Elsker

di Morganna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***
Capitolo 4: *** Tre ***
Capitolo 5: *** Quattro ***
Capitolo 6: *** Cinque ***
Capitolo 7: *** Sei ***
Capitolo 8: *** Sette ***
Capitolo 9: *** Otto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Documento senza titolo






Prologo

Fa freddo qui. Ed è umido.
Qualcuno ha dimenticato il rubinetto semiaperto e l’acqua scorre in un rivolo sottile e fragile come cristallo.
Ormai ha portato via con se ogni traccia di lordura. Il mio sangue è cancellato. Il mio sangue è mandato a scorrere nelle fognature.
Si è mescolato fra i rifiuti organici ed il seme dell'usciere. Perché li ho proprio visti mentre facevano all’amore sui banchi più bassi, e loro potevano vedere me. Ho provato a fargli capire che per me era okay, se volevano farlo. Che non avrei fatto la spia.
Ho percepito il calore sulla pelle, l’ansito del loro piacere così raro.
Non capita spesso che possano rimanere da soli. Ed è per questo che hanno dimenticato di controllare quel rubinetto che è vecchio e perde sempre e bisogna stringerlo forte, ogni volta.
Ma poi se ne sono andati quasi correndo perché fa paura a tutti stare qui quando fa buio. E' quasi notte.
Fa freddo qui, ed è umido. Voglio una coperta. Una coperta soffice, con i bordi di pelliccia come quelle che si trovano sotto l'albero a Natale. Voglio la coperta che non ho mai avuto, qualcosa che mi tenga al caldo ed al sicuro.
Nessuno ha mai pensato di regalarmene una.
Eppure era un desiderio semplice, qualcosa in cui avvolgersi, qualcosa di colorato. Qualcosa da condividere davanti ad un film.
Ma fa freddo qui.
Mi hanno lasciata da sola e al buio in questa enorme stanza piena di bilance ed uncini, ad addormentarmi in questo letto duro e gelido che non è il mio.
Ho paura. Ho paura del buio. Ho sempre avuto paura del buio, ed a casa dormivo con una luce accesa. Ma non posso gridare la mia paura. La devo trattenere in gola e fra i denti.
Qualcuno mi ha legato la bocca e il mento. Un mattone sotto la testa mi impedisce di muovermi e così devo stare qui stecchita a fissare un soffitto consunto. Conto le macchie. Che strano. Riesco a vederle anche se i miei occhi sono ormai secchi.
Guardami. Sono nuda. Neanche una coperta a coprire questo corpo. Mi hanno abbandonata così. Come uno straccio dimenticato. Ma tu guarda come è giovane la mia pelle. Mi hanno abbandonato al freddo e al buio nonostante io sia esile, e le cose esili hanno sempre paura del freddo e del buio. Come fanno a non saperlo?
Sono venuti, oggi, i dottori, come uno stormo di uccelli bianchi. Erano in tanti ed erano venuti a scrutare me.
Una donna bionda con grandi occhiali di tartaruga parlava con apparente sapienza, gli altri ascoltavano. Lei è il capo e tutti annuiscono anche senza capirla.
Io lo sentivo che non capivano niente, lo sentivo con le mie orecchie piene di sangue.
E da come si affannavano e chinavano su di me sembravano tante sciocche oche. Mi hanno fatto ombra. Mi è venuto tanto da ridere.
Hanno misurato il mio cuore, ed il buco che c’è dentro. Hanno misurato il buco nel mio cuore, ci hanno infilato le dita dentro muovendole come vermi bianchicci fino a farmi il solletico: hanno sentito il vuoto dentro il mio cuore e di nuovo mi è venuto tanto da ridere.
Un foro tondo di neanche un centimetro è la misura del mio vuoto. C'è tutta un aria grigia intorno, cerchi concentrici come è sempre di chi ha sparato con il muso abbastanza vicino a chi non ha paura di quell’animale di ferro, ma abbastanza lontano da lasciare un ingresso perfetto e quasi invisibile se solo mi fossi ricordata di cambiare i vestiti. Sono lentiggini di fuoco, è la scia di una cometa.
Il mio vuoto è calibro 7,65 esattamente come il proiettile che mi brucia ancora nel petto; è la fiamma imperitura dell'inferno, li sotto la pelle.
Mi si è piantato bizzarramente dentro. Bloccato dalla mia volontà. Infisso nell'alcova dell'unico muscolo che non si può comandare.
“Ritenuto” hanno scritto nel loro taccuino tecnico, senza foro di uscita.
Li ho ascoltati parlare. Mi sono innervosita ai flash delle loro macchine fotografiche sui miei seni.
Mi hanno violentata, vogliono estrarre quel proiettile che capriccioso è troppo a fondo. Anche se il mio caso è così facile: omicidio.
La mia testa non ha battuto a terra, lui mi ha abbracciata. Non troveranno altri segni. Nessuna colluttazione.
Non ci sono altre tracce diverse dallo sparo. Addosso a me solo la mappa contorta dei miei nei e qualche vecchia cicatrice.
Eppure loro hanno voluto frugare in ogni recesso, fingendosi scienziati, fingendosi sapienti. Eppure non è sapiente chi si chiede il perché. È soltanto fallace in ogni suo pensiero.
Domani non sarò più un corpo in attesa, mi hanno minacciata: hanno detto che mi toglieranno questo mio corpo appeso in un limbo soave ma freddo. Domani forse, sarò solo pezzi. E mi chiedo se ne morirò.
Ma dobbiamo fare il silenzio adesso. Shht. Taci lettore. Ascolta anche tu. Il mio cuore con il suo foro di entrata e nessuna uscita batte forte. Lo senti il tintinnio del metallo ed una chiave che gira? È una chiave pesante per una serratura ancora più pesante. C'è una porta scricchiola e poi un’altra ancora. Una serie di porte sempre più blindate conducono al mio talamo di vergine.
Sento i suoi passi. Quei passi che riconoscerei in tutta la polvere del mondo. Sento la ferita che brucia e brucia, perché risponde, perché sa.
Si china su di me. Conosco le pieghe del suo sguardo. L'odore di fumo e colonia confina lontano questa brutto measma da camera mortuaria.
Ha portato una coperta, ed è una coperta leggera e tanto banale, con il codice dell’ospedale stampato sopra. La stende e non c’è più freddo.
- Mi dispiace così tanto,Romy - Il suo sussurro è tutto ciò che mi basta. Non è un addio.
La sua mano gentile mi scivola sulle palpebre, mi carezza il volto.
Ogni fibra di me si tende a quel tocco e la mia energia gli rimane intrappolata fra le dita. E' una elettricità sottile. Tutta la mia vita.
Adesso posso chiudere gli occhi. Adesso posso andare a casa. Adesso posso andare via.

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Capitolo 2
*** Uno ***


Documento senza titolo






La prima brina della stagione. C’è una luna che rivela una distesa di ghiaccio lì dove la sua luce algida pennella di ombre la notte. L’astro è soltanto una falce crescente graffiata in un cielo nero in cui le stelle sembrano essere state ricamate con maniacale cura, tanto da creare un atmosfera finta degna della carta doppio strato delle natività, ma è così ostinata nell’illuminare la distesa boschiva che fa da bordo al grigio asfalto della strada da potersi scambiare per una traditrice nei confronti del cervo.  
Gli zoccoli del giovane maschio – un mantello ancora non uniforme -  si posano sui cristalli di ghiaccio infrangendoli in un tintinnio di campanelli di vetro, udibile nel silenzio.
Il cervo agita il suo bel palco verso la Buick color amarena, ergendosi al centro della carreggiata davanti a due insonni.
L’auto inchioda, scivolando sulle ruote consunte, e in un attimo l’animale è balzato via. In fuga.
Dentro l’abitacolo Lucky Florio, medico legale, ansima con la fronte poggiata sul manubrio.
E’ una ragazza sveglia, e tiene parecchio al suo primo incarico completamente da sola, e non ha alcuna intenzione di morire per una bestiaccia che gli si presenta davanti sulla strada. Così senza avvertire, per puro dispetto.
Accanto a lei il suo accompagnatore si limita a sorridere vagamente con gli occhi fissi lì dove c’era l’animale.
Il dottore è quasi sgraziato nell’altezza che lo comprime dentro l’abitacolo dalla Buick.
Ha lineamenti marcati ed una apparente fretta. Fa un cenno a Lucky, per ripartire.
Entrambi sono stati svegliati dal telefono, ed entrambi durante il rispettivo turno di guardia.
Nulla di insolito,
se non che la natura umana impone di lottare strenuamente per tutto ciò che è vita, ed entrambi sono stati chiamati a testimoniare una, anzi due, morti.
E perfino a chilometri di distanza dall’ospedale, nel verde.
Lucky Florio rappresenta una delle eccezioni alla regola della sopravvivenza
. La specializzanda si è lasciata alle spalle il calduccio della sua stanza per andare incontro ai morti, per incontrare gli umani su un tavolo lucidissimo fra le cause che li portano ad essere esseri orizzontali piuttosto che verticali più precisamente, e a farne il dovuto rilievo. E’ un compito ingrato che svolge ormai da anni, quando nessuno si ricorda mai della moltitudine di camicie buone che finiscono per essere consumate dagli agiti dei parenti più o meno arrabbiati o dolenti. Il compito che sognava da bambina. A dieci anni, un futuro come anatomopatologa. O meglio, come una parola troppo complicata perché una bambina la pronunci.
Era arrivata a coronare le sue ambizioni prendendo in scacco il padre che la voleva ennesima pedina di una famiglia di avvocati.
Sei anni di guerra,e poi il trauma di dover affrontare l’esame in cui sei costretta ad abbattere quegli stessi colleghi con cui poco prima dividevi i libri, il sonno e le scatolette di tonno quando si era talmente stanche dallo studio da essere incapaci perfino di seguire una alimentazione dignitosa.
Molti saluti, qualche addio ed infine l’orgoglio di guadagnarsi da vivere da sole e pagare la Buick tramite i pomeriggi nella stanza del silenzio, lì dove non c’è nessuno che possa vederti o sentire.
Perché se chi è morto è morto non vede e non sente. Pomeriggi di deliziosa solitudine.
Ma stavolta c’è un intera mandria di festaioli da consolare (o ricoverare?) ed allora la ligia specializzanda digita un numero al cercapersone e giù dal letto anche lo psichiatra. Ma proprio lo psichiatra, che si pretende che sia quantomeno un po’ strapazzato per il non essere abituato ad essere traslato in piena notte, ha l’aspetto lindo e quieto di chi non ha mai dormito; in tutta la sua figura soltanto i capelli sono in disordine, tagliati alla rinfusa in ciuffi diseguali che si espandono in tutte le direzioni.  
Lucky vorrebbe scostarglieli quantomeno dalla fronte, ma finisce per annodare un dito intorno ai propri riccioli
gettando così la testa all’indietro in un vezzo capriccioso che le consente di osservare di sottecchi il suo accompagnatore: niente poco di meno che Llewellyn Elsker, il leggendario Herr Doktor, l’imprendibile ombra sulla piazza del Brothers Bright Hospital.
Si potrebbe definire una vero capitombolo della fortuna, questo.  Sicuramente è qualcosa da raccontare alle colleghe l’indomani. Moriranno di invidia. Come è che dicono gli strizzacervelli? Sincronicità.
Tutti quanti sanno quanto il dottore odi spostarsi durante l’orario di lavoro e soprattutto guidare, così tocca adularlo perché salga in macchina ed ancor più sopportarlo come passeggero. Dicerie ormai diventate leggenda raccontano di come sia solito approfittare dei numerosi passaggi per pensare.

Ma Elsker bigia tamburellando le dita sulla plastica dura che contorna il finestrino fino ad animare un ritmo da canzone. Non sembra affatto che stia pensando intensamente a come vada il mondo o a quelle cose che si suppone affollino la mente di chi si occupa di inconscio e cose del genere, o di aria fritta, secondo le perspicaci idee del resto del mondo.
- Ci sarà da bere, Luck – concede l’uomo alla ragazza, lasciando scivolare la voce dalle labbra, quasi senza muoverle. Lì sulla brina le orme che il cervo in corsa si è lasciato alle spalle si perdono nel fango del sottobosco fino a non vedersi più. Rimane una traccia di erba piegata come zucchero caramellato.
La Buick si rimette in moto, ingranando la marcia e diffondendo nuovamente all’interno dell’abitacolo il tepore offerto dall’impianto di riscaldamento prontamente riacceso. Presto sarà inverno, e quell’impianto non basterà più così che dovranno far la loro comparsa dei plaid multicolore a fornire calore extra.
La villa dove fare il rilievo è proprio dietro un ultima macchia di verde, svoltando sulla sinistra in una tenuta immersa nel bosco ed oltremodo lussuosa. Oltrepassando due grossi leoni di pietra che fanno la guardia al cancello lo spiazzo antistante la casa padronale è gremito da una moltitudine di automobili, alcune molto belle e rare ma altre banalmente appartenenti ai poliziotti ed a qualche sporadico paparazzo.
Lucky guida fino ad accostare la sua fidata compagna al vialetto che porta alla piscina e balza giù lasciando le chiavi appese, offrendo ad Elsker via libera attraverso il suo sedile o una disagevole discesa  direttamente in una siepe potata di fresco a forma di coniglietto. Il dottore opta per la siepe sempreverde, che cerca di non abbattere aprendo molto delicatamente lo sportello e maledicendo al contempo quell’infausto giardiniere.
Misha il poliziotto è già sul posto ed accoglie entrambi in un caloroso abbraccio che ignora del tutto lo spiacevole evento che costringe un nutrito gruppetto di insonni a vedersi a quell’ora della notte a chilometri dalla rispettive tane.
La scena incriminata è proprio davanti a loro, nel gazebo vicino alla jacuzzi lì dove è stato montato un provvisorio ma ben fornito studio fotografico. Pannelli di colore neutro ed ombrelli riflettenti esaltano la bellezza cinerea dei corpi seducenti di due ragazzine riverse in pose innaturali, talmente identiche da rendere inconfutabile l’idea che siano gemelle, ed entrambe vestite con abiti scollacciati che tanto stridono con una età che sembra essere ancora molto giovane. Sembrano in tutto e per tutto due grosse effimere e colorate falene trafitte dalla luce dei fari e da quelle luci stroboscopiche che ancora funzionano a tratti giusto per ricordare a tutti quanti che qualsiasi cosa accada la festa deve continuare.
Abbracciate ed ancora in posa con le bocche spalancate di stupore, gli occhi truccati pesantemente con ombretti color pastello che si abbinano malissimo al gonfiore della morte che rende identici tutti quanti, belli e brutti, fissano ancora il punto dove dovevano esserci le macchine fotografiche, adesso inerti e più morte dei cadaveri stessi, con i loro rullini penzoloni come viscere esposte.
Una macchia di liquido che si espande intorno a loro non turba il quadro.  
Ovviamente il tutto è stato lasciato intatto in attesa del medico legale, che adesso scavalca senza alcuna indecisione il nastro bicolore teso dalla polizia per dirigersi speditamente verso la scena del delitto.
- Set fotografico per le reginette del ballo – conferma Misha, preferendo rimanere al di là di quel confine. 
- Due ninfette – sottolinea il dottor Elsker. Ma ha lo sguardo distratto verso il limitare della proprietà.
In qualche modo è sfiorato dal brivido che il cervo possa essere ancora lì, da qualche parte, trovando rifugio nell’opulenza ordinata di quegli alberi piuttosto che nei piaceri che la natura selvaggia può offrire.
Che il cervo abbia vegliato la morte, e lo abbia composto lui il numero che lo ha svegliato dal suo sonno farmaco-indotto e portato fino all’ennesimo stridore di malinconia. Così stringe gli occhi, fino a visualizzare l’immagine delle corna del maschio ed a contare mentalmente le punte viste sui palchi.
- E’ così giovane – bisbiglia, in uno sbuffo di condensa tiepida di vita.
- Oh, Lucky se la caverà – esclama il poliziotto, osservando la sua squadra raggrumarsi come formichine intorno alla giovane dottoressa, che ha già tirato fuori i guanti, il metro e la propria macchina fotografica.
- Ma adesso venga, che c’è una lì dentro che non ha fatto la madre in diciotto anni di vita e ci vuole cominciare ora che sono morte. Vedrà, ha buttato giù tutte le porcellane del salotto. Sta terrorizzando tutti quanti - 

Più tardi, quando l’alba sveglierà perfino i leoni di pietre con il suono mesto di diverse ambulanze, il dottor Elsker onorerà le sue parole notturne offrendo da bere a Misha, alla sua squadra di ragazzi ed alla collega Lucky Florio, un attimo alcool di annata offerto dalla casa (e impudentemente lasciato incustodito fra le mani degli agenti) in costosissime tazze di porcellana, rimasugli della distruzione boriosa di una madre che per la prima volta si accorge di aver perduto le sue bambine.





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Capitolo 3
*** Due ***


Documento senza titolo






[L'autopsia, chiamato anche esame post-mortem, è un esame medico dettagliato e attento  del corpo e dei relativi organi della persona dopo la morte per stabilirne le cause, le modalità ed eventualmente i mezzi che l'hanno prodotta. Nelle autopsie a scopo giudiziario è anche richiesto di stabilire l'epoca della morte, desumibile dai cosiddetti fenomeni cadaverici. Il termine deriva dal greco ατοψία,
(composto di α
τός «stesso» e ψις «vista») e significa "che vede con i propri occhi"]

Mi chiamo Romy Romain ed ho quasi ventun anni. La cosa che mi manca di più è respirare.
Sentire l'aria che gira e gira per il naso e poi le tempie e poi ancora scivola giù in fondo alla gola e la laringe e giù ed ancora più giù fino a bronchi, brochioli, alveoli. Spazi infinitesimali di materia volta ad assorbire aria. L’ho studiato a scuola, tutto questo, ed adesso mi guardo e posso verificare che quello che c’è scritto nei libri è tutto vero. E’ davvero tutto vero. Puoi comprare il libro, non ci sono scritte dentro bugie, sono cose vere. Per sicurezza, ho controllato più volte.
I morti non sono quasi mai violenti, ma si dimenano spesso nei loro lucidi giacigli di acciaio inossidabile per innalzarsi verso il soffitto : vogliono giocare con il mondo totalmente nuovo in cui si ritrovano.
La luce dei neon – li hanno accesi tutti quanti - si riflette sui lunghi tavoli fino a renderli dei perfetti specchi, ma fatti di un materiale facile da pulire. Tutto è asetticamente illuminato.
Ma lì dove c’è una piccola ombra c’è anche qualcosa che il disinfettante non può disinfettare.
Perfino i colatoi insaziabili di sangue e liquidi biologici sono bocche abitate da esseri curiosi, ma chi li calpesta non lo sa. Si limita a passarci sopra facendo vibrare le grate. I colatoi sono una sepsi silenziosa.
 Ma la luce aiuta, aiuta parecchio. Chi mai non cederebbe alla possibilità di guardarsi, guardarsi dentro una volta per tutte, rivoltato come un calzino in maniera chiara e scientifica.
Scoprire come si è fatti?  Se per caso la nostra vita non lascia qualche traccia sui nostri organi, sulle nostre arterie? Io sono curiosa. Tu no?
Sono confinata nello scantinato e mi siedo nella gradinata, lì dove ieri c’era un po’ di amore, e mi guardo.
Dietro lo spesso portone della Sala Settoria accade l'indicibile ed il mio corpo diviene carne.
Ma non mi disturba neanche un pochino, e nonostante la mia coscienza mi suggerisce che dovrei sentire del dispiacere non percepisco nessun legame con quella cosa che un tempo era me.
Non più prigioniera della materialità e posso fluttuare libera e soffermarmi sulle spalle dei presenti.
Mi divertono i visi grevi dei dottori, le loro protezioni per non contaminarsi con la morte e la loro fascinazione per essa.
Loro sono come falene attratte dal fuoco: si bruceranno.

È questa la condizione umana, bruciarsi comunque.
Vedo i più giovani, quelli capitati qui per un tirocinio e non per loro volontà, lottare per non vomitare. Qualcuno mi ha coperto il viso per non dover subire la mia espressione troppo serena.
Questi ragazzi se ne stanno un po’ discosti, e non sono come quelli che son venuti in visita ieri.
Sono piccoli e sudati come pulcini, non potranno essere più grandi di me. Loro sono più onesti.
Sbirciano, più che guardare. Tremano, perché sanno che dovranno partecipare. In un qualche modo.
La donna con gli occhiali di tartaruga, che chiameremo Prof da adesso in poi, è la capitana di una squadra bislacca in cui gli specializzandi scalpitano per porgere una informazione o un paio di forbicine.
Prof è molto bella nonostante non sia più propriamente ragazza, sottile come un giunco e severissima.
Ma quando si volta verso chi ha alla sua destra muta l’espressione, che si raddolcisce e si fa quasi materna.
Lucky Florio è la sua preferita. Una mano così delicata per una mente sottile ed attenta.
Prof vede in Lucky se stessa da giovane, quando credeva che avrebbe potuto dominare qualsiasi cosa.
Lucky non la tradirà. Lucky verrà al capo delle cose, e le sezionerà fino all’osso.
Ma non me. Lo sapete che questa stanza è piena di corpi, come se fosse festa? Non è a me che tocca oggi.
Così rispetto la privacy della signora Smith, infarto splenico e pace all’anima sua, e volo verso i piani alti.

La medicina legale occupa il piano più intimo del Brothers Bright, quello sotterraneo e senza finestre.  
Sopra di noi si muove la vita lenta dell'ospedale, ed il trafficare tumultuoso di quando c'è una emergenza.
Per una bizzarria dell’architetto che forse potrebbe anche chiamarsi previdenza sopra la sala settoria ci sono le sale ed i corridoi del pronto soccorso. Il reparto più animato e quello dove langue la noia hanno una struttura quasi simmetrica. Così si va di sotto senza passare una seconda volta dal via.
Nella saletta numero sedici una tirocinante si china a sentire lo sbuffare di un torace, e nella stanza accanto una donna conduce disperata il suo bambino che ha battuto la testa cadendo dal seggiolone.
Entrambi i pazienti se la caveranno, non hanno il nostro odore addosso, non hanno il mio.
Ho conosciuto la gente nei frigoriferi ed è molto garbata. Però sono un po’ noiosi, sono vecchi morti per questioni loro, penso, scompensi. Gli deve essere partito il fegato o qualcos’altro. Non me lo hanno saputo dire con esattezza. Probabilmente si sono stancati e basta. Adesso stanno giocando a canasta in sala d’aspetto e non voglio disturbarli con troppo domande. C’è tempo. C’è tantissimo tempo.
Sono stata anche un po’ sopra al museo, ma l’unico ad accogliermi è stato il cane a due teste.
Si chiama Ciccio, e se ne avesse avuto tre di teste si sarebbe chiamato Cerbero ma ne ha solo due.
Abbaia in maniera un po’ troppo stridula ma ci capiamo perfettamente.
Ho scoperto che esiste un’unica lingua, quando si è dall’altra parte dello strappo.
Chi vive nelle vetrinette e nei barattoli è gente altezzosa. Se la tirano troppo perché è roba ottocentesca.
Ma Ciccio è un cane e gli piacciono le passeggiate. Lui è rimasto al Brothers perché cerca il suo padroncino da quasi un secolo ormai ma a quanto pare non è ancora ripassato qui. A Ciccio non importa. Lui aspetta. Ho intuito che quando succedono queste cose è come giocare a campana: tracci il disegno sul pavimento, lanci il sasso quando è il tuo turno, salti fra un quadrante e l’altro stando bene attenta a rispettare le linee, un piede, due piedi. Balzo.
Uno, due, tre. Poi ti volti, lasci il sasso a qualcun altro e devi aspettare.

                                 

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Capitolo 4
*** Tre ***


Documento senza titolo






-  Auguri –
E’ Mimi a farle per primo i complimenti, in corridoio.
Fermo davanti alla fidata macchinetta sta sollevando nell’aria un bicchiere,  ricolmo di pessimo caffè solubile, nel gesto di un brindisi. 
L’aria è calda, così calda da far appannare i suoi occhiali da miope.
Un contrasto enorme rispetto al gelo si che affila i denti poco prima della porta.
La dottoressa Florio caracolla goffamente sulle sue galosce da pioggia fino a trovarsi anche lei nell'angusto angolo riservato al rifocillamento, e spinge le dita nelle tasche del camice per cercare una monetina da infilare nello spiraglio dell’apparecchio,  ma ha le tasche bucate, letteralmente. Entrambe.
- Faccio io – chiosa il collega – dobbiamo festeggiare l’evento -
Con finta aria afflitta Lucky prende tempo per pigiare i tasti e regolare così la quantità di zucchero da cinque fino a sole due tacche così come impone la dieta.
- E quale sarebbe questo evento? –
- Ma come quale? La tua prima perizia con solo e soltanto il tuo nome, tesoruccio! -
Il cappuccino scivola ubbidiente nel suo ostello di plastica, l’apparecchio trema il suo clic-clic-cloc -bizzz da lavoratore impegnato.
Non disturbatelo, sta facendo il caffè, clic-clic-cloc- bizzz.
Lucky ha sempre adorato il ronzio delle macchinette da ufficio,  trovandolo rassicurante nell’ essere sempre uguale a se stesso.
Si può affermare che le macchinette siano un punto fermo della sua vita.
Approfitta così del liquido fumante per scaldarsi le dita e sta per buttar giù il liquido sintetico quando una gomitata fa andare tutto di traverso,  compresa la sua colazione nella plastica.
Un colpo basso, a tradimento, nel fianco.
- E della tua uscita notturna con il bel tenebroso non mi dici niente, ma ti sembra giusto? – insiste maliziosamente Mimi con assoluta innocenza sul suo gesto ed  ignorando del tutto un principio di soffocamento e possibile ab ingestis.  Argomento abbastanza noioso nelle autopsie, roba da vecchi.
- Oooh se non avessi la certezza che è dell’altra sponda che bella ripassata che gli darei!
Lucky cerca di pulirsi la schiuma che si ritrova sul viso, guardinga mette una mano sul cappuccino, incassa la testa fra le spalle e fa scivolare lo sguardo sulla gente intorno.
Medici ed infermieri decisamente arruffati perlopiù. 
-  Smettila Mimi, non parlare così -
- Perché? Tu non la vorresti una botta con lui? -
-Maximilian!-
- Va bene! Va bene!  Ma raccontami tutto. Tanto lo sai che i nostri pazienti se tardiamo un po’… non fiateranno! -
Maximilian, detto Mimi in odio al suo nome completo, è lo specializzando anziano della medicina legale del Brothers Bright e collega di anno della pupa della Prof, Lucky appunto.
Tutti quanti sanno che è un militante accanito del terzo sesso, ma tutti sorvolano sul singolare status in favore delle  grandi capacità lavorative e la squisita gentilezza.
Per lui la sponda giusta è decisamente la sua.
Mimi e Lucky sono una coppia di lavoro fin dall’ incontro tremante davanti ad una segreteria  che si  trascinava addosso il loro destino  sotto forma di fogli. 
Davanti ad una promessa composta da enterotomi e seghe vibranti c'è tutto il loro mondo.  
Adesso se ne stanno lì ad intralciare il traffico degli altri lavoratori mattutini, appena passati dai piaceri del sonno allo shock di un’altra giornata ospedaliera.
 La fila di camici bianchi protesta, reclamando l’accesso ad un elemento vitale quale è la zona caffè. Alcuni hanno uno stetoscopio appeso al collo, un boa che si appresta a diventare costrictor se i due non si sposteranno in tempo da lì.
Mimi prende con naturalezza Lucky sottobraccio, appallottolando i bicchieri di entrambi e centrando con buona mira un cestino che offre i suoi servigi nel tragitto verso i reparti più esterni e meno vitali.
- Dunque? -
- Bhe, è un caso di overdose -
-  Metedrina, questo lo so –
- Si, ma è doppio e ci sono … sembra una cosa di gruppo -
- Dodici ricoverati dai mugugnatori,  lo so. Guarda che sono preparato -
- Che cosa vuoi sapere, allora? -
- Ma ma chere, voglio sapere di Elsker,  no!? -
- Oh… Niente di che. Parla molto poco. Per quel che ne so, potrebbe anche essere del tuo lato -
- Ma no ma che non lo è, sciocchina -
- E perché no? –

 -  Aspetta -
Le scale verso giù, evitando l’ascensore sempre in funzione, e poi il piano ammezzato ed il reticolo di corridoi che scorrono sotto l’ospedale in un intricato sistema di arterie di cui lo spazio freddo dell’obitorio è il signore e padrone.
Si tratta di vie pietose ma umide e pronte ad ingurgitare tutto ciò che non può esser visto, così da ben nascondere ai vivi le tracce maleodoranti della malattia.
Tutto al Brothers Bright Hospital è lustro, efficace ed impeccabile di modo che nessuno abbia a ricordarsi la penosa condizione che dal vivere non si può guarire e fin troppo spesso si ci ritrova avvizziti perfino prima di aver completato la sciocca lettera d’amore che tanto volevamo scrivere.
Mimi parla in maniera spiccia, ma ammiccante, del più e del meno e quando arriva al museo –  accesso assolutamente vietato – richiude la pesante porta con circospezione.
 E nonostante la gente chiami quel gabinetto affastellato dalla collezione degli studiosi che furono “museo degli orrori” per lui è semplicemente un luogo in cui si sente al sicuro e con un suono simile alla parola “casa”.
 Ha l’aria di un gatto con un grosso uccellino in bocca quando alza il tono di voce, rendendolo stridulo, e punta l’indice verso una testa spiccata in un grande barattolo di vetro.
- Lo sa perfino lui! -
La testa nel suo oceano di capelli fluttuanti in formalina prova ad assentire gravemente.
Lucky cammina per un po’ ed infine si ferma nella zona dei preparati animali, lì dove c’è un cucciolo a due teste. Uno dei suoi reperti preferiti insieme all’agnello vegetale e l’uomo gigante.
Mimi si piega sulle ginocchia davanti alla vetrinetta , batte le mani sul vetro e fischia.
- Qui bello, qui bello! -
Anche la ragazza si piega, fingendo di offrire una vigorosa grattata dietro le orecchie alla sfortunata bestiola. Ma le scappa da ridere e ricade a terra, accomodandosi sulla moquette morbida che tanto rende confortevole l’ambiente, stridente rispetto al tragitto appena compiuto per l’ attenzione all’eleganza dei dettagli e le impeccabili etichette.
 Un luogo dove il tempo si è fermato ai primi del 900, quando gli uomini portavano ancora i favoriti e la cortesia di chiedere un ballo.
- Mimi, dimmi cos’è che devo sapere -
- Che ha avuto un inciucio con la prof? -
- Cosa?-
Le dita smettono di dare il ritmo sulla boccia del cane e l’uccellino viene liberato.
- Un imboscamento, quando era giovane. Lavoravano  insieme, aveva una tesi sulle menti delittuose e lei era una donna in carriera. Lui era tipo un suo protetto. La sai la classica tresca: io maestro tu allievo,  così ti insegno le cose. Anche quelle che si fanno senza intimo addosso ecco, giusto per offrire una formazione completa -
Lucky finge di non essere infastidita, ma l’amico ha fatto centro, e la mano si ritrae in fretta dal vetro per finire infilata nelle tasche. Ha già sentito più volte di questa vicenda.
- Come è finita?-
- Vorrei dirti che è finita come finiscono tutte le storie, cucciola, sciogliendosi poco a poco.
Ma alla fine lei applicò la vecchia teoria a se stessa, sposò il suo direttore e divenne la prof. Ma questo lo sai benissimo  -
Con le dita a far capolino dalle cuciture allentate del camice la futura promessa del dipartimento si risolleva per addentrarsi ancor più nel museo, lì dove una porta che chiamano segreta è la scorciatoia per raggiungere i laboratori. A volte bisogna accettare i compromessi, e l’imperfezione.
Ma lei ha promesso a se stessa che non avrebbe mai avuto nulla di più di quello che merita. E neanche nulla di meno.  Stenta a ricucire il passato di Prof alla attuale dolcezza della sua maestra.
Soltanto quando Mimi smette di fare lo scemo, con i reperti dell’uomo gigante tralaltro, si volta ed osa chiedere.
- E lui?
La risposta la raggiunge come un trillo.
 Elsker si allontanò dalla carriera accademica, ma ragionava bene e divenne in fretta consulente della polizia giudiziaria.  Ma gira voce sia andato di matto ad un certo punto e che sia stato licenziato  -
- Che vuol dire?-
- Non lo so adesso, chere, ma prima o poi lo saprò. Sai quanto sia bravo a cogliere queste cosucce.  
  Però so che  si sta tipo riabilitando -  
I due attraversano la porta, la riaccostano con delicatezza. Ma la porta cigola comunque sui suoi cardini in uno stridio da sepolcro divelto. Lucky sospira rumorosamente.
-  Bhe, suppongo che una seconda possibilità non si neghi a nessuno –

 

Più tardi quei due stessi amici che poco prima giocavano con la collezione di scherzi della natura siederanno accanto come sconosciuti. Nessun sorriso ad increspare gli occhi, nessuna confidenza a riempire le loro parole. Le mani gelide appunteranno misure pesi e date con un pennarello nerissimo su carta perfettamente candida, e le loro fronti si aggrotteranno al ritmo delle informazioni ricevute.
E’ una riunione di equipe estremamente seria, quella presieduta dalla Prof che si dondola nervosamente sulla sua poltrona ortopedica. Infiltrati nella coorte di specializzandi ed interni ci sono i poliziotti, c’è anche Misha.
E ben due coroner a presiedere, per nulla mescolati nelle loro divise scure con il bianco puro del personale medico, l’apertura di una inchiesta.
Il magro addetto di laboratorio timidamente solleva le sue parole sulla platea più numerosa che abbia mai avuto.  Il giudice non ha ancora disposto la liberatoria per procedere, sì, ma le analisi superficiali sono state fatte e la perizia necroscopica avviata. E sì, tutto è stato appuntato su una cartella consultabile dalla polizia.
Ogni cosa è stata fotografata ed adesso stampati di ogni angolo di corpi cinerei  vengono passati di mano in mano finché ciascuno ha la sua parte di fogli spillati, l’ultimo dei quali mostra un paio di piedi consunti.
I ragazzi più piccoli si devono sforzare di guardare il pavimento, non sono abituati a riferire ad estranei le cose che accadono nelle loro stanze. A parte qualche senzatetto morto di freddo e stenti è la prima volta vedono la polizia.  Sembra di violare un segreto per il quale hanno giurato con tanta convinzione.
- Sotto le unghia della ragazza abbiamo trovato tracce di metetrina -
I dottori si osservano fra di loro, si studiano a vicenda. Ed i rispettivi casi, assegnati in maniera casuale in base alle giornate di turno, sembrano trovare una inspiegabile unità. Ci sarà da lavorare.
Lucky segue con le dita il profilo affilato del vassoio reclinabile che accoglie spoglie prive di alito vitale  ma ancora grondanti di cellule ostinate nella loro guerra contro la fine.  
Socchiude gli occhi, fissandoli sulla ragazza che nessuno ha ancora reclamato, e le sussurra.
- Parlami. Dimmi chi sei -



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Capitolo 5
*** Quattro ***


Documento senza titolo






Ho sempre desiderato un cane. Una volta ne trovai uno sulla strada lì dove c’erano i cartelli di divieto che declamavano in un vociare a caratteri rossi che non si poteva fare questo o quello. Adesso quei cartelli sono deperiti ed ammaccati, e del loro ammonimento non rimane che un vago sussurro rosa maialino.
Era una femmina gialla, brutta, bastarda. Con le mammelle indegnamente penzolanti era stata legata al palo con un rozzo pezzo di spago, immobile come solo un cane dimenticato e mai più ritrovato può essere.
La portai a casa. Camminammo l’una accanto all’altra per i sentieri, salutando gli escursionisti agitando la mano graffiata e la coda mozza.
A guardarci incedere a passo sicuro pensavano: ecco questo è il suo cane, ecco questo è il suo padrone. Ed era bello e normale.
Sembrava che il mio passeggiare avesse un senso come il loro, con i loro zaini carichi di attrezzatura in titanio e kit di sopravvivenza. Il loro cibo inscatolato ed ordinato per computo calorico non contraddiceva i miei panini fatti con quel che capitava, le verdure spontanee e le bottiglie di plastica impilate nei sacchetti di tela.
Ma ci appartenemmo l’un l’altra per un solo pomeriggio.  La vecchia cagna vomitò l’anima in veranda ancor prima che potessi offrirle il piacere di condividere gli avanzi di una cena.
 Il suo sangue scuro rimase raggrumato lì nel sottile incavo delle piastrelle per anni, a ricordarmi l’assenza di qualcosa che rimase a me ignoto.
Certo, ci furono altre bestiole, ma erano cani da caccia dal pelo lustro che mi venivano strappati in fretta dalle braccia, perché ero solo la nutrice che doveva badare al loro ingrassare nell’attesa che venissero venduti.
Non mi affezionai a nessuno di loro, nonostante cercassero in ogni modo di conquistare la mia attenzione con gli occhi vispi e la pura allegria dei cuccioli.
Me li ricordo guaire a lungo e penosamente la notte, quando separati improvvisamente dalla madre, li rinchiudevo in cantina senza capire il perché dell’assenza anche della più distratta carezza.
La mia voce non si levò mai a chiedere di poterne tenere uno, anche se potevo.
Potevo impedire che almeno una di quelle creature mi venisse tolta.
Quando domandai di dare sepoltura alla cagna gialla dagli occhi velati Mickey la ficcò in un sacco e la gettò nella spazzatura, liberandosene come si era liberato di tanti miei capricci infantili.
Ma ora ho una infinità di cani.  Cani poliziotto con guinzagli di pelle e targhette tintinnanti battono il mio bosco incantato.
Cani che fiutano, cani che cercano. Cani che frugano e seguono la mia pista di sangue e polvere.
Spero che non disturbino i miei amati animali, le mie prede ed i miei predatori, con il rumore delle loro zampe.
Mi confondo nei loro latrati, nelle lingue rosee che penzolano fra i denti.
Distolgo il fine fiuto piegato al lavoro, e confondo gli occhi dei poliziotti e lo scrutare addomesticato dall’abitudine con l’illusione di mille gocce di pioggia.
Non vedono gli alberi, non vedono altro che una missione, e non sanno che ognuno si porta addosso l’impronta di un mio dito, che nei rovi ci sono i nodi dei miei capelli.
Che ad ogni passo c’è il mio respiro che li segue.
Per loro tutto è identico, tutto è tracciabile sulla cartina che gli è stata fornita. Non conoscono i sentieri della selva e le infinite tracce degli scoiattoli.
Le famiglie turbate nella loro passeggiata domenicale osservano attonite la scena, con i bambini a stringersi contro i genitori che confusi non sono più in grado di fare un bau bau di conforto.
Le divise sono ben stirate e le bocche fameliche. Portano le pistole d’ordinanza come lucidi gioielli.
Che se ne stiano lontani dalla casa, che si nutrano di me e me soltanto. Che compiano il loro orrido pasto sul sentiero, lì dove i sassi se ne stanno eviscerati al sole, e non nel luogo in cui la luna accarezza il muschio morbido nel cerchio leggero della danza. Lì dove il mio bosco non ferisce i piedi delle fate.
Li conduco io, lungo la scarpata scoscesa dove arrancano terrorizzati, al luogo della mia morte.
 Uno spiazzo ameno dove un grosso masso è la tavola di Biancaneve. Concentro la mia attenzione sulla cagna dell’agente Misha Blau e scivolo leggera lungo il collare con la matricola incisa a fuoco. E’ una pezzata panna e cioccolato con una infinità di lentiggini sul dorso ed un’ indole gentile la spinge più verso il divano che alla caccia ad un assassino.
Sollevo le sue orecchie ondulate e le sussurro tutto quanto. Tutti i miei segreti. Tutto quello che è accaduto.
Racconto alla cagna tutta la mia nostalgia per non aver corso abbastanza, per non essermi spinta fino al limite. Le racconto la mia vigliaccheria e di come anche le pietre più affilate possano diventare comode se a stendersi sopra c’è un fiume lento e putrido che ti scorre nelle ossa finché tutto la spazio è suo.
Finché non c’è spazio per niente altro.
Conduco l’animale a fiutare lì dove c’era la mia testa, lì dove un sottilissimo sapore di ruggine ha macchiato le mie labbra. Così c’è un’altra creatura a mondo che sa tutto, e fra tutti gli animali del cielo e della terra è una creatura amata. Il guinzaglio si tende e mentre tutte le altre bestie guaiscono in un coro furioso che spaventa gli uccelli un improvviso silenzio le consente di vedermi. Querida abbaia, una, due volte.
Nell’ambra buona dei suoi occhi vedo il mio viso riflesso così come è nei documenti e non nelle foto distribuite alla popolazione, dove sono gonfia e bluastra.
Romy Romain, quasi ventuno anni. Un metro e cinquantasette e ventitré millimetri. Capelli color topo di campagna, lunghi ed insignificanti. Occhi di bosco. Un parka sformato ed un fucile addosso.  
Misha si china accanto alla sua compagna e sento la carezza delle sue dita sulla roccia. Sta toccando la mia pelle e la mia guancia, e Querida china gravemente il muso leccandomi con tenerezza. Allargo le braccia e le permetto di farlo. Le permetto di riversarmi addosso il suo cuore di cane ed i suoi sentimenti di cane.
Ma non c’è tempo, gli altri avanzano e si allontanano. Occorre seguirli. E la squadra speciale strepita fino alla più rassicurante valle, dove il clima è più mite e la zona già delimitata. Più tardi mostrerò loro dove si trova la droga, dove c'è lo scintillio bianco che cercano. Saranno orgogliosi di tornare con qualcosa, qualcosa che provi come niente è come appare. E l'innocente è anche carnefice. Voglio che lo sappiano.
Lì è stato trovato il mio corpo. Ma il mio proiettile appartiene alle alture.
Così mi siedo sul masso, piego le testa sulle ginocchia e mi lascio lavare dalla pioggia.
Vorrei poter piangere ma non ne sono più capace, il mio sacco lacrimale si è prosciugato in uno scantinato freddo. Ma il cielo piange per me.  E mi conforta.
So che verranno, so che verranno entrambi.   

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Capitolo 6
*** Cinque ***


Documento senza titolo






Non curiosare, non parlare. Guarda soltanto. Guardati in giro.
E soprattutto. Soprattutto sta attenta al lupo.
Chiedi che ti mostrino la zampa. Chiedi che tutti quanti  ti mostrino la zampa. E sta attenta al lupo.
La mamma non c'è. Ha lasciato i suoi capretti. E’ andata via e non torna. Loro sono da soli, adesso.
Ed il lupo potrebbe sporcarsi la zampa di farina. Potrebbe sembrare un capretto.
Potrebbe far finta di esserlo.
E vuole mangiarti, vuol mangiarti in un sol boccone. Ecco perché si sporca le zampe di farina: lo fa per ingannarti e mangiarti. Così vedrai la sua zampa bianca e penserai che se è bianca è una zampa come la tua e non come quella di un lupo.
Anche la polvere è bianca. Sta attenta a tutto ciò che è bianco.
È pericoloso. Potrebbe essere il lupo alla tua porta.

Il fermo della porta scivola fino al blocco, lasciando soltanto uno spiraglio per la bambina che scruta dubbiosa un uomo insieme ad un cane tenuto per un guinzaglio a catenella, di quelli da addestramento. 
Da dentro casa proviene  il rumore della radio accesa su una stazione country western.
Since you wrote me off with a call. But don't you wager that I'll hide the sorrow.
E' una vecchia canzone di George Jones, anche se la frequenza vacilla in scatti di silenzio improvviso per poi riprendere come un incoercibile singhiozzo.
La bambina con i capelli paglierini, già stinti con l’acqua ossigenata, continua a canticchiare con le labbra chiuse quel motivetto allegro che evidentemente conosce parecchio bene.
Nei suoi stivaletti rosa da cowgirl attende che lo sconosciuto si decida a parlare.
Perché per adesso se ne sta così, sulla porta, a fissarla.  Tutto ciò ha poco senso.
Sembra uno stoccafisso e non ha neanche pulito le scarpe sullo stuoino.
Now the race is on and here comes pride up the backstretch.
L'uomo indossa un giubbotto blu imbottito e sul petto, a destra, ha una targhetta incomprensibile attaccata con il velcro sulla tasca.  
Anche la bambina ha i suoi vestiti per la scuola, quelli con la targhetta del nome e lo stacca-attacca che si riempie sempre di pelucchi così finisce sempre per cadere sempre quando si va sull'altalena.
Quell'uomo  lì ha però un nome troppo bizzarro scritto la sopra, AB Rh più. Anche la giubba è bizzarra.  
E poi è vestito tutta quanto in maniera tutta strana e formale, sembra un beccamorto.  
Soltanto il cane, anzi la cagna, che adesso abbaia sembra una tipa simpatica. Un bracco.
La presenza dell’animale rende le cose più semplici e così la bambina pensa immediatamente che quel tipo sia venuto per i cagnolini, e non per la polvere. Apre un po' di più la porta. Soltanto un giro di catena.
Le hanno sempre detto che quelli che vengono per i cani sono okay.
E’ soltanto che non possono spendere tanti soldi per comprarli nei negozi e non si fanno problemi a prenderseli rubati.
- Ciao. In casa ci sono mamma o papà?
La bambina si sputa la chewing-gum vecchia e sbiancata di saliva nell’incavo della mano e prova a non guardare niente se non la trave che regge la veranda.
- Mi fai venire il diabete – protesta, per poi farsi sparire la cicca in tasca e torcere la testa a sinistra, come un animale curioso – Che vuoi?
- C’è qualcuno in casa? -
- No -
- Sei da sola? –
- Sei tutto scemo tu -
L’uomo è quasi divertito da quelle reazioni brutali. C'è abituato. Ha un largo sorriso su un viso poco più che trentenne, ed interviene chinandosi alla altezza della bambina prima che la porta si sbarri nuovamente. Congiunge le braccia sulle ginocchia ed intreccia le dita fra loro, allentando il guinzaglio alla cagna. E’ una tipica posa accomodante che insegnano nelle scuole di polizia, quelle per far parlare la gente, soprattutto se è gente piccola.
 Ma almeno lui non usa un tono artefatto, e va dritto al dunque guardandola negli occhi. E’ qualcosa che insegnano a scuola, anche questa.
Fotografa mentalmente il patio dove si trovano, le mattonelle grigiastre con lo sporco a separarle e le travi di cemento armato  piene di ganci. Lo stuoino a forma di cuore. I fili arrugginiti che corrono da un lato all’altro, con pinze da bucato a penzolarvi come impiccate.
Si concentra sulla frangetta spettinata che si trova di fronte, come se avesse uno strano impulso verso qualsiasi cosa che sia spettinata, soprattutto lì dove ci dovrebbe essere il sapiente affetto di un pettine. 
Non sa se quel che vede gli piace, oppure no.
Quella bambina, ad occhio, ha l’aspetto di chi non è accudito abbastanza.
Quale genitore permetterebbe ad uno scricciolo così piccolo di farsi una tinta?
Lui ricorda la sua infanzia come un periodo di divieti, ma anche di infinite attenzioni al proprio aspetto ed ai propri giochi. Si fissa la punta delle scarpe perfettamente lucidate, che sormontano calzini appaiati nello stesso tono di nero.
Si sente in imbarazzo per se stesso ed il suo aspetto rigorosamente curato.
E’ che nell’aria aleggia un aspetto trascurato, ma colmo di vita.
Anche lui da bambino, due decenni addietro ormai, forse aveva desiderato della scarpe da cowboy al posto delle scarpe con le stringhe che aveva dovuto imparare ad allacciare perfettamente.
Ed un cinturone ed una pistola con cui sparare contro i banditi. Bhe, quelli li ha avuti.
Querida guaisce e gratta contro la porta semichiusa, con insistenza.
All'interno della casa passa ad una altra canzone western ancora più ritmata
Mentre tira fuori la busta con le foto finisce per chiedersi se sia corretto.
E’ in quel momento che ha paura, e la paura del dubbio prevale sul suo lavoro.
Non gli hanno mai spiegato, durante l'addestramento, fino a quanto bisogna spingersi nel svolgere correttamente un compito. Forse se avesse portato uno dei suoi ragazzi e chiederlo a lui, fingendo di interrogarlo. I giovani ci cascano sempre come allocchi, credono che se solo hai qualche anno di servizio in più allora sei degno di metterli alla prova. E si affannano a rispondere. Comunque può anche darsi che adesso insegnino queste cose, e che magari nel suo caso si sono solo scordati una parte di programma.
Pensa che la possibile testimone che di fronte sia troppo piccola per vedere quelle immagini.
Per confrontarsi con qualcosa di così grigio ed immobile. Ma infine gliele mostra.
La bambina reagisce alla foto, scuote la testa. Sono solo scatti del viso della sparata senza nome,  la ragazza sembra del innocua ed intenta a dormire del sonno da principessa delle fiabe, meravigliosa come Biancaneve in attesa del bacio del suo principe.
- Hai mai visto questa ragazza? -
- No-
- Sicura? -
- No-
Menzogna. Misha ne sente l’odore, non meno attento della sua cagna da caccia.
Ma sorride amabilmente alla bambina, lasciando che sia Querida ad avvicinarla.  L’animale sembra attratto dalla piccola, e la piccola dall’animale.
Lì dove l’uomo non può la spontaneità della bestia vince.
- Si chiama Querida – scandisce, porgendole un biglietto da visita – Ed io sono Misha, Misha Blau. Qui c’è il mio numero di telefono. Mi devi fare chiamare dai tuoi genitori subito, appena arrivano capito? Ricordati. Misha Blau.
- Scì – mugugna la piccola, battendo in ritirata gli stivaletti rosa.
Ha smesso di cantare da un bel po’, ormai. La radio ormai va avanti da sola, strillando le sue parole.
Tutto sembra finito, come una formalità volata via nel tempo del battito d’ali di una farfalla.
E Misha Blau si volta, si volta verso il sentiero dove attende la sua macchina ed un’altra casa sperduta a cui bussare. Ha il suo protocollo dove spuntare gli indirizzi ed i nomi delle famiglie da visitare.
Si avvia verso l'auto di servizio con la sua pistola sotto la giacca e le manette legate alla cintola.
Se ne accorge solo ora, della pistola e delle manette.  Un dettaglio non indifferente.
Come aveva potuto ignorarle per così tanto tempo, credere che non esistessero, e che quella sua passeggiata forse soltanto un piacere e non una ricerca spietata.  
La pistola ricorda il pericolo. Un pericolo che però sussurra ed attira a se stesso, in silenzio.
La bambina se ne sarà accorta sicuramente. Tutti i bambini hanno paura della polizia.
E’ un attimo quando la porta si spalanca di botto e chiama.
- Misha!-
Non c’è più la catenella. La casa si mostra improvvisa e nuda con le pareti bianco sporco ed un divano verde penicillina, un asse da stiro, la radio ronzante posata nel bilico di un asse di legno ed un tavolo basso di vetro pieno di cose come “ricordo della mia vacanza alle cascate” e “city hall 1970”.  
Niente altro che uno spazio vuoto colmato solo dalla musica, nessun quadro alle pareti e nessun tappeto ad ammorbidire i pavimenti di linoleum.
La piccola si mette entrambe le mani davanti alla bocca ed unisce la sopracciglia, rosa da un dubbio.
- Cosa sta facendo quella ragazza, Misha? -
Misha vorrebbe abbracciare la bambina e sussurrarle che è stato un errore. Ma quell’esserino è dritto e compunto, e si sta ergendo come un masso nel mare, deciso ad affrontare qualsiasi cosa.
Non le si può mentire. E poi lui non sa affatto come si abbraccia un bambino. Non lo ha mai fatto. Non glielo hanno insegnato. Un altro pezzo del programma andato a farsi benedire.
Le parole scivolano fluide nell’aria, fendendola. Si sforza di usare un tono dolce.
- Sta dormendo, tesoro -
- E’ per il lupo? E’ perché il lupo la ha presa?-
Ci sono delle lacrime ai bordi di un paio di occhi spalancati in un azzurro sconfinato, ma vengono trattenute sulle ciglia e sembrano gocce di pioggia capitate lì per caso.
C’è un timore improvviso. Avanza come una piccola slavina puntandogli un dito al petto.
- E’ contenta? Dimmelo! -
La ragazza nelle foto ha una espressione serena, è così Misha annuisce lentamente, senza capire il perché.
- E’ contenta. Sta dormendo nella pancia del lupo – conclude la bambina che adesso si rifugia nella sua tana, ma prima si struscia forte gli stivali nello stuoino, anche se ha fatto soltanto un passo fuori dalla sua linea magica. Torna nella sua casetta. Una canzone si strozza repentina al passaggio del piede su un filo.
La porta si chiude violentemente, e la catena di chiusura tintinna infinitamente prima di trovare riposo.
La radio non viene riaccesa. Nessuna canzone country western nell’aria accompagna il ritorno del poliziotto alla sua macchina, ad un altro giro, ad un'altra casa a cui mostrare ancora una volta la sua Biancaneve senza un principe che la possa svegliare.

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Capitolo 7
*** Sei ***


Documento senza titolo






ore dalla morte

gradi persi/ ora

prime 3- 4

0.5°

successive 6- 8

successive 12 (e fino a circa 18- 24)

da 3/4° a 1/2° a 1/3° fino a T ambiente

 

 

Ti perdono. Per quello che mi hai fatto. Non mi importa più.
Non è vero. Vorrei perdonarti. Vorrei poterti perdonare con tutte le mie energie.
Ma non posso. Non voglio
.

Rimango legata qui, a questi luoghi dove sono stata, soltanto perché è qui che mi trattiene la rabbia. Dall’altro lato dello strappo c’è la pace.
Ma la pace è così accecante che mi imbarazza. Non è mia. Non fa per me.
Ho scoperto che il rancore è strettamente legato alle nostre fibre. Quando queste si sfaldano pian piano nel passare dei giorni, le cellule si arrendono granello per granello ad una clessidra che si ostina però a scorrere infinita, e se ne vanno anche i sentimenti più inutili.
Ma c’è sempre chi resiste per giorni, settimane, perfino anni.
Quando il sangue si secca nelle nostre vene si formano dei coaguli neri che turbano un sistema altrimenti perfetto.
 I nostri sentimenti sono l'imperfezione che ci rovina, la sbavatura nel quadro di un artista altrimenti più o meno abile.

Quello che mi hai fatto è impresso nella memoria del mio corpo. Io mi sento tanto sola. Mi sono sempre sentita così forte. Così salda.
Ma adesso sono tanto sola ed ho così tanta paura. Ho paura. Ho paura che qualcosa possa farmi del male.
Ho chiesto a Ciccio se questo è normale, e lui mi ha abbaiato si. Se lui abbaia con entrambe le sue due teste io gli credo.
Ormai so che, se è capace di fingere, è capace soltanto con una delle due. E comunque non ha alcun controllo sul suo sedere e sulla sua coda.

Quando gli ho fatto la mia domanda su Harmony Dawn e se fosse in grado di sentire dolore per i suoi due corpi martoriati dai tubicini ed i graffi dei camici bianchi lui mi ha detto no.
Non ne sente. Ma sua coda si è abbassata fino al pavimento. Aveva paura.

Harmony Dawn siede incessantemente accanto a se stessa, piangendo stupefatta e ciondolando davanti allo sconvolgimento di essersi trovata morta all’improvviso quando era così vicina a realizzare il suo desiderio più alto. Brillare per tutti. Essere desiderata da tutti.
Le sono andata vicino e le ho chiesto se provasse dolore e lei mi ha risposto che ne prova molto. I suoi corpi gemelli provano molto dolore.
La testa spiccata (è venuto da su perché sosteneva che i lamenti gli facevano venire l’emicrania) sostiene che ha detto così soltanto perché le hanno messo le targhette legate agli alluci da uno spago di infima qualità. E di non pensarci troppo. A lui lo hanno etichettato così tante volte da vivo e da morto che ormai non ci pensa più. Le semplificazioni dell'uomo, che ti chiamano ladro o omicida, numero o nome in esteso. Non hanno senso. L'agnello vegetale invece ha belato una riposta sottile sottile dal suo cantuccio, così sottile che bisogna chinarsi con l'orecchio vicinissimo al suo barattolo e sentire quel sussurro espandersi nella formalina
- è perché non ha mai amato che prova dolore... -

E’ stata una affermazione crudele.
Ciccio si è arrabbiato molto, non vuole che ascolti. Lui vuole giocare. A lui le cose vanno bene così come sono.
Ma io vorrei andare accanto ad Harmony Dawn e chiederle scusa. E’ tutta colpa mia se è nessuna delle due gemelle ha vinto il premio come reginetta dell’anno. Probabilmente lo avrebbero vinto entrambe, ex-aequo come sempre.
Sono davvero molto belle, anche da cadavere.
A loro non è accaduto nulla di brutto, i dottori non le hanno quasi toccate. E’ stata soltanto troppa polvere.
Probabilmente saranno imbalsamate. Saranno conservate in un vero mausoleo, pieno di fiori sempre freschi.
Qualcuno poserà sulla loro lapide due corone di brillanti con scritto su “Harmony Hobbs, reginetta della scuola, la più bella” e “Dawn Hobbs, reginetta dalla scuola, la più bella”.
L’anima dei gemelli è una cosa unica, il fatto che si possa dividere è solo una casualità ed un errore.
Sono davvero contrita a vederla penare così tanto sul suo corpo, ma non ho parole per lei. Non avrei modo di confortarla.
La morte non è un atto che si completa nell'immediato, ma è prolungata nel tempo. Harmony Dawn continuerà ad essere lei ancora per un pochino, perché la vita continua in organi e apparati, continua nell’infinitamente piccolo, anche quando si è ormai totalmente consumata. Gli occhi dei vivi sono molto distratti. Raramente si accorgono che sotto ai loro palmi battono ancora le folate di quel che eravamo. Noi vi sentiamo, noi siamo qui.
Io mi chiedo se i miei peli continueranno a crescere, se occorrerà ancora farsi la ceretta, se le mie unghia diventeranno artigli. A qualcuno è successo. Le anziane signore, ad esempio, hanno dei baffi da far impallidire un tricheco.
Io voglio che i miei capelli crescano. Voglio che crescano infinitamente fino a toccarmi i fianchi con la loro carezza, come le mani di un uomo. Fino all’osso, lì dove c’era alla notte dell’evoluzione una coda (ho studiato nei libri, sì, ho studiato nonostante i miei voti bassi). Fino alle natiche e alle ginocchia, che mi afferrino con forza, e mi facciano lo sgambetto.
E se arrivassero alle caviglie potrei farne un mantello e se ancora potessi andare avanti sarebbero un bozzolo.
Un bozzolo sublime in cui rifugiarmi per l’eternità, attendendo come una falena il calore della primavera.
Attenderei il disgelo in una prigione di seta, tendendo l’orecchio verso il tintinnio dei diamanti.
Mi basterebbe una carezza. Una sola carezza. Una carezza ancora. Per capire che è il momento di svegliarsi.
Anche io provo dolore. Provo un dolore forte, lì a sinistra nel petto. E’ il dolore di un vuoto che non riesco a colmare.
I dottori mi hanno tagliato una ciocca di capelli, ed io vedo quel taglio spiccare netto, sanguinando lì dove io non posso più.
Voglio raccontarti una cosa. Ascoltami. Lui non ha colpa, è innocente. Eppure si tormenta in maniera orribile.
Sento i suoi spasmi farsi miei, lo sento. C’è il rivolo che mi ustiona quando si sposta forte nel suo corpo vivo.
Le cose sono andate così, prendi bene gli appunti.
Io non mi sentivo bene se non quando andavo a caccia, o almeno, io credevo di non sentirmi bene fino a che non lo facevo.
Un capone o un coniglio, tutto andava bene.
Il capobranco era il mio innamorato, il mio unico innamorato, ed era così giovane.

Gli ho ucciso io il padre, con una pallottola in fronte. Esattamente al centro. Un colpo perfetto.
Non sopportavo che tiranneggiasse il mio bosco. L’ho ammazzato senza pensare.
Io credevo che, libere da quel sovrano, avrebbero svolto altrove la loro vita. Che mi avrebbero lasciata.
L’erede era ancora un cucciolo, ma tenne fede al suo giuramento, e prese il suo posto. Come potevo sapere che lo avrebbe fatto? Era ostinato ad andare in direzione contraria a quanto io avevo scritto.
Lottò. Ed io lo guardai lottare. Si ferì. Ed io lo guardai sanguinare. Agonizzò, ed io lo guardai risollevarsi.
Fuggivo da casa per guardare il branco. Divenne la mia ossessione. Non avevo mai visto qualcuno così aggrappato ai propri valori.
Era come me, non voleva che la famiglia si disperdesse. Non voleva i frantumi di una vita inutile. Voleva la vita.
Stavo con i cervi, all’altura, quando vidi quell’altro. Stava camminando spavaldo, faceva rumore.
La gelosia mi divorò dalle ossa. Aveva una sacca di iuta con del fieno, ed era solo, come me.
Camminava nel fango, a piedi, ma senza l’aspetto di un escursionista.
Sembrava fuggito di casa, aveva gli occhi grigi come il cielo di inverno.
Un uomo alto e scarmigliato, e dietro di lui si stagliava il mio cervo. Per un attimo vidi il palco dell’animale soprapporsi alla sua testa.
Il mio innamorato mi tradì, ed andò dall’uomo e dal suo fieno.
Giungere fin lì, a quella altura nel fitto, è una ostinazione;  non ci sono sentieri, occorre conoscere la strada, averla incisa nella pelle.
Il desiderio delle braccia di quell’uomo, il suo sorriso, i nodi nei suoi capelli. Mi attraversarono come il lampo che arriva sempre prima del tuono.
L’ho capito subito, ma non glielo ho detto mai. Lo volevo perché era tanto triste. Lo volevo perché in lui c’ero io.
Ma anche perché c’era qualcosa che non sarebbe mai stata me. Non era mio, non lo sarebbe mai stato.
La condensa di accalcava intorno alle nostre labbra, densa, quando non avevamo ancora inventato le parole.
C’era soltanto il mormorio del bosco ed io lo guardavo e non comprendevo. Forse già lo amavo.
Quando si muore il corpo si raffredda piano. Dicono che per prima si perde quella che chiamano presenza al mondo (meno di sessanta secondi, nel caso di un colpo al cuore), poi se ne va la sensibilità (bugia, io sento le mani che mi scavano dentro al corpo, le sento premere sullo sterno e la gabbia di ossa, aprendola come un libro desideroso  solo di esser letto), poi dicono che cessi il circolo (però sono arrossita al tocco del mio primo bacio), e che cessi il respiro (ma sento il fumo di un ultimo tiro infisso nella gola).
Ci si raffredda piano. Si aspetta che il corpo diventi rigido. Che si arrossi e si macchi e si disintegri alla fine.
Li chiamano fenomeni cadaverici, qui. Ma è soltanto un discorso sospeso.
Sai, quando mi hanno trovata nel mio bosco, ero distesa ed ero bella. Ero bella per la prima volta. Bella come sono sempre state Harmony e Dawn Hobbs, le più belle ragazze della scuola. Quelle che tu desideravi.
E’ stato lui a rendermi bella, a comporre il mio corpo come se stessi soltanto dormendo.
Non devo ferirlo così tanto, arrecargli così tanto dolore. Ma non riesco a smettere.
Nel gelo, il mio corpo era perfetto, ancora libero dalla cucitura a Y che adesso lo rovina.
Quando mi hanno trovata era ancora tiepido.

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Capitolo 8
*** Sette ***


Documento senza titolo






Lucky Florio. Reduce da una vittoria. Spegne il cercapersone, il turno è finito. L’obitorio si è ormai chiuso alle sue spalle. O almeno per oggi.
Solleva la mano verso l’usciere e gli regala un breve saluto. Si è fatta di quell’uomo un’impressione come quella di una brava persona, e soprattutto una persona rispettosa di un lavoro così strano e delicato insieme. Così gli affida Viola, la sua collega piccola anche se soltanto di un anno, ma prima le strapazza i capelli mentre le rovescia in braccio i quaderni delle consegne.
Siccome lei è l’unica entrata del suo anno la chiamano collega unica. Ed un po’ le dispiace, che Viola non abbia un suo Mimi con cui scherzare.
Il caso delle gemelle è stato relativamente semplice da svolgere, mancano ancora le conferme del laboratorio di tossicologia, ma la perizia è quasi fatta. Lucky è serena, soddisfatta di quel che è riuscita ad ottenere senza doversi appellare all’aiuto di nessuno.
Ha avuto modo di lavorare al caso, di metterci mano come si dice nel gergo, durante i due giorni precedenti. Manca solo il parere di Elsker.
Gli amici delle gemelle Hobbs hanno raccontato di una festa con set fotografico e di una dose eccessiva di sballo. Troppo, troppo semplice.
Alcuni dei presenti sono ancora ricoverati sotto shock alla psico e saranno presto convocati dalla polizia in quanto testimoni oculari del dramma.
Resta soltanto ad aleggiare nell’aria il perché di quella droga così concentrata, quella stessa droga che ben tagliata e venduta sarebbe bastata per un altro centinaio di feste. E il perché Harmony e Dawn ne abbiano presa così tanta ed insieme.
C’è il velo della parola più vietata da qualsiasi storia medica. Così intirizzita da non poterla neanche pronunciare come ipotesi.
La madre delle ragazze nega con tutta la sua forza che le sue piccole stelle non abbiano amato che la vita e la vita soltanto, e non avrebbero mai pensato di togliersela. In quel modo poi, a distanza di solo una settimana dal concorso scolastico che le avrebbe lanciate vittoriosamente verso una carriera nel mondo della moda. Avrebbero trovato lì la loro strada, di sicuro, in quell’apparire spudorato offerto dalle riviste patinate.
Lucky Florio ha la sua cartelletta da completare ed i suoi appunti presi ordinatamente con una scrittura minuta e fitta.
Ha costretto i suoi ricci in una acconciatura ordinata che le si posa sul capo grazie ad un intricato sistema di forcine di cui si è però stufano in fretta sino ad infilarvi anche le matite mezze mangiucchiate e le bacchette del ristorante cinese che è il suo take away preferito.
Si è separata dalle sue mollettone tutte allineate lungo le tempie e dalle immancabili occhiaie per un filo di trucco, prima di uscire.
Ombretto color pesca ed un lucidalabbra degno di una adolescente al primo appuntamento. Non sa perché lo ha fatto.
E’ diretta al padiglione distaccato, lì dove il nome “ospedale” non è neanche indicato nell’insegna a favore del più laconico “Casa di cura - Brothers Bright – Emergenze, Lungodegenza ”.
Si chiede se suo padre sarebbe orgoglioso di vedere il suo nome, e finalmente da solo, dato alle stampe locali come segno di successo accanto a quello della più famosa famiglia della zona seppure in una occasione funesta.
I giornalisti la intervisteranno presto e lei si chiede se riuscirà a strappare a quel genitore eccellente in tutto almeno un sorriso di approvazione, ed il perdono per non aver seguito le sue tracce.
I cadaveri erano il suo sogno fin da quando ne aveva visto uno per la prima volta, da bambina, immacolato nel suo aspetto di cera e per nulla inquietante, nello stesso museo dove ora è di casa. Era ricoperto di farfalle blu come un’opera d’arte.
Ci avrebbe impiegato anni a capire che era soltanto una dimostrazione simbolica di quella che si chiama entomologia legale. Tanatologia.
Dopo aver conseguito il diploma superiore con risultati eccellenti avrebbe potuto scegliere qualsiasi facoltà ma lei si è gettata con diligenza contro quelle materie che le venivano imposte e che si interponevano fra lei e la sua ambizione.
Lontana da casa si è impegnata ad inanellare una prova impeccabile dietro l’altra. E’ stata umile con i suoi responsabili, dedicandosi alle cose più infime anche quando poteva dedicarsi soltanto a se stessa. Ha rimboccato coperte, ascoltato vecchietti, rincorso cuori battenti di bambini.
Custodendo fra le dita la fialetta calda del sangue di qualcuno ha pensato così tante volte al miracolo.
L’attenzione per qualsiasi materia, in esami in cui non è mai stata zitta neanche davanti alla domanda più ostica (un'unica eccezione: pediatria) le sono valse il voto più alto, la menzione e l’applauso scrosciante. Ma non le congratulazioni di un padre perfetto.
Forse dovrebbe parlarne con Elsker, raccontargli qualcosa di come a volte si sente.
In fondo è questo che immagina facciano gli strizzacervelli: custodiscono quello che noi ci impuntiamo di non voler vedere.
Nel suo tragitto sceglie di passare dalla Chirurgia. C’è un intervento in corso. Vuole vedere come si salva una vita. E’ una questione di tecnica.
Preme il viso contro il vetro che la divide dalla sala operatoria e solleva una mano a fare un gesto di saluto alla ferrista che sta appesa alla lampada come una scimmia tropicale.
I chirurghi nelle loro divise verdi, tutti uguali con gli occhi ad emergere dal bordo bianco della mascherina, l’hanno sempre affascinata.
Il fatto che non riescano a far nulla da soli, neanche a vestirsi o affibbiarsi gli infidi fiocchettini che bloccano la stoffa sulla schiena, la commuove.
Devono per forza sostenersi nel passarsi i ferri, nel tenere aperta la loro ferita – il genere di ferita che sanguina ancora di rosso vivo- ed aiutarsi a vicenda. Quando l’ultimo arrivato arriva nei pressi del tavolo di lavoro con le mani rivolte verso l’alto (serve a che l’eventuale sporco residuato dal quadruplo lavaggio scivoli verso i gomiti) sembra che stia pregando.
L’infermiera lo soccorre porgendogli i guanti impolverati ed incartati singolarmente che ha aperto soltanto con la punta delle dita, e china un po’ la testa coperta dalla cuffia, come un cavaliere che si inchini ad una scintilla di divino. Nell’aria oscilla una sonata di Chopin.
Anche Lucky mette su dei dischi, quando lavora a qualche corpo, ma preferisce gli ultimi successi del rock alla musica classica.
E tuttavia Chopin le sembra molto appropriato per quella sala operatoria e per quel male oscuro che quei colleghi si stanno affrettando a rimuovere.
Oltrepassa gli altri reparti, leggendo tutte le targhe ed oscillando sul fermarsi o no a salutare questo o quel conoscente.
La psichiatria è barricata dietro una porta sigillata, unica eccezione al Brothers Bright dove per poter entrare occorre avere un permesso scritto, anche se sei un impiegato dello stesso ospedale.
Il tempo che passa fra il momento in cui suona il campanello sgangherato e l’attimo in cui il pesante battente si apre sembra essere infinito.
Il personale di servizio è stanco e stralunato come tutti gli altri lì dentro, una sorta di pattumiera dove vengono confinati i lavoratori troppo usurati, malati o vecchi per poter continuare a sorridere ai prestigiosi pazienti del BBH.
Non ci sono finestre che si possano aprire, e la poca aria che passa nella zona comunitaria è confinata in una fitta rete di sbarre.
Corridoi lunghi dove si aprono numerose porte, ed una seggiola alla fine, per poter tenere d’occhio tutti quanti. Ecco lo scarno quadretto.
E’ il dipartimento dei fantasmi, quello, e certe notti li si sente piangere ed urlare nel buio. Altre volte ci sono risa troppo sguaiate.
Quei pazienti si muovono al confine più lontano delle esistenze, così come l’uomo che piega la testa sulle braccia nel grande disegno di tinte fosche che qualcuno particolarmente ironico ha voluto tracciare sulla parete che da subito sulla sinistra.
Una riproduzione di una famosa stampa del pittore spagnolo Goya, non proprio riuscita per l’infantilità del tratto con cui è stata tracciata.
La scritta che campeggia in un angolo, insediata da uccelli e pipistrelli, è però la stessa.
El sueno della razòn produce monstruos.
- Immagino che sia qui per il dottor Elsker
Ingiunge un infermiere pesantemente strabico, distogliendola dai suoi pensieri. Non ha il tempo di annuire che è già partito.
- Prego, si accomodi, le faccio strada
Lucky si deve mettere a trottare per stargli dietro, da una porta socchiusa emergono due donne in pigiama; sono avanti con gli anni ma sembrano bambine per come si tengono per mano e portano le trecce sui capelli grigi. Le sorridono di un sorriso dolcissimo.
Più avanti c’è un’altra donna che si dondola incessantemente su un letto grigio, abbracciandosi tutto il corpo scheletrito.
In una stanza più grande una figura completamente nuda, raccolta in un ammasso di lenzuola che la tiene prigioniera, geme.
- Non guardi nelle stanze, se le da fastidio
La avvisano. Ma è troppo tardi. Alcuni dei degenti si sono già accorti della sua presenza e si affacciano curiosi dalle loro stanze, alcuni le vanno dietro cercando di toccarle il camice o attirarne l’attenzione. Un uomo con grossi grumi di saliva sul mento si spinge fino a prenderle un bastoncino del cinese dai capelli facendole ricadere un ricciolo sul collo.
L’infermiere si volta, aggrotta le sopracciglia ed il degente fa subito ricadere il furtarello dalle mani. Il legno tintinna sul pavimento.
- Prendila! Restituisci quella cosa alla dottoressa
Lucky si china, raccoglie lei stessa la bacchetta e si sfila la gemella dai capelli per porgerla all’uomo che le afferra per scappare via.
- No, va bene, può tenerle
- Non dovresti viziarli, dottoressa Florio
Elsker è sulla soglia della sua stanza, ancor più alto di quanto Lucky ricordi.
Dentro l’ambiente è accogliente, esplode di colori così dissonanti rispetto ai grigi ed agli azzurri del corridoio precedente.
C’è una scrivania con due ampie sedie davanti, tende alle finestre e librerie stracolme di volumi. Ci sono due poltrone gemelle, una davanti all’altra nel destino di guardarsi, ed infine il luogo comune immancabile a quelle occasioni; un divanetto coperto da una coperta patchwork.
Sembra completamente un altro luogo con quei quadri alle pareti e le foto incorniciate.
Una di esse mostra un ragazzo ed una ragazza separati soltanto da una colonna ricoperta d’edera. C’è una dedica sotto, iscritta in un cuore.
La foto è proprio davanti alla sedia dove si siede in fretta per evitare il pensiero di dover occupare una delle poltrone o addirittura il divano.
“Sta sempre attento al lupo. E torna da me. Lèa”
Il ragazzo è indubbiamente un Elsker più giovane e senza barba, con gli occhi non più arrossati ma vividi. Sembra felice.
- E’ sua moglie?
Chiede Lucky.
Il dottore sembra contrariato da quella domanda.
- Lèa è mia sorella
Elsker si siede direttamente sulla scrivania incrociando le braccia sotto lo sterno. Alla caviglia sinistra l’orlo del pantalone stirato con la riga si solleva sino a rivelare uno scorcio di calzino rosso.
- Dunque?
Mugugna verso la ragazza.
Lucky tira fuori la sua carpetta e la liscia con entrambe le mani sulla scrivania. Sorride al pensiero di quanto sia stata sciocca quell’idea di volergli parlare,e volergli parlare di qualcosa di personale. Ed ancor più a ripensare alle parole di Mimi.
Di certo potrà dirgli che la foto che lui si tiene accanto è semplicemente di sua sorella, e che c’è ancora speranza.
Guardandolo di sottecchi Lucky si accorge che in qualche modo, se solo di levasse di dosso quell’aria afflitta che oggi sembra avvolgerlo, il dottor Llewellyn Elsker potrebbe essere un tipo davvero interessante. Ma adesso è soltanto un uomo che le torreggia addosso, guardandola dall’alto verso il basso. Le porge dei fogli scritti in maniera assolutamente caotica su fogli a quadretti, con i buchi per infilarli in un raccoglitore.
- Questa è la mia relazione
Ingiunge porgendogli quel mucchio penoso come se potesse anche minimamente essere qualcosa di presentabile alla Prof o ad una autorità.
Eppure Mimi le ha detto che Elsker lavorava alla polizia giudiziaria, forse ha dato di matto per davvero.
Ma leggendo anche solo le prime righe è chiara la dovizia di particolari e la cura che è stata impiegata per compilare il dossier.
A Lucky si incrociano gli occhi nel guardare le parole così allineate, eppure non vuole andare via, riaffrontare i corridoi con tutta quella gente che sembra essere stata svuotata, o anche solo infilare una consulenza nella cartelletta, senza capirci niente.
Solleva gli occhi sul viso di Elsker, la pettinatura prima composta ormai parzialmente sfatta con i ricchi a sfuggire ovunque.
- Può … può spiegarmi?
Elsker annuisce, preme il bottone di un bollitore elettrico nei paraggi ed infine scivola a prendere due tazze – tazze vere di porcellana e non bicchieri di plastica – da uno stipetto.
Nell’avvicinarsi a Lucky le sorride sottilmente, con gli angoli delle labbra che si piegano fino a nascondersi nella folta barba.
- Earl Grey o Darjeerling?

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Capitolo 9
*** Otto ***


Documento senza titolo






I calicanto. I fiori d’inverno. Germogliano quando ancora la stagione è rigida, ancora nella neve e nel gelo.
Sono fiori tenaci, che si fanno spazio dove nessun altro potrebbe mai pensare che sia il momento di nascere.
Esplodono nel buio e tutti gli altri dormono, nascosti sotto la neve. Sono i fiori d’oro su rami che sembrano secchi.
Li ho sempre ammirati. Li trovo bellissimi. Le loro corolle sembrano stelle cadute dal cielo, nell’incanto di zucchero impalpabile e di gelo.
Ho sempre trovato io il primo calicanto, in Gennaio. Il primo calicanto del mio bosco è sempre stato per me, pronto a riversare il suo segreto nella mia bocca. Ma c’era quell’uomo. Lo stesso uomo che aveva preso l’abitudine di portare il fieno al mio cervo.
Era colpa sua se la bestia era sopravvissuta, se le sue femmine non l’avevano abbandonato, se era diventato il nuovo capobranco.
Camminava sempre a piedi, in silenzio, stringendosi nelle sue camicie di flanella a quadretti e nei pantaloni di velluto a coste.
L’ho osservato a lungo, seguivo le sue tracce come se volessi cacciarlo. Alcune volte avevo con me il mio fucile, altre volte no.
Quella volta si era portato delle cesoie e le usò per tagliare di rami di calicanto. Li strinse in un nastro color ghiaccio, accomodandoli l’uno all’altro con delicatezza. Non ruppe neanche un singolo fiore. Ho seguito le sue impronte fino a giù. Mettendo i piedi dove li aveva messi lui, sovrapponevo la suola delle mie scarpe ai suoi stivali.
La sua meta era il piccolo cimitero alla fine della collina, confinante con l’area picnic. Ma nessuno si avvicina così tanto a mangiare accanto alle tombe. Così quell’angolo era sempre stato tranquillo, se si escludono i giorni affollati di visite. Probabilmente è lì che andrò, fra qualche giorno.
Conosco bene quel posto.
Feci scivolare il cancelletto di ferro sui suoi cardini, seguendolo anche all’interno.
Raggiunse una lapide periferica, sormontata dalla semplice immagine di un angelo con le mani congiunte.
Lo vidi con le ginocchia a terra sul terreno indurito dal freddo chinarsi verso le lettere del nome fino a rimuovere la brina lettera per lettera.
Forse è per quello che mi avvicinai, perché anche lui sembrava aver perso qualcosa.
Mi abbracciai le ginocchia e mi sedetti sui gradini di un mausoleo di famiglia poco distante.
- Chi sei?
Stava sistemando i calicanto su tutto il tumulo, disponendoli come una corona dorata tutto intorno alla fanghiglia scura. Attesi a lungo prima che rispondesse. Temetti che non rispondesse mai.
- Llewellyn. E tu?
- Romy
Non gli porsi una mano, come si dovrebbe fare sempre se si è delle persone educate, ma lasciai che la sua aleggiasse nell’aria invano.
- Ti ho visto nel bosco.
Era una frase molto stupida da dire, ma non mi veniva in mente altro. Lui sembrava essersi del tutto disinteressato, e copriva con la sua ombra il nome sulla lapide, così non riuscivo a leggerla. Quando mi guardò di nuovo il suo viso aveva preso una piega severa.
- Anche io ho visto te, cacci di frodo.
Rabbrividii. Sono sempre stata molto attenta con le mie trappole, piazzandole lì dove nessuno si spinge e controllandole la mattina presto, quando è ancora buio. Non ho mai fatto lo stesso giro, perché non si dicesse che ho delle abitudini.
- Non mi denuncerai vero?
Llewellyn si sollevò in piedi, battendosi le mani sulle cosce fino a cacciare via i frammenti di ghiaccio rimasti intrappolati nella stoffa.
- No, non ti denuncerò
Ho sempre parlato molto poco, e ancor meno ho usato la parola che usai in quel momento. Ma lo guardai negli occhi e capii che era sincero.
- Grazie
Cominciammo a vederci all’altura, prima del tutto casualmente, poi come ad una sorta di orario.
Quando scendeva la sera ed arrivavano i cervi lui era lì con il suo sacco, ed io lì a guardarli, generalmente nascosta fra le fronde.
Mi premevo contro il corpo le mie prede ancora calde, trovando conforto nel sangue che colava a terra bagnando i piedi e la neve,finché cominciai a trovare un po’ di cioccolato sul masso, quando se ne andava, ed un giorno un thermos intero con del the ancora fumante.
Mi avvicinavo sempre più, attirata da quelle briciole che prima credevo dimenticate.
Ma in verità lui mi trattava come una bestiola selvatica, mi addomesticava come aveva fatto con il mio cervo.
Imparai a fidarmi di quel cibo, ed a presentarmi all’appuntamento per carpirlo. Aspettavo che se ne andasse per andare a vedere cosa era rimasto, cosa era stato lasciato indietro.
Io ed il mio cervo ci guardavamo e non comprendevamo come tutto ciò fosse possibile. Come avessimo fatto a superare anche quell’inverno. Stavamo bene.

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