Il mistero della camera 213

di Alexis Cage
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***



Capitolo 1
*** I ***


Dovete sapere che nella giovinezza patii una rara malattia per cui due volte all’anno, una settimana ognuna, la mia forza calava così tanto che potevo soltanto muovermi in una piccola stanza per poco tempo, e se esageravo rischiavo di svenire.

In quelle due settimane venivo inviata dalla mia villa all’ospedale della Corona, il migliore mai costruito, e lì venivo controllata dai dottori più bravi grazie alla rendita di mio padre.

Fatto sta che, sei anni fa, come penso voi ricordiate, giunse la grande epidemia: un’ondata di malattia che non compariva con così forza da almeno tre secoli. Ovviamente i miei genitori spinsero affinchè per me ci fosse il miglior trattamento ma quando arrivai all’ospedale preferii, a loro insaputa, trasferirmi in una stanza comune, lasciando la più lussuosa a chi ne aveva davvero bisogno. Fu così che mi stabilii nella camera 208. Vi parrà strano, ma la prima cosa che notai fu che la stanza di fronte alla mia non era, come di consuetudine, la 209, ma era targata 213, come se avessero sbagliato a sistemare le stanze nel corridoio e le porte dalla mia parte fossero in ritardo, o quelle dall’altra in anticipo.

Mi avevano avvisato che la mia nuova dimora era una stanza comune sia ai maschi che alle femmine e che garantivano la massima discrezione; per questo non ero preoccupata ma rimasi lo stesso sorpresa vedendo, entrando, il mio nuovo compagno di stanza.

Era un giovane di venticinque anni pallido come un cadavere, aspetto accentuato dai capelli neri e dalle occhiaie dello stesso tono di colore, e aveva occhi di carbone che sembravano essere stati decisi, un tempo, ma che in quel momento erano solamente vuoti. Notai in un secondo tempo che le sue mani e i suoi piedi erano legati al letto, ma mi sembrò un fattore non importante quanto la vacuità di quello sguardo. Non riuscii a staccare gli occhi da lui mentre degli infermieri portavano i miei bagagli nella stanza, azione che avrei fatto volentieri io se ne avessi avuto le forze.

Mi stabilii sul letto con una leggera camicia da notte e mi venne detto che il medico sarebbe arrivato solo dopo mezz’ora per causa dell’avvento di altri malati: io risposi che avrei aspettato di più, se qualcun altro avesse avuto bisogno del dottore. Così, quando rimasi nella stanza sola col mio silenzioso compagno, iniziai a guardarmi intorno: notai che il letto alla mia sinistra, quello vicino alla finestra, era lindo come se fosse vuoto da tempo, ma accanto era posato un quaderno medico; così conclusi che forse sarebbe arrivato un nuovo compagno e mi prefissi di chiederlo al dottore per pura curiosità. Vidi che la luce del sole filtrava piacevolmente dalla finestra, che le nuvole si stavano addensando nel cielo e che gli armadi della stanza erano quasi vuoti.

Mi volsi verso il mio compagno e iniziai a studiare anche lui. Il suo sguardo era ancora perso, ma non più vuoto: sembrava immerso in pensieri reconditi e immensi, come se cercasse di vedere qualcosa ma non potesse perché era troppo lontano.

Improvvisamente voltò la testa verso di me. Non sembrava sorpreso dal fatto che lo stessi guardando, pareva essersene accorto sin da subito.

Mi osservò per qualche istante e io per rompere il silenzio decisi di presentarmi, ma lui mi anticipò.

-Se una persona ti aspettasse, tu andresti da lei?-

Io lo guardai sorpresa, non pronta a sentire posta una domanda. Capendo che il giovane era serio, riflettei per qualche secondo e risposi:

-Sì, certo, se lei mi attende con tutto il cuore.-

-Anche se fosse nel luogo più lontano dell’universo?- domandò ancora il giovane. Io lo guardai, riflettendo ancora:

-Ovviamente.-

Comparve una smorfia disperata sul volto del giovane, e mi spaventai vedendo ciò che lo dominava: tristezza, incurabile tristezza.

-Anche gli altri hanno risposto così, sai? Allora perché non mi lasciano andare da Isabelle? Lei è lontana, ma la posso raggiungere velocemente. Perché non me lo permettono?-

Distolse lo sguardo dal mio volto e si perse con gli occhi nell’azzurro del cielo, con la mente oltre, verso le nuvole, verso Isabelle. Vedete, io sono sempre stata empatica verso ogni forma di sofferenza; penso sia stato per questo che capii subito cosa aveva distrutto il giovane. Isabelle era lontana e lui voleva raggiungerla, ma tutti glielo impedivano. È così ovvio, non credete?

-Ho tentato di ammazzarmi due volte.- annunciò con tono neutro e non spostando gli occhi dal cielo e dalle nuvole –Dopo la seconda mi hanno legato. Ho provato un’altra volta, ma ho fallito.-

-L’ho notato.- replicai. Non riuscivo a non sentirmi affascinata da quel giovane che amava ancora così tanto una donna da volerla raggiungere anche nel posto dove si pensava fosse impossibile arrivare. Aveva una disperazione strana negli occhi, una disperazione folle, è vero, ma quella era la conseguenza della sua prigionia. No, non era folle. Era solo frustato perché non poteva tornare da Isabelle.

In quel momento sentii delle voci di alcune persone che si avvicinavano alla nostra stanza. Il giovane spostò gli occhi su di me, poi disse:

-Comunque, io sono Thomas. Thomas Drimles.-

-Elizabeth Albergail.- risposi. Ero abituata a ricevere sguardi sorpresi, impauriti o adoranti quando le persone sentivano il mio nome, ma non fui stupita quando lui replicò soltanto:

-È stato piacevole parlare con te, grazie di avermi ascoltato. Molti non lo fanno.-

-Grazie a te di avermi parlato.- dissi con un sorriso. Mi piaceva, sentivo che sarebbe stato un buon compagno.

Entrò nella stanza il dottore, un uomo di quarant’anni con lo sguardo deciso e le spalle larghe come se dovesse sostenere un’enorme responsabilità. Capii che era un brav’uomo solo vedendo come camminava, con un passo stanco ma allo stesso tempo sicuro, come se fosse stremato dal suo compito ma volesse comunque continuare a farlo, come un vero eroe.

-Buongiorno, signorina Albergail.- mi salutò appena mi vide. Notai un guizzo divertito nei suoi occhi mentre diceva con tono stanco:

-Mi perdoni se non le reco i giusti convenevoli, ma sono alquanto stremato.-

-Dottore, mi offenderei se occupasse il tempo a recarmi i giusti convenevoli non curando le persone.- replicai con un sorriso. Odiavo –e odio tuttora- essere di peso alla gente, quindi cercai di mettere subito in chiaro che non doveva perdere tempo con me. Il dottore sorrise, l’ironia scomparsa dal suo sguardo:

-Grazie, signorina. Io sono Samuel Smith, suo dottore. Cercherò di occuparmi di lei durante il suo soggiorno, anche se c’è l’epidemia.-

-Si preoccupi per prima cosa dei veri malati, Dottor Smith.- dissi io sorridendo tranquilla –Io sto bene, mi basta non alzarmi troppe volte.-

Il dottore mi fece un leggero inchino con la testa:

-La ringrazio ancora, signorina. Ora,- fece lui volgendosi verso Thomas – temo che dovrò occuparmi di lei, signor Drimles. Come si sente?-

-Vivo.- rispose l’interpellato con un tono che dimostrava il suo desiderio di essere tutt’altro che vivo. Il dottore sorrise con calma, come se fosse abituato al palese astio del giovane:

-Dio ci perdoni per questo, signore mio. Allora le corde funzionano bene? Ottimo.-

-Per lei.- mormorò Thomas con tono sofferente. Il dottore si volse verso di me e mi disse volendomi rassicurare:

-Non la disturberà, non è malvagio, odia solo i dottori.-

-Mi tenete prigioniero.- osservò Thomas. Il dottore gli lanciò un’occhiataccia quasi paterna:

-È per il suo bene, non lo dimentichi.-

Il dottor Smith si diresse verso la porta e disse per salutarci:

-Passerò domani mattina a chiaccherare ancora con voi.-

Quando lui se ne fu andato io osservai il mio compagno di stanza, pensosa. Lui se ne accorse e mi chiese:

-C’è qualcosa che ti turba?-

-Perché li odi?- chiesi non riuscendo a capacitarmi del suo sentimento –Loro tentano di aiutarti.-

-C’è un solo modo per aiutarmi.- replicò subito lui. Io scossi la testa:

-Ma loro pensano che questo sia il modo migliore. Non dovresti provare così tanto astio per loro, non vogliono il tuo male, anzi.-

Thomas fece spallucce:

-Se non riescono a capire che questa non è la cura giusta per me, allora non sono degni dottori capaci di curare davvero le persone.-

Non seppi cosa ribattere.



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Capitolo 2
*** II ***


Le ore scorsero veloci come pagine sfogliate di un libro, accavallandosi l’un l’altra tra brevi momenti di sonno e osservazioni su quello che accadeva nel corridoio.

Riemersi da un placido dormiveglia quando ormai il Sole era calato, e mi accorsi subito che era cambiato qualcosa: c’era fermento, nel corridoi. Sentivo passi affrettati di tante persone e quasi percepivo la preoccupazione che aleggiava nell’aria, e subito mi preoccupai non poco: che fosse accaduto qualcosa di grave?

Scorsi attraverso la porta la stanza di fronte alla mia, la camera 213, preparata con un tavolo di innumerevoli medicine e un letto grande due volte il mio.

-Cos’è accaduto?- domandai al mio compagno, vigile accanto a me. Thomas scosse la testa:

-Non ne ho la più pallida idea. Da un’ora ormai stanno scalpitando tutti per i corridoi, ma da quello che sono riuscito a sentire non c’è stato un’incidente con molte vittime: la vittima è solo un malcapitato, l’assassina una malattia incurabile.-

-E perché mai ci sarebbe bisogno di così tante persone?- mi chiesi riflettendo confusa. La situazione risvegliava la mia naturale, e a volte esuberante, curiosità, costretta alla prigionia per la mia malattia che non mi permetteva di fare ciò che volevo.

Thomas scosse ancora la testa:

-Non ho una risposta. Ma una domanda sorge nella mia mente, e visto che a quanto pare sono pazzo non posso tenerla lontana dalla mia bocca, quindi dico: perché mi pare che siano tutti molto preoccupati?-

-La vittima è forse una persona importante?- ipotizzai.

-Anche tu lo sei.- obbiettò Thomas con un sorrisetto –Ma a causa dell’epidemia i medici sono costretti a non interessarsi troppo all’erede della più nobile stirpe.-

Io annuii e continuai:

-Potrebbe essere una malattia contagiosa, ma dubito possa essere limitata da una porta, non posizionerebbero una persona pericolosa così vicino agli altri pazienti. Allora qual è la risposta?-

-La risposta è la pazzia.- enunciò Tomas con voce solenne –Del problema l’unica via.-

-Ne dubito.- obbiettai subito, ma quella mi parve la soluzione più logica. Che fosse una persona malata mentalmente che poteva diventare pericolosa? Allora perché il mio animo mi aveva portato a rispondere così a Thomas?

Lui sorrise semplicemente scuotendo la testa, come se sapesse qualcosa di cui io non ero a conoscenza. Feci per chiedere una spiegazione della sua strana espressione quando entrò qualcuno nella stanza: il Dottor Smith, l’unico nostro contatto col mondo al di fuori della camera.

-Tutto bene?- chiese scandagliando entrambi noi pazienti con occhi attenti – C’è stato qualche problema?-

Era rivolto a me e si stava evidentemente riferendo a Thomas, che ostentava un’espressione indifferente. Io scossi la testa con un sorriso:

-L’accoglienza è ottima, la compagnia sublime. Solo una cosa mi turba.-

-Mi dica, mi dica, signorina.- mi esortò subito lui, preoccupato. Io sorrisi ancora per calmarlo:

-Non è un problema della mia persona, ma non riesco a trattenere la mia curiosità e ho notato molto fermento nel corridoi. È accaduto qualcosa?-

Il volto del Dottor Smith venne attraversato per un singolo istante da un’ombra d’inquietudine che non mi sfuggì, poi rispose con un sorriso tranquillo:

-Solo un paziente che ha bisogno di molte cure, ma non vi recherà problemi.-

Gettò un’occhiata veloce al corridoio ed esclamò con rammarico:

-Temo di dover lasciare la vostra presenza, tra poco lui giungerà qui. Vi auguro dei sogni splendenti.-

Quando fu uscito, chiudendosi la porta alle spalle, Thomas sembrò riprendere vita. La sua espressione indifferente divenne subito sarcastica:

-“Lui”…eh? Allora, secondo te è un folle o un mutante?-

Feci un sorriso forzato:

-Entrambi?-

Thomas annuì, quasi compiaciuto dalla mia risposta, e senza annunziare niente chiuse gli occhi e il suo respiro divenne più lento.

Io purtroppo non ho mai posseduto l’innata capacità di addormentarmi subito e quindi anche quando, mezz’ora dopo, giunse un’infermiera ad abbassare le luci per la notte, io ero ancora sveglia e restai tale per un’altra ora. Sentii chiaramente quando, poco dopo la mezzanotte, giunsero dei sussurri dal corridoio e una porta venne aperta e chiusa dopo poco tempo: era arrivato il nuovo paziente.

Di certo la mia incapacità soporifera in quel momento era influenzata dai mille pensieri che mi vorticavano nella mente non concedendole il riposo.

Perché il Dottor Smith aveva mentito? Chi era l’ospite della camera 213? E perché pensando a lui non riuscivo a trattenere l’inquietudine?

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Capitolo 3
*** III ***


Il giorno dopo appena riuscii a liberarmi dalla soffice coltre del sonno venni messa a conoscenza di un fatto che io trovai entusiasmante: entro quella stessa mattina sarebbe giunto un nuovo compagno di stanza. Il dottor Smith mi pregò con rammarico di perdonarlo, poiché ero costretta a condividere il soggiorno con due maschi causa l'epidemia che costringeva l'ospedale a spostare in una sola ala tutte le persone soggette a malattie, come dire, normali.

Io ovviamente non me ne preoccupai grandemente. Thomas non mi aveva recato disturbo, anzi, e prevedevo che il nuovo ospite sarebbe stato un' ottima compagnia quanto lui. Thomas, dal canto suo, si mostrò indifferente, commentando che bastava che il nuovo arrivato non fosse una persona sgradevole.
Appena il dottore abbandonò la nostra stanza il mio primo e attuale compagno mi gettò un'occhiata ironica, del genere che ormai avevo classificato come suo:

-Quindi, da quel che ho compreso, tutte le persone non attaccate dall'epidemia ma soggette a malattie proprie sono in questa ala... ora abbiamo la certezza che l'amico della stanza accanto non è stato...epidemizzato.-

-Non ne avevamo già la certezza?- domandai io, già sapendo cosa il mio compagno avrebbe risposto:

-Così ne siamo doppiamente certi. Comunque, non ti sembra strano che, da quando è arrivato, il misterioso ospite è restato chiuso nella sua stanza?-

Io spostai quasi per moto istintivo lo sguardo verso la porta di fronte alla nostra, rimurginando su ciò che Thomas aveva detto. In effetti era un fatto curioso, non trovate? Anche noi eravamo malati, ma ci era consentito di poter scorgere il corridoio. E si sa, l'aria fresca fa sempre bene, redime il malato dal tanfo di malattia che lo pervade quando sta davvero male.

Allora perchè il misterioso ospite della camera 213 veniva tenuto rinchiuso?

In quel momento considerammo quel fatto assai curioso, senza nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto dopo.

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Capitolo 4
*** IV ***


Circa due ore dopo queste assai strane riflessioni, infine, giunse il nostro nuovo compagno, e subito catturò la mia attenzione.

Aveva capelli così tanto biondi da sembrare d'oro se colpiti dalla luce del sole e, come notai dopo, di platino se investiti da raggi lunari. I suoi occhi erano dello stesso identico colore, di un giallo così brillante da parere oro fuso.

Mi sorpresi costatando che doveva essere un bambino di, al massimo, dieci anni, ma non fu quello che mi stupì più di ogni altra cosa, facendomi comprendere che sarebbe stato un più che ottimo compagno: quello che mi catturò fu il suo sguardo. Non era sofferente come quello di Thomas, non deciso come quello del dottore, non stanco come quello della maggior parte degli infermieri che ci circondavano. Non avrei trovato altra parola per definirlo diversa da: puro. Infantile, innocente e curioso in apparenza, tremendamente saggio nel profondo, come se già alla sua età avesse saputo tante cose della vita. E cristallino, come se non temesse di celare i suoi pensieri.

Dopo lui giunse nella stanza il dottor Smith con un sorriso tirato sul volto. Fu lui ad annunciare frettolosamente il bambino:

-Signorina Albergail, signor Drimles, vi presento il vostro nuovo compagno: John Chambers. Temo di non poter restare con voi, sono da poco giunti altri malati...-

-Vada pure, dottore.- gli dissi con un sorriso -Faccia ciò che può per loro.-

L'uomo se ne andò, lasciando me e Thomas con il bambino. Lui sistemò una piccola valigetta blu scuro accanto al suo letto, si sedette sopra esso e ci studiò per qualche istante.

-Preferisco Jake.- annunciò quando finì di osservarci. Fu spontaneo per me sorridergli mentre gli dicevo:

-D'accordo, Jake. Io sono Elizabeth.-

-E io Thomas.- si presentò lui. Stranamente quando lo guardai vidi che stava anche lui sorridendo tranquillamente. Era la prima volta che un' espressione del genere sostava sul suo volto, da quando ero arrivata all'ospedale, realizzai con sorpresa.

Jake guardò sia me che lui con occhi fin troppo meditabondi per la sua età.

-Vorrei tanto disegnarvi.- affermò infine.

-Sai disegnare?- domandai io, incuriosita, e lui annuì:

-Mio padre non me lo lascerà fare, ma io voglio andare a studiare in una scuola d'arte, così diventerò un'artista famoso e la gente capirà come vedo il mondo.-

-Perchè mai tuo padre non vorrebbe che tu non facessi quella scuola?- chiese sensatamente Thomas.

Il bambino fece spallucce:

-Si preoccupa troppo per la mia salute, teme che io non possa allontanarmi troppo. Sapete, soffro di una malattia alquanto rara, anzi, è stata effettivamente classificata come unica. Una volta ogni due mesi io divento d'oro.-

Calò un silenzio stupefatto. Confesso che per un istante non gli credetti, tanto fu la sorpresa per quell' affermazione, ma dovetti ricredermi guardandolo semplicemente negli occhi.

Certo, era quasi palese. Come dargli del bugiardo, quando le sue stesse iridi sembravano di oro puro?

-C'è una spiegazione per questo avvenimento molto strano?- domandò Thomas, dopo essersi ripreso per primo dalla sorpresa. Jake scosse la testa:

-So solo che accade. La prima volta che successe mio padre temette che non sarei più tornato normale, ma dopo tre giorni ritornai umano.-

-E come fu per te? Come passasti quei tre giorni?- chiesi non riuscendo a trattenere la mia curiosità. Jake sorrise:

-Per me fu come dormire. E' sempre alquanto riposante, in effetti.-

-Allora non è una malattia pericolosa.- notai rincuorata dal fatto che lui non corresse alcun pericolo. Il bambino annuì:

-No, infatti. Ma mio padre non vuole correre rischi. Teoricamente nei giorni che passo in ospedale dovrebbero cercare un modo di curarmi, o almeno una spiegazione logica su quello che mi accade, ma con questa epidemia non progrediranno molto negli studi della malattia.-

-Allora non ci resta che riposare o discorrere tra noi.- enunciò Thomas con un'espressione seria -Propongo di cominciare con la seconda: hai notato o sentito qualcosa di strano sulla camera 213?-

-Thomas!- lo richiamai subito, sorpresa. Lui mi lanciò il suo sorrisetto:

-Perdonami, ma voglio assolutamente venire a capo di questo mistero, quindi non mi lascerò sfuggire alcuna informazione.-

Mi voltai verso Jake, temendo la sua reazione alla fin troppo diretta domanda del nostro compagno di stanza, ma il bambino non mi deluse: aveva un sorriso divertito e sinceramente curioso sul volto infantile:

-Perchè, cosa c'è nella camera 213?-

In poco tempo lo misi al corrente delle scarse informazioni che sapevamo, e quando terminai di narrare sul volto di Jake si dipinse un sorriso che non compresi appieno, tra l'interessato e il meditabondo.

-Secondo te qual è la vera natura dell'ospite della stanza 213? Io ipotizzavo fosse un pazzo, ma sono aperto ad altri pareri.- fece Thomas studiando il nostro nuovo compagno di malattia. Il sorriso di Jake si ampliò:

-È ovvio: lui è l'uomo nero.-

Lo guardai, cercando di interpretare la sua strana risposta. Non riuscendo a spiegarmelo da sola, chiesi un chiarimento su ciò che aveva detto:

-Cos'è l'uomo nero?-

Jake mi fissò con un sorriso ironico, e Thomas domandò con tono incredulo:

-Non sai chi è l'uomo nero?-

Io ammiccai verso di lui, confusa:

-Ah, allora è una persona?-

Thomas alzò gli occhi al cielo, come se non riuscisse a comprendere la mia confusione come io non riuscivo a comprendere quello di cui loro stavano parlando. Infine, disse con tono sorpreso:

-Cosa ti raccontavano, quando eri bambina? Non conosci l'uomo nero?-

Io scossi la testa, e lui continuò:

-Cenerentola? Raperonzolo? La bella addormentata? Cappuccetto rosso? Biancaneve?-

-Conosco una filastrocca, sulla neve. C'entra qualcosa?- lo interruppi speranzosa, poi recitai -”Neve, neve, scendi quaggiù, copri tutto, anche il Perù”...-

-Sì, la conosco anch'io.- intervenne Jake ridendo allegro. La sua risata mi lasciò senza parole: era come ascoltare delle campanelle di cristallo -Ma non c'entra niente con Biancaneve. Quella è una principessa, è la protagonista di una fiaba.-

-Allora...?- farfugliai, ancora più confusa, e fu Jake a spiegare con lo stesso tono allegro di prima:

-Temo ci sia una divergenza di cultura per la classe sociale, allora. Quelle sono fiabe di parecchi anni fa, e vengono tramandate a voce. Dubito che i tuoi genitori te le abbiano mai raccontate, giusto?-

-Temo tu abbia ragione, allora.- sospirai, odiando come mi capitava spesso il mio rango di aristocratica. Sapevo che era un comportamento meschino nei confronti delle persone povere che soffrivano ogni giorno, ma non potevo farne a meno.

Thomas si riscosse all'improvviso:

-Dicevamo...perchè hai detto che è l'uomo nero?-

Jake fece spallucce con semplicità:

-Quando sono passato accanto alla camera 213 ho avuto la stessa sensazione di quando passavo accanto a un armadio in cui abitava l'uomo nero. È una specie di mostro che si nasconde nei mobili o sotto il letto... un mostro dei bimbini.- aggiunse poi a mio beneficio. Annuii, notando appena che aveva usato “bimbini”, una parola vecchia di ere, ormai. Anch'io, pensai, avevo avuto il mio personale uomo nero, da piccola. Anche se non sapevo avesse quel nome, l'avevo avuto, e avevo avuto paura, anzi, terrore, come ogni altro bambino. Era quello, allora, che si annidava nella camera 213, secondo Jake?

L'uomo nero, l'incubo di bimbini e adulti? L'incubo di tutti?


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Capitolo 5
*** V ***


La giornata passò oziosa e piacevole al tempo stesso. Io occupai diverse ore leggendo un volume regalatomi dai miei genitori, ma decisi di abbandonarlo quando Jake chiese a Thomas di raccontargli qualche favola popolare. Il giovane era un narratore fantastico, e in breve tempo acquistai tutto ciò che loro dicevano avevo perduto durante la mia infanzia. Thomas ci raccontò una ventina di quelle storie, così simili tra loro e dolci nel sicuro lieto fine.

Avemmo conferma dell'abilità di Jake nel disegno quando, nel momento in cui Thomas smise di raccontare, il bambino ci mostrò le opere a cui aveva dato vita mentre l'altro narrava. E, fidatevi, non era un'esagerazione chiamarle opere: il tratto, i colori, le ombreggiature, la luce...ogni cosa era così reale ed emanante una strana magia che, quando vidi la teca della tomba di biancaneve, pensai che da un momento all'altro sarebbe dovuto arrivare il principe azzurro.

Così passò la giornata. Giunse la notte, e compresi infine che Jake aveva avuto ragione. Quello era davvero l'uomo nero.

Ma per quella notte il fato non volle che scoprissi la vera natura dell'ospite della camera 213, perchè quando mi risvegliai, causa i caldi raggi del sole che entravano dalla finestra e facevano brillare i capelli di Jake in modo angelico, non ricordai nulla se non di aver avuto un terribile, terribile sogno.

Solo quando, a metà giornata, Jake chiese a Thomas se lui conoscesse altre storie interessanti, ebbi un ricordo confuso. Come un flashback, ma non di un evento realmente avvenuto, bensì di un sogno.

Stavo percorrendo un corridoio che non avevo riconosciuto subito, ma dopo qualche istante avevo capito: era il percorso per arrivare alla mia camera. E alla camera 213. Perchè ero lì? Cos'avevo fatto, per arrivarci? E...cos'era quell'ombra strana, al limite del mio campo visivo?

Ero giunta esattamente davanti alla camera 213, chiusa. Mi chiedo ancora cosa sarebbe accaduto se fosse stata aperta e se avessi visto cosa sostava in quella stanza maledetta.

Le tre cifre che componevano il numero della porta, notai subito, non erano del normale e apatico colore grigio, ma di un'intenso oro. Sembravano quasi di oro appena fuso. Avevo provato a sfiorarle ma con mia immensa sorpresa quelle cifre avevano iniziato a colare davvero, a divenire informi mentre rigagnoli di oro scendevano sulla superficie della porta.

E, improvvisamente, un rumore terribile mi aveva fatto sobbalzare. Anche per quello avevo impiegato qualche istante a capire, ma quando accadde mi si era accapponata la pelle dalla paura. Perchè erano urla. Urla umane.

E provenivano dalla camera 213.

Il ricordo finì all'improvviso come era cominciato: mi ritrovai di nuovo nella mia stanza, in compagnia di Thomas e Jake, al sole. Loro mi fissavano allarmati, non capendo perchè mi fossi incantata a fissare una parete per quasi un minuto, senza nemmeno immaginare cosa avessi visto. Per parlare nel giusto, però, devo aggiungere che uno di loro lo sapeva. Lo sapeva bene. Ma, come dice un'antico detto, si scopre tutta la verità solo alla fine.

E, infatti, io scoprii tutto quella notte, l'ultima passata nella stanza accanto alla camera 213.


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Capitolo 6
*** VI ***


Sognai ancora di percorrere il corridoio dalle pareti candide e coperte da mille ombre. Lo riconobbi una seconda volta come il percorso appena fuori la mia stanza. Di giorno era popolato da mille medici e infermieri, ma in quel momento pareva spettrale, invaso soltanto da una luce soffusa, come quella della luna.

Inutile dire dove i miei piedi mi dirigevano, decisamente non di mia volontà: raggiunsi la camera 213.

Le lettere che designavano la porta di essa non erano d'oro, quella volta, e per quella mancanza in me nacque un sospetto che avrebbe trovato conferma entro poco, pochissimo tempo.

Perchè la porta era socchiusa, e sapevo che l'avrei attraversata.

Difatti la aprii piano, lentamente, come se il timore dell'anima si rispecchiasse nel mio corpo, benchè esso non fosse più sotto il mio controllo. Perchè, statene certi, se avessi potuto avrei ordinato in quell'attimo alle mie gambe di trasportarmi il più lontano possibile da lì. Nonostante non abbia mai fatto niente di veramente coraggioso nella mia vita (come sacrificarmi per qualcuno, ad esempio) mi reputo una persona che non si spaventa facilmente e affronto tutto ciò che mi si para davanti... beh, quella notte non ero spaventata, ero terrorizzata.

Perchè ciò che vidi andava ben oltre il coraggio umano.

Era come la mia stanza, solo con un letto solitario e un carrello di medicinali per schizofrenici in un angolo. L'ospite della camera 213 era un giovane, in quel momento sotto le calde coperte del letto. Ma il suo viso era esposto, perciò mi fu impossibile non riconoscerlo subito.

Eppure non c'era alcuna caratteristica che potesse rendermelo noto: aveva il volto affilato, pallido e scavato, con la pelle tirata sugli zigomi; i suoi capelli erano fini, lunghi fino alle spalle e mossi, e candidi come la neve, anche se l'uomo non pareva così vecchio, anzi; anche se coperto, il suo corpo era evidentemente esile, quasi denutrito.

Mi chiesi perchè, appena avevo posato gli occhi su di lui, l'avessi paragonato a quella persona, ma dopo un istante le sue palpebre si sollevarono e le sue pupille sfocate si posarono su di me.

E compresi.

Tentò di dirmi qualcosa, ma dalle labbra socchiuse non uscì alcuna parola, solo un rantolo soffocato. Ma il messaggio mi fu chiaro, perchè me lo comunicava attraverso i suoi occhi.

I suoi occhi d'oro.

-Però, non pensavo fossi così potente da poter giungere fino a questo mondo desolato. Complimenti, mia signora.-

Improvvisamente riacquistai il controllo sul mio corpo. E decisi di voltarmi verso chi aveva parlato con enorme, enorme paura, ma desideravo guardarlo in faccia.

Perchè, nel mio subconscio, avevo già capito che colui che sostava di fronte a me con un sorrisetto divertito non era lo stesso bambino che aveva mostrato a me e a Thomas le sue opere quel giorno, no, lui era peggio.

Lui era l'uomo nero.

I suoi occhi d'oro, uguali a quelli del giovane della camera 213, brillarono di una luce soprannaturale mentre continuava:

-Certamente ora non ti metterai a piangere o a supplicarmi di salvarti la vita, temo. Tu sei diversa, mia signora, porterai grandi cose. Per questo motivo ti concedo di vivere.

Ma rammenta, mia signora, il dono della vita è prezioso, il più prezioso esistente, e per questo va pagato. Stai tranquilla, però: sarò io a riscuotere il prezzo, nel futuro.-

Si avvicinò di qualche passo, fermandosi solo quando fu a un metro da me. Era basso, era un bambino, ma era tremendamente minaccioso. Anzi, no, non minaccioso. Era semplicemente immenso nella sua non appartenenza a questo mondo.

Era una bestia pericolosa, e come tale aveva fame.

Tese la mano destra e afferrò la mia sinistra, lasciata inerte lungo il fianco, poiché il corpo mi aveva ancora abbandonata, poi me la strinse come per salutarmi.

-Arrivederci, mia signora. Ci rincontreremo presto, più di quanto ti aspetti.-

Quando la sua mano mi abbandonò le ombre si strinsero attorno a me fino a inghiottirmi.

L'ultima cosa che vidi furono gli occhi sofferenti dell'innocente ospite della camera 213.

Poi le tenebre m'inghiottirono


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Capitolo 7
*** VII ***


Mi risvegliai il giorno dopo, ma a differenza della mattina precedente mi ricordai ogni singolo dettaglio di quell'incubo terribile.

Ovviamente appena aprii gli occhi mi voltai verso il letto di Jake, o meglio, di quella bestia, ma quasi non mi sorpresi quando lo vidi vuoto e pulito come se non fosse mai stato occupato.

Thomas si mostrò sorpreso quando vide che il nostro simpatico compagno di camera non c'era più , e appena ne ebbe l'occasione chiese spiegazioni al caro dottor Smith. Ancora più ovviamente, lui si mostrò sorpreso e disse che non avevano mai ospitato Jake Chambers in quella stanza, come se gli fosse stato cancellato il ricordo di lui, come se gli fosse stata lanciata una maledizione.

Thomas si mostrò incredulo per quell'affermazione, e il suo stupore si accrebbe quando io diedi ragione al medico, dicendo a quello che in pochi giorni era divenuto un amico che probabilmente aveva solo fatto un brutto giorno.

Lui decise di credermi, ma intuii che, nel profondo, sapeva che Jake Chambers non era stato un sogno, e neanche l'ospite misterioso della camera 213. Perchè, come scoprimmo presto, anche lui era scomparso, sia dalla sua stanza che dalla memoria delle persone. Ma non di noi due.

Dopo una settimana potei tornare a casa. Causa l'ambiente familiare o la compagnia della mia cara sorella maggiore, sia gli strani fatti accaduti nel mio soggiorno all'ospedale sia il mio presunto incubo vennero accantonati in un posto recondito nella mia mente.

Ma non vennero mai cancellati.

Durante le notti segnate da giornate pesanti o sofferenti, mi capitò ancora di sognare tutto quello che era accaduto. In altre notti sognai solo Jake, quel bambino innocente, quella bestia, che mi diceva di aspettarlo perchè sarebbe venuto a trovarmi, solo una volta, la mia ultima volta...

Due anni dopo quei funesti avvenimenti, ricevetti un dono da un mittente misterioso. Un disegno che riconobbi subito.

Il tratto, i colori, le ombreggiature, la luce...la teca della tomba di Biancaneve... e quell'ombra nascosta dietro a un albero dello sfondo. Pareva la figura di un uomo, ma io compresi subito ciò che era per il luccichio d'oro all'altezza degli occhi.

Bruciai il disegno la notte stessa, e stranamente dormii saporitamente. Solo il giorno dopo pensai che dovevo confidarmi con qualcuno, qualcuno che mi credesse, ma non c'era nessuno. Thomas si era ricongiunto alla sua amata l'inverno precedente, la mia famiglia mi avrebbe rimandata all'ospedale.

E io, dopo essere guarita dalla malattia, non volevo di certo tornarci.

Perchè sapevo che, se fossi stata ricoverata ancora, sarei stata la nuova ospite di una stanza che popolava i miei incubi.

E nessuno può salvarsi dal mostro che abita la camera 213.


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