La seconda battaglia della Valle Chiusa di Entreri (/viewuser.php?uid=4888)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Adikan ***
Capitolo 3: *** Agorwal ***
Capitolo 4: *** Herrat ***
Capitolo 5: *** Galoth ***
Capitolo 6: *** Adikan ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
- Le
canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la
propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor
fredde
altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che
Adikan si rese conto di stare per morire; abbandonato da coloro che
avrebbero dovuto essergli devoti, tradito da coloro che avrebbero
dovuto essergli fedeli, ignorato dall'infinita, celeste estensione
del cielo. Quando l'ascia gli calò sul volto, vide il
proprio viso
riflesso nell'acciaio e non lo riconobbe; che quel cavaliere
spaventato e vinto fosse lo stesso giovane uomo destinato ad
ascendere al seggio del Sirenmat gli parve impossibile, e il dolore
della morte giunse improvviso, confusamente mischiato a quello della
sconfitta.
Note dell'autrice: Questa
storia partecipa al Contest: "Quadri e Picche - Il contest delle
sorprese" indetto da phoenix-esmeralda, Gaea e S.Slappy sul
Forum di EFP.
Inizio subito col dire che il titolo non mi piace: Ely me ne aveva
proposto una versione più epica ma ho dovuto scartarla
perchè avrebbe necessitato fare delle aggiunte alla storia
che non ero in grado di portare avanti entro la scadenza del contest
per banali questioni di totale devastazione fisica. Comunque, essendo
la battaglia l'elemento collante della storia, mi accontento di questo.
Menzione speciale a ely79 per il suo insostituibile sostegno.
Anche questa volta, sebbene il prologo non lo espliciti troppo, siamo
tornati a visitare le genti dell'Impero e in particolare i nobili del
Sirenmat. (Stavo persino pensando, per una volta di far comparire la
magica carta geografica del Sirenmat. Solo che è fatta a
mano e mi vergogno.) A chi, avendo letto le altre storie, volesse
capire in che punto della linea temporale ci troviamo, comunico che
sono passsati circa duecento anni dalla morte di Hartaigen di Usen e ne
mancano venitquattro alla conversazione notturna fra Galoth e Sorot che
ho descritto nella mia prima storia. Insomma per farla breve la storia
è ambientata nel 1074 dopo la fondazione di Naska (d.N.)
Il banner l'ho fatto io e mi piace un sacco: so benissimo che nella
storia è un'ascia a calare su Adikan e che dovrebbe calare
dall'alto e che il cielo non è poi così
azzurro ma mi piaceva il senso di "colpo incombente" trasmesso da
quest'immagine (e io non so disegnare).
Avendo come sempre scritto note più lunghe del prologo, vi
invito a perdonarmi con la promessa che questo evento non si
ripeterà nei prossimi capitoli, che sono, ve lo assicuro,
estremamente più lunghi. Ho la passione per i prologhi
brevissimi, ma scrivo uso pubblicare capitoletti minuscoli.
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Capitolo 2 *** Adikan ***
Adikan
La luce
del tramonto si rifletteva sulla neve donandole una sfumatura ambrata
che feriva la vista con un'illusione di calore. Era un'immagine degna
degli antichi epigrammi che il suo precettore aveva preteso imparasse
a tradurre da bambino, ma Adikan trovava che la condensa del proprio
respiro e lo sbuffare affaticato con cui il suo cavallo avanzava
nella fanghiglia togliessero a quella visione ogni traccia di poesia.
Neppure il silenzio ovattato delle sere d'inverno, rotto
irrimediabilmente dal vociare imprecante di un'armata in marcia,
poteva fare alcunché per rendere alla scena anche solo un
sospiro di
bellezza. Ad Adikan non importava, il lirismo era una sciocchezza per
i poeti ed era certo che, quando avrebbero composto il poema della
sua vittoria contro i barbari oltre le montagne, gli aedi sarebbero
riusciti a tratteggiare anche quella faticosa avanzata invernale con
un romanticismo laccato tale da far sospirare le fanciulle e sognare
della guerra ai ragazzini; a lui bastava che ogni ora di marcia lo
portasse più vicino al nemico da sconfiggere.
«Perché
sogghigni, Adikan?»
Non
esisteva nell'universo un suono che gli fosse odioso quanto la voce
di suo fratello, rumorosa e profonda come il latrato di un cane di
grossa taglia; non si voltò verso di lui, fissando con
decisione la
colonna in movimento dinnanzi a sé.
«Le
persone educate non sogghignano, Galoth, sorridono. E salutano coloro
a cui si accostano a cavallo.»
Se
avesse provato a ridere con lo stesso abbandono di suo fratello in un
pomeriggio di fine inverno, Adikan era certo
che il freddo
gli sarebbe penetrato nei polmoni, tagliente come una lama d'acciaio,
eppure sapeva che voltandosi verso Galoth avrebbe visto dipinta sul
suo volto quella gioia sfrontata per la quale i più gli si
affezionavano stupidamente.
«Stimato
fratello, Duca Herrat, vi prego di concedermi il piacere di cavalcare
al vostro fianco.»
Erano le
parole rispettose che avrebbe dovuto pronunciare in primo luogo,
tuttavia Adikan non poté che cogliere nel modo meccanico con
cui le
scandì un eco della risata canzonatoria di poco prima.
Strinse le
briglie con fermezza e lanciò un'occhiata al Duca di Indekel
che
cavalcava silenzioso alla sua sinistra. Lo vide fissare suo fratello
con distacco e sospetto, e si sentì per la prima volta
affine a quel
vassallo di suo padre tanto distante ed efficiente, che sembrava
sempre rimproverare qualcosa con lo sguardo ai giovani con cui era
chiamato a dividere il comando.
«Non
può che essere un onore per me cavalcare, non con uno, ma
con due
figli del mio signore.»
I suoi
occhi grigi contraddissero con veemenza le parole formali appena
pronunciate e le sue pupille minuscole saettarono per un istante da
Galoth ad Adikan, prima di tornare ad osservare con espressione seria
le montagne innevate e la rapidità implacabile con cui
venivano
abbandonate dalla luce del sole. Il Duca non disse altro e, non
sentendosi affatto obbligato a rispondere agli interrogativi di suo
fratello, Adikan tacque a propria volta, contemplando annoiato il
cielo terso con cui il crepuscolo prometteva una gelata notturna.
«Due
carri sono affondati nel fango fino a un terzo della ruota. Terghil
di Chilt e i suoi uomini stanno cercando di tirarli fuori, ma
bloccano la colonna e i carri non si smuovono, non importa in quanti
si inzaccherino fino ai capelli per spingerli. Se non rallentiamo, li
lasceremo indietro.»
Adikan
reputava facezie simili la parte peggiore del comando supremo di
un'armata, nonché un segno inappellabile
d'incapacità da parte dei
suoi sottoposti: Galoth avrebbe dovuto risolvere la questione da
solo, anche a costo di mettere al traino il suo prezioso cavallo da
guerra, doveva sapere che rallentare era inaccettabile.
«Sono
gli svantaggi di una marcia invernale fuori dal tracciato delle
antiche strade.»
La voce
del Duca Herrat era sferzante come il vento freddo delle sue
montagne, dura nel criticare quanto nell'enunciare dati di fatto al
punto che era difficile per Adikan distinguere la sua indifferenza
dal suo biasimo. Quando aveva accolto le truppe di Usen e di
Bongarten sulla sommità della collina dinnanzi a Indekel,
non aveva
nascosto il proprio stupore né per la decisione del Conte di
condurre una campagna di fine inverno, né per quella di
affidarne il
comando al proprio primogenito; allo stesso modo durante il primo
consiglio di guerra aveva messo apertamente in dubbio la decisione di
Adikan di abbandonare la vecchia strada di Aodosse. Non aveva
accettato nessuna delle sue argomentazioni, rifiutando di vedere come
si trattasse di un percorso prevedibile e per di più
concepito in
tempo di pace e che tagliare per le strade estive li avrebbe portati
più vicini al nemico. Si era, nondimeno, conformato al suo
volere
quando Adikan gli aveva assicurato, mentendo, che i suoi piani
avevano ricevuto la completa approvazione del Conte. Non aveva
criticato oltre la sua decisione, ma con ogni constatazione
null'affatto stupita delle difficoltà cui andavano incontro
sembrava
ricordare implicitamente di averle predette e di essere rimasto
inascoltato.
Adikan
si era costretto ad ignorare quei commenti con la grazia superiore che
s'addiceva al figlio di un Conte Elettore, così
tirò le redini,
placandosi nell'imporre la propria volontà al cavallo
innervosito
dalle asperità della strada.
Scorgere
Agorwal avvicinarsi al trotto lo infastidì ulteriormente: la
sua
mascella squadrata era serrata con forza rabbiosa e la sua figura
energica, resa ancor più imponente dalla voluminosa
pelliccia che
portava sulle spalle, non nascondeva una certa rigidezza che
preannunciava complicazioni e impedimenti a non finire.
Non
chinò il capo, né si degnò di sprecare
fiato in frasi di
circostanza e, prima di concentrarsi sulle sue parole, Adikan non
poté
fare a meno di domandarsi se non fossero stati gli anni passati come
scudiero del padre di Agorwal nella dimora dei Bongarten a strappare
a Galoth i pochi brandelli di buona educazione che avesse mai avuto.
«Si
sono azzoppati tre cavalli. Il Marchese di Lorser è livido
come il
cinghiale del suo vessillo: ha messo gli uomini a spingere i carri e
ha ordinato agli ufficiali di procedere a piedi.»
Adikan
fu sul punto di rispondere e ricordare ad Agorwal che non era un
messaggero, incaricato di riportare i problemi al proprio generale,
ma un comandante con il compito di risolverli. Non disse nulla,
tuttavia, perché vi era nello sguardo del suo futuro cognato
un'esasperazione secca tale da scoraggiare qualsiasi replica
scortese.
«I miei
uomini sono stanchi, sta scendendo la notte e gli esploratori
riportano che tra poche miglia saremo di nuovo in salita.
C'è uno
spiazzo dove potremmo montare tende e palizzate senza troppi
fastidi.»
Il Duca
di Indekel assentì impercettibilmente a quella velata
richiesta di
accamparsi.
«Questo
permetterebbe al signore di Chilt di recuperare i carri con le
provviste senza restare separato dal resto delle nostre
forze.»
Erano
ragioni accettabili e prudenti, ma erano anche quelle strategie
prevedibili che avevano reso anno dopo anno la lotta ai barbari
sempre più difficile. Avevano bisogno di essere oltre i
confini del
Sirenmat prima che le tribù si radunassero per le invasioni
primaverili, altrimenti non sarebbero riusciti a conseguire una
vittoria abbastanza significativa da prevenire una spedizione l'anno
successivo. Era passato troppo tempo dall'ultima sconfitta davvero
memorabile inflitta dai Conti del Sirenmat alle genti oltre le
montagne, e, anche se nessuno sembrava ascoltarlo, Adikan sapeva con
irremovibile certezza che era necessario agire arditamente e colpire
con durezza.
«Intendo
proseguire per alcune ore dopo l'imbrunire. Il freddo gelerà
la
strada e potremo affrontare la salita senza l'impedimento del
fango.»
Galoth
lo fissò sgranando i suoi grandi occhi scuri e Adikan lo
guardò a
sua volta, sfidandolo a dire qualcosa, a tradire, per il solo gusto
di contraddirlo, l'audacia temeraria che gli aveva conquistato
l'amore del loro padre. Sorrise, osservando il suo stupore di fronte
alla dimostrazione che poteva competere con lui e batterlo sul suo
stesso terreno.
«Naturalmente
se i miei signori concordano. Sarebbe un peccato, tuttavia, sprecare
il tempo risparmiato sino ad ora.»
Non
erano d'accordo, Adikan lo sapeva, ma negli anni aveva imparato a
perfezionare il tono suadente e falsamente conciliante con cui aveva
pronunciato l'ultima affermazione; sapeva che aveva un retrogusto di
minaccia, una promessa di delazione e di ritorsione, che parlava
della collera bruciante di suo padre e del rancore gelido di sua
madre.
La
scrollata di spalle noncurante con cui Galoth distolse lo sguardo
portò sulla punta della lingua di Adikan il sapore dolce
della
vittoria.
«Come
vuoi. Ma trova qualcun altro per dirlo al vecchio Terghil o giuro che
questa volta gli mando la faccia quattro lame
nel fango insieme a quel cazzo di
carro.»
Lo disse
ridendo, ma Adikan conosceva suo fratello abbastanza da sapere che,
dietro la facciata di ironia bonaria da allegro amante dei bagordi,
Galoth nascondeva a fatica una bestia violenta e iraconda non
dissimile da quella che possedeva spesso il loro genitore. Non ebbe
difficoltà ad immaginarlo trascinare giù da
cavallo il signore di
Chilt con le sue enormi mani, il volto arrossato dalla furia, le vene
pulsanti sul collo taurino e fu tentato di mandarlo indietro a farsi
un nemico e a mostrare ai soldati che lo idolatravano chi fosse
davvero il loro beniamino. Agorwal, tuttavia, rispose prima che lui
potesse risolversi, accostandosi a suo fratello con quell'amichevole
confidenza che non aveva mai concesso a lui, il suo tono quello di un
motteggio familiare e affettuoso.
«Preferisci
riferire agli uomini che dovranno marciare ancora a lungo?»
«Qualcuno
dovrà pur farlo.»
Non
chiese il permesso di congedarsi, ma abbozzò un cenno con il
capo
mentre spronava il cavallo, mostrando per un istante un sorriso
sghembo che Adikan sapeva non promettere niente di buono.
Partì
al galoppo scivolando giù dalla sella solo per lanciarsi
piroettando
dall'altro lato del cavallo dopo aver toccato il suolo con i piedi:
era una manovra difficile, delle staffette e dei portaordini, e
mentre Galoth la ripeteva avanzando, Adikan si avvide che i soldati
levavano gli occhi dal fango per osservare il proprio capitano dare
spettacolo alla luce del tramonto.
Quando,
afferrato l'arcione fra le mani, fece mezza capriola in avanti e
posò
la schiena sul collo del cavallo per levare le gambe in alto,
nell'aria gelida cominciarono a risuonare grida divertite e il nome
di suo fratello venne scandito con un entusiasmo troppo simile
all'amore perché Adikan potesse trattenersi dallo stringere
i denti
con rabbia. Sapeva che, una volta allontanatosi dal suo sguardo,
avrebbe portato il destriero al trotto e annunciato il proseguire
della marcia in piedi sulla sella, proclamando la sua comprensione
per le fatiche dei propri sottoposti e promettendo riposo e
ubriachezza per il prossimo bivacco.
«Questa
l'ha imparata da Sorot, immagino.»
Adikan
si voltò verso Agorwal, sorprendendolo nell'atto di ridere
benevolmente delle manie di protagonismo di Galoth.
«Il
figlio dell'imperatore? Non sapevo fossero amici.»
«Sono
molto legati.»
Lo
stupore del Duca di Indekel minacciava di essere per Adikan il
proverbiale fiocco di neve che dà inizio alla valanga,
ricordandogli
per l'ennesima volta quanto quel rapporto favorisse Galoth nella
lotta per la successione al seggio del Sirenmat.
«Sono
più che legati. Se potessero si entrerebbero sottopelle l'un
l'altro.»
L'espressione
del Duca Herrat si mutò in una maschera d'orrore. Agorwal,
al
contrario, lo fissò soltanto, a lungo e in silenzio: era uno
sguardo
freddo, giudice, carico della pesantezza di un'accusa mai pronunciata
ad alta voce eppure mai messa da parte. Adikan sorrise, senza
sforzarsi di nascondere nella soddisfazione per la propria
impunità
un'implicita ammissione di colpevolezza.
Nessuno
parlò per qualche tempo e ad Adikan parve che l'ombra delle
montagne
approfittasse del silenzio per colmare il passo con le tenebre
dell'imbrunire.
«Vado a
dare la notizia ai miei ufficiali. Vedrò cosa posso fare per
il
signore di Chilt lungo la strada.»
Il Duca
li lasciò senza aggiungere altro, senza un cenno
né un'indicazione
di quando sarebbe tornato, e Adikan rimase da solo con Agorwal, ad
aspettare che l'espressione di condanna con cui lo guardava andasse a
sedimentarsi nel suo algido biasimo.
«Perché
ami così poco tuo fratello, Adikan?»
La
domanda lo colse alla sprovvista; nessuno l'aveva mai posta prima e
la possibilità che qualcuno potesse non conoscere da
sé la risposta
gli parve ridicola, quasi come l'idea di dover giustificare la
propria incapacità di provare affetto per Galoth. Non lo
amava
perché non vi era nulla da amare in lui, non vi era mai
stato; il
bambino che aveva ricevuto un nome solo quando tutti avevano imparato
a non parlare di lui aveva distrutto la sua famiglia, il ragazzo che
infrangeva tutte le regole senza curarsi delle conseguenze gli aveva
rubato anche le briciole dell'amore di suo padre, il giovane uomo
adorato dall'esercito e innamorato della sua promessa sposa era
sempre a un passo dal rubargli quanto era suo di diritto. Solo degli
stupidi avrebbero potuto amare Galoth, ma il mondo, Adikan aveva
dovuto constatarlo amaramente sin dalla prima infanzia, era popolato
da stolti.
«La
vera domanda è perché voi tutti lo adoriate
così tanto.»
Agorwal
non gli rispose, ma Adikan non se ne curò, lasciando che i
rumori
dell'esercito in marcia nella notte si infiltrassero nel silenzio
teso e ostile che era sceso fra loro.
Circa
i dubbi che possono sorgere sulla fattibilità della cosa
rimando a http://www.youtube.com/watch?v=h9tbGARJZVk&list=PLf9cuGUmFBZHd25v0br98JrsmdEuesHc9
da 0:54 in poi.
Note dell'autrice:
Come avevo anticipato ad alcuni il contest a cui questa storia
partecipa obbligava a "partire dalla fine" quindi siamo tornati
indietro nel tempo rispetto al prologo. Spero che la cosa non vi
destabilizzi troppo.
Ho inserito delle note, nonostante sia di solito contraria.
Perché? La prima nota l'ho inserita perchè avevo
già usato le lame come misure di lunghezza e ho pensato di
esplicitare e non esiste un modo per paragonare ques'unità
di misura al sistema metrico decimale all'interno della storia
perchè all'interno della storia il sistema metrico decimale
non esiste! La seconda ha lo scopo di documentare il fatto che non sto
"sparando in alto" e anche condividere le figate che possono fare
alcuni rievocatori storici.
Ho fatto io anche questo banner: ho dovuto fondere due immagini
(perchè quella che sarebbe stata perfetta aveva un grande
carro a vapore rosso al centro e dell'esercito in marcia che rovinava
tutto). ed è stato faticoso.Non sono riuscita ad aggiungere
una luce ambrata, quindi questo è l'imbrunire che abbiamo
verso la fine del racconto e non il tramonto con cui inizia. Abbiate
pietà e ditemi che è bello!
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Capitolo 3 *** Agorwal ***
Agorwal
La
schiena di Agorwal doleva per la lunga cavalcata e il gelo della
notte si insinuava sotto le vesti di lana senza che le sue pesanti
pellicce potessero fare alcunché per impedirlo.
La sua
tenda era stata montata da tempo ma, per quanto non bramasse nulla
più ardentemente del proprio giaciglio, non avrebbe potuto
esimersi
dal coordinare l'acquartieramento senza venir meno al proprio dovere.
Era un onere stancante, ma gli apparteneva: era nella sua carne e
nelle sue ossa, nella lunga catena di sangue e antenati che risaliva
fino ad Hannekin, primo Duca di Bongarten.
Nelle
faticose settimane di marce dopo il tramonto gli uomini si erano
lentamente abituati a montare il campo nell'oscurità,
imparando a
portare avanti quel compito difficile e fastidioso con l'efficienza
rapida e scontrosa della stanchezza.
Quella
notte, tuttavia, vi era una tensione diversa nell'aria, una vibrante
aspettativa che saturava persino il cielo terso fino a inghiottire la
pallida lama di luna calante; non era stato diramato l'ordine di
marcia per il giorno successivo e gli uomini si riportavano a vicenda
che il comandante Adikan aveva convocato un consiglio di guerra con
sussurri che sembravano salire fino alle stelle.
Agorwal
levò gli occhi agli astri e non poté che trovare
appropriato il
modo in cui la luna rendeva difficile scorgere il Pozzo, domandosi,
nel contempo, cosa l'Arpista bisbigliasse al Re Folle per attirarlo
verso la sua morte da affogato, cosa offrissero i suoi cantilenanti
mormorii, se amore, gloria o la corona dei re della terra. Era stata
la sua storia preferita da bambino: ora ricordava solamente come,
dopo averla raccontata, sua madre lo ammonisse che ogni uomo
è Re
Folle, Arpista e Pozzo di se stesso.
La voce
di Adikan lo raggiunse, trasportata da un refolo freddo di vento
montano e, per un istante, non poté fare a meno di chiedersi
che
cosa scorgesse sul fondo del pozzo il suo futuro cognato, né
esimersi dal temere che, per afferrare quel qualcosa, li avrebbe
trascinati sul fondo con sé facendo silenzioso appello alle
catene
dell'onore e del dovere.
Si erano
spinti troppo a Nord, troppo a fondo nelle terre delle tribù
barbare: il Passo delle Partenze era miglia e miglia di marcia
invernale alle loro spalle, il Monte Renf un elemento del paesaggio
per chi desiderasse volgere lo sguardo verso casa, e quella
consapevolezza gli raffreddava le ossa più impietosamente di
qualsiasi gelata notturna. Era il tragitto di Hartaigen di Usen, la
linea delle sue incredibili vittorie, un percorso riconoscibile a tal
punto che Agorwal non poté esimersi dal sospettare per
l'ennesima
volta che tutte le argomentazioni pacate con cui Adikan esponeva il
proprio piano non fossero che bugie formulate con cura per nascondere
di stare inseguendo una leggenda.
«Mio
signore, il comandante in capo chiede il piacere della vostra
compagnia per cena.»
Come
tutti gli uomini Agorwal non amava essere distolto dalle proprie
considerazioni ad opera di un ragazzino, nonostante ciò
reputava che
la buona educazione non consistesse nella capacità di
formulare
frasi di rito, simili a quella che Adikan aveva posto in bocca a
quell'undicenne intirizzito, ma in una disposizione d'animo quanto
più possibile benevola, così sorrise al giovane
scudiero.
«Non
credo di conoscere il tuo nome.»
«Rogic
di Colan, mio signore.»
Era un
ragazzo stanco, con grandi occhi azzurri così palesemente
turbati
dall'agitazione febbrile di quel campo nel cuore del territorio
nemico che Agorwal gli posò una mano sulla spalla con fare
rassicurante.
«Il
figlio del signore di Colan. Devi essere molto onorato di servire
Adikan in persona.»
«Il
comandante è molto gentile.»
Rogic
gli sorrise con cautela, un disagio palpabile a impregnargli
l'espressione di malessere. Agorwal riconobbe la bugia per quella che
era, poiché Adikan si comportava sempre in modo
perfettamente
cortese, ma non riusciva a ricordare che fosse mai stato, in tutta la
sua vita, gentile. Sospirò pesantemente, domandosi con
amarezza
perché sua sorella non sembrasse in grado di vedere la
differenza.
«Ne
sono certo.»
«Cosa
devo riferire al comandate?»
Agorwal
vi pensò per un istante, prima di dare una pacca benevola
alla
guancia di Rogic in un gesto che gli era stato familiare quando
Galoth era ancora lo scudiero di suo padre.
«Niente.»
«Niente?»
Lo
sbalordimento che travolse il viso pallido di Rogic gli
strappò una
risata pur nel mezzo della sua irritazione verso Adikan.
«Assolutamente
niente. Ho sentito la voce del comandante giusto un secondo fa, non
può che essere molto vicino; non ho intenzione di farti
congelare
per nulla. Va' nella mia tenda, piuttosto, il mio scudiero ha la tua
età, bevete pure il vino che i servi staranno scaldando per
me.
Parlerò con Adikan di persona.»
Attese
che il ragazzo si congedasse prima di allontanarsi con passi decisi,
rassegnandosi a rimandare ulteriormente il momento della pace e del
riposo.
La voce
di Adikan non era difficile da seguire: chiara e limpida, risuonava
nell'aria come la sferzata di una frusta di raso, sempre pronta a
suggerire lasciando intendere di ordinare, a commentare celando
appena di schernire. Un giorno quella voce sprezzante avrebbe
promesso di avere eterna cura di Margareth e lui sarebbe dovuto
restare a guardare, gridando i loro nomi sotto una cascata di petali
bianchi, ricordando la distaccata indifferenza con cui Adikan gli
aveva risposto fra turbinanti fiocchi di neve: “me ne sono
scordato, ho dato precedenza a tua sorella”.
La
pronuncia perfetta con cui aveva scandito la propria menzogna aveva
lasciato nelle sue orecchie un eco impossibile da scacciare e, ogni
qual volta Adikan proferiva verbo, Agorwal udiva lo spettro di quelle
parole richiamargli alla mente il pomeriggio di fine inverno in cui
aveva cavalcato a perdifiato nei boschi per trovare Galoth prima che
morisse da solo nella tormenta imminente.
Lo aveva
raggiunto lontano dal punto dove la giumenta su cui stava cavalcando
con Margareth si era azzoppata, lontano anche dal bivio dove Adikan
era arrivato in soccorso della promessa sposa, lasciando il proprio
fratello in balia del destino. L'orrore che aveva provato nel
constatare che Galoth aveva continuato a camminare con ostinazione,
quasi non si aspettasse che suo fratello mandasse qualcuno a
prenderlo, aveva messo radici profonde nel suo cuore.
Adikan
lo sapeva e in ogni sguardo, anche in quello che gli lanciò
in quel
momento, voltandosi verso di lui nella notte, vi era la fredda
consapevolezza dell'accusa silenziosa che Agorwal gli muoveva da
allora.
«Vedo
che il mio messo ti ha raggiunto.»
Molte
fanciulle trovavano affascinante il sorriso composto di Adikan, ma ad
Agorwal pareva sempre di vedere un'ombra di disprezzo nella piega
tagliente delle sue labbra sottili, un'alterigia compassata nell'arco
perfetto delle sue sopracciglia bionde.
«Mi ha
riferito il tuo messaggio. Ho già cenato, ma sono
qui.»
«Molto
bene.»
L'attendente
che portava la lampada parve stupirsi tanto del suo rifiuto quanto
della risposta indifferente che aveva ricevuto; non aveva ancora
imparato, probabilmente, che gli inviti di Adikan non erano che una
sofisticata forma di convocazione.
«Ho
sentito dire che il morale dei soldati di Bongarten è
basso.»
Agorwal
sospirò, perché corrispondeva al vero solo in
parte e l'umore degli
uomini di Bongarten non era peggiore di quello del resto
dell'esercito.
«Sono
stanchi e preoccupati: marciano fino a tarda notte, il rigore
dell'inverno non si è ancora temperato e non hanno
ingaggiato
battaglia neppure una volta, sebbene siano penetrati a fondo nel
territorio nemico.»
Non
aggiunse che il Conte non era con loro o che prendevano ordini da un
uomo che non conoscevano e che non faceva niente per farsi amare o
stimare. Sospettava che almeno una parte di Adikan lo sapesse
già e
che il cipiglio rancoroso con cui guardava i suoi sottoposti
affaccendarsi nella notte non fosse che la più trascurabile
manifestazione di quella consapevolezza.
«Immagino
sia stato spiegato loro che ci stiamo inoltrando nella Regione delle
Valli per sconfiggere le tribù tenendole separate una
dall'altra.»
Se fosse
appartenuta a un uomo dotato di maggior autoironia, Agorwal avrebbe
motteggiato l'ingenuità con cui Adikan supponeva i soldati
venissero
messi a parte delle sue risoluzioni strategiche. Non che non li
sentisse, di tanto in tanto, avanzare supposizioni in merito: aveva
imparato, tuttavia, che simili speculazioni non erano che il
segnale di un dubbio serpeggiante e di una sfiducia mal celata.
«Sentono
solo che la battaglia si avvicina e, dopo tante difficoltà,
hanno
paura di morire lontano da casa.»
Era una
verità banale eppure terribile e gli parve che il solo
pronunciarla
rendesse lo spettro della morte più vicino di qualche passo,
riempiendo l'aria di un silenzio incombente, capace di inghiottire
tutti gli schiamazzi emessi per esorcizzarlo.
Adikan
scostò con fastidio una ciocca di capelli biondi che il
vento gli
aveva portato davanti agli occhi e in quelle iridi celesti come il
cielo primaverile Agorwal non riuscì a cogliere la
comprensione e
l'empatia per la fragilità umana che sperava di generare con
la
propria affermazione.
«Pensavo
fossero dei guerrieri.»
Sospirò
involontariamente prima di rispondere, domandosi che immagine
distorta avesse Adikan di coloro che erano costretti a seguirlo.
«Un
guerriero è solo un uomo con una spada.»
«Un
uomo o un bambino?»
La
domanda implicava una tale dogmatica certezza della propria idea di
coraggio e di virilità che Agorwal reputò fosse
inutile replicare,
la risposta, tuttavia, gli scivolò dalle labbra
involontariamente,
andando a formare una nuvola biancastra e umida dinnanzi al suo
volto.
«Di
fronte alla morte abbiamo tutti sette anni.»
Aveva
visto veterani temprati da mille scontri invocare piangendo la
propria madre nell'inutile tentativo di riportare le interiora nella
loro sede naturale, assassini cinici e incuranti implorare la
pietà
del boia e, persino negli occhi vitrei di coloro che aveva ucciso,
gli era stato impossibile ignorare il riflesso sbiadito della paura
della fine, il desiderio inesaudito di protendersi ancora verso
l'amore e verso la vita.
«Cerca
di farli crescere fino a raggiungere almeno gli undici,
così potremo portarli in battaglia.
Vuoi?»
Un
giorno Adikan avrebbe risposto con quel sarcasmo inquinato di
disprezzo a una persona che non aveva giurato fedeltà alla
casa di
suo padre e Agorwal non sapeva se pregare per l'allontanarsi o
l'avvicinarsi di quella circostanza.
Non si
degnò di rispondere alla sua provocazione, poiché
era troppo stanco
per parole che non avrebbero avuto alcuna utilità,
così lo fissò
soltanto, domandosi per l'ennesima volta come la superba bellezza del
suo viso e dei suoi modi freddamente cortesi impedissero a sua
sorella di vedere che genere di uomo fosse in realtà.
Adikan
lo fissò a sua volta, una sgradevole espressione di
superiorità
dipinta sul volto, e Agorwal fu tentato di chiedergli che cosa
vedesse prima di accorgersi, non per la prima volta, che non gli
importava.
«C'è
altro o posso andarmene? Sono stanco.»
Venne
congedato con un cenno impercettibile del capo: fu lieto di non dover
sopportare nessuna formula di cortesia e ancor più lieto di
dare le
spalle ad Adikan allontanandosi a grandi passi nella notte verso i
propri uomini, la propria tenda e il proprio riposo.
Note dell'autrice:
in effetti non so bene cosa dire, per cui mi
limito a ringraziare lettori e soprattutto i recensori.
Il banner non è esattamente quello che avrei voluto (e si
allontana dallo stile degli altri due), ma non so cosa farci.
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Capitolo 4 *** Herrat ***
Herrat
Herrat
di Indekel era noto tanto per la propria fredda pazienza quanto per
la distaccata ferocia con cui la perdeva; l'una e l'altra cosa,
tuttavia, erano in quel momento messe a dura prova dall'ottusa
arroganza con la quale il figlio del suo signore rifiutava di
ascoltare qualsiasi suggerimento dotato di buon senso.
«Non
sono certo che attaccare sia la scelta migliore.»
Il
Marchese di Daror aveva la voce noiosa della ragionevolezza e nel suo
tono pacato vi era il suono del vento soffiato attraverso i suoi
cinquantasette inverni e l'eco della morte dei suoi tre figli. Nei
suoi occhi si leggeva un'accettazione stanca della guerra, scevra di
ogni magnificenza e di ogni amore per la gloria.
Adikan
lo ascoltava con cortese ostilità, tenendo le sue delicate
mani da
signorina giunte sul tavolo.
«Credevo
che lo scopo di questa spedizione fosse, e mi scuso se lo
ripeterò
ancora una volta, sconfiggere le tribù nemiche
singolarmente.
Abbiamo per caso deciso di aspettare che formino l'esercito per
sconfinare ancora?»
I più
giovani fra i presenti annuirono: il figlio del signore di Chilt, il
signore di Feder, il figlio del Marchese di Rearder, tutti
condividevano con Adikan il desiderio di riempirsi di gloria e la
sciocca convinzione che le cose non potessero che risolversi in loro
favore. Herrat sospirò: la strategia che Adikan insisteva a
portare
avanti non era neppure sciocca, ma funzionava solo sulla carta e i
suoi sostenitori parevano incapaci di rendersi conto di non essere i
soli partecipanti intenti al gioco antico della guerra.
«Gli
esploratori riportano, mi ripeterò anch'io per essere certo
che la
nozione non vada perduta, che tre delle
più grandi tribù
nemiche sono state avvistate precederci lungo la strada che porta a
nord.»
Adikan
si voltò verso di lui, spostando i gomiti sui braccioli del
proprio
seggio pieghevole e i lineamenti regolari del suo volto vennero
tagliati da un sorriso costipato che tratteneva chissà quale
maledizione o insulto.
«Siamo
ancora in superiorità numerica rispetto a un nemico che non
conosce
la nostra posizione ed è intralciato da carriaggi, donne e
bambini.»
«Personalmente
credo che qualsiasi decisione sia prematura fino al ritorno di tutti
gli esploratori. Se altri gruppi nemici stessero convergendo in
questa direzione, ci verremmo a trovare in una posizione
sgradevole.»
Herrat
era arrivato ad ammirare la calma controllata con cui Agorwal cercava
di prendere in considerazione tutti i lati di un problema prima di
decidere come risolverlo, era un'attitudine adatta a un generale ed
era solo un peccato che questa mancasse in entrambi i figli del loro
signore.
«Non mi
risulta che l'attesa abbia mai arriso a nessuno in guerra. Mi
è
stato ordinato di sconfiggere e punire questi barbari e intendo
farlo. Questo consiglio è stato convocato per delineare una
strategia d'attacco, non per discutere dell'opportunità
dell'attacco
stesso.»
Herrat
si ricordò di respirare profondamente, immettere nel proprio
petto
l'aria ancora fresca e rigettarla all'esterno lasciando che portasse
con sé parte del calore della propria indignazione. Si
guardò
intorno, scrutando i volti della nobiltà radunata in
quell'ampia
tenda scaldata dai bracieri, e vide nelle espressioni di quelli che
più stimava la sua stessa cupa preoccupazione.
Quando
Adikan si alzò per dispiegare la carta sul tavolo, Herrat lo
interruppe.
«Come
mai vostro fratello non è qui?»
Non che
amasse particolarmente il minore degli Usen: se Adikan era
un'arrogante privo di una spina dorsale diversa dalla scopa che aveva
sicuramente inghiottito da bambino, Galoth non era che un
irresponsabile con una particolare predisposizione alla violenza e
all'insubordinazione; aveva, tuttavia, il vantaggio di non credersi
uno stratega e di ascoltare, seppur senza un vero interesse, i
consigli di coloro che avevano più esperienza di lui
All'udire
la domanda l'espressione formale sul volto di Adikan perse anche
l'ultima finzione di calore.
«Non lo
so. Non sono il suo custode.»
Qualcuno
dei più giovani fra i presenti iniziò a
ridacchiare, perché
sospettavano tutti fin troppo bene i motivi del suo ritardo:
probabilmente dormiva ancora, in una tenda che non era la sua, con
una donna che gli apparteneva ancor meno.
Note dell'autrice: Sono
consapevole del fatto che questo capitolo è abbastanza
corto, il più corto della storia se non vogliamo contare
prologo ed epilogo che per con me sono corti per definizione. Si tratta
anche, se mi si permette di dirlo, del capitolo che mi è
piaciuto meno scrivere. Non che il Duca di Indekel non mi piaccia, ma
non sono una grande amante dell'aspetto militare delle storie fantasy.
Trovarmi a dover esplorare questo aspetto è stato
estremamente difficile per me. Ho cercato di creare una situazione che
fosse quanto più possibile sensata, rifuggendo da soluzioni
scenografiche ma improbabili e questo capitolo è importante
proprio perchè inizia a mettere basi sensate per la
battaglia.
Personalmente non ho mai creduto nelle spiegazioni strategiche durante
le battaglie, ma ho un moroso abbastanza esigente dal punto di vista
dell'amore per il lato bellico delle storie da sapere che alcuni
lettori credono tali spiegazioni vadano almeno accenate: e quindi
eccoci qui, con un capitolo che inizia a spiegare come vadano le cose
dal punto di vista del personaggio forse emotivamente meno coinvolto di
tutti in quel che accade.
Poichè questo capitolo è tanto breve, vi anticipo
da subito che il prossimo sarà piuttosto corposo e che
cercherò di pubblicarlo prima della consueta settimana di
pausa, non appena avrò riscontro da parte di coloro che di
solito me ne danno (quindi non è un ricatto) del fatto che
questo sia stato letto. Tanto per non lasciarvi nè con un
capitolo piccolo, nè con un muro di testo senza
pietà.
Ovviamente le mani nere nel banner sono guantate. Non avete idea di
quanto sia stato faticoso trovare un'immagine di mani sulla carta.
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Capitolo 5 *** Galoth ***
Galoth
Non
furono tanto la luce più intensa e lo spiffero gelido che si
erano
insinuati nella tenda a svegliarlo, né l'agitarsi improvviso
dei
corpi avviluppati al suo: fu la voce.
«Mio
signore?»
Mio
signore era suo padre e, nella confusione del passaggio dal
sonno
alla veglia, fu pervaso dal terrore infantile che si fosse
precipitato nelle sue stanze per punirlo. Quando ricordò di
non
essere più un bambino e di trovarsi miglia e miglia lontano
dal
castello di Usen, si stiracchiò ridendo di se stesso,
voltandosi
sonnolento per accomodarsi meglio nell'abbraccio delle due donne che
emanavano un piacevole calore sotto le coltri di pelliccia.
«Mio
signore.»
Era
una voce di ragazzo e l'urgenza intimorita che vi vibrava si
insinuò
nel beato torpore delle sue membra, simile a un memento di tutte le
cose sgradevoli del mondo.
«Mio
signore!»
Una
delle prostitute rise e prese a mordicchiargli un orecchio,
strusciandosi contro di lui, l'altra gli posò una mano sul
ventre e
ripeté l'invocazione del ragazzo modulandola in un gemito
osceno.
Se solo l'intruso se ne fosse andato sarebbe stato un risveglio
piacevole, ma quando questi lo chiamò di nuovo, con tono
imbarazzato
e supplichevole, Galoth aprì gli occhi e si levò
a sedere.
Rogic
era immobile all'ingresso della tenda, una statua di disagio e
incertezza che si torceva le mani senza accorgersene, cercando,
probabilmente, di guardare altrove senza riuscirvi davvero.
«Come
sei carino, con quel faccino appuntito e rosso! Verrebbe da riempirti
di baci.»
Galoth
pizzicò scherzosamente il fianco della donna alla sua
destra,
punendola per quel commento indelicato e ne ignorò le
lamentele solo
falsamente indispettite. Rogic iniziò a balbettare.
«Prendi
un bel respiro, ignora le signore, e dimmi cosa
c'è.»
Eseguì
il primo ordine, fallì clamorosamente nel secondo e
sussurrò
rapidamente una frase che conteneva sicuramente le parole
“fratello”,
“presentarsi” e “consiglio”.
«Di
quanto sono in ritardo?»
Rogic
parve a tal punto sollevato dal fatto di aver ottenuto la sua
attenzione che riuscì persino a reprimere parte del proprio
imbarazzo e parlare chiaramente
«Circa
due ore.»
L'imprecazione
che gli sfuggì dalle labbra fece ridere le donne e spostare
nervosamente il peso da un piede all'altro a Rogic. Galoth
ignorò
entrambe le cose, già proiettato verso gli infiniti sguardi
di
rimprovero e disprezzo che gli sarebbe valso quel ritardo: si
presentò chiara alla sua mente la disapprovazione del Duca
di
Indekel, la stanca esasperazione di Agorwal e il disgusto oltraggiato
con cui Adikan lo guardava sin da quando aveva memoria. Suo padre
l'avrebbe frustato fino a farlo svenire, ma suo padre non c'era e il
pensiero lo riempì di sollievo e di ribrezzo per quel
sollievo al
punto che fu tentato di scivolare nuovamente sotto le coperte e
dormire per vent'anni. Dubitava, tuttavia, che si sarebbe svegliato
più vecchio, più saggio o più felice,
così scacciò quel
desiderio di letargo e affrontò il problema con
rassegnazione.
«Riferisci
ad Adikan che sto arrivando e ordina a qualcuno di portarmi
dell'acqua e dei vestiti puliti. Grazie.»
Chiuse
gli occhi e si passò una mano fra i capelli, cercando di
placare
l'insorgere del cattivo umore che lo prendeva ogni qualvolta doveva
interagire con suo fratello. Non si erano mai amati e, da quando
Adikan si era fidanzato con Margareth, Galoth non riusciva neppure a
pensare ai loro nomi senza bramare di essere a mille miglia di
distanza da entrambi; sapere, poi, che Adikan la sposava per il nome
e l'appoggio di suo padre, gli provocava una collera continua e
logorante come un dolore alle ossa. Reprimere quel sentimento gli
richiese fatica, così che quasi non si accorse che Rogic
aveva
ripreso a balbettare.
«Che
cosa?»
«Il
comandante richiede la vostra presenza immediatamente.»
Vide
il maledetto volto perfetto di suo fratello atteggiarsi in
un'espressione imperiosa, mentre scandiva quella parola con la sua
dizione impeccabile, e pensare al suo aspetto da principe delle fiabe
fu come soffiare sulle braci della sua rabbia inestinguibile.
Fece
per alzarsi ma le prostitute protestarono vibratamente contro l'idea
che se andasse, lagnandosi con insopportabili vocette stridule,
cercando di trattenerlo con le loro mani prive di pudore e Galoth
dovette controllare la sua ira montante, stringere i pugni lottando
contro il desiderio di percuoterle. Sentì i propri
lineamenti
deformarsi in una smorfia ferina e vide lo sgomento sul volto di
Rogic quando ne incontrò lo sguardo.
«Mio
signore?»
Mio
signore era suo padre e Galoth gli somigliava al punto di
avere
paura di se stesso. Si costrinse a sorridere e respirare.
«Immediatamente
dice e immediatamente avrà.»
Si
levò a sedere di scatto, infilò sbrigativamente
gli stivali ma non
i calzoni, afferrò il sorcotto
di lana e lo indossò con noncuranza sulla pelle nuda, diede
una
pacca sulla spalla di Rogic e uscì dalla tenda.
Corse,
inspirando grandi boccate d'aria gelida, lasciando che ferissero i
suoi polmoni e lo distraessero dalla sua rabbia rovente. I soldati lo
salutarono, ridendo al suo passaggio, gridando commenti salaci sul
suo ritardo e la sua nudità, battendo le mani e
indicandoselo fra
loro. Galoth rispose a tono a quel motteggio affettuoso, facendo
gesti osceni e sollevando la tunica per mostrare le natiche. Rise e
nella risata ritrovò quella parte amabile di sé
di cui non era
necessario avere timore. Quando entrò nella tenda del
consiglio lo
fece con il sorriso sulle labbra.
Lo
fissarono tutti e Galoth sfidò le loro espressioni
sbalordite e
infastidite con uno sguardo beffardo: qualcuno cercò di
soffocare
una risata, Agorwal scosse la testa come se avesse rinunciato da
tempo a vederlo agire per il proprio bene e Adikan, in piedi a
capotavola, rimase paralizzato in una sbalordita offesa per la sua
parziale nudità. Non poté fare a meno di
rivolgergli un plateale
inchino.
«Il
tuo messo ha detto immediatamente.»
Hedur
di Feder e Maer di Rearder non riuscirono a trattenere uno scoppio di
ilarità e Adikan si voltò verso di loro in una
reprimenda
silenziosa quanto inutile. Galoth ne approfittò per prendere
il
posto alla sua destra che gli spettava di diritto e attese, senza
troppa pazienza, di essere ragguagliato. Non pose domande; i volti
dei presenti, tuttavia, gli dissero che era in corso una discussione.
Cercò una risposta da Agorwal, seduto pesantemente al suo
fianco, ma
questi si limitò a indicargli con un gesto il tavolo
dinnanzi a
loro. Solo allora Galoth prestò attenzione alla carta, che
pure era
stata dispiegata sul desco fin dal suo ingresso. Osservò la
disposizione delle forze, le pedine di legno intagliato che stavano
per i barbari e quelle che stavano per le truppe comitali. Quando,
levando il capo, incrociò lo sguardo con il Duca di Indekel,
la
frustrazione esasperata che irruppe sotto l'impassibile durezza del
suo viso non gli promise nulla di buono.
«Ti
ringraziamo tutti per esserti degnato di unirti a noi. Come vedi ti
ho assegnato all'ala sinistra.»
Per
diritto di nascita non avrebbe dovuto “essere assegnato
all'ala
sinistra” ma averne il comando, oppure rimanere ai diretti
ordini
di Adikan: era un'offesa che tutti i presenti non avrebbero potuto
fare a meno di notare, ma Galoth non se ne curò, sollevato
dal fatto
di combattere sotto l'esperta guida del Duca Herrat. Adikan
proseguì,
illustrando brevemente la tattica che intendeva utilizzare, spostando
le pedine sulla mappa con le sue mani aggraziate, esponendo il suo
piano con sicurezza, come fosse certo che nessuno avesse delle
obiezioni da muovere. Il tamburellare delle sue dita, tuttavia, unito
alla tensione crescente del Duca diceva diversamente.
«Non
entreranno in rotta.»
Le
dita affusolate di Adikan ebbero un tremito di fastidio e, posando il
pedone che rappresentava la Tribù del Puma, lo strinse con
forza
nervosa. Non replicò al Duca di Indekel, lasciandolo
attendere una
risposta mentre la tenda si riempiva di un silenzio gravido di
disagio.
«Non
potete basare la vostra strategia sulla speranza che il nemico vada
in rotta.»
Era
una considerazione sensata, naturalmente, come lo erano tutte quelle
che venivano proferite dalla voce secca del Duca Herrat, ma taceva la
verità più importante, quella a cui tutti stavano
pensando tanto
intensamente che se ne poteva quasi udire l'eco nell'aria. Galoth la
snocciolò senza pensarci troppo.
«I
barbari non si ritirano mai.»
Adikan
gli rise in faccia, uno scherno feroce e quasi infantile, che non
condivise nessuno.
«E
cos'altro, Galoth? Le Donne Sole
possono esaudire qualsiasi desiderio?»
Galoth
respirò profondamente e si costrinse a sorridere, notando
con la
coda dell'occhio come il Duca di Indekel osservasse suo fratello con
la severità scandalizzata che si riserva a un fanciullo
particolarmente sciocco e maleducato.
«Forse,
non lo so. Quello che so è che i barbari non
fuggono.»
Era un
dato di fatto che conoscevano persino i bambini: coloro che gettavano
lo scudo per avere salva la vita venivano esiliati dal proprio popolo
nel corpo e nella memoria, cancellati dalla linea degli antenati, la
loro esistenza veniva disconosciuta persino dalle loro madri.
Lasciati a vagare soli per montagne, morivano solo per giacere
insepolti, esclusi dal divenire tutt'uno con la pira dei propri avi,
spiriti tormentati, prigionieri di un corpo che marciva. A lui era
sempre parsa un'immagine angosciante e terribile, più che
sufficiente a spingere un uomo a combattere fino alla morte. Che
Adikan non la credesse reale e potesse farsene beffe lo
lasciò
interdetto e stupito.
Cercò
il supporto del Duca, ma quello continuava a fissare Adikan,
imperturbabile, insondabile e giudice come la statua di un antico
imperatore.
«Sei
uno sciocco, fratello.»
Lo
disse con una sicurezza che sconfinava di molto nell'arroganza, i
suoi splendidi occhi azzurri rifulgenti per la gioia datagli
dall'insultarlo dinnanzi a metà della nobiltà
guerriera del
Sirenmat. Si guardarono in volto in silenzio per un istante,
lasciando trapelare sotto un'espressione composta l'odio fedele e
appassionato che provavano l'uno per l'altro.
«Avete
mai visto o udito di una battaglia in cui un clan o una
tribù abbia
rotto le linee e si sia data alla fuga?»
La
voce del Duca interruppe il loro scambio di sguardi, le parole
scandite con lentezza a voce bassa, simili a quelle con cui i
sacerdoti chiedevano ai fedeli di confessare la propria ignoranza dei
disegni divini.
Vi era
riuscito soltanto un uomo, anche questa era una cosa che sapevano
persino i bambini, un uomo che si diceva avesse fatto un patto con
una Donna Sola.
«Hartaigen
li mise in rotta.»
Galoth
rievocò senza volere l'immagine del proprio antenato: un
ritratto
dagli occhi azzurri e lo sguardo oscuro che sembrava sempre sul punto
di aprire bocca per rivelare una verità sgradevole. Il
sorriso
storto e freddo che segnava quel volto virile l'aveva affascinato e
inquietato insieme durante l'infanzia, così come la sua
storia. Una
storia gloriosa e crudele, fatta di sangue e di grandezza.
«Lo
ha fatto. Fu il più grande trionfo mai ottenuto da un
generale del
Sirenmat.»
Adikan
sorrise nel sentirgli confermare la sua vittoria sul Duca Herrat e
Galoth confrontò il malizioso autocompiacimento di Adikan
con la
spietata determinazione del ritratto che entrambi avevano osservato
da bambini.
«Ma
tu non sei Hartaigen il Fratricida, Adikan. Anche se ti
piacerebbe.»
Non
era stata sua intenzione pronunciare quella frase con tanta
gravità
o calcare sulla parola fratricida con tanta
acredine, ma nel
proferirla aveva sentito in bocca il sapore aspro di una camminata
disperata nella tempesta.
Agorwal,
alla sua sinistra, emise una specie di sospiro strozzato e l'intero
consiglio parve, per la prima volta, avvertire sino in fondo
l'intenso disamore che correva fra lui e Adikan.
Suo
fratello non ebbe alcuna reazione; sorrise, anzi, in modo ancor
più
malevolo, allungando una mano verso di lui. Gli afferrò una
ciocca
di capelli e la tirò in un gesto che sarebbe potuto sembrare
affettuoso se solo avesse avuto per protagonisti un'altra coppia di
fratelli, se solo i capelli neri di Galoth non fossero stati il
motivo principale per cui suo padre aveva dubitato della sua
legittimità quando era nato, se solo Adikan non lo avesse
dileggiato
in modo simile fino a quando lui non lo aveva superato in altezza.
«Hai
ragione. Non potrei mai farti del male, nostra madre non mi
perdonerebbe.»
Tutta
la rabbia che era riuscito a fatica a disperdere nella corsa
tornò a
infiammargli le vene. Strinse i pugni e si impose disperatamente di
non trasecolare. Provò a respirare profondamente,
costringendosi a
non fare il gioco di suo fratello: a non pensare a come sua madre lo
odiasse per i dubbi che aveva fatto nascere su di lei mentre adorava
Adikan con la devozione accanita di chi non abbia al mondo altro da
amare.
«Così
come nostro padre mi farebbe uccidere se io facessi del male
te.»
Enunciò
quella menzogna con la poca calma che gli rimaneva, quasi la
preferenza che il Conte aveva per lui fosse una cosa degna di essere
ostentata. Non si era mai vantato prima di
allora della
predilezione che quel padre distante e violento aveva iniziato ad
accordargli solo quando, crescendo, gli si era rivelato simile
nell'aspetto e nei difetti, ma lo strattone energico che Adikan diede
ai suoi capelli gli fece capire di aver colto nel segno.
Suo
fratello, tuttavia, era sempre stato più bravo di lui a
mantenersi
impassibile e l'aveva sempre battuto in ogni schermaglia verbale,
così, quando vide accentuarsi quella smorfia sardonica che
Adikan
spacciava per un sorriso, Galoth seppe che non era affatto finita.
«Hai
ragione, i nostri genitori ne sarebbero oltremodo turbati. Per non
parlare di Margareth, sarebbe inconsolabile.»
Non
riuscì a rispondere, troppo impegnato a trattenere la
propria
collera dentro di sé anche solo per distinguere le parole
dell'ammonimento che Agorwal rivolse ad Adikan, troppo concentrato
sulla propria immobilità per guardare qualcosa oltre
all'odioso
volto di suo fratello.
Quando
gli tirò nuovamente i capelli, chinandosi sul suo orecchio,
Galoth
dovette stringere violentemente il bordo del tavolo per impedirsi di
picchiarlo.
«Anche
se sono certo che saresti ben lieto di provare a confortarla e nutro
il non piccolo sospetto che, sotto quella facciata sostenuta, lei non
desideri altro che un'occasione per farsi rincuorare
da te.»
Il
sussurro gli rimbombò nella mente, fuso con il furioso
digrignare
dei suoi denti, e gli si diffuse per il corpo in una dolorosa
tensione muscolare.
«Taci
o ti ammazzo.»
Adikan
bisbigliò la sua risposta sfiorandogli l'orecchio con le
labbra, un
mormorio talmente sottile che Galoth lo percepì sulla
propria pelle
più che udirlo.
«Sei
così protettivo con tutte le tue puttane?»
Lo
colpì prima di poter pensare, spingendolo indietro,
sbattendogli la
testa contro il tavolo con furia animalesca. Lo percosse, stringendo
la sua gola nella mano sinistra, il suono dell'impatto fra il suo
pugno e la faccia di Adikan il più infervorante e armonico
che
avesse mai udito. Percepì le grida degli astanti senza
sentirle
davvero: ogni sensazione, sentimento, pensiero sommerso e travolto
dalla piena inarrestabile della sua violenza. Cercarono di fermarlo,
ma, posseduto com'era dal furore accecante della rabbia, si
dimenò e
lottò freneticamente perché non gli impedissero
di provare la gioia
esaltante che sapeva gli sarebbe venuta dal fracassare la testa di
Adikan contro il legno.
Quando
la presa d'acciaio di Agorwal lo strappò definitivamente
dalla
sagoma rannicchiata sul tavolo che era suo fratello, Galoth
iniziò a
gridare.
«Ti
ammazzo, giuro che ti ammazzo, dovessi farmi strada attraverso un
esercito, giuro che ti squarto!»
Se
solo fosse riuscito a liberarsi, sapeva che l'avrebbe fatto.
«Galoth,
respira. Calmati.»
La
voce di Agorwal gli arrivava ovattata dal rombo frenetico dei battiti
ringhianti del proprio cuore, la sua ragionevolezza preoccupata
troppo lontana dalla rabbia profonda di cui era preda. Ripetuta come
un salmo, tuttavia, quella frase si fece lentamente strada dentro di
lui e riuscì a farlo smettere di opporsi alla presa con cui
Agorwal
lo imprigionava.
Adikan,
che era rimasto inerme e immobile sotto i suoi colpi, si
sollevò dal
tavolo, il volto livido e arrossato, la bocca e il naso sporchi di
sangue. Voltò i palmi verso l'alto in un gesto contenuto ma
enfatico, come sfidandolo a colpirlo ancora. La tenda si
riempì di
mormorii.
Se non
avesse avuto le labbra spaccate in più punti, Galoth era
certo che
Adikan avrebbe sorriso.
Solo
allora fu in grado di obbedire fino in fondo al comando che Agorwal
continuava a ripetergli. Respirò e si osservò
intorno, accorgendosi
di conoscere l'orrore con cui gli astanti lo fissavano: era la stessa
espressione che la gente riservava agli scatti d'ira di suo padre. Si
sentì morire.
Lo
guardavano tutti a quel modo. Tutti tranne il Duca di Indekel: il
Duca fissava Adikan.
Galoth
non sarebbe stato capace di dire a cosa stesse pensando, ma vi era un
disprezzo freddo in quello sguardo, un giudizio disgustato che
abbracciava tutto quello che i suoi occhi azzurri potevano vedere.
Quando si alzò con la lentezza solenne di una decisione
irrevocabile, gli astanti volsero il capo verso di lui: Galoth non
ricordava di aver mai visto un uomo tanto composto e regale come lo
era il Duca Herrat in quel momento.
«Non
metterò a rischio la vita dei miei soldati per i vostri
capricci
infantili e non andrò al massacro per gli sciocchi piani di
un
ragazzino.»
La
sorpresa di Agorwal fu tale che lo lasciò andare, ma Galoth
non
avrebbe saputo dove muoversi così rimase accanto a lui,
osservando
con sconcertato timore la sicurezza con la quale il Duca fece cenno
ai suoi vassalli di seguirlo e la sbigottita contrarietà con
cui suo
fratello tentò di non sembrare colto terribilmente alla
sprovvista.
«Il
Conte ne sarà informato.»
Il
Duca Herrat si diresse verso l'uscita senza darsi neppure pena di
rispondere.
«Possiamo
andare avanti ora?»
Adikan
tornò con noncuranza a rivolgere la propria attenzione alla
mappa,
fingendo che intorno a lui non imperversassero disordine e sgomento.
Si chinò sul tavolo come se non fosse accaduto nulla: i
pedoni che
segnavano le forze in campo erano mischiati in modo confuso e, quando
cercò di rimetterli in ordine, macchiò la carta
di sangue.
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Capitolo 6 *** Adikan ***
Adikan
Pur nella concitata
frenesia della battaglia, sudato e affaticato nella propria armatura,
gridando
ordini a squarciagola nel disperato tentativo di recuperare la
situazione,
Adikan aveva ancora fiato per maledire il Duca Herrat. Maledisse lui e
tutti i
suoi antenati, maledisse l'intera casata degli Indekel e la sua dimora
ancestrale, lanciò anatema sul loro motto e sull'elmo e il
corno del loro
vessillo; nessuna di quelle maledizioni, tuttavia, riuscì a
confortarlo mentre
i barbari sfondavano la prima linea, l'impatto fra i loro grandi scudi
e le
armi in asta un suono secco e definitivo come uno schiaffo.
Sbraitò perché
mandassero a chiamare le riserve, solo per accorgersi, cercando gli
stendardi
con lo sguardo, che erano avanzati troppo rispetto alle ali.
Imprecò,
osservando la massa disordinata e vociante di nemici che continuava ad
abbattersi sulle sue linee: sembravano spuntare dalla terra, energumeni
tatuati
dalle grandi asce e dai volti barbuti.
Nel chiamare le
staffette si domandò come Agorwal avesse potuto restare
indietro, lasciando il
suo fianco destro scoperto a quel punto; sospettò, persino,
che Galoth stesse
approfittando del comando dell'ala sinistra per fargli perdere la
battaglia:
non riusciva ad immaginare una situazione in cui l'animale bellicoso
che aveva
per fratello potesse essere trattenuto dal travolgere le fila
avversarie fino a
metterle in rotta.
Affidargli l'ala
sinistra era stato un errore: avrebbe dovuto fargli capitanare le prime
linee
del centro dove sarebbe stato sotto il suo controllo, avrebbe
incoraggiato gli
uomini, che lo amavano, e con un po' di fortuna sarebbe morto.
Il combattimento
nelle prime linee si era fatto disordinato e cruento e Adikan diede
ordine di
serrare le fila, mandando i corrieri a intimare ai comandanti delle due
ali di
spingere il nemico indietro e portarsi al pari con lui.
Il messo di Agorwal
arrivò in quel mentre, il cavallo stremato, il volto
stravolto e la voce rotta
dall'ansia.
«Mio signore, siamo
stati attaccati sul fianco destro. Sembra che il nemico abbia ricevuto
rinforzi
e stia portando avanti una manovra a tenaglia.»
Il volto della
staffetta rivelava una paura profonda e Adikan desiderò
impedirsi di
condividerla. Non aveva mai preso in considerazione di poter perdere:
quella
era la sua occasione per risplendere, per dimostrare a suo padre di
essere la
scelta giusta per la successione al seggio del Sirenmat; era
l'opportunità che
aspettava da tutta la vita e il pensiero che si trasformasse in
un'umiliazione
che avrebbe dovuto giustificare gli corrose lo stomaco.
La voce gli tremò di
rabbia quando diede ordine di iniziare un ripiegamento: era ingiusto e
il Duca
di Indekel avrebbe pagato per averlo tradito e abbandonato in
territorio ostile
insieme a una parte consistente delle sue forze, ma per il momento non
potevano
fare altro che indietreggiare, scampando alla trappola mortale che
rischiava di
chiudersi su di loro.
Il nemico attaccò
con più forza, una nuvola di giavellotti si
abbatté sugli uomini del Sirenmat e
le loro fila, scompaginate dalla morte, si infransero in una rotta
confusa e
sanguinolenta.
I barbari fluirono
nella breccia come una corrente impetuosa, fendendo il suo schieramento
come
burro. Quando li vide attaccare l'alfiere e le sue guardie, Adikan
spronò il
cavallo, cercando di raggiungerli in tempo e mettere in salvo la
bandiera prima
che fosse troppo tardi: arrivò abbastanza vicino da
distinguere le grida
infervorate dei barbari, ma stendardo e stendardiere caddero nel fango
prima
che lui potesse arrivare. Tutto si trasformò in una fuga
convulsa, un carnaio
disordinato e sudicio fatto di grida, sangue, interiora e nevischio
sporco. Una
concitata follia in cui Adikan perse il senso del tempo e dello spazio.
Il suo
cavallo venne azzoppato e lui lo abbandonò, gli uomini della
sua guardia
morirono, così abbandonò anche loro, combattendo
disperatamente non per la
gloria o il seggio del Sirenmat, ma per il privilegio di tornare a casa
ad
abbracciare sua madre, farsi baciare la fronte e sentirsi dire che
sarebbe
andato tutto bene.
Fu in quel momento
che scorse suo fratello.
Era lontano e non
avrebbe potuto sentirlo nel fragore della battaglia, ma
gridò comunque il suo
nome e Galoth si voltò verso di lui. Non avrebbe saputo dire
se avesse udito la
sua voce o il richiamo del sangue, se, semplicemente, fosse stato mosso
da quel
legame indissolubile e intessuto di rancore implacabile che veniva loro
dall'aver condiviso un'infanzia fatta di incubi, grida furiose e
scabrosi
silenzi.
Si guardarono negli
occhi attraverso le visiere divelte dei loro elmi e, forse per la prima
volta
nelle loro vite, videro la stessa cosa: capirono che, se Galoth non
fosse
andato a salvarlo, Adikan sarebbe morto; seppero che, se l'avesse
lasciato al
suo destino, la loro madre l'avrebbe odiato per sempre più
di quanto non
facesse già e Margareth che pure, forse, lo amava nel
profondo del proprio
cuore non sarebbe più riuscita a guardarlo in faccia.
Evocarono nella mente
un'alta pira, un padre indifferente, una madre disperata e piena di
livore, un
popolo carico di domande e di sospetti.
Quando Galoth spronò
il suo gigantesco stallone, Adikan si sentì al sicuro
nonostante la morte di
uno dei combattenti che ancora si frapponevano fra lui e il nemico:
piegando
l'ala sinistra avrebbero perso sicuramente la battaglia, ma lui sarebbe
sopravvissuto. Fece un passo avanti, conficcando la propria spada
nell'apertura
che il grosso guerriero dinnanzi a lui gli aveva fornito nell'abbattere
il suo
compagno.
Vide cadere due
degli uomini più vicini a Galoth, ma non se ne
preoccupò, occupato a tenere a
bada il gigantesco barbaro tatuato che aveva sostituito quello caduto.
Suo
fratello era sempre più vicino e Adikan godette di ogni
testa nemica mozzata
dal suo gigantesco spadone. Ripeté a se stesso che sarebbe
andato tutto bene,
riparandosi dietro lo scudo dal colpo violento dell'ascia del suo
avversario;
la percepì conficcarsi nel legno e lo strattone con cui il
barbaro cercò di
liberarla gli fece perdere l'equilibrio. Un colpo di mazza gli
calò sulla
spalla sinistra, piegandogli l'armatura e spezzandogli le ossa.
Sopraffatto da un
dolore lancinante, si voltò verso Galoth proprio mentre un
colpo violento abbatteva
il suo cavallo. Lo vide precipitare
nel mare di corpi sotto di lui, il suo grido di rabbia animalesca
coperto dal
nitrire disperato dello stallone.
Adikan lasciò cadere
lo scudo, incapace di sollevare nuovamente il braccio con cui lo
reggeva, levò
la spada e cercò involontariamente nella mente le preghiere
che aveva imparato
da bambino, solo per accorgersi di averle dimenticate.
Galoth era così
vicino che si potevano udire le sue imprecazioni, le sue grida selvagge
e piene
di furore. Adikan colpì a morte l'uomo con la mazza e, nel
farlo, si trovò a
guardare nella direzione di suo fratello.
Si accorse che,
abbandonato il cavallo, era avanzato troppo rispetto agli uomini che
avrebbero
dovuto coprirlo e assistette impotente al fendente che lo
colpì alla schiena.
Gridò. La parola
“fratello” non aveva mai bruciato tanto
intensamente la sua gola.
Lo osservò cadere e
si ricordò di averlo amato, un tempo, quando non era stato
altro che una forma
scalciante nel ventre di sua madre, quando ancora sognava di poter
avere in lui
un complice e un amico, quando la sua famiglia era ancora unita e
perfetta.
Nascendo, Galoth aveva distrutto tutto. I suoi occhi e capelli corvini
e i
sospetti di suo padre avevano mandato in pezzi la vita di Adikan e lui
l'aveva
odiato con tutta la forza con cui un essere umano poteva avversarne un
altro.
Sarebbe stato meglio se fosse morto, sarebbe stato giusto che fosse
morto,
sarebbe dovuto morire mille volte: sotto le percosse feroci di suo
padre, nella
fredda distesa di neve dove lo aveva abbandonato, nelle sue
innumerevoli
peripezie prive di buon senso e in quella battaglia, ma Galoth era
attaccato
alla vita come un'erbaccia al terreno sterile e, vedendo come molti fra
i
soldati, dimentichi di lui, si precipitassero a soccorrerlo, Adikan
ebbe la
certezza che suo fratello sarebbe vissuto ancora. Lo odiò di
un odio perfetto e
assoluto, mentre falliva nel tentativo di parare con la propria spada
il
fendente dell'ascia nemica. Colpito, scivolò, cadendo
bocconi nel nevischio
fangoso e sporco di sangue. Non vi era una sola parte del corpo che non
gli
dolesse, tuttavia trovò ancora la forza per rifiutarsi di
lasciare che lo
finissero mentre giaceva con la faccia immersa nel fango. Si
voltò con un
lamento.
Le
canzoni dicevano
il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria
immensità e fu
guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata
che
stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per
morire;
abbandonato da coloro che avrebbero dovuto essergli devoti, tradito da
coloro
che avrebbero dovuto essergli fedeli, ignorato dall'infinita, celeste
estensione del cielo. Quando l'ascia gli calò sul volto,
vide il proprio viso
riflesso nell'acciaio e non lo riconobbe; che quel cavaliere spaventato
e vinto
fosse lo stesso giovane uomo destinato ad ascendere al seggio del
Sirenmat gli
parve impossibile, e il dolore della morte giunse improvviso,
confusamente mischiato
a quello della sconfitta.
Note
dell'autrice: Questo
banner è la luce dei miei occhi!
Come vedete questa
capitolo si chiude con le stesse parole del prologo. Si tratta di un
"compito per casa" assegnatomi dal contest a cui la storia partecipa.
La storia doveva partire dalla fine. Non si tratta, tuttavia,
dell'ultimo capitolo, seguirà un breve epilogo. Ho
immaginato che interrompere qui sarebbe stato coerente con la fine di
Adikan, ma un po' crudele nei confronti di voi lettori.
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Capitolo 7 *** Epilogo ***
Epilogo
Le
canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la
propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor
fredde
altezze, mentre la saliva sputatagli in faccia gli colava sulla
guancia, che Galoth si rese conto di quanto le allusioni di Adikan
fossero vere. Nel silenzio sconvolto con cui la folla, radunatasi di
fronte al castello di Usen, osservava attonita l’erede del
suo
signore venire ingiuriato dalla propria madre lesse una domanda, il
principio di un’accusa, che sapeva lo avrebbe perseguitato
per
tutta vita.
Lasciò
scivolare lo sguardo sul cadavere di Adikan che tanto aveva lottato
per riportare a casa: la morte donava ai lineamenti eleganti di suo
fratello, conferendo al suo volto severo una serenità
gentile che in
vita gli era sempre mancata e, guardando quel corpo composto
sobriamente in una bara piena di neve, non riuscì a sentire
nessun
cordoglio, nessuna voce del sangue che lo chiamasse al pianto.
Sospettava
di avergli voluto bene un tempo, ma non riusciva a ricordare
esattamente quando questo fosse successo né come avesse
smesso:
forse non era mai realmente accaduto. Di certo non avrebbe potuto
amarlo in quel momento, non mentre l'insulto lanciatogli da sua
madre gli scendeva lungo il viso come una lacrima. Assassino
aveva detto e, sentendo Leonora di Usen pronunciare quella parola con
tanta rancorosa certezza, Margareth lo aveva guardato come se non
l'avesse mai visto prima di allora, quasi fosse un estraneo sporco di
sangue e non il ragazzo che aveva passato a litigare con lei la
maggior parte della sua vita. Non riuscì a fissare a lungo
nessuna
delle due, troppo stanco per aspettarsi qualcosa di diverso;
guardò
invece il volto tumefatto di Adikan e, notando come lo squarcio che
lo attraversava non riuscisse a togliergli neppure un briciolo della
sua aristocratica bellezza, si rese conto che nemmeno la morte
sarebbe riuscita a liberarlo da suo fratello. Avrebbero bruciato il
suo corpo su un'alta pira e murato la sua spada e la sua armatura
nell'ala cieca del castello, ma Adikan sarebbe rimasto con Galoth per
tutta la vita: sarebbe stato nella cicatrice profonda che
attraversava la sua schiena e nei sussurri che sapeva si sarebbero
propagati per la cattedrale il giorno della sua incoronazione,
sarebbe stato nello sguardo dubbioso di Margareth e nei silenzi di
Agorwal, sarebbe stato il racconto di una lite violenta e di una
minaccia di morte, il fantasma di una domanda che nessuno avrebbe mai
avuto il coraggio di porgli.
Per
questo, quando tutti si inginocchiarono per baciare la sua fronte in
un gesto d'addio, Galoth non lo fece: perché non si stavano
lasciando affatto ed era l'incubo peggiore che potesse immaginare.
Note
dell'autrice: e
con questo la storia finisce. Grazie per essere arrivati fin qui. Un
abbraccio speciali a chi ha voluto riempirmi il cuore di gioia
dicendomi cosa pensa della storia, non c'è dono
più bello per uno scrittore (per quanto solo nell'anima).
Questo banner mi ha a dato grande soddisfazione, sebbene abbia fatto
del mio meglio per non rendere troppo riconoscibile il prestavolto di
Adikan (a chi dovesse accorgersene chiedo preventivamente
pietà!).
La storia ho ottenuto i seguenti "riconoscimenti":
Terza classificata al contest "Quadri e Picche" :
Nel contest a squadre "Cricoli e Salotti" la squadra si è
classificata treza:
Mentre la storia singolarmente si è classificata prima della
sua sezione:
Nonostante sia piena di banner ho scelto di usare quelli fatti da me.
Perchè, sebbene io non sia molto brava, ormai ci sono
affezionata.
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