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Autore: Alicegym    04/07/2013    2 recensioni
Stivi, Jack, Leo e Alice . Quattro amici che da soli non sono niente ma insieme fanno "Gli Smog", una band creata solo per divertirsi e magari intrattenere quei quattro gatti alla pizzeria di paese. Ma cosa succederebbe se un famoso produttore li scoprisse e li facesse partecipare a un concorso di musica internazionale? Semplice: il chitarrista conquistatore di ragazze, il timido e impacciato batterista, il suonatore di tromba e basso con l'amore dei fumetti e la bella ragazza capace solo di cantare, partono per una incredibile avventura a Londra, coinvolgendo cantati provenienti da tutta europa, colpi di scena e piccole storie d'amore
Genere: Commedia, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ero rinchiusa in quella stanzetta verde da poco più di dieci secondi e già mi sentivo in imbarazzo. Dovrei dirglielo che Leo soffre di claustrofobia? pensai, ma decisi di dirlo alla fine dell’intervista.

«Bene, Elìs. Parlaci degli altri componendi della band» mi disse il giornalista con la camicia grigia e una borsa nera accanto allo sgabello .
«Be’, cosa vuole sapere?» chiesi timidamente. Era strano fare un'intervista senza il resto del gruppo. «Non lo voglio saperlo io» disse divertito l’uomo sulla quarantina davanti a me. Sembrava una di quelle persone che odia il suo lavoro, e forse aveva ragione. A nessuno piacerebbe passare da intervistare Obama a fare stupide domande postate su Facebook a una sedicenne a un concorso internazionale di musica. «Lo vogliono sapere i tuoi fan». “Fan”. È una di quelle parole che non credevo mai che potesse essere abbinato a me.
«Allora» iniziai strofinandomi scherzosamente le mani, ma in verità era che non avevo la minima idea di che cosa dire.
«Inizia con Stivi» disse l’uomo incoraggiandomi a parlare.
«Ok» presi un respiro e iniziò il fiume di parole: «Stivi è l’ultimo dei componenti della band che ho conosciuto. Circa tre anni fa. Andava a scuola nello stesso liceo di Leo e frequentava i nostri stessi bar perciò capitava di vederlo, spesso con delle ragazze. Ricordo perfettamente la prima volta che mi rivolse la parola. Ero in mezzo ad una piazza  e stavo mandando un messaggio a mia madre. Quando ho rialzato la testa, ho visto i suoi occhi azzurri a pochissimi centimetri da i miei. Mi sono spaventai anche un po’» mi scappò un sorriso.
«Iniziammo a parlare e dopo nemmeno due minuti mi chiese di andare a prendere un gelato insieme, se non avevo niente da fare. Però quel giorno dovevo andare al cinema con Jack che arrivò proprio in quel momento. Capendo la situazione fece finta di essere il mio ragazzo e, in più, gelosissimo». E lì arrivò una vera e propria risata da parte mia. «Jack iniziò ad urlare e sbraitare. Credo di non aver mai più visto Sviti così spaventato. Dopo una breve scenata dove tutta la piazza si era messa a guardarci, io e Jack scoppiammo a ridere. Io caddi quasi a terra dalle risate. Stivi, capendo che Jack non era assolutamente il mio ragazzo, si mise a ridere pure lui e finimmo per andare al cinema tutti e tre insieme. Stivi è una di quelle persone che, a primo impatto, sembrano stupide e superficiali ma conoscendole meglio scopri che sono generose e disponibili. Rende le mie giornate più dolci e divertenti. Lui è uno dei motivi per qui sorrido la mattina. Se sono triste, lui non mi lascia sola. Se ho un problema, mi aiuta. Se ho bisogno di affetto, mi stritola con un abbraccio. È il mio migliore amico e so che lo rimarrà per sempre, qualsiasi cosa accada».
«Allora si può dire che è il tuo “preferito”?» disse l’intervistatore stupito.
Fui confusa dalla domanda, ed anche un po’ offesa. Se avevo dato questa espressione, voleva dire che mi ero fatta capire per niente.
«No, assolutamente no».
«Ma hai detto che Stivi è il tuo migliore amico».
«Sì, ma non vuol dire» intervenni.
«Se Stivi è il tuo migliore amico, vuol dire che Leo e Jack sono meno amici».
«No, no, no» dissi scuotendo la testa «sì, Stivi è il mio migliore amico ma, ad esempio, Leo è mio fratello».
L’uomo mi guardò dubbioso. «Non di sangue ovviamente» aggiunsi velocemente. «Ma è come se lo fosse».
Cercai le parole per giustificare questa frase.
«Leo è il fratello maggiore che non ho mai avuto. Lui mi ha sempre protetto e sempre lo farà. Una volta, mentre ero in acqua, mi venne un crampo al piede. Leo si tuffo per salvarmi e solo dopo si ricordò che non sapeva nuotare. Quando alla fine fui io a salvare lui mi disse che vedendomi in difficoltà avrebbe fatto di tutto, senza nemmeno pensarci» sorrisi dolcemente «e poi li detti uno schiaffo».
«Perché?» chiese l’uomo ridendo.
«Perché aveva rischiato la vita per me e sono convinta di non valere tanto».
«Hai così poca autostima di te stessa».
«Non è un fatto di autostima ma un dato di fatto» dissi timidamente.
«Ma tornando a Leo, lui è l’unico che mi capisce veramente. Spesso capisce le cose su di me prima lui, e poi io. Non credo, seriamente, che potrei affrontare una crisi o un problema senza di lui»
L’uomo mi sembrava quasi commosso. Sfogliò il blocchetto che aveva in mano «Chi è rimasto?».
«Jack»
«Sì, Jack. Si dice che ci sia qualcosa di tenero fra voi. È vero?».
«No, assolutamente no. Non c’è mai stato niente che ci si avvicinasse lontanamente, e mai ci sarà» Ormai mi ero abituata a domande del genere, specialmente su Jack e da persone che non sapevano veramente niente su di noi.
«Stivi è il mio migliore amico, Leo è mio fratello e Jack è me».
L’uomo era visibilmente confuso.
«Una cosa strana tra me e Jack è che abbiamo tutto, veramente tutto, in comune. Guasti, pensieri, regole e vizzi. TUTTO. È quasi come se avessimo lo stesso cervello. Quindi è come se fosse un duplicato di me, però al maschile. Lo conosco da 16 anni e non c’ho MAI litigato. “L’amore non è bello se non è litigarello”. Giusto? Quindi se non c’ho mai litigato vuol dire che non c’è amore. Va bene come spiegazione?» chiesi facendo “Il sorriso ammaliante” (soprannominato da Stivi in questo modo). Alla fine dell'intervista pensai che forse avevo parlato troppo poco di lui ma pensai che se inizio a raccontare di Jack non la smetto più. Ma alla fine è la persona più importante della mia vita. È quella persona che ho sempre conosciuto e avuto accanto. Ogni momento importante della mia esistenza ha avuto qualcosa a che fare con lui, in un modo o nell’altro. Comunque, andiamo avanti.
«Passiamo a te adesso» disse il giornalista, ed io iniziai a arrossire.
«A me?» dissi toccandomi il collo involontariamente. Leo aveva detto che lo facevo ogni volta che ero nervosa e appena me ne accorsi levai la mano.
«Sì, a te. Tutti ti chiamano “La stella italiana”». Abbassai la testa timidamente. «Sia perché sei eccezionale nel canto, e perché sei bellissima».
«E ci risiamo» dissi scocciata coprendomi involontariamente il petto con la mano destra e chiudendo le spalle. È un altro gesto che faccio sempre, però quando mi dicevano che ero bella, ma non evitai di farlo, non lo facevo mai tanto. Non era per niente la prima volta che mi dicevano di essere bella. Dopo che ero entrata nella pubertà era stata ricoperta di complimenti. Io, la bambina sempre esclusa, tranne ovviamente da Jack, veramente bruttina, ci misi moltissimo ad abituarmi a quel cambiamento.
«Che c’è?»
«è solo che è una di quelle cose che più persone me lo dicono, meno ci crederò»
«Cioè... tu non credi che tu sia bella?»
«Non è che non lo creda, ma penso che la gente spesso esageri. “Sei una stella, una fata” eccetera. Migliaia di ragazze sono belle quanto me, e altrettante lo sono molto più di me» lo dissi con un tono da “Caso chiuso”. Rimasi soddisfatta di me stessa. Era sincera. Spesso mi guardavo allo specchio e non capivo che ci vedessero i ragazzi in me. Sì non avevo nessun problema grave. Non un naso grande o un braccio mancante. Ma niente di che. Ero magra e di struttura piccola, lineamenti buoni e intensi occhi verdi smeraldo, dita lunghe e piedi minuscoli (che spesso mi facevano inciampare), pelle senza un minimo di acne e denti bianchi, bei capelli, labbra rosse e un “bel culo”. Capivo che queste caratteristiche posso piacere, ma non ero così speciale. Forse mi serviva solo una persona che me lo facesse capire.
«Molti fan chiedono da dove provenga la cicatrice che hai sulla fronte. Dicono che è l’unico difetto in un viso “semplicemente perfetto”» l’intervistatore mi chiese indicando il mio viso con il dietro della panna. Con un sorriso tra imbarazzo e dolore, mi sfiorai con le punta delle dita quel segno ormai permanente alla cute dei capelli, con una strizza allo stomaco. Odiavo quando mi facevano quella domanda. Cercai di coprire la cicatrice con i capelli, ma era impossibile, si vedeva bene. Per le esibizioni o spettacoli, Beatrice, una mia cara amica che sognava di diventare truccatrice, me la copriva ben bene con il fondotinta. Era l’unica che sapeva camuffarla ed io, con le mie mani inesperte, rinunciavo a coprirla, se non per avvenimenti veramente importanti, e un'intervista non era tra quelle. Pensai a cosa rispondere. Che cosa potevo dire? La verità? Non avrei mai avuto il coraggio. Non senza Jack intorno.
«Vorrei non rispondere alla domanda» dissi amaramente dopo qualche secondo di silenzio.
«Ci stai nascondendo qualcosa?» chiese malizioso l’uomo.
Non risposi. Certo che li stavo nascondendo qualcosa. Era ovvio. Non volevo rivelare così presto i problemi che avevo avuto l’ultimo anno di medie con uno stupido bullo che si era stranamente innamorato di me, e che ogni volta che rifiutavo i suoi inviti, i suoi baci, abbracci e carezze, mi minacciava, fino ad arrivare al giorno che non ce la fece più. La cosa “divertente” di tutta questa storia era che questo ragazzo, di solito, era davvero buono come il pane, perciò, quando dicevo ai professori quello che faceva, nessuno mi credeva, pensando che fosse solo un brutto modo per attrarre l’attenzione su di me. Si dovettero ricredere quando mi ritrovarono a terra, con un forte taglio sulla testa, con quello psicopatico in piedi sopra di me, con il pugno chiuso, che mi chiamava in malo modo, e pronto a darmi un altro colpo. L’unico a credermi era sempre stato Jack, ovviamente, che ogni volta che gli era possibile mi proteggeva, ma non sempre poteva stare con me. Il bullo fu espulso e non lo vidi mai più, forse scordandosi di me per sempre, e non avevo intenzione di rivederlo.
«Andiamo avanti per favore» dissi io schivando la domanda
«D’accordo» disse l’uomo capendo di dover cambiare discorso «Pensi che vincerete?»
«Non lo so. Senza dubbio lo vorrei tanto ma… penso che noi siamo tra i migliori ma penso anche che ci sia una precisa band che ci supera senza problemi in qualsiasi campo»
«Quale band?»
Esitai. «Vorrei non dirlo, va bene? Se poi vedendo questa intervista, magari si montano la testa».
«Ok, abbiamo finito» disse l’uomo. La luce rossa sopra la telecamera si spense e mi rilassai moltissimo.
Ringraziai il giornalista e uscì dalla stanza. Fuori vidi Fleur, Victoria, Jane e Polly. La parte femmine della band tedesca era già stata intervistata. Chissà perché hanno usato quest'ordine per le interviste individuali. Prima tutte le femmine e poi tutti i maschi.
Ma credo che sarebbe l’ora che vi spiegassi un po’ il motivo e il luogo dove ero, ma devo tornare indietro di qualche mese, all’inizio dell’estate.
  
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