Elsker di Morganna (/viewuser.php?uid=524282)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***
Capitolo 4: *** Tre ***
Capitolo 5: *** Quattro ***
Capitolo 6: *** Cinque ***
Capitolo 7: *** Sei ***
Capitolo 8: *** Sette ***
Capitolo 9: *** Otto ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Documento senza titolo
Prologo
Fa freddo qui. Ed è umido.
Qualcuno ha dimenticato il rubinetto semiaperto e l’acqua scorre in un rivolo sottile e fragile come cristallo.
Ormai ha portato via con se ogni traccia di lordura. Il mio sangue è cancellato. Il mio sangue è mandato a scorrere nelle fognature.
Si è mescolato fra i rifiuti organici ed il seme dell'usciere. Perché li ho proprio visti mentre facevano all’amore sui banchi più bassi, e loro potevano vedere me. Ho provato a fargli capire che per me era okay, se volevano farlo. Che non avrei fatto la spia.
Ho percepito il calore sulla pelle, l’ansito del loro piacere così raro.
Non capita spesso che possano rimanere da soli. Ed è per questo che hanno dimenticato di controllare quel rubinetto che è vecchio e perde sempre e bisogna stringerlo forte, ogni volta.
Ma poi se ne sono andati quasi correndo perché fa paura a tutti stare qui quando fa buio. E' quasi notte.
Fa freddo qui, ed è umido. Voglio una coperta. Una coperta soffice, con i bordi di pelliccia come quelle che si trovano sotto l'albero a Natale. Voglio la coperta che non ho mai avuto, qualcosa che mi tenga al caldo ed al sicuro.
Nessuno ha mai pensato di regalarmene una.
Eppure era un desiderio semplice, qualcosa in cui avvolgersi, qualcosa di colorato. Qualcosa da condividere davanti ad un film.
Ma fa freddo qui.
Mi hanno lasciata da sola e al buio in questa enorme stanza piena di bilance ed uncini, ad addormentarmi in questo letto duro e gelido che non è il mio.
Ho paura. Ho paura del buio. Ho sempre avuto paura del buio, ed a casa dormivo con una luce accesa. Ma non posso gridare la mia paura. La devo trattenere in gola e fra i denti.
Qualcuno mi ha legato la bocca e il mento. Un mattone sotto la testa mi impedisce di muovermi e così devo stare qui stecchita a fissare un soffitto consunto. Conto le macchie. Che strano. Riesco a vederle anche se i miei occhi sono ormai secchi.
Guardami. Sono nuda. Neanche una coperta a coprire questo corpo. Mi hanno abbandonata così. Come uno straccio dimenticato. Ma tu guarda come è giovane la mia pelle. Mi hanno abbandonato al freddo e al buio nonostante io sia esile, e le cose esili hanno sempre paura del freddo e del buio. Come fanno a non saperlo?
Sono venuti, oggi, i dottori, come uno stormo di uccelli bianchi. Erano in tanti ed erano venuti a scrutare me.
Una donna bionda con grandi occhiali di tartaruga parlava con apparente sapienza, gli altri ascoltavano. Lei è il capo e tutti annuiscono anche senza capirla.
Io lo sentivo che non capivano niente, lo sentivo con le mie orecchie piene di sangue.
E da come si affannavano e chinavano su di me sembravano tante sciocche oche. Mi hanno fatto ombra. Mi è venuto tanto da ridere.
Hanno misurato il mio cuore, ed il buco che c’è dentro. Hanno misurato il buco nel mio cuore, ci hanno infilato le dita dentro muovendole come vermi bianchicci fino a farmi il solletico: hanno sentito il vuoto dentro il mio cuore e di nuovo mi è venuto tanto da ridere.
Un foro tondo di neanche un centimetro è la misura del mio vuoto. C'è tutta un aria grigia intorno, cerchi concentrici come è sempre di chi ha sparato con il muso abbastanza vicino a chi non ha paura di quell’animale di ferro, ma abbastanza lontano da lasciare un ingresso perfetto e quasi invisibile se solo mi fossi ricordata di cambiare i vestiti. Sono lentiggini di fuoco, è la scia di una cometa.
Il mio vuoto è calibro 7,65 esattamente come il proiettile che mi brucia ancora nel petto; è la fiamma imperitura dell'inferno, li sotto la pelle.
Mi si è piantato bizzarramente dentro. Bloccato dalla mia volontà. Infisso nell'alcova dell'unico muscolo che non si può comandare.
“Ritenuto” hanno scritto nel loro taccuino tecnico, senza foro di uscita.
Li ho ascoltati parlare. Mi sono innervosita ai flash delle loro macchine fotografiche sui miei seni.
Mi hanno violentata, vogliono estrarre quel proiettile che capriccioso è troppo a fondo. Anche se il mio caso è così facile: omicidio.
La mia testa non ha battuto a terra, lui mi ha abbracciata. Non troveranno altri segni. Nessuna colluttazione.
Non ci sono altre tracce diverse dallo sparo. Addosso a me solo la mappa contorta dei miei nei e qualche vecchia cicatrice.
Eppure loro hanno voluto frugare in ogni recesso, fingendosi scienziati, fingendosi sapienti. Eppure non è sapiente chi si chiede il perché. È soltanto fallace in ogni suo pensiero.
Domani non sarò più un corpo in attesa, mi hanno minacciata: hanno detto che mi toglieranno questo mio corpo appeso in un limbo soave ma freddo. Domani forse, sarò solo pezzi. E mi chiedo se ne morirò.
Ma dobbiamo fare il silenzio adesso. Shht. Taci lettore. Ascolta anche tu. Il mio cuore con il suo foro di entrata e nessuna uscita batte forte. Lo senti il tintinnio del metallo ed una chiave che gira? È una chiave pesante per una serratura ancora più pesante. C'è una porta scricchiola e poi un’altra ancora. Una serie di porte sempre più blindate conducono al mio talamo di vergine.
Sento i suoi passi. Quei passi che riconoscerei in tutta la polvere del mondo. Sento la ferita che brucia e brucia, perché risponde, perché sa.
Si china su di me. Conosco le pieghe del suo sguardo. L'odore di fumo e colonia confina lontano questa brutto measma da camera mortuaria.
Ha portato una coperta, ed è una coperta leggera e tanto banale, con il codice dell’ospedale stampato sopra. La stende e non c’è più freddo.
- Mi dispiace così tanto,Romy - Il suo sussurro è tutto ciò che mi basta. Non è un addio.
La sua mano gentile mi scivola sulle palpebre, mi carezza il volto.
Ogni fibra di me si tende a quel tocco e la mia energia gli rimane intrappolata fra le dita. E' una elettricità sottile. Tutta la mia vita.
Adesso posso chiudere gli occhi. Adesso posso andare a casa. Adesso posso andare via.
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Capitolo 2 *** Uno ***
Documento senza titolo
La
prima brina della stagione. C’è una luna che
rivela una
distesa di ghiaccio lì dove la sua luce algida pennella di
ombre la notte. L’astro
è soltanto una falce crescente graffiata in un cielo nero in
cui le stelle
sembrano essere state ricamate con maniacale cura, tanto da creare un
atmosfera
finta degna della carta doppio strato delle natività, ma
è così ostinata
nell’illuminare la distesa boschiva che fa da bordo al grigio
asfalto della
strada da potersi scambiare per una traditrice nei confronti del cervo.
Gli zoccoli del giovane maschio – un mantello ancora non
uniforme - si
posano sui cristalli di ghiaccio infrangendoli
in un tintinnio di campanelli di vetro, udibile nel silenzio.
Il cervo agita il suo bel palco verso la Buick color amarena, ergendosi
al
centro della carreggiata davanti a due insonni.
L’auto inchioda, scivolando sulle ruote consunte, e in un
attimo l’animale è
balzato via. In fuga.
Dentro l’abitacolo Lucky Florio, medico legale, ansima con la
fronte poggiata
sul manubrio.
E’ una ragazza sveglia, e tiene parecchio al suo primo
incarico completamente
da sola, e non ha alcuna intenzione di morire per una bestiaccia che
gli si
presenta davanti sulla strada. Così senza avvertire, per
puro dispetto.
Accanto a lei il suo accompagnatore si limita a sorridere vagamente con
gli occhi fissi lì dove c’era l’animale.
Il dottore è quasi sgraziato nell’altezza che lo
comprime dentro l’abitacolo
dalla Buick.
Ha lineamenti marcati ed una apparente fretta. Fa un cenno a Lucky, per
ripartire.
Entrambi sono stati svegliati dal telefono, ed entrambi durante il
rispettivo
turno di guardia.
Nulla di insolito, se
non che la natura umana impone di lottare strenuamente per
tutto ciò che è vita, ed entrambi sono stati
chiamati a testimoniare una, anzi
due, morti.
E perfino a chilometri di distanza dall’ospedale, nel verde.
Lucky Florio rappresenta una delle eccezioni alla regola della
sopravvivenza.
La
specializzanda si è lasciata alle spalle il calduccio della
sua stanza per andare
incontro ai morti, per incontrare gli umani su un tavolo lucidissimo
fra le
cause che li portano ad essere esseri orizzontali piuttosto che
verticali più precisamente,
e a farne il dovuto rilievo. E’ un compito ingrato che svolge
ormai da anni,
quando nessuno si ricorda mai della moltitudine di camicie buone che
finiscono
per essere consumate dagli agiti dei parenti più o meno
arrabbiati o dolenti.
Il compito che sognava da bambina. A dieci anni, un futuro come
anatomopatologa. O meglio, come una parola troppo complicata perché una bambina la pronunci.
Era arrivata a coronare le sue ambizioni prendendo in scacco il padre che la voleva ennesima pedina di una famiglia di avvocati.
Sei anni di guerra,e poi il trauma di dover affrontare
l’esame in cui sei
costretta ad abbattere quegli stessi colleghi con cui poco prima
dividevi i
libri, il sonno e le scatolette di tonno quando si era talmente stanche
dallo
studio da essere incapaci perfino di seguire una alimentazione
dignitosa.
Molti saluti, qualche addio ed infine l’orgoglio di
guadagnarsi da vivere da
sole e pagare la Buick tramite i pomeriggi nella stanza del silenzio,
lì dove non
c’è nessuno che possa vederti o sentire.
Perché se chi è morto è morto non vede
e non sente. Pomeriggi di deliziosa
solitudine.
Ma stavolta c’è un intera mandria di festaioli da
consolare (o ricoverare?) ed
allora la ligia specializzanda digita un numero al cercapersone e
giù dal letto
anche lo psichiatra. Ma proprio lo psichiatra, che si pretende che sia
quantomeno un po’ strapazzato per il non essere abituato ad
essere traslato in
piena notte, ha l’aspetto lindo e quieto di chi non ha mai
dormito; in tutta la
sua figura soltanto i capelli sono in disordine, tagliati alla rinfusa
in
ciuffi diseguali che si espandono in tutte le direzioni.
Lucky vorrebbe scostarglieli quantomeno dalla fronte, ma finisce per
annodare
un dito intorno ai propri riccioli gettando
così la testa all’indietro in un vezzo
capriccioso che le consente di osservare di sottecchi il suo
accompagnatore:
niente poco di meno che Llewellyn Elsker, il leggendario Herr Doktor,
l’imprendibile
ombra sulla piazza del Brothers Bright Hospital.
Si potrebbe definire una vero capitombolo della fortuna, questo. Sicuramente è
qualcosa da raccontare alle
colleghe l’indomani. Moriranno di invidia. Come è
che dicono gli
strizzacervelli? Sincronicità.
Tutti quanti sanno quanto il dottore odi spostarsi durante
l’orario di lavoro e
soprattutto guidare, così tocca adularlo perché
salga in macchina ed ancor più
sopportarlo come passeggero. Dicerie ormai diventate leggenda
raccontano di
come sia solito approfittare dei numerosi passaggi per pensare.
Ma
Elsker bigia
tamburellando le dita sulla plastica dura che contorna il finestrino
fino ad
animare un ritmo da canzone. Non sembra affatto che stia pensando
intensamente
a come vada il mondo o a quelle cose che si suppone affollino la mente
di chi
si occupa di inconscio e cose del genere, o di aria fritta, secondo le
perspicaci idee del resto del mondo.
- Ci sarà da bere, Luck – concede l’uomo
alla ragazza, lasciando scivolare la
voce dalle labbra, quasi senza muoverle. Lì sulla brina le
orme che il cervo in
corsa si è lasciato alle spalle si perdono nel fango del
sottobosco fino a non
vedersi più. Rimane una traccia di erba piegata come
zucchero caramellato.
La Buick si rimette in moto, ingranando la marcia e diffondendo
nuovamente
all’interno dell’abitacolo il tepore offerto
dall’impianto di riscaldamento
prontamente riacceso. Presto sarà inverno, e
quell’impianto non basterà più
così che dovranno far la loro comparsa dei plaid multicolore
a fornire calore
extra.
La villa dove fare il rilievo è proprio dietro un ultima
macchia di verde, svoltando
sulla sinistra in una tenuta immersa nel bosco ed oltremodo lussuosa.
Oltrepassando
due grossi leoni di pietra che fanno la guardia al cancello lo spiazzo
antistante la casa padronale è gremito da una moltitudine di
automobili, alcune
molto belle e rare ma altre banalmente appartenenti ai poliziotti ed a
qualche sporadico
paparazzo.
Lucky guida fino ad accostare la sua fidata compagna al vialetto che
porta alla
piscina e balza giù lasciando le chiavi appese, offrendo ad
Elsker via libera
attraverso il suo sedile o una disagevole discesa
direttamente in una siepe potata di fresco a
forma di coniglietto. Il dottore opta per la siepe sempreverde, che
cerca di
non abbattere aprendo molto delicatamente lo sportello e maledicendo al
contempo quell’infausto giardiniere.
Misha il poliziotto è già sul posto ed accoglie
entrambi in un caloroso
abbraccio che ignora del tutto lo spiacevole evento che costringe un
nutrito
gruppetto di insonni a vedersi a quell’ora della notte a
chilometri dalla
rispettive tane.
La scena incriminata è proprio davanti a loro, nel gazebo
vicino alla jacuzzi
lì dove è stato montato un provvisorio ma ben
fornito studio fotografico.
Pannelli di colore neutro ed ombrelli riflettenti esaltano la bellezza
cinerea
dei corpi seducenti di due ragazzine riverse in pose innaturali,
talmente
identiche da rendere inconfutabile l’idea che siano gemelle,
ed entrambe
vestite con abiti scollacciati che tanto stridono con una
età che sembra essere
ancora molto giovane. Sembrano in tutto e per tutto due grosse effimere
e
colorate falene trafitte dalla luce dei fari e da quelle luci
stroboscopiche
che ancora funzionano a tratti giusto per ricordare a tutti quanti che
qualsiasi cosa accada la festa deve continuare.
Abbracciate ed ancora in posa con le bocche spalancate di stupore, gli
occhi
truccati pesantemente con ombretti color pastello che si abbinano
malissimo al
gonfiore della morte che rende identici tutti quanti, belli e brutti,
fissano
ancora il punto dove dovevano esserci le macchine fotografiche, adesso
inerti e
più morte dei cadaveri stessi, con i loro rullini penzoloni
come viscere
esposte.
Una macchia di liquido che si espande intorno a loro non turba il
quadro.
Ovviamente il tutto è stato lasciato intatto in attesa del
medico legale, che
adesso scavalca senza alcuna indecisione il nastro bicolore teso dalla
polizia
per dirigersi speditamente verso la scena del delitto.
- Set fotografico per le reginette del ballo – conferma
Misha, preferendo
rimanere al di là di quel confine.
- Due ninfette – sottolinea il dottor Elsker. Ma ha lo
sguardo distratto verso
il limitare della proprietà.
In qualche modo è sfiorato dal brivido che il cervo possa
essere ancora lì, da
qualche parte, trovando rifugio nell’opulenza ordinata di
quegli alberi
piuttosto che nei piaceri che la natura selvaggia può
offrire.
Che il cervo abbia vegliato la morte, e lo abbia composto lui il numero
che lo
ha svegliato dal suo sonno farmaco-indotto e portato fino
all’ennesimo stridore
di malinconia. Così stringe gli occhi, fino a visualizzare
l’immagine delle
corna del maschio ed a contare mentalmente le punte viste sui palchi.
- E’ così giovane – bisbiglia, in uno
sbuffo di condensa tiepida di vita.
- Oh, Lucky se la caverà – esclama il poliziotto,
osservando la sua squadra
raggrumarsi come formichine intorno alla giovane dottoressa, che ha
già tirato
fuori i guanti, il metro e la propria macchina fotografica.
- Ma adesso venga, che c’è una lì
dentro che non ha fatto la madre in diciotto
anni di vita e ci vuole cominciare ora che sono morte. Vedrà,
ha
buttato giù tutte le porcellane del salotto. Sta
terrorizzando tutti quanti
-
Più
tardi, quando l’alba sveglierà perfino i
leoni di pietre con il suono mesto di diverse ambulanze, il dottor
Elsker
onorerà le sue parole notturne offrendo da bere a Misha,
alla sua squadra di
ragazzi ed alla collega Lucky Florio, un attimo alcool di annata
offerto dalla
casa (e impudentemente lasciato incustodito fra le mani degli agenti)
in
costosissime tazze di porcellana, rimasugli della distruzione boriosa
di una
madre che per la prima volta si accorge di aver perduto le sue bambine.
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Capitolo 3 *** Due ***
Documento senza titolo
[L'autopsia,
chiamato anche
esame post-mortem,
è un esame
medico dettagliato e
attento del corpo e dei relativi organi della persona dopo la morte per stabilirne le cause, le
modalità ed eventualmente i
mezzi che l'hanno prodotta. Nelle autopsie a scopo giudiziario
è anche
richiesto di stabilire l'epoca della morte, desumibile dai cosiddetti fenomeni
cadaverici. Il termine deriva
dal greco αὐτοψία,
(composto di αὐτός
«stesso» e ὄψις
«vista») e significa "che vede con i propri occhi"]
Mi
chiamo Romy Romain ed ho quasi ventun anni. La cosa che mi manca di
più è
respirare.
Sentire l'aria che gira e gira per il naso e poi le tempie e poi ancora
scivola
giù in fondo alla gola e la laringe e giù ed
ancora più giù fino a bronchi,
brochioli, alveoli. Spazi infinitesimali di materia volta ad assorbire
aria.
L’ho studiato a scuola, tutto questo, ed adesso mi guardo e
posso verificare
che quello che c’è scritto nei libri è
tutto vero. E’ davvero tutto vero. Puoi
comprare il libro, non ci sono scritte dentro bugie, sono cose vere.
Per
sicurezza, ho controllato più volte.
I morti non sono quasi mai violenti, ma si dimenano spesso nei loro
lucidi giacigli
di acciaio inossidabile per innalzarsi verso il soffitto : vogliono
giocare con
il mondo totalmente nuovo in cui si ritrovano.
La luce dei neon – li hanno accesi tutti quanti - si riflette
sui lunghi tavoli
fino a renderli dei perfetti specchi, ma fatti di un materiale facile
da
pulire. Tutto è asetticamente illuminato.
Ma lì dove c’è una piccola ombra
c’è anche qualcosa che il disinfettante non
può disinfettare.
Perfino i colatoi insaziabili di sangue e liquidi biologici sono bocche
abitate
da esseri curiosi, ma chi li calpesta non lo sa. Si limita a passarci
sopra
facendo vibrare le grate. I colatoi sono una sepsi silenziosa.
Ma la luce
aiuta, aiuta parecchio. Chi
mai non cederebbe alla possibilità di guardarsi, guardarsi
dentro una volta per
tutte, rivoltato come un calzino in maniera chiara e scientifica.
Scoprire come si è fatti? Se
per caso la
nostra vita non lascia qualche traccia sui nostri organi, sulle nostre
arterie?
Io sono curiosa. Tu no?
Sono confinata nello scantinato e mi siedo nella gradinata,
lì dove ieri c’era
un po’ di amore, e mi guardo.
Dietro lo spesso portone della Sala Settoria accade l'indicibile ed il
mio
corpo diviene carne.
Ma non mi disturba neanche un pochino, e nonostante la mia coscienza mi
suggerisce che dovrei sentire del dispiacere non percepisco nessun
legame con
quella cosa che un tempo era me.
Non
più prigioniera della materialità e posso
fluttuare libera e soffermarmi sulle spalle dei presenti.
Mi
divertono i visi grevi dei dottori, le loro
protezioni per non contaminarsi con la morte e la loro fascinazione per
essa.
Loro
sono come falene attratte dal fuoco: si bruceranno.
È
questa la condizione umana, bruciarsi
comunque.
Vedo i più giovani, quelli capitati qui per un tirocinio e
non per loro volontà,
lottare per non vomitare. Qualcuno mi ha coperto il viso per non dover
subire
la mia espressione troppo serena.
Questi ragazzi se ne stanno un po’ discosti, e non sono come
quelli che son
venuti in visita ieri.
Sono piccoli e sudati come pulcini, non potranno essere più
grandi di me. Loro
sono più onesti.
Sbirciano, più che guardare. Tremano, perché
sanno che dovranno partecipare. In
un qualche modo.
La donna con gli occhiali di tartaruga, che chiameremo Prof da adesso
in poi, è
la capitana di una squadra bislacca in cui gli specializzandi
scalpitano per
porgere una informazione o un paio di forbicine.
Prof è molto bella nonostante non sia più
propriamente ragazza, sottile come un
giunco e severissima.
Ma quando si volta verso chi ha alla sua destra muta
l’espressione, che si
raddolcisce e si fa quasi materna.
Lucky Florio è la sua preferita. Una mano così
delicata per una mente sottile
ed attenta.
Prof vede in Lucky se stessa da giovane, quando credeva che avrebbe
potuto
dominare qualsiasi cosa.
Lucky non la tradirà. Lucky verrà al capo delle
cose, e le sezionerà fino all’osso.
Ma non me. Lo sapete che questa stanza è piena di corpi,
come se fosse festa?
Non è a me che tocca oggi.
Così rispetto la privacy della signora Smith, infarto
splenico e pace all’anima
sua, e volo verso i piani alti.
La medicina legale occupa il piano più intimo del Brothers
Bright, quello sotterraneo
e senza finestre.
Sopra di noi si muove la vita lenta dell'ospedale, ed il trafficare
tumultuoso
di quando c'è una emergenza.
Per una bizzarria dell’architetto che forse potrebbe anche
chiamarsi previdenza
sopra la sala settoria ci sono le sale ed i corridoi del pronto
soccorso. Il
reparto più animato e quello dove langue la noia hanno una
struttura quasi
simmetrica. Così si va di sotto senza passare una seconda volta dal via.
Nella saletta numero sedici una tirocinante si china a sentire lo
sbuffare di
un torace, e nella stanza accanto una donna conduce disperata il suo
bambino
che ha battuto la testa cadendo dal seggiolone.
Entrambi i pazienti se la caveranno, non hanno il nostro odore
addosso, non
hanno il mio.
Ho conosciuto la gente nei frigoriferi ed è molto garbata.
Però sono un po’
noiosi, sono vecchi morti per questioni loro, penso, scompensi. Gli
deve essere
partito il fegato o qualcos’altro. Non me lo hanno saputo
dire con esattezza. Probabilmente
si sono stancati e basta. Adesso stanno giocando a canasta in sala
d’aspetto e
non voglio disturbarli con troppo domande. C’è
tempo. C’è tantissimo tempo.
Sono stata anche un po’ sopra al museo, ma l’unico
ad accogliermi è stato il
cane a due teste.
Si chiama Ciccio, e se ne avesse avuto tre di teste si sarebbe chiamato
Cerbero
ma ne ha solo due.
Abbaia in maniera un po’ troppo stridula ma ci capiamo
perfettamente.
Ho scoperto che esiste un’unica lingua, quando si
è dall’altra parte dello
strappo.
Chi vive nelle vetrinette e nei barattoli è gente altezzosa.
Se la tirano
troppo perché è roba ottocentesca.
Ma Ciccio è un cane e gli piacciono le passeggiate. Lui
è rimasto al Brothers
perché cerca il suo padroncino da quasi un secolo ormai ma a
quanto pare non è
ancora ripassato qui. A Ciccio non importa. Lui aspetta. Ho intuito che
quando succedono
queste cose è come giocare a campana: tracci il disegno sul
pavimento, lanci il
sasso quando è il tuo turno, salti fra un quadrante e
l’altro stando bene
attenta a rispettare le linee, un piede, due piedi. Balzo.
Uno, due, tre.
Poi
ti volti, lasci il sasso a qualcun altro e devi aspettare.
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Capitolo 4 *** Tre ***
Documento senza titolo
- Auguri
–
E’ Mimi a farle per primo i complimenti, in corridoio.
Fermo davanti alla fidata macchinetta sta sollevando
nell’aria un bicchiere,
ricolmo di pessimo caffè solubile, nel
gesto
di un brindisi.
L’aria è calda, così calda da far
appannare i suoi occhiali da miope.
Un contrasto enorme rispetto al gelo si che affila i denti poco prima della
porta.
La dottoressa Florio caracolla goffamente sulle sue galosce da pioggia
fino a
trovarsi anche lei nell'angusto angolo riservato al rifocillamento, e
spinge le dita nelle tasche del camice per
cercare una monetina da infilare nello spiraglio
dell’apparecchio, ma
ha le tasche bucate, letteralmente.
Entrambe.
- Faccio io – chiosa il collega – dobbiamo
festeggiare l’evento -
Con finta aria afflitta Lucky prende tempo per pigiare i tasti e
regolare così la quantità di zucchero da cinque
fino a sole due tacche così
come impone la dieta.
- E quale sarebbe questo evento? –
- Ma come quale? La tua prima perizia con solo e soltanto il tuo nome,
tesoruccio!
-
Il cappuccino scivola ubbidiente nel suo ostello di plastica,
l’apparecchio
trema il suo clic-clic-cloc -bizzz da lavoratore impegnato.
Non
disturbatelo,
sta facendo il caffè, clic-clic-cloc- bizzz.
Lucky ha sempre adorato il ronzio delle macchinette da ufficio, trovandolo rassicurante
nell’ essere sempre
uguale a se stesso.
Si può affermare che le macchinette
siano un punto fermo
della sua vita.
Approfitta così del liquido fumante per scaldarsi le dita e
sta per buttar giù
il liquido sintetico quando una gomitata fa andare tutto di
traverso, compresa
la sua colazione nella plastica.
Un colpo basso, a tradimento, nel fianco.
- E della tua uscita notturna con il bel tenebroso non mi dici niente, ma ti sembra giusto? – insiste maliziosamente Mimi con assoluta
innocenza sul suo gesto ed ignorando del tutto un principio
di
soffocamento e possibile ab ingestis. Argomento
abbastanza noioso nelle
autopsie, roba da vecchi.
- Oooh se non avessi la certezza che è dell’altra
sponda che bella ripassata
che gli darei!
Lucky cerca di pulirsi la schiuma che si ritrova sul viso, guardinga
mette una
mano sul cappuccino, incassa la testa fra le spalle e fa scivolare lo
sguardo
sulla gente intorno.
Medici ed infermieri decisamente arruffati perlopiù.
- Smettila Mimi,
non parlare così -
- Perché? Tu non la vorresti una botta con lui? -
-Maximilian!-
- Va bene! Va bene! Ma
raccontami tutto.
Tanto lo sai che i nostri pazienti se tardiamo un
po’… non fiateranno! -
Maximilian, detto Mimi in odio al suo nome completo, è lo
specializzando
anziano della medicina legale del Brothers Bright e collega di anno
della pupa
della Prof, Lucky appunto.
Tutti quanti sanno che è un militante accanito del terzo
sesso, ma tutti sorvolano
sul singolare status in favore delle grandi
capacità lavorative e la squisita
gentilezza.
Per lui la sponda giusta è decisamente la sua.
Mimi e Lucky sono una coppia di lavoro fin dall’
incontro tremante
davanti ad una segreteria che
si trascinava
addosso il loro destino sotto
forma
di fogli.
Davanti ad una promessa
composta da enterotomi e seghe vibranti c'è tutto il loro
mondo.
Adesso se ne stanno lì ad intralciare il traffico degli
altri lavoratori
mattutini, appena passati dai piaceri del sonno allo shock di
un’altra giornata
ospedaliera.
La fila di
camici bianchi protesta,
reclamando l’accesso ad un elemento vitale quale è
la zona caffè. Alcuni hanno
uno stetoscopio appeso al collo, un boa che si appresta a diventare
costrictor
se i due non si sposteranno in tempo da lì.
Mimi prende con naturalezza Lucky sottobraccio, appallottolando i
bicchieri di
entrambi e centrando con buona mira un cestino che offre i suoi servigi
nel
tragitto verso i reparti più esterni e meno vitali.
- Dunque? -
- Bhe, è un caso di overdose -
- Metedrina, questo
lo so –
- Si, ma è doppio e ci sono … sembra una cosa di
gruppo -
- Dodici ricoverati dai mugugnatori, lo
so. Guarda che sono preparato -
- Che cosa vuoi sapere, allora? -
- Ma ma chere, voglio sapere di Elsker,
no!? -
- Oh… Niente di che. Parla molto poco. Per quel che ne so,
potrebbe anche
essere del tuo lato -
- Ma no ma che non lo è, sciocchina -
- E perché no? –
- Aspetta
-
Le scale verso giù, evitando l’ascensore sempre in
funzione, e poi il piano
ammezzato ed il reticolo di corridoi che scorrono sotto
l’ospedale in un
intricato sistema di arterie di cui lo spazio freddo
dell’obitorio è il signore
e padrone.
Si tratta di vie pietose ma umide e pronte ad ingurgitare tutto
ciò che non può
esser visto, così da ben nascondere ai vivi le tracce
maleodoranti della
malattia.
Tutto al Brothers Bright Hospital è lustro, efficace ed
impeccabile di modo che
nessuno abbia a ricordarsi la penosa condizione che dal vivere non si
può
guarire e fin troppo spesso si ci ritrova avvizziti perfino prima di
aver
completato la sciocca lettera d’amore che tanto volevamo
scrivere.
Mimi parla in maniera spiccia, ma ammiccante, del più e del
meno e quando
arriva al museo – accesso
assolutamente
vietato – richiude la pesante porta con circospezione.
E nonostante
la gente chiami quel
gabinetto affastellato dalla collezione degli studiosi che furono
“museo degli
orrori” per lui è semplicemente un luogo in cui si
sente al sicuro e con un
suono simile alla parola “casa”.
Ha
l’aria di un gatto con un grosso
uccellino in bocca quando alza il tono di voce, rendendolo stridulo, e
punta
l’indice verso una testa spiccata in un grande barattolo di
vetro.
- Lo sa perfino lui! -
La testa nel suo oceano di capelli fluttuanti in formalina prova ad
assentire
gravemente.
Lucky cammina per un po’ ed infine si ferma nella zona dei
preparati animali,
lì dove c’è un cucciolo a due teste.
Uno dei suoi reperti preferiti insieme all’agnello
vegetale e l’uomo gigante.
Mimi si piega sulle ginocchia davanti alla vetrinetta , batte le mani
sul vetro
e fischia.
- Qui bello, qui bello! -
Anche la ragazza si piega, fingendo di offrire una vigorosa grattata
dietro le
orecchie alla sfortunata bestiola. Ma le scappa da ridere e ricade a
terra,
accomodandosi sulla moquette morbida che tanto rende confortevole
l’ambiente,
stridente rispetto al tragitto appena compiuto per l’
attenzione all’eleganza
dei dettagli e le impeccabili etichette.
Un luogo dove
il tempo si è fermato ai
primi del 900, quando gli uomini portavano ancora i favoriti e la
cortesia di
chiedere un ballo.
- Mimi, dimmi cos’è che devo sapere -
- Che ha avuto un inciucio con la prof? -
- Cosa?-
Le dita smettono di dare il ritmo sulla boccia del cane e
l’uccellino viene
liberato.
- Un imboscamento, quando era giovane. Lavoravano insieme,
aveva una tesi sulle menti delittuose
e lei era una donna in carriera. Lui era tipo un suo protetto. La sai
la
classica tresca: io maestro tu allievo,
così
ti insegno le cose. Anche quelle che si fanno senza intimo addosso
ecco, giusto
per offrire una formazione completa -
Lucky finge di non essere infastidita, ma l’amico ha fatto
centro, e la mano si
ritrae in fretta dal vetro per finire infilata nelle tasche. Ha
già sentito più
volte di questa vicenda.
- Come è finita?-
- Vorrei dirti che è finita come finiscono tutte le storie,
cucciola,
sciogliendosi poco a poco.
Ma alla fine lei applicò la vecchia teoria a se stessa,
sposò il suo direttore
e divenne la prof. Ma questo lo sai benissimo -
Con le dita a far capolino dalle cuciture allentate del camice la
futura
promessa del dipartimento si risolleva per addentrarsi ancor
più nel museo, lì
dove una porta che chiamano segreta è la scorciatoia per
raggiungere i laboratori.
A volte bisogna accettare i compromessi, e l’imperfezione.
Ma lei ha promesso a se stessa che non avrebbe mai avuto nulla di
più di quello
che merita. E neanche nulla di meno. Stenta
a ricucire il passato di Prof alla attuale dolcezza della sua maestra.
Soltanto quando Mimi smette di fare lo scemo, con i reperti
dell’uomo gigante tralaltro, si
volta ed osa chiedere.
- E lui?
La risposta la raggiunge come un trillo.
- Elsker si
allontanò dalla carriera
accademica, ma ragionava
bene e divenne in fretta consulente della polizia giudiziaria. Ma gira voce sia andato di
matto ad un certo
punto e che sia stato licenziato -
- Che vuol dire?-
- Non
lo so adesso, chere, ma prima o poi lo saprò. Sai quanto
sia bravo a cogliere queste cosucce.
Però so che si sta tipo riabilitando -
I due attraversano la porta, la riaccostano con delicatezza. Ma la
porta cigola
comunque sui suoi cardini in uno stridio da sepolcro divelto. Lucky
sospira
rumorosamente.
- Bhe, suppongo che
una seconda
possibilità non si neghi a nessuno –
Più
tardi quei due stessi amici che poco prima giocavano con la collezione
di
scherzi della natura siederanno accanto come sconosciuti. Nessun
sorriso ad
increspare gli occhi, nessuna confidenza a riempire le loro parole. Le
mani
gelide appunteranno misure pesi e date con un pennarello nerissimo su
carta
perfettamente candida, e le loro fronti si aggrotteranno al ritmo delle
informazioni ricevute.
E’ una riunione di equipe estremamente seria, quella
presieduta dalla Prof che
si dondola nervosamente sulla sua poltrona ortopedica. Infiltrati nella
coorte
di specializzandi ed interni ci sono i poliziotti,
c’è anche Misha.
E ben due coroner a presiedere, per nulla mescolati nelle loro divise
scure con
il bianco puro del personale medico, l’apertura di una
inchiesta.
Il magro addetto di laboratorio timidamente solleva le sue parole sulla
platea
più numerosa che abbia mai avuto. Il
giudice
non ha ancora disposto la liberatoria per procedere, sì, ma
le analisi
superficiali sono state fatte e la perizia necroscopica avviata. E
sì, tutto è
stato appuntato su una cartella consultabile dalla polizia.
Ogni cosa è stata fotografata ed adesso stampati di ogni
angolo di corpi
cinerei vengono
passati di mano in mano
finché ciascuno ha la sua parte di fogli spillati,
l’ultimo dei quali mostra un
paio di piedi consunti.
I ragazzi più piccoli si devono sforzare di guardare il
pavimento, non sono
abituati a riferire ad estranei le cose che accadono nelle loro stanze.
A parte
qualche senzatetto morto di freddo e stenti è la prima volta
vedono la polizia. Sembra
di violare un segreto per il
quale hanno giurato con tanta convinzione.
- Sotto le unghia della ragazza abbiamo trovato tracce di metetrina -
I dottori si osservano fra di loro, si studiano a vicenda. Ed i
rispettivi casi,
assegnati in maniera casuale in base alle giornate di turno, sembrano
trovare
una inspiegabile unità. Ci sarà da lavorare.
Lucky segue con le dita il profilo affilato del vassoio reclinabile che
accoglie spoglie prive di alito vitale ma
ancora grondanti di cellule ostinate nella
loro guerra contro la fine.
Socchiude gli occhi, fissandoli sulla ragazza che nessuno ha ancora
reclamato,
e le sussurra.
- Parlami. Dimmi chi sei -
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Capitolo 5 *** Quattro ***
Documento senza titolo
Ho sempre
desiderato un cane. Una volta ne trovai uno sulla strada lì
dove c’erano i
cartelli di divieto che declamavano in un vociare a caratteri rossi che
non si
poteva fare questo o quello. Adesso quei cartelli sono deperiti ed
ammaccati, e
del loro ammonimento non rimane che un vago sussurro rosa maialino.
Era una femmina gialla, brutta, bastarda. Con le mammelle indegnamente
penzolanti era stata legata al palo con un rozzo pezzo di spago,
immobile come
solo un cane dimenticato e mai più ritrovato può
essere.
La portai a casa.
Camminammo l’una
accanto all’altra per i sentieri, salutando gli escursionisti
agitando la mano graffiata
e la coda mozza.
A guardarci incedere a passo sicuro pensavano: ecco questo è
il suo cane, ecco
questo è il suo padrone. Ed era bello e normale.
Sembrava che il mio passeggiare avesse un senso come il loro, con i
loro zaini
carichi di attrezzatura in titanio e kit di sopravvivenza. Il loro cibo
inscatolato ed ordinato per computo calorico non contraddiceva i miei
panini
fatti con quel che capitava, le verdure spontanee e le bottiglie di
plastica
impilate nei sacchetti di tela.
Ma ci appartenemmo l’un l’altra per un solo
pomeriggio. La
vecchia cagna vomitò l’anima in veranda
ancor prima che potessi offrirle il piacere di condividere gli avanzi
di una
cena.
Il suo sangue
scuro rimase raggrumato lì nel
sottile incavo delle piastrelle per anni, a ricordarmi
l’assenza di qualcosa che rimase a me ignoto.
Certo, ci furono altre bestiole, ma erano cani da caccia dal pelo
lustro che
mi venivano strappati in fretta dalle braccia, perché ero
solo la nutrice
che doveva badare al loro ingrassare nell’attesa che
venissero venduti.
Non mi
affezionai a nessuno di loro, nonostante cercassero in ogni modo di
conquistare
la mia attenzione con gli occhi vispi e la pura allegria dei cuccioli.
Me li ricordo guaire a lungo e penosamente la notte, quando separati
improvvisamente dalla madre, li rinchiudevo in cantina senza capire il
perché
dell’assenza anche della più distratta carezza.
La mia voce non si levò mai a chiedere di poterne tenere
uno, anche se potevo.
Potevo impedire che almeno una di quelle creature mi venisse tolta.
Quando domandai di dare sepoltura alla cagna gialla dagli occhi velati
Mickey
la ficcò in un sacco e la gettò nella spazzatura,
liberandosene come si era
liberato di tanti miei capricci infantili.
Ma ora ho una infinità di cani.
Cani
poliziotto con guinzagli di pelle e targhette tintinnanti battono il
mio
bosco incantato.
Cani che fiutano, cani che cercano. Cani che frugano e seguono la mia
pista di
sangue e polvere.
Spero che non disturbino i miei amati animali, le mie prede ed i miei
predatori, con il rumore delle loro zampe.
Mi confondo nei loro latrati, nelle lingue rosee che penzolano fra i
denti.
Distolgo il fine fiuto piegato al lavoro, e confondo gli occhi dei
poliziotti e lo scrutare addomesticato dall’abitudine con
l’illusione di
mille gocce di pioggia.
Non vedono gli alberi,
non vedono altro che una missione, e non
sanno che ognuno si porta addosso l’impronta di un mio dito,
che nei
rovi ci sono i nodi dei miei capelli.
Che ad ogni passo c’è il mio respiro che li segue.
Per loro tutto è identico, tutto è tracciabile
sulla cartina che gli è stata
fornita. Non conoscono i sentieri della selva e le infinite tracce
degli
scoiattoli.
Le famiglie turbate nella loro passeggiata domenicale osservano
attonite la
scena, con i bambini a stringersi contro i genitori che confusi non
sono più in
grado di fare un bau bau di conforto.
Le divise sono ben stirate e le bocche fameliche. Portano le pistole
d’ordinanza
come lucidi gioielli.
Che se ne stiano lontani dalla casa, che si nutrano di me e me
soltanto. Che
compiano il loro orrido pasto sul sentiero, lì dove i sassi
se ne stanno
eviscerati al sole, e non nel luogo in cui la luna accarezza il muschio
morbido nel
cerchio leggero della danza. Lì dove il mio bosco non
ferisce i piedi delle
fate.
Li conduco io, lungo la scarpata scoscesa dove arrancano terrorizzati,
al luogo
della mia morte.
Uno spiazzo
ameno dove un grosso masso è
la tavola di Biancaneve. Concentro la mia attenzione sulla cagna
dell’agente
Misha Blau e scivolo leggera lungo il collare con la matricola incisa a
fuoco.
E’ una pezzata panna e cioccolato con una infinità
di lentiggini sul dorso ed un’
indole gentile la spinge più verso il divano che alla caccia
ad un assassino.
Sollevo le sue orecchie ondulate e le sussurro tutto quanto. Tutti i
miei
segreti. Tutto quello che è accaduto.
Racconto alla cagna tutta la mia nostalgia per non aver corso
abbastanza, per
non essermi spinta fino al limite. Le racconto la mia vigliaccheria e
di come
anche le pietre più affilate possano diventare comode se a
stendersi sopra c’è un
fiume lento e putrido che ti scorre nelle ossa finché tutto
la spazio è suo.
Finché non c’è spazio per niente altro.
Conduco l’animale a fiutare lì dove
c’era la mia testa, lì dove un sottilissimo
sapore di ruggine ha macchiato le mie labbra. Così
c’è un’altra creatura a
mondo che sa tutto, e fra tutti gli animali del cielo e della terra
è una
creatura amata. Il guinzaglio si tende e mentre tutte le altre bestie
guaiscono
in un coro furioso che spaventa gli uccelli un improvviso silenzio le
consente
di vedermi. Querida abbaia, una, due volte.
Nell’ambra buona dei suoi occhi vedo il mio viso riflesso
così come è nei
documenti e non nelle foto distribuite alla popolazione, dove sono
gonfia e
bluastra.
Romy Romain, quasi ventuno anni. Un metro e cinquantasette e
ventitré
millimetri. Capelli color topo di campagna, lunghi ed insignificanti.
Occhi di
bosco. Un parka sformato ed un fucile addosso.
Misha si china accanto alla sua compagna e sento la carezza delle sue
dita
sulla roccia. Sta toccando la mia pelle e la mia guancia, e Querida
china
gravemente il muso leccandomi con tenerezza. Allargo le braccia e le
permetto
di farlo. Le permetto di riversarmi addosso il suo cuore di cane ed i
suoi
sentimenti di cane.
Ma non c’è tempo, gli altri avanzano e si
allontanano. Occorre seguirli. E la
squadra speciale strepita fino alla più rassicurante valle,
dove il clima è più
mite e la zona già delimitata. Più tardi
mostrerò loro dove si trova la droga, dove c'è lo
scintillio bianco che cercano. Saranno orgogliosi di tornare con
qualcosa, qualcosa che provi come niente è come appare. E
l'innocente è anche carnefice. Voglio che lo sappiano.
Lì è stato trovato il mio corpo. Ma il mio
proiettile appartiene alle alture.
Così mi siedo sul masso, piego le testa sulle ginocchia e mi
lascio lavare dalla pioggia.
Vorrei poter piangere ma non ne sono più capace, il mio
sacco lacrimale si è prosciugato in uno scantinato freddo.
Ma il cielo piange per me. E mi conforta.
So che
verranno, so che verranno entrambi.
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Capitolo 6 *** Cinque ***
Documento senza titolo
Non
curiosare, non parlare. Guarda soltanto. Guardati in giro.
E soprattutto. Soprattutto sta attenta al lupo.
Chiedi che ti mostrino la zampa. Chiedi che tutti quanti ti mostrino la zampa. E
sta attenta al lupo.
La mamma non c'è. Ha lasciato i suoi capretti. E’
andata via e non torna. Loro
sono da soli, adesso.
Ed il lupo potrebbe sporcarsi la zampa di farina. Potrebbe sembrare un
capretto.
Potrebbe far finta di esserlo.
E vuole mangiarti, vuol mangiarti in
un sol boccone. Ecco perché si sporca le zampe di farina: lo
fa per ingannarti
e mangiarti. Così vedrai la sua zampa bianca e penserai che
se è bianca è una
zampa come la tua e non come quella di un lupo.
Anche la polvere è bianca. Sta attenta a tutto
ciò che è bianco.
È pericoloso. Potrebbe essere il lupo alla tua porta.
Il
fermo della porta scivola fino al blocco, lasciando soltanto uno
spiraglio
per la bambina che scruta dubbiosa un uomo insieme ad un cane tenuto
per un
guinzaglio a catenella, di quelli da addestramento.
Da dentro casa proviene il
rumore della
radio accesa su una stazione country western.
Since you wrote me
off with a call. But don't you wager that I'll hide the sorrow.
E' una vecchia canzone di George Jones, anche se la
frequenza vacilla in scatti di silenzio improvviso per poi riprendere
come un incoercibile singhiozzo.
La
bambina con i capelli paglierini, già stinti con
l’acqua ossigenata, continua
a canticchiare con le labbra chiuse quel motivetto allegro che
evidentemente conosce
parecchio bene.
Nei suoi stivaletti rosa da cowgirl attende che lo sconosciuto si
decida a parlare.
Perché per adesso se ne sta così, sulla
porta, a fissarla. Tutto ciò ha poco senso.
Sembra uno stoccafisso e non ha neanche pulito le scarpe
sullo stuoino.
Now the race is on
and here comes pride up the backstretch.
L'uomo indossa un giubbotto blu imbottito e sul petto, a destra, ha una
targhetta incomprensibile attaccata con il velcro sulla tasca.
Anche la bambina ha i suoi vestiti per la scuola, quelli con la
targhetta
del nome e lo stacca-attacca che si riempie sempre di pelucchi
così finisce sempre per cadere sempre quando si va
sull'altalena.
Quell'uomo lì ha
però un nome troppo bizzarro scritto la sopra, AB Rh
più. Anche la giubba è bizzarra.
E poi è vestito tutta quanto in maniera tutta strana e
formale, sembra un beccamorto.
Soltanto il cane, anzi la cagna, che adesso abbaia sembra una tipa
simpatica.
Un bracco.
La presenza dell’animale rende le cose più
semplici e così la
bambina pensa immediatamente che quel tipo sia venuto per i cagnolini,
e non
per la polvere. Apre un po' di più la porta. Soltanto un
giro di catena.
Le hanno sempre detto che quelli che vengono per i cani sono okay.
E’ soltanto che non possono spendere tanti soldi per
comprarli nei negozi e non
si fanno problemi a prenderseli rubati.
- Ciao. In casa ci sono mamma o papà?
La bambina si sputa la chewing-gum vecchia e sbiancata di saliva
nell’incavo
della mano e prova a non guardare niente se non la trave che regge la
veranda.
- Mi fai venire il diabete – protesta, per poi farsi sparire
la cicca in tasca
e torcere la testa a sinistra, come un animale curioso – Che
vuoi?
- C’è qualcuno in casa? -
- No -
- Sei da sola? –
- Sei tutto scemo tu -
L’uomo è quasi divertito da quelle reazioni
brutali. C'è abituato. Ha un largo sorriso su un viso poco
più che trentenne, ed interviene chinandosi
alla altezza della bambina prima che la porta si sbarri nuovamente.
Congiunge
le braccia sulle ginocchia ed intreccia le dita fra loro, allentando il
guinzaglio alla cagna. E’ una tipica posa accomodante che
insegnano nelle
scuole di polizia, quelle per far parlare la gente, soprattutto se
è gente piccola.
Ma almeno lui
non usa un tono artefatto,
e va dritto al dunque guardandola negli occhi. E’ qualcosa
che insegnano a
scuola, anche questa.
Fotografa mentalmente il patio dove si trovano, le
mattonelle grigiastre con lo sporco a separarle e le travi di cemento
armato piene di
ganci. Lo stuoino a
forma di cuore. I fili arrugginiti che corrono da un lato
all’altro, con pinze
da bucato a penzolarvi come impiccate.
Si concentra sulla frangetta spettinata che si trova di fronte, come se
avesse uno
strano impulso verso qualsiasi cosa che sia spettinata, soprattutto
lì dove ci
dovrebbe essere il sapiente affetto di un pettine.
Non sa se quel che vede gli piace, oppure no.
Quella bambina, ad occhio, ha
l’aspetto di chi non è accudito abbastanza.
Quale genitore permetterebbe ad uno scricciolo così piccolo
di farsi una tinta?
Lui ricorda la sua infanzia come un periodo di divieti, ma anche di
infinite
attenzioni al proprio aspetto ed ai propri giochi. Si fissa la punta
delle
scarpe perfettamente lucidate, che sormontano calzini appaiati nello
stesso
tono di nero.
Si sente in imbarazzo per se stesso ed il suo aspetto rigorosamente
curato.
E’ che nell’aria aleggia un aspetto trascurato, ma
colmo di vita.
Anche lui da bambino, due decenni addietro ormai, forse aveva
desiderato della
scarpe da cowboy al posto delle scarpe con le stringhe che aveva dovuto
imparare ad allacciare perfettamente.
Ed un cinturone ed una pistola con cui sparare contro i banditi. Bhe,
quelli li ha avuti.
Querida guaisce e gratta contro la porta semichiusa, con insistenza.
All'interno della casa passa ad
una altra canzone western ancora più ritmata
Mentre tira fuori la busta con le foto finisce per chiedersi se sia
corretto.
E’ in quel momento che ha paura, e la paura del dubbio
prevale sul suo lavoro.
Non gli hanno mai spiegato, durante l'addestramento, fino a quanto
bisogna spingersi nel svolgere correttamente un compito. Forse se
avesse portato uno dei suoi ragazzi e chiederlo a lui, fingendo di
interrogarlo. I giovani ci cascano sempre come allocchi, credono che se
solo hai qualche anno di servizio in più allora sei degno di
metterli alla prova. E si affannano a rispondere. Comunque
può anche darsi che adesso insegnino queste cose, e che
magari nel suo caso si sono solo scordati una parte di programma.
Pensa che la possibile testimone che di fronte sia troppo piccola per
vedere quelle immagini.
Per confrontarsi con
qualcosa di così grigio ed immobile. Ma infine gliele mostra.
La bambina reagisce alla foto, scuote la testa. Sono solo scatti del
viso
della sparata senza nome, la ragazza sembra del innocua ed
intenta a dormire del sonno da principessa delle fiabe, meravigliosa
come Biancaneve in attesa del bacio del
suo principe.
- Hai mai visto questa ragazza? -
- No-
- Sicura? -
- No-
Menzogna. Misha ne sente l’odore, non meno attento della sua
cagna da caccia.
Ma sorride amabilmente alla bambina, lasciando che sia Querida ad
avvicinarla. L’animale
sembra attratto dalla piccola, e la
piccola dall’animale.
Lì dove l’uomo non può la
spontaneità della bestia vince.
- Si chiama Querida – scandisce, porgendole un biglietto da
visita – Ed io sono
Misha, Misha Blau. Qui c’è il mio numero di
telefono. Mi devi fare chiamare dai
tuoi genitori subito, appena arrivano capito? Ricordati. Misha Blau.
- Scì – mugugna la piccola, battendo in ritirata
gli stivaletti rosa.
Ha smesso
di cantare da un bel po’, ormai. La radio ormai va avanti da
sola, strillando le sue parole.
Tutto sembra finito, come una formalità volata via nel tempo
del battito d’ali
di una farfalla.
E Misha Blau si volta, si volta verso il sentiero dove attende la sua
macchina
ed un’altra casa sperduta a cui bussare. Ha il suo protocollo
dove spuntare gli indirizzi ed i nomi delle famiglie da visitare.
Si avvia verso l'auto di servizio con la sua pistola sotto la giacca e
le manette legate alla cintola.
Se ne
accorge solo ora, della pistola e delle manette. Un dettaglio
non indifferente.
Come aveva potuto ignorarle per così tanto tempo, credere
che non esistessero,
e che quella sua passeggiata forse soltanto un piacere e non una
ricerca
spietata.
La pistola ricorda il
pericolo. Un pericolo che però sussurra ed attira a se
stesso, in silenzio.
La bambina
se ne sarà accorta sicuramente. Tutti i bambini hanno paura
della polizia.
E’ un attimo quando la porta si spalanca di botto e chiama.
- Misha!-
Non c’è più la catenella. La casa si
mostra improvvisa e nuda con le pareti bianco
sporco ed un divano verde penicillina, un asse da stiro, la radio
ronzante
posata nel bilico di un asse di legno ed un tavolo basso di vetro pieno
di cose
come “ricordo della mia vacanza alle cascate” e
“city hall 1970”.
Niente altro che uno spazio vuoto colmato solo
dalla musica, nessun quadro alle pareti e nessun tappeto ad ammorbidire
i
pavimenti di linoleum.
La piccola si mette entrambe le mani davanti alla bocca ed unisce la
sopracciglia, rosa da un dubbio.
- Cosa sta facendo quella ragazza, Misha? -
Misha vorrebbe abbracciare la bambina e sussurrarle che è
stato un errore. Ma
quell’esserino è dritto e compunto, e si sta
ergendo come un masso nel mare,
deciso ad affrontare qualsiasi cosa.
Non le si può mentire. E poi lui non sa
affatto come si abbraccia un bambino. Non lo ha mai fatto. Non glielo
hanno
insegnato. Un altro pezzo del programma andato a farsi benedire.
Le parole scivolano fluide nell’aria, fendendola. Si sforza
di usare un tono dolce.
- Sta dormendo, tesoro -
- E’ per il lupo? E’ perché il lupo la
ha presa?-
Ci sono delle lacrime ai bordi di un paio di occhi spalancati in un
azzurro sconfinato, ma vengono
trattenute sulle ciglia e sembrano gocce di pioggia capitate
lì per caso.
C’è
un timore improvviso. Avanza come una piccola slavina puntandogli un
dito al
petto.
- E’ contenta? Dimmelo! -
La ragazza nelle foto ha una espressione serena, è
così Misha annuisce
lentamente, senza capire il perché.
- E’ contenta. Sta dormendo nella pancia del lupo –
conclude la bambina che
adesso si rifugia nella sua tana, ma prima si struscia forte gli
stivali nello
stuoino, anche se ha fatto soltanto un passo fuori dalla sua linea
magica. Torna nella sua casetta. Una canzone si strozza repentina al
passaggio del piede su un filo.
La porta si chiude violentemente, e la catena di chiusura tintinna
infinitamente prima di trovare riposo.
La radio non viene riaccesa. Nessuna canzone country western
nell’aria
accompagna il ritorno del poliziotto alla sua macchina, ad un altro
giro, ad
un'altra casa a cui mostrare ancora una volta la sua Biancaneve senza
un
principe che la possa svegliare.
|
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Capitolo 7 *** Sei ***
Documento senza titolo
ore
dalla morte
|
gradi
persi/ ora
|
prime
3- 4
|
0.5°
|
successive
6- 8
|
1°
|
successive
12 (e fino a circa 18- 24)
|
da
3/4° a 1/2° a 1/3° fino a T ambiente
|
Ti
perdono. Per quello che mi hai fatto. Non mi
importa più.
Non
è vero. Vorrei perdonarti. Vorrei poterti perdonare con
tutte le mie energie.
Ma non posso. Non voglio.
Rimango
legata qui, a questi luoghi dove sono stata, soltanto perché
è
qui che mi trattiene la rabbia. Dall’altro lato dello strappo
c’è la pace.
Ma la pace è così accecante che mi imbarazza. Non
è mia. Non fa per me.
Ho
scoperto che il rancore è strettamente legato alle nostre
fibre. Quando queste
si sfaldano pian piano nel passare dei giorni, le cellule si arrendono
granello
per granello ad una clessidra che si ostina però a scorrere
infinita, e se ne
vanno anche i sentimenti più inutili.
Ma c’è sempre chi resiste per giorni, settimane,
perfino anni.
Quando il sangue si secca nelle nostre vene si formano dei coaguli neri
che
turbano un sistema altrimenti perfetto.
I nostri
sentimenti sono l'imperfezione
che ci rovina, la sbavatura nel quadro di un artista altrimenti
più o meno
abile.
Quello
che mi hai fatto è impresso nella memoria del mio corpo. Io
mi sento tanto
sola. Mi sono sempre sentita così forte. Così
salda.
Ma adesso sono tanto sola ed ho così tanta paura. Ho paura.
Ho paura che
qualcosa possa farmi del male.
Ho chiesto a Ciccio se questo è normale, e lui mi ha
abbaiato si. Se lui abbaia
con entrambe le sue due teste io gli credo.
Ormai so che, se è capace di fingere, è capace
soltanto con una delle due. E
comunque non ha alcun controllo sul suo sedere e sulla sua coda.
Quando
gli ho fatto la mia domanda su Harmony Dawn e se fosse in grado di
sentire
dolore per i suoi due corpi martoriati dai tubicini ed i graffi dei
camici
bianchi lui mi ha detto no.
Non ne sente. Ma sua coda si è abbassata fino al pavimento.
Aveva paura.
Harmony
Dawn siede incessantemente accanto a se stessa, piangendo stupefatta e
ciondolando davanti allo sconvolgimento di essersi trovata morta
all’improvviso
quando era così vicina a realizzare il suo desiderio
più alto. Brillare per
tutti. Essere desiderata da tutti.
Le
sono andata vicino e le ho chiesto se provasse dolore e lei mi ha
risposto che
ne prova molto. I suoi corpi gemelli provano molto dolore.
La
testa spiccata (è venuto da su perché sosteneva
che i lamenti gli facevano
venire l’emicrania) sostiene che ha detto così
soltanto perché le hanno messo
le targhette legate agli alluci da uno spago di infima
qualità. E di non
pensarci troppo. A lui lo hanno etichettato così tante volte
da vivo e da morto
che ormai non ci pensa più. Le semplificazioni dell'uomo,
che ti chiamano ladro
o omicida, numero o nome in esteso. Non hanno senso. L'agnello vegetale
invece
ha belato una riposta sottile sottile dal suo cantuccio,
così sottile che
bisogna chinarsi con l'orecchio vicinissimo al suo barattolo e sentire
quel
sussurro espandersi nella formalina
- è perché non ha mai amato che prova dolore... -
E’ stata una affermazione crudele.
Ciccio si è arrabbiato molto, non vuole che ascolti. Lui
vuole giocare. A lui
le cose vanno bene così come sono.
Ma io vorrei andare accanto ad Harmony Dawn e chiederle scusa.
E’ tutta colpa
mia se è nessuna delle due gemelle ha vinto il premio come
reginetta dell’anno.
Probabilmente lo avrebbero vinto entrambe, ex-aequo come sempre.
Sono davvero molto belle, anche da cadavere.
A loro non è accaduto nulla di brutto, i dottori non le
hanno quasi toccate. E’
stata soltanto troppa polvere.
Probabilmente saranno imbalsamate. Saranno conservate in un vero
mausoleo,
pieno di fiori sempre freschi.
Qualcuno poserà sulla loro lapide due corone di brillanti
con scritto su “Harmony
Hobbs, reginetta della scuola, la più bella” e
“Dawn Hobbs, reginetta dalla
scuola, la più bella”.
L’anima dei gemelli è una cosa unica, il fatto che
si possa dividere è solo una
casualità ed un errore.
Sono davvero contrita a vederla penare così tanto sul suo
corpo, ma non ho
parole per lei. Non avrei modo di confortarla.
La
morte non è un atto che si completa nell'immediato,
ma è prolungata nel tempo. Harmony Dawn
continuerà ad essere lei ancora per un
pochino, perché la vita continua in organi e apparati,
continua nell’infinitamente
piccolo, anche quando si è ormai totalmente consumata. Gli
occhi dei vivi sono
molto distratti. Raramente si accorgono che sotto ai loro palmi battono
ancora
le folate di quel che eravamo. Noi vi sentiamo, noi siamo qui.
Io mi chiedo se i miei peli continueranno a crescere, se
occorrerà ancora farsi
la ceretta, se le mie unghia diventeranno artigli. A qualcuno
è successo. Le
anziane signore, ad esempio, hanno dei baffi da far impallidire un
tricheco.
Io voglio che i miei capelli crescano. Voglio che crescano
infinitamente fino a
toccarmi i fianchi con la loro carezza, come le mani di un uomo. Fino
all’osso,
lì dove c’era alla notte dell’evoluzione
una coda (ho studiato nei libri, sì,
ho studiato nonostante i miei voti bassi). Fino alle natiche e alle
ginocchia,
che mi afferrino con forza, e mi facciano lo sgambetto.
E se arrivassero alle caviglie potrei farne un mantello e se ancora
potessi
andare avanti sarebbero un bozzolo.
Un bozzolo sublime in cui rifugiarmi per
l’eternità, attendendo come una falena
il calore della primavera.
Attenderei il disgelo in una prigione di seta, tendendo
l’orecchio verso il
tintinnio dei diamanti.
Mi basterebbe una carezza. Una sola carezza. Una carezza ancora. Per
capire che
è il momento di svegliarsi.
Anche io provo dolore. Provo un dolore forte, lì a sinistra
nel petto. E’ il
dolore di un vuoto che non riesco a colmare.
I dottori mi hanno tagliato una ciocca di capelli, ed io vedo quel
taglio
spiccare netto, sanguinando lì dove io non posso
più.
Voglio raccontarti una cosa. Ascoltami. Lui non ha colpa, è
innocente. Eppure
si tormenta in maniera orribile.
Sento i suoi spasmi farsi miei, lo sento. C’è il
rivolo che mi ustiona quando
si sposta forte nel suo corpo vivo.
Le cose sono andate così, prendi bene gli appunti.
Io non mi sentivo bene se non quando andavo a caccia, o almeno, io
credevo di
non sentirmi bene fino a che non lo facevo.
Un capone o un coniglio, tutto andava bene.
Il capobranco era il mio innamorato, il mio unico innamorato, ed era
così
giovane.
Gli ho ucciso io il padre, con una pallottola in fronte. Esattamente al
centro.
Un colpo perfetto.
Non sopportavo che tiranneggiasse il mio bosco. L’ho
ammazzato senza pensare.
Io credevo che, libere da quel sovrano, avrebbero svolto altrove la
loro vita. Che
mi avrebbero lasciata.
L’erede era ancora un cucciolo, ma tenne fede al suo
giuramento, e prese il suo
posto. Come potevo sapere che lo avrebbe fatto? Era ostinato ad andare
in
direzione contraria a quanto io avevo scritto.
Lottò. Ed io lo guardai lottare. Si ferì. Ed io
lo guardai sanguinare. Agonizzò,
ed io lo guardai risollevarsi.
Fuggivo da casa per guardare il branco. Divenne la mia ossessione. Non
avevo
mai visto qualcuno così aggrappato ai propri valori.
Era come me, non voleva che la famiglia si disperdesse. Non voleva i
frantumi
di una vita inutile. Voleva la vita.
Stavo con i cervi, all’altura, quando vidi
quell’altro. Stava camminando spavaldo,
faceva rumore.
La gelosia mi divorò dalle ossa. Aveva una sacca di iuta con
del fieno, ed era
solo, come me.
Camminava nel fango, a piedi, ma senza l’aspetto di un
escursionista.
Sembrava fuggito di casa, aveva gli occhi grigi come il cielo di
inverno.
Un uomo alto e scarmigliato, e dietro di lui si stagliava il mio cervo.
Per un
attimo vidi il palco dell’animale soprapporsi alla sua testa.
Il mio innamorato mi tradì, ed andò
dall’uomo e dal suo fieno.
Giungere fin lì, a quella altura nel fitto, è una
ostinazione; non ci
sono sentieri, occorre conoscere la
strada, averla incisa nella pelle.
Il desiderio delle braccia di quell’uomo, il suo sorriso, i
nodi nei suoi
capelli. Mi attraversarono come il lampo che arriva sempre prima del
tuono.
L’ho capito subito, ma non glielo ho detto mai. Lo volevo
perché era tanto triste.
Lo volevo perché in lui c’ero io.
Ma anche perché c’era qualcosa che non sarebbe mai
stata me. Non era mio, non
lo sarebbe mai stato.
La condensa di accalcava intorno alle nostre labbra, densa, quando non
avevamo
ancora inventato le parole.
C’era soltanto il mormorio del bosco ed io lo guardavo e non
comprendevo. Forse
già lo amavo.
Quando si muore il corpo si raffredda piano. Dicono che per prima si
perde quella
che chiamano presenza al mondo (meno di sessanta secondi, nel caso di
un colpo
al cuore), poi se ne va la sensibilità (bugia, io sento le
mani che mi scavano
dentro al corpo, le sento premere sullo sterno e la gabbia di ossa,
aprendola come
un libro desideroso solo
di esser
letto), poi dicono che cessi il circolo (però sono arrossita
al tocco del mio
primo bacio), e che cessi il respiro (ma sento il fumo di un ultimo
tiro infisso
nella gola).
Ci si raffredda piano. Si aspetta che il corpo diventi rigido. Che si
arrossi e
si macchi e si disintegri alla fine.
Li chiamano fenomeni cadaverici, qui. Ma è soltanto un
discorso sospeso.
Sai, quando mi hanno trovata nel mio bosco, ero distesa ed ero bella.
Ero bella
per la prima volta. Bella come sono sempre state Harmony e Dawn Hobbs,
le più
belle ragazze della scuola. Quelle che tu desideravi.
E’ stato lui a rendermi bella, a comporre il mio corpo come
se stessi soltanto
dormendo.
Non devo ferirlo così tanto, arrecargli così
tanto dolore. Ma non riesco a
smettere.
Nel gelo, il mio corpo era perfetto, ancora libero dalla cucitura a Y
che
adesso lo rovina.
Quando mi hanno trovata era ancora tiepido.
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Capitolo 8 *** Sette ***
Documento senza titolo
Lucky
Florio. Reduce da una vittoria. Spegne il cercapersone, il turno
è finito.
L’obitorio si è ormai chiuso alle sue spalle. O
almeno per oggi.
Solleva la mano verso l’usciere e gli regala un breve saluto.
Si è fatta di
quell’uomo un’impressione come quella di una brava
persona, e soprattutto una
persona rispettosa di un lavoro così strano e delicato
insieme. Così gli affida
Viola, la sua collega piccola anche se soltanto di un anno, ma prima le
strapazza i capelli mentre le rovescia in braccio i quaderni delle
consegne.
Siccome lei è l’unica entrata del suo anno la
chiamano collega unica. Ed un po’
le dispiace, che Viola non abbia un suo Mimi con cui scherzare.
Il caso delle gemelle è stato relativamente semplice da
svolgere, mancano
ancora le conferme del laboratorio di tossicologia, ma la perizia
è quasi
fatta. Lucky è serena, soddisfatta di quel che è
riuscita ad ottenere senza
doversi appellare all’aiuto di nessuno.
Ha avuto modo di lavorare al caso, di metterci mano come si dice nel
gergo,
durante i due giorni precedenti. Manca solo il parere di Elsker.
Gli amici delle gemelle Hobbs hanno raccontato di una festa con set
fotografico
e di una dose eccessiva di sballo. Troppo, troppo semplice.
Alcuni dei presenti sono ancora ricoverati sotto shock alla psico e
saranno
presto convocati dalla polizia in quanto testimoni oculari del dramma.
Resta soltanto ad aleggiare nell’aria il perché di
quella droga così
concentrata, quella stessa droga che ben tagliata e venduta sarebbe
bastata per
un altro centinaio di feste. E il perché Harmony e Dawn ne
abbiano presa così
tanta ed insieme.
C’è il velo della parola più vietata da
qualsiasi storia medica. Così
intirizzita da non poterla neanche pronunciare come ipotesi.
La madre delle ragazze nega con tutta la sua forza che le sue piccole
stelle
non abbiano amato che la vita e la vita soltanto, e non avrebbero mai
pensato
di togliersela. In quel modo poi, a distanza di solo una settimana dal
concorso
scolastico che le avrebbe lanciate vittoriosamente verso una carriera
nel mondo
della moda. Avrebbero trovato lì la loro strada, di sicuro,
in quell’apparire
spudorato offerto dalle riviste patinate.
Lucky Florio ha la sua cartelletta da completare ed i suoi appunti
presi
ordinatamente con una scrittura minuta e fitta.
Ha costretto i suoi ricci in una acconciatura ordinata che le si posa
sul capo
grazie ad un intricato sistema di forcine di cui si è
però stufano in fretta
sino ad infilarvi anche le matite mezze mangiucchiate e le bacchette
del
ristorante cinese che è il suo take away preferito.
Si è separata dalle sue mollettone tutte allineate lungo le
tempie e dalle immancabili
occhiaie per un filo di trucco, prima di uscire.
Ombretto color pesca ed un lucidalabbra degno di una adolescente al
primo
appuntamento. Non sa perché lo ha fatto.
E’ diretta al padiglione distaccato, lì dove il
nome “ospedale” non è neanche
indicato nell’insegna a favore del più laconico
“Casa di cura - Brothers Bright
– Emergenze, Lungodegenza ”.
Si chiede se suo padre sarebbe orgoglioso di vedere il suo nome, e
finalmente
da solo, dato alle stampe locali come segno di successo accanto a
quello della
più famosa famiglia della zona seppure in una occasione
funesta.
I giornalisti la intervisteranno presto e lei si chiede se
riuscirà a strappare
a quel genitore eccellente in tutto almeno un sorriso di approvazione,
ed il
perdono per non aver seguito le sue tracce.
I cadaveri erano il suo sogno fin da quando ne aveva visto uno per la
prima
volta, da bambina, immacolato nel suo aspetto di cera e per nulla
inquietante,
nello stesso museo dove ora è di casa. Era ricoperto di
farfalle blu come
un’opera d’arte.
Ci avrebbe impiegato anni a capire che era soltanto una dimostrazione
simbolica
di quella che si chiama entomologia legale. Tanatologia.
Dopo aver conseguito il diploma superiore con risultati eccellenti
avrebbe
potuto scegliere qualsiasi facoltà ma lei si è
gettata con diligenza contro quelle
materie che le venivano imposte e che si interponevano fra lei e la sua
ambizione.
Lontana da casa si è impegnata ad inanellare una prova
impeccabile dietro
l’altra. E’ stata umile con i suoi responsabili,
dedicandosi alle cose più
infime anche quando poteva dedicarsi soltanto a se stessa. Ha
rimboccato
coperte, ascoltato vecchietti, rincorso cuori battenti di bambini.
Custodendo fra le dita la fialetta calda del sangue di qualcuno ha
pensato così
tante volte al miracolo.
L’attenzione per qualsiasi materia, in esami in cui non
è mai stata zitta
neanche davanti alla domanda più ostica (un'unica eccezione:
pediatria) le sono
valse il voto più alto, la menzione e l’applauso
scrosciante. Ma non le
congratulazioni di un padre perfetto.
Forse dovrebbe parlarne con Elsker, raccontargli qualcosa di come a
volte si
sente.
In fondo è questo che immagina facciano gli strizzacervelli:
custodiscono
quello che noi ci impuntiamo di non voler vedere.
Nel suo tragitto sceglie di passare dalla Chirurgia.
C’è un intervento in
corso. Vuole vedere come si salva una vita. E’ una questione
di tecnica.
Preme il viso contro il vetro che la divide dalla sala operatoria e
solleva una
mano a fare un gesto di saluto alla ferrista che sta appesa alla
lampada come
una scimmia tropicale.
I chirurghi nelle loro divise verdi, tutti uguali con gli occhi ad
emergere dal
bordo bianco della mascherina, l’hanno sempre affascinata.
Il fatto che non riescano a far nulla da soli, neanche a vestirsi o
affibbiarsi
gli infidi fiocchettini che bloccano la stoffa sulla schiena, la
commuove.
Devono per forza sostenersi nel passarsi i ferri, nel tenere aperta la
loro
ferita – il genere di ferita che sanguina ancora di rosso
vivo- ed aiutarsi a
vicenda. Quando l’ultimo arrivato arriva nei pressi del
tavolo di lavoro con le
mani rivolte verso l’alto (serve a che l’eventuale
sporco residuato dal
quadruplo lavaggio scivoli verso i gomiti) sembra che stia pregando.
L’infermiera lo soccorre porgendogli i guanti impolverati ed
incartati
singolarmente che ha aperto soltanto con la punta delle dita, e china
un po’ la
testa coperta dalla cuffia, come un cavaliere che si inchini ad una
scintilla
di divino. Nell’aria oscilla una sonata di Chopin.
Anche Lucky mette su dei dischi, quando lavora a qualche corpo, ma
preferisce
gli ultimi successi del rock alla musica classica.
E tuttavia Chopin le sembra molto appropriato per quella sala
operatoria e per
quel male oscuro che quei colleghi si stanno affrettando a rimuovere.
Oltrepassa gli altri reparti, leggendo tutte le targhe ed oscillando
sul
fermarsi o no a salutare questo o quel conoscente.
La psichiatria è barricata dietro una porta sigillata, unica
eccezione al
Brothers Bright dove per poter entrare occorre avere un permesso
scritto, anche
se sei un impiegato dello stesso ospedale.
Il tempo che passa fra il momento in cui suona il campanello
sgangherato e
l’attimo in cui il pesante battente si apre sembra essere
infinito.
Il personale di servizio è stanco e stralunato come tutti
gli altri lì dentro,
una sorta di pattumiera dove vengono confinati i lavoratori troppo
usurati,
malati o vecchi per poter continuare a sorridere ai prestigiosi
pazienti del BBH.
Non ci sono finestre che si possano aprire, e la poca aria che passa
nella zona
comunitaria è confinata in una fitta rete di sbarre.
Corridoi lunghi dove si aprono numerose porte, ed una seggiola alla
fine, per
poter tenere d’occhio tutti quanti. Ecco lo scarno quadretto.
E’ il dipartimento dei fantasmi, quello, e certe notti li si
sente piangere ed
urlare nel buio. Altre volte ci sono risa troppo sguaiate.
Quei pazienti si muovono al confine più lontano delle
esistenze, così come
l’uomo che piega la testa sulle braccia nel grande disegno di
tinte fosche che
qualcuno particolarmente ironico ha voluto tracciare sulla parete che
da subito
sulla sinistra.
Una riproduzione di una famosa stampa del pittore spagnolo Goya, non
proprio
riuscita per l’infantilità del tratto con cui
è stata tracciata.
La scritta che campeggia in un angolo, insediata da uccelli e
pipistrelli, è
però la stessa.
El sueno della razòn produce monstruos.
- Immagino che sia qui per il dottor Elsker
Ingiunge un infermiere pesantemente strabico, distogliendola dai suoi
pensieri.
Non ha il tempo di annuire che è già partito.
- Prego, si accomodi, le faccio strada
Lucky si deve mettere a trottare per stargli dietro, da una porta
socchiusa
emergono due donne in pigiama; sono avanti con gli anni ma sembrano
bambine per
come si tengono per mano e portano le trecce sui capelli grigi. Le
sorridono di
un sorriso dolcissimo.
Più avanti c’è un’altra donna
che si dondola incessantemente su un letto
grigio, abbracciandosi tutto il corpo scheletrito.
In una stanza più grande una figura completamente nuda,
raccolta in un ammasso
di lenzuola che la tiene prigioniera, geme.
- Non guardi nelle stanze, se le da fastidio
La avvisano. Ma è troppo tardi. Alcuni dei degenti si sono
già accorti della
sua presenza e si affacciano curiosi dalle loro stanze, alcuni le vanno
dietro
cercando di toccarle il camice o attirarne l’attenzione. Un
uomo con grossi
grumi di saliva sul mento si spinge fino a prenderle un bastoncino del
cinese
dai capelli facendole ricadere un ricciolo sul collo.
L’infermiere si volta, aggrotta le sopracciglia ed il degente
fa subito
ricadere il furtarello dalle mani. Il legno tintinna sul pavimento.
- Prendila! Restituisci quella cosa alla dottoressa
Lucky si china, raccoglie lei stessa la bacchetta e si sfila la gemella
dai
capelli per porgerla all’uomo che le afferra per scappare via.
- No, va bene, può tenerle
- Non dovresti viziarli, dottoressa Florio
Elsker è sulla soglia della sua stanza, ancor più
alto di quanto Lucky ricordi.
Dentro l’ambiente è accogliente, esplode di colori
così dissonanti rispetto ai
grigi ed agli azzurri del corridoio precedente.
C’è una scrivania con due ampie sedie davanti,
tende alle finestre e librerie
stracolme di volumi. Ci sono due poltrone gemelle, una davanti
all’altra nel
destino di guardarsi, ed infine il luogo comune immancabile a quelle
occasioni;
un divanetto coperto da una coperta patchwork.
Sembra completamente un altro luogo con quei quadri alle pareti e le
foto
incorniciate.
Una di esse mostra un ragazzo ed una ragazza separati soltanto da una
colonna
ricoperta d’edera. C’è una dedica sotto,
iscritta in un cuore.
La foto è proprio davanti alla sedia dove si siede in fretta
per evitare il
pensiero di dover occupare una delle poltrone o addirittura il divano.
“Sta sempre attento al lupo. E torna da me.
Lèa”
Il ragazzo è indubbiamente un Elsker più giovane
e senza barba, con gli occhi
non più arrossati ma vividi. Sembra felice.
- E’ sua moglie?
Chiede Lucky.
Il dottore sembra contrariato da quella domanda.
- Lèa è mia sorella
Elsker si siede direttamente sulla scrivania incrociando le braccia
sotto lo
sterno. Alla caviglia sinistra l’orlo del pantalone stirato
con la riga si
solleva sino a rivelare uno scorcio di calzino rosso.
- Dunque?
Mugugna verso la ragazza.
Lucky tira fuori la sua carpetta e la liscia con entrambe le mani sulla
scrivania. Sorride al pensiero di quanto sia stata sciocca
quell’idea di
volergli parlare,e volergli parlare di qualcosa di personale. Ed ancor
più a
ripensare alle parole di Mimi.
Di certo potrà dirgli che la foto che lui si tiene accanto
è semplicemente di
sua sorella, e che c’è ancora speranza.
Guardandolo di sottecchi Lucky si accorge che in qualche modo, se solo
di
levasse di dosso quell’aria afflitta che oggi sembra
avvolgerlo, il dottor
Llewellyn Elsker potrebbe essere un tipo davvero interessante. Ma
adesso è
soltanto un uomo che le torreggia addosso, guardandola
dall’alto verso il
basso. Le porge dei fogli scritti in maniera assolutamente caotica su
fogli a
quadretti, con i buchi per infilarli in un raccoglitore.
- Questa è la mia relazione
Ingiunge porgendogli quel mucchio penoso come se potesse anche
minimamente
essere qualcosa di presentabile alla Prof o ad una autorità.
Eppure Mimi le ha detto che Elsker lavorava alla polizia giudiziaria,
forse ha dato
di matto per davvero.
Ma leggendo anche solo le prime righe è chiara la dovizia di
particolari e la
cura che è stata impiegata per compilare il dossier.
A Lucky si incrociano gli occhi nel guardare le parole così
allineate, eppure
non vuole andare via, riaffrontare i corridoi con tutta quella gente
che sembra
essere stata svuotata, o anche solo infilare una consulenza nella
cartelletta,
senza capirci niente.
Solleva gli occhi sul viso di Elsker, la pettinatura prima composta
ormai
parzialmente sfatta con i ricchi a sfuggire ovunque.
- Può … può spiegarmi?
Elsker annuisce, preme il bottone di un bollitore elettrico nei paraggi
ed
infine scivola a prendere due tazze – tazze vere di
porcellana e non bicchieri
di plastica – da uno stipetto.
Nell’avvicinarsi a Lucky le sorride sottilmente, con gli
angoli delle labbra
che si piegano fino a nascondersi nella folta barba.
- Earl Grey o Darjeerling?
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Capitolo 9 *** Otto ***
Documento senza titolo
I
calicanto. I fiori d’inverno. Germogliano quando ancora la
stagione è rigida,
ancora nella neve e nel gelo.
Sono fiori tenaci, che si fanno spazio dove nessun altro potrebbe mai
pensare
che sia il momento di nascere.
Esplodono nel buio e tutti gli altri dormono, nascosti sotto la neve.
Sono i
fiori d’oro su rami che sembrano secchi.
Li ho sempre ammirati. Li trovo bellissimi. Le loro corolle sembrano
stelle
cadute dal cielo, nell’incanto di zucchero impalpabile e di
gelo.
Ho sempre trovato io il primo calicanto, in Gennaio. Il primo calicanto
del mio
bosco è sempre stato per me, pronto a riversare il suo
segreto nella mia bocca.
Ma c’era quell’uomo. Lo stesso uomo che aveva preso
l’abitudine di portare il
fieno al mio cervo.
Era colpa sua se la bestia era sopravvissuta, se le sue femmine non
l’avevano
abbandonato, se era diventato il nuovo capobranco.
Camminava sempre a piedi, in silenzio, stringendosi nelle sue camicie
di
flanella a quadretti e nei pantaloni di velluto a coste.
L’ho osservato a lungo, seguivo le sue tracce come se volessi
cacciarlo. Alcune
volte avevo con me il mio fucile, altre volte no.
Quella volta si era portato delle cesoie e le usò per
tagliare di rami di
calicanto. Li strinse in un nastro color ghiaccio, accomodandoli
l’uno
all’altro con delicatezza. Non ruppe neanche un singolo
fiore. Ho seguito le
sue impronte fino a giù. Mettendo i piedi dove li aveva
messi lui, sovrapponevo
la suola delle mie scarpe ai suoi stivali.
La sua meta era il piccolo cimitero alla fine della collina, confinante
con
l’area picnic. Ma nessuno si avvicina così tanto a
mangiare accanto alle tombe.
Così quell’angolo era sempre stato tranquillo, se
si escludono i giorni
affollati di visite. Probabilmente è lì che
andrò, fra qualche giorno.
Conosco bene quel posto.
Feci scivolare il cancelletto di ferro sui suoi cardini, seguendolo
anche
all’interno.
Raggiunse una lapide periferica, sormontata dalla semplice immagine di
un
angelo con le mani congiunte.
Lo vidi con le ginocchia a terra sul terreno indurito dal freddo
chinarsi verso
le lettere del nome fino a rimuovere la brina lettera per lettera.
Forse è per quello che mi avvicinai, perché anche
lui sembrava aver perso
qualcosa.
Mi abbracciai le ginocchia e mi sedetti sui gradini di un mausoleo di
famiglia
poco distante.
- Chi sei?
Stava sistemando i calicanto su tutto il tumulo, disponendoli come una
corona
dorata tutto intorno alla fanghiglia scura. Attesi a lungo prima che
rispondesse. Temetti che non rispondesse mai.
- Llewellyn. E tu?
- Romy
Non gli porsi una mano, come si dovrebbe fare sempre se si è
delle persone
educate, ma lasciai che la sua aleggiasse nell’aria invano.
- Ti ho visto nel bosco.
Era una frase molto stupida da dire, ma non mi veniva in mente altro.
Lui
sembrava essersi del tutto disinteressato, e copriva con la sua ombra
il nome
sulla lapide, così non riuscivo a leggerla. Quando mi
guardò di nuovo il suo
viso aveva preso una piega severa.
- Anche io ho visto te, cacci di frodo.
Rabbrividii. Sono sempre stata molto attenta con le mie trappole,
piazzandole
lì dove nessuno si spinge e controllandole la mattina
presto, quando è ancora
buio. Non ho mai fatto lo stesso giro, perché non si dicesse
che ho delle
abitudini.
- Non mi denuncerai vero?
Llewellyn si sollevò in piedi, battendosi le mani sulle
cosce fino a cacciare
via i frammenti di ghiaccio rimasti intrappolati nella stoffa.
- No, non ti denuncerò
Ho sempre parlato molto poco, e ancor meno ho usato la parola che usai
in quel
momento. Ma lo guardai negli occhi e capii che era sincero.
- Grazie
Cominciammo a vederci all’altura, prima del tutto
casualmente, poi come ad una
sorta di orario.
Quando scendeva la sera ed arrivavano i cervi lui era lì con
il suo sacco, ed
io lì a guardarli, generalmente nascosta fra le fronde.
Mi premevo contro il corpo le mie prede ancora calde, trovando conforto
nel
sangue che colava a terra bagnando i piedi e la neve,finché
cominciai a trovare
un po’ di cioccolato sul masso, quando se ne andava, ed un
giorno un thermos
intero con del the ancora fumante.
Mi avvicinavo sempre più, attirata da quelle briciole che
prima credevo
dimenticate.
Ma in verità lui mi trattava come una bestiola selvatica, mi
addomesticava come
aveva fatto con il mio cervo.
Imparai a fidarmi di quel cibo, ed a presentarmi
all’appuntamento per carpirlo.
Aspettavo che se ne andasse per andare a vedere cosa era rimasto, cosa
era
stato lasciato indietro.
Io ed il mio cervo ci guardavamo e non comprendevamo come tutto
ciò fosse
possibile. Come avessimo fatto a superare anche
quell’inverno. Stavamo bene.
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