Il Cielo, la Terra e il Mare.

di Incubi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 - Ferite. ***
Capitolo 2: *** 02 - Le Bandiere. ***



Capitolo 1
*** 01 - Ferite. ***


[color=white][size=2] 01 - FERITE [/size][/color]
Fissava il riflesso del Sole sull'acqua. Un clichè, certo, ma forse non quasi duecento anni fa, forse non per lui. Forse siamo noi che - ormai - non sappiamo più provare sentimenti. Forse ne provava troppi lui. Eppure tutte queste nostre incertezze erano un nulla, una manciata di sabbia, una decina in confronto a quell'infinità di dubbi che covava in mente per tenerli al caldo, lontani dal gelo dell'indifferenza. Sentiva come dei macigni legati alle palpebre, troppo stanco anche solo per pensare che potesse essere per il sonno. E dire che si era appena svegliato, tra l'altro. Non lo si può biasimare, però: era stata una lunga giornata. Anzi, direi la più lunga della sua vita e, senza ombra di dubbio, anche la più colma di delusioni. Ma, grazie a Dio, era troppo assonnato e troppo scosso per ricordarsele, per analizzare i fatti, almeno in quel momento. Sospirò, mentre uccellacci stridevano peggio delle canne delle pistole e il mare stava muto, fermo. Probabilmente, non fosse stato già colmo d'acqua e sale, avrebbe pianto pure lui per il giovane.
~
Certe cose sono da nascondere, certe cose non vengono ricordate nei libri di storia. Una nazione deve mostrarsi forte - lo sappiamo tutti - e i segreti sono la forza maggiore, specialmente se si chiude in un cassetto qualcosa di cui ci si dovrebbe vergognare. Quella mattina era una mattina come le altre, ma il Cielo era più rosso del solito, all'alba. Le nuvole si erano sporcate di sangue. Nashi, questo il nome del ragazzo, si era svegliato presto e si era messo a pregare, come da sua tradizione, davanti alla lapide della madre, nel giardino fuori casa. Per quanto riguarda suo padre, non aveva la minima idea di dove fosse o - peggio - di chi fosse, mai l'aveva avuta e, in realtà, non era neanche del tutto sicuro che fosse ancora vivo, anzi. Probabilmente era morto molto tempo prima, ma non aveva mai ricevuto le sue ossa e non se la sentiva di pregare per una semplice idea, un pensiero, certo che non sarebbe stato sincero, e nè gli dei nè i genitori ne sarebbero stati felici. Certe cose sono da nascondere, ma certe cose restano per sempre nell'animo di chi le vive, per quanto un Re o un Imperatore possa pregare o, peggio, obbligare tutti a scordarle. Si può tacere in ogni caso, ovvio, ma non sarò io a farlo. L'orizzonte tremava così come l'aria. Sembrava che al Mondo fosse venuta tutto d'un tratto la febbre. Portò una mano agli occhi per poter vedere qualcosa nel Sole mattutino che, per quanto si fosse appena svegliato, pareva bello arzillo. Scattò in casa senza assicurarsi di aver visto bene, perchè quello pareva proprio un esercito. Un grande esercito. Il lato positivo di vivere il più lontano possibile dalla città è che nessuno ti disturba, quello negativo è che sei il primo, quando accadono cose simili. Mentre correva a prendere la sua katana, il suo pensiero ebbe tempo di soffermarsi su una sola domanda: Chi? Il Regno era in pace e di certo non potevano essere invasori, perchè le vedette avrebbero dato l'allarme. Riuscì solo a prendere la spada, stretto al cuore dalla morsa dell'ansia com'era, e lasciò - incautamente - la sua armatura rossa lì, a casa. Chiuse la porta e corse verso la città, sprovvisto di un cavallo com'era. Le guardie, a palazzo, lo lasciarono passare solo dopo averlo riconosciuto e, credetemi, ci volle tempo. - Signore! - urlò, inginocchiandosi di fronte allo Shogun. - Ebbene, che ti turba? - rispose l'uomo, ridacchiando e senza scomodarsi dai suoi importanti impegni: sorseggiare sakè e coccolare un paio di ragazze molto più giovani di lui, ma probabilmente più interessate alla carica che alla persona in sé. - Un esercito, signore. - ansimò Nashi. Più che giustificato, visto la corsa da maratoneta greco che aveva fatto per riferire l'informazione che pareva poco interessante alle orecchie dello Shogun. - Un esercito di almeno un centinaio di uomini, ho ragione di suppore. Sarà ormai vicino alla città. - Il Signore si sedette meglio, appoggiando un gomito sul ginocchio e il mento sulla mano dello stesso braccio, con un viso a metà tra la noncuranza e l'annoiato. - Di chi stiamo parlando? - sbadigliò. Il nostro giovane protagonista esitò. Non era la prima volta che si trovava a riferire informazioni incomplete o che non portava completamente a termine il suo compito. - Non ne ho idea, signore - balbettò - Erano troppo distanti perchè io pot... - - E dunque, cosa sei venuto a dirmi di preciso? - urlò il vecchio, interrompendo il giovane ragazzo. Le guardie ridacchiarono sotto i loro elmi. - Che dei morti sono resuscitati per venire a ucciderci? Che i Mongoli hanno insegnato ai loro cavalli a volare? proseguì, sbattendo il pugno destro sul ventaglio di legno che aveva steso sulle gambe, come un bimbo addormentato. Il ragazzo tremò, chiudendo gli occhi, isolandosi. Tutte le urla dello Shogun erano quasi indifferenti, attutite come se stesse soffocando la sua voce premendogli un cuscino in faccia. Cosa aveva sbagliato di preciso? Cosa non aveva fatto? Perchè quel vecchio lo stava sgridando? Aveva solo fatto quel che credeva giusto per provare a difendere il suo paese. Che quegli uomini fossero o no ostili, c'era comunque qualcosa di strano in quella che pareva tutt'altro che una romantica cavalcata mattutina. Maledetto vecchio. Avrà avuto qualcosa di personale di cui sfogarsi, magari quelle ragazze non gliela davano - pensò - ma poi capì che non era certo lui che doveva trovargli scuse. Si alzò stringendo la katana, lo fissò negli occhi, si inchinò e se ne andò di corsa. Non era un guerriero da molto vi devo in realtà rivelare, anzi, neanche un paio d'anni, ma quella era la prima volta che guardava lo Shogun dritto negli occhi. Forse quella goccia di coraggio che non gli aveva mai bagnato la fronte aveva appena deciso di andare da lui. Beh, questo non lo so e a dirvela tutta neppure lui lo sapeva, tant'è che iniziò a sentirsi come un traditore irrispettoso già dall'istante seguente il suo piccolo e innocente sfogo, ma tant'è. Venne svegliato dai suoi dubbi come da un vaso d'acqua fredda in faccia (ceramica del vaso compresa, s'intende) quando una guardia lo spintonò per entrare nella stessa sala da cui lui era appena uscito. - Siamo sotto attacco Signore - lo sentì urlare - Sono contadini ma... - balbettò l'altro samurai - Sono ben armati, Signore - concluse l'uomo, mentre le sue ultime parole venivano strozzate dal noioso e ripetitivo borbottio dello Shogun. - Al diavolo. - sussurrò Nashi, senza voltarsi, mentre estraeva la candida lama dalla sua elsa corvina. Corse verso il centro della città mentre i deliri del vecchio si mischiavano alle urla di quegli stessi contadini che stava descrivendo come bifolchi incapaci. I ciottoli si stavano impregnando del sangue che scivolava sinuoso sulla strada, come a volersi nascondere. La maledizione del crescere nella pace è che alla prima guerra che vivi, muori. Gli uomini che per ignoti motivi avevano deciso di assaltare la città erano numerosi, molti più di quelli che aveva avvistato poche ore prima, probabilmente. Era così strano notare il loro sangue mischiarsi a quello dei samurai - elitè addestrata - senza alcuna differenza, neppure un minimo cambio di tonalità tra l'uno e l'altro. La differenza era eppure tanto chiara quanto effimera: C'era una riga orizzontale che divideva la città, quella mattina, e chi stava a destra era un guerriero, chi urlava alla sua sinistra, invece, un nemico da abbattere. Tanto chiaro quanto stupido, animalesco. Difficile decidere il da farsi in quella situazione. Uccidere dei contadini innocenti fino a pochi minuti prima o neutralizzarli solamente, aspettando direttive? Non era così ovvio che arrivassero ordini dallo Shogun in quel momento, anzi. Forse fu aiutato, quella mattina, dall'aver lasciato l'armatura a casa. Sembra quasi ironico, certo, ma nessuno provò neppure a sfiorarlo sebbene si trovasse inerme (metaforicamente parlando) in mezzo alla guerriglia. Riusciva solo a sentire urla e spari. Non aveva la minima idea del perchè quei contadini avessero deciso di attaccare Edo tantomeno di dove diavolo avessero trovato quelle armi, ma non era il momento di pensare, quello. Una cosa era certa: per qualche motivo, per quanto stupido potesse essere, volevano di certo la testa dello Shogun. Che si fossero svegliati male quella mattina o che fosse l'idea malata di un qualche daimyō che sperava di poter aspirare in quel modo al ruolo di Generale, la sostanza era quella. Guardò il palazzo. Non si poteva di certo dire che quel vecchiaccio si stesse comportando da leader, in quel momento. - Non ho mezzi. L’Obbedienza è il mio mezzo. - sussurrò richiamando il suo giuramento. L'idea che aveva in mente non gli piaceva affatto. - Non ho strategia;Diritto di uccidere e Diritto di ridare la vita sono la mia strategia. - tremò la sua voce - Diritto di uccidere, diritto di uccidere, diritto di... -. Sfondò con un calcio la porta del Palazzo. Probabilmente stava facendo la mossa sbagliata e ancor più sicuro era che l'avrebbero accusato di tradimento ma, anzi, non era così. Non per lui, almeno. Cos'era la vita di un uomo, Generale o lebbroso che fosse, in confronto a quella di una nazione? Se volevano lo Shogun, qualcuno avrebbe dovuto consegnarglielo e poi sarebbe finito tutto. Non gli interessava che c'avrebbero fatto e non gli interessava neppure se quei contadini avessero anche solo la minima possibilità di vincere o no. Certo gli era parso che i samurai stessero perdendo: non erano preparati, ma di certo non per colpa sua. Lui aveva fatto quel che doveva e quel che si sentiva di fare. Era il vecchio che non gli aveva creduto o se non altro non gli aveva dato ascolto. Sospirò. In quel momento era addirittura sicuro che sarebbe potuto morire per quella causa, come un martire. Il nobile samurai ucciso per aver aiutato il popolo a ribellarsi allo Shogun. Ma è facile morire per chi non ha mai vissuto veramente per un solo momento. Silenzio. Silenzio nei suoi pensieri così come in quella stanza. Il Generale doveva essersela data a gambe. Un perfetto esempio di onore, un buon samurai di certo. - Maledizione. - imprecò, lasciandosi cadere a terra, seduto, con un tonfo empio d'ogni sentimento. Che fare? L'unica speranza di pace era andata perduta come un messaggio segreto, bruciato in una lanterna dopo averlo imparato a memoria. Che fare? A quel punto poteva solo uscire in strada e onorare - finalmente - il suo ruolo, anche se questo avesse voluto dire uccidere centinaia di persone. Sospirò, alzandosi in piedi. Il sangue gli si gelò nelle vene, però, quando sentì rumore d'acciaio e urla a pochi metri di distanza. Che fosse un soldato o un ribelle poco aveva importanza. Non avrebbe dovuto trovarsi lì in ogni caso. Si guardò intorno, e tutto quel che potesse fare era nascondersi dietro alla postazione dello Shogun, in fondo alla sala. Era certamente il nascondiglio più sicuro, per quanto nulla potesse esserlo in quella situazione. Corse verso quella specie di trono cercando di fare più silenzio possibile, non dopo aver tirato su la sua lama. - Prendiamo il Generale e andiamocene. - sentì sussurrare. Una frase stupida, inutile. Poteva esser stata pronunciata da un uomo di entrambe le fazioni, una frase così vuota. - Ecco, non sarò un buon guardante... - rispose qualcun altro - Ma non credo si trovi qui... - "guardante"? Dovevano evidentemente essere contadini, perchè non era pienamente sicuro che quel vocabolo esistesse. Strizzò gli occhi, impaurito. E possiamo anche capirlo, no? Avrebbe sì potuto spiegare a quei tizi perchè si trovasse lì, ma lo avrebbero lasciato parlare? Gli avrebbero creduto? In fondo non era così normale il tradimento da parte di un samurai. Che sia chiaro, per lui il suo intento era più che nobile e tutt'altro che un tradimento, ma i contadini ragionano in bianco e nero, e poco c'è da fare con certe convinzioni razziste. Sbuffò. - ... Avete sentito anche voi? - aggiunse un altro. Si tappò la bocca con la mancina, sicuro che l'uomo si riferisse al suo sospiro. - Che cosa? - gli rispose il primo, che pareva ora essere il capo. Qualche passo, poi il silenzio. Silenzio così lungo e così assordante che era sicuro che sarebbe morto lì e avrebbe forse avuto anche il tempo di fossilizzarsi. E poi il rumore squarciò il vento come il tuono e le sue carni come una lama, ma una lama calda. Sputò un urlo strozzato dal dolore mentre i suoi abiti bianchi si macchiavano di rosso. - E' lo Shogun? - urlò qualcuno, lontano, mentre qualcuno si avvicinava. Lo vide poco prima di perdere i sensi. I suoi capelli bianchi e le sue rughe severe. Conosceva quell'uomo, e quell'uomo conosceva lui, lo capì dal suo sguardo, che si sciolse in una smorfia stupita, prima di riacquistare rigore e freddezza. - No, è solo un samurai. - fu l'ultima cosa che sentì da quell'uomo o, meglio, l'ultima cosa che sentì quella mattina. Ma certo, ora era riuscito a ricollegare quelle tre voci. Erano una famiglia di contadini amici di sua madre. Il padre e i due figli, dovevano essere. Era molto amico del minore dei due, da quel che ricordava, ma le forze lo abbandonarono prima che potesse ricordarne il nome.
~
Riaprì di nuovo gli occhi, anche se prima era riuscito solo a vedere il mare per pochi minuti, prima di crollare di nuovo. La visuale questa volta era però ostruità. Strizzò gli occhi per abituarsi alla luce del Sole, mettendo a fuoco quell'intruso nel paesaggio. A vedere il colore delle nuvole che giocavano nel Cielo, doveva essere il tramonto. Niente sangue all'orizzonte questa volta. Una ragazza. Quella macchia sullo sfondo era una ragazza. Dimostrava circa diciotto anni, proprio come Nashi, ma al contrario dei suoi capelli neri e dei suoi occhi grigi aveva una folta chioma dorata come il manto di una carpa koi e gli occhi che parevano fiori di ciliegio. Doveva essere passato un decennio dall'ultima volta in cui si era trovato a meno di tre metri da una ragazza. - Chi sei tu...? - chiese intontito, con gli occhi socchiusi e le labbra così asciutte che persino del riso cotto avrebbe potuto scalfirle. - Dareka, il mio nome è Dareka.- il suo sorriso era dolce e sincero, mentre rispondeva. - E tu? Come ti chiami? - domandò lei a sua volta, porgendo al giovane samurai una borraccia. Il ragazzo bevve come non avesse mai bevuto a sua volta, come la prima volta che un neonato può appiccicarsi al capezzolo della madre. Ironico, per uno che aveva sempre considerato la Terra come propria madre. Guardò la ragazza, domandandosi tra sé e sé se non avesse più diritto lui a far domande di lei, ma non volle essere scortese. - Il mio nome è Nashi, e sono un samurai al servizio dello Shogun di stanza nella periferia di Edo. Eppure non mi pare proprio che questa sia la città, o sbaglio? - rispose, decidendo di unire l'utile e il dilettevole. - L'avevo capito! - sorrise lei. Il ragazzo arrossì d'istinto. - Che fossi un samurai, intendo. Si vedeva dalla katana! E' davvero un'arma ben fatta... E' bellissima...- proseguì Dareka, abbassando lo sguardo, tralasciando la domanda del ragazzo. Non di propria iniziativa, che sia chiaro, ma quell'arma doveva piacerle molto. Nashi pazientò per qualche secondo e, nonappena si decise ad aprire bocca per insistere, la ragazza proseguì senza dargli tempo di parlare. - Beh, non so cosa sia successo, ma sei stato molto fortunato. - sorrise - Credo ci sia stata una rivolta contadina... Vi ha preso di sprovvista, eh? - ridacchiò lei. Il samurai non aveva molta voglia di ridere però, specialmente perchè - per qualche motivo - si sentiva in colpa per l'accaduto. - ...Scusa - borbottò lei notato la sua espressione cupa. - N-No, non preoccuparti... Sono solo stanco... - balbettò imbarazzato Nashi. - Beh, in ogni caso pare che abbiate perso, voi samurai, o almeno in un primo momento... Lo Shogun è stato coraggioso e ha deciso di andare a contattare l'esercito più vicino cavalcando da solo! - raccontò lei eccitata, come se la massima aspirazione della sua vita fosse fare la cantastorie o la geisha - A quel punto le truppe si sono radunate fuori da Edo in modo da chiudere i contadini in città così che non potessero scappare e hanno fatto piazza pulita... Credo ne siano rimasti pochi vivi... In modo da non lasciare testimoni. - Concluse, rattristandosi verso la fine. - Noi siamo arrivati dopo. - proseguì - E tu sei stato l'unico che ha deciso di venire con noi senza lamentarsi, anche se credo che l'avresti fatto se fossi stato sveglio in quel momento... Hai la faccia di uno che l'avrebbe fatto, sì. - concluse. - Hai pienamente ragione. - rispose il ragazzo, cercando di sedersi meglio con fatica. - Ti abbiamo ricucito - aggiunse lei sottolineando l'ultima parola muovendo indice e medio di entrambe le mani per metterla tra virgolette - Però è meglio se non ti muovi per un po', dicono. - sbuffò alzandosi e togliendosi la polvere dalla gonna in seta con dei piccoli colpetti con le mani sui glutei. - Devo tornare a Edo. - sbottò lui - Come posso fare? - chiese fissando la ragazza tenendo un occhio chiuso vista la sua decisione di mettersi in controluce. - Non puoi. - fece spallucce lei. - Sono un prigioniero? - chiese, e avrebbe urlato se solo ne avesse avute le forze. - No, nessuno lo è qui. - sorrise lei, allontanandosi. - Semplicemente non abbiamo un'altra barca e neppure l'intenzione di attraccare in Giappone in tempi brevi, e perciò... Beh, quando ti senti meglio vieni dentro, che ti presento gli altri... Nashi. - concluse lei sorridendo, ed entrando in una porticciola in legno a pochi metri di distanza dal ragazzo. Era su una nave dunque. Pareva di legno pregiato, doveva essere della Marina o qualche altro organo governativo. Meglio così, in un certo senso. Si toccò le bende sul fianco destro. Grazie a Dio era ancora vivo, ma bruciava, bruciava peggio del peggiore degli Inferi. Fissò il tramonto. Si sentivano solo uccelli gracchiare, onde abbracciarsi e vele ballare al vento. Ogni tanto sentiva alzarsi qualche risata dalla cabina nella quale era entrata la giovane ragazza, ma era così ovattata da essere indistinguibile. Dareka. Una ragazza gentile, senza dubbio. Stranamente, però, si comportava come una campagnola. Non che conoscesse bene le ragazze di campagne, sia chiaro, ma ne aveva osservate a decine, da lontano. Con quei loro sorrisi sinceri e i capelli color paglia. Niente a che vedere con le donne di corte o le mogli dei soldati importanti, coi loro tradimenti, capelli neri e lingue da serpi. Beh, di certo per i capelli neri era l'ultimo che potesse parlare. - Che bello il Mare... - sussurrò guardando le onde e quell'acqua così trasparente che pareva si potesse vedere lo scheletro della Terra, prima di assopirsi nuovamente scaldato dal tepore del Sole che presto avrebbe lasciato spazio a una notte più calma - sperava - di quella maledetta mattinata. - Fra poco vado... - sbadigliò, per poi crollare.

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Capitolo 2
*** 02 - Le Bandiere. ***


[color=white][size=2] 02 - LE BANDIERE [/size][/color]
Nashi riaprì gli occhi che era ormai sera. A disturbargli i sogni un fastidioso prurito alla guancia destra, come una puntura di zanzara. Vedeva immagini d'incubo coi suoi occhi stanchi, lingue di fuoco e demoni, ma poi mise a fuoco. A svegliarlo era stato un ragazzo dalla carnagione pallida che, chino di fronte a lui, gli premeva sulle gote col puntale del fodero di un pugnale. Si ritrasse d'istinto, imprecando. - Ma buongiorno, principessina! - urlò Dareka, facendogli un buffetto sulla guancia destra. Se la massaggiò con una mano, guardandola storto. Un ottimo risveglio, non c'è che dire. Guardò meglio il tizio. Sembrava Mongolo, o comunque non uno di quelle parti. Quella pelle cadaverica che aveva già notato contrastava coi suoi occhi, le sue sopracciglia sottilissime e i suoi capelli neri come la notte. Questi ultimi, in particolare, erano... buffi. Avevano un'attaccatura alta, se non altissima, e lasciavano scoperta tutta la fronte, che a destra del viso era corrugata da qualcosa che lì per lì avrebbe detto trattarsi di qualche pustola, ma a un'occhiata approfondita sembravano solo lembi di carne rialzati, come se le ossa del suo cranio, in quel punto, credessero di essere quelle di un drago e cercassero di tramutarsi in scaglie. Dall'altra parte del viso, sulla guancia sinistra, uno sfregio univa la mandibola a quell'occhio gigantesco, che pareva quello d'un bambino. Ma i capelli, dicevo, i capelli erano raccolti in una coda buffissima, non per la coda in sé, ma per quello straccio vaporoso che li ammanettava: pareva un decoro più da geisha che da marinaio. Indossava una camicia celeste sbottonata a metà e con le maniche corte, da cui faceva capolino un'altro squarcio sul bicipite sinistro, come fosse un vanto. Ad attirare la curiosità di Nashi furono però il libro che portava sotto il braccio destro, che pareva molto complicato a leggerne il titolo, e la cintura, che vantava fierissima una fibbia a forma di quadrifoglio che sembrava proprio fatta d'oro, e a cui era poi legata una wakizashi. Quel che pareva più strano, però, era che quel ragazzo dalla pelle candida come la luna mostrasse i ricordi di così tante e feroci battaglie e mostrasse solo un paio di anni in più rispetto al giovane samurai. Doveva essere dura, la vita di un marinaio. Con un sorriso accettò aiuto da parte di Dareka, afferrando la sua mano morbida e liscia per alzarsi, fra qualche acciacco e una flebile fiamma di dolore al fianco. Solo ora s'accorse che oltre ai due ragazzi, tutta la ciurma o perlomeno una sua buona parte era radunata lì, sul ponte, a fianco a lui. Si sentiva a metà tra una bestia da circo, lì per essere osservata da tutti, e un 'vero' combattente, unico sopravvissuto a una feroce rivolta del popolo. Certo non era in vena di vantarsi per i fatti di quella mattina, anzi, ma forse l'importante era solo uscirne vivo. - Te l'avevo detto che era ancora vivo... - sussurrò il mongolo. - Respirava. Era quasi ovvio. - rispose pungente ma ironica la ragazza. Li guardò con gli occhi ancora stanchi, troppo stanchi anche solo per ridere. - Beh! - proseguì lei, sorridendo - Lui è Mergen. - spiegò, indicando col pollice destro il ragazzo che aveva attirato così tanto l'attenzione del nostro amico. - Loro sono Akinori, Jo, Gekko, Thomas; Thomas è inglese; Shiba, Daisuke... - e proseguì col suo elenco, indicando chi veniva nominato, come se fosse possibile ricordare tutti i nomi a quel modo e come se lui la stesse ascoltando davvero. Si era fermato a Morgen perchè, in fondo, era l'unico di cui gli interessasse per ora e, soprattutto, perchè non aveva intenzione di rimanere a lungo su quella nave. Doveva tornare a Edo, in un modo o nell'altro. Era il suo lavoro, la sua vita. Non poteva lasciare le ossa di sua madre sole, lì, come se quegli ammassi di calcio fossero lei, la sua anima. Non fosse stato per quel puzzo di pesce, quella serata sarebbe stata anche romantica. Il mare, muto, ridacchiava solo qualche volta, spumeggiando contro la nave, cercando di non farsi beccare. Il Cielo era limpido come mai era stato, ma così vuoto di stelle che avrebbe giurato che ci fossero solo nuvole piatte sopra di loro. Le tavole di legno del ponte si coloravano d'arancio quando riflettevano le fiammelle che ballavano frenetiche nelle lampade ad olio appese un po' ovunque su quella nave. Come snobbando tutti, barcollò verso prua come un ubriaco verso casa appena uscito dalla peggior taverna, tenendosi il fianco come dovesse tenersi le budella nel corpo. Accarezzò il legno della polena che, intarsiato come da un mastro falegname, ritraeva alla perfezione una fenice. Quella nave doveva essere piuttosto vecchia, perchè era sicuro di aver sentito da qualche parte che ormai fossero passate di moda, le polene, perchè ingombranti e troppo pesanti. Non che gli importasse veramente, ma aveva un non-so-che di affascinante, questo dovette ammetterlo. Prima lo ammise, poi vomitò. Come se il romanticismo fosse un giovane nobile dai capelli biondi e la pelle di burro e la sua colazione mezza digerita la lama che, alla prima battaglia, gli squarcia il volto e lo sfigura a vita. - Problemi col Mare? - rise Dareka, poggiandogli una mano sulla spalla. Si vergognò come un ladro, in quel momento, un po' per essersi fatto vedere così davanti a lei, un po' perchè farsi prendere in giro da una ragazzina non era ammissibile da un uomo d'onore. - Dovresti mangiare qualcosa. Vieni dentro, su. - sussurrò lei come la più premurosa delle madri, prendendolo in spalla, sicura che quella ferita facesse ancora male. Sottocoperta pareva tutto un altro mondo. Un altro gruppo di marinai faceva baldoria, bevendo e agitando i calici d'avorio e di legno, mangiando con le mani come selvaggi. Seduto a un tavolo da solo, con gli stivali sporchi a fianco al piatto, sedeva un uomo dall'aria superiore e annoiata. - E' il Capitano... - sussurrò al suo orecchio la giovane, notando il suo interesse. Nishi rabbrividì di piacere come avesse sentito la voce di Dio - ... E' cinese. Il suo nome è Mao Chong. - proseguì lei, come non notando il tremolìo del samurai. Cinese, certo, era cinese e cinese pareva. Eppure sembrava che volesse fingersi altro. Poteva sì vantare un paio di lunghi baffi ondulati che gli partivano dalle rozze narici e finivano oltre le gote, pronti a essere lisciati, ma pure un pizzetto stretto e lineare che suggeriva un nescio quid di Occidentale. Ecco, e anche quelle sopracciglia aquiline contrastavano con quei piccoli occhi a fessura, il destro tra l'altro coperto dal pennacchio variopinto attaccato al cappello di feltro in cui incassava il cranio spigoloso. Sembrava un francese, detto da uno che di francesi ne aveva visti ben pochi, giusto un paio di mercanti. Indossava una camicia piena di ghirigori e rialzata sui polsini e dei calzoni color senape. - Ma guarda un po' chi abbiamo qui. - urlò l'uomo scandendo le parole una per una, mentre Nashi cercava solo di evitarlo. Missione fallita, insomma. - Il nostro piccolo amico Giapponese, come te la passi, bello? - poteva certamente ingannare gli occhi col vestiario, ma il suo modo di parlare tradiva quella parvenza elegante che voleva darsi. - Bene, signore. - rispose svogliato il samurai, con un cenno della testa - Vi ringrazio per avermi accolto sulla vostra nave e aver cucito le mie ferite. - concluse poi, non nascondendo una punta di timore nel tono della voce. Il Capitano si alzò in piedi di scatto, palesemente adirato, e una volta giuntogli davanti lo strattonò per la collottola. - Ascoltami bene, perchè non mi ripeterò. - cominciò l'uomo, spalmando il naso contro quello del ragazzo, ed era così vicino che Nashi poteva sentire il puzzo d'alcool del suo alito, e quei lunghi baffi fargli il solletico al naso. - Non ci sono signori qui. - proseguì, lasciando la presa e allontanandosi teatralmente. - A meno che - ridacchiò mentre Nashi si aggiustava la veste con sguardo scontroso - A meno che tu non voglia essere la nostra principessina. - Le fastidiose risate che echeggiarono nella sala dopo questa battuta furono interrotte solo dall'entrata di un giovane. - Una nave mercantile in avvicinamento, signore. - si rivolse al Capitano, mentre Nashi lo fissava in cagnesco come ormai non faceva con nessuno da anni. - Sembra una preda facile. - concluse il giovane e furono queste le parole che illuminarono il samurai. Una preda facile? Ma certo, era così ovvio! Quella banda di marinai che non pareva certo composta di veterani nè - detto tra di noi - di gente che avrebbe potuto cavare un ragno o un qualsiasi altro insetto dalla buca più grande del mondo non poteva di certo essere al servizio della Marina. Ecco perchè banchettavano nella misura delle più grandi corti Giapponesi ma erano più rozzi dei barbari Mongoli, ecco perchè non avevano divisa alcuna né bandiera. Semplicemente perchè non erano marinai. Barcollò allontanandosi da Dareka, appoggiandosi a una trave di legno. - Dove mi trovo? - balbettò guardandola storto. - Allora avevo ragione a pensare d'essere un prigioniero! - urlò stringendosi la ferita, che sentito il grido tremò come una nave in mezzo a una tempesta. Lei gli tirò uno schiaffo non tanto per ferirlo quanto per farlo stare zitto. - Ma che cazzo dici? - strillò con la sua voce dolce - Nessuno qui è un prigioniero, anzi, siamo la nazione più libera che tu possa trovare al mondo. E abbassa la voce. - intimò, sebbene fosse la prima ad urlare in quella discussione. - Siete pirati, vero? - chiese lui colmo di timore come un bicchiere di rhum, quasi tremando. Possiamo anche dire che non è che fosse l'uomo più coraggioso del mondo, certo, ma sono quasi sicuro che tremasse per il dolore e non per la paura. Nessun uomo furbo avrebbe paura di una sorte ormai già disegnata, buona o cattiva che sia. - Siamo pirati sì. - sbuffò lei aggiustandosi i capelli. - Ma ne parli come fosse un peccato. Se sei un buon pirata, sei anche meglio di certi santi. - precisò lei, per poi andarsene, lasciandolo lì, con le mani in mano. - Certo. - sentenziò lui - Infatti ho visto così tanti santi macchiati di sangue e acqua salata, in vita mia. - e fattosi forza seguì l'equipaggio che ormai si stava riversando tutto sul ponte - Ma dove cazzo sono finito... - commentò, passandosi una mano sulla fronte, mentre ascoltava le urla del Capitano come fossero una bussola infallibile - Che giornata di merda. - proseguì, mentre cercava di arrampicarsi con una sola mano sulla scala che da sotto coperta portava alla poppa. Uscito fuori vide solo luci e urla solide, ma avrebbe giurato che l'attacco non fosse ancora iniziato, forse perchè non vedeva schizzi di sangue in giro, o forse perchè semplicemente l'acqua era calma attorno al gigante di legno su cui poggiava i piedi, e nessuna nave pareva vicina più di cento metri. - Torna giù. - sbuffò una voce alle sue spalle. Era Mergen, seduto a fianco alla botola che univa il ponte alle stanze. - Fidati, è meglio per te. - proseguì, fissando quel mare così nero che avrebbero potuto paragonarlo al petrolio, l'avessero conosciuto. - Anche ferito, so combattere meglio di tutti voi messi insieme. - punzecchiò Nashi con un sorrisetto di sfida: e confermo che quel ragazzo doveva interessarlo molto. - Anche fosse - scrollò le spalle il Mongolo, senza degnarlo di uno sguardo - Anche fosse, e ti dico che una volta ho visto il Capitano fare fuori cinque uomini grandi uno il doppio dell'altro, stamane abbiamo visto che non sai fermare i proiettili, perciò... - e lo guardò sorridendo, sottintendendo il finale della frase picchiettando con le dita sul calcio della pistola che portava legata alla destra della cintola. Dareka era dall'altra parte della nave, coi capelli legati e una spada dal fodero bianco che era un incanto sotto la luce fioca delle lampade. E parlo sia di lei, che della lama. - Se può andare lei - sbuffò l'eroe dai capelli neri - Se può andare lei posso andarci anch'io. - - Potresti sì, ma non lo farai. - rettificò alzandosi in piedi. - Tsk - scosse la testa Nashi, in segno di disprezzo, e frenò la lingua per qualche secondo. - Ma non vi vergognate? - proseguì, probabilmente indignato per il poco valore che davano al suo ruolo di samurai - Una vita a rubare e uccidere, una vita inutile. bisbigliò fissando Mergen, con occhi da diavolo e lingua da serpente. - Almeno ci divertiamo. - sbottò lui - Se il tuo problema sono quelli là - e indicò la nave mercantile in avvicinamento - Non siamo noi che veneriamo le monete e le valorizziamo più della vita degli uomini. - concluse, con una nota di disprezzo presente più negli occhi che nelle parole. - Ah! - sbottò Nashi - Buona questa! Voi non attribuite un valore alle monete, voi che passate la vita a cercare di arricchirvi a spese altrui? - sentenziò Nashi come un giudice divino. - A volte arricchisce di più il viaggio di un tesoro. Ma, ehi, per continuare a viaggiare di qualcosa devi pur vivere. L'acqua del mare è sì tanta, ma troppo salata per berla, e alla lunga il pesce stanca. - e queste parole ammutolirono Nashi come l'interruttore chiude i circuiti alla lampada, e potè solo restare a fissare il ragazzo con un volto sbigottito che era così immobile che pareva una statua di Pompei. - E comunque fidati che, avessero avuto dei cannoni, saremmo già in guerra. E non è per la bandiera nera, avessimo avuto anche quella spagnola o quella francese ci avrebbero attaccati comunque. Basta averne una diversa dalla loro. - proseguì, allontanandosi a passi lenti e pesanti dal nostro samurai. - Andare per mare è una sfida ma basta abituarsi, e non mento se ti dico che sono convinto che siamo i più onesti in queste acque. Comunque. - - E la mia spada? Almeno quella? - domandò Nashi che non dico avesse capito quello che il ragazzo volesse dire, ma c'era sicuramente vicino. - Per difendermi, almeno! - urlò. - Per difenderti o per scappare alla prima occasione? - rise Morgen - So che la situazione non ti va a genio, ma sta tranquillo che non ti servirà. Se saliamo sulla loro nave e perdiamo, sei morto anche tu in ogni caso. E se vinciamo ti servirà ancora meno, perciò. - salutò lui con la mano. Ormai il momento era prossimo. - Potrei tradirvi! - fu l'ultima frase del samurai, prima di tornare sotto coperta col timore della battaglia e di Dareka, donna persa in una guerra. - Sta bene, potresti. - rispose l'altro urlando - Ma di solito non fanno prigionieri, figuriamoci liberare un nemico o presunto tale. E conosco voi samurai, per il vostro onore non sarebbe il massimo essere derisi a lungo prima di morire. -

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