Ebbene!
Novità novità.
Eccomi qui a confrontarmi per la prima volta con la nuova generazione. Mi scuso
anticipatamente per ogni eventuale errore che commetterò e per tutte le
imprecisioni e gli atteggiamenti OOC da me descritti che dovessero mai sfuggire
alla mia abilissima beta e solita amica che ringrazio come sempre di cuore.
Non fraintendete, non ho affatto abbandonato i miei Marauders, tutt’altro. Ma sentivo
di dovere qualcosa a due personaggi che ho molto amato della saga, in effetti gli unici due che veramente ami delle nuove leve.
I gemelli Weasley somigliano un po’ ai Marauders, forse per questo mi sono tanto cari. Sono due
bellissimi personaggi. Ogni tanto ripenso alla parte d’inizio del terzo
libro, quando si trovavano con Harry e cominciavano a sfottere Percy (Abbiamo
cercato di chiuderlo in una piramide, ma la mamma ci ha scoperti). E’ una
pagina deliziosa e mi fa davvero ridere.
Per cui, mi sembrava doveroso dedicare loro qualcosa,
vista l’infelice scelta di JK nel settimo libro.
Ditemi voi se è accettabile e interessante.
Buona lettura
suni
Ambitions
Ron
Ronald
Weasley era stato un bambino assolutamente normale. Con un sacco di fratelli
maggiori e una famiglia caotica, povera ma tutto sommato abbastanza felice,
aveva trascorso un’infanzia agitata ma serena, e s’era dedicato a
tantissimi giochi e a un’infinità di passatempi assurdi, a volte
rischiosi, comunque entusiasmanti. Nei divertimenti che escogitavano tra
fratelli sbrigliava la fantasia ed insieme a Fred, George e qualche volta Percy
inventava mondi sfavillanti.
Come
tutti i bambini – be’, i bambini di una
certa fazione – si era immaginato Auror,
avventuriero, domatore di creature letali, guerriero, eroe.
Poi
aveva iniziato la scuola e, tra una cosa e l’altra, aveva smesso di
essere un bambino normale. Si era trovato, per un’imperscrutabile serie
di avvenimenti, nel centro di un ciclone di proporzioni straordinarie. Aveva
combattuto in prima linea, affrontato pericoli di ogni sorta e a conti fatti lo si poteva considerare veramente un eroe, a nemmeno
vent’anni. E durante quella lotta, durante quegli anni di scontri ma
anche di scuola, aveva pensato anche al futuro, s’era dato dei vaghi
obiettivi, delle aspirazioni. L’idea di dedicarsi alla carriera di Auror gli era tornata alla mente in più occasioni e
con tinte sempre più precise, sebbene si scontrasse con l’evidenza
di non essere tagliato per quel mestiere. S’era immaginato anche come
Indicibile, cacciatore di mostri, s’era immaginato persino in determinati
ruoli ministeriali, come nelle relazioni internazionali.
Insomma,
Ronald Weasley era un ragazzo che aveva formulato più tipi di ipotesi,
anche variegate, per il proprio futuro. Ma nessuna, nemmeno la più
strana, di tutte quelle immagini proiettate nel domani aveva previsto la
realtà. In nessuno dei suoi futuri ideali Ron s’era mai immaginato
come comproprietario e cogestore di un negozio di
scherzi. Perché quello…
Quello
non era il suo posto. Semplicemente.
Lo
sapeva dal principio, lo sentiva ogni giorno dentro di sé, lo percepiva
sulla pelle e nelle dita e lo leggeva in qualunque istante negli occhi vitrei
del fratello.
Eppure
era così che era andata. Ron Weasley, combattente e braccio destro del
salvatore del mondo magico, fido sostegno del grande Harry Potter, stava dietro
il banco del negozio “Tiri Vispi Weasley” in piena Diagon Alley. E gli andava bene
così, perché in fondo non c’erano altre opzioni da poter
scegliere e quella era stata semplicemente una strada segnata, l’unica
percorribile.
No,
niente di tutto questo era mai rientrato nelle sue ambizioni, ma non era molto
importante, non aveva avuto scelta; perchè adesso George perlomeno aveva
una vita quasi regolare, dopo un anno e mezzo e tutta la fatica che avevano
fatto per rimetterlo in piedi, come
diceva la loro madre. Ma Ron si ricordava bene quei primi mesi dopo il fatto, aveva
incise nella mente le memorie di quelle settimane di agonia, dell’orrore
suscitato dallo strazio negli occhi allucinati del suo fratello dimezzato.
Ci
si erano dovuti mettere in cinque per tirarlo via dal cadavere. George aveva le
dita conficcate nella carne del gemello e ci si teneva aggrappato come se per
staccarlo fosse stato necessario tagliarlo via, nemmeno le sue mani e il
braccio di Fred fossero state parti di un corpo unito cui dover amputare una
parte. Ron se lo ricordava, non
avrebbe mai potuto dimenticarlo; e ancor meno avrebbe potuto rimuovere il
ricordo dell’urlo, un suono che lo perseguitava ancora nelle notti in cui
le cose sembravano sprofondare. La voce di George che si elevava ad esprimere
un supplizio indescrivibile, che squarciava l’aria come
un’esplosione e raggelava il sangue. Un grido che sapeva di morte,
agghiacciante al punto che s’era ritrovato a tapparsi quasi le orecchie. Basta! Basta! Smettila, smettila, Merlino, sta’ zitto!
Aveva
sentito il proprio corpo tremare e pregato che smettesse,
che la finisse di urlare in quel modo che faceva male. Aveva avuto paura, tutti
loro l’avevano avuta, investiti da un terrore inspiegabile e immotivato
che veniva sprigionato da quella voce spezzata dalla
disperazione. Non era un urlo umano, era oltre.
Sua
madre ormai era più calma, perché George aveva ripreso a mangiare
abbastanza spesso: per lo meno capitava raramente che facesse meno di un pasto al giorno; inoltre era contenta perché lavorava di
nuovo, ed in effetti passava al negozio almeno un paio d’ore al giorno
più volte alla settimana, e perché aveva ripreso a parlare alla
gente. Ripeteva, appunto, di stare riuscendo a rimettere in piedi George.
Ron
su questo non si faceva grandi illusioni: in assoluto, era quello che passava
più tempo col gemello sopravvissuto e riteneva, pur essendo un
osservatore poco acuto, di saperne qualcosa di più della madre, in
merito.
E
comunque, per stare in piedi occorrevano due gambe, e a George…a George
ne era rimasta una sola; non c’era altro da dire in merito. Molly viveva
nell’illusione che prima o poi, col tempo, suo figlio sarebbe tornato quasi quello di prima,
ma Ron sapeva perfettamente che George non sarebbe stato mai più
nemmeno lontanamente quello di prima. George Weasley, quello che conoscevano loro,
non c’era più, per quanto fosse banale:
se n’era andato quel giorno al castello, insieme all’altra
metà. Questo George era
un’altra persona, una persona che partiva mutilata nel costruirsi e che
apparteneva a un’altra categoria, una persona che non aveva un fratello gemello. Era diverso, tutto lì. Non
poteva tornare ad essere lo stesso perché non era più lo stesso.
Ma
la mamma non riusciva ad accettare che uno dei suoi cuccioli avrebbe sofferto
per tutta la vita. Per questo, come George stesso lo aveva pregato di fare, Ron
affermava di trovarlo in forma ogni volta che Molly gli chiedeva di lui, e poi
sosteneva che si stesse riprendendo; e forse era davvero così, ma non
nel modo in cui se lo aspettava la mamma. Forse sì, si stava riprendendo,
ma per quanto potesse
riprendersi qualcuno nella sua situazione, ed era questo che lei non voleva
capire.
“Ciao.”
Ron
sollevò la testa di scatto dal libro dei conti, sorridendo
meccanicamente verso il retrobottega.
“Ciao,” salutò, allegro. “Sei venuto ad
aiutarmi a chiudere?” aggiunse, riponendo il libretto.
George
gli fece spallucce, storcendo il naso. Ron lo vide sbuffare leggermente, quindi
passarsi le dita tra i capelli per ravviarseli invano, perchè il posto
vuoto lasciato dall’orecchio mancante impediva quel gesto istintivo. Lo faceva quando era nervoso.
“Be’?” borbottò Ron, perplesso.
George
sbuffò di nuovo; sbuffava un sacco, del resto.
“Non
ho voglia di prepararmi cena,” ammise a voce
bassa, rimettendo a posto con cura eccessiva gli articoli allineati sullo scaffale
al suo fianco.
“Hermione
sarà felice di aggiungere un posto a tavola,”
replicò Ron con una formula ormai meccanica. Ho fame ma non ho voglia di cucinare mezza
cena, la cena per uno, questo intendeva George. Conosceva il linguaggio del fratello. Era il suo socio, no?
“Non
è il caso,” replicò George
sistemandosi addosso il mantello.
“Guarda
che a noi non cambia niente,” aggiunse Ron,
iniziando a mettere via i soldi contati recuperati dalla cassa.
“Non
posso venire sempre a cena a casa tua,”
ribatté l’altro serio, mostrandosi più restio del solito: a
quel punto, normalmente, accettava con una scrollata di spalle.
Ron
aggrottò la fronte, con un moto di stanchezza: Merlino, certo che
poteva, non erano estranei o lontani conoscenti, e poi l’altro sapeva benissimo
che non gli dispiaceva affatto. Preferiva di gran lunga averlo come elemento di
disturbo nella sua intima vita coniugale che saperlo solo a casa a guardare il
vuoto.
“Sì
che puoi,” rispose quasi risentito, molto
più seccamente di quanto fosse sua intenzione. “Sono tuo fratello,” aggiunse, chiudendo il cassetto.
“Questo
non c’entra,” osservò George
voltando la testa di scatto, muovendo istintivamente una gamba in avanti.
“Non
c’entra con cosa?” ribatté Ron, appoggiandosi al bancone.
George
si accigliò e abbassò lo sguardo, rabbuiato.
“Con
niente. Torno di sopra,” rispose, facendo per
voltarsi.
Ron
si morse la lingua, irritandosi per la scostanza
dimostrata.
“Aspetta,” esclamò, allungando un braccio e posandolo
sul suo. “Sono stanco, ieri sera sono andato con Gin da Harry e ho bevuto
un bicchiere di troppo,” si giustificò,
arrossendo leggermente. “Ho voglia di andarmene a casa e rilassarmi
davanti al camino, e sarei contento se venissi con me,”
aggiunse, più fermo.
George
annuì, mordicchiandosi le labbra. Poi nascose il viso, girando di scatto
la testa, ma nel tremolio delle sue labbra Ron scorse il segno che qualcosa non
andava e si maledisse per non averlo compreso subito,
disattento com’era. Guardò il fratello allontanarsi nervosamente
di un paio di passi e poi far scorrere tutt’e
due le mani nei capelli, tirandoseli quasi.
“George?”
mormorò, inquieto.
“Ho
trovato…” iniziò il fratello continuando a dargli le spalle,
ma la voce gli si ruppe. “Ho ritrovato delle cose stamattina, in una
scatola, delle scemenze di scuola.”
La
voce gli s’era fatta piatta e vacua e Ron poteva indovinare, anche senza
vederlo, il vuoto nero del suo sguardo. Tacque per qualche secondo, impotente.
Preferì non chiedere quali fossero le cose in questione: probabilmente George
non le aveva nominate perché farlo le avrebbe rese ancora più
reali, più presenti.
“Ti
va di mangiare fuori?” domandò, incerto.
George
fece un lungo inspiro.
“Hermione
non…” iniziò, esitante.
“Piantala,” lo interruppe Ron, scuotendo la testa.
“Hermione non è stupida,” aggiunse,
oggettivo.
George
sospirò e finalmente si voltò indietro.
Aveva
un viso che feriva: tirato e bianco, fremente. Ma compose in qualche maniera un
sorriso per cui Ron gli fu riconoscente, perché
allentò un pochino la morsa che gli stringeva i polmoni.
“Allora
sì, mi andrebbe,” disse poi, annuendo.
Ron
sospirò di sollievo.
“Dove?”
chiese, gentilmente.
George
scrollò le spalle con indifferenza, riacquistando poco a poco
l’espressione assorta e distante che gli era diventata propria.
“Dove
ti pare,” rispose, noncurante.
Lo
portò a mangiare al Paiolo, in mezzo al chiasso e al movimento, e
chiacchierò per tutta la cena, continuando a raccontare qualunque cosa
gli passasse per la testa, ché tanto sapeva che suo fratello maggiore
non aveva molto da dire. Continuò a conversare anche dopo, quando
finirono di mangiare e ordinarono un’altra bottiglia.
Stava
di nuovo bevendo troppo; anche molto più della
sera prima, e George continuava a svuotare bicchieri come se avessero contenuto
acqua fresca, ma tanto lui sapeva di non potere altro che lasciarlo fare, non
sarebbe comunque riuscito a fermarlo. Lui parlava, e gli stava bene che George stesse almeno ascoltando quel che diceva: spesso non stava
nemmeno a sentire quando la gente gli si rivolgeva, e fino a qualche mese prima
la cosa era davvero preoccupante, ma pian piano ricominciava a interagire con
l’esterno, anche se in modo deludente.
“…E
allora il bambino ha detto: no, non è abbastanza esplosivo,”
continuò ridacchiando, riferendo uno degli episodi più strani
intercorsi con i clienti in assenza del fratello maggiore, “e io ho detto
che invece lo è eccome, e lui no, allora gli ho detto di
provarlo,” continuò, infervorandosi. “Certe volte la gente
al negozio è insopportabile. E comunque allora lui… George?”
L’altro
aveva lasciato cadere la testa sugli avambracci d’improvviso, chiudendo
gli occhi. Fu un gesto tanto brusco che Ron quasi sussultò di spavento.
“Mmh?” fu il suono che gli giunse, soffocato contro il
tavolo.
“Ehm…ci
sei?” chiese, titubante.
George
sollevò la testa con un sospiro.
“Sì,” rispose serio, prima di sbuffare sonoramente e
raddrizzarsi in modo sconnesso. “E’ solo che… Ron, questo
lavoro ti fa schifo, tu non sopporti di dover stare dietro alla gente e non hai
pazienza…” iniziò contrito.
“A
me piace lavorare al negozio!” protestò lui vivamente,
interrompendolo con fin troppa convinzione. “Mi diverte, mi…”
continuò, pensando freneticamente a qualcosa di intelligente da dire per
avvalorare quanto asserito.
“Voglio
vendere,” lo arrestò George, versandosi
altro vino.
Ron
rimase a bocca spalancata, gli occhi sgranati dalla sorpresa.
“C-cosa?” balbettò, senza fiato, un po’
rallentato dall’alcol.
George
annuì fermamente, con la tipica enfasi da ubriaco, prima di fare
spallucce.
“Voglio
vendere i Tiri Vispi,” ripeté, per poi
bere un gran sorso.
“Ma
gli affari vanno benissimo,” protestò
Ron, ancora spiazzato. Qualcosa gli stringeva lo stomaco e gli faceva quasi
digrignare i denti, d’improvviso.
George
sospirò con una smorfia ironica.
“Non
è questo il punto,” affermò,
tamburellando le dita sul tavolo e bevendo di nuovo. “Dai, Ron,” aggiunse esasperato, posando il bicchiere con mano
malferma.
Lui
chinò lo sguardo, deglutendo a fatica.
“Ma
dopo tanta fatica…” mormorò, amaro. “Era il vostro
sogno,” aggiunse in un soffio.
“Sì,
il nostro sogno,”
ribatté George, abbandonando la mano sul
tavolo con un gesto disarmonico. “Non il mio,” precisò sottovoce,
abbassando lo sguardo sul tavolo. “E nemmeno il tuo, Ron, diciamocelo.
Non ricordo di averti mai sentito dire da
grande voglio fare il negoziante, o sbaglio?” continuò,
gesticolando nervosamente.
Ron
si morse le labbra, cupo.
“No,
ma a me va bene lo stesso. E’ ok, mi sta più che bene questo
lavoro. Mi sono proposto io, ricordi?” aggiunse, con una punta di
sarcasmo.
“Avevo
perso quindici chili e quasi non dormivo la notte da più di quattro mesi,” osservò George con sufficienza.
“Sedici,” mormorò Ron a testa bassa. “Ma non
c’entra,” continuò, caparbio.
“Dai,
Ron, e tutte quelle storie sul voler fare l’Auror
e…” iniziò George, grattandosi la testa. Pensare, al
momento, sembrava risultargli faticoso, e del resto era normale, con quel che
aveva bevuto.
“Sono
troppo vecchio, e poi non sono tagliato per quello,”
obiettò Ron, troncandogli le parole.
“E
Indicibile, allora? Anche quello ti interessava,”
continuò il fratello, sventolando una
mano. Ron scosse il capo, fermo.
“Non
sono abbastanza svelto di mente e decisamente poco riservato,”
obiettò, con slancio.
“Al
Ministero, allora, come quando parlavi di…”
“Mi
ci vedi, tu, in politica?” lo contraddisse Ron, ironico.
George
sbuffò, grattandosi la fronte.
“Oh,
per Godric!” sbottò con accenti disperati. “Ce le hai ben le tue ambizioni, no?” esclamò
con enfasi. “Insomma, non vuoi niente, tu?” aggiunse, scettico.
Ron
fece una smorfia, allargando un po’ le braccia.
“Voglio
mettere su famiglia, essere un padre e avere dei figli da veder crescere,” affermò sicuro. “Il che non esclude il
negozio,” aggiunse piccato.
George
tacque, pensoso.
“Bello,” commentò piano.
“Perché,
invece tu cosa vuoi fare, scusa?” continuò Ron con una certa
apprensione.
George
chinò lo sguardo, assorto. Le labbra gli si piegarono involontariamente
verso il basso, mentre il viso si svuotava d’espressione.
“Io…niente,” borbottò, distante.
Rimasero
per qualche istante in silenzio, ciascuno perso nel fissare un diverso punto
del tavolo. Infine, non sopportando più quella cupa lontananza, Ron si
alzò in piedi, sbuffando.
“E’
tardi, dai, ne parliamo domani,” mormorò,
sbrigativo.
George
annuì, alzandosi mollemente. Lo seguì alla cassa
mentre pagava e poi all’esterno, nella via fredda e buia, senza
più parlare né dare alcun segno di essere presente. Fuori Ron si
strinse nel mantello, accennando un sorriso.
“Ti
accompagno a casa?” chiese, indeciso.
George
scrollò la testa. Poi prese un lungo respiro, e il fratello lo
guardò con aspettativa.
“Sai
di cosa ho voglia, io?” chiese, fissando i propri piedi.
Ron
deglutì a fatica, mentre il cuore gli accelerava in petto.
“Di
cosa?” sussurrò, stringendo i pugni.
George
aprì la bocca per rispondere, ma dovette ripensarci e la
richiuse scuotendo la testa, prima di allontanarsi leggermente.
“Niente.
A domani,” salutò, atono.
“George?”
lo trattenne Ron, con voce un po’ acuta. “Di cosa hai voglia, dai,
dimmelo,” insistette, controllandosi.
L’altro
sbuffò, senza guardarlo.
“Di
andare,” mormorò con voce soffocata.
Le
unghie di Ron si conficcarono nel palmo, tanto spasmodicamente serrava i pugni,
ma trovò comunque il modo di parlare.
“Andare
dove?”
George
chinò la testa, mentre il viso gli si distorceva e gli occhi diventavano
lucidi. Inspirò, tirando su col naso.
“Voglio
andare anch’io,” balbettò, con voce
rotta.
Ron
chiuse gli occhi, mentre George si copriva il viso con le mani. Strinse forte
le palpebre e cercò di respirare, ma non era facile, perché Fred,
per Godric, questa volta l’aveva fatta davvero grossa, e lui non sapeva
cosa fare.
“Cazzate,” ringhiò,
con rabbia improvvisa. “Stai dicendo cazzate.
Sei ubriaco e devi andartene a dormire, e ti accompagno io.”
E
non volle sentire ragioni, non se ne andò finché non lo vide a
letto. Soltanto a quel punto, finalmente, quando l’altro stava per
addormentarsi intontito dall’alcol, si smaterializzò a casa.
Era
tutto spento, ed Hermione probabilmente stava già dormendo. Non sapeva
se dispiacersi o esserne sollevato, perché non era dell’umore di
parlare. Si sentiva solo vuoto, stanco e amareggiato, e
quella stretta intorno al suo stomaco era sempre più violenta e
dolorosa. Si sedette sul divano, cercando di dominarla, ma rimaneva lì,
una catena di dolore e impotenza che lo soffocava. E scoppiò in
singhiozzi, lì seduto, senza nemmeno muoversi o sorreggersi il viso; cominciò
solo a piangere forte e lasciarsi scuotere dai singulti, perché era
semplicemente troppo da sopportare.
Mio fratello ha voglia di morire.