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Novità novità.
Eccomi qui a confrontarmi per la prima volta con la nuova generazione. Mi scuso
anticipatamente per ogni eventuale errore che commetterò e per tutte le
imprecisioni e gli atteggiamenti OOC da me descritti che dovessero mai sfuggire
alla mia abilissima beta e solita amica che ringrazio come sempre di cuore.
Non fraintendete, non ho affatto abbandonato i miei Marauders, tutt’altro. Ma sentivo
di dovere qualcosa a due personaggi che ho molto amato della saga, in effetti gli unici due che veramente ami delle nuove leve.
I gemelli Weasley somigliano un po’ ai Marauders, forse per questo mi sono tanto cari. Sono due
bellissimi personaggi. Ogni tanto ripenso alla parte d’inizio del terzo
libro, quando si trovavano con Harry e cominciavano a sfottere Percy (Abbiamo
cercato di chiuderlo in una piramide, ma la mamma ci ha scoperti). E’ una
pagina deliziosa e mi fa davvero ridere.
Per cui, mi sembrava doveroso dedicare loro qualcosa,
vista l’infelice scelta di JK nel settimo libro.
Ditemi voi se è accettabile e interessante.
Buona lettura
suni
Ambitions
Ron
Ronald
Weasley era stato un bambino assolutamente normale. Con un sacco di fratelli
maggiori e una famiglia caotica, povera ma tutto sommato abbastanza felice,
aveva trascorso un’infanzia agitata ma serena, e s’era dedicato a
tantissimi giochi e a un’infinità di passatempi assurdi, a volte
rischiosi, comunque entusiasmanti. Nei divertimenti che escogitavano tra
fratelli sbrigliava la fantasia ed insieme a Fred, George e qualche volta Percy
inventava mondi sfavillanti.
Come
tutti i bambini – be’, i bambini di una
certa fazione – si era immaginato Auror,
avventuriero, domatore di creature letali, guerriero, eroe.
Poi
aveva iniziato la scuola e, tra una cosa e l’altra, aveva smesso di
essere un bambino normale. Si era trovato, per un’imperscrutabile serie
di avvenimenti, nel centro di un ciclone di proporzioni straordinarie. Aveva
combattuto in prima linea, affrontato pericoli di ogni sorta e a conti fatti lo si poteva considerare veramente un eroe, a nemmeno
vent’anni. E durante quella lotta, durante quegli anni di scontri ma
anche di scuola, aveva pensato anche al futuro, s’era dato dei vaghi
obiettivi, delle aspirazioni. L’idea di dedicarsi alla carriera di Auror gli era tornata alla mente in più occasioni e
con tinte sempre più precise, sebbene si scontrasse con l’evidenza
di non essere tagliato per quel mestiere. S’era immaginato anche come
Indicibile, cacciatore di mostri, s’era immaginato persino in determinati
ruoli ministeriali, come nelle relazioni internazionali.
Insomma,
Ronald Weasley era un ragazzo che aveva formulato più tipi di ipotesi,
anche variegate, per il proprio futuro. Ma nessuna, nemmeno la più
strana, di tutte quelle immagini proiettate nel domani aveva previsto la
realtà. In nessuno dei suoi futuri ideali Ron s’era mai immaginato
come comproprietario e cogestore di un negozio di
scherzi. Perché quello…
Quello
non era il suo posto. Semplicemente.
Lo
sapeva dal principio, lo sentiva ogni giorno dentro di sé, lo percepiva
sulla pelle e nelle dita e lo leggeva in qualunque istante negli occhi vitrei
del fratello.
Eppure
era così che era andata. Ron Weasley, combattente e braccio destro del
salvatore del mondo magico, fido sostegno del grande Harry Potter, stava dietro
il banco del negozio “Tiri Vispi Weasley” in piena DiagonAlley. E gli andava bene
così, perché in fondo non c’erano altre opzioni da poter
scegliere e quella era stata semplicemente una strada segnata, l’unica
percorribile.
No,
niente di tutto questo era mai rientrato nelle sue ambizioni, ma non era molto
importante, non aveva avuto scelta; perchè adesso George perlomeno aveva
una vita quasi regolare, dopo un anno e mezzo e tutta la fatica che avevano
fatto per rimetterlo in piedi, come
diceva la loro madre. Ma Ron si ricordava bene quei primi mesi dopo il fatto, aveva
incise nella mente le memorie di quelle settimane di agonia, dell’orrore
suscitato dallo strazio negli occhi allucinati del suo fratello dimezzato.
Ci
si erano dovuti mettere in cinque per tirarlo via dal cadavere. George aveva le
dita conficcate nella carne del gemello e ci si teneva aggrappato come se per
staccarlo fosse stato necessario tagliarlo via, nemmeno le sue mani e il
braccio di Fred fossero state parti di un corpo unito cui dover amputare una
parte.Ron se lo ricordava, non
avrebbe mai potuto dimenticarlo; e ancor meno avrebbe potuto rimuovere il
ricordo dell’urlo, un suono che lo perseguitava ancora nelle notti in cui
le cose sembravano sprofondare. La voce di George che si elevava ad esprimere
un supplizio indescrivibile, che squarciava l’aria come
un’esplosione e raggelava il sangue. Un grido che sapeva di morte,
agghiacciante al punto che s’era ritrovato a tapparsi quasi le orecchie. Basta! Basta! Smettila, smettila, Merlino, sta’ zitto!
Aveva
sentito il proprio corpo tremare e pregato che smettesse,
che la finisse di urlare in quel modo che faceva male. Aveva avuto paura, tutti
loro l’avevano avuta, investiti da un terrore inspiegabile e immotivato
che veniva sprigionato da quella voce spezzata dalla
disperazione. Non era un urlo umano, era oltre.
Sua
madre ormai era più calma, perché George aveva ripreso a mangiare
abbastanza spesso: per lo meno capitava raramente che facesse meno di un pasto al giorno; inoltre era contenta perché lavorava di
nuovo, ed in effetti passava al negozio almeno un paio d’ore al giorno
più volte alla settimana, e perché aveva ripreso a parlare alla
gente. Ripeteva, appunto, di stare riuscendo a rimettere in piedi George.
Ron
su questo non si faceva grandi illusioni: in assoluto, era quello che passava
più tempo col gemello sopravvissuto e riteneva, pur essendo un
osservatore poco acuto, di saperne qualcosa di più della madre, in
merito.
E
comunque, per stare in piedi occorrevano due gambe, e a George…a George
ne era rimasta una sola; non c’era altro da dire in merito. Molly viveva
nell’illusione che prima o poi, col tempo, suo figlio sarebbe tornato quasi quello di prima,
ma Ron sapeva perfettamente che George non sarebbe stato mai più
nemmeno lontanamente quello di prima. George Weasley, quello che conoscevano loro,
non c’era più, per quanto fosse banale:
se n’era andato quel giorno al castello, insieme all’altra
metà. Questo George era
un’altra persona, una persona che partiva mutilata nel costruirsi e che
apparteneva a un’altra categoria, una persona che non aveva un fratello gemello. Era diverso, tutto lì. Non
poteva tornare ad essere lo stesso perché non era più lo stesso.
Ma
la mamma non riusciva ad accettare che uno dei suoi cuccioli avrebbe sofferto
per tutta la vita. Per questo, come George stesso lo aveva pregato di fare, Ron
affermava di trovarlo in forma ogni volta che Molly gli chiedeva di lui, e poi
sosteneva che si stesse riprendendo; e forse era davvero così, ma non
nel modo in cui se lo aspettava la mamma. Forse sì, si stava riprendendo,
ma per quanto potesse
riprendersi qualcuno nella sua situazione, ed era questo che lei non voleva
capire.
“Ciao.”
Ron
sollevò la testa di scatto dal libro dei conti, sorridendo
meccanicamente verso il retrobottega.
“Ciao,” salutò, allegro. “Sei venuto ad
aiutarmi a chiudere?” aggiunse, riponendo il libretto.
George
gli fece spallucce, storcendo il naso. Ron lo vide sbuffare leggermente, quindi
passarsi le dita tra i capelli per ravviarseli invano, perchè il posto
vuoto lasciato dall’orecchio mancante impediva quel gesto istintivo. Lo faceva quando era nervoso.
“Be’?” borbottò Ron, perplesso.
George
sbuffò di nuovo; sbuffava un sacco, del resto.
“Non
ho voglia di prepararmi cena,” ammise a voce
bassa, rimettendo a posto con cura eccessiva gli articoli allineati sullo scaffale
al suo fianco.
“Hermione
sarà felice di aggiungere un posto a tavola,”
replicò Ron con una formula ormai meccanica. Ho fame ma non ho voglia di cucinare mezza
cena, la cena per uno, questo intendeva George. Conosceva il linguaggio del fratello. Era il suo socio, no?
“Non
è il caso,” replicò George
sistemandosi addosso il mantello.
“Guarda
che a noi non cambia niente,” aggiunse Ron,
iniziando a mettere via i soldi contati recuperati dalla cassa.
“Non
posso venire sempre a cena a casa tua,”
ribatté l’altro serio, mostrandosi più restio del solito: a
quel punto, normalmente, accettava con una scrollata di spalle.
Ron
aggrottò la fronte, con un moto di stanchezza: Merlino, certo che
poteva, non erano estranei o lontani conoscenti, e poi l’altro sapeva benissimo
che non gli dispiaceva affatto. Preferiva di gran lunga averlo come elemento di
disturbo nella sua intima vita coniugale che saperlo solo a casa a guardare il
vuoto.
“Sì
che puoi,” rispose quasi risentito, molto
più seccamente di quanto fosse sua intenzione. “Sono tuo fratello,” aggiunse, chiudendo il cassetto.
“Questo
non c’entra,” osservò George
voltando la testa di scatto, muovendo istintivamente una gamba in avanti.
“Non
c’entra con cosa?” ribatté Ron, appoggiandosi al bancone.
George
si accigliò e abbassò lo sguardo, rabbuiato.
“Con
niente. Torno di sopra,” rispose, facendo per
voltarsi.
Ron
si morse la lingua, irritandosi per la scostanza
dimostrata.
“Aspetta,” esclamò, allungando un braccio e posandolo
sul suo. “Sono stanco, ieri sera sono andato con Gin da Harry e ho bevuto
un bicchiere di troppo,” si giustificò,
arrossendo leggermente. “Ho voglia di andarmene a casa e rilassarmi
davanti al camino, e sarei contento se venissi con me,”
aggiunse, più fermo.
George
annuì, mordicchiandosi le labbra. Poi nascose il viso, girando di scatto
la testa, ma nel tremolio delle sue labbra Ron scorse il segno che qualcosa non
andava e si maledisse per non averlo compreso subito,
disattento com’era. Guardò il fratello allontanarsi nervosamente
di un paio di passi e poi far scorrere tutt’e
due le mani nei capelli, tirandoseli quasi.
“George?”
mormorò, inquieto.
“Ho
trovato…” iniziò il fratello continuando a dargli le spalle,
ma la voce gli si ruppe. “Ho ritrovato delle cose stamattina, in una
scatola, delle scemenze di scuola.”
La
voce gli s’era fatta piatta e vacua e Ron poteva indovinare, anche senza
vederlo, il vuoto nero del suo sguardo. Tacque per qualche secondo, impotente.
Preferì non chiedere quali fossero le cose in questione: probabilmente George
non le aveva nominate perché farlo le avrebbe rese ancora più
reali, più presenti.
“Ti
va di mangiare fuori?” domandò, incerto.
George
fece un lungo inspiro.
“Hermione
non…” iniziò, esitante.
“Piantala,” lo interruppe Ron, scuotendo la testa.
“Hermione non è stupida,” aggiunse,
oggettivo.
George
sospirò e finalmente si voltò indietro.
Aveva
un viso che feriva: tirato e bianco, fremente. Ma compose in qualche maniera un
sorriso per cui Ron gli fu riconoscente, perché
allentò un pochino la morsa che gli stringeva i polmoni.
“Allora
sì, mi andrebbe,” disse poi, annuendo.
Ron
sospirò di sollievo.
“Dove?”
chiese, gentilmente.
George
scrollò le spalle con indifferenza, riacquistando poco a poco
l’espressione assorta e distante che gli era diventata propria.
“Dove
ti pare,” rispose, noncurante.
Lo
portò a mangiare al Paiolo, in mezzo al chiasso e al movimento, e
chiacchierò per tutta la cena, continuando a raccontare qualunque cosa
gli passasse per la testa, ché tanto sapeva che suo fratello maggiore
non aveva molto da dire. Continuò a conversare anche dopo, quando
finirono di mangiare e ordinarono un’altra bottiglia.
Stava
di nuovo bevendo troppo; anche molto più della
sera prima, e George continuava a svuotare bicchieri come se avessero contenuto
acqua fresca, ma tanto lui sapeva di non potere altro che lasciarlo fare, non
sarebbe comunque riuscito a fermarlo. Lui parlava, e gli stava bene che George stesse almeno ascoltando quel che diceva: spesso non stava
nemmeno a sentire quando la gente gli si rivolgeva, e fino a qualche mese prima
la cosa era davvero preoccupante, ma pian piano ricominciava a interagire con
l’esterno, anche se in modo deludente.
“…E
allora il bambino ha detto: no, non è abbastanza esplosivo,”
continuò ridacchiando, riferendo uno degli episodi più strani
intercorsi con i clienti in assenza del fratello maggiore, “e io ho detto
che invece lo è eccome, e lui no, allora gli ho detto di
provarlo,” continuò, infervorandosi. “Certe volte la gente
al negozio è insopportabile. E comunque allora lui… George?”
L’altro
aveva lasciato cadere la testa sugli avambracci d’improvviso, chiudendo
gli occhi. Fu un gesto tanto brusco che Ron quasi sussultò di spavento.
“Mmh?” fu il suono che gli giunse, soffocato contro il
tavolo.
“Ehm…ci
sei?” chiese, titubante.
George
sollevò la testa con un sospiro.
“Sì,” rispose serio, prima di sbuffare sonoramente e
raddrizzarsi in modo sconnesso. “E’ solo che… Ron, questo
lavoro ti fa schifo, tu non sopporti di dover stare dietro alla gente e non hai
pazienza…” iniziò contrito.
“A
me piace lavorare al negozio!” protestò lui vivamente,
interrompendolo con fin troppa convinzione. “Mi diverte, mi…”
continuò, pensando freneticamente a qualcosa di intelligente da dire per
avvalorare quanto asserito.
“Voglio
vendere,” lo arrestò George, versandosi
altro vino.
Ron
rimase a bocca spalancata, gli occhi sgranati dalla sorpresa.
“C-cosa?” balbettò, senza fiato, un po’
rallentato dall’alcol.
George
annuì fermamente, con la tipica enfasi da ubriaco, prima di fare
spallucce.
“Voglio
vendere i Tiri Vispi,” ripeté, per poi
bere un gran sorso.
“Ma
gli affari vanno benissimo,” protestò
Ron, ancora spiazzato. Qualcosa gli stringeva lo stomaco e gli faceva quasi
digrignare i denti, d’improvviso.
George
sospirò con una smorfia ironica.
“Non
è questo il punto,” affermò,
tamburellando le dita sul tavolo e bevendo di nuovo. “Dai, Ron,” aggiunse esasperato, posando il bicchiere con mano
malferma.
Lui
chinò lo sguardo, deglutendo a fatica.
“Ma
dopo tanta fatica…” mormorò, amaro. “Era il vostro
sogno,” aggiunse in un soffio.
“Sì,
il nostro sogno,”
ribatté George, abbandonando la mano sul
tavolo con un gesto disarmonico. “Non il mio,” precisò sottovoce,
abbassando lo sguardo sul tavolo. “E nemmeno il tuo, Ron, diciamocelo.
Non ricordo di averti mai sentito dire da
grande voglio fare il negoziante, o sbaglio?” continuò,
gesticolando nervosamente.
Ron
si morse le labbra, cupo.
“No,
ma a me va bene lo stesso. E’ ok, mi sta più che bene questo
lavoro. Mi sono proposto io, ricordi?” aggiunse, con una punta di
sarcasmo.
“Avevo
perso quindici chili e quasi non dormivo la notte da più di quattro mesi,” osservò George con sufficienza.
“Sedici,” mormorò Ron a testa bassa. “Ma non
c’entra,” continuò, caparbio.
“Dai,
Ron, e tutte quelle storie sul voler fare l’Auror
e…” iniziò George, grattandosi la testa. Pensare, al
momento, sembrava risultargli faticoso, e del resto era normale, con quel che
aveva bevuto.
“Sono
troppo vecchio, e poi non sono tagliato per quello,”
obiettò Ron, troncandogli le parole.
“E
Indicibile, allora? Anche quello ti interessava,”
continuò il fratello, sventolando una
mano. Ron scosse il capo, fermo.
“Non
sono abbastanza svelto di mente e decisamente poco riservato,”
obiettò, con slancio.
“Al
Ministero, allora, come quando parlavi di…”
“Mi
ci vedi, tu, in politica?” lo contraddisse Ron, ironico.
George
sbuffò, grattandosi la fronte.
“Oh,
per Godric!” sbottò con accenti disperati. “Ce le hai ben le tue ambizioni, no?” esclamò
con enfasi. “Insomma, non vuoi niente, tu?” aggiunse, scettico.
Ron
fece una smorfia, allargando un po’ le braccia.
“Voglio
mettere su famiglia, essere un padre e avere dei figli da veder crescere,” affermò sicuro. “Il che non esclude il
negozio,” aggiunse piccato.
George
tacque, pensoso.
“Bello,” commentò piano.
“Perché,
invece tu cosa vuoi fare, scusa?” continuò Ron con una certa
apprensione.
George
chinò lo sguardo, assorto. Le labbra gli si piegarono involontariamente
verso il basso, mentre il viso si svuotava d’espressione.
“Io…niente,” borbottò, distante.
Rimasero
per qualche istante in silenzio, ciascuno perso nel fissare un diverso punto
del tavolo. Infine, non sopportando più quella cupa lontananza, Ron si
alzò in piedi, sbuffando.
“E’
tardi, dai, ne parliamo domani,” mormorò,
sbrigativo.
George
annuì, alzandosi mollemente. Lo seguì alla cassa
mentre pagava e poi all’esterno, nella via fredda e buia, senza
più parlare né dare alcun segno di essere presente. Fuori Ron si
strinse nel mantello, accennando un sorriso.
“Ti
accompagno a casa?” chiese, indeciso.
George
scrollò la testa. Poi prese un lungo respiro, e il fratello lo
guardò con aspettativa.
“Sai
di cosa ho voglia, io?” chiese, fissando i propri piedi.
Ron
deglutì a fatica, mentre il cuore gli accelerava in petto.
“Di
cosa?” sussurrò, stringendo i pugni.
George
aprì la bocca per rispondere, ma dovette ripensarci e la
richiuse scuotendo la testa, prima di allontanarsi leggermente.
“Niente.
A domani,” salutò, atono.
“George?”
lo trattenne Ron, con voce un po’ acuta. “Di cosa hai voglia, dai,
dimmelo,” insistette, controllandosi.
L’altro
sbuffò, senza guardarlo.
“Di
andare,” mormorò con voce soffocata.
Le
unghie di Ron si conficcarono nel palmo, tanto spasmodicamente serrava i pugni,
ma trovò comunque il modo di parlare.
“Andare
dove?”
George
chinò la testa, mentre il viso gli si distorceva e gli occhi diventavano
lucidi. Inspirò, tirando su col naso.
“Voglio
andare anch’io,” balbettò, con voce
rotta.
Ron
chiuse gli occhi, mentre George si copriva il viso con le mani. Strinse forte
le palpebre e cercò di respirare, ma non era facile, perché Fred,
per Godric, questa volta l’aveva fatta davvero grossa, e lui non sapeva
cosa fare.
“Cazzate,” ringhiò,
con rabbia improvvisa. “Stai dicendo cazzate.
Sei ubriaco e devi andartene a dormire, e ti accompagno io.”
E
non volle sentire ragioni, non se ne andò finché non lo vide a
letto. Soltanto a quel punto, finalmente, quando l’altro stava per
addormentarsi intontito dall’alcol, si smaterializzò a casa.
Era
tutto spento, ed Hermione probabilmente stava già dormendo. Non sapeva
se dispiacersi o esserne sollevato, perché non era dell’umore di
parlare. Si sentiva solo vuoto, stanco e amareggiato, e
quella stretta intorno al suo stomaco era sempre più violenta e
dolorosa. Si sedette sul divano, cercando di dominarla, ma rimaneva lì,
una catena di dolore e impotenza che lo soffocava. E scoppiò in
singhiozzi, lì seduto, senza nemmeno muoversi o sorreggersi il viso; cominciò
solo a piangere forte e lasciarsi scuotere dai singulti, perché era
semplicemente troppo da sopportare.
Nonme
l’aspettavo davvero, è stato piacevole e vi ringrazio.
Se
mi conoscete sapete che sono lenta e quindi non ci avrete
trovato nulla di strano, ma in ogni caso mi scuso: purtroppo questo
aggiornamento ha dovuto slittare causa impegni solenni e spostamenti
internazionali della sottoscritta me medesima, e anche la mia beta, povera,
lavora come unmulo. (Grazie mille, amica e sodale).
Insomma,
ci ho messo dieci giorni a correggere gli errori. Lo so, è disdicevole.
Ma
spero che il risultato sia di vostro gradimento.
Oggi
vi lascio con lui.
George
Quando
si svegliò, quel mattino, la testa gli faceva male da morire, lo stomaco
bruciava come se fosse stato in fase di autocombustione e le orecchie gli
fischiavano in modo insopportabile. Tutt’e due,
anche quella mancante.
Per
prima cosa guardò l’ora, scoprendo che era quasi mezzogiorno, poi
il calendario. Diciotto ottobre:
cinquecentotrentaquattro giorni e dieci ore, all’incirca, minuto
più minuto meno.
Più
di cinquecento giorni. E altrettante notti tutte uguali, solitarie e infinite.
Lasciò
ricadere la testa sul cuscino con un sospiro sfinito. Non poteva essere già passato così tanto tempo. Lui non
si ricordava di aver vissuto tanti giorni. Ogni mattina si svegliava e si
chiedeva come fosse possibile che tante ore si fossero sovrapposte a quella
notte, ore che a lui non sembrava di aver vissuto, che erano scivolate via senza
che se ne rendesse conto accumulandosi in modo scomposto a affannoso, come
tante fotografie sviluppate male in cui, delle immagini, non si distinguevano
neppure i contorni.
Gli
pareva che fosse accaduto all’inizio di quell’estate. Ma no, era
stato il maggio precedente. Dov’era finito quell’anno di cui non
percepiva la concretezza? Cosa aveva fatto in tutte quelle giornate, in quelle
notti, per ingannare il tempo e se stesso?
Un pulsazione dolorosa e violenta alla testa gli strappò un respiro
spezzato, costringendolo a portarsi una mano alla tempia. La sera prima aveva
bevuto troppo e detto cose per cui Ron verosimilmente
non aveva chiuso occhio; non aveva davvero intenzione di ferire suo fratello,
non era stato intenzionale, ma non ce la faceva più a tenersi tutto
nello stomaco. Probabilmente doveva scendere in negozio e vedere se l’altro
c’era rimasto male, ma sentiva di non potercela fare, era
un’impresa superiore alle sue forze.
Non
poteva alzarsi, vestirsi e camminare
fino al piano di sotto, né parlare o degnare di attenzione qualcuno. Non
poteva neanche uscire da sotto le coperte.
Il
momento del risveglio era il momento peggiore della sua giornata, e spesso il
più lungo: che aprisse gli occhi alle nove o a mezzogiorno, non ce la
faceva mai ad alzarsi prima delle tre, a meno che qualcuno non lo forzasse, e
gli costava comunque uno sforzo titanico. Il pensiero di dover uscire da sotto
le coperte e cominciare un’altra volta a vivere, quando a Fred era stata
negata la medesima possibilità, lo annichiliva in modo ineluttabile.
Più precisamente, lo riempiva di uno sgomento simile alla rabbia e
colorato d’impotenza. Perché lui doveva essere costretto a
esistere, mentre suo fratello non c’era più? Trovava fosse una
tortura immeritata.
Rimaneva
nel letto per ore, quasi senza muoversi; c’era nella sua mente un qualche
tipo di convinzione, per quanto coscientemente comprendesse che era
un’assurdità, secondo la quale se fosse riuscito a rimanere in
tralice abbastanza a lungo avrebbe finito per annullarsi, per dissolversi
nell’atmosfera intorno a sé e sparire dalla faccia della terra.
Stava solo lì, gli occhi fissi al soffitto, a ripensare alle migliaia di
giornate trascorse con Fred, alle mattine in cui a svegliarlo era stato il
suono della voce del fratello o una cuscinata ben
assestata sul naso. Poi si rendeva conto di quale fosse la realtà
presente e desiderava morire. Niente
di melodrammatico o ad effetto, aveva solo voglia di non esserci più
nemmeno lui.
Ron
non poteva capire questo.
E
lui non poteva spiegarglielo. Non c’erano parole che fossero
sufficienti a descrivere la sensazione della mancanza di Fred, era qualcosa che
andava al di là di un codice definito come il linguaggio. Era un colpo
secco nelle viscere che lo trafiggeva in ogni momento lasciandolo completamente
privo di respiro, con il dolore che dal ventre si irradiava in ogni
terminazione nervosa. Tutti i suoi muscoli si contraevano e avvertiva
l’impulso di rannicchiarsi. L’unica cosa che faceva, al mattino nel letto, era raggomitolarsi in posizione fetale,
chiudendo accuratamente gli occhi perché la consapevolezza della
realtà non li ferisse troppo.
Era
intollerabile. Non riusciva nemmeno a piangere, perché sarebbe stata
un’azione già troppo cosciente, volontaria, che il suo fisico
stremato non poteva compiere. George era sorpreso già dal semplice fatto
che i suoi polmoni potessero ancora avere la forza di
pompare il fiato, chiedere a se stesso anche di piangere gli pareva davvero un
abuso.
Che
ne sapeva, Ron?
Che
ne sapevano tutti? Arrivavano e gli suggerivano, sorridendo benevolmente, di
guardare avanti, distrarsi, cercare di ricominciare. Ma guardare dove, e
cominciare che cosa? Non gli interessava. Lui voleva solo ritrovare Fred. Erano
gemelli, avrebbero dovuto rimanere insieme, non essere
divisi in quel modo, era contro natura. Qualcosa nel mondo era andato a
rovescio, quella notte, quando Fred era andato via. Non era giusto, e lui non
aveva nessuna intenzione di guardare da nessuna parte.
Merlino,
sua madre! Con le labbra tremolanti e lo sguardo colmo d’amore, che gli
riempiva il piatto fino a renderlo stracolmo, pur sapendo benissimo che lui non
riusciva a mandare giù più di pochi bocconi. Tre mesi prima,
l’ultima volta che aveva finito l’intera porzione che lei gli aveva
propinato, stanco delle sue insistenze, aveva dovuto vomitare: aveva mangiato
troppo. Rispetto alle sue dosi ormai abituali, era stata un’abbuffata
eccessiva.
Aveva
smesso di pranzare alla Tana, definitivamente.
E
suo padre che lo guardava senza parlare, dispiaciuto e triste, con gli occhi
tremanti. George non lo sopportava più. Riguardati, ragazzo mio. Sì, papà, certo. Non
piangere, papà, lo so che hai perso un figlio, ma non piangere.
La
disperazione dignitosa e composta di Arthur era stata una delle ragioni che
l’avevano tenuto in vita. Di fronte al proprio padre che si lasciava
affondare in silenzio, straziato dallo spettacolo di lui che precipitava dopo
la morte del gemello, gli si era svegliata nelle vene la ribellione. Suo padre,
un uomo buono e integerrimo, un esempio di umanità sin da
quand’era venuto al mondo, non meritava due volte lo stesso dolore.
Ma
ormai non poteva più sopportare nemmeno lui. Né Bill e Fleur che lo invitavano a
cena, o Charlie che gli proponeva di andare a
trovarlo in Romania per rilassarsi, né Ginny
che distoglieva lo sguardo perché non riusciva a guardarlo negli occhi
senza che i suoi tremassero di lacrime. Sì, era ingiusto, loro due erano
stati sempre al fianco di Ginny: la punzecchiavano di continuo, ma erano anche quelli
che le davano più considerazione, e li aveva persi entrambi. Era un duro
colpo, ma sua sorella avrebbe dovuto capire che lui
non era proprio in grado di aiutarla a superarlo.
Quel
che all’inizio era stato l’unica cosa che ancora lo teneva suo
malgrado aggrappato alla vita, la famiglia, cominciava a diventare soltanto un
peso. Nel dolore che lo divorava e lo rendeva stordito e alienato dalla
realtà concreta, aveva assecondato parenti e amici stretti, aveva
accettato di continuare a respirare perché loro non lo volevano perdere.
Troppo frastornato dalla tragedia che aveva spaccato a metà la sua vita,
si era lasciato trascinare dalla convinzione di tutti loro: doveva vivere,
tutti vogliono vivere. La
sopravvivenza è il fine ultimo di ogni individuo umano, ed era anche il
suo. Loro volevano che vivesse, e George si era convinto che, da qualche parte,
in fondo a lui, dovesse esserci la convinzione di desiderare un futuro, sopita
al momento dalla sofferenza ma che prima o poi si sarebbe risvegliata.
Poi
la vita era tornata lentamente alla norma. I fiori accanto alle lapidi si
cambiavano con un po’ meno frequenza, i matrimoni aumentavano da una
settimana all’altra, nuove case venivano
comprate e costruite e la comunità magica, poco alla volta, si era
proiettata su un avvenire migliore. Le vite di tutti, intorno a lui, si erano
stabilizzate.
Ma
non la sua.
Lui
aveva sempre negli occhi il corpo senza vita di Fred, quel viso identico al suo ma privo del soffio vitale che invece si incaponiva a
mantenersi in lui. Era un’immagine incollata perpetuamente alle sue
retine e incancellabile, che copriva la visuale su qualunque altra cosa,
annullava ogni moto d’interesse verso il mondo circostante.
E
allora lui s’era cominciato a dire, poco alla volta, che forse quel che
voleva la sua famiglia non era la stessa cosa che voleva lui. Magari lui,
dopotutto, non voleva niente. Perché niente
gli lasciava presentire che presto o tardi avrebbe desiderato o sognato di
nuovo qualcosa che non fosse la presenza del gemello.
Si
era sforzato. Davvero. Aveva cercato di costringersi a continuare, aveva
riaperto il negozio, ripreso a parlare alla gente e cercato di dimostrare prima
di tutto a se stesso che quel che voleva era un futuro. Per un certo periodo aveva convinto tutti loro che la sua esistenza stesse ricominciando a scorrere e aveva
recitato con tanta dedizione la sua parte che s’era anche domandato se
per caso non fosse vero. Ma la commedia non funzionava più, e ogni
giorno il suo copione gli risultava più difficile da seguire. Spesso
ormai il suo malessere diventava un’impossibilità fisica a fare le
cose più normali, un disgusto immotivato che lo costringeva letteralmente
a richiudersi in se stesso, immobile, sdraiato. Di solito arrivava a sera in
quello stato.
Passava
quattro ore ogni mattina a convincersi ad alzarsi e alla
sera non vedeva l’ora di sdraiarsi e non muoversi più, e tutto
quel che faceva tra quei due momenti lo sprofondava in un disinteresse triste e
assorto, mentre si dibatteva smarrito tra i mille piccoli particolari che ogni
giorno lo riportavano a Fred.
Era
voglia di vivere, quella?
Quel
negozio in cui metteva piede solo perché non poteva farne a meno era
davvero suo? Non gli interessava stare lì, non gl’importava
né dei soldi né di scherzi che ormai non lo divertivano
più. Il tempo che trascorreva lì dentro erano ore sottratte
all’oblio del suo cuscino sotto la testa.
Per
questo aveva parlato con Ron, la sera
prima.
Ron.
Ronald
era, nella sua famiglia, l’unico di cui ancora apprezzasse
la presenza. O forse era solo il senso di colpa per la triste posizione in cui
l’aveva messo, col negozio e tutto il resto. Stava di fatto che Ron, in
qualche modo, gli era vicino più degli altri. Con tutti suoi limiti, suo
fratello si stava realmente sforzando di offrire
senza pretendere nulla in cambio, senza farsi giudice. Non gli dava consigli
alimentari, né gli proponeva scampagnate all’aria aperta, non si
lamentava della sua latitanza in negozio né lanciava frecciatine
sugli orari improponibili in cui si rendeva presentabile agli occhi del mondo:
un piatto a tavola quando aveva fame e la costante certezza della sua presenza
affidabile, questo era tutto ciò che Ron gli elargiva. Magari lo faceva
semplicemente per via del carattere chiuso e poco portato per il dialogo, ma
era comunque la cosa migliore che potesse fare. Aveva
un temperamento del cavolo e qualche volta gli diceva le cose in faccia, era
brusco e diretto e capitava che si beccassero per pura testardaggine. Ma era sempre
meglio di sua madre che gli riempiva il piatto come un bacile.
C’era
anche Percy, in effetti. Percy, che aveva visto Fred morire. Si vedevano poco e
non si parlavano quasi, restavano solo seduti in silenzio. Suo fratello, il suo
antipatico, egoista, noioso fratello, aveva capito qualcosa che a quasi tutti
gli altri era sfuggito. Ma non riusciva a vederlo spesso, perché gli
faceva male.
Lui non era stato accanto a Fred, in quel momento.
C’era Percy, non lui.
Non
lo aveva salutato. Non gli aveva stretto la mano mentre
la vita lo abbandonava, l’aveva lasciato solo davanti alla morte, senza
nemmeno il conforto di una parola d’affetto o di saluto.
Non
gli aveva detto addio.
Era
il pensiero più schiacciante e doloroso che lo
perseguitava: il fatto che dopo una vita passata al suo fianco, non fosse stato
con Fred nel momento in cui la sua esistenza finiva. L’aveva abbandonato.
Alcune
lacrime luccicarono lungo le sue guance, andando a morire sulla federa del
cuscino. Ogni volta che ci ripensava, si sentiva ancora peggio. Non lo aveva
salutato e non avrebbe potuto mai più. Mai.
Con
un gemito soffocato si scalzò il cuscino da sotto la testa e ve lo
premette sopra, come se così avesse potuto
scomparire. Prese un lungo respiro e serrò le labbra, cercando di
smettere di ripetersi quelle cose. Cercò febbrilmente un pensiero, un
qualunque altro pensiero che lo potesse scacciare.
Ecco,
poi c’era Lee.
Il
loro amico storico, suo e di Fred. Lee non gli diceva
mai nulla. Non commentava il suo stile di vita né apriva bocca riguardo
alla necessità di lasciare il passato nel passato: rimaneva solo
lì e parlava poco, con calma. Cercava di dargli un po’ del suo
ottimismo e della sua calma e in cambio chiedeva solo qualche tazza di
tè e qualche burrobirra, come aveva fatto anche
quel sabato. Lee. Un compagno d’avventure.
Era
l’unico amico che considerasse ancora tale.
E
ogni tanto Harry spuntava fuori con un sorriso, sistemandosi gli occhiali sul
naso.
Vedere
il suo viso era una delle poche cose per cui le
proprie spalle sembravano a George diventare un po’ meno pesanti. Lo
guardava in faccia, osservava la cicatrice, gettava un’occhiata intorno a
quel mondo rinato e si ricordava che suo fratello non era morto per niente. Fred aveva dato la sua vita per
tutti loro e il sacrificio non era stato vano.
Almeno
questo.
“Geoooorge!” lo raggiunse l’urlo improvviso del
fratello minore, dal piano di sotto. Quindi udì un
sequela di tonfi e colpi secchi e qualcosa che andava in frantumi. E poi
qualcos’altro.
“George!”
ripeté Ron, ora decisamente disperato.
Chiuse
gli occhi con un sospiro, mentre un nuovo rumore sinistro lo riscuoteva dal
torpore.
“Aiutami
ad alzarmi, c’è quel rompicoglioni che
mi chiama,” sussurrò, nel buio amico
delle palpebre abbassate. “C’è un'altra fantastica giornata
che mi attende, non sei invidioso?”
Se
fosse stato presente, Fred avrebbe sicuramente riso.
Era
abbastanza per tirarsi in piedi.
X _karola_: grazie, cara. Capisco il tuo dolore e non vorrei
aumentarlo. Purtroppo sono una personcina abbastanza
gioviale ma quando scrivo ho questa tendenza all’angst
e al dramma che proprio non riesco ad accantonare. Cercherò di
dominarmi…
X Seiryu: urca… grazie per
l’immensa stima, quasi arrossisco. Che dire…sono contenta di
suscitarti “belle” emozioni forti. Se no che scrivo a fare? ^__^ In effetti JK fa scelte discutibili, a volte. Spesso. Ma in
fondo sono i suoi personaggi, no? (…)
X
lilla4eve: grazie per i complimenti. Comprendo il tuo dispiacere, anche se per
me le morti più dolorose sono state altre – e per la prima ho
fatto su un dramma tale che i miei amici volevano farmi ricoverare alla neuro.
Spero quindi che il modo in cui tratterò l’argomento continui a
piacerti.
X Cialy: ooooh, cara… Anche
io ti amo un sacco. Che bello. Dunque, sono lieta di aver centrato un argomento
che ti aggrada e spero naturalmente di potarlo avanti di modo che continui a
interessarti. I gemelli a me erano – sono – molto cari, quindi
cercherò di essere all’altezza. In effetti
sì, ci saranno più pov perché mi
sembra che così si renda meglio la complessità della cosa.
Ron… beh, a quanto dici l’ho reso esattamente come desideravo
– e come penso lui sia – per cui gioisco.
Alla prossima.
X Doremichan: Sottoscrivo la tua opinione sulla scelta di JK,
ma così stanno le cose… quanto al resto, beh, sono contenta che il
capitolo ti sia piaciuta. Speravo sull’effetto del finale e vedo che ha
funzionato. Quanto ai sentimenti di George, come te
ritengo che potessero essere simili… Perdere un gemello non dev’essere uno scherzo. Povero. Lieta anche che ti
piaccia lo stile.
X
EDVIGE86: Grazie. Eccoti accontentata, spero in modo positivo. Capisco lo
stupore per la morte di Fred – la trovo proprio fuori luogo- e in effetti trovo che il gesto di Ron sia molto bello, per
cui lo volevo premiare. ^__^
X
Dragonball93: Beh… Se ti ho addirittura incantata non posso che sentirmi
felice di ciò. Insomma, tanti complimenti mi lusingano e mi auguro che
il seguito sia allo stesso livello. Grazie anche a Linda – chiunque sia
– per la pubblicità.
X
Giulia: Tu hai sempre ragione. Non c’è niente da fare, è
così. Sono assolutamente d’accordo sulla tua opinione di JK
– tranne che per “Ella”, perché la maiuscola la
riserverei ad altri, ma è proprio una piccolezza- e ti do pienamente
ragione. Quanto a me, bè, faccio del mio
meglio e sono contenta che piaccia. Grazie anche per aver notato quelle due
espressioni che citi. Insomma, non mi aspettavo grande approvazione per questi
personaggi a me poco familiari e sono sorpresa. Piacevolmente.
X
Akira14: Oooh quanta grazia. Sono onorata. Riguardo
all’annullamento di George, ho cercato di immedesimarmi nella situazione
e per Ron devo ammettere che c’è qualcosina
di autobiografico, anche se in modo molto vago. Vedo che il “rimettere in
piedi George” ha colto nel segno. Che gioia. Ed eccoti l’atteso
capitolo, che spero sia stato di tuo gusto.
X
Evan88: non c’è proprio il caso di scusarsi. Anzi, grazie per gli
apprezzamenti. Non vedo proprio cos’avrei potuto chiedere di più.
X
lady hawke: bene. Il fatto che mi si commenti che non
è patetica mi dà tanto, tanto sollievo. E’ il mio terrore.
Sono contenta quindi che ti sia parsa misurata e credibile. Grazie.
X Magnolia: beh… che dire: ti ringrazio. Sono parole
che lusingano.
X sabrina: Meno male! Che non è forzata, intendo. E
grazie!
X
Elly… Oooh… Ecco qui finalmente qualche critichina da un’aficionada delle mie storielle. Ciao, carissima. Allora: sono contenta di aver centrato
almeno le basi dei personaggi. Mi sto muovendo in un territorio a me ignoto
(quasi quasi faccio resuscitare Pad per avere almeno
un punto fermo ^__^) e ho qualche difficoltà. Anzi, a questo proposito
se hai suggerimenti o appunti precisi da farmi sono più che bene
accetti. Il capitolo era di corsa in modo voluto, perché mi piaceva
l’idea di sbattere i lettori nel bel mezzo del caos, ma potrebbe essere
troppo affrettato, ci ragionerò su. Quanto alle fazioni… Non so.
In realtà sono vere e proprie squadracce che si affrontano. Ho sempre
percepito la
Hogwarts di Harry come un posto in cui
c’è un’ostilità molto forte tra i gruppi che qualche
volta mi lascia allibita. Soprattutto perché in
effetti spesso i bambini, in un determinato clima problematico come
quello, sono proprio così. Penso che la guerra degli anni Settanta abbia
lasciato forti strascichi nella società e che questi ragazzi
nell’infanzia li abbiano assorbiti. Che altro… Continua
quest’opera di critica che mi fa tanto bene. E non mi soffermo sul tuo
commento iniziale sui “buchi” di JK perché poi divento
sboccata. Hihi. A presto.
Mi
dispiace molto per la lentezza. Al momento sono estremamente avvinta da un
progetto malsano che mi ha letteralmente assalita all’improvviso e non
posso farci alcunché.
Comunque,
spero porterete pazienza. Vi lascio, nel frattempo, con i Weasley acquisiti.
Buona
lettura.
suni
Hermione
Hermione
aveva il sabato libero, ma Ron avrebbe ovviamente dovuto lavorare, nel weekend,
perché era il momento della settimana in cui l’affluenza dei
clienti era più massiccia. Per questo, se non aveva nulla da fare, lei passava
almeno due o tre ore a dargli una mano. Finivano per trovarsi, ad un certo
punto della giornata, tutti quanti ai tiri Vispi: lei, il suo maritino, Gin e
persino Harry.
A
quel punto George, al piano di sopra, sentiva le chiacchiere e le risate
– così pensava lei – e scendeva a salutare, offrendo a tutti
qualcosa da bere o uno spuntino cui solo Ron non prendeva parte quasi mai,
assorbito dall’attività lavorativa. Allora il fratello lo prendeva
da parte e gli diceva di andarsi a fare un giro con gli amici, chè al negozio ci avrebbe pensato lui.
Era
l’unico momento della settimana in cui George Weasley rimaneva da solo
nella bottega che aveva fondato insieme a Fred. Ma Ron non riusciva mai a star
fuori molto e finiva per tornare indietro quasi sempre dopo meno di
un’ora, nervoso e agitato. Hermione lo guardava andar via trafelato,
facendosi largo tra i passeggiatori con la sua stazza imponente.
Sapeva
che suo marito non amava particolarmente quel lavoro, ma lo sosteneva in ogni
caso per la scelta compiuta, dimostrazione di un inaspettato altruismo.
I
gemelli erano stati i fratelli prediletti di Ron, anche se litigava
furiosamente con loro. George, in particolare – meglio così, si diceva Hermione con un conseguente moto di
colpevolezza – era il suo preferito, forse anche per la faccenda
dell’orsacchiotto tramutato in ragno gigante da Fred e tutte le altre
fesserie che tutti insieme avevano combinato da bambini. George era anche stato
il fratello delle confidenze, più di Fred. Poteva sembrare un gesto
suicida quello di confessare i propri segreti a George Weasley – a lei lo
sembrava – dal momento che ad ogni frase seria che gli si rivolgeva lui
replicava con motteggi e prese in giro, ma evidentemente Ron trovava
qualcos’altro al di là, qualcosa che a lei non risultava del tutto
evidente perché non era accanto a loro dalla nascita: probabilmente Ron sapeva
leggere meglio di lei tra le righe delle parole di George. In ogni caso, tutto
questo faceva parte del passato, perché adesso era già molto se
il gemello emetteva qualche monosillabo di tanto in tanto, figurarsi scherzare:
era proprio fuori discussione.
Comunque
fosse, Ron non era stato capace di stare a guardare il gemello rimasto che si
lasciava morire; qualcosa dentro di lui si era ribellato, ne aveva anche parlato
con lei decine di volte, tormentandosi nell’indecisione. Non ce
l’aveva fatta a non fare niente, e in un automatismo involontario
s’era calato nel ruolo che gli avrebbe permesso in qualche modo di fargli
da punto d’appoggio, di essere una presenza costante: quello di Fred.
Hermione
lo capiva, non era sicura che fosse proprio la cosa migliore ma capiva: aveva
fatto la prima cosa che l’impulso gli avesse suggerito. Del resto Ron era
sempre stato molto testardo, loro due litigavano da anni per questo. Ma questa
volta era diverso, ed Hermione lo aveva semplicemente appoggiato: forse quella
non era una soluzione brillante, ma non ce n’erano altre.
Lo
seguì con lo sguardo, mentre si allontanava.
“Oggi
tirava una brutta aria, no?”
Si
voltò verso l’amico tornando bruscamente alla realtà. Harry
si stava sistemando gli occhiali sul naso e la guardava con composta
educazione, come quando a scuola diceva un parola di troppo e la osservava in
silenzio, con l’aria di sperare che magari lei non l’avesse sentito.
“Dici
in negozio?” chiese Hermione, girando il cucchiaino nella tazza di
tè. “Hanno cenato fuori, due sere fa, e Ron ieri era piuttosto di
cattivo umore,” ammise, mentre Ginny si riavvicinava con un ondeggio dei
capelli rossi.
“Scones, burro e
marmellata, la merenda dei campioni!” esclamò con un sorriso,
appoggiando un piatto stracolmo sul tavolino. “Peccato che mio fratello
sia già scappato via,” aggiunse, lasciandosi cadere sulla sedia
accanto ad Harry.
“Immagino
che ci vorrà un sacco di tempo, no?” continuò Harry,
afferrando un dolcetto con bramosia. “Perché inizi veramente
a…non so cosa. Voglio dire, a parte versarci dei gran succhi di zucca
quando andiamo a trovarlo non è che faccia molto nel resto delle sue
giornate,” commentò, incerto.
“George
fa del suo meglio,” intervenne Ginny sulla difensiva, comprendendo
immediatamente quale fosse l’abusato oggetto della conversazione e inserendovisi con naturalezza. “Non è facile.
Per nessuno,” precisò, incupendosi.
Hermione
si affrettò a spalmare del burro sul proprio scone, annuendo frettolosamente.
“Certo,”
confermò, risoluta. “Lo abbiamo visto tutti, no?” aggiunse,
mentre Harry la appoggiava con un cenno affermativo del capo e allacciava una
mano con quella della fidanzata. “Ma credo che l’altra sera sia
successo qualcosa. Merlino, Ron era terrificante, ieri mattina,”
commentò ancora, stancamente.
Ginny
si voltò verso il Harry mordendosi un labbro.
“Magari
potresti parlarci tu,” suggerì.
Hermione
trattenne a stento un sorriso, nel vedere il volto del migliore amico tingersi
di panico. Harry non era mai stato un grande conversatore, e per quanto la
fortuna e la temerarietà non gli mancassero, sul campo, non era invece
un asso nei rapporti interpersonali.
“Con
George?” borbottò, decisamente a disagio.
“O
con Ron,” interloquì lei seria.
“Per
dirgli cosa?” biascicò Harry impacciato, appiattendosi la frangia
sulla fronte in quel gesto nervoso che faceva ormai parte di lui.
Hermione
sbuffò, esasperata, scambiando un rapido sguardo condiscendente con Ginny.
“Ehilà,
Ron, come va con tuo fratello?” ipotizzò, ironica.
Harry
addentò il suo dolce, prendendo tempo. Lei tamburellò le dita sul
tavolo, paziente. Possibile che quel ragazzo avesse potuto affrontare Voldemort
con una certa padronanza di sé e si trovasse invece in difficoltà
davanti alla prospettiva di una semplice chiacchierata col proprio migliore
amico?
Ron
aveva bisogno di una mano, ne era certa. A lei ne parlava raramente,
perché era la sua donna e lui
era molto orgoglioso e non amava mostrarsi debole ai suoi occhi, ma era sicura
che necessitasse di appoggio. E Harry era la persona giusta per fornirglielo.
Harry
Harry
Potter ne sapeva qualcosa, della morte. E anche dei lutti e del loro
insormontabile dolore. Ne sapeva molto più di un’infinità
di altre persone, perché la maggior parte di coloro che lo avevano amato
se n’erano andati in maniera, per così dire, non propriamente
naturale.
Unsacco di gente, tra i suoi pur scarsi
detrattori, gli rinfacciava di essere un prepotente e un maleducato e se un
tempo, quand’era ragazzino, se la prendeva per questo, ormai si ritrovava
a stringersi nelle spalle con un certo assenso, anche se riteneva che
ciò non fosse del tutto esatto.
Non
era maleducato: era ineducato. E non era colpa sua, a voler
essere proprio precisi: non aveva chiesto lui di essere allevato da una
famiglia che lo odiava e che si disinteressava completamente a lui se non per
angariarlo. Di fatto, Harry Potter non era mai stato educato realmente da
qualcuno: suo padre e sua madre erano stato uccisi quando aveva un anno,
abbandonandolo nelle mani incapaci e ostili degli zii.
La
sua successiva figura paterna, sopravvenuta quando ormai era comunque troppo
tardi per dargli una vera formazione, non aveva avuto poi un gran tempo da
investire nell’insegnargli come ci si comporta in pubblico o quale
atteggiamento avere in occasioni ufficiali; probabilmente Sirius avrebbe saputo giostrarsi perfettamente
in un pasto in cui fosse necessario usare otto posate – da bambino
dovevano averglielo insegnato – ma di
sicuro farlo imparare a lui non era stato uno dei motivi principali per cui
era evaso. Ad ogni modo, era stato troppo impegnato a seminare i Dissennatori, mangiare ratti e rinfacciarsi il passato per
dedicarsi alla sua educazione, e di certo il fatto che non potessero vedersi
praticamente mai e non fosse prudente che si scrivessero spesso non
l’aveva aiutato nel suo incarico di padrino. E poi se n’era andato,
anche lui, in quell’orribile notte all’Ufficio Misteri. A volte Harry
si sorprendeva ancora a chiedersi se magari non sarebbe tornato indietro, pur
sapendo per certo che non poteva accadere. Era strana, la morte.
Silente
aveva avuto un’intera scuola da mandare avanti, oltre all’Ordine
della Fenice, e per quanto avesse dedicato a lui una cura particolare, non
aveva avuto esattamente il tempo per educarlo espressamente; cercava piuttosto
di farlo rimanere in vita abbastanza a lungo da poter affrontare Voldemort. E
Harry aveva visto morire anche lui. Un altro ricordo che non avrebbe potuto
rimuovere.
L’ultimo
e il più adatto al ruolo di suo “genitore” avrebbe anche
potuto ricoprire questo incarico educativo, e quand’era stato suo
professore ad Hogwarts Harry aveva realmente imparato qualcosa; ma il
pregiudizio e l’odio l’avevano allontanato inesorabilmente, la
guerra aveva occupato tutto il suo tempo e si era infine portata via anche lui,
lasciando peraltro un altro orfano sulla terra: anche Remus era morto, alla
fine, e a Harry ancora sembrava di sentire la sua voce pacata, qualche volta.
Sì,
decisamente, della morte ne sapeva qualcosa.
Quindi,
dopotutto, poteva anche essere la persona adatta ad occuparsi del problema
Weasley; anche perché quelli erano i suoi più cari amici, la sua
famiglia.
Voleva
bene ai gemelli. Aveva un’infinità di ricordi così
divertenti, legati a loro. Merlino, c’erano così tante memorie che
lo riportavano a loro, che quasi si accavallavano: gli scherzi a Percy, i
sogghigni durante gli allenamenti fanatici di Oliver,
le battute ironiche all’epoca della Camera – né Fred
né George avevano dubitato di lui per un solo istante – il giorno
in cui gli avevano regalato la
Mappa, i loro sorrisi increduli e riconoscenti quando aveva
consegnato loro il malloppo dopo il Tremaghi,
l’epica uscita di scena con la Umbridge. Anche nei
momenti più cupi e terribili degli anni di lotta a Voldemort, Fred e
George avevano conservato la capacità di far sorridere e infondere
speranza. Le loro parole alla radio erano state una luce amica durante la
tremenda ricerca degli Horcrux, quando lui, Ron e Hermione si nascondevano dai
Mangiamorte.
A
modo loro erano stati degli eroi, e ne avevano pagato il prezzo. E adesso il
volto vacuo e disperato di George gli faceva male, a guardarlo. Una rabbia
sorda e impotente lo invadeva di fronte a quel viso vinto dal dolore.
Perciò si sentiva in dovere di fare quanto fosse nelle sue
possibilità per venirgli in soccorso; a lui e a tutta la famiglia,
perché i Weasley, tutti, soffrivano con George e per lui, ed Harry
stesso sentiva la mancanza del suo sorriso.
Ma
era ugualmente estremamente nervoso quando, quel martedì sera, si presentò
ai Tiri Vispi per proporre a Ron di bersi una burrobirra
con lui e cenare insieme, perché le ragazze avevano deciso – in
realtà proprio per lasciarli soli – di passare una serata al
femminile.
Ron
– purtroppo? – aveva accettato con entusiasmo la proposta e Harry
si era trovato incastrato in una lunga chiacchierata che non era riuscito a
godersi davvero, perché continuava a meditare sull’argomento che
avrebbe dovuto introdurre di lì a poco e che seguitava a ritardare.
Alla
fine, stanco dell’attesa, preferì farla finita. Mentre Ron,
immerso in un dettagliato resoconto del suo ultimo litigio con un fornitore,
s’infervorava nel precisare tutte le colpe di quest’ultimo, Harry,
con le delicatezza che gli era propria, posò il bicchiere e prese fiato.
“E
dimmi, come va con George?” chiese, non molto diplomatico.
Ron
s’interruppe di scatto e distolse lo sguardo, con una smorfia.
“Bene.
Cioè, normale,” farfugliò, con innegabile dispiacere.
Quindi sopirò, scompigliandosi i capelli rossi. “Sai, amico,
ultimamente gli sono venute strane idee,” aggiunse, controvoglia.
Harry
si sistemò gli occhiali, attento.
“Di
che genere?” domandò, cortese.
“Parla
di vendere il negozio,” spiegò Ron, desolato.
Harry
lo vide serrare le labbra con rammarico, e si grattò una guancia.
“Per
fare che?” lo interrogò, perplesso.
Ron
scosse la testa, impotente.
“Niente.
Stare sdraiato nel letto a guardare il soffitto, presumo,” sibilò,
stizzito. “Ha tirato fuori la scusa che a me questo lavoro non piace e
che vorrei fare l’Auror e…”
“Potrei
farti entrare, lo sai,” lo interruppe Harry bonariamente, buttando
giù un sorso di burrobirra. “Posso
metterci una buona parola e tu avresti un pos…”
proseguì, di slancio.
“Non
è questo il punto,” scandì Ron irritato. “E non
voglio che sia tu a farmi avere un
posto da nessuna parte. Non è per questo che sono tuo amico. Ti sto
parlando di George, non di me,” continuò, incrociando bruscamente
le braccia sul tavolo.
“Va
bene, va bene,” ribatté Harry, vagamente risentito. “Tu che
cosa gli hai detto?” continuò, magnanimo, ritenendo più
saggio non assecondare l’arrabbiatura dell’amico.
“Che
per me è ok lavorare con lui, e non c’è problema.”
“Gli
hai detto proprio così?” proseguì Harry, aggrottando appena
la fronte.
“Sì,”
confermò l’amico, annuendo vigorosamente.
“Molto
convincente, Ron,” commentò Harry, atono.
L’altro
lo guardò storto, prima di sbuffare.
“Tanto
non mi stava nemmeno a sentire,” borbottò per giustificarsi,
arrossendo leggermente. “Lui sta gettando la spugna, questo è
quanto,” continuò, con voce bassa e addolorata.
Harry
annuì, assorto.
Forse
Hermione aveva avuto ragione, senza saperlo, a pensare di coinvolgerlo.
“Potrei
parlargli,” affermò, indeciso.
“Tu?”
osservò Ron scettico. “E perché ti dovrebbe dare
retta?”
Harry
sospirò, esitando a parlare. Non amava rivangare l’argomento con
l’amico, perché si trattava di un problema delicato di cui lui
aveva sofferto molto. I Weasley erano stati davvero molto poveri, quando i
ragazzi erano piccoli. Alla fine sbuffò, appiattendosi nervosamente i
capelli.
“Ti
ricordi il fatto del Torneo Tremaghi, no?”
iniziò, prendendola per le lunghe. “Io l’ho vinto e ho avuto
tutti quei soldi di premio e poi li ho dati a Fred e George,”
raccontò a disagio, distogliendo lo sguardo. “E’ con quei
soldi che hanno aperto i Tiri Vispi e…bè,
penso lui si senta ancora un po’ in debito con me,” aggiunse,
borbottando.
Sollevò
finalmente lo sguardo, e come temeva Ron aveva una smorfia imbarazzata e un
po’ contrita.
“Sì,
se non fosse stato per te…” brontolò a disagio. “E’
stato un gesto molto…” esclamò con fervore.
“Oh,
piantala,” lo interruppe lui deciso. “Io non li volevo, e a loro
servivano. Non te ne sto parlando per farmi complimentare, lasciamo perdere,”
continuò velocemente, imbarazzato. “Il punto è che magari a
me George darà retta, per via di quella faccenda,” osservò,
più pacato.
Ron
lo guardò fisso, esitando con aria cupa.
“Lo
faresti davvero?” mormorò, incerto.
“Certo,”
rispose Harry sicuro, annuendo con risoluzione.
____________
Grazie a tutti coloro che hanno letto, preferito,
commentato. In particolare:
Doremichan: Grazie. In effetti doveva essere drammatico, non penso che
nella testa di George ci possa essere qualche pensiero particolarmente felice,
a questo punto delle vicende. Che dire…spero di continuare a
sorprenderti.
Dragonball93: Merlino, non pensavo di
provocare un simile spargimento di lacrime. Quasi mi sento in colpa. Capisco la
frustrazione per la morte di Fred, anche a me succede con un paio di
personaggi. JK riesce a far fuori la gente con una facilità incredibile
e in modi talvolta discutibili. Ma è il suo mondo, no? Adesso ho capito
che tu e lilla vi conoscete, sul momento non mi era chiara la concordanza di
nomi e nick. ^__^ Ed eccoti il nuovo capitolo.
Elly: Oooh,
carissima… Che dire. Grazie per tutta questa attenzione che mi porti.
Quanto alle “fazioni”, per cominciare, penso che resteremo a questo
punto morto in ad un’analisi fatto quando a vent’anni, riguardando
indietro mi sembra di poter inserire Ron e gli altri in una
“fazione”. Penso che per Harry il discorso sia diverso proprio
perché non è cresciuto tra maghi e certi automatismi gli saranno
sempre preclusi – e va bene così. E poi Harry… Cioè,
Harry è un tipo strano,
povero. Io l’ho sempre visto come una specie di disadattato, bonariamente
(e spero che ora non verrò lapidata dai lettori per questo). Insomma, il
termine fazione indica una divisione netta che ai miei occhi esiste. Passando
al capitolo-George, e conseguentemente a George-Fred (il trattino NON implica pairing), capisco che forse l’atteggiamento del
sopravvissuto possa parere eccessivamente tragico, ma a me è venuto
così. E’ che io non vedo i gemelli come due persone veramente
autonome. Cioè, sono ragazzi in gamba, forti, pieni di
personalità, ma hanno un legame estremamente preferenziale. Fanno tutto
insieme: la scuola, il Quidditch, la fuga, il
negozio, la radio…tutto. Fanno discorsi parlando come se fossero una sola
persona. Non che li reputi identici. Ho sempre avuto l’idea che George
sia in qualche modo il meno “leggero”, anche se di pochissimo,
rispetto a Fred, e ho scoperto di recente che non sono l’unica. Quindi,
ecco, tutto ciò per dire che in base all’idea che mi sono fatta di
loro e alla mia esperienza personale in fatto di gemelli, una perdita del
genere è qualcosa di devastante, insanabile. Quanto al resto, sì,
Lee comparirà in prima persona e avrà
anche una certa influenza sulle vicende. E non dico altro per non anticipare.
Grazie ancora, e terrò comunque a mente quel che dici. C’è
sempre tempo per cambiare qualcosa. A presto.
lilla4eve: carissima mailatrice
e fan assidua, eccoti finalmente il capitolo da te tanto atteso. Mi dispiace
averci messo tanto ma, come illustrato a inizio pagina, mi è piovuta tra
capo e collo un’idea calamitante. Trovo estremamente commovente il tuo
shock e lo stato di prostrazione in cui lo scorso capitolo ti ha precipitata,
ma non voglio far soffrire così i miei lettori. Spero che questo nuovo
capitolo, dai toni un pochino più leggeri, sia stato meno traumatico. Ti
vedo veramente sconvolta. Allora: tralasciamo l’argomento JK che potrebbe
portare solo a brutte conclusione, tralasciamo l’antipatia per Harry
(condivisa) e passiamo, dunque, ai Weasley. Penso che la loro oppressività sia qualcosa di cui non sono
consapevoli, un modo per reagire al dolore e aggrapparsi a cosa resta loro. Non
è facile saper aiutare una persona che amiamo quando soffre molto,
soprattutto se anche noi stiamo soffrendo. Spesso si commettono errori nella
convinzione di far bene, ed è quello che sta avvenendo. In un primo
momento la vicinanza degli altri Weasley ha fatto bene a George, ma il suo
malessere non si è attutito, in compenso lui si è sentito
logorare dalla loro costante ingerenza nella sua vita. D’altra parte
loro, vedendo la situazione migliorare così poco, hanno decuplicato gli
sforzi per aiutarlo. E’ una specie di circolo vizioso, ma non darei
veramente delle colpe a qualcuno. In ogni caso, ecco, grazie per essere
così entusiasta del mio lavoro. Spero continuerai ad apprezzarlo.
EDVIGE86: Ciao. Sono perfettamente
d’accordo sulla tua analisi dell’esasperazione per la troppa
vicinanza e sul legame tra Ron e George. Ho la medesima sensazione in merito e
per questo ho voluto approfondirla con questa storia. Inoltre ti ringrazio
molto per aver apprezzato il mio modo di trasmettere i sentimenti del gemello,
non è stato molto facile. E grazie anche per la comprensione riguardo
alla lentezza. So che a volte è fastidioso dover aspettare ma del resto
ognuno ha i suoi tempi. Spero che la lettura continui ad aggradarti.
Seiryu:
Già. Il “non ho potuto salutarlo”(-arla,
nel mio caso) è un pensiero che devasta ancora i miei sonni, a volte.
Penso che per George debba essere una cosa mostruosa. Non è un pensiero
molto sensato – il fatto che una persona sia morta significa cose ben
peggiori della mancanza di un saluto – ma credo sia perfettamente
naturale. Rende la perdita più acuta e più violenta. Capisco
anche l’irritazione verso certi atteggiamenti dei Weasley, che
però agiscono in completa buona fede. Il lutto è una cosa
complicata, no? Insomma, grazie…ma hai veramente una hit dei miei pezzi
migliori? ^__^
Akira14: …ehm. Non era mia
intenzione prenderti a pugni. Chiedo scusa. ^__^ dunque, non vedo proprio cosa
aggiungere a quello che hai scritto. La tua recensione mi ha davvero fatto
molto piacere perché hai colto esattamente gli aspetti su cui volevo
porre l’accento ed è stato molto bello scoprire in chi legge una
comprensione così piena di quel che avevo scritto – soprattutto
considerando che non sono esattamente Eco (con cui mi scuso sentitamente per il
paragone azzardato e del tutto ironico nei miei confronti. Sul serio,
Grandissimo, non si inquieti). Ecco, tutto ciò per dire che mi lusinghi.
E che spero di non aver deluso con questa nuova parte relativa ai familiari
“acquisiti”.
Cialy: Aaah, la tRow… Musica per
le mie orecchie. Amo, amo, amo, sempre lo ripeterei. Dunque. Tu puoi prenderti tuuutto il tempo che vuoi.Sempre (violini in sottofondo). Che
altro… beh, sono contenta che l’analisi mentale di George ti sia
piaciuta ed è vero che si, mi sono concentrata sulla sua
immobilità fisica e psichica, che vanno di pari passo. Quant’è vero ciò che affermi sulle
deprimenti scelte di colei… A presto.
So
che la lentezza con cui questa storia procede è vergognosa. Me ne scuso.
In verità ce n’è già un bel pezzo imbastito, ma non
ho mai il tempo e la concentrazione per lavorarci su seriamente, perché confesso
che non mi è facile gestire questi personaggi a cui non sono abituata. A
questo proposito, ho corretto le imprecisioni del capitolo precedente. Non mi
ricordavo proprio che Harry avesse parlato a Ron dei soldi del Tremaghi e ringrazio Dragonball93 e Lill
che me l’hanno fatto notare.
Adesso,
invece, vi lascio alla coppia del secolo (…).
Harry
“Avanti!”
esclamò la voce di George, quando lui ebbe bussato discretamente alla
porta.
Harry
sospirò, schiarendosi la voce per rispondere. Visto quanto Ron era
sembrato sollevato dalla sua idea di affrontare personalmente il discorso
vendita del negozio col fratello maggiore, aveva ritenuto fosse una buon idea
quella di farlo il prima possibile. Tutto sommato, però, non si sentiva
tranquillo. Non era molto dotato nel rapportarsi con la gente.
“Ciao!”
lo salutò titubante, augurandosi di non disturbarlo troppo.
“Posso?” chiese, esitando.
Udì
un leggero tramestio provenire dall’interno ed attese, paziente.
Realisticamente George si stava alzando dal letto in quel momento,
perché non muoveva mai un muscolo fino alle due di pomeriggio se non era
obbligato. E al momento era solo mezzogiorno.
“Certo,
vieni,” invitò la sua voce noncurante dall’interno.
Harry
si avventurò nella stanza dando mostra di una certa allegra baldanza, gli
occhi smeraldini che scorrevano sul pigiama sbilenco di George, che penzolava
depresso sul suo corpo ossuto e troppo magro, risalivano sul viso scavato e gonfio
di sonno per posarsi infine con un moto di simpatia, dovuta alla comprensione
del problema, sull’inguardabile casco di capelli rossi che gli stavano
ritti in testa, e che potevano quasi fare la sua invidia tanto erano arruffati.
“Dormivi?”
chiese tentennando.
George
scosse la testa, vago.
“No,
io stavo…” iniziò, interrompendosi in preda
all’imbarazzo.
“Certo,”
intervenne Harry annuendo comprensivo, e cavandolo d’impiccio. Aveva
un’idea di quel che stava facendo: guardava in aria e pensava a Fred, un
classico dell’ultimo anno e mezzo.
“Come
mai da queste parti?” chiese George vago, sollevando dei vestiti sporchi
dalla poltrona perché lui potesse sedersi; rimase impalato in mezzo alla
stanza per un paio di secondi, con quella bracciata di abiti di cui non sapeva
che fare, quindi li lanciò semplicemente sul letto, disegnando una
parabola di calzini, mutande e maglioni che andarono a cadere disordinatamente
tra le lenzuola disfatte.
Harry
si sedette, con leggero disagio.
“Sono
passato a salutare Ron,” spiegò, seguendo con uno sguardo
inespressivo il volo della biancheria di George, “perché ho il
pomeriggio libero,” concluse cordiale, mentre il gemello, noncurante,
raggiungeva coperte, vestiti e tutto il resto accoccolandosi sul proprio letto.
“E ho pensato di fare un salto di sopra a salutarti,” aggiunse,
allegro.
George
annuì, pensoso.
Questa
era una cosa particolarmente difficile dell’avere a che fare con George
Weasley da un anno e mezzo a quella parte: fare conversazione con lui si
riduceva a prodursi in lunghi monologhi, inframmezzati dai suoi cenni di
assenso o dissenso e da qualche rara sillaba smozzicata sottovoce. Harry odiava
essere il centro di qualunque situazione, ma con George lo si era per forza,
perché lui c’era sempre soltanto a metà.
“E
ho visto i nuovi articoli,” aggiunse svagato.
“Sono…ehm…molto interessanti. L’inchiostro urticante vi
procurerà un bel po’ di nemici,” continuò, con
impegno.
George
annuì nuovamente, giocherellando con l’orlo di un paio di
pantaloni.
Aveva
sempre lo sguardo talmente fisso che non si capiva mai bene se stesse
ascoltando o meno.
Harry
si sistemò gli occhiali, inspirando lungamente.
“Ieri
sera ho cenato con Ron a Hogsmeade,” proseguì,
come se l’informazione fosse d’importanza capitale. “Abbiamo
incontrato Oliver, sai? Era in uscita con due della
squadra,” aggiunse con enfasi.
“Bene,”
commentò George, quasi tra sé.
Harry
sbuffò, rassegnato. Decisamente, stabilì, l’impresa superava le sue
capacità.
“Vuoi
vendere il negozio, allora?” chiese diretto, diventando serio.
George
sussultò, senza riuscire a sostenere il sguardo, e prese a fissarsi le
dita di un piede.
“Te
l’ha detto Ron?” mormorò, con aria colpevole.
Harry
annuì, senza dire altro.
George
continuava a guardare in terra e la situazione sarebbe potuta rimanere
invariata forse per giorni interi, con Harry che osservava
l’interlocutore senza sapere come andare avanti e George che studiava nel
pavimento presumibilmente immerso nei bei ricordi di un passato che un destino
malvagio e accanito gli aveva rubato. Invece qualcosa esplose al piano di
sotto, riscuotendoli entrambi.
“Sì,
voglio vendere,” ammise George, sottovoce.
Harry
espirò rumorosamente, meditabondo.
“Perché?
Cioè, pensi che ti farà sentire meglio? Se è così,
certo, capisco benis…” iniziò, con
fare comprensivo.
“No,”
lo interruppe George cupo.
“No?”
ripeté Harry spiazzato. “…Sinceramente pensavo fosse questo
il motivo,” commentò, senza sapere bene come vedere la cosa.
“Parlando
seriamente, tu pensi davvero che esista al mondo qualcosa che potrebbe farmi
sentire meglio, Harry?”
Era
la frase più lunga che George gli avesse rivolto da mesi, almeno dalla primavera precedente, ma lo lasciò senza
parole e avvilito.
“Non
so,” borbottò, incerto. “Però allora, scusami, ma non
sono d’accordo. In fondo… cioè, non è quello
che…vorrebbe Fred, immagino,” aggiunse, meditabondo.
George
sollevò lo sguardo su di lui, ed Harry ci lesse odio.
“Tu
non ne sai niente, di cosa vorrebbe Fred,” ringhiò, con voce
sorda.
“Certo,
certo,” si affrettò a replicare il Ragazzo Sopravvissuto, alzando
le mani in propria difesa e rendendosi conto di aver decisamente sbagliato
commento. “Volevo dir…”
“Vattene,
Harry,” intimò l’altro, coprendosi il viso con le mani.
Lui
spalancò la bocca, desolato.
“A-aspetta, dai, non avevo intenzione di…”
biascicò con dispiacere.
“Vattene. Adesso,” ripeté
Fred rannicchiandosi contro le proprie ginocchia.
Lui
si alzò in piedi, con immensa vergogna. Fece un passo verso la porta,
poi serrò i pugni e si riavvicinò, riprendendo coraggio. Era pur
sempre Harry Potter, per quanto spesso gli fosse scomodo. Non si fermava
facilmente, nel bene e nel male.
“Sono
venuto a parlarti perché ho detto a Ron che ti avrebbe fatto bene, e se
ora vedrà che è vero l’esatto contrario ci rimarrà
male come un cane,” affermò, con soggezione. “Tuo fratello
è preoccupato, George,” continuò solenne.
“I
miei rapporti con i miei fratelli, vivi o defunti, non sono cosa che ti
competa,” ribatté l’altro bruscamente, tornando a guardarlo
senza il minimo interesse.
“Col
cazzo,” replicò con risoluzione Harry. “Siete tutta la mia
famiglia, ormai. Ops, è vero, non sei
l’unico ad aver sepolto dei morti, che coincidenza,” aggiunse,
seccamente. Prese fiato, rabbonendosi e avvicinandosi un altro po’. “George,
tu ami questo posto. L’avete messo su insieme, e ancora mi ricordo di
quando l’avete aperto e di com’eravate felici,”
continuò, benevolo.
L’altro
chiuse gli occhi e si morse ferocemente le labbra, con sorriso penoso.
Annuì,
e da un occhio chiuso gli scivolò fuori una lacrima.
“Se
lo vuoi vendere perché hai bisogno di darci un taglio fallo, ma se
è solo per lasciarti deperire meglio, allora scusami ma in quanto
finanziatore del negozio mi trovi come minimo contrario,” continuò
Harry.
“Te
li posso restituire, i tuoi soldi,” mormorò George con voce rotta.
“Non
è una questione di soldi, e lo sai,” ribatté Harry,
caparbio. “Ma i Tiri Vispi sono Fred
e George Weasley, e sarebbe orribile se non lo fossero più.”
George
si passò una mano sulla fronte, muovendola istericamente.
“Ron
non vuole lavorare qui,” tentò, come ultima difesa.
Harry
scosse la testa.
“Se
un giorno Ron volesse fare altro gli rimangono amici influenti cui rivolgersi,
se non trova un altro modo,” ironizzò. “E poi non è
vero, Ron vuole lavorare con te.”
“Non
rispecchia proprio le sue ambizioni,” ribatté George sarcastico,
asciugandosi il viso con una manica.
“Ron
vuole tenersi stretto il gemello che gli resta. Questa è una
priorità, e sta esattamente
seguendo la sua ambizione,” lo contraddisse Harry pacato. Conosceva il
proprio migliore amico abbastanza bene da sapere che al momento quanto
più gli premeva non fosse fare carriera.
“Quindi
tu voti no?” sussurrò George, dopo un lungo silenzio.
“Voto
no,” confermò Harry con certezza.
“…
Ci penserò, Harry,” bisbigliò l’altro, poggiando la
testa sulle mani.
Harry
sorrise, sollevato.
Ginny
“Avanti,
niente storie,” l’anticipò Molly sbrigativa, calcandosi in
testa il cappellino. “Ti ho solo chiesto di accompagnarmi, Ginny,” continuò, con tono autoritario.
La
ragazza si sistemò nervosamente i capelli rossi, mordicchiandosi un
labbro.
“Preferirei
di no, mamma,” obiettò, poggiandosi alla credenza con fare
indolente. “Davvero,” aggiunse, più seria.
Sapeva
perfettamente che visite familiari troppo
frequenti indisponevano suo fratello, che non riusciva più a gestire i
rapporti col prossimo, nemmeno quelli con loro; se non fosse stato per Ron ne
sarebbe stata davvero preoccupata, ma vedeva il loro legame mantenersi saldo
giorno dopo giorno e questo le rendeva qualche speranza.
“Sai
che se vado da sola si arrabbierà e mi dirà che lo
controllo,” ribatté Molly, afferrando il proprio mantello
dall’attaccapanni e poi quello della figlia, cui lo porse con un gesto
deciso. “Forza, vestiti,” continuò, e Ginny
stava per incollerirsi, e rispondere che no, non sarebbe andata con lei da
George e non avrebbe fatto finta che fossero capitate da quelle parti per caso,
perché tanto suo fratello era depresso, non stupido, e avrebbe capito
perfettamente che era una bugia. Ma mentre sollevava la testa di scatto e spalancava
la bocca, il volto irrigidito dal dispetto, incrociò lo sguardo quasi
supplichevole e spossato di sua madre, fermo nel suo in una preghiera che non
aveva nulla di imperioso o infaticabile come un tempo, ma pareva piuttosto una
richiesta d’aiuto, di sostegno.
Sua
madre non era più il generale in gonnella di un tempo; era invecchiata,
persino dimagrita. I capelli le erano diventati in buona parte bianchi, sul
viso si disegnava il dedalo impietoso delle rughe, sempre più evidenti,
e gli occhi rilucevano di quella luce stanca e acquosa del declino. Sì,
Molly era diventata vecchia. Era successo quasi d’un colpo, iniziato
d’improvviso e continuato a velocità anormale per settimane, fino
a poi stabilizzarsi in un delicato, lento consumarsi. Ginny
sapeva che era cominciato il giorno del funerale. Quel giorno maledetto in cui
aveva visto il corpo di Fred calare nella terra per sempre. Era stato un dolore
insopportabile, che le aveva aperto qualcosa nel petto che ancora bruciava, a
volte.
Tutti
loro erano cambiati, quel giorno. Sua madre, suo padre, i suoi fratelli e lei.
Erano tutti diventati diversi e negli occhi di ciascuno dei propri familiari Ginny riconosceva la cicatrice che quello strappo brusco
avrebbe sempre lasciato anche in lei.
“Ma’…”
protestò debolmente, risolvendosi ad afferrare il mantello e infilarselo
sommariamente.
Molly non le diede retta, limitandosi ad
elargirle una pacca benevola. A sua figlia non restò che sospirare
debolmente e smaterializzarsi al suo seguito, per poi ricomparire davanti alla
vetrina colorata dei Tiri Vispi.
Ron stava mostrando le Puffole
ad una giovane cliente e Ginny lo vide distintamente
aggrottare la fronte al loro ingresso in negozio. Si morse le labbra,
stringendosi appena nelle spalle per indicargli che non poteva farci niente e
che non era lì di sua volontà. Sua madre, nel frattempo, aveva
salutato il figlio con un cenno caloroso e già marciava verso il
retrobottega per dirigersi al piano superiore. Ron sgranò gli occhi.
“M-mamma,”
la richiamò Ginny, cogliendo il messaggio.
“Magari potremmo aspettare che lui scenda, no?” propose noncurante,
avventandosi sulla merce esposta come per esaminarla con estremo interesse.
Molly
sbuffò, incerta.
“Immagino
di sì,” ammise a malincuore.
“Buongiorno,
mie donne,” salutò Ron, liberatosi alla bell’e
meglio della sua cliente che continuava ad aggirarsi tra gli espositori.
“Come mai qui?”
“Bè, caro, siamo venute a fare un po’ di spese
e già che c’eravamo… Tuo fratello?” interloquì
Molly. Ginny sospirò silenziosamente, senza
smettere di guardare Ron. Era mortalmente stanca di tutto quello. Avrebbe
soltanto voluto che George tornasse ad essere George e che tutto fosse di nuovo
a posto.
“Credo
stia riposando,” rispose Ron con disinteresse. “Stamattina ci siamo
alzati presto perché arrivava il nuovo materiale, e
così…”
A
Ginny fu sufficiente notare il leggero rossore della
sua collottola e il modo in cui distoglieva rapidamente lo sguardo per sapere
che stava mentendo. Lui si era alzato
presto, mentre George rimaneva in camera. Come sempre. E non stava riposando,
semplicemente non si era ancora mosso dal letto.
Si
appoggiò al bancone, l’amarezza che le faceva sentire le gambe
pesanti. Sapeva che sarebbe andata così ancora prima di uscire di casa.
Certe volte non riusciva a capire come si lasciasse convincere da sua madre e
partecipare a quelle sortite masochiste, e come Molly potesse davvero
persuadersi a credere alle innumerevoli scuse accampate ogni volta da Ron. Ne
aveva concluso che di fatto non ci credeva, ma preferiva fingere di sì
anche con se stessa: dopotutto era di suo figlio che si trattava.
Sapeva
già come sarebbe andata, come sempre: Molly avrebbe cominciato a
ventilare l’ipotesi di salire per un veloce saluto; Ron si sarebbe
blandamente opposto, cercando invano di trattenerla. Infine, riluttante,
avrebbe finito per cedere e sarebbe salito chiedendo loro di sostituirlo per un
momento mentre andava a vedere se George
era sveglio. Lo avrebbe avvisato della loro visita e il gemello avrebbe
fatto qualcosa come pettinarsi e infilarsi dei vestiti per la consueta recita
con la madre. Avrebbe mormorato qualche monosillabo e annuito con indifferenza finchè Molly non si fosse convinta di aver fatto il
suo dovere.
E
per tutto il tempo lei sarebbe rimasta a testa bassa, senza nemmeno riuscire a
guardarlo per l’avversione a dover leggere nei suoi occhi la menzogna o
ancora peggio, la realtà: ovvero che niente e nessuno lo poteva aiutare,
che lei poteva anche essere la sua sorellina Ginny ma
che questo non incideva sostanzialmente sulla situazione, lei non poteva fare
nulla per lui. Ed era questo, lo straordinario senso d’impotenza, a
lasciarla con le lacrime agli occhi ad ogni loro incontro: non il dolore per la
morte di Fred, né la sensazione di abbandono dovuta alla sua conseguenze
lontananza, ma solo la consapevolezza immutabile della propria
inutilità.
Chissà
se George lo avrebbe mai capito.
“…Complimenti.
Mi sono sentita così fiera di voi!” stava raccontando Molly quando
lei si riscosse dai propri pensieri.
“Sono
contento. Stiamo lavorando sodo,” rispondeva suo fratello, distratto dal
preparare la ricevuta per la ragazzina che gli aveva porto timidamente i propri
acquisti.
“Penso
che potrei salire a fare un saluto, no?” aggiunse Molly, come da copione.
“Non
so, mamma. Credo davvero che George dorma,” provò ad obiettare
Ron.
Quella
battute già scritte da mesi erano insopportabili, per Ginny. Le facevano venire voglia solo di abbracciare Harry
e di piangere, non sapeva bene in che ordine.
“Oh…
Certo. Ma…” balbettò Molly insicura, tormentandosi le mani.
“Mamma,”
la interruppe Ron lapidario, con insolita decisione. “Davvero, George era
molto stanco. Sta dormendo.”
Ginny lo guardò sorpresa. Solitamente non era affatto
così definitivo, né usava quel tono tanto brusco. Sua madre
dovette avere la stessa sensazione, perchè lo guardo quasi ferita. Un
tempo avrebbe replicato vivacemente e fatto di testa propria, ma stavolta si
limitò ad annuire debolmente, rammaricata.
“Digli…digli
che siamo passate. Ginny, tu resta pure un po’
con tuo fratello, io continuo le compere,” rispose, rassegnata.
E
anche la mitezza di Molly, anche quella le risultava ormai dolorosa.
Annuì senza convinzione, mentre sua madre baciava Ron sulla guancia
prima di uscire quasi frettolosamente.
“Cos’è
questa novità?” chiese lei, quando l’ebbe vista sparire.
“Quale
novità?” replicò il fratello, tenendo d’occhio due
ragazzini che gravitavano intorno alle Caccabombe.
“Lo
sai,” mormorò lei telegrafica.
Ron
sbuffò, stropicciandosi i capelli.
“Prima
è passato Harry,” accennò.
Ginny lo guardò perplessa, non riuscendo a capire il nesso tra
la presenza del suo ragazzo e il rifiuto di Ron a disturbare George. Le due
cose non avevano molto a che fare.
“Quindi?”
Ron
sospirò stancamente, togliendo dal piano della cassa della polvere
inesistente.
“Quindi
niente. E’ venuto a parlare con George. Avevano delle cose da discutere e
da quanto miha detto il tuo
cavaliere dopo, preferisco lasciarlo in pace, per oggi.”
Ronald
era ermetico, come al solito. Ma lei corrugò la fronte, impensierita.
“Di
cosa dovevano mai parlare Harry e George?” domandò inquieta.
“Non
sono fatti miei. E nemmeno tuoi, Ginny,” la
riprese lui con quel fare paterno che le era sempre riuscito insopportabile,
sin da quand’erano bambini. Ron Weasley, il signor pressappochismo, che
veniva a dirle cosa andava e non andava fatto.
“Merlino,
scusa, non pensavo fosse un segreto di stato,” ribatté irritata.
“Non
ho detto questo. Solamente, non andare a stressare Harry per farti dire cosa
è successo. Non sono cose che ci riguardano, dopotutto,”
replicò lui, vagamente inacidito.
“Non
ho cinque anni. Non preoccuparti, non darò noia al tuo preziosissimo
Harry.”
La
freddezza del suo tone di voce parve esasperare Ron, che sbuffò
nuovamente.
“Gin,
lo so che… Cioè, George è uno schifo, con te in
particolare.”
“Tu
dici?” commentò lei sarcastica, maledicendo il modo in cui la sua
voce tremava.
“Ma
lui…loro sono sempre stati i tuoi paladini e adesso per lui…”
continuò il fratello agitato, senza nemmeno badarle.
“Va
bene così, Ron,” lo interruppe lei mollemente, sollevandosi dal suo
appoggio sul bancone. “Sul serio. Era solo curiosità, non ha
importanza.”
Si
sentiva semplicemente esausta per l’intera situazione. Stabilì che
sarebbe andata da Harry e gli avrebbe chiesto di cenare con lei senza toccare
l’argomento George, solo per dimenticarsi per qualche ora della sua
famiglia, di sua madre e di suo fratello. Per fare finta che fossero una coppia
normalissima e sorridergli senza rimuginare sulla saetta bianca che gli
deturpava la fronte. Solo Ginny e Harry.
“Ci
vediamo in settimana, va bene?” concluse, iniziando a tornare verso
l’uscita.
“Sì.
Chiedi scusa alla mamma,” confermò Ron con un sorriso colpevole.
Ginny lo ricambiò debolmente, quindi uscì diretta a
Grimmauld Place.
Seiryu: Grazie mille… Non pensavo che “Fratello”
avesse tanti estimatori. Sinceramente io la sento vecchia, soprattutto nello
stile, ma a differenza di altre cose che ho scritto da tanto la vivo ancora
molto, perché tratta temi molto sentiti anche per me. Quanto ai Weasley
acquisiti, bè, anche loro fanno parte della
famiglia. E non saranno gli unici non-Weasley a comparire, ovviamente ^__^.
Doremichan: non so se ho regalato emozioni, ma spero che la
conversazione tra il signor Weasley e il signor Potter sia stata godibile. In ogni
caso, ti ringrazio per l’apprezzamento.
sbirolina93: ahm…riguardo alla speranza
di aggiornare in fretta, temo di averla un filino disattesa e me scuso. Per il
resto sono onoratissima dei complimenti e mi auguro che la coerenza ai
caratteri originali si mantenga intatta. In caso contrario spero mi
verrà fatto notare. Alla prossima.
lilla4eve: Ciao! Eccomi, con molta
lentezza ma eccomi ad accontentarti. Dunque, ho capito cosa intendevi
relativamente al superare certi dolori con le proprie forze, ma non so se sono
del tutto d’accordo. Ogni volta che nella mia vita mi è capitato
di dover affrontare un vero dolore, intendo qualcosa di realmente tragico, non
ci sarei riuscita o avrei faticato il triplo senza la vicinanza di determinate
persone, che magari sul momento ho odiato per la loro volontà di
spronarmi. D’altra paret è difficile
avere la giusta misura, quando cerchi di aiutare qualcuno, non esagerare né
limitarsi troppo, specie se sei emotivamente coinvolto nel dramma. Penso sia
quel genere di cose in cui si tenta, alla cieca, sbagliando e muovendosi a
caso. In tutto ciò, certo, è indispensabile avere degli spazi e
confrontarsi con se stessi e con la propria sofferenza in modo individuale. Ma vabbè. È un discorso troppo complicato e con
troppe variabili legate al caso singolo. Per il resto…sì, in
effetti né Harry né Ron nella mia visione sono menti eccelse…però
li trovo divertenti e hanno sicuramente uno spirito buono, nel senso più
schietto del termine. Mi fa piacere che il capitolo ti abbia rallegrata e spero
continuerà così. A presto.
Dragonball93: guarda, condivido parecchie
delle cose che dici. Il fatto che anche harry e hermione siano parte della
famiglia, il disappunto per la maniera che JK ha avuto di liquidare certi
personaggi in maniera per lo meno troppo sbrigativa – non ho ancora letto
il settimo libro principalmente per l’episodio Lupin, e a questo punto
credo che non lo leggerò mai, perché non ne sento il bisogno –
o ancora l’antipatia per quel piantagrane iettatore che è Harry.
Guarda, io è dall’Ufficio Misteri in avanti che se potessi gli
aprirei la testa a metà e la infilerei nel mixer. Tutta la gente che gli
sta intorno crepa in modo insulso, porta una sfiga che non ci si può
avvicinare. Ah…cerco di contenermi. Dunque. Dov’eravamo. Ah,
sì. Grazie, come ho già detto all’inizio, per aver corretto
le mie sviste, ho provveduto a sistemarle. Fammi sapere se c’è
altro che non va. Alla prossima.
nameless: ciao a te. Sono molto, molto lusingata per le tue
affermazioni, davvero, ma non esageriamo… accipicchia, mi hai quasi messa
in imbarazzo ^__^. Ecco il capitolo, che spero ti sia stato altrettanto
gradevole leggere e che abbia saputo nuovamente coinvolgerti. Ciao!
Lill: è esatto quello che dici relativamente alle parole di
George. Effettivamente il dire una cosa simile è di per sé un
sintomo di ribellione alla propria condizione, e tutta questa storia, che attualmente
pare tanto deprimente, è la narrazione di una rinascita che prende il
via proprio in quel momento. La conversazione di George e Ron alla fine del
primo capitolo è un momento di catarsi, perché pensare di voler
morire è facile, ma dirlo – ammetterlo – non lo è
altrettanto, e di solito significa anche un desiderio di qualcosa, o qualcuno,
che ti aiuti. Scusa lo sproloquio, ma mi ha fatto davvero piacere leggere
quella tua considerazione. E ripeto, grazie per la correzione. A presto.
EDVIGE86: grazie a te per tutte le
belle parole. spero che la conversazione di Harry e George sia stata di tuo
gusto e che questo nuovo spaccato abbia continuato ad essere coerente. Ho qualche
dubbio su Ginny, anche perché non amo il
personaggio, e mi auguro non sia uscita fuori un’accozzaglia di scemenze.
A parte tutto, comunque, sono onorata. Ciao.
Cialy:..oooh, tu… che bello. Dunque,
dunque, dunque, quante cose belle e rallegranti che mi dici. Ah, sapevo che
almeno tu avresti sofferto con me per la citazione di Sirius e Remus, che
bello. Non riesco mai, mai a fare a meno di citarli almeno en passant per ricordare al mondo quant’è
povero e sfortunato ad averli persi. Ahm. Comunque. Harry è IC? Ho paura
che mi sfugga di mano. Lo capirei anche, se mi sfuggisse: visto che lo detesto
deve aver paura che gli faccia fare la figura dell’idiota. Spero molto
che, se leggerai, continuerà ad aggradarti quel che vedi. Un saluto, e
in bocca al lupo per qualunque progetto tu stia portando avanti nei meandri del
net, e che sicuramente sarà strabiliante come ogni tua cosa. Ciao.
Akira14: ma tu guarda che stranezza…io
che faccio rivalutare Harry alla gente, proprio una roba assurda. E agghiacciante.
Credo mi mozzerò tutte e dieci le dita per non scrivere mai più
qualcosa che provochi un simile abominio. ^__^ fesserie a parte, nemmeno a me
lui piace molto, ma cerco di essere oggettiva. In fondo ha avuto una vita
difficile ma anche del coraggio. E da buona Gryffindor,
stimo i coraggiosi oltre ogni cosa. Ti ringrazio per tutte le altre
osservazioni positive e spero che anche nel tuo caso il confronto tra i due sia
stato piacevole.