Ambitions

di suni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ron ***
Capitolo 2: *** George ***
Capitolo 3: *** Weasley acquisiti ***
Capitolo 4: *** La coppia d'oro ***



Capitolo 1
*** Ron ***


Ambitions

Ebbene!

Novità novità. Eccomi qui a confrontarmi per la prima volta con la nuova generazione. Mi scuso anticipatamente per ogni eventuale errore che commetterò e per tutte le imprecisioni e gli atteggiamenti OOC da me descritti che dovessero mai sfuggire alla mia abilissima beta e solita amica che ringrazio come sempre di cuore.

Non fraintendete, non ho affatto abbandonato i miei Marauders, tutt’altro. Ma sentivo di dovere qualcosa a due personaggi che ho molto amato della saga, in effetti gli unici due che veramente ami delle nuove leve.

I gemelli Weasley somigliano un po’ ai Marauders, forse per questo mi sono tanto cari. Sono due bellissimi personaggi. Ogni tanto ripenso alla parte d’inizio del terzo libro, quando si trovavano con Harry e cominciavano a sfottere Percy (Abbiamo cercato di chiuderlo in una piramide, ma la mamma ci ha scoperti). E’ una pagina deliziosa e mi fa davvero ridere.

Per cui, mi sembrava doveroso dedicare loro qualcosa, vista l’infelice scelta di JK nel settimo libro.

Ditemi voi se è accettabile e interessante.

Buona lettura

suni

 

 

 

Ambitions

 

 

 

Ron

 

Ronald Weasley era stato un bambino assolutamente normale. Con un sacco di fratelli maggiori e una famiglia caotica, povera ma tutto sommato abbastanza felice, aveva trascorso un’infanzia agitata ma serena, e s’era dedicato a tantissimi giochi e a un’infinità di passatempi assurdi, a volte rischiosi, comunque entusiasmanti. Nei divertimenti che escogitavano tra fratelli sbrigliava la fantasia ed insieme a Fred, George e qualche volta Percy inventava mondi sfavillanti.

Come tutti i bambini – be’, i bambini di una certa fazione – si era immaginato Auror, avventuriero, domatore di creature letali, guerriero, eroe.

Poi aveva iniziato la scuola e, tra una cosa e l’altra, aveva smesso di essere un bambino normale. Si era trovato, per un’imperscrutabile serie di avvenimenti, nel centro di un ciclone di proporzioni straordinarie. Aveva combattuto in prima linea, affrontato pericoli di ogni sorta e a conti fatti lo si poteva considerare veramente un eroe, a nemmeno vent’anni. E durante quella lotta, durante quegli anni di scontri ma anche di scuola, aveva pensato anche al futuro, s’era dato dei vaghi obiettivi, delle aspirazioni. L’idea di dedicarsi alla carriera di Auror gli era tornata alla mente in più occasioni e con tinte sempre più precise, sebbene si scontrasse con l’evidenza di non essere tagliato per quel mestiere. S’era immaginato anche come Indicibile, cacciatore di mostri, s’era immaginato persino in determinati ruoli ministeriali, come nelle relazioni internazionali.

Insomma, Ronald Weasley era un ragazzo che aveva formulato più tipi di ipotesi, anche variegate, per il proprio futuro. Ma nessuna, nemmeno la più strana, di tutte quelle immagini proiettate nel domani aveva previsto la realtà. In nessuno dei suoi futuri ideali Ron s’era mai immaginato come comproprietario e cogestore di un negozio di scherzi. Perché quello…

Quello non era il suo posto. Semplicemente.

Lo sapeva dal principio, lo sentiva ogni giorno dentro di sé, lo percepiva sulla pelle e nelle dita e lo leggeva in qualunque istante negli occhi vitrei del fratello.

Eppure era così che era andata. Ron Weasley, combattente e braccio destro del salvatore del mondo magico, fido sostegno del grande Harry Potter, stava dietro il banco del negozio “Tiri Vispi Weasley” in piena Diagon Alley. E gli andava bene così, perché in fondo non c’erano altre opzioni da poter scegliere e quella era stata semplicemente una strada segnata, l’unica percorribile.

No, niente di tutto questo era mai rientrato nelle sue ambizioni, ma non era molto importante, non aveva avuto scelta; perchè adesso George perlomeno aveva una vita quasi regolare, dopo un anno e mezzo e tutta la fatica che avevano fatto per rimetterlo in piedi, come diceva la loro madre. Ma Ron si ricordava bene quei primi mesi dopo il fatto, aveva incise nella mente le memorie di quelle settimane di agonia, dell’orrore suscitato dallo strazio negli occhi allucinati del suo fratello dimezzato.

Ci si erano dovuti mettere in cinque per tirarlo via dal cadavere. George aveva le dita conficcate nella carne del gemello e ci si teneva aggrappato come se per staccarlo fosse stato necessario tagliarlo via, nemmeno le sue mani e il braccio di Fred fossero state parti di un corpo unito cui dover amputare una parte.  Ron se lo ricordava, non avrebbe mai potuto dimenticarlo; e ancor meno avrebbe potuto rimuovere il ricordo dell’urlo, un suono che lo perseguitava ancora nelle notti in cui le cose sembravano sprofondare. La voce di George che si elevava ad esprimere un supplizio indescrivibile, che squarciava l’aria come un’esplosione e raggelava il sangue. Un grido che sapeva di morte, agghiacciante al punto che s’era ritrovato a tapparsi quasi le orecchie. Basta! Basta! Smettila, smettila, Merlino, sta’ zitto! 

Aveva sentito il proprio corpo tremare e pregato che smettesse, che la finisse di urlare in quel modo che faceva male. Aveva avuto paura, tutti loro l’avevano avuta, investiti da un terrore inspiegabile e immotivato che veniva sprigionato da quella voce spezzata dalla disperazione. Non era un urlo umano, era oltre.

Sua madre ormai era più calma, perché George aveva ripreso a mangiare abbastanza spesso: per lo meno capitava raramente che facesse meno di un pasto al giorno; inoltre era contenta perché lavorava di nuovo, ed in effetti passava al negozio almeno un paio d’ore al giorno più volte alla settimana, e perché aveva ripreso a parlare alla gente. Ripeteva, appunto, di stare riuscendo a rimettere in piedi George.

Ron su questo non si faceva grandi illusioni: in assoluto, era quello che passava più tempo col gemello sopravvissuto e riteneva, pur essendo un osservatore poco acuto, di saperne qualcosa di più della madre, in merito.

E comunque, per stare in piedi occorrevano due gambe, e a George…a George ne era rimasta una sola; non c’era altro da dire in merito. Molly viveva nell’illusione che prima o poi, col tempo, suo figlio sarebbe tornato quasi quello di prima, ma Ron sapeva perfettamente che George non sarebbe stato mai più nemmeno lontanamente quello di prima. George Weasley, quello che conoscevano loro, non c’era più, per quanto fosse banale: se n’era andato quel giorno al castello, insieme all’altra metà. Questo George era un’altra persona, una persona che partiva mutilata nel costruirsi e che apparteneva a un’altra categoria, una persona che non aveva un fratello gemello. Era diverso, tutto lì. Non poteva tornare ad essere lo stesso perché non era più lo stesso.

Ma la mamma non riusciva ad accettare che uno dei suoi cuccioli avrebbe sofferto per tutta la vita. Per questo, come George stesso lo aveva pregato di fare, Ron affermava di trovarlo in forma ogni volta che Molly gli chiedeva di lui, e poi sosteneva che si stesse riprendendo; e forse era davvero così, ma non nel modo in cui se lo aspettava la mamma. Forse sì, si stava riprendendo, ma per quanto potesse riprendersi qualcuno nella sua situazione, ed era questo che lei non voleva capire.

“Ciao.”

Ron sollevò la testa di scatto dal libro dei conti, sorridendo meccanicamente verso il retrobottega.

“Ciao,” salutò, allegro. “Sei venuto ad aiutarmi a chiudere?” aggiunse, riponendo il libretto.

George gli fece spallucce, storcendo il naso. Ron lo vide sbuffare leggermente, quindi passarsi le dita tra i capelli per ravviarseli invano, perchè il posto vuoto lasciato dall’orecchio mancante impediva quel gesto istintivo. Lo faceva quando era nervoso.

Be’?” borbottò Ron, perplesso.

George sbuffò di nuovo; sbuffava un sacco, del resto.

“Non ho voglia di prepararmi cena,” ammise a voce bassa, rimettendo a posto con cura eccessiva gli articoli allineati sullo scaffale al suo fianco.

“Hermione sarà felice di aggiungere un posto a tavola,” replicò Ron con una formula ormai meccanica. Ho fame ma non ho voglia di cucinare mezza cena, la cena per uno, questo intendeva George. Conosceva il linguaggio del fratello. Era il suo socio, no?

“Non è il caso,” replicò George sistemandosi addosso il mantello.

“Guarda che a noi non cambia niente,” aggiunse Ron, iniziando a mettere via i soldi contati recuperati dalla cassa.

“Non posso venire sempre a cena a casa tua,” ribatté l’altro serio, mostrandosi più restio del solito: a quel punto, normalmente, accettava con una scrollata di spalle.

Ron aggrottò la fronte, con un moto di stanchezza: Merlino, certo che poteva, non erano estranei o lontani conoscenti, e poi l’altro sapeva benissimo che non gli dispiaceva affatto. Preferiva di gran lunga averlo come elemento di disturbo nella sua intima vita coniugale che saperlo solo a casa a guardare il vuoto.

“Sì che puoi,” rispose quasi risentito, molto più seccamente di quanto fosse sua intenzione. “Sono tuo fratello,” aggiunse, chiudendo il cassetto.

“Questo non c’entra,” osservò George voltando la testa di scatto, muovendo istintivamente una gamba in avanti.

“Non c’entra con cosa?” ribatté Ron, appoggiandosi al bancone.

George si accigliò e abbassò lo sguardo, rabbuiato.

“Con niente. Torno di sopra,” rispose, facendo per voltarsi.

Ron si morse la lingua, irritandosi per la scostanza dimostrata.

“Aspetta,” esclamò, allungando un braccio e posandolo sul suo. “Sono stanco, ieri sera sono andato con Gin da Harry e ho bevuto un bicchiere di troppo,” si giustificò, arrossendo leggermente. “Ho voglia di andarmene a casa e rilassarmi davanti al camino, e sarei contento se venissi con me,” aggiunse, più fermo.

George annuì, mordicchiandosi le labbra. Poi nascose il viso, girando di scatto la testa, ma nel tremolio delle sue labbra Ron scorse il segno che qualcosa non andava e si maledisse per non averlo compreso subito, disattento com’era. Guardò il fratello allontanarsi nervosamente di un paio di passi e poi far scorrere tutt’e due le mani nei capelli, tirandoseli quasi.

“George?” mormorò, inquieto.

“Ho trovato…” iniziò il fratello continuando a dargli le spalle, ma la voce gli si ruppe. “Ho ritrovato delle cose stamattina, in una scatola, delle scemenze di scuola.

La voce gli s’era fatta piatta e vacua e Ron poteva indovinare, anche senza vederlo, il vuoto nero del suo sguardo. Tacque per qualche secondo, impotente. Preferì non chiedere quali fossero le cose in questione: probabilmente George non le aveva nominate perché farlo le avrebbe rese ancora più reali, più presenti.

“Ti va di mangiare fuori?” domandò, incerto.

George fece un lungo inspiro.

“Hermione non…” iniziò, esitante.

“Piantala,” lo interruppe Ron, scuotendo la testa. “Hermione non è stupida,” aggiunse, oggettivo.

George sospirò e finalmente si voltò indietro.

Aveva un viso che feriva: tirato e bianco, fremente. Ma compose in qualche maniera un sorriso per cui Ron gli fu riconoscente, perché allentò un pochino la morsa che gli stringeva i polmoni.

“Allora sì, mi andrebbe,” disse poi, annuendo.

Ron sospirò di sollievo.

“Dove?” chiese, gentilmente.

George scrollò le spalle con indifferenza, riacquistando poco a poco l’espressione assorta e distante che gli era diventata propria.

“Dove ti pare,” rispose, noncurante.

Lo portò a mangiare al Paiolo, in mezzo al chiasso e al movimento, e chiacchierò per tutta la cena, continuando a raccontare qualunque cosa gli passasse per la testa, ché tanto sapeva che suo fratello maggiore non aveva molto da dire. Continuò a conversare anche dopo, quando finirono di mangiare e ordinarono un’altra bottiglia.

Stava di nuovo bevendo troppo; anche molto più della sera prima, e George continuava a svuotare bicchieri come se avessero contenuto acqua fresca, ma tanto lui sapeva di non potere altro che lasciarlo fare, non sarebbe comunque riuscito a fermarlo. Lui parlava, e gli stava bene che George stesse almeno ascoltando quel che diceva: spesso non stava nemmeno a sentire quando la gente gli si rivolgeva, e fino a qualche mese prima la cosa era davvero preoccupante, ma pian piano ricominciava a interagire con l’esterno, anche se in modo deludente.

“…E allora il bambino ha detto: no, non è abbastanza esplosivo,” continuò ridacchiando, riferendo uno degli episodi più strani intercorsi con i clienti in assenza del fratello maggiore, “e io ho detto che invece lo è eccome, e lui no, allora gli ho detto di provarlo,” continuò, infervorandosi. “Certe volte la gente al negozio è insopportabile. E comunque allora lui… George?”

L’altro aveva lasciato cadere la testa sugli avambracci d’improvviso, chiudendo gli occhi. Fu un gesto tanto brusco che Ron quasi sussultò di spavento.

Mmh?” fu il suono che gli giunse, soffocato contro il tavolo.

“Ehm…ci sei?” chiese, titubante.

George sollevò la testa con un sospiro.

“Sì,” rispose serio, prima di sbuffare sonoramente e raddrizzarsi in modo sconnesso. “E’ solo che… Ron, questo lavoro ti fa schifo, tu non sopporti di dover stare dietro alla gente e non hai pazienza…” iniziò contrito.

“A me piace lavorare al negozio!” protestò lui vivamente, interrompendolo con fin troppa convinzione. “Mi diverte, mi…” continuò, pensando freneticamente a qualcosa di intelligente da dire per avvalorare quanto asserito.

“Voglio vendere,” lo arrestò George, versandosi altro vino.

Ron rimase a bocca spalancata, gli occhi sgranati dalla sorpresa.

C-cosa?” balbettò, senza fiato, un po’ rallentato dall’alcol.

George annuì fermamente, con la tipica enfasi da ubriaco, prima di fare spallucce.

“Voglio vendere i Tiri Vispi,” ripeté, per poi bere un gran sorso.

“Ma gli affari vanno benissimo,” protestò Ron, ancora spiazzato. Qualcosa gli stringeva lo stomaco e gli faceva quasi digrignare i denti, d’improvviso.

George sospirò con una smorfia ironica.

“Non è questo il punto,” affermò, tamburellando le dita sul tavolo e bevendo di nuovo. “Dai, Ron,” aggiunse esasperato, posando il bicchiere con mano malferma.

Lui chinò lo sguardo, deglutendo a fatica.

“Ma dopo tanta fatica…” mormorò, amaro. “Era il vostro sogno,” aggiunse in un soffio.

“Sì, il nostro sogno,” ribatté George, abbandonando la mano sul tavolo con un gesto disarmonico. “Non il mio,” precisò sottovoce, abbassando lo sguardo sul tavolo. “E nemmeno il tuo, Ron, diciamocelo. Non ricordo di averti mai sentito dire da grande voglio fare il negoziante, o sbaglio?” continuò, gesticolando nervosamente.

Ron si morse le labbra, cupo.

“No, ma a me va bene lo stesso. E’ ok, mi sta più che bene questo lavoro. Mi sono proposto io, ricordi?” aggiunse, con una punta di sarcasmo.

“Avevo perso quindici chili e quasi non dormivo la notte da più di quattro mesi,” osservò George con sufficienza.

“Sedici,” mormorò Ron a testa bassa. “Ma non c’entra,” continuò, caparbio.

“Dai, Ron, e tutte quelle storie sul voler fare l’Auror e…” iniziò George, grattandosi la testa. Pensare, al momento, sembrava risultargli faticoso, e del resto era normale, con quel che aveva bevuto.

“Sono troppo vecchio, e poi non sono tagliato per quello,” obiettò Ron, troncandogli le parole.

“E Indicibile, allora? Anche quello ti interessava,” continuò il fratello, sventolando una mano. Ron scosse il capo, fermo.

“Non sono abbastanza svelto di mente e decisamente poco riservato,” obiettò, con slancio.

“Al Ministero, allora, come quando parlavi di…”

“Mi ci vedi, tu, in politica?” lo contraddisse Ron, ironico.

George sbuffò, grattandosi la fronte.

“Oh, per Godric!” sbottò con accenti disperati. “Ce le hai ben le tue ambizioni, no?” esclamò con enfasi. “Insomma, non vuoi niente, tu?” aggiunse, scettico.

Ron fece una smorfia, allargando un po’ le braccia.

“Voglio mettere su famiglia, essere un padre e avere dei figli da veder crescere,” affermò sicuro. “Il che non esclude il negozio,” aggiunse piccato.

George tacque, pensoso.

“Bello,” commentò piano.

“Perché, invece tu cosa vuoi fare, scusa?” continuò Ron con una certa apprensione.

George chinò lo sguardo, assorto. Le labbra gli si piegarono involontariamente verso il basso, mentre il viso si svuotava d’espressione.

“Io…niente,” borbottò, distante.

Rimasero per qualche istante in silenzio, ciascuno perso nel fissare un diverso punto del tavolo. Infine, non sopportando più quella cupa lontananza, Ron si alzò in piedi, sbuffando.

“E’ tardi, dai, ne parliamo domani,” mormorò, sbrigativo.

George annuì, alzandosi mollemente. Lo seguì alla cassa mentre pagava e poi all’esterno, nella via fredda e buia, senza più parlare né dare alcun segno di essere presente. Fuori Ron si strinse nel mantello, accennando un sorriso.

“Ti accompagno a casa?” chiese, indeciso.

George scrollò la testa. Poi prese un lungo respiro, e il fratello lo guardò con aspettativa.

“Sai di cosa ho voglia, io?” chiese, fissando i propri piedi.

Ron deglutì a fatica, mentre il cuore gli accelerava in petto.

“Di cosa?” sussurrò, stringendo i pugni.

George aprì la bocca per rispondere, ma dovette ripensarci e la richiuse scuotendo la testa, prima di allontanarsi leggermente.

“Niente. A domani,” salutò, atono.

“George?” lo trattenne Ron, con voce un po’ acuta. “Di cosa hai voglia, dai, dimmelo,” insistette, controllandosi.

L’altro sbuffò, senza guardarlo.

“Di andare,” mormorò con voce soffocata.

Le unghie di Ron si conficcarono nel palmo, tanto spasmodicamente serrava i pugni, ma trovò comunque il modo di parlare.

“Andare dove?”

George chinò la testa, mentre il viso gli si distorceva e gli occhi diventavano lucidi. Inspirò, tirando su col naso.

“Voglio andare anch’io,” balbettò, con voce rotta.

Ron chiuse gli occhi, mentre George si copriva il viso con le mani. Strinse forte le palpebre e cercò di respirare, ma non era facile, perché Fred, per Godric, questa volta l’aveva fatta davvero grossa, e lui non sapeva cosa fare.

Cazzate,” ringhiò, con rabbia improvvisa. “Stai dicendo cazzate. Sei ubriaco e devi andartene a dormire, e ti accompagno io.

E non volle sentire ragioni, non se ne andò finché non lo vide a letto. Soltanto a quel punto, finalmente, quando l’altro stava per addormentarsi intontito dall’alcol, si smaterializzò a casa.

Era tutto spento, ed Hermione probabilmente stava già dormendo. Non sapeva se dispiacersi o esserne sollevato, perché non era dell’umore di parlare. Si sentiva solo vuoto, stanco e amareggiato, e quella stretta intorno al suo stomaco era sempre più violenta e dolorosa. Si sedette sul divano, cercando di dominarla, ma rimaneva lì, una catena di dolore e impotenza che lo soffocava. E scoppiò in singhiozzi, lì seduto, senza nemmeno muoversi o sorreggersi il viso; cominciò solo a piangere forte e lasciarsi scuotere dai singulti, perché era semplicemente troppo da sopportare.

Mio fratello ha voglia di morire.

 

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Capitolo 2
*** George ***


George

Ma che bell’accoglienza!

Non  me l’aspettavo davvero, è stato piacevole e vi ringrazio.

Se mi conoscete sapete che sono lenta e quindi non ci avrete trovato nulla di strano, ma in ogni caso mi scuso: purtroppo questo aggiornamento ha dovuto slittare causa impegni solenni e spostamenti internazionali della sottoscritta me medesima, e anche la mia beta, povera, lavora come un  mulo. (Grazie mille, amica e sodale).

Insomma, ci ho messo dieci giorni a correggere gli errori. Lo so, è disdicevole.

Ma spero che il risultato sia di vostro gradimento.

Oggi vi lascio con lui.

 

 

 

 

 

George

 

Quando si svegliò, quel mattino, la testa gli faceva male da morire, lo stomaco bruciava come se fosse stato in fase di autocombustione e le orecchie gli fischiavano in modo insopportabile. Tutt’e due, anche quella mancante.

Per prima cosa guardò l’ora, scoprendo che era quasi mezzogiorno, poi il calendario. Diciotto ottobre: cinquecentotrentaquattro giorni e dieci ore, all’incirca, minuto più minuto meno.

Più di cinquecento giorni. E altrettante notti tutte uguali, solitarie e infinite.

Lasciò ricadere la testa sul cuscino con un sospiro sfinito. Non poteva essere già passato così tanto tempo. Lui non si ricordava di aver vissuto tanti giorni. Ogni mattina si svegliava e si chiedeva come fosse possibile che tante ore si fossero sovrapposte a quella notte, ore che a lui non sembrava di aver vissuto, che erano scivolate via senza che se ne rendesse conto accumulandosi in modo scomposto a affannoso, come tante fotografie sviluppate male in cui, delle immagini, non si distinguevano neppure i contorni.

Gli pareva che fosse accaduto all’inizio di quell’estate. Ma no, era stato il maggio precedente. Dov’era finito quell’anno di cui non percepiva la concretezza? Cosa aveva fatto in tutte quelle giornate, in quelle notti, per ingannare il tempo e se stesso?

Un pulsazione dolorosa e violenta alla testa gli strappò un respiro spezzato, costringendolo a portarsi una mano alla tempia. La sera prima aveva bevuto troppo e detto cose per cui Ron verosimilmente non aveva chiuso occhio; non aveva davvero intenzione di ferire suo fratello, non era stato intenzionale, ma non ce la faceva più a tenersi tutto nello stomaco. Probabilmente doveva scendere in negozio e vedere se l’altro c’era rimasto male, ma sentiva di non potercela fare, era un’impresa superiore alle sue forze.

Non poteva alzarsi, vestirsi e camminare fino al piano di sotto, né parlare o degnare di attenzione qualcuno. Non poteva neanche uscire da sotto le coperte.

Il momento del risveglio era il momento peggiore della sua giornata, e spesso il più lungo: che aprisse gli occhi alle nove o a mezzogiorno, non ce la faceva mai ad alzarsi prima delle tre, a meno che qualcuno non lo forzasse, e gli costava comunque uno sforzo titanico. Il pensiero di dover uscire da sotto le coperte e cominciare un’altra volta a vivere, quando a Fred era stata negata la medesima possibilità, lo annichiliva in modo ineluttabile. Più precisamente, lo riempiva di uno sgomento simile alla rabbia e colorato d’impotenza. Perché lui doveva essere costretto a esistere, mentre suo fratello non c’era più? Trovava fosse una tortura immeritata.

Rimaneva nel letto per ore, quasi senza muoversi; c’era nella sua mente un qualche tipo di convinzione, per quanto coscientemente comprendesse che era un’assurdità, secondo la quale se fosse riuscito a rimanere in tralice abbastanza a lungo avrebbe finito per annullarsi, per dissolversi nell’atmosfera intorno a sé e sparire dalla faccia della terra. Stava solo lì, gli occhi fissi al soffitto, a ripensare alle migliaia di giornate trascorse con Fred, alle mattine in cui a svegliarlo era stato il suono della voce del fratello o una cuscinata ben assestata sul naso. Poi si rendeva conto di quale fosse la realtà presente e desiderava morire. Niente di melodrammatico o ad effetto, aveva solo voglia di non esserci più nemmeno lui.

Ron non poteva capire questo.

E lui non poteva spiegarglielo. Non c’erano parole che fossero sufficienti a descrivere la sensazione della mancanza di Fred, era qualcosa che andava al di là di un codice definito come il linguaggio. Era un colpo secco nelle viscere che lo trafiggeva in ogni momento lasciandolo completamente privo di respiro, con il dolore che dal ventre si irradiava in ogni terminazione nervosa. Tutti i suoi muscoli si contraevano e avvertiva l’impulso di rannicchiarsi. L’unica cosa che faceva, al mattino nel letto, era raggomitolarsi in posizione fetale, chiudendo accuratamente gli occhi perché la consapevolezza della realtà non li ferisse troppo.

Era intollerabile. Non riusciva nemmeno a piangere, perché sarebbe stata un’azione già troppo cosciente, volontaria, che il suo fisico stremato non poteva compiere. George era sorpreso già dal semplice fatto che i suoi polmoni potessero ancora avere la forza di pompare il fiato, chiedere a se stesso anche di piangere gli pareva davvero un abuso.

Che ne sapeva, Ron?

Che ne sapevano tutti? Arrivavano e gli suggerivano, sorridendo benevolmente, di guardare avanti, distrarsi, cercare di ricominciare. Ma guardare dove, e cominciare che cosa? Non gli interessava. Lui voleva solo ritrovare Fred. Erano gemelli, avrebbero dovuto rimanere insieme, non essere divisi in quel modo, era contro natura. Qualcosa nel mondo era andato a rovescio, quella notte, quando Fred era andato via. Non era giusto, e lui non aveva nessuna intenzione di guardare da nessuna parte.

Merlino, sua madre! Con le labbra tremolanti e lo sguardo colmo d’amore, che gli riempiva il piatto fino a renderlo stracolmo, pur sapendo benissimo che lui non riusciva a mandare giù più di pochi bocconi. Tre mesi prima, l’ultima volta che aveva finito l’intera porzione che lei gli aveva propinato, stanco delle sue insistenze, aveva dovuto vomitare: aveva mangiato troppo. Rispetto alle sue dosi ormai abituali, era stata un’abbuffata eccessiva.

Aveva smesso di pranzare alla Tana, definitivamente.

E suo padre che lo guardava senza parlare, dispiaciuto e triste, con gli occhi tremanti. George non lo sopportava più. Riguardati, ragazzo mio. Sì, papà, certo. Non piangere, papà, lo so che hai perso un figlio, ma non piangere.

La disperazione dignitosa e composta di Arthur era stata una delle ragioni che l’avevano tenuto in vita. Di fronte al proprio padre che si lasciava affondare in silenzio, straziato dallo spettacolo di lui che precipitava dopo la morte del gemello, gli si era svegliata nelle vene la ribellione. Suo padre, un uomo buono e integerrimo, un esempio di umanità sin da quand’era venuto al mondo, non meritava due volte lo stesso dolore.

Ma ormai non poteva più sopportare nemmeno lui. Né Bill e Fleur che lo invitavano a cena, o Charlie che gli proponeva di andare a trovarlo in Romania per rilassarsi, né Ginny che distoglieva lo sguardo perché non riusciva a guardarlo negli occhi senza che i suoi tremassero di lacrime. Sì, era ingiusto, loro due erano stati sempre al fianco di Ginny: la punzecchiavano di continuo, ma erano anche quelli che le davano più considerazione, e li aveva persi entrambi. Era un duro colpo, ma sua sorella avrebbe dovuto capire che lui non era proprio in grado di aiutarla a superarlo.

Quel che all’inizio era stato l’unica cosa che ancora lo teneva suo malgrado aggrappato alla vita, la famiglia, cominciava a diventare soltanto un peso. Nel dolore che lo divorava e lo rendeva stordito e alienato dalla realtà concreta, aveva assecondato parenti e amici stretti, aveva accettato di continuare a respirare perché loro non lo volevano perdere. Troppo frastornato dalla tragedia che aveva spaccato a metà la sua vita, si era lasciato trascinare dalla convinzione di tutti loro: doveva vivere, tutti vogliono vivere. La sopravvivenza è il fine ultimo di ogni individuo umano, ed era anche il suo. Loro volevano che vivesse, e George si era convinto che, da qualche parte, in fondo a lui, dovesse esserci la convinzione di desiderare un futuro, sopita al momento dalla sofferenza ma che prima o poi si sarebbe risvegliata.

Poi la vita era tornata lentamente alla norma. I fiori accanto alle lapidi si cambiavano con un po’ meno frequenza, i matrimoni aumentavano da una settimana all’altra, nuove case venivano comprate e costruite e la comunità magica, poco alla volta, si era proiettata su un avvenire migliore. Le vite di tutti, intorno a lui, si erano stabilizzate.

Ma non la sua.

Lui aveva sempre negli occhi il corpo senza vita di Fred, quel viso identico al suo ma privo del soffio vitale che invece si incaponiva a mantenersi in lui. Era un’immagine incollata perpetuamente alle sue retine e incancellabile, che copriva la visuale su qualunque altra cosa, annullava ogni moto d’interesse verso il mondo circostante.

E allora lui s’era cominciato a dire, poco alla volta, che forse quel che voleva la sua famiglia non era la stessa cosa che voleva lui. Magari lui, dopotutto, non voleva niente. Perché niente gli lasciava presentire che presto o tardi avrebbe desiderato o sognato di nuovo qualcosa che non fosse la presenza del gemello.

Si era sforzato. Davvero. Aveva cercato di costringersi a continuare, aveva riaperto il negozio, ripreso a parlare alla gente e cercato di dimostrare prima di tutto a se stesso che quel che voleva era un futuro. Per un certo periodo aveva convinto tutti loro che la sua esistenza stesse ricominciando a scorrere e aveva recitato con tanta dedizione la sua parte che s’era anche domandato se per caso non fosse vero. Ma la commedia non funzionava più, e ogni giorno il suo copione gli risultava più difficile da seguire. Spesso ormai il suo malessere diventava un’impossibilità fisica a fare le cose più normali, un disgusto immotivato che lo costringeva letteralmente a richiudersi in se stesso, immobile, sdraiato. Di solito arrivava a sera in quello stato.

Passava quattro ore ogni mattina a convincersi ad alzarsi e alla sera non vedeva l’ora di sdraiarsi e non muoversi più, e tutto quel che faceva tra quei due momenti lo sprofondava in un disinteresse triste e assorto, mentre si dibatteva smarrito tra i mille piccoli particolari che ogni giorno lo riportavano a Fred.

Era voglia di vivere, quella?

Quel negozio in cui metteva piede solo perché non poteva farne a meno era davvero suo? Non gli interessava stare lì, non gl’importava né dei soldi né di scherzi che ormai non lo divertivano più. Il tempo che trascorreva lì dentro erano ore sottratte all’oblio del suo cuscino sotto la testa.

Per questo aveva parlato con Ron, la sera prima.

Ron.

Ronald era, nella sua famiglia, l’unico di cui ancora apprezzasse la presenza. O forse era solo il senso di colpa per la triste posizione in cui l’aveva messo, col negozio e tutto il resto. Stava di fatto che Ron, in qualche modo, gli era vicino più degli altri. Con tutti suoi limiti, suo fratello si stava realmente sforzando di offrire senza pretendere nulla in cambio, senza farsi giudice. Non gli dava consigli alimentari, né gli proponeva scampagnate all’aria aperta, non si lamentava della sua latitanza in negozio né lanciava frecciatine sugli orari improponibili in cui si rendeva presentabile agli occhi del mondo: un piatto a tavola quando aveva fame e la costante certezza della sua presenza affidabile, questo era tutto ciò che Ron gli elargiva. Magari lo faceva semplicemente per via del carattere chiuso e poco portato per il dialogo, ma era comunque la cosa migliore che potesse fare. Aveva un temperamento del cavolo e qualche volta gli diceva le cose in faccia, era brusco e diretto e capitava che si beccassero per pura testardaggine. Ma era sempre meglio di sua madre che gli riempiva il piatto come un bacile.

C’era anche Percy, in effetti. Percy, che aveva visto Fred morire. Si vedevano poco e non si parlavano quasi, restavano solo seduti in silenzio. Suo fratello, il suo antipatico, egoista, noioso fratello, aveva capito qualcosa che a quasi tutti gli altri era sfuggito. Ma non riusciva a vederlo spesso, perché gli faceva male.

Lui non era stato accanto a Fred, in quel momento. C’era Percy, non lui.

Non lo aveva salutato. Non gli aveva stretto la mano mentre la vita lo abbandonava, l’aveva lasciato solo davanti alla morte, senza nemmeno il conforto di una parola d’affetto o di saluto.

Non gli aveva detto addio.

Era il pensiero più schiacciante e doloroso che lo perseguitava: il fatto che dopo una vita passata al suo fianco, non fosse stato con Fred nel momento in cui la sua esistenza finiva. L’aveva abbandonato.

Alcune lacrime luccicarono lungo le sue guance, andando a morire sulla federa del cuscino. Ogni volta che ci ripensava, si sentiva ancora peggio. Non lo aveva salutato e non avrebbe potuto mai più. Mai.

Con un gemito soffocato si scalzò il cuscino da sotto la testa e ve lo premette sopra, come se così avesse potuto scomparire. Prese un lungo respiro e serrò le labbra, cercando di smettere di ripetersi quelle cose. Cercò febbrilmente un pensiero, un qualunque altro pensiero che lo potesse scacciare.

Ecco, poi c’era Lee.

Il loro amico storico, suo e di Fred. Lee non gli diceva mai nulla. Non commentava il suo stile di vita né apriva bocca riguardo alla necessità di lasciare il passato nel passato: rimaneva solo lì e parlava poco, con calma. Cercava di dargli un po’ del suo ottimismo e della sua calma e in cambio chiedeva solo qualche tazza di tè e qualche burrobirra, come aveva fatto anche quel sabato. Lee. Un compagno d’avventure.

Era l’unico amico che considerasse ancora tale.

E ogni tanto Harry spuntava fuori con un sorriso, sistemandosi gli occhiali sul naso.

Vedere il suo viso era una delle poche cose per cui le proprie spalle sembravano a George diventare un po’ meno pesanti. Lo guardava in faccia, osservava la cicatrice, gettava un’occhiata intorno a quel mondo rinato e si ricordava che suo fratello non era morto per niente. Fred aveva dato la sua vita per tutti loro e il sacrificio non era stato vano.

Almeno questo.

Geoooorge!” lo raggiunse l’urlo improvviso del fratello minore, dal piano di sotto. Quindi udì un sequela di tonfi e colpi secchi e qualcosa che andava in frantumi. E poi qualcos’altro.

“George!” ripeté Ron, ora decisamente disperato.

Chiuse gli occhi con un sospiro, mentre un nuovo rumore sinistro lo riscuoteva dal torpore.

“Aiutami ad alzarmi, c’è quel rompicoglioni che mi chiama,” sussurrò, nel buio amico delle palpebre abbassate. “C’è un'altra fantastica giornata che mi attende, non sei invidioso?”

Se fosse stato presente, Fred avrebbe sicuramente riso.

Era abbastanza per tirarsi in piedi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  X _karola_: grazie, cara. Capisco il tuo dolore e non vorrei aumentarlo. Purtroppo sono una personcina abbastanza gioviale ma quando scrivo ho questa tendenza all’angst e al dramma che proprio non riesco ad accantonare. Cercherò di dominarmi…

   X Seiryu: urca… grazie per l’immensa stima, quasi arrossisco. Che dire…sono contenta di suscitarti “belle” emozioni forti. Se no che scrivo a fare? ^__^ In effetti JK fa scelte discutibili, a volte. Spesso. Ma in fondo sono i suoi personaggi, no? (…)

   X lilla4eve: grazie per i complimenti. Comprendo il tuo dispiacere, anche se per me le morti più dolorose sono state altre – e per la prima ho fatto su un dramma tale che i miei amici volevano farmi ricoverare alla neuro. Spero quindi che il modo in cui tratterò l’argomento continui a piacerti.

   X Cialy: ooooh, cara… Anche io ti amo un sacco. Che bello. Dunque, sono lieta di aver centrato un argomento che ti aggrada e spero naturalmente di potarlo avanti di modo che continui a interessarti. I gemelli a me erano – sono – molto cari, quindi cercherò di essere all’altezza. In effetti sì, ci saranno più pov perché mi sembra che così si renda meglio la complessità della cosa. Ron… beh, a quanto dici l’ho reso esattamente come desideravo – e come penso lui sia – per cui gioisco. Alla prossima.

   X Doremichan: Sottoscrivo la tua opinione sulla scelta di JK, ma così stanno le cose… quanto al resto, beh, sono contenta che il capitolo ti sia piaciuta. Speravo sull’effetto del finale e vedo che ha funzionato. Quanto ai sentimenti di George, come te ritengo che potessero essere simili… Perdere un gemello non dev’essere uno scherzo. Povero. Lieta anche che ti piaccia lo stile.

   X EDVIGE86: Grazie. Eccoti accontentata, spero in modo positivo. Capisco lo stupore per la morte di Fred – la trovo proprio fuori luogo- e in effetti trovo che il gesto di Ron sia molto bello, per cui lo volevo premiare. ^__^

   X Dragonball93: Beh… Se ti ho addirittura incantata non posso che sentirmi felice di ciò. Insomma, tanti complimenti mi lusingano e mi auguro che il seguito sia allo stesso livello. Grazie anche a Linda – chiunque sia – per la pubblicità.

   X Giulia: Tu hai sempre ragione. Non c’è niente da fare, è così. Sono assolutamente d’accordo sulla tua opinione di JK – tranne che per “Ella”, perché la maiuscola la riserverei ad altri, ma è proprio una piccolezza- e ti do pienamente ragione. Quanto a me, , faccio del mio meglio e sono contenta che piaccia. Grazie anche per aver notato quelle due espressioni che citi. Insomma, non mi aspettavo grande approvazione per questi personaggi a me poco familiari e sono sorpresa. Piacevolmente.

   X Akira14: Oooh quanta grazia. Sono onorata. Riguardo all’annullamento di George, ho cercato di immedesimarmi nella situazione e per Ron devo ammettere che c’è qualcosina di autobiografico, anche se in modo molto vago. Vedo che il “rimettere in piedi George” ha colto nel segno. Che gioia. Ed eccoti l’atteso capitolo, che spero sia stato di tuo gusto.

   X Evan88: non c’è proprio il caso di scusarsi. Anzi, grazie per gli apprezzamenti. Non vedo proprio cos’avrei potuto chiedere di più.

   X lady hawke: bene. Il fatto che mi si commenti che non è patetica mi dà tanto, tanto sollievo. E’ il mio terrore. Sono contenta quindi che ti sia parsa misurata e credibile. Grazie.

   X Magnolia: beh… che dire: ti ringrazio. Sono parole che lusingano.

   X sabrina: Meno male! Che non è forzata, intendo. E grazie!

   X Elly… Oooh… Ecco qui finalmente qualche critichina da un’aficionada delle mie storielle. Ciao, carissima. Allora: sono contenta di aver centrato almeno le basi dei personaggi. Mi sto muovendo in un territorio a me ignoto (quasi quasi faccio resuscitare Pad per avere almeno un punto fermo ^__^) e ho qualche difficoltà. Anzi, a questo proposito se hai suggerimenti o appunti precisi da farmi sono più che bene accetti. Il capitolo era di corsa in modo voluto, perché mi piaceva l’idea di sbattere i lettori nel bel mezzo del caos, ma potrebbe essere troppo affrettato, ci ragionerò su. Quanto alle fazioni… Non so. In realtà sono vere e proprie squadracce che si affrontano. Ho sempre percepito la Hogwarts di Harry come un posto in cui c’è un’ostilità molto forte tra i gruppi che qualche volta mi lascia allibita. Soprattutto perché in effetti spesso i bambini, in un determinato clima problematico come quello, sono proprio così. Penso che la guerra degli anni Settanta abbia lasciato forti strascichi nella società e che questi ragazzi nell’infanzia li abbiano assorbiti. Che altro… Continua quest’opera di critica che mi fa tanto bene. E non mi soffermo sul tuo commento iniziale sui “buchi” di JK perché poi divento sboccata. Hihi. A presto.

   Ciao a tutti.

suni

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Capitolo 3
*** Weasley acquisiti ***


Hermione

Salve a tutti.

Mi dispiace molto per la lentezza. Al momento sono estremamente avvinta da un progetto malsano che mi ha letteralmente assalita all’improvviso e non posso farci alcunché.

Comunque, spero porterete pazienza. Vi lascio, nel frattempo, con i Weasley acquisiti.

Buona lettura.

suni

Hermione

Hermione aveva il sabato libero, ma Ron avrebbe ovviamente dovuto lavorare, nel weekend, perché era il momento della settimana in cui l’affluenza dei clienti era più massiccia. Per questo, se non aveva nulla da fare, lei passava almeno due o tre ore a dargli una mano. Finivano per trovarsi, ad un certo punto della giornata, tutti quanti ai tiri Vispi: lei, il suo maritino, Gin e persino Harry.

A quel punto George, al piano di sopra, sentiva le chiacchiere e le risate – così pensava lei – e scendeva a salutare, offrendo a tutti qualcosa da bere o uno spuntino cui solo Ron non prendeva parte quasi mai, assorbito dall’attività lavorativa. Allora il fratello lo prendeva da parte e gli diceva di andarsi a fare un giro con gli amici, chè al negozio ci avrebbe pensato lui.

Era l’unico momento della settimana in cui George Weasley rimaneva da solo nella bottega che aveva fondato insieme a Fred. Ma Ron non riusciva mai a star fuori molto e finiva per tornare indietro quasi sempre dopo meno di un’ora, nervoso e agitato. Hermione lo guardava andar via trafelato, facendosi largo tra i passeggiatori con la sua stazza imponente.

Sapeva che suo marito non amava particolarmente quel lavoro, ma lo sosteneva in ogni caso per la scelta compiuta, dimostrazione di un inaspettato altruismo.

I gemelli erano stati i fratelli prediletti di Ron, anche se litigava furiosamente con loro. George, in particolare – meglio così, si diceva Hermione con un conseguente moto di colpevolezza – era il suo preferito, forse anche per la faccenda dell’orsacchiotto tramutato in ragno gigante da Fred e tutte le altre fesserie che tutti insieme avevano combinato da bambini. George era anche stato il fratello delle confidenze, più di Fred. Poteva sembrare un gesto suicida quello di confessare i propri segreti a George Weasley – a lei lo sembrava – dal momento che ad ogni frase seria che gli si rivolgeva lui replicava con motteggi e prese in giro, ma evidentemente Ron trovava qualcos’altro al di là, qualcosa che a lei non risultava del tutto evidente perché non era accanto a loro dalla nascita: probabilmente Ron sapeva leggere meglio di lei tra le righe delle parole di George. In ogni caso, tutto questo faceva parte del passato, perché adesso era già molto se il gemello emetteva qualche monosillabo di tanto in tanto, figurarsi scherzare: era proprio fuori discussione.

Comunque fosse, Ron non era stato capace di stare a guardare il gemello rimasto che si lasciava morire; qualcosa dentro di lui si era ribellato, ne aveva anche parlato con lei decine di volte, tormentandosi nell’indecisione. Non ce l’aveva fatta a non fare niente, e in un automatismo involontario s’era calato nel ruolo che gli avrebbe permesso in qualche modo di fargli da punto d’appoggio, di essere una presenza costante: quello di Fred.

Hermione lo capiva, non era sicura che fosse proprio la cosa migliore ma capiva: aveva fatto la prima cosa che l’impulso gli avesse suggerito. Del resto Ron era sempre stato molto testardo, loro due litigavano da anni per questo. Ma questa volta era diverso, ed Hermione lo aveva semplicemente appoggiato: forse quella non era una soluzione brillante, ma non ce n’erano altre.

Lo seguì con lo sguardo, mentre si allontanava.

“Oggi tirava una brutta aria, no?”

Si voltò verso l’amico tornando bruscamente alla realtà. Harry si stava sistemando gli occhiali sul naso e la guardava con composta educazione, come quando a scuola diceva un parola di troppo e la osservava in silenzio, con l’aria di sperare che magari lei non l’avesse sentito.

“Dici in negozio?” chiese Hermione, girando il cucchiaino nella tazza di tè. “Hanno cenato fuori, due sere fa, e Ron ieri era piuttosto di cattivo umore,” ammise, mentre Ginny si riavvicinava con un ondeggio dei capelli rossi.

Scones, burro e marmellata, la merenda dei campioni!” esclamò con un sorriso, appoggiando un piatto stracolmo sul tavolino. “Peccato che mio fratello sia già scappato via,” aggiunse, lasciandosi cadere sulla sedia accanto ad Harry.

“Immagino che ci vorrà un sacco di tempo, no?” continuò Harry, afferrando un dolcetto con bramosia. “Perché inizi veramente a…non so cosa. Voglio dire, a parte versarci dei gran succhi di zucca quando andiamo a trovarlo non è che faccia molto nel resto delle sue giornate,” commentò, incerto.

“George fa del suo meglio,” intervenne Ginny sulla difensiva, comprendendo immediatamente quale fosse l’abusato oggetto della conversazione e inserendovisi con naturalezza. “Non è facile. Per nessuno,” precisò, incupendosi.

Hermione si affrettò a spalmare del burro sul proprio scone, annuendo frettolosamente.

“Certo,” confermò, risoluta. “Lo abbiamo visto tutti, no?” aggiunse, mentre Harry la appoggiava con un cenno affermativo del capo e allacciava una mano con quella della fidanzata. “Ma credo che l’altra sera sia successo qualcosa. Merlino, Ron era terrificante, ieri mattina,” commentò ancora, stancamente.

Ginny si voltò verso il Harry mordendosi un labbro.

“Magari potresti parlarci tu,” suggerì.

Hermione trattenne a stento un sorriso, nel vedere il volto del migliore amico tingersi di panico. Harry non era mai stato un grande conversatore, e per quanto la fortuna e la temerarietà non gli mancassero, sul campo, non era invece un asso nei rapporti interpersonali.

“Con George?” borbottò, decisamente a disagio.

“O con Ron,” interloquì lei seria.

“Per dirgli cosa?” biascicò Harry impacciato, appiattendosi la frangia sulla fronte in quel gesto nervoso che faceva ormai parte di lui.

Hermione sbuffò, esasperata, scambiando un rapido sguardo condiscendente con Ginny.

“Ehilà, Ron, come va con tuo fratello?” ipotizzò, ironica.

Harry addentò il suo dolce, prendendo tempo. Lei tamburellò le dita sul tavolo, paziente. Possibile che quel ragazzo avesse potuto affrontare Voldemort con una certa padronanza di sé e si trovasse invece in difficoltà davanti alla prospettiva di una semplice chiacchierata col proprio migliore amico?

Ron aveva bisogno di una mano, ne era certa. A lei ne parlava raramente, perché era la sua donna e lui era molto orgoglioso e non amava mostrarsi debole ai suoi occhi, ma era sicura che necessitasse di appoggio. E Harry era la persona giusta per fornirglielo.

Harry

Harry Potter ne sapeva qualcosa, della morte. E anche dei lutti e del loro insormontabile dolore. Ne sapeva molto più di un’infinità di altre persone, perché la maggior parte di coloro che lo avevano amato se n’erano andati in maniera, per così dire, non propriamente naturale.

Un sacco di gente, tra i suoi pur scarsi detrattori, gli rinfacciava di essere un prepotente e un maleducato e se un tempo, quand’era ragazzino, se la prendeva per questo, ormai si ritrovava a stringersi nelle spalle con un certo assenso, anche se riteneva che ciò non fosse del tutto esatto.

Non era maleducato: era ineducato. E non era colpa sua, a voler essere proprio precisi: non aveva chiesto lui di essere allevato da una famiglia che lo odiava e che si disinteressava completamente a lui se non per angariarlo. Di fatto, Harry Potter non era mai stato educato realmente da qualcuno: suo padre e sua madre erano stato uccisi quando aveva un anno, abbandonandolo nelle mani incapaci e ostili degli zii.

La sua successiva figura paterna, sopravvenuta quando ormai era comunque troppo tardi per dargli una vera formazione, non aveva avuto poi un gran tempo da investire nell’insegnargli come ci si comporta in pubblico o quale atteggiamento avere in occasioni ufficiali; probabilmente Sirius avrebbe saputo giostrarsi perfettamente in un pasto in cui fosse necessario usare otto posate – da bambino dovevano averglielo insegnato – ma di sicuro farlo imparare a lui non era stato uno dei motivi principali per cui era evaso. Ad ogni modo, era stato troppo impegnato a seminare i Dissennatori, mangiare ratti e rinfacciarsi il passato per dedicarsi alla sua educazione, e di certo il fatto che non potessero vedersi praticamente mai e non fosse prudente che si scrivessero spesso non l’aveva aiutato nel suo incarico di padrino. E poi se n’era andato, anche lui, in quell’orribile notte all’Ufficio Misteri. A volte Harry si sorprendeva ancora a chiedersi se magari non sarebbe tornato indietro, pur sapendo per certo che non poteva accadere. Era strana, la morte.

Silente aveva avuto un’intera scuola da mandare avanti, oltre all’Ordine della Fenice, e per quanto avesse dedicato a lui una cura particolare, non aveva avuto esattamente il tempo per educarlo espressamente; cercava piuttosto di farlo rimanere in vita abbastanza a lungo da poter affrontare Voldemort. E Harry aveva visto morire anche lui. Un altro ricordo che non avrebbe potuto rimuovere.

L’ultimo e il più adatto al ruolo di suo “genitore” avrebbe anche potuto ricoprire questo incarico educativo, e quand’era stato suo professore ad Hogwarts Harry aveva realmente imparato qualcosa; ma il pregiudizio e l’odio l’avevano allontanato inesorabilmente, la guerra aveva occupato tutto il suo tempo e si era infine portata via anche lui, lasciando peraltro un altro orfano sulla terra: anche Remus era morto, alla fine, e a Harry ancora sembrava di sentire la sua voce pacata, qualche volta.

Sì, decisamente, della morte ne sapeva qualcosa.

Quindi, dopotutto, poteva anche essere la persona adatta ad occuparsi del problema Weasley; anche perché quelli erano i suoi più cari amici, la sua famiglia.

Voleva bene ai gemelli. Aveva un’infinità di ricordi così divertenti, legati a loro. Merlino, c’erano così tante memorie che lo riportavano a loro, che quasi si accavallavano: gli scherzi a Percy, i sogghigni durante gli allenamenti fanatici di Oliver, le battute ironiche all’epoca della Camera – né Fred né George avevano dubitato di lui per un solo istante – il giorno in cui gli avevano regalato la Mappa, i loro sorrisi increduli e riconoscenti quando aveva consegnato loro il malloppo dopo il Tremaghi, l’epica uscita di scena con la Umbridge. Anche nei momenti più cupi e terribili degli anni di lotta a Voldemort, Fred e George avevano conservato la capacità di far sorridere e infondere speranza. Le loro parole alla radio erano state una luce amica durante la tremenda ricerca degli Horcrux, quando lui, Ron e Hermione si nascondevano dai Mangiamorte.

A modo loro erano stati degli eroi, e ne avevano pagato il prezzo. E adesso il volto vacuo e disperato di George gli faceva male, a guardarlo. Una rabbia sorda e impotente lo invadeva di fronte a quel viso vinto dal dolore. Perciò si sentiva in dovere di fare quanto fosse nelle sue possibilità per venirgli in soccorso; a lui e a tutta la famiglia, perché i Weasley, tutti, soffrivano con George e per lui, ed Harry stesso sentiva la mancanza del suo sorriso.

Ma era ugualmente estremamente nervoso quando, quel martedì sera, si presentò ai Tiri Vispi per proporre a Ron di bersi una burrobirra con lui e cenare insieme, perché le ragazze avevano deciso – in realtà proprio per lasciarli soli – di passare una serata al femminile.

Ron – purtroppo? – aveva accettato con entusiasmo la proposta e Harry si era trovato incastrato in una lunga chiacchierata che non era riuscito a godersi davvero, perché continuava a meditare sull’argomento che avrebbe dovuto introdurre di lì a poco e che seguitava a ritardare.

Alla fine, stanco dell’attesa, preferì farla finita. Mentre Ron, immerso in un dettagliato resoconto del suo ultimo litigio con un fornitore, s’infervorava nel precisare tutte le colpe di quest’ultimo, Harry, con le delicatezza che gli era propria, posò il bicchiere e prese fiato.

“E dimmi, come va con George?” chiese, non molto diplomatico.

Ron s’interruppe di scatto e distolse lo sguardo, con una smorfia.

“Bene. Cioè, normale,” farfugliò, con innegabile dispiacere. Quindi sopirò, scompigliandosi i capelli rossi. “Sai, amico, ultimamente gli sono venute strane idee,” aggiunse, controvoglia.

Harry si sistemò gli occhiali, attento.

“Di che genere?” domandò, cortese.

“Parla di vendere il negozio,” spiegò Ron, desolato.

Harry lo vide serrare le labbra con rammarico, e si grattò una guancia.

“Per fare che?” lo interrogò, perplesso.

Ron scosse la testa, impotente.

“Niente. Stare sdraiato nel letto a guardare il soffitto, presumo,” sibilò, stizzito. “Ha tirato fuori la scusa che a me questo lavoro non piace e che vorrei fare l’Auror e…”

“Potrei farti entrare, lo sai,” lo interruppe Harry bonariamente, buttando giù un sorso di burrobirra. “Posso metterci una buona parola e tu avresti un pos…” proseguì, di slancio.

“Non è questo il punto,” scandì Ron irritato. “E non voglio che sia tu a farmi avere un posto da nessuna parte. Non è per questo che sono tuo amico. Ti sto parlando di George, non di me,” continuò, incrociando bruscamente le braccia sul tavolo.

“Va bene, va bene,” ribatté Harry, vagamente risentito. “Tu che cosa gli hai detto?” continuò, magnanimo, ritenendo più saggio non assecondare l’arrabbiatura dell’amico.

“Che per me è ok lavorare con lui, e non c’è problema.”

“Gli hai detto proprio così?” proseguì Harry, aggrottando appena la fronte.

“Sì,” confermò l’amico, annuendo vigorosamente.

“Molto convincente, Ron,” commentò Harry, atono.

L’altro lo guardò storto, prima di sbuffare.

“Tanto non mi stava nemmeno a sentire,” borbottò per giustificarsi, arrossendo leggermente. “Lui sta gettando la spugna, questo è quanto,” continuò, con voce bassa e addolorata.

Harry annuì, assorto.

Forse Hermione aveva avuto ragione, senza saperlo, a pensare di coinvolgerlo.

“Potrei parlargli,” affermò, indeciso.

“Tu?” osservò Ron scettico. “E perché ti dovrebbe dare retta?”

Harry sospirò, esitando a parlare. Non amava rivangare l’argomento con l’amico, perché si trattava di un problema delicato di cui lui aveva sofferto molto. I Weasley erano stati davvero molto poveri, quando i ragazzi erano piccoli. Alla fine sbuffò, appiattendosi nervosamente i capelli.

“Ti ricordi il fatto del Torneo Tremaghi, no?” iniziò, prendendola per le lunghe. “Io l’ho vinto e ho avuto tutti quei soldi di premio e poi li ho dati a Fred e George,” raccontò a disagio, distogliendo lo sguardo. “E’ con quei soldi che hanno aperto i Tiri Vispi e…, penso lui si senta ancora un po’ in debito con me,” aggiunse, borbottando.

Sollevò finalmente lo sguardo, e come temeva Ron aveva una smorfia imbarazzata e un po’ contrita.

“Sì, se non fosse stato per te…” brontolò a disagio. “E’ stato un gesto molto…” esclamò con fervore.

“Oh, piantala,” lo interruppe lui deciso. “Io non li volevo, e a loro servivano. Non te ne sto parlando per farmi complimentare, lasciamo perdere,” continuò velocemente, imbarazzato. “Il punto è che magari a me George darà retta, per via di quella faccenda,” osservò, più pacato.

Ron lo guardò fisso, esitando con aria cupa.

“Lo faresti davvero?” mormorò, incerto.

“Certo,” rispose Harry sicuro, annuendo con risoluzione.

____________

Grazie a tutti coloro che hanno letto, preferito, commentato. In particolare:

Doremichan: Grazie. In effetti doveva essere drammatico, non penso che nella testa di George ci possa essere qualche pensiero particolarmente felice, a questo punto delle vicende. Che dire…spero di continuare a sorprenderti.

Dragonball93: Merlino, non pensavo di provocare un simile spargimento di lacrime. Quasi mi sento in colpa. Capisco la frustrazione per la morte di Fred, anche a me succede con un paio di personaggi. JK riesce a far fuori la gente con una facilità incredibile e in modi talvolta discutibili. Ma è il suo mondo, no? Adesso ho capito che tu e lilla vi conoscete, sul momento non mi era chiara la concordanza di nomi e nick. ^__^ Ed eccoti il nuovo capitolo.

Elly: Oooh, carissima… Che dire. Grazie per tutta questa attenzione che mi porti. Quanto alle “fazioni”, per cominciare, penso che resteremo a questo punto morto in ad un’analisi fatto quando a vent’anni, riguardando indietro mi sembra di poter inserire Ron e gli altri in una “fazione”. Penso che per Harry il discorso sia diverso proprio perché non è cresciuto tra maghi e certi automatismi gli saranno sempre preclusi – e va bene così. E poi Harry… Cioè, Harry è un tipo strano, povero. Io l’ho sempre visto come una specie di disadattato, bonariamente (e spero che ora non verrò lapidata dai lettori per questo). Insomma, il termine fazione indica una divisione netta che ai miei occhi esiste. Passando al capitolo-George, e conseguentemente a George-Fred (il trattino NON implica pairing), capisco che forse l’atteggiamento del sopravvissuto possa parere eccessivamente tragico, ma a me è venuto così. E’ che io non vedo i gemelli come due persone veramente autonome. Cioè, sono ragazzi in gamba, forti, pieni di personalità, ma hanno un legame estremamente preferenziale. Fanno tutto insieme: la scuola, il Quidditch, la fuga, il negozio, la radio…tutto. Fanno discorsi parlando come se fossero una sola persona. Non che li reputi identici. Ho sempre avuto l’idea che George sia in qualche modo il meno “leggero”, anche se di pochissimo, rispetto a Fred, e ho scoperto di recente che non sono l’unica. Quindi, ecco, tutto ciò per dire che in base all’idea che mi sono fatta di loro e alla mia esperienza personale in fatto di gemelli, una perdita del genere è qualcosa di devastante, insanabile. Quanto al resto, sì, Lee comparirà in prima persona e avrà anche una certa influenza sulle vicende. E non dico altro per non anticipare. Grazie ancora, e terrò comunque a mente quel che dici. C’è sempre tempo per cambiare qualcosa. A presto.

lilla4eve: carissima mailatrice e fan assidua, eccoti finalmente il capitolo da te tanto atteso. Mi dispiace averci messo tanto ma, come illustrato a inizio pagina, mi è piovuta tra capo e collo un’idea calamitante. Trovo estremamente commovente il tuo shock e lo stato di prostrazione in cui lo scorso capitolo ti ha precipitata, ma non voglio far soffrire così i miei lettori. Spero che questo nuovo capitolo, dai toni un pochino più leggeri, sia stato meno traumatico. Ti vedo veramente sconvolta. Allora: tralasciamo l’argomento JK che potrebbe portare solo a brutte conclusione, tralasciamo l’antipatia per Harry (condivisa) e passiamo, dunque, ai Weasley. Penso che la loro oppressività sia qualcosa di cui non sono consapevoli, un modo per reagire al dolore e aggrapparsi a cosa resta loro. Non è facile saper aiutare una persona che amiamo quando soffre molto, soprattutto se anche noi stiamo soffrendo. Spesso si commettono errori nella convinzione di far bene, ed è quello che sta avvenendo. In un primo momento la vicinanza degli altri Weasley ha fatto bene a George, ma il suo malessere non si è attutito, in compenso lui si è sentito logorare dalla loro costante ingerenza nella sua vita. D’altra parte loro, vedendo la situazione migliorare così poco, hanno decuplicato gli sforzi per aiutarlo. E’ una specie di circolo vizioso, ma non darei veramente delle colpe a qualcuno. In ogni caso, ecco, grazie per essere così entusiasta del mio lavoro. Spero continuerai ad apprezzarlo.

EDVIGE86: Ciao. Sono perfettamente d’accordo sulla tua analisi dell’esasperazione per la troppa vicinanza e sul legame tra Ron e George. Ho la medesima sensazione in merito e per questo ho voluto approfondirla con questa storia. Inoltre ti ringrazio molto per aver apprezzato il mio modo di trasmettere i sentimenti del gemello, non è stato molto facile. E grazie anche per la comprensione riguardo alla lentezza. So che a volte è fastidioso dover aspettare ma del resto ognuno ha i suoi tempi. Spero che la lettura continui ad aggradarti.

Seiryu: Già. Il “non ho potuto salutarlo”(-arla, nel mio caso) è un pensiero che devasta ancora i miei sonni, a volte. Penso che per George debba essere una cosa mostruosa. Non è un pensiero molto sensato – il fatto che una persona sia morta significa cose ben peggiori della mancanza di un saluto – ma credo sia perfettamente naturale. Rende la perdita più acuta e più violenta. Capisco anche l’irritazione verso certi atteggiamenti dei Weasley, che però agiscono in completa buona fede. Il lutto è una cosa complicata, no? Insomma, grazie…ma hai veramente una hit dei miei pezzi migliori? ^__^

Akira14: …ehm. Non era mia intenzione prenderti a pugni. Chiedo scusa. ^__^ dunque, non vedo proprio cosa aggiungere a quello che hai scritto. La tua recensione mi ha davvero fatto molto piacere perché hai colto esattamente gli aspetti su cui volevo porre l’accento ed è stato molto bello scoprire in chi legge una comprensione così piena di quel che avevo scritto – soprattutto considerando che non sono esattamente Eco (con cui mi scuso sentitamente per il paragone azzardato e del tutto ironico nei miei confronti. Sul serio, Grandissimo, non si inquieti). Ecco, tutto ciò per dire che mi lusinghi. E che spero di non aver deluso con questa nuova parte relativa ai familiari “acquisiti”.

Cialy: Aaah, la tRow… Musica per le mie orecchie. Amo, amo, amo, sempre lo ripeterei. Dunque. Tu puoi prenderti tuuutto il tempo che vuoi. Sempre (violini in sottofondo). Che altro… beh, sono contenta che l’analisi mentale di George ti sia piaciuta ed è vero che si, mi sono concentrata sulla sua immobilità fisica e psichica, che vanno di pari passo. Quant’è vero ciò che affermi sulle deprimenti scelte di colei… A presto.

Grazie a tutti i lettori

suni

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Capitolo 4
*** La coppia d'oro ***


Salve a tutti.

So che la lentezza con cui questa storia procede è vergognosa. Me ne scuso. In verità ce n’è già un bel pezzo imbastito, ma non ho mai il tempo e la concentrazione per lavorarci su seriamente, perché confesso che non mi è facile gestire questi personaggi a cui non sono abituata. A questo proposito, ho corretto le imprecisioni del capitolo precedente. Non mi ricordavo proprio che Harry avesse parlato a Ron dei soldi del Tremaghi e ringrazio Dragonball93 e Lill che me l’hanno fatto notare.

Adesso, invece, vi lascio alla coppia del secolo (…).






Harry


“Avanti!” esclamò la voce di George, quando lui ebbe bussato discretamente alla porta.

Harry sospirò, schiarendosi la voce per rispondere. Visto quanto Ron era sembrato sollevato dalla sua idea di affrontare personalmente il discorso vendita del negozio col fratello maggiore, aveva ritenuto fosse una buon idea quella di farlo il prima possibile. Tutto sommato, però, non si sentiva tranquillo. Non era molto dotato nel rapportarsi con la gente.

“Ciao!” lo salutò titubante, augurandosi di non disturbarlo troppo. “Posso?” chiese, esitando.

Udì un leggero tramestio provenire dall’interno ed attese, paziente. Realisticamente George si stava alzando dal letto in quel momento, perché non muoveva mai un muscolo fino alle due di pomeriggio se non era obbligato. E al momento era solo mezzogiorno.

“Certo, vieni,” invitò la sua voce noncurante dall’interno.

Harry si avventurò nella stanza dando mostra di una certa allegra baldanza, gli occhi smeraldini che scorrevano sul pigiama sbilenco di George, che penzolava depresso sul suo corpo ossuto e troppo magro, risalivano sul viso scavato e gonfio di sonno per posarsi infine con un moto di simpatia, dovuta alla comprensione del problema, sull’inguardabile casco di capelli rossi che gli stavano ritti in testa, e che potevano quasi fare la sua invidia tanto erano arruffati.

“Dormivi?” chiese tentennando.

George scosse la testa, vago.

“No, io stavo…” iniziò, interrompendosi in preda all’imbarazzo.

“Certo,” intervenne Harry annuendo comprensivo, e cavandolo d’impiccio. Aveva un’idea di quel che stava facendo: guardava in aria e pensava a Fred, un classico dell’ultimo anno e mezzo.

“Come mai da queste parti?” chiese George vago, sollevando dei vestiti sporchi dalla poltrona perché lui potesse sedersi; rimase impalato in mezzo alla stanza per un paio di secondi, con quella bracciata di abiti di cui non sapeva che fare, quindi li lanciò semplicemente sul letto, disegnando una parabola di calzini, mutande e maglioni che andarono a cadere disordinatamente tra le lenzuola disfatte.

Harry si sedette, con leggero disagio.

“Sono passato a salutare Ron,” spiegò, seguendo con uno sguardo inespressivo il volo della biancheria di George, “perché ho il pomeriggio libero,” concluse cordiale, mentre il gemello, noncurante, raggiungeva coperte, vestiti e tutto il resto accoccolandosi sul proprio letto. “E ho pensato di fare un salto di sopra a salutarti,” aggiunse, allegro.

George annuì, pensoso.

Questa era una cosa particolarmente difficile dell’avere a che fare con George Weasley da un anno e mezzo a quella parte: fare conversazione con lui si riduceva a prodursi in lunghi monologhi, inframmezzati dai suoi cenni di assenso o dissenso e da qualche rara sillaba smozzicata sottovoce. Harry odiava essere il centro di qualunque situazione, ma con George lo si era per forza, perché lui c’era sempre soltanto a metà.

“E ho visto i nuovi articoli,” aggiunse svagato. “Sono…ehm…molto interessanti. L’inchiostro urticante vi procurerà un bel po’ di nemici,” continuò, con impegno.

George annuì nuovamente, giocherellando con l’orlo di un paio di pantaloni.

Aveva sempre lo sguardo talmente fisso che non si capiva mai bene se stesse ascoltando o meno.

Harry si sistemò gli occhiali, inspirando lungamente.

“Ieri sera ho cenato con Ron a Hogsmeade,” proseguì, come se l’informazione fosse d’importanza capitale. “Abbiamo incontrato Oliver, sai? Era in uscita con due della squadra,” aggiunse con enfasi.

“Bene,” commentò George, quasi tra sé.

Harry sbuffò, rassegnato. Decisamente, stabilì, l’impresa superava le sue capacità.

“Vuoi vendere il negozio, allora?” chiese diretto, diventando serio.

George sussultò, senza riuscire a sostenere il sguardo, e prese a fissarsi le dita di un piede.

“Te l’ha detto Ron?” mormorò, con aria colpevole.

Harry annuì, senza dire altro.

George continuava a guardare in terra e la situazione sarebbe potuta rimanere invariata forse per giorni interi, con Harry che osservava l’interlocutore senza sapere come andare avanti e George che studiava nel pavimento presumibilmente immerso nei bei ricordi di un passato che un destino malvagio e accanito gli aveva rubato. Invece qualcosa esplose al piano di sotto, riscuotendoli entrambi.

“Sì, voglio vendere,” ammise George, sottovoce.

Harry espirò rumorosamente, meditabondo.

“Perché? Cioè, pensi che ti farà sentire meglio? Se è così, certo, capisco benis…” iniziò, con fare comprensivo.

“No,” lo interruppe George cupo.

“No?” ripeté Harry spiazzato. “…Sinceramente pensavo fosse questo il motivo,” commentò, senza sapere bene come vedere la cosa.

“Parlando seriamente, tu pensi davvero che esista al mondo qualcosa che potrebbe farmi sentire meglio, Harry?”

Era la frase più lunga che George gli avesse rivolto da mesi, almeno dalla primavera precedente, ma lo lasciò senza parole e avvilito.

“Non so,” borbottò, incerto. “Però allora, scusami, ma non sono d’accordo. In fondo… cioè, non è quello che…vorrebbe Fred, immagino,” aggiunse, meditabondo.

George sollevò lo sguardo su di lui, ed Harry ci lesse odio.

“Tu non ne sai niente, di cosa vorrebbe Fred,” ringhiò, con voce sorda.

“Certo, certo,” si affrettò a replicare il Ragazzo Sopravvissuto, alzando le mani in propria difesa e rendendosi conto di aver decisamente sbagliato commento. “Volevo dir…”

“Vattene, Harry,” intimò l’altro, coprendosi il viso con le mani.

Lui spalancò la bocca, desolato.

A-aspetta, dai, non avevo intenzione di…” biascicò con dispiacere.

Vattene. Adesso,” ripeté Fred rannicchiandosi contro le proprie ginocchia.

Lui si alzò in piedi, con immensa vergogna. Fece un passo verso la porta, poi serrò i pugni e si riavvicinò, riprendendo coraggio. Era pur sempre Harry Potter, per quanto spesso gli fosse scomodo. Non si fermava facilmente, nel bene e nel male.

“Sono venuto a parlarti perché ho detto a Ron che ti avrebbe fatto bene, e se ora vedrà che è vero l’esatto contrario ci rimarrà male come un cane,” affermò, con soggezione. “Tuo fratello è preoccupato, George,” continuò solenne.

“I miei rapporti con i miei fratelli, vivi o defunti, non sono cosa che ti competa,” ribatté l’altro bruscamente, tornando a guardarlo senza il minimo interesse.

“Col cazzo,” replicò con risoluzione Harry. “Siete tutta la mia famiglia, ormai. Ops, è vero, non sei l’unico ad aver sepolto dei morti, che coincidenza,” aggiunse, seccamente. Prese fiato, rabbonendosi e avvicinandosi un altro po’. “George, tu ami questo posto. L’avete messo su insieme, e ancora mi ricordo di quando l’avete aperto e di com’eravate felici,” continuò, benevolo.

L’altro chiuse gli occhi e si morse ferocemente le labbra, con sorriso penoso.

Annuì, e da un occhio chiuso gli scivolò fuori una lacrima.

“Se lo vuoi vendere perché hai bisogno di darci un taglio fallo, ma se è solo per lasciarti deperire meglio, allora scusami ma in quanto finanziatore del negozio mi trovi come minimo contrario,” continuò Harry.

“Te li posso restituire, i tuoi soldi,” mormorò George con voce rotta.

“Non è una questione di soldi, e lo sai,” ribatté Harry, caparbio. “Ma i Tiri Vispi sono Fred e George Weasley, e sarebbe orribile se non lo fossero più.”

George si passò una mano sulla fronte, muovendola istericamente.

“Ron non vuole lavorare qui,” tentò, come ultima difesa.

Harry scosse la testa.

“Se un giorno Ron volesse fare altro gli rimangono amici influenti cui rivolgersi, se non trova un altro modo,” ironizzò. “E poi non è vero, Ron vuole lavorare con te.”

“Non rispecchia proprio le sue ambizioni,” ribatté George sarcastico, asciugandosi il viso con una manica.

“Ron vuole tenersi stretto il gemello che gli resta. Questa è una priorità, e sta esattamente seguendo la sua ambizione,” lo contraddisse Harry pacato. Conosceva il proprio migliore amico abbastanza bene da sapere che al momento quanto più gli premeva non fosse fare carriera.

“Quindi tu voti no?” sussurrò George, dopo un lungo silenzio.

“Voto no,” confermò Harry con certezza.

“… Ci penserò, Harry,” bisbigliò l’altro, poggiando la testa sulle mani.

Harry sorrise, sollevato.


Ginny


“Avanti, niente storie,” l’anticipò Molly sbrigativa, calcandosi in testa il cappellino. “Ti ho solo chiesto di accompagnarmi, Ginny,” continuò, con tono autoritario.

La ragazza si sistemò nervosamente i capelli rossi, mordicchiandosi un labbro.

“Preferirei di no, mamma,” obiettò, poggiandosi alla credenza con fare indolente. “Davvero,” aggiunse, più seria.

Sapeva perfettamente che visite familiari troppo frequenti indisponevano suo fratello, che non riusciva più a gestire i rapporti col prossimo, nemmeno quelli con loro; se non fosse stato per Ron ne sarebbe stata davvero preoccupata, ma vedeva il loro legame mantenersi saldo giorno dopo giorno e questo le rendeva qualche speranza.

“Sai che se vado da sola si arrabbierà e mi dirà che lo controllo,” ribatté Molly, afferrando il proprio mantello dall’attaccapanni e poi quello della figlia, cui lo porse con un gesto deciso. “Forza, vestiti,” continuò, e Ginny stava per incollerirsi, e rispondere che no, non sarebbe andata con lei da George e non avrebbe fatto finta che fossero capitate da quelle parti per caso, perché tanto suo fratello era depresso, non stupido, e avrebbe capito perfettamente che era una bugia. Ma mentre sollevava la testa di scatto e spalancava la bocca, il volto irrigidito dal dispetto, incrociò lo sguardo quasi supplichevole e spossato di sua madre, fermo nel suo in una preghiera che non aveva nulla di imperioso o infaticabile come un tempo, ma pareva piuttosto una richiesta d’aiuto, di sostegno.

Sua madre non era più il generale in gonnella di un tempo; era invecchiata, persino dimagrita. I capelli le erano diventati in buona parte bianchi, sul viso si disegnava il dedalo impietoso delle rughe, sempre più evidenti, e gli occhi rilucevano di quella luce stanca e acquosa del declino. Sì, Molly era diventata vecchia. Era successo quasi d’un colpo, iniziato d’improvviso e continuato a velocità anormale per settimane, fino a poi stabilizzarsi in un delicato, lento consumarsi. Ginny sapeva che era cominciato il giorno del funerale. Quel giorno maledetto in cui aveva visto il corpo di Fred calare nella terra per sempre. Era stato un dolore insopportabile, che le aveva aperto qualcosa nel petto che ancora bruciava, a volte.

Tutti loro erano cambiati, quel giorno. Sua madre, suo padre, i suoi fratelli e lei. Erano tutti diventati diversi e negli occhi di ciascuno dei propri familiari Ginny riconosceva la cicatrice che quello strappo brusco avrebbe sempre lasciato anche in lei.

Ma’…” protestò debolmente, risolvendosi ad afferrare il mantello e infilarselo sommariamente.

Molly non le diede retta, limitandosi ad elargirle una pacca benevola. A sua figlia non restò che sospirare debolmente e smaterializzarsi al suo seguito, per poi ricomparire davanti alla vetrina colorata dei Tiri Vispi.

Ron stava mostrando le Puffole ad una giovane cliente e Ginny lo vide distintamente aggrottare la fronte al loro ingresso in negozio. Si morse le labbra, stringendosi appena nelle spalle per indicargli che non poteva farci niente e che non era lì di sua volontà. Sua madre, nel frattempo, aveva salutato il figlio con un cenno caloroso e già marciava verso il retrobottega per dirigersi al piano superiore. Ron sgranò gli occhi.

M-mamma,” la richiamò Ginny, cogliendo il messaggio. “Magari potremmo aspettare che lui scenda, no?” propose noncurante, avventandosi sulla merce esposta come per esaminarla con estremo interesse.

Molly sbuffò, incerta.

“Immagino di sì,” ammise a malincuore.

“Buongiorno, mie donne,” salutò Ron, liberatosi alla bell’e meglio della sua cliente che continuava ad aggirarsi tra gli espositori. “Come mai qui?”

, caro, siamo venute a fare un po’ di spese e già che c’eravamo… Tuo fratello?” interloquì Molly. Ginny sospirò silenziosamente, senza smettere di guardare Ron. Era mortalmente stanca di tutto quello. Avrebbe soltanto voluto che George tornasse ad essere George e che tutto fosse di nuovo a posto.

“Credo stia riposando,” rispose Ron con disinteresse. “Stamattina ci siamo alzati presto perché arrivava il nuovo materiale, e così…”

A Ginny fu sufficiente notare il leggero rossore della sua collottola e il modo in cui distoglieva rapidamente lo sguardo per sapere che stava mentendo. Lui si era alzato presto, mentre George rimaneva in camera. Come sempre. E non stava riposando, semplicemente non si era ancora mosso dal letto.

Si appoggiò al bancone, l’amarezza che le faceva sentire le gambe pesanti. Sapeva che sarebbe andata così ancora prima di uscire di casa. Certe volte non riusciva a capire come si lasciasse convincere da sua madre e partecipare a quelle sortite masochiste, e come Molly potesse davvero persuadersi a credere alle innumerevoli scuse accampate ogni volta da Ron. Ne aveva concluso che di fatto non ci credeva, ma preferiva fingere di sì anche con se stessa: dopotutto era di suo figlio che si trattava.

Sapeva già come sarebbe andata, come sempre: Molly avrebbe cominciato a ventilare l’ipotesi di salire per un veloce saluto; Ron si sarebbe blandamente opposto, cercando invano di trattenerla. Infine, riluttante, avrebbe finito per cedere e sarebbe salito chiedendo loro di sostituirlo per un momento mentre andava a vedere se George era sveglio. Lo avrebbe avvisato della loro visita e il gemello avrebbe fatto qualcosa come pettinarsi e infilarsi dei vestiti per la consueta recita con la madre. Avrebbe mormorato qualche monosillabo e annuito con indifferenza finchè Molly non si fosse convinta di aver fatto il suo dovere.

E per tutto il tempo lei sarebbe rimasta a testa bassa, senza nemmeno riuscire a guardarlo per l’avversione a dover leggere nei suoi occhi la menzogna o ancora peggio, la realtà: ovvero che niente e nessuno lo poteva aiutare, che lei poteva anche essere la sua sorellina Ginny ma che questo non incideva sostanzialmente sulla situazione, lei non poteva fare nulla per lui. Ed era questo, lo straordinario senso d’impotenza, a lasciarla con le lacrime agli occhi ad ogni loro incontro: non il dolore per la morte di Fred, né la sensazione di abbandono dovuta alla sua conseguenze lontananza, ma solo la consapevolezza immutabile della propria inutilità.

Chissà se George lo avrebbe mai capito.

“…Complimenti. Mi sono sentita così fiera di voi!” stava raccontando Molly quando lei si riscosse dai propri pensieri.

“Sono contento. Stiamo lavorando sodo,” rispondeva suo fratello, distratto dal preparare la ricevuta per la ragazzina che gli aveva porto timidamente i propri acquisti.

“Penso che potrei salire a fare un saluto, no?” aggiunse Molly, come da copione.

“Non so, mamma. Credo davvero che George dorma,” provò ad obiettare Ron.

Quella battute già scritte da mesi erano insopportabili, per Ginny. Le facevano venire voglia solo di abbracciare Harry e di piangere, non sapeva bene in che ordine.

“Oh… Certo. Ma…” balbettò Molly insicura, tormentandosi le mani.

“Mamma,” la interruppe Ron lapidario, con insolita decisione. “Davvero, George era molto stanco. Sta dormendo.”

Ginny lo guardò sorpresa. Solitamente non era affatto così definitivo, né usava quel tono tanto brusco. Sua madre dovette avere la stessa sensazione, perchè lo guardo quasi ferita. Un tempo avrebbe replicato vivacemente e fatto di testa propria, ma stavolta si limitò ad annuire debolmente, rammaricata.

“Digli…digli che siamo passate. Ginny, tu resta pure un po’ con tuo fratello, io continuo le compere,” rispose, rassegnata.

E anche la mitezza di Molly, anche quella le risultava ormai dolorosa. Annuì senza convinzione, mentre sua madre baciava Ron sulla guancia prima di uscire quasi frettolosamente.

“Cos’è questa novità?” chiese lei, quando l’ebbe vista sparire.

“Quale novità?” replicò il fratello, tenendo d’occhio due ragazzini che gravitavano intorno alle Caccabombe.

“Lo sai,” mormorò lei telegrafica.

Ron sbuffò, stropicciandosi i capelli.

“Prima è passato Harry,” accennò.

Ginny lo guardò perplessa, non riuscendo a capire il nesso tra la presenza del suo ragazzo e il rifiuto di Ron a disturbare George. Le due cose non avevano molto a che fare.

“Quindi?”

Ron sospirò stancamente, togliendo dal piano della cassa della polvere inesistente.

“Quindi niente. E’ venuto a parlare con George. Avevano delle cose da discutere e da quanto mi ha detto il tuo cavaliere dopo, preferisco lasciarlo in pace, per oggi.”

Ronald era ermetico, come al solito. Ma lei corrugò la fronte, impensierita.

“Di cosa dovevano mai parlare Harry e George?” domandò inquieta.

“Non sono fatti miei. E nemmeno tuoi, Ginny,” la riprese lui con quel fare paterno che le era sempre riuscito insopportabile, sin da quand’erano bambini. Ron Weasley, il signor pressappochismo, che veniva a dirle cosa andava e non andava fatto.

“Merlino, scusa, non pensavo fosse un segreto di stato,” ribatté irritata.

“Non ho detto questo. Solamente, non andare a stressare Harry per farti dire cosa è successo. Non sono cose che ci riguardano, dopotutto,” replicò lui, vagamente inacidito.

“Non ho cinque anni. Non preoccuparti, non darò noia al tuo preziosissimo Harry.”

La freddezza del suo tone di voce parve esasperare Ron, che sbuffò nuovamente.

“Gin, lo so che… Cioè, George è uno schifo, con te in particolare.”

“Tu dici?” commentò lei sarcastica, maledicendo il modo in cui la sua voce tremava.

“Ma lui…loro sono sempre stati i tuoi paladini e adesso per lui…” continuò il fratello agitato, senza nemmeno badarle.

“Va bene così, Ron,” lo interruppe lei mollemente, sollevandosi dal suo appoggio sul bancone. “Sul serio. Era solo curiosità, non ha importanza.”

Si sentiva semplicemente esausta per l’intera situazione. Stabilì che sarebbe andata da Harry e gli avrebbe chiesto di cenare con lei senza toccare l’argomento George, solo per dimenticarsi per qualche ora della sua famiglia, di sua madre e di suo fratello. Per fare finta che fossero una coppia normalissima e sorridergli senza rimuginare sulla saetta bianca che gli deturpava la fronte. Solo Ginny e Harry.

“Ci vediamo in settimana, va bene?” concluse, iniziando a tornare verso l’uscita.

“Sì. Chiedi scusa alla mamma,” confermò Ron con un sorriso colpevole.

Ginny lo ricambiò debolmente, quindi uscì diretta a Grimmauld Place.










Seiryu: Grazie mille… Non pensavo che “Fratello” avesse tanti estimatori. Sinceramente io la sento vecchia, soprattutto nello stile, ma a differenza di altre cose che ho scritto da tanto la vivo ancora molto, perché tratta temi molto sentiti anche per me. Quanto ai Weasley acquisiti, , anche loro fanno parte della famiglia. E non saranno gli unici non-Weasley a comparire, ovviamente ^__^.

Doremichan: non so se ho regalato emozioni, ma spero che la conversazione tra il signor Weasley e il signor Potter sia stata godibile. In ogni caso, ti ringrazio per l’apprezzamento.

sbirolina93: ahm…riguardo alla speranza di aggiornare in fretta, temo di averla un filino disattesa e me scuso. Per il resto sono onoratissima dei complimenti e mi auguro che la coerenza ai caratteri originali si mantenga intatta. In caso contrario spero mi verrà fatto notare. Alla prossima.

lilla4eve: Ciao! Eccomi, con molta lentezza ma eccomi ad accontentarti. Dunque, ho capito cosa intendevi relativamente al superare certi dolori con le proprie forze, ma non so se sono del tutto d’accordo. Ogni volta che nella mia vita mi è capitato di dover affrontare un vero dolore, intendo qualcosa di realmente tragico, non ci sarei riuscita o avrei faticato il triplo senza la vicinanza di determinate persone, che magari sul momento ho odiato per la loro volontà di spronarmi. D’altra paret è difficile avere la giusta misura, quando cerchi di aiutare qualcuno, non esagerare né limitarsi troppo, specie se sei emotivamente coinvolto nel dramma. Penso sia quel genere di cose in cui si tenta, alla cieca, sbagliando e muovendosi a caso. In tutto ciò, certo, è indispensabile avere degli spazi e confrontarsi con se stessi e con la propria sofferenza in modo individuale. Ma vabbè. È un discorso troppo complicato e con troppe variabili legate al caso singolo. Per il resto…sì, in effetti né Harry né Ron nella mia visione sono menti eccelse…però li trovo divertenti e hanno sicuramente uno spirito buono, nel senso più schietto del termine. Mi fa piacere che il capitolo ti abbia rallegrata e spero continuerà così. A presto.

Dragonball93: guarda, condivido parecchie delle cose che dici. Il fatto che anche harry e hermione siano parte della famiglia, il disappunto per la maniera che JK ha avuto di liquidare certi personaggi in maniera per lo meno troppo sbrigativa – non ho ancora letto il settimo libro principalmente per l’episodio Lupin, e a questo punto credo che non lo leggerò mai, perché non ne sento il bisogno – o ancora l’antipatia per quel piantagrane iettatore che è Harry. Guarda, io è dall’Ufficio Misteri in avanti che se potessi gli aprirei la testa a metà e la infilerei nel mixer. Tutta la gente che gli sta intorno crepa in modo insulso, porta una sfiga che non ci si può avvicinare. Ah…cerco di contenermi. Dunque. Dov’eravamo. Ah, sì. Grazie, come ho già detto all’inizio, per aver corretto le mie sviste, ho provveduto a sistemarle. Fammi sapere se c’è altro che non va. Alla prossima.

nameless: ciao a te. Sono molto, molto lusingata per le tue affermazioni, davvero, ma non esageriamo… accipicchia, mi hai quasi messa in imbarazzo ^__^. Ecco il capitolo, che spero ti sia stato altrettanto gradevole leggere e che abbia saputo nuovamente coinvolgerti. Ciao!

Lill: è esatto quello che dici relativamente alle parole di George. Effettivamente il dire una cosa simile è di per sé un sintomo di ribellione alla propria condizione, e tutta questa storia, che attualmente pare tanto deprimente, è la narrazione di una rinascita che prende il via proprio in quel momento. La conversazione di George e Ron alla fine del primo capitolo è un momento di catarsi, perché pensare di voler morire è facile, ma dirlo – ammetterlo – non lo è altrettanto, e di solito significa anche un desiderio di qualcosa, o qualcuno, che ti aiuti. Scusa lo sproloquio, ma mi ha fatto davvero piacere leggere quella tua considerazione. E ripeto, grazie per la correzione. A presto.

EDVIGE86: grazie a te per tutte le belle parole. spero che la conversazione di Harry e George sia stata di tuo gusto e che questo nuovo spaccato abbia continuato ad essere coerente. Ho qualche dubbio su Ginny, anche perché non amo il personaggio, e mi auguro non sia uscita fuori un’accozzaglia di scemenze. A parte tutto, comunque, sono onorata. Ciao.

Cialy:..oooh, tu… che bello. Dunque, dunque, dunque, quante cose belle e rallegranti che mi dici. Ah, sapevo che almeno tu avresti sofferto con me per la citazione di Sirius e Remus, che bello. Non riesco mai, mai a fare a meno di citarli almeno en passant per ricordare al mondo quant’è povero e sfortunato ad averli persi. Ahm. Comunque. Harry è IC? Ho paura che mi sfugga di mano. Lo capirei anche, se mi sfuggisse: visto che lo detesto deve aver paura che gli faccia fare la figura dell’idiota. Spero molto che, se leggerai, continuerà ad aggradarti quel che vedi. Un saluto, e in bocca al lupo per qualunque progetto tu stia portando avanti nei meandri del net, e che sicuramente sarà strabiliante come ogni tua cosa. Ciao.

Akira14: ma tu guarda che stranezza…io che faccio rivalutare Harry alla gente, proprio una roba assurda. E agghiacciante. Credo mi mozzerò tutte e dieci le dita per non scrivere mai più qualcosa che provochi un simile abominio. ^__^ fesserie a parte, nemmeno a me lui piace molto, ma cerco di essere oggettiva. In fondo ha avuto una vita difficile ma anche del coraggio. E da buona Gryffindor, stimo i coraggiosi oltre ogni cosa. Ti ringrazio per tutte le altre osservazioni positive e spero che anche nel tuo caso il confronto tra i due sia stato piacevole.

Ciao a tutti

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