Il Ritorno degli Arcangeli

di Lore Torri
(/viewuser.php?uid=317858)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Riassegnazione ***
Capitolo 3: *** Elisa (L'Inizio) ***
Capitolo 4: *** Ritrovamenti ***
Capitolo 5: *** Il Consiglio ***
Capitolo 6: *** Fallimento ***
Capitolo 7: *** Sephirot - Il secondo Consiglio ***
Capitolo 8: *** Guerra - Il terzo Consiglio ***
Capitolo 9: *** Preparativi ***
Capitolo 10: *** Un nuovo Angelo ***
Capitolo 11: *** Arruolata ***
Capitolo 12: *** Attacco ***
Capitolo 13: *** Contrattacco ***
Capitolo 14: *** Lo scontro finale ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Marco scese dall’elicottero nero sulla cui fiancata troneggiava uno stemma con un teschio trafitto da una spada all’interno di un’immensa “A”. Il suo fiato condensava immediatamente a contatto con l’aria gelida della notte artica, ma fortunatamente il suo corpo muscoloso era ben coperto da uno spessissimo cappotto di pelliccia sulla faccia squadrata indossava un passamontagna con la tetra raffigurazione di un cranio umano che gli lasciava scoperti solo gli occhi, freddi come il ghiaccio e dello stesso colore.
Gli scarponi chiodati avanzavano con relativa facilità sul ghiaccio e sulla neve, quindi arrivò velocemente all’ingresso del laboratorio segreto russo.
Fissò dell’esplosivo all’entrata e la fece saltare, attivando il sistema di sicurezza.
Tre guardie munite di mitragliatore gli intimarono di alzare le mani al cielo, ma lui fu più veloce a sparare con due Agram, falciando le guardie che probabilmente non avevano nemmeno disinserito la sicura. Le due pistole mitragliatrici erano fornite di silenziatore, ma l’allarme mandava una forte sirena e lo rese completamente inutile.
Marco rinfoderò le armi ed estrasse due piccole sfere di metallo che gettò nella stanza. Passò di stanza in stanza uccidendo chiunque vi trovasse e lasciando quelle piccole sfere, finché non entrò nella stanza principale.
Questa volta le guardie erano preparate e lo colpirono in pieno petto, mandandolo lungo disteso a terra, senza sapere che uno spesso giubbotto antiproiettile lo proteggeva sotto il cappotto. Quando si avvicinarono, Marco balzò in piedi e trafisse le loro giugulari con due coltelli, che poi lanciò contro uno scienziato che si accasciò a terra a sua volta. Tre sole persone erano ancora vive in tutto l’edificio, ma solamente due allo scoperto: Marco e la donna che tremava di fianco a lui, terrorizzata. L’uomo la prese per mano e le indicò la grande colonna centrale, certo che non avrebbe capito l’italiano. La donna comprese al volo: aprì la colonna, estrasse un piccolo tubo di metallo e lo consegnò all’assassino, che sorrise dietro al passamontagna, poi alzò una Agram e le svuotò quanto rimaneva del caricatore contro al petto, uccidendola.
Gettò la pistola a terra e nascose nel cappotto il cilindro, poi gettò a terra tre delle sfere di metallo che aveva cosparso per tutta la struttura ed uscì di corsa, impugnando la Agram che gli rimaneva per evitare inconvenienti. Quando fu fuori, azionò le sfere di metallo con un piccolo telecomando che portava nascosto nella tasca, facendole esplodere. Ben presto il laboratorio diventò un vero e proprio inferno fiammante, poiché le fiamme facevano esplodere anche numerosi prodotti chimici infiammabili o esplosivi. Marco tornò, silenzioso com’era venuto, all’elicottero, sorridendo per lo sterminio che aveva appena compiuto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Riassegnazione ***


RIASSEGNAZIONE
 
Tre elicotteri atterrarono contemporaneamente. Appartenevano a tre servizi segreti diversi: il primo era decorato con uno stemma verde con uno scudo su cui capeggiava una “R”, il secondo aveva uno stemma rosso con una “U” fiammante ed il terzo aveva uno stemma blu con una “M” in risalto su uno scudo ed una spada del medesimo colore.
Dal primo e dal terzo elicottero scesero due uomini, mentre dal terzo una donna. Si diressero verso il laboratorio che era stato colpito due notti prima.
L’uomo che era sceso dal primo velivolo era alto e magro, anche se la sua fisionomia si notava poco sotto il pesante cappotto. Aveva il naso aquilino perennemente raffreddato e mostrava un piccolo tatuaggio - con lo stesso simbolo che riportava anche il suo elicottero - sul lato destro del collo. Anche gli altri due individui portavano un tatuaggio con il simbolo corrispondente nella stessa zona. La donna era alta e formosa e i capelli lunghi e corvini le circondavano un viso delicato dagli occhi azzurro cielo. Le labbra carnose le conferivano una bellezza incredibile. Il terzo uomo era molto spallato, ma gli occhi castani denunciavano uno sguardo attento.
Quando arrivarono all’ingresso, notarono che gran parte dell’edificio era crollata e quattro furgoni con gomme chiodate erano posteggiati di fianco alla struttura, che era presidiata da quattro militari russi armati di mitragliatori AK-47 che spianarono non appena videro gli estranei.
L’uomo con il tatuaggio della “M” alzò le mani e si avvicinò lentamente, cercando di vincere la diffidenza dei soldati mentre guardava preoccupato le loro armi. Gli AK-47 erano stati usati dai Russi anche durante la Seconda Guerra Mondiale, ed erano particolarmente famosi perché raramente un bersaglio vicino sferzato dalle raffiche micidiali resisteva per qualche secondo.
«Kto ty?» domandò uno di loro, diffidente.
«Vy govorite po-angliyski?» rispose l’uomo in un russo incerto.
Il soldato con cui aveva parlato non rispose, ma quello alla sua destra mostrò di aver capito la domanda e prese la parola: «Io parlo uno poco inglese. Chi siete?»
«Io sono Henry Gilbert, primogenito di Mikael. Loro sono Jerry Smith, primogenito di Raphael, e Lorena Brevi, primogenita di Uriel.»
I tre nuovi arrivati estrassero i rispettivi lasciapassare e i soldati riposero le armi per osservarli. I lasciapassare erano solamente fogli bianchi, ma i russi sembrarono convinti. Il soldato che sapeva parlare inglese si rivolse nuovamente a Henry.
«Cosa siete venuti a fare?»
«Il vostro caso è stato riassegnato. Potete tornare a casa.» disse, porgendogli un foglio di carta bianco come i lasciapassare.
Il soldato lo squadrò per un attimo, poi chiamò tutti gli agenti all’interno della struttura, alzò le spalle e si diresse verso i camion. In meno di una quindicina di minuti, nessuno dei russi era più in vista e nessuno di loro si ricordava di aver mai partecipato ad una spedizione nell’Artide.
Henry estrasse un telefono dalla tasca del giubbotto e premette un pulsante che fece partire la chiamata. Sulla copertura nera, una scritta a caratteri d’argento recitava “SatellitarProto”. Essendo il telefono satellitare più potente del mondo, non aveva bisogno di trovare la linea per telefonare, in qualsiasi punto della Terra si trovasse.
Una voce gracchiò nella cornetta domandandogli qualcosa.
«Il luogo è sotto il nostro controllo, ora. Ci servono degli agenti.»
La voce mormorò ancora qualcosa.
«No, signore, nessuno ricorda più dell’incidente di ieri sera. I figli di Jophiel hanno rimosso dalla mente di tutti gli avvenimenti di queste tre notti.»
Si sentì un ultimo gracchiare, poi l’uomo all’altro capo della cornetta riattaccò.
Jerry e Lorena lo guardavano, in attesa di sapere qualcosa.
«Arriveranno agenti di ricerca entro domattina. Nel frattempo, dobbiamo cominciare a montare l’accampamento.»
Lorena annuì e fece un segno al suo pilota, che era ancora all’interno dell’elicottero. Lui alzò una ricetrasmittente e disse qualcosa in italiano. Pochi secondi dopo, tre furgoni dalle gomme chiodate della FIAT arrivarono davanti a loro ed alcuni operai ne scesero, cominciando ad estrarre il materiale per cominciare a costruire l’accampamento. Annoiati, i tre amici si misero ad aiutare con entusiasmo aspettando l’arrivo dei furgoni con gli altri agenti.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Elisa (L'Inizio) ***


ELISA
(L’Inizio)
 
Elisa era seduta distrattamente sul muretto di casa sua con il suo giubbotto azzurro e sbuffava per il ritardo dei suoi amici che rischiava di far perdere loro il pullman. Non aveva intenzione di andare a piedi arrancando nella neve. I lunghi capelli neri le svolazzavano disordinati intorno al viso, nascondendo il volto ovale con il piccolo naso delicato, le labbra sottili e gli occhi verdi.
Aveva sedici anni, ma sembrava già maggiorenne, alta come la madre e al tempo stesso snella e formosa.
Mentre aspettava, un uomo vestito di nero dalla testa ai piedi le sfrecciò davanti con una bellissima Harley-Davidson, facendola cadere nella neve a gambe all’aria per lo spavento. Nello stesso momento, un chiacchiericcio le comunicò che Marta e Giulio erano in fondo alla strada e stavano arrivando. Elisa scattò in piedi e si pulì dalla neve, poi corse ad abbracciarli.
Marta era bassa per la sua età - tutti e tre andavano nella stessa classe al Liceo Classico Paolo Sarpi - ma era bellissima, con i suoi capelli biondi che le cadevano in ciocche sugli splendidi occhi color indaco. Giulio invece era un vero e proprio armadio, altissimo e muscoloso grazie al nuoto. Aveva i capelli castani arruffati che gli ricadevano sulla fronte e gli occhi neri sempre assenti. Il naso era sgraziato perché si era rotto qualche anno prima.
«Perché sei tutta innevata?» domandò Marta ridendo mentre le baciava le guance.
«Un uomo mi è sfrecciato davanti facendomi cadere dal muretto. Adesso però corriamo, altrimenti rischiamo di perdere il pullman!» disse, cominciando a correre, seguita a ruota dagli amici. Quando arrivarono alla fermata, l’autobus della linea 1, che portava su fino alla città vecchia, stava per ripartire, così i tre amici si sbracciarono per fermarlo. L’autista miracolosamente fermò la vettura ed aprì le porte, facendoli salire. I tre ragazzi lo ringraziarono sorpresi: raramente qualche autista era gentile come lui.
Si sedettero su tre seggiolini liberi e cominciarono a parlare di cosa avrebbero fatto durante le vacanze di Natale, che sarebbero iniziato di lì a pochi giorni.
«Mio padre voleva portarci in Russia, dicono che Mosca è magnifica.»
«Ma sei pazza? Hai idea di quanto sia fredda, d’inverno?» la ammonì Giulio.
«E’ quello che dice anche mia madre, quindi penso che non ci andremo fino all’estate... peccato, andare in Russia mi sarebbe piaciuto.»
«Ragazzi, per questo Natale mio nonno ci ha lasciato libera la sua casa a Parigi! Cosa ne dite di venire su con me la settimana dopo Capodanno? Rientreremo due giorni prima che ricominci la scuola!»
«E’ un’ottima idea, Marta! Chiederò a mio padre se è d’accordo, ma penso che non farà obiezioni particolari.» disse Elisa, mentre l’autobus si fermava davanti all’enorme Porta San Giacomo.
«Accidenti, non credo che mia madre mi lascerà partire.» disse Giulio. Suo padre era morto durante la Seconda Guerra Mondiale combattendo come partigiano sulle Alpi. Il suo nome era inciso in una lapide commemorativa ai caduti all’inizio di Via XX Settembre, nel centro della città bassa. Nonostante la disgrazia, sua madre se la cavava molto bene: era una donna tuttofare e i soldi non le mancavano.
«Come mai dici così?» domandò Elisa.
«Da solo con due donne?» rispose ad effetto.
 I tre amici scoppiarono a ridere, ma smisero quando la vettura si fermò alla loro fermata e scesero, imboccando la scalinata che li avrebbe portati al Liceo. Gli scarponi non facevano molto presa sulla ripida salita coperta da un manto di neve, così Giulio scivolò e ruzzolò all’indietro, trascinando con sé le amiche.
Risero per parecchio tempo, poi ripartirono stando più attenti, altrimenti sarebbero arrivati di nuovo in ritardo. Quando finalmente entrarono a scuola, si tolsero i cappotti e fecero cadere la neve a terra, poi andarono a posarli in classe. La professoressa li salutò: quel mattino era stranamente allegra. Talmente allegra che si dimenticò di dover interrogare in greco e latino ed incominciò a parlare invece con i suoi studenti dell’ormai prossima nascita di suo nipote.
Contenti di quell’inaspettata sorpresa - Marta era preparata, ma Elisa e Giulio come al solito non avevano aperto il libro che per fare gli esercizi - si misero a discutere tranquillamente tra loro, certi che la professoressa non se ne sarebbe accorta. E così passarono le prime due ore, mentre la terza fu segnata da un’allegra lezione di letteratura sui poeti dell’ottocento.
La professoressa di italiano riusciva a rendere emozionante qualsiasi argomento.
Durante l’intervallo, gli studenti più grandi riuscirono ad uscire dalla scuola e preparare con alcuni banchi delle trincee per una battaglia di neve, sfuggendo tranquillamente al controllo dei bidelli.
I professori, essendo l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, non fecero storie, così la battaglia continuò a infuriare per due ore, finché la preside non uscì ad annunciare che l’orario scolastico era finito. Gli studenti di terza liceo (l’ultimo anno) dovettero fermarsi a pulire e sistemare i banchi, ma gli altri furono lasciati liberi di andarsene.
 
L’autobus si riempì di neve quando gli studenti fradici salirono a bordo. Giulio, Marta ed Elisa scesero tutti insieme alla stessa fermata e si avviarono verso le rispettive case.
Mentre tornava a casa, Elisa gettò uno sguardo all’interno del vecchio rudere abbandonato che stava davanti alla sua abitazione. Trasalì: le era parso di vedere un’ombra scura alla finestra più alta.
Era difficile, se non impossibile: la casa era disabitata ormai da una decina d’anni. Era ridotta a poco più che un rudere, ma il comune insisteva nel dire che era proprietà privata e dunque non poteva demolirla. Probabilmente aveva pagato profumatamente qualcuno perché si accollasse quel rudere in modo da non doverlo demolire.
Stupita, la ragazza tornò a guardare all’interno della finestra e per un attimo vide una sagoma girata di spalle. Sulla schiena c’era un grosso teschio sovrastato dalla lettera “A”. In quel momento, l’uomo cambiò stanza, uscendo dal campo visivo di Elisa.
La ragazza entrò in casa e si precipitò sotto la doccia, convinta di aver avuto un’allucinazione.
 
Marco scese le scale del vecchio rudere che Azrael gli aveva assegnato come quartier generale. Prese la sua Harley nera e sfrecciò sulle strade innevate di Bergamo fino a raggiungere l’autostrada A4 da Bergamo verso Venezia. Quella sera sarebbe tornato a fare rapporto dal padre e ne era orgoglioso: aveva recuperato ciò che gli era stato richiesto e non aveva lasciato prove.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ritrovamenti ***


RITROVAMENTI
 
Harry era pronto ad entrare con gli altri agenti del suo gruppo nel laboratorio russo.  Il soffitto della prima stanza reggeva, quindi ci si poteva entrare senza troppi accorgimenti, ma anche se ci fosse stato qualcosa di utile i russi evidentemente l’avevano già portato via. Harry guidò la manciata di agenti che lo seguiva nell’esplorazione nella seconda stanza, in cui entrarono con molta cautela, non essendo sicuri che il soffitto reggesse. Una volta entrati, applicarono delle aste di metallo al soffitto, in modo che la struttura portante non dovesse reggere da sola il peso della volta.
Il laboratorio crollato era buio perché tutte le fonti di luce erano andate distrutte nell’esplosione, perciò i componenti della squadra di ricerca avanzavano con alcune torce fissate sulla testa. Quattro o cinque sale furono messe in sicurezza lentamente, poi il gruppo si divise e cominciò le ricerche all’interno del laboratorio. Il compito era arduo perché gran parte del lavoro era andato distrutto. Degli appunti presi su carta non rimaneva traccia e i sistemi elettronici erano completamente distrutti. I cadaveri reperiti nel laboratorio venivano portati fuori dove venivano bruciati, non potendo essere seppelliti sotto la neve. Per alcuni giorni, i lavori furono lenti e non diedero risultati, ma durante il terzo giorno dalla messa in sicurezza dell’intero laboratorio ci fu una sorpresa.
Harry e cinque colleghi lo stavano aiutando a rimuovere un grosso pezzo di soffitto crollato, quando il caposquadra vide una donna sotto le macerie. I lavori si fecero più veloci e attenti e dopo qualche minuto la donna fu portata fuori. Erano passati dieci giorni dall’esplosione del laboratorio, ma la donna era ancora viva. Probabilmente aveva trovato una risorsa d’acqua che le era bastata per alcuni giorni.
«Un figlio di Raphael, presto!» urlò Harry mentre teneva la donna tra le braccia.
Jerry arrivò di corsa e fece gocciolare dell’acqua sulle labbra della donna, poi le appoggiò una mano sul petto. Una tenue luce verde scaturì dal suo palmo verso il petto della donna e questa sembrò stare subito meglio, mentre cominciava a rianimarsi.
Quando finalmente aprì gli occhi, urlò qualcosa in russo, poi girò la testa di lato e chiuse gli occhi. Jerry le provò il polso, ma inutilmente: era morta. Doveva essersi salvata dall’esplosione nascondendosi dietro ad un muro e questo, crollando, l’aveva intrappolata. Doveva aver sofferto atrocemente mentre moriva di stenti.
Harry imprecò.
«Ditemi che qualcuno di voi sa il russo, vi prego.» disse, furioso.
Uno dei figli di Mikael si alzò in piedi.
«Io ne conosco qualche parola, fratello... ha detto che il codice è la serie di Fibonacci, poi ha aggiunto “tutte” e una parola che non ho capito.»
«Qualcuno cerchi su Internet cosa cazzo è la serie di Fibonacci.» ordinò.
«Non serve» disse Jerry «La serie di Fibonacci è composta da una serie di numeri tale che ognuno di essi sommato al precedente dà come risultato il successivo. E’ utilizzata in molti campi della matematica...»
«Non importa» lo interruppe Harry «Tu sai riprodurre quella serie?»
«Certo! Uno, uno, due, tre, cinque...»
«Non mi interessa adesso! Prima dobbiamo scoprire a cosa serve questo codice.»
«Calmati, Harry.»
«Hai ragione, Jerry. Scusa. Chiamami Lorena, è lei che di solito capisce qualcosa di queste stronzate.»
Jerry obbedì, mentre Harry è gli altri continuavano a perlustrare il laboratorio. In questa stanza la ricerca fu leggermente più gratificante che nelle altre: trovarono una piccola chiavetta USB in tasca alla donna, che evidentemente si era salvata con lei. Per poco gli uomini non fecero salti di gioia.
Nel frattempo, Lorena era arrivata.
«Henry, ti serve una mano?» domandò.
«Un attimo, abbiamo appena trovato una chiavetta USB integra. E chiamami Harry, per favore.»
«Come vuoi. Eccoti un portatile.» disse, mentre estraeva dalla borsa il proprio e lo porgeva a Harry. Lui lo aprì ed inserì la chiavetta. Aprì l’hardware e mentre si caricava tutti tennero il fiato sospeso, finché non apparve sullo schermo un unico file, pesante quasi 2 gigabyte... Ma il computer di Lorena non possedeva il software per aprire quel file. Harry provò a cercarlo manualmente, poi si stancò.
«Portate questo computer da Baiko. Lui dovrebbe capirci qualcosa.»
«Va bene, Harry.» disse Lorena, prese il portatile e la chiavetta e li portò via.
Dall’altra parte della sala, un figlio di Mikael chiamò a gran voce il suo capo. Aveva trovato quasi per caso una minuscola tastiera.
«Jerry, dimmi i numeri della serie di Fibonacci, lentamente.» disse Harry una volta arrivato sul posto.
Jerry incominciò a parlare.
«Uno... uno... due... tre... cinque... otto... tredici... ventuno... trentaquattro...»
Si udì un sonoro clic, poi una sezione del pavimento si aprì, rivelando al suo interno una serie di fogli apparentemente insignificanti.
Harry prese il fascicolo e lo portò da Baiko.
«Ti dice qualcosa?» disse, ma il giapponese non lo sentì: era incredibilmente concentrato sul file contenuto nella chiavetta.
Ripeté la domanda, con un tono di voce più alto, sventolandogli i fogli sotto al naso.
Baiko trasalì, poi guardò i fogli e il suo sguardo si illuminò.
«Grazie a Dio! Senza questi progetti ci avrei messo anni a ricostruire un software così sofisticato... con questi non ci vorrà più di una settimana.»
Harry capì poco o niente di quello che il tecnico specializzato gli aveva detto, ma decise di evitare domande e tornò all’accampamento, che durante quella settimana si era notevolmente ingrandito e ora poteva contare su otto forti mura portanti termoisolanti. Le ricerche avrebbero potuto durare ancora almeno due settimane, quindi ormai l’accampamento era diventato un vero e proprio centro operativo di ricerca.
Si gettò sul letto e si addormentò mentre migliaia di incognite gli popolavano il cervello: perché il laboratorio era stato distrutto? Chi l’aveva fatto? Cosa conteneva quella chiavetta?
Ben presto si addormentò, esausto per lo sforzo della giornata: aveva continuato a spostare macerie e rovistare tra le rovine per ore.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Il Consiglio ***


IL CONSIGLIO
 
Henry era innervosito a causa del viaggio. In una sola notte aveva dovuto viaggiare dall’Artide a Capo Nord in elicottero per poi prendere un aereo riservato verso Parigi. Ora si trovava a Montmartre e stava scendendo le ripide scalinate della metropolitana. Era atterrato all’aeroporto Charles De Gaulles e adesso si trovava nel diciottesimo quartiere.
Aveva comperato un nuovo cappotto all’aeroporto, più leggero ma con un colletto più alto, in modo che nascondesse il tatuaggio che lo identificava come figlio di Mikael.
 Si fece strada tra la folla e acquistò un biglietto di sola andata verso Les Champs-Élisées, l’ottavo quartiere. La metropolitana era abbastanza pulita, ma la puzza di sudore non si poteva sopportare. Fulminò con lo sguardo un venditore di rose che si allontanò immediatamente.
Quando scese dalla metropolitana, estrasse un pass speciale che inserì in una fessura accanto ad una porta ermetica con la scritta “C’est interdit d’entrer”. Una luce verde si accese ed Henry entrò dalla porta ermetica ritirando il pass. Una volta all’interno, percorse un corridoio lungo e stretto fino a raggiungere una grande sala. Sulla porta, Lorena e Jerry stavano parlando animatamente: loro erano partiti due giorni prima ed erano a Parigi già da parecchie ore.
«Ciao, ragazzi» disse, sorridendo stancamente.
«Ciao, Harry» rispose Lorena «Mancavi solo tu. Ora possiamo iniziare.»
Jerry si limitò a fargli un cenno con il capo. Poi, tutti e tre entrarono nella sala. La sala era enorme ed era divisa in dieci settori, ognuno dei quali comprendeva due troni di diverse dimensioni con uno stemma e un colore che variavano a seconda del settore. Dove le linee divisori dei diversi settori si congiungevano sorgeva un alto trono che era decorato dei colori degli altri dieci e che aveva come stemma un libro aperto dal quale sorgeva un occhio.
Henry andò a sedersi nel settore azzurro, il cui simbolo era uguale a quello del suo elicottero: una “M” che sovrastava uno scudo e una spada. Jerry andò nel settore verde, con la “R” in risalto su uno scudo e Lorena andò nel settore rosso, con la “U” infiammata. Ora, tutti i posti a sedere erano occupati, eccetto i due che stavano di fronte ad Henry, che non venivano occupati ormai da miliardi di anni.
Henry fece scorrere lo sguardo sulla stanza che conosceva bene, dove si riuniva il Consiglio.
Il primo settore era quello rosso di Lorena.
Il secondo era viola ed il suo stemma presentava una “Z” che spezzava una catena.
Il terzo era quello, appunto, di Henry.
Il quarto era giallo ed il suo simbolo era una “J” che toglieva un velo rivelando un piccolo sole sotto di esso.
Il quinto era rosa e mostrava una “S” con un pugno chiuso.
Il sesto era bianco con una “G” e una colomba.
Il settimo era quello di Jerry.
L’ottavo, quello che stava esattamente dalla parte opposta di quello di Jerry, era grigio e presentava una “L” lievemente illuminata. Era chiaro che era inutilizzato da tanto tempo perché nessuno l’aveva mai ripulito e polvere e ragnatele vi dominavano.
Il nono era  dorato e presentava una “T” i cui bracci diventavano quelli di una bilancia.
Il decimo era nero e presentava una “A” sopra un teschio.
L’uomo che stava seduto al centro, vestito sfarzosamente, si alzò in piedi. Era alto e i capelli bianchi gli scendevano fino alle spalle coprendo la fronte corrugata che lo faceva sembrare ben più vecchio dei suoi settanta anni.
«Fratelli» cominciò «nel nome dell’anima di Metatron che porto in corpo, dichiaro aperto il Consiglio Angelico.»
A quel punto, gli uomini seduti dovevano alzarsi ed acconsentire.
Il primo fu quello che sedeva a fianco a Lorena, che disse: «Nel nome dell’anima di Uriel che porto in corpo, io e mia figlia acconsentiamo.»
Dopo di lui, il giro riprese seguendo l’ordine dei settori.
«Nel nome dell’anima di Zadkiel che porto in corpo, io e mio figlio acconsentiamo.»
«Nel nome dell’anima di Mikael che porto in corpo, io ed il mio figliastro acconsentiamo.»
Henry strinse il pugno. Detestava che gli venisse ricordata la morte dei suoi genitori. Perché diavolo Mikael doveva ricordare che Henry in realtà non era che il suo figliastro?
«Nel nome dell’anima di Jophiel che porto in corpo, io e mio figlio acconsentiamo.»
«Nel nome dell’anima di Samael che porto in corpo, io e mio figlio acconsentiamo.»
«Nel nome dell’anima di Gabriel che porto in corpo, io e mio figlio acconsentiamo.»
«Nel nome dell’anima di Raphael che porto in corpo, io e mio figlio acconsentiamo.»
Mentre l’uomo che sedeva accanto a Jerry parlava, lo sguardo di Henry cadde sull’amico: come sempre, era annoiato da quell’antico rituale che trovava inutile.
A quel punto, l’uomo al centro si alzò di nuovo e levò entrambe le mani verso i due scranni dell’ottavo settore, quello grigio, e disse:
«Portatore dell’anima di Lucifer, anche questa volta hai rifiutato di sederti in Consiglio e non ce ne rammarichiamo.»
Come Henry sapeva bene, dopo la Guerra Angelica, durante la quale Lucifer si era ribellato, colui che portava nel corpo l’anima dell’Angelo Caduto non aveva mai seduto in Consiglio. Il rito riprese con gli ultimi due settori:
«Nel nome dell’anima di Tyrael che porto in corpo, io e mio figlio acconsentiamo.»
«Nel nome dell’anima di Azrael che porto in corpo, io e mio figlio acconsentiamo.»
A fianco dell’ultimo uomo che aveva parlato, Marco sorrise lugubremente.
Il rituale era finito. Harry sapeva bene che i nomi pronunciati da quelle persone in realtà erano i nomi originali degli Arcangeli, le cui anime venivano passate di padre in figlio quando chi portava la portava in corpo acconsentiva. Harry, quando il suo patrigno l’avesse deciso, sarebbe diventato Mikael. Riprendendosi da questi pensieri, si alzò.
«Faccio rapporto sulla missione che il Consiglio ci ha mandato a compiere nell’Artide, sospettando che un’azione dettata dal Satan abbia avuto luogo là. Siamo stati mandati io, Lorena, la primogenita di Uriel e Jerry, il primogenito di Raphael. Nel luogo che ci avete indicato, come vi ho comunicato in precedenza, sorgeva un laboratorio russo, che è stato completamente distrutto. Non abbiamo ottenuto successo nelle ricerche, ma durante l’ultimo giorno siamo riusciti a trovare un file che potrebbe essere importante. Il nostro miglior tecnico, Baiko, si sta occupando di riuscire ad aprirlo. Dice che tra qualche giorno potrebbe essere pronto. Non ci sono altre novità.»
Henry si sedette e Metatron si alzò di nuovo.
«Qualcuno desidera aggiungere qualcosa?»
Nessuno rispose.
«Qualcuno è a conoscenza di altre faccende di cui discutere?»
Di nuovo, tutti tacquero.
«Nel nome dell’anima di Metatron che porto in corpo, dichiaro chiuso il Consiglio Angelico. Quando il tecnico avrà completato il suo lavoro, vi richiamerò di nuovo. Se non avete questioni urgenti per cui necessitate di andare altrove, vi prego di rimanere qui, nelle vicinanze di Parigi, per evitare tempi di attesa troppo lunghi prima del prossimo Consiglio.»
Tutti si alzarono ed uscirono dalla stanza.
 
Marco uscì nell’aria fredda di Parigi immerso nelle sue preoccupazioni. Come avevano fatto a trovare quel file? Era certo di aver fatto esplodere tutto... evidentemente gli scienziati avevano pensato a un’efficiente sistema di protezione, ma, in tal caso, come avevano fatto i figli di Mikael ha superarlo?
Il primogenito di Azrael si fermò e trasse un lungo respiro per calmarsi. Non doveva pensare ad incognite inutili: non l’avrebbe aiutato sapere come avevano fatto a trovare quel file. Piuttosto, cosa conteneva? Se avessero scoperto cosa era stato rubato dal laboratorio, si sarebbe scatenato un putiferio.
In quel momento, una figura incappucciata lo trascinò in un vicolo, gli mise una mano sulla bocca e lo tenne fermo contro il muro, sfiorandogli il collo con un coltello affilatissimo.
«Come hai potuto commettere un simile errore?» sibilò l’aggressore. Marco riconobbe la voce: era suo padre.
«Cercherò di risolverlo. Eliminerò lo scienziato.»
«No!» disse Azrael «Se lo fai, risaliranno subito a noi. Devi dire al contatto di accelerare i tempi di preparazione e prepararsi a colpire prima dell’inizio del prossimo mese.»
«Sarà fatto, Azrael.»
«Mi aspetto il meglio da te, figlio mio.» disse, poi si dileguò nella ventosa notte parigina.
Marco uscì dal vicolo e si diresse verso l’aeroporto: doveva tornare a Bergamo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Fallimento ***


FALLIMENTO
 
La vigilia di Natale. Finalmente.
Elisa si alzò dal letto e si spogliò velocemente, poi si buttò sotto l’acqua bollente della doccia. Insieme al vapore che usciva dal bagno, se ne andava anche lo stress delle ultime settimane di scuola.
Quando scese al piano di sotto per fare colazione mandò uno sguardo all’orologio: le dieci meno un quarto. Aveva già recuperato la pigrizia che era rimasta sopita durante il periodo scolastico. Quando arrivo al tavolo, i suoi genitori erano già seduti e stavano bevendo il loro caffé.
«Buon mattino, pa’» salutò.
Il padre scostò lo sguardo dal giornale che stava sfogliando.
«Ciao, Elisa!» praticamente urlò.
Elisa salutò anche la madre, poi si rivolse di nuovo al padre.
«Allora, avete deciso dove andare?»
«Veramente, no. La Russia è troppo fredda, la mamma ha ragione. Penso che ti lasceremo partire con Marta, però.»
Elisa abbracciò forte il padre e lo baciò sulle guance.
«Grazie, grazie, grazie!»
Il padre sorrise bonariamente, poi tornò alla lettura del suo giornale. Elisa fece colazione di fretta, poi chiamò il cellulare di Marta.
«Ciao, Marta! Vengo con te a Parigi!» urlò nella cornetta.
Gli strilli dall’altra parte fecero intuire che all’amica non dispiaceva affatto. La conversazione continuò animatamente mentre le amiche si scambiavano pensieri sognanti di quello che avrebbero potuto fare nella città dell’amore e capitale della moda, concludendosi poi quando Elisa invitò Marta a fare un giro per le strade innevate.
«Certo!» rispose l’amica «Penso io ad avvisare Giulio»
Poco dopo, Marta e Giulio suonarono il campanello.
 
Marco entrò nella stanza segreta nel seminterrato del suo nuovo quartier generale decadente facendo un lungo respiro. Era pronto.
Otto pareti erano state abbattute per congiungere tutte le stanze del seminterrato, così ora un’ampia stanza prendeva il loro posto. All’interno, quattro uomini in camice bianco, tutti con il simbolo dei figli di Azrael sul collo, stavano lavorando continuamente ai loro computer, guardando con espressioni diverse la grande colonna di vetro che stava al centro.
All’interno della colonna, che era una riproduzione di quella trovata nel laboratorio russo, galleggiava una sfera di luce dal colore indefinibile. Guardandola si rimaneva ipnotizzati.
Marco si avvicinò alla colonna ed entrò, passando da una porta costruita appositamente per lui. Non appena fu dentro alla stanza, la testa incominciò a vorticargli e dovette concentrarsi al massimo delle energie per non crollare a terra svenuto. Fortunatamente, aveva seguito un addestramento ferreo e riuscì a resistere.
Aprì i palmi e fece fluire tutta l’energia che aveva in corpo verso la sfera che volteggiava al centro, mandandole precise istruzioni. Dalle sue mani partirono raggi neri che andavano a confluire nel centro della sfera. Incominciò ad ingrandirsi, finché non raggiunse una dimensione abbastanza grande e Marco non vide più niente, solo la luce di quel colore indefinibile in ogni direzione.
 
I tre amici vennero colpiti simultaneamente dall’onda d’urto che partì dal seminterrato del rudere di fronte alla casa di Elisa e caddero a terra, a faccia in giù nella neve.
Elisa si rivoltò quasi subito e si portò le mani al cuore, come a cercare di estrarne qualcosa, il viso contratto in una smorfia di terrore. Marta e Giulio si alzarono e guardarono l’amica terrorizzata che scalciava e si contorceva per terra.
Improvvisamente, Elisa divenne calmissima e il suo sguardo assunse un’espressione tranquilla come non l’avevano mai vista prima mentre chiudeva gli occhi. Marta si gettò sull’amica e la scossa, ma la ragazza non si rianimò.
Giulio provò a chiamarla ripetutamente, ma invano. Reprimendo imbarazzo ed eccitazione, le posò una mano sul petto e sentì il suo cuore battere regolarmente... anzi, i suoi cuori. Sembrava che Elisa avesse due battiti che rimbombavano all’unisono. Terrorizzati, i due amici afferrarono Elisa, Marta dalle braccia e Giulio dai piedi, e la portarono a casa.
 
All’interno del laboratorio, Marco si riprese. Si guardò intorno: gran parte delle boccette erano fracassate e i quattro scienziati erano a terra, divisi a metà, le budella sanguinanti che fuoriuscivano dalle due parti.
Marco aveva visto ben di peggio e non si preoccupò, ma puntò lo sguardo verso la luce che brillava al centro della colonna ormai infranta.
La sfera si stava rimpicciolendo velocemente, finché non scomparve del tutto. Marco fissò, un po’ preoccupato e un po’ speranzoso, il punto in cui era scomparsa.
Aspettò così per parecchi minuti, mentre l’ansia e la preoccupazione nel suo petto crescevano. Quando capì che non sarebbe apparso nulla nel punto che stava fissando, urlò di furore e i suoi muscoli si gonfiarono, afferrò tutto quello che gli capitava per le mani e lo distrusse o lo scaraventò contro le pareti del laboratorio, riducendo a una stanza devastata quello che era stato il laboratorio. Quando si riprese, notò di avere le mani sporche di sangue e si accorse di aver fracassato anche le teste degli scienziati, nell’impeto incontrollabile. Strinse i pugni e salì verso il garage, ancora furente.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Sephirot - Il secondo Consiglio ***


SEPHIROT - IL SECONDO CONSIGLIO
 
Harry arrivò alla Sala del Consiglio di fretta, euforico. A tracolla portava una borsa che conteneva il portatile di Lorena, mentre in tasca aveva la chiavetta USB trovata nel laboratorio russo. Il file che conteneva era stato copiato sul computer, ma per sicurezza ne erano state fatte due ulteriori copie e non era mai stato eliminato dalla sede originaria.
Jerry e Lorena, come al solito, lo aspettavano fuori dalle porte, con un bicchiere di caffé in mano. Stranamente, sembravano preoccupati.
«Ciao» disse Harry.
«Harry... hai sentito dell’onda?» gli chiese Jerry.
«No, di cosa si tratta?»
«Non importa. Lo sentirai in consiglio. Baiko è riuscito a scoprire cosa c’era nel file?»
«Baiko ha fatto miracoli.» sorrise Harry, poi precedette gli amici all’interno della Sala del Consiglio.
Quando ognuno dei tre ebbe raggiunto il proprio posto, Metatron si alzò e pronunciò la solita formula, seguita dagli assensi di tutti i presenti.
Marco, a fianco di Azrael, sfoggiava uno sguardo impassibile che mascherava l’ira che ancora provava, senza riuscire a mascherarla del tutto.
Terminato il rito iniziale, Harry si alzò in piedi.
«Signori, il nostro miglior tecnico, Baiko, è riuscito a ricostruire un prototipo del software che gli scienziati russi utilizzavano nel loro laboratorio.»
Marco strinse i pugni talmente forte che i palmi iniziarono a sanguinare, poi se ne accorse e allentò la pressione, cominciando a cercare nelle tasche un fazzoletto per ripulirsi le mani. Nel frattempo, Harry riprese a parlare, dopo una pausa.
«Ora sappiamo cosa conteneva il laboratorio e abbiamo ragione di credere che Lucifer o uno dei suoi figli sia il responsabile dell’attacco al laboratorio.»
Azrael si piegò di lato e sussurrò al figlio: «Come ti avevo detto, hanno subito incolpato Lucifer. Ora devi solo stare calmo.»
Marco si rilassò alla meglio. Nel frattempo, Harry aveva estratto un proiettore olografico e l’aveva sistemato sul pavimento.
«Anche questo è opera di Baiko: gli scienziati utilizzavano file tridimensionali.» spiegò.
Spinse un interruttore e l’apparecchio si accese con un lungo sibilo, poi lo collegò al computer ed aprì il file.
Al centro della stanza, una sfera di luce di colore indefinito - quella che era scomparsa davanti agli occhi di Marco - incominciò a galleggiare, mentre alcuni schermi blu portavano informazioni di vario tipo scritte in cirillico.
Metatron si alzò.
«Quello è un Sephirot!» esclamò, esterrefatto.
«Esatto. Per questo credo che sia stato Lucifer ad appropriarsene.»
Il figlio di Jophiel si alzò.
«Metatron, cos’è un Sephirot?»
Metatron lo guardò, poi prese a spiegare.
«Suppongo che sappiate che, moltissimi anni fa, molto prima della Grande Guerra, quella vera, non esisteva nulla. Solo El e Satan, le due grandi metà della forza suprema che domina l’universo, il Kaos, regnavano sovrane. Allora, queste due forze scoprirono i Sephirot. Sono le “luci increate”, la materia prima dell’Universo stesso. El e Satan produssero increspature nel Kaos, portando molti Sephirot a trasformarsi. Un’increspatura del Kaos porta un Sephirot a svilupparsi secondo le volontà del Kaos stesso. Undici Sephirot formarono la forza che avrebbe governato il Kaos: noi Arcangeli, o meglio le anime che portiamo dentro. Un Sephirot creò l’Universo e tutto ciò che all’interno vi viveva. Da che ho memoria, sempre si è creduto che i Sephirot fossero solo dodici. Ma, evidentemente, ne esistono altri. E uno, ora, è in mano a Lucifer.»
Harry, che aveva ascoltato con attenzione anche se conosceva già la storia, si alzò di nuovo.
«La domanda a cui dobbiamo rispondere è: come cercherà di utilizzare il Sephirot Lucifer?»
Marco ebbe un’idea e si alzò.
«Potrebbe creare un nuovo Universo di cui sarà padrone.» disse.
«Questa è la prima opinione, che abbiamo avuto anche noi. Tuttavia, se anche creasse un nuovo Universo, dovrebbe uscire da questo per poterlo fare, e non gli basterebbero migliaia di generazioni per farlo. Inoltre, se anche ci riuscisse, noi potremmo di nuovo allearci e sconfiggerlo, proteggendo due Universi da lui e dal Satan. Pensiamo quindi che voglia usare quel Sephirot per creare un nuovo Arcangelo che lo aiuti a riconquistare il potere.»
A Marco il cuore cessò di battere per un attimo. Era esattamente quello il piano di Lucifer. Fortunatamente, nulla poteva portare a pensare che Azrael fosse suo alleato.
Metatron si alzò di nuovo, visibilmente preoccupato.
«Henry, evidentemente tu non sei stato messo a parte degli ultimi avvenimenti. Ieri si è diffusa un’enorme onda d’urto per tutta la galassia. E’ stata percepibile per qualche metro, credo, ma ha continuato a svilupparsi. I nostri scienziati ne hanno localizzato il fulcro: si trova a Bergamo, nel nord Italia. Ora, cinque dei nostri scienziati sono là, e stanno cercando attentamente di trovare il punto preciso da dove è partita l’onda d’urto. Purtroppo, temo che significasse che il Sephirot è stato usato, anche se ancora non sappiamo in che modo.»
Un silenzio gelido scese nella sala, tra tutte quelle persone che stavano ancora elaborando la notizia.
Metatron riprese la parola qualche minuto dopo.
«Il Consiglio si aggiornerà quando sapremo da dove ha avuto origine l’onda d’urto. Nel frattempo, preparate tutti i gruppi dei figli degli angeli. Potrebbe esserci un’altra Guerra Angelica.»
Tutti i presenti uscirono, oppressi da pensieri pesanti come macigni.
Lorena e Jerry si accostarono ad Harry, cercando di sollevarsi il morale a vicenda.
«Vieni con noi» mormorò Lorena «Conosco un buon posto dove cenare al caldo.»
 
Marco uscì all’aria fredda di Montmartre imprecando tra sé e sé. Si fermò ed attese che Azrael si avvicinasse: non potevano discutere prima perché avrebbero rischiato di essere scoperti.
Azrael non ci mise molto ad affiancarsi a lui.
«Uccidi gli scienziati che ancora sono a Bergamo, ci farà guadagnare tempo. Io andrò a Venezia ed avviserò il contatto.» disse, poi accelerò il passo e svanì nella nebbia, senza lasciare altra traccia del suo passaggio che le impronte sulla neve parigina.
Marco tornò indietro e imboccò la discesa per la metropolitana.
 
Quando scese dall’aereo, Marco era di nuovo calmo. Ora aveva un compito da svolgere e poteva concentrare la sua mente su quello, senza farla divagare nei problemi che incontrava lungo il percorso. Passò velocemente davanti ad una ragazza con i suoi amici, ed Elisa trasalì al suo passaggio.
Nel parcheggio dell’aeroporto lo aspettava la sua fedele Harley-Davidson. Montò in sella e partì a tutta velocità, raggiungendo il suo vecchio laboratorio in meno di dieci minuti. Lasciò la moto dietro l’angolo, poi si avvicinò lentamente. Indossò un passamontagna che gli nascondesse la faccia. Questa volta il compito non sarebbe stato così facile: gli scienziati erano di certo figli di Zadkiel. Per chiunque era difficile confrontarsi con i figli di un arcangelo, anche per il primogenito dell’angelo della morte. Entrò nella struttura decadente e due guardie lo presero di sorpresa colpendolo entrambe in faccia con i loro pugni. Marco rotolò di lato per evitare il colpo successivo e notò i loro marchi: erano figli di Mikael. La situazione si faceva più difficile. Si rialzò mentre uno dei due cercava di colpirlo con un pugno, gli afferrò la mano e lo tirò verso di sé, infilzandogli un coltello nella giugulare con la mano libera. L’altro estrasse una pistola, ma Marco si abbassò e gli colpì la mano con un calcio, mandando l’arma nella neve. Indifeso, l’uomo si gettò su Marco tenendolo fermo a terra, ma lui riuscì a girare il coltello che teneva ancora nella mano destra fino a forargli il petto. L’uomo urlò, pi si accasciò sopra di lui.
Marco imprecò a gran voce, poi gettò il coltello ed estrasse le due Agram, rimuovendo la sicura. Altri tre figli di Mikael si precipitarono su per le scale, ma vennero falciati dalla scarica prima ancora di arrivare in cima. Non avrebbero più dovuto esserci guardie, ma probabilmente i ricercatori erano armati. Scese al piano di sotto e si tuffò in avanti appena in tempo per evitare i proiettili. Atterrò ai piedi delle scale, fece una capriola in avanti, saltò, strappò il fucile dalle mani del ricercatore e lo colpì alla testa, poi con la mano libera sparò con l’Agram che ancora aveva in mano contro il secondo uomo, che cadde all’indietro colpito al petto e al viso. Altri tre ricercatori fecero fuoco con le loro pistole, ma Marco utilizzò come scudo il cadavere di quello a cui aveva strappato il fucile. Svuotò il caricatore della prima Agram contro uno dei tre e saltò di lato, evitando i colpi degli altri due, mentre gettava le armi che aveva tra le mani ed estraeva la seconda Agram. Anche a quella rimanevano pochi colpi, ma mirò alle mani dei ricercatori facendo perdere loro le pistole. Senza né munizioni né tempo per ricaricare, Marco si avventò contro i due figli di angeli contando sulla sua preparazione nel corpo a corpo. Il primo cercò di colpirlo con i pugni, ma con un mulinìo di braccia Marco evitò il colpo e lo colpì sul naso, rompendoglielo. Si abbassò per evitare i colpi del secondo e ruotò la gamba colpendolo agli stinchi e mandandolo a terra. Poi estrasse un coltello per mano e si tuffò in avanti, squarciando le gole ad entrambi con un colpo solo.
Quando fu sicuro che furono morti tutti, si alzò e controllò l’edificio: non voleva commettere lo stesso errore dell’altra volta. Quando ebbe finito, andò alla moto e prese una tanica di benzina, poi tornò indietro e cominciò a cospargerla all’interno dell’edificio: un’esplosione avrebbe destato troppi sospetti. Mentre versava il liquido infiammabile all’interno del laboratorio, notò un telefono cellulare su un bancone di marmo e lo afferrò.
Sul display vedeva l’ultimo messaggio che il cellulare aveva mandato, con l’indirizzo dell’edificio. Marco imprecò e frantumò il cellulare tra le mani: aveva fallito. Li avrebbero scoperti. Diede fuoco alla benzina e partì verso Venezia per trovare Azrael.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Guerra - Il terzo Consiglio ***


GUERRA - IL TERZO CONSIGLIO
 
Il telefono squillò, facendo volare nell’aria le note degli ACDC. Metatron aveva scelto quelle perché così era difficile non sentire la suoneria quando partiva.
Guardò il numero chiamante: sconosciuto. Alzò la cornetta.
«Pronto»
«Signore, i nostri ricercatori sono tutti morti. Hanno incendiato il laboratorio.»
Metatron per poco non svenne.
«Come...?»
«Abbiamo localizzato il proprietario dell’edificio.»
«Chi?»
«E’ un figlio di Azrael, signore.»
Metatron divenne ancora più pallido di quanto già non fosse, imprecando a gran voce.
«Sarà chiamato a risponderne in Consiglio.»
«Signore, non ci sono tracce del Sephirot. L’hanno usato.»
Metatron imprecò così forte che il suo agente dall’altra parte della cornetta sobbalzò. Riattaccò senza dare spiegazione e premette un pulsante su un piccolo apparecchio che portava sempre in tasca. Serviva a convocare una riunione di emergenza del Consiglio.
Si infilò il cappotto e uscì nella gelida aria di Parigi, correndo velocemente verso la metropolitana. Arrivato alla Sala del Consiglio, trovò ad aspettarlo già Uriel, Raphael, Jophiel e Zadkiel con i rispettivi primogeniti. Li mise a parte di ciò che aveva scoperto. In quel momento arrivò anche Azrael, impassibile come sempre, con Marco al fianco che aveva un ghigno crudele.
La situazione gelò e nessuno osò più parlare. In capo a una trentina di minuti, tutti furono presenti ed entrarono nella Sala del Consiglio.
Il rituale di inizio si fece più velocemente del solito, fino a quando si arrivò all’ottavo settore. Quando Metatron si alzò per denotare la mancanza di Lucifer al Consiglio Angelico, la porta si spalancò, sbattendo.
Entrò un uomo alto e talmente magro da sembrare scheletrico, con una “L” e un piccolo sole tatuati sul collo. Era coperto da un mantello grigio e portava un fodero al fianco, che gli sbatteva sulla coscia sinistra mentre camminava a testa alta verso l’ottavo settore, squadrando tutti con i suoi agghiaccianti occhi grigi che sembravano non avere luce all’interno.
Anche il colorito del suo corpo tendeva al grigio, come chi raramente esce alla luce del sole. Il naso era adunco e annusava l’aria nella sala, quasi pregustandosi un momento bellissimo.
«Nel nome dell’anima di Lucifer che porto in corpo» cominciò, facendo scendere un gelo terribile sulla stanza, dove tutti erano allibiti «acconsento!» urlò, metà gridando e metà ridendo, mentre tutti sbiancavano in volto... tutti tranne Azrael e suo figlio, che sorridevano.
Per quanto tutti fossero sorpresi, Lucifer aveva ancora diritto a sedersi in Consiglio, anche se il suo senso dell’onore avrebbe dovuto impedirglielo. Così, il rituale continuo come era stato prescritto miliardi di anni prima.
Alla fine, fu proprio Lucifer ad alzarsi.
«Conosco le vostre scoperte, e so che avete scoperto la colpevolezza di Marco, e quindi di Azrael, nella missione di trasformazione del Sephirot. Per questo motivo, ho deciso di reagire: in questo momento, io, Lucifer, Arcangelo Portatore di Luce, e Azrael, Arcangelo della Morte, dichiariamo guerra al Consiglio!»
Finito di parlare, mentre ancora le sue parole scendevano nel cuore dei presenti attoniti, estrasse la spada dal fodero e ne puntò la lama verso Metatron. Un raggio di luce grigia scaturì dalla spada e colpì in pieno petto l’Arcangelo Principe, che cadde dallo scranno sul pavimento colorato della Sala del Consiglio.
Lucifer rise e andò a girare il corpo di Metatron con un calcio. I suoi occhi senza vita fissarono la volta della Sala.
«Come vedete, ho conquistato il potere. Ora, per il vostro bene, siete pregati di unirvi a noi.»
Inorridito, Harry girò la testa, guardando la Sala. Vide Samael alzare le braccia in segno di resa ed accorrere verso Lucifer. Lui sorrise e diede a lui e al figlio due fucili.
Harry capì cosa stava per succedere e si tuffò dietro lo scranno. Alle sue spalle, Mikael estrasse la sua spada e si gettò contro Lucifer, ingaggiando un duello corpo a corpo.
Nel frattempo, Azrael e Marco avevano estratto le Agram e stavano colpendo gli Arcangeli che non si erano voluti arrendere.
Nove corpi caddero a terra prima che le armi esaurissero le munizioni. Harry si azzardò ad alzare la testa per vedere chi era sopravvissuto, appena in tempo per vedere la spada di Lucifer trapassare il suo patrigno.
Harry urlò e si gettò contro Lucifer, ma il figlio di Tyrael lo colpì con una spallata, mandandolo a terra. Harry si girò e il suo salvatore cadde a terra, colpito da uno dei raggi di luce di Lucifer.
Harry si riprese dallo shock e corse verso l’uscita, seguito da molti dei primogeniti degli Arcangeli.
Nel frattempo, Tyrael estraeva la grande spada d’oro e si gettava contro i traditori, seguito da Raphael che aveva anche un grande scudo verde con inciso il suo simbolo.
Erano forti e coraggiosi, ma non potevano niente contro tre Arcangeli e due dei loro figli: morirono ancora prima di raggiungerli per coprire la ritirata agli altri. Nel frattempo, raffiche di spari colpivano i fuggiaschi: Azrael, Samael e Marco avevano ricaricato le armi.
Prima di svoltare l’angolo e trovarsi in salvo, Harry sbirciò alle sue spalle. Prima di morire, Tyrael aveva trafitto il figlio di Samael. Un colpo lo colpì alla spalla e Harry corse via, scavalcando i cadaveri di chi non era riuscito a fuggire.
Quando finalmente fu fuori dal rifugio segreto, ormai trasformato in un campo di morte, vide alcuni fuggiaschi correre in una direzione e li seguì, arrancando nella neve.
Li raggiunse solo quando tutti e tre si precipitarono in un vicolo buio, certi di essere al sicuro.
Li guardò: erano Lorena e Jerry. Di tutto il Consiglio Angelico, formato di diciannove membri, tre soli erano rimasti a difendere l’Universo da Lucifer.
Capirono di aver perso in partenza: lui disponeva di tre alleati e di suo figlio, che non si era fatto vedere in quell’azione disperata. C’era un solo modo per sconfiggerlo: radunare tutti i figli degli Arcangeli e radunarli in un esercito.
Harry spiegò quello che aveva intenzione di fare agli amici mentre Jerry gli medicava la spalla con il suo flusso verde.
«Grazie, Jerry.» disse infine.
Lui scoppiò a piangere e mormorò qualcosa tra i singhiozzi.
«Cosa hai detto?» domandò Harry.
Lui alzò gli occhi rossi di pianto e urlò: «Non sono più Jerry! Ora sono Raphael. Mio padre è morto per difendermi.»
In quel momento, la terribile verità cadde su Lorena e Harry, che ancora non avevano realizzato. Anzi, la terribile verità cadde su Uriel e Mikael.
Tutti e tre piansero insieme, abbracciati. Quando ebbero finito le lacrime, si alzarono e si guardarono negli occhi.
Raphael, Uriel e Mikael: i tre Arcangeli sopravvissuti che avrebbero dovuto salvare l’Universo dal ritorno dell’Arcangelo Caduto, che da solo era stato a malapena sconfitto da tutto il resto del Consiglio.
La loro missione era quasi impossibile, eppure la speranza brillava forte nei loro occhi, dietro la disperazione.
 
La Seconda Guerra Angelica era cominciata quel giorno.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Preparativi ***


PREPARATIVI
 
Mikael, Uriel e Raphael si precipitarono dentro il grande palazzo sotterraneo di Roma.
Circa 3 chilometri sotto la capitale d’Italia, si estendeva una rete di catacombe che nessuno aveva mai rinvenuto. Al centro, si trovava la Sala del Gran Consiglio dei Figli di Mikael. La guerra stava per cominciare: si stavano cercando gli eserciti. Appena dopo essere fuggiti dalla Sala del Consiglio Angelico, Mikael, Uriel e Raphael avevano ordinato a tutti i loro agenti disponibili di trovarsi in quella sala, per organizzare l’esercito.
Il comando era stato affidato a Mikael perché era stato lui a guidare i Fratelli Arcangeli contro Lucifer, durante la Grande Guerra.
La situazione era critica: Lucifer e Azrael erano già preparati alla guerra e i loro eserciti erano pronti a schiacciare quelli dei tre angeli. Samael stava radunando i suoi agenti, così i tre angeli difensori erano in netto svantaggio.
Le compagnie degli angeli ormai morti si erano disperse, e Lucifer stava cercando tutti i figli di angeli che trovava per arruolarli o, se non avessero accettato, ucciderli.
Mikael isolò questi pensieri in un lato della propria mente ed entrò nel grande palazzo, seguito dai due amici. Fece una rampa di scale scavata accuratamente nella pietra, giungendo al posto riservato al comandante. Il palazzo si estendeva come un enorme anfiteatro, calibrato perfettamente in modo che il suono della sua voce si sentisse anche sugli spalti più lontani.
Si alzò in piedi, ben visibile a quasi diecimila persone.
«Figli di Mikael, Uriel e Raphael» chiamò «Siamo qui per darvi una ben triste notizia: Lucifer è tornato.»
Dopo quelle tre parole, tutti tacquero, tutti i rumori si azzerarono.
«Sono costretto a chiedervi di combattere.»
Il silenzio si fece ghiaccio, mentre la notizia si muoveva come un’onda lungo la sala, colpendo tutti i presenti. Uno di loro si alzò.
«Perché solo queste tre compagnie? Dove sono le altre?»
«Lucifer si è alleato ad Azrael e Samael. Oltre a loro e a noi, tutti gli altri Arcangeli sono morti, e i le compagnie dei loro figli disperse. Per questo dobbiamo cercarli.»
«Che speranze abbiamo contro di lui?»
La domanda lo colpì profondamente al cuore.
«Dobbiamo trovare assolutamente i figli di Zadkiel, Gabriel, Jophiel e Tyrael. Se li raduniamo, sconfiggeremo i nostri avversari.»
La folla si diradò mentre i presenti uscivano, riorganizzandosi nelle loro tre compagnie. Mikael aveva già concordato con i compagni che loro li avrebbero divisi in gruppi di ricerca che sarebbero andati a rintracciare gli arcangeli mancanti.
Mikael, afflitto, tornò alla propria abitazione temporanea, una casa scavata nella pietra dentro quelle sterminate catacombe.
Mentre si sedeva, nel cervello gli martellava la stessa domanda, alla quale era certo di aver risposto male. “Che speranze abbiamo contro di lui?” Nessuna. Anche radunando tutti gli eserciti, cosa inverosimile, difficilmente avrebbero sconfitto tre dei più potenti angeli guerrieri. Certo, Mikael aveva l’esercito più potente, ma gli assassini di Azrael e gli sterminatori di Lucifer erano quasi pari al suo, ma in numero molto maggiore.
Mentre il suo cervello si batteva strenuamente, alla disperata ricerca di una risposta a quella domanda, si addormentò.
 
Marco arrivò a New York la sera tardi. Non era stato facile convincere le autorità a far volare tre grossi elicotteri militari nel cielo di Manhattan, soprattutto senza i figli di Jophiel a plasmare la verità.
Alla fine, però, il potere persuasivo degli angeli aveva colpito nel segno e ora quasi trecento figli di Azrael stavano marciando sulla città, alla ricerca dei figli di Gabriel dispersi. Il loro quartier generale si trovava in un hotel elegante ai confini di Manhattan, dove quasi metà dei figli di Gabriel si erano rifugiati, rifiutando di credere alla morte del loro capo.
I figli di Azrael sfilavano per le vie di New York con i loro cappotti neri con il teschio sulla schiena sormontato dalla grande “A”, mentre i passanti e i cittadini li guardavano spaventati, chiudendosi nelle loro case. Quando raggiunsero il palazzo che stavano cercando, Marco fu il primo ad entrare, sfondando la porta con un calcio. Non appena la porta fu aperta, i figli di Azrael si precipitarono all’interno.
I figli di Gabriel si erano chiusi dentro la Sala del Gran Consiglio, lasciando fuori solo uno di loro.
Marco gli si avvicinò con il fucile spianato. Vista l’importanza della missione, aveva dovuto abbandonare le sue amate Agram - che pure teneva sempre nelle tasche interne del giubbotto - a favore di un M4 americano, sul quale i primi dieci soldati in prima linea avevano montato anche il lanciagranate M203.
«Se mi uccidete, loro non usciranno da qui.» disse il figlio di Gabriel in piedi davanti alla porta.
«Avete intenzione di arruolarvi nel nostro esercito?» domandò Marco.
«Mai!» urlò il figlio di Gabriel.
«Allora sei inutile.»
Marco abbassò l’M4 con la mano sinistra, mentre con la destra estrasse una Agram e colpì ripetutamente la sentinella, distruggendole petto e volto.
«Sapevo che mi sarebbe tornata utile.» disse Marco, riferendosi alla piccola mitragliatrice russa tanto apprezzata, che poi ripose, tornando ad imbracciare l’M4 a due mani. Fece cenno ai dieci soldati muniti di lanciagranate di appostarsi davanti all’ingresso, poi si tuffò sulla porta con una spallata, abbattendola.
Rimase fermo a terra mentre i dieci soldati dietro di lui sparavano le loro granate all’interno della stanza, poi si alzò su un ginocchio e sparò anche la sua.
Le pareti della grande sala si tinsero di rosso mentre i figli di Gabriel venivano massacrati. Quando le granate furono esaurite, rimanevano una ventina di figli di Gabriel.
Alcuni cercarono di estrarre le loro armi, segnando la loro sorte: le M4 fecero volare i loro proiettili contro i superstili, sterminandoli.
Quando l’ultimo proiettile di Marco fu conficcato nella carne dell’ultimo figlio di Gabriel in quella stanza, lui gettò a terra il caricatore, ridendo.
Quindi si voltò e uscì, seguito dagli altri. I figli di Gabriel non avrebbero mai osato unirsi all’esercito avversario, ora.
 
Mikael era di fronte al nuovo Tyrael. Dopo che era giunta la terribile notizia, i figli di Tyrael non si erano scoraggiati, e avevano subito eletto un nuovo capo.
Il loro rifugio non era mai stato detto a nessuno, eccetto la compagnia stessa, così Mikael era venuto armato per evitare che l’indirizzo datogli da Tyrael potesse rivelarsi una trappola.
In una base subacquea sotto il fondo del lago di Lochness, l’Arcangelo della Giustizia e l’Arcangelo della forza stavano per unire i loro eserciti.
Mikael aveva già avanzato la proposta, e Tyrael era seduto alla scrivania, pensieroso, la testa tra le mani.
Il nuovo Tyrael era stato John Gardens, uno scozzese. Si era aggiunto ai figli di Tyrael quasi per caso, ma era da subito diventato uno dei più potenti. Era un uomo alto e massiccio, con due mani che potevano stritolare un orso.
Aveva dei lunghi capelli biondi sulla fronte spaziosa, i penetranti occhi castani che esaminavano sempre ogni minimo dettaglio. La mascella squadrata era contratta in una pensierosa espressione e, alla sua presenza, Mikael pensò che non avrebbero potuto scegliere un Tyrael migliore.
Dopo circa venti minuti di riflessione, l’imponente uomo si alzò.
«Mikael, sii sincero: non abbiamo speranze contro l’esercito di Lucifer.»
Mikael tacque, ma annuì tristemente.
«Non sarebbe giusto far ammazzare i miei figli e i figli di Samael e Azrael tra di loro, quando tanto in ogni caso non avremmo speranze.»
«La speranza è l’ultima a morire.»
Era vero. L’unica cosa che aveva portato Mikael a dedicare tutte le sue energie alla guerra era stata quella speranza che ancora adesso brillava nei suoi occhi.
«Già, purtroppo muore dopo molte vite.» rispose Tyrael, pungente.
«I figli di Lucifer non accetteranno una posizione neutrale. O vi unirete a loro, o vi stermineranno.»
«I figli di Lucifer non ci troveranno.»
«Io so dove vi nascondete.»
Tyrael lo osservò attentamente.
«Tradiresti un tuo fratello?»
«Tu mi stai tradendo, Tyrael. Abbiamo bisogno del vostro esercito.»
Tyrael sprofondò sulla sedia.
«Tu non sei come Samael. La vendetta non ti piace. Non riveleresti la nostra posizione al nemico.»
Mikael decise di smetterla di mentire. Se Tyrael li avesse aiutati, non sarebbe stato per costrizione.
«No, non lo farei mai. Ti supplico, aiutaci. Io e i miei figli siamo pronti a versare fino all’ultima goccia del nostro sangue per sconfiggere Lucifer.»
Tyrael tornò a pensare come prima, poi si alzò di nuovo.
«E’ giusto che i Fratelli si schierino fianco a fianco, come El ci ha insegnato. Farò preparare i miei figli, ma non usciremo subito allo scoperto.»
Tese la mano a Mikael che la strinse, riconoscente.
«Grazie, Tyrael.»
«E’ Giustizia, Mikael. Ora vado, devo adempiere alla mia promessa.»
Tyrael salutò il suo ospite e uscì per convocare la riunione del Gran Consiglio.
Mikael per poco non saltò dalla gioia. L’esercito di Tyrael era al suo fianco.
Ora doveva trovare i figli di Zadkiel, poi avrebbe pensato a Jophiel e Gabriel.
Non appena fu di nuovo all’aria aperta della Scozia, il telefono squillò, lanciando nell’aria le note di “She’s a Rebel”.
«Pronto»
«Mikael, sono Jerr... ehm, Raphael. Il Presidente degli Stati Uniti è furibondo.»
«Perché?» domandò Mikael, sorpreso.
«Qualche centinaio di uomini vestiti di nero con un grosso teschio sulla schiena hanno sfilato per le vie di Manhattan per poi fare una strage in un palazzo. Nessuno ricorda i responsabili.»
Mikael capì subito la verità: Manhattan... i figli di Gabriel.
Imprecò a gran voce.
«E non è tutto... uno dei figli di Zadkiel ci ha contattati.»
«E...» disse Mikael, impaziente.
«Si uniscono a noi.»
«Fantastico. Quanti sono?»
«Ventitrè.»
«Ventitrè?» Mikael trasalì «E gli altri?»
«Si sono alleati a Lucifer. Hanno eletto un nuovo Zadkiel, che li ha portati dalla loro parte. Quasi duecento figli si sono ribellati, ma solo ventitrè sono sopravvissuti.»
Mikael venne colpito da un forte mal di testa. Gli venne quasi da piangere.
«Grazie, Jerry.»
«Di niente, Harry.»
Mikael chiuse la comunicazione, certo di due cose: che quella era l’ultima volta che usavano i loro veri nomi e che le speranze di vincere stavano scomparendo a gran velocità.
Non cercò più di frenare le lacrime e pensò che doveva essere uno strano spettacolo, un uomo solo, in mezzo alla campagna scozzese, che piangeva, lasciando che le sue lacrime si mescolassero alla pioggia, con un telefono in mano.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Un nuovo Angelo ***


UN NUOVO ANGELO
 
Cinque grossi elicotteri militari atterrarono all’aeroporto Charles De Gaulles, con i permessi per farlo. Dal primo scese Mikael, seguito dall’esercito dei figli di Mikael.
Si girò verso il suo generale e si mise in equilibrio sulle gambe nella posizione più decisa che riuscì a trovare.
«Generale, oggi marceremo contro l’esercito di Lucifer. Lui al momento si trova all’aeroporto Toussus-Le-Noble, dall’altra parte di Parigi. E’ fondamentale la vittoria di oggi, perché deciderà se i figli di Jophiel si uniranno a noi.»
«Signore, non vorremmo colpire civili.»
«E’ un rischio che dobbiamo correre. D’altronde, i civili fuggiranno quando ci vedranno marciare.»
In quel momento, da ogni elicottero scesero due carri armati M551 Sheridan, per un totale di dieci carri armati. Non era un grande esercito, ma per Parigi andava abbastanza bene.
Gli Sheridan erano usciti dal commercio nel 1970, ma i figli di Mikael ne avevano recuperati parecchi, come pure altri tipi di veicoli e armi, tutti conservati nelle immense catacombe sotto Roma.
Mikael si girò a guardare i civili che guardavano terrorizzati i carri armati, poi puntò lo sguardo sulla grande Parigi. Quel giorno sarebbe stata guerra.
 
Elisa passeggiava meravigliata con Marta e Giulio per la magnifica Rue Des Champs-Élisées, quando intorno a loro la gente incominciò a disperdersi. In televisione, un uomo continuava a ripetere qualcosa in francese e in inglese, ma troppo velocemente perché i giovani capissero. Rintronati, si rifugiarono in un bar, dove si acquattarono sotto il bancone deserto.
Giulio aprì il frigorifero ed estrasse tre Coca-Cola. Marta lo guardò disgustata.
«Ma questo è rubare.»
«Tecnicamente, è prendere qualcosa da un bar abbandonato. Non è rubare.» disse Giulio mentre mandava giù la bibita. Ne porse un’altra a Elisa, che seguì il suo esempio, mentre Marta iniziò a bere solo dopo aver appoggiato qualche moneta sul bancone.
Giulio stava per prenderla in giro per quello che aveva fatto, quando udirono il primo sparo, seguito da un’esplosione. A quello, ne seguirono altri.
Terrorizzati, i tre amici si sporsero dall’entrata e videro avanzare lungo la Rue due schieramenti militari, che si stavano sparando missili da carri armati leggeri.
I mezzi si avvicinavano sempre di più, presto si sarebbero scontrati. Quando ormai poco più di un chilometro li separava, I carri armati decorati con un simbolo azzurro si disposero a semicerchio, attendendo che i nemici si avvicinassero.
«Dobbiamo andarcene di qui» osservò Giulio.
«Non possiamo» disse Elisa, vedendo giusto: l’altro esercito stava avanzando, e missili esplodevano dappertutto. Uscire dall’edificio sarebbe stato anche peggio che rimanere lì.
Sotto gli sguardi attoniti dei ragazzi, i carri armati di Lucifer iniziarono a passar loro davanti. I tre ragazzi si premettero ancora di più per terra, ma fecero la scelta sbagliata: evidentemente quella zona era ottima per gli attaccanti, perché alcuni uomini in divisa nera incominciarono a salire.
Uno di loro si fermò a guardarli.
 
Marco chiese ai tre ragazzi cosa ci facessero lì, in francese. Non ottenne risposta dai ragazzini tremanti.
«Cosa cazzo ci fate qui?» urlò. Se non avessero risposto, li avrebbe uccisi.
«Eravamo qui in vacanza.» disse Elisa, animata da un coraggio che non sapeva di avere.
Marco sorrise, poi afferrò un M4 con il lanciagranate fissato sopra e lo gettò tra le mani di Giulio.
«Prendilo, vai sul tetto e fatti spiegare da qualcuno come usarlo.» ordinò.
«No!» esclamò Giulio.
«Muoviti o ammazzo le tue amichette.» gli rispose Marco, sprezzante.
Giulio prese l’M4 e corse di sopra.
In quel momento, il rumore di spari aumentò e i figli di Mikael irruppero nell’edificio, armati.
Marco si girò e sparò, uccidendone quattro con la granata e finendo gli altri con gli spari. Chiamò a gran voce rinforzi, poi afferrò un’altra M203 e si gettò di fuori.
I rinforzi arrivarono. Tra di loro c’era Giulio, con l’M4 ancora tra le mani.
Stava tremando.
Nello scendere, inciampò e cadde, trascinando con sé uno dei soldati.
Lui si rimise in piedi e vide chi l’aveva fatto cadere.
«Bimbo del cazzo!» urlò, sparandogli addosso.
Inutilmente Giulio cercò di farsi scudo con le mani, venendo colpito ripetutamente.
Elisa urlò, mentre qualcosa al suo interno prendeva possesso di lei.
Sentì un dolore atroce alla schiena, mentre due ali le uscivano dal corpo: una nera, da diavolo e una bianca, da angelo. Nelle mani le apparvero due spade, del medesimo colore delle due ali.
Una furia si scatenò nel suo cervello e partì alla carica contro gli uomini che avevano ucciso il suo amico.
I proiettili la colpivano, ma non la trapassavano, rimbalzando sulla pelle diventata impenetrabile. Le sue spade si abbattevano sui soldati, uccidendoli, mentre il sangue le macchiava i vestiti, ora diventati un’armatura bianca e nera. Al centro dell’armatura, sul petto, era affisso un cerchio di metallo che rappresentava un Sephirot, anche nel colore.
Le sue spade continuavano ad abbattersi violente sui figli di Azrael, finché non si ritrovo sul tetto, senza più nessun soldato vivo intorno.
In quel momento, si ricordò di Marta, sola al bar. Quando arrivò giù e la vide, era svenuta. La prese tra le braccia e salì fino al tetto di nuovo, poi si guardò le ali. Chiuse gli occhi e si lanciò da quell’altezza vertiginosa.
Le ali ressero.
Un missile la sfiorò, lei fece una capriola di lato e lo schivò. Probabilmente a lei non sarebbe successo niente, ma Marta sarebbe morta di certo. Atterrò nel campo degli altri soldati.
Quando arrivò a terra, molti uomini si precipitarono a soccorrere la sua amica, e uno rimase in piedi davanti a lei.
 
Mikael non credeva ai propri occhi. Un altro angelo.
«Chi sei?» domandò.
L’angelo sembrò rispondere prima ancora di sapere cosa stava per dire.
«Nikeforos. L’Arcangelo del Bene e del Male.»
Mikael non rispose, si limitò a fissarla, interdetto.
Alle spalle di Elisa, Marco stava ordinando la ritirata, atterrito.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Arruolata ***


ARRUOLATA
 
Per quei secondi, quando era atterrata, quando quell’uomo le era rimasto davanti sorpreso, si era sentita benissimo. Orgogliosa di se stessa.
Ora però avrebbe voluto non essersi mai trasformata, non essere mai diventata quell’Arcangelo che aveva detto il suo nome senza che lei lo volesse nemmeno.
Nikeforos.
Ora era parte di lei. Mentre pensava ai recenti cambiamenti, Elisa guardava la strada fumante e piena di buche e cadaveri.
Mikael le si sedette accanto e guardò la desolazione.
«Orribile, non trovi?»
Elisa si girò a guardarlo.
«Più che orribile. Ma... perché?» chiese. La domanda la affliggeva da tempo, da quando Giulio era morto davanti a lei.
Mikael sospirò, guardando la landa desolata.
«Se non avvenisse questo sterminio, potrebbe avvenire di peggio. Conosci la storia di Lucifer?»
Elisa sapeva poco, ma conosceva la storia dell’angelo chiamato Lucifero. Fino al giorno prima non ci avrebbe mai creduto, ma adesso... lei stessa si era trasformata in un angelo.
«Sì... l’angelo che tradì dio.»
«Non esattamente.»
Elisa lo guardò sorpresa e Mikael sorrise, nervoso.
«L’Universo è stato creato da una forza suprema, chiamala come vuoi. Karma, Dio, Jwé, Allah, Buddah, la Forza, gli dei dell’Olimpo... insomma, una forza esterna e potentissima che ha creato il mondo. Questa forza è composta di due metà opposte e inscindibili, El e Satan. El è ciò che tu chiami “Dio”, ciò sotto la cui ombra noi angeli operiamo. Satan e il vostro Satana, il Demonio, il Male. Lucifer scoprì la grande potenza del Satan e tradì i suoi fratelli, ma venne sconfitto.»
«Cosa c’entra tutto questo con Lucifero?»
«Chiamalo Lucifer. Comunque, Lucifero non è mai “morto”. È ancora vivo, anche se per tutti questi anni il suo onore gli ha impedito di farsi vedere se non per corrompere molte anime al Satan. Ora è tornato e vuole assumere il controllo dell’Universo, ma non è più solo: tre Arcangeli si sono schierati con lui.»
«Chi sono gli arcangeli? Mi sembra di ricordare che Gabriele era un arcangelo...»
Un velo di lacrime apparve sugli occhi di Mikael, rendendoli lucidi.
«Gabriel è morto e con lui molti dei suoi figli. Quando Lucifer è tornato, eravamo impreparati, così molti di noi sono stati uccisi.»
«Gli angeli non dovrebbero essere immortali?»
«Le anime degli angeli. I loro corpi sono mortali, ma le loro anime si trasmettono di padre in figlio. Se dovesse mancare la successione, ai figli di un angelo spetta eleggere il nuovo arcangelo, e lui ne assumerà l’anima. Rispondendo alla tua precedente domanda, gli Arcangeli sono coloro a cui El affidò il governo dell’Universo da lui creato nel tempo che fu. Eravamo undici: Uriel, l’arcangelo difensore, Zadkiel, l’arcangelo della libertà, Mikael, l’arcangelo della forza, Jophiel, l’arcangelo della verità, Samael, l’arcangelo del castigo, Gabriel, l’arcangelo messaggero, Raphael, l’arcangelo guaritore, Lucifer, l’angelo caduto, Azrael, l’arcangelo della morte, Tyrael, l’arcangelo della giustizia e Metatron, l’arcangelo della sapienza. Io sono l’Arcangelo Mikael, il comandante dell’esercito dei Fratelli Arcangeli.»
Elisa tacque per un po’, pensierosa. Poi si riprese.
«Quanti arcangeli sono stati uccisi da Lucifer?»
«Al suo ritorno, Lucifer e gli alleati Azrael e Samael hanno ucciso tutti gli altri arcangeli.»
«Ma... quindi...»
«Tuttavia» la interruppe Mikael «I loro figli ne presero il posto, o furono rieletti. Al momento, solo due anime angeliche non sono nei loro corpi: quella di Metatron, che non aveva figli, e quella di Gabriel, i cui figli sono stati sterminati.»
«Le loro anime sono perse per sempre?»
«No. Esiste un rituale per diventare figli di un angelo, oltre ad esserlo per diritto di nascita. Una volta fatto, con una riunione si può far acquisire l’anima di quell’angelo al suo figlio scelto.»
«Perché non lo fate?»
«Perché non c’è tempo e siamo in guerra.»
Elisa tacque di nuovo, poi decise di porre la domanda che l’aveva assillata per tutto quel tempo.
«Io... cosa sono?»
Mikael la fissò a lungo.
«Sai cos’è un Sephirot?»
Elisa ne aveva sentito parlare durante una lezione di religione tenuta dal suo professore che tutti consideravano pazzo.
«Sì, ma...»
«Un Sephirot è l’ingrediente per la creazione di qualsiasi cosa. Dodici Sephirot erano all’origine: con essi, l’Universo e gli undici anime degli arcangeli che lo governano furono create. Lucifer trovò un tredicesimo Sephirot e cercò di usarlo. Il suo esperimento dev’essere andato male, ma io sono convinto che abbia creato un angelo. E che la sua anima, chissà come, sia finita dentro di te.»
Elisa si chiese come fosse possibile, poi si ricordo di quella volta che era stata colpita da un’onda d’urto e aveva sentito quel dolore incredibile nel petto. Sapeva bene come era successo.
«Quindi io... sono un angelo?»
«Sì, sei un angelo.» Mikael la stava fissando negli occhi.
Elisa pensò che quella frase, detta da un uomo così, avrebbe fatto esplodere il cuore di molte ragazze. Poi pensò che per lei era quasi una condanna.
«Tu...» riprese Mikael «Sei la nostra unica speranza di sconfiggere Lucifer.»
Elisa rimase attonita, anche se avrebbe potuto aspettarsi una rivelazione del genere.
«Devi aiutarci a sconfiggerlo.» continuò.
Elisa si stupì, poi arrivò la consapevolezza. La consapevolezza di come avrebbe potuto aiutarlo. Avrebbe dovuto combattere.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Attacco ***


ATTACCO
 
«Un nuovo angelo?» Lucifer era attonito.
«Sì, signore. L’esperimento con il Sephirot dev’essere fallito ed è stato creato un nuovo angelo.»
Lucifer si lasciò ricadere sul suo trono, in preda alla disperazione. Un nuovo angelo avrebbe cambiato tutto. Rimase muto in riflessione per alcuni minuti, poi alzò di nuovo lo sguardo.
«Si è trasformato, vero?»
«Sì.»
«Com’era?»
«Sembrava un ibrido... aveva un’ala di Satan e una di El, una bianca e l’altra nera. Anche l’armatura era bicolore e sul petto capeggiava un’incisione del Sephirot.»
Lucifer rifletté a lungo, di nuovo. Poi si alzo, con un’espressione di trionfo sul viso.
«Catturate quell’angelo. Diventerà un nostro servitore.» disse.
«Com’è possibile, signore? Ha ucciso almeno cinquanta dei nostri uomini, dubito che si schiererà dalla nostra parte.»
Lucifer guardò il suo servo con un’espressione di disgusto, poi lo colpì con una sberla che lo fece volare lungo tutta la stanza, mandandolo a sbattere contro una parete. Si avvicinò al suo servitore a terra.
«Impara ad avere fiducia nel tuo signore. Non fallirò un’altra volta.» disse.
«Sì, mio signore.» disse Marco, inchinandosi.
 
Marco uscì furibondo dalla Sala del Consiglio. Detestava dover sottostare a qualcuno. Lui era nato per comandare, non per essere comandato.
Andò nella Sala Comunicazioni, che si trovava un piano sotto quella del Consiglio. Serviva per comunicare istantaneamente con chiunque attraverso un collegamento celebrale. Era una stanza sferica, sulle cui pareti brillavano scie bianche che si congiungevano in ordine apparentemente casuale, per poi staccarsi e ritrovarsi in punti diversi della sala, in continuo mutamento.
Marco chiuse gli occhi e si concentrò.
Cosa desideri, Marco? Domandò la voce di Azrael da dentro la sua testa.
Padre, mandami cento combattenti tra i migliori. Lucifer mi ha assegnato una missione da compiere.
Sarà fatto. Vieni al Quartier Generale e avrai i tuoi soldati.
La comunicazione bastava. Marco riaprì gli occhi e uscì dalla stanza. Si diresse verso l’uscita della metropolitana con passo veloce. Il Quartier Generale si trovava al centro di Montmartre, dove un accampamento era stato montato tra le strette vie. I Fratelli Arcangeli non osavano attaccarlo perché era troppo ben difeso, ma ben presto la battaglia sarebbe ripresa. Lucifer detestava essere sulla difensiva e stava già preparando un esercito d’assalto da far atterrare vicino a Roma, dove avrebbe attaccato l’esercito dei Fratelli. Purtroppo, questa azione avrebbe lasciato sguarnito l’esercito di Parigi e i nemici avrebbero potuto appropriarsi del Quartier Generale, rendendo l’intera azione un inutile scambio di posizioni. Marco pensava che la preparazione di Lucifer fosse stupida, ma non osava contraddire il suo signore.
Arrivò velocemente al Quartier Generale.
Azrael lo stava aspettando; lo condusse all’esterno dell’accampamento e gli mostrò i suoi soldati. Erano cento, scelti tra i migliori, esattamente come aveva chiesto.
«Padre, questa sera devi attaccare più a Est degli Champs-Élisées. Devi portare il loro esercito lontano dall’accampamento, così di notte noi penetreremo là e cattureremo il nuovo angelo.»
«I soldati lo faranno sicuramente marciare nell’esercito.»
«I soldati non sono idioti, e ho visto quell’angelo prima che si trasformasse. È solo una ragazzina, devono addestrarla.»
«Sei certo che lo faranno?»
«Conosco Mikael. Lo farà.»
«Sia fatto, allora. Comunicherò immediatamente l’attacco di stasera.»
Azrael si girò e tornò verso l’accampamento, il mantello che gli svolazzava dietro.
Marco andò a preparare il suo arsenale per l’attacco notturno.
 
Marta era stata spedita sul primo volo per Bergamo. Era triste dover combattere in guerra ed essere separata dall’amica, ma Elisa aveva capito subito che era la scelta giusta. Non poteva mettere a repentaglio la sua vita.
«Elisa» chiamò Mikael.
Elisa uscì dalla piccola casupola di cemento armato e lo seguì. Lui la portò in un grosso bunker sotterraneo, che si estendeva per almeno due chilometri quadrati. Mentre ammirava la grandezza di quell’opera, Elisa notò le migliaia di uomini che si stavano allenando in quel posto. C’era di tutto: arti marziali, corpo a corpo, pugilato, tiro al bersaglio e molte altre posizioni.
«Oggi ti insegnerò a combattere.» disse Mikael.
Elisa sospirò.
«Dove devo andare?» domandò.
«Devi stare qui, con me.»
Elisa lo guardò con un’espressione incerta. Come avrebbe fatto a imparare a combattere contro le armi da fuoco di cui disponevano gli avversari se non gliele facevano usare?
Mikael lesse l’incertezza nei suoi occhi.
«Non userai armi da fuoco, per ora.» disse.
Elisa pensò che forse avrebbe dovuto combattere con le spade che le erano comparse in mano quando si era trasformata. Lo chiese a Mikael.
«Purtroppo, non potrai più trasformarti. Non so come hai fatto la prima volta, ma non sarà così facile una seconda. Per lasciare che l’anima di un arcangelo prenda il sopravvento del tuo corpo serve un’energia immensa, che spesso ti uccide ancora prima che la trasformazione termini. Pochi uomini sono mai riusciti a sopravvivere dopo una trasformazione, e nessuno ne ha mai fatte due.»
Elisa lo guardò incredula. Com’era possibile che lei avesse eguagliato uomini così potenti, senza nemmeno volerlo?
Mikael lesse nei suoi occhi lo sgomento, di nuovo.
«Lascia perdere incognite inutili. Concentrati invece sul momento presente. Ora ti insegnerò a combattere con il corpo, senza armi. Le anime angeliche conferiscono una mente e un corpo più forti a chi le custodisce, quindi ti sarà abbastanza facile imparare a combattere.»
Elisa lo fissava attenta. Vedendo che non si perdeva una parola, Mikael continuò.
«La prima cosa che devi imparare è schivare i colpi. Vuoi provare?»
«Sì.» disse Elisa, con una sicurezza che non sentiva sua.
Mikael strinse una mano e sferrò un pugno.
Elisa non capì cosa stava succedendo. Una sua mano bloccava il pugno, mentre il ginocchio colpiva il petto di Mikael. Nell’attimo seguente, Elisa girò su se stessa colpendolo alla nuca con un calcio e mandandolo a terra.
Quando si rialzò, il volto di Mikael era insanguinato.
Elisa lo guardò terrorizzata, poi spostò lo sguardo sulle proprie mani.
Mikael aprì la bocca e sputacchiò un po’ di sangue, fissandola attonito.
«Come diavolo hai fatto?» chiese, sorridendo sotto al naso rotto.
«Io... non lo so.»
«Vediamo fino a che punto arriva la tua abilità.»
Improvvisamente, Mikael partì alla carica con un altro pugno e questa volta Elisa si abbassò, ma Mikael le poggiò una mano in testa e, facendo perno su di essa, si avvitò nell’aria, atterrando alle sue spalle, per poi calciare verso la sua schiena.
Elisa saltò all’indietro e colpì con entrambi i piedi la faccia di Mikael, per poi rimanere in equilibrio sulle mani.
Mentre Mikael si rialzava, lei lo sgambettava con i piedi, per poi colpirlo al petto con una gomitata.
Lui sputò sangue.
«Hai vinto.» disse, ridendo.
Elisa lo guardava, stupita che dopo colpi del genere fosse ancora in forze.
Gli diede la mano per aiutarlo a rialzarsi, poi lo accompagnò in infermeria. Aveva il naso rotto, un occhio nero e una ferita sulla fronte, probabilmente causata dalle scarpe di Elisa.
Quando finirono di medicarlo, Mikael uscì, con un grosso impacco sorretto da bende sulla faccia. Solo l’occhio sinistro si apriva.
L’allenamento riprese a ritmo serrato, ed entrambi subirono parecchi colpi. La sera, esausti, entrambi andarono a dormire.
Mentre entrava nella sua stanza, che era stata arredata con un piccolo letto, Elisa sentì di essere veramente libera. Non ne capiva il motivo, ma combattere l’aveva rallegrata, anche se era piena di lividi.
 
Marco alzò il braccio, dando il segnale di attacco. Dieci M203 fecero fuoco, lanciando altrettante granate sopra all’accampamento nemico. Il plotone difensivo uscì immediatamente allo scoperto per opporsi all’attacco e i dieci attaccanti caddero a terra, colpiti da una raffica di mitragliatrice. Nello stesso secondo il secondo gruppo lanciava le proprie granate, uccidendo decine di difensori.
Quelli rimanenti, non più di venti, si nascosero dietro un rottame di ferro abbastanza grande da difenderli.
Marco guardò a destra e a sinistra dietro di sé, controllando i suoi uomini. Quasi tutte le munizioni erano state prese per l’attacco diversivo che aveva condotto Lucifer stesso e a loro erano rimasti solo gli M4 del giorno prima, senza nessuna nuova cartuccia.
Quella missione avrebbe dato lo scacco matto alle forze dei Fratelli.
Marco finì di ispezionare i compagni, poi fece segno a uno di loro di avvicinarsi e mormorò qualcosa all’orecchio del primo. Quello lo fissò con gli occhi sbarrati dalla paura, ma si riprese subito, imbracciò l’arma e corse giù per la collina silenziosamente, raggiungendo un lato del rottame. Nel frattempo, Marco e i suoi uomini - novanta persone in tutto, incluso lui stesso - passavano dall’altro lato.
Il soldato che Marco aveva chiamato prima si gettò sui nemici urlando e sparando a raffica senza mirare, ma i nemici erano pronti e vennero a malapena feriti prima che il soldato cadesse a terra.
In quei pochi secondi, l’attenzione di tutti i difensori era andata a quel lato.
Marco partì alla carica nel medesimo istante, uccidendo tutti i difensori prima ancora che potessero reagire.
Quando anche l’ultimo ebbe finito di respirare, si girò verso la sua armata. Nessun ferito.
Sorrise e si gettò all’interno del primo bunker dell’accampamento avversario, seguito dagli altri. Non ci volle molto per scatenare l’inferno.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Contrattacco ***


CONTRATTACCO
 
Elisa venne svegliata dal rumore che il tetto faceva crollando. Aprì gli occhi e uscì dalla sua piccola casupola: l’accampamento era in fiamme.
Nel mezzo dell’incendio, i soldati marciavano lugubri. I figli di Azrael, gli angeli della morte.
Uno di loro la vide e alzò il fucile. Come era già successo, sentì che l’anima dell’angelo prendeva il sopravvento su di lei. Si chinò e strappò da una carcassa un coltello, scagliandolo verso il soldato. Lo centrò alla gola.
Si avvicinò al suo cadavere e gli sottrasse le armi. L’M4 che usava come arma d’assalto era quasi scarico e non c’erano più caricatori nel suo zaino, così lo lasciò a terra. Sorprese molto più interessanti nascondeva invece lo zaino stesso: due Colt .45 semiautomatiche cariche, più cinque caricatori da sette colpi ognuno. Quarantanove colpi in tutto. Elisa trovò una tracolla che faceva al caso suo, vi inserì i caricatori e tre coltelli, poi prese la cintura dell’uomo e vi fissò le due Colt con due foderi.
Si alzò in piedi. Avrebbe combattuto. Il pensiero avrebbe dovuto terrorizzarla, invece si sentiva stranamente contenta.
Si gettò nel bunker principale, che doveva essere pieno di soldati nemici. Si gettò a terra appena in tempo per evitare una raffica che sferzò il muro sopra alla sua testa e rispose al fuoco fino ad esaurire un caricatore. Avanzando, vide tre uomini morti. Un brivido di paura e un fremito di eccitazione la percorsero in contemporanea. Entrò in una stanza laterale, vuota.
Fece per uscire, ma andò a sbattere contro il petto di un soldato che stava entrando in quel momento. Indietreggiò ed estrasse la Colt ancora carica, ma l’altro le afferrò la gola e la sbatté contro il muro, facendole perdere i sensi per la violenza dell’urto.
 
Marco era euforico. Tra le mani aveva il corpo del nuovo angelo. Vittoria assicurata. Aveva già comunicato la ritirata e i suoi compagni lo stavano seguendo nell’uscita dall’accampamento. Inebriato dalla vittoria, solo quando entrarono nel bosco Marco pensò all’altro attacco. Estrasse un cercapersone dalla tasca. Un nuovo messaggio.
Ancora eccitato, aprì il messaggio.
 
Siamo stati trattenuti dai nemici,
si erano rifugiati in un albergo.
Una gran parte di loro sono fuggiti,
stanno venendo verso di voi.
Scappate
 
Marco sbiancò. In quel preciso istante i primi colpi ruppero il silenzio dell’aria e i tonfi dei corpi morti fecero aleggiare uno spirito di disperazione nel bosco, dove la battaglia cominciava ad infuriare di nuovo.
I suoi uomini erano pochi e non erano pronti ad affrontare un esercito che molto probabilmente non era troppo stanco.
Estrasse le sue fidate Agram e si gettò tra gli schieramenti avversari, facendo serpeggiare la morte tra le file avversarie. Quando anche il terzo e ultimo caricatore di entrambe le pistole fu esaurito, corse indietro e si caricò la ragazza in spalla, provando a fuggire nella direzione degli Champs-Élisées, sperando di ricongiungersi così all’esercito di Lucifer.
Mentre usciva per la seconda volta dall’accampamento avversario, che ora era un cimitero, fece due più due. L’esercito di Lucifer era stato trattenuto da una parte dei nemici, e quella che era tornata gli aveva teso un’imboscata. Se questo era il loro piano fin dall’inizio, però... significava che avevano un’altra arma da giocare. Qualcosa che li avrebbe condotti di nuovo contro le schiere di Lucifer.
Si girò, appena in tempo per vedere lo spettacolo che quasi fermò il suo cuore per qualche attimo.
Appena dietro a quelle che ormai erano le rovine dell’accampamento nemico, due eserciti di almeno una decina di migliaia di persone in tutto si stagliavano contro l’orizzonte. I due capi erano angeli: il primo, con la divisa gialla, era Jophiel. Il secondo, con la divisa dorata, Tyrael.
Si girò di nuovo nella direzione opposta e corse più veloce che poté, rallentato dalla ragazza che portava in spalla, per arrivare da Lucifer.
Alle sue spalle, i due eserciti avversari avanzavano, pronti a porre fine alla guerra.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Lo scontro finale ***


LO SCONTRO
 
Marco arrivò al cospetto di Lucifer con il fiato corto. Lasciò a terra la ragazza e fissò negli occhi l’Angelo Caduto.
«Lucifer, stanno arrivando con un grosso esercito.»
«Lo so» disse Lucifer, poi allargò le labbra in una smorfia «Azrael».
Un lampo di dolore balenò per un attimo negli occhi di Marco, poi però scomparve.
«Grazie, signore» disse.
«Va’ a comandare la divisione che fu di tuo padre. Non fate prigionieri.»
Azrael chinò la testa e uscì.
Suo padre era morto. Ora lui era l’angelo della morte.
 
Elisa si svegliò con un dolore lacerante al petto. Urlò.
Una fredda risata le fece gelare le vene mentre apriva lentamente gli occhi, sentendo tutti i muscoli bruciarle.
In piedi davanti a lei, con una specie di punta di metallo nella mano, c’era Lucifer. Rise di nuovo e conficcò la punta nel petto di Elisa.
Di nuovo, il dolore di prima le squarciò il petto.
Lucifer estrasse la punta e si voltò.
La ferita sul petto si rimarginò subito, ma il dolore rimase tale e quale.
«Qualche risultato?»
«Signore, l’anima è difficile da percepire... sembra divisa in due nettamente.»
«Come, divisa in due?» chiese sprezzante Lucifer.
«Separata nettamente in due parti. Sembra che Satan e El si siano concentrati in due poli opposti dell’anima dell’angelo.»
«Com’è possibile? Tutte le anime sono una fusione tra El e Satan, nessuna esclusa.»
«Evidentemente, questa è esclusa. Probabilmente quando è stata creata El e Satan non si sono combattuti per prenderne possesso, ma si sono schierati fianco a fianco. Potrebbe essere un segno. Potrebbe indicare un destino segnato per la ragazza.»
«Stronzate. Hai sbagliato qualcosa.»
«Signore, probabilmente dovremmo interpellare l’Oracolo e vedere cosa ci comunicano El e Satan.»
«Basta!» urlò Lucifer «Né El né Satan hanno dato alcun segno. Satan continua a darmi la missione di conquistare il mondo e svelargli il suo potere, per liberare l’Universo da El.»
«Ma, signore, le cose possono essere cambiate...»
Lucifer afferrò il collo dello scienziato che stava parlando e gli torse la testa, uccidendolo.
Quando l’uomo fu a terra, Lucifer si voltò verso Elisa.
«Predestinata, eh? Bene, vediamo se il destino ti salva dalla morte.» disse, poi estrasse un coltello e lo avvicinò al collo della ragazza.
Elisa era più morta che viva, ma quando la fredda lama penetrò la pelle del suo collo i sensi le si riattivarono all’istante.
In quel momento, la porta del laboratorio esplodeva e Lucifer si voltava per guardare cosa stava succedendo.
Elisa si accorse di avere gambe e braccia legate.
Un momento dopo, le catene erano spezzate e lei era a terra.
Lucifer la guardò stupito, esitando un attimo di troppo: lei lo scagliò a terra, gli prese il coltello e glielo conficcò nel petto.
Mentre guardava i suoi occhi spegnersi, si accorse con orrore di cosa stava facendo. Estrasse il coltello prima che potesse colpirgli il cuore.
In quel momento, Mikael cadde all’interno della stanza e Azrael lo seguì.
Il fuggitivo guardò Elisa.
«Scappa!» urlò, mentre Azrael lo bloccava a terra con il piede.
Elisa si gettò sul soldato, facendolo cadere a terra in un nugolo di colpi.
Quando si rialzò, Azrael - ovvero Marco - era di fronte a lei, mentre alle sue spalle Mikael stava infierendo su Lucifer, che ormai aveva quasi perso i sensi.
Vide la disperazione negli occhi di Azrael che esplodeva, inondandogli l’iride, riempiendolo di energia nuova... Il suo corpo stesso esplose, lasciando uscire le ali lucenti nere, mentre sul suo petto si creava una solida armatura e tra le mani gli compariva una spada del medesimo colore.
In quel momento, Elisa si gettò a terra, appena in tempo per evitare il terribile affondo della lama nera, che trapassò sia Mikael sia Lucifer, per poi conficcarsi per almeno una decina di centimetri nel solido terreno.
Elisa fissò gli occhi di Mikael che si stavano spegnendo, mentre lui tendeva una mano verso di lei, con le ultime forze.
Improvvisamente, dentro al suo corpo un’immensa energia cominciò ad accumularsi, frutto della speranza e della fiducia che Mikael nutriva in lei. Quel grandissimo potere divampò e si espanse finché la stanza non divenne luminosa come il sole, poi la luce si spense e, uno di fronte all’altro, Nikeforos e Azrael si prepararono ad affrontarsi.
A dare inizio al duello fu Azrael, che abbatté la sua terribile lama sulla testa dell’avversario. Elisa, ridotta a una parte della mente di Nikeforos, si guardava combattere come fosse una persona esterna, mentre l’angelo parava i colpi con eleganza e metteva in difficoltà lo stesso Azrael.
Quello riuscì a disarmare la mano destra di Nikeforos, ma quell’attimo di distrazione consentì all’avversario i pochi, preziosi attimi con cui tagliò di netto l’avambraccio dell’Angelo della Morte.
Nikeforos, incurante della guerra che gli infuriava intorno, fissò negli occhi Azrael.
Nello stesso istante in cui le pupille si incrociavano, vibrò la spada nera verso il suo cuore.
 
Elisa si rialzò, ormai estranea alle spoglie dell’angelo. Le sue guance erano rigate da fiotti di lacrime che trascinavano con loro la polvere accumulata sul campo di battaglia per poi ricadere sul terreno sporco di sangue e sudore.
Di fronte a lei stava Marco, inerme.
La spada nera era caduta a terra poco distante da lui.
All’ultimo momento, non aveva avuto la forza di ucciderlo. Non poteva farlo.
Gli occhi di Marco si spalancarono e chiuse la mano sinistra, l’unica che gli rimaneva, sul petto.
Elisa urlò, ma era troppo tardi: in un lampo di luce nera, Marco era svanito nel nulla.
 
Raphael entrò nella stanza dove Elisa si era sfogata, distruggendo qualsiasi cosa le capitasse a tiro mentre copiose lacrime continuavano, imperterrite, a cadere. Lacrime di dolore, rabbia, frustrazione e disperazione.
«Non ce l’ho fatta!» urlò in faccia a Raphael.
Lui non si scompose.
«Il tuo cuore è stato forte. Ti ha impedito di farti sopraffare dallo spirito negativo che risiede in te. Ora sei a tutti i diritti un angelo, uno di noi.»
Elisa rimase sbigottita: l’ultima cosa che si sarebbe aspettata era una dichiarazione del genere.
Senza lasciarle il tempo di riprendersi, Raphael le annunciò un’altra cosa.
«Devi vedere una cosa, ora... vieni con me.»
Elisa seguì l’angelo per le strade del campo dove ormai tutti erano chini a curare i feriti e radunare i morti, sia gli alleati sia i nemici. Per tutto il tempo in cui attraversava quel campo di morte rimase in silenzio. Dentro di sé rivolse i suoi sentimenti più sinceri verso chi, quella notte, era caduto, in particolar modo a Mikael.... Mikael. Non avrebbe mai dimenticato il suo ultimo sguardo.
Mentre pensava allo sguardo dell’angelo, lo incrociò.
Non stava sognando: a fissarla erano proprio quegli occhi limpidi, carichi di speranza.
«Sei vivo?» chiese.
Sul suo petto, la ferita inferta dalla spada si stava rimarginando velocemente sotto le bende.
Non rispose alla sua domanda.
«Hai... vinto.» mormorò, poi le loro labbra si incontrarono.
In quello splendido momento, insieme al sole, all’esterno, sorgeva anche una nuova era, inaugurata dall’amore e non dall’odio, sorgeva un’era nella quale i vincitori assistevano i vinti e la pace regnava, finalmente, sovrana.
 
Ma insieme al sole, anche un uomo magro si alzava dalle macerie, avvolto in un pesante mantello nero. Aveva pianto per la morte di suo padre, sciogliendo con le lacrime salate la neve che ancora si estendeva sopra Parigi.
Sul suo collo, un altro sole sorgeva, dietro una “L” grigia dall’aspetto macabro.
Lucifer si portò la mano sul petto e svanì in un lampo di luce grigia.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2140235