La seconda battaglia della Valle Chiusa

di Entreri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Adikan ***
Capitolo 3: *** Agorwal ***
Capitolo 4: *** Herrat ***
Capitolo 5: *** Galoth ***
Capitolo 6: *** Adikan ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per morire; abbandonato da coloro che avrebbero dovuto essergli devoti, tradito da coloro che avrebbero dovuto essergli fedeli, ignorato dall'infinita, celeste estensione del cielo. Quando l'ascia gli calò sul volto, vide il proprio viso riflesso nell'acciaio e non lo riconobbe; che quel cavaliere spaventato e vinto fosse lo stesso giovane uomo destinato ad ascendere al seggio del Sirenmat gli parve impossibile, e il dolore della morte giunse improvviso, confusamente mischiato a quello della sconfitta.





Note dell'autrice:  Questa storia partecipa al Contest: "Quadri e Picche - Il contest delle sorprese"  indetto da phoenix-esmeralda, Gaea e S.Slappy sul Forum di EFP.
Inizio subito col dire che il titolo non mi piace: Ely me ne aveva proposto una versione più epica ma ho dovuto scartarla perchè avrebbe necessitato fare delle aggiunte alla storia che non ero in grado di portare avanti entro la scadenza del contest per banali questioni di totale devastazione fisica. Comunque, essendo la battaglia l'elemento collante della storia, mi accontento di questo.
Menzione speciale a ely79 per il suo insostituibile sostegno.
Anche questa volta, sebbene il prologo non lo espliciti troppo, siamo tornati a visitare le genti dell'Impero e in particolare i nobili del Sirenmat. (Stavo persino pensando, per una volta di far comparire la magica carta geografica del Sirenmat. Solo che è fatta a mano e mi vergogno.) A chi, avendo letto le altre storie, volesse capire in che punto della linea temporale ci troviamo, comunico che sono passsati circa duecento anni dalla morte di Hartaigen di Usen e ne mancano venitquattro alla conversazione notturna fra Galoth e Sorot che ho descritto nella mia prima storia. Insomma per farla breve la storia è ambientata nel 1074 dopo la fondazione di Naska (d.N.)
Il banner l'ho fatto io e mi piace un sacco: so benissimo che nella storia è un'ascia a calare su Adikan e che dovrebbe calare dall'alto  e che il cielo non è poi così azzurro ma mi piaceva il senso di "colpo incombente" trasmesso da quest'immagine (e io non so disegnare).
Avendo come sempre scritto note più lunghe del prologo, vi invito a perdonarmi con la promessa che questo evento non si ripeterà nei prossimi capitoli, che sono, ve lo assicuro, estremamente più lunghi. Ho la passione per i prologhi brevissimi, ma scrivo uso pubblicare capitoletti minuscoli.    
 

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Capitolo 2
*** Adikan ***


Adikan


La luce del tramonto si rifletteva sulla neve donandole una sfumatura ambrata che feriva la vista con un'illusione di calore. Era un'immagine degna degli antichi epigrammi che il suo precettore aveva preteso imparasse a tradurre da bambino, ma Adikan trovava che la condensa del proprio respiro e lo sbuffare affaticato con cui il suo cavallo avanzava nella fanghiglia togliessero a quella visione ogni traccia di poesia. Neppure il silenzio ovattato delle sere d'inverno, rotto irrimediabilmente dal vociare imprecante di un'armata in marcia, poteva fare alcunché per rendere alla scena anche solo un sospiro di bellezza. Ad Adikan non importava, il lirismo era una sciocchezza per i poeti ed era certo che, quando avrebbero composto il poema della sua vittoria contro i barbari oltre le montagne, gli aedi sarebbero riusciti a tratteggiare anche quella faticosa avanzata invernale con un romanticismo laccato tale da far sospirare le fanciulle e sognare della guerra ai ragazzini; a lui bastava che ogni ora di marcia lo portasse più vicino al nemico da sconfiggere.

«Perché sogghigni, Adikan?»

Non esisteva nell'universo un suono che gli fosse odioso quanto la voce di suo fratello, rumorosa e profonda come il latrato di un cane di grossa taglia; non si voltò verso di lui, fissando con decisione la colonna in movimento dinnanzi a sé.

«Le persone educate non sogghignano, Galoth, sorridono. E salutano coloro a cui si accostano a cavallo.»

Se avesse provato a ridere con lo stesso abbandono di suo fratello in un pomeriggio di fine inverno, Adikan era certo che il freddo gli sarebbe penetrato nei polmoni, tagliente come una lama d'acciaio, eppure sapeva che voltandosi verso Galoth avrebbe visto dipinta sul suo volto quella gioia sfrontata per la quale i più gli si affezionavano stupidamente.

«Stimato fratello, Duca Herrat, vi prego di concedermi il piacere di cavalcare al vostro fianco.»

Erano le parole rispettose che avrebbe dovuto pronunciare in primo luogo, tuttavia Adikan non poté che cogliere nel modo meccanico con cui le scandì un eco della risata canzonatoria di poco prima. Strinse le briglie con fermezza e lanciò un'occhiata al Duca di Indekel che cavalcava silenzioso alla sua sinistra. Lo vide fissare suo fratello con distacco e sospetto, e si sentì per la prima volta affine a quel vassallo di suo padre tanto distante ed efficiente, che sembrava sempre rimproverare qualcosa con lo sguardo ai giovani con cui era chiamato a dividere il comando.

«Non può che essere un onore per me cavalcare, non con uno, ma con due figli del mio signore.»

I suoi occhi grigi contraddissero con veemenza le parole formali appena pronunciate e le sue pupille minuscole saettarono per un istante da Galoth ad Adikan, prima di tornare ad osservare con espressione seria le montagne innevate e la rapidità implacabile con cui venivano abbandonate dalla luce del sole. Il Duca non disse altro e, non sentendosi affatto obbligato a rispondere agli interrogativi di suo fratello, Adikan tacque a propria volta, contemplando annoiato il cielo terso con cui il crepuscolo prometteva una gelata notturna.

«Due carri sono affondati nel fango fino a un terzo della ruota. Terghil di Chilt e i suoi uomini stanno cercando di tirarli fuori, ma bloccano la colonna e i carri non si smuovono, non importa in quanti si inzaccherino fino ai capelli per spingerli. Se non rallentiamo, li lasceremo indietro.»

Adikan reputava facezie simili la parte peggiore del comando supremo di un'armata, nonché un segno inappellabile d'incapacità da parte dei suoi sottoposti: Galoth avrebbe dovuto risolvere la questione da solo, anche a costo di mettere al traino il suo prezioso cavallo da guerra, doveva sapere che rallentare era inaccettabile.

«Sono gli svantaggi di una marcia invernale fuori dal tracciato delle antiche strade.»

La voce del Duca Herrat era sferzante come il vento freddo delle sue montagne, dura nel criticare quanto nell'enunciare dati di fatto al punto che era difficile per Adikan distinguere la sua indifferenza dal suo biasimo. Quando aveva accolto le truppe di Usen e di Bongarten sulla sommità della collina dinnanzi a Indekel, non aveva nascosto il proprio stupore né per la decisione del Conte di condurre una campagna di fine inverno, né per quella di affidarne il comando al proprio primogenito; allo stesso modo durante il primo consiglio di guerra aveva messo apertamente in dubbio la decisione di Adikan di abbandonare la vecchia strada di Aodosse. Non aveva accettato nessuna delle sue argomentazioni, rifiutando di vedere come si trattasse di un percorso prevedibile e per di più concepito in tempo di pace e che tagliare per le strade estive li avrebbe portati più vicini al nemico. Si era, nondimeno, conformato al suo volere quando Adikan gli aveva assicurato, mentendo, che i suoi piani avevano ricevuto la completa approvazione del Conte. Non aveva criticato oltre la sua decisione, ma con ogni constatazione null'affatto stupita delle difficoltà cui andavano incontro sembrava ricordare implicitamente di averle predette e di essere rimasto inascoltato.

Adikan si era costretto ad ignorare quei commenti con la grazia superiore che s'addiceva al figlio di un Conte Elettore, così tirò le redini, placandosi nell'imporre la propria volontà al cavallo innervosito dalle asperità della strada.

Scorgere Agorwal avvicinarsi al trotto lo infastidì ulteriormente: la sua mascella squadrata era serrata con forza rabbiosa e la sua figura energica, resa ancor più imponente dalla voluminosa pelliccia che portava sulle spalle, non nascondeva una certa rigidezza che preannunciava complicazioni e impedimenti a non finire.

Non chinò il capo, né si degnò di sprecare fiato in frasi di circostanza e, prima di concentrarsi sulle sue parole, Adikan non poté fare a meno di domandarsi se non fossero stati gli anni passati come scudiero del padre di Agorwal nella dimora dei Bongarten a strappare a Galoth i pochi brandelli di buona educazione che avesse mai avuto.

«Si sono azzoppati tre cavalli. Il Marchese di Lorser è livido come il cinghiale del suo vessillo: ha messo gli uomini a spingere i carri e ha ordinato agli ufficiali di procedere a piedi.»

Adikan fu sul punto di rispondere e ricordare ad Agorwal che non era un messaggero, incaricato di riportare i problemi al proprio generale, ma un comandante con il compito di risolverli. Non disse nulla, tuttavia, perché vi era nello sguardo del suo futuro cognato un'esasperazione secca tale da scoraggiare qualsiasi replica scortese.

«I miei uomini sono stanchi, sta scendendo la notte e gli esploratori riportano che tra poche miglia saremo di nuovo in salita. C'è uno spiazzo dove potremmo montare tende e palizzate senza troppi fastidi.»

Il Duca di Indekel assentì impercettibilmente a quella velata richiesta di accamparsi.

«Questo permetterebbe al signore di Chilt di recuperare i carri con le provviste senza restare separato dal resto delle nostre forze.»

Erano ragioni accettabili e prudenti, ma erano anche quelle strategie prevedibili che avevano reso anno dopo anno la lotta ai barbari sempre più difficile. Avevano bisogno di essere oltre i confini del Sirenmat prima che le tribù si radunassero per le invasioni primaverili, altrimenti non sarebbero riusciti a conseguire una vittoria abbastanza significativa da prevenire una spedizione l'anno successivo. Era passato troppo tempo dall'ultima sconfitta davvero memorabile inflitta dai Conti del Sirenmat alle genti oltre le montagne, e, anche se nessuno sembrava ascoltarlo, Adikan sapeva con irremovibile certezza che era necessario agire arditamente e colpire con durezza.

«Intendo proseguire per alcune ore dopo l'imbrunire. Il freddo gelerà la strada e potremo affrontare la salita senza l'impedimento del fango.»

Galoth lo fissò sgranando i suoi grandi occhi scuri e Adikan lo guardò a sua volta, sfidandolo a dire qualcosa, a tradire, per il solo gusto di contraddirlo, l'audacia temeraria che gli aveva conquistato l'amore del loro padre. Sorrise, osservando il suo stupore di fronte alla dimostrazione che poteva competere con lui e batterlo sul suo stesso terreno.

«Naturalmente se i miei signori concordano. Sarebbe un peccato, tuttavia, sprecare il tempo risparmiato sino ad ora.»

Non erano d'accordo, Adikan lo sapeva, ma negli anni aveva imparato a perfezionare il tono suadente e falsamente conciliante con cui aveva pronunciato l'ultima affermazione; sapeva che aveva un retrogusto di minaccia, una promessa di delazione e di ritorsione, che parlava della collera bruciante di suo padre e del rancore gelido di sua madre.

La scrollata di spalle noncurante con cui Galoth distolse lo sguardo portò sulla punta della lingua di Adikan il sapore dolce della vittoria.

«Come vuoi. Ma trova qualcun altro per dirlo al vecchio Terghil o giuro che questa volta gli mando la faccia quattro lame1 nel fango insieme a quel cazzo di carro.»

Lo disse ridendo, ma Adikan conosceva suo fratello abbastanza da sapere che, dietro la facciata di ironia bonaria da allegro amante dei bagordi, Galoth nascondeva a fatica una bestia violenta e iraconda non dissimile da quella che possedeva spesso il loro genitore. Non ebbe difficoltà ad immaginarlo trascinare giù da cavallo il signore di Chilt con le sue enormi mani, il volto arrossato dalla furia, le vene pulsanti sul collo taurino e fu tentato di mandarlo indietro a farsi un nemico e a mostrare ai soldati che lo idolatravano chi fosse davvero il loro beniamino. Agorwal, tuttavia, rispose prima che lui potesse risolversi, accostandosi a suo fratello con quell'amichevole confidenza che non aveva mai concesso a lui, il suo tono quello di un motteggio familiare e affettuoso.

«Preferisci riferire agli uomini che dovranno marciare ancora a lungo?»

«Qualcuno dovrà pur farlo.»

Non chiese il permesso di congedarsi, ma abbozzò un cenno con il capo mentre spronava il cavallo, mostrando per un istante un sorriso sghembo che Adikan sapeva non promettere niente di buono.

Partì al galoppo scivolando giù dalla sella solo per lanciarsi piroettando dall'altro lato del cavallo dopo aver toccato il suolo con i piedi: era una manovra difficile, delle staffette e dei portaordini, e mentre Galoth la ripeteva avanzando, Adikan si avvide che i soldati levavano gli occhi dal fango per osservare il proprio capitano dare spettacolo alla luce del tramonto.

Quando, afferrato l'arcione fra le mani, fece mezza capriola in avanti e posò la schiena sul collo del cavallo per levare le gambe in alto2, nell'aria gelida cominciarono a risuonare grida divertite e il nome di suo fratello venne scandito con un entusiasmo troppo simile all'amore perché Adikan potesse trattenersi dallo stringere i denti con rabbia. Sapeva che, una volta allontanatosi dal suo sguardo, avrebbe portato il destriero al trotto e annunciato il proseguire della marcia in piedi sulla sella, proclamando la sua comprensione per le fatiche dei propri sottoposti e promettendo riposo e ubriachezza per il prossimo bivacco.

«Questa l'ha imparata da Sorot, immagino.»

Adikan si voltò verso Agorwal, sorprendendolo nell'atto di ridere benevolmente delle manie di protagonismo di Galoth.

«Il figlio dell'imperatore? Non sapevo fossero amici.»

«Sono molto legati.»

Lo stupore del Duca di Indekel minacciava di essere per Adikan il proverbiale fiocco di neve che dà inizio alla valanga, ricordandogli per l'ennesima volta quanto quel rapporto favorisse Galoth nella lotta per la successione al seggio del Sirenmat.

«Sono più che legati. Se potessero si entrerebbero sottopelle l'un l'altro.»

L'espressione del Duca Herrat si mutò in una maschera d'orrore. Agorwal, al contrario, lo fissò soltanto, a lungo e in silenzio: era uno sguardo freddo, giudice, carico della pesantezza di un'accusa mai pronunciata ad alta voce eppure mai messa da parte. Adikan sorrise, senza sforzarsi di nascondere nella soddisfazione per la propria impunità un'implicita ammissione di colpevolezza.

Nessuno parlò per qualche tempo e ad Adikan parve che l'ombra delle montagne approfittasse del silenzio per colmare il passo con le tenebre dell'imbrunire.

«Vado a dare la notizia ai miei ufficiali. Vedrò cosa posso fare per il signore di Chilt lungo la strada.»

Il Duca li lasciò senza aggiungere altro, senza un cenno né un'indicazione di quando sarebbe tornato, e Adikan rimase da solo con Agorwal, ad aspettare che l'espressione di condanna con cui lo guardava andasse a sedimentarsi nel suo algido biasimo.

«Perché ami così poco tuo fratello, Adikan?»

La domanda lo colse alla sprovvista; nessuno l'aveva mai posta prima e la possibilità che qualcuno potesse non conoscere da sé la risposta gli parve ridicola, quasi come l'idea di dover giustificare la propria incapacità di provare affetto per Galoth. Non lo amava perché non vi era nulla da amare in lui, non vi era mai stato; il bambino che aveva ricevuto un nome solo quando tutti avevano imparato a non parlare di lui aveva distrutto la sua famiglia, il ragazzo che infrangeva tutte le regole senza curarsi delle conseguenze gli aveva rubato anche le briciole dell'amore di suo padre, il giovane uomo adorato dall'esercito e innamorato della sua promessa sposa era sempre a un passo dal rubargli quanto era suo di diritto. Solo degli stupidi avrebbero potuto amare Galoth, ma il mondo, Adikan aveva dovuto constatarlo amaramente sin dalla prima infanzia, era popolato da stolti.

«La vera domanda è perché voi tutti lo adoriate così tanto.»

Agorwal non gli rispose, ma Adikan non se ne curò, lasciando che i rumori dell'esercito in marcia nella notte si infiltrassero nel silenzio teso e ostile che era sceso fra loro.


1É una misura di lunghezza. Tre dita fanno una lama, nove lame fanno una mezza pertica.
1 dito: 2 cm

2Circa i dubbi che possono sorgere sulla fattibilità della cosa rimando a http://www.youtube.com/watch?v=h9tbGARJZVk&list=PLf9cuGUmFBZHd25v0br98JrsmdEuesHc9 da 0:54 in poi. 


Note dell'autrice:
Come avevo anticipato ad alcuni il contest a cui questa storia partecipa obbligava a "partire dalla fine" quindi siamo tornati indietro nel tempo rispetto al prologo. Spero che la cosa non vi destabilizzi troppo.
Ho inserito delle note, nonostante sia di solito contraria. Perché? La prima nota l'ho inserita perchè avevo già usato le lame come misure di lunghezza e ho pensato di esplicitare e non esiste un modo per paragonare ques'unità di misura al sistema metrico decimale all'interno della storia perchè all'interno della storia il sistema metrico decimale non esiste! La seconda ha lo scopo di documentare il fatto che non sto "sparando in alto" e anche condividere le figate che possono fare alcuni rievocatori storici.

Ho fatto io anche questo banner: ho dovuto fondere due immagini (perchè quella che sarebbe stata perfetta aveva un grande carro a vapore rosso al centro e dell'esercito in marcia che rovinava tutto). ed è stato faticoso.Non sono riuscita ad aggiungere una luce ambrata, quindi questo è l'imbrunire che abbiamo verso la fine del racconto e non il tramonto con cui inizia. Abbiate pietà e ditemi che è bello! 

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Capitolo 3
*** Agorwal ***


Agorwal

La schiena di Agorwal doleva per la lunga cavalcata e il gelo della notte si insinuava sotto le vesti di lana senza che le sue pesanti pellicce potessero fare alcunché per impedirlo.

La sua tenda era stata montata da tempo ma, per quanto non bramasse nulla più ardentemente del proprio giaciglio, non avrebbe potuto esimersi dal coordinare l'acquartieramento senza venir meno al proprio dovere. Era un onere stancante, ma gli apparteneva: era nella sua carne e nelle sue ossa, nella lunga catena di sangue e antenati che risaliva fino ad Hannekin, primo Duca di Bongarten.

Nelle faticose settimane di marce dopo il tramonto gli uomini si erano lentamente abituati a montare il campo nell'oscurità, imparando a portare avanti quel compito difficile e fastidioso con l'efficienza rapida e scontrosa della stanchezza.

Quella notte, tuttavia, vi era una tensione diversa nell'aria, una vibrante aspettativa che saturava persino il cielo terso fino a inghiottire la pallida lama di luna calante; non era stato diramato l'ordine di marcia per il giorno successivo e gli uomini si riportavano a vicenda che il comandante Adikan aveva convocato un consiglio di guerra con sussurri che sembravano salire fino alle stelle.

Agorwal levò gli occhi agli astri e non poté che trovare appropriato il modo in cui la luna rendeva difficile scorgere il Pozzo, domandosi, nel contempo, cosa l'Arpista bisbigliasse al Re Folle per attirarlo verso la sua morte da affogato, cosa offrissero i suoi cantilenanti mormorii, se amore, gloria o la corona dei re della terra. Era stata la sua storia preferita da bambino: ora ricordava solamente come, dopo averla raccontata, sua madre lo ammonisse che ogni uomo è Re Folle, Arpista e Pozzo di se stesso.

La voce di Adikan lo raggiunse, trasportata da un refolo freddo di vento montano e, per un istante, non poté fare a meno di chiedersi che cosa scorgesse sul fondo del pozzo il suo futuro cognato, né esimersi dal temere che, per afferrare quel qualcosa, li avrebbe trascinati sul fondo con sé facendo silenzioso appello alle catene dell'onore e del dovere.

Si erano spinti troppo a Nord, troppo a fondo nelle terre delle tribù barbare: il Passo delle Partenze era miglia e miglia di marcia invernale alle loro spalle, il Monte Renf un elemento del paesaggio per chi desiderasse volgere lo sguardo verso casa, e quella consapevolezza gli raffreddava le ossa più impietosamente di qualsiasi gelata notturna. Era il tragitto di Hartaigen di Usen, la linea delle sue incredibili vittorie, un percorso riconoscibile a tal punto che Agorwal non poté esimersi dal sospettare per l'ennesima volta che tutte le argomentazioni pacate con cui Adikan esponeva il proprio piano non fossero che bugie formulate con cura per nascondere di stare inseguendo una leggenda.

«Mio signore, il comandante in capo chiede il piacere della vostra compagnia per cena.»

Come tutti gli uomini Agorwal non amava essere distolto dalle proprie considerazioni ad opera di un ragazzino, nonostante ciò reputava che la buona educazione non consistesse nella capacità di formulare frasi di rito, simili a quella che Adikan aveva posto in bocca a quell'undicenne intirizzito, ma in una disposizione d'animo quanto più possibile benevola, così sorrise al giovane scudiero.

«Non credo di conoscere il tuo nome.»

«Rogic di Colan, mio signore.»

Era un ragazzo stanco, con grandi occhi azzurri così palesemente turbati dall'agitazione febbrile di quel campo nel cuore del territorio nemico che Agorwal gli posò una mano sulla spalla con fare rassicurante.

«Il figlio del signore di Colan. Devi essere molto onorato di servire Adikan in persona.»

«Il comandante è molto gentile.»

Rogic gli sorrise con cautela, un disagio palpabile a impregnargli l'espressione di malessere. Agorwal riconobbe la bugia per quella che era, poiché Adikan si comportava sempre in modo perfettamente cortese, ma non riusciva a ricordare che fosse mai stato, in tutta la sua vita, gentile. Sospirò pesantemente, domandosi con amarezza perché sua sorella non sembrasse in grado di vedere la differenza.

«Ne sono certo.»

«Cosa devo riferire al comandate?»

Agorwal vi pensò per un istante, prima di dare una pacca benevola alla guancia di Rogic in un gesto che gli era stato familiare quando Galoth era ancora lo scudiero di suo padre.

«Niente.»

«Niente?»

Lo sbalordimento che travolse il viso pallido di Rogic gli strappò una risata pur nel mezzo della sua irritazione verso Adikan.

«Assolutamente niente. Ho sentito la voce del comandante giusto un secondo fa, non può che essere molto vicino; non ho intenzione di farti congelare per nulla. Va' nella mia tenda, piuttosto, il mio scudiero ha la tua età, bevete pure il vino che i servi staranno scaldando per me. Parlerò con Adikan di persona.»

Attese che il ragazzo si congedasse prima di allontanarsi con passi decisi, rassegnandosi a rimandare ulteriormente il momento della pace e del riposo.

La voce di Adikan non era difficile da seguire: chiara e limpida, risuonava nell'aria come la sferzata di una frusta di raso, sempre pronta a suggerire lasciando intendere di ordinare, a commentare celando appena di schernire. Un giorno quella voce sprezzante avrebbe promesso di avere eterna cura di Margareth e lui sarebbe dovuto restare a guardare, gridando i loro nomi sotto una cascata di petali bianchi, ricordando la distaccata indifferenza con cui Adikan gli aveva risposto fra turbinanti fiocchi di neve: “me ne sono scordato, ho dato precedenza a tua sorella”.

La pronuncia perfetta con cui aveva scandito la propria menzogna aveva lasciato nelle sue orecchie un eco impossibile da scacciare e, ogni qual volta Adikan proferiva verbo, Agorwal udiva lo spettro di quelle parole richiamargli alla mente il pomeriggio di fine inverno in cui aveva cavalcato a perdifiato nei boschi per trovare Galoth prima che morisse da solo nella tormenta imminente.

Lo aveva raggiunto lontano dal punto dove la giumenta su cui stava cavalcando con Margareth si era azzoppata, lontano anche dal bivio dove Adikan era arrivato in soccorso della promessa sposa, lasciando il proprio fratello in balia del destino. L'orrore che aveva provato nel constatare che Galoth aveva continuato a camminare con ostinazione, quasi non si aspettasse che suo fratello mandasse qualcuno a prenderlo, aveva messo radici profonde nel suo cuore.

Adikan lo sapeva e in ogni sguardo, anche in quello che gli lanciò in quel momento, voltandosi verso di lui nella notte, vi era la fredda consapevolezza dell'accusa silenziosa che Agorwal gli muoveva da allora.

«Vedo che il mio messo ti ha raggiunto.»

Molte fanciulle trovavano affascinante il sorriso composto di Adikan, ma ad Agorwal pareva sempre di vedere un'ombra di disprezzo nella piega tagliente delle sue labbra sottili, un'alterigia compassata nell'arco perfetto delle sue sopracciglia bionde.

«Mi ha riferito il tuo messaggio. Ho già cenato, ma sono qui.»

«Molto bene.»

L'attendente che portava la lampada parve stupirsi tanto del suo rifiuto quanto della risposta indifferente che aveva ricevuto; non aveva ancora imparato, probabilmente, che gli inviti di Adikan non erano che una sofisticata forma di convocazione.

«Ho sentito dire che il morale dei soldati di Bongarten è basso.»

Agorwal sospirò, perché corrispondeva al vero solo in parte e l'umore degli uomini di Bongarten non era peggiore di quello del resto dell'esercito.

«Sono stanchi e preoccupati: marciano fino a tarda notte, il rigore dell'inverno non si è ancora temperato e non hanno ingaggiato battaglia neppure una volta, sebbene siano penetrati a fondo nel territorio nemico.»

Non aggiunse che il Conte non era con loro o che prendevano ordini da un uomo che non conoscevano e che non faceva niente per farsi amare o stimare. Sospettava che almeno una parte di Adikan lo sapesse già e che il cipiglio rancoroso con cui guardava i suoi sottoposti affaccendarsi nella notte non fosse che la più trascurabile manifestazione di quella consapevolezza.

«Immagino sia stato spiegato loro che ci stiamo inoltrando nella Regione delle Valli per sconfiggere le tribù tenendole separate una dall'altra.»

Se fosse appartenuta a un uomo dotato di maggior autoironia, Agorwal avrebbe motteggiato l'ingenuità con cui Adikan supponeva i soldati venissero messi a parte delle sue risoluzioni strategiche. Non che non li sentisse, di tanto in tanto, avanzare supposizioni in merito: aveva imparato, tuttavia, che simili speculazioni non erano che il segnale di un dubbio serpeggiante e di una sfiducia mal celata.

«Sentono solo che la battaglia si avvicina e, dopo tante difficoltà, hanno paura di morire lontano da casa.»

Era una verità banale eppure terribile e gli parve che il solo pronunciarla rendesse lo spettro della morte più vicino di qualche passo, riempiendo l'aria di un silenzio incombente, capace di inghiottire tutti gli schiamazzi emessi per esorcizzarlo.

Adikan scostò con fastidio una ciocca di capelli biondi che il vento gli aveva portato davanti agli occhi e in quelle iridi celesti come il cielo primaverile Agorwal non riuscì a cogliere la comprensione e l'empatia per la fragilità umana che sperava di generare con la propria affermazione.

«Pensavo fossero dei guerrieri.»

Sospirò involontariamente prima di rispondere, domandosi che immagine distorta avesse Adikan di coloro che erano costretti a seguirlo.

«Un guerriero è solo un uomo con una spada.»

«Un uomo o un bambino?»

La domanda implicava una tale dogmatica certezza della propria idea di coraggio e di virilità che Agorwal reputò fosse inutile replicare, la risposta, tuttavia, gli scivolò dalle labbra involontariamente, andando a formare una nuvola biancastra e umida dinnanzi al suo volto.

«Di fronte alla morte abbiamo tutti sette anni.»

Aveva visto veterani temprati da mille scontri invocare piangendo la propria madre nell'inutile tentativo di riportare le interiora nella loro sede naturale, assassini cinici e incuranti implorare la pietà del boia e, persino negli occhi vitrei di coloro che aveva ucciso, gli era stato impossibile ignorare il riflesso sbiadito della paura della fine, il desiderio inesaudito di protendersi ancora verso l'amore e verso la vita.

«Cerca di farli crescere fino a raggiungere almeno gli undici1, così potremo portarli in battaglia. Vuoi?»

Un giorno Adikan avrebbe risposto con quel sarcasmo inquinato di disprezzo a una persona che non aveva giurato fedeltà alla casa di suo padre e Agorwal non sapeva se pregare per l'allontanarsi o l'avvicinarsi di quella circostanza.

Non si degnò di rispondere alla sua provocazione, poiché era troppo stanco per parole che non avrebbero avuto alcuna utilità, così lo fissò soltanto, domandosi per l'ennesima volta come la superba bellezza del suo viso e dei suoi modi freddamente cortesi impedissero a sua sorella di vedere che genere di uomo fosse in realtà.

Adikan lo fissò a sua volta, una sgradevole espressione di superiorità dipinta sul volto, e Agorwal fu tentato di chiedergli che cosa vedesse prima di accorgersi, non per la prima volta, che non gli importava.

«C'è altro o posso andarmene? Sono stanco.»

Venne congedato con un cenno impercettibile del capo: fu lieto di non dover sopportare nessuna formula di cortesia e ancor più lieto di dare le spalle ad Adikan allontanandosi a grandi passi nella notte verso i propri uomini, la propria tenda e il proprio riposo.


1Come viene affermato anche in “Ma i figli dei suoi figli hanno il trono” i figli del Sirenmat vengono portati per la prima volta in battaglia al compimento dell'undicesimo anno di età.

Note dell'autrice:

 in effetti non so bene cosa dire, per cui mi limito a ringraziare lettori e soprattutto i recensori. 
Il banner non è esattamente quello che avrei voluto (e si allontana dallo stile degli altri due), ma non so cosa farci.

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Capitolo 4
*** Herrat ***


Herrat

Herrat di Indekel era noto tanto per la propria fredda pazienza quanto per la distaccata ferocia con cui la perdeva; l'una e l'altra cosa, tuttavia, erano in quel momento messe a dura prova dall'ottusa arroganza con la quale il figlio del suo signore rifiutava di ascoltare qualsiasi suggerimento dotato di buon senso.

«Non sono certo che attaccare sia la scelta migliore.»

Il Marchese di Daror aveva la voce noiosa della ragionevolezza e nel suo tono pacato vi era il suono del vento soffiato attraverso i suoi cinquantasette inverni e l'eco della morte dei suoi tre figli. Nei suoi occhi si leggeva un'accettazione stanca della guerra, scevra di ogni magnificenza e di ogni amore per la gloria.

Adikan lo ascoltava con cortese ostilità, tenendo le sue delicate mani da signorina giunte sul tavolo.

«Credevo che lo scopo di questa spedizione fosse, e mi scuso se lo ripeterò ancora una volta, sconfiggere le tribù nemiche singolarmente. Abbiamo per caso deciso di aspettare che formino l'esercito per sconfinare ancora?»

I più giovani fra i presenti annuirono: il figlio del signore di Chilt, il signore di Feder, il figlio del Marchese di Rearder, tutti condividevano con Adikan il desiderio di riempirsi di gloria e la sciocca convinzione che le cose non potessero che risolversi in loro favore. Herrat sospirò: la strategia che Adikan insisteva a portare avanti non era neppure sciocca, ma funzionava solo sulla carta e i suoi sostenitori parevano incapaci di rendersi conto di non essere i soli partecipanti intenti al gioco antico della guerra.

«Gli esploratori riportano, mi ripeterò anch'io per essere certo che la nozione non vada perduta, che tre delle più grandi tribù nemiche sono state avvistate precederci lungo la strada che porta a nord.»

Adikan si voltò verso di lui, spostando i gomiti sui braccioli del proprio seggio pieghevole e i lineamenti regolari del suo volto vennero tagliati da un sorriso costipato che tratteneva chissà quale maledizione o insulto.

«Siamo ancora in superiorità numerica rispetto a un nemico che non conosce la nostra posizione ed è intralciato da carriaggi, donne e bambini.»

«Personalmente credo che qualsiasi decisione sia prematura fino al ritorno di tutti gli esploratori. Se altri gruppi nemici stessero convergendo in questa direzione, ci verremmo a trovare in una posizione sgradevole.»

Herrat era arrivato ad ammirare la calma controllata con cui Agorwal cercava di prendere in considerazione tutti i lati di un problema prima di decidere come risolverlo, era un'attitudine adatta a un generale ed era solo un peccato che questa mancasse in entrambi i figli del loro signore.

«Non mi risulta che l'attesa abbia mai arriso a nessuno in guerra. Mi è stato ordinato di sconfiggere e punire questi barbari e intendo farlo. Questo consiglio è stato convocato per delineare una strategia d'attacco, non per discutere dell'opportunità dell'attacco stesso.»

Herrat si ricordò di respirare profondamente, immettere nel proprio petto l'aria ancora fresca e rigettarla all'esterno lasciando che portasse con sé parte del calore della propria indignazione. Si guardò intorno, scrutando i volti della nobiltà radunata in quell'ampia tenda scaldata dai bracieri, e vide nelle espressioni di quelli che più stimava la sua stessa cupa preoccupazione.

Quando Adikan si alzò per dispiegare la carta sul tavolo, Herrat lo interruppe.

«Come mai vostro fratello non è qui?»

Non che amasse particolarmente il minore degli Usen: se Adikan era un'arrogante privo di una spina dorsale diversa dalla scopa che aveva sicuramente inghiottito da bambino, Galoth non era che un irresponsabile con una particolare predisposizione alla violenza e all'insubordinazione; aveva, tuttavia, il vantaggio di non credersi uno stratega e di ascoltare, seppur senza un vero interesse, i consigli di coloro che avevano più esperienza di lui

All'udire la domanda l'espressione formale sul volto di Adikan perse anche l'ultima finzione di calore.

«Non lo so. Non sono il suo custode.»

Qualcuno dei più giovani fra i presenti iniziò a ridacchiare, perché sospettavano tutti fin troppo bene i motivi del suo ritardo: probabilmente dormiva ancora, in una tenda che non era la sua, con una donna che gli apparteneva ancor meno.



Note dell'autrice:  Sono consapevole del fatto che questo capitolo è abbastanza corto, il più corto della storia se non vogliamo contare prologo ed epilogo che per con me sono corti per definizione. Si tratta anche, se mi si permette di dirlo, del capitolo che mi è piaciuto meno scrivere. Non che il Duca di Indekel non mi piaccia, ma non sono una grande amante dell'aspetto militare delle storie fantasy. Trovarmi a dover esplorare questo aspetto è stato estremamente difficile per me. Ho cercato di creare una situazione che fosse quanto più possibile sensata, rifuggendo da soluzioni scenografiche ma improbabili e questo capitolo è importante proprio perchè inizia a mettere basi sensate per la battaglia.
Personalmente non ho mai creduto nelle spiegazioni strategiche durante le battaglie, ma ho un moroso abbastanza esigente dal punto di vista dell'amore per il lato bellico delle storie da sapere che alcuni lettori credono tali spiegazioni vadano almeno accenate: e quindi eccoci qui, con un capitolo che inizia a spiegare come vadano le cose dal punto di vista del personaggio forse emotivamente meno coinvolto di tutti in quel che accade.
Poichè questo capitolo è tanto breve, vi anticipo da subito che il prossimo sarà piuttosto corposo e che cercherò di pubblicarlo prima della consueta settimana di pausa, non appena avrò riscontro da parte di coloro che di solito me ne danno (quindi non è un ricatto) del fatto che questo sia stato letto. Tanto per non lasciarvi nè con un capitolo piccolo, nè con un muro di testo senza pietà.
Ovviamente le mani nere nel banner sono guantate. Non avete idea di quanto sia stato faticoso trovare un'immagine di mani sulla carta.

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Capitolo 5
*** Galoth ***


Galoth

Non furono tanto la luce più intensa e lo spiffero gelido che si erano insinuati nella tenda a svegliarlo, né l'agitarsi improvviso dei corpi avviluppati al suo: fu la voce.

«Mio signore?»

Mio signore era suo padre e, nella confusione del passaggio dal sonno alla veglia, fu pervaso dal terrore infantile che si fosse precipitato nelle sue stanze per punirlo. Quando ricordò di non essere più un bambino e di trovarsi miglia e miglia lontano dal castello di Usen, si stiracchiò ridendo di se stesso, voltandosi sonnolento per accomodarsi meglio nell'abbraccio delle due donne che emanavano un piacevole calore sotto le coltri di pelliccia.

«Mio signore.»

Era una voce di ragazzo e l'urgenza intimorita che vi vibrava si insinuò nel beato torpore delle sue membra, simile a un memento di tutte le cose sgradevoli del mondo.

«Mio signore!»

Una delle prostitute rise e prese a mordicchiargli un orecchio, strusciandosi contro di lui, l'altra gli posò una mano sul ventre e ripeté l'invocazione del ragazzo modulandola in un gemito osceno.
Se solo l'intruso se ne fosse andato sarebbe stato un risveglio piacevole, ma quando questi lo chiamò di nuovo, con tono imbarazzato e supplichevole, Galoth aprì gli occhi e si levò a sedere.

Rogic era immobile all'ingresso della tenda, una statua di disagio e incertezza che si torceva le mani senza accorgersene, cercando, probabilmente, di guardare altrove senza riuscirvi davvero.

«Come sei carino, con quel faccino appuntito e rosso! Verrebbe da riempirti di baci.»

Galoth pizzicò scherzosamente il fianco della donna alla sua destra, punendola per quel commento indelicato e ne ignorò le lamentele solo falsamente indispettite. Rogic iniziò a balbettare.

«Prendi un bel respiro, ignora le signore, e dimmi cosa c'è.»

Eseguì il primo ordine, fallì clamorosamente nel secondo e sussurrò rapidamente una frase che conteneva sicuramente le parole “fratello”, “presentarsi” e “consiglio”.

«Di quanto sono in ritardo?»

Rogic parve a tal punto sollevato dal fatto di aver ottenuto la sua attenzione che riuscì persino a reprimere parte del proprio imbarazzo e parlare chiaramente

«Circa due ore.»

L'imprecazione che gli sfuggì dalle labbra fece ridere le donne e spostare nervosamente il peso da un piede all'altro a Rogic. Galoth ignorò entrambe le cose, già proiettato verso gli infiniti sguardi di rimprovero e disprezzo che gli sarebbe valso quel ritardo: si presentò chiara alla sua mente la disapprovazione del Duca di Indekel, la stanca esasperazione di Agorwal e il disgusto oltraggiato con cui Adikan lo guardava sin da quando aveva memoria. Suo padre l'avrebbe frustato fino a farlo svenire, ma suo padre non c'era e il pensiero lo riempì di sollievo e di ribrezzo per quel sollievo al punto che fu tentato di scivolare nuovamente sotto le coperte e dormire per vent'anni. Dubitava, tuttavia, che si sarebbe svegliato più vecchio, più saggio o più felice, così scacciò quel desiderio di letargo e affrontò il problema con rassegnazione.

«Riferisci ad Adikan che sto arrivando e ordina a qualcuno di portarmi dell'acqua e dei vestiti puliti. Grazie.»

Chiuse gli occhi e si passò una mano fra i capelli, cercando di placare l'insorgere del cattivo umore che lo prendeva ogni qualvolta doveva interagire con suo fratello. Non si erano mai amati e, da quando Adikan si era fidanzato con Margareth, Galoth non riusciva neppure a pensare ai loro nomi senza bramare di essere a mille miglia di distanza da entrambi; sapere, poi, che Adikan la sposava per il nome e l'appoggio di suo padre, gli provocava una collera continua e logorante come un dolore alle ossa. Reprimere quel sentimento gli richiese fatica, così che quasi non si accorse che Rogic aveva ripreso a balbettare.

«Che cosa?»

«Il comandante richiede la vostra presenza immediatamente

Vide il maledetto volto perfetto di suo fratello atteggiarsi in un'espressione imperiosa, mentre scandiva quella parola con la sua dizione impeccabile, e pensare al suo aspetto da principe delle fiabe fu come soffiare sulle braci della sua rabbia inestinguibile.

Fece per alzarsi ma le prostitute protestarono vibratamente contro l'idea che se andasse, lagnandosi con insopportabili vocette stridule, cercando di trattenerlo con le loro mani prive di pudore e Galoth dovette controllare la sua ira montante, stringere i pugni lottando contro il desiderio di percuoterle. Sentì i propri lineamenti deformarsi in una smorfia ferina e vide lo sgomento sul volto di Rogic quando ne incontrò lo sguardo.

«Mio signore?»

Mio signore era suo padre e Galoth gli somigliava al punto di avere paura di se stesso. Si costrinse a sorridere e respirare.

«Immediatamente dice e immediatamente avrà.»

Si levò a sedere di scatto, infilò sbrigativamente gli stivali ma non i calzoni, afferrò il sorcotto1 di lana e lo indossò con noncuranza sulla pelle nuda, diede una pacca sulla spalla di Rogic e uscì dalla tenda.

Corse, inspirando grandi boccate d'aria gelida, lasciando che ferissero i suoi polmoni e lo distraessero dalla sua rabbia rovente. I soldati lo salutarono, ridendo al suo passaggio, gridando commenti salaci sul suo ritardo e la sua nudità, battendo le mani e indicandoselo fra loro. Galoth rispose a tono a quel motteggio affettuoso, facendo gesti osceni e sollevando la tunica per mostrare le natiche. Rise e nella risata ritrovò quella parte amabile di sé di cui non era necessario avere timore. Quando entrò nella tenda del consiglio lo fece con il sorriso sulle labbra.

Lo fissarono tutti e Galoth sfidò le loro espressioni sbalordite e infastidite con uno sguardo beffardo: qualcuno cercò di soffocare una risata, Agorwal scosse la testa come se avesse rinunciato da tempo a vederlo agire per il proprio bene e Adikan, in piedi a capotavola, rimase paralizzato in una sbalordita offesa per la sua parziale nudità. Non poté fare a meno di rivolgergli un plateale inchino.

«Il tuo messo ha detto immediatamente.»

Hedur di Feder e Maer di Rearder non riuscirono a trattenere uno scoppio di ilarità e Adikan si voltò verso di loro in una reprimenda silenziosa quanto inutile. Galoth ne approfittò per prendere il posto alla sua destra che gli spettava di diritto e attese, senza troppa pazienza, di essere ragguagliato. Non pose domande; i volti dei presenti, tuttavia, gli dissero che era in corso una discussione. Cercò una risposta da Agorwal, seduto pesantemente al suo fianco, ma questi si limitò a indicargli con un gesto il tavolo dinnanzi a loro. Solo allora Galoth prestò attenzione alla carta, che pure era stata dispiegata sul desco fin dal suo ingresso. Osservò la disposizione delle forze, le pedine di legno intagliato che stavano per i barbari e quelle che stavano per le truppe comitali. Quando, levando il capo, incrociò lo sguardo con il Duca di Indekel, la frustrazione esasperata che irruppe sotto l'impassibile durezza del suo viso non gli promise nulla di buono.

«Ti ringraziamo tutti per esserti degnato di unirti a noi. Come vedi ti ho assegnato all'ala sinistra.»

Per diritto di nascita non avrebbe dovuto “essere assegnato all'ala sinistra” ma averne il comando, oppure rimanere ai diretti ordini di Adikan: era un'offesa che tutti i presenti non avrebbero potuto fare a meno di notare, ma Galoth non se ne curò, sollevato dal fatto di combattere sotto l'esperta guida del Duca Herrat. Adikan proseguì, illustrando brevemente la tattica che intendeva utilizzare, spostando le pedine sulla mappa con le sue mani aggraziate, esponendo il suo piano con sicurezza, come fosse certo che nessuno avesse delle obiezioni da muovere. Il tamburellare delle sue dita, tuttavia, unito alla tensione crescente del Duca diceva diversamente.

«Non entreranno in rotta.»

Le dita affusolate di Adikan ebbero un tremito di fastidio e, posando il pedone che rappresentava la Tribù del Puma, lo strinse con forza nervosa. Non replicò al Duca di Indekel, lasciandolo attendere una risposta mentre la tenda si riempiva di un silenzio gravido di disagio.

«Non potete basare la vostra strategia sulla speranza che il nemico vada in rotta.»

Era una considerazione sensata, naturalmente, come lo erano tutte quelle che venivano proferite dalla voce secca del Duca Herrat, ma taceva la verità più importante, quella a cui tutti stavano pensando tanto intensamente che se ne poteva quasi udire l'eco nell'aria. Galoth la snocciolò senza pensarci troppo.

«I barbari non si ritirano mai.»

Adikan gli rise in faccia, uno scherno feroce e quasi infantile, che non condivise nessuno.

«E cos'altro, Galoth? Le Donne Sole2 possono esaudire qualsiasi desiderio?»

Galoth respirò profondamente e si costrinse a sorridere, notando con la coda dell'occhio come il Duca di Indekel osservasse suo fratello con la severità scandalizzata che si riserva a un fanciullo particolarmente sciocco e maleducato.

«Forse, non lo so. Quello che so è che i barbari non fuggono.»

Era un dato di fatto che conoscevano persino i bambini: coloro che gettavano lo scudo per avere salva la vita venivano esiliati dal proprio popolo nel corpo e nella memoria, cancellati dalla linea degli antenati, la loro esistenza veniva disconosciuta persino dalle loro madri. Lasciati a vagare soli per montagne, morivano solo per giacere insepolti, esclusi dal divenire tutt'uno con la pira dei propri avi, spiriti tormentati, prigionieri di un corpo che marciva. A lui era sempre parsa un'immagine angosciante e terribile, più che sufficiente a spingere un uomo a combattere fino alla morte. Che Adikan non la credesse reale e potesse farsene beffe lo lasciò interdetto e stupito.

Cercò il supporto del Duca, ma quello continuava a fissare Adikan, imperturbabile, insondabile e giudice come la statua di un antico imperatore.

«Sei uno sciocco, fratello.»

Lo disse con una sicurezza che sconfinava di molto nell'arroganza, i suoi splendidi occhi azzurri rifulgenti per la gioia datagli dall'insultarlo dinnanzi a metà della nobiltà guerriera del Sirenmat. Si guardarono in volto in silenzio per un istante, lasciando trapelare sotto un'espressione composta l'odio fedele e appassionato che provavano l'uno per l'altro.

«Avete mai visto o udito di una battaglia in cui un clan o una tribù abbia rotto le linee e si sia data alla fuga?»

La voce del Duca interruppe il loro scambio di sguardi, le parole scandite con lentezza a voce bassa, simili a quelle con cui i sacerdoti chiedevano ai fedeli di confessare la propria ignoranza dei disegni divini.

Vi era riuscito soltanto un uomo, anche questa era una cosa che sapevano persino i bambini, un uomo che si diceva avesse fatto un patto con una Donna Sola.

«Hartaigen li mise in rotta.»

Galoth rievocò senza volere l'immagine del proprio antenato: un ritratto dagli occhi azzurri e lo sguardo oscuro che sembrava sempre sul punto di aprire bocca per rivelare una verità sgradevole. Il sorriso storto e freddo che segnava quel volto virile l'aveva affascinato e inquietato insieme durante l'infanzia, così come la sua storia. Una storia gloriosa e crudele, fatta di sangue e di grandezza.

«Lo ha fatto. Fu il più grande trionfo mai ottenuto da un generale del Sirenmat.»

Adikan sorrise nel sentirgli confermare la sua vittoria sul Duca Herrat e Galoth confrontò il malizioso autocompiacimento di Adikan con la spietata determinazione del ritratto che entrambi avevano osservato da bambini.

«Ma tu non sei Hartaigen il Fratricida, Adikan. Anche se ti piacerebbe.»

Non era stata sua intenzione pronunciare quella frase con tanta gravità o calcare sulla parola fratricida con tanta acredine, ma nel proferirla aveva sentito in bocca il sapore aspro di una camminata disperata nella tempesta.

Agorwal, alla sua sinistra, emise una specie di sospiro strozzato e l'intero consiglio parve, per la prima volta, avvertire sino in fondo l'intenso disamore che correva fra lui e Adikan.

Suo fratello non ebbe alcuna reazione; sorrise, anzi, in modo ancor più malevolo, allungando una mano verso di lui. Gli afferrò una ciocca di capelli e la tirò in un gesto che sarebbe potuto sembrare affettuoso se solo avesse avuto per protagonisti un'altra coppia di fratelli, se solo i capelli neri di Galoth non fossero stati il motivo principale per cui suo padre aveva dubitato della sua legittimità quando era nato, se solo Adikan non lo avesse dileggiato in modo simile fino a quando lui non lo aveva superato in altezza.

«Hai ragione. Non potrei mai farti del male, nostra madre non mi perdonerebbe.»

Tutta la rabbia che era riuscito a fatica a disperdere nella corsa tornò a infiammargli le vene. Strinse i pugni e si impose disperatamente di non trasecolare. Provò a respirare profondamente, costringendosi a non fare il gioco di suo fratello: a non pensare a come sua madre lo odiasse per i dubbi che aveva fatto nascere su di lei mentre adorava Adikan con la devozione accanita di chi non abbia al mondo altro da amare.

«Così come nostro padre mi farebbe uccidere se io facessi del male te.»

Enunciò quella menzogna con la poca calma che gli rimaneva, quasi la preferenza che il Conte aveva per lui fosse una cosa degna di essere ostentata. Non si era mai vantato prima di allora della predilezione che quel padre distante e violento aveva iniziato ad accordargli solo quando, crescendo, gli si era rivelato simile nell'aspetto e nei difetti, ma lo strattone energico che Adikan diede ai suoi capelli gli fece capire di aver colto nel segno.

Suo fratello, tuttavia, era sempre stato più bravo di lui a mantenersi impassibile e l'aveva sempre battuto in ogni schermaglia verbale, così, quando vide accentuarsi quella smorfia sardonica che Adikan spacciava per un sorriso, Galoth seppe che non era affatto finita.

«Hai ragione, i nostri genitori ne sarebbero oltremodo turbati. Per non parlare di Margareth, sarebbe inconsolabile.»

Non riuscì a rispondere, troppo impegnato a trattenere la propria collera dentro di sé anche solo per distinguere le parole dell'ammonimento che Agorwal rivolse ad Adikan, troppo concentrato sulla propria immobilità per guardare qualcosa oltre all'odioso volto di suo fratello.

Quando gli tirò nuovamente i capelli, chinandosi sul suo orecchio, Galoth dovette stringere violentemente il bordo del tavolo per impedirsi di picchiarlo.

«Anche se sono certo che saresti ben lieto di provare a confortarla e nutro il non piccolo sospetto che, sotto quella facciata sostenuta, lei non desideri altro che un'occasione per farsi rincuorare da te.»

Il sussurro gli rimbombò nella mente, fuso con il furioso digrignare dei suoi denti, e gli si diffuse per il corpo in una dolorosa tensione muscolare.

«Taci o ti ammazzo.»

Adikan bisbigliò la sua risposta sfiorandogli l'orecchio con le labbra, un mormorio talmente sottile che Galoth lo percepì sulla propria pelle più che udirlo.

«Sei così protettivo con tutte le tue puttane?»

Lo colpì prima di poter pensare, spingendolo indietro, sbattendogli la testa contro il tavolo con furia animalesca. Lo percosse, stringendo la sua gola nella mano sinistra, il suono dell'impatto fra il suo pugno e la faccia di Adikan il più infervorante e armonico che avesse mai udito. Percepì le grida degli astanti senza sentirle davvero: ogni sensazione, sentimento, pensiero sommerso e travolto dalla piena inarrestabile della sua violenza. Cercarono di fermarlo, ma, posseduto com'era dal furore accecante della rabbia, si dimenò e lottò freneticamente perché non gli impedissero di provare la gioia esaltante che sapeva gli sarebbe venuta dal fracassare la testa di Adikan contro il legno.

Quando la presa d'acciaio di Agorwal lo strappò definitivamente dalla sagoma rannicchiata sul tavolo che era suo fratello, Galoth iniziò a gridare.

«Ti ammazzo, giuro che ti ammazzo, dovessi farmi strada attraverso un esercito, giuro che ti squarto!»

Se solo fosse riuscito a liberarsi, sapeva che l'avrebbe fatto.

«Galoth, respira. Calmati.»

La voce di Agorwal gli arrivava ovattata dal rombo frenetico dei battiti ringhianti del proprio cuore, la sua ragionevolezza preoccupata troppo lontana dalla rabbia profonda di cui era preda. Ripetuta come un salmo, tuttavia, quella frase si fece lentamente strada dentro di lui e riuscì a farlo smettere di opporsi alla presa con cui Agorwal lo imprigionava.

Adikan, che era rimasto inerme e immobile sotto i suoi colpi, si sollevò dal tavolo, il volto livido e arrossato, la bocca e il naso sporchi di sangue. Voltò i palmi verso l'alto in un gesto contenuto ma enfatico, come sfidandolo a colpirlo ancora. La tenda si riempì di mormorii.

Se non avesse avuto le labbra spaccate in più punti, Galoth era certo che Adikan avrebbe sorriso.

Solo allora fu in grado di obbedire fino in fondo al comando che Agorwal continuava a ripetergli. Respirò e si osservò intorno, accorgendosi di conoscere l'orrore con cui gli astanti lo fissavano: era la stessa espressione che la gente riservava agli scatti d'ira di suo padre. Si sentì morire.

Lo guardavano tutti a quel modo. Tutti tranne il Duca di Indekel: il Duca fissava Adikan.

Galoth non sarebbe stato capace di dire a cosa stesse pensando, ma vi era un disprezzo freddo in quello sguardo, un giudizio disgustato che abbracciava tutto quello che i suoi occhi azzurri potevano vedere. Quando si alzò con la lentezza solenne di una decisione irrevocabile, gli astanti volsero il capo verso di lui: Galoth non ricordava di aver mai visto un uomo tanto composto e regale come lo era il Duca Herrat in quel momento.

«Non metterò a rischio la vita dei miei soldati per i vostri capricci infantili e non andrò al massacro per gli sciocchi piani di un ragazzino.»

La sorpresa di Agorwal fu tale che lo lasciò andare, ma Galoth non avrebbe saputo dove muoversi così rimase accanto a lui, osservando con sconcertato timore la sicurezza con la quale il Duca fece cenno ai suoi vassalli di seguirlo e la sbigottita contrarietà con cui suo fratello tentò di non sembrare colto terribilmente alla sprovvista.

«Il Conte ne sarà informato.»

Il Duca Herrat si diresse verso l'uscita senza darsi neppure pena di rispondere.

«Possiamo andare avanti ora?»

Adikan tornò con noncuranza a rivolgere la propria attenzione alla mappa, fingendo che intorno a lui non imperversassero disordine e sgomento. Si chinò sul tavolo come se non fosse accaduto nulla: i pedoni che segnavano le forze in campo erano mischiati in modo confuso e, quando cercò di rimetterli in ordine, macchiò la carta di sangue.


1É una specie di tunica che si tiene sopra l'armatura. Di solito ci sono i colori della casata e il simbolo araldico. Su questa, anche se non posso dirlo spicca lo stemma degli Usen. Ovvero “Partito di bianco al lupo di grigio rapace riverso e di azzurro all'orso di nero levato” . Mi accorgo solo ora di non averlo mai citato in nessuna storia. Avere un'araldica e non usarla è una cosa terribile. T_T

2Come viene spiegato in“Ma i figli dei suoi figli hanno il trono” le donne sole sono le streghe delle montagne.

Note dell'autrice:  se aveste una minima idea della fatica che ho fatto per trovare un'immagine anche solo minamente decente per il banner mi compatireste. Ho dovuto attraversare miriadi di fantasy art troppo fantasy e di uomini sussurranti troppo slash. Non sono soddisfatta, sono prostrata e vinta. Sono arresa. 
Nota per rebeccuori: hai trovato la risposta alla tua domanda ? ^^

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Capitolo 6
*** Adikan ***


Adikan
 

Pur nella concitata frenesia della battaglia, sudato e affaticato nella propria armatura, gridando ordini a squarciagola nel disperato tentativo di recuperare la situazione, Adikan aveva ancora fiato per maledire il Duca Herrat. Maledisse lui e tutti i suoi antenati, maledisse l'intera casata degli Indekel e la sua dimora ancestrale, lanciò anatema sul loro motto e sull'elmo e il corno del loro vessillo; nessuna di quelle maledizioni, tuttavia, riuscì a confortarlo mentre i barbari sfondavano la prima linea, l'impatto fra i loro grandi scudi e le armi in asta un suono secco e definitivo come uno schiaffo.

Sbraitò perché mandassero a chiamare le riserve, solo per accorgersi, cercando gli stendardi con lo sguardo, che erano avanzati troppo rispetto alle ali. Imprecò, osservando la massa disordinata e vociante di nemici che continuava ad abbattersi sulle sue linee: sembravano spuntare dalla terra, energumeni tatuati dalle grandi asce e dai volti barbuti.

Nel chiamare le staffette si domandò come Agorwal avesse potuto restare indietro, lasciando il suo fianco destro scoperto a quel punto; sospettò, persino, che Galoth stesse approfittando del comando dell'ala sinistra per fargli perdere la battaglia: non riusciva ad immaginare una situazione in cui l'animale bellicoso che aveva per fratello potesse essere trattenuto dal travolgere le fila avversarie fino a metterle in rotta.

Affidargli l'ala sinistra era stato un errore: avrebbe dovuto fargli capitanare le prime linee del centro dove sarebbe stato sotto il suo controllo, avrebbe incoraggiato gli uomini, che lo amavano, e con un po' di fortuna sarebbe morto.

Il combattimento nelle prime linee si era fatto disordinato e cruento e Adikan diede ordine di serrare le fila, mandando i corrieri a intimare ai comandanti delle due ali di spingere il nemico indietro e portarsi al pari con lui.

Il messo di Agorwal arrivò in quel mentre, il cavallo stremato, il volto stravolto e la voce rotta dall'ansia.

«Mio signore, siamo stati attaccati sul fianco destro. Sembra che il nemico abbia ricevuto rinforzi e stia portando avanti una manovra a tenaglia.»

Il volto della staffetta rivelava una paura profonda e Adikan desiderò impedirsi di condividerla. Non aveva mai preso in considerazione di poter perdere: quella era la sua occasione per risplendere, per dimostrare a suo padre di essere la scelta giusta per la successione al seggio del Sirenmat; era l'opportunità che aspettava da tutta la vita e il pensiero che si trasformasse in un'umiliazione che avrebbe dovuto giustificare gli corrose lo stomaco.

La voce gli tremò di rabbia quando diede ordine di iniziare un ripiegamento: era ingiusto e il Duca di Indekel avrebbe pagato per averlo tradito e abbandonato in territorio ostile insieme a una parte consistente delle sue forze, ma per il momento non potevano fare altro che indietreggiare, scampando alla trappola mortale che rischiava di chiudersi su di loro.

Il nemico attaccò con più forza, una nuvola di giavellotti si abbatté sugli uomini del Sirenmat e le loro fila, scompaginate dalla morte, si infransero in una rotta confusa e sanguinolenta.

I barbari fluirono nella breccia come una corrente impetuosa, fendendo il suo schieramento come burro. Quando li vide attaccare l'alfiere e le sue guardie, Adikan spronò il cavallo, cercando di raggiungerli in tempo e mettere in salvo la bandiera prima che fosse troppo tardi: arrivò abbastanza vicino da distinguere le grida infervorate dei barbari, ma stendardo e stendardiere caddero nel fango prima che lui potesse arrivare. Tutto si trasformò in una fuga convulsa, un carnaio disordinato e sudicio fatto di grida, sangue, interiora e nevischio sporco. Una concitata follia in cui Adikan perse il senso del tempo e dello spazio. Il suo cavallo venne azzoppato e lui lo abbandonò, gli uomini della sua guardia morirono, così abbandonò anche loro, combattendo disperatamente non per la gloria o il seggio del Sirenmat, ma per il privilegio di tornare a casa ad abbracciare sua madre, farsi baciare la fronte e sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene.

Fu in quel momento che scorse suo fratello.

Era lontano e non avrebbe potuto sentirlo nel fragore della battaglia, ma gridò comunque il suo nome e Galoth si voltò verso di lui. Non avrebbe saputo dire se avesse udito la sua voce o il richiamo del sangue, se, semplicemente, fosse stato mosso da quel legame indissolubile e intessuto di rancore implacabile che veniva loro dall'aver condiviso un'infanzia fatta di incubi, grida furiose e scabrosi silenzi.

Si guardarono negli occhi attraverso le visiere divelte dei loro elmi e, forse per la prima volta nelle loro vite, videro la stessa cosa: capirono che, se Galoth non fosse andato a salvarlo, Adikan sarebbe morto; seppero che, se l'avesse lasciato al suo destino, la loro madre l'avrebbe odiato per sempre più di quanto non facesse già e Margareth che pure, forse, lo amava nel profondo del proprio cuore non sarebbe più riuscita a guardarlo in faccia. Evocarono nella mente un'alta pira, un padre indifferente, una madre disperata e piena di livore, un popolo carico di domande e di sospetti.

Quando Galoth spronò il suo gigantesco stallone, Adikan si sentì al sicuro nonostante la morte di uno dei combattenti che ancora si frapponevano fra lui e il nemico: piegando l'ala sinistra avrebbero perso sicuramente la battaglia, ma lui sarebbe sopravvissuto. Fece un passo avanti, conficcando la propria spada nell'apertura che il grosso guerriero dinnanzi a lui gli aveva fornito nell'abbattere il suo compagno.

Vide cadere due degli uomini più vicini a Galoth, ma non se ne preoccupò, occupato a tenere a bada il gigantesco barbaro tatuato che aveva sostituito quello caduto. Suo fratello era sempre più vicino e Adikan godette di ogni testa nemica mozzata dal suo gigantesco spadone. Ripeté a se stesso che sarebbe andato tutto bene, riparandosi dietro lo scudo dal colpo violento dell'ascia del suo avversario; la percepì conficcarsi nel legno e lo strattone con cui il barbaro cercò di liberarla gli fece perdere l'equilibrio. Un colpo di mazza gli calò sulla spalla sinistra, piegandogli l'armatura e spezzandogli le ossa.

Sopraffatto da un dolore lancinante, si voltò verso Galoth proprio mentre un colpo violento  abbatteva il suo cavallo. Lo vide precipitare nel mare di corpi sotto di lui, il suo grido di rabbia animalesca coperto dal nitrire disperato dello stallone.

Adikan lasciò cadere lo scudo, incapace di sollevare nuovamente il braccio con cui lo reggeva, levò la spada e cercò involontariamente nella mente le preghiere che aveva imparato da bambino, solo per accorgersi di averle dimenticate.

Galoth era così vicino che si potevano udire le sue imprecazioni, le sue grida selvagge e piene di furore. Adikan colpì a morte l'uomo con la mazza e, nel farlo, si trovò a guardare nella direzione di suo fratello.

Si accorse che, abbandonato il cavallo, era avanzato troppo rispetto agli uomini che avrebbero dovuto coprirlo e assistette impotente al fendente che lo colpì alla schiena.

Gridò. La parola “fratello” non aveva mai bruciato tanto intensamente la sua gola.

Lo osservò cadere e si ricordò di averlo amato, un tempo, quando non era stato altro che una forma scalciante nel ventre di sua madre, quando ancora sognava di poter avere in lui un complice e un amico, quando la sua famiglia era ancora unita e perfetta. Nascendo, Galoth aveva distrutto tutto. I suoi occhi e capelli corvini e i sospetti di suo padre avevano mandato in pezzi la vita di Adikan e lui l'aveva odiato con tutta la forza con cui un essere umano poteva avversarne un altro. Sarebbe stato meglio se fosse morto, sarebbe stato giusto che fosse morto, sarebbe dovuto morire mille volte: sotto le percosse feroci di suo padre, nella fredda distesa di neve dove lo aveva abbandonato, nelle sue innumerevoli peripezie prive di buon senso e in quella battaglia, ma Galoth era attaccato alla vita come un'erbaccia al terreno sterile e, vedendo come molti fra i soldati, dimentichi di lui, si precipitassero a soccorrerlo, Adikan ebbe la certezza che suo fratello sarebbe vissuto ancora. Lo odiò di un odio perfetto e assoluto, mentre falliva nel tentativo di parare con la propria spada il fendente dell'ascia nemica. Colpito, scivolò, cadendo bocconi nel nevischio fangoso e sporco di sangue. Non vi era una sola parte del corpo che non gli dolesse, tuttavia trovò ancora la forza per rifiutarsi di lasciare che lo finissero mentre giaceva con la faccia immersa nel fango. Si voltò con un lamento.

Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per morire; abbandonato da coloro che avrebbero dovuto essergli devoti, tradito da coloro che avrebbero dovuto essergli fedeli, ignorato dall'infinita, celeste estensione del cielo. Quando l'ascia gli calò sul volto, vide il proprio viso riflesso nell'acciaio e non lo riconobbe; che quel cavaliere spaventato e vinto fosse lo stesso giovane uomo destinato ad ascendere al seggio del Sirenmat gli parve impossibile, e il dolore della morte giunse improvviso, confusamente mischiato a quello della sconfitta.


Note dell'autrice:  Questo banner è la luce dei miei occhi!
Come vedete questa capitolo si chiude con le stesse parole del prologo. Si tratta di un "compito per casa" assegnatomi dal contest a cui la storia partecipa. La storia doveva partire dalla fine. Non si tratta, tuttavia, dell'ultimo capitolo, seguirà un breve epilogo. Ho immaginato che interrompere qui sarebbe stato coerente con la fine di Adikan, ma un po' crudele nei confronti di voi lettori.

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


Epilogo

Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze, mentre la saliva sputatagli in faccia gli colava sulla guancia, che Galoth si rese conto di quanto le allusioni di Adikan fossero vere. Nel silenzio sconvolto con cui la folla, radunatasi di fronte al castello di Usen, osservava attonita l’erede del suo signore venire ingiuriato dalla propria madre lesse una domanda, il principio di un’accusa, che sapeva lo avrebbe perseguitato per tutta vita.

Lasciò scivolare lo sguardo sul cadavere di Adikan che tanto aveva lottato per riportare a casa: la morte donava ai lineamenti eleganti di suo fratello, conferendo al suo volto severo una serenità gentile che in vita gli era sempre mancata e, guardando quel corpo composto sobriamente in una bara piena di neve, non riuscì a sentire nessun cordoglio, nessuna voce del sangue che lo chiamasse al pianto.

Sospettava di avergli voluto bene un tempo, ma non riusciva a ricordare esattamente quando questo fosse successo né come avesse smesso: forse non era mai realmente accaduto. Di certo non avrebbe potuto amarlo in quel momento, non mentre l'insulto lanciatogli da sua madre gli scendeva lungo il viso come una lacrima. Assassino aveva detto e, sentendo Leonora di Usen pronunciare quella parola con tanta rancorosa certezza, Margareth lo aveva guardato come se non l'avesse mai visto prima di allora, quasi fosse un estraneo sporco di sangue e non il ragazzo che aveva passato a litigare con lei la maggior parte della sua vita. Non riuscì a fissare a lungo nessuna delle due, troppo stanco per aspettarsi qualcosa di diverso; guardò invece il volto tumefatto di Adikan e, notando come lo squarcio che lo attraversava non riuscisse a togliergli neppure un briciolo della sua aristocratica bellezza, si rese conto che nemmeno la morte sarebbe riuscita a liberarlo da suo fratello. Avrebbero bruciato il suo corpo su un'alta pira e murato la sua spada e la sua armatura nell'ala cieca del castello, ma Adikan sarebbe rimasto con Galoth per tutta la vita: sarebbe stato nella cicatrice profonda che attraversava la sua schiena e nei sussurri che sapeva si sarebbero propagati per la cattedrale il giorno della sua incoronazione, sarebbe stato nello sguardo dubbioso di Margareth e nei silenzi di Agorwal, sarebbe stato il racconto di una lite violenta e di una minaccia di morte, il fantasma di una domanda che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di porgli.

Per questo, quando tutti si inginocchiarono per baciare la sua fronte in un gesto d'addio, Galoth non lo fece: perché non si stavano lasciando affatto ed era l'incubo peggiore che potesse immaginare.


Note dell'autrice: e con questo la storia finisce. Grazie per essere arrivati fin qui. Un abbraccio speciali a chi ha voluto riempirmi il cuore di gioia dicendomi cosa pensa della storia, non c'è dono più bello per uno scrittore (per quanto solo nell'anima).
Questo banner mi ha a dato grande soddisfazione, sebbene abbia fatto del mio meglio per non rendere troppo riconoscibile il prestavolto di Adikan (a chi dovesse accorgersene chiedo preventivamente pietà!).







La storia ho ottenuto i seguenti "riconoscimenti":
Terza classificata al contest "Quadri e Picche" :

                                           
                                       

Nel contest a squadre "Cricoli e Salotti" la squadra si è classificata treza:


                   
Mentre la storia singolarmente si è classificata prima della sua sezione:


                   


Nonostante sia piena di banner ho scelto di usare quelli fatti da me. Perchè, sebbene io non sia molto brava, ormai ci sono affezionata.

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