Emozioni in sinfonia d'amore

di madychan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Fuoco ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Rachele ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Pianoforte ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Seguire ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Sinfonia ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Rabbia ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: Tuono ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: Resa ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8: Volontà ***
Capitolo 10: *** Epilogo: Ultima Nota ***
Capitolo 11: *** Prologo 2 - Le stesse note, una nuova musica ***



Capitolo 1
*** Prologo: Fuoco ***


Prologo – Fuoco
Ottobre 1984




Il crepitio del fuoco è l’unico suono udibile nella stanza.

Le lingue di fuoco si innalzano, danzando sopra i ceppi di legno che lentamente vengono erosi dalla bramosia delle fiamme.

Sembra una danza che non deve finire; un ballo che vuole essere eterno.

Che vuole rimanerlo perché sa che non lo rimarrà.

Eppure, in un paradosso vitale, il desiderio delle fiamme di rimanere eterne le spinge a corrodere il legno più velocemente, invece che a preservarlo e consumarlo poco per volta.

Brama di essere brillante, e perfetto; non mediocre, e stabile.

E fa male vedere quelle fiamme così stupide, che lentamente incurvano la superficie sottile del foglio di carta in mezzo alle braci – infuocano i suoi angoli, e lo consumano come leoni digiuni da giorni davanti alla carcassa di una gazzella.

E alla fine lo rendono cenere.

Quello è tutto ciò che rimane dell’unica lettera che Rachele le abbia mandato in quei due anni.

Sto bene. Ho avuto una bambina tre mesi fa, sai? Klaus è partito un paio di settimane fa per la guerra.

Parole che non dovrebbero essere sue.

Parole che Rachele si è chiaramente sforzata di mandarle, per farle sapere che sta bene e per tranquillizzarla.

Ma che non sono di quella Rachele audace, forte, e sorridente che lei aveva conosciuto cinque anni prima.

Non c’è nulla di Rachele in quelle parole: è solo la lettera di una tranquilla e anonima donna sposata con un militare, che ha avuto una figlia, e che attende pazientemente il proprio marito perché ritorni dalla guerra, nel piccolo appartamento al piano terreno che lei, Madalena, è corsa a sbirciare troppe volte.

E il sapere che non è altro che un’anonima mogliettina stupida che ha preferito la tranquillità quando poteva avere la felicità, l’ha spinta a buttare nel fuoco quelle sue poche parole.

Rachele non è felice. Non lo sarà mai.

E nemmeno lei lo sarà.

E tutto perché Rachele è cambiata.

Da audace, forte e temeraria che era – unica, in un mondo di persone così terribilmente omologate tra di loro – ha preferito diventare una della massa per il quieto vivere.

Madalena fissa quelle parole – quel quieto vivere così facilmente trovato, ma forse proprio per questo non garante di felicità, ma solo di tranquillità – bruciarsi, ridursi in cenere nel giro di qualche secondo.

Poi, dà un’occhiata al pianoforte poco distante dal camino.

Si alza dalla poltrona su cui era seduta, e accarezza la propria pancia, ancora non gonfia; in fondo, è passato solo il primo mese di gravidanza.

Si avvicina, e preme a caso uno dei tasti del pianoforte – un la.

Corre con le dita a cercare altri tasti a caso – prima piano, poi velocemente: un do, un si, un re, un mi, un sol, ancor un la, e poi un do più alto, e infine un fa.

Una cacofonia di suoni non in grado di produrre alcuna melodia armonica.

La musica perfetta per esprimere ciò che prova il suo cuore.







L'angolino di madychan
Faccio un paio di salti qui e poi mi defilo.
Dunque. Innanzitutto, ci tengo a dire che questa storia ha partecipato allo Yuri Love! contest indetto da Reghina-chan sul forum di EFP, classificandosi quinta.
Dopo i giudizi ricevuti da Reghina - che ancora ringrazio per essere stata tanto tempestiva da fare un baffo a Flash, e sempre molto disponibile - ho optato per modificare qualche segno di punteggiatura della storia qua e là, in modo da rendere più scorrevole il tutto (almeno secondo il mio parere; poi ditemi tranquillamente se non è così, le critiche costruttive ci stanno sempre). Il concetto è quello, ma ho cambiato delle pause e quindi la storia non è proprio come è stata presentata al contest. Non completamente, almeno.
Altra cosa. E' deprimente. Sappiatelo. Io non volevo scrivere il finale perchè sapevo cosa sarebbe successo. Tra l'altro è la prima long-fic che io sia mai riuscita a terminare nella mia vita, quindi motivo in più per voler evitare la scrittura del finale. (ma alla fine l'ho scritto, quindi potete stare tranquilli :P)
In ultimo: questa storia è una spin-off della mia "Rainbow - i colori dell'arcobaleno". Ma comunque parla di eventi accaduti anni prima di Rainbow, quindi è perfettamente leggibile senza aver letto quella. E il perchè è una spin-off si capirà solo nel capitolo finale, per chi ha letto Rainbow.
Pubblicherò ogni settimana, per quanto mi sarà possibile. Spero gradirete :)
Direi che per ora è tutto. Un grazie anticipato a chi volesse recensire, o mettere tra seguiti, ricordati, preferiti, eccetera :)
xxx
madychan

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Rachele ***


Capitolo 1 – Rachele


Aprile 1979

Il commissariato non si presentava nel migliore dei modi, per chi vi entrava per la prima volta.

Madalena di sicuro avrebbe preferito non entrarci e basta. Del resto, un commissariato lì nel Bronx, e una convocazione in piena notte, potevano significare una sola cosa: poliziotti verosimilmente più violenti di qualunque teppista o mafioso si trovassero fuori di lì. Forse per stress represso.

Per un attimo si soffermò a osservare la lampadina a vista appesa alla parete, penzolante da un cavo nero che sembrava tenuto insieme da uno scotch bianco di plastica dura, di quelli usati quando si hanno problemi con i fili della corrente. Il barlume di luminosità proiettato dalla lampadina (unica fonte di luce, in quell’ingresso che fungeva anche da sala d’attesa) colorava i muri grigi di una tonalità tendente al verdastro misto al giallo che sa quasi di malato. O di piscio, anche quello.

E magari sul muro ci avevano anche pisciato sul serio, considerando il soggetto che si ritrovò a guardare, seduto dietro una piccola scrivania che doveva servire da banco informazioni: un uomo bianco, corpulento, con un sigaro in bocca, stretto nella divisa nera che indossava, e con l’espressione di un maiale in calore che aveva appena visto una puttana.

Era nauseante, il ritrovarsi sbattuto in faccia il fatto che la considerasse così solo perché non aveva la carnagione perfettamente bianca, come invece l’aveva lui.

Forse avrebbe dovuto avvertire il padrone della fabbrica. Lui sicuramente non avrebbe avuto problemi a recuperare Rachele.

Il problema sarebbe stato che l’avrebbe licenziata subito dopo la sua uscita dal commissariato.

Madalena rotolò indietro gli occhi, chiedendosi ancora perché se la prendesse tanto a cuore, quella cogliona.

Lei sembrava non avere altra aspirazione nella vita, se non cercare in tutti i modi di cacciarsi nei più impensabili casini esistenti sulla faccia della Terra; ma d’altronde avrebbe dovuto aspettarselo, da una conosciuta durante una rissa tra gang rivali.

Il suo sguardo, dopo un rapido esame dell’ambiente malsano in cui aveva finito per ritrovarsi, tornò a fissare il poliziotto al banco informazioni.

La domanda che in quel momento le passava di più nella testa non era come elaborare la richiesta di liberare Rachele: la domanda che le passava di più per la testa era se fosse sicuro avvicinarsi a quel tipo o no.

Istintivamente decise di no, e che sarebbe stato meglio rimanere distanti anche a parlare. Non si poteva mai sapere cosa passasse per la testa di uno con quella faccia.

«Cercavo Rachele Green.» esordì, tenendo lo sguardo alto verso il poliziotto. «Sono qui per pagare la sua cauzione.»

Non estrasse la busta con i soldi. Non ancora. Non poteva rischiare che il tizio gliela prendesse di mano e poi non la liberasse.

«Rachel Green.» ripeté l’uomo, distogliendo – esplicitamente controvoglia – lo sguardo da lei, e abbassandolo al registro.

Madalena preferì non correggerlo, per il fatto che aveva sbagliato a pronunciare il suo nome; decise di non parlare, di tenersi stretti i soldi che aveva nella tasca della gonna, e di abbassare lo sguardo, mentre aspettava un responso.

«Sessanta.» disse lui, portandola a sollevare di nuovo gli occhi, senza però sollevare troppo la testa.

«Sì…» disse, stringendo di più la busta nella tasca, prima di estrarla e avvicinarsi al banco per dargliela.

Fu un attimo. Un movimento talmente veloce e inaspettato che lei non riuscì a scostare il braccio.

Si ritrovò il polso stretto dalla mano del poliziotto, e il suo viso di un bianco cadaverico, i denti sporchi, e i capelli neri ricoperti di forfora, a un palmo dal naso.

Lo sapeva. Lo sapeva, che sessanta dollari erano una somma troppo alta da portarsi in giro senza venire incriminati. Specie se si era una donna, e per di più non bianca; e a maggior ragione se si abitava nel Bronx.

«Questi dove li hai presi?» domandò il poliziotto.

Madalena rabbrividì, terrorizzata.

Maledisse Rachele. E maledisse anche sé stessa. Perché diavolo era stata così incosciente da andare lì a recuperarla? Perché non aveva fatto come aveva pensato, non si era tenuta i soldi che le aveva dato quel ragazzo della fabbrica così invaghito di Rachele al punto da darle buona parte di quello che aveva per farla liberare, e non se n’era andata per cavoli propri, a cercarsi un posto migliore di quel cazzo di Bronx in cui si era ritrovata per cercare un lavoro per curare suo padre?

Perché non li aveva usati per altro, dato che tanto, anche se l’avesse liberata, Rachele per i casini che era in grado di combinare sarebbe finita di nuovo in prigione?

Rimase immobile, a fissare i denti sporchi dell’uomo, senza sapere cosa dire: qualunque cosa avesse detto, probabilmente non le avrebbe creduto.

«Allora?» domandò ancora il poliziotto, alzando la voce.

Madalena esitò; e poi, pronunciò l'unica scusa che le fosse venuta in mente.

«Me… me li ha dati sua madre…» balbettò.

Il poliziotto la fissò, serio; aggrottò le sopracciglia, e i suoi occhi già scuri divennero ancora più scuri.

Madalena non smise di fissarlo, senza la capacità di articolare pensieri coerenti, se non che non voleva finire in prigione.

Non poteva. Per suo padre, ma anche per sé stessa. Non poteva. E non voleva. I poliziotti lì dentro non le ispiravano il minimo senso di sicurezza, e il fatto di non essere bianca non aiutava per nulla.

Dannata Rachele. Dannatissima Rachele.

Il poliziotto le strappò la busta di mano, e poi le lasciò il polso per aprirla e contare le banconote.

Fu un gesto talmente improvviso e inaspettato, che lei riuscì solo a fissare il muro dietro il poliziotto per qualche secondo, ancora come in trance e con il cervello incapace di articolare pensieri, razionali o irrazionali che fossero: vedeva solo il muro, e il suo colore grigio-giallastro.

Abbassò lo sguardo, ancora stupita dal fatto che il poliziotto l’avesse lasciata, solo quando lui ebbe praticamente finito di contare le banconote da dieci dollari che Klaus Ryan, l’operaio che lavorava nella loro stessa fabbrica e che era invaghito di Rachele al punto da liberarla di prigione, le aveva consegnato appena si era offerta per andare a prendere quella casinista.

Perché diavolo era andata lei, poi? Perché non aveva lasciato andare Klaus? Avrebbe sicuramente avuto meno problemi, lui; e lei se ne sarebbe stata a casa, al caldo, a cercare di prendere sonno.

Col pensiero che magari non l’avrebbero liberata.

Sospirò, più di esasperazione verso sé stessa, che di sollievo per la concessione (se così si poteva chiamare) del poliziotto.

Lui si alzò – e d’istinto, lei indietreggiò di un paio di passi; voleva evitare di sentire di nuovo il suo pugno che stringeva il proprio braccio, e anche fare in modo che non arrivasse a stringere qualcos’altro.

Lo fissò, mentre lui andava verso una porta a lato, nell’angolo di muro tra la parete davanti a cui era seduto lui, e quella che stava alla sinistra di Madalena.

Era implicito (e anche se non lo fosse stato, Madalena preferì interpretarlo come tale) che lei dovesse rimanere lì ad aspettare che facessero uscire Rachele dallo stato di arresto.

Solo quando il poliziotto ebbe attraversato la porta, Madalena si permise di tirare un sospiro di sollievo per com’era andata la situazione – molto meglio di quanto si aspettasse, alla fine.

E per l’ennesima volta, maledisse Rachele e il suo dannato modo di fare.

E contemporaneamente, sperò che non le avessero fatto niente.

Rachele era stupida, in fondo: stupidamente attaccata ai suoi ideali di parità dei sessi, e di libertà; fermamente convinta che una vita migliore la aspettasse non appena avesse risparmiato abbastanza soldi da permettersela, per scappare dal Bronx e ricostruirsi un’esistenza in quartieri più alti di New York, o di qualunque altra città in cui avesse voluto andare.

Aveva già diciassette anni, eppure rimaneva ancora ancorata alle proprie idee e ai sogni. Tanto che aveva finito per andare a una manifestazione femminista, dopo il lavoro; il problema era stato che la manifestazione in questione si era trasformata in uno scontro aperto in cui erano state arrestate diverse manifestanti – Rachele inclusa, ovviamente; mai che lei evitasse gli scontri con la polizia, verbali o fisici che fossero, pur di difendere in ogni modo quello in cui credeva.

Sarebbe morta per quelle idee. E Madalena avrebbe continuato a ritenerla assolutamente, e categoricamente, stupida. Un caso perso.

Eppure, non poteva negare che avesse un che di affascinante, per quelle idee e quella determinazione che la portava a difenderle strenuamente, al punto da scontrarsi con poliziotti o chiunque vi si opponesse.

Era come se avesse un obiettivo nella vita che riguardava solo lei, e lei stessa.

Una cosa che Madalena aveva perso nel momento stesso in cui, dal villaggio brasiliano da cui arrivava, si era trasferita nel Bronx insieme a suo padre, sua madre, e i suoi quattro fratelli, in cerca di lavoro per curare il padre malato.

Forse era per questo, che invidiava Rachele: non doveva rendere conto a nessuno, e non doveva lottare per nessuno, visto che aveva solo sé stessa, al mondo. Suo padre era morto in guerra; sua madre in una sparatoria. E lei era figlia unica. Non aveva legami, di nessun tipo.

Forse era questo, che le aveva permesso di avere dei sogni e di fare in modo da realizzarli.

O almeno, così pensava lei, cercando di giustificare quella ricerca di libertà in cui lei proseguiva strenuamente.

Eppure, fin da quando l’aveva conosciuta, aveva avuto la sensazione che ci fosse anche dell’altro; che, anche se Rachele avesse avuto i genitori e non si fosse ritrovata a cavarsela da sola già a quattordici anni, quei sogni lei li avrebbe avuti comunque.

Rachele aveva un che di affascinante che trascendeva la sua storia di orfana. Aveva entusiasmo: credeva in quello che faceva. Forse proprio perché lo faceva solo per sé stessa. E viveva solo per sé stessa, senza la minima intenzione di legarsi a nessuno.

Sospirò di nuovo, sperando con tutto il cuore che in quel momento non stesse facendo stronzate col poliziotto. Che non stesse protestando perché aveva sbagliato il suo nome, ad esempio: Rachele vi teneva in particolar modo, dato che la sua famiglia era di origine ebrea e le era stato dato un nome tipicamente ebreo; odiava che venisse storpiato od omologato al corrispettivo “Rachel” anglo-americano.

Madalena sperò anche che non stesse pigliando per il culo il poliziotto perché qualcuno aveva avuto la decenza di pagarle la cauzione. Altrimenti, tutto il viaggio con la paura che qualcuno la potesse aggredire per rubarle i soldi; tutto il terrore provato davanti al poliziotto quando le aveva preso il polso; tutto lo schifo che aveva provato non appena era entrata lì, sarebbero stati vani solo perché Rachele parlava troppo.

Rachele pensava troppo. E quindi parlava a vanvera.

Quindi Madalena non poté evitarsi di sospirare di puro sollievo, quando la vide uscire dalla porta, seguita dai passi pesanti del poliziotto, e quasi indenne: aveva qualche graffio, e qualche livido sul viso e sulle braccia, ma nulla di apparentemente troppo grave.

E si stupì, quando lei le dette un’occhiata, e poi si voltò a ringraziare gentilmente il poliziotto di averla liberata.

La osservò mentre si avviava verso l’uscita, sorpresa; e poi la seguì, quando si rese conto, in un lampo, di essere sul punto di rimanere lì dentro.

Non appena la porta si fu chiusa dietro la schiena di Madalena, Rachele la prese per mano, e si incamminò verso una direzione ben precisa, con decisione, senza dire una parola.

Madalena sulle prime fu fin troppo esterrefatta dal suo comportamento, per esprimersi; poi, però, cercò di liberare la mano – senza successo, perché quando si azzardò a farlo, Rachele gliela strinse più forte, facendole male.

«Ehi!» esclamò Madalena, scocciata. «Potresti almeno ringraziarmi!»

Rachele le strinse ulteriormente le dita – Madalena gemette, per quanto le stava facendo male; per un attimo, pensò che con quella forza sarebbe stata capace anche di romperle qualche osso.

«Non parlare finché non siamo a casa. E soprattutto non urlare.» disse Rachele, con una voce bassa, eppure perfettamente udibile; e poi, svoltò in un vicolo stretto, e ancora più buio delle strade poco illuminate che stavano percorrendo.

Madalena ammutolì, prendendo coscienza solo in quel momento di dove si trovavano: effettivamente, sulle prime era talmente concentrata su Rachele che non aveva pensato al fatto che chiunque sarebbe potuto saltare fuori all’improvviso e aggredirle per qualunque motivo – stupro, rapina, o follia derivata dai fumi dell’alcol o da eccessi di droga; tutto poteva essere un buon motivo per un’aggressione, alle dieci di sera, per quelle strade. Specie verso due ragazze.

Tornò a guardare la schiena di Rachele, sospirando stancamente; le sue spalle erano larghe, tanto che sembrava avrebbe potuto proteggere chiunque su di esse. Forse perché erano avvolte in quella camicia di jeans che pareva quasi da uomo, e al collo portava un foulard scuro; da dietro, se si guardava solamente la schiena, poteva quasi sembrare un maschio.

E anche l’abbigliamento non era di certo dei più femminili: i jeans erano più larghi del normale, e ai piedi portava degli stivali che arrivavano fino al polpaccio, dal tacco basso che faceva un rumore non eccessivamente udibile sull’asfalto. Doveva essere abituata a camminare per le strade di sera così tardi, e a rendersi invisibile e inudibile per evitare casini.

Allora un cervello ce l’aveva. E con tanto di buonsenso.

L’appartamento in cui abitava Rachele distava un quarto d'ora di strada dalla centrale di polizia; era un monolocale che Madalena aveva visitato solo la prima volta in cui si erano incontrate, perché l’aveva portata fino a casa sua e l’aveva medicata lì.

Durante quel quarto d’ora, Madalena non riuscì mai a staccare completamente la mente dalla sensazione tattile della mano di Rachele che stringeva la sua.

Qualunque cosa pensasse – al fatto che odiava ripensare a come l’aveva guardata il poliziotto; ai lividi che aveva visto in faccia a Rachele; ai suoi vestiti da maschiaccio; al fatto che avrebbe voluto andare a casa propria e starsene al caldo, invece che girovagare con lei per le strade del Bronx a quell’ora di notte; al rumore che facevano gli stivali di Rachele sull’asfalto; a stare attenta a ogni minimo suono diverso da quello, per captare in anticipo chiunque potesse avvicinarsi a loro; ai soldi che le aveva dato Klaus, chiedendole di andare a riprendere Rachele perché lui aveva il turno di notte in fabbrica – la sensazione della mano di Rachele stretta intorno alla sua era forte. Non al punto da predominare su ogni altra cosa; ma era persistente, e intensa al punto da farla tornare sempre lì, a bearsi di quel calore e dei calli sul suo palmo dovuti al troppo lavoro, e a saggiare con la percezione tattile del dorso della mano la lunghezza delle sue dita.

Sospirò di sollievo, ancora, quando la porta della casa di Rachele si chiuse dietro le spalle di entrambe, e la luce della lampadina appesa al soffitto, al centro della stanza, rivelò il suo monolocale.

Disordinato, come al solito. Pieno di libri sparsi ovunque, con il letto sfatto e la coperta accartocciata da una parte, il lavandino della cucina pieno solo di un piatto, di una forchetta e di un coltello, le bottiglie d’acqua sparse sopra la mensola del cucinino minuscolo, e lo stendibiancheria appena dietro il tavolo quadrato con solo due sedie, vicino all’unica finestra presente nella casa.

Non era un monolocale, effettivamente; Madalena l’aveva sempre visto più che altro come un buco riempito di cose a caso, senza un ordine preciso, né un obiettivo particolare. L’essenziale che poteva essere dato da quegli oggetti di uso quotidiano come la cucina, il frigorifero, lo stendibiancheria e il letto, era totalmente stravolto dalla presenza dei libri, che sembravano essere la vera essenza di quella casa: erano sul tavolo, sul letto, sulla mensola sopra il letto (ammassati l’uno sopra l’alto, o affiancati l’uno contro l’altro), e persino sul pavimento di piastrelle fredde, dove facevano compagnia a qualche giornale piuttosto attuale.

Quel caos esprimeva insieme la mente di Rachele e il motivo per cui lei era così ribelle: leggeva, leggeva e leggeva. Sempre. La sua era una continua volontà di sapere, e di conoscere cose nuove; era una ricercatrice di mondi paralleli, sconosciuti, o di verità del mondo in cui vivevano. Si estraniava totalmente dal Bronx, per andare a finire ad Amsterdam, o a Parigi, o nel 1800, o ancora prima, o anche nel 2050. Oppure leggeva la mente degli altri, attraverso tomi in cui questi riportavano le loro opinioni su dati argomenti: qualcosa che Rachele aveva chiamato filosofia, una volta.

Madalena non aveva mai provato a farlo. Non poteva permettersi di spendere soldi preziosi per la cura di suo padre in libri e conoscenze; tanto più che, secondo l’ideologia della sua famiglia, alla donna non serviva conoscere molto: bastava che sapesse come prendersi cura dell’uomo che sposava, della famiglia, dei figli; che sapesse cucinare, lavare i panni, pulire e rassettare la casa. Era già tanto, per lei, ritrovarsi a lavorare, per di più già a quattordici anni.

E oltretutto, non sapeva leggere molto. Non conosceva il significato di diverse parole inglesi, e ogni tanto Rachele doveva farle quasi da interprete, sia per quello che leggeva sulle insegne, sia per qualcosa che sentiva dire da qualcun altro.

«Ho solo dell’acqua da offrirti.» esordì Rachele, muovendo qualche passo all’interno della casa, e avviandosi verso il lavandino. Madalena la osservò mentre si destraggiava tra i libri e i vestiti a terra come se non dovesse nemmeno guardare dove metteva i piedi; come se tutti quegli oggetti fossero sempre stati lì. «Ho speso quasi tutta la paga dell’ultimo mese per comprarmi La mistica della femminilità, La politica del sesso, e La dialettica dei sessi[1]. Ora devo tirare fino al 27, quando ci danno lo stipendio.»

Madalena optò per evitare di esprimersi in un qualche commento su quella storia: erano al 15 di aprile, e a giudicare dal fatto che le offriva acqua dal rubinetto, doveva essere conciata parecchio male, quanto a soldi. A meno che fosse sua abitudine non comprare acqua in bottiglia.

Sospirò, e arrancò tra il ciarpame sparso a terra, avvicinandosi a lei e al rubinetto, da cui Rachele stava facendo uscire l’acqua da raccogliere in due bicchieri, per poi voltarsi verso di lei e offrirgliene uno.

«Di chi erano quei soldi?» domandò Rachele, mentre lei prendeva il bicchiere e beveva un sorso d’acqua.

Madalena la fissò per qualche attimo, dubbiosa sul da farsi: sapeva che Rachele odiava essere in debito. E il sapere di essere in debito, per soldi, con un uomo, considerando anche che lei era femminista convinta, probabilmente non le sarebbe andato particolarmente giù. Tanto più che Rachele sopportava a malapena Klaus e le sue continue richieste di qualsivoglia appuntamento fuori dalla fabbrica.

Ma dopotutto, non poteva dirle altrimenti.

«Di Klaus.» confessò, stringendosi nelle spalle, e riprendendo a bere.

Sentì lo sguardo di Rachele fisso sulla testa, mentre per qualche attimo piombava il silenzio nella stanza. Si strinse ulteriormente nelle spalle – per un attimo, sentendosi colpevole di aver accettato quei soldi da lui senza il permesso di Rachele, per di più intuendo quello che probabilmente avrebbe pensato; ma d’altronde, che avrebbe potuto fare?

«E perché sei venuta tu?» riprese lei, emettendo subito dopo un suono di stizza.

Madalena sobbalzò lievemente, al suono del brusco contatto del fondo del bicchiere di Rachele con il piano della cucina.

«Non poteva venire lui, come tutte le altre volte?» proseguì Rachele, freddamente. «Perché ha fatto venire te?»

Madalena sobbalzò, a quella considerazione; e le venne istintivo chiedersi quante altre volte Klaus l’avesse liberata di prigione, e quante volte lei avesse contratto un debito nei suoi confronti.

«Aveva il turno di notte.» disse, a bassa voce. «Ed era preoccupato per te… Quando ha visto che lo ero anche io, mi ha chiesto di venire a prenderti e mi ha dato i suoi soldi.»

«Razza di pirla che non è altro.» sibilò Rachele. «Mandare una ragazza di quattordici anni, non bianca, alla centrale di polizia per liberare me! Che cazzo gli passa in quel buco che si ritrova come testa?!»

Madalena si strinse ulteriormente nelle spalle, e decise di concentrare l’attenzione sul bicchiere e sul bere l’acqua al suo interno, lasciandola sproloquiare su quanto fosse idiota Klaus per qualche minuto ancora.

Poi, considerò che era ora di intervenire sul suo monologo: dopotutto, i suoi genitori non sapevano che lei era lì – anzi, per quanto ne sapevano loro, lei poteva anche essere in prigione, a quell’ora, dato che l’unica cosa che aveva detto prima di uscire di casa era stata che andava a recuperare Rachele al commissariato. Non aveva nemmeno lasciato a sua madre il tempo di replicare: sapeva che, altrimenti, non sarebbe riuscita a fare nulla.

«Rachele, io sto bene…» disse, voltandosi verso di lei, e interrompendola nel suo continuo aggirare i libri ammassati a terra, quasi si trattasse di un avvoltoio che studiava la preda, mentre era intenta a insultare Klaus. «Tu, invece. Sei tutta pesta.»

Rachele sollevò all’istante lo sguardo verso di lei; le dita della mano destra erano ancora affossate tra i capelli castano scuro, che alla luce della lampadina davano addirittura delle sfumature tendenti al rosso; e l’espressione era quella di una persona è stata interrotta mentre meditava le peggiori torture da infliggere a qualcuno per vendetta, e che prende finalmente coscienza della situazione in cui si trova in quel preciso momento.

Madalena appoggiò il bicchiere sul piano della cucina, accanto al suo, continuando a guardarla: aveva un occhio nero, un livido di un colore ancora tendente al rosso sulla fronte (probabilmente qualcosa di riconducibile più a un graffio), e uno sullo zigomo; era piena di lividi anche sulle braccia; e aveva un labbro spaccato.

Considerando com’era conciata, quando si ritrovò a guardare la sua bocca semiaperta dalla sorpresa e interrotta nell’insultare Klaus, Madalena considerò che era una fortuna, che Rachele avesse ancora tutti i denti. Quelli visibili a una prima occhiata, almeno.

«Oh. No, tranquilla. Sto bene.» disse Rachele, alla fine, togliendo la mano dai capelli e agitandola in un gesto di noncuranza. «I tuoi sanno che sei qui?» domandò.

«Veramente mi sa che stanno pensando che sono in gattabuia con te, adesso.» rispose Madalena, rilassando le spalle, in un gesto di esasperazione.

«Oh.» commentò Rachele, sorpresa, e con un tono dispiaciuto. «Aspetta.» aggiunse, voltandosi e alzando lo sguardo verso l’orologio sopra la porta d’ingresso. «Ah, ok. Sono le dieci e mezza, faccio ancora in tempo.» disse, dirigendosi verso la porta, e aprendola; prima di uscire, però, si voltò verso di lei. «Aspetta qui. Arrivo subito.» disse, con un sorriso.

Madalena la fissò per qualche attimo, mentre usciva; e poi rimase a fissare la porta, sorpresa da quel gesto improvviso.

Sospirò, e scrollò le spalle in un gesto di rassegnazione ai comportamenti, molto spesso indecifrabili, che Rachele adottava; preferì dare uno sguardo all’appartamento, che pensare di nuovo a lei.

E alla sensazione della propria mano stretta nella sua.

Era stata una sensazione strana. Decisamente. Era stato come se la mano di Rachele fosse in grado di tranquillizzarla e di rilassarla, malgrado la situazione fosse tutt’altro che meritevole di calma.

Era stato come se si fosse sentita al sicuro, con lei.

Sospirò, e concluse che probabilmente l’aveva pensato perché Rachele era stata la prima persona affidabile che Madalena avesse incontrato lì; ed era stato merito suo se lei, e con lei anche sua madre e i suoi quattro fratelli più grandi, avevano trovato lavoro. Si poteva tranquillamente dire che tutta la famiglia Rivera fosse in debito con Rachele e con il fatto che, grazie alle sue scorribande, conosceva la quasi totalità di gente nel quartiere. Motivo per il quale era stato facile, per lei, trovare lavoro a tutti, in un negozio, o in fabbrica.

Si poteva ringraziare lei, e il fatto che, nel villaggio brasiliano da cui la famiglia Rivera proveniva, tutti si conoscevano, e tutti erano pronti ad aiutarsi; il fatto di essere cresciuta in un’atmosfera del genere aveva spinto Madalena ad aiutare Rachele la prima volta che l’aveva incontrata – vittima, o forse scatenatrice, di una rissa.

Eppure, nonostante fosse evidente che la famiglia Rivera fosse in debito con Rachele per gli incarichi lavorativi che lei era stata in grado di trovare per tutti, non se n’era mai approfittata e non aveva mai chiesto nulla in cambio.

Forse era perché era stata Madalena, ad aiutarla per prima.

Tutto sommato, Madalena aveva concluso che doveva ringraziare l’atmosfera in cui era cresciuta, se ora si trovavano tutti con un lavoro e, quindi, in grado di pagare le medicine per suo padre; se fosse cresciuta lì nel Bronx, Madalena non sarebbe intervenuta nella rissa e non avrebbe cercato di tirare fuori di lì Rachele.

Il che, pensandoci, per certi versi sarebbe anche potuto essere un bene. Forse.

Il suo sguardo cadde, durante quelle speculazioni, su un libro sul pavimento, proprio di fianco al letto, tanto da sembrare quasi nascosto da esso.

Lo prese, incuriosita, e lesse ciò che c’era scritto in copertina.

Anne Koedt, Il mito dell’orgasmo vaginale.

Avvampò all’istante, e gettò il libro sul letto, totalmente in imbarazzo.

Che diavolo andava a leggere Rachele? Quelle erano letture assolutamente sconvenienti…!

Distolse lo sguardo dal letto e da quel libro; ma subito dopo sentì come la curiosità di vedere cosa c’era scritto. Anche perché non sapeva il significato della parola “orgasmo”: l’aveva gettato via solo perché sulla copertina c’era scritta la parola “vagina” – qualcosa che lei sapeva non essere molto conveniente e soprattutto non molto comune, come argomento di discussione; e quindi, motivo per il quale le era sembrato assolutamente assurdo e totalmente sconveniente scriverci addirittura un libro.

Non fece in tempo a decidere se dare un’occhiata o meno al volume – i suoi non avrebbero mai dovuto saperlo, quello era certo! –, che Rachele fece sentire la propria presenza fuori dalla porta, attraverso la chiacchierata con un’altra donna e il premere la mano sulla maniglia.

«Allora grazie.» disse Rachele, aprendo la porta e facendo per entrare, ma rimanendo con lo sguardo rivolto verso l’esterno, e sollevando una mano in un cenno di saluto. «Buon lavoro.»

«Grazie, cara. Buonanotte.» replicò la voce della sconosciuta all’esterno della casa; subito dopo, Madalena sentì un rumore di tacchi che si allontanavano, e vide Rachele che entrava e chiudeva la porta dietro di sé, a chiave.

«A posto.» esordì, con un sorriso soddisfatto. «Daisy lavora di notte, andrà lei ad avvertire i tuoi genitori e a tranquillizzarli. Tanto lavora lì nelle vicinanze.»

Madalena stava per ringraziarla, quando realizzò che Daisy era un nome femminile; e che di lavori notturni che potevano essere fatti da donne ce n’erano ben pochi.

La fissò, e sospirò; per quella sera, doveva accontentarsi di quello che passava per il convento. Almeno i suoi genitori avrebbero dormito tranquilli, sapendo che era con Rachele: per il semplice fatto che aveva trovato lavoro a tutti quanti, si fidavano di lei come se fosse loro figlia.

«Grazie.» disse.

Rachele sorrise, per poi gettare uno sguardo intorno, ed esaminare le condizioni della casa.

«Forse non sei abituata a tutto questo casino. Scusami.» disse, passandosi una mano tra i capelli.

Era chiaro come la luce del sole che non sapesse nemmeno da dove cominciare a sistemare.

«Va bene così. Per una sera, non è che muoio.» replicò Madalena, agitando una mano in segno di noncuranza, come aveva imparato a fare da lei. «Piuttosto, fammi vedere quei lividi. Meglio fare qualcosa.»

«E’ tutto ok, sto bene!» esclamò Rachele, alzando le mani come per bloccarla; nel farlo, però, si espresse in un suono di dolore che doveva derivare da un qualche ematoma che aveva sulle braccia; e che, soprattutto, le fece perdere del tutto la poca credibilità che ancora aveva.

«Prendo qualcosa di freddo dal frigorifero. Tu siediti.» disse Madalena, sospirando e dirigendosi verso l’angolo destro della cucina, in cui si trovava, appunto, il frigorifero. Sentì, dietro di sé, il rumore di una sedia che strisciava sul pavimento, e poi il fruscio del vestiti di Rachele che incontravano la seduta e lo schienale. Prelevò una confezione di latte: nel frigorifero c’erano solo quello, una confezione di uova, e dell’insalata. L’unica cosa positiva era che Rachele sembrava abbastanza coscienziosa da buttare via le cose quando non erano più buone.

Si voltò verso di lei, per poi avvicinarsi e metterle, come prima cosa, il cartone di latte sullo zigomo.

Per qualche attimo ci fu solo silenzio, tra di loro: Rachele non era il tipo da lamentarsi mentre veniva medicata.

«Mi fa incazzare, quell’idiota di Klaus.» considerò alla fine lei, appoggiando il gomito sul tavolo e sostenendo la testa con il palmo della mano; aveva un’espressione chiaramente seccata, in viso. «Sei stata fortunata perché quel poliziotto è stato beccato diverse volte a molestare delle ragazze, anche le poche bianche che ci sono qua, e quindi l’hanno richiamato più di una volta e non può azzardarsi ad allungare le mani. Perdere il posto al commissariato non è la cosa migliore del mondo.» disse. «Però, cazzo, mandare te! Se non ci fosse stato quello, e ci fosse stato qualche altro porco del cazzo, te la saresti vista brutta. Cazzo!» aggiunse, mollando un pugno al tavolo. «Quando lo vedo mi sente. Quando lo vedo quel coglione mi sente!»

«Stai calma… Io sto bene. Va bene così.» disse Madalena, pazientemente, cercando di tenere fermo il cartone di latte sullo zigomo nonostante i suoi continui movimenti per via della rabbia e dell’agitazione.

In realtà quell’idea non era proprio idilliaca; per qualche attimo i brividi avevano preso il sopravvento e lei aveva esitato, giusto per un secondo, nella presa sulla confezione di latte. Ma poi, si era ritrovata a pensare di essere fortunata: era riuscita a entrare e uscire di lì con Rachele senza vedersi né molestata, né violentata, né ferita; ed era riuscita a superare l’attraversamento di un quarto d’ora di strade del Bronx uscendone illesa. Tutto sommato, le era andata bene.

«Ma come fai a…?!» esclamò Rachele.

«Quindi non ti ha picchiato quel tipo al commissariato.» considerò Madalena, stroncando la sua protesta sul nascere, e spostando il cartone di latte sulla fronte.

Rachele rimase per qualche secondo in silenzio. Poi, sospirò, e scosse la testa.

«No.» disse. «Ci sono stati dei problemi durante la manifestazione. Ci hanno attaccato dei poliziotti per fermarci. Ne avranno arrestate una decina, delle nostre.»

«Tu ovviamente non potevi mancare, nella lista.» mormorò Madalena, seccata. «Ti sarai buttata come al solito nella rissa.»

Rachele spostò lo sguardo nel suo, sorpresa; e Madalena si ritrovò per qualche secondo a incrociare i suoi occhi scuri, spalancati e perfettamente visibili nonostante la luce piuttosto scarna nell’appartamento.

Erano occhi pieni di qualcosa. Di tante cose. Erano occhi che lei aveva sempre visto pieni di entusiasmo, sicuri di sé, forti; eppure, in quel momento, c’era anche altro.

C’era dispiacere; c’era stanchezza; e c’erano la sicurezza e la forza che derivavano, inevitabilmente, dalle sofferenze della vita.

Madalena a incrociare quegli occhi fu tentata di abbracciarla; istintivamente, pensò che la cosa migliore da fare fosse farle sentire che lei era lì, e che poteva contare su di lei. In tutto. Anche nei rimproveri perché era un’irrimediabile testona attaccabrighe.

Però, successe qualcos’altro.

All’improvviso – fu qualcosa di totalmente inaspettato – sentì le sue labbra sulle proprie.

La prima cosa che pensò fu che fossero morbide, malgrado tutto il resto del corpo non desse quell’impressione.

La seconda – solo dopo qualche secondo; e solo dopo essersi resa conto che si era rilassata, con quella sensazione, al punto da chiudere gli occhi e ricambiare, quasi – fu che quella che la stava baciando era Rachele.

E Rachele era una ragazza.

In un solo movimento, spalancò gli occhi, tolse il cartone di latte dalla sua fronte, e allontanò lei, spintonandola di malo modo contro lo schienale della sedia.

«Che cazzo fai?!» strillò, muovendo qualche passo indietro.

Era… era…

Era assurdo. Non era possibile.

Lei non poteva. Non poteva fare quelle cose. Con Rachele, poi!

Gli occhi scuri di lei la fissarono per qualche istante; per la prima volta, Madalena li vide smarriti – persi, totalmente.

Per la prima volta, la vide incapace di decidere sul da farsi; incapace di fare qualsiasi cosa, per via dell’imbarazzo.

Lei, che imbarazzata non lo era mai stata. Lei, che aveva sempre la risposta pronta per tutto e per tutti.

Per la prima volta, Madalena la osservò davvero, in tutti i particolari del suo fisico e del suo viso.

Notò, involontariamente, dettagli cui fino a tre secondi prima non aveva fatto caso: la piccola gobba sul naso; le labbra sottili e chiare; il profilo affilato del viso, e le mandibole marcate; le ciglia non troppo lunghe, scure come gli occhi; la fronte bassa, e qualche brufolo sulle guance, uno vicino all’attaccatura dei capelli; un neo di fianco al naso, appena sotto un ciuffo di capelli mossi che scendeva a incrociare il labbro inferiore; la pelle chiara, tanto che sulle mani lunghe e affusolate erano visibili le vene; il corpo magro, la camicia lunga che scendeva fino ai fianchi e copriva qualunque sua curva.

E poi, Rachele abbassò lo sguardo; fu la prima volta che Madalena la vide abbassare la testa davanti a qualcuno.

E quel qualcuno era lei.

«Scusa.» la sentì dire, a bassa voce.

Quasi come se si vergognasse.

Il che, vista la situazione, era anche giusto; ma delle scuse provenienti da lei erano qualcosa di assolutamente stonato.

Era come se stesse negando quello che aveva fatto; e dato il suo perenne entusiasmo in qualunque cosa, e la sua totale convinzione in ciò che faceva, il fatto che negasse era qualcosa non da lei.

Tanto che, per un momento, a Madalena venne voglia solamente di dirle che non importava.

Ma le parole non raggiunsero la bocca e non finirono articolate sulla lingua; riuscirono solo a raggiungere la percezione cosciente nel suo cervello, prima che lei negasse volontariamente quello che aveva pensato.

Sospirò, e lo sguardo cadde, casualmente, sul cartone di latte che aveva ancora in mano.

Poteva fidarsi, a continuare a starle dietro e a cercare di curarla?

In una totale interruzione del filo dei suoi pensieri – che più che un filo, vista la situazione, in quel momento le sembrava un gomitolo –, intravide una mano che irrompeva nel suo campo visivo; fu qualcosa di talmente inaspettato che Madalena indietreggiò di un altro mezzo passo. Quando sollevò la testa per guardare Rachele, notò che stava sorridendo, di nuovo sicura di sé.

Fu la prima volta in cui ebbe la percezione – lampante – che lei stesse fingendo.

«Dammi. Faccio io.» disse lei, allungando ulteriormente la mano, e mostrandole il palmo aperto. «Ce la faccio. Con tutte le risse in cui sono capitata, eccetera eccetera. No?»

Madalena dette ancora un’occhiata al cartone di latte, e poi passò di nuovo a fissare lei per qualche secondo.

Sospirò, e allungò la confezione fino a mettergliela in mano. La osservò senza sapere cosa dire, mentre lei si riportava il latte fresco alla fronte, cercando a tentoni il punto esatto da rinfrescare.

«E’ per questo, che non ti piace Klaus?»

Fu l’unica domanda che Madalena riuscì a trovare per rompere il silenzio imbarazzante in cui erano cadute. E il paradosso era che solo lei sembrava essere a disagio: Rachele, dopo i primi attimi di esitazione, aveva ricominciato a comportarsi esattamente come prima, come se niente fosse successo.

«Klaus mi sta sul cazzo perché è una testa di cazzo. Non perché è un uomo.» disse lei, facendo spallucce e portando il cartone di latte di nuovo sullo zigomo. «E il fatto che abbia mandato te a prendermi al commissariato, quando sa benissimo che ambiente di merda è perché ci è entrato miliardi di volte per venirmi a riprendere quando sono finita arrestata, dimostra soltanto la mia tesi. E poi sì, non è che mi vada molto a genio, perché è un uomo. Ma non penso tanto per il suo fisico, a dire il vero. In generale la mentalità maschile è una merda, e lui la impersona perfettamente.»

«Strano che lo dica tu, visto che sembri avere la stessa mentalità.» ribatté Madalena, acidamente.

Rachele la fissò per qualche attimo; fece il movimento di togliersi dal viso il cartone di latte senza smettere un solo secondo di guardarla. Tanto che Madalena per qualche attimo fu tentata di abbassare lo sguardo – ma poi non lo fece: non voleva dimostrarle di essere in soggezione.

«Sono una donna, femminista. Come faccio ad avere una mentalità maschile?» domandò alla fine.

«Fino a prova contraria, hai baciato me, che sono una femmina!» esclamò Madalena. «Tanto mentalità femminile non può essere! È agli uomini che piacciono le donne, quindi se tu che sei una femmina mi baci, vuol dire che…»

Rachele scoppiò a ridere prima che Madalena finisse la frase.

«Non ridere!» urlò Madalena.

«Scusa…!» esclamò Rachele, agitando la mano libera, come a invitarla a non farci caso. «E’ che… insomma, è divertente! Secondo te avrei una mentalità maschile solo perché mi piacciono le donne?»

«Fai tu!» esclamò Madalena in risposta, seccata, allargando le braccia come se la cosa fosse ovvia.

Rachele sorrise, e inclinò lo sguardo, mentre la fissava di rimando. Poi, scosse la testa e si alzò in piedi, avvicinandosi al frigorifero – un movimento davanti al quale Madalena indietreggiò ancora di qualche passo, per tenersi a distanza da lei.

«Quindi staresti dicendo qualcosa del tipo che… sono un maschio mancato, e che vorrei avere il corpo di uomo, e quelle cose lì, visto che mi piacciono le donne?» domandò Rachele, mentre rimetteva via il latte.

«Non è così?» domandò Madalena, in tono retorico. Per lei non serviva nemmeno una risposta: donne stavano con uomini e uomini stavano con donne. Se a una donna piaceva un’altra donna, era perché aveva una mentalità da uomo. Viceversa per gli uomini cui piacevano altri uomini, se mai esistevano: non le era mai capitato di incontrare tipi del genere.

A dire il vero, Rachele era il primo esempio di donna cui piacevano altre donne che incontrava. Magari era anche l’unica esistente al mondo; magari era malata lei: Madalena l’aveva sempre sospettato, che le idee inculcate da libri, le sue elucubrazioni mentali, e il suo spirito ribelle, e la solitudine vissuta quando aveva perso i genitori, alla fine avrebbero prodotto un qualche effetto strano su di lei.

«Prova a pensarci un attimo.» disse Rachele. «A un eterosessuale piacciono le persone del sesso opposto. Quindi maschi con femmine, e femmine con maschi.» spiegò, sollevando prima la mano sinistra, poi la destra, e unendole. «Un gay invece è un uomo cui piacciono altri uomini.» disse, rifacendo lo stesso gioco con le mani.

«Esistono uomini cui piacciono altri uomini?» domandò Madalena, facendo una smorfia.

«Certo.» disse Rachele, voltandosi e sorridendole. «Come io non sono l’unica femmina cui piacciono altre femmine.» aggiunse. «Ora, mettiamo che io incontro una ragazza cui piacciono le altre ragazze, esattamente come me.» considerò, facendosi pensierosa e arricciando il labbro in una smorfia di riflessione. «Diventare uomo non avrebbe senso, visto che poi io a lei non piacerei più. No?»

«Ma piaceresti a un sacco di altre donne.» replicò Madalena.

Rachele ridacchiò. «E’ vero.» disse. «Ma se io voglio piacere a quella particolare ragazza, vorrei piacerle come femmina. Altrimenti non avrebbe senso, e non sarebbe vero amore reciproco, ma solo univoco. Non ti pare?»

«Amore reci-che e uni-che?» domandò Madalena, confusa.

«Reciproco.» sillabò Rachele, ridendo. «Significa che sia io che quella ragazza ci amiamo. Io amo lei e lei ama me. Capito?» domandò, senza però aspettare risposta. «Univoco invece significa che solo una ama l’altra. Quindi o solo io amo lei, o solo lei ama me. Se io amo una data ragazza, ma a questa non piaccio perché sono una femmina, ecco, questo è un esempio di amore univoco da parte mia.»

«Io pensavo che tra donna e donna e uomo e uomo ci potesse essere solo amicizia.» commentò Madalena, perplessa. «L’amore è una questione di completezza, no? Tra uomo e donna la completezza è migliore, no?»

Rachele ridacchiò di nuovo, e poi scosse la testa.

«Sai cos’è un orgasmo, Madalena?»

Madalena avvampò, ricordando la parola che aveva visto sulla copertina del libro che aveva gettato via poco prima che Rachele rientrasse nell’appartamento.

«Qualcosa di porco.» replicò, stringendosi nelle spalle con l’istinto di difendersi da lei.

Rachele sorrise, e scosse la testa. «Lo dici perché hai visto il titolo di quel libro della Koedt?» domandò; ma sembrava più che altro una domanda retorica, tanto che Madalena non rispose, si limitandosi a sgranare gli occhi per la sorpresa che lei avesse notato che l’aveva spostato. «Sì, beh, malgrado il casino, ho l’abitudine di notare se un libro viene spostato o no.» considerò. «La prima cosa che ho notato quando sono entrata è stato quel libro sul letto. Mi ricordavo di averlo lasciato a terra.» disse, indicando anche il punto preciso in cui quel libro avrebbe dovuto stare. Madalena sbuffò dalle narici, seccata, mentre guardava il punto in questione; poi, tornò a fissare lei. «L’orgasmo è una cosa che a quanto pare è molto piacevole.» proseguì poi. «A dire il vero non lo so con certezza, non ho mai provato. Ma pare sia così. Qualcosa di molto piacevole derivato da un rapporto sessuale.» considerò. Madalena si sentì le orecchie bollenti, per quella spiegazione così spudorata, peraltro non voluta. «In quel libro si parla di quella che tu chiami “completezza tra uomo e donna”.» continuò. «I maschi provano l’orgasmo quando penetrano per un po’ una vagina. Ma la stessa cosa non succede alle donne, molto spesso. È molto raro che una donna provi un orgasmo con questo atto, credo. Perlomeno per il tempo che l'uomo ci mette a penetrare una vagina» commentò, annuendo come a darsi ragione da sola. «La Koedt propone semplicemente il fatto che l’orgasmo cosiddetto “vaginale”, perché arriverebbe dal rapporto sessuale con un uomo e dalla penetrazione, in realtà non esista davvero.[2] E quindi come fa una donna ad avere l’orgasmo?» considerò. «Attraverso la stimolazione di altre parti intime. Evitiamo i dettagli, sei diventata tutta rossa e la cosa è preoccupante, considerando che sei di pelle scura.» aggiunse, muovendo la mano con noncuranza, e ridacchiando di nuovo. «Comunque sappi che l’orgasmo una donna lo può raggiungere sia con un uomo, sia con una donna. E considerando quello cui pensano gli uomini, è più facile che lo raggiunga con una donna. In questo senso, allora, ci sarebbe più completezza tra due donne, invece che tra un uomo e una donna come dici tu. Non ti pare?»

«E io che ne so?» domandò Madalena, distogliendo lo sguardo, imbarazzata.

Sentì Rachele sospirare. Ed ebbe la sensazione che stesse anche sorridendo; ma non in maniera sarcastica o per prenderla in giro – dolcemente, come se capisse il suo imbarazzo per tutto quel discorso.

«Andiamo a dormire. Prima torni a casa domani mattina, meglio è.» disse Rachele, mettendole una mano sulla testa.

Madalena fu quasi sul punto di allontanarsi di nuovo e risponderle in malo modo per quell’iniziativa; ma quando incrociò il suo sguardo, desistette da ogni idea di adottare un comportamento sgarbato con lei.

Stava fingendo. Di nuovo.

E stava fingendo, sorridendo in quel modo palesemente falso, cercando di dare l'impressione di essere tranquilla e felice senza esserlo davvero, per compiacere lei, e per non far preoccupare lei.

«Tranquilla. Io dormo per terra.» disse Rachele, avviandosi verso un armadio in un angolo che Madalena sulle prime non aveva notato, aprendolo, e iniziando a rovistarci dentro. «Dovrei avere un paio di coperte e un cuscino. O al limite uso un’altra coperta come cuscino.»

Madalena avvertì il desiderio di aprire la bocca e dirle che non importava, che era piena di lividi, e che doveva dormire lei, sul letto; ma la bocca non si aprì, e le parole non uscirono: l’idea che Rachele, dopo quello che aveva fatto, glielo dovesse, fu più forte.

Rimase semplicemente a seguirla con lo sguardo senza lasciarla un attimo, mentre lei si affaccendava per sistemare le proprie cose a terra di fianco al letto, per togliere i libri dal letto e appoggiarli a terra, e sistemare le lenzuola e le coperte in cui avrebbe dormito Madalena.

«Fatto.» disse Rachele alla fine, mettendosi le mani ai fianchi e osservando con un’aria che sembrava soddisfatta il proprio lavoro. Poi, si voltò verso Madalena. «Puoi andare a letto, ora.»

Madalena si tolse le scarpe, scavalcò le coperte stese a terra che avrebbero fatto da giaciglio a Rachele per quella notte, e si mise in ginocchio sul letto, tastandone la consistenza.

Non era per niente male, considerando che spesso lei si ritrovava a dormire a terra, dato che a casa sua i soldi non erano di certo sufficienti per comprare sei letti, di cui uno matrimoniale per i suoi genitori. Per una buona volta si sarebbe ritrovata a dormire in un posto comodo.

E Rachele sarebbe rimasta a terra, dolorante per i lividi.

Lo sbuffo contrariato che fu sul punto di emettere non uscì dalle labbra; e lei si limitò a rotolare indietro gli occhi per l’esasperazione per via di quel senso di colpa che la tormentava, e a decidere di pensare che, in fondo, Rachele se l’era cercata, ad andare a quella manifestazione femminista del cazzo, a essere un’attaccabrighe del cazzo, e a essere un’idealista del cazzo disposta a tutto pur di difendere le proprie idee.

E d’altronde, dopo quello che le aveva fatto poco prima, glielo doveva, quel letto. Era il minimo, per farsi perdonare.

«Stavo pensando che non ti ho ancora ringraziato decentemente per essermi venuta a prendere a tuo rischio e pericolo.» considerò Rachele, tagliando di nuovo il filo dei suoi pensieri. Madalena si voltò, sorpresa: non l’aveva notato, in effetti. Troppi avvenimenti in troppo poco tempo. «Se c’è qualcosa che posso fa…»

«Il letto va più che bene.» l’anticipò Madalena, scrollando le spalle, per poi prendere le coperte e infilarcisi sotto, e affossare la testa nel cuscino. Il tutto dando la schiena a Rachele.

Quell’appartamento poteva anche essere disordinatissimo; ma almeno il letto era pulito. Su quello non ci pioveva minimamente.

«Non è che ci hai fatto qualche porcheria con qualcuna, qui dentro, vero?» domandò, senza voltarsi.

Sentì Rachele, poco sotto di lei, che rideva divertita.

«No, no. Tranquilla. Sono sempre impegnata, non ho il tempo materiale per una ragazza.» disse.

La luce si spense. Madalena sentì il fruscio delle coperte di fianco al letto muoversi, segno che Rachele si stava accovacciando a terra e si stava coprendo.

Non la sentì fare un solo rumore di dolore mentre si coricava.

«Grazie per essermi venuta a prendere. Davvero.» disse Rachele, a bassa voce. «E grazie per avermi aiutato coi lividi.» aggiunse.

Una pausa, durante la quale Madalena sentì di capire cosa voleva dire Rachele.

E sentì anche che non voleva udire di nuovo quelle parole.

«Buonanotte.» la salutò, accucciandosi meglio sotto le coperte, e tentando di chiudere gli occhi.

Sentì Rachele sorridere ed emettere un lieve sospiro; mormorare un “buonanotte” dolce, e poi rigirarsi nelle coperte, per sistemarsi meglio. Sempre senza lamentarsi per i lividi.

In che altri punti del corpo li aveva, poi? Madalena aveva visto solo la faccia, le braccia e le mani; ma se quei punti erano conciati così, l’addome, e magari anche le gambe, com’erano ridotti?

Se quei punti da soli le avevano fatto male al punto che, mentre muoveva un braccio, si era dovuta fermare per il dolore, com'era nel resto del corpo? E poi, era sempre così, quando andava alle manifestazioni? Finiva sempre picchiata a quel modo, e sempre in risse del genere? E poi in carcere, come se non bastasse?

Ma perché ci stava pensando, d’altronde? Era una sua scelta, vivere così. Nessuno l’aveva obbligata, e nessuno le impediva di stare semplicemente alla fabbrica, e poi tornare a casa e starsene lì, tranquilla.

Sottomessa, avrebbe detto lei. E poi ad avvantaggiarmi di diritti che hanno guadagnato altre per me, quando avrei potuto contribuire anche io. No, grazie. Preferisco mettermi in gioco, e fanculo se mi menano. Finché non muoio, io non mollo.

Le aveva detto così, una volta, quando le aveva chiesto perché tutta quella lotta. Perché ci tenesse così tanto ad andare a quelle manifestazioni, a quei ritrovi. Perché leggesse, in continuazione, appena aveva un secondo libero. Perché non si fidanzasse con Klaus e decidesse di vivere una vita tranquilla, come la maggior parte delle donne.

Forse era vero che lo faceva perché le piacevano le donne. Ma era davvero solo per quello?

A Madalena era sempre sembrato che ci fosse un senso di libertà di fondo, nel comportamento di Rachele. Un desiderio di essere libera, e di essere uguale a tutti gli uomini bianchi che avevano più diritti di tutti.

Era quello, che lei aveva sempre pensato la spingesse ad andare a quelle manifestazioni: il credere che qualcosa di migliore fosse possibile, per loro. E magari ci giocava anche molto il fatto che le piacevano anche le donne, ora: un motivo in più per il quale, logicamente, voleva rendersi indipendente dagli uomini. Ma non era solo quello. Madalena aveva sempre avuto quell’impressione, e non poteva essere solo un abbaglio dovuto al fatto che non sapesse i gusti di Rachele.

Il problema era che poi per quel senso di libertà finiva in galera; e rischiava anche di finire morta da un giorno con l’altro.

Un cadavere abbandonato in mezzo alla strada che nessuno si sarebbe preoccupato di recuperare e di seppellire.

Rabbrividì, all’immagine. Per un attimo, le era balenata in mente una visione di Rachele a terra, con le braccia a formare un angolo strano, i capelli imbrattati di sangue rappreso sceso da una ferita alla testa, probabilmente dovuta a un manganello; e gli occhi spalancati di chi aveva incontrato una fine talmente improvvisa da non rendersi nemmeno conto che era finita.

Doveva fermarla. Non poteva finire così. Non una come lei.

Ma alla fine, ne valeva davvero la pena?

Madalena sospirò, stancamente. Forse era meglio provare a prendere sonno, invece di pensare a Rachele.

Però… quel suo modo di fare era preoccupante. Un giorno l’avrebbe potuta portare ad avere guai seri. Specie in quella zona di New York.

Se non li aveva già incontrati con qualcuno di quella centrale di polizia.

Magari con quello stesso poliziotto.

Magari quando aveva parlato del fatto che quel tizio aveva molestato delle ragazze, anche bianche… magari si riferiva anche a sé stessa…

Rabbrividì. Istintivamente, si voltò a guardare Rachele, prima cercando di intravederla da sopra la propria spalla, e poi girandosi nel letto con tutto il corpo.

Rachele dormiva. Sembrava anche tranquilla.

Ma d’altronde, Madalena aveva la sensazione che, qualunque cosa le potesse succedere, anche la peggiore, Rachele avrebbe sempre avuto quell’espressione pacifica, quando dormiva. Non si faceva abbattere da nulla.

Il che però era preoccupante, ora: perché il non riuscire a capire se, in realtà, dentro stava male per qualcosa che le avessero fatto, era frustrante. Le faceva venire l’ansia addosso, e non la faceva dormire.

Sbuffò, scocciata. Allungò un braccio, e la spinse alla schiena.

Chissà da quanto stava dormendo, poi. Quanto tempo era passato da quando Rachele aveva spento la luce?

Lei mugugnò, e si svegliò stropicciandosi un occhio, stancamente, per poi voltarsi verso di lei.

«Che c…?» azzardò. Non completò la frase: appena incrociò lo sguardo di Madalena, spalancò gli occhi, preoccupata e sorpresa insieme.

«Tutto ok?» domandò.

«Vieni a dormire nel letto.» disse Madalena, spostandosi di lato per mostrarle che le faceva spazio.

«Eh?» replicò lei. «Ma…»

«Non mi dà fastidio.» disse Madalena, anticipandola. «E poi, sei piena di lividi. Vuoi seriamente dormire per terra?»

«Te l’ho detto, non fanno così male…»

«Smettila di pigliarmi per il culo. Hai detto così anche prima di alzare il braccio e fermarti perché ti faceva male.» disse Madalena, scocciata. «Muoviti, vieni a dormire nel letto. Se ci stringiamo, ci stiamo.»

Rachele rimase per qualche secondo in silenzio; poi, Madalena la sentì muoversi sotto le coperte, e vide la sua sagoma e qualche dettaglio della sua figura – gli occhi, le dita delle mani, la bocca – alla fioca luce dei lampioni sui marciapiedi delle strade lì fuori, che lasciavano entrare la loro luce dalle finestre della casa.

«Sei sicura?» domandò Rachele alla fine. «Non ti dà fastidio sul serio?»

«E basta!» protestò Madalena, voltandosi di nuovo per darle le spalle. «Mettiti qui e dormi! Se ti dico di no è no, cazzo!»

Da dietro, sentì Rachele sorridere e sbuffare di nuovo; doveva essere quel sorriso dolce che le aveva visto più di una volta, quella sera. Ma non il sorriso dolce fatto per fingere con lei; il sorriso veramente dolce.

Quello che la rendeva bellissima.

S’irrigidì per un secondo, mentre Rachele spostava le coperte e si accucciava dietro di lei. Quando sentì la coperta sopra entrambe, tuttavia, il suo corpo si rilassò di riflesso. La presenza di Rachele non c’entrava. Non in senso negativo, almeno: perché non appena la sentì di fianco a sé, i suoi nervi si distesero al punto che le palpebre iniziarono a farsi pesanti nel giro di poco.

E lei si addormentò, con Rachele accanto a sé.


Note

[1] "La mistica della femminilità", "La politica del sesso", e "La dialettica dei sessi" sono tre libri scritti da esponenti del movimento femminista, tra gli anni Sessanta e Settanta. Rispettivamente sono di Betty Friedan, Kate Millet, e Shulamith Firestone, militanti femministe degli anni '60-'70.

[2] La teoria di Anne Koedt spiegata un po’ male da Rachele. In sintesi, la Koedt partiva dalle considerazioni fatte da Freud a proposito dell’anorgasmia femminile, da lui considerata sintomo di nevrosi (cioè, la donna non ha l’orgasmo perché ha subìto qualche trauma che ha dato origine a nevrosi). La Koedt propone, al contrario, la teoria che l’orgasmo vaginale non esista proprio: esso è il risultato di una mentalità prettamente maschile che ha portato gli uomini a pensare che il rapporto con la penetrazione, siccome soddisfa loro (la Koedt definisce la penetrazione, dalla parte dell’uomo, come una masturbazione contro le pareti vaginali), soddisfa automaticamente anche le donne: e da qui deriva la concezione di anorgasmia vaginale femminile come patologia secondo la psicanalisi di Freud. La realtà secondo la Koedt è un’altra: la vagina non è un luogo particolarmente sensibile, e sicuramente non al punto da raggiungere l’orgasmo. La zona più sensibile nella donna è la clitoride, che altro non è che il corrispettivo femminile del pene: è quindi attraverso la stimolazione della clitoride, che la donna raggiunge veramente l’orgasmo, esattamente come l’uomo raggiunge lo stesso effetto attraverso la stimolazione del pene. Questo effetto, ovviamente, sarebbe raggiungibile sia attraverso il rapporto con un uomo, che attraverso il rapporto con una donna. Da qui, quindi, il titolo dato dalla Koedt al suo libro: “il mito dell’orgasmo vaginale”, perché l’orgasmo vaginale non è altro che un mito (di cui si sono convinti sia uomini che donne) dato da una falsa percezione del rapporto sessuale eterosessuale.

Piccolo edit (che non c’entra molto ma forse anche sì): Anne Koedt (tuttora in vita) è lesbica.

[si ringrazia cordialmente Wikipedia per le fonti.]


L'angolino di madychan

Ebbene sì, sono tornata! *risata sadica* In ritardo, ma sono tornata ù.ù
Dunque, ho notato che l'inizio della storia si è preso qualcosa come quasi 70 visite, ma non è stato abbastanza... interessante, lo si può dire? da spingere qualcuno che l'abbia letto (l'avete letto?) a metterlo tra seguiti, preferiti, ricordati o similia.
Beh, vi posso capire ù.ù
Ma spero che questo capitolo vi sia piaciuto di più. ^^
Non ho nulla di particolare da dire. I commenti, se volete, li lascio a voi :)
Alla prossima, se vorrete! :D
madychan

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Pianoforte ***


Capitolo 2 – Pianoforte
 
Erano ormai anni, che Rachele si svegliava tramite rumori mattutini abitudinari.

Daisy che con i suoi tacchi alti rientrava in casa alle cinque del mattino, dopo la nottata passata sulle strade, e faceva un rumore secco mentre saliva i gradini di pietra del condominio, per arrivare al suo appartamento al terzo piano; la famiglia di panettieri (padre, madre, e figlio di undici anni) che abitava nell’appartamento sopra il suo, e iniziava a sciabattare per la casa alle cinque e dieci, provocando rumori sordi sul soffitto; la sveglia del tizio che abitava di fronte ai panettieri, che alle cinque e un quarto intonava il suo trillo interrotto solo dopo un minuto.

Aveva dovuto, col tempo, abituarsi alla zona e adattarsi alla sveglia a quell’ora: le manifestazioni cui lei partecipava non importavano a nessuno, e se qualcuno aveva un lavoro da svolgere, o da cui tornare per riposare durante la giornata, non si faceva scrupoli a fare un poco di rumore per annunciare, seppur involontariamente, il proprio ritorno o la propria partenza.

C’era anche da dire, però, che quei dannati lividi non l’avevano fatta dormire molto, quella notte: capitava spesso che si svegliasse ad orari senza senso, per via di qualche livido presente in qualche parte del corpo su cui aveva appoggiato involontariamente il peso mentre dormiva; e allora per riaddormentarsi ci voleva un sacco di tempo. Tanto più che, più andava avanti la notte, e meno lei riusciva a prendere sonno: il tutto grazie anche a rumori provenienti dall’esterno, come suoni dovuti a delle scopate notturne – spesso con puttane –, o a cani randagi, o a scontri tra bande che avvenivano nel cuore della notte.

Questo era il fuori; poi succedeva anche che Daisy optasse (cosa abbastanza rara, ma alle volte era successo) di svolgere il proprio lavoro a casa propria; o che la coppia di panettieri del piano superiore decidesse di concedersi un po’ di passione. Da quello che aveva dedotto Rachele, il figlio di undici anni doveva avere il sonno parecchio pesante; oppure, non si faceva molti problemi, a sentire i genitori che copulavano.

D’altronde, lì si era nel Bronx. Era da considerarsi innaturale che situazioni del genere non ci fossero, in un quartiere come il loro.

Rachele sospirò, e voltò la testa verso Madalena.

Si concesse un sorriso, a vedere come dormiva tranquillamente. La serata prima doveva essere stata traumatica su un sacco di fronti, per lei.

Rimase per qualche secondo a fissarla, appoggiando il peso su un gomito e spostandole, con la mano libera, una ciocca di capelli neri che le ricadeva sul viso.

Aveva i lineamenti particolarmente affilati, per una quattordicenne che andava verso i quindici. Forse per via del fatto che era magra.

Aveva i capelli neri, lisci e lunghi. La pelle ambrata, e due occhi scurissimi che le piaceva rimanere a fissare.

Era raro vedere la sua bocca incurvata in qualche sorriso. Aveva le labbra più belle del mondo, di quello Rachele era sicura: erano più chiare del resto della pelle, rosate, e carnose. Ma di solito le si poteva vedere un’espressione o seria, o imbronciata, o preoccupata, in viso. Sorridente, era raro.

E aveva un buon profumo. Dolce, e non intenso. Era come un alone che la circondava; labile, ma c’era. Era simile a quello dei fiori di campo, forse. Rachele non aveva mai avuto occasione di sentire l’odore dei fiori di campo, dato che aveva sempre vissuto in città; ma da quando aveva cominciato a capire di provare qualcosa di più per Madalena, e aveva iniziato a sentire il suo profumo quando l’aveva particolarmente vicina a sé, aveva concluso che era talmente esotico, e insieme talmente caldo, che doveva essere per forza quello dei fiori di campo.

Restò ancora per qualche attimo a osservarla; poi, sospirò, e distolse lo sguardo, alzandosi a sedere fatica sul letto – i lividi sulla schiena e sull’addome avevano deciso di farsi sentire già da subito –, e passandosi una mano tra i capelli, mentre ripensava a quello che aveva fatto la sera prima.

L’aveva baciata.

L’aveva baciata, e così facendo l’aveva scandalizzata. Era già tanto che non fosse scappata a gambe levate o che non l’avesse picchiata come le era successo altre volte con alcune donne manifestanti che, in qualche modo, erano venute a sapere che a lei piacevano le donne. Anche se era evidente che Madalena non fosse scappata per il semplice fatto che voleva evitare di rischiare di uscire da sola, alle undici di sera, nel Bronx; così come aveva evitato di picchiarla perché era ferita, e lei – per quanto scorbutica e schiva – era troppo buona, per peggiorare ulteriormente la situazione.

Sbuffò, e si scompigliò i capelli di nuovo, gettando un’occhiata all’appartamento.

Condizioni pessime. Almeno per presentarlo davanti a lei.

Perché Madalena doveva sempre venire lì quando si trattava di lei che veniva pestata, poi? Non avrebbe potuto venire in un contesto più tranquillo, in cui lei avrebbe avuto tutto il tempo di riordinare e di farle vedere che non era così pezzente?

Sì, forse avrebbe potuto. Prima di quel gesto che aveva chiaramente rovinato tutto. Madalena era rimasta lì solo per non rischiare di incappare in qualche balordo che si aggirava nel quartiere durante la notte; ma lì sicuramente non ci sarebbe più tornata. Non si sarebbe più preoccupata di lei che finiva in galera, al punto da prendere il posto di Klaus per venire a pagare la sua cauzione.

Tutto per quel cazzo di errore infinitesimale.

Che poi così infinitesimale non era.

Gettò ancora una volta un’occhiata verso di lei – poi scosse la testa, esasperata, e si alzò in piedi. Raccolse le coperte ancora stese a terra, appallottolandosele tra le braccia alla bell’e meglio, e poi buttandole senza molto riguardo all’interno dell’armadio nell’angolo a sinistra del suo monolocale, proprio davanti al letto.

Si guardò intorno ancora una volta; e poi dette uno sguardo a Madalena, di nuovo. Lei continuava a dormire.

E di certo non si sarebbe sorpresa di vedere di nuovo il disordine, una volta sveglia. Era inutile che lei si mettesse a sistemare. Anzi, era quasi ipocrita, perché in quel modo voleva mostrare qualcosa che lei non era, in realtà.

Ma lì alla fine si trattava di far trovare Madalena al meglio, nonostante il disordine e il casino della sera prima: quindi, Rachele optò per raccogliere i libri sparsi sul pavimento, sul tavolo, sulle sedie, sul piano della cucina, e radunarli in due pile a terra, dietro la testata del letto.

Qualcuno bussò all’improvviso alla porta di casa sua, delicatamente.

Rachele andò ad aprire, e si ritrovò davanti il figlio undicenne della coppia di panettieri, con in mano una busta contenente il pane che la famiglia abitualmente offriva agli abitanti del condominio: era del giorno prima, ma era ancora perfettamente commestibile. Solo che, naturalmente, non poteva essere venduto: e quindi veniva regalato ai vari residenti del loro palazzo, e di quello accanto.

«Grazie.» disse Rachele, prendendo il pane, ed estraendo dalla tasca una moneta da dieci centesimi. «Tieni.» disse, mettendola in mano al ragazzino. «Facci quello che vuoi.»

Era abitudine, per lei, dare dei soldi a quel bambino che ogni mattina passava di lì, e di cui lei non sapeva nemmeno il nome. Era paradossale che lì dentro si conoscessero al punto da scambiarsi pane e a volte anche opinioni mentre si salivano o scendevano le scale e ci si incontrava, ma non si sapessero i nomi degli altri. Ma per Rachele una cosa era certa: non voleva essere in debito nemmeno per il pane, con le famiglie di quel condominio.

Il bambino si espresse in un piccolo inchino di ringraziamento, come faceva sempre; e poi, scappò sulle scale, a fare la consegna successiva. Rachele lo fissò andare via, e poi appoggiò il pane sul tavolo e dette un’occhiata all’orologio al di sopra della porta d’ingresso.

Le sei meno venti.

Ogni mattina era sempre la stessa storia: si svegliava alle cinque, si alzava, e poi rimaneva per quasi due ore a fare niente, dato che il lavoro in fabbrica iniziava alle sette, e lei abitava a pochi minuti di strada da lì. In genere leggeva – ma con Madalena in casa, non si sentiva addosso nemmeno la voglia di leggere.

Era troppo demoralizzata perché aveva rovinato tutto.

Sospirò, e dette di nuovo un’occhiata all’orologio. Poi, andò verso il lavandino del bagno – una nicchia ricavata nell’angolo destro della casa, sulla parete adiacente a quella in cui si trovava la porta d’ingresso – e si lavò faccia e denti. Dette una veloce sistemata ai capelli, e poi un’occhiata alla doccia: il calcare era incrostato ovunque, nella parte di parete cui era attaccato il doccino. Tracce di umidità macchiavano l’intonaco bianco del muro, facendogli assumere una colorazione grigiastra.

Sospirò ancora, si svestì, aprì l’acqua e si fece una velocissima doccia fredda con una quantità minima di sapone. Dovette trattenere un paio di gemiti di dolore quando il getto fin troppo forte dell’acqua le colpì in pieno un paio di lividi su braccia e addome. Poi, si avvolse nell’asciugamano appeso su un gancio di fianco alla porta, e si asciugò velocemente; stringendosi nel panno, uscì dal bagno e attraversò l’unica stanza di cui era composto il suo appartamento, per poi rovistare tra i vestiti all’interno dell’armadio e dei cassetti, e prelevare della biancheria pulita, e una camicia nuova. Tornò in bagno, si infilò biancheria pulita, pantaloni del giorno prima, camicia pulita, e gettò i vestiti sporchi in un catino sotto il lavandino: li avrebbe lavati quando ne avrebbe avuto tempo. E prima o poi avrebbe dovuto trovarlo per forza di cose, dato che il suo guardaroba non era tanto ampio.

Quando uscì di nuovo dal bagno e scrutò l’orologio, notò che erano le sei meno dieci. Madalena dormiva ancora e lei sapeva sempre meno cosa fare. Rimanere nell’appartamento con lei non avrebbe portato ad altro che a demoralizzazione per il troppo compiangersi per quello che era successo: e non era certo una cosa che si poteva permettere.

Sospirò, e si diresse verso la porta. Andare da Daisy, in quelle situazioni, era sempre la soluzione migliore.
 
 

Il primo suono che Madalena udì appena sveglia fu una musica che non aveva mai sentito, da uno strumento che non aveva mai sentito.

Per qualche secondo – o forse anche minuto, non lo sapeva – rimase ad ascoltarla, mentre era in dormiveglia: a rilassarsi con quei suoni, dolci e lenti, che si susseguivano uno dopo l’altro.

Era un’armonia per lei totalmente ignota. E talmente bella da farle venire la pelle d’oca per l’emozione.

Le dava una sensazione di dolcezza che non aveva mai percepito nella propria vita.

E la prima cosa cui pensò quando si concentrò meglio su ogni suono, e sulla musica nel complesso, fu la parola “amore”.

Quella musica comunicava la dolcezza dell’amore.

Fu quasi sul punto di abbandonarsi ad ascoltarla ancora per un po’ – quando si rese conto, all’improvviso, che non aveva mai sentito una cosa del genere nel condominio dove abitava lei; e in un lampo, arrivò anche la consapevolezza di non essere a casa propria, ma da Rachele.

Rachele, appunto. Che non era a letto con lei.

Né in nessun altro posto della casa, a quanto pareva: la porta del bagno era aperta, e in bagno non c’era nessuno. E la casa era deserta, a parte lei.

E stranamente in ordine.

Era strano, vedere quell’appartamento così ordinato. Innaturale. Praticamente era come non essere nemmeno a casa sua.

Dette un’occhiata in giro, prima di intercettare l’orologio sopra la porta. Le sei e cinque.

E doveva iniziare a lavorare alle sette.

Anzi, dovevano. Dove diavolo era Rachele?

Sospirò, e scosse la testa. Magari era uscita per cavoli suoi e si sarebbero riviste alla fabbrica. Probabilmente non aveva voluto infastidirla ulteriormente, dopo il bacio della sera prima.

Storse la bocca in una smorfia contrariata, e si ritrovò, involontariamente, a sbuffare e a ripensare a quel momento.

Non poteva negare che per un momento l’avesse lasciata fare. Poteva essere stato anche un minimo, infinitesimale momento, non degno nemmeno di troppi pensieri… ma c’era, e per quel momento lei l’aveva lasciata fare.

Ma non le era piaciuto. Assolutamente.

A chi sarebbe piaciuto, d’altronde?

Emise un suono di stizza, e si alzò di botto, buttando da parte la coperta e camminando fino al bagno.

Doveva lavare via tutto. Non poteva presentarsi davanti a un eventuale futuro fidanzato come una che aveva ricevuto il primo bacio da una donna. Da una che credeva un’amica, tra l’altro.

Doveva pulire tutto: sensazioni, odore, la sua saliva dalla propria bocca, il suo sapore dolce dalle proprie labbra… Doveva lavarlo via. Doveva sistemarsi, non poteva presentarsi davanti a qualcuno con quella macchia…

Affogò il viso tra le mani piene d’acqua per metà; e per qualche attimo stette in quella posizione, con l’acqua che nel giro di un secondo era scivolata giù nel lavandino, il rubinetto che continuava ad andare producendo il rumore cacofonico dello scontro dell’acqua con la ceramica del lavabo, e le mani premute contro la faccia.

Come avrebbe fatto a ripresentarsi davanti a qualcuno?

Come faceva Rachele, a presentarsi davanti a qualcuno pur essendo così?

Come faceva lei, a fare finta di niente? A non farsi problemi? A non avere nemmeno un minimo di vergogna, di pudore, di… di buonsenso, cazzo?

Abbassò una mano, andando a stringere con le dita il margine del lavandino.

Perché l’aveva lasciata fare?

Perché non se n’era accorta prima?

E perché lei l’aveva fatto?

Perché aveva dovuto rovinarla?

Ora si sarebbe dovuta nascondere, e con lei avrebbe dovuto cancellare, almeno davanti agli occhi degli altri, quella macchia. Anzi, avrebbe dovuto coprirla come si copre un buco nella stoffa con una toppa: non la poteva cancellare del tutto. Poteva metterci solo menzogne su menzogne, sopra, per non farlo sapere a nessuno.

Emise di nuovo un suono di stizza, e fece schioccare le labbra, furiosa. Prese il bordo della maglietta che aveva addosso e se lo passò sulla faccia per asciugarsela. Poi, uscì dal bagno.

La musica di quello strano strumento risuonava ancora. Proveniva da qualche luogo sopra quell’appartamento.

Madalena soffermò per un secondo lo sguardo sull’orologio.

Le sei e un quarto.

Se Rachele era uscita, tanto valeva che lo facesse anche lei. In qualche modo avrebbe tenuto d’occhio l’orario e sarebbe arrivata al lavoro in tempo: il padrone della fabbrica era intransigente, in fatto di puntualità, e se si arrivava tardi si rischiava il licenziamento in tronco. Meglio evitarlo.

Ma considerò che, dopotutto, dieci minuti in più di quella musica, magari sentita da più vicino, non avrebbero fatto del male a nessuno. E poi la fabbrica era piuttosto vicina a dove abitava Rachele: bastava qualche minuto a piedi.

Si avvicinò alla porta con l’intenzione di salire le scale e verificare almeno da dove provenissero quei suoni – arrivata a toccare la maniglia, però, si rese conto che la chiave dell’appartamento era ancora infilata nella serratura.

Sbuffò, indecisa sul da farsi: Rachele era uscita lasciandola lì, ovviamente, perché quando lei si fosse svegliata non si ritrovasse chiusa in casa. Ma ora lei che doveva fare? Se Rachele fosse tornata, si sarebbe ritrovata la porta di casa chiusa, se lei avesse preso la chiave. Ma se non l’avesse presa e non fosse tornata, la casa sarebbe stata per tutto il giorno aperta, e di certo bene non sarebbe stato, per Rachele. Anche se, probabilmente, in quella casa c’era ben poco da rubare.

Sbuffò, e optò per la soluzione migliore: chiudere la casa a chiave.

Se Rachele fosse tornata, sarebbero stati affari suoi; la prossima volta avrebbe imparato a non uscire lasciandola in casa da sola.

Si lasciò dietro l’appartamento, e cominciò a salire le scale, lentamente; volle gustarsi ogni singolo momento di quella melodia che continuava – ogni singolo suono, e ogni singola pausa.

Doveva essere uno strumento solenne, a giudicare dal suono profondo, eppure dolce, che riusciva a fare. Sembrava che in ogni attimo fosse inciso un sentimento diverso: devozione; dolcezza; appartenenza a qualcosa; tristezza; malinconia; felicità.

Sembrava quasi che parlasse a chi la ascoltava.

Salendo le scale, poté costatare che la musica proveniva dal terzo piano. Finì la rampa, e si ritrovò con la porta di uno dei due appartamenti aperta.

Il monolocale in questione era, se possibile, ancora più caotico di quello di Rachele – almeno, di come l’aveva visto la sera prima; all’interno erano stretti un letto, un tavolo da pranzo, una cucina a vista, con più o meno la stessa disposizione che avevano quelli di Rachele due piani più sotto. La differenza era che, al posto dei libri in giro, c’era un solo, grande oggetto a un angolo della stanza.

Ed era da lì che proveniva la musica.

C’era un ragazzo, dai capelli biondi e i vestiti troppo belli, e troppi curati, per essere di quella zona, che suonava, seduto davanti a quello strumento: Madalena quindi riuscì solo a vedere la sua schiena, e una parte dell’oggetto. Sembrava che i suoni fossero prodotti da dei tasti bianchi che, venendo pigiati, producevano quei suoni. E, a guardare meglio, c’erano anche dei tasti neri, più piccoli di quelli bianchi.

Di fianco a quel ragazzo, poi, erano sedute di schiena altre due persone.

Una di queste era Rachele.

Eccola, dov’era finita. Allora non era andata a farsi un giro: era andata ad ascoltare in prima linea quella meraviglia.

Perché, sì, sentita da vicino, era qualcosa di talmente bello, che per un attimo sentì di nuovo quella pelle d’oca sentita all’inizio, e gli occhi pizzicare di lacrime di commozione trattenute.

Quella melodia doveva essere rivolta all’altra donna che c’era di fianco al ragazzo. Sembrava, da quello che poteva vedere, dato che era di spalle, una donna di colore. Mentre lui era un uomo bianco.

Eppure, era così dolce che sembrava che i colori non importassero.

Bastavano quella, e i sentimenti che vi erano collegati, percepibili a chiunque.

Sentì che la musica si avviava verso la fine: rallentava, con suoni dalla tonalità più alta, e anche di durata più corta; diminuiva d’intensità, lentamente, pur mantenendo un’infinita dolcezza come all’inizio.

Sospirò di dispiacere, quando le mani dell’uomo smisero di muoversi sui tasti, lasciando nell’aria solo qualcosa di simile alla scia di un profumo.

Lo vide voltarsi verso la donna di colore; le labbra incurvate in un sorriso, e le guance sollevate, tanto a assottigliargli gli occhi.

Sorrise, intenerita. Non sapeva perché, dato che non aveva mai visto nulla del genere; ma sentiva che i sentimenti che erano emersi tramite le sue dita, mentre suonava, e quelli espressi tramite quel sorriso estremamente dolce, erano esattamente gli stessi.

E poi, lui si voltò verso la porta.

E Madalena, per un attimo, ebbe un tuffo al cuore per lo spavento, e insieme l’imbarazzo di trovarsi lì, probabilmente senza essere nemmeno desiderata.

In contemporanea, vide anche la donna di colore e Rachele voltarsi verso di lei.

L’unica su cui soffermò lo sguardo per diversi secondi fu Rachele; gli unici occhi da cui riuscì solamente a fatica a staccare i propri furono i suoi.

Li distolse, con una decisione che sentì come forzata, solo quando lei sorrise, e Madalena si ritrovò, per un attimo, a pensare che era bella tanto quanto quell’uomo che aveva sorriso alla donna di colore.

Non doveva pensarlo. Non doveva impazzire. E non doveva farsi sopraffare dall’agitazione.

«Ti sei svegliata prima di quanto pensassi.» sentì dire da Rachele.

«Mh…» rispose Madalena, sollevando gli occhi. «Credo sia stato quello.» considerò, puntando lo strumento dietro l’uomo; vide lui spalancare gli occhi, e girarsi per un attimo verso di esso, sorpreso. «Non che mi sia dispiaciuto! Non preoccuparti!» si affrettò a dire, agitata per la sua reazione.

Di fianco a lui, Rachele rise di gusto. Madalena voltò lo sguardo verso di lei, perplessa, subito dopo aver intercettato di nuovo quello sorpreso dell’uomo.

«Hai visto? Prende subito confidenza!» considerò Rachele, rivolta al ragazzo, battendogli una mano sulla spalla, amichevolmente.

Madalena avvampò per l’imbarazzo e la vergogna: per un attimo, si era dimenticata dei vestiti di classe dell’uomo esattamente come lui sembrava essersi dimenticato, per quell’istante di poco prima, la differenza di colore tra la sua pelle e quella della donna nera.

«Chi è?» domandò la donna di colore, entrando nella discussione.

«La ragazza che è venuta a salvarmi il culo ieri sera.» replicò Rachele, sorridendo, e poi tornando a guardare Madalena. «Madalena.» la presentò, facendo un movimento largo col braccio, come quando si presentava della merce. O qualcuno di importante. Madalena sobbalzò, sorpresa, e si rivolse ai due sconosciuti, facendo un piccolo inchino con la testa. «Madalena, loro sono Daisy e Samuel.»

Madalena sobbalzò, al sentire il nome di Daisy, e lo ricollegò immediatamente alla donna cui la sera prima Rachele aveva richiesto di andare ad avvisare la famiglia Rivera.

Non ci voleva una grande mente, per capire che facesse la prostituta; altrimenti, quali altri motivi avrebbe avuto per andare in giro per le strade la notte?

E d’altronde, non era nemmeno così strano: era nera, e abitava nel Bronx.

Eppure, d’istinto pensò che fosse veramente una bella donna. Soltanto quello. I capelli un po’ disordinati, e gli occhi scuri che sembravano parecchio stanchi; eppure, il sorriso dolce che le rivolse, e la cura quasi pudica con cui si sistemò la veste che aveva addosso – sopra quelli che dovevano essere i suoi vestiti notturni – non sembrarono assolutamente da prostituta; semplicemente, sembrarono quelli di una persona dolce, che doveva guadagnarsi quotidianamente il pane da vivere, e per farlo aveva trovato solo quel metodo.

Spostò lo sguardo sull’uomo bianco di fianco a lei.

Doveva essere un cliente. Ma possibile che un cliente fosse così innamorato come lei aveva visto?

«Ciao.» la salutò Daisy, cordialmente, sollevando una mano. «Grazie per avercela riportata così in fretta. Rischiavamo di sentirne la mancanza.»

Madalena lanciò un’occhiata a Rachele, e poi tornò a guardare Daisy, e annuì, come a dire che non c’era problema.

«Mi dispiace che ti abbia svegliato.» disse il ragazzo, sorridendo, con un’espressione sinceramente dispiaciuta in viso. «Rachele deve aver lasciato la porta aperta senza volerlo, quando è entrata.»

«Oh, non si preoccupi!» replicò Madalena, correggendo volontariamente la troppa confidenza che aveva usato poco prima con dei pronomi più consoni a un bianco e per di più ricco. «Anzi, mi piaceva…»

«Puoi dargli del tu, Madalena.» disse Rachele.

Madalena spostò lo sguardo su di lei, sorpresa. «No, che non posso.»

«Sì che puoi.» replicò lei. «Ed è lui che vuole che lo si faccia.»

«Magari lo vuole da te. Tu sei bianca.» disse Madalena, assottigliando gli occhi. «Io non posso. Non è rispettoso.»

Rachele ridacchiò, e scrollò le spalle.

«Non è rispettoso perché lui è bianco e tu brasiliana?» domandò. Sembrava divertita, ma amaramente.

«Esatto.» replicò Madalena.

«Beh, levatelo dalla testa.» disse Rachele, agitando una mano. «Non siete poi così diversi.»

«Tu non sarai diversa da lui!» sbottò Madalena, scocciata, allungando un braccio a indicarla. «Tu sei bianca, e…!»

Si interruppe all’ultimo secondo, pensando che forse non avrebbe dovuto dirlo davanti ad altre persone, che a lei piacevano le donne. Sarebbe stato un ottimo modo per togliersela di torno, probabilmente; ma non poteva farlo.

Era pur sempre Rachele, in fondo.

«E ho i suoi stessi gusti?» domandò Rachele, in un evidente completamento della frase.

Aveva un sorriso sarcastico, ma sicuro di sé. Non era amaro; e la sua espressione non era minimamente spaventata per la reazione che avrebbero potuto avere gli altri due.

Ma la cosa più assurda, forse, fu proprio il fatto che nessuno degli altri due, quando Madalena spostò lo sguardo su di loro, avesse un’espressione sorpresa al sentire quella frase.

«Lo sanno già da un pezzo.» disse Rachele, come chiarimento della cosa.

Madalena boccheggiò per qualche secondo, sorpresa dalla mancanza di reazioni; fece per aprire la bocca per replicare; ma non uscì nulla, e fu costretta a richiuderla.

«E poi le leggi razziali sono state abolite un bel po’ di anni fa [2].» considerò ancora Rachele, appoggiandosi con il gomito allo strumento, e rivolgendo lo sguardo altrove, assumendo un’espressione contrariata.

«Così come la discriminazione sulle donne.» replicò Madalena, appoggiando le mani ai fianchi, contrariata a propria volta da quell’affermazione.

Rachele sgranò gli occhi, e si voltò a fissarla di nuovo, sorpresa; Madalena intravide anche la sua bocca, per metà aperta.

Distolse immediatamente lo sguardo, per la rabbia che ancora provava verso di lei e verso quelle fottute labbra, e il ricordo di quelle premute contro le proprie.

All’improvviso, una risata ruppe la tensione di quella situazione; Madalena alzò immediatamente la testa, vedendo che era stata Daisy, a scoppiare a ridere – esattamente come poteva essere intuibile dal fatto che il tono della risata era femminile.

«Non litigate, su!» disse lei, alzandosi dalla sedia su cui era seduta, e avviandosi verso la cucina. «Madalena, entra pure. Non stare sulla porta.» la invitò, con un sorriso gentile. «Ti faccio un caffè. Lo bevi?»

Madalena annuì, e ringraziò immediatamente, per poi muovere qualche passo insicuro all’interno di quell’appartamento.

Al posto dei libri, in quella casa c’erano vestiti da donna, per terra.

Possibile che in quel condominio tutti gli abitanti fossero disordinati a quel punto? A casa sua tutto quel disordine e quella noncuranza degli oggetti non c’era; probabilmente anche perché erano in sette, e se avessero avuto un disordine del genere per ciascuno, nell’appartamento fin troppo piccolo in cui abitavano, non sarebbero riusciti a muoversi nemmeno di dieci centimetri.

Rachele prese una delle sedie rimaste a circondare il tavolo – erano quattro, a differenza delle due in casa sua – e la spostò, fino a portargliela davanti.

«Siediti.» disse, con un sorriso, sicura di sé come al solito. «C’è ancora del tempo, prima di andare in fabbrica. Non preoccuparti.»

Madalena fissò per un secondo la sedia; poi, sospirò, e annuì, prendendola per lo schienale e spostandola dietro di sé per accomodarsi.

«Lavori anche tu, Madalena?» domandò Samuel, sorpreso. «Non sei piccola?»

Madalena si strinse nelle spalle. «Non lo so… Quindici anni sono pochi?» domandò.

«Ehi, non darti troppe arie!» esclamò Rachele, ridendo. «Ne hai ancora quattordici!»

Madalena sospirò, e rilassò le spalle. «Sì, beh. Faccio i quindici tra un mese, più o meno.» disse, rivolta a Samuel.

«Non è più o meno la stessa età in cui hai cominciato tu, Rachele?» domandò Daisy.

«Più o meno, sì.» replicò Rachele.

Samuel spostò lo sguardo da lei, a Madalena, a Rachele di nuovo.

«E poi devo farlo.» spiegò Madalena. «Sono venuta dal Brasile apposta. Mio padre sta male e contribuiamo tutti in famiglia, ad aiutare per comprargli le medicine.»

«Cos’ha?» domandò Daisy.

«Non so esattamente cosa sia.» disse Madalena, stringendosi nelle spalle. «L’ha portato mia madre, dai medici, per farlo visitare. A noi ha detto che si tratta di una malattia alla gola.» disse, indicandosi la propria, come se potesse essere più chiaro. «Ma sembra che le medicine non funzionino molto. Mio padre continua a stare male.»

«E quindi lavori per questo?» domandò Samuel. «Sei parecchio giovane, però.»

«Sono cose che capitano, Samuel.» disse Rachele, facendo spallucce. «C’è gente che perde i genitori, e gente che lavora per pagare le medicine. Donne che rimangono incinte da giovanissime e devono lavorare se vogliono tenersi il figlio. Eccetera.» elencò. «E poi ci sono le persone fortunate come te, cresciute in un ambiente benestante, comodo, confortevole, con tutti i privilegi, e tutti i titoli di studio possibili. Che per un pianoforte incontrano l’amore della loro vita.»

Samuel sorrise, e spostò lo sguardo su Daisy – Madalena lo seguì, e fece appena in tempo a vederla sorridere, imbarazzata, prima che si voltasse a controllare il caffè.

«Pianoforte?» domandò Madalena, collegando solo dopo il fatto che Rachele avesse pronunciato una parola di cui non conosceva il significato. «Cos’è?» le chiese, confusa.

Rachele sorrise, e lanciò un’occhiata a Samuel, spingendo Madalena a seguirla. Fu Samuel, a risponderle, appoggiando una mano sullo strumento che aveva dietro di sé.

«Questo.» disse.

Madalena sgranò gli occhi, sorpresa.

Piano. Forte. Pianoforte. In effetti aveva un senso: esprimeva emozioni sia dolci, tanto sembravano sussurrate, sia violente, che sembravano voler solo uscire per manifestarsi in tutta la loro potenza.

«Come la musica che stava suonando prima.» commentò, rivolgendosi a Samuel. «Andava da suoni bassi, a suoni alti.» disse, gesticolando con le dita, andando con la mano da destra verso sinistra. «Era davvero molto bella.» concluse, con un sorriso che sentiva entusiasta.

«Grazie.» disse Samuel, sorridendo a propria volta. «E comunque, come dice Rachele, puoi darmi del tu. Se te lo chiedo io, lo fai?»

In quel momento arrivò Daisy con una tazza di caffè tra le mani, che le porse. Madalena la prese, ringraziò, e poi annuì, all’indirizzo di Samuel.

«Com’è che si chiamava, Samuel?» domandò Daisy, sedendosi. «Non mi ricordo mai il nome. Scusami.»

«Liebestraum[3].» disse Samuel. «E’ di Liszt.»

Daisy sorrise, e si strinse nelle spalle. «Mi dici tutto e mi dici niente.» commentò. «In queste cose sono davvero ignorante.»

«Non fa niente. L’importante è la musica, non il nome. Anche se di certo non posso dire che è mia!» commentò Samuel, ridacchiando. «Purtroppo.» aggiunse.

«Non era solo il Liebestraum, vero?» domandò Rachele. Madalena si voltò a guardarla, sorpresa per come aveva pronunciato con facilità quella parola. «Prima hai suonato qualcos’altro.» aggiunse, indicando il pianoforte, e pigiando un tasto a caso, che emise un suono secco e breve.

«La Rapsodia[3] di Rachmaninov, è vero.» disse Samuel, annuendo. «Che orecchio! Pensavo di averle rese più omogenee e di non aver fatto notare troppo lo stacco, tra l’una e l’altra…»

Rachele sorrise, e fece spallucce. «Le suoni in continuazione, da quando questo è passato da casa tua a qui.» disse. «Dopo un po’ si fa l’orecchio, e si nota lo stacco. Anche se a qualcuno non esperto possono sembrare attaccate, non te lo nego.»

Samuel sorrise, e scrollò le spalle. «Non ti si può proprio ingannare, eh?» commentò. Poi, Madalena intercettò con la coda dell’occhio che il suo sguardo si spostava su di lei. Sobbalzò, rendendosi conto solo in quel momento che aveva fissato il pianoforte per tutto il tempo, come in uno stato di ipnosi.

«Scusa!» esclamò, alzando subito gli occhi verso di lui, e stringendosi nelle spalle.

Samuel la guardò, sorpreso; poi, ridacchiò, e scosse la testa.

«Se vuoi provare a suonarlo, fai pure.» disse, spostandosi di lato sullo sgabello largo su cui sedeva, come a invitarla a sedersi lì.

Madalena guardò lo sgabello, e poi lui, e poi di nuovo il pianoforte.

In effetti, il desiderio di capire che varietà di suoni potesse originare quello strumento era forte.

«Ma è tuo…» commentò, imbarazzata.

Samuel rise di nuovo, e scosse la testa. «Non preoccuparti. Provalo, se vuoi.»

Madalena lo fissò ancora per un attimo; poi, esitò, e guardò la tazza che aveva in mano.

«Dalla a me, quella.» s’intromise Rachele, allungando una mano nella sua direzione. Madalena fissò il suo palmo, e poi lei; sorrideva. Di nuovo con quel sorriso dolce e gentile che le aveva visto anche la sera prima.

Quando faceva così, Madalena si ritrovava a non capire come un sorriso così dolce potesse appartenere a una donna cui piacevano altre donne. Così volgare, e così…

così.

Non c’erano definizioni, per lei: era una contraddizione vivente, così come quel sorriso e quell’espressione sulla sua faccia erano una contraddizione con la persona che aveva dimostrato di essere.

«Grazie…» mormorò, dandole la tazza, e poi sedendosi di fianco a Samuel, sullo sgabello, e guardando i tasti del pianoforte.

Allungò un dito per pigiare un tasto; quando quello emise un suono, sobbalzò, sorpresa. Era un suono alto, di nuovo, e di nuovo di breve durata. Qualcosa di simile a un tintinnio.

Pigiò un altro tasto. E poi un altro ancora. Provò sia quelli bianchi, sia quelli neri. Seguì l’istinto: una linea casuale le indicava dove premere le dita, e che suoni far vibrare nell’aria di quella stanza.

Da quello che ne uscì, si rese conto di non aver fatto la stessa cosa di Samuel: mentre quella di lui era una melodia completa, che aveva un senso, la sua era qualcosa che assomigliava più a capire che suoni i tasti potessero sprigionare. Un po’ come un bambino alle prese con i primi giochi, che prima li provava, li esaminava, li sviscerava e li studiava da ogni angolazione, e poi capiva come giocarci.

Eppure, era una bella sensazione: era elettrizzante pensare che, semplicemente schiacciando dei tasti, si potessero sentire tanti suoni diversi.

Era qualcosa simile alla vertigine: una sensazione che non aveva mai provato con nessun’altra cosa, prima di allora. Era una specie di appartenenza, e di desiderio di comprendere meglio cosa poteva tirare fuori da quello strumento, e da quei suoni che sentiva. Il desiderio di sentirne di nuovi, anche. Il desiderio di sentirli uniti, solo tramite quei tasti, e creare qualcosa di simile a ciò che l’aveva svegliata.

La voce di Rachele irruppe all’improvviso in quella ricerca dei suoni giusti.

«Dobbiamo andare. Sono le sette meno dieci.» disse.

Madalena sobbalzò, e si voltò verso di lei, sorpresa.

E delusa. Fosse stato per lei, sarebbe stata lì per l’intera giornata. E magari anche per quella dopo ancora.

Rachele sembrò capire la sua espressione, perché socchiuse la bocca, e mostrò una faccia sorpresa. Poi, lanciò un’occhiata dietro di lei – seguendola con lo sguardo, Madalena vide che era rivolto a Daisy.

«Puoi tornare a provare, se vuoi.» disse lei, capendo al volo la situazione, e sorridendole. «Per me non c’è nessun problema. Rachele ha le chiavi di casa mia, puoi venire quando vuoi.»

Madalena cercò di trattenere il sorriso che stava per fare, preda dell’entusiasmo – sentiva il cuore batterle a mille, e l’agitazione renderla felice.

«Davvero?» domandò, cercando in ogni modo di arginare l’entusiasmo – da quello che sentì dalla propria voce, però, ebbe poco successo.

«Certo.» disse Daisy. «E Rachele ti potrebbe insegnare le note. Almeno quelle le sa, anche se per il resto è negata per la musica.»

«Ognuno ha i propri difetti.» replicò lei, facendo spallucce, e sorridendo. Poi, tornò a guardare Madalena. «Comunque, se vuoi posso insegnarti qualcosa. I fondamenti, per lo meno. Le note principali.»

«Note?» domandò Madalena, perplessa.

«Sì… ogni tasto corrisponde a una nota. Un suono particolare, ecco. Specifico di quel tasto.» spiegò Rachele. «Io so come riconoscerli. A grandi linee.»

Madalena sgranò gli occhi, sorpresa, e tornò a guardare il pianoforte, e i tasti.

«Davvero?» domandò, tornando a guardarla. «E me li puoi insegnare?»

Rachele sorrise, di rimando. «Se vuoi, sì.» disse. «Ma adesso è davvero meglio che andiamo, mh? Sennò facciamo tardi. Ne parliamo mentre facciamo la strada.»

«Ok!» esclamò Madalena, entusiasta, alzandosi in piedi e poi voltandosi verso Daisy. «Grazie mille di tutto.»

«Figurati!» replicò Daisy, sorridendo. «Torna pure quando vuoi. Buon lavoro.»

Madalena ringraziò con un inchino della testa, e Rachele appoggiò la tazza di caffè – vuota; doveva averlo bevuto lei – sul tavolo, per poi avviarsi verso l’uscita della casa, seguita da Madalena.

«Cazzo, devo anche passare a prendere i soldi da ridare a Klaus. Altrimenti quello stronzo è in grado di estorcermi qualunque cosa, visto che sono in debito con lui.» commentò Rachele, mentre facevano le scale di corsa. «Hai tu le chiavi?» domandò, voltandosi indietro, verso Madalena, quando fu arrivata al pianerottolo del primo piano.

Madalena le prese dalla tasca in cui le aveva infilate mentre faceva le scale verso il terzo piano, e gliele diede. Rachele trafficò per un secondo con la serratura, e poi saettò dentro l’appartamento, andando immediatamente verso l’armadio e rovistandoci dentro, gettando alla rinfusa coperte e vestiti dietro di sé, sul pavimento e sulle sedie, in cerca di quelli che probabilmente erano i soldi risparmiati.

«Eccoli. Meno male.» commentò alla fine, estraendo una busta, e cercando qualcosa al suo interno. «Venti, quaranta, cinquanta… sessanta.» disse, tirando fuori le banconote interessate, e infilandosele nella tasca anteriore della camicia. «Ok. Possiamo andare, scusa se ti ho fatto aspettare.» disse, rimettendo velocemente via la busta e ributtando dentro alcune coperte e alcuni vestiti, per poi uscire di nuovo di casa e chiudere rapidamente la porta a chiave.

«Cosa potrebbe estorcerti Klaus?» domandò Madalena, mentre si dirigevano a passo svelto verso la fabbrica, costeggiando il condominio di Rachele. «A me non sembra un così pessimo ragazzo.»

«Il semplice fatto che abbia fatto venire te a prendermi, nonostante sapesse benissimo i rischi che potevi correre, dimostra che lo è.» disse Rachele. «E tranquilla, che potrà anche sembrare tenero e tutto, ma solo perché si ritrova quella faccia. Non sai quante cazzo di volte ha tentato di estorcermi una scopata in cambio del fatto che era venuto a tirarmi fuori.»

Madalena spalancò gli occhi, esterrefatta. E pensare che Klaus non le era mai sembrato così malvagio: solo molto invaghito di lei, al punto da seguirla ovunque come un cagnolino fedele.

Le apparenze l’avevano ingannata, senza dubbio.

Sbuffò, amareggiata. Ma era vero, poi, che le apparenze l’avevano ingannata? Non era solo che Rachele esagerava la cosa, solo perché le piacevano le donne?

«Perché l’hai fatto, ieri sera?» domandò d’istinto, alzando lo sguardo.

Rachele si voltò verso di lei: aveva le gambe più lunghe, ed era mezzo metro più avanti. Ma Madalena vide benissimo la sua espressione stupita.

«Lo sai, di che cazzo parlo.» disse Madalena, interpretando quella faccia anche come una richiesta di spiegazioni, per lo meno sull’argomento di cui dovevano parlare.

Rachele rimase per qualche attimo in silenzio; attimi che a Madalena sembrarono un’eternità, in cui percorsero strade e marciapiedi, senza che nessuna delle due dicesse niente.

«Siamo arrivate. Meglio non parlarne, qui.» disse lei alla fine, sollevando la testa.

Madalena sobbalzò, e alzò a propria volta lo sguardo, ritrovandosi davanti alla cancellata della fabbrica. Era stata talmente concentrata sull’attendere la risposta di Rachele, che aveva finito per non accorgersi di dove stessero andando.

Spostò di nuovo l’attenzione su di lei, irritata da quella mancanza di risposta.

«Fai tanto la figa. Proponi addirittura quello che c’è scritto in quei cazzo di libri, per sostenere quello che pensi.» disse. Rachele non smosse lo sguardo; continuò a tenerlo alto, fisso sulla fabbrica. «E poi non hai nemmeno le palle di spiegare perché fai una cosa. A me, tra l’altro.» proseguì Madalena, sempre più irritata.

Rachele non voltò la testa; non spostò lo sguardo, ancora. Solo le sue palpebre ebbero un lieve cedimento, assottigliando di poco il campo visivo dei suoi occhi.

Madalena emise un suono di stizza, e distolse gli occhi da lei, furiosa con lei come lo era prima di uscire da casa sua per cercare la fonte della musica.

«Fottiti, Rachele.» sibilò, passandole di fianco e avviandosi verso l’ingresso della fabbrica, ad ampie falcate.

Si impose di non voltarsi, malgrado l’istinto glielo consigliasse; si impose di non guardarla di nuovo, malgrado il nodo allo stomaco che sentiva per quella mancata risposta.

Eppure, quelle imposizioni furono inutili.

Si voltò a guardarla, solo per un attimo.

Rachele era ancora lì: non si era mossa.

Era rimasta lì, come una statua, in piedi, con il mento sollevato e lo sguardo rivolto all’edificio della fabbrica.

Ma con gli occhi chiusi. E l’espressione di una persona che era stata ferita nel profondo, e cercava di tenersi dentro il dolore, perché altrimenti sarebbe scoppiata ad urlare.
 
 

Klaus Ryan era uno dei pochi bianchi che lavorava in quella fabbrica, inclusa lei e un paio di altre persone. E di sicuro loro facevano parte dei pochi bianchi che ancora vivevano nel Bronx. Per lo meno, in quella zona.

C’era chi diceva che fosse rischioso avere a che fare con i neri di quella zona, se si era bianchi: che era come se fosse la loro zona – l’unica di cui i neri si riconoscessero come veri appartenenti, a New York –, e vederla violata dai bianchi per loro non doveva essere un gran piacere.

Ma personalmente, Rachele aveva avuto ben pochi problemi coi neri, che chiaramente non faticavano a capire che erano tutti nella stessa barca, in quella zona: erano tutti alla ricerca di un lavoro, di soldi da risparmiare, per scappare poi in una zona migliore in cui godere di più diritti di quelli che potevano essere dati a degli immigrati venuti in America cercando la gallina dalle uova d’oro, e rimanendo a stento con un uovo di gallina vero e proprio in mano.

Per contro, aveva avuto molti più problemi con Klaus.

Klaus aveva cinque anni più di lei; la sua famiglia proveniva da un qualche Paese dell’Europa non meglio identificato, e non si sapeva bene il motivo per cui era finita ad abitare nel Bronx. Ciò che era certo, era che Klaus vivesse solo, in quanto anche i suoi genitori erano morti – il padre durante la guerra nel Vietnam, e la madre di malattia. Ed era risaputo che fosse uno stronzo patentato di prima categoria, che fingeva di essere gentile e carino, e invece sotto sotto era una bestia. Chiunque lì in zona lo conosceva, e lo sapeva.

Il suo primo incontro con Klaus risaliva a quando era entrata in fabbrica: lui, da bravo puttaniere, ci aveva subito provato con lei, e si era trovato davanti una barriera invalicabile che da quel giorno aveva tentato in tutti i modi di scavalcare, di rompere, o di aprire.

Rachele si era sempre opposta a ogni sua avance. Già gli uomini non la facevano impazzire; se poi si parlava di Klaus, quei capelli biondissimi tagliati a spazzola, quella pelle bianca cadaverica, e quegli occhi scurissimi, uniti ai modi rudi, alle mani che osavano troppo, e alle parole spinte che le diceva continuamente – unito, il tutto, al fatto che non fosse nemmeno bello d’aspetto; ma quello passava decisamente non in secondo, ma proprio in ultimo piano, ed era più che altro un’aggravante a tutto il resto –, avevano contribuito a farle provare ribrezzo per lui.

Il suo problema erano state le manifestazioni femministe cui aveva deciso di prendere parte appena si era resa conto che Klaus aveva più soldi di lei pur lavorando meno.

Era inevitabile che, durante le manifestazioni, lei capitasse in qualche rissa coi poliziotti, e finisse quindi per essere arrestata per resistenza a pubblico ufficiale. Del resto, non è che potesse fare altrimenti: l’alternativa alle manette era farsi menare a sangue con il manganello. O rimanere indifferente davanti alle compagne che venivano picchiate, senza intervenire e senza cercare di farle scappare.

Non era qualcosa che rientrava nel suo spirito, la terza opzione. Quindi, l’unica era l’arresto.

Klaus fin dal primo momento ne aveva approfittato. Aveva pagato la cauzione per liberarla – la prima volta erano stati quaranta dollari –, e l’aveva portata a casa, dicendole che era in debito con lui.

Era stato in quel momento, che Rachele aveva capito di essere seriamente nei casini.

Doveva ripagare un debito, e non aveva i mezzi per farlo.

Era stato in quel momento, che aveva deciso di risparmiare sempre dei soldi, sacrificando dei libri o del cibo, in modo da avere, mano a mano, una cifra per ridargli i soldi, in caso fosse finita di nuovo in prigione.

Dopo due anni, quella cifra era arrivata ad ammontare, mese per mese, a centocinquanta dollari. Considerando che nel frattempo si era fatta arrestare altre cinque volte, sempre per lo stesso motivo, era una cifra non indifferente. E siccome non voleva smettere con le manifestazioni finché non fosse stata pagata la stessa cifra di Klaus, se non di più, e non voleva nemmeno dargliela vinta, si era riproposta di nascondere la busta con i soldi utili per quella causa nell’armadio, sotto mille altri vestiti: sapeva bene che era lì, ma non vedendola, non era tentata di usarli.

«Sessanta dollari.» disse freddamente, allungandoglieli, una volta che l’ebbe raggiunto nel vicolo di fianco alla fabbrica, durante la pausa pranzo; in genere era lì, che lei gli ridava i soldi. Non voleva far vedere agli altri che ne aveva tanti: non si sapeva mai che gente potesse girare, e non ci si poteva fidare delle apparenze. Klaus ne era sempre stato la prova.

Klaus fece una smorfia, e poi li prese e li mise in tasca. «Peccato.» commentò. «Avresti potuto tenerteli direttamente, come pagamento.»

«Fottiti, Klaus. Non sono la tua puttana.» replicò Rachele, facendo per andarsene.

Sentì Klaus, subito dietro di lei, ridere sarcasticamente, e poi parlare di nuovo.

«Ma se l’altra volta hai goduto come una puttana.»

Rachele si bloccò, colpita nel profondo.

Klaus parlava della prima volta in cui l’aveva tirata fuori di prigione, e aveva preteso che lei pagasse il debito in qualche modo, subito. Nonostante Rachele gli avesse chiesto più di una volta di aspettare, e gli avesse detto che gli avrebbe ridato i suoi soldi, lui non aveva voluto sentire ragioni.

Era stato in quel modo, che aveva perso la verginità.

Aveva sentito un dolore atroce in quei momenti, e anche il giorno successivo. E quel coglione pensava che lei avesse goduto.

«E non mi hai nemmeno ridato quei quaranta dollari, per dimostrarmi che non lo sei.» proseguì Klaus. «Sei ancora in debito con me di quaranta dollari, quindi. E di una bella scopata.»

«Se vuoi i quaranta dollari e poi mi giuri di smettere di rompere i coglioni, vedrò di farteli avere il prima possibile.» replicò Rachele, senza voltarsi; era meglio non dire che li avrebbe avuti il giorno immediatamente dopo, o Klaus avrebbe capito che aveva sempre dei soldi disponibili per emergenze come quelle. E lei non poteva sapere cos’avrebbe fatto in quei casi. Per quanto lo conosceva, avrebbe anche potuto fare irruzione in casa sua e rubarle tutti i soldi che aveva messo da parte. «Sulla bella scopata, avrei qualche dubbio.»

«Oh, insomma. Sicuramente sono quello che ti ha fottuto meglio di tutti.» disse lui.

«E’ per questo che ho dei seri dubbi.» replicò Rachele, affondando le mani nelle tasche. «Sei talmente esperto a scopare, che neanche ti sei reso conto che non stavo godendo, né che ero vergine, evidentemente.»

Klaus rimase per qualche attimo in silenzio – probabilmente stupito, da quella confessione.

Perché lei rimaneva lì, poi? Poteva anche andarsene: aveva ancora un’intera pausa pranzo da fare. Perché rimaneva ad aspettare la risposta di quel bastardo?

La risposta la sapeva bene. Non c’era bisogno nemmeno di pensarlo; nemmeno di chiederselo.

Perché lo odiava.

Lo odiava, e voleva solo umiliarlo come lui umiliava e insultava lei. Voleva solo schiacciarlo sotto un piede, malgrado fosse una donna, malgrado lui avesse cinque anni di più, malgrado lui le avesse preso la verginità, malgrado lui continuasse a prenderle soldi su soldi e a impedirle di scappare di lì, come un parassita che piano piano succhia la linfa vitale dell’ospite, pur mantenendolo in vita.

Era un rischio cercare di sopraffarlo; ma continuava a ripetersi che un giorno sarebbe riuscita in quell’intento, e che quindi valeva la pena correrlo.

«Vergine.» commentò lui. «Tu pensa. E dire che dalla tua faccia sembrava che scopassi già a dodici anni.»

«Pensa che invece sembra che tu non scopi poi granché quanto dici, vista l’esperienza diretta che ho avuto.» replicò Rachele. «Cos’è, devi ricattarla una donna, per fartela dare?»

Klaus rimase per qualche secondo in silenzio, e Rachele preferì credere che non sapesse più cosa dire. Si godette l’applauso interiore, e fece per andarsene – ma Klaus parlò di nuovo, e stavolta le fece gelare il sangue nelle vene.

«Chissà se anche Madalena è vergine.»

Rachele si bloccò, sconvolta. Tutto pensava, tranne che avrebbe tirato in ballo lei.

«Magari potrei ricattare anche lei.» proseguì Klaus; Rachele percepì un brivido lungo la spina dorsale, al solo pensiero.

No. No, no, no. Non Madalena. Non lei.

Già faceva fatica a immaginarla con un uomo. Immaginarla con Klaus la portava a trattenere insieme conati di vomito e desiderio di ammazzarlo lì seduta stante, per fare in modo che non accadesse.

«E’ rimasta a dormire da te, stanotte, vero?» domandò Klaus, di nuovo. «Beh, certo, sicuro. Siete arrivate insieme. Per forza è rimasta a dormire da te. Mica potevi rischiare di tornare a casa da sola da casa sua, dopo averla riaccompagnata.» continuò. «Chissà che avete combinato…»

«Non abbiamo fatto niente!» ribatté Rachele, voltandosi verso di lui, e stringendo il pugno per la rabbia.

Klaus la fissò, con un sorriso maligno stampato sulle labbra sottili, e gli occhi assottigliati di una persona che era sicura che quella sarebbe stata la reazione.

«Però lo sapete solo voi due.» disse, avvicinandosi a lei e avvicinando il viso al suo. «E visto il tuo modo di fare, Rachele, posso tranquillamente far passare in giro la voce che sei una fottuta lesbica. Sei talmente contraria alle regole, e contro di me, che tutti ci crederebbero. E se dicessi in giro che Madalena è stata a dormire da te… chissà cosa potrebbe succederle.»

«Non osare farlo!» ruggì Rachele. «Non ti azzardare, Klaus! Giuro che se lo fai trovo il modo di ammazzarti definitivamente, e farei solo un favore alla società!»

Klaus si espresse in un sorriso sarcastico, e assottigliò ancora di più gli occhi; le ciglia chiare facevano un contrasto orrendo, con i suoi occhi scurissimi.

«Io posso tenere anche la bocca chiusa. Ma voglio qualcosa in cambio da te.»

Rachele spalancò gli occhi, sconcertata. Le era partito il sangue al cervello, quando quel figlio di puttana aveva iniziato a parlare di Madalena. Non aveva ragionato, e si era ritrovata nel casino in cui si ritrovava ora.

Merda.

«Hai un bel coraggio, razza di figlio di puttana.» sibilò. «Dopo averla mandata da sola al commissariato con la scusa del turno di notte!»

Klaus scoppiò a ridere, e inarcò un sopracciglio. «Sì, effettivamente è stata una bella idea, quella di usare lei per arrivare a te, vero?» domandò. «La mia testolina si è messa a lavorare non appena ha visto che lei era preoccupata per te. E nel giro di qualche secondo è arrivata a questa conclusione. È talmente carina e ingenua che ci ha creduto subito, alla storia del turno di notte.» spiegò. «Allora? Non sono stato bravo?»

Rachele si espresse in un suono di stizza, furiosa.

«Vuoi sapere cosa voglio?» domandò Klaus, sorridendo, malefico. «Voglio che ci frequentiamo. Metterò apposta i nostri appuntamenti nei giorni in cui hai i ritrovi per le manifestazioni, così smetterai di farti strane idee in testa. Ma tranquilla, non ti scoperò. Alla lunga, sarai tu a chiedermi di scoparti.»

Rachele lo fissò, sempre più furiosa.

Sapeva di non poter rifiutare. E sapeva che chiedergli la sua parola sul fatto che non avrebbe toccato Madalena era inutile, se non addirittura controproducente: lui era sempre stato bugiardo, e senza scrupoli. Se gliel’avesse chiesto, chissà cos’altro avrebbe potuto tirare fuori.

«Tranquilla. Non toccherò Madalena.» disse lui, quasi come se fosse in grado di leggerle la mente. Rachele si sentì sollevare il mento per un attimo, con un fare che voleva essere affabile, e invece le parve solo disgustoso. «Se fai la brava, faccio il bravo anche io.»

Rachele lo fissò andarsene, con un sorriso sarcastico e da vittorioso dipinto in viso.

E per una volta, maledisse il proprio orgoglio, che l’aveva fatta rimanere solo per vederlo sconfitto.

 
Note
[2] Il matrimonio interraziale negli Stati Uniti è stato legalizzato nel 1967, dodici anni prima dell’inizio della storia.
[3] Link alle canzoni, giusto a titolo informativo:
Liebestraum, di Liszt: http://www.youtube.com/watch?v=aYvTp6RL1EI
Rapsodia, di Rachmaninov: http://www.youtube.com/watch?v=5upqQ1GCQu8

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Seguire ***


Capitolo 3 – Seguire
 
 
Giugno 1981
 
Madalena ripassò mentalmente la pagina dello spartito che aveva appena finito di guardare, cercando di memorizzarlo e di ripeterlo nella testa. Poi, iniziò a suonare, schiacciando un tasto per volta.
 
Erano passati quasi due anni, da quando aveva visto per la prima volta il pianoforte di Samuel. Da allora, passava ogni serata libera dagli impegni famigliari a casa di Daisy, a studiare pianoforte; certe volte l’aiutava Rachele – per quanto le sue conoscenze fossero scarse, in fatto di suonare uno strumento musicale; in compenso, però, conosceva a memoria diverse opere classiche per pianoforte. Alcune volte, invece, era Samuel a darle una mano, quando era lì.
 
A Madalena sarebbe piaciuto dire che, dopo la morte del padre, avvenuta un anno e mezzo prima, era rimasta lì nel Bronx solo per quel pianoforte, e per imparare a suonarlo e guadagnare, un giorno, i soldi che l’avrebbero portata a lasciare quel posto, e ad andare in qualche zona di New York più ricca, più abitabile e meno criminosa di quella; sarebbe stata una bella storia, un meraviglioso motivo per restare, che esprimeva appieno l’amore a prima vista che aveva provato per quello strumento, e come si era evoluto successivamente fino a diventare qualcosa di maturo, consapevole, responsabile, eppure allo stesso tempo estremamente folle.
 
La realtà era ben diversa: i suoi genitori, quando erano arrivati lì, avevano chiesto dei soldi in prestito per l’appartamento e tutto il mobilio correlato, e per le medicine per il padre. Nonostante avessero persino risparmiato sui letti (avevano solo quello matrimoniale e due letti singoli; tra figli, ci si alternava a dormire per terra), avessero solamente un armadio in casa che conteneva i vestiti delle rimanenti sei persone presenti, risparmiassero costantemente su cibo, uscite, vestiti e qualunque altra cosa, i soldi non bastavano per ripagare appieno il debito contratto nei confronti di quelli che si erano rivelati strozzini che chiedevano interessi improponibili per chiunque. Lei era dovuta rimanere, esattamente come i suoi fratelli e sua madre, per ripagare quel debito.
 
«Ti sei persa un do.»
 
Madalena sobbalzò, e si interruppe, voltandosi verso Rachele: come sempre, lei sapeva bloccare il filo dei suoi pensieri, e farla tornare alla realtà. Solo che in momenti come quello Madalena avrebbe preferito che non lo facesse.
 
Ma se si trattava di correggerle un errore, non poteva di certo dirle di no.
 
La osservò, senza dire nulla, mentre lei teneva in una mano lo spartito, con fare svogliato – era appoggiata al bordo della tastiera, con l’espressione pensierosa di una testa che era dappertutto tranne che lì.
 
E Madalena pensava di sapere anche dove fosse.
 
Poco tempo dopo la sua scoperta del pianoforte, due anni prima, aveva cominciato a circolare la voce che Rachele e Klaus si fossero messi insieme. Qualcuno giurava di averli visti davvero insieme, in giro. E le voci si erano diffuse al punto che Madalena aveva deciso di chiedere conferma a Rachele stessa.
 
Quando aveva sentito la sua risposta affermativa, era rimasta senza parole. Anche – e forse soprattutto – per la nonchalance con cui Rachele le aveva detto che era tutto vero: aveva avuto in viso l’espressione di una persona cui non importava nulla di quella relazione, e contemporaneamente la considerava una cosa ovvia.
 
Era stato un duro colpo. Soprattutto visto quello che lei aveva detto e pensato di lui fino a qualche settimana prima.
 
Ma Madalena aveva sentito che c’era anche dell’altro. Era qualcosa che si presentava quando vedeva Rachele con lo sguardo rivolto altrove da lei, come in quel momento; era la stessa cosa che sentiva ribollirle dentro quando vedeva Rachele e Klaus insieme.
 
Era come un sentirsi tradita, e ferita nel profondo: Rachele aveva detto che le piacevano le donne, l’aveva baciata fingendo che si trattasse di quello; e poi in realtà era stato solamente per gioco, o forse perché si trovava troppo vicina e ne aveva semplicemente voglia. Le aveva dato qualcosa di cui preoccuparsi vita natural durante, perché gli altri non venissero a scoprirlo; e lei si comportava come se niente fosse.
 
E il peggio era che Madalena, col ragazzo che aveva avuto fino a un mese prima, non era riuscita a sentire in mille baci di diversi secondi l’uno la stessa sensazione che aveva percepito per quell’attimo in cui aveva baciato Rachele.
 
Non c’era stato lo stesso brivido, e al contempo quella sensazione di poter stare tranquilla, e di potersi fidare completamente di lei.
 
E col suo ragazzo non aveva mai voluto, dal profondo, scuoterlo per attirare di nuovo le attenzioni su di sé. Cosa che invece voleva sempre fare con Rachele, quando distoglieva lo sguardo e fissava qualcosa o qualcuno diversi da lei.
 
Era qualcosa che chiunque avrebbe definita “gelosia”; ma che lei non voleva catalogare come tale.
 
Riusciva solo a definirlo come odio verso Rachele, perché aveva solamente giocato con lei, fingendo che ci fosse qualcosa di più.
 
D’altronde, ormai aveva capito bene di non riuscire ad avere un quadro generale di una persona da una prima occhiata.
 
Sospirò, e schiacciò qualche tasto a caso sul pianoforte, muovendo le dita della mano destra.
 
Ogni tanto Rachele la ospitava a casa sua; ormai Madalena aveva smesso di farsi problemi a pensare che avrebbe potuto molestarla. Ma ultimamente, anche le poche volte che era stata da lei, Rachele era uscita di casa durante la notte ed era tornata sempre la mattina successiva, dopo che Madalena si era svegliata.
 
Probabilmente andava con Klaus da qualche parte, ma siccome non voleva privarla delle sue serate di pianoforte, optavano per un posto che non fosse casa di Rachele: presumibilmente, quindi, andavano da Klaus.
 
Il solo pensiero la faceva rabbrividire. Pensare a Klaus insieme a Rachele era qualcosa di… abominevole forse era la definizione più vicina.
 
Sapeva di pensarla così anche perché, da quando aveva iniziato a frequentare Klaus, Rachele aveva smesso di partecipare alle manifestazioni femministe cui prendeva parte prima: non l’aveva più vista con lividi, graffi o simili, e di sicuro non aveva dovuto tornare in commissariato a pagare la sua cauzione.
 
Klaus l’aveva cambiata, e in peggio. L’unica cosa che era rimasto uguale, di lei, erano i libri nella sua stanza: quelli non mancavano mai, ed erano sempre in disordine. Le prime volte che era andata a casa sua per dormire lì, dopo aver fatto la lezione di pianoforte, Rachele li aveva rimessi a posto; ma Madalena aveva odiato quell’ordine tendente allo sterile, tanto che una sera aveva preso tutti i libri e li aveva ributtati in giro, lasciando che finissero dove capitava. Da quel momento, Rachele aveva capito che doveva lasciarli esattamente com’erano quando usciva di casa la mattina.
 
D’altronde, Madalena aveva realizzato che poteva sopportare che Rachele stesse con Klaus; che Rachele non andasse più alle manifestazioni e non si cacciasse nelle risse; che Rachele le dicesse che tutto sommato Klaus si era dimostrato un bravo ragazzo. Ma non riusciva a tollerare che mettesse anche a posto casa per lei. Era come non stare più con la vera Rachele – era come vedersi sparire davanti agli occhi l’ultimo barlume di quella persona che Rachele sapeva essere.
 
«Smettila di pensare a Klaus quando ci sono io.» commentò, mascherando la rabbia per quello sguardo rivolto altrove con un tono fintamente scherzoso. Rachele spalancò gli occhi, e tornò a guardare lei, con un’espressione sorpresa. «Tanto lo vedi stasera, no? Abbi pazienza ancora per un’ora.» aggiunse, correlando il tutto con un sorriso fintamente comprensivo.
 
«Oh… Sì. Scusa.» disse lei, tornando a guardare il foglio con gli spartiti. «Tra l’altro, tornando al pianoforte. Non capisco come mai vuoi sempre memorizzare tutte le canzoni che studi. Non rischi di fare confusione con le note, poi?»
 
«No. Ognuna è diversa dall’altra, e con un paio di note in genere riesco a non sbagliare.» disse Madalena. «E poi mi piace memorizzarle. È una cosa che mi piace studiare.»
 
Rachele sorrise di rimando, dolcemente.
 
Era anche quella una menzogna?
 
Mentiva anche con quello? Nemmeno quegli occhi assottigliati per il sorriso e la dolcezza, e quell’espressione rilassata… nemmeno quelli, erano veri?
 
«Sai…» commentò Madalena, cercando di distogliere l’attenzione dalle sue labbra – ripetendosi che gli occhi si erano fissati lì solo perché le piaceva guardare quel sorriso. «Non ho ancora capito come un pianoforte sia finito qui. Daisy non è nemmeno troppo esperta della cosa, mi è parso di capire…»
 
«No, infatti.» disse Rachele, usando la mano libera dal tenere gli spartiti per sostenere il mento. «E’ una storia un po’ particolare. Il padre di Samuel voleva liberarsi del pianoforte perché vedeva che Samuel dedicava la maggior parte del tempo a suonare, e lui non voleva. Combinazione, ne ha parlato con Daisy mentre scopavano.» spiegò, sollevando gli occhi al soffitto per un istante. «Daisy ha pensato di prendersi il pianoforte per farci dei soldi. Poi però ha conosciuto Samuel, che aveva scoperto che il pianoforte era finito qui. E nel giro di poco si sono innamorati, ed ecco come il pianoforte ha finito per rimanere qui.»
 
Madalena sorrise, tornando a guardare i tasti del pianoforte, e accarezzandoli lentamente.
 
«Vuoi riprovare?» domandò Rachele.
 
«No, lascia perdere.» replicò Madalena, senza guardarla. «Sei troppo impegnata a pensare a Klaus. Non mi staresti ad ascoltare.» commentò, inarcando un sopracciglio, e intanto chiudendo la tastiera col coperchio.
 
«Guarda che mi piace stare ad ascoltarti!» replicò Rachele.
 
Madalena spalancò gli occhi – quella frase, per quanto banale, fu come un fulmine a ciel sereno.
 
Per un attimo la sua mano tremò, indecisa come il suo cervello sul da farsi – poi, riacquistò la presa sul coperchio dei tasti, e lo strinse di un poco.
 
«E poi smettila di rosicare! Non è colpa mia se ti sei lasciata con il tuo ragazzo il mese scorso, che cazzo!» proseguì Rachele, alzando la voce.
 
«Io non rosico! Figurati!» replicò Madalena, alzandosi di colpo, e voltandosi a guardarla, piccata. «Sto solo dicendo che se non vuoi stare qui ad aiutarmi, nessuno ti obbliga a farlo!»
 
«Se sto qui è perché lo voglio!»
 
«Beh, scusa tanto se non sembrava! Avevi quella cazzo di testa da tutt’altra parte!»
 
Rachele esitò per un istante, ancora con la bocca aperta pronta per ribattere – e poi sbuffò, sbatté i fogli con gli spartiti sul tavolo di fianco al pianoforte, e si alzò, dirigendosi verso la porta senza nemmeno guardarla.
 
«Meno male che stasera devo uscire.» disse, a voce sufficientemente alta per farsi sentire da lei, ma sufficientemente bassa da non sembrare in vena di discutere. «Stare con un’isterica come te in casa tutta la notte sarebbe un’immensa rottura di coglioni. Senza contare che non dormirei.»
 
«Come se da Klaus dormissi!» esclamò Madalena, con un gesto esasperato, alle sue spalle, mettendosi poi a seguirla fuori dalla porta. «Cos’è, ti sei messa con lui perché fottendoti ti ha fatto ricredere sugli uomini?!»
 
La vide trasalire di colpo, mentre chiudeva la porta. Rabbrividire, e fermarsi dalla camminata veloce che aveva intrapreso a ulteriore dimostrazione che voleva andarsene da lì.
 
La vide rimanere ferma per qualche attimo – la sua schiena, fasciata in una camicia di jeans; le sue mani affondate nelle tasche dei pantaloni; i suoi capelli lunghi fino alle spalle lasciati totalmente sciolti e ribelli a cadere sulle spalle e nello spazio tra le scapole.
 
I suoi occhi scuri, quando si voltò a guardarla. Freddi.
 
Feriti.
 
Il suo tornare a voltarsi, senza dire una sola parola; il suo riprendere a camminare, mentre Madalena la fissava andarsene, senza osare fare un solo movimento.
 
Avrebbe voluto seguirla. Dirle che le spiaceva. Prenderla per una spalla, voltarla, e vedere di nuovo quel sorriso dolce che le rivolgeva sempre. Ritornare a pochi attimi prima, mordersi la lingua e non dire nulla.
 
Invece, la fissò mentre scendeva le scale, e spariva dalla sua vista.
 
L’idea di seguirla per chiederle scusa le balenò in testa per qualche secondo – giusto il tempo di ponderarla, e poi di dirsi che Rachele se l’era solo cercata, con quegli attacchi gratuiti.
 
E poi, le tornarono in mente i suoi occhi feriti quando le aveva detto che andava da Klaus.
 
Perché erano feriti a quel modo, poi? Lei non aveva detto nulla che non fosse vero, in fondo.
 
C’era qualcosa che non quadrava, forse. Qualcosa che lei non sapeva.
 
Non che fosse così strano, alla fine; ma voleva sapere il perché di quell’espressione, quando non aveva detto nient’altro che la verità. E voleva tornare a vedere Rachele sorridere; non aveva mai capito perché, ma le piaceva vederla sorridere a quel modo. Le dava un senso di tranquillità.
 
Sbuffò, e chiuse a chiave la porta dell’appartamento di Daisy, lasciando poi la chiave sotto il tappetino all’ingresso. Prese le scale, e le scese di corsa, cercando di raggiungere Rachele: mentre rimaneva lì a pensare, aveva sentito il portone del condominio chiudersi. Ma probabilmente non era andata molto lontano.
 
Sospirò di sollievo, quando uscì dal portone e la vide camminare, con le mani in tasca e trascinando i piedi, in una strada alla sua destra. Fece per seguirla e raggiungerla per chiederle delucidazioni – quando, pochi passi dopo, si bloccò di nuovo e la fissò, stranita.
 
Casa di Klaus era da tutt’altra parte. Si doveva prendere la strada davanti all’uscita del condominio, e poi svoltare a sinistra al primo vicolo, e proseguire per altre mille stradine. Di certo, non era la strada che stava prendendo Rachele.
 
Se, da una parte, quella era la conferma che qualcosa non andasse davvero, dall’altra Madalena si chiese che cosa fosse quel qualcosa; e istintivamente, non poté fare a meno di preoccuparsi.
 
Ma sapeva che, se fosse andata lì a chiederle che cosa andasse storto – magari anche qualcosa tra lei e Klaus –, Rachele sarebbe stata ancora troppo arrabbiata con lei, per non risponderle in malo modo; e sicuramente non le avrebbe detto la verità.
 
Dette un’occhiata intorno a sé, per vedere se c’erano tizi sospetti in giro; fortunatamente, erano solo le otto, e in quella zona non sembravano esserci casini di sorta. Forse avrebbe potuto seguirla un pochino, per capire dove fosse diretta e magari carpire qualche indizio su cosa non andasse.
 
Fece un respiro profondo, e poi sollevò le spalle e strinse per un attimo i pugni; sperando che nessuno prestasse troppa attenzione a lei, prese la strada a destra del condominio, seguendo Rachele.
 
 
 
Rachele si passò una mano tra i capelli, stancamente.
 
Quella discussione con Madalena l’aveva demoralizzata. Era vero che non poteva dirle nulla su quello che era veramente successo con Klaus – non voleva pesare su di lei, e non voleva nemmeno metterla in difficoltà –; ma quello era il genere di affermazioni che la ferivano di più.
 
Dopo quella perdita di verginità particolarmente traumatica, il ricatto di Klaus e il fatto che fosse stato lui stesso a spargere la voce che lui e lei stessero insieme, Rachele era effettivamente arrivata a chiedergli di scoparla, pur di farlo smettere con allusioni, palpeggiamenti, o parole sconce nell’orecchio, mormorate come fallite parole sexy; oppure, gliel’aveva chiesto semplicemente per levarselo di torno.
 
Di norma, comunque, cercava di resistere il più possibile: essere scopata da lui era una cosa che odiava dal profondo. Non sentiva nulla – solo dolore, e la sua puzza di sudore, misto a sporco, misto a quell’odore di aria troppo calda; solo umiliazione, e i suoi ansiti bollenti e pesanti sulla pelle; solo la voglia di pulirsi, quando lui la toccava con quelle mani che erano rudi e indelicate, o quando le veniva dentro – e lei sperava sempre di non rimanere incinta di lui: perché quello avrebbe significato o doverlo sposare, o dover abortire. Ed entrambe le alternative non erano allettanti.
 
In più, il dover fingere di godere di quell’atto era soltanto più deprimente; ma dopo la prima volta, in cui Klaus aveva visto che non era particolarmente coinvolta e l’aveva costretta a rifarlo, aveva deciso che era la soluzione migliore per toglierselo di dosso il prima possibile, in modo veloce e relativamente indolore.
 
Odiava averlo intorno, odiava anche solo sentire la sua voce o percepire il suo odore in zona. Cercava sempre di non incrociare lo sguardo con lui – era sempre lui, che veniva a cercarla e le faceva capire quando era il momento giusto di stare al gioco.
 
Era qualcosa di talmente stancante da prosciugarla. Gli unici momenti in cui stava meglio erano quelli che passava con Madalena, anche solo ad ascoltarla suonare il pianoforte.
 
Era diventata brava. Non era di sicuro ai livelli di Samuel, che lo suonava da una vita intera; ma quella sembrava l’unica cosa che lei riuscisse a fare veramente con passione. Ci metteva sentimento in ogni nota che suonava, e in ogni nuova battuta che imparava. Ed era anche quello, a contare molto.
 
Il problema era arrivato, le prime volte, quando si era ritrovata a stare in casa con Madalena a dormire.
 
Di solito Madalena tornava a casa, dopo la pratica di pianoforte, scortata da Daisy; alcune volte, però, si era fatto talmente tardi che Rachele si era vista costretta a farla rimanere a dormire a casa propria.
 
Ed era finita con una notte in bianco per lei.
 
Averla così vicino era qualcosa che metteva a dura prova il suo sistema nervoso e il suo cuore: ogni volta si era ritrovata a rigirarsi nelle coperte che aveva steso a terra per dormire, e ogni volta aveva passato una notte insonne, a sentir combattere dentro di sé l’istinto, con la sua voglia di salire sul letto e mettersi di fianco a lei, abbracciarla, magari anche baciarla nel sonno; e la ragione, che le impediva di farlo, e la inchiodava a terra.
 
Alla fine, aveva dovuto optare per uscire di casa poco dopo che lei si era addormentata, e passare la notte altrove.
 
La fortuna l’aveva aiutata, in quello: si era rifiutata di smettere di frequentare il circolo di ritrovo femminista, e continuava a prendervi parte all’insaputa di Klaus. Lui logicamente mai sarebbe andato a immaginare che i ritrovi si svolgessero tutti i giorni a settimana, e che ogni volta ci fosse qualcuno di diverso che continuasse a sostenere l’attività. Quindi, a lei era semplicemente capitato di finire in un gruppo di donne diverso da quello che frequentava prima. L’unica cosa drastica che aveva fatto, in quel senso, era stato rinunciare di partecipare alle manifestazioni: non poteva rischiare di venire arrestata di nuovo e di farsi scoprire da Klaus.
 
Era stato in quel gruppo nuovo, che aveva conosciuto Serenity.
 
Era una ragazza dagli occhi azzurri, e i capelli corti, tagliati a caschetto, neri; la pelle da mulatta, e la situazione famigliare che la vedeva come figlia illegittima di una prostituta nera e di un uomo bianco con famiglia. Sua madre aveva sedici anni, quando l’aveva avuta; e tuttora si prostituiva la notte, e durante la mattina lavorava in un negozio. Serenity faceva quello che poteva per aiutarla, il più delle volte praticando lavori saltuari, giornalieri o al massimo settimanali.
 
Frequentava il gruppo solo di giovedì, ma era una fervente attivista del movimento femminista. Era sempre molto energica, entusiasta in quello che faceva, convinta di quello che pensava.
 
Ed era lesbica.
 
Dal momento stesso in cui Rachele aveva fatto il proprio ingresso abituale in quel gruppo del giovedì – il che non aveva richiesto molto tempo: era bastato entrare una seconda volta in quel gruppo, per diventare frequentatrice abituale –, Serenity aveva cercato di sedurla in qualsiasi modo.
 
Rachele sulle prime era stata restia ad accettare; poi, una sera, si erano attardate per certi discorsi di ideali usciti durante la discussione al ritrovo. E lì, Rachele si era ritrovata a spiegarle anche tutta la propria situazione sentimentale, e i casini generati con Klaus.
 
Serenity aveva capito; ma non aveva mollato. Le aveva detto che, se la situazione con Madalena era quella che era, tutte le sere che Madalena dormiva lì, avrebbe potuto venire da lei: l’avrebbe ospitata volentieri, e le avrebbe ripagato il tempo passato con Klaus. Sua madre sapeva che era lesbica – l’aveva sempre saputo, a detta di Serenity – e non era assolutamente contraria; anzi, la riteneva fortunata, per la considerazione che aveva degli uomini. Quindi non aveva il minimo problema a vedersi Rachele in casa, ogni tanto.
 
L’appartamento bilocale di Serenity era diventato, quindi, il rifugio in cui scappare quando Madalena stava da lei. Le braccia di Serenity erano diventate le blande, eppure palpabili, sostitute delle braccia di Madalena che lei non avrebbe mai potuto avere; le sue labbra, tramite gli occhi chiusi e l’immaginazione e il ricordo, avevano assunto il sapore di quelle di Madalena – quel sapore dolce che aveva sentito solo per un attimo due anni prima; e persino il suo odore era moderatamente riproducibile intorno a loro, attraverso il filtro dei ricordi.
 
Serenity doveva aver notato che Rachele non la toccava mai – poteva arrivare a immaginarsi Madalena solo fino a un certo punto, in sua compagnia; e non voleva rischiare di rompere tutto l’incantesimo come era successo le prime volte –; ma nonostante tutto non aveva opposto la minima obiezione. Rachele aveva spesso pensato che facesse così nel tentativo di farla innamorare di lei.
 
Ma era tutto inutile.
 
Ogni volta che Rachele sentiva le mani di Serenity addosso, la sua testa le collegava alle mani di Madalena che suonavano il pianoforte, o che lavoravano al confezionamento di prodotti da supermercato in fabbrica; e le dita di Serenity diventavano quelle di Madalena. Così come tutto il resto del corpo.
 
Serenity sicuramente si era resa conto che era tutto vano; ma continuava, imperterrita, a dire che non importava, quando Rachele le chiedeva se davvero andasse bene così; continuava, senza farsi il minimo problema, a ospitarla a casa propria quando da lei c’era Madalena. Che lo facesse perché era un’inguaribile ottimista, ed era speranzosa nella loro storia, o perché, semplicemente, non voleva rimangiarsi l’invito fatto, Rachele non lo sapeva; ma ogni volta doveva ringraziare lei, delle serate passate insieme, e grazie alle quali si risparmiava di torturarsi per Madalena. Per lo meno, non in condizioni ansiose, avvolta in coperte adagiate a terra.
 
Sospirò di sollievo, quando la vide nel vicolo in cui si davano sempre appuntamento: Rachele in genere mandava Daisy ad avvertirla, o andava lei stessa subito dopo il lavoro, rifilando a Madalena la scusa di qualche commissione urgente che puntualmente non veniva effettuata – ma Madalena non lo sapeva, perché ogni volta andava avanti e non poteva di certo vedere se tornava a casa a mettere a posto le cose, o se invece saliva direttamente le scale appena entrata.
 
Dette un’occhiata in giro, appurando che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. Poi, entrò nel vicolo, e le sorrise.
 
Tutto sommato, non poteva evitare di farlo: Serenity in fondo era una brava ragazza, molto dolce, e le risvegliava un qualche istinto da sorella maggiore; il fatto che avesse diciassette anni, poi, contribuiva al senso di protezione che avvertiva quando la vedeva.
 
Lei le sorrise di rimando, e le buttò le braccia al collo, baciandola immediatamente. Era più bassa di lei di diversi centimetri: si doveva sempre alzare in punta di piedi, per baciarla. Ma nel farlo, aveva un entusiasmo e un trasporto che erano capaci di lasciare ogni volta Rachele sorpresa, e per un attimo disorientata.
 
Madalena sicuramente non lo farebbe mai.si ritrovava a sempre a considerare.
 
L’abbracciò, cingendole i fianchi. Stava quasi per abbandonare il mondo reale, e calarsi in una fantasia n cui esistevano solo lei e Madalena – quando sentì dei passi che la spinsero immediatamente a staccarsi, in preda al panico.
 
Trattenne il fiato, quando vide Madalena all’ingresso del vicolo.
 
Il cervello andò completamente in tilt: non riuscì più a collegare dove fosse, cosa stesse facendo, e soprattutto cosa facesse lei lì.
 
Vedeva solo lei. Lei, lei, e ancora lei.
 
«Cazzo…!» mormorò Serenity, di fianco a lei.
 
Già. Cazzo. Che ci faceva lì? Perché, di tutte le persone del mondo, proprio lei doveva vederla mentre baciava Serenity?
 
Cos’avrebbe fatto, soprattutto, una volta metabolizzata la questione a un punto sufficiente da togliersi dalla faccia quell’espressione insieme sorpresa e imbambolata?
 
«Madalena…» azzardò Rachele, facendo per spostare Serenity e andare a recuperare lei, prima che scappasse.
 
Madalena, però, non scappò. Al contrario, la colse ancora più alla sprovvista, quando si guardò intorno come per assicurarsi che non ci fosse nessun altro, e poi avanzare verso di loro a larghe falcate, fino ad arrivare lì, prendere Rachele per un braccio e staccarla a forza da Serenity.
 
«Quanto cazzo hai intenzione di giocare, ancora?!» sibilò; Rachele rabbrividì, al tono furioso che aveva adottato, e al sentire la violenza della sua stretta sul polso. «Quanto cazzo hai intenzione di cambiare idea, ancora?!»
 
«Che cazzo stai dicendo?» domandò Rachele, confusa.
 
«L’hai fatto con me!» replicò Madalena, alzando di un po’ la voce. «Avevi detto di essere lesbica! Mi hai baciato, per quello! E poi ti sei messa con Klaus! E adesso ti trovo qui con questa!» aggiunse, lanciando un’occhiataccia a Serenity, per poi tornare a guardare lei. «Da che cazzo di parte stai?!»
 
Rachele trattenne il fiato, esterrefatta; poi, abbassò lo sguardo, e sospirò.
 
«E’ lesbica.» rispose Serenity, anticipandola. «Ma a nessuna piace farlo sapere in giro e pensare alle conseguenze che ne possono derivare.»
 
Madalena rimase per qualche attimo in silenzio; la prima sensazione che Rachele sentì, a parte la stretta di Madalena sul suo polso, fu la mano sulla spalla che Serenity le mise.
 
«Io vado.» la sentì dire, a bassa voce. Dolcemente, come sempre; come se non volesse disturbarla troppo.
 
Rachele sollevò lo sguardo, desolata, fissandola, prima che lei se ne andasse.
 
Non riuscì nemmeno a dirle che lei dispiaceva per averla usata così; che le dispiaceva averla scomodata; che le dispiaceva che il suo ottimismo si fosse infranto così di colpo.
 
Serenity aveva sorriso; ma il suo era stato un sorriso triste, e rassegnato – di quelli fatti per non far trasparire troppo la propria sofferenza. E poi le aveva voltato le spalle, e si era incamminata, con un’andatura forzatamente tranquilla, verso l’esterno del vicolo.
 
«Chi era?» domandò Madalena.
 
«Un’amica del…» azzardò, rendendosi conto solo in ritardo di quello che stava dicendo. Si voltò a guardarla, senza sapere cosa dire, o cosa fare.
 
«Volevi sapere perché ti ho baciato, due anni fa.» cambiò discorso, assottigliando gli occhi e alzando una mano a indicare la fine del vicolo, dove Serenity era appena sparita. «Ecco. Adesso lo sai.»
 
«Perché sei lesbica?» domandò Madalena.
 
Rachele sospirò, e girò il braccio nella sua stretta, andando a cingerle delicatamente il polso con le dita.
 
«Perché le lesbiche si innamorano di donne.» rispose, guardando per un secondo i loro polsi intrecciati in quello strano modo; e poi sollevando gli occhi a guardare i suoi.
 
Per qualche attimo si perse nelle sue iridi scure; per qualche istante lasciò vagare lo sguardo ovunque, sul suo corpo, e sul suo viso.
 
Si sarebbe impressa tutto quanto nella memoria. Avrebbe ricordato la sensazione di quelle dita sulla propria pelle; di quegli occhi che la guardavano; di quell’odore che riusciva a sentire così vicino, e così intenso – perché, perché proprio in quel momento?
 
Avrebbe ricordato tutto, perché di lì a qualche attimo sarebbe svanito tutto.
 
Madalena avrebbe tolto il polso dalla sua presa, con uno strattone; sarebbe andata via, furiosa, con le grandi falcate con cui era arrivata lì. Non l’avrebbe più guardata; non avrebbe più voluto avere niente a che fare con lei, e si sarebbe limitata al minimo indispensabile di contatto all’interno della fabbrica.
 
«Io non sono lesbica.» disse Madalena, stringendole di più il polso.
 
Rachele spalancò gli occhi, inebetita.
 
«Però voglio che baci me.» proseguì Madalena. «Me, e basta. Nessun’altra donna.»
 
Rachele sgranò ulteriormente gli occhi, sempre più confusa dalla piega che stava prendendo la situazione.
 
Non era quello che si era immaginata.
 
O forse se lo stava proprio immaginando? Forse era ancora con Serenity, e la stava ancora baciando; ma era talmente concentrata sulla cosa, che nella sua testa forse era iniziata una qualche fantasia particolarmente delirante che l’aveva portata lì.
 
Sarebbe bastato toccarla, per far svanire di nuovo tutto. Sarebbe bastato metterle una mano sulla spalla, e verificare che fosse più in basso di lei: Madalena era alla sua stessa altezza, mentre Serenity era più piccola.
 
Le mise una mano sulla spalla, esattamente come aveva pensato di fare.
 
Ma la mano si fermò più o meno alla stessa altezza della propria spalla. E toccò dei capelli lunghi, che sicuramente non erano di Serenity.
 
«Cosa stai dicendo?» le domandò allora, senza riuscire a elaborare un’altra frase. «Io pensavo che…»
 
«Pensavi male, sicuramente.» tagliò corto Madalena. «Come sempre.»
 
«Pensavo male?» chiese Rachele, sconcertata. «Cioè, mi stai dicendo che quella volta ti è piaciuto? Che non ti sei allontanata perché ti ha fatto schifo, o…?»
 
Madalena sbuffò, e distolse lo sguardo; sembrava scocciata.
 
«Diciamo di no.»
 
Il cuore cominciò a batterle all’impazzata.
 
Era… era assolutamente, infinitamente di più di quanto si aspettasse.
 
«Davvero?»
 
«Davvero, sì, cazzo!» esclamò Madalena, lasciandole il polso, e allargando le braccia, con fare esasperato.
 
«Aspetta, aspetta, aspetta!» replicò Rachele, riprendendola – stavolta per mano. «Scusa, è che non riesco a crederci! Non mi aspettavo che… Insomma, hai capito.» tagliò corto, intercettando l’espressione seccata di Madalena. Poi, sorrise, e inclinò la testa per guardarla meglio.
 
«Perché vuoi che ti baci?» domandò.
 
Madalena sbuffò, e distolse lo sguardo, scocciata. «Non lo so.» rispose. «So che l’altra volta non mi è dispiaciuto così tanto. E che non voglio che baci nessun’altra!» aggiunse, alzando di nuovo la testa per guardare lei. Rachele sorrise, al vedere le sue sopracciglia aggrottate in un’espressione che voleva sembrare arrabbiata e intimidirla; peccato che a lei facesse solo tenerezza, perché le sembrava un broncio. «Mi ha dato fastidio vederti, prima, con quella. E mi ha sempre dato fastidio vederti con Klaus, posso dirtelo? Prima dici che è uno stronzo, un approfittatore, un puttaniere, e poi che non è una così cattiva persona! Sei così incoerente, cazzo! Proprio con lui dovevi metterti, per farti una copertura?! Ci sono tanti di quei ragazzi, in fabbrica, e sono sicura che tu ne conosci anche di fuori! Perché cazzo ti sei messa con lui?!»
 
Rachele sospirò, e sorrise, stancamente. «Perché devo…»
 
«Non ti sopporto quando fai quei cazzo di sorrisi!» aggiunse Madalena, interrompendola, e stringendole di più la mano. «Se stai male dillo! Se sei stanca, dillo, cazzo! Non cercare di non farmi preoccupare, perché così mi fai solo preoccupare di più!»
 
«Ma lo faccio solo per cercare di essere positiva…» commentò Rachele.
 
«Beh, non ci riesci! E non riesci nemmeno a farlo essere agli altri!» esclamò Madalena.
 
Rachele la fissò per qualche secondo – e poi sorrise di nuovo, stavolta senza stanchezza.
 
«Ok. Adesso che hai dettato legge e le regole fondamentali del nostro rapporto, hai intenzione di darmelo, un bacio, o devo prendere l’iniziativa io?»
 
Madalena la fissò per qualche secondo, stringendole ulteriormente la mano; poi, la prese per le spalle, e avvicinò il viso al suo – tanto che Rachele si beò del sentire il suo fiato caldo sulle proprie labbra.
 
«Tu non hai nessuna regola?» chiese lei, a bassa voce.
 
Rachele ridacchiò. «Che tu stia con me solo se ti rendo felice. Nient’altro.»
 
Madalena esitò – quella considerazione doveva averla stupita. Rachele sorrise, e prese l’iniziativa di baciarla.
 
E sentì i brividi. Per la prima volta, sentì davvero i brividi, mentre baciava qualcuno.
 
Forse perché quel qualcuno era Madalena.
 
Forse perché si era innamorata di lei dal primo momento in cui l’aveva vista, e si era ritrovata ad averla quando aveva perso le speranze che succedesse. Perché aveva sempre amato la sua bocca, il suo viso, le sue mani, il suo corpo; ed aveva sempre adorato il suo carattere deciso e forte, il suo senso del dovere, la sua determinazione tale da non farla mai piangere, la sua solidarietà, e la sua schiettezza; tanto che era arrivata a vedere del bene anche comportamenti che avrebbero fatto irritare chiunque altro.
 
Tanto che era impazzita per lei, per anni, dal momento stesso in cui lei l’aveva salvata da quella rissa.
 
Stavolta erano quelle di Madalena, le braccia che le cingevano il collo; stavolta erano suoi, i fianchi che Rachele stringeva tra le proprie mani. Erano sue, le labbra sopra le proprie; suo il sapore; suo l’odore; suoi i capelli; suo il viso.
 
Stavolta era lei, e non doveva immaginarsi niente. E le percezioni che già aveva quando la immaginava al posto di Serenity ora erano elevate all’ennesima potenza. Tanto da farle venire il mal di testa – tanto da farla sragionare, e da mettere a dura prova la propria forza di volontà nel controllarsi.
 
Voleva toccarla. Voleva baciare qualunque parte del suo corpo; sarebbe arrivata a baciarle anche l’anima, se fosse stato possibile. Voleva amarla, e farle sapere che amava ogni centimetro di lei, ogni suo comportamento, ogni suo sguardo, ogni suo sorriso, ogni suo broncio; che amava di lei qualunque cosa.
 
Voleva urlarglielo, in modo da dimostrarlo al mondo intero; e voleva dirglielo a bassa voce nell’orecchio, perché fosse qualcosa anche di esclusivamente loro.
 
Quando si scostò, e le prese il viso tra le mani, si ritrovò a sorridere.
 
Appoggiando la fronte alla sua, capì che probabilmente non c’era stato, fino a quel momento, attimo più bello nella sua vita.
 
E che gli unici che aveva avuto di davvero belli, erano stati quelli avuti con lei.
 
«Ti amo.» mormorò, scoccandole subito dopo un bacio sulle labbra.
 
Madalena strinse di più la presa sul suo collo, e continuò a baciarla. Rachele sorrise nel bacio, intenerita: era abbastanza chiaro che Madalena ancora non sapeva bene cosa provasse davvero per lei, e quindi stesse cercando di prendere tempo, e di distrarla dalla mancata risposta.
 
Ma andava bene così. Era già tanto che fosse lì. Era già tanto che le avesse detto quelle cose; che si preoccupasse per lei, e che fosse gelosa di lei.
 
Quei baci che le dava, per Rachele erano la forma di amore più intenso che Madalena riuscisse a esprimere in quel momento. Ed era qualcosa che la riempiva solamente di felicità: niente dubbi, niente problemi, niente domande. Solo quell’attimo, e il loro presente. La voglia di vivere quell’istante.
 
Si scostò di nuovo, e le sorrise; la prese per mano, e la trascinò dolcemente fuori dal vicolo.
 
Si riavviarono verso casa sua, con calma. Mano nella mano – come la prima volta che entrambe avevano scoperto la sensazione dell’unione delle loro mani, e avevano provato davvero la voglia di stare con l’altra.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Sinfonia ***


Capitolo 4 – Sinfonia
 
 
Settembre 1985
 
La notizia che Madalena si sia sposata due anni prima la fa immobilizzare sul posto.
 
Rachele si ritrova, quasi inconsciamente, a rileggere la lettera che le ha mandato Madalena – giusto due righe di pensiero, lasciate sotto la porta di casa, probabilmente dal postino che non ha avuto occasione di trovarla nell’appartamento.
 
Per qualche secondo, rimane con quelle parole strette tra le dita; la mano trema, e le lacrime pizzicano per uscire.
 
Madalena la ucciderebbe, se la vedesse. Le urlerebbe di non piangere, perché tanto non si risolverebbe niente.
 
Eppure, lei deve seriamente trattenersi: si ritrova in un limbo, a metà tra la felicità di avere sue notizie, e il ritrovarsi con la consapevolezza che non potrà mai più tornare da lei a cercare di chiarire tutto; non potrà mai darle quelle lettere che le ha scritto, e che non ha mai avuto il coraggio di mandarle.
 
Pagine, su pagine, su pagine; e poi, tutto quello che ha avuto la forza di inviarle, in quegli anni di lontananza, è stato un piccolo biglietto, e poche parole. Giusto per farle sapere che sta bene; per renderla partecipe della notizia che ha avuto una figlia. Che è ancora viva; che è tranquilla.
 
Avrebbe voluto dirle che le manca, in quel biglietto. Avrebbe dovuto dirle mille altre cose – ma non poteva farlo: dopo il modo in cui aveva dovuto lasciarla, non poteva spiegarle tutto. Sarebbe risultato solo egoista; sarebbe sembrato solo un modo per pesare su di lei più di quanto la loro separazione non avesse già fatto.
 
Tutto perché lei era stata stupida. Tutto perché non aveva avuto la forza di opporsi.
 
Qualche settimana prima era venuta a conoscenza della morte di Klaus, in guerra; non aveva versato una sola lacrima. Quella sarebbe stata solamente l’occasione per tornare da Madalena, e riprovarci con lei. Per ristabilire i rapporti, e cercare in qualunque modo di farsi perdonare. Per prenderla, scappare, se lei avesse voluto, e andare a vivere in qualche posto sperduto in cui nessuno le conosceva, e nessuno si curava che loro fossero due donne con una bambina.
 
Ma poi erano arrivate quelle due righe.
 
E a Rachele, leggendole, era piombata addosso la consapevolezza che Madalena non voleva avere più niente a che fare con lei; che era rimasta tanto dilaniata dalla fine della loro storia, che non voleva più vederla, né sentire la sua voce intorno.
 
È finita. Definitivamente.
 
Perché se Madalena, che una volta ha affermato che non sarebbe mai riuscita a stare con un uomo perché stava troppo bene con lei, è arrivata a sposarsi, e a comunicarglielo attraverso un messaggio di due righe, può solo significare che il messaggio che voleva farle arrivare è quello: non farti più vedere.
 
Ed è deducibile anche dalla freddezza del messaggio.
 
Perché quello è esattamente lo stesso messaggio che le ha mandato lei mesi prima; solo i soggetti e i tempi sono stati cambiati.
 
Sto bene. Ho avuto una bambina quattro mesi fa, sai? Mi sono sposata due anni fa. Mio marito fa il commercialista.
 
Il tono freddo con cui c’è quella copiatura di messaggio, e le frasi stringate all’osso, dimostrano che Madalena davvero non vuole più avere niente a che fare con lei. Perché lei non è mai stata fredda con nessuno: aggressiva, forse. Impulsiva, sicuramente. Forte, e decisa, e schietta. Ma mai fredda. Mai calcolatrice al punto da voler far soffrire qualcun altro con le proprie parole – lei è sempre stata troppo ingenua, e troppo dolce, per essere calcolatrice di reazioni altrui.
 
Quello è davvero l’ultimo ricordo di lei che le è concesso di tenere.
 
E Rachele non riesce a fare altro che stringerselo al petto, perché è qualcosa che per lei vale più di tutto l’oro del mondo.
 
 
 
 
 
Ottobre 1981
 
La notizia era arrivata all’improvviso, esattamente come la pioggia, che l’aveva spinta a rifugiarsi in casa di Rachele subito dopo il turno in fabbrica.
 
Il che era senza dubbio un buon pretesto, dal momento che erano giorni, che non riusciva a stare con lei: prima Klaus che rompeva i coglioni perché voleva scopare; poi quella notizia all’improvviso che la costringeva a casa per giorni, dopo il lavoro, per sedare eventuali reazioni negative della madre.
 
Carlos, uno dei suoi fratelli (il terzo, in ordine di nascita), e la sua ragazza aspettavano un figlio.
 
Una notizia che aveva avuto il potere di risvegliare in sua madre l’agitazione che per tanto tempo non aveva avuto. All’iniziale batosta che aveva lasciato allibiti tutti i fratelli, era conseguita una furibonda ripresa da parte di sua madre a Carlos per la sua irresponsabilità; poi la consapevolezza, sempre di sua madre, che sarebbe diventata nonna; subito dopo, la presa di coscienza che la ragazza di Carlos sarebbe dovuta entrare a far parte della famiglia Rivera; e immediatamente dopo, erano partiti i discorsi sul matrimonio per mettere tutto in regola.
 
Sua madre, in sostanza, in quei giorni era letteralmente impazzita. Tanto più che la fidanzata di Carlos, Kathrine, era una ragazza bianca incontrata per caso, e abitante del Queens; quindi rimaneva anche la questione di come fare con la famiglia di lei una volta che fosse venuta a sapere il tutto, se già non lo sapeva – e tutti avevano dubitato che la prendessero bene, dato che Carlos aveva vent’anni, e Katherine diciannove. Era un’età che in Brasile poteva anche andare bene, e in cui, lì nel Bronx, molte ragazze già da tempo erano diventate madri per incidenti di percorso; ma nella New York bene, era difficile che la prendessero tranquillamente. E oltretutto, c’era da dire che sua madre aveva ancora mille complessi di inferiorità nei confronti dei bianchi, per essere brasiliana – una cosa che sia Madalena, sia gli altri suoi fratelli, avevano accantonato da tempo.
 
Quindi, da giorni, si parlava di presentarsi alla famiglia di Katherine, di come avrebbero reagito i suoi genitori, di che famigliari avesse, di quanti, di come avrebbero preso il fatto che probabilmente la loro figlia avrebbe preso il cognome dei Rivera, di come sarebbe stato il bambino o la bambina…
 
«… e insomma, quelle cose lì. Hai capito.» concluse Madalena, agitando una mano, in segno di esasperazione da quella storia.
 
Non si era mai ritenuta un tipo particolarmente facile ai mal di testa; irritabile sì, ma forse proprio per quell’irritabilità – che doveva essere dovuta anche all’aria malsana di New York – lei era capace di arginare facilmente le emicranie.
 
Ma sua madre era davvero quasi riuscita a fargliene venire uno coi fiocchi.
 
La pioggia di quel giorno era stata provvidenziale: rifugiarsi a casa di Rachele – senza andare su a suonare il pianoforte, ma poco importava; l’avrebbe fatto un’altra volta, ed effettivamente in quei giorni non avrebbe avuto molto la testa di farlo, con tutta probabilità – era un toccasana per le sue meningi.
 
Sentì Rachele ridere ai piedi del letto su cui Madalena era seduta, con le gambe incrociate e la schiena appoggiata al muro. E poi, la vide reclinare la testa indietro, appoggiando la nuca sulle lenzuola, e guardandola al contrario.
 
«Ma come hanno fatto a frequentarsi?» domandò lei, incuriosita. «Con tutti i casini che ci sono per lei a venire qui al Bronx, o per lui ad andare nel Queens…»
 
«Mia madre con i figli maschi non è molto protettiva. Lo è sempre stata solo con me, conoscendo l’ambiente del Bronx.» disse Madalena, facendo spallucce. «Anche se tutto ciò non mi ha impedito di perdere la verginità a quindici anni.» aggiunse, distogliendo lo sguardo, e preferendo evitare di ricordare nei dettagli quell’avvenimento. «Quindi, Carlos e gli altri potevano andare dove volevano. Anzi, mi stupisce che né Marcos, né Julian, che sono i maggiori, siano ancora tornati a casa dicendo che hanno una ragazza e che l’hanno messa incinta.»
 
«E se fossero gay?» domandò Rachele, ridendo.
 
«Ti prego!» replicò Madalena, rabbrividendo e guardandola male. Rachele, a quell’occhiata, rise più forte. «Dài, cazzo, Marcos e Julian non sono assolutamente gay! Per favore!»
 
Rachele sorrise, e allungò le braccia indietro, fino a prenderle i fianchi.
 
«Hai ragione. Una lesbica in famiglia forse basta e avanza.» considerò, dolcemente.
 
Madalena sbuffò, scocciata, e distolse lo sguardo da lei.
 
«Io non sono lesbica.» disse, come sempre, quando Rachele tirava fuori quella storia. «Solo che mi piace stare con te.»
 
Rachele non ribatté nulla; quando si voltò, Madalena la vide sorridere ancora, più ampiamente di prima.
 
«Anche a me piace.» disse.
 
Madalena sorrise di rimando, e le passò una mano tra i capelli, accarezzandoglieli; le piaceva affondare le dita tra di essi, e gustarsi la morbidezza – e toglierle i nodi, dato che erano sempre un po’ disordinati, e lei non se li tagliava per continuare con la storia della copertura etero.
 
«Sai, tra l’altro, mi sono messa a pensare, con questa storia.» commentò poi, mentre affondava anche l’altra mano tra i suoi capelli e si metteva a scioglierle i nodi, delicatamente. «Chissà cosa succederebbe se per disgrazia mia madre scoprisse che sto con te. Che non posso avere figli, o che sono… insomma, che mi piace stare con una donna.» si corresse, facendo una smorfia. Aveva paura, a dirle che era innamorata di lei: perché quello sarebbe stato il segno che non poteva tornare indietro. Sarebbe stata la presa di consapevolezza totale: ma avercela in testa era un conto – lei sapeva di essere innamorata di Rachele; e ormai si era rassegnata che così dovesse essere –, dirle apertamente tutto era un altro. «La prenderebbe malissimo. Dall’unica figlia femmina che ha, poi… E dalla persona con cui siamo tutti in debito da anni…»
 
Rachele ridacchiò, e la guardò dal basso. «Dimmi la verità. Stai con me per ripagare quel debito?» domandò.
 
Madalena spalancò gli occhi, sorpresa. «Per chi mi hai preso?» replicò, stizzita, tirandole i capelli e facendola gemere per il dolore – e subito dopo vederla mentre si metteva a ridere, quale scema che era. «In debito sì, ma mica puttana! Se sono in debito con te, faccio in modo di ripagartelo!»
 
«Beh, non si sa mai che ti sia passato per la testa.» commentò Rachele, sorridendo. «Forse avrebbe potuto, no?»
 
Madalena la fissò per qualche secondo, perplessa; poi, sospirò.
 
«Forse.» commentò. Conoscendo la mentalità del Bronx, non era poi così strano che Rachele le avesse fatto una domanda simile. «Ma non sono ancora ridotta così male.» aggiunse, tornando a passare le dita tra i suoi capelli per toglierle i nodi. «E poi, se fossi in debito con te…»
 
Si interruppe, sconcertata da quello che stava per dire.
 
Praticamente, una confessione.
 
No, no, no. Non doveva. Doveva calmarsi.
 
«Se fossi in debito con me?» domandò Rachele, incuriosita.
 
Madalena la fissò, arricciando le labbra, mentre si chiedeva che dovesse rispondere: da un lato, l’idea di confessarle tutto la faceva rabbrividire, perché sarebbe stata solo la conferma finale; dall’altro, aveva voglia di dirglielo, e di ripagare tutte le volte in cui Rachele le aveva detto di amarla, senza che lei riuscisse a rispondere con qualcosa di diverso dal baciarla e rimanere in silenzio, per poi deviare il discorso.
 
Il problema era che sentiva il cuore esplodere dalla voglia di dirglielo. Lo sentiva chiaramente batterle all’interno del petto, e farle quasi male, quando stava con lei; e quello era dovuto solo al fatto che voleva dirglielo – lo avrebbe urlato, se avesse potuto farlo senza scatenare i dubbi di eventuali ripercussioni.
 
«Niente.» disse alla fine, abbassando gli occhi dalle sue iridi ai suoi capelli. «Se fossi in debito con te, mi piacerebbe… insomma, solo esserlo il più a lungo possibile.» mormorò, sentendosi avvampare subito dopo.
 
Per qualche momento, subito dopo quella frase, nella stanza piombò il silenzio – un’atmosfera talmente tranquilla, eppure talmente imbarazzante, che Madalena si sentì arrossire fino alla punta delle orecchie. Probabilmente Rachele l’aveva anche notato; e ciò non fece che imbarazzarla ancora di più.
 
Però in qualche modo aveva sentito il dovere di dirglielo. Almeno, in un modo mascherato come quello.
 
Rachele scostò la schiena dal bordo del letto, spingendo Madalena a lasciarle i capelli e ad alzare lo sguardo per vederla in faccia; quello che vide fu il suo sorriso, prima  che lei le prendesse il viso tra le mani e la baciasse.
 
Se c’era una cosa che aveva capito, in quei mesi, era che a Rachele piaceva baciare; e nella fattispecie, le piaceva baciare lei. E Madalena non poteva negare che piacesse anche a lei.
 
Era qualcosa che le faceva sentire il brivido di aspettativa – di voglia di non smettere, e rimanere lì a baciarla per il resto della giornata, anche.
 
Con Dominic, il ragazzo che aveva avuto (l’unico), non era stato così: si era sempre trattato di qualcosa di molto più meccanico – di capire cosa si stesse facendo, e non di avere l’istinto di farlo e basta. Era stato qualcosa che andava fatto, semplicemente, perché così si faceva quando si stava insieme; non qualcosa che si desiderava fare, come invece succedeva con Rachele.
 
«Probabilmente è la cosa più tenera e dolce che ti abbia sentito dire.» commentò Rachele, dopo essersi scostata da lei. Madalena si sentì il cuore accelerare di battito – come se già non bastasse quanto aveva accelerato prima, quando Rachele l’aveva baciata –, e si strinse nelle spalle, imbarazzata.
 
«Farò in modo di farti essere piena di debiti, allora.» aggiunse Rachele a bassa voce, passandole una mano tra i capelli, e appoggiandole le labbra sulla fronte.
 
Madalena sorrise, rilassando le spalle, e sospirando per la semplicità con cui Rachele sapeva affrontare quelle situazioni. Poi, la sentì salire sul letto, e mettersi davanti a lei, in ginocchio: alzò lo sguardo, sorpresa – e la vide sorridere, in una maniera che poteva sembrare anche furba.
 
«Che c’è?» domandò Madalena, esprimendo con una smorfia il proprio disappunto per gli eventuali pensieri sconci che dovevano star fluttuando nella testa di Rachele. «No.» disse, quando Rachele la guardò negli occhi, e inclinò la testa di lato. «No. Hai capito male. No.»
 
«Antipatica.» mugugnò Rachele, arricciando le labbra, per poi toccarle le pieghe del maglione largo che portava – affondandole lentamente tra la stoffa, fino a cingerle i fianchi con le dita; e poi, baciandola sulla guancia, e scorrendo con la bocca sul viso, fino all’orecchio. «Mi dici sempre così.» continuò, a bassa voce; poi, la afferrò con più forza ai fianchi, e la spinse contro il muro, fino a smuoverla dalla propria posizione in ginocchio, e portarla a sedersi.
 
Madalena sgranò gli occhi, sconcertata; e a dirla tutta, anche impaurita.
 
In tre mesi che stavano insieme, lei e Rachele non l’avevano mai fatto; il che poteva essere quasi considerato un record, visti gli standard del Bronx.
 
Il fatto era che aveva paura di farlo: in parte perché Rachele era una donna e non sapeva cosa aspettarsi; in parte perché era Rachele e, se non le fosse piaciuto (come era capitato con Dominic), non avrebbe saputo cosa dire o cosa fare; e soprattutto, perché se l’avesse fatto con lei e le fosse piaciuto, sarebbe stata la conferma che le donne le piacevano. O almeno, che Rachele le piaceva. E anche tanto.
 
Rachele in quei mesi aveva dimostrato più di una volta le proprie intenzioni in fatto di fare sesso con lei: non proprio dalla prima volta – in cui si erano limitate a dormire insieme, e a baciarsi –; ma già dalla volta successiva, Rachele aveva palesato la propria voglia. E ogni volta, quando Madalena le aveva detto di no, si era fermata e non aveva proseguito.
 
La cosa più inquietante di tutte – forse – era che anche lei voleva toccarla più a fondo; e che più di una volta si era ritrovata a immaginarsela mentre lei la toccava; a cercare di immaginare le sue reazioni; di figurarsi mentalmente le sue espressioni del viso, e le parole che avrebbe detto.
 
E che, se all’inizio era qualcosa di inconscio e improvviso in cui la sua mente piombava e da cui lei si allontanava appena ne prendeva coscienza, ultimamente quelle erano diventate fantasie in cui si perdeva volontariamente; sperimentava mille modi di toccarla, mille espressioni, mille parole, e si lasciava andare a quelle fantasie come se fossero il pensiero più piacevole in cui perdersi.
 
La cosa la inquietava parecchio.
 
Eppure, non poteva negare di provare anche piacere, a immaginarsela in continuazione in quelle situazioni.
 
La vide scostarsi, e sorriderle, inclinando di nuovo la testa di lato, e poi passandole una mano tra i capelli.
 
«Cosa c’è?» domandò Madalena, perplessa. «Ti ho appena detto di nuovo di no al farlo. Adesso perché sorridi?»
 
Rachele ridacchiò; come una scema, considerò Madalena. Come un’adorabile scema.
 
«E’ che sono contenta.» disse lei. «Praticamente mi hai appena fatto un’implicita dichiarazione d’amore.»
 
Madalena arrossì, e si strinse nelle spalle. Stavolta non poteva nemmeno negare che l’avesse fatto.
 
«Beh, ma… non è la prima volta…» si schermì.
 
«Sì, infatti sono contenta ogni volta che mi dici qualcosa di romantico. Tu di solito non sei il tipo.» disse Rachele, sorridendo ancora. «Ma questa forse è stata la cosa più dolce che tu mi abbia mai detto. E la cosa più vicina alla dichiarazione d’amore che tu mi abbia detto in questi tre mesi che stiamo insieme. Per questo sono contenta. E comunque sappi che, così facendo, tu non fai altro che invogliarmi di più al voler fare l’amore con te. Come se già non ne avessi abbastanza voglia.»
 
«Ah, adesso sarebbe colpa mia?!» esclamò Madalena, scocciata, rivolgendole un’occhiataccia. «Non dare la colpa a me se sei una cazzo di arrapata!»
 
Rachele scoppiò a ridere, e scosse la testa. «E’ sempre colpa tua! D’altra parte, sono arrapata solo con te!»
 
«Non ho capito… Questo dovrebbe essere un complimento?!»
 
«Assolutamente sì!» replicò Rachele, continuando a ridere. «Significa che solo tu mi fai perdere la testa al punto che devo fare appello a tutta la mia buona volontà per trattenermi!»
 
Madalena avvampò, imbarazzata; per Rachele era sempre così semplice, farle capire che per lei, lei era l’unica e la sola di cui era follemente innamorata; che era l’unica che voleva avere vicino.
 
Era talmente semplice che la lasciava sempre in imbarazzo, la semplicità con cui riusciva a esternarlo.
 
«Comunque, se non vuoi, continuerò a trattenermi.» disse Rachele, alzando le braccia, come in segno di resa. «Aspetteremo finché vorrai. Io non ho fretta.»
 
«Ah sì? Non sembrava…» commentò Madalena, sarcasticamente, inarcando un sopracciglio.
 
«Vabbè, sì, insomma, è chiaro che mi piacerebbe fare l’amore con te qui in questo momento, ma se non vuoi, io mica voglio forzarti!» commentò Rachele, rotolando gli occhi indietro. «E comunque guarda che così non è che mi aiuti!»
 
Madalena sbuffò, e distolse lo sguardo, incrociando poi le braccia.
 
Rachele era sempre così schietta da sembrare una bambina innocente. Per lei era così naturale dire apertamente cose che in molti probabilmente non avrebbero detto. Per lei era naturale, dire di aspettare se lei non voleva: e sembrava non farsi il minimo problema, sul perché non volesse. Come se fosse una cosa normale.
 
Il che, più di una volta, aveva spinto Madalena a dirsi che, visto che Rachele la pensava così, forse le sue titubanze al farlo con lei erano sì, normali, tutto sommato. Che era naturale che le avesse. Che magari anche Rachele le aveva avute, le prime volte con Serenity – era stata Rachele stessa, a dirle che le era capitato più di una volta di fare sesso con lei; ma non era scesa nei dettagli, quindi Madalena non sapeva se i dubbi e il voler aspettare ci fossero stati o meno, da parte sua.
 
Forse sì. Più probabilmente, no. Per Rachele probabilmente era stata una cosa del tutto naturale farlo con Serenity.
 
E forse anche farlo con lei era qualcosa che a lei risultava naturale; qualcosa di scontato, quasi, dato che stavano insieme. Forse per lei era così con tutti. E sarebbe stato così con tutti.
 
«Perché sei così tanto disposta ad aspettare, senza fare una piega?» domandò, dopo qualche istante di ragionamento.
 
«Mh?» replicò Rachele.
 
«Voglio dire.» continuò Madalena, iniziando a gesticolare con le mani. «Per te farlo con me sarebbe una cosa naturale, no?» domandò. Senza aspettare la risposta di Rachele – che la stava guardando con un’espressione nettamente perplessa dalla filippica che, anche lei l’aveva capito, Madalena si stava apprestando a fare – proseguì. «Hai detto che l’hai fatto anche con Serenity. Scommetto che con lei è stato tutto più semplice. L’avete fatto senza farvi troppi problemi, vero? È stato qualcosa che volevate da entrambe le parti. E allora perché con me stai aspettando così tranquillamente, se per te è così naturale farlo, e sei arrivata a propormelo pochi giorni dopo che ci siamo baciate?»
 
Rachele inclinò la testa di lato, sempre più confusa.
 
«Non sto capendo.» disse, dopo qualche istante di silenzio.
 
«Insomma…!» esclamò Madalena, scocciata.
 
«No, fermati un secondo!» la bloccò Rachele, prendendola per le braccia, e spingendola a bloccarsi dalla protesta che stava già iniziando. «Riusciamo a fare un discorso… un dialogo? A parlare in due, invece di lasciar andare solo la tua testa al suo monologo? Perché sennò io non riesco a risponderti in tempo alle domande che mi fai, e che ti fai, e tu non riesci a capire quello che penso io. Ok?»
 
Madalena la fissò; poi, trasse un profondo respiro, e rilassò le braccia.
 
«Ok.» acconsentì.
 
«Ok. Bene.» disse Rachele, annuendo e lasciandola andare. «Allora, io mi sono fermata alla prima domanda. Quella sul fatto che farlo sarebbe una cosa naturale. E su quello ti posso rispondere che, sì, se due persone sono innamorate, penso sia naturale voler fare l’amore.»
 
«Con Serenity è stato naturale?» domandò Madalena. «O hai avuto dei dubbi?»
 
Rachele rimase per un secondo in silenzio; e a Madalena sembrò che stesse esitando, pensando intensamente a cosa dire di preciso. Quasi volesse trattenersi dal pronunciare qualche parola a sproposito.
 
Poi, la vide sospirare.
 
«Non facciamo paragoni con quello che è successo con Serenity.» disse. «Non c’è stato nessun dubbio, ma…»
 
«Niente “ma”! Se non c’è stato nessun dubbio qualcosa vuol dire!»
 
«Fammi finire!» esclamò Rachele, stringendole di nuovo le braccia. «Non c’è stato nessun dubbio perché pensavo di non poter fare altrimenti. Le ho spiegato come mi sentivo, e quello che provavo per te, e lei ha acconsentito a provare a sostituirti. Quindi, quando lo facevo con lei… praticamente nelle mie fantasie era come farlo con te.»
 
Madalena avvampò; e fu la prima volta in assoluto che vide anche Rachele abbassare lo sguardo, e le sue guance diventare rossissime.
Non si era mai dimostrata imbarazzata davanti a lei, prima.
 
«Non paragonarmi a quella.» sibilò Madalena, non trovando nient’altro da dire.
 
«Non ti ci sto paragonando…» replicò Rachele, sospirando, e lasciandole andare le braccia, che fino a quel momento aveva tenuto strette tra le mani. «E’ solo che era… pensavo fosse l’unico modo per…» azzardò. Madalena fu sul punto di capire cosa stesse dicendo – e dentro, lo sentiva, l’aveva già capito; ma non fece in tempo a trovare qualcosa da ribattere – nessuna parola per chiederle scusa per non essere stata chiara; o per darle dell’arrapata persecutrice –, che Rachele sbuffò, e parlò di nuovo.
 
«Possiamo tornare al punto?» domandò, tornando a guardarla, ancora con un visibilissimo colorito rosso in viso. «Qual è il problema?»
 
Madalena esitò per un attimo; a dire il vero, non lo sapeva nemmeno lei di preciso.
 
«Non lo so…» confessò, abbassando lo sguardo, per evitare di confessarle tutto guardandola negli occhi, e vedendo ogni espressione che avrebbe fatto davanti a quelle parole. «Non so. Credo di avere paura.» ammise. «E’ che ho visto che quando sono arrivata io, te ne sei subito fregata di Serenity, adesso che ci penso. Non è che quando accetterò di farlo con te, te ne fotterai anche di me, dopo?, mi sono chiesta un sacco di volte.» disse. Fu sicura che Rachele stesse per risponderle; ma proseguì, cogliendo al volo l’attimo ideale per buttare tutto fuori. «E poi ho paura che… non lo so, che non mi piaccia. Lo sai, te l’ho detto, io non sono lesbica. È solo che mi piace stare con te. Le donne in generale non mi piacciono. Quindi, se non mi piacesse farlo con te… non saprei cosa fare. Non saprei nemmeno se sia il caso di stare ancora con te, o meno.» proseguì. «E poi, non so se piacerà a te. Io non ho mai avuto esperienze così, non so come comportarmi, non so cosa provare, e non so se sarà quello che ti aspetti tu.» aggiunse. «E poi…» disse ancora. «Poi ho paura perché finché ci baciamo, stiamo insieme, e basta, non è una vera e propria relazione, forse. Può non essere presa così, dagli altri.» spiegò. «Ma se lo facciamo, allora… se lo facciamo, e mi piace… allora…»
 
Madalena non riuscì a finire la frase: sentiva in qualche modo che, se l’avesse finita, avrebbe ferito Rachele. E non voleva farlo. Ferirla le avrebbe fatto solo più male di tutti quei dubbi.
 
Rachele per qualche istante non disse una sola parola. Rimase talmente in silenzio che Madalena si sentì schiacciata da quell’assenza di parole.
 
Tanto che alzò lo sguardo verso di lei, per cercare di carpire anche un singolo movimento del suo viso – un singolo indizio che l’aiutasse a capire cosa pensava, e cosa provava.
 
E fu allora, che vide che Rachele stava con la testa bassa, come lei era stata fino a qualche secondo prima; e che alzò lo sguardo solo quando lo alzò anche lei.
 
Sembrava sorpresa: aveva gli occhi sgranati, fissi nei suoi, e la guardava come se fosse la prima volta che la vedeva davvero.
 
Madalena attese. Attese per attimi che le sembrarono interminabili la sua risposta.
 
E il suo responso fu allungare le mani, e prenderle il viso tra di esse. Dolcemente, come faceva sempre.
 
E poi sorridere. In quella maniera tenera davanti alla quale Madalena si sentiva sempre sciogliere.
 
«E’ una frase che avrò letto mille volte nei libri.» esordì Rachele. «E mi era sempre sembrata… falsa, e non adatta. Non riuscivo a capire che c’entrasse veramente nel contesto. Se c’entrava.» disse. «Però, adesso, è la frase più adatta che riesco a dire e a pensare.» continuò.
 
Fece un attimo di pausa, davanti alla quale Madalena inarcò le sopracciglia, in attesa del seguito.
 
Rachele abbassò gli occhi, e sorrise di nuovo, di un sorriso tenero. Poi, li rialzò verso di lei, e la guardò.
 
Sembrava felice.
 
Sembrava talmente felice che il cuore avrebbe potuto esploderle.
 
«Ti amo.»
 
Madalena sobbalzò, e spalancò gli occhi: non era la prima volta che Rachele le diceva di amarla – ma era la prima volta che glielo diceva così. Faccia a faccia, fissandola negli occhi, sorridendo come se fosse raggiante di felicità incontenibile.
 
E fu la prima volta che Madalena sentì il bisogno di risponderle che anche lei l’amava.
 
Ma Rachele proseguì; e forse perché l’anticipò, forse perché qualcosa come una paura insensata bloccò Madalena dal dirglielo – o forse per tutt’e due le cose insieme –, Madalena non riuscì a spiccicare parola.
 
«Ti amo, e non ho intenzione di lasciarti andare.» proseguì Rachele. «Voglio solo che tu sia felice, Madalena. E voglio fare in modo che tu lo sia con me.» disse. «E’ per questo che aspettare non mi pesa. Perché voglio che la prima volta nostra sia qualcosa che piaccia a entrambe, e sia qualcosa che vogliamo tutt’e due. Voglio che tu ne sia sicura quanto lo sono io. Finché non lo sarai, a me aspettare non pesa. Tranquilla, che non ti lascio andare, né se mi dici di sì, né se mi dici di no.»
 
Madalena la vide sorridere, sempre, mentre diceva quelle parole; e si sentì paralizzata sul posto, schiacciata dalla forza delle parole di Rachele, dalla loro semplicità, dal battito cardiaco accelerato causato da quelle frasi, e dal giramento di testa che ne era conseguito, perché riusciva solo a pensare che era felice.
 
Era talmente felice che non riusciva a muoversi; non riusciva a capire se ci fosse un movimento contemplato nella plasticità umana in grado di esprimere quello che provava.
 
Riusciva solo a sentire il cuore battere all’impazzata, e il cervello che non riusciva a collegare coerentemente.
 
L’unica cosa che riuscì a fare fu gettarle le braccia al collo, e stringerla a sé, affondando la testa nell’incavo della sua spalla, e sentendo come prime cose il suo respiro e il suo odore.
 
Rachele sapeva di menta. Era un odore forte, di una persona forse fin troppo decisa e sicura di sé. Ma a lei piaceva.
 
Fu solo dopo qualche istante, che il rumore del pompare di sangue che aveva nelle orecchie si affievolì, e Madalena riuscì a sentire contro il proprio orecchio sinistro il battito del cuore di Rachele.
 
Trattenne il fiato, quando percepì la velocità con cui batteva.
 
Fu istintivo, volerlo sentire anche sotto la propria mano, e direttamente dal punto in cui il cuore si trovava. Abbassò il palmo di una mano, fino ad andare a toccarle il centro del petto.
 
Batteva. Batteva, e forte.
 
Batteva per lei.
 
Scostò la testa dal rifugio della sua spalla, e la fissò negli occhi.
 
Gli occhi scuri di Rachele le stavano dando tutte le risposte senza che la sua bocca dovesse nemmeno pronunciarle.
 
Le stavano dicendo di fidarsi di lei; di amarla, esattamente come stava facendo lei.
 
E Madalena in quel momento capì che quello che stava vedendo era solo il riflesso dei propri occhi nei suoi.
 
Capì che si fidava; e che l’amava, anche se non sapeva come dirglielo – era qualcosa di talmente inesprimibile a voce, che ancora non era riuscita a trovare un modo per farglielo capire.
 
Sapeva solo che non voleva vederla con nessun altro se non con lei; che non voleva che toccasse nessun altro come faceva con lei; che non voleva che provasse quei sentimenti con nessun altro se non con lei.
 
Voleva solo che fosse felice, e voleva essere la persona che la rendeva felice.
 
E il solo pensiero che forse non sarebbe stata quella persona la faceva stare male; perché avrebbe significato stare lontana da lei.
 
Madalena la odiava, perché aveva sempre pensato che, se fosse stata dipendente da qualcuno, sarebbe stata dipendente da un uomo; e invece Rachele era una donna.
 
La odiava, perché aveva capito già da tempo di non riuscire a fare a meno di lei.
 
La odiava quando doveva starle lontano, perché percepiva un senso di vuoto che non riusciva a colmare con niente.
 
La odiava perché l’aveva trasformata in qualcuno che non avrebbe mai pensato di diventare.
 
Eppure, nonostante tutto quell’odio, la felicità che provava con lei era tanto forte da cancellare tutto – anzi, di più: rendeva quello che Rachele le aveva fatto meraviglioso, potente, che la faceva stare come in estasi.
 
Qualcosa di talmente bello che non sarebbe riuscito ad esprimerlo a voce, lo sentiva.
 
Trasse un profondo respiro, e la baciò sulle labbra; sentì Rachele rimanere immobile, a quel bacio, come se non sapesse come rispondere – come se non se lo aspettasse.
 
Madalena sorrise, sentendo il cuore che le batteva.
 
Era felice.
 
Era felice, e voleva solo che Rachele condividesse quella felicità con lei.
 
Scostò di poco le labbra dalle sue, e sorrise di nuovo; poi, vi parlò soffiandovi sopra.
 
«Voglio fare l’amore con te.» mormorò.
 
Continuò a sorridere, anche quando per un attimo nessuna delle due si mosse; e quando fece per riprendere a baciare Rachele, sentì le labbra di lei venirle addosso come una valanga – travolgerla, come avevano fatto le sue parole qualche attimo – secondo – istante – minuto prima.
 
Strinse tra le dita la sua maglia, quando Rachele la spinse sul letto, baciandola ancora.
 
Per un attimo, rabbrividì di coscienza; per un momento, ebbe paura di quello che stava facendo.
 
E Rachele dovette sentirlo sotto le dita, attraverso la stoffa pesante del maglione, o attraverso un qualche impercettibile movimento delle sue labbra; perché si scostò, e quando Madalena aprì gli occhi, incontrò i suoi che la fissavano.
 
«Sei sicura?» domandò, passandole le dita tra i capelli.
 
Non era sorridente; era seria. Ma di una serietà dolce, e preoccupata.
 
Per lei non era un gioco. E Madalena si maledisse per averlo anche solo pensato.
 
«Sì.» replicò, annuendo. «Solo che… te l’ho detto. Non so cosa aspettarmi. Non so cosa fare, e come comportarmi.»
 
Rachele sorrise, intenerita. Le passò ancora una mano tra i capelli, e la baciò sulla fronte.
 
«Rilassati e basta. Il resto viene da sé.» disse. Poi, sorrise ancora, più ampiamente, e le scostò una ciocca di capelli dal viso. «E’ come quando suoni il pianoforte. La tecnica c’è, ma quello che più importa è quello che provi mentre suoni, e con quanta naturalezza lo suoni.»
 
Madalena sgranò gli occhi – e poi sorrise, quando Rachele iniziò a baciarla di nuovo.
 
Forse era proprio quello, il paragone più azzeccato.
 
Tutto quello era come le note di una sinfonia.
 
Ogni tocco di Rachele era una nota che le dava una sensazione e un’emozione diversa.
 
E tutto quello, insieme, dava la melodia.
 
La più armonica, e più naturale, che Madalena avesse mai sentito.
 
Una sinfonia che per tanti aveva il nome di “amore”.
 
Per lei il nome, invece, era diverso.
 
Per lei, il nome di quella sinfonia era “Rachele”.
 
 
Quando si svegliò, la prima sensazione che Rachele sentì sulla propria pelle fu quella del calore del corpo di Madalena contro di sé.
 
Il primo pensiero, fu quello della completezza.
 
Ricordò in quel momento che due anni prima, la sera in cui aveva baciato per la prima volta Madalena, le aveva parlato del fatto di completezza più sensata tra due donne, invece che tra un uomo e una donna, per un fattore di eccitazione, di compiacimento, di coinvolgimento e di godimento – il tutto riassumibile nel concetto di orgasmo.
 
Madalena le aveva fatto capire che la Koedt, in parte, si sbagliava.
 
Era vero che loro due erano due donne, e quindi magari il fattore di godimento era stato maggiore; Rachele, da parte propria, era arrivata a sentire la testa girare, ad un certo punto, tanto da non sembrare più in grado di contenere quello che stava provando; il cuore scoppiare, come se volesse esploderle nella gabbia toracica; e il corpo caldo, che cercava quello di Madalena come se non riuscisse a sopportare di starne staccato.
 
Ma quelle erano tutte sensazioni che con una donna qualunque non avrebbe mai provato; di quello era sicura. Con Serenity, ad esempio, malgrado il fatto che l’immaginazione la portasse sempre a pensare a Madalena quando aveva amplessi con lei, non era stato così. Era sempre stato qualcosa di meno coinvolgente; di più meccanico, e meno inebriante di quello. E il tutto nonostante il fatto che, quando era con Serenity, era lei la parte passiva, mentre Serenity quella attiva.
 
Con Madalena era tutt’altra storia. Era del tutto diverso.
 
Madalena era Madalena; e lei avrebbe provato tutte quelle sensazioni solo con lei.
 
E forse anche un uomo innamorato di una donna, o una donna innamorata di un uomo, avrebbero potuto provare le stesse identiche sensazioni. Si trattava solo di amare l’altro o l’altra, al punto da provare piacere nel fargli o farle provare piacere.
 
Sospirò, e sentì le proprie labbra stirarsi in un sorriso rilassato. Strinse a sé Madalena, che, probabilmente d’istinto, si accucciò meglio contro di lei, come un bambino avrebbe fatto con la madre.
 
Chiuse gli occhi, espirando lentamente con le narici.
 
Ancora quei pensieri, a perseguitarla.
 
Era così assurdo, poi. Così ingiusto.
 
Per un attimo che si concedeva di perdersi nel sogno, subito la realtà tornava a schiaffeggiarla.
 
La sentì mugugnare, all’improvviso; e muovere le braccia, per spostarle da qualche parte. Quando si voltò verso di lei, la vide sollevarsi di poco dalla sua spalla, e stropicciarsi gli occhi, prima di socchiuderli per guardare lei.
 
Rachele le sorrise, e la baciò sulle labbra per qualche secondo.
 
Quando si scostò, Madalena mugugnò di nuovo, e sbatté per un paio di volte le palpebre.
 
«Avevamo detto niente sorrisi falsi.» borbottò, con la voce ancora impastata dal sonno.
 
Rachele sgranò gli occhi, sorpresa; poi, ridacchiò, e le sorrise, inarcando un sopracciglio.
 
«Non è niente di preoccupante.»
 
«Cos’hai?» domandò Madalena, praticamente ignorando la sua risposta. «E’ stato qualcosa che ho fatto io?»
 
«Scherzi?» replicò Rachele. «Assolutamente no!» rispose, allo sguardo dubbioso che le rivolse Madalena; scoppiò a ridere, e scosse la testa. «No, figurati! Non sei mica tu!» disse. «E’ solo che stavo pensando al discorso che mi hai fatto prima…»
 
«Quale?» domandò Madalena, perplessa.
 
«Quello su tuo fratello Carlos, e il fatto che lei e la sua ragazza avranno un bambino.» rispose Rachele, sorridendo e stringendola contro il proprio corpo; la portò sopra di sé, e con una mano prese a raccoglierle i capelli che le ricadevano dalle spalle, e le incorniciavano il viso.
 
«Che problema c’è?» domandò Madalena.
 
Rachele sorrise, e scosse la testa: a volte Madalena era davvero ingenua.
 
«Niente. Solo che mi dispiace non poterne avere.» disse, inclinando il viso.
 
Madalena propose una smorfia del viso, come risposta a quell’affermazione.
 
«Perché, ne vorresti?» domandò.
 
«Tu no?» ribatté Rachele, sorpresa.
 
Madalena fece spallucce. «Non lo so.» commentò. «Forse sì. Non ci ho mai pensato seriamente. Ho sempre pensato che se fossi stata con un uomo sarebbe capitato e basta, prima o poi. Non avrei avuto molta scelta. E poi, quello è sempre stato un po’ il ruolo della donna, per quello che mi è stato insegnato: fare la madre, allevare i figli, il marito, e via dicendo.» spiegò, rotolando per un istante gli occhi all’indietro. «Con te, invece… credo di essermi fatta una sottospecie di ragione, del fatto che non potremmo averne. Tra due donne non si può fare, e mi sa che è già tanto se siamo qui insieme adesso.» commentò.
 
«Ok, ma tu hai parlato di dovere, o di capitare, o di non potere.» considerò Rachele, incalzandola. «A te non piacerebbe avere dei figli?»
 
«Non lo so, ti ho detto che non ci ho mai pensato…» replicò Madalena, facendo di nuovo spallucce. «Qual è il problema, poi? Anche se mi piacesse, non potremmo comunque averne. Tra me e te non si può, e vedi di non azzardarti ad averne con Klaus.»
 
Rachele ridacchiò, e annuì, scoccandole poi un bacio sulle labbra. «Tranquilla.»
 
«Comunque non mi hai risposto.» commentò Madalena. «A te piacerebbe averne, invece?»
 
Rachele annuì. «Sì. Penso proprio di sì.» commentò. «Oddio, lo so che non si può, e via dicendo, e quant’altro ti pare. Ma non sai in questi mesi quanto mi è dispiaciuto non essere un uomo. Sarebbe stato tutto più semplice, forse.»
 
«E privo di sentimento.» commentò Madalena, rotolando gli occhi indietro. «Come tutte le relazioni tra uomo e donna.»
 
Rachele spalancò gli occhi, sorpresa.
 
«Dài, non dire così! Tra Daisy e Samuel non è così!»
 
«Sì, vabbè, magari loro sono l’eccezione che conferma la regola.» commentò Madalena, facendo spallucce. «Ma per il resto, penso che se tu fossi stata un uomo, non sarebbe andata così.»
 
«Non mi avresti salvato da quella rissa?» domandò Rachele, ridacchiando.
 
«Quello sì, magari…» commentò Madalena, appoggiandosi con il mento contro la sua spalla. «Ma per il resto, non lo so. Con Dominic, ad esempio, non ho provato quello che ho provato con te adesso.»
 
«Nemmeno io ho provato le stesse cose con Serenity. E lei è una ragazza.» commentò Rachele – non riuscendo a non sorprendersi, del fatto che lei e Madalena avessero pensato la stessa cosa, a pochi minuti di distanza; e che, forse, era stata per entrambe una delle prime cose cui avevano pensato appena sveglie. «Mi sa che non c’entra molto il sesso. Penso sia dovuto semplicemente al fatto che siamo innamorate.» considerò.
 
Madalena rimase per qualche secondo in silenzio; poi, mugugnò di nuovo.
 
«Forse hai ragione.»
 
Rachele sorrise, in una muta risposta, che Madalena nemmeno vide.
 
«E comunque mi dispiace non poter avere dei figli.» considerò ancora. «Mi sarebbe piaciuto vedere se sarebbero cresciuti stronzi come te, o bellissimi e idealisti come me.»
 
«In una parola, stupidi come te.» commentò Madalena. «Forse allora è meglio così. Per loro, voglio dire.»
 
Rachele scoppiò a ridere, e scosse la testa.
 
Adorava quel suo modo di essere, così stronzo: quando diceva qualcosa di dolce, era sempre capace di scioglierla, e di coglierla talmente alla sprovvista da volerle far ripetere tutto – e sapeva che Madalena era talmente timida, e talmente scorbutica, che non l’avrebbe mai fatto.
 
«Chi lo sa.» commentò Madalena, a bassa voce. «Forse un giorno, in qualche Stato, avere dei figli sarà permesso anche a due donne.»
 
Appunto come in quel momento.
 
Rachele si sentì le braccia per un attimo molli; e la voglia, subito dopo, di abbracciarla e di starsene lì per più tempo possibile, fosse anche stata tutta la vita.
 
La voglia di ringraziarla, per essere così, e per essere con lei.
 
«Se succede davvero, ci andiamo insieme?» domandò, sorridendo; sentiva che quel sorriso non gliel’avrebbe cancellato nessuno, in quel momento. Non ci sarebbe riuscita nemmeno lei a forza. E nemmeno voleva farlo.
 
Madalena si accucciò meglio contro di lei; e Rachele fu certa che avesse sorriso.
 
«Certo.» disse, dolcemente. «Ci andiamo, e ci trasferiamo lì. Viviamo insieme. E stiamo insieme. Sempre.»
 
Rachele sorrise.
 
Non c’era dubbio che, per quanto Madalena non le avesse mai detto qualcosa come “ti amo” esplicitamente, le mille frasi che diceva, in quel modo dolce, valevano molto di più di quei ti amo mancati.
 
E lei sapeva di amarla anche per quello.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: Rabbia ***


Capitolo 5 – Rabbia
 
 
Marzo 1982
 
Giù in strada, il rumore dei ragazzini che si cimentavano in strofe di rap, a tratti improvvisato, a tratti già testato da qualcuno di più grande che con quel genere era stato anche capace di farci una canzone, era chiaramente udibile.
 
Madalena tentò per l’ennesima volta di isolarsi da quel casino, china sullo studio di uno spartito cui stava lavorando da almeno tre mesi.
 
Emozioni in sinfonia d’amore, era il titolo.
 
Probabilmente provvisorio.
 
A furia di ascoltare e praticare canzoni per pianoforte, le era venuta voglia di comporne una di proprio pugno, per dedicarla a Rachele e per esprimere quello che provava per lei.
 
Per tanta gente le parole erano il modo migliore per esprimere quello che pensavano, immaginavano o sentivano: che fossero dette, cantate, o scritte, quello era un mondo di parole.
 
Lei non ci riusciva. Voleva, ma sentiva che le parole erano troppe poche.
 
Lei riusciva a leggere solo il linguaggio della musica, come qualcosa di espressivo; riusciva solo a sentire le emozioni che la musica comunicava; e riusciva solo ad esprimersi con la musica, almeno in maniera sufficientemente esauriente.
 
Le uniche cose che potevano somigliare alla musica, nel mondo, per lei erano le parole e i gesti di Rachele.
Tutto il resto era qualcosa di non abbastanza pieno; di inconcludente, a volte; di insensato, altre; di privo di ogni melodia, la maggior parte.
 
Esprimere attraverso le note quello che sentiva Rachele, e quello che le dava Rachele, però, si stava rivelando qualcosa di più difficile del previsto.
 
Ogni nota era un’emozione; ogni battuta, una sensazione correlata. Ogni momento della sonata era un momento della loro vita. E il rendere tutto armonico, e melodico, e stupendo insieme, si stava rivelando qualcosa di estremamente complicato per lei, che tutto sommato nella pratica di quello strumento e di quel linguaggio era ancora una neofita.
 
Guardò la penultima battuta del quinto rigo di pentagramma, e fece una smorfia davanti al fa; provò le note a cominciare da tre battute prima, e poi concluse che c’era qualcosa che non quadrava, esattamente come aveva pensato. Una stonatura che non avrebbe voluto, e che la spinse a chiedersi come avesse fatto a inserirla.
 
Certe volte la stesura la lasciava scoraggiata, quando si rendeva conto che era complicato, e comunque non profondo quanto avrebbe voluto, anche nel migliore dei casi; non era elettrico, insano, eppure bellissimo e intenso come lo sapeva essere il sentimento che la legava a Rachele.
 
Bellissimo e intenso. Non sapeva definirlo in altro modo, in effetti.
 
Troppe poche le parole presenti nel vocabolario, probabilmente.
 
Sospirò, e pensò a che nota usare per correggere quel fa, con il fondo della matita prestatale da Daisy stretta tra i denti, e la parte più vicina alla punta trattenuta dalle dita.
 
Rabbia. In quel momento tutto quello che provava era dannata, e fottutissima rabbia.
 
E non erano solo i ragazzini che di sotto provavano sterili strofe di rap, a infastidirla; quelli erano il minimo, e ormai, con l’avvento di quel genere di musica in quei quartieri, ci aveva anche fatto l’abitudine, a sentirne in giro.
 
Quello che la faceva incazzare di più era il pensare Rachele insieme a Klaus, di nuovo.
 
Succedeva una, due, a volte anche tre volte a settimana; dipendeva da quello che voleva fare Klaus, da quanto rompeva i coglioni.
 
Rachele sembrava non poter fare altrimenti; quando Madalena, due settimane prima, era scoppiata e le aveva urlato contro che non voleva che lei stesse continuamente con Klaus e che gli cedesse, lei le aveva spiegato, col suo solito sorriso triste, che non poteva fare diversamente. Lo faceva perché aveva bisogno di una copertura: mentre Madalena sembrava etero a chiunque, anche grazie all’atteggiamento femminile e relativamente poco ribelle, e ai vestiti femminili che metteva, per lei non era la stessa cosa. I pantaloni larghi, le camice, il portamento quasi mascolino, e il comportamento ribelle che le aveva comportato diversi arresti, e la fama di una che non sopportava gli uomini, avevano contribuito a nutrire le voci secondo le quali lei fosse lesbica. Per parare entrambe dalle dicerie – e da quello che avrebbe potuto generare un’eventuale fatto simile alla conferma –, lei doveva fingersi eterosessuale.
 
Continuava a rassicurarla che Klaus in fondo non fosse così male; che se lei non voleva lui non insisteva per scoparla, e che non era poi così rude; a volte sapeva anche essere gentile.
 
Tutte stronzate per tranquillizzarla, Madalena lo sapeva bene. Ma non riusciva a cavarle fuori la verità; Rachele sembrava un muro con tanto di filo spinato, quando lei cercava di farle sputare cosa Klaus le facesse sul serio. All’inizio continuava a ripeterle che non le faceva nulla; poi, passava all’attacco, cambiava argomento, e iniziavano a litigare.
 
A litigare per Klaus.
 
Se all’inizio non l’aveva considerato così male, era bastato il fatto che Rachele le avesse detto come stavano davvero le cose tra di loro, tre anni prima, per capire che elemento fosse; e il semplice fatto che a lui fosse concesso di passare del tempo con Rachele quando le sue mire erano ben ovvie, la faceva impazzire di rabbia.
 
Sbatté il foglio sul tavolo accanto al pianoforte, furiosa al solo pensiero. Non poteva andare a fare una scenata di gelosia; non poteva urlare; non poteva nemmeno cercare di tornare a concentrarsi sugli spartiti, perché quel dannato fa, e tutte le battute circostanti a quella nota, non vertevano affatto sulla rabbia, ma sulla dolcezza.
 
Era frustrante, non poter fare niente su quel fronte.
 
Per qualche attimo, girò in tondo al centro della piccola stanza che era l’appartamento di Daisy, sbuffando sonoramente e mordendosi l’interno della guancia, e poi passando alle labbra.
 
Ed era quasi sul punto di andarsene da lì e avviarsi per una camminata in modo da sbollire tutta la rabbia, quando sentì delle voci familiari rimbombare nella tromba di scale, e avvicinarsi all’appartamento.
 
Daisy e Samuel; in particolare, lui parlava a voce sufficientemente alta da essere sentito, con almeno un’altra voce dal tono grave quanto il suo che rimbombava nel corridoio.
 
Madalena fece una smorfia perplessa, e aprì la porta, mostrandosi sul pianerottolo, e sporgendosi dalla ringhiera delle scale per verificare se le sue percezioni si erano rivelate esatte, e per vedere chi fosse l’altro soggetto maschile presente.
 
Con sorpresa, si ritrovò a costatare che erano due, e tutti e due uomini; e per di più, parecchio simili a Samuel, in fatto di connotati fisici.
 
Avevano i suoi stessi lineamenti; erano uno più anziano, dai capelli grigi e la pancia piena di una persona più che benestante, e un altro più giovane, coi capelli biondi come i suoi. L’unica differenza rispetto a Samuel era che quest’uomo simile a lui portasse gli occhiali, e avesse un’espressione molto meno dolce della sua.
 
«…che tu sia impazzito!» stava blaterando l’uomo più anziano; presumibilmente il padre, concluse Madalena, appena si ritrovò davanti a tutti e quattro, sul pianerottolo del terzo piano.
 
«Chi è questa? Un’altra?» domandò ancora lo stesso.
 
«Papà, falla finita.» disse Samuel, voltando di poco la testa verso di lui, per poi tornare a guardare Madalena. «Scusa. Ti abbiamo disturbato?» domandò.
 
Madalena scosse la testa. «No. Anzi, stavo pensando proprio adesso di andarmene…» rispose, facendo spallucce. «Tanto non riesco a combinare nulla, per oggi.»
 
«Mi dispiace.» commentò Samuel, con un’espressione sinceramente dispiaciuta.
 
Madalena sorrise di rimando, in un implicito ringraziamento per la preoccupazione; poi, scosse la testa, come a dire che in fondo non era un gran problema.
 
Sia lui, sia Daisy, sapevano del componimento cui stava lavorando per Rachele, e sapevano della loro relazione; Madalena aveva scoperto, non senza un’enorme dose di imbarazzo, che le avevano sentite nella serata di pioggia in cui avevano fatto l’amore la prima volta. Aveva preferito evitare di pensare troppo al fatto che anche i panettieri del secondo piano dovevano averle sentite tanto quanto loro, a quel punto; e si era concentrata sul fatto, semplice, nitido, eppure fantastico, che Samuel e Daisy non giudicassero nulla della loro relazione. Per loro lei e Rachele rimanevano, rispettivamente, un talento del pianoforte che continuava a esercitarsi nella casa di Daisy al terzo piano, e una sconsiderata divoratrice di libri con idee di rivoluzioni femministe da mettere in atto. Il resto non era cambiato di una virgola.
 
Perciò Madalena si era sentita tranquilla, quando aveva chiesto a Samuel un aiuto per la composizione che voleva fare per Rachele; il peccato era che si era sentita dire che lui non aveva mai composto veramente nulla, e che il pianoforte fosse una passione che si limitava alla pratica: lui non era tanto bravo da riuscire a comporre qualcosa.
 
Probabilmente non era tanto attratto dalla musica da riuscire a esprimersi principalmente con quella, aveva concluso Madalena.
«Non importa. Non è il momento adatto, evidentemente.» commentò, facendo spallucce. «E probabilmente non è nemmeno il momento adatto per stare qui.» aggiunse, dando un’occhiata ai due uomini in compagnia della coppia.
 
«Oh, per quello non farti problema.» commentò Daisy, con un gesto di noncuranza. «Abbiamo passato tutto il tragitto da casa loro a qui, a discutere. Se tutti i passanti si fossero fatti i tuoi stessi problemi, a quest’ora il Bronx sarebbe un deserto.»
 
Madalena inarcò un sopracciglio, sorpresa dal modo in cui Daisy si era espressa davanti a quello che probabilmente era il padre di Samuel. Dette un’occhiata a lui, e notò immediatamente che, in effetti, la sua espressione era quella di uno che stava per esplodere.
 
«Come ti permetti?!» urlò infatti, prendendo Daisy per una spalla e facendola voltare a forza. «Abbassa la testa, razza di puttana che non sei altro!»
 
Madalena assottigliò istintivamente gli occhi per la rabbia – e nello stesso momento, vide Samuel strattonare la mano del padre via dalla spalla di Daisy, e i suoi occhi ribollire di furia.
 
«Se non vuoi che faccia sapere alla mamma come io e Daisy ci siamo conosciuti, non ti azzardare più a toccarla.» lo sentì sibilare, in tono perfettamente udibile da tutti i presenti.
 
«E poi mi pare che lei non sia aggiornato con gli eventi, John.» commentò Daisy – in un modo tanto freddo che per un attimo Madalena rabbrividì: non l’aveva mai sentita parlare così, in tre anni che la conosceva. «Non svolgo più il lavoro di prostituta da due anni abbondanti.»
 
Madalena la fissò per un secondo, e poi tornò a guardare l’espressione stravolta del padre di Samuel – tale John, a quanto pareva.
 
Ricordando come si erano conosciuti – riportando alla mente la storia che Rachele le aveva raccontato, riguardo al perché il pianoforte di Samuel fosse a casa di Daisy –, non si stupì dello sconcerto sul viso dell’uomo: aveva conosciuto Daisy come una prostituta, e probabilmente riteneva che sarebbe sempre stata tale. In realtà Daisy due anni prima aveva affrontato un aborto – quello che era stato l’ultimo di tanti altri che avevano preceduto quello – che l’aveva lasciata talmente debilitata, fisicamente e psicologicamente, che Samuel, per proteggerla, le aveva detto che le avrebbe dato tutti i soldi che avesse potuto darle; che in pochi anni si sarebbe trovato un posto di lavoro che avrebbe concesso a entrambi di acquistare una casa in un quartiere che non fosse il Bronx, e di viverci tranquillamente, come una famiglia vera.
 
Daisy, da quel momento, aveva iniziato ad uscire la sera per un lavoro diverso da quello da prostituta: aveva iniziato a fare la baby-sitter ai figli di due amiche che avevano il turno di notte nella stessa fabbrica in cui lavorava anche Madalena. E di giorno faceva i lavori che trovava: di solito erano impieghi saltuari di qualche giorno, ma Madalena sapeva che comunque Daisy era riuscita a mettere da parte una bella somma.
 
Samuel, per contro, aveva sempre vissuto sulle spalle del padre e dell’azienda di famiglia, e quindi aveva iniziato a cercare un impiego solo dopo aver incontrato Daisy; Madalena, quando aveva chiesto come mai non l’avesse cercato prima, dato che sembrava così innamorato e il padre sicuramente sarebbe stato contrario, aveva scoperto con grande sorpresa che Daisy e Samuel si erano conosciuti solo qualche settimana prima che lei li vedesse insieme per la prima volta.
 
Attualmente, Samuel aveva un impiego di cui Madalena, tutto sommato, non si era mai preoccupata di chiedere l’entità; e aveva guadagnato – almeno così sembrava – soldi a sufficienza per rivelare alla famiglia che aveva intenzione di sposarsi con Daisy e toglierla da quel buco che era la sua casa nel Bronx.
 
Tanto più che Daisy ora aspettava un bambino da un paio di mesi; loro due, lei e Rachele l’avevano scoperto solo un paio di settimane prima.
 
Madalena rimase ad ascoltare passivamente la discussione ancora in atto tra Samuel e suo padre, rimuginando su quanto certe persone potessero essere paranoiche e sembrassero divertirsi a impedire a tutti i costi che due persone si amassero; sembrava che per alcuni bastasse avvalersi del titolo di genitore per ritenersi in grado di valutare tutto e tutti secondo i canoni che si erano prefissati; e se si usciva da quelli, non andava bene.
 
Si ritenne fortunata che sua madre, fin troppo presa dal lavoro e dal pagamento dei debiti, non fosse mai stata così soffocante: aveva preso il suo andare a casa di Rachele con la semplicissima motivazione che il suo appartamento fosse molto più vicino del loro alla fabbrica; e non aveva mai visto il loro rapporto in un’ottica diversa da quello di amicizia. E quando si era trattato di Dominic, sua madre non aveva saputo nulla, almeno da quanto sapeva Madalena; e se anche aveva saputo, sembrava non aver mai avuto motivo di commentare male.
 
Madalena si era convinta che non sapesse: se avesse saputo, non avrebbe preso bene il fatto che lei e Dominic si fossero lasciati. La sua mentalità – che negli anni, malgrado il contatto con modi di vivere nettamente diversi da quelli del loro villaggio di origine, era rimasta immutata – avrebbe portato ad additare una figlia che lasciava il fidanzato come una prostituta; una poco di buono che non era degna di stare in famiglia.
 
E Madalena, sapendo come avrebbe reagito, si era ben guardata dal dirle come stavano le cose tra lei e Dominic, o dal farle anche solo sapere che Dominic esistesse.
 
Tornò a guardare più attentamente Samuel e John; e vide che sembravano due muri che si scontravano, e non riuscivano nemmeno a distruggersi l’un l’altro. Nessuno dei due cedeva.
 
Di quel passo, avrebbero tirato notte.
 
Madalena sospirò – e gli occhi le andarono, improvvisamente, sull’uomo accanto a John, che ancora non aveva parlato.
 
A giudicare dai connotati, doveva essere il fratello di Samuel.
 
E la stava fissando.
 
Da quanto?
 
Madalena rabbrividì – di disagio, stavolta. Non le piaceva essere guardata; men che meno in quel modo così attento, e da occhi che sembravano solo volerla sezionare per capire cos’avesse dentro.
 
Sostenne il suo sguardo, per niente intenzionata a cedere davanti a un individuo del genere. Indispettita, che uno sguardo tanto freddo, calcolatore e fintamente interessato ricadesse su di lei, che non poteva e di sicuro non voleva ricambiare l’interesse, per quanto minimo.
 
Fu l’altro, il primo a cedere, e a distogliere gli occhi.
 
Madalena scostò lo sguardo a propria volta, tenendo però sotto controllo, con la coda dell’occhio, la situazione.
 
E infatti, come si era aspettata, l’uomo continuò a gettarle occhiate per tutto il tempo in cui Samuel e John rimasero sul pianerottolo a parlare.
 
 
 
«Scusami. Hai dovuto assistere a un casino del genere.»
 
Furono quelle, le prime parole di Daisy, quando Madalena rientrò in casa sua.
 
Samuel alla fine aveva capitolato per risolvere la questione a casa; ma aveva promesso a Daisy che sarebbe tornato, con o senza il permesso del padre, come aveva sempre fatto. E si era raccomandato a Daisy di rimanere lì e di non sforzarsi, almeno per quella sera; aveva già affrontato troppi stress, durante la giornata.
 
Madalena dubitava che Daisy non sarebbe andata a lavorare: per quel poco che poteva fare, cercava sempre di contribuire al reddito che un giorno sarebbe stato sia suo, sia di Samuel.
 
«Non fa niente.» replicò Madalena, sorridendo, e facendo spallucce, e guardandola mentre si affaccendava a preparare il caffè. «Lascia, Daisy. Faccio io.» si offrì, avvicinandosi ai fornelli.
 
Daisy la lasciò fare; ormai aveva capito che Madalena sapeva essere testarda e voleva averla sempre vinta. Perciò, si sedette a una sedia del tavolo, e attese che Madalena preparasse il caffè.
 
«Siete andati a casa dei genitori di Samuel, quindi?» esordì Madalena, voltando di poco la testa per guardarla al di sopra della spalla.
 
«Sì…» rispose Daisy, facendo spallucce. «Come ci aspettavamo, suo padre non l’ha presa per niente bene. Appena mi ha visto… Ma tu sai quello che è successo, tra l’altro?»
 
«Che tu hai avuto come cliente il padre di Samuel, ti sei portata a casa il pianoforte per cercare di farci dei soldi, Samuel è venuto a scoprire che il suo adorato pianoforte stava qui, e vi siete conosciuti così?» domandò Madalena, gesticolando mentre riassumeva gli eventi. «Sì, me l’ha raccontato Rachele.»
 
«Immaginavo.» considerò Daisy, con una smorfia divertita. «Quindi avrai capito che appena mi ha visto ha iniziato a dare di matto. Esattamente come ha fatto qui. Il discorso che hai sentito non era poi molto diverso da quello che ha fatto a noi quando siamo stati lì.»
 
«Mi sa che dovevate aspettarvelo.» commentò Madalena.
 
«Sa anche a me.» considerò Daisy, sospirando, mentre Madalena toglieva la caffettiera dal fuoco. «Quello che non ho capito è perché è venuto suo fratello.»
 
«Allora avevo inteso bene, che quello era il fratello di Samuel.» considerò Madalena, versando il caffè in due tazze, e poi prendendo del latte dal frigorifero per addolcire quello di Daisy.
 
«Sì, il fratello maggiore. Si chiama Marcus.» disse Daisy, prendendo la tazza dalle mani di Madalena, e appoggiandola sul tavolo di fronte a sé, aspettando che si raffreddasse. «Da quello che so, ha un lavoro nell’azienda di famiglia. Però non so molto altro. Samuel non mi ha parlato molto di lui, e lui non è che aiuti granché.»
 
Madalena fece una smorfia, e bevve il primo sorso di caffè amaro.
 
«E’ un peccato, che Samuel abbia dovuto rinunciare del tutto alla carriera di pianista.» commentò Daisy. «Quando ci siamo conosciuti, voleva fare quello. Se non fosse stato per quell’aborto che ho avuto, probabilmente avrebbe continuato…»
 
«Non è piacevole sapere che la tua donna è con qualcun altro. Anche se è per lavoro.» replicò Madalena, assottigliando gli occhi e sentendo di nuovo la rabbia ribollirle dentro. «E poi Samuel non era così granché, come pianista, da quello che ho capito. Ha detto che non ha mai composto nulla. È come se leggesse libri e basta, e volesse fare lo scrittore senza nemmeno sapere da dove cominciare.»
 
«Ha detto così?» domandò Daisy, sorpresa. Madalena, subito dopo, la sentì ridacchiare; tanto che sollevò lo sguardo, per vedere la sua espressione. «L’ho sempre detto che è un tenerone, in fondo. Anche se non si deve mai farlo incazzare, perché sennò diventa una bestia.» aggiunse Daisy, annuendo a sé stessa.
 
«Che c’entra?» domandò Madalena.
 
«Mi aveva detto che gli avevi chiesto di darti una mano con la musica che stai componendo per Rachele.» disse Daisy, bevendo un sorso di caffè a propria volta. «E che ti aveva detto di no. Ma non mi aveva detto come ti aveva detto di no, adesso che ci penso.» considerò, sollevando gli occhi al soffitto, come a rimandare la mente al momento in cui ne aveva parlato con Samuel, ed essere certa che i suoi ricordi fossero esatti. «Comunque so per certo che qualcosa ha composto. Un paio ne ha fatte anche per me.»
 
«Saranno state canzoni di altri che ha spacciato per sue per fare il grosso.» considerò Madalena, senza pensare troppo a quello che diceva; se ne rese conto solo dopo, quando realizzò il contenuto della frase che aveva appena pronunciato, e si voltò verso Daisy, per scusarsi del poco tatto.
 
«Ti posso assicurare che le ha composte. È stato qui a lavorarci per settimane, a quelle che ha composto per me.» disse Daisy, anticipando ogni sua scusa con un sorriso comprensivo e sicuro di sé. «Ti ha detto così perché non è te. Non può aiutarti a mettere sulla carta, e poi sul pianoforte, dei sentimenti che non sono suoi. Se vuoi dedicare una canzone a una persona, devi farlo da solo, perché quei sentimenti sono solo tuoi.»
 
Madalena sgranò gli occhi, sorpresa. Allora lei e Samuel la pensavano allo stesso modo, tutto sommato.
 
«Hai litigato con Rachele?» domandò Daisy, distogliendola da Samuel.
 
Aveva un tono gentile; come quello di una persona che voleva solo fare da sorella maggiore. Più o meno.
 
Madalena fece schioccare la lingua per l’irritazione, e finì il caffè nella tazza, per poi aprire l’acqua del lavandino e sciacquarla.
 
«No.» disse, quando ebbe finito. «Mi dà solo fastidio pensarla con quello stronzo.»
 
Daisy sospirò, e Madalena la vide finire la propria tazza di caffè e appoggiarla sul tavolo, prima di prendere di nuovo parola.
 
«Mi dispiace.»
 
«Non è colpa tua.» replicò Madalena. «D’altra parte, l’ho capito, che lo fa per proteggere me. Ultimamente il fatto che passiamo del tempo insieme a casa sua è diventato un po’ evidente, e se non ci fosse la copertura di Klaus penso che verremmo aggredite tutt’e due. E non è quello che voglio.» considerò, incrociando le braccia. «Solo che mi fa rabbia pensare che…» azzardò, stringendosi un braccio. «Niente.» concluse, scuotendo la testa, e pensando che non era il caso di appesantire Daisy con i problemi suoi e di Rachele.
 
«Parlane, se vuoi.» la invitò Daisy, dolcemente. «Io non ho problemi ad ascoltare.»
 
Madalena scosse la testa; poi, però, scoppiò.
 
«Non riesco a immaginare che lei si faccia fottere da uno del genere solo per copertura.» disse, mordendosi il labbro. «E io invece devo rimanere qui, non posso fare un cazzo di niente per evitarlo. Sta con un tizio che ha sempre, palesemente odiato, e pensa di prendermi per il culo con la storia del “non è un così cattivo ragazzo”. ‘Sto cazzo, non lo è. Quello pensa solo a una fottuta cosa, e dovrebbe essere invece proprio quella cui non dovrebbe pensare.» Strinse i denti, e affondò le unghie in un braccio. «Se solo fossi un uomo, gliel’avrei fatto in tanti piccoli pezzettini da dare ai ratti.» sibilò, furiosa. «E la cosa più senza senso di tutte è che Rachele non mi spiega perché proprio lui. Di tutti, perché proprio lui, a farle da copertura. Io devo stare qui, ad aspettare, e altro non posso fare se non comporre una cazzo di canzone per lei, quando invece lei si fa fottere da uno del genere per evitare che sia io che lei veniamo pestate a sangue!» sbottò Madalena, voltandosi verso Daisy, furiosa.
 
Il mutismo di Daisy – insieme allo stress comportato dalla situazione, tale da portarla a non sapere più cosa le circolasse per la testa – la fece scoppiare definitivamente.
 
Si vergognava di star piangendo davanti a Daisy, che era stata così gentile da invitarla a sfogarsi; si vergognò di essere crollata sul suo letto, a tenersi la testa tra le mani perché sentiva che altrimenti sarebbe esplosa per il troppo male, e ad ascoltare i propri singhiozzi, e a sentire le proprie lacrime, desiderando che fossero di qualcun altro.
 
Non aveva mai pianto troppo. Aveva pianto solo alla morte di suo padre, a dire il vero; per il resto, più di due lacrime non aveva versato.
 
Odiava piangere: sapeva che col pianto non si sarebbe risolto nulla, se non dimostrare a eventuali persone presenti che si era talmente deboli da non riuscire a tenersi dentro le proprie preoccupazioni e i propri problemi, quando invece le persone circostanti sembravano così capaci di farlo.
 
Si intimò più di una volta di fermarsi; tuttavia, non ci riuscì. Il bisogno di far uscire tutto in qualche modo fu più forte, e le impedì di trattenersi.
 
Si odiò, quando Daisy le mise una mano sulla spalla.
 
Si odiò ancora di più, quando venne attirata in un abbraccio, e si rese conto che quello era l’abbraccio di Rachele – le sue spalle grandi, e la sua stretta dolce; il suo respiro lento, e il suo odore di menta che sovrastava anche la puzza di Klaus che aveva ancora addosso.
 
«Non ti azzardare a rimanere incinta di lui, Rachele!» biascicò, con la voce arrochita per il pianto, stringendole il giubbotto. «Ti ammazzo! Ammazzo te e ammazzo lui!»
 
Rachele, di tutta risposta, non disse una parola; si limitò a stringerla di più a sé, in una muta promessa che avrebbe fatto in modo che non andasse così.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: Tuono ***


Capitolo 6 – Tuono
 
 
Novembre 1982
 
Sembrava che l’intera prole della famiglia Rivera avesse deciso, in quel lasso di tempo, di mettere su famiglia.
 
Madalena aveva guardato attonita il primogenito, Marcos, presentare alla madre e ai fratelli – Carlos escluso, dato che i genitori di Katherine avevano provveduto a comprare loro una casa poco prima che lei partorisse, alla fine di marzo – la fidanzata, Renée, incinta di cinque mesi e con un pancione già piuttosto evidente.
 
Renée, al contrario di Katherine che, in qualche modo, aveva comportato che la famiglia di lei aiutasse economicamente i Rivera, era originaria del Bronx. E mentre suo fratello Marcos si aggirava, in età, ormai sui venticinque, Renée aveva appena compiuto i diciotto anni, ed era nera.
 
La prima idea che Madalena ebbe di lei fu che Natalia, sua madre, stesse pensando che la futura madre di uno o più dei suoi nipoti, e per di più futura moglie del suo primogenito, fosse un’autentica puttana.
 
Ed era quasi totalmente sicura di non essersi sbagliata.
 
Chiaramente, sua madre non lo disse esplicitamente; ma era assolutamente ovvio, dall’impercettibile movimento che aveva fatto la sua palpebra superiore destra, quando aveva sentito l’età di Renée. Anche suo fratello Marcos doveva essersi reso conto che sua madre non era molto d’accordo con la futura nuora.
 
Per conto proprio, Madalena non riuscì a pensare ad altro che tutta quella sembrasse una congiura contro di lei, anche se incosciente, da parte dei fratelli; prima Carlos, e adesso Marcos, continuavano a ricordarle che lei era l’unica figlia femmina; che da lei dipendeva la dignità dell’intera famiglia, in base a chi sarebbe andata in sposa; che teoricamente doveva sfornare tanti nipotini e, possibilmente, sposare un uomo ricco.
 
Che se avesse saputo che era innamorata di una donna, che il perché stava sempre da lei erano sia un pianoforte, sia la compagnia di lei, e che di nipotini non ne avrebbe sfornati, né si sarebbe sposata, sua madre altro che movimento impercettibile della palpebra superiore destra; l’avrebbe come minimo cacciata fuori di casa a suon di calci e urla e insulti, vergognandosi di lei.
 
Madalena assottigliò gli occhi, davanti a Renée, e si espresse nel sorriso tirato che tanto odiava veder fare a Rachele, che tanto odiava fare da sé, ma che in certi momenti, per il quieto vivere, si rendeva necessario. Strinse la mano a Renée, e le dette il proprio benvenuto nella famiglia.
 
 
 
La parola d’ordine era: Klaus non deve sapere che sono qui.
 
A dirla tutta, per diverso tempo nemmeno Madalena l’aveva sospettato. L’anno prima, quando aveva visto Serenity per la prima e unica volta, non aveva avuto la prontezza di riflessi di chiedere a Rachele dove si fossero conosciute. Il dubbio, e il pensiero che non avesse fatto quella domanda, le erano venuti solo qualche giorno prima, quando stava parlando con Rachele del più e del meno. Allora, era venuta fuori la storia del circolo femminista che lei stava ancora frequentando, all’insaputa di Klaus.
 
Il cuore di Madalena aveva fatto una specie di salto mortale, o almeno così lei lo avrebbe descritto: il sapere che Rachele, nonostante Klaus, non avesse rinunciato non solo ai propri libri, ma nemmeno ai propri ideali, gliela faceva tornare sempre più come l’aveva conosciuta; il vederla energica, nonostante il fatto che dovessero mantenere segreta la loro presenza al circolo e che sicuramente per lei tutta quella situazione fosse uno stress non indifferente, la faceva sorridere.
 
Rachele non era mai cambiata. Dentro era sempre rimasta la stessa, e aveva cercato in ogni modo di rimanerlo anche fuori.
 
Al circolo incontrarono di nuovo anche Serenity; era da sola, ma sembrava entusiasta, esattamente come Rachele l’aveva descritta. E sembrava anche felice di vederle insieme.
 
Chissà se aveva davvero superato tutto. Era passato un anno e mezzo, ormai; ma forse non era abbastanza, per guarire una perdita così improvvisa, e una presa di coscienza così inaspettata.
 
Comunque fosse, Serenity mascherava bene il dolore, se ne provava. Sicuramente meglio di quanto sapesse fare Rachele.
 
«Sono contenta di vedervi!» disse lei, baciando affettuosamente su una guancia Rachele; Madalena le rivolse un’occhiataccia, davanti alla quale Serenity scoppiò a ridere, e alzò le mani in segno di resa.
 
«Scusa, scusa!» esclamò. «E’ tutta tua. Davvero, non mi guardare così!» si affrettò ad aggiungere, non appena Madalena le rivolse un’altra occhiata intimidatoria.
 
«Su, amore. Serenity è niente, in confronto al tuo pedinatore. Io dovrei essere gelosa, non tu.» commentò Rachele.
 
Madalena manifestò un’espressione contrariata, e assottigliò gli occhi, con intenti omicida rivolti al pavimento, perché ad altri preferiva non rivolgerli.
 
Era ormai da qualche mese che Marcus, il fratello maggiore di Samuel – trentotto anni, un posto nella ricca azienda di famiglia, e un carattere insopportabilmente saccente e da superiore – aveva preso prima a seguirla, poi a chiederle di uscire continuando a prendersi rifiuti e declini di inviti, e infine a chiederle di sposarlo, senza che lui e Madalena nemmeno si conoscessero.
 
L’unica spiegazione che Madalena aveva trovato a quel comportamento era che Marcus, vedendola in casa di Daisy, e chiaramente sapendo del fatto che lei era stata una prostituta, avesse preso per prostituta pure lei.
 
Però non si spiegava perché chiederle di sposarla. Avrebbe tranquillamente potuto chiederle di scopare e basta, e quanto voleva, se davvero la pensava così.
 
Dubitava che si fosse innamorato a prima vista di lei: non riusciva a concepire stronzate simili, a dire il vero. Poteva concepire un’attrazione particolare per qualcuno, al punto da sentire subito se era speciale o meno; ma da lì a chiedere a una ragazza di sposarsi senza nemmeno conoscersi, ce ne passava parecchio.
 
In Marcus, Madalena vedeva solo un uomo prepotentemente gonfiato dal potere che i soldi potevano dare, e che si curava poco di quello che volevano gli altri; nonostante Madalena gli avesse detto più volte di sparire dalla sua vista – spesso anche con termini propriamente dei quartieri bassi –, Marcus era continuamente tornato alla riscossa. La seguiva dopo l’orario in fabbrica, o le poche volte che tornava a casa, o persino quando si avviava a casa di Rachele con lei; ed era in quelle situazioni, che dovevano entrambe trattenersi per cercare di far valere la superiorità numerica e andare a pestarlo – si sapeva mai che, in quel caso, si sarebbe convinto di lasciar perdere; ma loro ci avrebbero rimesso in fatto di reputazione, e avrebbero rischiato grosso.
 
«Stasera facciamo una manifestazione.» stava dicendo Serenity. «Andiamo un po’ in giro per le strade, con dei cartelloni che abbiamo fatto nelle altre riunioni. Vi va di venire? Più siamo, meglio è!» propose.
 
Sembrava entusiasta.
 
Madalena intercettò all’istante lo sguardo brillante di euforia di Rachele: erano anni, ormai, che non partecipava a una manifestazione; era normale che avesse quell’espressione vogliosa di prendervi parte.
 
E poi, subito dopo, quell’espressione delusa di chi doveva rifiutare, perché sapeva di non poter rischiare.
 
Quante volte Rachele aveva avuto quell’espressione? Quante volte il pensiero di dover rifiutare di partecipare a qualcosa in cui credeva, solo per non rischiare di mettere in pericolo entrambe?
 
Era come se a lei togliessero all’improvviso il pianoforte. Anzi, no, peggio: come se la legassero a una sedia davanti a un pianoforte, facendoglielo vedere, ma impedendole di usarlo.
 
«Non avete qualcosa con cui mascherarci?» domandò, anticipando la risposta negativa di Rachele.
 
Serenity si rivolse a lei; e lo stesso fece Rachele – Madalena la vide con la coda dell’occhio.
 
«Beh, potremmo usare delle bandane per coprirvi parte del viso. E poi anche per raccogliervi i capelli.» commentò, annuendo a sé stessa, come a convincersi che fosse la soluzione migliore. «Aspettate, vado a vedere se ci sono.» disse, voltandosi e dirigendosi verso un qualche punto della saletta in cui il circolo stava prendendo l’aspetto di un gruppo di manifestanti armate di cartelloni e striscioni.
 
Rachele le strinse una delle mani, spingendola a girarsi verso di lei. Madalena sorrise, a incrociare il suo sguardo esterrefatto.
 
«Che c’è?» domandò. «Se vuoi andarci e possiamo farlo senza farci riconoscere, perché no? Solo per questa volta, però. E solo perché ci sono io, così almeno ti salvo in tempo da eventuali arresti o casini.»
 
Rachele continuò a fissarla, apparentemente sconcertata da quella risposta. Madalena sospirò, e scosse la testa.
 
«E poi perché voglio provare l’adrenalina di partecipare a una manifestazione, va bene.» ammise, in tono cantilenante, come una bambina che confessa una marachella alla madre. «Visto che sembri tanto entusiasta quando le fai, e ti fai pure sbattere in prigione per questo, voglio proprio sapere che hanno di speciale.»
 
«E’ pericoloso.» la redarguì Rachele.
 
«Lo so. Essendo una cosa che tu facevi, è per forza pericolosa. E stupida.» considerò Madalena, sorridendo. «Ma va bene così. Se ti fa felice, perché non andarci? Anche se solo per questa volta, eh, parliamoci chiaro.»
 
Rachele rimase per qualche attimo in silenzio, gli occhi sgranati per la sorpresa. Poi, le strinse ancora di più la mano e si avvicinò con la bocca al suo orecchio – spingendo Madalena a rabbrividire sia di aspettativa, sia di paura del giudizio che avrebbe potuto avere la gente intorno a loro.
 
«Tranquilla. Si dice che il femminismo sia la teoria, e il lesbismo la pratica. Quindi penso che qui nessuno abbia veramente qualcosa contro di noi.» sussurrò Rachele, con un sorriso che Madalena non faticò a recepire, anche se non lo stava vedendo. «Quando arriviamo a casa, stasera, sappi che ho intenzione di ricompensarti a dovere. È l’ennesima cosa tenera che mi dici.»
 
«Oh cazzo, dici che mi sto rammollendo?» domandò Madalena, sarcasticamente. Poi, sorrise, e avvicinò la bocca al suo orecchio. «Non vedo l’ora. Ma tu ingegnati, mi raccomando.»
 
«Ehi!» esclamò Rachele, scoppiando a ridere. «Perché “ingegnati”?»
 
Madalena sorrise, e ridacchiò a propria volta. «A buon intenditor, poche parole.» disse.
 
Rachele fece un’espressione di sorpresa; e Madalena scoppiò a ridere, al vedere quanto fosse buffa.
 
«Te l’hai mai detto nessuno che sei carinissima, quando ridi?» s’intromise Serenity, portando tra le mani le bandane che avrebbero dovuto indossare.
 
«Io glielo dico sempre.» confermò Rachele, annuendo. «Il problema è che non lo fa quasi mai.»
 
«Beh, questo contribuisce solo a renderla ancora più carina, mi sa.» commentò Serenity, porgendo loro le bandane. «Ecco qua. Mettetevene una sulla faccia, e con l’altra raccoglieteci i capelli. Per i vestiti non si può fare molto, ma almeno mascherate il viso e non vi fate riconoscere.»
 
«Ok. Grazie.» disse Rachele, annuendo e prendendo in consegna i fazzoletti portati da Serenity, e porgendone due a Madalena, mentre lei si avviava a parlare con altre partecipanti.
 
Madalena raccolse i capelli all’interno del fazzoletto, in modo da nasconderli il più possibile; poi, attese che le altre donne fossero pronte, per mettersi l’altro davanti alla bocca e al naso, in modo da lasciare scoperti solo occhi e orecchie.
 
Lei e Madalena si avviarono fuori dal piccolo appartamento che fungeva, per la maggior parte delle volte, da circolo di ritrovo di tutte le donne del movimento femminista; e iniziarono a seguire il piccolo corteo che si era formato, e che percorreva le strade del quartiere, senza fare troppo rumore per non disturbare le persone che vivevano lì, ma mostrando apertamente striscioni, cartelloni, e unione per un obiettivo comune.
 
Rachele e Madalena si tenevano per mano; e Rachele stava lasciando che Madalena prendesse coscienza di quella realtà, e nel frattempo si era messa a parlare con una donna del gruppo che probabilmente aveva conosciuto a qualche riunione precedente.
 
Era una sensazione strana: Madalena aveva sempre immaginato le manifestazioni come caotiche, propense alla violenza e alle risse; animate da qualcosa che sembrava solo brutalità, da come veniva dipinta dall’esterno, dagli arresti fatti dalla polizia, e dai racconti di chi, da quello che diceva, era stato testimone di qualcuna di esse.
 
Invece lì era tutto estremamente tranquillo: erano al massimo una trentina, a camminare per le strade mostrando cartelloni con slogan ai passanti; ma Madalena, già dai primi momenti, recepì che c’era dell’altro.
 
Quello che mostravano era la voglia di cambiare: ed era una voglia pacifica, che chiedeva solo pari diritti – davvero – per tutti, maschi e femmine che fossero. Quello che saltava più all’occhio, però, era l’unità del gruppo: il fatto che bene o male si conoscessero tutte le partecipanti, e che fossero sorridenti, nel manifestare per una causa in cui credevano tutte.
 
Fu un’atmosfera strana, e particolare; qualcosa di piacevole, che le fece capire perché a Rachele brillassero gli occhi quando le si proponeva di partecipare; che le fece comprendere perché fosse finita così tante volte in galera.
 
Era il pensiero, con tutta probabilità mai detto esplicitamente, ma dimostrato attraverso i fatti, che ognuna di loro poteva contare sulle altre; che ognuna di loro avrebbe lottato per difendere le altre, sia fisicamente, sia ideologicamente, attraverso la lotta per pari diritti. Il fatto di essere lì significava unione; il partecipare alle riunioni del circolo implicava comunione di intenti, e volontà comune di cambiare le cose.
 
Fu la prima volta in cui Madalena si rese conto che forse non aveva mostrato a sufficienza a Rachele di sostenerla in quello che faceva; forse bramava di partecipare a quelle riunioni per compensazione del fatto che lei non capisse.
 
O forse no. Forse semplicemente voleva esserci per le altre come le altre c’erano per lei.
 
Madalena sorrise, e strinse di più la mano di Rachele; voltò lo sguardo verso di lei, fissandola, e lei la osservò di rimando, e le sorrise a propria volta.
 
 
Fu un lampo.
 
Il rumore violento di un tuono.
 
Il suono di qualcosa che si schiantava contro l’asfalto.
 
Il tempo di voltarsi; un solo secondo di fruscio di testa che si muoveva, rivolgendo la propria attenzione indietro.
 
E poi rosso.
 
Rosso, che si dipanava a terra, tra i minuscoli sassi che componevano l’asfalto; si infiltrava negli spazi tra i sassolini, simili a capillari sottilissimi, fino a diffondersi ovunque.
 
Il volto giovane di una ragazza di forse diciotto anni immobilizzato in quell’attimo.
 
I suoi capelli corti che si impregnavano di rosso.
 
Gli occhi sbarrati a contemplare loro, le manifestanti – il vuoto.
 
E la sua pelle da mulatta che si tingeva di sangue che colava.
 
Da un lato, il cartellone che stava stringendo in mano fino a un secondo prima, sbalzato via dall’impatto.
 
Tuono.
 
Schianto.
 
Morte.
 
Bastava solo l’attimo di un fulmine.
 
Bastava solo un suono, per esprimere la morte.
 
Il rumore del tuono che continuò a rimbombarle in testa.
 
Per attimi che le sembrarono un’eternità, perse cognizione anche solo del fatto di avere un corpo.
 
C’erano solo i suoi occhi, che incontravano per la prima volta una morte violenta.
 
E il sentirsi schiacciata dalla paura.
 
Sarebbe morta anche lei.
 
Avrebbe sentito anche lei quel tuono, come ultimo suono della propria vita.
 
Nella testa, e nelle orecchie.
 
E poi, un urlo che squarciò l’aria, e le fece prendere di nuovo coscienza della realtà.
 
“Fottute lesbiche di merda”.
 
E di nuovo il suono del tuono – di nuovo spari.
 
Non riuscì nemmeno a trovare la fonte di quei suoni orrendi che le rimbombarono in testa.
 
Sentì come unica sensazione la mano di Rachele che stringeva la sua – sapeva che era la sua mano: dopo anni, aveva imparato a riconoscerla – e le faceva riguadagnare coscienza del proprio corpo, perché la trascinava via di peso da lì, velocemente.
 
Fu una corsa.
 
Corse, più velocemente di quanto le sue gambe le avessero mai permesso.
 
Corse, sentendo a ogni istante ancora la terra sotto i piedi, e il suo corpo che risentiva in parte del loro urto contro l’asfalto; e per un attimo, ringraziò qualcuno – non seppe nemmeno lei chi, esattamente – che fosse ancora così.
 
Ringraziò di vedere ancora Rachele davanti a sé; la sua schiena fasciata nella solita camicia, e le sue gambe rinchiuse nei pantaloni larghi che correvano, davanti a lei.
 
La sua mano stretta nella propria.
 
Viva, e terrorizzata.
 
La strinse, più di quanto non stesse già facendo.
 
Doveva vivere.
 
Rachele doveva vivere.
 
Lei doveva vivere.
 
Dovevano vivere entrambe, ancora.
 
E se per farlo avessero dovuto correre anche in capo al mondo, sarebbe andato bene.
 
Bastava che vivessero.
 
 
Madalena mosse le gambe, quasi senza pensarci, per un tempo che non seppe quantificare.
 
Non arrivarono in capo al mondo; si fermarono in un vicolo poco distante da dove abitava la famiglia Rivera.
 
Una volta ferma, Madalena percepì per la prima volta, dopo quelle che potevano essere state anche delle ore, la fatica nelle proprie gambe, nei polmoni, e nell’intero corpo.
 
Rumore di tuono. Di nuovo.
 
Crollò accasciata contro il muro, i polmoni in fiamme, le gambe esauste, e il cervello che sentiva solo il rimbombo di quello sparo, nel vuoto che in quel momento era la sua coscienza.
 
Terrore.
 
Fu quella, la sensazione che la fece tremare, e scoppiare a piangere senza che lei nemmeno cercasse di trattenere le lacrime.
 
L’immagine ancora vivida di Serenity a terra, in una pozza di sangue, e di quell’urlo fulminante nelle orecchie che si riferiva a loro.
 
Strinse la camicia di Rachele, impietrita dalla paura.
 
Non riusciva a pensare ad altro che a Serenity. All’attimo che era bastato per portare via la sua vita. All’epiteto usato contro tutte loro. Alla motivazione di quell’omicidio a sangue freddo.
 
Al fatto che avrebbe potuto essere una chiunque di loro, al suo posto.
 
Al fatto che lei e Rachele erano particolarmente vicine a Serenity, durante la manifestazione.
 
Al fatto che loro erano lesbiche.
 
«Ci ammazzeranno…» rantolò, stringendo di più la camicia di Rachele. «Moriremo così anche noi…»
 
Le braccia di Rachele l’abbracciarono, stretta; e Madalena si ritrovò contro la sua spalla, a sentire il suo odore forte di menta, mescolato a quello del sudore per la corsa folle che avevano fatto.
 
«Eravamo vicine a lei…» disse Madalena, di nuovo, singhiozzando. «Potevamo essere noi… Se solo avessero mirato diversamente… Potevamo essere noi…»
 
Rachele rimase in silenzio; Madalena strinse di più la sua camicia, fino a sentire la consistenza della sua spalla sotto le dita, e artigliare anche quella.
 
«Se solo non ti avessi mai incontrato, cazzo!» biascicò. «Se solo non ti avessi mai incontrato, non sarei diventata una fottuta lesbica, e ora non avrei questa fottuta paura di morire! Non avrei questa immagine negli occhi! Sarei una fottuta mogliettina sottomessa con una cazzo di vita tranquilla, che si teneva lontana da quelle cazzo di manifestazioni, e non avrei mai visto che…!»
 
Rachele la strinse con più forza – tanto che, per qualche secondo, Madalena si sentì mancare il respiro per la potenza della sua stretta.
 
E percepì il suo bisogno di sentirla vicina, attraverso la sua pelle, il suo gesto, e le parole non dette.
 
Fu in quel momento, che realizzò che Rachele non era abituata a quelle scene; che era terrorizzata quanto lei, e anche lei per entrambe.
 
Che non riusciva nemmeno a parlare, da tanto era impietrita dalla paura.
 
Madalena scoppiò a piangere più forte. La strinse a sé, abbracciandole il collo, e sentendo nell’orecchio il suo respiro affannato e ogni parte delle sue membra che tremava come una foglia.
 
Era tutto così diverso, dalla stretta di mano che le aveva spinte a guardarsi qualche minuto, o qualche ora prima.
 
Era tutto così diverso, da quei sussurri complici e divertiti che si erano scambiate prima della manifestazione.
 
Era tutto così sbagliato, nella morte di una ragazza solo perché era capace di innamorarsi solo di donne.
 
Era tutto così assurdo, nel fatto che lei ora fosse lì, a stringere Rachele e a farsi stringere da lei, più per paura che per consolazione; era insensato, sentire il suo respiro rantolante nell’orecchio, e tutto il suo corpo tremare, e nessuna lacrima bagnarle la spalla.
 
Rachele era talmente terrorizzata da non riuscire nemmeno a piangere.
 
Semplicemente, non riusciva a ragionare a sufficienza da realizzare l’accaduto.
 
Ed era straziante, rimanere lì senza riuscire a fare nulla.
 
Dava un senso di vuoto e di inutilità tremenda.
 
Ma Madalena non era Rachele.
 
Madalena non riuscì a fare nulla, di nuovo.
 
Riuscì solo a stringerla a sé e a piangerle sulla spalla, mormorandole di non azzardarsi a morire senza di lei.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: Resa ***


Capitolo 7 – Resa
 
 
Gennaio 1983
 
Marcus aspettava subito fuori dal cancello della fabbrica.
 
Per l’ennesima volta, Madalena si chiese che voglia potesse avere uno come lui di venire fin lì, in un quartiere come il Bronx, e rischiare di farsi riconoscere e derubare, picchiare o ammazzare, per incontrare lei.
 
Se fosse stata una ragazzina l’avrebbe visto come l’amore delle favole che diventava realtà: l’uomo che rischiava tutto, a cominciare dai propri averi, per andare fino alla propria sicurezza, e poi alla propria vita, solo per vedere lei che usciva dalla fabbrica, e chiederle di sposarlo.
 
La realtà era ben diversa, e Madalena non aveva faticato ad accorgersene.
 
Era una cosa che avrebbe capito chiunque avesse avuto un po’ di cervello e di amor proprio; non servivano le capacità di ragionamento proprie di una come Rachele, che leggeva continuamente e quindi era perfettamente in grado di intavolare un discorso ragionato, se voleva.
 
La realtà consisteva semplicemente nel fatto che Marcus la vedesse come una ragazzina ingenua di cui lui si era invaghito, e che sarebbe stata pronta a sposarlo.
 
E poiché gli uomini oltre che tronfi sono anche stupidi, il vedere che lei continuava a rifiutarlo e a dirgli poco gentilmente di andarsene non faceva altro che aumentare il suo desiderio di conquistarla.
 
Gli uomini bramano ciò che non possono avere, e lo bramano ancora di più quando si rendono conto che è solo lì, a un passo, e non riescono ad averlo per poco – pochissimo, a volte.
 
Madalena l’aveva imparato col tempo.
 
L’unica cosa che aveva sempre voluto era una vita tranquilla. Non aveva mai voluto innamorarsi, trovare l’anima gemella, o diventare ricca tutto d’un colpo.
 
Tutto quello che aveva sempre desiderato, da bambina, era una vita come quella di sua madre: dedita alla famiglia, al marito, ai figli, alle faccende di casa, eventualmente a un lavoro che aiutasse quello del marito nelle entrate di liquidità in famiglia.
 
Pochi anni prima, aveva imparato che c’era dell’altro; che le era concesso desiderare dell’altro.
 
Bastava solo volerlo.
 
Bastava solo desiderare di essere davvero amata, e di amare davvero.
 
E aveva imparato, nel giro di un attimo, che tutto ciò che si è conquistato con fatica, per cui si è lottato, e che per questo ha riempito la vita di qualcosa, al posto della banale e vuota vita simile a quella di una moglie che si sposa solo per convenienza e fa solo quello che le impone la società – tutto quello, poteva svanire nel tempo di un istante.
 
Erano due mesi, che non toccava più il pianoforte, né gli spartiti per la sonata da dedicare a Rachele.
 
Il rumore della morte le era rimasto talmente impresso nelle orecchie che ogni volta che provava a toccare un tasto, o prendeva in mano la matita per lavorare allo spartito, quel tuono le tornava in testa.
 
E così faceva il viso di Serenity, ancora con gli occhi fissi nel vuoto e i capelli impregnati di sangue, nella sua testa – ancora il ricordo vivido del rosso, e della mancanza di vita che quel corpo aveva trovato nel giro di un battito di ciglia.
 
Quel tuono riusciva a essere più forte di qualunque altro suono di pianoforte. Non riusciva a toglierselo dalla testa.
 
La faceva incazzare non poco, il non riuscire a sfruttare a dovere il tempo che aveva, e il pianoforte che Daisy e Samuel, dopo essersi trasferiti, le avevano lasciato in quella casa, rimasta poi disabitata.
 
La faceva incazzare, perché era la dimostrazione che la magia si era rotta.
 
Che aveva dovuto prendere consapevolezza della realtà dei fatti una volta per tutte.
 
Lei era lesbica. Era follemente, disperatamente, dolorosamente, e inconfutabilmente, innamorata di Rachele. E per quanto lei sapesse che l’unica donna al mondo capace di farla stare così sarebbe stata lei, gli altri, dall’esterno, avrebbero visto solo quello che volevano vedere.
 
Che lei era lesbica. Malata. Sbagliata. Ribelle.
 
Doveva vivere nascosta, per non morire, e assicurare a sé, e a Rachele, una vita che somigliasse a qualcosa di tranquillo.
 
Più di una volta, in quei due mesi, aveva pensato di uccidere Rachele, e poi ammazzarsi.
 
Sarebbe finito tutto. Tutto sarebbe andato via.
 
Nessuna delle due avrebbe più sofferto. Nessuna delle due avrebbe più dovuto preoccuparsi per l’altra.
 
Ma ogni volta che ci pensava, e guardava il viso di Rachele – spesso addormentato, e affondato tra i cuscini, nel letto accanto a lei –, non riusciva a giungere a una conclusione diversa da quella che l’aveva portata a continuare a vivere.
 
Se fossero morte, sarebbe stato per sempre. Nessuna delle due avrebbe mai più visto l’altra.
 
E lei invece voleva continuare a vederla il più a lungo possibile.
 
Gliel’avrebbero dovuta strappare; avrebbero dovuto strapparle gli occhi, tagliarle la testa, accecarla, ucciderla, per toglierle la voglia di vederla. Avrebbero dovuto inibirle ogni fibra del suo essere, o più facilmente ammazzarla, per toglierle il desiderio di stare lì, accanto a lei.
 
I sogni non esistevano. Le favole non esistevano.
 
Quella era la vita, ed era dolorosa.
 
Ma Madalena non riusciva mai a pensare che non valesse la pena viverla; finché aveva Rachele – finché pensava a lei, tutto sembrava avere un senso. Tutto sembrava ripagare il dolore, la fatica, e la sofferenza. La depressione, e l’odio che Madalena sentiva intorno a sé – non dichiarato solo perché nessuno sapeva di lei e Rachele; non esplicitato solo perché erano brave a nascondersi.
 
Chiunque le avrebbe dato della pazza, a vedere che passava di fianco a Marcus, senza nemmeno rivolgergli un’occhiata; e probabilmente, qualche malalingua dietro di lei lo stava anche facendo.
 
Ma Marcus rappresentava quella favola in cui lei non viveva più già da anni.
 
E in cui lei non aveva intenzione di tornare a vivere.
 
Strinse la tracolla della borsa tenuta sulla spalla, mentre gli passava accanto, cogliendo con la coda dell’occhio solo qualche particolare dei suoi jeans, e del suo giubbotto. Poi, rintanò meglio il viso dentro la sciarpa, e la sistemò alzandola fino alle labbra.
 
Rachele, come succedeva spesso, ultimamente, era andata avanti. Klaus aveva preteso di stare insieme, e lei non aveva potuto fare altrimenti.
 
Come sempre, non usciva insieme a lei.
 
Non potevano tenersi mano nella mano per strada. Non potevano guardarsi troppo, per paura di scatenare voci che avrebbero potuto danneggiarle. Non potevano nemmeno vivere del tutto tranquillamente la loro situazione, perché dovevano sempre guardarsi da chi avrebbe potuto seguirle, o sentirle, o sospettare qualcosa.
 
E lei doveva sopportare il pensiero di Rachele e Klaus insieme.
 
Come Rachele doveva sopportare il pensiero di Marcus che la pedinava.
 
Era tutto difficile. Tutto complicato. Tutto duro, da sostenere.
 
Per quanto ancora sarebbero riuscite ad andare avanti così, prima di crollare preda dell’esasperazione?
 
Ogni volta che ne avevano parlato, avevano litigato al punto da urlare, incuranti di chi avrebbe potuto sentirle, ai piani superiori del condominio di Rachele.
 
Ogni volta avevano finito per piangere, l’una addossata all’altra.
 
Sapevano entrambe di non poter fare a meno dell’altra. Ma entrambe sapevano anche che tutta quella situazione era talmente sfibrante, che avrebbero potuto stancarsi di provare inutilmente a sostenerla.
 
E avevano paura che succedesse; che una delle due si stancasse davvero, prima o poi.
 
Avevano paura che una delle due un giorno prendesse la porta, e dicesse che bastava così, che niente di quello che facevano aveva senso; che tanto non sarebbe cambiato nulla, e sarebbe stato molto meglio vivere una vita tranquilla, anonima, con nulla di cui preoccuparsi se non le faccende di casa e il lavoro.
 
Che sarebbe stato meglio vivere una vita vuota, rispetto a una così piena di paura, di dolore, di crampi allo stomaco, di tenere d’occhio fuori dalla porta e dalla finestra, di stare attente a non alzare troppo la voce, di non tenersi per mano, di non guardarsi in modi che avrebbero potuto sembrare ambigui.
 
Asciugò le lacrime che avevano iniziato a scendere, tastando il loro calore con le dita fredde dell’atmosfera gelida di inizio anno.
 
Odiava piangere. Odiava farlo in mezzo alla strada, e in compagnia di chiunque; di Rachele, in primis.
 
Ma era una situazione fin troppo pesante da sopportare, per riuscire anche a non sfogare in quel modo la frustrazione mentale che si era accumulata nel corso dei giorni.
 
Una mano sulla spalla la fece sobbalzare, e voltare indietro.
 
Spalancò gli occhi, esterrefatta, quando si ritrovò davanti Marcus.
 
E d’istinto, tolse la propria spalla da sotto la sua mano, irritata da tutta quella confidenza.
 
«Posso consolarti in qualche modo?» domandò Marcus.
 
Madalena si espresse in un suono di stizza, e indietreggiò di mezzo passo.
 
«No.» replicò, freddamente. «Non sono cazzi tuoi.»
 
Marcus rimase per qualche momento a guardarla, imbacuccato nella sciarpa e nel giubbotto che portava indosso, e che sicuramente doveva essere molto più caldo del suo cappotto, e della sciarpa leggera che Madalena era riuscita a rimediare in casa quella mattina, e della gonna che le copriva le gambe fino al polpaccio, ma che lasciava entrare l’aria fredda da sotto.
 
Poi, Madalena lo vide sospirare, e rovistare in una tasca del giubbotto. Ne estrasse un fazzoletto di stoffa, che le porse.
 
Madalena assottigliò gli occhi, e si asciugò palpebre e guance col solo ausilio delle mani, fissandolo negli occhi con aria di sfida. Marcus non fece la minima piega, e continuò a tenere il fazzoletto teso verso di lei finché lei non dette dimostrazione di aver finito.
 
«Devi lasciarmi in pace.» sibilò Madalena. «Non ho bisogno di te, e non ho intenzione di sposarti. Levati dai coglioni e non farti più vedere.»
 
Fece per voltarsi e andarsene – quando Marcus parlò di nuovo.
 
«Tutte le donne hanno bisogno di un uomo.»
 
Madalena sobbalzò, e tornò a voltarsi a fissarlo, sconcertata da quella frase.
 
Era così, che la pensavano tutti.
 
Eppure, lei sentiva proprio che l’ultima cosa di cui aveva bisogno era un uomo al proprio fianco. Le bastavano i suoi fratelli, e le era bastato suo padre; quelli erano gli unici uomini con cui voleva avere legami affettivi nella propria vita. Con altri non ci sarebbe riuscita; né avrebbe voluto.
 
Ma non poteva dirglielo. Non poteva rischiare.
 
Uno con quella mentalità, chissà che avrebbe potuto fare a lei, o a Rachele.
 
«Chi ti dice che non ne abbia già uno?» domandò Madalena, scocciata.
 
«Il fatto che tu non abbia mai detto di averlo, in questi mesi.» replicò Marcus, con una tranquillità che aveva mille sfaccettature, tutte fredde. «Questo dimostra che non ce l’hai. Altrimenti lo avresti usato subito per allontanarmi.»
 
«Ti ho detto che non sono cazzi tuoi!» esclamò Madalena, irritata. Non ci aveva pensato; avrebbe dovuto pensarci prima, e avrebbe dovuto allontanarlo a quel modo.
 
Ma ormai, l’idea di avere un uomo era lontana dalla sua mente quanto la Terra era distante dalla Luna, probabilmente.
 
«E poi chi cazzo ti credi di essere?!» aggiunse, sempre più irritata. «Vieni qui da mesi, senza nemmeno presentarti, e mi chiedi di sposarti?! Ma chi cazzo sei?! Perché io, che cazzo vuoi da me?! Ti ho detto mille volte se non di più di lasciarmi perdere, perché cazzo continui a tornare?!»
 
«Non è questo, quello che voi donne volete?» domandò Marcus.
 
Madalena spalancò gli occhi, sconcertata.
 
«Cosa?»
 
«E’ quello che volete voi donne, no?» domandò Marcus. «Soldi, e un uomo che si prenda cura di voi. Una vita piena di agi e nulla di particolare da fare, se non rilassarsi tutti i giorni.» disse.
 
Madalena sbarrò gli occhi.
 
Il pugno che gli mollò fu semplicemente istinto. Non lo vide nemmeno; non lo programmò nemmeno. Non calcolò nemmeno la traiettoria.
 
Lo colpì con il pugno più violento del proprio repertorio a uno zigomo, e a lei bastò vedere il suo corpo che si inclinava di poco di lato, vittima dell’impatto, per rimanere soddisfatta.
 
Aveva voluto farlo da tanto. E in quel momento, sentiva di averlo fatto anche per Rachele.
 
«Che cazzo ne sai tu, di quello che voglio io?!» sbraitò. «Non mi stupisce che tu non sia sposato! Per te le donne sono talmente tutte uguali che nessuna vorrebbe stare con te! Pensi di venire a trovare quella che ti garantisce la progenie per la famiglia, qui?! Beh, sai che ti dico?! Cercatela da un’altra cazzo di parte! Hai sbagliato persona!»
 
Incrociò lo sguardo di Marcus; sembrava sorpreso dalle sue parole.
 
Madalena si sentì solo più irritata, da tutto quello stupore per un concetto così basilare.
 
Un concetto basilare che lei aveva faticato a conquistare; perché quello che Marcus aveva detto era esattamente quello che lei, per quindici anni della propria vita, aveva pensato di meritare per sé stessa. Che aveva quasi sperato di poter avere, perché era l’unica cosa che una donna potesse auspicare di ottenere dalla vita.
 
Quella era la sé stessa del passato, e prenderla a pugni era qualcosa che rasentava la goduria.
 
Avrebbe potuto avere vita difficile; mille situazioni complicate, e dolorose, e per cui piangere; ma non era intenzionata a rassegnarsi a vivere una vita vuota come quella che le si prospettava anni prima.
 
Non ora. Non con Rachele.
 
«Lasciami in pace!» urlò, guardandolo negli occhi. «Non mi seguire, non mi chiedere più un cazzo! Non ti voglio più vedere! Vatti a cercare qualcun’altra e lasciami stare!»
 
Si sentì annaspare con il fiato, per aver alzato troppo la voce; e poi, lo fissò negli occhi ancora per qualche attimo, aspettando una sua reazione – una qualunque.
 
Ma quella non arrivò.
 
Marcus si limitò a fissarla negli occhi, sorpreso; inebetito, da quella che a lui doveva sembrare una rivelazione che batteva la rivoluzione copernicana.
 
Madalena assottigliò gli occhi, e poi si voltò, incamminandosi verso casa di Rachele, a passo svelto per la rabbia, e lasciandoselo alle spalle.
 
Avrebbe aspettato Rachele lì, a casa sua. E poi avrebbero parlato. Magari avrebbero anche discusso; magari sarebbero anche arrivate ad urlare.
 
Ma Madalena aveva deciso di farle capire fino in fondo quanto la amasse.
 
Non importava che fosse una sonata di pianoforte, o un “ti amo”, o qualunque altra cosa; bastava farglielo capire. Appena l’avesse vista di fronte a sé, avrebbe capito come fare. Ne era sicura.
 
All’improvviso, la sua camminata decisa fu smorzata da dei passi chiaramente udibili che la seguivano.
 
La zona in cui abitava Rachele era sempre relativamente priva di persone che vi si inoltravano, alle sei di sera: sentire dei passi dietro di sé era una cosa decisamente strana.
 
Poteva significare solo una cosa.
 
Marcus. Di nuovo.
 
Quante volte avrebbe dovuto ripetergli, ancora, che non aveva intenzione di stare con lui, né di accettare nessun suo appuntamento, né tantomeno di sposarlo?
 
Si fermò, e si voltò, esasperata e pronta a ingaggiare un’altra lotta verbale con lui.
 
Ma quello che si trovò davanti non fu Marcus.
 
Era un tizio grosso, alto almeno un metro e novanta; nero di carnagione, con gli occhi e i capelli scuri.
 
E aveva un’espressione che fece venire i brividi a Madalena, fino nel profondo delle ossa.
 
No.Non era possibile.
 
Le sembrava di averlo già visto, da qualche parte. Ma in quel momento non ricordava dove.
 
Abbassò lo sguardo, e si voltò, cercando di fare finta di averlo scambiato per un’altra persona, o di essersi girata per qualsiasi altro motivo; malgrado quello stesse, con una buona dose di probabilità, venendo verso di lei, forse lei avrebbe potuto evitare di parlarci, di interagirci, di fare qualunque cosa; forse bastava fare finta di non conoscerlo.
 
Cercò di regolare il respiro, e di calmarsi, per far decelerare il battito cardiaco; si girò, e tenne bassa la testa, incamminandosi rapidamente verso casa di Rachele.
 
Dopo due passi, tuttavia, i suoi occhi incontrarono altre gambe maschili.
 
Fece l’errore di sollevare istintivamente lo sguardo, e incrociare quello dell’altro uomo che le stava venendo incontro; alto, anche lui nero, e armato di una spranga di ferro.
 
Strinse la tracolla della borsa, guardando lui, e poi voltandosi verso l’altro uomo più grosso.
 
Perché? Aveva fatto quella strada da sola migliaia di volte, in quegli anni. Perché doveva capitare ora, quando non era mai capitato nulla?
 
Madalena sapeva di star facendo trasparire un’espressione terrorizzata e totalmente sperduta; sapeva che quei due le avrebbero letto negli occhi, nelle mani tremanti, e nei movimenti, il semplice fatto che lei si non fosse mai trovata in una situazione del genere.
 
Non riusciva a fare nulla, se non guardare quei due che, lentamente, si avvicinavano a lei; e indietreggiare, sballottolata solo qualche passo più avanti o più indietro della propria posizione, perché non sapeva dove andare.
 
«Chi l’avrebbe mai detto che questa bambolina fosse una di quelle fottute lesbiche.» commentò quello più basso, sollevando il mento, e guardandola dall’alto in basso.
 
Madalena sbarrò gli occhi; e per un attimo non sentì altro che vuoto, nella testa.
 
Lesbiche.
 
Le avevano scoperte.
 
Rachele… Rachele dov’era?
 
Doveva avvertirla…
 
«Complimenti per il travestimento.» proseguì l’uomo più basso. «Era con questo, che riuscivi a tirarci via le ragazze, puttana?»
 
Madalena spalancò gli occhi, più di quanto già non fossero; sentì le lacrime pizzicare per scendere, e la paura attanagliarla fino a immobilizzarla sul posto, con gli occhi fissi in quelli scuri del tizio con la spranga in mano.
 
«Abbassa quei cazzo di occhi, puttana!» urlò l’uomo, alzando la spranga di ferro. Madalena non fece nemmeno in tempo a ripararsi con le braccia; sentì un dolore lancinante alla spalla, e urlò, mentre l’impatto la faceva cadere a terra.
 
«Ecco! Rimani dove devi stare!» urlò di nuovo l’uomo. Madalena non fece nemmeno in tempo ad aprire gli occhi, che sentì un altro colpo, sempre alla stessa spalla, che la fece gridare ancora di più; sentì il rumore di un osso che si rompeva, e le lacrime scendere dagli occhi, a bagnarle le guance.
 
Le faceva male la testa. Sentiva male, dappertutto; non riusciva a muovere il braccio sinistro, e la sua testa gridava insieme dolore, richieste di aiuto inespresse a voce, e il nome di Rachele.
 
In tutto quel disordine e quel rumore, l’unica cosa che sentì chiaramente fu che doveva andare via di lì. Alzarsi in piedi, e scappare, come aveva fatto quando era stata uccisa Serenity.
 
Scappare all’impazzata, finché non fosse stata al sicuro e non avesse trovato il modo di avvertire Rachele.
 
Un altro colpo di spranga la prese alla gamba; fu tanto forte che Madalena sentì una fitta alla testa, e urlò di nuovo. E in quel momento realizzò che non sarebbe riuscita a scappare.
 
Rachele. Anche a costo di rompersi una gamba, o anche tutt’e due, doveva avvertire Rachele…
 
«Fottuta lesbica!» esclamò di nuovo l’uomo, mollandole un altro colpo alla stessa gamba.
 
L’aveva rotta. Sicuramente l’aveva rotta.
 
Faceva talmente male che Madalena per un attimo si sentì svenire.
 
«Con quella faccina a fotterci le donne!» urlò di nuovo l’uomo. «Ti insegno io a prenderci quello che è nostro!» aggiunse, senza però nuovi colpi. «Alzala!» disse, evidentemente rivolto all’altro uomo che era con lui.
 
Madalena spalancò gli occhi, pietrificata dal terrore; si sentì solo tremare, e incapace di muoversi; urlò, quando l’uomo più alto la tirò su, prendendola per le spalle e tenendola sotto le ascelle.
 
«No…!» gridò, quando il primo le palpò uno dei seni. Agitò la gamba sana, cercando di colpirlo; quando sentì un suo gemito di dolore, e la sua mano scostarsi da lei, urlò di nuovo di dolore, perché quello che la teneva le strinse di più le braccia, provocandole un dolore lancinante alla testa.
 
«Basta…!» ansimò. La sua testa stava per esplodere; quasi fosse una sensazione non sua, sentì le lacrime che le scorrevano dalle ciglia alla pelle delle guance.
 
E poi, un altro colpo. Stavolta una mano, chiusa a pugno, che la colpì alla guancia. E poi di nuovo, alla fronte. E un altro colpo ancora, all’addome, le mozzò il fiato.
 
Non sarebbe riuscita a scappare. Non sarebbe riuscita a evitarlo.
 
L’avrebbero violentata. E poi uccisa, molto probabilmente.
 
La sua testa continuava a ripetere il nome di Rachele, mentre il pugno la colpiva di nuovo; il dolore si faceva insopportabile, chiudendole il cranio in un cerchio sempre più stretto.
 
L’unica cosa abbastanza forte che riuscì a sovrastare il tutto quasi fino alla fine fu la sua testa che ripeteva la parola “Rachele”.
E quando anche il suo nome fu sovrastato dal dolore, Madalena si sentì precipitare nel buio.
 
 
 
Rachele fissò due degli scagnozzi della banda di Klaus fermarsi sul pianerottolo del quinto piano del condominio in cui lui abitava. Assottigliò gli occhi, quando vide uno di loro con una spranga di ferro in mano; dovevano aver fatto rissa con qualcuno. E a giudicare dal fatto che erano illesi, purtroppo avevano anche vinto.
 
Era quasi paradossale che uno come Klaus, peraltro bianco, comandasse una delle gang del Bronx, composta quasi esclusivamente da neri, per di più. Eppure, lui e la sua mania per la violenza erano riusciti a fare anche quello.
 
Rachele si infilò di nuovo il maglione che aveva tolto qualche ora prima, quando Klaus si era praticamente imposto su di lei. Ultimamente lo faceva spesso; aspettava meno che Rachele acconsentisse, e la costringeva di più, proclamandola come “qualcosa di suo”; e quindi, rivendicando tutti i diritti possibile e immaginabili.
 
Lei si limitò a sospirare di sollievo. Klaus probabilmente sarebbe stato impegnato, quella sera, a giudicare dalla presenza dei suoi cani; e quello significava che lei avrebbe potuto tornare a casa, e trovare Madalena lì, ad aspettarla.
 
Verosimilmente avrebbero finito per litigare di nuovo; ultimamente erano ben poche, le sere in cui riuscivano a stare tranquille e a passare la notte insieme, abbracciate, a scambiarsi parole dolci e coccole; erano molte di più quelle in cui litigavano per i più svariati motivi. Poteva essere per Klaus, o perché una delle due si faceva prendere dalla paura che a loro succedesse quello che era successo a Serenity alla manifestazione; oppure perché Madalena temeva la reazione di sua madre e dei suoi fratelli, se avessero scoperto che stava con lei; o ancora, perché avevano paura che una delle due si stancasse dell’altra, e decidesse di vivere una vita tranquilla.
 
Fosse stato per lei, Rachele avrebbe preso Madalena e l’avrebbe portata via, in qualche Paese in cui c’era la libertà di amarsi anche tra le persone dello stesso sesso; ma aveva dovuto scontrarsi con la realtà dei fatti anni prima, ormai.
 
Quella era la libera America, in cui i suoi genitori e i suoi nonni erano venuti per rifugiarsi dalla persecuzione nazista; eppure, era anche un Paese che non riconosceva la libertà di amarsi per tutti.
 
Se non potevano farlo lì, dove avrebbero potuto?
 
Sospirò, preparandosi mentalmente a un’altra discussione, pur sperando che almeno quella sera non andasse a finire così.
 
Madalena le mancava. Le mancava il suo suonare il pianoforte; la sua risata dolce e così rara da vedere; sentire i suoi spasmi di eccitazione mentre facevano l’amore; il proprio nome sussurrato da lei, che la invitava a toccarla dappertutto; i suoi baci lenti, calmi, e con il collo stretto nel suo abbraccio non troppo forte; i suoi occhi tranquilli.
 
L’ultima volta che avevano fatto l’amore tranquillamente – perché molte altre volte non si era trattato di fare l’amore; ma di un’urgenza di sentirsi, disperata e dilaniante, intensa eppure fugace – doveva essere stato un mese prima. Considerando che si vedevano praticamente tutti i giorni, ormai, la cosa era preoccupante.
 
Decise che quella sera avrebbe fatto in modo di far essere tutto tranquillo, per quanto possibile. Ne aveva bisogno, e sapeva che di un po’ di tranquillità aveva bisogno anche lei. La maggior parte delle volte in cui stavano insieme e litigavano, Madalena scoppiava a piangere; il che era paradossale, da parte sua, dato che le aveva sempre detto di odiare piangere.
 
Spesso Rachele si era sentita male, al solo pensiero che la relazione con lei la stesse logorando fino a quel punto; e si era sentita immensamente in colpa, per averla portata a partecipare a quell’unica manifestazione che aveva avuto il potere di sconvolgere le loro vite. Tutto per un puro capriccio.
 
«Io vado.» disse, prendendo il giubbotto, sull’attaccapanni di fianco all’ingresso. «Sono stanca, voglio riposarmi.»
 
Sentì Klaus ridacchiare, mentre lei si metteva il giubbotto; e poi, congedare i suoi seguaci, e chiudere la porta.
 
«Ti ho detto che devo andare!» ribadì Rachele, voltandosi verso di lui, scocciata, e fulminandolo con un’occhiata quando lui si espresse di nuovo in una risata. «Che cazzo hai da ridere?» domandò, senza aspettarsi davvero una risposta.
 
«Torni dalla tua ragazza?» disse Klaus, mentre lei stava mettendo mano alla maniglia.
 
Rachele si pietrificò sul posto; la mano a un centimetro dalla porta; lo sguardo fisso sulle venature del legno.
 
Vide all’improvviso una mano che si schiantava contro la porta, e il braccio corrispondente a poca distanza dal proprio viso.
 
«Ho sempre saputo che eri lesbica.» disse Klaus. «E’ sempre stato evidente. Certo, mai mi sarei aspettato che la storia che avevo immaginato tra te e Madalena fosse vera.» commentò.
 
La testa, che per quegli attimi le era sembrata vuota, eccetto che per le percezioni dei movimenti e di ciò che rientrava nel campo visivo, in quel momento si riempì di una parola.
 
Madalena.
 
MadalenaMadalenaMadalenaMadalenaMadalenaMadalenaMadalenaMadalenaMadalenaMadalena…
 
In un attimo, afferrò la maniglia della porta, e impiegò tutte le proprie forze nel tentativo di aprirla.
 
Madalena.
 
Klaus teneva la porta con una mano, e con quella sola mano riusciva a impedirle di andarsene.
 
Madalena.
 
«Klaus!» urlò Rachele, cercando di aprire la porta in tutti i modi. «Klaus, lasciami andare!»
 
La risata di lui –  cattiva, e sadica –  le arrivò dritta nell’orecchio.
 
«KLAUS!!!» sbraitò, cercando di aprire la porta con una mano, e con l’altra di spostargli il braccio dalla porta.
 
Non era vero. Non potevaessere vero.
 
Il braccio di Klaus si mosse; Rachele riuscì a malapena a intercettarlo con gli occhi. Il pugno che le tirò la colpì dritta in viso, provocandole un dolore atroce allo zigomo, e facendola cadere a terra.
 
«Non agitarti.» disse Klaus, tenendo ancora per qualche attimo la mano sulla porta. «Ho dato ordine di non ucciderla. Altrimenti non avrei più avuto nulla con cui ricattarti.»
 
I suoi occhi scuri erano freddi. La sua espressione, una maschera di ghiaccio e impassibilità.
 
Sadismo. In quel momento Rachele capì che il sadismo non era ridere del dolore altrui; era rimanere impassibile davanti a situazioni simili.
 
Klaus era il sadismo incarnato.
 
Lo osservò mentre si scostava dalla porta, e si avvicinava a lei, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni, e rimanendo in piedi a sovrastarla.
 
Guardandola dall’alto, come se le fosse superiore.
 
«Si capiva facilmente, di te.» disse Klaus, impassibile. «E ne ho avuto la conferma quando hai accettato praticamente di farmi da puttana per salvaguardare Madalena. Ma finché si trattava di te e basta, ho pensato che potesse bastare così.» considerò. «Invece poi, qualche settimana fa ho scoperto che avete una relazione. E chissà da quanto tempo… Tutte le volte che correvi a casa, era per andare da lei, nh?» aggiunse, assottigliando gli occhi. «E lì, sì che è stato divertente.» commentò. «Pensare a cosa avrei potuto farvi. Pensare a cosa avrei dovuto fare per voi, perché in fondo si tratta di farvi rinsavire.» considerò. «Perché lo sai benissimo anche tu, Rachele. Puoi atteggiarti a uomo quanto cazzo ti pare. Ma sei e rimani una donna. E come tale, non sei in grado di proteggerne un’altra. Specialmente da degli uomini.»
 
«Bastardo figlio di puttana!» urlò Rachele. «Che cazzo le hanno fatto?!»
 
«Non lo so…» disse Klaus, con noncuranza, alzando gli occhi al soffitto. «Ho ordinato di farle quello che volevano. Bastava che non la ammazzassero. Certo è che chissà che possono averle fatto quei due, che sono sempre così arrapati…»
 
Rachele sbarrò gli occhi, sconvolta.
 
Oddio. No.
 
Non Madalena. A lei potevano fare quello che volevano. Ma Madalena…
 
«Chissà, magari dopo questa inizierà anche a piacerle il cazzo.» commentò Klaus, inarcando un sopracciglio, ed esprimendosi in un sorriso sarcastico.
 
Rachele per un attimo non riuscì a vedere più nulla.
 
Nel momento in cui focalizzò di nuovo l’attenzione su qualcosa, la prima cosa che vide fu il proprio pugno contro la guancia di Klaus; e il suo viso, subito dopo, rimasto impassibile al colpo.
 
Si sentì afferrare per il polso del braccio proteso in avanti, e stringere, dalla mano di Klaus; e poi, schiantata contro la porta d’ingresso, la nuca che batteva violentemente contro il legno.
 
«Chissà cosa potrebbero farle la prossima volta.» commentò Klaus, freddamente, stringendole ancora di più il polso.
 
«Klaus, non osare…!» azzardò Rachele.
 
Un pugno nello stomaco bloccò la sua replica sul nascere.
 
Per un momento, sentì solo la testa girare, e la bocca aprirsi in un conato di vomito che non arrivò; l’aria nei polmoni mancare per un istante – e poi il dolore del colpo, e l’accasciarsi del suo corpo.
 
«Dipende da te, Rachele.» disse Klaus. «Sei stata una puttana disobbediente. Pensavi di poter tenere il piede in due scarpe, vero?» domandò. «Non si fa così. Quando si ha una relazione seria con una persona, non la si tradisce. Men che meno con una del tuo stesso sesso.» aggiunse, stringendole con l’altra mano un fianco, e spingendola con più forza contro la porta. «Sapevo che eri così. Ho cercato per anni di modificarti. Ma tu sei stata come un bambino cui si dice di non mangiare le caramelle, e lui le mangia di nascosto. E così le cose non vanno bene.» considerò ancora Klaus. «Pensavi davvero di riuscire a tenerlo nascosto per molto? Le voci corrono, sai? E voi due da qualche mese siete parecchio rumorose, quando litigate.»
 
Rachele sgranò gli occhi; e poi, abbassò lo sguardo, furiosa con sé stessa.
 
Avrebbe dovuto stare più attenta. Non essere così superficiale da credere davvero che nessuno avrebbe badato a loro, agli argomenti su cui vertevano le loro discussioni, e al fatto che fossero praticamente urlate ai quattro venti.
 
Avevano letteralmente sbandierato la loro relazione.
 
«A questo punto mi ritengo costretto ad adottare misure d’emergenza.» proseguì Klaus. «Altrimenti non cambierai proprio mai.»
 
«Chi cazzo ti dice che io voglia cambiare?» replicò Rachele, alzando lo sguardo verso di lui, furiosa.
 
Klaus articolò un sorriso sarcastico con le labbra. «Il fatto che se non cambi, potrei ordinare di fare a Madalena qualunque cosa.» disse. Rachele trattenne il fiato, terrorizzata. «Sai meglio di me che esistono modi diversi dalla morte, per uccidere qualcuno.»
 
Rachele chiuse gli occhi, sentendo per un attimo un cerchio alla testa per la paura.
 
Era vero. Klaus aveva fottutamente ragione.
 
«E poi, come fai a non voler cambiare?» domandò Klaus. «Qualunque donna è felice con un cazzo. Persino tu lo sarai. Posso garantirtelo.» disse. «Devi solo salutare Madalena e sposarmi.»
 
Rachele spalancò gli occhi, e lo fissò, sconvolta.
 
No. No. Tutto, ma sposare lui n…
 
Madalena.
 
Rachele si sentì il respiro affannato, al solo pensiero.
 
Se lei avesse sposato Klaus, Madalena sarebbe stata salva: Klaus avrebbe avuto quello che voleva, cioè convertire una lesbica in eterosessuale. O almeno avrebbe avuto la parvenza di una cosa del genere. Comunque, avrebbe avuto lei sottomessa a lui; e Rachele era sicura che era proprio quello, che Klaus voleva. Era certa che lui non avesse mai digerito la sua – per lui troppa – indipendenza; legarla avrebbe significato vincere su quella, perché avrebbe rivendicato la sua autorità in quanto uomo.
 
Madalena sarebbe stata salva. Klaus con tutta probabilità non avrebbe più ordinato ai suoi cani di farle qualcosa.
 
In caso contrario, sarebbero state sì insieme, ma con la costante paura che a Madalena succedesse qualcosa.
 
Per un istante, Rachele si rivide davanti l’immagine di Serenity, colpita alla testa da un proiettile sparato da dei maschilisti, o degli omofobi – dal fatto che avevano generalizzato chiamando tutte le femministe “lesbiche”, avrebbero potuto essere entrambe le cose.
Non riusciva a sostituire l’immagine di Madalena a quella di Serenity.
 
Non poteva lasciare che succedesse.
 
Però avrebbe significato perdere Madalena.
 
Però avrebbe significato saperla viva.
 
E magari avere la speranza di rivederla, un giorno. Di poter ricominciare quello che avevano dovuto interrompere.
 
E anche se così non fosse stato, avrebbe comunque preferito saperla viva e al sicuro, piuttosto che sempre in pericolo – o peggio, morta.
 
«Va bene.» mormorò.
 
Prima o poi lo avrebbe ammazzato.
 
Prima o poi lo avrebbe ucciso, accoltellato in camera da letto; avrebbe affondato la lama nel suo petto, e avrebbe guardato il sangue uscirgli dalla bocca, e dalla carne.
 
E avrebbe guardato i suoi occhi, esterrefatti, nel guardare lei come l’ultima persona prima di morire.
 
Klaus le lasciò andare il braccio e il fianco.
 
Puzzava. Puzzava di fumo, e di caldo. Di sudore, e di sangue.
 
Lo odiava. Lo odiava dal profondo del cuore.
 
Ma se stare con lui avrebbe significato sapere Madalena salva, allora era disposta a farlo.
 
«Fammi solo andare a salutarla.» disse ancora, sempre a bassa voce, e sempre con la testa bassa.
 
Non sapeva nemmeno dov’era, a dire il vero; ma se fosse stato necessario, avrebbe cercato per l’intero Bronx. Anche per tutta New York, se necessario.
 
«Mi pare giusto.» disse Klaus. «Manderò qualcuno a controllarti. La saluti, e poi torni qui.»
 
Rachele chiuse gli occhi, totalmente piegata.
 
Non poteva fare nulla.
 
E l’impotenza che lei aveva in quella situazione la schiacciava.
 
«L’ospedale in cui si trova è quello della tua zona.» disse Klaus. «A meno che non l’abbiano trasferita da qualche altra parte.»
 
Rachele sollevò lo sguardo verso di lui, sconcertata da quell’informazione.
 
Poi, chiuse di nuovo gli occhi per un secondo, e appoggiò la mano sulla maniglia della porta; l’abbassò, spalancando la porta, e uscì di lì.
 
Sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe visto Madalena come sua fidanzata.
 
Come compagna, amante, e amica.
 
E le sue gambe non volevano muoversi.
 
Dovette farsi violenza, per farle avanzare alla volta dell’ospedale.
 
Dovette farsi forza, e ripetersi che era per lei.
 
E per tutto il tragitto, riuscì solo a pensare che Madalena sarebbe riuscita a rifarsi una vita. Aveva diciassette anni; tutta una vita davanti da vivere, e magari senza una stupida come lei che si era lasciata incastrare da uno come Klaus.
 
A lei bastava saperla viva. E felice.
 
E sperò vivamente che Madalena potesse esserlo, un giorno, con qualcuno che non fosse lei.
 
O almeno, cercò di illudersi di sperarlo davvero.
 
Perché la verità – lo sapeva bene – era che voleva Madalena solo per sé; e pensare che sarebbe stata felice con qualcun altro non otteneva altro effetto se non ricordarle quanto avrebbe voluto fare di più, per lei.
 
 
 
Quando si svegliò, la prima cosa che Madalena vide fu il soffitto colorato di grigio scuro dalla penombra della camera, rischiarata solo dalla lampadina sul comodino di fianco al letto su cui era sdraiata.
 
Solo dopo, realizzò di essere in un letto, e di essere sveglia.
 
Era viva.
 
Era stesa su un letto, e respirava; il cuore batteva; e sentiva persino del dolore in alcune parti del corpo – per quanto, in linea generale, fosse parecchio intontita.
 
Poi, all’improvviso, ricordò anche il perché di quel dolore.
 
I due uomini di colore che l’aggredivano mentre andava da Rachele; il dolore al braccio, e alla gamba; gli insulti urlati; la presa di coscienza di essere stata scoperta ed etichettata come lesbica.
 
L’urgenza di avvertire Rachele di mettersi al sicuro.
 
E poi, il nulla.
 
Nero.
 
Dov’era Rachele, ora?
 
Cosa le stavano facendo?
 
Quanto aveva dormito?
 
Quanto tempo che sarebbe stato utile ad avvertirla aveva perso?
 
Cercò di alzarsi a sedere in qualche modo – ma il dolore a una spalla le impedì di continuare il movimento, e la fece crollare sdraiata sul letto, di nuovo.
 
Si morse il labbro per la frustrazione.
 
Doveva avvertire Rachele.
 
Doveva…
 
Perché non riusciva ad alzarsi, quando voleva farlo?!
 
Portò il peso del corpo sul braccio che sembrava essere rimasto sano, e si sollevò su un gomito; ignorò il dolore al torace che le urlava di rimanere sdraiata lì; ignorò anche il respiro che si faceva ansante, e per qualche attimo si mozzava al punto da farla andare in tachicardia, e farle venire solo mal di testa.
 
Doveva avvisare Rachele.
 
Doveva alzarsi, muovere il culo, e andare a dirle tutto.
 
Preda dello sforzo e del mal di testa che sembrava conseguenza inevitabile del cercare di alzarsi, sentì solo in ritardo la porta della stanza aprirsi.
 
«Madalena…!»
 
Sgranò gli occhi, a sentire quella voce.
 
Quando alzò lo sguardo e vide Rachele sulla soglia della porta, sentì un urlo di gioia dall’interno.
 
Stava bene. Era lì, stava bene, ed era tutta intera. Forse l’avevano presa, perché aveva un occhio nero; ma almeno non era conciata male come lo era lei.
 
Il suo corpo si rilassò per il sollievo al punto che rischiò di cadere dal letto. Afferrò il bordo del materasso, e lo strinse, usando quella presa per fare perno e rimettersi sdraiata nella maniera più composta possibile.
 
«Stai bene?» domandò Rachele, entrando e chiudendosi la porta alle spalle – il tutto senza distogliere lo sguardo da lei, nemmeno per un secondo. «Come ti senti?»
 
Madalena sospirò, e allargò il braccio sano, come in un invito a guardarla attentamente e a valutare le sue condizioni.
 
«Come ti sembra?» domandò. «Mi fa male dappertutto. Credo di avere un braccio rotto.» considerò, gettando un’occhiata al braccio infortunato. Poi, sorrise, e tornò a guardare lei. «Ma almeno non hanno preso te. Sono contenta.» aggiunse, affondando la testa tra i cuscini. «Volevo venire ad avvisarti, ma mi hanno bloccato…»
 
«Sì… Marcus mi ha raccontato tutto.» disse Rachele, avvicinandosi al letto, con fare quasi guardingo.
 
«Marcus?»
 
«E’ stato lui a evitare che…» azzardò Rachele. Madalena la vide esitare; e capì all’istante quello che voleva dire, e che Marcus era stato in grado di sventare.
 
Incrociò il suo sguardo, e annuì, per farle capire che non c’era bisogno di continuare.
 
«Meno male.» disse Rachele, prendendole il viso tra le mani, e avvicinandosi col proprio, per sospirare di sollievo contro le sue labbra. «Meno male che sei viva.»
 
Madalena abbozzò un sorriso, un po’ ironica. «Un po’ messa male…»
 
«Ti riprenderai.» disse Rachele, affondandole le mani tra i capelli, e sospirando di nuovo di sollievo; Madalena non poté fare a meno di notare che teneva gli occhi chiusi, come se non potesse contenere la felicità. «Andrà bene. Ti rimetterai, andrà tutto bene. L’importante è che tu sia viva.»
 
Madalena sorrise e chiuse gli occhi, sollevata a propria volta di poter sentire di nuovo il suo odore, e la sua voce, e i palmi delle sue mani ruvide e callose che le prendevano il viso.
 
Sollevata di vederla lì. Di vederla viva.
 
Erano lì, ed erano insieme. Tanto bastava.
 
«Cos’hai fatto all’occhio?» domandò Madalena, senza muoversi di un solo millimetro nell’abbraccio.
 
«Niente. È tutto ok.» disse Rachele. «Una discussione con Klaus. È tutto ok.»
 
Madalena emise un suono di rabbia, facendo schioccare la lingua e articolando quello che somigliava a un ringhio. Sentì Rachele sorridere, e stringerla più forte.
 
«Da quando ti fai mettere le mani addosso?» domandò.
 
«Doveva essersi fatto di qualcosa.» rispose Rachele, a bassa voce. «Tranquilla. Non è niente.»
 
Madalena dubitava che fosse davvero così; perlomeno, che non fosse nulla di cui preoccuparsi. Klaus avrebbe potuto tranquillamente mettere le mani addosso a Rachele, per com’era fatto; non si sarebbe stupita. Ma proprio per quello, non era una cosa da prendere alla leggera.
 
La sentì sospirare di nuovo di sollievo, e stringerla ancora più forte. Madalena evitò di dire che le stava facendo male; sapeva che, se fosse stata al suo posto, avrebbe fatto la stessa cosa. L’immagine del cadavere di Serenity era ancora fissa nelle loro teste, come un marchio; e l’idea che una delle due potesse fare la sua stessa fine aveva terrorizzato entrambe.
 
Poi, all’improvviso, sentì qualcosa di bagnato sulla spalla sana, su cui Rachele aveva appoggiato la fronte.
 
Lacrime.
 
«Ehi, che hai da piangere?» domandò Madalena, battendole la mano sulla schiena. «Siamo qui, stiamo tutt’e due bene. È tutto ok. Non c’è bisogno di piangere.»
 
«Sono incinta.»
 
Madalena sentì la mano che le stava battendo sulla schiena bloccarsi, di colpo.
 
Il cuore mancare di un battito.
 
Il tempo fermarsi.
 
Il cervello vuoto.
 
Per un attimo la sua immagine che si scostava dal suo corpo non fu nitida.
 
La mise a fuoco lentamente; solo quando riuscì a ristabilire un equilibrio mentale sufficiente a non sentire il cervello vorticare nel nulla.
 
Il braccio le cadde sulle lenzuola, inerte, quando vide che Rachele teneva lo sguardo basso, e aveva il viso contratto in un’espressione disperata.
 
Lo sguardo si spostò istintivamente sulla sua pancia.
 
Sembrava non esserci niente.
 
Eppure, lì dentro c’era un clone di Klaus. Un feto con i suoi stessi geni.
 
E tutto perché… perché…
 
«Da quanto?» domandò.
 
Perché non era nata uomo?
 
Perché Rachele non era nata uomo?
 
Perché doveva essere così difficile, amare qualcuno?
 
Perché doveva essere così doloroso da stringere qualunque cosa ci fosse dentro il suo corpo?
 
Perché doveva perderla così?
 
«Tre mesi, più o meno.» mormorò Rachele.
 
Perché Klaus poteva averla solo perché era un uomo?
 
Madalena abbassò la testa, e afferrò con il braccio sano le lenzuola, stringendole tra il palmo e le dita della mano.
 
Era assurdo. Non aveva assolutamente senso.
 
Era tutto talmente insensato che non riusciva nemmeno a piangere.
 
«A che cazzo è servito?» domandò, a bassa voce.
 
«Madalena…»
 
«A che cazzo è servito?!» urlò Madalena, alzando gli occhi su di lei, e fissandola nei suoi. Rachele non riuscì nemmeno ad abbassarli; rimasero con gli occhi incatenati gli uni negli altri, per qualche istante interminabile.
 
«Sei stata per anni la sua puttana per garantirci la tranquillità…» disse Madalena; sentì che gli occhi pizzicavano, e si morse il labbro, per non piangere. «Ma a che cazzo è servito?» domandò ancora. «A che cazzo è servito, se poi ti fai mettere incinta da lui e scegli volontariamente di non dirmi niente per tre fottuti mesi?!» urlò, stringendo con più forza la coperta. «Adesso non posso nemmeno dirti di abortire, o che potrebbe essere un aborto spontaneo! Tu hai scelto di stare con lui, non dicendomi niente! E per mesi hai fatto finta che fosse una cosa che ti faceva paura, il fatto che una delle due potesse stancarsi, quando la prima a stancarsi eri proprio tu!»
 
Vide il viso di Rachele, nei suoi occhi: prima alto, a fissarla, con un’espressione sconcertata; poi, abbassato, a piangere.
 
«Che cazzo piangi, Rachele?!» urlò di nuovo Madalena – ignorò il dolore del braccio che le diceva di stare più tranquilla possibile; e non badò ai polmoni in fiamme che chiedevano pietà dalle urla.
 
Tutto quello che voleva fare era trattenersi dal piangere.
 
«Dicevi di odiarlo!» urlò di nuovo. «Dicevi che era uno stronzo! Un puttaniere! Te le sei dimenticate, queste cazzo di cose?!» aggiunse. «Perché cazzo hai deciso di stare con lui?! Perché, se la pensavi così?!»
 
Vide Rachele chiudere gli occhi, come se quelle parole la stessero ferendo nel profondo.
 
Egoisticamente, Madalena sperò che fosse così.
 
Tutto quello che voleva, in quel momento, era farle provare lo stesso dolore che stava provando lei.
 
Tutto quello che voleva, in quel momento, era odiarla al punto da non avere più bisogno di lei come aveva sempre avuto – odiarla, per non sentire il male di quello che stava provando dappertutto, e non per le ferite fisiche riportate.
 
Odiarla, e non avere remore, a cacciarla fuori dalla porta.
 
Quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe avuto la possibilità di vederla.
 
Ma in quel momento, voleva solo allontanarla.
 
«Vattene.» disse, freddamente. «Vattene, e ringrazia soltanto che non sia in condizione di ammazzare te e quel figlio di puttana.»
 
Rachele sollevò gli occhi nei suoi.
 
Erano lucidi, e annacquati di pianto.
 
Madalena rimase a fissarla.
 
Era l’ultima volta. Lo sapevano tutt’e due.
 
E per entrambe, era come se in quel momento stessero cercando di imprimersi ogni dettaglio dell’altra nella mente, per non dimenticarlo mai.
 
Nessuna delle due voleva smuoversi da quella posizione.
 
Ma sapevano che Rachele avrebbe dovuto farlo.
 
E alla fine, lo fece.
 
Madalena fino all’ultimo aveva sperato che non fosse la verità; che fosse tutto uno scherzo di cattivo gusto, e che Rachele le avrebbe detto che non era vero; che non aveva intenzione di andare a vivere con Klaus; che non l’avrebbe abbandonata, mai.
 
Vederla voltarsi, e lentamente percorrere i passi che l’avrebbero portata fuori di lì, fu dilaniante.
 
Madalena sentì in ogni minimo istante, e in ogni minimo movimento, la volontà di fermarla e di chiamare il suo nome; di dirle le parole per cui voleva incontrarla quella sera.
 
E per tutte le volte, la rabbia perché Rachele le aveva mentito, e la delusione perché alla fine era stata lei a cedere, e a scegliere la vita della mogliettina eterosessuale tranquilla e infelice, la bloccò.
 
Rachele aveva fatto la sua scelta.
 
Lei non poteva fare nulla.
 
Solo, vederla appoggiare, come a rallentatore, la mano sulla maniglia della porta.
 
Abbassarla.
 
Aprire la porta e scostarsi per permetterne il movimento.
 
Uscire, un passo lento dietro l’altro.
 
Senza voltarsi indietro.
 
Senza guardarla un’ultima volta.
 
E poi chiudere la porta.
 
…Era finita.
 
La porta aveva fatto clack; la parte mobile aveva incontrato lo stipite e si era chiusa.
 
Era finita.
 
Rachele se n’era andata.
 
E tutto quello che le rimase, tra le mani, fu la disperazione e il senso di vuoto.
 
Si raggomitolò su sé stessa; la testa sul ginocchio della gamba sana, e la mano a stringere le lenzuola che la coprivano.
 
Pianse.
 
Pianse tutte le lacrime che aveva.
 
Rachele non c’era più.
 
Rachele aveva scelto qualcuno che non era lei.
 
E invece di provare rabbia, o di farsi attanagliare dall’orgoglio, lei sentì solamente solitudine.
 
Incompletezza.
 
Mancanza.
 
 
 
Pianse per un tempo che non seppe quantificare, nel vano tentativo di far passare quella sensazione di vuoto totale all’interno dello stomaco.
 
Quando sollevò lo sguardo dal ginocchio, vide Marcus seduto davanti a lei.
 
L’aveva guardata per tutto il tempo, probabilmente.
 
Aveva guardato una bambina raggomitolata su sé stessa, che aveva appena ricevuto la notizia che le favole non si avveravano.
 
Che il mondo non era fatto per le favole.
 
Madalena non si vergognò dei propri occhi rossi gonfi di pianto.
 
Lo fissò negli occhi, senza dire una parola per qualche istante.
 
Poi, aprì la bocca per parlare.
 
«Se la tua proposta di matrimonio è ancora valida, vorrei accettarla.»
 
La favola era finita.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8: Volontà ***


Capitolo 8 – Volontà
 
 
Febbraio 1983
 
Il caminetto nel salotto riluceva di un fuoco scoppiettante che lentamente corrodeva la legna che lo alimentava.
 
Tutto in casa di Marcus era elegante; tutto in un ordine sterile, quasi come se nessuno vivesse davvero lì.
 
Tutto in toni chiari, tra cui predominava il bianco candido. Solo i divani del salotto, uniti al tappeto persiano, davano colore a quella sala – un colore rosso cupo, dato dall’intreccio degli arabeschi sul tappeto bianco, che andavano ad abbracciare le gambe dei sofà, e a salire idealmente fino alle fodere, dello stesso colore rosso scuro.
 
Un colore che le ricordava pericolosamente quello del sangue.
 
Madalena zoppicò per avanzare, appoggiandosi col braccio sano sulla stampella utile per muoversi; il rumore che il legno generò contro il pavimento di marmo fu secco, e rimbombò sulle pareti quasi prive di quadri della casa.
 
L’istinto immediato fu di paragonare quell’ambiente al caotico monolocale di Rachele.
 
Lì non c’era nulla che somigliasse a tutto quello.
 
I libri nelle librerie che affiancavano il caminetto, nella sala, erano disposti perfettamente in ordine; il pavimento era pulito; c’erano posti a sedere per tutti; e non si rischiava di inciampare su qualcosa lasciato a terra nella frenesia di uscire di casa per andare al lavoro.
 
Marcus era già lì in salotto, ad aspettarla.
 
Non appena Madalena fece il proprio ingresso nella sala, lui si alzò, facendo cenno di volerle prestare aiuto; ma lei si scostò con un movimento rapido, e andò a sedersi sul divano di fronte a quello su cui lo aveva intravisto accomodato poco prima.
 
Marcus si espresse in un sospiro che sembrò quasi comprensivo; poi, riprese posto sull’altro sofà, e la guardò negli occhi.
 
«Cosa vuoi da bere?» domandò.
 
«Niente.» replicò Madalena, spiccia.
 
Nel Bronx, non c’era nemmeno bisogno di dire la parola “caffè”, quando si entrava in casa di conoscenti: veniva offerto automaticamente, ed era difficile rifiutare.
 
Ma lì era tutto diverso.
 
Lì non erano nel Bronx; erano a Manhattan.
 
«Va bene, ho capito. Passiamo al punto principale.» considerò Marcus, sospirando, e intrecciando le dita delle mani; aveva capito che Madalena voleva arrivare al succo di quella questione, e affrontarla come se dovesse togliersi un dente dolorante. «Sei convinta di quello che vuoi fare, Madalena?» le domandò.
 
Madalena annuì; sapeva che Marcus le avrebbe posto quella domanda. E sapeva anche cosa rispondere, se le avesse chiesto spiegazioni più approfondite di un semplice “sì”.
 
«Non hai proprio intenzione di aspettarla?» chiese lui.
 
Madalena assottigliò gli occhi, quando vide la sua espressione: sembrava intristita.
 
Marcus sapeva quello che lei aveva provato per Rachele; sapeva che tipo di relazione avessero avuto; e probabilmente già intuiva il perché del brusco cambiamento di idea di Madalena. Ma voleva delle spiegazioni esplicite da lei. E le avrebbe avute.
 
«No.» replicò Madalena. «Rachele ha scelto la strada che vuole intraprendere. È giusto che io scelga quella che voglio intraprendere io.»
 
«E quella strada sono io?» domandò Marcus.
 
«Quella strada è quello che mi hai detto quel giorno.» disse Madalena. «Cercare soldi, un uomo che mi stia accanto, e la tranquillità di una normale vita domestica.»
 
«Avevi detto che non era quello che volevi tu.»
 
«Non lo è nemmeno adesso.»
 
Marcus sgranò gli occhi, sorpreso da quell’affermazione.
 
«Allora perché?» domandò.
 
«Perché la vita non è fatta di ciò che si vuole. Non per tutti.» disse Madalena. «Se si riesce a realizzare quello che si vuole, allora si può essere felici. Ma se per qualunque motivo quello che si vuole fare non riesce a essere realizzato, allora sono i doveri, a passare in primo piano. E io in questo momento ho due doveri: provvedere alla mia famiglia sistemandomi, e ripagare il debito che ho con te per avermi salvato da uno stupro. È giusto che li assolva.»
 
Marcus la fissò, per qualche istante; poi, sospirò, e appoggiò la schiena allo schienale del divano.
 
«Sei ancora giovane. Avresti tutta una vita da vivere.» commentò.
 
«Mi va bene così.» replicò Madalena. «Aiuto mia madre con i debiti, mi prendo quello che tutte le donne vogliono, e ripago il debito che ho con te. Addirittura tre piccioni con una fava. Che si può volere di più?»
 
«La felicità, immagino.» costatò Marcus.
 
«La felicità è per chi se la può permettere.» ribatté Madalena.
 
«Tu potresti.»
 
«Se ti riferisci al fatto che potrei rifarmi una vita sentimentale, ti rispondo che non è assolutamente quello che voglio. Rachele è bastata e avanza. Non ho più intenzione di stare male a quel modo.»
 
Sapeva anche lei che non era vero. Sapeva anche lei che non voleva nemmeno riprovare, perché sapeva già che nessun’altra sarebbe stata in grado di darle quello che Rachele le aveva dato.
 
Marcus sospirò, e per un attimo rimase in silenzio; Madalena lo fissò, attendendo una sua contestazione a quello che aveva appena detto.
 
«Quello che volevo darti quel giorno, e tutte le volte che ti ho chiesto di sposarmi, era la felicità.» considerò alla fine lui. Madalena lo ascoltò, attentamente. «Tu hai detto che non è quello che cercano tutte le donne, quello che ero disposto a darti. Che tu non eri di quello stampo. E come al solito, mi hai colpito.» commentò, con un sorriso che aveva una traccia di malinconia. «Volevo darti tutto quello perché, vedendo la tua situazione economica, e famigliare, pensavo che potesse essere quello che avresti voluto avere. Ma tu nonostante tutto hai detto che non lo volevi. E quello… mi ha fatto capire che non ero la persona giusta.» disse. «Che tu la persona giusta l’avevi già trovata, probabilmente. E infatti, così mi è stato dimostrato.» costatò, annuendo. «Detto tutto questo, sei ancora convinta di volermi sposare?»
 
Madalena per qualche secondo rimase in silenzio.
 
C’era una domanda che aveva sempre voluto fargli; e le volte che gliel’aveva fatta, era talmente arrabbiata con lui e con il suo essere persecutore, che non l’aveva lasciato rispondere.
 
«Perché io?» chiese.
 
Marcus non sembrò stupirsi; probabilmente si aspettava quella domanda come lei si era aspettata quella iniziale.
 
«Quando siamo venuti nel condominio in cui abitavano Daisy e Rachele, a parlare con Samuel, ti ho sentito mentre suonavi il pianoforte, dalla strada.» spiegò. Madalena sgranò gli occhi, sorpresa; ricordava vividamente che quel giorno c’erano in zona anche dei ragazzini che facevano del rap improvvisato in strada, e che lei si era innervosita in parte anche per quello. Si stupì, quindi, che Marcus avesse avuto la capacità di sentirla mentre suonava. «Hai fatto quella che doveva essere qualche battuta.» proseguì lui, sorridendo. «E in quel momento ho capito che la persona che stava suonando provava dei sentimenti talmente profondi, dentro, da non riuscire a esprimerli sufficientemente a voce. Sono bastate poche note.» disse. «Mi hai… smosso qualcosa, credo. Qualcosa che con le musiche di Samuel non avevo mai sentito; probabilmente perché davanti a me ha sempre suonato canzoni non sue.»
 
Madalena abbassò gli occhi.
 
Ricordava vividamente anche quel fa con cui aveva litigato.
 
«Credo di essere io, in debito con te, per avermi fatto capire che non tutto il mondo è privo di sentimenti, come qui sembra essere.» disse ancora Marcus. Madalena sollevò lo sguardo, sorpresa. «Perciò, sentiti libera di chiedermi quello che vuoi, e di non pensare al fatto che ti ho aiutato un mese fa; ho fatto quello che chiunque avrebbe fatto.»
 
Madalena ridacchiò, amaramente, e scosse la testa. «Non darlo troppo per scontato, nel Bronx.» commentò.
 
Marcus rimase in silenzio, attendendo il seguito di ciò che Madalena aveva da dire; e lei sospirò, e cercò le parole giuste da pronunciare.
 
«Voglio… superare Rachele.» mormorò; tuttavia, anche la sua voce bassa fu perfettamente udibile, in quella stanza. «Voglio dimenticarla, e allo stesso tempo voglio fare meglio di quanto è capitato a lei. Scegliere un marito ricco, ripagare i debiti di famiglia, avere una vita davvero tranquilla. Se proprio non posso stare con lei, almeno voglio capitare in una casa migliore della sua.»
 
Marcus la guardò per qualche attimo; poi, chiuse gli occhi, e si massaggiò lo spazio tra le due sopracciglia, alla radice del naso.
 
«Potrebbe venirti la voglia di tornare da lei.»
 
«No.» replicò Madalena, perentoria.
 
«Come fa a esserne così sicura?»
 
«Perché se lei ha scelto così, significa che non ha intenzione di tornare indietro.» replicò Madalena. «E quindi, nemmeno io lo farò. Tra me e lei è finita, e non c’è possibilità che ricominci.»
 
Marcus sospirò di nuovo.
 
«La ami?»
 
Madalena sgranò gli occhi; non si aspettava quella domanda.
 
Abbassò lo sguardo, e chiuse le palpebre, riflettendo sulla risposta.
 
Era praticamente scontato che dovesse rispondere di no; ma qualcosa la bloccava dal farlo.
 
Aprì la bocca, decisa a seguire comunque la coscienza, e la volontà, che volevano negare tutto quello che era stato, e quello che avrebbe potuto essere; e quello che ancora c’era.
 
«Sì.»
 
Lei stessa si stupì della propria risposta.
 
Sollevò gli occhi verso Marcus, in dubbio sulla reazione che lui poteva avere.
 
Ma, contro ogni previsione, lo vide sorridere.
 
«Almeno so con chi ho a che fare.» commentò. «Adesso puoi davvero chiedermi tutto quello che vuoi. E lasciare a me i preparativi per il matrimonio.»
 
Madalena inarcò le sopracciglia, sorpresa.
 
Poi, le venne in mente che effettivamente qualcosa che avrebbe voluto avere lì c’era.
 
«Un favore ce l’avrei.» considerò. «Anzi… forse due, credo.» aggiunse.
 
«Dimmi.»
 
«Il pianoforte.» disse Madalena. «Quello di Samuel, che è ancora nel condominio in cui abitava Rachele. Vorrei averlo qui.»
 
Marcus annuì, sorridendo. «E l’altro?»
 
Madalena fece una smorfia con le labbra, e abbassò lo sguardo, imbarazzata dalla seconda richiesta.
 
«Riguarda i figli.» disse. «Vorrei che avessero il mio cognome.»
 
Sentì lo sguardo di Marcus fisso sulla nuca; e il silenzio imbarazzante calare tra di loro, mettendola solo molto più a disagio.
 
«E’ una richiesta strana.» commentò alla fine lui. «Posso chiederti come mai?»
 
Madalena si strinse nelle spalle.
 
«I miei fratelli si sono sposati praticamente tutti. Mancherebbe solo l’ultimo, il quartogenito, nato prima di me.» spiegò. «Quelli che si sono sposati con famiglie benestanti hanno preso il cognome della moglie; e Marcos, il primogenito, che ha una relazione con una ragazza del Bronx da almeno cinque anni, non è sposato con lei. Quindi ho pensato che a mia madre avrebbe fatto piacere sapere che almeno uno dei suoi nipoti porta il cognome dei Rivera. Sarebbe come dire che non mi vergogno delle mie origini, come invece sembra che abbiano fatto gli altri che si sono sposati.»
 
Marcus la fissò per qualche istante; poi, sospirò di nuovo, e Madalena lo vide sorridere.
 
«Per me va bene.» commentò. «Mio padre non la prenderà bene, credo. Ma non importa. A portare il cognome di famiglia c’è sempre Samuel.» disse, per poi alzarsi e appoggiarle una mano sulla spalla sana, e chinarsi davanti a lei. «Madalena. Sentiti libera di interrompere i preparativi del matrimonio in ogni momento. Pensaci bene.»
 
Madalena chiuse gli occhi, e sospirò.
 
Aveva alternative?
 
L’unica che avrebbe voluto avere se n’era andata, e non sarebbe più tornata.
 
«Ci ho pensato.» disse Madalena, riaprendo gli occhi, e guardando Marcus. «Questa è la mia scelta. È quello che voglio. E non ho intenzione di tirarmi indietro.»

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Capitolo 10
*** Epilogo: Ultima Nota ***


Epilogo – Ultima nota
 
 
Gennaio 1999
 
Madalena,
ogni giorno guardo Sylvia e mi convinco che è praticamente figlia tua.
Ha solo due anni, ma il modo migliore in cui riesce ad esprimersi è già chiaro: battere con una bacchetta qualunque cosa si trovi intorno. È come se cercasse di trovare il suono migliore per esprimere quello che pensa, ogni volta.
Parla poco. Forse perché anche io le parlo poco. Ho capito da mesi che lei mi capisce di più quando batto con la bacchetta qualcosa, esattamente come fa lei.
È in cerca del suono migliore che esprima il suo stato d’animo, esattamente come tu facevi con i tasti di pianoforte.
E ogni suono che fa con la bacchetta, è capace di memorizzarlo e utilizzarlo al momento opportuno.
A volte mi convinco che Sylvia sia figlia più tua che mia, davvero.
Forse è così perché sa di quello che provo per te. Non so come abbia fatto; ma lo sa. È come se sentisse che manca la presenza di qualcuno, nell’aria; e di certo non è quella di suo padre.
Ogni volta che vado a letto con lei, e mi si addormenta addosso, mi viene da pensare a come ti addormentavi tu addosso a me.
E poi, sempre alla prima volta in cui ho pensato che somigliavi a una bambina.
Ti ricordi la nostra prima volta? Ecco, in quel momento.
Mi chiedo sempre come sarebbe se fossimo in due, a crescere Sylvia e tua figlia.
Mi chiedo sempre come sarebbe stato se quel giorno avessi avuto il coraggio di prenderti di peso dall’ospedale, e scappare ovunque, con te.
Scappare, io, te, e le nostre due figlie. Ma almeno stare insieme.
Mi manchi. Rimpiango sempre quel giorno in cui ho scelto Klaus invece di te.
È come se mi mancasse qualunque cosa; e l’unica in grado di sanare in parte questa mancanza è proprio Sylvia, che è la tua copia sputata, quasi.
È così assurdo da sembrarmi irreale, davvero.
Ma è come se tu fossi qui con me, ancora.
Solo, nelle vesti di mia figlia.
 
 
Madalena sbircia di nuovo l’indirizzo da cui proviene la lettera, ancora sconvolta dall’averla letta.
 
Dall’averle lette tutte.
 
Qualche giorno prima a casa sua – ormai abitata solo da lei e sua figlia Roberta; Marcus è morto da un paio d’anni di tumore – è arrivata una scatola indirizzata a lei, proveniente da un indirizzo del Bronx a lei totalmente sconosciuto.
 
Quando ha aperto la scatola con sua figlia Roberta, di tredici anni, si è ritrovata davanti una quantità spaventosa di lettere imbustate e tutte pronte da spedire.
 
Tutte indirizzate a lei.
 
Tutte riportanti il nome “Rachele Green” come mittente.
 
Le buste all’interno dello scatolone erano almeno cinquecento.
 
E Madalena, nonostante la titubanza iniziale, ha cominciato a leggerle.
 
Le ha finite tutte e cinquecento in una sola notte.
 
Alle volte erano lettere di poche righe; altre volte, scritti che contavano anche alcune pagine.
 
In ciascuna lettera, si poteva percepire la solitudine di Rachele.
 
E il rimpianto per quello che ha fatto sedici anni prima.
 
È stato in questo modo, che Madalena è venuta a scoprire il motivo per cui Rachele l’ha lasciata in quel modo: tutta la storia che si portava avanti da due anni prima dell’inizio della loro relazione – quando Klaus aveva inviato lei a prendere Rachele al commissariato, usandola, in quel modo, contro di lei –; le costrizioni che Klaus le imponeva, e cui lei non si poteva sottrarre; e per finire, il suo pestaggio, e l’ultimatum.
 
Il fatto che, per di più, non era vero che lei era incinta, quando l’aveva lasciata; che aveva dovuto dirglielo, perché sapeva che nessuna delle due avrebbe capito, né sopportato, che Rachele scegliesse Klaus solo per un quieto vivere.
 
Se non avesse letto in qualche lettera che Klaus è morto ormai da anni – un anno dopo la nascita di Sylvia, la figlia sua e di Rachele –, avrebbe colto l’occasione per strangolarlo di persona per tutto quello che aveva fatto loro.
 
Ma Klaus non c’è più. E ora, forse, qualcosa può ricominciare, tra lei e Rachele.
 
Ora che sa tutto, ha intenzione di picchiarla per essersi presa il peso della loro relazione tutto sulle proprie spalle; e poi ha intenzione di abbracciarla, e di baciarla di nuovo.
 
Se le ha inviato quelle lettere, molto probabilmente il motivo è quello.
 
Madalena dà di nuovo un’occhiata all’indirizzo di mittente scritto sulla busta di quella lettera, in cui Rachele le parla dettagliatamente di Sylvia per la prima volta.
 
Sì, l’indirizzo è giusto.
 
Madalena inspira profondamente, e si liscia la gonna, prima di avvicinare la mano al campanello.
 
Esita; in quel momento, si sente una ragazzina di quattordici anni al primo appuntamento.
 
E in effetti, lei e Rachele non ne hanno mai avuto uno; ma è come se quelle lettere fossero un invito a venire quando vuole a casa sua, per organizzarlo davvero, per la prima volta.
 
Espira profondamente, e pigia il campanello accanto alla porta.
 
Sente il cuore accelerare per l’aspettativa, mentre il suono classicamente bitonale del campanello si diffonde in casa, e attraversa la porta, arrivando fuori come ovattato.
 
È un attimo, vedere la maniglia abbassarsi, e lo spiraglio aprirsi lentamente, fino a rivelare una figura femminile.
 
«Rachele…!» esclama Madalena, non appena la vede.
 
Ma ancora prima di finire il suo nome – che viene terminato solo per un riflesso nervoso che ha già dato l’ordine alla lingua di articolare il nome intero –, Madalena si rende conto che quella non è Rachele.
 
Ha i suoi stessi capelli; i suoi stessi lineamenti; le sue stesse labbra; persino due lividi sul viso, come se avesse fatto rissa con qualcuno.
 
Ma ha la carnagione troppo pallida; e ha gli occhi troppo chiari.
 
È la sua copia sputata in tutto e per tutto, tranne che per quei due particolari.
 
E infatti, la donna sulla porta aggrotta le sopracciglia, e fa mezzo passo indietro, come a volersi allontanare da quella che ritiene già una deviata mentale.
 
Dev’essere Sylvia, quella.
 
«Scusami…» decide di esordire allora Madalena, cambiando approccio, ed esprimendosi in un sorriso pieno di aspettativa. «Sei Sylvia, vero?»
 
Sylvia annuisce, guardinga. E Madalena sospira di sollievo – e poi vede la sua bocca aprirsi, probabilmente per chiederle chi sia; e la anticipa, allungando entrambe le mani a prendere la sua libera.
 
«Madalena.» si presenta. «Madalena Rivera.»
 
Lo sguardo di Sylvia è sorpreso per un secondo; poi, la sua espressione si congela in una maschera granitica che lascia Madalena spiazzata.
 
«Cosa vuole?» domanda, con voce fredda.
 
Madalena la fissa negli occhi, sorpresa; e si rende conto che quelle sono iridi di ghiaccio, che vogliono solo allontanarla.
 
Perché?
 
No. Non può cedere. Non adesso.
 
«Sono… un’amica di tua madre.» dice. Forse è meglio definirsi così. «Ho ricevuto lo scatolone di lettere che ha scritto per me, e…»
 
«Cosa ci fa qui?» domanda ancora Sylvia, sempre più fredda – sempre più ritratta verso la casa, come a volersi allontanare da lei.
 
«Ero venuta per…»
 
«Se ne vada.» la interrompe la ragazza, stringendo lo spigolo della porta, e facendo per spingere quest’ultima in modo da chiudere l’ingresso.
 
Madalena la blocca, piazzando una mano sulla maniglia, e spingendola dalla parte opposta.
 
«Si può sapere che vuoi fare?» domanda, scocciata. «Sono solo venuta a parlare con tua madre!»
 
«Non è in casa.» replica Sylvia, sempre più freddamente.
 
«Posso aspettare, non è un…»
 
«No, non può!» urla Sylvia, cercando di mettere più forza nello spingere la porta.
 
Madalena sgrana gli occhi; d’istinto, risponde mettendo a propria volta più forza nello spingere.
 
«Sì che posso!» esclama. «Posso anche aspettare tutto il giorno, finché non torna dal lavoro, se necessario!»
 
«È morta!»
 
Madalena sente il cuore mancare di un battito.
 
La presa sulla porta si allenta; e lei rimane lì, a fissare Sylvia che, sbilanciata dalla mancanza di contrappeso, scivola in avanti con la porta, fino a essere sul punto di chiuderla.
 
Nel suo cervello, c’è solo il rumore di un tuono.
 
Lo stesso che ha sentito quando è morta Serenity; lo stesso che ha sentito nella testa quando i due membri della gang di Klaus l’hanno attaccata.
 
Un tuono solo. E basta.
 
Non rimbomba, come le altre volte, fino a riempirle il cervello.
 
Risuona una sola volta, e basta.
 
Poi, è il vuoto.
 
 
La consapevolezza di una mancanza che non potrà mai più essere colmata.
 
Mille parole non dette.
 
Mille cose non fatte.
 
Quel “ti amo” che avrebbe voluto dirle in mille modi, e che non è mai riuscita a dirle neanche in uno.
 
 
Rachele è morta.
 
E lei si sente morta dentro.
 
Si sente esplodere di rabbia, di furia, e di tristezza e solitudine, e scoppia a piangere.
 
Lì, davanti a Sylvia, versa le lacrime che credeva di non avere più, dopo la notte di sedici anni prima.
 
E si stringe in un abbraccio da sola; stringe le proprie braccia, affondando le unghie dentro le maniche del cappotto.
 
Distruggendole, nel vano tentativo di abbracciare la sua anima che non tornerà più.




Note dell'autrice
Siamo giunti al termine di questa storia.
Mi dispiace per la fine. Mi dispiace, davvero tanto.
Spero seriamente che non vi abbia traumatizzato troppo. Dal canto mio, ho avuto uno stacco così lungo tra la pubblicazione del capitolo 1 e quella di tutti gli altri capitoli, proprio perché faticavo a riprenderla in mano per quanto mi faceva venire il magone alla fine.
Comunque, spero vi sia piaciuta.
L'idea (che prima o poi porterò a termine, il prima possibile comunque) è di fare anche un capitolo extra in cui si spiega la fine di Rachele e come la storia va avanti (essendo, questa, una spin-off della mia long "Rainbow"). Lo farò, non temete. Ma la metto comunque come conclusa un po' perché la storia di Madalena e Rachele finisce qui; e un po' perché la storia presentata al contest per cui l'ho scritta finiva esattamente così.
Che dire; spero via sia piaciuta. Se recensirete, sia in positivo, sia per comunicarmi vari traumi dovuti alla fine della storia, sappiate che ve ne sarò riconoscente :) Risponderò alle recensioni tramite la risposta diretta (visto che c'è l'opzione, prenderò ad usarla ù.ù), e lo farò anche con chi ha recensito il prologo e il capitolo 1 :) Intanto vi ringrazio anticipatamente :)
Grazie a tutti quelli che sono arrivati fin qui.
- mady

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Capitolo 11
*** Prologo 2 - Le stesse note, una nuova musica ***


Prologo 2 
Le stesse note, una nuova musica

 
Rachele era stata investita da un furgone otto anni prima.
Si era immessa all’improvviso in strada, senza guardare – e il furgone l’aveva presa in pieno, facendola volare a terra e facendole battere la testa contro l’asfalto.
Salvarla era stato impossibile.
E Sylvia – che all’epoca aveva otto anni – aveva assistito a tutta la scena da pochi metri di distanza.
Rachele era andata a prenderla a scuola, e lei era già uscita nel cortile. Era vicina al cancello, poco distante dal marciapiedi opposto a quello da cui stava arrivando sua madre.
E aveva visto tutto.
Momento per momento.
«Stavo per urlare per avvisarla. Ma non ho fatto in tempo.» le sta raccontando con un tono quasi distaccato, l’espressione scocciata e insieme abbattuta, mentre tiene lo sguardo lontano da lei. Madalena la vede sospirare e spostarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con fare malinconico e pensieroso. «Anche se forse non mi avrebbe sentito.»
Madalena la osserva per un attimo, sbattendo piano le ciglia. Tutte quelle rivelazioni sono estremamente dolorose, specie tutte insieme – ma le viene spontaneo preoccuparsi anche di ciò che ha davanti: una ragazzina di sedici anni che ha perso la madre a otto e ha visto la sua morte coi propri occhi. Una ragazzina di sedici anni che pensa che la madre non l’avrebbe sentita, e chissà perché.
«Ma certo che ti avrebbe sentito.» replica, asciugandosi le lacrime che sembrano non accennare a smettere di scendere. «Non c’è verso che non ti avrebbe sentito. Ti amava così tanto.»
Sylvia le rivolge un’occhiata un po’ fredda – decisamente meno di quanto fosse stata fino a poco prima, quando voleva lasciarla fuori dalla porta. E invece, vedendola piangere così amaramente per la morte di Rachele, l’ha fatta entrare in casa dopo qualche titubanza, le ha offerto della carta per asciugarsi gli occhi e un bicchiere d’acqua per riprendersi un po’. L’ha lasciata seduta a piangere su una poltrona finché Madalena non si è calmata un po’, e non è stata pronta ad ascoltare il resto.
Meglio tutte le rivelazioni insieme che uno stillicidio, ha pensato dopo essersi calmata.
E Sylvia ha iniziato a raccontare.
Con un tono apparentemente calmo e controllato, ma che in realtà tremava a ogni frase.
Madalena l’ha sentito (dato che stavi scrivendo al presente, perché non continuare?) chiaramente. Ha capito perfettamente quanto Sylvia tentasse di trattenere delle lacrime che forse nemmeno ci sono più.
Chissà quanto doveva aver sofferto per sua madre.
«Si vede che non l’hai vista, nei suoi ultimi anni.» considera – e Madalena solleva lo sguardo a quell’osservazione così ovvia eppure espressa in un tono così amaro da quella ragazzina, come se volesse farle pesare qualcosa. Sylvia, per conto proprio, ha distolto ancora lo sguardo da lei, e sta osservando la lampada che riluce pallidamente nella stanza, illuminandola solo di poco. «Le hai lette, le lettere che ti voleva mandare, no? Mi considerava quasi una tua copia.»
Madalena sente il proprio cuore mancare di un battito, e il proprio stomaco stringersi in una dolorosissima morsa. Spalanca gli occhi, guardando il profilo magro e indifeso di quella ragazzina che sembra essersi eretta scudi tutto intorno a sé per non soffrire più.
La ragione di quel tentativo è chiara.
«No.» ci tiene a precisarle, alzandosi in piedi per la prima volta dopo tutti quei momenti. In quel momento, davanti a lei, c’è una ragazzina che ha bisogno di affetto e di essere rassicurata che sua madre l’ha amata durante tutta la propria vita. Rachele può, per il momento, passare in secondo piano.
«Certo che è così.»
«No che non è così.» replica Madalena in tono più deciso. «Rachele ti amava. Sono sicura di questo.» dice ancora, avvicinandosi un po’ a lei. Sylvia deve captare quel movimento, perché si volta e muove il proprio busto come per allontanarsi un po’ da lei, ma senza distogliersi dalla propria posizione con le mani appoggiate al tavolo. Ha lo sguardo sconvolto, diffidente, forse impaurito, sicuramente fragile – e sicuramente vorrebbe non far notare tutte quelle cose a lei. «Avrebbe solo voluto che fossi figlia mia e sua.» aggiunge, con uno sguardo malinconico. Vorrebbe accarezzarla e tranquillizzarla, ma è anche abbastanza sicura che Sylvia non voglia quel tipo di contatto fisico. «Ha sempre voluto avere dei figli.» dice ancora, sopprimendo quella voglia che sente di calmarla e stringerla a sé per farle capire che va tutto bene. «E anche io avrei voluto che tu fossi mia figlia.»
Sylvia storce le labbra in una smorfia confusa e indecisa sul credere o meno a quelle parole – ma poi decide che per il momento distogliere ancora lo sguardo è la cosa migliore da fare.
«Era sempre triste.» dice a bassa voce, lo sguardo basso e le spalle un po’ curve in avanti. «Sempre. Cioè, sorrideva, rideva, certo… ma da quando sono nata l’ho sempre vista con quell’espressione che aveva della tristezza dentro.». Le sue spalle tremano per un secondo. «Non capivo perché: non me l’ha mai detto. Ricordo solo che ogni tanto la vedevo scrivere quelle lettere… e che mentre ne scriveva una, una volta mi ha detto che… se avessi trovato una persona che amavo davvero, non avrei mai dovuto lasciarla andare.»
Madalena sente un tuffo al cuore, a quelle parole.
E abbassa lo sguardo anche lei.
Improvvisamente, la mancanza – l’assenza di Rachele si fa sentire forte come un macigno sul suo stomaco.
Non c’è più.
«Ho capito perché… solo quando ho trovato quelle lettere, dopo che lei è morta.» prosegue Sylvia, senza darle il tempo di realizzare completamente che Rachele non c’è più.
Madalena solleva di nuovo lo sguardo – e si ritrova a considerare che non serve realizzarlo: è palese.
Davanti a sé ha la prova evidente della mancanza di Rachele. Ormai da troppo tempo.
Sylvia è una ragazzina praticamente sola al mondo, che ha visto morire la madre e ha letto delle lettere che la madre aveva scritto per lei, arrivando a pensare di essere solamente una copia dell’amante della madre.
Arrivando a pensare di non essere mai stata amata davvero come figlia.
«Quando le hai trovate?» le domanda con urgenza.
«Avevo dodici anni. Stavo rimettendo a posto la casa.» replica Sylvia.
Già fin troppo tempo, decisamente. Sylvia ha passato ben quattro anni a pensare che sua madre non l’abbia amata se non come copia di Madalena.
«Le hai lette tutte?» domanda ancora Madalena.
Sylvia annuisce.
E per una ragazzina di dodici anni è sicuramente stato troppo.
Madalena si muove senza quasi pensare. Non c’è tempo di pensare.
Si avvicina a lei e l’abbraccia stretta.
Ha il corpo esile e fragile, il fiato trattenuto per la sorpresa, i muscoli tesi per l’atto improvviso.
Non ha un buon odore. E a giudicare dallo stato della casa, è poverissima.
E non solo… ha anche pensato quelle cose.
Mentre lei era in una villa a curarsi di sé stessa e di sua figlia Roberta, a essere ancora un po’ arrabbiata con Rachele perché non aveva idea di tutto quello che fosse successo, a piangere la mancanza di amore che pensava di non aver mai davvero avuto nella propria vita.
Mentre lei era intrappolata nei propri problemi ma aveva almeno di che vivere senza potersi lamentare, Sylvia soffriva. Soffriva fisicamente ed emotivamente. Soffriva, si sentiva sola, si chiudeva.
«Mi dispiace.» dice – la voce le esce più rotta di quanto vorrebbe, più esile di quanto Sylvia dovrebbe sentire. «È stata colpa mia. Non siamo riuscite a chiarirci. Non sono… riuscita a credere ai suoi sentimenti, ed è successo tutto questo…». La stringe di più, e la sente rabbrividire per un lungo momento. «Mi dispiace, Sylvia. Mi dispiace che tu abbia pensato che tua madre ti vedesse solo come una mia copia… ti posso assicurare che non è così. Dopo aver letto le sue lettere sono riuscita a rimettere in ordine la donna che conoscevo… e non sarebbe mai stata capace di non amarti. Te lo posso assicurare, ne sono sicura: tua madre ti ha amato dal primo all’ultimo momento.»
Sente Sylvia rilassarsi lievemente tra le sue braccia, e per qualche ragione arriva a pensare che sia triste. E improvvisamente indifesa.
«Anche se… ero la figlia dell’uomo che odiava?»
Madalena la stringe ancora di più.
È stato davvero troppo, per una ragazzina di soli dodici anni, che forse stava ancora lottando col ricordo della morte della madre. Da sola.
«Tu non sei tuo padre.» le risponde con decisione. «E anche se tua madre era sempre triste, non ha mai voluto farti pagare le conseguenze di quello che è successo. Sono sicura che ti abbia fatta sentire amata. Sono sicura che tu abbia dei bei ricordi con lei.»
Sylvia sospira, poco distante dalla sua spalla.
«Non sono bugie?»
E Madalena si rende conto che Sylvia ha solo bisogno di un conforto. Di qualcuno che le dica che va tutto bene non perché glielo deve dire, o perché lei crede che quella persona glielo debba dire; ha bisogno del conforto di una persona che è convinta di quello che dice.
«Non sono bugie.» le risponde, decisa e convinta, per la prima volta dopo tanto tempo, dell’amore che Rachele sicuramente ha riversato sulla sua bambina. «Ti amava con tutta sé stessa. E avrebbe voluto sicuramente dimostrartelo di più.»
Sylvia sospira ancora, ma si rilassa contro la sua spalla e, forse, chiude gli occhi per un momento.
«Amava anche te.» dice, a bassa voce. «E avrebbe voluto dimostrartelo di più.»
 
 
A Madalena è bastata qualche frequentazione della casa di Sylvia, per capire che lei non è fisicamente da sola.
Nello stesso piccolo spazio in cui vive lei, vive anche il suo “patrigno”, Michael. È un uomo di un’età che Madalena non riesce a definire anche dopo averlo visto diverse volte, visibilmente sempre stanco e talvolta irritabile. In generale, comunque, abbastanza tranquillo e comunicativo nonostante la stanchezza – anche se la prima volta che l’ha vista non l’ha accolta proprio di buon grado.
Ed è sempre triste.
Sylvia le ha spiegato, in un momento in cui lui non c’era, che sente molto la mancanza di Rachele. Per quanto lei gli avesse sempre detto di non essere innamorata di lui, lui lo era di lei; e lei col tempo si era affezionata un po’ a lui e l’aveva lasciato entrare un po’ nella propria vita. Non troppo: Michael non sa nulla della relazione che c’è stata tra lei e Rachele, né del perché Rachele sia stata con Klaus per un po’ di anni. Ma forse, se fosse sopravvissuta, l’avrebbe saputo col tempo.
La morte di Rachele l’ha scosso nel profondo: Michael, secondo Sylvia, pensava davvero di farsi pian piano una vita con lei e Sylvia. Una vita felice da vivere insieme tutti e tre, in cui pian piano Rachele si sarebbe affezionata a lui… forse l’avrebbe persino amato.
Forse.
Ma Rachele è morta, e lui è caduto in uno stato di prostrazione tale che spesso è fuori di casa e lascia Sylvia da sola, mentre lui si ubriaca per non pensare a tutto quello che ha perso.
E quando torna lucido, è consapevole di quello che sta facendo a sé stesso e a Sylvia.
E probabilmente è per quello, che le ha fatto quella richiesta che Madalena non si sarebbe mai aspettata vista la situazione.
 
Madalena osserva con finta calma (solo apparente) l’esile sagoma di Sylvia mentre raccoglie due borse da terra.
Lì dentro c’è una buona parte dei suoi averi.
Madalena ha intuito che Sylvia ha lasciato lì alcune cose sue – le vede, in giro per la cucina o il salotto – con l’intenzione di tornare pian piano a prenderle.
Lasciare quel piccolo cubicolo in cui ha vissuto per tutto quel tempo, per quanto dolorosamente, è qualcosa che non vuole fare così nettamente. Anche se a parole sembra davvero che lo voglia fare così all’improvviso.
Madalena si lascia sfuggire un lievissimo sorriso malinconico, ripensando al fatto che Rachele le abbia scritto, in una delle lettere, quanto Sylvia somigliasse a lei. Non può darle torto.
Il sorriso, tuttavia, le muore nel giro di pochissimo quando incrocia lo sguardo con quello di Michael.
Sorride. In maniera triste, però.
Chissà se Rachele ha sempre avuto sulle labbra quello stesso sorriso.
Chissà se Sylvia ha sempre visto quei sorrisi intorno a sé, prima da parte di Rachele, poi da parte di Michael.
Madalena la osserva per un secondo, mentre lei le dà le spalle e ha lo sguardo alzato in quello che per legge non è il suo patrigno, ma è come se lo fosse.
È l’adulto che c’è stato durante la sua infanzia, e che ha cercato di esserci per quello che poteva dopo la morte di sua madre.
Sylvia gli vuole bene. Molto più di quanto tenda a dimostrare, in quella gabbia fatta di scudi che si è creata, in cui cerca di non far entrare troppo nessuno, e da cui cerca di non far uscire troppo i propri sentimenti.
Ma Michael la ama come se fosse sua figlia.
Ed è per questo che ha chiesto a Madalena di prenderla in affidamento.
Non è stata di certo una decisione affrettata: Michael, nei momenti di lucidità in cui tornava a casa e la vedeva lì assieme a Sylvia, ha visto anche la luce negli occhi che Madalena aveva quando stava con quella ragazzina. O almeno, questo è quello che le ha detto quando hanno parlato della possibilità di dare Sylvia in affidamento a Madalena; e in effetti, lei da quando ha visto Sylvia si è sentita come rinata.
Non che sua figlia Roberta non sia mai stata abbastanza per lei: è sempre stata la sua ragione di vita da quando è nata, la persona su cui ha riversato tutto l’amore che non sapeva di riuscire a dare ancora.
Ma ora che ha visto Sylvia… è come se da quando l’ha incontrata la prima volta abbia sentito il bisogno di prendersi cura anche di lei.
Certo, non vuole toglierla a chi se ne è preso cura per gran parte della sua vita.
Ma lui sembra davvero propenso. Vuole darle una vita migliore di quella che sta avendo, anche col rischio di non vederla più troppo come la vede ora.
Michael ama davvero tanto Sylvia, di questo Madalena è sicura.
A Sylvia sicuramente sono mancate tantissime cose. Ma non dei genitori che la amassero.
Perché è così: Michael non ha mai adottato legalmente Sylvia, né ha sposato Rachele, ma si è comportato a tutti gli effetti come un padre per lei.
E si sta comportando così anche ora, sorridendole con quel fare un po’ triste che fa intendere a lei e a Madalena che Sylvia gli mancherà tantissimo.
E lei, probabilmente, dopo aver chiarito i propri dubbi sull’amore della madre, lo capisce.
Per quello, anche se ha accettato di stare a casa di Madalena come figlia affidataria, le dispiace andarsene e lasciarlo solo.
Sono stati per otto anni solo loro, a prendersi cura l’uno dell’altro, affidandosi l’uno all’altro.
Litigando, anche parecchio. Ma volendosi comunque bene, perché capivano che qualcosa mancava a entrambi.
Ed è in virtù di questo affetto, che Sylvia si avvicina a lui e lo abbraccia stretto.
Come si abbraccerebbe un padre prima di partire per un lungo viaggio.
Madalena li osserva per un secondo, mentre lui con un piccolo sorriso sollevato ricambia la sua stretta e le accarezza i capelli con una dolcezza che non credeva possibile in un uomo così alcolizzato come Michael pare essere.
«Tornerò a trovarti.» lo avvisa Sylvia dopo un breve momento, mentre si stacca. «E quando tornerò a trovarti voglio che tu abbia smesso di bere così tanto.»
Michael le sorride più ampiamente. E Madalena già sa che ci proverà: gliel’ha detto più di una volta, quando hanno affrontato il discorso dell’affido. Sa già che ci proverà seriamente, a smettere di bere.
E che un giorno probabilmente si riuniranno.
E il pensiero la fa dispiacere un po’, e un po’ le fa piacere: perché alla fine è giusto che Sylvia stia con chi l’ha cresciuta per quanto tempo può.
E con chi riesce ad occuparsi di lei, mentre il suo patrigno non ce la fa.
«Allora…» Sylvia indietreggia senza smettere di guardare Michael, come a non volersi staccare troppo definitivamente da lui. «Allora ci vediamo.»
Michael annuisce. «Smetterò di bere, te lo prometto.»
Madalena vede Sylvia sorridere un po’ timidamente per un’ultima volta. Poi, voltarsi e guardare lei.
«Andiamo?» le domanda Madalena, inclinando lievemente la testa di lato come in un invito.
Sylvia sbatte per un attimo le ciglia, in un’espressione un po’ indecisa. Poi annuisce.
«Andiamo.» acconsente.
E prendendola per mano, Madalena si rende conto di condurre lei, sé stessa e Michael verso un nuovo capitolo per la vita di tutti e tre.
Un capitolo caratterizzato dall’ignoto, la cui unica base è l’ascolto e il tentare di capirsi reciprocamente.
Un capitolo che, con quelle basi – Madalena lo spera sinceramente mentre varca la soglia assieme a Sylvia – può davvero cambiare in meglio la vita di ciascuno di loro.


 
Fine








L'angolino di madychan
Ed eccomi qui.
Dopo un saaaaaacco di tempo.
Abbiate pazienza, sono successe cose. Ma avevo promesso il capitoletto extra ed eccolo qui, oggi ero in vena e l'ho scritto di getto.
Spero vi sia piaciuto, se qualcuno ha seguito e/o ricordato questa storia. ^^ Spero vi abbia dato un "lieto fine", a differenza della conclusione che si vedeva nell'epilogo. Magari non quello in cui si sperava, ma... chiarimenti e qualche speranza ci stavano. ^^
E... niente, mi fa piacere anche solo che l'abbiate letto e che siate arrivati fin qui. :3 Grazie di essere stati qui fino alla fine. :3
A qualche altra storia, se vi va. 
mady

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