Trois Chances

di Emi Nunmul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.

 

Nella vita di Oh SeHun ormai vi erano delle costanti: il profumo di vaniglia, dei Mont Blanc al bicchiere serviti al tavolo di un bar ogni giorno, le lenzuola scure di un cotone incredibilmente morbido, strade trafficate percorse sotto la pioggia senza ombrello. In tutto questo lui ci vedeva bellezza, quella per la quale, nonostante la vita non gli desse molto da sorridere, lui continuava ad alzarsi dal letto.

 

            « Aspetta... »

 

Non che lui la bellezza l'avesse sempre conosciuta, ma da quando gli era piombata sotto forma di cliente al bar, gli sembrava di poter capire.

 

            « La luce... »

 

Solo che colui che, probabilmente, voleva insegnargliela, era praticamente cieco.

Quindi SeHun si ritrovava a dover fare l'amore a metà ogni volta, perché Lu Han aveva il terrore che lui potesse vederlo. Non gli era consentito neanche uno spiraglio di luce proveniente dalla tapparella appena alzata, a parte qualche notte durante la quale Lu Han sembrava aver preso un minimo di sicurezza. Ma ci aveva rinunciato, perché doveva spendere minuti preziosi a rassicurarlo, a ripetergli « Sei bellissimo » più che poteva, quando, in realtà, avrebbe voluto che ci si spogliasse completamente.

 

            « Scusami, Lu Han... Scusami... »

 

Quindi sì, Oh SeHun sentiva di fare ogni volta l'amore a metà. Era solo un aggrapparsi alla carne altrui e sentirla, e per quanto lui vi impiegasse l'anima, senza alcun freno, nel volersi dare al compagno, l'altro, in quegli attimi, pareva solo un involucro. Non che in altri momenti della giornata fosse diverso, comunque.

Oh SeHun arrivava a sfiorare Lu Han sempre a metà.

 

--

 

Generalmente sarebbe andato nel panico. Era pur sempre in mezzo alla strada, la piega ai capelli gli si era rovinata ed il trucco gli si stava sciogliendo, lasciando delle righe scure a solcare le guance. Fra l'altro, non amava neanche la pioggia, ma tanto era contento che sembrava non essersi accorto del tremendo acquazzone che aveva preso il controllo di quella parte di Seoul. Voleva concedersi una trasgressione. Anche se a modo suo, Lu Han stava festeggiando.

            « Lu Han, nato a Pechino il venti aprile millenovecentonovanta. »

Lo avevano chiamato e lui, in riga assieme a tutti gli altri candidati, non aveva avuto il coraggio di alzare lo sguardo verso la giuria seduta al lungo tavolo davanti a sé.

            « Sei stato scelto per entrare a far parte della Trois Chances Academy. »

Pensava d'aver capito male o che si fosse trattato di una qualche specie di scherzo di pessimo gusto ma, per sua fortuna, così non era stato. Si era successivamente ritrovato a firmare qualche scartoffia per l'iscrizione alla nuova compagnia di ballo di Seoul.

 

Per una volta, Lu Han valeva qualcosa e, per una volta, poteva concedersi di farsi vedere dai passanti in condizioni che lui considerava pietose.

 

Non aveva molti won in tasca - si era scordato di prendere il portafogli intanto che usciva in fretta da casa, preso dall'agitazione per il verdetto dei provini. Avrebbe preso un cicchetto di qualche liquore scadente, forse due, ma tanto sarebbe stato semplicemente un modo simbolico di festeggiare, da solo, la sua prima importante realizzazione. Non che a lui importasse, tuttavia, con chi si dovesse ritrovare a "festeggiare", e non faceva molta differenza che lì, in Corea del Sud, da ormai qualche anno fosse praticamente da solo e che il suo sorriso si fosse risvegliato da un lungo torpore durante quella sera di metà settembre. Non faceva differenza, perché importava solo ciò che le persone vedevano, così come i passanti che lo guardavano straniti mentre attraversava le strade a passo svelto, con i ciuffi gocciolanti appiccicati al viso: un bellissimo ragazzo sulla ventina - e qualcuno gli avrebbe dato anche meno - con capelli biondi, occhi ridenti, tratti fanciulleschi, nessuna imperfezione di alcun genere, mai. Un tentativo disperato di mascherare un'indicibile bruttezza.

 

Spesso si era ritrovato a maledire Seoul. Era troppo affollata, era troppo grande, e gli sembrava che le sue ricerche, proprio per questo, fossero ancora più difficili. Lu Han cercava qualcosa di bello in ogni angolo che superava, ogni vetrina nella quale sbirciava, ogni casa nella quale spiava mentre sedeva in un bus, intanto che questo doveva stare fermo al semaforo. Sbirciava - se non vi erano tende - nelle cucine e nei saloni spesso vuoti ed illuminati da qualche luce calda, sbirciava delle vite belle ed immaginarie. Per il cielo scuro ed infinitamente alto di Seoul lasciava volare un'utopia ogni volta, come origami a forma di gru che avevano preso vita. E con ogni gru, lasciava andare via una parte di sé che urlava. Lu Han urlava tanto, eppure le persone lo fissavano estasiate, meravigliate, ammaliate, ogni qualvolta lui camminasse, perché, in realtà, sembrava ciò che di più buono ed inarrivabile vi fosse. Un tentativo disperato di mettere a tacere un indicibile dolore.

E non vi era un solo giorno che facesse eccezione, così come quella sera. Intanto che attendeva, da circa mezz'ora, di asciugarsi un po', seduto ai gradini di un negozio di abbigliamento vintage, fissava i passanti, ed in ognuno di questi non riusciva a vedere assolutamente qualcosa di bello, non riusciva a sentire alcun interesse nel voler sapere cosa facessero nella vita e di cosa pensassero di quest'ultima. Se qualcuno, tuttavia, si fosse avvicinato a lui ed avesse iniziato a raccontare tutto il suo trascorso dalla nascita fino a quel momento, così, dal nulla, probabilmente avrebbe accettato d'ascoltare di buon grado. Perché, nonostante guardasse tutti con grande apatia - sempre senza che questi se ne accorgessero - Lu Han perdeva ogni corazza con qualunque altro essere umano quando vi arrivava a contatto. Ed attenzione, il che è ben diverso dall'aprirsi, dallo spogliarsi. Semplicemente, diventava estremamente comprensivo ed empatico, una grande volontà di capire ed aiutare. In una prima fase non riusciva proprio a soffrire nessuno, ma in definitiva credeva che nessuno meritasse di sentirsi brutto come lui.

Fumò la quarta sigaretta da quando si era fermato. Le teneva fra le dita ora in modo delicato e quasi femminile, ora in maniera assolutamente svogliata, scordandosi che qualcuno potesse guardarlo. Generalmente, il tabacco, i vizi, non fanno pensare a qualcosa di bello. Per Lu Han, invece, quelle stecche di carta e tabacco così dannose, potevano benissimo esserlo, e non si trattava dell’unico paradosso su cui si costruiva la sua mente.

 

Da qualche parte, forte ed incredibilmente chiara, sentiva provenire Dear dei Mad Soul Child. La voce di Jinsil aveva momentaneamente fatto ridurre il brusio delle persone ed ogni altro rumore circostante ad un semplice flusso ovattato, che non faceva altro che far risaltare ancora di più la melodia di quella canzone. Lu Han, seduto a quei gradini bianchi, con i gomiti sulle ginocchia, chiuse gli occhi, ora concentrato in un rituale che non è esagerato definire sacro. Ogni singola nota si insediava - più o meno senza che lui se ne accorgesse - all'interno del suo corpo. Le sentiva scorrere una ad una nelle sue vene assieme al sangue e le assimilava perfettamente, diventando lui stesso la musica, diventando una scia di ricordi, sorrisi, promesse e lacrime che non lasciavano solchi indelebili sulle guance. Si trasformava nello spettatore ignaro ed involontario di una pellicola che, al momento, gli sembra surreale. Un passato che non gli pareva realistico. Il suo volto senza maschere ed un disegno sulle labbra assolutamente armonioso e spontaneo, come un fiore che sboccia.

Ed ora rimanevano solo le ceneri di tutto quello. Lui le raccoglieva con cura ed attenzione, le richiudeva in una boccetta dall'aspetto delicato. Tuttavia sapeva di non poter raccogliere ogni singolo granello, che qualche frammento sarebbe andato perdendosi, e con questo qualche parte di lui stesso. Ne diventava ulteriormente consapevole man mano che Dear volgeva al punto culminante, quello durante il quale gli diventava impossibile non farsi travolgere dai brividi.

 

Dear fu scritta nel 2010 dai Mad Soul Child per il film d'azione Ajussi. Il film racconta di un ex agente delle forze segrete coreane ritiratosi dalla scena in seguito alla morte della moglie, allora incinta del loro primo figlio. Era sparito senza lasciare alcuna traccia di sé, come se, d'un tratto, si fosse smaterializzato con uno sbuffo senza che nessuno se ne fosse accorto. Ma in realtà si era stabilito in un banco dei pegni, dove ritirava regolarmente i "tesori" di coloro che si rivolgevano a lui, ed intanto passava, abbastanza frequentemente, del tempo con una bambina di forse dieci o undici anni, sua vicina di casa. Tuttavia, l’agente dimostrava una certa riluttanza a volersi avvicinare alla piccola per i più disparati motivi, che essi fossero ovvi o meno. Un giorno lei, dopo una serie di avvenimenti, viene rapita da un gruppo di malavitosi e letteralmente destinata al macello per alimentare il traffico di organi. Lui, ovviamente, come un film con un lieto fine che si rispetti, riesce a salvarla. Un lieto fine dal gusto agrodolce, in vero.

A Lu Han non piaceva quel genere di film, anche se, doveva ammetterlo, quello non era davvero niente male. Lo trovava un lavoro più che valido. E fra l'altro era riuscito a strappargli non poche lacrime. Tuttavia, lui era più per film del calibro de Il Diario Di Bridget Jones.

 

Per quanto quella canzone fosse nata con un preciso scopo, nel caso di Lu Han questa aveva preso un fine diverso. Non era strettamente legata a quel film. A dirla tutta Ajussi gli veniva in mente come ultimo collegamento a quelle note, ed essendo la colonna sonora di un "periodo" - di quelli che qualunque persona possiede - aveva, per forza di cose, deciso di lasciarla riposare nel suo iPod e nel suo computer senza ascoltarla almeno per un anno. Proprio come si fa con dei vestiti che al momento vanno troppo stretti - o troppo larghi - e si attende di riacquistare la forma giusta per poterli indossare di nuovo. Rimaneva lì temporaneamente, come tanti altri brani musicali, come tante altre colonne sonore e come tanti altri ricordi piacevoli. Perché Lu Han aveva ancora speranza e doveva solo attendere che quest'altro "periodo" terminasse, preparandosi a combattere, sapeva, una battaglia con se stesso che avrebbe potuto lasciargli non poche cicatrici. E quel giorno era un punto di partenza. Mettere piede alla scuola di ballo sarebbe stato nient'altro che l'input per fargli muovere i primi passi. Presto, forse, si sarebbe dimenticato di indossare maschere di qualsiasi tipo, avrebbe ripreso a ricordare senza troppi rimpianti e a tirar fuori Dear dai meandri dove l'aveva abbandonata.

Fu solo quando iniziò a rassicurarsi con pazienza, e da solo, che la musica prese ad affievolirsi, e poté riprendere a guardarsi intorno e a vedere, effettivamente, ciò che lo circondava. Lentamente la pellicola sbiadita ed ovattata di ricordi svanì, lasciando posto al frenetico passeggio ed all'asfalto bagnato, i palazzi ed i negozi illuminati dalle luci. Una veduta molto più chiara, concreta ed in qualche modo rassicurante. Lu Han sentì anche di poter toccare i suoni, per quanto li percepì nuovamente nitidi e lineari, non come se avesse avuto due bei tappi  per le orecchie e qualcosa ad interferire fastidiosamente con ciò che cercava di udire già a fatica. « E' tutto ok », si era ripetuto, semplicemente.

Abbassò lo sguardo verso la punta delle sue scarpe di tela ancora umide, e si rese conto che aveva trattenuto il fiato per tutto quel tempo senza accorgersene o in qualche modo risentirne. Espirò profondamente ed a lungo, provando un insolito piacere nel sentire i polmoni svuotarsi. Chiuse anche gli occhi, cercando di non badare troppo a quello che gli era successo, perché sapeva che non gli avrebbe fatto bene stare a rimuginare ulteriormente su qualsiasi cosa passata ed ormai andata persa, ed anche volendo, quello non era il posto né, soprattutto, il momento adatto per farlo. Premette due dita su entrambe le tempie e, poco dopo, sospirò di nuovo. Sollevò la testa e riaprì gli occhi. Li strizzò per un attimo, sentendo che le lenti a contatto gli si erano spostate e gli stavano dando fastidio. Erano lenti a contatto azzurre. Alla fine si alzò. Passò le mani sui pantaloni, dietro, per pulirsi. Chi l'avesse visto, avrebbe potuto vedere un ragazzo dall'aria per qualche motivo tranquilla e probabilmente soddisfatta. Lu Han riprese quindi a camminare, stavolta con calma e stando attento a rimanere sotto i balconi.








NdA: Non mi sembra vero di star pubblicando questo.  Il mio intento era quello di non pubblicarla affatto, questa storia, perché è il lavoro che ha di me stessa molto più di tanti altri e, ad ora - tralasciando questo capitolo scritto ancora con parecchia incertezza - è anche quello scritto meglio. Invece di metterla qui, avrei voluto terminarla e cercare di farla pubblicare da qualche casa editrice, se mai avessero dovuto accettare e, ovviamente, con le dovute revisioni. 
In ogni caso, questo capitolo è solo un preambolo, nulla di particolare. Quando m'andrà, se m'andrà, pubblicherò il secondo.
Bye.

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Capitolo 2
*** 2. ***


NdA
Scrivo le note prima perché... Boh, è meglio, immagino. Leggerle dopo a me ogni tanto rovina quello che m'aveva lasciato il capitolo, so...
Non c'è stato chissà quale responso alla pubblicazione, ma, onestamente, sono più contenta così. Quasi quasi lo speravo.
Questo è un capitolo di stallo, come il precedente. Diciamo che si tratta di una sorta di introduzione al personaggio di SeHun e, quando l'ho scritta mesi fa, solo Dio può sapere quanto mi sia divertita a stenderla. In più, è una delle parti che mi rende più soddisfatta, per qualche motivo.
Ho da ringraziare kateryna per la recensione che m'ha lasciato e che è quasi riuscita a darmi un po' di motivazione, nonostante non riesca ancora a trovarne abbastanza per continuare a scrivere - e a fare circa qualsiasi altra cosa. Ma, insomma, si vedrà...
Spero il capitolo sia di vostro gradimento. Buona lettura.~









2.

Oh SeHun non aveva una vita assolutamente movimentata. Non era noiosa, ma semplicemente regolare. Lui cose da fare ne aveva, in quantità giusta da tenerlo occupato. Prima di tutto, quando la mattina si svegliava, a momenti senza neanche pettinarsi, accompagnava il suo Jack Russell di due anni a fare la sua passeggiata delle cinque e mezza. Il cane si presentava sul suo letto, seppur discretamente, ogni mattina, senza mai sgarrare una volta, a parte quando capitava che non si sentisse bene. SeHun lo aveva rimproverato spessissimo, per i primi tempi. Aveva cercato di fargli capire in tutti i modi che sul suo letto non doveva salirci, ma alla fine ci aveva rinunciato. In fondo quella visita mattutina risultava solo un ulteriore incentivo per svegliarsi, assieme alla sveglia sapientemente lasciata dall'altra parte della camera col volume impostato al massimo. Così lui si alzava, con gli occhi che per almeno un quarto d'ora non volevano assolutamente saperne di stare almeno un po' aperti, e si metteva seduto sul bordo del letto per quasi cinque minuti, ripetendo flebilmente una sequela di « Va bene » di « Solo un attimo, ora usciamo » di « Dammi solo il tempo di svegliarmi » e di, soprattutto « Scendi da questo cavolo di letto! ». Non che, comunque, SeHun avesse effettivamente la forza di alzare la voce. Venivano fuori solo delle parole arrancate e dette con voce rauca e poco convincente.

 

Il suo cane si chiamava semplicemente Bob. Sapeva che non si trattava di un nome originale, ma lui non aveva alcun particolare interesse in cose come quelle e, fra l'altro, non usava mai il suo nome per chiamarlo. Piuttosto fischiava o faceva riecheggiare un « Bello, vieni qui! » per tutta la casa. E quello rispondeva senza alcun problema. Quel nome era solo per dargli una certa dignità e scrivere qualcosa sulla targhetta del collare che non fosse "Nessuno".

Bob gli era stato regalato da una sua amica del liceo qualche giorno dopo la cerimonia per il loro diploma. Aveva chiesto a SeHun con un sms se potessero vedersi al parco vicino la scuola quella domenica, e lei si era presentata con un fagotto grande quanto il suo avambraccio chiuso con un fiocco di raso rosso. Lui era letteralmente impazzito quando aveva visto quel musetto peloso sbucare dalla stoffa. Era un affare minuscolo che dormiva avvolto nella sua copertina. Notò subito che aveva una macchia color caramello proprio in mezzo agli occhi. Per questo, ogni tanto, SeHun lo chiamava anche "Piccolo Buddha".

Quella sua amica, sorridendo, glielo porse. - Il mio cane ha avuto dei cuccioli di recente. E' già sverminato, ma devi stargli dietro, visto quanto è piccolo, - aveva detto con la voce che a SeHun parve affievolirsi verso la fine. - Mi piaci, - aggiunse dopo qualche secondo che lui non aveva detto nulla, ma stava ad osservare il cucciolo ora fra le sue braccia.

A SeHun dispiacque sinceramente. Lei non era una cattiva ragazza, anzi, gli era stata sempre piuttosto simpatica. A scuola lui era abbastanza conosciuto e spesso aveva gruppetti di ragazze - generalmente più piccole - che lo seguivano per il corridoio. Solitamente non dicevano nulla, facevano dei commentini fra di loro sottovoce. Lui non vi badava la maggior parte delle volte, ma capitavano dei giorni, in cui magari si era soltanto svegliato col piede sbagliato, che faticava a non rivolgersi a loro in maniera scortese.

Quella sua compagna di classe, invece, si era sempre comportata in maniera discreta. Era discreta lei stessa in senso più generale, che fosse nel vestire, fino ai semplici movimenti che si ritrovava a fare. Ed essendo SeHun una persona abbastanza controllata anche durante quelle giornate in cui si svegliava con la luna di traverso, non avrebbe potuto risponderle male. Non ne avrebbe avuto alcun motivo. Tuttavia, si ritrovò a rifiutarla. Intavolò un discorso non troppo lungo, ma pensava fosse ben calibrato per non ferirla eccessivamente, con magari qualche frase di circostanza qua e là, in quei punti nei quali non avrebbe saputo davvero cosa dire. A quanto pare era riuscito nel suo intento di non apparire falso o insensibile, dato che continuarono a sentirsi regolarmente anche dopo quel pomeriggio.

SeHun non era nel periodo adatto per pensare a qualunque tipo di relazione. Per lui, i "periodi" andavano aperti e chiusi, a parte casi eccezionali. Non rivangava mai avvenimenti passati a meno che non fosse strettamente necessario o capitasse per caso, senza averlo esplicitamente chiesto al suo cervello. Non perché trovasse doloroso farlo, perché fosse stato segnato da chissà quale crudeltà la vita gli avesse riservato, ma perché, semplicemente, lo trovava inutile. Il presente, per lui, andava vissuto così com'era e guardando, tuttavia, al futuro. Quindi, una volta terminato il liceo, sapendo di doversi trasferire nel giro di pochi mesi nella capitale per frequentare l'università, magari ingiustamente, aveva deciso che i suoi amici di scuola sarebbero rimasti confinati in quell'ambiente ed in quegli anni. Tralasciando qualche ipotetica rimpatriata una volta diventati cinquantenni più o meno insoddisfatti, non aveva neanche calcolato l'ipotesi di poter prolungare qualsiasi rapporto che non facesse parte del presente o del futuro. Con lei, comunque, decise di fare una specie di eccezione, seppur blanda e non finalizzata ad intaccare in alcun modo la sua vita di lì in poi.

A parte il suo essere concentrato su faccende differenti - come, appunto, il lasciare casa dei genitori al più presto - si aggiungevano altre "questioni" che stava ancora cercando di risolvere da almeno un paio d'anni. Era, comunque sia, quasi arrivato alla soluzione. Non fu un percorso travagliato, per quanto per moltissimi ragazzi della sua età processi del genere fossero in qualche modo traumatizzanti, portandoli a crisi interiori ulteriormente estese. Con tutta probabilità lui era bisessuale. « Oh, bene », si era detto, quando il possibile chiarimento gli era arrivato senza preavviso durante una mattinata a scuola. Dopodiché aveva solo avuto bisogno dei suoi tempi per accertarsene. Non era una cosa che lo tormentava. Gli capitava di pensarci nei momenti in cui gli sarebbe effettivamente dovuto passare per la mente, come quando incrociava per i corridoi della scuola un tale Kim JoonMyun. Si passavano quasi esattamente due anni di differenza. Non si erano mai parlati, ma SeHun sapeva che lui si chiamava JoonMyun, e JoonMyun sapeva che l'altro si chiamava SeHun. JoonMyun era il ragazzo dell'ultimo anno con il miglior rendimento di tutta la scuola, quello con la migliore voce nel coro, quello con le migliori capacità di recitazione, quello con i migliori modi di fare, quello con la migliore famiglia, quello con il migliore tutto. E SeHun era il miglior giocatore della squadra di calcio, grazie al quale la scuola si ritrovava con svariati trofei nella teca di vetro nel salone d'ingresso. Volenti o nolenti, erano sulle bocche di tutti e, volenti o nolenti, sapevano perfettamente associare i nomi reciproci ai reciproci volti.

La prima volta che SeHun incontrò JoonMyun fu al bar della scuola, durante la pausa pranzo.

Era in fila per pagare alla cassa la sua lattina di Coca-Cola e gli si era ritrovato dietro, senza, tuttavia, sapere di chi si trattasse e senza neanche curarsene, a dire il vero. Non aveva notato alcun particolare della persona che gli stava davanti. Era, appunto, solo una persona che gli stava davanti nella fila per poter pagare alla cassa del bar della scuola. Questo perché, in linea generale, SeHun non badava per nulla alle persone, specialmente se facenti parte dell'ambito scolastico. Fu solo un caso che lui avesse alzato lo sguardo quando lo aveva sentito dire alla cassiera un « Grazie a lei, buona giornata ». Quando si voltò per andare via, aveva subito capito che si trattava di Kim JoonMyun, per via dei capelli rosso scuro, la pelle incredibilmente chiara e dei tratti gentili, seppur abbastanza maturi, descritti da molti. E JoonMyun parve riconoscerlo a sua volta, quindi lo salutò con un semplice « Ciao », che sembrava celare una punta di stupore, accompagnato da un sorriso gentile. SeHun, una volta alla cassa, si scordò di prendere il resto, di salutare e ringraziare.

Lo incontrò svariate volte e svariate volte fu colpito, in seguito, da un qualsiasi tipo di lapsus. Solo verso la fine dell'ultimo anno di scuola di JoonMyun - e quindi del suo terzo anno di liceo - quella domanda gli saltò in mente: « E se mi piacesse? ». Ci rifletté un attimo, poi scrollò le spalle e riprese a camminare nuovamente verso la sua classe. Per i due mesi successivi si accertò che effettivamente provasse quel genere di interesse per JoonMyun. E così era. Dall'inizio dell'estate, invece, si dedicò a delle "verifiche" con uno scopo più generale.

Nel suo discorso di scuse a quella ragazza non fece riferimenti al suo orientamento sessuale ancora senza un chiarimento definitivo.

 

Dopo aver accompagnato Bob, SeHun ritornava a casa sempre con un'incontrollabile voglia di tornarsene a letto. Era la parte della giornata che più detestava. Era quella durante la quale sentiva di faticare a prendere una decisione, quando, in vero, lui era sempre assolutamente certo di ogni cosa. C'era il suo buon senso che gli diceva « Devi andare a lavorare », oppure « Devi andare a scuola di danza », mentre il suo istinto gli urlava, schifosamente persuasivo, qualcosa come « Bevi una caraffa di cioccolata calda e mangia tre brioches, quindi tornatene sotto le coperte; fuori fa così freddo... ». Ma in linea generale lui era anche piuttosto diligente. Così, sganciava il guinzaglio dal collare di Bob, preparava la macchinetta per il suo caffè rigorosamente amaro, senza neanche un cucchiaino di zucchero, ed intanto si infilava sotto la doccia. Fino ai primi di maggio, lo scopo dell'acqua della doccia era esclusivamente quello di svegliarlo un po'.

Il martedì ed il giovedì mattina non lavorava. Andava ad una scuola di ballo a poco meno duecento metri da casa sua. Non era una scuola per nulla seria né conosciuta. Lì insegnavano principalmente balli di gruppo o di coppia a uomini e donne - ma maggiormente donne - di mezza età o anche anziani. Poi c'era anche l'orario di danza classica - se tale poteva definirsi - per i bambini. In determinati orari e determinati giorni si poteva prenotare una sala di discrete dimensioni per permettere a chiunque di potersi esercitare per fatti propri. Ovviamente sempre pagando l'entrata. C'era anche la possibilità di avere un abbonamento settimanale, mensile o annuale. SeHun lo aveva acquistato annuale. Tutto ciò che gli veniva da pensare ogni volta che varcava la soglia di quella sottospecie di scuola era « Qui non ci viene proprio un cane ». E a lui conveniva.

I suoi orari erano tutti perfettamente incastrati fra di loro. Ogni attività era anche inframezzata da un'ora o una mezz'ora di respiro.
Tralasciando la sua innata capacità di organizzazione, tutto quello non gli sarebbe stato possibile senza la flessibilità del titolare del bar nel quale lavorava. Un certo Hwang ZiTao, un ragazzo cinese più grande di lui di solo un anno. Si erano conosciuti alle elementari, e facendo qualche calcolo - o semplicemente mente locale - ZiTao era l'unica vera eccezione alla "regola dei periodi" che SeHun s'era imposto. Non sapeva bene neanche lui per quale motivo. Se gli capitavano cose come quelle qualche domanda se la faceva. Era come se la sua vita fosse un puzzle - un puzzle piuttosto semplice, a dire il vero - e vi rimanessero dei buchi che non riusciva a riempire con nessun pezzo. E lui si tormentava per cercare di trovare una motivazione a quello squilibrio. Tuttavia, nel caso di Oh SeHun, tormentarsi equivaleva a pensare a qualcosa con intervalli regolari di una volta al giorno e per non più di un paio di minuti. Solo che in qualche modo gli pesava, rimaneva stanco da tutto quel pensare e per questo cercava di evitare il più possibile qualsiasi tipo di eccezione. Credeva che avrebbe dovuto trovarne solo una in tutta la sua vita e concentrarsi su quella, ma probabilmente non era proprio possibile.

 

Quel giovedì di metà settembre, SeHun s'era svegliato incredibilmente allegro. Non che generalmente fosse sempre arrabbiato o uggioso, ma Bob, quando lo vide dargli il buongiorno con una specie di sorriso, rimase pietrificato ai piedi del letto con la testolina inclinata di lato, rendendo facile l'immaginazione di un grande punto interrogativo sopra di essa. Tanta fu la sorpresa che, una volta fuori casa, a momenti non s'astenne dal fare i suoi bisogni. I ruoli parvero invertiti. Era SeHun a voler respirare un po' d'aria fresca mattutina, per una volta, senza mostrarsi contrariato a lasciare le coltri.

Prima di tornare a casa, passò da Mary's, una piccola pasticceria all'angolo della via, dove terminava la pendenza della strada ed iniziavano incroci trafficati. Non amava particolarmente andarci per questo, nonostante ci fossero dei graziosi tavolini in ferro battuto, fosse pulito e i proprietari fossero decisamente cordiali. Tuttavia, almeno per quanto lo riguardava, lì avevano i dolci migliori di tutta la zona, per cui, se ne sentiva la necessità, quello che voleva lo acquistava e se lo portava a casa. Insomma, se si concedeva qualche sfizio, almeno preferiva gustarselo in tranquillità. Non che SeHun fosse un patito della linea. Semplicemente non aveva un particolare interesse nel mangiare. Ogni tanto poteva anche saltare un pasto per dimenticanza e sentire i crampi della fame solo qualche ora dopo. A proposito di questo, spesso s'era sentito dire che lo invidiavano, ma lui non capiva per quale motivo, neanche fosse chissà quale talento per cui essere effettivamente gelosi.

Sedette alla penisola della sua cucina, le serrande alzate poco meno della metà, una piacevole penombra ed un canale di musica alla TV, dove avrebbero trasmesso video ancora per una mezz'ora, un sorso del cappuccino dal bicchiere in cartone, un morso di quel delizioso croissant al cioccolato, tutto nella più assoluta tranquillità. Si concesse anche di pensare qualche minuto extra senza per questo sentirsi turbato o spossato.

Pensò a JoonMyun. Quello che si chiese, per prima cosa - fra le tante che avrebbe potuto domandarsi - fu dove potesse essere in quel momento. Come già precisato, Oh SeHun confinava le persone e le situazioni in determinati periodi di tempo, quindi non aveva mai voluto prendersi la briga di stare a chiedere in giro di lui a qualunque altro conoscente del periodo del liceo. Fra le altre cose, di JoonMyun non sapeva assolutamente nulla, se non nome, cognome, anno di nascita e le materie in cui eccelleva - visto che il suo nome era perennemente presente nelle graduatorie della scuola, in bella vista nella sala d'ingresso. Probabilmente, facendo due calcoli, Kim JoonMyun poteva essere ancora benissimo a Seoul, a studiare diligentemente, com'era suo solito. Ce lo vedeva in qualche facoltà che riguardasse la letteratura o forse anche la medicina. Ma lui era primo sia nelle materie scientifiche che in quelle umanistiche, quindi SeHun non riusciva a darsi una risposta precisa a tale quesito. Per qualche motivo, comunque, non se la sentiva di incastrarlo in nessuno di quegli ambiti. Poteva starci bene come poteva anche non starci per nulla.

Prendendo un altro morso del croissant, le briciole a ricadere su un piattino in ceramica, gli tornò in mente di quando, in fondo all'hangar della scuola, si era appostato per ascoltare il concerto di fine anno. Fu un bel concerto. Non s'era mai sentito più adolescente di quelle due ore. Due ore durante le quali non aveva fatto altro che pensare, senza sentirsi stanco, stranamente. Non si sistemò in prima fila perché, appunto, era lì per ascoltare. JoonMyun cantava molto bene. E quello era il giorno in cui SeHun stava lasciando la sua prima vera cotta. Non s'era mai sentito più adolescente di quella volta, decisamente.

Riportando alla mente quelle due ore - e specialmente i minuti durante i quali lo sentì cantare Layla di Eric Clapton - pensò che il posto dove JoonMyun non avrebbe potuto stonare sarebbe stato un bel palco. Tuttavia, per quanto ne sapeva, poteva anche essere diventato un idraulico. E chissà che un giorno, trovandosi la casa allagata e con la necessità di un aiuto, non si fosse trovato Kim JoonMyun in persona, alla porta, con la cassetta degli attrezzi.

Concluse con questo pensiero - che cercò di allontanare dalla mente il più in fretta possibile, visto che lo trovava al limite della comicità - si alzò, sciacquò il piattino, buttò bicchiere e fazzoletti ed andò a fare una doccia
.

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