Into the Madness

di Momoko The Butterfly
(/viewuser.php?uid=183391)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il freddo della lama sulla mia pelle ***
Capitolo 2: *** Il ticchettio della pioggia scandisce il tempo della vita ***
Capitolo 3: *** Il conforto di un cielo senza stelle ***
Capitolo 4: *** Ciò che sta oltre lo sguardo ***
Capitolo 5: *** Il fantasma che fui un tempo ***
Capitolo 6: *** Un sorriso inquietante ***
Capitolo 7: *** La sensazione di aver perso qualcosa ***
Capitolo 8: *** L'ombra oscura prigioniera della memoria ***



Capitolo 1
*** Il freddo della lama sulla mia pelle ***


Into the Madness



Prologo
Il freddo della lama sulla mia pelle





L'aria si era fatta gelida, glaciale; ma soprattutto, silenziosa.
I rumori, le grida, le lacrime che fino a poco tempo prima l'avevano ghermita, ora erano scomparsi, inghiottiti in un assoluto vuoto mortale. La lama che teneva in mano sibilò, chiara e fresca, forse fin troppo, in quel nulla tanto solitario, che era persino udibile l'eco dei propri pensieri intrisi di sangue.
Un movimento secco, deciso, attuato dall'improvvisa consapevolezza di quello che aveva appena fatto; il bisturi cadde, tintinnando sinistro. Altro sangue cremisi macchiò quel pavimento logoro, sul quale giacevano due corpi. A uno di essi lei si avvicinò. Solo ad uno. Perché apparteneva alla persona che aveva rappresentato tutto per lei. L'altro... sarebbe marcito nelle viscere dell'inferno, divorato dalle fiamme dell'eterno peccato.
Colta da tremori e sussulti, una mano pallida si avvicinò a quel corpicino senza vita. Occhi spalancati, di un bel blu intenso, che un tempo le aveva risparmiato di dover guardare il cielo che aveva sopra la testa, pur sapendo che mai sarebbe stato di quel colore così bello. Lacrime trasparenti le rigavano il volto, immobili. Tentò di asciugarle; tentò di chiudere con rispetto e delicatezza quegli zaffiri brillanti. Ma il tremolio convulso alle mani glielo impedì. E forse nemmeno voleva farlo. Non ne aveva il coraggio. Perché quando vide la sua testa completamente riversa di sangue, quel sangue rosso e maledetto che le appiccicava i capelli alla fronte in modo tanto orribile, anche i suoi occhi ambrati cacciarono fuori le lacrime, in un atto di disperazione. Si abbandonò su quel corpo totalmente, singhiozzando. Era freddo. Troppo freddo. Orribilmente freddo. Come la lama che pochi attimi prima era stata lo strumento della sua furia. Quella stessa furia che per colpa sua, di quel destino atroce cui non aveva potuto opporsi, l'aveva costretta a macchiarsi del sangue altrui con l'omicidio.
E a pensarci adesso, se ne pentiva. Era pentita, di essere voluta venire con lei fino a lì. Era pentita di averle permesso di correre dei rischi, nonostante la promessa che le aveva fatto. Nonostante l'affetto che le legasse. Pensò che non le sarebbe importato affatto di vivere per strada, come una stracciona. L'importante, era che lei le rimanesse accanto.

Ma ormai non era più possibile. Cari era morta.
E Gwen piangeva sul suo sangue e su quello di suo padre.

- Per favore, non lasciarmi da sola...

Una supplica. L'ultimo folle desiderio che, seppure irrealizzabile, sembrava portare con sé il suo dolore e dissolverlo.
Ma ecco che accadde. Qualcosa scattò nella sua mente. Un ingranaggio vecchio, arrugginito, che prese a funzionare cigolando. Lento, sinistro, invase la sua mente. Per gettarla nell'oblio.
Si sollevò. Fissò il volto di Cari, pallido, morto. E sorrise. Ambiguamente, forse in modo troppo malsano perché potesse dirsi di conforto a sé stessa.

- Dai, svegliati - la incalzò, scuotendola appena. Il volto apatico, gli occhi vacui a fissare il viso dell'altra come se le stesse facendo uno scherzo. Neppure un cenno arrivò dal corpo. Eppure, Gwen sorrise ancora. In otto anni di vita, era innaturale persino per lei. Qualcosa non quadrava.
Fu allora che parve notarlo - come se non l'avesse già fatto prima -: un buco all'altezza della tempia, piccolo ma profondo, dal quale sgorgava tutto il sangue. Impallidì ancora di più. Ma solo per un attimo, prima che le sue mani scostassero i capelli che nascondevano il foro e lo carezzassero, macchiandosi irrimediabilmente di sangue.

- Ti sei fatta male, Cari? - la sua domanda si perse nel silenzio gelido, cristallina. Ma non demorse. Voltò la testa della bambina in modo che la ferita mortale fosse perfettamente visibile - Ma non preoccuparti - Aggiunse - Si aggiusta.

Sorrise ancora, più forzatamente. Le sue labbra si allargarono ancora di più finché...
Un sogghignò riempì l'aria.
E subito dopo, una risata. Fredda, agghiacciante, per niente propria di una bambina di otto anni; eppure fanciullesca, con quell'intonazione chiara e innocente che più di tutte faceva rabbrividire.

Le sue gambe tremolarono appena mentre si rialzava. Il silenziò tornò ad essere padrone della stanza. L'odore di sangue era ovunque, nauseante e insopportabile.

L'eco di un passo.
L'eco di un altro.
L'eco di una corsa. Sfrenata, ma solo per circostanza. Chiunque sarebbe corso via disperato. Lei no. Si prese tutto il tempo per uscire dalla finestra. Riuscì a scappare fuori nell'istante in cui cominciarono a giungere lontane le voci della servitù, e i loro passi rapidi e inutili.

Ma ormai non contava più. Per quanto veloci avessero corso, alla fine non avrebbero fatto altro che trovarsi davanti quella stessa scena che era apparsa davanti ai suoi occhi. Una stanza rossa come il sangue; due cadaveri; e la sua inevitabile scomparsa...





♣ Angolo di Momoko 

Allora, ringrazio infinitamente qualunque santo sia arrivato a leggere fino alla fine.
Lo so, sono ritardataria cronica, e già faccio fatica a gestire una long. Ma non ho saputo resistere. Avevo in mente questa storia già da un bel po', ancora prima di iniziare Lady War, ma non mi sono mai decisa. Volevo migliorare un po', prima, trovare un metodo che mi soddisfacesse per poterla iniziare a scrivere. Non che l'abbia trovato, ma so di aver messo il piede nella direzione giusta.
Il personaggio di Gwen me lo porto dietro ormai da troppo tempo, ero impaziente di scriverci sopra qualcosa. Nonostante sembri una povera pazza tranquilli, non vi deluderà xD O almeno, spero che non lo faccia ò^ò
Nei prossimi capitoli avrete una visione più chiara delle cose, per cui aspettate impazienti xD
Un bacino a tutti quelli che avranno voglia di commentare questo sclero notturno (sì, è notte e io non riesco a dormire per il caldo, e dire che ho il ventilatore al massimo puntato dritto in faccia!).
Ora mi dileguo, a prestooo,

Momoko <3

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il ticchettio della pioggia scandisce il tempo della vita ***


Into the Madness



Capitolo 1
Il ticchettio della pioggia scandisce il tempo della vita





La pioggia batteva insistente sulle ampie vetrate decorate del castello, imperlandone i vetri, come tante pietruzze liquide, trasparenti e scintillanti sotto il riflesso di un sole invisibile, nascosto dal grigio delle nuvole.
Una mano era appoggiata sul vetro, cercava di afferrare quelle gocce tremolanti che vi si posavano sopra. Una mano nera come l'inchiostro, amorfa, maledetta. Ci fu un movimento: le dita si chiusero appena, come se davvero potessero andare al di la di quella barriera di cristallo e sentire il bagnato sulla pelle, per dimostrare che poteva avvertirlo; che era ancora vivo e quella sensazione di freddo e umido così fastidiosa eppure umana non lo aveva abbandonato. La croce sul dorso, così chiara e in netto contrasto con lo sfondo di ombra nel quale era incastonata, brillava d'una insolita luce candida, pura. Innocence.
La fissò per un interminabile attimo, sperando che nessuno lo interrompesse. Erano pochi i momenti che oramai poteva trascorrere in solitaria, escludendo le ore di riposo. Da quando era tornato, con quel nuovo braccio nero e osseo, tutti, chi più chi meno, gli erano stati addosso, senza dargli un attimo di tregua. Gli avevano fatto mille complimenti, si erano congratulati con lui per la buona riuscita della missione a Edo; i membri della scientifica l'avevano esaminato dalla testa ai piedi, avevano torturato il suo povero braccio con strani strumenti medici e gli avevano posto domande assurde d'ogni tipo. Così per una settimana buona, durante la quale non aveva però mancato di andare in missione e combattere, straziare anime cadute prede dell'ombra, assistere a morti inutili e combattere ancora.
Ma lui, Allen Walker, era un Esorcista e come tale doveva per forza condurla, quella vita, in nome del potere divino e dell'occhio maledetto che erano ormai parte di lui. La promessa di Mana si era fatta più viva, chiara. E lui aveva deciso di andare avanti, senza fermarsi. Proprio come avrebbe voluto i patrigno. Era questo ciò che lo muoveva. Il suo legame sottile e invisibile con lui che, benché fosse scomparso, c'era ancora. Nel suo cuore, nella sua anima. In quella cicatrice rossastra sul viso. Sempre con lui, come... una maledizione...

- Allen!

Una voce cristallina lo riportò alla realtà. La mano sinistra si staccò all'istante dal vetro, come se non avesse dovuto toccarlo. Si voltò lentamente, e incontrò la longilinea figura di Linalee Lee, sua cara amica e compagna da ormai molto tempo. Le rivolse un sorriso stirato, che denotava stanchezza. In quegli ultimi giorni aveva dormito poco o niente, ed era distrutto.
La cinesina ricambiò con un'espressione allegra, energica, eppure dolce, in quei momenti più calda del sole e più brillante della luna.

- Hai bisogno di me, Linalee? - le domandò Allen, notando un plico di fogli tra le sue mani, stretto al petto per evitare che cadesse.

- Sì, mio fratello ci ha chiamati per una missione - e quelle sole parole bastarono a distruggere il sorriso dell'Esorcista.

- Ancora! - si lamentò, sorpreso e, dovette ammetterlo, irritato - Sono appena tornato da Stoccolma...

Linalee parve accigliarsi. Certo non le faceva piacere dare brutte notizie al compagno, soprattutto sapendo quanto lui si impegnasse ogni volta e quanta anima ci mettesse negli incarichi che gli venivano affidati. E doveva dire che ultimamente Komui lo sovraccaricava un po' troppo di lavoro. Forse era per testare la rinnovata potenza della sua Innocence, ma era chiaro che ci fosse qualcos'altro. E la verità era colma di tristezza: i frequenti attacchi di Noah avevano ridotto drasticamente il numero di Esorcisti all'Ordine, tant'è che quelli rimasti erano costretti ad arrangiarsi e svolgere tutto il lavoro da soli. Anche lei si sentiva sfiancata da quel continuò viaggiare. I suoi Dark Boots, nella nuova forma assunta, erano però molto più versatili e leggeri dei primi, e dato che per natura era abbastanza resistente non ne risentiva più di tanto. Ovviamente per Allen era diverso. I tipi parassita, si sa, consumano molta più energia e senza riposo non c'è possibilità che possano combattere a pieno ritmo.

- Mi dispiace, Allen... - tentò di scusarsi. Non per lei, per suo fratello. Era una cosa che aveva imparato a fare spesso.

L'albino le sorrise imbarazzato, sicuramente non gli faceva piacere ricevere le scuse dell'amica a nome di qualcun altro. Doveva essere quel pazzo di Komui a mettere le mani davanti e chieder perdono!

- Non preoccuparti - rispose perciò, prendendole le spalle con delicatezza, per poi aggiungere con rinnovata energia - Bene, andiamo a prepararci!

E senza aspettare alcuna risposta iniziò ad avviarsi verso la sua stanza per preparare i bagagli. O meglio, per prendere i bagagli. Non aveva nemmeno avuto il tempo di disfarli.

Linalee rivolse alla sua figura un'ultima occhiata sconsolata mentre proseguiva nella direzione opposta. Per quanto ancora avrebbe dovuto farla soffrire così?




Ormai era diventata una consuetudine incrociare Lavi per i corridoi. Era come se, ovunque tu andassi, lui ci fosse. Forse per il suo lavoro di Bookman, forse perché era un curioso o forse addirittura per tutta una serie di coincidenze. Eppure Allen si stupì non poco quando ad uno svincolo incrociò il rosso, sorridente come al solito. Accanto a lui c'era Crowley. I due sembravano discutere di argomenti alquanto strani: spigole e meduse. Decisamente non un tema sul quale sarebbe valsa la pena crucciarsi. Non in quel momento.
L'albino salutò con un cenno i compagni, che ricambiarono l'uno con allegria e l'altro con pacata gentilezza.

- Dove andate? - domandò Allen, ben notando i loro abiti: canottiere e magliette corte, pantaloncini, niente scarpe.

Lavi mostrò uno dei suoi soliti radiosi sorrisi, mentre circondava Crowley con un braccio in segno d'intesa.
- Andiamo ad allenarci! - esclamò alzando una mano e facendo il segno della vittoria. L'altro annuì timido, per poi aggiungere - Perfezioniamo i nostri attacchi combinati, invero.

Allen parve finalmente comprendere. Gli avevano detto quanto la potenza dell'Hiban di Lavi, combinata alla naturale forza e agilità di Crowley avessero danneggiato pesantemente gli Akuma durante l'assalto a Edo. Insieme dovevano essere proprio fortissimi.
Diede una pacca sulla spalla a entrambi come segno d'incoraggiamento, sautandoli e allontanandosi verso la propria stanza. Certamente loro avrebbero fatto scintille, bravi com'erano in coppia. Lui aveva provato ad allenarsi con Kanda e il risultato era stato pessimo: una scommessa assurda sui loro capelli terminata con una scazzottata senza riguardi per entrambe le parti. Però non potevano dire di non essersi impegnati al massimo per pestare l'altro. Su quello, non c'era santo che tenesse. A pensarci bene, ultimamente Kanda pareva essere scomparso dalla vista di tutti. Gli Dissero che andava spesso in missione, e per questo tornasse alla Home solo per breve tempo prima di ripartire nuovamente. In ogni caso, Allen si sentiva preoccupato nei suoi riguardi. Non troppo, s'intende. Si trattava della stessa apprensione provata sull'Arca, quando avevano dovuto abbandonarlo tra le grinfie dei Noah; e quando avevano visto con orrore la distruzione della candida città e la sua scomparsa assieme a quella di Lavi, Crowley, Chaoji. Non poteva dire di tenere a lui, ma... lo considerava sempre un compagno insostituibile, certamente unico nel suo genere, che nonostante tutto possedeva un cuore. Certo, era sepolto sotto quella sua scorza da demone sanguinario ma c'era. E lui lo sapeva.

Si fermò. La porta di legno davanti a lui recava inciso il suo nome, incorniciato in una targa avente anche un numero di riconoscimento. Una cosa che non gli era mai andata a genio, ma necessaria. Detestava essere trattato come uno strumento di guerra.
Con assoluta calma afferrò la maniglia e la girò. Un cigolio, e la porta lentamente si spalancò. Non c'era mai stato niente di prezioso in quella stanza. Un letto, una scrivania e una sedia. E quel buffo quadro che aveva deciso di portarsi dietro, sebbene non gli fosse mai piaciuto troppo. Era un cimelio, un ricordo della prima Home in cui aveva vissuto, carico di nostalgia e sentimenti; e tramite di quella promessa fatta anni prima. Il buffo folletto che camminava in quel dipinto era lui, senza dubbio.
Si buttò di peso su letto, sentendo i muscoli indolenziti gemere di dolore. Gli pareva di sentirli implorare di lasciarli in pace, di farli riposate. Per quanto gli dispiacesse, il sonno non era nei programmi. Si tirò a sedere, afferrò con malavoglia la divisa buttata sulla sedia e la studiò con calma, notando buchi e strappi. Capitava sempre in missione. Fortunatamente c'era Jhonny, che con un'incredibile e persino spaventosa voglia di fare li rammendava tutti. Non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza.
Decise di vestirsi in fretta, prima che il suo cervello potesse riconsiderare l'idea di farsi un pisolino sul materasso. Più esausto di prima uscì dalla stanza richiudendo la porta dietro di sé. Percorse il corridoio in modo quasi meccanico, senza badare a ciò che gli stava intorno. Ormai lo conosceva a memoria, sebbene fosse trascorso poco tempo da quando si erano trasferiti. La verità era che lo aveva percorso talmente tante volte da memorizzarlo alla perfezione.
Dinnanzi a lui si stagliò la porta di legno finemente lavorata che conduceva all'ufficio del supervisore. Entrò, e con la stessa andatura di uno zombi si sistemò sul divanetto posto di fronte alla scrivania ricolma ci fogli e documenti. Solo allora se ne accorse. Komui non c'era. Cominciò a guardarsi attorno, perplesso. Ma ecco che udì una voce flebile provenire da dietro la scrivania. La raggiunse e... vide solo un mare di carta e libri! Ma proprio mentre ipotizzava potessere essersi confuso, il medesimo rumore lo insospettì e, scavando, scoprì una mano che si contorceva in maniera orribile, in cerca di fuga.
A quella scoperta fece un balzo all'indietro, lasciandosi scappare un gridolino. E subito dopo una voce, debitamente sommessa e chiaramente proveniente da sotto il cumulo, parve sollevarsi.

- Allen caro, sei tu?!

L'interessato annuì, ancora scioccato, per poi correggersi e rispondere con energia - Sì!

La voce continuò visibilmente sollevata.

- Ah, grazie a Dio! Aiutami, sono finito qui sotto!

Allen spalancò gli occhi.

- Signor Komui, siete voi?!

- Sbrigati, sto soffocandooo!

- S-Sì!

E senza pensarci due volte, cominciò a togliere libri e fogli dal cumulo, fino a scoprire la punta del berretto del Supervisore. Sempre più interdetto, continuò a scavare finché il reperto non venne totalmente alla luce, recuperando il fiato e alzandosi a fatica.

- Grazie mille, Allen! - disse grato all'albino, mentre si accomodava con sollievo sulla propria sedia - Stavo cercando un documento importante e per sbaglio mi è crollata addosso una pila di libri...

Allen rimase sconvolto, pensando che probabilmente con tutta quella roba che gli era caduta addosso sarebbe potuto anche morire. Ma vederlo ridere spensierato come se nulla fosse gli fece venire un'incontenibile voglia di riseppellircelo sotto e abbandonarlo al suo crudele destino.

Proprio in quel momento entrò Linalee. In mano aveva ancora il fascicolo di prima, anche se adesso sembrava essersi alleggerito. E l'albino pensò, amaramente, che pur di scansare il lavoro Komui era disposto a tutto; anche a sfruttare la sua adorabile sorellina.
Vedendo l'espressione scioccata di Allen, la cinesina assunse toni di rimprovero e si rivolse al fratello.

- Fratellone! Ti avevo detto di lasciare in pace Allen, almeno per una volta!

Komui si mise a ridere, nervoso, e Linalee lo guardò truce. Ma non stava facendo sul serio. Per quanto suo fratello fosse riprorevole, non poteva realmente andargli contro.

I due poi si ricomposero e la ragazza si sedette al fianco di Allen sul divanetto della stanza, mentre Komui distribuiva loro dei fascicoli contenenti i dettagli della loro nuova missione.

- E' una zona montuosa non molto lontana da qui. E' attraversata principalmente da mercanti, e proprio alcune loro segnalazioni ci riportano fatti davvero insoliti.

- Insoliti? - chiese Linalee, curiosa.

Komui annuì piano.

- Vedete,  per raggiungere il paese adiacente, sono costretti ad attraversare un tratto boscoso abbastanza fitto. E la cosa strana, a sentire le voci, è che questo percorso cambia di continuo.

Allen sollevò lo sguardo dai fogli e guardò perplesso il supervisore.

- In che modo cambia di continuo?

Komui mostrò loro una mappa del luogo. Un cerchio rosso era segnato attorno all'area interessata.

- Semplicemente... - spiegiò, indicando con una bacchetta l'indicazione sulla carta - ... si sposta.

A quella spiegazione entrambi gli Esorcisti parvero rimanere sorpresi. Ma era piuttosto naturale avere a che fare con simili fenomeni, nella loro condizione.

- Innocence? - domandò Allen, serioso.

- Possibile - rispose il supervisore, riponendo la mappa con serietà - Ci dicono che gli alberi, il percorso, le montagne stesse che ne fanno parte, cambino la loro mofrologia in modo casuale e del tutto imprevedibile. Per questo molti mercanti si sono smarriti, e sono finiti da tutt'altra parte.

- Capisco... - annuì Linalee, mentre rifletteva già sulle possibili cause del fenomeno.

- Vi chiedo di andare a controllare che le voci siano vere, per favore - concluse Komui sedendosi sulla sedia e congiungendo le mani. Aveva l'aria stressata. Sapevano entrambi che, nonostante tutto, non mancava di fare il suo lavoro e la cosa impediva loro di prendersela totalmente con lui.

- Bene - affermò Allen, alzandosi con determinazione. La curiosità aveva risvegliato le sue energie. Ora sentiva il bisogno di partire e risolvere quel mistero - Quando partiamo?

- Tra un'ora - troppo poco per prepararsi a dovere, sicuramente, ma questo era il loro lavoro. Un lavoro che solo loro potevano fare. E se non ci fossero andati Dio solo sapeva cosa sarebbe potuto accadere. L'Innocence era imprevedibile. Ma per questo erano nati gli Esorcisti, gli unici in grado di controllarla, gli unici in grado di averci a che fare. Il riposo poteva anche attendere.


 


Il brusio che si era levato dalla tavola era uniforme, non una voce pareva spiccare in quel mare di confusione, al quale si aggiunsero presto il tintinnare dei bicchieri e delle posate sulla ceramica fine dei piatti colmi di cibo. Eppure, nonostante l'aspetto alquanto delizioso e la fame che li divorava, qualcosa di ben più invitante stava dando loro filo da torcere: la curiosità. Una irrefrenabile, morbosa curiosità. Erano stati chiamati con urgenza dal loro capo, il quale li aveva raccomandati di prendere parte ad un'altra importante cena di famiglia. E loro, perplessi, avevano accettato ed ora erano lì, in fila, seduti a tavola con le pance vuote - o quasi -. Non tutti infatti parevano così ansiosi di sapere il motivo della loro chiamata improvvisa, tant'è che avevano cominciato già a ripulire i piatti serviti in silenzio - o quasi, ancora -.
Perché non tutti avevano avuto la decenza di consumare le pietanze in silenzio. Due individui, certamente giovani ma non così tanto da parire immaturi come invece erano, si stavano amabilmente prendendo a forchettate lanciando purè ovunque, colpendo disgraziatamente in faccia un giovane signore dall'aria distinta che stava facendo ticchettare le dita sulla tavola per l'impazienza. Al sol sentire il proprio viso impunemente assalito dal contorno, immediatamente saltò su, irato, e si mise a minacciare di morte i due scalmanati, promettendo loro una orribile fine.
Questi però continuarono a ridere sguaiatamente, incuranti delle sue parole, e la battaglia di cibo continuò indisturbata. O almeno, finché non avvertirono che intorno a loro era improvvisamente calato il silenzio. Succedeva sempre così, erano gli ultimi ad accorgersene, ma lui faceva comunque finta di non averli visti.
Apparve così, dal nulla, senza far accorgere gli altri della sua presenza. Era teatrale. Ogni suo gesto, ogni sua movenza pareva calcolata, sembrava che la eseguisse solamente per rispecchiare il ruolo da lui scelto: l'infausto personaggio che avrebbe portato il mondo alla rovina, il Conte del Millennio.

Dalla tavola una piccola figura si sollevò. Una bambina. si sporse verso il centro, per vederlo meglio, rivolgendogli un sorriso d'intesa. Eccole finalmente, le risposte. Bene, non aspettava altro.

- Sono molto felice che siate venuti tutti, fratelli - cominciò, con voce calda, eppure tremendamente grottesca. La voce di un essere tanto bizzarro quanto ingannevole. Si spremacciò con cura il soprabito color crema che seguiva alla perfezione la sua forma tondeggiante - Scusatemi per avervi fatti radunare qui con così poco preavviso .

E fu allora che la bimba prese la parola, di sua iniziativa. Aveva una voce chiara, infantile, dolce per certi versi. Eppure, era come se queste qualità fossero costantemente messe in ombra da un lato più oscuro; maligno. Sorrise, già immaginando quello che volesse dire il loro ingombrante capo. Ma voleva esserne certa. Manifestare la sua curiosità a nome di tutti perché, ne era sicura, chiunque stesse presenziando alla cena in quel momento si sentiva perplesso tanto quanto lei.

- E' successo qualcosa di grave, Lord?

Non lo sapeva, ma riusciva a capire quando il primo apostolo Noah era sovrappensiero, o rattristato da qualcosa. Una sotto specie di senso materno nei suoi confronti che le piaceva mettere in luce per far vedere quanto fosse brava.
Il Conte scosse la testa, accentuando il ghigno che si portava sempre appresso, come una maschera; cosa che lo rendeva sempre più simile a un buffo personaggio da commedia. Ridacchiò appena alla domanda della piccola. Una risata grossa, vivamente divertita, riempì per qualche attimo la stanza prima di dare le dovute spiegazioni.

- Nulla di grave, Road - ammise, sollevato nel dirlo - Un altro di noi si è risvegliato .

A quella notizia i presenti sussultarono. Tutti. Colti dalla sopresa, non si sarebbero mai aspettati una simile notizia. Road Kamelot, il Sogno di Noè, si mise in piedi sulla sedia rivelando il proprio abitino di tulle, bianco e spruzzato di nero come un paesaggio invernale al contrario. Neve di pece cadeva su di un terreno candido. La terra immacolata che loro presto avrebbero invaso d'ombre e d'odio.

- Qualcuno ha preso il posto di Skin? - chiese speranzosa. E dire che il suo golosone preferito per eccellenza le mancava molto. Necessitava di avere un nuovo compagno di giochi.

Eppure, il Lord del Millennio scosse ancora la testa, evidentemente dispiaciuto. Risposta negativa. Road si rimise a sedere, sconfortata, senza però aver perso la voglia di sapere.

- Allora?! Chi sarebbe?!
- Hiii, sarebbe?!

Jasdevi non mancarono di partecipare al discorso, anche se in realtà non fregava loro nulla del nuovo membro. Erano annoiati e basta.

Il primo apostolo rise goffamente a quell'intervento, ben consapevole del reale interesse dei Noah del Legame. Ma rispose loro in modo normale, cogliendo le loro domande al volo per creare l'effetto suspence che tanto gli piaceva per terrorizzare e far morire d'ansia i suoi amati ospiti.

- Oh oh oh! Sapete, non lo so nemmeno io! .

E questa volta i presenti rimasero basiti.

- Come sarebbe a dire? - domandò un giovane seduto accanto a Road. Era elegante e aveva l'aria parecchio annoiata.

Gli occhi del primo apostolo parvero luccicare dietro le piccole lenti tonde degli occhiali, come se si aspettasse quella domanda.

- E' presto detto, Tyki-pon! - esclamò sollevando l'indice con aria sapiente - Lasciate la stanza e seguitemi .

A quelle parole il Noah del Piacere si stizzì. Come odiava quel soprannome, e finché avesse avuto aria nei polmoni gli avrebbe detto di smetterla di usarlo con lui. Eppure non batté cigio, e si alzò da tavola assieme a tutti gli altri discepoli di Noè. Non erano molti. Dopo la battaglia dell'Arca uno di loro se n'era andato, ma solo temporaneamente. Sapevano che sarebbe tornato, assieme a tutti i fratelli mancanti. Il piccolo gruppo si raccolse dietro al primo apostolo, che come un'impavida guida, li condusse fin nei più remoti angoli di quella che era la loro nuova casa: un antro buio, immerso nel nulla, nel quale l'impossibile diventava reale, e l'immateriale assumeva una forma concreta. Erano quelle stesse ombre a plasmarsi, seguendo il percorso dei loro abitanti, a disporsi tremolanti e ad assumere forma, colore, solidità. Così, senza che se ne rendessero conto, stavano camminando all'interno di un ampio corridoio elegante, attraversato da un morbido rosso tappeto e illuminato da cadelabri di cristallo alle pareti. In fondo ad esso, una porta che, in confronto a quel lussuoso ambiente, pareva essere stata appoggiata lì per sbaglio. Era di legno, scarna, senza l'ombra di una decorazione, decisamente fuoriluogo. Eppure era la chiave di quella riunione. Oltre di essa, risiedeva la ragione per cui il Conte non si era mai sentito tanto interdetto in vita sua.
Il gruppo vi si fermò di fronte. Rimasero lì per qualche attimo, finché il primo apostolo non sollevò la mano e con un gesto, forse un incantesimo sconosciuto, rimosse il lucchetto che la teneva sigillata. Cigolando, si aprì. Ma molto, molto lentamente. Non voleva certo impaurirla.
Un raggio di luce penetrò all'interno, illuminando una stanza spoglia, vuota. Pareva la cella di una prigione. L'unica differenza era che, nonostante vi fosse una finestrella in pessime condizioni, le cui schegge erano visibili a terra, essa non forniva alcun tipo di illuminazione. Chiunque vi fosse stato all'interno, era rimasto nel buio più totale fino a quel momento. L'Arca aveva mille segreti, alcuni di questi noti nemmeno al suo creatore, e i suoi misteri superavano le comuni leggi terrestri, per elevarli a esseri superiori.
Road si fece avanti, curiosa. E fu allora che l'avvertì. Un movimento provenire dall'oscurità. Era strano, molto strano. Le parve come se qualcuno stesse strisciando nella loro direzione. Ma quando udì il tocco di due mani leggere appoggiarsi al pavimento e avanzare, ne fu certa. E lì, dovette ammetterlo, persino lei si sentì inquieta. Come se da quel qualcuno o qualcosa che lentamente veniva verso di loro scaturisse un'aura ostile; pericolosa. E, in qualche modo, spaventosa.
Indietreggiò: gesto involontario, eppure, nel profondo, voluto.
Dalla sottile striscia di luce che attraversava la cella, emersero improvvisamente due dita. Poi una mano. Poi un braccio; e lì i presenti impallidirono. Persino loro, nella loro fredda e spietata malignità, trovarono orripilante lo spettacolo cui furono costretti ad assistere.
L'essere davanti a loro era chiaramente una persona. Ed aveva la pelle grigio cenere, come la loro. Però... era diversa. Come se in qualche modo fosse estranea a quella condizione. I capelli lunghi, candidi e lisci le cadevano sul viso, sulle spalle, scomposti, sudici, stopposi. Ma erano anche intrisi di sangue, secco e raggrumato. Anche il corpo era ricoperto da macchie cremisi. Era sulle dita delle mani, sulle braccia, sul collo... come se ci avesse fatto il bagno. Ma il perché di tutto quel sangue fu presto detto. La mano destra stringeva stretto stretto un pezzo di vetro appuntito, come fosse stato qualcosa di prezioso come una bambola o un orsacchiotto. Numerosi tagli abbastanza profondi si aprivano sulle braccia, su quel poco di viso che era concesso vedere, sulle gambe..
La scena era indicibile.

Qualcuno rimase impietrito; qualcun altro si lasciò scappare un sorriso di nervosismo. Di circostanza, ma solo per mascherare l'angoscia che quell'essere aveva loro infuso.

Il Conte si chinò su quella figura, allungò una mano e le prese il viso ferito, freddo come il ghiaccio. Delicatamente lo sollevò, affinché i fratelli vedessero chiaro e tondo quella che aveva reputato un'anomalia. Sulla sua fronte si aprivano non sette croci, ma solo quattro. Quasi la metà. Dalla tempia destra, fino ad arrivare alla stigmata centrale, quella più grande e invasiva. Sangiunavano, eppure... trasmettevano una strana sensazione. Il vessillo dei Noah, dimezzato. Questo poteva voler dire tante cose, ma il Conte non perse tempo, e spiegò immediatamente ai suoi cari fratelli la questione.

- Questa giovane ospite - spiegò, con voce insolitamente seriosa - Doveva essere la nuova portatrice della memory della Pietà di Noè. Ma qualcosa è andato storto .

Sembrava rammaricato. Come se la cosa lo dispiacesse.

Tra i Noah, si fece avanti il detentore del Desiderio di Noè, Cheryl Kamelot, che con voce piatta domandò - Puo spiegarsi meglio, Lord?

Il primo apostolo osservò negli occhi la nuova arrivata. Quegli occhi d'ambra che nonostante tutto erano rimasti gli stessi, non erano cambiati. Erano ancora i suoi...

- Certamente - acconsentì, pacato, asciugandole una lacrima cremisi; gesto di pura gentilezza - Invece di reincarnarsi completamente nel corpo, la memory ha avuto un malfunzionamento e si è sdoppiata, generando una nuova emozione di Noè .

Cheryl ne rimase sbalordito. Ma non solo lui. Tutti, in particolare Road, ammutolirono all'istante. Certo di aver fatto finalmente comprendere loro la situazione, il Conte annunciò solenne la nascita di una nuova memory.

- Lei si chiama Gwen Grey, e rappresenta la Follia di Noè .



Angolo di Momoko ♞

E anche il primo capitolo è andato!
Spero che la storia vi stia piacendo!
Finalmente ho schierato in campo le parti. Da un lato gli Esorcisti (il cui coinvolgimento con il nuovo personaggio avverrà presto) e dall'altro i Noah, che già hanno visto la nuova sorellina e si sentono minacciati. E credetemi, ne hanno tutte le ragioni u.u *Momoko si compiace del regno di terrore che ha instaurato*.
Eh, sì, come ha spiegato il nostro caro Conticino c'è stato un problema con la reincarnazione delle memory. Per ora sapete solo che invece di diventare Maashiima è diventata la Follia (evito di tradutte in giappo perché non sono sicura). Presto spiegherò per bene nel dettaglio questa situazione! ;) Ah, state tranquilli: Gwen non è un personaggio stereotipato dal passato orribile e dai poteri nascosti, ha punti di luce e di ombra vi assicurò che sarà trattata in modo realistico. Quindi... spero possa piacervi, e se non vi piace fa lo stesso. Mi piacerebbe sentire i commenti anche di chi la detesta! E non è un attimo di masochismo, giuro. Solo pura curiosità.
Oh, be', ora mi dileguo! Ringrazio di cuore La Strega di Ilse per aver recensito il prologo, il suo parere mi è stato di grande conforto e mi ha fatto venir voglia di mettermi subito al lavoro <3
A prestooo,


Momoko <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il conforto di un cielo senza stelle ***


Into the Madness



Capitolo 2
Il conforto di un cielo senza stelle
 

 
 
Il treno correva ad alta velocità sobbalzando in continuazione. E per Allen riuscire ad appisolarsi fu un'impresa. Alla fine, vinto dalla stanchezza che, comunque, lo carpiva già da qualche ora, si lasciò scivolare nei mondo dei sogni beato, infischiandosene persino del mezzo di trasporto che non lo voleva lasciare in pace.
Linalee non aveva obbiettato. Lo aveva lasciato riposare tranquillo, mentre in silenzio spostava i suoi brillanti occhi scuri sul paesaggio notturno che scorreva veloce attorno a loro. campi e, in lontananza, colline verdi inghiottite dal buio. Qualche boschetto qui e là, nessuna traccia di vita. Dormivano tutti a quell'ora, anche i più piccoli animaletti del sottobosco. Ma lei no. Nonostante il suo corpo sentisse il bisogno di rigenerarsi con una bella dormita, lei non era in grado di accontentarlo. Si sentiva sovrappensiero, persa in un mare di ricordi e sogni che la inquietavano. Al sol rimembrare il dolore e la sofferenza patiti durante lo scontro sull'Arca e la propria anima straziata urlare, scalciare, strepitare, pur di proteggere chi amava... ogni voglia di dormire era volata via, divorata dall'oscurità di quella notte senza stelle. Ricordava troppo bene la sensazione: il suo stomaco che s'ingarbugliava nervoso, le lacrime che, aggressive, si dibattevano per uscire fuori; le grida, le preghiere a quel Dio da lei tanto odiato ma che le aveva concesso di ritrornare alla Home, con tutti i suoi compagni sani e salvi. Un gesto di misericordia crudele, perché mai Lui si era tanto preoccupato di lei e dei suoi apostoli. Le sue erano come le insolite attenzioni di un padre disinteressato dei propri figli. Nulla accadeva per caso. Erano vivi per puro miracolo, ma non solo; per un motivo ben preciso.
E nel trovare una risposta a questo interrogativo grande quanto il mondo, non si accorse del graduale cambiamento di paesaggio. Le colline si sollevarono, persero l'erba, la sostituirono con le dure rocce impervie delle montagne. In breve tempo, il treno viaggiava su una stretta strada posta tra due colossi di pietra grezza. I sobbalzi erano diminuiti, così come la velocità. Erano passate più o meno cinque ore. Cinque orribili ore di viaggio, per Linalee, che quel tempo lo aveva speso tutto a riflettere.
Verso mezzanotte e un quarto, il treno si fermò in una stazione cittadina, alla quale i due Esorcisti provvisti di bagaglio scesero veloci, osservando poi il mezzo che li aveva condotti lì gettarsi nuovamente tra le rocce ed essere inghiottito dall'oscurità.
Si guardarono attorno, dirigendosi immediatamente verso un sottopassaggio che li portò all'entrata della stazione ferroviaria. Poche persone la popolavano, per lo più uomini d'affari e vagabondi. Nulla di speciale. Si avviarono all'uscita e lì venne loro incontro una strana figura, completamente coperta da un lungo cappotto beige che gli copriva anche la testa. Aveva l'aria giovane, assorta. Per questo non si accorse degli Esorcisti, finché non furono questi a rivolgergli la parola. Al sol sentirsi osservato s'irrigidì, raddrizzando la schiena e incollando le braccia al corpo come se fosse stato in presenza di un'animale feroce. Ma a quel punto fece un profondo inchino, trattenendo il respiro.
- Sono mortificato! Spero possiate perdonare la mia distrazione, Nobili Esorcisti! - esclamò, profondamente dispiaciuto.
Già, i Finder ne nutrivano molta di stiva verso di loro. Per alcuni si trattava semplicemente di lecchini o ruffiani, per altri di persone realmente rispettose.
Allen fu il primo a intervenire, dato che Linalee pareva un po' assente. Prese per le spalle il ragazzo e lo fece rialzare, calmandolo e dicendogli che non aveva fatto nulla di male.

- Piuttosto - gli domandò, per spezzare quell'imbarazzante discorso - Come ti chiami?

Il giovane parve sorprendersi, preso alla sprovvista. Evidentemente non era abituato a quel genere di trattamenti. E subito ricordò il viso dell'Esorcista albino. Era abbastanza noto, tra gli atri Finder, per aver compiuto imprese pregne di eroismo, ma soprattutto per l'essere una persona molto altruista, attenta al bene di tutti. E questo non potè che accrescere la profonda ammirazione che aveva per lui.

- Mi chiamo Albin, al vostro servizio!

Allen sorrise, presentandosi a sua volta. Venne poi il turno di Linalee, la quale disse il suo nome in modo molto sobrio e pulito, come sempre. E Albin pensò che ciò che gli avevano detto i suoi superiori sui mitici apostoli di Dio era sbagliato. Non erano affatto duri, irraggiungibili, legati alle tradizioni e al rispetto. Sembravano proprio persone qualunque, degli amici con cui ridere e scherzare. Compagni uniti per un unico destino, e un unico obbiettivo.
Ma si ricompose all'istante, nel ricordare il motivo per il quale era stato mandato lì lui solo. A dire la verità aveva un po' paura, non aveva mai assistito in solitaria degli Esorcisti, era sempre rimasto nell'ombra come semplice recluta. Ma si era impegnato, aveva dato tutto sé stesso ed ora poteva vantarsi di essere un'assistente di quei fantastici guerrieri che tanto idolatrava. Veloce, senza indugiare oltre, frugò nel proprio cappotto alla ricerca della lanterna che si era nascosto addosso in caso di necessità. La tirò fuori, ci mise dentro la giusta quantità d'olio e l'accese. Il bagliore spezzò il buio, creando un alone di luce che trasmise sicurezza e protezione in quel mondo dominato dalle tenebre.
I tre iniziarono poi ad avviarsi, a piedi, lungo il sentiero indicato da Komui, che pareva passare prorprio accanto alla stazione, inerpicandosi nel più fitto dei boschi.

- State vicini alla lanterna, Nobili Esorcisti - raccomandò loro Albin, con l'aria sicura di chi è pronto a rischiare il tutto per tutto per proteggere i propri colleghi da qualunque pericolo. Così era cresciuto, orfano, in quella comunità di non eletti dove ognuno pensava all'altro, e viceversa. I legame più forte lo si stabiliva coi compagni, e mai con sé stessi. E a quel punto nemmeno i cannoni degli Akuma potevano cancellare quel legame indissolubile creatosi tra gente comune, gente che andava avanti con le proprie sole energie ma che aveva visto nell'amicizia, nell'unione, il vero potere per sconfiggere il male. Una catena che mai si sarebbe spezzata, era la divisione Finder. Non un cumulo di mosche pronte a morire per niente, come un certo altro Esorcista aveva affermato. Sì, lui c'era quella volta in cui Yu Kanda parlò impunemente di loro come pedine sacrificabili, niente più che scudi, strumenti per loro, che erano i veri guerrieri. Avrebbe voluto alzarsi, dargli una bella lezione, ma s'era contenuto. Era in grado di sopportare abbastanza da conservare quell'onore che lo contraddistingueva, che mai gli avrebbe permesso di compiere una tale scorrettezza verso un superiore. E sì, erano deboli, inermi. Non possedevano certo l'Innocence, ma i loro cuori erano puri quanto quella divina materia di Dio a loro preclusa.

- Ci siamo quasi - avvertì ad un certo punto, quando ormai stavano camminando da un'ora buona. Il bosco era fitto, e aldilà della luce della lanterna Allen e Linalee non riuscivano a vedere nulla. E la cosa li inquietava. Senza nemmeno le stelle in cielo a far loro da guida, erano come un mero residuo di purezza in un mondo depredato della propria luce, oscuro e sinistro. I territori inesplorati attorno a loro li rendevano agitati, con la guardia alta, pronti a scongiurare all'istante anche il più piccolo attacco da parte di Akuma.
Notarono però qualcosa di strano in quell'innaturale silenzio; in quell'apatia agghiacciante che li circondava. E subito si affrettarono a esporsi a vicenda i propri pensieri.

- Come mai il misterioso fenomeno di cui si parlava non si è ancora verificato? - Linalee parve preoccupata. Si strinse ad Allen, nel tentativo di reprimere i timori che quel bosco sconoscuto instillava nel suo essere. E l'albino fece altrettanto. Non che avesse paura o volesse fare l'eroe. Trovava semplicemente quella situazione tutta molto strana, e mantenere il gruppo intatto era fondamentale per evitare sfortunati incidenti, come spesso gli era capitato in passato. Dopo aver compiuto qualche altro passo, Albin si fermò. Pareva essersi lasciato soggiogare anche lui dall'ambientazione spettrale nella quale si erano coraggiosamente immersi, seppur in modo avventato.

- Se per voi non rappresenta un problema, proporrei di trovare un rifugio qui vicino.

Allen osservò Linalee. E pensò che lei, in quel posto, sarebbe durata decisamente poco. La conosceva, non era molto simpatizzante per i luoghi solitari e lugubri come quello. acconsentì deciso all'idea del Finder, ma impose di trovare un luogo sufficentemente sicuro per riposare. L'altro annuì, e con il poco olio rimanente nella lanterna si misero alla ricerca di una grotta, una radura, un qualunque angolo di bosco in cui sarebbe stato facile per loro recuperare le forze e riflettere sulla missione.
Non ci volle molto per trovare quella che a prima vista parve l'entrata di una galleria di pietra, naturale, che trovava la sua formazione nella pancia di un grosso pezzo di roccia, probabilmente parte della montagna. Vi si addentrarono, e fortunatamente la trovarono deserta. Un goccioliò insistente echeggiava al suo interno, e il perché fu presto svelato. Enormi stalattiti ricoprivano il soffitto, e le gocce di condensa scendevano fino a tremolare incerte sulle punte, per poi gettarsi in un viaggio di sola andata verso una pozzanghera d'acqua salmastra che le aspettava proprio sotto di loro, sul pavimento di roccia scavato dal tempo.
Il gruppo si sistemò vicino all'entrata, in modo che anche da lì potessero tenere d'occhio la situazione all'esterno. Allen e Albin andarono a cercare rametti secchi, e Linalee accese un piccolo fuocherello con quello che restava della fiamma nella lanterna. Fortunatamente il Finder portava con sé delle riserve, quindi non dovettero preoccuparsi di rimanere al buio per le ore successive.
Allen propose ai due di riposare, data l'ora tarda, e così fecero. Si appisolarono tutti quasi contemporaneamente, tanto erano stanchi. E non si risvegliarono per un bel po'. Persino Linalee, nonostante tutte le preoccupazioni, non si accorse di essersi lasciata trasportare tra le braccia di Morfeo...
 

Gwen si risvegliò improvvisamente.
Il perché e il come si fosse addormentata non le era chiaro, e forse non c'era nemmeno. In verità, non vi era nulla di anomalo in quel comportamento; semplicemente, le capitava da anni, e credeva ormai di aver passato gran parte della sua vita dormendo, facendo un sogno assurdo. O almeno lo sperava. Pregava sempre nel proprio cuore che che alla fine si svegliasse e scoprisse che aveva solo fatto un orribile incubo. Che lei ci fosse ancora. Che le sorridesse, le parlasse. Ma no, non era stato un sogno. Era accaduto veramente. E il sangue e le lacrime s'impressero vivi, furenti nella sua mente per ricordarglielo. Il mondo era buio e lei.. ne faceva parte ormai. Era diventata un'ombra schiava della solitudine e dell'eternità cui era stato sottratto il diritto alla vita.
Si rannicchiò contro un angolo freddo e umido della stanzetta nella quale era stata rinchiusa, le ginocchia lacerate dai tagli, le braccia piene di abrasioni, graffi. E se li era inferti tutti da sola.
Fissò un punto nell'oscurità, a caso, con quegli occhi che non vedevano niente ma immaginavano. Oh, sì. Almeno questo, potevano ancora farlo. In un'alone di luce soffusa e fittizia, frutto della sua mente che tentava di dare un senso al nulla, vide emergere il suo viso, assieme ai suoi occhi blu, o forse grigi, o forse trasparenti; al suo sorriso che si contorceva seguendo le movenze del buio, ingannatore e fasullo. E a quella corta chioma castana, che pareva dissolversi ghermita da artigli invisibili.
Tese una mano, come per afferrare quell'illusione distorta dal tempo e dall'oscurità. Pensava che se fosse riuscita a prenderla, Cari sarebbe tornata da lei. Oh, era così semplice. Bastava solo afferrare quell'immagine davanti a lei. Solo questo.
Solo... questo...
Ma non servì a nulla. Come la punta delle sue dita sfiorò quel volto immaginario, esse presero a sfigurarlo in maniera orribile. Caddero i capelli, uno per uno. Gli occhi blu o grigi o trasparenti si sciolsero come neve al sole e gocciolarono a terra. E quel viso tanto tondo, bello, dolce, iniziò infine a deteriorarsi, riempirsi di rughe, raggrinzirsi fino a che... non si spaccò. Come un vaso di porcellana caduto, le sue gote si frantumarono e cascarono al suolo, scoprendo un'orribile teschio umano, la cui tempia destra presentava un foro della grandezza di un proiettile. Da esso cominciò a sgorgare fuori del sangue, sempre di più, sempre di più...
Gwen si ritrovò il respiro mancarle, preda di un'illusione di cui lei stessa era artefice. Cadde al suolo e si contorse nel tentativo di prendere fiato, ma si sentiva la gola impastata da qualcosa, bloccata. Annaspò alla ricerca d'aria, graffiandosi il collo in un disperato gesto di liberarsi da quel peso soffocante. Stava affondando; affondava in un mare rosso e denso, impossibile da risalire. Gli occhi d'ambra iniziarono a chiudersi, lenti, carichi di dolore. I suoi movimenti erano sempre meno scattanti, perdevano d'efficacia, si stavano ammutolendo. Si ritrovò agonizzante sul pavimento, solo una sottile stilla di vita ancora la teneva ancorata a quel mondo, a quell'inferno dal quale lei voleva disperatamente andarsene. Non oppose più resistenza. Forse, questa volta, sarebbe riuscita a morire. Finalmente...

La porta della cella prese a cigolare, sinistra.
Tyki la aprì lentamente, come gli aveva raccomandato il Lord, per non spaventare la loro improbabile ospite. La luce invase gradualmente la stanza, e fu solo quando l'ebbe inondata tutta che se ne accorse. La sciagurata giaceva a terra priva di sensi. Con inaspettata prontezza di riflessi, le fu subito addosso, prendendola e scuotendola con molto poco garbo. E fu allora che la vide: un lungo lembo di stoffa del vestito, non troppo grosso, era annodato in modo distratto attorno al suo collo. Si lasciò scappare un ringhio nervoso mentre usava i suoi poteri per farglielo passare attraverso e liberarla. E con somma soddisfazione, mista alla volontà di finirla con le proprie mani, la vide riprendere a respirare all'improvviso, a pieni polmoni.

"Che problemi ha questa qui?!" si chiese, allarmato, mentre ricordava le parole del Lord deliberatamente rivolte a lui, come a volerlo vittima di un altra stupida beffa.

 
- Bada che non le succeda niente, eh, Tyki-pon! 

Solo ora capiva il reale senso di quelle parole, e il significato di quella dubbia preoccupazione. Quella sciocca aveva appena cercato di suicidarsi.
 



Un tremito leggero scosse la terra, mentre un timido rimbombo appena percettibile si diffuse tra gli alberi, i quali scuoterono le loro chiome sospinte da una forza invisibile.
Allen socchiuse gli occhi all'improvviso, vedendo il suo sonno disturbato. Constatò con disappunto che il sole non era ancora sorto, e che la notte fosse più nera del buio stesso. Neanche una stella brillava in cielo Si chiese cosa fosse stata quella scossa, ma i suoi sensi erano ancora affievoliti dal sonno e ipotizzò di essersela immaginata. A volte succedeva: sognava di cadere, e gli sembrava talmente reale che poi non sapeva spiegarsi quando si risvegliava nel proprio letto, al sicuro da ogni pericolo. Eppure, ne era certo, fino a pochi miseri istanti prima la terra tremava sotto i suoi piedi. Che buffo mondo, quello onirico.
Si risistemò nel suo cantuccio, portandosi la coperta fin sulle spalle. Sebbene fosse già primavera, faceva ancora un freddo terribile, soprattutto in montagna. Prima di riappisolarsi, diede un'occhiata veloce ai suoi compagni, per assicurarsi che dormissero quieti. Linalee stava bofonchiando qualcosa, ma non ritenne di doverla svegliare; non pareva agitata. E invece Albin..

"Dov'è?" si chiese, mentre si alzava.
Il Finder mancava all'appello. Le sue coperte erano in ordine, senza una piega. Pareva non averci mai dormito. Allen si guardò attorno, e nonostante il buio riuscì a vederlo. Era proprio all'entrata della grotta, seduto a terra a gambe incrociate, e fissava assorto il paesaggio addormentato davanti a lui. In silenzio, senza farsi percepire, si portò al suo fianco con aria serena.

- Non riesci a dormire? - gli chiese, in tono amichevole.

L'altro scosse la testa.

- Affatto, mi sono offerto di fare la guardia.

Allen lo rassicurò, con un sorriso.

- Non devi preoccuparti, Albin. Qui in giro non ci sono Akuma.

Il Finder parve stupirsi, certo di essersi perso qualcosa. Di solito era abituato a basarsi sulle tracce nel terreno, sull'odore, sull'aspetto del paesaggio, per accertarsi della presenza di quei demoni. Ma mai aveva sentito qualcuno dire con tanta naturalezza quelle parole. Gli Esorcisti erano davvero straordinari.

- E voi come lo sapete? - chiese, divorato dalla curiosità.

Allen scostò i capelli dal viso e mostrò al compagno l'occhio sinistro, attraversato dalla cicatrice maledetta.

- Vedi - spiegò calmo, come se in qualche modo vi fosse abituato - Con questo posso vedere le anime degli Akuma anche a chilometri di distanza.

Albin strabuzzò gli occhi, osservando quel segno rossastro tanto bizzarro. E tutto ciò che seppe dire fu "Wow". Qualcun'altro, al posto suo, avrebbe reagito con riluttanza alla vista del pentacolo; qualcun'altro, invece, ne avrebbe avuto paura. Ma lui no. Lo trovava interessante, per nulla malvagio. E più tempo passava assieme a quell'Esorcista, più sentiva dentro di sé crescere quello stesso calore e conforto che provava con i suoi compagni. La cosa lo rese felice, onorato. E perciò obbligato più che mai a fare tutto il possibile per salvaguardare la vita di quei preziosi amici appena ritrovati.

- Siete davvero forti, Nobili Esorcisti - asserì, come perso in una fantasia - Capisco perché la Divina Innocence ha scelto voi come sua portavoce.

L'albino sorrise ancora, malinconico. I ricordi della prima volta in cui il suo braccio sinistro si era attivato gli tornarono alla mente. Il pensiero di Mana, suo padre, dilaniato dai sui artigli; del Conte; della sua ingenuità..
No, non doveva pensare a cose simili. Era diventato Esorcista per questo. Non doveva rimpiangere le scelte del passato, poiché esse lo avevano portato lì. Aveva conosciuto tante persone speciali, ed aveva imparato a considerarle come una famiglia. Erano loro, adesso, la cosa più impotante da proteggere. E l'Innocence era solo uno strumento, per preservare quel mondo in bianco e nero che solo lui era in grado di vedere.

- Infondo... - mormorò, cercando di diminuire l'aura eroica nella quale Albin li aveva immersi - ... Non siamo poi così for...

Un tremito scosse rapidamente la montagna. Allen bloccò la frase all'improvviso, mentre si rialzava di scatto.

- Che sia... ?!

Albin tentò di sollevarsi, ma un'altra scossa più potente delle altre lo fece barcollare e cascare nuovamente a terra. L'Esorcista lo aiuto ad alzarsi ed insieme corsero verso Linalee, svegliandola. La ragazza aprì gli occhi all'istante e si alzò alla velocità della luce.

- Che succede?! - gridò, perché la terra tremava e, rimbombando, copriva in modo orribile qualunque altro suono.

- L'Innocence! - gridò Albin, mentre si aggrappava alle pareti irregolari della grotta per non inciampare.

Allen fu velocissimo, prese per mano i compagni e insieme si avviarono veloci fuori dalla grotta. Non sarebbe stato sicuro rimanervi dentro, specie se poi le macerie fossero crollate loro addosso. E con orribile sconcerto assistettero ad uno spettacolo impossibile. Il terrendo sotto i loro piedi, ma più di tutti le montagne in lontananza... stavano ondeggiando. Ondeggiavano come fogli di carta e gli alberi, le rocce, i ruscelli seguivano quel movimento assecondandolo. Gli animali scappavano impazziti, correndo ovunque, uno stormo massiccio di uccelli si levò in volo e scomparve all'orizzonte. E fu allora che lo videro: il potere di quell'Innocence tanto bizzarra quanto devastante. Ogni elemento che ondeggiasse assieme al terreno prese a scivolare seguendone le ampie piege generate, spostandosi. Gli alberi sebravano quasi galleggiarvi sopra, mentre scorrevano lenti su quel terreno blando, in continuo movimento. Allen, Linalee e Albin persero ogni appiglio e caddero a terra. Le onde si fecero più intense, dividendoli e trasportandoli ognuno in una direzione diversa. Tentarono di chiamarsi, di attivare l'Innocence perfino, ma fu tutto inutile. La grotta nella quale avevano dormito migrò altrove, sostituita a un pugno di abeti, e i tre si persero completamente di vista...



 


Tyki non riusciva a capacitarsi del fatto di essersi portato dietro Gwen. Il Conte era stato evasivo, aveva risposto alle sue domande per metà e la cosa lo mandava in bestia. Poi, perché proprio lui? Da quando in qua era diventato il baby-sitter di quella povera svitata?!
Dal momento in cui le aveva salvato la vita, non l'aveva più degnata di uno sguardo, certo che, se mai lo avesse fatto, l'avrebbe sicuramente eliminata all'istante. Si sentiva preso in giro, sfruttato. E dalla sua stessa 'famiglia' per gunta. Già, Tyki era infuriato con loro come mai lo era stato in vita sua, tant'è che pensò di essere diventato lui il nuovo Noah della rabbia. Insomma, quale piacere poteva esserci nel trascinarsi dietro la nuova arrivata?

 
- Ho bisogno di verificare alcune cose .
 
Questo fu tutto ciò che il Conte rivelò, prima di tornare a dedicarsi al maglione che stava cucendo amorevolmente. Lo aveva liquidato con una missione di poco conto, che sarebbe servita a rivelare i poteri della Follia, e... nient'altro. Sicuramente aveva qualcos'altro in testa, un piano secondario che lui non era abbastanza qualificato per conoscere. Si chiese se c'entrasse qualcosa con quell'Innocence che stavano andando a recuperare. Era tutto troppo strano e lui non brillava certo per intelligenza. Infine, si decise: avrebbe lasciato che la situazione si evolvesse da sola, che le intenzioni del Lord gli parissero più chiare, prima di agire. Voltò lo sguardo verso Gwen. Procedeva con l'andatura elegante di una giovane donna, insolitamente calma e composta rispetto a prima. Indossava un abito lungo, stretto in vita, con una ampia gonna che si muoveva sinuosa. Le avrebbe dato non più di una ventina d'anni. I capelli bianchi contrastavano enormemente col grigio della sua pelle, tanto oscuro e sinistro. La testa era ancora fasciata, con qualche macchia rossastra che traspariva, vivida. La donna pareva muoversi tra gli alberi come se fosse stato uno spettro, una figura evanescente, eterea, non appartenente a quel mondo. Lasciava che il vento, il fruscio delle foglie, il calpestio sull'erba morbida le scivolassero addosso, senza badarvi, senza dar loro peso. O forse... senza opporvi resistenza.
D'improvviso, si fermò. Le sue orecchie avevano captato un rumore in lontananza. Si guardò attorno, tra la selva e il buio della notte che stava già cominciando a schiarire, illuminandosi dell'oro delle prime luci dell'alba. E lì lo vide: un daino. Timido, guardigno, aveva le orecchie ritte sulla testa e il muso che zigzagava a destra e a sinistra, in cerca di pericoli. Come si accorse della presenza di Gwen, si bloccò e rimase a guardarla, come incantato. La ragazza fece lo stesso. I due si fissarono a lungo, poi l'animale tastò il terreno con le lunghe zampe e successivamente si allontanò. E tutto quello che lasciò fu un'interminabile senso di inquietudine nel cuore della Noah, la quale istintivamente allungò una mano nella sua direzione, come una bimba che non voleva che se ne andasse. Ma come lo fece, l'altro braccio scattò e lo immobilizzò, quasi stritolandolo.
E Gwen si disse che no, non poteva. Non poteva prenderlo; toccarlo. Perché, ne era certa, se lo avesse fatto quella povera creatura sarebbe... sarebbe..
Nella mente le apparve il viso di Cari. Quella bambina tanto cara a cui lei aveva donato i suoi ricordi, i suoi pensieri; i suoi sentimenti. Quello stesso viso che aveva visto nella sua cella, al buio e al freddo. Quello la cui pelle si era disintegrata come porcellana, rivelando quell'orripilante teschio dal quale era sgorgato fuori come una fontana un mare di sangue, facendola quasi annegare. E capì. Era stata lei a sfigurare quel volto. Con la sua stessa mano, la stessa che ora fremeva per acchiappare anche il povero daino.
No, non poteva. Non poteva uccidere anche quel povero animale.
Perché... sì. Non c'erano dubbi.
Era stata lei. Lei aveva ucciso Cari.
Dopo l'incidente, la sua memoria era andata frammentandosi in miliardi di pezzi, alcuni dei quali si erano persi. Erano svaniti nei più remoti angoli della sua mente; invisibili, imperscrutabili, erano la chiave di quel passato che lei aveva involontariamente cancellato ma che bramava così tanto di riottenere. Eppure... non aveva senso. Sentiva qualcosa di sbagliato crescere in lei. Come un'onda, che proagandosi le faceva marcire il cuore: senso di colpa. Un orribile senso di colpa, che le faceva male al petto, la paralizzava e vanificava qualunque tentativo di far riaffiorare i ricordi perduti. In qualche modo, era già giunta ad una conclusione che non aveva altre vie di fuga. Nella sua testa c'era Cari e poi... il rimorso. E lo aveva capito solo in quell'istante. Perché quei sentimenti potevano significare solo una cosa: era lei l'artefice. L'assassina della sua migliore amica.
Il peso del suo corpo divenne insostenibile. Si lasciò cadere a terra, raccogliendo i lembi del vestito perché l'avvolgessero, e stringendosi successivamente nelle spalle affondando le unghie nella stoffa delle maniche ampie.
Freddo.
Improvvisamente, lo avvertiva. E in qualche modo le pareva famigliare.
Ma certo. Anche quel giorno aveva sentito lo stesso gelo nelle ossa. Il terrore della morte. L'odore del sangue. Il volto pallido, sudato; un'arma in mano.
Doveva essere stata sicuramente una pistola. Sì. Esattamente. Lei l'aveva in mano e...
Aveva sparato.
Contro chi... ?
Contro... chi... ?

- Cari... - un mormorio, una inutile supplica per autoconvincersi di non essere la reale colpevole. E invece... Un lampo di luce parve come disorientarla, trasportarla in un'altra dimensione. Si sentì sospesa, il suo spirito aveva abbandonato il corpo e vagava solitario in quel mondo d'ombre che era la sua malandata memoria. Vide delle immagini. Le sue mani; sangue. Sangue ovunque. Sul pavimento... su di lei... Ma non era il suo. Era di...

- Padre..

Ma quella tremenda visione non si fermò. C'era qualcun'altro a terra, accanto a lui. Una bimba. Si era avvicinata, desiderosa di scoprirne l'identità. Aveva scostato delicatamente quel volto e...
Trasalì, orrendamente sorpresa, allontanando immediatamente la mano. Le lacrime irruppero violente, in un unico istante di sconcerto. Quella bambina... era lei. Quello a terra era il suo stesso cadavere.

Si prese la testa tra le mani; un improvviso dolore aveva preso a divorarla, espandendosi ovunque, sempre più insopportabile. Si sentiva soffocare, aveva la gola secca, la vista annebbiata. Come in balia di un incubo. Uno di quelli dai quali preghi di poter uscire con tutto te stesso, anche a costo di passare la nottata insonne. Eppure per lei era tutto reale. Quella visione.. non mentiva. Si era guardata le mani. E gli occhi le si erano spalancati all'inverosimile. Era una pistola quella che aveva tra le dita?! E proprio sulla sua superficie liscia parve incrociare il suo riflesso. E il terrore crebbe in lei sempre più forte, impetuoso. Quello... quello non era il suo riflesso.
Cos'era quell'ombra?!
No... quella non era lei... quell'immagine non era la sua! E quel sorriso agghiacciante... a lei non apparteneva!
Ebbe paura. Si sentì invadere dal terrore. Il cuore prese a battere, irregolare. Il respiro s'appesantì. E la testa cominciò a farle male, male, troppo male perché potesse contenersi...

Gridò.
La testa divenne troppo pesante, afflitta da ricordi avvolti nella menzogna e nel sangue. Gridò e pianse, squarciando il silenzio imposto dalla tiepida alba di quel nuovo giorno. Le lacrime scesero, impetuose, come in una tempesta: senza sosta, violente. Quasi ansiose di scappare. Perché lei da quel giorno non aveva mai più pianto. Aveva rinchiuso il suo cuore in una gabbia, ed ora... quel sentimento molto simile al rimorso l'aveva liberato. E faceva male.
Un altro grido isterico, privo di freni, s'insinuò come un'improvvisa folata di vento tra gli alberi, i quali scoterono le loro chiome angosciati.

Tyki si fermò, voltandosi verso di lei. In un primo momento ci rimase di stucco. Per lui quella situazione era completamente inaspettata. Non era preparato a simili evenienze. Non era preparato a niente. Eppure riuscì a reagire, seppur in modo brusco, scocciato, e ad avvicinarsi alla Noah per ordinarle di darsi un contegno.

- Hey! - la richiamò, ma la lei non osò accorgersi di lui. Fu allora che allungò una mano sulla sua spalla per voltarla. E avrebbe voluto non averlo mai fatto. Gwen si girò di scatto verso di lui, e in quell'istante qualcosa gli sfiorò la spalla. Fu troppo veloce e non ebbe il tempo di rendersi conto di nulla, ma quando si girò vide una lama scura, grezza e appuntita conficcata in un tronco dietro di lui. Inorridito, si allontanò e rimase in silenzio a fissare quella figura esile, minuta, che lentamente s'alzava. Ma c'era qualcosa di strano ora. Emanava una strana sensazione di... inquietudine, angoscia... Paura. Era opprimente, pesante, insostenibile perfino per Tyki, il quale non poté fare a meno di indietreggiare e chiedersi cosa diavolo fosse quella cosa. Perché era impossibile che fosse un'essere umano. O una Noah, perfino.
E fu a quel punto che l'udì.
Una risata. Inizialmente un semplice risolino, un rantolo poco più che accennato, acquistò ben presto sostanza trasformandosi in uno sghignazzo agghiacciante, innaturale; mostruoso. E lì Tyki avvertì una strana sensazione: un istinto omicida che si propagava da quella ragazza ad una velocità impressionante. Non riuscì a muoversi, era come bloccato da quella morsa di terrore involontario che si rifiutava di provare, ma che il suo corpo ammetteva per lui. Soltanto un'altra volta aveva avvertito un'aura così pericolosa. E ciò riportava a galla in lui spiacevoli ricordi.
Era consapevole di non correre rischi; di essere intangibile per chiunque non avesse posseduto dell'Innocence. Eppure... era comunque in allerta. C'era qualcosa di sbagliato in Gwen Grey. E lui lo aveva capito sin da subito; ora i suoi sospetti erano più che fondati. La sua sola presenza era un'ostacolo per le percezioni, una continua fonte di malsana inquietudine. Indietreggiò ancora. Voleva andarsene. Non gli importava cosa sarebbe successo alla nuova Noah, non più. Gli ordini del Conte divennero parole insignificanti, prive di importanza. Quello che poi avrebbe detto in merito non gli interessava. Voleva solo allontanarsi da lei, non doverla più rivedere.
Raccolse tutta la sua forza di volontà per voltarsi, darle le spalle. Un gesto avventato, che mai avrebbe fatto in presenza di un nemico; o almeno, uno con cui valeva la pena scontrarsi seriamente. Ma la naturalezza, la facilità con cui si voltò diede a pensare che infondo la sua parte Noah non rifiutasse completamente la ragazza, cosa che invece la sua metà umana faceva. Non la sentiva come un pericolo per lui stesso, no. Solo una agghiacciante presenza dalla quale avrebbe fatto meglio a star lontano. Per questo s'affrettò a mettere il primo piede davanti all'altro, per andarsene, fino a che...

- Mi lasci sola?

Si voltò. Non avrebbe dovuto farlo. Che stupido.
Gwen lo stava fissando intensamente, con quei suoi occhi d'oro tanto brillanti, tanto accesi che quasi la dipingevano come una malata di mente. Sorrideva. Forse non se ne rendeva nemmeno conto però.
Tyki non aprì bocca. Tentò di parire superiore rivolgendole uno di quei suoi sguardi sprezzanti che amava sfoderare per mascherare le sue reali preoccupazioni. Serio, freddo, apatico. Non era lui ma funzionava.
La Follia ridacchiò ancora, barcollando nella sua direzione. Il Noah del piacere non si mosse, perfettamente intangibile.

- Tu sai... - cominciò a parlare Gwen, col tono freddo e inquietante di un assassino - ... Quanti anni sono passati?

Alzò la mano. Poi l'altra. Sollevò ed abbassò le dita, sommando i numeri a voce alta.
Uno... due... tre... cinque.... otto...

- Quindici - concluse, col palmo sinistro aperto in direzione del Noah - Quindici anni di buio. Quindici anni di silenzio. Quindici anni di solitudine, passati ad aspettare.

Venne scossa da un tremito, drizzando la schiena all'improvviso.

- Oh! Ma ad aspettare cosa? - aggiunse tra sé e sé civettuola. Quel macabro sorriso tornò sulle sue labbra dopo qualche secondo con la risposta - Non me lo ricordo più...

Tyki cominciò a sentirsi oppresso. Voleva andarsene, ora più che mai. Eppure... non ci riuscì. Qualcosa lo bloccò sul posto, incapace di smuoverlo. E si stupì non poco quando capì di cosa si trattava. Paura?

- Tu... lo sai?

Non rispose. Ignorò anche quella domanda. Disse a sé stesso di far finta di nulla. Tentò di concentrare le forze per allontanarsi.

Gwen si accucciò per terra. Allungò una mano sul terreno e delineò i contorni di una strana forma lunga, dalle estremita appuntite. E lì accadde qualcosa. Qualcosa che rese Tyki molto più nervoso che in precdenza.
Tutti i Noah possedevano dei poteri. Ogni memory era contraddistinta da un'abilità sovrannaturale che andava oltre ogni comprensione umana. Lui aveva il diritto di scegliere cosa toccare. Road manipolava la dimensione onirica. Cheryl usufruiva del dono della telecinesi, come Jasdevi di quello di render reale ogni loro fantasia. Pensava che, essendo una Noah a metà, Gwen non fosse in possesso di alcuna capacità particolare, che fosse incompleta. Così ogni sua convinzione venne distrutta, non appena vide la ragazza mettere in luce quella che riconobbe come il suo spaventoso potere. La figura tracciata sul terreno iniziò a scurirsi, indurirsi, a compattarsi sempre più. E quando fu diventata della consistenza di una pietra, lentamente la ragazza la raccolse e vi passò sopra le dita, studiandone ogni piega, ogni irregolarità. Quello che aveva in mano era una roccia. Una roccia della forma di una lama.
A prima vista Tyki non ne fu certo. Eppure gli parve di comprendere le parole del Lord, rivolte poco prima di partire.

 
- Ho bisogno di verificare alcune cose .
 
Quindi... era questo? Era davvero questo quello che il Conte aveva voluto 'verificare'?
Si trattava davvero delle capacità di quella svitata?!
Non ebbe il tempo di chiederselo. Gwen parlò nuovamente, col tono di chi è affranto da una brutta notizia.

- Non lo sai... ?

Poi, tutto accadde troppo rapidamente. La Noah lanciò la pietra appuntita contro il fratello, che non pensò affatto di schivarla. Anzi, si sentì anche abbastanza irritato, oltre che sorpreso. Come aveva potuto attaccare un suo alleato?! Non sapeva se si trattasse della sua malattia mentale, o di chissà che... Ma così dimostrava di essere una grossa stupida. Probabilmente il Conte avrebbe visto il suo più come un atto di tradimento, ma lui no. Non gli importava minimamente, e l'unica cosa che davvero gli arrecava disturbo era il fatto di essere stato preso di mira. Ma era conscio che in ogni caso, sarebbe stato tutto inutile. Quella mossa blanda, prevedibile, lui aveva già avuto modo di vederla e schivarla - anche se per caso -. Quindi non si mosse, rivolgendo alla Follia uno sguardo duro, severo come solo lui era in grado di fare.

Ma fu un errore. Un madornale errore. E Tyki se ne rese conto solo nell'istante in cui vide la lama piantarsi nel suo braccio. Sulle prime rimase come paralizzato, incapace di realizzare quanto appena successo. E invece il dolore arrivò e lui vide e sentì il sangue macchiargli i vestiti candidi della divisa. Fu un gesto involontario inginocchiarsi a terra, stringersi la ferita e tentare di tirar via l'oggetto contundente, resistendo al male sempre più grande, insopportabile.
E non si accorse di quanto Gwen si fosse avvicinata a lui. Avvertì solo una flebile sensazione di pericolo; l'istinto gli disse di andarsene. Ma.. non ne fu capace.
La Noah si inghinocchiò di fronte a lui. Il suo respiro calmo, il suo sorriso innaturale e... quegli occhi. Quei maledettissimi occhi d'oro. Le bende sulla fronte presero a sanguinare più copiosamente, e qualche goccia scese sul suo viso di cenere, sinistra. Quando una le arrivò alle labbra, la leccò con soddisfazione, passando la lingua lentamente, davanti a Tyki come se il suo intento fosse impressionarlo. Ma quando non lo vide battere ciglio, qualcosa in lei scattò, come una molla, un ingranaggio. Il pugno si sollevò, dirigendosi verso il Noah, ma questo fu più rapido e si scostò un secondo prima di venir colpito. Non seppe dire perché lo avesse evitato. Ma di una cosa era certo: non era più lo stesso. Quella pazza gli aveva fatto sicuramente qualcosa. Anche la prima volta, quando il dardo gli aveva sfiorato la spalla... lui se n'era accorto. La divisa si era scucita. Lei era riuscita a colpirlo.
Ma come diavolo aveva fatto?!
Sentì la vista annebbiarsi. Stava continuando a perdere sangue e quei movimenti repentini certo non lo aiutavano. Doveva agire, anche se ora non era più sicuro di sapere con chi avesse a che fare. L'aveva sottovalutata, quella strega.
Gwen si rialzò. Il suo pugno si era fracassato sul terreno, creando un piccolo solco. Ora sanguinava. Ma lei non vi badò, e si voltò verso Tyki, fissando i propri occhi d'ambra sui suoi. Un sorriso sghembo si allargò ancora sul suo volto, mostrando i denti bianchi macchiati di rosso.

- Fuggi... - un sussurrò accennato, un'affermazione rivolta più a sé stessa che al Noah - Fuggi...

E continuò a ripetere 'fuggi', col tono di domanda ma senza il punto interrogativo. Una frase a metà, sospesa, proprio come lei

Fuggi... !

Si chinò in avanti. Poi di nuovo dritta. Il vestito seguiva i suoi mvimenti, fluido. E a quel punto si portò le mani alle bende. Le tastò con minuzia, iniziando poi a strololarle. Il sangue le colò sulla faccia.

Fuggi, **** !

Le quattro stigmate vennero portate alla luce. Nere come il buio, avvolte da quel cremisi così denso, brillante...

- Fuggi... - ripeté. Ma si rese conto che quella frase... non era sua. Qualcuno... gliel'aveva detta, molto tempo prima. Ma... chi?

Fuggi, Gwen!

 
Un risolino. No, non se lo ricordava proprio. Però, nel frattempo... poteva svagarsi con il Noah.

- "Fuggi, Gwen" - pronunciò, apatica, pensierosa, rivolta a Tyki - Chi è stato a dirmi questo?

Ma in un attimo si ricompose, come se si fosse accorta di un dettaglio inaspettato. Subito dopo, cominciò ad avanzare in direzione del suo bersaglio.

- Chi se ne frega.

Tyki si rialzò. E si maledì. Da quando era diventato un simile pappamolle?! Tese un braccio e in un lampo una miriade di Tease fuoriuscirono dal palmo, creando una massa nera e impenetrabile.

- Tsk!

Le farfalle si compattarono in aria e poi si scagliarono come un vortice di ombre su Gwen. La ragazza non mosse un dito per evitare il colpo; venne completamente sommersa.
Il Noah ne aprofittò e s'insinuò nella boscaglia. In quel momento avrebbe tanto voluto un gate del Conte a portata di mano. Si fece strada tra gli alberi ed estinse sul nascere qualunque gemito, ben sapendo che l'avrebbero potuto sentire. In un primo momento fu sicuro di averla avuta vinta. Nessuno sfuggiva alle Tease, specialmente se si trovavano in gruppi tanto numerosi. Le aveva viste divorare tanti di quegli Esorcisti... che era praticamente impossibile che potessero perdere, a maggior ragione contro una Noah a metà.
Ma quando udì delle esplosioni in lontananza a stento trattenne un'imprecazione. Perché, ne era certo, non si trattava di Gwen. Quella bastarda doveva aver trovato il modo di distruggere i suoi golem!

- Dannazione... !

Non aveva più tempo. O trovava il modo di tornare sull'Arca o se la sarebbe vista molto brutta.


 
Angolo di Momoko ¬

  Allora, gente! Siamo già al secondo capitolo, e io dovrei spararmi. Dieci pagine! XD Non credevo avrei mai potuta arrivare a tanto, e sappiate che se avete letto tutta questa manfrina vi adoroH. Venendo al capitolo... niente, è stato un parto come al solito e comincio già a odiare il nuovo editor.  Mi dispiace, ma col vecchio stavo da Dio. Speriamo lo mettano da qualche parte, così torno a impaginare ben bene il testo come avevo appena imparato a fare! *La solita sfiga*. Ma stiamo calmi, calmi, ommmmmmmm... *Re...si...sti....*
Bene! Parlando del capitolo, perdonatemi se vi sembra confuso. Ho cercato di rendere attraverso il testo il casino mentale di Gwen, anche se mi sa che non l'ho reso proprio alla perfezione. Perdonate la novellinaggine (?), prometto che saprò rimediare! Grazie ai vostri meravigliosi commenti (e a tal proposito ringrazio di cuore La Strega di Ilse e KH4 per aver recensito i capitoli precedenti!) ho potuto vedere dove andavo peggio ed esercitarmi, spero che nonostante tutto il capitolo non vi abbia deluso!^^
Be'... insomma... Ultima cosa, poi giuro che sparisco T^T Alcuni di voi si saranno trovati interdetti leggendo, quindi preciso: dal prologo, a questi primi capitolo è trascorso un certo lasso di tempo, pari a quindici anni (come giustamente Gwen fa notare xD). Tranquilli, il salto temporale non è messo a caso, tutto avrà un senso e dato che mi piace incasinarmi la vita creare enigmi, presto verrete a conoscenza del reale passato della protagonista ;)
Per commenti, insulti, minacce, sono sempre qua ;A; Un bacio e a prestooo,

Momoko <3

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ciò che sta oltre lo sguardo ***


Into the Madness



Capitolo 3
Ciò che sta oltre lo sguardo
 



 
La calma e la quiete di quel luogo erano quasi spettrali. Il sole era sorto già da qualche ora, eppure non era udibile neanche il più impercettibile dei rumori, lo sbuffo di una corrente d'aria o il flebile movimento di fronde. Assolutamente nulla. Non che i suoi abitanti ostentassero ancora nel dormire, no... Come accadeva ogni volta dopo la manifestazione del devastante potere dell'Innocence, che con forza straordinaria modificava l'aspetto geografico del luogo, tutti gli animali fuggivano il più lontano possibile e solo dopo qualche giorno osavano rimettere il naso nelle loro tane, diffidenti di quel luogo che non era più come un tempo.
Rispetto al caos precdente tuttavia, ora si respirava un'aria diversa in quel bosco tanto stravolto dal potere della materia divina. Il gelo del mattino, assieme al silenzio che inghiottiva ogni foglia di ogni albero, donava un'atmosfera rilassante, eppure innaturale. Perché a quell'ora sicuramente si sarebbero sentiti i canti degli uccellini, ai quali spesso si manca di far caso per via dell'abitudine con cui si è abituati ad ascoltarli; e lo squittire dello scoiattolo sul ramo più alto, il beccare del picchio, i passetti ponderati e timorosi dei daini. Invece in quella foresta i suoni erano completamente assenti, divorati dal nulla, racchiusi in un passato che per quanto vicino e famigliare, ora non esisteva più. Solo il ricordo di ciò che quella foresta era stata un tempo permeava nelle memorie degli abitanti del villaggio vicino, ansiosi di potervi tornare un giorno senza la paura nel cuore. Le loro speranze e i loro desideri non potevano che essere riposte nelle mani degli Esorcisti, i messaggeri di Dio, i soli che avrebbero potuto liberarli dalla maledizione che li affliggeva. E con questi desideri di libertà caricati sulle spalle, come monito, come promessa per non cedere mai, Allen Walker, Linalee Lee e Albin si erano avventurati con tremante coraggio in quel luogo portatore di tante angoscie.
Poi, il potere dell'Innocence si era manifestato più forte che mai, come a voler proclamare con impeto la propria presenza, ed aveva mostrato agli Apostoli cosa realmente fosse in grado di fare. E allora le montagne e le terre circostanti erano diventate una sola ed unica superficie ondeggiante, i cui elementi cambiavano disposizione scivolando come privi di fondamenta o radici che li tenessero ancorati al suolo. Allen e Linalee erano stati divisi, presi alla sprovvista da quel devastante potere, perdendosi l'uno agli occhi dell'altro.
E no, non se lo aspettavano. Mai si sarebbero immaginati simili risvolti per quella missione tanto ordinaria, così uguale a molte altre da risultare quasi monotona. Avevano abbassato la guardia, dando per scontato per fosse semplice. Grosso errore. Ed ora, ne avrebbero pagato le conseguenze...


- Mi dispiace, Nobile Esorcista. Temo che ci siamo persi.

- Non demordete, Albin.

Nemmeno Linalee però riusciva a sentirsi completamente a suo agio in quel luogo. Qualcosa pareva metterla continuamente in guardia, rendendola incapace di rilassarsi anche solo per distrarsi un momento. Avevano da poco ripreso conoscenza tra gli alberi, scoprendo di trovarsi in un luogo totalmente differente dalla grotta nella quale avevano passato la notte. Circondati da quella muta e glaciale atmosfera, Allen non era con loro, perso chissà dove. Chiamarlo non servì, perché in risposta alle loro grida, solo un gelido silenzio pregno d'angoscia era ritornato indietro. Linalee era preoccupata come non mai. Dopo aver perlustrato accuratamente la zona, rivoltato ogni filo d'erba alla ricerca dell'albino, lei e Albin si erano seduti su di una roccia, ad aspettare un segno; qualcuno o qualcosa che li indicasse verso la direzione giusta. Nemmeno controllare dall'alto era servito. Dopo aver attivato la propria Innocence, i Dark Boots, Linalee aveva spiccato un salto che con estrema grazia e facilità l'aveva portata a sovrastare quell'immensa foresta, più veloce di un fuoco d'artificio. Prima che la forza di gravità l'attirasse nuovamente al suolo, col vento dato dall'improvviso spostamento a scompigliarle i capelli scuri, aveva minuziosamente scrutato in ogni angolo, purtroppo senza riuscire ad individuare nulla. I fusti arborei erano a tal punto ammassati l'uno accanto all'altro, che nemmeno la buona vista della cinesina riuscì a trapassarne la verde, impenetrabile barriera.
Sconsolata era tornata a terra, dovendo poi deludere il buon Albin: Allen non era da nessuna parte. Se però in un primo momento ci fu lo smarrimento, nei loro piccoli cuori attanagliati dal dubbio, successivamente la fiducia vi infuse nuova speranza, allontanando le tenebre.

- Starà bene, vedrai - sorrise candida Linalee, con quella gentilezza che era capace di convincere chiunque - Lo conosco.

Il Finder parve rincuorarsi. Sorridendo anch'egli, lasciò che la sicurezza della compagna riempisse il suo animo. Lasciò così da parte le angoscie e tentò di essere ottimista.

- Ne sono sicuro. Dopotutto, si tratta sempre del sign...

Dei boati improvvisi lo interruppero improvvisamente. Dapprima timidi, quasi impercettibili, aumentarono rapidamente d'intensità e nonostante la grande distanza i due li sentirono chiaramente. Linalee aveva voltato la testa nella loro direzione, di scatto, colta alla sprovvista: esplosioni.
A breve distanza da loro, fecero tremare appena la terra in maniera sinistra. E nello stesso istante, il cuore dell'Esorcista iniziò ad agitarsi, battere tanto forte da dare l'impressione di poterle schizzare fuori dal petto.
Ed a quel punto un sussurro, un impercettibile bisbiglio, era sorto dalle sue labbra sottili quasi senza preavviso. Una preghiera. Una stupida preghiera, pensò, di una persona egoista, che pur di non vedere il proprio piccolo mondo andare in pezzi, sarebbe corsa in capo al mondo.

- Allen...

Pregò che nulla di quelle terrificanti esplosioni avesse a che fare col compagno; che potesse rivederlo sano e salvo.

- Andiamo, Albin! Laggiù potrebbe esserci Allen!

Il ragazzo acconsentì timidamente, intimorito appena da quei sinistri boati. Eppure, non appena vide la giovane iniziare ad avviarsi verso il luogo delle esplosioni con decisione, la seguì senza pensarci due volte. E si disse che in confronto ai proiettili di Akuma, che distruggevano qualsiasi cosa colpissero, e al morire sotto il fuoco nemico, quello non era niente. Finalmente aveva ottenuto l'occasione che desiderava, la ragione per cui era diventato un Finder: poter servire gli Esorcisti, assisterli e, se necessario, proteggerli con la vita. Questo era il compito che gli era stato affidato. Era stato scelto perché i suoi compagni sapevano che ne sarebbe stato all'altezza. E non voleva deludere le loro aspettative. Doveva perciò lottare, lottare con tutte le sue forze. E vincere. Per quelli che all'Ordine lo aspettavano trepidanti; e per quelli che dal cielo lo osservavano orgogliosi.

In breve tempo si misero a correre, badando a non inciampare in qualche radice e scansando i rami sporgenti con un veloce colpo di mano. Linalee era in testa, con indosso gli eleganti stivali di un rosso cristallino a renderla sempre più agile ed elegante, come una piccola stella cometa saettante nell'oscurità del cielo. Albin tentava di starle dietro con tutte le sue forze, e nonostante non fosse al pari della cinesina seppe farsi valere, evitando inutili lamentele o borbottii. Ma quando fu palese la sua stanchezza a causa del fiatone, venne afferrato in fretta e furia e trasportato col minimo dello sforzo. Giunsero così sul luogo prefissato. Ad accoglierli, una vasta area devastata da grossi crateri fumanti. Al loro interno, ancora avvolti da piccole fiamme sull'orlo dell'estinzione, ciò che era rimasto di un gran numero di Tease: residui nerastri, simili a fogli di carta strappati, giacevano al suolo sfrigolando in scintille lumnescenti in attesa di essere consumati del tutto e sparire.
Linalee le riconobbe all'istante. Aveva intravisto un simbolo distintivo di quelle creature, ancora miracolosamente intatto: un cuore spezzato a metà, parte dell'ala di una di quelle terribili farfalle cannibali. Si paralizzò all'istante. Il pensiero che Allen potesse essere incappato nei Noah si fece d'improvviso concreto e terribile. Osservò attentamente la zona, senza percepire la presenza di nessuno. Allen non era lì.

- Fate attenzione, Albin - sussurrò, lo sguardo concentrato su quei rimasugli dello scontro che era appena avvenuto. Uscirono allo scoperto guardigni, attenti al minimo rumore o movimento che potesse rivelarsi pericoloso. Tuttavia, la zona risultò completamente deserta; e se mai qualcuno avesse avuto la sfortuna di trovarsi in quel luogo al momento sbagliato, ora era improbabile che ve ne fossero rimasti anche solo dei resti.


 
 


Allen aprì lentamente gli occhi, e la prima cosa che avvertì fu l'innaturale presenza di luce, in quel luogo che riconobbe essere una piccola radura circondata da verdi alberi in fiore. La testa gli girava ancora, probabilmente a causa degli effetti dell'Innocence, e non sapeva dire con precisione né dove fosse stato trasportato né in quale direzione l'improvviso cambiamento di territorio lo avesse sbalzato. A fatica si sollevò, stirandosi la divisa scura ricoperta di polvere e terra. Si guardò attorno. Era solo, totalmente solo. In più, quello strano silenzio che lo circondava lo rendeva inquieto. Qualcosa non andava in quella foresta; ed era compito suo scoprire cosa, recuperando l'Innocence al più presto.
Circondò la bocca con le mani e gridando più che poté chiamò i nomi di Linalee e Albin. Provò una, due, tre, cinque, dieci volte, senza purtoppo ricevere mai risposta. Si rassegnò al fatto di doversela cavare da solo, ma non demorse: conosceva i suoi compagni, Linalee in modo particolare. Conosceva la sua determinazione, il suo valoroso senso del dovere e la sua bravura e grazia nel combattimento. Non aveva dubbi sul fatto che in caso di attacco nemico se la sarebbe cavata egregiamente. La stessa cosa non poteva dirsi per Albin, che essendo un Finder era maggiormente esposto ai pericoli. Pregò che fosse assieme alla sua amica, che entrambi stessero bene, e che presto avrebbe potuto rivederli sani e salvi.
Decise di percorrere una via a caso, inoltrandosi nella foresta con passo sicuro, fiducioso del proprio sesto senso che gli indicava la migliore strada da percorrere.
Fu a quel punto che venne sorpreso da un'inaspettato fruscio giusto dietro di lui. Si voltò di scattò, assumendo la posizione di guardia, pronto ad attivare l'Innocence in qualunque istante. Tuttavia il rumore non si ripeté, e l'albino si sentì alquanto rammaricato. Forse era stato un animale. Si avvicinò ai cespugli, esaminando attentamente la zona circostante. E lo vide, adagiato silenziosamente su una foglia. Sbiancò: sangue.
Spostò lo sguardo sul terreno. Piccole macchioline cremisi costruivano una breve e frammentata stradina che scompariva tra l'erba alta e le radici. Senza pensarci due volte, scavalcò il cespuglio con impeto e seguì quella traccia con minuzia, badando a non lasciarsi scappare neanche il più piccolo degli indizi. Gli occhi argentati scrutarono con attenzione il terreno alla ricerca di impronte, segni, qualsiasi cosa che potesse condurlo in una direzione. Il suo cuore vacillò appena al pensiero che Linalee e Albin potessero essere in pericolo, che potessero essersi feriti. E se in un primo momento vide quelle tracce rossastre quasi come un colpo di fortuna, che avrebbe potuto condurlo da loro, si rimangiò poi il pensiero all'istante, dandosi persino dello stupido. Aveva appena sperato in qualcosa di orribile senza accorgergersene. Avvertendo lo stomaco ingarbugliarsi per quelle orribili previsioni che, come viscidi serpenti, s'insinuavano nella sua mente instillandogli il dubbio, sentì crescere dentro di lui l'impellente necessità di riaverli accanto all'istante.

- LINALEE! ALBIN!

Chiamarli ancora non servì a nulla, in risposta non ricevette nient'altro che l'eco del proprio disperato richiamo. Iniziò a preoccuparsi, nonostante dentro di sé ripetesse fino allo sfinimento che di motivi per crucciarsi non ve n'era nessuno. Aumentò il passo; e pregò di ritrovare in fretta i suoi compagni.

Una cosa però non sapeva: che ad esser feriti non erano né Linalee né Albin; e che, inconsapevolmente, era tenuto d'occhio da qualcuno ben celato alla sua vista...

Tyki si accertò che Allen non lo notasse, accovacciandosi dietro un albero abbastanza robusto. Smise volutamente di respirare affinché la sua presenza potesse passare totalmente inosservata, in quell'ingannevole silenzio che aveva improvvisamente avvolto il luogo. Era incredibile come a volte il destino si divertisse a giocare con le vite umane, tessendo trame estremamente complicate, che seppur inspiegabili trovavano il tempo per incrociarsi, attorcigliarsi l'una all'altra, in un continuo ed infinito vorticare di pensieri e azioni tutti collegati tra loro. Persino lui, in quel momento, aveva però compreso quanto l'affrontare il ragazzo sarebbe stato dannoso per lui. Ma nascondersi non lo avrebbe portato a nulla; continuando a quel modo, le cose non avrebbero potuto che peggiorare. Doveva trovare al più presto il gate per il ritorno sull'Arca del Conte - sperando che esistesse -. Doveva avvertirlo di quanto instabile fosse la Follia, di come improvvisamente lo avesse aggredito, rischiando di ucciderlo per giunta. Una puntura di dolore al braccio lo costrinse a evadere dai suoi ragionamenti. Spostò lo sguardo sulla divisa macchiata di rosso e si lasciò scappare un gemito. Gli conveniva darci un'occhiata, prima di perdere i sensi. Già sentiva la sua vista annebbiarsi e confondere il verde delle foglie con l'azzurro dorato del cielo. Con totale indifferenza per quell'indumento cucito appositamente dal Conte per lui, ne strappò un lembo e cercò di annodarlo come meglio poté attorno alla ferita, resistendo con fare orgoglioso al dolore.
Era in collera con se stesso per essersi lasciato sopraffare in maniera a detta sua incredibilmente ridicola da una perfetta inetta. Aveva abbassato la guardia, preferendo giocare con quella donna tanto stramba e fragile, da apparire quasi debole. Ed aveva sbagliato, come mai prima d'ora. Credeva di aver capito, oramai, che situazioni come quelle non andavano mai prese alla leggera. Eppure, puntualmente trovava il modo per lasciar correre; fregarsene delle cose, sottovalutandole. E per quanto potesse detestarlo, doveva ammettere che quel comportamento faceva parte del suo essere, che era fin troppo radicato in lui perché potesse scrollarselo di dosso.
Trovato un po' di sollievo dopo la blanda medicazione fatta in quattro e quattr'otto, si mise in piedi barcollando appena e scrutando gli alberi attorno a lui alla ricerca dell'Esorcista. Fu allora che udì la sua voce chiamare disperata i propri amici; capì quindi che non era solo. Erano presenti la probabile detentrice del Cuore dell'Innocence e qualcun'altro che non aveva mai sentito nominare. E quasi per magia, cominciò a balenargli in testa un'idea alquanto intelligente. Ostentando i modi raffinati che contraddistinguevano la parte più cupa della sua anima nonostante il dolore fosse perfettamente visibile sul suo volto, fece per tendere un braccio in avanti e lasciare che una piccola Tease vi fuoriuscisse, posandovisi sopra leggiadra e letale al tempo stesso. La fissò per qualche attimo, prima di darle un semplice comando:

- Conducili da lei.

E l'ambigua creatura si levò in aria sbattendo placida le alucce. Calma, silenziosa, consapevole di essere la catalizzatrice della grande catastrofe che di lì a poco si sarebbe scatenata, solcò il cielo senza vento per raggiungere l'Esorcista.
Tyki sorrise, come se in qualche maniera potesse già prevederne l'esito. Si complimentò con se stesso per l'idea avuta, pensando che non poteva esistere modo migliore di prendere due piccioni con una fava. Mentre lui avrebbe osservato indisturbato la situazione, il Conte avrebbe potuto constatare ciò per cui aveva mandato lui e Gwen in quel postaccio; e al contempo, finalmente avrebbe potuto vedere la faccia di Allen Walker nell'istante in cui avrebbe tirato le cuoia.


 
 
Il sangue aveva preso a colarle sulla faccia in maniera insistente, impedendole la vista dell'occhio destro. La testa le girava; più di prima, s'intende. Grazie però a quelle... Farfalle?, che l'avevano assalita senza motivo, ora stava peggio. Si portò una mano tremante alla tempia ferita, esitando persino nel sfiorarla. Il dolore era tanto forte da farle venire le lacrime agli occhi. Bruciava come una cascata di lava bollente sul viso, impossibile da fermare; impossibile da sopportare. Si contenne dal piangere. E nel farlo il petto cominciò a pesarle: un macigno di angosce ricadde su di lei, soffocandola.
Però... Chissà perché... Quel bel cielo azzurro proprio lì, davanti a lei... La rincuorava. Nuvole di bianca ovatta soffice vi navigavano sbarazzine, susseguendosi in silenzio e tingendosi delle tonalità calde e fredde del mattino. E i suoi occhi gonfi di lacrime, di un oro sporco di sangue, vi si rispecchiarono. Parvero come salirci sopra, incuranti del dolore, di quel peso che lentamente la stava uccidendo, e vi si addormetarono. Persi tra sogno e realtà, arrancando in una nebbia fatta di indifferenze, insicurezze avvolte nel buio, perse e - forse - ormai cancellate.
Quanto ancora avrebbe dovuto aspettare?
L'unica cosa cui il suo animo, da quel giorno maledetto anelava, era una sola. Perché però ogni volta soffriva così? E senza poter raggiungere la sua ultima destinazione, rimaneva bloccata a metà. Soffrendo. Piangendo. Lasciando che il passato le lacerasse il cuore ancora, e ancora, e ancora... Lasciando che il destino riattaccasse brandelli della sua anima alla vita, per non vederla spegnersi.
Ma lei tutto questo... Non lo voleva. Non voleva vivere. Non voleva continuare a trascinarsi lungo un sentiero distorto, fatto di sbagli e amarezze, rovinandosi ad ogni passo; consumandosi, irrimediabilmente, respiro dopo respiro.
Perché da quel giorno lei li aveva provati tutti.
Tutti.
Che cosa, poi?

Modi per morire.

Modi che le permettesso di raggiungere la persona speciale che dimorava lassù, su quelle nuvole candide come cuscini. Perché era questo quello che voleva. Solo questo.
Ne aveva abbastanza della solitudine, della violenza, degli incubi intrisi di sangue nei quali s'immergeva ogni notte, gridando e piangendo come una bambina; la bambina che quel pessato non era stata capace di rimuoverlo, ma che ancora faticava a ricordare. Solo vaghe sensazioni a pregnare il suo essere, ancora. Dolori sopiti ristagnanti nella sua mente, confusi con divagazioni della sua anima lacerata che sebbene avesse cercato di ricordare, di riottenere quelle memorie maledette, al contempo se ne era guardata debitamente.
Ecco, ciò che più la faceva disperare. Il trovarsi a metà; l'essere imperfetta, sotto ogni punto di vista. Desiderare la morte ma al tempo stesso la vita, inconsciamente. Farsi male da sola, ferirsi: modi per espiare una colpa che non ricordava nemmeno e che, forse, non avrebbe nemmeno voluto ricordare. Perché sicuramente le avrebbe procurato solo un taglio in più in quel cuore già grondande di sangue, che non ce l'avrebbe fatta. La redenzione era un'orizzonte troppo lontano per lei; un'utopia fatta di blande speranze appena più luminose dei suoi occhi dorati spenti.
Proprio questi fissarono ancora qualche secondo il cielo azzurro del mattino. Le sue labbra rosee e sottili si distesero appena in un flebile sorriso. Una lacrima scese lungo la guancia.
Forse si trattava del dolore alla testa o delle numerose ferite e morsi presenti sul corpo, ma qualcosa improvvisamente la invogliò ad alzarsi. E Gwen ne era certa: era stata Cari ad incitarla a non mollare, dal Cielo. Da quel cielo tanto bello e brillante.
Un fremito percorse rapido le braccia, risvegliando i muscoli indolenziti come per il passaggio di una scarica elettrica. Con un'incredibile sforzo, riuscì a mettersi a sedere sull'erba, il lungo abito stracciato in più punti dalle diaboliche farfalle e i capelli incollati al viso dal sangue. La pelle pareva essere tornata di una colorazione normale, seppur pallida, e le stigmate erano scomparse. Gli occhi però no, erano rimasti giallo dorato; perché, dopotutto, erano l'unica cosa naturale che le era rimasta. Lei ci era nata, con quelli. Erano 'gli occhi di chi nasconde un tesoro dentro di sé', come diceva sempre Cari. Lei allora le diceva che i suoi invece erano quelli di chi porta un cielo infinito nel cuore. Ed entrambe sorridevano, guardandosi intensamente per poter davvero scorgere tesori splendenti e cieli azzurri dietro i rispettivi sguardi. Puntualmente, però, una di loro scoppiava a ridere, pensando che comunque fosse una scemenza, e l'altra in pochi secondi la seguiva a ruota.
Una goccia salata piombò sull'erba, piegandone gli steli con una forza invisibile e silenziosa.
Gwen s'asciugò le lacrime, con grazia. Successivamente, volse il suo sguardo distrutto davanti a sé. Era ora di aprire lo scrigno del tesoro; di fare vedere ciò di cui era capace. Realizzare quel suo ultimo desiderio, senza che strambi mostri dal sorriso perenne glielo impedissero ancora.

- Arrivo, Cari... - un sussurro, flebile; una promessa, fatta col cuore.

Ma nulla sarebbe andato secondo i piani. Il destino aveva altri progetti per lei e quella volta, aveva assunto sembianze davvero inusuali.
Accadde tutto in un attimo. I cespugli alti e imperscrutabili presero a frusciare rumorosamente; subito dopo, una piccola e sottile figura vi emerse con tempestività, bloccandosi all'istante a guardarla stupito. Capelli bianchi, occhi argentati, una cicatrice e... Una divisa scura.
E sebbene non l'avesse mai vista in vita sua, Gwen ebbe come un presentimento, accompagnato da una sgradevole sensazione di deja vu. Perché lei, quegli abiti li aveva già visti. O meglio, aveva già visto il simbolo ricamato sopra: una croce, appuntata sul petto, chiara e ben visibile. Come la vide, sentì un sibilo fulminante attraversarle il cervello. Si portò una mano alla tempia sanguinante, chiudendo un occhio a causa del fastidio.
Perché le sembrava così famigliare?!
Si accasciò a terra.
Il dolore alla testa divenne tutto ad un tratto insopportabile, quanto una marea di aghi appuntiti ficcati a forza nel cervello. La vista s'annebbiò gradualmente; tutto diventò confuso, indistinto. Grigio.
Il fiato cominciò a mancarle, ed i suoni a rimbombarle attorno, ingigantiti a dismisura. Passi... ? No, battiti. Sentiva il suo cuore battere, furioso, pulsando incredibilmente forte, risvegliando il suo corpo che attimo dopo attimo sembrava andare in pezzi. Quando ai suoi polmoni l'aria smise di arrivare, si buttò a terra, strappandosi a forza il colletto dell'abito, con le mani tremanti dalla paura, dal panico. Ma quella stoffa era così dura, così spessa...
Le dita cominciarono a dolerle ma lei non si fermò. Continuando a tirare, a tirare con tutte le sue forze, fece appena in tempo a produrre un piccolo strappo nel tessuto, che cedette.
Le mani delicate, lacerate dall'impeto con il quale aveva cercato di respirare, persero la presa e cascarono al suo fianco, ritirando le dita come le zampe di un ragno rinsecchito. Gli occhi dorati rimasero aperti; vacui, liquidi di lacrime sofferte, per un'indegna immagine della morte sul suo pallido viso. E ad avvolgerla fu poi solo il silenzio...

Perché tutti hanno paura di morire. E lei... benché lo desiderasse con tutta sé stessa, in fondo all'animo pregava sempre che la Falce arrivasse veloce e indolore. O che non arrivasse proprio. Non temere la morte sarebbe stato sciocco, da parte sua perché... Perché lei era umana.

O forse no... ?

- Signorina! Riprendetevi!

Tu-tum...

Ed ecco un battito, a spezzare il silenzio.
Qualche briciola di calore riuscì ad addentrarsi nel suo corpo devastato, donandole nuova energia. Un'energia diversa dalla solita. Un'energia alimentata da un sentimento che Gwen sì, conosceva, ma di cui aveva imparato ad avere paura. Un'emozione sinistra, innaturale, covata nel cuore di ogni essere umano, se ne impadronisce consumandolo; rendendolo succube di un'idea e lasciando che l'ossessione lo porti sulla strada del decadimento.

La follia.

Quell'attimo in cui tutto scorre, scivola via, come un fiume; in cui tutto ciò che ci circonda diventa contorno, non ha più importanza; in cui i desideri più nascosti dell'umanità emergono e si consumano, nel giro di pochi secondi, senza freni o catene a contenerli. La voglia di lasciarsi andare, di ridere se ne si ha voglia, di piangere se ne si ha voglia, di uccidere se ne si ha voglia...

I suoi occhi si mossero rapidamente, riacquistando la luce perduta. Un sibilo acuto le arrivò al cervello. Il dolore la risvegliò completamente.

Poi, un grido.

La bestia che, d'improvviso, aveva rotto la gabbia ed era uscita; e difficilmente, questa volta sarebbe rientrata. La liscia pelle di porcellana si tinse di cenere; gli occhi brillarono in maniera agghiacciante. E quel sorriso... L'aveva fatto anche quindici anni prima, di fronte al cadavere della sua migliore amica. E poi... Dopo... ?

Oh, dopo aveva riso.

- AH AH AH!!!

Allen si era allontanato di scatto, non appena aveva percepito una strana presenza provenire dalla donna. Fu allora che il suo braccio sinistro iniziò a tremare e apizzicargli, incontrollato. L'Innocence reagiva all'oppressione che quella esile figura si portava appresso. E a giudicare dall'agitazione della materia divina, non poteva che trattarsi di una cosa sola. E l'Esorcista lo capì nell'istante in cui le quattro cicatrici fecero capolino sulla sua fronte, ancora ricoperte dal sangue raggrumato formatosi precedentemente e che ora donava loro un aspetto molto più macabro.

Gwen si mise in piedi, arrancando. Lo fissò con gli occhi di chi ha in testa un solo, unico pensiero: la morte, e il piacere puro che si può provare nel concederla a qualcuno. I lunghi capelli spettinati le ricadevano lungo le spalle quasi a incorniciare in un terrificante dipinto il suo viso cinereo macchiato dal sangue e solcato da un sorriso sghembo, che di umano non aveva niente. Ed Allen dovette ammetterlo: faceva paura.
Non che lui normalmente non la provasse di fronte ad un nemico: più volte si era sentito il cuore in gola, combattendo contro mostri orribili e Noah - il cui ricordo rimaneva il più orribile - col terrore di poter morire o veder morire i propri compagni da un momento all'altro. Questa volta però, l'attrazione magnetica e al tempo stesso malsana che quella donna emanava dal suo essere, costituiva una fonte di disagio allucinante. L'atmosfera attorno a lei era pesante, lenta; opprimente.
Cosa ci faceva una Noah in quel posto?!

- Chi siete voi?! - domandò mostrandosi sprezzante, rivolgendo la propria arma anti-Akuma contro la Follia - Rispondete!


 
 
- La zona è deserta... - decretò Linalee gettando un'ultima occhiata alla radura attorno a loro, devastata dalle esplosioni. I crateri fumanti l'avevano irrimediabilmente deturpata. E tutto quello che era riuscito a salvarsi dal disastro erano stati i resti di Tease e... del sangue. La cinesina ne aveva scorto una sottile traccia sull'erba, seguendola ardita fino a perderla completamente tra i caspugli. Ed a quel punto aveva preso una decisione. Se cercare Allen dall'alto non serviva, e nemmeno chiamarlo, l'unica cosa da fare era... Farsi notare.
Aveva raggiunto Albin, disattivando i Dark Boots. Aveva il fiatone: naturale, dopo aver corso in lungo e in largo alla ricerca dell'albino. Persino lei, a furia di utilizzare la propria Innocence, finiva per stancarsi. Sedendosi con grazia su una grossa roccia sporgente ai margini dello spiazzio d'erba nel quale si erano temporaneamente accampati, notò come il Finder stesse armeggiando piuttosto abilmente con uno strano apparecchio di metallo. Cacciavite in una mano, strani cavi colorati nell'altra.

- Che cos'è? - s'azzardò a domandare, vinta dalla curiosità. Era abituata alle invenzioni di quelli della Scientifica - soprattutto Komurin - ma mai aveva visto qualcuno di loro creare marchingegni di quel genere. Che Albin fosse una specie di inventore, come loro?
Interrotto improvvisamente dal suo lavoro, il giovane rischiò di far cadere il cacciavite sul proprio piede, recuperandolo poi all'ultimo minuto con un repentino movimento di mano piuttosto maldestro.

- P-perdonatemi... Ero così concentrato che non mi sono accorto della sua presenza - si giustificò, cercando di non mostrare il proprio volto; era arrossito peggio di un pomodoro maturo, e di certo non aveva voglia di umiliarsi così di fronte ad una Nobile Esorcista.
Linalee reagì tempestivamente. Si drizzò in piedi, mormorando alcune scuse, per poi notare l'imbarazzo del Finder e sorridere appena, come rincuorata da quel gesto spontaneo. Infatti, sebbene gli provocasse un certo fastidio, Albin era una persona ben disposta a parlare dei propri aggeggi quando la gente gliene chiedeva. Era orgoglioso di poter dire "Sì, questo l'ho fatto io!". Per questo in molti gli avevano detto di diventare un membro della Sezione Scientifica e creare armi per sconfiggere gli Akuma. Lui però si era sempre sottovalutato, non ritenendo importante quel suo piccolo talento alla vincita della guerra. Riteneva che l'aiuto più concreto che potesse dare fosse il supporto agli Esorcisti come semplice Finder. Perché era ciò che più lo gratificava, e mai avrebbe accettato un compito superiore. Non era tagliato per la scienza, per le formule matematiche... Per lui la costruzione di piccoli oggetti era una cosa naturale; un istinto, quasi una vocazione. E mai ne avrebbe fatto un mestiere perché, nonostante tutto, non l'aveva mai reputato fondamentale quell'arte per un conflitto di quella portata. Si sentiva piccolo, ecco. Piccolo e inutile, se mai avesse deciso di fare lo scienziato. Aveva salvato molte più vite vivendolo, il campo di battaglia; non studiandolo.
Ora, l'apparecchio tra le sue mani, decisamente anonimo in quanto sprovvisto di segni di riconoscimento, targhe, sporgenze di alcun tipo, era di metallo, scuro, ed assomigliava vagamente a una scatoletta. Solo che di aperture non ve n'erano. L'unica cosa che davvero risaltava in quell'oggettino era un quadrante, rotondo, presente su uno dei lati corti. Era vuoto, completamente nero. E attorno... Dei buchi. Albin vi inserì all'interno i fili, congiungendo più aperture secondo un preciso ordine da lui studiato. Quando infine ebbe aggiancato l'ultimo, di un giallo brillante, il quadrante s'accese e vi comparvero sopra dei numeri.
Solo a quel punto Linlaee strabuzzò gli occhi, incredula. Mai si sarebbe aspettata che quell'aggeggio fosse...

- Una bomba?

Il Finder annuì con un sorriso, sollevato che la cinesina lo avesse capito al volo - Si può detonare a distanza.

- Il raggio d'azione?

- Circa duecento metri.

A quel punto Linalee parve accigliarsi, assumendo un'espressione vivamente preoccupata.

- E se... Venisse compito anche Allen?

Albin divenne improvvisamente serio. Comprendeva il rischio e la pericolosità dell'oggetto tra le sue mani. Ma non sarebbe mai stato così stupido da porre in svantaggio persino i suoi alleati.

- Reagisce unicamente alla presenza di Dark Matter. Il Signor Walker non ha motivo di preoccuparsi. Se ci sono nemici di qualunque genere, quest'ordigno esploderà e ci avvertirà della presenza di Akuma o Noah.

Ma la cinesina non sorrise più. Fissava quell'apparecchio quasi come fosse stato il male puro. Odiava gli strumenti di guerra come quello, creati solo per uccidere. Si alzò, allontanandosi in silenzio; sperando che il Finder non dovesse mai utilizzare una simile mostruosità...

 
Dopo aver piazzato l'ordigno al riparo, sotto a un ingombrante cespuglio, i due s'incamminarono svelti verso nord, cercando di allontanarsi il più possibile per evitare di rimanere nel raggio d'azione di una probabile esplosione. La foresta lentamente stava cominciando ad animarsi, riacquisendo ad uno ad uno tutti quei suoni che le appartenevano. Primo fra tutti, il canto degli uccellini. Riempì l'aria d'improvviso, sorprendendo i due compagni che al sol sentirlo tirarono un lieve sospiro di sollievo. A quanto pareva, l'Innocence avrebbe concesso loro un po' di tregua. Forse avrebbero avuto il tempo sufficiente per individuarla e recuperarla.
Linalee avanzò alcune ipotesi sulla sua locazione. Poteva trovarsi in un tronco cavo, così come sottoterra. Eppure Albin sentiva che, sebbene quelle potessero sembrare idee argute, in realtà erano piuttosto 'ingenue'. Un'Innocence tanto pericolosa non si sarebbe certo nascosta in un luogo alla portata degli animali residenti sugli alberi o di quelli che viaggiavano nel sottosuolo. Doveva trovarsi in un punto preciso, uno che non le imponesse il rischio di essere trafugata. Ripensò al momento in cui ne aveva visto il potere sprigionarsi davanti ai suoi occhi. Focalizzò nella sua mente l'immagine della terra che, improvvisamente, ondeggiava lasciando che ogni elemento su di essa scivolasse altrove.
E mentre ci rifletteva, inciampò col piede in una radice, cadendo rovinosamente a terra.

- Albin! - Linalee si chinò su di lui in fretta e furia per aiutarlo ad alzarsi. Ma non appena lo ebbe fatto, vide il suo volto illuminarsi, come colto da un'illuminazione improvvisa.

- Nobile Esorcista!! - esclamò tutto ad un tratto, ignorando completamente il bernoccolo sulla fronte che si stava formando, doloroso oltre ogni dire - Ho capito dove si trova l'Innocence!

La cinesina spalancò gli occhi scuri, davvero strabiliata dalla velocità con cui era riuscito a dare una risposta a quell'importante interrogativo.

- Ditemi tutto! - affermò decisa, mettendosi in posizione per cominciare all'istante le ricerche; non dovevano perdere neanche un minuto.

- Si trova sul fondo di un qualche piccolo specchio d'acqua, magari una sorgente! Ecco perché nessuno l'ha ancora trovata: nessuno animale può notarla dalla superficie, e sicuramente non c'è rischio che qualche pesce possa inghiottirla; potrebbe essere incastrata in un'insenatura, o addirittura seppellita dai detriti.

E da lì ogni cosa parve schiarirsi, come colpita da una improvvisa luce. Linalee socchiuse appena le labbra in un moto di sorpresa, per poi annuire ed attivare in pochi secondi i propri Dark Boots. I bracciali che le ondeggiavano alle caviglie mutarono avvolgendole le gambe e trasformandosi in stivali dalle sfumature carminee, così aggraziati eppure al tempo stesso inquietanti. Pensare che quell'arma fosse stata forgiata dal suo stesso sangue, faceva rabbrividire ogni volta sia suo fratello che i suoi amici. Eppure a lei non era mai parsa una cosa tanto orribile. Rispetto alle precedenti calzature, decisamente più pesanti e ingestibili, quelli avevano una potenza e una leggerezza spaventose. E forse, trattandosi proprio del suo sangue la rendeva una cosa più naturale; quasi ci vivesse in simbiosi. Un rapporto di amore e odio che rischiava in ogni momento d'incrinarsi.

- Andiamo! - e nel mentre spiccò un enorme balzo in avanti che la portò a dileguarsi alla velocità della luce tra gli alberi. Inizialmente stordito dallo spostamento d'aria, Albin si riprese e cominciò anch'egli la ricerca, scostando con cautela rami e cespugli.
Entrambi si erano prefissati una meta, consci dei rischi e che quella flebile speranza avrebbe potuto rivoltarsi contro di loro. Il terrore che la bomba piazzata dal Finder potesse esplodere era lì, a sostare nei loro cuori ma, ne erano certi, se Allen avesse avuto a che fare con dei nemici, non ne avrebbe avuto il benché minimo bisogno.
 
Allen sentì l'aria fremere attorno a lui.
In quell'istante riuscì a stento a parare un pugno, arrivato a velocità supersonica, respingendolo con abbastanza forza per non subire un contraccolpo.
Nel momento in cui quella ragazza si era rivelata per quello che era, una Noah, aveva cominciato a sparire dalla sua vista, comparendo per microscopici istanti giusto prima di sferrare colpi decisamente potenti. E lui, che di certo non era preparato ad una simile eventualità, si era lasciato sorprendere. Un sempre più crescente dolore al petto lo costrinse a chinarsi, stringendosi nel punto in cui pochi istanti prima gli era arrivato un calcio. Aveva il fiato corto, e benché aguzzasse la vista il più possibile non riusciva a scorgere alcun movimento della sua avversaria neanche di sfuggita.
Un fruscio alle sue spalle. Questa volta si vide scaraventato tra la selva, sommerso dai cespugli. La schiena gli doleva all'inverosimile.

"Ma come... Come è possibile che riesca a spostarsi così in fretta?!" ringhiò appena, resistendo al dolore e rialzandosi a fatica.

All'improvviso, udì una risata espandersi tra gli alberi. Echeggiando sinistra, come una vile presa in giro, si spostava troppo in fretta per poterne calcolare una posizione precisa. Gli occhi dell'albino saettarono da un punto all'altro alla ricerca di un qualunque indizio: anche uno scorcio dell'abito, o uno svolazzo di una ciocca di capelli. Qualunque cosa.
E invece... Quella risata isterica lo tormentava da qualsiasi angolo, confondendogli vista e udito e rinchiudendolo in una prigione in cui le sbarre erano invisibili e invalicabili. Messo sotto pressione, costretto a provare un'ansia del tutto nuova, poteva solo attendere e sforzarsi di elaborare un piano il più in fretta possibile.
Una cosa già la sapeva. Linalee e Albin dovevano rimanere al sicuro. Per nessuna ragione al mondo quella Noah avrebbe mai dovuto provare a mettere le sue grinfie su di loro. Qualsiasi cosa fosse accaduto, l'avrebbe sconfitta lui. Ad ogni costo.

- Vieni fuori e combatti seriamente! - intimò, sperando di poter indurre la nemica a mostrarsi.

In risposta ottenne solo un'altra risata agghiacciante, che gli gelò il sangue nelle vene. Perché provava tanta angoscia nel sentirla?!

- Come vuoi!

Un lampo. E l'Esorcista con un colpo della mano sinistra del tutto istintivo scaraventò altrove un proiettile che per poco non lo colpì. Una volta spedito tra l'erba, lo cercò con lo sguardo e scoprì che si trattava di una pietra, nera e dura. Eppure, non era Dark Matter. Che fosse la particolare abilità di quella Noah?
La cosa più sconcertante fu che quando sollevò lo sguardo se la ritrovò davanti, grondante di sangue dalle nocche e dalle caviglie, come se nemmeno lei fosse riuscita a sopportare i colpi che lei stessa gli aveva inflitto. Ma seppur sofferente il ghigno inumano sul suo volto non scompariva, anzi: pareva palesarsi sempre più come per nascondere la verità, cercando di velarla. Ansimava. Annaspava alla ricerca di ossigeno senza darlo a vedere. O forse, non gliene importava nulla?
In un istante, il suo viso si contorse in maniera mostruosa. Gli occhi invasi da uno spietato e brutale istinto nascosto; le labbra incurvate fino agli angoli della bocca, mostrando una fila di denti bianchi e voraci. Le cicatrici sulla sua fronte s'intensificarono, fino a toccare la tempia destra e la base del naso. Smisero del tutto di sanguinare, diventando sempre più nere.

Si stavano fortificando.

Attorno a lei l'aria tremolava, come per l'effetto di una fiamma. L'atmosfera di distorceva al suo passaggio, creando inquietanti giochi di correnti calde e fredde. Ai suoi piedi, l'erba cominciò a curvarsi, a ingrigirsi, fino... A scomparire, polverizzandosi.
E quella ormai non era più Gwen, no. Era un essere risorto dall'inferno per consumare la sua anima addolorata e trascinarla verso l'oblio. L'esistere non sarebbe stata una prerogativa di quel baratro buio e infinito, in cui fiamme rosse come il sangue avrebbero lacerato l'ultima stilla di essenza che si portava dietro. Così, mentre da un lato avrebbe gioito di quel risveglio, di quella rinnovata condizione che senza renderla conscia dei rischi le proponeva un potere superiore, dall'altro avrebbe sofferto sempre più, invocando la disperatamente la morte. Perché se l'essere Noah conferiva capacità che andavano ben oltre la reale natura umana, al contempo divorava l'orgoglio e i ricordi, riducendo le vittime a marionette insulse prive di emozioni. Costrette a combattere, ed uccidere, senza una volontà che li animasse all'infuori di quella del loro burattinaio.
Ed allora non sarebbero stati al pari nemmeno di un Akuma evoluto; loro, almeno, potevano ancora vantarsi di possederlo, un ego...

La Follia rise sguaiatamente, ignorando il patetico tentativo dell'Esorcista di difendersi da quell'attacco, decisamente troppo debole per dire che l'avesse sferrato con serietà. Gli umani... Erano tutti delle dannate bestie. Bestie fatte di odio, votate alla violenza e al pregiudizio.
Erano così inutili, così odiosamente mostruosi... Che la voglia di massacrarli era irrefrenabile.
Dovevano pagare per ciò che avevano fatto.
Dovevano essere puniti, giustiziati dal suo divino potere per gli atroci errori commessi. Non poteva più sopportare di vedere il marcio ovunque posasse lo sguardo; di vedere la decadenza avvelenare il mondo, renderlo un tripudio di miseria e desolazione morale.

Il vero aspetto del mondo... Ora poteva vederlo.
E non era che un ammasso di cadaveri ambulanti ignari di possedere un destino, spregiudicati; che si beffavano della morte, credendo di poterla dominare grazie a fama e potere.
Ma si sbagliavano. Oh, se si sagliavano.

E lei... Avrebbe ripulito il mondo; da ogni cosa, a cominciare... Da quell'Esorcista davanti a lei!

Uno scatto.
Allen la vide letteralmente sparire dal punto in cui si trovava, salvo poi riapparire un istante dopo a pochi centimetri da lui. Non fece in tempo. Un pugno lo colpì violentemente allo stomaco e lo scaraventò a qualche metro di distanza, tra gli alberi. Sbatté contro un tronco e fece appena in tempo a rialzarsi che una ginocchiata rapidissima lo fece rotolare sull'erba, senza possibilità di reagire in alcun modo.
Ansimando vistosamente, sputò qualche grumo di sangue e si rialzò, traballante, chiedendosi qualche diamine di trucco utilizzasse la Noah per muoversi così in fretta. Mai gli era capitato di avere a che fare con un avversario tanto potente. E l'unica volta in cui era successo, si era trattato di Tyki nella sua nuova forma da combattimento. Ma quella volta, era accorso in loro aiuto il Generale Cross. Questa volta non sarebbe andata così. Erano soli, divisi, completamente in balia di un nemico brutale e malvagio. Come avrebbero mai fatto a cavarsela?!



Dal suo nascondiglio, Tyki osservava la scena senza perdersene neanche un secondo. Quella paradossale situazione si stava rivelando interessante, e dire che quando Gwen aveva perso i sensi si era pure preoccupato. Ma solo per un attimo. La Follia non aveva potuto che manifestarsi, completa e terribile. Poteva dirlo, adesso: che i suoi sospetti su di lei fossero totalmente fondati. Che quel mostro non facesse minimamente parte della loro famiglia, perché diverso. L'aura che la circondava era strana, un conglomerato di rabbia, odio, afflizione, addensati su di un cuoricino debole e inerme. Come poteva anche solo continuare a respirare, una mostruosità simile?!
Una fitta improvvisa al braccio lo costrinse a evadere dai suoi pensieri. e fu a quel punto che, spostando lo sguardo sulla blanda fasciatura ottenuta strappando un lembo della giaccia, rabbrividì, perdendo qualche battito.
Il braccio... Era tornato normale. Attorno alla ferita il colore della pelle tornava ad essere quello di prima. Un rosa carne pallido, macchiato di sangue. Fu inutile tentare di annullare quella condizione. Ogni sforzo fatto gli costava una dose di dolore in più. Strinse a tal punto la fasciatura che le nocche sbiancarono. Com'era possibile che il braccio fosse... Tornato indietro?
Perché soltando lui era diverso, e il resto del suo corpo rimaneva cinereo. Perché quella maledetta era riuscita a colpirlo nonostante i suoi poteri?!

Poi capì.

Capì e si maledì per non esserci arrivato prima. Di certo non gli era chiaro come avesse creato quei proiettili neri e duri come sassi. Ma una cosa l'aveva compresa, soprattutto guardandola muoversi alla velocità della luce mentre attorno a lei la vegetazione moriva e si rinsecchiva. E gli parve una capacità, la sua, davvero temibile.

Il Tempo.

Gwen, la Noah della Follia, aveva l'abilità di manipolare il tempo.



 

 
Angolo di Momoko ¬

 Albin sa costruire bombe, sì. L'avevo detto che gli avrei dato importanza, a questo baldo giovine. Per saperne di più mi sono documentata; poi non dite che non vi amo alla follia, eh. Perché fare ricerche su 'ste robe è stato un suicidio assurdo. Dopo essermi fatta una cultura sulle mine antiuomo, sono arrivata a leggere delle bombe giocattolo; e dei bimbi che, ignari, perdevano dita e mani giocandoci. Una cosa allucinante, davvero, mi è venuto da piangere. E' inammissibile che abbiano escogitato una cosa del genere, davvero...
Sigh...
Comunque, come avete visto, il capitolo è leggermente più corto degli altri, principalmente perché è di transizione. Ho voluto però renderlo utile mettendoci vari elementi che poi ritroverete nei capitoli successivi. Primo fra tutti, il potere di Gwen, che Tyki ha gentilmente scoperto per noi. Non dico altro, lascio che siate voia  trarre le dovute conclusioni!^^ Per domande, insulti, critiche e quant'altro, sono qua! :)
Ah, prima che me ne dimentichi: avrete notato che aggiorno meno frequentemente, ma soprattutto che non recensisco. Tranquille donne, passo anche da voi! çwç Purtroppo sono abbastanza presa dai compiti e dallo studio ;A; Abbiate pietà, recensirò il prima possibile (probabilmente nel fine settimana) ;)
Ok, ora me ne vado. Vi ringrazio tantissimo per aver letto, recensito, messo tra le seguite / preferite questa storia. E' una soddisfazione immane, e spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto^^
A prestoooo,


Momoko <3


 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Il fantasma che fui un tempo ***


Into the Madness



Capitolo 4
Il fantasma che fui un tempo

 
La pioggia scrosciante aveva formato grossi rivoli d'acqua lungo le strade ciottolate, trasformandole in lunghi fiumi grigi e tumultuosi. Sordi tintinnii di vetro s'abbattevano al suolo con grazia e potenza per una discordante armonia di suoni.
Si strinse maggiormente nello scialle lercio e consumato che aveva salvato qualche giorno prima dai topi, del tutto intenzionati a non farne rimanere neanche il ricordo. Rabbrividì appena, tremando sotto quel debole abbraccio caldo di lana, quando una folata di vento gelido più prorompente delle altre le sferzò il viso e il collo scoperto, scompigliandole i capelli molto più simili a fili di paglia rinsecchiti e congelati. La mano destra, ben stretta, recava il bottino di quel giorno: un tozzo di pane duro come un sasso, bagnato dall'improvvisa pioggia ed ultima risorsa per non morire di fame.
Gwen sentì le proprie labbra secche fremere, e lo stomaco gorgogliare rumorosamente. Guardava la pagnotta rafferma con occhi languidi, resistendo coraggiosamente al desiderio di addentarla. Non poteva divorarla subito, no. Poi... Chissà quando ne avrebbe riavuta una tra le mani?

Doveva razionarla. Doveva bastarle, per sopravvivere.

Un gemito soffocato; i muscoli delle braccia bloccati, onde evitare errori irreparabili. Per un attimo, ebbe l'impulso di gettar via il proprio cibo là, in mezzo alla pioggia. Per lasciarlo marcire, cosicché non potesse averne neanche una briciola. Invece... Lo strinse ancora di più, pregando, raggomitolandosi, reprimendo le lacrime; di nuovo.
Era la quattrocentocinquesima volta che ci pensava. Che pensava alla morte. E di queste, centoventicinque riguardavano il lasciarsi morire di fame. Oh, una cosa così... Semplice, a dirsi. Non ci sarebbe voluto nulla. Bastava solo... Rimanere fermi, lasciare che il tempo le scorresse addosso; come capitava per qualsiasi altro essere umano.

Ma per lei il tempo si era fermato, imprigionato in una trappola di cristallo immobile tinta delle sfumature dell'oro e della cenere miste al rosso del sangue e al blu delle lacrime di disperazione versate ogni giorno, aspettando. Aspettando che la lancetta della sua vita si muovesse, liberandola da quella condizione di prigionia invisibile agli occhi ma che minuto dopo minuto le corrodeva l'anima dall'interno, distruggendola senza pietà. E così... Non le restava che dannarsi. Vivere a metà, senza mai poter andare oltre. Soffrire, temere di morire... Ma non morire. Trascinarsi quel tanto che bastava perché la sua codardia le concedesse di non varcare ancora quella soglia, oltre la quale l'attendevano pace e serenità. Vaghe illusioni, futili promesse di una vita migliore: solo fumo negli occhi, bugie. La vera punizione per un'assassina come lei; sarebbe stata condannata ad attendere un'eternità che non sarebbe mai sopraggiunta.
E per quante volte avesse avuto il dubbio che quel sangue non l'avesse versato lei, nuovamente quelle visioni di morte la perseguitavano, ribadendo una realtà nascosta dall'ombra, della quale solo lei era a conoscenza, pur non ricordandosene.

Un refolo gelido si intrufolò sotto lo scialle, passando tra le caviglie sottili e sporche. In un attimo, il pane venne gettato d'impeto in strada, uscendo dall'ombra del vicoletto nel quale si era riparata per sfuggire alla pioggia. Lo guardò rotolare via con un briciolo di pentimento nello sguardo dorato acceso d'ira. Dopodiché, le mani andarono a cingere saldamente i piedi freddi e nudi. Non sarebbe andata a recuperarlo. Mai!
Non l'avrebbe diviso; non l'avrebbe nemmeno sfiorato. Doveva liberarsi del desiderio di vivere perché se così non fosse stato, ne era certa, quello sarebbe tornato a tormentarla ancora, e ancora, e ancora...
Sapeva che l'essere segnata dal quel punto di vista non le avrebbe mai permesso di abbandonare il mondo, ma nonostante tutto la volontà di farlo ce l'aveva ancora. Forse, era l'unica cosa veramente umana che le era rimasta.

Uno scalpiccio leggero prese a invadere l'aria, discostandosi dal ritmo continuo e ripetitivo con cui le gocce di pioggia cadevano sui ciottoli grigi. Sempre più veloce, sempre più numeroso, s'accompagnò ben presto a una figura alta e scura, coperta da un pesante mantello che ne rendeva inesistente il volto, perso in un mare d'ombre. Avanzava altera e incurante d'ogni altra cosa per la strada deserta, ascoltando con pazienza lo sciame di tintinnii trasparenti che, cadendo ora sul ciottolato, ora su un tetto o una grondaia, producevano una diversa sinfonia.
Gwen fissò a lungo quel profilo irriconoscibile con timore, badando bene a non farsi vedere. Non voleva che la picchiassero ancora. Ma ecco che, d'improvviso, un luccichio attraversò le tenebre del mantello e, uscito finalmente allo scoperto, brillò tenuemente.

Era una croce. Una croce dorata, proprio come i suoi occhi. La analizzò in ogni dettaglio prima che fosse nuovamente ghermita dalle pieghe del mantello, come ipnotizzata. Subito dopo avvertì la testa girare, mentre il suo sguardo fermo vacillava. Si ricompose nell'istante in cui una nuova ondata di passi, decisamente più veloci dei precedenti, divenne talmente forte da destare la sua attenzione. Alzò gli occhi, e la vide. Una mano guantata di bianco tesa verso di lei con... La sua pagnotta umidiccia.
A porgergliela, un sorriso caldo e occhi d'argento.
E senza che potesse fare nulla per impedirselo, l'afferrò timidamente.

- Gr...


- DISCEMOLO!! Vedi di sbrigarti!

Un fruscio veloce, e il ragazzo dagli occhi brillanti si allontanò senza preavviso. Ma lei.. Non aveva nemmeno avuto l'opportunità di dirgli grazie.
..



 

Lo spostamento d'aria che seguì il colpo fu quasi impercepibile, nella sua impetuosa rapidità. Gwen sentì il proprio volto andare in frantumi sotto il pugno di un Allen confuso, provato dalle numerose ferite ma pronto a cogliere al volo qualunque occasione si fosse prensentata per passare in vantaggio in quella battaglia improvvisa. Aprofittando di un momento in cui la Noah pareva essersi distratta, persa in pensieri a lui imperscrutabili, riuscì ad scaraventarla con forza a terra e a farla rotolare tra l'erba e i cespugli qualche metro più lontana da lui. Scorse la sua esile figura piegarsi, perdere ogni appiglio con il terreno e incassare il diretto con la stessa forza e tenacia di un filo d'erba. Senza opporre alcuna resistenza, Gwen finì con lo sbattere violentemente la schiena contro il tronco di un albero. Il respiro parve mancarle all'improvviso, spezzato dal dolore fulminante che le attraversò come una scossa la spina dorsale. Tutte le ossa del suo corpo emisero uno scricchiolio inquietante, mentre i muscoli indolenziti si bloccarono, come a voler impedirle di muoversi; di farsi ancora del male.
Invece si rialzò, tremolante. Sembrava dovesse crollare da un momento all'altro, tanto era incerta. Una parte di lei pregava di fermare quell'assurda follia, quel crescente e deteriorante desiderio di fare proprio il mondo, distruggendolo; l'altra, semplicemente, non pensava. E perché avrebbe dovuto?
Non era forse quello che nel profondo voleva?
Era una così bella sensazione, la libertà. Sentiva il suo odio scorrere impetuoso in ogni anfratto del suo essere, incontrastabile. Un fiume nero come pece in cui adorava annegare, perché chiudendo gli occhi non avrebbe più sentito nulla. Né dolore, né tristezza. Solo... Benessere. Un benessere malsano, sbagliato, dato da ricordi e sentimenti che in quel baratro di paura e solitudine della sua mente si perdevano, diventando un cibo, un nutrimento per le ombre del suo cuore afflitto dai peccati. Una sinfonia di piaceri inspiegabili, frutto di quelle emozioni a lungo segregate dentro il suo fragile corpo che ora le esplodevano nel petto come fuochi d'artificio monocromatici e si mischiavano, vittime dell'impeto, alla disperazione e al rancore di più di quindici anni di silente attesa.
Fu naturale, per lei, mettersi a ridere. Ormai, l'unico briciolo di coscienza che avrebbe potuto riportarla indietro, farla ragionare, era svanito, avendo divorato sé stesso come preda inconsapevole di quella aberrante pazzia. Consumandosi, come l'ossigeno a contatto con la fiamma di una candela.

Quando Allen la raggiunse, rabbrividì.
Con sconcerto notò la pelle della Noah scurirsi sempre più, come se stesse degenerando. Sapeva che non poteva presagire nulla di buono, ed ebbe conferma di ciò nell'istante in cui la candida chioma della sua avversaria iniziò a tingersi d'un nero opaco e mostruoso, il quale lentamente prese a divorare i fili di platino che le avvolgevano il viso, consolatori.
La Follia stava progredendo, soppiantando la sua ospite; cancellandone ogni particolare caratteristico perché di Gwen Grey non ne rimanesse la benché minima traccia.
Doveva agire, in fretta, oppure sarebbe stato troppo tardi persino per mettersi in salvo. Lo sapeva, avendolo già vissuto in prima persona col cuore che, sebbene battesse impazzito nel petto per la paura, trovava ancora il coraggio di combattere, ed era perfettamente a conoscenza della forza di quei falsi apostoli marchiati da un Dio diverso e sconosciuto che, una volta risvegliati, diventavano mostri troppo forti persino per lui.
L'aria attorno al quindicesimo apostolo di Noè iniziò a fremere, come deviata in mille invisibili percorsi da una forza magnetica inspiegabile. A tratti respinta, a tratti assorbita quasi come una spugna, si muoveva veloce e, come le corde di una chitarra, in costante tensione. Piegandosi sotto l'influsso del potere della Follia, l'atmosfera parve distorcersi, sfiorare la sua pelle scura e poi allontanarsi, come richiamata da una voce sinistra e sconosciuta a circondarne la figura; una barriera. I verdi fili d'erba collocati all'interno presero a rinsecchire; si piegarono marcendo in un grigio spento e morto. I fiori impallidirono, perdendo ogni colore. Si ridussero a stecchi scuri e fragili come un respiro, irriconoscibili.
Poi, ci fu lo scatto. Gwen si lanciò ad una velocità inconcepibile contro Allen, ghignando sinistra come se il dolore provato fino a qualche attimo prima non fosse stato nulla se non una mera illusione. La generosa concessione dell'apparenza di possedere un vantaggio; una finta. Una burla, sapientemente studiata. Invece, semplicemente la donna aveva dimenticato cosa fosse il dolore e nulla avrebbe potuto farglielo ricordare.
L'albino ebbe una frazione si secondo per accorgersi del colpo. Si gettò da un lato, mosso dall'istinto, senza pensare a nulla. D'altronde, fronteggiare attacchi sferrati alla velocità della luce imponevano un ragionamento che lui, in quel misero tempo che si vedeva concedere, non era in grado di fare. Riuscì unicamente a schivare per miracolo il pugno dell'altra che, per contro, si scagliò contro un albero, scavando un solco e varie crepe sulla sua superficie ruvida e rugosa.
Fu a quel punto che l'Esorcista comprese quanto l'agire per impeto fosse stato importante; quanto potente e devastante fosse l'abilità della Noah, ormai assuefatta dalle sue stesse emozioni. La corteccia dell'anziano gigante iniziò a scricchiolare pericolosamente, come se qualcosa ne stesse spezzando il tronco in due. Era agghiacciante. In soli pochi secondi la chioma si spogliò di tutte le foglie. Una pioggia di petali verdi accesi che, lentamente, si tinse delle tetre tonalità della morte. A terra arrivò solo polvere. Il fusto si rinsecchì al punto da ridursi a un cumulo di sabbia. Il prato attorno morì.
Tutto questo con un unico pugno.
Allen sentì il sangue nelle vene raggelarsi. Se non l'avesse evitata...
Con un groppo alla gola, aprofittò della situazione per cogliere impreparata Gwen e attaccare. Le dita della sua mano sinistra, deformata dall'Innocence fino ad assumere l'aspetto di lunghi artigli scuri e affilati come lame, brillarono di una luce calda e potente. Coroncine luminose si formarono su ogni singola falange, come marchiate a fuoco. Saettando poi fino alla punta, diventarono raggi di energia calda e devastante che come un'onda si scagliò sulla Noah. Questa si voltò pigramente in loro direzione, osservandoli apatica. Non fece nulla per evitarli, o semplicemente era certa che non avrebbero potuto nuocerle più di tanto. Venne investita in pieno, sentendo la pelle grigio scuro bruciare sotto le frustate di quelle corde luminose e ampie. Un ghigno sofferto si stampò sulle labbra, frutto di un orgoglio che non le apparteneva. Cadde a terra, ansimando, mentre altro sangue caldo sgorgava dalle nuove ferite. Si tirò a sedere, esitando a sfiorare la bruciatura che si era formata sulla spalla sinistra. Sembrava averne paura. Temeva che se l'illusione fosse crollata, avrebbe sentito ancora una volta il dolore. E non voleva che succedesse. Non ora che... Finalmente poteva assaporare la libertà, avvertirne il gusto dolce e selvatico fino ad esserne pregna, in ogni angolo del suo corpo.

Si liberò nell'aria un'altra risata, roca e inquietante.
Allen sbiancò. Qualunque cosa fosse quell'essere, di certo non apparteneva alla razza umana..
.



 
 



Alle orecchie vigili di Linalee non arrivò alcun suono della battaglia che si era appena scatenata, se non lo stormire allarmato degli uccelli che si levavano in volo tra gli alberi e il fruscio placido delle foglie. Lei e Albin erano alla ricerca della fonte d'acqua in fondo alla quale, secondo le supposizioni del Finder, si sarebbe dovuta trovare l'Innocence. Dopo mezz'ora circa di camminata, la cinesina avvertì il gorgoglio silente di un rivolo poco distante da loro. Avanzando sicura tra la selva, scostando con prontezza i rami sporgenti, raggiunse il fiumiciattolo e osservò perplessa la sua trasparenza scorrere lungo un canaletto di terra naturale poco profondo. Scendeva dalla montagna, ovviamente, ma era troppo piccolo per poter arrivare a valle senza prosciugarsi. Doveva per forza appartenere a un percorso più grande, più imponente. si chinò, esplorando con le dita delicate il prato di erba verde alla ricerca di qualcosa che avesse potuto illuminarli sulla sua direzione.
Niente rametti o foglie. Afferrò il cappuccio di una ghianda e lo posò con cura sulla superficie fluida di quella coda d'acqua effimera e insignificante, ma più chiara di uno specchio. La barchetta così formata, una volta acquistata l'autonomia, si lasciò trasportare dalla corrente in una direzione, sempre più velocemente.
Linalee si alzò, seguendo con lo sguardo la sua piccola freccia. Albin s'incamminò, senza aggiungere altro.

- Siamo vicini - asserì infine, notando come la portata dell'acqua aumentasse a vista d'occhio.

L'Esorcista lasciò che un piccolo sorriso speranzoso le colorasse le guance.

- Già - rispose, seguendo il compagno alla ricerca del cristallo divino.

Fu in quell'istante che d'istinto volse lo sguardo dietro di sé, senza un motivo apparente. Una strana energia, un'ondata di vento più forte delle altre, aveva fatto aumentare i battiti del suo cuore. Era la sensazione che stesse accadendo qualcosa, a pochi passi da lei, a turbarla. La viva e traballante preoccupazione che tra quegli alberi tanto tranquilli vi fosse qualcosa di sinistro. Si portò le mani congiunte al petto, per placare il suo piccolo cuoricino impazzito. Dentro di lei, un'unico pensiero: "Stai calma, Linalee". Un monito, un'incantesimo il cui fine ultimo era allontanare la negatività che, dal momento in cui Allen li aveva abbandonati, era arrivata a possedere il suo animo in maniera quasi ossessiva.
"Starà bene" e "Non c'è da preoccuparsi" erano sì parole piene di fiducia, ma non del tutto sincere. Persino l'incrollabile fede della cinesina con rammarico si vedeva vacillare in un baratro d'ombre e incertezze. Presagi di morte e solitudine spesso ricollegati alle tremende visioni che usavano tormentarla la notte, sotto forma di incubi orrendi.
Dopotutto, era del suo piccolo, fragile mondo che si parlava. Una sfera di cristallo che in ogni momento rischiava di creparsi, andare in frantumi. Una pioggia di cristalli affilati e taglienti che rischiava di finirle addosso e ferirla. E per nessunissima ragiona avrebbe permesso che una simile atrocità accadesse, né per opera di Akuma né di Noah.

Come formulò quel coraggioso pensiero, la sua attenzione venne catturata da un improvviso movimento tra le fronde, accompagnato da un placido frusciare. Assottigliò lo sguardo per osservarlo meglio e distinguerlo dal confuso insieme di foglie che lo ricopriva. Riconobbe un battito d'ali. Poi, quasi per istinto, la forma di un cuore e, successivamente, un'ala di farfalla.

Ogni cosa divenne all'improvviso estranea. Arrestò ogni movimento, mentre osservava intimorita e cauta la Tease che ora le svolazzava davanti, incurante d'essere stata scoperta, anzi, quasi desiderosa di mostrarsi. Danzando davanti a lei, compì due rapidi cerchi nell'aria e le si fermò proprio di fronte. Solo in seguito iniziò ad allontanarsi, come se implicitamente avesse chiesto di essere seguita.
Linalee la guardò divenire un puntino nero tra il verde. Si voltò quel tanto che bastava per scorgere la figura di Albin, in cammino alla ricerca della fonte. Sembrava non si fosse minimamente accorto di averla lasciata indietro.
Non ci pensò che un secondo.
Senza emettere un suono, si mise all'inseguimento del golem cannibale sperando che il Finder non si ponesse troppo presto il problema di venirla a cercare. Teneva troppo a lui perché lasciasse che la seguisse in un posto che certamente non sarebbe stato sicuro. Conosceva i Finder, e potevano risultare assai caparbi a volte nella loro ferma convinzione di doverli accompagnare ovunque, come ombre fedeli e pronte a donare la vita per proteggerli. Ma lei non voleva vittime, non in quella missione. Se Albin si fosse preoccupato di recuperare l'Innocence, lei avrebbe facilmente ritrovato Allen. Non ne aveva la certezza, ma... Quella farfalla sicuramente la stava portando da lui.

- Va bene - enunciò, sicura e determinata - Andiamo da Allen
..



 
 


Fu come se, dall'oscurità più buia, finalmente avesse aperto gli occhi. La luce del sole poté così trafiggere con saggia forza l'impenetrabile barriera di nuvole e amarezza che attorniavano la sua anima ormai corrosa da fredde dita di veleno, procurandole un dolore tremendo ma insieme dolce e necessario, perché di quelle tenebre che la divoravano non ne rimanesse neanche la più piccola traccia. Perché la luce estirpasse il male, l'ombra celata dentro di lei. Si portò le mani sanguinanti alla testa. Il suo grido straziato riempì l'aria, simile a un fulmine che lacerava il terreno con il suo bagliore accecante.

Grida.
Sentiva delle grida nella sua testa. Strilli acuti e devastanti, tempeste di emozioni e sensazioni di ricordi passati. Ma.. Non erano suoi.
Appartenevano a qualcun'altro.
Fu quando una voce, chiara e pulita eppure incrinata dalla paura, la chiamò, che finalmente quella brodaglia di immagini e suoni scomposti acquistò un senso.


"GWEEEEN!"

Uno sparo nel buio
.
Un tonfo.
Poi, la rabbia.

Montò dentro di lei come un fuoco, una fiamma che ad ogni secondo cresceva d'intensità, fino a dilaniare qualsiasi cosa la circondasse con zanne di odio e disperazione. Una bestia inconsapevole, nata da una bambina troppo piccola per comprendere e ragionare su ciò che le si era abbattuto addosso: una scure nera e affilata, calata da un fato ingiusto e meschino, proprio da quel Dio che l'aveva abbandonata perché marchiata come diversa da quelle cicatrici sanguinanti.

Arrancò incerta, sostenendosi la testa dolorante, afflitta da miliardi di suppliche e urla di dolore inspopportabili, eppure, in un certo senso... Salvifiche. Perché quel disperato richiamo, seppur lacerante, aveva infranto la bolla d'aria compressa e distorta che circondava il suo corpo quasi come un'armatura deteriorante, il cui scopo più profondo era solo quello di consumare fino all'osso l'anima di Gwen, e non proteggerla. Minuscole crepe si formarono sulla sua superficie inconsistente, tremolando; pezzi di atmosfera invisibili si staccarono aprendo delle falle sempre più grandi. Caddero estinguendosi nel nulla come le ultime spire del fumo di un camino.
Allen Walker, rimasto ad osservare esterrefatto la scena, si riprese di colpo dallo shock causatogli dall'attacco della Noah e ne aprofittò per sferrare un colpo rapido e potente, con cui aveva la certezza di centrarla senza mancare il bersaglio.

- Crown Edge!

Dalle falangi della mano sinistra partirono una serie di raggi luminosi e incandescenti che, come corde di luce e fuoco, s'infransero sulla Noah distruggendo ogni cosa. Una violenta esplosione fece tremare gli alberi, sollevando un imponente muro di fumo spesso e opaco. Gwen finì sbalzata via come un proiettile, viaggiando un bel po' di metri prima di fermarsi, ridotta a un cencio sanguinante e ormai in piedi solo grazie a un filo di emozioni sottile come una ragnatela; eppure, ancora forte e duraturo. Fu rialzandosi che s'accorse di quanto fosse vero e lancinante quel dolore. La gamba destra presentava una orribile ustione. La pelle ribolliva come cera sciolta, ancora fumante per il contatto con l'Innocence. Gridò isterica piegandosi su se stessa e soffocando ostinatamente le lacrime.
Lentamente, l'apatia e l'insensibilità che l'avevano precedentemente carpita, ora stavano svanendo e le sensazioni di quel corpo martoriato tornavano come pugnalate al cuore per distruggerla.
Ma non ebbe il tempo di abituarsi a quel male, che subito un secondo Crown Edge la scaraventò ancora più in là, spedendola con la faccia a terra sull'erba. Immersa nel fumo inconsistente le apparve la figura dell'Esorcista sopra di lei, e finalmente si rese conto di come quella situazione fosse assurda, senza senso. Come aveva potuto pensare di fargli del male?!

- As...

Allen si fermò, Crown Clown sollevata e pronta a infliggere il colpo di grazia.

- Asp... e... tta... - un rantolo poco più che accennato. Gwen tentò di sollevare il capo, gli occhi invasi dalle lacrime cadute infine per il troppo dolore patito. Eppure... Non aveva un'espressione sofferente. In un modo che all'albino parve inconcepibile, gli sorrise debolmente.

- Aspetta.... - pronunciò ancora, questa volta con più convinzione. Il senso di intorpidimento era svanito. L'istinto omicida era stato represso, grazie a Cari. Era stata lei a chiamarla. Quel turbine di pensieri stridente apparteneva a lei. E quel grido, che si elevava sopra tutti gli altri, era il suo disperato richiamo alla ragione. Avrebbe tanto voluto ringraziarla... E non avrebbe fatto ancora del male a quel ragazzo. Non dopo il gesto di gentilezza che anni prima gli aveva concesso, a prescindere dalla sua condizione.

- Io...


Click.

Un meccanismo sopito tra gli alberi prese a funzionare, avvertendo una presenza dannosa. Un leggero ticchettio pregnò l'aria, dapprima lento, poi sempre più veloce: un conto alla rovescia.
Allen si guardò attorno, temendo di essere stato soggiogato da qualche falso comportamento della Noah. Fu a quel punto che qualcosa, fulmineo ed impercettibile, lo sollevò con inaspettata forza per poi trascinarlo via. In pochi secondi, l'albino si ritrovò a una distanza inconcepibile da Gwen. Ebbe solo un secondo, solo uno per accorsersi che la figura che l'aveva ghermito con sicurezza era Linalee, che un boato improvviso infranse l'aria talmente forte da rimbombargli nel cuore. Poi, le fiamme. Alte, imponenti, subito estinte in un mostro di fumo nero e famelico, che si impossessò della foresta divorando gli alberi all'interno di una pancia nera e inconsistente.
Allen spalancò gli occhi, orripilato. Quella ragazza... Era rimasta là. Era finita in mezzo all'esplosione. Lo sbalzo generato dallo spostamento d'aria aumentò la velocità della cinesina, che sorrise calorosa al compagno, prima di arrestarsi con una brusca frenata sull'erba. Subito dopo averlo lasciato, lo sorprese in un abbraccio soffocante, per poi staccarsi d'improvviso e ammonirlo per la sua sconsideratezza. Il ragazzo si lasciò rimproverare assente, mentre osservava come ipnotizzato la colonna di fumo scuro che si ergeva in cielo, e le fiamme che si erano attaccate ai rami degli alberi, erodendoli. Mosse qualche passo in direzione del luogo dell'esplosione, ma Linalee si parò di fronte a lui con viso preoccupato.

- Dove stai andando?! - gli chiese con voce tremolante - Laggiù è pericoloso!

Ma Allen non ne volle sapere. Sfoggiando un'espressione assolutamente inscalfibile nella sua serietà, si discostò dalla cinesina.

- Devo tornare a controllare. C'era anche un'altra persona con me, è rimasta coinvolta nell'esplosione!

Linalee si bloccò, tremando appena. Ma solo per un secondo, perché successivamente affiancò il compagno e annuendo, affermò:

- Allora vengo con te.

E i due si lanciarono nella coltre di tenebra, proteggendosi grazie all'impenetrabile mantello di Allen, il quale funse da copertura per evitare che morissero asfissiati. Tuttavia, era impossibile vedere qualcosa in quell'insieme di fluide serpi nero pece nate dalla foschia, che sembravano volerli mordere a morte. Non tentennarono, avanzando coperti. Ed eccolo.
Un movimento di alcune foglie, debole, appena percepibile. I due Esorcisti si avvicinarono, scostando i cespugli dalla loro visuale con repentinità. E sbiancarono come cadaveri all'istante, perdendo qualsiasi parola avrebbero voluto pronunciare.
Gwen era inguardabile. Un ammasso di capelli sporchi e sangue; di lacrime e sangue; di carne e sangue. Il filo teso della sua vita era in procinto di spezzarsi, con un colpo netto. Il vestito lacerato e abbrustolito lasciava intravedere abbastanza chiaramente le ustioni presenti sul suo esile corpo, concentrate tutte sul lato sinistro. Era immobile, pareva essere già morta e invece respirava.
Linalee si coprì la bocca con le mani, trattenendo le lacrime al vedere il colore grigio della sua pelle con le stigmate e al tempo stesso il sangue scuro che la ricopriva. Ebbe l'impulso di scappare per lo sconcerto e per il nauseante miscuglio di odori che si intrufolavano nel suo naso per stordirla. Allen la trattenne per un polso, infondendole sicurezza con un piccolo sorriso. Successivamente, si chinò sulla Follia e allungò una mano verso il collo, sentendo i battiti deboli del suo cuore affievolirsi sempre più. Quella ragazza aveva bisogno di aiuto, alla svelta. E non seppe dire perché lo avesse pensato: forse perché dopotutto l'averla vinta così facilmente l'aveva indotto a pensare che ci fosse altro, sotto quella patina di odio e sadismo che l'avvolgeva; e che in fondo al suo cuore vi fosse anche un timido barlume di umanità, scorto appena qualche attimo prima che la bomba esplodesse.
Ma fu ciò che seguì quel pensiero che lo sconvolse ancora di più. Le labbra della Noah si mossero appena, prendendo aria. Un sussurro vi scaturì, incrinato dalle lacrime.

- Mi... Dis... pi... ace...

E l'albino strabuzzò gli occhi. Abbassò lo sguardo, notando che la sua mano destra si era aggrappata alla sua caviglia, come a volergli trasmettere il senso di colpa perché fosse il più comprensibile possibile. Per fargli comprendere come realmente fosse affranta per tutto quello che era successo, e cercasse la redenzione in un suo gesto di perdono.

- Mi... Di.. s...

Carpita dal sonno, chiuse lentamente gli occhi prima di poter terminare la frase. Linalee esitò nel respirare. Allen invece, avvertendo la presa sul suo piede allentarsi di colpo, s'accorse delle lacrime che, senza preavviso, avevano iniziato a bagnargli il volto. Se le asciugò con un movimento veloce e disinteressato, per poi chinarsi e prendere in braccio Gwen, ormai cadura in uno stato di incoscienza dal quale, forse, non si sarebbe mai svegliata. Sempre che ricevesse in tempo le cure necessarie.
I due compagni si allontanarono dalla nube nera alla ricerca di Albin e dell'Innocence. Linalee si offrì di fare da guida a Allen, sbrigandosi a raggiungere il Finder che, preoccupato dall'improvvisa scomparsa della cinesina, aveva iniziato a cercarla.
Lo trovarono a metà strada, venne loro incontro ansimando per la fatica d'aver corso a destra e sinistra alla loro ricerca. Tuttavia, non riuscì a ricongiungersi ai suoi colleghi che la vista della Noah in braccio ad Allen lo portò ad allontanarsi con un movimento rapido, fulmineo.

- Nobile Walker, perché portate quella con voi?! - domandò sudando freddo, bloccato dalla paura - F... Fa parte della... Della famiglia Noah!

E con quelle parole arretrò, incerto. Linalee invece avanzò d'un passo in sua direzione, le mani aperte verso di lui per fargli segno di stare calmo. Con un piccolo sorriso velato di mille emozioni, confuse all'interno della sua mente attraversata da migliaia di domande, rassicurò come meglio poté il Finder sul fatto che Gwen non avrebbe fatto loro nulla. Allen le aveva spiegato grossomodo la situazione: a detta sua, quella donna non aveva mai voluto ucciderlo, né fargli alcun male. Qualcosa l'aveva indotta a comportarsi nell'agghiacciante maniera di prima; qualcosa che non era visibile dal colore della pelle, o dalle cicatrici sulla fronte. Un dolore più radicato nel profondo, la volontà di qualcun'altro ristagnante dentro di lei.
Albin parve comprendere in parte quanto gli venne detto in seguito. La sua totale fiducia negli Esorcisti bastò per fugare ogni dubbio, o almeno la maggior parte. Sebbene loro subordinato, ancora si prendeva l'arroganza di pensare con la propria testa, per la quale avrebbe certamente posto domande scomode o poco piacevoli. Non voleva essere un peso. Desiderava tanto intensamente sostenenere gli apostoli di Dio che evitò di porre qualunque quesito, basandosi unicamente su quanto trapelato dalle loro labbra agitate.
Mentre si dirigevano verso la fonte dentro alla quale avrebbe dovuto esserci l'Innocence, il Finder spiegò che quell'esplosione era stata tutta frutto del suo marchingegno, e abbassò lo sguardo nell'istante in cui i severi occhi di Allen incrociarono i suoi di nocciola. Aveva sbagliato, di nuovo. Ecco perché nessuno aveva mai riposto fede nelle sue azioni e decisioni. Ecco perché nessuno gli permetteva di assistere in solitaria i colleghi di grado superiore. Semplicemente, non ne era in grado.
Era un inetto. Una macchiolina scura, uguale a molte altre. Solo, più fastidiosa.
Congiungendo le mani si avvicinò all'albino.

- Vi prego di perdonarmi!

Così, tutto ad un tratto. Lo disse con un tono tanto acceso e dispiaciuto che Allen non poté che sorridere. Non essendo in grado di dargli una pacca sulla spalla per confortarlo, disse:

- Non hai fatto nulla di male. Non preoccuparti.

E sorrise.
E Albin avvertì le sue angoscie a tal punto placate da mettersi a piangere. Linalee si avvicinò a lui e gli scompigliò amorevolmente i capelli. Un gesto naturale, considerando che Albin non era nulla di più di un ragazzo volenteroso e sincero, molto più giovane di lei.
Ritrovata l'armonia nel gruppo, i tre optarono per il rapido recupero dell'Innocence, per poi aprire il gate e fare ritorno immediato alla Home. Fortunatamente, la fonte tanto agognata si trovava a circa un chilometro di distanza e raggiungerla non fu difficile. Il fiumiciattolo che avevano seguito con tanta dedizione sembrava cadere all'improvviso in quella che pareva una buca. Invece si trattava di una piccola sorgente, sicuramente giovane date le modeste dimensioni. A turno si sporsero per guardare sul fondo, e di fatti intravidero un timido bagliore verdastro rischiarare l'insenatura rocciosa in maniera quasi spettrale.
Adagiata Gwen sull'erba, provarono così ad afferrare il cristallo divino, senza purtroppo riuscirci. Solo la mano sinistra di Allen, lunga e appuntita, fu in grado di afferrarlo e portarlo in superficie. Era un cubetto luminoso e molto piccolo, difficilmente qualcuno avrebbe potuto notarlo da lontano. Lo misero al sicuro nella borsa di Albin e immediatamente fu fatto apparire il gate.

Le vicende accadute in quel luogo sarebbero rimaste un segreto tra loro tre. L'identità di Gwen sarebbe stata nasscosta agli occhi di chi, certamente, ne avrebbe frainteso le intenzioni.
Per ora Allen non poteva far altro che pregare Mana che ogni cosa andasse liscia; e che quella timida e piangente figura molto più simile a un fantasma, o ad un'ombra residua di un passato tenebroso, riaprisse gli occhi al più presto per raccontargli la sua storia.

 
 

 
Angolo di Momoko ¬

 E Momoko riapparve dal nulla in una nuvola di fumo.
Sorpresa, sono tornata xD
Ok, trucidatemi, seppellitemi viva e lapidatemi. Vi ho fatto aspettare tanto, lo so. Ho fatto aspettare anche quelle benevole autrici che ogni volta si prendono il tempo di lasciarmi un commento ma che da parte mia non vedono che ritardi nel recensire le loro piccole opere. E mi rivolgo soprattutto a La Strega di Ilse e a KH4. Mi dispiace di essere sparita per così tanto tempo, spero non ve la siate presa. A mia difesa posso dire che ultimamente la mia scuola è un po' in tumulto, e sono capitata nel mezzo di un'occupazione di merda che mi ha distrutta psicologicamente. Ergo, ho perso la voglia di fare praticamente tutto - la depressione -. Ohi, non so voi, ma non credo che la vagabondaggine sia una scusa sufficiente a occupare una scuola, togliendo il tempo dello studio a chi invece vuole andarci. Poi va be', non mi dilungo perché questo non è il momento né il luogo adatto. Scusatemi.
Ora che il mio tempo libero è aumentato - sigh - passero a recensire per bene çwç Pazientate. Intanto, spero che questo capitoletto vi sia piaciuto^^ Ed ho una chicca per voi: la canzone di Gwen *Applausi concitati*.
Se vi interessa, è Shot In The Dark dei Within Temptation. Penso che rispecchi molto la mia svitata <3 Spero vi piaccia! :)
Ora mi dileguo, ricomparirò la prossima volta con Lady war, e commenterò anche voi volenterose ragazze çAç
A prestoooo,

Momoko <3

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Un sorriso inquietante ***


Into the Madness


Capitolo 5
Un sorriso inquietante



C’era calma.
Una calma quasi tangibile, come se l’atmosfera si fosse fatta improvvisamente più opulenta. Il fruscio degli alberi era anonimo, pesante, ponderato con cura perché il rumore fosse minimo e quieto. Sul terreno, brevi e fugaci tracce di battaglia diventavano, con l’avanzare verso il cuore della foresta, veri e propri disastri: smottamenti, crateri derivati da esplosioni e ustioni sulle cortecce deturpavano in un crescendo di distruzione quel luogo dall’aria perfetta e pacifica.
Un posto che mai aveva conosciuto la normalità a causa del frammento di Innocence nascosto nei suoi più remoti anfratti, e che ora saggiava situazioni nuove con impacciata contentezza. Gli animali tornavano nei loro cunicoli consci che non avrebbero più dovuto abbandonarli e perciò felici, eppure, per qualche strana ragione, inquieti.
Ma avrebbero avuto il resto della loro serena vita per abituarsi a quel radicale cambiamento e sicuramente lo avrebbero reputato migliore di qualsiasi altra cosa il destino avesse offerto loro.

Gli Esorcisti avevano abbandonato ormai da qualche ora il luogo, servendosi del gate generato da Allen attraverso l’Arca Bianca. Cosa semplice, in confronto al lungo viaggio che avevano dovuto sostenere per l’andata. Tuttavia, il potere dell’Esorcista albino presentava vantaggi e svantaggi, proprio come tutti. E materializzarsi in luoghi mai visti prima era logicamente impossibile. L’unica certezza era che il ritorno sarebbe stato fulmineo, e di questo i nostri Apostoli erano più che soddisfatti. In fondo, lamentarsi per qualcosa di immutabile era fiato sprecato sia per loro che per i membri della Scientifica, che di certo avevano problemi ben maggiori di quello, per i quali scervellarsi.

Eppure, nonostante la calma fosse ormai tornata, o per meglio dire finalmente approdata in quel luogo che normale non era mai stato, qualcuno ancora aveva evitato di abbandonarlo, e non per volere proprio.
Tyki dormicchiava contro un albero, silenzioso e impercettibile. Doveva aver perso i sensi a un certo punto dello scontro tra Allen e Gwen, per cui aveva mandato all’aria il suo proposito di raccogliere informazioni sulla Follia e prestare così attenzione allo svolgersi degli eventi.
L’effetto del potere della Noah sul suo corpo era svanito, ed ora la ferita al braccio, avvolta in stracci scuciti macchiati di cremisi che ne avevano fermato l’emorragia, era tornata ad assumere le colorazioni della cenere in maniera uniforme, senza un preavviso specifico: ad un certo punto della contesa, per cui il Piacere non avrebbe saputo indicare un’esatta collocazione temporale, ogni cosa era tornata come di consueto. L’incantesimo era svanito, così come era arrivato: nel silenzio.
Ma il portoghese non sarebbe rimasto a poltrire: benché potesse essere una valida opzione a ciò che sicuramente avrebbe passato se il Lord del Millennio avesse scoperto che la nuova sorella si era rivoltata contro di lui, i piani erano piani. E mancando di rispettare l’ora del rientro, ovviamente qualcuno sarebbe andato a recuperarlo.

Quando il piacere cominciò a rinvenire, sentì che qualcosa gli stava punzecchiando una guancia. Dalla propria flebile ed offuscata vista riuscì tuttavia a scorgere una sagoma tondeggiante a pochi centimetri dal suo naso.
Confuso a dir poco per quello strano modo di ritornare dal mondo dei sogni – e non ricordando nemmeno come ci fosse finito – strinse le palpebre per capire meglio e nel mentre un’esclamazione piena di energia fuoriuscì spontanea dalle sue labbra.

- Road!

La piccola Noah del Sogno era agghindata in maniera elegante e sfarzosa come sempre: lunghi e vistosi fiocchi sbocciavano come rosette deliziose sul suo abitino scuro e fanciullesco. Nella mano destra reggeva Lero e si divertiva a fare dispetti allo zio utilizzando la punta dell’ombrello parlante. Il sorriso sul suo volto di bambina era la manifestazione tangibile del compiacimento nel cogliere il parente in flagrante dopo un’amara sconfitta, consapevole quanto lui che gli eventi che sarebbero susseguiti a quel fallimento avrebbero portato alla luce risvolti assai interessanti per entrambi.
Tirando fuori la lingua, e simulando un’espressione comicamente concentrata, perpetrò nel suo stuzzicare il viso del Piacere con il golem, senza nemmeno rispondere o fornire spiegazioni alla sua presenza.

- Che cos’è successo? – Tyki ignorò i dispetti della nipote e si focalizzò sul recupero delle informazioni che lui, nella sua particolare posizione, si era lasciato sfuggire con un’ingenuità della quale ancora adesso si colpevolizzava.

Road accentuò il sorriso lasciandosi sfuggire uno sbuffo di soddisfazione. Fingendo di cantilenare un’ovvia filastrocca, spiegò in poche parole quanto successo.

- La piccola Gwen ha perso il controllo, ti sei fatto cogliere di sorpresa e hai poltrito… –  infine aggiunse, come se fosse ansiosa di dirlo – … Mentre il mio Allen e la sua amichetta sono tornati all’Ordine con lei.

E fu a quel punto che Tyki spalancò gli occhi, sorpreso e scandalizzato per quanto successo in appena poche ore. Fece per alzarsi ma scoprì di avere le vertigini a causa dell’ingente perdita di sangue. Barcollando appena, si lasciò scappare uno sbuffo scocciato mentre con occhi ormai abituati a vedere ogni genere di stranezza, osservava l’aprirsi del portale per l’arca: un varco scuro dalle parvenze fluide, come uno specchio d’acqua nera. Avanzando scompostamente, aiutato dalla nipotina ansiosa di assistere ai disastri che di lì a poco si sarebbero verificati, si trovò ad avere la mente straripante di domande e interrogativi senza soluzione.
Mai in vita sua era riuscito a comprendere quella che era la genialità del loro capo, fatta di intricati e a volte imperscrutabili ragionamenti che nessuno, a parte il loro creatore, aveva diritto di conoscere. E nelle rare volte in cui diventavano parole, profuse con concitata allegria, difficilmente se ne riusciva a comprendere appieno il senso. Perché il Conte del Millennio era una personalità astrusa, fatta di fraintendimenti, che partivano dall’aspetto per sfociare in un carattere macchinoso e unico, torbido; incomprensibile. Dipinti rovinati dal tempo, ecco cos’erano i suoi piani: opere scrostate un po’ ovunque, prive dei loro colori originali. E solo il loro vero autore ne avrebbe saputo riconoscere la reale gamma cromatica e i dettagli, persi nei millenni come antichi reperti sepolti sotto le memorie.
Nessuno avrebbe saputo dire fin dove quella eccentrica volontà li avrebbe condotti. Non potevano far altro che seguirla; perché anche loro, volenti o nolenti, erano proprio come lui…

Varcare l’entrata dell’Arca Nera fu come sentire la sottile e delicata carezza della pellicola di una bolla di sapone, lucida e trasparente, sulla propria pelle; come immergersi in un mare nero e profondo, perdere il respiro e subito dopo tornare a nuova vita, rinascere. Perché in quel luogo, oltre all’atmosfera tetra dalla quale pareva trarre oscure energie, emergevano costanti il senso di confusione ed estraneità dei quali era assoluto padrone. Perdersi al suo interno sarebbe stato come chiudere gli occhi in una stanza buia.
Fortunatamente, ad abbellire quel cupo ammasso d’ombre striscianti, ci aveva pensato la piccola Road. Certo, il suo particolare gusto per l’arredamento, costituito di forme stravaganti e colori cangianti, offuscava perennemente una malsana e paurosa personalità, che mai e poi mai avrebbe potuto ricondurre ad una bimba di soli dodici anni, quale la piccola Noah del sogno pareva somigliare.
Nulla di fanciullesco, in verità, permeava nei suoi modi di rivolgersi ai restanti membri della famiglia o agli Esorcisti: sorrisi velati di tenebre, contornati da una perversa e macabra malizia che non conosceva confini nemmeno nel concedere pietà ai propri avversari. Guai a lasciarsi ingannare da quel visino furbesco e giovanile. Guai a lasciarsi trasportare nel mondo delle sue bizzarre fantasie: impossibile sarebbe, per anima viva, fare ritorno da un simile inferno…

Ad accogliere i due Noah sopraggiunse la tondeggiante figura del Conte del Millennio. Essendo la situazione per lui di vitale importanza, voleva accertarsi di persona della sua riuscita. O del suo fallimento, perché no?

- Bentornato, Tyki-pon! Bentornato! ♥ – l’esuberanza con la quale acclamò il ritorno del parente sfociò in una feroce pacca sulla spalla di quest’ultimo.
Tyki sussultò per il dolore e pregò mentalmente che il primo apostolo avesse già finito con i commiati. Da sempre dotato di una sfacciatissima fortuna, si vide così risparmiare il suo super abbraccio – mossa che in rari casi poteva perfino risultare mortale -.
Fece poi per avviarsi, quando il Lord notò la brutta ferita al braccio. Con gli occhietti luccicanti posti dietro alle lenti del minuscolo paio di occhiali, lo bloccò sul posto con le manine guantate, inchiodandolo poi a forza su una poltroncina di velluto rossiccio comparsa chissà quando, forse per mano di Road.

- Voi ragazzi siete proprio scalmanati ♥ - ridacchiò, civettuolo; pareva una di quelle mamme pettegole che si vedevano spesso in giro – Sempre a farvi male ♥

- Guardi che non è niente! – tentò inutilmente di allontanarlo Tyki. Ma ormai era tardi. Era circondato, ed ora… Sarebbe stato costretto a raccontare per filo e per segno tutta la faccenda. Non che si aspettasse di evitarlo, figuriamoci. Solo, non pensava che la sua morte sarebbe giunta così presto…

- Su su, non serve atteggiarsi a duri ♥ - il Conte ignorò platealmente le sue espressioni facciali, mentre con cura gli levava la divisa – Ci pensa moi

Dopo il piacevole tepore dell’acqua calda sulla pelle, per ripulirla dal sangue, ciò che Tyki sentì fu un lancinante dolore carpirgli la spalla ed espandersi su tutto il corpo. Rigido come una statua, sprofondò sempre di più nella poltrona reclinando poi la testa e volgendo lo sguardo al ‘soffitto’ dell’Arca, per scansare la vista del Lord che con un ago ricurvo gli stava ricucendo la ferita; fischiettava. Neanche stesse lavorando a maglia!
Road osservava l’imperturbabilità dello zio smuoversi appena in ridicole posizioni volte a contenere la sofferenza sul suo volto pallido; e sorrideva. Ogni cosa, se osservata con gli occhietti vispi della piccola, appariva divertente.

- Allora… - il Conte interruppe quel surrogato di silenzio, fatto di lamenti taciuti sul nascere per volere d’un orgoglio troppo forte per essere vinto, e pose al Piacere la fatidica domanda mentre continuava a passare il filo nella pelle con abilità – Cos’ha combinato la piccola Gwen? ♥

Ecco. Ora sì che Tyki poteva considerarsi fregato. In tutti i sensi. Cercando di mitigare l’agitazione dietro sospiri e balbettamenti degni di un impreparato durante l’interrogazione, diede inizio a una sequela di farfugliamenti privi di connessioni tra loro; frammenti di possibili discorsi cestinati ancor prima di completarsi nella sua mente.

- Be’… Non è che avrei potuto prevedere cosa avrebbe fatto… - cercò di togliersi ogni colpa giocando sul fatto che non poteva sapere dell’incontrollabilità della Follia – Si è dileguata prima che potessi fare qualcosa.

E fu a quel punto che Road uscì dal suo angolo per poter prendere parola. Con un ambiguo sorriso e due occhietti dorati luccicanti, additò lo zio coprendosi la bocca sogghignante con la manica del vestitino. E fu a quel punto che Tyki ebbe la viva sensazione di essere spacciato.

- Ma che racconti, se ti sei dato alla fuga? – sghignazzò senza riguardo la nipote, trattenendosi a malapena.

Il Piacere si pietrificò sul posto, fissandola disperato. Avrebbe voluto darle dell’ingrata, fuggire, indossare i suoi amati occhiali a fondo di bottiglia e andarsene a pesca. Niente Conte, niente Gwen, niente bimbette sfacciate che lo avrebbero venduto per due risate in più.
Come diamine avrebbe reagito ora il Conte, sapendo che se l’era filata alla prima difficoltà?!

- Sigh ♥.

Si voltò, lo sguardo perso nel vuoto. Il Lord stava… Stava singhiozzando. Con un fazzolettino tratto dal taschino del cappottone color crema che indossava, si soffiò rumorosamente il naso con fare sconsolato.

- Sigh… Come ti capisco Tyki-pon… ♥ - mormorò con voce tremula, mentre si tamponava un gocciolone piovuto giù da un occhio – Anche a me ha fatto tanta paura! ♥

-Non ho avuto paura!! – strepitò Tyki issandosi con un balzo dalla poltrona, la ferita al braccio ormai completamente ricucita.

Road scoppiò in una fragorosa risata, che sovrastò sfrenata ogni altra voce. Per qualche minuscolo secondo nella stanza regnò il caos.

Poi il Conte cambiò atteggiamento. Per quanto piacevole fosse ridere e scherzare in famiglia, altre questioni urgevano di essere portate alla luce; prima fra tutte, Gwen Grey. Chi mai poteva essere quella giovane fanciulla che incarnava un’emozione mai esistita prima tra le schiere Noah? Da dove poteva mai essere sbucata? Chi e cosa aveva potuto renderla… Lei?!
Ebbene, nemmeno il Conte conosceva le risposte a tutte queste domande. L’unica che avrebbe potuto aiutarlo ora era in mano all’Ordine, e lui… Di certo da solo non disponeva di tante opzioni.
Però, forse… Avrebbe potuto volgere in qualche maniera la situazione a suo vantaggio…

- Insomma, Lord. Chi è questa Gwen? – Tyki si risedette spazientito sulla poltrona, accavallando le gambe e fissando la cucitura al braccio, per poi sfiorarla appena con un dito – Non ha niente a che fare con noi, vero?

Road tacque all’istante per ascoltare il primo apostolo che, atteso un secondo di silenzio, parve voler raccontare.

- Gwen Grey… Nemmeno io so da dove possa essere spuntata, ad esser sinceri ♥ – cominciò con tono riflessivo, calmo – Un tenero pulcino lasciato solo sotto la pioggia, moribondo. Ecco quel che vidi marcire in un vicolo di Londra, appena tre giorni fa ♥…




Una creatura fragile, sottile; trasparente. Annidata nel ristretto spazio tra due cumuli di immondizia, e lasciata a ricercare nelle loro vicinanze la miglior fonte di calore per non soffrire troppo il freddo, si raccoglieva in se stessa accartocciandosi in stracci lerci e scuciti che ne offrivano un’immagine più desolante di quanto in realtà non fosse.
Le dita sottili, arrossate sulle nocche dove la pressione vi evidenziava l’ossatura sottostante, stringevano quel pezzo di stoffa usato come coperta, mantello e, in molti casi, anche vestito. Il freddo londinese le faceva battere appena i denti, generando un rumore che rompeva il glaciale silenzio che altrimenti l’avrebbe resa del tutto invisibile agli occhi della folla che, incurante, procedeva disinvolta lungo la strada avvolta in morbidi e soffici cappotti.
E lei invece per scaldarsi era costretta a rannicchiarsi come un verme tra la spazzatura, un cencio consumato a coprirla quel tanto per non farla morire assiderata. Il viso scavato, sul quale era caduta un’ombra cupa che mai essere vivo o morto aveva posseduto, fissava i propri piedi impalliditi per il gelo. E respirava, a malapena. Brevi ansiti costringevano il suo petto a sollevarsi pigramente e ad abbassarsi con cautela. Come se avesse paura che qualcuno potesse avvertire la sua presenza.
Perché lei era maledetta.
Era un mostro.

Se n’era accorta qualche giorno prima, quando… La sua fronte aveva iniziato a sanguinare. Senza avvertire alcuna traccia di dolore, una scia rossastra aveva preso a scenderle lungo il viso, fino ad arrivarle al mento. Con atteggiamento ingrigito dal tempo, passato a lasciare che la felicità fluisse via dal suo corpo, aveva allungato con lentezza una mano per prelevare un po’ di quel colore così acceso e studiarlo attentamente. Non era la prima volta che si feriva – benché non riuscisse a ricordare come quella volta fosse stato possibile -, perciò la vista del sangue non la intimoriva; non più almeno, anche se rievocava in lei la visione di immagini macabre frutto delle sue memorie malandate.
Si era tastata con circospezione la fronte, sentendo sotto le proprie dita… Una protuberanza. Qualcosa di lungo vi si era formato sopra. Un taglio, forse?
Il leggero rilievo che fu in grado di percepire al tatto le fece pensare questo.
Ma un urgenza ben più grande prese piede, nel giro di pochi istanti: doveva fermare l’emorragia. Con un lembo dello straccio con il quale si stava coprendo cercò di fasciarsi la ferita nel miglior modo possibile.
Ma quella non smise di sanguinare.
Continuò, e continuò, fino a divenire insopportabile. Fu costretta ad alzarsi e andare in cerca di una fonte dove lavarsi. Corse scompostamente lungo i vicoli secondari della città, sperando che nessuno la notasse. Che nessuno inorridisse di fronte a lei e al suo volto sporco e macchiato. Riuscì a localizzare un abbeveratoio posto affianco ad una casa. Senza attendere oltre ci immerse la faccia.
Nuvole rossastre si diramarono nell’acqua, scurendola. Si risollevò all’istante, ansimando. E nel suo riflesso distorto, le vide.
Quattro cicatrici nere come pece si aprivano sulla sua fronte bagnata.
Ed ebbe paura.
Perché quella era la prova inconfutabile che lei era diversa; che era una creatura mostruosa, senza alcuna via di scampo.
Quei marchi sul suo corpo erano il motivo di tutto il dolore provato inutilmente, cercando di abbandonare il mondo; il motivo per il quale Gwen Grey non era mai riuscita a morire, fino a quel momento…

Quei segni erano ancora lì, non se ne volevano andare. Eppure erano passati giorni dalla loro comparsa, ore e minuti preziosi nei quali la giovane donna, in preda a un terrore disumano, si era nascosta dal mondo per evitare che fossero visti da qualcuno. Ed ora, obbligata a chiedersi con timore quanto la sua sofferenza sarebbe durata, si vide finire una goccia d’acqua dritta dritta sul piede.
In pochi secondi, il rumoroso scroscio della pioggia riempì l’aria. Fortunatamente Gwen era rintanata sotto una tettoia, per cui non doveva preoccuparsi granché. Ma altre sorprese l’attendevano: segni del destino incomprensibili, glifi dall’arcaica forma che avrebbero spezzato a metà il suo futuro per concepire vie mai percorse e sempre più ardue da superare. E chissà cos’avrebbe trovato alla fine…

Col cuore in gola per l’ansia, a stento si rese conto di un ticchettante rumore di passi protendere nella sua direzione. E solo quando i suoi occhi tornarono realmente a vedere ciò che era dinnanzi a loro, un paio di strambe scarpette a punta si fermarono proprio lì, di fronte ai suoi piedi congelati per il freddo.
Non sollevò lo sguardo. Lo tenne basso, per non dover mostrare le proprie immonde cicatrici. Così fu quella figura a chinarsi su di lei. Ed ecco ciò che apparve: un viso mostruoso; un sorriso inquietante; occhi dorati quanto ciò che più di tutto il resto conduce alla dannazione l’animo umano: la smania di potere, la bramosia nel volere non solo il mondo ma anche la forza divina per poterlo controllare.

Quella fu la prima volta che Gwen vide il Conte del Millennio.


Non se lo sarebbe mai scordato…



• ♦ •




Era buio. E freddo. E… Orribile.
Avvolto nell’oscurità più tetra e sinistra, Allen Walker sognava. Cosa, poi, non lo sapeva. Davanti a lui non facevano altro che estendersi chilometri su chilometri di pura oscurità, quella più fitta e penetrante. Braccia nere e dense avvolgevano lo spazio attorno ghermendolo silenziosamente e coprendo persino il più sottile spiraglio luminoso. Non riusciva nemmeno a vedere se stesso, come se stesse tenendo gli occhi chiusi. Però… Poteva percepire la presenza del proprio corpo. Era una sensazione molto strana, ma dopotutto si trattava di un sogno.

E come tale, avrebbe avuto una fine.

Nell’attesa che quell’ambigua visione giungesse al suo capolinea con alba ormai incombente, ecco che la flebile parvenza d’un rumore distorse il buio. Onde concentriche, brillanti di luce, si espansero sotto i suoi piedi, ora finalmente visibili; come se quell’improvviso bagliore gli avesse fatto spalancare gli occhi. Lievi increspature si allargarono sulla superficie nera e fluida come acqua sulla quale stava in piedi, accompagnate dal candido tintinnare di campanelli lontani nel tempo e nello spazio, il cui suono gli giungeva flebile, inseguendo il moto armonico dei flutti fino a dissiparsi nell’oscurità.

Per istinto, o forse per curiosità, il giovane Esorcista provò ad avanzare sul quel mare nero, frutto dei suoi sogni più tenebrosi. E ciò generò una nuova serie di onde concentriche brillanti sotto i suoi piedi, che furono questa volta accompagnate dal vibrare di una nuova nota, più acuta della precedente.
Allen scoprì, con una certa fanciullesca allegria, che ogni passo fatto su quel pavimento acquatico generava delle note, dolci e metalliche come quelle di un carillon ma profonde e delicate come quelle di un pianoforte. E si divertiva a compiere brevi saltelli per vedere fin dove la scala tonale di quello strano invisibile strumento si sarebbe spinta, per sbalordirlo sempre più.

Che cosa assurda, i sogni. Persino nella sua più improbabile avventura, mai il giovane albino aveva assistito a qualcosa di simile. Poteva andare dove voleva, annientando con un semplice pensiero ogni legge fisica; camminare sull’aria, senza avvertirne il peso; trovare nel buio una fonte di pace e serenità, all’interno della quale ogni cosa, che fossero Noah o Akuma o guerre, si annullava. E lui non era più il Distruttore del Tempo Allen Walker, ma una particella di niente, un minuscolo granello di sabbia che fluttuava in una nebbia indistinta, tutta uguale, spessa e lattiginosa.
Ma si trattava di un’effimera condizione, quella, che lo spaventava: lo annullava di fronte ad ogni cosa, rendendolo spettatore passivo della vita; riduceva a niente l’esistenza umana, la sua esistenza. Ma tale pensiero non era mosso da superbia, o da una qualunque necessità di diventare qualcuno che contasse, bensì da un bisogno quasi impellente di sentirsi presente, in ogni attimo, su quella terra. Perché aveva fatto una promessa a Mana, all’umanità e agli Akuma: andare avanti, vivere per loro in ogni istante.
E l’avrebbe mantenuta.

Ma ecco che, proprio sul finire del delicato componimento, Allen inciampò in una nota sbagliata. Una nota grave, profonda, che ruppe con violenta drammaticità l’atmosfera di benessere creatasi in quell’oscurità di bagliori. Essa si dilungò arrogante e sfacciata fino a scomparire del tutto, diffondendosi come il suono di un gong in ogni dove. Il giovane Esorcista si fermò. Il suo cuore iniziò a battere, battere, battere… Sempre più forte…

Ansia.

Ecco quello che iniziò a provare qualche secondo dopo, mentre attorno a sé osservava il buio avvolgere nuovamente il suo mondo dei sogni. Non c’era più la musica ad illuminarlo. Tutto si spense; la sottile fiamma della candela che illuminava quell’universo oscuro tacque.
Era tornato il silenzio.
Quel vuoto orripilante sorto dalle profondità del tetro spazio che lo circondava voleva nuovamente la sua paura e la sua dignità, per farne brandelli da divorare.
Provò a muoversi. Ma i suoi piedi erano incollati al suolo acquatico, fermi, paralizzati. Non potevano più muoversi.
Il suo cuore agitato non voleva saperne di calmarsi. Perché improvvisamente provava… Paura?

- Sigh…

Un singhiozzo.
Flebile quanto il battito d’ali di una farfalla, fluttuò nel buio fino a giungere all’orecchio del giovane albino, il quale acuì la vista quanto gli fu possibile per ricercare nel nulla la fonte di quel rumore.
Ma non la trovò. E come d’altronde avrebbe potuto, se non riusciva nemmeno a vedere se stesso?

- Sigh…

Di nuovo.
Un lamento sofferto, carico di tristezza e rimpianto.
S’insinuò nel suo animo, recandovi cordoglio. Soltanto una volta, Allen ricordava d’aver pianto così intensamente: quando era morto Mana.

Quella volta non aveva urlato.
Non aveva gridato il suo nome al cielo, né aveva chiesto perché.
Nessuno avrebbe potuto sentirlo, e nessuno lo avrebbe consolato.
L’unica cosa che aveva fatto, era stata appoggiarsi alla sua tomba e, abbracciato dall’intimo silenzio del cimitero, piangere sommessamente. Con discrezione. Perché quel dolore che si portava dentro non potesse essere sentito o compatito. Perché lui, suo padre, non lo vedesse e ne soffrisse.
Allen era sempre stato un ragazzo forte, eppure fragile. Poteva andare in pezzi, distruggersi completamente; ma nulla gli avrebbe mai tolto il coraggio e la determinazione per aggiustare i frammenti del suo animo torturato, ogni volta che fosse successo.


I suoi piedi erano ancora bloccati, non poteva vederli ma riusciva comunque a sentirli paralizzati, piantati con forza a terra; irremovibili, blocchi di cemento che gli impedivano di fuggire da quell'incubo di ombre striscianti.

- Sigh...

Qualcuno stava piangendo in lontananza. Questa volta Allen voltò istintivamente la testa verso il basso, intuendo che i ripetuti e sofferti singhiozzi che avevano iniziato a sporcare quel tenebroso silenzio, provenivano da quel pavimento d'acqua dal quale non riusciva a smuoversi.
C'era forse qualcuno vicino a lui... ?

- Tutto bene? - domandò, premuroso e dimentico di trovarsi in un sogno. Inutile dirlo, non era mai stato una persona menefreghista, né da sveglio né da addormentato.

Tuttavia, nessuno diede segno di voler ricambiare la sua cortesia. I lamenti cessarono in quell'istante, come se non ci fossero mai stati.

- Sarà... Andata via? - pensò l'Esorcista, rammaricandosi di non aver potuto scoprire nulla. Ma proprio in quel momento, dal piatto silenzio che pareva ghermire ogni anfratto di quel luogo pregno di oscurità e mistero, emerse qualcosa: rimasugli di sentimenti, vecchie memorie andate perdute, strappate con ignobile crudeltà e lasciate affogare nel mare del cuore, nero più del buio stesso e penetrante più del gelo invernale; pezzi di carta stracciati emersero dall'acqua silenziosamente, brillando di un bianco pallido ed evanescente, come se da soli non avessero nemmeno la volontà di rischiarare quel mondo oscuro.
Allen li vide galleggiare placidi, in attesa di essere tratti in salvo dalle ombre liquide di denso petrolio. Con in volto un'espressione assai perplessa, si chinò e raccolse quello che pareva rilucere più degli altri: era completamente bianco, pulito e asciutto. Ne studiò sia il fronte che il retro, perfettamente identici nel loro brillare tenuemente come stelle morenti.
Ma ecco che su di un lato cominciò a delinearsi con lentezza e fatica un segno, un carattere.


2

L'elegante calligrafia con cui era stato scritto attraverso dita invisibili, tradiva un dettaglio a dir poco agghiacciante: non era inchiostro quello che era stato utilizzato per imprimere il numero sulla carta. Era sangue. Sangue rosso e brillante, che Allen non potè non confondere con la cera utilizzata per chiudere le buste delle lettere. Eppure, quando s'accorse che non era ciò che credeva, poco ci mancò che lasciasse cadere il foglietto, allibito.
Riuscì solo a fissarlo, a fissarlo quasi come ipnotizzato, cercando di capire con tutte le sue forze cosa mai potesse significare. Ma ecco che nuovi simboli marchiarono di carminio la candida carta. Come se una penna invisibile li stesse scrivendo per lui, si rivelavano poco per volta ai suoi occhi d'argento curiosi e spaventati con tratto eloquente, pregiato. E solo quando la frase fu completata, l'Albino strabuzzò finalmente gli occhi, sorpreso oltremodo per quanto gli si presentava dinnanzi.


24 Febbraio, 18xx

Una data.
Una data marchiata col sangue su un foglio bianco.
Che cosa poteva significare?


Qui tutti mi trattano male.

Una voce chiara, atona... Un eco lontano sparso nell'aria, confuso. Allen si voltò all'indietro. Ma non vedeva niente, e i pezzi di carta luminosi erano scomparsi. Però... C'era qualcuno, assieme a lui. Qualcuno che parlava, girandogli attorno; refolo d'invisibile vento, che trasportava il suono scompostamente per riempirci il vuoto d'ombra della sua dimensione onirica.


La padrona dell'orfanotrofio ci picchia, e non ci da mai da mangiare.

Di nuovo. Chiunque fosse, era chiaramente una bambina. Eppure nessuna emozione dimorava nelle sue parole. Nessuna sfumatura di colore in quelle sillabe ingrigite dal pianto. Solo... Solitudine. E amarezza. E desolazione. Si algamavano all'oscurità in una perfetta e macabra simbiosi. Come se fossero la matrice di quel luogo tetro e vuoto. Come se quel mondo dentro al quale l'albino pareva essere precipitato non fosse che un'estensione di quell'inconsolabile suono fluttuante.


Sarebbe stato meglio rimanere a marcire ai bordi della strada.

- Chi sei?! - Allen aprì finalmente bocca, teso e impaziente. Il cuore gli batteva talmente forte da risuonare in ogni angolo del suo corpo; stava per cedere. Non ce la faceva più, voleva svegliarsi. Voleva aprire gli occhi, fuggire da quel postaccio per non doverci più tornare. Aveva paura. Sentiva l'agitazione crescergli nell'animo, divorargli lo stomaco, appannargli la vista e azzerargli l'udito.
"Svegliati, svegliati, SVEGLIATI!!" gridava nella sua mente, rannicchiandosi a terra con la testa stretta tra le mani; una bomba, che sarebbe esplosa se quella voce sfuggevole non fosse cessata al più presto.


Però...

Allen spalancò gli occhi, gonfi di lacrime.

... Oggi ho conosciuto un'altra bambina.
Si chiama
Cari.

E poi, sull'acqua riaffiorò un'immagine riflessa e luminosa, i contorni sfocati, quasi inesistenti. Due bambine erano intente a lavare un pavimento con degli stracci lerci. Sorridevano. E intanto, si raccontavano a vicenda le proprie storie, così simili eppure così distinte tra loro da parire come fili che il Destino aveva intrecciato appositamente.
La prima, la più grande per aspetto, aveva lisci capelli castani, tenuti a bada da un fiocco maldestro sulla nuca, occhi azzurri, brillanti più del cielo; un sorriso che sapeva di simpatia. L'altra, quella più piccola e magra, portava lunghi fili di seta lilla sulla testa, e oro lucente a colorarle le iridi. Nell'istante in cui la vide, così ritratta in se stessa, così debole, così malinconica... Ebbe un dejavù. Lui... Aveva già incontrato quella fanciulla molto, molto tempo prima...

Ricordava una pagnotta rotolare sotto la pioggia; ricordava un corpicino freddo e pallido rannicchiato sotto una coperta, inerme di fronte alla crudeltà del mondo. Ma soprattutto... Ricordava il suo sguardo. Quello che per un breve istante l'aveva atterrito, l'aveva spogliato di tutto il suo coraggio e lanciato contro un muro di gelido rancore, sopito o forse dimenticato a causa del dolore di ogni singolo giorno.

Mi ha chiesto se possiamo essere amiche.

Ha detto che così potremmo dividerci da mangiare e aiutarci a vicenda...


L'immagine cominciò a svanire, divorata dall'avanzare delle ombre galleggianti sull'acqua nera. Allen allungò una mano verso di essa e tentò di trattenerla dallo scomparire. Ora, improvvisamente, voleva capire. Voleva comprendere il senso di quelle visioni e quanto centrassero con una ragazzina incontrata per caso anni prima. E poi... Voleva scoprire la ragione per cui aveva la strana sensazione di conoscerla.

- No! Aspetta!!

Sforzo vano.
Il riflesso delle due bimbe diveniva sempre più piccolo, sempre più spento...


... Non voglio perderla...

... Finché non scomparve, inghiottito dai flutti d'ombra.
Allen gridò. Ma la sua bocca non emise un fiato.
Cominciò ad immergere le braccia, nel tentativo di riacciuffare quella luce. Ma anche lui cominciò a venire risucchiato. Si dibatté con tutte le sue forze, facendo appello ad ogni minuscolo grammo di forza in suo possesso per resistere. Ma prima che se ne potesse accorgere, stava già precipitando sul fondo del mare. Bolle d'aria scure fluttuavano sopra di lui, silenziose. I suoi occhi d'argento si stavano chiudendo.

- Non... Voglio... Per... Derla... - mugugnò, mentre il suo corpo veniva trascinato da macigni invisibili verso la morte. E quando non fu più in grado di vedere né sentire nulla, un'altra voce gli rimbombò nel cervello.

- Svegliati...

Chi lo chiamava?

- Svegliati...

- L... Lina...


- SVEGLIATI, ALLEN!

- Waaaaaah!!!

Allen si tirò sul letto gridando in preda al panico, la faccia pallida e sudata. Timcampi, che ronfava comodamente sul suo petto, volò via come un proiettile, rizzando la coda spaventato per la sorpresa. Finì così tra le braccia di una Linalee parecchio seria in volto, che fissava il compagno come se quello appena compiuto non fosse stato altro che uno dei tanti tentativi di svegliarlo.

- Non vuoi perdere chi? - domandò parecchio contrariata, per motivi di cui l'albino, confuso e spaurito, non era a conoscenza e non poteva nemmeno immaginare.

Infatti non badò minimamente alla domanda della cinesina, intrappolato in un turbinio di sentimenti e pensieri confusi, senza senso secondo lui. Ansimava, cercando nuovo ossigeno per i suoi polmoni. Qualcosa gli diceva che se non fosse arrivata Linalee a svegliarlo, sarebbe annegato nel suo stesso sogno. Il pensiero lo fece trasalire, tanto da portarsi le mani alla testa, pesante, per arruffarsi nervoso i capelli.

- Allen? - la giovane Esorcista si chinò su di lui, cedendo parte della collera accumulata nel tentativo di svegliarlo in cambio di seria preoccupazione. Dopotutto, erano appena tornati da quella bizzarra missione nella foresta, e tutti in condizioni più o meno gravi, a seconda che si parlasse del fisico o della mente. Ma non c'era tempo per riposarsi, o per aspettare che le ferite cicatrizzazzero; non ancora. E proprio per questo Linalee era accorsa a svegliare il compagno, seppur questo fosse in condizioni da non sottovalutare: questioni di elevata importanza reclamavano al più presto una spiegazione, e il racconto di chi aveva assistito a quel piccolo dramma sarebbe stato fondamentale per ottenerla.
Timcampi zampettò veloce fino al viso del padrone, le alucce abbassate fino a trascinarsi sul materasso. Stette qualche attimo a fissarlo, e poi all'improvviso spalancò la bocca irta di denti appuntiti per dargli un sonoro morso sul naso.

Allen saltò via dal letto gridando per il dolore, gli occhi lucidi di lacrime e qualche vena pulsante a manifestare la sua rabbia. Il piccolo golem dorato si staccò bruscamente sfarfallando in giro per tutta la camera, per paura di essere acchiappato dal collerico padrone al quale, per assurdo, iniziarono a lacrimare gli occhi. E Linalee non poté che guardarlo stranita: lui, che mai si lasciava andare neanche durante i più feroci scontri con Akuma, piangeva per un morso al naso.

- Allen - lo chiamò ancora, con voce comprensiva ma al tempo stesso desiderosa di essere autoritaria. Non era il momento di perdersi in gag di quel tipo.

Il giovane albino sollevò la testa, con la punta del naso tutta arrossata.
- Oh, scusa Linalee! - esclamò con tono dispiaciuto - Non ho badato minimamente a te, ti chiedo di perdonarmi!

- Fa niente. Piuttosto, cosa stavi sognando? - chiese la cinesina acchiappando al volo Tim per accoglierlo tra le sue manine delicate.

Allen ci pensò su qualche attimo.

- Non me lo ricordo con precisione, ma penso fosse un incubo - mentì, senza alcuno scrupolo. Non voleva preoccuparla inutilmente - Comunque... C'è qualche problema?

Linalee annuì subito dopo con decisione, tornando a focalizzarsi sul suo obbiettivo primario.

- Sì, devi venire subito da mio fratello, è urgente! - asserì puntigliosa, avviandosi verso la porta con passo svelto - Deve parlarti riguardo alla nostra missione...

Allen capì all'istante. Non ci fu bisogno di alcuna parola in merito perché lui ricollegasse l'urgenza della compagna alla donna che avevano incontrato, durante il recupero dell'ultimo cubetto di Innocence. Con fare calmo si sollevò dal letto, risistemando le coperte con cura: un gesto fin troppo freddo, calcolato, che tradiva una tensione snervante. Komui avrebbe voluto spiegazioni, poco ma sicuro. E lui avrebbe dovuto dargliele, ben sapendo che avrebbero potuto apparire al Supervisore della sezione scientifica solo come farfugliamenti dettati da sensazioni inutili; decisioni prese sulla base di sentimenti confusi, insensati, della cui natura non era certo nemmeno l'Esorcista albino. Perché l'aveva salvata?

Nemmeno lui, questa volta, riusciva a trovare una risposta. E se avesse potuto evitare di discuterne, ne sarebbe stato più che felice. Oh, come avrebbe voluto cancellare quel momento, far sì che non avvenisse per nulla. Invece i suoi piedi battevano veloci sul pavimento di pietra dell'Ordine Oscuro, a ritmo con i tacchetti leggeri di Linalee, diretti proprio dal fratello di quest'ultima. La detentrice dei Dark Boots embrava agitata, e come darle torto? Avevano raccattato una Noah da una foresta, senza sapere chi fosse o se avesse intenzioni pericolose nei loro confronti. Per quanto ne poteva sapere Allen, che ci aveva combattuto e aveva visto di cosa era capace, quella giovane non era altro che una ragazzina spaventata, vittima di una volontà più grande di lei. Forse era stato questo il motivo per cui aveva deciso di aiutarl: la curiosità, nei confronti di quel comportamento umile e pietoso, a cui mai nessun'altro Noah incontrato era stato soggetto. Nemmeno Tyki Mikk, col suo scivolare da una vita all'altra dando l'impressione di possedere sentimenti davvero umani, poteva sembrare davvero sincero. E dire che se non lo avesse saputo, che il barbone contro cui aveva vinto a poker era un alleato del Conte, avrebbe continuato a pensar bene di lui.

E poi, il sogno, da cui si era appena svegliato. Che centrasse qualcosa con quella donna? Forse avrebbe dovuto parlarne, sperando che fosse un valido argomento...


La porta dell'ufficio del Supervisore s'aprì lentamente. Tra la marea indicibile di foglie e cartacce impunemente sparsi sul pavimento, ormai inesistente, Komui stava in piedi accanto alla scrivania, il palmo sinistro poggiato su di essa a stringere i documenti inerenti l'ultima missione affrontata dai due Esorcisti. Si voltò nell'istante in cui questi entrarono, palesando sul proprio volto un'aria preoccupata e stanca: gli occhi contornati da nere occhiaie, la mascella serrata, i muscoli rigidi. Mentre Allen aveva beatamente ronfato nella sua stanza, quasi dimentico di tutto, lui non aveva osato concedersi un simile lusso, continuando a riflettere per tutta la notte, agitato e impaziente. Non era da lui mostrare paura. Questa volta la faccenda si faceva seria.

- Grazie per averlo portato, Linalee - li accolse con un lieve sorriso; una maschera, un gesto di circostanza che sparì all'istante.

Allen non si sedette nemmeno. Ritto davanti a lui, come un soldato nei confronti di un generale, attese istruzioni. Ma nel suo cuore sapeva già quale sarebbe stata la domanda.

- Allen - il Supervisore pronunciò il suo nome sospirando, come se l'atto del parlare gli pesasse, per l'enorme quantità di tensione che si portava appresso - Perché l'hai portata qui?

L'Esorcista non rispose. Stava ancora cercando di sistemare insieme le parole da dire.

- E' una Noah, ti rendi conto? - continuò il cinese - Sulle prime ho deciso di aiutarvi, quindi ho fatto in modo che se ne occupasse solo la Capo Infermiera, in una stanza isolata. Ma... Ora, Allen, voglio delle risposte. Sappi che non ti immolerò per questo, né ti accuserò di tradimento o altro. E' proprio perché penso che ci sia una valida ragione dietro a tutto questo, che ho aspettato di parlarti per sapere la tua versione.

- Mio fratello non ha ancora detto nulla all'Ufficio Centrale, né al personale della Home. Nessuno a parte noi e la Capo Infermiera sa di questo fatto - spiegò Linalee, decisamente più pacata e dolce. Lei avrebbe sempre riposto fiducia nei suoi compagni, a prescindere.

Allen li guardò negli occhi, tutti e due. Senza timore di dire la propria, trovò forse la maniera per spiegare sia a loro che a se stesso il motivo di quella cruciale scelta.

- In verità, nemmeno io sulle prime ho saputo spiegarmi una simile scelta. Il perché abbiamo salvato quella donna mi rimane ancora nascosto, ma... C'è stato un momento, mentre combattevamo, prima che tutto fosse avvolto dalle fiamme... Ecco... - trovava incredibilmente difficile parlare. Se dal un lato pensava che quel dettaglio rivoltasse in meglio la situazione, dall'altro lo trovava insignificante, se non addirittura stupido.

- Non preoccuparti, Allen - Linalee gli si avvicinò, con un piccolo sorriso - Se mio fratello non ha ancora avvertito nessuno, e ha deciso di insabbiare la faccenda, è perché si fida di te. Sa che non ci tradiresti, che non compiresti mai scelte che possano metterci in pericolo. Qualsiasi cosa sarà in grado di fare per aiutarti, la farà. Giusto?

Komui, sentendosi preso in causa, esitò per qualche attimo, ma alla fine esibì un sorriso speranzoso che non poté far altro che infondere ulteriore coraggio nell'albino, il quale annuendo si apprestò a terminare con rinnovata sicurezza la frase incespicata fino a quel momento.

- La verità è che prima che la bomba di Albin esplodesse, quella donna si è bloccata e... Mi ha chiesto scusa.

Linalee e Komui strabuzzarono appena gli occhi, sorpresi da quella rivelazione.

- Mi ha chiesto scusa per avermi fatto del male. Poi, qualche minuto dopo, benché stesse per morire e fosse sopraffatta dal dolore... Ha continuato a scusarsi, all'infinito. Io.. Ho capito che nulla di quello che ci ha fatto era intenzionale. Che non era lei ad agire.

- Come fai a dirlo? - chiese la cinesina titubante, scossa da quelle parole di verità profonda.

A quell'intervento ad Allen scappò una piccola risatina imbarazzata. Fornire risposte non era mai stato tanto difficile come in quel momento.

- Ecco... Sapete, io penso di averla già incontrata, molto tempo fa, durante il mio apprendistato; ma allora ciò che vidi era solo una ragazzina impaurita, accucciata all'angolo di una strada al riparo dalla pioggia. Allora mi sembrò così fragile, così... Ecco, mi sembrò che si sentisse in colpa per qualcosa. Altrimenti perché avrebbe lanciato la pagnotta in mezzo alla strada?

- La pagnotta? - i due fratelli mostrarono con la stessa perplessa espressione due punti interrogativi al posto degli occhi.

- Ah, però poi quando gliel'ho ridata l'ha accettata senza problemi... - continuò l'albino, perso in uno sproloquio senza senso alcuno, la mano sinistra guantata appoggiata al mento in un atteggiamento da pensatore.

- Allen, cosa stai dicenodo? - Komui lo interruppe, confuso oltre ogni dire. Ora tutta la sua faccia era a forma di interrogativo.

- Ah, scusatemi! - si ricompose l'Esorcista ridacchiando, assalito dalla vergogna. Continuò poi, tornando serio e calmo - Ho fatto anche un sogno strano questa notte. Ho sentito una voce, e ho visto l'immagine di due bambine. Una non l'ho riconosciuta, ma l'altra... Penso si trattasse di quella donna. In realtà, non ci ho capito molto...

Linalee si rabbuiò, abbassando lo sguardo. Aveva capito che Allen le aveva mentito. E dire che si era pure preoccupata! L'albino se ne rese conto, suo malgrado, ma dovette terminare il suo discorso.

- Sono convinto che se ci parlassi, potrei ottenere delle informazioni importanti, sia su di lei che sui piani del Conte. Per quanto ne so, non sembrava intenzionata ad ucciderci, quindi penso che non sia pericolosa.

Komui andò a sedersi sulla propria scrivania, sommersa di documenti stampati sia su fronte che retro. Congiunse le dita a piramide, segno che stava attentamente riflettendo mettendo in relazione le informazioni già in suo possesso con quelle appena ottenute dal ragazzo. Qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto diffidare, che avrebbe dovuto retrocedere sulle proprie posizioni e negare ogni aiuto alla Noah, ma... Allen... Lui, in qualche modo, era riuscito a instillare il dubbio nel suoi pensieri. E se fosse stato tutto un errore? E se quella donna fosse sul serio indipendente dal volere del Conte? Certo sarebbe stata una risorsa fondamentale per loro; una preziosa fonte d'informazioni segrete sul loro nemico, che avrebbero potuto sfruttare per coglierlo di sorpresa, schernirlo, sconfiggerlo...

- Nemmeno io... - iniziò, il tono incredibilmente grave - ... Ne capisco molto, Allen. Ma se quello che dici è vero allora quella in nostro possesso è un'arma perfetta per la lotta contro il Costruttore. Se sarà in grado di fornirci informazioni adeguate sul suo conto, e soprattutto se si dimostrerà assolutamente innocua nei nostri confronti... Credo che riuscirò a parlarne all'Ufficio Centrale. Ma fino ad allora, finché non siamo del tutto sicuri, vi chiedo di tenerla d'occhio. Siete gli unici Esorcisti a conoscenza di questa informazione, affido a voi il compito di uccidere quella Noah nel momento in cui dovesse perdere il controllo. Me lo promettete?

A quelle parole, così ferme e spietate, pronunciate da una persona della cui dolcezza mai avevano dubitato, Allen e Linalee abbassarono il capo. Quello che stava chiedendo loro era una cosa senz'altro orribile, ma tuttavia perfettamente sensata.
Linalee fu la prima a capire quanto quell'ordine fosse indispensabile, per evitare fin da subito fraintendimenti o coinvolgimenti dal punto di vista emozionale verso quella che sarebbe potuta essere il loro miglior asso nella manica, o la causa della loro distruzione. Come per il Quattordicesimo sopito dentro Allen loro, in quanto compagni di vita e morte, avevano l'obbligo di rispettare la promessa fattagli, proprio in virtù di quel legame così forte che in pochi anni era divenuto più forte del diamante. E per quanto spregevoli, quelle parole erano la verità che aggirava i tormenti del cuore, che non guardava in faccia cose banali come i sentimenti, in una guerra dove questi avrebbero potuto essere la causa principale del male. Linalee lo capì subito, e dopo aver fissato il fratello negli occhi con ferrea determinazione, annuì senza rimpianto.

Allen la seguì qualche istante dopo, ma ciò non significò niente. Il suo coinvolgimento emotivo era già iniziato, e una promessa simile difficilmente lo avrebbe spezzato. Semplicemente, l'Esorcista albino non era affatto convinto di volerla uccidere. Piuttosto, la curiosità lo divorava, insaziabile. E prima che obbedire ad un ordine al quale non riusciva a trovare una spiegazione sufficiente che lo convincesse, avrebbe studiato a fondo Gwen per capire che tipo di persona fosse. Solo allora, avrebbe deciso se seguire il suo cuore, decisamente troppo tenero, o la logica; la spietata logica della guerra, impostata per menti fredde e calcolatrici e non certo per stupidi sentimentali come lui. Ma anche se questo avesse significato agire contro se stesso, non avrebbe esitato nell'eliminare la minaccia, nel caso in cui questa si fosse manifestata. Probabilmente ne avrebbe sofferto, ma quelle che avrebbe pianto non sarebbero state né le prime né le ultime lacrime...

- Signor Komui, se per voi non è un problema allora io andrei a farle visita - asserì così l'Esorcista, gli occhi chiusi e il capo chino, unici tramiti del dolore che si portava dentro.

Il Supervisore annuì serioso. Ma prima che il giovane inglese abbandonasse l'ufficio, aggiunse qualcosa:

- Mi raccomando: non fatela agitare troppo. Ci sono state delle complicazioni durante il suo trattamento, quindi potrebbe non essere in condizioni di parlare.

Allen si voltò all'istante, il viso chiaramente preoccupato; Komui lo notò e non ne fu affatto soddisfatto. Ma dopotutto, cosa poteva aspettarsi? Ormai, doveva conoscerlo bene. Il giovane si avvicinò rapidamente alla scrivania, impetuoso, senza curarsi per nulla dell'atteggiamento, divenuto improvvisamente troppo agitato per potersi dire una sua prerogativa. Strano a dirsi, era in pensiero per quella donna. E dire che aveva appena promesso di non lasciarsi coinvolgere...

- Cosa le è successo?!




Angolo di Momoko

Ma salve! xD
Pian piano recupero tutte le mie long, cominciando da Into the Madness. Vi avverto, questo capitolo non mi soddisfa molto: ci sono fin troppi dialoghi, anche se necessari in quanto saranno il terreno su cui poi si svilupperà il grosso della storia. Che dire? Il Conte rulla u.u
Solo ora mi rendo conto che questa storia sarà d'una pesantezza incredibile. Ho deciso che nel prossimo capitolo comincieremo a sapere le prime cose sul passato di Gwen e Cari (giusto accennato in questo capitolo), quindi spero che vi piacerà :)
Come sempre, ringrazio alla Follia - ehhhhhhh! - tutti quelli che leggono, recensiscono, mettono la storia tra preferite, seguite e ricordate. Vi voglio bene ç_ç Devo ricambiare in qualche modo...
Prima di dileguarmi, vi avverto che ho quasi finito di sistemare il mio blog di Tumblr xDD Non chiedetemi perché, ma ho voglia di provarlo, dopo anni di sfruttamento per il rapimento di immagini d'ogni sorta xD Quindi, se qualcuno ha voglia di mettersi in contatto con me anche lì, anche solo per chiacchierare del più e del meno, sappiate che ci sarò^^
Ok, ora me ne vado davvero xD Scusate tanto il madornale ritardo, spero che queste vacanze mi permettano di aggiornare con più regolarità ;A;
A prestoooooo,

Momoko <3

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** La sensazione di aver perso qualcosa ***


Into the Madness


Capitolo 6
La sensazione di aver perso qualcosa



L'odore di disinfettante persisteva ancora nella stanza, soffocante quanto bastava per far storcere il naso a chiunque vi fosse entrato.
La porta e le finestre erano chiuse, queste ultime non del tutto, lasciando a malapena penetrare qualche fascio di luce dorata all'interno, in modo da salvare le quattro mura intonacate di bianco dall'oscurità. E ricadendo sul centro della stanza, come sete pregiate che accarezzassero la pelle, riscaldavano appena la figura che ancora dormiva nel letto a pochi centimetri di distanza, riparata sotto una candida coperta che sapeva di pulito.
I lunghi capelli, tornati alla loro consueta colorazione platinata, creavano arabeschi e geometrie tondeggianti sul cuscino, in perfetto disordine. Buona parte di essi era tenuta a bada da strati e strati di bende sulle quali trasparivano macchie carminee, a testimoniare le numerose ferite riportate nello scontro che l'aveva vista protagonista qualche ora prima.
Il suo respiro inquieto, che a stento si poteva percepire, a meno di non ridursi al più completo silenzio, era frammentato, eppure stabile.
Aveva finalmente trovato il proprio ritmo: lento e misurato; sussurri di fata impercettibili, profusi con estremo timore, sordi persino all'orecchio più vigile.

Ma nonostante questo, Gwen era ancora viva.
Ricoperta di bende e cerotti insanguinati, a proteggere le innumerevoli ferite e ustioni sul suo corpo esile e fragile come cristallo, dormiva profondamente tra le lenzuola dell'infermeria dell'Ordine Oscuro. Le uniche cose ancora visibili di lei erano gli occhi, chiusi, delicati come petali di rosa e divorati dalla mancanza di sonno. Attorno la pelle appariva arrossata, piena di cicatrici dolorose e vesciche. Impossibile sarebbe stato per lei accennare anche solo un movimento, senza il rischio di sentire la propria pelle spezzarsi come la corteccia di un albero, dilaniata dal fuoco e dal feroce combattimento sostenuto.
In quel momento le parole del Conte, così ben ponderate nella loro crudeltà, constatavano quanto facilmente potesse andare in frantumi un cuoricino come il suo; un cuore di pulcino, bagnato e infreddolito dalla pioggia, che attendeva mani calde e sicure nelle quali accoccolarsi per essere tratto in salvo.
Ma nessuno sarebbe arrivato, e Gwen lo sapeva bene. Ben quindici anni erano passati da quel giorno e non aveva ricevuto altro se non il tocco gelido della morte a stuzzicarla, provocare la sua paura e il suo sconforto: una prigione di sentimenti eterni che le aveva glaciato l'animo, prigioniero di un destino scritto col sangue.
Per troppo tempo era stata in balia della tempesta dentro di lei, potente e distruttiva, ed ora ciò che rimaneva del suo spirito martoriato riposava silenziosamente sul fondo del mare, in attesa di essere inghiottito dal lento scorrere del tempo...

Un movimento della pupilla scosse appena le palpebre sigillate. La coperta iniziò a frusciare lentamente, mentre accenni di movimento percorrevano meccanicamente, come ingranaggi difettosi, il corpo fasciato della donna.
Un luccicchio dorato brillò inaspettatamente, riflettendosi nella luce della finestra; aprendo così lentamente gli occhi, Gwen vide un mare di bianco circondarla, attenuato dalla penombra che si era creata nella stanza.
Non capiva dove si trovasse, cosa era successo, non capiva niente. Sentiva solo un sibilo tremenendo farsi largo tra i suoi pensieri, troncando qualunque ragionamento per invaderle tutto il corpo: dolore. Ne provava tantissimo, e dappertutto: in faccia, sulle gambe, al petto... Quasi non respirava.
Era una sensazione terribile. Però... Percepiva chiaramente anche un'altra cosa: calma.
C'era una calma quasi paradisiaca in quel luogo, che sebbene non riconoscesse, le trasmise quasi subito un senso di pace che non aveva mai provato in anni e anni di tormento e solitudine. Le sue pupille chiare si mossero lente e assonnate in ogni angolo della stanza, studiandone con imprecisa cura i dettagli: le tende erano delicate, quasi trasparenti, e ondeggiavano appena come spettri tra i sottili raggi del sole. E se ne accorse solo in quel momento. Faceva freddo. Sentiva una strana corrente, fresca e purificatrice, solleticarle la pelle rimasta libera dalle fasciature, donandole una sensazione di libertà sconosciuta, ignota.

Tentò di alzarsi.
Senza pensare a nulla, girò appena in busto verso sinistra, affinché potesse fare leva sulla spalla per sollevarsi. Subito la pelle lesa iniziò a tirare, strapparsi. Corrucciò appena il viso, nel tentativo di reprimere il dolore che altrimenti avrebbe vanificato i suoi sforzi, facendola ripiombare sul cuscino.
Le molle del materasso gracchiarono debolmente, mentre la coperta scivolava giù. Indossava un abitino azzurro, dalle maniche molto corte. Del suo precedente vestito non sapeva nulla, ma sicuramente non doveva essere ridotto molto bene. Poco male, era l'ultima cosa della quale le importava.
Finalmente riuscì a mettersi a sedere. I capelli chiari, in parte bruciacchiati o tagliati via, le ricaddero scomposti sul viso; una frangia le coprì la fronte, circondata di bendaggi spessi e pesanti. Non sapeva se sotto di esse ci fossero ancora quelle cicatrici. Temeva che se le avesse srotolate, le avrebbe sentite ancora. Non si azzardò nemmeno a sfiorarle, tanto era terrorizzata da questa agghiacciante prospettiva.

Un brivido le percorse d'improvviso la schiena, e la sua attenzione andò tutta verso la spalla sinistra. C'era qualcosa di strano. Era come se... le formicolasse. Punture fastidiose e sottili le percorrevano la pelle diminuendone la sensibilità; quasi le provocavano dolore. Era qualcosa che la infastidiva molto: quando da piccola sentiva irrigirsi una gamba per aver mantenuto la stessa posizione per troppo tempo, soleva pestare il piede a terra con energia nel tentativo di scacciare le formiche che la pizzicavano, voraci. E ad ogni colpo era come se queste la mordessero con maggiore forza, bisognose della sua carne e restie ad allontanarsi.
Ma Gwen non era più una bambina. Aveva capito che non c'erano insetti su di lei.

Non riuscì a muovere la testa: era un macigno, le doleva troppo;
così fu la mano destra a sollevarsi tremolante, piena di bende e cerotti. Le dita affusolate e gentili incespicarono fino ad arrivare alla scapola, ben visibile sul suo corpo magro e snello, forse fin troppo. La percorsero, come fosse stata una guida, un appoggio, arrivando al braccio.
Era strano, non riuscire a sentire il tocco dei polpastrelli attraversarlo. Le bende le avevano forse attutito il tatto?
Il braccio era fasciato, forse troppo strettamente; doveva essere quello il motivo per cui si era incantato all'improvviso. Gwen la pensava così.

Ma ad un tratto, tutto finì.
Le dita, che fino a quel momento avevano percorso con delicatezza la linea dell'avambraccio, trovarono sotto di loro un inspiegabile vuoto. L'aria e nulla più.

Gwen fece ondeggiare lentamente le dita incerottate attorno a quello spazio, temendo di non riuscire a percepire più il proprio arto. Ma lei lo sentiva. Sapeva che era lì.
I capelli si mossero appena: la testa iniziò a voltarsi piano, quasi impercettibilmente, verso sinistra. Da quella prospettiva non riusciva a vedere molto, i fili di platino che le erano ricaduti ai lati del viso limitavano la sua visuale non poco. Ma di certo non gliela oscurarono totalmente.
E quando ai suoi occhi dorati, pervasi da un caldo senso di pace, si palesò la verità di cui non si era accorta fino a quel momento, ogni muscolo s'irrigidì all'istante, come assalito da una gelida brezza. E quella mano che sotto di sé aveva trovato il niente, smise di cercare.
Perché quel braccio, che lei aveva tentato di percepire col tocco timoroso delle sue dita, non c'era più.



Allen Walker correva a perdifiato lungo il corridoio di pietra, incespicando appena nei propri passi come se si fosse appena svegliato; nonostante avesse riposato per ben due giorni, ancora faticava a ritrovare le forze. Il suo lavoro di Esorcista non era qualcosa che si poteva smaltire con una semplice dormita, lo sapeva bene: dolori e cicatrici restavano anche dopo tutti i trattamenti e le cure ricevute dalla capo infermiera, e non poteva far nulla per loro, se non ignorarli. Far finta che non ci fossero, affinché non tornassero nei momenti meno opportuni a complicargli persino la più ordinaria delle attività.
E al resto pensava il tempo. Quello che sembrava aver congelato la loro era in un'infinito ciclo senza fine; una ruota che non smetteva mai di girare, e mietere vittime lungo il suo corso. Quella che aveva frenato ogni priorità che l'inglesino potesse avere, per riempire i suoi pensieri confusi con altri di altrettanta caotica natura.
I tacchi degli stivali producevano un rumore il cui ritmo era in crescente aumento; il motivo di una simile fretta poteva tradursi con un unico nome: Gwen.

Quella donna stuzzicava in maniera a dir poco incredibile la sua curiosità, al punto da fargli mandare all'aria ogni proposito. Finché non avesse capito con chi aveva a che fare, e quale tipo di persona lo avesse persuaso così tanto, non le avrebbe levato gli occhi di dosso.
Doveva capire. Doveva capire per quale motivo la Follia non lo aveva ucciso; perché avrebbe potuto, ma non lo aveva fatto. Al posto di combatterlo, aveva tentato di instaurare un dialogo, di parlare.
Il pensiero di quella voce strozzata da dolore e quelle lacrime, che gli avevano chiesto scusa fino a svanire nella polvere, lo tormentavano quasi ossessivamente. Doveva liberarsi dei dubbi, delle domane che lo attanagliavano. E comprendere cosa fosse successo alla ragazzina triste e impaurita alla quale aveva restituito un tozzo di pane molti anni prima...

Entrò quasi di soprassalto nell'infermeria, spingendo con inaspettata forza la porta che lo catapultò in un miscuglio di odori contrastanti: disinfettante, bucato, sangue. Odiava quella micidiale combinazione, ma per qualche strano motivo era come se non potesse farne a meno: dopo averci preso forzatamente familiarità in tutto quel tempo, oramai era diventata per lui un sottofondo olfattivo al quale si approcciava indifferente.
Senza attendere nemmeno la capo infermiera, che doveva essere impegnata con altri pazienti, si diresse a grandi balzi in fondo a uno stretto corridoio intonacato di bianco, leggermente in penombra. Quella stanza non l'aveva mai visitata, a sentire Komui ci finivano solo i casi estremamente gravi, la cui necessità primaria era un riposo tranquillo e lontano dai turbamenti esterni. Ed ora... C'era lei.

Intravide la porta e la raggiunse in un soffio; ma quando le fu davanti... Si bloccò.
La mano ossuta e infestata dall'Innocence avanzò cauta verso la maniglia, afferrandola quasi come se fosse stata un tizzone ardente. Per quale motivo ora si mostrava così titubante?
I meccanismi della serratura lentamente scricchiolarono, mentre ruotava lievemente il polso verso sinistra. Un click, e l'anta di legno scuro si separò dallo stipite, lasciando che una gelida corrente d'aria proveniente dalla stanza gli solleticasse il viso. Poi, con estrema attenzione, scivolò all'interno.

Lo spazio era avvolto in una lieve ombra, che tuttavia non gli impedì di distinguere i contorni appena offuscati dei mobili che lo riempivano: un comò ampio alla sua destra, un tavolino centrale con una sedia di legno resistente e poi...

"Ma cosa... ?!"

Il letto, con la testiera appoggiata al muro, era vuoto.
Le coperte apparivano scomposte, tirate tutte in una direzione con forza. Che la Noah fosse fuggita? E come?!
Era a dir poco impossibile, pensò il ragazzo guardandosi attorno nella stanza, certo che dovesse esserci una spiegazione valida. Ma ecco che qualcosa di originariamente impercepibile balzò alle sue orecchie, come un soffio leggero: un singhiozzo, che proveniva da dietro il letto, da un punto che lui non riusciva a scorgere.

Con passi lenti, volti a non coprire nemmeno sensibilmente quel suono guida, Allen girò attorno al letto sporgendosi appena in avanti per curiosare. E fu lì che vide Gwen.
Era appollottolata a terra, la schiena appoggiata contro il comò che si trovava subito accanto al suo giaciglio candido. E con i capelli completamente sparsi sul viso e sulle spalle, piangeva sommessamente, raccolta in se stessa come un pulcino privato della propria madre.
L'Esorcista notò con muto sconcerto il moncone fasciato che ora si trovava al posto del suo braccio sinistro. E non riuscì a trattenere un'espressione che recava con sé un senso di colpa spregiudicato. Era anche per causa sua se ora si trovava in quella condizione, e non avrebbe potuto fare nulla per rimediare. Non questa volta.

Le sue prime intenzioni nei confronti della donna furono quelle di approcciarsi con qualche parola gentile, magari un semplice 'ciao', per evitare di confonderla o agitarla. Ma Gwen fu inaspettatamente più veloce.

- Ti... Ti ho fatto tanto male? - domandò flebile come una candela, nel tentativo di placare il pianto.

Allen rimase stupito da quella domanda. E non seppe come rispondere. In un primo momento, almeno.
Ostentando una goffaggine non prevista dal suo piccolo copione, si sedette accanto a lei incrociando le gambe sul pavimento di marmo liscio, dal riverbero adamantino.

- Non tanto - rispose con voce leggera, senza darci troppo peso. Non voleva addossarle colpe che probabilmente non le appartenevano. Suo sarebbe stato il compito di capire quali.

- Non era mia intenzione - continuò la Noah, ritrovando lentamente la calma nelle proprie parole, come se quell'azione la tenesse lontana dai pensieri che le affollavano la mente, donandole pace.

- Lo so - ammise Allen con un piccolo confortante sorriso. La sua attenzione andò poi alla spalla sinistra - Piuttosto... Il braccio vi da molto fastidio?

- Non m'importa - rispose senza pensarci la Follia, stringendo appena le fasciature. Ciò fece pensare tutto il contrario al giovane albino - Se... Se non fosse successo... Io sarei ancora... Ancora...

Non ebbe il coraggio di terminare la frase. Il suo corpicino ferito prese a tremare appena, scosso fin nel profondo da quell'inquietante pensiero. No, non avrebbe accettato nemmeno l'idea di rimanere preda di quel sentimento maledetto un secondo di più. Non di quella forza antica e vendicatrice che le avrebbe corrotto l'animo, portandola a dissolversi come una fiamma senza ossigeno tutto quello per cui un essere umano poteva definirsi tale.

- Non volev...

Si bloccò. Allen le aveva stretto con gentilezza la mano, per rassicurarla. Alzò appena la testa, incontrando per la prima volta i suoi occhi d'argento da quando era entrato nella stanza. E ricominciò a piangere.

- Grazie... Grazie... - mugugnò in preda ai singhiozzi, lasciando uscire quella parola che si portava dietro da ben quindici anni, mentre grossi goccioloni piovevano giù dagli occhi dorati umidi.

Allen l'accolse quasi istintivamente tra le proprie braccia, massaggiandole delicatamente la schiena per confortarla. Aveva capito per cosa lo stava ringraziando, e questo confermò definitivamente le sue teorie. Gwen Grey era davvero la bambina cui aveva reso una pagnotta sgualcita, in quel giorno di pioggia di tanto tempo prima...


Prendere confidenza con la nuova arrivata non fu affatto semplice.
Gwen si mostrò una donna alquanto singolare, sia per quanto riguardava l'approcciarsi alle altre persone, sia per i toni e gli atteggiamenti con cui usava riferircisi.
Allen rimase sorpreso e anche colpito dalla sua quasi timorosa gentilezza, espressa con parole al di là dell'eloquenza, impossibili da biasimare anche per il più duro degli Esorcisti; forse, persino per Kanda, anche se era più facile a pensarlo che a vefiricarlo con i propri occhi.
Infatti, di Gwen sapevano solo il giovane albino, Linalee, Komui e la Capo infermiera. Nessun'altro, a parte loro, era a conoscenza della sua esistenza e mai sarebbe accaduto. Insieme, avevano deciso di condurre la verità nella parte più profonda della loro anima, di modo che fosse pressoché impossibile, successivamente, tirarla fuori e regalarla sconsideratamente in giro.
Era stato Komui in persona a farlo promettere ai suoi sottoposti, esigendo un riserbo e una discrezione del tutto impeccabili al riguardo.
Linalee aveva annuito distrattamente, quasi si aspettasse una richiesta del genere. Allen aveva accettato con risolutezza e la cara Capo infermiera semplicemente aveva replicato "Il mio lavoro è curare chi ne ha bisogno!", per poi andarsene coi solito cipiglio autoritario di sempre.
Nessuno dubitava del fatto che potesse tradire il segreto.
Al di là del muro di freddezza con il quale aveva cintato il proprio cuore in quei duri e spietati anni di guerra, aveva saputo però dare valore ad ogni singola vita; e anche fiducia, per le persone che davvero avevano l'intenzione di proteggere i loro cari. E il Supervisore Lee era uno di quei piccoli miracoli dietro ai quali valeva la pena correre dietro, senza fare troppe domande e mandando al diavolo i rischi che si sarebbero potuti correre.



Dal giorno in cui il giovane Allen fece la conoscenza di Gwen, ne passarono altri nove.
Le vesciche e le ferite della donna si rimarginarono ad una velocità sorprendente: in poco tempo sulla sua pelle non vi fu più nulla, solo un pallido arrossamento causato dalla febbre. Probabilmente, pensò l'Esorcista, si trattava di qualcosa che non poteva comprendere, o solo lontanamente intuire.
Tuttavia, per il braccio non ci fu nulla da fare. Ormai, non esisteva più.
La giovane non sembrava però dar peso a tale realtà. Ogni sua parola o azione quotidiana pareva volesse escluderla dal resto, rinchiuderla in una gabbia buia e scura della propria mente. Allen non ne capiva il motivo. Più volte le chiese se sentiva dolori, o se semplicemente ancora il suo corpo non aveva realizzato la sparizione dell'arto, ma in risposta non riceveva che il silenzio. Che potesse essere per lei una forma di punizione?
Perché avrebbe dovuto ostentare una simile rigidità?
Difficile capirlo. Ma il giovane albino aveva un incarico, e non si sarebbe lasciato ostacolare da una simile causa. Avrebbe indagato a fondo, non solo in quanto suo dovere, ma anche per comprendere meglio con quale genere di personalità aveva a che fare. E se i suoi sospetti si fossero avverati, avrebbe dimostrato che Komui aveva torto.
Gli serviva solo un po' di tempo...


Un pomeriggio, sull'isola iniziò a piovere a dirotto.
Migliaia di piccoli proiettili d'acqua si schiantavano contro i freddi vetri delle finestre, appannati dall'umidità, ramificandosi in altrettante venature acquatiche sulla sua superficie. Le ombre che proiettavano sulle mura dell'edificio parevano piccole crepe d'ombra, che ne decoravano le insenature, simili a lacrime trasparenti.

Allen era appena tornato da una missione, ritenendosi la persona più fortunata del mondo in quanto, se non avesse posseduto l'Arca Bianca, gli sarebbe toccato rientrare a piedi, col rischio di inzupparsi da capo a piedi. Era uno di quei lati positivi che preferiva mettere in primo piano rispetto alle preoccupazioni che altrimenti lo avrebbero assillato.
Ancora non conosceva bene i meccanismi di quel congegno maledetto, e nemmeno credeva di volerlo. Cosa si celava dietro quegli edifici bianchi come il latte?
Cosa significavano quel pianoforte, e lo spartito con le note che lui e Mana avevano ideato?

Si poneva queste domande mentre attraversava l'ala est dell'infermeria con in mano un vassoio ricolmo di prelibatezze. Certo, dare un piccolo morso alla brioche farcita di marmellata di pesche lo avrebbe sicuramente tirato su di morale, ma dovette contenersi, e spostare i propri pensieri altrove. In fondo, quella non era la sua colazione!
Con le nocche della mano destra diede qualche colpetto all'ultima porta del corridoio, entrando poi con l'ausilio del piede, che spinse l'anta verso l'interno.
Non appena fu dentro, si diresse verso il tavolo in fondo e vi posò con accuratezza il vassoio, facendo tintinnare appena il bicchiere di spremuta e il piattino coi toast tra loro. Tutte quelle delicatezze insieme emanavano un profumo a dir poco invitante, un misto di dolce e fresco che donava energia al solo sentirlo.

- Ecco qui - esordì con un sospiro, soddisfatto per essere riuscito ad arrivare a destinazione senza far cadere nulla. Jeryy non lo avrebbe perdonato se una di quelle leccornie si fosse sfracellata al suolo.

- Grazie, Allen - Gwen si allontanò dalla finestra, avvicinandosi per prendere posto a tavola. Indossava un abitino leggero color lavanda, dalle maniche cortissime e i finimenti giallo oro, molto orientali; con tutta probabilità, era opera di Komui. I capelli erano stati raccolti in una morbida coda adagiata sulla spalla sinistra, come se l'intento fosse quello di nascondere il moncone ancora ricoperto di bende.

Il giovane Esorcista si sedette dopo di lei, ricambiando con un piccolo sorriso gentile senza badare alla riservatezza che gli fu mostrata.

- Spero vi piaccia. Jeryy è il miglior cuoco della terra - puntualizzò con orgoglio. Quando si trattava di cibo, il cuoco dell'Ordine sapeva come accontentare i suoi pargoli affamati - E se doveste avere qualche richiesta particolare, ditemela pure.

- Grazie - disse ancora la Noah, afferrando delicatamente una fetta di pane imburrato per portarla lentamente alle labbra. Il profumo che ne scaturì le fece chiudere gli occhi, trascinandola in un totale stato di calma. E quando lo ebbe assaggiato, il suo volto si colorò lievemente di porpora, imbarazzato e al tempo stesso commosso da quel sapore così vero e inebriante - E'... Davvero squisito.

- Provare per credere! - esclamò Allen mostrando il pollice alzato in segno d'approvazione - Piuttosto, voi come vi sentite?

Al termine di quella domanda, Gwen esitò, abbassando appena lo sguardo.

- Molto meglio - rispose con voce quasi sussurrata. Allen capì che stava mentendo, ma non lo diede a vedere. Non voleva metterla a disagio.

- Sapete, c'è una cosa cosa vorrei chiedervi - aggiunse poi, facendosi serio. Poggiò i gomiti sul tavolo, congiungendo le mani; cominciò così a fissare intensamente il vassoio mezzo vuoto, quasi per evitare di incrociare lo sguardo con la sua interlocutrice. Perché gli argomenti che si accingeva a sollevare avrebbero potuto benissimo turbare il suo equilibrio, e porre un freno alla calma e alla tranquillità che fino a quel momento aveva ostentato; ma parlarne sarebbe stata l'unica soluzione.

- Di cosa si tratta? - chiese timida la Follia, mentre si chinava lievemente per prendere il bicchiere. Si bloccò non appena l'altro iniziò a parlare. Non poteva nemmeno immaginare quello che avrebbe di lì a poco udito. E nemmeno quali effetti avrebbe potuto causarle.

L'albino serrò le labbra, esitante. Il suo respiro si arrestò per qualche attimo, come se d'improvviso una gelida brezza lo avesse avvolto. Eppure, ciò non gli impedì di continuare.

- 24 Febbraio, 18XX.

Quelle parole uscirono, contrariamente a quanto Allen si aspettava, con inaspettata freddezza; lame affilate e stridenti, che lo portarono a storcere il volto in un'espressione che non mostrava nulla, se non il pentimento per averle pronunciate. Solo a quel punto sollevò lo sguardo, preoccupato di essere stato fin troppo distaccato nell'esprimersi. Con sua sorpresa, davanti a lui si palesò una scena che mai avrebbe saputo aspettarsi.
Gwen aveva posato con un tintinnio il bicchiere sul tavolo, e sul suo pallido volto era comparso un piccolo ma significativo sorriso; un fiore sbocciato tra la neve. La mano destra allentò la propria presa sulla superficie cristallina del boccale, finendo per adagiarsi senza energie sul tavolo.
Senza dubbio, si trattava di una reazione proprio singolare. E dire che Allen si stava preparando a chissà quale catastrofe!

- 24 Febbraio... - ripeté la Noah, con voce dolce e sussurrata, immersa in ricordi dall'aroma di miele - Quello... E' un giorno... Molto speciale per me.

La mano andò poi ad accoccolarsi sulle gambe, lontana dal tavolo. Metà vassoio non era stato ancora toccato.

- Ne volete parlare? - domandò Allen, ora con un tono decisamente più comprensivo e ponderato. Nonostante si fosse espresso con un modo a suo dire per nulla adatto ad una fanciulla, ora tirava un sospiro di sollievo per essere riuscito a cavarsela senza scatenare le ire di niente e nessuno. Preferì pensare che il suo sogno, in fondo, non era stato solo un accozzaglia di immagini casuali, dettate dalla stanchezza per l'ardua missione appena conclusa; era qualcosa di profondo, vero, esistente. Ciò che, perso in una memoria costituita di ingranaggi che a malapena funzionavano, ora attendeva Gwen per essere portato alla luce della verità e raccontato.
E le parole che la Follia avrebbe pronunciato da quel momento in avanti, avrebbero avuto la pesante responsabilità di convincere Allen della sua innocenza, e ancor più importante, della sua umanità...



Quando Gwen varcò la soglia dell'istituto St. Francis, ne rimase abbagliata.
Il largo cancello in ferro battuto con decorazioni gotiche che le si era aperto davanti cigolando, come per magia, gettò il suo sguardo stanco e meravigliato su di un vasto prato inglese, il cui verde smeraldino brillante impallidiva appena di fronte al gelo dell'inverno.
Grosse querce nodose e spoglie si ergevano su quel mare d'erba come statue irremovibili, più dure della pietra. La piccola ne osservò incuriosita i lunghi rami nudi che si stagliavano contro il cielo; dita arcuate e scheletriche vogliose di raggiungere qualcosa di misterioso, qualcosa che poteva trovarsi unicamente tra i nuvoloni spessi e grigi che ora facevano da soffitto al mondo.
Sul sentierino di ciottoli che divideva a metà il giardino figuravano diverse panchine di legno, ricche d'intarsi preziosi e finemente lavorati. Gwen non poté fare a meno di fermarsi qualche attimo ad osservarle, indecisa se sedercisi sopra o meno, solo per sapere quali sensazioni avrebbe provato. Nel povero quartiere dal quale era stata prelevata giusto un'ora prima, da una donna dal sorriso gentile, c'erano solo vecchie panche scricchiolanti che gli anziani usavano per riposarsi o per chiacchierare tra loro. Le poche volte in cui aveva provato ad usufruirne, era stata scacciata malamente dai loro bastoni.
Ed ora... riflesso nei suoi occhi d'ambra brillanti c'era quell'immenso spazio di cui non vedeva nemmeno il confine, e che sarebbe stato suo da quel momento in avanti. A stento si trattenne dal correre sulla panchina più vicina a lei.

- Forza Gwen, è quasi ora di pranzo - la incitò la donna che l'aveva accompagnata, una robusta signora dai lunghi capelli color paglia raccolti in una crocchia scomposta - Sbrigati.

- Arrivo! - rispose lei con energia correndole appresso lungo il sentierino, col fiatone che a contatto con l'aria gelida condensava in minuscoli sbuffi di vapore leggero.

Le due percorsero il vialetto con passo affrettato, passando sotto scheletri d'alberi secchi che sicuramente in primavera sarebbero diventati un incantevole portico naturale.
Il cuoricino della piccola batteva a mille. Non poteva più attendere, tanté che quando vide i primi mattoni dell'edificio fare capolino da dietro le alte siepi, non ce la fece più e prese a correre a perdifiato verso l'ingresso. Questo era formato da un'elegante scalinata e un ingresso, sovrastato da un ampio arco di pietra e ferro lavorati ad arte, recante due amorini sulla cima intenti a spiegare le alucce.
Per una che non aveva mai avuto in vita sua una dimostrazione di quella che poteva dirsi scultura, fu piuttosto intenso: Gwen si fermò ad osservarli con un sorriso che dimenticò di contenere adeguatamente, finendo per assumere un'espressione che agli occhi della sua accompagnatrice suonò piuttosto intontita. Per sicurezza la precedette lungo i gradini e diede qualche colpo ai battenti per farsi aprire.
E quando finalmente un bambino dall'aria scapestrata arrivò a spalancare appena il portone per far passare loro ma non il freddo, Gwen era ancora lì, persa in un frangente eterno ed estatico. Non si era minimamente accorta di essere l'unica a dover ancora varcare la soglia.

- Gwen! - la donna la richiamò alla realtà, tenendo aperto uno spiraglio unicamente per lei.

La bimba rimise i piedi sulla terra giusto in tempo per sgattaiolare dentro con un balzo di fortuna, scrollandosi di dosso con forza l'aria inebetita assunta pochi attimi prima. Non poteva certo fare figuracce il suo primo giorno!

- Mi perdoni, Miss Allis... - mugugnò pasticciando imbarazzata con le proprie dita, come era solita fare quando provava vergogna per qualcosa.

Ma quell'attimo di pentimento duro ben poco. La sua attenzione fu catturata da un rumore che mai aveva sentito prima: bambini. Erano risa, grida, parole allegre e piene di divertimento. E correvano come echi giocosi lungo i due corridoi che si aprivano sull'atrio, in due direzioni opposte; alte superfici marmoree ricche di fronzoli e dipinti, vasi in ceramica e piante ben curate. Pareva essere una piccola galleria più che un'orfanotrofio. I pavimenti lisci e perfetti erano tanto puliti da riflettere come specchi il soffitto, costituito di volte d'imponente maestosità.
Un lusso così... Per lei, era davvero troppo. Se non fosse stata una persona quieta e silenziosa, sicuramente sarebbe esplosa in salti di felicità e grida di stupore. Be', almeno per il momento, la sciagura era stata evitata. A ben vedere, stava resistendo a tutte quelle meraviglie in maniera impeccabile.

- Vieni - Miss Allis si levò il cappotto di pelliccia affidandolo al bambino che aveva aperto loro il portone, invitando poi Gwen a seguirla lungo il varco di destra.

In quel mare di brusii e voci scompigliato, il suono dei suoi tacchi da signora fu solo un'aggiunta a malapena percettibile. La piccola Noah le andò dietro senza emettere un fiato, troppo presa a studiare curiosa le singole immagini che adornavano le pareti. Erano per lo più paesaggi, di Londra o qualche altra città inglese, ed erano talmente belli che a stento si sarebbero potute trovare differenze con gli originali.
Al termine dell'andito si aprì un piccolo salotto. Due bambine stavano giocando su un tappetto con in mano un paio di bambole di pezza sgualcite. Non appena si accorsero di Gwen si fermarono e la squadrarono da capo a piedi, con aria insospettita. L'interessata accolse quelle impreviste attenzioni con riserbo, abbassando lo sguardo.

Raggiunsero infine un piccolo corridoio, stretto e basso, che le condusse ad una porticina.
Miss Allis armeggiò con la propria gonna e ne tirò fuori una piccola chiave di metallo. La infilò delicatamente nella serratura arrugginita e con un movimento secco e deciso la girò, spingendo contemporaneamente l'anta in avanti. Doveva essere parecchio difettosa, se era possibile aprirla solo in quel modo.
Gwen entrò per prima nella stanza che si trovava oltre. Ad investirla come un'onda furono l'odore pungente di sapone di seconda mano e di marcio, forse di avanzi.
E anche i suoi occhi rimasero alquanto delusi, di fronte all'indicibile spettacolo che le si presentò innanzi.
Ora, lei non ne aveva mai viste molte di pentole nella sua vita, ma quelle che riempivano i lavelli di quella sudicia cucina erano davvero troppe, persino per lei. Calderoni incrostati e pieni di olio usato galleggiavano come cadaveri alla deriva in mezzo a dell'acqua grigia e disgustosa. Le padelle e le posate riposavano beatamente sul fondo, i pezzi di cibo ancora attaccati a sciogliersi lentamente per navigare dentro quel lerciume.
Gwen non poté fare a meno di tapparsi il naso e stringere gli occhi alla vista delle mosche che aleggiavano come condor voraci su quel bottino offerto loro in maniera del tutto gratuita.
E il pavimento?
Neanche a parlarne: era appiccicoso e opaco, l'esatto contrario della superficie marmorea sulla quale le sue scarpette malridotte avevano camminato allegre prima. Ora a stento riusciva a vedere il proprio riflesso sconvolto.

- Oh, che peccato - osservò Miss Allis addentrandosi con naturalezza nella stanza - Temo che l'orario del pranzo sia passato.

La piccola non si curò molto di quelle parole: quando l'aveva incontrata, la donna le aveva promesso un letto caldo e un buon pasto non appena avessero varcato la soglia dell'istituto. Quindi decise di andarle dietro, resistendo coraggiosamente al terribile tanfo che era padrone della stanza.
Poi, qualcosa le volò in faccia, bagnandole il viso.
Gwen sentì un forte odore di umido pervaderle le narici; poi guardò meglio, e scoprì tra le sue manine infreddolite uno straccio sporco.
Passò qualche secondo, in cui rifletté appena su quanto accaduto, poi sollevò lo sguardo, perplessochiedendo mentalmente spiegazioni alla sua salvatrice.

- Be', che hai da guardare? - sbottò quella, rivolgendole un'occhiata arcigna e antipatica - Non lo sai che qui il cibo bisogna guadagnarselo?

- Sì, ma... - cercò di ribattere Gwen, con voce triste e timorosa.

- Osi anche lamentarti?! - fu la risposta affrettata di Miss Allis, che non fece terminare nemmeno la bimba - Dovresti ritenerti fortunata. Ci sono ragazzine che ucciderebbero per essere al tuo posto. Se vuoi mangiare, prima devi lavorare. E' la regola.

C'era qualcosa che non andava. Perché tutto d'un tratto la sua gentilezza era sparita?
Che fosse stato... Un trucco?
Non lo aveva capito. Non aveva fatto in tempo a fiutare il pericolo. E come avrebbe potuto? Stava morendo di freddo nel momento in cui quella donna era venuta da lei e le aveva offerto calore e cibo. Aveva le mani legate. Come rifiutare un invito tanto succulento?
Non aveva mai incontrato nessuno che le offrisse una seconda occasione a quel modo, ma molte volte aveva udito di ragazzini orfani come lei che venivano levati dalla strada e accolti in quelle che chiamavano 'case famiglia'. Pensava che se le fosse capitata una fortuna del genere, poi non avrebbe più avuto bisogno di rubare per sopravvivere, che ogni giorno avrebbe potuto vestirsi con stoffe di buona qualità e non più di cenci. E che finalmente qualcuno avrebbe avuto il coraggio e il cuore di trattarla come un essere umano. Perché anche lei lo era. Ne era sicura. Altrimenti perché avrebbe sofferto così tanto?
Gli esseri umani, quando venivano colpiti da una qualche disgrazia soffrivano, provavano dolore. E per lei il supplizio era durato più di quattro anni. Questa era una prova sufficiente a definirla 'umana'.
Eppure... Perché di punto in bianco le sembrava di non esserlo più? Forse poteva trattarsi dell'infido e sconosciuto rancore che Miss Allis provava per lei, o forse... Perché era cascata nel tranello proprio come un topolino attirato verso una trappola da un pezzetto di formaggio. Di colpo, le sembrò che le cristalline mura erette attorno alle sue già deboli speranze stessero per andare in frantumi. Sarebbe bastata solo un'ultima, tremenda conferma...
Era forse quello che veramente l'attendeva nel luogo che aveva sempre desiderato per se stessa?

- Ma io... - cercò di replicare, fissando la sua salvatrice con occhi che non comunicarono nient'altro, se non l'incessante supplicare perché quello fosse solo uno scherzo di pessimo gusto, e non l'amara verità che avrebbe invece rigettato.

- 'Ma', 'ma', 'ma'... Non sai dire altro? Cos'è, tua madre non ti ha insegnato l'educazione? - si sentì ribattere con voce dura e gelida, di chi mai in vita sua era stato anche solo sfiorato dal più semplice dei sentimenti - Oh, che fai, piangi?

Infatti, Gwen aveva iniziato a singhiozzare. Le lacrime le annebbiarono presto la vista, cosicché fu impossibile per lei vedere chiaramente il viso di Miss Allis o di qualunque altra pentola sporca. Ma anche così, il dolore che le stava piegando a metà il cuoricino distrutto non se ne andò. Lo straccio le scivolò via dalle dita senza forze, che andarono ad asciugare le guance arrossate e fradicie.
Poi, si ritrovò scaraventata a terra, il lato sinistro del volto pulsante di dolore. Pianse ancora più forte massaggiandosi delicatamente la parte lesa.

- Se non la smetti riceverai di peggio! - la minacciò la proprietaria dell'istituto, con la mano destra sollevata e pronta ad infliggere un secondo schiaffo - Ora riprendi quello straccio e mettiti a pulire questo pavimento lurido! Sbrigati!

Gwen strisciò lentamente fino alla pezza cercando invano di trattenersi, la sollevò con ribrezzo e la strinse più forte che poté. Per il suo effetto spugnoso, altra acqua marcia fuoriuscì dal tessuto e le inzaccherò le dita e le unghie.

I tacchi svelti di Miss Allis le girarono attorno e raggiunsero nuovamente la porticina guasta, aprendola nello stesso modo che in precedenza.

- Non pensare di poter fare tanto la ribelle, carina. Tu ora sei una mia proprietà, ricordatelo! - e infine se ne andò, sbattendola furiosamente.

Quando fu calato finalmente il silenzio, Gwen prese il suo straccio e con forza lo scagliò contro alcuni ripiani in un angolo della cucina. Il rumore che ne conseguì le provocò brividi di disgusto lungo la schiena.
Come aveva potuto pensare di trovare un posto migliore in cui vivere seguendo quella stupida donna?!
Ora era una prigioniera. Una schiava della società. Sarebbe stata costretta ad andare a lavorare nelle fabbriche senza nemmeno vedere un penny, per morire di freddo o di troppa fatica come un insetto insulso!

Riprese a piangere, ma più sommessamente. Alcuni singhiozzi sfuggirono al suo controllo e risuonarono tra quelle quattro mura vecchie e puzzolenti. Fu allora che una vocina, mai udita prima di allora, si levò da dietro una credenza alle sue spalle.
La piccola si voltò, e con sua sorpresa vide che dal piccolo nascondiglio al suo interno era sbucata fuori una bambina: indossava un vestitino a quadri color pesca un po' malmesso e portava i capelli castani raccolti da un piccolo fiocchetto porpora sulla testa. I suoi occhi, grandi e vivaci, erano più azzurri del cielo in primavera.

- Per fortuna quella megera se n'è andata! - sbuffò uscendo a fatica dal suo rifugio segreto - Stavo per soffocare là dentro.

Poi si rivolse a Gwen, sfoggiando un sorriso che sembrò illuminare la stanza.

- Tutto bene? - le chiese, avvicinandosi - Sembri sconvolta.

- N... No, sto bene... - le rispose la bimba, abbassando lo sguardo. Non aveva voglia di parlare di quanto successo con qualcuno che nemmeno conosceva.

Stranamente, la nuova arrivata continuò a parlare, come se nulla fosse successo.

- Tranquilla, la vecchia Allis fa sempre così. Con lei solo ordine e obbedienza! - recitò, come se quelle non fossero parole sue ma un vero e proprio detto popolare - Ti fa male?

- Eh?

- La guancia. Ti fa male?

Gwen non capiva più niente.
Da quando quella ragazzina era entrata nella sua visuale, tutto si era fatto più confuso. A fatica riuscì a risponderle.

- Un po' - mugugnò, sfiorando appena la superficie arrossata e ancora dolorante del viso.

- Basta non pensarci, e il male se ne va subito via - suggerì la sua interlocutrice, con un piccolo sorriso gentile - Vuoi una mano?

E detto ciò, afferrò un panno come il suo e si chinò sul pavimento, spiaccicandolo a terra e iniziando a strofinarlo sulle mattonelle sporche. Gwen la fissò a lungo senza riuscire a comporre nemmeno un timido 'grazie'. Non capiva perché la stesse aiutando, né perché le si fosse rivolta in quel modo così amichevole nonostante fosse la prima volta che la vedeva. I suoi occhi ambrati presero a riempirsi ancora di lacrime, come portatori di quella gratituidine che non riusciva ad esternare di propria volontà.

- Io... Io... - balbettò, in preda ai singhiozzi, per poi abbandonarsi senza controllo e coprirsi il viso arrossato dalla vergogna e dalla disperazione con le mani - Io non volevo tutto questo! Non lo volevo! Non lo volevo!

E continuò a ripeterlo finché la sua voce non ebbe esaurito le energie. Avrebbe voluto scappare. Riaprire quel portone, tornare al suo quartiere, riavvolgere il tempo... Ma ormai il disastro si era compiuto. Gwen avrebbe vissuto lì, da quel momento in avanti. Come un animale da fattoria, da sfruttare il più possibile finché non crolla a terra esanime.

La bambina che era accanto a lei interruppe il proprio lavoro, fermandosi ad osservare con faccia impensierita la piccola. In quel momento le sue iridi parvero riempirsi d'un qualcosa, che solo chi avesse conosciuto i suoi trascorsi avrebbe saputo identificare. Forse era compassione, forse un dolore nascosto e famigliare, tornato a galla a causa del continuo affliggersi di Gwen, così simile al suo di un tempo.
Comunque, di qualunque cosa si trattasse, fu abbastanza forte ed intenso da cancellare il sorriso sul suo volto giovane e spensierato in meno di pochi secondi. La pezza fu raccolta e adagiata con cura in un angolo, in disparte.

- So cosa stai pensando - le disse, sussurrando lieve - Ma non è stata colpa tua.

Gwen alzò la testa, fino ad allora nascosta tra le ginocchia e i capelli sparpagliati su di esse.

- La fame... Il freddo... La solitudine.... - continuò la bambina col vistoso fiocco in testa, pronunciando ogni singola parola con un'enfasi sofferta - Possono essere... Crudeli. E difficili da sopportare. Non hai avuto altra scelta se non quella di accettare, non è così?

- Sapendolo, non lo avrei mai fatto - ribatté la più piccola, con strascichi di rabbia a inasprirle la voce.

- Sbagliato - la corresse l'altra - Lo rifaresti, se ne avessi l'opportunità. Pensaci un attimo: senti per caso freddo?

Gwen ci rifletté su qualche attimo per poi rispondere, con inaspettato stupore:

- No...

- Hai fame? - continuò la più grande, come compiaciuta da quella risposta che soddisfava le sue aspettative. E prima che la sua interlocutrice potesse risponderle, infilò le mani nella grande tasca centrale del proprio abitino e ne fece uscire due piccole pagnotte croccanti. Gliene porse una, mentre tenne per sé l'altra, accogliendo la sua più che eloquente risposta tramutata ora in sgranocchi e biaschii confusi; segno che confermava quanto il suo stomaco avesse disperatamente bisogno di riempirsi.
Quando entrambe ebbero finito di consumare con soddisfazione il proprio pasto, Gwen si rivolse alla bambina, quasi provando soddisfazione nel farle notare una mancanza in ciò che aveva detto.

- Ma rimango comunque sola - ammise con sconforto, scrollandosi di dosso le briciole dall'abitino malconcio che indossava.

- Che coincidenza - si sentì rispondere, con allegra energia - Anch'io! Hey, perché non diventiamo amiche?

- Amiche? Cosa vuol dire? - non era mai stata amica di nessuno, lei. A volte capitava che desse pezzetti di pane secco ai gatti randagi che le si avvicinavano, ma solo per paura che potessero avventarlesi addosso.

- Be', vuol dire aiutarsi a vicenda, dividersi da mangiare... Oh, e picchiare più forte i bulletti! - spiegò la sua aspirante amica, con un entusiasmo davvero coinvolgente.

- Non mi piace fare a botte - quell'ultima precisazione non fu ben accolta dalla piccola Gwen, tanté che scosse la testa eliminando definitivamente l'eventualità che qualcosa di simile potesse succedere - Sarebbe megl...

- E' vero! E anche non sentire più la solitudine! - concluse la più grande, senza nemmeno ascoltarla, troppo presa com'era dalla propria strabiliante idea - Allora, ci stai?

- Uhm, cosa?

- A diventare amiche, ovvio!

Ci fu qualche attimo di esitazione. Gwen guardò la bambina e vide che le stava tendendo una mano, con un sorriso radioso a scaldarle il viso sbarazzino. Cosa avrebbe dovuto fare?
Accettare?
E se poi si fosse rivelata un'altra fregatura?
Non avrebbe provato un simile tormento ancora; era sicura che se le fosse capitato ancora, poi non avrebbe avuto più nemmeno la forza per continuare ad esistere.
Però... Era come se dentro di lei ci fosse una vocina flebile flebile, quasi impercettibile, che le consigliava di afferrare quella mano. Il motivo non lo conosceva, così come l'entità di quel bisbiglio, che seppur sentisse così vicino, allo stesso tempo sembrava parlarle da un luogo irraggiungibile, forse inesistente. Probabilmente veniva dal suo cuore, dalla sua anima; o da entrambe.
Ma se anche quella fosse stata la verità, in ogni caso non si sarebbe trattato di un confidente esterno, bensì della sua coscienza, desiderosa di poter uscire finalmente alla luce del sole e gridare al mondo il proprio diritto ad avere una dignità da difendere, una vita da poter costruire, una libertà da rivendicare con pugno di ferro e risolutezza. Perché anche lei, nonostante tutto, era un 'essere umano'.
Chissà, magari assieme a quella bambina ce l'avrebbe potuta fare. Solo il tempo le avrebbe dato la prova di quanto quel legame appena creatosi, sarebbe resistito alle più devastanti tempeste dell'animo, vincendo giorno per giorno quella continua battaglia che per lei significava vivere.
La sua manina si sollevò tremolante, ed infine strinse quella della ragazzina, la quale aumentò esponenzialmente la presa sfoggiando un sorriso di cui Gwen notò tutti i dentini da latte mancanti: tre, a ben vedere. A quella vista così buffa, si lasciò scappare una piccola risata divertita.

- Ah, a proposito: io mi chiamo Caroline! Se vuoi, puoi chiamarmi Cari - si presentò infine la bambina col fiocco, afferrando nuovamente lo straccio sporco per riprendere il proprio lavoro di pulizia al fianco della sua nuova amica - E tu?

Gwen sorrise come non le era mai capitato in tutta la sua vita. Sul punto di piangere dall'emozione, pronunciò con maldestra solennità quel nome che, ne era certa, avrebbe trattato meglio da quel momento in poi.

-  Gwen - pronunciò, sussurrando dolce - Il mio nome è Gwen.




Angolo di Momoko

Salve a tutti, sono Momoko e so che quei pochi ancora rimasti a leggere le mie castronerie sicuramente vorranno vedermi morta, come minimo.
Voglio scusarmi tantissimo per queste lunghe assenze. Io prometto, prometto ma non mantengo niente. So che dico sempre che la prossima volta aggiornerò per tempo, ma la verità è che ultimamente ho grosse difficoltà a scrivere. Chiamatela crisi mistica, oppure blocco dello scrittore... Era un po' di tempo che non mettevo mano al mio editor causa scuola, ed il risultato è stato che tutto quello che tirassi fuori mi faceva semplicemente schifo. Ogni singola parola che mettessi sul foglio digitale la vedevo stonare assieme alle altre, costringendomi a cancellare tutto e a rifare da capo.
Giuro, ho avuto seriamente paura e non sto scherzando xD Di questo capitolo non vado molto orgogliosa... Ci ho messo tutta me stessa, anche se non riesco a vederlo all'altezza degli altri. Spero comuncque che vi piaccia, questa è una fase importante della storia e non voglio in alcun modo rovinarvela.
Ok, ora me ne vado. Vi ho annoiato con i miei problemi anche troppo xDD
Faccio i miei consueti ringraziamenti a tutti quelli che leggono e inseriscono la storia nelle loro liste. Inoltre, mando un abbraccio virtuale super mega gigante a tutte quelle anime impavide che hanno deciso di spendere il loro tempo recensendo! La Strega di Ilse, KH4, Lady Red Moon e AuraNera_!
Grazie, grazie davvero!
Come sempre, vi invito a lasciare i vostri pareri, di qualunque entità essi possano essere, senza timore!
Un bacione, a prestoooo,

Momoko <3

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** L'ombra oscura prigioniera della memoria ***


Into the Madness


Capitolo 7
L'ombra oscura prigioniera della memoria



Allen aveva ascoltato in silenzio e con grande attenzione il racconto di Gwen sino alla fine, e quando quest'ultima ebbe finito di narrare del suo primo incontro con Cari, della squisita colazione di Jeryy non ne era rimasta nemmeno una briciola.
Inutile dire che l'albino volle sapere di più, ma la sua ospite non sembrava più incline a continuare: le informazioni che era stato in grado di ricavare costituivano già di per sé una concessione straordinaria e irripetibile da parte della Noah, e una decisione più dolorosa di quanto si potesse pensare: riportare alla luce memorie tanto sbiadite dall'accumularsi di sempre più amari trascorsi davanti ad esse, le aveva fatto capire ancora una volta quanto quella bambina fosse stata un angelo custode, per lei. E allo stesso modo, quanto difficile fosse stato vivere all'ombra di quella colpa orrenda, offuscata dal tempo, che continuava a tormentare la sua anima da quel giorno maledetto.
Una piccola lacrima scese lungo il suo viso chiaro, ora non più contaminato dall'influenza del Noah. Non avrebbe proferito più una sola parola al riguardo, non in quel momento.
- Vi chiedo perdono - asserì Allen, tutto ad un tratto, con voce mesta.
Gwen strabuzzò appena gli occhi, pur senza scomporsi troppo.
- Per cosa? - domandò, mentre si asciugava la guancia col dorso della mano - Non hai fatto nulla di male.
- No, ecco... Vi ho costretto a parlare di qualcosa di triste e lontano. Dovevate volere molto bene a Cari - spiegò il giovane esorcista, che mai avrebbe volutamente agito in modo tale da intristire una giovane fanciulla, chiunque ella fosse.
Più di tutto, però, non voleva mettere la sua interlocutrice sotto pressione: non sapeva cosa le sarebbe potuto accadere in quel caso, e non voleva certo scatenare la sua terribile furia proprio in quel luogo solo per aver osato domandarle più del dovuto.
Tuttavia, la Follia si dimostrò inaspettatamente più calma del previsto. Qualcosa di lei gli suggerì che la rabbia e la frenesia mostrate senza riguardo nella precedente battaglia fossero svanite, o per lo meno, sotto controllo.
- Gliene volevo tanto, sì - si sentì infatti rispondere, con voce guidata da una dolce nostalgia - Ma è normale, ogni tanto, avvertire un senso di tristezza e vuoto pensando al passato; è anche così che ci si sente umani. E non devi scusarti per questo, Allen Walker.
Dopotutto, parlarne era stata una sua scelta. Se non avesse ritenuto di doverne condividere i particolari, avrebbe potuto benissimo non dire una parola sul suo passato. Qualcosa del ragazzo che aveva davanti, però, le aveva fornito il coraggio necessario. Qualcosa che non sapeva spiegarsi, ma che le aveva infuso una rassicurante sensazione di famigliarità. Che fosse a causa del loro primo breve, fugace incontro di pochi anni prima?
Allen si sentì più leggero dopo quell'affermazione; ripensò a Mana, scoprendo di provare la medesima malinconia della sua ospite. Eppure, ancora gli risultava difficile considerarla "umana". Benché il suo occhio non mentisse al riguardo, proiettandogli l'immagine di una donna alta, esile, circondata dalla luce soffusa proveniente dalla finestra e null'altro, dentro di sé non poteva dimenticare le parole di Road Kamelot. Non poteva permettere che una sola conversazione riducesse in brandelli quel che lui aveva vissuto sull'Arca, o che vanificasse gli sforzi e i sacrifici dei suoi compagni. Certo, Gwen era diversa, e probabilmente avrebbe dovuto figurarla come un'eccezione, un caso isolato, ma non avrebbe ceduto le sue convizioni nemmeno in cambio di una prova di fiducia da parte sua. Gli sarebbe però piaciuto tanto poter scorgere, nel mare di tenebre che avvolgevano il suo mondo devastato, un piccolo raggio di luce; un frammento di innocenza, o il battito d'un cuore sincero, pronto a ergersi nella notte dell'umanità. E forse, pensava, Gwen Grey avrebbe potuto sorprenderlo. Non convincerlo, ma solo sorprenderlo.
Tra i due s'instaurò presto un rapporto fatto di cordialità e momenti di quiete preziosi, durante i quali entrambi appresero di più l'uno dell'altra, in un equo scambio d'informazioni che nulla aveva a che vedere con la guerra. Era come se fossero stati due vecchi compagni che, ritrovatisi dopo tanto tempo, parlavano serenamente delle esperienze vissute dal loro ultimo incontro, pur senza trascendere le barriere loro imposte dalla fazione per cui ufficialmente lottavano.
Questo naturalmente preoccupava sia Linalee che Komui, ma la cinese in qualche modo non poteva fare a meno di provare anche una sorta di muto astio nei confronti della donna loro protetta; una linea di sottile accanimento che esternava sottoforma di sguardi e gesti fuori dall'ordinario, per nulla appartenenti alla sua persona e di cui lei stessa nemmeno si capacitava. Linalee non era mai stata una ragazza in grado di esaurirsi in comportamenti vili e scontrosi; ma fin da subito aveva posto tra lei e la Noah una barriera invalicabile di gelide premure che non avevano altro scopo se non quello di ottemperare a un compito che le era stato assegnato, senza cercare nei gentili occhi d'ambra della prigioniera alcuna spiegazione per le sue azioni; ed era sua speranza che Allen facesse lo stesso, senza compromettere ulteriormente la propria delicata posizione.
Lei sapeva fin troppo bene qual'era lo scopo di quella missione, la cui importanza era proporzionale alla quantità di persone che ne erano a conoscenza. Dopotutto, avevano accolto nella loro base uno dei nemici peggiori possibili solo sulla base di un presentimento, di una sensazione. Avrebbero perciò fatto bene a rimanere tutti molto cauti; e pensare al più presto a un espediente che permettesse loro di studiare la Noah senza tuttavia tenere costantemente a rischio tutto l'Ordine.



- Scusate se vi ho fatto venire con tanta rapidità. Credo sappiate già quello di cui sto per parlarvi - ammise Komui Lee, non appena la porta dell'ufficio fu chiusa con un lento cigolio - E' il momento di sbrogliare questa situazione.
Allen e Linalee erano seduti sul divanetto di velluto color salvia, in pose che non tradirono una gerta agitazione; erano settimane che si trascinavano dietro quel segreto, una presenza opprimente e sinistra alle loro spalle. Persino Allen, che più di tutti aveva trovato piacevole la compagnia di Gwen, era ansioso di porre un freno a quel continuo e infinito labirinto di sotterfugi.
- Prima che diciate qualsiasi cosa, debbo informarvi che ho ragionato a lungo in queste settimane su quale fosse la sorte migliore cui destinare Gwen Grey. Quando la portaste qui, decisi che se ne avessi avuto la possibilità l'avrei usata come mezzo per mettere in ginocchio le forze del Conte del Millennio. Usare la sua stessa forza contro di lui, per essere schietti. Ma ho prima bisogno di capire se tutto questo sia attuabile. Se quella Noah non sia un pericolo troppo grande per noi. Allen, tu sei il solo con il quale abbia condiviso qualche informazione rilevante: vorrei che mi riferissi senza esitare tutto quello che hai scoperto.
Allen si alzò dal divanetto, prendendo a girovagare a vuoto per la stanza con fare riflessivo. Poco dopo, espose le sue conclusioni, serio in volto.
- Signor Komui, Linalee... Io... Vi chiedo scusa. Non avevo riflettuto sulle conseguenze che il mio gesto avrebbe portato, e perciò ho tratto in salvo la signorina Gwen, pur conoscendo la sua natura. Ora, in tutta onestà, vorrei che le cose fossero andate diversamente.
Di certo, non era sua intenzione desiderare tutto ad un tratto di aver lasciato morire Gwen Grey nella foresta. Mai simili pensieri avrebbero sfiorato la sua mente.
Ciò che lo angustiava così tanto era un pensiero comune, un ragionamento pieno di sconforto dettato dall'imprevista piega degli eventi: se avesse saputo che tipo di persona era la Noah della follia, avrebbe certamente agito in maniera differente. Non l'avrebbe attaccata, non l'avrebbe ferita al punto tale da farle perdere un braccio. E soprattutto, non l'avrebbe condotta all'Ordine, un luogo più pericoloso per lei più che per chiunque altro.
- Abbiamo trattenuto una persona innocente - continuò, lo sguardo basso, le braccia senza forze stese lungo i fianchi - Gwen non sa nulla del Conte, degli Akuma, della battaglia che sosteniamo contro di loro. Vi è completamente estranea.
- Eppure è una dei suoi migliori alleati! - esclamò sorpreso Komui, il quale successivamente pensò che la donna avesse spudoratamente preso in giro il giovane esorcista.
- In realtà, è stata raccolta dalle strade di Londra appena un paio di giorni prima del nostro incontro. Non era consapevole di essere un membro della famiglia Noah, o di cosa questo significasse per lei.
- Sei sicuro che non ti abbia mentito, Allen? - domandò Linalee, congiungendo le mani in un gesto di preoccupazione e stupore. Il compagno si rivolse a lei e, sorridendo, rispose:
- Non è capace di mentire.
La ragazza gli lanciò uno sguardo perplesso, non del tutto certa di riuscire a crederlo. Una creatura come quella, incapace di mentire? Che sciocchezza!
- Ed è sotto controllo? - chiese Komui, che in cuor suo condivideva i pensieri della sorella.
Il giovane albino annuì senza pensarci.
Gwen Grey era la persona più mite della terra. Ne aveva avuto la conferma a poco a poco, durante i momenti trascorsi insieme. Aveva scoperto tante cose su quella donna soltanto parlandoci, che quasi trovava ridicole le domande del Supervisore e rabbrividiva ai provvedimenti che, in ambiti differenti da quello, avrebbero certamente preso per estorcere notizie e informazioni dalla loro prigioniera.
Ogni pomeriggio, o quando ne aveva la forza, la Noah gli raccontava della propria infanzia, con tono rassicurante e gentile, come se stesse narrando una fiaba. Aveva parlato della volta in cui lei e Cari avevano fronteggiato i bulletti dell'istituto, rimediando lividi e tagli ovunque; e della volta in cui una di loro era stata lasciata senza cena, e l'altra gliel'aveva portata di nascosto. Gli aveva persino raccontato dei loro innumerevoli discorsi, sussurrati alla debole luce della luna, quando tutti gli altri dormivano e loro potevano esprimersi senza timore.
- Ma allora, cosa l'ha spinta ad attaccarti quella volta? - domandò Linalee, senza mascherare il proprio sospetto.
Allen si voltò verso di lei, intristendosi appena - La sua metà Noah. Ha preso il controllo del suo corpo, della sua mente, e l'ha direzionata contro la prima fonte di Innocence che ha saputo trovare, ovvero me. Non ho capito quanto stava succedendo finché non l'ho guardata in volto. Aveva le lacrime agli occhi mentre mi attaccava. Non era quello che voleva davvero, ho pensato, ma prima che potessi provare a farla ragionare, è esploso l'ordigno del signor Albin - spiegò.
- Quindi ti avrebbe aggredito contro la sua volontà? - concluse Linalee, abbassando lo sguardo e impensierendosi.
Komui prese nuovamente posto sulla propria poltrona, dopo aver percorso avanti e indietro l'ufficio ascoltando le parole del giovane Allen.
La questione era ben più complicata di quanto avessero predetto: ciò che aveva sentito era decisamente l'opposto di quanto inizialmente gli fosse stato riferito. Aveva letto accuratamente il rapporto dei due Esorcisti riguardo la missione del nord e l'incontro con la Noah, e tutto quello che poteva affermare adesso era assai labile, una ridicola barzeletta. Pensare che Gwen Grey non fosse realmente dalla parte del Conte, ma si fosse trovata nel mezzo dello scontro senza averlo deciso, in un certo senso lo allietava, perché si trattava comunque di un nemico mortale in meno cui pensare. Tuttavia, le parole di Allen gli avevano lasciato anche una buona dose di dubbio: se la loro protetta avesse nuovamente perso il controllo? Non c'erano garanzie che mantenesse quiete le proprie emozioni, che tenesse a bada il mostro che giaceva dentro di lei. Prima o poi avrebbe scatenato la sua potenza, volente o nolente, e nessuno sarebbe stato capace di fermarla prima di vederla uccidere membri del personale, Esorcisti o altri innocenti. Ma peggio ancora, se anche fossero riusciti ad abbatterla, lui, Allen, Linalee e persino la vecchia capoinfermiera sarebbero stati inquisiti da Sua Santità in persona per quanto avevano osato architettare alle spalle dell'Ordine. Non poteva permettere che una simile catastrofe si verificasse. Che la tranquillità appena ritrovata fosse nuovamente spezzata da altri morti e grida disperate, o dalla macabra visione della sorella al patibolo.
- Allen - disse all'improvviso, uscendo dal silenzio dei suoi pensieri - Ti ringrazio per quanto hai fatto in queste settimane. E anche tu, Linalee, che hai saputo pazientare così tanto.
Pareva che la sorella gli avesse confidato i suoi ripensamenti a proposito della Noah.
- Ma a sentire queste conclusioni, non posso che avvertire maggiormente la gravità del peso che ci siamo caricati sulle spalle. Non possiamo più nascondere Gwen Grey all'interno dell'Ordine, è troppo pericolosa. Quindi, sulla base delle vostre informazioni, ho deciso di allontanarla quanto prima dalla sede, in un luogo in cui potrà essere controllata senza costituire una minaccia per tutti noi.
Allen si avvicinò lentamente alla scrivania del Supervisore.
- Veramente? - domandò, senza sapere se essere esterrefatto o felice. Non avrebbe mai creduto che Komui si fidasse di lui a tal punto. Non lo avrebbe ascoltato, altrimenti, quando gli aveva portato la Noah in fin di vita chiedendogli di aiutarla. Ma ora aveva capito quanto contassero per lui le sue affermazioni, e come volesse appoggiarvisi senza tuttavia mostrarsi diffidente o intenzionato a manipolarne i nobili intenti. Rimanevano ora solo poche questioni da porre al superiore - Dove avevate intenzione di condurla? E quando?
Komui si lasciò scappare un piccolo sorriso - Per ora non ho scelto una destinazione. Dovrò fare alcune ricerche, e organizzare il trasferimento senza che nessuno lo sappia. Ci servirà l'Arca. Vedrò di procurarmi un permesso. Vi farò sapere il prima possibile, ma per il momento, continuate con le vostre normali attività.
- Vi ringrazio, signor Komui - Allen esibì un breve inchino, in segno di rispetto.
Komui ricambiò il gesto dalla scrivania - Mi raccomando, fate attenzione - sussurrò, mentre congedava con gentilezza i due Esorcisti.
Questi annuirono all'unisono. Salutarono il Supervisore e uscirono con calma dall'ufficio. Una volta che se lo furono lasciato alle spalle, diretti verso la mensa, Linalee si rivolse ad Allen con tono severo, bloccandosi con lui su un lato del corridoio.
- Pensi davvero che quella donna stia facendo sul serio? Io non riesco a crederci.
L'albino si mostrò stupito da come l'amica avesse improvvisamente cambiato atteggiamento. Se c'era qualcuno a cui quella situazione non era mai piaciuta, si trattava proprio di Linalee, ed era naturale che serbasse nei confronti della Noah un silenzioso e gelido rancore. In fondo, era proprio a causa dei Noah e degli Akuma che lei aveva perso i genitori, e nonostante apparisse forte e sicura di sé, nel suo animo infuriava una tempesta.
- Voglio darle una possibilità. L'ho già incontrata in passato, ricordi? - rispose comunque Allen, con tono rassicurante. Per quanto le cose potessero andare storte, in lui non mancava mai la speranza.
- Ricordo, sì. E ricordo molto bene anche quello che ha cercato di fare. Quello che il Conte e i Noah hanno cercato di fare. Forse dovresti ricordartelo anche tu.
- Linalee, ti prego...
- Portarla qui è stata una scelta impulsiva, Allen. Lì per lì non ci abbiamo pensato, ma ora è il momento di rendersi conto dell'evidenza - pronunciò la cinese con voce fredda, quasi meccanica - Avresti dovuto lasciarla laggiù.
- Smettila, Linalee!
In una frazione di secondo, Linalee si sentì afferrare per le spalle dal compagno, il quale le rivolse uno sguardo furente; e per un attimo, fu come se avesse smesso di veder riflessa la limpida anima al suo interno. Avvertì il pizzicorio delle lacrime, ma le scacciò violentemente, ritirandosi dalla presa dell'albino con gesti indignati.
- Sei tu che devi smetterla, Allen! Non hai a cuore la Home?! Se le succedesse qualcosa a causa di quella Noah, cosa faresti?
Certo, lui non poteva capire; non aveva visto le sue stesse cose. La visione di morte e solitudine che tormentava da qualche tempo i suoi sogni tornò prepotentemente al centro di dubbi e pensieri; un peso terribile per il suo cuore, che rischiò di farle perdere la forza di reggersi in piedi. Tuttavia, non cedette.
Sapeva bene che il compagno non avrebbe mai fatto nulla che potesse metterli in pericolo, ma a volte... era come se fosse un'altra persona. Non l'Allen che era stato quasi fatto a fette da Kanda davanti ai cancelli dell'Ordine, con la valigia consumata, da vagabondo, ma qualcosa che non riusciva a spiegarsi. Una figura di luce annichilita da strane ombre che, silenziosamente, ne stavano divorando le membra.
Si rivolse nuovamente all'albino, supplicandolo mentalmente di tornare in sé - Allen... noi siamo compagni. Credevo significasse qualcosa, per te - sussurrò quasi, rapita da un vago senso di avvilimento - No, non è vero. Voglio credere che significhi qualcosa. Per questo non posso stare a guardare mentre metti da parte l'Ordine per una nemica di cui non sai nulla...
Il silenzio calò tra i due Esorcisti, come un velo gelido e pesante. Ne smorzò i sentimenti fino a ridurli cumuli di polvere danzanti nel vuoto, senza meta; senza scopo. Allen chinò il capo, sconfitto, provando un indefinibile senso di colpa. Non avrebbe mai immaginato che, dentro di sé, Linalee covasse simili pensieri. Che occupasse una posizione così diametralmente opposta alla sua.
Uno strano calore gli invase le guance, le quali avvamparono in pochi istanti. Si stupì di se stesso. Stava forse... provando vergogna?
Un piccolo sorriso fiorì sulle sue labbra, prima di lasciare il posto a un'espressione che Linalee conosceva molto bene, e che nel lungo tempo in cui aveva combattuto al suo fianco, aveva imparato a odiare. Il viso di un uomo che rinnega se stesso, e volge le spalle alla luce per impedire che le tenebre la intacchino... Il viso di un uomo solo.
- L'Ordine - pronunciò improvvisamente, abbozzando un sorriso vago, quasi trasognato - è anche la mia casa. La mia famiglia. Preferirei morire piuttosto che farle del male. Perciò, Linalee... Quando dici che non ho a cuore la Home, sbagli. E' la sola cosa che voglia realmente proteggere.
Linalee abbassò lo sguardo, indecisa su quale fosse la cosa migliore da dire. Quella Noah l'aveva fuorviata. Non era più padrona delle sue azioni, dei suoi pensieri. Non aveva riflettuto attentamente sulla faccenda; non aveva pensato che proprio Allen, che più di tutti era coinvolto in quella missione segreta, fosse anche il primo e forse l'unico a soffrirne davvero.
- Perdonami Allen... Ma tutta questa situazione è...
- Pesante, lo so - concluse per lei l'albino - Ma presto finirà. Mi dispiace di averti coinvolta, Linalee.
- No, non ti scusare. L'unica cosa che puoi fare ora è assistere mio fratello nel trasferimento della Noah - replicò la cinese con aria severa, mentre guardava negli occhi il compagno - Assieme a me.
Allen spalancò appena lo sguardo, mentre la ragazza si allontanava da lui, con passo leggero e sicuro. E ancora una volta, si trovò a ringraziarla dentro il suo cuore; ringraziarla per tutti i sacrifici che, nonostante la trascinassero sempre più giù, continuava a compiere, imperterrita. Aveva molto da imparare da Linalee Lee, pensò, molto più di quanto non avesse visto nel tempo trascorso al suo fianco. Delicatamente sorrise, proseguendo lungo il corridoio, ma nella direzione opposta.



- Dove credi stiano andando? - domandò Cari stringendosi appena nel proprio cappottino logoro. Piccole e tremolanti nuvole di condensa si disperdevano dalle sue labbra rosa pallido, rigide a causa del freddo.
- Non lo so - rispose Gwen con indifferenza, nella medesima condizione. Il gelo l'aveva sempre indispettita.
Cosa poteva saperne, lei, di quegli sconosciuti che, incuranti, scivolavano lungo le strade cittadine senza badarsi l'un l'altro?
Sfregò le mani nude e gelide tra loro, poi si strinse nelle spalle.
-  Faresti meglio a lavorare, invece di sognare a occhi aperti quello che fa la gente - mormorò con voce tremula - Mrs. Ellis potrebbe lasciarci di nuovo senza cena.
Cari si girò verso di lei, mostrandosi scocciata.
- Guarda che lo so! Almeno concedimi di pensare ad altro! - ribatté sollevando la ciotola arrugginita verso una coppia di borghesi che stava passando loro accanto; questi le diedero una rapida occhiata, dopodiché l'uomo attirò a sé la donna e insieme aggirarono le bambine, superandole. Quando ebbero dato loro le spalle, Cari mostrò la lingua.
Gwen abozzò un sorriso, imitandola.
- Qualunque cosa stiano andando a fare, sono sicura che non è importante. Anzi, probabilmente staranno andando in qualche casa dell'oppio. I nobili lo fanno tutti - affermò maligna, indicando di nascosto i due spilorci.
- Non tutti - rispose Cari sedendosi contro il muro di un emporio. Sentì le pietre gelide appiccicarsi alla schiena e bloccarle la circolazione. Si scostò leggermente, poi continuò - Quel signore che viene all'istituto ogni settimana, come si chiama... Ah, sì! Mr. Julius o qualcosa del genere... Lui non si fa di oppio. E' una brava persona.
Gwen prese posto accanto a lei, facendosi passare la ciotola e rivolgendola verso i passanti.
- Quello che viene a portare i soldi? - bofonchiò, cercando di impietosire un vecchio in frac con l'espressione più miserabile che potesse sfoggiare -  A me fa paura.
L'amica non poté fare a meno di trattenere le risa.
- In che senso ti fa paura? - domandò, coprendosi la bocca per frenare la battuta sarcastica che altrmenti avrebbe sguinzagliato; a Gwen non piaceva che la prendessero in giro, ma a volte diceva delle tali assurdità...
- Non so spiegarlo! - sbotto infatti quest'ultima, spintonandola - Quando lo vedo mi fa paura, tutto qui. E' sempre lì, ritto in piedi, che ci guarda e sorride. Non so cosa pensi, forse è semplicemente un po' matto, ma... Non vorrei assolutamente sapere dove va quando esce dal nostro cancello...


Allen esibì uno sguardo perplesso.
- Mr. Julius? - si chiese, mentre ascoltava il nuovo racconto della loro improbabile ospite. Erano seduti su due poltroncine di vimini che davano sulla finestra della camera della Noah, dalla quale s'intrufolava un vento caldo e gentile - Chi è?
Gwen si bloccò improvvisamente, gli occhi dorati fissi su un punto indefinito fuori dal piccolo spazio della stanza.
Bella domanda.
Non ci aveva pensato, prima, mentre raccontava, ma ora l'intervento del giovane esorcista la coglieva impreparata. Provò a pensarci, a ripercorrere con la mente gli attimi trascorsi al St. Francis per individuare, nascosto da qualche parte tra il vociare dei bambini e il clangore delle stoviglie logore, il volto dell'uomo che aveva appena nominato. Ma ad attenderla, solo il vuoto. Come aveva potuto parlare di qualcuno di cui non ricordava il viso, ma di cui permeava una così sgradevole sensazione, tanto forte da intrufolarsi anche nella più banale delle memorie?
Forse poteva riuscirci. Forse poteva riportarlo alla luce. Le bastava solo ripartire da capo, e scavare tanto a fondo da imprimere nella propria mente, una seconda volta, i dettagli che i suoi occhi avevano inconsciamente catturato anni prima in quell'edificio vecchio e cadente.
Immaginò il salone ampio, sfarzoso, come non lo aveva mai visto; rivide il pavimento lucido pieno di macchie, i quadri di paesaggi appesi alle pareti, i decori marmorei sul soffitto a volta dei corridoi ma, soprattutto, si lasciò pervadere dal caotico senso di smarrimento che quel luogo sapeva infondere come nessun'altro. E lei, semplice ragazzina di otto anni, ricca di dolore e speranze, ingenua, curiosa, capricciosa, vi si ritrovò in mezzo...

- La prego, non se ne vada! - Mrs. Ellis raggiunse il nobiluomo che, imbracciati ombrello e tuba, era in procinto di varcare la soglia principale dell'istituto. Lo bloccò un attimo prima che uscisse - La scongiuro, ci ripensi!
- Troppo tardi, Milady - rispose questo con tono duro e severo - Sono tempi duri per tutti. E voi siete la sola istituzione che non ho a cuore di preservare. Con permesso.
Un fugace inchino, e svanì nella pioggia.
La donna rimase lì, di fronte al portone spalancato e con il braccio vanamente teso in avanti - come a richiamare la figura che, ormai, era divenuta un tutt'uno con lo sfondo triste e uggioso della città.
Gwen e Cari avevano osservato la scena dal salone principale, mentre i loro compagni, incuranti di tutto, continuavano a schiamazzare senza tregua. Si erano brevemente guardate negli occhi, comprendendo all'istante ciò che era appena successo. E sui loro volti figurò un'espressione che nessuna delle due avrebbe avuto il bisogno di spiegare.
Si alzarono dal tappeto, scavalcando con maestria gli ostacoli rappresentati da giocattoli rotti e bambini troppo piccoli per rendersi conto di ciò che sarebbe accaduto. Corsero come fulmini fino in fondo all'atrio, addentrandosi su per una scalinata ampia a cui avevano appena dato la cera. Cari rischiò di scivolare un paio di volte, ma Gwen fu sempre lì per sorreggerla. Arrivarono in cima, finendo in un corridoio lungo e vuoto. Lo percorsero un po', dopodiché spalancarono una porta e si fiondarono nella camera. I letti a castello disposti in file ordinate, quattro per lato, erano perfettamente in ordine. Le due bambine riconobbero i loro, sui quali avevano disposto alcune cianfrusaglie recuperate in città: una bambola scucita, probabilmente abbandonata da una facoltosa padroncina, un fermacapelli scheggiato e tanta altra paccottiglia.
Gwen si sedette sconfortata sul materasso bianco e ruvido; Cari ci si buttò sopra senza riguardi, rischiando di rimbalzare per terra.
- Hai sentito? - domandò quindi all'amica - Chiuderanno l'istituto.
- Già, perché a quel dannato spilorcio non frega nulla di noi. Di tutti noi - borbottò questa nascondendo la testa tra le ginocchia - Quindi... Ora cosa succederà? Ci separeranno?
Cari tacque, rivolgendo i propri occhi celesti al letto sopra il suo.
- Non lo so - ammise dopo un attimo di riflessione.
Un piccolo singhiozzo inquinò il silenzio della stanza. Cari si alzò improvvisamente, sedendosi di fianco all'amica, per poi circondarla con le braccia.
- Non piangere - la implorò tiepidamente, adagiando il viso paffuto sulla sua nuca, abbassando delicatamente le paplebre - Non so cosa deciderà la megera, ma qualunque cosa accada, noi non ci sapareremo.
Gwen sollevò appena la testa, incrociando il suo sguardo affettuoso: era lucido di lacrime, come il suo.
- Come fai a dirlo, non puoi saperlo - mormorò appena, la voce incrinata dal pianto. E aveva ragione. Nessuno poteva delineare con certezza le sorti a cui i bambini sarebbero andati incontro. Ora che il loro maggior benefattore aveva deciso di interrompere il sostegno economico garantito fino ad ora, sarebbe successo l'impensabile. I bambini sarebbero stati smistati in altri istituti, senza essere rimessi in strada: erano troppo preziosi perché li si lasciasse vagare con così tanta libertà in giro per Londra. E di darli in adozione, neanche a parlarne! Chi mai avrebbe voluto dei mocciosi capaci solo di strillare e lamentarsi? No, Gwen ne era certa: le avrebbero divise, senza ritegno, e mandate in luoghi il più possibili distanti tra loro, dove la crudeltà e i soprusi non sarebbero cessati.
Se fino a quel momento aveva avuto la forza di andare avanti, era stato grazie a Cari. Come avrebbe fatto a sopravvivere senza di lei? Senza il suo sorriso, il suo sguardo fiducioso, la sua incrollabile determinazione?
Non avrebbe potuto. Ecco la risposta. Dominata da questo sconfortante pensiero, si rannicchiò ancor più in se stessa, come a isolare il mondo esterno dal suo cuore turbato, già ferito a sufficienza. Non voleva tornare ad essere sola. Non avrebbe sopportato un solo giorno di più in solitudine.
- Invece sì - si sentì rispondere con forza - Lo so perché io non permetterò mai che accada il contrario.
Le sue labbra sottili si posarono dolcemente sulla guancia di Gwen, interrompendone il placido scorrere delle lacrime - Fidati di me.
La minore sorrise appena, rincuorata da quel gesto d'amore puro e sincero, il gesto di un angelo. Si asciugò gli occhi con una mano, tirò sù col naso e infine, si strinse all'amica in un abbraccio forte, deciso, che mai nessuno avrebbe potuto sciogliere se solo una delle due non avesse voluto.
- Io mi fido di te - replicò Gwen, chiudendo gli occhi - E' tutto il resto che mi fa paura.

Un tuono fece improvvisamente tremare i vetri delle finestre. Le due bambine si alzarono dal letto ad una velocità impressionante. Sui loro volti pallidi dallo spavento erano impresse la paura e la fiducia assieme, un connubio contrastante, dal quale non sarebbe potuto uscire nulla di più che una semplice certezza, fredda, apatica. E solo a quel punto, una delle due emozioni avrebbe prevalso, soppiantando la rivale in maniera quasi beffarda, sulle vite delle piccole orfane. Ma fino ad allora, tutto quel che era loro concesso di stringere tra le manine piccole e paffute era un'incerta e mutevole forma, chiamata destino. Una forza che molto spesso getta radici ben più in profondità di quanto si pensi.



Angolo di Momoko

Eeeeed eccomi resuscitata! xD
Allora... che dire... Sono stata un po' assente. Tipo un anno intero. Forse più di un anno...... Ma perché perderci in questi pensieri inutili! xD
No, per essere franchi, il mio ultimo anno da liceale sta diventando qualcosa d'insostenibile. Purtroppo lo studio e cavolate varie mi hanno tenuta lontana da EFP, quindi non ho potuto nemmeno mettere mano ai miei scritti. Questo era già in lavorazione, ho dovuto solo completarlo, rileggerlo, correggerlo ecc...
Però, c'è un però!  U.U Io lo ribadisco sempre, che comunque vada, terminerò tutte le mie storie. E recensirò tutte le storie u.u'' Quindi non preoccupatevi, non sparirò del tutto dalla community.
Riguardo al capitolo, finalmente ecco che comincio a parlare seriamente del passato di Gwen. Il prossimo sarà dedicato a lei e ad alcuni eventi particolari, quindi aspettatevi un bel flashback lungo lungo :3
Presto saprete la verità (mi sento molto Adam Kadmon in questo momento u.u), quindi... Mi dispiace molto per il ritardo, ma anche a costo di metterci un tempo incalcolabile, voglio sempre potervi portare capitoli scritti correttamente e senza errori, come è giusto che sia d'altronde.
Vi ringrazio infinitamente per aver letto il mio ennesimo sclero, e mando un bacione schioccoso a tutte quelle anime impavide che lo recensiranno çAç *Offre biscotti*. Come sempre, vi invito a segnalarmi qualunque errore, svista, o anche solo a darmi il vostro parere, bello e o brutto che sia, io sono sempre contenta di sapere la vostra opinione :)
Ora mi dileguo OuO A prestooooo,

Momoko <3

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2060507