Il mistero della camera 213 di Alexis Cage (/viewuser.php?uid=450143)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 1 *** I ***
Dovete
sapere che nella giovinezza patii una rara malattia per cui due volte
all’anno, una settimana ognuna, la mia forza calava così tanto che
potevo soltanto muovermi in una piccola stanza per poco tempo, e se
esageravo rischiavo di svenire.
In
quelle due settimane venivo inviata dalla mia villa all’ospedale
della Corona, il migliore mai costruito, e lì venivo controllata dai
dottori più bravi grazie alla rendita di mio padre.
Fatto
sta che, sei anni fa, come penso voi ricordiate, giunse la grande
epidemia: un’ondata di malattia che non compariva con così forza
da almeno tre secoli. Ovviamente i miei genitori spinsero affinchè
per me ci fosse il miglior trattamento ma quando arrivai all’ospedale
preferii, a loro insaputa, trasferirmi in una stanza comune,
lasciando la più lussuosa a chi ne aveva davvero bisogno. Fu così
che mi stabilii nella camera 208. Vi parrà strano, ma la prima cosa
che notai fu che la stanza di fronte alla mia non era, come di
consuetudine, la 209, ma era targata 213, come se avessero sbagliato
a sistemare le stanze nel corridoio e le porte dalla mia parte
fossero in ritardo, o quelle dall’altra in anticipo.
Mi
avevano avvisato che la mia nuova dimora era una stanza comune sia ai
maschi che alle femmine e che garantivano la massima discrezione; per
questo non ero preoccupata ma rimasi lo stesso sorpresa vedendo,
entrando, il mio nuovo compagno di stanza.
Era
un giovane di venticinque anni pallido come un cadavere, aspetto
accentuato dai capelli neri e dalle occhiaie dello stesso tono di
colore, e aveva occhi di carbone che sembravano essere stati decisi,
un tempo, ma che in quel momento erano solamente vuoti. Notai in un
secondo tempo che le sue mani e i suoi piedi erano legati al letto,
ma mi sembrò un fattore non importante quanto la vacuità di quello
sguardo. Non riuscii a staccare gli occhi da lui mentre degli
infermieri portavano i miei bagagli nella stanza, azione che avrei
fatto volentieri io se ne avessi avuto le forze.
Mi
stabilii sul letto con una leggera camicia da notte e mi venne detto
che il medico sarebbe arrivato solo dopo mezz’ora per causa
dell’avvento di altri malati: io risposi che avrei aspettato di
più, se qualcun altro avesse avuto bisogno del dottore. Così,
quando rimasi nella stanza sola col mio silenzioso compagno, iniziai
a guardarmi intorno: notai che il letto alla mia sinistra, quello
vicino alla finestra, era lindo come se fosse vuoto da tempo, ma
accanto era posato un quaderno medico; così conclusi che forse
sarebbe arrivato un nuovo compagno e mi prefissi di chiederlo al
dottore per pura curiosità. Vidi che la luce del sole filtrava
piacevolmente dalla finestra, che le nuvole si stavano addensando nel
cielo e che gli armadi della stanza erano quasi vuoti.
Mi
volsi verso il mio compagno e iniziai a studiare anche lui. Il suo
sguardo era ancora perso, ma non più vuoto: sembrava immerso in
pensieri reconditi e immensi, come se cercasse di vedere qualcosa ma
non potesse perché era troppo lontano.
Improvvisamente
voltò la testa verso di me. Non sembrava sorpreso dal fatto che lo
stessi guardando, pareva essersene accorto sin da subito.
Mi
osservò per qualche istante e io per rompere il silenzio decisi di
presentarmi, ma lui mi anticipò.
-Se
una persona ti aspettasse, tu andresti da lei?-
Io
lo guardai sorpresa, non pronta a sentire posta una domanda. Capendo
che il giovane era serio, riflettei per qualche secondo e risposi:
-Sì,
certo, se lei mi attende con tutto il cuore.-
-Anche
se fosse nel luogo più lontano dell’universo?- domandò ancora il
giovane. Io lo guardai, riflettendo ancora:
-Ovviamente.-
Comparve
una smorfia disperata sul volto del giovane, e mi spaventai vedendo
ciò che lo dominava: tristezza, incurabile tristezza.
-Anche
gli altri hanno risposto così, sai? Allora perché non mi lasciano
andare da Isabelle? Lei è lontana, ma la posso raggiungere
velocemente. Perché non me lo permettono?-
Distolse
lo sguardo dal mio volto e si perse con gli occhi nell’azzurro del
cielo, con la mente oltre, verso le nuvole, verso Isabelle. Vedete,
io sono sempre stata empatica verso ogni forma di sofferenza; penso
sia stato per questo che capii subito cosa aveva distrutto il
giovane. Isabelle era lontana e lui voleva raggiungerla, ma tutti
glielo impedivano. È così ovvio, non credete?
-Ho
tentato di ammazzarmi due volte.- annunciò con tono neutro e non
spostando gli occhi dal cielo e dalle nuvole –Dopo la seconda mi
hanno legato. Ho provato un’altra volta, ma ho fallito.-
-L’ho
notato.- replicai. Non riuscivo a non sentirmi affascinata da quel
giovane che amava ancora così tanto una donna da volerla raggiungere
anche nel posto dove si pensava fosse impossibile arrivare. Aveva una
disperazione strana negli occhi, una disperazione folle, è vero, ma
quella era la conseguenza della sua prigionia. No, non era folle. Era
solo frustato perché non poteva tornare da Isabelle.
In
quel momento sentii delle voci di alcune persone che si avvicinavano
alla nostra stanza. Il giovane spostò gli occhi su di me, poi disse:
-Comunque,
io sono Thomas. Thomas Drimles.-
-Elizabeth
Albergail.- risposi. Ero abituata a ricevere sguardi sorpresi,
impauriti o adoranti quando le persone sentivano il mio nome, ma non
fui stupita quando lui replicò soltanto:
-È
stato piacevole parlare con te, grazie di avermi ascoltato. Molti non
lo fanno.-
-Grazie
a te di avermi parlato.- dissi con un sorriso. Mi piaceva, sentivo
che sarebbe stato un buon compagno.
Entrò
nella stanza il dottore, un uomo di quarant’anni con lo sguardo
deciso e le spalle larghe come se dovesse sostenere un’enorme
responsabilità. Capii che era un brav’uomo solo vedendo come
camminava, con un passo stanco ma allo stesso tempo sicuro, come se
fosse stremato dal suo compito ma volesse comunque continuare a
farlo, come un vero eroe.
-Buongiorno,
signorina Albergail.- mi salutò appena mi vide. Notai un guizzo
divertito nei suoi occhi mentre diceva con tono stanco:
-Mi
perdoni se non le reco i giusti convenevoli, ma sono alquanto
stremato.-
-Dottore,
mi offenderei se occupasse il tempo a recarmi i giusti convenevoli
non curando le persone.- replicai con un sorriso. Odiavo –e odio
tuttora- essere di peso alla gente, quindi cercai di mettere subito
in chiaro che non doveva perdere tempo con me. Il dottore sorrise,
l’ironia scomparsa dal suo sguardo:
-Grazie,
signorina. Io sono Samuel Smith, suo dottore. Cercherò di occuparmi
di lei durante il suo soggiorno, anche se c’è l’epidemia.-
-Si
preoccupi per prima cosa dei veri malati, Dottor Smith.- dissi io
sorridendo tranquilla –Io sto bene, mi basta non alzarmi troppe
volte.-
Il
dottore mi fece un leggero inchino con la testa:
-La
ringrazio ancora, signorina. Ora,- fece lui volgendosi verso Thomas –
temo che dovrò occuparmi di lei, signor Drimles. Come si sente?-
-Vivo.-
rispose l’interpellato con un tono che dimostrava il suo desiderio
di essere tutt’altro che vivo. Il dottore sorrise con calma, come
se fosse abituato al palese astio del giovane:
-Dio
ci perdoni per questo, signore mio. Allora le corde funzionano bene?
Ottimo.-
-Per
lei.- mormorò Thomas con tono sofferente. Il dottore si volse verso
di me e mi disse volendomi rassicurare:
-Non
la disturberà, non è malvagio, odia solo i dottori.-
-Mi
tenete prigioniero.- osservò Thomas. Il dottore gli lanciò
un’occhiataccia quasi paterna:
-È
per il suo bene, non lo dimentichi.-
Il
dottor Smith si diresse verso la porta e disse per salutarci:
-Passerò
domani mattina a chiaccherare ancora con voi.-
Quando
lui se ne fu andato io osservai il mio compagno di stanza, pensosa.
Lui se ne accorse e mi chiese:
-C’è
qualcosa che ti turba?-
-Perché
li odi?- chiesi non riuscendo a capacitarmi del suo sentimento –Loro
tentano di aiutarti.-
-C’è
un solo modo per aiutarmi.- replicò subito lui. Io scossi la testa:
-Ma
loro pensano che questo sia il modo migliore. Non dovresti provare
così tanto astio per loro, non vogliono il tuo male, anzi.-
Thomas
fece spallucce:
-Se
non riescono a capire che questa non è la cura giusta per me, allora
non sono degni dottori capaci di curare davvero le persone.-
Non
seppi cosa ribattere.
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Capitolo 2 *** II ***
Le
ore scorsero veloci come pagine sfogliate di un libro, accavallandosi
l’un l’altra tra brevi momenti di sonno e osservazioni su quello
che accadeva nel corridoio.
Riemersi
da un placido dormiveglia quando ormai il Sole era calato, e mi
accorsi subito che era cambiato qualcosa: c’era fermento, nel
corridoi. Sentivo passi affrettati di tante persone e quasi percepivo
la preoccupazione che aleggiava nell’aria, e subito mi preoccupai
non poco: che fosse accaduto qualcosa di grave?
Scorsi
attraverso la porta la stanza di fronte alla mia, la camera 213,
preparata con un tavolo di innumerevoli medicine e un letto grande
due volte il mio.
-Cos’è
accaduto?- domandai al mio compagno, vigile accanto a me. Thomas
scosse la testa:
-Non
ne ho la più pallida idea. Da un’ora ormai stanno scalpitando
tutti per i corridoi, ma da quello che sono riuscito a sentire non
c’è stato un’incidente con molte vittime: la vittima è solo un
malcapitato, l’assassina una malattia incurabile.-
-E
perché mai ci sarebbe bisogno di così tante persone?- mi chiesi
riflettendo confusa. La situazione risvegliava la mia naturale, e a
volte esuberante, curiosità, costretta alla prigionia per la mia
malattia che non mi permetteva di fare ciò che volevo.
Thomas
scosse ancora la testa:
-Non
ho una risposta. Ma una domanda sorge nella mia mente, e visto che a
quanto pare sono pazzo non posso tenerla lontana dalla mia bocca,
quindi dico: perché mi pare che siano tutti molto preoccupati?-
-La
vittima è forse una persona importante?- ipotizzai.
-Anche
tu lo sei.- obbiettò Thomas con un sorrisetto –Ma a causa
dell’epidemia i medici sono costretti a non interessarsi troppo
all’erede della più nobile stirpe.-
Io
annuii e continuai:
-Potrebbe
essere una malattia contagiosa, ma dubito possa essere limitata da
una porta, non posizionerebbero una persona pericolosa così vicino
agli altri pazienti. Allora qual è la risposta?-
-La
risposta è la pazzia.- enunciò Tomas con voce solenne –Del
problema l’unica via.-
-Ne
dubito.- obbiettai subito, ma quella mi parve la soluzione più
logica. Che fosse una persona malata mentalmente che poteva diventare
pericolosa? Allora perché il mio animo mi aveva portato a rispondere
così a Thomas?
Lui
sorrise semplicemente scuotendo la testa, come se sapesse qualcosa di
cui io non ero a conoscenza. Feci per chiedere una spiegazione della
sua strana espressione quando entrò qualcuno nella stanza: il Dottor
Smith, l’unico nostro contatto col mondo al di fuori della camera.
-Tutto
bene?- chiese scandagliando entrambi noi pazienti con occhi attenti –
C’è stato qualche problema?-
Era
rivolto a me e si stava evidentemente riferendo a Thomas, che
ostentava un’espressione indifferente. Io scossi la testa con un
sorriso:
-L’accoglienza
è ottima, la compagnia sublime. Solo una cosa mi turba.-
-Mi
dica, mi dica, signorina.- mi esortò subito lui, preoccupato. Io
sorrisi ancora per calmarlo:
-Non
è un problema della mia persona, ma non riesco a trattenere la mia
curiosità e ho notato molto fermento nel corridoi. È accaduto
qualcosa?-
Il
volto del Dottor Smith venne attraversato per un singolo istante da
un’ombra d’inquietudine che non mi sfuggì, poi rispose con un
sorriso tranquillo:
-Solo
un paziente che ha bisogno di molte cure, ma non vi recherà
problemi.-
Gettò
un’occhiata veloce al corridoio ed esclamò con rammarico:
-Temo
di dover lasciare la vostra presenza, tra poco lui giungerà qui. Vi
auguro dei sogni splendenti.-
Quando
fu uscito, chiudendosi la porta alle spalle, Thomas sembrò
riprendere vita. La sua espressione indifferente divenne subito
sarcastica:
-“Lui”…eh?
Allora, secondo te è un folle o un mutante?-
Feci
un sorriso forzato:
-Entrambi?-
Thomas
annuì, quasi compiaciuto dalla mia risposta, e senza annunziare
niente chiuse gli occhi e il suo respiro divenne più lento.
Io
purtroppo non ho mai posseduto l’innata capacità di addormentarmi
subito e quindi anche quando, mezz’ora dopo, giunse un’infermiera
ad abbassare le luci per la notte, io ero ancora sveglia e restai
tale per un’altra ora. Sentii chiaramente quando, poco dopo la
mezzanotte, giunsero dei sussurri dal corridoio e una porta venne
aperta e chiusa dopo poco tempo: era arrivato il nuovo paziente.
Di
certo la mia incapacità soporifera in quel momento era influenzata
dai mille pensieri che mi vorticavano nella mente non concedendole il
riposo.
Perché
il Dottor Smith aveva mentito? Chi era l’ospite della camera 213? E
perché pensando a lui non riuscivo a trattenere l’inquietudine?
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Capitolo 3 *** III ***
Il
giorno dopo appena riuscii a liberarmi dalla soffice coltre del sonno
venni messa a conoscenza di un fatto che io trovai entusiasmante:
entro quella stessa mattina sarebbe giunto un nuovo compagno di
stanza. Il dottor Smith mi pregò con rammarico di perdonarlo, poiché
ero costretta a condividere il soggiorno con due maschi causa
l'epidemia che costringeva l'ospedale a spostare in una sola ala
tutte le persone soggette a malattie, come dire, normali.
Io
ovviamente non me ne preoccupai grandemente. Thomas non mi aveva
recato disturbo, anzi, e prevedevo che il nuovo ospite sarebbe stato
un' ottima compagnia quanto lui. Thomas, dal canto suo, si mostrò
indifferente, commentando che bastava che il nuovo arrivato non fosse
una persona sgradevole.
Appena il dottore abbandonò la nostra
stanza il mio primo e attuale compagno mi gettò un'occhiata ironica,
del genere che ormai avevo classificato come suo:
-Quindi,
da quel che ho compreso, tutte le persone non attaccate dall'epidemia
ma soggette a malattie proprie sono in questa ala... ora abbiamo la
certezza che l'amico della stanza accanto non è
stato...epidemizzato.-
-Non
ne avevamo già la certezza?- domandai io, già sapendo cosa il mio
compagno avrebbe risposto:
-Così
ne siamo doppiamente certi. Comunque, non ti sembra strano che, da
quando è arrivato, il misterioso ospite è restato chiuso nella sua
stanza?-
Io
spostai quasi per moto istintivo lo sguardo verso la porta di fronte
alla nostra, rimurginando su ciò che Thomas aveva detto. In effetti
era un fatto curioso, non trovate? Anche noi eravamo malati, ma ci
era consentito di poter scorgere il corridoio. E si sa, l'aria fresca
fa sempre bene, redime il malato dal tanfo di malattia che lo pervade
quando sta davvero male.
Allora
perchè il misterioso ospite della camera 213 veniva tenuto
rinchiuso?
In
quel momento considerammo quel fatto assai curioso, senza nemmeno
immaginare cosa sarebbe accaduto dopo.
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Capitolo 4 *** IV ***
Circa due ore dopo queste assai strane
riflessioni, infine, giunse il nostro nuovo compagno, e subito
catturò la mia attenzione.
Aveva capelli così tanto biondi da
sembrare d'oro se colpiti dalla luce del sole e, come notai dopo, di
platino se investiti da raggi lunari. I suoi occhi erano dello stesso
identico colore, di un giallo così brillante da parere oro fuso.
Mi sorpresi costatando che doveva
essere un bambino di, al massimo, dieci anni, ma non fu quello che mi
stupì più di ogni altra cosa, facendomi comprendere che sarebbe
stato un più che ottimo compagno: quello che mi catturò fu il suo
sguardo. Non era sofferente come quello di Thomas, non deciso come
quello del dottore, non stanco come quello della maggior parte degli
infermieri che ci circondavano. Non avrei trovato altra parola per
definirlo diversa da: puro. Infantile, innocente e curioso in
apparenza, tremendamente saggio nel profondo, come se già alla sua
età avesse saputo tante cose della vita. E cristallino, come se non
temesse di celare i suoi pensieri.
Dopo lui giunse nella stanza il dottor
Smith con un sorriso tirato sul volto. Fu lui ad annunciare
frettolosamente il bambino:
-Signorina Albergail, signor Drimles,
vi presento il vostro nuovo compagno: John Chambers. Temo di non
poter restare con voi, sono da poco giunti altri malati...-
-Vada pure, dottore.- gli dissi con un
sorriso -Faccia ciò che può per loro.-
L'uomo se ne andò, lasciando me e
Thomas con il bambino. Lui sistemò una piccola valigetta blu scuro
accanto al suo letto, si sedette sopra esso e ci studiò per qualche
istante.
-Preferisco Jake.- annunciò quando
finì di osservarci. Fu spontaneo per me sorridergli mentre gli
dicevo:
-D'accordo, Jake. Io sono Elizabeth.-
-E io Thomas.- si presentò lui.
Stranamente quando lo guardai vidi che stava anche lui sorridendo
tranquillamente. Era la prima volta che un' espressione del genere
sostava sul suo volto, da quando ero arrivata all'ospedale, realizzai
con sorpresa.
Jake guardò sia me che lui con occhi
fin troppo meditabondi per la sua età.
-Vorrei tanto disegnarvi.- affermò
infine.
-Sai disegnare?- domandai io,
incuriosita, e lui annuì:
-Mio padre non me lo lascerà fare, ma
io voglio andare a studiare in una scuola d'arte, così diventerò
un'artista famoso e la gente capirà come vedo il mondo.-
-Perchè mai tuo padre non vorrebbe che
tu non facessi quella scuola?- chiese sensatamente Thomas.
Il bambino fece spallucce:
-Si preoccupa troppo per la mia salute,
teme che io non possa allontanarmi troppo. Sapete, soffro di una
malattia alquanto rara, anzi, è stata effettivamente classificata
come unica. Una volta ogni due mesi io divento d'oro.-
Calò un silenzio stupefatto. Confesso
che per un istante non gli credetti, tanto fu la sorpresa per quell'
affermazione, ma dovetti ricredermi guardandolo semplicemente negli
occhi.
Certo, era quasi palese. Come dargli
del bugiardo, quando le sue stesse iridi sembravano di oro puro?
-C'è una spiegazione per questo
avvenimento molto strano?- domandò Thomas, dopo essersi ripreso per
primo dalla sorpresa. Jake scosse la testa:
-So solo che accade. La prima volta che
successe mio padre temette che non sarei più tornato normale, ma
dopo tre giorni ritornai umano.-
-E come fu per te? Come passasti quei
tre giorni?- chiesi non riuscendo a trattenere la mia curiosità.
Jake sorrise:
-Per me fu come dormire. E' sempre
alquanto riposante, in effetti.-
-Allora non è una malattia
pericolosa.- notai rincuorata dal fatto che lui non corresse alcun
pericolo. Il bambino annuì:
-No, infatti. Ma mio padre non vuole
correre rischi. Teoricamente nei giorni che passo in ospedale
dovrebbero cercare un modo di curarmi, o almeno una spiegazione
logica su quello che mi accade, ma con questa epidemia non
progrediranno molto negli studi della malattia.-
-Allora non ci resta che riposare o
discorrere tra noi.- enunciò Thomas con un'espressione seria
-Propongo di cominciare con la seconda: hai notato o sentito qualcosa
di strano sulla camera 213?-
-Thomas!- lo richiamai subito,
sorpresa. Lui mi lanciò il suo sorrisetto:
-Perdonami, ma voglio assolutamente
venire a capo di questo mistero, quindi non mi lascerò sfuggire
alcuna informazione.-
Mi voltai verso Jake, temendo la sua
reazione alla fin troppo diretta domanda del nostro compagno di
stanza, ma il bambino non mi deluse: aveva un sorriso divertito e
sinceramente curioso sul volto infantile:
-Perchè, cosa c'è nella camera 213?-
In poco tempo lo misi al corrente delle
scarse informazioni che sapevamo, e quando terminai di narrare sul
volto di Jake si dipinse un sorriso che non compresi appieno, tra
l'interessato e il meditabondo.
-Secondo te qual è la vera natura
dell'ospite della stanza 213? Io ipotizzavo fosse un pazzo, ma sono
aperto ad altri pareri.- fece Thomas studiando il nostro nuovo
compagno di malattia. Il sorriso di Jake si ampliò:
-È
ovvio: lui è l'uomo nero.-
Lo guardai, cercando di interpretare la
sua strana risposta. Non riuscendo a spiegarmelo da sola, chiesi un
chiarimento su ciò che aveva detto:
-Cos'è l'uomo nero?-
Jake mi fissò con un sorriso ironico,
e Thomas domandò con tono incredulo:
-Non sai chi è l'uomo nero?-
Io ammiccai verso di lui, confusa:
-Ah, allora è una persona?-
Thomas alzò gli occhi al cielo, come
se non riuscisse a comprendere la mia confusione come io non riuscivo
a comprendere quello di cui loro stavano parlando. Infine, disse con
tono sorpreso:
-Cosa ti raccontavano, quando eri
bambina? Non conosci l'uomo nero?-
Io scossi la testa, e lui continuò:
-Cenerentola? Raperonzolo? La bella
addormentata? Cappuccetto rosso? Biancaneve?-
-Conosco una filastrocca, sulla neve.
C'entra qualcosa?- lo interruppi speranzosa, poi recitai -”Neve,
neve, scendi quaggiù, copri tutto, anche il Perù”...-
-Sì, la conosco anch'io.- intervenne
Jake ridendo allegro. La sua risata mi lasciò senza parole: era come
ascoltare delle campanelle di cristallo -Ma non c'entra niente con
Biancaneve. Quella è una principessa, è la protagonista di una
fiaba.-
-Allora...?- farfugliai, ancora più
confusa, e fu Jake a spiegare con lo stesso tono allegro di prima:
-Temo ci sia una divergenza di cultura
per la classe sociale, allora. Quelle sono fiabe di parecchi anni fa,
e vengono tramandate a voce. Dubito che i tuoi genitori te le abbiano
mai raccontate, giusto?-
-Temo tu abbia ragione, allora.-
sospirai, odiando come mi capitava spesso il mio rango di
aristocratica. Sapevo che era un comportamento meschino nei confronti
delle persone povere che soffrivano ogni giorno, ma non potevo farne
a meno.
Thomas si riscosse all'improvviso:
-Dicevamo...perchè hai detto che è
l'uomo nero?-
Jake fece spallucce con semplicità:
-Quando sono passato accanto alla
camera 213 ho avuto la stessa sensazione di quando passavo accanto a
un armadio in cui abitava l'uomo nero. È
una specie di mostro che si nasconde nei mobili o sotto il letto...
un mostro dei bimbini.- aggiunse poi a mio beneficio. Annuii, notando
appena che aveva usato “bimbini”, una parola vecchia di ere,
ormai. Anch'io, pensai, avevo avuto il mio personale uomo nero, da
piccola. Anche se non sapevo avesse quel nome, l'avevo avuto, e avevo
avuto paura, anzi, terrore, come ogni altro bambino. Era quello,
allora, che si annidava nella camera 213, secondo Jake?
L'uomo nero, l'incubo di bimbini e
adulti? L'incubo di tutti?
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Capitolo 5 *** V ***
La giornata passò oziosa e piacevole
al tempo stesso. Io occupai diverse ore leggendo un volume regalatomi
dai miei genitori, ma decisi di abbandonarlo quando Jake chiese a
Thomas di raccontargli qualche favola popolare. Il giovane era un
narratore fantastico, e in breve tempo acquistai tutto ciò che loro
dicevano avevo perduto durante la mia infanzia. Thomas ci raccontò
una ventina di quelle storie, così simili tra loro e dolci nel
sicuro lieto fine.
Avemmo conferma dell'abilità di Jake
nel disegno quando, nel momento in cui Thomas smise di raccontare, il
bambino ci mostrò le opere a cui aveva dato vita mentre l'altro
narrava. E, fidatevi, non era un'esagerazione chiamarle opere: il
tratto, i colori, le ombreggiature, la luce...ogni cosa era così
reale ed emanante una strana magia che, quando vidi la teca della
tomba di biancaneve, pensai che da un momento all'altro sarebbe
dovuto arrivare il principe azzurro.
Così passò la giornata. Giunse la
notte, e compresi infine che Jake aveva avuto ragione. Quello era
davvero l'uomo nero.
Ma per quella notte il fato non volle
che scoprissi la vera natura dell'ospite della camera 213, perchè
quando mi risvegliai, causa i caldi raggi del sole che entravano
dalla finestra e facevano brillare i capelli di Jake in modo
angelico, non ricordai nulla se non di aver avuto un terribile,
terribile sogno.
Solo quando, a metà giornata, Jake
chiese a Thomas se lui conoscesse altre storie interessanti, ebbi un
ricordo confuso. Come un flashback, ma non di un evento realmente
avvenuto, bensì di un sogno.
Stavo percorrendo un corridoio che non
avevo riconosciuto subito, ma dopo qualche istante avevo capito: era
il percorso per arrivare alla mia camera. E alla camera 213. Perchè
ero lì? Cos'avevo fatto, per arrivarci? E...cos'era quell'ombra
strana, al limite del mio campo visivo?
Ero giunta esattamente davanti alla
camera 213, chiusa. Mi chiedo ancora cosa sarebbe accaduto se fosse
stata aperta e se avessi visto cosa sostava in quella stanza
maledetta.
Le tre cifre che componevano il numero
della porta, notai subito, non erano del normale e apatico colore
grigio, ma di un'intenso oro. Sembravano quasi di oro appena fuso.
Avevo provato a sfiorarle ma con mia immensa sorpresa quelle cifre
avevano iniziato a colare davvero, a divenire informi mentre
rigagnoli di oro scendevano sulla superficie della porta.
E, improvvisamente, un rumore terribile
mi aveva fatto sobbalzare. Anche per quello avevo impiegato qualche
istante a capire, ma quando accadde mi si era accapponata la pelle
dalla paura. Perchè erano urla. Urla umane.
E provenivano dalla camera 213.
Il ricordo finì all'improvviso come
era cominciato: mi ritrovai di nuovo nella mia stanza, in compagnia
di Thomas e Jake, al sole. Loro mi fissavano allarmati, non capendo
perchè mi fossi incantata a fissare una parete per quasi un minuto,
senza nemmeno immaginare cosa avessi visto. Per parlare nel giusto,
però, devo aggiungere che uno di loro lo sapeva. Lo sapeva bene. Ma,
come dice un'antico detto, si scopre tutta la verità solo alla fine.
E, infatti, io scoprii tutto quella
notte, l'ultima passata nella stanza accanto alla camera 213.
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Capitolo 6 *** VI ***
Sognai ancora di percorrere il
corridoio dalle pareti candide e coperte da mille ombre. Lo riconobbi
una seconda volta come il percorso appena fuori la mia stanza. Di
giorno era popolato da mille medici e infermieri, ma in quel momento
pareva spettrale, invaso soltanto da una luce soffusa,
come quella della luna.
Inutile dire dove i miei piedi mi
dirigevano, decisamente non di mia volontà: raggiunsi la camera 213.
Le lettere che designavano la porta di
essa non erano d'oro, quella volta, e per quella mancanza in me
nacque un sospetto che avrebbe trovato conferma entro poco,
pochissimo tempo.
Perchè la porta era socchiusa, e
sapevo che l'avrei attraversata.
Difatti la aprii piano, lentamente,
come se il timore dell'anima si rispecchiasse nel mio corpo, benchè
esso non fosse più sotto il mio controllo. Perchè, statene certi,
se avessi potuto avrei ordinato in quell'attimo alle mie gambe di
trasportarmi il più lontano possibile da lì. Nonostante non abbia
mai fatto niente di veramente coraggioso nella mia vita (come
sacrificarmi per qualcuno, ad esempio) mi reputo una persona che non
si spaventa facilmente e affronto tutto ciò che mi si para
davanti... beh, quella notte non ero spaventata, ero terrorizzata.
Perchè ciò che vidi andava ben oltre
il coraggio umano.
Era come la mia stanza, solo con un
letto solitario e un carrello di medicinali per schizofrenici in un
angolo. L'ospite della camera 213 era un giovane, in quel momento
sotto le calde coperte del letto. Ma il suo viso era esposto, perciò
mi fu impossibile non riconoscerlo subito.
Eppure non c'era alcuna caratteristica
che potesse rendermelo noto: aveva il volto affilato, pallido e
scavato, con la pelle tirata sugli zigomi; i suoi capelli erano fini,
lunghi fino alle spalle e mossi, e candidi come la neve, anche se
l'uomo non pareva così vecchio, anzi; anche se coperto, il suo corpo
era evidentemente esile, quasi denutrito.
Mi chiesi perchè, appena avevo posato
gli occhi su di lui, l'avessi paragonato a quella persona, ma dopo un
istante le sue palpebre si sollevarono e le sue pupille sfocate si
posarono su di me.
E compresi.
Tentò di dirmi qualcosa, ma dalle
labbra socchiuse non uscì alcuna parola, solo un rantolo soffocato.
Ma il messaggio mi fu chiaro, perchè me lo comunicava attraverso i
suoi occhi.
I suoi occhi d'oro.
-Però, non pensavo fossi così potente
da poter giungere fino a questo mondo desolato. Complimenti, mia
signora.-
Improvvisamente riacquistai il
controllo sul mio corpo. E decisi di voltarmi verso chi aveva parlato
con enorme, enorme paura, ma desideravo guardarlo in faccia.
Perchè, nel mio subconscio, avevo già
capito che colui che sostava di fronte a me con un sorrisetto
divertito non era lo stesso bambino che aveva mostrato a me e a
Thomas le sue opere quel giorno, no, lui era peggio.
Lui era l'uomo nero.
I suoi occhi d'oro, uguali a quelli del
giovane della camera 213, brillarono di una luce soprannaturale
mentre continuava:
-Certamente ora non ti metterai a
piangere o a supplicarmi di salvarti la vita, temo. Tu sei diversa,
mia signora, porterai grandi cose. Per questo motivo ti concedo di
vivere.
Ma rammenta, mia signora, il dono della
vita è prezioso, il più prezioso esistente, e per questo va pagato.
Stai tranquilla, però: sarò io a riscuotere il prezzo, nel futuro.-
Si avvicinò di qualche passo,
fermandosi solo quando fu a un metro da me. Era basso, era un
bambino, ma era tremendamente minaccioso. Anzi, no, non minaccioso.
Era semplicemente immenso nella sua non appartenenza a questo mondo.
Era una bestia pericolosa, e come tale
aveva fame.
Tese la mano destra e afferrò la mia
sinistra, lasciata inerte lungo il fianco, poiché il corpo mi aveva
ancora abbandonata, poi me la strinse come per salutarmi.
-Arrivederci, mia signora. Ci
rincontreremo presto, più di quanto ti aspetti.-
Quando la sua mano mi abbandonò le
ombre si strinsero attorno a me fino a inghiottirmi.
L'ultima cosa che vidi furono gli occhi
sofferenti dell'innocente ospite della camera 213.
Poi le tenebre m'inghiottirono
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Capitolo 7 *** VII ***
Mi risvegliai il giorno dopo, ma a
differenza della mattina precedente mi ricordai ogni singolo
dettaglio di quell'incubo terribile.
Ovviamente appena aprii gli occhi mi
voltai verso il letto di Jake, o meglio, di quella bestia, ma quasi
non mi sorpresi quando lo vidi vuoto e pulito come se non fosse mai
stato occupato.
Thomas si mostrò sorpreso quando vide
che il nostro simpatico compagno di camera non c'era più , e appena
ne ebbe l'occasione chiese spiegazioni al caro dottor Smith. Ancora
più ovviamente, lui si mostrò sorpreso e disse che non avevano mai
ospitato Jake Chambers in quella stanza, come se gli fosse stato
cancellato il ricordo di lui, come se gli fosse stata lanciata una
maledizione.
Thomas si mostrò incredulo per
quell'affermazione, e il suo stupore si accrebbe quando io diedi
ragione al medico, dicendo a quello che in pochi giorni era divenuto
un amico che probabilmente aveva solo fatto un brutto giorno.
Lui decise di credermi, ma intuii che,
nel profondo, sapeva che Jake Chambers non era stato un sogno, e
neanche l'ospite misterioso della camera 213. Perchè, come scoprimmo
presto, anche lui era scomparso, sia dalla sua stanza che dalla
memoria delle persone. Ma non di noi due.
Dopo una settimana potei tornare a
casa. Causa l'ambiente familiare o la compagnia della mia cara
sorella maggiore, sia gli strani fatti accaduti nel mio soggiorno
all'ospedale sia il mio presunto incubo vennero accantonati in un
posto recondito nella mia mente.
Ma non vennero mai cancellati.
Durante le notti segnate da giornate
pesanti o sofferenti, mi capitò ancora di sognare tutto quello che
era accaduto. In altre notti sognai solo Jake, quel bambino
innocente, quella bestia, che mi diceva di aspettarlo perchè sarebbe
venuto a trovarmi, solo una volta, la mia ultima volta...
Due anni dopo quei funesti avvenimenti,
ricevetti un dono da un mittente misterioso. Un disegno che riconobbi
subito.
Il tratto, i colori, le ombreggiature,
la luce...la teca della tomba di Biancaneve... e quell'ombra nascosta
dietro a un albero dello sfondo. Pareva la figura di un uomo, ma io
compresi subito ciò che era per il luccichio d'oro all'altezza degli
occhi.
Bruciai il disegno la notte stessa, e
stranamente dormii saporitamente. Solo il giorno dopo pensai che
dovevo confidarmi con qualcuno, qualcuno che mi credesse, ma non
c'era nessuno. Thomas si era ricongiunto alla sua amata l'inverno
precedente, la mia famiglia mi avrebbe rimandata all'ospedale.
E io, dopo essere guarita dalla
malattia, non volevo di certo tornarci.
Perchè sapevo che, se fossi stata
ricoverata ancora, sarei stata la nuova ospite di una stanza che
popolava i miei incubi.
E nessuno può salvarsi dal mostro che
abita la camera 213.
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