La Cerca di sir Bedivere

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Prompt: #16 Uova Fritte
Titolo: La Cerca di sir Bedivere
Autore: Francine
Fandom: Leggende Arturiane
Personaggi: Bedivere, Artù, Merlino
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti: Un invito a pranzo a Camelot è sempre una spina nel fianco
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
Partecipa al defunto progetto La Festa dei Folli, dal forum
La Corte dei Miracoli   

 

 

 

La Cerca di sir Bedivere

1.

 

Uno degli aspetti salienti della gloriosa corte di Re Artù è il proliferare delle avventure. 
Non passa una settimana sana senza che si presenti una nuova e mirabolante vicenda, e che questa attragga di conseguenza l'interesse del Re e del suo seguito. 
Cavalieri Verdi con enormi scuri e richieste assurde, fanciulle indifese e maltrattate da bruti armati, unicorni parlanti, streghe a cavallo delle loro diaboliche scope, nemici invidiosi e, negli ultimi tempi, persino i malati di lebbra irrompono quasi quotidianamente a corte, richiedendo a gran voce l'intervento del Re, il quale, ascoltate le lamentele di chi gli si rivolge con il cuore pieno d'ambasce, non esita a mandare i suoi fidati e valenti Cavalieri a sbrogliare le matasse e a sgominare a colpi di spada gli avversari della cortesia e della bontà. 

Questa, come dicevo, è la normalità. Tenete presente, inoltre, che il numero assai copioso delle avventure cui si assiste albergando presso il castello di Camelot è incrementato dalle apparizioni del saggio Merlino, il quale giunge a corte quando meno lo si aspetta. Appare all'improvviso, come fosse un santo, e si materializza al centro della vasta Sala del Trono in una nuvola di fumo che odora di zolfo, tunica del colore della notte addosso e bastone nodoso di quercia in mano. 
E il capo imbiancato dagli anni che dovrebbe incutere un senso di pia devozione nel cuore dei giovani e rampanti Cavalieri della Tavola Rotonda, induce questi stessi a lasciarsi andare a scongiuri non edificanti sotto il legno di quercia, celando così, alla vista della Regina e delle damigelle di corte, gesti degni dei loro stallieri e dei loro servitori, mentre le bocche sorridenti farfugliano litanie mal celate. 
Merlino non sembra notare quelle mani che prontamente scendono sotto la Tavola Rotonda; si dirige verso il sovrano, in modo che il Re possa vederlo dritto nei suoi occhi di ghiaccio, batte il bastone a terra per tre volte e saluta la compagnia.

«Salute a te e alla tua cortese assemblea, nobile Arthur Pendragon, figlio di re Uther e signore di tutta la Bretagna. Possano i vostri giorni essere lunghi più di quanto io abbia scorto nell'avvenire nebuloso.»
 
Merlino apre i suoi discorsi sempre con questa formula pomposa e poco accattivante, al punto che molte delle pie donne che lavorano nelle cucine si segnano quasi fosse una fattura lanciata da una vecchia comare invidiosa. 
Re Artù non si scompone, tutt'altro: sembra quasi che aspetti di sentire quella litania pronunciata con voce gracchiante ma cupa al tempo stesso, come il suono di un corno familiare durante una battuta di caccia. 

«Salute a te, saggio Merlino», risponde prontamente il Re con un sorriso cordiale. «Sii il benvenuto alla mia mensa!» Poi batte per tre volte le mani e subito gli inservienti allestiscono il desco anche per il mago dalle sopracciglia cispose, mentre i Cavalieri e la Regina trattengono il fiato. 
Quando finalmente anche il visitatore sempre atteso si siede e mangia le squisite pietanze che compaiono alla mensa del Re, l'allegra brigata di Camelot può far nuovamente festa. Il fatto che il saggio Merlino partecipi al pasto è sempre un buon segno: significa che, almeno per il momento, non sono in arrivo rogne da parte sua. Cattivo segno, invece, è quando Merlino interrompe il battito delle mani reali con un gesto secco e deciso. Aria di guai, e guai grossi. 

«Non sono qui per far festa con te, nobile Arthur Pendragon, ma per avvisarti di un'enorme minaccia che grava sul tuo Regno, sulle tue terre e sulla tua corte!», risponde il vecchio Mago, mentre si avvicina ancora di più, e gli scongiuri dei Cavalieri si fanno più frenetici sotto il tavolo. 
Ciascuno pensa in cuor suo «No, non io, non io, non questa volta!», memore di come una chiamata del Re in persona sia non solo improrogabile, ma anche foriera di grane per il malcapitato di turno. E di solito le grane sono proporzionali alle rughe che attraversano da Levante a Ponente la fronte del mago. 

Sir Kay, il classico soggetto che sottoscrive con un potente rutto un discorso che gli aggrada, attende sempre che Merlino abbia terminato di parlare per portarsi una mano alla fronte, come a voler dire «e ti pareva!». Sir Lancelot, sir Bors, sir Tristan tacciono e ascoltano, cercando nel frattempo le parole con cui far capire al Re quanto siano assurde quelle richieste. La Regina, come comprende che all'orizzonte c'è un'avventura che puzza di magia, interviene con modi cortesi per evitare che sia suo marito a cacciarsi nei pasticci, e spingendo perché siano i suoi Cavalieri - sir Lancelot escluso - a farsi carico di questa nuova gatta da pelare. 
Gli unici che assecondano il Re, cascasse il mondo, sono i suoi parenti più prossimi, sir Gawain e sir Gareth, nipoti del Re ed eredi al trono, e sir Bedivere, fraterno amico di Arthur da quando erano due ragazzini pelle e ossa che ruzzolavano nella polvere della corte di sir Hector. E proprio sul capo di sir Bedivere, colui che Merlino ha previsto sopravvivrà al Re, sta per abbattersi la nuova avventura che il mago è venuto a portare al castello. 

«Non sono qui per far festa con te, nobile Arthur Pendragon, ma per avvisarti di un'enorme minaccia che grava sul tuo Regno, sulle tue terre e sulla tua corte!», risponde il Mago come da copione mentre s'avvicina e si aggrappa al fidato bastone fingendo stanchezza. 
Il gesto di diniego fatto prima di parlare è stato così netto e duro che nessuna mano ferrata è scesa sotto al tavolo, e il Re stesso è rimasto a bocca aperta a fissare il proprio mago e consigliere, di solito allegro e gioviale. Mai, neppure quand'era un fanciullo imberbe e stringeva ancora con disperazione la Spada estratta dalla Roccia guardandosi intorno e chiedendosi perché tutta quella gente si stesse frapponendo tra lui e suo fratello Kay, Merlino ha usato un tono così duro e secco nei suoi confronti. 
Il mago si avvicina. Batte ancora una volta il suo bastone a terra e fissa il Re dritto negli occhi, come se fosse uno scolaretto che ha macchiato una pergamena d'inchiostro. «Bravo. Bravo, Arthur. E bravi anche voi, Cavalieri! Il mondo è sull'orlo della distruzione e voi ve ne state qui a gozzovigliare come porci nel trogolo!»

Al passaggio della mano magra del mago, la scodella di sir Agrawain cade ad imbrattare i tappeti sparsi sul pavimento di pietra scura. Il cavaliere dagli occhi grigi alza lo sguardo su Merlino, chiedendogli in tal modo il perché di quella manata. Era la miglior zuppa di farro e prosciutto che mangiava da mesi, da quando è tornato dall'ultima avventura cui Merlino stesso l'aveva spedito a calci. 

«Guardatevi! Guardatevi! Che direbbero i vostri mentori? Che direbbero i vostri padri? Vi han forse allevato con amore per farvi diventare quello che siete, o perché vi elevaste al di sopra delle masse?», chiede Merlino indicando ad uno ad uno col suo dito ossuto i Cavalieri, non più tanto allegri, della Tavola Rotonda. «Quanto a te, Re Arthur», riprende ad inveire dopo aver fatto il giro dei commensali, «è così che dai il buon esempio, mettendoti a capo di una compagnia dedita ai piaceri della tavola e del letto, piuttosto che a promuovere e far rispettare le gloriose leggi della cavalleria?!»

La tentazione di sguainare la spada contro il mago è grande. Per la fortuna di entrambi, il tenebroso Meleagant è ben lontano dal collo di Merlino, il quale, fulminato con un'occhiataccia il cupo Cavaliere, riprende la sua invettiva. 

«Si profilano all'orizzonte tempi cupi. Dubito che potrete permettervi ancora del maialino al latte, uva e pesci dorati, e agnelli ripieni di trote e salmone se adesso, in questo stesso momento, uno dei tuoi Cavalieri non si alza da tavola e si erge a baluardo della Cristianità!»

E il Re, come da copione, abbocca senza che nemmeno gli sia fatta intravedere l'esca. «Le tue parole sono assai dure, Mago. Stavamo festeggiando il ritorno di sir Agrawain dalle cupe Isole Brute, da cui ha riportato il Fiore Fanciulla che tu stesso hai richiesto», replica Artù quantomeno perplesso, ma sinceramente disposto a redimersi dalle proprie colpe, qualsiasi esse siano. «Parla, saggio Merlino. Quale grave minaccia incombe sulle nostre teste?» 
Il vegliardo sogghigna.
«Perdona i miei modi, giovane Re», esordisce addolcendo la voce: sa che ora che ha l'attenzione di Artù non ha più bisogno di quel tono truce che tanto sforzo procura alle sue vecchie corde vocali. «Il momento è grave.»

E con questa frase che può voler dire tutto e niente allo stesso tempo, il villoso figlio di una lavandaia e del Demonio si avvicina al sovrano, siede davanti al piatto che due prestanti valletti hanno apparecchiato alla destra del Re, e parla fitto fitto con Artù, dimentico dei dodici Cavalieri e della bella Regina Ginevra che non fa nulla per celare il disappunto che quella visita inaspettata le provoca. 

«Se le cose stanno così è giusto che i miei prodi e leali Cavalieri sappiano», dice il Re dopo che il vecchio consigliere ha finito di riempire le sue orecchie con la propria voce sibilante, e a quel punto il mio buon fratello decide di rivolgersi ai dodici beoti che l'osservano curiosi, e anche seccati. La zuppa di farro si sta freddando, così come le altre pietanze che rallegravano quel desco prima dell'apparizione di Merlino. 
Il mago si alza. Non sembra dimostrare la sua veneranda età, tutt'altro. Il movimento assomiglia a quello elegante di una danzatrice, piuttosto che a quello di un attempato e magro vegliardo. Sir Kay, noto per i suoi modi poco cortesi, si concede il lusso di incrociare le braccia al petto e di accogliere le parole di Merlino con una smorfia. 

«A mille e mille miglia da qui, sul Picco Inaccessibile, vegliato da due grifoni alati e due gargoyle dalle fauci di pietra, riposa il temibile Kalthu, il più enorme e malvagio Drago Rosso che il mondo abbia mai conosciuto.» 
Le parole di Merlino non suscitano alcun interesse nei Cavalieri; chi si specchia sul dorso di un cucchiaio, chi si rimira le unghie, chi si gingilla scrivendo iniziali e ghirigori sul bordo del piatto con la salsa del maialino, nessuno che presti vera attenzione al mago di corte. 
«Kalthu. Il grande Drago Rosso che vive a mille e mille miglia di distanza da qui. E allora?», vorrebbe chiedergli Kay, ce l'ha scritto in faccia. «Sappiamo bene che esiste, ci mancherebbe. Era su quel Picco maledetto da prima che il buon Gesù Cristo nascesse a Betlemme, e ci resterà sin quando non lo coglierà la mano fredda della Morte, evento che tu stesso hai previsto accadrà nei prossimi sei mesi, caro Merlino.»
«Io stesso vi predissi la fine di quell'orribile bestia entro l'anno in corso, e non mi correggo», prosegue il mago, sapendo quale direzione abbia preso il cervello fino di sir Kay. «Kalthu esalerà l'ultimo, diabolico respiro entro la fine di quest'anno. Tuttavia…»
E quell'innocuo tuttavia, lasciato da solo in fondo alla frase, fa risvegliare di colpo l'interesse dei dodici paladini della Cristianità. 
«Tuttavia?», l'incalza sir Lancelot, desideroso di farsi bello agli occhi della Regina. 
«Tuttavia», replica Merlino, che non aspettava altro che avere l'attenzione dei suoi ascoltatori, «quell'immonda creatura ha un erede. Kalthu ha deposto un uovo, uno solo, e lo difenderà sino alla schiusa a costo della vita.»
«Quindi?», chiede sir Kay fingendo ottusità: chi mai invierebbe contro un drago un Cavaliere che non si rende conto del pericolo che grava su di loro? 
«Quindi, caro sir Kay», riprende Merlino nient'affatto stupito da quella replica, «occorre che un prode e valente e coraggioso Cavaliere si rechi laggiù e sottragga l'uovo dal nido.»
«Sottrarlo?», interviene Meleagant con il suo tono basso di voce. «Non converrebbe, piuttosto, distruggerlo, e spanciare anche il Drago, giacché ci si trova?»
«Sia mai!», tuona il vecchio mago avvicinandosi al giovane Cavaliere. «È quello che aspetta la bestia! Tu non puoi sapere, né io posso raccontare, a discapito delle vostre menti, ciò che accadrebbe se l'uovo di Kalthu fosse rotto nel suo stesso nido!»
«Cosa dobbiamo fare, allora, Mago?», domanda Kay con tono canzonatorio prima di abbeverarsi di rosso e corposo vino del sud. 
«Portarmi l'uovo.» 

Semplice, chiaro e cristallino come quest'acqua che ho travasato nel mio bacile. La domanda, però, dovrebbe essere un'altra: che se ne fa il saggio e potente Merlino di un uovo così pericoloso? Domanda che, a quanto intuisco dalle facce dei presenti, non sfiora neppure le loro menti. 

«E come hai intenzione di procedere, saggio Merlino?», domanda sir Bedivere, precedendo di poco i nipoti del Re.
«Userò le mie Arti Magiche», risponde, e la sottoscritta a questo punto non riesce a trattenere una risata. «Potrò agilmente debellare la minaccia rappresentata da Kalthu, ma solo durante una particolare congiunzione astrologica, quando i Pesci si getteranno nelle fauci del Serpentario e Giove transiterà per il Cigno con un'altezza siderale pari al quadrato tra Venere e Marte sotto il Cielo del Cancro.»
 
Nessuno ha capito nulla. Nulla di nulla. Merlino sa che il suo parlare tecnico disorienta la corte di Camelot, al punto che gli astanti annuiscono fingendo di aver compreso le sue ansie. Potrebbe anche inventare, come di recente ha preso a fare, le cose che adduce come spauracchi per piegare ai suoi voleri Artù e i suoi Cavalieri; gli crederebbero a priori. 

«E sia, Mago», esordisce il mio caro fratello come da copione, mentre la mia cara cognata inarca di disappunto le bionde sopracciglia. «Uno dei miei nobili Cavalieri partirà per questa cerca e porterà indietro l'uovo nefasto, a Dio piacendo.»

Merlino annuisce. Avrebbe preferito far cadere Artù nella trappola del dono costringente, ma il mio buon fratello s'è fatto furbo, e adesso ci pensa su due volte prima di promettere ad occhi chiusi, sempre che non lo si colga sull'onda del sincero afflato. 
I dodici cavalieri della Tavola Rotonda si guardano l'un con l'altro, tremando. Meleagant sa già di essere esonerato per questioni caratteriali. Impulsivo com'è potrebbe essere tentato di fracassare l'uovo strada facendo, oppure potrebbe inavvertitamente cadergli di sella e rompersi sul selciato. «Meglio evitare sorprese», pensano il Cavaliere, il Re e il Mago sorridendo. 
Agrawain non osa affondare il cucchiaio nella nuova scodella di zuppa. Teme che, essendo fresco di avventure e cerche, il Re pensi sia più saggio spedirlo alla ricerca del nido e dell'uovo. Uovo che gradirebbe volentieri cotto, magari in una padella sfrigolante di lardo fuso e striscioline di prosciutto stagionato. 
Lancelot, in cuor suo, non vuole lasciare la Regina. Morirebbe per la lontananza da lei. L'ultima volta che è partito, vale a dire sei mesi fa, s'è fatto legare una ciocca dei suoi capelli alla lancia, ma da quando ha potuto annusare l'aroma di camomilla che la mia cara cognata usa per donare fulgore alla propria chioma, ogni pegno d'amore è per lui poco più che un palliativo. 
La mentre di Tristano è lontana. Pensa che il Picco Inaccessibile è sin troppo lontano dalla corte di Re Marco, suo zio, e della sua amatissima Regina Isotta, quindi a che pro imbarcarsi? Continua a giocare con la salsa del maialino sul bordo del piatto; ancora poche gocce debitamente sparse e avrà scritto Ysseult nelle rune celtiche che la bionda regina gli ha insegnato. 
Gawain e Gareth friggono ai loro posti, guardandosi in cagnesco l'uno per poter battere sul tempo l'altro ed essere spedito in missione. Quale dei miei due amabili nipoti andrà a farsi sgozzare da un dragone rosso, malvagio e tremendamente vecchio, il bello e cortese fratello maggiore, oppure il temerario e incosciente fratello minore? 
A quest'interrogativo risponde sir Bedivere. «Vostra maestà, ascoltatemi», dice alzandosi in piedi. «Vi supplico di concedermi per i miei servigi una ricompensa che non potrete rifiutarvi di mantenere. Inviate me.»

Non so quanti occhi si voltano nella sua direzione. 
«Tu, mio caro amico?», domanda Artù tormentando il suo anello con il rubino, quello stesso che i donzelli baciano in segno di devozione quando il Re li nomina Cavalieri. 
«Io», replica Bedivere. «Vi prego, maestà, di concedermi questa missione.»
Non aggiunge altro. Il Re porta lo sguardo azzurro sul proprio riflesso nel vino e medita sulla richiesta. Bedivere. A conti fatti, potrebbe essere una buona soluzione: sa che è l'unico che porterebbe a termine il compito assegnatogli da Merlino senza gingillarsi nella forma, senza deviare dal seminato nemmeno di un bruscolo per partire per altre cerche, e, nel minor tempo possibile, darebbe una lezione di cavalleria ai più giovani e fanfaroni guerrieri che siedono alla Tavola Rotonda. 

Artù sospira e pensa che se non fosse per il suo ruolo, e per i rimbrotti della sua bionda consorte, gli piacerebbe rispondere di persona alla chiamata e partire per il Picco Inaccessibile a sgranchire le gambe. Un po' di sano esercizio fisico, insomma. Invece, i suoi doveri, il suo ruolo e le mille altre cose noiose che gli ricorda Merlino per tenerlo inchiodato sul trono, gli impediscono di montare in sella al suo amato cavallo bianco e partire verso l'orizzonte in cerca di avventure. 
Essere un Re è noioso, pensa il sovrano sospirando. Tornassi indietro, me ne starei lontano da quell'incudine quanto il Levante lo è dal Ponente!

«Sire», l'incalza Merlino, segno che una scelta che ricada su Bedivere è quantomeno apprezzata. «Rispondete al vostro cavaliere senz'indugiare. Il tempo stringe.»
«E sia», replica Artù levando la sua coppa dorata. «Sir Bedivere. avete licenza di partire quando lo riterrete più opportuno.»
«Se a Vostra maestà non dispiace, interromperei seduta stante il mio pranzo e partirei immantinente per la mia missione», replica l'altro, con sommo sdegno di Gawain. Il quale, cercando di essere ugualmente della partita, aggiunge: «Mercé, Vostra Maestà. Concedete anche a me di seguire il prode sir Bedivere nella sua avventura!».

Il sorriso di Artù si illumina, così come quello di Ginevra e Lancelot. 
Splendido!, pensa la Regina, lieta di potersi togliere dai piedi il più assillante e petulante dei suoi nipoti acquisiti. Gareth è ancora giovane, per lui bastano una spada nuova, un bel cavallo da far correre fino a schiumare, e due colpi di spada tirati assieme a qualcuno più in gamba che lo lasci mezzo morto di fatica, ed è presto liquidato, mentre Gawain… Gawain è una piattola. 
Non c'è incarico che tenga quel benedetto ragazzo lontano dalla stanza di suo zio, il Re. E ultimamente, quando il Re si rinchiude nella torre Est per pensare agli affari di corte, il giovane Gawain ha preso ad essere sin troppo sollecito nei confronti della bella zia acquisita, temendo che le voci che circolano sulla fama dell'affascinante Tristano possano trovare a corte un increscioso seguito. 
E come si possono avere incontri galanti con un tal assillo tra i piedi?, pensa il coraggioso Lancelot scoccando un'occhiata complice al suo vicino, Tristano appunto, sempre prodigo di mille sotterfugi e astuzie sperimentate alla corte di re Marco. 

«Concesso!», fa per esclamare il Re, lieto che suo il nipote prediletto dia segno di possedere un cuore valoroso e immune alla paura, quando Merlino lo interrompe con un colpo di tosse. Bedivere deve andare da solo, il Cielo sa perché. «Il vostro coraggio vi fa onore, sir Gawain. Tuttavia, e che Merlino mi corregga all'istante se troverà errore nelle mie parole, ritengo che sia il solo sir Bedivere a dover affrontare questa battaglia. Il suo cuore e la fede in Dio Onnipotente l'aiuteranno.»

Liquidata la questione. Gawain è infelice, Ginevra è seccata e Lancelot si chiede se non sia il caso d'invitare quel ragazzetto senza peli ad una bella sfida tra cavalieri, e sfogare su di lui la propria frustrazione. Già si vedeva tra le braccia dell'amata, ad intrecciare i suoi capelli d'oro zecchino sparsi sui guanciali senza l'assillo del nipote del Re… 
Gawain non può far altro che chinare il capo e tornare a sedere, anche se ormai il cibo non l'alletta più. Sir Bedivere, invece, saluta la compagnia con un cenno del capo, fa un gesto al suo scudiero e si dirige di gran carriera verso le stalle, lasciando i suoi compagni a godere delle prelibate pietanze della tavola. 
«Animo, Semola!», dice Bedivere rivolgendosi al suo donzello, un ragazzino pelle e ossa com'era lui alla sua età, e un cespuglio di capelli biondi in testa. «Si va in cerca di avventure!» 

 

 

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.
 
Il Picco Inaccessibile tiene fede al proprio nome. 
Si tratta di uno sperone di roccia scura che sale snello fin oltre le nuvole. Alle falde, teschi e ossa spezzate testimoniano l'ardire di coloro che in precedenza hanno tentato di violare la sua vetta. Alcune armi, consunte e macchiate di ruggine, mostrano i segni delle bruciature del fuoco di Kalthu, che, a detta del saggio Merlino, dimora in un anfratto in cima al Picco. I grifoni ed le gargolle di pietra li hanno accolti poco più in basso, con i loro volti grotteschi e quelle espressioni demoniache che farebbero ghiacciare il sangue nelle vene dei diavoli, semmai i diavoli avessero il sangue. 
Sir Bedivere ha affrontato due settimane di viaggio, prima di raggiungere il Picco e compiere la sua missione. Credete forse che si sia limitato ad assecondare l'ambio del suo palafreno? Sia mai! Ovunque ci fosse anche solo sentore di guai o di damigelle in pericolo, eccolo montare in sella al destriero, lancia in resta, e sgominare i bruti e i malvagi che recano perenne offesa alla vedova, all'orfano, al povero… insomma, le solite, noiose occupazioni del perfetto Cavaliere. 

In realtà, il tempo necessario a coprire la distanza tra il castello di Camelot e la meta è di soli quattro giorni, ma salvando fanciulle, mulini in fiamme e vedove oppresse che saltano fuori come mosche non appena vedono il pennacchio dei baldi Cavalieri della Tavola Rotonda, s'impiega ben oltre il tempo strettamente necessario, suvvia! 
Così, ecco sir Bedivere scrutare il Picco Inaccessibile dalle sue fondamenta. O meglio: scruta il vasto strato di nubi, nere e minacciose, che oscurano la vista della cima, ma più di così non può di sicuro fare. 
Semola guarda perplesso ora il suo signore, ora le nuvole. Nessuna persona sana di mente salirebbe lassù per rubare un uovo di drago e portarlo ad un vecchio pazzo, che con buona probabilità vuol farsene una gigantesca frittata di cipolle. 
Ma sir Bedivere è forse sano di mente?, si chiede il giovane donzello sorreggendo il necessaire del prode Cavaliere. Sir Bedivere salirà su quel picco, cascasse il mondo, e porterà giù l'uovo. Semola spera almeno che Mago Merlino li inviti a mangiare la frittata, e che il suo signore non lo costringa a seguirlo in quella follia. 
«Avanti, Semola! Preparati per la gloria!», lo esorta il cavaliere dandogli una gran pacca sulle spalle. «Ti mostrerò come si fa ad affrontare un drago, contento?»
 
La cima del Picco è sferzata da venti implacabili e impetuosi. Semola si sente trascinare indietro più volte, tanto che alla fine decide di avanzare pancia a terra per non essere spazzato via come una piuma. Non dovrebbe temer male alcuno da chicchessia. Ha indosso un'armatura che sir Bedivere gli ha generosamente prestato, sa maneggiare la spada quel tanto che basta per salvarsi le chiappe e, sempre a detta del suo mentore, Kalthu sarà talmente vecchio e rincoglionito da costituire una pura formalità per lo scudiero del prode sir Bedivere. 
D'accordo, ad onor del vero non l'ha messa in questi termini, ma il succo del discorso è comunque questo. E, colmo della tragedia, gli occhi del cavaliere dai capelli rossi luccicavano mentre parlava, e questo non è mai un buon segno. 

«Vai, mio buon Semola! Copriti di gloria, è il tuo momento!», gli ha ripetuto aiutandolo a salire sul Picco. «Al nostro ritorno sarai armato cavaliere!»
Sempre se farò ritorno, pensa il giovane scudiero osservando l'orizzonte ad occhi socchiusi. Il pianoro su cui è arrivato è battuto da fortissimi venti, e coperto da una spessa coltre di nubi. Semola non vede ad un palmo dal suo naso. E dell'antro del Drago nemmeno l'ombra. 
E adesso?, si chiede aguzzando ancor di più la vista. Nulla, solo il vento che gli impedisce di tenere gli occhi aperti e la nebbia. 
Poi, all'improvviso, lo vede. L'uovo! Ecco l'uovo! Tondo, lucente, dalla superficie leggermente screziata di oro e marrone. E grande. Straordinariamente grande, quasi quanto la sua testa. 
«L'ho trovato! L'ho trovato!», urla a sir Bedivere, che con tutto quel soffiare di aria fredda nelle sue orecchie non capisce un'acca. 
«Chi hai incontrato? Non perdere tempo, e prendi l'uovo!», risponde il Cavaliere nel vento, e Semola vorrebbe dar testate al suolo per la disperazione. Chi mai si può incontrare in cima ad un Picco? San Giorgio? Santa Lucia? 
Mentre continua a chiedersi perché mai non abbia deciso di entrare in monastero come suo fratello Terry, il ragazzo nota un'altra cosa. La sagoma del Drago, grande quasi quanto il castello stesso di Camelot, affianca l'uovo cingendolo amorevolmente. Deglutisce a vuoto. 

Qui non si tratta più di fregare le uova dal pollaio dello zio Anthony. Qui la chioccia è cento volte più grossa, malvagia e inviperita. E se non stesse dormendo? E se non aspettasse altro che spalancare le fauci e farlo arrosto? 
Un Gromble esce dalla bocca del mostro, e il povero Semola già si sente spacciato. Si tuffa dietro uno sperone di roccia che sfida stoico il cielo, fuoriuscendo con la testa da una parte e il sedere dall'altra. Trema, come fosse febbricitante, le mani sull'elmo impennacchiato. Sono morto! Sono morto! Caro Gesù, Giuseppe e Maria, vi dono il cuore e l'anima mia, pensa il ragazzo segnandosi. 
E invece non accade nulla. Semola apre un occhio. Il Drago se ne sta spaparanzato e biascica qualcosa nel sonno. Gli ricorda un po' suo nonno Anselmo, se non fosse che il nonno non aveva la pelle ricoperta di scaglie vermiglie, due corna belle grosse in testa e fauci enormi da cui cola uno strano liquido verdognolo sui cui è meglio non indagare. 
La zampa del mostro attornia l'uovo con fare protettivo, anche se è distante dall'obbiettivo quel tanto che basta ad un giovane ed ossuto scudiero per sgattaiolare nel nido, afferrare l'uovo e battere in ritirata giù per il Picco. Ma Semola non vede alcun passaggio, o alcun trucco attraverso cui superare l'ostacolo. I suoi occhi sgranati sono incollati, quasi, alla fila di denti appuntiti che fa capolino dalla bocca socchiusa della bestia. 
Sgattaiola all’indietro, lungo la strada percorsa, tenendo d’occhio il nemico. Meglio riferire a sir Bedivere. Lui saprà cosa fare.

***

«Ecco il piano, mio buon Semola», gli dice sir Bedivere dandogli una pacca metallica sulla spalla. «Io attirerò l'attenzione del mostro, mentre tu salterai nel nido e porterai via l'uovo.» 
La faccia del ragazzo è più bianca del pennacchio sull'elmo di sir Lancillotto. «Sir Bedivere, ma Merlino ha detto che non si deve destare il drago», pigola timidamente, gli occhi pervasi dalla debole speranza che le sue parole inducano il cavaliere a non esporli ad un pericolo maggiore del necessario. 
Sir Bedivere, si ferma, il vento che gioca con la piuma di pavone che gli orna l'elmo, e sembra riflettere sulle parole del suo giovane scudiero. In effetti, lui potrebbe anche tenere testa al vecchio Kalthu - il quale potrebbe dargli del filo da torcere per recuperare il suo prezioso uovo - e, se il Cielo l'aiuta, mettere fine alla sua scellerata esistenza una volta per tutte, ma Semola? Lui dovrebbe prendere l'uovo, calarlo adagio giù per il Picco, legarlo saldamente alla sella del suo morello e galoppare di gran carriera fino a corte, ed il Drago quasi certamente non gli concederà quartiere, né attenderà bel bello che la sua prole sia trafugata lontano e al sicuro dalle sue zampacce artigliate. 
Come fare? 
Sir Bedivere si accarezza la barbetta da capra che gli adorna il mento. E se fosse Semola, invece, ad attirare l'attenzione del Drago? 
Il cavaliere guarda lo scudiero pelle e ossa: quale creatura potrebbe trovarlo appetibile, magro com'è? E poi, non ha forse giurato a sua madre sulle sante Reliquie di proteggere suo figlio e di farne un Cavaliere fatto e finito? Ammesso e non concesso che Kalthu decidesse di fare uno spuntino fuori programma, impiegherebbe pochi istanti prima di chiudere le sue fauci sul povero Semola e farne un solo boccone. Anche se il ragazzo decidesse di sacrificarsi, lui non avrebbe mai il tempo necessario per trafugare l'uovo e portarlo al sicuro sino a Camelot. 

«Semola, il tuo coraggio ti fa onore», dice il prode Bedivere al termine di un gran lavorio di meningi. «Tuttavia, non posso permettere che tu ti sacrifichi in questo modo. È in gioco la sicurezza di tutta la Cristianità, è vero, ma mi rifiuto di lasciar morire il mio scudiero, invano per giunta!»
Morire? Io? Ma quando mai?, pensa il ragazzo sgranando ancora di più gli occhi e trattenendosi dall'unire le punte delle dita e far andare su e giù il pugno. 
«Agiremo in un altro modo, ragazzo mio», prosegue sir Bedivere, avendo scambiato il lampo di terrore che ha attraversato gli occhi di Semola per ardimento e determinazione. «Ci appropinqueremo pian piano al nido del mostro. Tu scivolerai al suo interno, solleverai l'uovo e me lo porterai… Anzi, no. Magro come sei, ti sarà difficile andare in giro con quella corazza, figuriamoci ad alzare un uovo.»
Semola annuisce. Qualsiasi cosa, qualsiasi insulto è ben accetto se gli eviterà d'introdursi tra le zampacce unghiute del Drago. 
«Faremo così», gli annuncia il cavaliere, dando ogni tanto un colpo d'occhio alla bestia che se ne sta assopita a biascicare nel sonno e a proteggere l'uovo. «Io m'introdurrò nel nido e porterò via l'uovo. Addormenteremo il Drago grazie a questa polvere che mi ha dato Merlino. Renderà innocuo il mostro in un baleno, vedrai! Poi legheremo l'uovo e lo caleremo dolcemente fino a valle, dove l'isseremo in sella e torneremo galoppando il più veloce possibile a Camelot.»
Il più veloce possibile a Camelot. Queste sei parole restano marchiate a fuoco nella testa e nelle orecchie del giovane scudiero. Al diavolo i lunghi discorsi di sir Bedivere! Camelot! Casa! Le focacce allo strutto e guanciale di sua madre e le tenere ed audaci carezze della piccola Ada, questo solo interessa al ragazzo che non vede l'ora di scendere da quel pianoro battuto senza pietà dal vento. 
«Tutto chiaro, Semola?», gli chiede sir Bedivere passandogli una mano davanti al viso. 
«Signorsì!», replica il ragazzo. Se le cose vanno nel migliore dei modi, in meno di mezzora saranno al sicuro dal mostro, e a sera potrà riscaldarsi con la fumante zuppa di cavolo nero che fanno in quell'osteria lungo la strada. E la figlia dell'ostessa ha un bel paio di occhi neri… 

***

La corte principale del castello di Camelot è spesso teatro di mercati particolari. Carovane di venditori ambulanti, a volte provenienti da luoghi esotici come Nuova Caledonia, Zanzibar e Ausonia, oltrepassano il barbacane e salgono nelle stanze della regina per mostrare la mercanzia. Ginevra, bella in modo da far invidia alle fate, ha una sola debolezza, se s'eccettuano le ampie spalle e gli occhi azzurri del bellissimo Lancillotto: le chincaglierie. 
Ama circondarsi di stoffe dai colori accesi e non certo degni di una Regina, come il viola, il verde pavone e il giallo uovo, ama vedere le mille sciocchezze che attraverso le mani dei mercanti sembrano sempre mirabili e finissimi oggetti raffinati, e ama collezionare pettini per i capelli, insieme ad altre mille spezie che fanno la gioia delle cuoche. 
Capirete da voi come le carovane dei più grandi merciai sostino sotto le mura del castello, e come i mercanti stessi levino ben alta la voce per avvisare la Regina delle loro particolarissime, esoticissime e pregiatissime merci. 
Il povero Artù spostava ciclicamente la corte, da Camelot a Caraduel a Tintagel e via cantando, ma i mercanti, furbi come faine davanti ad un pollaio, seguivano il corteo reale come un'ombra, col risultato che in meno di una settimana erano punto e daccapo, senza contare i venditori che raccattavano strada facendo e che si andavano ad assommare a quelli che già vivevano nelle nuove sedi. 
L'unica soluzione a quel vociare continuo, e al depauperamento coatto delle finanze reali, è stata quella di spostare gli appartamenti della regina il più lontano possibile dalle mura del castello, e di porre a guardia della stessa uno dei più fidati Cavalieri del Re. Indovinate un po' quale? Esatto, sir Lancelot. 
Il quale sir Lancelot, nel momento in cui vi sto parlando, riposa tranquillo in grembo alla mia bella cognata. Sir Bedivere sta per rientrare, è questione di poco ormai, e il Re e il suo consigliere sono chiusi da giorni nel gabinetto reale per studiare non si sa bene cosa. 
Ginevra ha confidato al suo drudo che il Re non va quasi più a visitarla la sera, se non per augurarle una santa notte. Merlino lo sfianca con le sue paure e non fa che ripetergli sino alla noia che lui e lui solo dovrà toccare quell'uovo. Se il bel Lancillotto non avesse perso il senno e la ragione per il crine dorato della regina, si chiederebbe il perché di tutta questa paura, e perché mai, se quell'uovo costituisce una minaccia così grave, il Mago abbia preteso che sir Bedivere affrontasse da solo a solo Kalthu. Invece il pupillo della Dama del Lago lascia che la Regina accarezzi i suoi capelli color dell'orzo e sussurri al suo orecchio mille e dolci parole d'amore. 
«Uova! Uova di incomparabile pregio e valore!», urla dabbasso un vocione abituato a quei toni. Lancillotto e Ginevra non lo sentono. Il libro che stavano leggendo è un naufrago alla deriva sul tappeto blu mare che adorna la sala da lavoro della bella regina. 

«Uova! Uova freschissime, d'incomparabile valore!», continua a gridare il mercante mostrando alle donne del castello due grossi polli che si beccano l'un l'altro mentre lui li tiene fermi per le zampe, testa all'ingiù. «Venite, mie belle signore. Venite ed assaggiate le uova di Sebastian, le migliori uova che si possano trovare da qui a cinquanta miglia!»
«Cinquanta miglia? Bum, se l'hai detta grossa!», risponde Ada, la figlia della fantesca del castello. La cuoca, donna Maria, l'ha spedita a fare la spesa e la ragazza ha il paniere pieno di cose tanto buone quanto pesanti. 
Se solo Semola fosse qui, chiederei a lui di portare questo cesto così pesante!, pensa la fanciulla, rammaricata del fatto di non poter baciare il suo spasimante a causa di quel vecchio piantagrane di Merlino che ha convinto il Re a spedire sir Bedivere - e quindi il suo Semola - a raccattare un uovo di drago. Per farsene che, poi?, si domanda la ragazzina osservando i due polli darsele di santa ragione mentre il venditore li tiene capovolti. 
«Secondo te l'ho sparata grossa, eh, bimba?»,  le chiede Sebastian appoggiando i pugni sporchi di terra sui fianchi robusti. «Allora, facciamo un patto. Tu compri le uova da me, e le cucini per pranzo. La sera non te lo consiglio, sono così sane da risultare pesanti. Poi, se non ti sono piaciute, torni qui e mi sfasci questo cesto pieno pieno che tengo davanti ai tuoi occhi belli, uovo per uovo.» 
«E che succede se invece le uova sono buone come dici? Pari e patta?», chiede Ada divertita all'idea di fracassare tutte le uova sulla zuccona di quel tipo. 
«Eh no, così non vale!», protesta Sebastian. «Così io non ci guadagno nulla. Facciamo così: se le uova sono buone, tu mi dai un bacio. Sulla guancia», aggiunge lui con un lampo divertito negli occhi. 
«Screanzato! Sono promessa, io!», risponde lei incrociando le braccia, rossa in viso. 
«Promessa ad un povero sciocco, se ti lascia girare da sola, bella come sei!», ribatte il venditore appendendo i polli ad un gancio. 
«Sono promessa ad un futuro cavaliere!», ribatte Ada pestando un piede sul selciato. «Accompagna sir Bedivere in una missione pericolosissima! Sono andati a recuperare un uovo di drago!»
Sebastian alza la tesa del cappellaccio che lo ripara dal sole. «Uova di drago? Che porcheria! Se il buon Re Artù voleva papparsi una frittata come si comanda, non doveva certo spedire quei poveretti a rischiare l'osso del collo! Coi draghi, meno si ha a che fare, e meglio è!», sentenzia l'uomo con un'espressione disgustata. 
«Pensi solo a mangiare tu!», replica Ada scotendo la graziosa testolina. «Non credo che il Re voglia provare una frittata simile. Mangeresti uova di serpente fritte, tu? Non credo. E perché dovrebbe farlo il Re?»
«Non mi dirai che al Re non piacciono le uova?», domanda Sebastian preoccupato. «Se così fosse, farei meglio ad andarmene di nuovo a Brocelandia dal mago Merlino. Lui sì che è un buon cliente!»
«Sciocchezze!», ribatte Ada. «Al Re piacciono le uova in ogni salsa. Fritte, sode, stufate, alla francese, in salamoia… Piuttosto, hai qualcosa che valga la pena essere portata sulla tavola del Re? Bada, non delle uova qualsiasi: voglio che il Re mangi meglio del Mago Merlino.»
Sebastian, rincuorato da quelle parole, pensa a quello che gli ha richiesto la ragazza. Si gratta il mento, poi le dice: «Credo proprio di avere quello che fa al caso tuo», e scompare nel suo carrozzone. Quando ne esce, tenendo una cassetta di legno simili a quelle dove si conserva la frutta, le dice: «Ecco qua! Un uovo degno di un Re!». 
Ada guarda il capolavoro decantato da Sebastian. È un uovo enorme, scuro e con delle parti più chiare, dorate. Grigio. Grande come la sua testolina riccioluta. «Deve costare parecchio…»
«Come dici?»
«Che deve pesare parecchio… Sai, ho il paniere pieno e sono da sola.» 
«A tutto c'è rimedio, dice sempre la mia buona mamma», le replica Sebastian sorridendo.  «Puoi passarlo a prendere più tardi. O posso portartelo io, stasera…»
«Se potessi portarmelo tu, prima di pranzo, te ne sarei grata», taglia corto Ada; con la cifra che le sparerà quel bel tomo, il trasporto dovrà essere compreso nel prezzo, che lui lo voglia o no. 
«E va bene. Non so mai dire di no ad una bella fanciulla», risponde Sebastian, convinto che quella commissione straordinaria potrebbe rivelarsi più piacevole di quanto non sembri. 

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.

«Sono disperato, Ada mia!» 
Nessun uomo, neppure uno scudiero che sarà investito cavaliere la prossima domenica, è bello quando piange. Tutta la loro virile gagliardia svanisce d'un tratto, sciogliendosi come burro sul fuoco. Labbro all'infuori, occhio lacrimevole, spalle incurvate e lamenti degni del peggior bambinone viziato. 
Semola non fa eccezione, purtroppo per lei. Non appena ha saputo del suo ritorno, Ada è corsa nella propria stanza, ha strigliato per bene i capelli, si è lavata il viso, il collo e le mani, i punti dove è solito baciarla, ed è corsa da lui. Ha aspettato un po', sapendo bene che il suo amato non avrebbe potuto mollare sir Bedivere tra il lusco e il brusco per correre da lei, ma quando l'attesa ha cominciato a protrarsi sin oltre la decenza, Ada è andata a cercare il suo Semola, fiutando puzzo di bruciato nell'aria. 
Il fumo c'era, anche se l'arrosto non era quello da lei paventato, ossia che strada facendo un paio di occhi neri avesse fatto girar la testa al suo innamorato. Seduto sul suo giaciglio, le mani in grembo e l'aria afflitta, Semola fissava una gigantesca e puzzolente chiazza gialla ai suoi piedi. 
«Ada, Ada mia! Ho fatto la frittata!», le ha detto vedendola sulla soglia del suo alloggio. 
«Questo lo vedo da me…»
«No, non capisci! Ho rotto l'uovo che sir Bedivere aveva affidato a me! Lo stesso per cui lui ed io ci siamo issati sul Picco Inaccessibile ed abbiamo lottato con sprezzo del pericolo contro il Drago!», e infiocchettando alla bell'e meglio la storia, Semola le ha spiegato come non solo abbia mancato ad un compito assegnatogli da un suo superiore, ma che il destino del mondo sia oramai perduto. 
Ada, stufa degli «Uh,uh» del suo promesso, che lo rendono sin troppo simile ad una civetta, decide che ne ha abbastanza di quella solfa. Guarda il guscio dell'uovo. A giudicare dalla sostanza giallastra che campeggia sul pavimento, doveva essere particolarmente grosso e pesante. E Semola, con quei piedoni e quelle manone che il buon Dio gli ha donato, non è mai stato abile nel maneggiare le cose. 
Però, pensa Ada, se non lo cavo dai pasticci, sir Bedivere lo farà battere per benino, e addio investitura. E addio matrimonio, si dice ripensando al vestito di sua madre, accomodato e in attesa nell'armadio da un anno buono. Addio investitura, addio matrimonio, e addio alloggio all'interno delle mura del castello. 
Eh no!, pensa la ragazza arrotolandosi le maniche della tunica azzurra. «Quanto era grande quest'uovo?», chiede al suo promesso sposo. 
«Quanto la mia testa», risponde l'ammazzadraghi tirando su col naso. 
«E il guscio? Di che colore era?», insiste la ragazza mentre la sua testolina inizia a lavorare. 
«Grigio scuro e con delle chiazze d'oro.»
Ada sospira. «Aspettami qui. Ho io l'uovo che fa al caso tuo», dice a Semola prima di uscire dalla stanza. Sua madre le farà una bella lavata di capo, ma che importa? Piuttosto che rimandare ancora le nozze, e diventare la chiacchiera di tutte le ragazze del castello, questo e altro. 


***



La foresta di Brocelandia è cupa, impenetrabile e i rami degli alberi sono così fitti ed uniti tra loro da formare una cupola verde scura che impedisce al sole di illuminare il bosco. In molti si domandano perché un'anima creata debba vivere in quel castello vegetale, lontano dalla luce e con un'umidità pazzesca, ma nessuno, nemmeno il Re in persona, ha mai avuto l'ardire di domandarlo a Merlino. 
Il perché è presto detto: il Mago di corte nutre un amore sviscerato per funghi e tartufi, e per la buona cucina in generale. A Merlino basta mettere il suo naso impiccione fuori dell'uscio e tornare col cesto ricolmo di funghi, tartufi, noci e altre erbe che donano alle zuppe un sapore delizioso. 
Brocelandia, vista da un certo punto, è un vero paradiso. Silenzio, tranquillità e buone leccornie da cucinare in mille modi differenti. Peccato che questo concetto di paradiso sia distante mille miglia da quello del giovane Semola, che avanza in quell'intrico di rami spingendo una carretta piena di paglia. Dentro, coperto da un drappo scuro che lo celi alla vista del drago, un uovo attende di giungere a destinazione, e il cuore del giovane Semola batte forte, timoroso che il mago gli legga nell'animo e scopra la verità. 

Perché non poteva venirselo a prendere lui stesso? Perché ha chiesto proprio a me, pauroso come sono, di portarglielo?, pensa il ragazzo facendo ben attenzione ad eventuali ostacoli sul suo cammino. Dentro di sé, sa che non avrà mai e poi mai il coraggio di porre quelle domande a chi di dovere: ha ingoiato quelle stesse parole di fronte a sir Bedivere, figuriamoci se avrà mai l'ardire di aprir bocca con Merlino se non lo stretto indispensabile! 
La casa di Merlino, simile a quelle dei pescatori arroccate sugli scogli di Cornovaglia, lo aspetta in fondo al sentiero, proprio al centro di una radura circolare, con tanto di comignolo fumante, pozzo di pietra accanto all'abitazione, ed orto curato che fa capolino dietro il muro di mattoni grigi. 
La porta si apre non appena il carretto attraversa lo spiazzo. Semola procede a testa bassa, le ginocchia e i denti che tremano come se avesse la febbre. 
«Svelto, ragazzo!», l'esorta Merlino con un'espressione grave in viso. I piedi di Semola assecondano gli ampi gesti delle mani ossute, e si ritrova sulla soglia della casa in un battibaleno. Il camino è acceso ed il ragazzo intravede un paiolo fumante appeso sul fuoco. 
«Non cincischiare!», dice Merlino schioccando le dita. Semola lo fissa, terrorizzato. «Non abbiamo molto tempo, accidenti alla mania del tuo signore di aiutare chiunque si getti sotto gli zoccoli del suo palafreno!» 
Il Mago chiude l'uscio con un colpo secco e della paglia cade sulla testa del ragazzo. Un gesto veloce, e il panno scuro è già ad ardere allegro nel camino, mentre gli occhi azzurri di Merlino osservano con cupidigia l'uovo. 
«Dimmi, Semolino…»
«Semola», lo corregge il ragazzo senza sapere dove abbia trovato il coraggio necessario ad aprir bocca. 
«Non metterti a cavillare. Rispondi, piuttosto: hai toccato tu solo quest'uovo?» 
«Sì, signore.»
«Nessun altro? Sei sicuro? Bada, che me ne accorgerò!», tuona il Mago trapassandogli gli occhi con i suoi. 
«Sicuro, signore…»
Merlino lo fissa. Poi scoppia a ridere di cuore, e il povero Semola si chiede il perché. Cos'ha detto mai di così buffo? 
«Ragazzo, io so come sono andate le cose. Tu e sir Bedivere avete preso l'uovo di Kalthu e l'avete portato sino a Camelot, ma una volta nel tuo alloggio sei inciampato ed hai fatto una bella frittata, nevvero?» 
«Come fate a…» saperlo?, dovrebbe terminare la domanda, ma Semola è lesto a tapparsi la bocca e a fissare ad occhi sbarrati Merlino. 
«Ragazzo, io sono figlio di un Incubo, e ciò mi consente di conoscere tutte le cose già avvenute; ma poiché mia madre era innocente all'atto del mio concepimento, Nostro Signore mi concesse di conoscere anche le cose a venire. Quindi so che tu hai rotto l'uovo e che la tua promessa sposa ha pensato bene di sostituirlo con un altro simile, ma avete fatto i conti senza l'oste…»
«Mercé, vostra signoria!», pigola Semola buttandosi ai piedi di Merlino, senza accorgersi del sorriso compiaciuto e divertito che increspa le labbra sottili del Mago.
«Alzati, ora!», tuona questi prendendo il giovane per un braccio. «Proverò lo stesso ad ingannare le Potenze Divine ed Infernali. Bada bene, ragazzo: se qualcosa andrà storto, la colpa di tutto ricadrà su di te e sulla tua goffaggine. E questa maledizione penderà sulla testa della tua prole come la spada di Damocle!» 
Semola non sa chi sia questo Damocle. Un fabbro famoso? Un armaiolo rinomato per la fattura delle sue armi? Un cavaliere? Non osa chiedere lumi a Merlino, limitandosi a deglutire terrorizzato. L'idea di qualcuno che insegue i suoi figli tenendo delle spade sulle loro teste lo terrorizza a sufficienza. E sapere che Ada, in tal caso non gliela farà passare liscia, basta a fargli perdere ogni favella. 
«C'è qualcosa che io…» possa fare per aiutarvi?, ma oggi è giornata di domande troncate a metà. 
Merlino non aspettava altro. «C'è, eccome. Non dovrai far parola ad alcuno di quello che è successo. Ad anima viva, sono stato chiaro? Guai se si sapesse che invio i Cavalieri alla ricerca di ingredienti facilmente rimpiazzabili. Nessuno andrebbe più in missione, tu lo capisci, vero?»
Semola annuisce. Qualsiasi cosa purché i suoi figli non debbano andare in giro minacciati da una spada sulle loro teste, e purché Ada non gli stacchi la sua, di testa. 
«Di te mi fido, ragazzo. È della tua promessa sposa che mi fido poco.» Come di tutte le donne, aggiungo io. Oh, ma arriverà quella che ti farà perdere la testa, caro il mio maestro. Allora si vedrà chi riderà per ultimo… 
«Cosa debbo fare, saggio Merlino?», domanda Semola balbettando. 
«Tieni, scioglilo in un bicchiere d'acqua e dallo da bere alla tua dolce fanciulla. E sarà il caso che ne beva qualche sorso anche tu. Rammenterete di avermi portato un uovo di drago rosso, e nulla del vostro stratagemma. Ingegnoso, devo riconoscerlo, ma pur sempre un giochetto da bambini, se paragonato alla mia saggezza…» 
Semola annuisce. Afferra la boccetta che Merlino ha cavato dalla sua cintura e la stringe in mano come se fosse la cosa più preziosa del mondo intero. 
«E adesso fila diritto a casa, e non voltarti per nessun motivo!», tuona minaccioso il Mago, e il giovane scudiero di sir Bedivere gira sui tacchi e fugge a casa senza nemmeno salutare, o dire «Addio!» o «Sarà fatto, messere!», insomma una di quelle frasi che ci si aspetta da un futuro cavaliere. Semola corre come una lepre inseguita da una muta di cani famelici e Merlino resta sull'uscio di casa a gustarsi la scena. 

Il borbottare del paiolo sul fuoco lo induce a rientrare e a serrare la porta dietro di sé. Spinge la carretta fino al tavolo, che sgombra con una manata dalle mille e mille carte che vi riposavano sopra. Poggia l'uovo con delicatezza, e poi l'osserva, fregandosi le mani. Quindi si volta, afferra uno straccio e pulisce alla bell'e meglio il guscio, poi apre i cassetti alla ricerca di qualcosa che non trova, a giudicare dalla gran copia di oggetti che getta a destra e a manca. 
C'è una gran confusione in quella casa. Avrebbe bisogno di un tocco femminile, o di una brava domestica che la rassetti da cima a fondo, magari scacciando anche la popolazione di ragni che ha creato un vero e proprio maniero nell'angolo in alto a sinistra, subito sopra l'uscio. Uomini… conquistano interi paesi, ma non sono in grado di tenere pulite un paio di stanze! 
Merlino alla fine trova una specie di scalpello, proveniente da chissà quale dei suoi viaggi, e saggia la resistenza dell'uovo. Poi rimesta lo stufato di funghi che sobbolle nel paiolo, regola il sale e lo toglie dal fuoco, mettendolo a riposare sul pavimento. Si frega ancora una volta le mani, poi procede con il suo incantesimo. Cava da una brocca di ceramica della crema biancastra, che versa in gran quantità in una padella di rame, precedentemente appesa al muro. Cerfoglio appena lavato, crescione ed erba cipollina finiscono anche loro a sfrigolare sui ceppi. Poi è la volta delle striscioline di lardo, e di alcuni pezzetti di prosciutto che la cuoca di Camelot gli ha dato il mese avanti. 
Quindi, con solennità, prende l'uovo e lo rompe in padella, gettando il guscio fracassato nel fuoco. Lascia che l'uovo si rapprenda un po', quindi afferra un cucchiaio di legno e strapazza il composto mischiandolo al lardo e ai pezzetti di prosciutto. Un granello di pepe, una presa abbondante di sale, e Mago Merlino ha il tempo sufficiente ad apparecchiare la tavola con uno schiocco delle dita, spolverarsi alla buona la veste azzurra e portare in tavola la sua rinomata frittata alle erbe, la cui ricetta è imitata senza successo dalle cuoche di corte. 
Apre la porta e la bella Viviana, colei che ha educato Lancillotto come se fosse figlio suo, è sulla soglia con un sorriso raggiante, bella come un giglio imperlato di rugiada, pronta ad assaggiare la cucina di Merlino. E qualcosa mi dice che è arrivato, per me, il momento di ridacchiare…

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