Unanswered questions

di ChildrenOfTheBarricade
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come poteva quel tipo sconvolgerlo così tanto con così poco sforzo? ***
Capitolo 2: *** Perché è rimasto fermo? Perché non mi ha aiutata? ***
Capitolo 3: *** E valeva lo stesso per i suoi occhi: erano dannatamente verdi o dannatamente azzurri? ***
Capitolo 4: *** Cosa stavano facendo? Erano davvero pronti? ***
Capitolo 5: *** Sei malato veramente? ***
Capitolo 6: *** Non vivi forse prodigandoti per gli altri? ***
Capitolo 7: *** Cosa hai intenzione di fare con noi? ***
Capitolo 8: *** Perché dovrebbe volere me? ***
Capitolo 9: *** N'est-ce pas? ***



Capitolo 1
*** Come poteva quel tipo sconvolgerlo così tanto con così poco sforzo? ***


1. Enjolras/Grantaire

Come poteva quel tipo sconvolgerlo così tanto con così poco sforzo?


Enjolras non ritornava nelle aule della facoltà di Belle Arti da settimane ormai.
"Sono qui per Bossuet. Sono qui solo e unicamente per riprendere la borsa che Bossuet ha dimenticato, perché Bossuet è mio amico e allora gli faccio un favore. A Bossuet. Nessun'altro. Davvero."
La sua mente trovava conforto in queste parole, ma il suo stomaco continuava a dargli la sgradevole sensazione di volersi attorcigliare su se stesso in eterno, e, quando infine giunse davanti all'aula in cui avrebbe sicuramente  trovato la borsa di Bossuet e forse un certo ragazzo, quella sensazione si amplificò tremendamente. 
Per un attimo provò l'impulso di tornare indietro: con l'amico si sarebbe giustificato dicendo di non aver trovato la borsa, o l'aula, o il coraggio di entrare. Strinse i pugni e si diede dello stupido. "Torna in te, per l'amor di Dio" pensò, mentre apriva lentamente la porta "Ci sono pochissime possibilità che Grantaire sia ancora qui, la lezione è finita, tutti se ne sono andati e Grantaire... è ancora qui."
Ed infatti, tra cavalletti e tele, sbucavano i ricci scomposti di un ragazzo intento a riporre i propri pennelli nella borsa, e Enjolras li avrebbe riconosciuti anche a chilometri di distanza. Come poteva essere altrimenti, dopo averli potuti stringere tra le dita, e averli accarezzati e...
"Le serve qualcosa?" Enjolras sobbalzò e si girò verso chi gli aveva posto la domanda: un ometto magrissimo e vestito di nero, con un cappello a bombetta anch'esso nero e ai piedi quelle che sembravano delle All-Star vecchie e consumate. E nere. Doveva essere il professore di disegno.
"Ehm, sì... cioè, no, sono venuto solo a riprendere una borsa. E' di un mio amico, l'ha dimenticata." Quello annuì. 
"Dev'essere quella là in fondo. Meglio così, mi hai risparmiato di doverla portare al... coso, ufficio... il posto delle cose che si perdono... com'è che si chiama, Grantaire?"
"Bidelleria." Rispose il moro, la voce che tradiva il suo evidente divertimento per la situazione.
"Sì, ecco, lì. Beh, io vado a casa, mia moglie ha fatto il polpettone e devo tornare presto. Buona giornata ragazzi"
Enjolras riuscì a emettere un debole saluto, prima che lo strambo professore si chiudesse la porta alle spalle e gli occhi di Grantaire, finora concentrati su pennelli e matite varie, si posassero su di lui, bloccandolo dov'era.
"Sai, non è che tu non mi piaccia quando fai tutti quei bei discorsi su come anche noi poveracci abbiamo diritto ad un'istruzione, le robe patriottiche, quelle altre robe sull'uguaglianza e bla bla bla... ma quando sei così imbarazzato mi piaci di più."
Enjolras sgranò gli occhi, incredulo. "Io... io non... ma che stai dicendo?"
Era sull'orlo di una crisi di nervi: da una parte avrebbe voluto zittirlo prendendo a pugni quella sua faccia da schiaffi e cancellando il suo eterno sorrisetto strafottente, mentre dall'altra... non era il caso di pensarci.
Grantaire rise di gusto, chiudendo la zip dello zaino liso e macchiato di colore e mettendoselo malamente su una spalla. "Beh, la roba di Bossuet è laggiù, è per questo che sei qui, no?"
"Sì." Però non si mosse. 
"Sì?" Lo schernì Grantaire, avvicinandoglisi fino quasi a sfiorarlo. Il biondo sussultò e si irrigidì ulteriormente. Odiava che invadessero i suoi spazi, ma dopotutto, a giudicare dalla frequenza con cui i suoi pensieri si rivolgevano incontrollati all'artista (e ai suoi occhi, e ai suoi capelli, e alle sue labbra, e alle sue spalle, e alle sue mani, e... accidenti Enjolras, smettila!), doveva rendere conto del fatto che quel ragazzo, col suo atteggiamento cinico e strafottente, si fosse appropriato di lui molto più di quanto avrebbe voluto. 
"Non mi sembri convinto" insistette, guardandolo negli occhi con un'intensità tale da farlo tremare . Lo stava sfidando, lo sapeva, ma non riusciva a reagire come sarebbe stato nella sua natura fare.
Quando si parlava di diritti e ideali, nessuno poteva tenergli testa, ma questo era un ambito in cui lui non aveva difese. Davanti al sorriso di Grantaire, Enjolras era inerme, e lo sapevano entrambi.
"Sei... sei sporco di tempera." disse senza riflettere, maledicendosi un quarto di secondo dopo.
Il moro lo guardò interrogativo.
"Ah, sì, mi succede sempre, dove...?" Fece per portarsi le mani al viso, ma Enjolras fu più veloce, e gli passò due dita tra lo zigomo e l'orecchio, ritrovandosele rosse di tempera.
"Sei un cretino, Enjolras, che accidenti hai fatto?" pensò, mentre cresceva in lui la voglia di prendere a testate qualche muro. Persino Grantaire parve leggermente sorpreso da quel gesto: dopotutto, il binomio "Enjolras" più "contatto umano" era assai raro da vedere. Ma il suo stupore non durò che un attimo, e sul viso gli ricomparve il sorriso che il biondo tanto amava e odiava. 
"Sei un genio, bello, ora sei sporco tu." E quello sospirò, irritato sia dal soprannome, sia dal fatto che l'altro aveva oggettivamente ragione.
Deciso a sottrarsi a quella situazione così imbarazzante, si diresse verso il lavandino in fondo all'aula e aprì il rubinetto. Il contatto con l'acqua gelida e la momentanea lontananza di Grantaire, gli permisero di riacquistare un briciolo di lucidità.
Era stanco, e gli sembrava di essere rimasto in apnea per tutta la durata della conversazione: come poteva quel tipo sconvolgerlo così tanto con così poco sforzo? Enjolras non avrebbe mai trovato una risposta, ma, anche se avesse potuto, non ne avrebbe avuto il tempo, dal momento che due braccia gli avevano cinto la vita con decisione, e una bocca era scesa a baciargli la porzione di collo lasciata scoperta dalla camicia.
Quella minuscola parte del suo cervello che ancora distingueva ciò che è giusto da ciò che è sbagliato gli urlò di andarsene, e in fretta. Ma ogni altra fibra del suo corpo gli stava dicendo che, accidenti, non aveva aspettato altro da quando aveva aperto la porta dell'aula, e forse anche da prima. Enjolras era fermamente democratico: la maggioranza doveva vincere. Così mandò a quel paese la prima vocina e si rigirò nell'abbraccio, fregandosene dell'acqua che continuava a scorrere , e facendo scontrare con decisione le proprie labbra con quelle di Grantaire.
 
Quest'ultimo sorrise dell'intraprendenza del biondo, mentre gli sollevava le gambe per farlo sedere sul bordo del lavandino. Del resto, se avesse voluto una verginella ritrosa sarebbe andato con la moretta che gli faceva sempre gli occhi dolci a Storia dell'Arte. Ma dove altro avrebbe potuto trovare il senso di euforia che lo pervadeva ogni volta che Enjolras si arrendeva a lui? La soddisfazione di vedere occhi così fieri vagare ovunque per non dover incontrare i suoi? Il piacere nel sentire quella voce, solita a rimbombare risoluta e sicura mentre parlava di libertà e uguaglianza, tremare e affievolirsi, o, come in quel momento, gemere, quando si rivolgeva a lui?
No,non esisteva. Grantaire aveva bisogno di lui, nessun altro sarebbe mai stato all'altezza. Nessun brontolio irritato sarebbe stato altrettanto eccitante, come quello emesso da Enjolras quando l'artista aveva accidentalmente fatto saltare uno dei bottoni della sua camicia. 
 
Un po' per vendetta, un po' perché voleva farlo, il biondo gli strattonò violentemente la maglia verso l'alto, in modo da avere libero accesso ai muscoli del suo torace e della sua schiena. "Maledizione," si ritrovava a pensare, in momenti di improvvisa lucidità "questa è una grandissima stronzata. Stai facendo una stronzata, Enjolras."
Dopo tutto il tempo passato a ripetersi che non avrebbe ceduto una seconda volta, che il bacio che si erano scambiati quella sera era stato solo un errore dettato dalla stanchezza e dall'alcool ( come se una birra e mezza potessero essere considerate alcool), ora era punto e a capo.
Ed era così felice di esserlo, che avrebbe potuto continuare in eterno, se solo un rumore di passi e voci di ragazzi non lo avesse distratto . Si staccò dalle labbra di Grantaire, che a sua volta si allontanò di scatto dal lavandino mentre entrambi cercavano di risistemarsi i vestiti alla meno peggio. 
 
Erano quasi presentabili, quando una quindicina di studenti del primo anno varcò la soglia dell'aula di disegno per iniziare a prendere posto, senza prestare loro particolare attenzione. Grantaire, senza dire una parola, raccattò il proprio zaino dal pavimento dove l'aveva lasciato e uscì in fretta dalla stanza, seguito da un imbarazzatissimo Enjolras incredibilmente interessato alla sfumatura grigio-topo-malato-terminale del pavimento.
Ma prima che potessero allontanarsi, una voce femminile li fermò.
"Scusa" esclamò una studentessa con uno strano fiocco a pois tra i capelli, rivolta ad Enjolras "credo che tu abbia lasciato questa... è tua, no?"
Tra le braccia reggeva la borsa nera di Bossuet.
"Ehm... sì, sì grazie mille." le rispose, vagamente stordito, mentre al suo fianco Grantaire scoppiava a ridere.


 

E con chi altro avrei mai potuto inziare?
Questa raccolta è il risultato di una domenica che avrei dovuto passare a studiare,
e temo che mi occuperà  molte, moltissime altre domeniche.
Enjoy <3

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Capitolo 2
*** Perché è rimasto fermo? Perché non mi ha aiutata? ***


2. Eponine

Perché è rimasto fermo? Perché non mi ha aiutata?

Lei era la ragazza del bar.
Tutti gli studenti la conoscevano così, la maggior parte di loro non sapeva neanche che avesse un nome, e chi lo sapeva la chiamava "Eponine, la ragazza del bar".

Era inutile da nascondere, invidiava quei ragazzi, uno ad uno. Li invidiava quando si presentavano al bancone agitati all'inverosimile per un esame che dovevano sostenere e cercavano conforto nelle brioches e nel cioccolato, e li invidiava quando arrivavano con gli occhi semichiusi dal sonno e chiedevano un caffè doppio per poter affrontare le lezioni del mattino. Li invidiava sempre, perché a lei quell'opportunità non era stata data, e non l'avrebbe mai avuta. 
Montparnasse era solito a dirle che, con la crisi che c'era nel paese, lei avrebbe dovuto ritenersi fortunata ad avere un lavoro, e che la maggior parte di quei viziati figli di papà sarebbero finiti con le loro lauree in mezzo alla strada a far compagnia a cani e barboni.
Ma Montparnasse passava le sue giornate in mezzo a operai come lui, che al suo stesso modo non leggevano altro che la sezione sportiva del giornale, mentre lei doveva costantemente confrontarsi con studenti con una cultura ed una capacità di linguaggio infinitamente superiori alle sue.
Ad esempio, c'era un ragazzo, un tale Enjolras, che quando discuteva di diritto e di politica coi suoi amici, si infiammava a tal punto che non potevi evitare restare rapito dalle sue parole, ed Eponine non era esclusa. Ma mentre ascoltava quei discorsi appassionati, era costretta a rendersi conto che il senso di molti concetti le sfuggiva e alcune delle parole che il ragazzo pronunciava con scioltezza, a lei sarebbero risultate difficili persino da scrivere correttamente, figuriamoci comprenderle.
Non che Eponine fosse stupida, anzi, al liceo era stata tra le più brillanti della sua classe. Almeno fino a quando non aveva compiuto diciotto anni e il suo mondo era caduto a pezzi, in una sera di Gennaio che ricordava con devastante precisione.
 
***
Eponine era sdraiata sul letto aspettando di venire chiamata per la cena, e rimuginava, combattuta tra il mandare o meno un messaggio a Marius, magari per chiedergli di vedersi quella sera. Afferrò il cellulare e immediatamente lo lasciò ricadere sul cuscino, sospirando. Moriva dalla voglia di vedere il suo amico, ma allo stesso tempo temeva di risultare troppo invadente, e per quanto  continuasse a ripetersi che era normale per due amici (vicini di casa, per di più) incontrarsi la sera per fare due passi, non riusciva a scrollarsi di dosso quella costante sensazione di inadeguatezza.
Era nel bel mezzo del tredicesimo ripensamento, quando udì il suono della porta di casa che si apriva e si richiudeva bruscamente e frammenti di frasi urlate  provenire dal piano di sotto. Riconobbe la voce adirata di sua madre, solita a sbraitare per ogni sciocchezza, soprattutto contro il piccolo Gavroche, ma si stupì di sentir gridare anche suo padre, che non era tipo da perdere il controllo con facilità. 
Scese dal letto, preoccupata, e stava per dirigersi al piano di sotto quando improvvisamente la porta si spalancò, rivelando la figura di suo padre e l'espressione più terribile che Eponine gli avesse mai visto in viso, e che sarebbe rimasta stampata nella sua mente per molto altro tempo.
"Fai la valigia, Eponine, stiamo partendo." le disse a denti stretti, con  le mani tremavano di rabbia e nervosismo.
Eponine aprì e richiuse la bocca più volte, annaspando incredula. "Ma.. non capisco, che sta..."
"SUBITO!" tuonò il signor Thenardier, mentre  dal piano di sotto salivano insieme il pianto di Gavroche e l'odore della cena che bruciava nel forno. 
Non ci fu il tempo di dire altro: le sirene della polizia coprirono il frastuono della casa in fermento e il panico si appropriò dello sguardo di suo padre, che si precipitò correndo giù per le scale imprecando in modo osceno, diretto alla porta sul retro.
Eponine rimase ferma dov'era, stordita; lo sguardo fisso su una porzione di muro che ciclicamente si illuminava del rosso e del blu dei lampeggianti delle auto ferme sotto casa loro.
 
Dopo di che, i ricordi sfumavano tutti in un'angoscia senza nome, in cui riusciva a distinguere vagamente le bestemmie urlate, il rumore delle manette che scattavano attorno ai polsi dei suoi genitori, l'odore di tabacco nell'abitacolo dell'auto della polizia e gli occhi di suo fratello, colmi di paura e spalancati su una scena che nessun bambino meriterebbe di vedere.
Ricorda anche il viso di Marius (e questo lo ricorda chiaramente) che la osservava confuso da un angolo della strada, dove molti altri vicini si erano riuniti per assistere, attirati dal dramma come le api dal miele. Il giorno dopo avrebbero avuto di che parlare. 
Eponine avrebbe voluto  che l'amico le si avvicinasse, che l'abbracciasse, magari, sussurrandole di non avere paura, che sarebbe andato tutto bene, che sarebbe rimasto con lei. Ma non accadde niente di tutto questo: Eponine venne fatta sedere in macchina accanto a Gavroche e guardò la figura del ragazzo farsi sempre più lontana, finché non poté più distinguerne l'espressione incredula e impietosita e la felpa che si stringeva addosso per proteggersi dal freddo di Gennaio. 
"Perché è rimasto fermo? Perché non mi ha aiutata?" Anche a distanza di anni quella domanda la tormentava e, ogni volta che Marius l'abbracciava o semplicemente parlava e scherzava con lei, Eponine si sentiva sul punto di porgergliela; ma alla fine si tirava sempre indietro.
 
***
 
"Ciao, scusami, potrei avere un thè?" 
Eponine si riscosse, tornando a sorridere come solo chi ha passato ore e ore dietro un bancone sa fare, e si voltò verso l'autrice della richiesta. Era una ragazza dai capelli  biondi e lunghissimi, che si acconciavano naturalmente in ciocche perfette: Eponine glieli invidiò all'istante. 
"Certo" disse.  "Vorrei essere bella come te" pensò. 
"Conosci tanta gente qui?" le chiese la ragazza, con un tono lieve e dolce, che si adattava magnificamente alla sua immagine di bambolina di porcellana.
"Di vista? Tutti. Veramente? Due o tre." Due: Eponine aveva esattamente due amici in quel posto.
La bionda ridacchiò. "Io sono appena arrivata, non conosco proprio nessuno."
"Eponine, piacere. Ora ti manca una persona in meno"
"Su quante?" 
"Non saprei... duemila?"
"Non credo di essere a buon punto" disse, scoppiando a ridere. "Comunque io sono Cosette, felicissima di averti incontrata"









Non c'è tanto da dire, questa è solo Eponine e si presenta da sola.
E' un po' introduttivo come capitolo, ma ho creduto fosse utile per capirla meglio in quelli successivi. E poi, andiamo, Eponine la adoriamo tutti!

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Capitolo 3
*** E valeva lo stesso per i suoi occhi: erano dannatamente verdi o dannatamente azzurri? ***


3. Courfeyrac/Jehan


E valeva lo stesso per i suoi occhi: erano dannatamente verdi o dannatamente azzurri?


Non era che Courfeyrac avesse qualche tipo di pregiudizio. Insomma, era piuttosto convinto di saper riconoscere il valore di tutto e tutti, sorrideva a chi incontrava indistintamente, ed aveva sempre una parola gentile per chi si rivolgeva a lui.
Eppure non poteva proprio fermare il senso di fastidio e delusione che gli si era formato nel petto quando aveva saputo che avrebbe diviso la stanza con uno studente di Lettere. Lettere, accidenti! Perché proprio Lettere? Perché non Medicina, o Giurisprudenza, o Scienze Cognitive, o Ingegneria Gestionale, o Filosofia delle merendine?
Avrebbe preferito qualunque cosa ad un esaltato che senza ombra di dubbio si sarebbe aggirato scalzo per la stanza, storcendo il naso ogni volta che avrebbe sentito qualche imprecisione grammaticale uscire dalle sue labbra e che avrebbe parlato solo con citazioni di illustrissimi poeti morti, sepolti e dimenticati dal 85% della popolazione mondiale. Ma non dagli studenti di Lettere, ovviamente.
 
Courfeyrac sospirò. Ormai erano venti minuti buoni che girava per l'ateneo con l'unico scopo di rimandare il suo incontro; probabilmente, ad occhi esterni, appariva come una matricola sperduta. Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, in modo da sembrare più indaffarato di quanto non fosse in realtà. Sullo schermo illuminato apparvero un messaggio da Combeferre e ben quattro da Joly, in ordine di preoccupazione crescente. Si appoggiò al muro con un piccolo sorriso e li lesse.
"Hey amico, hai finito di sistemare la tua roba? Io sono nella 101a, fai un salto qui quando puoi. -Ferre"
"Courf, non ti ho ancora visto! Sei arrivato? Hai fatto buon viaggio? -Joly"
"Dopo ci sei anche tu in stanza di 'Ferre? P.S. ci hanno dato una stanza tremendamente esposta al sole, secondo te posso farmela cambiare? -Joly"
"Hey perché non rispondi? Hai perso il telefono? Non è che stai male eh! -Joly"
"COUUUUUURF!!"
Il suo sorriso si ampliò, mentre digitava un paio di risposte per dare conferma al primo e rassicurare (nei limiti del possibile) il secondo. Stava riponendo il telefono quando la sua attenzione venne attirata da un foglio svolazzante, caduto dalle braccia stracolme di libri di uno studente appena passato davanti a lui. 
"Hey! Hey, ti è caduto questo!" lo chiamò, mentre raccoglieva il foglio. Il ragazzo in questione era un tipo esile, con viso gentile incorniciato da capelli piuttosto lunghi, ma Courfeyrac non avrebbe saputo dire se si trattasse di una scelta di stile o se fossero semplicemente fuori taglio. 
"Oh, accidenti! Grazie!" gli rispose il ragazzo con aria smarrita mentre Courfeyrac incastrava tra i libri dell'altro quello che aveva visto essere l'orario delle lezioni della facoltà di Lettere. Evidentemente quei tipi lo perseguitavano, oppure il destino ce l'aveva con lui.
Guardò il ragazzo allontanarsi, ondeggiando sotto il peso dei volumi, e sospirò. Si stava comportando come un bambino, ed era il momento di smetterla. Avrebbe portato la sua roba in stanza, si sarebbe cordialmente presentato a qualunque mezzo poeta snob che avrebbe incontrato e poi sarebbe andato a lamentarsi da 'Ferre. Decisione presa, non si discuteva.
...prima però poteva concedersi un caffè.
 
Il bar dell'università era strapieno quel pomeriggio. O meglio, era sempre strapieno , ma ora il chiacchericcio agitato degli studenti appena rientrati dalle vacanze faceva sembrare quel posto ancora più affollato del solito. Dopo essersi fatto intrepidamente strada fra sedie e tavolini di plastica, ed aver salutato almeno una decina di persone (tra le quali cinque di cui non serbava alcun ricordo), il suo bisogno di caffeina era raddoppiato.
Ordinò, sorridendo gentilmente alla ragazza del bar che ricambiò con dolcezza, anche se nei suoi occhi persisteva una sfumatura di tristezza che Courfeyrac non ricordava di aver mai visto svanire. A lui quella ragazza piaceva, gli dava l'idea di una tipa forte e con la testa sulle spalle, una di quelle che vanno dritte per la loro strada senza aver bisogno del supporto di nessuno. Di certo non era una romantica sognatrice sospirante come quelli di Lettere.
 
Alla fine, nonostante tutti i disperati tentativi di prolungare la sua pausa caffè oltre l'immaginabile, Courfeyrac si trovava davanti alla porta della 74a, pronto ad affrontare qualsiasi poeta simil-decadente gli si sarebbe presentato davanti. Preparò il sorriso più cordiale che riuscì ad ottenere e bussò. Quando non ottenne risposta, bussò nuovamente, con più forza e con lo stesso risultato.
Rassegnato, si rovistò nelle tasche alla ricerca della chiave della stanza, maledicendo tutti poeti col sonno pesante e l'udito scarso. Una volta aperta la porta, però, si rese conto di essere solo. L'unica testimonianza dell'effettiva esistenza del suo compagno di stanza erano un borsone verde acceso, che giaceva aperto sul letto accanto alla finestra, di fianco ad una pila di libri dall'aria costosa, e un vaso contenente una pianta che Courfeyrac non avrebbe saputo identificare se non con il termine "pianta", che aveva trovato collocazione sul comodino. 
Considerando tutti gli sforzi compiuti dal ragazzo per rimandare quell'incontro, era strano il senso di delusione che provava in quel momento. Insomma, a quel punto avrebbe preferito togliersi il pensiero, e invece... il maledetto non si era fatto trovare.
Scosse la testa, richiudendosi la porta alle spalle e lasciando la propria valigia accanto al letto rimasto libero. Lanciò un'ultima occhiata dubbiosa alla piantina, prima di buttarsi a peso morto sul letto, chiudendo gli occhi e godendosi il silenzio della stanza. 
Non fece in tempo neanche a pensare di addormentarsi, che il suo cellulare iniziò a vibrare insistentemente. Sospirò, tenendo l'apparecchio a debita distanza per impedire alla voce di Joly di fracassargli il timpano. Povero illuso.
"Courf ma dove sei finito?? Dai, ti stiamo aspettando da due ore! No Bossuet, non mi interessa... ridammi il telefono... HEY... NO!"
Courfeyrac ridacchiò tra sé, divertito. "Hey, ragazzi, calmatevi, sto arrivando"
"Sarà meglio, amico, non è carino da parte tua lasciarci da soli con questo qui"
"Arrivo, arrivo" lo rassicurò, mentre dall'altra parte si udivano le proteste irritate del medico.
 
Non era neanche arrivato troppo vicino alla 101a che già si sentivano le voci dei suoi amici risuonare per il corridoio. "Assurdo" pensò mentre apriva la porta della stanza e veniva investito da un mare di saluti, abbracci e pacche sulle spalle, neanche fosse appena tornato da chissà quale missione in Vietnam. 
Ricambiò i saluti con calore: erano strani forte, questo sì, ma erano i suoi amici e lui gli voleva bene come a dei fratelli.
Stava cercando di individuare un angolino dove sedersi, e invece i suoi occhi si scontrarono con il viso sorridente e imbarazzato di uno sconosciuto. Che poi, tanto sconosciuto non era.   
"Courf, questo è Jehan, si è appena trasferito da Nantes e noi l'abbiamo adottato"  annunciò solennemente Joly, mentre il diretto interessato abbassava lo sguardo e ridacchiava nervosamente tendendogli la mano. Courfeyrac gliela strinse, riconoscendo in lui il ragazzo incontrato in corridoio poco prima. 
"Io sono Courfeyrac, piacere" si presentò, cercando di capire se per caso fosse stato riconosciuto a sua volta. 
"Jehan" sussurrò il ragazzo.
Ma che, non si ricordava niente. Maledetto studente di lettere ingrato, non aveva neanche perso tempo a memorizzare il suo viso. Non che gli importasse, però insomma... ecco.
"Hey, tu sei quello di prima, vero? Quello che ha perso l'orario!" esclamò allora con un finto tono sorpreso. Se non altro aveva ottenuto che gli occhi azzurri dell'altro si posassero finalmente sui suoi. Erano veramente belli. No, cioè, oggettivamente belli.
"Oh, eri tu, ora mi ricordo!"
Sese certo, ora si ricorda, come no.
"E Joly che aveva creduto di poterti presentare qualcuno che tu non conoscessi già! Povero illuso." esclamò divertito Grantaire, in quel momento appollaiato sul bracciolo del divano, e non sembrava essere troppo sobrio.
Quel suo commento, neanche a dirlo, scatenò l'ilarità generale e fece sbuffare Courfeyrac, che si lasciò cadere pesantemente sul divano, sottraendo la bottiglia di birra dalle mani di Grantaire per rubargliene un sorso. Poteva quasi sentire il fegato dell'artista che lo ringraziava tra le lacrime di commozione.
"Eh sì" rincarò la dose Bahorel, passando dietro il divano e scompigliandoli scherzosamente i ricci " devi sapere che il nostro Courfeyrac è amico di almeno mezza università, e conoscente dell'altra metà"
"Beh sai come si dice: amico di tutti, amico di nessuno" ribatté il nuovo arrivato, senza perdere il suo sorriso serafico. Gli altri sembrarono apprezzare la provocazione, e Courfeyrac rise con loro, senza sentirsi minimamente divertito. Maledetto piccolo bastardo, che fine aveva fatto tutta la sua timidezza? E poi, sul serio, un luogo comune? Si sarebbe aspettato di più da uno pseudo- poeta. Cercando di lasciar trasparire il meno possibile il proprio disappunto, cambiò elegantemente discorso.
"Enjolras quando arriva?"
"Dovrebbe essere già qui a dire la verità... forse c'è stato qualche ritardo col volo" rispose 'Ferre, guardando leggermente accigliato l'orologio.
"Ma come, niente elicottero privato per Apollo?"
 Combeferre gli lanciò un cuscino in pieno viso.
"Questo è un approccio molto poco diplomatico da parte tua" annaspò Grantaire cercando di non perdere l'equilibrio, reso già sufficientemente precario dalla posizione e dalla.. cos'era? Sesta birra? Ed erano solo le sette di sera.
 
Ora che la conversazione stava procedendo, più o meno pacificamente, anche senza il suo contributo, Courfeyrac non riuscì a impedire ai suoi pensieri di tornare all'impertinente inopportuno maledettissimo studente di Lettere. 
Rifletté, mentre i ragazzi litigavano su quale fosse il miglior modo di scongelare una pizza (Joly si opponeva stoicamente all'utilizzo del forno a microonde), e giunse alla conclusione che quel tipo non gli piaceva. 
In primo luogo, era uno studente di Lettere. Non fosse stato per il fatto che lui NON nutriva alcun tipo di pregiudizio, questo sarebbe bastato. Ma lo pseudo-poeta si era anche dimenticato di averlo incontrato per il corridoio, l'aveva raffinatamente dichiarato incapace di instaurare rapporti autentici e dopodiché si era rintatato nella sua facciata di bei sorrisi e parole gentili. E poi non gli piacevano i suoi capelli: biondi ma rossici e un po' castani. Insomma che cavolo erano, biondi, rossicci o castani? E valeva lo stesso per i suoi occhi: erano dannatamente verdi o dannatamente azzurri? Non riusciva a definirli, e questo lo irritava terribilmente. A lui piacevano i calcoli, le formule, le certezze. Le ipotesi finalizzate ad una conclusione, le domande complete di una risposta. Jehan era l'esatto contrario. Tutto in lui sembrava essere effimero e mutevole, fonte inesauribile di dubbi senza punto d'arrivo.
 
"No, grazie, è meglio che io torni in stanza. Devo ancora sistemare la roba e conoscere il mio coinquilino."
La voce delicata di Jehan che rifiutava l'invito a restare per cena lo riscosse dalle sue riflessioni. Improvvisamente, neanche lui aveva più fame.
"Direi che lo stesso vale per me" mormorò, alzandosi dal divano e stiracchiando i muscoli indolenziti. "Salutatemi Enjolras quando arriva"
Combeferre annuì distrattamente, concentrato nell'elaborazione di una strategia per non bruciare la pizza che stava scaldandosi nella padella. A quanto pareva, Joly aveva avuto la meglio.
Seguì Jehan nel corridoio, aspettandosi che le loro strade si dividessero da un momento all'altro. Ma l'imbarazzante silenzio caduto tra loro non venne interrotto da nessun "okay, io vado a destra" o "la mia stanza è qui, ci si vede eh", finché non giunsero davanti alla 74a.
"Beh, io..." iniziarono all'unisono, mentre prendevano le rispettive chiavi. Quando capirono, alzarono lo sguardo, sorpresi.
"Oh. E' la tua stanza?"
"Già... è anche la tua?"
"Già."
"Oh." 
Per un attimo nessuno dei due disse nulla, poi Jehan sorrise. Non con la solita smorfia impacciata, ma un sorriso vero, che gli illuminò gli occhi: e improvvisamente a Courfeyrac non importava più un accidente di riuscire a precisarne il colore.
"Beh, allora piacere di conoscerti, compagno di stanza!"


 








Ma saranno mica il mio OTP??
Li adoro e torneranno, per quanto mi costi lasciare il mio Jehan (sì, è mio, Hugo non se lo merita, visto come l'ha ucciso) nelle mani di Courf :(
Bando alle ciance: questo capitolo è stato forse il primo ad essere scritto ed era bello che pronto ma ora è il momento che io dedichi un pochetto di attenzione allo studio, quindi probabilmente aggiornerò più tardi. Vi ringrazio tutti infinitamente e vado ad affrontare pioggia e lezioni (evviva).
Enjoly :)

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Capitolo 4
*** Cosa stavano facendo? Erano davvero pronti? ***


4. Marius/Cosette
 
Cosa stavano facendo? Erano davvero pronti?
 
 
Marius sbarrò gli occhi davanti all'infinità di valigie che gli si pararono davanti.
Era completamente sconcertato dal fatto che una persona sola potesse possedere così tanta roba,ed era altrettanto sicuro che mai e poi mai una tale quantità di valigie, borse, borsette, scatoloni e sacchetti sarebbe potuta stare nella sua macchina.
Mai e poi mai. E poi mai.
 
"Cosette, davvero è tutto necessario?" disse affranto, rivolto alla ragazza che avanzava verso di lui con l'ennesimo scatolone tra le braccia.
"Te lo giuro amore, non posso immaginare di vivere senza uno di questi oggetti"
Marius lanciò un'occhiata dubbiosa alla radiosveglia a forma di rana che faceva capolino dalla scatola e che gli aveva fatto prendere innumerevoli spaventi ogni volta che passava la notte a casa dell'amata. Che poi, non poteva usare la sveglia del cellulare come chiunque altro? 
Sospirò.
"E' che non sono tanto sicuro che ci stia tutto in macchina..." 
O in casa. Ma questo non lo disse.
"Vorrà dire che faremo più viaggi" ribatté lei, radiosa, avvicinandosi per lasciargli un morbido bacio sulle labbra.
"Oh...d'accordo, questo chiude la questione" pensò intontito, mentre sul volto gli si formava l'espressione ormai famosa che Grantaire amava definire come "quella di un lemure strafatto di funghetti" ;la stessa che Jehan trovava COSì romantica e che Enjolras liquidava alzando gli occhi al cielo; la stessa che faceva preoccupare Joly, convinto che si trattasse di un'insolita forma di Sindrome di Stendhal. A nulla erano valsi i tentativi di Combeferre di spiegargli che quella malattia si verificava solo in presenza di opere d'arte, e non di persone.
Se Marius non avesse avuto paura di venire linciato sul posto, avrebbe risposto che Cosette era, a tutti gli effetti, un'opera d'arte. Ed era sua. Dopo cinque mesi di baci rubati, di segreti confidati sotto le coperte dopo aver fatto l'amore, di sguardi emozionati e di sorrisi mal trattenuti, eccolo ancora lì, innamorato come il primo giorno. E con lo stesso identico sorriso ebete stampato in faccia, è il caso di aggiungere.
Quando si riscosse dai propri pensieri, Cosette aveva già stipato buona parte della roba nel bagagliaio e sul sedile posteriore della macchina. Da non crederci.
"Hai mai pensato di partecipare alle olimpiadi di tetris?"
"Non ci sarebbe gara" rise lei, prendendo posto sul sedile del passeggero.
Marius la imitò, mettendosi alla guida, ma quando fu il momento di girare la chiave e partire verso quella che sarebbe stata la loro nuova casa, si bloccò.
"Tutto bene?" 
"Sì... io... è un passo importante"
"Lo so, ne abbiamo parlato."
"E' un azzardo"
"Ma vale la pena rischiare, non credi?"
Marius sollevò finalmente lo sguardo. "Per te, sempre."
Il sorriso candido di lei bastò a far sparire ogni traccia di dubbio dalla sua mente; girò la chiave e mise in moto, diretto verso un futuro di cui i contorni non erano chiari, ma sfumati tra i timori della giovinezza e le certezze derivate dall'amore. Non era mai stato più felice.
 
Marius aveva trovato magnifico il parcheggio, bellissima la facciata della palazzina che si vedeva dal cancello, delizioso il piccolo giardino che la circondava, fantastici la porta d'ingresso e l'atrio. Aveva invece trovato alquanto deprimente il foglio di carta con la scritta "guasto" sulla porta dell'ascensore.
"E ora?"
"Ci pensiamo dopo, iniziamo ad andare a vedere l'appartamento"
Salirono i gradini fino al quarto piano come in un sogno, tenendosi e per mano e ridacchiando come due ragazzini, carichi di aspettative e speranze, innamorati.
Marius aprì la porta con mani tremanti, Cosette giocherellava nervosamente con l'anello che portava al dito mentre spostava di continuo il peso da un piede all'altro, incapace di stare ferma.
Lo spettacolo che gli si parò davanti probabilmente non avrebbe emozionato nessuno, ma ai loro occhi quella stanza un po' impolverata e molto spoglia era il paradiso. Tutta la sala era immersa in una luce surreale, che passava attraverso le grandi finestre e veniva filtrata dai pesanti tendaggi bianchi che le ricoprivano. 
Cosette perdette tutta la calma che era riuscita a mantenere fino a quel momento e si precipitò ridendo fino al certo della sala, guardandosi intorno estasiata.
"E' bellissimo!"
Tutto l'arredamento era composto da: un divano di dubbio gusto, due cassettiere ikea, un mobile per la televisione senza televisione e un tavolo completo di quattro sedie. C'erano poi tre porte chiuse che celavano un cucina discretamente completa, un piccolo bagno e una stanza da letto dove una rete metallica faceva bella mostra tra due comodini e un armadio che non sarebbe mai riuscito a contenere tutti gli abiti di Cosette.
Marius non poté che concordare: era bellissimo.
 
"Niente, non risponde neanche lui"
"Non è possibile! Richiama."
"Ma è già la terza volta!"
"Allora prova con qualcun'altro!"
"Non so più chi chiamare..." ammise affranto, rovesciando la testa all'indietro e appoggiando a terra il cellulare.
Ormai dovevano essere dieci minuti buoni che lui e Cosette se ne stavano seduti a terra contro il divano, a chiamare invano qualcuno che li venisse ad aiutare col trasloco.
Combeferre, Prouvaire e Courfeyrac erano a lezione; Joly affermava di essere mortalmente malato; Bossuet aveva sfortunatamente perso il treno e ora era bloccato dall'altra parte della città ad aspettare il prossimo, sfortunatamente in ritardo; Enjolras e Grantaire erano entrambi misteriosamente irraggiungibili e Bahorel aveva scelto proprio quel giorno per presentarsi in università dopo settimane di vacanza auto-imposta.
Begli amici del cavolo.
Si ripromise di insultarli uno ad uno non appena gli sarebbe stato possibile. Anzi, stava già approntando una scaletta di offese da utilizzare, quando miracolosamente il suo cellulare cominciò a squillare: era Enjolras.
"Hey dov'eri cosa stai facendo perché non hai risposto sei libero ora?"
Seguirono alcuni secondi di stupito silenzio. "Perché hai chiamato?"
Non era una risposta, ma andava bene lo stesso.
" Mi serve una mano a portare in casa le valigie, sai...il trasloco..." decise di omettere il particolare dell'ascensore, consapevole della sfuriata che avrebbe dovuto subire più tardi.
"Oh... d'accordo. Mi dici l'indirizzo?"
 
Quando Enjolras arrivò, pochi minuti più tardi, sia Marius che Cosette rimasero sorpresi di vedere Grantaire scendere dalla macchina assieme a lui. Ma mentre il giovane Pontmercy dimenticò lo stupore nel momento esatto in cui capì che avrebbe avuto l'aiuto di due braccia in più del previsto, Cosette non poté fare a meno di notare la stranezza di quella situazione.
Non le sfuggì nemmeno l'ostinazione con cui gli occhi di Enjolras evitavano quelli del moro, o i sorrisi che quest'ultimo non riusciva a trattenere. Inoltre Enjolras era passato sopra alla dimenticanza di Marius riguardo all'ascensore, il che definitivamente non era da lui. Quando, dopo aver accidentalmente sfiorato il braccio di Grantaire nel tentativo di sollevare uno scatolone, Enjolras era vistosamente arrossito, Cosette non ebbe più dubbi: c'era qualcosa sotto.
Avrebbe chiesto chiarimenti a Marius, se non fosse stata sicura che il suo ragazzo viveva da qualche parte sulle nuvole e che a malapena si accorgeva del passare delle stagioni. Forse era meglio parlarne a Musichetta.
Si guardò intorno, riavviandosi i lunghi capelli biondi. Aveva cercato di sistemare secondo un ordine più o meno logico la roba che i ragazzi portavano faticosamente fino all'appartamento, ma il risultato non sembrava dei migliori. Parecchi scatoloni giacevano ammucchiati vicino alla porta, ancora chiusi, e il materasso era stato abbandonato in fondo alla stanza; per il resto, poteva andare.
Si avvicinò ai ragazzi. Marius e Grantaire erano impegnati in una pausa caffè da cui era nata una discussione filosofica sul formarsi della polvere e Enjolras, seccato, li stava accusando di essere dei maledetti scansafatiche che non prendono niente sul serio.
Cosette non poté che sorridere intenerita da quel siparietto: l'amicizia che li legava era vera, quasi tangibile, e sembrava risplendere nella penombra del tramonto. Per un attimo ne fu invidiosa. Quel gruppetto di ragazzi che ormai conosceva uno ad uno non l'aveva mai accettata veramente, nonostante i suoi sforzi. La tolleravano in quanto fidanzata di Marius (e oggetto di tre quarti dei suoi discorsi), ma nulla di più. L'avrebbero mai considerata una di loro? Cosette non lo sapeva, ma all'improvviso sentiva il bisogno di restare sola tra le braccia di Marius. Del resto, era il tramonto.
 
Tanti, tanti, tantissimi ringraziamenti dopo, Cosette richiuse la porta dell'appartamento e si lasciò avvolgere dal silenzio. Per tre secondi e mezzo.
"Scordati che io rifaccia quelle scale una volta di più, chiaro? Piuttosto muoio qui." decretò Marius, prima di lasciarsi drammaticamente cadere a pancia sotto sul materasso che nessuno aveva provveduto a spostare da terra.
Cosette gli si sedette accanto, incrociando le gambe e prendendo ad accarezzargli dolcemente i capelli.  
"Siamo a casa" mormorò sognante.
Lui la guardò di sottecchi, sollevando un po' il viso dal materasso "A quanto pare..."
D'un tratto, tutti i dubbi che aveva strenuamente tenuto a bada fino a quel momento le piombarono addosso, facendola rabbrividire. Cosa stavano facendo? Erano davvero pronti?
Marius non tardò ad accorgersene: forse era davvero il re dei distratti, ma quando si trattava della sua Cosette non c'era dettaglio che gli sfuggisse.
"Sei preoccupata?" domandò, facendola sdraiare accanto a lui.
"Un po'. Forse... forse è davvero troppo presto. Mio padre dice che siamo troppo giovani, e anche tuo nonno non..."
"Però poi si sono offerti di contribuire all'affitto."
"I tuoi amici ci hanno presi per pazzi"
"Ma poi sono venuti ad aiutarci"
"Io... non lo so. E se fosse davvero una cosa più grande di noi?"
"Non può comunque essere più grande del nostro amore." Prendi questa, Jehan. Sono o non sono un fottuto poeta?
Cosette rise, sollevata, accoccolandosi meglio tra le braccia del ragazzo e avvicinando le belle labbra al suo orecchio.
 "Sei davvero così stanco?" sussurrò talmente piano che Marius non era troppo sicuro di aver sentito.
"Io? Cosa? Stanco? Eh? Chi ha detto che sono stanco?"
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Buona domenica bellissimi!
E' stata una faticaccia, lo devo ammettere. Soprattutto Cosette mi ha dato un sacco di problemi, e non ho resistito dal metterci un po' di ExR (che fa sempre bene).
Penso sia ora che io me ne torni sui libri di filosofia.
Enjoy :) 

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Capitolo 5
*** Sei malato veramente? ***


5. Bossuet/ Joly (Friendship)
 
Sei malato veramente?
 
 
Fino a pochi minuti prima, Bossuet avrebbe senza dubbio potuto affermare di aver avuto una pessima giornata. Tra appunti svaniti nel nulla, aule sbagliate, pavimenti scivolosi e ritardi vari, la mattina sembrava destinata a proseguire come da copione: sfortunata e potenzialmente catastrofica. Erano stati il provvidenziale incontro con Musichetta nei corridoi e l'appuntamento che ne era derivato, a fargli cambiare drasticamente idea sull'andamento di quella giornata e a cancellare la mezza intenzione di studiare che gli si era formata in testa.
"Niente lezioni questo pomeriggio, ho progetti migliori. E porta il tuo amico, quello bello."
Così aveva detto lei, accompagnando le parole con un occhiolino e un sorriso veramente troppo, troppo affascinante. Ogni volta che Bossuet ripensava al suo viso, alla sua pelle ambrata e  al suo corpo sempre troppo poco coperto, si sentiva frastornato e prossimo a cadere in stato confusionale. Musichetta era una di quelle ragazze che non avevano alcun bisogno di impegnarsi per risultare seducenti: a lei bastava ridere mentre si riavviava i lunghi capelli scuri per far impazzire chiunque. E ora Bossuet aveva mandato all'aria i suoi progetti e  setacciato mezza università alla ricerca di Joly, perché era ciò che lei voleva. 
Il problema era che Joly non si trovava da nessuna parte. L'ultima volta che Bossuet lo aveva visto era stata quella stessa mattina, quando il medico aveva rifiutato di alzarsi dal letto a causa del sonno arretrato che aveva e che, come tutti sanno, è la principale causa del calo delle difese immunitarie. Del resto sapeva che era stato a lezione poiché Combeferre lo aveva avvistato per i corridoi, avvolto in una sciarpa di lana e nella sua felpa più pesante, ma nessuno sembrava avere idea di dove potesse essere finito. 
 
Colto da un'illuminazione improvvisa, realizzò di essere nel ventunesimo secolo e di possedere un cellulare. Tutto quello che doveva fare era recuperarlo dal fondo dello zaino, accenderlo e.... scarico. Ovviamente. Stava per lasciarsi prendere dallo sconforto quando avvistò una familiare sagoma magra e vagamente zoppicante entrare in fretta nei bagni in fondo al corridoio.
"Marius! Hey!" gridò inseguendolo all'interno.
"Bossuet ciao! Non è che potremmo parlare dop..."
"Mi serve il tuo cellulare."Esclamò interrompendolo "Devo chiamare Joly ma non lo trovo e il mio è scarico e... insomma posso?"
"Ssi... ecco, ma prima io dovrei..." e lanciò un'occhiata eloquente alla porta del gabinetto.
"Non ti servirà il cellulare"
"Okay" ribatté il più piccolo a malincuore, passandoglielo"ma facci attenzione, non che non mi fidi di te, ma sai, ci tengo e tu..."
"Lo difenderò a costo della vita" borbottò mentre stava già componendo il numero di Joly.
Siamo spiacenti, ma il suo credito è esaurito, la invitiam...
"MARIUS!!"
"Cosa?" domandò quello, trafelato, ricomparendo dalla porta che si era appena chiuso alle spalle.
"Dice che non hai più soldi"
"No, infatti li ho finiti una settimana fa e...oh, non avevo pensato al fatto che dovessi chiamare Joly"
"E a cosa hai pensato quando ti ho detto che dovevo chiamare Joly?"
"Beh io... aspetta, Joly è in biblioteca, l'ho incrociato prima!"
"Pontmercy, sei... sei di grande aiuto, grazie." disse, affrettandosi fuori prima di fare una strage.
 
Joly era effettivamente in biblioteca; Bossuet lo trovò seduto a terra contro uno scaffale, con le gambe strette contro il petto e il naso infilato in un volume sulla sintomatologia delle malattie tropicali.
"Joly, non è il momento di essere moribondo, Musichetta ci aspetta per le cinque!" Esordì con un tono di voce un po' inadeguato al luogo dove si trovavano.
"'Chetta?" mormorò il medico alzando gli occhi dal libro. Sembravano stranamente lucidi. "Vorrei Bossuet, ma non sto per niente bene. Mi gira la testa, ho freddo e mi fanno male tutte le ossa; vedi, qui c'è scritto che potrebbe essere..."
Bossuet non gli permise di terminare la diagnosi, chinandosi e rubandogli il libro dalle mani.
"Andiamo amico, smettila! È il momento di divertirsi un po'." Così dicendo gli afferrò i polsi obbligandolo ad alzarsi dal suo angolino. 
Una volta che gli fu di fronte però, Bossuet dovette ammettere che qualcosa non andava. Joly stava tremando, aveva le mani ghiacciate, il viso pallido e si stringeva nelle braccia come per proteggersi dal freddo: erano in Maggio, accidenti!
"Mio Dio, Joly! Sei malato veramente?"
Il ragazzo non rispose, ma barcollò vistosamente dando l'impressione di star per svenire da un momento all'altro. Bossuet, preso alla sprovvista, lo afferrò per le spalle prima che potesse cadere, maledicendosi mentalmente per non aver mai ascoltato una singola parola di quello che Joly diceva sul come comportarsi in questi casi.
In qualche modo riuscì a portarlo fino ad una delle sedie della zona studio che quel giorno, complice la solita fortuna, era incredibilmente vuota. L'unico essere vivente lì dentro, oltre a loro, sembrava essere la bibliotecaria con cui Bossuet era in pessimi rapporti a causa di certi libri persi e mai restituiti, e che comunque avrebbe potuto essere una ex compagna di scuola di Matusalemme e quindi perfettamente inutile.
"Joly? Hey, mi senti? Coraggio amico, adesso andiamo in camera, okay?
L'altro ragazzo sembrò sul punto di dire qualcosa, poi scosse debolmente la testa, rannicchiandosi tra lo schienale della sedia e il muro affianco a lui.
Perfetto, ci mancava solo che si mettesse a fare i capricci.
"Guarda che non c'è un piano B"
"Ma non ce la faccio" mugugnò il medico da sotto la sciarpa.
"Dicevi anche che non avresti mai passato il test d'ammissione a Medicina; alzati."
Joly lo guardò storto per qualche istante, poi sospirò rassegnato e gli tese la mano. Punto per Bossuet
 
Il percorso dalla biblioteca agli alloggi studenteschi fu un susseguirsi di gemiti, lamentele e accurate descrizioni di sintomi, al punto che, quando finalmente raggiunsero la stanza che dividevano, Joly era riuscito a trasformare la preoccupazione di Bossuet in autentico panico.
Lo fece mettere a letto, scostandogli dalla fronte i capelli sudati. Scottava, accidenti se scottava. 
"Cosa posso fare?" 
"Di' a Musichetta che mi dispiace..."
"Joly...." mormorò in tono di avvertimento.
"...mi dispiace di doverla lasciare per sempre."
Ecco, lo sapevo.
"Intendevo cosa posso fare per evitare che tu muoia"
"Ah... niente probabilmente."
"Benissimo. Chiamo 'Ferre." sbottò infine, mentre Joly seppelliva il viso nelle coperte. 
 
Per quanto ostinate, le ricerche di un caricatore per il suo cellulare si rivelarono vane, tanto che alla fine si risolse di utilizzare quello di Joly. Dopotutto era convinto di essere ad un passo dalla morte, non gli sarebbe certo dispiaciuto. 
Non fece in tempo a comporre il numero però, che lo stesso Combeferre bussò alla porta della stanza.
"Ciao Bossuet, ho portato gli appunti di anatomia che Joly mi ha chiesto, potresti darglieli tu che io dev..."
"'Ferre! E' meraviglioso vederti! Ho un enorme bisogno di te, Joly è malato." esclamò, ignorando completamente i fogli che l'amico gli porgeva.
"Sì, lo so" ribatté quello senza scomporsi "è per questo che gli portato gli appunti della lezione che ha saltato. Eccoli, ora i vad..."
"No, non hai capito, sta male sul serio! E' malato davvero!" Così dicendo trascinò Combeferre, che ancora blaterava qualcosa sull'essere in ritardo, vicino al letto dove Joly si era raggomitolato.
 "Accidenti, non ha una bella cera!"
"Che ti avevo detto io" borbottò Bossuet alle sue spalle, venendo elegantemente ignorato.
Combeferre si inginocchiò accanto al malato, posandogli una mano sulla fronte per verificare se avesse la febbre.
 
Bossuet capì poco o niente della conversazione tra i due studenti di Medicina, sapeva solo che tutti quei termini inaccessibili lo mettevano più in agitazione di quanto non fosse già.
Quando Combeferre si sollevò da terra, girandosi verso di lui e posandogli una mano sulla spalla con fare paterno, Bossuet era praticamente nel panico.
Ora mi dice che morirà ora mi dice che morirà ora mi dice che...
"Ha l'influenza."
...Maledetto ipocondriaco paranoico, ti faccio fuori io, altroché!
"L'influenza influenza?"
"L'unica influenza che conosci." ripeté sorridendo divertito "dagli un po' d'acqua e lascialo dormire. Domani starà già meglio."
"Tutto qui?"
"Tutto qui."
"Io lo ammazzo."
La risata di Combeferre risuonò in contemporanea al trillare insistente del suo telefono.
"Pronto? Ciao 'Ponine, scusami, ho avuto un imprevisto... no, va tutto bene... sì, sto arrivando... a dopo allora."
Bossuet alzò un sopracciglio, sorpreso.
"'Ponine? Ma chi, quella del bar?"
"Proprio lei. La conosci?" domandò incuriosito, sistemandosi la tracolla sulla spalla.
"Non proprio... uscite insieme?"
"Non proprio. Ricordati gli appunti!" gli gridò scomparendo giù per le scale.
"COMBEFERRE CI DEVI DELLE SPIEGAZIONI!" Ma il medico era già sparito.
 
Che cavolo, persino 'Ferre aveva un appuntamento quel giorno! E lui invece era bloccato lì con un migliore amico malato e uno spiacevole compito da assolvere: annullare l'uscita con Musichetta.
Sospirò, sedendosi a cavalcioni sulla sedia accanto al letto di Joly e appoggiando le braccia allo schienale.
"Hey Joly"
Il ragazzo socchiuse appena un occhio, come infastidito da una luce troppo intensa.
"Mmh"
"'Ferre ha detto che domani starai bene, è inutile che fai tanto il sofferente."
"Ma io sto male!" piagnucolò il più piccolo con ritrovata energia.
Bossuet lo guardò scuotendo la testa, combattuto tra la tentazione di prenderlo a schiaffi e l'istinto di confortarlo. Ma era una battaglia persa, lo sapeva. Per quanto  potesse avercela con lui per averlo fatto preoccupare, l'affetto che provava per quel ragazzo così fuori dal mondo, così assillante e paranoico, era insuperabile. D'altra parte, gli doveva tutto. Era lui che l'aveva ospitato quando per un motivo o per l'altro si era ritrovato chiuso fuori casa ai tempi del liceo; era lui che gli aveva tenuto compagnia l'estate in cui era stato confinato a letto a causa di una brutta frattura scomposta; ed era sempre lui che ora falsificava goffamente i conti delle spese dell'alloggio studentesco, cercando di far pagare a Bossuet il meno possibile, consapevole della sua situazione finanziaria. Pareva anche sinceramente convinto che l'amico non si fosse accorto di nulla.
"Quello è un livido?"
La voce arrochita di Joly lo riportò sulla terra, dove il medico stava osservando preoccupato la macchia verde-viola- giallina che spiccava sul suo avambraccio scuro.
"Immagino di sì, sono scivolato sul pavimento bagnato stamattina"
"Oh Bossuet, un'altra volta?! Dovrebbero mettere dei cartelli di avvertimento!"
"In realtà c'era, ma io stavo cercando gli appunti nella borsa e così non l'ho visto e... hey! Che hai da ridere? Tu stai morendo, non puoi ridere!" esclamò, simulando un tono profondamente offeso.
Il medico soffocò le risate nel cuscino, e Bossuet scoppiò a ridere a sua volta, incapace di fingere un malumore che non gli era mai appartenuto.
"Mi hai fatto prendere un colpo, lo sai?" domandò quando si furono entrambi calmati.
Joly annuì e mugugnò delle scuse, stringendosi le coperte addosso. Improvvisamente sembrava esausto.
Bossuet gli accarezzò la fronte. " 'Ferre ha detto che hai bisogno di dormire".
L'assenza di una risposta gli fece intendere che l'altro era plausibilmente già scivolato nel mondo nei sogni. Sospirando, si alzò dalla sedia, deciso a concludere il pomeriggio abbuffandosi di qualunque schifezza fosse riuscito a trovare nella credenza.
"Lesgle..."
Si fermò, sorpreso. Se Joly lo chiamava col suo vero nome poteva significare solo due cose : o stava per dire qualcosa di estremamente sentimentale oppure voleva fare testamento.
"Senti, nel caso non dovessi svegliarmi..."
E ti pareva.
"... di' a Musichetta che la amo. Tanto."
"Sì, okay, ora dormi."
"E, Lesgle..."
"Sì?"
"Non te ne andare per favore."
...lo fregava sempre.
Non ci dovette pensare due volte: afferrò un libro a caso (un dizionario di spagnolo, che fortuna) e si lasciò nuovamente cadere sulla sedia.
"Dove vuoi che vada."
E mentre osservava l'amico sorridere lievemente e rannicchiarsi sotto le coperte pensò che era vero: non avrebbe avuto altro posto dove andare, la sua fortuna stava tutta in quella stanza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Hey voi! 
Perdonate il ritardo, ma sapete com'è,  Maggio non conosce pietà.
 Comunque dovrei avere il prossimo capitolo a buon punto; vedrete, mi farò perdonare ;)
Quindi, che dire: non potevo proprio evitare di scrivere qualcosa su di loro, ne andava del mio sonno tranquillo, capite?
Preciso una cosa: ho scritto "friendship" perché non so bene come proseguirò con loro, ma nella mia testa è meravigliosamente chiaro che:
Joly ama Musichetta. E Bossuet.
Musichetta ama Bossuet. E Joly.
Bossuet ama Joly. E Musichetta.
E sono perfetti così <3
Vi lascio! Dopo una settimana di studio  per me è ora di uscire di nuovo nel mondo esterno!
Enjoy :)

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Capitolo 6
*** Non vivi forse prodigandoti per gli altri? ***


 
6. Combeferre
 
Non vivi forse prodigandoti per gli altri?
 
 
Nell'istante stesso in cui Combeferre aprì gli occhi, si sentì pervadere da una spiacevole sensazione di irrequietezza. Enjolras. Enjolras non era rientrato quella notte. 
Si girò di scatto verso il letto del suo compagno di stanza, sospirando di sollievo nel distinguere -seppur sfocati dalla miopia- dei ricci biondi che spuntavano da un groviglio di lenzuola. Solo a quel punto spense la sveglia e scivolò giù dal letto sbadigliando.
Erano le sette del mattino: Enjolras a quell'ora era solitamente già sveglio e impegnato a programmare sistematicamente i suoi impegni per la giornata, destreggiandosi tra le lezioni di Legge e l'organizzazione di qualche manifestazione studentesca, eppure quel giorno era rimasto a letto, lasciando la stanza immersa in una calma irreale. 
Non che ne fosse stupito: la sera prima lui era rimasto sveglio a studiare fino all'una e non l'aveva sentito rientrare, era naturale che fosse stanco. Quello che invece non era normale per niente era il fatto che si ostinasse ancora a non parlarne col suo migliore amico. Insomma, credeva davvero che non si fosse accorto di niente?
Guardò i vestiti di Enjolras gettati malamente ai piedi del letto: forse agli occhi di qualcun altro quello sarebbe potuto passare per un semplice segno di stanchezza, ma Combeferre lo conosceva meglio di chiunque e sapeva  che disdegnava il disordine almeno quanto le ingiustizie sociali; considerava i piatti sporchi nel lavandino come una piaga paragonabile alla corruzione del paese, per intenderci. Solo uno stupido avrebbe potuto non rendersi conto che qualcosa stava cambiando, e Combeferre non era uno stupido. Solo non aveva idea di come convincerlo ad aprirsi con lui.
Continuò a rimuginare anche mentre improvvisava una colazione e mentre si faceva la doccia, ma senza esiti particolarmente positivi: ogni possibile conversazione che si figurava nella sua mente finiva con un Enjolras indignato dalle sue "immotivate" insinuazioni che cercava ogni modo per sfuggire al dibattito.
 Dio solo sapeva quanto quel ragazzo potesse essere testardo.
 
Quando uscì dal bagno, trovò l'altro seduto a gambe incrociate sul divano, ancora in pigiama e intento a sottolineare qualcosa sul libro di Diritto privato.
"Buongiorno. Niente lezioni oggi?"
"Ciao 'Ferre" rispose, alzando a malapena gli occhi dal volume "No, stamattina no, preferisco studiare qui. Non sto tanto bene."
Combeferre lo guardò, scettico: ricordava perfettamente tutte le discussioni per convincerlo - o obbligarlo - a restare a letto quando si prendeva la febbre a quaranta e Joly già piangeva la sua morte. Non poteva credere che improvvisamente avesse deciso di prendersi cura di se stesso.
"Che hai?" domandò, sedendosi accanto a lui sul divano.
Enjolras scrollò le spalle e sottolineò un'altra frase.
"Niente di che, non preoccuparti, sono solo stanco."
"Ci credo, non ti ho sentito rientrare ieri sera. A che ora sei tornato?"
Potè notare chiaramente il corpo dell'altro irrigidirsi e la sua voce risuonare tesa e nervosa mentre gli mentiva.
"Io... non mi ricordo. Forse le undici." 
Beccato.
"Ti ho aspettato fino all'una; dov'eri?" Cercava di mantenere un tono di voce il più neutrale possibile, ma persino per lui era difficile barcamenarsi tra la frustrazione per la reticenza dell'amico, l'euforia per essere -forse - riuscito a metterlo con le spalle al muro e quel vago senso di delusione che gli attanagliava lo stomaco dall'inizio della conversazione.
Enjolras esitò, piantando lo sguardo nel libro.
"In biblioteca"
Era sempre stato un pessimo bugiardo, ma questa volta si stava davvero superando.
"Enjolras, la biblioteca chiude alla nove... No, hey, aspetta!" esclamò, vedendo che l'altro accennava ad alzarsi dal divano e afferrandolo per un braccio prima che potesse allontanarsi.
"Che ti prende, si può sapere?"
"Niente, sono stanco." Ripeté, divincolandosi dalla sua presa con poca convinzione.
Non capitava spesso che uno dei due mentisse all'altro, anzi, anche sforzandosi non era in grado di ricordare l'ultima volta che si erano nascosti qualcosa. Del resto, si conoscevano abbastanza da capirsi senza bisogno di spiegazioni; Combeferre non aveva dovuto fare domande quando Enjolras si era iscritto ad un'università lontana anni luce da casa dei suoi genitori, e a nessuno dei due era sembrato necessario parlare del fatto che Combeferre sarebbe andato con lui. Erano coinquilini ma avevano in comune più che una stanza: condividevano sogni, speranze, insicurezze, ricordi di notti passate a studiare sul pavimento, schiena contro schiena, circondati da libri e tazze di caffè, e di giornate passate a fantasticare su come cambiare il mondo. Combeferre, con la sua pacatezza, riusciva a mitigare i tratti spigolosi del carattere di Enjolras, che in cambio lo contagiava con il suo spirito combattivo e i suoi incorruttibili sogni.
Probabilmente era per questo che Combeferre non poteva proprio evitare di sentirsi ferito, mentre guardava Enjolras dargli le spalle per andare a chiudersi nel bagno, tagliandolo ancora una volta fuori da qualunque conflitto emotivo stesse avendo luogo dentro di lui in quel momento.
Sospirò, passandosi una mano sul viso e cercando di riordinare le idee. 
Non ci aveva messo molto a collegare l'inusuale comportamento assunto dal biondo in quelle settimane e le sue inspiegabili sparizioni con il termine "relazione con qualcuno".  Per quanto riguardava il "qualcuno", Combeferre aveva capito da anni che Enjolras era omosessuale, probabilmente anche prima dello stesso Enjolras. Da lì a scoprire chi fosse effettivamente l'oggetto delle sue attenzioni il passo era stato tanto breve quanto sconcertante; d'altra parte, ora tutte le discussioni, le provocazioni, i rimproveri, acquistavano un senso. Riassumendo, sapeva tutto, ma non aveva idea di come affrontare la questione. 
Tuttavia, lo scrosciare dell'acqua della doccia gli lasciava inevitabilmente intendere che la conversazione era finita, e l'orologio sulla parete persisteva nel ricordargli che se non si fosse dato una mossa, il suo insegnate di Biochimica lo avrebbe gentilmente invitato a restare fuori dall'aula. Combeferre recuperò la borsa (già pronta dalla sera prima) e lanciò un'ultima occhiata alla porta del bagno, prima di scuotere la testa e uscire dalla stanza. 
Le lezioni di Biochimica erano importanti, ma i suoi amici lo erano di più: per questa ragione evitò di entrare in facoltà e camminò invece in direzione del bar. O almeno, gli piaceva credere che questa fosse l'unica ragione.
 
 
Eponine stava semplicemente dando di matto. Stare dietro agli ordini della prima mattina, impedire a Gavroche di rompere qualcosa o di ROMPERSI qualcosa, cercare di ignorare Marius e Cosette che sembravano dover dar prova del loro puro e sconfinato amore ad ogni ora e in ogni luogo, era troppo persino per lei. Ora, fortunatamente, il bar si stava pian piano svuotando, e la ragazza che lavorava con lei aveva finalmente deciso di presentarsi, così che Eponine si prese un secondo per chiudere gli occhi e riposarsi, appoggiando i fianchi al bancone.
Ci pensarono Gavroche e la sua voce troppo alta a interrompere quel frammento di tranquillità.
"Hey 'Ferre!"
Aprì di scatti gli occhi scuri, incredula. Combeferre? Che ci faceva lì? Avrebbero dovuto vedersi alle undici! Lei non era pronta. 
Tuttavia, dovette ricacciare indietro quel panico, classificandolo come "del-tutto-immotivato-Eponine-sei-una-stupida" e voltarsi, incontrando così il sorriso dolce di Combeferre, che stava scompigliando amichevolmente i capelli troppo lunghi di Gavroche. Tutto il suo nervosismo sembrò sparire per magia davanti a quella scena.
"Ma chi si vede, anche tu qui?"
"Sì" rispose Eponine al posto del fratello " stamattina ha pensato bene di nascondersi finché non è passato il pullman della scuola: non ho avuto altra scelta che portarlo qui." E lei era arrabbiata, sul serio. Con gli assistenti sociali che continuavano a ronzarle intorno,  l'ultima cosa di cui aveva bisogno era che suo fratello desse loro un pretesto per toglierle la sua custodia. 
Gavroche, fissandosi le scarpe bucherellate, borbottò qualcosa sull'inutilità della geografia, che Eponine preferì ignorare.
"Cosa ci fai qui? Ti aspettavo per le undici" Per un attimo temette di essere stata scortese, di aver detto la cosa sbagliata, di aver fatto un casino. Ma poi il medico le sorrise, e a lei non restò che darsi della stupida paranoica.
"Ho discusso con Enjolras stamattina e ho fatto tardi per la lezione, quindi ho pensato di passare... ma non ti voglio disturbare mentre lavori."
"No, no, tranquillo. Vieni, sediamoci." lo rassicurò, facendo un cenno all'altra ragazza per farle intendere che si sarebbe assentata un attimo. Cenno che ricevette per risposta un'occhiata di assenso e un  sorrisetto malizioso, completamente fuori luogo. Lo era, no? Dopotutto, loro non erano neanche amici, i loro incontri -tra l'altro sempre più frequenti- avevano un solo scopo, con un nome bene preciso: caso umano Enjolras- Grantaire.
Da quando si erano conosciuti, Grantaire era stato una delle poche presenze fisse nella vita di Eponine e, sebbene non lo si potesse considerare esattamente una persona affidabile, sentiva di dovergli tanto, abbastanza da mettersi a complottare per la buona riuscita di quella che sembrava essere  una buona candidata al premio "relazione impossibile dell'anno". 
 
"Allora" esordì lei, sedendosi ad uno dei tavolini e mettendo da parte i propri dubbi "ha prodotto qualcosa questa discussione?"
Combeferre sospirò, sedendosi a sua volta e appoggiando l'immancabile tracolla sul tavolo di plastica. 
"Assolutamente niente, non mi ha nemmeno lasciato avvicinare all'argomento "relazione" questa volta. Inizio a credere che non ci sia modo di farglielo ammettere."
"Oh no, andiamo, non può essere impossibile!"
"Fidati, se avessi sentito le scuse che ha accampato per giustificare il fatto che è tornato all'alba, anche tu avresti perso le speranze."
Eponine trattenne una risata, divertita. C'era qualcosa di strano nel modo in cui quel ragazzo la faceva sentire, qualcosa di completamente diverso dalla tempesta di emozioni contrastanti che si animava in lei ogni volta che Marius era presente, qualcosa di piacevole, anche, ma inesprimibile. 
" Grantaire è altrettanto testardo. Vede tutta questa storia come un miracolo avvenuto per chissà quale allineamento di astri, e ha tutte le intenzioni di lasciare le cose come stanno."
"Anche se significa nascondersi? Voglio dire, ormai va avanti da settimane! La sua è una reticenza inutile."
"Beh, potremmo beccarli sul fatto! Così non avrebbe altra scelta che..." dovette interrompersi davanti all'espressione scandalizzata di Combeferre.
"Vuoi ucciderlo, per caso?" le domandò con voce roca "Perché questo sarebbe sicuramente un modo efficace per fargli venire un infarto."
A quel punto Eponine non poté trattenersi dal ridere, coprendosi la bocca con una mano giusto per darsi un po' di contegno.
 "Ma insomma, non aveva ventidue anni?"
"Sì" rispose sorridendo con dolcezza "ma per quanto riguarda le relazioni amorose è rimasto alla pre adolescenza: forse giusto un po' più indietro. Il fatto è che ha conosciuto troppo presto e troppo intensamente l'amore per la Patria, la Libertà, la Giustizia, e così si è dimenticato di tutto il resto."
Eponine si ritrovò a fissarlo, l'ombra del sorriso ancora a incresparle le labbra.
"Gli vuoi bene" constatò.
"È come un fratello."
Pensò che fosse bello, in quel momento. Pensò che avere l'affetto di Combeferre dovesse essere qualcosa di veramente speciale, di unico. Pensò anche che, se Enjolras rifiutava l'aiuto di un amico che avrebbe palesemente dato anche la vita per lui, doveva avere dei seri problemi, o essere veramente stupido.
"Va tutto bene?" La voce di Combeferre era preoccupata, evidentemente la sua espressione doveva avergli lasciato intendere quali fossero i suoi pensieri.
"Sì, è che...non mi sembrano delle premesse molto incoraggianti. Si faranno del male." 
"Pensi che stiamo sbagliando?"
Eponine passò in rassegna nella sua mente i ricordi comprendenti Grantaire in lacrime o ubriaco fino allo svenimento, il suo sguardo perso nel vuoto della rassegnazione e la sue mani tremanti di rabbia, il tutto scaturito da un'unica causa: Enjolras.
No, non stavano sbagliando.
"Ho solo paura per lui"
"Lo capisco. Ma faresti meglio a non preoccuparti tanto. Forse dovresti pensare più a te stessa"
E di te che mi dici, Combeferre? Non vivi forse prodigandoti per gli altri?
"Forse dovremmo entrambi"
Combeferre lasciò vagare il proprio sguardo per il locale praticamente vuoto.
"Forse sì." concordò infine, alzandosi " iniziamo da oggi, che ne dici? Torno quando hai finito il turno, voglio farti vedere un posto."
Eponine non avrebbe saputo identificare il modo in cui si sentiva mentre accettava di slancio quella proposta; non avrebbe saputo descrivere l'emozione che provava nel vedere suo fratello aggrapparsi alla manica del cappotto di Combeferre, pregandolo di mostrargli ancora una volta il "libro con le figure dei morti", che altro non era se non il manuale di anatomia; non avrebbe saputo nemmeno giustificare i battiti del suo cuore che sembravano accelerare man mano che la lancetta dell'orologio si avvicinava a segnare le undici, ma, quando infine vide la figura alta e rassicurante del giovane medico varcare la soglia, sfregandosi le braccia per il freddo, sentì di poter affermare che si sentiva bene.
Marius la faceva sentire innamorata, con Combeferre era serena. 
Ma forse era veramente arrivato il momento di pensare a se stessa, di lasciare che qualcun altro si prendesse cura di lei: a cominciare la quella mattina.
 
 
 
 
 
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E rieccola!
In ritardo, ovviamente. Ma perdonatemi, un capitolo su Combeferre non si può certo scrivere di getto, bisogna pensarci, e ripensarci, e ripensarci....
Sì, ok, sono scuse, ma sono carine.
Quindi nulla, a voi il capitolo e i commenti.
Enjoy :)  
 

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Capitolo 7
*** Cosa hai intenzione di fare con noi? ***


7. Enjolras/Grantaire

Cosa hai intenzione di fare con noi?

 

 

Grantaire imprecò tra sé, accartocciando l'ennesimo foglio e lasciandolo cadere sul pavimento assieme ai precedenti. Ormai era almeno un quarto d'ora che imbrattava di carboncino i fogli dell'album da disegno, tentando di riprodurre le fattezze del ragazzo addormentato nel suo letto. Peccato che Enjolras continuasse a muoversi, mandando a puttane tutti i suoi sforzi.
"Sta fermo, maledizione!" mugugnò a denti stretti, incrociando le gambe e sistemandosi meglio nella sua postazione in fondo al letto. 
Riprese a schizzare con tratti nervosi, riproducendo col carboncino le stesse linee percorse dalle sue mani la notte precedente: disegnò le labbra che aveva baciato, le braccia che lo avevano avvolto, i capelli che aveva stretto tra le dita. Disegnò persino la piccola cicatrice bianca alla base del collo, talmente sottile da essere quasi invisibile, ma che a Grantaire non era sfuggita. 

"Che stai facendo?"
Era incredibile come la sua voce, anche se assonnata, riuscisse a risuonare decisa e autoritaria. Grantaire sorrise, senza alzare lo sguardo o smettere di passare le dita sul disegno per sfumarlo. Cosa stava facendo? Non lo sapeva.

Stava cercando di fermare quell'istante da qualche parte, in qualche modo. Stava tentando di metabolizzare tutte le emozioni di quella notte, gettandole su un foglio, perché altrimenti sentiva che sarebbe esploso. Stava disperatamente provando a convincersi che quella era la realtà. Perché lui aveva immaginato una situazione del genere notte dopo notte, bicchiere dopo bicchiere, rendendola ogni volta più vera e realistica, tanto che adesso gli era difficile scindere la fantasia dal concreto. Gli era difficile accettare che forse, per quella volta, era valsa la pena di sperare in qualcosa.
"Ti disegno" rispose semplicemente, scrollando le spalle " e lasciami dire che non mi hai reso il compito facile".
In tutta risposta ottenne un borbottìo indistinto  che interpretò come un "magari non volevo essere disegnato" e che gli strappò inevitabilmente un sorriso.

Da quando Enjolras si era svegliato, Grantaire non aveva mai alzato gli occhi dal proprio disegno, continuando ad aggiungere linee e sfumature inutili, rimandando quanto più possibile il momento in cui avrebbe dovuto fronteggiare la realtà. La concretezza era qualcosa da cui lui aveva sempre cercato di fuggire: da bambino si chiudeva in camera sua, da ragazzo aveva cercato conforto nell'arte, ed ora l'acool gli aveva mostrato una via di fuga tremendamente semplice ed efficace. Forse le cose sarebbero state diverse se Grantaire fosse stato in grado di sognare; forse, se avesse saputo nutrire la speranza di poter cambiare quel mondo che tanto odiava, avrebbe smesso di fuggire davanti alle atrocità che lo popolavano; forse, in quel caso, sarebbe stato più simile al suo Apollo, più degno del suo amore.
E invece era vissuto nel più irreversibile scetticismo, incapace di credere in qualcosa che non fosse un bicchiere pieno d'alcool. Non aveva speranze per il futuro, non vedeva altro che un presente nauseante e doloroso. Tutta la sua vita era stata così, fino a quella notte che aveva stravolto ogni cosa, ribaltato cielo e terra, unito quel che sembrava destinato alla separazione, portato la luce dove non c'era niente da illuminare. E se anche quella mattina avesse dovuto significare la fine di tutto, e Grantaire sperava di no, per lui sarebbe stato abbastanza; perché ora Grantaire sperava.


Nel frattempo Enjolras si era alzato a sedere e si stava passando le mani sul volto nel tentativo di svegliarsi, schermandosi gli occhi dalla luce del sole che inondava la stanza. Era bellissimo.
Sarebbe sempre stato bellissimo, Grantaire non aveva dubbi; anche coi ricci scompigliati dal cuscino e gli occhi lucidi per il sonno, era tanto perfetto da togliere il respiro. E quando infine i suoi occhi incontrarono le iridi azzurre dell’altro, il ragazzo credette sul serio che qualcuno gli avesse sottratto tutta l’aria dai polmoni, perché accidenti, Enjolras era davvero lì, era rimasto e non sembrava dispiaciuto o pentito, lo stava semplicemente guardando con un lieve imbarazzo che aumentava mano a mano che gli tornavano alla mente ricordi della notte passata. 

Aprì la bocca per dire qualcosa -senza sapere esattamente cosa- ma Grantaire lo zittì sporgendosi in avanti e posando con impeto le proprie labbra su quelle dischiuse del biondo, bloccandogli il viso con una mano.
Dopo un attimo di sorpresa, l’altro rispose al bacio e afferrò il moro per i fianchi, avvicinandolo a sé e facendo irrimediabilmente cadere l’album da disegno che stava ancora sulle sue gambe. Il blocco scivolò a terra e parecchi fogli si sparsero sul pavimento già pieno di cianfrusaglie, ma nessuno dei due se ne curò particolarmente.

“Buongiorno” soffiò Grantaire a un centimetro dalle labbra del biondo, che non riuscì a trattenersi dal sorridere di rimando, chiedendosi dove accidenti fosse finito il suo buonsenso, o quantomeno la sua capacità di formulare pensieri logici. 
Probabilmente la risposta stava nel fatto che nella sua mente non c’era spazio se non per un unico, incasinato pensiero, riassumibile in: “Ommioddiocosahofattolosapevosonofregato”.
Se il giorno prima gli avessero detto che quella mattina si sarebbe svegliato terribilmente più tardi del solito, in un letto che non era il suo, e tra le braccia di quel cinico bastardo piantagrane che era Grantaire, lui... beh, probabilmente gli avrebbe fatto un occhio nero.
Eppure...
Sospirò, allontanandosi un po’ dal moro, e fece per togliersi le coperte di dosso: salvo poi accorgersi di essere nudo. Lanciò uno sguardo allarmato in direzione dell’altro ragazzo, che lo osservava divertito.
"Qualche problema?" domandò sghignazzando.
"Tu.... potresti, ecco... girarti? Devo rivestirmi."
"Non dovresti vergognarti. Sai, non so se ti ricordi ieri notte, ma sono abbastanza convinto di averti già vist..."
"Ieri notte era diverso." affermò con un tono che non ammetteva repliche.
"Okay, okay" rise Grantaire, sistemandosi con la schiena contro la testiera del letto e nascondendo il viso tra le braccia "Va bene così?"
"Mhh" assentì, recuperando i suoi indumenti sparsi per la stanza e infilandoseli il più velocemente possibile.
Quando tornò a voltarsi verso il moro però, Enjolras si scontrò con un paio di occhi per niente chiusi e un insopportabile ghigno malizioso. Tipico.

"Avevi ragione sai, ieri notte era diverso. Sei molto più bello alla luce del sole."
"Grantaire sei impossibile" decretò sbuffando, e andò alla ricerca delle proprie scarpe, misteriosamente scomparse nel caos della stanza.
"E tu sei antipatico! Sei sempre così scontroso dopo il sesso?"
Enjolras, che aveva appena recuperato una scarpa solitaria da sotto la scrivania, a quelle parole arrossì violentemente, e si irrigidì tanto che il suo bottino gli scivolò di mano. Maledizione. A volte avrebbe davvero voluto essere fatto di marmo, giusto per evitarsi queste pessime e palesi reazioni, di cui Grantaire si accorgeva sempre, e, a giudicare dalla sue espressione interrogativa, quella volta non aveva fatto eccezione.
“I-io...” annaspò, incerto, spostando il peso da una gamba all’altra “non... non avevo mai...”
Ci fu un terrificante attimo di silenzio, in cui Enjolras prese in seria considerazione l’idea di non parlare mai più per il resto della sua vita, prima che Grantaire si degnasse di togliersi quell’aria sconcertata dalla faccia e dire qualcosa.
“Oh.” fu il suo esauriente commento “non lo sapevo.”
“Non importa.” disse sbrigativo l’altro, passandosi nervosamente un mano tra i capelli e riprendendo la ricerca.

“Non sentite mai il bisogno di mettere in ordine qua dentro?” si affrettò ad aggiungere, sapendo di non poter sopportare ulteriori silenzi imbarazzati.
“Io trovo sempre tutto.” affermò Grantaire con soddisfazione, incrociando le gambe “penso sia un ottimo modo per disporre le cose in maniera... espositiva.”
Enjolras osservò dubbioso l’oggetto della sua ricerca, nascosto sotto un libro aperto, decidendo seduta stante che era meglio non farsi troppe domande su come potesse essere finito lì.
“E’ anche un ottimo modo per rubare i vestiti del compagno di stanza.” decretò. “Quei jeans non sono tuoi.”
Il moro osservò confuso lo stoffa che gli ricopriva le gambe. “Ah, ecco perché sono così larghi... okay beh, confesso il furto, Vostro Onore, ma in mia difesa posso affermare che è stato fatto inconsapevolmente e che comunque stanno meglio addosso a me.”
Enjolras rise piano e si sedette accanto a lui sul bordo del letto. A poco a poco, l’agitazione che lo attanagliava dal momento in cui aveva aperto gli occhi si stava dissipando, e, considerando che nessuna entità superiore era ancora discesa a maledirlo per aver anteposto i propri interessi a quelli della Francia, forse poteva concedersi di tranquillizzarsi per un po’.
“Cosa mi ha tradito?”
“Sono macchiati di sangue” rispose, passando le dita sulla stoffa ruvida dei jeans, nel punto in cui spiccavano due macchie più scure del resto. Grantaire trasalì a quel contatto, ma l’altro non sembrò accorgersene.
“E’ successo mentre andavamo ancora al liceo, durante una manifestazione che poi è degenerata e, beh, sai com’è fatto lui, se c’è da buttarsi in una rissa non ci pensa due volte. I nostri genitori non dovevano sapere dove eravamo andati, così abbiamo tentato in ogni modo di risistemarci i vestiti, ma questi non sono mai venuti puliti. ”

Quando infine si riscosse dai suoi ricordi e sollevò nuovamente lo sguardo sul ragazzo, lo trovò pericolosamente vicino al suo viso. Il cuore prese a battergli furiosamente nel petto, senza che potesse fare niente per impedirlo; odiava, odiava quella sensazione, e Grantaire era sempre in grado di fargli perdere il controllo in qualche modo. Da una parte era spaventoso, dall’altra era anche una piacevole novità, abituato com’era alla propria ostentata compostezza e imperturbabilità. Solo che ad Enjolras le novità non andavano per niente a genio.
“Devo andare...” sussurrò con quel poco di fiato che gli era rimasto, riuscendo in qualche modo ad allontanarsi da quel ragazzo così intossicante e ad alzarsi in piedi.
Grantaire, che dal canto suo non aveva idea dei conflitti mentali che stava scatenando, lo imitò, afferrandogli un braccio prima che potesse raggiungere la porta della stanza.
“Aspetta! Dimmi solo... cosa facciamo adesso? Voglio dire... cosa hai intenzione di fare con... noi?”
Lo stomaco di Enjolras si strinse in una morsa dolorosa a quella domanda. Non che non se l’aspettasse, però l’avrebbe evitata volentieri, soprattutto perché non aveva un risposta e forse non l’avrebbe mai avuta. 
In qualche modo riuscì a sostenere lo sguardo carico d’attesa di Grantaire, ma non riuscì a formulare nessuna frase. Probabilmente perché non esisteva nessun modo gentile per dire “ho intenzione di fingere che non sia mai successo, mentendo a tutti quelli che mi stanno vicino e a me stesso, mentre cerco di sistemare il casino che ho in testa.” 
No, non poteva dirlo. Non poteva ammettere una tale debolezza, non davanti agli occhi smarriti di un ragazzo che palesemente dipendeva da lui, dalla sua approvazione, dall’amore che non era in grado di dargli. Enjolras sapeva che Grantaire lo amava, e sapeva che stava soffrendo a causa sua, ma non riusciva a fare niente per impedirlo. 
Si limitò a rivolergli un’occhiata mortificata, prima di uscire dalla stanza e richiudersi la porta alle spalle.

 

 

 

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Guess who’s back??
Okay, linciatemi, ma non ho davvero avuto tempo,
stavo anche per abbandonare tutto!
Spero comunque che il capitolo vi piaccia, 
e non arrabbiatevi troppo con Enjolras, è diviso tra due amori dopotutto!
Grazie a chi leggerà ecc... ecc... Siete tutti fantastici <3

 

 

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Capitolo 8
*** Perché dovrebbe volere me? ***


8. Eponine/R (Friendship); Eponine/Combeferre

Perché dovrebbe volere me?

 

 

"Io lo odio." esordì Grantaire sedendosi malamente sul bancone del bar e ignorando del tutto l'occhiataccia di Eponine, fino a quel momento impegnata a ripulire il ripiano con uno straccio.
Mancavano una decina di minuti alla chiusura e il locale era vuoto, fatta eccezione per Combeferre, seduto a un tavolo poco lontano e completamente assorto nella lettura; con ogni probablità aveva perso il senso del tempo, ma per qualche ragione Eponine non aveva ancora ritenuto necessario farglielo notare.

"Cosa è successo?" domandò stancamente, appoggiando i gomiti al bancone e voltandosi in direzione di Grantaire, che in quel momento appariva ancora più trasandato del solito, con i capelli arruffati e le unghie incrostate d'argilla.
"Niente."
"Come sarebbe a dire niente?"
"Che non ne voglio parlare." mugugnò il ragazzo, osservando con estrema attenzione la cucitura laterale dei suoi jeans, che stava progressivamente perdendo punti e aveva ormai creato un buco all'altezza del ginocchio.
Eponine simulò un principio di svenimento.
"Presto, mi serve un calendario, un'agenda, qualsiasi cosa! Devo segnarmi questo giorno! Hey Ferre! Tu lo sai che giorno è oggi?"
Combeferre, bruscamente strappato al suo universo letterario, le rispose con l'aria spaesata di chi è appena stato buttato giù dal letto.
"Ehm... il sette Dicembre?"
"No no, è il primo giorno da quattro anni in cui R non vuole parlare di Enjolras!"  esclamò, con il tono più sorpreso e deliziato che riuscisse a produrre, mentre Combeferre cercava di mascherare il sorriso che gli era nato sulle labbra e Grantaire  la guardava come se avesse voluto spaccarle qualcosa in testa.
"Oh, ma sei uno spasso!" commentò acido "Ma non potresti magari evitare di sventolare i miei sentimenti ai quattro venti?"
"A quello ci pensi da solo."
"Non è vero!"
"Allora forse dovresti smetterla di sbavare quando lo guardi."
"Io non..."

Il loro maturo e pacifico scambio di opinioni venne interrotto dalla voce pacata di Combeferre, che finalmente si era accorto dell'ora tarda.
"Maledizione, sono in ritardo! Dovevo incontrarmi con Joly per studiare almeno mezz'ora fa... sarà preoccupato."
"Sicuramente" decretò laconicamente Grantaire, che era tornato a concentrarsi sui suoi jeans bucati, con l'espressione più infelice del mondo dipinta in viso.
"Beh mi conviene scappare, ciao R! Ciao 'Ponine." aggiunse poi con un sorriso, prima di sistemarsi la borsa su una spalla e dirigersi verso l'uscita.
Eponine lo seguì con lo sguardo finchè non scomparve dietro la porta a vetri, e probabilmente aveva un'aria troppo sognante, o un sorriso troppo idiota, perchè Grantaire si sentì in dovere di commentare: "Meglio lui che Pontmercy, comunque."
"Oh, smettila subito! 'Ferre è un amico."
"Naturalmente. E io sono Delacroix."
La ragazza sbuffò sonoramente, mentre finiva di pulire il bancone e si legava i capelli scuri alla meno peggio, arrangiandoli in una coda.
"Ti stai inventando tutto."
"Beh, forse dovresti smetterla di sbavare quando lo guardi" la scimmiottò lui.
Eponine decise che era il caso di lanciargli addosso lo straccio.
 

Diversi battibecchi più tardi, erano entrambi nel cortile dell'università a tremare nell'aria gelida di dicembre. Eponine si sistemò meglio la sciarpa attorno al collo e gettò uno sguardo al cielo plumbeo e statico, identico ai giorni precedenti. Sembrava che il tempo non passasse più, ogni ora era identica alla precedente: grigia e maledettamente fredda.
"Detesto l'inverno. E questo freddo indecente." decretò rabbrividendo, mentre si incamminavano verso gli alloggi studenteschi. 
Grantaire viveva lì grazie alla borsa di studio che aveva ottenuto, mentre la casa di Eponine era un piccolo monolocale poco fuori dall'ateneo,  il cui affitto la preoccupava costantemente. Ad ogni modo, fare quel piccolo pezzo di strada insieme era diventato una specie di rituale per i due ragazzi, un momento per staccarsi da una routine che soffocava entrambi. 
"E detesto anche il ghiaccio!" aggiunse scocciata, dopo aver rischiato di scivolare per l'ennesima volta sul terreno incrostato di neve.
Grantaire ridacchiò, passandole un braccio attorno alle spalle, giusto per evitarle una rovinosa caduta a cui sarebbero seguiti una varietà esorbitante di maledizioni e ingiurie di ogni genere, di cui avrebbe preferito fare a meno.
"A me non dispiace."
"Questo perché sei un maledetto cinico che ama tutto quello che gli altri odiano e odia quello che agli altri piace."
Il ragazzo sbuffò e alzò gli occhi al cielo, mantenendo però il sorriso sulle labbra.
"A proposito di amore e odio" disse lei ad un tratto "non mi hai detto cosa è successo con Enjolras." 
"Niente."
"Ascolta" ribatté un po' spazientita "se non hai intenzione di dirmi che succede, almeno levati quell'espressione da funerale perc..."
Il ragazzo scosse la testa. "Non hai capito. Non è successo niente, nel senso di niente."

Nel frattempo erano arrivati ai dormitori: un'enorme costruzione intonacata di un rosso opaco e costellata di finestre, con un tetto spiovente. Se l'intenzione dell'architetto che l'aveva progettata era quella di rimandare all'idea di atmosfera casalinga, è il caso di dire che aveva fallito miseramente. 
Grantaire si allontanò dall'amica e appoggiò fiaccamente la schiena al muro dell'edificio, seppellendo le mani gelate nelle tasche del cappotto.
"Sono settimane che mi evita. Non risponde ai messaggi, né alle chiamate, e le poche volte che riesco a incrociarlo nei corridoi, trova una scusa e scappa via." spiegò con un sospiro.
"Oh..."
"Già."
"Avete litigato?"
"Non che io sappia."
“Ma allora che...”
“Non lo so ‘Ponine.”

Per un po’ tra i due ragazzi cadde il silenzio: Grantaire fissava un punto nel vuoto, immerso nei suoi pensieri ed Eponine cercava disperatamente le parole giuste da dire per confortare l’amico, senza però avere particolare successo. 
Alla fine fu lui a parlare per primo: “ Forse si è semplicemente accorto che può avere di meglio.”
“Smettila di dire stronzate, per carità!”
“Oh andiamo ‘Ponine, è evidente che  uno come me non sarà mai alla sua altezza! Perché mai dovrebbe volere me?”
La ragazza dovette far leva su tutto il suo scarso autocontrollo per non prenderlo a schiaffi seduta stante. Contò quindi fino a dieci, lasciando trapelare tutta la sua rabbia e disapprovazione solo attraverso lo sguardo, piantando le iridi scure in quelle di lui. Dopodiché gli diede uno schiaffo.
“Non parlare mai più così, okay? Mai. Non lo meriti, nessuno lo merita.”
Grantaire, neanche troppo sorpreso, si limitò a passarsi il dorso della mano sulla guancia colpita, accennando un sorriso malinconico.
“Meglio che vada ora. Ci vediamo.” sussurrò, accennando un leggero movimento del capo a mo’ di saluto e dandole le spalle.

 

Eponine guardò la sagoma dell’amico svanire dentro l’edificio con un groppo in gola e un pessimo presentimento. Sapeva benissimo cosa sarebbe successo ora: Grantaire  avrebbe passato un’indefinito lasso di tempo a compatire se stesso e a scatenare invettive contro la vita, la provvidenza, il destino, la rivoluzione francese e le manie di controllo. Dopodiché avrebbe dato fondo a quel che restava delle riserve di alcool che lui e Bahorel tenevano nascoste nel cassetto dei calzini e nell’armadietto dei medicinali, si sarebbe messo a  schizzare nervosamente sul primo blocco da disegno capitatogli sotto mano, per poi stracciare tutto nel momento in cui si sarebbe reso conto che ognuna di quelle linee dure e spezzate, ogni colore utilizzato, gli ricordava Enjolras in qualche modo. Per completare la routine, sarebbe andato al bar vicino all’ateneo per sacrificare tutti i risparmi, suoi e altrui, nel tentativo di affogare l’angoscia nel vino.
Che ci riuscisse o no, qualcuno -e quel qualcuno era solitamente Eponine- doveva occuparsi di andarlo a riprendere, sperando che fosse abbastanza sobrio da reggersi in piedi e che nessun professore l’avesse visto in quelle condizioni. 
Un fiocco di neve le sfiorò la guancia e la riscosse dai propri pensieri; sollevò lo sguardo, stupita e meravigliata. Non che ci fosse effettivamente qualcosa di sorprendente nella caduta di qualche fiocco nel bel mezzo di dicembre, ma, da qualche ora, quella stessa neve che aveva visto cadere con regolarità ogni inverno della sua vita, aveva assunto un significato completamente diverso. 


 

6 Dicembre 2012 

Eponine era assolutamente, pienamente, incontrovertibilmente disgustata dall’inverno. Detestava la sensazione di freddo umido capace di penetrarle fino alle ossa e non andarsene più, e le sagome spoglie degli alberi che si stagliavano contro il cielo piatto e incolore la deprimevano a livelli intollerabili. In generale la trovava una stagione piena di disagi e miseria, in cui ogni cosa veniva spogliata della propria bellezza e lasciata a marcire, dimenticata.
Eppure, le sembrava tutto così diverso adesso. Il freddo non era più così pungente se Combeferre le stava accanto, le tinte neutre e piatte del cielo non sembravano più monotone, ma serene e pacifiche, e quando la neve aveva iniziato a cadere placida, la ragazza era ormai convinta di trovarsi in una favola. 

Non erano andati lontano alla fine: Combeferre l’aveva portata in un parco nei pressi dell’università e, a dire il vero, Eponine era convinta di esserci già passata un paio di volte. Però ora le appariva tutto sotto una luce diversa. Forse era la voce del ragazzo che camminava al suo fianco e che sembrava avere una qualche conoscenza su ogni cosa incontrassero: statua, albero o sasso che fosse. Eponine lo ascoltava, e dimenticava tutto il resto: Gavroche che, a casa da solo, avrebbe potuto combinare qualunque cosa (anche se lei aveva chiesto alla vicina di controllarlo quando poteva), l’affitto arretrato, Marius che si faceva ogni giorno più lontano. Già, perché da quando era arrivata Cosette, Marius era ne era rimasto talmente conquistato da dimenticarsi di tutto il resto. Eponine non lo aveva mai incolpato di nulla, di nessuna delle sofferenze che le aveva procurato il suo comportamento -del resto, non era colpa sua se lei era stata così STUPIDA da innamorarsi di lui- ma ora, ora era più che amareggiata. Era furiosa. Aveva fatto tanto per lui, con tutto il più autentico disinteresse, e sapeva di non meritarsi di venire messa da parte così bruscamente.

“Okay, questo è il posto.” disse Combeferre, fermandosi davanti a un piccolo spiazzo erboso, ora coperto di neve. Sullo sfondo, tra gli alberi, si intravedevano le affollate strade di Parigi, ma sembravano come sospese, congelate in un attimo perfetto. Al centro del prato c’era una vecchia panchina di ferro, piena di incisioni e bellissimi decori, sovrastata da un albero enorme -forse era una quercia? Oh, chissene importa di che albero è.
 “Non è niente di speciale in realtà, ma è uno dei miei posti preferiti. Non chiedermi perché.” continuò il ragazzo accennando un sorriso. 
Se quello non era niente di speciale, allora lei aveva decisamente bisogno di vedere più posti nuovi, perché lo trovava assolutamente meraviglioso. 
“E’ da togliere il fiato” sussurrò, prima di prendere la mano di Combeferre e trascinarlo verso il centro dello spiazzo. “Dai vieni!” esclamò ridendo, incurante delle occhiatacce dei passanti, irriverente come al suo solito.
Il ragazzo la seguì divertito fino alla panchina, che la quercia - perché era effettivamente una quercia- aveva miracolosamente riparato dalla neve. 
“Sono felice che ti piaccia” disse mentre si sedevano vicini “ ho provato a convincere Joly a studiare qui una volta, ma a quanto pare è allergico ad ogni tipo di polline, anche a quelli invernali.”
“Esistono pollini invernali?” domandò lei con una smorfia perplessa sul viso.
“No, certo che no. Ma vaglielo a spiegare!”

Passarono un’infinità di tempo su quella panchina, a parlare di qualunque cosa passasse loro per la mente, e lei non ricordava di essersi mai sentita più libera e leggera. Ad ogni risata, ad ogni nuovo argomento, ad ogni aneddoto della vita di entrambi che veniva raccontato, i due ragazzi si facevano più vicini, tanto che, quando lo squillo di un cellulare li distrasse, Eponine aveva la testa appoggiata alla spalla di Combeferre, che le circondava la vita con un braccio. Quando il ragazzo dovette staccarsi da lei per rispondere al telefono, lei sentì una violenta ondata di freddo percorrerle le ossa fino a farla rabbrividire; fu come essere svegliati bruscamente da un bel sogno, quando vorresti avere ancora tempo per dormire. Era quasi scesa la sera senza che loro se ne accorgessero: il cielo aveva finalmente cambiato tonalità, l’aria si era fatta ancora più fredda e lei doveva assolutamente tornare a casa da Gavroche. 
Però non si mosse. Sbirciò in direzione di Combeferre, che, appoggiato all’albero, parlava concitato al cellulare. Se Eponine non lo avesse conosciuto bene, avrebbe potuto dire che sembrava quasi irritato dalla conversazione. 
Quando però chiese spiegazioni, il medico si limitò a sorriderle e scuotere la testa.
“Niente di importante” 
“Oh. Beh... io...” incominciò, alzandosi controvoglia e stiracchiandosi i muscoli indolenziti dal freddo e dall’immobilità “credo sia ora di andare. Devo passare a comprare qualcosa per cena, e la vicina mi ucciderà per essere stata fuori tutto questo tempo, e..”
Non ci fu occasione per elencare altri motivi però, perché Combeferre le aveva catturato il viso con una mano e aveva appoggiato le proprie labbra su quelle di lei, nel bacio più bello e dolce che Eponine avesse mai ricevuto. Il più inaspettato, anche.
Per un attimo le parve che il suo cuore si fosse fermato, e un attimo dopo batteva così forte che ogni palpito le rimbombava nelle orecchie. Credette di crollare a terra, e poi di essere completamente senza peso. Pensò di star sognando, ma quando riaprì gli occhi lui era ancora lì, era davvero lì’.
Non riuscì a trattenere che un sorriso raggiante le si dipingesse sulle labbra, mentre allacciava le braccia dietro al collo del ragazzo, ripetendo il suo gesto, mettendo in quel bacio tutta la felicità che provava in quel momento e che non avrebbe mai creduto potesse toccare a lei. 
Ci sarebbe stato tempo per le parole, per le spiegazioni, per i dubbi e i ripensamenti. Ci sarebbe stato tempo per ascoltare le lamentele della sua bisbetica vicina di casa. Ma quel momento apparteneva a loro e a nessun altro, ed era perfetto.

 

 

 

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Hey guys!

E’ stata una faticaccia questo capitolo e confesso che non l’ho riletto :S
Però sono troppo curiosa di sapere cosa ne pensate voi!
Eponine e Ferre mi piacciono da morire, ma sono coooosì complicati!
Poi, stavo pensando che potrei trasformare tutto ciò in una long perchè forse c'è un po' di confusione.
Non saprei, suggeritemi!

Grazie a tutti voi che leggete e recensite and stuff, 
siete fantastici!

Alla prossima :)

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Capitolo 9
*** N'est-ce pas? ***


N’est- ce pas?

 

Enjolras dovette radunare tutto il suo autocontrollo per impedirsi di sbattere la porta della presidenza alle sue spalle. Maledetti pezzi grossi, così orgogliosi del proprio posto di lavoro da passare la vita sprofondati nelle loro poltrone imbottite a sbraitare ordini solo perché hanno il potere di farlo. Insopportabili, tronfi, deprecabili, ignoranti... 
E sarebbe andato avanti se non fosse stato per Courfeyrac, che lo osservava interrogativo dalla poltroncina su cui era stravaccato, con la schiena e le gambe appoggiate sui braccioli.
“Beh, che ti hanno detto?” domandò, scendendo con poca grazia dalla sedia e stiracchiandosi.
Enjolras aveva una tremenda voglia di prendere a pugni qualcosa, ma probabilmente aggiungere la voce “danni a strutture scolastiche” non avrebbe giovato alla sua posizione, perciò si limitò a camminare nervosamente lungo il corridoio, costringendo Courfeyrac ad affrettarsi dietro di lui.
“Allora?”
“Niente Courf, le stesse identiche cose che mi hanno detto durante le altre due convocazioni.”
“Veramente erano tre. Questo è il tuo quarto richiamo.”
“Sì bene, quello che è. Dicono che non ho rispetto per l’ambiente scolastico e per l’autorità dei professori, che ho un comportamento inaccettabile, che se non fosse per i miei voti mi avrebbero già cacciato... Ma come si può essere tanto ottusi? Come?”

Quella mattina aveva avuto un piccolo scambio di vedute con il professore -indegno di questo nome- di Diritto Commerciale, che aveva, esplicitamente e senza vergogna, dichiarato che avrebbero potuto passare il suo esame soltanto coloro che avrebbero acquistato e studiato lo schifosissimo e costosissimo libro di testo scritto da lui

Ora, poteva anche darsi che apostrofarlo come “subdolo despota corrotto” fosse un poco esagerato, ma, accidenti, aveva tutte le ragioni di questo mondo per indignarsi. E arrabbiarsi. E urlare. E augurargli di finire all’inferno. No, questo non l’aveva detto... o sì?
“Beh, per me sei stato grande. Mio Dio, la sua faccia era epica! Sembrava quella di un bambino che becca i genitori mentre scopano lo stesso giorno in cui scopre che Babbo Natale non esiste e qualcuno gli spoilera il finale dei Puffi. 
Troppo impegnato a dare un senso alle incredibili stupidaggini che uscivano dalla bocca di Courfeyrac, Enjolras ci mise un po’ a metabolizzare il vero senso della frase.
Si fermò di colpo nel bel mezzo di un corridoio del tutto sconosciuto -seriamente, dov’erano finiti?- mentre il moro lo guardava sbattendo le palpebre, perplesso.
“Beh?”
“Tu non c’eri quando è successo, come fai a sapere che faccia ha fatt...”
“E questo...” lo interruppe Courfeyrac con tono soddisfatto “ questo è il motivo per cui ti dico sempre che dovresti uscire dalla preistoria, comprarti un cellulare come si deve, e accettare l’esistenza dei social network.”
Detto questo gli passò il proprio smartphone, e rimase ad osservarlo sogghignante mentre Enjolras scorreva il numero spropositato di foto e commenti riguardanti la sua disputa col professore.
“Mon Dieu” sussurrò, mentre il suo viso diventava ancora più pallido di quanto non fosse per natura “questa roba ha l’aria di essere incredibilmente illegale e... un momento, non l’ho mai accusato di avvantaggiare le ragazze poco vestite!”
Courfeyrac si affrettò a riprendersi il cellulare e a riporlo al sicuro: “D’accordo, la gente a volte reinterpreta liberamente gli eventi, ma non è questo il punto. Il punto è: dove diavolo siamo?”
Ancora scosso dalla recente scoperta sull’inutilità della parola “privacy”, Enjolras si costrinse a guardarsi intorno: il corridoio gli era estraneo, le porte erano diverse da quelle delle aule e degli uffici, il colore delle pareti faceva schifo come nel resto dell’ateneo, ma questo non era d’aiuto.
“Non ne ho idea.”


Ci vollero dieci minuti ai due ragazzi per tornare indietro. Periodo di tempo in cui Couferyrac sciorinò un numero inaccettabile di descrizioni di film horror con scene ambientate in oscuri ed inquietanti corridoi, tutte terminanti con qualche morte violenta, e Enjolras era indeciso se concentrare il suo astio sull’amico o sul progettista che aveva reso quel maledetto edificio intricato come un labirinto.
Il moro stava per gettarsi in un appassionato racconto di Shining, ma arrivarono davanti alla porta della sua stanza prima che potesse anche solo iniziare: il rammarico era chiaramente leggibile sul volto di Enjolras. 
“Sicuro che non vuoi che venga a darti manforte per quando Combeferre ti rinfaccerà il tuo comportamento estremamente irresponsabile?”
Ma il ragazzo si stava già allontanando, scosse i ricci e agitò una mano in segno di ringraziamento, poi sparì dietro l’angolo.
Courfeyrac lo osservò accigliato per un attimo: Enjolras era sempre stato strano da quando lo conosceva, cioè un’infinità di tempo, ma ora era persino più strano del solito. Alla fine decise che si trattava soltanto dell’inevitabile peggioramento di un caso senza speranza, e spostò la sua attenzione su cose più importanti, come ad esempio ricordarsi dove aveva messo le chiavi.
Entrando, trovò Jehan rannicchiato sul divano con le ginocchia strette al petto e in mano -meraviglia delle meraviglie- un libro. Come da copione, il ragazzo non registrò nemmeno la sua presenza (probabilmente non si sarebbe accorto neanche dell’entrata di un’orda di barbari accompagnata da una banda trombettisti), perciò Courfeyrac decise di annunciarsi gettandosi a peso morto sdraiato sul divano, con la testa che sfiorava la gamba sinistra di Jehan. 
“Hey Prouvaire!”
“Ciao Courf” ribatté ’altro, sorridendogli dall’alto e chiudendo il piccolo libro consunto che teneva in mano, fermando le pagine con le dita per non perdere il segno. “Bella giornata?”
“Estenuante. E devo ancora studiare. Anche se in realtà avevo una mezza idea di uscire con Cecile stasera, quindi è probabile che non studierò. Anche se dovrei. Maledizione, perché mi riduco sempre alle ultime settimane? Lo sapevo io che sarebbe finita così. Però esco, dai. Il tempo per studiare lo troverò. Giusto?” 
Alzò gli occhi, cercando uno sguardo d’approvazione da parte del compagno di stanza, ma Jehan aveva riportato l’attenzione sul suo libro, sfogliandolo a caso.
“Credevo si chiamasse Valèrie.”
“Cosa? No! Valèrie era della settimana scorsa, ma si è rivelata una troia, quindi...” 
Lasciò cadere il discorso, sistemandosi più comodamente tra i cuscini del divano.

Jehan pensò alla ragazza che aveva fatto irruzione un paio di volte nella loro camera: di lei riusciva solo a ricordare gli occhi spenti e le labbra dipinte di colori accesi, il resto doveva essere abbastanza insignificante da non essere rimasto impresso nella sua memoria, oppure si era confuso coi ricordi delle altre ragazze della “settimana scorsa”. 
C’era stata Aurore, poi Damienne e Sylvie e Nathalie. C’erano stati anche ragazzi, ma Jehan non si era sprecato a memorizzarne i nomi, forse perché sperava che sarebbero spariti abbastanza in fretta da non renderlo necessario, e così era stato. 
Ad ogni modo, c’era Cecile adesso.
“Cosa leggevi?” Si interessò Courfeyrac, che come al solito era completamente incapace di gestire il silenzio.
“Poesie di Verlaine, vuoi sentirle?”
“Purché non siano in spagnolo come le ultime.”
“A parte che quello era italiano, e seriamente, non puoi non conoscere Dante, e poi, uno che di cognome fa Verlaine potrebbe mai essere spagnolo?”
Courfeyrac rise piano contro lo schienale del divano, mormorando un attutito “non ascoltavo mai durante le ore di Francese”.
“Ma che sorpresa.” 
Il moro si distese nuovamente sulla schiena, fissandolo con aria di sfida: “Dai, leggi.” Poi, quando vide che Jehan stava sfogliando le pagine, probabilmente alla ricerca di qualcosa di adatto, aggiunse: “Quello che stavi leggendo tu prima.” 
Il ragazzo arrossì impercettibilmente, ma riprese la pagina che aveva abbandonato e lesse:

*N'est-ce pas ? en dépit des sots et des méchants 
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie, 
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents 

N'est-ce pas ? nous irons, gais et lents, dans la voie 
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir, 
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie. 

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir, 
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible, 
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir. 

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible 
Ou doux, que nous feront ses gestes ? Il peut bien, 
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible. 

Unis par le plus fort et le plus cher lien, 
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine, 
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine 
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas, 
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine 
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas? 


Courfeyrac stette miracolosamente in silenzio per qualche secondo, fissando il soffitto accigliato e impensierito. Poi si sollevò di scatto, posando un braccio sulla spalla di Jehan e appoggiandoci sopra la testa, così da poter sbirciare la pagina ingiallita su cui stava la poesia. In quel momento, il cuore di Jehan iniziò ad accelerare, senza nessuna, nessunissima motivazione, e lui iniziò a chiedersi se l’altro ragazzo si sarebbe accorto del fatto che ogni suo muscolo si era irrigidito, che aveva praticamente smesso di respirare e, Diorespiraperchéfacciocosìperchéperchéperché...
“Questo Violaine era un tipo felice?”
“Verlaine...” la voce gli uscì in un sussurro roco. Merda. Courfeyrac, comunque, non se ne accorse.
“Verlaine era felice? Voglio dire, aveva una vita accettabile almeno?”
“Era un alcolizzato, è finito in prigione due volte ed è morto solo.”
Il moro sbuffò, tornando drammaticamente a sdraiarsi. Questa volta però, posò la testa sulle gambe di Jehan.
“Lo sapevo, la poesia è una fregatura.”
“L’essere infelice non gli ha impedito di scrivere poesie bellissime, anzi.”
“Infatti, ha scritto poesie. Ma la sua vita? Non poteva impiegare energie per metterla a posto invece che scrivere le cose che avrebbe voluto? Voglio dire... io farei così.”
“Ci sono cose che non puoi avere e basta. Ma sulla carta... puoi essere e fare qualunque cosa desideri. Sei libero, capisci?”
“No.”
Jehan non poté fare a meno di ridere davanti alla sua espressione corrucciata. Courfeyrac sembrava un bambino per la maggior parte del tempo, ma la piega infastidita che prendevano le sue labbra quando non era soddisfatto di qualcosa, lo faceva sembrare davvero più piccolo dei suoi ventidue anni. 
“Non fa niente, parliamo d’altro.”
“Benissimo. Hai sentito del casino che ha fatto Enjolras con quello di Diritto?
“Oh, sì! L’ho sentito raccontare... ma ora che succederà? Ci saranno conseguenze?”
Questa volta fu il turno di Courfeyrac di scoppiare a ridere: “Non espellerebbero Enjolras nemmeno sotto ordine della Santa Inquisizione, è tra i migliori studenti dell’università, ha il massimo dei voti in ogni corso che segue.”
“Oh. Wow.”
“Sì, sai, succede quando non hai una vita sociale e spendi tutto il tuo tempo in compagnia di libri e montagne di polvere. Infatti io credo che dovrebbe prendersi un gatto: gli si addice e poi...”
“Lui e Grantaire non stanno più insieme?”
“...poi almeno avrebbe qualcuno con cui parlare, anche se probabilmente lo lascerebbe morire di fame come fa con sé stess... COSA HAI DETTO?” e si alzò nuovamente con uno scatto, solo che questa volta l’equilibrio lo tradì, facendolo rovinare miseramente a terra.
“Oh Dio, ti sei fatto male?” esclamò Jehan, cercando di aiutarlo a rimettersi in piedi.
“Sì! Cosa? No! Voglio dire... cosa hai detto?”
Jehan ora non ci capiva assolutamente niente: cosa poteva aver detto di così sbagliato? 
“Io... ho chiesto se per caso avesse lasciato Grantaire. Sai, tu ha detto che non ha una vita sociale, quindi ho pensato che...”
“Nononono. Perché dici che Enjolras e Grantaire stavano insieme?”
“Non è così?”
“No! No, certo che no! Enjolras non potrebbe mai avere una relazione con un essere umano, andiamo, e se proprio fosse obbligato, l’ultima persona che sceglierebbe sarebbe proprio Grantaire! Loro... loro non possono nemmeno stare nella stessa stanza senza urlarsi addosso, Santo Cielo!”
“Scusa, è solo... mi era sembrato... beh, si comportavano come se lo fossero, voglio dire... tutti quei battibecchi per nulla, e poi sono sempre vicini e parlano tra loro... ho pensato... ops.”
Per un po’ di tempo Courfeyrac si limitò a camminare avanti e indietro per la stanza, con tutta l’aria di star meditando sul senso della vita o sul funzionamento dei droidi, la qual cosa spaventava un po’ Jehan. Quel ragazzo sapeva essere tanto geniale quanto spregiudicato, quando ci si metteva d’impegno.
“Okay senti, fa come se non avessi detto niente, mi sono sbagliato.”
“No, aspetta. Potresti aver ragione. Lo sapevo che c’era qualcosa di strano. Mi pare di aver visto Enjolras ridere troppe volte nell’ultimo periodo, non poteva essere normale. E ha pure saltato alcune lezioni, che decisamente non è normale. E poi... e poi basta. Da settimana scorsa è scorbutico e invasato come al solito, e oggi lo sclero contro il professore di Diritto... Oh mio Dio, Prouvaire, hai ragione!”
“Io... non so... cosa succederebbe nell’ipotetico caso che fosse come io ho con ogni probabilità erroneamente, pensato?
Coufeyrac lo osservò con un’espressione inquietantemente seria, mentre si arrotolava le maniche della felpa fin sopra i gomiti.
“Succede che lo ammazzo.”


Già dopo aver compiuto pochi passi lungo il corridoio, Enjolras si era pentito di non aver accettato quell’aiuto da Courfeyac. Se non altro, la sua presenza avrebbe reso meno tesa l’atmosfera che si stava formando tra lui e Combeferre. Distanza, era il termine corretto, probabilmente. E allontanarsi dal proprio migliore amico era semplicemente impensabile. Litigare con lui era una delle poche cose in grado di ferirlo davvero: il tormento che ne derivava non colpiva la figura dell’uomo immateriale che si batteva per i diritti e la giustizia, ma si abbatteva sul ragazzo che era in realtà, lasciandolo senza energie. E solo. 
Perché senza Combeferre, senza la sua guida, era semplicemente solo. 
Istintivamente i suoi pensieri -che ultimamente sfuggivano sempre più dal suo controllo- volarono a Grantaire, che inspiegabilmente continuava a tornare da lui, nonostante tutto. Ora pensare al pittore faceva male: il senso di colpa rievocato da quegli occhi feriti, eppure non accusatori, gli pesava sullo stomaco come un macigno. 
Sospirò angosciato: la sua vita gli stava decisamente sfuggendo di mano.

Sul letto di Combeferre era sparso un numero spropositato di libri e appunti ed evidenziatori, e i rumori provenienti dal cucinino lasciavano intendere che lo studente stava armeggiando con qualcosa -la caffettiera probabilmente.
“Ferre?” chiamò, togliendosi scarpe e cappotto e dirigendosi in cucina, giusto in tempo per godersi lo spettacolo di Combeferre che litigava con un pezzo di caffettiera che non voleva fare il suo dovere, e nella foga urtava accidentalmente una tazza sul bordo del tavolo.
“Okay” dichiarò il medico, esasperato “io non ho idea del perché quella tazza sia finita lì”.
Enjolras ridacchiò, mentre raccoglieva i pochi cocci da terra: “Nervoso?” domandò. Come se non fosse ovvio. Però in fondo ci sperava, di poter evitare quest’ennesima discussione improduttiva.
Combeferre però non sembrava del suo stesso avviso. Gli prese i cocci dalle mani e li riappoggiò malamente sul tavolo. Evidentemente non erano una priorità. 
“Enjolras, senti, io...”
Ma lui non lo lasciò continuare: “D’accordo, lo so che è la terza convocazione in pochi mesi, ma davvero, non c’era possibilità che io stessi zitto a guardare quell’insulso finto professore che favoreggia spudoratamente chi è abbastanza ricco e stupido da comprare il suo libro di testo. Ho fatto solo quello che dovevo fare e se...”
“No, no, frena. Che stai dicendo? Io sono d’accordo con quello che hai fatto.”
Perfetto. Questo era un altro punto in favore della tesi secondo cui lui e la comprensione della sfera emotiva umana non andassero d’accordo. 
“Sei...davvero? Non pensi che sia stato un gesto irresponsabile ed esagerato?”
“Se tu avessi fatto qualcosa di responsabile, allora sì che mi sarei dovuto preoccupare, non credi?” spiegò Combeferre con un sorriso.
“Touchè” sospirò, sollevato, lasciandosi cadere su una delle sedie.
“E comunque questa è la quarta convocazione.”
“Bene, okay, due a zero per te. Ma allora cosa dovevi dirmi?”
L’espressione di Combeferre ritornò seria, mentre tirava fuori dalla tasca quello che era il suo cellulare e glielo porgeva.
“L’avevi dimenticato al bar, volevo riportartelo ma poi... non c’è stato tempo e... insomma, mentre l’avevo io ha chiamato tuo padre.”
Se dentro il mondo gli cadde addosso, dall’esterno nulla lo lasciava intendere: la sua espressione rimase neutra, e la voce ferma.
“Credi che l’Università l’abbia avvertito?”
“Non so, non mi ha detto nulla, solo di richiamarlo.”
Visto il silenzio che seguì, si affrettò ad aggiungere “Non deve per forza essere così, sai, forse era solo una chiamata di... non so, cortesia?”
Cortesia? Sono due anni che le sue chiamate riguardano unicamente la mia tragica condotta e il mio pessimo comportamento, seguiti da interminabili minacce economiche. Non chiama neanche a Natale, solo per cortesia.”
Spesso Enjolras si era chiesto se odiasse suo padre. Di sicuro lo avrebbe voluto: sarebbe stato più facile se, una volta capito di non poterlo compiacere, si fosse limitato a detestare lui e il suo dispotismo. Eppure una parte di lui desiderava ancora poterlo rendere orgoglioso, una parte di lui gli era ancora affezionata, in un certo senso. Più facile era invece rispondere alla domanda se suo padre odiasse lui: sì, sicuramente.
“Lo richiamerai?”
“Non oggi. Ho ancora troppe cose da organizzare e non posso distrarmi.”
E avrebbe davvero voluto lavorare. Ci sarebbe stata una protesta di lì a poche settimane, e c’era abbastanza lavoro da fare per tenergli occupata la mente durante tutta la sera e probabilmente anche tutta la notte. Tuttavia, il rumorosissimo arrivo di un arrabbiato Courfeyrac rese ovvio che quel lavoro sarebbe stato rimandato. Probabilmente di molto.

 

 


 

**Noi saremo
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi 
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero? 

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto 
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero, 
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene 
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame, 
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino 
per noi ha stabilito, cammineremo insieme 
la mano nella mano, con l'anima infantile 
di quelli che si amano in modo puro, vero?

 

 

 

 

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Scusatemi tantissimo il ritardo: gli esami, gli esami e gli esami!
Allora, alla fine è diventata una long, ma non ho troppa voglia di cambiare i capitoli già scritti.... mi piacciono così ;)
Però ho tanto tanto bisogno della vostra opinione, perché le storie a capitoli non sono proprio la mia specialità :S
Spero che vi piaccia, ciao a tutti :)

E scusate ancora il ritardo :(

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