Gli Smog, e anche questa èfatta

di Alicegym
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parlate di voi ***
Capitolo 2: *** Fermatelo! ***
Capitolo 3: *** Dalla polizia ***
Capitolo 4: *** Elemosina ***
Capitolo 5: *** Provino ***
Capitolo 6: *** Londra e corsi di recupero ***
Capitolo 7: *** La prima volta che l'abbiamo visto... ***



Capitolo 1
*** Parlate di voi ***


Ero rinchiusa in quella stanzetta verde da poco più di dieci secondi e già mi sentivo in imbarazzo. Dovrei dirglielo che Leo soffre di claustrofobia? pensai, ma decisi di dirlo alla fine dell’intervista.

«Bene, Elìs. Parlaci degli altri componendi della band» mi disse il giornalista con la camicia grigia e una borsa nera accanto allo sgabello .
«Be’, cosa vuole sapere?» chiesi timidamente. Era strano fare un'intervista senza il resto del gruppo. «Non lo voglio saperlo io» disse divertito l’uomo sulla quarantina davanti a me. Sembrava una di quelle persone che odia il suo lavoro, e forse aveva ragione. A nessuno piacerebbe passare da intervistare Obama a fare stupide domande postate su Facebook a una sedicenne a un concorso internazionale di musica. «Lo vogliono sapere i tuoi fan». “Fan”. È una di quelle parole che non credevo mai che potesse essere abbinato a me.
«Allora» iniziai strofinandomi scherzosamente le mani, ma in verità era che non avevo la minima idea di che cosa dire.
«Inizia con Stivi» disse l’uomo incoraggiandomi a parlare.
«Ok» presi un respiro e iniziò il fiume di parole: «Stivi è l’ultimo dei componenti della band che ho conosciuto. Circa tre anni fa. Andava a scuola nello stesso liceo di Leo e frequentava i nostri stessi bar perciò capitava di vederlo, spesso con delle ragazze. Ricordo perfettamente la prima volta che mi rivolse la parola. Ero in mezzo ad una piazza  e stavo mandando un messaggio a mia madre. Quando ho rialzato la testa, ho visto i suoi occhi azzurri a pochissimi centimetri da i miei. Mi sono spaventai anche un po’» mi scappò un sorriso.
«Iniziammo a parlare e dopo nemmeno due minuti mi chiese di andare a prendere un gelato insieme, se non avevo niente da fare. Però quel giorno dovevo andare al cinema con Jack che arrivò proprio in quel momento. Capendo la situazione fece finta di essere il mio ragazzo e, in più, gelosissimo». E lì arrivò una vera e propria risata da parte mia. «Jack iniziò ad urlare e sbraitare. Credo di non aver mai più visto Sviti così spaventato. Dopo una breve scenata dove tutta la piazza si era messa a guardarci, io e Jack scoppiammo a ridere. Io caddi quasi a terra dalle risate. Stivi, capendo che Jack non era assolutamente il mio ragazzo, si mise a ridere pure lui e finimmo per andare al cinema tutti e tre insieme. Stivi è una di quelle persone che, a primo impatto, sembrano stupide e superficiali ma conoscendole meglio scopri che sono generose e disponibili. Rende le mie giornate più dolci e divertenti. Lui è uno dei motivi per qui sorrido la mattina. Se sono triste, lui non mi lascia sola. Se ho un problema, mi aiuta. Se ho bisogno di affetto, mi stritola con un abbraccio. È il mio migliore amico e so che lo rimarrà per sempre, qualsiasi cosa accada».
«Allora si può dire che è il tuo “preferito”?» disse l’intervistatore stupito.
Fui confusa dalla domanda, ed anche un po’ offesa. Se avevo dato questa espressione, voleva dire che mi ero fatta capire per niente.
«No, assolutamente no».
«Ma hai detto che Stivi è il tuo migliore amico».
«Sì, ma non vuol dire» intervenni.
«Se Stivi è il tuo migliore amico, vuol dire che Leo e Jack sono meno amici».
«No, no, no» dissi scuotendo la testa «sì, Stivi è il mio migliore amico ma, ad esempio, Leo è mio fratello».
L’uomo mi guardò dubbioso. «Non di sangue ovviamente» aggiunsi velocemente. «Ma è come se lo fosse».
Cercai le parole per giustificare questa frase.
«Leo è il fratello maggiore che non ho mai avuto. Lui mi ha sempre protetto e sempre lo farà. Una volta, mentre ero in acqua, mi venne un crampo al piede. Leo si tuffo per salvarmi e solo dopo si ricordò che non sapeva nuotare. Quando alla fine fui io a salvare lui mi disse che vedendomi in difficoltà avrebbe fatto di tutto, senza nemmeno pensarci» sorrisi dolcemente «e poi li detti uno schiaffo».
«Perché?» chiese l’uomo ridendo.
«Perché aveva rischiato la vita per me e sono convinta di non valere tanto».
«Hai così poca autostima di te stessa».
«Non è un fatto di autostima ma un dato di fatto» dissi timidamente.
«Ma tornando a Leo, lui è l’unico che mi capisce veramente. Spesso capisce le cose su di me prima lui, e poi io. Non credo, seriamente, che potrei affrontare una crisi o un problema senza di lui»
L’uomo mi sembrava quasi commosso. Sfogliò il blocchetto che aveva in mano «Chi è rimasto?».
«Jack»
«Sì, Jack. Si dice che ci sia qualcosa di tenero fra voi. È vero?».
«No, assolutamente no. Non c’è mai stato niente che ci si avvicinasse lontanamente, e mai ci sarà» Ormai mi ero abituata a domande del genere, specialmente su Jack e da persone che non sapevano veramente niente su di noi.
«Stivi è il mio migliore amico, Leo è mio fratello e Jack è me».
L’uomo era visibilmente confuso.
«Una cosa strana tra me e Jack è che abbiamo tutto, veramente tutto, in comune. Guasti, pensieri, regole e vizzi. TUTTO. È quasi come se avessimo lo stesso cervello. Quindi è come se fosse un duplicato di me, però al maschile. Lo conosco da 16 anni e non c’ho MAI litigato. “L’amore non è bello se non è litigarello”. Giusto? Quindi se non c’ho mai litigato vuol dire che non c’è amore. Va bene come spiegazione?» chiesi facendo “Il sorriso ammaliante” (soprannominato da Stivi in questo modo). Alla fine dell'intervista pensai che forse avevo parlato troppo poco di lui ma pensai che se inizio a raccontare di Jack non la smetto più. Ma alla fine è la persona più importante della mia vita. È quella persona che ho sempre conosciuto e avuto accanto. Ogni momento importante della mia esistenza ha avuto qualcosa a che fare con lui, in un modo o nell’altro. Comunque, andiamo avanti.
«Passiamo a te adesso» disse il giornalista, ed io iniziai a arrossire.
«A me?» dissi toccandomi il collo involontariamente. Leo aveva detto che lo facevo ogni volta che ero nervosa e appena me ne accorsi levai la mano.
«Sì, a te. Tutti ti chiamano “La stella italiana”». Abbassai la testa timidamente. «Sia perché sei eccezionale nel canto, e perché sei bellissima».
«E ci risiamo» dissi scocciata coprendomi involontariamente il petto con la mano destra e chiudendo le spalle. È un altro gesto che faccio sempre, però quando mi dicevano che ero bella, ma non evitai di farlo, non lo facevo mai tanto. Non era per niente la prima volta che mi dicevano di essere bella. Dopo che ero entrata nella pubertà era stata ricoperta di complimenti. Io, la bambina sempre esclusa, tranne ovviamente da Jack, veramente bruttina, ci misi moltissimo ad abituarmi a quel cambiamento.
«Che c’è?»
«è solo che è una di quelle cose che più persone me lo dicono, meno ci crederò»
«Cioè... tu non credi che tu sia bella?»
«Non è che non lo creda, ma penso che la gente spesso esageri. “Sei una stella, una fata” eccetera. Migliaia di ragazze sono belle quanto me, e altrettante lo sono molto più di me» lo dissi con un tono da “Caso chiuso”. Rimasi soddisfatta di me stessa. Era sincera. Spesso mi guardavo allo specchio e non capivo che ci vedessero i ragazzi in me. Sì non avevo nessun problema grave. Non un naso grande o un braccio mancante. Ma niente di che. Ero magra e di struttura piccola, lineamenti buoni e intensi occhi verdi smeraldo, dita lunghe e piedi minuscoli (che spesso mi facevano inciampare), pelle senza un minimo di acne e denti bianchi, bei capelli, labbra rosse e un “bel culo”. Capivo che queste caratteristiche posso piacere, ma non ero così speciale. Forse mi serviva solo una persona che me lo facesse capire.
«Molti fan chiedono da dove provenga la cicatrice che hai sulla fronte. Dicono che è l’unico difetto in un viso “semplicemente perfetto”» l’intervistatore mi chiese indicando il mio viso con il dietro della panna. Con un sorriso tra imbarazzo e dolore, mi sfiorai con le punta delle dita quel segno ormai permanente alla cute dei capelli, con una strizza allo stomaco. Odiavo quando mi facevano quella domanda. Cercai di coprire la cicatrice con i capelli, ma era impossibile, si vedeva bene. Per le esibizioni o spettacoli, Beatrice, una mia cara amica che sognava di diventare truccatrice, me la copriva ben bene con il fondotinta. Era l’unica che sapeva camuffarla ed io, con le mie mani inesperte, rinunciavo a coprirla, se non per avvenimenti veramente importanti, e un'intervista non era tra quelle. Pensai a cosa rispondere. Che cosa potevo dire? La verità? Non avrei mai avuto il coraggio. Non senza Jack intorno.
«Vorrei non rispondere alla domanda» dissi amaramente dopo qualche secondo di silenzio.
«Ci stai nascondendo qualcosa?» chiese malizioso l’uomo.
Non risposi. Certo che li stavo nascondendo qualcosa. Era ovvio. Non volevo rivelare così presto i problemi che avevo avuto l’ultimo anno di medie con uno stupido bullo che si era stranamente innamorato di me, e che ogni volta che rifiutavo i suoi inviti, i suoi baci, abbracci e carezze, mi minacciava, fino ad arrivare al giorno che non ce la fece più. La cosa “divertente” di tutta questa storia era che questo ragazzo, di solito, era davvero buono come il pane, perciò, quando dicevo ai professori quello che faceva, nessuno mi credeva, pensando che fosse solo un brutto modo per attrarre l’attenzione su di me. Si dovettero ricredere quando mi ritrovarono a terra, con un forte taglio sulla testa, con quello psicopatico in piedi sopra di me, con il pugno chiuso, che mi chiamava in malo modo, e pronto a darmi un altro colpo. L’unico a credermi era sempre stato Jack, ovviamente, che ogni volta che gli era possibile mi proteggeva, ma non sempre poteva stare con me. Il bullo fu espulso e non lo vidi mai più, forse scordandosi di me per sempre, e non avevo intenzione di rivederlo.
«Andiamo avanti per favore» dissi io schivando la domanda
«D’accordo» disse l’uomo capendo di dover cambiare discorso «Pensi che vincerete?»
«Non lo so. Senza dubbio lo vorrei tanto ma… penso che noi siamo tra i migliori ma penso anche che ci sia una precisa band che ci supera senza problemi in qualsiasi campo»
«Quale band?»
Esitai. «Vorrei non dirlo, va bene? Se poi vedendo questa intervista, magari si montano la testa».
«Ok, abbiamo finito» disse l’uomo. La luce rossa sopra la telecamera si spense e mi rilassai moltissimo.
Ringraziai il giornalista e uscì dalla stanza. Fuori vidi Fleur, Victoria, Jane e Polly. La parte femmine della band tedesca era già stata intervistata. Chissà perché hanno usato quest'ordine per le interviste individuali. Prima tutte le femmine e poi tutti i maschi.
Ma credo che sarebbe l’ora che vi spiegassi un po’ il motivo e il luogo dove ero, ma devo tornare indietro di qualche mese, all’inizio dell’estate.

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Capitolo 2
*** Fermatelo! ***


«Sai cosa ci faceva un sputo su un gradino?»
«No, che cosa?» dissi io distrattamente.
«Saliva» rispose Stivi ridacchiando.
Come solito io e Leo scoppiammo a ridere come scemi e Jack fece la solita risata da deficiente che esibiva ogni volta che Stivi diceva una di queste battute idiote. Eravamo appena entrati nella stazione di Firenze per prendere il treno che ci avrebbe riportato a Lucca, la nostra città. «Le stazioni mi affascinano» disse una volta Jack «Ci puoi trovare di tutto: da rocchettari venuti per il raduno della salsiccia in salamoia, alla egiziana in vacanza. Al barbone che cerca fortuna, al giovane che viene a trovare la ragazza lontana».
Eravamo a Firenze per registrare la nostra nuova canzone. No, sfortunatamente non abbiamo una vera carriera. Il padre di Leo è un super riccone e per il compleanno del figlio gli ha regalato un piccolo studio di registrazione. Una piccola cosa da 10 mila euro che comunque stava fruttato qualche soldo in più, come se ne avessero avuto bisogno. La nostra band “Gli Smog” probabilmente non sarebbe esistita nemmeno se Leo non avrebbe finanziato tutto: vestiti, strumenti, registrazione e regia. Non siamo famosi, assolutamente, ma abbiamo un discreto successo su internet, a mettere i video delle nostre canzone su You Tube.
Stivi, il chitarrista, scrive le melodie e io, Alice (pronunciato all’inglese, Elìs),la cantante, scrivo i testi. Leo suona la batteria e Jack praticamente tutti gli altri strumenti di cui abbiamo bisogno: basso, pianola, flauto, tromba e il violino. No, non tutti insieme ma è comunque un musicista eccezionale.
Quel giorno di fine maggio avevamo appena registrato una canzone semplice, d’amore, e non vedevamo l’ora di tornare a casa.
«Aspettate» dissi io fermandomi. Leo trascinava un grande borsone che conteneva la sua “Batteria portatile”, Stivi portava le due chitarre e Jack la pianola e la tromba. Io mi ero semplicemente accavallato la mia borsa da Mary Poppins e la cartella grande quanto il quanto libro di Harry Potter con dentro tutti i testi e gli spartiti delle nostre canzoni. Mi chinai per allacciarmi la scarpa delle Converse verdi e appoggia accanto a me la borsa. Senza nemmeno che me ne accorgessi, un uomo ben coperto da una felpa rossa, afferrò la sacca e corse via.
«NOOO!!!!» urlai con tutto il fiato che avevo e iniziai a rincorrerlo.
«FERMATELO!!!» continuavo ad urlare. I ragazzi corsero in mio aiuto ma, per non fare la stessa fine della borsa agli strumenti, il peso rallentava molto la loro velocità.
Non avevo idea che quel ladro ci stava per procurare la miglior possibilità di successo della mostra vita.
L’uomo uscì con tutta velocità della stazione e appena anch’io uscì era sparito nel nulla, come se non fosse mai esistito.
«Cazzo» dissi piano a tendi chiusi. «CAZZO!» dissi questa volta urlando incazzata rendendomi conto del problema che si era creato. I ragazzi mi raggiunsero con il fiatone e si unirono alle mie parolacce di ira e preoccupazione. Leo era un po’ indietro perché aveva ricuperato gli spartiti che per la fretta avevo lasciato a terra.
«C’erano dentro tutta la mia roba» dissi io quasi disperata.
«e il mio portafoglio» disse Jack
«e il mio» aggiunse Stivi
«e per non finire, anche i biglietti del treno»
Misi le mani tra i capelli per l’ansia, ed anche gli altri iniziarono ad essere visibilmente preoccupati. «Ok, andiamo a fare la denuncia, per cominciare, e poi adiamo a comprare dell’gli altri biglietti» disse Leo calmo cercando ci prendere il controllo della situazione.
«Con che soldi, scusa?» disse Stivi con tono sfacciato.
«Con questi?» rispose provocatorio Leo estraendo dalla tasca il portafoglio. «Dai andiamo» concluse.

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Capitolo 3
*** Dalla polizia ***


«Quindi vi è stato rubata la borsa» disse il poliziotto della stazione sfoderando una totale idiozia.
«Si! Quante volte le lo devo ripetere? L’avevo posata accanto a me e un ladro me l’ha presa». I ragazzi annuirono.
«D’accordo ma non si arrabbi». Una parte me voleva rispondere ma l’altra la fermò.
«Descrivi la borsa e il suo contenuto» disse iniziando a scrive molto lentamente sulla testiera del computer.
«La borsa è grande circa così» e azzardai con le mani la dimensione enorme «viola e con il teschio dello scheletro di Nightmare Before Chrismal sopra. Dentro c’è il libro “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi, un lucidalabbra, qualche penna, un pacchetto di gomme da masticare, tre portafogli…»
«Tre?» si stupì l’uomo
«Si, il mio e i loro» dissi indicando Stivi e Jack.
«Mi dite i vostri nomi e cognomi e l’età così, se trovo il bagaglio, controllo i documenti»
«Io sono Giancarlo Mancelli. 15 anni» disse Jack.
«Stivi Tempo. 17 anni» disse Stivi
«15 anni. Alice Stilloni». “Alice” mi ci chiamavano solo gli adulti. “Ali” gli adulti con cui avevo confidenza. “Elìs” i ragazzi e “Ice” solo Jack. Lui diceva sempre che “Ali”, come diminutivo, era troppo banale, perciò usava sempre la fine del mio nome: “Ice”. A volte, per prendermi in giro, Leo mi chiamava “Sott’olio”. Quando lo usava mi offendevo, fino a quando iniziò ad usarlo anche Stivi, e non mi sembrò più così brutto. “Elìs” era per così dire, il mio nome d’arte. Ogni volta che si parlava della band, io smettevo di essere Alice, Ali o Ice e diventavo Elìs. Sul palco, con la musica che si espandeva sempre più, diventavo un'altra persona. Stivi la chiamava “Il male dei riflettori”. Diceva che avevo una doppia personalità, che cambiava quando avevo il microfono in mano. Passavo dalla piccolina, timida e secchiona che aveva paura di tutto, alla bella ragazza con una voce incredibile, che sembrava potesse uccidere un leone, se avesse voluto.
«E te?» disse lo stolto poliziotto rivolto a Leo.
«Io cosa?»
«Mi dici il tuo nome per favore?» disse il poliziotto come se fosse ovvio.
«Io sono Leonardo Lebbardi di 14 anni e mezzo, ma credo che sia inutile dato che a me non hanno rubato il portafoglio»
«Ah, è vero» disse distrattamente l’uomo mentre Leo roteava gli occhi. Odiava dire il suo cognome perché…
«Lebbardi? Quel Lebbardi?». Appunto pensò Leo. «Sì, è mio padre». Tutti conoscevano il famoso Ignazio Lebbardi, l’irritato pluri miliardario che possedeva praticamente tutto in Toscana. Odiava suo padre, quasi quanto odiava essere paragonato a lui. Ogni volta che poteva rifiutava i suoi soldi e i suoi regali. La cosa che lo irritava di più era che il padre credeva di poter comprare il suo affetto. Ma si sa bene che scarpe e cd non fanno la felicità.
«Bene, se ritrovò la borsa, chiamerò il numero che questa bella signorina mi ha lasciato. Arrivederci» concluse il poliziotto invitandoci ad uscire e dirigendosi in un'altra stanza. A “bella signorina” feci un aria schifata che credo che i ragazzi videro, ma fecero finta di niente.
«Per fortuna avevamo tutti i cellulari in tasca» dissi io.
«Bene, andiamo a comprare i biglietti» disse Jack mentre ci avviavamo verso la biglietteria.
«Non credo» sentì dire Leo da dietro di noi. Mi girai e vidi che guardava preoccupato il contenuto del portafogli. Stivi andò da lui e ci urlò dentro «Ciao…ao…ao…ao» come se ci fosse l’eco.
«Perfetto» dissi io
«Sei milionario e non hai nemmeno 5 euro nel portafoglio? Come è possibile?» obbiettò Stivi picchiandolo sulla testa con il portafoglio.
Leo, anche un po’ arrabbiato gli disse: «Intanto, sai benissimo che è mio padre ad avere i soldi. E in più io ho pagato il pranzo, ecco perché non ho contanti»
Stivi accenno un scusa e si giustificò dicendo che era un po’ nervoso.
Io: «Ok, calmiamoci tutti. Ragioniamo: siamo qui, senza un soldo e senza che nessuno ci possa aiutare, perché sono tutti a Lucca»
«Grazie Ice, non ce n’eravamo accorti» scherzò come al solito Jack.
Io: «Bisogna trovare un modo per trovare un po’ di soldi»
Leo: «Sì, ma come?».
Attimo in cui tutti, in silenzio, cercavamo una soluzione.
«Io ho un idea» disse Stivi facendo il solito sorriso che fa ogni volta che ha una strana idea. Sinceramente, ho sempre paura quando fa quel preciso sorriso, anche se ne rimango sempre estasiata dalla bellezza.

 

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Capitolo 4
*** Elemosina ***


«Credi che funzionerà?» dissi io incerta.
«Elìs, con la tua voce potremmo guadagnare milioni, fidati» disse Leo, mentre montava la sua batteria.
«Ma dai!» dissi sorridendo imbarazzata «Bisogna guadagnare… quanto?»
«40 euro» disse Stivi indossando la chitarra.
«Entro le 16.15. È l’ultimo treno» aggiunse Jack porgendomi il microfono.
«Ma dai, ABBIAMO MENO DI TRE ORE». La mia voce risuonò per tutta la stazione e la gente ci guardò. Senza accorgemene, Stivi aveva acceso l’amplificatore portatile del microfono che avevo in mano.
Eravamo di nuovo a chiedere l’elemosina, come all’inizi della band. Per vedere se le nostre canzoni piacevano e per farci conoscere un minimo, cantavamo nelle piazze più visitate della nostra città e chiedevano un soldo o due se ne avevano in tasca. I soldi che guadagnavamo li spendevano subito in attrezzatura per la musica. Cantavamo in grandi vie e piazze, ma era la prima volta in una stazione, che in più conoscevamo veramente poco. Stavolta però dovevamo guadagnare un bel po’ e anche per un motivo importante: tornare a casa.
Con delle monete trovate nelle tasche, abbiamo comprato in cartoleria un grande cartoncino giallo e un pennarello nero. Con la mia bella grafia ci scrissi sopra: “GLI SMOG: siamo un band a cui sono stati rubati i soldi e cantiamo per tornare a casa”.
«Speriamo che attiri gente o che almeno gli impietosisca» disse Jack sistemandolo in bella vista.
«Buongiorno» dissi timidamente al microfono «Come potete vedere, siamo una band di nome “Gli Smog” che sperano tanto in un vostro aiuto. Ci servono 40 euro e quello che avanza dal comprare i biglietti del treno per tornare a casa, andrà ai barboni dalla stazione» aggiunsi con un sorriso. «Tranne i soldi per una bottiglietta d’acqua» obbiettò Stivi «Ho già sete». Io lo fulmini con gli occhi e mi rivolsi di nuovo al pubblico praticamente inesistente. «Ok, spero che vi piaccia».
Stivi iniziò a strimpellare qualche accordo e dopo l’attacco di Leo e Jack, iniziai a cantare.
Suonammo praticamente tutto il nostro repertorio. Molte bambine venivano da me per ballare e io le prendevo le piccole manine ballavo con loro. Alcune signore notarono la tranquillità di Jack a suonare la pianola, anche nei momenti apparentemente più complicati. Molti ragazzi sulla trentina guardarono sbalorditi l’incredibile talento di Leo alla batteria che si scatenava in ogni momento e faceva restare ad occhi aperti ad ogni singolo assolo. Stivi, grazie ai suoi capelli rosso fuoco e a quegli occhi color cielo, attirava tutte le ragazzine, ammaliate dalla sua bellezza e dalla sua aria rocchettara.
Ogni canzone, scritta da noi o di altri musicista, era stata cantata quel giorno. Io con il mio passato da ginnasta artistica e ritmica (carriera sportiva, che avrebbe potuto portare in alto, dovuta abbandonare per un soffio al cuore) sfoderai ogni tipo di acrobazia in quel pavimento sudicio per attirare il pubblico: verticali, capriole, rovesciate e spaccate.
Un cosa che piaceva sempre a tutti, in una precisa canzone, era tirare in aria il microfono, fare una rovesciata indietro e riprenderlo e ricominciare a cantare.
Un uomo in particolare, vestito bene in giacca e cravatta, con un corto taglio ai capelli scuri, continuava a fissarci senza però mai accennare ad un sorriso. Aveva un aria incredibilmente familiare ma ci feci poco caso, ero troppo impegnata a fare acuti che mi toglievano il fiato.

Erano passate circa due ore e il treno sarebbe partito da lì a 45 minuti. Avevamo guadagnato circa 25 euro tutte in monetine da 20 centesimi.
«Ma quanto è tirchia la gente?» chiese Leo sbalordito.
«Leo, non tutti possono dare la sua paghetta in beneficenza. La gente, spesso, deve pagare l’affitto» dissi al batterista, che per lui avere i soldi era quasi una banalità.
«Si, va bene, però….» disse indicando il capello pieno di monentine.
«Ho un idea» disse (di nuovo) Stivi guardandomi.
«Un'altra?» dissi io «Bhè, la prima era buona, ma se questa è pervertita, ti dico subito: io NON mi prostituisco!».
«No, No» rise lui. Svuotò il cappello, mi prese per un braccio e mi portò più possibile in mezzo alla gente.
«Un momento di attenzione» disse «Adesso facciamo un gioco»
«Ho paura» dissi io con un sorriso tra divertimento e terrore.
«Lei è Elìs ed è un incredibile cantante. Ora inizierà a cantare una nota e la terrà per tutto il tempo per cui che ci impiegherete, voi pubblico, a mettere 7 euro in questo cappello» indicò il suo stesso berretto rosso della Nice «Cioè lei canterà senza prendere fiato, io farò passare il berretto, voi ci metterete più monete possibili e lei si fermerà quando arriviamo a 7 euro»
Guardai contrariata il chitarrista.
«7 euro?» dissi «Non c’è la farò mai»
«Si, hai ragione» disse parlando con me ma guardando la gente «10 euro allora».
«Cosa? Oh, no no no» dissi iniziando ad andarmene. Lui mi prese per i fianchi e mi sussurrò nell’orecchio: «vuoi tornare a casa o no?».
Aveva vinto.
«Ok. Iniziamo» mi arresi io.
Stivi: «Pronti. Attenti. Via»
Io iniziai a tenere una nota alla mia portata ma, dopo pochi secondi, vedendo che la gente con osava muovere un muscolo, la alzai leggermente. Le persone iniziarono a mettere qualche moneta.
«Solo 4 euro e mezzo? Possiamo fare di meglio, vero?». Stivi mi fece cenno i alzare il tono. Io lo guardai obbietta ma lui continuò a farmi quel gesto con la mano. Feci una delle note più alte che potevo fare, da staccarsi le orecchie. Pensate che dava noia persino a me. Stivi continuava ad urlare come funzionava il gioco, anche in inglese per i turisti, e ogni tanto diceva la quantità di denaro dentro il cappello.
«8 e mezzo. Dai, ci siamo quasi» disse esultate girando ancora per la gente. Io non ce la facevo più, le corde vocali mi si stavano per spaccare.
Vidi che Stivi offrì il cappello all’uomo in cravatta che, con gli occhi rivolti a me, prese il portafoglio, estrasse una banconota gialla e la mise nel cappello.
Io mi fermai subito e molta gente applaudì entusiasta. Ero esterrefatta, come Stivi, Leo e Jack. Tutti Gli Smog si avvicinarono al signore. Non ebbi nemmeno il tempo di dire “Grazie” che Jack esclamò: «Ma lei è Niall Stayes ! Il Menager inglese» risolvendo per me il dilemma.
L’inglese fece un cenno con la mano, riconoscendo il suo nome, ma per il resto era completamente perso. Si vedeva che le uniche parole che sapeva in italiano erano Pizza, Mafia e Berlusconi.
«Faccio io ok?» disse Stivi rivolto a noi.
«My friend asks if you are the British producer Niall Stayes»
«Oh, yes, I am and I was amazed by her incredible singing talent» disse l’uomo con un perfetto inglese indicandomi. “Sono rimasto stupito dal suo incredibile talento nel canto”. Uno dei sorrisi più larghi che abbia mai fatto mi si stampò in faccia. Uno dei produttori più famosi e importanti dell’Inghilterra, mi aveva notato. Non riuscivo a crederci.
«Do you… do you like my voice?» dissi balbettando il minimo di inglese che sapevo. L’uomo iniziò a parlare in inglese e molto, molto velocemente. Stivi, essendo nato in Irlanda, capiva e parlava perfettamente inglese. Parlò con lui per qualche minuto e capivo solo qualche parola: Italia, mesi, estate, band, Gli Smog e Londra. La faccia di Stivi era emozionata ogni parola che Niall diceva.
Dopo un po’ che i due parlavano, io strattonai la maglia di Stivi chiedendo cosa stesse dicendo, come se fossi una bambina all'estero. Senza togliere gli occhi dall’uomo che dirigeva lo sguardo su ognuno di noi, Stivi disse: «Ha detto sta girando l’Italia da più di un mese alla ricerca di una buona band italiana sconosciuta. Credeva di averla trovata, in Puglia, ma dice che noi siamo molto meglio»
«Perché cerca una band italiana?» chiese eccitato Leo.
«Per un concorso inter-nazio-nale». L’irlandese dissi l’ultima parola dividendo bene ogni parte, cose se nemmeno lui ci credesse.
«Oh-mio-Dio» dissi io coprendomi la bocca con le mani, dividendo le parole nello stesso modo in cui aveva fatto Stivi qualche secondo prima.
Niall, capendo il mio stupore, ricominciò a parlare per poi allontanarsi, attaccandosi al cellulare. Stivi si girò verso si noi.
«Sta parlando con un suo collega per vedere se potessimo avere un futuro» disse Stivi con 32 denti ben in vista. Niall continua a parlare e noi non gli toglievamo gli occhi di dosso. Appena l’uomo si girò, però, noi facemmo finta di niente. Tornò da noi, più precisamente, da me.
«Sing» mi disse porgendomi il cellulare.
«Ti dice di cantare» mi sussurrò Stivi.
«Lo so, idiota» dissi io al chitarrista «Ma cosa?»
«Anything» rispose lui con un espressione, forse, felice. Cercai aiuto con lo sguardo ai miei migliori amici che mi invogliavano ad iniziare. Guardai dubbiosa il cellulare e improvvisai un vocalizzo soave, il più dolce e perfetto che sapevo fare. Era una parte di una canzone di cui non mi ricordavo il titolo, era semplicemente la prima melodia che mi venne in mente.
Dopo un po’ di sali e scendi della voce, Niall mi disse di fermarmi con la mano. Riportò il cellulare all’orecchio e disse qualcosa in inglese che poteva significare: “Allora? Ti piace?”. Sapevo di essere andata bene e di avere le guance in fiamme per l’emozione. Il produttore, dopo qualche altri discorsi per me incomprensibili, attaccò il telefono e ricominciò a parlare con Stivi. Dopo un po’ di chiacchere Stivi fece sì con la testa e tornò verso gli strumenti. Prese la chitarra e se la mise a tracolla.
«Sbrigatevi. Leo, vai al tuo posto. Jack, pure. E, Elìs, sciogliti i capelli» disse Stivi deciso.
«Che succede?» chiese Leo strofinando nelle mani le bacchette. Io obbedì e tolsi l’elastico, coprendo completamente la schiena di capelli castani con le punte verdi.
«È un’audizione! Ci filmerà e lo farà vedere al suo collega. Se gli piaceremo, potremmo andare a un importantissimo concorso canoro»
«Can you give us a moment?» disse rivolto a Niall che annui.
Gli Smog si riunirono intorno alla batteria.
Stivi: «Allora… Che suoniamo?»
Leo: «Non lo so»
Io: «Qualcosa che faccia sentire il vostro talento nel suonare, perché la mia voce l’ha sentita»
Jack: «Sì,ma qualcosa di movimentato che ti prenda»
Leo: «Sì»
Jack: «Far vedere come ti muovi»
Stivi: «e qualcosa che ci diverta per far vedere che siamo uniti come band»
Leo: «Allora cosa?»
Io: «Che ne dite di “Dammi una lametta”»
Stivi: «Ma è un po’ triste»
Io: «Ma non capisce l’Italiano ed è una bella canzone»
Jack: «E ci posso suonare la tromba che fa sempre impressione»
Leo e Jack all’unisono: «D’accordo».
Impugnai il microfono. Niall si mise proprio davanti a me e accese la piccola videocamera argento. Io presi un profondo respiro e sentì Leo che batteva le bacchette per iniziare la musica.

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Capitolo 5
*** Provino ***


Mi scuo del fatto che questo capitolo abbia tante divisioni ma mi è venuto così :P Prometto che i prossimi saranno più continuativi... be' buona lettura :)


La base partì e la melodia ritmata invase la stazione, facendomi scuotere le budella. Senza che io le potessi controllare le gambe si mossero a tempo di musica. La mia testa era bassa ad ascoltare il mio momento che appena arrivò, esplosi.
La canzone non era nostra, vecchia e obsoleta ma credo che non ci fosse una traccia più adatta a questo scopo. Dopo circa 20 secondi mi scordai completamente della videocamera e del motivo per qui stavo cantando: poter diventare famosi, il sogno degli Smog. In verità era il sogno di Stivi, non il mio. Ma non lo stavo facendo per me. Lo facevo per loro. Il mio sogno era dimostrare tutto il mio talento e la mia passione nello stare su un parlo, facendo infiammare la gente. Ed in un certo senso lo stavo facendo.
Sorridevo e ridevo, mi scatenavo come non avevo mai fatto prima. La canzone terminò con un assolo di Leo e con un mio salto acrobatico che non facevo mai, per paura che mi facessi male. Inutile dire che non mi feci niente e in più venne molto bene. Grazie adrenalina pensai mentre atterravo.
Tutti intorno a noi applaudirono e urlarono complimenti. Il mio petto andava su e giù e non sembrava intento a fermarsi. Niall, soddisfatto, spense la piccola telecamera.
 
Tutti noi ci catapultammo verso Niall intendi a sapere che ne pensava. Il piccolissimo sorriso che si era formato sulla sua faccia alla fine della canzone era sparito e ricominciò a parlare freddo con Stivi. Il ragazzo fece sì con la testa, si guardò intorno e andò a prendere il cartello giallo su cui avevamo scritto il motivo per cui cantavamo. Noi li andammo intorno e vedemmo che scriveva: “Gli Smog. Stivi:” e poi il suo numero di cellulare. Poi mise il mio nome e il mio numero. Diceva che a forze di chiamarmi perché ero in ritardo per le prove, lo aveva imparato a memoria. Poi dette il pennarello a Jack e poi a Leo che scrissero i loro rispettivi numeri con le mani tremanti. Finito tutto, in completo silenzio, Stivi strappò quel che c’è n’era bisogno e ritornò dal produttore. Niall prese il cartoncino, lo piegò e lo mise in tasca.
«I will call you to give you information. Goodbye» ci disse per poi dirigersi verso un treno in partenza per l’aeroporto. La cosa che in quel momento mi spaventava di più era non rivederlo.
 
3…2…1…«AAAAH» urlai io.
Per tutto il tempo in cui era presente il produttore avevo evitato di gridare, per non sembrare una pazza, ma nel momento in cui non poteva vederci, iniziai a saltare su e giù dalla felicità.
Un controllore mi fece segno di fare silenzio perché stavo spaventato dei bambini. Stivi, che non sembrava intenzionato ad ascoltare il bigliettaio, mi prese in braccio facendomi roteare in aria.
«Sei stata eccezionale» urlò anche lui.
«Sì è vero. Non ti avevo mai vista così scatenata» disse Jack felice.
«E bella» aggiunse Stivi dopo avermi rimessa a terra. Io mi coprì il petto con la mano e abbozzai un grazie.
«Credete che gli siamo piaciuti? Non sembrava molto felice quando se né andato» chiese Leo
«Certo che gli siamo piaciuti! Con dei musicisti del genere» dissi io felice.
«Ma è solo merito tuo splendore» disse Stivi abbracciandomi da dietro e dandomi una bacio sulla guancia. Io non smettevo di sorridere. Jack fornì il solito colpo di tosse che faceva ogni volta che io e Stivi facevamo troppo i teneri o sembravamo fidanzati. Il chitarrista si staccò un po’ da me, ma tenendo comunque le braccia intorno ai miei fianchi.
«Il treno per Lucca partirà fra 10 minuti» sentimmo forte all’audio parlante, come se ci richiamasse.
Dopo aver guardato l’orologio Leo disse: «È vero. Voi mettete a posto, io vado a comprare i biglietti» prendendo il cappello con dentro i soldi.
«Non ci riesco ancora a credere» disse Jack divertito. Il batterista corse via e noi mettemmo a posto l’attrezzatura.
Dopo qualche minuto tornò e vedemmo dietro di Lui un, probabilmente africano, nero che indossava solo stracci saltare chiamando con gioia i suoi amici.
Leo, che si girò un momento ridendo, arrivò da noi e disse: «Lo so, dovevano essere barboni ma sono ugualmente poveri e almeno mi hanno dato in cambio questi». Ci mostrò quattro braccialetti di quattro colori differenti. Erano in stile africano, semplici ma veramente belli.
«Uno ciascuno. Per non dimenticare questo giorno» disse Leo.
«E chi se lo scorda» dissi io, prendendo il braccialetto del mio colore preferito: rosso.

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Capitolo 6
*** Londra e corsi di recupero ***


Stivi mi accarezzava dolcemente i capelli, seduto accanto, senza svegliarmi. La chioma castana con le punte dipinte di mille colori gli cadeva sul petto mentre dormivo pesantemente sulla sua spalla.
Era veramente strano il colore dei miei capelli e mi procurava spesso domande dagli sconosciuti e rispondevo sempre la stessa cosa: «Quando ero bambina, in un estate, ho partecipato a una di quelle estrazioni di paese dove il primo premio era un auto d’epoca» rispondevo ma loro, dubbiosi, mi richiedevano: «E allora?»
«Ho vinto il secondo premio: un abbonamento a vita dalla parrucchiera».
In tutti quegl’anni avevo utilizzato bene quel buono. Mi ero assolutamente torturata i capelli, rendendoli di ogni forma, taglio e colore immaginabile. Passavo tranquillamente dalla lunghissima treccia verde erba, al caschetto biondo. A volte mi tenevo una pettinatura anche solo per un solo giorno. Me li facevo fare e poi, la mattina dopo, mi guardavo allo specchio e non mi piacevo più. «Quando una donna vuole cambiare, inizia dai capelli» diceva sempre mia madre, anche se chiamarmi donna alla sola età di 8 anni, era un po’ strano. Dopo un paio di anni tutti quanti si erano scordati il mio colore naturale. Se non fosse stato per le foto di quando ero piccola me lo sarei scordato pure io. All’età di 10 anni rimasi per molto con un capelli neri corti ma già a 12 me li feci allungare e li feci diventare color grano. Poi, circa un anno dopo, decisi che dovevo smettere di cambiare per avere finalmente un aspetto… definitivo. Essendo passata per tutti i look della storia ero abbastanza sicura su quello che volevo e che mi stava bene. Li feci rimanere lunghissimi, a tre quarti della schiena, boccolosi e color cioccolato, colore abbastanza vicino a quello naturale. In seguito, essendomi rimasta comunque la fissazione dei capelli stani, li tinsi, ma solo gli ultimi dieci centimetri dei capelli, ogni ciocca di un colore diverso. Giallo, rosso, verde, blu e così via. La fine dei miei capelli era stravagante, lo sapevo bene, ma solo in quel modo, di mille colori (taglio chiamato “Mille gusti più uno”) mi sentivo veramente me stessa.
«Elìs? Elìs! Svegliati. Mi si è addormentato il braccio» mi strattono dolcemente Stivi.
«Te ne compro un altro. Adesso fammi dormire» boffonchiai io senza aprire gli occhi e sistemandomi meglio sul suo bicipite. Sentì una risata. Molto familiare. Avevo ancora le cuffie nelle orecchie, spente. Appena mi ero addormentata, Stivi aveva preso I-pod e aveva fermato una canzone di Caparezza.
«Ma siamo arrivati» mi disse dolce nell’orecchio. Io, a quelle tre parole, spalancai gli occhi e guardai attraverso il piccolo finestrino dell’aereo.
«Londra, eccoci!» dissi sussurrando.
 
«Ragazzi, dovete scendere» ci disse una hostess.
«Scusi, ma qualcuno non voleva svegliare una ragazza» disse Jack provocatorio guardando Stivi, imbarazzato, che si era alzato in piedi per prendere il mio bagaglio a mano dal ripiano in alto.
«Ma, no. È stato molto dolce» intervenne una sua collega non staccando gli occhi da Stivi, incantata dal suo fascino, come tante altre.
Mi alzai assonnata ma felice fino al midollo.
Mi diressi verso l’uscita ma Jack mi fece segno di fermarmi e guardare dietro di lui. Vidi l’hostess, che teneva enormemente il petto in fuori, come se volesse risaltare già la quarta abbondante di seno, porgere un bigliettino a Stivi, che lo accettò con sorriso malizioso e scendendo dall’aereo. Non era la prima volta che Stivi riusciva ad avere il numero di una bella ragazza, o di una giovane donna, come in quel caso, non facendo assolutamente niente, se non mostrando il suo corpo. Jack cercava di contarli, ma a volte, anche dopo un solo giorno, perdeva il conto.
Scendemmo per le scalette d’aereo sperando di ripercorrerle più in là nel tempo possibile. Un vento leggero mi invase i capelli. L’estate stava ormai finendo, si sentiva, ed erano passati mesi dalla fatidica chiamata.
 
*circa tre mesi prima*
Una cosa che avevo sempre adorato di Leo, era la possibilità di fare un minimo di cose femminili con lui. Da sempre avevo preferito i maschi dalle femmine, come amici. Non pensiate che sia dell’altra sponda, assolutamente, ho le mie amiche femmine ma il rapporto che ho con loro è molto diverso. È difficile da spiegare, ma ho sempre trovato più facile con i maschi. Loro non si offendono facilmente e non ti ripetono mille volte “Quant’è carino quel ragazzo”. No, i ragazzi, sono diversi. Se a loro piace una ragazza, ci provano direttamente con lei, senza farsi troppe giramenti di testa. Perciò, per questi motivi, mi ero allontanata sempre di più dalle mie amicizie femminili per concentrarmi sui quei tre rincitrulliti che adoravo con tutto il cuore. E comunque la mia amica c’è l’avevo. Era Leo. Magari non potevamo parlare dei dolori mestruali o depilazione, ma con lui potevo sedermi su un divano a mangiare chili di gelato alla fragola, e parlare del ragazzo che mi aveva appena spezzato il cuore, oppure passare un ora a decide che vestito mettermi per una festa. Sì, con lui lo potevo fare, e questo mi rendeva veramente felice.
Quel pomeriggio ero, insieme a lui, sul suo divano enorme a vederci un film strappalacrime, con i fazzolettini in mano.
«Come potete vedere cose del genere?» ci chiese schifato Stivi dando uno sguardo al film per poi tornare a chattare su facebook con cinque ragazze contemporaneamente, come al solito. Eravamo nella nostra “Sala della musica”. Appena saputa la storia della band, il padre di Leo, svuotò una delle innumerevoli stanze d’archivio della casa e ci creò un salotto insonorizzato tutto per noi. Era meraviglioso! Una batteria era in mezzo alla stanza, insieme a più di una chitarra e con una miriade di altri strumenti di ogni tipo. Dei vecchi vinili decoravano le pareti colorate, e molte note nere erano sul soffitto. Un enorme divano rosso, perfetto per la stanza, era davanti a un altrettanto enorme televisore che veniva acceso non molto spesso. Oltre a essere la nostra stanza per fare le prove, diventò il nostro rifugio, la nostra tana, dove potevamo fare di tutto. Un luogo tutto nostro. Credo che quello fu uno dei pochi regali di suo padre che Leo fu veramente felice di ricevere.
«Da Elìs me lo potevo aspettare ma da te, Leo, NO!» disse il chitarrista vedendo tutti e due con le lacrime agli’occhi.
Leo alzò le spalle e io risi, ritornando a guardare la fine del film. Jack era a scuola ai corsi di ricupero. Quell’idiota aveva insultato la professoressa d’arte avendo come premio un bel rimando in quella materia, anche se aveva un bellissimo sette. I titoli di coda iniziarono a scendere e Leo si alzò per togliere il film affittato. Mentre discutevo del film con lui, sentì una musica rock invadere la stanza. Era un sequenza senza senso di accordi di chitarra che conoscevo fin troppo bene. Quell’egocentrico di Stivi l’aveva registrata apposta per la suoneria del cellulare. Il suo Samsug abbastanza scrauso era accanto a me e lessi ad alta voce la scritta sul display: “numero sconosciuto”.
«Passa» mi disse venendo verso di noi. Io gli lancia il telefono centrando perfettamente la sua mano (come al solito).
«Pronto» disse sedendosi accanto a me e ficcandosi in bocca un biscotto al cioccolato che una delle domestiche ci aveva fatto. Fu un grave errore dato che lo sputò nemmeno un secondo dopo. Io, stupita, stavo per dirli qualcosa, ma mi fermai quando lo vidi alzarsi di scatto e pulirsi la bocca con la mano, come se dovesse essere bello solo per una telefonata. Iniziavo a preoccuparmi.
«Yes, Yes, Mr. STAYES». L’ultima parola la urlò con lo sguardo rivolto a noi, per farci capire chi era al telefono. Non avevamo avuto più notizie da lui da un mese, e a quel punto avevamo perso le speranze, pensando che avesse già scelto qualcun altro. Invece no, era lì, dall’altra parte di quel telefono, a parlare in inglese con Stivi. La felicità invase il mio corpo, ma questa bella emozione fu subito sostituita dall’ansia, perché poteva tranquillamente aver chiamato per dare brutte notizie.
«Yes, I’m fine, I’m sorry. Tell, tell as well» (Sì, sto bene, mi scusi. Dica, dica tutto) disse lui mentre io e Leo lo guardavamo. C’era silenzio. Solo silenzio. Non avevo mai visto Stivi così attento in una conversazione.
«Really?» (Veramente?) disse. Improvvisamente un sorriso arrivò sul suo viso e fece un salto stringendo in un pugno la mano libero. Io e Leo li andammo incontro chiedendo cosa fosse successo senza però avere risposta. Stivi ci guardò e disse velocemente in inglese, che feci fatica a capire: «Wait, Wait a moment. I say to other guys, who are here before me. Only a moment and back right with you» (Aspetti, Aspetti un momento. Lo dico agl’altri della band, che sono qui davanti a me. solo un momento e sono subito da lei).
Stivi si fermò, si girò verso di noi e con fare incredulo ci disse: «Ci ha scelti. Ci ha scelti in tutta Italia. Andiamo a Londra». Il mio sorriso si allargò fino a farmi male hai muscoli della faccia. Ci fu un attimo di silenzio in cui tutti e tre non ci credevamo e poi… Leo iniziò a saltare per tutta la stanza. Io, che ci misi qualche secondo in più per rendermi conto di quanto mi avessero appena detto, mi misi a saltare anch’io appena mi sbloccai, insieme a Leo. Stivi riportò il telefono all’orecchio e ci disse di fare silenzio.
Parlò ancora un po’ con Niall e poi attaccò. Io gli corsi in collo abbracciandolo dalla felicità.
Iniziammo a cantare a cappella “Dammi una lametta”, più felici che mai.
«Chiamiamo Jack» disse Leo interrompendo la canzone.
«Hai ragione» li dissi, prendendo il cellulare dalla tasca e digitando il 2 come chiamata rapida (l’uno era mia madre, il 3 Leo, il 4 Stivi e il 5, Dotothy, la parrucchiera). Il cellulare squillò a lungo ma non rispose nessuno.
«È in classe» disse Stivi. Dalla foga di chiamarlo ci scordammo che era a scuola. Senza nemmeno pensarci corremmo al liceo che io e Jack frequentavamo nella stessa classe e irrompemmo nell’aula senza nemmeno pensarci. Io, incorniciata nella mia solita timidezza, sarei rimasta sulla sogna, o forse non sarei nemmeno entrata, ma la felicità mi aveva portato anche molta sfacciataggine. Jack che fu sorpreso dalla nostra entrata, scattò in piedi appena Stivi gli spiegò in due parole quello che era successo. Prese la borsa, ci schiaffò in malo modo gli oggetti che erano sul banco e andò davanti alla cattedra. Il ragazzo mise la mani davanti alla giovane professoressa. Sembrava che le stesse per dare un pugno, cosa che io temevo, per questo andai da lui e gli impugnai il braccio per farli capire che non era il caso. Invece non alzò un muscolo. Disse solo: «Professoressa, in questi solo due anni di liceo, dove lei mi ci ha “insegnato” l’arte, io ho odiato la sua materia più di ogni altra. Poi ho capito che non era la materia ma solo lei. Lei, acida, bacchettona, che crede di poter comandare tutti solo perché è dietro della scrivania. In questo modo si fa solo odiare e non ha possibilità che la gente l’ascolti durante quelle pallosissime ore piene di isteria e noia. Direi che dovrebbe smetterla. Sgridarci di meno e scopare di più». A quelle parole la professoressa si alzò in piedi, sbattendo le mani e richiamando con un urlo il silenzio della classe che rideva. Stava per dire qualcosa a Jack ma lui la bloccò subito e aggiunse: «Ah, un ultima cosa» le prese il viso con le mani e la baciò. Quel semplice bacio a stampo fu raccontato per moltissimi anni. Pur essendo l’insegnate probabilmente, più cattiva e crudele sulla faccia della terra era comunque un bellissima donna di 30’anni con un seno e culo mozzafiato che non faticava a nascondere. Jack ci sbavava dietro dalla prima lezione di storia dell’arte. Dopo quel gesto avventato, prima che la professoressa gli rigirasse uno schiaffo, portammo via il nostro amico, tra le risate e gli applausi di quelli che erano i nostri, ormai vecchi, compagni di classe.
 
In seguito Stivi ci disse tutto, quasi parola per parola, di cosa gli avesse detto Niall al telefono. Ci spiegò che eravamo stati scelti per rappresentare l’Italia all’ Europe Talen Band. L’ETB era un nuovo e praticamente sconosciuto, Talent Show inglese che sfidava cinque band avversarie, provenienti da cinque paesi differenti.
«È uno dei Talent Show più strani che abbia mai sentito» dissi io un giorno.
 

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Capitolo 7
*** La prima volta che l'abbiamo visto... ***


Delle cose MOLTO importanti:
1. uno mi dispiace che sia così corto ma devo finire di leggere le parti dopo (se no chissà quante errori di grammatica e inconguenze faccio nel racconto).
2. Vi avvertoI che tutta la storia è molto lunga. Su word mi è venuta 165 pagine e non l'ho ancora finita. "Uomo avvisato mezzo salvato". Andando avanti capirete perchè è così lunga.
3. Le frasi in
viola vuole dire che è in inglese! Ricordatevelo per il furuto, utilizzerò questo metodo in continuazione
4. Se riconoscete una delle canzoni (cosa che succederà sicuramente perchè molto famosa) che sono nel racconto ma i cantanti non sono giusti, ignoratelo e andate avanti. Face finta che sia come nel racconto. Ho dovuto fare questo perchè sono brava a scrivere storie ma non canzoni di sana pianta, per giuta in inglese... Se è presente nel pubblico qualche fan accanita di quell determinata band o cantante, scusate


«Voglio la colazione tipica» piagnucolò Jack mentre andavamo a prendere i nostri bagagli. Guardai il cielo coperto dalle nuvole.
«Quella è l’Irlanda, idiota» gli disse ridendo Leo.
«Siamo a Londra!» esclamai io, incantata, facendo una giravolta su me stessa mentre camminavamo, facendo roteare la borsa.
«Attenta a non colpirmi » mi disse Maurizio.
«Scusa Mau» mi scusai io con il ventitreenne fratello di Stivi, unico membro delle nostre famiglie a cui avevamo dato il permesso di accompagnarci. Un maggiorenne doveva venire con noi, perché eravamo tutti minorenni. Mau era molto diverso da suo fratello. Stivi era quel tipo di ragazzo che piace a tutte le ragazze, tiene molto al suo aspetto, è sempre solare e parla molto volentieri e senza problemi. Maurizio invece lo avevo sempre visto suoi libri e sempre timoroso su cosa dire. Non sembrava gli importasse particolarmente delle ragazze, e meno che mai di quello che la gente pensava di lui. Forse per questo si era tagliato i capelli rossi con un taglio piatto, fatti con una livella secondo me. Il giorno in cui lo conobbi, quando andai per la prima volta a casa Tempo, credevo che fosse un capo militare venuto a prendere Stivi in anticipo. Quando mi informarono che faceva parte della famiglia, ne fui felicemente sorpresa, contenta che non mi avessero portato via il mio migliore amico.
Quando riunimmo tutti i nostri genitori per dare la notizia dell’“ingaggio”, Mau si alzò in piedi dicendo convinto che ci sarebbe andato lui. Adoravo Mau e lo rispettavo molto. Ci avrebbe accompagnato fino agli studi, e poi sarebbe tornato in Italia.
Londra, per più di due mesi, solo con le tre persone che adoravo di più al mondo. Non credo che potesse succedermi cosa migliore.
Andammo al rullo dei bagagli dove prendemmo le quattro tonnellate di roba che ci eravamo portati. Ovviamente io, come brava ragazza, credo di essermi portata veramente tutto l’armadio, dopo aver fatto shopping per tutta l’estate, comprando vestito di ogni tipo e forma. Stivi, appena la vide, prese Giuliana da sopra il rullo. No, non immaginatevi una ragazza legata. Giuliana è solo lo strano nome che aveva dato alla propria chitarra preferita. Jack si era portato dietro tutte le trombe, l’armonica, che era ben custodita nella sua tasca, la chitarra e il suo basso di nome Lisa. In poche parole ognuno di noi, uscendo dall’aeroporto, portava un carrello pieno di roba.
Mi guardai intorno, mentre una leggerissima pioggia mi copriva la vista, alla ricerca dell’uomo che ci avrebbe accompagnato agli studi. Non sapevo nemmeno bene avremmo alloggiato, il sito del programma non era un gran che. Dopo un po’ che guardavo a destra e a sinistra, vidi un giovane ragazzo biondo, vestito in una strana divisa verde e un ombrello dello stesso colore, che mi guardava incessantemente. La cosa però che guardavo sbalordita era la bianca Limosine che era parcheggiata proprio dietro di lui. Possibile che Niall, o chiunque altro, ci avesse mandato una Limosine? Non poteva essere! Eppure il ragazzo non voleva togliermi gli occhi di dosso. Mi diressi verso la splendida auto. I ragazzi mi seguirono e sono in quel momento si accorsero della Limosine. Lo capì quando sentì “Madonna”, “Guardala” e “Cavolo”.
«Scusi. Ma questa è per noi?» chiesi timidamente in inglese, indicando la vettura. In quell’estate avevo studiato come non mai quella lingua, parlandola e capendola ormai perfettamente.
Il ragazzo però mi guardò incerto. Mi venne il dubbio se l’avessi detto giusto ma quando aprì la bocca per ripetere, sentì Stivi che mi chiamava. Io mi girai verso di lui che mi indicò un camioncino bianco sporco, con un grasso uomo accanto che teneva un cartello con scritto “SMOG”. Capendo che avevo appena fatto un figura di merda, mi coprì il volto con la mano, mentre sentivo piccole risate dai miei amici.
«Mi scusi. Mi scusi tanto» dissi velocemente io al ragazzo mentre gli altri andavano incontro al furgoncino.
«Non importa» si affrettò a rispondere lui con un solare sorriso. «Io sono Josh» mi disse porgendomi la mano. Io le la strinsi rispondendo con il mio nome. «Sei italiana?» mi chiese. Come aveva fatto? Si capiva così bene? Li ho detto anche il mio nome all’inglese e non all’italiana.
«Sì, come lo sai?»
«Si sente dall’accento».
«Ice, sbrigati» mi urlò Jack. Io annuì.
«Scusa devo andare» dissi al ragazzo iniziando a indietreggiare.
«Sì, d’accordo. Ma che te ne pare se una volta ci vediamo?» Rimasi un secondo ferma, incerta sul da farsi.
«Non credo sia il caso. Resterò qui per poco» mentì dolcemente, ripetendo a pappagallo le frasi che Stivi mi aveva fatto imparate a memoria, sulla spiaggia, quando era sdraiato sulle mie gambe e io ammiravo il lucente colore rosso dei suoi capelli bagnati. Avevamo fatto una scommessa: se non avessi avuto bisogno di usare quelle frasi, potevo mettermi quando volevo il suo caldissimo maglione giallo e nero, che adoravo con tutto il cuore. Mi accorsi di aver appena perso e che dovevo fingere di essere la sua ragazza alla sua riunione di famiglia, per prendere un po’ in giro i cugini che avevano una cotta per me.
«Scusa ma devo proprio andare» aggiunsi velocemente. Ma lui mi prese velocemente per il braccio. Non mi stava stringendo, assolutamente. Se lo avessi voluto, potevo tranquillamente liberarmi.
«Dammi il tuo numero di cellulare almeno». Un tenero sorriso arrivo sul suo viso. Notai che aveva gli occhi azzurri e una cosa era assolutamente vera: avevo un debole per gli occhi azzurri. Aprì la borsa e presi una penna. Cercai un biglietto ma non lo trovai.
«Hai qualcosa su cui scrivere?» gli chiesi. Con incredibile velocità, e forse stupore che avessi accettato, cercò nelle tasche. Sembrava avessi paura che ci ripensassi. Nel frattempo Jack mi chiamò di nuovo. Rinunciando al pezzo di carta Josh arrotolò la manica e mi porse il braccio. Stesi bene la pelle e scrissi quei 10 numeri. Dopo di che gli sorrisi e scappai via.
«Li ha dato il numero di cellulare?» mi chiese esterrefatto Stivi mentre salivo sul furgoncino.
«Si, ma del bar ad un isolato da casa mia» gli riposi io, sbucando dal finestrino e facendogli l’occhiolino.

«Fammi capire bene… siamo a Londra da nemmeno due ore e a te, una trentenne sexy ti ha dato il numero e tu ne hai scritto uno falso sul braccio del primo ragazzo che hai incontrato?» Leo si strabiliò della velocità mia e di Stivi, mentre le risate invadevano l’auto. Ormai Stivi ci aveva fatto l’abitudine ma io, anche se mi succedeva spesso, non mi ero mai abituata. Mi imbarazzava e mi faceva sentire in colpa.
«Come fare a essere entrambi single?» ci chiese Leo.
«Se mi lego ad una ragazza, poi nego questo splendore a tutte altre. Non sono così egoista» rispose Stivi ridendo. «E tu che scusa hai?» disse Leo rivolto a me.
«Non ho trovato l’anima gemella» risposi io guardando fuori dal finestrino. Era vero in tutta la mia vita non avevo mai trovato un ragazzo che mi piacesse sul serio. Avevo avuto solo un ragazzo, Simone, in seconda media. Era lo sfigato della classe ma a me non importava. Era il primo ragazzo a cui ero interessata un minimo. Mi ci misi insieme ma la nostra relazione non durò nemmeno tre settimane perché credeva che lo stessi tradendo con Jack. Che idiota. Con lui, anche per la nostra giovane età, avevo dato solo qualche bacetto, e niente di più. Perciò era come se non avessi mai dato un vero e completo bacio, e ovviamente non avessi mai avuto un vero ragazzo.
«L’anima gemella? Ma se potresti avere chiunque. Tutti si innamorano di te» disse Jack. Non ci credetti, anche se non era la prima volta che mi diceva quella frase.
«Non è vero tutti» ribattei io divertita.
«A no?» disse Jack con fare malizioso. Non era assolutamente vero ma diciamo che prendevo spesso attenzioni.
«Voi non vi siete innamorati di me» ribattei io.
I tre scoppiarono a ridere.
Jack: «Solo perché ti conosciamo fin troppo bene». Stivi: «È vero che tutti sono innamorano di te» io sbuffai «Sei insicura ma non ne capisco il perché. Fai girare la testa alle persone quando passi per porta » disse credendo che non mi accorsi della citazione.
«Don't need make up
To cover up
Being the way that you are is enough » gli risposi cantando.
A quel punto anche Jack si unì al canto. Io e Jack: «Everyone else in the room can see it Everyone else but you » Io e Jack eravamo due fan dalla famosa boy band le Note Primarie. The Primary Notes nella versione originale. Lo chiamavo sempre con il nome tradotto, mi piaceva di più. Erano una band nata grazie ad un concorso canoro. In meno di una settimana si erano presi, con la loro voce fatata, una canzone d’amore e i bei visi, l’amore delle adolescenti di tutto il mondo. Molti gli avrebbero definiti commerciali, e forse era vero, ma a me piacevano. Gli ascoltavo molto ma diciamo che non ne ero fissata completamente come alcune ragazzine. Jack invece era un vero e proprio patito. Avrebbe aspettato ore in fila, sotto la pioggia, anche solo per vederci dieci secondi dal vivo, anche se era un boy band e per questo Stivi lo prendeva tantissimo in giro. Lui li odiava. Non che non li piacesse la loro musica. “Ascoltabile” la definiva. Ma non li piacevano loro come persone. «Facile cantare canzoni senza doverle scrivere» diceva lui. In verità non aveva tutti i torti ma a me non importava. Mi facevano ridere nei video e le loro canzoni mi trasmettevano carica e felicità, anche se banali. Per me erano diventati quello noi avremmo sempre desiderato essere, senza però averne mai la possibilità. Erano diventati famosi vincendo un famoso concorso musicale, come volevamo esserlo noi. «A me non fanno ne caldo, ne freddo» rispondeva distaccato Leo quando chiedevamo il suo parere. Comunque, quanto fosse l’odio o il menefreghismo di questi due, conoscevano il ritornello del loro primo singolo a memoria e la finirono di cantare con noi. Era proprio un bel momento.

«Siamo arrivati?» chiedevo impaziente all’autista. L’uomo, scocciato per l’ennesima volta che facevo la stessa domanda, alzò semplicemente il volume della radio, facendo finta di non avermi sentito.
«Smettila di ossessionarlo» mi disse Maurizio che gli sedeva accanto.
«Sì, ma non mi risponde» dissi irritata in inglese per far in modo che mi capisse.
«Siamo arrivati» disse l’uomo indicando uno degli edifici più grandi che avessi mai visto. Li passammo davanti e potemmo esaminare per bene il luogo dove avremmo passato le 10 settimane seguenti e sperando di uscirne con il primo posto in mano. Il palazzo era verde scintillante, come appena dipinto, e proprio sopra la porta principale c’erano tre lettere (ETB) enormi, bianche circondate da tantissime stelline gialle. Eravamo tutti con i nasi attaccati al finestrino. Non sapevo cosa sarebbe successo li dentro, ma sapevamo che la nostra vita sarebbe cambiata.
 

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