Burning Up

di RosenrotSide
(/viewuser.php?uid=48264)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** America’s power ***
Capitolo 2: *** Run, idiot! ***
Capitolo 3: *** Voices, I hear voices ***
Capitolo 4: *** I get what I want ***
Capitolo 5: *** Waiting for you ***
Capitolo 6: *** You are my hero ***
Capitolo 7: *** Burning Up ***
Capitolo 8: *** She burns my horizons ***
Capitolo 9: *** Wo bist du? ***
Capitolo 10: *** Wo bist du, again? ***
Capitolo 11: *** Break Away ***
Capitolo 12: *** Everybody here ***
Capitolo 13: *** We’re all living in Amerika ***
Capitolo 14: *** Stella del mattino ***
Capitolo 15: *** Mein Herz Brennt ***
Capitolo 16: *** Hola chica de la noche ***
Capitolo 17: *** Nothing Else Matters ***
Capitolo 18: *** Lost Heaven ***
Capitolo 19: *** Unforgiven ***
Capitolo 20: *** The Unforgiven II ***
Capitolo 21: *** All the things they said ***



Capitolo 1
*** America’s power ***


Questa è una storia di pura fantasia che non intende dare alcuna rappresentazione reale dei caratteri o delle azioni dei personaggi rappresentati, che non conosco e non mi appartengono; la storia è stata scritta senza scopo di lucro alcuno.
Anzi, aggiungo che, come si è visto dall'introduzione, mi sono divertita a cambiare, anche se non radicalmente, il carattere dei protagonisti, ovvero i Tokio Hotel.

Getting Started

Bill Kaulitz non è uno stinco di santo, suo fratello Tom non scopa come un riccio, il timido Gustav non è poi così timido e quando vuole parla a raffica e Georg Listing, l'hobbit che tutti prendono di mira, è quello più furbo e che conquista più ragazze.
Se erano questi i ragazzi che conoscevate, dimenticateveli. Io che lavo la loro biancheria tutti i giorni posso giurarvelo davanti ad ogni Dio esistente.

*



-Anya, dov'è la mia maglietta a righe?-
-Anya, i miei boxer!-
-Anya?-
-Anya! Dove sei?-
-Anya!- urlano quattro voci da quattro camere diverse dello stesso piano d'hotel. Per fortuna è riservato solo a loro, altrimenti ogni mattina ci sarebbe qualcuno a protestare con quel sant'uomo del direttore.
La ragazza non potè fare a meno di sentirsi come una fotocopia della povera Cenerentola presa di mira dalle sue sorellastre; solo che il controllo, nel suo caso, era rinforzato: non erano Genoveffa e Anastasia a romperle le scatole ogni benedetto giorno del calendario, ma quattro vandali teppisti con delle facce da schiaffi che cantavano canzonette.
Questa, per lo meno, era la sua personalissima opinione, non di certo condivisa dalle migliaia di fan della band tedesca.
-Vi ho sentiti!- urlò in risposta con quanto fiato aveva in gola. Si stropicciò ancora una volta gli occhi e, mezza nuda e con i capelli arruffati, iniziò la sua ronda quotidiana.
-Eccotela qua la tua adorata maglia!- lanciò l'indumento ad un Bill in jeans, petto nudo e capelli da pazzo. Il ragazzo le mandò un bacio con la mano affusolata e andò in cerca delle sue scorte di deodorante.
Sbadigliando senza ritegno, Anya entrò in camera del secondo Kaulitz della situazione, sciabattando per farsi sentire e lasciandogli una pila di boxer accuratamente piegati sul letto sfatto.
-Vuoi farti la doccia con me, tata?- chiese il rasta, facendo capolino dalla porta del bagno, ma Anya non lo degnò neanche di uno sguardo, dirigendosi poi in camera di Gustav, che gli grugnì qualcosa di incomprensibile e poi da Georg, l'unico vero amico che aveva in quella gabbia di matti. Bè, se l'era cercata.

1.

America's Power



Internet è una rete infinita, è una grande trappola. Internet è una grande casa.
E’ un fantomatico popolo e il popolo americano scelse i Tokio Hotel; si risvegliò da un tepore ovattato durato anni e ascoltò alcune loro canzoni. Si sentì bruciare e vivere come mai prima. Così fece passaparola.
Al principio della grande avventura nel Nuovo Mondo, impresa che i quattro ragazzi consideravano addirittura più importante della scoperta del continente stesso, i Tokio Hotel, nonostante la rete, erano dei perfetti sconosciuti, un’utopia, solo quella, nella mente di qualche ragazza super informata.
David Jost, che coltivava il sogno di conquistare l’America con la giovane band, da mesi cercava, insieme al resto del management, di trovare una strategia vincente per schiacciare sotto ai loro piedi quel mondo che ancora sfuggiva al potere tedesco della band.
I ragazzi, seppur eccitati, non si lasciavano coinvolgere troppo da questi piani: sapevano che rimanendo se stessi, avrebbero fatto già di per sé più scalpore che non presentarsi ai nuovi potenziali fan come dei freddi calcolatori costruiti, anche se, come ricordava loro David, lasciare tutto al caso sarebbe stato come gettarsi da un dirupo senza paracadute. Se poi non li avessero amati, la vecchia Europa era già un buon regno su cui dominare.
Quel mattino, Bill, lo sparviero indomito, con gli occhi piccoli di sonno, struccati e i capelli in disordine, respirava a pieni polmoni l’aria fredda di New York, scacciando di tanto in tanto con un gesto spazientito della mano l’odore di gas del traffico congestionato delle vie perennemente affollate.
Era la prima volta che andava in America, anche questo faceva parte del piano di David: sondare il futuro terreno di gioco.
Bill se ne girava con le mani in tasca, il naso perso per aria, beandosi di passeggiare fra la gente, sbuffando di tanto in tanto per il piacere di vedere l’aria del suo respiro condensarsi davanti a lui in nuvolette bianche.
Si guardava intorno e camminava.
Le strade di quella città cosmopolita erano diverse da tutte le altre che aveva visto in quegli anni. I grandissimi pannelli al neon delle pubblicità o le insegne dormivano, spente, in attesa della notte per rischiarare il via vai incessante di auto, tante auto e taxi gialli, di quelli che si vedevano sempre nei film. La gente camminava a testa bassa, avvolta in cappotti e sciarpe di lana, i semafori scattavano ogni secondo, ammiccando come tante paia di occhi seducenti. Era decisamente facile perdersi in quella confusione di negozi appena aperti, saracinesche che alzavano il loro sguardo sul cielo plumbeo e gente munita di ventiquattrore che si dirigeva verso grandi scalinate per raggiungere la metropolitana.
La mattina americana aveva un sapore diverso da quella europea.
Bill si sentiva libero, assonnato, ma libero ed era una sensazione talmente grande da invaderlo completamente, togliendo il posto a tutti gli altri sentimenti.
Così grande da far sparire il freddo dalle sue spalle protette da un giacchino di pelle imbottito, ovviamente griffato.
Non capiva una parola di quello che i passanti dicevano, ma provava ad immaginarlo dai visi e dai gesti, in quel gioco solo suo a cui cambiava continuamente le regole. Lo seguivano il fratello, infagottato nei soliti abiti giganteschi per la sua figura magra, Georg con i capelli sotto un berretto di lana, Gustav, Saki in borghese che comunque spiccava per la sua stazza e poi Anya a chiudere la fila. La ragazza doveva correre continuamente per non rimanere indietro e rischiare di perdersi. Avvolta in uno spolverino di lana grigia spessa, continuava a sistemarsi sulla spalla la tracolla di una grande borsa, che persisteva a scivolarle giù mentre affrettava il passo, guardandosi intorno.
-Ehi- strattonò la giacca del bodyguard che la precedeva –possiamo fermarci un attimo?-
L’uomo annuì, trattenendo Tom per il cappuccio della felpa e fischiando agli altri perché si fermassero.
Bill sbuffò.
-Che c’è ancora?-
-Ho trovato la lavanderia, io mi fermo qui- annunciò Anya, guardandolo storto.
-Dove?- Georg si alzò in punta di piedi cercando il negozio.
-Dall’altro lato della strada- gli indicò Anya.
-Non puoi mica andarci da sola!- ribattè il ragazzo, sistemandosi meglio il berretto sui capelli accuratamente piastrati.
-Che palle!- sbuffò ancora Bill.
-Non c’è problema, basta che quando vi chiamo, mi torniate a prendere. Altrimenti posso anche andare direttamente in hotel con un taxi-
-Vengo io con te-
Tutti si voltarono verso Tom, che si era offerto volontario.
-Sono stufo di camminare- si giustificò il rasta –E poi, adoro le lavanderie!-
Anya alzò gli occhi al cielo. Idiota!
-Eh va bene, mi sopporterò lo zozzo, sbrighiamoci però!- disse, prendendolo per un braccio.
-Allora mi chiami quando avete finito?- le domandò Saki, guardando l’orologio che teneva al polso.
-Sì, stai tranquillo-
Anya afferrò la mano di Tom, poi, stando bene attenti a non farsi investire, attraversarono in fretta la strada, trovandosi sul lato opposto.
Che condanna!, pensò Anya, per la centesima volta o giù di lì.
-Dite che c’è da fidarsi?- li guardò interrogativo Gustav, mentre i due approdavano sul marciapiede opposto incolumi.
-Gus, Anya ha più cervello di voi quattro messi insieme e Tom può benissimo essere scambiato per uno di quei pazzi rapper americani, quindi io non vedo alcun problema- scherzò Saki.
Bill incrociò le braccia al petto e fissò il suo sguardo sulla figura della ragazza che, trascinando suo fratello, si stava dirigendo verso la lavanderia.
Si chiese come una persona così minuta potesse trasformarsi al momento opportuno in una tigre. Se lo chiedeva da tempo, ormai.
Ne osservò i capelli castani sciolti sulle spalle, la borsa a tracolla, la camminata agile, nonostante le piccole gambe e i tacchi alti. Era cresciuta con loro, in fondo; era la persona che li conosceva meglio di chiunque altro.
Bill distolse lo sguardo e lo concentrò su Saki, aspettando che il bodyguard desse segno di riprendere la passeggiata. Senza sapere perché, maledisse Tom per essere andato con lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Run, idiot! ***


Run Idiot

2.
Run, idiot!



Stranamente, Tom non andava mai a cercarsi troppi guai. Erano i guai a trovare lui e si divertivano anche un mondo a vederlo dannarsi.
Anya frugò nelle tasche dei jeans alla ricerca dei gettoni per la lavatrice, sperando che andassero comunque bene quelli che aveva avanzato la scorsa volta in un'altro negozio. Oggi doveva fare un carico di vestiti neri, i più numerosi.
Tom entrò nella lavanderia, tenendole aperta la porta e la ragazza si fiondò ad occupare la prima lavatrice libera; aprì lo sportello dopo aver inserito il gettone e salutato con un cenno del capo il proprietario del negozio, un hippy fumato e con i capelli lunghi fino al culo.
Iniziò a tirare fuori gli indumenti sporchi ed infilarli nella macchina, mentre Tom, con le braccia dietro la schiena, fischiettava e la guardava chinarsi e rialzarsi, chinarsi e rialzarsi.
-Ma quanta roba c’è in quella borsa?- le chiese, stupito. Era una normalissima borsa a tracolla, bianca, ma sembrava contenere l’intero guardaroba di Bill.
-Tutta quella che sporcate!- sbuffò Anya, infilando nello sportello l’ultima pila di magliette e boxer –Ne producete una quantità industriale-
Tom sorrise alla figura della ragazza che, attivata la lavatrice, si sedette sul piano d’appoggio e incrociò le gambe, poggiando le mani dietro di sé e alzando lo sguardo al soffitto.
Quanto odiava quel lavoro, Dei del cielo, quanto lo odiava!
-Scheisse- borbottò fra sé.
Tre anni della sua vita sprecati al servizio di quelle scimmie dal culo d’oro. Aveva studiato lingue e ora tutto quello studio andava buttato nel cesso; spagnolo, italiano, inglese, francese erano buoni solo a mandare a quel paese la gente.
Comodo, avere dei genitori che se ne fregavano di lei, comodissimo. Se solo avesse avuto una madre con un po’ di senno, non si sarebbe “venduta” come serva a quella band di idioti. Se solo l’avesse avuta una madre. Il caso voleva che quella santa donna fosse un’alcolista.
Non che ad Anya fregasse più di tanto, in fondo, non se ne faceva un cruccio, l’abitudine rende dura la pelle; di certo, non era un buon motivo per fare la vittima.
Terminati gli studi aveva deciso che il paesino in cui viveva era tropo piccolo per tutte le sue ambizioni. Voleva viaggiare, vedere posti nuovi, conoscere altre persone a differenza delle solite quattro facce che dall’infanzia la perseguitavano.
La soluzione giusta era arrivata con Natasha, sua cugina di secondo grado. Parente di suo padre, aveva qualche anno più di lei e faceva la truccatrice.
Sin da quando era piccola, Anya aveva guardato alla cugina come unico punto di riferimento, una sorta di ancòra che la tenesse aggrappata ad una vita un po’ più normale. Aveva vissuto con lei e gli zii per un certo periodo, poi si erano dovuti trasferire per lavoro. Lì ad Amburgo, Natasha aveva trovato l’occupazione perfetta: la truccatrice di star.
-Calmina, tesoro, non sono di certo star- aveva sorriso ad Anya, quando le aveva comunicato la notizia.
-Come no?- aveva mormorato, delusa, la ragazza.
-Sono una band di ragazzini, hanno tre anni in meno di te, niente di speciale-
-Portami con te, Nati, ti prego! Non ce la faccio più a vivere così, in questo posto di merda- l’aveva supplicata.
-Dipendesse da me ti porterei in capo al mondo, ma sono appena stata assunta e non ho alcuna voce in capitolo- si era scusata Natasha. Sapeva, però, che la cugina non si sarebbe arresa tanto facilmente.
Infatti, Anya si era fatta dare l’indirizzo e il nome della persona che aveva contattato Natasha ed era giunta all’Universal come una furia, pretendendo di parlare con il menager della nuova band.
Attirato dal trambusto che quella ragazza stava creando nella hall, David Jost in persona, che si trovava lì per caso, era sceso e si era informato sul problema di quella tigre ribelle; Anya non aveva di certo perso tempo.
-E’ lei il signor Jost?- gli aveva chiesto.
-Sì, sono io- aveva annuito l’uomo.
-Bene, io sono la sua nuova dipendente-
E da lì era partito tutto.
I compiti di Anya erano vari: rispondeva alle telefonate private dei ragazzi ogni volta che erano occupati e in questo modo era diventata fin troppo in confidenza con Simone e la signora Schafer, riordinava le camere, lavava i vestiti dei quattro ragazzi, servizio che tutti gli hotel di gran lusso in cui alloggiavano offrivano agli ospiti, ma, visto che c’era lei, il menagement ne approfittava per risparmiare un po’ di soldi e, in pratica, era al loro servizio ventiquattro ore su ventiquattro.
Veniva pagata, naturalmente.
-Non abbastanza- precisava ogni volta che ne aveva l’occasione e allora David le scompigliava i capelli, divertito, e gli ricordava quello che gli aveva detto la prima volta che si erano visti alla Universal.
-Signore, non importa se dovrò lavare i calzini delle sue stelline, non importa se dovrò cambiare loro il pannolino e preparargli il latte, l’unica cosa che mi importa è andare via da questo posto di merda-

*



Tom si frugò in tasca in cerca del pacchetto delle sigarette, mentre Anya tirava fuori gli abiti dalla lavatrice per metterli nell’asciugatrice subito lì accanto. Una volta usciti da lì, c’era il servizio di stiratura in fondo al negozio per farli sistemare.
-Io vado fuori a fumarmi una sigaretta- disse Tom, alla ragazza.
-Ok, ma non sparire- gli raccomandò Anya.
Il rasta annuì ed uscì. Tirò fuori la sigaretta dal pacchetto e l’accese, aspirando subito dall’estremità e rilasciando poi il fumo dalle labbra. Chiuse un attimo gli occhi, assaporando il sapore amaro della nicotina e lasciando cadere un po’ di cenere per terra.
Aveva voglia di assaggiare il caffè americano accompagnato dalla sigaretta, come vedeva fare in un sacco di film. Si era tolto il berretto, allacciandolo ai passanti per la cintura dei jeans e si stava sistemando la fascia, reggendo la sigaretta quasi finita tra due dita.
-Fuck, you bitch!- sentì urlare dal fondo della strada. Si voltò per vedere da dove provenisse tutto quel trambusto e fu urtato da una ragazza che scappava via. Lei gli andò a sbattere contro in pieno, rischiando quasi di perdere l’equilibrio e facendo cadere a terra una quantità di CD. Tom la trattenne per il polso, evitandole la caduta rovinosa e si chinò per aiutarla a raccogliere i dischi caduti, ma lei lo prese per la giacca e lo incitò a correre, voltandosi a vedere indietro l’uomo che la inseguiva, imprecando.
-Run, idiot!- urlò a Tom.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, preso dal panico, e si fece largo tra la folla che si era fermata lungo il marciapiede, pestando accidentalmente la sigaretta che gli era caduta per terra.
Cazzo, pensò, una scopata in meno!

(Commento dell'autrice: Tiè, ti sta bene! XD)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Voices, I hear voices ***


3.
Voices, I hear voices



Tom correva, reggendosi i jeans larghi che lo ostacolavano nella fuga con una mano. Nell’altra teneva l’unico CD che era riuscito a raccogliere da terra prima che la ragazza lo trascinasse via. La copertina si era rotta e probabilmente anche il fragile disco al suo interno.
La matta che ancora correva con lui non accennava a fermarsi, facendo a zig-zag fra le persone e le vie, salendo e scendendo pericolosamente dal marciapiede.
-This way-
Svoltarono in una stradina laterale piena di cassonetti dell’immondizia, nascondendosi dietro ad un angolo. Tom appoggiò la testa al muro e respirò profondamente. Gli faceva male la milza. La ragazza si fermò al suo fianco, chinata con le mani sulle ginocchia e ansimante per la grande corsa.
-Si può sapere che cazzo hai combinato?- le domandò Tom, formulando la domanda in inglese.
La ragazza lo fissò, scostando dal viso una ciocca ondulata di capelli biondi e fulminando il rasta con un’occhiataccia degli occhi castani.
-Non sono affari tuoi- replicò, superba.
Tom alzò un sopracciglio, chinando la testa di lato.
-Li hai rubati- disse, indicando i CD –E’ per quello che quell’uomo ti inseguiva-
-E allora? Vuoi arrestarmi?- lo sfidò la ragazza, parandoglisi davanti.
-No, ma almeno potevi prendere della musica decente, non quello schifo di Metal!- replicò Tom, sapendo già di provocarla. La biondina gli diede una spinta.
-Pensi di poter esprimere un giudizio? Scommetto che ascolti rap e hip-hop tu, non è così? Che merda-
Tom annuì, divertito.
-Che cazzo hai da ridere? Ma guarda un po’ questo che idiota!- sbottò la bionda, incrociando le braccia al petto –Chi ti credi di essere?-
-Tom, piacere- rispose il rasta, sarcastico, porgendole la mano, che la ragazza guardò incredula. Poi, inaspettatamente, senza rancore, la strinse.
-E tu sei…?- chiese Tom.
-Lotte-
-Lotte?- domandò Tom, sicuro di non aver capito bene. Sembrava il nome di un cane.
-Bè, in realtà sarebbe Charlotte, ma non mi piace, allora lo storpio a mio piacimento- la ragazza scrollò le spalle –Lotte, Lotti, Charlie…-
-Charlie mi piace di più-
-Sì, va bè, non stiamo qui a discutere del mio nome che ci sono cose più importanti a questo mondo. Dai, andiamo- la biondina lo prese per mano, incamminandosi.
-E dove?- chiese Tom.
-A casa mia-
In realtà, “casa sua” era lo scantinato di un palazzo, una sottospecie di garage adibito ad appartamento. Tom entrò dopo che Charlie ebbe sollevato la saracinesca che fungeva da porta d’ingresso e si ritrovò nel caos vero e proprio in cui viveva la ragazza: c’era un motorino scassato in un angolo coperto da un lenzuolo non più bianco, un tavolo quasi totalmente sommerso da più strati di cianfrusaglie varie, tra cui alcuni cartoni di pizza vuoti, un armadio sistemato in un angolo e un grandissimo divano macchiato. Charlie ci si lasciò cadere sopra, prendendo una bottiglia di birra da sotto il sofà.
-Ne vuoi una?- chiese al ragazzo.
Tom si sedette affianco a lei e prese la bottiglia di vetro verde chiaro che gli veniva offerta. Guardò le mani della ragazza: aveva le unghie dipinte di nero, proprio come suo fratello, solo che erano decisamente molto meno curate. A Bill non sarebbe di certo piaciuta.
Il rasta si guardò ancora un po’ intorno: strano, ma vero, quel posto gli piaceva. Non c’era nessuno che potesse dire a quella ragazza di mettere in ordine e l’ambiente, anche se mal tenuto, era grande e spazioso, visti i pochi mobili che ospitava. Gli dava un particolare senso di libertà. Un po’ come guardare il mare in tempesta.
-Vivi qui da sola?- chiese alla ragazza.
Charlie annuì.
-Non è granché, ma mi ci trovo bene. Evito di scusarmi per il disordine, tanto qui è sempre così- gli sorrise –Ma tu non sei di queste parti, vero?-
-No, sono qui in vacanza- rispose Tom, poggiando la bottiglia di birra finita sul pavimento.
-Con chi?-
-Mio fratello e degli amici-
-Vacanza studio o vacanza di piacere?- si informò Charlie.
-Diciamo di mezzo lavoro-
-E che lavoro faresti?-
-Suono la chitarra-
La ragazza lo fissò stupita.
-Tu?-
-Sì, perché?-
-Ma non avevi detto di essere un rappettaro?- gli occhi di Charlie si fecero ancora più grandi dalla sorpresa e Tom scoppiò a ridere.
-Assolutamente no. Mi piace l’hip-hop, ma suono in una band rock- le spiegò il ragazzo.
-E come vi chiamate?-
Evidentemente l’argomento le interessava. Tom sapeva che, se anche le avesse detto il nome della band, lei non avrebbe capito chi erano. Non si era ancora abituato all’idea che lì la gente non li riconosceva per strada o chiedeva loro un autografo. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto fuggire dall’Europa e ricominciare a vivere lì. Si immaginò per un attimo in quello scantinato, padrone dei suoi orari e della sua vita. Poi si immaginò con una ragazza come Charlie lì con lui. Quella ragazza gli ispirava follie. Ma no, non era la vita che voleva.
-Tokio Hotel-
Questa volta fu Charlie a scoppiare a ridere. Si gettò di peso con la schiena sul divano, tenendosi la pancia e continuò a sghignazzare, asciugandosi le lacrime dagli occhi.
-Tokio Hotel!- ripetè, per poi continuare a ridere –Che nome da sfigati!-
-Fai poco la spiritosa, ragazzina- disse Tom, chinandosi per darle un pizzicotto al braccio e perdendo volontariamente l’equilibrio.
Per la prima volta, Charlie si trovò a contatto diretto con gli occhi di lui. Smise di ridere e si concentrò sulle iridi del ragazzo. Sapevano di sole. Sapevano d’Europa, come quelli di uno spagnolo. Avevano le stesse sfumature dorate dei suoi. Accarezzò con la punta delle dita la guancia di Tom, scoprendola completamente senza barba, come quella di un bambino.
-Devi sapere una cosa, biondino- gli disse, spostandosi da sotto il ragazzo e costringendolo a voltarsi a pancia in su –Io non sto mai sotto-
Portò una gamba al di là del ventre di Tom e si sedette sul suo stomaco accentuato dagli addominali poco scolpiti.
-Sei pure comodo- lo prese in giro, osservando l’aria divertita di Tom, che le afferrò i fianchi.
-Perché tu staresti sempre sopra?- le chiese.
La prospettiva da domato non gli era mai stata troppo gradita, ma Charlie, sopra di lui, sembrava una regina, i capelli dorati come una corona. Era sciatta, ascoltava robaccia e viveva in un posto schifo, ma era una regina. Il genere di ragazza che ha il fascino nel sapore ribelle degli occhi.
-Il perché- spostò la sua mano verso il basso ventre di Tom, sotto la maglietta ingombrante –sono fatti miei-
Scese pericolosamente e sorrise dell’espressione del ragazzo, rapito dal movimento della sua mano. Charlie si alzò di scatto, lasciando Tom disteso sul divano.
Il cellulare del ragazzo vibrò nella tasca dei jeans.
-Bill?-
-Tom, ma dove siete finiti?- urlò il ragazzo dall’altro capo della linea.
-Calmati! Dì a Saki di venirci a prendere alla lavanderia- rispose il rasta.
-Spero che tu non ti sia cacciato in qualche guaio, quando vuoi sei una vera testa di cazzo-
-Sì, grazie mammina- lo prese in giro Tom, chiudendo la chiamata.
-Quindi sei tedesco- lo raggiunse la voce di Charlie. Era davanti all’armadio e gli dava le spalle mentre si cambiava la maglietta, senza alcun pudore di mostrare le spalle nude allo semi-sconosciuto sul suo divano.
-Sì- annuì Tom.
Charlie si infilò una felpa da casa grigia e tirò fuori i capelli dal colletto, lasciandoli ricadere in disordine sulle spalle. Si tolse poi le Etnies che portava ai piedi e le lanciò in un angolo.
-Mi sa che devi andartene- disse al ragazzo
-Già- replicò Tom, ma non si alzò dal divano. Charlie gli fece segno con la testa che la porta stava lì, di fronte a lui. Doveva solo superarla, niente di così poi difficile, no?
Tom si alzò, prendendo le bottiglie di birra che avevano svuotato.
-Queste te le butto-
-Grazie e già che ci sei, butteresti via anche il cartone delle pizze? Grazie mille, ciao ciao- Charlie si voltò di nuovo verso l’armadio, slacciandosi i jeans e lasciandoli cadere a terra, mentre cercava i pantaloni della tuta.
Tom represse l’istinto animale che gli sconvolse le viscere alla vista delle gambe abbronzate della ragazza, della curva armoniosa del suo sedere. Gli venne da ridere.
-Lo fai apposta?- le domandò, mentre recuperava i cartoni della pizza dal tavolo.
-A far cosa?- Charlie si voltò verso di lui con sguardo interrogativo.
-A spogliarti così-
-No di certo- scrollò le spalle lei.
Tom sorrise fra sé.
La porta stava lì. La superò. Niente di così difficile, no?
No, un po’ difficile lo era stato. Uscendo, notò dei post-it gialli sulla parete. Mise mano al cellulare in tasca e prese a scrivere i numeri che vi leggeva sopra, senza farsi notare. Era sicuro che uno di quelli fosse il suo. O magari quello del servizio del ristorante giapponese, chi poteva dirlo?

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** I get what I want ***


4.
I get what I want



Bill camminava avanti e indietro, accaldato.
Cretino, scemo, deficiente.
Ecco cos’era suo fratello, ecco cos’era! Un idiota!
Tom stava tentando per la centesima volta di chiamare Anya, ma il servizio di segreteria diceva che non era al momento raggiungibile. Voleva premere il tasto cinque per farsi richiamare? L’aveva premuto cento volte quel dannato tasto!
Una volta uscito dalla “casa” di Charlie, il rasta non aveva faticato a ritrovare la lavanderia dove aveva lasciato Anya, l’unico problema era che la ragazza non c’era più. Sparita nel nulla e neanche il vecchio hippy gli aveva saputo dire dove era andata. Fatto sta che allora lui aveva chiamato Saki per farsi venire a prendere e ora, riuniti nella hall dell’albergo, i quattro ragazzi, David ed il bodyguard stavano tentando con ogni mezzo possibile di rintracciare la ragazza.
Bill continuava a camminare per il nervoso, scostando di tanto in tanto i capelli dal viso, tentato di mangiarsi le unghie laccate di nero e tirando piccoli calci alla moquette del pavimento.
Dov’era finita? Anya!
Proprio in quel mentre, come richiamata dall’appello mentale del vocalist, la ragazza varcò tranquilla l’entrata dell’hotel, la borsa in spalla e un ulteriore sacchetto di plastica in mano dove l’hippy del negozio l’aveva aiutata a sistemare i vestiti che non entravano più nello zaino.
Entrò sicura, con il suo passo lungo e spedito e non notò subito i ragazzi, che la stavano aspettando mettendo in subbuglio con la loro agitazione tutta la hall.
In un attimo, Anya pensò di essere accidentalmente capitata in un film: vide Bill, trafelato e con gli occhi nocciola sbarrati per la preoccupazione, iniziare a correrle incontro, come al rallenty, per essere poi subito superato da Georg che, nella foga della corsa, simile ad un’intera mandria di bufali inferociti, urtò la figura gracile del vocalist, facendolo barcollare di lato e costringendolo a reggersi al bancone della reception per non cadere lungo disteso.
Anya sollevò un sopracciglio e poi scoppiò a ridere, lasciando la busta di plastica per reggersi la pancia. Georg travolse anche lei, gettandole le braccia al collo.
-Temevamo il peggio!- esclamò, prendendola per le spalle e osservandola per accertarsi del suo stato.
-Come sei drammatico, Georg! Sono uscita dalla lavanderia e Tom era sparito, il mio cellulare era scarico, così ho chiamato un taxi. Ci abbiamo messo un po’ perché c’era traffico, ma sono grande e vaccinata e per di più parlo correttamente l’inglese, non è il caso di fare tutte queste scene!-
-Sì, ma ci hai fatto preoccupare lo stesso! Potevi essere stata rapita, oppure perduta in un quartiere malfamato, o…- si intromise Gustav, dopo averla liberata dal carico della borsa.
-Sì, grazie Gus!- Anya rise e, con quella risata, finì per tranquillizzare tutti definitivamente.
-Meno male, pensavamo di aver perso la nostra bella lavanderina!- scherzò David e la ragazza gli rispose con una linguaccia.
Finalmente, anche Bill riuscì a raggiungerli, massaggiandosi il braccio che aveva battuto.
-Tutto bene?- chiese ad Anya.
-Sì- annuì lei –E tu!- puntò poi un dito accusatore contro Tom –Si può sapere perché non mi hai aspettata?-
Tom si cacciò le mani intasca, imbarazzato.
-Forze superiori, Anya San- tentò di sdrammatizzare, beccandosi uno scappellotto da Georg.

*



Il mattino, seguente, l’aereo che li avrebbe dovuti riportare in Europa tardò di ben due ore.
Si erano dovuti alzare alle cinque del mattino, prepararsi in gran fretta e trovarsi nella hall ad un’ora prestabilita, ma Anya passò quindici minuti buoni a bussare alla porta di Gustav, l’unico che mancava all’appello, ed era così allarmata del suo ritardo che fu sul punto di chiamare Saki per fargli sfondare la porta, quando il ragazzo le comparì alle spalle. Era andato a comprare nel negozietto di souvenir dell’albergo una scorta di rullini per la sua preziosa Nikon.
Il buongiorno non fu dei migliori; seduti sui comodi divani della hall semideserta, vista l’ora, i quattro ragazzi sembravano delle mummie: occhiaie fino alla bocca celate dalle lenti scure, facce pallide e i vestiti di due giorni prima.
-Vi avevo avvertito di non fare tardi ieri sera!- li rimproverò David. L’unico a rispondere fu Bill, che soffocò un grugnito in uno dei cuscini rossi del divano.
-E poi dicono che sei così adorabile- fu il commento sarcastico del produttore.
Una volta saliti sull’aereo, poterono tirare un sospiro di sollievo: stavano tornando a casa.
Bill e Georg litigarono per il posto vicino al finestrino, che finì per occupare Anya e Tom si munì prontamente delle cuffiette dell’I-Pod ultimo modello comprato a New York, accoccolandosi con la testa fra le spalle nel sedile e afferrando con tutte e due le mani il braccio di Gustav al momento del decollo.
-Illuminami, uomo della mia vita: quali sono i futuri programmi di questi adorabili artisti?- chiese Anya, rivolta a David. Il produttore cavò dalla tasca posteriore dei jeans il suo BlackBerry.
-Dunque- esordì, schiarendosi la voce –il 26 abbiamo i NRJ Awards e ancora i Goldene Camera il 6 Gennaio-
-Bene, inizio a prepararmi psicologicamente- sorrise Anya, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa al sedile morbido.
Una giornata di riposo e poi sarebbero di nuovo partiti. Destinazione Francia.
Sinceramente, non vedeva l’ora di farsi un po’ di shopping parigino. Con Natasha. Erano tre giorni che non si vedevano, siccome lei non era venuta in America. Essendo là in incognito, i ragazzi non avevano di certo avuto bisogno della truccatrice.
Chissà perché, invece, avevano sempre bisogno della tata!
Anya si stropicciò gli occhi, sbadigliando. Mancavano ancora parecchie ore all’arrivo, giusto il tempo per una bella dormita.
Volevo ringraziarvi per i commenti, mi hanno fatto molto piacere ^__^

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Waiting for you ***


5.
Waiting for you



Anya poggiò le borse su una sedia vicino a lei, accomodandosi al tavolino nella zona fumatori del bar e guardando Natasha fare lo stesso. Ordinarono due cioccolate calde, le guance rosse per il freddo delle strade di Berlino, che avevano percorso fino a quel momento dando fondo alle loro carte di credito. Puro e sano shopping. Anya aveva appena ricevuto il suo stipendio e le due avevano approfittato della mattinata libera per divertirsi e raccontarsi le novità che in quei giorni, lontane, non avevano potuto condividere.
Il solo pensiero di ripartire il pomeriggio seguente dava ad Anya la nausea, nonostante l'immagine ricorrente degli Champs-Elysées.
-Prima o poi mi licenzio- scherzò con Natasha, sistemandosi meglio sulla sedia scomoda e sfilandosi il cappotto a scacchi grigi e bianchi.
-Ma non dire cavolate, avresti il coraggio di lasciarmi da sola?-
-Non saresti mica da sola!- rise Anya, guardandosi intorno in cerca del cameriere. Aveva cambiato idea, non voleva la cioccolata, preferiva il tè.
-Dai, scommetto che in Francia ci divertiremo, tu finisci sempre per attaccare bottone con i francesini!-
-Questo è vero- le concesse Anya –ma poi non li posso frequentare perché mi tocca lavare i calzini dei fantomatici Tokio Hotel! E pensare che centinaia di ragazze vorrebbero stare al mio posto!-
-Appunto-
-Eh già, come sono fortunata!- sospirò, sarcastica, Anya.
-Bè, io li devo truccare, tu li devi vestire, a ciascuno il suo-
Finalmente arrivarono le cioccolate. Natasha afferrò la sua tazza fumante e l’accostò alle labbra, riempendosi le narici dell’aroma di cacao, mentre Anya allontanò la tazza.
-Ma si da il caso, cara la mia Nati, che a te piaccia infinitamente truccare il bel faccino di Bill Kaulitz. Ti assicuro che non è la stessa cosa lavargli i boxer, ma se vuoi fare cambio non mi tiro indietro, visto che ti piace così tanto!- Anya andò a toccare il tasto debole della cugina: Bill.
Era da qualche tempo che l’aveva notato. Prima quel ragazzo così strano e sensibile era poco più di un bambino agli occhi della ragazza, ma qualcosa era cambiato. Il modo in cui Natasha gli si avvicinava, piano, come per paura di infrangere un sogno, il modo in cui si passava la lingua sulle labbra rosse ogni volta che doveva attaccare discorso con il vocalist. Faceva in modo che sembrasse tutto casuale, ma non lo era: le partite alla PlayStation, il posto vicini sull’aereo o sulla macchina, le dita leggere con cui applicava sulle sue palpebre il trucco nero.
Natasha arrossì di colpo, a conferma dei pensieri di Anya.
-Non me lo vuoi dire, ma io so che ti piace- disse la ragazza, osservando le guance colorite dell’altra e frugando nella borsa in cerca di un pacchetto di sigarette.
Lei tentò di cambiare discorso e simulò l’imbarazzo in un tono serio.
-Sei andata a trovare tua madre?- chiese.
Anya chinò il capo, infiammando l’estremità della Camel e portandosela alle labbra. Distolse lo sguardo dagli occhi scuri di Natasha per fissarli alla finestra.
-No, perché avrei dovuto?-
-E’ tua madre e sta morendo- le ricordò l’altra.
-Non serve che me lo dici, non mi interessa. Quella non è mia madre, è solo il suo fantasma- rispose Anya, lasciando uscire il fumo dalle labbra.

*



Alla fine, Bill Kaulitz tu sei anche più bastardo di tuo fratello.
Prometti l’amore, a tutte quante, a tutte quelle che stanno a sentire i tuoi zusammen e i tuoi dich und mich. Che vadano a farsi fottere!
Tom se le porta in camera una notte, massimo due, tu le illudi per un mese e poi, quando sei annoiato dal profumo dei loro capelli, le allontani, le dimentichi, perché non sono abbastanza heilig per te e questo fa cento volte più male.
Anya l’aveva visto il dolore sui volti di quelle ragazze, che la guardavano con odio, perché lei sarebbe rimasta, perché lei era forte.
Lo stesso Bill, in quel momento, stava facendo le valigie nel suo appartamento di Amburgo. Il beautycase era pronto, ma il trolley veniva continuamente riempito e svuotato, riempito e svuotato, all’infinito.
Sapeva già cosa avrebbe indossato per i NJR Awards e non sarebbero stati via che per un paio di giorni, eppure qualcosa lo rendeva agitato, inquieto.
I colori delle sue mille magliette gli andavano alla testa, si sentiva soffocare dal profumo della stanza. Sei solo raffreddato, si disse e quei diamine di antibiotici con cui lo imbottivano gli facevano venire la nausea.
Tom entrò nella stanza, in accappatoio, grondando acqua sulla moquette.
-Hai visto i miei jeans con le toppe chiare?- chiese al gemello, guardando in giro.
-No- rispose Bill, sedendosi sul suo letto.
-Ma tu sei già pronto? Vieni così?- Tom guardò il fratello in tuta da casa con i capelli sulle spalle e il trucco sbavato.
-No, io non vengo-
-Come non vieni? Andiamo da Andreas, non lo vediamo da una settimana!- protestò Tom, avvolgendo i rasta bagnati in un asciugamano.
-Non mi va Tomi, non sto tanto bene- Bill chiuse gli occhi.
-Gli antibiotici?- indagò l’altro e il moro annuì.
-Bè, ma non ti posso mica lasciare solo a casa. Gustav è dai suoi, Georg viene con me e tu?-
-Non fa niente, mi guarderò un film- Bill scrollò le spalle.
Mezz’ora dopo, Tom indossò la felpa e prese le chiavi dell’appartamento, mettendosele nella tasca della felpa gigante e scese in strada, dove lo attendeva Saki con un macchinone scuro per portarlo a casa di Andreas. Il bodyguard sapeva già che il ragazzo, dopo quella serata, non sarebbe stato in grado di guidare.
Le rimpatriate con l’amico d’infanzia erano una buona occasione per ubriacarsi fino a vomitare e combinare cazzate, meglio tenere d’occhio il rasta.
Bill si distese sul letto, davanti alla televisione, con la trapunta di scorta e una lattina di Red Bull tra le mani. Accese l’apparecchio, pronto a sorbirsi uno di quei film sdolcinati in DVD, quando suonò il cellulare sul comodino lì vicino, illuminandosi ad intermittenza e vibrando.
-Pronto?- rispose Bill, sbadigliando.
-Pronto, sono Anya e sto qui fuori, non è che mi apriresti?- la voce della ragazza risuonò alle sue orecchie coperta dal passare delle macchine in strada. Il campanello era rotto da secoli, ma nessuno si decideva ad aggiustarlo.
Bill si alzò dal letto gettando la coperta di lato e corse a piedi nudi fino al citofono.
-Parola d’ordine?- scherzò.
-Fa un freddo cane e se non mi apri ti maledirò fino alla fine dei tuoi giorni!- gli urlò la ragazza, battendo i denti. Bill la immaginava, stretta nel suo cappotto lungo e il viso nascosto nella sciarpa di lana grossa.
Premette il tasto del citofono, aprendo il portone d’entrata e andando all’ingresso ad attendere la ragazza, che, apertesi le porte dell’ascensore, comparve sul pianerottolo e si tolse il berretto, cacciandoselo nella tasca dei jeans delavè.
-Che ci fai qui a quest’ora?- le chiese Bill, facendola entrare.
-Ti ho portato le magliette che ho lavato l’altro giorno e i pantaloni militari- rispose Anya, posando la solita borsa su una sedia insieme al cappotto e sistemandosi il pullover verde scuro scollato con le maniche ampie sulla camicia scura.
-Ah, ecco dov’erano finiti- constatò il ragazzo.
-Ti dispiace se prendo qualcosa da bere? Poi me ne vado- chiese la ragazza, ravvivandosi i capelli lisci.
-No, prego-
Senza bisogno che il ragazzo le facesse scorta, Anya si diresse in cucina e aprì il frigorifero. Bill si appoggiò allo stipite della porta, guardandola versarsi un bicchiere d’acqua.
-Rimani, sto guardando un film- le propose.
-No, non fa niente, grazie lo stesso-
-Come no? Dai, sono da solo, rimani!- la pregò il ragazzo.
-E va bene- acconsentì Anya, rimettendo la bottiglia in frigo –che si guarda?-
-Non lo so, se ti va puoi scegliere-
Bill si diresse verso la camera e si gettò di peso sul letto, infilandosi subito sotto la coperta. Anya prese le custodie dei DVD sul ripiano della televisione e scelse.
-La Fabbrica di Cioccolato?- chiese il ragazzo, alzando un sopracciglio e increspando le labbra in un sorriso vista la scelta della ragazza.
-Johnny Depp è un mito- annuì Anya, inserendo il cd nel lettore e andando a sedersi sul letto affianco a lui.
-Sì, ma è un film da bambini!-
-E chissà perché l’avevi in casa!- rise Anya, sistemando il cuscino dietro la schiena.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** You are my hero ***


6.
You are my hero



Bill si era addormentato da un pezzo, scivolando in un sonno agitato di valige e dolci parlanti. Anya spense la televisione e il lettore DVD. Il ragazzo, girandosi, era pure riuscito a graffiarle il braccio con le unghie lunghe e lei, prima di andarsene, gli sistemò la coperta sulle spalle esili.
Solo pensare che a Bill era proibito persino ammalarsi, le fece venire la nausea per quel mondo in cui entrambi vivevano, ma da cui, per fortuna, lei non si faceva condizionare.
Appena il vocalist tossiva un poco, lo imbottivano di antibiotici su antibiotici, aspirine e, a volte, persino il cortisone.
-Quando il tuo corpo non ce la farà più per tutte le malattie accumulate e mal curate, scoppierai!- si arrabbiava Simone, ogni volta che veniva a sapere dal figlio delle cure somministrategli.
Ma Bill non si lamentava mai. Anya lo doveva riconoscere: per le fan, per non deluderle, per mantenere le promesse ed esserci sempre, avrebbe fatto qualsiasi cosa. Non riusciva proprio a capire questo amore smisurato che il ragazzo provava per loro, erano come i bambini piccoli: sapevano solo urlare e piangere.
Eppure, erano le uniche ragazze che Bill riusciva ad amare veramente, pur tenendole a distanza, sotto una campana di vetro, per paura di contaminarle, ferirle, deluderle. Loro non immaginavano nemmeno chi fosse Bill Kaulitz in realtà e lui, accecato dall’amore, non rivelava i suoi difetti per paura di perderle.
Non voleva credere che loro gli avrebbero perdonato qualsiasi cosa, non sapeva che lo stesso sentimento incondizionato bruciava con uguale ardore nei loro corpi di ragazze normali.
Tom, quella sera, non tornò a casa, decise di fermarsi a dormire da Andreas, visto il grado della sua sbornia e Bill si svegliò solo il mattino seguente sul tardi, la luce invernale che entrava da uno spiraglio delle tende.
Posò gli occhi ambrati sulla stanza, sbattendo le palpebre per cacciare il sonno che lo aveva tormentato quella notte.
Andò in cucina, si scaldò un pezzo di pizza del giorno prima e mangiò quella per colazione, visto che di latte, in casa, non ce n’era.

*



-Che ascolti?-
Tom si riscosse alla domanda di Gustav e sfilò una cuffietta dall’orecchio, abbassando il volume.
-Cosa?-
-Che ascolti?- ripetè il biondino, picchiettandosi un lobo per ribadire il concetto.
-I Metallica- fu la risposta di Tom.
La faccia di Gustav tradì tutto il suo stupore: lasciò cadere la mascella e sgranò gli occhi. Tom Kaulitz non poteva ascoltare metal. No, non era possibile.
Gustav temette per un attimo il peggio: se il rasta non si sparava a tutto volume nelle orecchie Samy Deluxe, il mondo sarebbe finito da lì a pochi attimi.
Tom infilò di nuovo la cuffietta, scrollando le spalle. Era una bella canzone. Nothing Else Matters.
Sorrise pensando all’espressione della ragazza americana se lo avesse saputo. Avrebbe fatto la stessa faccia di Gustav. Il rasta volse lo sguardo al batterista. No, Charlie era decisamente più bella.
Sorrise fra sé e sé, ma in quel mentre fu costretto a spegnere l’I-Pod, perché la voce metallica dell’aereo annunciò che erano arrivati. Allacciarono le cinture di sicurezza e si prepararono all’atterraggio.
Francia, dolce Francia.
Ce l'avevano fatta. La 9ème édition des NRJ Music Awards en direct du Palais des Festivals de Cannes li aspettava, come li aspettava, prima ancora di mettere piede in hotel, un’intervista con un’importante rivista nazionale, che sarebbe iniziata da lì a mezz’ora. Mentre il corteo di bagagli veniva trasportato all’hotel, i quattro ragazzi, David, Anya e Natasha salirono su due enormi macchinoni per recarsi allo studio di registrazione dove si sarebbe svolto l’incontro.
Cinque ombrelli, capitanati dal produttore, arrivarono all’entrata secondaria dell’edificio, irraggiungibile in automobile. Saki ne dovette usare due per riparare la capigliatura di Bill, affiancato dalla truccatrice; Tom si reggeva i pantaloni per non bagnarli strisciandoli per terra, ma, in compenso, non si curava della pioggia che picchiava sul suo volto protetto dalla visiera e Gustav cercava di stare al suo passo, lottando contro il vento che voleva strappargli il berretto.
Georg, invece, prese Anya sottobraccio e la scortò con l’unico ombrello colorato del gruppo.
-Verde, come i tuoi occhi- le fece notare il ragazzo.
-E come i tuoi- sorrise lei.
L’entrata dello studio era calda e confortevole, un vero rifugio per il tempaccio e la pioggia che cadeva violentemente di fuori e la band fu fatta accomodare in un salotto.
In mancanza degli intervistatori, che avevano avuto la faccia tosta di ritardare, Bill e Gustav si gettarono sul divano, il primo preso subito di mira da Natasha, intenzionata a sistemargli l’ombretto nero leggermente colato.
-Anya, non è che mi porteresti dell’acqua?- chiese Tom, girandosi verso la ragazza, che stava dando un’occhiata ad alcuni numeri della rivista per cui i Tokio Hotel avrebbero rilasciato l’intervista. Anya prese dalla sua borsa una delle bottigliette d’acqua che si portava sempre dietro e la lanciò al rasta.
-Ne hai una anche per me?- chiese Georg, buttandosi anche lui sul divano.
-Ne ho una per tutto il mondo- rispose, ironica, Anya. Era inutile dirgli di bere da quella di Tom o di venirsela a prendere, così si alzò dalla sedia su cui si era accomodata e tese la bottiglietta al bassista.
-Che ti sei fatta al braccio?- chiese Bill, sporgendosi verso di lei e guardando la pelle candida della ragazza scoperta dal maglione attraversata da alcuni segni rossi.
-Sei stato tu, ieri sera- rispose lei, accennando alle unghie del vocalist.
La porta del salotto si spalancò di colpo e un uomo sulla quarantina fece entrare nella stanza l’intervistatrice sua collega, bionda e dal passo deciso.
-Scusate per il ritardo- sorrise la donna –Bene, se siete pronti, cominciamo-
L’interprete dei ragazzi si sedette affianco a loro e fece un cenno d’assenso all’intervistatrice. Anya si appollaiò sulla sua sedia, in disparte, riprendendo in mano la rivista che stava sfogliando.
Conosceva già le domande che sarebbero state poste ai ragazzi e le loro risposte. Erano sempre le stesse, da quasi tre anni ormai.
-Vi conoscete da un’eternità. Che cosa stimate gli uni degli altri in particolare?- fu il primo quesito e a rispondere fu subito Bill.
-Quando uno di noi è particolarmente stanco o demotivato, arriva Gustav che ci aiuta con i suoi modi positivi. E’ una cosa che mi piace molto di lui!-
-Bill mi piace perchè è diretto; con lui si può discutere di tutto. Inoltre con lui ci si diverte un sacco- sorrise Georg.
-Tom è sempre il primo a dire la sua quando ci sono delle decisioni importanti da prendere. Trovo questo molto cool- Gustav parlò tranquillamente, senza guardare la donna in faccia.
-Georg non ha nessun lato buono- rise Tom.
Il solito, scosse la testa Anya.
-No dai, è un tipo che ti aiuta molto-
La giornalista aspettò che l’interprete le finisse di tradurre le parole dei ragazzi, poi riprese: -Se vi doveste descrivere a vicenda, cosa direste per prima cosa?-
-Georg è pigro! Di sera è molto motivato e fa i programmi per il giorno dopo. La mattina non fa assolutamente nulla di quello che ha detto, mentre Bill è una persona molto spontanea e molto vivace. Ma solo dopo le quattro del pomeriggio-
Risero tutti.
-Come voi!- aggiunse Gustav- Con voi non si inizia mai niente prima di mezzogiorno! Io sto sempre da solo perchè mi sveglio presto e allora mi metto a guardare la tv o a leggere le mie e-mail per la quarta volta-
-Gustav è uno che si sveglia presto la mattina- spiegò Bill, divertito –E’ il tipico batterista: deciso e diretto. Ha sempre molte energie, ma è anche sempre riposato!-
La donna concentrò la sua attenzione su di lui.
Ecco, la domanda della ragazza, pensò subito Anya, attenta.
-Bill, qual è la tua ragazza ideale?-
Appunto.
-Bè, non ho proprio un tipo ideale, nel senso: l’importante è che sia se stessa, sempre. E che lo sia anche se io sono Bill Kaulitz- ormai la sapeva a memoria quella risposta e provava anche un certo gusto a ripeterla.
-Ma c’è qualche caratteristica che ti colpisce subito? Per esempio, cosa guardi per prima cosa in una ragazza?-
Il culo, pensò Anya, è un Kaulitz, cosa vuoi che guardi? I gemelli sono gemelli, non esistono il diavolo e l’acqua santa quando si hanno gli stessi geni, purtroppo.
-Le mani- rispose Bill –Mi piacciono le ragazze che si prendono cura del proprio corpo-
Il est un menteur, avrebbe voluto urlare Anya alla donna, ma anche questa volta si trattenne.
-E in questi anni, avete mai avuto delle storie?-
-Parecchie- rise Tom.
Gustav non rispose, concentrato a fissarsi la punta delle scarpe. Parlare con gli sconosciuti di sé non gli piaceva. Georg sorrise senza farsi vedere. Se solo avessero saputo quante ragazze aveva, in realtà!
-No, mai- fu la risposta di Bill –Non mi piace l’idea che una ragazza di cui non sono innamorato entri nel mio letto e, attualmente, non sono innamorato. Quando succederà, quella ragazza e solo lei avrà tutto me stesso-
Anya trattenne a stento le risate. Però, una cosa era vera: Bill frequentava solo ragazze che incontrava a qualche party, ragazze dell’hotel in cui alloggiava la band e mai, mai, aveva fatto entrare una di loro in camera sua. Usavano quella di lei.

*



L’intervista, contro ogni previsione, finì in fretta e all’uscita dello studio, la band trovò le fan ad aspettarli, completamente in delirio e bagnate fradice per averli aspettati sotto la pioggia. Fu per miracolo, o grazie a Saki, che riuscirono ad entrare in macchina, dopo essere stati strattonati e fotografati, toccati e ammirati, dopo aver firmato autografi qui e lì. Scarabocchi, più che altro.
Bill si accomodò sui sedili posteriori dell’auto e appoggiò la testa al finestrino. Voleva solo andare all’hotel e farsi una doccia. Le strade di Parigi erano affollate e presto furono bloccati dal traffico che l’acquazzone aveva creato.
-Nati- chiamò, riscuotendosi dai suoi pensieri. Gli era tornata alla mente una ragazza che, proprio lì, a Parigi, lo aveva aiutato a trovare la strada per l’albergo qualche tempo prima, quando ancora non erano così famosi. Aveva i capelli castani e gli occhi verdissimi.
-Sì Bill?- gli rispose la truccatrice.
-Appena arriviamo all’albergo, mi devi accorciare le unghie-

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Burning Up ***


7.
Burning Up



Il display del cellulare si illuminò e comparve il disegnino di una busta da aprire sui pixel dello schermo. Anya afferrò il telefono: un nuovo messaggio. Click.
-Non riesco a dormire. Bill-
La ragazza controllò l’ora: mezzanotte e dieci. Se David avesse saputo che il vocalist stava facendo le ore piccole si sarebbe incazzato come una iena, visto che il mattino dopo, molto presto, avevano ancora un paio di interviste.
Digitò, rapida, alcuni tasti.
-E quindi?-
La risposta arrivò quasi subito: -Voglio una camomilla-
Oddio, pure la “milla” voleva ora!
-Il servizio in camera no, eh?-
Un’altra busta. Click.
-Mi mandano a fanculo, è mezzanotte!-
Anya respirò profondamente, rassegnata. Perché anche lei non aveva il sacrosanto diritto di mandarlo a fanculo? Eh no! Lui chiama e tu corri, Anya!
-Arrivo- gli scrisse in risposta e, sbuffando, si alzò dal letto, infilò le ciabatte e scese con l’ascensore fino al bar, sperando che fosse ancora aperto. Per fortuna che neanche lei riusciva a dormire.
Dieci minuti dopo, risalì al quinto piano con la tazza fumante in mano e percorse il corridoio silenzioso, passando davanti alle camere dei ragazzi. Da quella di Tom sentiva la voce del ragazzo provenire da sotto la porta.
-Adesso parla pure nel sonno!- rise Anya, proseguendo piano, per paura di far cadere anche una sola goccia del liquido chiaro e fumante.
Le stanze di Georg e Gustav erano attaccate. Quella sera i ragazzi si erano ritrovati nella suite del bassista per un torneo di PlayStation e il ragazzo aveva galantemente salutato la sua conquista del giorno sulla porta con un bacio rapido e la promessa di rivedersi al più tardi la sera seguente.
Anya arrivò davanti alla camera di Bill, la più grande e lussuosa, senza dubbio. Bussò un paio di volte, piano, per non svegliare tutto il piano.
Il vocalist comparve sull’uscio.
-Ehi- salutò, facendo entrare la ragazza in vestaglia, con i capelli raccolti in uno chignon morbido da cui scappavano alcune ciocche ribelli. Le prese la tazza dalle mani con un “Grazie”.
-Attento che…-
-Ahi, brucia!- esclamò Bill, che aveva accostato le labbra al boccale e si era scottato la lingua.
Anya rise all’espressione corrucciata del ragazzo, che guardava con rimprovero la tazza, tenendo la lingua fuori.
-Dovevi soffiare- gli ricordò lei, prendendogli la camomilla dalle mani e sbuffando piano sul liquido bollente. Ne assaggiò un sorso.
-Così va meglio, non brucia più-
Bill afferrò la tazza e si sedette cautamente sul letto.
-Però non è giusto, a quest’ora non c’è niente in TV- si lamentò, cambiando discorso.
-Bè, a quest’ora la gente dovrebbe dormire-
-Non è colpa mia se non ci riesco!- esclamò il ragazzo, bevendo un altro po’ di camomilla.
-Capita anche a me- confessò Anya, sedendosi accanto a lui –A volte sono talmente stanca o agitata che non riesco a chiudere occhio-
-E allora che fai?- domandò Bill, voltandosi verso di lei.
-Bè, nel tuo caso ci vorrebbe una legnata in testa! Nel mio, di solito, se non riesco a prendere sonno, me ne resto sveglia, tutto qui- scrollò le spalle la ragazza, lasciandosi cadere a pancia in giù sul materasso.
-Allora, se non dormi, rimani a farmi compagnia- la pregò Bill –Mi annoio-
Aveva posato la tazza sul comodino, prendendo il telecomando in mano e ora la guardava con gli occhi castani perfettamente svegli e illuminati dal desiderio di non rimanere solo.
-Sembri proprio un bambino- rise Anya, accomodandosi da un lato del letto e rubando il telecomando al ragazzo.
-Ma io sono un bambino!- Bill arricciò le labbra in un sorriso e distese le gambe, appoggiando la testa al cuscino.
-Come no, solo quando ti fa comodo!-
-Hai ragione e adesso mi fa decisamente comodo- annuì energicamente lui.
-Stai approfittando della mia gentilezza-
-E tu del mio letto!-
-Senti, principessa, che ci posso fare se a te tocca sempre la suite più bella? Nella mia camera i cuscini sono dei mattoni!- si lamentò la ragazza.
Bill si girò verso di lei, che stava tentando di sistemare il guanciale dietro la schiena per guardare comodamente la televisione, facendo zapping, senza trovare nulla che le piacesse.
-Dormi qui, allora- le propose, fissando lo sguardo allo schermo illuminato.
-Ma neanche per sogno!- rise Anya.
Il letto di Bill era davvero più comodo e più spazioso del suo. La ragazza, seppur contro le sue intenzioni, finì per addormentarsi nel giro di dieci minuti, dopo aver restituito il telecomando a Bill con un “Mi fa male il pollice a forza di cambiare canale!”
Nel sonno, si era girata su un fianco, verso il ragazzo, le gambe raggomitolate, una mano sotto il seno e l’altra abbandonata sul cuscino. Bill spense la televisione con uno sbadiglio e, sollevando un poco il corpo di Anya, tirò la trapunta per poi coprire entrambi. Ma non spense la luce che illuminava soffusamente la stanza e tingeva d’oro le guance della ragazza, le sue ciglia lunghe a contrasto con la pelle chiara, la sua bocca leggermente dischiusa nel sonno.
Se la ricordava con la fronte aggrottata e gli occhi stanchi, la prima volta che l’aveva vista. David aveva spiegato loro che sarebbe stata sì un membro dello staff, ma, siccome aveva solo un paio di anni in più di loro, sarebbe stata ancora di più un’amica. Forse, però, lei non lo voleva, aveva pensato Bill, visto la maniera poco gentile con cui li trattava. Così aveva chiesto spiegazioni a David.
-Perché Anya è sempre così arrabbiata? Le abbiamo fatto qualcosa?- aveva domandato.
-No, lei non è arrabbiata con voi, è arrabbiata con sé stessa, con sua madre- aveva cercato di spiegargli il produttore, che sembrava capire la ragazza meglio di chiunque altro.
-Che è successo alla sua mamma?-
-E’ un’alcolista e Anya è cresciuta da sola. Forse vede voi, che avete le vostre famiglie che vi sostengono sempre e vi amano e si sente un po’ esclusa. Forse, si porta dietro tanto rancore che ancora non può smettere di starne male-
Bill aveva guadato David con gli occhi lucidi. Il modo in cui l’uomo aveva parlato e le immagini di Anya, dei suoi rari sorrisi, del suo sguardo cupo che gli erano venute il mente lo avevano fatto sentire piccolo e strano. A suo confronto, seppur più alto di lei di una buona spanna, si sentiva sempre un po’ indifeso, senza sapere perché: era così bella che guardarla e ora capire che stava male lo spiazzava.
Appena aveva potuto, era corso dalla ragazza, intenta proprio a mettere in ordine la sua camera.
-Ciao Bill- lo aveva salutato, lanciandogli un’occhiata.
Povera tigre in gabbia, aveva pensato lui. Sì, perché Anya era una tigre.
-Mi dispiace per tua mamma- erano le uniche parole che era riuscito a pronunciare.
Anya si era immobilizzata nel piegare la sua maglia grigia a scritte blu e lo aveva interrogato con gli occhi verdi.
-Chi te l’ha detto?- aveva mormorato poi.
-D-David- aveva risposto Bill.
La ragazza aveva ripreso a piegare i vestiti.
-Non sono affari tuoi- era stata la sua riposta.
-Ma…-
-Ho detto che non sono affari tuoi!- aveva esclamato lei, arrabbiata.
Il ragazzo, allora, era uscito in fretta dalla camera ed era corso dal fratello. Tom aveva certe idee strane su Anya, idee che lo vedevano farla sua ragazza a vita. Lei era più grande e, sotto la maglietta, la sporgenza del seno era decisamente più invitante di quella di altre ragazze che il rasta aveva frequentato dall’uscita del loro primo singolo. Aveva fatto i conti e voleva farsene almeno una quindicina.
Così quando saprà che ho così tanta esperienza, non penserà più che sono un ragazzino e si innamorerà di me, credeva. Queste erano fantasie che anche Bill, a volte, si trovava a condividere.
Tom ascoltò il racconto del gemello mordendosi il labbro inferiore e non seppe che dirgli.
-Sono donne, fratellino- fu la sua sentenza –Tutte mezze matte!-
Da quel giorno, l’idea che doveva dimostrare di essere grande avendo tante ragazze catturò anche Bill, ma in queste finiva sempre per idealizzare Anya. Sempre. Avevano i capelli castani oppure gli occhi verdi come lei, oppure il loro comportamento gli ricordava il suo.
E si disprezzava. Disprezzava lei perché alla fine si era confidata con Georg e non con lui, perché Georg era più grande, certe cose le capiva, le aveva sentito dire. Invece di ringraziarla, aveva finito per disprezzare anche quello che faceva per loro perché lui, ne era sicuro, non si sarebbe mai abbassato a fare una cosa del genere. Lui era una star, perché lei non voleva capirlo e continuava a trattarlo come un bambino? Perché non vedeva nient’altro in lui che lo sguardo dell’infanzia anche quando andava a braccetto con una sua omonima che lo portava nella sua camera?
Bill continuò a guardare il viso di Anya a lungo, disteso accanto a lei, così vicino da rubarle il respiro, i loro toraci che si alzavano e abbassavano contemporaneamente.
Anche quella sera gli aveva detto che si comportava da bambino. Ma i bambini non possono amare?
Bill si chinò sul suo viso, accarezzandole i capelli sulla fronte, spostandoli delicatamente. Pianissimo, le posò un bacio sulle labbra dischiuse, pianissimo le rubò quel contatto e pianissimo si coricò di nuovo senza staccare gli occhi dalla sua figura. Poi si tirò la coperta fino al mento e si voltò dall’altra parte, spegnendo la lampada.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** She burns my horizons ***


8.
She burns my horizons



Secondo i suoi calcoli, se lì in Francia era notte, in America doveva essere giorno. C’era un margine di dubbio, ma a quell’ora non poteva chiedere a nessuno. Era stato uno stupido a non pensarci prima. A parte che quell’idea gli era venuta proprio nel mentre in cui toccava il materasso del suo letto con la schiena.
Si era detto, perché no?
Era andato a cercare sulla rubrica del telefono il nome con cui aveva salvato il numero copiato dal post-it sulla parete e aveva premuto il tasto di chiamata. Non ricordava più che quello non era necessariamente il suo numero, ma magari stava chiamando il negozio di pizze vicino alla lavanderia. Si sarebbero di certo preoccupati di un’ordinazione dall’altra parte dell’oceano.
La linea era occupata. Riprovò: ora squillava libero.
-Hallo?- rispose una voce femminile, anche se non quella che lui desiderava. Fu tentato per un attimo di chiudere la chiamata, ma doveva tentare.
-Charlie?-
-Who?- domandò la voce dall’altro capo del telefono.
-I want to talk with Charlie… Lotte!- pronunciò quel nome ritornatogli alla mente come se fosse un’ancòra di salvezza.
-Ah, Lotte! Yes, but who are you?-
-I’m Tom-
-Oh, I know! Sei il biondino tedesco!- rispose la ragazza, nella sua lingua.
Tom annuì, sorridendo, ma, ricordatosi che lei non poteva vederlo, esclamò, sollevato : -Sì, sono io!- per poi domandare –Ma tu chi sei?-
-La migliore amica di Lotte, Mimi. Aspetta solo un secondo e te la passo, sta dormendo sul divano-
-No, non svegliarla!- cercò di fermarla Tom, precipitosamente.
-Tranquillo, tanto si deve alzare comunque. E’ solo che ieri sera siamo andate ad una festa e si è assopita sul divano. Lotte!- chiamò Mimi.
Tom sentì i mugugni della ragazza che borbottava qualcosa all’amica. Poi, il telefono passò a lei.
-Ciao- la salutò Tom, sentendo il suo respiro dall’altra parte della linea.
-Adesso tu mi dici come hai fatto ad avere questo numero o io, bodyguard o non bodyguard, vengo lì, ovunque tu sia e ti spezzo in due!- rispose Charlie, serissima e perfettamente sveglia.
Tokio Hotel. Quel nome le era ronzato nella testa per una settimana dopo l’incontro con il rasta, fino a quando non si era decisa: aveva preso qualche dollaro trovato per caso in una tasca dei suoi jeans, era andata nel primo Internet Point che aveva trovato e aveva digitato quella parola sulla barra lampeggiante di Google. Circa 17.000.000 risultati. Quel numero spropositato di siti, immagini, interviste l'aveva lasciata sgomenta e vedere la foto di Tom accostata a quella degli altri membri del gruppo le aveva scombussolato lo stomaco. Erano così famosi e lei non ne sapeva niente. Niente.
Erano dei ragazzini, ecco tutto, ma scoprire che lui, un tipo così normale ai suoi occhi, era in realtà un chitarrista famoso, era stato uno shock e ancora non capiva bene il perché. Aveva ascoltato una loro canzone e il suo giudizio era stato irremovibile: una vera schifezza.
-Hai scoperto chi sono?- chiese Tom, un po’ deluso. Che stupido era stato a dirle il nome della sua band, se non l’avesse fatto avrebbe potuto continuare a fare finta di niente. Avrebbe potuto continuare a giocare e scoprire se il suo fascino veniva dal suo nome o da ciò che in realtà era.
-Ma sei scemo o cosa? Vuoi che non l’abbia scoperto? Chi ti ha dato questo numero? Mi spii, mi segui o cosa?- lo aggredì Charlie, parlando a raffica, furiosa.
-Guarda che non ti ho mica seguita! Non ho tempo per queste cose- si difese Tom.
-Adesso non fare tanto lo sbruffone e rispondi alla mia domanda!-
-Ho copiato il numero da uno dei post-it alle pareti di casa tua. Certo che sei proprio un bel tipo, non ti ricordi neanche il numero della tua migliore amica!- rise il ragazzo.
Le guance di Charlie andarono a fuoco e ringraziò il cielo che lui non la potesse vedere.
-Non sono affaracci tuoi!- gli sbattè il telefono in faccia. Tutto ciò che Tom riuscì a fare a quella reazione fu ridere, ridere fino a farsi venire male agli addominali. Adorava quella ragazza.

*



Per andare da Parigi a Cannes dovettero sorbirsi un viaggio in aereo molto più lungo che quello dalla Germania alla Francia.
-Ridimmi per la centesima volta come mai ci siamo fermati a Parigi- chiese, scontroso, Tom.
David sbuffò: era incredibile l’effetto che l’aereo aveva sul chitarrista e cominciava a desiderare ardentemente di buttarlo giù dal finestrino. Tanto, tolti i vestiti enormi che celavano le sue ossicina, ci sarebbe passato comodamente.
-Per le interviste, Tom, le interviste! Ricordi?- rispose, sarcastico. Questa volta fu il ragazzo a sbuffare.
Oltre a soffrire di vertigini, si stava annoiando e non sapeva con chi parlare: suo fratello dormiva, Anya, Natasha e Gustav erano lontani dal posto in cui era seduto e solo l’idea di alzarsi lo faceva sudare freddo. E se proprio nell’istante in cui si fosse sollevato dal posto, l’aereo avesse preso ad oscillare, una delle porte si fosse aperta e lui fosse precipitato giù? Rabbrividì al pensiero.
Con David non poteva parlare, era troppo occupato a far niente ed agitarsi per quella sera e Georg era intento ad osservare il cielo dal finestrino.
-Bello il paesaggio?- gli tirò una gomitata Tom.
-Umh-umh- fu l’unica risposta che ricevette dal ragazzo.
In realtà, Georg vedeva poco o niente dello spettacolo di nubi bianche e soffici offertogli dall’oblò di vetro. Stava pensando.

-Anya ha mai avuto un ragazzo?-
Natasha era davanti a lui, le mani sui fianchi, concentrata a rimirare da lontano il profilo di Bill immortalato da un fotografo. Il ragazzo continuava a cambiare posizione contro lo sfondo bianco e lei ne seguiva ogni piccola mossa: un sopracciglio alzato, un piede minimamente spostato, un ciuffo fuori posto che, se non gliel’avessero impedito, sarebbe corsa a sistemare.
-Cosa?- si riscosse dai suoi pensieri.
-Anya ha mai avuto un ragazzo?- domandò di nuovo Georg, facendo finta di concentrarsi sulla punta delle sue Adidas.
-Bè, sì. Quando vivevamo insieme, ne aveva due o tre- ricordò Natasha, studiando il bassista –Perché?-
-Sei la persona che la conosce meglio e io volevo sapere, bè… se pensi che io possa piacergli-
Georg alzò lo sguardò e lo concentrò negli occhi penetranti e scuri della ragazza, in attesa di una risposta.
-Non lo so, Georg, ma so che ti vuole bene-
-Allora non ho speranze?-sospirò lui.
-No, io credo tu abbia molte più speranze di chiunque altro. Pensaci, con chi si è confidata quando ha avuto bisogno di aiuto?- chiese precipitosamente Natasha. Se c’era una cosa che le veniva bene era manipolare le situazioni per trarne un certo vantaggio e non si sarebbe lasciata scappare quell’occasione, ora che aveva capito come sfruttarla.
-Con me- rispose Georg, sorridendo al pensiero.
-Bene, allora ti dico io cosa devi fare questa sera con lei- gli sorrise a sua volta la ragazza –Però, in cambio, avrei bisogno un favore-
Gli occhi neri di Natasha si posarono sulla figura magra del vocalist che, finito il photoshoot, cedeva il posto al fratello e si andava a sedere accanto a Gustav e Anya.
-Tutto quello che vuoi- concesse Georg. Anche lui doveva sfruttare al massimo la situazione.


*



Bill lisciò le pieghe del suo giacchino di pelle dorata e Gustav indossò il cappellino nero, sistemando la visiera. Quella sera, Georg e Tom sembravano essersi infilati le felpe della nonna, invece che dei normali abiti, ma nessuno sembrò farci caso e loro due adoravano quelle maglie.
Anya li spiava dal backstage: dopo aver fatto la loro bella figura sul tappeto rosso ed essere stati accecati letteralmente dai flash, tanto che, appena recuperata la vista, vedevano solo pallini colorati davanti a loro, i ragazzi, accompagnati da David, impeccabile nella sua tenuta informale, erano stati fatti accomodare tra il pubblico, discretamente protetti dai bodyguard ai lati della passerella.
Sapevano che poco dopo sarebbe toccato a loro ricevere il premio. Groupe International de l'année. Era questione di minuti.
Sul palco, i due presentatori lanciarono il video che mostrava al pubblico, per la millesima volta, la lista dei candidati a quel premio. Anya volse il suo sguardo a loro e le venne da ridere pensando che i quattro tedeschi non capivano una sola parola di francese. Avevano insistito per farla sedere vicino a loro e farsi tradurre qualcosa, ma i posti erano già stati fissati e David sosteneva che più la ragazza stava lontana dalle telecamere, meglio era.
Uno dei conduttori, notò lei, era un bel personaggio: non altissimo, ma ben piantato, elegante nel suo completo non troppo severo ed il pizzetto che dava un tocco da ribelle gentiluomo al viso. L’altro era ridicolo: gay o pessimo attore, ostentava una minigonna vertiginosa con leggins argentati, una pochette luccicante e capelli biondi striati di rosa. Non stava a lei giudicare come una persona decidesse di condurre la sua vita sessuale, anzi, aveva molti amici gay sparsi per il mondo o suoi ex-compagni di studi, ma quella, più che altro, gli sembrava una pagliacciata.
Il presentatore in abito scuro mostrò la busta e un paio di ragazzine, già intuendo chi sarebbe stato il vincitore, si alzarono in ginocchio sulle poltrone scrutando il pubblico alla ricerca della band tedesca. Bill era già in procinto di alzarsi.
Si alzarono le urla.
-Je vais ouvrir- annunciò il ragazzo, sventolando la busta. Anya chiuse gli occhi per quella che le parve una frazione di secondo, sentendo l’altro conduttore in minigonna iniziare ad urlare e agitarsi come una fan in calore.
-Tokio Hotel!- fu urlato e lei riaprì gli occhi. I quattro ragazzi, dopo essersi abbracciati, con il sorriso stampato in faccia, si alzarono, agitando le mani verso le ragazze che si agitavano per loro e si diressero verso il palcoscenico.
E quello urla ancora!, pensò Anya, alludendo al presentatore.
La prima cosa che Bill fece, una volta salito sul palco, fu acchiappare il premio ed esibirsi in una delle sue facce sorridenti tanto amate. Mentre il conduttore continuava a parlare, i quattro ragazzi lo ignorarono e continuarono a salutare il pubblico, ringraziando.
Poi, ecco il momento fatidico: il discorso.
Appena Anya vide Bill schiarirsi la voce, infilare l’award tra le gambe e tirare fuori da una tasca il bigliettino su cui si era appuntato le frasi, scoppiò a ridere e fu costretta ad allontanarsi dal dietro le quinte per non farsi sentire.
-Cette award…- iniziò Bill.
-Vuoi un bicchiere d’acqua?- chiese Natasha, preoccupata, all’amica, che continuava a ridere e rischiava di soffocarsi. Il vocalist aveva provato diecimila volte quel discorso sotto la supervisione di Anya, che cercava inutilmente di addolcirgli la pronuncia e sistemargli gli accenti, ma alla fine lo aveva dovuto dichiarare un “caso perso”. Eppure, Bill si era impegnato tanto e ora continuava sicuro con le sue parole mangiate, gesticolando e sorridendo incerto di tanto in tanto, ma rassicurato dalle urla di gioia delle fan.
Almeno loro capiscono, pensava.
Terminò con uno strafalcione e un merci beaucoup, accolto da salti di gioia e sventolii di emozione.
Anya si costrinse a smettere di ridere appena vide che i ragazzi la stavano raggiungendo nel backstage, dove si sarebbero preparati all’esibizione sul palco. Sorridevano, raggianti. Bill, in particolare, sembrava un piccolo sole.
Anche Anya si sentiva felice. Nonostante tutto, quelli erano i suoi ragazzi; suonavano canzonette, ma nessuno lo faceva come loro. Emanavano calore, riscaldavano. Doveva decisamente proporli a qualche società come energia alternativa.
Dai, ammettilo che li adori, le diceva ogni tanto la sua coscienza, dandole una gomitatina.
Andò loro incontro insieme a David, sbucato fuori dal nulla, pronta a rubare a Bill l’award, sapendo già di farlo indispettire e ad abbracciare Gustav, che sembrava completamente perduto, eccezionalmente muto, tanta era l’emozione.
Ma Georg glielo impedì. Fu il primo a raggiungerla e non si limitò ad abbracciarla: la sollevò per la vita, smuovendo la gonna del suo abito lilla, euforico e fece una cosa che nessuno poteva aspettarsi. La baciò.
Posò le sue labbra su quelle della ragazza, che non riuscì a ribellarsi, ma spalancò gli occhi, li tenne aperti per quei pochi secondi. Non riusciva a pensare, non riusciva a fermarlo, stupita, shockata. Quasi terrorizzata.
Il gesto del bassista passò inosservato nella confusione di abbracci generali e pacche amichevoli sulla schiena. Solo due paia di occhi notarono i due ragazzi: un volto impallidì, un altro arricciò le labbra in un sorriso di vittoria molto più importante del Groupe International de l'année.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Wo bist du? ***


9.
Wo bist du?



Bill si fermò davanti alla porta in noce, una mano alzata nel gesto di bussare. La lasciò cadere sul fianco. Il pomello della porta brillava alla luce calda del corridoio e gli sarebbe bastato girarlo, entrare e chiederle scusa.
Respirò profondamente e alzò di nuovo la mano, ma questa volta picchiò davvero sul legno chiaro. Una, due volte.

Stava crollando dal sonno ed era completamente ubriaco. Se solo fosse riuscito a raggiungere il letto. Se solo ci fosse riuscito, ci si sarebbe buttato sopra e sarebbe morto. Aveva la gola arsa, voleva bere ancora e i raggi della abat-jour gli penetravano il cervello.
Troppa vodka all’after-show.
-Stai qui, io arrivo subito- Tom mosse una mano davanti allo sguardo annebbiato del fratello ed uscì dalla camera, probabilmente per congedare la ragazza che aveva rimorchiato alla festa. Ma quella sera non aveva tempo per lei.
Bill non era l’unico ad essere ridotto in quelle condizioni: Saki aveva dovuto caricarsi Georg in spalla e Gustav era salito in macchina barcollando. Solo il chitarrista sembrava immune all’alcool.
Cazzo, che mal di testa. Cazzo, che voglia di spaccare tutto. Sì, spaccare tutto.
Tirò un calcio al minibar ed un altro ancora, diede una manata alla lampada facendola cadere per terra, ma la moquette attutì l’impatto. Fissandola rotolare sul pavimento, si sentì avvampare dentro senza un motivo preciso. Una folata di caldo gli invase le guance per essere sostituita poi dal gelo, che gli strinse l’anima in una morsa dolorosa.
Raggiunse finalmente il letto e ci si lasciò cadere. Nella lucida follia dell’alcool, un pensiero saettò nella sua mente annebbiata.
Ora lo capiva. Le idee erano chiare in una maniera impressionante.
Lo ammise, ubriaco.
Ossessione, desiderio, rabbia, frustrazione. Pazzia.
Cavò il cellulare dalla tasca e storse per un attimo gli occhi alla luce del display, proprio nel mentre in cui suo fratello rientrava in camera. Bill digitò lentamente alcuni tasti.
-Che stai facendo?- gli chiese Tom, buttando la sua felpa su una poltrona. Il fratello gli rispose con un grugnito e tirò su col naso.
-Eh?- insistette il rasta, avvicinandosi.
-Scrivo ad Anya che è una stronza- bisbigliò Bill, cancellando per la terza volta consecutiva le parole senza senso che stava scrivendo –Perché Georg l’ha baciata?-
Si volse verso il volto del fratello, guardandolo smarrito, gli occhi non più assenti, ma fissi nelle iridi del ragazzo, che lo interrogò con lo sguardo. Lui non aveva viso, ma il moro gli aveva raccontato tutto subito dopo il primo bicchiere di vodka.
-Lo voglio anche io un bacio- disse Bill, guardando le labbra del fratello –Anya, lo voglio anche io un bacio-
Il rasta lo allontanò ridendo.
-Io non sono lei, scemo- lo prese in giro, ma Bill tornò alla carica.
-Rimani qui stanotte-
-Che cos’hai tra le gambe, fratellino?- gli domandò Tom, facendolo stendere sul letto.
-Il cazzo- mormorò Bill, con gli occhi che gli si stavano chiudendo e una profonda sensazione di nausea.
-Bene, allora con te non ci dormo!-
-Mmmh- mormorò Bill, girandosi su un fianco –Tomi, mi viene da vomitare-
Il fratello gli sistemò la coperta. Era da tempo che non pensava più ad Anya come ci pensava una volta, come quando aveva iniziato a frequentare le sue ammiratrici per segnarle su una lista da far vedere un giorno all’amica e convincerla che lui era un vero Sex-Gott. Si faceva pena da solo. Ma era solo un bambino allora, era cambiato. Invece suo fratello no; lui era ancora attaccato a quei ricordi con una forza simile alla violenza, alla dipendenza, erano la sua aria, la sua ancòra.
Lo sapeva: Bill lo credeva cieco, sordo, muto, ma alcune cose le capiva benissimo anche senza bisogno di quei sensi. Essere semplicemente suo fratello era sufficiente per condividere gli stessi sentimenti.
Cosa vedeva Bill in Anya? Tante, tante cose. Era un ricordo, un qualcosa a cui anelava per continuare a sentirsi vivo, per non perdere di vista ciò che era stato, ciò che lei simboleggiava per lui: un viaggio, dal ragazzino che si era perso nella nebbia dei ricordi, all’uomo che stava cercando di diventare. Lei ne era testimone e con i suoi sguardi lasciava impronte ben visibili sulla sua pelle chiara. Lui non sapeva più chi era. Solo ricordarla china a piegare la sua maglia grigia glielo ricordava.
Tom prese il cellulare dalla mano di Bill e controllò i messaggi: le aveva davvero scritto che era una stronza. Scosse il capo, sorridendo tra sé. Accarezzò la testa del fratello e poi si coricò di fianco a lui. Di certo, non poteva lasciarlo solo in quelle condizioni.


-Avanti, è aperto!- gli rispose la voce di Anya.
Bill girò il pomello, freddo nella sua mano. Entrò.
-Chi è?- chiese di nuovo la ragazza. La voce proveniva dal bagno.
-S-sono Bill- balbettò in risposta il ragazzo, diretto verso la voce. Segui la sua voce, seguila.
Questa volta non bussò neanche, il bisogno impellente di vederla e assicurarsi di essere sveglio era più forte di qualunque altra cosa.
Aprì di scatto la porta. Anya era davanti a lui, i capelli appena lavati sulla schiena. Ricci. Non aveva mia notato che i suoi capelli castani, così dorati e lucidi al sole, si curvavano in riccioli ribelli se lei non li lisciava. Non lo aveva mia saputo. Vederli, sciolti sulle sue spalle. Vederli.
Trattenne il fiato quando si rese conto che la ragazza era in mutande e canottiera, una gamba appoggiata al lavandino mentre si massaggiava la crema sulle cosce. Fissò lo sguardo sulla sua pelle umida. Doveva essersi appena fatta la doccia perchè c’era afa nella stanza da bagno, i vetri erano appannati; la canottiera aderiva al suo corpo, accarezzandole il seno, scivolando sui suoi capezzoli scuri.
Bill rimase immobile, incantato, paralizzato. Anya alzò un sopracciglio e rise.
-Ti vergogni? Eppure, mi sembrava di ricordare che tu mi avessi già vista ben più nuda di così- gli disse.
Bill scosse la testa, arrossendo ed uscì precipitosamente dal bagno, sbattendo la porta.
-Scusa- le urlò poi, appoggiando la testa alla parete della stanza.
Se lo ricordava. Bill arrossì ancora di più e si dette per la centesima volta in ventiquattro ore dello stupido. Non gli tornava alla mente come, ma era successo. Erano più piccoli, questo lo ricordava e lui aveva sorpreso suo fratello Tom a sbirciare dalla serratura della camera di Anya; il biondino sembrava tutto intento a trattenere il respiro per non farsi sentire e si mordeva le labbra, nascondendo un sorriso. Bill si era avvicinato piano a lui.
-Che succede?- gli aveva chiesto, bisbigliando.
-Guarda un po’- Tom aveva preso il fratello per le spalle e lo aveva posizionato davanti alla serratura. Bill aveva sgranato gi occhi e si era portato una mano alla bocca.
-Bella, vero?- aveva sussurrato Tom, al suo orecchio –E’ per questo che un giorno sarà mia-
Bill guardò il fratello sorridere malizioso e poi tornò a concentrarsi sulla visione dall’altro lato della porta. Anya aveva solo un asciugamano legato alla vita ed era china a cercare qualcosa in uno dei cassetti del comodino. Si infilò poi il reggiseno, allacciandolo dietro le spalle.
Tom spinse il fratello di lato e, con le teste vicine, continuarono a spiarla mentre lasciava cadere l’asciugamano per terra ed indossava gli slip neri.
-E se ci scopre?- mormorò Bill, trattenendo il respiro. Il fratello gli tappò la bocca con la mano, notando che la ragazza si voltava verso di loro e sorrideva.
-Perché? Credete che non vi abbia già scoperto?- chiese Anya, rivolta ai due fratelli al di là della porta.
Tom e Bill si guardarono e l’istinto suggerì loro che era ora di darsela a gambe. Anya rise sentendo i due fratelli correre per il corridoio e spintonarsi dandosi a vicenda dei cretini.
E ora rise alla voce imbarazzata di Bill.
-Tranquillo- gli disse –Perché sei venuto a cercarmi?-
-Perché volevo scusarmi per quel messaggio, ieri sera ero ubriaco e…- iniziò a spiegare il ragazzo. Era strano parlare con il muro.
-Non fa niente, l’avevo capito. A quei party finite tutti per ubriacarvi. E’ per questo che preferisco non fermarmi mai con voi- lo interrupe Anya.
Quella era solo una scusa fra tante e fra le tante, la scorsa sera, c'era stata quella di evitare Georg. Era tornata all'hotel subito dopo il loro palyback di 1000 Meere, da sola, perchè Natasha non aveva voluto venire via. Si era coricata e aveva subito chiuso gli occhi, non aveva voglia di pensare al gesto di Georg, non era abbastanza lucida per farlo. Ma, sicuramente, era stata l'euforia del momento a spingerlo a baciarla. Ci avrebbe ragionato in un secondo momento.
Sì, era meglio così.


PS. Volevo precisare alcune cose che, ne sono consapevole, avrei dovuto scrivere all'inizio della storia, ma me ne sono dimenticata XD

Il titolo.

Letteralmente, il titolo significa bruciando sopra e la cosa, di per sé, non avrebbe alcun senso. Molti capitoli di questa storia hanno titoli ispirati alla parola inglese burn, bruciare. She burns my horizons è uno dei tanti e vuol dire lei brucia i miei orizzonti. Tutto ciò è spiegato da due fatti: il primo è che colonna sonora di questa fan fiction per me scrittrice è Sunburn, dei Muse e ha ispirato molti capitoli con il suo assolo di chitarra che adoro. Quindi, ho omaggiato molto il testo richiamandolo nei titoli dei capitoli. In secondo luogo, l’unico collegamento che posso fare con i titolo, ispiratomi da una notte insonne, e la storia è che i sentimenti bruciano. E tutti ci siamo più volte scottati con emozioni più grandi di noi.

I titoli dei capitoli.

Spesso, i titoli dei capitoli richiamano a delle canzoni, soprattutto (lo vedrete più avanti) a canzoni dei Rammstein. Chi sono i Rammstein? 

I Rammstein sono un gruppo industrial metal tedesco formatosi a Berlino nel 1994. La loro musica è un ibrido tra metal, gothic rock ed elettronica, e vengono spesso inseriti nella scena Neue Deutsche Härte insieme a gruppi quali OOMPH! e Die Krupps. Il tastierista Christian "Doctor Flake" Lorenz ha descritto in un'intervista il genere musicale dei Rammstein come Tanz Metal, proprio a sottolineare il connubio tra sonorità metal ed elettroniche. Fino ad oggi hanno venduto circa 12 milioni di dischi in tutto il mondo. (Danke Wikipedia)

Ciò perchè la colonna sonora portante di questa storia vede loro come protagonisti e verranno citati più volte. Capisco che questo genere di musica può non piacere a tutti, ma io è da tempo che li ascolto e mi sembrava giusto spiegarlo. Per ulteriore chiarezza, ogni volta che inserirò come titolo del capitolo una loro canzone, lo dirò e ve ne fornirò il significato.

Per esempio questo capitolo ha come titolo Wo bist du?, appunto una loro canzone. In italiano vuol dire Dove sei?

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Wo bist du, again? ***


10.
Wo bist du, again?



-Dove stiamo andando, di preciso?-
-Galeries LaFayette-
-Che?-
-40, boulevard Haussmann 75009 Paris - recitò Anya, beandosi della faccia idota di Tom che la stava guardando come se parlasse la lingua dei serpenti.
-Che tradotto per i comuni mortali significa?- chiese il ragazzo. Anya sbuffò.
-Significa shopping- rispose.
-Shopping?- li raggiunse la voce stupita di Bill, che fino a cinque minuti prima era intento a guardare il suo cellulare, preso dalla lettura di un messaggio, ma alla parola magica alzò di scatto la criniera leonina e guardò interrogativo e ansioso David, seduto sul sedile anteriore insieme ad Anya.
-Sì Bill, shopping gratuito- confermò l’uomo, annuendo.
Il famosissimo department store parigino avrebbe aperto le sue porte ai ragazzi per un intero pomeriggio, impedendo l’ingresso agli altri visitatori. Sette, vastissimi piani, tutti per loro.
Bill si portò le mani alla bocca, strabuzzando gli occhi dalla felicità: se c’era una cosa che adorava era comprare abiti e se c’era una cosa che adorava ancora di più era farlo gratis.
-Speriamo ci siano delle belle cose- disse Gustav, continuando a guardare fuori dal finestrino della gigantesca autovettura su cui stavano viaggiando.
-Ci puoi scommettere- lo rassicurò Anya, girandosi verso di lui e sorridendo raggiante. Era di buon umore quel pomeriggio: dopo la visita inaspettata di Bill quel mattino e l’episodio della sera precedente con Georg, aveva deciso che prima avesse fatto passare del tempo da quel bacio senza contatti con il ragazzo, meglio sarebbe stato. Non era sicura dei sentimenti del bassista e sperava che fosse solo stato un bacio dato per l’entusiasmo, ma in ogni caso avrebbe messo le mani avanti e fatto capire che a lei non interessava. Era sì il più grande dei quattro, ma lei continuava comunque a sentirsi la loro sorella maggiore, se non una sostituta delle loro mamme.
Il sorriso le morì sulle labbra non appena incontrò lo sguardo di Natasha, seduta accanto al batterista. La ragazza sembrava avere un diavolo per capello e la fissava torva.
-Tutto bene Nati?- si azzardò a chiedere Anya, guardandola interrogativa.
-Benissimo- fu la risposta di lei, che distolse lo sguardo dagli occhi verdi della cugina per guardare il lento scorrere della macchine sulla strada.
E’ incazzata perché noi non possiamo fare shopping, pensò Anya, risistemandosi sul sedile. Di solito, le commesse che servivano i ragazzi proponevano anche a loro di provare qualcosa, ma lo facevano per cortesia ed Anya e Natasha erano sempre tentate di comprare tutto quello che vedevano, ma non avevano il coraggio di chiedere il permesso a David che, preso anche lui dallo shopping, si perdeva fra camerini e corridoi.
-Ah, prima che mi dimentichi!- esclamò ad un tratto la ragazza –Devo raccontarvi il sogno che ho fatto questa notte!-
-Oh no!- Tom si prese la testa fra le mani e si tappò le orecchie –Ma quando ti farai passare la mania di raccontarci tutto quello che ti capita di notte?-
-Sta zitto, che c’eri anche tu!- lo ammonì Anya e il ragazzo alzò subito il volto, curioso.
-Davvero?-
-Sì-
-E allora raccontalo!-
Anya si girò di nuovo verso i sedili anteriori, sorridendo. I suoi non erano mai sogni normali e, sin dalla prima notte che aveva passato con i ragazzi, aveva preso l’abitudine di raccontar loro cosa aveva sognato al mattino. Ogni volta, nel sonno, prendevano vita storie diverse, anche a più episodi, eventi strani e complicati che poco a poco erano diventati il risveglio migliore per la band, che a colazione ascoltava divertita la favola di Anya. Quando iniziava a raccontare, la ragazza si trasformava, perdendo il pelo da tigre e assumendo un’aria dolce e pacata, da chioccia davanti al camino. I suoi sogni erano belli perché lì poteva capitare qualsiasi cosa e a lei piaceva farlo capitare; riuniti ad ascoltarla, Bill, Georg, Tom e Gustav si sentivano qualcosa come una famiglia intorno a quel fuoco vivo che era Anya. Questa trasformazione, che durava un paio di minuti, rendeva piacevoli persino i risvegli più faticosi, anche perché, dopo aver raccontato il sogno, Anya rialzava subito le difensive e li svegliava completamente con le sue urla da gatta su quale camera avesse da riordinare quel giorno.
-Allora- iniziò la ragazza –adesso non ridete, ma ero sposata con Tom-
Inutile chieder loro di rimanere seri perché tutti scoppiarono a ridere a sentire il nome del chitarrista e ad immaginarlo vestito in abito da cerimonia che conduceva Anya all’altare. Risero tutti tranne lui, che cercò di zittire gli amici: per una volta che aveva il ruolo di protagonista e, per il momento, sembrava non combinare cazzate, voleva sentire il resto del sogno e crogiolarsi nella sua parte di marito.
-E, guarda caso, mi toccava sempre lavare le sue mutande. Era estate e faceva caldissimo, ma Tom mi costringeva comunque ad andare a stendere i panni in un abitone ottocentesco con tanto di cuffia inamidata. E perché? Perché era geloso del fatto che Gustav volesse avermi tutta per sé- continuò Anya, girandosi completamente verso i ragazzi sui sedili anteriori.
-Oddio!- esclamò David, asciugandosi le lacrime dagli occhi.
-E chi ha vinto?- chiese Bill, ridendo ancora nell'immaginarsi il fratello e l’amico in un duello mortale stile western per Anya.
-Nessuno, li ho piantati tutti e due! Non capisco perché, ma nei miei sogni finisco sempre per essere sposata con qualcuno!-
-Bè, credo sia perché qui tutti ti vogliamo sposare!- esclamò Georg, fissando il profilo sorridente della ragazza, che arrossì e si girò di nuovo davanti, senza rispondere. Si affacciò al finestrino per simulare l’imbarazzo anche con David e guardò nello specchietto retrovisore da cui spiccavano gli occhi di Natasha, sempre più furiosi. Con lei.

*



Li fecero scendere davanti all’entrata del negozio, la porta venne aperta da una commessa che, con un sorriso radioso, li fece accomodare. Appena varcata la soglia, contemporaneamente, tutti alzarono gli occhi: si trovavano al centro del negozio, sotto la cupola principale e sopra di loro, in cerchi concentrici, si estendevano i piani del department store. Gigantesco. Colorato. Pazzamente perfetto.
-Sbizzarritevi- ordinò David ai quattro ragazzi, che stavano attendendo suoi ordini. Ci fu un fuggi fuggi generale: Bill corse al negozio di gioielleria ed accessori, dove due commesse eleganti lo accolsero, mostrandogli gli ultimi modelli di orologi; Georg e Tom cercarono i negozi sportivi ed il chitarrista si impossessò di tutte le inservienti che trovò nel negozio per farsi mostrare quanti più capellini avevano. Seduto su una poltrona comoda con tante belle ragazze che gli svolazzavano intorno mostrandogli jeans, magliette giganti e fasce, si sentiva in paradiso. Gustav prese a gironzolare in giro, guardando le vetrine delle varie boutique e ammirando tutti i vestiti e le borse che avrebbe potuto comprare per sua madre, fanatica dell’ultima moda. Lo sguardo di Anya si concentrò sull’enorme insegna di un emporio di abiti eleganti, ma la vista di Natasha che le tagliava la strada per raggiungere Bill la fermò. Prese la cugina per un braccio e, senza sentire scuse, la trascinò con sé in un negozio di intimo femminile, l’unico dove i quattro ragazzi non sarebbero di certo entrati. 
Dopo aver fatto cenno alle commesse che davano solo un’occhiata intorno, Anya fronteggiò Natasha, le mani sui fianchi e lo sguardo indagatore.
-Si può sapere che ti succede oggi? E’ tutta mattina che mi guardi in cagnesco, ti ho forse fatto qualcosa?- la interrogò. L’altra distolse lo sguardo dal viso della cugina.
-Niente- rispose.
-Non è possibile, non ci credo. Cosa è successo?- insistette Anya. Natasha sbuffò e strinse gli occhi a fessura. Quel pomeriggio era parecchio nervosa e stava già perdendo la pazienza, possibile che l’altra riuscisse a recitare così bene e nasconderle una cosa così importante?
-Cosa è successo?- rispose infine, alzando la voce in un tono volutamente ironico –Non te l’ho mai detto in faccia, ma mi sembrava palese che mi piacesse Bill! E tu che fai?- l’aggredì, puntandole un dito contro.
-Io che faccio?- chiese Anya, confusa. Oddio, che aveva fatto?
-No, dimmelo tu: come mai eri in camera sua l’altra sera? E stamattina, come mai è venuto a cercarti?- il tono di Natasha era alto e concitato, furioso. Non ci stava a farsi prendere in giro da sua cugina, la persona a cui teneva di più al mondo. Le doveva essere grata, lei non l’aveva abbandonata come tutti quanti, se era lì doveva solo ringraziarla.
-Dico io, ma stai scherzando, vero?- sorrise amaramente Anya, guardando incredula Nati –Stai scherzando? Punto primo: io con Bill non ci sto, non abbiamo né scopato né nient’altro; punto secondo: credi davvero che starei con lui senza dirtelo? Potrei anche fregarmene altamente del fatto che ti piaccia, ma se succedesse qualcosa, qualunque cosa, te la direi! Pensavo ti fidassi di me!-
Natasha vide la situazione capovolgersi in un istante, adesso era Anya quella arrabbiata e delusa. Sì, sembrava davvero delusa delle accuse della cugina.
-Io… credevo…- cercò di giustificarsi lei –Insomma, hai dormito con lui! Ti ho vista uscire da camera sua il mattino!-
-L’hai detto anche tu, ho dormito, dormito, solo questo!- riprese Anya.
-Non c’è niente?- chiese ancora Natasha.
-Piantala, ti ho detto di no! Sembriamo tornate ai tempi delle medie, ti stai comportando da ragazzina. Ci vivi insieme, diamine! Se ti piace tanto, fattelo!-
La ragazza arrossì violentemente.
-Sono stata proprio una bambina e dire che ho ventisei anni, diamine! E’ che io pensavo che lui ci provasse con te e allora ho incoraggiato Georg a farsi avanti, visto che era da…- prese a spiegare Natasha, vergognandosi profondamente.
-Un momento- la fermò Anya –Tu cosa hai fatto?-
La cugina prese a schiaffeggiarsi mentalmente: non doveva dirle di Georg. Stupida, stupida, stupida. L’altra non le dette il tempo di spiegare; le rivolse uno sguardo furioso, girò sui tacchi e se ne andò di tutta fretta dal negozio, senza ascoltare la voce di Natasha che cercava di fermarla, senza però avvicinarsi, temendo la sua collera da tigre arrabbiata.
Ok essere gelosa, sospettare e arrabbiarsi, ma giocare con i sentimenti di Georg, giocare con la sua vita, no, questo non glielo poteva permettere. Anya affrettò il passo, ignorando i richiami di Natasha ed entrò nel negozio in cui Gustav stava dando un’occhiata a delle T-shirt. Non lo raggiunse, non aveva voglia di parlare con nessuno, perché sentiva che se avesse aperto bocca, sarebbe esplosa.
Deviò per il reparto femminile, tuffandosi in jeans e vestiti per cercare di calmarsi. Passeggiò per il corridoio, respirando il buon profumo dell’ambiente e accarezzando il tulle di un abito a fiori.
-Ehi-
Anya si voltò di scatto, trovandosi Georg davanti, appoggiato ad un tavolino dalla cui vetrinetta si potevano ammirare accessori e gioielli in bella mostra su stoffe colorate.
-Ehi- rispose al saluto –Dove sono gli altri?-
-Siamo tutti qui, questo credo sia il miglior negozio- disse Georg, sorridendole –E tu? Non compri niente?-
-Mmh, non credo mi sia permesso- tergiversò Anya, giocherellando con la cerniera di un giubbino lì vicino.
-Ma certo che puoi, prendi tutto quello che ti piace, lo dico io a David- rispose, accorato, il ragazzo.
-Grazie, ma…- si oppose lei, allontanandosi un po’ dal bassista sempre più vicino.
-Ehi Anya! Sei tu?- chiamò una voce, che i due ragazzi riconobbero come quella di Bill. La testa del ragazzo spuntò per un attimo da una delle tende color carne dei camerini lì vicino, cercandola.
-Devo…- iniziò a dire Anya, senza concludere la frase, ma alludendo al vocalist che l’aveva chiamata.
-Anya!- urlò, appunto, Bill, per la seconda volta. Sembrava agitato.
Georg sorrise alla ragazza, annuendo e lei gli voltò le spalle velocemente, correndo ai camerini. Correva troppo quel giorno, si disse.
Scostò bruscamente la tenda da cui aveva visto sbucare la testa di Bill
-Che cosa c’è?- chiese al ragazzo, che gli dava le spalle e lui si voltò subito.
-Lo sapevo che quel cibo di merda mi avrebbe fatto ingrassare!-imprecò –La cerniera non vuole saperne di salire!-
Anya guardò senza imbarazzo la zip dei pantaloni che Bill si stava provando: la taglia più stretta l’aveva trovata lui. La ragazza non riusciva a capacitarsi di come quel fascio di ossa riuscisse a trovare una taglia che gli andasse bene, figurarsi una ancora più stretta. Tutta colpa di quegli stronzi degli stilisti, fissati con i fisici impossibili. Poi la gente andava a chiedersi come mai le ragazzine diventassero anoressiche.
-Ma no, scemo!- simulò una risata –Si sarà incastrata la zip-
Senza pensarci due volte, si avvicinò a Bill e mise mano alla cerniera dei pantaloni, afferrando il triangolino metallico della chiusura lampo. Il ragazzo chinò lo sguardo alle dita agili di Anya e sentì qualcosa bruciargli nello stomaco. Il suo profumo non faceva che accrescergli il dolore al cuore: sapeva di shampoo e di vestiti puliti.
Respirò fino a farsi male alle narici pur di catturarlo. A volte, bastava concentrarsi per sentirlo anche se lei non c’era, sul cuscino la notte, tra le mani il giorno. Avrebbe ceduto all'istinto da un momento all’altro.
La ragazza tirò su la zip senza alcuna difficoltà, per poi alzare gli occhi a quelli ambrati di Bill, fissandoli interrogativa mentre loro le restituivano uno sguardo completamente dipendente da ogni suo respiro, uno sguardo in attesa, indeciso. Lei finì di abbottonargli i jeans.
Ora o mai più, pensò Bill.
-Ma perché ora?- gli aveva chiesto Tom, quando si era confidato con lui.
-Ho provato a rinunciarci, a farmi una ragione della sua indifferenza, ma ho bisogno di lei e adesso è una questione di sopravvivenza- gli aveva risposto.
-E le altre?- aveva domandato il fratello.
-Quali altre?-
Il tempo aveva corso fin troppo, lui aveva lasciato che accadessero molte cose che non avrebbero dovuto affatto accadere. Non rispose alla domanda che gli occhi di Anya gli stavano ponendo, allungò la mano a chiudere bene la tenda del camerino, perchè nessuno doveva vedere, nessuno doveva portargliela via.
Le prese le mani, lentamente, temendo una sua ribellione se solo avesse velocizzato i tempi, le portò al suo petto e la ragazza le appoggiò delicatamente, lisciando la maglietta del vocalist, sorpresa di quel tocco nuovo. Chinò la testa, non voleva confrontarsi con gli occhi spiazzanti di Bill, ma lui li aveva già chiusi: prese il viso di Anya fra le mani e le leccò le labbra dischiuse, imprimendo poi l’impronta della sua bocca su quella della ragazza, che si lasciò stupidamente incantare da quel dolce movimento. Quando Bill l'afferrò di nuovo, si ritrovò a fissare le sue palpebre nere e serrò immediatamente gli occhi. Senza il senso della vista, ciò che stava succedendo acquistò un'altra dimensione, quella del tatto.
Non percepiva niente all’infuori di Bill, Bill, Bill e solo Bill. Era dappertutto, invadeva interamente il momentaneo vuoto della sua mente, facendosi spazio come un’onda del mare sulla spiaggia, solo che lui non aveva intenzione di ritirarsi.
Il suo odore la stordì, le sue mani sulla pelle la trovarono impreparata: erano delicate, come se stesse accarezzando qualcosa di fragile come un petalo di rosa.
Non rimase immobile ancora per molto, rispose alle toccate fugaci delle labbra del ragazzo, che sembrava travolto dalla marea di quel bacio. Voleva esplorare tutta la bocca di Anya, sentirla sotto il suo controllo e il fatto che la ragazza glielo stesse permettendo lo stordiva.
Leccò ancora una volta le sue labbra, sentendo che una lacrima gli pizzicava l’angolo dell’occhio, ma era troppo distante da se stesso e dalla realtà per versarla. Poi lei si staccò. Vicinissima a lui, quasi in bilico per non cadergli addosso, tenne il viso sollevato verso il suo, la bocca dischiusa vicino al mento del ragazzo a rubargli l’aria.
Sentiva il sangue circolare di nuovo regolarmente, i pensieri rifluire alla testa e fu quello a farla allontanare. Bill provò di nuovo ad avvicinarsi, passando un pollice sul contorno della sua bocca, ma Anya subito si staccò, spezzando il contatto, distruggendo senza pietà il cerchio che li univa con uno sguardo. Lo fissò ancora un attimo, sentendo la bocca gonfia e gli occhi lucidi. Poi indietreggiò, incredula, fino a chiudere la tenda fra di loro.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Break Away ***


Innanzitutto, volevo ringraziarvi per tutti i commenti, positivi o negativi che siano. Se c'è una cosa di cui mi rammarico è che su questo sito non posso avere un rapporto con voi lettrici che seguite questa storia come lo vorrei io e come sono abituata ad averlo con chi legge le mie fan fiction. Solitamente, posto sempre nei forum e lì posso avere un dialogo, scambiare impressioni e spiegazioni, rispondere a domande, cosa che qui non mi è permesso fare. Insomma, non sapete nulla di me! Ed io voglio rimediare, per quanto mi sia possibile: mi chiamo Alice e ho quindici anni. Bè, scrivo da quando ero piccola, ho sempre scritto e questa mia passione ha sempre viaggiato in parallelo con la lettura. Voi siete qui per leggere Burning Up, non per conoscermi, ma mi sembrava giusto stabilire un rapporto più "umano".
Mi sembrava poi giusto rispondere  a The Fighting Temptations: ero partita a scrivere con l’intenzione di spiegarti che Anya non è una Mary Sue (altrimenti, abbiamo divergenze sulla definizioni di una Mary Sue) e la storia non è prevedibile, melensa o cose simili. Hai detto che hai intenzione di continuare a leggere, spero che lo capirai da sola senza le mie spiegazioni, che non riesco a darti ora e non ho intenzione di darti; se hai letto, come hanno fatto tante altre ragazze che hanno capito, allora capirai anche tu, o forse no, non è di mia competenza. Le critiche negative di solito aiutano, ma una cosa che so sicuramente è che la ragazza di cui leggi e leggete tutte voi non è un mio surrogato, non è una modella perfetta, non ha super poteri in eleganza e persuasione sensuale, non è amata e corteggiata a dismisura, non è bellissima, non è niente di tutto ciò. E' superba, fa dell'ironia la sua arma, pungente e spesso aspra, non ha avuto un passato facile, ma non si è dimostrata una vittima, se non di se stessa e della sua cocciutaggine. E' Anya, l'unica figura stabile per quattro ragazzi, l'unico barlume di normalità e famiglia per loro che vivono troppo diversamente da noi per capire cosa significhi. Io ci ho provato. E so che a volte un'amica che ti sta sempre affianco può diventare tutto ad un tratto la persona più importante della tua vita e puoi non dirlo a te stesso, ma finirai per amarla per il fatto che lei c'è stata sempre. Questa è Anya, la ragazza che lava i calzini e riordina le camere, la ragazza grande, la ragazza matura, la ragazza simbolo di tutto ciò che concerne una vita normale: una madre, un'amica, una ragazza, un viaggio, da quando si è piccoli a quando si è grandi. Se avete letto, tutto questo lo avete trovato in ogni mio capitolo, senza intenzione di rendere l'imperfetto perfetto. Perderebbe tutto il suo fascino.

Volevo dirvi anche che non scrivo di volta in volta i capitoli, sono già stati scritti e sono molto più avanti. Mi limito a postarli.


11.
Break Away



Sbatterti in faccia la realtà in un momento di relax completo come quello della scelta di un CD, questa volta non da rubare, ma da comprare, perché il tuo lavoro di cameriera ti ha fruttato qualcosa e il tuo istinto ti ha subito spinto nel primo negozio di dischi nelle vicinanze, non è la cosa più piacevole che si possa desiderare. Un gelato, una passeggiata, anche una scopata, ma ricevere uno sgambetto dalla vita vedendo quella faccia da schiaffi con sotto la notizia del suo arrivo proprio no.
Il fuoco le invase le guance.
Due o tre ragazzine guardavano il manifesto con interesse, indicando i quattro ragazzi in posa. L’avevano affisso proprio loro, dopo aver chiesto il permesso al proprietario, che aveva accettato, senza sapere chi fosse quella band per lui emergente.
-Tom- mormorò tra sé e sé Charlie. Era dannatamente diverso dal ragazzo sdraiato sotto di lei con le mani grandi e un po’ ruvide con l’orologio in bella vista e i capelli lunghi sulle spalle, diverso dall’immagine stampata che le rimandava lo sguardo. Audace, sfrontato, sensuale e incredibilmente indomito.
Sarebbe tornato in America con i Tokio Hotel. Le scappò una risata a quel nome e una smorfia al ricordo di una loro canzone. Riportò l’attenzione ai dischi allineati per generi e puntò sul gruppo contrassegnato dalla targhetta Metal. E poi la sezione quasi vuota Metal Germania.
Afferrò un CD con in copertina una nave imprigionata tra i ghiacci e lesse il nome del gruppo: Rammstein.
-Bene, vediamo cos’hanno da offrire questi tedeschi- si disse, dirigendosi verso la cassa con il CD in mano. Passando davanti alla foto di Tom, lo fissò di nuovo, al contempo minacciosa e invitante.
-Ti aspetto- mormorò.

*



Le girava la testa e neanche l’aspirina l’aveva aiutata a sentirsi meglio; anzi, le aveva lasciato l’amaro in bocca e non era una bella sensazione. Sicuramente, le stava venendo la febbre. Cercò tra le valigie della stanza di Tom, che stava cercando di mettere in ordine, una delle felpe del chitarrista per buttarsela sulle spalle, ma inciampò in alcuni DVD porno buttati per terra e dovette aggrapparsi alla testata del letto per non cadere.
Diamine, che male, pensò, sedendosi sul comodo materasso a due piazze e massaggiandosi le tempie.
-Ehi Anya, va tutto bene?-
David fece capolino dalla porta e la raggiunse, saltando tra le cianfrusaglie per terra; la ragazza alzò la testa verso l’uomo, tentando di sorridere e non far vedere che aveva gli occhi rossi.
-Ho un po’ di mal di testa- gli rispose, spostandosi a lato per fargli posto.
-Sì, in effetti mi sembri un po’ esaurita in questi giorni- constatò David, guardandola apprensivo.
-E' così- annuì lei –Voi uomini mi rendete la vita complicata-
Il manager rise della sua espressione imbronciata e seria e le pareti della stanza gli rimandarono la sua stessa risata roca.
-Non c’è niente da ridere- lo ammonì Anya, dandogli un pugno scherzoso al braccio –Ho bisogno di staccare un po’ la spina-
David annuì, scrutandola attentamente.
-Ti capisco fin troppo bene e te lo meriteresti. Sai, dopo i Goldene Kamera, torneremo in America e là il servizio in camera è migliore che in Europa. Credo che per una settimana o poco più riusciremo a cavarcela senza di te- le sorrise, alzandosi di scatto nel momento in cui il suo cellulare vibrò nella tasca dei pantaloni e lui controllò chi lo stava cercando.
-Pensaci- le disse, dirigendosi verso la porta –e, Anya?-
-Sì?-
-Forse allontanarti un po’ rimetterà a posto gli ormoni di Bill e Georg. E’ un periodo intenso anche per loro e devi capirli: sei una delle poche figure stabili della loro vita, sei la loro amica, la loro famiglia; non lo dicono spesso, ma a loro manca un po’ di normalità e tu sei l’unica cosa che gliela ricorda, non possono fare a meno di amarti-
-Lo dici come se fossi una sorta di Messalina- rise Anya.
-Per loro lo sei. Credo che, anche se il mondo in cui noi viviamo è molto grande, ti stia iniziando ad andare stretto. Loro sono uccellini in gabbia, nati così, cresciuti così, tu,invece, sei una tigre e le tigri non vivono per stare rinchiuse. Comunque tu decida, io ci sarò sempre-
David mise mano alla maniglia della porta, mentre la ragazza lo guardava intenerita dal letto, le gambe raccolte al petto e la felpa di Tom che le faceva da vestito.
-Grazie David, ci penserò-
Evitare i ragazzi non era stata una cosa tanto facile, ma fino a quel momento c’era riuscita. Ovviamente, era sempre occupatissima a fare telefonate, non poteva cenare con loro, ma preferiva ordinare in camera lamentando problemi di stomaco e fuggiva sovente in una qualsiasi lavanderia portando a smacchiare capi che sporcava di proposito. Nei momenti in cui proprio non poteva non esserci, per esempio quando i ragazzi si rilassavano con il ping-pong o giocavano alla PlayStation, lei lasciava il suo posto di avversaria imbattuta a Natasha, a cui bastava un’occhiata da cerbiatto di Bill per farlo vincere, sdraiandosi sul primo divano nelle vicinanze e ostentando la sua aria superba da contessa decaduta e mestruata trecentosessantacinque giorni l’anno, costretta a pulire i piedi a quelli che erano stati i suoi servi e teneva tutti distanti con la scusa del mal di testa. A furia di ingigantire la malattia, le venne davvero e le rese le giornate ancora più impossibili di quanto già non lo fossero. E l’idea di indossare un vestito per i Goldene Kamera non le migliorava di certo le prospettive.
-Nati, che palle- sbuffò, guardandosi allo specchio di fronte, di profilo, allungando il collo per rimirare il fondoschiena.
-Anya, se non la smetti di rompere giuro che brucio te e il vestito- la sgridò la cugina, cercando di appuntarle un fermaglio tra i capelli, ma i movimenti bruschi della ragazza glielo impedivano.
-Ma li devo proprio mettere questi guanti? Guarda, mi stanno malissimo- si lamentò ancora lei, fissandosi le mani coperte da dei guanti di pizzo che le arrivavano al polso.
-Danno un tocco rock, fidati di me-
-E chi lo vuole un tocco rock- disse, a denti stretti, Anya.
-Adesso stai qui buona e tranquilla, non toccarti, non guardarti, non respirare neanche. Torno subito- l’avvertì Natasha, dirigendosi verso il corridoio. Niente da fare, quando ritornò Anya si era sfilata i guanti, aveva liberato i capelli da quello stupido fermaglio e si era cambiate le scarpe.
A Natasha venne da piangere per il nervoso e dovette stringere forte la sua pochette cercando di resistere alla tentazione di scaraventarla addosso alla cugina, ma ormai non c’era più tempo e dovette ingoiare il rospo: aveva vinto ancora una volta lei.
L’idea di vestirsi elegante non era mai fra le più gradite ad Anya, ma solitamente sopportava tutta quella farsa con il sorriso sulle labbra, convincendosi che era assolutamente bellissima con i tacchi ancora più alti di come li portava di solito e il trucco pesante, ma quella sera, complice il mal di testa, non riusciva a non guardare tutti con odio per averla trascinata a quella stupida premiazione.
I Tokio Hotel brillavano, o meglio, era Bill che, con il suo giacchetto argentato, attirava su di sé tutti i flash delle macchine fotografiche e li rifletteva sui compagni, illuminandoli con la sua aria volutamente invincibile nel sorriso di perla che celava imperfezioni infantili. Si mise a battere le mani quando vide i posti in cui si sarebbero seduti, contrassegnati non solo dal nome di ciascuno, ma addirittura con una foto. Mentre loro si accomodavano, Anya e Natasha si impossessarono della stanza adibita a backstage della band.
-Vi chiamo quando salgono sul palco- le avvertì David, prima di scomparire, impegnato a far chissà cosa.
Anya si distese subito su uno dei divani di pelle nera, lanciando lontano le scarpe che la stavano uccidendo.
-Mi chiedo perché, invece di indossare questa robaccia per sembrare più alta, non possa semplicemente girare in spalla ad uno dei ragazzi! Così avrei una vista panoramica e non mi distruggerei i piedi- mormorò la ragazza, coprendosi gli occhi con una mano –Dici che ci toccherà stare qui tanto?-
-Tutta la sera e credo ci sarà anche un party, più tardi- le rispose Natasha, ferma davanti alla porta semiaperta, intenta a rimirare l’andirivieni di gente in agitazione e presa dai propri problemi. A sua volta, Anya fissò l’immagine avvolta in raso rosso della cugina e le vennero in mente i suoi di problemi, o meglio, i loro, perché se Natasha avesse saputo di Bill e del suo bacio, sarebbe stata la fine.
Non avrebbe né urlato, né pianto, né si sarebbe arrabbiata. L’avrebbe semplicemente odiata con un astio silenzioso ed eterno, perché era colpa sua, solo sua.
No, Anya, non è colpa tua, continuava a ripetersi lei, non è colpa tua se hai due idioti per amici.
Scosse forte il capo per non pensarci, perché ogni volta che lo faceva, la sua mente le ingigantiva solo di più il problema. Era semplice, no? Mandarli a quel paese tutti e due.
Ma non poteva e non voleva farlo. Voleva loro bene, non lo dimostrava spesso, ma era così ed ora le stavano solo ingarbugliando la vita. Non tanto Georg, con le sue maniere calme e i suoi modi pacati, ma Bill, sempre agitato e fremente, impegnato a destreggiarsi tra fan e fotografi, fra la realtà e il successo, tra quello che era veramente e la sua immagine riflessa che con tanto impegno aveva costruito per non deludere e non deludersi. La sua vita vera non era perfetta, quella recitata doveva esserlo.
Anya chiuse gli occhi, esasperata, ma un colpo violento della porta glieli fece riaprire all’istante e prima che potesse capire qualcosa, David la prese per un braccio e trascinò lei e Natasha nel dietro le quinte, da dove si poteva vedere tutto senza essere visti, un po’ come essere dei fantasmi.
-Il discorso- fu l’unica spiegazione che il produttore diede alle due.
Gli applausi si levarono dal pubblico, discreti e contenuti e poi più accesi e umani nel momento in cui l’entrata dorata che recava l’immagine dei quattro ragazzi su un grande schermo al fondo del palco si aprì, lasciando posto all’avanzata sfolgorante dei Tokio Hotel, le mani agitate in saluto, gli occhi che brillavano. Il pubblico elegante li seguì con lo sguardo mentre si avvicinavano al piedistallo con il microfono e l’award. I conduttori, uno addirittura più alto di Bill, li salutarono e abbracciarono tutti e quattro, per poi lasciare a loro l’intero palco per il discorso.
Anya si appoggiò alla spalla di David per non cadere nella confusione del dietro le quinte, aspettando e guardando i ragazzi stringersi intorno a Bill, il padrone del microfono. E aveva anche un’altra cosa in mano: un foglio.
La ragazza strabuzzò gli occhi per vedere meglio: solitamente, i discorsi alle consegne degli award erano sempre preparati, ma mai Bill ne aveva scritto uno. Trattenne il fiato sentendo le prime parole del ragazzo.
-Bhe, grazie, grazie mille davvero. Siamo felici di essere qui stasera. In occasione di ricevere il Goldene Kamera ci siamo seduti insieme pensando agli ultimi due anni-
-Oh mamma mia!- esclamò Anya, subito zittita dalla cugina, stupita anche lei. Solo David sembrava sapere qualcosa di ciò che avrebbe detto Bill, perché sorrideva compiaciuto.
-Non ci hanno neanche avvertite!- bisbigliò Natasha all’orecchio di Anya, facendo la finta indignata.
-Ho preso degli appunti- proseguì Bill, con il microfono al lato della bocca, un’anca in fuori e il foglio appoggiato allo stomaco -Più di tutto noi siamo l'esempio lampante per cui non si debbano avere figli-
-Confermo- rise David, senza farsi sentire.
-Nella prima settimana dopo l'uscita di Durch den Monsun il mio bel fratellino dai pantaloni decisamente troppo grandi si è scopato 25 ragazze- Tom si infilò le mani in tasca, chinando il capo in un divertente atto di pentimento fasullo che suscitò mormorii nella folla e risatine qua e là, così il rasta continuò a dondolarsi allegramente nella sua aria di marpione.
-Poi siamo stati sputtanati dall'ufficio assistenza giovanile e cacciati dalla maggior parte degli hotel. Poi un nonno è andato fuori controllo e l'esercito ci sta cercando- Bill scrollò le spalle come se stesse raccontando alla vicina di casa i problemi dell’artrite.
Natasha si girò verso Anya, in attesa di una delle sue battute. Avrebbe potuto dire che il nonno era il suo o che gli hotel avevano fatto una loro gigantografia con scritto Wanted o cretinate del genere, ma Anya era troppo occupata a tendere le orecchie per prestarle attenzione. Credeva di stare immaginando tutto.
-Come si può vedere, ho rinfrescato il mio trucco agli occhi e poi sono andato online per annunciare quanto io sia finocchio. E...ah sì, sono quasi morto di anoressia- disse ancora Bill, serissimo. Anya spalancò gli occhi che le si stavano riempiendo di lacrime, cercando di non pensare al male che facevano quelle parole al cuore suo e di tutti gli altri ogni volta che le sentivano dire con cattiveria da chicchessia. Le ricacciò indietro per sfoderare uno dei suoi sorrisi più radiosi. Bill. Bill. Bill. Era lui, il vero Bill. Sì. Era inconcepibile, si sentiva così fiera di quel discorso e soprattutto di lui che anche il bacio avventato passò in secondo piano. Era disposta a perdonargli quello che considerava un gesto capriccioso e stupido quanto quello di Georg.
-Ma nonostante questo siamo ancora qui stasera. O forse grazie a questo. Il nostro ringraziamento va al 100% ai nostri fan tedeschi, che sono sempre stati al nostro fianco. Certo, può suonare come un cliché, ma loro sono stati gli unici che hanno reso tutto questo possibile. Incluse le cose che sono accadute fuori dalla Germania. Grazie mille, voi ci rendete orgogliosi, grazie- terminò di dire Bill, con un piccolo inchino. Il pubblicò applaudì, entusiasta.
Pensava fossero solo battute e aveva riso per i moti di spirito di quel giovane ribelle e dei suoi tre amici, Bill e gli altri tre, solo questo. Anya, invece, continuava a sorridere, ignorando quel pensiero così poco importante in quel momento, il momento della verità, per lei, come per i ragazzi. Mai si erano svelati così profondamente davanti ad una telecamera, mai avevano dato l’immagine più giusta di sé come quella sera.
I conduttori ripresero possesso del palco mentre i Tokio Hotel ritornavano dietro le quinte. Fieri e anche tanto. La prima persona che videro fu Anya, che sorrideva come non faceva da giorni, gli occhi così verdi e grandi. Tom, Georg e Gustav la salutarono con la mano.
Bill ne rimase folgorato. Attratto, sconvolto. Voleva raggiungerla, sapeva che quello era il momento giusto per riallacciare il cerchio che lei aveva spezzato dopo il bacio, ma David lo afferrò per un braccio, tentando di scompigliargli i capelli e trascinandolo nel loro camerino, strappandolo a quell’attimo da sogno.
L'uomo respirò profondamente.
-Siete stati grandi, fenomenali, pungenti e seri nello stesso attimo, sapevo che avreste detto le cose più giuste e avreste fatto la vostra figura, bravi, bravi, bravi- disse, tutto d’un fiato, molto simile a Bill quando iniziava a parlare a macchinetta, ma fu lo stesso ragazzo ad interromperlo.
-Grazie David, ma posso andare un attimo di là? Dovrei…- iniziò a dire, adocchiando la porta.
-Tu non vai da nessuna parte, per una volta che non riesco a contenere l’entusiasmo, tu te ne vuoi andare?- rise il produttore, spingendolo a sedersi vicino ai suoi amici, che si erano già impossessati dei divani.
-Sì, ma devo dire una cosa ad Anya- tentò ancora Bill.
-Oh, Anya- David lo fulminò con lo sguardo involontariamente. Il ragazzo gli aveva dato un motivo in più per non lasciarlo andare.
-A proposito di Anya, ho io una cosa da dirvi-
Georg, fino a quel momento era stato occupatissimo a fissare il soffitto, alzò di colpo lo sguardo su David e altrettanto fece Bill, spostando definitivamente l’attenzione dalla porta al produttore.
-Ne abbiamo parlato stamattina e abbiamo deciso che, mentre noi saremo in America, lei si prenderà una vacanza- disse David, fissandoli uno ad uno. Lo disse con un tono volutamente noncurante, pronto a vedere le reazioni di Bill e Georg.
-Va-vacanza?- balbettò il bassista, incredulo –E noi come faremo?-
-Ci arrangeremo- scrollò le spalle David.
Bill staccò la spina e chinò il capo, fissandosi la punta delle scarpe, un solo pensiero in testa che aveva cancellato tutto: il discorso, l’entusiasmo, l’adrenalina che già gli invadeva le vene al pensiero dell’esibizione di quella sera.
Il sorriso di Anya non era per loro, non era per lui. Sorrideva perché li avrebbe lasciati, lo avrebbe lasciato. Quello era solo il primo passo per la libertà e per la sua rovina.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Everybody here ***


I ringraziamenti sono impliciti (grazie XD) e rispondo ai vostri commenti.

_ToMSiMo_ sai, a volte la gente interpreta nel modo sbagliato anche il più insignificante gesto nella maniera sbagliata. Siamo sempre pronti a credere che ciò che vediamo sia un segno che ci confermi la nostra fortuna o, in questo caso, sfortuna. In poche parole, Bill lo vedo molto come tipo che si fa questo tipo di viaggi!

bimbaemo, bè, Bill, da bravo pessimista, pensa che, una volta assaggiata la libertà, Anya non torni più indietro, Georg è più che altro preso alla sprovvista: tutti e quattro i ragazzi hanno vissuto tre anni ininterrotti con lei, quindi pare un po’ strano che così, su due piedi, senza una ragione precisa, Anya non li segue in questo viaggio.

the Fighting Temptations, non ti avrei mai insultata, né presa di mira, né sarei mai “schizzata”, a parte che non è educato, ma soprattutto perché non sarebbe giusto. Che ci stanno a fare le recensioni aperte a tutti, se poi una persona non può dire liberamente ciò che pensa?

Fee17, sono contenta a mia volta che ci sia qualcuno che la pensa come me! Senza lettrici, noi che scriviamo siamo niente, il vuoto assoluto! Quindi, più scrivete, magari anche di voi o di cosa non vi piace/vi piace, più io sono contenta e, come avete visto, se dite che vi fa schifo, non vi vengo a cercare a casa XD

after_all, non credevo che una ff sui TH potesse piacere a qualcuno che non è loro fan, sono rimasta senza parole davvero! Sei riuscita ad andare oltre alle apparenze e te ne ringrazio, avere il parere di una non-fan è veramente fantastico, mi fa capire che la mia storia non è valida perché tu ami loro e di conseguenza ogni parola sulla loro esistenza sia oro colato, ma perché ti piace davvero. Grazie.

dark011, sei tornata! Mi fa piacere che tu abbia recuperato tutto e che sia di nuovo qui a leggere.

Buona lettura, Ali


12.
Everybody here

La gente passava senza lasciare segni. Il tempo sembrava non sfiorarli nemmeno e la luce grigia del cielo nuvoloso entrava dalle vetrate da cui si poteva vedere un enorme aereo bianco, in attesa. Stagliati contro la volta malinconica, aspettavano la chiamata di volo, immobili e di guardia ai loro bagagli a mano, che avevano ricontrollato cento volte la sera precedente e quello stesso mattino con Anya, che ricordava all’uno o all’altro qualcosa di dimenticato.
Per la prima volta in tre anni, lei, invece, aveva completamente disfatto le valigie e ritrovato nelle tasche più nascoste oggetti che aveva temuto di aver perso o mai avuto.
Gli occhiali da sole indossati per abitudine, visto il brutto tempo, erano quasi ridicoli, ma ciascuno indossava il suo paio, firmato o non.
-Starai bene, vero?- chiese Natasha, per la centesima volta.
Anya alzò gli occhi al soffitto ridendo.
-Sì Nati, strai tranquilla, farò una vita da regina- le rispose.
-E’ solo che…-
-Lo so, è strano anche per me- terminò per lei Anya, per poi sfoderare l’espressione più convincente che aveva –Me ne starò una settimana a fare nulla, senza vedere una sola lavanderia-
-Bella prospettiva- mugugnò tra i denti Bill.
-Ottima- gli rispose la ragazza, con uno sguardo di sfida.
La voce metallica che annunciava la partenza del volo risuonò piatta nella sala d’attesa, facendo scattare in piedi gli altri passeggeri. David mise in tasca il BlackBerry e si sistemò la visiera del cappellino che aveva indossato.
-E’ ora- disse ai ragazzi, con la voce assonnata. Tirò verso di sé la leva del piccolo trolley e, per primo, si diresse verso Anya, stringendola tra le braccia.
-Passa una buona settimana- le sussurrò all’orecchio.
-Anche voi. Non lavorate solo come dei matti, divertitevi anche un po’-
L’uomo la lasciò andare e si affrettò verso il gate.
-Ciao Nati- salutò Anya, buttandosi addosso a lei e dondolandosi nell’abbraccio con la cugina.
-Mi raccomando- l’avvertì questa, accarezzandole i capelli.
-Dai ragazzi, datevi una mossa!- li incitò David, da lontano.
-Sì, muovetevi- ripetè Anya, acchiappando Gustav per la maglia e stringendolo al petto, mentre Tom si avvicinava, reggendo lo zaino in mano. La ragazza colpì scherzosamente il capellino del batterista e poi circondò con un braccio il rasta, che la sollevò per i fianchi solo qualche attimo. Anya diede una spintarella ad entrambi che si erano fermati a guardarla ancora un po’ e li incitò a correrre da David e Nati.
Volse lo sguardo e incontrò quello di Georg, che le sorrise, scrollando le spalle. Anya rimase a fissare quegli occhi, talmente sinceri nel loro dispiacere da toglierle la maschera; gli afferrò la mano con un mignolo e si avvicinò al suo viso, regalandogli un bacio timido.
-Roccheggia anche per me- mormorò, sorridendo, anche se Georg non poteva vederla.
-Georg, Bill!- urlò David, spazientito –L’aereo non aspetta voi!-
-Arrivo!- fu tutto quello che disse il bassista, prima di caricarsi il borsone in spalla e trascinarsi verso il gate.
Anya raggiunse Bill e si fermò davanti a lui, che solo in quel momento alzò lo sguardo verso di lei per puntarlo nei suoi occhi e leggerci un qualcosa che desiderava trovare.
-Ciao Bill-
Non ricevette alcuna risposta dal vocalist, che continuò a guardarla, riempendosi le iridi dei suoi lineamenti fini.
-Dai, non farla tanto lunga- lo pregò la ragazza, incrociando le braccia al petto. Bill respirò profondamente e le afferrò un polso. Dapprima con tutta la forza che sentiva in corpo, la forza che di sicuro l’avrebbe abbandonato una volta salito sull’aereo e intrapreso quel viaggio da cui, lo sapeva, sarebbero tornati cambiati. Poi addolcì la stretta e avvicinò Anya a sé, posando le mani sulla sua schiena e il mento sui suoi capelli.
-Mi mancherai- le disse.
-A me mancheranno i tuoi calzini- sbuffò lei, per poi allargare le labbra in un sorriso che Bill sentì contro il suo petto, caldo di respiro umano.
Si staccò per guardarla ancora: Anya sorrideva, ma i suoi occhi non potevano evitare di urlargli con quanta disperazione avevano, Amore, Amore, tutti vogliono solo addomesticarti, Amore, Amore alla fine impigliati tra i tuoi denti.*
Lo lasciò andare e Bill sparì dietro l’angolo, senza voltarsi, nero. Alto. Scuro.
Così perduto nel digrignare i denti e reprimere la frustrazione di essere quello che era e nient’altro da non rendersi conto di ciò che intorno a lui succedeva.
Anya non aspettò di veder decollare l’aereo, non ne aveva bisogno per sentirsi libera. Scacciò un pensiero irrilevante e si affrettò all’uscita, parallelamente a Bill. La direzione è la stessa, solo che non ci si incrocia mai, si continua a camminare affianco senza sentire il calore della pelle dell’altro, senza poter sapere qual è la forma del suo corpo, la consistenza del suo sonno e la forza della sua vita.
Uscì dall’aeroporto, fischiando per chiamare un taxi e lanciando le braccia al cielo, chiamando pioggia di felicità, osannando la libertà. Tutti vogliono addomesticarti, ma tu continua a mordermi.
Il taxi arrivò e si fermò per farla salire, l’autista le venne pure ad aprire la portiera e, salendo, Anya alzò gli occhi al cielo plumbeo, spaccato in due dai decibel di un aereo diretto chissà dove, ma così nitido nel suo viaggio verso altri viaggi, che gli occhi le pizzicarono e il cuore urlò di chitarra distrutta da mani abili in un assolo straziante.
Amore, Amore, tutti vogliono solo addomesticarti, Amore, Amore alla fine impigliati tra i tuoi denti.

*



Bill si lasciò cadere pesantemente sul sedile a lato del fratello dopo aver risistemato la tracolla da dove aveva preso l’mp3 sopra le loro teste. Lo accese, scocciato.
-Ti annoi?- gli chiese Tom, scrutandolo in volto. La domanda era retorica, ma sapeva che andava posta. Serviva, a suo fratello, lo faceva sentire importante in un momento in cui in realtà era solo un bambino a cui è stata sbattuta in faccia la realtà, che si era ribellata al suo controllo e lo aveva azzannato nel suo punto più debole. Era una questione psicologica e con il tempo Tom era diventato sempre più bravo ad esercitare il suo compito di ancòra con Bill.
-No, sto pensando- gli rispose questo, senza smettere di smanettare con l’apparecchio che non voleva saperne di accendersi.
-A cosa?- insistette Tom. Bill piantò lo sguardo in quello del fratello, poi scosse la testa, girandosi di nuovo verso il finestrino.
-C’è qualcuna che ti aspetta?- chiese a Tom, con noncuranza.
-Lo spero, ma per quel poco che so di lei, sarà una bella sfida-
E a chi non piacciono le sfide?
-Bionda? Mora?- indagò il fratello.
-Non ha importanza-
No, non ne aveva.
L’unica cosa di cui i gemelli non parlavano mai erano le ragazze della notte. Se ne avessero parlato , si sarebbero insultati a vicenda per la loro poca sensibilità, tacerlo rendeva tutto più facile. Solo se la questione diventava importante era giusto condividerlo e Charlie non lo era ancora abbastanza.
-Io dormo- disse Tom, sfilandosi la musica dalle orecchie e sistemandosi meglio sul sedile. Diede ancora un’occhiata intorno: Georg e David erano stati sistemati due o tre posti dietro a loro e Gustav, insieme a Natasha, chiacchierava di fianco a loro.
Bill frugò nella tasca del sedile, alla ricerca della solita rivista della compagnia aerea, ma le sue lunghe dita trovarono qualcos’altro. Tastò l’oggetto con la curiosità dipinta nei lineamenti prima di estrarlo: un libro.
-Oh!- esclamò Bill, stupito. Lo rigirò fra le mani; era da tempo che non toccava un libro, un vero libro. Non aveva mai più avuto né il tempo, né la voglia di comprarne uno o chiederlo in prestito a chicchessia. Per esempio, Natasha leggeva molto e anche Dujna e a volte anche Gustav, ma il ricordo della scuola era sempre, inesorabilmente legato ai libri e preferiva dimenticare quella parentesi della sua vita in cui la mattina sua madre lo svegliava con un bacio e lo mandava alla fermata dell’autobus per mano a Tom. Il bacio e la fermata dell’autobus, con la sua casetta di legno, andavano bene, come andava bene tenere per mano Tom. Era quando arrivavano davanti a quell’edificio grigio che iniziava l’incubo. I ragazzini li facevano passare e ridevano, bisbigliavano e non smettevano di farlo nemmeno quando suonava il campanello, nemmeno quando li conoscevano da tempo. Non si abituavano, non volevano farlo di fronte agli occhi neri di Bill, al suo prematuro piercing, al fratello che lo difendeva e si faceva tirare i rasta dai più grandi. Ma si erano vendicati: il primo e l’ultimo giorno in cui erano andati a scuola con Saki, avevano potuto passare per quel corridoio senza sentire alcuna risata di scherno, senza chiacchiere malvagie, solo bisbigli stupiti e zip di zaini aperti per tirare fuori i cellulari e fotografare i capelli di Bill, sempre uguali a prima, ma ora ammirati, non derisi. Incredibile, quanto sia grande l’ipocrisia della gente.
Aprì il libro, spinto dalla curiosità e lisciò le pagine ingiallite. Chissà chi l’aveva lasciato lì, doveva essere vecchio. Mezz’ora dopo, Gustav si trovò a ridere nel vedere il libro per terra e Bill profondamente addormentato sulla spalla di Tom, la bocca leggermente dischiusa e le mani ancora sulle gambe a reggere il libro che ormai era caduto. Si alzò dal suo posto e si chinò a raccogliere il volume, lo aprì alla pagina in cui era caduto e ci dette un’occhiata, ma l’espressione sul volto di Bill addormentato era troppo buffa per non essere immortalata. Prese dallo zaino ai suoi piedi la fedele Nikon, la impostò in modo che non scattasse il flash e fermò per sempre l'immagine della criniera di Bill confusa con il miele dei capelli di Tom e i loro volti persi in sogni segreti. Magari stavano sognando la stessa cosa, a volte capitava e quelli erano gli unici sogni che Anya permetteva che i due raccontassero al posto del suo quotidiano la mattina.
Gustav riguardò la foto sullo schermo della macchina e poi riconcentrò la sua attenzione di nuovo al libro. Una donna chiedeva al suo interlocutore se credesse nel caso. Lui rispondeva che l’importanza che gli si attribuisce è senza senso e poi parlava delle anime. Alcune, secondo lui, si incontravano nel corso di più vite per formarne una sola, si rincorrevano nel tempo, si cercavano e si trovavano, sempre. Ma se nel corso di una vita terrestre un’anima spezzava il giuramento che l’univa all’altra, allora entrambe erano destinate a spegnersi. Non potevano continuare a viaggiare da sole.**
Gustav si scompigliò i capelli corti con una mano e tornò a prendere in mano la macchina fotografica. Studiò la foto dei gemelli.
Non c’era scatto in cui i due non sembrassero complici, in cui uno sguardo non li legasse, una parte del corpo non li unisse, anche solo un braccio accostato, un piede vicino. E la luce che invadeva la foto, sapeva di loro. Vetro perfettamente smerigliato, luce del mattino.
I gemelli, stagliati contro la luce che emanavano, che piano piano si stava consumando in assenza di qualcosa che non potevano darsi a vicenda.


*citazione da un testo dei Rammstein, Amour
**
il libro è La prossima volta di Marc Levy e quello che Gustav legge è davvero scritto nel libro, l'ho solo sintetizzato.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** We’re all living in Amerika ***


_ToMSiMo_, grazie mille per tutto, credo che, per me, il sentimento tra Bill e Tom sia più difficile da descrivere rispetto agli altri, il fatto è che non ho esperienza e circolano talmente tante storie su di loro che non ho un’idea precisa, quindi interpreto.

dark011, sulla guancia, è stato un bacio dato per pena XD

Arina, sono contenta che tu ti sia decisa a leggerla, benvenuta a bordo! Grazie per i complimenti, mi fa davvero piacere.


13.
We’re all living in Amerika



Una grande mela, verde.
Bell’aspetto, non c’è che dire.
Vedeva solo quello.
Tom affondò i denti nella polpa succosa del frutto, masticandolo pigramente, sentendolo scricchiolare in bocca. A quell’ora del mattino, la sua concentrazione era limitata e la mela la catturava completamente, ipnotizzandolo.
-Questo caffè fa schifo- mormorò Gustav, con una smorfia di disappunto nel viso perfettamente sveglio.
David guardò preoccupato l’orologio e sbuffò, pestando un piede a terra.
-Sono in ritardo- annunciò per la terza volta in dieci minuti.
Bill si stropicciò piano gli occhi per non sbavare l’ombretto nero diligentemente applicato da Natasha quella mattina stessa e sbadigliò, portando una mano davanti alla bocca.
Distogliendo l’attenzione dalla mela che Tom aveva preso dal cesto sul tavolo del locale, fece uno sforzo per ricordarsi perché erano lì: intervista. E i giornalisti erano in ritardo. Bell’inizio.
Era capitato spesso in quei giorni, prima in Canada e poi lì, a Los Angeles: era in ritardo il conduttore di MuchMusic, avevano iniziato in ritardo il concerto a Le National a causa di un disguido dei proprietari. Solo le fan, ai Meet&Greet erano state puntuali; a loro non si poteva rimproverare mai nulla.
Sbadigliò ancora.
Il sonno era una costante della loro vita da nomadi e in quei giorni si faceva pesare. Stava sempre lì, accostato alle porte, affacciato alle finestre, nascosto dietro il flash del photoshoot che avevano fatto il giorno prima, coricato sui divani nei backstage con le sue fattezze da grassa matrona con le palpebre pesanti e i movimenti strascicati. Non pronunciava una sola parola, ma chiudeva loro gli occhi nei momenti meno opportuni, tappando loro le orecchie e la mente con un silenzio ovattato.
Silenzio che venne infranto dallo squillo di un cellulare. Natasha ci mise qualche minuto a rendersi conto che era il suo e quando lo capì, fece un salto sulla sedia e prese a frugare nella borsa.
-Scusate- disse, alzandosi dal posto che aveva occupato fino a quel momento accanto al vocalist e lasciandoli soli in attesa.
Premette il tasto di chiamata e accostò il telefono all’orecchio.
-Neanche quattro giorni che siete ad Hollywood e già ti sei dimenticata di me? Il freddo del Canada ti teneva sveglia, Los Angeles è più soporifera?- la investì la voce allegra di Anya. Quella voce, filtrata dai chilometri di distanza, sapeva così aspramente di Germania, che Nat riuscì a vedere perfettamente nella sua testa la figura scattante della ragazza per le vie di Amburgo.
-Lascia perdere, qui si finisce anche per dimenticare il proprio nome- rispose Natasha, stancamente.
-E perché?- rise Anya.
-Conosci il termine “frenesia”? Ecco, è la parola che si addice perfettamente a tutto ciò che facciamo. I ragazzi non sono abituati all’ambiente, alla lingua, ad essere delle star emergenti, tanto che anche Gustav adesso sta più attento a cosa indossa per non sfigurare. E Tom non ha mai cambiato più cappelli in vita sua. Ostentano sicurezza, ma tremano di paura, non sono pronti ad essere divorati dalla stampa americana, i primi due concerti, nonostante fossero sold-out, sono stati ampiamente criticati. Triti e ritriti. E, come al solito, Gustav e Georg non li prendono minimamente in considerazione, ma forse è un bene, visto ciò che le malelingue hanno scritto sui gemelli. Sembra di essere tornati agli inizi e non sai quanto vorrei averti qui- spiegò Natasha, sistemandosi i capelli biondi scompigliati.
-Ho letto qualcosa in proposito, ma non c’è da preoccuparsi. Ho sempre detto a David che era un po’ presto, ma tutto ciò non può che fare bene alle nostre scimmie. Quei quattro riescono sempre ad imporsi, in un modo o nell’altro- la rassicurò Anya, mentre girava rumorosamente la chiave nel portone.
-E tu che fai?- domandò Natasha, trattenendo uno sbadiglio.
-Sto tornando a casa adesso- rispose Anya, tenendo il telefono tra l’orecchio e la spalla e forzando la porta con due mani. Quell’appartamento andava sistemato, oltre al campanello anche la porta iniziava a dare problemi.
-Quale casa?- chiese Nati.
-L’appartamento dei ragazzi. Fino ad oggi sono stata dai tuoi, siccome casa tua è inutilizzabile: ti comunico che tuo zio Franz ha deciso di ristrutturarti tutto, di dare il bianco e ha piantato un caos da terza guerra mondiale-
Alla notizia, Natasha ringhiò e si massaggiò le tempie con due dita, maledicendo mentalmente quell’impiccione di suo zio Franz. C'era da aspettarselo.
-Ah, ho un’altra notizia da darti- proseguì Anya, salendo sull’ascensore e premendo il tasto contraddistinto da un luminoso tre. Si voltò verso la sua immagine riflessa nello specchio e sorrise dell’espressione rilassata di quella sua gemella di vetro –L’altro giorno, sfogliando un quotidiano, ho trovato un annuncio. Sai l’università in centro?-
-Sì- rispose Nati, guardando David, che si stava dirigendo verso la porta del locale, spazientito.
-Ecco. C’è un corso di spagnolo, questa settimana e la prossima e così, siccome non avevo nulla da fare, ho dato l’adesione. Oggi c’è stata la prima lezione e ho scoperto che l’insegnante è il tuo vecchio professore, il signor Friedrich-
Natasha rise: si ricordava il signor Friedrich, un gran bel rompiscatole, ma divertentissimo. Era il suo docente di inglese e se la spassava a farle tradurre le vignette umoristiche di qualche giornale di enigmistica.
Nati sentì un campanello risuonare metallico e immaginò che la cugina fosse arrivata al piano dell’appartamento. Stava già apprestandosi a salutarla e lasciarla ai suoi affari, quando sentì qualcuno toccarle delicatamente un braccio.
-E’ Anya?- chiese Georg, speranzoso.
-Sì. Anya, ci sei ancora? Ti passo Georg- rispose Nati, passando il telefono al ragazzo.
-Nat, no!- tentò di fermarla la cugina, ma dovette simulare quella preghiera in un colpo di tosse sentendo la voce del bassista dall’altro capo della linea.
-Georg! Come stai?-
-Bene, qui va tutto a meraviglia, piuttosto tu, come stai senza di noi?- chiese il ragazzo.
-Vuoi la verità? Una meraviglia!- rise Anya –Sto proprio andando a prendere possesso del vostro appartamento, quindi ti lascio. Ci sentiamo ok?-
-Ehi Anya…-
Troppo tardi, la ragazza aveva riattaccato. Georg si strinse nelle spalle, avrebbe voluto avvertirla, ma lei non gliene aveva dato tempo; porse il cellulare a Nati, che lo guardava in attesa.
-Mi sa che il tuo piano non ha funzionato, almeno, non nel mio caso- constatò Georg, cacciandosi le mani in tasca.
Nati si girò un secondo verso Bill, appoggiato con i gomiti al tavolo e la testa ciondoloni.
-Io non ci ho neanche provato, ma abbiamo ancora tempo, non vorrai mica arrenderti?- sorrise rassicurante lei.
-No- risponse ragazzo.
-Vedrai che andrà bene, se ti piace così tanto non può andare male- Natasha posò una mano sulla spalla muscolosa del bassista.
-Può darsi, ma può darsi anche di no- commentò lui, prima di raggiungere gli altri al tavolo nel mentre in cui gli intervistatori entravano nel locale, trafelati e dispiaciuti per l'increscioso ritardo.

Anya aprì la porta dell’appartamento e lasciò cadere la borsa a terra, inorridita.
Quello era l’inferno.
-Oh mio Dio- riuscì a mormorare.
Raccapricciante. Non c’era un solo centimetro dell’appartamento che non fosse stato devastato dalla festa che i ragazzi avevano dato prima di partire. Bastava vedere una delle chitarre galleggiare su un mare di schifezze e birra versata per rendersi conto che quello era solo l’inizio di una nottata in compagnia dello straccio.

*



Il fiume di gente in fila davanti al Roxy, famoso locale di Los Angeles, emanava calore. Eppure, erano fin troppo civili, nessuno osava toccare l’altro per paura di disturbarlo e nell’attesa ci si conosceva e parlava. L’eccitazione fuoriusciva dalle bocche insieme alle parole fluide e allegre.
-Ma quanto ci vuole?-
Una fra le tante ragazzine presenti batteva più forte il piede sull’asfalto con i suoi anfibi neri, spostando il ciuffo castano chiaro dagli occhi, continuando ad alzarsi in punta di piedi per vedere oltre la fila.
-Martha, hai finito di agitarti?- la riprese Mimi, cercando di calmarla. La bionda accanto a loro rise.
-Tra poco entriamo- disse alla ragazza. E in quel mentre aprirono i cancelli.

-Ho bisogno dell’acqua!- sbraitò Bill, rivolgendosi a chiunque gli capitasse a tiro, dandosi dei piccoli schiaffi alle guance per tenersi sveglio. L’adrenalina aveva lasciato le sue vene, sentiva solo stanchezza. Era pesante, pesante, girava tutto.
-Dov’è l’acqua per 'sta cazzo di aspirina?- urlò ancora una volta e Gustav gli porse finalmente un bicchiere, per nulla turbato dal suo tono di voce, che non sentiva avendo le orecchie invase dalla musica ad alto volume. Bill si cacciò la pasticca bianca in bocca e buttò giù tutta d’un fiato l’acqua, chiuse gli occhi e contò fino a cinque.
-E’ ora- li avvertì di nuovo Tobias. Nessuno gli rispose, ma i ragazzi, ubbidienti, lo seguirono fuori dalla stanza in cui l’aria viziata sapeva d’ansia.
L’odore di sudore e luci infuocate, di centinaia di persone, capelli sciolti sulle spalle, stringhe slacciate, nasi all’insù e mani in tasca, li raggiunse alle narici. Odore di live.
Non c’era niente di meglio che sudare con le fan. L’aria acre tingeva di soddisfazione il viso dei quattro musicisti. Se le ragazze sudavano e li facevano sudare, allora lo show era perfetto.
Ringraziando non si sa bene chi, nessuno di loro soffriva d’asma, se no sarebbero morti nell’istante stesso in cui misero piede sul palco. Quel palco.
In pasto alle fan, a due metri dai loro visi accaldati, a due metri dalle loro mani, dalla loro consistenza; a due metri da un baratro senza fondo da cui era bello sporgersi. Era bellissimo affacciarsi e assaggiarne l’altezza e la caduta precipitosa, chiunque poteva allungare un po’ di più il braccio e afferrarli, chiunque poteva salire lì con loro con un balzo e molti ci tentarono.
Le mani di Tom facevano piacevolmente male mentre accompagnava la voce di suo fratello, strana nel suo accento duro mentre cantava in inglese. Era un dolore meraviglioso, come i crampi del sesso.
Lui adorava quei crampi, alle gambe, alla schiena, allo stomaco, li adorava.
Aveva caldo al collo, alla nuca su cui battevano le luci caldissime, caldo ai piedi in quelle scarpe pesanti, ma così comode, in fondo. Pure gli occhi gli stavano sfrigolando mentre li alzava sulla folla, ardenti e curiosi, rapiti da un mare di colori indefinito.
Rosso, blu, verde. Biondo.
Quel biondo.
Che si allontanava facendosi largo gentilmente.
Fermatela!
Boccheggiò, ma non urlò quell'ordine.
Fece un cenno a Tobias e uno a Saki, la fermarono loro.
Un unico pensiero mentre le dita pizzicavano da sole le corde: aveva vinto.
Si trattenne dal dare voce alla risata che sentiva montare dentro di sé, che gli riecheggiava nelle orecchie e represse il desiderio di correre dietro ai due bodyguard che portavano la ragazza nel backstage, sorreggendola per non farla finire a terra e pestare dalle altre ragazze. Tom non si rendeva conto di quello che stava succedendo, però, diamine se si sentiva bene. La testa gli pulsava e confondeva se stesso con migliaia di altri corpi, ma non importava. La sua mente gli aveva dato l'immagine della ragazza desiderata, che, anche in quel caos, era un faro luminoso.
Martha si spaventò, ma seguì i due uomini senza fiatare. Solo, sua cugina si sarebbe arrabbiata. Pazienza, sono cose che capitano.
Si sedette sull’anonimo divano dove era stata scaricata come un sacco e aspettò di sapere perché si trovasse lì. Le passarono davanti mille persone e non una che la degnasse di uno sguardo, le rivolgesse la parola. Dopo tanto andirivieni, stanca e scomoda, infischiandosene della buona creanza, si levò le scarpe, le lanciò in un angolo e si coricò sul divano; chiuse gli occhi e così la trovò Tom, mezz’ora dopo.
Aveva corso per raggiungerla, rivederla. Aveva lasciato la chitarra in mano ad uno stranito Georg che ancora imbracciava il basso e aveva superato tutti sfiatandosi. Charlie. Gustò il nome in bocca come una caramella, come avere le sua lingua in bocca, di cui immaginava solo il gusto. Li rivoleva, i suoi occhi.
La smania si impossessò di lui, gli strinse lo stomaco, aprì la porta del backstage piano, intimando a suo fratello e agli altri che lo avevano raggiunto di tacere e di lasciarlo solo. Ovviamente, i tre amici non lo stettero a sentire e cacciarono la testa dentro alla stanza, curiosi.
-Che c’è, che c’è?- continuava a chiedere Georg, che non riusciva a vedere nulla siccome Bill gli stava davanti e gli precludeva la vista.
-Shhh- bisbigliò Tom, portando un dito alle labbra e spingendo gli amici fuori.
Si avvicinò piano al divanetto dove intravedeva solo le forme della ragazza, il suo corpo ritmato dal respiro profondo, i capelli sciolti. Imprecò sotto voce battendo un piede a terra e si morse la lingua quando Martha si rigirò sul divano, per fortuna ancora addormentata. E questa chi era?
Si sedette cautamente davanti al divano, guardandola in viso. Non di certo Charlie. Troppo piccola e troppo curata: aveva i capelli perfettamente lisci e vestiti ordinati e puliti; le unghie erano rosa e lucide. Continuava a dormire e respirare, respirava in silenzio.
Tom sorrise amaramente. Si prese la testa fra le mani e chiuse gli occhi stanchi; rimase così, galleggiando nel silenzio che sentiva dentro.
-Hei- lo riscosse la voce dolce della ragazza. Si era svegliata e ora non capiva perché Tom Kaulitz stesse piangendo. O almeno, così le sembrava.
No, non piangeva, ma sembrava davvero stanco. Gli fece allora posto accanto a lei e il rasta si sedette, grato. Aveva visto una rosa e ora la voleva.
-Hei- ripetè Martha –Senti una cosa, perché sono qui?-
-Bè, perché io sono uno scemo- rispose lui, con un inglese strascicato.
-Bella risposta, ma il perché vero?- insistette Martha, guardando il profilo del ragazzo perso a rimirare il tavolino.
-Ti ho confuso con un’altra ragazza- ammise Tom.
-E questa ragazza chi è?-
-Non ha molta importanza. Forse ora devi andare-
Si girò verso la ragazzina e chinò la testa da un lato.
-Oh sì, certo- esclamò lei, buttando i piedi giù dal divano e alzandosi in fretta, sistemando i capelli castani dietro le spalle –Comunque, io mi chiamo Martha. E' stato proprio un bel concerto, siete stati bravissimi. Devo assolutamente ringraziare mia cugina e Lotte per avermi portata-
Martha annuì, recuperò gli anfibi da dove li aveva lanciati e li infilò senza allacciarli, correndo verso la porta.
-Allora, ciao- esclamò, prima di aprirla.
-Ciao- rispose Tom, ancora immerso nei suoi pensieri.
Lotte.
Strabuzzò gli occhi, si alzò di colpo.
-Martha, aspetta!- urlò.

*



Mimi guardò la cugina arrivare trafelata e, quando le raggiunse, le mollò un sonoro ceffone prima che Charlie potesse fermarla. Martha non battè ciglio.
-Si può sapere che fine avevi fatto?- la sgridò Mimi, furiosa.
La ragazzina si alzò in punta di piedi per darle un bacio sulla guancia, indifferente al colpo ricevuto.
-Grazie per avermi portata la concerto Mimi. Ah, Lotte, questo è per te-
Tese una mano smaltata di rosa alla bionda e le porse un biglietto.
-Che cos’è?- chiese lei, rigirandolo in mano e poi spostando lo sguardo a Mimi, che aveva il volto contratto dal mal di testa.
-Tom Kaulitz ha detto che i bodyguard mi hanno fermato per sbaglio e mi ha chiesto con chi ero al concerto. Io gliel’ho detto e lui ha sorriso, ha detto che allora non si era sbagliato e mi ha detto di darti questo-
Charlie aprì veloce i biglietto con le dita scattanti, mentre Mimi la guardava curiosa.
Tanto ti trovo, c’era scritto.
Buttò indietro la testa e rise fragorosamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Stella del mattino ***


Mi perdonerete mai quest'assenza senza avviso? Due mesi senza di voi, mie poche e spero fedeli lettrici. Ci siete ancora, da qualche parte in questo universo chiamato Internet? Spero di sì, lo spero tanto e spero che continuerete a leggere dopo questa vacanza troppo lunga. Un bacio, Alice

14.
Stella del mattino*



Bill si stropicciò le mani in un gesto nervoso mentre i suoi passi risuonavano attutiti dalla moquette bordeaux del corridoio. Tossì una volta e andò avanti, deciso.
Salutò con un lieve cenno del capo Dunja che usciva da una delle camere, non fece caso a quale e non fece caso a niente, lo sguardo fisso alla sua meta.
Spalancò la porta aperta della suite del gemello ed entrò senza tanti complimenti.
-Tom, devo parlarti- annunciò cupo.
Il rasta fissò il gemello, distogliendo lo sguardo dal soffitto che si era perso a guardare coricato sul letto, in attesa di prendere una decisione, la mano nella tasca dei jeans.
Ti devo parlare.
Realizzando ciò che il fratello aveva appena detto, Tom chiamò in soccorso tutta la sua forza di volontà per non tapparsi le orecchie e correre via urlando come un matto, scappando a gambe levate da quella camera in cui, lo sapeva, si stava per consumare una tragedia. Lo faceva presagire il tono di Bill.
Suo fratello, con le parole, era disarmante. Ti uccideva, con quella lingua.
Poteva benissimo iniziare a parlarti della guerra che sconvolgeva qualche parte lontana del mondo della quale era venuto a conoscenza grazie a Gustav, della condizione umana, oppure di quanto aveva stupidamente speso in abiti che non gli piacevano neanche, ma che aveva comprato per impulso momentaneo o perché non andiamo al cinema? dai, ci sono i pop corn, ho voglia di pop corn, perché quelli del supermarket fanno schifo. Oppure di quella remota volta, a quel concerto di secoli prima in cui aveva stonato, te lo ricordi Tom? E che figura, vero che te lo ricordi? Sì, Bill, sì sì .
Il vocalist ricambiò lo sguardo di suo fratello e si sedette sul letto su cui l’altro era ancora sdraiato. Curvò la schiena in avanti, poggiando il mento tra le mani che in quei giorni tentava di non far screpolare dal freddo.
-Voglio dare una festa- disse il ragazzo, rivolto più alla poltrona che gli stava davanti che a suo fratello.
-Una festa?- sorrise Tom, tirandosi su e sospirando di sollievo sapendo che sarebbe stato quello l’argomento della loro conversazione e non gli extraterresti o le giacche di Gucci.
Bill girò lo sguardo sul ragazzo accanto a lui. Che strano, erano uguali. Identici.
Annuì senza ricambiare il sorriso sollevato di Tom.
-A casa, sì- gli rispose.
-Nell’appartamento di Amburgo? Ma è piccolo, non potremmo aspettare di trovare quello nuovo? Oppure no, facciamola in un locale, quando torniamo in Germania, secondo me il Felix andrebbe bene, che ne dici?- iniziò a ipotizzare Tom, senza dar peso allo sguardo del fratello che sembrava aspettare solo che si tappasse il becco e smettesse di parlare a vanvera perché lui sapeva già quello che voleva.
-No Tom, a casa- ripetè, cocciuto.
Il rasta lo guardò senza capire, con l’aria confusa.
-A Loitsche?- domandò, scettico, perdendo tutto l’entusiasmo.
-Sì, a casa Tom-

L’idea di un blog era venuta a Dujna. Un’ottima trovata commerciale, l’aveva definita, semplice, facilmente gestibile, non originalissima, ma i risultati erano assicurati.
-Che cosa intendi per blog, precisamente?- aveva chiesto Bill
-Una pagina Web che potete aggiornare voi stessi raccontando le vostre esperienze, dialogando anche con le fan- gli aveva spiegato la ragazza.
Bill era apparso entusiasta e aveva subito scritto un primo intervento da inserire come pagina iniziale del blog, tradotto poi da Dujna e con delle foto allegate. La pagina Internet era di un bell’azzurro, molto algido, con uno spazio per i commenti dei fan.

“Buongiorno a tutti!
Il mio nome è Bill Kaulitz e sono il cantante dei Tokio Hotel, una rock band tedesca. Sono le 2.30 di giovedì mattina; io e i membri della band (mio fratello gemello Tom, Gustav e Georg) siamo appena tornati al nostro hotel a Berlino. Abbiamo avuto una serata fantastica ad un'importante premiazione televisiva qui in Germania. Abbiamo ricevuto il premio "Best Musica National" e abbiamo fatto la nostra canzone "1000 Meere". E' stato magnifico! Oltre alla nostra band, c'erano altri ospiti come Hilary Swan e Robert De Niro! E' stata un'esperienza interessante incontrare questa gente di persona, specialmente dopo aver visto così tanti loro film.
Adesso sono le 2.40 e farei meglio ad andare... ho ancora da preparare le mie valigie per domani. Dobbiamo lasciare l'hotel alle 5.20 per andare all'aeroporto di Berlino. La nostra destinazione è Montreal, Canada, per suonare il nostro primo concerto nordamericano sabato. E' piuttosto eccitante, ma spaventoso allo stesso tempo. Negli ultimi due anni ci siamo esibiti molto in tutta Europa, ma ora siamo pronti ad attraversare l'Atlantico e a fare del nostro meglio laggiù. E' un sogno che diventa realtà per noi il fatto che ci venga data un'opportunità del genere.
Restate in contatto - vi farò sapere com'è andato il primo concerto. Oddio, mancano dieci minuti alle tre adesso... devo andare!
Abbiate cura di voi e ciao.
Bill”

Non gli era stato possibile scrivere quello che voleva, aveva dovuto rispettare le norme impostegli da Dujna: chiaro, sobrio e corto. Molto sobrio e molto corto, soprattutto. Una tortura per uno che appena iniziava a parlare finiva per raccontare anche tutta la sua vita.
Ma Bill si era sforzato di entrare nella parte e aveva scritto pensando alle ragazze che avrebbero letto. Aveva pensato a quello che avrebbe voluto scrivere in realtà, che era eccitato, ma anche tanto spaventato, così almeno loro lo avrebbero consolato e tirato su, dicendogli che loro erano i migliori dell’universo e cose simili. Avrebbe voluto scrivere che era anche arrabbiato e deluso e si sentiva sconfitto. Perché Anya non sarebbe andata con loro e perché dopo il bacio lo aveva evitato.
Dopo quell’intervento, aveva scritto di rado, lasciando il posto a suo fratello, che già se ne intendeva un po’ di più di computer. Lui aveva avuto altro a cui pensare: quel malessere che continuava ad identificare nello stress ed era stressato davvero, lo sentiva in ogni osso del suo corpo. David, lievemente preoccupato, aveva iniziato a dargli qualche aspirina di tanto in tanto e a fargli portare qualcosa di caldo in camera ogni sera. Bill odiava quelle dannate camomille indesiderate e servite da sconosciuti e odiava quell’odiosissimo quotidiano americano al mattino che gli ricordava quanto in realtà fosse strano agli occhi della gente e quanto la sua musica facesse schifo. L’ultimo concerto era stato un disastro.

“Bene, ora devo andare perché devo riordinare la mia roba. Domani voleremo a L.A. Dovreste vedere la mia camera –i miei vestiti sono ovunque, mi ci vorranno ore per riordinarli.
Tom” aveva scritto il chitarrista, qualche giorno dopo.

Anya mancava a tutti. In un modo o nell’altro.


-Una festa- ripetè Tom. Bill annuì.
-A casa della mamma- aveva continuato il rasta e suo fratello aveva annuito di nuovo –Perché?-
Bill scrollò le spalle.
-Bè, le solite feste possiamo farle dove vogliamo, ma io ho bisogno di casa. Lo so che adesso comincerai a dire che sono il solito rompicoglioni, ma voglio una festa come quando eravamo piccoli, quelle dei compleanni in giardino, sulla casetta di legno. Tom, voglio sentirmi di nuovo a casa, ne ho bisogno, ti prego. Mi sto perdendo- Bill si prese la testa fra le mani, tentato di piangere di sconforto. Voleva tornare piccolo. Lo desiderava tanto ed era troppo che non vedeva Simone, che non scherzava con Gordon, che non faceva cazzate con Andreas che quasi sentiva il cuore straziarsi dalla nostalgia.
-Va bene, va bene- acconsentì Tom, chinandosi a cercare lo sguardo di suo fratello –Lo faremo Bill, ok?-
Il ragazzo annuì impercettibilmente.
-Chi invitiamo?- gli chiese Tom.
-I ragazzi e poi Andreas e i nostri vecchi amici, mamma ci deve essere e poi io e te- elencò Bill, sorridendo al gemello.
-E Anya, immagino- aggiunse il rasta.
-Sì, anche Anya- confermò Bill.
Tom si alzò, infrangendo l’atmosfera di confidenza e malinconia che quella conversazione gli aveva lasciato addosso e allungò una mano verso suo fratello. Il ragazzo si sollevò dal materasso e abbracciò l’altro.
-Grazie Tom- gli sussurrò ad un orecchio. Il rasta strinse forte le spalle esili di Bill e poi si sciolse dall’abbraccio.
-Adesso vai, che devo fare una telefonata-
Il vocalist sbadigliò.
-Va bene. E’ tardi, che ore sono?- chiese ancora.
-Quasi mezzanotte- controllò Tom sul quadrante dell’orologio che aveva preso l’abitudine di portare al polso. Lo faceva sentire più uomo.

*



Rispondi, pregò mentalmente. Era già al quinto squillo.
-Dai- sbottò, nervoso
Finalmente la chiamata venne accettata dall’interlocutore all’altro capo del telefono, ma nessuno rispose all’hallo di Tom.
-Mimi!- chiamò il ragazzo, cercando di abbassare il tono di voce per non svegliare tutto l’hotel.
La ragazza non rispose, Tom riusciva solo a sentire un rumore infernale di folla, di urla, confusione, che gli rimbombavano prepotentemente nell’orecchio, tanto che dovette allontanare un poco il cellulare per paura di rimanere sordo di quel vociare e del rumore di vetri rotti.
Un suono convulso gli giunse dall’altro capo della linea, come se qualcuno stesse soffocando.
-Mimi?- chiamò ancora.
-Bitch!- imprecò una voce maschile e poi rise. Il telefono cadde per terra.
Tom rimase immobile, i muscoli contratti, spaventato da ciò che sentiva, ma troppo coinvolto per staccare il telefono. Si accorse di star sudando.
-Hal…hallo?- la voce di Mimi tremava e sembrava più terrorizzata di Tom, sovrastata dal fracasso indefinito che riempiva i timpani del ragazzo e gli scavava il sistema nervoso.
-Mimi, sono Tom, ti-ti ricordi?- balbettò il ragazzo, aggrappandosi con due mani al cellulare.
-Tom…- biascicò lei –Sì, sì-
-Mimi?- chiamò, sentendo che la ragazza non respirava più nella cornetta.
-Vieni a prenderci- pregò lei, dopo un silenzio che al rasta parve interminabile.
-Dove? Dove sei? Lotte è con te?- urlò Tom, non controllando più l’ansia.
-Vieni, ti prego- pianse Mimi. Tom udì di nuovo quel rumore di vetro rotto e seppe che la ragazza era caduta da un tonfo sordo che lo colpì come una pugnalata.
-Dove? Dove?- urlò ancora.
-Lost Heaven- biascicò la ragazza e poi interrupe la comunicazione.
Paradiso perduto. No, assomigliava di più ad un purgatorio di anime corrotte, vestite da spiriti indemoniati, perduti in un limbo di rumore. Era un locale, Tom l’aveva sentito nominare e proprio in quei giorni, sui quotidiani, era stato pubblicato un articolo su quel covo di disperati.
Niente paura, niente-paura, si intimò il ragazzo, infilandosi la felpa e dirigendosi verso camera di Gustav quasi di corsa. Bussò forte tre volte e avrebbe continuato a tempestare la porta di pugni se il biondino non fosse comparso sulla soglia, in pigiama, ma sveglio.
-Che c’è?- borbottò, infastidito –Ti pare questa l’ora di fare scherzi?-
-Vestiti che dobbiamo andare- rispose Tom, non facendo caso all’irritazione dell’amico.
-Ma che diamine stai dicendo, è l’una di notte!- esclamò Gustav, cercando di fermare il rasta, che entrò nella stanza e si mise a cercare tra le valigie di Gustav un paio di jeans da fargli indossare.
-Sbrigati, io intanto vado a chiamare Saki- gli ordinò Tom.
Il biondino lo guardò precipitarsi fuori dalla suite con la stessa frenesia e la stessa agitazione con cui era entrato; si sbrigò a togliere il pigiama e infilare una maglietta a caso, per poi seguirlo fino alla camera del bodyguard.
-Tom, tu sei impazzito- continuava a ripetere sottovoce Saki, tirato fuori a forza dal letto.
-Saki, dobbiamo andare- protestava Tom con i suoi toni soavi, sottolineando con disperazione quel verbo dovere.
L’omone inforcò gli occhiali che teneva in tasca e il rasta interpretò quel gesto come il più desiderato dei sì. Saki sollevò le mani per impedire a Tom di abbracciarlo e chiese con un’occhiata eloquente almeno cinque minuti per infilarsi i vestiti e chiamare qualcuno che li potesse scortare.
-Ma almeno sai dov’è questo posto?- chiese al ragazzo.
-No, dobbiamo prendere un taxi-
-E taxi sia- acconsentì Saki, mettendo mano al cellulare in tasca e premendo un paio di tasti -Su, andiamo- fece cenno a Tom e Gustav che lo stavano guardando in attesa di ordini e i due si diressero precipitosamente verso l’ascensore.
-Posso chiederti una cosa, Tom?- domandò Gustav, mentre le porte dell’abitacolo si chiudevano davanti a loro accompagnate dal suono del campanello.
Tom annuì, premendo il tasto del pianoterra.
-A cosa ti servirei io?- il biondino si indicò portando l’indice al petto e sollevando un sopracciglio con fare dubbioso.
-Tu? Bè, tu non sei un metallaro?- indagò Tom, pur conoscendo già la risposta.
-Bè, sì- ammise Gustav –ma cosa c’entra?-
-C’entra. Stiamo andando ad una festa del genere- spiegò il rasta.
-E perché?-
-Perché là c’è Charlie-
Le mani di Tom sudavano quando scese nella hall e aspettarono insieme il taxi, sudarono all’idea che se David avesse scoperto qualcosa sarebbero finiti nei guai e, nonostante continuasse ad asciugarle nel tessuto interno della tasca gigantesca dei suoi jeans, sudarono anche durante tutto il tragitto, nel quale le strade illuminate e trafficate che tanto lo avevano affascinato all’inizio gli passarono accanto senza catturare neanche un briciolo della sua attenzione. Continuava a guardare Gustav e i suoi piedi e poi ancora Gustav e il conducente, che si desse una mossa, per la miseria.
Il taxi curvò di colpo in una strada diversa dalle altre, nel centro scuro della città e frenò in un vicolo di insegne al neon flebili e senza lampioni. Solo la luce che proveniva dagli edifici illuminavano la strada.
-Here- indicò loro il conducente, permettendo loro di scendere.
L’attenzione della stampa era stata probabilmente attratta non dal posto, che di notevole non aveva nulla, anzi, era alquanto anonimo, ma dalle persone, se si potevano definire così.
Tom indietreggiò, andando a sbattere contro l’automobile gialla.
All’entrata, segnalata da una luce al neon blu, del Lost Heaven, ciò che non potevano lasciare indifferenti erano quei volti. Bianchi, pitturati da ali nere, che disegnavano la loro pelle diafana e scarna di giochi scuri e neri tracciati e sbavati, sfumati dalla stessa mano. Alcuni di quei ragazzi si girarono verso Saki, Gustav e Tom, concentrando la loro attenzione soprattutto sull’ultimo. Per la prima volta nella sua vita, Tom maledisse i suoi capelli e i suoi vestiti. Sentiva gli occhi infuocati di quei tizi bruciargli la pelle, seguirlo minacciosi.
Impallidì notando le loro borchie e i loro anfibi.
-Saki- chiamò Tom, tirando una manica della giacca del bodyguard.
-Tom, ma dove cazzo ci hai portati?- domandò l’uomo.
-Entriamo dal retro- supllicò il rasta.
-Questo è il retro, pensavo dovessimo andare ad una qualche festa dove potevano riconoscervi e allora ho chiesto di portarci direttamente all’entrata secondaria- spiegò lui.
-Can I go away?- domandò il tassista, uscendo dalla vettura. Era già stato pagato, ma vedendo l’incertezza dei suoi clienti si era fermato ad aspettare che decidessero se restare o scappare.
-No, please, stay here and wait us- rispose Tom, ingarbugliando le parole. L’uomo annuì e si riaccomodò in macchina, per nulla turbato.
-Che facciamo?- chiese Gustav all’amico.
Tom chiuse gli occhi e respirò, buttando fuori l’aria dalla bocca.
-Entriamo-
Gustav lo trattenne per la maglietta, facendolo voltare verso di lui.
-Guarda che questi, Saki o non Saki, ci pestano- lo avvertì.
-Non m’importa- Tom si liberò della presa dell’amico –Entriamo- ripetè e deciso, si cacciò le mani in tasca e avanzò verso l’entrata del locale, cercando di non pensare alla poltiglia d’ossa che sarebbe diventato di lì a poco. Saki lo precedette, allontanando con lo sguardo le persone all’entrata che aspettavano di entrare o rimenevano lì a bere, già mezze ubriache. Prese per un braccio Tom e per l’altro Gustav ed insieme entrarono. Ci misero qualche minuto per abituarsi al buio e a rendersi conto che si trovavano di fronte ad un corridoio stretto e lungo, che dava su stanze diverse e affollate di gente. Passare per quel lungo cunicolo sembrava impossibile. All'estremità lontana, potevano vedere solo la flebile luce di un neon blu, come una cometa da seguire e raggiungere.
Sentirono il loro primo passo avanti pesante come se nelle scarpe avessero pietre, ma ciò che li ostacolava non era la pesantezza dei piedi, ma quella della paura. Altre maschere nere si ergevano ai loro lati, ma queste meno minacciose, più umane. A Tom sembrò che fossero i loro occhi a farlo sentire prigioniero e incapace di proseguire, trattenuto da mani invisibili che lo strattonavano per la giacca e lo alzavano da terra per schiantarlo con forza al suolo.
Una bottiglia volò sopra le loro teste, ma il tipo a cui era stata lanciata era già troppo ubriaco per riuscire ad afferrarla e quella precipitò e si ruppe in mille pezzi ai suoi piedi. Ci rise su, una risata da ubriaco accompagnata da un sonoro rutto, fin troppo consono a quel porcile. Il rumore del vetro rotto scosse Tom dal silenzio che lo aveva avvolto fino a quel momento e i rumori del Lost Heaven entrarono tutti contemporaneamente e con prepotenza nelle sue orecchie, stordendolo. C’era musica molto alta, ma non era il volume a fare pressione sui suoi timpani, bensì il lamento continuo di una chitarra elettrica che scuoteva le fondamenta dell’edificio e faceva traballare i muri.
Avanzarono a fatica e più volte Saki dovette cacciare a manate tizi ubriachi o rissosi che si avvicinavano e bloccavano loro il passo. Tom si riparava la testa con le mani, sentendosi affogare in un mare non suo, ma determinato a raggiungere la luce blu. Cercava con gli occhi Mimi, ma non l’aveva mai vista ed era come cercare uno spirito. L’entrata della sala in fondo al corridoio era occupata da un divano messo di traverso che dovettero scavalcare, aiutandosi a vicenda e lasciandosi alle spalle l’odore di alcool e sudore che impregnava il corridoio.
Il neon blu era sospeso su un tavolo basso di legno consumato, lungo e robusto che sembrava occupare con la sua superficie titanica tutta la stanza, illuminata in aggiunta al blu artificiale da una sola piccola finestra. La luce della luna invernale entrava dal vetro aperto e irradiava d’argento i suoi capelli. Tom, spinto da un tizio robusto, andò a cozzare contro il tavolo, sbattendo il fianco dolorosamente e sbiancando di colpo per il dolore. Cercò di non sputare il sangue che sentiva in bocca a forza di mordersi le labbra.
Con il sapore metallico che gli gonfiava la lingua, alzò gli occhi, reggendosi al tavolo.
La luna illuminava anche la schiena nuda della ragazza, fluida di raggi argentati su cui i capelli biondi cadevano sciolti e ribelli. Tante mani li continuavano ad accarezzare e scostare dal suo collo per morderlo, azzannarlo, leccarlo. In piedi sul tavolo, Charlie aveva gli occhi scuri persi nella luce dell’astro del cielo, le mani in alto in un gesto di donazione completa a quei corpi che opprimevano il suo celato appena dallo straccio di una maglietta strappata che le copriva ormai solo i fianchi. Inclinava la testa seguendo il ritmo dei baci sulla sua pelle, sul suo seno e tra le sue gambe, in uno stato di incoscienza completa. Non sapeva cosa aveva preso quella sera, ma era stato sufficiente a farla sentire libera come tutte le altre volte.
Quegli uomini che la lambivano con assuefazione non avevano un volto, né un nome, lo facevano e basta, l’avevano sempre fatto. Il corpo di donnola della ragazza scivolava da una mano all’altra fino a quando, per puro caso, non incontrò gli occhi di Tom, lacrimanti per il dolore al fianco. Ne lesse la sorpresa, l’imbarazzo, l’impotenza di fronte a quel mondo in cui era capitato per sbaglio. L’aveva trovata, non era scemo come lei pensava. Sorrise sensualmente.
Allargò le braccia per allontanare i corpi che si muovevano intorno a lei con gesto imperioso, da regina quale era e quale Tom l’aveva riconosciuta dal primo istante. Quelli si allontanarono mansueti come ombre e lei camminò sul tavolo, picchiando il legno con i tacchi alti. Arrivò al bordo e fece per scendere, barcollando. Tom l’afferrò prima che cadesse a terra.
La ragazza si aggrappò al collo del rasta, mentre le gambe le cedevano e lui la sorreggeva con tutte le sue forze, cercando di allontanarsi dal tavolo, allontanarsi dal quel posto e andarsene via, salvarla.
Charlie combatteva con i conati di vomito e il sudore freddo, stringendosi a Tom. Trovò abbastanza forza per guardarlo negli occhi, sentendo il suo seno nudo a contatto con la felpa del ragazzo e rabbrividendo dal freddo.
-Sei venuto qui per leccarmela anche tu?- gli chiese, sensuale e minacciosa, prima di cadere ancora.
-No- mormorò Tom al suo orecchio, accarezzandole dolcemente i capelli rassicurandola. Si tolse la maglia e gliela fece indossare a fatica e poi la prese in braccio. Una scarpa cadde dal piede di Charlie, ma nessuno dei due ci fece caso. Il ragazzo la strinse a sé e si diresse verso Saki e Gustav, alle prese con un gruppo di tizi che li minacciavano con le loro borchie e le loro bocche sporche d'alcool. Il batterista strabuzzò gli occhi davanti alla figura della ragazza in braccio a Tom, prese l’amico per una manica e incitati da Saki, imboccarono di nuovo il corridoio per il ritorno, scappando dalla ressa.
Questa volta lo superarono senza difficoltà, le persone si scostavano vedendo la nota chioma bionda di Charlie ondeggiare tra le braccia di quel ragazzo che, secondo loro, era venuto lì solo per cercare rogna.
Quando arrivarono a due metri dall’uscita, la ragazza sembrò riprendere i sensi sentendo l’aria pungente e fresca della notte entrare dall’ingresso e alzò il viso dalla spalla di Tom. Fissò le iridi nocciola del ragazzo e si sentì al sicuro.
-Tom, sei venuto a prendermi- sussurrò, roteando gli occhi. Il ragazzo le sorrise, rassicurando lei e se stesso e mormorò un sì incomprensibile, che la ragazza lesse sulle sue labbra tremanti. Charlie fece per ripiombare nel suo sonno ammalato, ma il ricordo di Mimi le attraversò la mente.
-Dobbiamo, dobbiamo… prendere Mimi- riuscì a biascicare, ad occhi chiusi e con la bile in bocca.
-Cosa?- cercò di scuoterla Tom.
-Ha detto che dobbiamo prendere Mimi, mi sembra-
rispose per lei Gustav.
Tom si voltò con ansia verso il corridoio che avevano appena superato, accarezzando ancora la testa bionda di Charlie. Inspirò per farsi coraggio.
-Aspetta, vado io- lo fermò Gustav.
-Non puoi da solo- cercò di fermarlo l’amico, ma il batterista stava già tornando indietro, mescolandosi tra la folla. Urlò un paio di volte il nome della ragazza, cercando di non farsi prendere dal panico. Non sapeva chi era, non sapeva com’era, non aveva mai sentito neanche la sua voce.
-Mimi!- urlò, con le mani a conchiglia davanti alla bocca. Il suo richiamo venne risucchiato dalla musica assordante. Gustav si guardò intorno, svoltò in una stanza che si affacciava sul corridoio, buia come le altre e chiamò ancora la ragazza.
-Scusa, conosci una certa Mimi?- chiese in inglese ad un tizio, prendendolo per la maglietta. Quello rise e gli indicò i divani tarmati in fondo alla sala. Gustav corse lì. Una ragazza mora e robusta stava vomitando l’anima vicino ad uno dei divani e, spossata, perse l’equilibrio, scivolando su un lago di birra versato sul pavimento. Il batterista la raggiunse e le sorresse la fronte mentre questa respirava profondamente, aspettando un altro conato, che però non venne.
-Sei Mimi?- le chiese il biondino. Questa barcollò, annuendo e tenendosi il ventre con le mani.
-Vieni, ti porto fuori di qui, ce la fai a camminare?-
La ragazza annuì ancora e alla luce dell’unica fonte di chiarore della sala Gustav vide che aveva un occhio nero e un taglio al labbro. La prese per mano e le passò un braccio intorno alle spalle, portandola via da quell’inferno.
L’aria fredda della notte fece indurire i capezzoli della ragazza attraverso la maglia leggera e Gustav la guidò fino alla macchina dove, con l’aiuto di Saki, riuscirono a farla salire. L’autista chiuse con un colpo secco gli sportelli del taxi e salì a sua volta; accese il motore e partì, sgommando nella notte.


*Il titolo originale è Morgenstern, la canzone dei Rammstein che accompagna la seconda parte di questo capitolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Mein Herz Brennt ***


Arina, eccomi qui il prima possibile per continuare questo super film drammatico *w* Spero che ti piacerà!
Gufo, benvenuta a bordo, la nave si è svuotata quindi di posto ce n'è! Poche, ma fedeli, godetevi il cap. 15 **


Un ringraziamento speciale va alla mia Lalù. Bè, il perchè io e lei lo sappiamo fin troppo bene, riesce a tirare fuori il meglio di me quando scrivo e se ho bisogno di aiuto, non me lo nega mai. Credetemi, il merito va il più delle volte a lei e non a me. Se provi a negare, Ale, vengo a Roma a picchiarti u___u
Detto ciò, ecco the chapter.


15.
Mein Herz Brennt*



La paura aveva ricoperto la pelle del corpo agitato di Tom di una sottile pellicola di sudore ghiacciato, che scivolava fastidiosamente lungo la schiena senza lasciargli pace e non poteva liberarsene, il peso del corpo di Charlie su di lui gli impediva qualsiasi movimento. Non voleva svegliarla, né agitarla.
La suggestione che l’incubo del Lost Heaven gli aveva lasciato addosso via via svanì quando il taxi imboccò le vie accecanti di Los Angeles, diretto all’hotel; il conducente aveva al suo fianco una sperduta, ma cosciente Mimi, che si era accomodata sul sedile anteriore, soffrendo il mal d’auto. Le luci dei locali, dei lampioni, delle insegne illuminarono il volto della ragazza, che non risultò così tumefatto come Gustav aveva immaginato nel buio della sala da dove l’aveva salvata. Aveva lo zigomo un po’ gonfio e il labbro spaccato, ma ad aver scurito l’occhio non era stato un livido, ma le lacrime nere che probabilmente la ragazza aveva versato. Charlie era abbandonata tra le braccia di Tom, mentre lui rimaneva immobile, senza sapere cosa fare o, peggio, cosa avrebbe fatto da lì in avanti. Il peso delle sue azioni avventate era arrivato ad incombergli sulla testa appena la confusione e la paura lo avevano abbandonato, mostrandogli con occhi nuovi la verità di quella notte. Era stato un pazzo incosciente, aveva perso quel poco di ragione che credeva di possedere, quella che gli serviva per decidere il volume della chitarra ad un soundcheck e quella che gli suggeriva di usare il preservativo ogni volta che scopava con quella di turno. Era stato stregato, schiaffeggiato dalla suggestione, i diavoli che avevano popolato quel posto sperduto, che in realtà si trovava solo un po’ fuori dal centro, erano ragazzi comuni, eccentrici per lui, resi forse violenti da droga e alcool, ma non decisi ad ucciderlo, come aveva temuto fino a quando non era salito in macchina con Charlie, svenuta tra le sue gambe divaricate e la testa appoggiata al finestrino freddo. Si passò piano una mano sugli occhi, schiacciato dal silenzio del conducente, di Saki, di Gustav, preso ad osservare Mimi con apprensione, mentre la ragazza non degnava nessuno di alcun tipo di attenzione, continuando a toccarsi il labbo con mani tremanti. Voleva spiegazioni, ma non sapeva né come, né a chi chiederle, era solo grata per esserne uscita viva da quell’incontro furioso e patetico di cui era stata vittima. Scacciò il pensiero con una scossa del capo.
Saki, il più discretamente possibile, approfittò di quegli attimi di monacale silenzio per chiamare David, che fu buttato giù dal suo letto con la notizia stupefacente che Tom Kaulitz ne aveva combinata una delle sue. Non ascoltò nessuna spiegazione, interruppe la chiamata, si vestì in fretta e svegliò Georg e Bill e tutti quelli che si alzarono di conseguenza al suo sbraitare infernale contro quel teppista scellerato, che poi è tuo fratello Bill, ne sei cosciente, sei cosciente di avere un fratello completamente matto? Ah, ma questa volta non se la caverà, no, parola di David Jost. Bill sbadigliò vistosamente e si vestì, per nulla preoccupato: se con suo fratello c’era Gustav, allora niente poteva andare male. Sicuramente, le cose non stavano come David sosteneva e se c’era qualcuno che poteva capirlo era lui, che con quel suo gemello aveva vissuto diciannove anni e ne avrebbe vissuti tanti altri. Le cazzate di Tom consistevano nell’ubriacarsi con alcolici nauseanti alle feste e portarsi in camera tre o quattro ragazze compiacenti, un tempo nel tracannare birra con Andreas e sbirciare sotto alle gonne di qualche compagna. Decidere di ammazzarsi andando in un locale del genere non rientrava nella lista.
Il taxista accostò davanti all’entrata dell’hotel da cui era andato a prelevare i due amici e Saki un’ora prima, parcheggiò e, seppur contro le proteste gentili del bodyguard, si rifiutò di andarsene senza prima averli aiutati. Aprì lo sportello a Tom, che scese ringraziandolo, ma non gli permise di toccare Charlie, che prese di nuovo in braccio. Saki sorresse Mimi, a cui girava la testa e il tassista precedette quel corteo fino alla porta dell’hotel, che David arrivò a spalancare, sorpassando l’usciere, infuriato. Ma dovette inghiottire gli improperi che fino a quel momento aveva mormorato a denti stretti alla vista del labbro sanguinante di Mimi, che Gustav accompagnò subito alla reception per farsi dare del ghiaccio, di Tom che sorreggeva Charlie e varcava la soglia, apparentemente come uno sposo che conduce in casa la sposa, ma Charlie era livida e aveva i vestiti sbrindellati e neri, Tom l’aria di chi era appena scappato ad un terremoto. Il ragazzo la distese su uno dei divanetti della hall sotto lo sguardo stupito di tutti gli inservienti dell’hotel, degli amici, di Dunja e Natasha, alle quali lasciò la ragazza, e anche quello di se stesso.
-Ma cosa è successo?- domandò Bill, cercando di tenere ferma la voce, quando il fratello lo ebbe raggiunto, parandosi davanti a David. Tom non gli rispose.
-Mi dispiace David- disse invece, guardando l’uomo con l’aria di uno a cui, in realtà, non dispiaceva per nulla. Quello che aveva fatto, l’aveva fatto non per disubbire al manager. Si sentì più grande e maturo dei suoi anni, gonfiò il petto e affilò lo sguardo, sentendosi fiero, per una volta. Quanti, lo consideravano uno stupido ragazzino. Aveva dimostrato che avevano torto, almeno in parte.
David lo squadrò ancora arrabbiato e gli mollò uno spintone stizzoso, prima di mutare espressione del volto, attirarlo a sé e abbracciarlo, sentendosi piccolo in confronto alla statura gigantesca del chitarrista. Tom accettò quel gesto, che sembrava tanto quello di un padre, senza disdegnare l’affetto del manager come disdegnava in genere ogni prova di debolezza sentimentale, anche quelle dategli da suo fratello.
I camerieri e gli inservienti, che fino a quel momento erano rimasti immobili a scrutare ciò che avveniva, non capendo una sola parola di quegli ospiti tedeschi, ripresero i loro affari. L’usciere chiuse la porta dietro al taxista, che Saki aveva pagato e ringraziato, l’uomo alla reception si mise comodo in attesa di disposizioni.
-E adesso, come facciamo?- chiese Dunja, dal divano su cui era seduta. Georg si riscosse dai suoi pensieri, accorgendosi di aver fissato fino a quel momento solo Bill, che guardava fuori dall’entrata con preoccupazione, in cerca di qualche pericolo, Bill che continuava a spostare gli occhi dalla cielo scuro a Charlie e la studiava, incredulo e poi notava Gustav e Mimi ritornare dall’infermeria, il ragazzo che tamponava delicatamente il labbro di lei con un plico di gel ghiacciato.
-David, dobbiamo sistemarle, in qualche modo- disse Georg, rivolto al manager, che annuì.
-Ci penso subito- rispose al bassista, lasciando Tom e dirigendosi verso la reception.
Il rasta guardò suo fratello vicino a lui e Bill gli rivolse uno sguardo interrogativo con gli occhi assonnati e struccati.
-Chi sono, Tom?- gli domandò, cercando di simulare il suo nervosismo che, lo sapeva bene, Tom non aveva potuto ignorare.
-Charlie e Mimi- gli rispose lui –Siamo andate a prenderle ad una festa in un locale-
-Ma come fai a conoscerle?- indagò l’altro.
-Ho conosciuto Charlie quel giorno in cui Anya è tornata dopo dalla lavanderia- Bill annuì, ricordando lo spintone di Georg che l’aveva mandato a cozzare contro lo stesso tavolo della reception davanti a loro –Ma in verità, non la conosco per niente. Non la conosco perché non sapevo che fosse… così-
-E adesso?- domandò Bill. Sapeva che suo fratello aveva una risposta pronta, l’aveva da quando era scappato con Saki e Gustav per andare al Lost Heaven. Altrimenti non ci sarebbe andato.
-Adesso mi prenderò cura di lei-
Bill annuì e prese un respiro profondo.
-Ti rendi conto di quello che hai e stai rischiando, Tom Kaulitz?- la voce era seria e il suo nome pronunciato per intero era una sorta di avvertimento. Il rasta assentì, tranquillo.
-Lo sai, ma non ci pensi minimamente, vero?-
-Esatto- confermò Tom –Non mi interessa-
-Poniamo un’ipotesi- Bill cercò di ragionare e far ragionare il gemello –Cosa penseresti se mi vedessi su un giornale con una ragazza drogata, con le gambe livide e i vestiti strappati in braccio?-
Tom scrollò le spalle.
-Non è un problema tuo Bill, perché tu non ci sei su quel giornale e non ci sarò nemmeno io-
-Questo non lo puoi sapere. Giornalisti, paparazzi, fan, sono sempre in agguato, pronti a distruggerci e non mi sembra che fino ad adesso sia andata così bene, no? Vuoi che ti citi un paio di articoli usciti in questi giorni anche sul New York Times?-
Bill sembrava nervoso, sveglissimo ora. Preoccupato per suo fratello.
-Piantala con la paternale- ribattè Tom.
-Fa come ti pare- sbuffò Bill, scocciato dalla testardaggine dell’altro. Testardo, come lui.
-E’ quello che sto facendo e almeno io faccio qualcosa. Tu pensi solo a quello che potrebbero dire di te, per tanti anni l’hai fatto- lo provocò Tom, alludendo all'argomento più delicato che sapeva avrebbe turbato l'altro, ma Bill non potè ribattere, perchè David stava tornando verso di loro con in mano un tesserino.
-Dovremo arrangiarci, perché hanno una sola camera libera ed è una singola- spiegò ai ragazzi.
-Io non ho sonno, Mimi può dormire da me e Charlie possiamo portarla nella singola- propose Gustav.
-No- cercò di protestare la ragazza vicino a lui, ma nessuno di quegli estranei le diede tempo di ribattere.
-Gustav, tu starai da me- disse Tom, all’amico, sorridendogli grato. Questo annuì.
-Va bene, allora andate in camera, tutti quanti- ordinò David –Domani, tanto per cambiare, la sveglia è alle sette-
-A che piano è la stanza di Charlie?- chiese Tom, allungando una mano verso il produttore per farsi consegnare il tesserino, mentre già suo fratello e gli altri si stavano dirigendo verso gli ascensori, trascinando i piedi.
-Oh no, caro, levati dalla testa quello che hai in mente- lo rimproverò David, intuendo le sue intenzioni e bloccandolo prima che potesse ribattere –A lei ci penseranno Dunja e Nat-
-No- si rifiutò Tom, avvicinandosi al corpo della ragazza disteso sul divano.
-Sì, invece- insistette David.
Il rasta scosse la testa e si parò davanti a Charlie, risoluto. David sbuffò: stava per perdere la pazienza e già l’aveva persa una volta, volevano mica vederlo di nuovo furioso? Quelle due incoscienti erano già di per sé un problema senza che il rasta si ostinasse a fare il bambino.
-Vai Tom, ti porto da lei dopo- gli sussurrò senza farsi notare Dunja e allora, solo allora il ragazzo, con le mani in tasca, si avviò verso le scale e iniziò a salirle a due a due, contrariato. David ringraziò il cielo e fece segno a Saki di aiutare Natasha a sollevare Charlie, che mugugnò quando l’omone la tirò su senza difficoltà.
Attesero che si liberasse un ascensore e poi salirono al quarto piano, cercando la camera segnata sul tesserino plastificato. Non era grande né tanto meno lussuosa come quelle al piano di sopra dei ragazzi, ma aveva un bella vista sul centro della città. Dunja tirò le pesanti tende bordeaux per impedire alle luci della notte di entrare attraverso il vetro chiaro. Congedò sia Saki che Natasha, a cui chiese di andare a vedere come stesse Mimi, anche se era sicura che Gustav si stesse occupando di lei e andò in bagno a cercare qualcosa che potesse assomigliare ad una bacinella. Riempì il catino, che trovò sotto il lavandino, di acqua calda e prese una spugna dal cestino degli omaggi dell’hotel, tornando poi vicino al letto su cui Saki aveva adagiato la sfortunata ragazza. Nessuno ci aveva fatto molto caso, tutti impegnati a compatire il suo viso sofferente nel sonno e il pallore delle sue guance, ma Charlie aveva le gambe graffiate e livide. Dunja immerse la spugna nell’acqua calda e scoprì le cosce della ragazza fino alla vita, prendendo a strizzare e lavare la pelle, recandole un po’ di sollievo. Poi le levò la maglia di Tom e la sollevò un poco per poterle lavare il collo sporco e appiccicaticcio di quella saliva impregnata di birra che l’aveva percorso, il viso con il trucco sbavato e il rossetto sul mento; le tolse i capelli biondi dagli occhi e corse di sopra nella sua camera, sacrificando un po’ della sua biancheria e un pigiama per la ragazza, che le fece indossare con qualche difficoltà.
-Hei- le mormorò, appena vide che cominciava a svegliarsi.
Charlie scrutò il viso sconosciuto della donna e chiuse di nuovo gli occhi, accecata dalla luce che proveniva dal comodino.
-Io sono Dunja, un’amica di Tom. Non devi avere paura- disse lei, con lo stesso tono pacato di prima.
-Chi ti dice che io ne abbia?- rispose la ragazza, stropicciandosi gli occhi. Guardò le vesti pulite che aveva addosso e la maglia oversize che Dunja le aveva di nuovo posato sulle spalle. Se la strinse addosso.
-Sei.. sei stata tu?- le chiese, continuando a guardarsi intorno.
-Sì- annuì l’altra.
-Mi hai portata qui?-
-No, è stato Tom, io ti ho lavato e cambiato, spero di non sembrarti maleducata, ma avevi del sangue rappreso sulle gambe e il viso sporco di trucco-
-No, no, anzi, grazie- le sorrise Charlie –Ma cosa è successo? No, so cosa è successo, lo so benissimo, ma solo fino ad un certo punto-
Dunja scrollò le spalle.
-Io non lo so, è stato Tom a venire a prenderti e ci ha fatto preoccupare, David ci ha svegliati tutti. Poi ti ha portata qui, devi chiedere a lui il resto, magari domani a colazione. Ora dormi un po’- le consigliò.
Charlie annuì debolmente, rintanandosi sotto le coperte e Dunja spense la luce, lasciando la camera e salendo al piano superiore, dove nel corridoio incontrò Natasha, che stava uscendo dalla stanza di Gustav.
-Sta bene?- si domandarono insieme e insieme assentirono.
-Gustav è ancora con Mimi, lei gli stava parlando di qualcosa. E’ un po’ scossa- spiegò Nati, avviandosi verso le loro stanze, ma, accorgendosi che l’altra non la seguiva, si voltò.
-Ti raggiungo dopo, devo andare a cercare Tom- si giustificò Dunja, affrettando il passo e svoltando il corridoio per raggiungere la suite del chitarrista. Per la fretta, andò a sbattere proprio contro di lui, che misurava con passi nervosi il tragitto fino al muro e poi di nuovo lì, alla sua camera, in attesa, rischiando più volte di svegliare gli altri e soprattutto David.
Dunja cavò dalla tasca il tesserino per la camera e glielo sventolò davanti al naso.
-Sta dormendo, fai piano- fu l’unico avvertimento che riuscì a dare a Tom, prima che questo la ringraziasse con un bacio frettoloso su una guancia e scappasse a premere il tasto di chiamata dell’ascensore. Quell’abitacolo di metallo stretto e chiuso, ogni volta che doveva salirci sopra, lo destabilizzava completamente, impossessandosi di ogni suo pensiero. Sarebbe rimasto soffocato lì dentro, schiacciato dalle pareti, prigioniero della sua stessa immagine spaventata che si rifletteva nello specchio davanti a lui. Questa volta chiuse semplicemente gli occhi e aspettò che la voce metallica annunciasse il piano e le porte si aprissero, senza aver sofferto neanche un istante di inspiegabile terrore.
-Trecentotre… trecentotre- mormorava, cercando la camera e trovandola in fondo al corridoio. Infilò il tesserino nel lettore magnetico e aprì silenziosamente la porta, per poi chiuderla dietro di sé con attenzione. Se lei dormiva non voleva svegliarla e se dormiva, voleva dire che stava meglio e non c’era bisogno di chiederglielo, si sarebbe risparmiato una discussione imbarazzante. Si avvicinò al bordo del letto, accendendo l’abat-jour e posandovi sopra il suo capello, per smorzare la luce aranciata e calda che emanava.
Il suo stomaco iniziò a far male e a risvegliarsi: era davanti a lui, indifesa e placida nel sonno e sotto alle sue palpebre non c’era alcun movimento repentino e canzonatorio, come ricordava nei suoi occhi nocciola mentre si gustava la vista della casa-garage seduta sul suo inguine. In quel momento, avrebbe tanto voluto non averla mai vista in quel locale per quello che era, avrebbe voluto preservare il ricordo di quella ragazza ribelle e bionda che si spogliava senza pudore e lo prendeva in giro. Allungò una mano callosa verso il suo collo gentile, disgustato dal pensiero che, fino a poche ore fa, quella stessa pelle era stata disprezzata e in un certo senso profanata da bocche che non erano la sua, l’avevano leccata senza alcuno scopo se non quello di eccitarsi, luridi bastardi. Accarezzò quel collo che lui e solo lui voleva e pretendeva di avere. Indugiò un attimo sulle sue spalle: il suo desiderio era toccarla e toccarla ancora, ovunque, ma se l’avesse fatto, approfittando del fatto che fosse addormentata e ancora stordita, sarebbe sceso al livello di quegli altri, quei lupi affamati che con lui non avevano nulla a che fare. Era un maledetto stronzo, questo sì, ed era anche un porco, ma non a quei livelli, non lo sarebbe mai stato con lei come con nessun'altra, mai. Nessuno poteva meritarselo; se non amore, almeno piacere reciproco e rispetto. Sentì le viscere contorcersi e ribellarsi alle sue riflessioni puritane e si fece una doccia gelata mentalmente, prima di ritirare l’indice in discesa sulla pelle di Charlie. Sbuffò contro la sua pancia, deciso a metterla a tacere, per una santissima volta. Non poteva sempre averla vinta lei, lei e il suo complice lì sotto.
La ragazza si mosse nel sonno, rigirandosi e lui si sedette al suo fianco, sul letto, distendendo le gambe e passandole un braccio dietro alle spalle, avvicinandosi cercando di non svegliarla, ma fu inutile, perché il sonno fragile di Charlie si spezzò e la ragazza aprì gli occhi, spostando un ciuffo biondo dal viso.
-Ciao- mugugnò, sollevando la schiena per consentire a Tom di sistemare il braccio sotto di lei e poi adagiandosi con la testa sull’incavo del suo gomito.
-Ciao- rispose Tom –Mi dispiace di averti svegliata-
-Non fa nulla- scosse la testa Charlie. Il rasta non trovò niente da dire, così tacque, fissandosi la punta lontana delle scarpe. Ora che ci pensava, avrebbe dovuto toglierle.
-Ti ho disgustato, non è così?- lo interrogò la ragazza, interpretando a suo modo il silenzio imbarazzato del chitarrista.
Tom si voltò verso di lei e scosse la testa.
-No- mormorò.
-E allora ti ho fatto pena- incalzò ancora Charlie, ma la risposta del rasta fu la medesima.
-Perché sei venuto a prenderci?-
-Perché, al contrario di te, io ci tengo-
-A cosa?- lo interrogò lei, non capendo cosa intendesse dire.
-Tengo a te-
Charlie scoppiò a ridere, ma la risata sfumò in un accesso ti tosse, perdendo tutto il suo fascino.
-Come fai a tenere a me, lo sai solo tu-
-Già- annuì Tom –e immagino sarebbe inutile tentare di spiegartelo-
-Esatto- rise ancora Charlie –L’idea mi sa molto di assurdo-
-Ti disprezzi fino a questo punto?- chiese Tom, cercando il suo sguardo.
-Forse- fu la risposta evasiva della ragazza.
-Io no e anche questo credo di saperlo solo io-
-Senti un po’- vambiò discorso lei - Spiegami una cosa: che te ne frega di me in questo momento, adesso che non posso soddisfare le tue voglie, visto che sono leggermente invalida? Risparmia i convenevoli quando sarò in grado di scoparti-
Tom ammutolì.
-Che…?- fece per chiedere, ma capì l’allusione di Charlie: se aveva scoperto chi erano i Tokio Hotel doveva anche aver scoperto chi fosse lui, cosa dicessero di lui e quali voci lui si rifiutava di negare, divertito. Gli vennero in mente alcune battute, alcune sul fatto di scoparsi da solo, visto quanto era sexy, e rise.
-Tom Kaulitz non ama - oh, non pretende amore - e non è amato, non lo permette a nessuno perchè ha paura. Cerca la via più comoda e se ne infischia, nessuna lo cercherà più, è sempre in giro per il mondo e fa in modo di allontanarle tutte una volta ottenuto quello che vuole. Se lo ottiene, ovvio!- rise Charlie, ricordando un qualche articolo che le era capitato di leggere.
-Quante cose si apprendono sul proprio conto dai giornali! Dovrei leggerli più spesso- rise a sua volta lui.
-Non è così?- fece finta di stupirsi Charlie, sollevandosi e guardandolo.
Tom le prese una mano e, tirandola per il braccio, l’avvicinò fino a far scontrare i loro petti.
-Mi fai talmente compassione che vorrei essere capace di amarti un pochino io- mormorò Charlie, tra le labbra del ragazzo.
-La cosa è reciproca e chissà che un giorno non ci riesca- le soffiò sul collo Tom, facendola di nuovo sdraiare accanto a sé e spegnendo l’abat-jour.


*omonima song dei Rammstein

Sono graditi i commenti XD

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Hola chica de la noche ***


16.
Hola chica de la noche



Mi raccontò anche di Tom, un suo amico che portava sempre con sé un blocchetto su cui tracciare delle righe verticali, una per ogni donna che aveva “posseduto”. E i nomi dov’erano? Questo gran cavalcatore aveva dimenticato di prenderne nota; non le “possedeva neanche nel ricordo. Nella sua estenuante carriera di seduttore di una notte, Tom aveva imparato meno di coloro che hanno amato una sola donna, ma l’hanno “conosciuta” in tutti i sensi.
Afrodita – Isabel Allende


Parole calde le uscivano dalla bocca sorridente, mentre sottobraccio scortava un signore anziano, suo nonno probabilmente, ad un tavolino del bar. Gli ombrelloni verdi dell’entrata, quelli che i gestori aprivano d’estate per fare ombra ai clienti seduti sotto il sole di Berlino, erano chiusi e impolverati, là fuori nella primavera incalzante. I due erano arrivati con la metropolitana, li aveva visti subito, appena avevano fatto capolino dalla scala che conduceva alla tana di quell’utile mostro di metallo che si muoveva rapido proprio sotto la città, ed ora la ragazza stava facendo accomodare il signore, scostandogli la sedia e chiamando un cameriere con il braccio. Questo sorrise al vecchio, probabilmente era cliente abituale, si vedevano tutti i giorni; infatti, l’uomo diede un buffetto sulla guancia al ragazzo, che tornò in cucina con l’ordine di portare al signor Friedrich “il solito” e una lattina di acqua tonica alla signorina, che, tuttavia, non si sedette al tavolino, ma rimase in piedi. Invano l’anziano signore tentò di persuaderla a sedersi, ma lei continuava a rifiutarsi, dicendo che era in ritardo. Per cosa? insisteva quello. Estoy en retraso. (spagnolo, sono in ritardo)
E mentre scuoteva la testa per rifiutare l’invito a sedersi del signor Friedrich, faceva ondeggiare sulla schiena la treccia ramata lunga quasi fino alla vita. Era una strana treccia, fatta di tante treccine intrecciate tra di loro. Appena Rodrigo rifletté su ciò che aveva appena pensato, rise. Aveva creato una specie di scioglilingua sulla capigliatura di quella ragazza che parlava la sua stessa lingua con un accento caldo e ridente come pochi aveva sentito, anche se non propriamente dolce: nella sua pronuncia rimaneva l’abbaiare del tedesco celato, ma non invisibile ad uno spagnolo.
Si alzò, dopo essersi lisciato il pizzetto scuro sul mento e si diresse verso di lei, disinvolto.
-¿Habla usted español?- (spagnolo, parla spagnolo?)
Anya si voltò di scatto sentendo il fiato di colui che aveva appena parlato sul collo. Studiò per un attimo quella figura alta e abbronzata, sorridente e affascinante, forse per l’accenno di barba sulle guance, forse per il sorriso bianco che faceva capolino dalle labbra sensuali dell’uomo che le stava davanti. Era alto, ma non eccessivamente e aveva un aspetto piuttosto sano, allegro. Non indossava né abiti sformati, né jeans aderenti, né capellini con la visiera, ma dei pantaloni comodi e una camicia stirata, a differenza di tutte le maglie che lei lavava e che nel giro di una giornata finivano spiegazzate in una valigia qualunque. Anche il signor Friedrich si voltò a guardare l’uomo che importunava la sua alunna, ma non proferì parola.
-Poco, soy alemana- (spagnolo, poco, sono tedesca) gli rispose Anya, scostandosi un poco.
-¿Puedo ofrecerle un café?- (spagnolo, posso offrirle un caffè?) le chiese l’uomo, sorridendo e facendo cenno al tavolino lì vicino, dove fino a pochi minuti prima sedeva. Lo sguardo di Anya andò a cercare curioso e attento quello di lui, per cercare qualche cattiva intenzione in una delle pagliuzze dorate delle iridi castane, ma sembrò non trovarne affatto e decise che si poteva fidare. Una sola mossa falsa di quello spagnolo e avrebbe rialzato le difese.
-¡Pero si es casi ora de comer!- (spagnolo, però è quasi ora di pranzo!) sorrise a sua volta, protestando.
L’uomo guardò l’orologio che teneva al polso e alzò gli occhi al cielo.
-Bueno, entonces le ofrezco de comer, si usted quiere- (spagnolo, bene, allora, se preferisce, le offrirò da mangiare) cambiò idea.
-Un cafè seria perfecto, gracias- (spagnolo, un caffè sarà perfetto, grazie) si tirò indietro Anya, sottolineando con le labbra la parola “perfecto”.
Rodrigo si fece da parte per lasciarla passare, allargando le braccia in un gesto elegante e stendendo le labbra in un sorriso aperto. Anya si chinò verso il signor Friedrich, che aveva ascoltato compiaciuto il discorso fra i due giovani, non degnando neanche di uno sguardo il suo pranzo caldo sulla tavola.
-¿Bueno, entonces nos vemos mañana, no?- (spagnolo, bene, ci vediamo domani mattina, no?) gli sussurrò la ragazza, chinandosi a prendere la borsa sulla sedia vicina. Il professore le allungò una carezza sulla testa, scacciando con la mano una mosca che gli ronzava attorno, attratta dall’odore di menta e tabacco dei suoi vestiti.
-Claro, querida, no te preocupes- (spagnolo, certo, cara, non ti preoccupare) assentì, voltandosi verso il piatto davanti a sé e facendo un cenno al ragazzo, che si scostò di nuovo per far passare Anya e la sua treccia, che la ragazza spostò su una spalla prima di accomodarsi al tavolino, trovandosi di fronte il Kosmos. Proprio lì, davanti a lei, grigio e anonimo, senza di loro. Il signor Friedrich era abituato a pranzare al bar di quel cinema storico da anni: ci andava da piccolo, conoscendo il proprietario, ci aveva portato qualche fidanzata, sua moglie, ci era tornato per un po’ di compagnia quando questa era morta e non aveva mai più smesso di farlo, neanche quando aveva iniziato ad avere qualche problema a muoversi tranquillamente per la città facendo affidamento solo nella metropolitana; Anya si era offerta di accompagnarlo e ogni giorno aveva dialogato con lo sguardo con il Kosmos, senza di loro sopra il tetto, a suonare. Non ricordava di chi era stata l’idea di girare il video di Der Letzte Tag sopra quell’edificio, sapeva solo che per il giorno stabilito le previsioni annunciavano pioggia, anche se la stagione non l’avrebbe mai fatto pensare e l’agitazione era talmente palpabile e tagliente che si era trovata a gridare ordini ai quattro ragazzi perché si preparassero, il sole sta uscendo e David vi vuole lì fuori, vado a chiamare Natasha per il trucco e speriamo che quelle ragazzine lì sotto facciano abbastanza rumore, devono sembrare vere fan. C’era gente persino sui balconi a guardare cosa ci facessero quattro pazzi sopra al Kosmos a fare finta di suonare, presissimi da una melodia che si sentiva come un sottofondo nel traffico lontano e impegnati a sudare sotto il sole sperato con gli strumenti al collo. Era il video preferito di Anya, forse perché l’aveva seguito interamente insieme ai tecnici, forse perché poi David l’aveva ringraziata per il suo intervento da generale, forse perché l’unica canzone che avesse ascoltato con piacere le prime volte che aveva lavorato con loro era stata quella, quando ancora la voce di Bill non era ben definita e la versione della musica era molto più infantile, forse perché l’ultimo giorno di cui lui cantava la faceva pensare. In effetti, stare con lui ti faceva pensare, sempre e troppo. Rimanendo da sola, nell’appartamento vuoto dei ragazzi, Anya si era sentita sollevata dal peso di quei pensieri, li aveva rinchiusi in un cassetto e li aveva lasciati lì a marcire, preoccupandosi solo del minimo indispensabile per sopravvivere; aveva creduto di aver tante cose da recuperare, da riprendere dalla sua vecchia vita, una volta trovatasi sola, ma alla fine, del suo passato, aveva trovato solo le ceneri e tutto ciò che la faceva andare avanti era il pensiero che avrebbe ripreso a lavare calzini, fossero quelli di Bill, capriccioso, lui e quel suo bacio nello stanzino, a cui si era promessa di non dare alcuna importanza, accorgendosi di non riuscirci una volta avuta l’occasione di rifletterci su senza lui intorno. Stronzo e capriccioso; non era lui quello che l’aveva sempre tratta con un misto di disprezzo e superbia, quello che le passava davanti con una ragazza dai capelli castani o gli occhi verdi al braccio per farle vedere quanto loro fossero giuste, non lei, che doveva solo servirlo e non gli andava giù, no, che lei lo trattasse come se fosse ancora un sedicenne, ma quella era la loro lotta. Sì, era stato lui. Poteva capire Georg e il fatto che, per affetto, l’avesse confusa per qualcosa di più che “l’amica”, ma a lui poteva permetterlo, lui era stato sempre così con lei, così gentile e disponibile ad ascoltarla, come quella volta in cui si erano ritrovati a parlare del passato e con lui, solo con lui era riuscita a confidarsi. Gli altri erano bambini, Bill lo era e lei lo sapeva.
Si accorse di essersi incantata davanti all’immagine dell’entrata del Kosmos solo quando vide la mano di Rodrigo sventolarle insistentemente davanti agli occhi con lo stesso fare scherzoso dipinto sul suo volto, facendole fare un salto sulla sedia.
-Perdoneme- (spagnolo, perdonami) mormorò, imbarazzata, scuotendo la testa con fare distratto.
-No, scusami tu, è che, sentendoti parlare, mi hai ricordato casa e non ho resistito- le sorrise lui, bloccandole il braccio che lei aveva fatto saettare verso la borsa con la sua mano.
-Ma allora sai il tedesco!- si sorprese lei e la sua espressione accusatoria lo fece sorridere.
-Certo-
-Bravo, grazie a te ho fatto la mia figura quotidiana e per di più davanti al mio professore!-
-Ma cosa dici, lo parli molto bene- si difese lui, alzando le mani davanti a sé.
-No, non è vero- rise Anya –Ti dispiace se ti do del tu?-
-Tanto ormai è fatta. Io sono Rodrigo- le porse la mano lui, la stessa che fino a quel momento era rimasta sul braccio della ragazza e che lei strinse calorosamente.
-Anya- si presentò –E, se mi è concesso, cosa ci fai a Berlino?-
-Sono qui per lavoro, sono un manager- spiegò Rodrigo.
-Ah- annuì la ragazza –Lavoriamo nello stesso ambiente-
-Davvero?-
-Bè, sì, ma non proprio- notando la faccia stupita dell’uomo, Anya ci tenne a precisare all’istante, ma la sua risposta vaga non chiarì le idee allo spagnolo, che le fece cenno di andare avanti.
-E’ una storia lunga-
-Abbiamo tutto il tempo, nell’attesa del caffè, poi, se non vuoi raccontarmela, è un altro conto-
-No!- scosse la testa Anya –Mi farebbe piacere, ma credo sia meglio saltare i particolari!-
Sono figlia di un’alcolizzata uscita di senno e ora ricoverata in una clinica qualsiasi, se vuoi saperlo, non ricordo quale sia e non mi interessa, sono anni che non vado a trovarla e non ho intenzione di farlo ora. Mi sto ingarbugliando, comunque, ho studiato lingue cinque anni e poi, quando ne ho compiuti diciannove, mia cugina è stata assunta come truccatrice di una band emergente, spero che tu li conosca così mi risparmio tante spiegazioni, i Tokio Hotel. Io ho deciso di seguirla: sono andata dal manager della band e mi sono fatta assumere. Adesso arriva la parte divertente: io sono la loro tata. Sì, hai capito bene, la loro tata! Lavo la loro roba, rimetto in ordine le loro camere e in pratica mi occupo di ogni loro capriccio, che, devo dire, sono pochi, almeno questo. Quindi, calcolando, sono tre anni o poco più che viaggio con loro.
-Ho buttato via cinque anni di studio delle lingue e ora lavoro come “lavanderina” per i Tokio Hotel- spiegò Anya, dopo aver pensato alla maniera più semplice per spiegare una situazione particolare come la sua. Rodrigo la fissò incredulo per qualche secondo prima di scoppiare a ridere, mettendola in imbarazzo.
-So che è divertente detto così, ma viverlo, te lo assicuro, non è propriamente la stessa cosa- sbuffò la ragazza.
-Oddio, non ci posso credere!- continuò a ridere Rodrigo, fino a quando un’occhiata gelida di Anya non lo riportò alla realtà –Ok, ok, scusami. Ma spiegami una cosa: non avresti potuto essere la loro traduttrice visto che conosci tante lingue?-
Anya aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito. Il perché non lo sapeva neanche lei, in fondo, David le aveva sempre detto che, visto la cattiva luce in cui era caduta Natasha stando sempre sotto ai riflettori, aveva voluto esonerarla da quel compito per non farle accadere la stessa cosa. Ma lei non l’avrebbe permesso, non era come la cugina; se fosse accaduto, avrebbe saputo infischiarsene di ciò che i giornali, le fan dicevano? Il mondo dei Tokio Hotel ruotava intorno a loro ed un errore sarebbe stato per sempre, ma l’irritazione per essere solo un’inserviente, cos’era altrimenti? a volte la lasciava senza fiato a rigirarsi nel letto. Darsi dei validi motivi non serviva e allora l’idea di essere una serva, non un’amica, non una persona di aiuto, non qualcuno che importasse davvero, le risvegliava la stizza nel petto.
-Evidentemente no- rispose, dopo averci pensato –ma non fa niente. E tu invece?-
-Bè, sono il manager di una cantante spagnola, dubito che tu possa conoscerla e in questo periodo sto cercando di farla emergere anche in Europa, per questo sono qui- spiegò Rodrigo, scostandosi mentre un cameriere posava sul tavolino due cartoni fumanti di caffè allungato ed il conto.
Anya spostò la manica della giacca dal polso, interrogando l’orologio, che le urlò il suo ritardo.
-Accidenti- imprecò sottovoce.
-Tutto ok?-
-Sì, sono solo in ritardo- esclamò Anya, alzandosi dalla sedia con il caffè in mano e prendendo il conto, ma Rodrigo la fermò.
-Lascia ci penso io – e, allungando una mano nella tasca della giacca, le porse il suo biglietto da visita –Nel caso dovessi aver bisogno di un posto da traduttrice, non si sa mai, potrei aiutarti-
Anya prese il cartoncino, sorridendo e dopo averlo posato in borsa si mise alla ricerca di una penna, che trovò in una delle tasche interne, in mezzo a delle mentine ed il trucco; prese uno dei fazzolettini di carta dal contenitore sul tavolino e scrisse il suo numero.
-E questo è il mio numero, nel caso ci incontrassimo in qualche parte del mondo- rise, porgendogli il fazzoletto –Buona fortuna-
-Anche a te- annuì Rodrigo, guardandola allontanarsi dopo aver fatto cenno al signor Friedrich un’altra volta –Ah, se mi è permesso saperlo- le urlò poi, facendola voltare.
-Sì?- lo incoraggiò Anya.
-Dov’è che vai tanto di fretta?-
-A prepararmi, domani vado a Loitsche-

*

-E’ spaventoso come tutto precipiti così in fretta-
-Ne sono successe di cose spaventose quest’anno […] Ti fa pensare che ciascuno di noi potrebbe andarsene in un momento per la più piccola sciocchezza-
Dawson's Ceek

Mamma, ho fame!
E la mamma apriva il frigorifero e tirava fuori la colazione, tutto quello che volevi per colazione, ma Bill doveva sempre prendere le cose più buone, angelico e assonnato, con le gambe a penzoloni dalla sedia.
Mamma, ne voglio ancora!
E ce n’era sempre ancora.


La lingua che sentiva provenire a volume basso dalla televisione davanti al letto non era la sua, non quella che parlava tutti i giorni, né sua era la stanza che, aperto un occhio ed uno solo, intravide tra le ciglia. Sì, mi alzo mamma, ma, come capitava spesso, non si sarebbe veramente svegliato se non un quarto d’ora dopo, con molta calma; quando ricordò di non essere a casa, ma in un albergo in America, perché era inglese la lingua che sentiva, Tom si accorse che un’altra cosa non era come avrebbe dovuto essere: il suo bacino pesava. Aprì di scatto gli occhi e sobbalzò nel letto, aprendo la bocca per emettere un urlo, ma riuscendo a fermarsi appena in tempo davanti alla faccia sorridente di Charlie, che saltava allegramente sul suo stomaco con una matita nera in mano. Una matita da trucco.
-Io ho fame- gli disse, tranquilla.
-Non farlo mai più, mi hai spaventato! Ti stai abituando troppo a questa posizione e i miei poveri gioielli ne risentono sai?- esclamò Tom, cercando di scostarla senza farla cadere, ma Charlie puntò i piedi sul materasso, costringendolo a desistere.
-Hai capito che ho fame?- gli chiese ancora, testarda, ma Tom non la sentì, preso a fissare la matita che la ragazza si rigirava tra le dita.
-Cosa stavi facendo con quel coso?- domandò, non sicuro di voler ricevere una risposta.
-L’ho trovata nel cestino degli omaggi dell’hotel, volevo vedere se truccato assomigliavi un po’ di più a tuo fratello- spiegò Charlie.
-Tu cosa?- urlò Tom, facendo forza sulle braccia per alzarsi e correre in bagno, ma riuscendo solo a mettersi seduto sul letto, dove continuò a toccarsi il viso, guardando Charlie terrorizzato.
-Cosa mi hai fatto?-
-Io ho fame- fu l’unica risposta di Charlie, che si avvinghiò con i piedi al busto di Tom per sistemarsi meglio.
-Se mi facessi alzare e levare questa roba dalla faccia!-
-Se ti lascio, giura che non mi fai niente-
-Cosa? Ma che dici?- strabuzzò gli occhi Tom davanti all’espressione preoccupata della ragazza.
-Hai la faccia di uno che ha voglia di vendicarsi- gli assicurò Charlie, scoppiando a ridere.
-Prima o poi lo farò, per ora accontentati del fatto che ti darò della stronza per tutta la vita- rispose Tom, non cercando più di alzarsi, bloccato dal sangue che iniziava a scorrere più veloce, ora che era sveglio e conscio di ciò che stava accadendo in quel momento; la pressione delle mani sulle cosce della ragazza aumentò involontariamente e lo sguardo di Tom vagò disperato, cercando di non posarsi sulle sue curve morbide, ma Charlie non poteva non accorgersene e sorriderne.
-Allora va bene- replicò, scavalcandolo inaspettatamente e dirigendosi verso la sedia su cui Dujna le aveva lasciato un paio di jeans e un dolcevita. Quella scena le ricordava qualcosa di già vissuto, un divertente deja-vu che aveva a che fare con due bottiglie di birra e una tuta grigia e l’espressione di Tom abbandonato sul letto non potè che confermarglielo. Forse, si era dimenticato del trucco con cui gli aveva impiastricciato tutta la faccia.
-Sai, il trucco prima o poi si deve togliere, perché ti rovina la pelle e poi ti vengono le rughe- gli consigliò da sopra la spalla, trattenendo le risate.
-Porca puttana!- esclamò Tom, buttando i piedi giù dal letto e inciampando nella corsa verso il bagno, verso i lavandino, che aprì al massimo, schizzando acqua da tutte le parti.
Come diavolo ci si strucca? si urlò mentalmente, maledicendosi per non aver mai fatto caso a quando Bill si spogliava del suo amato nero.
-Ok- si incoraggiò il rasta, prendendo un po’ di sapone liquido dal contenitore e buttando la faccia sotto il getto d’acqua. Quando si guardò allo specchio, fece un salto all’indietro: era Bill, Bill lo stava guardando dallo specchio, con il trucco colato sulle guance e l’espressione femminile; gli venne quasi da piangere e ridere insieme, ma si trattenne dal fare entrambi, gettandosi sulla carta igienica a lato del lavandino, srotolandola e sfregandosela sulla pelle fino a farla diventare rossa.
Per il nervoso, fu tentato di rompere il vetro a pugni, ma la figura bionda di Charlie che lo sbirciava dalla porta lo fece girare di scatto: scuoteva la testa, con le braccia incrociate al petto e il sole chiaro dietro alla schiena.
-Siediti- gli intimò piano, avanzando verso di lui, mentre Tom lasciava cadere nel lavabo la carta igienica zuppa e si sistemava, camminando all’indietro per non perderla di vista, sul bordo della vasca da bagno, reggendosi con le mani al marmo freddo.
Charlie tirò fuori dal mobiletto dello specchio il kit di pronto soccorso di cui gli hotel munivano tutte le camere e aprì la confezione del cotone, prendendone qualche batuffolo, che bagnò appena con un po’ di acuqa e sapone.
-Chiudi gli occhi- ordinò di nuovo pacatamente al rasta e lui obbedì, deglutendo un paio di volte come a rimprovero della salivazione scarsa e del brivido che gli percorse il collo teso in avanti mentre il cotone, piano piano, lo lavava del trucco colato.
-Brucia- protestò, sentendo gli occhi lacrimare e pizzicare.
-Lo so- replicò la ragazza, prendendo altro cotone e bagnandolo d’acqua tiepida, per poi inginocchiarsi ai piedi del ragazzo e continuare a sciacquarlo, soffiando delicatamente per alleviare il bruciore che, per esperienza, sentiva fastidioso anche tra le sue ciglia.
-Meglio?- chiese, dando al ragazzo un colpetto sul ginocchio per invitarlo ad aprire gli occhi.
Tom si strofinò le palpebre e poi posò lo sguardo sull’espressione rilassata di Charlie vicino alla sua gamba destra, seduta per terra con una posa da sirena poco aggraziata ed il viso a sfiorare i suoi jeans.
Prima che potesse muoversi, balzare via ridendo e lasciarlo lì come un idiota, Tom si chinò di scatto verso il suo viso, facendola sobbalzare e baciandole uno zigomo e poi l’orecchio e poi la fronte, cercando di reggersi ancora alla vasca per non caderle addosso. Una mano di Charlie si staccò dal pavimento per colpirlo, allontanarlo, spingerlo via, ma la mano reagì diversamente, ad un tratto debole e costretta a lasciarsi cadere su un fianco, anzi no, prenderlo per il ginocchio e farlo cadere vicino a sé, per ritrovarsi a contatto con le sue labbra carnose bagnate dell’acqua colata dal cotone e finita ad inumidire il cerchio di metallo al labbro inferiore, che scontrava con quello della ragazza gonfio di morsi precedentemente afflitti mentre si tratteneva dal baciarlo quando ancora giaceva addormentato sul letto. Tom sbattè il gomito contro la struttura della vasca con un rumore sordo che fece aprire gli occhi a Charlie, ma lui strizzò solo una volta le palpebre per il dolore e poi tornò a leccare l’interno della bocca della ragazza, dipingendolo sapientemente di saliva, mentre lo stomaco gli si rigirava al tocco della mano di lei che gli tracciava non curante le vene del braccio.
Inevitabilmente, separandosi, le loro labbra schioccarono con il profumo del sapone alle mandorle che le aveva accompagnate nei morsi e nelle succhiate avide.
-Io ho fame, voglio la colazione- mormorò Charlie, dopo aver ripreso fiato.
-In bagno?- sorrise Tom.
-No, scendiamo-
Il ristorante dell’hotel era semideserto e vi aleggiava un’atmosfera piuttosto sonnolenta, anche i camerieri che apparecchiavano il tavolo dei dolci e della frutta in fondo alla sala sembravano muoversi al rallentatore.
Gustav era seduto al loro solito posto, vicino alla finestra che dava sul giardino interno dell’hotel e al suo fianco c’era Mimi. Aveva il viso fresco e i capelli lavati e pettinati; ora sembrava graziosa, rivestita a nuovo e rilassata.
I due ragazzi stavano parlando tranquillamente tra loro, mentre il biondino imburrava dei toast per poi adagiarli nel piatto di lei. Non si accorsero di Tom e Charlie se non quando i due furono abbastanza vicini per udire le loro parole e allora tacquero, come imbarazzati.
-Buongiorno- salutò Tom, accomodandosi –Tutto bene?-
-Sì- rispose Gustav, guardando Charlie prendere posto accanto a Mimi, che non si voltò.
-E tu, Mimi?- le chiese l’amica –Come stai?-
-Sta bene- rispose per lei il batterista, notando l’ostinazione della ragazza a tacere.
-Che c’è? Lei non sa più parlare?- lo aggredì, scontrosa, Charlie, voltandosi verso di lui.
La complicità fra i due e l’apparente ostilità di Mimi la misero in allerta, il presentimento che si fermò all’altezza della gola insieme alla saliva d’un tratto amara non era dei migliori.
Tom le posò una mano sulla spalla, sentendo il nervosismo della ragazza scorrere come una scossa elettrica dal tessuto del dolcevita fino alla sua carne.
Georg stava entrando in quel momento nella sala, sbadigliando; aveva voglia di qualcosa di caldo perché il grigiore del mattino di Los Angels gli metteva il gelo nelle ossa. Poi, quando il giorno avanzava, iniziava a fare più caldo sotto il sole di inizio primavera.
Natasha lo fermò a metà strada, come sbucata dal nulla; in realtà, Georg era solo troppo assonnato per accorgersi di lei prima.
-Ti devo parlare- esordì la ragazza, prendendolo per un braccio e allontanandolo dalla vista dei suoi amici seduti a colazione.
-Dimmi-
-Mi devi un favore- Natasha lo guardò quasi furente, sembrava sconvolta, frenetica.
-Per Anya, sì, lo so- annuì Georg, leggermente infastidito. Ricordargli quell’episodio da cui non aveva ricavato niente e chiamarlo propriamente “favore” non gli sembrava giusto, ma lui era un tipo corretto, avrebbe aiutato Natasha, per quanto poteva fare.
-La festa a Loitsche- gli fece presente la ragazza; Georg annuì –Non sono stata invitata-
Il ragazzo ammutolì, prima di protestare, cauto.
-E’ una festa di Bill, privata, non posso fare inviti per lui-
-Però Anya è stata invitata- ruggì Natasha, facendolo sobbalzare.
-Te l’ho già detto, la festa non è mica mia!- ribattè il ragazzo, convinto. Nat si quietò, prendendo un respiro profondo; quella notizia, saputa per caso, l’aveva sconvolta, interdetta. Lei non era stata invitata dal cantante, Anya sì. Anya sì e questo non lo poteva sopportare.
-Portami con te Georg, ti prego- gli chiese poi, abbassando il tono di voce –me lo devi-
Il ragazzo distolse un attimo gli occhi da quelli di lei imploranti, posandoli sul tavolo dove sedevano i suoi amici. Charlie si era appena alzata di colpo, facendo cadere la sedia a terra con un colpo secco.
-Te ne vai in Germania!- urlò all’amica con quanto fiato aveva in gola, in tono accusatorio. Tutti i presenti si voltarono verso di lei, disturbati da quel caos.
-Calmati, è una decisione che abbiamo preso insieme- si alzò a sua volta Gustav, frapponendosi fra lei e Mimi, ma quest’ultima lo scostò per guardare in faccia l’amica.
-Non posso fare altrimenti, non dopo quello che è successo. Non ce la faccio più a vivere così e adesso ancora di più, ho bisogno di aiuto- cercò di spiegare all’altra.
-Io non sono abbastanza per te? Ce la possiamo fare Mimi, lavorerò il doppio, solo per te- Charlie prese per le spalle l’amica, dialogando con lei in inglese e tenendo gli altri distanti solo con la forza del suo sguardo.
-No, non possiamo andare avanti così. Anche tu non puoi, guarda dove viviamo, come viviamo. Ti prego…-
-Non mi puoi chiedere di venire con te- scosse la testa Charlie, interpretando lo sguardo chiaro dell’altra e allontanandosi con fare tradito. Mimi chinò la testa e non ribattè.
-Lei no, ma io sì- intervenne a quel punto Tom, alzandosi anche lui e prendendo delicatamente la bionda per un braccio. Lei lo fulminò con gli occhi, lanciandogli un’occhiata sdegnata e disgustata.
-Hai capito male ragazzino- si liberò dalla presa del rasta con uno strattone –Io sono libera e me ne vado da qui, non ho bisogno di aiuto, di nessun tipo di aiuto, specialmente quello di un bambino viziato abituato a fare sempre e solo i suoi comodi. Non ho intenzione di diventare il tuo nuovo giocattolo-
-Charlie, non…- tentò di avvicinarsi di nuovo Tom, ma questa si allontanò di scatto, guardandolo furente e fiera come una leonessa. Vedendola indietreggiare, il rasta iniziò a scuotere la testa lentamente e farle cenno di no, di non andarsene, rimanere lì con lui, se qualcosa valeva, se quella notte valeva, ma Charlie scattò verso l’uscita del ristorante, andando a finire addosso a Georg, ma, liberatasi della sua presa, corse via. Tom si lanciò all’inseguimento, ostacolato, come sempre, dai suoi abiti. Riuscì a guadagnare la hall e arrivare all’ingresso appena in tempo per vedere la figura bionda della ragazza scappare via e perdersi tra quelle di altri mille passanti.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Nothing Else Matters ***


Oh mio Dio, è un secolo che non aggiorno, mi dispiace, mi dispiace davvero tanto, soprattutto per te Freiheit, non sai quanto mi ha fatto piacere il tuo commento, anche se sei una sconosciuta (bè, è ovvio che spero di conoscerti meglio) *-*
La citazione di Dawson's Creek, bè, non mi ricordo molto bene perchè l'ho messa. Volevo sicuramente mettere delle frasi di un telefilm vero, le frasi in inglese che Tom sente svegliandosi. Poi, proprio perchè quelle, non lo ricordo; sono una fan di Dawson's Creek e quella puntata mi era molto cara. Sicuramente, non morirà nessuno XD Però il fatto che le situazioni degenerino in fretta fa pensare ed è collegato al fatto che Charlie, che è libera, lo dice lei, e quindi libera di scegliere, scelga così bruscamente di voltare la schiena a Mimi, a Tom, presa da un impulso da animale in gabbia. Lei, come Anya, non è fatta per stare in gabbia.
In quanto al pezzo della mamma, è un flashback molto da interpretare, mi è venuto così, pensando ai miei risvegli da bambina. Io li sento Tom e Bill, soprattutto in queste cose. Sono felice che tu abbia apprezzato, davvero tanto ^^

Ora, il nuovo capitolo.
Avviso, è lungo. Ma lungo.
Eppure, non mi sono stancata a scriverlo.
Se c'è qualche errore di battitura, perdonatemelo. Non mi funziona più a dovere Word e anche rileggendo certe cose non sempre saltano all'occhio.

Niente sarà più come prima, dopo questo.



Consiglio dell'autrice: visto che non vi do mai canzoni da ascoltare durante la lettura, questa volta voglio consigliarvi come procedere in questo senso, sempre che vi vada. Dopo il primo * che separa due parti dello stesso capitolo, l'argomento va a toccare i ricordi. Ricordate un pò anche voi, magari ascoltando una canzone dei mini-Tokio like Der Letzte Tag (la prima versione). Se ne preferite altre simili, siano le benvenute.
Dopo il secondo * io ho sempre immaginato il tutto con Amour dei Rammstein. E' metal molto, ma molto leggero. L'ho fatta sentire ad alcune amiche, che si sono spaventate XD (non è il tuo casoFreiheit) Quindi è una cosa molto facoltativa, tutto è facoltativo, però io mi sono sentita in dovere di indicarvi alcune cose che potevano migliorare la lettura.
La traduzione di Amour la potete trovare facilmente su metalgermania, un sito molto fornito, adoro le parole, per me sono vere più di qualsiasi altra cosa. Buona lettura.

Dopo questo, niente sarà più come prima.



17.
Nothing Else Matters


Gli aveva detto che era incinta, di tre mesi; da tre mesi a quella parte aveva sentito qualcosa dentro di sé crescere e sconvolgerla e lei l’aveva lasciata andare avanti, tenendola segreta e al sicuro dall’ambiente in cui viveva, fino a quando la necessità della sua condizione di povera barista senza mezzi non l’aveva indotta a chiedere aiuto a Luke, il colpevole. La sua risposta era stata un ceffone che l’aveva sbattuta a terra facendole sputare sangue sul pavimento del Lost Heaven e da quel pavimento l’aveva raccolta Gustav. La luce bluastra del locale avevano reso i lineamenti del ragazzo quasi spettrali, tanto che era giunta a chiedersi se non fosse stato l’angelo che l’avrebbe condotta all’Inferno con le scuse del Santo Padre, ci dispiace, ma il Paradiso non fa per te; invece lui le aveva parlato nella lingua che sin da bambina aveva considerato sua e l’aveva sollevata da terra come se fosse stata fatta di piume leggere. Ne era rimasta accecata e a chi altri dare la sua fiducia, dopo che lui aveva passato l’intera nottata ad ascoltarla? Le era venuto naturale confessargli il suo segreto, gliel’aveva quasi sputato in faccia tanta era la foga di pulirsi di quel bellissimo peccato e sapeva già dal principio che lui l’avrebbe aiutata, non si sarebbe tappato le orecchie coprendo il suo lamento con altre parole, come un bambino isterico. Magari le avrebbe lasciato dei soldi, da quel che diceva Charlie sul loro conto, i Tokio Hotel erano una band famosa, il cantante spendeva dei milioni solo per vestirsi. Qualche dollaro non poteva di certo rovinare il biondino.
Gustav, invece, si era alzato dal letto su cui lei era coricata ed era andato al comodino a versarsi un bicchiere d’acqua; il tempo di berlo gli era stato sufficiente per decidere con un’impulsività che tirava fuori di rado e solo in occasioni che la richiedevano con così tanta persuasione.
-Tu non hai bisogno di soldi- le aveva spiegato, avvicinandosi di nuovo –tu hai bisogno di tutto l’aiuto che ti posso offrire e questo non sta di certo in un paio di banconote-
-Che cos’hai qui, in America?- le aveva chiesto poi.
-Ho un appartamento, un lavoro e Charlie. E il bambino- aveva risposto Mimi.
-Una famiglia?-
-No, i miei non li ho mai conosciuti, ho vissuto con mia cugina Martha, che in verità non è neanche mia cugina di sangue, ma la figlia del mio padrino e poi a sedici anni me ne sono andata-
-E parli tedesco- aveva considerato Gustav.
-E parlo tedesco- gli aveva confermato.
-Domani partiamo per la Germania. Vieni con noi- non era una proposta, né un invito.
-E lì, cosa farò?- chiese Mimi, un attimo spaventata dalla determinazione del ragazzo.
-Nulla di nulla, penserò a tutto io. Fino a quando rimarremo lì, starai con me, se vorrai e per il resto, per non affaticarti con i nostri viaggi e i nostri orari impossibili, starai a casa di mia sorella- le spiegò il biondino, inginocchiandosi ai suoi piedi e poggiandole con fare rassicurante una mano sulla spalla.
Mimi non seppe che rispondere, si limitò a sorridere con gratitudine a Gustav; avrebbe voluto che il padre del suo bambino fosse così, come una vita nuova.

*



Le specialità di Simone in fatto di dolci erano i waffel e le torte al cioccolato e marmellata di albicocche; quando i suoi figli erano più piccoli, poi, cucinava sempre e solo biscotti perché a loro piaceva giocare con le formine e dare alla pasta l’aspetto di animaletti, soli, lune e quant’altro. A Bill non piaceva il cioccolato, quindi i biscotti al caramello erano tutti suoi, li sceglieva con cura dal vassoio e li nascondeva a suo fratello per non farglieli mangiare, così che Tom faceva indigestione di quelli al cacao e alle nocciole. Poi, quando Bill aveva deciso di togliersi l’orecchino che lo distingueva stupidamente dal fratello per adottare la maniera più drastica di tingersi i capelli di nero e truccarsi gli occhi, non avevano più voluto cucinare con lei e imbrattarsi di farina lanciandosi le pentole oppure assaggiare l’impasto non ancora pronto con le dita. Il loro maggiore divertimento, dal creare animali strani mai visti né in cielo né in terra, diventò quello di rinchiudersi o in soffitta o nella casetta di legno sull’albero a suonare; Bill, appena imbracciata una chitarra, aveva capito che cantare era il suo mestiere: neanche il tempo di pizzicare una corda, che quella era subito saltata via, preferendo suicidarsi piuttosto che stonare tra le mani del ragazzino. La differenza tra i due fratelli in campo musicale era che Tom aveva avuto la costanza e la testardaggine di domare lo strumento e Bill aveva preferito non rischiare e andare sul sicuro su una cosa che sapeva già fare. Nonostante ciò, da quel momento i due avevano sempre e solo continuato a fare musica, senza più smettere. Per questo, Simone si stupì quando, il giorno della festa, Bill arrivò in cucina al mattino presto, sveglio e lavato e si mise accanto a lei ad impastare farina, sporcandosi subito il naso e disegnandosi per gioco due baffi signorili con il lievito.
Nonostante la sua buona volontà, l’aiuto maggiore che il ragazzo riuscì ad offrire senza combinare danni fu quello di assaggiare, con molto piacere, ogni dolce, per poi dare una mano a preparare il giardino per la festa e, compito più difficile, svegliare suo fratello nel primo pomeriggio perché desse anche lui il suo contributo.
-La festa è tua, te la prepari tu- fu la risposta mugugnata di Tom quando Bill entrò in camera cantando a squarciagola una canzone di Nena.
-Una volta non tanto lontana mi hai detto che sono tanti anni che me ne sto con le mani in mano e non faccio niente, per paura di quello che potrebbero di me. Io ho solo paura di quello che potrebbe dire lei di me, ma questa volta mi aiuterai tu- ritrattò il fratello, aprendo leggermente le imposte per fare chiaro.
-Non posso mica scoparmela per te- borbottò Tom, buttandosi giù dal letto a fatica.
-No, però puoi coprirci-
Dal sopracciglio alzato di Bill, Tom capì che faceva sul serio e la cosa contribuì a svegliarlo del tutto. Aveva deciso e sapeva bene che suo fratello non si tirava indietro, non dopo aver fatto la sua faccia convinta; come aveva ottenuto il successo, con quel sopracciglio avrebbe ottenuto lei.
Tom scelse con cura la felpa e i jeans da indossare, perché sapeva che sarebbe venuto anche Andreas e questo voleva dire che la festa si sarebbe evoluta solo in una maniera: una fuga nel primo locale a bere con gli amici e rivedere le vecchie fiamme della scuola, anche se quest’ultimo particolare non gli interessava più di tanto: erano diventate tutte brutte per lui e l’unica cosa che potevano offrirgli di allettante erano i ricordi passati, per distrarlo.
-Tom, aiutami a portare fuori i salatini per piacere!- urlò Simone, pulendosi le mani nel grembiule ed affacciandosi dalla porta della cucina per vedere il figlio maggiore scendere i gradini a due a due ed afferrare le chiavi della macchina da una mensola.
-Bill, aiuta mamma a portare fuori la roba!- urlò di rimando Tom al fratello che lo seguiva a ruota –Io vado a prendere Andreas, mamma, ci vediamo dopo- schioccò un bacio sulla guancia di sua madre e poi uscì dalla porta sul retro, mentre Bill si congratulava con lui ad alta voce per tutto l’aiuto che gli stava dando.
Uscendo, Tom inciampò in uno degli attrezzi da giardino di Simone e battè la testa contro la porta aperta del garage, dove aveva parcheggiato la sua auto tornando dalla città la scorsa sera.
-Maledizione!- imprecò, portandosi una mano alla fronte –Merda-
Appoggiò entrambe le mani al muro, respirando perchè la fitta di dolore gli passasse più in fretta; ma non c’era modo per fargliela passare del tutto. Odiava essere lì, a casa, odiava essere stato trattato così e adesso fare finta di nulla solo perché suo fratello lo voleva bello e sorridente per la festa, per il comodo di averlo come alleato alla caccia alla puledra, dopo che lui aveva lasciato scappare la sua. Charlie non era ritornata sulla sua decisione, era scappata e basta dopo avergli urlato contro quelle falsità, dopo averlo insultato. Perché quello era un insulto. Tom era andato a cercarla nel suo garage, l’aveva trovato chiuso e nessuno aveva risposto alle sue urla; poteva provare a chiamarla ora, aveva il numero del suo cellulare, ma non gli avrebbe risposto mai, anzi, dubitava che la ragazza lo possedesse ancora sapendo che lui poteva rintracciarla, sicuramente l’aveva buttato in un tombino.
Stronza ed ingrata, maledizione.
Tom aprì con rabbia l’auto e si fiondò sul sedile, chiudendo con un colpo secco la portiera e portando le mani al volante. La vista dei sedili in pelle color crema lo calmò: la sua Cadillac non lo avrebbe tradito mai. Aveva desiderato tanto averla, talmente tanto che la stava per comprare ancora prima di aver preso la patente e appena avuto il documento in mano si era già visto girare la Germania con la sua auto, la sua bambina; dopo la collezione di chitarre, quella era la cosa a cui teneva di più. Ma anche adesso che la sua presenza confortante e titanica lo circondava, non poteva fare a meno di desiderare che da un momento all’altro, dalla carrozzeria spuntassero delle ali, per poter viaggiare sopra il mare e tornare da dove era venuto per non ricommettere l’errore di farsi prendere in giro da quella ragazza. Accarezzò il volante in pelle, tutta la sua curva, lucidando con il pollice gli inserti di acciaio e sotto i polpastrelli non sentì il freddo del metallo, ma il calore di Charlie che lo bruciava e rianimava. Se la sarebbe ripresa.
Si sistemò meglio sul sedile, appoggiando la testa al cuscinetto imbottito, stirando la maglia con una mano e continuando a toccare il volante e poi il cambio e poi la radio con l’altra, preso dalla fantasia che ogni parte dell’auto fosse una parte del corpo di Charlie. Inclinò all’indietro il sedile anteriore del passeggero solo per il piacere di immaginarsi la ragazza stesa lì e lui. Se la sarebbe mangiata viva.
La radio a tutto volume che aveva acceso inavvertitamente lo riportò alla realtà: si risedette composto, sistemandosi la visiera del cappellino. Decisamente, quella era il tipo di macchina che faceva per lui.
Appena oltrepassato il vialetto di casa, vide i nonni, i primi invitati, entrare dalla porta principale con in mano dei dolci; erano tanto invecchiati, poveri nonni.
Le strade di Loitsche erano deserte come sempre, drittissime e affiancate da pini solitamente grigi ed insignificanti, ma il sole che stava uscendo in quell’ora del pomeriggio li faceva più rossi ed irreali in una visione decisamente strana. Tom superò la casetta della fermata dell’autobus che portava lui e suo fratello a scuola anni prima e che ora i fan avevano trasformato in un piccolo santuario.
Una figura comparve lontana al bordo della strada e, man mano che l’auto si avvicinava, i suoi lineamenti si facevano più netti: teneva in mano un cappottino di lana ed un berretto e indossava un vestito a righe, con gli stivali. Tom frenò per avvicinarsi, sorridendo tra sé.
-Ti sei fatta tutta la strada a piedi da Amburgo?- chiese ad alta voce, scendendo dal macchinone e stringendo in un abbraccio Anya.
-No, solo fino dalla stazione- gli sorrise lei, alzando lo sguardo per incontrare quello ben più alto del ragazzo.
-Se lo avessi saputo, ti sarei venuto a prendere in macchina, anche Andreas arriva in treno, ha l’auto a riparare-
-Non fa niente- scrollò le spalle lei –Allora, tutto bene? Vi siete ripresi dal viaggio?-
-Sì, tutto a posto. Ammettilo che ti siamo mancati- scherzò Tom, infilando le mani in tasca e sorridendo sornione.
-Vuoi farmi dire una bugia?- rise lei.
-Ah bè, grazie, grazie mille davvero- si offese Tom –Quando tu a noi sei mancata moltissimo!-
-Posso immaginare- tagliò corto Anya -Adesso sarà meglio che vada, a piedi è più lunga che in macchina-
-Ma non scherzare, sali, andiamo a prendere Andreas e poi torniamo con la mia- propose Tom, aprendole la portiera.
-Grazie, ma preferisco andare da sola, vai pure a prendere il tuo amico, ormai sono di strada-
-Come vuoi- fece spallucce Tom, salendo in macchina –ma ti avverto: a casa c’è ancora solo mio fratello con i nonni. A lui farà sicuramente piacere, non so quanto possa far piacere a te discutere con due vecchietti sordi. A dopo-
L’auto partì a tutta velocità sgommando e Anya rise di quanto fosse scemo, a volte, Tom. Riprese la sua strada, sistemandosi la spallina del reggiseno che le era scivolata su una spalla.
Era stata a casa dei gemelli solo una volta, qualche anno prima; forse era proprio nel primo periodo in cui aveva iniziato a lavorare per i Tokio Hotel, non ricordava bene. Era una casa normalissima, come tante in quel paese, con il suo bel giardino e tutto il resto, proprio il tipo di posto in cui le sarebbe piaciuto vivere da bambina; anche le camere dei due ragazzi parevano abbastanza nella norma nonostante i proprietari non lo fossero per nulla.
La loro mamma era una donna al contempo pacata ed energica, nulla faceva presagire che avesse dato alla luce due pazzi. Le aveva fatto vedere le foto dei due fratelli quando ancora indossavano magliette con il loro nome scritto sulla schiena e Bill rimaneva appiccicato a Tom come una figurina all’album; il fratello si era sempre preso cura di lui: dormivano insieme se Bill aveva paura dei mostri che sbucavano da sotto il letto o da dietro le tende, lo portava in giro per mano morbosamente ed esaudiva qualsiasi suo capriccio, anche se dava sempre a vedere di essere lui il capo. Era sempre stato lui il più responsabile da un certo punto di vista, anche se nessuno l’avrebbe mai detto.
Simone le aveva raccontato tutto questo mentre entrambe aspettavano che i gemelli portassero giù le valigie per il loro primo tour, sedute comodamente sul divano, senza nessuna intenzione di fare dei convenevoli, come due amiche improvvisate. Poi non si erano più viste.
Salutata con qualche difficoltà la nonna e altri amici di vecchia data appena arrivati, Bill si incamminò per portare dalla cucina al giardino gli ultimi piatti di stuzzichini. In un punto imprecisato del prato si fermò di colpo, guardandosi i piedi: era sicuro che proprio in quel punto, in quel comunissimo fazzoletto di verde, fosse caduto e si fosse sbucciato un ginocchio, quando era piccolo. In realtà, non poteva affatto ricordarlo ed era anche improbabile, visto che non era mai stato il tipo di bambino che passava le giornate dietro ad un pallone, preferiva giochi più tranquilli o sessioni di litigate con il fratello per decidere quale cartone animato guardare, ma l’istinto primitivo del ricordo e dell’appartenenza lo rendevano certo di aver versato sangue e lacrime su quella terra, sua, sua e di Tom. La differenza tra il loro pianto e il loro sangue era nulla, magari c’era differenza nel modo di versarli.
Se n’era andato da lì a sedici anni, ben felice di farlo: sua mamma, da quando era arrivato Gordon, aveva potuto ricominciare a vivere, iniziare di nuovo da zero dopo la brutta separazione con loro padre; lui e Tom avevano intrapreso la loro strada senza alcun rimpianto, senza alcuna casa, viaggiatori instancabili.
Era una bella strada da percorrere, con le sue curve e i suoi incidenti, ma comunque era la loro strada.
Poche fermate e rari incroci. 
Forse era ora di averne di nuovo una, di casa, un appartamento grande, vicino ad Amburgo, in un posto un po’ isolato magari. Assorto nei suoi pensieri, Bill tirò un calcio ad una zolla di terra con i suoi camperos dorati, facendola finire ai piedi di qualcuno appena entrato di soppiatto dal cancello del giardino, qualcuno con degli stivali molto familiari.
-Wow, che fantastica accoglienza a casa Kaulitz!- sorrise sarcastica Anya, tirando di rimando un calcio alla zolla.
-Non-non ti ho vista arrivare, scusa- balbettò Bill, deglutendo a tradimento alla vista della ragazza.
Lei annuì, scrutandolo: -Già-
Aveva accorciato di poco i capelli, finalmente, ed indossava semplicemente dei jeans, una maglietta e la giacca di pelle. Il dettaglio più sorprendente era il vassoio di salatini che reggeva con una mano sola, in pericolo di caduta imminente, già troppo inclinato per la forza di gravità. Si avvicinò per sorreggerlo visto che Bill, troppo intento a fissarla, sembrava non essersene accorto.
-Oh!- eslcamò, riprendendo il controllo sul vassoio.
-L’aria dell’America non deve averti fatto troppo bene, hai una faccia…- commentò Anya, scrutando gli occhi lucidi di Bill.
-Io sto benissimo!- si difese il ragazzo, corrugando la fronte. Scusa tanto se faccio la faccia da ebete, ma era una settimana e più che non ti vedevo e scusa ancora se mi sei mancata!
Ma non lo disse, rimase solo a fissarla di nuovo, mentre lei, disinvolta, continuava a sostenere il suo sguardo, senza alcuna ombra di imbarazzo, come solo lei sapeva fare.
-Oh bè, se non hai niente da dirmi, posso anche smetterla di guardarti in attesa che spiccichi parola. Vado a salutare tua madre- Anya lo superò sbattendo i tacchi; passandogli accanto, Bill percepì il vento che la sua gonna aveva sollevato e la fragranza dei vestiti e dei capelli, lavati da poco. Chiuse gli occhi, respirando a pieni polmoni, senza girarsi: anche senza vederla, sapeva che Anya l’aveva superato di buon passo e adesso stava incrociando le braccia sbuffando.
-Mi sei mancata- quasi le urlò da dietro le spalle, affinchè lo sentisse; poi, riprese velocemente la sua strada verso il gazebo del giardino, infilandosi un salatino in bocca. Tirò fuori con una mano il cellulare ed iniziò a premere i tasti, continuando a masticare rumorosamente.
"E’ arrivata, vedi di muoverti" scrisse a suo fratello, con la rapidità del pollice da SMS.
"Vedi di muoverti tu, scemo!" fu la risposta divertita ed altrettando veloce di Tom.
-Vaffanculo- biascicò Bill tra i denti, appoggiandosi di schiena con entrambe le mani al tavolo dei dolci, rischiando di rovesciarlo.
Da lì poteva vedere la veranda di casa, la porta aperta della cucina e, contemporanemante, il vialetto di accesso, ornato da una siepe di mirto, da dove sarebbero arrivati gli altri ospiti. Sua madre uscì di casa per braccetto ad Anya, presentandole i nonni e i vicini; Gordon stava arrivando in quel momento, le braccia cariche di patatine e popcorn in più presi al supermercato. Raggiunse Simone stampandole un bacio gentile sule labbra colorate dal rossetto e abbracciò Anya calorosamente.
La ragazza sembrava a suo agio più di quanto lo fosse Bill in quel momento, come se lei avesse sempre vissuto lì al posto suo, come se quelli fossero i suoi parenti, quella la vita che non aveva mai vissuto. Il ragazzo, invece, era sull’orlo di una crisi di pianto, ancora prigioniero dei ricordi per potersi scuotere e tornare al presente di quella giornata che infrangeva le regole del tempo, ridimensionandolo a bambino, rimpicciolendo il suo cuore ai sentimenti antichi e ingrandendolo di rassegnazione ai nuovi.
Dei passi sulla ghiaia del viale gli fecero cacciare indietro la lacrima a bordo dell’occhio destro che già voleva cadere; riconobbe la chioma liscia di Georg e quella bionda di Gustav oltre la siepe. Ma non solo le loro: dietro veniva quella tinta e composta di Natasha.
Bill chiuse gli occhi a fessura a quella sorpresa e strinse i pugni sui bordi del tavolo: ok, se non l’aveva invitata, aveva avuto i suoi buoni motivi, quindi, cosa ci faceva lì?
Gustav alzò la mano nella direzione del vocalist, salutandolo e dirigendosi verso di lui con Georg al seguito, leggermente imbarazzato, mentre Natasha, euforica, correva incontro alla cugina, trascinandola in una danza isterica, ridendo e baciandola tutta.
Bill distolse lo sguardo dalle ragazze ridenti e si concentrò di nuovo sui suoi due amici, che già si stavano servendo dal buffet. Quando Georg incrociò gli occhi neri e furenti di Bill, si cacciò le mani in tasca e chinò la testa, sentendosi colpevole, soprattutto di tenere nascoste tante cose all’amico, che aveva subito sentito odore di bruciato e aveva individuato senza fatica il responsabile.
-Scusa Bill- rispose così all’occhiata dell’amico.
-Sapevi che non volevo che venisse, vi avevo spiegato che negli ultimi tempi il suo comportamento mi dava fastidio perché l’avevo sempre attaccata, all’aeroporto, nella zona relax, in macchina. Non la posso sopportare-
-Lo so Bill, ho provato a dirle che era una cosa privata, solo tua, ma quando ha saputo che veniva anche sua cugina, ha insistito tanto- tentò di giustificarsi Georg, pentendosi di non essere stato più severo con la bionda.
-Non gliene frega niente, a quella, di sua cugina- ringhiò Bill. Quante volte, facendo di tutto per rimanere in disparte con lui, gli aveva casualmente elencato i mille e più difetti di Anya? Era stato questo suo nuovo comportamento, adottato in America perché lontana dall’altra, ad indurlo a prendere in antipatia la truccatrice che prima, se non la considerava propriamente sua amica, era comunque una persona piacevole e simpatica, con cui passava del tempo insieme ai ragazzi.
La falsità della bionda, che ora abracciava amorevolmente la cugina, gli fece venire i nervi a fior di pelle.
Georg rimaneva ancora con le mani in tasca, aspettando un gesto di Bill che gli facesse capire se dovesse scusarsi ancora o se fosse stato perdonato.
Il vocalist sciolse i muscoli del collo in tensione e finalmente sorrise all’amico, dedicandogli uno dei suoi sorrisi speciali, non quelli montati da passerella. Georg gli battè una pacca sulla spalla, sollevato, infilandosi una manciata di salatini in bocca.
-Gustav, come sta Mimi?- chiese Bill, girandosi verso il batterista.
-Il viaggio in aereo è stato stancante per lei, ora è a casa di mia sorella. Hanno fatto subito amicizia, è una buona cosa no?- rispose Gustav, accennando un sorriso.
-E’ un’ottima cosa- annuì Bill –Oh bene, è arrivato Tom!- esclamò poi, vedendo quel bestione della Cadillac Escalade del fratello entrare dal cancello automatico. Ne scese al volo un allegro Andreas, il biondo che più biondo non si può, loro amico da sempre, già munito di una Beck’s finita per metà.
-Hallo leute!- esclamò, in direzione della casa, aprendo poi la portiera posteriore per far scendere tre ragazze e due amici che si erano stretti di poco per entrare tutti nel macchinone, con somma preoccupazione di Tom; si vedeva lontano un miglio che stava ringraziando il cielo con il pensiero perché era andato tutto liscio e i suoi sedili di pelle erano ancora integri.
C’era stata solo una vittima: un CD di Sammy Deluxe che Andreas aveva schiacciato con il sedere, accomodandosi pesantemente al suo posto.
-Mamma, dov’è Bill Kaulitz?- urlò Andreas, rivolto a Simone; sin da quando erano piccoli, aveva preso la strana abitudine di chiamarla così e da allora non aveva mai cambiato.
-Sono qui- gli rispose Bill, raggiungendolo a passo svelto e abbracciandolo come un fratello.
-Era ora che ci rivedessimo, razza di stronzi che non siete altro!- Andreas battè una forte pacca sulle spalle fragili di Bill. Il biondo si era fatto più uomo che mai, aveva sempre avuto questo punto in più rispetto ai gemelli: la virilità. Divertente, muscoloso e con un bel sorriso, Andreas, nonostante non fosse alto quanto i due Kaulitz, sembrava il loro doppio.
-E lei dov’è?- chiese ad un tratto, prendendo da parte Bill.
-Lei chi?- strabuzzò gli occhi l’altro.
-Lei Anya- Andreas abbassò ancora di più la voce –Tom mi ha raccontato-
-Ci avrei scommesso- borbottò il ragazzo –Comunque, è sulla veranda con mia madre- accennò con la testa alla figura della ragazza seduta a lato di Natasha.
Andreas alzò lo sguardo e la riconobbe: l’aveva incontrata un paio di volte, ma, siccome durante le rimpatriate con i gemelli andavano sempre in qualche locale fuori, lei non aveva mai voluto venire e lui non aveva mai avuto l’occasione di conoscerla meglio. E in più, quello stronzo di Bill non gli aveva mai detto niente di niente.
-E’ brutta come me la ricordavo- scherzò Andreas, ridendo di cuore alla faccia scorbutica dell'amico.
-Non è brutta!- protestò infatti il ragazzo.
-Diciamo che è il solo tipo di ragazza che potrebbe colpire te-
-Scusa tanto se non ho il testosterone al posto dei neuroni e non mi piacciono particolarmente le bionde siliconate!-
-Avanti Bill, scherzavo!- rise ancora Andreas –Su, andiamo da lei-
E, nonostante le proteste silenziose di Bill, l’amico lo trascinò fino alla veranda, mentre Tom e gli altri si gettavano sul buffet raggiungendo Georg e Gustav.
-Buonasera a tutti!- salutò ancora Andreas, alzando la bottiglia mezza finita in direzione degli ospiti seduti su delle sedie di fortuna portate dalla cucina. Simone si alzò per baciarlo su entrambe le guance e fare presente ai nonni, alzando la voce, che quel giovanotto ben cresciuto era il piccolo Andreas che veniva a casa da scuola con Tom e Bill qualche anno prima. Un po’ di anni prima.
-Oh!- esclamarono i nonni, fingendo di ricordare o ricordando davvero.
-Salve- li salutò allegramente il ragazzo, sorridendo con tutto il gusto che metteva sempre nei suoi sorrisi e rivolgendosi poi alle due cugine sedute sul dondolo –Anya e Nat-
Anya si alzò sistemandosi la gonna e si avvicinò per salutare il ragazzo, seguita dalla cugina. A convenevoli superati, Andreas le prese entrambe a braccetto, annunciando che loro andavano a servirsi qualche stuzzichino.
-Volete qualcosa?- si chinò a chiedere Anya ai nonni e alle vicine –Da bere, una fetta di torta?-
-Grazie cara, vorrei solo un bicchiere d’acqua fresca- le chiese la nonna di Bill, sorridendole gentile.
-Gliela porto subito- le assicurò Anya incamminandosi insieme alla cugina e i due ragazzi verso il gazebo del buffet.
-Che ragazza a modo e gentile!- commentò la signora, poggiando una mano sul ginocchio di Simone, quando i giovani si furono allontanati –E’ la fidanzata di Bill?-
Simone scosse la testa: -No, mamma, è una ragazza che lavora per loro-
-Ma sei sicura?- si stupì la donna –Da come la guarda mio nipote, sembrerebbe molto di più- affermò, spalleggiata dai suoi anni di esperienza e dall’abitudine di spettegolare.
Simone la fissò imbambolata, illuminandosi ad un tratto per quella rivelazione; spostò il suo sguardo verso i due ragazzi che camminavano nel giardino e sorrise, ancora confusa e sentendosi una povera rimbambita per non essersene accorta prima.
Arrivati al gazebo, Anya dovette salutare tutti, dedicando maggiore attenzione alle sue quattro scimmie, che non vedeva da tempo e quindi fu felicissima di riabbracciare Georg, Gustav e Tom e sentire i loro discorsi sull’America; ovviamente, più tardi, sarebbe venuta a conoscenza di particolari scottanti, gli unici per cui rimpianse di non averli seguiti. Non si incontra tutti i giorni una Charlie.
Li lasciò poi ai loro discorsi, Georg seduto su delle sedie in mezzo alle tre amiche dei gemelli, gli altri intenti a discutere tra loro di auto e ragazze, con Natasha che tentava di partecipare, ma lei di macchine non se ne intendeva molto, quindi veniva subitto azzittita dagli altri, esperti appassionati.
Anya si avvicinò di nuovo al tavolo del buffet, riempendo un bicchiere d’acqua ed un piatto con del dolce e dei salatini da portare a nonna Kaulitz.
-Posso darti una mano?- le chiese Bill, avvicinandosi da dietro; la ragazza annuì, indicandogli di prendere la bottiglia dell’acqua e degli altri bicchieri.
Si incamminarono insieme di nuovo verso la veranda, il ragazzo un po’ stufo omai di fare avanti indietro, ma ben determinato a stare vicino ad Anya.
-Allora, questa America?- interrupe il silenzio lei, concentrata a non far cadere nulla dal piatto.
-Niente di che, in fondo. E’ andato tutto bene-
-Niente di eccitante, di strano, degno di nota?- indagò ancora lei, rallentando il passo e alzando la testa per guardare Bill.
-A me, personalmente, non è accaduto niente di che. Chiedi a Tom e Gustav- le sorrise, incuriosendola, ma Anya non potè chiedere ancora, perché, raggiunti gli ospiti sulla veranda, le parve scortese continuare il suo discorso con il ragazzo non includendo gli altri.
Servirono tutti e fecero girare il piatto con il cibo, sentendosi ringraziare mille e mille volte.
-Prego, prego- continuava a ripetere Bill, mentre le signore chiacchieravano alle sue spalle, ponendosi i soliti mille interrogativi sul suo conto, ma non osando chiedere nulla per la centesima volta ai suoi genitori.
-Vieni- sussurrò Bill, prendendo Anya per un braccio per allontanarla dalle signore che continuavano a chiederle dove avesse preso quel bel vestito e dove fosse andata a farsi mettere in piega i capelli, perché erano proprio belli, così lunghi e lucidi.
La ragazza scese i gradini in legno delle veranda, facendo per dirigersi nuovamente verso il gazebo, ma la presa sul braccio di Bill la fece fermare.
-Andiamo di qua- accennò lui, indicandole il retro della casa –Voglio farti vedere una cosa-
-Va bene- assentì lei, seguendolo. Fecero il giro della casa, diretti verso un grande albero al centro dell’altro fazzoletto di giardino che confinava con la casa dei vicini.
Bill si girò una volta sola verso il fratello, per dargli il segnale convenuto; Tom era dall’altro capo del prato, ma lo stava guardando e recepì il messaggio, non aspettava altro. Fece un gesto scaramantico e uno di vittoria senza farsi vedere, finalmente. Finalmente, dopo tre anni, forse ce l’avevano fatta, perché quella era una vittoria di entrambi.
-Ehi Tom, andiamo a farci un giro di là? Hai ancora quel pallone da calcio che ti avevo regalato?- chiese Andreas all’amico –Possiamo farci due tiri vicino al grande albero mentre aspettiamo di andare-
Tom si risvegliò dal suo coma momentaneo, allarmato.
-Ehm, no, non ce l’ho più il pallone e tanto tra cinque minuti ce ne andiamo, mio fratello ha detto che non viene e se ci dividiamo tra la mia e la carretta di Georg ci stiamo tutti- spiegò il rasta, prendendo l’amico e facendolo voltare nuovamente verso il gazebo, perché non vedesse Anya e Bill allontanarsi assieme.
-E mia cugina?- rimbeccò Natasha, alzandosi in punta di piedi per cercare la testa mora dell’altra. Tom le si piazzò di fronte, bloccandole la visuale e facendo girare anche lei verso gli amici, che, impegnati a bere e chiacchierare, non si erano accorti di niente.
-Tua cugina è in casa con mia mamma e mia nonna, hanno voluto farle fare il giro, sai com’è…- mentì Tom, infilandole a forza una bottiglia di birra in mano.
Bevi e ubriacati, magari è la volta buona che non rovini la vita a mio fratello, pensò, tracannando anche lui un lungo sorso da una bottiglia.

*

La casa sull’albero era semicoperta dai rami della grande quercia nodosa, che stava mettendo le foglie in quella tiepida primavera; il sole cominciava a tramontare, regalando l’ultimo arancione della giornata al paesaggio. Per salire, il papà dei gemelli, a suo tempo, aveva applicato al tronco dell’albero dei pioli sporgenti e una corda annodata per aiutarsi. La salita era la parte più bella, ma questa volta Bill trovò qualche difficoltà: doveva avere avuto i piedi molto più piccoli per salire su quei pioli. Anya si arrampicò dopo il ragazzo, aiutandosi con le mani e rischiando di cadere non poche volte, ma arrivata in cima, Bill la sollevò con entrambe le mani e lei fu issata senza problemi sul balconcino della casa. Cadere da lassù non sarebbe stato affatto piacevole. Bill aprì la porticina della costruzione, lasciando entrare per prima Anya.
-Perché mi hai portata qui?- chiese la ragazza, guardandosi intorno.
-Per farti vedere il mio vero regno- Bill mostrò con un gesto delle lunghe braccia il piccolo interno della casetta. I raggi dorati del sole entravano dalle due finestrelle senza vetri; il ragazzo doveva stare lievemente chinato per non battere la testa sul tetto spiovente .
Anya fece scorrere le dita sullo schienale di una delle seggiole vicine al tavolo contro la parete, catturando con i polpastrelli la polvere che si era accumulata nel tempo.
Chiuse gli occhi e le sembrò di vedere i due fratelli come nelle vecchie fotografie, giocare tra quelle mura, incredibilmente ricchi di un posto tutto loro, incredibilmente ricchi di loro stessi.
Si sentiva quasi di troppo lei, Anya, in mezzo a quei ricordi non suoi che, ne era certa, in quel momento si specchiavano nelle due pozze ambrate di Bill, a cui dava le spalle.
-E’ un bel posto- sorrise. Silenziosamente, come per paura di infragere un qualcosa che non vedeva con gli occhi, ma percepiva su ogni centimetro di pelle, il ragazzo si avvicinò, circondando Anya con le braccia, avvolgendola e appoggiando una guancia sulla sua spalla.
Lei chiuse gli occhi, tutti i suoi buoni propositi, i suoi piani, i suoi ragionamenti cancellati dai battiti accellerati del suo cuore.
Stronzo e capriccioso; non era lui quello che l’aveva sempre tratta con un misto di disprezzo e superbia, quello che le passava davanti con una ragazza dai capelli castani o gli occhi verdi al braccio per farle vedere quanto loro fossero giuste, non lei, che doveva solo servirlo e non gli andava giù, no, che lei lo trattasse come se fosse ancora un sedicenne, ma quella era la loro lotta. Sì, era stato lui.
Ricordò i suoi recenti pensieri davanti al Kosmos mentre i capelli di Bill le sfioravano il viso. Doveva ribellarsi, subito: se i sentimenti erano testardi e prepotenti, lei lo sarebbe stata di più
Tira fuori le unghie, tigre, si urlò mentalmente, perché non poteva credere che il suo cuore stesse battendo per l’emozione e non per l’indignazione.
Si girò di scatto, fronteggiando il ragazzo e lo aggredì con quanto fiato aveva in gola.
-Ho passato tre anni della mia stupida esistenza a seguire te e gli altri, mi hai sempre disprezzata, forse per quello che faccio, forse perché non ho una vita rosea come la tua e adesso? Tenti di ammaliarmi come una qualsiasi?-
-Tento di amarti- mormorò Bill, sentendosi ferito da quelle parole, che erano vere, in parte: quella stupida maschera che si era cucito per lei aveva avuto le sue ragioni. Ma non abbandonò la determinazione.
-Tu ami solo te stesso, le tue unghie, i tuoi capelli! Non prendermi in giro, sei talmente presuntuoso che, con tutte le arie che ti dai, potresti volare!-
Era caduta sul personale, mai toccare il look a Bill Kaulitz. Ma Bill Kaulitz sorrise fra sé del tono della ragazza, che voleva essere cattivo, invece sembrava sempre di più disperato; del suo corpo, che voleva allontanarsi, ma gli permetteva di avvicinarsi sempre di più; dei suoi occhi, che volevano incenerirlo e invece la rendevano solo più bella.
-Tu piaci a Natasha- Anya si aggrappò all’unica motivazione che le rimaneva.
-E tu a Georg- le fece notare lui, ma a quel punto non importava a nessuno dei due, nonostante se lo fossero detti in faccia.
Bill l’afferrò per i fianchi, ormai lei cozzava contro il tavolino di legno e poteva afferrarsi solo a quello. Avvicinò i loro bacini, facendogli sentire che lui c’era, era lì contro di lei; faceva sempre così, era il suo modo per imporsi. Anya dischiuse le labbra, involontariamente, presa a fissare il loro punto di contatto e lui approfittò di quell’attimo per catturarle la bocca e aprirgliela dolcemente. Inciampando nei suoi stessi stivali, pressata da Bill, la ragazza si sedette sul tavolino, per poi coricarsi e lasciarsi spogliare, sentendo il contatto della schiena con la superficie ruvida.
La pelle levigata come un sassolino bianco e calda come tenere un pulcino in mano; da piccolo, Bill aveva tenuto un pulcino in mano: sperduto e pigolante, ruotava il collo e piangeva, agitando le zampine, così come ora lei muoveva il suo corpo diafano sotto di lui, pronta a scappare, ma troppo sconvolta per farlo, gli occhi grandi e verdi spalancati che brillavano. Rimaneva lì, a subire, ammaliata dalle mani del ragazzo, dai loro giochi concentrici. Continuò a guardare il suo corpo fremere d’amore, le zone che non si erano abbronzate durante le ultime vacanze, le natiche fragili quanto le sue, ripensando alla sgomento dolcissimo che l’aveva paralizzata anni prima tra le braccia di un altro.
Le bastò dire, tremando –Bill, ho freddo- perché lui raccogliesse la sua giacca da terra e le coprisse le spalle dolcemente, lasciandole scoperti i capezzoli scuri e lucidi della sua saliva. L’aveva voluta, chiamata, anelata. Dalla prima volta che l’aveva vista nuda e senza difese dalla fessura di una porta, aveva desiderato mille e mille volte di averla, confondere i suoi peli biondi con quelli di lei ricci e scuri, di vederla sussurrare quelle parole in una lingua che solo loro capivano e nessun’altra ragazza aveva saputo parlare, le stesse parole che ora le uscivano dalla gola come fusa di gatta e a cui lui rispondeva con baci e sospiri, mentre lasciava posto nella sua mente solo ai movimenti secchi e ritmati come una canzone che stava compiendo per rincorrere il paradiso dentro di lei.
Si sentivano più forte del primo giorno d’estate, più della pioggia che ti sferza il viso, più dell’attimo rivelatore in cui sai di per certo che al mondo la gente soffre e muore, ma nel momento in cui ami tutto il dolore svanisce e Bill sapeva che anche quando fosse stata vecchia avrebbe continuato ad amarla così, facendole scricchiolare le giunture e lui, pur di stare tra le sue gambe, non sarebbe mai invecchiato, agonizzando nella lussuria che lo spintonava e lo lasciava poi vinto e senza difese a dibattersi in una pozza d'amore.
Il sole le colorava i capelli sciolti oltre il bordo del tavolo, cascata rossa e viva, mentre Anya perdeva le sue mani tra i capelli neri di Bill, sul suo volto e i suoi occhi chiusi, sulla sua bocca che le baciava le dita. Il ragazzo le sollevò la schiena per avvicinarla ancora di più a sé, poggiando la fronte sul suo petto e continuando a muoversi più adagio. Avevano entrambi la pelle d’oca ed Anya avrebbe voluto continuare a sfregare i loro corpi più che per sempre, pentendosi, ma reclinando la testa all’indietro verso l’infinito e lasciando che dalle sue labbra scappasse un gemito che fece sorridere Bill di soddisfazione. Le morse piano la pancia e sollevò gli occhi fino ai suoi. Non aveva mai visto una ragazza più bella, tutte quelle che si erano mosse sotto di lui in quella posizione gli sembrarono volgari e trasparenti al ricordo, lei, invece, aveva una consistenza umana bruciante; aveva voglia di dirglielo e dirle altre mille cose, ma sapeva che se avesse aperto bocca tutto si sarebbe infranto. Erano in due, ora, a dover tacere.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Lost Heaven ***


Un super ringraziamento a tutte coloro che non si sono perse per strada, mi fa sempre tantissimo piacere ritrovarvi tra le mie recensitrici.

pazzerella_92, dire che Anya si è resa conto di amare Bill è leggermente eccessivo, almeno per il momento. Però sì, ha ceduto finalmente! Saranno il tempo e i prossimi capitoli a far evolvere la loro storia; non sempre in bene però XD Non può essere tutto rose e fiori, soprattutto con un tipino come Anya!
Arina, non ci siamo sentite per due capitoli, ma con il tuo ultimo commento hai recuperato alla grande, sono stata molto felice di leggere il tuo entusiasmo ^^ Anche io sono una grande romanticona e siccome queste cose nella mia realtà non succedono, le faccio accadere in ciò che scrivo! Per quanto riguarda il passato dei gemelli... sono contenta di aver raggiunto questo risultato, se vi siete sentite coinvolte ed emozionate vuol dire che sono riuscita ad avvicinarmi ad un'ipotetica realtà. A dire il vero, mentre lo scrivevo, non mi sentivo come se stessi inventando tutto, ma come se fosse accaduto veramente. Ribadisco però il disclaimer: io non li conosco e non so se capiterà mai l'occasione, è tutto frutto della mia fantasia. Baci&abbracci anche a te!
Frehieit489,  meglio tardi che mai sicuramente, benvenuta a bordo ** Aspetto altre tue recensioni u_u
after_all, ti accontento postandoti quest'altro capitolo, w Tom -oh mio eroe!-
miss hiphop, davvero hai lacrimato? *_* che dolce!

Ok, nuovo capitolo, buona lettura e grazie a tutte quelle che hanno la mia storia tra i preferiti, io continuo sempre a sperare nel ritorno delle mie pecorelle smarrite ^^ Soprattutto della critica negativa, the Fighting Temptations, che con le sue recensioni mi ha aiutata molto, forse involontariamente. Attendo ancora di sapere quali sono gli errori che ho commesso e che mi hai indicato nella tua ultima recensione!


18.
Lost Heaven



La sua divisa da lavoro era squallida quanto il posto in cui lavorava. Charlie aveva sempre lavorato là, da quando aveva sedici anni faceva il turno del pomeriggio e della notte un paio di volte alla settimana, il minimo indispensabile per sopravvivere. Solo quelle che non accettavano di farsi infastidire dai clienti ubriachi facevano il turno del mattino, ma venivano pagate poco niente, anche perché il maggiore guadagno erano le mance e se non rinunciavi alla dignità, che vedevi puntualmente calpestata dal primo uomo di turno, le tue tasche rimanevano vuote.
Era per questo che aveva improvvisamente deciso di cambiare lavoro e da giorni sfogliava i quotidiani delle offerte, comprati con le ultime banconote da un dollaro che aveva trovato nella tuta blu; il mistero dei soldi che sbucavano come per magia da quella tuta ancora non lo aveva risolto. Ma era stato tutto invano, cercavano solo commesse o dog-sitter o cose del genere: lei odiava i vestiti, i conti e aveva paura dei cani di grossa taglia. Perfetto.
Gettò anche la rivista che aveva in mano oltre il divano, dove si ergeva una pila di schifezze tra cibo, bottiglie vuote e calzini spaiati. Aveva deciso di rimettere in ordine il suo garage e aveva iniziato con lo scrivere una lista delle cose da fare, ma aveva mandato tutto al diavolo dopo la prima mezz’ora passata a spostare quei quattro mobili che possedeva alla ricerca delle cose perdute, per scoprire che una gatta randagia, da tempo, aveva partorito lì i suoi micini che, cresciuti, avevano insudiciato tutto l’angolo in cui la madre si era nascosta. La gatta se n’era andata con i cuccioli al seguito, tutti tranne uno, completamente nero e un po’ spelacchiato. L’aveva chiamato Bill, perché il suo essere nero e diverso gli ricordava il vocalist tedesco, ma chiamarlo così, dopo un po’, le fece venire il nervoso, così il gatto diventò “Tu”.
Con Tu-Bill in braccio, Charlie si alzò dal divano, strappò dal muro la lista delle cose da fare e la gettò tra la pila di giornali vecchi.
Non aveva mai avuto né la voglia, né la determinazione per riordinare quella discarica che era il suo garage; solo Mimi, di tanto in tanto, era riuscita a mettere un po’ a posto e pulire per terra e spolverare e svuotare l’armadio per fargli prendere aria. Mimi aveva la pazienza per queste cose, non lei.
-Vaffanculo- ripetè per la centesima volta Charlie, ripensando all’amica –Te e il tuo farti mettere incinta e poi lasciarmi qui per uno sfigato che tra un po’ non saprà che farsene di una donna gravida brutta e cicciona in attesa di un figlio di nessuno- Tu miagolò tra le braccia della ragazza, affamato.
-E tu, Tu, smettila di piangere che non ho niente da darti da mangiare. Dovevi andartene con tua madre e lasciarmi da sola come fanno tutti, tanto cosa se ne fanno di me? Peccato che tu sia maschio, così non potrai rimanere incinto e attaccarti al primo gatto tedesco che trovi, a lui e ai suoi amici spelacchiati!-
Charlie posò il gatto poco delicatamente sull’unico tavolo della stanza e da lì, questo saltò giù agilmente, per dirigersi con la coda ritta verso l’unico giornale non ancora sfogliato. Charlie si bloccò a guardarlo.
-Tu, non azzardarti a fare quello che stai per fare!- lo avvertì, fissandolo con odio; il micio non le diede retta e si accomodò sulla carta stampata, concentrato. Charlie scattò verso di lui, spaventandolo e facendolo scappare a gambe levate con un soffio di protesta.
-Vaffanculo Bill! Volevi farmela sul giornale!- gli urlò la ragazza, agitando la rivista miracolosamente intatta verso di lui con fare minaccioso. Tirò poi un grosso sospiro, prima di guardarsi intorno e, desolata, piombare sul divano mezzo rotto con tutto il peso del suo corpo.
-Parli con un gatto- si disse, amareggiata, prendendo a pugni un cuscino –con chi parlerai tra un po’, con il muro?-
Una lacrima le pizzicò il naso e lei la lasciò cadere giù, fino al tessuto del divano, dove si allargò formando un piccolo cerchio nero; la seconda lacrima prepotente, invece, cadde sopra il titolo di un annuncio del giornale che teneva in grembo: Cercasi personale per assistere gli alcolizzati e i tossicodipendenti del Volontariato Statale. A seguire, l’indirizzo della sede, a due isolati da lì, la paga, piuttosto considerevole visto che, comunque, si trattava di una sorta di volontariato, e la nota di chi aveva scritto l’annuncio: non si richiede alcuna specializzazione particolare, se non quella della pazienza e della virtù di saper ascoltare e affrontare la vita con persone più deboli di te. Sicuramente chi l’aveva scritta non conosceva il cosiddetto mondo del lavoro e i lupi affamati che leggevano quei giornali.
Charlie sollevò gli occhi dalla rivista con un mezzo sorriso rivolto al micio nero che si stava di nuovo avvicinando a lei, chiedendo ancora cibo; gli allungò una carezza riconoscente, prima di prenderlo e stringerlo a sé, dandogli un affettuoso bacio sulla testolina. Gli occhi nocciola della bestiola sembravano rivolgerle la domanda che non si era voluta fare da quando Mimi era partita: tu cosa avresti fatto al suo posto? Lo sapeva benissimo, in fondo: quello era uno dei casi estremi che avrebbero portato al suo ritorno; estremi perché quel ritorno sarebbe stato per sempre, ma per un potenziale figlio l’avrebbe fatto, almeno là sarebbe stato al sicuro. Si alzò dal divano con una spinta e si diresse verso il frigorifero seguita a ruota dal gatto; tirò fuori l’ultima bottiglia di latte quasi finito e lo versò interamente nella ciotola di Tu-Bill, con il gatto che le si strusciava tra le gambe.
Dopo aver gettato la bottiglia, con un balzo agile, Charlie afferrò il giornale e si diresse ancheggiando verso l’uscita di casa, canticchiando dentro di sé il motivetto di una canzone e sentendosi una star in squallore, ma che ancora brillava dentro; ogni tanto gli venivano questi attacchi di pazzia e si trovava a canticchiare “Let me see you stripped, let me hear you make decisions, without your television” camminando come una top-model per casa e facendo ondeggiare la chioma bionda, per poi piombare sul divano e ridere reggendosi la pancia. Questa volta riuscì ad arrivare fino alla porta senza ridere facendo finta di essere una famosissima cantante e imitando gli sculettamenti di non si ricordava più chi, per poi imboccare il vicolo che portava alla principale con il sorriso sulle labbra. Bastava poco per farle dimenticare tante cose, anche se le sentiva ancora scottare sulla pelle. Svoltato l’angolo, la voracità della città l’accolse nella sua tremenda bocca: il marciapiede era affollatissimo e appena oltre il bordo rialzato, file e file di macchine rumorose e puzzolenti mangiavano l’asfalto con sgommate e frenate varie. Proprio lì, fermi all’angolo, un gruppo di skater sedeva per terra addosso al muro di un palazzo, i vestiti larghi e sformati già sporchi e impolverati, le scarpe giganti distrutte e i capelli lunghi legati in code disordinate o nascoste sotto giganteschi cappelli sformati. Le sembrò di riconoscere il tizio con i ricci neri lunghi sino alle orecchie ed uno skate consumato in mano; anche lui sembrò notarla, per poi sorriderle.
-Matt!- esclamò la ragazza, andandogli incontro mentre si legava i capelli biondi in una coda alta.
-Charlotte- si inchinò questo, ridendo.
-Sai che odio che mi si chiami così- rise a sua volta lei, abbracciandolo con slancio dopo aver fatto un cenno di saluto agli altri ragazzi –Come stai? E’ da tanto che non ti vedo in giro-
-Me la cavo- rispose il moro, scrollando le spalle –E tu? Fai ancora la cameriera in quel posto di merda?-
-No, mi sono licenziata due giorni fa. A proposito, sto andando a vedere per un nuovo lavoro, ti va di accompagnarmi?- gli chiese Charlie.
-Dove?-
-All’incrocio della tredicesima, al prossimo isolato-
Per tutta risposta, Matt lasciò cadere a terra lo skate con un rumore secco e mise un piede sulla pedana nera, salutando con un cenno gli amici, in apparente catalessi contro il muro.
-Salta su, baby!- esclamò, invitando Charlie a posizionarsi sullo skate, dietro di lui. La ragazza si appoggiò alle spalle del moro, ridendo: sapeva che ci sarebbe stato da divertirsi, Matt era un matto con lo skate.

 

*


Scesero dall’albero con qualche difficoltà in più di quando erano saliti, dato che il giardino si stava rabbuiando nel calare della sera e l’unica luce nei paraggi era quella della veranda. Bill ed Anya percorsero il tratto che li divideva da casa Kaulitz vicini, cercando di inventare delle scuse sul momento per la loro prolungata assenza e tappandosi la bocca a vicenda quando alzavano troppo il tono di voce.
Il ragazzo continuava a ridere, facendosi pestare i piedi da Anya, decisamente più preoccupata di lui; Bill si sentiva libero, pronto ad affrontare chiunque, anche il mondo intero, dopo quello che era successo. Appagato e felice, come un bambino a Natale.
-Ma la vuoi smettere di ridere?- continuava a rimproverarlo sottovoce la ragazza, guardandolo senza capire –Dobbiamo trovare una scusa ed in fretta; non posso andare da tua madre e rispondere alla sua aria curiosa con un “Scusi se siamo spariti, suo figlio mi stava scopando sopra un albero”-
-E’ che sono felice- si giustificò lui, sorridendo ancora.
-Ma abbiamo un problema!- gli ricordò Anya, voltandosi dall’altra parte per non fargli vedere che stava sorridendo anche lei, ma troppo tardi.
-E’ inutile che ti nascondi, stai ridendo!- Bill la prese per le spalle, accusandola divertito e tappando la bocca di Anya con le mani per impedirle di svegliare tutto il vicinato con uno scoppio della sue risa rumorose e cristalline. La ragazza tornò seria, allontanando le dita smaltate di Bill dalle sue labbra, ma continuando a tenerle fra le sue; lasciarono libere le loro mani di intrecciarsi prima di proseguire il loro cammino verso casa, cauti. Ma ormai, non c’era più nessuno. Né sulla veranda, né sotto al gazebo, né sul viale; le macchine di Georg e Tom erano sparite, le sedie erano state portate dentro, il prato era silenzioso e buio.
A quel punto Bill non potè più trattenersi: scoppiò a ridere in modo che tutto il vicinato lo potesse sentire. Erano stati talmente occupati a pensare a come salvarsi la pelle, che non avevano fatto caso al fatto che era tutto silenzioso e tranquillo. Tom e gli altri dovevano essersene andati da un pezzo da qualche parte a bere e festeggiare, cosa non si sapeva. Si figurò suo fratello brindare con la terza Vodka Lemon e farfugliare qualcosa come “casetta” “Bill” “ahaha, questo è –hic- mio fratello”.
Anya incrociò le braccia al petto, sbuffando e trascinando il ragazzo sulla veranda con fare spazientito.
-Sei proprio un bambino- gli disse, scuotendo la testa. Il ragazzo si fermò all’improvviso, obbligandola a voltarsi e immobilizzandola con i suoi occhi castani ridenti e accusatori.
-E’ una vita che me lo dici- le fece notare.
-E continuerò a farlo- lo provocò lei, arrogante.
-Sicura di volerlo fare?- Bill alzò il sopracciglio destro con evidente gusto, sorridendo sornione, tirando fuori il Tom che c’era in lui. Senza farsi notare, solo con l’avanzare della sua figura, stava lentamente spingendo la ragazza contro il muro.
-Sicurissima- ribattè Anya, andando a cozzare contro la parete e ritrovandosi subito Bill davanti al viso, con le mani ai lati della sua testa, che sorrideva convinto.
-Io credo di…- ma in quel momento la porta si aprì di colpo.
-Ah, ecco, mi era sembrato di sentire qualcuno!- esclamò Simone, facendo capolino dall’ingresso della casa.
-Mamma!- esclamò Bill, terrorizzato dall’apparizione quanto mai inopportuna di sua madre in vestaglia e capelli sciolti, pronta per la notte. Si staccò subito dal muro dove aveva inchiodato Anya, imitato dalla ragazza, che aveva perso tutta la sua arroganza e ora si torceva le mani, imbarazzata.
Simone fece una rapida scansione dell’immagine che si presentava ai suoi occhi: dunque, Bill aveva i capelli fuori posto, bè, più fuori posto del normale e la giacca gli cadeva scomposta sulle spalle. Suo figlio non aveva mai un vestito in disordine, neanche un calzino; in più, quegli occhi non potevano mentirle. Anya sembrava tesa, all’erta, il naso vibrante ad annusare aria di possibile tempesta e la cintura del vestito slacciata per metà.
Simone sorrise con non curanza, assumendo l’aria collaudata da “qui-gatta-ci-cova”, per poi assumere quella innocente da “io-non-ho-notato-nulla”. E per perfezionarla al massimo, chiese, senza alcuna ombra di imbarazzo: -Avete fame?-
A Bill cadde la mascella dallo stupore. Se ne era accorta, sicuro, non era mica stupida! Oppure…no? Quella faccia non tradiva niente, pura ignoranza; non l’aveva notato allora. Oppure era un’ottima attrice. No, non aveva notato niente! Sorrise gentilmente a sua madre.
-Cos’è rimasto?- chiese Bill, affamato.
-Della torta. Dovrete essere stanchi, dove siete andati? A fare una passeggiata?- suggerì Simone con noncuranza, facendo entrare i due ragazzi in casa.
-S-sì- annuì in fretta Bill, cogliendo l’occasione –Fino al bosco vicino a casa dei Weiß-
-Sì?- domandò ancora Simone, guidandoli in cucina e facendoli accomodare intorno al tavolo.
Anya, che fino a quel momento era rimasta zitta e aveva seguito madre e figlio come un burattino, sorrise a Simone: -Proprio così. Ci sono delle belle villette qui a Loitsche, sa molto di campagna- commentò, radiosa.
-Peccato che ai miei figli non sia mai piaciuto tanto. Preferivano la città- ribattè Simone, sospirando e tagliando due grosse fette di torta alle nocciole per i ragazzi.
-Ah sì?-
Bill guardò le due donne iniziare a parlare di un argomento a caso a cui lui non voleva prendere parte; seguì con gli occhi prima la testa bionda di sua madre servirli con i piatti del dolce e poi Anya sorridere e porgere altre domande cortesi, recitando perfettamente la parte della santarellina. Prese con le mani la torta e iniziò a masticarla lentamente, senza distogliere lo sguardo spento dalle due donne, per poi posarlo sulla finestra, non vedendo il suo oltre. Si sentiva ancora i muscoli piacevolmente indolenziti e le labbra gonfie di morsi; nella sua gola gorgogliava ancora, ormai spento, un gemito che aveva trattenuto e ora gli scombussolava le budella, le stesse budella che sentiva della consistenza della gelatina ogni volta che la memoria fresca gli poneva davanti agli occhi l’immagine dei capelli di Anya tra le sue mani e la curva del suo ginocchio che si stagliava alla luce del sole che tramontava. Sorrise di nuovo come uno scemo, facendo sbriciolare la torta sul tavolo e ringraziando ancora il cielo che sua madre non si fosse accorta di niente. Era davvero una sorta di miracolo.
-Ti puoi sistemare nella camera di Tom, davvero, non c’è nessunissimo problema-
-Veramente, forse è meglio se…-
-No, non ti lascio andare a casa da sola a quest’ora e non ho neanche la macchina per accompagnarti, Gordon è dovuto andare da sua madre, che non sta molto bene e Tom non è in casa, quindi ti fermi qui, non devi preoccuparti di niente-
Bill scosse forte la testa, ritornando in quel momento alla realtà ed esclamando: -Cosa?-
Le due donne si girarono verso di lui con aria di rimprovero e il ragazzo si difese dai loro sguardi alzando le mani e sgranando gli occhi all'inverosimile.
-Che c’è?- osò chiedere, un attimo interdetto.
-Non hai seguito una sola parola di quello che dicevamo! Anya si ferma qui a dormire, visto che non la possiamo accompagnare alla stazione. Starà in camera di tuo fratello- gli riassunse Simone.
-E Tom dove dorme?- Bill corrugò la fronte.
-Se torna a casa, sul divano- gli spiegò Simone, scrollando le spalle.
-Ah- capì finalmente il ragazzo, facendo due più due –Sì, per me va bene-
-Non mi serviva il tuo permesso per invitarla a rimanere- gli fece notare Simone, un po’ contrariata –Vieni Anya cara, ti faccio vedere dove dormirai e ti do un pigiama pulito-
Entrambe uscirono dalla cucina, lasciando il ragazzo solo; incredibile, si erano subito alleate contro di lui. Ad un tratto si ricordò una cosa; trattenne un gemito di disgusto e balzò in piedi, raggiungendo di corsa le due donne che stavano salendo le scale e bloccando loro il passaggio con un balzo agile.
-Ehm- bofonchiò, davanti al sopracciglio di sua madre che si stava alzando pericolosamente; forse era una cosa genetica –D-dunque, in camera di Tomi ci vado un attimo io, ok? Devo, devo sistemare alcune cose, tu intanto falle vedere dov’è il bagno-
Salì si corsa gli ultimi gradini, rischiando di inciampare sul tappeto del pianerottolo e finire con il culo per terra, ma riuscì a raggiungere la camera del fratello incolume. Una volta accesa la luce, il disastro apparve ai suoi occhi: meno male che si era ricordato che proprio in quei giorni Tom si era messo a riordinare la sua camera e riordinare, per lui, aveva un significato alquanto strano, perché tirava fuori tutto quello che trovava nell’armadio, nei cassetti, nei luoghi più impensati e invadeva la camera con abiti, cappelli, plettri, lettere di fan, lanciava le chiavi ovunque e perdeva il cellulare tra i boxer. Poi, dopo aver spalmato anche i muri con tutto il suo disordine, si decideva a rimettere di nuovo ogni cosa alla rinfusa nell’armadio, creando più disordine di prima. Per il momento si era fermato solo alla fase “tiro fuori tutto e mi faccio una bella moquette con le mutande delle mie fan”. La cosa peggiore, però, era il letto perché sì, proprio lì, sulle lenzuola disfatte e il materasso cigolante, Tom aveva sparpagliato la sua collezione di preservativi da cui attingeva tutta la band, dividendoli per colori, profumo e marca.
Bill prese la loro scatola da terra e iniziò a cacciarceli dentro, tutti insieme, per poi nasconderli in un cassetto di quella che si poteva chiamare la scrivania di suo fratello; raccolse i vestiti a manciate da terra, aprì le ante dell’armadio e ce li lanciò dentro, chiudendo a fatica i cassetti stracolmi. Non sapeva come, ma nel trambusto si ritrovò con un paio di tanga incastrati tra i capelli e riuscì a buttarli nel cestino proprio un momento prima che qualcuno bussasse alla porta.
-Posso?- sentì la voce di Anya entrare dallo spiraglio dell’uscio insieme alla luce del corridoio.
-Sì, sì, vieni- le rispose lui, tirando un sospiro di sollievo. La ragazza entrò, dando un’occhiata intorno e sorridendo rivolta al moro.
-Guarda che non mi sarei spaventata per il casino di Tom, ci sono abituata, non serviva che corressi qui come un matto a riordinare- gli fece notare.
-E’ vero, ma visto che sei mia ospite, ci tenevo a farti trovare un minimo di decenza- sospirò Bill, avvicinandosi alla ragazza –La mia stanza è proprio qui accanto se hai bisogno-
-Non avrò bisogno, grazie Bill- Anya si alzò in punta di piedi, sorridendo sotto gli occhi nocciola del ragazzo e sfiorandogli leggermente le labbra in segno di congedo –Ciao, ciao-
Lo spinse leggermente verso la porta, non dandogli il tempo di reagire e protestare e poi chiuse l’uscio dietro le sue palle, con una risata soffocata. Accese la luce del comodino e si sedette sul letto, tirando fuori da sotto il sedere una manciata di preservativi che Bill si era dimenticato di mettere via; nell’attesa, aprì la finestra e lasciò che l’aria fredda della notte le scompigliasse i capelli e le facesse venire la pelle d’oca, per poi chiudere i vetri e cacciarsi sotto le coperte, come faceva da bambina. Dopo un poco, i rumori che riecheggiavano per casa cessarono: niente più colpi di tosse o rigiramenti nel letto; allora si alzò cautamente, dischiuse la porta ed uscì in corridoio, per poi entrare di soppiatto nella camera di Bill. Si avvicinò al letto dove il ragazzo sembrava dormire beato e gli tappò la bocca, prima di svegliarlo senza pietà; il moro aprì gli occhi, terrorizzato, ma riconoscendola al buio, sorrise contro la sua mano e alzò il lenzuolo, facendole posto nel letto. Anya si accoccolò contro il suo petto magro.
-Non riuscivi a dormire?- le domandò, con la voce impastata di sonno.
-Non ho molto sonno e così ho deciso di venirti a rompere le scatole- gli rispose Anya.
-Bugiarda, sei venuta perché ti mancavo, ammettilo!- la stuzzicò Bill, accarezzandole una guancia.
-Anche per quello-
Bill si sorprese: l'Anya che conosceva non l'avrebbe mai ammesso e, sinceramente, gli piaceva che l'avesse fatto.
-Ehi, ma hai visto che mia madre non ha capito niente? Siamo stati due bravi attori- annuì poi vigorosamente a quell’ultima affermazione, contento, ma Anya si alzò di scatto, sedendosi sul materasso.
-Ma allora sei proprio scemo, non fai finta!- esclamò sottovoce –E’ ovvio che tua mamma se ne accorta no? Ha fatto solo finta per non farci sentire in imbarazzo. Non ti sei reso conto che ci ha reso tutto più facile?-
Bill si grattò il mento, pensieroso e Anya tornò a stendersi al suo fianco.
-Va bè, lasciamo perdere né Bill? Buona notte- tirò il lenzuolo fin sopra alle loro teste e fece sbattere i loro nasi vicini.
-Buona notte Anya- le sussurrò il ragazzo, tra le sue labbra, baciandogliele piano e poi cadendo di nuovo nel sonno.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Unforgiven ***


Ah rieccola XD Spazio per le recensioni:

miss hiphopspero che tu non sia morta nell'attesa, l'astinenza è una brutta cosa XD Grazie mille per i complimenti, sempre graditi.
Arina, le mamme sono le solite u___u Tom, nonostante la buona volontà, mi sa che non riordinerà mai niente, ma c'è Anya per questo XD Povero ragazzo, che ci volete fare?
_ToMSiMo_,  che bello rivederti tra le recensitrici, ovviamente sei perdonata, a me basta che leggi e che ti piaccia. Un bacio!
pazzerella_92, cerco sempre di aggiornare il primo possibile! Anche da questo commento torno a criticare Tom: solo lui poteva dividerli XDD Quell'antipatica di Natasha... chissà...
Ladynotorius, *___________________*
Non ti sei affatto resa ridicola, anzi, mi hai fatto un'immenso piacere. Sono contentissima che tu abbia letto la mia storia e sono contenta che ti sia piaciuta. Per quanto riguarda la scena tra Anya e Bill, non per vantarmi, è la migliore che abbia mai scritto, mi sono commossa a scriverla e il fatto che abbiate apprezzato quel suo "diverso" dalle solite scene di sesso è stato per me fantastico!
Ora, solo una cosa che non ho ben capito XD Perchè io sarei Charlie?
Il mio nick nei forum e su msn, è vero, è Charlie, è un soprannome che mi hanno dato tempo fa e ho deciso di darlo alla Charlie in questione, ma io non ho niente a che vedere con lei XD Nè fisicamente (io assomiglio molto di più ad Anya, almeno, come colori, come viso è tutta un'altra questione) nè penso caratterialmente. Qualcosa in comune l'abbiamo, ma nessuno dei personaggi di questa storia è un mio surrogato u___u E' ovvio che trasmetta loro, magari anche senza l'intenzione, alcune mie caratteristiche, ma io non sono nè Anya, nè Charlie nè tanto meno Mimi.
Però, mi piacerebbe un casino essere Charlie *-*
Grazie ancora Ladynotorius, è stata una fantastica recensione, grazie davvero tantissimo <3

Ora, per chiarirvi un pò le idee sui personaggi di questa storia, ho deciso di farvi vedere i modelli che li rappresentano. "Modelli" perchè prima li ho creati su carta, poi ho cercato qualcuno che potesse assomigliare loro. Non esiste la copia perfetta, perchè Charlie, Anya e Mimi sono perfette solo nel mio cuore e nella mia testolina.

Anya

Charlie

Mimi

Dopo ciò, ecco il capitolo u___u


19.
Unforgiven*

 

Da ormai più di venti minuti erano chiusi nella sala riunioni dell’appartamento di Amburgo, piuttosto stretta per tutti loro, perchè David stava tenendo loro un amabile discorsetto spaccanervi sull’imminente futuro dei Tokio Hotel, aggiornandosi di continuo con il suo fidato BlackBerry, che per i ragazzi sembrava emanare nel suo splendore un luccichio alquanto sinistro, simbolo di una sola cosa: lavoro. Questa volta, però, la parola lavoro era accostata ad un’altra molto più piacevole: tour.
Durante quegli interminabili minuti a cui anche Anya era stata costretta ad assistere, la ragazza aveva dovuto combattere una battaglia ben più snervante che il discorso di David. Non c’era verso a farglielo capire.
Quella mattina, Tom era finalmente rientrato a casa Kaulitz dalla sua serata con Andreas e gli altri e aveva trovato prima Bill, seduto in soggiorno a guardare la televisione e poi Anya, appollaiata sul tavolo della cucina con una tazza in mano e Simone lì vicino; nonostante stesse morendo di sonno, non potè fare a meno di sorridere della scena, irritando la ragazza, che lo aveva subito fulminato con lo sguardo. Tom aveva alzato le mani come a dichiararsi innocente ed era scappato dalla cucina prima che sua madre iniziasse a fargli la paternale, fiondandosi sul divano accanto a Bill. Anche il fratello si era irritato non poco davanti alla faccia del suo omonimo distesa in una smorfietta saccente e alquanto divertita.
Dopo alcuni minuti, in cui la faccia di Tom parve irrimediabilmente essersi congelata in quell’espressione per il resto dei secoli, Bill aveva sbottato: -Cos’hai da guardarmi così?-
Per tutta risposta, Tom aveva alzato due volte le sopracciglia rapidamente, facendo cenno con la testa alla porta chiusa della cucina; Bill aveva sbuffato sonoramente, prima di sciogliersi in un sorriso, troppo eccitato per fingersi sdegnato con il fratello per la sua scenetta irritante.
-Ebbene?- lo aveva incoraggiato Tom –Com’è andata?-
Bill aveva preso fiato e poi aveva iniziato a raccontare tutto al suo gemello; tutto, tranne alcuni dettagli, fissi nella sua memoria, che mai e poi mai avrebbe condiviso a parole con lui, ma bastava la sua espressione beata a trasmetterli quasi come un fax alla mente di Tom, che si stropicciava compiaciuto le mani.
-Ma quanto siete stati là sopra?-
-Quando siamo scesi, era già buio da un po’-
-Come prima volta con lei, va bene- si congratulò Tom –tenendo conto del fatto che ce ne saranno altre, no?-
-Credo proprio di sì!- annuì Bill, convinto.
-E lei come ha reagito?-
-Bene, come avrebbe dovuto reagire?- chiese il moro, un attimo interdetto.
-No, va bè, intendo dopo, dopo il tutto, quando è venuta in camera da te- si spiegò meglio Tom, sbuffando.
-Non ha reagito, è stata normale- ci rifletté un attimo Bill –Bè, ovviamente dopo avermi dato dello scemo per non aver capito che nostra madre ci aveva scoperti, cosa di cui sono ancora convinto-
Tom si sistemò la visiera del cappellino, contrariato.
-Male- fu l’unica risposta che diede allo sguardo interrogativo del fratello.
-Come male? Ma se non poteva andare meglio di così!- esclamò Bill.
-Eppure certe cose dovresti saperle, caro mio, si vede che l’amore ti ha un po’ annebbiato i ricordi: cosa fa ogni singola ragazza di questo pianeta dopo il sesso? Dopo le coccole e stronzate varie?- gli chiese il rasta, come se stesse ponendo una domanda particolarmente facile ad un alunno nell’ora di storia. Bill non gli seppe rispondere, beccandosi un’occhiataccia.
-Cerca conferme! E Anya non l’ha fatto- gli ricordò Tom. Bill fissò il gemello, capendo improvvisamente.
-Oh no- biascicò.
-Oh sì! E le conseguenze di ciò possono essere molto varie, spero tu sia pronto ad accettarle o chiuderla prima ancora di iniziare a crederci, capito?- gli spiegò Tom, funesto.
Bill non seppe rispondere neanche questa volta. Mezz’ora dopo, ricevuta una chiamata di David, i due gemelli e Anya, seduta sul sedile anteriore della Cadillac, raggiunsero il più discretamente possibile lo studio di Amburgo per ritrovarsi con gli altri. Appena oltrepassata la soglia, poterono constatare i danni della scorsa serata di baldoria: Georg aveva due grandi occhiaie scure, proprio come Tom; evidentemente, entrambi non avevano dormito molto quella notte. Gustav, invece, era come al solito sveglio e rilassato e, seduta di fronte a lui sul divano, c’era Natasha, con la chiara faccia di chi aveva passato ore a vomitare per la sbornia. La bionda beveva poco e saltuariamente, ma ci aveva pensato Tom a darle il drink di troppo e spedirla per tutta la serata nella terra di non ritorno degli ubriachi e ogni volta che la ragazza chiedeva se sapessero qualcosa di Anya e Bill, le veniva allungato senza sospetti un Martini in più. La storia che Tom aveva rifilato a tutti quanti, con complicità di Andreas, era che suo fratello si era sentito poco bene e Anya non era venuta con loro perché non ne aveva alcuna voglia.
Nell’attesa che David e Dujna li raggiungessero nello studio, i sei ragazzi si erano piazzati davanti alla televisione e lì era iniziata la lotta di Anya: per prima cosa, dopo aver salutato la cugina con un abbraccio, aveva dovuto raccontarle che si era fermata a casa Kaulitz perché nessuno le aveva potuto dare un passaggio fino in stazione ed era per quello che era arrivata con i gemelli, che non si facesse delle strane idee. Aveva adottato un sorriso di circostanza mentre raccontava con aria innocente alla cugina la sua versione dei fatti, ma lo stomaco le si era attorcigliato dolorosamente nel fingere.
Era questo il suo problema: ne era capace, ma le faceva male farlo. Quella notte, addormentata accanto a Bill con un suo braccio sullo stomaco, si era svegliata di colpo e non era più riuscita a prendere sonno, le conseguenze delle sue azioni che si erano fatte prepotentemente spazio nella sua coscienza. Alle due di notte, sveglia, con gli occhi spalancati che guardavano il soffitto, aveva realizzato quello che era successo: era andata a letto con Bill, se l’era scopato di brutto, porca puttana. Eh sì, si era scopata l’oggetto dei desideri di sua cugina e le era anche piaciuto farlo, non se ne pentiva minimamente.
Però, era sua cugina. E lui era solo Bill.
Urgeva una soluzione e anche in fretta, per l’amor del cielo, altrimenti il suo grillo parlante non l’avrebbe più lasciata vivere in pace, facendole pesare quella scopata come l’errore più grande della sua vita e non le sembrava proprio il caso. Doveva solo fingere, fino a nuovo ordine e sarebbe andato tutto bene.
Tom aveva preso posto sul divano accanto alla truccatrice e Bill e Anya erano stati costretti a sedersi vicini sull’altro divano, in compagnia di un composto Gustav che faceva zapping fra i canali; trovato quello che poteva interessargli, il biondino aveva appoggiato la testa sulla mano e si era perso fra i pixel del grande schermo. A poco a poco, la stupida telenovelas che il batterista si era messo a seguire aveva catturato l’attenzione di tutti che, automaticamente, si erano girati verso il televisore e stavano assimilando piano piano la storia a forza di flashback dei personaggi. Bill si era accomodato sul divano, accoccolandosi vicino ad Anya per poter allungare le gambe sul sofà e aveva portato una mano oltre il cuscino dietro le sue spalle. La ragazza era rimasta immobile ed indifferente, almeno fino a quando non aveva sentito la testa di Bill posarsi sulla sua spalla e il suo braccio scenderle lungo la schiena, dietro di lei. Si era subito scostata con un’occhiata di rimprovero al ragazzo e si era allontanata da lui, cercando di fargli capire con lo sguardo che non era proprio il caso che si facessero vedere da tutti. Bill le aveva lanciato uno sguardo sconsolato e poi si era di nuovo raddrizzato, stringendole per un attimo la mano. All’arrivo di David, i sei ragazzi avevano dovuto spegnere la televisione e seguirlo nella sala riunioni e lì, Anya aveva passato venti minuti ad intimare a Bill sottovoce di spostarsi un po’ con la sedia, evitare di toccarle la schiena o la gamba con una mano e di crollarle addosso addormentato, approfittando del fatto che il discorso del manager stava annoiando tutti.
-Bene, come voi sapete, ora inizierà il tour- era finalmente arrivato a dire David, dopo aver parlato senza sosta dell’America, dei suoi progetti andati a buon fine e blablabla. Con la parola tour, riuscì a conquistare l’attenzione di tutti i presenti, che si raddrizzarono sulle sedie e cacciarono il sonno con uno scossone deciso del capo. Per la centesima volta, Bill spostò la sedia verso Anya, in maniera talmente impercettibile che nessuno poteva accorgersene, nessuno tranne lei che, esasperata, scattò in piedi come una molla al grido di: -Chi vuole un caffè?-
Tutti la trovarono un’idea magnifica, grazie Anya, fecero le loro ordinazioni, chi il cafè, chi un bicchiere di Coca-Cola, e la ragazza si precipitò verso la cucina, tirando il fiato solo alla vista del fornello sporco davanti a sé; ci si appoggiò con entrambe le mani e prese a dare testate sulla credenza lì sopra. Il rumore arrivava fino alla sala dove erano riuniti gli altri, ma nessuno ci fece caso, a parte Bill, che lanciò un segnale d’allarme al fratello con un calcio sotto al tavolo, ottenendo in risposta solo uno scuotere del capo indefinito.
Anya trovò la caffettiera grande e la scatola del caffè dopo aver cercato in ogni sportello; riempì d’acqua il contenitore e, a cucchiaini, sistemò la polvere di caffè nera ed intensa nella caffettiera, per poi chiuderla e metterla sul fuoco. Ci mise cinque minuti a bollire e spandere il suo profumo per tutta la cucina; durante quel tempo, Anya non seppe far altro che camminare avanti e indietro, dalla porta al forno, misurando la cucina con i suoi passi lunghi e nervosi. Un goccio di caffè scappò con uno sbuffo dal beccuccio di acciaio prima che si accorgesse che doveva spegnere il fuoco, o la cucina sarebbe stata inondata di caffè bruciacchiato. Tirò fuori le tazzine e si mise a cercare lo zucchero, che sembrava essersi volatilizzato nel nulla; di solito, non lo riponevano neanche in un contenitore, ma lo lasciavano nella sua confezione, così come il sale e la farina, se riuscivi a trovarli. Sì, erano là, li aveva visti: sull’ultima mensola della credenza. Ovvio, quella a cui le non arrivava neanche con i trampoli; ci tentò, per la verità, ma sedie su cui salire non ce n’erano, erano servite per sedersi tutti in sala e quella era l’unica credenza volante, senza alcun bancone sotto. Per una volta, Anya maledisse la sua statua e quello che i tacchi non potevano fare; si affacciò alla porta, urlando in corridoio: -Qualcuno venga ad aiutarmi a prendere lo zucchero!-
Iniziò a versare il caffè nelle tazzine, improvvisamente calma; sapeva che sarebbe venuto lui, era inevitabile, maledetta cucina. Lo vedeva già, alzarsi e dire –Vado io- con un sorriso mal celato, cercando l’approvazione del fratello. Attese ancora poco, con la schiena volutamente rivolta alla porta; non si girò, continuò a versare il caffè, mentre Bill, appena entrato, recuperava senza difficoltà lo zucchero e si avvicinava a lei per porgerglielo. Lo posò sul tavolo, vicino alla caffettiera e, dopo aver inumidito l’indice, lo immerse nei granelli dolci, portandoseli alla bocca. Anya gli fece cenno con il capo al cassetto dei cucchiaini che lui, mansueto, andò a prendere.
Svolta anche quella mansione, Bill si avvicinò di nuovo alla ragazza che, nonostante cercasse di non farlo, si trovò costretta a rivolgere la sua attenzione dalla bottiglia di Coca-Cola appena presa dal frigorifero, a quel viso chiaro e stranamente tranquillo, senza risparmiarsi un sospiro e un’occhiata di rimprovero mal simulata.
Bill sorrise divertito del broncio della ragazza e poi le prese il viso tra le mani, aggredendola con un bacio, da cui Anya cercò di staccarsi, ma senza successo.
-Bill…- lo avvertì, mordendogli il labbro per tentare di allontanarlo. Come risposta, ottenne solo che il ragazzo riuscisse ad oltrepassare la barriera bianca dei suoi denti ed invaderle il palato, leccandolo con l’ausilio di quel suo gelido piercing. Vinta, Anya si avvicinò di più e si aggrappò al collo di Bill con entrambe le braccia, mentre il ragazzo si impossessava del tessuto della sua gonna. Tenne gli occhi aperti per un po’, fissi sulla porta, all’erta, ma le palpebre rapite cominciavano a chiudersi da sole inesorabilmente, intimandole di concentrarsi su qualcosa di più importante di un corridoio.
-Ehm, ehm- li interrupe una voce roca alle loro spalle, facendoli staccare di colpo; il cuore di Anya iniziò a martellare impazzito per lo spavento, saltando parecchi battiti e si tranquillizzò solo quando riuscì a focalizzare la faccia di Tom sotto uno dei suoi soliti berretti. Tirò un sospiro di sollievo.
-Per quanto mi ecciti l’idea di vedervi scopare sopra il tavolo della cucina, sono venuto ad avvertirvi che di là aspettano il caffè- annunciò loro Tom, prendendo in mano due delle quattro tazzine posate sul ripiano –E si chiedono che fine avete fatto-
Bill guardò allarmato il fratello, imitato da Anya, ma Tom li rassicurò con lo sguardo.
-No, nessun sospetto, ma dovreste fare più attenzione e ringraziare del fatto che sono venuto io ad avvertirvi; poteva venire qualcun altro- fece loro presente Tom, dirigendosi verso il corridoio con le tazzine.

Anya respirò profondamente, guardando Bill mandare sottovoce a fanculo suo fratello.
-No, Bill, ha ragione- lo ammonì, staccandosi dal suo abbraccio e prendendo il vassoio con le altre tazzine e la Cola-Cola –Aspettami qui, dobbiamo parlare-
E Bill l’aspettò lì, vedendola uscire dalla cucina con la gonna che le sbatteva sul ginocchio, ondeggiante e ammaliatrice, l’aspettò senza far nulla, in verità, senza chiedersi nulla, anestetizzato dall’aria pacata della cucina. Al suo ritorno, Anya si sedette sul tavolo, in silenzio.
-Ho detto agli altri che sei in bagno e che venivo a ripulire la cucina- gli spiegò, dondolando le gambe. Bill annuì e aspettò.
-Ti ricordi quello che ti ho detto sulla casetta a proposito di Natasha?- gli chiese la ragazza; Bill annuì di nuovo –Non deve saperlo, nessuno deve saperlo, né lei, né Georg, né nessun’altro-
-In pratica dobbiamo fare finta che non sia mai successo niente- l’assecondò Bill, contrariato, cominciando a capire davvero quello che suo fratello aveva voluto dirgli.
-Io, ecco… sì. Sì Bill, io non posso dire a mia cugina che ho scopato con il ragazzo che le piace e tu non puoi dirlo a Georg. Andrebbe tutto a puttane! Non possiamo dirglielo così!-
-Sì che possiamo. Non abbiamo fatto niente di male Anya, capiranno e lo accetteranno; tenerglielo nascosto peggiorerà solo la situazione- cercò di convincerla Bill, mostrandole l’altro lato della medaglia.
-Natasha non mi parlerà più, tu litigherai con Georg e l’armonia della band andrà a farsi fottere e per cosa? Per me, ti senti di litigare con uno dei tuoi migliori amici, nonché membro della tua band, per me?- gli chiese Anya, sollevando un sopracciglio.
-Sì!- rispose d’impeto Bill.
-No Bill, no. Non possiamo dirglielo così, metterli davanti al fatto compiuto e dar loro un ultimatum, o lo accettate o ve ne andate a fanculo- scosse il capo Anya –Sono già in troppi a saperlo-
-Lo sa solo Tom-
-E tua madre e lo scoprirà anche David. Dovremmo dirglielo secondo te?-
Bill non rispose, cominciando ad entrare nell’ottica del la ragazza: erano tutti contro di loro, tutti.
-No- le rispose –so già che non ce lo permetterebbe. Tirerebbe fuori che ho la mia carriera a cui pensare e che averti vicina ventiquattro ore su ventiquattro mi distrarrebbe- conosceva bene il suo manager, Bill.
-Capisci?- Anya scese dal tavolo, prendendo il viso del ragazzo tra le mani -Non voglio rovinare qualcosa in cui credo. E’ strano- aggiunse poi -non ci siamo mai potuti sopportare, tu troppo star, io troppo Anya-
-Io è da quando ho sedici anni che penso a te, scema- le fece presente Bill, facendola sorridere.
-Per quanto riguarda Nati, ci parlerò, chiarirò tutto. E anche con gli altri, poco a poco chiariremo e andrà bene- annuì Anya.
-Ok-
-Ok?- Anya stampò un bacio sulle labbra dolci del ragazzo, guardandolo di nuovo.
-Sì, ok- la baciò a sua volta Bill.
Tornarono nella sala riunioni silenziosi e discreti e si risedettero ai loro posti mentre David poggiava la tazzina del caffè sul piattino e si puliva i baffi con un tovagliolino.
-Bene, ora che anche il nostro vocalist è tornato, parliamo seriamente di questo tour- annunciò, incrociando le braccia al petto –Dunque, come sapete abbiamo aggiunto altre date e la prima sarà il 3 marzo, a Bruxelles, sold out. Io e gli altri produttori abbiamo preso una decisione all’ultimo minuto e ci scusiamo di farvela avere così in ritardo: la scaletta, per quanto riguarda i Paesi in cui è uscito Scream, sarà in inglese-
Bill soffocò nel suo bicchiere di Coca-Cola.
-Cosa?- esclamò con voce strozzata.
-Ve ne avevo già accennato, per promuovere l’album in inglese dovrete cantare in inglese-
-Ma, ma le nostre fan ci conoscono in tedesco, io credevo che avremmo cantato in tedesco!- esclamò ancora Bill.
-Allora Bill, ascoltami bene: abbiamo deciso, quando è uscito Scream, che avremmo fatto di tutto per conquistare il mondo e il mondo non può essere conquistato in tedesco. L’inglese è la lingua della musica-
-Non la mia! E poi continui a dire “conquistare, conquistare”, non dobbiamo fare la guerra a nessuno!- protestò il ragazzo, esasperato.
-No, hai ragione, ma così stanno i fatti e li devi accettare: anche in Europa canterai in inglese. E’ questa la nuova faccia che io e gli altri produttori vogliamo dare ai Tokio Hotel e prima vi abituerete, meglio sarà- gli tarpò le ali David.
-Immagino sia una questione di marketing- sentenziò Gustav, esprimendo a parole quello che anche gli altri volevano dire.
-E’ soprattutto una questione di coerenza: ci siamo fissati un obbiettivo, anche voi ragazzi e ora lo dobbiamo portare a termine. E’ lo Scream Tour questo, il tour per l’album Scream-
-E' il 1000 Hotels Tour- protestò Bill -Non sono pronto a cantare in inglese-
-Sì che lo sei, in America non hai fatto altro e poi avrai tutto il tempo che vorrai per provare, in questi giorni faremo le prove generali, a Lipsia-
Bill fece per protestare di nuovo, ma un’occhiataccia di David lo mise a tacere. Doveva solo accettare il fatto che avrebbe di nuovo cantato con la sua pronuncia orribile e la sua “r” mal riuscita. Ma forse era un bene: era importante, adesso, imparare l’inglese, altrimenti non avrebbero più potuto rimanere al passo con i tempi che la loro carriera stava prendendo.
Si rassegnò, mentre David faceva passare loro il foglio con la scaletta provvisoria.
-On the Edge la voglio prima di Ready Set, Go!- pattuì subito Tom, appena presa visione della lista. David gli rispose con un gesto vago.
-Abbiamo mantenuto il più possibile le indicazioni che ci avete dato-
-Sì, ma On The Edge va prima di Ready, Set, Go!- gli ricordò ancora il chitarrista.
-Sì, va bene Tom- si arrese David, per metterlo a tacere –Ah, un’altra cosa: nelle date in Germania e Francia, le canzoni saranno in tedesco-
-Ah no eh! O tutte in tedesco o nessuna!- scattò in piedi rumorosamente Bill, puntando un dito contro il manager, contrariato.
-In Francia e in Germania non è uscito Scream- iniziò a spiegargli David, ma il ragazzo non gli diede modo di continuare.
-Così le fan penseranno che facciamo preferenze!- esclamò.
-E’ ora, Bill, che pensi un po’ di più a quello che si deve fare e non a quello che le fan potrebbero pensare!- lo ammonì David.
-Ma quale artista pensa così? Le fan sono al primo posto in queste faccende-
David sospirò, sconsolato, massaggiandosi una tempia con la mano.
-Bill, così è e prima te lo fai entrare in testa, meglio è. Andrà tutto bene, capisco che siete eccitati e in ansia, ma tirare fuori il panico non mi sembra il caso, non è il primo tour e non sarà neanche l’ultimo- mise fine alla discussione il manager –E adesso siediti, che abbiamo anche altro su cui discutere-
-Sì, infatti- si intromise questa volta Gustav. David lo guardò un attimo interdetto, non capendo cosa volesse dirgli il biondino.
-Dobbiamo trovare un posto a Mimi- annunciò questo, pacato.
Il manager alzò gli occhi al cielo: -No, anche questa storia no!-
-Sì, invece-
-Non possiamo portarcela dietro, Gustav! Abbiamo un capitale contato e le nostre spese non possono oltrepassarlo, ci sono delle regole e una tabella di marcia. Quella ragazza non ne fa parte, non c’entra niente-
-Ed è qui che ti sbagli: per i soldi, non c’è alcun problema, se è solo per questo, sono abbastanza ricco da potermi permettere di mantenerla, se è il caso. Non la lascio qui in Germania-
-Un momento- si intromise Anya, confusa –Chi è Mimi? Perché io non so mai queste cose?-
Si era decisamente persa qualche passaggio. Gustav la guardò un attimo stranito, prima di ricordarsi che lei non l’aveva conosciuta e non c’era stato modo di parlargliene da quando si erano visti. Fece per aprir bocca e iniziare a spiegarle, ma Nat lo precedette, prendendo da parte la cugina e dicendole che le avrebbe raccontato tutto dopo.
-Comunque, non c’è niente di cui discutere Gustav, non può venire- rincarò la dose David, categorico.
-Non c’è niente di cui discutere perché lei viene, punto e stop- ritrattò il biondino, cocciuto. Il manager non si era di certo aspettato una reazione simile dal pacato batterista della sua band.
-Ma, è incinta e…- tentò di argomentare ancora.
-Questi sono affari nostri, voi non siete coinvolti. Posto sul tourbus ce n’è e una persona in più non ci manderà in bancarotta. Inoltre, può sempre aiutare Anya nei suoi compiti; è una ragazza abituata a lavorare per vivere, non se ne farà alcun problema- Gustav lanciò uno sguardo supplichevole alla loro tata, perché lo appoggiasse e Anya colse subito la chiamata, un attimo sorpresa del fatto che il batterista avesse una nuova ragazza da così poco e questa fosse già incinta.
-Sì David, chiunque sia, può darmi una mano, non sarà di alcun disturbo, anzi, si renderà utile-
Il manager sospirò ancora.
-Va bene, ne riparliamo, ma per ora è un sì- capitolò alla fine, per la gioia di Gustav, che ricevette una pacca amichevole da Georg per il buon esito della missione.
-Bene, direi che la riunione è conclusa- sentenziò Tom, spazientito da tutte quelle chiacchiere e ben deciso a concedersi un’ora rilassante davanti alla Play Station –Chi viene a giocare a Tekken 5?-
Georg alzò una mano, offrendosi volontario e scattò rapido verso il soggiorno, seguito con qualche difficoltà dall’amico. Anche Anya fece per alzarsi e raggiungerli, era un mostro a quel gioco, ma Natasha la fermò.
-Senti Nani, io oggi vado dal parrucchiere, ho l’appuntamento pre-tour, sai com’è- rise –Ti va di venire a farti dare un’aggiustatina ai capelli?-
Anya annuì, sorridendo.
-Certo. Ah, Gustav!- chiamò il batterista, che stava lasciando la sala con un sorrisone stampato in viso –Chiedi a Mimi se le va di venire dal parrucchiere con noi questo pomeriggio, così la posso conoscere-
-Molto volentieri, grazie mille Anya- le sorrise il ragazzo, annuendo.

Alla prossima, grazie a tutte quelle che hanno inserito la mia storia in preferiti *-*


*song dei Metallica

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** The Unforgiven II ***


Arieccola con il capitolo 20. Finalmente, direte! (almeno spero XD)
Lady, ti tocca rileggere se hai già letto il seguito, perchè l'ho aggiornato, mi sembrava incompleto senza la parte che poi ho effettivamente aggiunto. Sono anche io della tua opinione riguardo Anya, ma lei è fatta così purtroppo e quindi dobbiamo beccarci questi scontri ancora per un pò. Piacerebbe anche a me che prendesse Bill e se lo slinguasse sotto gli occhi di sua cugina per poi mandarla a fanculo, ma tiene troppo a lei per farlo, anche se questo comporta la sua e la sofferenza di Bill. Grazie anche a Tomsimo e miss hiphop, mi fa sempre piacere trovarvi tra le recensitrici <3

20.
The Unforgiven II



Ciao a tutti, sono ancora io, Tom.
Oggi è il nostro il ultimo giorno a New York. Domani torneremo in Germania per le prove del nostro Tour europeo. Inizieremo il 3 Marzo a Bruxelles (che è in Belgio), quindi abbiamo bisogno di prepararci.
WOW il viaggio in Nord America è stato pazzesco. Prima siamo rimasti intrappolati a Toronto a causa di un’enorme quantità di neve, e ci sono voluti due giorni per arrivare a L.A.! Dopo, ce l’abbiamo fatta per un pelo a New York perché il nostro aereo ha avuto problemi tecnici – è davvero poco divertente passare tre giorni in aeroporto accanto a Georg (non ha decisamente un buon odore) ;-)
Ma dopo questo – parliamo delle cose belle! Siamo stati completamente sopraffatti da tutti voi fans. È stato così incredibile vedere come eravate pompati ed eccitati…ci avete fatto sentire a casa, specialmente me! A paragone con gli altri membri della band, ho avuto tonnellate di numeri di telefono dalle ragazze più belle ;-) Quindi fondamentalmente, non vedo l’ora di tornare. Per la prossima volta: forse tutte voi potete pensare di dare una possibilità anche agli altri membri della band.

Questo è tutto per oggi – GRAZIE di tutto e ci vediamo presto!
Tom


Non era con quello spirito che Mimi aveva lasciato New York; non era rimasta bloccata in nessun aeroporto, nonostante il volo che lei e Charlie avevano preso per andare da Martha a Los Angeles fosse in ritardo, né aveva ricevuto milioni di numeri di telefono, cosa che non valeva neanche per Tom, perché l’unico numero di cui gli importava non sarebbe servito a niente, né era stata sommersa da fan eccitante; in compenso, però, era stata malmenata al Lost Heaven e aveva litigato con la sua migliore amica, andava bene lo stesso? Decisamente, si era lasciata dietro più cose cattive che buone.
Non era nata a New York, ma lì aveva vissuto fin da quando poteva ricordare e ricordava grattacieli e strade e poi vicoli, locali e anche la scuola di periferia che aveva frequentato; andare a scuola le piaceva, era anche abbastanza brava, soprattutto in matematica e partiva avvantaggiata nel corso di tedesco, la lingua che parlava il papà di Martha, nonché suo padrino e unico barlume di genitore che avesse mai avuto. I suoi erano morti quando lei era molto piccola, o almeno così le avevano raccontato, ed era tutto ciò che sapeva; da bambina fantasticava spesso, come ogni orfano, su chi potessero essere i suoi genitori, re e regine di qualche regno lontano, maghi o artisti del circo. Non che si trovasse male con Martha, per cui provava un forte affetto, e i suoi genitori, Frank e Sophie; solo, non accettava di essere figlia di nessuno. A sedici anni aveva lasciato la scuola per lavorare in un caffè, uno di quei tipici locali da film americano dove dovevi indossare una divisa ridicola e girare con il bricco del caffè caldo tra i tavolini dei clienti. Lì aveva conosciuto Charlie, o meglio, la versione decisamente più piccola ed innocente di quella che era diventata. All’inizio, non capiva proprio cosa ci facesse una ragazzina come lei in un posto tanto anonimo come quello: era la principessa che lei non era mai stata. Superba e piena di maestà, non dava confidenza a nessuno e per lei eri come invisibile, troppo concentrata su di sé o sui suoi problemi per percepire qualcos’altro. Mimi era riuscita per forza di cose a starle simpatica, erano coetanee e, soprattutto, era l’unica a che non le continuava a chiedere informazioni sul suo passato, che solo la proprietaria del locale conosceva e che si sarebbe poi portata nella tomba.
Il suo vero nome, Charlotte Dawson, se lo dimenticarono tutti molto presto e lei diventò solo Lotte; anche i bei capelli color del miele, luminosi e lunghi fin oltre il sedere se li dimenticarono non appena la ragazza decise di tenerli più corti e lavarli solo quando capitava. E pure gli orecchini, che sì, sembravano proprio diamanti e i vestiti, di stoffa nuova e pregiata, sparirono . Disse che li aveva venduti per comprare una casa in nero, cosa non tanto difficile in quella città di mafie ed inganni, ma il fatto che fosse riuscita a trovarla poco distante dal centro faceva davvero pensare al valore di quegli orecchini; era solo un garage, alla fine, ma era suo, con anche i mobili indispensabili, la corrente elettrica, il frigorifero e il fornello a gas.
A sedici anni, Charlotte era piccola, piatta ed infantile; un anno di quella vita lontana dalla presunta casa da dove era probabilmente scappata, l’aveva fatta crescere di una buona spanna, le aveva colorito la pelle prima bianca come la neve, le aveva arrotondato i fianchi e cresciuto il seno, che ora teneva stretto in una taglia di reggiseno più piccola per cercare di nasconderlo ai clienti che cominciavano a guardarla troppo insistentemente. Poi un giorno aveva capito che le sue tonde e giovani morbidezze erano un vantaggio, non una vergogna, e aveva iniziato a dare loro il giusto valore.
L’amicizia tra le due ragazze era cresciuta fino a renderle indivisibili; quando Martha e i suoi genitori si erano trasferiti vicino a Los Angeles per un’importante offerta di lavoro a cui Frank, vista la loro condizione sociale, proprio non aveva potuto rifiutare, Mimi si era trasferita per qualche periodo da Charlie; quando l’amica era andata a farsi tatuare sull’osso sacro, ben nascosta, una rosa rossa che solo i più fortunati avrebbero visto, Mimi l’aveva seguita ed aveva ceduto al tanto sospirato piercing al labbro, quel sottile cerchietto di metallo che conferiva al suo sorriso qualcosa di magnetico ed invitante.
Insieme si erano anche fatte la prima sbornia e la prima dose; avevano vomitato e delirato insieme, rischiando di farsi investire e finendo nelle braccia sbagliate a farsi amare di un amore storto. La droga non le aveva intrigate tanto, solo quando veniva loro offerto fumavano qualcosa insieme, se i tempi lo permettevano, chiaramente. La sciocca e candida Mimi, da Biancaneve, si era trasformata nella mela avvelenata, trascinata dalla corrente impetuosa in cui si era trasformata Lotte; ma quel candore, ben celato dagli occhi truccati e la disinvoltura imparata a copione, persisteva ancora.
Per quelle strade buie e nascoste, erano arrivate fino al Lost Heaven, un locale malfamato che sarebbe diventato “il locale”, scenario epico per tutte le loro avventure: l’incontro con Nafee, un bambino storpio e spaventato, nuova attrazione di quel pazzo del proprietario del locale, che lo teneva incatenato ad un muro; Charlie aveva tentato di avvicinarlo e lui le aveva morso una mano, lasciandole una piccola cicatrice. Di conseguenza, la relazione malsana che la ragazza aveva condotto per un certo periodo con il proprietario, al solo scopo di far liberare quello sventurato. C’era riuscita. Poi il taglio radicale di capelli di Mimi che, risvegliatasi da una notte di sesso, aveva scoperto che il suo amante era un pazzo collezionista che le aveva tagliato la chioma per la sua raccolta e anche le foto che si erano fatte fare per pubblicizzare il locale, truccate pesantemente e coperte solo dalle chitarre e i bassi della band che suonava piuttosto frequentemente al Lost Heaven, covo di metallari. Avevano apprezzato quella musica con il passare del tempo e la cosa era stata inevitabile, le loro orecchie avevano imparato da sole ad amare lo stridere di chitarre e il picchiare duro di batteria, le voci demoniache e solenni. Charlie era riuscita a cantare per qualche tempo con la band, guadagnando piano piano i soldi per il loro ultimo viaggio a Los Angeles in visita all’ormai cresciuta Martha.
Il capolinea era stata la sua ultima avventura: il bambino. E la scelta di seguire Gustav, lasciandosi alle spalle Lotte, troppo libera per farsi catturare da un Tom qualsiasi, troppo forte per capire la fragilità di questo, troppo superiore per abbassarsi al livello dei comuni mortali. Troppo stupida, per non aver sentito né immaginato.
Ma Mimi non si era affatto disperata, il loro litigio non aveva lasciato alcun segno visibile: non sapeva quando, ma la sua illimitata fiducia nel destino e in quella amicizia di sangue le assicurava che la loro storia non era ancora finita e, dietro un qualsiasi angolo, il più improbabile, l’avrebbe ritrovata.
Ora, aveva altro a cui pensare. Per esempio alla ragazza che Natasha le stava presentando, nell’ingresso dell’appartamento della sorella di Gustav dove Mimi era scesa per l’appuntamento. Aveva i capelli lunghi più o meno come Charlie quando l’aveva conosciuta, ma castani e non molto in ordine. La circondavano come un mantello, sfiorando lo spolverino color crema sopra all’abito invernale fiorato e allegro che indossava. Erano più o meno alte uguali, ma la sua postura e forse anche il modo in cui teneva la testa la facevano sembrare più alta; la guardava con curiosità e notò anche che i suoi occhi, verdi ed indagatori, correvano spesso alla sua pancia neanche a malapena accennata, senza imbarazzo.
-Anya, piacere- si presentò, tendendole una mano appena sguantata che Mimi sfiorò con un po’ di titubanza; la stretta con cui però la ragazza le catturò il palmo le infuse coraggio.
-Mimi- le sorrise.
-Ok, Saki ci sta aspettando di fuori e siamo già piuttosto in ritardo- annunciò Natasha, pilotando le due ragazze verso l’uscita e dirigendosi incontro al macchinone nero parcheggiato davanti al palazzo. Salutarono la sorella di Gustav affacciata al balcone e salirono sui sedili posteriori della vettura.
-Ciao Mimi- le rivolse la parola Saki, prima di accendere il motore ed immettersi nel traffico scorrevole della via. Il tono di Saki era sempre un po’ brusco e spiccio, ma quella era stata la prima a cosa a cui la ragazza si era abituata. Doveva ancora fare i conti con le paranoie di David, i difetti sconosciuti dei ragazzi, la vita da artista e l’amicizia con Nati e Anya; c’era decisamente da impegnarsi, era fatta così: se voleva stare bene, doveva fissarsi degli obbiettivi e in quella nuova vita ne aveva parecchi, ma la voglia di raggiungerli, stranamente, le risollevava la giornata.
-Allora- cominciò Anya, riscuotendola dai suoi pensieri e lisciandosi la piega del vestito –come mai sei incinta di Gustav?- le chiese schietta. Natasha le tirò una botta sulla spalla, ammonendola con lo sguardo.
-Anya!- esclamò.
-Che c’è? Voi sapete tutto ed io niente, non è giusto!- si lamentò questa, girandosi verso una Mimi un po’ imbarazzata e pentendosi immediatamente di quell’improvvisata alla Bill. Oddio, ecco gli effetti collaterali, pensò con un attimo di orrore, prima di scusarsi con la ragazza per il suo poco tatto; ma se lei aveva imparato a convivere con la verità, allora anche gli altri dovevano farlo.
-No, tranquilla- la rassicurò Mimi –sembra giusto anche a me che tu non rimanga la sola all’oscuro di tutto. Non sono incinta di Gustav, fino a qualche giorno fa non lo conoscevo neanche-
Anya tirò un sospiro di sollievo e si accomodò di nuovo sul sedile, ora meglio disposta ad ascoltare la storia della ragazza; l’idea che fosse stata incinta di Gustav non le era andata per niente a genio, per un motivo che neanche si sapeva spiegare. Forse istinto di protezione per l’amico: avere un figlio a vent’anni e per di più con la vita che conduceva lui non era l’idea migliore al mondo.
-Sono rimasta incinta del mio direi ex-ragazzo, anche se la definizione non è propriamente esatta- continuò Mimi, non sapendo come altro spiegare alla ragazza la sua situazione. Infatti Anya le lanciò uno sguardo indagatore, incitandola a proseguire.
-Bè, diciamo che era il ragazzo che frequentavo e, per errore mio, temo, sono rimasta incinta; sono passati già due mesi, ma ho trovato il coraggio di dirglielo solo qualche sera fa. Non l’ha presa molto bene, come già immaginavo; invece non immaginavo che sarebbe arrivato al punto di picchiarmi. Mi sono difesa come ho potuto e poi lui, ubriaco com’era, mi ha lasciata perdere e se n’è andato. A quel punto, ho ricevuto una chiamata da Tom; ero stordita, spaventata, avevo vomitato e pianto fino a stordirmi, non capivo più niente, ma sono riuscita a dirgli di venirci a prendere-
-Venirci?- corrugò la fronte Anya.
-Sì, Lotte ed io- spiegò Mimi.
-Lotte?-
-Bè, in verità, Tom la chiama Charlie, si conoscevano già da un po’; è la mia migliore amica e quella sera aveva preso della roba, forse delle pasticche, non so, ci siamo perse di vista. E quindi non so neanche come Tom abbia fatto a trovarla; Gustav è venuto a prendermi, mi ha portata fuori dal locale e poi all’hotel. Ho passato il resto della notte a raccontargli la mia storia e lui…- Mimi si bloccò, presa dalla commozione del ricordo. Anya le sorrise, mettendole una mano sulla spalla.
-Gustav è sempre stato così, infinitamente buono. Sono davvero contenta che ti abbia trovata. Ma Charlie?-
-Non ha voluto venire- mormorò Mimi, ricambiando il sorriso di Anya con una smorfia amara.
La ragazza stava facendo un rapido excursus della sua memoria: quel nome non ricordava di averlo mai sentito. Possibile che quel chiacchierone di Tom, sempre pronto ad urlare ai quattro venti le sue conquiste, non avesse mai parlato a nessuno di lei? E questo la portava solo ad una conclusione: non gliel'aveva data. Rise tra sé e sé a quel pensiero, vedendosi Tom steso a terra, schiacciato dal piede di un’immaginaria Charlie che sì, lo aveva battuto. Non voleva chiedere altro a quella povera anima di Mimi, scuoterle i ricordi ulteriormente non le sembrava molto salutare per i suoi nervi, quindi per il resto del viaggio se ne stette zitta ad ascoltare i discorsi dell’americana con la cugina e a pensare a questa ipotetica vincitrice di nome Charlie. Sicuramente era un dimuntivo, stava per Charlotte. Forse era per colpa sua che in quei giorni Tom aveva un’aria più cupa del solito; ma quando poteva mai averla conosciuta? Mimi aveva detto che si conoscevano già da un po’, probabilmente dal loro primo viaggio in America. Sgranò gli occhi, colta da un’illuminazione: la lavanderia, Tom era sparito e l’aveva lasciata sola. Ecco cos’era successo, aveva conosciuto questa Charlie! E il ricordo del viso di Tom nel dirle: -Forze superiori, Anya San- non potè che confermarglielo.
Mascalzone!, rise piano. Gli avrebbe rotto le scatole a vita per quella storia, gliel’avrebbe tirata in ballo fino alla nausea; decise che quella Charlie le era simpatica a priori.
Il parrucchiere di Natasha si chiamava Oliver ed era uno dei più famosi nella vecchia e cara Amburgo: il suo “studio di creazione” era in un attico in centro, al nono piano, con l’ascensore che funzionava un giorno sì ed uno no. Era arredato con un perfetto stile Bohémien: poltrone rosso carminio di velluto, parquet lucido e ovunque specchi con cornici dorate che riflettevano con un abile trucco la luce che proveniva dalle grandi finestre. L’unica cosa che stonava con tutta quella eleganza era appunto lui: vestiti neri sempre stracciati e scarpe spaiate, viso incipriato di bianco e capelli incredibili. L’ultima volta che Anya l’aveva visto, aveva i capelli lunghi fino alle spalle, un grande ciuffo da un lato e una cresta a sole dietro la nuca, tinta di arancione brillante. Dopo aver schiacciato cento volte il tasto dell’ascensore e averlo convinto a pedate ad aprire le porte per portarle con scossoni poco rassicuranti fino al nono piano, Anya potè constatare che la fantasia del ragazzo non era di certo scemata in quei mesi di lontananza: una fascia multicolore tratteneva indietro i nuovi rasta multicolori che aveva fatto da un lato e la criniera selvaggia verde smeraldo dall’altra. Questa volta era vestito di bianco, ma comunque sdrucito e scomposto. Era questo il suo fascino: sembrava appena uscito da una rivoluzione tra forbici e tinte per capelli, di cui lui era l'unica vittima.
-Ciao Oliver- lo salutò Natasha, gettandosi tra le braccia magroline del ragazzo.
-Nati, che piacere vederti!- strillò questo con la sua voce acuta da frocio mancato. Ebbene sì, Oliver era eterosessuale convinto, come però era anche convinto a tenersi i suoi capelli da pazzo e le sue maniere raffinate da donnina del settecento.
-Prego, accomodatevi pure- fece loro strada –Anya, quanto tempo che non ci vediamo! Noto con piacere che nessun’altro oltre al sottoscritto ha toccato la tua chioma in questi mesi-
-E chi altri potrebbe farlo Oliver?- scherzò la ragazza, fiondandosi subito sulla sua poltrona preferita.
-E tu sei…?- chiese il ragazzo, rivolgendosi ad una più che curiosa Mimi, che continuava a guardarsi intorno, affascinata da quel posto nuovo e così diverso da quelli che vedeva abitualmente.
-Mimi- completò la frase lei, riscuotendosi dai suoi pensieri e allungando una mano verso Oliver, che la lasciò basita con un bacio delicato sul suo dorso.
-Bene signore, come posso servirvi?- si rivolse poi alle tre ragazze, girandosi verso di loro con una piroetta –Spero non il solo e banale taglio e piega-
-Per me sì caro, mi spiace deluderti- rise Anya, alzando gli occhi dalla rivista di moda che aveva preso a sfogliare.
-A te non avrei neanche dovuto chiederlo, sono tre anni che vieni qui con tua cugina e ogni benedettissima volta mi chiedi solo la solita spuntata. Ti rendi conto che così distruggi il mio estro creativo?- si lamentò Oliver, con la sua perfetta aria da artista ferito nell'orgoglio.
-Sai cosa? Per farti contento posso farmeli scalare un po’, va bene?- concesse la ragazza.
-Oh bene, così sì che si inizia a ragionare!- Oliver fece un gesto di trionfo –E tu, cara Nati?-
-Voglio cambiare tinta, magari un biondo un po’ più acceso, non il solito platinato. Per il taglio, boh, vediamo sul momento, magari trovo qualcosa sulle riviste-
-Mimi?-
-Non lo so proprio- rispose timidamente la ragazza, arrossendo sotto lo sguardo carezzevole ed entusiasta di Oliver.
-Hai tutto il tempo per pensarci mentre mi occupo delle altre, tra poco dovrebbe arrivare anche la mia assistente. Tieni, qua ci sono altre riviste, prova a vedere se ti piace qualche taglio- il ragazzo le mise in grembo un plico di cataloghi e poi scortò Natasha al lavabo.
L’acqua prese a scorrere piano nel recipiente di ceramica smaltata con uno scroscio piacevole; Oliver controllò la temperatura prima di bagnare la testa di Natasha con il getto. Anya si ritrovò a guardare con un sorriso l’espressione rilassata della cugina che, ad occhi chiusi, si godeva il massaggio di Oliver, mentre lo shampoo sfrigolava impercettibilmente sulla sua nuca, spandendo un buon profumo.
La faccia rattristita di Bill le comparì improvvisamente riflessa in uno dei tanti specchi, scuotendola dal suo tranquillo rimirare la cugina, o forse proprio per lei, perché pensare a Natasha equivaleva pensare a ciò che doveva dirle; si morse un labbro con forza. Poteva cominciare con il dirle, con tono casuale, che Bill le era sembrato cambiato nei suoi confronti, alla festa era stato molto gentile e poi... avevano scopato. No, non andava bene. Alla festa era stato molto gentile e poi… basta, non le veniva in mente nient’altro, solo che avevano scopato e che gli aveva promesso che le avrebbe parlato. E perché gliel’aveva promesso? Ah sì, perché era cascata come una pera cotta davanti alla triste rassegnazione del ragazzo a mantenere quel segreto troppo grande per lui e la sua linguaccia, o forse, per lui e la sua felicità; non avrebbe potuto fare altrimenti, fingere che non gliene era fregato niente sarebbe stata una bugia colossale. Ancora non capiva perché, ma i fatti erano questi: le era importato farlo con Bill ed ora le doveva importare dirlo alla cugina, almeno accennarle la cosa.
Ritornò con la memoria alla discussione con Mimi, al fatto che, quel’erano le parole esatte che aveva pensato? Se lei-Anya aveva imparato a convivere con la verità, allora anche gli altri dovevano farlo.
Bene, anche i suoi pensieri erano contro di lei.
Ma si trattava di Natasha, quella ragazza ignara intenta a godersi il suo shampoo sfrigolante, la stessa che non le aveva mai detto di no, che le aveva sempre voluto bene. Se ripensava a tutta la sua vita, tralasciando qualche anno buio, la rivedeva sempre e ovunque: al suo fianco il primo giorno nella scuola nuova, a spiegarle cos’erano le mestruazioni e perché sentisse uno strano formicolio nella pancia quando vedeva il ragazzo che le piaceva, ad aiutarla a ripassare per un compito difficile, ad accompagnarla a trovare sua madre. Sì, l’aveva anche accompagnata là, in quel posto odioso.
Punto primo, io con Bill non ci sto, non abbiamo né scopato né nient’altro; punto secondo: credi davvero che starei con lui senza dirtelo? Potrei anche fregarmene altamente del fatto che ti piaccia, ma se succedesse qualcosa, qualunque cosa te la direi! Pensavo ti fidassi di me!
Oddio, le aveva detto così! Il flashback improvviso di quel giorno a Galeries LaFayette le fece fermare il cuore all’improvviso.
Nati, Nati, forse facevi bene a non fidarti, ma ora come puoi saperlo?
-Hei, tutto bene?- la voce di Mimi la riportò al presente: nello studio di Oliver, al nono piano, ad Amburgo, in un mare di guai e conti in sospeso con la sua coscienza. Scheisse.
-N-sì, tutto a posto- rispose alla ragazza, regalandole un sorriso rassicurante; non che a Mimi servisse, piuttosto, sarebbe servito a lei.
Bill non poteva capire: lei non era stata fortunata come lui a nascere insieme ad un Tom che, nei momenti d’ansia, ti prendeva il braccio suonando sulle tue vene come avrebbe fatto con la sua amata chitarra e ti sussurrava, ridendo: -Bill, l’ansia mandala via- Lei si era dovuta accontentare di se stessa e in parte di sua cugina, l’unica figura che poteva lontanamente paragonare a quello che Tom era per Bill e viceversa.
-Ma sai cosa non ti ho raccontato?!- esclamò Natasha, rivolta all’altra, che si voltò di scatto verso di lei, fingendosi interessata. Con i capelli raccolti in un asciugamano, la bionda si accomodò su una delle sedie davanti agli specchi, mentre Oliver avvicinava alla postazione il carrello da lavoro, ed iniziò a raccontarle di una cena in un famoso ristorante giapponese, il Katsuja, o simile. Anya odiava il giapponese.
-Hanno conosciuto quella troia di Nicole delle Pussycat Dolls, hai presente chi sono? Ecco, quella si è messa in testa di seguirli in ogni dove per farsi pubblicità e così si è autoinvitata alla cena. Le morivano tutti dietro, si sedeva sempre vicino a Bill e gli faceva mille moine e quel tonto era tutto preso dai suoi sorrisini. Avrei voluto ammazzarli, giuro, sia lei che lui!- Natasha sembrava davvero arrabbiata al ricordo; Anya sapeva meglio di chiunque altro che la cugina era gelosissima di qualunque cosa sua o che voleva fosse tale (tra queste, rientrava Bill) e per principio odiava tutte le mezze artiste sexy che i ragazzi conoscevano ai party o in giro per il mondo. Non aveva completamente torto, perché, per la maggior parte dei casi, si dimostravano essere delle persone false ed ignoranti, per non dire approfittatrici.
Anya fece un sorriso forzato e poi tornò a concentrarsi sulla sua rivista. Complimenti Anya, stai mentendo per uno che fa pure il cascamorto con le altre, complimenti!
-Meno male che dopo quella cena non l’abbiamo più rivista- continuò Natasha, mentre Oliver, completamente estraneo a quelle chiacchiere, cercava una adattatore per il phon –E Bill è tornato lo stesso di sempre. I suoi sorrisi sono adorabili, ma solo quando li rivolge a me- E giù una risata allegra.
-Quindi, scusa se mi intrometto, lui ti piace?- chiese Mimi alla bionda, sorridendo.
-Mi piace da una vita, anche se è decisamente più piccolo di me. Ma non si può guardare a queste cose quando si tratta di Bill Kaulitz- ammiccò lei, allusiva.
-Non so, l’ho visto poche volte e mi è sembrato sempre triste, spaesato. Mi ha fatto pena e il suo aspetto, anche se è particolare e affascinante, sembra più quello di un bambino troppo cresciuto che quello di una star- scrollò le spalle Mimi.
-Aspetta di vederlo in circostanze migliori, solo truccarlo mi risveglia i bollenti spiriti!- rise ancora Natasha, guardandosi riflessa nello specchio mentre Oliver le pettinava i capelli con lo stesso amore che un fidanzato avrebbe usato per baciare la fidanzata.
Anya sorrise amaramente: erano altri i pensieri che risvegliavano i suoi di bollenti spiriti.
Due paia di camperos lasciati al loro destino, mentre i proprietari sembravano disprezzare anche tutto il resto del loro abbigliamento.
Il tavolino ruvido a contatto con la sua schiena, il sole che tramontava.
Gli occhi di Bill chiusi e struccati e i suoi capelli incollati dal sudore sulla fronte.
Sì, proprio, complimenti Anya!

*



(se vi fa piacere ascoltarla, rende l'atmosfera giusta: Wilder Wein)

Il primo colloquio di lavoro era andato bene; era stato strano, ma l’avevano assunta subito. C’era da dire che non aveva dovuto fare proprio niente per farsi benvolere.
Matt l’aveva lasciata all’incrocio della tredicesima strada con un leggero bacio sulle labbra ed un arrivederci frettoloso; non era mai stato il tipo per gli addii, anche quando, anni prima, si erano salutati per quello che poi non era stato per sempre, le aveva detto solo “ci vediamo” prima di sparire. In effetti, si erano rivisti.
Il Sanitarium, così si chiamava il posto, era l’unico edificio colorato tra i tanti grattacieli della tredicesima, anche se ormai l’intonaco rosa antico cadeva a pezzi dai muri della villa in rovina. Un cancelletto di ferro battuto dava sul piccolo cortile di erbacce e più in là, il porticato dell’edificio, su cui faceva brutta mostra di sé una porta di legno ammuffito affiancata da due finestre con i vetri rotti. Appena Charlie aveva messo mano sulla maniglia della porta sgangherata, quella si era aperta da sola, facendo cigolare i cardini; per un attimo, la ragazza era rimasta terrorizzata, la mente attraversata dallo sciocco pensiero di essersi imbattuta in una casa di spiriti, dimentica del fatto che, a pochi metri da lì, New York respirava rumorosamente come un mostro di cemento vivo, per nulla al corrente dell’esistenza di quel luogo. Ma poi, una signora era arrivata vociando nell’ingresso, seguita subito da tutti gli altri baccani della casa, a cui Charlie non aveva fatto caso fino a quel momento: urla e improperi, frastuono di vetri rotti o oggetti caduti. La donna l’aveva vista lì impalata, stretta nella sua tuta e con gli occhi castani sgranati.
-Sei qui per il lavoro?- le aveva chiesto bruscamente, studiandola accigliata. Charlie aveva annuito debolmente, guadagnandosi un’occhiataccia da parte della turbolenta donna che, nell’attesa della sua risposta, aveva già combinato mille disastri cercando di spostare il mobile che ingombrava l’entrata.
-Levati quell’aria da tontolona e rimboccati le mani bambolina, benvenuta all’Inferno- e con queste parole decisamente inquietanti, aveva preso la ragazza per un braccio, facendole strada fino ad un piccolo studio, l’unica stanza, forse, non completamente distrutta dell’intera casa. Fu intimato a Charlie di sedersi su una delle due seggiole da cucina davanti alla scrivania e aspettare; la ragazza obbedì, non senza però una mezza idea di scappare via sempre più concreta man mano che i minuti passavano senza che nulla cambiasse. Si era già vista con l’occhio della mente aprire la porta, sgattaloiare fino all’ingresso rumoroso e poi fuori, di nuovo in strada; non un’anima se sarebbe accorta. Aveva già per metà alzato il culo della sedia per dirigersi alla maniglia, quando questa si abbassò con uno scatto alle sue spalle e fece il suo ingresso nella stanza la ragazza più bella che Charlie avesse mai visto. Era brutta, ma le sembrò celestiale, goffa come la prima stella del mattino, ma altrettanto graffiante.
Fino a quell’apparizione, Charlie aveva sempre pensato che la donna più bella che avesse mai visto fosse la prosperosa ragazza di colore che a volte si esibiva al Lost Heaven come spogliarellista, le natiche al vento e un costume di diamanti di vetro; l’aveva pure baciata per scommessa: aveva le labbra carnose e dolci come mai lo sarebbero state quelle di un ragazzo, la pelle vellutata e una cicatrice sopra l’occhio destro. Per lei, quella era stata la donna più bella del mondo, almeno fino a quando non aveva fatto capolino dalla porta quel mostriciattolo malsano, che le fece un sorriso sghembo e, con passo felpato, andò a sedersi all’altro lato della scrivania, sulla grande poltrona tarmata.
Aveva una testa di scarmigliati ricci rosso fiamma, naturali, lo si vedeva dalle chiare sopracciglia sul suo viso latteo cosparso di lentiggini bionde; era infagottata in un vestito di lana smagliata con sopra una stinta felpa che un tempo doveva essere stata blu. Solo le scarpe sembravano in buono stato: degli stivaletti di finta pelle rossa. A vederla così, il suo aspetto di pallido fantasma bruno poteva lasciare un attimo interdetti, colti dal dubbio legittimo che il rosso non fosse davvero il colore del diavolo: tutto di lei, dai canini aguzzi che spuntavano fuori dalle labbra screpolate se tentava di sorridere, alle mani con le unghie lunghissime, allo sguardo felino da strega, riconducevano ad un ipotetico demone maligno. Ma poi, notavi che quei canini avevano un aspetto più spiritoso, che minaccioso, le unghie erano solo un po’ troppo non curate e gli occhi sorridevano allegri, non cattivi; tuttavia, bastava distogliere lo sguardo da queste riflessioni per ripiombare nell’inquieto incantesimo del suo aspetto gotico.
-Il tuo posto non è qui- parlò per la prima volta da quando era entrata. La voce della ragazza riscosse Charlie dal suo lungo studiarla e le fece venire un brivido lungo la schiena: era bassa e rauca, celata da colpi di tosse secchi. –Cosa stai cercando?-
Quella domanda tolse completamente le parole di bocca alla povera Charlie.
-Ma, veramente, io…- tentò di rispondere, nel vano tentativo di riprendere il controllo.
-Messalina!- si sentì tuonare una voce dal corridoio, una voce chiara e forte di donna. La ragazza alla scrivania drizzò subito il capo, che fino a quel momento aveva tenuto piegato sulla spalla destra, e si alzò di scatto, indietreggiando. Una signora robusta con un’ampia gonna gitana fece il suo ingresso nello studio, lo sguardo accigliato e la bocca piegata in una smorfia rabbiosa. Messalina, alla vista di quel volto così arrabbiato, lanciò un urlo rauco e corse via, uscendo dalla porta secondaria della stanza, che fino a quel momento Charlie aveva ignorato.
La donna dalla voce potente sbuffò sonoramente, dirigendosi lentamente verso la scrivania, forse ostacolata dalla sua gigantesca mole; il suo aspetto massiccio poteva solo far pensare ad una matrona romana, vestita però con abiti da mercatino etnico e con i capelli ricci e incolti da zingara.
-Scusami cara per questa accoglienza un po’ turbolenta- rivolse la parola a Lotte, che, al confronto con gli eventi che le stavano piombando addosso e, soprattutto, con la figura della donna, si sentiva rimpicciolita al livello di una formica.
-Non fa niente- rispose, dopo aver deglutito, decisamente scossa da tutte quelle stranezze.
La matrona si sedette sulla poltrona, facendo uscire polvere dalle cuciture e producendo un cigolio per nulla rassicurante, ma, per il momento, la sventurata sembrava resistere.
-Come ti chiami?- le domandò, questa volta con un tono molto più pacato e dolce ed un sorriso mirato ad essere rassicurante.
-Lotte-
-Oh bene, credo che sia palese il motivo per cui tu ti trovi qui- si accomodò meglio la donna sulla poltrona, appoggiando la schiena e incrociando le mani in grembo.
-Bè, sì, ho letto…- iniziò a spiegare Charlie, ma fu subito interrotta. Evidentemente, la precedente affermazione della donna non era che l’inizio di un discorso che aveva intenzione di portare avanti senza il suo aiuto.
-Sei qui perché non hai la minima idea della responsabilità che ti stai per prendere. Questa casa appartiene alla mia famiglia da generazioni, si è un po’ lasciata andare con il passare dei decenni, come puoi vedere, ma se è ancora in piedi adesso dopo tutto quello che è successo, posso contare su di lei ancora per un pò, almeno fino a quando non morirò uccisa da una delle tegole pericolanti del tetto. Non ho intenzione di rivangare il passato più di quanto sia necessario, ti basti sapere che, quando ho ereditato la proprietà avevo vent’anni, trenta chili di meno e tanto amore risparmiato da donare; allora non sapevo che gli uomini danno più soddisfazione di un Sanitarium e che avrei fatto bene a sprecare il mio amore con il primo quarantenne miliardario, come la mia condizione poteva permettermi- la donna prese fiato, gettando uno sguardo alla finestra alle sue spalle –Ad ogni modo, ho deciso di utilizzare questa villa per scopi umanitari, ho richiesto allo Stato l’autorizzazione ad aprire un piccolo ricovero per i primi alcolisti anonimi del secolo e quelli che sopravvivevano all’attacco delle nuove droghe; mi fu concessa, frequentai un corso da infermiera e assunsi delle aiutanti, mie colleghe di studio. Avrebbe finanziato tutto lo Stato, cosa che successe per i primi dieci anni, ma poi, i soldi da cavare dalle tasche divennero i miei e devo dire che fui ben felice di spenderli. Ero ingenua allora, lo ammetto; ma, come tutte le cose belle, anche loro finirono presto-
A questo punto della storia, mentre la donna sembrava tutta intenzionata a raccontarle vita, morte e miracoli, Charlie ritrovò un po’ della sua smarrita faccia tosta e la squadrò con un’alzata di sopracciglio, accolta con una sonora risata del donnone.
-Hai ragione, avevo detto che non avrei rivangato troppo il passato!-
-No, è solo che si fa notte se continua a raccontarmi i dettagli- le fece notare ironicamente la ragazza, provocando un’altra grassa risata da parte dell’altra.
-Sì, va bene, saltiamo l’introduzione e veniamo al sodo: questo posto è cambiato, è caduto in rovina e con lui anche i suoi abitanti, compresa me-
-E Messalina?- l’interrupe ancora Charlie, curiosa.
-Oh, la sua storia la conosce solo lei ed è benintenzionata a tenersela segreta; è qui da più di quindici anni, era una bambina quando la trovammo nel giardino, con un gatto di peluche stretto tra le braccia: disse che si era persa, ma non trovammo mai la madre. Rimase qui, allevata con i figli delle alcolizzate- spiegò la donna, incupendosi. Doveva essere un tasto dolente per lei, quella ragazza –Ora, se vuoi saperlo, questo posto non avrebbe più l’autorizzazione statale- e lo credo, pensò Charlie –ma non ho avuto il cuore di chiuderlo neanche quando mi sono ritrovata povera in canna, non lo farò di certo ora-
-Ma…- allora come l’avrebbero pagata?, si stava chiedendo la ragazza, e la donna sembrò leggerle nella mente.
-I soldi sono di mio figlio; abbiamo questo compromesso: mi terrò lontano dalla sua vita fino alla morte a patto che lui versi lo stipendio alle persone che lavorano per me e procuri ciò che è necessario per il sostentamento del Sanitarium- le spiegò.
-Suo figlio? Ma aveva detto di non essersi sposata-
-Non mi va di parlarne- la donna tagliò corto bruscamente, alzandosi dalla sedia. Era una donna bizzarra e controversa sotto molti punti di vista; il suo aspetto non faceva per nulla presagire che in passato fosse stata ricca: era robusta e sgraziata e indossava abiti decisamente in cattive condizioni. Eppure sì, forse nel suo modo di presentarsi e di parlare c’era qualcosa che ricordava un suo eventuale passato di padrona indiscussa e nobile. Sembrava molto vecchia, nonostante la vitalità, ma dal suo racconto Charlie capì che in realtà lo era molto di più di quanto non desse a vedere: vecchia dentro.
Aveva commesso un errore: presentarsi lì, per quel lavoro che le era sembrato giusto per lei, si stava rivelando un passo azzardato nel vuoto più assoluto. Era partita con l’idea che avrebbe dovuto badare a dei malati, rifare letti, pulire per terra o cose simili, ora si trovava coinvolta in qualcosa di molto più grosso.
Come le spiegò più tardi Dora, questo era il nome della donna, i malati lì erano ben pochi. Coloro che si presentavano a quelle porte era dei disperati senza alcun mezzo, persi nella droga e nell’alcool, ma lì non c’era la possibilità di curarli come si conviene, quindi venivano trasportati nel primo ospedale e venivano loro pagate le spese della disintossicazione. Tornavano sempre, guariti o magari più ammalati di prima, ma lì trovavano rifugio e un tetto sotto cui dormire quando non potevano trovare di meglio; era un via vai di gente, un giorno li vedevi, il giorno dopo sparivano e il tuo compito non era ricordare i nomi o le malattie, ma ascoltarli se volevano parlarti e tacere se volevano stare zitti. C’era poi un piccolo asilo per i figli delle alcolizzate che, non potendo badare loro e cercando continuamente di uscire dal giro e procurarsi da vivere, li abbandonavano lì, per tornare poi un giorno, magari, a rivederli. Molte erano le donne incinte che partorivano nella villa e molte altre erano quelle che arrivavano per farsi proteggere e consolare da Dora se avevano subito maltrattamenti da mariti o fidanzati violenti. Quel Sanitarium non era semplicemente un sanitario, ma un ricovero per ogni anima persa di New York.
I compiti di Charlie erano illimitati, doveva aiutare e sapersela cavare da sé in ogni cosa ci fosse da fare.
-Ma come..?- aveva protestato, quando Dora le aveva spiegato la situazione.
-Non c’è un come, devi farlo e basta. Non oggi, vattene a casa. Ci vediamo domani; arriva quando vuoi, ma non dopo mezzogiorno, c’è da preparare da mangiare per i bambini-
E l’aveva congedata semplicemente uscendosene di scena, richiamata dalle solita urla provenienti da qualche parte della casa. A Charlie non era restato altro che alzare il culo dalla sedia ed andarsene anche lei. Sulla strada di ritorno, aveva rischiato di farsi investire due volte da taxi impazziti tanto era persa nei suoi pensieri: non aveva nulla da perdere, ma neanche qualcosa da guadagnare in quel lavoro. O forse sì?
Avrebbe tentato, poche volte si era tirata indietro e il tono con cui Dora le aveva parlato dall’inizio faceva dubitare che si sarebbe aspettata di vedersela comparire davanti l’indomani; chissà quante altre persone si erano magari presentate per quel lavoro, ma, visto in realtà di che cosa si trattava, erano fuggite, per nulla attratte da quella prospettiva. Lei non sarebbe stata una di quelle, non lo era mai stata e pur di dimostrarlo era disposta a tornare al Sanitarium, a badare ai bambini: quella sarebbe stata la sua prima mansione.
Svoltò l’angolo di casa, con già le chiavi in mano per aprire la saracinesca del garage. Fuori, seduto sul bordo del marciapiede con una sigaretta in mano, stava un uomo sulla trentina, in cappotto blu e scarpe italiane, con l’aria malsana da ammalato del lavoro. Nell’altra mano, teneva una borsa nera e lucida proveniente da qualche negozio alla moda della Principale.
Charlie non si stupì di vederlo, anche se avrebbe dovuto.
-Ciao Eddy- lo salutò, fermandosi a pochi passi da lui, che buttò a terra la sigaretta ormai finita da cui aveva aspirato l’ultimo tiro.
-Quante volte ti ho detto che odio essere chiamato così, Charlotte?-
-Almeno quante volte ti ho detto che io non voglio essere chiamata Charlotte- rise Charlie, al ricordo.
-Allora facciamo un compromesso sorellina ed invitami almeno ad entrare-

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** All the things they said ***


YOOOO
Anche qui il capitolo 21 ù.ù
miss hiphop, ti ho accontentata per quanto riguarda sapere di più su Edmond, ma mi spiace, per ora non è previsto che si innamori, anzi, rimarrà ancora per un pò nell'oscuro e tornerà più avanti XD
Sono contenta che tu riesca ad entusiasmarti e a seguire tutti i personaggi con lo stesso interesse, la vita non si concentra solo su una persona, così anche in questo scorcio di vita che voglio scrivere i personaggi si moltiplicano sempre di più. Spero di essere in grado anche in futuro di tenere le redini di questo gioco.
lilylemon, per quanto riguarda la foto di Charlie: è l'unica che non mi ha mai pienamente soddisfatto, perchè, hai ragione tu, il mio personaggio è molto più ribelle e molto più "spacca-schermo" che quella ragazza della foto, ma siccome di Charlie in giro non se ne trovano, anche per l'immagine ho avuto qualche difficoltà. Nonostante tutto, ho tenuto quella come modello perchè quella risata è la risata di Charlie, precisa.
Ti ringrazio molto per aver recensito *-*
Per la scena hot, non so che altro dirti se non grazie per averla apprezzata, grazie davvero, è molto importante per me quel capitolo, ci ho messo mesi a scriverlo e ho iniziato quando ancora la ff era agli inizi. Spero di trovare altre recensioni, perchè questa mi ha fatto davvero un immenso piacere!
CowgirlSara,
Come anche lilylemon sei scusatissima XD Devo confessarvi però che quando ho iniziato a postare qui, ero abbastanza scoraggiata perchè tutte le mie amiche di scuola che frequentano il sito mi avevano detto che era una sorta di "culla primordiale" di ff e che se non ero apprezzata qui, non valeva la pena continuare a scrivere. Ma ho fatto finta di niente e ho continuato a postare, che mi costava? Ho incontrato delle critiche, degli apprezzamenti e finalmente la mia determinazione è stata premiata, quindi vi ringrazio moltissimo di aver lasciato un segno nelle mie recensioni. Non sono una ragazza sicura di sè al limite, quindi gli apprezzamenti mi fanno sempre piacere ^^
(sono contenta che anche a te sia piaciuta la scena con Bill <3) Per quanto riguarda Charlie, sono convintissima che nella tua critica ci sia qualcosa che mi possa davvero aiutare: (vai con lo spiegone XD) sin da quando ero piccola ed ho iniziato a scrivere, i miei racconti erano piuttosto fantasy, elfi, maghi ecc., ero grande fan del Signore degli Anelli e quindi tutte le atmosfere strane, anche piuttosto offuscate o magari troppo fuori dalla realtà della ff derivano da questo. Devo aggiungere qualcosa di assolutamente intrigante e fiabesco dapperutto, altrimenti mi sento persa e in questa storia l'ho fatto con Charlie, non perchè davvero il Lost Heaven fosse così dannatamente inquietante o il Sanitarium così fuori dal tempo e dal luogo, ma perchè tutto ciò è visto dalla sfera emozionale dei personaggi. Devo dire che questa mia mania deriva anche dai romanzi sudamericani, i miei preferiti in assoluto: lì le atmosfere non sono mai definie, sembrano intatte dal tempo, sanno di fiabesco.
Ovviamente, non mi è mai saltato in testa di copiare da nessuno nè tanto meno di paragonarmi a Marquez o alla mia amatissima Allende, semplicemente tutto ciò mi ha molto influenzata.
Però è vero, rendo la narrazione pesante, non credo sia difficile all'estremo da comprendere, ma anche io quando correggo devo rileggere una seconda volta XD
Quindi cercherò di alleggerire un pò, perchè una lettura noiosa non ha mai attirato nessuno.
Grazie mille!

21.
All the things they said


Charlie fece strada al fratello, che, come se fosse a casa sua, posò la borsa nell’unico angolo libero del tavolo della cucina ed inizio a sbottonarsi il cappotto.
Dirigendosi verso il frigorifero in cerca di qualcosa da bere da offrirgli, la ragazza indagò: -Come mai a New York?-
-Lavoro, cos’altro?-
-Te l’ha mai detto nessuno che lavorare fino a farsi succhiare il sangue non ha mai giovato a nessuno?- lo stuzzicò Charlie, con un sorrisino irritante.
-Te l’ha mai detto nessuno che condurre una vita dissoluta come la tua non è altrettanto salutare?- rispose a tono Edmond.
-Io non conduco una vita dissoluta!- rise di cuore la ragazza, versando dell’acqua in due bicchieri sbeccati e offrendone uno al fratello.
-Oh sì, invece- le sorrise in risposta lui, bagnandosi le labbra con il liquido trasparente –Da quant’è che non ci vediamo?-
-Due anni-
Due anni senza suo fratello e quattro senza la sua famiglia; non le erano mancati neanche un po’, ma Ed si era fatto vivo ogni tanto, non lasciandole, come avrebbe voluto, rimuovere completamente il ricordo dei suoi primi sedici anni di vita. Era cocciuto, suo fratello, anche più di lei.
Era più grande di dieci anni esatti, quindi non era mai stato il fratello con cui giocare o fare i compiti al pomeriggio, né da coinvolgere in fantasie infantili: era stato il tipo di fratello che trovava gratificante insegnarle tante cose, come andare a cavallo o sputare come un maschiaccio, ma che non sopportava se lei, magari anche in un momento poco propizio, piombava in camera sua per farsi leggere una storia o per giocare con i suoi preziosi videogiochi. Nonostante tutte le litigate e le botte che si erano dati (Charlie aveva il vantaggio di poter facilmente colpire basso), Edmond era innamorato della sua adorabile e bellissima sorellina come lo sono in genere i fratelli e per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa.
-E tu? Non lavori?- le domandò ancora Ed.
-A dire il vero, torno adesso da un colloquio di lavoro- lo informò la sorella, guardandolo storto.
-Ma davvero?- si finse stupito il ragazzo, con una risata.
-Proprio così, lavorerò in un posto dove si aiutano gli alcolizzati e tutti quelli che ne hanno bisogno-
-C’è da stupirsi: non avrei mai pensato che la mia altezzosa sorellina si abbassasse a tanto. Già con il servire ai tavoli temevo di averti persa, ma questo credo sia ancora più disonorevole per sua maestà!-
-Vaffanculo!- esclamò Charlie, scaldandosi.
-Te lo ricordi come ti chiamavano tutti? La “contessa”! Anche quando ormai eri grande ti facevi sempre servire e riverire; m ricordo anche che ti facevi fare il bagno dalla domestica!-
Charlie stava per ribattere sdegnata, quando un “miao” alla porta fece alzare lo sguardo di entrambi sul povero Tu-Bill, che entrava in quel momento nel garage dopo il suo giretto quotidiano nel quartiere; la bestiola fece un salto vedendo un intruso nella casa e rizzò il pelo, allarmata. Lotte gli andò incontro e lo prese in braccio, rassicurandolo con dei baci affettuosi sulle orecchie pelose e ritornando poi dal fratello, porgendogli per gioco l’animale, mentre questo continuava a gridarle di tenere quella bestiaccia lontana: Ed non aveva mai sopportato i gatti e in più era tremendamente superstizioso, convintissimo che quelle povere bestiole dal pelo nero come Bill fossero streghe trasfigurate.
-Io lo metto giù, ma tu ora la smetti con le domande stronze, altrimenti gli dirò di attaccarti- lo minacciò Charlie con un sorriso, permettendo al micino di scendere e andare a rifugiarsi nella sua cuccia di cartone, soffiando contro l’intruso.
-Va bene, niente più domande stronze- acconsentì l’altro, guardando storto il piccolo gatto, che ora si stava leccando copiosamente una zampa –Come stai?-
Charlie sorrise al fratello e si coricò sul divano, poggiandogli la testa bionda in grembo: -Devo dire che me la cavo abbastanza bene. Tu invece?-
-Anche io; sono a New York per un importante causa di un mio cliente e da Boston fino a qui non è mica una passeggiata, così mi sono detto: perché non andare dalla mia sorellina ribelle?-
Charlie tirò un cuscino in testa al fratello, ridendo: ribelle. Nella sua perfetta famiglia, lei era questo e da quattro anni era consapevole che il suo nome, se veniva pronunciato da chicchessia, era sempre accompagnato da una smorfia di disgusto. Se ci fosse stato un albero genealogico della famiglia Dawson, il suo nome sarebbe stato cancellato, fatto sparire nel nulla. Per così poco, poi! Per la sua libertà.
-E il tuo amico?- Ed tirò i capelli della sorella per richiamare la sua attenzione.
Charlie si sollevò, guardandolo con gli occhi nocciola sgranati: -Quale amico?-
Non poteva saperlo, sapere di lui. Nessuno sapeva di Tom, esclusa Mimi, che era lontana e poi, a sua volta, Mimi non sapeva che lei avesse un fratello. E perché qualcuno avrebbe mai dovuto saperlo?
La parola amico che Edmond aveva usato le suonò molto strana.
Tom era un amico? No, sicuramente no, anzi, dopo la loro ultima discussione, era diventato un nemico. Nemico della sua libertà. Charlie si ritrovò a pensare seriamente, senza averlo fatto fino a quel momento, ai giorni passati; aveva mandato il ricordo solo a Mimi, alla rabbia che sentiva dentro, seguita a tutta la malinconia per essere stata lasciata sola da quella che considerava sua sorella di sventure, ma mai aveva riformulato il nome di Tom, come se il suo cervello lo avesse tenuto lontano per autodifendersi, al pari di un antivirus, paladino della sanità mentale. E lui, aveva mai pensato a lei?
Come se mi importasse, poi, si disse.
"Dovrebbe, invece. Perché, qualcun altro ti avrebbe salvata dalla tua perdizione? Sì, perdizione e dissolutezza, ecco i principi della tua vita, Ed ha ragione cara. Qualcun altro avrebbe avuto il coraggio di oltrepassare il paradiso perduto per salvarti da uno stupro di gruppo a cui andavi incontro consapevole, ma troppo distante da te stessa per rifiutarlo? Non credo tesoro, non credo"
La sua coscienza era sempre molto stronza con lei: le parlava con voce zuccherosa, pizzicandole le guance come si fa con i bambini e chiamandola con appellativi sdolcinati, ma sentivi che la sua vocettina era carica di ironia e disprezzo, sentivi che ti stava prendendo in giro. La sua coscienza assomigliava tanto alla voce stronza e odiata di sua madre.
"Cavalcarlo, questo è stato il tuo pensiero fisso, pulcino mio, altrimenti, perché guardare sempre il mondo dalla prospettiva del suo bacino? Pensavi fosse un cavallo per caso? Un destriero che ti avrebbe guidato nella tua lotta per la libertà? Non è mica un rivoluzionario francese, poverina! Eppure, tu volevi cavalcarlo, magari allontanarti al galoppo con una nuova speranza, una nuova vita, come quella che sta crescendo nel grembo della tua amica e che sarà felice, madre e figlia lo saranno. E tu stai a guardare, povero tesoro. Non te lo sei cercato?" (nessuna allusione al sesso con la parola “cavalcare”, vedetela sotto un altro aspetto n.d.a)
Edmond tacque, vedendo il volto così confuso e corrucciato della sorella a quella sua domanda. La stessa ruga d’espressione che le segnava la fronte quando da piccola rifletteva sul bene ed il male come le imponeva il sacerdote della Chiesa in cui andavano ogni domenica, ora le solcava la pelle rosea. Il fratello, conoscendo la portata della battaglia che il cervello, ma soprattutto il cuore della sua Charlie stavano combattendo, si nascose nel retroscena, continuando a tacere.
“Mi fai talmente compassione che vorrei essere capace di amarti un pochino io” "Sei tu che mi fai compassione, non riesci neanche ad amare te stessa, vorresti amare un ragazzo così? Così complicato, così ambito? Così fragile? Tenti invano di salvare te stessa, ti fai salvare da lui e poi non lo ringrazi"
No, non lo aveva ringraziato. L’aveva disprezzato e frainteso. E pure baciato.
-Brucia- le aveva detto quando gli stava passando il cotone sulle palpebre.
-Lo so- gli aveva risposto e infatti lo sapeva bene. E’ bello truccarsi, ma poi brucia.
Charlie si riscosse dai suoi pensieri, girandosi piano verso il fratello muto e lanciandogli un occhiata confusa: -Qual-quale amico?-
-Il ragazzo con cui stavi l’ultima volta che ti ho vista, due anni fa-
-Oh, non lo vedo più- mormorò la ragazza.
Ed annuì, facendo ciondolare il capo tra le spalle e lanciando un’altra occhiata alla ragazza: non la vedeva da tanto tempo e, inevitabilmente, gli sembrava ancora più perduta. Quello che non aveva mai capito di lei era questa sua voglia di imporsi su tutto e tutti, la sua ostinazione nella ricerca del giusto. Lui aveva imparato ad ingannarlo e nasconderlo, ottenendolo di nascosto, senza rumore. Charlie, invece, viveva di rivoluzione, con tutti gli scoppi di guerra, le grida, i pianti della lotta cronica contro ciò che il suo senso di giustizia e libertà non poteva tollerare.
Quando era piccola, si ribellava ai castighi immeritati con tanta foga e tanta rabbia, che concludeva i suoi insuccessi contro gli adulti staccando la testa alle sue bambole e tagliuzzando i loro vestiti; Edmond, invece, aveva sempre chinato furbamente la testa davanti alle autorità, guadagnandosi il perdono con salamelecchi e finto pentimento. Per questo loro madre lo adorava.
-Impara, Lotte e smettila di combattere una battaglia troppo grande per te- la derideva il fratello.
Ovviamente, la ragazza non gli aveva dato retta e alla violenza aveva imparato a rispondere con la violenza e ad usare denti ed unghie per difendersi.
Edmond si alzò dal divano e recuperò la borsa nera dal tavolo, porgendola poi alla sorella: -E’ un regalo; spero che il tuo numero di piede sia rimasto il trent’otto-
Charlie accettò la busta squadrando il fratello con curiosità e annuendo alla sua affermazione, per poi curiosare dentro. Tirò fuori una scatola bianca da scarpe decorata con scritte dorate e in rilievo e poi un pacchetto di carta velina ornato da un grande fiocco, anch’esso dorato.
-Ed, ma, non dovevi!- recitò a memoria la formula di cortesia che gli avevano insegnato a dire quando riceveva un regalo, rigirandosi tra le mani il fragile pacchetto che, visto il peso e la consistenza, doveva contenere dei vestiti.
-Rimarrò qui a New York per una settimana o più, spero che mi verrai a trovare e per farlo, visto che non alloggio in una discarica, forse ti converrebbe indossare qualcosa di più elegante- la provocò il fratello.
Charlie gli fece il verso, storcendo impercettibilmente la bocca mentre estraeva dalla scatola le decolté con laccio che Ed aveva pensato (male) di comprarle. Era da tanto che non ne vedeva un paio o,almeno, nelle vetrine dei negozi di New York articoli del genere facevano sempre la loro bella figura, ma era da tanto che non ne vedeva uno sapendo di possederlo. Seppure questo le provocasse un insensato senso di felicità, non volle darla vinta al fratello e ribattè: -Per tua informazione, sono entrata in uno dei migliori alberghi della Principale ricoperta di stracci e svenuta, quindi, non credo ci saranno problemi se mi presenterò con una tuta e le scarpe da ginnastica-
Edmond la guardò stupito e Charlie si rese conto di aver parlato un po’ troppo; troncò sul nascere la domanda che il fratello le avrebbe posto da un momento all’altro scartando anche il pacchetto: come aveva immaginato, conteneva un vestito, molto semplice a dire la verità, blu scuro con due grandi spacchi ai lati.
-Bè, grazie- gli sorrise, accarezzando la gonna vellutata dell’abito.
Il fratello le sorrise trionfante: -Prego. Ora scappo Lotte, ci vediamo-
Infilò rapidamente il cappotto senza allacciarlo, si chinò per dare un bacio sulla testa bionda della sorella e, senza aggiungere altro, uscì dal garage con la stessa serietà e alterigia che avrebbe potuto usare per uscire dignitosamente da uno dei suoi soliti alberghi a cinque stelle.

*



Più Georg ci pensava, più si dava dello stupido; come poteva essersi fidato di Natasha ed aver poi chiesto il suo aiuto in una questione di cui si sarebbe dovuto occupare da solo?
Era lui che provava qualcosa per Anya, non sua cugina.
Quando ancora abitava ad Amburgo e studiava al conservatorio, aveva una ragazza, si chiamava Sophie. Ora, non sapeva più niente di lei: né come aveva finito gli studi, né cosa aveva deciso di fare dopo il diploma, né se il suo cane era guarito dopo essere stato investito da un’auto, né se i suoi genitori si erano poi separati. Non sapeva soprattutto se aveva continuato ad andare alla loro panchina nei giardinetti ed era la prima cosa che gli veniva in mente se gli capitava di ripensare a lei.
Era stato molto preso da Sophie; quando ancora non era famoso e il suo aspetto non lo interessava più di tanto, erano poche le ragazze che avevano la volontà di andare oltre alla sua corazza di timidezza e scontrosità. Lei ci era riuscita con un solo sorriso; le mancava un canino, ma era tanto dolce lo stesso.
Tra le tante cose, di lei gli piaceva come si preparava per uscire: apriva l’armadio e poi accarezzava tutti gli abiti appesi, facendoli ondeggiare in un caleidoscopio di colori e poi ne sceglieva uno ad occhi chiusi; quando si truccava, faceva delle facce buffe per mettersi il mascara e poi gli lasciava pettinarle i capelli.
Georg era convintissimo che sarebbe finito per sposarla, ma a rovinare tutto ci pensarono i Tokio Hotel, anzi, prima di tutto i Kaulitz. Il ragazzo conosceva già Gustav ed erano molto amici, ma non era preparato al confronto inevitabile con il mondo dei gemelli. Non poteva negare neanche ora, dopo tanti anni in cui si era fatto bagaglio dei loro difetti e stranezze, che fossero due ragazzi molto particolari. E molto belli.
Per sopravvivere e non sotterrare la propria autostima tre metri sotto terra, Georg aveva dovuto convincersi che era ormai ora di abbandonare il suo aspetto da orso; i “sei bellissimo” di Sophie non bastavano più e non sarebbero bastati in ogni caso.
All’uscita del loro primo singolo, lei aveva smesso di chiamarlo e lui era stato troppo occupato per andare a casa sua a pettinarle i capelli. Era finita così.
Quando poi la carriera dei Tokio Hotel era stata ufficialmente battezzata da mille impegni e un nuovo modo di vivere le giornate sempre più occupate, era arrivata Anya; ragazza più diversa da Sophie non poteva esistere.
Era stato il primo a fare amicizia con lei, perché un giorno l’aveva trovata per caso in camera che piangeva; gli era venuto in mente che quando la sua ragazza era triste o agitata, riusciva a calmarsi solo con un abbraccio e così aveva fatto con Anya. Quando stringeva Sophie faceva sempre molta attenzione, era talmente fragile che temeva di romperla se avesse esagerato, ma lei, sotto ogni punto di vista, pareva fatta di pietra.
Dopo un poco di dondolio tra le braccia di quel ragazzo che conosceva a malapena, Anya si era asciugata le lacrime con il dorso della mano e, giustamente, si era sentita in dovere di raccontargli i suoi crucci. Così Georg era venuto a sapere dell’infanzia difficile della ragazza, di come fosse stata costretta dalle circostanze a crescere fin da subito, di suo padre sparito nel nulla dopo la sua nascita e di sua madre, alcolista e disperata, che era finita in un centro di disintossicamento dal quale non era più uscita, lasciando Anya in balia dei servizi sociali che, dopo molto combattere, l’avevano affidata agli zii materni.
Da quella mezz’ora passata a raccontare e ascoltare, erano diventati amici; per il resto, Anya non poteva soffrire l’ansioso e crucciato Tom, che si faceva bello agli occhi di tutti anche a discapito degli altri e disprezzava Bill, che pur all’inizio sembrava pendere dalle sue labbra. Quando Anya era in circolazione, il ragazzino si distraeva dal mondo circostante contando i nei sulle braccia di lei, quante volte rideva e quante alzava la voce; se aveva i capelli raccolti in qualche modo strano, se si era messa la gonna rossa che a lui piaceva tanto vederle indossare.
Poi, nessuno sapeva perché e nessuno si era preso il tempo tra le mille cose da fare per chiederselo, Bill aveva smesso di guardarla così e aveva iniziato a frequentare ragazze su ragazze che, in un modo o nell’altro, per questo o per quello, sembravano assomigliarle, come se volesse farle dispetto.
Georg voleva parlare alla ragazza, doveva trovare il tempo e il modo per farlo, prenderla da parte e dirle che gli dispiaceva essere stato così assillante e stupido da non capire che quello che in realtà erano e dovevano rimanere erano gli amici di sempre. Ne era quasi del tutto convinto.
-Hei Georg, smettila di sbavare!- la voce di Tom lo colpì come uno schiaffo improvviso sul didietro; Georg si voltò verso il rasta, appena passato con una delle sue numerosissime chitarre al collo ed esordì, come appena tornato dal pianeta Marte: -Eh? Che dici?-
-Lasciamo perdere. Pensare per te è difficile, povero, non dovrei prenderti in giro così!-rincarò la dose il gemello cattivo Kaulitz, sghignazzando. Georg lo guardò in cagnesco, prima di mandarlo gentilmente a cagare. Vedere gli occhi di uno dei gemelli, non quello a cui aveva pensato fino a quel momento, ma comunque uguali e profondi allo stesso modo, però, gli fece venire un’idea strana.
Si voltò di scatto verso Bill, già salito sul palco per il soundcheck e tutto preso dal suo giubbino nero.
In quegli ultimi giorni, già dalla festa, gli era sembrato che gli stessi occhi che ora il ragazzo si stava sfregando per il sonno e che quel giorno si era truccato da solo, avessero smesso di ignorare Anya. La seguivano fin troppo assiduamente.

Mancava ancora Gustav, poi avrebbero iniziato.
Quello era il loro ultimo giorno di prove e Bill aveva indossato gli abiti che già aveva scelto per le tappe del tour; sarebbero stati quelli dalla prima data fino all’ultima, per viaggiare il più leggeri possibile, ma soprattutto perché sul retro delle T-shirt erano state applicate delle apposite cerniere per permettere al ragazzo di cambiarsi rapidamente senza rovinare l’impalcatura laccata dei suoi capelli.
Indossarli lo faceva già sentire sballottato dall’andamento del tourbus, in uno dei tanti camerini in attesa di salire sul palco, sotto la pioggia di coriandoli della canzone finale; era un modo per entrare di nuovo nella parte, ciascuno aveva il suo: Gustav aveva comprato nuovo scotch per i calli, Georg aveva messo da parte i videogiochi che si sarebbe portato dietro, Tom aveva fatto lavare tutte le sue mutande per infilarle in valigia; quest’ultimo rituale implicava, per sua sfortuna, un grande lavoro da parte di Anya e, come ricompensa, Tom le aveva fatto preparare il suo posto preferito per assistere al soundcheck: una sedia davanti al palco con succo di frutta e uno scatolone per appoggiare i piedi. Ad Anya piacevano più i soundcheck che i concerti, perché se c’era una cosa che aveva il supremo potere di farla capitolare lunga distesa su un divano con la testa che girava a mille, quella cosa era il caos delle fan ai concerti.
Erano i periodi di massima tensione per lei: il lavoro non le pesava più di tanto, ma viaggiare in bus era un grande sacrificio. Non era mai riuscita ad ambientarsi e mai lo avrebbe fatto: non sentire la terra stabile sotto i piedi per tanto tempo le dava la nausea.
L’unica gioia di quel periodo era il vedere posti nuovi, perché lei, al contrario dei ragazzi e della stessa cugina, si poteva prendere la fantastica libertà di uscire dall’hotel a fare quattro passi per le città in cui sostavano.
Tutto questo sarebbe stato invece nuovo per Mimi: la ragazza non aveva la minima idea di cosa volesse dire saltare da un posto all’altro come cavallette per mesi, senza la possibilità di fermarsi quando la testa iniziava a girare troppo e il senso del tempo e della realtà andavano perduti. La sensazione di avere il mondo a portata di mano era piacevole solo per i primi tempi, poi iniziavi a chiederti quando finalmente quel fastidioso potere sarebbe finito.
-Allora, cominciamo?- vociò Bill rivolto ai tecnici, incrociando le braccia al petto.
-Sì Bill, un attimo di pazienza, manca ancora Gustav-
-Ma dove si sarà cacciato?- esclamò il cantante, guardandosi per la millesima volta alle spalle, come aspettandosi che il ragazzo sarebbe apparso all’improvviso con una nuvoletta di fumo rosa e uno scampanellare da genio della lampada.
-Ti ho acceso il microfono, inizia a scaldarti!- gli urlò uno fra i tanti tecnici.
Anya succhiò forte dalla cannuccia del suo succo, fissando lo sguardo sul ragazzo: era perfettamente al centro del palco, perfettamente davanti a lei e continuava a guardarla; prendeva il microfono e le lanciava un’occhiata, tossicchiava e sollevava gli occhi su di lei, si levava la giacca e la osservava da sopra la spalla. Sapeva che anche lei lo stava guardando, che, nonostante fingesse di essere presissima dal succo, non poteva fare a meno di seguire i suoi movimenti. E poi girava la testa intorno, per vedere se qualcuno potesse disturbare la loro intesa: nessuno, Natasha era nel guardaroba con Mimi, Georg era all’estremità del palco ad accordare il basso con Tom, Gustav ancora non si faceva vedere e tutti gli altri erano impegnati con i preparativi, i tecnici con le luci e i computer, David e Dujna a discutere davanti ad una tazza di caffè fumante.
Essendosene accorto a sua volta, Bill mosse un passo verso la ragazza, fino ad arrivare al limitare del palco: -Allora, domani partiamo- le sussurrò con malcelata noncuranza. Anya sorrise maliziosa, giocando con la cannuccia.
-Scaldati Bill- gli intimò, spietata.
-Ma, dopo, riusciamo a stare… sì, a stare un po’ insieme?- le chiese lui, guardandosi intorno con circospezione e parlando in modo che solo lei potesse sentirlo.
-E come?- fu la risposta ironica della ragazza.
Bill si morse il labbro inferiore: -Non lo so, potremmo…- ma Anya lo interruppe.
-Vediamo Bill-
Lo sai che mi piacerebbe, avrebbe voluto aggiungere, ma in quel momento Tom raggiunse il fratello con la chitarra al collo e già le mani pronte per suonare con lui, ignaro della preziosità di quello che aveva interrotto. Bill annuì allo sguardo allusivo del fratello e recuperò il microfono dalla cassa su cui lo aveva appoggiato.
Tom attaccò con gli accordi di una delle poche canzoni che Anya, loro spettatrice, apprezzava: Der Letzte Tag. Bill tossicchiò un paio di volte prima di iniziare a cantare, interrompendo la melodia con vari schiarimenti di gola che, lo sapeva, ma non riusciva a farne a meno, peggioravano solo la situazione.
Pigolando, il ragazzo arrancò fino al ritornello e lì, nonostante tutta la sua buona intenzione, la sua voce si esaurì con un suono strozzato e anche Tom si fermò, stonando e guardando stranito il gemello. Bill corse alla sua bottiglietta d’acqua, trangugiandone una lunga sorsata e cercando di nuovo Anya con lo sguardo.
-Tutto ok Bill?- lo interpellò il fratello, sistemandosi la visiera del cappellino, come faceva sempre per denunciare un certo nervosismo. Tom era il più ansioso di tutto il gruppo, addirittura diventava morboso quando cadeva nel panico. Bill era più appariscente nel manifestare la tensione, ma Tom era una bomba ad orologeria pronta ad esplodere; faceva diventare i capelli bianchi a metà della troupe, diventava insopportabile,ti infastidiva con i suoi se e i suoi ma, si attaccava alle gonne come un bambino piccolo.
E se si trattava di suo fratello, la questione degenerava in assoluta pazzia, in iper-protezionismo, in crisi di asma psicologica.
-Sì- annuì Bill –Riproviamo, sono solo poco caldo-
Georg, che aveva finito di accordare il suo strumento, con cui aveva avuto delle complicazioni per il volume del suono troppo alto, raggiunse i due gemelli con un sorriso per Anya e, accordatosi con gli altri, iniziarono a suonare un’altra canzone. Ma anche questa volta, la voce di Bill si infranse alle prime battute. Il ragazzo sembrò tremare di collera e incomprensione nel momento in cui sentì la propria voce cadere come un animale ferito e gli sguardi sconcertati che gli lanciarono i suoi due amici lo innervosirono ancora di più.
Provò ad emettere suono, ma senza successo e allora gettò il microfono per terra: se Tom era il gemello ansioso, Bill era quello affetto da crisi di ira e stizza irrefrenabili. Chiuse le mani a pugno e si accanì contro la sua voce, provando a fare dei deboli vocalizzi con le lacrime agli occhi.
Proprio in quel momento, tutti quelli che fino ad allora avevano lavorato per i conti propri senza arrecare disturbo, non trovarono niente di meglio da fare che fermarsi a guardare apprensivi il ragazzo; David si alzò, rischiando di rovesciare la sua tazzina e far cadere a terra la sedia, non capendo cosa stesse succedendo.
Anche Anya si alzò, scrutando il ragazzo che batteva i piedi a terra per il nervoso, causato anche dall’improvviso silenzio che gli portava un’attenzione non desiderata. Sarebbe scoppiato ad imprecare, ossessionato dal suo maledetto perfezionismo se Anya non fosse intervenuta, salendo sul palco senza una parola e picchiettando rumorosamente con i tacchi delle scarpe sugli scalini.
-Andate a provare più in là, per piacere- ordinò a Tom e Georg, che, un po’ stupiti e ancora preoccupati per il loro cantante, si avviarono verso un altro angolo del palco; fece poi un cenno secco a tutta la troupe, imponendo di farsi gli emeriti cazzi loro. Infine, si rivolse a Bill con sguardo severo: non poteva sopportare le sue crisi da bambino; il ragazzo si quietò subito, come un cagnolino ammaestrato.
-Senti male?- gli chiese.
-Fastidio, più che altro- rispose lui a bassa voce.
-Non è niente di preoccupante, non serve fare tante scene- lo rimproverò Anya –Sciogli le spalle-
Bill scrollò piano le braccia, ruotando anche il collo teso. L’ira che lo aveva assalito era scemata di colpo davanti alla ragazza e alla sincera attenzione che gli stava dando, senza preoccuparsi di essere vista o quant’altro. Era piacevole essere rasserenato dalla sensazione di fiducia che lei gli trasmetteva. Anya aveva seguito alcune lezioni di canto e dizione che un’esperta aveva impartito a Bill quando il ragazzo aveva iniziato a cantare anche in inglese e si era mostrata talmente interessata da imparare qualcosa a sua volta.
-Bene. Ora lascia cadere la mandibola e respira profondamente con il diaframma- gli intimò gentilmente, poggiando una mano sugli addominali alti di Bill, che rabbrividì interiormente a quel contatto. Obbedì, docile, ma non potè fare a meno di appoggiare la sua mano su quella di lei e stringerla con dolcezza. Anya arrossì contro il suo volere, ma non si spostò di un centimetro, respirando con lui per guidarlo.
Dopo un quarto d’ora passato a cercare la preziosa ed inseparabile macchina fotografica, Gustav fece la sua attesa apparizione sul palco, ignaro di aver fatto aspettare tutti; nel ritrovarsi una così singolare scena davanti agli occhi, il ragazzo spalancò la bocca, incredulo, ma soprattutto colpito. Ognuno era impegnato per conto suo, si sentivano solo le note della chitarra e del basso in mezzo ad un silenzio irreale.
Immortalò subito tutto quello che l'obbiettivo della sua alleata poteva contenere, corrucciato per non poter imprimere su carta anche la sensazione straordinaria che infondeva quel silenzio strano; poi volse lo sguardo alla sua batteria.
Impegnati a discutere sottovoce dell’accaduto tra loro, Tom e Georg non erano stati abbastanza accorti da notare che Mimi, lasciata sola Natasha, meravigliata e incuriosita da quell’ambiente pervaso da una così piacevole aura di frenesia e imminenza, aveva iniziato a passeggiare tra i fili e il disordine del palco, finendo poi per sedersi, dopo un capogiro, sullo sgabello della sacra ed inviolabile batteria di Gustav, di cui il ragazzo era molto geloso. Si era fatto aiutare a montarla dal suo tecnico di fiducia qualche giorno prima ed era legge non scritta che, all’infuori di qualche privilegiato, lo strumento non andava sfiorato da nessun’altro.
Georg fece uno scatto quasi involontario verso la ragazza, per avvertirla del grave sacrilegio che stava compiendo, ma Gustav, che l’aveva notata prima di loro, si avvicinò a Mimi con un sorriso, scattandole una foto e salutandola gentilmente.
-Come stai?-le chiese, tranquillissimo. Georg lanciò un’occhiata preoccupata verso Tom, che scrollò le spalle, molto più in pensiero per suo fratello e già assorto nelle possibili e nefaste conseguenze che quell’incidente avrebbe potuto portare a tutto il tour.
-Bene- gli rispose Mimi, sistemandosi la frangetta che si era fatta tagliare da Oliver.
A rompere il silenzio, la voce di Bill, che stava provando Monsoon aiutato da una poco sicura Anya, li raggiunse come l'annuncio della Terra Promessa; tutti, nella sala, tirarono un sospiro di sollievo e finalmente poterono tornare al loro lavoro chiacchierando allegramente.
-Ecco io dovrei…- biascicò Gustav, indicando lo sgabello su cui era seduta la ragazza –Dovremmo provare-
-Oh!- Mimi saltò in piedi, scusandosi e prese la macchina fotografica dalle mani del batterista, dirigendosi verso le scale del palco.
-Allora?- urlò Gustav agli altri, sedendosi al suo posto –Proviamo sì o no?-
Bill raggiunse gli altri con un sorriso soddisfatto e subì con allegria le pacche di incoraggiamento che Georg e Tom gli batterono sulle spalle; Anya tornò al suo posto, al suo succo e riprese a succhiare forte dalla cannuccia, facendo cenno a Mimi di raggiungerla.


Perdonate gli eventuali errori. Ali

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=236564