Notte stellata

di lady hawke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gargoyle ed occhi ***
Capitolo 2: *** Di amori, Monna Lisa e case vecchie ***
Capitolo 3: *** Farfalle ***
Capitolo 4: *** Passeggiate veneziane, ultimi sospiri e pericolosi fossati ***
Capitolo 5: *** Di terre bagnate, di odori, di Susanna e di balli ***



Capitolo 1
*** Gargoyle ed occhi ***


Note: Questi per me sono veri e propri esperimenti, per cui non so se potranno piacervi o meno. Sono esercizi di stile in cui ho voluto cimentarmi, se possono essere di gradimento per altri sta a voi dirmelo. Grazie alle Muse per l'opportunità e per il sostegno ^^.

La prima flash ha i seguenti prompt: #Temporale e #http://www.danielesemeraro.it/foto/wp-content/uploads/yapb_cache/gargoyle_paris.e3shleoavz4kw040skcwg0g4k.594zrl0ettogcw0wkgwccgk80.th.jpeg 191 parole


Un temporale non è diverso da un suono di campane. Cambia la nota, ma identica è la vibrazione che si propaga. Le campane portano fiumi di persone dentro a una chiesa, un temporale porta fiumi di acqua. Gocce piccole che s’insinuano, filtrano, accarezzano e graffiano. Possono essere un sollievo, possono pungere come aghi, possono corrodere e sciogliere. Si somigliano tutte e tutte sono diverse, come le persone che camminano così in basso, piccole formichine che scorrazzano fuori e dentro e che ti notano appena.
Se sei un Gargoyle di Notre Dame significa che ti aspetta una lunga vita di osservazioni, di pensieri e di gocce che ti cadono sulla testa, rotolano sul naso e sulle ali. Non ti viene il raffreddore, ma finisci per essere scavato dentro, fino in profondità, perché la pietra, in fondo, è viva.
Il temporale, per un Gargoyle, è una consuetudine piacevole, perché quel rombo che fa vibrare dentro è come il battito di un cuore innamorato, che arriva all’improvviso e ti sconvolge un po’. E’ un brivido di piacere in una vita lunga secoli, passata a reggersi la testa con le mani a scrutare la città.

La seconda ha come prompt Where you Stand dei Travis per 229 parole. http://www.youtube.com/watch?v=W-ZT2Hgonwc


Hai mai provato la sensazione di camminare per strada e di provare a tenere gli occhi aperti fino all’ultimo, fino quasi a farli seccare, prima di chiuderli?
E’ un gioco scemo, e non serve a niente. L’idea di fondo è cercare di non perdere niente. Ogni volta che le palpebre scendono, anche solo per un nano secondo, per quell’attimo sei cieco, perduto. È un attimo e non ci sei. Non vedi il mondo ed è come se il mondo non vedesse te. Nell’arco di una giornata, sparisci più volte di un prestigiatore. È come se ti sgretolassi al suolo, perdessi consistenza e svanissi. Se tu potessi tenere gli occhi aperti perderesti meno cose, meno persone. Apparterresti costantemente al mondo. L’unico vantaggio dello sparire è che ti liberi di tutto quello fai per fingerti felice e sereno. Se non ci sei, sei quello che vuoi; il rischio, però, è non riuscire più a tornare indietro.
Che fare, allora?
L’unica è legarsi un filo di spago al polso e sperare che qualcuno ne raccolta un’estremità, fare in modo che qualcuno sia lì accanto a te, a strattonarti prima che tu ti perda quando chiudi gli occhi e sparisci, quando non sei felice e non sai perché, quando ti senti una banderuola e vuoi che il vento smetta. Se qualcuno ti rimane accanto allora puoi perderti, perché avrai la certezza di ritornare.

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Capitolo 2
*** Di amori, Monna Lisa e case vecchie ***


Note: Piccola flash sul controverso e abusato tema dell’amore. Prompt: Mai abbastanza. Amore e tosse non si possono nascondere Ovidio.
Parole 146.

Te lo dicono spesso: non è mai abbastanza.
Te lo dicono tutti, in realtà, i poeti in special modo, da Ovidio a Shakespeare, da Platone a Goethe. L’amore è quello che non trattieni, quello che ti uccide, che ti distrugge, che ti completa. Non lo puoi nascondere, e per questo finisci per rigettarlo sempre fuori come un colpo di tosse, finisci per cercarlo ovunque, per raccoglierlo ovunque; perché non è mai abbastanza e passerai la vita a cercarne ancora e ancora. Anche se non ti fa dormire come la tosse, anche se ti tormenta come un incubo, anche se lo cerchi perché in fondo è ciò che desideri, dell’amore non te ne libererai mai, per tutta la vita, perché è un veleno, e di quelli dal sapore dolce. Perché non è mai abbastanza, ti dicono, e imparerai a rincorrerlo prima ancora di sapere cosa voglia dire.





Note: Monna Lisa da una prospettiva diversa dal solito! Pacchetto: Rosmarino Pistacchi. Monna Lisa. Prompt:  Finestra chiusa. Introspettivo. Parole: 213.

*Perché quel sorriso, Monna Lisa?*

Perché questa domanda, distratto ammiratore? Che c’è nelle mie labbra da intrigarti tanto? Perché mentre sfili davanti al vetro che mi protegge non fai che chiedermi questo? E’ l’unica cosa che mi vuoi chiedere? Sono molte le domande che potresti farmi.
Chi sono, io? Perché Leonardo mi amava tanto, perché ti fisso con tanta insistenza?

*Perché quel sorriso, Monna Lisa?*

Perché non c’è niente di vero, turista di fretta? Ti importa saperlo? Porterai a casa una cartolina presto sgualcita e agli amici dirai solo “Non me l’aspettavo così piccola”, come se l’arte si valutasse a metri quadri.

*Perché quel sorriso, Monna Lisa?*

Perché tu me lo chiedi? So cosa pensi, pensi che io non sia degna della mia fama, che non mi meriti quest’ammirazione, né questa folla. Però sei qui, e cadi, come tutti, sul semplice.

*Perché quel sorriso, Monna Lisa?*

Perché il vetro  che mi protegge è come la mia finestra, quella che avevo a casa mia. La mia barriera rispetto al mondo. Perché non vista osservo tutto e tutti. Perché mentre la gente si perde in domande sciocche io rido. Perché io sono eterna, e voi no. Perché Leonardo vi ha tirato uno scherzo, e io con lui. Perché io sono arte, e vivrò per sempre.




 

Note: Questa è la storia più personale, perché i fatti narrati sono realmente accaduti alla mia persona. Abbiatene pietà! Pacchetto Dragoncello. Prompt: mani in tasca parole: 410.

Mi piaceva la casa in campagna. Un po’ fuori mano, un po’ antica e un po’ no. La torre medievale era stata restaurata da mio nonno a suo modo, e a suo modo voleva dire fregandosene delle richieste della Soprintendenza da lui consultata, perché erano troppo lagnosi. I coppi del Seicento spostati durante il restauro però regalavano emozioni, così come l’odore dei mattoni bagnati mentre sgocciolavi per sbaglio l’annaffiatoio, tentando di bagnare i gerani. La parte antica era un po’ così, aristocratica e rustica, con la scala coperta, le cantine che ti inghiottivano, i fiori sempre a rischio di seccare. La parte più nuova era gialla, con la pittura da sempre scrostata. Una piccola porta d’ingresso, un corridoio e stanze che si aprivano ai lati. Poi le scale, altre stanze e altre inquietudini. Come il solaio, in cui stazionavano cassepanche che a me ricordavano sarcofagi, e la sola idea di sostare nella stanza ricavata lì accanto era fonte di terrore.
Ma il peggio era il corridoio d’ingresso, piccolo, angusto, tappezzato di foto di parenti morti da almeno un secolo. Foto di contadini, di gente seria, in bianco e nero. Donne baffute con fazzoletti in testa e aria da streghe, uomini baffuti più delle donne con cappelli e aria truce. Non erano tanto le facce, il problema, quanto gli occhi. Nessuno mi toglierà mai dalla mente la certezza che quegli occhi fossero vivi, che mi seguissero e spiassero. A me non piacevano e di sicuro io, più giovane discendente di famiglia, dovevo piacere poco a loro. Non dovevo piacergli per forza, o non mi avrebbero mai guardato così male.
Passare di lì era sempre una prova di coraggio. Ci provavo, a fingere noncuranza, con le mani in tasca e l’aria risoluta, ma da bambina ero una cagasotto più di ora, e l’aria da donna vissuta non mi si addiceva. Puntualmente, finivo per correre per il corridoio e lanciarmi sulle scale, non guardando niente se non il mio obiettivo: i gradini della salvezza. Non guardavo i morti negli occhi, perché se io non vedevo loro, loro non vedevano me. Dopo, una volta al sicuro, potevo rimettere le mani nelle tasche dei miei pantaloncini di cotone e considerarmi sopravvissuta. Sconfitta ma viva, fino al successivo attraversamento.
Dovessi rimetterci piede ora, in quella casa, non scapperei più, ma e osserverei quelle facce con aria curiosa, per capire chi sono. E avrei le mani in tasca, ovviamente, come la donna vissuta che ancora non sono.

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Capitolo 3
*** Farfalle ***


Note: http://data.whicdn.com/images/71033780/large.jpg

Ho conosciuto persone che non amano le farfalle. Mi è parso strano, sulle prime, perché non lo avevo mai considerato possibile. In effetti sono animali che danno problemi, fin da bambini. Se le tocchi muoiono, ti si posano addosso e restano lì per ore a fissarti senza un perché, e ti insegnano a catturarle e a metterle in un barattolo.
Io, di contro, ho sempre odiato gli insetti in barattolo: certo è stato divertente prendere un retino e inseguirle per i prati, ma poi vederle lì, al chiuso, in uno spazio stretto e angusto, chiedendoti cosa potresti mai dargli da mangiare perché non muoiano di fame.
Le avevamo catturate, una volta, con la scuola. Altrettanto velocemente, il tempo di un giorno o due, le avevamo liberate nel cortile, perché anche le mie maestre non erano grandi fan della detenzione in barattolo.
Mi sono sentita in colpa comunque, a vederle svolazzare in giro, perché sapevo quanto era breve la loro vita, e un giorno in gabbia poteva significare aver distrutto quasi metà della loro esistenza.
A ben pensarci le farfalle sono animali tristi: sono delicate, vivono poco, un niente le uccide. La sola cosa che offrono in cambio è la bellezza delle loro fragilissime ali, un avveniristico insieme di pigmenti. E’ il loro unico fascino, l’unica ragione perché non le uccidiamo come faremmo con una mosca. A ben guardarle, le farfalle insegnano il valore della bellezza, e ogni volta che ne vedo una volare in cielo, libera, mi ritrovo a credere che forse ne vale la pena, che forse, consce della loro bellezza, le farfalle sono felici, anche se vivono tre giorni.

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Capitolo 4
*** Passeggiate veneziane, ultimi sospiri e pericolosi fossati ***


Note: Di seguito vi propongo alcune flash a tema. In ognuna di esse, come per le altre, troverete dei prompt che mi hanno aiutato nella stesura. Alcune dicono molto di me, altre dicono pochissimo. Sono per lo più pensieri intimistici. In questo caso i temi sono Venezia, il fumo di sigaretta, e una piccola storiellina a tema storico.


Note: Prompt: Bottone. Immagine: http://31.media.tumblr.com/51eb0b444faabddebe59e98c23ae9fd6/tumblr_mry9iyLjS61su19kwo1_500.jpg Parole: 443


Passeggiata veneziana


La prima volta che mise piede a Venezia era autunno e una nebbia impalpabile avvolgeva le cose. Aveva sentito parlare molto bene e molto male di quella città. L’aveva vista migliaia di volte in foto naturalmente, e non aveva bisogno delle parole degli amatori per convincersi che fosse bellissima. Poi i detrattori le avevano ricordato che era affollata, puzzolente e moribonda.
Curiosamente, si ritrovò a dare ragione ad entrambe le fazioni. Perse un bottone del suo cappotto nero sulle scale della stazione di Santa Lucia, appena arrivata, e questo la mise di cattivo umore. Fu spintonata da asiatici, da americani e da russi, e questo non le piacque affatto. Pagò un caffè due euro e cinquanta e l’umore si fece nero.
Camminò a lungo, esplorò, si fece largo e alla fine, quando la sera si ritrovò nella sua stanza d’albergo, si rese conto che la sua impressione della città era quella di una città che moriva da almeno due secoli, che si spegneva lentamente, una lucciola dalla luce intermittente e sempre più fioca. Si chiese cos’avesse spinto i veneziani a crearsi una città sull’acqua, così facile a sfaldarsi. S’addormentò presto, e si svegliò verso l’alba, priva di stanchezza e di sonno. La città dormiva e fu per questo che decise di prendersela lei. Presto avrebbero ricominciato a fare avanti e indietro i turisti di corsa, presto sarebbero passate le crociere accanto a piazza San Marco. Alle cinque e mezza del mattino, invece, si potevano attraversare le calli e i ponti relativamente indisturbati. C’era freddissimo, e la nebbia che avvolgeva tutto quanto penetrava sotto gli strati di vestiti facendola tremare. Pur rischiando di perdersi, scelse di cercare i passaggi più stretti, le vie più ignote. Senza nessuno, Venezia tornava bella. Riacquistava di colpo il fascino che aveva avuto un tempo, e non sembrava più morente, ma solo una signora con le ossa fragili che ti chiedeva la cortesia di attraversarla con calma, per non sprofondare. E camminando, in attesa che il sole sorgesse dal mare, trovò per terra un bottone, perso probabilmente da una turista come lei, in una giornata affollata. Se il suo era stato il banale bottone nero di un cappotto nero, questo era rosso, con le venature del legno ben visibili sotto la vernice. Lei lo raccolse e se lo mise in tasca. L’idea era di usarlo per sostituire il pezzo mancante, anche se non c’entrava nulla. Anche sua nonna, come Venezia, conservava i bottoni dalle fogge più strane, perché sapeva che potevano tornare utili. Venezia poteva essere vecchia e acciaccata, poteva perdere dei pezzi ed essere in balia di altri, ma aveva le sue gentilezze, e lei gliene era grata.

 

Note: prompt: sigaretta. Parole: 242

Ultimi respiri

Se tornava indietro con la mente non riusciva a ricordare esattamente cosa l’avesse spinto a fumare. Non era stata propriamente una questione di ribellione giovanile o qualcosa di simile, perché già allora aveva capito che si sarebbe trattato di un modo molto infantile o molto stupido di dichiararsi contro qualcosa. Certo era che l’odore di sigaretta non lo aveva mai disturbato, l’aveva anzi trovato più piacevole di altri. La cosa che gli piaceva di più, molto banalmente, era il fumo tutto arzigogolato che saliva e si disperdeva verso il cielo, zigzagando verso l’alto. In fondo era un po’ come avere a che fare con le bolle di sapone, solo in una versione più sofisticata.
Si poteva dire che aveva iniziato per questioni estetiche, ed era per questo che non riusciva a considerarlo un vizio. Il sapore del fumo non era buono, ma indifferente, il gesto di per sé non lo rilassava, ma niente era come osservare quei piccoli arabeschi danzanti e darsi l’illusione di averli creati quasi per propria mano. Era architettura tra le dita, e per essa si era rivelato disposto a rinunciare a un buon fiato o a dei polmoni puliti, di cui in realtà, non potendone vedere l’aspetto, gli importava poco. Perfino nella vecchiaia non osò privarsene, e l’ultima immagine che portò di là con sé, ovunque fosse la sua destinazione, fu una colonnina di fumo ritorta come una torre fantastica, mentre la mano si posava sul posacenere, stanca.

Note: prompt: corrente Parole: 312

 

Pericolosi fossati


Ludovica aveva sempre trovato deludente il fatto di non vivere in un castello con un fossato. Le dava l’idea che chiunque, pure il garzone del macellaio, potesse farsi largo fino a casa sua. A poco erano servite le spiegazioni sul coraggio delle guardie, sulla solidità delle mura, sull’altezza del rivellino… Non c’era l’acqua a proteggere Ludovica, e questo la irritava.
“I Delle Mele ce l’hanno, il fossato, e pure bello largo.”
“Ma a te piace l’acqua che scorre, nel fossato l’acqua è ferma.” Era solita ricordarle sua madre.
“Questo perché i Delle Mele hanno un castello fatto male.”
A Ludovica piaceva il rio che passava dietro casa, fuori le mura. A volte in estate si prosciugava del tutto, ma in primavera a lei piaceva andare lì e vedere tutta quell’acqua gelida, portata giù dalla neve sciolta delle montagne, rotolare via, vivace e allegra. Aveva sognato di immergercisi dentro più di una volta, ma non sapeva nuotare, e le avevano sempre detto che era pericoloso. Non abbastanza pericoloso però per Giovanni, il figlio del capitano della guardia. Faceva sempre a gara a lanciarsi in acqua dalle rocce più alte, perché lui nuotava bene come i pesci.
“Un soldato come me, Ludovica” le diceva “e il tuo amato fossato non servirebbe a niente, l attraverserei a nuovo e BU!, ti sorprenderei di spalle.”
Giovanni faceva spesso agguati, in effetti, e tutte le volte Ludovica fuggiva via spaventata, salvo poi sentirsi molto sciocca. Eppure, un giorno, l’aveva avuta vinta. Stanca dei continui rimproveri dell’amico si era messa lei a spiarlo, e quando l’aveva visto attraversare il cortile d’onore lei gli aveva rovesciato in testa, dalla sua finestra, un secchio di gelida acqua corrente del rio.
“Bu! Messer Giovanni!” gridò, osservando soddisfatta il ragazzo boccheggiare e strizzarsi i vestiti. “Mi hai dato un’idea grandiosa! Non più fossati, ma gelide cascate, e il mio castello sarà inespugnabile!”

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Capitolo 5
*** Di terre bagnate, di odori, di Susanna e di balli ***


Note: Altre originali, altri prompt, altri pensieri rigorosamente notturni!


 

Note: Prompt: Terra bagnata parole: 323

Terra Bagnata

La pioggia l’aveva sorpresa all’improvviso, come spesso accade con i temporali di fine estate. Aveva avuto il tempo di vedere appena il cielo farsi cupo e di sentire la terra emanare quel suo caratteristico odore di una cosa che non è ancora bagnata, ma lo sarà. Era poi corsa via, su per il sentiero che aveva preso, verso casa. Ci aveva messo poco meno di cinque minuti, per tornare sui suoi passi, e si era ritrovata sotto il portico di casa, fradicia. Era fastidioso sentire i vestiti appiccicati addosso, avere le scarpe piene di acqua e i capelli gocciolanti. Si tolse le scarpe ed entrò in casa, cercando di non lasciare impronte troppo evidenti.
Il temporale intanto continuava a far battere le gocce sul tetto, a tamburellare sulle finestre. Fu un continuo sottofondo per tutto il tempo che lei impiegò a cambiarsi e a lavarsi i capelli. Aprì la finestra della sua camera per togliere la cappa di umidità della sua stanza e il naso si riempì di nuovo dell’odore della terra bagnata. Era un odore che le piaceva, le dava una sensazione di piacere e di pace. Si immaginava come fosse essere… magari una volpe e correre sotto l’acqua, senza doversi preoccupare per i vestiti, immersa nella boscaglia, pronta per la caccia. Riusciva a immaginarsi con il muso appuntito, la pelliccia fulva, il naso in alto per captare l’odore delle lepri e per andare a caccia. Sotto di lei, la terra umida e molliccia.
Rimase un po’ lì, pensando a quanto sarebbe stato bello poter cambiare pelle e semplicemente correre via, con una grandissima coda dietro di sé. Il temporale era però finito, così come il tempo dei sogni ad sogni ad occhi aperti. Rassegnata, si tolse l’asciugamano dalla testa, pensando di sistemarsi i capelli, ma non chiuse la finestra. L’odore di terra bagnata è così delicato che scompare subito dopo l’arcobaleno, e valeva la pena sentirlo per bene e a fondo.


 

Note: Odore di Erba tagliata. Parole: 331

Né dolce, né amaro

La prima volta che era stata in campagna era stato in estate, quando aveva dieci anni. Era sempre vissuta in città, e quel mondo verde, marrone e giallo l’aveva sempre visto sulle figure, e mai dal vivo. Si era fatta un’idea precisa di cosa aspettarsi, e si era sbagliata di grosso. Sembrava tutto così bello, dai libri: i fiori, i campi con il grano e poi tutti quegli animali…
Ma la realtà era popolata da mosche che le ronzavano vicino alle orecchie, da odori che mai avevano transitato sotto il suo naso, da polvere e dalla terra, che le sporcava i vestiti e le scarpe anche quando lei faceva di tutto per rimanere in ordine. Così, delusa, si era rassegnata a rimanere spesso in casa, ignorando i suggerimenti della nonna di andare fuori a giocare, e aiutandola con le faccende e con la cucina. Aveva semplicemente detestato il vedere per davvero da dove uscissero le uova, e aveva mangiato la crostata solo perché l’aveva vista rimanere in forno quaranta minuti.
No, la campagna non era per lei. Poi era capitato qualcosa di imprevisto. Il grano era stato mietuto, e l’erba per le mucche era stata tagliata, così come in giardino. Lei aveva seguito quelle operazioni dalla finestra della sua stanza, dove lo sporco e il rumore giungevano attutiti, ma non l’odore. L’odore di erba appena tagliata salì le scale e scavalcò le inferriate fino al suo naso, e niente riuscì ad impedirlo.
Lo trovò strano, ma non spiacevole come quello della stalla vicino a casa. Non era nemmeno un odore, ma quasi un profumo. Non era né dolce né amaro. Non forte, non pungente, ma sapeva di estate e di sole, e di vita. Le piacque da subito, e inspirò a pieni polmoni per sentirlo il più a lungo possibile.
Fu contenta quando poi, a settembre, tornò in città. Ma continuò a mettere spesso il naso fuori dalla finestra, sperando invano di sentire odore di estate, di erba, e di campagna.

Note: Originale. Prompt: “Dovranno uccidere il tuo nome, prima di uccidere te.” Il Gladiatore. Parole: 265

Susanna

Il nome è l’identità che ti viene data da altri. A volte ti piace, a volte no. Fatto sta, che volente o meno, è quello che ti definisce. A me non piaceva il nome Susanna, ma era mio. Ero Susanna per me, i miei amici, i miei cari. Lo ero per il mondo, e quindi lo ero per me. Mi dava una personalità, perché ero la Susanna dai capelli ricci, non bionda, non rossa. Avevo labbra sottili e gli occhi chiari, e tutto faceva parte di Susanna. Susanna l’ebrea è diventata il numero 453325 in una mattina di marzo, dopo un viaggio in un carro bestiame per chilometri, dopo la divisa a strisce, dopo i colpi sulla nuca con il calcio del fucile ogni volta che rallentavo il passo. Sono stata il numero 453325 per sei mesi, prima di finire in fumo, e praticamente ero già morta. Lo ero da prima perché chiunque avessi conosciuto nella mia vita era retrocesso allo stadio di numero, e nessuno avrebbe più potuto parlare di me, in futuro. Niente più ricci, niente più occhi chiari a guardare il mondo. Ho cercato di conservarlo a lungo il mio nome, dentro di me, ma quando nelle ultime settimane mi riferivo a me stessa, nella mia testa, come al 453325, ho capito che non sarei più tornata a casa.
A quel punto mi è rimasto solo un rammarico, e un dubbio. Chissà se, vivendo qualche anno di più, sarei stata diversa. Susanna mi è sempre sembrato un nome brutto, ma forse avrei avuto solo bisogno di tempo per imparare a sentirlo mio.


Note: Fare tre passi avanti e uno indietro. Parole: 159

Valzer

Schivare le pozzanghere è un po’ come ballare. Uno, due e tre, e poi via, indietro prima di sprofondare. Un po’ a destra, un po’ a sinistra, sul sentiero pieno di fango, a sporcarsi le scarpe, a schizzare terra bagnata in giro. L’orlo della gonna alzato, per evitare che il tessuto blu si macchi, anche se è evidente che non resisterà ad una danza nei boschi. L’orlo della veste le causerà guai, ma non ci pensa, mentre le sue trecce ondeggiano in giro, al ritmo dei saltelli. Tre avanti e uno indietro, come in un valzer. Presto una voce la richiamerà nella grande casa, ma per ora è meglio non pensarci, godersi il fresco e l’umido della brughiera, farlo penetrare nelle ossa fino quasi a tremare.
Tre avanti e uno indietro, evitando le pozzanghere, facendo schizzare gocce marroni in giro, dipingendo la lunga gonna, non pensando alle conseguenze, ma solo a saltellare, libera, come un fantasma o una farfalla.

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