Farfalle di carta

di Gaia Bessie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Aghi d'acqua ***
Capitolo 2: *** Dimmi che mi ami ***
Capitolo 3: *** Fogli bruciati ***
Capitolo 4: *** Dimmi che (Mi ami?) ***
Capitolo 5: *** Pensieri e parole ***
Capitolo 6: *** Il vaso scoperchiato di Pandora ***



Capitolo 1
*** Aghi d'acqua ***


 
Questa storia esiste perché, fondamentalmente, sono una persona parecchio egoista: è insito in me il bisogno continuo di poter dimostrare che le cose potevano andare anche come sostenevo io. E così è nata l'idea per questa storia, un progetto ambizioso per una serie "Le rose che non colsi" formata da diverse parti. Questa è la prima, il frutto di qualche mese di lavoro (e che nessuno mi chieda perché word ha cancellato un paio di volte il documento. La mia frustrazione ha giunto livelli epici) e di tantissimi scleri. Perché chiaramente è mio diritto urlare contro i personaggi quando non si comportano come voglio io. E non lo fanno, perché quest'amosfera cupa e opprimente (ma, d'altronde, come poteva essere la corte di un Crono vincente?) confonde un po' tutti. E, sì, questo è un modo carino per dire che sono entrata nel più completo OOC.
Chiaramente, la storia segue una linea diversa dal Canon: Luke non ha mai ospitato Crono nel suo corpo, ma si è limitato a servirlo come "Generale" e a portargli Dedalo, il quale gli ha gentilmente fornito un corpo. Imperfetto, ma pur sempre un corpo. Come da copione, quindi, i cattivi hanno vinto e Crono ha insediato la sua corte un po' particolare. Il resto della trama, spero, si chiarirà con il continuare della storia: sono sei capitoli, già scritti (ma, ehi, abbiamo un sequel) che verranno pubblicati ogni venerdì. Altre note le trovate a fine capitoli, con i vari prompt/citazioni. Per qualsiasi cosa, trovate il riquadro del mio ask nella mia pagina autore, basta un click. Buona lettura.
(... E tantissimi auguri alla mia Silvietta, che oggi compie gli anni. Ha assistito a quasi ogni minuto della stesura di questa storia, insieme alla mia sorellina, che saluto con tantissimo affetto. Altrimenti mi uccide e poi qualcuno dovrà pulire lo scempio sul tappeto).

 



 
Non posso scriverlo nella dedica,
perché ci sono cose che, oltre a non poter essere urlate,
non possono nemmeno essere scritte.
(Dimmi che mi ami).

 

C'è qualcosa di strano, in Annabeth Castellan: qualcosa che stordisce e depista, un aggettivo insito in lei che svia da una qualunque supposizione. Perché succede che, quando qualcuno si ferma a guardarla, nota solo l'alone sbiadito di malinconia che l'avvolge e, il secondo dopo, lei è già sparita.
E qualcuno dice che è il suo sorriso, freddo e di quella malinconia che scioglie il cuore, lo stesso sorriso che – così si dice – è stato in grado di stregare il Generale Castellan, che certamente non è noto per il suo buon cuore. Eppure, sua moglie è tutta un cuore, perché è lei che piange quando passa davanti al cimitero e pensa che alcuni bambini sono rintanati nel ventre della madre più grande di tutti, mentre lei è fuori ad accettare fiori blu da un galantuomo che certamente non riscontrerà il favore del Generale. Lui è sempre con lei, sempre pronto a coprirle le spalle con il braccio e a dimenticare la provenienza già nota di quelle lacrime, poiché ha la certezza di non averle provocate lui.
È stato Luke Castellan a raccoglierla e a portarla via dalle rovine del campo di battaglia, strappandola dalle grinfie di un fato troppo duro per lei, e poi sposata con il benestare di una divinità che può essere corrotta solo con il sangue, poiché è di sangue e disperazione che si nutre. Probabilmente il Generale si era dannato per sua moglie: l'avevano visto tornare, lacero e insanguinato, dalla battaglia. E si era già perso, con quel corpo sottile abbandonato fra le sue braccia, scosso da tremiti.
Era tornato che tremava, sotto la scorza dura del soldato, per quell'unica paura che gli scuoteva l'anima, dilaniandolo. Le stringeva la mano e la trascinava via dalla polvere.
C’è qualcosa di strano, in lei, anche mentre si muove per la stanza, al braccio del marito: la signora Castellan si trascina dietro la polvere della battaglia e le lacrime delle vedove, quelle che ti rimangono dentro e non escono più, quelle che lei versa per una morte abolita dalla memoria comune. Eppure si palesano nel suo sorriso – e succede che suo marito, ogni volta che la guarda, rimane pietrificato: come una statua o un soldato davanti a una ferita vecchia di anni – e nelle sue movenze accorte, sotto il mantello di sicurezza che il Generale le tiene addosso e non le toglie mai di sopra, per proteggerla da un pericolo che probabilmente vede solo lui.
E qualcuno dice che, per Annabeth Chase, la guerra non è mai finita.

 

***

 

L'aveva colta che era appena finita l'estate, il vento freddo che la faceva oscillare pericolosamente come un fiore sul punto di cadere nell'erba: l'aveva trovata che era ancora sul campo di battaglia – e si tappava le orecchie, mentre le lame sfrecciavano sopra la sua testa. Ma non era veramente lì, mentre qualcuno avrebbe potuto ucciderla e lei non riusciva a muoversi – a fissare un punto non meglio precisato, all'incirca allineato con l'orizzonte, rannicchiata in un angolo. Tremava ancora, come se fosse sotto attacco. Scivolando accanto a lei, era riuscito a scorgere quella macchia rossastra, che poi aveva compreso essere il sangue di Percy Jackson ed era scattato in piedi animato da una piacevole vampata che gli scaldava le viscere. L'aveva sollevata come se fosse stata un fuscello, passandole le braccia attorno ai fianchi per tirarla su e poi caricarsela in spalla con un'estrema facilità. Lei non si era nemmeno opposta, non aveva gridato né pianto, si era semplicemente abbandonata sulla sua spalla, il viso nascosto dalla pelle tenera del collo del Generale. In quel momento, lui aveva deciso che l'avrebbe salvata: quando se l'era caricata sulle spalle e non aveva nemmeno pensato a ucciderla, solo a trattenerla per un po', solo per dimostrarle che poteva vivere anche senza la miserevole compagnia di Percy Jackson.
E l'aveva scaricata su un letto dalle lenzuola un po' ruvide e piene di quel profumo pungente da Generale, mentre si avvicinava alla porta con passi incerti. Lei l'aveva guardato con occhi piene di lacrime. La porta si era chiusa comunque.
Luke Castellan era tornato che erano passate circa cinque ore e si era gettato sul letto, mugolando di dolore per una ferita ancora aperta sulla schiena. Si era voltato con circospezione, piegando leggermente la testa, trovandosi dunque vicino allo sguardo tagliente di lei: aveva smesso di piangere, non avrebbe più ricominciato.
Le aveva circondato la vita con un braccio, stringendola fino a farle male quando lei aveva tentato di divincolarsi dalla sua presa. Si era avvicinato al suo viso, sfiorandole l'orecchio con le labbra sottili, che alla luce tenue della stanza sembravano più un'altra ferita nel suo stesso viso. Quando lei l'aveva guardato negli occhi, aveva trovato solo quel rancore eterno di cui Luke non riusciva a liberarsi, quella scintilla che era divampata quando si era accorto che lei non sopportava il suo tocco.
«Mi sposerai» aveva sussurrato, sfiorandole la guancia con la punta del dito. «Sarai la signora Castellan» e le aveva spinto una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Sarai bella, ammirata, rispettata» e un po' aveva riso, sfiorando quei tasti che sapeva essere particolarmente sensibili. «Non dovrai mai più combattere, mai più».
Lei aveva aperto la bocca,come per dire qualcosa, ma lui l'aveva zittita con un respiro leggermente più rumoroso come per comunicarle che non poteva scegliere.
«Verrai ovunque con me, anche alle cene con gli altri Generali. Siederai accanto a me, a un posto di distanza da Crono. Porterai in grembo i miei figli, li crescerai» le aveva sussurrato, prima di fermarsi di fronte a quella presa di posizione che l'avrebbe certamente fatta tremare. «Mi amerai».
Lei non l'aveva nemmeno guardato, si era solo leggermente irrigidita fra le sue braccia. E non le era nemmeno saltato in mente di rispondere, di opporsi, mentre lui le sfiorava la pelle ancora solcata da ferite aperte. Lui, le ferite, sembrava nemmeno non sentirle più mentre il sangue macchiava le lenzuola.
«Resterò sempre con te» le aveva sussurrato, allentando un po' quella stretta possessiva che aveva mantenuto sul corpo fragile di lei. «Sempre».
E lei un po' aveva sorriso, svelando l'esistenza di un dolore che scompariva controluce. «Non mi lascerai mai andare?» aveva mormorato, sottovoce.
«Mai» aveva confermato lui, con il tono duro del soldato, che era solito a usare con quel manipolo di soldati ribelli che non obbedivano agli ordini basilari.
«Era proprio quello che temevo» era stata la risposta secca di Annabeth, che aveva spezzato quell'aria troppo tesa che si respirava. All'improvviso, l'aveva guardato negli occhi, con una calma che aveva quasi dell'inquietante, costringendolo inevitabilmente a voltarsi per non dover incontrare il rimprovero che lei gli rivolgeva.
Quando il sonno aveva cominciato a pesargli sulle palpebre, Annabeth aveva cominciato a muoversi, facendo attenzione a non far oscillare eccessivamente il materasso.
Lui aveva mantenuto gli occhi serrati, quasi come se avesse voluto mandar via qualcosa. O qualcuno. E in silenzio lei gli aveva sfiorato la mano, pietrificandolo.

 

***

 

E poi sono tornati, seguendo quella marea che portava verso il fulcro del potere della sesta era: Crono attrae traditori e voltagabbana, mezzosangue pentiti che hanno cambiato fazione per rivoltarsi contro il divino genitore. Si sono riversati nel palazzo di Crono e vi hanno preso dimora, trasferendosi nel lato oscuro in pianta stabile, poiché non esiste nemmeno un esiguo gruppo di ribelli a contrastare il potere cieco che emana il nuovo supremo signore del mondo.
Annabeth Castellan è perennemente appesa al braccio di suo marito, la testa abbandonata contro la sua spalla, i capelli che sembrano una colata dorata contro l'uniforme neve e sangue del Generale. La sfiora, lui, quando la sente dibattersi un po' per allentare quelle funi che le ha legato addosso. E aspetta che lei torni a far aderire il suo corpo con quello di lui, come aveva fatto quando l'aveva portata via dalla battaglia. Lo sfiora, lei, quando la sua stretta s'intensifica e non le permette di respirare. E forse un po' si cercano, quando si separano nella folla e si trovano subito dopo, in una stretta lieve di mani che si sfiorano con discrezione, trovandosi.
Forse lei un po' li ricorda, i tempi in cui lui doveva trascinarla, in mezzo ai corridoi dei Tenenti: aveva sempre le braccia piene di lividi – di quando lui le si era premuto contro, bruciandola e ferendola – e lo sguardo timido e un po' rassegnato di una prigioniera eterna. Adesso sorride, anche se il suo sorriso rimane sempre un concentrato di malinconia che spiazza e confonde chiunque lo guardi. Stringe la mano di suo marito e non si guarda mai attorno, senza nessuna voglia di soffermarsi su qualcosa.
Ogni tanto nota un volto che conosce bene, un fantasma che si palesa nel volto stanco di Silena Beauregard – ed è ancora più sciupata da quando si è liberata del peso del primo figlio, ancorata al braccio di un marito violento che Crono le ha affibbiato – o nello sguardo triste di Charles Beckendorf – quando guarda Silena e la vede ancora felice, senza le lacrime sul volto e i fianchi dilatati da un figlio non suo. E lui non è riuscito a morire prima di esser catturato dall'ennesima ricca ereditiera a caccia di un marito ben più giovane – e di tutti quelli che le passano accanto senza sfiorarla. Se si volta, nota i fratelli Stoll in un angolo che lucidano bicchieri, e Katie Gardiner che regge lo strascico della moglie
del Sergente Greengrass1. Lei, però, è quella che li ha traditi nella maniera più plateale: li ha lasciati nella polvere, proprio lei che aveva giurato di non tradirli mai. È quello che pensa mentre si trascina nelle sale dei ricevimenti, sorride davanti all'ennesimo sfoggio di potere di un regime che non è il suo.
Sorride, Annabeth Castellan, ma l'attimo dopo se n'è già andata in un turbine di raso che non lascia scampo. Nemmeno al marito, che la segue con lo sguardo, sempre.
Eppure, si ferma all'improvviso che è ancora in mezzo alla sala, il Generale che la segue a pochi passi di distanza: li ha visti, ne è certa. E alza la mano per trattenerli, un grido che le si blocca in gola. Scuote la testa, nessuno si è accorta che Annabeth Castellan è stata rimasta colpita da qualcosa, qualcuno. Quando però lei rialza lo sguardo, loro se ne sono già andati, correndo quasi in un turbine rossastro di una veste da generale e una coda vermiglia che si agita sulle spalle. Ma le sembra ancora di vederli, mentre si addentrano con circospezione nella coltre di invitati. Il bagliore noto di un paio di occhi verdi, due teste così vicine che sembrano quasi una sola.
«Sono loro» conferma Luke, sottovoce, stringendola a sé. «Lui è uno dei nostri, adesso, uno dei nuovi Sergenti. Uno dei migliori voltafaccia di tutta la guerra».
Annabeth annuisce, si lascia offrire un bicchiere pieno di un liquido rosato e beve, quasi senza pensarci, appoggiandosi al corpo del marito in una muta preghiera. Che lui coglie, quando le stringe la mano e lentamente la scorta a casa, passando per quei campi sfioriti che circondano il cimitero. Non salutano nessuno, non parlano, ma camminano insieme e lui saltuariamente si china per cogliere un fiore scampato all'eccessiva calura. Lo offre sempre a sua moglie ma lei non li prende mai.
Si fermano che sono in mezzo alle pietre marmoree, cicatrici biancastre nel campo sfiorito. C'è una tomba, lì vicino, piena di nomi che Annabeth Chase conosce bene: il ventre della terra ha accolto tanti figli, in un'accozzaglia di carni che diventano polvere fin quando non è più semplice distinguerne la provenienza genetica. E loro sono lì.
Le basta alzare leggermente lo sguardo per scorgerli con chiarezza e non come macchia sfocata sullo sfondo. Sono davanti a lei, si avvicinano con passi misurati, in un ondeggiare di gonne color panna che si tendono su un ventre leggermente più pieno per ospitare una creatura in arrivo. Luke le posa una mano sulla spalla, in un accenno di carezza che si perde nelle volute pervinca delle maniche fumose del suo vestito, la mano scende fino a sfiorare la pelle delle spalle. E lei nemmeno li ricorda più, i tempi in cui non era la mano ruvida e callosa di Luke, che scendeva lungo i solchi lasciati dalle cuciture troppo strette; ma forse lui lo fa, quando sobbalza perché lei si è allontanata troppo bruscamente o si è messa a discorrere con un ragazzo dai capelli neri – e lui si ritrova a controllare se ha anche gli occhi azzurri.
Annabeth inclina la testa, facendo scivolare sulla guancia una ciocca color miele. Lei – loro – certamente lo ricorda, com'era, dato che suoi erano quegli sguardi che tentavano di incenerirla. Luke la scuote leggermente, stringendole il braccio per farla andare avanti. Lei si volta solo per un momento, quando li superano.
È un attimo, ma si accorge che la stanno ancora guardando: Apollo le sorride con aria comprensiva, proprio lui che li ha abbandonati tutti quanti.
Però, è soltanto lo sguardo freddo di Rachel Elizabeth Dare che non le lascia tregua.

 

***

 

Luke le si preme addosso, sussurrandole qualcosa all'orecchio, parole che lei non riesce mai a comprendere. Meno una.
«Voglio un figlio» le soffia, accasciandosi sopra di lei – dentro di lei – e le passa le mani sul ventre, come per coccolare un bambino che ancora non c'è. Al suo posto, però, stanno quei lividi scoloriti di una settimana prima, quando il passato è tornato a essere presente e futuro. E sembra vagamente giusto, quando lui usa troppa forza e lei è così fragile da non riuscire a sopportarlo. «Dammi un figlio e avrai tutto ciò che vuoi».
Non lo trova mai, il coraggio di dirgli che sta già arrivando, un figlio. E lei non lo vuole.

 

***

 

Luke la ritrova che si è come fossilizzata sul dondolo, in giardino, la testa gettata all'indietro e le mani che strofinano le braccia per contrastare il freddo che avanza. Ha sempre lo sguardo fisso sulla porta, ad aspettare qualcuno o qualcosa. Lui riesce a malapena a camminare, incerto su quelle gambe che non sembrano poi in grado di reggerlo. Luke crolla sul dondolo, inerme, fa scivolare le mani sulle gambe scoperte della moglie in una muta domanda – anche se non avrebbe poi bisogno di chiederlo: lei lo ricorda bene. E poi lo dice, strascicando le parole, perché anche parlare gli provoca un dolore eccessivo e insopportabile.
«Oggi è martedì2» mormora, mentre le mani di lei si insinuano fra i suoi capelli. «Ricordi?».
Annabeth annuisce, ogni volta. Lo ricorda bene, quel martedì in cui l'ha raccolta dal campo di battaglia, per poi sparire e tornare con le ossa rotte e poco sangue nelle vene.
È sempre stato così, ogni martedì che avanzava e lasciava posto al seguente, e Luke che tornava con contusioni sparse sul corpo, ogni volta.
Lei si allontana, come ogni volta, scostandosi bruscamente dal corpo di lui, ancora umido di sangue e sudore. Lui la guarda, disorientato, pietrificato.
«L'hai promesso, Annabeth» mormora lui, affranto. «Avevi detto che saresti stata mia moglie».
Lei lo squadra, perplessa. «Lo sono già» e le mani tornano, inerti, sulla sua gonna. «Sono già tua moglie, lo sai».
«Pensavo che mi avresti amato» mormora, alzandosi con cautela. «Pensavo che lo avresti dimenticato, prima ho poi. Ti ho dato tutto, pensavo che sarebbe stato bello».
«Lo è stato» mormora lei, senza il coraggio di guardarlo in volto. Solo che lui se n'è già andato, sparito in quel silenzio opprimente che li avvolge.
Sorride al nulla, come per rincuorarlo, ma forse lo fa solo per sentirsi un po' meno in colpa. Per tornare, per poco, dalla parte giusta del mondo.

 

***

 

«Cosa siamo, Annabeth?» la domanda esce come un sibilo mentre il sangue nerastro gli cola giù dalla schiena. «Eravamo amici, un tempo».
Lei gli passa un panno umido sulla schiena, sobbalzando davanti a quelle ferite che eruttano pus e sangue attraverso striature nerastre che deturpano la pelle.
«Siamo come estranei» sussurra, strizzando il panno. Le mani le s'imbrattano di sangue. «Estranei con dei ricordi3».

 

***

 

Nel cortile c'è solo un silenzio teso e opprimente, impossibile da spezzare: Annabeth Castellan è seduta sull'erba, fra quei fiori di un blu sbiadito che nessuno coglie più. Suo marito si è abbandonato sul pavimento, la testa sepolta nel grembo di lei, la gonna come un sudario steso sotto il suo collo. Lui si lascia trafiggere da aghi d'acqua per non togliere a lei il riparo della tettoia, lasciando che l'acqua gelata lavi via i rimasugli di sangue incrostati sulla pelle. Alcuni passi paiono arrivare da un luogo lontanissimo, in un altro mondo, in un altro tempo che non c'è già più. Luke si volta, lo sguardo liquido di pioggia. O di lacrime.
«Mi ami?» sussurra, muovendo leggermente la testa sulle gambe della moglie. Una mano si arrampica fino ad afferrare quella di lei.
La risposta di lei è così gelida che nemmeno quell'acqua che gli scorre addosso ha il potere di farlo rabbrividire in quel modo. «No» dice lei, in un sussurro.
I passi si fermano. Per un attimo, Rachel Elizabeth Dare crede davvero di aver visto Luke Castellan sull'orlo delle lacrime.

 

***

 

Luke si alza di scatto, senza guardarla negli occhi: e, per un attimo, è gelido come quella pioggia che gli si insinua fin sotto i vestiti. Scuote la testa, mentre la pioggia lava via dal viso tracce d'altro genere. E mentre si allontana, Rachel comprende che è vero che il Generale è tremendamente difficile da cogliere. Come la pioggia.

 

***

 

Tenendole la mano come una bambina, Rachel la riporta dentro casa, nel tepore un po' artefatto del camino sempre acceso: Luke è lì, seduto sulla sua poltrona, la pelle che cattura la luce riflessa del fuoco. Non si muove quasi, se non per il ritmo regolare delle spalle mosse da un respiro inudibile. Si raddrizza quando la sente arrivare.
«Cos'altro vuoi, Annabeth?» domanda in un sussurro stanco, distrutto. Nel tempo che avanza sul suo volto mentre pronuncia quelle parole. «Ti darò qualunque cosa».
Lei sorride nel buio un po' innaturale che la circonda, mentre i suoi occhi riflettono la medesima oscurità. «Uccidimi» gli sussurra, provocatoria. «Per favore, uccidimi».
Lui scuote la testa, voltandosi definitivamente verso di loro, lo sguardo un po' stralunato di fronte alla richiesta di sua moglie. «Questo no» risponde, semplicemente.
In quel momento Rachel Dare capisce perché lui le ha chiesto – ordinato – di prendersi cura di sua moglie. Si volta a guardarlo un'ultima volta, prima di uscire dalla stanza, perplessa dal suono un po' ovattato che giunge dalla poltrona: il Generale Castellan sta piangendo.

 

***

 

Si è distratta un secondo e poi l'ha trovata nascosta nella vasca da bagno, immersa nell'acqua gelida, le labbra pallide e le mani già cianotiche. È corsa accanto a lei e ha notato con immenso sgomento che si è tagliata i polsi, un solo taglio che si stagliava irregolare sulla superficie uniforme della pelle, deformandola.
Urla, facendo accorrere il Generale e il Divino Apollo, ancora vestiti con le uniformi e freschi del consiglio di Crono. Luke è subito crollato accanto alla vasca, accogliendo fra le braccia quella personcina apatica, silenziosa, sollevandola in un turbine di aghi d'acqua che lo impalavano per far uscire altro sangue.
Si infradicia i vestiti di acqua e sangue, premendosela addosso per portarla via da lì: Annabeth gli posa la testa sulla spalla, gli occhi socchiusi nella luce prepotente del mattino. Lo sente a malapena mentre spalanca cassetti e s'industria per rimettere pelle e carne al posto del sangue, costringendola a ingoiare quel quadratino di ambrosia che lei rifiuta con ostinazione assolutamente degna di lei. Quando riesce finalmente a farle ingoiare il cibo degli Dei – almeno questo non è mutato con l'avvento di Crono – si stende accanto a lei, esausto. Le stringe la mano, nascondendo il volto nell'incavo della sua spalla, trafiggendola con qualcosa che somigliava alla pioggia.
Si sorprende, quando la sente avvolgerlo con le sue braccia, stringendolo contro di sé. Alza lo sguardo, certo di incontrare nuovamente quegli occhi vuoti che non fanno altro che riflettere la tortura a cui veniva sottoposto. Rimane pietrificato, come ogni volta, quando si accorge che lei sta piangendo.
«Mai più» le sussurra, bagnandole i capelli con quella pioggia, come per lavarla da tutte le sue colpe. «Non potrò più lasciarti sola, Annabeth, non più».
Lei lo guarda semplicemente, senza dire nulla, sorridendo leggermente mentre il tremore la lascia andare. Nasconde il volto nel torace di suo marito.
«Lo so» sussurra, bagnandogli la camicia. «Voglio andarmene Luke, voglio che finisca tutto».
Lui, per una volta, non sa cosa dire. E così ascolta il suo silenzio, disorientato: è abituato a quei fiumi di parole che lei gli riversa contro quotidianamente, con quella cadenza regolare che è propria di Annabeth. Per una volta, lei ha smesso di pronunciare tutte quelle parole assolutamente prive di qualsiasi significato: gli ha lanciato addosso un'accusa implicita e silenziosa, dirette a affilata come un coltello che si pianta nella carne.
«Cosa ti manca?» sussurra Luke, reprimendo quell'istinto che quasi lo costringe a singhiozzare. «Posso darti tutto quello che vuoi».
Annabeth ride, in una cadenza un po' melodiosa e un po' forzata che risuona nella stanza. «Mi manca lui» aveva detto, citando quello che Luke non le potrà mai restituire. E sorride di fronte alla sua espressione rabbiosa, mentre la cicatrice sembra intenzionata a dividergli in due il volto.

 

***

 

Ogni notte, lui le si preme contro, baciandola fino a rubarle il respiro dalla bocca per farlo suo. E lei tace, ostinata, piantandogli le unghia nella schiena con forza, facendolo sanguinare. E Luke dice qualcosa solo quando inarca la schiena e scivolava accanto a lei, sul lenzuolo ruvido che fa male a contatto con la pelle ferita.
Chiede una sola cosa, una sola proposizione che come ghiaccio entra nelle ossa finché lui non sente più nulla. Annabeth non risponde mai.
«Dimmi che mi ami».

 

***

 

«Perché hai scelto di sposarmi, quando potevi arrivare proprio dove desideri trovarti?» Luke la sfiora, avendo la sensazione di non carpirla mai realmente.

(Nell'alto dei cieli).

«La scelta era solo la morte, Luke» risponde sempre lei, calma. «E so che lui non avrebbe voluto che rinunciassi senza combattere».

(Eppure Percy Jackson l'aspettava ancora, mentre sulla terra lei veniva crocifissa con aghi d'acqua).

 

***

 

Il martedì è il riposo: il giorno in cui t'affacci lungo le vie impolverate del Nuovo Continente e noti il Generale Castellan che s'incammina con sua moglie, verso il cimitero. Dietro di loro avanzano un Dio decaduto e il suo Oracolo, una vergine profanata dal fautore delle antiche leggi. Li vedono avanzare, in massa, fra le lapidi.
Il martedì è rimpianto. Non c'è una persona che non sappia che Annabeth Chase rimpiange di non essere fra quei corpi che si fondono nella terra e nella polvere, il sangue che si è seccato sui brandelli di vesti nascosti nel ventre della madre più grande di tutte. Eppure Luke Castellan l'accompagna ovunque, sopportando il suo rimpianto cieco di fronte a quella perdita davanti il quale è stata messa davanti, brutalmente. Ma lei non piange, né nasconde il volto nella camicia di suo marito.
Fissa la terra, come se si aspettasse quella risposta che non arriva mai. E, ogni tanto, Luke le fa scivolare le mani lungo il ventre, accarezzando un rigonfiamento appena percepibile con la punta delle dita, quando fruga con attenzione oltre a tutte quelle pieghe di stoffa candida così inadatta alla sua condizione.
Gliel'ha detto. Gliel'ha sussurrato un martedì mattina, quando si è svegliata e non ha fatto in tempo a raggiungere il bagno, rimettendo sul pavimento. Lui le ha tenuto la fronte, mentre lei si contorceva per espellere quel poco di cibo che l'avevano costretta a ingerire – e aveva mormorato qualcosa, mentre Luke la raccoglieva dal pavimento per l'ennesima volta. Aveva detto, urlato, che lei quel bambino non lo voleva – per poi rialzarsi per correre via, lontano da lui.
Adesso camminano mano nella mano, lei un po' incerta mentre passano davanti a quelle tombe senza nome, quelle in cui avrebbero gettato anche lei, se avessero potuto.
Gliel'ha chiesto. Una mattina si è svegliata e ha comunicato al marito che, se fosse stato un maschio, avrebbe voluto chiamarlo Perseus. E Luke non si era scomposto.
Le aveva detto di no e si era chiuso la porta alle spalle, senza altre parole, lasciandola da sola a dedurre quel rifiuto che gli pesava sulla lingua.
E lui l'ha lasciata. Quando un giorno si è svegliata e ha trovato un biglietto inutile e troppo silenzio che si spandeva nella stanza come gas velenoso, ubriacandola di quella libertà un po' improvvisa che aveva ricevuto. Poi si era voltata e aveva visto Rachel scuotere la testa, in lacrime, come se nascondesse qualcosa – o qualcuno.
È tornato per portarla al cimitero, come per mostrarle la vita che avrebbe dovuto fare se lui non l'avesse salvata, raccogliendola dalla polvere.
«Mi sei mancata» le sussurra, chinandosi verso di lei con una naturalezza che disarma. «Non volevo lasciarti sola». E lei lo sa già, anche se lui sente l'esigenza di ripeterlo.
Lei non dice nulla, facendolo sospirare. Luke nasconde il viso nei suoi capelli, distanziandosi dagli altri membri della sua compagnia.
«Vorrei mancarti almeno quanto tu manchi a me» mormora, scrollando le spalle. «Sarebbe bello, riuscire a farti dimenticare qualcosa». Qualcuno.
«Sono poche le persone che riescono a mancarmi» risponde lei, semplicemente. «E quando succede, me ne accorgo solo io».
E lui le dà le spalle, in silenzio, quel muro ostinato con cui si circonda ogni volta che riceve una di quelle risposte che non vuole sentire. Si rannicchia su sé stesso, come un bambino, il cuscino lasciato al centro di quel letto vuoto e la fronte che sfiora le sue stesse ginocchia. Forse, aspetta quel conforto che non merita e mai arriva quando lui si ripiega sui suoi angoli e Annabeth rimane a fissare il vuoto, con lo sguardo spento di una divinità pagana e mal riuscita. In un barlume di pensiero sconnesso, Luke ogni volta ripensa a quando lei gli ha narrato di aver udito il canto delle sirene – e ogni maledetta volta, si rende conto che adesso lei non desidera nemmeno più salvarlo.
Nonostante la passione di Annabeth per le cause perse, lui si trova al di sopra perfino della passione di Annabeth per i reietti. E lui è il peggiore: il più codardo, quello meno affidabile. E ricorda tutte le volte in cui l'ha ferita, brutalmente respinta, promettendole quella luna che poi non le prendeva mai.
«A te manca un'altra cosa» le risponde lui, sottovoce. Un'altra persona. E, mentre si volta e nota che lei sta dormendo – e sua è l'espressione un po' pacifica e un po' tormentata che assume quando dorme, e arrivano quegli incubi che sono troppo colorati per essere sogni e con quella parvenza di realtà filtrata che la confondono – e non l'ascolta già più. E mentre l'avvolge con le sue braccia, si domanda se un giorno le mancherà mai a tal punto da costringerla ad ammetterlo.

 

***

 

Luke sparisce una volta al mese, con la cadenza regolare che a volte hanno i mariti con le amanti: ma lei non se ne preoccupa, persa com'è nelle poche stanze in cui passa il suo tempo a sognare chi non c'è più. Rachel Dare passa il tempo con lei, trascinandosi dietro il peso di un ventre occupato da una creatura che vive da otto mesi, sforzandosi di non farsi lasciare indietro da quella ragazza che le sembra di non conoscere più. Non che prima il loro rapporto fosse prettamente idilliaco, ma come spesso accade, la guerra aveva sfumato i confini prima netti e definiti che separavano le emozioni. È con ingenuità che un giorno esci in giardino e aghi gelati ti trafiggono la pelle, facendoti riflettere, obbligandoti a porti quella domanda che prima ignoravi sempre: a cosa serve vivere se nessun altro riesce a sopravvivere?
È allora, che Annabeth ha compreso dov'è che vuole arrivare, appena ne avrà la possibilità. Nell'alto dei cieli, le ha detto Luke, in silenzio.
È lì che guarda, quando getta indietro la testa per farsi impalare meglio dalla pioggia – e in quel momento vede solo un sorriso non suo, che a stento ricorda.
«Oggi è martedì» le sussurra Rachel, in un attimo, probabilmente mentre lo stesso pensiero le invade la mente. La stessa cosa, persona, che continua a tornare.
«Lo so» risponde Annabeth, senza nemmeno voltarsi nel freddo che imperterrito continua ad avanzare. «Ma lui oggi non c'è».
Gliel'ha spiegato, Rachel, che Apollo l'ha sposata per proteggerla: per non doverla affidare all'ennesimo Tenente violento e sgradevole, per non creare una variante un po' meno bella di Silena Beauregard. E, anche se Luke non gliel'ha mai detto, lei ha sempre saputo che probabilmente l'Oracolo era destinato a lui, un dono rifiutato per quella sensazione che lei gli aveva trasmesso quando l'aveva raccolta anche a costo di lasciarsi trafiggere dai coltelli dei nuovi sgherri di Crono.
«Ti manca, almeno un po?» Rachel appare sciupata davanti la luce fievole che buca le nuvole. La sua stanchezza le si è dipinta sul viso all'improvviso, senza avvisare.
Più o meno quando ha dovuto abbandonare lo spirito dell'Oracolo per diventare la moglie di un Dio decaduto, una donna con i piedi ostinatamente ancorati sulla terra.
Annabeth la guarda, perplessa, come se non comprendesse il senso reale della domanda. Poi, scuote la testa, laconica, lasciando che la pioggia le schizzi sul volto.
«Sai, Annabeth» le sussurra Rachel, con un sorriso debole che le riscalda il volto. «A volte dovremmo solo rassegnarci a essere ciò che siamo4, senza mirare troppo in alto».
Nell'alto dei cieli, dove la pioggia accarezza e non trafigge, separando pelle e sangue. Annabeth sorride, gli occhi socchiusi, tende le mani per abbracciare il nulla.
«Non ho a cosa mirare, Rachel» dice, senza aprire gli occhi. La colpiscono i rumori dei passi nelle pozzanghere, e l'impossibilità che Luke sia tornato prima, per lei.

(A cosa le servirebbe morire, se poi finirebbe sempre per accamparsi all'inferno per festeggiare le prossime calende greche?)

 

***

 

Quando è tornato, non sembrava nemmeno lui – invecchiato e smagrito in due settimane di assenza, in due martedì saltati che probabilmente aveva passato a patteggiare col padrone più grande di tutti – spento nei vestiti un po' larghi, laceri e cadenti sul suo corpo esausto. Le è crollato addosso, sul letto ancora sfatto, senza parlare.
Lei l'ha guardato solo per un attimo, prima di correre a recuperare panni e disinfettante. Luke non se n'è accorto, ma una lacrima le è sfuggita dagli occhi.

(E adesso lo guarda e non parla, per non dovergli porre quell'interrogativo che la tormenta. Per non dovergli chiedere di sottrarla agli aghi d'acqua e lacrime).

Adesso lo guarda dormire – e non sa se dorme davvero o finge soltanto – le lenzuola scostate per non fargli pesare la fitta lieve della stoffa sulla ferita. È stata lei a ricucirla, cercando di unire quei lembi di pelle che si allungavano per toccarsi, senza mai farlo realmente. L'ha raccolto e gli ha tolto di dosso la polvere, senza chiedere nulla, senza domandare di chi fossero quegli artigli conficcati nella carne – come l'acqua che scorreva sulle ferite e si fermava sempre.
«Mi dispiace» le sussurra, scandendo a fatica le parole. Ha il labbro inferiore spaccato, sanguinante. «Mi dispiace, Annabeth, mi dispiace».
Lei lo zittisce con un'occhiata tempestosa, mentre riprende in mano il panno umido da passargli sulla schiena. «Cos'è successo?» domanda, impassibile.
Luke tossisce, si divincola, cerca di scampare quella risposta che teme tanto. E poi si arrende, come ogni volta. «Una ribellione» mormora, esausto. «Che non doveva esserci, l'ho scoperta che stava già prendendo forma. Troppo tardi, Lui è venuto a saperlo». Trema sotto il panno, per quanto stringa i denti per impedirlo.
«Cosa devi fare, adesso?» domanda Annabeth, posando il panno in una bacinella. «Suppongo che non sia finita lì». Lo guarda, in attesa di una risposta.
«Dobbiamo partire» sussurra Luke, piano. «Crono mi ha mandato a indagare sulle ribellioni al nord. Dicono che l'esercito degli Olimpi si stia riformando» scuote la testa, come se non ne potesse più. «Ha mandato i migliori lì. Devo andarci, non posso rifiutarmi» le stringe la mano, dolcemente. «Vorrei che tu venissi con me».
Lei gli sorride e, per un attimo, lui crede di vedere la pioggia in quegli occhi. Ma è solo un'illusione, perché Annabeth piange solo quando c'è di mezzo Percy Jackson.
«Ho forse altra scelta?» gli domanda, ironica. «Potresti mai lasciarmi andare?».
«Non lo farò mai» è la risposta calma, laconica di Luke. «Te l'ho promesso, non ti lascerò mai, nemmeno da morto».

(Era proprio quello che temeva, che un giorno lui ripetesse la sua prima promessa: non l'avrebbe lasciata, proprio lei che non voleva nessuna compagnia).

«Nemmeno per un'altra donna?» chiede lei, scrollando le spalle. «Nemmeno per qualcosa?». O forse per qualcuno che non sarebbe mai esistito, dopo di lei.

(Nemmeno per Thalia, Luke, proprio tu che avevi promesso che non l'avresti mai lasciata?).

«Mai» risponde. E la sua affermazione suona definitiva.

 

 

***

 

Gettando abiti in grandi bauli, Luke si ritrova a far fronte alla prorompente esigenza di continuare a parlarle, forse pieno della speranza di riuscire a convincerla che lui è la scelta migliore – l'unica – da sempre. Per sempre.
«Potevi lasciarmi nelle polvere» sussurra lei, gettando a terra una gonna strappata e sporca di fango e piena delle spine delle rose. «Potevi salvare Thalia».
Lui nemmeno alza lo sguardo, un po' sorride e, per un secondo, sembra essere il Luke di parecchi anni prima. Scuote la testa, i capelli color sabbia gli ombreggiano gli occhi.
«Non avrei potuto» risponde, chinandosi per raccogliere quel vecchio sudario. «Io volevo te».

(O, forse, la verità è che non ha mai avuto il coraggio di dirglielo prima, quando ancora lei poteva pensare che Luke fosse in grado di provare sentimenti umani. Ma non l'ha mai fatto).

 

 

***

 

L'ultima volta, prima della partenza, sa di rimpianto: Luke le si preme contro, cieco e arrabbiato, facendosi strada in quella pelle troppo delicata. Rimpianto.
Sembra biasimarle qualcosa, un suggerimento che vola via perché lei non è ancora in grado di coglierlo, di leggerlo nella sua interezza. Non lo fa mai.

(Rimpianto).

Così si limita ad ascoltarlo sussurrare parole fintamente dolci e amorevoli, quasi stucchevoli, mentre le si avvicina con l'approccio un po' finto e ingenuo che assume ogni volta che sa di farle male. Si spande a ondate l'odore di cocco sintetico e gelsomino, l'odore della stanchezza che lei gli ha lavato via di dosso per l'ennesima volta. Rimpianto.

(Oggi è martedì, ma lei non se lo ricorda).

 

 

***

 

I capelli di Rachel Dare sono una macchia vermiglia nell'uniformità del cielo: si muovono oscillando, seguendo il ritmo della nave, mossi da una brezza quasi invisibile.
Luke la guarda, da lontano, mentre sussurra qualcosa ad Annabeth, facendola ridere. Un po' lo vede, l'eco della stessa perdita che hanno subito.

(Amico, amante: un passo breve che magari non avevano il coraggio di compiere. Poi è arrivato lui e le ha tirate entrambe nel Tartaro).

Annabeth si volta, per un attimo, un cappello di paglia calcato sui capelli color miele. Le sorride e lei urla qualcosa che lui non sente.

(Una maledizione o un augurio?).

Luke crolla sul ponte, mentre lei corre via.

 

 

***

 

Annabeth china la testa, portando con sé l'odore di mare che si respira sulla nave: controluce, sembra che i suoi occhi abbiano assunto una dolorosa tonalità verdemare.
«Quanto è grave, questa ribellione?» domanda, sottovoce, al mare. «Chi può essere così pazzo da comandarla?».
Domanda al mare, ma è Rachel a rispondere, in un sorriso triste e un po' consapevole.
«Troppo» mormora. «Annabeth, Percy sta raccogliendo i ribelli». La guarda, gli occhi pieni di lacrime. «Percy non è morto, è ancora vivo. Ti sta cercando».





1 Greengrass, ovviamente, è un chiaro e palese riferimento alla prima saga fantasy che ho amato, "Harry Potter" e quindi un chiarissimo omaggio a uno dei personaggi che mi ha spinta a scrivere (troppe) fanfiction. Asteria Greengrass meritava questo omaggio.
2 "Oggi è martedì e non ha niente a che vedere con Foreman o House. E' solo il giorno in cui ti ricordo che ti amo e voglio stare con te. Martedì mi sembrava un buon giorno per farlo" - Chase, Dr House M.D. Ovviamente il mio personaggio preferito mi ha ispirato questo passo, lol.
3 "We aren't friend, we are strangers with memories". Fonte: tumblr.
4 "Dobbiamo rassegnarci a essere ciò che siamo" - Margaret George, Il re e il suo giullare.

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Capitolo 2
*** Dimmi che mi ami ***


Fingerò di non essermi scordata che oggi è effettivamente venerdì (My Luke, quanto sono Annabeth in questi giorni) e di aver deciso di postare a quest'ora perché sì. Mi sembra una motivazione assolutamente plausibile e certamente adattabile all'IC di un personaggio che io, personalmente, non avrei mai voluto inventare.
Dopo questo breve sclero sul mio discutibile carattere, passiamo alle premesse per questo capitolo: allora, "Dimmi che mi ami". Sorvolando che questo non lo è (leggi: lo è) un riferimento casuale e che non è assolutamente parte di uno dei miei scleri con la "s" maiuscola 
– Sil, my love, so che stai leggendo e sai di che parlo. Ma, ti prego, non dire nulla che mi faccio già abbastanza pena da sola. Dovrebbero proibirle, certe cose.
Comunque, comunico subito che è un capitolo complesso sotto molti punti di vista, sia per tematiche che per l'odio che è scaturito nei confronti di un personaggio. Chi mi conosce, a questo punto, suppongo che avrà cominciato a tremare. Detto fra noi: fa bene. Fa davvero bene.

Detto questo, non voglio spoilerare oltre, ci vediamo con le note e citazioni alla fine del capitolo. Buona lettura e grazie a chi recensirà.

 
 
 

 
Continuo a scriverlo, nella speranza che un giorno lo leggerai.
Anche se non serve a nulla.
Ma va bene così: il titolo del capitolo dice tutto.
 
 
 

Percy è vivo. Quelle poche e semplici parole le rimbombano in testa, stordendola più del dovuto e rendendo il resto confuso in una nebbia lattiginosa che le si staglia davanti, bellissima e senza confini. Alza lo sguardo, perplessa, solo per incontrare l'espressione ferita sul volto di Luke. Forse, per un attimo, le dispiace: ritornano con prepotenza quegli attimi in cui lui si è veramente curato di lei, come quando la trovava rannicchiata fra il letto e il comodino, perché aveva sognato la guerra. Di nuovo.
Lui scivolava sempre accanto a lei, con infinita dolcezza, per scacciare con le mani i suoi incubi che, lo sapeva, dovevano essere terribili.

(Ad Annabeth non era mai venuto in mente che, probabilmente, lui aveva i suoi stessi incubi. Quelli che, urlando, lo tenevano sveglio per scacciare i suoi).

Solo che non riesce a pensarci per troppo tempo: un pensiero la scuote e continua a distrarla, costringendola a concentrarsi su quelle poche parole che le hanno decisamente accelerato il battito cardiaco. Percy è vivo. E lei non ha idea di cosa potrebbe fare pur di rivederlo, adesso che potrebbe averne l'occasione.
Vede la sua immagine riflessa nello specchio appeso malamente nel bagno, incrinato su un lato, sporco di dentifricio; ha come una strana luce negli occhi, che le rischiara un po' quel volto stanco e segnato. E poi, lo vede: come un'ombra, Luke le passa accanto, le sfiora la spalla e la trascina in quella realtà ben più dolorosa dei suoi sogni.

(Oggi è martedì: per qualche sciocco scherzo del destino lei se n'è nuovamente dimenticata).

«Avevi promesso, Annabeth» è il sussurro esausto di suo marito. «Ti ho tenuta al sicuro, non farmi questo» e la guarda, implorante, stanco. «Oggi è martedì».
«Mi avevi detto che era morto» immobile, fuso nella terra insieme agli altri. Lontano da lei. «Mi avevi detto che non mi avresti mai mentito» e lo guarda, delusa. «Che non mi avresti ferita in nessun modo». Se non in quel modo sciocco, stupido, che aveva di approcciarsi a lei come se fosse più forte della realtà. E non lo era mai, Annabeth.
«Non l'ho fatto» mormora lui e gli zigomi sporgenti si pennellano di un tenue rosa chiaro. «Ti ho dato tutto, Annabeth». Troppo, vorrebbe dirle. Ho dimostrato di avere un cuore, proprio io che ero conosciuto per essere ben più freddo del comune ghiaccio, proprio io che non conoscevo nemmeno la pietà.

(Che strano. Fra di loro era lei quella fredda come ghiaccio, proprio lei che avrebbe dovuto essere tutta un cuore).

«A volte tutto non è abbastanza» risponde lei, laconica, rigirando fra le dita la fede nuziale. E reprimendo l'istinto di toglierla e gettarla via, lontano da lei. «Non trovi?».
«Non te ne andrai» dice lui, diventando tagliente come la lama di un rasoio. «Non lo farai, Annabeth, ne sono certo» e suona un po' come un'accusa. «Resterai con me».
Lei non fa nemmeno in tempo a parlare, che già lui le da la risposta a una domanda che non ha ancora posto: l'anticipa su tutti i fronti, lasciandola indifesa davanti a lui.
«Perché ti ho presa, raccolta dalla polvere quando non c'era nessun altro» risponde, semplicemente. «Perché ti ho amata quando lui non ha potuto farlo». Sorride. «Perché è mio figlio, quello che porti in grembo, non suo».
Lei sospira, affranta, di nuovo distrutta nella luce filtrata di quel bagno così piccolo, col colorito pallido di un'annegata. Vorrebbe esserlo. Ma Percy è vivo.

(Non le importa già più).

 

 

***

 

Grandi vasi vengono vuotati nel mare, una bocca che vomita polvere nera nelle profondità più recondite dell'oceano, una polvere magica pagana che lei non conosce.
«Che cos'è?» sussurra, perplessa, mentre suo marito osserva con estrema attenzione tutto il processo.
«La morte dei traditori» risponde Luke Castellan, una sfumatura di soddisfazione nella voce.
La cenere sprofonda nel mare.

 

 

 

***

 

Il Nord è una landa desolata, tutta spiaggia e relitti, una terra di mezzo piena di detriti che nessuno ha mai raccolto. Ricordi. Annabeth si trascina nella sabbia, i piedi intrappolati in quella morsa lieve e un po' umida del mare. Ogni tanto scrolla le spalle, come per mandar via la cenere che sente appiccicata sulla pelle, la morte di un traditore. Cammina verso il nulla, gli occhi persi nel mare spumoso di cirri, nelle onde che si curvano per abbracciare la sabbia ancora una volta soltanto.

(Solo che poi corre via, dopo averla sfiorata, in quella carezza dolce e un po' accennata che tornerà dopo un intervallo apparentemente brevissimo).

«Non puoi fuggire per sempre» è il richiamo debole, stanco, di suo marito. Un po' una richiesta che non esprime mai. «Non posso permettertelo, Annabeth».
Lei si volta di scatto, in un turbine di capelli dorati, in un momento in cui l'acqua si riversa sulla sabbia in una marea di spruzzi. E ride, scoprendo i denti, in un ghigno da lupo che stona terribilmente con l'espressione afflitta che è sempre stata sua: è come se avesse messo giù una maschera, gettata sulla sabbia per affidarla al mare.
«Tu non puoi permetterlo, Luke?» sibila, scostando con rabbia quelle ciocche di capelli che le coprono gli occhi. «Tu non hai idea di cosa ho passato».
Non aveva idea di cosa significasse alzarsi ogni giorno con una fitta nebbia nella testa, con le lacrime agli occhi e una voragine nel petto. Non ne aveva idea, lui che l'aveva raccolta per pura ripicca, per non lasciarla nella polvere a morire da sola. E probabilmente non capiva cosa provasse a ripetersi ogni giorno, per anni, che doveva smetterla: Percy Jackson era morto e lei era solo una di quelle superstiti che dovevano adattarsi alle condizioni imposte da un nuovo regime.
«Volevo risparmiarti tutto questo» sussurra lui, passandosi una mano sul volto per cancellare la pioggia che vi si era depositata. «Volevo renderti felice».
«Non l'hai fatto» risponde lei, affilando lo sguardo. E lo guarda sbattere le palpebre di fronte a quella nuova Annabeth che gli si palesa, in un'ostinazione che aveva dimenticato, preso com'era ad arginare la tristezza che aveva invaso quella prima Annabeth che aveva promesso di non lasciare mai. «Per farlo, dovresti lasciarmi andare».
E lui sorride, scuotendo la testa nella certezza che non lo farà mai. Inclina la testa, per guardarla meglio alla luce del sole – e l'acqua del mare è nei suoi occhi, come pioggia che si accumula lungo argini tremendamente fragili – mentre le prime gocce di pioggia gli lavano dal viso la spossatezza del viaggio.
«Rimarrò sempre con te» le sussurra, in un accenno dell'antica dolcezza. Quando erano entrambi sporchi di polvere e insanguinati. «Non ti lascerò mai».
«Vorrei tanto che non potessi farlo» risponde lei, in un sussurro. «Vorrei tanto che fossi in grado di lasciarmi andar via».

(Anche se temo che non lo farai mai).

 

 

 

***

 

A trovarlo ci stanno così pochi giorni che la speranza non fa nemmeno in tempo a sbocciare che, un attimo dopo, è già morta e sepolta sotto un cumulo di sabbia: glielo portano durante l'ennesima serata in onore di una dività presente anche in quella solitudine ostinata, durante l'ennesimo ballo voluto da un Generale troppo esigente.
Lo lasciano cadere sulle ginocchia così violentemente che il suono rimbomba in tutta la sala, lo gettano davanti le scarpe lucide del Generale Castellan, che preme così forte le dita sul braccio della moglie che probabilmente le rimarranno i segni. Annabeth Castellan sembra rimpicciolire ogni secondo che passa, seminascosta dal braccio del marito, gli occhi grigi semichiusi di fronte a quello spettacolo grottesco. Luke invece un po' sorride e la spinge avanti, per mostrarne la figura leggermente ingrossata da quel figlio – suo figlio. Il figlio frutto del seme che lui ha sparso nel ventre di Annabeth Chase – che comincia già a dilatarle i fianchi.
«Salve a te, Percy Jackson» proclama il Generale Castellan. «Ti credevamo tutti morto da tempo, ormai. È un vero piacere poterti ospitare qui».
«Vorrei poterti dire» esala Percy, lo sguardo passo sul pavimento. Alcune gocce del suo sangue hanno sporcato la linea fra le piastrelle. «Che per me è un piacere rivederti».
«Suvvia, non essere scortese: mia moglie mi è sembrata ansiosa d'incontrarti» è la risposta affilata di Luke. «Non ho il cuore di rifiutarle alcunché, sai. Dicono che non sia saggio precludere qualcosa alle donne nella sua condizione». E ride, giù risate scroscianti che fanno tremare anche i muri.
Percy Jackson si accascia sul pavimento, ancora sorretto da due Tenenti, con gli occhi leggermente appannati. Li ha visti, tutti quanti: Rachel Dare e Apollo sistemati in un angolo, due maschere di ghiaccio; Silena Beauregard con suo figlio fra le braccia e Katie Gardiner che la segue con gli occhi bassi. E Annabeth Chase – Castellan – che cerca di nascondersi dietro la schiena del marito, che cerca di correre via tirandogli la manica, urlandogli in silenzio che non riesce a sopportarlo. Ma Luke non se ne accorge, non le presta attenzione, e suo è un sorriso affilato che mira a dilaniare il cuore di Percy Jackson. Fa segno alle guardie di avanzare, le armi puntate.
Percy Jackson spalanca gli occhi di fronte alla figura della sua amica, il ventre che sporge fra le pieghe dell'abito, il sorriso triste che emerge nella nebbia. Annabeth chiude gli occhi nell'eco di quei passi che risuonano nel silenzio teso della sala. Ma la fine arriva comunque.

 

 

 

***

 

Annabeth apre gli occhi che ancora non ha sentito lo sparo, né lo scrosciare del sangue che le infradicia le scarpette. Spalanca gli occhi per vedere l'espressione sprezzante di suo marito mentre fa un gesto con la mano, rivolto alle guardie. L'attimo dopo, Percy è già stato portato via.

 

 

 

***

 

Qualcuno dice che, quando un uomo fa l'amore con una donna, si vendica di tutte le sconfitte che ha subito nella sua vita1. E questa sera, Luke si è probabilmente preso una rivincita per tutte le volte in cui lei l'ha umiliato, anche solo evitando accuratamente di rispondere a quella domanda – richiesta – che lui le getta addosso ogni notte.
Dimmi che mi ami. Ma Annabeth non lo dice mai, inghiottendo quelle parole che le feriscono la gola, preferendo il silenzio ostinato che continua a mantenere da un po'.
E, d'altronde, Luke non aggiunge mai nulla: si limita a lasciare sul suo corpo i segni del suo passaggio. Morde la pelle tenera del collo, lasciando l'impronta dei denti, assaggiando una solitaria goccia di sangue che si deposita lungo le spalle. La guarda con quel distacco gelido che le fa pensare che stia pensando a qualcos'altro, esattamente come faceva lei ogni volta che la supplicava in silenzio e la riempiva di quel profumo di cocco sintetico e gelsomino, come per chiederle scusa.
Dimmi che mi ami. Glielo urla, a volte, quando si solleva per un attimo e la guarda e non dice mai niente. Lo urla in silenzio ogni volta che la trova a perdersi nei disegni intricati – blu – della carta da parati della camera da letto. E magari qualche volta sembra davvero volerle rubare il respiro quando comincia a baciarla e lei non si ricorda più com'era quando c'era Percy, e francamente lui sa bene che probabilmente non avrà mai nulla di più da lei. Ed è questa consapevolezza che lo scava dentro, sottraendogli la linfa vitale, sottraendogli quell'attimo di respiro che prova tutte quelle volte in cui si ricorda che, per quell'unica volta, il principe azzurro è stato lui.

(Ma a cosa serve, poi, essere il principe azzurro quando la principessa preferisce palesemente andare a letto con lo sguattero di turno?).

Dimmi che mi ami. Ci aveva provato a suon di bestemmie, a farsi passare quella maledetta sensazione che gli stringeva le viscere. Aveva provato a bruciare quella voragine che gli si era aperta dentro, quando l'aveva sollevata per la prima volta – come fa ora: la trascina per i corridoi bui e un po' vecchi di quel palazzo diroccato – e l'aveva salvata solo per vincere l'ennesima scommessa con sé stesso. Che, poi, le scommesse con sé stessi dovrebbero essere quelle dove barare è lecito; ma lui, che a barare aveva imparato con la stessa facilità con cui sua madre gli aveva insegnato a succhiare il latte dal biberon, proprio non riusciva a imbrogliare il mazzo quando giocava da solo.
Dimmi che mi ami. Lei non glielo chiede mai, di lasciarla andare mentre se la trascina dietro fra le prigioni: ribelli, condannati a morte, con un futuro da cenere che galleggia sul mare. Si lascia condurre in una cella talmente isolata da apparire vuota, disabitata in quell'odore di muffa che permane fra i muri. Lì è recluso Percy Jackson.
«Hai visite, Jackson» è il sussurro tirato di Luke. «Starò qui fuori. Se solo scoprirò che l'hai sfiorata anche solo con un dito...». La minaccia cade nel vuoto e in quello sguardo duro – disperato – che rivolge alla moglie. Nella richiesta che fa sempre quando lei non se l'aspetta, come per strapparle quell'assenso che non arriva mai.
Dimmi che mi ami. Anche se, in realtà, a lui basterebbe che Annabeth non lo dicesse a Percy Jackson.

 

 

***

 

«Mi dispiace» sussurra Annabeth, raccattando una bacinella piena d'acqua e dei ritagli di stoffa accatastati su una sedia. «Non volevo che andasse così, davvero».

(Non volevo gettarvi nella polvere, farmi raccogliere e poi calpestarvi tutti. Non volevo tradirvi, proprio io che ero famosa per la mia onestà. Proprio io che ti amavo).

Percy non parla. Suo è il silenzio degli innocenti, uno strascicare un po' quei respiri che escono a fatica fra i denti, d'incagliano nella gola. Trasalisce solo quando le dita di Annabeth sfiorano i graffi che dimorano sulle sue braccia – e per lei è un po' quel dannato deja-vù che le ritorna in mente: oggi è martedì.
«Il bambino è suo?» sono le uniche parole che riescono a non graffiargli ulteriormente le labbra. Sorride, di fronte al silenzio di Annabeth. «Ti è sempre piaciuto, in fondo».
Traditrice, sembra volerle urlare, come hai potuto scegliere lui per l'ennesima volta? Come fai a non accorgerti che non è stato lui a salvare te, ma tu a salvare lui?
In realtà è mercoledì, solo che lei è ferma al giorno prima già da un po'.

 

 

***

 

Il mercoledì è diventato il loro giorno: una passeggiata fra la muffa e l'aria viziata dei sotterranei, una passeggiata con bende e disinfettante sottobraccio per andare a trovare il prigioniero peggio trattato. Percy Jackson non ha mangiato, quel giorno, ma lei si ritrova con lo stomaco chiuso di fronte all'ennesima palesazione delle angherie di suo marito nei confronti di quel rivale annientato dai combattimenti. Eppure, Percy Jackson non tenta nemmeno di salvarsi la pelle schierandosi con la controparte.
Osserva con svogliatezza il via-vai di visite nella sua cella, aspettando che si presenti quel sicario votato a fargli saltare la testa. Che non arriva.
E si confonde nella monotonia dei giorni che subisce con passività estrema, aspettando il mercoledì per le visite della signora Castellan. Sono passate sei settimane dalla prima volta, ogni mercoledì l'ha vista leggermente più ingrossata di quel bambino che Luke le ha seminato nel grembo con la forza. Sei mercoledì in cui lei gli è parsa sempre più sciupata alla luce di candele consumate, sei giorni in cui l'ha vista sempre più esausta, triste di fronte alla sua figura sfregiata. E gliel' ha detto, in un sussurro inudibile che è giunto solo a lei. Dimmi che mi ami. Percy ha fatto in tempo a guardarla un'ultima volta. E poi, lei è corsa via.

 

 

***

 

In quei giorni, con cadenza regolare, l'estate cedeva all'autunno la sua resa: nel soffiare intrepido di un venticello occasionale già si coglievano quegli ultimi riverberi di un'estate infernale. Nel mormorio che imperversava fra le foglie si poteva cogliere la sentenza emessa da Crono in persona, giunta nelle lande desolate di quella terra indomita, bruciata, portata dall'ennesimo leccapiedi in cerca di un posto di favore. E probabilmente tutti quel giorno hanno udito le grida di Annabeth Castellan, hanno visto le lacrime offuscare – ma è stato un attimo: un secondo in cui una maschera si è incrinata ed è caduta via per far posto a una nuova pelle – gli occhi verdi di Rachel Dare, come in uno smeraldo avvolto in un lembo di nebbia. Ed è arrivato in un attimo il vento gelido che ha spento ogni speranza: un tifone occasionale che ha portato pioggia e nuovole – fa così freddo che non parrebbe nemmeno così inusuale una nevicata estiva: eppure, le nuvole appaiono gelose di quella neve che non cade mai. Di pioggia, non sono poi così avare e ne lasciano cadere grosse lacrime senza sale, gettando tutta quella disperazione su chi forse se la merita almeno un po' – e anche quel vuoto che non se ne va mai. Nella luce filtrata dalle nuvole, perfino il ghigno fiero di Luke Castellan sembra slavato e offuscato in quella disperazione che avanza.
Annabeth Chase non c'è: quando è corsa via, le gonne rimboccate per non infradiciarle e lo sguardo vuoto, perso, suo marito non ha avuto il cuore di rincorrerla. Non ha nemmeno controllato se quelle gocce che le scorrevano sul volto fossero sue o delle nuvole che minacciosamente incombono su di loro, semplicemente le ha permesso di correre il più lontano possibile da lui, ancora una volta. Come sempre, da tempi immemori, per impedirle di sottostare a quella richiesta che lui le pone sempre: dimmi che mi ami. E probabilmente lei avrebbe anche risposto – e il “no” non detto probabilmente gli brucia già sulla pelle come un marchio indelebile – solo per quella volta.
Ma lui non trova ancora il coraggio di ricorrerla, come fa sempre, quando i battiti del cuore accelerano un po' e la voragine gli si spalanca nel cuore. Corrotto e dai bordi anneriti dall'unico tradimento che gli pesa sulla coscienza: quando l'ha lasciata da sola, il cuscino abbracciato e un libro chiuso in un letto vuoto. Le lacrime che scorrevano mentre lui si rivestiva in un angolo – e una parola urlata nell'aria si disperdeva pian piano: tradimento. L'ennesimo, forse il peggiore – con quella mezza verità ancora sulle labbra. E francamente non ha poi il cuore di andarle a riferire che Percy Jackson morirà presto – due settimane: due mercoledì che si succedono per portarlo alla forca – e di lui non rimarrà che la polvere che si disperde nel mare. Ha lasciato che glielo riferisse Rachel Dare, con gli occhi pieni di lacrime, con un silenzio ben più eloquente delle parole – e lui aveva assistito da lontano, come un codardo, con addosso la prima confessione che le aveva gettato addosso. La seconda, l'approssimarsi della morte di Percy, gli bruciava come una stilettata al petto che colpisce il cuore e lo lascia a sanguinare dentro la cassa toracica.

(Rimpianto: oggi è martedì e gli dispiace quasi di aver confessato, in una palese mancanza di senno che l'ha caratterizzato da quando ha imparato a barare col mazzo anche giocando a solitario. E lui ha confessato, materializzando il lunedì procrastinato alle calende greche a quello stesso martedì che non è andato poi così bene).

E un po' finge di ascoltare il messaggero di Crono che non fa altro che descrivergli nel dettaglio l'orribile pena riservata a Percy Jackson e un po' pensa allo sguardo deluso – ferito – di Annabeth mentre lui le vomitava addosso tutta la verità. E il rimpianto che lo consumava anche mentre lei non c'era.
Gliel'ha detto oggi – martedì o mercoledì? – mentre lei silenziosamente gli negava una semplice risposta a una richiesta basilare. Le ha urlato che l'ha tradita, come se lei non l'avesse visto nella delicatezza un po' insolita che le ha usato, nel profumo un po' alterato di cocco e gelsomino e qualcos'altro che gli è rimasto addosso. Stanchezza lavata da altri, ha subito compreso Annabeth: non può sempre asciugare da solo la pioggia – e le lacrime – che gli scorrono sul volto. E lei, per lui, non c'è mai.
Nemmeno quando – rimpianto – lui le chiede quell'unica cosa che lei non gli darà mai. E allora la cerca altrove, in quella prostituta bionda e un po' bassina che girovaga dietro ai soldati di Crono. Socchiudendo gli occhi, la somiglianza incrementa, gli divora il cuore. Ma la risposta non arriva. Dimmi che mi ami.

 

 

***

 

Tradimento. La parola che le riecheggia nella testa e non le dà tregua: tradimento. E sono passate due ore all'incirca da quando ha ricevuto la doppia stilettata.
Ma la verità, in fondo, è che anche lei si chiede il perché della sua reazione sproporzionata a un tradimento che non dovrebbe importarle poi così tanto.
Tradimento. Anche lei l'ha tradito – se non coi fatti – con il pensiero e le parole. E nei sogni, quando si sveglia mugolando perché di nuovo è tornato quell'incubo.

(Morte. Tutti i suoi amici morti ai suoi piedi, le orbite fisse su un punto imprecisato. Solitamente abbassa lo sguardo e si accorge di avere la mano di Luke fra le proprie, in una stretta difficile da sciogliere. Percy giace sempre poco lontano, morto. Tradito).

Adesso nemmeno riesce a guardarlo mentre si trascina sul letto, le vecchie ferite nuovamente aperte e il sangue che cola oltre i bordi. E l'odore di cocco, gelsomino, stanchezza e pioggia che dilaga nell'aria come un veleno. È lei a porgli quella richiesta, in silenzio, quando lui la guarda con gli occhi pieni di pioggia.
Oggi è martedì – mercoledì? – dimmi che mi ami.

 

 

***

 

C'è odore di pioggia, in camera da letto: l'effluvio pungente di aghi di pino e acqua stagnante che sembra non volersene andare mai, nonostante il caldo soffocante che è subentrato per sostituire il freddo pungente e innaturale che aveva accolto la notizia della condanna di Percy Jackson. Luke Castellan non si muove, brucia di febbre nelle lenzuola ormai tiepide – odore di cocco, gelsomino e sangue che si sparge ovunque – con la gentile concessione di una pezza umida ad abbassare quel fuoco che brucia sempre, senza mai spegnersi. E Annabeth lo guarda in silenzio, senza avere il coraggio di ricordargli – forse lui non l'ha mai dimenticato – che è martedì.

«Dimmi che mi ami».

 

 

***

 

Luke non ha smesso di bruciare per la febbre per tutta la durata della giornata, si è alzato per pochi minuti solo quando il sole è stato fagocitato dal mare, con gli occhi un po' appannati di fronte a un incubo che evidentemente ha preso forma davanti ai suoi occhi. Annabeth non si è mai mossa dal suo capezzale: si è alzata con lui per costringerlo a letto, ha chiuso la porta in faccia davanti a quella donna – e probabilmente le ha anche sibilato qualche insulto irripetibile, prima di sentirsi come spezzata a metà. Aveva i capelli biondi, color miele, e gli occhi di un azzurro un po' sbiadito che poteva sembrare grigio, controluce – e poi è tornata a detergergli tutto quel sangue che sembrava non volergli restare nelle vene. È preoccupata: i lividi hanno cominciato a fiorirgli sulla pelle pallida, fragile come carta, come fiori velenosi che si raccolgono alla base di quei tagli che gli squarciano la schiena. E lei non sa cosa fare, quando lui si mette a sedere e urla, posseduto da una fantasma che lei ben conosce.
Guardandolo, spesso si accorge che ha anche le lacrime agli occhi, e probabilmente non riesce a cogliere il sussurro che lei gli ha donato, in un pigolio di assenso a una domanda che lui non pone più. Ed è terrorizzata perché Luke, nei rari momenti di lucidità, non parla, si limita a raccattare carta e penna e tracciare caratteri che lei non fa in tempo a decifrare. Forse nemmeno se ne accorge ma, ogni tanto, una lacrima lascia gli occhi di Luke per tuffarsi in un mondo di carta, dove le parole decorano la pagina come farfalle. E lui non le parla, quando però le stringe la mano in una debole morsa che potrebbe voler dire qualcosa che lei non comprende. A volte si limita a ricambiare la stretta e guidare quell'arto verso il ventre arrotondato che cela quella creatura che ancora nuota nel licquido amniotico – e a quel punto Luke sorride, sempre, ma è più una smorfia di dolore che le provoca un lieve capogiro e la fa barcollare.
«Mi dispiace» le sussurra a volte, quando il delirio comincia a scivolare via per lasciargli un barlume di lucidità. «Mi dispiace, Annabeth, mi dispiace. Non volevo che andasse così, te lo giuro. Non volevo ferirti, io...» gli manca la voce per un istante, borcheggia cercando di trovare il fiato per dire qualcosa.
«Shh» lo rimbecca sempre lei, pogiandogli la mano sulla spalla. «Non parlare se non ti fa male. Va tutto bene, Luke, va tutto bene».
E non sa nemmeno lei, in fondo, se è tutta una bugia o una mezza verità. D'altronde non è nemmeno convinta che sia tutto apposto, che la vita continuerà comunque.
«Io...» mormora Luke, pianissimo, frenando la tosse che gli fa tremare le corde vocali. «Io ti amo».

 

 

***

 

L'ha colta di sorpresa, l'ha destabilizzata anche se solo per pochi attimi. Annabeth cerca di dire qualcosa, di rispondere a tono, di negare, a distruggere tutto. Non ci riesce.
Per un attimo, solo un attimo, si sente di nuovo l'undicenne piena di fiducia con una cotta indicibile per l'eroe migliore di tutto. Forse è sempre stata quell'Annabeth, in fondo, a tenerla ancorata al mondo. Ma lei non risponde, non dice niente, sorrise solo un attimo e gli accarezza la fronte bollente con la punta delle dita.
Si chiede se sia giusto eclissare anni in cui si sono feriti a vicenda, con le unghia e con i denti, con tradimenti pensati e non detti. E non trova mai risposta.

 

 

***

 

Cercando di arginare le crisi di suo marito, Annabeth ha perso di vista il tempo che scorre: è saltato un mercoledì, nella sequela veloce e un po' inattesa dei giorni che si rincorrono senza tregua. Così l'ultimo mercoledì si è trovata a rincorrere il tempo che fugge, precipitandosi in quella cella troppo vuota.
«Sei tornata» è il sussurro inudibile di un Percy spento, smunto alla luce delle candele. «Ormai non ti aspettavo nemmeno più, Cervellona».
«Scusami» è tutto ciò che riesce a dire lei, un po' invecchiata nella luce tenue che le ingrigisce le tempie. «Io... sarei voluta venire».
Io ti amo. Anche se ho preferito lui, ancora una volta, solo perché mi ha incantata con quelle parole che mi fanno capitolare ogni volta. Perdonami, se ti ho tradito di nuovo.
«Non importa» esala lui, scuotendo la testa in un sorriso amaro che non se ne va. «Se non sei venuta è perché non ti mancavo abbastanza».
Non mi ami abbastanza. Sono davvero poche, ammesso che esistano, le persone che riescono davvero a mancarti.
«Mi dispiace» ripete lei, lo sguardo basso, le mani che nervosamente stropicciano la gonna. «Davvero, io...».
«Va bene così, Annabeth» dice lui, scrollando le spalle. Sorridendo. «Dubito che riusciremo a vederci ancora» si alza, lentamente, posizionandosi di fronte a lei. «Ma non ti lascerò con Luke, te lo prometto. Devi solo aspettare».
Le sfiora la guancia con le dita, prima di tornare a sedersi sul pavimento umido di pioggia. E di lacrime. Annabeth si allontana, il peso di un qualcosa d'inconcluso che le grava sul petto, un tradimento che nel pensiero comincia già a formarsi. E una farfalla di carta che si posa su quella storia che Luke scrive, in silenzio, nell'altra stanza.

 

 

***

 

Piove a dirotto, quel giorno, dilatando decisamente i tempi di un'esecuzione fin troppo procrastinata alle ben famose calede greche, con somma irritazione di un Generale che conosce le altre mire di un ribelle senza ribellione. L'aria è piena di quell'odore un po' pungente della legna bagnata, in una parodia di palco eretta nella gran fretta e tenuta su con tralci di edera velenosa e fiori violacei che sbocciano senza sforzo, con il semplice scorere del tempo. Una farfalla solitaria continua a svolazzare attorno al Generale, confondendolo con quello sbattere di ali colorate così accattivante che gli ricorda vagamente qualche ricordo sopito: un qualche martedì che è passato in un soffio, nei bollori di una febbre anomala, quando si è forse sciolta quella patina di ghiaccio che gli avvolgeva il cuore in un abbraccio un po' antico che non lasciava tregua.
È rimasto sorpreso nel vedere che Annabeth era rimasta – ed è ancora accanto a lui, rigida in un abito bianco. Il lutto delle regine, dicevano un tempo. Con delle farfalle ricamate in argento, che volano via quando lei si muove: accade raramente, poiché è ferma come un disegno o un dipinto su tela, per cui le farfalle appaiono come fatte di una carta preziosa e fragilissima che non può muoversi – accanto a lui senza muoversi mai, una mano posata sul suo cuore per controllarne i battiti. Conosceva alla perfezione le cordinate del suo cuore, era stata in grado di trovarlo alla cieca, tracciandone alla perfezione il contorno con la punta delle dita.
Guardandola sottecchi, lui si trova a chiedersi dove si trovi esattamente il suo cuore. Ma è un pensiero rapito come un battito d'ali, una farfalla che si posa sulle sue dita e viene racchiusa dalle mani. Si guarda attorno, disorientato, quando sente la leggera pressione delle dita di Annabeth sul suo braccio. Così, quando rilassa le dita e separa le mani, la farfalla è morta, le ali spezzate. Luke nemmeno se ne accorge, preso dalla contemplazione di un gesto casuale della moglie, in quello sfioramento vagamente percepibile che gli'impedisce di riuscire a concentrarsi. Sembra tranquilla, Annabeth, nemmeno toccata dalla tragedia – solo per lei è reputata tale – che sta per consumarsi.
Si staglia davanti a quell'improvvisato palco come una colonnina d'alabastro, ancorata saldamente a quel marito pronto a vestire nuovamente i panni del'aguzzino. Il viso è una maschera tranquillissima, quasi sorridente, la mano stretta in quella del marito in un gesto vagamente romantico.
Luke Castellan è preoccupato: sua moglie non sembra minimamente scomposta dal macabro spettacolo che sta per svolgersi, ma sorride al nulla con aria serena, guardando i fiori violacei – blu – con aria serena. Chissà cosa vede, in realtà, in quell'approssimarsi di persone e piante che crescono a straordinaria velocità. Chissà cosa sente quando alza la testa di scatto, sporgendosi in avanti, come per udire un discorso appena bisbigliato. E Luke non sa cosa fare, quando la vede annuire all'aria, posando una mano sul ventre con aria estremamente colpevole, perché è solo allora che si muove e le farfalle – ancora fragili come carta – spiccano il volo.
Risuonano i passi in quel silenzio teso, imperfetto, che si sparge attorno alla platea: sembra una parodia di spettacolo, quando le guardie sfilano sulla struttura un po' precaria, trascinando ciocchi di legna un po' bagnata e tagliata malamente. Annabeth non si muove più, irrigidita nei muscoli tesi della schiena, il volto arrossato dal vento freddo che le accarezza il viso: in un riflesso involontario allunga la mano sul braccio del marito, avvicinandosi al petto, dove sente vagamente i battiti del cuore – e ne conosce l'esatta posizione – sotto la punta delle dita. A volte sembra essersene dimenticata, ma c'è stato un momento in cui ha pensato che quel cuore non avrebbe più pompato il sangue in quel corpo già troppo debilitato. In quel momento, ha davvero avuto paura, prima di sperimentare quel brivido che non provava da un po'. Libertà.
Ma ha avuto paura e non l'ammetterà mai, anche se non era martedì e poteva sentirsi esonerata dagli obblighi presi con sé stessa.
E intanto qualche fiore sboccia dal nulla e muore all'improvviso nella corrente di quei suoni – parole – che imperversano nella quiete stantia del pomeriggio, ed è un ronzio un po' fastidioso che non se ne va mai, resta come un quieto sfondo oltre quella platea che fondamentalmente non parla: e l'unico sorriso è quello della signora Castellan – e il ghigno beffardo di un marito tradito nei pensieri e nelle parole – che appare un po' fuori luogo in quel tempo e in quello spazio, ma mai quanto la mano del marito che stringe la sua e non la lascia mai. Dicono che la guerra non sia mai finita, per Annabeth Chase. Si sbagliano. La guerra è finita da tempo anche per lei, quando hanno tagliato anche l'ultimo brandello di speranza a cui si aggrappava: non esistono guerre da combattere in eterno e nemmeno lei è così sciocca da provarci.
E poi succede che lo vede e quel sorriso finisce nel dimenticatoio, come quel principio di ribellione che avrebbe potuto metter su: Percy appare più debole a ogni passo che compie, strascicando i piedi lungo la superfice irregolare del suo palco amatoriale. Sembra sul punto di cadere nel nulla, fra le persone, sul Generale Castellan che lo guarda con calma glaciale che stordisce. Ma Percy Jackson non si ferma, cammina velocemente verso il centro del palco, degutendo a fatica davanti alla pira.
Lo issano lì sopra come se fosse un bambino, due guardie che lo sollevano con una facilità che sconfina nell'innaturalezza, imprigionandolo fra una corda e la legna.
È in quel momento che Annabeth Castellan si volta verso suo marito, in un turbinare di farfalle di carta, lo sguardo implorante come se lui potesse davvero fare qualcosa: come se Luke Castellan avesse il rimorso necessario per salvare Percy Jackson, proprio lui che era famoso per la sua mancanza assoluta di sentimenti.

(Ma un cuore l'ha sicuramente: sua moglie ne conosce le esatte coordinate e ne riconosce quasi la forma).

Il Tenente Greengrass sale sul palco con una torcia in mano, fuoco bluastro che divampa subito: ha appena il tempo di gettare l'oggetto ai piedi della pira che le scintille aggrediscono il legno. Forse nessuno se n'è accorto, ma Annabeth Castellan sta piangendo: si tiene al braccio del marito, leggermente piegata in avanti per mascherare i singhiozzi che le rimbombano nel petto. Luke l'ha notato, in un'altra vampata di rabbia che gli scalda le viscere con lo stesso fuoco che aggredisce la pira.
«Non devi piangere» le sussurra, con l'approccio rigido e un po' guardigno che usa quando non sa bene cosa dirle. «Non se lo merita, Annabeth».
«Non sto piangendo» risponde lei, in un sussurro. Perché, se Annabeth piange è solo perché è riuscita a graffiarsi con i suoi stessi artigli, ferendosi mortalmente.
«Vorrei essere l'unico in grado di ferirti in questo modo» mormora, affranto. Le stringe la mano, incerto, dondolando sui talloni. «Vorrei che tu ti facessi ferire solo da me».
«Forse lo vorresti» concorda lei, inclinando leggermente la testa. Controluce, i suoi capelli assumono riflessi biancastri, gli occhi le tinte del mare all'alba. «Ma io non mi farei mai ferire da te, Luke. Non più». Non più.
Quelle due parole lo fanno sobbalzare, proprio mentre le fiamme intaccano la legna appena sotto i piedi di Percy Jackson. Non più. Proprio lui che si era convinto di non averla mai ferita e che mai l'avrebbe fatto, lui che aveva detto che l'avrebbe sempre tenuta al sicuro. Non l'aveva fatto. E quella sicurezza gli ribolliva nelle vene insieme al sangue, disorientandolo: la certezza assoluta di aver compiuto i passi necessari per avvicinarsi – allontanarsi – da lei l'aveva convinto a salvarla.
Fa per dire qualcosa, ma viene interrotto dalle urla agghiaccianti di Percy Jackson: il fuoco gli si arrampica sulle gambe, bruciandole. L'attimo dopo è già svenuto per il fumo e l'eccessivo dolore, il fuoco che gli divora le punte dei capelli e tutto il resto, in quel fumo acre e immondo che si diffonde ovunque. E sprazzi di cenere che viene già dispersa dal vento e arriva al mare, si perde nella pelle della platea, appena dietro il resto. Annabeth chiude gli occhi, davanti al fuoco che avanza e divora.
Quando li apre, Percy è già morto. È cenere fumante che si sparge sulla legna del parco, che raccolgono in un'urna che consegneranno al mare.
«E adesso che succede?» sussurra qualcuno dalle retrovia, sbattendo il piede annoiato da uno spettacolo ormai terminato. Annabeth si volta, cercando qualcosa. Qualcuno.
«E adesso si muore» risponde, sottovoce, facendo sobbalzare il marito ancora al suo fianco. Adesso si muore. Luke la guarda, gli occhi già appannati e quelle parole che premono già per uscire fuori dalla gola: non più.
Ma, quando, fa per rispondere realmente si accorge di non avere abbastanza parole per definire bene il concetto. Si accorge di non avere parole e basta, forse escluse quelle che dice di martedì – non ricorda che giorno è, però – e a cui lei non replica mai. Ma non lo dice: a cosa servirebbe?

 

 

***

 

Percy è morto. È l'unica cosa che riesce a realizzare quella notte, quando gli incubi non le permettono di addormentarsi con serenità. E Luke non c'è, forse perso nel letto di una qualche sgualdrina che un po' le somiglia, abbastanza lontano per permettere agli incubi di assediarla. E Percy è morto.
Ha passato così tanto tempo a crogiolarsi nell'idea di un mondo senza di lui che, adesso, la realtà ha assunto quella parvenza di realtà filtrata che è delle fantasie. Le sorge il dubbio di non aver sognato tutto, perfino la cenere sui vestiti e sul volto di quando l'hanno sparsa nel mare. Si sveglia e ricorda che lei l'ha guardato bruciare.
Percy è morto. Se ne rende finalmente conto una di quelle sere solitarie, quando vede Luke tornare ubiraco fradicio e con il colletto della camicia allentato e la faccia stravolta: il volto di chi ha cercato a lungo qualcosa o qualcuno. E Luke la cerca nelle prostitute bionde che le somigliano, dato che lei è diventata ormai una presenza intangibile e muta, che non fa che passare il dito su una porzione leggermente più scura di polso – e forse se ne rende allora: sta tornando. La nebbia che si era diradata sta tornando, le urla di diventare cenere – e parla solo a monosillabi e solo su sollecitazione.
Percy è morto. Ma lei è viva e Luke non sa proprio cosa fare, con lei.

 

 

***

 

Un giorno è così temeraria da scendere in spiaggia, dove le orme sono divorate dalle onde. Luke la segue, cauto, come se temesse di vederla fagocitata dall'oceano.

La cenere galleggia sul mare.








1Dal film "Lezioni d'amore".

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Capitolo 3
*** Fogli bruciati ***


No, non mi sono assolutamente scordata (di nuovo) che oggi è venerdì. O, meglio, l'ho fatto. Ma non lo ammetterò, quindi sto nuovamente aggiornando dopo cena perché sì. Comunque, sorvoliamo sulla mia latente idiozia: dopo sedici anni a conviverci, ci ho fatto il callo. Dicevamo. Questo capitolo, fondamentalmente, è strano. 
L'ho scritto, come un po' tutta la storia, pensando a qualcosa (o forse qualcuno) e quindi sono giunta a una conclusione un po' sbagliata che fa un po' male a tutte quante, prima o poi. La trovate nella dedica, perché questo capitolo non è per lui, ma per lei: se non ci fosse stata, probabilmente avrei meno calli sulle mani e un capitolo in meno per questa storia. E forsa sarei vagamente un po' più sana di mente, ma non c'è troppo da sperarci. E no, non la odio: come possiamo odiare chi si trova nella nostra stessa situazione? Di conseguenza, vi prego, non odiate la povera Summer. L'avrebbe fatto chiunque, forse anche io. In fondo, la protagonista del capitolo è lei.
Buona lettura, le citazioni le trovate in fondo al capitolo, come sempre. A venerdì prossimo.




 

 
 
 
Questo è per lei:
mia cara Summer, fosse per te,
non mi sarei fossilizzata su un dondolo e non avrei capito una cosa.
Arriverà sempre qualcuna più bella di te, pronta a toglierti tutto



Un giorno Rachel entra nella stanza da letto del Generale e trova Annabeth inginocchiata sul pavimento, davanti al caminetto, la gonna aperta in una ruota attorno alle gambe e dei fogli che ne formano i raggi. C'è scritto qualcosa, in una grafia così minuta che probabilmente perfino lei non riesce a leggerla, poche parole orientate in un angolo del foglio che poi seguono un metro invisibile, scivolando verso l'angolo opposto. Con gesti lenti, misurati, Annabeth afferra un foglio alla volta, scrutandolo con attenzione e scuotendo la testa con aria rassegnata. Il foglio viene accartocciato fra le sue dita troppo piccole. L'attimo dopo è nel camino, annerito e bruciato dalle fiamme.
«Cosa stai facendo?» mormora Rachel, portandosi una mano alla bocca. Le corre accanto, preoccupata, in un preoccupante dejà-vù che le ricorda di quando l'ha trovata nella vasca, ancora vestita, che tingeva di rosso sangue l'acqua. «Annabeth, vieni via di lì».
Annabeth ride, gli occhi liquidi come mercurio, la testa gettata all'indietro per mostrare i denti da lupo. «Lui è morto, Rachel» dice, la voce rotta. «Percy è morto».
La ragazza sospira, lasciandosi cadere accanto alla signora Castellan, in un mulinare di gonne. «Lo so» mormora, affranta. «Andrà tutto bene, vedrai».
Ma Annabeth non risponde, si limita a gettare un altro foglio nel focolare. Rachel trasalisce, in quell'attimo in cui riesce a scorgere quelle parole disperse come farlfalle d'inchiostro sul foglio. È solo un attimo, però, perchè il secondo dopo il foglio non c'è più. Ma lei ha fatto in tempo a leggere.

 

 

***

 

«Stava bruciando dei fogli» Rachel Dare appare agitata alla luce delle candele, gli occhi dilatati dall'angoscia. «Li accartocciava e li gettava nel fuoco».
Luke alza un sopracciglio, annoiato. Sembra ancora annebbiato dai postumi della serata precedente o, forse, è vero che il Generale sta diventando insensibile nei confronti di sua moglie, come dicono le malelingue: evidentemente l'ha trovata, in quell'assenza perpetua, in un'altra donna di più facili favori.
«Cosa c'era scritto?» domanda, sbadigliando. Ha gli occhi cerchiati e rossi, irritati, forse liquidi al pensiero della moglie a cui non chiede più niente.
«Hai smesso di amarmi1».

 

 

***

 

L'ha destabilizzato, come ogni volta: gli ha sbattuto in faccia una verità che cominciava a ignorare già da un po', col lento passare di quei giorni che si sono portati un briciolo di quella novità di una vita senza quel rivale. Così ha smesso di cercare di carpire sua moglie, sicuro di aver vinto la battaglia. E poi ha capito di essersi illuso, perché Percy è sempre lì. È in quei fogli bruciati nel caminetto, in quel sorriso che Annabeth sfoggia abitualmente per nascondere le lacrime che avanzano. E lui non sa come prenderla, quando si nasconde sotto le coperte e non parla, non a lui. La guarda singhiozzare col viso nascosto fra le mani, proprio lei che aveva promesso che non avrebbe più pianto. Ed è in quel momento che spesso si accorge che forse non ha mai smesso di cercarla.

 

 

***

 

Non ha mai smesso di cercarla: la cerca in quelle prostitute che girano per la città alzando le gonne per una manciata di monete, cercando di adescare un Tenente o un Generale per poter metter da parte un po' più di soldi, almeno per una sera. Luke Castellan ritrova sua moglie in quelle prostitute dai capelli biondi tinti di un rosso sgargiante che scompare nelle tempie, con l'oro che avanza. Hanno tutte gli occhi gonfi, cerchiati – e magari lui pensa che sia perché hanno pianto la morte di qualcuno, un ribelle senza ribellione – e le labbra screpolate, la pelle costellata da graffi e morsi stantii. A lui va bene così, forse perché di proposito lui cerca Annabeth dove sa di non poterla trovare: e ogni sera sceglie una bruna sorridente e dagli occhi scuri che sicuramente gli farà perdere il controllo. Va bene così. Gira al largo dalle bionde delicate e fragili, dal sorriso malinconico e gli occhi liquidi, quelle che quando lui passa tormentano con le dita una collana di plastica, dalle perline colorate.
E lui, qualche volta, quando vede una di loro ha la tentazione di allungare le mani e stringere il collo candido con quelle collane. Forse perché solo loro che ricordano troppo quella moglie abbandonata davanti al caminetto acceso, senza il velo leggero del suo abbraccio a scacciare via gli incubi. Non ha paura di uccidere davvero una prostituta minorenne e ubriaca, un giorno: d'altronde, lui è notoriamente senza spina dorsale, senza scuore, senza niente. Con tanto sangue sulle mani da rendere proibitivo lo stillare una lista delle vittime senza poter evitare di sorprendersi. Va bene così. A Luke non dispiace la sua vita, non dispiace aver perso di vista sua moglie.
Ma continua a cercarla: quando l'esigenza di vederla si fa quasi dolorosa e preferisce andare lontano da casa, avventurandosi nei vicoli malfamati per non trovarla o trovarne una che non sarà mai come lei. E poi c'è quella ragazza di cui conosce solo il nome – sempre che sia quello vero – che porta anche a casa per ricordarsi di una persona che non conta poi così tanto: per anni, era riuscito a convincersi che Annabeth era il mondo. E poi era crollato, notando l'impossibilità di venir corrisposto in un rapporto univoco come il loro, dove lui cedeva sempre e finiva per addossarsi tutte le colpe. Aveva vissuto per anni venerando solo lei, finché non ce l'aveva fatta più.
E poi è arrivata Summer: si è presentata come l'estate che viene a maggio, aprendo una porta senza chiedere il permesso. E lui l'ha lasciata spalancata, quella porta.
Ha permesso a una ragazza bionda e minuta, con occhi di un celeste un po' sbiadito – avrà mai il coraggio di trovarne una con gli occhi grigi? – d'insinuarsi nella sua vita. Gli sono sembrate infinite le notti in cui le si è premuto contro, con gli occhi socchiusi per pensare a un'altra cosa – persona che ancora un po' l'ossessiona. Ancora un po', ma va bene così, lui lo sa: è giusto anche così, quando se la scrolla di dosso e si alza e continua a camminare come se avesse un fantasma a inseguirlo. E si lamenta sempre perché, fondamentalmente, Summer non sa fare il suo lavoro – fargli dimenticare qualcosa o qualcuno – e lui proprio non ce la fa a non chiudere quella dannata porta.

(Del suo cuore. E magari non lo dice, ma a volte lei gli sembra di troppo in quel mondo popolato dall'unica persona che è riuscito a salvare).

Ma, forse, la semplice verità è che Luke non sa come andare avanti: la vita gli ha imposto di salvare l'unica persona che non riesce a comprendere, quella che l'ossessiona con riflessi che trova anche in posti dove lei non c'è, anche nella sua assenza che si fa sempre più pesante e duratura. La vede perfino in quei bambini un po' grassottelli che trotterellano dietro a madri dal sorriso triste, urlandogli in silenzio una frase che credeva di aver dimenticato. O forse non se ne ricorda solo perché è l'ennesima promessa non mantenuta da annotare sul suo conto, prima di presentargli il benservito. La verità è che probabilmente gli pesa sulla coscienza, quel rifiuto.

(Siamo una famiglia, Luke. L'hai promesso2).

Luke nasconde le orecchie nelle mani, ogni volta, per dimenticarsi di quel sussurro angosciato della moglie bambina.

Solo che non riesce a fuggire per sempre, prima o poi s'imbatte sempre nella cosa che teme di più: se stesso. L'immagine un po' vivida e un po' sbiadita che costella i suoi ricordi come un'entità lontanissima che lui non riesce a non temere. Teme, più di ogni altra cosa, di non essere all'altezza di quel primo Luke.
Ha ragione, si dice, ogni volta che allontana Summer con un gesto irritato della mano. Non lo è. Altrimenti non si troverebbe a cercare Annabeth nei capelli biondi di una ragazza senza famiglia, senza soldi, che si solleva le gonne per una manciata di monete. La cosa che gli da ampiamente sui nervi è che la trova, in quelle sottane.
E solitamente comprende che forse la cerca per non trovarla e che l'unica scelta giusta sarebbe tornare indietro, in quella stanza che puzza di lacrime e carta bruciata.
Ma non lo fa: si accontenta di un'altra serata a mandar via ricordi molesti, alimentando quella nebbia urticante che gli confonde i pensieri. Va bene così.
Vanno un po' meno bene quelle mani che risalgono sul suo petto, confondendolo, lasciandolo a cercare un paio di occhi grigi che non incontra mai.
«Non va bene» è il sussurro che si disperde nell'aria. Summer scuote la testa, i lineamenti elfici contratti in una smorfia di disapprovazione. «Lei ti sta distruggendo».
Luke si volta, un lampo che gli rischiara il viso, e fa sembrare la cicatrice sul volto una ferita aperta. «Non parlare di lei» sibila. «Non osare parlare di lei».
Si alza di scatto, irrequieto, pronto a balzare. Continua a tormentare l'angolo della camicia sbottonata, cercando di mandar via quel senso di colpa che gli urla di tornare da Annabeth, di salvarla e smetterla di cercare in quei posti dove non la troverà mai. Si ferma solo davanti alla sua scrivania, ingombra d'oggetti e fogli di carta, alle penne gettate alla rinfusa sulla superfice lignea. Si ferma, pietrificato dal riflesso di un qualcosa che gli suona particolarmente familiare.
«Vorrei riuscire a condizionarti come fa lei» ammette Summer, in un soffio. Luke non parla, nemmeno le impone di stare zitta e non dire certe cose, non le urla che lei è solo un dannato riflesso mandato lì per farlo impazzire. «Più credo di averti capito più lei riesce a farlo meglio di me, pietrificandoti dove io non posso arrivare».
Luke sfiora con la punta delle dita un foglio di carta appallottolato, bruciato in un angolo, spalanca gli occhi con aria colpevole. L'ha rubato lui da una massa informe di carta e inchiostro, farfalle di carta bruciate nel fuoco, ustionandosi le dita con le scintille del caminetto. Accartoccia il foglio, gettandolo sotto il tavolo.
«Lei non è qui, adesso» ringhia lui, ferito, stringendosi in quelle spalle piene di tagli. Già cominciano ad aprirsi, oggi è martedì. «Sei tu che continui a parlarne».
Summer sorride e, per un attimo, Luke si convice di vedere delle farfalle di carta che le volteggiano attorno. «Lei è sempre qui» risponde, semplicemente. «Ma solo perché sei tu a volerla qui, altrimenti se ne andrebbe». Lo guarda, dritto negli occhi, sfidandolo a contraddirla. Ma lui non lo fa.
Perché, in fondo, Annabeth è sempre lì: quando si volta e la vede riflessa nello specchio o in quelle farfalle di carta che continuano a passargli davanti agli occhi. Ma forse è lui che si ostina vederla in una ciocca bionda di una prostituta occasionale o in quei fogli bruciati con delle scritte sopra. Hai smesso di amarmi.
«Forse dovresti andare» osserva Luke, piatto, indicando la porta con un gesto della mano. «Oggi è martedì». Abbottona la camicia, incespicando sugli ultimi bottoni, raccoglie le forze per percorrere quei pochi passi che lo separano da sua moglie. È martedì e la ferita duole già, gonfia sotto le bende, i lividi spiccano nel pallore della pelle e fioriscono continamente in posti inviolati. La schiena. Perchè lui è veramente senza spina dorsale e senza cuore. Senza niente, ma va bene così.
«Oggi è lunedì» lo rimbecca Summer, scuotendo la testa. «Te ne sei già dimenticato, forse? Non è ancora martedì».
Luke sorride ma, controluce, appare più un ghigno o una ferita che gli divide in due il volto. «Lo so» risponde, aprendo la porta. «Ma non voglio aspettare3».
Summer sospira, le dita le tremano mentre allaccia il corpetto di un vestito troppo stretto, lega i capelli in una coda scompigliata che tiene i capelli lontani dal volto.
Mentre incerta si dirige verso la porta, probabilmente si convince che è troppo presto: lei è solo una sostituta, un riflesso. L'ha capito, che il Generale cerca sua moglie dove non può trovarla – ma ha trovato lei – perchè fondamentalmente non ha ancora ricevuto l'amore che merita.

(Se ne merita: è codardo, voltagabbana, infido e senza spina dorsale. Ma, oltre le cattive qualità, non ha altro se non l'ossessione che nutre per sua moglie. Va bene così).

Forse, si dice che è ancora presto, troppo presto: se lo ripete mentre compie le poche e semplici azioni – respirare, camminare, sorridere – che la porteranno fuori dalla porta del Generale. E dalla sua vita, se è mai davvero riuscita ad entrarci, solo per un po'. Vorrebbe entrarci, ammaliata da quel mondo di malinconia e dolore, anche solo per la curiosità di scorgere il riflesso di quella donna che ha distrutto l'uomo più potente di tutti. Chissà come ha fatto, si chiede.
Poi nota che Luke continua a stropicciare un foglietto e ha la sua risposta: ha smesso di amarlo. E il Generale Castellan, notoriamente senza cuore, è rimasto intrappolato in un circolo vizioso di una donna che possiede un cuore non commisurato alla reale portata delle sue emozioni. E non riesce a liberarsi. È troppo presto.
«Sarebbe meglio» dice Luke, prima di lasciarla uscire, trafiggendole da parte a parte con il suo sguardo freddo e indifferente. «Se tu la smettessi di tornare».
La stilettata la fa crollare all'indietro, costringendola a cercare un punto di appoggio nel tavolo. «Cosa?» balbetta, certa di aver capito male.
«Non ci vedremo più» ripete Luke, sereno. «Avrai il tuo compenso, ma ho finito di usufruire dei tuoi favori» sorride, letale come un serpente. «Basta così».
«Perché?» domanda lei, perplessa. Le mani tremano sulla stoffa del vestito, i denti affondano nel labbro fino a farlo sanguinare. «Se è qualcosa che ho fatto, io...».
«Non voglio ferirla di nuovo» sussurra lui, con aria colpevole. E lei si accorge che non ha mai smesso di guardare il foglio accartocciato. «Non... Noi siamo una famiglia».
Lei sospira, tenta un sorriso che comunque risulterebbe poco convincente, si rassetta i capelli. «Va bene» dice, semplicemente. «Va bene così».
Si allontana a passi veloci, sentendosi lo sguardo del Generale ancora addosso, che la brucia e la trafigge ricordandole che lei è solo un rimpiazzo di qualcosa di più mirabile, come il cuore della moglie che non gli appartiene già da un po'. Percy Jackson è morto e Luke Castellan si è rifuggiato sotto le sottane di Summer solo per sfuggire a quel dolore cieco di Annabeth Chase, a quelle lacrime che lo ferivano più di ogni altra cosa, per poi cercarla com'era prima in un altro tempo. In un altro luogo un po' inappropriato dove l'ha trovata, in altre vesti, e l'ha pugnalata proprio lui che aveva desiderato lasciarle un segno duraturo.
Summer scuote la testa, affranta, si da silenziosamente della stupida: ci è caduta di testa, in quella trappola, infatuandosi dell'uomo peggiore di tutti. Proprio lei, che di amore non avrebbe mai dovuto nemmeno sentirne parlare, proprio lei che di Annabeth Chase conosce solo il nome e il sorriso di quella malinconia che stordisce.
E ora è decisamente troppo tardi per chiedere favori, per cedere al rimpianto o anche solo per maledire la dedizione di Luke Castellan nei confronti di sua moglie.
Non avrebbe nemmeno senso protestare, farsi curare le ferite da qualcun altro: si allontana in punta di piedi, voltandosi solo per guardare il Generale che timidamente s'affaccia nella camera da letto della moglie, un sorriso sciocco in volto. Summer s'adombra leggermente, mentre passa oltre, eppure sapeva già che non sarebbe durata.
Il Generale Castellan è noto per la sua totale assenza di cuore, lei non avrebbe mai aspirato a qualcosa di così impossibile da cogliere. Finchè non ha scoperto che è qualcosa che in realtà esiste e viene continuamente rifiutato da una donna che non ha altro che quel cuore che manca al Generale. E lei lo vuole.
E se prima era troppo presto, adesso decisamente il tempo è scaduto: Summer l'ha capito, che è definitivamente troppo tardi per chiedergli quel bacio che non arriva mai quando lei lo guarda, speranzosa, ma senza esprimere quella richiesta che le viene sempre negata. Così adesso quella verità la colpisce con forza, togliendole il respiro.
È troppo tardi per quel bacio non dato, troppo tardi per non poter sparire nel nulla. Troppo tardi per tutto. Summer sparisce oltre il corridoio. Ma va bene così.

 

 

***

 

Annabeth non dorme più: passa le ore rannicchiata in un angolo del letto, le mani che torturano la coperta e il bambino che la stordisce a suon di calci. Ogni tanto si alza, come se sentisse l'esigenza di fare qualcosa, ma dopo pochi secondi ricade sul letto, disorientata. Sembra quasi che aspetti qualcuno, quando alza la testa e cerca qualcosa.
Rachel non sa più cosa fare, un giorno si alza e la trova di nuovo nella vasca, l'acqua che cola sul pavimento e la testa fra le mani. Si trova a controllarle i polsi, spaventata, per scoprire che sono illesi. Ma Annabeth non parla: sembra un'annegata, coi capelli bagnati e lo sguardo perso nel vuoto, la pelle che sembra assumere un vago colorito verdastro. Quando la guarda da vicino, nota che ha gli occhi pieni di lacrime pronte a uscire fuori dagli argini. Così scivola accanto a lei e le accarezza i capelli, incerta.
«Dov'è Luke, Rachel?» domanda Annabeth, in un sussurro. Dal viso colano gocce d'acqua, pioggia, e sale che ogni tanto fa la sua comparsa. «Dov'è finito?».
Rachel Dare non ce l'ha, il coraggio di risponderle che ha appena visto una donna bionda allontanarsi dalla camera del Generale, in punta di piedi, guardando la porta con aria torva. Così le sorride, incoraggiante, tentando di mandar fuori una risposta accettabile, che non sconfini nell'ennesima bugia arteffatta a cui lei non crede mai.
«Sono qui, Annabeth» è il sussurro che proviene dalla porta ancora aperta. Luke la guarda, affranto, irrigidendo i muscoli per non correre da lei. «Sono qui».
Le sorride, tende le braccia in un gesto di affetto che non arriva mai a destinazione, perché Annabeth non si muove. È crollata sul pavimento, la gonna allargata e le mani a stropicciarne l'orlo continuamente, gli occhi puntati sul bottone slacciato della camicia del Generale. Sui segni di denti che gli decorano il collo.
Luke si siede accanto a lei, sfiorandole il braccio pallido con la punta delle dita. Lei si ritrae, incerta, abbassando lo sguardo sul ventre ancora nascosto dal vestito.
Rachel si riconosce, in quei gesti che aveva assunto mesi prima, che ha smesso all'improvviso per un motivo innominabile. Si avvicina alla porta in silenzio, stringendo la stoffa in eccesso di un vestito stretto di parecchie settimane prima, quando la vita cresceva dentro di lei. Poi è morta. Per un momento ha temuto che la disperazione facesse da riflesso in Annabeth, obbligandole a seguire il fato del vecchio Oracolo – era colpa dello spirito? Aveva ucciso un bambino per poter continuare a profetizzare? – che aveva visto quel corpicino minuscolo, con mani e piedini perfetti, lasciarla all'improvviso. E il vuoto che avanzava silenziosamente dove prima batteva un altro cuore.
Sa come si sente, a provare quella costante sensazione di vuoto che caratterizza una solitudine forzata: l'ha dovuta superare, Annabeth non ci riesce. Lo vede nello sguardo distrutto del Generale, annebbiato da lacrime che non versa, affranto nel gesto continuo delle sue mani su ogni lembo di pelle di lei. Scuote la testa, in una vampa rossastra. Vorrebbe urlare a Luke di non lasciarli morire così, uno nel liquido che origina tutto e l'altra nella disperazione più totale. Non lo fa. E la porta si chiude con uno scatto.
«Perché non mi lasci andare?» mormora, esasperata. «Dovresti averlo capito, che ormai siamo a un punto morto. Davvero, Luke dovresti smetterla».
Luke sospira. Gliel'hanno detto, ripetuto fino alla nausea, esasperandolo: deve lasciarla andar via, allontanarsi da lei prima che quella malinconia gli entri dentro. Gli hanno dato del folle, del visionario, dell'idiota. Forse lo è. Gli hanno detto che farebbe meglio ad allontanarsi da lei, che è pericolosa, che può distruggerlo divorandolo dall'interno. L'hanno avvelenato con parole appena sussurrate, dicendogli che deve lasciarla andare una volta per tutte, prima che lei lo divori completamente. E lui, fondamentalmente, è un folle, un visionario e un idiota. E come tale si comporta, rifiutandosi di lasciare andare quel cancro che gli divora il cuore.
E qualcuno gli ha riferito che Annabeth Chase tenta di avvelenarlo ogni giorno con i suoi sorrisi, di ubriacarlo con parole appena sussurrate. Ma Luke non la lascia andare.
Sciocco. Qualcuno sostiene che, se si ama davvero una persona, la prima cosa da fare sarebbe provare a lasciarla andare e vedere se torna. Solo che, se lei avesse la possibilità di andar via, probabilmente non tornerebbe se non per le ormai celeberrime calende greche. E lui è un idiota che quando cerca la via per il cuore di una persona si perde per strada in un sentiero che porta sempre davanti alla porta sbagliata. Non ha nemmeno la tentazione di lasciarla andare per vedere se tornerà.

(Non lo farà: è la consapevolezza con cui convive già da un po', quella con cui si desta la mattina solo per ricordarsi che non può abbassare la guardia, altrimenti potrebbe perdere ogni cosa. Annabeth non tornerà mai all'inferno, lasciandolo solo a bruciare nella sua assenza prolungata, abbandonandolo sull'orlo del dirupo).

«Se ti lasciassi andare, tu proveresti a tornare da me?» domanda, affilando lo sguardo. «No, Annabeth, non lo faresti. E c'è qualcosa...» qualcuno. «Che ti tiene legata a me per sempre, te lo ricordi?» e gli occhi azzurri sembrano lame bellissime che le feriscono il ventre, attentando al cuore di suo – loro – figlio.
«Non tornerei» è la risposta veritiera di Annabeth. «Non potrei mai». Non dopo quello che ho visto, non dopo che ho visto un bambino morire prima ancora di respirare la prima aria. Non dopo che avete ucciso Percy davanti ai miei occhi, spezzandomi, proprio io che mi credevo la più forte di tutte quante.
«Lo so» risponde Luke, in un sussurro rassegnato. «Per questo non posso lasciarti andar via, Annabeth, perché so che altrimenti non torneresti mai».
«Tu non vuoi che io torni da te» è la risposta vagamente sarcastica di lei. «A te piacerebbe che io rimanessi qui per sempre» scuote la testa, in un turbine di capelli dorati. «Ma io non posso rimanere, sarei dovuta fuggire tempo fa» risponde. Sarei dovuta evaporare prima di vedere Percy morire per la seconda volta, prima di vederti impazzire per cercarmi in quelle sottane vermiglie che non sono le mie. Prima di affezionarmi a questo bambino che è solo mio, non tuo, non di Percy che ha fatto in tempo a trovarmi. Ho visto Rachel svuotarsi un po' e poi ridere al nulla, per non crollare, ma non riesco a fare lo stesso: non capisci, Luke? Devo andare via.
«Vorrei tanto che tu la smettessi di tentare di fuggire» esala lui, sconfitto. Si porta una mano sulla spalla per trovarla rossa del sangue che comincia già a fuoriuscire da quelle ferite che non guariranno mai. «Dove vorresti andare, poi? Lui è morto». E la guarda, implorante, aspettando che lei crolli ai suoi piedi in un mare di lacrime.
Ma non lo fa: Annabeth continua a muovere le mani in maniera continua, lacerando i punti deboli della gonna, continuando a osservare sottecchi i fogli bruciati nel camino.
E poi si alza di scatto, torna a letto, rannicchiandosi come una bambina: Percy è morto. E lei sta seriamente prendendo in considerazione l'idea di smetterla di scappare.

(Dove dovrebbe andare, poi, dato che tutti quelli di cui si fidava sono morti e rintanati nel ventre della madre suprema o dispersi nella corte di Crono?).

«Vorrei avere un motivo per non farlo» risponde lei, lapidaria. Si porta una mano al vetre, trasalendo di fronte a un contatto inaspettato. Il motivo è lui. «Qualcosa che mi costringa a rimanere qui» il bambino. «Ma non c'è nessun motivo, Luke, niente che mi tenga qui». Lo guarda, dritto negli occhi. «Non ho più niente, non ho un motivo».
Sì che ce l'hai, vorrebbe dirle – urlarle – lui. Il bambino, tuo – nostro – figlio, e Percy è morto e tu sei persa senza di lui. Ma non può dirglielo, così rimane in silezio.
Ricorda vagamente i tempi in cui lei gli riversava contro insulti sobilati e parole impossibili, per poi disorientarlo con il suo improvviso silenzio. Adesso Annabeth deve ben capire cosa si prova: si aspetta un rimprovero e l'ennesima richiesta intrisa di lacrime non versate, una supplica che lei avrebeb respinto, sentendosi crudele. Solo che non arriva nulla, se non il silenzio teso che Luke le rivolge, munito di uno sguardo apatico che la trapassa da parte a parte. E lei non dice nulla, cercando di contrastare quella corrente che mira a trascinarla via, a riempirla con quel rimorso che già le si agita dentro. Cerca una risposta alla domanda che lui le pone, in silenzio, come ogni martedì. E se prima era lapidaria e fredda, adesso si confonde in quella negazione che non arriva, in una risposta che sfiora le labbra e non esce mai.
«Tu ce l'hai, un motivo» le sussurra, scuotendo la testa con aria rassegnata. «Solo che ti ostini a non vederlo, per aggrapparti ai tuoi fantasmi» le sorride, un po' più pallido nel sangue che già comincia a uscire da una vecchia ferita. «Ma non si può vivere di fantasmi, Annabeth, dovresti saperlo. Rieschieresti di rimanerne uccisa».
«Non puoi vivere nell'oscurità» risponde lei, tagliente come i suoi occhi quando lui la guarda e le ricorda che Percy è morto e lei è viva.«O ne farai parte per sempre».
Luke la guarda e, per un attimo soltanto, sorride e sembra qualcun altro nella luce tenue, in cui i suoi occhi azzurri assumono le tonalità delle profondità marine. E probabilmente è solo un gioco di luci che fa sembrare i capelli color sabbia del Generale dello stesso colore dell'ala di un corvo. Perché Percy è morto.
«Qualcuno dice che luce e oscurità sono sepolti insieme» risponde Luke, dolcemente. «Nel ventre di una madre che è la madre di tutto, sono fusi insieme». Le sfiora la mano con quella dolcezza che la sorprende sempre. «Si tratta solo di saper scegliere» mormora, scrollando le spalle – e tremando per il dolore che si propaga lungo la schiena, ustionandola – e sorridendole, quasi a suggerirle che sarà sempre lui, la scelta migliore. E l'unica possibile, dato che non è rimasto nessun altro.
«Non puoi chiedermi di scegliere» mormora lei, affranta. «Come puoi chiedermi di scegliere fra te e il nulla?» una scelta difficile, in fin dei conti, dato che con tutta probabilità per lei la scelta migliore sarebbe il nulla. Senza contare che per qualche strano scherzo del destino, continua a pensare come se Percy fosse vivo. Solo che lui non c'è più e lei non riesce ad abituarsi all'idea di un mondo senza di lui, a quell'assenza che le dilaga attorno obbligandole a compiere una scelta fra la carne solida e reale di Luke e l'esistenza meno tangibile di Percy, un fantasma che la ossessiona fino allo sfinimento. E ogni scelta è quella sbagliata, dato che fondamentalmente non è stato concepito un lieto fine per nessuno dei due protagonisti: una vita fra fantasmi o nell'oscurità, una scelta obbligata che non lascia scampo.
«Lo sto facendo» le sussurra. «Non puoi continuare a oscillare fra due mondi, devi compiere una scelta». Sorride, ma solo per un attimo. «Devi scegliere me».
Annabeth scuote la testa, un sorriso dolce sul volto. «Non posso, Luke» risponde. «Come potrei scegliere te, se tu l'hai ucciso?». Scuote la testa. «Penso che sia tutto sbagliato, tutto quanto. Io dovrei essere morta» le dita corrono sulla tempia, girano in senso orario per donare alla testa un po' di sollievo da quel mal di capo martellante che l'ha assalita senza tregua da quando ha realizzato di non poter scegliere. Forse, l'ha sempre saputo, ma non è mai stata in grado di accettarlo.
«Ma non lo sei» risponde lui, freddo. «Tu sei viva e lui è morto, cenere dispersa nel vento, e tu non puoi farci nulla. Devi solo rassegnarti a essere ciò che sei4».

 

 

***

 

L'aria è fredda, tagliente sulla pelle appena scoperta delle spalle: questa sera Luke Castellan non ha bevuto o mangiato e nemmeno parlato, si è cullato in un silenzio un po' artificioso in cui ha abbandonato la moglie. D'altro canto, Annabeth Chase non si è nemmeno preoccupata del pallore della pelle di lui, o di quei lividi violacei che si diffondono con velocità impressionante, o delle bende zuppe di sangue che gli aderiscono al petto e alla schiena. Non ha detto nulla per tutta la sera, lasciandolo a contorcersi nel suo dolore silenzioso, osservandolo mentre lottava con sé stesso per non chiederle quell'aiuto che lei gli ha rifiutato. A metà della cena, Luke se n'è andato.
Lei se n'è andata solo quando ha visto Rachel Dare avvicinarsi col marito, un sorriso cortese e un abito un po' stretto sul ventre. Morte. Annabeth è fuggita via per non dover assistere allo spettacolo di un dolore così silenzioso da passare innosservato a tutti. Non a lei, che potrebbe patirne uno identico. E Luke se n'è già andato.
Annabeth non lo dice, ma l'ha visto accomodarsi in camera sua, vicino al caminetto con le mani disperse nei meandri di un foglio ancora bruciato. L'ha visto rannicchiarsi in un angolo, gli occhi puntati con ostinazione su quella scritta divorata dalle fiamme: hai smesso di amarmi. L'ha presa come un'accusa, una sentenza e una mezza verità.
Annabeth non glie'ha mai detto, ma probabilmente lo è davvero. Così è uscita fuori, in punta di piedi, arrancando fino al balcone ingombro di fiori rosati.
Respira a pieni polmoni l'aria che le carezza il viso, arrossandole gli zigomi, e le scompiglia i capelli. È l'ennesima situazione di stallo in cui si è trovata, dove lei può solo cedere per fare avanzare qualcun altro – Luke – il quale si allea sempre con una spiacevole controparte ideata solo per renderle più difficile quell'unica scelta da compiere.
Si affaccia verso la landa desolata di sabbia e acqua marina, dove le orme dei Tenenti di pattuglia sono ancora fresche sulla spiaggia umida. Con le dita sfiora un fiore nei toni del celeste – e qui si lascia sfuggire un sospiro: è stanca, rassegnata di fronte ai ricordi che scorrono troppo liberamente – e socchiude gli occhi alla luce della luna. Poi sobbalza e muove un passo indietro: per un attimo le è sembrato di scorgere la cenere che galleggia sul mare. Ma è stato solo un attimo, sufficente a ricordarle una situazione che lei ben conosce e non può cambiare. Lei è viva, Luke è vivo, suo – loro – figlio cresce dentro di lei. E Percy è morto.
L'ha visto bruciare davanti ai suoi occhi, l'ha visto dibattersi mentre le fiamme lo inghiottivano e non ha potuto fare nulla per salvarlo. Si è congedata da lui ricordandogli che è nel suo destino scegliere sempre l'uomo sbagliato e perdere irrimediabilmente l'altro. Sempre la solita scelta sbagliata, quella che la tormenta ogni notte.
È andata da Luke, uccidendo Percy prima della pira, per lavargli di dosso sangue e stanchezza che si era tirato addosso per non lasciarla morire. Sarebbe stato meglio.
Annabeth si trova a trattenere le lacrime, di fronte all'ovvia constatazione che le si è riversata di sopra. Sarebbe stato meglio, se fosse morta in battaglia. Solo che è bloccata alla corte di Crono fra traditori e voltagabbana, con un figlio che non avrebbe voluto e un marito che o la ama troppo o non l'ama più. E la cenere che galleggia sul mare, illuminata da una sottile lama di luce, ricordandole che ha anche perso l'unica persona per cui sarebbe valsa la pena essere stata salvata.
A volte non si sente nemmeno più lei, ma un pallido riflesso che compie solo le azioni basilari: dorme, mangia, cammina. Si guarda allo specchio e non vede nulla.
E allora capisce perché Luke ha cominciato a cercarla in persone che non sono lei, in un'onda dorata che rischiara le tempie di una ragazza troppo giovane.
Guardando giù, si accorge di una macchia rossastra che si muove vicino al mare, in punta di piedi. Acuendo la vista comincia a cogliere i dettagli: una chioma bionda, le sottane rosse, le mebra agili e snelle. E la riconosce, a distanza, come quella ragazzina in cui Luke ha scorto un briciolo di lei, quella di cui non conosce nemmeno il nome.
Ma l'ha vista, mentre cammina spedita sulla spiaggia e si ferma solo a pochi passi dall'acqua. La osserva mentre si volta verso una figura nascosta dall'ombra – e Annabeth, per un momento, teme che sia Luke – e mormora parole che si disperdono nel vento. Poi – ed è una mossa così stupida che non capisce – la ragazza muove una serie di passi fin dentro l'acqua. E poi è sparita in un turbine di bolle, senza nemmeno provare a nuotare quando la sabbia le si toglie da sotto i piedi. Annabeth soffoca un grido, sorpresa, mentre nota quella macchia rossa di stoffa che galleggia malamente nell'acqua marina. Insieme alla cenere, perchè anche lei ha fatto una scelta.
Fa appena in tempo a compiere un balzo indietro, quando si accorge che c'è qualcuno che sta scalando il palazzo, probabilmente la stessa persona con cui ha parlato la ragazza. Sente chiaramente le mani che cercano appiglio, il balzo che compie per raggiungerla sul balcone. Annabeth spalanca gli occhi, spaventata.
«Non urlare» le sussurra la voce calma di un ragazzo, una mano che per buona misura le copre la bocca. «Non ho alcuna intenzione di farmi catturare da tuo marito».
La lascia andare solo quando comprende che non urlerà né chiamerà in aiuto suo marito. Annabeth squadra il nuovo arrivato con un misto di curiosità e sfida, cercando d'intuirne i lineamenti nel buio, oltre i vestiti neri che lo confondono nell'oscurità. Distingue un sorriso sul suo volto, quando lui si china verso di lei, ridendo apertamente.
«Ma come, Annabeth, non mi riconosci?» mormora lo sconosciuto, scuotendo la testa. «E io che sono venuto qui solo per te!». Ed è in quel momento che Annabeth lo riconosce, finalmente, nonostante i capelli un po' più lunghi e gli accenni di disperazione che la guerra gli ha inciso sul volto. Muove un passo, confusa, come per accertarsi che sia davvero lui. E lo è, decisamente, quando la stringe in un abbraccio così inconsueto da sembrarle normale, anche da parte sua. Quando ritrova la forza per guardare in alto – è cresciuto: la guerra gli ha donato quei centimetri che erano di quella sua adolescenza recisa a metà; ha i capelli più lunghi e un sorriso diverso – incontra gli occhi neri e penetranti di Nico Di Angelo.








1"Come quei fogli bruciati, con su scritto 'hai smesso di amarmi'" Nesli - Un bacio a te
2Chiaro riferimento alla serie originale
3"Lo so, è che non volevo aspettare" - Allison Cameron, Dr House M.D.
4"Dobbiamo solo rassegnarci a essere ciò che siamo" - "Il re e il suo giullare", Margaret George

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Capitolo 4
*** Dimmi che (Mi ami?) ***


Indovinate un po' chi si è ricordata che oggi è venerdì, di nuovo: ovviamente la sottoscritta. Ma oggi aggiorno prima di cena, dato che sono riuscita a ricordarmelo in tempi relativamente brevi. Senza contare che sono così stanca che non connetto. E io dovrei affrontare un compito di matematica, la prossima settimana, sicuramente. Ricordo soltanto che i logaritmi sono come i pesci, ma non chiedetemi il perché. Comunque, il capitolo. La prima cosa che mi viene da dire è che è stato più difficile trovare il titolo che scriverlo interamente. Nell'ordine, questo capitolo avrebbe dovuto chiamarsi "Pensieri e parole" (Titolo assegnato al quinti capitolo), "Dimmi che", "Se lo ami abbastanza". E poi sono approdata a questo "Dimmi che (Mi ami?)" che sinceramente mi piace perché riprende il capitolo due e mostra quelle differenze sostanziali che ci stanno avviando verso una definitiva rottura. Fra il mondo dei primi capitoli e quel che verrà dopo (niente spoiler).
Questo, per certi versi, è il capitolo di Nico. Non l'ammetterò mai per certo ma avrei tanto voluto che il vero protagonista dell'epilogo fosse lui. Ma non è stato possibile, il perché vi sarà chiaro più avanti. Fondamentalmente lui è il ribelle senza ribellione che tanto mi piace, quello che cerca di tenere uniti i frammenti. E niente, probabilmente lo amo solo perché so già cosa patirà nel sequel. E nel prequel. Insomma, andiamo avanti. Per quanto riguarda Rachel, scoprirete qualcosa che sarà oggetto di un fututo MM (che probabilmente scriverò per Natale. O forse prima. Ancora non so) perché mi dispiacerebbe lasciare la sua storia incompiuta.
Buona lettura e grazie a chi recensirà.






 

Perché non me lo dici?
Anche se non lo saprai mai.



Non ha dormito per tutta la notte, continuando ad agitarsi accanto a suo marito profondamente addormentato – divorato dagli antidolorifici per quella ferita che lei non gli ha curato – mentre migliaia di pensieri le affollavano il cranio. Annabeth non ha dormito, ma ha anche smesso di bruciare tutti quei fogli, ha semplicemente smesso di affondare nella nebbia della sua testa e di rimanere in attesa di un principe azzurro che non arriva mai. Forse perché, a differenza di ciò che solitamente narrano le fiabe, il principe azzurro è diventato grigio su una pira e poi sabbia nel mare. Ma non importa, adesso che ha qualcosa che le occupa le giornate: si alza presto col pretesto di uscire, rincasa tardi. Si perde fra le piante di un giardino piantato in tutta fretta per l'arrivo della divinità più potente di tutti, solo per incontrare uno dei tanti ribelli. Senza ribellione. Ogni volta, Luke la guarda con aria triste, come se avesse compreso qualcosa di tutta quest'intricata vicenda. E lei abbassa lo sguardo, colpevole. È sempre in quel momento che Luke comprende che lei l'ha tradito con pensieri, parole e fatti quando la mattina si alza in punta di piedi per raggiungere qualcuno. E non dice nulla.
Qualcuno gli ha riferito che sua moglie s'incontra ogni mattina con un bel giovanotto dai capelli neri – e gli occhi azzurri? – con cui passeggia nel giardino del marito per un po'. Lo conoscono tutti, il nuovo Tenente, un'altro ottimo acquisto per le file di Crono, un giovanotto cresciuto troppo in fretta che è quasi sospetto. Ma il Generale Castellan non dice nulla, non si lamenta, non attacca e avvelena quel ragazzino in cui rivede eccessivamente Percy Jackson. Ha perfino smesso di cercarla.
Ma questo è successo quando, un giorno, si è alzato ed è sceso sulla spiaggia. Mentre con i piedi smuoveva la sabbia e l'acqua marina gli avvolgeva i piedi, l'ha vista: una macchia rossastra che si dibatteva, smossa dalle onde. Una vampa di capelli biondi, il bordo rosso di una gonna. E lui ha smesso di cercarla.

 

 

***

 

Hanno ripescato una prostituta annegata nel mare sconfinato del nuovo Nord, con un pugnale conficcato nel petto e un sorriso sul volto. Somigliava vagamente ad Annabeth Chase. Qualcuno dice che in realtà sono la stessa persona1.

 

 

***

 

Luke Castellan passa la maggior parte del tempo in giardino, pigramente disteso sull'erba rada, cercando segni del passaggio di sua moglie. Saltuariamente, Rachel Dare scivola accanto a lui, un sorriso debole che le rischiara il volto. Scuote sempre la testa, con aria rassegnata, prima di mormorare le solite parole.
«Non puoi inseguirla per sempre» sussurra, trascinando via quel poco di colore che anima il viso di Luke. «Lei fugge per non essere presa, Luke».
È solo ogni tanto che lui le risponde, la stanchezza che traspare dalla sua voce come un gas velenoso. «Vorrei che la smettesse di sccappre» mormora. «Vorrei che scegliesse qualcosa». Qualcuno. Rachel non ha ancora trovato una risposta da dargli.

 

 

***

 

Nico le ha parlato della comunità di ribelli al Nord: di come vivono, sepolti dal mondo, progettano la grande rivalsa degli Olimpi. Parla di come Percy si è impegnato per portare avanti la ribellione, prima di diventare cenere nel mare. Le racconta delle visite di Apollo, dei nuovi Mezzosangue. Le chiede di fuggire con lui.
Ma lei non risponde mai di sì.

 

 

***

 

«Percy mi ha detto di portarti con me» le sussurra Nico, un giorno che si attardano fra le rose bianche del giardino. «Pensava che tu l'amassi abbastanza per farlo».
«Non posso venire con te» risponde Annabeth, laconica. «C'è qualcosa che mi trattiene qui». Qualcuno, ma questo non potrebbe mai ammetterlo.
«O forse non l'amavi abbastanza».

 

 

***

 

Annabeth arretra, disorientata, come colpita da uno schiaffo – in realtà si sente come se Nico gliel'avesse davvero dato, quello schiaffo – che la fa barcollare. Finora si è sempre cullata nell'illusione estatica di un amore dal mancato finale, come fanno solitamente le ragazze che si portano dietro l'odore di polvere, guerra e il tintinnio lieve delle fiabe per bambini e vestiti rosati con lustrini mai smessi. Un'infanzia infinita. Ha sempre dato per scontato di non poter amare nessun altro, non più.
«Lo credevo morto» si difende, balbettando appena, confondendosi nelle volute delle sue stesse parole. «Altrimenti, io...». Non sa nemmeno lei, cosa dire.
«Non lo amavi abbastanza» risponde Nico, calmo. La pietrifica con quegli occhi scuri, apatici, duri. «Altrimenti non ti saresti lasciata raccogliere in questo modo» le sorride, calmo. «Altrimenti non dovresti nemmeno scegliere, Annabeth, non di nuovo».
«Non voglio scegliere» mormora lei, di riflesso. «Non ho nessuna scelta, davanti, se non un obbligo: rimanere qui» e scuote la testa, affranta. Qualcosa la trattiene. Qualcuno.
«Solo perché lui lo ami abbastanza».

 

 

***

 

Un giorno, Luke finalmente si decide a chiederglielo per l'ennesima volta: succede che si è lasciato cadere sul letto con un sospiro pesante, la ferita sulla schiena che pizzica e infradicia di sangue le bende. Alza lo sguardo per incontrare quello di lei, gli occhi socchiusi alla luce del giorno, una mano che vaga sul ventre sempre più prominente. È mercoledì e il dubbio che lo consuma è più opprimente che mai, è come un tarlo che s'insinua sotto la pelle e non gli lascia tregua.
E quello stesso giorno, Annabeth decide di rispondere per la prima volta a quella domanda un po' inopportuna, anche se adesso conosce la risposta. Gliel'ha fornita Nico, in silenzio, quando l'ha lasciata andare per tornare da quel marito cupo e silenzioso che non la cerca più. Non la trova più in nessuno, ormai.
«Mi hai mai amato, Annabeth?2» le sussurra lui, con un filo di voce. La guarda negli occhi, implorante. «Dimmi che mi ami».

 

 

***

 

Luke la guarda, gli occhi spalancati in quella speranza che avanza e non lascia nient'altro lungo il suo cammino. Il Generale ha gli occhi di un azzurro slavato, liquidi di pioggia, i capelli umidi di quando era corso fuori per fossilizzarsi sul dondolo. Lei non c'era. E così si era stesso ad aspettarla: lei era arrivata dopo un'interminabile ora, le gonne raccolte fra le braccia e il volto stravolto. Si era avvicinata a lui con prudenza e le mani strette fra di loro, tormentate dalle unghia che scavavano la pelle. Con dolcezza infinita gli aveva scostato i capelli fradici dalla fronte sudata, sorridendo di quel sorriso malinconico che ora ritrovava nel viso di lui. L'aveva portato dentro.
Annabeth lo guarda, le palpebre calate per celare ciò che le passa nella mente, quasi ci fosse un collegamento misterioso fra cervello e occhi. Teme che Luke indovini i suoi pensieri, che legga quei geroglifici scolpiti nell'iride mentre gli passa una benda gelata sulla fronte e sorride accondiscendente. Teme che indovini quella confusione le passa nella testa, che indovini tutte quelle parti di lei che vorrebbe tenergli nascoste. E fugge in silenzio, lei, quando lo sguardo di Luke comincia a pesarle addosso come un macigno. Sta lontana da lui quasi come se, con un bacio, suo marito sia in grado di rubarle l'anima3. E non solo. D'imporle una scelta che non vuole.
«Rispondi» è il sussurro che fende l'aria. Annabeth lo guarda, dritto negli occhi. Apre la bocca, ignorando quel dolore che le stringe le viscere, i pensieri – le parole – che s'incagliano nelle corde vocali e fanno fatica a risalire. Rispondi. Ma le parole non le escono dalla bocca.

 

 

***

 

La osserva, meravigliato. Goccioline d'acqua gelida gli scendono sul volto in una parodia di lacrime piuttosto efficace. L'ha sentito, ne è certo. L'ha vista chinarsi verso di lui e stampargli sulla guancia – vicino alle labbra: troppo vicino – un bacio che sapeva un po' d'acqua piovana. E lacrime. Le ha sentite, sotto il resto.
E poi l'ha guardata mentre se ne andava, in punta di piedi per non fare troppo rumore.

 

 

***

 

Nico l'ha vista, affacciata al balcone, i capelli mossi nel vento che soffiava imperterrito in quell'autunno che avanza senza preavviso: l'ha vista sorridere al nulla, un sorriso un po' tirato che l'ha fatta sembrare ancora più giovane. Rachel Dare non parla e non piange, ma si affaccia dal balcone sporgendosi un po' troppo, finché quel peso che le grava sul petto non sparisce per un po'. Si allevia quella sensazione d'inconcluso che le pesa addosso, quel presentimento che le stringe lo stomaco in una morsa dolorosa.
Pensa che probabilmente sta ancora aspettando qualcosa, un miracolo che la sollevi da quell'incarico che le hanno affibbiato deliberatamente. Perché, fondamentalmente, Rachel odia le persone che tradiscono con pensieri e parole e non coi fatti, poiché nessuno riesce a spogliarsi delle colpe e farle divenire proprie. Eppure anche lei ha tradito Apollo con pensieri e parole, perché di fatti non ne compie mai, non ne ha la forza. È rimasta parzialmente scolorita dalle vicende della guerra, annebbiata di fronte a un fato che non le si addice in tutto e per tutto: le hanno comunicato che doveva cambiar fazione, legarsi per sempre al Dio che aveva tradito tutti, partorirne – abortirne – i figli. Le hanno comunicato che deve smettere di sperare, perché per certi casi la fine non porta mai la pace: ti lasciano da sola, sotto la pioggia, impalata da aghi d'acqua e col petto umido di dolore. E lei si è limitata a calare la testa per correre dietro alla morte del primo Generale, a osservare con distacco infinito quel continuo gelarsi dei Castellan, perfino Annabeth che era sempre stata tutto un cuore: ma erano arrivati un punto molto, dove uno dei due cedeva sempre e l'altra continuava a correre via per fuggire da quella risposta che la tormenta già da un po'. Ha visto ribelli senza ribellioni e ribellioni senza ribelli, ma non si è mai scomposta o ha cominciato a sperare.
«Mi avevano detto che ti avrei trovata qui» esala Nico, scuotendo dalla testa polvere e sudore. Sorride e sembra ancora un bambino. «Scusa, se ti ho spaventata».
Lei sorride e, per un attimo, nei suoi occhi si vede il ricordo di ciò che ha stato. Nico inclina la testa, perplesso, nel vedere che lei non corre verso di lui, come l'ennesima principessa un po' stereotipata che aspetta solo di essere salvata: non lo fa, nemmeno un po', rigida come una statua nei vestiti troppo larghi.
«Va tutto bene» risponde Rachel, meccanicamente, muovendo con cautela un passo indietro. «Cosa ci fai qui?» è il sibilo che si perde nell'aria, nell'angoscia che avanza.
Lui la guarda, spalancando gli occhi neri, perplesso. «Sono qui per portarti via» spiega, dolcemente, come se avesse a che fare con una bambina un po' capricciosa.
«Non posso andare via» è la risposta di lei, secca, che gli lancia come una maledizione o un insulto. «Mi dispiace, ma non vi aiuterò nella vostra ribellione».
«Perché?» è il balbettio sconnesso di Nico, l'incertezza che lo fa tremare. «Perché, Rachel? Ti hanno presa del tutto e mi consegnerai a Crono, ora che sei con lui?».
«No» risponde Rachel, sottovoce. «Ma non posso venire con te, Nico, mi dispiace. Non posso... mi dispiace, ma non vi sarei di nessun aiuto. Dico davvero».
«Non mi hai detto il perché» ripete Nico, muovendosi già per lasciarla da sola sul balcone. «Magari, se si potesse fare qualcosa, tu...».
«Non si può fare nulla, per me» risponde lei, facendo mulinare i capelli rossi. «È solo che lo amo abbastanza».

 

 

***

 

Annabeth non dorme più, ormai, non riesce nemmeno a racimolare la calma necessaria per far pesare il sonno sulle palpebre: sua è quell'inquietudine perenne che non riesce a mandar via, l'indecisione che la divora e non lascia traccia. E quel dubbio che, in qualche modo, continua a tornare quando le parole le gonfiano la gola e non riescono mai a uscire – e ci sono sempre quegli oggettini che tintinnano nella tasca, le promesse infrante, che la costringono a fermarsi per cercarli e rimetterli al loro posto – nemmeno quando lei muove le labbra in una preghiera silenziosa. Dimmi che mi ami. E continua a tradire lui – lui chi? - con pensieri e parole, ma non saprebbe dire se lo fa anche con dei fatti. Non lo ami abbastanza. È l'incertezza la logora, lentamente, quando la sera si corica e si trova sempre sola e non capisce mai chi è che continua a cercare. Nico non è più tornato, da quando lei gli ha detto che non sarebbe andata con lui: non gliel'ha detto realmente, ma si è affidata a un silenzio denso di sottintesi che forse ha portato altri significati dove lei intendeva altro. Nico le ha detto che le ribellioni fioriscono ovunque come boccioli malevoli e nessuno può farci nulla e sarebbe per lei più prudente cambiar fazione per non finire definitivamente in quella massa di terra e ossa, nel cimitero. Gliel'ha sussurrato all'orecchio, che chiuderanno un occhio sul bambino, se lei cambia schieramento, le ha detto che dovrebbe farlo per Percy. Per Percy che è morto perché si ostinava a cercarla: gliel'ha raccontato il figlio di Ade, durante l'ultima sera, sibilando parole come un serpente e il suo veleno; quando le ha detto che Percy Jackson non aveva mai smesso di cercarla, dopo la battaglia, Annabeth si era quasi sentita male. Si era ricordata di quando Luke l'aveva sollevata da una pozza di sangue – era di Percy, l'aveva visto crollare a terra ferito dal pugnale di un figlio di Ares voltagabbana – e l'aveva portata via dall'inferno. E Percy era vivo e preoccupato per lei, mentre Luke cominciava a gettarle dentro i semi di quella malvagità che non le apparteneva. L'aveva cercata ovunque per trovarla nella tana del nemico, credendo fermamente che lei si sarebbe industriata per sopravvivere.
Nico se n'era andato con un sorriso sulle labbra, nel vederla sconvolta di fronte a quel racconto che lei si era persa, calandosi giù dal balcone come un principe orientale.
E non era tornato più, dopo averle raccontato quella storia, dopo averla scossa all'improvviso con quella storia dimenticata da tutti. Quasi istintivamente, Annabeth ha perfino cominciato ad aspettarlo, quando la sera Luke si addormenta nel continuo procrastinare una risposta che forse le deve: si è tanto crogiolato in quella che credeva essere un'assoluta certezza che, adesso, hanno cominciato ad assalirlo i dubbi. E procedendo con l'avanzare del tempo, fondamentalmente, ha compreso di non essere più in grado di palesare quell'assurda verità con cui ha convissuto dal primo giorno, forse nel timore dell'ennesimo rifiuto o di scoprire che probabilmente è solo l'ennesima bugia che si è propinato per addolcire quell'amara sentenza che gli è calata addosso come una condanna. Non sa cosa fare, cosa pensare, cosa dirsi per tranquillizzarsi. Ha contemplato per così tanto tempo l'idea di una vita senza Annabeth che, adesso che ha quasi la certezza assoluta – da quando ha visto Di Angelo calarsi dal balcone con un'espressione confusa in volto – che non fuggirà via, non sa cosa pensare. E deve reprimere il desiderio di mandarla via, poiché un'altra certezza che lo domina è quella che con lui non sarà mai al sicuro, soprattutto sarà sotto il suo tiro che l'ha ferita più di ogni altra cosa. L'ha capito, finalmente, che non potrà mai durare.
E Annabeth non capisce, non ha nemmeno la minima idea di cosa passi nella testa di suo marito, quando lei si sveglia e nota che le lascrime gli hanno scavato dei solchi nel volto, mentre lei dormiva – e con la mano Luke scacciava quegli incubi che poi andavano a tormentare solo lui – e non comprende quell'angoscia che non è mai la sua. Lo guarda mentre si alza, con circospezione, cercando qualcosa con lo sguardo – qualcuno o quei fogli bruciati, con su scritto “hai smesso di amarmi”? – e fermandosi sempre davanti a sua moglie. Annabeth sorride e, per un attimo, è di nuovo quell'antico sorriso che sfoggiava nei primi anni di matrimonio, quello che ha smesso con la venuta dei ribelli e di una ribellione fantasma a cui non potrà prendere parte. Forse perché non l'ha mai amato abbastanza. O forse perché le manca una motivazione, o qualcosa.
«Penso che dovresti andartene» è il sussurro teso, glaciale, che Luke le rivolge. E un sorriso che gli squarcia in due il volto. «Dì a Di Angelo che andrai con lui» e scuote la testa, come per mandar via un pensiero solitario. O qualcuno che si ostina a confondergli la mente con fastidiose chiacchiere e recriminazioni. «In fondo, è proprio questo ciò che volevi, non è vero?» Luke è il primo ad averlo compreso, al contrario della moglie, lo sente nella pelle e appena dietro. «Ti sto dicendo che puoi andare».
«Mi avevi detto che non mi avresti mai lasciata andare» è tutto quello che riesce a dire lei, disorientata. «Avevi detto che saresti morto, piuttosto che lasciarmi andar via».
«Oh, lo so» risponde lui, scrollando le spalle con aria noncurante. «Non dubitare che io non sia già morto, Annabeth. Non farlo nemmeno per un solo istante».
Luke sorride e, in quel sorriso, sembra volerci mettere quell'anima che non gli appartiene già più. Ha le dita pallide tese sopra un singolo angolo di foglio bruciato, parole che si confondono in un disegno che Annabeth non riesce a riconoscere. Gli chiede – e lui a lei – una risposta che non arriva, ma rimane sospesa nell'aria.
Luke le getta in grembo un biglietto piegato con cura – e sporco del sangue con cui si è tagliato quando ha dovuto cambiare forza con precisione ostentata – e batte in ritirata. Per un momento, il foglio sembra spiccare il volo come una farfalla di carta e inchiostro – e anche sangue – prima di essere catturata dalle mani di Annabeth, che la dispiega con impazienza sulle ginocchia, per leggervi certamente ben altri messaggi nascosti sotto la patina di inchiostro stesa da Luke. Spalanca gli occhi.

(Non l'ammetterà mai ma, per un momento, ha letto due parole che lui le ha sempre detto. Le ha ascoltate, indiferrente, convinta che le fossero dovute: e, ora che lui ha smesso di pronunciarle o anche solo di pensarle o esplicitarle – e l'ha tradita con il pensiero e le parole – le manca quasi quella sicurezza lieve che le scaldava le ossa in quelle lunghe ore da sola. E ha capito che forse ha sbagliato qualcosa, quando l'ha tradito – niente pensieri o parole: un fatto che ricorda ancora – sapendo di ferirlo).

Eppure, quando allunga le dita per prenderla, lei è già morta in una manciata di coriandoli – e lembi di pelle e sangue – che non lascia scampo. Forse, è allora che lo capisce: in una verità che si palesa all'ultimo secondo e lascia senza fiato, come quel macigno che precipita e ti strappa l'aria dai polmoni. Forse, si dice, assaporando quella quasi certezza come se fosse una leccornia da divorare – e non la vedrà mai più – all'istante, forse l'ha amato – o lo ama ancora – per davvero.
Ma è una di quelle certezze che sfiora e lascia stare, in un battito di ali e una farfalla di carta che vola subito via, travolta dal vento. La carta si accartoccia come sotto una tempesta invisibile, piegando angoli fino a diventare una briciola minuscola o un lembo sottilissimo di pelle e sangue o ancora una farfalla che viene trafitta da aghi d'acqua. È tutto uno scandire silenzioso di tempi da rispettare, una ritmicità che lei conosce così bene solo perché l'ha vissuta.

Lunedì: il principio che si perde in una selva di ricordi e di un passato che non tornerà, perso nel riflesso in una pozzanghera formata da pagliuzze di ghiaccio. E lei è sempre lì, col petto ancora zuppo di dolore e la pelle trafitta con aghi d'acqua – ma, nell'alto dei cieli, non c'è mai arrivata.

Martedì: il sangue che scorre lungo il bordo della vasca in una parodia di decorazione. Rimpianto. Luke che l'aspetta sempre e lei che non si volta mai indietro.

Mercoledì: la corsa che la porta da una cella – la sua. Era sempre la sua – a un'altra. Rimpianto. Percy che l'aspetta e lei arriva sempre. Ancora.

Giovedì: la sorpresa di una parodia come di un Romeo antiquato che riscuote sempre un debito successo. Nico che la guarda, disorientato. E lei che non lo ama abbastanza, ancora, forse non lo ama per niente. E il rimpianto che le mastica le ossa, continuamente, come in una scena già scritta da altri.

Venerdì: il dolore, la cenere che non si stacca dall'epidermide ridotta a brandelli. La morte che si respira con l'aria e ristagna in quell'effluvio ripugnante. Sempre.

Sabato: il riposo. Quel giorno in cui si risveglia con una verità diversa incisa sulla pelle – e a volte non riusciamo nemmeno a sembrare ciò che vorremmo essere.

Domenica: il vuoto che le sale al cuore quando si perde nelle lancette dell'orologio e si accorge che la settimana stava per ricominciare e lei è sempre la stessa.

Era un continuo e ciclico ripetersi di giorni e ore che si accavallavano tutte uguali, ritmiche, per portarle le solite sensazioni che scolorivano col tempo: e lei non ne poteva più, di confondersi percependo ogni volta una pagliuzza diversa che la indirizzava verso la cosa – persona – sbagliata, disorientandola.
Ed è semplice, la soluzione per spezzare la catena, solo che lei si ostina a non vederla. O a ignorarla, quando si sporge per vedere Luke passare per il corridoio, pallido e sciupato in vestiti larghi e lacrime e pioggia che gli scolpiscono il volto. Se n'è accorta, delle ombre scure sotto gli occhi, dei vestiti infinitamente larghi, della nebulosa coltre di mercurio liquido che preme lungo gli argini degli occhi. L'ha visto piangere solo una volta, lo ricorda, quando il camino ha confuso pelle bruciata – aveva immerso le mani fra le fiamme, per afferrare un nemico che non prendeva mai – e fuoco, quando lei l'aveva supplicato – gli aveva ordinato, in un'impeto di tirannia che non le si adattava – di ucciderla. E forse lui l'aveva fatto, con pensieri e parole e farfalle di carta. Ma solo perché l'amava abbastanza e qualcuno dice che, quando è così, devi saper concedere qualunque cosa a chi ami davvero. E Annabeth lo ricorda, quando voleva morire e non aveva altra scelta – anche ora è così, quando si sente stanca e non sa come fare per superare la giornata. Ed è tutto tremendamente complicato quando cerca di dare ordine alla situazione e proprio non capisce come sbrogliare la matassa che prova a toglierle il respiro, strozzandola. Annabeth non desidera morire, non l'ha mai desiderato, ma quando si trova a dare un senso a tutto non riesce nemmeno a trovare una singola ragione per continuare a imporsi di andare avanti – per inerzia: si è fermata tempo fa – e vivere in quella sequela di giorni sempre uguali.
Ed è in quel momento, in un sospiro carico di ansia, che si rende conto che oggi è martedì e Luke le ha detto di andar via. E le ha gettato abiti e un biglieto in un baule e le ha detto di andar via – ma non è felice: l'ha desiderato per tanto tempo che ora vorrebbe solo rimanere e cambiare quella storia senza trama che ha scritto solo lei.
Eppure, per la prima volta, la soluzione le viene così spontanea che le sembra quasi impossibile in un atto di ribellione come non ne ha più sperimentati. E, per un attimo, si chiede se le parole possano mutare sulla carta quando sono già state vomitate dalla penna, in un lago d'inchiostro e lacrime che non si asciuga mai. Sorride.
L'abito le si inzuppa di pioggia e le ali argentate delle farfalle di stoffa argentate diventano un tutt'uno con lo sfondo color panna, così non volano più, restano incollate in un mondo bidimensionale che conoscono solo loro. Corre, pensando distrattamente di essere a piedi nudi in mezzo al fango, verso la figura nascosta dalla foschia.
Si ferma solo quando le manca il fiato e non sente nemmeno più quegli aghi che le penetrano nella carne, ferendola a morte. Tende la mano a Nico, tremando, il petto sempre più stretto in una morsa crudele che non le lascia il fiato necessario per dire alcunché. Si allontanano, insieme, senza dire una parola.
Se Annabeth trovasse il coraggio di voltarsi, noterebbe che Luke è lì, che la guarda. E capirebbe perché il petto le si è nuovamente inzuppato di dolore.

 

 

***

 

Si chiede perché li ha lasciati andare: un impulso stupido che probabilmente gli costerà la vita e gli ruberà anche quell'ultimo respiro che gli pesa fra i denti. Ed è la domanda che gli pesa addosso quando si accorge che avrebbe voluto essere ancora privo di coraggio – e cuore, anima e niente – per impedirle di lasciarlo.
Lascia che le dita si fermino su un vecchio fagotto, un vestito da sposa dall'orlo sfrangiato e le maniche distrutte, le cuciture saltate. Lo stringe come un feticcio e ne annusa il profumo – cocco sintetico e tanta polvere – seppellendovi dentro il volto. Lo specchio gli rimanda quell'immagine già nota, patetica nel suo bisogno infinito di sentirla vicina: il letto vuoto sembra senza confini e immenso, come le sue gambe che lo occupano per un singolo angolo, i capelli biondi una macchia dorata nel bianco.
Si alza di scatto quando l'aria fredda gli accarezza la schiena – e continua a ossessionarlo quella domanda a cui non arriva mai, in una palese mancanza di senno che non è mai la sua – e lui è costretto a scuotersi di dosso l'intorpidimento della solitudine che si è imposto.

(Ti manco, Luke? È la domanda che pone in silenzio quel vestito da sposa, quando le unghia si perdono nell'orlo irregolare. Ti manco davvero?).

Dallo specchio, socchiudendo gli occhi, si affaccia un viso che non è mai il suo. Il sorriso che si rivolge, però, è identico di quel carico di furbizia disarmante che è sempre stato suo, quando Annabeth esitava un momento nel dare una risposta – dimmi che mi ami.
E sta quasi per ringraziare suo padre – e suo è il sorriso che ti rivolge lo specchio – quando apre gli occhi e non vede più lo spettro di una divinità, ma le orbite vuote di un teschio. Ed è sempre allora che un urlo gli frantuma le corde vocali, costringendolo a fermarsi, l'aria stravolta. E Annabeth non c'è già più.

(Ma ti manco, Luke? La voce gli arriva da un angolo della stanza, dal vestito gettato a terra con orrore, polvere e cocco che si fondono insieme. Dimmi che mi ami).

Ed è il vuoto che accompagna una singola risposta che lui non pronuncia mai, una discorso brevissimo che non ha assolutamente intenzione di esprimete. Così rimane in silenzio, semplicemente. Ma la risposta è forse contenuta in quel minuscolo “sì” che gli s'incastra fra i denti.

 

 

***

 

Nico la scorta fra i ribelli: laceri, strappati e distrutti giovani che combattono contro il nemico peggiore di tutti.
«Annabeth Chase» la presenta Nico, in un sussurro.
«Castellan» risponde lei, a voce alta e squillante. «Annabeth Castellan». Poi sorride.

 

 

***

 

Nico la guarda, disorientato, cercando di placare il dissenso che già si scatena in quella gran massa di persone che attendono la salvatrice. E invece trovano una quasi vedova inconsolabile, un'Annabeth Chase che ha perso la fiamma che la riscaldava dall'interno. È spenta, immensa in quel ventre che sembra sul punto di esplodere.
«Luke è un traditore, Annabeth» afferma Nico, con cautela. «Non sei obbligata a portare il suo cognome».
Annabeth sorride – si vede la pioggia nei suoi occhi. «Ti ricordi quando eravamo noi, i traditori?».
«Annabeth» la riprende Di Angelo, tagliente come un coltello. «Non sei obbligata a lui in nessun modo, ricordalo».
Lei sorride ancora, triste, malinconica come lo era prima di ritrovare Percy. «Forse lo amo abbastanza, non credi?».

 

 

***

 

Gli hanno riferito che Annabeth Chase piange nel sonno, quando incosciamente si sfrega i polsi con le dita arrossate. Gli hanno detto che mormora un nome, a volte, quando si avvicinano per strapparla dai suoi incubi. E Nico si preoccupa sempre, quando capisce che quel nome non è mai quello di Percy Jackson.

 

 

***

 

Le notizie arrivano così lentamente che lei non sa più cosa fare o dire o anche solo pensare: ogni giorno qualcuno le getta addosso una goccia minuscola di veleno che le scava una voragine dentro. Ogni giorno le raccontano che Luke è morto, perduto, dimenticato. Che Luke è niente. Dicono che l'hanno gettato all'inferno con un biglietto di sola andata, dicono che l'hanno lasciato morto sotto i becchi delle cornacchie, che l'hanno perso in un abisso che nessuno conosce. Le ricordano che era stato tutto, per lei.

(E cos'è, adesso? Il ragazzo – uomo – morto, il ragazzo perduto, il ragazzo dimenticato?4 E' niente, realizza improvvisamente. Non le rimane più niente).

Le hanno detto che deve dimenticarlo, smetterla di serbare rancore per chi – non gliel'hanno detto – l'ha pugnalato mentre fuggiva come un codardo. Sempre che sia vero. Forse. Non ne ha mai la certezza assoluta, mentre ripercorre con la mente un sentiero già scritto. Un ricordo che conosce così bene che riesce ancora a condizionarla.

(E cos'è lei, adesso? Aspetta sempre qualcosa o qualcuno che non arriverà mai più. Il ragazzo perduto, dimenticato, morto. E forse aspetta anche il niente).

Annabeth sorride ancora, talvolta, ma continua anche a pensare a quel ragazzo – uomo, si costringe a pensare – che dovrebbe già aver dimenticato. Forse.

 

 

***

 

Nessuno sa cosa fare: tutti si aspettavano una guerriera fatta e finita, di carne e ghiaccio. E invece hanno ottenuto una farfalla di carta, trafitta da aghi d'acqua e stremata dopo notti passate a mormorare una risposta che arriva troppo tardi, per una domanda che non c'è più: dimmi che mi ami. Annabeth spalanca gli occhi nel buio.
Dimmi che. E qualcuno le dice sempre che deve reagire – respirare, alzarsi, mangiare, bere, parlare. Cercare una verità che non trova mai, anche se forse la scorge sempre quando mormora quella famosa risposta che ha negato per troppo tempo – ed emergere da quella catatonia infinita. Mi ami?
La vengono a trovare, sperando che un giorno trovi la forza di scrollarsi di dosso quella nebbia – e forse lei lo rivive come un dejà-vù di una situazione che ciclicamente si ripete, spiazzandola. E un giorno si alza e desidera non doverlo fare mai più – che indossa come un mantello, da quando le hanno strappato il suo. Luke non c'è più.
Le sussurrano che non ha più niente, nulla che le dia una motivazione per andare avanti. Le riferiscono a voce bassa che probabilmente Luke Castellan ha tentato di avvelenarla con l'amore. E i pensieri e le parole, ma se lei non l'avesse amato abbastanza non avrebbe mai funzionato, ma questo Annabeth non lo dice mai.
Le arrivano delle lettere, con la cadenza irregolare del ben famoso lunedì che si materializza (il principio. Nell'alto dei cieli) all'improvviso per la logica ricorrenza delle calende greche. Sono fogli di carta spillati insieme e stropicciati, con segni d'acqua – stilettate – che solcano il foglio come lacrime che avanzano; ci sono macchie d'inchiostro che decorano il foglio con sbavature irregolari, che coprono rabbiosamente parole – pensieri – che lei non riesce più a capire. È un elemento comune che ritorna sempre, ma non c'è mai la firma: un taglio irregolare che copre un nome che lei non vede mai. Gliele porta Nico, di mattina, quando lei spera che siano di qualcuno.
E si sveglia che è già martedì (Luke. Rimpianto) o mercoledì (Percy. Rimpianto. Ancora) perché lei non se lo ricorda mai, in una strana percezione temporale che la spiazza, quando si trova a sillabare numeri che la riportano a giorni che non passano più. Ed è in successione che ricorda i simboli dei giorni che passano, solo tre, sempre uguali.
Il principio e l'alto dei cieli, il rimpianto e qualcosa – qualcuno – e poi ancora rimpianto. Ma quello ormai non lo sente già più.
Nico non sa dove mettere le mani: un giorno si alza e la trova rannicchiata nella vasca da bagno colma d'acqua, la camicia da notte incollata al corpo scosso da tremiti incontrollabili. Eppure, dall'acqua salgono volute di fumo e vapore che ingombrano la stanza, impedendogli quasi di respirare. Annabeth stringe le mani lungo il bordo della vasca, scheggiandosi le unghie, facendo coincidere pelle – cicatrici – e marmo. La trova che s'immerge sott'acqua in intervalli sempre più lunghi, provando l'eccitazione infinitesimale della mancanza di respiro, quando i capelli le coprono il volto e lei vorrebbe davvero annegare in quella pozzanghera d'acqua saponata.
«Cosa stai facendo?» le domanda in un sussurro scandalizzato, che gli si strozza in gola. «Annabeth, perché ti comporti in questo modo? Adesso, cosa dovrei fare?».
Lei ride. Dai suoi occhi si vede la polvere e la guerra che avanzano, infaticabili. «Adesso si muore» la sua voce squarcia il silenzio. «Adesso muoriamo tutti».
Nico la osserva, scandalizzato. Le passa le mani sul corpo fragile – e osserva sgomentato che le costole sporgono sempre di più sopra il ventre prominente – e la solleva, facendo sgocciolare l'acqua e il sapone al cocco su tutto il pavimento. La guarda mentre continua a passare le dita su quella porzione di pelle più chiara, nell'incavo dei polsi e nella valle delicata fra l'osso in mezzo al petto, quella volta in cui la mano ha nuovamente provato a separare pelle e sangue, fallendo.
«Perché finisce sempre così, Nico?» domanda Annabeth, strascicando leggermente le parole. «Perché finiamo sempre o morti o peggio?». Col cuore infranto. «Dimmelo».
Dimmi che mi ama. La rassicurazione che lei assume ogni volta che comincia a capire che probabilmente non riuscirà mai a rassegnarsi a essere ciò che realmente è.
«Non posso, Annabeth, non posso» le sussurra Nico, all'orecchio, con un filo di voce che subito scompare nella quiete artefatta del bagno. «Dimmi che non importa».
Dimmi che. Dimmi qualcosa, le chiede in silenzio, appena si rende conto che non ha un piano ben preciso e già delineato. E lui è solo l'ennesimo ribelle senza ribellione.
«Non puoi, Nico, solo perché sai che sarebbe una bugia» dice lei, affranta. «Siamo solo delle ombre in una storia che non è mai la nostra. Dimmi che non è vero».
Sì, vorrebbe dire o urlare lui. Lo è. Eppure, Annabeth non lo sta più ascoltando, persa in un'altra elucubrazione che la disperde in un turbine di pensieri e parole.
Mi ama?

 

 

***

 

Le hanno lasciato un dondolo sul retro: vivono tutti in una catapecchia nascosta dalle fronde di alberi che crescono e s'ingarbugliano in un intrico di radici e rami. I ribelli fanni fatica a nutrirsi e organizzarsi, riflette Annabeth, eppure le hanno portato un dondolo. È successo quando le hanno mandato una ragazza senza nome per chiederle come andava – e lei ha risposto con un singolo singulto trattenuto nel petto. Dimmi che. La ragazza l'ha osservata, disorientata, mentre Annabeth cominciava a scrollarsi di dosso alcune goccioline d'acqua: era rimasta nella vasca fino a due minuti prima del suo arrivo. Annabeth le ha rivolto una singola occhiata, vuota, spenta.
Dimmi che. Ha già cominciato a raffreddarsi, il calore dell'acqua che le evapora addosso. I capelli che sembrano una colata d'oro su una veste rossa – sangue – che le sta troppo larga. E lei continua ad avere quell'aria fastidiosamente incaponita di quando continua a rispondere da sola a una domanda. Mi ama?
La risposta si percepisce in quel continuo annuire che rivolge alla nebbia che avanza, quando inclina la testa e non si capisce mai dov'è che si congungono le sue iridi plumbee e il cielo pieno di nuvole. Ed è sempre quel “sì” che, prima di rendersi conto che l'aveva sempre avuto incastrato fra i denti, non pronunciava mai.

 

 

***

 

Per un attimo, le sembra quasi di vederlo: un'immagine che scorre velocissima nei vetri e negli specchi, spiazzandola, quando si sporge leggermente per cogliere quel buffo riflesso. Le sorgono domande, dubbi, richieste che però non vanno mai oltre la barriera dei denti: dimmi che. Si chiede se, in fondo, questa non sia la vendetta che Luke ha desiderato per tanto tempo, tutte le volte che la guardava con occhi duri come lame. E, silenziosamente, le augurava quel vuoto che divorava il petto tutte le volte che lui si trovava a cercarla nelle sue stanze vuote. Ogni volta, Annabeth aveva ignorato quell'augurio silenzioso, quando poi la trovava isolata sul dondolo con il viso ancora perfettamente asciutto – e le mani piene di polvere delle prigioni, almeno negli ultimi tempi: quando Percy Jackson era arrivato. Per rovinare tutto quanto.
Poi, però, quando ha appena allungato la mano per sfiorarlo con la punta delle dita, lui scompare e torna a essere l'ennesimo disegno su carta che lei ha scambiato per la realtà. E Annabeth non capisce più nulla, quando tutto comincia a tremare ed è sempre lei a vagare per tutte quelle stanze vuote. Ed è martedì, forse.
«C'era una... una ragazza» dice allo specchio, quando vi scorge esitante l'ombra di Nico. «Una ragazza che Luke frequentava. Dov'è finita, Nico?».

(Te la ricordi? Somigliava così tanto a me, perfino in quella frazione di secondo in cui l'ho vista correre via dalla sua stanza. E sapevo cosa voleva dire: mi cercava ancora, in qualche modo, anche se io mi ostinavo a ignorare quella ricerca che non lo conduceva da nessuna parte. Ma non aveva mai smesso).

Nico abbassa lo sguardo, una lieve traccia rosa che gli pennella gli zigomi. «Lei è morta, Annabeth» confessa, imbarazzato nel vederla completamente impassibile.

(Hanno ripescato una prostituta annegata nel mare sconfinato del nuovo Nord, con un pugnale conficcato nel petto e un sorriso sul volto. Somiglia vagamente ad Annabeth Chase. Qualcuno dice che in realtà sono la stessa persona).

«Pensi che sia possibile?» domanda lei, inclinando leggermente la testa, un'aria corrucciata che le increspa il volto. «D'altronde lo dicono tutti, non è vero?».
Nico la guarda, perplesso, mentre lei getta indietro la testa e ride, mostrando i denti candidi come quelli di una lupa. «Cosa?» balbetta, incerto. «Cosa dicono tutti?».
Lo sguardo che Annabeth rivolge allo specchio è glaciale e, per un momento, non sembra nemmeno lei in quei tratti che le si sciolgono sul volto.
«Che lei è me» risponde, in un sussurro che fa venire i brividi. Le mani giacciono inerti sulla gonna, le unghia morse fino a farle sanguinare. «O che io sono lei».

(Che forse non era Luke, a sbagliare, quando l'ha trovata e la credeva come me: ti ricordi? È successo un lunedì, mentre tentavo di salire dove non potevo arrivare, inzuppandomi di un dolore che era solo mio. Te lo ricordi, Nico? È successo che continuavo a ripetere la stessa frase, all'infinito e tu non rispondevi mai).

«Forse dovresti smetterla di pensarci» osserva Nico, atono, nel vederla nell'assurda contemplazione dello specchio. Come se vesse qualcosa o qualcuno. «Passerà».
«No» risponde Annabeth, secca. Con un gesto nervoso della mano, si scosta i capelli dal viso – e Nico si accorge che sta piangendo. «Non passerà, lo so già».
Inclina la testa e continua a sembrare – ed è assurdo e irrazionale, ma è così – un'altra persona che si affaccia lungo uno specchio – il mare – e ne scruta la superficie. E il ventre prominente ricorda un accenno di curva che non è più reale, la stoffa consunta dell'abito appare macchiata di rosso, controluce. Ruggine crollata dal dondolo, come neve. Sangue. In un accenno di sorriso, Annabeth è sparita in maniera definitiva, in quella domanda che non trova altra risposta se non il riflesso di un “sì” detto da lei.

(Dimmi che mi ama, dimmi che. Mi ama? E la risposta è così incerta che non le importa già più: è lunedì ed è appesantita dal dolore e dalle stilettate del cielo).

In un attimo di panico, Nico si accorge che Annabeth si è persa nello scrutare una vecchia cicatrice lungo il polso. Allo specchio, somiglia a una scritta.

Dimmi che (mi ama?).






1Non odiatemi, vi prego. Ma il velato (mica tanto) riferimento alla bilocazione ci stava. E chissà che non diventeà oggetto di un sequel.
2Signori e signore, vi ritrovate davanti a un chiaro riferimento alla saga originale. E alla risposta che avrei voluto sentire.
3Dissennatori, ovviamente. Chiarissimo riferimento.
4Riadattata dalla frase originaria contenuta in "Amabili resti" di Alice Sebold

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Capitolo 5
*** Pensieri e parole ***


Vi starete chiedendo (o forse no) perché sto aggiornando adesso, con una settimana di ritardo: bene, ammetto di essere stata un tantino presa dai problemi della mia scuola. E sono distrutta, basta pensare che mi sono appena svegliata. Comunque, passiamo al capitolo, dopo la solita pausa/sclero assolutamente made in Bessie: il quinto e penultimo capitolo. Solo Zeus saprà quanto mi mancherà questa fanfiction, dopo aver postato l'epilogo. Probabilmente passerò settimane e a plottare sequel, presa dalla nostalgia. E il quinto capitolo è uno di quelli che preferisco: pensieri e parole. Un po' l'ho scritto in un momento un po' particolare (Come la mia Sil e la mia Sis ricorderanno) che mi ha spinta a inserire il tradimento in questa storia, un po' questo capitolo esprime la linea sensata che questa storia doveva prendere: quando ho cominciato ho subito capito che non poteva esserci un "E vissero felici e contenti" seguendo quest'ambientazione così cupa e opprimente. E questo capitolo preannuncia la fine, quell'epilogo che avrete venerdì prossimo e probabilmente mi distruggerà emotivamente. In "Pensieri e parole" vi è il grande tradimento di Annabeth. E un nuovo personaggio che spero non sia particolarmente odiato, non subito quantomeno. Senza contare che, quel che vorrei far capire, è che questo tradimento è posato su basi fragili: è l'incertezza, che domina il capitolo. Io che so cosa succederà nel sequel, posso solo suggerire di non dare nulla per scontato. E basta spoiler, per ora.
Per quanto riguarda Astrea, personaggio/comparsa di questo capitolo, vorrei spendere due parole: vorrei che teneste a mente che lei potrebbe esistere o potrebbe anche essere frutto di un delirio. Giusto per farvi venire il dubbio.
Per il resto, buona lettura e a venerdì prossimo.





 

Non è questione di pensieri o parole.
(Potrei anche dirlo).
Ma solo se ti accontenti di quel che resta.



Luke Castellan continua a cercarla. Non è morto, nemmeno quando è dovuto fuggire dalla divinità più vendicativa di tutte, solo perché per una volta aveva deciso di avere un cuore. Però è ferito, solo e tormentato da un fantasma che non lo abbandona mai: prima di fuggire ha perso ore a vagare per le stanze vuote, cercando Annabeth e vivendo nella consapevolezza assoluta che non l'avrebbe trovata. E adesso l'ha trovata, quando si è nascosto in una caverna nella spiaggia, nascosta dalla marea.
Ed è stato quando la prima marea gli ha quasi tolto il respiro, lasciandolo ad annaspare in quello spazio ristretto, che l'ha trovata o vista da lontano: una donna dai capelli biondi, un sorriso scolorito sul volto e un pugnale nel petto. Perché lui non lo ricordava ma hanno ripescato una prostituta annegata nel mare del Nord, che somiglia vagamente ad Annabeth Castellan. E qualcuno continua a sostenere che sono la stessa persona.
E Luke Castellan continua a fuggire: parte il lunedì – col petto zuppo di rimpianto e gli occhi puntati verso il cielo – e si ferma il martedì – dolore che gli accarezza la schiena e ricordi che gli annebbiano la testa. E deve mordere un fazzoletto per non urlare – e riparte il giorno dopo. Si ferma solo il tempo necessario che gli porta una ferita che si riapre sempre di meno ma, quando lo fa, porta un dolore cieco che gli ricorda quando erano mani diverse dalle sue a riaccostare i lembi di pelle.
E continua a fuggire, nascondersi e a cercarla, sapendo che anche se la trovasse non potrebbe più averla. L'ha persa quando l'ha lasciata andare.
Eppure, si dice, l'ha lasciata scappare con qualcosa di suo ancorato al ventre. E sorride sempre, di quel sorriso affascinante che gli divide in due il volto.

 

 

***

 

Lo capisce, finalmente, quando si trova a camminare su una spiaggia deserta, zoppicando appena sotto il peso di un dolore che non se n'è ancora andato del tutto: si ferma a fissare le impronte divorate dal mare, il sangue lavato via dal sale e quel dolore che non muore mai. Si ferma e si passa la mano sul volto, cercando a tentoni i segni tangibili di quel che è rimasto delle lacrime del cielo. Aspetta i segnali di una guerra che comincerà anche se lui non fa parte di nessuno schieramento, ma entrambi i combattenti si aspettano di doverlo affrontare sull'altro fronte. Eppure, lui non ha nemmeno una briciola della forza necessaria per schierarsi o chiedere perdono a qualcuno: ha tradito tutti in ogni modo possibile, con pensieri e parole ma anche fatti che gli pesano addosso. E così continua a vagare senza meta verso le terre non ancora esplorate, in una nuova geografia non delineata, e continua a sperare di trovarla in qualcun'altra. Ma sa già che c'è una cosa che non ritroverà mai, nemmeno impegnandosi davvero nella ricerca. Annabeth Chase é incinta di suo figlio.

 

 

***

 

Annabeth passa ore a specchiarsi sulla superficie inquieta dell'acqua: riempe la vasca fino all'orlo e si siede sul pavimento, la guancia appoggiata sul bordo di marmo, le mani che turbano l'equilibrio dell'elemento. Si rifiuta di uscire di lì, quando Nico la va a chiamare per farle incontrare i ribelli, che fremono per poter conoscere la donna che ha vissuto per anni nella corte di Crono. Ma lei non vuole vedere nessuno: non parla e si sporge verso l'acqua con quell' aria desiderosa che spinge i visitatori a darsela a gambe. E nessuno sa più cosa fare con lei: le hanno lasciato credere che Luke è morto – ed è scomparso, perduto e non si sa nulla di lui. Forse non c'è nemmeno un cadavere da cercare – e l'hanno lasciata a crogiolarsi in un dolore che manda avanti per pura inerzia. Aspettano tutti un cenno per dare un inizio a una ribellione che covano dai tempi di Percy Jackson. Ma non arriva mai niente: Annabeth Chase si è persa in un altro mondo, scandito dai calci lievissimi dell'esserino che porta in grembo. Passa le ore a contarli, dato che i giorni sono diventati tutti uguali, monotoni, e lei non ha più nulla se non quella piccola scintilla di speranza a cui si aggrappa disperatamente.
E continua a pensare che, quando nascerà, questo bambino – un bambino: lei è la madre per un maschio, un bambino simile a Luke ma con quella malinconia che viene fuori nei momenti meno opportuni – sarà un figlio della guerra. E lei dovrà spiegargli, col pensiero e le parole, che suo padre è perduto, dimenticato e niente.
L'acqua s'increspa sotto il suo tocco. E Annabeth non riesce a vedere più nemmeno il suo riflesso, quando le lacrime cadono fra le bolle di sapone.

 

 

***

 

Un giorno si alza e sa cosa fare: è più calma, rilassata, il volto ancora un concentrato di malinconia che scioglie il cuore. Ma, negli occhi, brilla una scintilla di quell'antica determinazione che la guerra non è riuscita a sottrarle. Quando Nico la vede, capisce che forse ha cominciato ad aggrapparsi a un qualche senso di realtà.
«Voglio fare qualcosa». Salvare qualcuno. Ma questo non lo dice.

 

 

***

 

Rachel Dare ha visto che sta crollando tutto: se n'è accorta, che la gerarchia di Crono comincia a vacillare. Ma non può fuggire. Perché per qualche stupido e sciocco motivo, è inciampata in quell'amore odioso che si palesa per la persona sbagliata. Che la vede come uan forma di riconoscimento per qualcosa che non le doveva.
Apollo passa i suoi giorni a oscillare fra rimpianto e sensi di colpa, sostenendo di non poter continuare a tradire una fazione che non esiste già più. E lei non sa come fare per salvarli entrambi – è la guerra delle donne, ha sussurrato con aria stanca Trevor Stoll: è una guerra sotterranea che combattono le donne. Annabeth Chase è il motivo che spinge i ribelli a trovare una ribellione. E lei cos'è? Se lo chiede mentre vede la sua vita affondare, inevitabilmente, ancora.
Rachel Dare si chiede cosa fare ogni minuto che passa. E quando trova una risposta è così tardi che deve scendere a compromessi assolutamente svantaggiosi.
«Voglio aiutarvi». Salvare qualcuno. Ma questo non può dirlo.

 

 

***

 

«Non puoi combattere» osserva Nico, cercando di stemperare la gioia violenta che l'ha assalito come un'onda. «Non sarebbe il caso. Puoi darci un motivo per farlo, però».
Lei sorride e, di nuovo, affiora la malinconia che prima le esplodeva attorno come una bomba. Adesso ha l'intensità oscura di una candela spenta. «L'avete già».
Nico la guarda, perplesso. Sta per contraddirla, ma lei si accarezza il ventre con aria assorta e sembra nuovamente distratta da qualcosa. Qualcuno.
«Speranza1».

 

 

***

 

Le presentano i capi della divina progenie, decimata da una ribellione senza ribelli, una nidiata troppo cresciuta che reca i segni di una disperazione che è anche la sua: lo vede nelle treccine rosse dell'unica figlia di Apollo, una bambina di otto anni che non parla e a stento la guarda negli occhi quando Annabeth le pone qualche domanda su quel mondo in cui non ha vissuto per troppo tempo. La ragazzina – Astrea: le hanno dato il nome delle stelle. Eppure, brilla di una luce così spenta che ricorda una stella esplosa – passa tutto il tempo, tempo perso in cui dovrebbe spiegarle una situazione che nemmeno lei comprende, a farle domande silenziose su una favola non scritta.
E adesso, sembrava dire Astrea con lo sguardo, raccontami qualcosa: e pensieri e parole affioravano sulle labbra di Annabeth, per lasciare la barriera che si era costruita per non pronunciarle – e ne aveva la bocca piena, di pensieri e parole. E anche fatti taciuti così a lungo che non li ricordava più – e infrangere un silenzio così prolungato da apparire irreale. E le aveva raccontato tutto quanto: il principio e quando l'aveva raccolta dal campo di battaglia, chiedendole di smetterla di essere ciò che non era, mentre lei si ostinava almeno a provare a indossare quella maschera. Le aveva narrato del lunedì cominciato male, quando si era resa conto che il cielo era troppo lontano per essere toccato, del martedì – rimpianto. Gliel'aveva spiegato con pensieri e parole e fatti, ma anche con una frase sola: dimmi che mi ami. Peccato che nemmeno quella bambina possedesse una risposta – procrastinato fino alle calende greche del lunedì successivo, e i mercoledì passati a fissare i fiori blu. Ma c'erano anche i giovedì trascorsi nel silenzio e poi i venerdì a contemplare le ceneri – sparse sulla fronte, sulle mani e sul cuore. E fiori blu che, nei suoi occhi, appassivano in un istante – e i sabati passati a contemplare lo specchio alla ricerca di un vuoto vagamente diverso da quello che aveva dentro. Infine, la domenica, quando scopriva che forse era sempre stata la stessa, anche quando si era sforzata di sembrare un'altra persona: succedeva quando si trovava a vagare per infinite stanze vuote, alla ricerca di una scusa per non fermarsi mai. Le sembrava di sentirsi quasi viva, quando teneva la mente occupata in dettagli futili: centonovanta passi la separavano dalla sua stanza al dondolo. Centonovanta passi erano settantadue mattonelle sistemate malamente, così che gli angoli cozzavano fra di loro in un disegno più che bizzarro, le linee che si fondevano in una matassa difficile da sbrogliare. Un passo, uno ancora: non pensare, non parlare, ascoltare il fruscio delle gonne e i sorrisi silenziosi di Astrea. Silenzio. I pensieri e le parole vengono surclassati dai fatti perché, a volte, sono così superflui da far male. E forse, in fondo, di tutta quella storia non ne comprende il senso.
«Perché non parli mai?» chiede un giorno, guardando la bambina dai capelli rossi, che sporcano la camicia come sangue. «Forse perché non importerebbe a nessuno?».
Il sorriso che si apre sul volto di Astrea è simile al taglio di un rasoio, che incide nella pelle, i denti una serie di perle incastonate fra i lembi di pelle come per sbaglio. La bocca piena di pensieri e parole che non esprime mai, tenendo per sé anche quelle domande che le bruciano sulla punta della lingua – l'affascina quella ragazza, donna, così malinconica nell'atteggiamento e i pensieri. Si chiede chi sia quel principe azzurro che le ha rubato il sorriso, per restituirglielo a rate quando lei non poteva comprenderlo.
La storia, l'hanno raccontata anche a lei, di come Luke Castellan l'aveva rapita – salvata – e le aveva imposto – chiesto, supplicato – di sposarlo. Le hanno detto che non sempre il ragazzo biondo è il principe azzurro – in questo caso, però, ha guardato Annabeth e ha capito che sì, lo era – ma spesso si rivela il mostro peggiore di tutti. Ma non capisce, come mai certe parole Annabeth le pronuncia e non se le tiene in bocca, quando ogni martedì brucia in fiore in offerta a una divinità che lei non conosce. Il fiore non è mai blu e lei lo stringe fra le dita solo per una frazione di secondo, prima di consegnarlo alle fiamme. Dopo si passa le mani sul ventre, meditabonda, e continua a mormorare una parola che lei capisce a malapena. Speranza. Non capisce da dove provenga, dato che Annabeth ha perso ogni cosa. E dipende da quel bambino come se non ci fosse altro, quando sobbalza per un calcio che sente solo lei o mormora che sarà un maschio – una femmina sarebbe come lei. E non vuole.
«Perché sei qui?» le domande che le rivolge Annabeth sono troppe, infinite, e lei non risponde mai. «Sei ancora troppo piccola. È perché non è rimasto nessuno?».
Ma Astrea non risponde mai, in uno sguardo silenziosissimo che non lascia speranze. E allora Annabeth scrolla la testa, disorientata: ha fatto tanta pratica a parlare, senza nascondere pensieri e parole e richieste che adesso arrivano sempre. E ha la bocca vuota, quando sorride e racconta una storia triste già in partenza.
Sembra dire sempre la stessa cosa: ti ricordi? Tu non c'eri, ma io sì, quando quei baci che mi rubava dalla bocca avevano finalmente un senso. O forse non l'avevano mai avuto e servivano solo per soffocare tutte quelle frasi che avrei voluto urlargli. Non me lo ricordo nemmeno più, quando piangevo perché mi rimanevano in bocca.
E Astrea non dice mai niente, convinta che quel silenzio sia ben più eloquente di un discorso già detto da altri. Ogni tanto, afferra un foglio di carta e una penna.
Annabeth la guarda sempre, alzando un sopracciglio in una domanda a cui nessuno risponde mai. E allora distoglie sempre lo sguardo, dato che l'inchiostro non cade mai sulle ali della farfalla né traccia parole – e lei ricorda troppo i fogli bruciati, la frase che sospettava da tempo: hai smesso di amarmi.
«Cosa fai?» sussurra Annabeth, il giorno in cui infine la penna vomita pensieri – e parole – sul foglio. Si china in avanti, per sbirciare quelle poche lettere.

A cos'è che pensi quando piangi e non sai dire il perché?

E le parole continuano e lei non le legge più, perché qualcosa le appanna la vista.
«Non lo so» dice lei, sottovoce, chiudendo le dita attorno a un lembo di stoffa, strattonandolo. «Io...». Le parole le muoiono in gola, soffocandola. Il bambino scalcia.

A cos'è che pensi quando piangi e non sai dire il perché? Di chi è il nome che pronunci quando sogni?

Non risponde, Annabeth. Non saprebbe cosa dire, o pensare: da tempo i suoi sogni sono vuoti e silenziosi. Ma lei si sveglia sempre nel cuore della notte con un nome fra le labbra che non riesce mai a pronunciare.

«Luke...» aghi d'acqua, dimmi che mi ami, fogli bruciati, martedì, rimpianto. Tutto rinviato a data da destinarsi. «Non posso spiegarlo». Rimpianto.
E se fosse ancora martedì e lei se ne fosse nuovamente dimenticata? D'altronde, non è mai salita così in alto da avere qualcuno pronto a ricordarle una cosa: rimpianto.
Astrea sorride. Ha gli occhi così chiari che sembra facile scorgere l'anima che vi si affaccia, sotto uno strato di celeste chiarissimo. Ma Annabeth non vede nulla.

A cos'è che pensi quando piangi e non sai dire il perché? Di chi è il nome che pronunci quando sogni? Chi è che continui ad aspettare?

«Che giorno è oggi?» è l'unica cosa che Annabeth ha la forza di mormorare. Di nuovo l'assale il terrore che sia nuovamente martedì – quanti giorni sono passati: sei, forse?
 

A cos'è che pensi quando piangi e non sai dire il perché? Di chi è il nome che pronunci quando sogni? Chi è che continui ad aspettare? Perché stai piangendo?
 

Con una mano, Annabeth si asciuga il viso: e scopre che stava piangendo senza saperne il perché. Sospira, mentre le domande assumono una connotazione più chiara e lei trova una risposta. Luke. La risposta è sempre quella, adattabile a ogni domanda. Non ha contemplato un mondo nella sua assenza e, adesso, è lei che lo cerca. Ma non riesce a trovarlo in nulla, se non in una parvenza di ricordo che le portano i sogni, quando chiude gli occhi e non capisce più nulla. E si chiede se lui la sta cercando.
Perché stai piangendo? Annabeth alza lo sguardo, affranta. Perché stai piangendo? «Non sto piangendo» sussurra, la voce rotta dai singhiozzi. Non sto piangendo.
Astrea si alza, con lentezza esasperante, i fogli stretti in mano: una farfalla che sta per prendere il volo. Ma, l'attimo dopo è già morta in un turbine d'inchiostro e carne e sangue, perché le cose belle non vivono per durare. Sorride, la bambina, i capelli le coprono gli occhi in una colata di sangue che ti scuote dal profondo. Non parla o muove le labbrà e ha la bocca così vuota che fa paura. Ma sorride in silenzio, urlando parole che Annabeth non coglie mai. Muoiono come le farfalle, appena toccano terra.
Quando scosta i capelli dal visino, Annabeth si copre la bocca con la mano, disorientata. Anche lei sta piangendo, oscurando un sorriso messo sul suo volto come per caso. I fogli le cadono dalle mani – hai smesso di amarmi – e il volto è scavato da lacrime – aghi d'acqua – e si legge qualcosa, sul fondo dei suoi occhi. Rimpianto.
«Astrea?» sussurra Annabeth, perplessa. «Cosa...». Le muoiono le parole – e i pensieri – in gola. Perché stai piangendo? A chi stai pensando?
Ma lei continua a sorridere, in silenzio, ed è tutto ciò che Annabeth ha cercato di scordare da quando si è lasciata Luke alle spalle: ma come può dimenticare, quando una bambina la trafigge con aghi d'acqua e le chiede qualcosa? Ed è rimpianto quello che le mastica le ossa, senza lasciarle tregua. Magari è martedì.
«Stai tranquilla. Oggi è lunedì».

 

 

***

 

Hanno ripescato un pescatore annegato nel mare sconfinato del nuovo Nord, con la schiena martoriata e una cicatrice sul volto. Somiglia vagamente a Luke Castellan. Ma ad Annabeth Chase non l'hanno ancora detto.

 

 

***

 

E poi lo trovano. Il ribelle per la ribellione – o forse è il ribelle che trova una ribellione che esisteva già prima – che vagava alla ricerca dell'espediente per vendicare l'umanità. Non sa il suo nome, Annabeth, ma lo vede girare per il covo con un sorrisino compiaciuto e la bocca pienissima di sottintesi. L'ha visto mandar via la maggior parte dei ribelli – a fare cosa? La domanda sorge semplice come la risposta. Morire. Succede che è domenica e molti non arriveranno al martedì successivo – e anche i bambini – Astrid, rimpianto. E se fosse stato martedì? – e prendere un potere che non gli spettava. Nico vaga nella sua ombra, come un'anima in pena: qualcuno mormora che abbia perso qualcosa, qualcuno e che sia stato tradito con dei fatti. Non solo pensieri e parole, ma anche tutto quel che rimane sospeso nell'aria. E qualcuno sostiene che si tratta di Percy Jackson – e qualcuno dice che è Annabeth Chase o qualcun'altra ancora – ma in verità nessuno può saperlo. Nico Di Angelo sembra contrariato da tutto, mentre pianifica la rivalsa e arma i Mezzosangue e si lascia comandare a bacchetta dal nuovo arrivato. Un figlio di Ermes. Qualcuno sostiene che Nico gli ha lasciato prendere il comando perché spera che lui riesca a guarire il cuore spezzato di Annabeth Chase – che ancora pensa a qualcun altro mentre continua a balbettare una parola sola, speranza. Ma non è a Percy che si riferisce, quando la notte prega gli Dei di poter rivederlo.
Però non dice o pensa nulla: anche lui spera che possa solo migliorare. Ma c'è qualcosa che lo frena dal fantasticare, quando Annabeth Chase gli passa accanto ed è quasi oscurata dalla curva rotonda del ventre. E lui è costretto a ricordarsi che il suo cognome non è più Chase, ma Castellan.

 

 

***

 

Ad Annabeth non è mai piaciuto fuggire, ma lui ama la caccia. Si capisce che la sta cercando quando si ferma nel covo dei ribelli e si guarda attorno con aria concentrata, la fronte che si accartoccia come pergamena. E ogni volta che incontra il suo sguardo, sorride perché ha la certezza che lei sta pensando che anche lui ha i capelli biondi come la sabbia rigurgitata dal mare. Se si guarda bene, si vede anche del sangue che spunta fuori da una ferita invisibile sul volto.

 

 

***

 

E un giorno riesce a irretirla: succede che la trova sul dondolo – ancora. Si diffonde a ondate quella sensazione di già vissuto – a diventare un tuttuno con quelle nuvole avare di pioggia. La trova che guarda il cielo con aria distratta e nemmeno si accorge di lui, quando le si accomoda accanto. D'altronde, non conosce il suo nome – ma continua a fissargli i capelli, ricordandosi che è figlio di Ermes. E di nuovo le sembra di recitare in una scena già scritta – e ha sentito occasionalmente il suono della sua voce. Lui ha già sentito parlare della ben famosa signora – vedova – Castellan, di quell'alone di psicosi che l'accompagna. E adesso che l'ha davanti, le parole gli esplodono in una bocca troppo piena, spronandolo a sorridere – anche se lei ispira solo una tristezza debilitante. Eppure, spalanca le labbra e non esce alcun suono.
È martedì, se ne ricorderà sempre.

 

 

***

 

Si ferma sempre alle sue spalle, per tenderle un agguato. Allunga le mani, ma agguanta solo un'ombra. E qualcuno dice che Annabeth Castellan è morta già da un po'.

 

 

***

 

Le parla. La intontisce con chiacchiere inutili e infondate, come se fossero i protagonisti di una ballata un po' antica e forse dimenticata. Ma lei non cede, lo guarda con uno sguardo incolore e gli regala risposte glaciali – e continua a pensare che è un tradimento, quando lui prova a strapparle pensieri e parole.
«Deve essere stato orribile» le dice, compassionevole, in riferimento alla corte di Crono. «Se l'avessi saputo, ti avrei salvata». Sorride, tentando di abbagliarla.
«Non l'avresti fatto» risponde lei, laconica. Piove appena e lei sente la pelle che si strappa sotto le stilettate di aghi d'acqua. «Non te l'avrei mai chiesto».
Lui la guarda, disorientato. Si chiede se avrà mai il coraggio di dirle qualcosa di più del suo nome – Jonathan2. Jonathan e basta, perché il cognome non l'ha mai pronunciato – e di rassicurarla come una bambina. Con parole, ne ha così tante che non riesce a trattenerle in bocca.
«L'avrei fatto» la rassicura lui, scrollando le spalle. I capelli gli coprono gli occhi, facendolo sembrare un'altra persona. «Non ti avrei permesso di appassire da sola».
«Non l'avresti fatto» ribadisce lei, tagliente come una lama. Controluce, i suoi occhi sembrano granito indistruttibile. «Non me ne sarei mai andata».

 

 

***

 

A volte Jonathan si perde a scrutare la curva rotonda del ventre di Annabeth Chase. Ed è così sbagliato che desideri che si svuoti, sgravandola di un peso che le hanno imposto?

(No. Non lo è).

 

 

***

 

Lui ha continuato a cercarla, ogni giorno, cercando di blandirla con sorrisi e pensieri e parole. E anche fatti. Le ha lanciato in grembo un pacchetto – un anello – ed è corso via, come un bambino. Lei, l'anello, l'ha gettato nel lavandino in una parodia del pozzo dei desideri, sussurrando una richiesta inesaudibile. Il giorno dopo gli si è presentata davanti, una veste bianca che le donava l'alone scintillante di una candela. Sulle labbra, una promessa silenziosa. E la bocca pienissima di parole che però non pronuncia mai.

 

***

 

Annabeth continua a portare la fede di Luke, legata al dito da una promessa inudibile. Non la toglie nemmeno quando Jonathan le porta un altro anello, concedendole il sacrificio del primo come un obolo a una divinità muta e cieca – ma non sorda. La poteva sentire, forse, mentre pregava?
E lei l'ha accettato, in silenzio, posizionandolo appena sopra la prima fede. Promesse, rimpianto, martedì. Annabeth che gli sorride illuminata dalla luna.
«Solo se ti accontenti di quello che resta».

 

***

 

«Non capisco perché hai scelto me» gli dice un giorno che la bocca è troppo piena per contenere pensieri e parole. «Perché non ti guardi attorno per trovare una donna intera, una che non vada avanti con pensieri e parole?» che si distrugge sotto una pioggia d'aghi d'acqua, rimpianto. Dice così, ma la risposta la conosce già. Sa che non è di lei, che ha bisogno, ma di quel che rappresenta: qualcuno le ha detto – sussurrato – che questa è la guerra delle donne. E Annabeth Chase ha conosciuto entrambi gli schieramenti, ed è ancora viva e sa cosa fare. Ha visto Percy Jackson morire – e adesso non le hanno detto che hanno ripescato Luke Castellan nel mare del Nord.
«Perché è giusto così» risponde lui, sorridendole con aria complice. Perché dobbiamo vincere questa guerra, pensa. Perchè voglio assestare questo colpo a Luke.
«Forse non dobbiamo sempre fare ciò che è giusto» osserva Annabeth, apatica. «Ma suppongo che non potrei mai tirarmi indietro. O sbaglio?».
«Non ti lascerei mai andare» risponde Jonathan, affilando lo sguardo – controluce, Annabeth scorge una cicatrice a dividergli in due il volto. «Non potrei».
«Era proprio quello che temevo» mormora Annabeth. Già vissuto. Ed è di nuovo l'odore di polvere e cocco sintetico che le colpisce le narici. Ma, quel brivido che aveva provato solo una volta, non le increspa più la pelle: è passato in un momento che non si ripeterà e ora lei lo aspetta. Ma forse, adesso, sarebbe mutata una risposta.
«Non sei obbligata» lo dice con una voce dolcissima che contrasta con la durezza ostentata del suo sguardo. «Nessuno si aspetta che tu lo faccia. Solo se lo vuoi».
Lei non sorride né parla, ma i suoi occhi sono persi in quel mondo dove lui non riesce mai ad arrivare. Ma nota che, continuamente, continua a sfiorare con le dita le labbra screpolate e arrossate dal freddo che vi si aggrappa. E sorride ancora, ripensando a cosa le ha rubato nell'ennesimo martedì che lei ha dimenticato.
Le ha sottratto un bacio dolcissimo con le labbra socchiuse, mentre contava i giorni per cercare di trovare quel rimpianto che credeva di aver dimenticato. Le ha detto – sussurrato – di averle dato un'opportunità per cancellare il passato e anche il presente, di vivere nel futuro: e c'è qualcosa che l'attrae nella prospettiva di avere una vita senza trascorsi o sentieri già trascritti da altri. È quello che gli ha chiesto, in silenzio, quando lui le ha proposto una scelta: perché non cerchi una donna che non abbia un passato – un figlio – che la leghi a una tomba ancora vuota, senza scritte, senza corpo?
La risposta le arriva sempre – anche se, forse, non è mai quella che vorrebbe sentire – e non se lo aspetta mai. È sempre un “sì” dichiarato a gran voce, rompendo le barriere che la separano dal futuro, rendendola una di quelle donne senza passato. Quando, un giorno si è alzata e scoperta diversa e innamorata della persona sbagliata – ancora non le hanno detto che è stato trovato il corpo di un pescatore annegato. E che somiglia a Luke – e legittimata a crogiolarsi nell'ennesimo amore dal mancato finale.
«Devo farlo» è l'unica risposta che riesce a dare. «A volte non si tratta di scelte, ma di doveri. E forse non posso pià andare dove vorrei essere». Nell'alto dei cieli.
«Temevo che l'avresti detto». Eppure, Luke l'aspettava ancora, mentre lei si ostinava a farsi trafiggere da aghi d'acqua.

 

***

 

Annabeth ha una cicatrice sulla curva del polso: è nascosta nell'uniformità della pelle, fra segni antichi di bruciature e graffi. Ma si vede ancora. È un piccolo segno che non passa inosservato, quando Jonathan le prende la mano e lei sobbalza. Qualche volta si chiede se non sia sbagliato desiderare l'assenza di quella cicatrice.

(Ma non lo è mai).

 

***

 

Qualcuno gli ha detto che Annabeth Chase desidera trovarsi in un posto. Nell'alto dei cieli. Lo comprende quando la vede correre fuori per farsi trafiggere da aghi d'acqua.

 

***

 

Nico Di Angelo sa benissimo che questa guerra è stata procrastinata per troppo tempo: l'ha aspettata per così tanto tempo, almeno quando ha scoperto che poteva donare un presente e un futuro a molte altre persone. È la guerra delle donne, dei ribelli senza ribellione, dei pensieri e delle parole. L'ha attesa per così tanti giorni che alla fine il tempo si è condensato in una matassa che non riesce più a sciogliere. E non sa cosa dire o fare per riconoscersi il diritto di distruggere una vita per salvarne molte altre.
Ad Annabeth Chase non l'ha ancora detto. Ha sepolto il corpo in fretta, gettandolo alla meno peggio in una buca scavata in una notte e coprendolo di terra e fiori blu.
E lui non ha ancora trovato il coraggio di raccontarle che gli esploratori hanno recuperato il corpo di un cadavere annegato nello sconfinato mare del Nord. E ha la schiena martoriata – martedì. C'è una scritta indecifrabile che la sfregia da parte a parte. Controluce, sembra una frase già detta da altri. Dimmi che (mi ama) – e una cicatrice sul volto. Probabilmente è Luke Castellan. Ma, quando Nico si scopre nel fissare Annabeth – e sembra quasi come i vecchi tempi, quando la scopre a passeggiare attorno al dondolo. E ha sempre una mano sul ventre, pregando che quella creatura l'abbandoni per renderla una donna senza passato e con un futuro – capisce che forse non avrà mai il coraggio di imporle quel distacco, raccontandole tutto. Non avrebbe il coraggio di ucciderla, lei che è quasi morta già da un po'. Pugnalata con pensieri e parole.

 

***

 

Annabeth ha scoperto una buca, poco lontana dal suo dondolo: è stata scavata e riempita in fretta, come per nascondere qualcuno o qualcosa. È coperta di fiori appassiti e sormontata da una pietra spoglia e vuota, simile a una lapide. E lei è come attratta da quel santuario, come se qualcuno l'attirasse lì, tenendola per mai. E, quando arriva, sente quel senso di vuoto assoluto che l'assale. E comincia a sentirsi solo un'ombra.

 

***

 

A volte, Nico pensa di essere impazzito: succede quando si trova a gravitare attorno al dondolo di Annabeth e gli sembra di vederla inginocchiata davanti alla tomba di Luke, solo per ricoprirla di fiori blu. Ma poi si volta e la vede passeggiare con un uomo e ha il vago scintillio di un anello legato al dito. Spalanca la bocca per urlare qualcosa, ma la prima Annabeth gli sorride e lui non capisce più niente3.

 

***

 

Capisce che è tutto un gioco della sua testa, in quel grandissimo labirinto di specchi che è la sua mente, quando un giorno si accorge che continua a figurarsi una realtà diversa: succede che si guarda attorno e vede risate dove non ce ne sono – capelli rossi. Una vampa di capelli rossi e un sorriso che gli ha strappato un prezzo addirittura migliore di quello che si era prefissato – e amore dove c'è un deserto arido e tradimenti. E pensieri e parole, anche, quando capisce che è stato nuovamente burlato da un gioco più grande di lui. Solitamente succede quando guarda Annabeth Chase – Castellan – che sembra sdoppiarsi davanti ai suoi occhi. Ed è doppia in felicità e in tristezza, quando sembra due persone diverse e lui non sa cosa fare. Così comincia a comprendere l'indecisone di Annabeth e quella frase che gli hanno riferito, quando è stata colta dall'aria per diventare un tradimento in pensieri e parole. Solo se ti accontenti di quel che resta. Nico non ha ancora imparato ad accontentarsi e, a distanza di anni, continua a cercare il riflesso della donna che ama. La vita, a volte, t'infligge cicatrici indelebili. E lui ha la certezza che, socchiudendo gli occhi, scorgerà sempre il colore del tramonto.

 

***

 

«Dimmi che resterai» le impone un giorno Jonathan, afferrandona per la mano ancora legata alla fede di Luke. «Dimmi che...». Mi ami?
Annabeth non risponde. Eppure ha la bocca così piena che sembra sul punto di urlare quello che le preme contro la parete umida delle labbra.

(Parole).

«Non posso» risponde lei, sottovoce. «Avevi detto che ti saresti accontentato di quel che resta».

(Pensieri).

In fondo, Annabeth l'ha già tradito.

 

***

 

Jonathan si sente come se lei l'avesse già tradito. Prova a farglielo presente, con pensieri e parole, ma riceve sempre la stessa dura risposta. Accontentati di quel che resta.







1Ovviamente, è un chiaro riferimento a quel capolavoro di "Catching fire", il film. 
2Omaggio a una delle mie saghe preferite, Shadowhunters.
3Lo approfondirò nel sequel. Ma, come dire, potevo non usare la bilocazione?

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Capitolo 6
*** Il vaso scoperchiato di Pandora ***


Solo Zeus può capire la mia sofferenza in questo momento: è finita. Questo è l'epilogo, la conclusione di questa breve storia che ha accompagnato la mia estate e mi ha concesso di tirarmi un po' su. Ho ritardato tantissimo questo momento perché volevo un capitolo perfetto ma alla fine questo momento è arrivato. L'epilogo, la conclusione di questa breve parentesi di carta. Ancora non ho cominciato la stesura dei sequel perché mi sono incagliata in una long di un altro Fandom. Se volete ammazzarmi o altro, mi trovate su Facebook (Gaia Bessie Greengrass) o su Ask (Gaia Bessie; @BessieEfp). Non vi metto i link perché mi scoccia.
E, oddio, sto piangendo. Questa storia mi mancherà davvero tantissimo, così come mi mancheranno le recensioni e Luke e Annabeth che si ammazzano ogni martedì. E mi mancherà pensare a certe persone mentre scrivo, perché sono loro che mi buttano l'inchiostro addosso. Per quel che vale, questo è l'epilogo.
Spero che questa storia vi abbia lasciato qualcosa, anche se io stessa non saprei dirvi dove cercarlo, questo qualcosa. Magari tornerò presto con il sequel: sono troppo affezionata a queste parentesi per abbandonarle così. Spero che ci sia qualcuno ad aspettarmi, almeno per un po'.
Buona lettura e spero che quest'epilogo un po' nebuloso non vi deluda.
Bessie.
Piesse: Oggi è martedì. E non è solo il giorno in cui posto il capitolo, è anche il giorno in cui tento di non graffiarmi da sola pensando a qualcuno.



 

 
 
Mi dispiace.
Ma è finita.
(Forse).

 
 

Capisce che la guerra è cominciata, ancora e inevitabilmente, quando Nico le consegna un vecchio cofanetto che odora di polvere e ricordi. Un regalo riciclato e sul tramontare dei suoi giorni – ti accontenti di quel che resta? – che sembra morire in quel cigolio che rappresenta l'agonia della chiave che gira nel lucchetto e non trova mai requie. Il tempo sta cambiando rapidamente e muta da una pioggia senza fine a un sole che sembra voler sciogliere tutto quanto. E Annabeth indugia con le dita su quella scatolina di legno che, per dimenzioni, potrebbe benissimo essere vuota. Quando la serratura scatta, rivelando un foglio minuscolo, lei si sente quasi soffocare. È una farfalla di carta e inchiostro, minuscola, immobile, morta. Un regalo che t'impone di accettare quello che resta, che ti urla di rinchiuderti in un bozzolo con una farfalla morente sulla punta delle dita e un “ti amo” dolcissimo sulle labbra. Ma lei non lo fa, non potrebbe rimangiarsi le promesse e ritirar quel che rimane di lei.
Quando apre il biglietto, nota che Nico non si sporge per leggerne le parole né la guarda con aria impaziente né parla. Forse lo sa già, forse non gl'importa.
Legge velocemente con un sorriso evanescente sulle labbra, le mani piegate attorno a quel foglietto di carta. Nico somiglia a una statua di pietra, immobile, le armi sulle spalle e gli occhi completamente vuoti. Le tende la mano, esitante, e la tira su con uno sforzo assolutamente minimo. Non sorride mai.
«Dobbiamo andare, Annabeth» è tutto ciò che riesce a sussurrarle. Pensandoci, sembra quasi che sia sull'orlo delle lacrime. «Tu devi andare via, la nave ti aspetta».
Quando lei alza lo sguardo, sta piangendo. Stringe fra le mani il suo bigliettino, in silenzio, il volto striato di pioggia silenziosa. L'ha capito, finalmente.
Ha capito che Luke è morto: perduto, scomparso, dimenticato, niente. Nella sostanza, ha compreso che non lo vedrà più, che non sarà più accanto a lei per analizzare quel rapporto fragile e asimmetrico che le ha imposto. E qualcuno dice che la speranza è già morta – ma sente sempre un calcio, dentro: la speranza è lui.
Ma è troppo tardi per cullarsi nella sciocca illusione che lui possa tornare, essere ancora vivo. Luke è morto e al mondo esiste pochissima speranza, chiusa in un vaso.

(Eppure, anche se non lo dice ad alta voce, lei continua a credere che il pescatore fosse solo un pescatore e non un Generale. Lei lo sa che è ancora vivo).

«Andare dove, Nico?» è la domanda che gli rivolge, esitante, con un tremolio da invasata che la percorre. «La guerra è qui, ricordi?». Sorride, Annabeth.
«Sì, la guerra è qui» conviene Nico, una ruga d'esasperazione che gli scava la fronte. «Solo che tu non puoi combatterla».
Eppure qualcuno sostiene che è questa, la guerra delle donne: combattuta nel sotterraneo e con alleanze discutibili e prese di posizione. Vissuta in quello che resta e prosperata in un assenza che si protrae all'infinito. È cominciata, è finita, è cresciuta con i ribelli ed è diventata una ribellione. Finirà che si dovranno accontentare di quel che resta, ammesso che rimanga qualcosa dopo la distruzione più totale. È questa la guerra, è questa la morte. Questo è quel che succede quando miri troppo in alto.

(Non sempre riesci a sembrare ciò che vorresti essere, o a essere ciò che vorresti solo sembrare. E anneghi in quelle scorie che non sono poi niente. Ma rimangono).

«Non è una guerra, Nico» è la risposta meditata, sibilata, di Annabeth. È quel gusto un po' amaro che ti rimane in bocca dopo un bacio troppo dolce. «Rimane poco, della guerra, quando chi avrebbe dovuto combatterla non c'è o non può entrambi. La guerra è finita, Nico. Siamo noi che perseveriamo nel combatterne i fantasmi».
«Non puoi restare» risponde Nico, inflessibile. Gli cala sul volto una durezza che prima non c'era, mentre le sopracciglia scattano verso l'alto. «Mi dispiace».
Annabeth sorride, conciliante. E sembra un po' un'altra persona, ma Nico non ha il coraggio di ammetterlo, nemmenon con sé stesso. «Era proprio quello che temevo».
Sembra sdoppiarsi e mutare, due persone diverse, due concezioni diverse di una stessa sostanza. C'è qualcosa di strano nel sorriso che gli rivolge, una nota di malinconia un po' diversa, una speranza vagamente distorta della realtà. Nico non riesce a ricambiare il sorriso, non ci prova nemmeno, non potrebbe riuscirci. Era quello che temeva.
Proprio che quella guerra non contemplasse la sua presenza, lei che avrebbe voluto vedere cosa sarebbe stato del mondo. Lei che, se non fosse stato per qualcosa o qualcuno, avrebbe combattuto per morire nel modo più eroico e nobile possibile. Per giungere – nell'alto dei cieli – proprio dove avrebbe voluto o dovuto essere.
«Dovresti andare, Annabeth» dice lui, apatico, stanco. È presente quella disperazione che li sta divorando tutti, macchiandoli di rosso sangue. «Forse è meglio così».
«Perché me lo stai dicendo solo ora?» sventola la farfalla – morta – di carta come se fosse una bandiera: pace, speranza. Ma è macchiata di sangue in un angolo, anche se lei non se ne accorge, una macchia minuscola che potrebbe essere una ferita sul cuore o altro. Ma c'è. Una farfalla che sanguina anche da morta e non smette più.
«Sarebbe cambiato qualcosa?» domanda Nico, scrollando le spalle e spalancando gli occhi – le profondità dell'Ade. «Se te l'avessi detto subito, intendo dire».
Fondamentalmente, è quello l'interrogativo che la ossessiona: si chiede in continuazione se non casualmente non fosse esistita un'altra linea da seguire nello continuo procedere e accavallarsi di vicende e tempo mal impiegato. Se lo chiede ancora, guardando la sua farfalla di carta e ricordandosi che anche lei ha posto le sue condizioni.
Accontentati di quel che resta. Ma non ha detto a Jonathan che di lei resta così poco che è possibile chiuderla nel vaso di Pandora, insieme alla speranza.
«Non sarebbe cambiato nulla, Annabeth» risponde Nico, sorpassando quel succedersi di pensieri e parole. «In qualche modo riusciamo sempre a essere ciò che non siamo».
E lei è la dimostrazione pratica del corollario del figlio di Ade: per tutta la vita ha cercato di combattere dalla parte giusta, di amare la persona perfetta per lei, di camminare su un percorso non ben delineato. Ha fallito, proprio lei che ha vissuto nel male, sposata a un voltagabbana e traditore, lei che ha camminato dietro Luke per nascondersi da uno stormo di farfalle che non le lasciava scampo. E adesso vuole combattere. Una morte onorevole sarebbe meglio della vita che ha vissuto negli ultimi anni. Ma non lo dice ad alta voce (forse nemmeno lo pensa davvero) o lo dichiara quando si scruta le dita e nota due promesse attaccate fra il medio e il mignolo.
«E se invece fosse cambiato qualcosa?» sussurra Annabeth, facendo scivolare le dita sopra quel doppio cerchio dorato. «Se fossi rimasta, cosa sarebbe successo?».
L'unico rumore vagamente percepibile è un sussurro silenziosissimo di Nico, unito a una leggera smorfia che gli contrae il viso. La sua guerra è contro Annabeth, Annabeth-non-mi-arrendo-mai. Non lo fa. Si aggrappa alla convinzione di aver sbagliato tutto che è tipica dei bambini un po' insicuri, la certezza assoluta che in un altro tempo sarebbe andata molto meglio. Annabeth ci crede realmente, quando lo guarda e sostiene che avrebbe potuto arrivare ben più in alto.
«Forse Luke sarebbe ancora vivo» sussurra lei, aggrappandosi al braccio di Nico, spostando il peso su di lui per non crollare sul pavimento. «Forse sarebbe tutto diverso».
Stringe il bigliettino e la scatolina come farebbe una bambina con la sua bambola, appoggiandoli sulla guancia mentre cerca di stabilizzare il respiro. Chiude gli occhi.

(Hanno ripescato un pescatore annegato nel mare sconfinato del nuovo Nord, con la schiena martoriata e una cicatrice sul volto. Somiglia vagamente a Luke Castellan. È stato Nico Di Angelo a dirlo ad Annabeth Chase, con un biglietto piegato in due e sporco di sangue in un angolo. L'ha trovato nella tasca del pescatore).

«No, Annabeth» risponde Nico, scuotendo la testa con esasperata lentezza. «Non sarebbe cambiato nulla: anche ampliando il giro sarebbe finita così. Se è vero che la storia è fatta per ripetersi, è ugualmente vero che prima o poi la tua ripetizione ti centra comunque. Ti striscia vicino e ti avvelena con pensieri e parole e fatti. Ma arriva comunque. Non ha senso chiedersene il perché, sta di fatto che non importa quando faccia male: sarebbe arrivata comunque, anche contro la nostra volontà».
Le volta le spalle, lasciandola a barcollare sui suoi piedi, vittima di quella sferzata di parole che le ha gettato addosso, come una frustata violentissima. Come ciò che aveva subito la schiena martoriata di Luke, quando il martedì non riusciva nemmeno a muoversi. Quando lei s'inginocchiava accanto a lui e gli sussurrava un “no” che era un “sì” così silenzioso che non lo comprendeva nemmeno lei. Glielo lanciava addosso, ferendolo – per comprendere dopo troppo tempo che avrebbe voluto solo guarirlo.
«Come fai a esserne certo?» domanda lei, in un sussurro inudibile. «Come fai a non vivere nel dubbio?». Nel dubbio di non poter salvare nessuno.
Nico sorride. Sul fondo dei suoi occhi c'è quella luce strana, oscura, una candela spenta in una stanza buia. Non parla spesso né tanto, ma dice più di quanto dovrebbe.
«Non puoi esserne certa, lo sai» risponde, semplicemente. Annabeth non si accorge del tremolio che assume la sua voce. «Ma devi convincertene, se vuoi stare bene».

(Devi trovare qualcosa, qualcuno, a cui aggrapparti per non affondare nel nulla, devi farlo tu stessa. Non puoi invocare un aiuto quando succede così: o ti salvi da sola o non ti salvi. E se non ti salvi, non hai più scelta: muori.).

Annabeth annuisce, lentamente, come se temesse di perdere la testa in un semplice movimento.

«Non lasciare che ti uccida, Annabeth» mormora Nico, prima di aprirle la porta, ricordandole che la nave la sta aspettando. «Nè Castellan né Percy vorrebbero che tu ti lasciassi andare in questo modo» con la speranza nel vaso di Pandora. «Tocca a te portare avanti la sua – loro – battaglia». È la guerra delle donne.

(“E adesso che si fa” sembra chiedere lei, ricordando solo dopo una manciata infinitesimale di secondi che possiede già la risposta. “Adesso si muore”. Forse).

Annabeth esce velocemente, il cofanetto e la lettera stretti al petto, Nico che non la segue. In un fruscio di gonne è già fuori con l'aria che le accarezza il viso. Adesso si muore. Il mare è una distesa immensa, illimitata, in continua espasione nel mormorio delle onde che divorano la sabbia. La corteggiano e ci fanno l'amore. E poi la uccidono, semplicemente, lasciandola a salvarsi da sola. Annabeth si muove verso la nave ormeggiata, il tramonto – sarà per il colore del cielo, che Nico non l'ha accompagnata fuori? – che le colora di rosso il viso. E i capelli. Se si volta, vede solo il nulla che si protende per afferrarla – se si accontenta di quel che resta. Forse.

(Adesso si muore, adesso si vive. Sai dire, Annabeth, per quante volte la pioggia ti ha inciso le ossa del viso? Dovresti già essere morta. Ma non lo sei. Forse).

Sulla nave l'aspettano donne che non conosce o che conosce e finge di non vedere. Si culla in una solitudine completa che vede solo lei, perfino immersa in quel mare di donne che vorrebbero combattere e che non possono – imbavagliate con pensieri e parole. O sfregiate da aghi d'acqua – o magari non possono dire che non vogliono.
Quando si volta per guardare il Nord, per l'ultima volta (forse), il bambino comincia a muoversi. Annabeth sorride, una mano sul ventre. È un maschio, lei lo sa.
Un'onda accarezza il fianco della nave, facendola oscillare. L'unica a non muoversi è Annnabeth Castellan: sorride del suo sorriso da lupo e si accarezza il ventre prominente – ormai si vede chiaramente perfino da sotto la gonna – e probabilmente spera di morire. O ti salvi da sola o muori. Non urla e non prega o piange.
Non puoi ucciderti, ma puoi aspettare che qualcun altro provi a farlo. O potresti anche continuare a vivere, nell'eventualità che tutto si sistemi.
Ma la nave non si ribalta e la vedova Castellan rimane salda sul ponte – forse è il Fato che si fa beffe di lei, che le impone di vivere in un posto troppo basso per lei.
Un altro calcio la fa sobbalzare, ricordandole che il termine della gravidanza è così vicino da sembrare quasi tangibile. E suo figlio è battagliero come entrambi i genitori.
Ma lei sorride perché – lo sa, ne è certa – che sarà un bambino. Perché una bambina finirebbe per somigliarle troppo e lei non saprebbe come approcciarsi a una sua copia, non saprebbe salvarla: dovrebbe accontentarsi di quel che resta e si sarebbe dovuta salvare da sola. O sarebbe morta, di lunedì, nella vasca da bagno.
Ma sarà un maschio. Anche se Annabeth dimentica sempre che le guerre sono eterne e, questa, è la guerra delle donne.

 

***

 

Annabeth ha una raccolta delle lettere di Luke, nascoste in un cofanetto sfumato di celeste e che odora di gelsomino e cocco sintetico. Sono legate da un nastro rosa chiaro e tenute in rigido ordine cronologico. Cominciano tutte allo stesso modo: Annabeth. Non “amore”, “moglie”, “tesoro” o altro. Cominciano tutte con il nome di Annabeth Chase perché suo marito aveva la fama di essere totalmente privo di cuore e temeva di sciogliersi e cominciare con un appellativo che non rispecchiasse il suo stile gelido, la sua prosa rigida ma garbata che usava per scrivere lettere d'affari che non duravano più di una decina di righe. E chiama sempre sua moglie per nome (tranne in una lettera) e non comincia mai esprimendo a parole ciò che pensa realmente, non lo fa mai.

(Tranne in una lettera: comincia chiamandola amore mio. Non sembra nemmeno scritta da lui).

Solitamente prosegue con frasi scarne e impostate, frasi cominciate e troncate sul nascere da un punto che proclama la genesi di una serie di sottintesi che rimangono tutti sulla penna e annegano nell'inchiostro. E sono quasi tutte (tranne una) lettere fredde che mirano a sincerarsi sulle futilità di rito: come stai? Come procede? Le nausee persistono? Un'infinita sequela di domande che nascondo qualcosa che nessuno potrebbe mai leggere, poiché ogni membro della corte di Crono sa che Luke Castellan è senza cuore – e quel che aveva l'ha donato a sua moglie: lo dice, in poche parole, in una lettera indirizzata a Percy Jackson. L'ha bruciata nel caminetto dopo il pomeriggio del rogo: hai strappato il cuore a chi custodiva il mio. A sua moglie, Luke, non l'ha mai detto.

Eppure, in una lettera riesce a non essere freddo è distaccato e non fa domande o altro. La chiama amore mio e, in poche parole, pochissime riesce a dire tutto ciò che ha tenuto in bocca finché non ha avuto la certezza assoluta che sarebbe morto: l'ha scritto su carta e ha conservato le parole in un cofanetto, affinché qualcuno le leggesse e le portasse ad Annabeth Chase. Nessuno gli ha detto che quelle parole avrebbe dovuto pronunciarle prima, insieme a quel “sì” incastrato fra i denti che rivolgeva a sua moglie per non darle l'eccessivo potere di una certezza assoluta. Dimmi che mi ami. Avrebbe riso, se solo avesse saputo che sua moglie avrebbe finito per imporre a qualcuno di accontentarsi di tutto quel che resta – e cosa resta? Ossa divorate dalla pioggia, ossa che hanno trafitto il cuore di un Generale. Resti, scorie, il nulla. Adesso si muore.

Luke non firmava mai le lettere col suo nome. Le ha firmate tutte con la sua sigla “Generale Castellan, G.C.” e mai col suo nome di battesimo o con una nota melensa e un po' sdolcinata che usano gli amanti con le amate. E non conclude mai con un “ti amo” perché non vuole esaudire una richiesta (tranne una volta, nell'ultima lettera. Ma nemmeno allora riesce a scriverlo a dirlo esplicitamente) che sua moglie non gli pone mai. La prosa scarna, arida evidenzierebbe quell'affetto che vorrebbe riversare fra le pagine. Non lo fa mai. Forse, teme che qualcuno affermi che Luke Castellan ha sempre avuto un cuore ben funzionante, che gli sconquassa il petto quando sua moglie lo guarda e scuote la testa e gli medica le ferite. È stato bello, ma non ti amo. Qualcuno continua a sostenere che Luke Castellan ami sua moglie con tutto il cuore, anche se lui non ce l'ha proprio, un cuore. E lei continua a essere fredda come una regina di ghiaccio anche quando lui la bacia e le dimostra che l'ama ancora, sempre. È stato bello. Lei non gli sorride mai e ogni martedì getta un fiore blu su una tomba senza nome o corre nelle prigioni o piange sempre. Ma non ti amo.
Annabeth ha sempre risposto a tutte le lettere che lui le ha mandato (tranne una) con lo stesso stile ampolloso e distaccato che rende perfettamente la freddezza che si è imposta nei rapporti coniugali, nei martedì infiniti che ha odiato per un bel po'. E poi li ha amati quando ha capito che, oltre le belle parole c'era anche altro. Un cuore. E lei l'ha cercato a tentoni finché non l'ha sfiorato con la punta delle dita e ne ha compreso la posizione e la forma, e ha capito che forse Luke l'aveva sempre avuto.
Luke ha sempre piegato con cura le sue lettere (tranne l'ultima: è piegata malamente e sporca di sangue in un angolo) come farfalle minuscole e intangibili. Le ha sempre pogiate sul cuore prima di spedirle e le ha condite con parole e pensieri mai espressi. Tranne l'ultima: è il prototipo di lettera perduta, dimenticata. Dice tutto ciò che non si può dire ad alta voce, perché è così ovvio che non si può palesare o esternare in alcun modo. Eppure, Annabeth non se n'è mai accorta nel suo demolire ogni tentativo di approcciarsi a lei che avrebbe dovuto avere solo un cuore. Ma forse era lei quella gelida, nei modi in cui gli spezzava gli ultimi brandelli di sentimenti o lo rifiutava con quelle parole troppo dure, da conoscenti, usate per marcare una discrepanza fra lui e Percy Jackson. Va tutto bene, ma non ti amo.
L'ultima lettera di Luke sono solo poche parole e uno schizzo di sangue, pochissime parole e nessun inizio o conclusione o preludio o lettera in quanto tale. Poche parole, due soltanto che riprendono un concetto per lui vecchio di mesi ma mai espresso. Forse, non ne ha mai avuto il coraggio, di dirlo a voce alta o di scriverlo. Forse non importava, forse ha aspettato di non avere altra scelta se non vomitare tutto ciò che teneva in quella bocca perennemente piena come la caverna dei fantasmi o il vaso di Pandora prima di essere scoperchiato. L'ultima lettera di Luke giace, come una promessa infranta, sotto il nastro rosa e sfilacciato. Sembra un rimprovero muto, come quell'inchiostro un po' sbavato che in certi punti si confonde col sangue fino a creare un nuovo miscuglio. Due lettere soltanto. Amore mio. C'è un minuscolo “addio” alla fine della pagina, ma non si riesce a leggerlo.

 

***

 

La fanno distendere e lei non sembra nemmeno lì, con gli occhi sognanti e persi in un altro tempo e in un altro luogo, le mani strette attorno a quel bigliettino con sole due parole e una riga cancellata dal sangue. Amore mio. Una mano dura, spigolosa e piena di geloni le tira indietro i capelli, avanti e indietro sulla fronte sudata. Il dolore lo sente appena, così come il lento oscillare di una nave senza meta. Annabeth respira pianissimo, gli occhi chiusi, come se galleggiasse in un mare immenso.
Le dicono di urlare, se la fa stare meglio, di rilassarsi perché è la prima volta e andrà per le lunghe. Ma a lei non importa, quanto durerà, non le importa più niente.
È scivolata in una sorta di torpore silenzioso, dove le urla le arrivano attutite e non fa nemmeno così male. Sente a malapena la freschezza della pezzuola che le passano sulla fronte, il profumo delle erbe sparse sul pavimento, il mormorio concitato delle altre donne. Povera piccola, dicono di lei, povera piccola.
Perchè tutti ricordano che quel bambino le è stato instillato in grembo con la forza, che lei non voleva quel figlio, che lei non voleva niente. A sedici anni voleva salvare Luke, a diciassette avrebbe voluto ucciderlo, a venti avrebbe voluto morire lei stessa. A ventuno è rinata a metà, con la voglia di vivere e combattere dei sedici anni stemperata dalla malinconia prorompente dei venti. Ha una nebbia davanti agli occhi, quando il dolore s'intensifica. Amore mio. Bisbiglia un nome e nessuno la sente. Urla ma non ha voce, stringe mani di cui non indentifica la provenienza. Amore mio e l'ultima riga della lettera, quella parola che non riesce a leggere. Le sue urla squarciano il silenzio. Addio. Ce n'è un'altra ancora. Speranza.

 

***

 

La battaglia infuria, concentrata proprio davanti al palazzo di Crono: ha costretto i ribelli a scoprirsi e ad addentrarsi nel territorio del nemico, passando in svantaggio palese. Jonathan e Nico guidano la carica, infrangendo le barriere, sollevando un gran polverone: menano colpi di spada, sbraitano ordini e cercano di non morire.
Jonathan non vuole morire per conquistare quel che considera al pari di un bottino di guerra. Annabeth Chase lo aspetta nel secondo covo dei ribelli – con una ribellione – con un figlio che sta per nascere e il ventre pronto per ospitare altre creature, poiché la prima verrà prontamente esiliata perché figlia del migliore Generale di Crono.
Nico non vuole morire per conquistare qualcosa. Salvare qualcuno, ma questo non lo ammetterà mai. Quando evoca i morti sobbalza sempre, come se si aspettasse di vedere una brutta parodia di zombie dai capelli rossi saltar fuori e aggredirlo. Ma non succede. È la guerra delle donne, ma loro non combattono più.
Crono è completamente scoperto: crede che vincerà, ancora, come la prima volta. Ha perso dei Generali, una manciata di Tenenti e qualche basso manovalente che aspirava a un lavoro di più ampio prestigio. L'assenza di Luke Castellan comincia a farsi sentire nel lato scoperto e in balia dei ribelli, nella ruga che si forma sulla fronte del Titano.
Rachel Elizabeth Dare resta sullo sfondo, fra i ribelli e i Generali. Sussurra una preghiera, sottovoce, rivolta a una divinità che non esiste più. Apollo sta combattendo – amore mio, lasciami almeno un addio – dalla parte sbagliata, sta perdendo, potrebbe morire. Solo se trovassero qualcuno disposto a far scomparire un Dio, ma ormai i limiti sono stati superati ampliamente, come quelli delle tradizioni e dei cuori. È stato bello, ma non ti amo.
Jonathan si è ricoperto di sangue non suo e gloria, tantissima gloria. Ha ucciso e ormai non rimane quasi più nessuno – c'è chi ha mutato schieramento e chi è morto e non può mutare nulla, se non la composizione del suo corpo che si lega per sempre alla terra.
Aspetta di poter ritirarsi, mentre uccide e assapora il sangue. E sorride, perché ha la certezza assoluta di vincere. Peccato che gli abbiano sottratto la possibilità di uccidere il ben famoso Generale Castellan, si dice. Se lo figura sempre con un pugnale piantato nel petto e sua moglie che assiste, in silenzio. Non ti amo.
Nico combatte contro Crono, il tempo che sembra rallentare per entrambi, la fatica che comincia a farsi sentire. Un pugnale che sgretola il corpo del Titano, i morti che l'assalgono. Nico si volta e vede solo gli occhi verdi di Rachel. Mi dispiace, ma non ti amo.

 

***

 

Hanno vinto. Glielo sussurrano a bassa voce, scuotendola da quell'angolo silenzioso in cui si era rifugiata. Una donna dai capelli precocemente grigi le sorride, un fagottino in braccio e tante buone notizie che si perdono nella bocca. Hanno vinto, hanno smembrato Crono e l'hanno rinchiuso nel Tararo. Gli Dei torneranno presto.
Eppure, lei si sente ancora incompleta, come se le mancasse qualcosa. O qualcuno. Un peso sul cuore che non svanisce mai – addio.
«E' una bambina bellissima» le sussurrano, porgendole quel fagotto delicatissimo. «Sta bene ed ha gli occhi dello stesso colore del mare all'alba».
Le porgono una bambina minuscola – una bambina, non un bambino – dal corpicino caldissimo, gli occhi chiusi e una delicata peluria bionda sulla testa. È bellissima, le dicono una bambina bellissima. Capelli filati nell'oro, occhi color del mare, la figlia della guerra, la figlia della pace e della speranza. Speranza.
«Elphis» mormora Annabeth, stremata. Se la stringe al petto, divorata dalla preoccupazione di doverla proteggere da quei pericoli che lei stessa teme. «Si chiama così».
Elphis significa speranza. E un giorno lei se la appoggerà sulle ginocchia e le racconterà di come con suo padre si erano inseguiti, irretiti e forse anche amati.
È stato bello, ma non ti amo. Glielo racconterà in un sussurro strozzato in gola, giocando con i boccoli indomabili, sorridendole dolcemente. Le mostrerà il portagioie dove tiene tutte le lettere di Luke (meno una, che tiene a contatto col cuore) legate con un nastro rosa e sfilacciato. Forse le dirà anche di quei martedì e mercoledì in successione, dei lunedì passati sul bordo della vasca, della promessa che conserva fra il mignolo e il medio. Le dirà che c'era un tempo dove non c'era posto per la speranza, ma Luke l'aveva cercata e voluta e gliel'aveva anche imposta. Si promette di essere sincera con quella bambina così piccola, s'impone di esserlo con sé stessa. Con Luke non ha più – mai – avuto la possibilità di esserlo. Non è stato bello, ma ti amo.

 

***

 

Tornano tutti. I ribelli – anche se ormai sono dalla parte dle giusto e non hanno più bisogno della loro ribellione – sono tornati a riprendere donne e bambini. Jonathan è tornato a chiamare la sua promessa, dispersa fra il mignolo e il medio di Annabeth Castellan. Trova anche un bambino e la speranza nascosta nel vaso scoperchiato di Pandora. Una bambina minuscola, che potrebbe somigliare a lui se non fosse che è la copia esatta e in miniatura di Luke Castellan, ma con la tranquillità rassegnata di sua madre. Un'infante bellissima, ma lui non riesce nemmeno a guardarla. Qualcuno mormora che Jonathan possieda la stessa potenziale assenza di cuore che era di Luke Castellan. Qualcun altro sostiene che forse sono la stessa persona.
Rachel Dare ha tenuto in braccio la bambina solo per pochi secondi. Ha sorriso, complice al Dio che ha voltato le spalle al suo schieramento per tre volte. Apollo verrà costretto a lasciarla, probabilmente, ma lei sorride. È stato bello, ti amo. Sulla bocca ha probabilmente il sapore di un addio non voluto. Fra i denti, un “addio” non pronunciato. Nico le ha sussurrato una promessa, senza imporla fra il medio e il mignolo. Speranza e il vaso scoperchiato di Pandora. E Rachel, l'Oracolo, è rimasta immobile e ha ammesso di averlo promesso durante la negoziazione di quei termini così svantaggiosi per lei. Ma gli ha lanciato un messaggio silenziosissimo.
Accontentati di quel che resta. Nico l'ha compreso troppo tardi, che resta così poco perché la speranza l'ha rapita tutta Apollo sul suo carro del sole. Potrà anche essere bello, ma non credo che sarò mai in grado di amarmi. Forse a lui sta bene qualsiasi cosa, pur di racimolare anche un minuscolo “sì” preso controvoglia.
Le due donne sorridono, la bambina gorgheggia felice. La guerra è finita. Anche se alcuni non hanno fatto in tempo a vederla.

 

***

 

C'è qualcosa di strano, in Annabeth Castellan: qualcosa che stordisce e depista, un aggettivo insito in lei che svia da una qualunque supposizione. Perché succede che, quando qualcuno si ferma a guardarla, nota solo l'alone sbiadito di malinconia che l'avvolge e il secondo dopo lei è già sparita.
E qualcuno dice che è il suo sorriso, che si è riscaldato con gli anni e con l'ausilio di frecce infuocate che hanno scoperchiato il vaso di Pandora – così si dice – ed è stato in grado di stregare il Generale Castellan e Jonathan senza cognome, entrambi privi di cuore. È stato Luke Castellan a raccoglierla e a portarla via dalle rovine del campo di battaglia, strappandola dalle grinfie di un fato troppo duro per lei, e poi sposata con il benestare di una divinità che può essere corrotta solo con il sangue, poiché è di sangue e disperazione che si nutre. È stato Jonathan a imporle una promessa fra il mignolo e l'indice, un cerchietto d'oro che ha significato condanna.
C’è qualcosa di strano, in lei, anche mentre si muove attorno al dondolo, la mano persa in quella della figlia: Annabeth Chase porta un vecchio biglietto a contatto col cuore. Amore mio, addio, speranza. Il vaso scoperchiato di Pandora. Ma succede che suo marito, ogni volta che la guarda, rimane pietrificato: come una storia che si ripete ogni volta, appena la piccola Elphis sorride e una cicatrice invisibile sembra volerle dividere in due il volto. È cresciura simile al padre, diversa dalla madre, figlia di guerra e pace. Elphis Castellan non ha mai conosciuto le battaglie e il sorriso malinconico di sua madre, i martedì a fossilizzarsi sul dondolo e i lunedì nella vasca piena d'acqua e sangue. Si stringe a sua madre e la guarda riporre le sue lettere in un portagioie sfumato nel celeste, tranne quell'unico biglietto sporco di sangue che tiene sempre sopra il cuore. E qualcuno dice che, per Annabeth Chase, la guerra continua ancora.

 

 

 

Hanno tolto la speranza dal vaso scoperchiato di Pandora e hanno messo al suo posto una farfalla di carta.

(Amore mio, addio).







Ringraziamenti:


 

Siamo arrivati alla fine, come succede per tutte le cose, se non belle, che piacciono a qualcuno. E a me è così piaciuto scrivere questa storia che mi sento tremendamente vuota e non so come riuscirò a scrivere questi ringraziamente. Ma per amore delle persone che sto per elencare, ci proverò.
Le prime persone da ringraziare sono Silvia e Isabella, rispettivamente la mia compagna di sclero e mia sorella. Se non mi avessero torturata, bastonata e bacchettata, nonché riempita di cuscinate, questa storia non ci sarebbe. O, meglio, sarebbe nel primo documento word. Quello che il mio pc ha divorato e ora si trova nell'iperuranio.
Segue la mia fantastica beta, fantastica nel combinare guai e incasinarmi la vita sentimentale. Se non si fosse unita anche lei al bacchettamento, probabilmente la storia sarebbe rimasta nella sua bella cartella. Giuls Malfoy, senza di te sarei persa. Ma avrei meno problemi sentimentali, ma ti tengo lo stesso.
Ovviamente devo ringraziare anche BeeMe per il suo grande ritorno, mi era mancata tantissimo, insieme a tutti quelli che hanno recensito. 
Un doveroso ringraziamento va alle 8 persone che preferiscono questa storia, alle 7 che la seguono e a chi la inserirà fra le ricordate.
Infine ringrazio la Summer del mondo reale. Senza di lei non sarei stata male abbastanza per scrivere questa storia. Stesso discorso vale per il mio Luke che mi ha fatta completamente uscire fuori di testa. Ovviamente lo odio abbastanza per fargli fare una simile fine.
Grazie a tutti, davvero, spero di poter scrivere di nuovo in questo fandom.

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