizia percorse le pupille di Fabien.

“Però..” piegò le labbra a un lato sardonico, appoggiandosi con tutto il peso sulla mia spalla, “per il tuo compleanno posso anche liberarmi.” Maledetto sorriso sexy e maledetta faccia tosta.

“Non darti questa pena Moreau..” Sibilai fra i denti. “Non sentiremo la tua mancanza.” Risposi con il mio sorriso migliore, ma il mio tentativo si trasformò in una smorfia ben peggiore della precedente, tanto che Rose dovette appellarsi a tutte le sue forze per non ridermi in faccia.

“Nessuna pena. A che ora hai detto cugino?!”

“Alle otto andrà bene.” Poi guardò la ragazza, “Rose spero sarà dei nostri? Mia moglie se la caverà per un giorno senza il suo prezioso aiuto.”

Quella annuì, “Con molto piacere monsieur, madame Chedjou è un ottima amministratrice.”

E tutto ciò che avrei desiderato amministrare in quel momento era il collo di Fabien.. fra le mie mani.

 

La pioggia ad Auvers era un fatto raro, specie d’estate. Ma quella notte venne giù il finimondo. Mi giravo e rigiravo nel letto non trovando pace; quella risata, le donne che si scioglievano ai suoi piedi, tutto di Fabien mi teneva sveglia e stanca. Ero arrabbiata, e lo ero anche con Aurelien.. perché invitare degli ospiti senza neanche ascoltare il mio parere? Beh forse perché era di suo cugino che stavamo parlando, ed Aurelien era così affettuoso, gioviale.. aveva ammesso Rose al nostro tavolo, un vero gentleman.

Che avevo da blaterare?

Deesire.. che ore sono?!”

Le sue mani vagavano sulle coperte leggere ormai fredde; ero alla finestra che guardavo scorrere l’acqua sulla strada ed abbattersi sull’enorme mausoleo spento che era la casa dirimpetto.

“Non riesco a dormire.” Mi strinsi nelle spalle. “Nessuno dovrebbe stare solo in una casa del genere.”

“Chi ti dice che è solo?” Aurelien si tirò su, facendo volteggiare il lenzuolo sulle mie spalle. “Quando finirai di preoccuparti per gli altri madame Chedjou?!”

“Credo.. mai.” Mi girai, allacciandogli le braccia al collo. “Sono un caso disperato.”

“Sei la mia disperazione..” mi guardò divertito, posandomi un bacio sulla punta del naso. “Se vado ad accettarmi che stia bene tornerai a dormire?!”

Guardai ancora una volta la pioggia sferzante e mi si strinse il cuore. “Vado io.”

“No! Ti bagnerai e non voglio.” Mi lasciò, afferrando vestaglia e scarponcini portandosi al piano basso. “Voglio trovarti serena e dormiente al mio ritorno, non ammetto repliche.” Mi soffiò un bacio dal buio e sentii il cuore tamburellarmi nel petto; perché mi preoccupavo così tanto per la sorte di Fabien? Perché il suo pensiero mi angosciava, mi teneva sveglia e le sue donne provocavano in me profondi attacchi di bile?

Avevo una cotta per lui, lo stupido artista da strapazzo, villano, irritante, sfuggente pittore.. ed io, avevo una cotta per lui.

 

 

“Buongiorno.” Un bacio dolce e morbido mi ordinò di aprire gli occhi; avevo un tremendo mal di testa, i capelli arruffati come se avessi combattuto una personale guerra con il cuscino e una spiacevole sensazione di sconfitta addosso. “Tanti auguri amore.”

“Voglio dormire.. sto male.” Mi rigirai nelle lenzuola, Aurelien rise alzandosi.

“No che non stai male. E’ solo un anno in più.” Afferrò cappello e giacca sistemandosi un ciuffo ramato e ribelle, “ma puoi dormire sogni sereni mia bella addormentata.. sei uno splendore.”

Alle sue parole mi alzai di scatto correndo in bagno, mi piegai sulla tazza e svuotai il mio corpo delle frustrazioni della sera precedente; non era stato un brutto sogno, avevo ammesso nel mio inconscio di provare qualcosa per Fabien Moreau e al sol pensiero rimisi di nuovo.

“Rimandiamo la cena, non stai bene.” Gli occhi di Aurelien erano verdi spavento.

“Ma no, non preoccuparti, non sto poi così male. Sarà stata quell’orribile quiche.”

Lo sguardo apprensivo di Aurelien la diceva lunga su molte cose. “Ti prego non guardarmi così. Sono solo stanca e forse hai ragione tu, devo tornare a Parigi il prima possibile.”

“Sei sicura.. che non ci sia altro?!”

Lo guardai spaventata. “Altro?!”

Arrossì prima di parlare. “Quando hai avuto il tuo ultimo ciclo?!”

Ciclo. Gravidanza. Bambino. Stavo per piangere, il suo candore poteva spezzarmi da un momento all’altro. “E’ appena passato.” Ammisi consapevole di veder trasformare quella curiosità da speranza in delusione. “Mi dispiace.” Biascicai e poi fu tutto, crollai inesorabilmente fra le sue braccia lasciandomi andare in singhiozzi devastanti.

 

Passai l’intera giornata a rimuginare su me stessa, le otto arrivarono in un soffio.

Il giardino illuminato dalle fiaccole, sedute sontuose e tavoli traboccanti di delizie, racchiudeva tutta quella che occhio e croce poteva definirsi Auvers; c’erano i proprietari dell’unica panetteria, i proprietari dell’unica pensione, maitre Gerald a suo modo unico padrone di un attività ancora nuova, i suoi alunni più le solite comari da sedie e uncinetto da strada. Mia madre si destreggiava da un gruppo all’altro come solo lei era in grado di fare, intrattenendo gli ospiti con la sua verve e humor così poco francese; sapeva trasformarsi in una donna assai brillante, quando il buonumore era puntato sul tasto on.

Che inesorabilmente passò ad off.. quando dal vialetto spuntarono Fabien e Rose a braccetto; posai il vassoio dei dessert così malamente sul tavolo, da sentire la punizione tacita che maitre Gerald mi inflisse con lo sguardo. Scappai in cucina chiudendomi la porta alle spalle. La respirazione era fondamentale, se fossi riuscita a controllarla forse avrei evitato di farmi venire un infarto.

“La festeggiata ha una crisi di nervi?” Sentii la sua voce alle mie spalle e sorrisi sarcastica.

“Te l’ho già detto una volta Moreau, non sei così importante.”

“Ahi- ahi Deesire, io non parlavo di me.” Mi sfilò accanto prendendo i vassoi. “Ti aiuto, non vorrei combinassi qualche guaio.” Mi morsi un labbro nervosa, afferrando delle bottiglie di vino dal tavolo. “Dunque sono fra i tuoi pensieri?!” Bisbigliò cauto, con il sorriso sexy e laterale stampato in faccia.

“Taci Moreau.”

“Altro sì.” Soddisfatto adagiò delicatamente tutto sui tavoli del buffet e raggiunse Rose in disparte con alcune ragazzine vestite in stile charleston, il tema che Aurelien aveva dato al party visto la mia totale adorazione per gli anni venti; tutto intorno era un tripudio di broccato, perle nere, cuffie e piume.

“Quello cosa sarebbe?!” Vidi mio marito scartare la folla e venirmi incontro agitando un pacchetto con della carta da alimenti; me lo porse, “Il tuo regalo.”

Prese una forchetta e la agitò contro il flute di cristallo. Tutti si voltarono a guardarci. “Per quanto importante sia questo giorno, voglio festeggiare anche il nostro primo anno insieme, Deesire. Un anno da quando Ahmed Bonnet mi ha concesso lo straordinario onore di farti mia sposa.” Guardò a mio padre, mimando un brindisi tutto loro, poi tornò su di me, “Ti amo, più di qualsiasi altra cosa al mondo.” Strappai avida la carta; un fascio di copie di Regards arretrati se ne stava immacolato nella mia mano. Lo guardai grata e consapevole della ponderazione che aveva avuto per quel dono; il suo tatto e la sua finezza potevano arrivare a tanto, ed ero sinceramente commossa. Picchiettò sui giornali e tornò con lo sguardo nel mio. “Per dirti quanto mi manchi e quanto ti rivoglio nella mia vita. E questo..” Frugò fra le tasche estraendo una scatola quadrangolare di velluto blu; lo aprì con deliziosa calma, scoprendo una cascata di gocce in diamanti incastonati in una collana rigida d’argento. “Diamanti unici nel loro genere, purissimi e irraggiungibili. Come te amore mio.. preziosa.” Guardai esterrefatta il collier senza saper articolare nessuna frase di senso logico; me lo adagiò al collo, mi prese la mano e sfiorò le nocche con le labbra. “Proprio l’effetto che speravo.” Sorrise ed io con lui, afferrai quelle labbra con un bacio e sospirai al suo orecchio. “Mi conosci meglio di chiunque altro. Non sarai egoista, ma hai sempre la capacità di riportarmi a casa. Tu sei la mia casa, Aurelien, dove devo essere, dove voglio essere. Ti amo.”

Ed ero sincera, come lo ero sempre stata, ero innamorata di Aurelien ma lo ero anche di Fabien.

 

 

“Siete sicuri che non volete restare?!” La macchina che avrebbe riportato Aurelien e i miei genitori a Parigi era pronta fuori al viale; Clorine era arrivata al limite massimo di sopportazione fango/insetti/tempo incerto e smaniava di tornare ai suoi pavimenti di marmo e agli abiti costosi, mentre ai due spettavano delle conferenze sullo stato attuale delle attività.

“Ci vediamo fra due settimane, puoi starne certa.” Aurelien mi passò la mano fra i capelli, ricordandomi il restante tempo di solitudine che mi aspettava davanti. “Ho una sorpresa per te quando torneremo a Parigi.”

“Un'altra?!” Lo guardai stralunata.

“Ti piacerà.”

“Come tutto di te.” Gli sorrisi, accompagnando la portiera dell’auto. “Ti amo.”

“Ti amo Deesire.”

Li salutai energicamente con la mano finchè non sparirono fra le curve e gli alberi, montai in sella alla bicicletta in direzione della scuola; trovai un maitre Gerald impaziente di assaggiare le mie proposte d’esame e autoritario più del solito, con lunghe liste di ingredienti e ricette da volerci far sperimentare.

“Non ci siamo madame Chedjou.” Sputò la quiche nel tovagliolo e mi sentii persa; se non ero in grado di cucinare uno stupido tortino salato come potevo ambire ad aiutarlo nella nostra nuova avventura europea? “Vada a casa e si metta sotto, voglio la ricetta e non uno stuzzichino privo di gusto ed estro.” Protestai un po’, ma a mezzogiorno ero già sulla via di casa.

“Madame non si sente bene?!” Rose mi accolse con la sua ritrovata aria da stacanovista.

Alzai le spalle. “Vado a riposare, non ci sono per nessuno.” Non che ambivo a qualche visita e tantomeno non potevo sapere che da lì a poco la mia vita sarebbe stata sconvolta per sempre.

 

 

“Cosa è questo trambusto?!” Mi svegliai dopo un tempo incalcolabile, alle finestre era già l’imbrunire.

“Monsieur Moreau è nel vostro giardino.” Rose parlò trafelata, “l’ho pregato di andare via ma non ne ha voluto sapere.” Scansai la domestica e mi portai fuori, per poco non ci restai secca; Fabien aveva montato un palco di legno nell’angolo morto del giardino, proprio accanto al capanno degli attrezzi.

“Moreau!” Lo richiamai e quello si voltò guardandomi agitato. “Cosa diavolo stai facendo?!”

“Doveva essere il tuo regalo di compleanno ma..” Mi guardò come un bambino beccato a rubare le caramelle. “E’ un palco per il tuo charleston!” Aprii la bocca disegnando una O precisa, indecisa se arrabbiarmi o essere maledettamente colpita; mi conosceva bene. “Rose mi ha insegnato qualche passo.. ho pensato che potevamo esercitarci, qualche volta, se ne avevi voglia.”

Sentii le gambe molli, mi adagiai in terra sull’erba fresca. “Non ti piace?! Lo faccio sparire..”

“Fermo.. è.. è perfetto. Tu.. è colpa tua.” Lo guardai seria, smise di ridere e si mise seduto anche egli. “I tuoi sbalzi di umore mi fanno impazzire. La tua solitudine mi fa impazzire.” Mi tremarono le labbra, ma soffiai flebile. “Tutto-di-te-mi-fa-impazzire.”

I suoi occhi verde-azzurro si velarono, si alzò di scatto indietreggiando. “Non sai quello che dici. Sta zitta.”

Mi alzai stizzita, stagliandomi contro la sua figura esile. “Sta zitta?! Ma chi ti credi di essere? Sei insopportabile Fabien, sei inopportuno, lunatico..”

“Io sarei lunatico?! Deesire sei la donna più controversa che io conosca!”

“Ah beh se lo dice Fabien Moreu ci posso ben credere! Lo charmeur colpisce ancora signori e signore..”

“Stiamo discutendo della mia vita sentimentale, adesso?!” Tornò il sorriso di scherno sulle sue labbra. “Mi sono perso qualche passaggio?!” Alzò di un tono la voce, un movimento fulmineo alle tende lo turbò.

“Per quel che importa.” Alzai le spalle ma fui trascinata dalla sua furia fuori dal vialetto, oltre la casa, in direzione della sua; gli arrancavo alle spalle strattonando a momenti, ma la sua mano teneva stretto il mio braccio. “Lasciami charmeur, mi fai male!” Mollò la presa e gli finii contro le spalle; si girò stringendomi le braccia ai fianchi. Mi penetrò con uno sguardo furente. “Importa eccome Deesire, ti rodi dalla gelosia, ammettilo!”

“Gelosa di te?!” Potevamo sfiorarci le fronti da tanto che eravamo vicini. “Mai!” Il mio temperamento diceva no, ma i miei occhi dicevano sì; cominciai a lacrimare, dalla rabbia, dalla frustrazione e anche dal dolore per quella morsa imponente. Fabien era forte, un leone nel corpo di una gazzella. “Lasciami char.. Fabien, ti prego. Lasciami, mi fai male.” Le mie lacrime e la mia supplica fecero scattare la sua mani dai fianchi al mio viso. “Tu mi ami Deesire.”

“No.” Sì, urlava il mio corpo tremante.

“Sì.” E mi baciò, morbido, senza fretta.

“No.” Risposi al bacio, protestando debolmente.

“Sì.” E ancora uno, stavolta più sicuro.

“No.” Lo aspettavo, schiusi le labbra accettandolo.

“Sì.” Mi parlò deciso sulle labbra, ancora calde del suo sapore. “Ed è meglio se te ne vai, ora.. perché tutto ciò che voglio è prenderti fra le mia braccia, portarti dentro e fare l’amore con te, Deesire.”

 

“No!” Urlai e scattai indietro mettendomi a correre verso casa.

 

*

NDA:

Capitolo decisivo amiche e amici miei! Cosa succederà da qui in poi?!

Per ora solo scintille fra la tosta Deesire e lo charmeur Fabien. Vi è piaciuto il capitolo? Spero tanto di sì.

Vi aspetto numerosi, intanto vi abbraccio virtualmente forte.

Lunadreamy.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 10.

 

La cucina era il solo posto in cui potevo sfogare le mie frustrazioni di moglie pseudo-fedifraga e per giunta le mie mani fremevano di appiccicarsi alle guance di Fabien Moreau e dargli tanti, tantissimi sonori schiaffi. Avrei fatto qualsiasi cosa per non pensare più agli uomini che avevano reso la mia vita da dolce e spensierata quale era, una pozza di melma dal quale non riuscivo ad emergere.

Peggio delle sabbie mobili a questo punto c’era solo la mia vita sentimentale. E più cercavo di farmi spazio a forza di bracciate, più venivo sopraffatta dagli eventi. Non mi sarebbe costata molta fatica passare una notte in bianco in più, con le mani in pasta. C’era di peggio là fuori e non avevo nessuna intenzione di aprire le mie porte. Fabien Moreau a quanto pare non era dello stesso avviso e trovò, nel coraggio e nella sua adorabile testardaggine, la combinazione giusta per spalancarle tutte.

 

Mi accorsi di lui l’attimo in cui richiuse violentemente la porta della cucina alle sue spalle, mandando la serratura avanti di un giro; mi girai confusa e accaldata dalla sua presenza così brusca, pronta ad attaccare con tutte le mie forze. Non ebbi il tempo di fare o dire nulla, si buttò contro di me, con foga, portando le sue stupide mani ruvide da artista sulle mie spalle, attirandole a se.

Fabien..” sussurai con voce greve e dannatamente sexy.

Fabien un corno!” Rispose risoluto e bramoso.

Mi infilò la lingua in bocca che sembrò volesse mangiarmi; il sapore dolceamaro del Cointreau –che a quanto pare si era scolato per farsi coraggio- mi inebriò, pizzicandomi il palato e.. non riuscii a fermarlo. Tutto di me, cervello, arti, muscoli, fibre voleva fermarlo, ma c’era un organo al centro esatto del mio petto che non voleva saperne. E non seppi fermarlo quando con quelle stesse mani mi alzò la tunica fino alla vita, scoprendomi nuda e vulnerabile, facendolo sussultare per la sorpresa e lo stupore. Non seppi fermarlo quando mi alzò per i fianchi e mi adagiò su quel bancone sporco di farina e burro -che tante ne aveva viste fino ad allora, ma posso giurare quasi ad occhi chiusi mai nulla del genere- ne.. quando lo vidi armeggiare fra le brache e con una mano farsi spazio fra le mie cosce tese, per entrare.

Urlai, ma non per lo spavento.. urlai di gioia, di stupore e mi aggrappai ai suoi dannatissimi e profumatissimi capelli biondi ansimando nel suo orecchio, aderendo con le natiche ai suoi fianchi ossuti, stringendo sempre più forte le mie gambe alla sua schiena. Fabien era dentro di me. Il tavolo tremò sotto le sue spinte, una, due, tre, quattro volte; ero certa che il muro alle mie spalle si stava sgretolando, le boccette di spezie di maitre Gerald si agitavano le une contro le altre tintinnando al ritmo della nostra passione.. e rotolarono in terra, quelle meno fortunate, andando ad infrangersi ai suoi piedi nudi.

“Madame!” Nella nebbia astratta della lussuria vidi il gesto fulminio della maniglia alzarsi e abbassarsi, senza esiti positivi. Rose colpì la porta con le nocche. “Madame Chedjou, tutto bene?” La voce innocente e preoccupata della giovane mi fece sorridere.

“Sto- sto bene..” Risposi miagolando. “Sto- sto impastando!”

Sentii i passi incerti della ragazza, contro il pavimento ruvido e tornai alle spalle di Fabien, al suo torace, alle mie mani furtive su quella meraviglia acerba. Esplosi il mio piacere contro il suo viso sudato, senza alcun ritegno, occhi negli occhi, fronte contro fronte, lui posò velocemente le sue labbra alle mie, lasciandosi andare a sua volta; molto lentamente, sempre più piano, si fermò respirando affannosamente contro il mio collo. Il battito del suo respiro tornato regolare mi calmò, ma straziai di dolore quando dai suoi occhi calde lacrime scesero contro il mio petto, dove il suo capo riposava.

Piansi insieme a lui ed aspettai inerme la caduta nell’inferno.

 

Mi rivestii nella fretta e nella vergogna, al buio, nel salone ora freddo; Fabien mi posò un leggero bacio fra i capelli prima di scappare verso la propria vergogna, in un’altra casa vuota e ugualmente fredda.

Non so quanto tempo restai seduta su un angolo del letto, a fissare quella stanza difronte; non c’erano luci neanche per lui quella notte e il mio cuore e la mia testa combattevano fra il desiderio di corrergli incontro -prenderlo fra le mie braccia e continuare ad amarci- e la razionalità di fermarsi in tempo, che non eravamo sporchi ancora del tutto, che forse potevamo dimenticare.

Le sue mani, i suoi baci, la sua pelle candida contro la mia. Avrei dovuto dimenticare il modo selvaggio in cui il mio corpo si era dato a lui e viceversa dimenticare l’onta di passione con cui mi aveva posseduta; nulla di particolarmente memorabile o romantico, ma assolutamente rovente, lascivo, le mie labbra scottavano al solo ricordare. Come avrei potuto, quindi, dimenticare?!

 

Come una manna dal cielo il sonno ebbe la meglio, ricordai solo le palpebre pesanti e lo sprofondo in un sonno lungo e senza sogni. Ed è la che la sua vibrante voce mi raggiunse, perché dalle coltri dei miei incubi, il suo richiamo mi riportò alla vita.

Deesire..” non era un sogno. Era lì, vicino al mio viso e stava soffiando il mio nome in modo dolce. “Alzati, voglio farti vedere una cosa.” Aprii mio malgrado gli occhi, puntandoli sulla sua immagine mattutina; era vestito esattamente come lo avevo lasciato, ed aveva il viso sporco da quella che aveva tutta l’aria d’essere farina. Accennai ad una protesta, quindi mi afferrò sotto le braccia e mi tirò verso se.

“Devi assolutamente vedere.” Mi issò in braccio, uscendo dalla stanza; per un attimo passarono sotto al mio naso l’odore di burro fuso e spezie.

“Cosa è questo odore?!” Scivolai dalle sue braccia, curiosa.

“Sono stato in piedi tutta la notte. E’ successo un miracolo.” Lo guardai di traverso, spostando poi l’attenzione su voci da basso; impallidii, pregandolo di darmi tempo.

Quando scesi giù, Rose mi aspettava in cucina tutta contenta e insieme a lei maitre Gerald; mi guardarono perplessi –non ero riuscita a domare i capelli post-inferno- e poi accigliati, quando Fabien fece il suo ingresso con uno scarso tentativo di sorpresa.

“Complimenti madame! Li abbiamo assaggiati e sono buonissimi!”

Guardai Fabien in cerca di aiuto. “Dalla tua ricetta Deesire. Burro, farina..” poi indicò il tavolo dove qualche ora prima eravamo avvinghiati e arrossii violentemente, chiudendomi la vestaglia con reticenza. “Zenzero e cannella!” Arricciai il naso; che diavolo di schifezza aveva preparato a mia insaputa?

“E come sono venuti?!”

“Visto che eri indisposta..” sottolineò la frase come il compito di uno scolaro; e in quel caso lo scolaro ero io.. “li ho messi in cottura per te. Assaggia.” Mi passò un biscotto; per prima fui assalita dalla dolcezza del burro e della cannella e quasi a seguire, per ridare equilibrio, la nota pepata dello zenzero. Era un mix perfetto, un contrasto di sapori che si sposavano alla perfezione.

“Sono buoni..” diedi un altro morso per constatare la fragranza della frolla e annuii soddisfatta alla volta del ragazzo che mi guardava speranzoso. “Ottima frolla. Ottimo abbinamento. Venti minuti di cottura e colore biondo, un terzo ingrediente a scelta e possono dirsi perfetti.”

“Non lo sono già così?!” Mi guardò tristemente. “C’è la cannella, scura e forte. Esotica. E lo zenzero a seguire, chiaro, freddo. All’apparenza lontani, ma complementari. Guarda il colore Deesire.. omogeneo, nessuno prevale sull’altro. Si completano.”

Mi persi sul suo discorso dal piglio deciso e non fui più sicura che stessimo parlando dei biscotti; arrossii incapace di ribattere, mi salvò il maitre tirandomi fuori dall’empasse con il suo solito estro da artista.

“Madame, voglio le due versioni per domani. Questa è la sua ricetta di fine corso.” Afferrò un altro biscotto e portò Rose fuori dalla nostra portata. “Monsieur Moreau, se pensa di aver trovato una vocazione per la frolla me lo faccia sapere.” E se ne andarono così come li avevo trovati, allegri e festanti.

Ero a dir poco esterrefatta e Fabien dal suo canto sorrideva come un ebete.

“Cosa è successo qui? Perché non sono sicura d’aver capito..”

Maitre Gerald mi ha appena offerto un lavoro..” Lo guardai torva, tornò serio all’istante. “Quando ieri notte sono tornato e tu dormivi.. sono passato in cucina e ho trovato questo.” Cercai di ignorare i battiti accelerati del cuore al pensiero di averlo avuto in casa tutta la notte, “beh non che i biscotti fossero lì ad aspettarmi. Sul tavolo.. lì.. dove abbiamo..” arrossì e farfugliò in questo ordine esatto, “insomma, c’era la farina e il burro e le boccette con lo zenzero e la cannella riverse dentro. Ho pensato a te, alla tua filosofia che impastare concilia il buonumore e.. ho impastato, impastato fino a quando non avevo fra le mani qualcosa di soddisfacente.” Tornò a guardarmi, gli occhi verde-azzurri liquidi. “Mi sono ricordato di quella volta che il maitre mi fece bere quella cosa assurda alla festa..” Già, la festa del mio fidanzamento. “..accennando a quella cosa sullo zenzero e la cannella..”

“Sembrano così distanti come sapori, ma una volta uniti sono complementari.. come certe persone.”

Come avrei potuto dimenticare?

“Non ho pensato ad altro, Deesire.” Il suo tono di voce smise di essere incerto e flebile, “non può essere solo una coincidenza e posso asserire con convinzione che noi ci completiamo.”

Rabbrividii e confusi il piacere con la paura. Fabien sospirò, toccandomi la mano. “Sono. Innamorato. Di. Te.” Scandì ogni parola con un lento sussurro. “Lo sono sempre stato mio malgrado. E per quanti sforzi abbia compiuto per non esserlo, il destino mi ha giocato contro.”

Provai l’assurda sensazione che si prova per un addio, ma lui era lì, con la mano sulla mia, eppure vedevo annebbiato, sfocato, il panico nello stomaco e nei polmoni; anche io sono innamorata di te.. lo pensavo, ma la lingua frenava contro i denti e così cominciai a gorgogliare ed ansimare come un neonato che si sveglia nel cuore della notte e vuole il calore della mamma. Mi trascinai nel suo abbraccio; odorava d’amore, di fatica e di sudore.. e piansi mille lacrime oppresse.

 

Se ne andò lasciandomi sola con il “miracolo” –come lo aveva chiamato lui- e senza il calore del suo corpo, che andava affievolendosi piano piano. Mi bastò sfiorare il pianale, entrare a contatto con la farina e guardare quei meravigliosi biscotti per capire che ne volevo ancora e che non avevo nessuna intenzione di dimenticare.

Corsi fuori, dal mio viale al suo, spinsi il portone d’entrata e fui in casa; era la prima volta che mettevo piede nella proprietà dei Moreau, ma sapevo benissimo dove andare. Avevo fantasticato su quella casa per giorni e notti intere, mi sembrava così familiare, così accogliente.. salii per la scalinata centrale con il cuore a mille, poche parole ma una gran voglia di stare con lui.

Fabien era steso sul letto, raggomitolato nelle lenzuola che gli avevo mandato la notte del nubifragio, un fagotto esile, amorevole, dolce; quando mi vide entrare si tirò su con il busto accogliendomi fra le sue braccia e portandomi giù con lui.

Lo baciai piangendo, le mie lacrime si confusero fra i suoi capelli e su quel corpo che bramava il mio con la stessa intensità con la quale tremava sul suo; alzai le braccia aiutandolo a sfilarmi la tunica, le mie mani lungo i pantaloni a cercare la via di fuga da tutte quelle costrizioni. Lo baciai sul collo, fra le scapole, sul petto glabro e pallido; le sue mani giocavano con i miei seni, mentre intrecciava gli occhi intensamente languidi nei miei e lo baciai, lo bacia centomila volte, quella bocca sensuale e carnosa, figlia di tutte le mie voglie e della mia rabbia, a volte. Fu dentro di me e mi sentii piena, viva, al centro di un universo che non mi sembrava più tanto astratto, lontano, assurdo; il mondo mio e di Fabien, la piccola bolla di meraviglia e stupore in cui abitavamo.

“Era così che doveva andare.” Mi prese al suo petto, dopo essere scivolato fuori dal mio corpo; sospirai e sorrisi nel vederlo addormentarsi contro i miei capelli, con un sorriso appagato e leggero sulle labbra.

 

Facemmo l’amore tutti i giorni e tutte le notti, ovunque; sul magnifico tavolo di cocci, nel capanno degli attrezzi, nei campi e fra i papaveri, alla scuola, ancora nel suo letto e poi nel mio. Il tempo si era come magicamente fermato; eravamo consapevoli di quale strada stavamo percorrendo, ma tutto si dimenticava in fretta quando le nostre carni si incrociavano. Cominciammo a dipendere dalla smania di trovarci nudi e assenti, occhi negli occhi, labbra contro labbra.

Fabien..” protestai, puntellando le mie dita contro il suo fianco, “devo andare, ho ancora da migliorare una certa ricetta, sai?!” Mi guardò divertito, spostando il suo peso da me.

“Ti posso aiutare se vuoi.”

“Solo se mi sveli l’esatta quantità di cannella e zenzero.” Infilai la testa nella scamiciata e lasciai che scivolasse per conto proprio sul mio corpo. “Sto impazzendo, maitre Gerald è diventato pressante.”

“Non lo so Deesire.. te l’ho detto, le boccette erano riversate già lì quando sono arrivato io.” Mi accarezzò i capelli amorevolmente, “ma possiamo lavorarci. Non è la prima cosa che ci verrebbe bene..” rise, buttandosi nuovamente su di me. “Ti prego..” lo implorai mentre la sua chioma vagava sui bottoni della scamiciata un po’ troppo a sud del mio baricentro. “Oh!” Sussultai, ero fritta.

 

“Assaggia!” Diversi rotolamenti dopo avevo una teglia di biscotti tiepidi e in trepida attesa di un esito; Fabien se ne portò uno alla bocca annuendo di meraviglia. “C-cosa.. sembrano così diversi.” Ne presi uno e non appena lo sentii sciogliere al palato saltellai di gioia. “Sono perfetti!”

“Parti uguali di spezie più..” mi lanciai contro la dispensa e ne tirai fuori una bottiglia con del liquido aranciato. “Estratto di lavanda!” Lo stappai annusandolo; sorrisi beata, ma la gioia smorzò subito perché Fabien si rabbuiò. “Cosa c’è?!”

“Lui è quì. Nella nostra ricetta.”

Mi morsi il labbro. “E’ tutto ciò che avevo prima di te.” Posai la bottiglia e gli andai vicino, “come puoi essere geloso di lui?!” Mi guardò torvo, la desolazione nelle pupille.

“Devo andare.”

“No, non andartene.” Gli sfiorai la mano, ma si divincolò. “Te ne vai, sparisci e io sto male. Tu stai male. Fabien abbiamo bisogno di stare insieme adesso, tutti i giorni, fino alla fine. Non andare.. ti prego.”

Si girò e vidi i suoi occhi verde-azzurro spegnersi per sempre; non eravamo più ragazzini alla prima cotta, ma non potevamo essere nemmeno degli innamorati, le mie parole gli schiaffeggiarono addosso la verità. Il futuro era incerto, il presente molto più consistente.. ed era a quello che dovevamo aggrapparci con le unghie e con i denti. Quello.. e il nostro amore clandestino.

Charmeur..” gemetti nel suo orecchio mentre con una mano mi teneva in braccio, contro il suo ventre; il vetro della dispensa protestò sotto alle sue spinte, piatti, bicchieri, forchette.. una sinfonia acuta. “Charmeur..” esplosi il mio piacere gridando sulla sua bocca famelica dei miei baci, rallentò, mi tenne premuta alle spalle, il vetro freddo contro la mia pelle e la musica a tacere.. ed esplose dentro in una pioggia di fuochi d’artificio variopinti.

 

Nove giorni dopo la deliziosa scoperta, ero alla scuola con la mia ricetta finale incartata –pacchetti di velo chiaro chiusi in nastro di raso blu- ed il cuore che batteva a mille. I miei compagni mi avevano letteralmente preceduta, guardavo i pochi che si erano fatti attendere come me e trasalii alla vista dei loro porta-torte voluminosi. Lo stomaco grugnì.

“Sono perfetti.” Il pollice di Fabien risaliva cauto lungo la mia spina dorsale, tremavo di paura, paura ed eccitazione, non distinguevo più la differenza ne chi la provocasse. “E tu, una cuoca eccezionale.” Mi salutò con un bacio soffiato dietro le colonne del portico che lo portavano ai suoi lavori e ai suoi doveri per me insulsi, da quando avevo scoperto la sua arte sotto le lenzuola. Scacciai il pensiero alla svelta ordinandomi di respirare e non pensare a nulla che non fossero i biscotti, maitre Gerald e l’attestato che dovevo assolutamente impugnare.. tutto ma non Fabien Moreau nudo, fra le mie mani.

Impossibile.

Deesire hai un delizioso colorito stamattina..” Elle una corpulenta ragazzona di campagna con cui condividevo il banco, non mancò di farmi ripiombare nell’imbarazzo dei miei torbidi pensieri. “Ti fa proprio bene la nostra aria. Non ti ho mai vista così raggiante!”

“Ho colto le rose in giardino ieri pomeriggio, sarà stato il sole.” Guardai in basso verso le mie mani incerte e tremule, Elle mi guardò poco convinta. “Hai la ricetta?!” Cambiai discorso alla svelta, riacquistando un po’ di sicurezza.

“Non ancora. E mancano solo sei giorni alla fine del corso.”

Altri sei giorni di Fabien nudo e.. basta Deesire! Mi intimai di non pensare e di guardare avanti, se avessi voluto sopravvivere alla mia vita, al mio cuore accelerato, ad Aurelien, mia madre, la sua..

“Madame Chedjou?!” Maitre Gerald stava schioccando le dita dinnanzi ai miei occhi e ci misi un po’ per capirlo, dato il trambusto di pensieri. Via di qua.. tutti, pensai. Respirai a fondo.

Maitre.” Sfilai da sotto il banco i miei sacchetti con i biscotti, slegai il nastro e glielo porsi. “La mia ricetta di fine corso.” Guardò compito la presentazione, semplice ma efficace, annusò il biscotto prima di morderlo e sorrise enigmatico nella mia direzione.

“Oserei dire che sono profumati.” Annuii, la sicurezza pian-piano padrona dei miei gesti.

“Il mio terzo ingrediente segreto.” Non vedevo l’ora di pronunciare quella frase e lui sorrise complice.

“Certo.” Addentò e masticò molto lentamente; una variante di emozioni passò sul suo viso. Incredulità, stupore, compiacimento, approvazione.. nulla che mi facesse temere il peggio, seppur preoccupata per l’attardarsi di risposte concrete. Gli piacevano o no? Ero promossa?

“Peccato per quell’ingrediente segreto..” mi sentii morire; avevo deciso di sperimentare la lavanda in un precedente attacco di follia culinaria, quando avevo creduto di poter ricavare dalla pianta e dello zucchero un liquore personale, convinta che fosse stata una mossa geniale quella di mischiare poi qualche goccia di quell’estratto in un dolce. Il mio personale dolce. La chiave di svolta del mio rapporto con Fabien, tormentato e incerto e la sicurezza della lavanda, di Aurelien e del nostro rapporto. Doveva andare bene.. era tutto perfetto almeno per lo stupido dolce, cosa era successo?! “Avrei voluto scoprire cosa rende questi biscotti la meraviglia profumata e fragrante che sono.” Recepii solo la parola meraviglia e provai ad applicarla ad un esito negativo pur certa che non mi era parso di udire “meravigliosa schifezza”, perciò mi limitai a sorridere come un ebete.

“Madame Chedjou è su questo pianeta?!” Gerald mi riportò in terra trascinandomi per i piedi.

“Non sono sicura di averla capita bene maitre..”

“Le sto dicendo che lei è una cuisinière. E che apporrò il timbro del ministero dell’ecole francese sul suo attestato.”

Questo lo recepii eccome; mi guardai intorno emozionata, tutti stavano applaudendomi. Anche Elle che afferrò un biscotto e se lo infilò in bocca per intero. “Buonissimi!” Sentenziò, sbriciolandosi sulla veste.

“E’ sicura di stare bene? Non mi sembra si sia ripresa..”

“Sto benissimo maitre.” Gli strinsi la mano, “tutto ciò che ho imparato lo devo a lei.”

Alle quattro volai dritta nella casa del guardiano, poco più in là della scuola, passando come di consueto per l’orto che il maitre aveva voluto fortemente, per prodotti il più possibile genuini e reperibili; bussai alla porta, Fabien stava riparando un mobile vecchio ed antiquato.

“Hai le mani d’oro.” Gli allacciai le braccia al collo, lui si piegò a baciarmi la punta del naso.

“Come è andata?!” Mi chiese impaziente.

“Hai davanti a te una cuisinière, monsieur Moreau!” I suoi occhi si allargarono di gioia, mi sollevò da terra facendomi volteggiare in aria. “Oh charmeur mettimi giù, mettimi giù!”

“Lo sapevo.” Obbedì, tornando ai suoi attrezzi.

Lo guardai accigliata. “Tutto qua?!” Quando voleva sapeva essere sintetico da fare male.

Lo sentii ridere, spostarsi verso il grammofono sul tavolo e trafficare con le mani nelle tasche, mentre tornava nella mia direzione; non vi era più alcuna ironia nel suo sguardo, solo sincera commozione credo.. e pathos. Tremai.. conoscevo bene il silenzio prima di una dichiarazione. La voce sensuale di Rina Ketty che usciva graffiata dal corno, sparse nell’aria le note di j’attendrai. Aspetterò. Sorrisi enigmatica. Fabien mi prese le mani, baciò una e poi l’altra, girandole con i palmi rivolti verso il suo viso.

“Aspetterò. Il giorno e la notte. Per sempre aspetterò il tuo ritorno.” Non lo avevo mai udito cantare, la sua voce era flebile e soffiata.. un brivido ghiacciato per la pelle. Sfilò dalle tasche qualcosa di minuscolo e impercettibile persino nel palmo della sua mano affusolata, facendolo scivolare dolcemente nella mia mano. “Sei una bisbetica viziata Deesire, insopportabile e assolutamente incostante.” Tornò il Fabien ironico e petulante. “Però ti amo e non posso farci niente.” Ti amo anche io! Il mio cuore era un tamburo impazzito nella minuscola cassa toracica; indicò la mia mano, la guardai scoprendo un delizioso anello di vecchia filigrana d’oro. “Era di nonna Moreau. Voglio che lo tenga tu.”

Oh mio Dio. Annaspai, impaurita ed emozionata. “Fabien.. non posso accettare. E’.. troppo importante.”

“Non c’è stata e sono sicura che non ci sarà un'altra come te.” Ribatte’ sicuro, “voglio che lo tenga tu. Voglio che resti con me. Che non te vada mai via. Voglio guardare avanti e smetterla di pensare al passato. Eri mia Deesire, nei miei sogni di ragazzino e di uomo lo sei sempre stata.” La voce sicura si increspò, soffocando in singhiozzi, “non andare, resta con me.” Piegò tragicamente il capo contro il mio petto e scivolò sul pavimento aggrappandosi alle mie gambe; mi sentivo orrendamente responsabile di tutto quel dolore, incapace di colmare le sue voglie, le sue aspirazioni e il suo amore come volevo.

Che colpa potevamo avere nell’esserci innamorati?

“Ti prego Fabien.. alzati..” mi piegai contro le sue spalle, avvolgendole e stringendole forte, “charmeur je t’aime, je te prie.. je t’aime.” Mi persi fra i suoi capelli e i singhiozzi e piansi insieme a lui.

 

Qualcuno bussò violentemente alla porta; stropicciai gli occhi incrostati dal pianto, controvoglia scostai il capo di Fabien dal mio petto andando ad aprire. Nessuno ci aveva mai visti o sorpresi insieme. Tremai. Scostai la tendina e vidi Rose, le guance rosse come dopo una corsa e il respiro affannato.

“E’ Rose.” Parlai al vento, Fabien non rispose e rimase immobile sul pavimento.

“Madame!” Quando aprii, la ragazza mi abbracciò; rimasi inerme e stupita, fra lo stipite e la porta aperta quel tanto che bastava a far spazio al mio corpo. “Deve tornare a casa, madame, deve tornare a casa!” La scostai guardandola negli occhi visibilmente scossi. Sapeva, aveva capito tutto. Ebbi un fremito di paura. Guardai alle mie spalle, il cuore straziato. “Ti prego, resta con lui.”

Salii in sella alla bicicletta e pedalai fino a farmi scoppiare il cuore. Aurelien. Lo sentivo, percepivo nell’aria il profumo della sua pelle, i miei ormoni da moglie segugio, il campanello nella mia testa che suonava all’impazzata come una sirena di guai.

Abbandonai la bicicletta sul viale esterno, correndo in giardino; quando lo vidi scemai fra le sue braccia, le gambe come gelatina.. quasi certa di avere un infarto. “Sei qui..”

Mi sollevò dolcemente, conducendomi sotto la veranda. “Sapevo di farti felice ma non credevo a tal punto.” Passò una mano sul mio viso accaldato, sorridendo. “Ho.. chiesto a Rose di preparare i bagagli ed è schizzata via come un fulmine. E’ strana quella ragazza, ma sono felice che tu sia arrivata subito.” Avevo la testa sopraffatta da mille sensazioni e da informazioni da ponderare, la piegai contro la stoffa della sua giacca inalando forte; l’odore di lavanda mi evitò di avere un conato di vomito da vergogna post tradimento. “Amore sei sicura di stare bene?!” Annuii dovendo sforzarmi nel tenere le labbra sigillate.

“Dove stiamo andando?!” Sibilai dopo essermi calmata. Era una domanda retorica e non se ne accorse.

“Ho pensato al tempo trascorso durante la tua assenza. Non mentivo quando ti ho detto che ti rivoglio nella mia vita, Deesire. Maitre Gerald mi ha tenuto al corrente dei tuoi progressi, quando ho saputo che ti avrebbe promossa ho gioito come un bambino! Sono stato un pazzo a privarmi di te e credere di stare bene con tanta leggerezza. Perciò..” mi baciò i capelli inspirando forte. “Ho lasciato che la mia segretaria organizzasse la traversata per l’Africa. Il nostro viaggio di nozze, ad un anno esatto. Perdonami se è passato tanto tempo.”

Lui che mi stava chiedendo scusa.. scusa per aver adempiuto ai suoi doveri di uomo e di marito; no, non mi sentivo bene per niente. Vedevo annebbiato, tutto era confuso e infondo all’oscurità le lacrime di Fabien, le mie e gli occhi verde bottiglia speranzosi di mio marito. “Grazie.” Riuscii a biascicare, appigliandomi saldamente al briciolo di dignità che m’era rimasto.

“Grazie a te.” Mi baciò le labbra, ridendo sui conti da dover saldare che gli avevo rimasto in giro per Auvers; si scusò, che ci avrebbe messo il tempo necessario e sparì a bordo della bicicletta di sua nonna che avevo riesumato dalle ceneri. E pregai che fossero le sole ad esistere.

 

Il fantasma bianco pallido di Fabien si palesò sulla soglia del cancello; rimanemmo a fissarci, consapevoli.

“E’. Tornato.” Non era un domanda quanto un rassegnato, flebile, alito di respiro prima della morte; alzai le spalle, guardai lontano evitando di incrociare i suoi occhi vitrei. “Parlami. Ti prego.” Si avvicinò cautamente, era evidente che per quanto sofferente non avrebbe ceduto facilmente.

“Stiamo andando via. Non a Parigi, partiamo per l’Africa.” Cercai di articolare qualcosa, la testa pesante e il cuore in debito di emozioni. “Non so cosa dire.” Ammisi, prima di cercare nel cervello in panne altre parole che potessero giustificare il mio silenzio e i miei occhi sfuggenti.

“Non andare.” Protestò, alzandomi il mento. “Je te prei.”

Sentivo pungermi gli occhi, mi morsi il labbro; non dovevo piangere, non dovevo farlo perché se avessi ceduto non sarei più stata in grado di ammettere che me ne sarei andata, che era tutto finito, che non avevamo speranze e che i suoi sogni da ragazzino e da uomo sarebbero rimasti tali. E anche i miei.

Mi concentrai sulla paura, sulla tristezza e sul male che gli avevo visto passare negli occhi. Sul dolore che avrei causato ad Aurelien, a mia madre e mio padre; io potevo stare male, era un mio sacrosanto dovere soffrire dopotutto, ma non sopportavo le sue lacrime ne quelle di nessun’altro che amavo. Lo avrei dimenticato, lo avevo già perso una volta, sarei sopravvissuta.

“Sapevamo sarebbe successo. Prima o poi.” Mi alzai, lui si spostò disarmato da tanta freddezza; oh no, non guardarmi così.

“Dove stai andando?!”

“Il momento è arrivato.”

Balbettò ma dalle sue labbra non uscì un gemito, vidi solo la sua mano che si stringeva contro il mio polso e il suo corpo che mi intimava di camminare davanti al suo, in processione, sul retro della casa; mi lasciò solo dopo essere certo che non sarei scappata.

“Devi smetterla di comportarti così.” Protestai fra i denti. “Sono una donna sposata, Fabien!” La mia voce si fece stridula e insicura, “sono. La. Moglie. Di. Tuo. Cugino.”

Sorrise sarcastico, l’ombra del fantasma volatizzato e al suo posto la solita faccia da bronzo. “Lo eri anche i novi giorni che hai passato insieme a me. Non credo sia stato un problema.”

Lo schiaffeggiai, lo schiaffeggiai con quanta più forza avessi in corpo. “Tu non sai niente Moreau!” Urlai, “vattene! Non voglio vedere la tua stupida faccia un solo minuto di più!”

Vidi il terrore nelle sue pupille scure. “Ti prego, scusami.” Provò ad accarezzarmi la guancia, ma la scostai con un gesto secco della mano. “Scusami. E’ evidente che sono sconvolto.. abbiamo fatto l’amore, hai detto che mi ami. Perché questa freddezza, non capisco?”

“Davvero non capisci? Guardati attorno.. noi non abbiamo futuro.” Inspirai profondamente, “vuoi che ti dica che sto male? Che sento la terra franare ai miei piede se solo penso dovrò lasciarti? E’ così, ma non posso cambiare il destino. Sono. La. Moglie. Di. Aurelien.” Sentii mio malgrado gli occhi inondarsi di lacrime. “Forse in un'altra vita saremo stati perfetti, non lo so. O forse il tuo caratteraccio e il mio ci avrebbero divisi per sempre. Non so nemmeno questo. So che ho detto sì ad un uomo, ho accettato il suo anello ed ho promesso difronte a Dio che sarei stata sua moglie e che mi sarei presa cura di lui.” A questo punto le lacrime scesero senza che io me ne accorgessi, la voce era inflessibile, solo i miei occhi tradivano la disperazione del mio animo. “Questa è la mia vita Fabien, non posso e non voglio farti altro del male. Non lo sopporto.”

“E’ così che mi uccidi.” Asciugò con i polpastrelli le lacrime che rigavano il mio volto, guardandomi angosciato ed esasperato. “Non voglio che piangi per me.”

“Impossibile..” soffiai, ma quando mi accorsi della luce infondo ai suoi occhi mi pentii di averlo fatto. Rinvigorito dalle mie parole si parò con il viso pericolosamente vicino al mio. “Resta allora! Resta con me, affronteremo la cosa insieme!”

“Non.. posso.”

“Hai detto di amarmi.. penso tu possa invece. Mi hai preso a schiaffi e sono sicuro abbatteresti un uragano se ti si parasse davanti. ” Cercai di non ridere, il momento tragico stava assumendo delle pieghe comiche che non mi facevano credere che io Fabien fossimo del tutto normali, perciò fermai il flusso delle sue parole appoggiando una mano sulle sue labbra rosse.

“Ma non lo farai.” Asserì deluso, espirando fra le mie dita e con la stessa delusione, lasciò il mio viso e serrò le labbra in una smorfia dura. “Siamo nuovamente allo stesso punto. Io che ti faccio gli auguri e tu che scegli lui. Con la sola differenza che ti amo più che mai e vorrei tu restassi con me.” Calò la maschera sofferente e indossò nuovamente i panni del ragazzo strafottente e insopportabile, indietreggiando di qualche passo. “Pazienza.. sono abituato ad arrivare secondo. E’ il mio marchio di fabbrica.” Sorrise indulgente ed io provai una morsa di dolore ancora più forte. “Credevo mi amassi Deesire e che fossi la ragazza forte e determinata che ho visto quì. Ma sei solo un sogno, una fantasia. Non esisti.”

Era troppo per me. A quel punto ero la versione annegata di me stessa e le sue parole dure non fecero che spararmi il colpo di grazia; mi aggrappai ad una forza superiore che mi trascinasse fuori dal bozzolo Deesire-la-spaventata, ma soffocai sulle mie stesse intenzioni.

“Chiedimelo ancora.”

“Che cosa?!”

“Chiedimelo ancora.”

“Tu. Mi. Ami?!”

 

“Che sta succedendo qui?!” La voce di Aurelien arrivò ai miei orecchi come un avvertimento di panico e terrore; asciugai di fretta gli occhi come se fosse possibile cancellare il mio totale stato di decadimento. “Sta piangendo.” Guardò al cugino con occhi furenti, Fabien alzò le spalle.

“Non gradisce il mio umorismo.”

“Moreau togliti di torno.”

Inspirai profondamente appellandomi alla mia -fuggita di casa- intraprendenza e lamentandomi mi coprii un occhio con la mano. “Ho qualcosa nell’occhio, stava controllando.. e sai le sue battute facili..”

Mi si avvicinò premuroso, spostandomi con delicatezza la mano. “Fa vedere.”

Da dietro le sue spalle, Fabien stava tornando il fantasma che era. “Non c’è nulla.” Aurelien soffiò delicato sulle mie ciglia, sorridendomi amorevolmente; si girò e con lo sguardo poi duro si rivolse a Fabien, “odio vederla piangere. E odio il tuo umorismo. Cugino non fa per te.”

“Lo so.” Rassegnato, si incurvò nelle spalle; il sottile confine del significato della sua conoscenza era in realtà un mare agitato fra noi e lui.

“Vattene.” La voce imponente di Aurelien mi fece tremare.

Fabien annuì compito ma ci lanciò un ultima occhiata, soffermandosi a lungo nei miei occhi; era di nuovo angosciato. Angosciato e disperato. Sparì dietro l’angolo, lo immaginai attraversare il vialetto, poi la strada, aprire il cancello della sua villa, attraversare un altro viale, salire al piano superiore e chiudersi fra quelle lenzuola dove poche ore e giorni prima, noi ci stavamo amando.

 

Mi ritrovai sulla statale per Parigi troppo esausta per elaborare ciò che stava accadendo; avevo salutato in fretta e furia appena un quarto delle persone conosciute, ritrovandomi la macchina piena di bagagli e Rose e Maitre Gerald con le sue sporte piene di cibo sull’uscio del cancello, a salutarmi vigorosamente con la mano. Auvers si era trasformata improvvisamente in una prigione tanto stretta da farmi soffocare, intimamente pregai di essere lontano da lì il prima possibile; sfogai tutte le mie lacrime contro le mie mani e quel finestrino che mano-mano scolorava i bei paesaggi che avevo adorato, incurante degli sguardi carichi di apprensione di Aurelien, spaesato dalla mia reazione così potente. Quando aprii gli occhi, gonfi e pesanti, lo trovai a guardarmi, carico di amore e pena. Mi sentii inadatta e fuori posto.

“Siamo arrivati.” Accarezzò il groviglio informe sulla mia testa -un tempo i miei capelli- e sospirò ansioso; provai un moto di compassione, di vergogna e di stupore per il suo tatto, la sua paura, la mia, di riscoprirci diversi, innaturali, in quella grande casa con il portone alto, bianca come il mio viso stravolto. “M-madame Chedjou.” Ingoiò le sue stesse parole, facendomi strada per l’atrio e il ripostiglio dove aveva appeso la mia fusciacca e la sua giacca di lino; lo abbracciai da dietro, infondendogli sicurezza e amore. I miei sentimenti non erano cambiati; ero sopraffatta dall’uragano Fabien, dai suoi baci, dalla sua pelle e dai suoi maledetti occhi tristi.. ma avrei dimenticato, dovevo dimenticare! Il mio ruolo nel gioco delle nostre vite mi vedeva vicino e soprattutto moglie dell’uomo, che fra le mie braccia e in un ripostiglio angusto e buio, stava tremando al tocco leggero del mio abbraccio protettivo, ed io ero felice –nel senso non ancora pieno e vivo del termine, ma reattiva perlomeno- di essere tornata a casa.

 

*

NDA:

Giuro che ho pianto leggendo questo capitolo. Nel senso che leggevo e mi commuovevo.. e mi domandavo, ma come caxx fai a scrivere certe cose?! No, non mi sto auto-complimentando, mi sto dando della patetica, emo, sporcacciona scrittrice. :D

Mi auguro vi piaccia quello che scrivo anche se sono così.

Scherzi a parte, ho messo amore in questo capitolo, perché alla fine di tutto, mi sembrava giusto; nella mia mente e spero di essere riuscita a farlo capire anche scrivendolo, Fabien e Deesire si amano, di un amore carnale e a tempo residuo, ma pur sempre amore. Vi è piaciuto il capitolo? Spero di sì! Restate connesse!

Vorrei ringraziare chi mi segue, abituale e non; Ultimo Puffo, The Rocker, _Nihil_ . Grazie di cuore!

Grazie a chi aggiunge la storia in preferiti/seguiti/ricordare. Vi aspetto fra i commenti.

E anche se non centra nulla qui, grazie a chi visita le mie storie in generale, vecchie e nuove; mi emoziona sempre constatare l’afflusso di lettori nelle mie fanfic, a volte resto secca quando si tratta di numeri a quattro cifre. Vi adoro.

Un abbraccio,

Lunadreamy.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 11.

 

La costa d’Africa, ci salutò il dieci settembre del millenovecentotrentanove. C’erano voluti quindici giorni di navigazione, almeno tutta la mia buona volontà per non rimpiangere la cara terra ferma e un infinita pazienza nel sopportare le smanie da nuovo mondo di Clorine; ma alla fine arrivammo, sani e salvi e forse in preda a smanie di nuovo mondo un po’ anche noi.

Aurelien mi aveva deliberatamente rigirato, con la storia del viaggio di nozze; eravamo partiti da Marsiglia in coppia e poco più di quindici giorni dopo il nostro arrivo, eravamo stati raggiunti da Clorine e papà, Ines e Martin. Il suo spirito conviviale aveva mosso il desiderio di condividere anche con loro le meraviglie messe a disposizione da Dio per quel paese. Ovviamente era stato facile convincermi, non sapevo dire di no ai suoi occhi imploranti e alla sua vivacità così travolgente; era un nuovo Aurelien, non lo avevo mai visto così leggero, entusiasta, poco inquadrato.. avevo i brividi di freddo nel leggere nel suo sguardo; quanto gli ero mancata, quanto si rendesse conto che infondo ai miei pianti si nascondeva qualcosa di irrisolto, quanto poteva centrarci la sua mancanza nella battaglia del quotidiano, quella dell’assenza di figli.

Ovviamente solo io ero a conoscenza dei miei tormenti; e non c’era stato giorno in cui non avevo pensato a Fabien. Fortunatamente i continui mal di mare alternati alla bellezza incontrastata del viaggio via crociera, l’arrivo in Africa e le miriadi di cose da fare che si moltiplicavano giorno dopo giorno, mi distraevano dall’ossessione di quegli occhi verde-azzurro tristi; non avevo più sue notizie, dopo Auvers tutto era tornato esattamente come era e vigliaccamente marcivo in questo stato di inconsapevolezza, mancando di coraggio. Il coraggio di indagare, chiedere, riaprire un vaso di pandora carico di sentimenti.. e guai, privazioni, dolore. Fabien era lontano ed aveva ragione; eravamo solo un sogno. Il nulla.

Alloggiavamo in una tipica casa da steppa a Johannesburg, in Sud Africa; alcuni amici di Ines e Martin, persone con la quale Aurelien era implicato in faccende aziendali, ci avevano messo a disposizione un cottage dalla struttura bassa e sviluppata su un unico piano rettangolare, con un ampio porticato a colonne dove mia madre e Ines sorseggiavano i loro aperitivi o prendevano il the con le vicine, perfette dame quali erano intorno al tavolo di vimini, mentre io, me ne stavo comodamente seduta nella veranda più interna a godermi le mie letture preferite, affacciata sul giardino piuttosto scarno e un agglomerato di piante grasse dato le temperature non proprio ottimali per le amate rose. Il tempo scorreva in fretta; c’era la costa di South beach, a poca distanza per ore ed ore di passeggiate sul lungomare affacciato sull’Oceano Indiano, a dispetto di tutto avevo scovato un piano di visite all’orto botanico più rigoglioso al mondo -dove avevo preso residenza- riscoprendo la passione da giardino avuta ad Auvers, tutta una miriade di etnie da conoscere e ovviamente.. i safari tanto amati dai miei suoceri.

“Sono arrivati i permessi!” Martin ci richiamò all’ordine, sventolando sotto al naso alcune carte che ci permettevano di poter viaggiare per i deserti e le riserve naturali del paese, “fate le valigie, si parte dopodomani!”

“Di nuovo?!” Bofonchiò mia madre, altra vittima della vivacità di Aurelien che poco amava l’idea di passeggiare fra leoni e zebre, ma chiaramente innamorata del genero a tal punto da non aver saputo dire no. “Non ho tutta questa fretta di farmi sbranare da quelle bestiacce!”

Martin sorrise, prendendola sotto braccio, “Clorine.. credo che i soli spaventati a morte siano loro!” E rise di gusto, “che lo sappiano!” tuonò lei, assecondandolo, contagiata dal suono della sua risata.

“E’ tutto perfetto..” Aurelien posò una ciotola di datteri sul tavolo che avevo difronte, accarezzandomi la spalla; potevo percepire la sua felicità, vibrava nell’aria. “Vorrei non andare via.”

“Abbiamo ancora un mese davanti a noi.” Gli accarezzai la mano, serrandola poi nella mia, “e siamo liberi, potremmo vivere qui se lo volessimo.” Non mi sembrava detestabile l’idea di allontanarmi dalla dolce amara Paris; non mi era mai successo di pensar questo prima di allora, sebbene ardessi di desiderio nel viaggiare per il mondo, ma erano successe talmente tante cose che mettere un oceano e almeno due mari, fra me e i miei fantasmi, mi sembrava il solo modo per rimettere tutto in prospettiva.

“Lo sai che il sottosuolo sud africano è ricco di diamanti?!” Mi guardò con un leggero fanatismo nello sguardo, “potrei essere il nuovo Cheyenne..” lo guardai incredula che ricordasse la mia storiella strappalacrime del nostro primo appuntamento. “Potrei fare di te una signora molto.. brillante!” Mi trovai a sorridere della sua buffa espressione incoraggiandolo con lo sguardo, “mi ci vedo bene! Borsalino, pistola e frusta sarebbero i tratti distintivi della mia persona. Ah e ovviamente avrei una di quelle giacche di cuoio e i pantaloni leggeri color kaki, oltre oceano ribattezzeranno le mie gesta “Le avventure di Aurelien, il cacciatore di tesori.”. Che ne pensi? Dovresti scriverci su.. e..” si rabbuiò sfumando il fiume in piena delle sue parole. “Deesire, mi stai guardando come se fossi un pazzo invasato.”

Mi alzai, allacciandogli le braccia al collo. “Tu sei brillante!” E quasi senza accorgermene scoppiai a ridere come non facevo ormai da molto tempo; era una bella sensazione, liberatoria, da far venire le lacrime agli occhi dalla felicità.. per la prima volta dopo Auvers mi sentii serena, svuotata ed esausta.. ma più come una tela grezza, da dipingere o creare da capo, nel mio caso. Aurelien mi abbracciò forte, sollevato, come se non aspettasse che questo momento. “Deesire..” sospirò, “credevo non saresti più tornata.”

“Sono di nuovo qui.” Ricambiai l’abbraccio, sentendo accendersi il me un nuovo fulgore.

 

Il Botswana si rivelò quanto più duro pensassimo; eravamo a bordo delle nostre jeep ormai da giorni, sostavamo in alloggi di fortuna ed il nostro umore calò all’ennesimo attacco di dissenteria. Se non fosse stato per Aurelien e il suo spirito da avventuriero credo che qualcuno di noi si sarebbe gettato seriamente fra le fauci di qualche coccodrillo nel fiume Limpopo, o fatto lasciare fra le dune del deserto del Kalahari; il nostro gruppo era ben nutrito, francesi, inglesi e ricchissimi germani, a Gaborone ci avevano raggiunto anche Tau e Rafiki le nostre guide locali, tutti racconti e umorismo africano, era un sollievo averli con noi; oltre che competenti, era davvero un momento magico, la sera stretti intorno al fuoco, ad ascoltare le loro leggende sul posto. La notte aveva sempre un che di speciale, difatti.. le temperature scendevano a picco portando una frescura che non ti saresti mai aspettato e il silenzio cantava di un rumore sordo, di sabbia trascinata dal vento e dei ruggiti dei signori della savana; tutto ciò era incantevole e spaventoso allo stesso tempo.

Catherine Owen, altra componente del gruppo, si prendeva cura di noi e con lei l’equipe specializzata di medici britannici –il paese era allora ancora una colonia inglese- che avevano sfruttato il passaggio aggregandosi alla nostra comitiva; insieme avremmo risalito le paludi di Makgadikgadi e ci saremmo spostati alla scoperta dello Zambia, dove sarebbe terminata la nostra avventura. Ero elettrizzata, non stavo più nella pelle anche se i miei diciannove anni non mi avevano salvata da nessun malumore dovuto ad acqua scarseggiante, sole in picchiata e le tipiche allucinazioni da deserto.

“La tua caparbietà mi spaventa..” Aurelien mi guardava ansioso avvicinarmi alle steppe lungo gli argini delle paludi; una coppia di fenicotteri rosa se ne stavano pacifici ad assaporare i raggi del sole e non avevo nessuna intenzione di godermelo sulla jeep, oltre un vetro. “.. NON COSI’ VICINO! Ti prego!” Rafiki lo ammonì con lo sguardo, per poi guardarlo sorridente, con la curva del sorriso da un orecchio all’altro.

“Francese innamorato!”

“Francese testardo!” Lo rimbeccai io, “a Parigi mi permette di sedere accanto alle pettegole e non dice nulla, siamo dall’altra parte del mondo, a chilometri da casa, con questa coppia di fenicotteri stupenda e ha paura!” Il gruppo che mi capì rise di gusto, Rafiki afferrò qualche parola, ma il sorriso per lui era una carta sempre valida da giocare e colpì affettuosamente la spalla di Aurelien due tre volte. “Francese fortunato.”

“Francese innamorato.” E mi raggiunse, stringendo la mia mano alla sua. “Sono bellissimi.”

“Sì.” E restammo a guardarli finchè Tau non ci fischiò di rientrare in coperta.

 

L’ultima notte in Botswana la passammo accampati presso una tribù discendente dei boscimani, i Bantu; fu entusiasmante il loro modo candido di accoglierci, offrirci il loro cibo, tentare un approccio che andasse al di là delle nostre evidenti differenze culturali e sociali, sebbene fossero ormai abituati alla presenza di noialtri e quindi preparati.

Mia madre li guardava con cauta diffidenza. “E’ impressionante come sembrino disinvolti con niente addosso.” Sospirò, “mi piacerebbe sapere come fanno.”

La dottoressa Owen le sorrise. “Oh madame Bonnet e non ha visto le altre tribù! I Bantu sono un popolo pudico a differenza, i più vestiti.. diciamo.. per la loro società.”

Sorrisi guardando la Owen. “Non tenti di convincerla dottoressa, mia madre è una couturière esperta, pizzo e organza sono i suoi migliori amici.” Clorine si strinse nelle spalle, quando una boscimane saltellando e gioendo come una bambina, tirò fuori da una sacca che teneva stretta in vita, un foulard di pizzo.

Lacy! Lacy!”

Mia madre annuì sorridendole entusiasta, “Oui, den-telle!” E si fece prendere sotto braccio dalla donna, che le mostrò le altre meraviglie racchiuse nella sacca. Guardai papà a bocca aperta, prima di essere catturata da una piccola Bantu e dal suo calderone fumante.

Na’weh.” Si toccò il viso indicandosi, per poi toccare il mio e attendendo risposta.

Deesire.” Toccai anche io il mio viso, “francese.. difficile, come il tuo!”

“Bello. Molto bello.” Parlò un francese quasi impeccabile e mi sorrise, passandomi il grande cucchiaio di legno immerso nel porridge d’avena; la contaminazione inglese era ovunque. In un altro calderone, dalla quale capeggiava una donna alta e flessuosa, fumava il Potije che Na’weh mi spiegò essere una specie di stufato di carni miste, spesso accompagnato da verdure. Ero tornata nel mio habitat congeniale, ed ovviamente osai dire la mia.. assicurando di non voler avvelenare nessuno; in alcune ciotole in cui le boscimani conservavano le spezie, pizzicai un po’ di questo e di quello ravvivando il blando porridge con qualcosa con più carattere. Il risultato fu abbastanza apprezzato, ma come al mio solito mi ero trovata a rimettere fra le latrine.

Uscita dai cespugli trovai la piccola boscimane con un decotto di erbe, alzai le spalle negando con il capo. “Basta esperimenti per oggi.”

Mi abbracciò e rimasi di sasso. “Mtoto.” Esalò in swahili, la lingua dei Bantu.

Mto-to?! Non ti capisco Na’weh.”

“Bambino.”

Arrossii. “Oh no, nessun bambino. Caldo, cibo..”

Quella sorrise, toccandomi la pancia. “Mtoto.” E sparì fra i cespugli, in silenzio, leggiadra.

 

Il mattino seguente, prima dell’alba, ci spostammo verso il confine dello Zambia, sulle orme di David Livingstone, antico esploratore e medico della Bretagna di metà ottocento che fu il primo europeo a scoprire le cascate Victoria Falls, fantastico gioco di basamenti e cateratte del fiume Zambesi. Si narra che la famosa “depressione da viaggio di ritorno” meglio conosciuto come Mal d’Africa, sia stata da lui coniata, amante quale era del continente Africano a tal punto da spingersi in missioni sempre più frequenti, quando era ancora in vita.

“Lo scopo del suo viaggio era di aprire nuove vie commerciali, e di accumulare informazioni utili sul continente africano per debellare malattie e combattere la schiavitù dei nostri popoli.” Tau ci parlò della sua vita, dei suoi intenti con così tanta enfasi, da farci sentire per un momento, un po’ Livingstone tutti noi; e non aveva torto, non avevo mai provato così tanta suggestione per un luogo, ostile e difficile solo all’apparenza. In dieci giorni e poco più di marcia avevamo visto almeno dieci tramonti diversi, dieci paesaggi diversi, dieci albe diverse.. e poi tutti quegli animali affascinanti, le affascinanti popolazioni che vi abitavano; impossibile non rimanerne colpiti. “Purtroppo morì in questa ricerca, ma il suo cuore è sepolto nel luogo in cui spirò, il lago Bangweulu, che significa il luogo dove l’acqua e il cielo si incontrano.”

Proprio a Livingstone ci fermammo quale prima tappa; la cittadina era un piccolo centro agricolo molto quiete e tranquillo, a pochi chilometri dalle famose cascate; dalle finestre dei nostri alloggi spartani, era ben visibile lo sbuffo d’acqua che dal grande salto risaliva al cielo sotto forma di goccioline minuscole; Aurelien ed io passavamo ore ed ore in finestra, ansiosi di poterle visitare. E non fummo delusi, ben presto armati di parka e pantaloncini di tela, percorremmo il ponte ferroviario, il primo di molti pochi esistenti sul fiume, per ammirare la caduta del fiume nello strapiombo.

“Lo chiamano Mosi oa tunya. Il fiume che tuona.” Tau si coprì scherzosamente gli orecchi con la mano; effettivamente quello che gorgogliava chiassoso sotto ai nostri piedi, era davvero un fiume tuonante.

“Viene quasi voglia di fare un salto giù!” Gridai alla volta di Aurelien, ben stretto alla mia schiena, ad immobilizzare ogni mia pazzia; mi guardò stralunato, indicando un punto difronte a noi.

“E’ così placido.. non ti aspetteresti mai tutto questo clamore.” Mi sorrise nell’orecchio e sorrisi insieme a lui; il fiume aveva due facce ben distinte; a monte era un lento fluire, fra isolotti di basalto riaffiorati dal fondo e sempre più frequenti mano a mano che si avvicinava il salto, per poi cambiare completamente aspetto dopo la caduta, rumoroso e tempestoso a valle. “Peccato non possa dire lo stesso di lei madame Chedjou!” Mi baciò sul collo divertito.

“E’ possibile farsi il bagno?!” Sentii i pollici di Aurelien affondare nella mia schiena, mentre con aria di sfida mi rivolgevo ad un Tau ora sardonico con l’espressione alla.. “non avresti mai il coraggio.”. Insistei. “Non sarà poi tanto pericoloso, no?!”

“C’è un sentiero che permette di bagnarsi a monte, dove il fiume è calmo.”

“Andiamo!” Mi divincolai dalla presa di Aurelien, ma non dalle sue lagne.

“Ma perché non sto mai zitto?!”

“Perché vuoi farlo anche tu.. solo che non hai il coraggio!” Lo canzonai e per tutta risposta mi raggiunse e si mise a bofonchiare al mio fianco per tutto il tragitto che Tau ci mostrò, oltre la ridondante vegetazione; il resto del gruppo ci seguì in fila indiana, in assoluto silenzio. I meno coraggiosi restarono sul ponte; fra di noi solo aria, la gola stretta a valle e il grande salto.

“Ci sono animali pericolosi lì dentro?!” Mia madre dalla sponda mi guardava con assoluta disapprovazione e angoscia, costringendo mio padre a tenerla in braccio tanta era la fifa. “Buon Dio devo essermi dimenticata di metterle il sale in quella zucca!”

“Non qui.” Rafiki capì il gioco e ci mise il carico, tuffandosi insieme a Tau ed alcuni viaggiatori.

Mio padre le guardò amorevolmente. “Tu eri esattamente come lei. Ti sei dimenticata che per poco non ci cacciarono dal Marocco durante il nostro viaggio di nozze?!” Vidi gli occhi nocciola di mia madre lampeggiare di malizia e mi ordinai di guardare altrove, imbarazzata.

“Pronta?!” Aurelien allacciò la sua mano alla mia.

“Pronta!” Ci tuffammo in acqua; era fresca, molto fresca, e la sensazione affacciandosi al bordo della cascata era di potenza assoluta, dominio, prevalenza sugli elementi. Il mio liege si liberò dei pensieri e come al suo solito, dopo un esperienza forte, tempestò di domande e curiosità le due guide.. io ascoltai rapita e divertita dalla magia dell’acqua e dalla magia di Aurelien.

 

I leoni ci attesero come sentinelle, fra l’erba e le colline dolci nel parco nazionale di Kafue e insieme a loro una fitta vegetazione e altrettante specie di animali che vivevano solo nella nostra immaginazione di bambini. Se ne stavano stramazzati sul terreno a godersi la frescura sotto baobab millenari e intorno a loro la vita scorreva tranquilla in una distesa chilometrica erbosa e di foreste, ad alternarsi. Un grande fiume vi passava al centro, il Kafue e con nostro sommo piacere, rubammo con gli occhi lo spettacolo di una famiglia di ippopotami durate l’ora del bagnetto. Elefanti, zebre, le bellissime antilopi, ovunque ci girassimo eravamo circondati dalla mano di Dio e dal suo magnifico lavoro. Sostanzialmente non ci era permesso scendere, non ad un raggio ridotto da gruppi di felini, potevamo scattare qualche istantanea ma vigeva assoluto il silenzio, si doveva fiatare poco e farlo al minimo decibel. La nostra jeep era tutto un sussulto, mio padre, Ines e Martin, Aurelien.. e mia madre che per l’occasione si era vestita da gran signora esploratrice, con un’ampia gonna color fango fino ai piedi e la camicia bianca infilata dentro.

“Perché mi guardi così?! Se vengo azzannata da uno di quei bestioni, voglio farlo nelle mie vesti migliori.”

Scossi il capo incredula. “Non ti azzanneranno.”

“Non puoi saperlo!”

“Non mangiano schifezze..” mirai alla sua gonna di renna tanto spessa da farmi venire la febbre per il caldo solo a guardarla e a tutti quei bracciali, anelli.. avrebbe avuto un indigestione la povera bestia. “Mireranno alle mie gambe scoperte e tu sarai salva.” La vidi trasalire sul sedile, Aurelien mi colpì affettuosamente la gamba. “La stai spaventando. Ed anche me a dire il vero.. smettila e goditi lo spettacolo!”

Ciò che successe dopo non so descriverlo a pieno, perché vidi un movimento fulminio con la coda dell’occhio, alla mia sinistra, oltre il vetro, un guizzo dorato e impazzito correre verso di noi e il petto di Aurelien venirmi addosso al viso; mio marito mi aveva tirata giù, verso di lui, cercando di nascondermi, ma l’improvvisa paura mi aveva fatta voltare di nuovo a sinistra e la scena mi fu chiara e lampante. Un’antilope stava cercando di salvarsi la pelle ma -quando si dice non è giornata- la nostra jeep stava esattamente al centro dell’unico passaggio libero, fra lei e la sua salvezza. La vidi schiantarsi contro al vetro dove stavo di posto, girare il capo incredula e accasciarsi sulle zampe; tutti urlammo, Tau si alzò meccanicamente imbracciando il fucile e gesticolando a Rafiki sull’altra jeep, del tutto all’oscuro di ciò che stava accadendo sul nostro lato cieco. Approfittai della presa lenta di Aurelien sulle mia braccia per alzarmi di scatto e constatare cosa fosse successo all’animale, quando sullo stesso rettilineo, esattamente difronte a me e oltre il vetro, apparve un leone affamato e accecato d’ira, in tutta la sua magnifica presenza di muscoli e nervi; mi accorsi solo allora che il vetro era crepato e che la ragnatela sottile che lo teneva ancora assieme gridasse a gran voce “sono fragile!”. Deglutii, immobile; Aurelien si alzò piano da sotto, mugugnò vedendo l’animale e con la stessa lentezza passò le mani sui miei fianchi, attento a non fare movimenti bruschi tirandomi verso di lui, sempre più lontano dal vetro.

“Le tue meravigliose gambe resteranno dove sono.” Soffiò.

L’animale ruggì, come se contrastasse quanto detto; sorrisi isterica, sentii Tau caricare il colpo in canna.

“No..” protestai, lo avrebbero ucciso, quel bellissimo esemplare di leone adulto, con la criniera rossa sfumata e copiosa.

“Non guardare..” il leone aveva preso a camminare verso di noi, guardingo, gli occhi fissi nei miei; c’era l’antilope malconcia e dolorante in terra e lui guardava me, con i suoi assassini occhi gialli. Rabbrividii, ero stata sciocca, avevo scherzato con la morte e quella era la vendetta suprema del destino.. ma la mia vita non poteva finire lì, non ad un bivio, non dall’altra parte del mondo, non per bocca di un leone! “Sono con te, buona piccola.” Aurelien parlava dolce al mio orecchio perché si era accorto che tremavo come una foglia e dagli scossoni del mio corpo, che sarei scoppiata a piangere quanto prima; mi accarezzava la schiena, poi tornava ai fianchi, con sicurezza, mai indeciso, spaventato. Annuii. L’animale si fermò, scrollò il capo quasi annoiato, guardò l’antilope, poi la jeep; Tau non riuscì a schioccare il colpo, il fucile era inceppato, imprecò ordinandoci di stare zitti, quando tornai con il viso sul leone lo vidi acquattarsi verso la povera bestiola ferita e sospirai.. Aurelien con me, come un tornado. “Deesire?! Deesire?!”

Non udii altro, rigurgitai sul pavimento e svenni sopraffatta dalle emozioni.

 

“Chi abbiamo qui?!” La voce soave di Catherine Owen mi condusse oltre il tunnel nero in cui ero finita. “Deesire, tesoro mi senti?!” Mi sforzai di aprire gli occhi, gemendo. “E’ con noi.” Parlò con qualcuno che non riuscivo a vedere e mi sorrise dolce.

“D-dove s-sono?!” Mi schiarii la voce, “acqua per favore.”

Mi passò un bicchiere colmo e con gentilezza mi spiegò dove fossi; eravamo tornati a Livingstone, dopo i primi soccorsi ero rimasta priva di sensi per tutto il viaggio, quello in cui ci trovavamo era l’ambulatorio della città e a giudicare dall’odore forte di disinfettante, constatai che aveva ragione. Girai il capo verso la barella alla mia destra, il corpo inerme di mia madre vi giaceva sopra. “E’ ferita?!” Chiesi spaventata.

“Oh no è in gran forma, sta solo dormendo. Era molto spaventata.” Mi guardò cambiando espressione, adottando un tono più professionale, “veniamo a noi, Deesire. E’ la terza volta che ci troviamo in tale circostanza.”

Arossii, se voleva insinuare che fossi una cagionevole ragazza di città aveva ragione, non per questo doveva farmelo notare con tanta durezza. “Pensavo d’essere più forte.” Bofonchiai, sistemando la mia seduta in modo da esserle ad altezza occhi.

“Quando hai avuto il tuo ultimo ciclo?!” La sua dolcezza era sparita del tutto; fui presa dal panico a quella domanda, stupendomi della consapevolezza di dovermi sforzare, per ricordare quando c’era stato. Aurelien era stato l’ultimo ad avermelo chiesto.. ma era successo almeno un mese e mezzo prima. “Il fatto che non lo ricordi conferma la mia tesi, Deesire.” Prese un flaconcino e me lo porse. “Mi serve un campione delle tue urine.”

“Quale tesi?!”

“Sono sicura che tu aspetti un bambino, cara ragazza!”

Spalancai la bocca e restai di sasso. Mia madre rinsavì come se nulla fosse, urlando di gioia; saltò giù, abbracciandomi forte. La guardai di traverso, ma fui travolta dalla sua buffa commozione e dal suo buffo tentativo di farmi respirare.

Ci provai a respirare, ma ingoiare aria era doloroso come se ingoiassi vetro; dal nulla erano sbucati gli occhi verde-azzurro di Fabien, che mi scrutavano pensierosi, angosciati.. un brivido mi percosse la schiena.

“QUANDO?!” Mi trovai a strillare, costringendo mia madre ad arretrare per lo spavento e fissarmi, come se avessi qualche rotella fuori posto; ed in realtà l’avevo, l’avevo sempre avuta, perché adesso quello che sembrava un miracolo a me pareva una catastrofe di immane portata. La dottoressa sorrise distaccata, “il tuo campione e saprò dirti tutto con precisione. Credevo lo desideraste. Mi sono fatta un idea sbagliata?”

Avvampai, lei afferrò il flaconcino e me lo spinse contro, ordinandomi di sbrigare il tutto in fretta; quando tornai, scribacchiò alcune cose incomprensibili sulla cartella clinica. “Non.. ci speravo più.” Lo restituii, accasciandomi esausta sulla barella, la Owen guardò mia madre con aria complice e sparì.

 

“Mi spieghi perché ti stai comportando così?!” Attendevo un suo intervento, come pioggia dopo i tuoni; probabilmente si aspettava che mi mettessi a fare capriole, giravolte, che dai miei orecchi uscisse fumo e cuori dagli occhi, ma limitai le mie azioni girandomi dalla parte opposta, dandole le spalle. Tutto questo evidentemente non le bastava. “Per un attimo mi hai fatto credere che..” decisamente non le bastava, ed era anche peggio di quanto pensassi! Mi strinsi forte ai cuscini, pregando che il sonno la raggiungesse seduta stante; non fui accontentata, caparbia e motivata dal mio silenzio, fece il giro dal suo letto al mio e si parò dinnanzi ai miei occhi. “Perché non vorrai farmi credere che..”

Annuii distrattamente, più un tic di riflesso che un omissione. “Avanti, dillo.”

Fabien Moreau.” Recitò, come fosse la chiave a tutti i nostri problemi.

“Sì.” Fu come liberarmi di un peso e mi stupii di quanto fu facile ammetterlo.

“Ma come è possibile?!”

“Sicura che devo spiegartelo?!” Risi isterica, sapevo d’esserlo!

“Oh Deesire..” Se piange sono nei guai pensai.. e invece la mia altera, mondana, brillante mamma, mi avvicinò stringendomi al petto; il suo calore mi rilassò, un gesto così naturale, perso nel tempo. “Fabien Moreau. Fabien Moreau. Fabien Moreau.”

“Mamma.. smettila.”

“Sei proprio sicura?!” Alzai il viso, i nostri sguardi si trovarono complici.

“Abbiamo fatto l’amore. Non sono sicura ma.. lo sento nella pancia.”

Dallo stupore, il fastidio, la remissione e qualcosa di molto simile all’amore e la complicità fra donne, passò negli occhi ardenti di Clorine. “Tua nonna prima di sposare nonno Fontaine, ebbe una scappatella con un pittore di Montmartre.” Si accoccolò al mio fianco, io sempre stretta al suo seno, inspirò e sentii la magia di quando ero bambina e si faceva sera e il momento delle fiabe tanto atteso. “Era bello, si chiamava Jean; restarono chiusi in casa una settimana, prima che sua madre andò a riprendersela per i capelli. Nove mesi dopo, nacqui io; una bimba minuta con tanti capelli mossi e scuri.” C’era una lieve inflessione di tristezza nella sua voce, corsi velocemente al ricordo del nonno, alla sua zazzera color carbone, un tempo scura come il caffè, il temperamento forte e puntiglioso nel corpo minuto e sorrisi.

“Tu sei decisamente una Fontaine, mamma.”

“Lo penso anche io.. ma il dubbio è un tarlo che mi porto dietro da anni ormai.” La guardai perplessa, mi accarezzò la guancia, sorridendo. “La tua bizzarra nonna mi mostrò una sua foto, il giorno del mio diciottesimo compleanno, raccontandomi ciò che era successo. Da allora penso spesso a lui.”

“Che fine ha fatto?!”

“Oh, questo proprio non lo so. Conrad Fontaine è stato un padre meraviglioso, mi ha cresciuta e mi ha dato tutto l’amore di cui avevo bisogno.. se non avessi saputo nulla dell’altro, non avrei mai nutrito dubbi in merito. Il padre è chi ti cresce, Deesire.”

Annuii, non era forse così? “Comprendi perché non volevo ti ronzasse intorno?!” Bello e pittore, sciocche coincidenze, il motivo era più profondo; non voleva che scontassi quello che scontò la nonna, amando clandestinamente un altro uomo e vivere una vita con l’eterno dubbio, di quale sangue scorresse nelle vene della figlia. Bel dilemma, ma io c’ero dentro con tutte le scarpe e tornare indietro era impossibile nonché improbabile.

“Nel mio caso sarà un erede Chedjou a tutti gli effetti ..” Clorine mi guardò accigliata, redarguendo con il capo la mia avventata ironia. “Adesso che si fa?!” La voce mi si strozzò in gola.

“Vuoi veramente questo bambino?!”

“Con tutta me stessa.”

I suoi occhi si addolcirono. “Io sono con te, qualsiasi decisione prenderai. E tuo padre ti ama incondizionatamente, lo sai. Se hai deciso di lasciare Aurelien..”

Sgranai gli occhi. “Mamma.. io non lascerò Aurelien.”

“No?!” Ribattè perplessa.

“Non.. lo priverei mai di suo figlio, se lo fosse. Non rovinerei mai la carriera di papà, la tua vita, quella di Fabien, se il figlio non fosse il suo.” Mi resi conto di quanto le mie scelte, tutte, non avevano nulla a che fare con me; avevo seguito fin dall’inizio le decisioni dei miei genitori, ed ero stata sempre accondiscendente, grata, perché mi amavano, ed avevano scelto il meglio che la vita potesse offrirmi, ma d’ora in poi sarebbe toccato a me dirigere i fili del teatrino, un piccolo essere mi stava crescendo dentro, ed ero responsabile del suo bene e della sua vita, sopra ogni logica di felicità, perché lo amavo, lo amavo già tantissimo. “Le mie prerogative, non sono più importanti, dinnanzi a lui.”

Clorine sospirò. “Credevo di aver tirato su una figlia viziata e indolente, ma davanti a me ho una donna saggia e coraggiosa.”

“Devo esserlo.”

“Noi saremo al tuo fianco.”

“Lo so.”

Ci abbracciammo e mai nella vita sentii mia madre vicina come in quel momento; ero una donna aveva ragione lei, cresciuta nell’esatto istante in cui la dottoressa Owen mi confermò i suoi sospetti. “Dovrai stare a riposo Deesire, dalle nausee frequenti il tempo stimato della tua gravidanza è..” alzai una mano, scuotendo il capo.

“Lo desidero con tutte le mie forze dottoressa, arriverà quando è pronto!”

“Pronto?! Sai già che sarà maschio?”

Sorrisi al ricordo della piccola boscimane. “Una Bantu mi ha predetto questo evento.” E mi abbracciai forte la pancia, con un sorriso ridicolo; mia madre e la Owen si guardarono perplesse, “vado a chiamare il futuro papà. Sono sicura sarà impaziente di sapere come stai.” Clorine mi fece l’occhiolino, ed uscì. Pochi istanti dopo, Aurelien spalancò la porta con una faccia da babbeo innamorato; alzai gli occhi al cielo, tutto era tornato come era, il quarto d’ora di chiacchiere e confidenze.. finito nei cassetti di ricordi di mia madre.

“Complimenti signor Chedjou.” La Owen gli strinse la mano e sistemò la cartelletta ai piedi del letto. “Qui ci sono una serie di analisi per te Deesire, ti terrei un po’ in osservazione prima di lasciarti andare.”

“Sta male?!” La voce rotta dell’uomo che mi sedeva accanto, mi agitò.

“Oh no, assolutamente. Precauzione, signor Chjedjou. Sa.. “

Cercai di leggere i pensieri della dottoressa e mi intromisi nel discorso. “Aurelien dopo un anno di tentativi.. un po’ di premura non guasta.” La mia sicurezza vacillò, dietro una frase che mi sorpresi di aver detto sul serio; mi morsi la lingua, pregando la me stessa interiore, di restare muta nei prossimi nove mesi.

“Un po’ di premura, certo.”

E si lasciò andare, come un bambino, camminando avanti e indietro, baciandomi, sorridendomi, incapace di contenere la gioia; avevo il cuore colmo di amore nel guardarlo, il mio liege.. e mi riscoprii a pregare, pregare perché la mia pancia si sbagliasse, pregare perché dal cielo mi fosse stato mandato il segno concreto delle giuste scelte, pregare arditamente.. che quel figlio fosse il suo.

“Dobbiamo rientrare immediatamente a Parigi.”

Mi adombrai, percorsa da fremiti. “Oh no.. questo è fuori discussione. Non intendo fare di nostro figlio un bagaglio da spedire per il mondo.”

Mi guardò divertito e spaventato allo stesso tempo. “Cosa intendi fare allora?!”

“Noi.. resteremo qui.”

“Qui?!”

“Un comodo letto e una casa accogliente mi sembrano più di ideali di questo posto.. ma sì, vivremo in Africa.” Asserii compita, con ponderazione, anche se le parole uscirono come un flusso non calcolato. “Almeno per il tempo necessario a futuri spostamenti. Sono squassata da nausee che tu nemmeno immagini amore perciò.. ho pensato a tutto.” Mi toccai velocemente la tempia, “Cedric sarà il tuo sostituto, o chiunque tu voglia ci sia al suo posto.. mentre da qui potrai seguire le aziende via corrispondenza. Nessuna azienda è mai fallita per questo, no?!” Annuì poco convinto, ma proseguii senza dargli il tempo di riflettere, “nel tempo libero potrai dare la caccia ai diamanti o arrampicarti sui baobab se lo preferisci.. ti prenderai cura della tua mogliettina lamentosa e sarai felice! Che ne dici? Non ammetto dinieghi, monsieur Chedjou.”

“Ho un’altra scelta?!”

“Ti sono sembrata troppo irruente?!”

“Giusto un po’, madame Chedjou.” Mi baciò, portando istintivamente la sua grande mano sulla mia pancia, “sarà un piacere prendermi cura della mia lamentosa moglie e farò tutto quello che mi chiederai, come sempre. A parte discutere i vari punti..”

“I vari punti non si toccano Aurelien. Noi tre. restiamo qui.”

Sarà stato il noi tre, la mia autorità, il suo cuore addolcito da quando aveva saputo del bambino.. ma si azzittì e non replicò più nessuno dei punti; quella notte, con il rumore lontano delle cascate, Aurelien mi fece sua in un modo che toccò anche le fibre più profonde della mia anima .. e infondo al cuore le mie preghiere sussultarono ancor più speranzose.

 

La notizia si sparse più in fretta del previsto in quel di Parigi e il motivo lasciò perplesse ma soddisfatte, i gazzettini ufficiali di città, Ines e Clorine; mio padre e Martin erano ripartiti appena sette giorni dopo la scoperta -le due donne sarebbero rimaste con noi finchè il mio bambino fosse stato ritenuto dalla sottoscritta abbastanza forte per la rimpatriata- e non avevano perso tempo nel far sapere che casa Chedjou avrebbe avuto presto il suo erede. Non ero contenta di questo e la riservatezza centrava ben poco -come stupirsi, dopo aver passato una vita accanto a Clorine e le sue storie- volevo tenere il mio segreto al sicuro, ero diventata protettiva e già mamma chioccia in qualche modo.. e sì, avevo una paura da togliere il fiato, dei miei fantasmi d’Auvers.

“Questa è di mio zio.” Aurelien amava sedermi accanto in veranda, per controllare la corrispondenza oppure dedicarsi ai suoi affaccendamenti; disponevamo di un alloggio più piccolo ma comodo, le giornate trascorrevano pigre fra il nulla e il quasi nulla da fare, la mia convalescenza –la Owen aveva obbligato la mia famiglia a tenermi a letto a tal punto da farmi passare più per una malata, che per una donna in stato interessante- e i primi biglietti d’auguri, una mazzetta alta che il liege, teneva unita con uno spago; tremai quando lessi l’incisione sulla carta bianca. “Felicitazioni, famiglia Moreau.” Famiglia Moreau. Asettico, arido, privo di calore; anche i miei fantasmi, avevano paura di me.

Sorrisi, noncurante della sua stilografica a mezza aria. “Dovremmo rispondere prima o poi!”

“Dobbiamo?!” Proferii ironica, mi guardò scuotendo il capo, posando la penna sul tavolo.

Deesire sai essere sempre così efficace..” mi baciò la mano, lasciandosela premuta contro le labbra; ci guardammo intensamente, prima di scoppiare a ridere all’unisono.

“Sei un gran ruffiano, lo sai?!” Mi sorrise con gli occhi, al di sotto delle lunghe ciglia scure, picchiettai su un biglietto dalla carta chiara, color menta. “Leggimi questo.”

“E’ di maitre Gerald.” Strappò l’angolo della busta, sfilandolo. “Mia dolce Deesire, mi unisco alla gioia di questa buona nuova, augurando a te e monsieur Chedjou molta felicità. Spero monsieur non protesti troppo al mio desiderio di rivedervi presto. Ho buone nuove per tutti noi. Con affetto, Gerald.” Aurelien agguantò carta e penna, fissandomi divertito. “Allora, cosa rispondiamo?!”

Sorrisi a mia volta; il mio liege sapeva sempre cosa volevo. “Caro Gerald..”

 

*

NDA:

Eccoci qua, ad affrontare insieme un altro grande passo di Deesire; diventerà mamma. Le sue sensazioni sono giuste? La sua pancia, il suo cuore, possono mai mentirle?! Chi lo sa. Restate connessi!

Piccolo squarcio di umanità di Clorine, mondana/austera/brillante mamma della nostra protagonista, attraverso i racconti del passato delle donne Fontaine; mi sono divertita molto a parlare di questo aspetto, di segreti delle nonne e del rapporto conflittuale ma profondo, fra Deesire e la sua mamma.

Voi che ne pensate mie care lettrici/lettori? Mi auguro di non avervi deluso.

Si parla anche sommariamente dell’Africa, non dispongo di grandi nozioni e non mi sono voluta soffermare troppo sulla descrizione dei luoghi o altro, limitandomi ad un assaggio veloce, giusto per dare l’idea del tempo trascorso.

Ringrazio tutti coloro i quali continuano a seguirmi, dimostrandomi sempre grande partecipazione! Un abbraccio forte a _Nihil_ e Ultimo puffo. A chi aggiunge la mia storia fra i preferiti/seguiti/ricordare, grazie per la fiducia, spero di trovarvi presto fra i commenti; mi farebbe tanto piacere leggere i vostri pareri.

A presto,

Lunadreamy.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 12.

 

Se in passato, mi avessero detto che avrei vissuto l’inverno in estate e l’estate in inverno, probabilmente avrei riso di cuore; ma era proprio ciò che stava accadendo, in Dicembre, a chilometri da casa, pronti quasi a pensare al Natale.. mentre fuori, si sfioravano i trenta gradi. Aurelien aveva adornato l’albero farfalla fuori alla nostra porta, con i frutti secchi e piccoli ornamenti in legno che i bambini del vicinato, avevano costruito apposta per noi, ma a metà dell’opera si era fermato, avvilito dal gran caldo e dallo sconforto di non essere a casa. La nostra vera casa. Non lo disse mai apertamente, ma sapevo che soffriva, come soffre un animale sradicato dal suo habitat naturale, così Aurelien, in punta di piedi, muoveva in questa nuova vita, senza i suoi appuntamenti, i clienti, le aziende e gli odori che a detta sua, contraddistinguevano un reparto dall’altro. Passavo ore ad ascoltarlo, quando raccontava della sua infanzia, di come suo nonno fondò l’impero Chedjou praticamente con nulla in mano, accorgendomi della scintilla che ardeva infondo ai suoi occhi, beandomi della determinazione di chi sa di avere un tesoro fra le mani e il fuoco sacro per plasmarlo. Rimuginavo molto sulla nostra assenza, mi chiedevo se in qualche modo non mi fossi fatta condizionare troppo dai miei mostri, le mie paure; perché io avevo paura, terribile, soffocante, di rovinare tutto, di non essere abbastanza forte come credevo, degli scheletri nell’armadio e di quelli fuori che mi urlavano in faccia quanto ero stata fortunata e come avevo chiuso gli occhi difronte a quella fortuna, che presto sarebbe arrivato il momento di pagare lo scotto e il castello delle mie speranze e delle mie preghiere sarebbe inesorabilmente crollato. Ma poi i suoi occhi si addolcivano, quando parlava del bambino che sarebbe arrivato e tutto svaniva via come una bolla di sapone; le paure, le ansie, i mostri.. scolorivano come i tramonti in Zambia. E tornava la pace.

La mia pancia cresceva a vista d’occhio e con lei la voglia di vedere il bambino, curiosare, scherzare sulle somiglianze.. purtroppo all’epoca non disponevamo delle moderne tecnologie di monitoraggio del feto, ci si affidava ai testamenti delle nostre mamme e delle nostre nonne, si fantasticava sul sesso piuttosto che sul termine della gravidanza; tutto era misterioso e magico, l’attesa che perdurava il piacere. Un volo di fantasia perenne, insomma. Ed io ero diventata un pilota di linea a forza di farmene.

“Aurelien!” La prima volta che avvertii la sua presenza, per poco non svenni; incartavo i regali da mettere sotto il nostro ipotetico albero –alla fine avevamo ceduto per una simpatica statuetta in coccio dalle forme del più classico abete, da tenere come ninnolo sul davanzale- quanto sentii con chiarezza come delle vibrazioni dal basso ventre. Ululai di gioia, prima di accasciarmi sulla sedia che avevo affianco.

“Cosa è successo?!”

“Lo sento!” Agitavo le mani su e giù all’altezza del petto, incapace di controllare gli spasmi del mio corpo. “Qui!” Mi allungai verso la sua mano che gentilmente mi porse, emozionato; la posai sulla pancia, restando in ascolto. “Uhm.. mi sa che è un bambino capriccioso.”

“Non mi dire?!” Ridacchiò, prima di passare una carezza amorevole sulla rotondità prominente. “Si è fatto desiderare tanto, credo mi farà aspettare anche questa volta.” Si accucciò sulle ginocchia, con la guancia appoggiata sulle mie cosce, una leggera malinconia negli occhi. “Un anno fa più o meno, ero nel salotto dei tuoi genitori ad aspettare vederti scendere quelle scale, con il cuore a mille da tanta l’emozione. Eri bellissima Deesire, ed io ti desideravo come non avevo desiderato null’altro prima d’ora.” Alzò il viso trapassandomi con lo sguardo, “e guardaci oggi, siamo qui, dall’altra parte del mondo e tu aspetti nostro figlio. Non sei mai stata più bella di adesso amore mio, le guance rosse, la tua adorabile felicità.” Si alzò di poco, accarezzandomi il viso con il dorso della mano.

Sospirai. “ Sembra tutto perfetto. A parte l’altra parte del mondo.”

“Mi sono rilevato un pessimo cacciatore di tesori, lo ammetto!” Scosse il capo sorridendo, “ma non dire così. A dispetto di tutto, amo questo posto.” Guardò la pancia, poi me, poi di nuovo la pancia. “Quando sarai pronta, torneremo a casa.”

“E se fossi pronta.. oggi?!”

“Lo sei? Di notte mugoli di voler far pellicce con la pelle delle pettegole.” Stava scherzando, ma avvertii tensione nelle sue parole. Chissà che non pronunciassi altro, in sogno..

“Ho paura Aurelien.” Mi strinsi le braccia intorno al corpo, istintivamente. “Sono un mucchio di paure, ma so anche che se non le supero.. loro mi schiacceranno. Siamo cambiati tanto, non voglio che assurde inquietudini ci impediscano di essere felici.” Non più di quanto lo avessero già fatto in passato, perlomeno. Aurelien aveva dato una svolta alla sua vita per me. Cosa avrei potuto fare per ricambiare, se non mettere da parte ciò che non ci avrebbe permesso di crescere ulteriormente ed essere felici davvero?!

Avevo tutte le risposte a disposizione, bisognava solo renderle fatti e concretezze.

“Lo sai che in marocchino Hani significa felicità?!”

“Perché me lo dici?!”

“Perché desidererei che nostro figlio lo sia.”

“Lui è già felice. E lo sarà, te lo prometto.”

“Potrà esserlo e potremmo esserlo veramente, solo partendo da dove tutto è cominciato. Torniamo a Parigi, Aurelien.”

 

Non so dire come fu possibile organizzare il rientro in breve tempo, ma ci riuscimmo, mossi dall’insana pazzia della nostra giovane età, dalle poche cose materiali che avevamo accumulato in Africa e sostanzialmente perché tutto ciò che desideravamo portare indietro, era con noi; eravamo noi! Per questo quando a poppa salutammo la costa dal porto di Durban, fu a cuor leggero, senza rimpianti; era stato il periodo più entusiasmante e “catastrofico” di tutta la nostra vita, ne erano successe di cose in sei mesi di convivenza con il sole a tutto tondo, i tramonti lussureggianti oltre le pianure, la sabbia silenziosa e scivolosa dei deserti, gli animali padroni del territorio, la magnifica popolazione che colorava il paese di mille sfaccettature.. e un po’ lo provai, sì lo ammetto, il Mal d’Africa di Livingstone, ma era più forte l’emozione di riprendere ciò che avevamo cominciato; come tornare a un libro iniziato dopo tanto tempo che non l’apri. Il viaggio fu più estenuante di ciò che ricordavo ma con me avevo un bagaglio speciale, non previsto al ritorno; le nausee erano quasi sparite eppure il mio corpo pretendeva riposo, costringendomi a lunghe dormite alternate ad altrettanti pisolini fra un oceano e l’altro. Non me ne dispiacqui molto, un taglio netto era ciò che cercavo, le mie energie andavano incanalate nel nuovo, proiettate al futuro.

Come me, come noi.

Aprii gli occhi in territorio francese. Marsiglia era un puntino oltre la coltre di nebbia dell’alba, un sussurro nel deserto e mi emozionai; sarei tornata alla mia vita, ai miei affetti, alle cose belle che avevo lasciato. L’aria era familiare, fresca, tacita di ammonimenti ma carica di promesse. Saremmo stati felici.

Ci avremmo provato.

La sirena tuonò nel porto addormentato, la città si stringeva attorno con le sue case una a ridosso sull’altra quasi a pelo d’acqua; Jerome fu il primo viso familiare a venirci incontro, appena toccato terra. Ci sarebbe voluto almeno un altro giorno per arrivare a casa, ma il più era fatto ormai.

 

“Amore.. svegliati..” aprii gli occhi di scatto; fuori era buio, non seppi distinguere dapprima se notte o alba, ma riconobbi immediatamente la Tour Eiffel in lontananza, protesa al cielo di nuvole scure. “Siamo quasi a casa.” Annuii con il capo, stringendo forte la sua mano. “Mia madre ti saluta.” Si accostò al mio orecchio, “la tua credo si stabilirà a casa nostra se non la rassicuri.” Bisbigliò, ridendo. Allungai la mano, ancora con gli occhi mezzi chiusi, verso il sedile dove la mamma se ne stava a bofonchiare sulla guida di Jerome; era già attiva e scattante, perfettamente padrona della scena.

“Mamma..” protestai debolmente, “ti prego torna a casa. Sto bene, non vedi?!”

“Oh Deesire, ti sei svegliata.” Non si girò nemmeno, con un gesto secco spense l’aria calda e tornò a stressare Jerome. Non demorsi, picchiettando due dita sulla sua spalla.

“Mamma sto bene. Mi hai sentita?” Mi guardò con sconforto, annuendo; non volevo ferirla o cacciarla fuori dalla mia vita, avevo solo un naturale bisogno di riprendere i miei spazi, senza la sua protettiva e fin troppo calorosa presenza intorno. “Papà ha bisogno di te. E anche la casa ne sono sicura.. non sei curiosa di valutare i danni?!” Sorrise arrendevole, ammorbidendo le spalle tese, “Jerome devii pure per casa Bonnet, grazie.” L’autista incanalò l’auto dolcemente verso la rive gauche, costeggiando la quai de Montebello fino all’incrocio con il ponte Neuf; una piccola svolta a sinistra ci addentrò per il quartiere latino, nei suoi profumi di pane caldo dalle serrande dei fornai a mezza altezza e gli storici palazzi del ghetto.

“Devo aver dormito parecchio..” Domandai ad Aurelien, con il viso sognante sulla strada; la macchina stava risalendo l’ile de la citè, Notre Dame mi regalava flash di una bellissima giornata di quasi estate passata, dove io ero vestita di bianco e lui mi faceva volteggiare in aria come una piuma. La mamma era tornata senza fare storie –salvo il piccolo pianto sulla spalla del genero- ed il cielo cominciava ad albeggiare.

“Più o meno da cinquecento chilometri e un giorno. Bentornata a casa Deesire.”

Dimenticato in fretta l’appartamento spartano di Livingstone, mi trovai a gustare le delizie del mio lussuoso appartamento sulla Saint Honore; che meraviglia essere tornata a casa. Ygritte mi accolse con calore e un vassoio di pasticcini caldi alla crema, Aurelien e Jerome schizzarono come saette su e giù per la scala con i bagagli e –sono sicura- a constatare che tutto fosse in ordine; quale inutile perdita di tempo, non avevo occhi che per i pasticcini e la visuale sulla città, persa in qualche cassetto della memoria, di cui disponevo.

“Madame, la perdita di memoria non è fatto raro in gravidanza.” Ygritte mi passò una tazza di the caldo e una coperta, sebbene la casa fosse sufficientemente riscaldata; era febbraio inoltrato e a Parigi torreggiava il freddo secco tipico del periodo, una manna dal cielo per quanto mi riguardava. “Io stessa ho avuto qualche problemino di concentrazione.”

“Questa città è una donna fatale; ne puoi fare a meno, ma il suo odore ti rimane addosso.” Sospirai stringendomi nelle spalle. “Raccontami Ygritte, mi sono persa qualcosa?!”

La donna sorrise, sciorinando i fatti accaduti nella mia amata Parigi; scoprii così che Albert Lebrun era ancora il nostro presidente della repubblica e De Gaulle nostro generale delle forze armate, che la Francia si era opposta alla Germania di Hitler e alla sua guerra -etichettandola “guerra fantasma”- entrando automaticamente nelle file dei paesi schierati contro; rabbrividii alla parola guerra, pensando a quel bambino che cresceva dentro di me. Avevamo lasciato Parigi con il sospetto di futuri tempi bui e rientravamo che questo era già una certezza.

“Ma è terribile Aurelien..”

“Ecco perché non volevo che sapessi.” Gettò un occhiata torva ad Ygritte che sparì mortificata, “non sappiamo ancora niente di questo conflitto, ho il sospetto che neanche i vertici ci raccapezzino niente, perciò ti prego.. ti prego Deesire, non agitarti.”

“Dovrei stare tranquilla? Come? Con te che mi nascondi le cose? Una guerra Aurelien! Una guerra vera!” Scossi il capo, alzandomi; d’un tratto l’immagine della mia bella Paris mi sembrò come un lugubre avvertimento. Feroci erano le immagini del conflitto precedente, nella mia testa; la famiglia di mio padre decimata dalla follia dell’uomo, fame e povertà.. non credo sarei stata in grado di sopportare una portata di dolore così grande. “Vado a farmi un bagno. Chissà che non sia l’ultimo.” Uscii dalla stanza con malcelata indignazione, salendo le scale una ad una, d’un tratto maledettamente ripide e faticose; mi fermai, appoggiandomi al parapetto lasciando che le lacrime scendessero copiose e in silenzio. Desiderai che fossimo ancora in Africa o in qualunque altro posto tenesse lontano l’ascia del boia, desiderai persino Auvers e in un angolo, piccolo e all’apparenza insignificante.. desiderai Fabien.

Trovai la governante china sulla vasca intenta a misurare la temperatura dell’acqua; si girò a guardarmi con aria triste. “Non stare in pena. Immagino nei salotti non si parli d’altro.” Berciai, ancora sconvolta dall’omissione di mio marito. “Lo avrei saputo.” Quella sospirò, impilando una serie di asciugamani su uno sgabello e si congedò.

Aurelien bussò dopo pochi minuti, aprendo cautamente la porta. “Non volevo lo sapessi così perché non ho ancora i mezzi per comprendere ciò che sta succedendo.. e questo mi spaventa. Ma non posso e non voglio farti carico di queste paure. Devo proteggervi, sempre e comunque.”

“Dirmi la verità è un bel modo per cominciare a farlo.” Con la mano gli feci segno d’avvicinarsi. “Siamo una famiglia Aurelien. Le tue gioie, le tue preoccupazioni e persino le tue paure.. sono le mie.” Sorrisi, “parlarne le esorcizza. Sei umano anche tu monsieur Chedjou.”

“Sento la mia mascolinità duramente colpita madame.” Finse risentimento, tradito da un bellissimo sorriso all’angolo della bocca; si toccò i capelli con aria assente, per poi tornare ai miei occhi. “Ti ringrazio Deesire, so che posso contare su di te. A volte dimentico che sei una roccia.” Il suo umorismo si era ripreso alla grande, mi issai per schizzarlo, ma arretrò in tempo. “Credo proprio andrò a sbrogliare la mole di corrispondenza sul mio tavolo. E’ un arduo compito.. ma qualcuno lo deve pur fare. Ah e dobbiamo assolutamente organizzare un evento; tutti desiderano vederti.”

“Mhh.. preferisco il tuo umorismo Chedjou.” E affondai la testa sott’acqua, mettendo il silenzio fra me e la sua risatina vittoriosa.

 

Avevamo appena sistemato le nostre cose, che ci era toccato far appello alle doti organizzative di Clorine, per il tanto agognato –da tutti, tranne la sottoscritta, tanto che cominciavo a credere che Aurelien e mia madre fossero in combutta- party mostra/pancia perché tutti i sussurri sulla mia presunta gravidanza diventassero certezze; ed era seriamente fuori discussione metterlo in dubbio, a marzo inoltrato la mia pancia era una prosperosa rotondità difficile da ignorare.

“Oh accidenti a me!” Ovviamente mi ero svegliata con il piede sbagliato, ed ovviamente tutte le catastrofi cosmiche avevano deciso di far squadra e venirmi a tartassare. “Non ho la minima idea di dove sia finito il mio taccuino portafortuna!” Non mi ero svegliata con il chiodo fisso, la cassettiera dei ricordi si era spalancata nell’attimo in cui avevo aperto la porta al tizio delle consegne, con sporte di tartine sufficienti a sfamare un esercito, ricordandomi di annotarne la ricetta quando.. cassettiera aperta, buio totale, smarrimento taccuino! “Questo bambino mi sta mangiando la memoria.” Sbuffai sinceramente avvilita; come era potuto succedere?! Aurelien mi guardava di sottecchi mentre annodava la cravatta, enfatizzando i movimenti con un assoluta precisione; scossi il capo.. non sarei mai stata come lui e ringraziai il cielo che ci fosse almeno un pragmatico in famiglia.

“Prova a vedere nel tuo cassetto..”

“Ci ho già visto.”

“Sicura?!”

Il suo sorriso mi spinse a controllare nuovamente; frugai fra le mie cose, fra sete e raso uscì fuori un pacchetto; lo alzai, domandando con gli occhi cosa centrava con tutto ciò. Alzò le spalle stralunato, tornando alla cravatta e successivamente alla giacca del completo scuro.

“Oh.. il mio taccuino.” Sostanzialmente quello che avevo difronte non era il mio taccuino originale; era stato rilegato con della pelle finissima e morbida al tatto, le pagine di una carta spessa tenute insieme da filo e colla, con le mie ricette riportate attraverso un carattere di stampa molto pulito e assolutamente privo di sbavature e macchie a differenza dell’originale. I racconti non erano stati eliminati, bensì alternati alle mie ricette, con dei collegamenti finemente pensati, quasi un punto di vista ironico e personale sul mondo della donna a cui appartenevano. “Cucine du Deesire.” Gli intarsi sul pellame erano stati colati in oro, sorrisi al gioco di parole, sfogliando la prima pagina; una dedica. “A mia moglie.” Sgranai gli occhi. “Un libro?!” Aurelien aveva smesso di vestirsi e mi stava guardando attraverso il riflesso dello specchio; era bello, il libro, ed era bello lui. “Cosa..”

“Te l’ho detto che sarei andato a caccia di diamanti.” Mi raggiunse con passo vellutato, quasi un evanescenza; mi aiutò ad allacciare la fila di bottoni in madreperla che avevo lasciato a mezzaria, sistemandomi i capelli sulle spalle. “Ed ho trovato un tesoro.” Mi posò un bacio sulla spalla, “ho solo creato un involucro per renderlo ancora più bello.” Me ne stavo inebetita con il libro/taccuino fra le mani incapace di chiedere altro. “Volevo farti una sorpresa alla festa, ma la tua preoccupazione mi ha messo in allarme. Capisco perché eri preoccupata. Sei una scrittrice nata amore mio.” Mi voltai, posando le mani sul suo petto, sull’orlo della commozione, ma cercai di non guastare l’ora di tentativo trucco con le mie lagne. “Quando.. come?!”

“Il come.. beh, vedo un mucchio di gente tutti i giorni.” Annuii, proseguì coprendo le mie mani con le sue. “In Africa mi annoiavo spesso. Poi ho buttato gli occhi sul tuo taccuino e.. Deesire io amo le tue ricette. Amo la tua spontaneità. Amo ciò che sei. Era perfetto. Mi sono ricordato di avere qualche conoscenza e.. spero ti piaccia. Andrà in stampa se tu lo vorrai. Altrimenti.. e permettimi di dirti che sarebbe un vero peccato, sarà solo un bel regalo.”

Razionalizzai le parole stampa e regalo, stringendomi forte al bavero della sua giacca. “Questo è molto più di un regalo Aurelien.”

“Mettila così, saprai come spendere il tuo tempo da qui a.. diciamo quanto, due mesi?!” Ipotizzando un veloce calcolo, era quello il termine della mia gravidanza. L’idea di riempire i vuoti della sua assenza in un certo senso mi allettava.. era la notorietà a provocarmi prurito. “La supereremo insieme. Ricorda, le tue paure sono anche le mie.” E sorrise sornione, rubandomi un bacio veloce sulle labbra.

Non credevo di essere un animale da feste, del tipo pantera sinuosa che si aggira fra gli alberi districandosi dai mille impedimenti, sono sempre stata una persona determinata ad affrontare l’ostacolo uno alla volta, esaminando il pericolo da lontano, attuando il piano per abbatterlo ed attaccare solo quando sicura; la mia razionalità era fin troppo razionale anche per me, eppure quando scesi le scale e il vociare di sottofondo si attutì, mi sentii improvvisamente piena delle mie forze, conscia della mia sicurezza al punto da lasciarmi cullare soavemente da un abbraccio all’altro, da una smorfia all’altra e da uno stupore all’altro, come se quell’insieme di volti non esistesse, ed esistessimo solo io e Aurelien. E il bambino agitato nella mia pancia.

“C-complimenti Deesire.” Lolla mi porse gentilmente la mano e gliela strinsi a mia volta; il momento del gruppo delle pettegole era arrivato. Si erano strette intorno a spirale, chiedendomi questo e quello del viaggio, qualcuna -con mio rammarico- accennò anche ad Auvers, altre ritenevano il fatto che avessi scoperto di aspettare un bambino in Africa un segno e molto romantico; mi sciolsi subito, senza fatica, esibendo i miei racconti intriganti sul paese, le favole che lo popolavano, parlai anche della piccola Na’weh e dei Bantu, le pettegole sempre più strette l’una all’altra, i respiri smorzati. Le guardavo sorridermi con ammirazione e applaudire, saltellare nelle loro scarpe costose e lo capii; adesso ero una di loro, degna di salire sulla giostra del loro mondo impazzito.

Fu divertente e fu divertente scambiarsi da lontano occhiatine complici con Aurelien. “Stai bene?!” Mimò con le labbra, pronto a scattare. Annuii vigorosamente, prima d’essere raggiunta da una mano che dolcemente si posò sulla mia schiena; le pettegole si dileguarono come uno sciame d’api furiose, mi voltai. Era lì che mi guardava con occhi grandi di quel verde-azzurro tanto familiare. “Madeleine..” pensai subito a Fabien; fu un attimo, un calcio dal cuore, come quello che mi stava tirando la creatura in grembo.

“Sei un incanto Deesire.”

“T-ti ringrazio.” Mi guardai attorno, angustiata. Lei sorrise, un sorriso debole, affranto. “Lui non c’è. Ti fa i suoi migliori auguri.” L’avevo già sentita dire da qualche parte; pare che fra i biglietti di auguri inviati dalla sua famiglia, il suo nome venisse vagamente citato, ma Madeleine aveva capito tutto, forse sapeva ed allora le mie sicurezze vacillarono e mi sentii inconsistente come aria. “S-sta bene?!” Non brillai per arguzia lo ammetto, ma tutto ciò che mi premeva era sapere che fosse così, che aveva guardato avanti, che non ero stata il contrattempo che aveva falciato per sempre il suo destino, la sua vita.

“L’ultima volta che ha scritto erano quattro mesi fa, ormai.” Sospirò, “noi mamme siamo sempre così apprensive, tu forse mi capisci.” Mi sfiorai la pancia; si, comprendevo bene quello che diceva, ed avevo voglia di piangere, di abbracciarla, di dirle che forse il bambino che portavo in grembo era parte di lei, ma rimasi immobile, con i suoi occhi addolciti dal mio gesto spontaneo e il rammarico per il troppo detto. “Non voglio turbarti, perdonami Deesire.” Si perse nello champagne rimasto nel flute; troppo tardi, pensai.

“Madeleine io..” Sentii un onda di collera montarmi dallo stomaco; ero stupidamente arrabbiata con Fabien, furente, l’istinto materno fermentato nelle viscere e pronto ad esplodere. Guardavo la donna, i suoi occhi azzurri farsi piccoli e liquidi e tutto ciò che riuscivo a provare era profonda pena. Era così indissolubilmente distaccato, freddo, incostante. Strinsi forte i pugni, interdetta sulle parole che facevano a cazzotti nella mia bocca per uscire. Aurelien -sicuramente non in grado di carpire la situazione da lontano- ci raggiunse accigliato in viso, gli occhi incollati ai miei; mi azzittii guardando imbarazzata Madeleine che illuminò il sorriso prontamente, vedendo il nipote avvicinarci. “Ti ama davvero.” Bisbigliò poi arrendevole, facendosi abbracciare calorosamente dal ragazzo. “Il mio piccolo Aurelien, papà.” Si staccò, guardandoci nell’insieme. “Auguri ragazzi.” E sparì silenziosa come era arrivata, volteggiando nell’aria con innata leggiadria, una leggiadria che avevo imparato bene a conoscere nella famiglia Chedjou.

“Ho sempre l’impressione che ti facciano un brutto effetto.” Aurelien allacciò la sua mano alla mia, rompendo il silenzio; lo guardai stordita e completamente in tranche. “Proprio quello che intendo.” Passò l’indice sotto al mio naso, attirando la mia attenzione. Quel ti non mi piacque gran che.

“Sono meravigliosamente attratta dall’inquietudine.” Lo guardai mettendo fra di noi una lunga, lunghissima pausa effetto che recepì magnificamente, allargando stupito e angosciato gli occhi verde bottiglia. “Ma amo di più il sole.” E serrai le mie labbra alle sue. “Mi cercavi monsieur?!”

Ci volle un po’ prima di una sua risposta, per un attimo fui atterrita dal mio stesso languido sproposito, mancando un battito.. velocemente riacquistato quando Aurelien sorrise lusingato. “C’è una persona che vuole salutarti.” Ero stravolta dalle emozioni, cosa altro poteva succedere?

Mi condusse attraverso il salone principale, passando oltre il corridoio che portava alle altre sale più defilate della casa. “Amore sono sinceramente colpita da questo tuo gesto ma se non te ne sei accorto abbiamo venti ospiti di là, mia madre è esausta e il cointreau è finit..” Mi zittì con un bacio, girandosi verso la figura in penombra sul fondo del suo studio; una figura bellissima, eterea. “Juliette?!” Sbattei velocemente le palpebre, la ragazza si avvicinò prendendomi le mani. “Dovevo constare con i miei occhi.” Sorrise con le labbra e con gli occhi, “accidenti Deesire, sei uno schianto.” L’abbracciai per quel che il mio involucro voluminoso mi permettesse, ridendo nel suo orecchio; Aurelien tossicchiò imbarazzato, congedandosi. “Sono nei paraggi.”

“Dì un po’, ti aiuta anche a respirare?!”

Mi staccai da lei, ma le nostre mani erano intrecciate; sempre bellissima, il volto perfetto, il colore del vestito azzeccato ai suoi occhi e il sottile filo di perle a incorniciare il collo rosa. “Mia cara, ben presto capirai anche tu cosa significa..” La notizia era giunta fino in Africa; Juliette sarebbe convolata presto a giuste nozze.

Annuì, alzando la mano sinistra ben vicino ai miei occhi; un diamante grosso quanto una nocciolina brillava presuntuoso sul suo anulare affusolato. “Ti rendi conto cosa significa? Non si parla d’altro, non posso neanche nasconderlo è così maledettamente luccicante!” Rise chiassosa ed io con lei.

“Un Sully, Juliette. Ne avrai di che luccicare..” Jamie Lawrence De Sully era l’erede di una dinastia nobile molto antica e ovviamente ricca in tutta Francia; suo nonno figurava come proprietario di mezza Parigi, banche, teatri, più tutta una serie di immobili prestigiosi e tenute fuori città. La sua discendenza pare fosse da ricercare in tale Massimiliano di Bethune duca di Sully, ministro delle finanze al tempo di Re Enrico IV di Francia. Insomma proprio quello che si direbbe un buon matrimonio, all’altezza di una Dupont, l’ereditiera dei gioielli di Parigi. “E lui come è?”

“Talentuoso.” Strizzò l’occhio, scossi il capo vivacemente. “Mi porterà nel continente, molto presto. Sono tempi bui per la nostra civiltà e Parigi non è più quella di una volta.” C’era rammarico nei suoi occhi, come in tutti noi; per un attimo mi parve meno frivola, meno distaccata, una giovane donna invecchiata di colpo. “Non so quando ci rivedremo amica mia, ma non mi sarei persa questo evento per nulla al mondo.” Mi accarezzò la pancia, il bambino protestò; la ritrasse eccitata, gli occhi umidi. “Un altro piccolo Chedjou a spasso per il mondo..” Ci scambiammo subito un occhiata fugace, lei abbassò il capo per prima mordendosi il labbro. “Sono stata ad Auvers, in autunno.” Ammise, “è davvero bella come dicono.”

“Lo hai visto?!” Sparai serafica, lei annuì pensosa, guardandomi senza vedermi.

“Abbiamo saputo del bambino da maitre Gerald. In realtà il maitre avrebbe voluto dirlo a me, era a conoscenza della nostra amicizia, ma Fabien ha sentito tutto. Dal tatto che l’uomo ha riservato nei suoi confronti per questa notizia, mi è parso subito chiaro tutto.” Tornò lucida, prendendomi le mani nuovamente, “Il giorno dopo di Fabien restava solo un biglietto come mille scuse. Non so cosa sia successo fra di voi e non sono di fatto una moralista, sono solo rimasta.. scioccata. Non credevo ti amasse così tanto.”

Un singulto muto e senza lacrime si impadronì della mia gola; ero stremata, a pezzi, troppe emozioni tutte insieme, troppe le cose non dette, i silenzi come urla e urla invece mute. “C’è una probabilità considerevole che questo bambino sia il suo.” Mormorai, appoggiandomi con le mani allo scrivano in noce; lei mi accarezzò la spalla, aiutandomi a sedere. “Non dovrei dirtelo ma.. è sulla linea di Maginot, Deesire. Arruolato volontario nell’ armee francaise .” La linea di Maginot era un agglomerato di reparti, caserme, artiglierie del nostro esercito, posizionato sul confine nord ed esteso lungo tutto il perimetro; il generale Maginot l’aveva fortemente voluta per poter difendere il territorio francese da incursioni nemiche.

Mi sentii morire. Ma il dolore non era solo al cuore. Sentivo come delle fitte impazzite al basso ventre, il piccolo agitarsi nella mia pancia quasi scalpitasse di uscire fuori. “E’. Così. Fragile. Così.. fragile.”

“Deesire, respira.” Juliette mi si parò dietro, muovendo mani esperte alla base della mia schiena; risi isterica, guardandola oltre la spalla. “Sei pragmatica e forte Juliette. Ahh..” protestai sentendo affondare la sua manina piccola su quello che aveva l’aria di essere un nervo, ma sentii la muscolatura rilassata all’istante; beato paradiso. Quando il respirò torno regolare la ragazza mi tornò davanti, si alzò il vestito sontuoso accucciandosi alle mie ginocchia.

“Meglio?!”

“Sì.”

Ci guardammo consapevoli. “Non siamo responsabili del destino degli altri Deesire. E Fabien Moreau non è fragile. E’ tante cose, ma non è fragile. Credo tu possa capirlo meglio di chiunque altro. Sei felice?!”

“A momenti. Li amo entrambi Juliette, non credevo fosse possibile fino a quando non mi è capitato.”

“Io ti credo. Se fossimo di facile comprensione non esisterebbe la scienza. L’uomo non si porrebbe domande e ci costringeremo a vivere una vita piatta, blanda, senza trasporto. Siamo fatti di emozioni incalcolabili e imprevedibili. Credi nel destino, Deesire?!”

Annuii; non ero forse la miglior rappresentazione di foglio bianco sul quale si era sfogato?!

“Le cose accadono perché siamo noi che vogliamo succedano. Dio mi liberi da questa società retrograda e puritana, siamo donne e possiamo decidere della nostra vita! Perciò ti dico: il destino è una bufala amica mia, ascolta il tuo cuore e segui ciò che dice, senti la tua pancia, le vibrazioni del tuo corpo, ascolta la mente ma filtra i divieti.. e non sbaglierai. Decidi. Tu.”

Si alzò in piedi sistemandosi il vestito e i capelli; ohh.. Juliette avrebbe conquistato il mondo. “Mi mancherai.” Rivelai, sicura. Oh sì, mi sarebbe mancata averla intorno, parlare della vita assieme a lei, discutere sulle cose frivole e girare per Parigi come facevamo da ragazze.. appena cresciute, ma già donne.

“Anche tu.” Mi abbracciò. “Sii felice. Sempre.”

Suonai il campanello e un precipitoso Aurelien accompagnato da una spedita Ygritte, si palesarono in stanza; la governante scortò Juliette per l’uscita posteriore assicurandoci così che non venisse importunata troppo dalla morbosa curiosità che il suo matrimonio provocava e l’uomo mi raggiunse offrendomi sostegno.

“Sono molto stanca Aurelien.”

“Vai pure a sdraiarti, penso io agli ospiti.”

 

“Voglio che mi pubblichi. Aurelien.” La casa era tornata silenziosa e buia; mi tormentavo fra le coperte pensando alle parole di Juliette, ed incessantemente a Fabien. Dovevo smuovere la mia vita. Dovevo mandargli un segno. Non poteva finire tutto così. “Ma il titolo sarà zenzero e cannella e i diritti delle vendite devoluti per i soldati al fronte. Tutti i diritti. Mi occuperò io stessa delle pratiche, se sei d’accordo.”

Mi guardò soddisfatto. Era d’accordo.

 

 

Fu così che partì la prima stampa del libro e con essa accoliti di personaggi che non avevano mai bussato alla mia porta prima d’ora; la beneficenza era come il miele per le api, con la storia dei proventi ai soldati avevo smosso non poche coscienze e fra benefattori, editori, charity umanitarie gestite dalle pettegole, preti e santoni.. avevo la casa piena a qualsiasi ora del giorno. Aurelien aveva ripreso le sue attività a pieno ritmo, seguendo da lontano la cosa, come gli avevo espressamente chiesto; mi barcamenavo alla perfezione nella direzione dei lavori, provando gran soddisfazione quando buoni risultati tornavano indietro. Sollecitavo la mia mente per non pensare al desiderio forte di scappare al fronte anche io, assicurarmi che Fabien stesse bene, che si nutrisse, alleviare le sue preoccupazioni, fornirgli la forza per affrontare il nemico.

Lavoravo per noi, in un certo senso. Anche se da una casa al caldo e al sicuro.

“Maitre!” Quel giorno d’aprile non lo avrei dimenticato presto; il maitre bussò alla mia porta, dopo mesi che promettevamo di vederci e il suo desiderio criptico di volermi dare buone notizie. “Vi siete fatto desiderare!” Lo abbracciai forte, lui ricambiò impacciato, ma con calore.

“Sono stato molto occupato, chiedo venia madame.”

“Già.. il vecchio continente. Buon per lei, Gerald. E cosa ha fatto bello? E’ vero che in Italia si mangia bene?”

“Deliziosamente, ma è di Londra che voglio parlarvi.” Posò con ponderata calma il bicchiere di Kir sul tavolo, guardandomi intensamente. “Memore di alcune ricette della tradizione britannica, ho gentilmente proposto la ricetta dei suoi biscotti ad alcuni amici del settore dolciario. L’hanno adorata madame! Mi chiedono un incontro. Sono disposti a mandare dei collaboratori a Parigi anche questa settimana.”

Accidenti, pensai. Che ne era stato della dolce Deesire scrittrice adolescente? Quando avevo smesso di essere quello che ero per diventare una prestante donna d’affari?

“C-cosa dovrei rispondere?!”

“Batta il ferrò finchè è caldo, madame.” Sorrise, “l’estratto di lavanda è originale e gli inglesi adottano già lo zenzero e la cannella in alcune ricette. Pensi.. nei dolci di Natale. Magari l’anno prossimo serviranno anche i suoi biscotti sulle loro tavole.”

Mi si profilarono davanti immagini di famiglie felici a far festa con la leccornia uscita dalle mani di Fabien, dal nostro fare l’amore in modo disperato e dall’essenza della mia vita con Aurelien. Fantastico. Ma forse era tutto troppo afrodisiaco per i bambini…

“La sua testa ciondola. E’ forse un sì?!”

“Sì?!” Mi schiarii la voce. “Sì, facciamolo.” Vidi Aurelien sfrecciare sul corridoio divertito; fu allora che capii, non c’era nessuna combutta con mia madre, l’unica combutta l’avevano combinata loro due, creando dalle mie passioni le idee la chiave per il mio futuro.

 

Giorni dopo, mentre camminavo distrattamente sul boulevard Hassmann, aprii proprio una di quelle porte sul futuro; la più importante, la più bella, la più preziosa.

 

*

NDA:

Grandi cambiamenti nella vita di Deesire; quella che sembrava solo una ricetta di biscotti è diventata il fulcro dei principali avvenimenti nella sua vita. E ovviamente con lei, il trenino carico di sentimenti nei riguardi di Fabien, che intanto è al fronte anche egli calato in un nuovo ruolo.

Cosa succederà in questa Parigi così lontana dai conflitti eppure così invischiata?

Quale è questa porta ancora chiusa che nasconde la novità più bella e importante della vita di Deesire?

Restate connessi cari lettori e fatemi conoscere i vostri pareri riguardo la storia.

Ultimo puffo grazie per la recensione nel capitolo precedente.

Un abbraccio,

Lunadreamy.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 13.

 

Il venti aprile del millenovecentoquaranta, con un urlo a pieni polmoni e con qualche settimana d’anticipo, si affacciò al mondo Benjamin Hani Chedjou.

Quando lo vidi smisi di respirare quasi, baciandolo, confondendo il mio pianto al suo; era bellissimo, gli occhi mesti per la fatica e il faccino a cuore imbronciato, la pelle ambrata sotto le crosticine bianche di muco e un infinità di capelli castani chiaro. Molto chiaro.. quasi cenere.

Mi aspettavo commozione e partecipazione, ma non credevo a tal punto; papà aveva preso dimora sul divano da giorni, Ines e Clorine -pronte da mesi- avevano allestito una piccola nursery nella stanza degli ospiti accanto alla nostra degna di un principino, Martin andava e veniva perché qualcuno doveva pur pensare agli affari di bis-nonno Chedjou ed Aurelien era in visibilio, totalmente stregato dal nuovo arrivato.

“Stiamo bene vi dico. Tornate a riposare. O fatelo finalmente.” Guardai il gruppetto di familiari Bonnet-Chedjou stipati intorno al letto durante l’ora della pappa, “domani ci troverete sempre qui. Vero marmocchio?!” Benjamin approvò con un gorgoglio profondo dalla gola; tutti risero, più rilassati e sereni.

“E’ un vero despota.” Aurelien mi baciò i capelli, sparendo dietro la piccola processione.

“Mamma tu resta.” Ines si allarmò, credo vagamente infastidita dall’esclusione, la guardai sfoderando uno sguardo d’ammonimento da neo-mamma, “hai bisogno di riposare anche tu Ines. Non farti pregare..” alzò le spalle, si accigliò e andò via.

 

“I suoi capelli.”

“Buon Dio Deesire, ha solo pochi giorni.. anche tu eri bionda. O forse era Cedric?!”

“I suoi occhi.”

“Gli occhi dei neonati sono mutevoli.”

Mi poggiai una mano sulla fronte. “Occhi verde-azzurro.. mutevoli?!”

“Ok è un Moreau. Vuoi sentirti dire questo?! Tecnicamente è anche uno Chedjou, però. Guarda i suoi lineamenti, la sua pelle ambrata.. oddio il broncio è del pittore senza dubbio.” Annegai nella sua indecisione senza però escluderla da uno sguardo assassino. “Oh.. guarda cosa mi fai farneticare! E’ troppo presto per dirlo, questa è la mia sentenza.”

Tempo. Era tutta una questione di tempo, eppure nella vita –e questo lo imparai sulla mia pelle- c’erano sentenze che non lo avevano a capo come giudice supremo, bastava restare in ascolto del sesto senso o delle emozioni fate voi, per arrivare al punto. Fatto sta che dal primo momento in cui avevo accolto Benjamin fra le braccia, avevo respirato il suo odore forte di vita, lo avevo sentito urlare aggrappandomi forte alle lenzuola di lino crema, i presentimenti che avvertivo nella pancia come quando avevo scoperto d’aspettarlo si riproposero in pompa magna.

E non solo quelli.

 

A due settimane dal parto ero già in piedi; il piccolino non voleva saperne di essere trattato come l’esserino gracile che era e poppava forsennatamente tutto il latte di cui necessitava. Un leone, nel corpo di gazzella, già.. avevo sentito parlare di questo una volta. Mi districavo fra un impegno e l’altro, il libro, Gerald che temporeggiava sui britanni al momento ingrovigliati nel conflitto contro il terzo reich e l’operazione caritatevole che avevo mosso per i soldati al fronte, con il massimo delle forze; ero giovane e in salute, inquieta e incredibilmente appassionata. E a proposito di passioni.. sistemavo con molta premura la corrispondenza nel disordine organizzato di Aurelien, quando una busta scivolò dalla mia presa e finì in terra; Benjamin dalla carrozzina raso e merletti rispose con un mugolio simile ad un “Oh” quasi canzonatorio, attirato dalla mia imprecazione.

Mi chinai a raccoglierla, era una busta bianca anonima ed era indirizzata a me.

“La mamma è distratta.” Sfilai il taglia carte lungo tutto il bordo estraendo il biglietto; avrei riconosciuto la sua scrittura anche ad occhi chiusi. Piccola e tondeggiante. Sussultai.

 

“Mia dolce Deesire, le oscenità di questo mondo sono oscurate dalla bellezza delle tue parole.

Le mie notti allo Zenzero e Cannella ringraziano, anche se il loro sapore adesso è diverso.

Ho saputo della lieta notizia. I sogni si avverano, dunque.

Sono tre volte che cerco di scrivere qualcosa di sensato ma..

Ti prego, non cercarmi più per il mondo; è già così difficile sopportarti dentro il mio cuore.

F.M”

 

Aveva avuto una copia del mio libro, dalla felicità all’appagamento passai in breve alla frustrazione dei suoi celati sogni infranti, al volerlo sottolineare, al suo modo dolceamaro di respingermi; non cercarmi più. Stava scherzando? Diceva il vero? Vacillai, nell’incertezza, lo sguardo fisso sull’ultima riga a straziarmi il cuore; è già così difficile sopportarti dentro il mio cuore. Mi amava ancora, il tempo passato lontani non aveva cancellato nulla. Come in me del resto.. che dall’orribile sensazione di disgusto, al pensiero che Aurelien sarebbe potuto entrare in contatto con quel breve e coinciso messaggio, passai alla più infame sensazione di sollievo se lo avesse fatto, perché sarebbe stato come frantumare il macigno che avevo posato sul cuore e farlo diventare così polvere di fata.

D’un tratto non mi sentii più confusa, indecisa; sapevo bene cosa volevo e guardando Ben decisi che era ora di muovere un passo in più, che forse non ci sarebbero state seconde occasioni e che in qualche modo la pena valeva il rischio; mi armai di coraggio, del mio abito migliore, cappellino, guanti ed aria compita e mi diressi nel covo d’oro della città potente e influente: il quartier generale della famiglia Fournier.

Jerome fermò la macchina all’entrata di Parc Monceau con l’aria del tipico Parigino ancora scosso dalla sua nomea; luogo di disordine e perdizione erano le effigi di quello che a mio avviso era solo un boschetto dall’aria molto romantica e accozzaglia di stili architettonici rubati qua e là, perfetto nascondiglio di quella società di ricchi esaltati con manie grandi come il loro ego, restrittiva al contatto con altri esseri non alla portata dei loro standard.

“Madame faccia attenzione.”

“Ci vuole molto più che due sussurri e qualche albero a spaventarmi Jerome.” L’uomo guardò angosciato al piccolino che nella carrozzina dormiva pacioso; gli posai la mano sul braccio rassicurandolo. “Sarà proprio come un sogno.”

“Per che ora desidera che la passi a prendere?!”

“Passeggerò fino a Montmartre. Prima del tramonto, direi.”

Mi guardò perplesso, ma il suo ruolo e i miei ammonimenti verbali prima di metterci in viaggio, lo indussero ad un silenzio, tormentato, ma pur sempre silenzio. Mi addentrai nel parco e venni avvolta subito dalla frescura delle piante, veri polmoni a cielo aperto. Non capivo come si potesse temere un parco solo perché nella sua memoria figuravano accadimenti poco ordinari e spiacevoli; dato alle fiamme e ricostruito non so quante volte, ritrovo di artisti da strapazzo in tutto le epoche, una natura libera e selvaggia che cresceva senza ordine preciso mescolandosi ai resti di antiche colonne romane, arcate, statue e un lago come fosse la riproduzione dell’eden. Era il caos delle forme a spaventare l’uomo? La non convenzionalità? Probabilmente, ma Benjamin continuò il suo pisolino senza disturbi ed io mi sentii rilassata dopo tanto tempo.

Bussai ad un portone a ridosso del prato, dopo un ansa del fiumiciattolo artificiale che lo attraversava. Non ero attesa, la cameriera in tenuta scura e il grembiule inamidato mi sorrise scortandomi frettolosamente in un salone piccolo e dall’aspetto intimo; mi sentii fuori luogo e agitata, salvo riprendermi quando il piccolo uomo che era Fournier -l’uomo che mi aveva tormentata di trovare un posto alla scuola di maitre Gerald per la sua giovane amante- apparì trafelato e in odore di chi sa di guai in vista.

“Madame Chedjou, che piacere rivederla.” S’inchinò in un perfetto baciamano, con quel tanto di enfasi tipico da uomo di potere; sorrisi gelida, ritirando la mano.

“Lei mi deve un favore Fournier.” Girai il capo sulla parete di tessuto broccato, allacciando lo sguardo alla pacchiana cornice dorata che custodiva l’attestato della scuola, strategicamente al centro del muro; Anabelle Fournier, più in basso, sorrideva in un istantanea abbracciata a maitre Gerald.

“Oh Anabelle è stata così felice.”

“Immagino la sua felicità se scoprisse che non era l’unica.”

Mi guardò come se avessi proferito blasfemia, alzando gli occhi al cielo. Avrei scommesso di vederlo farsi il segno della croce, ma restò immobile con le mani intrecciate al petto. “Madame Chedjou nessuno le ha mai fatto notare quanto sia petulante?!”

Addio buone maniere, sorrisi compiaciuta; si iniziava a fare sul serio. “Un milione di volte. Ma converrà con me che per gli affari serve un piglio deciso. E modestamente.. io ce l’ho.”

Si arrese. “Cosa è che vuole?!”

“Il sergente Fabien Moreau.”

Strabuzzò gli occhi affondando nella poltrona. “Ma..”

“E’ impegnato alla linea Maginot, certo. E’ qui che entra in ballo lei; deve trovarlo, tirarlo fuori di là e combinare un appuntamento per me.”

“Ha idea di quello che mi sta chiedendo? E’ una missione segreta, lei non dovrebbe nemmeno disporre di queste informazioni madame Chedjou!”

“Per cosa crede che mi sia scomodata fin nei giardini dell’eden?!” Sorrisi sarcastica, “e non è un rifiuto ciò che aspetto di sentire, monsieur Fournier.” Mi alzai per il carrello dei liquori, versai del costoso cointreau in due bicchieri e porgendoglielo appoggiai la mano alla sua spalla, addolcii la voce e proseguii. “Non credevo di trovare il più tenero degli angeli ad aspettarmi.. ma un uomo coscienzioso, che tiene alla sua famiglia e ai suoi interessi sì. Nessuno dei due vuole uno scandalo, questo no, sono la prima a rammaricarmi della mia posizione.” Mi inumidii le labbra innocentemente, “Non si dica che il grande Fournier non sia un uomo di parola e di cervello.. e nemmeno la sottoscritta; mi risulta che Valerie oggi abbia un buon impiego e che maitre Gerald sotto mio ordine abbia a cura certi suoi.. privilegi, che imbarazzo se la poveretta dovesse perdere tutto in un colpo solo.” Giocai con li ghiaccio sul fondo del bicchiere prima di tornare seduta, occhi fissi nei suoi. “Dunque sì, so cosa le sto chiedendo ma so che è un piccolo prezzo per affermare la vostra.. lealtà.” Mi girava la testa; ero passata dalle minacce velate a quelle più dichiarate, farcendo la torta con indubbi sensi di colpa che mi aiutarono a strappargli un borbottio di approvazione.

“E dove intende farlo arrivare?!”

“Lo decida lei. Le lascio carta bianca.”

“Dispongo di una proprietà.. nel sobborgo di Vésinet. Appena fuori Parigi ma.. non Parigi.”

“Perfetta. Quanto tempo passerà prima che.. il pacco arrivi a destinazione?!”

“Oh molto dipende dalla situazione sulla linea e..”

Fournier le chiacchiere viaggiano in maniera veloce. Velocissima.” Ostentai un sorriso, “vede? Io so darle la risposta certa qualora si domandasse quanto ci metterebbe la sua reputazione a crollare.”

“Magari posso farlo.. spedire.. con la staffetta dal contingente.”

“Che sia Moreau a fare la staffetta. Non voglio altri occhi in giro.”

“Questo fornirà l’alibi, bene Madame Chedjou. C’è altro?!” Spazientiva di buttarmi fuori a calci.

“Oh sì. Qualcosa c’è.” Posai rumorosamente il bicchiere sul tavolo. “Moreau non deve assolutamente sapere chi c’è dietro questo.. imprevisto.. chiamiamolo così. Ovviamente mi aspetto lo stesso riserbo che ho avuto io per la sua.. pratica.” Mi guardò annuendo, “se qualcosa dovesse andare storto..”

“Massimo riserbo garantito.” Fui felice del modo in cui mi azzittì, impaziente e sgarbato, denominava quanto avesse preso sul serio la missione.

“Bene, allora non c’è altro.” Mi alzai nell’attimo in cui agitò la campanella per la servitù in modo spazientito. “E’ un vero piacere fare affari con lei monsieur Fournier.” Gli porsi la mano, con indolenza la strinse.

“Non posso affermare lo stesso.”

Lo incenerii con gli occhi. “Pessimo umorismo francese madame Chedjou.” Si alzò vivace, riacquistando colore, “mi faccio vivo io con una missiva.”

“I giardini sono un incanto, ma dorma sogni tranquilli. Non ho nessuna intenzione di ripetere il viaggio, grazie.” Lasciai che la cameriera mi adagiasse il soprabito sulle spalle, “disordine e perdizione; ha scelto per lei il luogo ideale in cui vivere.” Mi guardò di sbieco, sfoderai il miglior sorriso di trionfo. “Pessimo umorismo francese monsieur.”

Ed uscii spingendo la carrozzina fuori dalla stanza, lasciandolo con un imprecazione a mezzaria.

 

La parte che sembrava più difficile era volata via senza che me ne accorgessi, capii che era arrivato il difficile quando dinnanzi alla grande vetrina, sulla Rue Lepic in Montmartre, dove si affacciavano grandi quadri e statue, rimasi a fissare l’entrata della bottega ad una distanza ravvicinata senza entrare. Lei si accorse di me quando dal bancone alzò lo sguardo sulla strada; mi sorrise di un sorriso che non avrei mai più dimenticato, consapevole, sicuro, come se aspettasse di vedermi arrivare da un momento all’altro; lasciò la tela su cui era ricurva a giacere sul tavolo, venendomi incontro.

Non si accorse subito del bambino, quando lo vide s’arrestò d’impeto. “Bon Dieu!” S’avvicinò cautamente, cercando conferma nei miei occhi; Benjamin muoveva gli occhietti curiosi su quella figura floreale che era la donna, fasciata in maglia lunga e pantalone stampati con grandi camelie.

“Che bellezza di bambino!” Agitò in aria il bracciale a campanelle che aveva al polso, Ben s’irrigidì, per poi agitare le gambette e le mani smaniose. “I suoi occhi..” fermò il braccio e tornò con il suo implacabile sguardo verde-azzurro nel mio.

“Benjamin Hani. Il resto.. te lo lascio immaginare.”

Annuì, accarezzandomi la schiena, “entriamo. Anche le fogne hanno orecchi.”

 

Tornò dal retro con due tazze di caffè fumante e una baguette divisa a metà. “Sei sciupata Deesire, ed ora hai urgente bisogno di forze.” Guardò il bambino pregandomi con lo sguardo. “E’ nato con qualche settimana di anticipo.. ma puoi prenderlo in braccio Madeleine, non è così gracile come sembra.” Scosse il capo divertita, facendo scivolare le braccia sulla carrozzina; Ben protestò a pieni polmoni, Madeleine si succhiò il mignolo passandolo nello zucchero e lo portò alla sua bocca; il bambino si rilassò. “Fabien si calmava solo così. E’ sempre stato un bambino diffidente.” Cullò il piccolo come i suoi ricordi, “Crescendo non è cambiato poi molto, ma tu mi hai dato speranza Deesire.”

“Io?!”

“Per un po’, ti accorgi subito delle stelle quando è sempre notte.”

“Non volevo che rinunciasse alla sua vita a causa mia.”

“E’ indulgente e testardo. Vuole cambiare il mondo, ha sempre desiderato essere la stella piuttosto che il cielo nero; questa missione è la sua missione, non una rinuncia.”

La guardai con trepidante speranza. “Hai avuto sue notizie?!”

“Mi ha scritto una lettera da sei pagine! Sei pagine ti rendi conto?! Giorni dopo ho saputo della pubblicazione del tuo libro, ora tu sei qui e stringo fra le mani questo fagottino così dolce. Qualcosa è successo..”

“Già.” Madeleine ripose Ben nella carrozzina, sparendo nel retro per riapparire con una cornice argentea fra le mani, porgendomela; un biondo neonato in braccio alla sua mamma. Avevo gli occhi lucidi. “Occhi verde-azzurro mutevoli..” sussurrai, puntando gli occhi sull’istantanea in bianco e nero ma di deducibile intuizione di che trasparenza fossero gli occhi del bambino che guardava alla sua mamma pieno di amore, ripensando ai discorsi fatti con Clorine, alle mie preghiere vane, al destino-non-esiste di Juliette e mi ritrovai il viso rigato da una lacrima. “Qualcosa è successo. Sto per incontrarlo Madeleine, un incontro segreto, fuori città. Sono passata perché tu lo sapessi, nel caso voglia fargli sapere qualcosa.”

Mi guardò allarmata, “un incontro?!”

“Un favore da un vecchio amico.” Sorrisi sarcastica, prendendole la mano. “Non posso rischiare che non ci sia più un'altra occasione per rivederlo, dirgli quanto lo amo e mettergli fra le braccia suo figlio.”

 

Quando il sole calò Madeleine richiuse con cura dei fogli dentro una busta carta da zucchero, destinati a Fabien, sfilò la foto dalla cornice argentea e me la strinse fra le mani. “Voglio che la tieni tu. Buona fortuna Deesire.”

“A presto Madeleine.”

“Lo spero tanto.” Guardò a Benjamin con gli occhi imperlati di lacrime, prima di sparire sul fondo della bottega e lasciarmi nel cuore di Montmartre al tramonto.

 

Giugno arrivò cadenzando lentamente i suoi giorni e insieme a lui la missiva di Fournier, tempestiva come l’odore della paura che aveva addosso nel salone buono della sua villa, ai giardini stregati; la lessi più volte, con mani tremanti, prima di partire come un razzo per l’organizzazione pratica della cosa. Usai senza mezzi termini mia madre come ombrello parafulmini, giustificando la mia assenza a quel marito da giorni confuso dal mio atteggiamento spesso assente o angosciato –avrei mandato le parcelle del mio medico a Fournier, per la mole di ansiolitici prescritti- e dalle sempre più pressanti minacce di un invasione da parte dei tedeschi, ormai conquistatori del vicino Belgio; Aurelien e il suo staff erano in pena per le sorti del paese e di conseguenza della città, perché se a crollare fosse stata Parigi, tutta la Francia sarebbe crollata intorno a lei. A me non interessava. Non interessava finire sul lastrico, non interessava che dall’altra parte della Senna mio padre stava combattendo per i medesimi scopi e non mi importava della guerra, dei tedeschi o di nessun altro che non fosse Fabien Moreau.

All’alba di un insulsa giornata come un’altra -non per me, ma il resto del mondo era occupato alle proprie pene- una macchina di Fournier era sul viale ad aspettarci; Ygritte ed io ci infilammo dentro come sentinelle ben istruite, senza fiatare, assottigliandoci ai sedili posteriori. L’auto sfilò dritta per gli Champs Elisées in direzione de la porte Maillot confine ovest della città, al di là della quale -il nulla per i Parigini- la statale A quattordici -per tutti gli altri-. Lontano dai palazzi borghesi e i bistrot, mi sentii leggermente più rilassata; piegai il capo all’indietro portando Ben al mio petto, fino a pochi minuti prima fasciato dalle braccia della cameriera. Lo guardai con infinito amore; gli occhi chiusi e le mani piccole strette a pugno, il viso rilassato e il profumo della pelle ambrata alle rose, per nulla turbato, ignaro che da quel giorno, qualcosa nelle nostre vite sarebbe irrimediabilmente cambiato.

Mi addormentai serena. E non ricordai più quant’è che non riuscivo a sognare.

 

La grande vetrata che dava sul giardino rifletteva un tiepido sole estivo; lo stile architettonico di quella casa di periferia rifletteva a pieno il genio visionario di Fournier, la sua spiccata predilezione alla ricerca del nuovo e l’ostentazione ossessiva dei suoi franchi. Guardavo ammaliata Ygritte che cullava dolcemente Ben fra le braccia e il piccolo rispondeva aprendo e chiudendo le manine sul suo viso.

Lo vidi spuntare come un apparizione, un angelo terrestre.. ma ferito; mi colpì subito la chioma rasata, campo arso dove prima crescevano rigogliosi i suoi ricci, gli occhi infossati e grandi, più grandi del solito, verde-azzurro terrore. Guardò interdetto la donna che gli sorrise calando il capo, proseguì sul ciottolato verso la casa e fu allora che mi vide, attraverso il vetro; restò immobile, parole vuote sulle labbra gonfie e rosse. Alzai la mano in vago saluto, tentò un sorriso ma il suo volto era rigido.

Camminò fino a quando non sentii la porta aprirsi.. e le nostre figure perfettamente allineate.

Senza tante cerimonie lo avvicinai, chiudendomi al suo petto - l’unica parte del corpo recettiva, perlomeno percorsa da un fremito- prima di essere circondata dalle sue braccia; odorava di divisa, di tessuto grezzo e pesante, di sudore e infondo a tutto, la sua pelle, evocatrice di ricordi infernali.

Sospirò fra i miei capelli, cullandoci, in silenzio, rotto solo dai suoi singulti e dai miei.

 

“Immagino tu voglia dirmi qualcosa.” Lasciò che le braccia gli scivolassero ai fianchi, scostandosi per guardarmi bene in viso; era cambiato dall’ultima volta che lo avevo visto, non mancavano solo i capelli, ma anche la luce brillante infondo ai suoi occhi, il giocoso Fabien adesso spettro di questo che avevo davanti, più teso, invecchiato, rude nei lineamenti. Aveva perso la fanciullezza e chissà che non fosse per gli orrori che aveva visto, per le notti al fronte, solo e infreddolito. Tremai d’orrore e lui desolato -quasi mi avesse letto nel pensiero- mi passò le mani lungo le braccia, sfregandomi la pelle vibrante sotto al suo tocco.

“Non so da dove cominciare.”

“Tu parla. Parlami Deesire. Ho voglia di sentire la tua voce.” Si infilò nuovamente fra i miei capelli, inspirando e stringendomi forte.

“Devo presentarti una persona.” Tornò al mio viso aggrottando le sopracciglia, vagamente spaventato. “Là.” Indicai con l’indice Ygritte e il fagottino brontolone fra le mani.

“Ci sono una donna e un bambino.” Poi spalancò la bocca a cuore, “il bambino è tuo figlio!” Disse in una quasi nota di delusione, una sorta di stupore e repulsione.

“Mio figlio, sì. E il tuo, Fabien.”

“Mio figlio.” Asserì ironico, passandosi la mano sulla testa.

“Tuo figlio.” Insistei senza alcuna inflessione ironica nella voce. “Benjamin Hani Chedjou. Biologicamente.. Moreau.”

Deesire,” Posò le mani sulle mie spalle, premendo forte. “c’è in corso una guerra, i tedeschi ci sono addosso e sono lontano anni luce dai miei compagni; pensi che ho voglia di mettermi a scherzare?” Sorrise incerto, prima di valutare la pericolosità del mio imperioso silenzio. “Sono qui.. e sono felice di vederti, ma se mi hai fatto chiamare per umiliarmi ancora..” gettò indietro la testa, alla mia non reazione alle sue parole. “Perché tu non stai scherzando, questo vuoi dirmi?!” Adesso era disperato, lo percepivo dalle venature incrinate della sua voce.

“Guardalo.” Gli ordinai, “guarda i suoi capelli. Guarda la sua bocca. Guarda. I. Suoi. Occhi. E se non ti basta pensa ad Auvers. Alle volte che mi hai amata anche con il corpo, a quando ci svegliavamo stretti e tu mi eri ancora dentro. Pensa a tutto questo. Ai biscotti. Al tavolo della mia cucina, al tuo letto.. non posso provartelo, ma non serve una scienza per capirlo.”

“Mio figlio.” Due parole di pura angoscia. “P-posso vederlo?!” Lo scortai fuori, un cenno del capo avvertì Ygritte di passarmi il bambino e sparire in casa. “Prendilo.” Fabien allargò le braccia e nel momento in cui l’infante esalò un vagito, scoppiò a piangere anche lui. Non un pianto disperato, ma un pianto d’amore; i cromosomi che si riconoscono e scatenano una guerra interiore.

Se ne era innamorato nell’istante in cui lo aveva sentito piangere. Proprio come avevo fatto io.

 

Accarezzai la sua mano posata sulla testolina di Ben e lui mi guardò; ricambiai lo sguardo annuendo, colpevole della più assurda verità. “Tutto di lui grida Chedjou. Ma dalla parte sbagliata.”

“E’ perfetto.” Sfiorò il suo profilo con un dito, leggermente, “Ha le fossette..”

“Come tua madre, lo so.”

Lo infastidii, lo capii, perché irrigidì le braccia guardandomi spaesato; il bambino aveva ripreso a piangere, lo presi fra le mie braccia e lo cullai. “Sono suo padre, dici.. ma la realtà è che non lo sono. Aurelien è il suo papà. Io..”

“Io. Io. Io. Tu cosa?!” Ondeggiavo fra una ninna nanna e la voce furiosa, “credi che non ci abbia pensato un milione di volte prima di venirti a cercare?! E quel biglietto poi.. i sogni si avverano! Sì, si avverano Fabien, l’ho capito stringendolo a me per la prima volta; ma era un sogno incompleto, perché tu non c’eri. Sono disperata perché ti amo, ma amo anche mio marito. Ed ora c’è Benjamin..” il piccolo sorrise come sorridono i neonati e mi addolcii, “questo bambino meraviglioso che amo con tutto il cuore, più della mia stessa vita.” Lo guardai infondo a quegli occhi adesso così carichi di stupore, ansia, felicità. “Non ho mai smesso di pensarti e di sperare un finale diverso. Ma le favole sono concluse, il mondo va a pezzi ed io non voglio più sognare.”

Le parole uscirono dalla sua bocca come un ansimo. “C’è. Solo. Un. Modo.”

“Sono pronta a rischiare.. se lo vuoi.”

“Lo voglio?! Ho pensato a te giorno e notte! Tu sai cosa sei per me e questo bambino è la dimostrazione di quello che provo io per te.” Mi infilò una mano fra i capelli, attirandomi verso il suo viso. “Ti prego dimmi ancora che mi ami.”

“Ti amo.”

“Ancora.”

“Ti amo.”

 

Probabilmente se Benjamin non fosse stato un’adorabile presenza nella mia vita, quel giorno, in casa di Fournier io e Fabien avremmo fatto l’amore, arrendendoci a mesi di privazioni, dolore, sofferenza; ma tutto ciò non accadde, godemmo della nostra presenza solo respirandoci addosso, sdraiati a terra con le spalle contro l’angolo di una parete spoglia a giocare con i nostri occhi incatenati, consci e affamati.

“Devi tornare in città. Sarà buio presto.” Si alzò porgendomi aiuto con una mano, dall’altra parte Ben appollaiato sul suo braccio libero. “Prima però ascoltami attentamente; da qui ai prossimi giorni non avrai mie notizie. Voglio che ti trovi un posto Deesire, allarma Aurelien..” deglutì socchiudendo gli occhi, “chiudetevi in casa, sbarrate porte e finestre. Il nemico è vicino ed io non so veramente come andrà finire questa storia.”

“L’esercito francese è forte.. così dicono.”

“Balle. Non abbiamo armi di resistenza sufficienti per difenderci. Difendervi. Ma tu mi devi promettere che ti terrai al sicuro da ogni pericolo. Ti. Prego. Prometti.” Soffiò le ultime parole sulle mie labbra protestanti; mugolai spaventata e l’arrivo dei tedeschi non era il motivo. Me importava meno di niente. Provavo l’angosciante sensazione di non rivederlo mai più. “Shh.. stai tremando.” Mi baciò agli angoli della bocca, poi si posò sulle labbra e vi restò qualche secondo. “Non voglio spaventarti ma devo essere sincero Deesire, non abbiamo idea di come vogliono muoversi i maledetti crucchi. Ti prometto che farò il possibile per ritornare da voi. Non voglio perdervi proprio adesso che vi ho ritrovato. Mi aspetterai?” Baciò Benjamin sulla fronte, prima di metterlo al sicuro fra le mie braccia.

J’attendrai.”

“Saremo insieme. Noi tre. Come una famiglia.”

Mi baciò ancora e ancora, al ricordo della nostra canzone, nella casetta d’Auvers, di nuovo un momento tragico, ma adesso ero certa che sarei stata sua e che lui sarebbe stato mio, anche se l’ombra nera della guerra era su di noi, nel mio cuore sapevo di voler appartenere per sempre a Fabien.

 

“Dove sei stata?!” Aurelien, lo sguardo mesto e stanco, mi stava fissando dal buio del salone senza luci.

“Da mia madre. Sono stanca, vado a dormire.” Sentii i suoi passi veloci alle spalle, poi le sue mani a bloccarmi il polso. “Che ti prende?!”

“Che mi prende?! Deesire sei sfuggente. Assente. Cosa prende a te.”

“Sono stanca.”

“Sì, mi sembra d’avertelo sentito dire.”

“Stiamo litigando Aurelien? Perché sì, sono stanca, Benjamin deve mangiare ed Ygritte è appena andata via. Se le tue lagne da marito ansioso sono terminate, salirei le scale, adempierei ai miei doveri da madre e poi mi farei una bella dormita. Dovresti farla anche tu, sei scosso.”

Mi guardò dispiaciuto, per un attimo vacillai. “Ero preoccupato, tutti lo siamo. Tu no, tu ti porti in giro per Parigi o chissà dove come se nulla fosse, ho creduto perché sei sempre stata più forte di tutti noi.. fino a quando non ho trovato questa.” Sventagliò sotto ai miei occhi la lettera di Fournier, con data e appuntamento per l’arrivo del mio.. pacco. “Cosa state tramando tu e quel verme viscido?!” Tremavo come una foglia, agghiacciata dalle mie stesse menzogne. “A-affari.”

“Affari che implicano la menzogna a quanto pare.” Scosse il capo incredulo e quando si fissò su di me vidi i suoi occhi verde bottiglia persi per sempre. “Ovviamente non eri da tua madre. E per quanto questo mi faccia male in un modo che neanche immagini, lascerò a te il libero arbitrio; vuoi continuare a mentire? O vuoi dirmi cosa sta succedendo? E posso assicurarti che la verità in questo caso farà meno male. Qualsiasi. Essa. Sia.”

Mi affannai in cerca di una risposta, in preda ai conati di rabbia e frustrazione; “Fabien..” non dissi altro, il suo nome uscì come un rantolo. Stavo piangendo ma non volevo, non volevo che mi vedesse fragile, inerme, arresa; meritava la verità e con essa la dignità della mia persona, ma non riuscivo a muovermi. A respirare. Tutto si era fatto più grande, mi sentivo il niente a confronto.

La pedina di un gioco che si era fatto improvvisamente mortale.

Lo vidi portarsi le mani al viso, il capo chino sconfitto, come fosse già a conoscenza di quel verdetto; mi lasciai andare a terra, le gambe flaccide, incapace di sorreggere la mole di dolore che stavo provando in quel momento. Ma d’improvviso qualcuno bussò al portone in modo agitato. Una. Due. Tre volte. Sentimmo la chiave ruotare nel chiavistello e la porta spalancarsi; Martin spiazzato dalla visuale guardò me in stato di panico, più livido in volto di quanto non lo fosse prima d’entrare.

“I tedeschi! I tedeschi hanno sfondato la linea!” Si portò le mani nei capelli; io e Aurelien ci guardammo incapaci di dire nulla. “Dobbiamo andare Aurelien! Presto! Alle aziende!” Vidi padre e figlio smontare i cassetti e prelevare chiavi, documenti, borse, in un vortice impazzito e senza senso; afferravo parole e discorsi ma non riuscivo a sentire nulla, se non il freddo marmo del pavimento e le lacrime copiose sulle mie guance; quando aprii gli occhi, Aurelien era riverso su di me a schiaffeggiarmi il viso dolcemente.

“Aurel..” intorno a noi solo il baluginio di una candela fioca e un forte odore d’umido; eravamo nello scantinato della nostra abitazione.

“Devo andare. Sta arrivando tua madre.” Mi abbracciò, sfuggendo ai miei occhi, ”nella dispensa c’è cibo a sufficienza per due persone e un bambino.” Spostò il suo corpo adagiandomi Benjamin fra le braccia, avvolto in un manto spesso di coperte. “Non dovete assolutamente muovervi di qui, capito? Non prima che la situazione sia chiara, ci metteremo in contatto appena possibile.”

“Che sta succedendo Aurelien?!”

“L’esercito tedesco sta marciando verso Parigi.”

 

Era la notte a cavallo fra il tredici e il quattordici giugno del millenovecentoquaranta; alle cinque e trenta del mattino a bordo delle loro camionette, nei giubbotti di pelle e le collane di proiettili al collo, i tedeschi ci occuparono. La città era stranamente silenziosa, chi aveva avuto tempestiva notizia era scappato da tempo, i pochi restanti e incerti, sfilavano nel loro silenzioso cordoglio verso le arterie che portavano fuori dal centro; Parigi venne dichiarata da subito “città aperta”, questo per evitare che la stessa venisse barbaramente martoriata da bombardamenti aerei o d’artiglieria pesante. Da quel momento difatti, appartenevamo al nemico, subivamo le loro regole e i loro ordini, i loro sguardi accusatori e vessatori e per ultimo -non meno importante- l’umiliazione per essere stati piegati e sconfitti; ma nessuno di noi venne toccato, donne, bambini, anziani.. d’alta società o no, quello che cercavano gli uomini in giubbe grigie con l’aquila sul braccio era ben chiaro.

E sapevano esattamente dove andare a cercarlo.

La notte era il momento peggiore. Si stabilì un coprifuoco che partiva dalle ore undici e gli orologi tirati avanti di un ora per uniformarci all’orario di Berlino; non si dormiva, le urla strazianti di chi veniva deportato fracassavano il cervello, i pianti di tutte quelle madri, zie, nonne, nipoti.. gli indesiderati.

La loro sorte aimè restò oscura a noi tutti, come la più triste delle storie ha già raccontato.

 

Tre giorni dopo l’occupazione, quando la città era ormai roccaforte tedesca e le loro bandiere sventolavano alte persino sulla Tour Eiffel, il generale di Francia Pétain firmò la resa, spaccando definitivamente il paese in due; la parte nord –Parigi in testa- appartenente alla Germania e la parte sud ricollocata ad uno nuovo governo comandato dallo stesso Pétain. Fu allora che ebbi notizie di Fabien; un veloce messaggio vergato con mano malferma, pari ad uno spiraglio di sole nel cielo plumbeo. Stava bene e non era ferito grazie a Dio, citava il generale De Gaulle e il suo accorato discorso via radio dalla capitale inglese in cui spronava i francesi a non mollare, che era sua intenzione formare un esercito di resistenza chiamato “Francia libera” e che Fabien quindi sarebbe partito presto alla volta di Londra per prendervi parte.

 

“Prima di questo ho il disperato bisogno di sentirti, toccarti, amarti Deesire.

Solo così troverò la forza e il coraggio per ritrovare la strada di casa.

Capiscimi amore mio, voglio un mondo in cui mio figlio cresca libero e felice.

Sempre Tuo ,

F.M.”

 

In un'altra missiva mi aveva fatto avere l’indirizzo di una vecchia locanda nel quartier Peupliers, nel profondo sud della città. Bruciai tutto, cercando di mettere insieme le idee, d’ infondermi coraggio, nel mare di confusione in cui navigavo da giorni; Aurelien presidiava le aziende notte e giorno da tre giorni ormai, non avevo sue notizie dal disastro e le nostre conversazioni erano frammentarie, via posta e volte solo alla situazione politica del paese. Dall’altra parte c’era Fabien e il più sublime dei suoi messaggi, la frustrazione di gettarmi nelle sue braccia e amarlo nuovamente, chiedendomi con amarezza quando sarebbe venuto il momento di appartenerci veramente.

Non servì a molto pensare, avevo già deciso.

 

“Cosa?! E te ne vai?!”

Clorine con il terrore negli occhi si trascinava dietro al mio braccio. “Devo andare mamma.” Allentai la presa, strattonandola. “Quando questa assurda guerra finirà –se finirà- io sarò con lui. E non importa se questo non avverrà mai.. io sarò sempre con lui.”

 

*

NDA:

Capitolo “caos” di avvenimenti mie cari lettori/ci; spero che non siate fuggite/i a gambe levate!!!

Il piccolo Benjamin Hani è venuto al mondo e a quanto pare le sensazioni di mamma Deesire erano giuste; per la prima volta mette in discussione la sua perfetta vita pronta a voler rischiare tutto per stare finalmente insieme al suo Fabien. Sullo sfondo però.. la Seconda Guerra Mondiale appena piombata a Parigi.

Cosa succederà adesso?! Se ne avete voglia continuate a seguirmi! J

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, la conclusione della storia è alle porte.

(credo di riuscire a terminarla in non più di altri due capitoli. Credo!)

Vi abbraccio forte,

Lunadreamy.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 14.

 

Il sole mi ferì gli occhi.

O forse fu la sensazione di panico quando vidi Martin sporco, con i vestiti bruciati e il viso escoriato correre a piedi scalzi verso di me; pensavo fosse un miraggio, i troppi giorni di buio in uno scantinato lontano dalle persone che amavo, dalla realtà.. ma fui costretta a stropicciarmi gli occhi, che il sole non centrava nulla, che mio suocero era lì, difronte a me che piangeva.

“Martin! Oh buon Dio!” Lo presi per le braccia prima che si lasciasse cadere sulla strada, “che è successo?! Clorine! Clorine!” Mia madre aprì il portone trafelata, dopo un iniziale fase di panico si sollevò la veste e mi aiutò a portarlo dentro. “Sul divano! Apri tutte le dispense mamma, Ygritte deve aver riposto del disinfettante e qualche medicinale.” Strappai delle fascette di tessuto dalla tunica di lino che indossavo tamponandole sul viso stravolto di Martin; tossiva copiosamente, dolorante per le ferite che riportava a gambe e braccia.

“E’ bruciato tutto..” mi strinse forte la mano, bloccandola. “Aurelien ha impedito che li portassero via..” delirava ed io con lui; fissavo la sua bocca con occhi sbarrati, una crescente morsa di panico allo stomaco. “Qualcuno ha appiccato il fuoco.. per farci scappare.. è bruciato tutto. Bruciato tutto..”

“Dov’è Aurelien?!”

“Ancora.. là.” E svenne.

 

Percorsi la Saint Honorè de Fabourg con il cuore stretto in gola; falcate il doppio dei miei passi mi portarono a casa del dottor Arnauld Bertrand, il medico di famiglia Chedjou. “Arnauld! Arnauld sono Deesire!” Bussai con impeto al portone, prima che una servetta in camice bianco mi aprì; dietro di lei il medico con lo stetoscopio infilato negli orecchi, mi guardò accigliato. “Arnauld c’è stato un incendio alle aziende Chedjou! Mio marito è là, mio suocero è a casa mia e ha bisogno di assistenza! Ti prego, aiutami! Aiutami!”

“Svelta Pauline, un bicchiere d’acqua per madame Deesire. Chiama il dottor Russeau e prenota una carrozza per casa Chedjou; digli di portare con se la borsa con la morfina, unguento e garze. Tante garze. Su! Su!”

Lo guardai spaventata. “La carrozza, Arnauld?!”

“Noi useremo la macchina fino ai sobborghi, Julien si occuperà Martin. Tranquilla Deesire, Aurelien sarà già stato medicato a quest’ora.”

 

Una colonna di fumo nero e denso era quanto rimaneva delle aziende capeggiate da mio marito e la sua famiglia; i due blocchi di cemento che costituivano il cuore pulsante dell’attività, fra uffici e reparto costruzione, del tutto sventrati. Intorno ammonticchiati, corpi di uomini senza vita, macerie e le sentinelle tedesche nelle loro giubbe grigie. Potevo sentirli ridere in una lingua sconosciuta; mi vomitai sulle scarpe, prima di farmi forza e avvicinarmi ai quei fantocci inermi, un tempo vita.

Nein!” Un uomo in divisa usò un tono minaccioso al mio avanzare; strinsi i pugni, scorrendo la fila da dietro la sua piazzata mole. “Nein, madame!” Il suo francese ironico mi fece infuriare.

Mon mari !“ Graffiai fra i denti, indicando i cadaveri; Arnauld mi trattenne per un braccio, rivolgendosi alla guardia in un perfetto tedesco. Dopo alcuni istanti si voltò a guardarmi. “Sono morti per il crollo, Deesire, guardali, non hanno fori di pallottola. Se vuoi avere una speranza di ritrovare Aurelien devi mantenere la calma, chiaro?!”

Annuii. “Che ti hanno detto?!”

“Che è stato portato dietro, con i feriti. Non hanno il permesso di toccare nessuno, per ora. E noi dobbiamo sfruttare questa occasione. Andiamo!”

Ci allontanammo per il retro. Il piazzale antistante era stato trasformato in un ospedale da campo. Riconobbi qualche viso e fra questi Danielle la segretaria di Aurelien, sulle prime file di barelle improvvisate.

“Oh Deesire! E’ stato così coraggioso..” la donna piangeva attaccandosi con forza alle mie mani; aveva un brutto taglio sul capo, Arnauld annuì sparendo fra le lettighe di fortuna. “Sono entrati all’improvviso. Quelli là, quei crucchi. Portavano via le persone. Le picchiavano, si sentivano le urla.. qualcuno di noi si è ribellato ed è scoppiata una rivolta, il caos.. è stato lui ad appiccare il fuoco, ne sono sicura. Ci ha fatto uscire prima che scoppiasse l’incendio.”

“E’ rimasto dentro?!”

“Sì è lì che l’ho lasciato. Ci ha salvato.” Si frugò nella manica della giacca; tirò fuori da una fettuccia cucita all’interno dell’orlo la catenina d’oro con il crocefisso e la fede di Aurelien. “Mi ha detto di dartele quando ti avrei visto. Era sicuro saresti arrivata.”

Rabbrividii; se non mi fossi scontrata con Martin.. inspirai profondamente. No, Aurelien non poteva essere morto. Ogni cellula del mio corpo si opponeva ad una tragedia dalla portata così devastante; il mio dolce Aurelien.. sacrificato per gli altri. Quante cose dovevo ancora da imparare da quell’uomo, quante volte ancora la vita doveva farmi aprire gli occhi sul tesoro che avevo fra le mani?

 

Cosa c’era in me che non andava? Perché ero così maledettamente sbagliata?

 

Deesire! Deesire l’ho trovato!” Il dottor Bertrand si stava sbracciando all’incrocio di due tende; corsi immediatamente verso la sua voce. Aurelien giaceva su una branda di paglia, con il capo fasciato, livido e privo di sensi. “Non respira bene.” Auscultò i polmoni e scosse il capo. “Temo che smetterà di farlo se non lo portiamo via immediatamente.” Barcollai, impaurita e angosciata. “Deesire ricorda, concentrazione! Al mio tre lo alziamo. Pronta?!” Annuii passando le sue braccia intorno al mio collo, con Arnauld che lo alzava da dietro per i fianchi, tirandomelo addosso; era un peso morto, del tutto privo di forza.

 

“Si riprenderà?!” Gli accarezzai il viso contratto dal dolore, Arnauld mi guardò dallo specchietto retrovisore alla guida di una vecchia Rolls. “Le ferite sembrano superficiali, ma solo Dio sa cosa ha inalato lì dentro.” Solventi chimici, rame, metallo, cemento.. la lista dei veleni scorreva silenziosa nella mia testa; tremai vinta dal dispiacere. “Ma non avremmo risposte certe fino a quando non lo visiterò per bene.”

“Ce la devi fare, mi hai sentito?!” Sussurrai al suo orecchio incrostato di sangue rappreso; una lacrima scivolò per la guancia, giù dal collo, frantumandosi sulla sua; sembrò m’avesse udito perché per un attimo avvertii un fremito dalle sue viscere. Lo abbracciai, “non ti farò più del male Aurelien. Mai più.”

E pregai, pregai Dio di redimermi, di prendersi la mia stessa vita.. ma la sua no; non quella di mio marito, il mio onesto marito che aveva abbattuto le fabbriche per cui suo nonno prima di lui aveva dato il sangue, per salvare vite innocenti.. al prezzo della sua stessa vita. Perché era coraggioso, affettuoso, l’uomo tutto di un pezzo che mi aveva fatta innamorare per la sua autorità e concretezza; cosa altro mi sarei aspettata da lui? Il mio testardo, pazzo e pragmatico Aurelien.

“Oh Dio ti prego.. non portarmelo via.. non portarmelo via..”

E Dio m’ascoltò, perché mentre la macchina scorreva veloce sulla Quai des Tuileiries e in Place de la Concorde vidi Fabien e i nostri sguardi si trovarono attraverso il vetro dell’auto, per istanti simili all’eterno; se ne stava andando, amareggiato e in pena, la sacca pendente dalla spalla, di ritorno da un appuntamento mancato. Il nostro.

E suoi occhi nei miei dissero addio. Addio per sempre.

 

Julienne e Arnauld adagiarono Aurelien sul nostro letto; rovesciarono le coperte e armati di forbici gli strapparono di forza gli abiti di dosso. Il corpo era un campo martoriato di escoriazioni e bruciature, la sua pelle ambrata sporca di vivo sangue rosso; i polmoni si alzavano a rilento, ogni fil di fiato un flebile lamento. “Edema polmonare acuto.” I due medici sentenziarono senza pietà.

“Ha i polmoni pieni di liquido.” Julienne perorò la causa trasformando un pensiero in parole. ”Otto milligrammi di morfina per cominciare.”

“Sì” Annuì Arnauld, sgombrando malamente il comodino per far spazio ai suoi attrezzi medici. “Servono tubi per la trachea e una bombola di ossigeno.”

“Somministriamo anche un diuretico per non sovraccaricare troppo i reni?!”

“Dopo la morfina. Pensi tu all’ossigeno?!”

Quello scattò, spogliandosi del camice e gettandolo alla rinfusa, ai miei piedi. Si accorsero di me, rannicchiata sulla panca delle meraviglie di Clorine; come avrei desiderato tornare indietro a quei tempi felici, dove eravamo solo noi innamorati e contenti con l’unico stupido pensiero di arginare le smanie d’alta moda di mia madre. “Deesire ci serve il tuo aiuto. Puoi procurarci delle cannucce?!”

Balzai in piedi in attenti. “Sì.”

“Ottimo e ci servono tutti i bacili d’acqua che riesci a trovare. Julienne tornerà in studio per procurarsi la bombola e una stecca per la gamba di tuo suocero. Se le trovi portami tutte le bende che hai a disposizione e disinfettati le mani.”

Annuii, correndo in cucina; Martin era ancora sul divano, bendato e ripulito, sospirai e guardai Ines inerme ai suoi piedi, sembrava morta non fosse per il tremito delle labbra. Mia madre giaceva imbambolata in un angolo fra la cucina e lo studio di Aurelien con il capo fra le mani e i singhiozzi.

“Dov’è papà?!”

“Sarà qui a momenti, con Cedric. Sono a dare una mano al campo. Una tragedia. Una tragedia.”

Ero circondata da automi e non ero per nulla felice; riempii i catini d’acqua tiepida e ridussi a brandelli tutte le pezzuole di lino e cotone che trovai. I regali del mio matrimonio, inutili suppellettili che non avevo mai adoperato, in frantumi; sorrisi arcigna. Non era stato così tutto il mio matrimonio? Un costoso abbellimento che non era servito a tenerci uniti. Scossi il capo con vigore e mi stupii dei miei repentini cambi d’umore. Anche l’aria si era fatta irrespirabile, pesante, piena d’umori e disinfettante che mi dettero la nausea; vomitai nel lavandino la mia frustrazione, il pianto, la fatica e la disperazione di perdere Aurelien.

 

“Grazie Deesire, adesso ti prego aiutami a ripulire le ferite.”

Passai delicatamente il cotone imbevuto di acqua ossigenata sulle lacerazioni del petto e delle gambe, mentre Arnauld tagliava i tubi e li assemblava in un unico serpentone; lo infilò nella bocca di Aurelien premendo finchè questo scivolasse giù attraverso laringe e dentro la trachea. “Questo gli permetterà di respirare prima che giunga la bombola. Continua così, brava.” Sfilò dalla borsa una siringa dalla quale portò via il tappo, la picchiettò facendo fuoriuscire l’aria e iniettò il liquidò nel braccio molle di Aurelien.

“Morfina.” Asserii anticipandolo, mi guardò ed estrasse una seconda siringa; la iniettò all’altro braccio.

“E anche il diuretico è fatto. Manca solo il respiratore. Lascia fare a me adesso.” Mi sorrise armeggiando ago e filo sulla pelle ora detersa di mio marito, tirandola e ricucendo gli strappi; scottava ed era febbrile, sudato. Mugolavo ogni qualvolta tirava e Aurelien vibrava dal suo sonno senza sogni.

Julienne arrivò con il respiratore e mi sentii più leggera; la mascherina copriva naso e bocca, il respiro sembrava acquistare vigoria anche se ogni dieci minuti lo puntellavano con iniezioni di diuretico. Si divisero i compiti, alternandosi dal malato meno grave sul divano –sempre vegliato da Ines- e quello da tenere sotto osservazione, intubato nella mia stanza da letto.

Deesire, puoi andare a riposare adesso. Non c’è null’altro che possiamo fare.”

“Voglio restare qui.” E calai il capo sul suo braccio inerme, fra una preghiera e un pianto silenzioso.

 

Aprì gli occhi dopo sei giorni di coma artificiale.

Deesire?!” Sembrò una domanda incredula, come la mia commozione; lasciai cadere in terra la pezzuola con la quale gli stavo detergendo il viso per prendergli le mani e baciarle. “Sei qui..”

“Dove altro potrei essere?!” Soffocai il pianto nel suo palmo, premendo forte la mano contro lenzuola con la mia fronte che spingeva giù per attutire i colpi dei singhiozzi.

“Non è successo niente.” Con l’altra mano, si posò debolmente sul mio capo, “sei qui, il resto non conta.” E sospirò addormentandosi di nuovo.

 

Sentii una mano, dal fondo di un sogno astratto, agitarmi la spalla. “Deesire..”

“Mamma!” Mi allarmai, spaventata per aver chiuso gli occhi; era buio fuori le imposte. Controllai il respiro di Aurelien, lineare; sorrisi e mi stupii di essere ancora capace di farlo.

“Devi mangiare.” Alla parola mangiare, sobbalzai inorridita.

“Benjamin!” Vibrai, come colpita da una scarica elettrica; avevo dimenticato completamente mio figlio.

Mi guardò affettuosamente, parlando con estrema e dolce lentezza. “E’ con Cedric adesso. Abbiamo comprato del latte artificiale, sta tranquilla.”

Tranquillaaa?!” Balzai in piedi, guardando Aurelien e poi l’ingresso. Poi di nuovo Aurelien, con il cuore in frantumi e il richiamo viscerale da madre di nuovo arzillo. “Urla, se dovesse aprire gli occhi! Chiaro?!” E schizzai via dalla stanza spostando l’aria; Cedric era comodo su una poltrona da basso, con Benjamin urlante di gioia sulle sue ginocchia.

“Oh-oh.. mamma infuriata a ore tre!” Mi passò il piccolo senza batter ciglio, “ciao sorella!” Non vedevo mio fratello da un secolo e mezzo, più o meno, ma non avevo il tempo di sbrodolarmi in cerimonie stucchevoli. In salone c’erano papà con la faccia tesa e svuotata, Arnauld con il giornale aperto a mezzaria ed io che armeggiavo con i bottoni della camicetta per allattare Benjamin. “Ha appena mangiato..” Cedric tentò di fermarmi paonazzo in viso, “.. ma immagino che a te non importi un bel niente. Prego, fa pure.” Il bambino si attaccò immediatamente al mio capezzolo, gli accarezzai la tempia piangendo.

“La mamma è qui adesso.” E lo cullai fino alla cucina, dove riversai la poltiglia di farina e latte vaccino nel rubinetto. “Niente più schifezze per il mio ometto.” Mi asciugai gli occhi, conducendoci nuovamente al capezzale di Aurelien.

“Non può stare qui Deesire.” Rimbrottò Clorine, vedendomi entrare con Ben.

“E chi lo dice?! Sono sua madre, lui resta dove sto io.” La guardai con il fuoco negli occhi, “latte artificiale! Se volevi uccidermi potevi servigli direttamente cianuro!”

“Sei cocciuta come un mulo!” Si alzò di getto, facendo scivolare la sedia all’indietro. “Ti abbiamo pregata di riposarti e tu no, ti abbiamo pregata di mangiare e tu sempre no. Sei rimasta ostinatamente attaccata a questo letto per sei giorni di fila. Sei lercia, hai i vestiti tutti strappati ma è tuo marito che rischia la vita, va bene e lo capiamo. E’ di Benjamin che parliamo adesso, cosa dovevamo fare?!”

“Io ci sono. Mi farei togliere la vita per lui.” Soffiai col muso duro e poi piansi maledette lacrime di frustrazione e Dio solo sapeva cosa. Ero sensibile e agitata, troppo. Passai Benjamin da un seno all’altro ma lo rifiutò, ormai sazio. “Come ho potuto..” la guardai sul crollo di una crisi di nervi, lei mi sorrise accarezzandomi le spalle. “Sei stata coraggiosa. Al posto tuo sarei crollata dietro tuo padre, non avrei sopportato l’idea di vederlo immobile, vulnerabile, incerto. Ma è di te che stiamo parlando, no?! La mia cocciuta e forte Deesire.”Allungò le braccia per prendere Ben e glielo passai con estrema delicatezza.

“Faccio spostare la culla qui se vuoi. Da come sbatte le palpebre questo ometto ha bisogno di riposare. E non solo lui.. sono sempre la tua mamma apprensiva Deesire, certe cose non cambieranno mai.” Mi baciò la guancia e sparì nella stanza accanto.

“Sempre a bisticciare voi due..” Un fil di voce rauca proruppe nel silenzio; Aurelien aveva riaperto gli occhi e stava.. ridendo. Ridendo! Aprii e chiusi la bocca incapace di dir nulla, non c’era visione più bella e paralizzante del suo sorriso in contrasto con la pelle pallida ed emaciata. Passi affrettati per le scale mi avvisarono dell’arrivo della truppa –credo più per il baccano messo su da me e mia madre che per l’ingente miracolo appena avvenuto- con Clorine in testa riemersa dalla nursery, seguita da Arnauld –occhiali calati sul naso e l’immancabile stetoscopio al collo- mio papà, Ines e Cedric che mi spodestarono senza tante scuse dalla prima fila; finii a boccheggiare sola e spaurita dietro la pienezza della nostra famiglia al completo.

Arnauld scansò la mascherina dal suo viso, controllando pulsazioni, riflesso delle pupille e lingua; annotò soddisfatto i parametri, si deterse le mani applicando i guanti per rimuovere le bende dalle ferite, annusò gli umori delle stesse e sorrise. “Bel lavoro Deesire. Stanno guarendo in modo impeccabile. Come ti senti Aurelien?!”

“Come se mi fosse passato un treno merci addosso.”

“Sì più o meno deve essere questa la sensazione che si prova.”

“Che mi è successo dottore?!”

“Non ricordi nulla?!”

Si accigliò. “Credo di ricordare solo cose spiacevoli.” Guardò fuori la finestra, quella sui tetti della città e rabbrividì. “Volevo sapere della mia salute, dottore.” Sorrise ancora, era una benedizione guardarlo; i nostri occhi si trovarono nel mezzo degli sproloqui di Bertrand su ciò che era accaduto, della sua situazione clinica e ben presto restammo solo noi in quella stanza. Accarezzò la mia paura con voce vellutata, invitandomi al suo capezzale. “Ti voglio vicina, qui.”

“Aurelien!” E come se mi fossi svegliata dal torpore, corsi ad abbracciarlo; era dimagrito e le sue spalle larghe ancora più prominenti. “Aurelien!” Baciai ogni centimetro di pelle del petto nudo libero da garze e cerotti, poi il collo, gli occhi, le labbra.. perdendomi nella disperazione dal sapore dolceamaro; era rimasto con me, martoriato ma vivo e presente. “Non farmi mai più una cosa del genere! Mai più!”

Asciugò con il pollice le lacrime ai bordi delle mie ciglia, sospirando. “Ehi sono vivo adesso, non piangere, sono qui.”

Lo guardai truce. “Tu devi vivere sempre.” Premetti le mie labbra contro le sue con foga e abbandono tanto che si accasciò all’indietro portandomi giù con lui, per le spalle. “Non merito una gioia simile ma.. la tua vita è la cosa più preziosa per me ed io sono felice, felice, felice di averti qui con me!”

Deesire devi aver battuto la testa da qualche parte, sai?!” Rise fra i miei capelli, accarezzandomi la schiena. “Tu meriti di essere una signora molto felice. Ti ricordi?!” Assentii ricordando la sua promessa al nostro primo ballo, “beh io non l’ho dimenticato. Per me.. è ancora così.”

Annuii con gli occhi umidi. “So che hai detto a Danielle che mi aspettavi.” Mi sfilai dal collo la catenina con la fede e gliela porsi, infilandola al suo; baciò il crocefisso e l’anello e mi guardò intensamente.

“Non ho mai smesso di credere in te. Tu credi in noi?!”

Ci credevo? Avrei varcato la soglia di casa, girato le spalle alla nostra vita bella e dura perché eravamo giovani e impetuosi, percorso tutta la città e seguito quel soldato fin capo al mondo?! Ero davvero pronta a rinunciare ad Aurelien? Cosa era quel filo che ci legava, come una trottola che girando a lungo su stessa tornava sempre al punto di partenza? Non avevo la risposta e non l’avevo avuta per un sacco di volte, ma quel che era certo e che non avrei mai più lasciato il mio posto.. perché quello era il mio posto; separati davamo vita alle grandi catastrofi della nostra esistenza, insieme tutto era sicuro, dolce.. e mio da poterlo toccare con le mani. Mi sentivo amata da questo uomo straordinario ed io amavo lui, non c’era nessun copione da ripetere a memoria; amare Aurelien, vivere con lui, era sempre stato così naturale, dopotutto. Fabien Moreau sarebbe rimasto per sempre l’altro grande amore della mia vita; ma quella vita era esasperante e sembrava un miraggio da deserto africano. Non si vedeva mai la fine. Solo immagini sfocate e deliranti.. per quanto deliziose. Quella vita un po’ pazza e irragionevole.. allo zenzero e cannella.

Ma.. era stato il tocco di lavanda a rendere il tutto davvero speciale.

“Io non funziono bene se tu non ci sei.” Tirai su con il naso, affondando la testa nel cuscino alle sue spalle, “oh Aurelien.. mi dispiace così tanto! Così tanto!” Mi abbracciò, lui che infondeva coraggio a me. Si poteva chiedere qualcosa altro ancora al creato?!

“Una volta mi hai detto che la tua casa è dove sono io; entra dentro me Deesire e stai comoda qui. Non chiedo altro, non desidero altro. So che ti ho trascurata, so che i miei obbiettivi mi hanno distratto dall’unica cosa davvero importante; te. E so che in qualche modo.. Fabien ha avuto il privilegio di.. sentirti in un modo a me sconosciuto. Non voglio sapere come, non adesso perlomeno. Non mi importa più di quanto mi importa sapere che sei qui con me e ci vuoi restare. E questo non mi basterebbe comunque, ho bisogno.. disperato bisogno di sapere che tu credi in me e soprattutto in noi.” Mi portò in posizione eretta, affondando lo sguardo cerchiato e nero nel mio; la mia bocca una linea dura e asciutta incapace di proferir verbo. Sorrise, stemperando l’ansia e aggiunse il resto con un risolino ironico, “non reggerei un altro colpo, stavolta.” Mi solleticò il labbro inferiore con l’indice, gli occhi socchiusi.

Deglutii, inspirando sul suo tocco leggero al mio viso. “Credo in te perché sei la persona migliore che io conosca. Voglio amarti per il resto dei miei giorni, davvero.” Sfiorai con i polpastrelli il petto rasato e mi fermai all’altezza del cuore. “Questo lo lasciamo intatto. Ho passato una brutta giornata nell’incertezza che te ne saresti andato.”

“Immagino.” Rise e sospirò affaticato.

“Ti lascio riposare. Hai bisogno di qualcosa?!”

“Solo del tuo amore.”

Scossi il capo; il mio mieloso liege era di nuovo con me. Tutto sarebbe andato a posto.

Uscii dalla stanza incontrando gli occhi lucidi e rossi di Ines; ci guardammo a lungo prima di abbracciarci forte. Non capii il senso ma ricambiai con trasporto.. era confortante farsi consolare quando il mondo dal baratro scuro che ti ha fatto saggiare, ti apre un spiraglio di luce. “Arnauld dice che si riprenderà. Ma a che prezzo.. credo non voglia sbilanciarsi e tenerci alta la guardia.” Fu come una doccia gelata, non avevo minimamente preso in considerazione le conseguenze ammesso appunto ce ne fossero. “Ines è giovane e forte.. è il mio liege.. è riemerso dal sonno per sgridarmi, santa pace!”

“Qualcosa di profondo.. ha detto. Qualcosa di profondo..” si strinse ancora più forte, improvvisamente singhiozzando; la strinsi per le spalle, accarezzandola. No, Aurelien non sarebbe morto. Lo sentivo.

Shh.. calmati Ines, una cosa alla volta. E’ con noi, adesso. Domani penseremo al resto.” Sì, pensai con l’anima ferita, domani. Oggi no, Aurelien era vivo. Aurelien era con noi.

Tremò, incrociando lo sguardo ferito con il mio. “C’è dell’altro?!”

“Jacque ha avuto un infarto. Martin è dovuto correre in ospedale.” Singhiozzò, scuotendo il capo. “Non ha superato lo shock. Quando ha saputo che Aurelien era in fin di vita.. non ha retto il colpo.”

“Jacque è..” non riuscivo nemmeno a pronunciarla quella parola, lei annuì sconfortata.

“Morto.” Sussurrò con voce strozzata, “cosa sta succedendo Deesire?!” Cosa stava succedendo? Perché lo chiedeva a me, supponeva che avessi tale risposta? Erano poche le cose che sapevo con certezza; ero passata in fretta –e come un tornado devastante- dall’essere una moglie in procinto di fuga a una moglie redenta, Aurelien era tornato e mi chiedeva di restare e Benjamin il mio adorabile figlio per una ragione a me sconosciuta, era stato cancellato dalla mia memoria di madre in fase di tragedia. Ecco, questo era quello che sapevo al momento, la morte di Jacque così improvvisa apriva porte sull’ignoto e destabilizzava le poche certezze che mi tenevano con i piedi per terra; provai una fitta di terrore al pensiero di occhi verde bottiglia tristi e sconsolati. “Qualsiasi cosa stia succedendo, Aurelien non lo deve sapere. Non oggi.” Scacciai via gli spauracchi dalle mie spalle e respirai a fondo, “ti prego Ines, sei sua madre. Fatti coraggio.”

Asserì con il capo asciugandosi gli occhi e si sistemò i capelli con mani svelte. La congedai, guardandola entrare malferma sulle gambe nella stanza di suo figlio ed ebbi un improvviso conato di vomito; Arnauld apparì alla mia vista risalendo per le scale, con mano salda mi aiutò ad appoggiarmi al corrimano in ferro battuto. “Dobbiamo fare quelle analisi Deesire.”

Sospirai, non potevo più rimandare.

 

Tre giorni dopo nel cimitero di Père-Lachaise, ci stringevamo tutti Bonnet e Chedjou per dare l’ultimo saluto a quello che era stato il pilastro delle ormai ex aziende Chedjou; c’era aria di sconfitta fra noi, eppure nel vento che mi scarmigliava e frustava percepivo una resistenza e una forza che non avevo mai avuto, crescermi dentro. Non avrei permesso alle mia famiglia, la vecchia e la nuova, di affondare. Mai. La casa era un via vai di gente sconsolata, grigia e tenue come il cielo di Parigi; da quando i tedeschi erano arrivati era quello il colore predominante, grigio tenue. L’umore -che non era già dei migliori fra i concittadini causa invasione- era risollevato dai vecchi racconti di Martin su suo padre e dagli amici di infanzia di Jacque, oggi avvocati, notai ma anche marmisti, piastrellisti –pareva essere piuttosto versatile nella scelta delle sue amicizie trovando questa caratteristica squisitamente affine al nipote- spargendo tutto intorno una tranquillità che non speravamo certo di trovare così presto. Jacque era stato un leone, un vero dominatore, la sua vita era stata costellata di successi privati e personali lasciando niente al caso e nulla di incompiuto. La sua morte, tragedia per tutti noi, era esattamente ciò che lui rappresentava; un uomo che avrebbe dato la vita per la sua famiglia e per l’impero dalla quale essa dipendeva. Per ironia della sorte così era stato, ma Martin ci aveva convinto che se avesse potuto, dall’al di là, avrebbe alzato un calice di champagne brindando alla faccia dei nostri musi lunghi per la sua perdita, perdendosi in grosse risate.

Deesire fatti aiutare.” Maitre Gerald era stato così gentile da aiutarmi con il buffet; erano giorni che lo vedevo gironzolare per la casa, spesso chiudersi in camera con Aurelien a confabulare e ridacchiare. Era l’unico che riusciva a strappargli un sorriso e benedii la sua presenza; il mio liege era cupo, si sentiva responsabile dell’accaduto e riportarlo in alto era un compito arduo e stancante. L’aspetto clinico della sua situazione invece andava migliorando per grazia di Dio, ma il dottor Bertrand non si lasciava andare a positivismi eccessivi. Era frustrante e allo stesso tempo essenziale; avere una finestra aperta sulla realtà mi permetteva di non vivere di sogni e godermi realmente e pienamente mio marito. “Va a sederti, torno subito.” E nell’attimo in cui mi sbottonai il colletto del vestito accingendomi a sedermi, suonò il campanello; alzai gli occhi al cielo inveendo sotto le cupe risate di Gerald.

Mi fermai di colpo. Un uomo in divisa e armato della Waffen-SS teneva alto il cartellino identificativo guardandomi sardonico. “Madame Chedjou, suppongo?!”

“Proprio io.” Guardai ansiosa alla pistola e quello la sfiorò alzando le spalle.

“Sono venuto ad interrogare monsieur Chedjou circa l’accaduto alle fabbriche.”

“Mio marito ha bisogno di riposare, sono certa che può eseguire il suo interrogatorio in un altro momento.” Stavo per chiudere la porta, ma l’uomo intrufolò il piede fra me e lo stipite impedendo che si chiudesse. “Ha un preciso ordine, generale Steiner?!” Imprecai con voce stridula.

“Ordini delle SS madame.” Storpiò l’appellativo come ero abituata ormai a subire, ma se non altro fino a quel momento si era sforzato di parlare un francese decente. “Suo marito è al piano di sopra?!” Ripiegò il mandato guardando intorno, dentro la casa. Annuii irritata, aprendo del tutto la porta e facendogli strada.

“Una casa bellissima.” Inspirò alle mie spalle, camminando con eccessiva lungaggine. “Non è sola.”

“Una veglia funebre. Una cosa triste e noiosa. La prego di seguirmi.” Vidi l’ombra di mio padre spuntare da dietro la parete del salone principale, gli occhi subito sospetti e circoscritti; proseguii con andatura sicura, gradino dopo gradino, senza esitazioni. Dovevo liberarmi del panzer il prima possibile.

“Il lutto è per suo nonno, giusto? Condoglianze.”

Deglutii, “il nonno di mio marito. Per di qua.” Indicai la porta e bussai; Aurelien mi rispose con un fil di voce. “Amore l’ufficiale Steiner delle SS vuole interrogarti. Te la senti di parlare?!”

L’uomo mi scavalcò, arricciando il naso per l’odore forte di disinfettante. “Ho un mandato monsieur Chedjou.”

Entrai spazientita e richiusi la porta con teatralità; mi avvicinai al letto aiutando mio marito ad ergersi con il busto, impilandogli il cuscino dietro la schiena. Mi ringraziò mimando con le labbra, pregandomi con lo sguardo angosciato di andare via, ma gli strinsi forte la mano scuotendo impercettibilmente il capo. “Ufficiale Steiner la prego di attenersi alle buone maniere, come può vedere con i suoi occhi mio marito necessita di tranquillità.”

“La prego di perdonare le mie maniere rudi madame. Solo qualche domanda veloce.” Tirò fuori un taccuino e la penna e guardò Aurelien con i suoi occhi glaciali. “Bene monsieur mi dica, cosa è successo esattamente il giorno del crollo?!”

“Ero alle aziende come di consueto. I suoi preposti hanno fatto irruzione e portato via delle persone. Poi c’è stato il caos, il fuoco e il crollo.” Aurelien per nulla colto in fallo recitò la sua versione dei fatti come il compito di un bambino delle elementari; il soldato alzò un sopracciglio perplesso.

“Dove era lei al momento dell’incendio?!”

“Ala est.”

“L’incendio è scoppiato nell’ala ovest.”

“Questo deve dirmelo lei.”

“Ala ovest, settore produzione.”

“Un bel danno a quanto pare.”

“Già, il cuore pulsante della macchina.” Si infilò la penna dietro all’orecchio ghignando. “Mi chiedo come faccia a starsene qui calmo quando ha perso tutto.”

“Ufficiale Steiner..” sentii montarmi l’adrenalina, Aurelien allargò gli occhi spaventato. “Mio marito è mezzo morto per difendere i propri interessi e guardi come si è ridotto! Sa cosa gliene importa adesso delle fottute aziende?!”

Alzò le spalle, guardandoci in segno di sfida. “Peccato.. una bella proprietà sulla quale mettere le mani.”

“I nostri avvocati sono ben pagati per lavorare a questo. Questo e.. altro. Pensi che coincidenza se si scoprisse che l’incendio ha natura.. polverosa. Piombo per l’esattezza. Piombo dalle nostre macchine e piombo nei vostri fucili. Che bel dilemma, eh?! Dove pensa che andrebbe a cadere l’ago della bilancia?”

“Sulla verità, madame.”

“Oh sì sulla verità. E scommetto che lei l’ha già appuntata sul suo bel blocchetto proprio pochi minuti fa.” Tentò di replicare ma ero un fiume in piena con argini fragilissimi, “se non ha altre domande da farci la prego di andarsene da casa mia, ufficiale. S.U.B.I.T.O.”

“Ha sentito cosa le ha appena detto mia figlia, ufficiale?!” Ahmed spalancò la porta esibendo una carta bollata, “qui ci sono elencati i nostri diritti. Ha il dovere di andarsene se non è gradito; possedete il territorio, non le persone.” Quello ci guardò stupefatto, infilzò la penna nel taschino, il blocchetto nella giubba e a passi pesanti e cadenzati raggiunse l’uscita. Lo segui svelta, con i battiti accelerati per la prova di coraggio appena compiuta; si richiuse la porta alle spalle in una nuvola di imprecazioni incomprensibili sparendo per il boulevard solitario.

 

“Perché fai tutto questo?!” Aurelien era tornato angosciato e depresso, la vista dell’ufficiale non lo aveva minimamente scalfito. “Quello che dice il crucco è vero: abbiamo perso tutto.”

“Abbiamo perso tutto è vero, ma non la dignità.” Sistemai il cuscino dalla sua schiena alla testa, aiutandolo a distendersi; aveva i muscoli contratti e tesi, dimagriva a vista d’occhio. “Ti amo Aurelien, se può sembrarti un buon motivo.. lo faccio per questo.” Mi girai, papà ci guardava imbarazzato, lo pregai di aiutarmi a servire la cena e congedare gli ospiti; c’era in corso una veglia funebre di sotto e lo avevo completamente dimenticato. Sentii dopo poco scemare il vocio e tornare la tranquillità sulle nostre teste.

“Se mi fossi fermato forse..”

“Piangeresti la gente che invece hai salvato.” Gli strinsi le mani, sedendogli accanto. “Hai avuto coraggio, nessuno al posto tuo avrebbe fatto altrettanto.”

“Non ho pensato alle conseguenze. Sentivo le urla.. nella testa le sento ancora.”

“Aurelien, guardami.” Gli girai il viso di prepotenza, fisso su di me. “Ero sul lastrico quando tuo nonno ha accettato di unire le nostre famiglie in una sola e tu mi hai sposata senza remore; oggi ti guardo e penso che sei esattamente come lui.. altruista, intelligente, un uomo assennato. Ti conosco, avresti vissuto una vita tormentandoti se non avessi agito in quel modo.”

“Lo so. Tu mi conosci proprio bene.”

“Allora fammi essere per te quello che tu sei per me; ho parlato con Ahmed, riscatteremo delle quote dalla fusione con le aziende Fontaine, qualcosa attingeremo dalla vendita del mio libro e dai biscotti e.. rinasceremo. Credo ci vorrà del tempo, non mi intendo di finanza.. ma accidenti! Qualcosa tireremo fuori!”

Sorrise, portando la mano verso la mia guancia, “non finirai mai di stupirmi.”

“Oggi non faccio eccezioni, difatti.”

Mi guardò accigliato, lo abbracciai nascondendomi sul suo collo. “Aspetto un bambino Aurelien.”

 

****

 

“Papà! Papà!”

“Benjamin aspettaci, non correre!”

A dispetto di tutto, Aurelien rimase con noi.. sette anni dopo l’incidente alle fabbriche; tre anni prima, un venticinque agosto di tumulti e ribellioni, gli alleati sbarcati in Normandia arrivarono finalmente a Parigi, debellandoci dalla morsa dei tedeschi. Accadde tutto molto velocemente, ci trovammo spauriti e in balia di noi stessi, ma ebbri di vita e gioia.. e di voglia di ricominciare, costruire, pulirci del fango piombato su di noi sotto forma di malattia mondiale; quasi tre milioni di soldati francesi persero la vita per perorare la libertà e darci nuova vita, cinquecentomila civili ebrei, sinti, rom, omosessuali.. una vera catastrofe che macchiò per sempre la dignità dei francesi, tutti. Ma imparammo che dal male comune insieme si può rinascere e fu così che rinascemmo, francesi di Parigi e non e gettammo basi per un futuro allora tutto ancora da scrivere.

“Preso!” Aurelien sollevò Ben in aria, mettendoselo a cavalcioni sulle spalle; il mio frugoletto dagli occhi azzurri grandi come pozze, rise di gusto. “Lo sai dove siamo?!”

“Sì.” S’accucciò con il mento sui folti capelli ramati del papà; rosso contro cenere.. un bell’effetto emotivo per il mio cuore tumultuoso. “Qui è dove ci sono i mostri con le braccia di ferro che costruiscono le cose!”

Aurelien mi lanciò un occhiata divertita, “è questo che ti racconta la mamma?!”

Mh-mh. Posso vederli papà?!”

“Oh sì certo e potrai lavorarci come faccio io! Un giorno questo sarà tuo.” Aurelien circoscrisse lo spazio dinnanzi a lui con mano aperta; due edifici già costruiti sugli scheletri dei precedenti ceduti al crollo e altri due che mano a mano stavano prendendo forma, voluti dal suo progetto di ampliamento mirato alle tecniche di costruzione e vendita del futuro. “Proprio come lo è stato del nonno e di mio nonno prima di lui.”

“Ma posso fare anche il pasticcione come la mamma?!”

“Si dice pasticcere Benjamin!” Gli arruffai i capelli alzandomi sulle punte, poi guardai Aurelien con misto di divertimento e rassegnazione. “Ne riparleremo fra qualche anno, ok?!” Ben annuì scalpitando, il suo papà si chinò lasciando che il ragazzino lo scavalcasse. “Non oltrepassare il cancello!” Ed era già schizzato via da noi.

“Wow!” Aurelien si lasciò andare ad un sospiro, passandomi un braccio sulle spalle. “Un altro indeciso Chedjou.” Ci guardammo profondamente, consapevoli e taciti di quella verità, prima di essere catturati dall’urlo di stupore di Ben verso il gancio meccanico della gru che alzava i blocchi di cemento. “Mostri dalle braccia di ferro eh?!” Ci incamminammo sempre stretti, la mia mano sulla sua avvinta al mio braccio. “Mio nonno si starà rivoltando nella tomba..”

“Tuo nonno sarebbe fiero, invece. Guarda cosa sei stato in grado di fare.”

“Già. Ci pensi?! Trecento operai e un reparto di spedizione tutto nostro.” Si fermò salutando con la mano gli operai chini sui calcinacci o sulle impalcature; tutti si tolsero il cappello alla sua vista, squadrando poi me da capo a piedi. Mi faceva sempre sorridere questa cosa, a ventotto anni ero una bella donna in carriera, mamma e moglie devota, con il viso segnato da qualche sofferenza ma negli anni della guerra ognuno di noi aveva qualche cicatrice scritta in volto.

La mia più grande aveva il nome di Fabien.

Non era mai più tornato dalla guerra, al suo posto un giovane soldato aveva bussato alla porta in un pomeriggio afoso di fine settembre consegnandomi la sua placchetta identificativa; sembrava avesse espresso il desiderio di farmela avere, se mai gli fosse accaduto qualcosa. E qualcosa purtroppo successe; disperso in Normandia durante gli ultimi disperati tentativi dei soldati tedeschi di ripiegare, il suo corpo non era mai stato ritrovato. I morti senza nome, li chiamavano. Quello che mi restava di lui era soltanto una placca, la foto di lui e sua madre ripiegata nel portamonete e un atto notarile in cui mi lasciava degli immobili come eredità. Anche Madeleine era sparita, la sua bottega porta i loro nomi ed è stata trasformata nel laboratorio di biscotti che mi ha aiutato a rialzare la famiglia; penso spesso a loro e quando lo faccio è come se una parte di me perisse insieme a loro. Non so se era tutto già scritto in un piano ben preciso del destino; Fabien mi aveva salvato -e sebbene io credessi il contrario- io avevo salvato lui da se stesso. Voleva cambiare il mondo, dare un futuro a suo figlio in un posto migliore. Non so se ci è riuscito, il futuro è ancora in costruzione ma di certo Benjamin è stato un bambino fortunato soprattutto grazie a lui; alla maggiore età avrebbe ereditato le aziende Chedjou o se le sue voglie da pasticcione fossero cresciute avrebbe portato avanti quello che sua madre e suo padre avevano cominciato nel caldo agosto dell’anno della sua venuta; la produzione di biscotti presto divenuta una joint venture europea. Ne avrebbe avuto tutte le potenzialità, dotato di un grande intuito e genio artistico. Era ed è tutto suo padre, ovunque lo si guardasse.. ma il padre è chi ti cresce, ed è per questo che quando lo vedevo dare ordini, organizzare con metodo la sua piccola vita, togliersi il cibo di bocca per darlo ai barboni sui boulevard io ci vedevo tanto anche di Aurelien. Era così e andava bene, avevo giurato che mai più avrei fatto loro del male, ed è per questo che mi svegliavo ogni mattina con la forza e la voglia di andare avanti, per scoprire un altro giorno insieme ai miei uomini del cuore; vivevo per i loro sorrisi, per il loro amore e non chiedevo di più. Avevo camminato per l’inferno, portavo le miei cicatrici ma c’era sempre qualche altro successo da festeggiare.

 

“Pensi a lui, vero?!” Aurelien mi sfiorò la guancia con la mano; prese un casco allacciandolo alla testa, sorridendomi. “Lo amavamo tutti, non devi essere triste o vergognartene.”

“Grazie, davvero. E’ che quando sono così felice..”

“.. pensi a lui. Sì, capita anche a me. Non posso che ringraziarlo, ovunque esso sia.”

Sentii gli occhi pizzicarmi, Aurelien mi guardò con infinito amore, stringendomi forte la mano. “Si è preso cura di te quando io non ero in grado di farlo e lo ha fatto anche dopo.” Pensai velocemente al momento in cui gli avevo comunicato delle eredità lasciate a me dal cugino come ultimo desiderio e sorrisi al ricordo della sua estrema razionalità e calma come reazione. Scossi il capo, guardandolo con gratitudine; ricambiò lo sguardo, ma stavolta intenso e fermo. “Figlio mio, figlio suo.. io vi amo incondizionatamente Deesire.”

Gemetti, buttandogli le braccia al collo. “E noi amiamo te.” Qualcuno dai piani alti fischiò, strappandoci un sorriso. “Ma adesso è meglio che vai, i tuoi operai credono che stiamo dando spettacolo.”

Annuì compito. “Faccio un giro di ricognizione e vi porto in centro a prendere un gelato, promesso.” Mi baciò delicatamente, per poi sparire all’interno dell’edificio ormai completato, mano nella mano con Benjamin, il suo caschetto di protezione e il sorriso del bambino che sta per entrare nel paese delle meraviglie. Sospirai nuovamente, vinta d’amore.

Ero esattamente dove dovevo essere. Dove volevo essere.

 

*

NDA:

Innanzitutto perdonatemi la lunga assenza; ero in vacanza! Yeahh!

(Ma già in modalità depressione per il rientro.) Nooo L

Ho cercato di unire le idee e fatemi dire che non è stato per niente facile, visto come è sviluppato il finale di questa storia nella mia testa; vi avevo lasciato con Deesire pronta a mollare tutto per Fabien, ma il destino si sa, quando ci mette lo zampino crea situazioni che non ti aspetti e in questo caso la nostra protagonista, ha dovuto far fronte ad una situazione del tutto inaspettata. Niente lieto fine dunque per lei e Moreau.

Non odiatemi. E non fatelo neanche per il salto temporale di anni ma credo che parlare ulteriormente di Deesire/Aurelien fosse insano e che tutto ciò riguardasse la loro vita negli anni della guerra fosse naturalmente esaurito. Li ho lasciati pieni di speranze e in attesa di un figlio stavolta “tutto Chedjou” e ve li ho fatti ritrovare dopo sette anni alle prese della rinascita post-guerra. Perché? Perché per me questa storia non è finita, o meglio non ho ancora concluso “Zenzero e Cannella” di tutti i suoi capitoli; apparentemente può sembrare terminata, ma ho ancora qualcosa da raccontare. La mia intenzione è di postare un altro capitolo; per chi volesse continuare a seguirmi GRAZIE DI CUORE, per chi ne ha abbastanza GRAZIE DI CUORE UGUALMENTE, siete stati tutti meravigliosi.

Mi dispiace tantissimo avervi fatto aspettare e aver notato che qualcuno ha tolto la storia dalle seguite ma ok arrivo a capire le diverse motivazioni, solo mi sarebbe piaciuto aver letto i vostri pareri anche se negativi! Sono masochista lo so!

Per il resto mi auguro di avervi allietato e di non aver annoiato nessuno.

A presto,

Lunadreamy.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 15.

 

Parigi, 1960.

 

L’odore fuso di burro si perde nell’aria come una nuvola dolce; i bambini di Montmartre giocano in fila sul marciapiede, aspettando il loro turno per entrare in negozio. Adoro le loro risate, sono un toccasana per il cuore. E la bottega ne è sempre piena. Continuo a chiamarla così, anche se sono passati venti anni, due cuochi pasticceri e parecchi metri quadri in espansione; è il mio piccolo tesoro nell’antica Parigi, dove tutto è cominciato e sono partite le idee e i dolci, per le altre cinque sedi in Europa. Sono un imprenditrice adesso, sebbene conservi immutato nel tempo il mio aspetto da signora più intraprendente che viveuse e senza guardare con disdegno giornate come questa passate in cassa a consegnar resto.

“Buongiorno!”

Una ragazza dai lunghi capelli castani sorride, venendomi incontro dalla strada; apre la porta energicamente facendo tintinnare le campanelle appese alla porta. Con lei una scia di profumo dolce, burro e spezie e un fascio di libri rilegati sotto al braccio. E’ bella. E’ mia figlia, Najla Louise Chedjou.

“Aspettiamo che Albertine si cambi e andiamo, ok?!” Le sussurro, vedendola battere impazientemente il piede in terra; è irrequieta proprio come suo padre. Gli ha rubato anche gli occhi, profondi e intensi di un verde bottiglia imbarazzante. “Oh Aurelien…”.

La cassiera spunta dal retro trafelata, con il colletto del grembiule tutto storto; è giovane, una studentessa della Sorbona al suo primo lavoretto. Le sorrido affettuosamente sistemandoglielo con cura e rinnovo l’appuntamento all’indomani. Potrebbe essere mia figlia penso, stupendomi del desiderio recondito di avere un altro figlio. Sto invecchiando, penso fra me e me afferrando borsetta e soprabito.

“Mi domando spesso perché lo fai.” Najla mi prende sotto braccio, mentre ci addentriamo nei vicoli del quartiere, in direzione del marchè Barbès, un intrinseco di bancarelle della più variopinta specie; abbigliamento, antiquariato, viveri da ogni paese, dischi, libri.. il paradiso insomma, per due come noi che hanno fatto del sabato un appuntamento fisso per girovagare fra quelle meraviglie. “Voglio dire adesso è tutto sistemato, potresti benissimo stare a casa a poltrire sul tuo taccuino e le tue ricette.”

Le stringo teneramente il braccio, guardandola con rammarico. “Mi aiuta a non pensare.”

“Oh mamma.. non volevo dire che..” Mi punta addosso uno sguardo affranto, stringendosi forte alla mia mano, “perdonami, sono stata indelicata.”

“So cosa volevi dire, tranquilla.” Le bacio la guancia, sentendola sospirare. “E’ come la medicina, per te. Una missione che ti aiuta ad averlo vicino, suppongo. Così le mie cose, mi aiutano alla stessa maniera. Tuo padre non se ne è mai andato veramente. E’ dentro di noi, in ogni cosa che facciamo.”

“Oh sì, vero! Quando ho il capo chino sui tomi di medicina sento che è come se fosse lì con me e mi sussurra dolcemente “mon cherie, non abbatterti! Troverai la cura per il male oscuro, credici e qualcosa succederà, vedrai!”.”. Guarda lontano, poi al cielo terso di un inizio maggio con un lampo di determinazione negli occhi. “Ce la metterò tutta papà, te lo prometto.”

“Era un inguaribile ottimista.”

“Sì. Ti manca tanto, vero?!”

“Moltissimo.”

“Un giorno spero di vivere un amore come il vostro.” Sospira, alzandosi i capelli con il foulard stretto al polso. “Nel frattempo cercherò di innamorarmi di quei vestiti vintage laggiù. A dopo mamma.” Mi bacia leggera e scappa al banco saltellando nel suo vestito a ruota color smeraldo. E’ una visione deliziosa; tocca tutto, sbuffa, si acciglia, sorride, prova questo, poi quello in turbinio di colori e movenze.

Aurelien ne era innamorato cotto, ma il destino ha scandito un tempo troppo breve di vita insieme per loro, per noi; un giorno, qualcosa nei suoi polmoni si è risvegliato ed è cominciato tutto con una tosse tremenda. Il dottor Bertrand ci aveva preparato a questo, ma viverlo realmente è stata tutta un’altra cosa. Non ci si abitua mai veramente alla paura di perdere qualcuno che amiamo, anche se siamo pronti, inconsapevolmente il nostro cuore ci chiede altro tempo, un po’ di speranza, giustizia. Se ne è andato all’inizio di un freddo Novembre di cinque anni fa, ormai. A Parigi c’era la neve. Quel giorno ha aperto gli occhi e sorrideva, guardando fuori la finestra; non era pallido, non era emaciato, la tosse sembrava persino scomparsa. Avevamo parlato tanto del desiderio di acquistare una casa al mare, magari a Marsiglia per sentirci più “vicino” alla nostra Africa e per il bene dei suoi polmoni, ma dal tono pacato e quasi distante della sua voce avevo intuito che non si sentiva davvero parte di nessun progetto che riguardasse il futuro; i suoi occhi erano lucidi e vacui, tranne quando i nostri sguardi si incrociavano, allora divenivano ardenti e pieni d’amore. Non c’era stato bisogno di aggiungere altro, ci eravamo assolti dai peccati molto tempo prima, amandoci di un amore consapevole e in grado di cambiarci l’esistenza. Le parole più belle furono per Benjamin, le aspirazioni, i suoi desideri riposti in quel ragazzino quindicenne alto e magro come un chiodo; lascialo andare, mi disse e sulle prime non capii.

 

“Fa che scelga ciò che lo rende davvero felice. Non vorrei saperlo da solo con i suoi demoni in qualche parte del mondo. Vorrei.. che non si sentisse mai escluso. Me lo prometti, Deesire?!”

Solo allora capii. “Te lo prometto Aurelien.” Gettai pezzi della mia dignità sul pavimento, assieme alle lacrime sull’orlo del precipizio e i singhiozzi rotti dalla rabbia.

“Siete la cosa più bella che io abbia mai avuto dalla vita. Non ho rimpianti.” Mi accarezzò i capelli, sorridendo flebile. “Ti prego puoi portare qui la sedia a rotelle? Ho voglia di guardare oltre la finestra.”

Annuii trascinandola da un capo all’altro della stanza; si aggrappò alle mie spalle in una mossa collaudata che avevamo ripetuto tante e tante volte da quando si era fatto troppo debole per camminare. Era di una leggerezza commovente, quasi spariva fra le mie braccia. Incrociai il suo sguardo mentre gli sistemavo le gambe e mi assicuravo che fosse ritto con la schiena e tremai; mi sorrise glaciale, increspando le labbra spaccate e rosse del rivolo di sangue che gli era risalito dalla gola. Poi guardò fuori, oltre i tetti delle case e la tormenta in atto. Lo pulii svelta, ma serrò la mia mano con la poca forza rimasta.

“I fiocchi di neve Deesire, esprimi un desiderio.”

“Non. Andare. Via.” Era un desiderio sciocco. Come me e la mia voce tremante. E la regola vale solo se lo si afferra, il fiocco, non lo ricordi Aurelien? Pensai, amaramente.

“Vorrei poterlo avere fra le mie mani adesso.” Era come se avesse udito i miei pensieri. Sospirò e tirò indietro il capo. “E’ così bella. Bianca, soffice, morbida. Credo di non esser stato mai più felice come in quel momento. O forse il giorno in cui ti ho vista vestita di bianco. Oh no.. il momento più bello è quando ho preso Benjamin fra le braccia la prima volta. Non riesco a decidermi. Sono stato un uomo davvero felice, ecco.” Mi ero persa sulla descrizione della neve che il resto del discorso mi aveva attraversato come una pallottola invisibile. “Sento freddo Deesire.”

Mi asciugai il bordo delle ciglia, voltandomi a prendere la coperta di lana addormentata sul letto; l’adagiai sulle sue gambe un tempo muscolose e forti, flettendomi sulle ginocchia; era troppo, mio marito -il mio bellissimo marito- aggrappato alla vita come una foglia morta sull’albero in autunno. Non potevo essere egoista, non più. Dovevo lasciarlo andare, rassicurarlo; ci aveva dato tutto il suo amore e anche di più, non aveva più senso combattere il dolore che lo stava riducendo a un corpo vuoto. Chinai, vinta dalla sopraffazione del momento, il capo sul suo grembo, prontamente accarezzato dalla sua mano incerta. “Ti amo Aurelien. Nemmeno io ho rimpianti; ci hai amati profondamente e con devozione, sei stato il miglior marito e padre che potessimo desiderare. Vorrei che tu restassi con noi, ma più di tutto voglio che sei sereno e che trovi la tua pace, finalmente. Sarai con me e nei tuoi figli per il resto dei nostri giorni amore mio. Ti amo.”

Fu così che udii solo un sospiro, attimi eterni di silenzio e la sua mano sempre più immobile sulla mia testa e un secondo sospiro, stavolta più forte, sommesso, il colpo di vento che spegne la fiamma.

Poi di nuovo il silenzio. E le mie urla; se ne era andato guardando la neve.

 

 

“Mamma! Mamma!” Najla si agita dal fondo di una bancarella di spezie; inspiro e caccio via i brutti ricordi, raggiungendola. Camminando in direzione di quel banco vengo attratta da un altro, dove sono esposti libri usati e antiche rilegature; in prima fila, fra manuali politici e biografie storiche, capeggia un taccuino dall’aspetto a me familiare; sorrido come un ebete, buttandomici sopra con una certa nostalgia.

“E tu da dove salti fuori..” lo rigiro, la stampa è del millenovecentoquaranta, sembra un originale, ancora intatto con solo la copertina in pelle un po’ usurata, “è tanto che non ci vediamo, eh?!” Con tristezza penso alla bozza che mi aveva regalato Aurelien, andata persa dopo il trasloco dalla nostra lussuosa -ma troppo carica di ricordi- casa a una di modesta eleganza in Montmartre, ricordando con sommo dispiacere di non possedere uno straccio di copia di quello che fu il mio libro. Guardo al titolo per ulteriore conferma rigirandomelo ancora fra le mani.. e resto di stucco. “Cucine du Deesire”. Quel gioco di parole. Incredibile! E’ lui e non so come sia possibile; il mio taccuino originale! Gli intarsi in oro, il filo di cucitura per la rilegatura, quel titolo poi rivisto.. come era possibile che non me ne fossi accorta prima? Wow questo sì che è un colpo di fortuna. O la fortuna non centra nulla? Lo stringo al petto e guardo oltre le nuvole del tendone. “Grazie Aurelien..”.

“Quanto le devo per questo buonuomo?!”

Il signore scuro con i baffi sta per rispondermi quando sento il calore familiare di una voce alle mie spalle.

“Questo l’ho letto. Gran bel libro..”

Mi volto lentamente, il cuore accelerato, il cervello che fa le capriole per aver trasmesso ai neuroni il ricordo di quella voce associandola ad un viso irrazionalmente impossibile che sia lo stesso a cui penso. “Credo che potrei morire adesso. Sei tu?!” Voltata del tutto mi avvicino alla figura, pensando di avere le traveggole.

Mi guarda e sorride. Quel sorriso sardonico, all’angolo della bocca. E’ lui, non servono altre prove. “Come è possibile?!” Gli passo una mano fra i capelli corti e ricci spruzzati di bianco e lui allarga gli occhi verde-azzurro come due pozze. “Come è possibile, Fabien?!”

“Quanto tempo hai?!”

“Tutto il tempo che serve.”

 

Fabien è vivo. Fabien è tornato. Passa due franchi al tizio della bancarella e si fa impacchettare il libro, se lo porta sotto braccio e con educazione mi porge l’altro libero, conducendomi fuori dalla folla, su di una panchina nello spiazzo dove il mercato si allarga. Ci guardiamo per attimi simili all’eterno, io incredula e terrorizzata, lui imbarazzato e visibilmente emozionato.

“I tedeschi erano alle strette,” comincia a parlare flautando la voce, come il racconto di una fiaba in bocca a una madre, “gli alleati erano sbarcati in Normandia costringendoli a riparare al confine dove ad attenderli a fucili spianati, c’eravamo noi. Ma il crucco è un osso duro, c’è piombato addosso in ultimo disperato tentativo di sopravvivenza, ed è là che sono stato ferito; credevano fossi morto e mi hanno gettato in una fossa comune. Quando ho riaperto gli occhi, non so dire quanto tempo dopo, ho desiderato che fosse realmente così.” Rabbrividisce, stringendomi la mano di riflesso. “Ma qualcuno ha deciso che non si era fatto ancora il mio tempo a quanto pare, così ho trovato la forza e mi sono rialzato; da quel momento ho camminato per giorni senza sapere dove stavo andando. Tutto ciò che desideravo era portarmi via dalla morte.”

“Oh Fabien è veramente terribile.” Gli sfioro le mani, i suoi occhi si stringono a fessura; qualsiasi cosa abbia vissuto immaginarlo non sarà mai pari. “Poi cosa è successo? Ti va di raccontarlo?!” Annuisce, scansando le mani dalle mie, giocando nervosamente con i pollici.

“Ho preso il primo treno per la Spagna, la situazione non era tragica come qui. E nessuno sapeva chi fossi.. per cui ho pensato bene di restare.” Sonda il terreno con una pausa e prosegue solo quando mi vede respirare affannosamente. “Tempo dopo, quando ero certo che le acque si fossero calmate ho richiamato mia madre da Parigi. E’ là che abbiamo vissuto fino ad ora.”

Cerco di mettere in fila le idee; è scampato alla morte, la più orribile, la più tragica e si è rifugiato in Spagna con Madeleine facendo credere a tutti noi che fosse morto. “Perché?!” Sparo a bruciapelo.

“Me lo stai chiedendo davvero?!”

“Sì. E’ terribile.”

“Lo hai già detto, ma credevo ti riferissi ad altro.”

“Oh non scherzare Fabien! Ti credevamo morto! Abbiamo pianto per te, al tuo funerale.”

“Ah! Scusa tanto se sono vivo..” bercia, sarcastico.

“Stupido.. sai a cosa mi riferisco. Sei vivo e non c’è niente di meglio, ma perché la menzogna?”

“Perché la realtà faceva schifo, ecco perché.” Si agita sul posto, sbuffando e calando il capo fra le mani; poi alza di nuovo lo sguardo e lo inchioda nel mio, ardente. “Cosa altro avrei potuto fare? Tornare a Parigi? E vivere una vita sbavando sulla vostra felicità? Quando ti ho vista in quella macchina ho capito tutto; non avevamo speranze e la colpa non era ne mia ne tua, semplicemente non era destino. Per qualche motivo Aurelien avrebbe sempre vinto, eri sua moglie e lo amavi di un amore che non mi è stato concesso di capire. L’ho accettato. La guerra ha fatto il resto. Quando ho aperto gli occhi, in quel mare di fuliggine e cadaveri avrei preferito essere morto io stesso sì, ma la speranza mi ha fatto andare avanti, il credere che la mia vita non fosse stata tutta lì, che avevo ancora una possibilità, infondo, per costruire qualcosa. Ci sono riuscito. O forse no. Ma ho combattuto e non starò qui a spiegare oltre perché ho preferito costruire la mia esistenza su una menzogna, quando da questa avrei ottenuto felicità. Felicità Deesire, non ho mai desiderato che questo.”

Mi sento stupida. Stupida ed egoista, mi stringo nelle spalle ritrovandomi a singhiozzare come una bambina; accidenti a Fabien Moreau e ai nostri incontri così carichi e intensi. Non è cambiato niente; e mi accorgo dell’amara verità di queste parole quando mi prende a se con trasporto e tenerezza, affondandomi in un abbraccio stretto al petto. Odora di acqua di colonia fresca, borotalco e sogni infranti. “Sei sempre stata nella mia mente. Tutti. I. Giorni. Ho. Pensato. A. Voi.” Parla fra i miei capelli, le labbra a sfiorarmi la fronte, “muoio dalla voglia di vedere quei capelli biondi e quegli occhi azzurro-amore.” Sono un fiume in piena; vorrei raccontargli tutto di Benjamin, di quanto gli somigli e di un mucchio di altre cose frivole che lo riguardano, come di solito fanno le madri atteggiate quando parlano dei loro figli come di trofei preziosi, ma non riesco a fare altro che emettere singulti e gemiti. Lui mi stringe sempre più forte deliziandomi con i suoi “Shh” sospirati fra i capelli. Potrei morire. E Fabien Moreau mi fa sempre lo stesso effetto. Dopo venti anni! “Non abbiamo fatto molti progressi se ogni volta che ci vediamo finisco con il farti piangere.”

Rido, levando il capo dal suo petto, “oh, ecco tieni.” Mi porge il fazzoletto turchese che ha nel taschino, “Sbaglio o anche tu hai qualcosa da raccontare? Voglio sapere tutto. Deesire Bonnet imprenditrice: chi lo avrebbe mai detto!”

“Ho solo qualche negozio in Europa, tutto qua.”

“Tutto qua?! Deesire sei vergognosa, so che hai fatto palate di franchi!”

“Smettila Fabien, mi imbarazzi!” Lo colpisco affettuosamente con una pacca sulla spalla, “non starei qui a parlarne se non fosse stato per te. Non ti ho mai ringraziato.”

“L’idea dei biscotti è stata tua.” Alza le spalle, poi mi guarda serio, “il lascito delle eredità era il minimo che potessi fare; quando ho saputo che Ben era figlio mio ho messo subito per iscritto le cose. Non avrei mai immaginato che quei beni sarebbero serviti così presto.”

“Già. Provvidenziale, come sempre.”

“Ho saputo cosa è successo alle fabbriche di mio nonno da un commilitone volato a Londra due mesi dopo il mio arrivo. Avrei dato tutto quello che possedevo per esservi vicino, ma era troppo tardi per tornare indietro, mi capisci?!”

Fabien stavi contribuendo a salvare il mondo, dovresti prenderti elogi, non sentirti in colpa perché non eri qui.” Inspiro e proseguo a occhi chiusi, “tuo figlio è cresciuto molto felice grazie al tuo coraggio.”

“Gli esempi non gli sono mancati. So quello che ha fatto Aurelien per quella gente. Un vero eroe.”

Guardo lontano, lo sguardo spento quando penso al mio liege, “un eroe, sì.”

“Mi dispiace Deesire. Mi dispiace tanto, mi credi?!”

Gli accarezzo la guancia, confortandolo. “Era tuo cugino Fabien. E lo amavi. Certo che ti credo.”

“Era il migliore.”

“Era.. Aurelien, semplicemente.” Sorrido ricordando le sfumature di quella semplicità; un arcobaleno di colori. Poi lo guardo, più seria e più tranquilla. “Anche lui ti amava, in qualche modo ti era grato di esserti preso cura di me.”

“Quindi lui..”

“Sapeva tutto. Stavo correndo te.. quando è scoppiato l’incendio.”

Allarga gli occhi incredulo, il labbro inferiore tremante. “Non era destino forse, ma ce l’abbiamo messa tutta per rovinare la festa al fato, eh?!” Gli restituisco il fazzoletto, assumendo una posizione più rispettabile; qualcuno ci guarda, qualcuno passa dritto. Ho imparato già da molto tempo a ignorare tutti. Le voci. I giudizi, ma non voglio affossare il nostro incredibile incontro con inutili patemi. “Sono stata felice di rivederti Fabien, davvero felice. Ti tratterrai a Parigi o andrai via?!”

Come se lo avessi svegliato dal torpore di un bel sogno, si agita riacquistando vigoria. “Sono tornato per restare. Insegnerò arte in un liceo dei sobborghi.”

“Insegni arte.” E chissà come non mi stupisco; è sempre stato portato per il bello, dotato di grande tatto e sensibilità quando si tratta di comprendere le persone.

“Vorrei rivederti ancora, Deesire.” Sono ancora presa dall’idea di lui circondato da ragazzi giovani e pieni di promesse che mi accorgo a malapena delle sue mani sulle mie e delle sue parole condite di speranza. “Un incontro ogni tanto, due, tre, dove vuoi.. anche qui. Vorrei tanto vedere Benjamin.. con i tuoi tempi sia chiaro, senza disturbarlo o traumatizzarlo. Sarà un bel giovane adesso, con un gran da fare suppongo.. andrà bene anche da lontano.” Sento la portata della sua tristezza risuonarmi come una botta nello stomaco; sto per piangere di nuovo, lo sento. “Non tirarmi fuori dalla tua vita, sarebbe doloroso e inutile. Ti prego.”

“Oh Moreau, charmeur!” Lo abbraccio e lo tiro su, verso l’alto, stringendomi forte alle sue spalle formate da ex soldato, “chi ha il coraggio di tirarti fuori dalla mia vita, charmeur?” Mi allontano un po’ per guardarlo fisso negli occhi, orlati di rughe ma di quell’azzurro-felicità che lo ha sempre contraddistinto. “Ma le cose sono cambiate Fabien. Niente è come l’hai lasciato.. ed anche io non sono più la stessa Deesire di un tempo.”

“Oh, sei anche meglio.” Risponde affrettato, arrossisco. “Non ti corteggerò se non lo vorrai, promesso.” Ride ed io insieme a lui. “Un passo alla volta, solo questo. Un po’ di felicità.”

E chi non la merita infondo un po’ di felicità? “Charmeur ho un ultima domanda.”

“Tutto quello che vuoi, ma so già cosa vuoi chiedermi.”

“Ho dimenticato la tua perspicacia! E cosa vorrei dirti, sentiamo?!”

“Ciò che la donna sicura dell’uomo che ha difronte, non avrebbe bisogno di sentirsi dire.” Mi risento un po’ del suo tono troppo altezzoso, ma il suo sguardo dolce e la mano portata leggermente sulla mia guancia mi fanno tremare la testa, il cuore, il basso ventre! Aiuto! “C’è stata un’altra donna, ma nessun’altra.. come te. Non avresti avuto bisogno di chiederlo, lo sai che è così.” Si guarda le mani, poi torna su di me, sorridendo. “Non sono mai stato sposato e l’unico figlio che ho è anche il tuo.”

Mi mordo il labbro, arrossendo; mi impongo contegno, sono una donna adulta e rispettabile, con due figli grandi e.. e sono ancora bella e il mio cuore è ancora giovane. Lo sento come vibra forte nel petto. “Moreau sei il solito egocentrico! Non era questo che volevo sapere!” Fingo come posso disinteresse e mi chiedo perché mi guarda perplesso, come riesce a non notare il rossore colorare le mie guance, l’effetto che mi fa la sua vicinanza e trattengo così, a stento, una risata; ridere e piangere allo stesso tempo, questo siamo sempre stati io e lui e con rammarico e felicità insieme, mi accorgo che è proprio così; non posso cambiare quello che siamo e non posso non pensare a quello che proviamo quando siamo vicini. “Adesso però devo andare Fabien, mia figlia si starà domando dove sono finita.” Lo bacio castamente sulla guancia, ma indugio sulla sua rasatura di un giorno e l’odore della pelle; mi trattiene a sé e sospiro, inerme. “Hai una figlia..”

 

“Mamma!” La voce di Najla arriva come una sirena acuta; pericolo pungente!

“Appunto..” Rido nell’orecchio di Fabien che sposta subito l’attenzione sulla figura alta che è mia figlia; la guarda e poi guarda me, stupito. “Lei è Najla Louise Chedjou. Cara, lui è Fabien Moreau, cugino di tuo padre; ti ricordi di lui? Papà ne parlava spesso.”

“Sì, il soldato.” Gli allunga la mano, “ma lei non era morto?!”

“Il piacere è tutto mio maidemoiselle Chedjou.” C’è ironia e stupore nelle parole di Fabien che mi guarda poi divertito, scuotendo il capo. Najla arrossisce ma stempera l’imbarazzo sorridendo genuina. “La prego di scusarmi ma non capita tutti i giorni di parlare con la specie di fantasia che avevo da bambina in cui lei -e scusi la franchezza- è morto a cavallo di un destriero e a spada brandita per salvare la patria!”

“Ah, se è così allora.. l’ho già perdonata. Però.. spada? E cavallo? Ho sentito bene?”

“E’ una fantasia signor Moreau! Mio padre mi ha fatto credere che fosse centenario.” Si guardano e scoppiano a ridere, mi unisco a loro sentendomi felice come non mai. “Mamma ho incontrato Cosette e mi sta aspettando allo stand delle spezie, laggiù.” Indica un punto dinnanzi a se mordendosi il labbro. “Le ho proposto di andare a studiare ai giardini.. tu eri sparita. Ti dispiace.. se vado?!” Mi volto e una ragazza con folti capelli ricci e rossi ci saluta da lontano, alzo le spalle e annuisco.

“Non fare tardi.”

“No..” risponde annoiata, baciandomi la guancia. “Signor Moreau, piacere di averla conosciuta. E di aver rovinato la mia fantasia di bambina..” Ride ma ci guarda con uno strano lampo di malizia negli occhi. “Può provvedere lei affinché mia madre torni a casa sana e salva?!”

Fabien nega con il capo, trattenendo a stento un risolino. “Sarà un vero piacere. A presto maidemoiselle.” Le bacia la mano e Najla corre via dalla sua amica. “Accidenti Deesire è.. è..”

Lo prendo sotto braccio, “la copia identica di Aurelien, lo so. A quanto pare i cromosomi Chedjou sono veri guerrieri.” Ironizzo delle nostre vite e torno con il pensiero al mio liege. “Ne era innamorato pazzo, ma amava Benjamin allo stesso modo.”

“Devi raccontarmi tutto Deesire, tutto quanto.”

“Oh! Ne abbiamo di tempo! Da qui a Montmartre, almeno.” Sospiro, voltandomi nella sua direzione; è là che pende dalle mie labbra e mi guarda con occhi vivaci, “..e almeno per due o tre incontri ogni tanto. Che ne dici, può andare bene signor Moreau?!”

Sospira, “più che bene.”

E ci incamminiamo verso casa, o verso il futuro se vogliamo essere poetici; io e lui a braccetto, fra le facce della nostra amata e odiata Parigi, che ci ha unito e poi diviso, che ci ha reso forti e utili, che ha intrecciato con la nostra vita una trama fitta e indistricabile e in sottofondo uno chansonnier, che si infila fra un banco e l’altro, intonando canzoni di vecchia gloria ma che si ferma, vedendoci passare così indelebili, vicini, due colori che diventano una macchia sola. Ci sorride pazzo, noi lo guardiamo attratti da quel sorriso e sorridiamo a nostra volta, fermandoci. Un veloce scambio d’occhiate fra me e Fabien fa sì che lui sposti la sua fisarmonica di nuovo sul cuore -la dove nascono le emozioni- e cominci ad intonare una vecchia poesia.

 

“Demoni e meraviglie. Venti e maree. Lontano già si è ritirato il mare.

E tu come alga dolcemente accarezzata dal vento, nella sabbia del tuo letto ti agiti sognando.

Demoni e meraviglie. Venti e maree. Lontano già si è ritirato il mare.

Ma nei tuoi occhi socchiusi, due piccole onde son rimaste.

Demoni e meraviglie. Venti e maree.

Due piccole onde , per annegarmi.”

 

Le note di Prevert terminano, restiamo senza fiato per lo stupore; l’uomo ci guarda e piega il capo da un lato, sorride e intona un altro canto, sparendo dietro alle gonne di due signorine più in là.

Fabien ride di cuore, piegandosi in avanti dalla commozione; dai suoi occhi scendono lacrime come pioggia a valle, si infrangono sulla strada e restano lì, memori di ciò che sono. Lo abbraccio e restiamo così, senza tempo, il mio capo sulla sua spalla e i suoi occhi sul fondo.

“Credo il destino ci stia dicendo qualcosa.” Ansima, disperato.

“Oh sì. Je t’aime, Charmeur. Je t’aime.”

Oui, moi aussi. Je t’aime, Deesire.”

 

*

NDA:

Care lettrici e cari lettori, probabilmente questa non sarà la f.f più originale che abbiate avuto il piacere o il dispiacere di leggere, ma ci tengo a spendere due parole su questa storia: io l’ho amata scrivere più di quanto si possa arrivare a immaginare e non lo ritenevo possibile, ma ogni parola, ogni virgola, ogni personaggio mi è entrato dentro e non andrà via tanto presto, lo so. Mi affeziono sempre troppo a tutto.

Io spero con tutto il cuore che vi sia piaciuta, almeno quanto è piaciuto a me scriverla. (e sarebbe già tantissimo!) se volete lasciarmi i vostri pareri sono sempre qui con il sorriso ad attenderli J

Grazie a:

_Nihil_

Ultimo puffo

EliseeDobois

The Rocker

Benny Badflour

None to Blame

Per aver fatto di questa storia, dodici recensioni meravigliose. Vi adoro, grazie.

Grazie anche ai lettori silenziosi e a chi ha aggiunto la storia in preferite/seguite/ricordare.

Grazie a:

Justin Timberlake. (vi prego tenete le vostre risatine sarcastiche per voi. E anche i pomodori!) e il repeat forzato sul suo brano “Mirror”, quale sottofondo ispiratore. C’è un video di questa canzone su Y.T che conta settantadue milioni di visite, al momento: i due milioni saranno sicuro le mie.

Parigi. Città che ho sempre destato perché certe romanticherie mi fanno venire il volta stomaco ma.. che bello ricredersi; l’ho amata dal primo momento che ci ho messo piede, ormai un anno fa, nella giornata più romantica dell’anno. San Valentino. Lo so, sono tutto e il contrario di tutto.

A me. Che posso ancora migliorare; nel frattempo ce la sto mettendo tutta anche se sono otto anni che sono iscritta su questo sito e prendo questa cosa dello scrivere così come è.. un passatempo per sognare un po’. Ah proposito, se vi va date un occhiata anche alle altre mie storie (tutte datate e antecedenti al mio ritorno) “Ricordati di me”. “Il punto e la sfera”. “Leave to me”. Quelle di cui vado più orgogliosa e mi auguro piacciano anche a voi se mai ci passaste a fare un giro!

Un abbraccio forte e a presto,

Lunadreamy.

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