Connect

di Artemide12
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima o poi ***
Capitolo 2: *** Destinazione Terra ***
Capitolo 3: *** Nata per fare quello ***
Capitolo 4: *** In agguato ***
Capitolo 5: *** Accuse ***
Capitolo 6: *** Qualcuno li osservava ***
Capitolo 7: *** Era il 12 giugno ***
Capitolo 8: *** Sorpresa ***
Capitolo 9: *** Non ne hai la minima idea ***
Capitolo 10: *** Insieme ***
Capitolo 11: *** Ikisatashi ***
Capitolo 12: *** Più forte ***
Capitolo 13: *** Imprevedibile ***
Capitolo 14: *** Aiuto ***
Capitolo 15: *** Azzurra ***
Capitolo 16: *** Le MewMew ***
Capitolo 17: *** Victoria ***
Capitolo 18: *** Casa ***
Capitolo 19: *** D'accordo ***
Capitolo 20: *** Bentornati su Arret ***
Capitolo 21: *** La guerra comincia! ***
Capitolo 22: *** Com'è l'inferno ***
Capitolo 23: *** Mai ***
Capitolo 24: *** Ciò che resta ***



Capitolo 1
*** Prima o poi ***


Premetto che le datazioni sono leggermente sbagliate. Dico che sono passati venticinque anni dalla fine della guerra in modo approssimitivo, perciò perdonatemi se facendovi due conti troverete degli errori e godetevi la storia.




CONNECT



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parte prima

la Terra





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Prima o poi



Diversi anni prima.

Strawberry si sedette sul dondolo che si trovava in un angolo riparato del giardino.
La poca luce del tardo pomeriggio filtrava tra i rami degli alberi intorno e poi si fermava sulle sue spalle e sulle sue gambe. Solo il viso rimaneva in ombra. I lunghi capelli rosso fiamma erano raccolti in treccia morbida e pratica che le ricadeva sulla spalla. Le braccia erano strette, serrate, intorno al cuscino beige.
Gli occhi erano gonfi e arrossati, così lucidi da risultare sfocati.
Le guance erano così rigate di lacrime da essere uniformemente bagnate. Quelle nuove, meno salate delle prime, si notavano appena sul percorso già tracciato dalle precedenti.
Ormai aveva smesso anche di singhiozzare. Aveva praticamente perso le forze a furia di singhiozzare o di trattenersi. Non si era lamentata davanti agli altri, si era trovata un posto isolato in cui poter piangere in silenzio, per tutto il tempo.
Il fatto che i figli di Lory facessero avanti e indietro nel giardino in continuazione, ignari di tutto ciò che stava per succedere, di tutto ciò che stava già succedendo, non aiutava.
Alzò lo sguardo verso gli alberi. Erano ancora verdi e folti qui. Era difficile credere che nel giro di pochi anni non cene sarebbero più stati. La sterpaglia avrebbe preso il posto di qualsiasi altro tipo di vegetazione. E poi anche la sterpaglia sarebbe scomparsa. La vita avrebbe abbandonato quel pianeta che per tanti anni era stata la sua casa.
Ma questo era niente, niente, in confronto a ciò che le corrodeva l'animo, le schiacciava il petto e le spezzava il respiro. Aveva l'impressione di non poter respirare, di soffocare. E non poteva lottare per impedirlo.
Si sentiva sola, svuotata dalla sua stessa anima, oppressa da un dolore lontano e attutito, ma ancora pesantissimo.
Non era giusto.
Avevano già lottato abbastanza. Avevano già dato fin troppo. Avevano già sofferto, già sanguinato, già curato le ferite. Le avevano viste rimarginarsi. Alcuni di loro erano già morti.
Non poteva essere stato tutto inutile. Un'effimera, fragile, gioia momentanea. Avevano già avuto il loro tanto agognato lieto fine.
Non potevano ricominciare da capo. Come se niente fosse successo.
Avevano solo ritardato la fine? Avevano contribuito a renderla ancora più dolorosa e distruttiva?
Appoggiò il collo allo schienale, in modo da poter rimanere con la testa all'insù senza faticare troppo.
Una folata di vento freddo la investì all'improvviso, ma non aveva la forza per rabbrividire.
Si sentiva un corpo inerme, svuotato a forza da ogni emozione, immobile in un angolo sperduto di un pianeta morente.

Tart cambiava canale apaticamente, senza neanche guardare veramente lo schermo del televisore. Alla fine lasciò sull'ennesimo telegiornale e abbassò il braccio che reggeva il telecomando abbracciando Paddy. Lei era accucciata sul divano accanto a lui, la testa appoggiata sulla sua spalla.
Passò la mano tra i suoi capelli biondi. Li aveva tagliati di nuovo. Era tempo che non lo faceva. Da lunghi fino alle spalle che erano, erano tornati cortissimi. Come quando, anni prima, combatteva contro di loro. Probabilmente lo aveva fatto apposta.
Li aveva tagliati anche ai bambini, dicendo che era perché stava arrivando la bella stagione. Una bella stagione che sarebbe cominciata con un risveglio senza genitori.
Tornò a guardare Paddy. Teneva gli occhi chiusi, ma era sveglia, semplicemente voleva sfuggire a tutto ciò che le succedeva intorno.
«È scandaloso!» esclamò Pai all'improvviso rompendo il silenzio e facendolo trasalire «Di vantano si avere strumenti di rilevazione efficienti, abili ricercatori, satelliti attivi e tanto altro e non riescono a vedere quello che hanno davanti al naso.» commentò fissando il telegiornale.
Tart si concentrò per capire di cosa parlavano.
Decimazione della popolazione. Malattie. Inizio di carestie. Terreni non più fertili. Moria degli animali. Estinzioni di specie a rischio.
Pai lo aveva predetto con un anno di anticipo senza neanche trovarsi direttamente sulla Terra. Se ne era già lamentato abbastanza. Stava solo cercando di non pensare troppo. Come tutti.
Era seduto al tavolo da pranzo, qualche metro dietro il divano. A capotavola. Dall'altra parte c'era Pam, la schiena dritta appoggiata alla sedia, le braccia incrociate e strette contro il petto. Lo sguardo fisso davanti a sé, ma non distante come quello degli altri.
Lory faceva avanti a indietro tra il tavolo e il divano, agitata. Si mordicchiava nervosamente le unghie delle mani. Arrivava alla finestra quando sentiva le voci dei figli venire da fuori e diceva loro di tornare dentro. Poi riprendeva il suo inconcludente via vai ascoltando le loro voci venire dalle stanze accanto. Nella loro camera, Mina si stava godendo il più possibile le sue figlie.
Gli altri erano nello studio di Ryan a discutere gli ultimi dettagli.
«Potremmo fare in un altro modo.» tentò per l'ennesima volta «Potremmo non andarcene, basterebbe...» non ebbe il tempo di finire la frase.
«Ne abbiamo già parlato Lory.» la interruppe Pai «Credi davvero che potremmo abbandonare i nostri stessi figli se ci fosse un altro modo?»
Lory finalmente si fermò. Lo fissò intensamente. «Lo so.» gemette «Lo so. Ma non puoi chiedermi di rassegnarmi.»
«Non sarà per sempre.»
«Lo so.» ripeté «Ma è ugualmente orribile. Sto sperando che il mondo finisca presto per poter tornare. È così...» non trovò le parole. Sospirò.
Pai appoggiò i gomiti al tavolo e si prese la testa tra le mani. «È noi che vuole.» spiegò per l'ennesima volta, per tenersi occupato «Anche se sa che abbiamo avuto dei figli, non li ha mai visti. Può rintracciare noi, ma non loro. Noi siamo come dei fari luminosi in mezzo all'universo. Loro... per quanto potenti sono al sicuro se stiamo loro lontani.»
«Se venissero con noi...»
«Lory.» la interruppe di nuovo «Se venissero con noi come potrebbero sapere cosa succede sulla Terra e su Arret? Come potrebbe essere la loro causa se non si tratterà neanche dei loro pianeti?»
«Questa è la nostra causa, non la loro.» replicò Pam, parlando per la prima volta, fissando Pai dritta negli occhi, ma non con rabbia o risentimento. Lei era d'accordo, la sua era solo un'affermazione.
«Spiegalo a Profondo Blu.» replicò Tart con un repentino scatto di rabbia. Paddy accanto a lui trasalì spaventata e spalancò gli occhi. «scusa» le sussurrò stringendola e posandole le labbra sulla fronte.
«I ragazzi devono rimanere a sorvegliare la Terra e ad occuparsi degli altri ibridi su Arret.» riprese Pai «Possono farcela. Possiamo farcela.»
Lory annuì.
«In ogni caso, Ryan dovrà comunque rimanere qui per qualche altro anno e Mark non se ne andrà.» concluse l'alieno dai capelli viola.
Paddy si divincolò dalla stretta di Tart e si alzò.
«Dove vai?» le chiese.
Lei non rispose. Rimase in piedi per qualche istante, poi raggiunse la portafinestra con passi brevi e rapidi e uscì fuori richiudendosela alle spalle. Scese la breve scaletta e si guardò intorno. Ci mise un po' ad individuare Strawberry, rintanata com'era. La raggiunse senza dire una parola.
La rossa la guardò spostando solo gli occhi, senza sollevare la testa. Si spostò un po' di lato, per farle spazio. La bionda si sedette accanto a lei, poi si accucciò contro il suo fianco.
Si sentiva esausta. Era sorprendente quanto le sole emozioni potessero stancare, come il dolore potesse levare le forze. Questa volta, quando chiuse gli occhi, si lasciò andare.

Quando Ghish uscì in giardino, trovò Strawberry nello stesso identico punto in cui lo aveva lasciata. Accanto a lei, Paddy dormiva profondamente. Il suo viso non era sereno – come avrebbe potuto esserlo? – ma almeno appariva più rilassato.
Strawberry lo guardò con espressione interrogativa.
«Siamo pronti.» spiegò fissandola. Era bella. Nonostante il dolore, Strawberry era bellissima. Sulla Terra, poi, era anche meglio. L'avrebbe mai più rivista così? «Stiamo partendo.» aggiunse «Gli altri stanno già salendo sull'astronave.»
Strawberry annuì, poi abbassò lo sguardo su Paddy. Era evidente che non voleva svegliarla.
Ghish si voltò nella direzione in cui era venuto. Individuò subito Tart, dietro la finestra. Gli fece segno di venire e l'attimo dopo il fratello adottivo era accanto a lui.
Tart prese in braccio Paddy con delicatezza. Lei si adagiò subito contro il suo petto. Immediatamente, seppur durante il sonno, sembrò più tranquilla, più sicura.
Strawberry conservò quell'immagine anche quando Tart si teletrasportò via.
Rimasero solo Ghish e Strawberry.
«Vuoi... vuoi salutare Ryan e Mark?» chiese lui non sapendo cosa dire.
Strawberry scosse appena la testa.
«Non li vedrai per anni.»
Lei gli lanciò un'occhiataccia. Gli occhi ormai asciutti, prosciugati, e le guance ancora completamente bagnate parlavano chiaro. Non ce l'avrebbe fatta a sopportare un altro quasi-addio.
Ghish allungò la mano e le asciugò il volto. Non ce la faceva a vederla così.
«Smettila.» le disse «Ormai ci siamo.» ritirò la mano, non aveva migliorato molto la situazione a dire il vero «Sei orribile quando piangi.»
Strawberry lanciò uno strano verso, a metà tra un gemito e una risata, poi gli gettò le braccia al collo stringendolo più che poteva. Ricambiò volentieri l'abbraccio.
«Torneremo, bambolina. Te lo prometto, mi hai sentito?»
«Sì.» sussurrò Strawberry.
«Torneremo.» ripeté mentre si teletrasportava via e la realtà intorno a lui di increspava e cambiava tragicamente.
«Torneremo.» promise di nuovo, questa volta a se stesso.
«Prima o poi.»







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Salveee
questo capitolo è particolarmente depresso, lo so, ma dovevo scriverlo. Gli altri non sono assolutamente così, dopotutto.
Artemide ;)

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Capitolo 2
*** Destinazione Terra ***


Destinazione: Terra

 

«C'è un modo per sfuggire a tutto questo?» chiese amaramente la donna umana guardando l'uomo alieno negli occhi. Si scostò distrattamente i lunghi capelli dalla faccia.

Doveva esserci un modo, dopo tutto quello che avevano passato, loro e tutti gli altri, non poteva essere quello il loro futuro.

No. Non poteva.

«C'è, ma non è certo alla porta di tutti.» rispose lui, guardandola negli occhi.

«Ciò che non è alla portata degli altri è sicuramente alla tua portata.» affermò con decisione la donna ricambiando il suo sguardo.

«Non sono onnipotente, non posso impedire che certe cose accadono.»

«Ma puoi impedire che ci raggiungano.»

«Non so se posso farlo.»

«So che puoi farlo.»

Lui non rispose. Lei gli prese la mano e gliela strinse.

«Mi fido di te.»

 

Lo spazio era così freddo e buio...

Aprilynne rabbrividì, poi tornò a guardare lo spazio oltre il vetro. Le luci delle stelle lontane erano così fioche che le pupille dilatate ormai erano rotonde invece che affusolate come quelle di un felino.

Sembrava tutto così lontano...

Arret, il passato, la Fratellanza, il futuro, persino il presente sembrava irraggiungibile.

Disfece la coda di cavallo e lasciò che i lunghi capelli verdi le ricadessero sulle spalle e sulla schiena per cercare di riscaldare il collo infreddolito.

Si concesse un attimo di riposo e osservò il fratello, seduto alla sua sinistra.

Catron era piuttosto particolare per essere un arrettiano, ma, in fondo, chi di loro poteva definirsi “normale”? Aveva i capelli ramati arruffati sulla testa e gli occhi dello stesso colore.

Era un po' più alto di Aprilynne e questo le dava fastidio, visto che era lei la maggiore.

Per il resto erano molto simili, il naso piccolo e dritto, la carnagione pallida, le labbra leggermente piene, il fisico esile ma forte, le orecchie appuntite, ma piuttosto piccole.

Tutti i Connect le avevano così, nessuno sapeva bene perché. Loro c'erano nati, ma gli altri erano stati creati così.

«Aprilynne, sta' attenta, ci sono delle onde radio che tentano di intercettarci.» la avvertì Raylene, seduta a sinistra di Catron.

Aprilynne tornò a fissare lo schermo olografico davanti a sé e a muovere le dita sulla tastiera metallica piena di pulsanti indistinguibili che si illuminavano anche se solo sfiorati.

Alzò uno scudo di occultamento e tirò un sospiro di sollievo.

Catron e Raylene sbuffarono vedendo il campo di asteroidi proprio davanti a loro.

Raylene era la migliore amica di Aprilynne, sempre pronta a farle da confidente e a darle consigli preziosi. Era anche un piccolo genio. Dopo la scomparsa dei genitori si era occupata del laboratorio genetico praticamente da sola.

Portava i lunghissimi capelli lilla raccolti dietro la testa e tenuti da una penna nera. I piccoli occhi blu scuro si muovevano rapidi da uno schermo olografico all'altro.

Quasi a farsi beffe di certi pregiudizi sulle persone particolarmente intelligenti, lei era anche bellissima. Nessun ragazzo riusciva a staccarle gli occhi di dosso.

Lei a volte sembrava non accorgersene, ma indossava sempre vestiti che ne risaltavano le forme sinuose e la grazia.

Anche ora le gambe lunghe e perfette erano fasciate in collant neri che, per quanto pesanti, dovevano farle sentire molto freddo visto che continuava a tirare giù la gonna del vestito viola scuro. Per fortuna gli stivali neri le arrivavano fin sotto il ginocchio e le riscaldavano piedi e polpacci.

D'altronde, però, nessuno di loro era preparato ad un simile viaggio.

«Ho bisogno di una pausa.» dichiarò Catron. Lui pilotava da quando erano partiti.

«Prendo io il tuo posto.» disse subito Aprilynne alzandosi «Raylene, puoi occuparti tu degli scudi di protezione oltre che alla stabilizzazione dell'astronave?» aggiunse poi.

L'amica annuì e la verde fece scorrere un grosso schermo olografico fino alla postazione di sinistra, poi si mise ai comandi.

Catron arrivò alla porta della sala comandi, toccò la superficie del metallo, e quella si reinserì nel muro per lasciarlo passare. Si richiuse alle sue spalle.

I brevi e stretti corridoi non erano illuminati, così come molte stanze, perché le loro riserve di energie erano limitate e dovevano farsele bastare.

Anche se questo voleva dire meno luce e meno riscaldamento, tutti preferivano arrivare a destinazione infreddoliti che stare al caldo e poi ritrovarsi fermi nello spazio senza possibilità di avanzare.

Catron entrò in una stanza piena di poltroncine e divani, tutti dotati di cinture di sicurezza. Le pareti erano state rivestite di specchi che riflettevano la luce e illuminavano l'ambiente.

Quasi tutti i ragazzi si erano radunati al centro della stanza e discutevano animatamente.

Catron raggiunse i cinque che se ne stavano in disparte.

Kathleen, che – ovviamente – non portava le cinture, lo abbracciò appena lo vide.

«Dai, Kat, sono stato nella sala comandi, non su Arret!»

«Lo so, ma ho avuto lo stesso paura! Potevano prenderci, scoprirci. E ci sono tutti quegli asteroidi, come fate a pilotare quel coso?»

«Questo “coso”, come lo chiami tu, ci sta salvando la vita.»

Kathleen assunse un'espressione offesa «Ecco lo vedi? Il viaggio ti ha stressato, sei già nervoso.»

Catron alzò gli occhi al cielo. «Ok, questo coso è inutile, troppo chiuso e troppo perfetto per quelli come noi, contenta?»

«Sì!» esultò Kathleen soddisfatta, schioccandogli poi un bacio a fior di labbra.

Si sedettero su un divano.

Kathleen aveva due anni in meno di lui ed era vivacissima. Non stava ferma un minuto.

Aveva i capelli corti e perennemente spettinati e grandi occhi, entrambi di colore arancio, anche se i primi tendevano un po' più al biondo e i secondi al marrone.

Le sue orecchie erano particolarmente rotonde, con tatto di lobi staccati. Solo la forma un po' appuntita le faceva assomigliare a quelle dei compagni.

Era alta e slanciata, ma tendeva a stare sempre un po' gobba.

Aveva due fratellini più piccoli, di sei e sette anni, che la seguivano ovunque andasse.

Pit, il più grande, aveva capelli e occhi gialli – anche se le iridi non erano dorate come quelle di Aprilynne – mentre Opter li aveva entrambi color cioccolato.

Al piccolo gruppo si aggiungevano Silver e Psiche, fratello maggiore e sorella minore di Raylene.

Ed eccoli, gli unici otto elementi – Raylene e Aprilynne comprese – a non essere stati creati in laboratorio dal padre di Silver.

Purtroppo solamente altri dieci Connect si erano salvati, tutti gli altri erano stati catturati o più semplicemente uccisi. Senza contare tutti gli embrioni in laboratorio che avevano dovuto abbandonare.

I sei rimasero in silenzio per un po'. Persino Kathleen e i fratellini tacquero.

Ogni minuto che passava li allontanava sembra di più dal loro pianeta natale.

Silver sonnecchiava sulla sua poltrona destandosi solo di tanto in tanto per qualche movimento brusco o per spostarsi una ciocca ribelle di capelli blu che gli ricadeva sul viso.

Psiche giocherellava con dei boccoli della sua immensa criniera lunghi ricci magenta e non faceva che spostare gli occhi fucsia da un volto all'altro mente ascoltava musica negli auricolari. Il sorriso enigmatico stampato in volto.

Gli unici a parlare erano gli altri Connect al centro della stanza.

Per loro era diverso.

Il loro genitori non erano stati catturati dal governo o spariti nel nulla; loro non avevano genitori, se non file nel computer contenenti lunghi codici.

Loro non stavano lasciando la casa dove erano cresciuti, se non il laboratorio.

E quello da cui stavano scappando non era il loro pianeta natale, per loro era solo il florido mondo di creazione.

«Ma per cena saremo a casa?» chiese ingenuamente Opter.

«No.» gli rispose Pit che aveva già fatto quella domanda alla sorella maggiore.

«E perché?» insistette il bimbo bruno.

«Perché a casa ci sono i cattivi.» disse Kathleen «Gli uomini neri ci cercano e noi non dobbiamo farci trovare!»

«Giochiamo a nascondino?»

«Sì, Opter, giochiamo a nascondino.» acconsentì Kathleen, anche se con scarso entusiasmo.

«Sono bravo a nascondermi, non mi trova mai nessuno!» dichiarò il bimbo, orgoglioso.

«Secondo me è più come guardie-e-ladri.» commentò Pit. «Sì, ma noi chi siamo, le guardie o i ladri?»

«Noi siamo i ladri che scappano!» rispose Catron cercando di apparire scherzoso. «E non ci prenderanno, puoi scommetterci!»

«Ma sono loro quelli vestiti di nero!» protestò Pit.

«Si sono mascherati!» fece Kathleen afferrando il più grande dei fratellini e facendogli il solletico. «Così si possono confondere con il buio e quando meno te lo aspetti... arrivano e ti portano via.»

Pit non riuscì a replicare. Si stava sbellicando dalle risate a tal punto che gli erano spuntate la coda e le orecchie pelose.

Un brusco sbandamento interruppe i fratelli.

Da dei trasmettitori acustici arrivò la voce di Aprilynne.

«Ok ragazzi, siamo entrati in un campo di asteroidi. – Sì Catron, sono grossi. – Siete pregati, in realtà obbligati, di mettervi le cinture e stringerle bene. Anche tu Kathleen. Silver, leva gli auricolari a tua sorella, se non finisce che inviamo le sue canzoni invece che un SOS e poi vieni qui perché ci serve un terzo pilota, perché qui finisce che a Raylene scoppia la testa. Godetevi le montagne russe e se vi sentite male... beh non lo so, cercate di stare bene.»

Silver non se lo fece ripetere due volte e si precipitò nella sala comandi. Adorava pilotare, anche se non l'avrebbe ammesso facilmente.

Appena raggiunse Raylene e l'amica, però, si rese conto che non gli sarebbero toccati i comandi.

Gli dispiaceva, ma non protestò. Tra i tre, Aprilynne era sicuramente la più adatta ad attraversare un campo di asteroidi. Aveva buoni riflessi ed un istinto eccezionale, anche se peccava in altri campi.

«Dove siamo?» chiese il ragazzo «Non era previsto che incontrassimo un campo di asteroidi»

«Lo so!» soffiò Aprilynne.

«C'era un caccia-stellare che cercava di intromettersi nel nostro sistema.» gli spiegò la sorella «Siamo riuscite a depistarlo, ma per non farci seguire ci siamo dovute avvicinare a quel pianeta.» indicò con un cenno della testa lo scenario fuori dal vetro.

«Depistarlo?» s'incuriosì Silver prendendo posto alla destra di Aprilynne che faticava ad evitare i grossi massi che rischiavano di colpirli.

«È stato un colpo di fortuna in realtà.» continuò la viola muovendo freneticamente le dita sul pannello di controllo.

«Si sono inseriti nel cellulare di tua sorella e si sono sentiti tre minuti buoni di canzoni.» tagliò corto Aprilynne virando bruscamente a destra e poi inclinando l'astronave a sinistra per evitare un asteroide,

Silver attivò alcuni schermi olografici, ma continuò a guardare davanti a sé, oltre il vetro.

«Questo non è un normale campo di asteroidi.» rifletté il blu ad alta voce «Ce ne sono troppi e troppi detriti.»

«Dannazione!» ringhiò Aprilynne. «Alza gli scudi di occultamento Ray!»

«Lo sto facendo, ma siamo già oltre la media, stanno consumando troppa energia.»

Silver, che non aveva ancora fatto granché, guardò altri schermi e sentenziò:

«È inutile, ci hanno già individuati.»

«Li batteremo in velocità!» disse la verde.

«Non ce la faremo mai.» ribatté il ragazzo.

«Atterra su quell'asteroide.» ordinò a quel punto Raylene indicandone uno piuttosto grosso e lento.

«È una pazzia!» esclamò la verde.

«Fallo!» insistette l'amica «Silver, appena lo tocchiamo segni tutto.»

«Che stai facendo?» chiese Aprilynne agitata vedendo che l'amica armeggiava con altri comandi.

«Sta a vedere.»

Raylene azionò un arpione e afferrò una pietra più piccola.

«Ci siamo!» strillò la verde atterrando.

Un attimo prima che Silver spegnesse tutto, la sorella liberò il piccolo asteroide che si andò a schiantare contro uno più grande esplodendo.

I tre rimasero in silenzio.

«Non ci cascano.» mormorò la verde con il fiato corto.

«Ci cascano invece.» ribatté la viola mentre una piccola navicella sfrecciava poco sopra di loro e poi usciva dal loro campo visivo.

«Sei un genio!» disse Silver alla sorella.

«Ora che facciamo?» fece Aprilynne.

«Aspettiamo il momento giusto per ripartire. Vatti a fare due passi.» rispose Raylene e l'amica uscì, il respiro ancora accelerato.

«Dove siamo?» chiese a quel punto il ragazzo.

«Non lo so di preciso, abbiamo dovuto cambiare rotta all'ultimo minuto. Da qualche parte nel sistema solare, credo.»

«Sistema solare? Ne ho sentito parlare così poco... È disabitato, mi sembra.»

Raylene prese un grosso volume dalla borsa e cominciò a sfogliarlo. «Non completamente. Sulla Terra c'è vita. Qui però dice solo “Pianeta abitato da umani: esseri intelligenti, ma ostili. Nessun sistema è in rapporti con la Terra.”»

«Quindi non fa parte della Fratellanza. È un ottimo posto dove nascondersi, ma non possono aiutarci.»

«Non abbiamo scelta. Le riserve di energia si sono praticamente esaurite, non so se ci arriveremo, ma è il più vicino.»

«Dobbiamo tentare, all'energia ci penso io.»

Vi fu un momento di silenzio, poi il ragazzo disse: «Possibile che nessuno si sia mai interessato al pianeta?»

«Evidentemente non ha risorse particolarmente interessanti. E poi è isolato, non ci sono altri sistemi abitati nell'arco di anni luce. Il più vicino è il nostro, intorno a Bellatrix.»

Vi fu di nuovo un momento di silenzio. Silver cercava di raccimolare quel poco che sapeva sul sistema solare.

Guardò oltre il vetro, verso il pianeta alla loro destra, particolarmente vicino.

«Saturno.» quel nome gli balenò nella mente. «Siamo in uno degli anelli di Saturno.»

«Vi informo che abbiamo una decina di passeggeri piuttosto noiosi ed impertinenti. Visto che siamo a corto di energie, perché non ne scarichiamo almeno qualcuno?» li interruppe Aprilynne entrando nella sala comandi.

«Idea molto allettante, ma controproducente.» rispose serio Silver.

Aprilynne sbuffò e si risedette al suo posto, tra i due fratelli.

«Spero che Psiche impari presto a pilotare. Ray, posso riaccendere i motori?»

«Rivolgiti a Silver, ha un'idea per farci risparmiare carburante.»

«Si tratta solo di darsi una bella spinta.» si affrettò a precisare il blu.

«Bene.» disse la verde mentre l'illuminazione tornava e il motore riprendeva a fare le fusa.

Invece di mettere in atto la manovra di decollo, il ragazzo arpionò un enorme asteroide.

Raylene azionò i razzi, ma non partirono.

«È come prendere la rincorsa quando si va in bicicletta.» spiegò il ragazzo, poi richiamò l'arpione senza, però, mollare la presa. L'asteroide era così grosso che attirò l'astronave verso di sé. Silver liberò l'arpione all'ultimo minuto e la navicella fu lanciata a tutta velocità nello spazio.

«Geniale!» si complimentò Aprilynne mentre sorpassavano Giove come delle schegge.

«Dove mi fermo?» chiese poi la ragazza.

«Il pianeta dopo quello piccolo e rosso.»

Ancora una volta la voce della verde risuonò nell'astronave:

«Allora ragazzi, i Connect sono di nuovo in viaggio. Pronti per una nuova avventura?»

Un «Sì!» carico di sentimenti diversi ma potenti sembrò scuotere l'astronave.

«E allora tenetevi forte!

Destinazione: Terra!»



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Gazie 1000 per aver letto.
Sono nuova. Non vi chiedo di essere clementi, ma per favore recensite.
Spero che la storia vi sia piaciuta.
Un bacione (xxx)

Artemide12

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Capitolo 3
*** Nata per fare quello ***


Nata per fare quello.

 

La donna entrò silenziosamente nel laboratorio.

«Come procedono le ricerche?»

L'uomo si voltò, sorpreso di vederla ancora in piedi.

«In realtà non sono ancora iniziate, mi sono lasciato distrarre.» ammise.

La donna si sedette accanto a lui.

«Da cosa?»

«Da questo.» disse l'alieno mostrandole una lucertola.

«Cos'ha di particolare?» chiese curiosa l'umana.

«Se ti dico cos'è non ci credi.»

La donna lesse il nome sullo schermo olografico che lievitava sulla scrivania.

Stupita, tornò a guardare il piccole rettile sulla scrivania.

«Stupefacente vero?»

«Non capisco come sia possibile.» commentò la donna.

«Ogni specie si evolve. Umana o aliena che sia. Sia per adattamento all'ambiente che lo circonda, sia per la presenza di altre specie.»

La donna rimase in silenzio, lo sguardo basso fisso nel vuoto.

«Anche loro sono un'evoluzione...» disse infine. Non suonò come una domanda, anche se probabilmente lo era.

Non servì specificare di chi stesse parlando.

L'uomo stirò le labbra in un sorriso. Ci aveva già pensato in effetti.

«Vedremo di cosa saranno capaci.» concluse l'alieno tornando ad osservare il grosso rettile che lo fissava affamato dalla scrivania.

 

Arrivarono davanti al pianeta dopo circa tre quarti d'ora.

Nell'astronave regnava il silenzio.

Nella stanza di ritrovo dove era radunata la maggior parte dei passeggeri, ognuno si guardava intorno con un misto di ansia e di speranza.

Pit si era addormentato accanto al fratello che, invece, era particolarmente vigile.

Kathleen si era rannicchiata in braccio a Catron che la cullava come una bambina.

Psiche continuava a tenere le cuffiette e a spostare lo sguardo da un volto all'altro, ma la musica che ascoltava non era altro che un malinconico pezzo al pianoforte che si addiceva perfettamente alla situazione.

Nella sala comandi Aprilynne e Silver si lanciavano occhiate nervose e speranzose allo stesso tempo mentre Raylene combatteva con i sintomi della stanchezza e si costringeva a tenere gli occhi aperti.

Aprilynne prese un respiro profondo.

«Ci siamo ragazzi.» disse cercando di usare un tono sicuro «O la va o la spacca.»

Usando i comandi manuali fece per entrare nell'orbita terrestre.

Poco prima di immettersi nell'atmosfera, però, la navicella si scontrò contro qualcosa di denso ed elastico che la dirottò di nuovo nello spazio.

«Cos'è stato?» urlò Kathleen tutto d'un fiato dopo quel brusco sbandamento.

«Non è niente Kathleen, sta' tranquilla.» le dispose benevolo Catron stringendola nel suo abbraccio.

«Non puoi dirmi di stare calma! Siamo nello spazio con il carburante quasi finito, in rotta per chissà dove, con una missione impossibile...»

«Tutte le nostre missioni sono impossibili.»

«Sì, ma questa è la più impossibile di tutte!»

«Speriamo sia anche la più divertente di tutte!»

Kathleen sospirò e tornò a farsi cullare dal ragazzo.

«Cosa diavolo era?» Aprilynne aveva pronunciato quelle parole quasi contemporaneamente a Kathleen.

«Non ne ho idea!» rispose il ragazzo.

«Come sarebbe a dire “non ne ho idea”?! Dannazione! Ray, tu ce l'hai un'idea, vero?»

La ragazza dai capelli lilla si stropicciò gli occhi con gli indici e si guardò intorno.

«Sembrava un campo di energia.» commentò poi.

«Meno male, almeno è un'idea.»

«Se fosse un campo di forza dovremmo vederlo.» notò Silver.

«Non per forza. Potrebbe trattarsi di una specie di barriera protettiva interna anziché esterna. Parallela all'atmosfera e perfettamente invisibile. Alcune astronavi molto sofisticate usano cose simili.»

Silver annuì pensieroso.

«Potreste tradurre in lingua comprensibile?» chiese la verde.

L'amica sospirò. «Ciò che intendo è che esistono alcuni tipi di barriere che non funzionano come un semplice guscio esterno. È un po' come mischiare acqua e zucchero. Deve esserci qualche sostanza nell'atmosfera terrestre perfettamente mescolata con i gas già presenti nell'aria che si espande verso l'esterno del pianeta e che funzione un po' come un filtro. Non è visibile perché è una difesa naturale del pianeta.»

«Se lo dici tu...» fece Aprilynne poco convinta. «Basta che ci sia un modo per oltrepassarla.»

«Lo vediamo subito.» rispose Silver armeggiando con la tastiera.

Un velo olivastro appannò per qualche secondo il vetro davanti a loro, poi si dissolse lasciando intravedere nuovamente il pianeta.

«Che cos'è?» fece la verde quasi incantata.

Tutta la Terra era infatti ricoperta di una strana nebbia color verde acceso.

«Esattamente quello che ti ho spiegato prima. È a base di fosforo quindi non dovrebbe crearci troppi problemi.»

«Sì, ma come entriamo?»

«Ci sarà un punto debole da qualche parte.»

«E come lo individuiamo?»

«Facile. È dove lo strato verde è più sottile.»

«Lì» indicò Silver «Lì è molto meno densa.»

«Bene, allora tenetevi!» esclamò Aprilynne riprendendo i comandi.

Si fiondò in quello spiraglio. L'unico punto debole in quella strana barriera. Il loro unico possibile accesso. La loro unica e ultima speranza.

«Atterra nella nebbia verde.» le suggerì Silver.

«Perché?»

«Perché penso che possiamo usarla a nostro favore.»

 

Quella di Silver fu una vera e propria idea geniale.

La nebbia verde era abbastanza spessa da potercisi atterrare, in modo da non dare nell'occhio entrando in un pianeta che non sospetta minimamente della presenza di forse di vita extraterrestri.

Allo stesso tempo, però, quella strana barriera difensiva era abbastanza sottile da poterla facilmente oltrepassare con in teletrasporto.

Era, insomma, un posto perfetto dove nascondersi.

La prima cosa che tutti fecero, di comune accordo, fu farsi una bella dormita.

La prima a svegliarsi – tre ore dopo – fu Psiche.

Avrebbe volentieri passato il resto della giornata a sentire musica, ma il suo “cellulare” si era scaricato e questo era un grosso problema.

Si trattava di una lastra metallica sottile quanto un foglio di carta e grande più o meno quanto una fotografia. Poteva tranquillamente essere arrotolato e infilato nella borsa.

Psiche frugò nel suo piccolo bagaglio finché non trovò il carica-batterie e infilò anche quello nella voluminosa tracolla.

Sulla Terra doveva esserci un modo di ricaricare la batteria.

Uscì dall'astronave e si teletrasportò sulla terraferma.

Si ritrovò in mezzo alla strada e per poco non fu investita da una velocissima auto bianca.

Balzò sul marciapiede appena in tempo.

Si guardò intorno.

Era circondata da costruzioni altissime e luminosissime che alternavano strati di vetrate ad altri di altri materiali da costruzione. Erano così slanciate che non se ne vedeva la fine.

Ai piani più bassi c'erano quelle che sembravano enormi finestre sulle quali erano state abbassate pesanti lastre metalliche. Alcuni uomini le alzavano premendo un pulsante posizionato a terra. O almeno era così che Psiche interpretava i loro comportamenti.

Davanti ad una porta erano disposti diversi tavolini quadrati.

BAR-Caffè diceva l'insegna.

Un uomo le passò accanto e la osservò inarcando un sopracciglio.

Si chiese perché. Poi si rese conto che doveva essere per via del suo abbigliamento. Portava uno stretto e striminzito corpetto grigio e un calzoncino nero pieno di lacci che le ricadevano lungo le gambe. Ai piedi portava degli stivali a pianta piatta.

Adocchiò una vetrata con dietro degli abiti simili a quelli degli abitanti di quel pianeta.

Si materializzò all'interno del negozio.

Non essendoci ancora nessuno poté girare indisturbata.

Afferrò una rivista posata sul bancone per vedere come si vestiva la gente di quel posto.

Come prima cosa prese un bel po' di jeans di varie misure e li infilò in una busta che sistemò a sua volta nella borsa. Ringraziò il fatto che fosse molto capiente e che i pantaloni fossero piegati per bene. Prese altre magliette un po' a casaccio e le mise in un sacchetto che legò alla tracolla.

Fatto questo cominciò a guardare vestiti per sé.

Alla fine prese delle calze nere velate che mire sotto i calzoncini, una canottiera grigia piena di paillette argentate e un giacchetto grigio di cotone che le arrivava più in basso dei calzoncini.

Mica male pensò guardandosi allo specchio.

A quel punto tornò a guardarsi intorno. Stavolta, però, cercava una presa per il cellulare.

L'unica che trovò non andava bene per il caricabatterie. L'attacco che cercava era a spirale, mentre quelli del negozio erano più o meno rettangolari.

A quel punto pensò che in quei palazzi altissimi doveva esserci una presa decente.

Recuperò la borsa e si materializzò in uno di quelli su cui si affacciava la vetrina del negozio.

Questa volta il posto era tutt'altro che deserto.

Per fortuna spaventò solo due bambini che stavano venendo proprio verso di lei.

«Sei una fata?» chiese la più piccola.

«Io?» fece Psiche.

La bimba la guardò speranzosa.

«Sì!» si riprese subito la ragazza «Sono una fata che si è persa. Dove sono?»

«Nel mio grattacelo!» esclamò la piccola tutta felice.

«Ah, che bello! … E dov'è il “tuo” grattacelo?»

«A New York, in America!»

Grattacelo, New York, America. Psiche memorizzò i nomi, era sicura che i fratelli li avrebbero trovati interessanti.

Cercò di aggirare i due bambini, ma la piccola la fermò dicendo:

«Fai una magia?»

«Tipo riportarti dalla mamma?»

«No, tipo far brillare tutto o far apparire un peluche!»

Psiche alzò gli occhi al cielo, poi ebbe un'idea.

«Se ti faccio vedere delle mosse magiche va bene lo stesso?»

«A che servono le mosse?»

«A fare incantesimi più potenti!» sbuffò.

«Ok!»

Psiche si sfilò la borsa e la posò dietro l'angolo, fuori dal campo visivo dei due.

«Sei proprio strana con quei capelli, sai?» osservò intanto il bambino più grande.

Psiche registrò quel particolare e lo tenne in considerazione per dopo.

Prese un respiro, poi si esibì in una rapidissima rovesciata all'indietro, ci attaccò un flic e poi si diede la spinta per un salto mortale così veloce che poté aggrapparsi al soffitto e riatterrare alle spalle dei ragazzi senza che i due se ne accorgessero.

Svelta recuperò la borsa e si allontanò.

Controvoglia legò i capelli in una voluminosa coda e tirò su il cappuccio del giacchetto. Dato il suo abbigliamento quel particolare non dava troppo nell'occhio.

Passando davanti ad uno stend di occhiali, poi, ne prese un paio con la montatura in plastica bianca, sfilò le lenti e se li infilò.

Entrò in un negozio di elettrodomestici che aveva appena aperto, ma che già attirava diversi clienti.

Si guardò intorno spaesata.

Prese un iphone messo su un ripiano come campione e se lo rigirò tra le dita.

«Le interessa?» la voce di un ragazzo del reparto la fece quasi sobbalzare.

«Volevo... informazioni.» abbozzò Psiche, incerta.

«Ha trovato la persona giusta allora! Quello, nel caso non lo sapesse, è un iphone 12bis.»

«Perché “bis”?»

«Beh, perché il dodici è uscito parecchio tempo fa, signorina. Quella è una rielaborazione: stesso aspetto, stessa grafica, ma la tecnologia moderna.»

Psiche continuò a guardarlo inespressiva. Purtroppo quelle parole le dicevano ben poco.

«Provi ad accederlo.» la incitò il ragazzo, un po' irritato dalla sua totale incompetenza. Alla fine levò il cellulare dalle mani della ragazza e lo accese.

Psiche guardò curiosa mentre sullo schermo appariva uno sfondo colorato con sopra scritta la marca del telefono.

Era così vicina che quasi si spaventò quando dallo schermo fuoriuscirono delle piccole icone cubiche che cominciarono a gironzolare sospese nel vuoto.

«Sono ologrammi, naturalmente, ma funzionano come delle normali icone.» spiegò spazientito il ragazzo con il tono di chi spiega l'alfabeto ad un bambinetto dell'asilo particolarmente irritante.

Psiche infilò il dito nel cubetto azzurro con l'immagine di una nota musicale.

Il cubo esplose lasciando spazio ad una lista di canzoni che si disposero come la ruota di un criceto.

Psiche la fece girare con il dito, lo sguardo come ipnotizzato, poi ne cliccò una a caso. Quella si fece più cicciotta e si posizionò al centro. Sotto la scritta comparve una barra nera con dentro una barretta blu più piccola che andava avanzando.

«Indica a che punto è la canzone.» disse il ragazzo.

«Lo so che cos'è!» gli ringhiò Psiche anche se non era la verità.

Rimase in silenzio ad ascoltare il ritmo martellante della musica.

«Chi canta?» chiese ingenuamente.

«Cosa?» il ragazzo perse perfino il suo tono irritato per la sorpresa. «Non dirmi che non conosci gli x-y

«Chi?» fece la ragazza che aveva sentito quelle lettere solo nei problemi di matematica.

«Gli x-y! Oh mio dio! Fratello e sorella. Sono il gruppo più amato del ventunesimo secolo!»

Ventunesimo secolo. Registrò mentalmente anche quello.

«Io veramente ascolto i Discok.» replicò a quel punto Psiche.

«Chi?»

«I Discok. Sono il gruppo più alla moda del ventiduesimo secolo!»

Psiche si allontanò trattenendo una risata davanti all'espressione ebete del ragazzo.

Non aveva detto una bugia. Su Arret erano davvero nel XXII secolo e i Discok erano il suo gruppo preferito.

Si fermò un momento davanti ad uno schermo ultrapiatto grande metà della parete. Era spento, ma immaginarlo in funzione non era difficile.

Finalmente qualcosa di familiare.

Si avvicinò alla parete per vedere che tipo di presa avesse quel televisore. Magari era la stessa del suo “cellulare”.

Mentre si rialzava in piedi delusa vide il riflesso di un uomo nello schermo spento della TV.

Sobbalzò e per alcuni secondi non riuscì a fare nulla, se non fissare il riflesso dello sconosciuto.

I capelli scuri e gli occhi chiari erano anonimi, così come il suo abbigliamento, ma le lunghe orecchie a punta parlavano chiaro.

Dunque li avevano già trovati? Era così che finiva la loro coraggiosa missione?

Avevano fallito prima ancora di cominciare?

Cosa ne era stato degli altri? Li avevano già catturati o stavano seguendo lei? Doveva proteggerli? Dire che non sapeva nulla? Che era stata cacciata? Le avrebbero mai creduto? Sarebbe servito a qualcosa?

Mentre nel suo cervello si affollavano domande che non riusciva neanche a concludere, un pensiero predominante si fece largo nella sua mente oscurando gli altri.

Lei non avrebbe ceduto.

Avrebbero dovuto faticare per prenderla.

Fece un respiro profondo e si voltò con decisione.

Niente.

Non vide niente.

Non c'era nessuno davanti a lei.

Si guardò intono spaesata. Era sicura di quello che aveva visto. L'uomo era lì, da qualche parte. Perché non si faceva vedere? Perché non la catturava?

Poi lo capì.

Perché in questo modo lei lo avrebbe portato dagli altri.

Si disse che questo non sarebbe successo.

Fingendo indifferenza continuò ad aggirarsi per il negozio.

Sostò a lungo davanti ad un gioco che insegnava passi di danza di canzoni famose e ne imparò a memoria alcuni dei brani degli x-y. Non erano male come gruppo, ma il nome non le andava proprio a genio.

Dopo aver superato abbastanza velocemente i primi sette livelli decise di smettere.

Si interessò a quelli che un'etichetta identificava come auricolari, ma di cui lei non riusciva a capire il funzionamento. Avevano una specie di minuscolo spinotto simile ad un chiodo che si attaccava chissà dove, poi, staccati, c'erano quelli che sembravano due piccoli microfoni. Erano lunghi poco meno di una falange di un dito e la piccola sferetta colorata da cui usciva la musica si poteva staccare dal cono nero che la sorreggeva.

Le posò ancora dubbiosa.

Essendo sovrappensiero andò involontariamente a sbattere contro un uomo che passava di lì.

Portava uno smoking grigio. Il capelli niente affatto corti, ma non troppo lunghi erano molto scuri, gli occhi castani.

«È tutto ok ragazza? Sembri smarrita.» le disse benevolo.

«Sì, tutto ok, stavo solo cercando l'uscita, credo di aver perso l'orientamento, mi può accompagnare per favore?»

«Certo, seguimi pure.» acconsentì l'uomo.

Psiche si disse che, anche se la stavano seguendo, probabilmente non l'avrebbero aggredita in presenza di un umano.

Per la prima volta notò che la gente di quel posto aveva le orecchie piccole. Non a punta, certo, ma almeno quello non sarebbe stato un problema.

Non lì.

Improvvisamente le venne nostalgia di casa. Le mancava quell'immenso laboratorio sotterraneo dove vivevano prima. Dall'esterno sembrava una baracca messa piuttosto male, ma non dava troppo nell'occhio in un quartiere che stava letteralmente cadendo a pezzi.

Chissà...

Magari a quell'ora il governo aveva scoperto che era lì che si nascondevano.

Che quella che dall'esterno poteva sembrare una casa fatiscente, nascondeva un segreto. Che lo sgabuzzino, anche se pieno di scope e di inutili cianfrusaglie, era in realtà un ascensore che portava ai piani inferiori. Che le dimensioni del laboratorio erano di gran lunga maggiori di quanto chiunque potesse immaginare. Che si estendevano per gran parte del sottosuolo circostante e un quarto della fiancata rocciosa a cui era addossata la piccola casetta.

Sospirò malinconica mentre seguiva l'uomo in giacca e cravatta.

«Come ti chiami?» le chiese distrattamente.

Psiche ci pensò per alcuni secondi. Non poteva certo dire la verità.

«Pamela.» buttò lì, ricordandosi che era il nome di una musicista di cui aveva ascoltato un pezzo nel gioco di danza poco prima.

«Pamela.» ripeté l'uomo tra sé e sé, quasi dubbioso. Assaggiò il suo nome e sembrò soppesarlo, assaggiarlo, studiarlo, in qualche modo. «È un nome molto particolare, forse un po' inusuale ormai, ma molto bello.»

«E lei? Qual'è il suo nome.»

«Il mio?» fece l'uomo quasi sorpreso «Oh, beh, io sono Marcus Evans.»

Forse si aspettava che alla ragazza avrebbe dovuto dire qualcosa, ma lei si limitò ad annuire.

Quando arrivarono all'uscita del negozio, psiche adocchiò un bagno e vi si diresse.

Davanti allo specchio si tolse il cappuccio e infilò gli occhiali finti nella borsa strapiena di jeans.

Si sciacquò il viso con l'acqua fredda, poi si guardò allo specchio.

Cosa dove fare?

Andarsene?

Rimanere lì finché non si fossero decisi a venire allo scoperto e catturarla?

Lo giudicò troppo rischioso.

Avrebbe potuto dover trascorrere anche l'intera giornata lì dentro. In tutto quel tempo gli umani si sarebbero sicuramente accorti che lei non era una di loro e sarebbe stata doppiamente nei guai.

Prese un paio di respiri profondi.

Andarmene o rimanere? Rimanere o andarmene?

Un rumore proveniente da dietro una della porte alle sue spalle la distrasse.

«C'è nessuno?» chiese avvicinandosi incerta e con passo felpato.

Un colpo di tosse soffocato.

Restò in ascolto.

Il rumore di qualcosa – o qualcuno – che veniva strattonato a poi sbattuto.

Un respiro agonizzante appena udibile.

Un suono innaturale. Come un risucchio, accompagnato da una nota acuta, ma bassa.

Una vibrazione nell'aria.

Spalancò la porta di getto.

Tutto ciò che trovò fu una donna dal colorito pallidissimo, grigiastro, lo sguardo vacuo negli occhi spalancati. Il viso congelato in una maschera di terrore.

Psiche sentì il suo cuore galoppare e salirle in gola. Il respiro accelerato.

Qualcosa sopra di lei. Dietro di lei.

Si voltò di scatto, ansimando.

Niente.

Per la seconda volta non trovò nulla davanti a sé.

Nulla a parte un cagnolino senza guinzaglio.

Un cucciolo di husky.

Psiche sentì il suo cuore perdere un battito mentre la tensione si allentava.

«E tu?» chiese sorridendo.

Il cagnolino abbaiò in risposta.

«Devi essere di questa signora.»

Si chinò e lasciò che venisse verso di lei. Lo prese in braccio e lo accarezzò teneramente.

«Come sei morbido.» commentò arruffandogli il pelo piuttosto lungo e scuro.

Si sedette per terra a gambe incrociate mentre il respiro le tonava normale.

«Mi hai fatto prendere un colpo, sai? Tu e la tua padrona.» disse «Ah, ma non sei poi tanto piccolo!» commentò poi guardando meglio il cagnolino.

Il riferimento alla padrona, però, le fece ricordare ciò che aveva appena visto.

Si rialzò e tornò a guardare nel bagno.

La donna era ancora lì per terra.

L'espressione di paura stampata in faccia.

Lo sguardo che sembrava indicare qualcosa, guardare qualcuno. Guardarlo dritto negli occhi. Chiedendogli silenziosamente di non farle del male.

Ma a chi? A chi stava rivolgendo quella supplica? Chi c'era lì? Sentiva la sua presenza, ma ciò che percepiva non era altro che una sensazione lontana ed istintiva. E lei avevo imparato a fidarsi ciecamente del suo istinto.

La bocca semiaperta della donna, pronta per dare voce ad grido che, invece, le era rimasto in gola. E non sarebbe più uscito.

Con un'ingegnere genetico per sorella e un medico per fratello sapeva distinguere fin troppo bene quando non c'era più nulla da fare. Aveva visto fin troppi compagni morire.

Un bambino le era pesino morto tra le braccia mentre tentava di salvarlo dalla guardie che avevano preso la sua famiglia. Perché su Arret ormai bastava poco per fare una brutta fine.

A volte non serviva neanche mettersi contro la legge. Bastava conoscere qualcuno che lo avesse fatto. Bastava il minimo collegamento, il minimo sospetto.

Non sopravviveva il più rispettoso e diligente. Bensì il più astuto, quello che aveva i mezzi per scappare, un posto per nascondere. Era così che si distruggeva la pacifica armonia del paese. Perché nel momento in cui non puoi più trovare protezione nella legge, l'unica strada è farti una tua legge.

Scacciò con forza quei pensieri e si concentrò sul cagnolino.

«Ma quanto pesi?» disse tirandolo su.

Si voltò verso lo specchio.

Rimase immobile a fissare l'animale che teneva in braccio.

Era cresciuto. Ne era certa.

Non era così grosso quando le era comparso davanti pochi minuti prima.

L'aveva preso con una mano sola e ora si trovava a doverlo sorreggere con entrambe le braccia.

Persino il viso era cresciuto, maturato.

Il suo abbaiare più basso e rauco glielo confermò.

«Ma che diavolo... ?»

Lo posò sul bordo del lavandino per vederlo meglio.

Adocchiò la sua zampa, e in particolare le sue unghie affilate da canide.

Se si concentrava poteva vederle allungarsi a vista d'occhio.

Fece un passo indietro spaventata.

Non aveva idea di come si comportassero gli animali di quel pianeta, ma quello era decisamente anomalo.

Il cane le ringhiò contro con ferocia.

«No, tu non sei affatto normale!»

Ormai delle dimensioni di un cane adulto, l'animale balzò nella sua direzione.

Psiche fece appena in tempo a schivarlo.

Prima che potesse essere nuovamente aggredita corse fuori dal bagno.

Una parte di lei le ricordò di tirarsi su il cappuccio.

Il “cane” la raggiunse emettendo bassi rantoli rabbiosi.

Qui c'è troppa gente!

Psiche adocchiò le scale vi si fiondò. Il cane le venne dietro.

Non aveva la minima idea di a che piano si trovasse, ma cominciò a salire velocemente.

Lasciò che i suoi istinti animali riaffiorassero con violenza, che si impadronissero di lei. In quel momento erano tutto ciò che la potava salvare.

Si voltò solo un secondo e se ne pentì.

Il cane stava continuando a crescere.

La sua parte animale registrò quel particolare con una certa, malsana, euforia.

Si chinò in avanti e prese a salire le scale a quattro zampe. La coda fingeva da timone e le permetteva di acquistare velocità.

L'udito improvvisamente più acuto le permetteva di conoscere la posizione del suo inseguitore senza girarsi. Dei suoi inseguitori.

Il suo io animale se ne rese conto immediatamente. Non era solo il cane a correre verso di lei. C'era qualcosa, qualcuno, nell'ombra, che bramava di poterla raggiungere. Ma era debole. E lento.

Cominciò a saltare da un corrimano all'altro per guadagnare terreno.

Un ringhio giocoso le si dipinse sulla labbra.

Adorava la sua parte animale, la faceva sentire incredibilmente libera.

Prima di quanto ritenesse possibile si ritrovò all'ultimo piano del grattacelo.

Era interamente vuoto, non c'erano neanche pareti divisorie e il soffitto era completamente vetrato.

Servendosi della forza appena acquisita, sfondò qualche vetro e uscì all'aperto.

L'aria lì era un po' più rarefatta, ma questo non le creava problemi.

L'animale arrivò pochi minuti dopo.

Il sorriso scomparve all'istante dalle sue labbra quando lo vide.

Ormai era cinquanta centimetri più alto di lei.

Rimase incastrato nelle scale, ma poi sfondò a sua volta il vetro e la raggiunse sul tetto.

La sua espressione tornò ad essere seria e preoccupata.

Sopravvivenza diceva il suo istinto animale.

Proteggere gli altri gridava la sua ragione.

Andarmene o restare? Restare o andarmene?

La lotta interiore la distrasse più di quanto avrebbe dovuto e la immobilizzò mentre l'animale balzava verso di lei.

Tutto ciò che riuscì a fare fu indietreggiare, ma i suoi piedi incontrarono il vuoto e il resto del corpo li seguì.

Mentre cadeva e acquistava velocità riuscì a girarsi.

Così sarebbe caduta di testa.

Sentiva il sangue pomparle nelle pelose orecchie triangolari mentre si avvicinava al suolo in picchiata.

Che razza di fine fu tutto ciò che riuscì a pensare mentre chiudeva gli occhi in attesa dell'impatto.

 

L'aria le scorreva ai lati e le accarezzava il corpo. Così soffice e leggera.

Bramava di essere afferrata.

E fu ciò che fece.

Allungò la mano.

Stese le gambe.

Appoggiò il piede nel vuoto.

E stavolta si fermò.

Aprì incerta gli occhi.

Era morta?

Sentiva il suo corpo lievitare leggero.

Sostenuta da chissà quale forza interna, e non esterna, era sospesa per aria a chissà quanti metri di altezza.

Si guardò intorno sorpresa.

Puntò la testa verso l'alto e stese le punte dei piedi.

Cominciò a salire.

A ripercorrere la traiettoria che l'aveva appena portata lì.

In pochi secondi fu di nuovo all'altezza del tetto.

Il cane si voltò sorpreso e ringhiò con forza, ma non si mosse.

Perché lì non poteva raggiungerla.

Pensieri e movimenti si susseguirono rapidi e decisi. Attraversarono la sua mente con una tale naturalezza che passarono quasi inosservati. Come una lieve brezza marina che accarezza per qualche secondo le chiome degli alberi, le spettina e le vivacizza, annuncia l'arrivo di una nuova stagione, di un cambiamento. Di qualcosa di nuovo. Qualcosa che prima o poi se ne andrà, leggero e tranquillo così com'è arrivato. Qualcosa che tonerà ad essere atteso, che lascerà il posto a nuovi cambiamenti, ma che, prima o poi, così come se n'è andato, leggero e tranquillo, tornerà ancora e ancora.

Stendere in avanti la mano.

Ed eccola la brezza. Quel delicato soffio di vento che sa di acqua e di sale.

Percepire il chimero in una nuova forma.

Si insinua leggera in ogni angolo e riempe ogni spazio.

Il parassita e la forza vitale. La forza vitale e il parassita.

Con passo tranquillo, ma sicuro, arriva alle chiome degli alberi. Ne assapora l'essenza. Un'essenza che sa di resina, le cicatrici di ferite che aspettano solo di rimarginarsi. Un'essenza che sa di linfa, la vita che continua a scorrere.

La forza vitale.

La brezza ormai è vento. Si fa strada tra le chiome. Le scompiglia, le smuove, le fa danzare ad un ritmo che conosce solo lei.

La attirò a sé. La strappò al parassita.

Una piccola perla di luce circondata da una specie di bolla di salone si depositò sulla suo mano.

Davanti a lei, dove poco prima c'era il chimero, lievitava una specie di medusa trasparente che sparì dopo pochi secondi.

Chimero. Ecco cos'era. Ripescò quel nome da chissà quale parte della sua mente che credeva inesistente. Dalla sua mente animale. Quella parte che la affascinava. Ma il fascino, si sa, non può non avere un lato oscuro. Se il suo io animale poteva salvarla da situazioni difficili e indicarle la via nei momenti critici, se lasciata senza controllo spalancava le porte dell'ombra e rischiava di trascinarla in qualcosa che non era ancora pronta a conoscere. Non ancora.

Psiche si posizionò rapidamente a testa in giù e volò in basso.

Sapeva a chi doveva riportare la forza vitale.

La lanciò nel bagno attraverso la finestra aperta.

Volò via.

Come se non fosse successo nulla.

Come se fosse nata per fare quello.

 

-DUE ORE DOPO

«E non ti sembra strano?» insistette Raylene.

«Cosa?»

«Che tu abbia potuto comunicare con loro!»

«Cosa c'è di strano nel parlare con la gente?»

«E in quale lingua lo avresti fatto?» si inserì a quel punto Silver.

Per la prima volta Psiche si soffermò su quel particolare. Non aveva racconto molto del suo giro in città, ma ai fratelli quel poco bastava e avanzava.

«In inglese.» disse infine.

Questo zittì i fratelli. Ma non per resa davanti all'evidenza dei fatti, bensì per la sorpresa.

L'inglese.

Era quella la lingua che, oltre all'arrettiano, era stata insegnata loro fin dalla nascita. Credevano che fossero stati i loro genitori a creare quella lingua. La consideravano un loro linguaggio segreto.

E ora scoprivano che era una lingua parlata sulla Terra. Sulla Terra!

Com'era possibile?

«Ne sei certa?» riuscì a dire Raylene alla fine.

«Sì.» rispose la sorella con un tono di voce più basso.

«È incredibile!» commentò Silver. «Voglio dire, questo complica tantissimo le cose, ma è incredibile!»

Mentre i fratelli maggiori confabulavano, Psiche di allontanò e si diresse nuovamente all'astronave.

Entrò nella sua camera.

La condivideva con Silver e Raylene, ma visto che loro erano fuori era sola.

Si sedette sul letto.

Cos'era successo?

Non sapeva spiegarlo.

Quello che sapeva era che le era piaciuto.

Che...

...era nata per quello.




Allora che ne pensate? Aspetto il vostro parere.
Spero sia stata chiara la parte in cui paragono le sensazioni di Psiche al vento.
Per qualsiasi dubbio chiedete.
Un abbraccio
Artemide12

 

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Capitolo 4
*** In agguato ***


In agguato

 

 

«Dove andremo?» chiese la donna curiosa.

«Ancora non lo so.» rispose l'uomo «Lontano da qui. Lontano da tutto.»

«...ma loro resteranno.» concluse amaramente l'umana.

«Non saranno soli.» cercò di consolarla l'alieno rimanendo rigidamente in piedi accanto a lei.

«Lo so.» mormorò la donna appoggiandosi con la schiena al muro e incrociando le braccia al petto. «Perché non possono venire con noi?» sapeva che non poteva discutere con lui, ma doveva pur dar voce alle sue insicurezze.

«Lo faranno, ma quando verrà il momento.» rispose lui addolcendo leggermente la sua espressione e mostrando alla donna che condivideva i suoi sentimenti. «Portarli con noi vorrebbe dire non dare né ad Arret né alla Tera una possibilità di salvezza.»

«Vuol dire tante cose.» mormorò lei «Vuol dire separarli.»

«Non per sempre.» disse lui «Certe persone sono destinate a ritrovarsi, qualunque cosa accada, inevitabilmente.» le sollevò il viso con un dito costringendola a guardarlo negli occhi. «Dovresti saperlo.»

 

Il piccolo bar aveva appena aperto e già le due giovani cameriere erano all'opera.

Una volta avere un negozio al piano terra, con l'entrata direttamente sulla strada, rappresentava un vantaggio per attirare i clienti. Ormai, però, non era più così.

Ormai quasi tutti vivevano all'interno dei grattaceli e non badavano troppo ai piccoli locali ancora in strada.

Per loro, in parte, era un vantaggio perché era già difficile gestire quel bar in due.

I due ragazzi avrebbero dovuto aiutarle, ma questo succedeva raramente. Erano sempre occupati in ricerche che andavano avanti da anni, ma che davano risultati stupefacenti, ma inutilizzabili.

Ogni tanto il più giovane dei due si offriva di servire ai tavoli.

Di solito, però, la più grande delle sorelle si occupava delle cucine mentre l'altra serviva ai tavoli e stava al bancone.

La struttura del locale era molto diversa dal suo predecessore.

L'edificio di lusso nel parco lo avevano venduto parecchi anni prima i genitori dei ragazzi.

Questo si allargava in un'unica grande stanza. Davanti alla porta a vetri era collocato il bancone che metteva in mostra in vari tipi di dolci a disposizione.

I tavolini erano sparsi un po' dappertutto, ma potevano facilmente essere spostati lungo i lati della stanza e ottenere un grosso spazio libero dove spesso avevano organizzato delle feste.

In corrispondenza del locale era situato il vasto sotterraneo dove i ragazzi svolgevano le loro ricerche.

La ragazza più giovane si lasciò cadere su una sedia.

I suoi diciotto anni le pesavano più di quanto avrebbero dovuto.

Si voltò verso la sorella maggiore. Si chiedeva come facesse a conciliare con tanta facilità studi, lavoro e ricerche.

Il liceo la stancava e l'esame di maturità in arrivo la preoccupava, il lavoro la distraeva, ma non faceva che sottrarre tempo a quel poco che ne aveva. Le ricerche le davano il colpo di grazia. Per fortuna ancora il loro intervento non era stato necessario.

Qualcuno bussò sul vetro del negozio, proprio accanto a lei.

Si voltò.

Sbuffò. I suoi compagni di classe.

Loro la prendevano in giro per il suo carattere distaccato, ma non potevano neanche lontanamente immaginare a cosa fosse dovuto. Loro non potevano immaginare proprio nulla di ciò che loro avevano scoperto.

In quegli ultimi tempi, poi, la situazione si stava facendo più critica e avevano cominciato a temere il peggio.

Il pulsare irregolare che le infiammava la schiena e la parte terminale della colonna vertebrale lo dimostravano. E poi c'era quella sensazione.

Aveva provato a darle molti nomi: paura, incertezza, anche rabbia. Ma nessuno di quelli andava bene.

Impazienza.

Era quello ciò che provava. Anche se non sapeva dirne il motivo.

Forse perché finalmente avrebbe potuto mettere alla prova le sue capacità. O forse era la conferma che in fondo era pazza – cosa che, segretamente, sospettava. Non tanto per problemi mentali, ma una pazzia ossessiva. La sua mania per l'ordine e la perfezione. La sensazione costante e sempre presente di essere seguita, spiata. Non ne aveva mai parlato con nessuno, anche se avrebbe voluto. E poi, a chi si sarebbe rivolta?

Di certo non alla sorella che non faceva che prenderla in giro. Non ai ragazzi che erano sempre così stupidamente e rigorosamente impegnati che probabilmente non le avrebbero neanche prestato attenzione.

Prese un respiro profondo.

Uscì per andare a vedere quale nuova battuta si sarebbero inventati su di lei.

Se solo sapessero...

«Ciao ragazzi.» disse con un tono che voleva essere gentile, ma che risultò un po' duro.

«Ciao Akasaka! Sempre impegnata vero?» la salutò un ragazzo alto con i capelli piuttosto lunghi che gli ricadevano davanti agli occhi dandogli la classica aria da sbruffone.

«Già.»

«Sempre a farti dare ordine dalla Regina di Ghiaccio?»

Odiava il soprannome che i suoi compagni avevano dato a sua sorella.

La chiamavano così perché, anche se con gli altri non era mai particolarmente scontrosa, era perfettamente in grado di far trasparire il suo disprezzo nei loro confronti attraverso frasi incredibilmente educate e gentili. Per chissà quali controversi motivi piaceva particolarmente ai ragazzi.

«No, sono in ferie.»

«Ma davvero? E allora perché non vieni a farti un giro con noi?»

«Perché la salute mentale viene sicuramente prima di quella fisica!» sibilò la sorella maggiore, arrivata in quel momento. Naturalmente intendeva dire che stando con loro la sorella avrebbe potuto danneggiare la sua sanità mentale.

Il ragazzo si stette zitto fissando come imbambolato la ragazza.

«Questo è un Bar, se proprio ci tieni ad attirare la mia attenzione siediti e prendi qualcosa. Spero che tu abbia i soldi per pagare.»

Il ragazzo si riscosse «Ci rivedremo altezza.» rispose improvvisando un inchino. Intrecciò le gambe come un imbecille e si sarebbe ritrovata steso per terra se uno dei suoi amici non lo avesse sorretto.

Il gruppetto si allontanò ridacchiando.

«Perché devi sempre intervenire?» sbuffò la ragazza più giovane.

«Perché tu non sei capace di rispondere come si deve ai tipi come loro.» rispose la sorella.

«Mi chiedo da chi tu abbia preso il tuo caratteraccio.»

«Da mamma probabilmente. Solo che lei era stata educata a forza.»

«Anche a te non farebbe male un po' di educazione, sai?»

«Ma fammi il piacere!»

 

«Te lo ripeto, non è sicuro andare in giro senza sapere niente.» insistette Raylene.

«Tua sorella l'ha fatto ed è andata bene, mi sembra. Se non andiamo non scopriremo mai nulla. Vieni con me Ray!» ribatté Aprilynne.

La ragazza dai capelli lilla si arrese con un sospiro.

Prima di andare si diressero in camera di Psiche per recuperare un paio di quegli strani indumenti che aveva portato.

Quando bussarono alla sua porta sentirono qualcosa cadere pesantemente a terra e quando entrarono scoprirono che era proprio Psiche ad essere finita per terra.

Da dove fosse caduta, nel bel mezzo di una stanza quasi vuota, era un mistero.

«Sì?»

«Potresti darci un paio di quei pantaloni che hai preso sulla Terra?»

«Perché?»

«Perché vorremmo farci un giro tra gli umani.»

«No!» esclamò d'impulso Psiche.

«Perché no?» chiese la sorella con tono indagatore. «Hai detto che non c'è pericolo.»

«Ho detto che non ho avuto difficoltà e che non mi è successo nulla, non che non c'è pericolo.»

Raylene alzò un sopracciglio.

«Sì, sì, va bene, lo scopriremo strada facendo, ora ci dai i pantaloni?» si intromise Aprilynne aprendo un cassetto a caso e trovandolo completamente vuoto.

Psiche tirò fuori i sacchetti del negozio di abbigliamento dallo scomparto sotto il suo letto ed estrasse due pantaloni che credeva andassero bene per le due.

«Si chiamano “jeans” o almeno è così che si scrive.»

«Scrivere?» fece Raylene «Tu l'hai letto? In inglese.»

«Sì.»

Ancora una volta fu Aprilynne ad interrompere lo scambio di battute. Si era appena sfilata i larghi calzoncini bordeaux e si stava provando i jeans.

«Ma non ci stanno stretti in questi cosi?»

«Io ci sto bene.» disse Psiche che li indossava già da un po'.

«Se lo dici tu. Il sopra posso tenerlo?»

Portava una leggera maglietta a maniche corte verde chiaro e sopra una canottiera rossa.

«Sì, ma lega i capelli.» commentò Psiche porgendole un elastico rosso «E se qualcuno ti dice che sono strane tu dì che cono tinti. Anche tu Raylene.»

Le due amiche si guardarono dubbiose.

Perché mai qualcuno avrebbe dovuto trovare strani i loro capelli? Non erano certo ramati come quelli di Catron.

Raylene indossò a sua volta i jeans e una camicia bianca che le porse la sorella – diceva che fascia viola e minigonna non andavano granché bene.

«Ultimo consiglio prima di andare?» chiese la lilla rivolta alla sorella.

Psiche dovette pensarci un po'.

Cosa poteva dire senza che le due si insospettissero troppo?

Avrebbe avuto milioni di raccomandazioni da fare.

«Non date nell'occhio.» mormorò solo.

Se qualcuno li stava davvero cercando, si disse, le avrebbe trovate comunque.

 

Le due amiche si teletrasportarono sulla terraferma.

Furono più fortunate di Psiche e si ritrovarono nel bagno di un appartamento invece che in mezzo alla strada.

Uscendo dal bagno si ritrovarono in una camera da letto dove tre ragazzi poco più piccoli di loro si passavano un piccolo cilindretto bianco facendo a turno per portarselo alla bocca, aspirare e poi rilasciare un maleodorante fumo grigio.

«E queste?» chiese un ragazzo con i capelli biondi cenere rivolto ad un altro, molto più alto e con i capelli castani un po' lunghi che gli ricadevano sugli occhi.

«Boh. Amiche vostre?»

«No.» fece il terzo «Ma potrebbero diventarlo.» detto questo si alzò dal grosso letto ad una piazza e mezza e si diresse verso le due.

«Cercate qualcuno in particolare, dolcezze?»

Raylene li guardava imbambolata. Allora quello che aveva detto la sorella era vero. Sulla Terra si parlava inglese. Quella che avevano gelosamente custodito come linguaggio segreto, che avevano utilizzato per i documenti più compromettenti, non era altro che la lingua parlata in piccolo, sperduto pianeta nell'universo.

Perché la Terra era quello.

L'unica a ospitare forme di vita nel sistema solare.

L'unica nel raggio di anni luce.

L'unica ad offrire loro una via di salvezza, l'unica dove potersi nascondere.

Possibile che nel loro disperato tentativo di fuga fossero atterrati proprio lì, in quell'unico, sperduto, isolato, pianeta dove gli umani conoscevano l'inglese?

Perché?

Quella domanda si formulò improvvisamente nella mente di Raylene.

La ragazza guardò i tre umani con nuovo interesse.

Quella, per lei, non era più una semplice esplorazione. Era in cerca di risposte.

Il suo sguardo, acceso di nuova, irrefrenabile, curiosità mise a disagio i tre che sembrarono rendersi conto solo in quel momento dell'assurdità della situazione.

Per fortuna ci pensò Aprilynne a tirarle fuori di lì.

«Sì, caro,» disse rivolta al terzo ragazzo che aspettava ancora una risposta. «chi è il padrone di casa qui?»

«Io!» esclamò subito il ragazzo con i capelli un po' lunghi scostandosi una ciocca da davanti agli occhi con un gesto che voleva essere esuberante e che risultò patetico quando i capelli tornarono al loro posto pochi istanti dopo.

«Ah, ecco, stiamo cercando tuo fratello.» continuò la verde che aveva notato che nella camera c'erano due letti da maschio.

«Chi?»

«Tuo. Fratello. Problemi?»

Siccome il misterioso fratello non era in casa le due riuscirono ad uscire dall'appartamento in pochi minuti.

«Parlano inglese.»

«Non me n'ero accorta.» rispose l'amica, ironica.

«È …»

«Strano? Meraviglioso? Stupefacente? A me basta che ci capiscano.»

«Possibile che non ti renda conto di quello che vuol dire?»

«Me ne rendo conto, ma per mantenermi intero il cervello preferisco sorvolare.»

«Come facevano i nostri genitori a conoscere questa lingua? Quando l'oppressione è cominciata erano degli adolescenti! Abbiamo conosciuto i genitori di Kathleen, hanno avuto Kath a 19 e 18 anni.»

«Magari erano venuti qui in gita turistica.»

«Non è possibile, April.» insistette energica Raylene «Astronavi in grado di percorrere rotte così vaste sono state collaudate solo cinque anni prima della nascita di Silver e allora non erano certo in commercio!»

«Chi ti dice che 27 anni fa i nostri genitori non ne avessero una. Magari l'avevano rubata.»

«Anche se fosse non avrebbero potuto saperla pilotare.»

Intanto le ragazze avevano sceso due piani di scale e si erano trovate in una specie di grande atrio su cui si affacciavano grandi vetrate di locali molto vari.

«Dove siamo?» chiese la verde.

«Non ne ho idea.» rispose la lilla arrestando per un attimo il fiume incontrollato di parole.

Molta gente passava da un locale all'altro chiacchierando animatamente.

«Quanti colori.» commentò Aprilynne guardandosi intorno.

«Psiche ha detto di essere stata in un negozio di elettrodomestici, dovrebbe essere interessante.»

Dopo aver girato in lungo e in largo quello che non era altro che uno dei vari piani di un grattacelo, le due amiche si sistemarono difronte ad un grosso schermo televisivo e si sorbirono una buona mezz'ora di pubblicità come fosse stata il più entusiasmante dei film.

Raylene notò la fastidiosa ricorrenza con cui apparivano gli spazzolini da denti usa-e-getta già muniti di dentifricio, robot-animali domestici e uno strano stile di arredamento chiamato Lego.

Molti furono quelli che si fermarono ad osservare il loro colore di capelli e le due, come consigliato, risposero che erano tinti. Notarono che gli umani, in quanto a colori naturali, erano piuttosto monotoni.

I colori dei capelli si limitavano a nero, marrone, biondo e, qualche volta, rosso; come forma, poi, erano solo lisci, ricci, o mossi. Per gli occhi c'erano il castano, il nero, il verde e l'azzurro senza troppe varianti o colori misti come erano solite vedere sul loro pianeta.

Alla TV una donna apatica parlò di imminenti elezioni e dell'alta probabilità che un certo Evans fosse rieletto come presidente degli Stati Uniti – era quello, infatti, il nome dello stato in cui si trovavano.

Raylene si rivelò molto dubbiosa sull'efficacia dei sistemi d'allarme. Secondo lei erano facilmente aggirabili con il teletrasporto, ma si accorse che gli umani non ne erano capaci.

Per il resto i terrestri sembravano abbastanza simili agli arrettiani.

 

Silver accese altri schermi olografici e riprese a controllare lo stato dell'astronave. Non capiva come mai alcune parti della navicella spaziale venissero considerate fuori uso dal pannello di controllo mentre erano in ottimo stato.

Sospirò e lanciò una rapida occhiata al resto della sala comandi.

Era un ambiente a forma di semicerchio, situata proprio sulla parte più anteriore dell'astronave.

Le tre postazioni di pilotaggio erano situate intorno alla semicirconferenza vetrata che mostrava ciò che c'era all'esterno della navicella.

Silver era seduto al centro.

Accanto alla porta – situata sulla sinistra della parete liscia alle spalle del ragazzo – c'era una panca metallica ancorata al muro che fungeva anche da armadietto.

Sopra, accoccolato come solo un bambino di dieci anni sa stare, e avvolto da una spessa coperta nera, dormiva Nevery.

Era il più piccolo del gruppo e si era unito a loro, in circostanze a dir poco particolari, cinque anni prima.

Aveva i capelli non troppo corti e sempre spettinati di un meraviglioso color oro con numerosi riflessi che variavano a seconda della luce. Gli occhi aveva una tonalità metallica a metà tra il marrone e il dorato.

Era un bambino molto discreto e silenzioso che se ne stava quasi sempre per conto suo. Aveva la strana abitudine di dormire di giorno e star sveglio di notte, dividendo la sua giornata perfettamente a metà con dodici ora di sonno e dodici di attività. Gli altri credevano che questo fosse dovuto alla sua parte animale – anche se non si era ancora rivelata – ma lui non ne era troppo convinto.

Nevery era, tra l'altro, uno dei loro misteri.

Non erano stati loro a crearlo. Raylene aveva trovato, tanti anni prima, una file nel vecchio computer del laboratorio che portava il suo nome e una parte del suo codice genico, ma, essendo incompleto, non lo avevano mai utilizzato per la creazione di un Connect.

Poi un giorno, quasi per caso, si era presentato alla loro porta quel bambino di cinque anni paffuto e silenzioso. Dapprima avevano creduto che fosse uno dei tanti orfani o dispersi di cui il governo non si curava minimamente, ma quel bambino era molto di più.

Nonostante i suoi cinque anni compiuti, non ricordava nulla di sé. Né da dove venisse, né chi fossero i suoi genitori, né dove fosse stato prima di ritrovarsi in quella strada deserta e percorrere i pochi passi per arrivare al rifugio. Non ricordava una lingua in cui poter comunicare, non ricordava di aver mai aperto gli occhi prima di quel fatidico istante in cui aveva mosso i suoi primi veri passi nel buoi che circondava l'entrata del laboratorio.

Nulla.

A parte il suo nome.

Nevery.

Ci era voluto molto tempo prima che cominciasse a parlare. E quella era stata la sua prima parola.

Da allora non aveva più avuto problemi a comunicare.

Le analisi che Silver aveva condotto personalmente avevano rivelato che lui era proprio il Nevery del vecchio file, anche se era impossibile che quel frammentato codice genetico avesse oltrepassato le mura del laboratorio sotterraneo.

Questo in teoria.

Perché il pratica lo aveva fatto.

E in quel momento era ben lontano dall'antiquato computer chiuso in quel bunker sotterraneo. Era tranquillamente addormentato della prima astronave che era atterrata sulla Terra.

E sognava.

Sognava da sempre per quel che ricordava. Non vi era stata notte – o meglio giorno – in cui chiudendo gli occhi non fosse stato trasportato via dal suo corpo, fino a raggiungerne un altro, chissà dove e chissà quando.

E quella volta non faceva eccezione.

Era come se il suo cervello avesse creato un suo alter-ego e l'avesse ambientato in una realtà alternativa, dove non solo era un bambino normale anziché un Connect, ma aveva una famiglia e una casa. Come se il suo inconscio avesse voluto dargli ciò che gli mancava.

Ormai era perfettamente in grado di distinguere i personaggi che comparivano nei suoi sogni.

La donna dai capelli giallo fluo cortissimi nel loro taglio militare e dalle iridi così bianche da essere più chiare del cristallino degli occhi e risultare quasi accecanti, era la sua mamma.

L'uomo con i suoi occhi e i capelli color sabbia tendenti all'arancio, invece, era il suo papà.

La mamma si era arruolata come membro del corpo di guardi politico quando si era resa conto che la situazione del paese stava degenerando per poter proteggere la famiglia. Il papà, invece, contrabbandava sofisticati programmi hacker al mercato nero. Aveva fatto in modo da mascherare il suo lavoro in modo che, se mai fosse stato scoperto, la moglie e il figlio avrebbero potuto dichiarare di non saperne nulla.

La sua realtà alternativa, infatti, era ambientata in contemporanea alla vita reale e ne seguiva gli aventi e le conseguenze.

Nel momento in cui Nevery si addormentava nella realtà – ovvero alle otto di mattina precise – si svegliava nella sua realtà alternativa e viveva le sue giornate come se quello fosse un posto reale.

In quanto figlio di un membro dell'esercito, era uno dei pochi bambini ad avere ancora diritto ad un'educazione scolastica.

Le lezioni iniziavano alle 8 e 10 e lui aveva giusto il tempo di lavarsi e vestirsi prima di uscire di casa. La madre non lo avrebbe mai lasciato andare da solo se non avessero abitato nel quartiere riservato ai militari.

I figli degli altri soldati, esclusi quelli che come la mamma lo erano divenuti per necessità, erano peggio dei padri e ti segnalavano al preside, il comandante Triao, se arrivava con anche solo un minute e mezzo di ritardo. Nevery ci si era abituato. Come pochi altri fingeva di essere proprio come loro. Seguiva le lezioni con imparzialità e diligenza e diceva di pensare proprio come gli veniva insegnato.

La sua parte ribelle la potava tranquillamente liberare con Domnio. Era il figlio di un uomo che lavorava con il papà nella realizzazione di hacker. Aveva un anno più di lui. Era un tipetto sveglio ed energico, magro come uno stecchino e non particolarmente alto con i capelli viola scuro a zigzag rasati ai lati della testa e molto più lunghi i alto, dove li teneva sempre legati in un codino che gli stava sempre dritto proprio sulla parte posteriore del capo.

I capelli a zigzag erano abbastanza comuni su Arret, un po' come quelli mossi sulla terra. Era come se fossero perennemente stirati in un frisè particolarmente squadrato.

Domnio non andava a scuola, ma era molto intelligente e e sue conoscenze a livello pratico era sicuramente più invidiabili di quelle intellettuali in un periodo duro come quello.

Anche quel giorno, nel suo particolarissimo mondo dei sogni, Nevery si era recato dall'amico che ormai, a furia di stare dietro al padre, era diventato a sua volta un esperto di computer.

Quella volta stavano sperimentando un robottino telecomandato dalle dimensioni e dall'aspetto di un piccolo millepiedi che aveva una microcamera proprio sul muso.

Lo stavano facendo arrivare fino a casa di Nevery, che distava un paio di chilometri.

Il problema era che la gente tendeva a schiacciare i millepiedi. I più poveri li allevavano e poi se li mangiavano.

Domnio ci aveva provato una volta, ma gli aveva assicurato che erano disgustosi.

Facendo avanzare il robottino sottoterra, però, la visuale veniva ostacolata e perdevano anche l'orientamento.

 

Silver si alzò spazientito dalla sedia deciso a dirigersi nella camera di Evelyn e New. Erano due ragazze Connect di, rispettivamente, 16 e 11 anni.

Il fatto che la loro stanza fosse letteralmente sparita dal quadro di controllo lo innervosiva.

Le due erano entrambe due ragazze allegre e abbastanza simpatiche, ma un po' troppo chiacchierone per i suoi gusti, specialmente New.

Evelyn era una ragazza minuta con il viso rotondo invaso di lentiggini fucsia chiaro, il corpo invidiabile, gli occhi così neri che non si distingueva l'iride dalla pupilla e i capelli scalati non troppo lunghi buffissimi. Erano anche quelli neri, mossi, sempre morbidissimi. Ma ciò che attirava l'attenzione erano i pois. Le sue ciocche erano infatti tinteggiate da macchie più o meno circolari di varie dimensioni di colore fucsia, tendente al rosso.

New non aveva ancora rivelato la sua parte animale, ma ormai era solo questione di tempo, lo sapevano tutti. Nel giro di due anni al massimo sarebbe stata a tutti gli effetti una di loro.

Silver bussò sicuro alla porta e aspettò che fosse invitato ad entrare dalla voce squillante di New che era seduta a gambe incrociate sul suo letto.

Evelyn era stesa sul suo, la testa rialzata da due cuscini – un preso dal terzo letto della stanza che non era occupato da nessuno. Durante la fuga era stata ferita e ora aveva la gamba sinistra fasciata e incapace di sostenere il suo peso. Avrebbero dovuto portarla a braccetto ancora per parecchio tempo.

Altri si sarebbero esaltati all'idea di toccarle la coscia, sia pure per medicarla, – e bisogna considerare che ad Evelyn il loro comportamento davo molto fastidio – ma Silver si era rivelato impassibile anche in una simile situazione limitandosi, da bravo medico che era, a svolgere il suo dovere senza farsi problemi.

«Ciao Silver.» disse la ragazza-pois – così la chiamavano tutti – alzando lo sguardo «Come mai da queste parti?»

«La vostra stanza è sparita dal pannello di controllo, mi chiedevo se c'era problemi.»

«Direi di no.»

«Stiamo alla grande!» confermò New allegra con un sorriso enorme sul volto che era decisamente fuori posto. L'ottimismo di quella ragazzina era incredibile. «Sane come pesci! Più o meno.»

Evelyn sospirò.

«Tu invece? Non ti si sente mai! Se andato sulla Terra? Psiche dice che è bella, ma anche lei è di poche parole. Secondo me è una cosa di famiglia la vostra. Siete sempre così tetri!»

«Mi sorprende che proprio tu non veda quanto siamo allegri.» ribatté Silver con un sarcasmo pungente.

«Il problema è proprio che lo vedo solo io!»

Il blu si guardò velocemente intorno e, non vedendo nulla di insolito, fece dietrofront ignorando le chiacchiere di New.

Quando le due ragazze rimasero sole nella stanza Evelyn sorrise.

«È sempre così chiuso. Secondo te cosa serve per sbloccarlo?»

«Un bel mazzo di chiavi! Con i lucchetti funziona.»

«Dico sul serio New, a volte vorrei tanto sapere cosa gli passa per la testa.»

«Di certo non quanto sei bella, mia cara innamorata!»

Evelyn si limitò ad arrossire. New aveva un talento innato nel notare certe cose e forse era per questo che era la sua miglio amica. A lei non doveva nascondere nulla, capiva al volo e sapeva anche tenere la bocca chiusa, nonostante chi non la conosceva bene ne dubitasse fortemente.

Le due rimasero in silenzio per un po'.

Evelyn guardava il soffitto desiderosa di poterlo raggiungere senza doversi alzare.

New aveva tirato fuori la sua valigetta dall'apposito scomparto sotto il letto e aveva recuperato i suoi numerosi pacchetti di caramelle cominciando a sgranocchiare un paio di quelle che potremmo definire mentine.

Uno strano rumore riscosse Evelyn dai suoi pensieri. Si voltò verso New con aria interrogativa.

«Sei stata tu?»

«A fare cosa?»

«Quel rumore.»

«Quale? Questo?» l'undicenne riprese a masticare.

«Più o meno.»

Ma poi il rumore si ripeté. Più forte e più vicino.

Le due ragazze voltarono la testa verso il muro. Veniva da lì ne erano sicure. Da dentro la parete.

New si avvicinò al muro e batté alcuni colpi con il pugno.

Silenzio.

Poi una specie ci sgranocchiare. Qualcosa di metallico e di plastico o gommoso che veniva grattato.

Un movimento, un fruscio.

New appoggiò l'orecchio alla parete.

«C'è qualcosa di grosso qua dentro.» sussurrò «Forse qualcuno.»

«Ne sei sicura?»

New annuì, poi ad alta voce disse: «C'è qualcuno?»

In risposta qualcosa di grosso batté contro la parete facendola vibrare.

La ragazzina si allontanò con un salto.

Altri due colpi, poi il rumore assordante della parete metallica che veniva abbattuta riecheggiò minacciose nella stanza.

Evelyn impallidì all'istante mentre New ci mise qualche istante prima di lanciare un grido acuto.

Come se nel resto dell'astronave non si fossero già accorti che c'era qualcosa che non andava lì dentro.

New, pallida in volto, indietreggiò lentamente, gli occhi sbarrati, fino a che non sentì la parete contro le sue spalle.

Evelyn, le labbra socchiuse nell'intento di lanciare un grido che le su era però strozzato in gola, era riuscita a tirarsi su a sedere, ma, incapace mi muoversi dal suo letto, guardava impotente la scena che gli occhi le proponevano.

 

Nel momento in cui aveva abbattuto la parete dentro la quale si era rifugiato quando non era più grande del palmo di una mano, era alto poco meno di New.

Gli incisivi sporgenti, che erano stati impegnati nello sgranocchiare tutti i numerosi fili elettrici che gli impedivano di muoversi, erano particolarmente affilati.

La coda rosa e senza peli si muoveva minacciosa come una grossa frusta.

In quanto ad aspetto poteva benissimo definirsi un topo. Uno di quelli piccoli e grigi, con il corpo allungato e le ossa del cranio mobili per potersi infilare anche nei buchi più stretti. In effetti non aveva un'aria particolarmente minacciosa. Se si esclude la sua stazza.

Cresceva a vista d'occhio, anche se in affetti non tanto da poterlo notare subito.

Nel loro sbigottimento, le due ragazze impiegarono parecchi minuti ad accorgersene.

Quando sentì delle voci e dei rumori provenire dall'esterno della stanza, il grosso topo zampettò fino alla porta. Un violento colpo di coda distrusse il sistema di comando di apertura.

«No!» strillò Evelyn quando si accorse che la loro via di fuga era stata appena messa fuori uso. O meglio, non la loro via di fuga, ma quella di New. Lei era bloccata sul suo letto.

Ma la mente di New era anni luce dal considerare una possibile fuga.

Lei era bloccata lì, le spalle contro la parete, una mano sul ventre dove aveva appena avvertito una fitta di dolore, gli occhi fissi sull'intruso. La mente aperta.

E in ascolto.

Perché quello che stava sentendo, provando, le impediva di muoversi.

Il caos regnava nella sua testa.

Paura e confusione la invadevano.

Ma non la sua paura. Non la sua confusione.

Lo sentiva chiaramente. Era qualcosa che non faceva parte di lei.

Lo percepiva come si percepisce un suono, o come si sente un odore.

Lontano da lei eppure parte di lei.

Di chi erano quelle emozioni? Perché le sentiva così chiaramente?

Le percepiva in ogni minimo dettaglio, ma poteva spingersi oltre? Poteva plagiarle? Modificarle?Usarle, anche?

Mentre il gigantesco topo – ora alto quanto un uomo adulto, anche se rimaneva sulle quattro zampe – avanzava verso il letto Evelyn, New tentò.

Superò i confini della sua mente, si spinse oltre le sue percezioni fisiche.

Quanto poteva avanzare ancora? C'erano limiti? Poteva oltrepassarli ugualmente?

Smise di sentire il suo corpo. Per diversi minuti New fu solo la sua mente. Per quanto la sua mente fosse libera, però, nell'estendere il suo dominio non faceva altro che cercare qualcosa di solido a cui aggrapparsi. Ma anche nel momento in cui lo trovava, sentiva che non poteva averlo.

Percepiva tutto ciò che c'era nella stanza.

Ma non gli oggetti o i mobili che si trovavano fisicamente lì.

No, la sua mente poteva percepire altro.

Il disorientamento che l'essere a pochi metri da lei emanava era forte.

Calmati.

Non era solo un pensiero.

Quello era un ordine. Un comando ben preciso. Mirato così come avrebbe scagliato una freccia.

Lo sentì rimbombare nella mente del chimero, invaderla, imbrigliarla e fare effetto.

Il chimero si voltò lentamente verso di lei.

Si fissarono dritti negli occhi, ma i loro sguardi andavano ben oltre iridi e pupille.

Erano le loro menti che si stavano intrecciando, catturando a vicenda in uno scambio di emozioni impalpabili che non era né buono né cattivo.

New sentiva che poteva fare quel che voleva. Poteva rimanere allo stesso livello del chimero e limitarsi a scambiarsi sensazioni. Ma sapeva anche che lei era superiore, che poteva scavalcare anche il confine che separava le proprietà del chimero dalle sue, quasi fossero state semplici campi agricoli o giardini di due vicini di casa.

Lei poteva espandersi a macchia d'olio nella mente del chimero e ungere ogni suo, per quanto primitivo, pensiero.

Potava scavare in ogni meandro, rovistare in ogni angolo.

Ma c'era una sola cosa che voleva sapere in quel momento.

Chi è che ti guida?

Fu come risalire un fiume fino alla sua sorgente.

La sua mente viaggiò fuori dall'astronave, lontana dal corpo eppure in tutt'uno con esso.

Poteva spingersi fin lì? Poteva usare il chimero come ponte per arrivare al suo creatore?

Sì, ma non così facilmente.

Attaccala!

L'ordine arrivò con una tale violenza che lei cadde a terra nell'istante esatto in cui veniva rispedita nel suo corpo, come scaraventata lontano a causa di un rimbalzo.

Era stato doloroso sentire quella voce.

Perché non era qualcosa di corporeo fatta di aria che vibra, ma un tentativo di piegare il suo volere, di comandare al suo cervello.

Non aveva un timbro né una tonalità, solo uno scopo, un ruolo.

Il topo lanciò uno squittio acuto e minaccioso mentre con la coda colpiva New scaraventandola dall'altra parte della stanza.

Evelyn non sopportò quella visione.

Dove andare dall'amica, difenderla.

Non poteva rimanere ferma sul suo letto, vincolata alle sue gambe.

Doveva esserci un altro modo, un'altra strada.

Quando vide la coda del chimero alzarsi e guizzare in direzione della ragazza più piccola ancora stesa a terra, allungò la mano.

Fu strano.

Non poteva arrivarci, lo sapeva.

Eppure la prese, se la ritrovò tra le mani, la strinse e deviò il colpo.

Solo quando il chimerò si voltò furibondo si rese conto di ciò che aveva fatto.

Era sospesa per aria.

Galleggiava a circa un metro da terra.

Non perse tempo a stupirsi, le bastò realizzare che ne era capace.

Evitò i colpi del chimero.

Ma non poteva andare avanti così.

Che fare?

Serviva un diversivo. O qualcosa per attaccarlo, bloccarlo.

Strinse la mano destra in un pugno e lo sentì.

Sembravano due semplici pezzi di corda annodati alle estremità e intrecciati tra loro al centro.

In un attimo seppe cos'era, o almeno cosa rappresentava.

Le appartenne nel momento esatto in cui desiderò che lo fosse.

Le guardie del corpo dei politici dovevano seguire anni e anni di duro addestramento per poter fare lo stesso. Come poteva esserci riuscita lei?

Ma non c'era tempo per le domande.

Quell'arma era sua, l'aveva evocata e l'avrebbe usata.

La scagliò verso il chimero, ignara di ciò che sarebbe successo.

Il tutto era durato pochi istanti.

I due piccoli cordoni sembrarono sfilacciarsi. Poi le varie sottili pagliuzze che ne erano fuoriuscite si ingrossarono, moltiplicarono, intrecciarono fra loro.

Nei pochi secondi che l'arma di Evelyn impiegò per raggiungere il chimero era diventata una grossa rete di corda che imprigionò l'animale a terra.

Mentre il grosso topo si dibatteva – ormai era enorme – Silver e Ethan, un altro ragazzo Connect, sfondarono la porta e entrarono nella stanza.

«Che diavolo...» cominciò Ethan.

«Che cos'è?» lo sovrastò Silver.

Erano molte le cose che si sarebbero aspettati, ma non che la risposta, mormorata ma pronunciata con sicurezza, venisse da Psiche.

La ragazza era immobile alle spalle del fratello maggiore.

Stava in posizione perfettamente eretta, la criniera di ricci magenta ad incorniciarle il viso come al solito, lo sguardo fisso di fronte a sé, sul chimero che squittiva disperato.

«È un chimero.»

Il fratello la fissò a lungo senza, però, incontrare il suo sguardo.

«Ma Psiche, i chimeri sono esseri generati dai parassiti e loro si sono estinti quasi un secolo fa.»

Per tutta risposta la ragazza allungò la mano.

Fece quello che aveva già fatto una volta.

Non le servì pensare.

Lo fece e basta.

Così come camminare. È un susseguirsi di passi praticamente automatico dopo che hai capito come funziona.

Il grosso topo brillò per qualche secondo, poi scomparve come risucchiato da qualcosa all'interno di se stesso.

Mentre la piccola forza vitale si depositava sul palmo di Psiche, il parassita prese a lievitare in mezzo alla stanza. Sembrava una medusa.

Torna a me.

Solo New sentì quel comando. Le rimbombò nella testa, proprio come era successo poco prima.

L'attimo dopo il parassita scomparve nel nulla, quasi fosse capace di teletrasportarsi come loro.

«Penso che tu ci debba qualche spiegazione.» esordì Silver rivolto alla sorella.

Psiche alzò finalmente lo sguardo. «Non ho nulla da dire. Ciò che ho scoperto te l'ho appena mostrato.» gli mostrò la forza vitale che le brillava tra le dita «E so che devo riportare questa al suo proprietario.»

Silver rimase in silenzio per alcuni minuti.

Sapeva che Psiche non diceva mai bugie. Quello che non voleva far sapere si limitava ad ometterlo, ma non a mentire.

«E come fai a sapere a chi appartiene?» chiese solo.

«Io non lo so infatti.» rispose lei, poi guardò la perla luminosa avvolta da quella specie di bolla e si rivolse nuovamente al fratello «Ma lei sì.»

Detto questo l'aria s'increspò e Psiche si teletrasportò altrove, guidata dalla forza vitale.

Evelyn, ancora sospesa in aria, si riadagiò con cautela sul suo letto e riprese fiato mentre si rigirava tra le dita i due cordoni intrecciati che ora non erano più lunghi del suo avambraccio.

«Credo che questo pianeta abbia da raccontarci molto più di quanto sembri.» mormorò Silver.

 

La borsa porta-computer sottobraccio e lo zaino pieno di fogli di appunti in spalla, il ragazzo correva stando attento a non inciampare nei lunghi lacci verdi dei suoi scarponi neri. La sciarpa leggera a quadri, completamente inutile in quel periodo dell'anno, gli volteggiava alle spalle come una scia colorata, orizzontale a causa della velocità a cui il ragazzo stava correndo.

Ancora non poteva crederci.

Eppure le rilevazioni che aveva condotto insieme al fratello parlavano chiaro.

Come era potuto succedere? Come avevano potuto essere così ciechi per tutti quegli anni?

Come avevano potuto non accorgersi che ciò che cercavano lo avevano sempre avuto sotto il naso, a portata di mano?

Doveva dirlo alle ragazze, e subito. Erano in pericolo. Tutti loro quattro. Lo erano dal giorno in cui anche suo padre se n'era andato, ma non aveva mai capito fino a che punto.

Si maledisse per aver voluto condurre le ricerche a casa quel giorno e non al laboratorio.

Se quella mattina non fosse stato così pigro da non voler prendere l'ascensore e percorrere quei 70 metri che lo separavano dal Bar-Caffè, a quell'ora le ragazze avrebbero già saputo.

Il cuore gli batteva forte.

Vedeva la porta del locale, eppure gli sembrava lontanissima.

Ogni falcata era un passo allo scoperto, un punto di debolezza.

Era lo stesso tragitto che faceva ogni mattina nel weekend e ogni pomeriggio gli altri giorni, ma non aveva mai desiderato così intensamente di potersi rifugiare in quel caldo e accogliente laboratorio sotterraneo.

Avrebbero dovuto prestare molta più attenzione ad ogni loro mossa. Non dovevano assolutamente farsi scoprire.

Anche se nessuno sapeva di loro. O meglio, non nessuno sapeva cos'erano, cosa rappresentavano.

In fondo, però, neanche lui, o loro, sapevano nulla.

Era un segreto che le loro due famiglie custodivano gelosamente da generazioni.

E ora era tutto ciò che poteva salvare la Terra.

Di nuovo.

E per tutti quegli anni avevano rischiato di essere scoperti. Non poteva crederci. Non riusciva neanche a pensarci.

Per un attimo si chiese perché lui, o loro, avrebbe dovuto prendersela con loro. Ma la risposta, chiara e scontata, la trovò il secondo dopo.

Arrivò davanti alla porta del locale e si fermò per riprendere fiato.

Era arrivato finalmente.

Ancora poco e anche le ragazze avrebbero saputo.

Avrebbero saputo che ciò che temevano, ciò per cui si tenevano sempre pronti, non era tornato.

Non se n'era mai andato in realtà.

Era rimasto sempre lì.

Nascosto da qualche parte.

In agguato.



Eccomi di nuovo!
Capitolo lungo questo. Spero sia tutto chiaro. In caso contrario chiedete pure.
I Connect sono tanti: otto i nostri "personaggi principali" più altri 10, perciò li presenterò un po' alla volta.
E poi ci sono dei personaggi nuovi.
Caspita questa storia mi piace un sacco! (scusate me lo dico da sola)
Aspetto i vostri pareri (che sono sempre molto graditi e tanto tanto attesi)
Grazie 1000 per aver letto
Artemide12

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Capitolo 5
*** Accuse ***


Accuse.

 

Si sedette su una poltrona e chiuse un momento gli occhi per rilassarsi. Quando li riaprì lo sguardo le cadde sulla foto incorniciata proprio sul mobile accanto a lei.

Sorrise.

Ricordava quel giorno. Così come i mesi precedenti.

Il sorriso della sua amica era abbagliante e contagioso. Persino più del solito.

Quando era uscita dall'ospedale era incontenibile. Stringeva la sua minuscola bambina con tanto affetto che veniva voglia di rifugiarsi tra le sue braccia.

Avevano fatto una festa per la nascita della piccola.

Era un trionfo.

Voleva dire che persino lei, così giovane, così vitale, era arrivata a quel punto.

Era la fine della loro missione originaria sotto certi aspetti, ma l'inizio di qualcosa di ancora più grande e molto più rischioso.

La donna prese la foto tra le mani e studiò meglio il volto allegro dell'amica.

Sua cognata sembrava nata per fare la mamma.

Ma ormai anche loro erano cresciuti. Era arrivato il momento di cambiare, per l'ennesima volta, le carte in tavola. Per quanto male potesse fare a tutti loro.

 

«Io voglio tornare a casa!» piagnucolò ancora Opter «Perché dobbiamo stare qui?»

«Ti prego Opter, devi calmarti. Non possiamo tornare! Non possiamo!»

«Perché?» gridò ancora il bambino.

«Perché ci uccideranno, ecco perché!» rispose Kathleen fissando il fratellino con un sguardo carico di rabbia e rimorso, ma anche di scuse.

Il piccolo stette finalmente zitto.

Il fatto che persino lei avesse perso la sua solita allegria voleva dire che la situazione era veramente critica.

Kathleen si inginocchiò a terra e abbracciò il fratellino. Pit, che era rimasto in disparte, corse a dare il suo contributo a quella dimostrazione di affetto.

In soli tre giorni sembrava che il mondo si fosse capovolto sotto i loro piedi.

L'astronave era ormai fuori uso e la Terra sembrava aver deciso di regalare loro pacchetti pieni di domande anziché di risposte.

Tutti loro avevano scoperto di poter volare – anche se il termine più adatto sarebbe lievitare.

Non si erano ripetuti attacchi da parte di chimeri, ma tutti avessero concordato sul definire tale l'essere che si era introdotto nella loro astronave.

Psiche aveva dovuto raccontare cosa era veramente successo durante il suo giro di esplorazione sulla terraferma.

Non avevano potuto sperimentare, però, il modo con cui Psiche aveva sconfitto il chimero. Lei parlava di azioni istintive e naturali, ma nessuno poteva né confermare né smentire le sue parole.

Un altro interrogativo, particolarmente inquietante, riguardava il mandante. I parassiti, anche se capaci di legarsi alle forze vitali degli esseri viventi, non erano capaci di procurarsele da soli. Qualcuno doveva averlo fatto per lui, o meglio, loro.

Ma chi?

Chi c'era sulla Terra?

Chi era che li seguiva e che ce l'aveva con loro?

I piccoli Opter e Pit erano quelli che soffrivano di più della tensione che si era velocemente creata nel gruppo. Erano pur sempre dei bambini.

«Perché non vogliono che torniamo a casa? Non siamo cattivi.»

«Io lo so, ma loro no.»

«E allora diciamoglielo!»

«La fai facile tu! Piccolo marmocchio.» Kathleen riuscì a ritrovare il sorriso. Doveva farlo. Almeno per i suoi fratellini a cui non poteva nascondere che la situazione fosse difficile, ma a cui non poteva sconvolgere la vita.

«Ma qui ci sono anche mamma e papà?» chiese improvvisamente Pit.

«Mamma e papà?» Kathleen fu talmente sorpresa da quella domanda che per un momento dimenticò le sue preoccupazioni «Perché...» le mancò la voce «Perché dovrebbero?»

Sentì una fitta di dolore al petto.

I loro genitori erano stati catturati solo pochi anni prima e nessuno aveva più saputo niente di loro.

«Perché la mamma diceva sempre che quando saremmo andati nel posto più sperduto del mondo li avremmo ritrovati.»

«E questo quando lo diceva?» chiese Kathleen cercando di sembrare convinta.

«Prima di andare a letto, ma tu già dormivi.» intervenne Opter.

La ragazza sorrise. Fino a poco tempo prima avrebbe creduto che il posto più sperduto del mondo fossero le carceri di Arret.

Erano situate a chilometri di profondità, dove era impossibile che arrivasse anche un solo raggio di sole e dove anche la minima scossa sismica faceva tremare tutto.

Si chiese se i suoi genitori potessero essere veramente lì.

No. Era molto più probabile che li avessero uccisi subito dopo la cattura.

«Ma almeno qui ce l'hanno un parco giochi?» buttò lì Pit.

«Questa è una buona domanda.» commentò la sorella «Per fortuna credo sia facile trovare la risposta.»

 

Alla fine Pit decise che era più divertente rimanere nell'astronave a fare scherzi a Nevery che dormiva profondamente e che era impossibile svegliare.

Catron si oppose alla decisione di Kathleen, ma Opter era diventato incontenibile.

Alla fine trovarono un accordo: Aprilynne e Catron avrebbero accompagnato i fratelli e, al minimo movimento sospetto, se ne sarebbero andati.

 

Quando le due ragazze arrivarono, il parco-giochi era praticamente deserto.

Un bambino con i capelli castani ondeggiava silenzioso sull'altalena, spinto da una ragazzina che portava una felpa arancione. Il cappuccio le copriva il collo e i capelli riparandola dal vento che evidentemente la infastidiva.

Per le due ragazze il vento era vitale, o quasi.

Si nascosero nell'ombra, sotto un grosso albero al margine del parco.

Oltre al bambino e alla ragazza c'erano solo altre due persone seduta su una panchina a una decina di metri da loro.

La più grande si sporse silenziosamente per guardarli meglio.

Per primo studiò il ragazzo.

I tratti del viso erano incantevoli e la carnagione pallida li esaltava. La corporatura, anche se piuttosto esile, sembrava solida e abbastanza robusta.

La massa scomposta di capelli gli ricadeva sul volto coprendogli le orecchie e la fronte di onde scarlatte. Gli occhi erano dello stesso colore, forse un po' più vivace.

La ragazza sobbalzò violentemente quando notò quel particolare.

Gli occhi rossastri, per quanto belli, erano inquietanti e decisamente non umani.

Dunque era vero.

Il loro momento era arrivato.

La ragazza fece un passo avanti, agitata.

Continuava a fissare quelle iridi rosse mentre il battito del cuore accelerava.

Il loro momento era arrivato.

Il momento delle risposte. Il motivo di scoprire se le loro stranezze servivano a qualcosa. Sarebbero state all'altezza?

Si bloccò a metà del passo seguente.

Quegli occhi non le bastavano. Doveva essere sicura. Non poteva mettere a repentaglio il loro segreto per un falso allarme.

Per avere la certezza di ciò che aveva visto le bastò spostare lo sguardo dal ragazzo a quella che era seduta accanto a lui e che doveva essere di sicuro la sorella vista la somiglianza.

Una folata di vento le scompigliò i lunghi capelli verdi. Un verde scuro, ma marcato.

La ragazze prese un respiro profondo.

Non doveva indugiare.

Mentre faceva segno alla sorella di raggiungerla le iridi dorate della ragazza dai capelli verdi si fissarono nelle sue.

In quell'oro liquido vide un guizzo di spavento, di inquietudine.

Anche il ragazzo si voltò nella loro direzione.

I due si alzarono velocemente, pronti ad andarsene.

No, questo non potevano permetterlo.

«Non così di fretta!» disse ad alta voce la più grande, con profondo astio.

Il bambino sull'altalena si fermò e la ragazza lo aiutò a scendere, ma non se ne andarono.

Aprilynne gettò indietro la testa con un movimento il più possibile discreto per cercare di nascondere i capelli anomali.

Catron le si parò davanti con fare protettivo.

«Non ve ne andrete così facilmente.» dichiarò la ragazza più grande fissando Catron direttamente negli occhi.

I lunghissimi capelli castani erano stretti in un'affusolata treccia laterale che le solleticava la coscia. Gli occhi marroni erano fissi su quelli che già considerava nemici. I tratti aggraziati erano induriti in un'espressione di sfida.

Portava stivali di pelle color legno e pantaloni elastici marroni a vita bassa, molto bassa.

Si sfilò velocemente la giacca beige rivelando una canottiera color crema che, per quanto accollata davanti, le lasciava praticamente tutta la schiena scoperta.

L'abbigliamento dell'altra era praticamente identico, solo che i leggins erano neri e la maglietta grigia.

Portava i capelli neri lisci tagliati più o meno a caschetto, particolarmente corti sulla nuca e più lunghi davanti. La frangetta le ricadeva fastidiosamente davanti agli occhi neri.

La somiglianza tra le due ragazze era spiccata.

La più piccola lanciò un'occhiata a Catron, chiaramente infastidita dalle sue attenzioni.

«Che cosa volete?» chiese Aprilynne spostandosi alla sinistra del fratello.

«Che vene andiate. Una volta per tutte!» le rispose seccata la più grande sporgendosi in avanti con il busto e facendo ondeggiare la lunga treccia.

«Non hai appena detto che non dovevano andare via tanto di fretta?» osservò Catron scoppiando poi a ridere per qualche secondo.

«Che ve ne andiate dalla Terra, che torniate sul vostro dannato pianeta!»

A quelle parole i due fratelli si irrigidirono.

«Voi non sapete...» cominciò Aprilynne stringendo i pugni e cercando di controllare la voce.

«Noi sappiamo chi siete» continuò la ragazza senza prestarle troppa attenzione «alieni.»

Seguì un momento di silenzio.

Dunque ecco i responsabili dell'attacco dei chimeri.

La ragazza più giovane notò che il bambino dell'altalena e l'adolescente non se n'erano andati e guardavano la scena particolarmente seri.

«Voi...» cominciò Catron incerto «...sapete

«No che non sanno.» ringhiò Aprilynne, chiaramente sull'orlo delle lacrime «Altrimenti non ci chiederebbero di tornare sul nostro pianeta.»

«Non credere di ingannarmi o di commuovermi.» ribatté subito la bruna «Se non ve ne andate con le buone lo farete con le cattive!» detto questo si chinò in avanti piegande leggermente le ginocchia e sfiorando il suolo terroso con la punto delle dita.

Lo sguardo fisso sui due ragazzi.

La sua schiena si squarciò in due profonde fessure che si ingrandirono velocemente.

Due enormi ali piumate le bucarono la schiena fino ad uscirne completamente. Le distese in tutta la loro ampiezza. Ognuna era lunga più di un metro e mezzo. Erano meravigliose, si tantissimi colori diversi, tutti sgargianti e artisticamente mescolati tra loro.

Aprilynne e Catron rimasero impietriti.

Nei loro occhi non c'era paura, ma stupore. Molto più di quanto le due ragazze umane potessero immaginare e completamente diverso da ciò che si aspettavano.

Fissarono la ragazza più giovane mentre assumeva a sua volta la posizione della sorella e liberava le sue ali. Erano di un blu scuro incantevole che si riempiva di sfumature più chiare alla luce del sole.

«Questo cambia un po' le cose!» commentò Catron.

«Puoi ben dirlo! Come possono essere anche loro delle Connect? Non ha senso!»

«Non lo so, ma al momento mi limiterei a difenderci.»

La più grande delle ragazze si alzò in volo sbattendo le enormi ali colorate e smuovendo una quantità incredibile di aria.

Si scagliò su Aprilynne che, per evitare lo scontro, non poté far altro che alzarsi in volo a sua volta.

«Sei un'illusa se credi di potermi sfuggire in eterno.»

«Non puoi seguirmi ovunque vada.» ribatté Aprilynne ben consapevole di non padroneggiare ancora bene l'arte del volo e valutando l'opzione del teletrasporto. Ma non voleva farlo. Doveva prima scoprire chi fossero quelle umane.

«Hai paura di perdere per caso?»

«Non voglio affrontarti, non siamo qui per questo.»disse Aprilynne con tono quasi supplichevole. Perché ce l'avevano con loro? Cosa gli avevano fatto? Come potevano sapere?

«Non mi incanti!» Perché dopo anni di ricerche lei sapeva benissimo perché gli alieni erano lì sulla Terra. E allora perché indugiavano? Perché non si difendevano? Dannazione, cercavano di aggirarle. Di sicuro volevano agire alle loro spalle, in modo che si sarebbero accorte che qualcosa non andava quando sarebbe stato ormai troppo tardi. Non sarebbe successo. Li avevano scoperti prima, avrebbero dovuto ricorrere ad un eventuale piano B. Questo dava loro un notevole vantaggio.

Catron e la ragazza più giovane rimasero a guardarsi a lungo. Entrambi pronti allo scatto, ma senza aver veramente intenzione di attaccare.

Catron osservava le ali che spuntavano dalla schiena della ragazza con evidente interesse. L'attaccatura non era al centro della schiena, ma di lato, a pochi centimetri dalle braccia – la costringevano infatti a stare leggermente gobba – anche se poi la struttura ossea arrivava fino alla colonna. La forma perfetta di ogni piuma e il loro colore intenso le facevano sembrare parte di una scultura. Vederle muoversi sembrava impossibile.

Era come se la ragazza avesse altre due braccia e questo intaccava un po' il suo elegante e aggraziato aspetto fisico altrimenti minuto. Non ispirava molta forza, ma abbastanza sicurezza.

Dal canto suo la ragazza si soffermava sul viso di Catron. Nonostante gli occhi cremisi, non riusciva a credere che quel ragazzo non fosse umano.

Ricordava gli alieni che aveva visto in quelle immagini sfocate e nei frammenti di video che avevano trovato.

Dov'erano le armi e i poteri devastanti?

Dov'era la rabbia e l'intento di conquistare il pianeta che ritenevano loro?

Se erano lì per affrontarle e possibilmente sconfiggerle, allora perché si trovavano in un parco-giochi?

I suoi dubbi non facevano che rafforzarsi davanti allo sguardo insicuro del ragazzo che aveva davanti. Doveva avere l'età di sua sorella, non di più. 21 anni. No, anche di meno.

Possibile che dei ragazzi così giovani dovessero intraprendere una simile strada?

Come in un flesh le si parò davanti l'unica immagine nitida che avevano trovato.

Un uomo pallidissimo con gli occhi di ghiaccio e i capelli lunghi nerissimi.

Sgranò gli occhi capendo cos'era che non andava nel ragazzo che aveva di fronte.

«Aisha, aspetta!» gridò alla sorella maggiore che era riuscita ad atterrare Aprilynne che non aveva fatto nulla per difendersi.

«Che c'è?» fece quella voltando la testa, ma senza allentare la presa.

«Qualcosa non va, Aisha, guarda le loro orecchie!»

I due alieni sobbalzarono.

Come potevano quelle due terrestri sapere che le loro orecchie erano anomale? Anche loro, in fondo, le avevano piccole, avrebbero dovuto considerarle normali.

Aisha usò la punta dell'ala destra per scostare una ciocca di capelli verdi dalla tempia della ragazza che teneva inchiodata al suolo.

Le scoprì l'orecchio appuntito.

«Non casco in questo trucchetti!» affermò con decisione Aisha.

Aprilynne ne approfittò per rotolare di lato e rimettersi in piedi.

Nel tempo che utilizzò per rialzarsi Aisha scattò di nuovo si di lei.

«No! Lasciala stare!»

Aisha si ritrovò a terra prima ancora di aver elaborato quelle parole.

Si sorprese vedendo chi l'aveva colpita.

Era l'adolescente del parco-giochi.

I suoi capelli erano arancioni, come i suoi occhi, e parlavano chiaro: anche lei era un'aliena.

Catron vide Aisha spiegare le ali. Non poteva permettere che facesse del male a Kathleen.

I suoi istinti animali si fecero improvvisamente più forti. Con lo sguardo fisso sull'umana, scattò e si mise tra lei e Kathleen ringhiando.

Fu il turno delle terresti di rimanere stupite.

La prima cosa che le colpì, oltre alla postura a quattro zampe dell'alieno, fu la lunga coda dello stesso colore dei capelli che gli usciva dai pantaloni e che fendeva l'aria con colpi nervosi.

Poi notarono che lo orecchie si erano spostate.

Non erano più ai lati della testa, ma più in alto e facevano capolino tra la massa di capelli scompigliati. Erano di forma triangolare e dello stesso colore della chioma e della coda.

I canini appuntiti erano leggermente più lunghi del solito mentre le pupille affilate non erano cambiate.

Per alcuni minuti i cinque rimasero immobili.

Il respiro affannato di Catron era l'unico sogno che rompeva il silenzio.

La ragazza più giovane e Kathleen fecero un incerto passo avanti nello stesso istante e si bloccarono entrambe vedendo l'altra muoversi.

Aprilynne si avvicinò al fratello con passo felpato.

«Andiamocene.» disse semplicemente, poi posò una mano sulla spalla di Catron. L'aria ondeggiò e i due scomparvero nel nulla, come risucchiati da quella anomalia.

Il bambino dell'altalena, che si era nascosto sotto lo scivolo, corse dalla sorella e le si strinse teneramente alla gamba. L'istante dopo non c'erano più.

Le due ragazze terrestri si guardarono confuse. Entrambe ripiegarono le ali sulla schiena e quelle furono come riassorbite dai loro corpi.

«Dannazione, ce lo siamo fatti scappare!»

«...Aisha...»

«Che c'è?» rispose la bruna spazientita.

«Erano solo dei ragazzi.»

«Anche noi lo siamo.»

«Quel bambino...»

«Anche un cucciolo di tigre può sembrarti carino, questo non lo rende meno tigre. La prossima volta che combattiamo non dimenticarlo, Sharlot.»

 

«No, non è possibile!» esclamò Silver.

«Ti dico che è così, l'abbiamo visto con i nostri occhi. Quelle due ragazze...» rispose Catron

«Sapevano anche troppo.» tagliò corto la sorella.

«Questo vuol dire solo una cosa.» disse Raylene quasi tra sé e sé.

«Cosa?» chiese Kathleen.

«Ora sappiamo chi è che ci sta dando la caccia. Chi è che ha aizzato quei chimeri contro di noi.»

«Ora dobbiamo trovare il modo di dirlo agli altri.» concluse il fratello con aria solenne.

 

L'ascensore si fermò al millequattrocentosettantaquattresimo piano e le porta si aprirono.

Il ragazzo si ritrovò nel familiare corridoio del suo piano di appartamenti.

A quell'ora della notte solo alcuni neon erano accesi.

Ora doveva solo arrivare alla porta di casa sua, inserire la password, trovare suo fratello che probabilmente si era addormentato sulla sedia con la faccia sulla tastiera e rimetterlo a letto come quando aveva due anni.

Mentre avanzava deciso e i suoi passi rimbombavano nel corridoio con la coda dell'occhio vide un'ombra guizzare alla sua sinistra.

Il cuore prese a battergli velocemente, ma la sua espressione rimase impassibile.

Si voltò lentamente, ma tutto ciò che vide fu la sua immagine riflessa sul vetro. Incontrò i suoi occhi azzurri e si vide mentre tirava indietro i capelli biondi.

Di nuovo un'ombra.

Strinse i denti e imboccò le scale.

A casa suo fratello lo avrebbe aspettato ancora un po'.

Salì i pochi piani che lo separavano dall'ultimo.

Trovò il vetro che aveva scardinato anni prima.

Salì sul tetto del grattacelo.

Da lì poteva vedere quasi tutta la città che, avvolta nella notte e particolarmente vicina alle nuvole, acquistava quel tocco di mistero che gli piaceva tanto.

Sprezzante del pericolo si sporse leggermente per guardare in basso, ma si ritrasse quasi subito.

Da lì non sembrava di essere a New York.

Le luci degli appartamenti erano ormai quasi tutte spente e il marciapiede era troppo lontano perché la confusione notturna giungesse fino a lui. E poi ormai per strada non c'era più nessuno.

Ormai tutto si svolgeva nei grattaceli o sottoterra. Non c'era neanche più distinzione tra strade e marciapiedi in alcuni punti.

Guardò in alto.

Le nuvole erano più vicine, ma le stelle continuavano ad essere lontane ed irraggiungibili come sempre. L'illuminazione era concentrata ai piani bassi e il cielo stellato si spalancava ai suoi occhi come un meraviglioso scenario arrivato dopo una chiusura di sipario durata tutto il giorno.

La leggerissima brezza gli accarezzava il volto come se volesse cancellare dal suo volto quella sua espressione sempre forzatamente neutra ed ostile, ma poi sfilava via impotente.

Da qualche parte, oltre a tutti quei grattaceli, c'era l'oceano. Quella meravigliosa e sconfinate distesa di acqua salata che gli aveva sempre ispirato libertà e indomabilità, ma anche incomprensione e solitudine, proprio come lui.

Un movimento furtivo alle sue spalle.

Nello stesso istante in cui si voltò afferrò in coltello che teneva nella tasca del giacchetto e lo lanciò.

Mancò di poco la figura alle sue spalle, ma la costrinse a fermarsi.

«Finalmente ci incontriamo.» disse l'uomo avvolto nell'ombra con una voce che era ben lontana dall'essere malvagia.

«Sono anni che mi segui. Anni che vivi nell'ombra, che origli i nostri discorsi, che spii le nostre ricerche.»

«Non sono nulla che non sappia già.»

«Chi sei?»

«Chi sono io è irrilevante.»

«Devi smetterla.»

«Lo so. E, credimi, ci ho provato, ma è inutile, più forte di me. Se cerco di estraniarmi da tutto questo lui viene fuori e diventa impossibile controllarlo. Più appago il mio desiderio di conoscenza, invece, più riesco a tenerlo a bada. Sono anni che...»

«Non mi importa.» lo interruppe calmo il ragazzo.

«Per me sei solo uno sconosciuto che mi spia e che sa troppo.»

«Ti sbagli. So anche troppo poco. Ed è un bene. Perché nel momento in cui saprò troppo comincerò ad essere un pericolo.»

«Se fosse davvero così non dovresti spiarci. Come puoi “non sapere troppo” se segui ogni nostra mossa?»

«Non seguo ogni vostra mossa, mi sarebbe impossibile. Sono un umano proprio come te.»

Il ragazzo lo guardò scettico. Quell'uomo, chiunque fosse, doveva sapere veramente “troppo poco”.

«Non posso smettere di fare ricerche.»

«Ma puoi nascondermele.»

«E dove? Non c'è posto dove tu non possa andare a guardare.»

«Non c'è posto più sicuro della proprio mente, lo imparerai anche tu, presto o tardi.»

«Non posso tenere tutto nella mia mente, è impossibile. E poi certe cose non posso tenerle per me. Ormai è arrivato il momento di agire e mettere fine a questa storia. Ora che sappiamo chi cercare...»

«Sapete chi cercare? Ne sei sicuro?»

«Sono stati loro. Hanno posizionato quei chimeri. Sono loro che da anni cercano il modo di conquistare la Terra. Loro...»

«Ma con che prove?»

Il ragazzo tacque.

«Non hai prove. Le vostre sono solo...

...accuse»




Allora...
ecco il nuovo capitolo! Spero che vi piaccia. Aspetto il vostro parere (per favore, recensite!)
Con affetto
Artemide12

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Capitolo 6
*** Qualcuno li osservava ***


Qualcuno li osservava.

 

Una rapida occhiata oltre la porta semichiusa le confermò che i due ragazzi non stavano dormendo. Sotto le coperte c'erano solo dei cuscini e sotto una molla che li alzava e abbassava regolarmente per simulare il loro respiro.

In realtà i due bambini erano davanti ad un grosso schermo a programmare vari tipi di hacker, per quanto semplici, da inserire nei numerosi computer di casa.

La donna sorrise.

Quei due avevano preso proprio dal padre.

Proprio per questo, però, non avevano speranze di intromettersi nella rete di casa e scoprire a cosa stavano lavorando i genitori.

Non era ancora il momento di metterli al corrente.

Se si fossero rifiutati di partecipare, ovviamente, sarebbe stato un problema, ma lei, da brava mamma che era, li conosceva abbastanza bene da sapere che non si sarebbero tirati indietro.

Li lasciò fare.

Lui era in soggiorno. Tranquillamente seduto sul divano davanti allo schermo olografico del televisore, ignorava chi cercava di intromettersi nel suo computer. Chiunque fosse, non aveva speranze. Quei due avevano ancora molto da imparare. In cuor suo sperava che prima o poi sarebbero diventati più bravi di lui.

Lei entrò silenziosamente come al solito e gli si sedette accanto.

Dopo alcuni secondi lui le circondò da vita con un braccio avvicinandola a sé.

Non dissero niente.

Era incredibile quanto quel gesto, così spontaneo e quasi insignificante per gli altri, fosse un grosso passo avanti per loro.

Loro, che con gli altri erano sempre così freddi e distaccati, che cercavano di nascondere le proprie emozioni sempre e comunque, nella penombra della loro solitudin, erano riusciti ad avvicinarsi fino a quel punto.

Se glielo avessero detto tanti anni prima nessuno dei due ci avrebbe creduto.

Non tanto perché non fossero capaci di amare, ma perché lo consideravano una debolezza e non un punto di forza. Un collante che li teneva uniti oltre ogni difficoltà e che lo avrebbe fatto per sempre.

Altri non ce l'avrebbero mai fatta.

Non avrebbero capito quanto fossero importanti quei silenzi per loro.

Loro, che usavano le parole solo come strumenti, avevano altri modi di capirsi.

E mentre altri avrebbero visto in uno sguardo freddo e impassibile solo gelo e chiusura, per loro già quello scambio era tanto.

Perché voleva dire che si erano cercati a vicenda e che si erano trovati.

Ancora una volta.

 

Perfettamente mimetizzata con l'ambiente circostante, Electra se ne stava immobile con la schiena appoggiata al muro e lo sguardo fisso nel vuoto.

Gli altri le passavano davanti senza accorgersi della sua presenza.

Le bastò aspettare il momento giusto.

Le piaceva spaventare Faith perché era l'unica che riuscisse sempre a stanarla. Lei sentiva il suo calore corporeo.

Con uno scatto le saltò addosso.

Faith, però, aveva buoni riflessi e si voltò di scatto evitando l'amica.

«Hai fallito ancora.» disse la ragazza imitando la voce metallica dei giochi elettronici quando perdi una partita.

«Stavolta c'ero quasi! Alla prossima ti prendo.»

«Contaci...»

Faith era una ragazza piuttosto particolare.

Aveva i capelli nerissimi da fare quasi impressione e così lisci che sembravano piastrati. Gli occhi tendevano al grigio.

Vestiva sempre di scuro, ma aveva molti accessori di varie tonalità di verde.

Portava sempre la gonna e la maggior parte delle volte erano così corte che lasciavano vedere le lunghe gambe affusolate senza troppa discrezione. Non portava collant, se non delle calze a rete spesso strappate.

Anche la maggior parte delle sue canottiere erano tutt'altro che integre. Alcune si tenevano solo grazie alle bretelle e a qualche punto cucito sull'orlo in basso scoprendole interamente i fianchi.

Per compensava portava numerosi giacchetti.

Le sue mani erano piccole, ma affusolate. Come un po' tutto il corpo.

Era slanciata e magra.

Nel complesso risultava un po' tetra, ma con chi voleva era simpatica. Gli altri si limitava ad ignorarli.

Odiava anelli e bracciali, ma adorava le sciarpe.

Il suo umore variava a seconda della vicinanza dei pasti.

Dopo mangiato era particolarmente apatica e spesso si addormentava, ma quando tornava ad avere un po' di fame era sempre scattante.

Electra era tutta un'altra storia.

I suoi vestiti erano sempre coloratissimi, anche se spesso molto striminziti.

Aveva un occhio azzurro chiaro tendente al blu e l'altro marrone scuro tendente al verde ed era un po' strabica.

I capelli a zigzag erano beige, proprio come la sua carnagione. Erano rasati ai lati della testa, ma al centro più lunghi e, spostati tutti da una parte – di solito a destra – le arrivavano poco sotto il mento.

Spesso si faceva mesce variopinte, ma il colore era andato via e ultimamente non se l'era più rifatte.

In quel momento, per mimetizzarsi, si era praticamente spogliata ed era rimasta con addosso solo culottes e reggiseno. Si affrettò a rimettersi il vestito con motivi astratti che aveva l'arancione come colore dominante.

Lei andava pazza per i bracciali e ne aveva i polsi pieni.

«Sto morendo di fame, che si fa?» chiese Electra mentre si infilava i sandali dorati simili alle scarpe da ballerina con i nastri che si allacciano intorno al polpaccio.

«Si va sulla Terra ovviamente.»

«Ma sei matta? E se un chimero ci attacca?» ribatté la ragazza trattenendosi dal mangiucchiarsi le unghie per non rovinare lo smalto. Avevo ogni dito di un colore diverso.

«Ci difendiamo.» rispose Faith assolutamente calma.

«Chi è che va sulla Terra?» si intromise all'improvviso Fosfor mettendosi in mezzo alle due amiche circondandole con le braccia.

«Noi.» gli rispose Faith «Ma tu non sei invitato.»

«Guada che mi offendo.»

«Fai con comodo.»

«Ok, allora vengo.»

«Scordatelo.»

«Se non mi fate venire lo dico a Silver e Raylene.»

«Tanto lo scopriranno presto.»

«Io tanto vengo lo stesso.» la canzonò il ragazzo.

«Dai, Faith, ci fa compagnia.» intervenne Electra.

«L'importante è che non ti appiccichi così.» commentò Faith divincolandosi dalla stretta del ragazzo.

«Non posso, mi viene naturale, lo sai.»

I tre si teletrasportarono sulla Terra.

Electra e Fosfor portavano dei cappelli per nascondere i capelli particolari.

Il ragazzo li aveva color evidenziatore azzurro, forse un po' più chiaro e lunghetti per essere un ragazzo. Gli occhi erano dello stesso colore, solo più acceso.

I ragazzi si ritrovarono in un ascensore, alle spalle di un paio di persone adulte e uno studente.

Si guardarono alzando le sopracciglia e trattenendo le risate.

Si assicurassero che gli altri non si accorgessero di loro mentre uscivano dall'ascensore.

«Secondo voi dove si mangia?»

«Che ne dite di quello?» propose Forsfor indicando un locale country contrassegnato con una M molto arrotondata.

«Proviamo.»

La fila era abbastanza lunga da permettere ai tre di consultare il menu che esponevano i cartelloni alle spalle dei cassieri.

«Quelli sono insetti?» esclamò Electra sorridente.

«Sembra di sì...» commentò Forfor piuttosto contrariato facendo uscire dal suo campo visivo la frittura mista di insetti. «Non hanno pesce?»

«Solo gamberetti nell'insalata.» rispose Electra indicando un altro cartellone.

Faith osservava in silenzio, particolarmente attirata dal panino con ben due hamburger più altri strati di formaggio, sottaceti, e altri tipi di condimenti.

Alla fine, oltre agli insetti, Electra prese patatine fritte con ketchup; Forsfor aggiunse un piatto di pasta alla sua insalata con gamberetti che decise di condire con la maionese; Faith due dei panini che aveva adocchiato.

Le ragazze criticarono i gusti del loro amico, ma sapevano anche che lui non sentiva quasi per niente i sapori.

«Davvero ragazzi, vi fate troppi problemi in fatto di cibo.» commentò Electra davanti alla faccia di Fosfor che guardava i suoi insetti.

Faith, che aveva afferrato il panino con entrambe le mani, ma che non lo aveva ancora addentato, si guardò intorno per assicurarsi che nessuno le stesse prestando attenzione.

Con un movimento un po' impressionante disarticolò la mandibola e inghiottì il panino.

«No!» esclamò Electra mettendosi una mano davanti agli occhi «Fai troppo impressione quando mangi in quel modo.»

«Non posso farci niente. Io mangio così.»

«Non dovresti farlo in pubblico.»

«Come facevo a mangiarlo? Lo hai visto quanto era grosso?»

«Lo devi mordere.» insistette l'amica.

«E masticare. Ragazze, non per fare il guastafeste, ma quel tizio ci sta guardando. E non è affatto carino.» le interruppe Fosfor a bassa voce.

Electra sbirciò alle sue spalle spostando solo un occhio, mentre Faith si limitava a guardare dritto per dritto oltre l'amico.

In effetti c'era un uomo, seduto dall'altra parte del locale, mezzo nascosto dal giornale, che guardava dritto verso di loro.

Fosfor sollevò il colletto della sua camicia di jeans con un gesto agitato, poi si chiuse anche i bottoni automatici che aveva lasciato aperti.

Electra si passò una mano sui capelli «Starà notando quanto siamo strani?»

Ma l'uomo non sembrava troppo preso dai loro capelli.

«Non c'era quando ho inghiottito il panino.» commentò Faith.

«Ne sei sicura?»

«Non era seduto lì, altrimenti mi sarei guardata dal farlo.»

L'uomo si guardò intorno, poi ripiegò il giornale, si alzò e venne verso di loro.

Electra scomparve dalla vista, ma il suo vestito rimase al suo posto.

«Electra, smettila!» la riprese subito Fosfor e la ragazza ricomparve all'istante. Il tutto era durato pochi secondi.

«Il MacDonald non è più quello di una volta, non trovate?» chiese l'uomo quando fu arrivato al tavolo.

«Eh, sì...» abbozzò Fosfor senza guardare l'uomo negli occhi.

Electra sfruttò il fatto di dare le spalle allo sconosciuto per catturare l'attenzione di Faith mimarle le parole è umano?

Faith voltò lentamente la testa verso l'uomo alla sua sinistra sbattendo le palpebre e tenendole chiuse il più a lungo possibile. Contemporaneamente tirò leggermente fuori la lingua e la fece vibrare nell'aria.

«Sono d'accordo.» disse rimanendo sul vago.

Electra lo prese come un .

«Mi chiedo cosa spinga dei ragazzi come voi a venire proprio qui.»

«Perché non dovremmo?»

«Mi sembra un po' presto per mettersi alla prova.»

«Ma di che cavolo sta parlando?» lo interruppe Fosfor pentendosi immediatamente di essersi guadagnato l'attenzione dell'uomo.

Si guardarono negli occhi per un lungo, fragile, momento.

Gli occhi nerissimi dell'uomo sembravano così fuori luogo in quel posto...

Quei tratti gentili e raffinati così fuori dal tempo contrastavano con l'ambiente architettonicamente perfetto e spigoloso di quel mondo.

Anche il colore dei capelli, per quanto semplice, naturale e perfettamente in accordo con il resto del volto, sembrava antico.

L'uomo sorrise benevolo «Dico solo che siete ancora un po' troppo individuabili per mostrarvi in pubblico.»

Si voltò salutandoli con un cenno del capo e sussurrando «Andatevene finché siete in tempo.»

I tre rimasero fermi a guardarlo finché non sparì dalla loro vista.

«Ma che cavolo...»

«Ce l'aveva con il nostro stile?»

«Andiamocene.» ordinò Faith alzandosi in piedi e affrettandosi a far sparire il secondo panino e andare a buttare le cartacce.

«Ma sei matta?» ribatté Electra.

«Solo fiduciosa.»

«Non puoi andartene!» insistette Fosfor.

«Perché no?»

«Beh, perché è proprio quello che ha detto quel signore. Mi sembra un motivo buono per fare il contrario, no?»

«Almeno usciamo di qua.»

I tre uscirono senza pagare, scoprirono che l'uomo aveva detto alla cassiera di metter tutto sul suo conto prima ancora che ordinassero il cibo. Essendo “nuovi” non avevano notato nulla di strano nel fatto che non fosse stato chiesto di pagare prima di ritirare i vassoi.

Si infilarono in un negozio pieno di oggetti molto particolari.

Le vetrine, ben organizzate, non lasciavano vedere l'interno, ma le porte scorrevoli automatiche piene di adesivi con decori a spirale lasciavano vedere un locale piuttosto ampio locale diviso in corsie da numerosi scaffali di dimensioni diverse.

«Questi qui hanno la passione per l'argento e le cose luccicanti.» osservò Fosfor una volta dentro.

Electra si fermò ad osservare una collezione di vasi a forma di fiori di colori molto accesi.

Faith studiò degli specchi deformanti, mentre Fosfor era particolarmente interessato a dei soprammobili a forma di animali realistici, ma in posizioni piuttosto buffe.

Ne erano un esempio un serpente bellissimo con il corpo annodato, un gatto che cadeva in malo modo e un topo che si faceva scivolare sulla pancia, le zampe sollevate, un po' come un pinguino.

«Adoro le cose luccicose!» esclamò Fosfor prendendo in mano degli occhiali da sole dorati.

«Io no.» commentò quasi tra sé e sé Faith proseguendo lentamente dietro uno scaffale che portava al bancone e alzando lo sguardo sulla fila di luci al neon proprio sopra la sua testa.

Fece un passo indietro quando i suoi stivali neri alti fin sopra al ginocchio schiacciarono dei frammenti di vetro che una volta dovevano essere un ingombrante soprammobile.

«Perché qui non c'è nessuno?» chiese senza rivolgersi a qualcuno in particolare.

Arrivò con passo lento al bancone dietro il quale non c'era nessuno.

Ci girò intorno fino a raggiungere la postazione della cassiera.

Rimase ferma al suo posto quando vide la ragazza stesa a terra a pancia in giù. La posizione suggeriva che qualcuno dove averla trascinata per le braccia. Sul suo corpo non c'erano segni di qualche tipo di violenza.

Faith si guardò intono silenziosamente.

C'erano schegge di vetro dappertutto lì.

Ricostruì la scena mentalmente.

La ragazza che portava un grosso soprammobile di vetro, che sentiva un rumore, si voltava. E poi il soprammobile che cadeva, lei che veniva aggredita e poi trascinata fin lì perché nessuno si accorgesse subito di quello che era successo.

Ma perché aggredirla?

E poi capì.

No, la ragazza non era stata aggredita, non fisicamente.

Tirò fuori la lingua, la fece vibrare e ispezionò l'aria. Ispezionò quel corpo riverso per terra. Freddo e senza vita.

Freddo.

Troppo freddo per essere morto solo da pochi minuti.

Come faceva a sapere che erano passati solo pochi minuti? Perché lei poteva sentire anche qualcos'altro, qualcosa che sfuggiva alla vista e a qualsiasi altro senso.

C'era ancora calore nell'aria. Fino a pochi minuti prima lì c'era qualcuno.

Un rumore di qualcosa di fragile che urtava un corpo morbido e caldo e poi girava su se stesso per ritrovare l'equilibrio e poi si fermava.

Voltò lo sguardo verso i due amici, ma anche da dove veniva il suono.

Loro fissavano il vuoto, le orecchie tese.

Si voltarono verso uno scaffale.

Le tazzine trasparenti erano in fila al loro posto, così come l'albero di cera che sosteneva delle candele piccole e rotonde.

Gli animali, invece, erano stati spostati.

Il topo era al centro anziché a destra, accanto al serpente. Il gatto era voltato dalla parte opposta rispetto a prima e il serpente era stato fatto rotolare fino al margine dello scaffale e ora la sua testa si era infilata in un angolo che la nascondeva alla vista.

Il resto era apposto.

«Chi c'è?» farfugliò Electra.

Nessuna risposta. O quasi.

Vi fu un leggero movimento alle loro spalle. Come di pagine ruvide che strusciavano tra loro.

Fosfor guardò Faith. «Dov'è?»

La ragazza chiuse gli occhi.

Scavò dentro sé stessa. Trovò la sua parte animale e la fece riemergere, ma non abbastanza da sommergerla.

Inspirò profondamente.

Mosse la testa sul collo in modo circolare, come per sgranchirlo.

Con la lingua sentì i suoi denti farsi più affilata.

Si impedì di andare oltre.

Dischiuse le labbra e lasciò la lingua ora più lunga libera e sottile di muoversi e di analizzare l'ambiente. Di percepire il calore.

Ma era difficile. C'erano troppe fonti di calore. Le luci sul soffitto la confondevano e sviavano la sua attenzione.

Si concentrò meglio.

Per un attimo fu come se lo vedesse davvero.

Il corpo verde e affusolato che si faceva strada tra la moltitudine di oggetti e si muoveva in modo confuso e leggermente disorientato.

Risalì il suo corpo per trovarne la fine.

Si voltò verso lo scaffale e spalancò gli occhi.

Anche gli amici si voltarono in quella direzioni.

Niente era cambiato.

O no?

Dov'era la testa del serpente?

Il corpo era sempre stato così grosso?

...così caldo...

Di nuovo la lingua di Faith fendette l'aria.

Dov'era la testa?

Ripercorse quel corpo lungo e spesso che passava dietro lo scaffale arrivava in fondo alla parete, la seguiva, voltava a destra e poi di nuovo, arrivava alle loro spalle.

Dov'era la testa?

Più avanti. Ma dove?

Il corpo proseguiva, completava il giro e tornava allo scaffale da cui era arrivata.

Faith si voltò di scatto e lo vide.

Il corpo cilindrico proprio in mezzo al pavimento. Così grosso che dentro avrebbe potuto entrarci facilmente un possente uomo adulto e sarebbe avanzato spazio.

Il piccolo serpentino annodato sullo scaffale non era altro che la sottile coda del chimero.

Capì dov'era la testa: stava iniziando un altro giro attorno a loro, intono a quella corsia.

Electra seguì lo sguardo dell'amica e vide a sua volta quel corpo che si stava lentamente ingrandendo.

La ragazza lanciò un grido acuto e divenne completamente grigia, proprio dello stesso colore del pavimento.

«Non serve a niente, Electra. Tanto non usa la vista.» sibilò Faith mentre l'amica si rialzava.

«Che si fa?» chiese Fosfor in un sussurro.

«Cerchiamo di andarcene senza che se ne accorga.»

«E come?»

«Fidati. Luce vuol dire calore, finché i neon sono accesi è disorientato.»

I tre mossero i primi passi verso la parte del corpo che usciva allo scoperto e che si muoveva da sinistra a destra senza però mostrare la sua fine.

Electra lo scavalcò per prima alzandosi in volo e atterrando dall'altra parte. La paura l'aveva resa rigida e i movimenti che faceva risultavano particolarmente meccanici.

«E un...» cominciò Fosfor mentre si sollevava in aria.

«serpente.» rispose subito Faith annuendo appena «Proprio come me.»

Mentre Fosfor superava il corpo verde scuro sempre più grande nel silenzio più assoluto, da qualche parte un interruttore fu schiacciato e la luce si spense.

Il locale piombò nel buio più assoluto mentre Electra gridava in risposta ad un sibilo particolarmente vicino.

«Fosfor fa qualcosa!»

«Cosa?»

«Dov'è Faith?»

«Come faccio a saperlo?»

«Fai luce!»

«Ma...»

«E dai!»

Il corpo di Fosfor si vede più vitreo e si illuminò di un bagliore bluastro come fanno i pupazzetti fosforescenti quando si mettono al buio.

Ma la sua era una luce ad intermittenza. Si spegneva e si accendeva di continuo, come se stesse per fulminarsi.

Questo diede a Faith un'immagine visiva oltre che sensoriale di quello che la sua lingua le stava già mostrando.

La testa del serpente, grande più di lei e con denti retrattili affilatissimi lunghi il doppio delle sue gambe, aveva completato il secondo giro del piccolo reparto e si era voltata verso l'interno.

Ad ogni flash di luce la testa era più vicina.

Gli occhi gialli dalle pupille affilate puntavano direttamente verso di lei.

E intanto il serpente stringeva il suo corpo.

Lo sentiva chiaramente. Gli scaffali venivano spostati con forza e stritolati.

Faith indietreggiò fino a trovarsi al centro del cerchio che il rettile stava disegnando con il suo corpo e che si stava gradualmente stringendo.

La testa avanzava.

Il chimero continuava ad ingrandirsi. C'era un limite alla sua crescita o non si sarebbe arrestata finché qualcuno non avesse ucciso quell'essere?

Faith portò una mano al petto come per prendersi in mano il cuore che le martellava in petto e cercare di fermarlo prima che ci pensasse il chimero.

Abbassò lo sguardo sul suo pugno.

Tra un dito e l'altro stringeva delle schegge appuntite di colore verde scuro.

L'olfatto le disse quello che dentro di sé sapeva già. Erano avvelenate.

Erano la sua arma.

Un altro flash le mostrò la testa del serpente a meno di due metri da lei. Il cerchio si era ormai ristretto moltissimo e il corpo del serpente era appoggiato su sé stesso quattro volte se non di più.

Si alzò in volo e in un istante fu sopra la testa del chimero che cominciò a dimenarsi.

Con le urla di Electra e i flash di Fosfor come sfondo, Faith si ancorò alla testa del serpente infilando le dita della mano sinistra tra le grosse scaglie e le unghie direttamente nella carne.

Si sporse in avanti.

«Avanti bello, tira fuori la lingua!» sibilò. Prendendo la prima scheggia tra indice e medio.

Ma il chimero sembrava aver capito il suo gioco e mentre Faith scagliava il suo colpo lui voltò la testa e la punta avvelenata si conficcò nel suo occhio destro.

Rovesciò violentemente la testa all'indietro e Faith fu scaraventata a terra con violenza.

Si rialzò a fatica e con la schiena dolorante, ma solo per ricadere.

Un nuovo flash e coda del serpente a pochissimi metri da lei.

Buio e rotolò di lato mentre sentiva alla sua destra la coda fendere l'aria e sfracellare le mattonelle dove poco prima si trovava lei.

Flash. La coda che si rialza.

Buio. Rotolò ancora più a destra. Sbatté contro uno scaffale. Non poteva avanzare. Era in trappola.

Flash. La coda si prepara ad un nuovo colpo.

Buio. Qualcosa l'afferrò per le spalle e la trascinò via mentre il serpente lasciava uno stridente urlo di dolore.

Flash, stavolta più lungo.

Fosfor, in aria, teneva ferma la cosa con le mani, fasciate da guanti sottilissimi e trasparenti che si accendevano di azzurro mentre spruzzavano scintille che si riversavano sul chimero che si dimenava violentemente.

Buoi, più a lungo del solito.

«Faith, stai bene?» strillò Electra alle spalle della ragazza. Faith si rese conto che era stata lei a trascinarla via. La sua voce si sentiva appena, coperta dalle urla del serpente.

«Più o meno.»

Flash. Fosfor perdeva la presa e volava via, raggiungeva le due e gli si scontrala contro, incapace di decelerare.

I tre corsero dietro uno scaffale.

«Che facciamo?» strillò Electra in preda ad una crisi di panico.

«Deve aprire la bocca, devo colpirgli la lingua, così faticherà ad orientarsi.» rispose Faith illuminata da un nuovo bagliore.

«Fantastico!» ironizzò Fosfor «E con cosa?»

«Con questi.» gli rispose Faith approfittando di un altro flash per mostrargli le schegge ch aveva tra le dita.

«...belle... da dove vengono?»

«Dallo stesso negozio dei tuoi guanti.»

«Dev'essere molto fornito.»

I due furono interrotti da un urlo di Electra che per un attimo si era ritrovata a pochi centimetri dal grosso occhio giallo del mostro prima di ripiombare nell'oscurità.

«Spegniti!» ordinò Faith a Fosfor.

Electra era pietrificata dalla paura.

«Electra?» chiamò Faith.

«Ragazzi!» strillò la ragazza.

«Electra stammi a sentire, ok?»

«Sì, ma sbrigatevi!»

«Era l'occhio destro?»

«Sbrigatevi!»

«Rispondimi Electra!» imprecò Faith indietreggiando lentamente dietro uno scaffale portandosi dietro Fosfor.

«Non lo so!»

«Pensaci! Destro o sinistro?»

«Destro. Perché?»

«L'ho colpito al destro.»

«Io dico che mi vide!»

Ad un segnale Fosfor mandò un unico bagliore.

Electra urlò di nuovo.

«Ci vede! Mi sta fissando!»

«Sì, ma non ci vede bene.»

«Che faccio?»

«Mimetizzati.»

La ragazza obbedì anche se non sapeva bene di che colore diventare.

«Ora muoviti lentamente.» continuò Faith con voce più bassa e leggermente più calma. «Vola, ma tieniti con la schiena contro la parete. Quando sei arrivata abbastanza in alto spostati alle sue spalle in modo da uscire dal suo campo, poi vola via, sbrigati.»

«E voi?» chiese Electra cominciando a sollevarsi da terra.

«L'importante è che ti allontani, dividersi è meglio.»

«Sono in alto. Una volta lontana che faccio?»

«Assicurati che porte e finestre siano chiuse e... cerca un interruttore.»

«Ok.» rispose Electra e la sua voce era già più lontana.

Fosfor fece per dire qualcosa, ma Faith lo fermò mettendogli una mano sulla bocca.

L'angolo in cui si erano infilati era così stretto che toccarsi era inevitabile.

Entrambi sentirono il serpente venire verso di loro.

Faith indicò il soffitto con un dito ed entrambi si sollevarono e cominciarono a salire.

 

La lezione di scienze si stava facendo più noiosa che mai. La professoressa adorava l'astronomia e si stava perdendo in discorsi lunghissimi e senza apparente filo logico.

Era simpatica, ma sempre incredibilmente distratta.

L'unica cosa brutta di lei era che si vantava del fatto di essere la moglie del presidente. In realtà non erano sposati, ma era come se lo fossero.

La campanella della ricreazione suonò proprio nello stesso istante in cui il telefono di Sharlot cominciò a suonare. Lei rispose all'istante.

«Sì?»

«Sono Aisha, sbrigati raggiungimi al trecentoventiduesimo piano. I ragazzi dicono che c'è un chimero.»

«Ma...»

«Niente ma, ho il tuo arco, sbrigati.»

La ragazza si precipitò per le scale. Dove scendere solo tre piani.

«Non dovrei sentirlo?»

«No. Se non te ne sei dimenticata nei grattaceli ogni muro fa da isolante acustico. È nel negozio di cianfrusaglie che ti piace tanto.»

«Ci sono quasi.»

Sharlot spense il telefono trovandosi di fronte alla sorella.

Prese in suo arco e si mise in spalla la faretra. Una volta spuntate le ali non avrebbe corso neanche il rischio di perderla.

Le due si portarono davanti alle porte a vetri del negozio che, quando furono abbastanza vicine, si aprirono appena. Si infilarono nel negozio mentre le porte si richiudevano alle loro spalle e sprofondarono nel buio mentre davanti ai vetri della porta calava una lastra metallica nera che tagliò loro la possibile via di fuga.

Poco dopo si accesero le luci.

«Qualcuno ci stava aspettando a quanto pare.» commentò Aisha, ma fu interrotta da un urlo isterico non distante da loro.

Entrambe si voltarono, ma non videro altro che lo stand dove erano esposti i capotti e un vestito con motivi astratti che aveva l'arancione come colore dominante.

Si voltarono ispezionando il resto del reparto con lo sguardo.

Electra, da dentro il suo vestito dovette trattenersi dal sospirare per il sollievo.

C'era una calma inquietante e surreale.

Le due ragazze liberarono le loro ali.

Electra trattenne il fiato.

Studiò le armi delle due terrestri.

L'arco della più giovane era di un materiale misto tra diamante, argento e zaffiro, mentre le frecce erano di un bianco quasi accecante.

Quello della ragazza più grande sembrava fatto di legno pregiatissimo e di metallo allo stesso tempo. Le frecce nerissime.

Erano loro le ragazze di cui avevano parlato gli Ikisatashi? Sembrava proprio di sì.

E poi il serpente ricomparve, come dal nulla.

Si scagliò di testa su Sharlot che fece appena in tempo a spostarsi, ma si ferì al braccio sinistro.

«Tutto bene?» chiese la sorella dalla parte opposta del serpente.

«Brucia.»

«Ora pensa ad aiutarmi!» strillò Aisha scartando l'attacco di testa del chimero.

Armò il suo arco.

«Quale sarà il suo punto debole?» chiese Sharlot alzandosi in volo.

Electra intanto era arrivata sul soffitto e aveva raggiunto Faith e Fosfor.

«Che facciamo?» sussurrò.

«Non possiamo andarcene, non ora che ci sono anche loro. Sanno che siamo qui, ce lo aizzeranno contro.» rispose Fosfor.

«Appunto, andiamocene!»

«No! Dobbiamo distruggerlo.» insistette il ragazzo.

«Come?»

«La lingua.» rispose Faith senza guardarla. «Se gli colpisco la lingua sarà più facile attaccarlo. Sarà disorientato.»

«Abbiamo solo due problemi.» disse Fosfor indicando le umane.

Sharlot si era posizionata davanti alla porta.

Aisha volava sopra la testa del chimero, fuori dal suo campo visivo.

«Non avevo mai visto un chimero fare l'affettuoso con qualcuno.» commentò Fosfor. In quel momento il serpente gli ricordava un gatto randagio si Arret a cui si era affezionato, Giho. Gli piaceva che quando gli metteva la mano sopra il muso lui saltava per raggiungerla e farsi accarezzare. «Identico.» mormorò tra sé e sé.

«Come ci avviciniamo?» chiese.

Faith risolse quel problema.

Si appiattirono sul soffitto uno dietro l'altro, proprio come una fila di neon, e avanzarono lentamente strisciando come serpenti a testa in giù.

In questo modo il chimero li avrebbe visti più o meno come i neon e non li avrebbe notato subito, specialmente per il fatto che passarono alla sua destra.

«Ehi!» esclamò Sharlot vedendoli.

«Oh, oh.» fece Fosfor «Fuori programma!»

I tre si fiondarono a terra, dietro uno scaffale.

Sharlot e Aisha si infilarono dietro il bancone cercando di non lasciarsi distrarre dalla ragazza stesa a terra.

Divenne un macello tra frecce, schegge e stelle ninja – apparse come dal nulla tra le mani di Electra – con in mezzo il chimero che veniva continuamente colpito facendo da scudo ora ad uno, ora ad un altro.

«Copritemi.» ordinò Faith agli altri due mentre lei cominciava ad arrampicarsi sugli scaffali fino ad arrivare in cima alla grosso libreria bianca.

Doveva riuscire a colpire quella maledettissima lingua biforcuta.

Prese la rincorsa, poi saltò e atterrò direttamente sulla testa del chimero.

Quello iniziò a dimenarsi come un matto.

Per evitare le frecce Faith era costretta a tenersi molto braccia.

Se voleva vincere il chimero doveva essere molto più rapida di lui.

Usò le gambe per darsi la spinta. Una volta per aria si esibì in una capriola per raddrizzarsi e, mentre riatterrava sulla testa del chimero puntò alla sua bocca.

Chiuse gli occhi e si affidò ai suoi sensi.

Percepì il calore della bocca che si schiudeva.

Lanciò la sua scheggia nello stesso istante in cui Aisha scagliò la sua freccia contro di lei.

Faith riuscì a colpire la lingua, ma per evitare di essere colpita cadde malamente per terra e questa volta non riuscì a rialzarsi. La schiena, già sbattuta più volte, si rifiutò di sorreggerla.

Mentre il chimero, disorientato, sbatteva la testa da tutte le parti facendo crollare gli scaffali che aveva intorno, Faith si trascinò carponi il più lontano possibile dal serpente.

Gridando il chimero si dimenò, rovesciò gli ultimi mobili, poi cadde a terra con un tonfo.

«Faith!» gridò Electra e fece per correre dall'amica che era rimasta sommersa dalle cianfrusaglie, ma Fosfor la trattenne e la spinse dietro un angolo.

Anche le due terrestri si erano dovute riparare e ora stavano accucciate dietro al bancone.

Era calato un silenzio assoluto e la tensione era quasi surreale in un ambiente ora così luminoso.

Qualcosa si mosse tra le macerie – ormai non si poteva che definirle tali. Strisciò di lato.

«Che cos'è?» sussurrò Sharlot.

«Non è ancora morto, sta fingendo, quella dev'essere la coda.»

«Ma se l'hai colpito!»

«Davvero?» Aisha mirava alla ragazza. L'aveva mancata, ma non si era curata di dove fosse andata a finire la freccia.

«Mi sembra di sì.» mormorò Sharlot.

Quel qualcosa riprese a strisciare sotto un mobile rovesciato e tenuto ancora in equilibrio su due zampe da una sedia dall'aria fragile.

Aisha armò l'arco.

«Non lo vedo, non posso colpirlo.»

«La gamba della sedia.» indicò Sharlot.

La sorella maggiore prese la mira.

La sedia cadde e il mobile lo seguì.

Faith ritrovò le forze per teletrasportarsi un attimo prima che il mobile potesse schiacciarla.

Quando riatterrò, a pochi passi dai suoi amici aveva già perso i sensi, ma ricordava perfettamente l'ultima cosa che vide: l'occhio giallo del serpente che la fissava, ancora perfettamente vigile.

Fosfor prese in braccio Faith quando comparve ai suoi piedi e prima di andarsene con Electra si sporse leggermente e vide il corpo del chimero brillare per alcuni secondi, poi, come risucchiato da sé stesso, scomparve.

I tre alieni si smaterializzarono.

 

Sharlot corse dove poco prima c'era l'enorme serpente.

A suo posto trovò una forza vitale.

«Che facciamo?»

«Ridalla alla ragazza. L'ultima cosa che ricorderà sarà di essere stata aggredita. Penserà che siano stati dei vandali.»

«Ma deve pur aver visto il suo aggressore.»

«È poco probabile. Se quei tre erano furbi, non si sono mostrati.»

Sharlot annuì e riportò la forza vitale alla sua proprietaria.

«Presto andiamocene.» disse poi.

Le due salirono in ascensore.

«Ora cosa racconto alla professoressa?» chiese distrattamente Sharlot ricordandosi che a quell'ora avrebbe dovuto essere a scuola.

«Che ti sei sentita male. Sei pallidissima, ti crederà di sicuro.»

La ragazza più giovane non rispose.

«Sharlot?» chiamò ancora Aisha, ma la sorella tenne lo sguardo vacuo fisso nel vuoto.

Passò una mano davanti alla faccia della sorella minore e quella cadde all'indietro prima di sensi.

Aisha la sostenne ed evitò che sbattesse la testa.

«Sharlot!» urlò.

Studiò velocemente la sorella e si soffermò sulla ferita che aveva sul braccio.

Le porte dell'ascensore si aprirono, ma lei le fece richiudere subito schiacciando il tasto 1474.

Mentre saliva prese il cellulare e schiacciò il testo di chiamata rapida.

«Sì?» rispose subito il ragazzo.

«Abbiamo sconfitto il chimero, ma ora Sharlot è svenuta!»

«È ferita?»

«Sì, sul braccio sinistro.»

«Cosa le è successo?»

«Il chimero. È stato lui.»

«Era velenoso.»

«Non lo so.» disse «Era un serpente.»

Avvicinò il naso alla ferita sul braccio della sorella.

«Credo di sì.» rispose poi, piuttosto sicura.

«Sono davanti l'ascensore.»

Le porte di aprirono dopo pochi minuti.

Il ragazzo biondo con gli occhi azzurri prese in braccio Sharlot e la portò velocemente nel suo appartamento.

«Non dovresti essere a scuola?»

«Dovrei.»

«Ma?»

«Sono rimasto in caso vi servisse aiuto. Ho fatto bene mi sembra.»

Il ragazzo portò Sharlot in camera sua e la distese sul letto del fratello visto che il suo era ancora sfatto.

Esaminò la ferita.

Strinse un laccio emostatico poco sopra il taglio.

«Vedrò cosa posso fare.» disse il ragazzo prendendo una siringa e inserendola nella vena di Sharlot. Si riempì velocemente e lui sparì nella stanza affianco.

Aisha si sedette acconto alla sorella.

Le prese il polso.

Il battito stava rallentando. Lo sentiva chiaramente.

 

Quando aprì gli occhi riconobbe la stanza dei due ragazzi.

Si sollevò sui gomiti e appena mise a fuoco l'ambiente che la circondava si ritrovò stretta nell'abbraccio della sorella.

«Cos'è successo?» borbottò con voce impiastrata.

«Quel chimero era velenoso.» spiegò il ragazzo biondo. «Fortunatamente ti è entrato in circolo pochissimo veleno, altrimenti non avrei mai fatto in tempo a preparare l'antidoto.»

«Sarei morta?» chiese.

«Per arresto cardiaco. Sì.»

«Mi hai fatto prendere uno spavento!» la rimproverò Aisha.

Sharlot sorrise.

Sua sorella era un tipo molto burrascoso, ma in fondo era buona e le voleva bene.

Il ragazzo intanto si alzò e raggiunse il fratello minore nella terrazza vetrata.

«Che ne pensi?» chiese.

«Loro non ci stanno andando leggeri.» commentò l'altro «Sharlot poteva veramente morire.»

«Vorrà dire che neanche noi ci andremo leggeri.»

«Poco ma sicuro.»

I fratelli si scambiarono delle pacche giocose sulle spalle, ignari del fatto che, non molto distante,

qualcuno li osservava.




Allora...
Nuovo capitolo, nuovi personaggi, ma solita domanda: che ne pensate?
Spero di mantenere questo ritmo di aggiornamenti.
A presto
Artemide12

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Capitolo 7
*** Era il 12 giugno ***


Era il 12 giugno

 

Strinse i pugni con rabbia e si trattenne dal digrignare i denti.

Lei se ne accorse e si andò a sedere accanto a lui.

Non disse nulla, lasciò che fosse il suo sguardo a parlare.

«Io non capisco.» cominciò lui controllando come magicamente la voce e mostrando una calma che invece non aveva. «Ho fatto qualsiasi tipo di prova. Nulla impedisce a quelli della mia specie di avere un DNA adatto, basta una particolare combinazione di geni.»

Lei gli rispose con un nuovo sguardo eloquente, esortandolo a proseguire. Ormai sapeva distinguere quando dietro i suoi toni professionali e controllati si celavano rabbia e stanchezza.

«E allora perché nessuno ce l'ha? Su un intero pianeta, nessuno!»

«Non proprio nessuno.» gli ricordò lei «Qualcuno c'è.»

«Ne abbiamo già discusso e sai bene che Victoria non vuole.»

«Nessuno ha chiesto il nostro parere quando Ryan ha inserito il DNA animale nel nostro codice genetico.» gli ricordò lei.

«Lo so, ma costringere Victoria sarebbe comunque inutile. Ormai comincia ad avere anche una certa età. Anche se accettasse nessuno ci dice quando servirà il suo intervento. Sai bene che i nostri progetti si estendono su un vasto arco di tempo.»

Vi fu un attimo di silenzio.

Dopo quello sfogo, per quanto pacato, la tensione si era decisamente allentata.

«Potresti...» cominciò lei «Non agire su Victoria, non direttamente.»

I due si guardarono a lungo negli occhi. Lui ci mise un po' a capire cosa lei gli stesse suggerendo di fare.

«No.» disse poi rilassandosi sulla poltrona. «Con lei non funzionerebbe.»

«Perché?»

«No.» ripeté lui «Per il semplice motivo che Victoria è una persona reale, ne uscirebbe fuori un clone. E sai che questa è l'ultima cosa che voglio.»

«Non sarebbe uguale a lei in tutto e per tutto.» ribatté lei decisa come sempre. «In fondo dovresti comunque apportare delle modifiche al DNA, anche perché Victoria non è un ibrido, e poi non seguirebbe lo stesso sviluppo mentale di...»

«Lo so, lo so. Il fatto che io abbia trovato il modo di creare nuovi DNA è un grosso vantaggio: posso avere gli individui che mi servono, ma non è questo il punto. Possibile che solo Victoria, su tutta la faccia del pianeta, abbia un simile patrimonio genetico?»

 

Si svegliò di botto, come disturbato da un rumore improvviso.

Scese velocemente dal letto e guardò l'orologio digitale sul comodino.

Era sabato, quindi niente scuola, solo ginnastica nel pomeriggio.

Sentì un gran vocio provenire da fuori, ma dalla finestra vedeva solo il quartiere militare.

«Mamma!» chiamò aprendo la porta della sua stanza e affacciandosi sullo stretto corridoio.

La donna apparve quasi subito.

Portava la solita divisa nera che metteva in risalto i capelli giallo fluo.

«Che sta succedendo mamma?»

«Dei soldati si sono intrufolati nel mercato nero. Stanno procedendo con gli arresti.» rispose la madre mantenendo il professionale tono asciutto, ma lasciando trasparire un velo di inquietudine dagli occhi ciechi.

Trasalì.

L'attimo dopo stava già correndo verso la porta, ma la donna lo afferrò prontamente.

«Papà!» esclamò lui.

«Oggi è sabato, è a casa del padre di Domnio.»

Già, era sabato.

Nevery tirò un sospiro di sollievo.

«Dai Always, vatti a vestire, la colazione è già pronta.»

Nevery annuì e tornò in camera sua.

Si era abituato subito a quel nome. Nella sua realtà alternativa tutti lo chiamavano così, da sempre.

Spesso non se ne accorgeva nemmeno.

Si infilò un pantalone nero piuttosto largo e una maglietta grigio-marrone. Nel quartiere militare vigevano regole molto rigorose sull'abbigliamento e mentre nel resto del pianeta tutti si vestivano secondo la moda arrettiana, loro dovevano girare estremamente coperti. Negli ultimi tempi la cosa gli ricordava fastidiosamente la Terra.

«Posso andarci lo stesso da Domnio?» chiese mentre si sedeva a tavola.

La linfa di quercia aveva un buon odore quella mattina e svuotò in fretta il suo bicchiere. Su Arret quello era il sostitute del latte – anche se questo Nevery non poteva ancora saperlo.

Invece dei biscotti, invece, c'erano bastoncini di liquirizia non lavorata o una specie di pane fatto con farina di lenticchie.

«Sì, puoi, ma dato l'andazzo della giornata vedete di stare lontani del mercato nero e di non farvi venire in mente strane idee.»

«Va bene.» acconsentì svogliatamente Nevery.

Addentò un bastoncino di liquirizia, molto più simile ad un legnetto che ad una caramella, e si alzò da tavola.

Non infilò il giacchetto, ma prese il suo zaino “da agente segreto”, come lo chiamava lui. Gli piaceva perché era dello stesso colore dei suoi occhi e la stoffa liscia e lucente era impermeabile e molto resistente. Senza contare che era pieno zeppo di tasche e scomparti più o meno segreti.

Le case su Arret erano fatte di un materiale presente solo su quel pianeta che impediva di oltrepassarlo con il teletrasporto. In questo modo nessuno poteva introdursi in case altrui senza permesso.

Invece di una normale porta, però, avevano una piccola stanza, detta punto di passaggio, fatta di un particolare cristallo trasparente.

Nevery si chiuse la porta di casa alle spalle, ma non oltrepassò quella che dava sulla strada.

Si teletrasportò nel punto di passaggio della casa di Domnio.

L'amico l'aspettava e se lo ritrovò davanti.

«Tutto ok?» chiese Nevery vedendo l'espressione distaccata e preoccupata di Domnio.

«Mia madre è lì dentro.»

Nevery seguì lo sguardo dell'altro ragazzo fino ai palazzi bassi poche vie più avanti.

Conosceva quel posto.

Dall'esterno sembravano solo dei palazzi uno accanto all'altro, ma in realtà erano un ambiente unico molto grande. Tutti fingevano di evitarlo e di non sapere cosa fosse, ma tutti mentivano.

Quello era il mercato nero.

Si voltò di scatto verso l'amico.

«Non dire nulla.» lo avvertì l'amico, perché era un tipo orgoglioso e non si sarebbe lasciato consolare come un bambino piccolo. «Intanto entra, io resto qui.»

Nevery non si mosse e quando l'amico aprì la porta entrò portandoselo dietro.

«Lasciami!»

«Prendiamo il tuo robot.»

«Quale robot?»

«Il millepiedi.»

«Perché?»

«Quel posto è sempre messo male, nessuno lo pulisce. Non faranno caso ad un millepiedi. Potremo vedere cosa sta succedendo.»

Domnio ci pensò un momento. «Non ha l'acustica.» si limitò poi a commentare.

«Vorrà dire che ce la metteremo.»

I due amici corsero nella camera di Domnio.

Il ragazzo aprì l'armadio e tolse il doppiofondo. Recuperò il piccolo robottino.

Lo appoggiarono sulla scrivania.

Domnio assemblò velocemente il ricettore acustico e Nevery lo assemblò all'animaletto e al computer che c'era in camera.

«Forza!» ordinò Domnio aprendo la finestra e appoggiando il robot a terra.

I due si misero al computer.

Nevery guidò l'animale fin dentro all'edificio.

«Ci siamo.»

«La vedi? Allora?»

«Stai calmo.»

Individuare la madre di Domnio fu abbastanza facile. Aveva i capelli fucsia a zigzag e gli occhi arancioni.

«Non la vedo.»

«Potrebbe essere uscita, cerca di calmarti.»

«Cos'è quello?»

«Lo stivale di un soldato, lo riconoscere tra mille. Alza la visuale.»

Nevery sbiancò.

La faccia del comandante Triao comparve sullo schermo.

Se c'era qualcuno che Nevery temeva era proprio lui.

Se ne sarebbe volentieri andato se, proprio in quel momento, non fosse comparsa Kara, la madre di Domnio.

Un soldato le teneva le braccia ferme dietro la schiena e, a giudicare dal rossore sulla sua guancia, qualcuno doveva averle dato uno schiaffo bello forte.

«Alza l'audio!» ordinò Domnio agitato.

«Bene, bene, chi abbiamo qui?»

«Mi lasci andare! La prego.»

«Lasciarla? E perché mai? È stata colta in flagrante cara la mia signora.»

Kara fece per dire qualcosa, ma lo sguardo di fuoco del comandante la zittì.

«Conosco quelli come voi. Non siete niente. Prima cercate di farvi amici tutti quelli che vivono in questa topaia, poi arriviamo noi e siete tutti sconosciuti che non c'entrate niente! Scommetto che stai per supplicarmi in ginocchio di lasciarti andare. Che hai tantissimi figli, bla, bla, bla. Siete degli stolti che cerano di farla in barba alla legge! Degli immondi traditori.»

«Chiamate legge il più disonorevole mucchio di divieti che beneficiano solo a voi!»

«Zitta, donna!»

«Non sto zitta! Non finché al governo ci sarà gente come voi!»

Il sonoro e doloroso schiaffo che la donna ricevette non servì a farla tacere.

«Siete la peggio specie di esseri viventi che esista sulla faccia del...»

«Portatela in cella, immediatamente. Sarà processata al più presto. Avete il diritto di rimanere in silenzio.»

Kara gli sputò contro mentre veniva trascinata via di peso.

«Sarete giustiziata come meritate, non temete.»

«No!» Domnio scattò in piedi e corse via.

Nevery lo seguì e lo fermò mentre si dirigeva verso il mercato nero.

Lo doveva trattenere, anche a costo di gettarlo a terra e bloccarlo con le cattive maniere.

Ma per quanto disperato Domnio non ebbe la forza di reagire all'amico e si lasciò atterrare urlando.

Aveva accartocciato e dato fuoco al suo orgoglio e ora il suo lato infantile tornava prepotentemente a galla con lacrime e grida.

«Non possiamo fare niente, Domnio. Non ora, non qui, non così.»

Ma l'altro lo ignorava e, cercando debolmente di divincolarsi dalla sua stretta, strisciava verso la direzione che puntavano i suoi occhi già arrossati.

«La tireremo fuori di lì, Domnio, te lo prometto! Troveremo il modo, te lo prometto. La riporteremo a casa!» disse disperatamente Nevery anche se sapeva quanto tutto ciò fosse impossibile.

E proprio in quel momento, mentre Domnio, steso a pancia in giù sulla strada, lasciava cadere la faccia sull'asfalto, e Nevery, fermo sopra di lui per impedirgli di muoversi e fare sciocchezze, allentava la presa, dall'edificio uscirono due soldati che trascinavano Kara.

Domnio non disse nulla, smise persino di piangere, si limitò a sollevare la testa e a fissare la madre.

«Rialzati!» gli ordinò lei gridando e puntando i piedi per non essere trascinata. «Non farti schiacciare, non permettere che ti schiaccino!» fu ciò che urlò prima di ricevere un violento colpo alla nuca, piombare a terra ed essere raccolta da uno dei due soldati e infilata in malo modo in una jeep.

Nevery si rialzò e trascinò l'amico in un vicolo, nascondendolo alla vista dei soldati che si erano voltati per vedere a chi fossero rivolte le grida della donna.

Domnio si lasciò scivolare con la schiena appoggiata al muro, poi si circondò le gambe con le braccia e riprese a piangere.

«Non è ancora finita!» gli intimò Nevery costringendolo a rialzarsi e prendendo a correre lungo il vicolo.

Il rumore dei passi rapidi dei soldati che venivano verso di loro sopraggiunse poco dopo.

Si affrettarono e non si fermarono se non di fronte ad un bivio.

Nevery prese d'istinto la strada più stretta e continuò a correre tenendo per mano l'amico.

Nessuno dei due seppe quanto tempo era passato quando si fermavano. Erano consci solo del fatto che nessuno li seguiva più.

«Grazie Always.» farfugliò Domnio sedendosi su una grossa pietra.

Per strada giravano pochissime persone.

Il cielo si era annuvolato e la luce era poso.

In quel quartiere, addossato ad una montagna scavata, tutto era grigio e freddo e sembrava cadere a pezzi.

Nevery si guardò intorno, improvvisamente molto interessato a quel posto.

Aveva seguito l'istinto ogni volta che aveva dovuto scegliere verso dove proseguire.

Quel posto gli era maledettamente familiare.

Ma perché?

Ci mise qualche istante a capirlo.

Dovette smettere di essere Always e tornare ad essere Nevery, il bambino che dormiva sulla prima astronave che era atterrata sulla Terra.

Non era nel mondo reale, ma nella sua dimensione alternativa.

Quanto era preciso quel suo mondo mentale?

«Dove vai?»

Non si era reso conto di essersi già incamminato.

«Vieni,» disse «devo vedere una cosa.»

Mentre un vento freddo iniziava a soffiare si avviò verso la fine della strada.

Fu assalito da un violento flashback che per un attimo si sovrappose alla realtà fittizia che aveva davanti agli occhi.

I suoi primi passi verso il laboratorio.

Anche quel giorno c'era poca luce e faceva freddo.

Per la prima volta si chiese dove fosse stato prima.

Già, dove?

Scoprì di saperlo.

Lì, in quella realtà alternativa che il suo cervello aveva creato, aveva vissuto ininterrottamente per i suoi primi cinque anni di vita. Lì era nato, cresciuto. Proprio come un bambino normale.

Ma dov'era stato nella realtà.

Poi si rese conto di un'altra cosa, alla quale non aveva mai pensato prima.

Quale delle sue due vite era quella vera e reale?

Nessuna ed entrambe.

La piccola baracca si trovava proprio dove ricordava.

Aprì la porta cigolante e si spinse dentro.

Si diresse direttamente nel ripostiglio.

Si chiuse la porta alle spalle e bussò due volte sulla parete di destra.

L'ascensore si attivò all'istante.

Quando aprì la porta si ritrovò nel laboratorio.

«Che posto è questo?» chiese Domnio estasiato.

Nevery accese la luce e tutto riprese vita.

Oltrepassò la sala comune e imboccò il corridoio delle stanze.

Ritrovò la sua e vi entrò inserendo la password che aveva visto in sogno.

«Casa.» mormorò quando rivide la sua camera, esattamente come l'aveva lasciata.

Salì sul letto e abbracciò il suo vecchio peluche.

«Always? Cos'è questo posto?» ripeté Domnio con tono più deciso, ma anche preoccupato.

«Io...»

«Sei già stato qui?»

«Sì...»

«Quando?»

«Nei miei sogni.»

 

Socchiuse gli occhi e ci mise qualche secondo a ricordare dove si trovava.

Rotolò leggermente di lato scoprendosi ancora stesa sul petto di Dalton.

Si alzò e prese il primo telo che trovò per coprirsi e arrivare in bagno.

Si teletrasportò in un appartamento umano che aveva scoperto qualche giorno prima.

Ci abitava una donna che passava la maggior parte del tempo fuori basa e tornava solo per dormire.

Si infilò nel bagno e si fece una doccia veloce, poi si teletrasportò di nuovo nel bagno dell'astronave e recuperò i suoi vestiti.

I calzoncini blu erano molto simili a delle culottes, ma gli arrettiani era normale che i vestiti non coprissero più di tanto. Anche il top poteva benissimo definirsi un reggiseno; sopra ci infilò una canottiera blu smanicata e a collo alto che in realtà era solo una rete elastica che non serviva a farla sembrare più vestita.

Tornò nella camera.

Dalton si era svegliato e sedeva sul bordo del letto con addosso solo dei calzoncini marroni.

La sera prima si erano infilati in una stanza vuota e avevano unito due dei piccoli letti.

«Buongiorno.» mormorò Dalton alzandosi per poi raggiungerla, cingerle la vita e baciarla.

«Buongiorno.» ripeté Abigal appena ebbe la bocca libera.

«Dormito bene?» chiese lui per stuzzicarla.

«Non credo di aver dormito molto stanotte.»

«No.» confermò lui riprendendo poi a baciarla a facendo salire le mani lungo la sua schiena «Direi di no.»

«Smettila.» abbozzò Abigal tra un bacio e l'altro.

«Perché dovrei?» fece Dalton fissando i suoi occhi blu.

Lei si limitò a guardare quelli marroni di lui.

Dalton sbuffò e la lasciò andare. «Di notte sei più affabile.»

Abigal soffocò una risata, poi si sistemò i capelli davanti allo specchio. Erano azzurro chiaro mossi e lei aveva tinto le punte di blu scuro per riprendere il colore degli occhi.

Dalton aveva i capelli castano chiaro tagliati cortissimi, tipo militare, e gli occhi marroni.

Avevano 20 anni lui e 19 lei e, dopo Silver, Raylene e Aprilynne, erano i più grandi del gruppo. Silver ne aveva 22, Raylene 20, Aprilynne 21, Catron 19, Psiche 18 e Kathleen 17.

Abigal era decisamente una bella ragazza. Dalton era muscoloso e aveva l'atteggiamento da capobranco, anche se spesso sottostava alle decisioni degli Ikisatashi.

Nessuno lo aveva detto esplicitamente, ma tra i Connect si era instaurato un certo contrasto tra quelli nati i laboratorio e gli altri 8.

Abigal uscì in corridoio e si guardò intorno.

Dalla sala comune provenivano molte voci.

Raggiunsero gli altri che sembravano aspettare qualcuno, ma chiaramente non loro.

Poco dopo Ethan e Riley si materializzarono al centro della stanza.

«Signore e signori,» esordì Ethan, «un applauso per i primi due Connect che sono riusciti a fare colazione sulla Terra senza essere attaccati da un chimero.»

Avevano già cominciato ad applaudire quando arrivò Silver.

«Site stati due incoscienti!» li incalzò.

«È arrivato il guastafeste.» commentò Riley, che però non aveva mai il fegato di parlare in faccia agli interessati.

«Risparmiaci le battutine!» ribatté Silver e a Riley venne subito il singhiozzo, succedeva sempre quando era agitato.

«Forse non hai sentito bene...» riprese Ethan «SIAMO STATI SULLA TERRA E NESSUNO CI HA ATTACCATO! Ti sembra poco?»

«Non usare quel tono di voce con me!»

Ethan non era scorbutico, ma quando se la prendeva non ci vedeva più.

«Oh, scusa tanto se ho osato parlarti così!» disse in tono canzonatorio «In fondo mio padre non era Pai Ikisatashi, non ho il diritto di parlare.»

Silver era uno che non si lasciava mai guidare dall'istinto animale e non era affatto un attacca brighe, ma non sopportava quando veniva messo in mezzo suo padre.

Lo afferrò per il colletto e lo costrinse a guardarlo negli occhi «Non osare nominare mio padre, non con quel tono, hai capito?»

«Allora Pam Ikisatashi posso nominarla?»

«Non mettere in mezzo i miei genitori, è chiaro?» il suo tono e il suo sguardo non ammettevano repliche.

Raylene, che era arrivata solo pochi istanti prima, si avvicinò al fratello.

«Lascialo stare Silver.»

«Non metterti in mez...» provò a dire Ethan, ma entrambi i fratelli gli lanciarono un'occhiataccia.

«È normale che siamo stressati, Silver, siamo in diciotto dentro questa navicella.»

Il ragazzo mollò Ethan, ma il suo sguardo non si addolcì.

Silver si allontanò velocemente.

«Allora,» esordì Raylene rivolgendosi a Ethan e Riley «dove siete stati?»

«In un bar.» rispose candidamente Ethan.

«E...?»

«Ci siamo seduti, abbiamo ordinato la colazione, ce l'hanno portata e l'abbiamo mangiata. Poi Riley ha detto di dover andare in bagno e io, approfittando della fila alla cassa, me ne sono andato senza pagare. Ci siamo ritrovati fuori e siamo tornati qui.»

«Questo lo immaginavo, solo mi chiedevo come avesse fatto a passare inosservati.»

«Cappelli, mal di testa improvviso per non levarseli e vestiti più simili a quelli umani – naturalmente rubati prima di andare al bar.»

Raylene studiò i due ragazzi.

Ethan aveva i capelli mossi grigio scuro sempre in ordine e gli occhi dello stesso colore, solo più chiaro. Fisicamente era robusto e anche un po' tozzo, ma niente affatto brutto, solo particolare.

Riley, invece era un tipo gracilino e aveva gli occhi arancione scuro, quasi rosso, e i capelli verde acceso.

Bastava davvero così poco per poter girare tranquillamente sulla Terra?

«Naturalmente non abbiamo dato confidenza a nessuno.» farfugliò Riley sentendosi osservato.

«Qualcuno deve tentare.» rifletté Raylene ad alta voce.

«Tentare cosa?» chiese Evelyn.

«Non possiamo rimanere qui, sarebbe un errore. Se vogliamo andarcene e arrivare su un pianeta della Fratellanza dobbiamo riuscire a trovare un modo di riparare l'astronave e per farlo dobbiamo trovare i pezzi che ci servono sulla Terra. In questo caso devono tornarci utili gli umani, ma se vogliamo sapere qualcosa dobbiamo integrarci. Serve qualcuno che provi a vivere sulla Terra, almeno qualche giorno.»

«Ci andiamo noi.» rispose subito Dalton e con noi intendeva chiaramente lui e Abigal.

«Sì, immagino che non darete troppo nell'occhio chiusi in casa per la maggior parte del tempo.»

«C'è chi non ci sta mai se è per questo.» osservò Abigal con naturalezza.

Raylene alzò un sopracciglio, ma non disse nulla.

«Si potrebbe fare.»

«Andiamo anche noi.» questa volta a parlare era stata Kathleen che teneva in braccio Opter, anche se cominciava ad essere pesante, mentre Pit le stava accanto.

Raylene sapeva che i bambini ne avevano bisogno, anzi, forse sarebbero stati quelli che si sarebbero trovati meglio.

«Ok.» acconsentì «Ma starete separatamente. Se qualcosa non va dovete tornare immediatamente. Contattateci solo se sarà indispensabile.» concluse Raylene.

«Quindi...» cominciò Abigal «dobbiamo cercarci un appartamento.»

«Sì.»

«E con quali soldi?»

«Per te non dovrebbe essere difficile procurarteli.» commentò Aprilynne.

«Tu ne guadagneresti di più, puoi starne certa.» rispose Abigal acida. «Almeno fisicamente. Penso che il tuo caratteraccio ti farebbe andare subito in rovina.»

Aprilynne ringhiò, poi si avvicinò ad Abigal con molta tranquillità.

Dalla tasca dei calzoncini jeans tirò fuori una piccola lastra argentata con una striscia nera in alto.

«Cosa sarebbe?»

«Gli umani la chiamano carta di credito. Serve a pagare senza usare fisicamente i soldi. Per Ray è stato un gioco da ragazzi crearne alcune fasulle.»

«Un affitto non si paga con una carta di credito.»

«E tu che ne sai?»

«E tu che ne sai di come pagano gli umani?»

Le due decisero di lasciar perdere le domande. Evidentemente avevano tutte e due qualcosa da nascondere.

«Va bene, allora me la riprendo.»

«No, credo che ma la farò bastare.»

Una volta in possesso della carta di credito Abigal prese Dalton per mano e si diressero verso le rispettive camere per fare le valige.

«Abigal?»

«Sì, Aprilynne?»

«Il codice per usarla lo devi scoprire da sola.»

Davanti alla faccia della ragazza Aprilynne le fece la linguaccia.

 

«Io sono Arlene Garden, la professoressa di scienze e quanto pare questa sarà la tua nuova classe. Sei la benvenuta.»

Kathleen annuì sorridendo e si diresse verso l'unico posto libero al terzo banco della fila centrale.

Dopo tre giorni sembrava fosse nata sulla Terra.

Quella mattina aveva accompagnato i fratelli a scuola – prima e seconda elementare – poi era scesa al piano di sotto dove avrebbe seguito le sue lezioni liceali.

Aveva dovuto mentire sulla sua data di nascita e dichiarare di avere un anno di più altrimenti, in quanto minorenne, avrebbe avuto dei problemi ad abitare da sola con i fratelli.

Si sedette accanto ad una ragazza con i capelli neri.

«Piacere, Kathleen Ikisatashi.» disse porgendo la mano alla ragazza.

«Sharlot Akasaka.» rispose lei stringendole la mano.

«Da dove vieni?»

Kathleen si sentì sbiancare. E ora cosa diavolo rispondeva?

«Vengo da... dall'altra parte della città, mi sono trasferita da poco.»

Mentre la lezione cominciava, Kathleen studiò il viso di Sharlot.

Dove l'aveva già vista?

Quando la professoressa cominciò a spiegare e si scoprì che l'argomento era astronomia Sharlot abbandonò la testa sul tavolo.

«Ok, ci siamo giocati la prof.»

«Perché?»

«Adora astronomia e comincia a parlare a ruota libera. Non fa che stupirsi di quanto sia grande e inesplorato l'universo, dei misteri che nasconde, di possibili forme di vita, eccetera, eccetera. Io non capisco cosa ci trovi di tanto entusiasmante negli alieni. Voglio dire, se l'universo è infinito è normale che esistano, mi sorprenderebbe il contrario.»

«Ti stai mettendo a parlare a ruota libera anche lui.»

«Scusa.»

«Tranquilla, era interessante.»

Sharlot rispose con una strana smorfia.

Kathleen sentì il suo cuore perdere un battito.

Certo che aveva già visto Sharlot! Era la ragazza con le ali blu! La sorella aveva aggredito Aprilynne e lei l'aveva fermata appena in tempo.

«Ikisatashi.» la chiamò la professoressa. «Sentiamo il tuo parere, magari per una volta è qualcosa di diverso.»

Kathleen lanciò uno sguardo veloce alla lavagna. Si parlava chiaramente di alieni. Il piccolo umano con la testa gigante e gli occhi allungati era inconfondibile.

«Penso che...» forse era troppo rischioso. Forse tirando fuori l'argomento anche Sharlot l'avrebbe riconosciuta. Era improbabile che l'avesse già fatto. Kathleen portava delle lenti a contatto marroni e aveva tinto i capelli di una tonalità più scura che li faceva avvicinare molto di più al rosso. «Penso che, se esistessero degli alieni e venissero qui sulla Terra, io li vorrei incontrare.»

«Che assurdità.» commentò Sharlot «Perché mai degli alieni dovrebbero essere interessati a venire sulla Terra?»

«Magari non sono interessati al pianeta in sé, ma agli umani.» rispose di slancio Kathleen abbandonando il condizionale e guardando la compagna di banco dritta negli occhi.

«Perché?»

«Per lo stesso motivo per cui noi ci interessiamo a loro: spirito di conoscenza.»

«Sì, certo.» ma si vedeva che tentennava.

«Se venissero qui in cerca di aiuto cosa faresti?»

Kathleen temette veramente di essersi spinta troppo oltre, ma Sharlot fu colpita da quelle parole più di quanto avesse voluto. I suoi dubbi non facevano che riaffiorare.

«Non esiste lo spirito di conoscenza, è una scusa. Quando si scopre una nuova terra la prima cosa che si fa è conquistarla, uniformarla ai propri standard, senza preoccuparsi di niente e di nessuno. Dopo, quando ormai il danno è fatto si comincia a pensare che magari abbiamo fatto qualcosa di incredibilmente sbagliato.» le parole erano giuste, ma dette in modo vuoto, come se fossero semplicemente state lette da un copione o recitate a memoria.

«Questo forse è il pensiero umano, non è detto che sia anche quello alieno.» questo colpì particolarmente Sharlot, tanto da costringerla ad alzare lo sguardo e studiare il volto di Kathleen. Ma nei suoi occhi vide solo convinzione, nessun tentennamento, e dovette piegarsi sotto il peso di quelle parole. Non tanto perché fossero vere, ma per lo slancio e il sentimento, in qualche modo anche risentimento, con cui erano state pronunciate.

Kathleen sapeva di essere nel torto, almeno in parte. Se sulla Terra fossero arrivati i politici arrettiani di quel momento non avrebbero esitato a conquistare il pianeta e non sarebbero certo bastate due adolescenti umane a mettere loro i bastoni tra le ruote. Ma sapeva bene quali erano le sue intenzioni e quelle degli altri ragazzi.

Loro stavano sfuggendo da quel pianeta, ma solo per poterci tornare. Stavano cercando aiuto. Avrebbero voluto raggiungere uno qualsiasi dei pianeti o dei sistemi della Fratellanza e perorare la causa di Arret in tutti i modi possibili.

Sharlot, come chiunque altro, non poteva accusare tutti loro per qualcosa che pochi avevano creato.

Se sulla Terra fosse accaduta una cosa del genere sarebbe stata la stessa cosa. Terrestri e arrettini non erano affatto diversi.

Il fatto che Sharlot stesse tranquillamente seduta accanto a lei senza essersi ancora accorta di nulla era la prova.

«Un confronto molto interessante.» commentò la professoressa per poi riprendere uno dei suoi discorsi.

«Non ci interrogherà per tutto il trimestre.» sorrise Sharlot.

«Davvero?»

«Puoi scommetterci. La Garden è una donna simpatica, ma non si può dire che abbia tutte le rotelle a posto.»

Uscite da scuola Kathleen dovette fiondarsi al piano di sopra per recuperare i fratellini mentre Sharlot si diresse a lavoro, ma le due si diedero appuntamento nel pomeriggio.

Kathleen aveva deciso che non si sarebbe presentato mai al bar, tranne casi eccezionali. Voleva diventare amica di Sharlot perché le era simpatica, non per fare la spia. Visto che prima o poi avrebbe dovuto vuotare il sacco voleva avere almeno quel punto a suo favore.

Opter era entusiasta del suo primo giorno di scuola, Pit un po' meno.

Su Arret nessuno di loro avevano frequentato le scuole.

Loro Ikisatashi avrebbero anche potuto, almeno all'inizio, ma i genitori lo avevano, giustamente, ritenuto poco saggio.

Aprilynne, Catron, Silver e Raylene avevano imparato moltissime cosa dai genitori e si sarebbero sicuramente dimostrati più preparati di molti altri arrettiani. Lei e Psiche erano state meno fortunate.

Avevano imparato molto dai genitori, ma non quanto gli altri.

Con la carta di credito Kathleen aveva comprato tutti i libri di testo che servivano a lei e ai fratellini più quelli degli anni di liceo che aveva saltato. Non aveva intenzione di studiarsi tutto, ma almeno di dare lo sguardo a quella che, sotto molti aspetti, era la cultura terrestre.

In particolare era rimasta affascinata dai volumi di storia e geografia.

Preparò velocemente il pranzo. Con la famosa carta di credito era costretta a comprare tutto in grande per poter giustificare il pagamento senza contanti.

«Allora, com'è andata oggi a scuola?» chiese allegra.

«Bene!» esultò Opter.

«Male.» brontolò Pit.

«Male?»

«Perché dobbiamo studiare tutta quella roba? L'inglese lo parlo e anche abbastanza bene, la ginnastica che fanno fare è penosa, la matematica è così elementare che dubito che persino Silver l'abbia mai studiata e religione non ho ancora capito che cos'è. Prima che iniziasse la lezione è uscita mezza classe, poi la professoressa mi ha chiesto “in che cosa credi?” io ho risposto che credo in un sacco di cose, in particolare in quelle che mi vengono spiegate bene. Lei mi ha rifatto la domanda mettendoci in mezzo la parola religione e io ho detto “credo che nessuno mi abbia mai spiegato cos'è la religione”.»

Kathleen rise. Purtroppo nell'epoca in cui vivevano c'era veramente poco tempo per poter credere in qualcosa. E poi a lei veniva difficile.

Pit la guardava in attesa di spiegazioni, ma quello era un argomento che lei non voleva affrontare.

«Provvederò a farvi uscire all'ora di religione.»

«Un'ora in meno! Bello!»

«Per quanto riguarda il resto devi seguire le lezioni Pit, è importante. Se su Arret non ci fossero i tempi bui di adesso ci andresti già da un anno.»

«Beh, si vede che almeno una cosa buona i cattivi l'hanno fatta.»

Kathleen scosse la testa divertita.

A quanto pareva quei due si erano integrati meglio di un umano. Non che avesse dubbi. Nessuno resisteva alla loro simpatia.

Dopo pranzo Pit e Opter si misero a giocare nella loro stanza. Era una specie di acchiapparella alla fine, solo che loro si arrampicavano dappertutto e si nascondevano negli angoli più impensati.

Kathleen si sedette a gambe incrociate sul grosso divano beige e prese a sfogliare il libro di geografia. Era interessata al clima degli ultimi decenni.

Il testo parlava di un rapidissimo degrado ambientale cominciato 25 anni prima praticamente all'improvviso. Era riportata persino una data.

12 giugno.

Nel mese precedente la natura aveva sembrato volersi vendicare e si era reimposta sul pianeta con una forza e una violenza inaspettata. In diversi punti della Terra, ma contemporaneamente, interi boschi erano comparsi come dal nulla un po' ovunque dopo piogge fuori stagione.

E poi, da un giorno all'altro, tutto era cessato. I boschi avevano cominciato a rinsecchire e l'intero pianeta aveva cominciato ad appassire.

L'aria si era fatta sempre più tossica, l'acqua sempre più inquinata, la terra sempre meno fertile.

Il fuoco aveva consumato intere parti di pianeta e l'avrebbe certo distrutto tutto se gli umani non lo avessero placato. Ma a caro prezzo.

La popolazione del pianeta si era velocemente ridotto a meno di un quarto di quella originaria.

I potenti delle nazioni che erano sopravvissute si erano incontrati e messi d'accordo sul da farsi. Avevano scelto il Paese più fiorente e vi avevano radunato tutta la popolazione mondiale. Si stabilì che con le risorse ancora disponibili sarebbero state utilizzate per costruire grattaceli che avrebbero ospitato tutte quelle persone. Furono scavate fittissime reti di comunicazioni sotterranee.

Nelle città più grandi – come appunto New York, dove si trovavano – all'esterno c'erano ancora strade e marciapiedi e si vedeva qualche auto vecchissima o i mezzi di trasporto dei ricercatori, ma bastanza andare più in periferia per scoprire che la parte all'esterno dei grattaceli era stata ricoperta di terra e lasciata completamente, o quasi, a sé stessa.

Lo stesso era successo in praticamente tutto il resto della Terra. In America si era concentrata tutta la specie umana e, di conseguenza, gran parte di quelle animali, ma il resto del pianeta era stato abbandonato, in attesa che l'aria e l'acqua si purificassero e che la vita tornasse.

Ma le piante erano stanche e anche filtrare l'aria sembrava risultare faticoso per loro.

Alcuni umani erano incaricati di andare, con l'attrezzatura adeguata, in giro per il mondo a controllare come procedessero le cose.

Negli oceani erano stati istallati dei purificatori, la terra veniva continuamente nutrita e seminata, nell'aria non venivano più immessi gas tossici da decenni.

Nel frattempo l'umanità era diventata autonoma.

Allevava e coltivava per mangiare, si fabbricava tutte le materie prime e tutto ciò che prendeva dall'ambiente era l'aria.

Veniva filtrata fino a purificarla quasi completamente e una grandissima quantità di idrogeno e ossigeno venivano sottoposti ad azioni chimiche per ricavarne acqua potabile.

Per spostarsi da un grattacelo all'altro si viaggiava sottoterra.

L'unico mezzo di trasporto era una specie di metropolitana gigante e rapidissima che attraversava tutta l'America. La si poteva usare per spostarsi all'interno della città, ma anche per viaggiare da una all'altra.

Le persone, però, la usavano molto poco perché erano diventati molto sedentari, almeno per la maggior parte.

Il quartiere in cui vivevano era quello che aveva la maggiore estensione all'esterno dei grattaceli.

Per le strade si trovavano ancora qualche vecchio negozio, ragazzi che giravano e altri luoghi appartenuti al passato come fontane al centro di grandi piazze e parco-giochi.

Questo spiegava perché, quando giorni primi ne avevano cercato uno, l'avevano trovato deserto.

Inoltre, per garantire la sopravvivenza della specie umana e la sua salute, erano stati imposti dei corsi di ginnastica obbligatori – si poteva scegliere tra diversi sport, ma bisognava cambiare ogni anno, in modo da farli un po' tutti – e era stato stabilito che ogni coppia sposata dovesse avere almeno due figli.

Erano regole piuttosto rigide, ma Kathleen era abbastanza matura da apprezzarne l'importanza.

Era così immersa nella lettura che sobbalzò quando sentì suonare il campanello.

Si ricordò di Sharlot.

Corse in camera dei fratellini e ordinò loro di stare buoni e loro annuirono con una faccia da finti angioletti.

«L'importante è che non usciate di casa e non usiate il teletrasporto.»

 

Sharlot stava per citofonare di nuovo quando la porta si aprì.

«Scusa, stavo leggendo.» si giustificò Kathleen.

«Non fa niente.»

«Entra pure, dammi un minuto per sistemarmi.»

La ragazza si guardò intorno mentre Kathleen spariva dietro una porta.

L'appartamento era molto piccolo.

Si entrava direttamente in un salone sul fondo del quale si trovavano un tavolo da pranzo e, addossato alla parete, l'angolo cottura, il piano di lavoro e i vari elettrodomestici.

Era arredato con l'essenziale e con un certo buongusto per la praticità – il che non era facile visto che il legno e i suoi derivati erano stati severamente banditi dal commercio; persino i fogli su cui scrivere erano in plastica anziché in carta.

Sul lato destro della stanza si affacciavano tre porte: due camere da letto e un bagno.

Sharlot notò che Kathleen era entrata nella stanza centrale mentre le voci dei fratelli provenivano da quella laterale.

«I tuoi genitori?» chiese quando la ragazza fu ricomparsa.

Il suo sguardo s'incupì di colpo e prese a fissare il pavimento. «Loro... non ci sono più. Sono passati poco più di due anni.»

Uno strano sorriso amaro si dipinse sul volto di Sharlot mentre sussurrava «scusa»

«Che c'è?»

«Anche i miei genitori non ci sono più. Mia madre l'ho conosciuta pochissimo, se n'è andata quando ero molto piccola, mia sorella se la ricorda. Però ho molte sue foto. Mio padre è scomparso quasi due anni fa.»

«Come si chiamavano?» chiese Kathleen mentre si dirigevano verso l'ascensore del piano.

«Papà Kyle, mamma Mina. Lei era diversi anni più piccola di papà. I tuoi?»

«Mio padre si chiamava Tart, mia madre Paddy, loro non si levavano neanche un anno.»

«Sono nomi allegri.» osservò Sharlot. «Quindi tuo padre si chiamava Tart Ikisatashi. Tua madre?»

«Ikisatashi.»

«Anche lei?»

«Sì.»

«E non lo trovi strano?»

«Sì, ma non più di tanto. Vedi da dove vengo io Ikisatashi era un cognome più o meno comune. Veniva dato agli orfani. Vuol dire speranza

«Non avevo mai sentito una cosa del genere. Di che origini sei?»

«Come?»

«Prima dell'Assemblamento, da dove veniva la tua famiglia?»

Kathleen non sapeva che rispondere, così buttò lì l'unico Paese di cui ricordava il nome.

«Giappone.»

«Davvero? Anche la mia!»

«Ah... ma non mi dire...» rispose lei un po' imbarazzata: si era messa nei pasticci da sola.

«Mia madre era giapponese, papà americano, però aveva anche lui origini giapponesi, il cognome lo conferma.»

«Aizawa.»

 

Continuò a salire le scale senza curarsi di essersi fatta più di mille piani a piedi – in realtà volando, anche piuttosto velocemente.

Proseguì finché non arrivò all'ultimo.

Studiò il vetro rotto sopra la sua testa.

Evidentemente lì non c'era stato ancora nessuno dall'attacco del chimero.

Si specchiò su una superficie metallica.

Rimise nella borsa gli occhiali, si levò il capello e sciolse la coda di cavallo.

La criniera di ricci magenta tornò a gonfiarsi ed a occupare tutto lo spazio in prossimità della sua testa. Si levò i capelli dalla fronte e li legò in una sopra-coda dietro la testa con altre ciocche laterali in modo da non averli davanti agli occhi.

Si fissò a lungo, cercando di vedere oltre le sue iridi fucsia.

Quanto desiderava avere delle risposte...

Alzò leggermente lo sguardo e incontrò un altro paio di occhi di un azzurro chiarissimo e fredde come il ghiaccio.

Stava per urlare, ma lui la voltò facendole sbattendola la schiena contro la parete e mettendole una mano davanti alla bocca.

«Ciao.» disse «Credo di ricordi di me, anche se il nostro ultimo incontro è stato piuttosto... veloce.»

Psiche sentì il suo battito accelerare.

Impedì che la sua parte animale potesse sopraffarla. Non voleva rivelare nulla a quell'uomo.

Chiunque fosse.

Provò a dire qualcosa, ma i suoni erano soffocati dalla mano dell'uomo.

«Tranquilla, se vuoi ti lascio, ma tu non devi strillare.»

Psiche annuì.

Lui scostò la mano, prima di poco, per paura che poi la ragazza urlasse comunque, poi completamente.

«Molto meglio.» commentò.

Psiche tenne la bocca serrata.

Ora ricordava dove aveva visto quell'uomo: nel negozio di elettrodomestici, aveva visto il suo riflesso, poco prima di incontrare quel Marcus Eveans. Valutò l'ipotesi che potesse trattarsi della stessa persona, ma tra i due non c'era più somiglianza di quanta ce ne potesse essere tra due passanti a caso.

Quell'uomo non poteva neanche essere una guardia arrettiana inviata dal governo, altrimenti avrebbe avuto un modo completamente diverso di reagire. Di sicuro, però, non era umano.

«Allora, che notizie mi porti dal nostro lontano pianeta?»

«Non belle.»

«Belle o brutte dipende dai punti di vista.»

«Brutte per me

«Non mi sembra che ti sia andata così male, in fondo sei sulla Terra. Mi chiedo come tu ci sia arrivata.»

Psiche tornò a serrare la bocca.

L'uomo fece un respiro profondo, come per mantenere la calma.

«Non ho alcuna intenzione di farti del male ragazzina, mi sei anche simpatica, tutto ciò che voglio sono un po' di informazioni.»

«La gente muore per delle informazioni.»

«Già, ma noi possiamo trovare un accordo, no?»

Psiche rimase in silenzio, ma non poté fare ameno di alzare un po' il sopracciglio.

«Anche tu hai qualcosa che vuoi sapere in fondo.»

Psiche lo fissò direttamente negli occhi, rivelando più interesse di quanto volesse.

«Già.» commentò l'uomo «Ma vedi, io e te, insieme, abbiamo le risposte a tutte le domande. Posso insegnarti a scoprire chi sei, da dove vieni, di cosa sei capace.»

«Se dipende da me allora posso scoprirlo anche da sola.»

«So molte più cosa di te quanto non credi. Del tuo passato.»

«È il presente che mi interessa.»

«Non c'è passato senza presente.» ruggì l'uomo spazientito rinforzando di colpo la presa sulla ragazza.

«Se non vuoi darmi ciò che voglio con le buone, allora lo prenderò con le cattive!»

Dettò ciò l'uomo la bloccò contro il muro e le premette la mano sulla fronte.

Psiche sentì come dei tentacoli entrarle nella testa e dirottare i suoi pensieri costringendola a rivivere dei ricordi.

Si ritrovò mentalmente nel laboratorio mentre Raylene e Silver creavano nuovi Connect.

Poi improvvisamente andò più indietro e vide addirittura i suoi genitori.

Non percepiva il suo corpo e non vedeva sé stessa, ma solo ciò che i suoi occhi e le sue orecchie ricordavano.

Ma sentì la presenza estranea dell'uomo che la stava bloccando contro un muro nel presente.

Percepì i tentacoli che univano le loro menti.

Chissà... magari non erano a senso unico.

Si ritrovò nell'astronave mentre scappavano, nel laboratorio mentre parlava con gli altri ragazzi e vedeva di cosa erano capaci. No. Non doveva mostrare a quell'uomo quello che erano.

Si costrinse a cambiare pensiero e per un attimo ci riuscì, uscendo improvvisamente dal laboratorio su Arret.

Ma durò poco e poi fu di nuovo proiettata nel passato, stavolta più vicino.

Era di nuovo sul tetto, davanti al chimero a forma di cane.

Non poteva permettere che quell'uomo scoprisse la sua parte animale.

Si oppose al suo potere e, come in un violento rimbalzo, entrò nella mente del suo aggressore e fu il suo turno di esplorare nei suoi pensieri.

Quello in cui si ritrovò era uno strano universo.

Non era fatto di materia concreta che il corpo poteva raggiungere e manipolare, ma di immagini che scorrono senza seguire un ordine logico o cronologico, di frasi che aleggiano ovunque e che la mente può intrappolare e modificare. Perché in un luogo del genere è la mente che comanda, è lei l'unica che decide su quali frasi soffermarsi, a quali immagini dare di nuovo vita, in quali sensazioni scavare a fondo, dove cercare.

È un cerchio chiuso fatto di ricordi dove tutto ciò che sei è la tua volontà.

Dove non importa quali sono i tuoi limiti fisici, ma quanto conosci te stesso.

In un luogo così, a comandare è la psiche. E non importa che sia quella del proprietario di quel piccolo, infinito, universo, o solo un estraneo che è riuscito ad accedervi. Non vince il più forte, ma chi sa, per istinto o per esperienza, cosa fare, cosa e dove cercare.

Psiche sentiva che quel posto non era adatto a lei. Percepiva fin troppo chiaramente quanto non fosse la benvenuta in quell'universo.

Non sapeva come muoversi, ma come difendersi sì.

Era riuscita a far uscire quell'uomo dalla sua mente, aveva creato uno scudo invalicabile intorno ai propri ricordi e ai propri pensieri.

Sentiva la rabbia dell'uomo. Così come la sorpresa e un'eco di curiosità.

In quel posto senza colore e senza calore lei vide le tenebre gelide del suo animo.

Sentiva che lui insistentemente tentava di estraniarla da quel mondo.

I tentacoli che poco prima si erano intromessi nei suoi ricordi ora tentavano inutilmente di riafferrarla e trascinarla fuori di lì. Ma erano tentativi vacui e deboli che poteva tranquillamente mettere da parte senza timore che potessero poi sopraffarla.

Possibile che quell'uomo che le sembrava così potente fosse diventato improvvisamente così debole? Che lei riuscisse a fermarlo con la sola forza di volontà?

Sembrava proprio di sì.

Ma cosa fare? Cosa cercare?

Si fermò ad ascoltare ciò che c'era intorno a lei.

Forse il suo inconscio, forse quello dell'uomo.

 

Anche tu hai qualcosa che vuoi sapere in fondo.

 

Già, ma cosa? Che cosa poteva mai dirle quell'uomo?

Come poteva sapere chi era lei?

 

Ma vedi, io e te, insieme, abbiamo le risposte a tutte le domande. Posso insegnarti a scoprire chi sei, da dove vieni, di cosa sei capace.

Se dipende da me allora posso scoprirlo anche da sola.

So molte più cosa di te quanto non credi. Del tuo passato.

È il presente che mi interessa.

Non c'è passato senza presente.

 

Non c'è passato senza presente.

 

Le bastò volerlo. Volere delle risposte.

Doveva scavare nel passato di quell'uomo. Aveva tutto il tempo che desiderava. Per quanto la riguardava, ogni orologio si era fermato a metà del nuovo rintocco nel momento esatto in cui le si erano spalancate le porte di quell'universo.

Lasciò che fosse l'istinto a guidarla e non impedì alla sua parte animale di fuoriuscire dal suo inconscio.

Mutò le sue sembianze e improvvisamente si ritrovò ad avere, persino lì, non un corpo, ma una forma.

Formulò una semplice domanda.

Cosa sai di me?

Come uno spirito vagante di cui nessuno può notare la presenza, si ritrovò in un altro posto, in un'altra epoca.

Poteva vedere chiaramente quell'uomo, per niente cambiato a parte l'abbigliamento, al centro di una specie di piazza il cui lastricato in pietra era stato distrutto in più punti.

Tutti erano immobili come se avesse fermato la pellicola di un film nel bel mezzo di una scena e vi si fosse intromessa.

Alle spalle dall'uomo, sospeso a mezz'aria, c'era un ragazzo, un alieno, di circa diciott'anni.

Ci mise un attimo a riconoscere gli occhi di Silver e l'espressione caparbia e allo stesso tempo geniale di Raylene. Ma, più di tutti, in quel ragazzo vide suo padre.

Altri due, un bambino e un quindicenne, erano seminascosti dietro un cespuglio.

Il quindicenne assomigliava in una maniera impressionante ad Aprilynne e a suo padre, mentre il bambino aveva gli stessi occhi arancione miele di Kathleen ed era in tutto e per tutto simile ad Opter, in sostanza, anche lui doveva essere il loro papà.

Prese a guardarsi intorno ampliando il suo campo visivo.

Dalla parte opposta rispetto agli alieni c'erano quattro ragazze umane e una quinta stava in mezzo ai due gruppi. Erano vestite in modo bizzarro per essere delle terrestri.

La prima a cui si avvicinò era una bambina.

Non doveva avere più di dieci anni e, con i capelli biondi corti e arruffati, le ricordava molto Pit.

Anche Kathleen. Alla sua mamma a dire il vero.

Tornò a guardare il bambino alieno.

La sua amica sembrava una perfetta combinazione di entrambi.

Le orecchie e la coda pelose della biondina, poi, erano inconfondibili.

La seconda su cui si soffermò aveva i capelli blu scuro raccolti in due chignon e un piccolo paio di ali sulla schiena. Non assomigliava a nessuno che conoscesse.

Lo stesso valeva per la ragazza con i capelli e gli occhi verdi che le ispirava simpatia.

Si voltò verso quella vestita di rosa.

La osservò attentamente in cerca di dettagli che però continuavano a sfuggirle.

Fece il giro di quella statua incorporea.

Nella sua forma animale, Psiche stava sulle quattro zampe e la testa dei personaggi che la circondavano le risultava un po' lontana.

Voleva più informazioni su di lei.

La fissò intensamente e per alcuni secondi la vide in maniera diversa.

I capelli, ora rossi, erano raccolti in due codini e indossava un'uniforme grigia.

Che assomigliasse a Catron lo avrebbe notato chiunque. Che fosse identica a sua madre, solo chi la conoscieva bene se ne sarebbe accorto.

Erano identici, facevano eccezione solo il colore degli occhi e il fatto che fossero un maschio e una femmina. Persino le orecchie e la coda, colore escluso, erano le stesse dei due fratelli.

Rimaneva solo un'umana.

Nel momento in cui si soffermò su di lei si sentì mancare.

Era Raylene in tutto e per tutto.

I capelli lilla, lo sguardo deciso, il corpo flessuoso e bellissimo, il sorriso appena accennato ed enigmatico.

In un secondo momento vide anche lei con abiti e aspetto più normale e riconobbe il suo colore di capelli, ora di una tonalità molto diversa dal lilla.

Poi, quando tornò sul campo di battaglia, si rese conto di un altro particolare.

Le orecchie e la coda della ragazza.

Il lupo grigio.

Lei stessa, Psiche Ikisatashi, in quel preciso istante, era un lupo grigio.

Continuò a fissare l'immagine più giovane di sua madre finché una resistenza più violenta la costrinse a girarsi a prestare di nuovo la sua attenzione all'uomo.

Con uno sforzo abbandonò la sua posizione statuaria e prese a muoversi in quello scenario surreale e fuori dal tempo.

Dopo aver menato alcuni fendenti al vuoto lasciò che la sua spada cedesse per terra senza fare il minimo rumore.

Sei molto più forte di quanto pensassi. Disse l'uomo senza aprire la bocca, ma forse il suo era un pensiero.

Il lupo grigio puntò i suoi occhi fucsia direttamente in quelli di ghiaccio di lui.

Ti starai chiedendo cos'è questo posto. Beh, questo è il fulcro di tutto quello che è successo e che sta succedendo. Non sai quante volte ho ripensato a questi momenti chiedendomi dove avessi sbagliato. È sempre stato frustrante sapere che sono stato così vicino ad avere questo pianeta e invece ho fallito. Ma sai, il mio errore è stato banale: mi sono fidato di un umano. Lui era solo uno strumento, doveva contenere parte della mia forza vitale. Invece ha contribuito a distruggerla. È stato pronto a sacrificarsi pur di fermarmi, cosa che non capirò mai. Vuoi sapere che fine ha fatto? Quell'umana vestita di rosa l'ha salvato. Beh, non potevo certo rimanere a guardare. Ho perso il mio corpo, ma non i miei poteri né la mia forza. L'ho maledetto, condannato a veder morire tutti coloro che ama e a sopravvivere a tutti. Io ci ho messo tempo per rigenerarmi, ma non tanto come l'ultima volta. Perché vedi, se l'umano mi ha tradito, l'alieno mi è rimasto fedele. Ti starai chiedendo chi è l'alieno. Questa è una risposta che non intendo darti Psiche.

Lei trasalì.

Come so il tuo nome? Non sono inesperto, ho avuto il tempo di carpire parecchie informazioni dai tuoi ricordi, anche se non è stato abbastanza.

Psiche non poteva sopportare quel discorso unidirezionale. Era il suo turno di fare domande.

Cosa ci fanno qui queste donne?

Lui non le avrebbe risposto. Ma il quel momento era lei a comandare e imporsi sulla sua mente, per quanto non le piacesse.

Loro sono la peggiore specie di essere vivente che siano mai comparse nell'universo! Creature né uname né animali. Loro...

BASTA

Non era una richiesta. Semplicemente non voleva sapere altro.

Fece per uscire, ma fu investita da immagini confuse e suoni che la travolsero.

Per Psiche fu come trovarsi in balia di una mare in tempesta, quando cerchi di riemergere ma ogni volte che riesci a ritrovare l'aria nuove onde ti trascinano di nuovo sotto la superficie dell'acqua.

Sarebbe andata avanti a lungo, ma l'uomo riprese possesso di sé stesso più in fretta di lei e interruppe quello scambio allontanando la sua mano dalla fronte della ragazza.

Psiche si ritrovò improvvisamente di nuovo nel grattacelo e si accasciò per terra facendo scivolare la schiena contro il muro.

Sentiva la testa scoppiarle.

Si disse che non avrebbe fatto mai più una cosa del genere.

L'uomo sembrava dello stesso parere.

«Chi sei?» sussurrò Psiche con un fil di voce appena udibile.

«Il mio nome è Profondo Blu.»

«Chi erano quelli?»

«Le MewMew e i fratelli Ikisatashi. I vostri genitori»

«Che posto era?»

«Tokyo, in Giappone.»

«Quando?»

«Parecchi anni fa.» si limitò a rispondere Profondo Blu. Poi, tenendosi a distanza, sollevò la mano nella direzione della ragazza e dal suo palmo fuoriuscì una strana nebbia nera.

Mentre il velo della notte calava su di lei e la vita si allontanava sempre di più, Psiche sentì l'uomo pronunciare delle ultime parole.

«Era il 12 giugno.»



  Allora...
capitolo denso questo, mi sento soddisfatta.
Ora penso possiate capire chi sono i due personaggi che parlano nei flashback all'inizio dei capitoli.
Spero di non avervi confuso troppo le idee e aspetto le vostre recensioni (...per favore...)
Con affetto
Artemide12

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Capitolo 8
*** Sorpresa ***


Sorpresa

 

Il bimbo dai capelli blu era tutto preso dal suo complicato sudoku da accorgersi appena della sorella più piccola che, da sopra la spalla, gli suggeriva svariati numeri..

Lui si teneva a distanza, le spalle appoggiate alla parete e le braccia incrociate, mentre osservava i due ragazzi.

Lei arrivò proprio in quel momento.

Osservò per un po' i ragazzi.

«A volte mi dimentico che sono dei semplici bambini invece che degli ibridi.» disse lui.

«A me succede il contrario.» rispose lei.

«Mi chiedo se la loro intelligenza sia dovuto solo a...» si fermò, leggermente imbarazzato.

«Ai tuoi geni? Penso proprio di sì. Altrimenti anche Aprilynne e Catron dovrebbero essere dei piccoli scienziati. Mi sembra che si divertano di più a saltare sugli alberi, invece.»

«Non è questo che intendevo dire,» ribatté lui anche se entrambi sapevano che non era sincero «Hanno preso le caratteristiche della mia specie e della tua, il tuo DNA animale, ma se ci fosse anche qualcos'altro? Qualcosa che non sappiamo. Magari un potere o qualcosa del genere che è legato al loro essere ibridi.»

Lei tornò a guardare i due ragazzi che non badavano a loro.

Si rese conto che non le interessava.

Che voleva solo che i suoi figli fossero al sicuro.

«È possibile.» si limitò a commentare con distacco «Ma solo il tempo potrà dircelo.»

 

La campanella di fine giornata del venerdì la riscosse dai suoi pensieri.

Era già passata un'altra ora?

Non se n'era proprio resa conto.

Ultimamente il quella classe il tempo volava.

Aveva concluso le spiegazioni di astronomia e aveva cominciato le interrogazioni.

Quella nuova, Ikisatashi, si era offerta volontaria.

Quella era una ragazza molto promettente, avrebbe potuto ascoltare i suoi insoliti discorsi per ore. Fisicamente era visibilmente più piccola dei compagni, ma era anche molto matura per una ragazza di diciott'anni.

Sospirando recuperò la sua borsa e si diresse agli ascensori.

Per lei quel posto era stato un colpo di fortuna: da anni cercava un lavoro a tempo indeterminato e ne aveva trovato uno che le piaceva moltissimo a soli tre piani di distanza dal suo appartamento.

Appena fu a casa decise di farsi una doccia.

Si sfilò le lenti a contatto e le ripose nella loro custodia. Senza ci vedeva pochissimo, ma era abituata a muoversi per casa senza usare la vista.

Ripose la borsa nel mobile nella cabina armadio, accanto al giacchetto.

Non riusciva a levarsi dalla testa quella ragazza. Kathleen.

Ikisatashi.

Era sicura di aver già sentito quel cognome, ma dove?

Scosse la testa e iniziò a spogliarsi.

Fu allora che sentì dei passi in corridoio.

A quell'ora Marcus avrebbe dovuto essere a lavoro. Forse però era tornato prima.

«Amore, sei tu?» chiese dirigendosi verso la porta della camera e affacciandosi sul corridoio.

Vide una figura a pochi metri da lei, in posizione perfettamente eretta e vestita di scuro.

Non riusciva a distinguere i tratti del volto, ma era abbastanza sicura che fosse Marcus. E chi altrimenti?

«Ciao, Arlene.» la salutò lui.

Lei sorrise mentre l'uomo le si avvicinava.

Si scambiarono un bacio veloce.

Poi però lui si sporse nuovamente verso di lei, la strinse a sé con forza e riprese a baciarla, stavolta con più intensità.

Lei cercò di dire qualcosa, ma lui non glielo permise.

La costrinse ad indietreggiare fino a raggiungere il letto.

Lei, dopo un primo momento di confusione, non si oppose e si lasciò catturare dalle emozioni travolgenti che l'avevano assalita.

 

Kathleen si affrettò a salutare Sharlot con il solito slancio affettivo per poi precipitarsi a casa.

Pit, che si era ostinato ad andare a scuola in canottiera, si era preso un brutto raffreddore, mentre Opter non era andato a scuola a causa di una riunione dei professori.

Non si era mai sentita troppo tranquilla a lasciarli a casa da soli, ma si ripeteva che ora era sulla Terra, non su Arret.

Quando irruppe nel salotto con il suo allegro «Sono a casa!» non ricevette nessuna risposta.

Sentì il suo cuore perdere un battito mentre il silenzio continuava a regnare nell'appartamento.

Era così preoccupata che si teletrasportò all'istante nella camera dei fratelli.

Era vuota, almeno apparentemente.

Sapeva che i fratelli erano dei maghi dei nascondigli e che sapevano non farsi trovare, ma il modo in cui trovò la stanza la fece fremere.

Il letto su cui aveva lasciato Pit era completamente disfatto e le coperte erano per metà a terra.

L'armadio era stato praticamente svuotato, così come lo scaffale pieno dei peluche che piacevano tanto ad Opter.

Sotto a letto non c'era nessuno.

«Pit! Opter! Sono io, uscite fuori!» disse ad alta voce, con tono che voleva essere rassicurante e che invece risultò alterato dalla tensione.

Girò più volte su sé stessa, poi si fermò a premette le dita sulle tempie.

Pensa Kathleen, pensa, dove potrebbe essersi nascosto Opter? Dove?

Conosceva il fratello.

Aveva due modi diversi di nascondersi: per non farsi trovare da nessuno e per farsi trovare solo da lei. Opter sapeva che doveva fidarsi della sorella, ma non sarebbe mai uscito dal suo rifugio se non fosse andata a prenderlo.

Ma dove cercarlo? Dove trovarlo?

Pensa Kathleen, cosa faceva ultimamente?

Aveva finalmente capito come teletrasportarsi, non faceva che allenarsi! E non si allontanava mai troppo. Arriva solo in posti da dove sa tornare anche a piedi.

Si guardò intorno.

Lo sguardo le cadde fuori dalla finestra, proprio sul grosso albero insolitamente verde che arrivava a soli due piani sotto di loro.

Le sfuggì un piccolo sorriso.

A Opter piaceva arrampicarsi.

Si materializzò su un ramo.

«Opter?» sussurrò. «Sei qui?»

Le rispose uno strano suono, come un respiro.

Volando scese di qualche ramo.

Non ci mise molto a trovare il fratellino.

Si era seduto a cavalcioni su un grosso e aveva abbracciato il tronco dell'albero.

In quella posizione si era addormentato. Doveva essere lì da molto tempo.

Kathleen gli appoggiò una mano sulla spalla e lo scosse leggermente.

Lui aprì prima un occhio, poi l'altro, poi se li stropicciò tutti e due.

Solo dopo, di colpo, sembrò ricordarsi di qualcosa e sobbalzò.

«Pit?» chiese.

«Non sai dov'è?»

Scosse la testa «Lui era più lento.»

Kathleen si morse il labbro e si teletrasportò di nuovo nella camera.

Pit era più lento e più stanco, dove poteva essere andato?

Ancora non si chiedeva cosa fosse successo, in quel momento le importava solo di ritrovare Pit.

Dove poteva andare un ragazzo con il raffreddore?

Aveva ancora davanti agli occhi il fratello con addosso ben due giacchetti perché sentiva freddo.

Guardò in alto e vide la grata dell'aria condizionata.

Da lì veniva aria calda.

La raggiunse alzandosi in volo.

La grata era già allentata e fu facile sfilarla.

Il passaggio era molto stretto, troppo per lei, ma Pit, se pur con qualche difficoltà, poteva esserci passato.

«Pit?» chiamò e sentì la sua voce rimbombare.

«Kathleen!» si sentì rispondere dall'eco.

«Pit, è tutto a posto, esci fuori!»

«Non posso, sono incastrato!»

«Teletrasportati.»

«Non ce la faccio!»

Kathleen prese Opter e lo fece infilare a sua volta nel condotto.

Lui riuscì a raggiungere il fratello e poi a materializzarsi con lui di nuovo nella stanza.

A giudicare dall'aspetto, nessuno avrebbe detto che Pit fosse malato, almeno non particolarmente.

«Dì un po', non è che per caso volevi saltare la scuola?»

«Io?» purtroppo la sua espressione parlò per lui e lo dichiarò colpevole.

«Se stai bene perché non ti sei teletrasportato?»

Pit le mostrò il braccio destro: c'era una macchia nera a forma di mano.

«Che diavolo è?»

«Non ne ho idea, so solo che quando mi ha afferrato mi ha lasciato quell'impronta e che poi non sono più riuscito ad usare i miei poteri. Mi sono infilato nel condotto dell'aria perché lì lui non poteva entrare.»

«Ma lui chi?»

«Un uomo. Uno di noi, un arrettiano.»

 

Abigal scese dall'ascensore e si diresse saltellando al suo appartamento.

Lei era riuscita a trovare lavoro da una parrucchiera, dove i suoi capelli non sembravano troppo fuori posto. Per ora stava in cassa e si limitava a svolgere semplici compiti come lavare o asciugare i capelli dei clienti.

Dalton era stato meno fortunato e per il momento se ne stava a casa e si sperava che facesse anche un minimo di pulizie – cosa a cui tutti erano abituati fin da piccole essendo cresciuti in un laboratorio in cui ognuno doveva badare alla propria roba.

Avere un appartamento tutto per loro sembrava un lusso impensabile.

Entrò a casa e si sfilò giacchetto e cappello.

All'inizio non si accorse dell'assenza di Dalton, ma poi cominciò a girare tutte le stanze senza trovarlo.

Si guardò intorno in cerca di qualcosa che indicasse che era uscito.

Ma il giacchetto era ancora appeso nell'ingresso le scarpe sotto una sedia nella camera da letto.

Arrossì leggermente notando il disordine nella stanza, ma non ebbe tempo di pensarci troppo.

La spia rossa del telefono lampeggiava e indicava che c'era un messaggio nella segreteria.

Premette il pulsante e rimase in ascolto.

Una voce maschile che non conosceva cominciò a parlare lentamente e con insana tranquillità.

«Ti starai chiedendo dov'è il tuo amichetto. Beh, è con me. Se vuoi rivederlo vivo devi seguire alla lettera le mie istruzioni. Esci dal grattacelo e vai nel bar che dà sulla piazza vuota. Lì siediti dalla parte della vetrina e attendi nuove istruzioni.»

Abigal si mise una mano nei capelli e si morse il labbro.

Tornò in soggiorno, si rimise giacca e cappello e uscì.

 

«Dov'è Psiche?» chiese Silver.

«Non ne ho idea.» rispose distrattamente Catron, concentrato sulle sue carte.

Lui e sua sorella si erano letteralmente innamorati delle carte francesi, anche se avevano modi molto diversi di giocare.

Catron era praticamente imbattibile, ma Aprilynne non faceva che imbrogliare cambiando le carte in tavola.

Raylene si era fatta accompagnare da Ethan in giro per la Terra. Voleva scoprire come e dove procurarsi il materiale per riparare l'astronave.

A Silver toccava il duro compito di mantenere l'ordine.

Aprilynne si faceva volentieri coinvolgersi in qualsiasi litigio o rissa, a volte era proprio lei a provocarle, ma poi costringeva il fratello a difenderla.

Forse se fosse stato tutto nelle loro mani la tensione si sarebbe allentata parecchio, ma ci sarebbe stata molta più gente con occhi neri o altri tipi di infortuni.

Catron, dopo un lungo momento di riflessione, calò una scala di cuori.

Aprilynne ben otto assi.

«Ehi!» esclamò il ragazzo «Hai barato di nuovo!»

«Non è vero!»

«Sì che è vero! Avevi solo tre carte rosse in mano, non puoi averne calate quattro e poi l'asso di fiori l'ho messo io, insieme al due e al tre.»

«Ti sbagli, era nella partita di prima.»

«Sono sicuro di no, prima abbiamo giocato a poker.»

«Sì, e hai vinto con una scala di fiori: asso, re e donna.»

«No, era di picche.»

«Io avevo le picche!»

«No, tu avevi ne avevi solo una, le altre me le hai fregate poco prima che le giocassi.»

«No!»

«Sì invece.»

«Non puoi ricordarti tutte le carte.»

«E chi me lo impedisce?»

Silver scosse la testa e si diresse nella sala comandi.

Mentre era seduto con lo sguardo fisso nel vuoto notò appoggiato sulla tastiera un foglio piegato con il suo nome sopra.

Allungò il braccio e lo prese.

Ho scoperto cosa sta succedendo.

L'ha capito anche Dalton, ma ora lui è nei guai.

Ti aspetto al piano 1474 del grattacelo con i vetri verdi tra mezz'ora, non tardare.

Psiche.

Silver rigirò il foglietto tra le mani.

Quella era la scrittura della sorella, la riconosceva.

Psiche era uscita la sera prima e nessuno l'aveva più vista, quando gli aveva lasciato quel biglietto?

Da poco, perché fino ad un paio d'ore prima era stato nella sala comandi e poteva giurare che non ci fossero biglietti.

Si guardò intorno, anche se sapeva che non c'era nessuno.

Beh, nessuno se si escludeva Nevery che dormiva sul mobiletto accanto alla porta.

Il palazzo con i vetri verdi... non doveva essere difficile da trovare.

Recuperò un cappello con la visiera, si mise una felpa e si teletrasportò sulla Terra.

Si guardò velocemente intorno.

Ogni grattacelo era contrassegnato dal colore dei vetri che, però, dall'interno sembravano perfettamente trasparenti.

Non ci mise molto ad individuare quello verde.

Vi si materializzò all'interno e salì sul primo ascensore disponibile.

Era un vizio di sua sorella lasciare massaggi invece di comunicare direttamente con le persone.

Aveva anche una specie di istinto eccezionale e trovava sempre il posto giusto per ogni messaggio, lì dove sapeva che solo il destinatario sarebbe andato a guardare, o l'avrebbe fatto semplicemente per primo.

Quando arrivò al 1474esimo piano si rese conto che era enorme e che Psiche poteva essere ovunque.

Decise di andare per esclusione ed evitò gli appartamenti e il supermercato.

Diede un'occhiata veloce a tutti i negozi di abbigliamento o cosmetici femminili, poi passò a quelli di elettronica, di musica, ispezionò tutti i bar.

Non trovando la sorella da nessuna parte andò a guardare in una libreria – era il primo posto dove sarebbe andato lui e pensò che Psiche avesse ragionato in quel modo – in un paio di erboristerie che vide e pian piano in ogni altro negozio del piano.

Dannazione, Psiche, possibile che debba ancora giocare alla caccia al tesoro?

Adocchiò una panchina. Mentre la raggiungeva passò in mezzo ad un numeroso gruppo di ragazzi con i loro cani e a due uomini ben vestiti.

Si sedette e infilò distrattamente le mani in tasca.

Sentì qualcosa di ruvido tra le dita e sfilò un biglietto.

Va' via.

Si voltò verso il gruppo di ragazzi che ormai si era allontanato.

«Ti sbagli Psiche,» disse tra sé e sé «se mi hai fatto venire fin qui c'è un motivo, non puoi mandarmi via in questo modo.»

Si alzò e s'incamminò verso dove erano andati i ragazzi.

 

Nel bar-Caffè che dava sulla strana c'era una strana atmosfera.

A parte lei c'erano solo altre due persone sedute ad un tavolo.

Fece come le era stato ordinato e si sedette accanto alla vetrina.

La cameriera bruna le si avvicinò con un'espressione stranamente dura in viso.

«Desidera?» chiese, anche se non sembrava riferirsi a qualcosa da mangiare.

Abigal la guardò per un po' in silenzio poi, a fatica e con un fil di voce, borbottò: «Qualcosa da bere.»

«Qualcosa da bere? Ma dove crede di essere in una birreria?» non poté trattenersi dall'esclamare Aisha fissando con occhi di fuoco la ragazza con i capelli azzurrissimi, quasi bianchi alla radice e blu sulle punte.

«Non lo so, quello che le pare.»

Aisha si guardò intorno per assicurarsi che la coppia seduta all'altro tavolo non le stesse ascoltando.

Stava per dire qualcosa ma sentì il telefono squillare.

Mentre Aisha si allontanava arrivarono altre due ragazze.

Abigal ci mise un po' a riconoscere Kathleen.

Le due non si salutarono, si limitarono a guardarsi l'un l'altra con aria preoccupata.

Sharlot andò a prendere la roba che aveva dimenticato nel camerino, poi tornò da Kathleen seguita a dalla sorella.

Sharlot notò lo scambio di sguardi delle due aliene, ma non se né curò e uscì nuovamente con Kathleen.

Aisha arrivò al tavolo di Abigal e rimase in piedi di lato, inespressiva.

«Vi vogliono al telefono.»

Abigal alzò lo sguardo.

«Me?»

«Un ragazzo. Dice di chiamarsi Dalton. Ha detto chiaramente “la ragazza con i capelli azzurri”.»

Abigal scattò in piedi e si fece accompagnare da Aisha dietro al bancone.

Afferrò il telefono con mano tremante.

«Pronto, Dalton?» sussurrò.

«Abigal!» si sentì rispondere dalla voce del ragazzo che non sembrò affatto felice di sentirla, bensì angosciato.

«Dalton, che succede? Stai bene?» chiese Abigal tutto d'un fiato senza curarsi dello sguardo inquisitore e indiscreto di Aisha e dei suoi occhi lucidi.

Per tutta risposta qualcuno dette un pugno al ragazzo – lo sentì chiaramente – e poi prese il telefono che doveva essere caduto.

«Abigal?» chiese la voce maschile del messaggio sulla segreteria. La sua voce, ora molto meno metallica come era stata per via della registrazione, suonava ancora più crudele e spaventosa.

Lei annuì, poi, ricordandosi che lui non poteva vederla, sussurrò un flebile «sì»

«Bene, prendi la metro sotterranea e scendi solo quando te lo dico io.» riattaccò.

Abigal rimase immobile, con il telefono ancora appoggiato all'orecchio finché Aisha non glielo strappò di mano.

«Dove pensi di andare?» ringhiò vedendo che la ragazza se ne stava andando.

«A salvare il mio ragazzo!» rispose Abigal alzando la voce in tono accusatorio, anche se le parole le si strozzarono in gola.

Uscì e corse fin nel piano interrato del grattacelo.

Si infilò nella metro appena la vide fermarsi.

Il vagone era particolarmente vuoto.

 

Quando finalmente la vide in mezzo alla folla dovette trattenersi dal gridare il suo nome.

Portava una giacca a vento grigia e degli stivali dello stesso colore. Sotto doveva avere una minigonna perché le gambe erano completamente scoperte.

Corse per raggiungerla, ma lei era già sparita oltre le scale.

Le imboccò anche lui, ma quando si sporse oltre il corrimano vide che la sorella era già arrivata al piano terra.

Si teletrasportò lì in basso, ma Psiche era già corsa più avanti.

Ormai correvano tutti e due, senza curarsi troppo della gente che si voltavano a guardarli.

Il piano terra era particolarmente luminoso e in parte era anche una stazione per cui era molto affollato.

Psiche arrivò alle porte a vetri.

Superò le prime che le si chiusero alle spalle, proprio in faccia al fratello.

Mentre aspettava che si aprissero anche le seconde, Silver la vide voltarsi e lanciargli uno sguardo di malsana sfida che non le apparteneva.

Non sembrava avere solo 18 anni, bensì 25, se non di più, ma era indubbiamente lei.

Silver diede un pugno al vetro, ma non ottenne nulla.

Quando le seconde porte si aprivano, Psiche indietreggiò sorridendo follemente per poi voltarsi e sfrecciare via.

Silver dovette aspettare ben dieci minuti per poter uscire a sua volta all'esterno e poter riprendere l'inseguimento.

Decise che volando si muoveva più velocemente e si sollevò da terra appena uscì dalla visuale dei curiosi che l'avevano notato.

Sfrecciò in posizione quasi orizzontale della direzione in cui era corsa la sorella.

Presto il paesaggio cambiò radicalmente.

Diverse piante si arrampicavano sui grattaceli in cerca di luce e oscurando la visuale alle persone all'interno. Gli alberi erano più alti, ma anche più radi e di pessimo aspetto.

I tronchi erano esili e in parte secchi; le radici estremamente facili restavano in superficie, troppo deboli per poter affondare nel terreno; le foglie erano tutte giallognole o marroni, come in un eterno autunno. Non c'era sottosuolo, se non in minima parte, e, dove non si trovavano resti di vecchie strade, non c'era terra, ma una sterpaglia secca simile a ghiaia vecchia.

Non ovunque.

Silver non lo notò subito, ma sulla destra del sentiero davanti a sé c'era qualche filo d'erba che sembrava aver ripreso colore ed era come se alcuni arbusti si fossero appena svegliati da un lungo sonno di inattività.

Con lo sguardo seguì quella parte di natura fuori posto e completamente isolata.

Era un scia.

Non poteva essere altrimenti.

Silver atterrò e si guardò intorno.

Quel luogo desolato era deserto.

Tolse il cappello e liberò i capelli blu scuro. I piccoli occhi dello stesso colore rimasero vigili mentre si affidava al suo udito per cogliere dettagli che potevano sfuggire alla vista.

Nulla.

Né un passo, né un respiro, né un alito di vento.

Era come trovarsi in una di quelle vecchie foto ingiallite di Arret che mostravano un pianeta desolato che era stato progressivamente abbandonato da qualsiasi forma di vita.

L'aria era gelida e immobile.

Non c'erano animali e i pochi che ancora vivevano si erano ritirati nelle loro tane.

Le piante stavano consumando gli ultimi aliti di vita che quel pianeta poteva fornire e lentamente stavano seccando, avviandosi anche loro alla morte.

Persino il sole sembrava essersi fatto sempre più freddo con il passare degli anni, anche se questo Silver non poteva saperlo.

Inspirando profondamente si accorse che l'aria era rarefatta, ma c'era ancora abbastanza ossigeno.

«Psiche!» chiamò ad alta voce, ma gli rispose solo un'eco del suono che rimbalzava sui vetri dei grattaceli.

Poi, lentamente ma all'improvviso, l'aria cominciò a gonfiarsi e a muoversi in piccole spirali o in cerchi concentrici, come se il pianeta stesse inspirando.

Una debole e gelida folata di vento arrivò dal fondo del viale fino a dove Silver si era fermato, accompagnata da un ululato surreale che scosse il ragazzo.

Quando l'aria tornò immobile, Silver si alzò nuovamente in volo e proseguì lungo il sentiero.

I rami spogli degli alberi sembravano mani ossute che si protendevano verso di lui e che, con il prematuro calar del sole, proiettavano sinistre ombre lungo il sentiero.

Volò il più velocemente possibile e presto anche i grattaceli si diradarono facendosi sempre più bassi e meno frequenti.

Andando avanti cominciarono a sparire anche gli alberi che, troppo stanchi per sorreggersi da soli, avevano bisogno di grosse strutture a cui aggrapparti.

Arrivò dove una volta c'era la periferia, ma non solo, di New York. Tutti gli edifici erano stati abbattiti e la terra arata e seminata molto tempo prima.

A parte qualche vecchio rottame o auto ormai logore, il paesaggio era dominato da una sterpaglia color ocra alta poco meno di una persona che si estendeva a perdita d'occhio. Era così sterminata che, oltre la coltre di nebbia che si stava impossessando della zona, si potevano intravedere le sagome squadrate indistinte dei grattaceli di un'altra città.

Presto, un po' per il buio che era calato, un po' per la nebbia che presto oscurò totalmente la visuale, cominciò a non vedere più nulla da un palmo dal naso.

Continuò a seguire quella strana scia di natura che si era ridestata.

Perse la cognizione del tempo e quando l'oscurità si fece così fitta da impedirgli di scorgere anche quel particolare, davanti a lui sbocciarono dei piccoli fiori dorati, appena visibili, che continuarono ad indicargli la via.

 

Era seduta in un vagone della metropolitana particolarmente silenzioso da più di un'ora e ancora non era successo nulla.

Sussultava ogni volta che vedeva qualcuno muoversi.

La metro, nel suo complesso, era praticamente vuota paragonata all'attività di diversi anni prima.

Erano aumentati posti a sedere, ma erano molti quelli che rimanevano vuoti.

I vagoni erano tutti staccati tra di loro e si muovevano autonomamente e senza nessun tipo di autista lungo appositi binari.

Non si trattava, come molti credevano, di un unico serpentone, ma di singoli vagoni che si muovevano in un'intricatissima rete di gallerie sotterranee.

Abigal era stata guidata fin su un vagone che, ormai uscito dalla città, si dirigeva verso quella più vicina.

L'uomo misterioso non si faceva più sentire da quasi un'ora, ma Abigal non si azzardava a muoversi senza una sua indicazione. Non senza un suo preciso ordine.

Aveva provato, quando era ancora alla stazione, a scappare. La voce dell'uomo aveva riempito gli altoparlanti ripetendo che il vagone era in arrivo anche quando quest'ultimo era mai andato via.

“Si prega i viaggiatori di avvicinarsi agli sportelli di accesso”.

Era lui, senza dubbio, ma lei si era costretta a tornare indietro, al pianoterra.

Lì, a caratteri cubitali sul pannello di controllo degli orari dei vagoni diretti nei diversi luoghi, era comparso il nome di Dalton.

Aveva cominciato a girare su sé stessa, vedendo comparire il nome del suo ragazzo praticamente ovunque e ogni volta con messaggi diversi. Mentre ancora era ferma al suo posto e indecisa, su un grosso schermo pubblicitario era comparse l'immagine Dalton e nessuno, esclusa lei, sembrava essersene accorto. Il ragazzo era steso su un pavimento di legno polveroso e disseminato si aghi di paglia con la testa poggiata su un sacco di fibra vegetale dal contenuto informe – aveva tutta l'aria di esserci caduto sopra. Era pallidissimo, da far paura, gli colava sangue dal naso e nella parte destra della fronte c'era una grossa macchia violacea che doveva essere un enorme livido.

Era corsa giù e si era infilata sul primo vagone.

Rabbrividì ripensando a quell'immagine.

Il posto alla sua destra era vuoto, in quelli davanti c'erano due ragazzi dall'aria un po' trasandata completamente assorbiti dai loro telefonini grandi più di una mani aperta.

Alla sua sinistra c'era un uomo così grosso da occupare due sedili che dormiva profondamente.

Più lontani c'erano un paio di signore che leggevano ebook e un gruppetto di ragazzi che borbottava di continuo formando un sottofondo anche gradevole.

Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.

Il cellulare dell'uomo accanto a lei cominciò a squillare, ma lui continuò a dormire.

La suoneria era una musica così fastidiosa – in realtà sembrava il rumore di unghie che grattano contro una lavagna seguendo un ritmo regolare – che Abigal afferrò il cellulare che l'uomo teneva appoggiato sulla coscia gigante e lo spense.

Subito ricominciò a squillare.

Fece per spegnerlo un'altra volta, ma lo sguardo le cadde sulla parte alta dello schermo.

Dove doveva esserci la foto di chi chiamava vide l'immagine di Dalton, molto simile a quella di prima, ma non la stessa. Al posto del numero di telefono c'era scritto “Rispondi.”.

Abigal si guardò intono mentre il battito accelerava notevolmente.

Nessuno le prestava la minima attenzione.

Davanti allo schermo galleggiavano due piccole sfere olografiche, una verde l'altra rossa.

Chiuse il pugno intorno a quella verde e portò l'apparecchio accanto all'orecchio.

«Tra pochi secondi attraverserete un breve tratto all'esterno. Scendi dal vagone.» riattaccò.

L'istante dopo si ritrovarono all'aperto.

Fuori c'era il buio più totale.

Si alzò in piedi.

Come scendere?

Sapeva fin troppo bene che teletrasportarsi da un luogo in movimento era troppo rischioso.

I vetri erano infrangibili e le porta non si aprivano se non a destinazione.

Nei minuti di indecisione che seguirono il vagone riscese sottoterra.

Abigal si sentì morire.

La voce dell'uomo risuonò negli altoparlanti dislocati all'interno del vagone.

«La ragazza con i capelli azzurri è una criminale, preghiamo i passeggeri di fermarla.»

A quel punto tutti alzarono la testa, dapprima in ascolto, poi fissarono dritti verso di lei.

Nessuno si mosse.

Poi si alzò una ragazza dal fondo del vagone e le si avvicinò lentamente.

Era la cameriera del bar-caffè che era stata la sua prima tappa. Era Aisha.

Vedendo che tutti la osservavano con diffidenza sfoderò un falso sorriso.

«Polizia.» disse seria, anche se non era vero.

Abigal, gli occhi sgranati, indietreggiò fino a trovarsi con le spalle contro una parete.

L'istante dopo il vagone frenò bruscamente, Aisha rotolò a terra, e se ne andò la luce.

Qualcuno urlò.

Abigal ne approfittò per teletrasportarsi fuori dal vagone.

Tra il grosso cilindro metallico e la parete della galleria c'era lo spazio per farci passare una persona.

Abigal vi s'infilò e, tenendo la schiena contro la parete, camminò verso l'uscita in superficie.

Dopo poco sentì uno schianto.

Aisha, che aveva appena sfondato la porta del vagone, saltò giù si infilò a sua volta nel piccolo spazio vuoto.

Dai suoi passi Abigal la sentì avvicinarsi velocemente e, mentre dal fondo della galleria, la luce cominciava a tornare, riuscì a scorgere la sua sagoma.

Non la vide in faccia. Portava degli occhiali di ultima generazione per la visione notturna.

«Non credere di potermi sfuggire.» la sentì minacciare mentre strisciava velocemente verso l'uscita. Sentiva un freddo pungente provenire dallo sbocco in superficie. Si mosse il più velocemente possibile.

Quando il vagone finì poté muoversi molto più liberamente.

Per uscire trovò una scaletta. Salì in fretta e si nascose tra l'erba alta.

Aisha arrivò poco dopo. Appena fu all'aria aperta liberò le sue ali colorate e spiccò il volo per avere una visuale dall'alto.

Abigal si stese completamente per terra, lasciando che la sterpaglia la coprisse.

Cercando di fare il minimo rumore possibile strisciò in avanti facendo leva sui gomiti.

Dunque era questo che voleva quel bastardo! L'aveva fatta cadere in trappola.

Ben presto si ritrovò nel fango, ma si trattenne dal fare commenti.

Alzò lo sguardo, per quanto le fosse possibile.

Aisha era proprio sopra di lei, anche se probabilmente non l'aveva ancora notata.

In questo modo non sarebbe andata da nessuna parte.

Si diede una rapida occhiata.

Aveva lasciato cappotto e cappello nel vagone della metro e indossava solo un vestito e le scarpe.

Ringraziò che la sua parte animale fosse più che abituata la freddo.

Si sfilò le scarpe usando le punte dei piedi mentre con la mano slacciò la zip del vestito.

Si concentrò sulla sua parte animale.

Lasciò che la invadesse totalmente e non la fermò neanche quando sentì il suo corpo cambiare: era quello che voleva.

Si rimpicciolì notevolmente finché non assunse le sembianze di una volpe artica.

Ora che era più piccola poté tranquillamente uscire dal suo vestito passando dal collo già molto largo a causa della scollatura abbondante.

Piegò alla bell'e meglio il vestito facendo attenzione a non perdere la biancheria intima che si era dovuta sfilare e lo prese in bocca.

Cominciò a correre il più velocemente possibile.

Aisha non poté non notare un animale che si muoveva in quella zona desolata, ma era troppo buio perché notasse che era proprio una volpe artica e all'inizio la lasciò stare.

Solo quando l'aveva già persa di vista capì cos'era quello che portava in bocca.

Volò nella direzione in cui l'aveva vista l'ultima volta, ma non sapeva che lei era molto più veloce di un normale animale.

Abigal, neanche troppo lontana, si ritrovò davanti a tre vecchie auto.

Una era bruciata, un'altra non aveva né ruote né sportelli e l'ultima aveva tutta la parte anteriore ammaccata, ma non sembrava messa troppo male.

Si infilò in quest'ultima e si accucciò tra il sedile e i pedali.

Rimase immobile finché non sentì Aisha superarla in volo.

Solo dopo riprese le sembianze umane e si rinfilò i vestiti.

Mentre riprendeva fiato sentì la risata dell'uomo misterioso a pochi centimetri da lei.

Si sentì mancare e solo dopo si accorse che proveniva dall'autoradio della macchina – che si era attivata più o meno magicamente dopo chissà quanti anni di inattività.

«Ora arriva nella casa in fondo al campo.»

«Dove?» riuscì a chiedere Abigal che non vedeva nulla fuori dal finestrino.

«A nord. Dovresti conoscerle le stelle.» la radio si spense.

Abigal alzò lo sguardo dove, attraverso un buco nel metallo del tettuccio, si scorgeva uno spicchio di cielo stellato.

Ma quelle non era le stelle che conosceva. Non sapeva cosa pensare.

In preda alla disperazione e con le lacrime agli occhi riuscì a mettere in moto quel vecchio catorcio arrugginito e a mettersi al volante.

Per fortuna nei giorni precedenti si era fatta dare un passaggio dalla parrucchiera per cui lavorava che era una delle poche ad avere ancora una macchina e si ricordava qualcosa.

Strinse la mani attorno al volante fissando la strada accanto a sé.

Un solo faro funzionava e illuminava una ristretta parte del campo davanti a lei.

Senza sapere in quale direzione si stesse muovendo proseguì dritta aprendosi un varco tra l'erba alta. In quel punto sembrava più verde.

Poi, come all'improvviso, vide qualcuno o qualcosa davanti a sé e, urlando, fece appena in tempo a frenare e non investire Silver.

Ci mise diversi minuti a riconoscerlo.

Anche lui si stava lasciando andare alla sua parte animale e in quel momento sembrava un lupo mannaro durante la trasformazione.

Quando Abigal scese dalla macchina a lo chiamò per nome, Silver tornò in posizione eretta e cominciò a riprendere le sue sembianze umane.

Salirono entrambi in macchina e ripresero fiato.

«Che ci fai qui?» chiese Silver.

«Lui...» ansimò «ha preso Dalton. Continua a farsi sentire, a dirmi cosa fare, dove andare. Io l'ho visto. Sembrava morto! Silver, ti prego dimmi che sta succedendo!» Abigal urlò verso la vine della frase e non poté più trattenere le lacrime.

«Io, non ne ho idea. Sto seguendo Psiche, mi ha lasciato un messaggio in cui diceva che aveva scoperto quello che stava succedendo.» mentre parlava Silver tirò fuori il foglio stampato che Psiche gli aveva lasciato nella sala comandi dell'astronave.

«Che facciamo?» chiese Silver dopo un lungo, angoscioso, silenzio.

«L'uomo ha detto che devo arrivare in una casa a nord del campo.»

Il ragazzo alzò lo sguardo verso il cielo stellato.

«Come pensavo.» commentò.

«Cosa?»

«Anche io stavo andando a nord. Prosegui verso destra.»

Abigal, muovendosi meccanicamente, rimise in moto e fece come aveva detto Silver.

Raggiunsero la casa poco dopo.

Non c'erano luci accese, ma i due entrarono lo stesso.

Dentro c'era odore di muffa e di sangue rappreso.

C'era una sagoma scura al centro del pavimento.

«È...?» cominciò Abigal.

«Dalton?» rispose la voce di Profondo Blu dal fondo della stanza. «Sì, è proprio lui.»

Silver e Abigal indietreggiarono istintivamente, ma qualcuno, alle loro spalle, chiuse la porta.

Profondo Blu schioccò le dita e la luce si accese.

Davanti alla porta chiusa c'era Psiche, perfettamente riconoscibile anche se sembrava in tutto e per tutto una donna adulta sui quarant'anni.

«Sorpresa.»





Allora...
per sapere come continua dovrete aspettare! xD non odiatemi, non ho resistito alla tentazione di lasciarlo così!
Ora vorrei fare un breve riepilogo dei personaggi.
Connect: Aprilynne, Catron, Silver, Raylene, Psiche, Kathlen, Pit e Opter.
Abigal, Dalton, Electra, Fight, Fosfor, Evelyn, New, Nevery, Raley, Ethan.
Poi ci sono: Aisha e Sharlot e altri due ragazzi di cui ancora non si sa il nome.
Penso di aver finito.
Aspetto di sapere cosa ne pensate.
Con affetto,
Artemide12

p.s.
ho trovato delle immagini di alcuni dei personaggi


Raylene, esattamente come l'avevo immaginata,
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Aprilynne,
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Opter, anche lui proprio come dovrebbe essere
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Catron, molto somigliante,
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Kathleen, anche lei molto simile a se stessa, anche se la foto non mi piace molto,
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Aisha, praticamente perfetta,
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Sharlot, nella divisa di camerirera, anche se l'avevo immaginata leggermente diversa,
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Oro,
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Abigal,
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Evelyn,
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New,
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Fosfor,
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Faith

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Capitolo 9
*** Non ne hai la minima idea ***


Non ne hai la minima idea.

 

Un vento gelido le si infranse contro, ma lei si limitò a incrociare le braccia per conservare un minimo di calore.

Lui, da dentro, la vide, ma non disse nulla.

Si limitò ad allontanarsi in rispettoso silenzio.

Capiva cosa stava provando lei. Anche lui aveva visto il suo pianeta cadere a pezzi sotto i suoi occhi. Conosceva fin troppo bene quel senso si impotenza. Era il motivo per cui aveva sviluppato una mente così fredda e calcolatrice. Lo tranquillizzava saper dare una spiegazione a ciò che succedeva, avere la situazione sotto controllo.

Si sedette di fronte allo schermo olografico.

Terra che si impoveriva, aria sempre più rarefatta, acqua inquinata, temperatura globale in calo.

Niente di nuovo.

Era troppo presto perché gli umani si accorgessero della differenza, ma per lui anche quelle piccole variazioni sembravano enormi.

Si sentiva responsabile di quanto stava succedendo.

Aveva avuto ben due occasioni di impedire tutto quello. E aveva fallito entrambe le volte.

E pensare che lei lo aveva capito subito. Fin dall'inizio, con gesti apparentemente privi di significato, aveva tentato di avvertirli, di metterli in guardia.

Lei, invece, sentiva che era proprio in quei momenti che aveva sbagliato.

Se avesse parlato, se solo fosse uscita dalla sua maschera di fierezza, orgoglio, ma anche testardaggine, forse tutto questo non sarebbe successo.

O forse sì.

Forse non dipendeva affatto da loro.

Lei chiuse gli occhi e inspirò lentamente mentre il vento le scompigliava i capelli lunghi.

C'era troppo silenzio. Senza Silver, Raylene e Psiche la casa sembrava vuota.

Sarebbe stato così quando sarebbe arrivato il momento di separarsi?

Quello stesso senso di solitudine?

O sarebbe stato peggio?

Quel vuoto li avrebbe sopraffatti e allontanati di nuovo, chiudendoli ancora una volta in loro stessi?

Rientrò in casa, improvvisamente angosciata da quei pensieri.

Con passo felpato trovò lui che fissava fuori dalla finestra, nella direzione da cui, a distanza di un'ora ancora, sarebbero tornati i ragazzi.

Gli si affiancò senza dire una parola.

Non si guardarono.

Non era quello di cui avevano bisogno.

In quel momento era essenziale che rimanessero uniti.

Per affrontare insieme un futuro fin troppo vicino.

 

Sotto lo sguardo di Nevery, sveglio da neanche un'ora, New barcollò in preda ad una forte ed improvvisa vertigine finché non trovò dietro di sé un divanetto e vi si lasciò cadere di peso.

Dopo l'attacco del chimero topo New era cambiata visibilmente.

Se prima era più che altro una bambina, ora era in tutto e per tutto una ragazza. Persino fisicamente era cambiata. Aveva avuto uno sviluppo incredibile che, però, era progressivamente rallentato.

Ora sembrava avere più di 12 anni e, se prima dormiva solo qualche ora al giorno, ora la sua poteva benissimo definirsi insonnia.

New aveva un fisico snello e atletico e una carnagione bianchissima, persino più pallida di quella di un normale arrettiano.

E poi c'erano gli occhi.

Se quelli di Aprilynne sembravano oro liquido, i suoi erano d'argento.

Anche i capelli erano argentati, ma, per quanto singolari, non colpivano quanto le iridi.

Si premette i palmi delle mani sulle tempie per cercare di attutire l'improvviso stordimento.

Arrivava ad ondate continue, come delle onde d'urto che si abbattevano su di lei, sulla sua testa.

Ma il suo era un male solo fisico.

Se ne accorse appena ebbe un attimo di pace.

Era un richiamo. Un richiamo alla sua mente e che invece incontrava il suo corpo come un ostacolo.

Chiuse gli occhi e rimase immobile mentre liberava la sua mente e estendeva il suo campo sensoriale per la stanza e progressivamente per tutta l'astronave.

Era la stessa cosa che aveva provato con il chimero.

Solo che il suo raggio d'azione si era esteso notevolmente.

Poteva sentire tutte le emozioni degli altri Connect. Le percepiva come qualcosa di concreto e tangibile che poteva essere preso e manipolato. Poteva entrare nei sogni di chiunque e assistervi senza che se ne accorgesse, poteva cambiarne il corso a suo piacimento. Di tutti tranne uno. Lui sembrava cessare di esistere durante il sonno. Nevery.

Rimase in attesa di una nuova onda d'urto.

Ed eccola.

Questa volta non provò nessun tipo di dolore o fastidio.

Era come un odore che all'inizio si sentiva appena, ma se ci si avvicinava se ne poteva individuare l'origine.

Si concentrò su quel flusso di energia. Entrò nella sua mente con un piacevole formicolio che annebbiò ogni suo pensiero, fece tremare la realtà che aveva davanti agli occhi come se non fosse stata altro che un'immagine riflessa su uno specchio d'acqua.

Si protrasse mentalmente verso la fonte misteriosa risalendo quel fiume di sensazioni, ma era troppo lontana. Non riusciva a decifrarla. Continuava a sfuggirle come fumo.

Doveva avvicinarsi. Perché quel richiamo era diretto a lei e a nessun altro.

Ritornò nel suo corpo aprendo gli occhi all'improvviso.

Si alzò subito in piedi, ma ecco che l'onda di energia l'assalì di nuovo costringendola a sedersi di nuovo.

«New, che cos'hai?» chiese Nevery, come se avesse già ripetuto più volte la domanda.

Lei fece dei respiri profondi.

«Devi aiutarmi Nevery. Devi accompagnarmi da una parte.»

«Sulla Terra?»

«Io... credo di sì.»

«Ma sei matta?»

«Ti prego, andiamo e torniamo. È importante. Qualcuno mi sta cercando. Aiutami, Nevery.»

Il ragazzino esitava. New si reggeva appena sulle gambe.

«Ne sei sicura?»

Lei annuì con decisione tenendo gli occhi chiusi.

«Però credo che sia il caso di portare il kit di pronto soccorso. Qualcosa mi dice che ne avremo bisogno.» mentre camminava si aggrappò alla maniglia della porta sotto l'effetto di una nuova onfata.

Nevery le si avvicinò e la sorresse per quanto poteva.

«Dove?»

«Non ne ho idea. Prova un posto qualsiasi, magari fuori città.»

Nevery obbedì e si ritrovò non molto distante dagli ultimi grattaceli di New York.

New si appoggiò di peso al suo amico mentre abbandonava di nuovo il suo corpo per poter rintracciare quel singolare segnale.

«Da quella parte.» indicò New quando riprese conoscenza.

«Ma è un campo deserto!»

«Fidati di me, Nevery.»

Volando sarebbero avanzati più velocemente, ma per non perdere la sua scia energetica New non faceva che abbandonare il suo corpo e Nevery faticava a sorreggerla.

Se fossero stati più grandi si sarebbero trasformati nei rispettivi animali, ma nessuno dei due si era ancora rivelato. In quegli ultimi giorni tutti avevano notato il cambiamento nella ragazza e si aspettavano che da un momento all'altro succedesse, ma non era stato così.

Dal canto suo New non aveva detto a nessuno dei suoi nuovi, incredibili, poteri.

Attraversarono buona parte del campo, poi le onde di energia si fecero così vicine e potenti che, se permettevano alla ragazza di intercettarle meglio, le procuravano dei mal di testa tali da impedirle di avvicinarsi ulteriormente.

New si stese a terra rannicchiandosi in posizione fetale e premendosi le mani sulle tempie.

«New! Ti prego torniamo indietro, non ti reggi in piedi. Torniamo all'astronave e svegliamo Raylene, o Silver. Loro...»

«No Nevery.» lo interruppe New «Ascoltami,» si fermò un momento per sopportare la nuova ondata «io... perderò coscienza di nuovo, stavolta per un bel po', tu stai attento che nessuno si avvicini, ok?»

«Ma...»

«Ok?»

«Va bene, ma sbrigati, voglio tornare indietro.»

New annuì con gli occhi già chiusi, poi il suo corpo sembrò congelarsi e la sua mente prese possesso di quel posto, in cerca di chi stava lanciando quella disperata richiesta di aiuto.

 

Abigal non si era neanche voltata per vedere chi aveva chiuso la porta.

Teneva lo sguardo fisso su Dalton che non lasciva trasparire nessun segno di vita.

Senza guardare minimamente l'uomo torreggiava dall'altra parte della stanza, si mosse con passi incerti e irregolari prima di farsi cadere accanto al ragazzo.

Con mano tremante gli scostò i capelli dalla fronte gelida, poi tastò alla base del suo collo.

All'inizio non sentì assolutamente nulla, se non il gelo immobile del corpo di Dalton. Poi, quando tastò disperatamente ogni altra parte del collo, mentre la voce le si rompeva in continui «no, ti prego no» appena sussurrati, sentì degli impercettibili battiti sotto i polpastrelli.

Dopo essere rimasta un minuto intero ad ascoltare quella che le sembrò essere la musica più bella che avesse mai sentito, accarezzò la guancia del ragazzo.

Ricacciò indietro le lacrime con rinnovata forza e sollevò il capo incrociando lo sguardo intenso dell'uomo alieno a pochissimi metri da lei.

Profondo Blu la stava osservando da primo momento in cui era entrata nella casa.

Quando la sera prima e la mattina li aveva pedinati non aveva potuto non riconoscere quel viso. Si era dato dello sciocco, ma non era riuscito ad andarsene. Non senza la sicurezza che l'avrebbe rivista, che avrebbe avuto l'occasione di guardarla più da vicino.

Solo per quello aveva rapito il ragazzo. Di lui, in realtà, non gli interessava affatto. Erano dei semplici arrettiani, non degli Ikisatashi, non gli servivano. Ma doveva riavere lei.

Com'era possibile che fosse ancora viva. Ancora bellissima. Ancora giovane.

Quando l'aveva lasciata era convinto di non rivederla mai più.

E invece era lì a pochi passi da lui.

E allora perché ci teneva così tanto a quel ragazzo? Uno come gli altri che non aveva nulla di speciale. Perché?

Possibile che non si ricordasse di lui?

Che cosa le avevano fatto? E chi? Era stato quel ragazzo? L'aveva assoggettata?

Perché lo stava guardando in quel modo? Da dove veniva quella rabbia?

Si avvicinò, ma appena mosse un passo lei scattò in piedi incenerendolo con il suo guardo di fuoco.

«Victoria...» la chiamò sorpreso dal suo astio e con una certa nota di angoscia nella voce.

Lei non si permise di stupirsi del modo in cui l'aveva appena chiamata. Rimase rigidamente ferma al suo posto.

«Che cosa gli hai fatto?» ruggì.

Lo sguardo di lui tornò ad assere gelido come sempre mentre rispondeva: «Nulla che non si sia meritato.»

«Ti pentirai amaramente di averlo anche solo sfiorato!» gridò lei evocando le sue doppie asce.

Silver non aveva avuto modo di assistere allo scambio tra i due. Era concentrato sulla sorella.

Nel momento in cui se l'era trovata davanti aveva esclamato il suo nome con orrore e incredulità e lei aveva risposto «Non sei contento di vedermi?»

«Cosa ti è successo?»

«Non capisco a cosa ti riferisci.»

Silver continuò a fissarla senza sapere cosa dire.

Cosa le era successo? Che le aveva fatto quell'uomo?

Non ebbe la forza di chiedere.

Quella non era sua sorella. Come poteva?

La sua mente lottò furiosamente contro i suoi occhi.

Psiche portava solo un aderentissimo calzoncino con pettorina e bretelle che lasciava interamente scoperte le gambe e la schiena. Aderiva al suo corpo alla perfezione, come una seconda pelle; era di un tessuto che Silver non riconobbe, grigio e ricoperto da una corta e sottile peluria.

«Che sta succedendo Psiche?» chiese indurendo il tono della voce e guardandola dritta negli occhi per scorgere un minimo tentennamento.

«Siete caduti nella nostra trappola e tra poco morirete, tutto qui.» sorrise lei, come se fosse la cosa più semplice del mondo.

L'attimo dopo il suono di qualcosa di rapido e pesante che fendeva l'aria.

Silver si voltò appena in tempo per vedere la doppia ascia di Abigal piantarsi nel muro alla destra di Profondo Blu che sembrava non essersi mosso minimamente – cosa che invece doveva aver fatto, perché Abigal aveva una mira infallibile.

Si limitò ad allungare la mano di lato e richiamare la sua spada.

Era leggermente cambiata dall'ultima volta.

Aveva mantenuto la sua incredibile e temibile lunghezza, ma si era fatta ancora più affilata e tagliente. L'impugnatura non era più grigio chiaro, ma di un blu così scura da essere molto più vicino al nero e la pietra rossa una volta perfettamente circolare, ora aveva una forma rombica che le dava un aspetto più affilato.

Profondo Blu, invece, non era cambiato quasi per niente. I capelli neri, un po' più corti – gli arrivavano solo fino alla fine della schiena – erano raccolti in una coda bassa e solo la frangetta spettinata e alcune ciocche laterali. Gli occhi di ghiaccio erano sempre più freddi, se non ancora più gelidi.

Abigal lanciò anche l'altra doppia ascia.

Gli occhi dell'uomo brillarono per alcuni istanti di luce rossa e l'arma deviò andando a conficcarsi nel muro proprio nel manico dell'altra.

La ragazza richiamò a sé le sue armi che sparirono dalla parete e ricomparvero nelle sue mani.

Lei ringhiò, ma Profondo Blu non si scompose minimamente.

«Tu e il tuo stupido amichetto non mi interessate.» disse semplicemente di rimando, poi, spostando lo sguardo su Psiche, ordinò: «Occupatene tu. È tua.»

L'attimo dopo si avventò su Silver.

Il ragazzo vide la spada passare a pochi millimetri dal suo viso e dovette ringraziare i suo riflessi se riuscì a inarcare indietro la schiena appena in tempo per non essere colpito.

All'inizio non poté far altro che indietreggiare in fretta mentre l'uomo si avvicinava tagliando l'aria con minacciosi fendenti.

Psiche, invece, in un attimi si era accucciata, aveva assunto le sembianze di lupo grigio ed era balzata su Abigal. Lei non aveva avuto nessun riguardo per il fatto che quella era una sua “amica” e non esitò a colpirla con il manico di una delle sue doppie asce e scagliarla lontana da sé. Psiche rispose con un ringhio basso e minaccioso prendendo di nuovo la rincorsa.

Dopo essersi ritrovato con le spalle contro la parete, Silver spiccò un salto, per quel che poteva, e rimase sospeso in volo.

Strinse una mano a pugno.

Aveva bisogno delle sue armi. Aveva imparato ad evocarle già a cinque anni, sotto la guida del padre. Incanalò l'energia per poi stringere sicuro il suo ventaglio a forma di grossa foglia rossa.

Appena lo vide, Profondo Blu sembrò doversi trattenere dallo scoppiare a ridere.

Silver tese i muscoli del braccio e agitò il ventaglio verso di lui. Come suo padre, non gli serviva più pronunciare le parole “elettro-siluro” per poter sprigionare il suo potere.

Profondo Blu bloccò l'attacco con un gesto quasi distratto del braccio assorbendo l'impatto con la lama della spada.

«Che ingenuo, davvero credi che un attacco del genere possa bastare a fermarmi?» ghignò «Uno più inutile dell'altro voi Ikisatashi e sempre peggio di generazione in generazione.»

Silver strinse i pugni fino a sentire le unghie conficcarsi nella carne. Quell'uomo voleva provocarlo.

«Sai è incredibile quanto assomigli a tuo padre. È una soddisfazione pensare che ora lui, come tutti gli altri, è morto e sepolto e invece io sono ancora vivo e forte. Non sai quanto ho aspettato questo momento. Ah, cosa darei per vedere la sua faccia mentre uccido i suoi figli. Quello stupido leccapiedi valeva quanto un dannato insetto.»

Il ventaglio di Silver, sensibile alle emozioni del suo proprietario e in particolare alla rabbia, lanciò scintille furibonde.

Profondo Blu le accolse con un sorriso perfido.

«Credimi, neanche io riuscivo a credere che un uomo tanto brillante potesse essere anche così sciocco e cieco. Ma sopratutto sciocco. Avrebbe potuto restare dalla mia parte e a quest'ora sarebbe un potente alleato. Avrebbe avuto la donna che amava, e non la bastarda che era rimasta scoppiata. Invece mi ha tradito come gli altri. E come gli altri ora è morto. Lui, quella sgualdrina di tua madre.»

L'elettro-siluro di Silver si abbatté su di lui con una tale, imprevedibile, forza che l'impatto lo fece sbattere contro la parete di fondo e separò Psiche e Abigal che si stavano azzuffando come solo due femmine sanno fare.

Abigal aveva i segno sanguinanti lasciati dagli artigli di Psiche su tutta la coscia destra e un altro taglio, un po' meno profondo, che andava dalla spalla al fianco.

Psiche, a metà tra una donna e un lupo, non portava ferite particolarmente rilevanti, nonostante le doppie asce di Abigal fossero sporche di sangue particolarmente scuro, ma era spelacchiata in diversi punti.

Profondo Blu tornò in posizione eretta con sguardo carico di rabbia e impazienza.

Mentre Psiche ringhiava di nuovo scoprendo le zanne e Abigal impugnava più saldamente le sue armi, l'uomo lanciò la sua spada contro il ragazzo.

Silver urlò mentre la lama gli si conficcava nel fianco destro, fortunatamente molto di lato, distante dagli organi interni.

Psiche balzò, ma Abigal la intercettò e la lupa si ritrovò inchiodata al muro, non troppo lontana dal fratello, con una doppia ascia che le squarciava l'orecchio destro.

Abigal riprese ansimò cercando di far tornare il respiro regolare. Il suo petto si gonfiava e sgonfiava mettendo in risalto il fisico atletico e il ben fornito decoltè.

Silver tentò di sfilarsi la spada tamponando la ferita con la mano e la stoffa della maglietta.

Profondo Blu si avvicinò al ragazzo e afferrò la spada per l'impugnatura senza però sfilarla.

Silver gemette di dolore.

«Non immagini quanto ci terrei ad ucciderti qui ed ora. Ma ho già sprecato lei,» disse indicando con lo sguardo Psiche che aveva ripreso quasi completamente le sembianze umane – le rimanevano solo la coda e le orecchie da lupo, una delle quali era ancora inchiodata alla parete, anche se lei non emetteva un suono. «non posso permettermi di fare lo stesso con te. Perché quei bastardi dei tuoi antenati mi hanno anche lasciato un motivo per tenervi in vita.» fece una pausa «Ma non tutti.» aggiunse poi guardando Abigal in modo assai eloquente. «Loro sono come voi Ikisatashi solo nell'aspetto. All'interno non hanno nulla di speciale.» ma il modo in cui guardava la ragazza dai capelli azzurri era carico di sottintesi che nessuno riusciva a comprendere.

A rompere quel silenzio che si era creato, sorprendentemente, fu Psiche.

«New!» urlò all'improvviso con voce che poteva provenire solo dall'oltretomba.

 

Da quando aveva parso di vista l'aliena con i capelli azzurri aveva continuato a sorvegliare la zona che, per quanto vasta, conosceva quanto le sue tasche.

Proprio quando si era ricordata del vecchio fienile a nord, aveva sentito delle voci provenire da ovest. Raggiungerle non era stato difficile perché, se una si sentiva appena, l'altra strillava.

Quando arrivò all'inizio si sentì spiazzata.

Da lontano aveva potuto vedere solo un bambino di non più di dieci anni dall'aria particolarmente preoccupata intento a guardarsi intorno. Sembrava che il buio non lo preoccupasse affatto e, appena la notò, si accucciò tra l'erba alta.

Anche se non poteva distinguere i colori, Aisha notò subito qualcosa che non andava in quel bambino.

Al di là del fatto che fosse solo in un campo esterno ben lontano dai grattaceli, quando l'aveva vista si era spaventato, ma non stupito.

Atterrò.

Rimanendo immobile riuscì a distinguere la voce del bambino mentre sussurrava di continuo “nuova” e scuoteva qualcosa di medie dimensioni.

«Vieni fuori.» disse cercando di non suonare troppo dura. «Non voglio farti nulla.»

«Non è vero!» protestò il bambino senza rialzarsi, ma indicando con maggiore precisione la sua posizione. «Tu sei quella cattiva di cui ha parlato Kath.» la voce veniva da un punto più a sinistra rispetto a prima, si stava spostando, lentamente e senza fare rumore.

«Kath?»

Nessuno risposta.

«Chi ti dice che io non sia un angioletto?»

All'inizio vi fu silenzio, poi il bambino rifece capolino tra l'erba, anche se diversi metri più a sinistra rispetto a dove si aspettava di vederlo comparire Aisha.

«Che cos'è un angioletto?» chiese con sincera curiosità infantile che sorprese la ragazza.

«Non lo sai?»

Lui scosse la testa.

Lei mosse qualche passo verso di lui, ma egli indietreggiò di rimando.

«Sta' tranquillo. Di cosa hai paura?»

«Che tu mi faccia del male.»

Aisha si impegnò a trasformare uno sbuffo spazientito in un sospiro. Ripiegò le ali sulla schiena, ma il suo corpo non le riassorbì, poi si mise in ginocchio con la faccia rivolta al bambino.

«Così va meglio?»

Lui scosse di nuovo la testa smuovendo i capelli – ad Aisha parvero biondi. Con quel movimento, però, il bambino scoprì le orecchie a punta e la ragazza scattò nuovamente in piedi.

«Tu sei un alieno.» e mentre parlava, con movimenti rapidissimi dovuti ad anni di esperienza prese l'arco e subito lo armò con una freccia, senza però puntarla.

Il bambino sparì di nuovo tra l'erba.

«Ecco, lo sapevo!» piagnucolò.

Aisha, agitata all'idea di doversela prendere con un bambino, cominciò a girargli intorno per prendere tempo.

Così facendo, però, si imbatté nel corpo rannicchiato e apparentemente inanimato di una ragazzina.

Si chinò lentamente e senza far rumore.

Dopo essersi assicurata che il suo cuore battesse ancora le scostò delle ciocche dalla tempia – maledisse gli occhiali per la visione notturna e la loro ristrettissima gamma di colori.

Si bloccò quando scoprì l'orecchio.

«Ehi,» disse quasi tra sé e sé «questa dev'essere amica tua.»

«Non toccarla!»

Si rialzò trasalendo, non si era resa conto che il bambino si era avvicinato di nuovo.

«Per favore.» aggiunse poi.

«Chi sei?» chiese Aisha abbandonando i toni gentili e puntando la freccia.

«Nevery. Il mio nome è Nevery.» rispose subito lui «Il tuo?» aggiunse poi curioso.

«Che ti importa?»

«A te che importa del mio?»

Ad interromperli fu lo strano mormorio assonnato proveniente dal corpo della ragazzina.

Poco dopo Aisha avvertì uno strano senso agitazione e fastidio che non le apparteneva.

E poi calma.

Iniziò a rilassarsi anche se sapeva bene di non volerlo.

Per favore mormorò una voce nella sua testa non essere cattiva, non vogliamo fare nulla di male.

Si sedette e poi si stese completamente e chiuse gli occhi.

Che mi succede.

Nulla di male, non ti faccio niente. Vieni, ti faccio vedere una cosa, però tu devi stare zitta e non pensare, per il tuo bene.

 

Dopo aver gridato il nome della ragazzina dagli occhi argentati, Psiche, ormai aveva l'aspetto di una 45nne, fissò Profondo Blu con occhi iniettatati di sangue.

Gli occhi dell'uomo di illuminarono di rosso, poi sibilò un minaccioso «Non provarci neanche.» con una nota quasi stupita nella voce.

Psiche non aveva ribattuto, ma cominciò a tremare come una foglia e si portò faticosamente le mani alle tempie come in preda ad un forte mal di testa.

Il suo orecchio da lupo si staccò dalla parete – ormai era quasi interamente tagliato a metà, ma, invece di sangue, perdeva una strana poltiglia nera che ricostruì la parte mancante dell'orecchio.

Psiche cominciò a perdere il controllo dei nervi, come in preda ad una lieve crisi epilettica.

Poi, pian piano, tutti cominciarono a sentire una strana presenza. Non la percepivano fisicamente. Era strano. Guardando, avrebbero giurato che non vi fosse nessun altro nella stanza, ma se chiudevano gli occhi potevano sentirla chiaramente.

Psiche non faceva aggrapparsi alle assi del pavimento e allungarsi verso Profondo Blu e poi scattare, come risucchiata da qualcosa al suo interno.

Era un orrendo tira e molla tra l'alieno e la presenza incorporea, con al centro la donna dai ricci magenta che uggiolava penosamente.

In quel momento, a sorpresa, Dalton sembrò riprendere vita.

Aprì faticosamente gli occhi e si sollevò sui gomiti.

Abigal si chinò immediatamente su di lui mentre il ragazzo sussurrava il suo nome. Si scambiarono un bacio veloce, ma appassionato.

«Stai bene?» mormorò lei.

Per tutta risposta lui fissò la sua gamba destra che evidentemente doveva essere rotta.

Poi anche lo sguardo di Dalton fu catturato da Psiche che continuava a dibattersi sotto lo sguardo furibondo di Profondo Blu che digrignava i denti ed era così concentrato da non accorgersi di ciò che gli accadeva intorno.

Lui non sembrò convinto da quello che gli mostravano i suoi occhi. Aggrottò le sopracciglia, poi si voltò cercando di muoversi il meno possibile e sollevò il telo di fibra naturale sul quale era appoggiato.

Persino Silver, che era ancora inchiodato al muro dalla spada di Profondo Blu e ormai non riusciva più a trattenere gemiti di dolore, si immobilizzò.

Psiche, l'aliena diciottenne a tutti familiare era stesa per terra accanto a Dalton. La sua carnagione era grigiastra e aveva tutta l'aria di essere freddissima.

A quel punto Silver lanciò un altro sguardo alla donna cinquantenne che di dibatteva a terra e capì.

Stava crescendo.

Non era altro che un chimero.

Dopo pochi secondi il chimero scomparve in un'esplosione di luce e al suo posto rimasero un parassita ormai morto e una forza vitale così potente da illuminare tutta la stanza.

Quest'ultima galleggiò fino a Psiche e fu riassorbita dal suo corpo.

Profondo Blu, che aveva dovuto sorreggersi alla parete per non cadere durante l'esplosione, lanciò un grido rabbioso mentre la ragazza ritornava alla vita con un respiro convulso e, dopo un attimo di confusione, si rialzava guardandosi intorno.

L'alieno richiamò la sua spada e Silver, impreparato sia al dolore che all'impatto, crollò rovinosamente a terra e non riuscì a rialzarsi.

Profondo Blu menò un fendente verso Psiche, ma lei lo parò prontamente con un mastro magenta.

Nessuno si chiese da dove venisse: era la sua arma.

Ricordava in tutto e per tutto il nastro che usano le atlete di ginnastica ritmica, solo così resistente da poter parare i colpi di spada.

Psiche teneva non una mano l'impugnatura e con l'altra una parte del nastro per ottenere una superficie da usare contro l'arma dell'uomo.

All'ultimo riuscì ad intrecciare la spada e a farla volare lontana dal suo proprietario che, per tutta risposta, tese la mano verso Silver.

Cercò di prendere la sua forza vitale, ma Psiche si frappose tra i due e usò la spada dell'uomo come scudo visto che, dalla pietra rossa, fuoriusciva una membrana di energia bluastra a forza semisferica che annullava l'attacco.

Quando Profondo Blu abbassò la mano, Psiche piantò la spada a terra, in modo che continuasse a proteggerla e si chinò sul fratello.

Appena vide la ferita afferrò un lembo della sua camicia e la strappò con sicurezza per poi usarla come benda improvvisata.

Silver si morse il labbro per non gridare e rovesciò la testa all'indietro.

Profondo Blu strinse la mani a pungo con rabbia, poi riattirò a sé la spada.

Stava per lanciarla verso i due fratelli, ma Abigal, con un moto di rabbia, gli lanciò una delle sue doppie asce proprio dritta al cuore.

Lui l'afferrò prima che potesse colpirlo, poi si voltò verso di lei, stupito e profondamente risentito.

«Davvero mi avresti ucciso?»

«Dopo quello che hai fatto a Dalton, questo e altro.» ringhiò lei.

«Opto per l'altro.» e detto questo, prima di scomparire, rilanciò l'arma che colpì Dalton.

Dritto al cuore.

Per alcuni istanti nessuno si mosse.

Poi Abigal lanciò un grido straziante si chinò su Dalton.

Gli sollevò la testa.

Nei suoi occhi c'era ancora l'espressione stupita.

Il ragazzo cercò di dire qualcosa, ma dalla sua bocca uscirono solo strani suoni mentre cercava di formulare il nome di Abigal.

Una lacrima sfuggì al controllo ormai quasi inesistente della ragazza.

Lui riuscì ad allungare la mano e raccoglierla con un dito prima che le scendesse lungo il volto.

La vista gli si fece più sfocata e il braccio gli ricadde lungo il fianco.

«No!» urlò Abigal «Non puoi lasciarmi, no!»

Un soffio.

«ti...» la voce di Dalton si sentiva appena «ti aspetto, amore,» disse e, con gli occhi già chiusi, sussurrò «solo… non fare tardi come al solito»

Un piccolo sorriso ironico si dipinse sulle sue labbra.

Un respiro convulso.

Poi più niente.

La ragazza richiamò a sé la sua arma e la doppia ascia sparì dal petto di Dalton.

Poggiò a terra la testa del ragazzo, poi non seppe più trattenere le lacrime.

Silver e Psiche rimasero a guardarla in silenzio, partecipi del suo dolore.

Il ragazzo aveva potuto solo girare la testa e stava ancora steso.

La sorella lo aiutò a rialzarsi.

«Spero di non essere stata io.» mormorò.

«No.» rispose Silver sempre a bassa voce «No, è stato lui. Ancora non riesco a crederci. Quella eri tu, cioè, era un chimero, ma eri tu.»

«Ne so anche meno di te. L'ultima cosa che ricordo è di essere svenuta in quel grattacelo. Ce la fai?» aggiunse poi notando le difficoltà del fratello nello stare in piedi.

«Sì, ma ho bisogno di bende, disinfettante e...»

«Si lo immagino, New dovrebbe averli.»

«New? Mi vuoi spiegare cosa c'entra lei? Anche prima tu, il chimero, ha detto il suo nome.»

Psiche non rispose.

La verità era che non sapeva spiegare cosa fosse successo.

Era stato come in una specie di dormiveglia. Mentre il chimero sfruttava la sua forma vitale la sua mente si era rimessa in funzione, ma senza un corpo tutto ciò che poteva fare era stato pensare. Ma anche quello era difficile. Non riusciva a seguire il filo delle frasi che formulava.

Poi, però, con estrema lentezza, aveva ricostruito gli eventi e, pur non sapendo dove si trovasse, si era resa conto del pericolo.

Lei aveva una specie di talento innato nel sapere sempre a chi mandare determinati messaggi. Quella volta, per motivi inspiegabili, aveva scelto New. In realtà non aveva fatto nulla di particolare, aveva solo pensato intensamente alla ragazza e inviato il suo SOS mentale.

Come ci fosse riuscita era un mistero anche per lei.

Sapeva che ad un certo punto New era letteralmente entrata nella sua mente.

Loro avevano parlato, anzi, pensato. Prima di scomparire dalla sua testa, New le aveva detto dove si trovava.

«Abigal.» chiamò cautamente Psiche.

La ragazza alzò lo sguardo.

Aveva gli occhi lucidi, ma aveva smesso di piangere. Si limitava a singhiozzi strazianti.

Non c'era rabbia nel suo sguardo, non ancora almeno, solo dolore.

«Dobbiamo andare.»

«E... singhiozzo... lasciarlo qui?»

«No, prendilo. Lo seppelliremo stanotte stessa.»

«Qui? singhiozzo Su questo dannato pianeta? singhiozzo Mai!»

«Non possiamo tornare su Arret Abigal. Ora come ora, troverebbe più pace qui che a casa.»

Abigal rimase a fissarla in silenzio ancora per un po', poi, cercando di trattenere i singhiozzi, sollevò il corpo di Dalton e lo prese in braccio come fosse un bambino di pochi chili.

Psiche, che con un braccio sosteneva il fratello, posò la mano libera sulla spalla della ragazza e teletrasportò il piccolo gruppo in mezzo al campo.

Lì trovarono New che si stiracchiava e Nevery chino su una ragazza stesa a terra.

Appena li vide, New recuperò il kit di pronto soccorso e lo porse a Silver.

Il ragazzo si sedette delicatamente a terra, poi cominciò a medicarsi mordendosi il labbro quando sentiva la ferita bruciare.

«Quelli sono punti?» esclamò allibita Psiche «Ti stai mettendo da solo dei punti senza un minimo di anestesia?»

«Non credo di avere molta scelta, ho già perso diverso sangue.»

Seguì un momento di relativo silenzio.

«Chi è?» chiese Psiche guardando la ragazza che aveva tutta l'aria di essere svenuta.

«Si chiama Aisha Akasaka. È una delle terrestri di cui parlavano Aprilynne e Catron.»

«E tu che ne sai?» scattò subito Nevery.

«Prima che svenisse sono riuscita a leggerla, almeno in parte. Con la mente dei terresti è molto più difficile, ma prometto ugualmente di non farlo mai più.»

«Tu cosa?» si intromise a quel punto Silver.

New sospirò e, di mala voglia, si accinse a dare spiegazioni. «Se voglio posso leggere nella mente di chi mi sta intorno. L'ho scoperto da poco, qualche giorno. Con tutti i Connect ci sono sempre riuscita, ma non ci avevo mai provato con una terrestre.»

«E cosa puoi leggere

«Non i pensieri, ma le emozioni e spesso ad esse sono legati dei ricordi, in quel caso posso vederli. Se mi concentro riesco anche a seguire i sogni degli altri, ma solo vagamente. Ma non è questo il punto. Posso dare degli ordini alle menti.» guardò Aisha «Le ho solo detto di calmarsi in realtà, ma all'inizio non funzionava e credo di aver esagerato. È stato tremendamente difficile.»

«Puoi fare tutte queste cose?» chiese Silver stupito.

«Più o meno. Il problema è che per entrare nella mente degli altri devo... spegnere il mio corpo, diciamo così.»

«Non ci posso credere.»

«Non è tutto.»

«Come?»

«Funziona anche con i chimeri. Con loro è facilissimo. Posso letteralmente parlare con loro. Con il chimero di Psiche è stato un gioco da ragazzi. Eravamo, non so, … sulla stessa lunghezza d'onda.»

I presenti la guardarono in silenzio. Nonostante non ci fosse nessun altro nel campo, tutti si sentivano obbligati a parlare a bassa voce.

«Posso farlo, ma non mi piace, quindi evito.» si affrettò a precisare.

A quel punto Abigal si avvicinò a loro.

Non disse nulla, ma New si alzò e le si avvicinò dicendo: «A quest'ora c'è bassa marea, c'è un posto, proprio vicino ad una scogliera che con l'alta marea viene sommerso.»

Abigal abbassò lo sguardo e annuì senza rispondere.

New si voltò verso gli altri «Voi potete andare, io mostro il posto ad Abigal e vi raggiungo, ok?»

Psiche, che aveva aiutato il fratello ad alzarsi, le fece un cenno di assenso e, recuperato il kit di pronto soccorso, i due sparirono.

«Nevery, tu pensa alla ragazza, per favore.»

«E cosa ci devo fare?»

«Riportala a casa. Abita al centro della città, nel palazzo azzurro.»

«E che ne sai?»

«Ho visto il balcone di casa sua: aveva i vetri azzurri e non c'era niente, solo un bel po' di cuscini sparsi sul pavimento. Se non riesci a trovarlo ti raggiungo dopo.»

Il bambino annuì e, posata la mano sulla spalla di Aisha, si smaterializzò.

Abigal prese di nuovo in braccio il corpo di Dalton, poi si avvicinò a New e lei la portò lontano da lì, in riva al mare.

«Non credo che qui venga gente, neanche di giorno.» detto questo New la lasciò sola.

 

Le onde si infrangevano con violenza contro gli scogli e il sole pomeridiano illuminava tutto il paesaggio. Non riusciva a riscaldarlo, però. Tirava un vento gelido che faceva rabbrividire.

Abigal era in ginocchio sul punto più alto della piccola scogliera e teneva lo sguardo fisso verso il basso.

Lei era una volpe artica. Non soffriva il freddo.

Non quello all'esterno.

Il suo organismo era fatto per conservare il calore corporeo.

Così come il gelo.

Si sentiva vuota. Come qualcuno avesse rimosso tutto ciò che c'era dentro di lei e avesse lasciato solo il ricoprimento esterno.

Si sentiva così vuota che ormai non riusciva più neanche a piangere.

Non riusciva a credere che, tornando a casa, non avrebbe trovato Dalton che dormiva nel letto. A pancia in giù e completamente scoperto.

Cosa le restava di lui?

Niente. Niente di reale e concreto.

Solo i ricordi.

E ricordare faceva male.

Era questo che provavano i ragazzi normali quando perdevano qualcuno di caro? Quella stessa emozione che rendeva così diversi gli Ikisatashi dagli altri Connect?

Era così che si erano sentiti quando i loro genitori erano spariti?

Non riusciva ad immaginarselo.

Si crogiolò nei ricordi.

Loro due erano sempre vissuti insieme. Anche da piccoli si erano sempre stati simpatici e avevano passato pomeriggi interi a divertirsi come matti.

E poi, all'improvviso, le tornò alla mente Icro. Era un bambino di appena tre anni e cui si erano particolarmente affezionati.

La sua famiglia frequentava il mercato nero.

Si trovavano a casa sua quando le guardie erano arrivate. Erano riusciti a nascondersi insieme al bimbo, ma poi ci si era messa di mezzo Psiche.

Aveva sentito i soldati avvicinarsi ed era andata nel panico.

Aveva preso Icro e aveva tentato la fuga.

Ma inutilmente. Le era morto tra le braccia.

Era incredibile, ma quella ragazzina riusciva sempre a rovinarle la vita.

Cercò di convincersi che non era colpa sua, ma di quell'uomo che stava nella casa nel campo. Ma era molto più facile e comodo prendersela con qualcuno a portata di mano che con un uomo di cui non sapeva neanche il nome.

L'immagine del bambino morto e quella del corpo senza vita di Dalton si sovrapposero con violenza e le batté un pugno sul terreno.

Dopo la morte di Icro lei e Dalton avevano provato ad avere un bambino.

Ma inutilmente. Non c'era stato verso di farla rimanere incinta.

Lei sospettava che Silver, in qualche modo, conoscesse le loro intenzioni e, per quanto sapeva che non sarebbe mai stato d'accordo, non aveva mai fatto nulla per fermarli.

Loro non avevano mai perso le speranze, neanche dopo sei mesi di tentativi falliti, ma non era servito a nulla.

Dei passi alle sue spalle la ridestarono dai suoi pensieri.

Impiegò diversi secondi per riconoscere la ragazza che la stava squadrando dalla testa ai piedi in posizione perfettamente eretta tenendo le spalle larghe, le mani appoggiate sui fianchi e le gambe leggermente divaricate.

Portava i soliti stivali e pantaloni aderentissimi di pelle marrone e la maglietta a mezze maniche beige che sembravano essere la sua divisa. Da dov'era Abigal non poteva vedere che la schiena era completamente scoperta, ma aveva avuto modo di scoprire le ali della ragazza.

Lo sguardo di Aisha era confuso, ma non per questo meno combattiva.

«Ieri mi hai attirato in una trappola e non ho idea di cosa mi abbiate fatto, ma sono qui per fartela pagare.» dissi con voce squillante puntando il dito contro Abigal.

«Io ti avrei attirato in una trappola?!» ruggì questa. «Hai la faccia tosta di dire una cosa del genere?» ormai stava urlando «Dalton è morto e tu hai il coraggio di dire una cosa del genere? Io ti odio! Odio tutti voi terrestri e questo maledettissimo pianeta!»

Aisha fu sorpresa della foga della ragazza, ma lei era una che non si tirava indietro davanti a nulla.

«Non so di cosa tu stia parlando, ma se vuoi la guerra, e guerra sia.»

«Guerra. Tu non hai la minima idea di cosa voglia dire...

non ne hai la minima idea.»


 

Allooora,
un altro capitolo corposo!
Spero sia chiaro che quando Aisha sente Nevery dire "nuova" in realtà lui sta chiamando New, ma visto che parlano inglese la ragazza fraintende.
Mi è dispiaciuto moltissimo far morire Dalton perché mi affeziono sempre ai personaggi di cui scrivo.
Fatemi sapere che ne pensate.
forse avrei dovuto farlo prima, ma devo ringraziare un bel po' di gente: in primis Salice_ che segue e recensisce sempre, subito dopo a Ria che l'ha messa tra le preferite e infine Mizuiro_chan che segue la storia. E naturalmente grazie anche a chi sta leggendo ed è arrivato a questo punto.
Credo di avre detto tutto, se qualcosa non è chiaro chiedete pure.
A presto,
Artemide12

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Capitolo 10
*** Insieme ***


Insieme

 

Si sedette accanto a lui e esaminò quel minuscolo embrione.

«È solo un esperimento.» disse lui.

«Ben riuscito.» commentò lei

«A quanto pare.»

Vi fu un momento di silenzio.

«Come sarà?»

«Un maschio. Ho mischiato il suo DNA con quello di un giovane cervo.»

«Non credevo che fossero in via di estinzione.» osservò lei.

«Con quelli è solo più facile, ma una volta capito il procedimento può essere utilizzato il codice genetico di qualsiasi animale.»

«Quindi sarà...» le mancavano le parole. Sentiva uno strano senso di angoscia montarle dentro. Cosa stavano facendo? Stavano andando contro ogni legge delle natura. Stavano creando un individuo praticamente dal niente. Non sarebbe stato figlio di nessuno. Che l'avrebbe amato? Chi si sarebbe interessato di un bambino, un ragazzo, un uomo, che non avrebbe dovuto nemmeno esistere? «...come noi.» si limitò a dire, eludendo chiaramente al DNA modificato.

«Sì e no.» rispose lui «Il principio è lo stesso, ma il suo organismo sarà molto diverso.»

«Allora come Silver, Raylene e Psiche e gli altri allora.» lei si costrinse a non soffermarsi sul fatto che stava parlando dei suoi figli. Dei figli delle altre.

«No.» ribatté lui «Silver e gli altri sono degli ibridi. Sono qualcosa di incredibile e speciale. Metà terrestri, metà arrettiani e in parte animali. È stupefacente. Ma lui,» e con lo sguardo indicò l'embrione «sotto questo aspetto sarà più simile a voi. Sarà un comune arrettiano con il DNA animale, mi spiego?»

Lei annuì convinta.

«Mi sono permesso di fare una piccola modifica, però.»

«Modifica?»

«Le orecchie. Le avrà a punta come noi, ma piccole come voi. Proprio come Silver e gli altri. Questo gli permetterà di non attirare troppo l'attenzione né sulla Terra che su Arret.»

Lei annuì di nuovo e lui si alzò.

«Come intendi chiamarlo?» chiese all'improvviso lei che vedeva quella piccola vita molto più umanamente.

Lui ci pensò per qualche secondo.

«Dalton.» disse infine.

 

Quando il suono della campanella la svegliò non riuscì a credere che fossero già passate sei ore. Si era letteralmente addormentata sul banco. Che vergogna.

Kathleen la scosse e la incitò ad alzarsi.

Sharlot sbadigliò, poi recuperò lo zaino e uscì dalla classe.

«Qualcosa non va?» chiese Kathleen notando il suo sguardo lontano e inquieto.

Sharlot abbassò lo sguardo mentre le due raggiungevano gli ascensori e ne aspettavano uno libero.

«Sono preoccupata per mia sorella.» ammise «Ieri sera sono rimasta ad aspettarla fino a tardi, ad un certo punto credo di essermi anche addormentata. L'ho ritrovata che dormiva per terra in balcone. Stamattina era parecchio strana e non credo che sia entrata a scuola.»

«Posso farti una domanda... un po' personale?»

«Spara.»

«Ora sia tu che Aisha siete maggiorenni, ma quando i vostri genitori sono “scomparsi” non lo eravate, come facevate con i colloqui dei professori?»

Sharlot rise mentre entravano in ascensore.

«In realtà siamo state affidate ad un amico di famiglia, il padre dei nostri due migliori amici. Loro sono come noi.» solo dopo Sharlot si rese conto di aver detto qualcosa che non doveva. Cercò di non far notare il suo disagio.

Non poteva immaginare quanto bene Kathleen avesse capito ciò che voleva dire, ma la ragazza fece finta di nulla «Intendi dire che sono orfani?»

Sharlot dovette trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo. «Sì. Vedi, la loro madre e morta nello stesso incidente dei miei genitori e un paio di anni fa è scomparso anche il padre. Però lui è proprio sparito. Tutt'ora è sulla lista dei dispersi.»

Le porte si aprirono e Kathleen scese, doveva andare a prendere i fratellini.

Quando si presentò davanti alle loro aule, però, dei due non c'era traccia, ormai anche i maestri se n'erano andati.

Sentì il suo cuore perdere parecchi battiti.

Corse fino alle scale senza curarsi degli sguardi dei passanti e quando arrivò davanti al suo appartamento si sorprese di non essere ancora morta di paura.

Spalancò la porta e strillò quando vide Pit e Oper che mangiavano tranquillamente.

«Ehi! Sarebbe questo il tuo benvenuto?» chiese Catron, un po' risentito.

Kathleen gli fu addosso in un secondo.

«Mi. Hai. Fatto. Prendere. Un. Colpo!» disse prendendo il ragazzo a cuscinate.

«Sì, anch'io ti voglio bene.» rispose il ragazzo disarmandola e costringendola a stendersi sul divano. Si guardarono per qualche istante, poi lui si chinò a baciarla.

Si staccò da lei all'improvviso, come ricordandosi di qualcosa.

«Cos'è successo?» chiese Kathleen notando il suo sguardo addolorato.

«Abigal e Dalton. Loro sono stati scoperti.»

«E tu sei venuto qui a controllare come me la passavo, è? Beh, spiacente di deluderti, qui va tutto alla grande!»

Catron alzò un sopracciglio poco convinto, poi si avvicinò a Pit che, come al solito, portava solo una maglietta a maniche volte.

«Non direi poi tanto bene.» disse il ragazzo indicando il segno scuro sul braccio del più grande dei due. Quel segno non voleva saperne di andarsene. Quell'uomo che aveva tentato di rapirli sembrava averlo marcato. «Questo come me lo spieghi?» chiese.

Lo sguardo dei fratellini disse a Kathleen che il ragazzo era già stato informato nei dettagli.

Abbassò lo sguardo.

«Non voglio tornare nell'astronave. Non mi piace quel posto. E poi anche lì siamo stati attaccati, non è certo più sicuro che qui.»

Catron le alzò il volto con un dito e la guardò negli occhi. C'era qualcosa che lo turbava profondamente. Kathleen poteva vederlo chiaramente.

Opetr sbadigliò a Pit cominciò a sparecchiare.

Catron strinse a sé la ragazza con improvviso slancio.

«Non sai che paura che ho avuto!» disse, la faccia tra i capelli di lei.

«Cos'è successo Catron? Dimmelo!»

«Dalton.» sussurrò il ragazzo «Dalton è morto. L'hanno seppellito stanotte stessa non lontano da qui, in una scogliera.»

Kathleen si sentì mancare. Mentre sentiva il suo cuore perdere diversi battiti lasciò che Catron la stringesse ancora di più.

All'improvviso la ragazza sembrò rianimarsi e afferrò Catron per le spalle.

«Rimani qui Catron, ti prego. Rimani qui con noi!»

«Sìììì!» esultò Opter.

«Noooo!» sbottò Pit «Staranno sempre a sbaciucchiarsi stupido!» disse dando un colpo non proprio affettuoso al fratello che gli fece la linguaccia.

«Zitto, nanetto.» ribatté Catron «Il fatto che tu sia il mio futuro cognato non ti dà il diritto di parola sulla questione.»

«Non sono un nanetto!» scattò subito Pit. «Non darmi del nanetto!»

«Nanetto!» lo canzonò Catron.

«Vecchiaccio!»

«A chi vecchiaccio??» ruggì il ragazzo balzando giocosamente sul bambino.

Kathleen rimase ferma sul posto.

Altri pensieri le occupavano la mente.

Dalton era morto.

E Abigal? Che ne era stato di lei?

Dalton era stato seppellito in una scogliera.

Immaginò Abigal sul precipizio mentre guardava giù.

Mentre si buttava.

Sussultò.

Sapeva che Abigal ne sarebbe stata capace.

Prima che qualcuno potesse fermarla era già corsa fuori di casa.

Doveva fermarla. Impedirle di suicidarsi.

Aveva una vaga idea di dove si trovasse la scogliera. Sharlot lo aveva accennato una volta.

 

Quel giorno non era andata a lavoro.

Non se la sentiva di stare in mezzo a ragazzi chiassosi e indomabili. E poi si sentiva così euforica che non sarebbe riuscita a tenere una lezione coerente.

Marcus sarebbe tornato a momenti.

E infatti eccolo.

Gli saltò al collo appena entrò in casa.

«Arlene!» esclamò lui sorpreso, ma felice di vederla allegra.

Lei lo guardò negli occhi. Perché c'era sempre un'ombra nel suo sguardo?

Era così da sempre. E lui non aveva mai capito perché.

Lui si svestì velocemente, poi tornò ad occuparsi di lei.

«Allora, come mai così allegra oggi?»

«Ho due notizie, collegate.» disse lei con un sorriso a trentadue denti «Una bella, una... strana. Da quale comincio?»

«Da quella che preferisci amore.»

«Quella bella è che sono incinta, quella strana è che le analisi dicono che lo sono da più di un mese anziché da pochi giorni.» era pronta a saltargli addosso, ma lui rimase immobile, gli occhi sgranati e lo sguardo profondamente turbato.

«Che c'è?» fece lei contrariata.

«E di chi saresti incinta?»

Lei lo guardò sorpresa. «Come di chi? Di te! Chi altrimenti?»

«Me? Ma non è possibile, noi non abbiamo mai...»

Non poteva credere alle sue orecchie.

Erano stati insieme giorni prima, come poteva non ricordarsene?

Rievocò l'immagine sfocata dell'uomo che l'aveva baciata. Ma era troppo sfocata.

Troppo. Sfocata.

Si sentì mancare.

Com'era possibile? Come poteva essere successa una cosa del genere?

«Ma...» sentì la voce spezzarlesi «...quell'uomo... sembravi tu... eri tu...»

«Come puoi esserne sicura?» chiese lui cerando di mantenere la calma. Di solito era di temperamento tranquillo e ragionevole – doti rare e molto apprezzate in politica – ma sentiva che c'era qualcosa di tremendamente sbagliato e pericoloso in quello che stava succedendo.

«Io... non lo so... si muoveva come te, aveva il tuo odore e...» Arlene sentì i suoi occhi riempirsi di lacrime e dovette fermarsi.

«Arlene...»

«Mi ha chiamata per nome, aveva la tua voce!»

Lui le si avvicinò si chinò leggermente per poterla guardare negli occhi.

«Possibile che non hai visto il suo volto?»

Lei si sforzò di ricordare, ma in quel momento era troppo confusa, troppo shoccata per poter essere lucida. Scosse la testa e si abbandonò al suo abbraccio.

Per qualche motivo lui le credeva.

Stavano succedendo troppe cose in quei giorni, non poteva essere una coincidenza. Ma c'era qualcosa che gli sfuggiva, una tessera del puzzle essenziale per poterne rivelare l'intera immagine che lui aveva, ne era sicuro, ma che continuava a sfuggirgli.

Abbassò lo sguardo su Arlene quasi con rassegnazione.

La amava, sì. Ma quante ne aveva amate in fondo? Ma a certe cose non ci si abitua mai.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio. E valeva anche per l'amore.

 

Aisha aveva già liberato le sue ali quando Sharlot arrivò.

Abigal era a meno di un metro dallo strapiombo e sosteneva lo sguardo della ragazza dando le spalle alla scogliera.

«Che sta succedendo?» chiese Sharlot.

«C'è un'aliena, qui, che ha tutte le intenzioni combattere.»

«Non essere avventata.»

«Taci Sharlot. Non sei tu ad essere stata attirata in una trappola ieri notte. Non sei tu ad essere stata drogata.»

«Non sei stata affatto drogata Aisha!» ringhiò Abigal.

La ragazza la fissò con stupore e turbamento.

«Come sai il mio nome?»

Abigal non si degnò di rispondere. Fissava le due terrestri con rabbia repressa, ma il suo sguardo era incredibilmente spento.

Sharlot ne fu colpita.

Era vero. In lei si leggeva tutta la voglia di combattere, ma qualcosa le diceva che, se avessero attaccato, lei non avrebbe fatto nulla per difendersi. Non voleva combattere. Le mancava la forza, la determinazione. Glielo si leggeva in faccia.

Una motivazione.

Ecco cosa mancava in quella ragazza.

All'esterno, così apparentemente pronta allo scontro, sembrava invalicabile. Ma perché? Cosa c'era all'interno? Troppo?

O troppo poco?

Era così vuota da desiderare solo... solo cosa?

La risposta le sovvenne quando vide l'aliena indietreggiare di un paio di passi, avvicinandosi sempre di più allo strapiombo.

Aisha vece per muoversi, ma Sharlot scattò e con un braccio le impedì di avanzare.

«Che stai facendo?» sibilò la sorella.

«Già, che stai facendo?» le fece eco l'aliena «Hai forse paura di batterti? Temi che possa sconfiggerti?» nei suoi occhi bruciava un inquietante fuoco ghiacciato.

Tutta quella rabbia...

Sharlot fece per dire qualcosa, ma lo sguardo di Abigal fu improvvisamente catturato da qualcosa alle spalle delle due sorelle.

«Kath!» esclamò all'improvviso, come se avesse riconosciuto solo in quel momento chi stava guardando.

Le due sorelle si voltarono all'istante.

Entrambe riconobbero la 17nne, ma in modi diversi.

Aisha vide in lei la ragazzina che le era piombata addosso quel giorno al parco, quella con il bambino. Certo, aveva un colore di capelli leggermente diverso, ma era indubbiamente lei.

Sharlot, invece, vide solo la sua compagna di banco.

«Kathleen? Che... che ci fai qui?» chiese lanciando uno sguardo di sfuggita alle ali della sorella.

Kathleen, però, non si mostrò minimamente sorpresa. La sua attenzione era rivolta ad Abigal.

«Mi dispiace.» sussurrò solo, rivolta a Sharlot, poi la superò correndo.

Abigal indietreggiò il fretta e il suo piede destro stava già affondando nel vuoto quando Kathleen la afferrò per un braccio e, strattonandola, la allontanò dal precipizio.

Abigal atterrò sulle ginocchia.

«Ma cosa ti salta in mente?» strillò Kathleen, col fiatone.

Abigal tentò di rialzarsi, ma lei la rispedì a terra.

«Tu non capisci!» urlò iniziando a singhiozzare. «Dalton è morto. È morto! Lo sai che vuol dire? Lo sai? Non c'è più! Non tornerà mai più. MAI!»

«Non...»

«Non puoi capire, non puoi!»

Kathleen non poté sopportarlo. Si chinò e afferrò Abigal per le spalle scuotendola con rabbia.

«Se non so che vuol dire?» la ragazza aveva ormai perso il controllo.

Sharlot e Aisha rimasero a guardare, allibite, davanti a quella scena.

«Mia madre è morta, mio padre è morto. Come credi che mi sia sentita? Eh? Come credi che si siano sentiti Pit e Opter?»

«Tu almeno ce li hai avuti dei genitori! Non sei stata creata in laboratorio. Non sei un esperimento venuto dannatamente bene. Non sei cresciuta con il pensiero di essere sacrificabile. Siete sempre venuti prima voi. Sempre! Tu non hai un codice genetico che sono stati altri a decidere per te prima ancora che tu esistessi. Non sei un maledettissimo file su un computer, qualcosa che non ha valore perché può facilmente essere ricreato e sostituito. Ma noi non siamo così! Non siamo file. Siamo persone e anche se non dovremmo neanche esistere, noi esistiamo lo stesso. E proviamo dei sentimenti, proprio come voi! Io lo amavo, lo capisci! Lui per me era insostituibile. Insostituibile! E lo sai cos'ha pensato Silver quando è morto? Lo sai? New me l'ha detto. Ha pensato che una volta a casa avrebbe potuto ricrearlo in laboratorio, magari fargli qualche iniezione per accelerarne la crescita in modo da ridarmelo. Ma credi che io possa amare uno così? Potrebbe essere identico a Dalton in tutto e per tutto, ma non sarà mai lui, mai!» Abigal ormai stava piangendo.

Dopo quello sfogo sembrava aver perso completamente le forze. Aveva rigettato fuori da sé tutta la rabbia e ora si sentiva ancora più vuota di prima.

Cosa rimaneva di lei.

Kathleen si inginocchiò davanti a lei e la abbracciò mentre la ragazza le si appoggiava di peso e posava la testa sulla sua spalla mentre cercava invano di placare lacrime e singhiozzi.

«Lo so.» sussurrò Kathleen «So che è difficile crederlo, ma so cosa stai provando.»

«no» gemette Abigal.

«Lo so, invece. Me lo ricordo. Neanche io in quei momenti credevo che altri potessero provare la stessa cosa e in parte è vero. Perché ogni dolore è diverso, ma sono tutti simili. Quando i miei genitori sono morti sono stata malissimo. Non facevo che chiedermi perché a me fosse stato concesso di vivere e a loro no. Ma la vita continua e non ci si può chiudere nel dolore e lasciarsi andare per sempre. Se fosse così credi che Arret avrebbe qualche possibilità di essere salvato? La gente muore ogni giorno, ma gli altri vanno avanti. Smettere di lottare vuol dire arrendersi. Vuol dire rendere inutile la morte di chi ci stava a cuore. È per questo che la gente resiste, è per questo che siamo qui Abigal. Per speranza. Non possiamo fare nulla per i morti, ma proprio perché conosciamo questo dolore, dobbiamo lottare per i vivi.»

Abigal singhiozzò ancora più forte.

«Lo sai... lo sai perché sopravviviamo Abigal?» mormorò Kathleen.

La ragazza sollevò il capo e scosse debolmente la testa.

«Per ricordare.»

Abigal continuò a guardarla mentre le lacrime continuavano a rigarle il viso, ma i singhiozzi andavano placandosi.

«In questo momento, nel vostro appartamento, le cose di Dalton sono ancora al loro posto. Il letto è ancora sfatto e nelle coperte c'è il suo odore. Ma quando anche tutto questo non ci sarà più? Cosa resterà di lui?» Kathleen parlava a passa voce. Abigal la guardava in cerca di conforto. «Cosa resterà veramente di lui?»

Abigal continuò a guardarla. A supplicarla con lo sguardo di proseguire, per quanto timorosa della risposta.

«Resterai tu.» mormorò Kathleen sforzandosi di sorriderle «Lui dentro di te non morirà mai e lo porterai nel tuo cuore per sempre, ovunque andrai. Molti ti diranno di dimenticare. Ma tu non devi farlo. Lui continuerà a vivere in te. Nei tuoi ricordi. Magari, chissà, ti innamorerai di nuovo, anche se adesso ti sembra impossibile. Non proverai la stessa cosa, è vero, sarà completamente diverso, e lui non sarà mai un impedimento. Sarà la tua luce, la tua guida. Sarà quella forza misteriosa che ti manderà avanti, qualunque cosa accada. Capito?»

Abigal pendeva dalle labbra di Kathleen. Aveva tutta l'aria di volersi addormentare così, sulle sue ginocchia, stretta nel suo abbraccio.

Kathleen alzò lo sguardo su Aisha e Sharlot, rimaste ammutolite.

Si rivolse soprattutto a quest'ultima.

«Non so cosa sapiate o pensiate di preciso su di noi. Non siamo venuti qui per conquistare questo pianeta, né tanto meno per distruggerlo. In realtà non dovevamo proprio venirci. Sul nostro, Arret, stanno succedendo cosa orribili, uomini spietati e senza scrupoli ne hanno preso il controllo e assoggettano la popolazione. Noi siamo riusciti a scappare perché io, i miei fratelli e qualcun altro siamo stati nascosti alle autorità, mentre molti altri per il governo non esistono proprio. Ma la nostra non è una fuga. Dovevamo andare in cerca di aiuto, ma l'astronave ha avuto dei problemi, ci inseguivano, il nostro è stato un atterraggio di fortuna. Saremmo ripartiti subito, ma l'astronave ha bisogno di riparazioni e di carburante e noi non sappiamo neanche dove cercarlo. Non so chi siate o cosa vogliate di preciso, ma c'è un equivoco. C'è qualcun altro qui sulla Terra, oltre a noi, qualcuno che sa chi siamo e che sta facendo di tutto per metterci i bastoni tra le ruote.»

Sharlot venne verso di lei e le si inginocchiò di fronte.

«In tutto questo tempo... queste due settimane...»

«Non ti stavo né seguendo né spiando, ci siamo trovate per caso.» si affrettò a precisare Kathleen.

«Tutti quei tuoi discorsi durante le lezioni di astronomia... sugli alieni... tu... stavi parlando di te. Per questo erano così reali, così concreti, per questo ci tenevi così tanto. Lo stavi dicendo a me!»

«Ti ho riconosciuta quasi subito.» ammise la ragazza «Ho detto che non era mia intenzione spiarti, ma volevo anche mostrarti quanto siamo simili, quanto sarebbe facile andare d'accordo se solo ne avessimo la possibilità.»

«E le storie sui tuoi fratelli? Sui tuoi genitori?»

«Era tutto vero. È sorprendente, ma non ho detto neanche una bugia, ho solo tralasciato qualche particolare.»

«Che sta dicendo Sharlot?» abbaiò da dietro Aisha, ma non sembrava particolarmente arrabbiata, semplicemente non voleva mostrarsi debole.

«Aisha, so che mi contraddirai, ma io le credo, credo a ciò che mi sta dicendo. Secondo me non è giusto combatterli, in fondo...»

Aisha le aveva raggiunte e si sedette accanto alla sorella fissando negli occhi Kathleen.

«Dimmi perché dovremmo crederti?» chiese semplicemente, senza odio né rancore, era solo fortemente combattuta.

Kathleen strinse Abigal, ancora accoccolata tra le sue braccia.

«Credi che fosse uno scherzo quello che ho detto ad lei. Credi che non si stesse veramente per buttare? Ancora non so di preciso cos'è successo ieri sera, ma non deve essere stato affatto bello. Non idea di cosa ti abbiano fatto, forse ti hanno veramente sedata, ma solo perché avevano bisogno di poter pensare lucidamente. Abbiamo un nemico comune, non ci stiamo combattendo a vicenda, chiunque sia, vuole solo farcelo credere.»

«Perché?» scattò subito Aisha.

Kathleen sorrise leggermente «Perché insieme siamo più forti di lui.»

Sharlot fissò speranzosa la sorella. Aisha sospirò abbassando lo sguardo, poi ripiegò le ali sulla schiena e il suo corpo le riassorbì.

Sharlot la abbracciò.

«Cosa vi serve?» chiese Aisha.

«Non sono affatto un'esperta di astronavi, dovrei chiedere a Silver.» fece una pausa e guardò Abigal che la fissava, gli occhi lucidi e arrossati «Al momento credo che ci farebbe comodo una tranquillante e magari un posto dove riposare.»

La terrestre sorrise leggermente e annuì.

Abigal si lasciò prendere in braccio dalla ragazza – Kathleen non sarebbe mai riuscita a sollevarla.

«Non sarà facile raggiungere casa senza essere notati.» commentò Sharlot.

«Ti sbagli!» ribatté Kathleen, di nuovo pimpante.

Mise una mano sulla spalle di Aisha e con l'altra strinse quella di Sharlot.

«Ora pensa intensamente a casa tua.» disse «Ad un punto il particolare. Il salotto magari. Cerca di ricostruirlo nella tua testa, il più preciso possibile.»

Sharlot annuì ad occhi chiusi.

«Sicura?»

«Sì.»

Kathleen strinse la presa sulle sue sorelle, poi, guidata dalla mente dell'amica, si teletrasportò a casa loro, proprio nel soggiorno.

Aisha fece stendere Abigal sul divano e andò a prendere un tranquillante – la ragazza aveva ripreso a singhiozzare.

«Posso usare il telefono?» chiese Kathleen.

Sharlot glielo indicò.

Catron rispose al primo squillo.

«Pronto? Kathleen?»

«Si Catron, se ti dico dove sono non mi crederai mai. Sono delusa però, sono scappata all'improvviso e non sei neanche uscito a cercarmi.»

«Ti conosco. Sapevo che avevi chiamato. O qualcosa del genere. Allora, dove sei?»

«Aspetta un secondo e lo vedrai.» detto questo attaccò. Sharlot la vide sparire nel nulla e riapparire pochi secondi dopo in compagnia del ragazzo dagli occhi rossi che avevano attaccato al parco.

Catron si irrigidì appena riconobbe le due terrestri.

«Sta' tranquillo, non ci faranno del male.»

 

Raylene alzò lo sguardo dal libro che aveva rubato il giorno prima in una biblioteca e studiò l'amica.

Aprilynne aveva qualcosa che non andava, era strana.

Sembrava aver perso la sua solita energia, passava la maggior parte del tempo rannicchiata da qualche parte e spesso si addormentava.

Sembrava malata e più tempo passava sulla Terra peggio stava.

«April?»

La verde voltò lentamente la testa. Era seduta di traverso su un divanetto, le gambe distese e una coperta sopra.

«Sicura di stare bene?»

La ragazza sbuffò dal naso. «Affatto. Mi sento uno straccio.»

«Vuoi rimisurare la febbre?» chiese. Detestava quel senso di impotenza.

Aprilynne scosse la testa. «No, non c'entra. È questo pianeta il problema.»

«Ora come ora, non possiamo andare da nessun'altra parte.»

«Non è quello che volevo dire.» mormorò la verde «C'è qualcosa che non va su questo pianeta. Io lo sento. È come se fosse malato, come se avesse perso la voglia di vivere. E fa male.»

«Cosa?» chiese la lilla a metà tra il curioso e l'esasperato «Cosa c'è che ti fa male?»

«Non lo so, è come se la sentissi, come se mi stesse chiedendo aiuto.»

«Chi?»

«La Terra.»

«Come puoi sentire un pianeta chiederti aiuto?»

«Non lo so.» ripeté sconsolata la ragazza scuotendo leggermente la testa. «Non lo so, ma è così. Questo pianeta sta morendo, ha bisogno di aiuto.»

Le due rimasero in silenzio per un po'.

Ad interrompere quel momento fu Silver.

Dormiva accanto alla sorella, su un altro divanetto – la spalliera completamente reclinata e i piedi un po' alzati.

Dopo che Psiche lo aveva riportata sull'astronave si era seduto lì ed era piombato in un sonno profondo – probabilmente si era preso qualcosa trovato nel kit di pronto soccorso.

Prese un respiro più profondo dei precedenti e lentamente aprì gli occhi.

Fece per stiracchiarsi un po', ma la ferita non glielo permise.

Si guardò intorno e sorrise leggermente, poi, all'improvviso, i ricordi della notte passata lo investirono e la sua espressione si fece più seria.

«Dove sono gli altri?» chiese.

«New, strano a dirsi, sta dormendo. Psiche dopo un paio d'ore era già sveglia. Nevery dorme, come al solito dopotutto. Tu sei qui e sembra che te la sia cavata abbastanza bene con la ferita, mi sono permessa di controllarla poco fa, ma è apposto.» rispose Raylene «Gli altri ragazzi sono in giro per l'astronave o sulla Terra. Tranquillo fanno solo giri di perlustrazione, se ci sono problemi ritornano subito.»

Il ragazzo annuì una sola volta. «Abigal?» chiese dopo un po'.

«Non è rientrata.» fece Aprilynne con tono quasi accusatorio.

I due si scambiarono uno sguardo rapido e tagliente.

Silver fece per dire qualcosa, ma l'aria prese ad incresparsi e pochi attimi dopo, al centro della stanza, comparve Catron in compagnia delle due terrestri.

«Ma che...?» fece il blu.

«Tranquillo, lascia prima che ti spieghi, neanche io volevo crederci.»

 

«Vedi niente?» chiese Riley.

«Assolutamente niente!» esultò Ethan. Adorava rendersi utile senza però dover fare niente in particolare.

Ethan era un tipo un po' strano. Vestiva un po' come un punk e i capelli iniziavano ad essere leggermente lunghi e spesso gli ricadevano davanti agli occhi. Erano di un colore tra il marrone e il grigiastro. Gli occhi erano leggermente più scuri. Non era scontroso, ma aveva l'abitudine di chiudersi in sé stesso e tagliare fuori il resto del mondo: in quei momenti diveniva decisamente insopportabile e non era del tutto responsabile delle sue azioni. Questo, però, non faceva di lui un tipo violento. Affatto. Quando era pienamente in sé, poi, era tranquillo e cordiale.

Riley era molto diverso.

Fisicamente era gracile, aveva i capelli di un verde vivo, quasi fluo, di una lunghezza assolutamente comune per un maschio, gli occhi grandi erano invece di un arancione acceso, quasi rosso.

Non era affatto un chiacchierone, ma aveva la brutta abitudine di parlare a sproposito e di farsi venire il singhiozzo l'attimo dopo, quando se ne rendeva conto. Gli veniva anche quando era spaventato.

Lui e Ethan andavano particolarmente d'accordo: quando il primo non era dell'uomo adatto, il secondo sapeva stare zitto o semplicemente evitare di contraddirlo.

Stavano tranquillamente sorvolando la desolata zona a sud della città – la parte opposta dove quella notte erano stati gli altri.

«Cos'è quello?» fece Riley.

«Sembra uno strapiombo, un burrone.» osservò Ethan «Andiamo a vedere.»

Più che un burrone, quel posto sembrava una spaccatura della terra.

Pareti di roccia ripide e acuminate circondavano quella zona più o meno ovale di terra.

I due atterrarono sul bordo e guardarono giù.

«Non vedo nulla.» mormorò Riley cercando di mascherare la sua angoscia – cosa che non gli riuscì molto bene visto che gli venne il singhiozzo.

«Non può essere profondo fino al centro della Terra.» scherzò Ethan, ma l'amico prese a singhiozzare ancora più forte. «Eh dai, Riley, non dico sul serio.»

Il ragazzo si alzò in volo.

«Dimmi che non stai per farlo!»

«Oh sì invece, voglio vedere cosa c'è sul fondo.»

«Tu sei matto.» disse Riley rabbrividendo, ma alzandosi in volo per seguirlo.

Per diverso tempo, nessuno dei due seppe dire quanto, continuarono a scendere senza che nulla intorno a cambiasse, a parte il fatto che la luce stava diminuendo e presto si ritrovarono al buio.

Mezzogiorno era passato da un po' ed era ottobre, il sole era posizionato troppo di sbieco rispetto alla Terra perché dei raggi potessero illuminare così in profondità.

Prima che i loro occhi potessero abituarsi all'oscurità, però, i loro sensi avvertirono l'aumentare dell'umidità.

Riley allungò la mano di fronte a sé, dove doveva esserci la parete di roccia.

La sua mano incontrò qualcosa di soffice e fresco, simile ad una certa peluria. Si avvicinò ad annusare.

Muschio.

Sulle pareti c'era muschio.

Com'era possibile? Come poteva esserci del muschio lì sotto?

Ma quel posto sembrava sfidare ogni legge della natura.

Faceva freddo, ma l'aria aveva un buon sapore, era pulita.

Infondeva un senso di tranquillità.

Piano piano i loro occhi cominciarono ad abituarsi all'oscurità.

Per qualche motivo sembrava di essere in un sogno.

Le pareti di roccia si erano fatte più strette e lisce ed erano quasi interamente ricoperte di muschio.

I due continuarono a scendere.

Ormai alla roccia si aggrappavano vere e proprie piante.

Quel posto non sembrava appartenere alla Terra. Non allo stesso pianeta che lì fuori era freddo, desolato, abbandonato.

Quel posto era vivo.

Sembrava che persino la pietra respirasse.

Di sicuro c'era qualche tipo di animale.

Nel silenzio più totale che c'era si potevano sentire persino le zampe di un ragno muoversi svelte.

Ma quello era il minimo.

Forse era la loro immaginazione. Forse quel posto era solo una creazione dello loro menti già oltremodo provate dagli eventi.

Era come se i loro incubi si fossero riversati lì dentro creando qualcosa che aveva poco a che vedere con la paura.

Era come se quell'aria che respiravano non fosse scura solo perché si trovava all'ombra, bensì perché quello era il suo colore.

E mentre la respiravano quel nero entrava dentro di loro e li impregnava come fossero stati spugne.

Li assorbiva lentamente, facendoli diventare parte di quel posto. Parte di quelle tenebre.

Continuarono a scendere, ma non stavano più volando. Affondavano in quell'oscurità quasi con morbidezza lentezza. Era come se nuotassero.

Nessuno dei due parlò, quasi temessero che con la loro voce avrebbero visto quella realtà infrangersi e sparire come inchiostro scuro che si disperde nell'acqua cristallina.

Creature senza forma o identità precisa li osservavano senza essere notati.

Quando i loro piedi toccarono di nuovo terra incontrarono una superficie leggermente ruvida e fredda. La zona in cui i loro piedi si poggiarono si illuminò come fosse fosforescenti.

«Cosa sono?» domandò Riley in un sussurro appena udibile.

«Non ne ho idea.» rispose Ethan con lo stesso tono di voce. «Sembrano delle specie di... funghi

Entrambi erano come incantati da quella luce verdastra che non illuminava affatto l'ambiente circostante, ma sembrava contribuire a rendere onirico quel posto.

Ethan sollevò delicatamente e con lentezza un piede, la superficie dove era appoggiato si spense. Lo posò adagio poco più avanti. Una piccola parte circolare di terreno si accese.

Con la mano cercò il muro e anche quello si accese in due punti.

Nel silenzio più assoluto sentì qualcosa sotto il palmo della mano.

Sembrava un battito.

O un respiro.

E veniva direttamente dalla roccia. Dalla Terra.

Riley intanto si stava aggirando in quell'ambiente ristretto evitando accuratamente le pareti.

«Cos'era?» scattò ad un certo punto senza, però, alzare la voce.

«Cosa?»

«Torna indietro. Lentamente.»

Riley si mosse in un silenzio assoluto, sotto solo dai solo respiri. Dal respiro.

Più o meno al centro dell'ambiente la superficie che si illuminò sotto i suoi piedi fu maggiore.

Ethan gli si avvicinò.

Quando a separarli rimasero meno di due metri, sotto i loro piedi si accese un unico grosso cerchio.

Al centro, sospeso a mezz'aria c'era qualcosa che brillava, ma era difficile dire se per luce riflessa o propria.

«Sembra acqua.» mormorò Ethan estasiato. In effetti assomigliava ad una manciata informe e in continuo movimento d'acqua cristallina dalla quale ogni tanto si allontanavano delle gocce perfettamente sferiche e poi le si riunivano.

«Sembra un cristallo.» commentò Riley con lo stesso tono incantato, quasi non avesse sentito le parole dell'amico.

Entrambi si avvicinarono e il cerchio luminoso per terra si ristrinse in sintonia con i loro passi.

«È bellissima.» sussurrò uno dei due, nemmeno loro seppero dire chi.

Ethan mise la mani a coppa sotto quella strana essenza cristallina.

Quella si avvicinò ai suoi palmi, senza toccarli, ma poi risalì le sue braccia e si fermò davanti al suo petto, in corrispondenza del cuore.

Ethan desiderò di assorbirla.

L'acqua-cristallo lanciò un bagliore più forte, poi sembrò sparire.

Il pavimento e le pareti si accesero contemporaneamente.

Vi fu una specie di singulto, di respiro mozzato, poi i due furono come risputati fuori da quel posto.

Senza capire come si ritrovarono di nuovo in superficie, sul bordo del precipizio, di cui ora si vedeva chiaramente il fondo.

«Cos'è stato?» chiese Riley, il respiro affannato e gli occhi infastiditi da quell'improvvisa luce.

«Non ne ho idea.» rispose Ethan rialzandosi.

Qualcosa di freddo batté contro il suo petto all'altezza del cuore.

Ethan si tastò il collo. Non ricordava di aver messo una catenella argentata.

La fece andare sopra la maglietta anziché sotto fino a far uscire il ciondolo.

Sembrava una piccola lampadina, solo spenta e completamente vuota.

«Ethan? Tutto bene?» chiese Riley alle sue spalle.

Il ragazzo si rinfilò rapidamente il ciondolo sotto la maglietta.

«Sì, tutto a posto. Più o meno.»

I due si guardarono negli occhi per alcuni secondi.

Riley seppe che era il momento di stare zitto...

«Torniamo all'astronave e facciamo finta di niente.»

...e di evitare di contraddirlo.

 

La stava osservando già da un po'.

Era tranquillamente appostato sul ramo di un grosso albero e aveva una visuale perfetta di ciò che succedeva dentro la casa. Il fatto che la sua presenza sembrasse rianimare le piante era sicuramente di aiuto.

Dopo che le avevano dato quel tranquillante si era addormentata quasi immediatamente.

Ancora non poteva crederci. Era lei? Era Victoria?

A confermare i suoi pensieri c'erano i ragazzi che le giravano intorno.

Già da un paio di mesi aveva individuato le figlie della Mew Uccello. Non sapeva perché loro e la figlia della Scimmia e gli altri si fossero alleati.

Quella ragazza arancione non sapeva come chiamarla. Tart? No, lo aveva già dato al ragazzino bruno che le girava intorno. Era Tart il nome di quella peste odiosa di tanti anni prima? Gli sembrava di sì.

Come si chiamava la Scimmia? Patty? Comunque sia, aveva soprannominato così l'altro ragazzino, quello giallo, anche se era un maschio.

Per quella grande optò per il nome Tartina.

Non c'era nulla di affettuoso in quei nomignoli. Affatto. Era un modo come un altro di prendersi gioco di loro – uno dei pochissimi divertimenti che si concedeva.

Dopo che le cornacchie – come chiamava le due terrestri – erano sparite insieme al gatto con gli stivali – il rosso – Tart e Patty avevano perlustrato tutto l'appartamento, mentre la tartina non si era allontanata neanche un attimo da... Victoria.

Doveva trovare un modo di distrarla, ma non aveva nessun chimero a portata di mano.

Aveva provato a scagliare qualche incantesimo su Patty, ma quello stupido biondo sembrava essersi immunizzato dopo l'ultima volta. Tart, come la mattina prima, non stava fermo un momento. Già lo odiava. Come tutti gli altri.

Poi vide gli altri due ragazzi arrivare – i pesci rossi, come li chiamava lui. La tartina li aveva fatti entrare e, poco prima che si scannassero a vicenda, erano riusciti, chissà come, a scoprire che ormai erano alleati.

Dannazione. Quella proprio non ci voleva per lui. Sapeva che prima o poi sarebbe successo, ma gli serviva più tempo. Erano passati solo pochi giorni e, nonostante avesse usato i suoi poteri per accelerare le cose, ci sarebbe voluto ancora qualche mese.

Come guadagnare tempo? I chimeri potevano tenerli occupati, ma erano in tanti e non sarebbe riuscito a impedire loro di scoprire la verità.

Doveva dare una sfoltita la gruppo.

Gli Ikisatashi erano troppo forti, ma gli altri li avrebbe fatti fuori senza problemi. Doveva solo agire con metodo. La ragazza con la gamba rotta era già abbastanza vulnerabile, ma quella argentata le stava sempre intorno.

Già, quella argentata. Si era ripromesso di ucciderla già quella notte se ne avesse avuto il tempo.

Maledetto tempo! Lui poteva avere l'eternità, ma poi, quando ne aveva veramente bisogno, non c'era mai abbastanza tempo.

Quella stupida ragazzina gli era entrata nella testa con una facilità spaventosa ed era riuscita a distruggere uno dei chimeri più potenti che avesse mai creato con la sola forza del pensiero.

Era sicuramente un elemento scomodo. Andava eliminata.

E anche il ragazzino dorato. Lui doveva essere un loro asso nella manica visto che era in diretto contatto con Arret. Avrebbe dovuto dire al suo alleato sul pianeta alieno di prendere provvedimenti.

Ma come? In quel periodo dell'anno Arret e la Terra assumevano posizioni tali che comunicare non era facile neanche per lui.

Intanto tartine e pesci rossi si erano spostati in cucina.

Finalmente.

Si materializzò nel salotto, accanto al divano.

Si inginocchiò a terra, accanto al viso della ragazza.

Con una mano le scostò i capelli dalla tempia.

La voglia a forma di mezzaluna era proprio dove se la ricordava.

Non c'erano dubbi. Quella era lei.

«Victoria.» sussurrò nel suo orecchio con tono caldo. Abigal, però, dormiva profondamente.

Accidenti! L'avrebbe portata via seduta stante, ma non poteva. Non poteva rivelare alle cornacchie che sapeva dove abitavano. Dovevano credere di essere al sicuro.

Dei passi gli preannunciarono che qualcuno stava venendo nella stanza.

Lanciò un ultimo sguardo alla ragazza prima di scomparire.

Se la sarebbe ripresa, fosse stata l'ultima cosa che faceva!

 

Il biondo raggiunse il fratello in balcone.

«Allora,» esordì «che cosa ne pensi di questa storia dell'alleanza?»

«Cosa ne penso? Dovremo essere prudenti, ma non credo che mentano.»

«Ne sei convinto?»

L'altro annuì. «La gente non si fa ammazzare solo per una messa in scena. Quella ferita era vera e quella ragazza era davvero shoccata.»

Rimasero in silenzio.

Il biondo si guardò intorno e poté giurare di poter vedere con la coda dell'occhio un'ombra muoversi alle loro spalle.

Quel giorno quella presenza lo aveva perseguitato senza lasciargli un minimo di riposo.

«È strano.» disse l'altro ad alta voce continuando a guardare fuori, oltre il vetro, oltre i grattaceli, verso quella parte di Terra che era stata abbandonata e che invece stava disperatamente chiedendo aiuto. «È solo una sensazione, ma è forte. È come se li conoscessi. Come se li avessi già incontrati da qualche parte. Come se li avessi sempre conosciuti.»

Il biondo non rispose, non voleva far sapere all'uomo che li stava spiando quello che pensava. Perché la verità era che aveva provato la stessa identica cosa del fratello quando aveva parlato con la ragazza arancione e con il suo amico rosso.

«Una cosa è sicura.» disse invece «C'è veramente qualcun altro che ce l'ha con noi.» sperava sinceramente che l'uomo misterioso l'avesse sentito.

«Ne sono quasi convinto. Ma se è così c'è solo un modo per sconfiggerlo.»

«Quale?»

«Insieme.»


  Ciaooo!
Finalmente si sono alleati, eh? Ma questo è solo l'inizio... della fine!
Vorrei solo far notare che già nel cap precedente Abigal e Aisha si erano incontrate, ma già lì avevo scritto "sole pomeridiano" perciò non è un errore il fatto che abbia cominciato da ciò che era successo quella mattina.
Vorrei anche mettere in chiaro che i flashback all'inizio dei capitoli non sono in ordine cronologico.
Allora, vi è piaciuto?
Fatemi sapere.
Con affetto,
Artemide12

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Capitolo 11
*** Ikisatashi ***


Ikisatashi

 

Lei stava ancora dormendo quando lui la svegliò scuotendola con forza.

Nello sguardo di lui c'era una scintilla di felicità che accese subito anche lei.

«Gli altri sono già arrivati?»chiese subito.

«Sì!» sorrise lui e lei si alzò all'istante.

Arrivarono alla porta e lei aprì.

«Ragazzi!» li abbracciò, uno ad uno, cosa insolita per lei.

«Allora, come va?»

«Alla grande, guarda un po'» la ragazza bionda si portò una mano sul pancione.

Silver e Raylene, intanto, si stavano applicando su un puzzle gigante con un incredibile numero di pezzi. Erano a buon punto. Psiche ascoltava musica.

«Pare che Silver e Raylene abbiano preso tutto dal papà.» fece il ragazzo moro guardando il fratello maggiore facendo scendere Kathleen, che si dibatteva tra le sue braccia per poter scendere.

Pit, tra le braccia della madre, dormiva della grossa.

Lei passò oltre.

Abbracciò la donna minuta dai capelli nero pece e gli occhi come buchi neri che affiancava il marito, alto e bruno.

Le bambine le stavano tutte e due molto vicine. Loro, a differenza degli altri, erano umane.

Così come il bambino biondo dagli occhi azzurri e quello dagli occhi verdi che li seguivano.

Lei sorrise ai genitori e strinse la donna dagli occhi verdi.

Subito dopo la terza coppia umana-alieno.

La donna dai capelli scarlatti spingeva avanti i figli, intenti a farsi dispetti e a chicchierare allegramente con altri due ragazzini: uno dai capelli e gli occhi castano chiari e una con gli occhi blu e i capelli azzurri. «Lui è Dalton, incredibile vero?» fece l'alieno dagli occhi dorati.

Lui fissò lo schermo stupefatto. Era venuto anche meglio di quanto credeva.

«E lei è Abigal?» chiese lei.

«Sì.» confermò direttamente la ragazzina.

Loro la fissarono a lungo mentre le rispettive coscienze tornavano a farsi sentire.

Lei era molto più che una creatura che non avrebbe dovuto esistere.

Se in quel momento e in futuro Abigal sarebbe sembrata una come gli altri, lei era l'ennesimo, inquietante quanto stupefacente, passo avanti.

 

«Allora, vediamo se ho capito, voi venite da Arret, e siete scappati con un'astronave che avete rubato e, da lì, siete arrivati qui sulla Terra per caso?» chiese in ragazzo alzando un sopracciglio.

«Beh, non proprio per caso.» rispose Catron seduto dall'altra parte del tavolo.

Aisha distribuì l'abbondante colazione.

Erano anni che quel tavolo non era così affollato. Le piaceva. Solo ora si rendeva conto di quanto si fosse sentita sola negli ultimi anni.

Oltre a loro quattro umani c'erano Kathleen con i fratellini, Catron e Aprilynne, Silver, Raylene e Psiche e Abigal – anche se al momento la sua presenza era assolutamente irrilevante.

Kathleen, Pit e Opter si tuffarono sulla colazione con la solita vivacità, mentre gli altri Ikisatashi guardavano il latte dubbiosi.

«Dai, guardate che è buono!»

Catron lo annusò ancora perplesso, ma fu Aprilynne a mandare giù la prima sorsata e poi a vuotare il suo bicchiere e chiederne ancora.

«Visto?» fece la ragazza arancione.

«E chi ci dice che è digeribile, per noi?» osservò Silver.

«Il fatto che noi lo beviamo da due settimane e non ci è ancora successo niente. Diglielo anche tu Abigal!» insistette Kathleen.

La ragazza, sentendosi chiamata in causa, alzò lo sguardo e studiò i volti degli altri per alcuni secondi.

«Veramente noi non facevamo mai colazione.» borbottò poi.

«Mai?» esclamò Sharlot «Io non riesco a svegliarmi senza una buona colazione!»

Stavolta furono un po' tutti i Connect presenti a tacere.

«Che c'è?» chiese la ragazza.

«Beh, diciamo che quando devi mantenere più di una ventina di ragazzi che legalmente non esistono neanche devi andare un po' a risparmio.» disse alla fine Raylene.

«Chiamalo risparmio!» commentò Aprilynne.

«Una ventina di ragazzi che non esistono?» chiese invece Oro. Lui era uno dei due ragazzi terrestri. Aveva i capelli di un biondo dorato, appunto, e gli occhi di un meraviglioso azzurro cielo.

Gli Ikisatashi si scambiarono uno sguardo carico di significato.

Potevano fidarsi?

Aprilynne risolse il dilemma.

«Beh, hai di fronte gli unici otto Connect che sono nati naturalmente, si spera

«Scusa e gli altri?» chiese Aisha posando il bicchiere ancora semipiano e addentando un cornetto. Lei era seduta in maniera incredibilmente composta e persino nel servirsi si muoveva con grazia e leggiadria.

«Sono stati creati in laboratorio dai qui presenti Silver e Raylene e prima ancora dai genitori.»

«Stai scherzando, vero?» fece Caos, seduto accanto al fratello.

«Assolutamente no!» rispose la verde, come risentita.

«Ne hai la prova vivente proprio davanti agli occhi.» confermò Catron.

«Tu?»

«Io!» rispose Abigal e di nuovo tutti la fissarono.

«Non ci credo.» insistette Caos.

«Ti assicuro di no. In realtà è addirittura semplice.» rispose Silver e lui e Raylene cerarono di spiegare brevemente come funzionava.

Abigal portò per la prima volta la tazza alla bocca.

Quel liquido bianco e denso aveva un sapore orribile.

Si costrinse a mandarlo giù, ma subito prese a tossire violentemente. Si calmò solo dopo che Kathleen le ebbe dato ripetuti colpi sulla schiena credendo che le fosse andato di traverso.

Per levarsi dalla bocca quel saporaccio afferrò un biscotto di piccole dimensioni e lo addentò.

Anche quello lo mandò giù a forza. Aveva un sapore granuloso e sulla lingua le rimase un che di grinzoso e fastidiosamente dolciastro.

Si raschiò la lingua con gli incisivi superiori per cercare di mandare via quel saporaccio.

Come facevano gli altri a mangiare quella roba? Lei era dimagrita da quando abitava lì sulla Terra.

«Tutto bene?» le chiese Psiche che la stava guardando già da un po'.

«Perché?»

«Sei diventata tutta rossa. E quei brufoli li avevi anche prima?»

Abigal si portò una mano sulla guancia, ma nel sollevarla la vide ricoperta di quelli che sembravano morsi di zanzara.

La pelle del viso era insolitamente ruvida.

Afferrò il coltellino della marmellata a si specchiò nella lama ancora pulita.

Aveva delle chiazza rossastre un po' dappertutto, ma non era messa così male come si aspettava.

Sentiva le labbra secche e se le leccò distrattamente.

Subito sentì che qualcosa non andava. Anche la lingua era secca e sul coltello poté vedere che era anche gonfia.

Tutta la bocca stava perdendo sensibilità.

Sentì il suo stomaco attorcigliarsi.

«Abigal?» fece Sharlot.

La ragazza arrivò in bagno appena in tempo per poter dare di stomaco quel poco di colazione che aveva mandato giù.

Solo quando si fu sciacquata la bocca e si sentì meglio si rese conto che Aisha a Raylene l'avevano seguita.

«Che diavolo c'era in quella roba? Come fate a mangiarla? Ha un sapore orribile!»

Raylene alzò un sopracciglio.

Fuori dal bagno c'era Silver. Gli altri erano rimasti a tavola e stavano guardando attraverso la porta aperta.

Abigal si concentrò sul ragazzo che le stava davanti.

Silver la stava studiando con sguardo critico, ispezionando quasi tutto il suo corpo e traendo conclusioni che tenne per sé.

«Che c'è?»

«Quelle chiazze rosse sembrano una reazione allergica. Come ti senti?»

«Ora meglio.» abbozzò la ragazza «Prima la bocca stava perdendo sensibilità.» si agitò non ricevendo alcun tipo di risposta dal ragazzo. Odiava quel suo sguardo maledettamente inespressivo. «Non può essere un'allergia, ci avete progettati del tutto sani e hai fatto tu stesso i controlli.» disse sulla difensiva.

«Lo so, lo so, ma gli allergeni di Arret non sono gli stessi della Terra suppongo.»

«Ma siamo stati progettati...»

«Voi sì, ma noi no, bisognerebbe provare anche su un altro, ma non la cosa non piace. Quando stavi con Dalton cosa mangiavate?»

Abigal abbassò lo sguardo e si prese alcuni minuti per riprendere il controllo. «Noi...» rispose poi a bassa voce «abbiamo comprato piante da un vivaio un paio di volte. Dalton ha sempre avuto fiuto per quelle commestibili, abbiamo detto che volevamo creare un giardino. Ho comprato del pesce e della carne, ma mai formaggi, pasta, pasta, bevande varie né qualsiasi cosa fosse dentro scatole o barattoli. Una volta ho preso una bottiglia di... olio, mi sembra, quello non era male.»

Silver non sapeva cosa pensare, in effetti si sarebbe comportato proprio come Abigal considerando che non conosceva la maggior parte dei prodotti.

«Cos'è olio?» chiese.

«Quello!» a rispondere fu Opter che indicò una bottiglia di vetro sul piano di lavoro.

Aisha si avvicinò per controllare, poi annuì.

«È vero,» continuò il bambino «è buono.»

Qualcosa nella sua espressione catturò l'attenzione di Caos, seduto di fronte a lui. «Intendi da bere?»

«Certo! Pit se lo stava finendo l'altro giorno.»

Il diretto interessato e sbiancò più di quanto non fosse già.

«Piccole pesti! Ecco chi è che lo faceva sparire! “hai sbagliato a contare le bottiglie”, eh?» scattò la sorella con sguardo di fuoco, ma senza vera rabbia.

«Avevo sete.» mugugnò il ragazzino e il fratellino rise. «È stato anche lui!» esclamò Pit, ma la sorella lo ignorò.

«Viva i fratelli piccoli!» fece Catron sorridendo beffardamente.

«Zitto vecchiaccio

«Bada a quello che dici nanetto!» i due si fissarono come solo due bambini che litigano per qualcosa di sciocco sanno fare e tutti gli altri scoppiarono a ridere.

«Vecchiaccio!»

«Nanetto futuro cognato.»

«Vecchiaccio futuro... Vecchiaccio gattaccio!»

«A proposito.» intervenne Oro. I due lo guardarono male e sibilarono all'unisono un «Che vuoi?» molto comico.

«Le ragazze mi hanno detto che l'ultima volta ti sono spuntate le orecchie e la coda.»

Catron guardò la sorella.

Aprilynne alzò distrattamente l'indice destro qualcosa di lungo, peloso e dorato si attorcigliò attorno alla sua mano.

«Queste?» chiese la ragazza.

I quattro umani notarono allora che le sue orecchie non erano più al loro solito posto dopo le tempie, ma più alte sulla testa e avevano una forma triangolare tipica dei felini.

«Ma che...» Caos la stava fissando sgranando gli occhi.

«Gatto selvatico Iriomoto.» annunciò Aprilynne orgoglioso «Uno splendido regalino dei miei genitori arrivato tramite patrimonio genetico. Lo avevano entrambi.»

«Stai scherzando?» riuscì a dire il ragazzo senza distogliere lo sguardo dalle orecchie e dalla coda dorate, anche se il colore non era così accentuato da risultare anomalo.

«E puoi farlo anche tu?» chiese Oro tornando a prestare attenzione a Catron.

Il ragazzo annuì si fece spuntare la a sua volta coda e orecchie – rosse come gli occhi e simili ai capelli, anche se quelli tendevano più al castano.

«Beh, che c'è da guardare così, anche Aisha a Sharlot, a quanto sembra sanno fare una cosa del genere.»

«È... è proprio questo il punto.» rispose Aisha. «Come è possibile che possiate farlo anche voi? Che possiate averlo ereditato geneticamente?»

«Per informazioni chiedere a Silver.» recitò Aprilynne quasi in automatico poi, rendendosi conto che il ragazzo era rimasto in soggiorno con Abigal aggiunse: «O a Raylene.»

«Gatto selvatico Iriomoto» ripeté tra sé e sé Caos «non è possibile... Qualcun altro sa fare cose del genere?»

«Tutti!» esclamò Opter.

«Ma ti stai zitto!» ribatté Pit.

Kathleen alzò gli occhi al cielo.

«Venite, ho visto un paio di cuscini che non vedono l'ora di essere usati come armi da combattimento.» disse Psiche alzandosi e chiedendo con lo sguardo il consenso ad Aisha. Lei annuì distrattamente e i tre uscirono.

Psiche rientrò, da sola, pochi minuti dopo, mentre dal terrazzo venivano le voci, o più che altro le risate, dei due bambini.

I 4 terrestri erano ancora in attesa di spiegazioni.

«Tutti?» chiese Sharlot che era l'unica che era rimasta seduta mentre gli altri avevano sparecchiato.

Raylene prese la parola. «Tutti. Noi otto siamo nati così. Per quanto riguarda gli altri prima ancora che i loro embrioni cominciassero a svilupparsi il loro codice genetico è stato unito a quello di alcuni animali. Per fare questo abbiamo usato metodi e strumenti molto avanzati che i miei genitori riuscirono a procurarsi, ma siamo gli unici in tutto il pianeta al corrente della cosa. Penso che se il nostro governo lo scoprisse lo utilizzerebbe come arma e allora sarebbe veramente la fine. Tutto è pericolosissimo e se non hai il DNA adatto è probabile che gli effetti collaterali siano devastanti, per questo usiamo embrioni creati da noi e non cerchiamo persone tra quelle esistenti. In questo modo possiamo procurarci i codici genetici che ci servono senza coinvolgere persone che magari non c'entrano nulla. Anni fa abbiamo fatto delle ricerche. Su tutto Arret solo cinque persone avrebbero potuto essere sottoposte ad una simile manipolazione. Considera che una aveva 17 anni, ma uno doveva ancora nascere, due erano anziani, e l'ultimo era ricoverato e in coma da diverso tempo. Senza contare che si trovavano distanti chilometri e chilometri l'uno dall'altro.»

«Quando parli degli altri a chi ti, e soprattutto a quanti, ti riferisci?» chiese Oro, pensieroso.

«Compresa Abigal e esclusi noi sono 10... 9, ormai.»

«Dieci?!» Caos se ne aspettava molti di meno. «E li avete creati tutti voi?»

«Non è esatto.» disse Psiche precedendo la sorella «Quelli che si sono salvati, questi... 9 appunto, sono stati creati dai nostri genitori. Raylene a Silver avevano cominciato a lavorare su degli altri, 12 per essere precisi. Due sono anche nati, avevano 3 e 4 anni, ma non siamo riusciti a salvarli. In qualche modo il governo è riuscito a rintracciarci. L'unico modo per impedire che scoprissero il laboratorio era abbandonarlo e così abbiamo fatto. Senza nessuno che badi a loro a quest'ora saranno morti.»

«Anche i bambini?»

«La femmina l'hanno uccisa, il maschio non sappiamo che fine abbia fatto di preciso. Era con noi, ma quando siamo arrivati all'astronave era sparito.»

«Gli altri dieci chi sono?» chiese Sharlot.

«Cinque maschi e cinque femmine.» rispose Raylene «Tre li avete conosciuti quando il chimero serpente ha attaccato in quel negozio, Electra, Faith e Fosfor, altri due li ha visti solo Aisha, ieri notte, New e Nevery.»

«E in 18 siete riusciti a rubare un'astronave senza che vi notassero?» chiese Aisha diffidente.

«Era tutto ben organizzato e comunque,» rispose Aprilynne «se non ci avessero notati non saremmo qui, puoi starne certa!»

«Voi altri che animali siete?» chiese all'improvviso Oro.

«Io e i miei fratelli siamo scimmie leonine, Aprilynne e Catron, l'avete visto, gatti selvatici Iriomoti, loro lupi grigi.» rispose Kathleen «Perché?»

«Aisha e Sharlot sono dei lorichetti, arcobaleno e blu, vi dice niente?»

Raylene ci pensò, poi scosse la testa.

«È interessante.» commentò comunque il biondo.

 

Silver, seppur con le orecchie tese e in ascolto, era rimasto in soggiorno con Abigal e con la coda dell'occhio controllava che Pit e Opter non facessero danni.

Abigal era tornata normale e non sapeva dire con esattezza cosa fosse successo. Sembrava che il suo corpo avesse rifiutato cibi che non poteva digerire. Non c'era nulla di sbagliato in questo, ma allora perché a loro non era successo niente?

Un'idea, in realtà, ce l'aveva, ma gli sembrava troppo avventata come conclusione.

Ma in fondo...

«Che c'è?» chiese lei «Ti ho detto che non lo so cosa mi è successo, ho solo mandato giù a forza quella roba!» il tono era sulla difensiva, ma la sua voce aveva sempre quel timbro vuoto che ormai la caratterizzava.

«Sei sicura di non saperlo?»

Abigal alzò un sopracciglio.

Si guardarono a lungo.

Per qualche strano motivo lei riuscì a leggere quello sguardo di solito indecifrabile. Forse erano sulla stessa lunghezza d'onda.

«Oh, no, sono sicura di no.» rispose in un misto tra il divertito a il risentito che però sembrò riempire la sua voce e riaccendere, seppur in minima parte, la vecchia Abigal.

«Non prendermi in giro Abigal, se poi...»

«Se ti dico di no è no.» ringhiò lei. In quel momento sembrava proprio una volpe.

«Non essere avventata, rischi solo di peggiorare le cose.»

«Peggiorare?» ormai stava alzando la voce. Balzò in piedi. «Sono sicura di quello che dico. E poi sai una cosa? Sarebbe il colmo se dopo sei mesi fossi rimasta incinta solo adesso!» i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime. In quel momento le sue iridi cobalto, diventate lucide e salate, sembravano due oceani sconfinati. Poteva esserci di tutto in quegli abissi. Dalla rabbia alla gioia, dal dolore al piacere, dall'odio all'amore.

In effetti seppellire Dalton nel mare era stata un'ottima idea. Abigal avrebbe potuto sempre portarlo con sé e lui sarebbe stato sempre una parte di lei.

Per la seconda volta Abigal seppe interpretare lo sguardo di Silver. Strinse le mani a pugno.

«Non sono incinta. Non immagini neanche quanto lo vorrei, ma non è così!» detto questo gettò la testa all'indietro e lo oltrepassò. Trattenne le lacrime quel tanto che le bastò per smaterializzarsi e tornare nel suo appartamento.

Ma quando fu lì non pianse.

Si disse che era inutile.

Prese a riordinare tutta la casa e cominciò proprio dalla camera da letto.

Era l'assenza fisica di Dalton a farle male, quindi era di quella che doveva liberarsi, non dei ricordi.

Mise tutti i vestiti del ragazzo nella lavatrice e fece sparire ogni sua traccia.

Gli abiti poteva utilizzarli anche qualcun altro, non era importante, lui non era certo qualche maglietta e tre paia di pantaloni.

Quando finalmente si sentì sola in quella casa, senza ombre né fantasmi, prese un respiro profondo.

Si sentiva meglio.

Kathleen aveva ragione.

Quello era solo l'inizio, ma le sembrava un buon inizio.

Si stese al centro del letto a pancia in su.

«Vedrai Silver, ti sorprenderò. Non ho niente meno di te. Se tu puoi nascondere così bene le tue emozioni allora posso farlo anch'io. E tu mi aiuterai, vero Dalton?» chiuse gli occhi senza aspettare nessun tipo di risposta.

Non si addormentò né si mosse di un millimetro.

Rimase lì. Gli occhi chiusi e le labbra in posizione rilassata.

Ad assorbire e conservare le emozioni che la attraversavano.

 

Era riuscito a farse regalare da Domnio il millepiedi spia e da qualche giorno si divertiva a seguire i suoi compagni di classe.

Quella volta aveva deciso di fare un passo avanti.

Il comandante Triao era una specie di maniaco della disciplina e dell'ordine, in insetto lo avrebbe sicuramente schiacciato, ma che divertimento c'era senza un po' di rischio?

Fosse questo il rischio... disse tra sé e sé.

Il “telecomando” del robottino, a prima vista, sembrava un pezzo di plastica trasparente molto elastico. Al suono dello schioccare delle dita si attivava e con lui il millepiedi.

Sulla plastica appariva la ripresa della microcamera e grazie ad una specie di bussola ci si poteva muovere ed orientare. Altri pulsanti attivavano l'audio e permettevano di controllare lo stato del robottino.

Era un piccolo capolavoro.

Quando accanto ai piedi del comandante Triao ne apparvero altri due e lui si inchinò Nevery alzò la visuale.

Vide una figura maschile incappucciata e vestita di blu scuro.

Alzò l'audio e dagli auricolari sentì una voce più o meno giovanile che non conosceva.

«Alzati, ho bisogno di parlarti urgentemente.»

«Non vi aspettavamo.» disse il comandante con tono rispettoso mentre faceva strada verso il suo ufficio.

«Infatti non sarei dovuto venire.» rispose secco l'uomo.

Quando il comandante ebbe chiuso la porta blindata e le finestre ermetiche l'uomo si sfilò il cappuccio.

Aveva dei meravigliosi occhi azzurri e i capelli biondi corti, ma non troppo. Quel poco che traspariva da sotto il mantello mostrava una corporatura solida e muscolosa. Era l'ideale delle bellezza.

Da una fessura arrivava un raggio di sole che indorava l'aria di granelli di polvere.

L'immagine sul piccolo schermo sembrava essere quella di un magnifico quadro.

«Il nome Ikisatashi vi dice niente?» chiese. Non poteva avere più di vent'anni.

«No signore.» rispose il comandante dopo alcuni istanti. «Dovrebbe?»

«Giudicate voi stesso.» il ragazzo porse al generale un pannello elettronico simile a quello che Nevery aveva in mano, solo più grande. Probabilmente mostrava una foto, ma era fuori dalla sua visuale.

«Non capisco.» disse il comandante, sembrava sorpreso.

«Ha cambiato cognome da sposata, cosa che deve essere accaduta molto presto e che le ha permesso di non essere rintracciata. L'ho travata in alcuni vecchi registri che ho tirato fuori a causa dei recenti avvenimenti

«Credevo che vi foste occupato personalmente di tutti gli Ikisatashi già diversi anni fa. Venti?»

«Più o meno.» confermò il ragazzo «Ho provveduto a far cambiare cognome a quelli privi di interesse, i pochi sospetti sono stati eliminati. Eppure lei mi è sfuggita. Si è sposata proprio quell'anno, giovanissima. Una fortunata coincidenza, non travi?»

«Cosa volete che faccia?»

«Portamela. Non ho mai trovato qualcuno che coincidesse veramente con ciò che cercavo e ora scopro che una mi è sfuggita.»

«Come faccio a portarvela.»

«Arrestatela, trovate un pretesto.»

«Ma è una dei miei migliori elementi!»

Il ragazzo gli lanciò uno sguardo di fuoco. «Voglio lei e il resto della famiglia, entro stasera. Questo è un ordine e viene dal vostro futuro Governatore!»

«Ma...»

«Bada a ciò che fai e dici, ti ricordo che anche tu sei un elemento scomodo visto quanto sai!»

«Si signore.» rispose il comandante con timore.

Il ragazzo si rimise il cappuccio e si avviò alla porta.

«So che c'era anche lei quando quell'astronave ci è stata sottratta.»

«Si signore, ma è stata distrutta in un campo di asteroidi nel Sistema Solare.»

«Non è così.»

«Signore?»

«Non è stata affatto distrutta e se riesce a raggiungere uno dei pianeti della Fratellanza potrebbero crearci dei seri problemi.» detto questo uscì.

Nevery dovette reggersi a qualcosa.

Entro stasera.

Doveva sbrigarsi. Ma a fare cosa?

Doveva nascondere il millepiedi il più in fretta possibile.

Quello era il suo asso nella manica.

Ma dove metterlo?

Si rese conto che non c'era posto migliore dell'ufficio del comandante.

Trovò quella che una volta doveva essere stata la tana di un topo. C'era un filo elettrico scoperto. Bene. Da lì si sarebbe potuto ricaricare. Si assicurò che fosse ben nascosto, poi lo spense.

Ora doveva trovare il modo di avere sempre con sé il telecomando. E gli auricolari – ovviamente senza fili.

C'era solo un posto che poteva tornargli utile.

Sperò che la sua mente fosse abbastanza sofisticata e precisa da creare ciò che gli serviva.

Si teletrasportò nel laboratorio Connect che aveva scoperto giorni prima.

Rovistò in alcuni armadietti finché non trovò quello che cercava.

Dipinse i minuscoli auricolari di dorato e li fissò ad alcune ciocche che cadevano proprio sopra le orecchie. Lui le aveva sempre avute molto più piccole degli altri arrettiani, anche se non quanto i Connect. Il Nevery reale, viceversa, le aveva più grandi dei compagni. In pratica erano uguali sia nel sogno che nella realtà. Anche se aveva seri dubbi su quale fosse uno quale l'altro.

Prese poi una sottilissima pellicola leggermente rosata a di pochi centimetri più grande del singolare telecomando.

Mise quest'ultimo sul palmo della mano sinistra e poi vi stese sopra la pellicola.

Usò una specie di penna collegata alla corrente per fondere i bordi della pellicola in modo che si attaccassero alla sua mano.

Aspettò che si asciugassero.

Schioccò le dita della mano destra.

Il telecomando si accese e lo strato che lo copriva era abbastanza sottile da essere trasparente.

Tutto funzionava perfettamente.

Un altro schiocco e l'apparecchio si spense.

Si guardò la mano. Non si notava nulla.

Stava per andarsene, ma poi si fermò.

Andò nella camera di Raylene e Psiche e in quella di Aprilynne e Kathleen in cerca di un computer, ma lo trovò solo in quella di Silver e Catron.

Lo avevano lasciato lì perché era rotto.

Lo accese.

Quando chiese la password gli diede una bella botta e arrivò direttamente alla schermata principale.

Tutti i file erano stati cancellati, ma tanto lui non avrebbe saputo che farsene.

Lo collegò al sistema elettrico dell'edificio.

Sperava che l'anti-virus per non essere rintracciati durante la connessione internet funzionasse ancora. Fece una ricerca sull'astronave rubata.

Quando dovette inserire la password per l'accesso ai dati scrisse una parola a caso e diede un altro colpo al computer.

Questa volta ottenne solo lo spegnimento della schermata.

La riavviò.

Quale poteva essere la parola chiave?

Ne provò svariate che credeva adeguate, ma nessuna funzionò.

In quel momento dei passi al piano di sopra lo spaventarono a morte e per poco non fece cadere il computer.

Erano in due.

Tese le orecchie.

«Te l'ho detto, qui non c'è niente.»

«Il figlio di una ribelle del mercato nero è stato visto qui quando la donna è stata arrestata.»

«Da solo?»

«Sì.»

«Che stupidaggine!»

«Non sottovalutare i bambini. E poi non era tanto piccolo.»

«Che ne sai?»

«Sono andato a prelevare padre e figlio questa mattina, come testimoni al processo della madre.»

L'altro scoppiò a ridere fragorosamente mentre Nevery sussurrava «Domnio!»

«Processo!» sbraitò quello tra le risate «Quella donna è più morta che viva in questo momento.»

«Sai come sono questi bastardi, nessuno ha visto niente. Quei due devono solo firmare quattro fogli e passare il resto della vita in prigione se si rifiutano.»

«Aggiornati amico! Quelli entrano in quella stanzetta del tribunale con già la pistola puntata contro. Se loro e la donna fanno i bravi allora, forse, passeranno il resto della vita in prigione.»

«Dovremo costruirne altre di prigioni, stanno diventando particolarmente affollate.»

«Di che ti preoccupi. Più detenuti occhi vuol dire più lavoratori forzati domani e più comfort per noi!»

«Puoi dirlo!» disse l'altro e i due sembrarono battersi il cinque. «Però quella donna non era mica male, potrebbero anche risparmiarla... non so se mi spiego.»

«Potremmo metterci una buona parola.»

«La cosa mi piace!» altre risate.

Nevery era immobile. Inorridito e impaurito.

«Adoro il mio lavoro! Ricognizioni e manutenzione dell'archivio. È la cosa più facile del mondo. E pagano benissimo. A proposito sai che oggi ho dovuto tirare fuori dei vecchi registri? Roba con quei bambini adottati, ma ormai non sono più bambini, il capo diceva che...» ma ormai stavano uscendo e Nevery non poté sentire altro.

Domnio era stato visto lì e segnalato? E da chi? Perché avevano segnalato solo lui e Nevery no?

Ma in quel momento fu qualcos'altro a catturare la sua attenzione.

Vecchi registri.

Tornò a fissare lo schermo.

IKISATASHI

ACCETTATO

Recuperò un pezzo di carta e scrisse ciò che gli serviva sapere dell'astronave.

Il governo non aveva mezzi abbastanza potenti per comunicare con la Terra, ma forse quello avrebbe funzionato.

Quel vecchio rottame ci mise una vita per caricare la schermata di messaggistica interplanetarie e un'altra eternità per caricare il codice dell'astronave.

Nevery scrisse il più in fretta possibile, poi spense tutto e si teletrasportò di nuovo a casa.

 

«Arlene? Sono a casa.»

Non ricevette risposta, ma la trovò in bagno in preda a dei conati di vomito.

«Marcu...» lei non riuscì a parlare.

Quando finalmente si sentì meglio si lasciò cadere su una sedia e portò una mano sulla pancia.

«Forse sto impazzendo.» dichiarò.

«Ma che dici?» fece lui sedendosi accanto a lei e cingendole le spalle con un braccio.

«Sono passate meno di due settimane.» gemette lei con le lacrime agli occhi. «Ho dovuto cambiare medico per non farlo insospettire. Quello nuovo ha detto che è di quattro mesi.»

Sollevò la felpa leggera e rivelò il piccolo, ma evidente pancione.

«E sto veramente uscendo pazza! Ho addentato una pianta! E l'ho anche trovata buona.» a quelle parole, da seria, l'espressione di Marcus si fece prima allibita, poi spaventata.

«Stai scherzando?»

Lei scosse la testa piangendo «E mi stavo bevendo un bicchiere di olio poco fa.»

Lui si alzò non sapendo dove posare lo sguardo inquieto e sussurrando di continuo «non è possibile.»

«Marcus...»

«Cos'altro?»

«Cosa?»

«Cos'altro è successo?»

Lei ci pensò un attimo cercando di riordinare le idea, poi sollevò una manica della felpa di cotone particolarmente sbrindellata «Per poco non l'ho ingoiata.»

Lui si portò la mano alla fronte in un gesto disperato «No, no! Perché mi fai questo, diavolo?» ma non sembrava parlare con lei.

«Ha chiamato la scuola, ho detto che sto male. Marcus, ti prego, dimmi che sta succedendo!»

«Io...» lui cercava di pensare razionalmente «Dammi, … dammi solo un po' di tempo, devo fare una... telefonata.» recuperò il giacchetto.

«E non la puoi fare a casa.»

Lui tornò indietro. Si abbassò fino ad avere il viso all'altezza di quello di lei e la guardò negli occhi.

«Andrà tutto bene, amore, fidati di me.»

Lei annuì e lui la baciò con passione.

Non avrebbe permesso che gliela portasse via, questa volta non si sarebbe fatto rovinare la vita.

 

Il comandante Triao fece irruzione nella casa nel pomeriggio.

Nevery vide suo padre andargli incontro, leggermente agitato.

«Posso esservi utile?»

«Sono qui per vostra moglie.»

Nevery rimase seduto alla sua scrivania a fingere di studiare. Sentiva il suo cuore battere all'impazzata. Tra poco li avrebbero arrestati e portati via. Avrebbe mai più rivisto la sua casa.

Aveva cercato di memorizzare ogni stanza, in modo da non dimenticare nulla.

Sua madre arrivò in pochi minuti. Nonostante fosse cieca si muoveva negli ambienti a lei familiari meglio di chi vedeva. Ma come si sarebbe comportata in luoghi estranei?

«Comandante.» disse in tono referenziale stando sull'attenti.

«Sheira Ikisatashi?»

«Sì signore.» confermò la donna.

«Vi dichiaro in arresto.»

Rimase immobile e attonita.

«Con quali accuse?» scattò invece il padre di Nevery.

«Comportamento irresponsabile a danni dello stato.» annunciò il comandante. Nevery colse una nota di disagio nella sua voce.

«È deplorevole!» insistette l'uomo «E quando sarebbe successo?»

«Tre settimane e quattro giorni fa. Quando alla nostra flotta stellare è stata sottratta un'astronave da un gruppo di arrettiani ancora non identificati.»

«Insisto nel dire...» ma la donna non gli permise di continuare. Lo zittì con un gesto e uno sguardo vuoto, ma preciso.

«Ero a capo della squadra, mi assumo la responsabilità delle azioni di tutti.»

Seguì un momento di silenzio. La tensione era tanta.

«Bene.» fu tutto ciò che riuscì a dire il comandante. Quella era davvero una dei suoi elementi migliori. «Suppongo che queste non saranno necessarie.» aggiunse poi estraendo delle manette.

«No, signore.» confermò Sheira che aveva mantenuto la sua posa composta e impeccabile.

La donna tese le orecchie per conferma che fuori c'erano altri soldati ad attenderli.

Uscì senza dire altro.

Il marito fece per seguirla, ma il comandante gli sbarrò la strada.

«Stia calmo signor Felix Lyoko. Lei e suo figlio sarete scortati in un luogo sicuro in attesa del processo.»

«Lei non capisce!» sibilò l'uomo abbassando il tono della voce.

«E invece capisco, signor Lyoko.» rispose il comandante con un tono insolito. I due si scambiarono un rapido sguardo. «Farò il possibile per farle avere un processo equo, ma ho le mani legate, l'ordine viene dall'alto.» fissò Nevery «Lei e suo figlio siete attesi fuori. Prendete solo cose di prima necessità.» detto questo uscì.

«Papà...» cominciò Nevery.

«Sbrigati Always, prendi il tuo zaino e mettici ciò che ti serve. È meglio fare come dicono.»

Lui annuì e corse in camera sua.

Prese la sua borsa da agente segreto e la riempì più che altro di vestiti. Non poté resistere dal metterci anche il suo peluche preferito.

Un'ultima occhiata alla camera, poi uscì insieme al padre.

«Questo non era necessario.» stava dicendo Sheira al comandante Triao, poi, sentendoli avvicinarsi, abbassò il tono della voce. «Permettetemi almeno di salutarli, immagino che li rivedrò solo il giorno del processo.»

Il comandante annuì «Due minuti.»

Lei corse ad abbracciare il marito che la strinse a sua volta.

«Che sta succedendo?» sussurrò lui.

«Non lo so, ma opporsi non ci aiuterebbe affatto.» Nevery udiva appena le loro voci, nonostante fosse lì accanto a loro.

«Qui c'è sotto qualcosa, Sheira, se...»

Lei lo fissò negli occhi, anche se non poteva vederlo.

«Qualunque cosa accada, promettimi che penserai ad Always.»

«Te lo prometto.» rispose lui stringendola ancora di più e appoggiando il viso nell'incavo del suo collo.

Lei ispirò profondamente, poi si separò dal marito e si chinò sul figlio.

«Sii forte Always, questo è solo l'inizio. Tutto cambierà, è solo questione di tempo e tu lo sai.»

lui la guardò stupito. Era lui a cogliere il doppio senso, o lei era consapevole di quello che diceva?

«Non fidarti di nessuno, solo del tuo istinto hai capito?»

Lui non rispose.

«Del tuo istinto Always, ha capito?»

Annuì con decisione questa volta.

«Sii paziente, torneranno, dobbiamo solo aspettare.»

«Chi?»

«Lo sai chi. So che lo sai.»

Rimase sbalordito. Avrebbe voluto chiederle milioni di cose, ma il comandante Triao richiamò la sua attenzione con un teatrale colpo di tosse.

Sheira strinse il figlio con l'affetto di cui solo una madre è capace, poi abbracciò di nuovo il marito.

«Non far saltare la nostra copertura.» mormorò solo, prima di baciarlo con una passione che costrinse i soldati presenti a distogliere lo sguardo. Lui ricambiò con lo stesso slancio e rimasero alcuni secondi con le fronti appoggiate e i nasi che si sfioravano prima di separarsi definitivamente.

Nevery riuscì a notare che il padre le passò qualcosa che lei nascose all'interno della manica.

Vide i suoi occhi luccicare e, se non l'avesse conosciuta bene, avrebbe detto che stava trattenendo le lacrime.

«Venite con noi.» disse un soldato dopo essersi avvicinato.

 

Aprilynne si era di nuovo addormentata.

Si era seduta con la schiena appoggiata al mobiletto della sala comandi sopra al quale dormiva Nevery – doveva essere insolitamente comodo.

Raylene, venuta lì in cerca dell'amica, rimase immobile ad osservarla per alcuni minuti.

Aveva la testa appoggiata alla pancia di Nevery e lui le stringeva con la mano una ciocca di capelli.

Nevery e Aprilynne andavano insolitamente d'accordo.

Lei ci aveva messo diverso tempo ad accorgersene, ma quei due si somigliavano.

Avevano gli stessi occhi dorati, ma erano altri piccoli dettagli che avevano catturato la sua attenzione.

Uno strano bep-bep la distrasse. Si avvicinò al pannello di controllo mentre Nevery cominciava a stiracchiarsi e di conseguenza si svegliava anche Aprilynne.

Raylene controllò l'orario. Le 8 in punto. Della sera. Quel ragazzino era unico.

«Che cos'era?» fece la verde.

Raylene attivò uno schermo olografico.

«Un messaggio!» annunciò allarmata. «Da Arret!»

«Che dice?» scattò Nevery, perfettamente sveglio e turbato quanto curioso.

La viola lesse ad alta voce.

«“La situazione qui sta peggiorando, vi prego dovete sbrigarvi. Stanno per arrestare mia madre, lei è un soldato mentre mio padre lavora al mercato nero, la accusano di avervi aiutato a scappare, ma è solo una scusa. Ho visto un uomo, un ragazzo in realtà. Biondo, occhi azzurri. Doveva essere un politico potente. Credo abbia intenzione di prendere il potere e suppongo abbia molti alleati, tra cui il comandante Triao Tetris. Porterò le registrazioni sempre con me, nel caso servissero.

Cerca mia madre a causa del suo cognome.

Ikisatashi.”»


Ciao!
Auguro a tutti buon Natale, anche se spero di fare in tempo a pubblicare un altro capitolo prima della vigilia.
Anche in questo succede poco e ho ristretto un po' i dialoghi per non annoiarvi troppo, dal prossimo cap riprenderanno le scene d'azione.
A presto allora.
Bacioni
Artemide12

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Capitolo 12
*** Più forte ***


Più forte

 

Lui si mosse silenziosamente per il corridoio. Era tardi e non voleva svegliare nessuno.

Sentì qualcuno sussurrare da dietro una porta.

Era leggermente accostata e si avvicinò per sbirciare dentro.

Vide il fratello minore e sue cognata seduti sul bordo del letto di Kathleen.

La ragazza bionda stava piangendo silenziosamente mentre il ragazzo moro l'abbracciava tentando di consolarla, anche se non sembrava la persona più indicata.

Lei ogni tanto annuiva, ma poi riprendeva a singhiozzare sommessamente.

Non distingueva le parole di lui.

Un sorriso amaro gli attraversò il volto e si allontanò dalla stanza.

Lui aveva avuto più tempo per rassegnarsi a quell'idea.

Ogni genitore non vorrebbe che il meglio per i propri figli, mentre loro si trovavano costretti a lasciarli e a sperare che sopravvivessero finché non li avrebbero raggiunti.

Ma rimanere con loro voleva dire esporli ad un pericolo ancora maggiore.

Dovevano rimanere nell'ombra e aspettare.

Aspettare il momento di rientrare in azione.

Ed entrare in azione equivaleva a mettere seriamente in pericolo la propria vita.

Avevano ragione ad avere paura.

Solo un pazzo poteva non averne.

Solo una persona straordinariamente lucida di mente avrebbe potuto sfruttare il fatto di conoscere un futuro disastroso per poterlo cambiare.

Ma bisognava essere pazzi almeno in minima parte per organizzare tutto quello.

Ma ci sono forme peggiori di pazzia.

Molto peggiori.

 

Faith stese la mano chiusa a pugno davanti a sé.

Prese la mira, poi con un movimento rapidissimo lanciò un'altra scaglia.

«Perfetto!» commentò Electra stupita.

«Il tiro era buono, ma ci hai messo troppo tempo.» ribatté invece Aisha alle sue spalle.

«Cosa? Ma l'hai vista?» insistette la ragazza strabica.

«Ha ragione Electra, in battaglia non avrò tutto questo tempo per prendere la mira.» tagliò corto Faith. «Fammi vedere come te le cavi tu.» aggiunse poi rivolta alla terrestre.

«Già!» esclamò Catron «Questi tre dicono che tirate con l'arco.» indicò Electra, Faith e Fosfor.

Aisha sorrise raccogliendo la sfida.

«D'accordo.»

Tornò al pickup e estrasse dal bagagliaio una custodia in cuoio di forma rettangolare.

La appoggiò su un tronco e con una piccola chiave che teneva al collo sbloccò le due serrature.

L'aprì con delicatezza.

Si caricò in spalla la faretra, poi, con lentezza teatrale, estrasse l'arco.

Visto da vicino sembrava ancora più minaccioso.

Aveva una forma affusolata e aggraziata che gli dava un aspetto ancora più letale.

Era di un colore marrone scuro, quasi nero, che ricordava il legno, del quale aveva persino le venature, ma i suoi riflessi alla luce del sole erano sicuramente quelli di un metallo.

Aisha ne saggiò per l'ennesima volta la consistenza. Era freddo, come un metallo, ma la consistenza era quelle del legno.

Dalla faretra estrasse un freccia, nerissima.

Era leggerissima e affilatissima. Letale.

Aisha si infilò dei guanti sottilissimi, neri, che le lasciavano scoperte le dita.

A quel punto tutto successe in pochissimo tempo.

L'attimo prima la freccia era tra le mani della ragazza, quello dopo la corda tesa vibrava e infine la punta si conficcò su un albero su cui era stato dipinto un cerchio bianco.

Mentre ancora tutti fissavano la freccia ormai ferma un'altra si conficcò proprio sull'estremità della precedente. E così fece una terza.

Tutti si voltarono verso Aisha che era ancora al suo posto, perfettamente dritta, maestosa e inquietante, come se non si fosse mossa.

Allungò la mano sinistra guantata davanti a sé e le frecce lanciate sfrecciarono rapidissime liberandosi dal legno dell'albero e atterrando sul suo palmo che richiuse l'istante dopo.

Sharlot sorrise orgogliosa.

«Tocca a me.» disse poi spavaldamente.

Estrasse dall'auto un'altra custodia, apparentemente uguale all'altra e la aprì nello stesso modo della precedente.

Prese la sua faretra, poi sollevò il suo arco.

Era di un argentato lucente, ma guardandolo bene era anche trasparente.

Mise anche lei dei guanti, grigi.

Si posizionò dove poco prima c'era la sorella, che guardò con aspettativa.

Aisha raccolse dei sassi di varie dimensioni, alcuni piccolissimi, da terra.

Rimasero immobile per un paio di secondi, poi Aisha lanciò le pietre una di seguito all'altra.

Ricaddero tutte a terra, una dopo l'altra, tutte spaccate a metà da frecce bianchissime che l'attimo dopo sfrecciarono di nuovo in aria, come in un video visto al contrario, per andarsi a depositare nella mano della loro padrona.

Per un po' nessuno seppe cosa dire, tutti erano rimasti a bocca aperta.

«Non ci credo.» disse stupita e allibita Aprilynne alzandosi in piedi.

«Sei vuoi te lo faccio rivedere.» esclamò soddisfatta Sharlot.

La verde non seppe cosa rispondere.

«Posso vedere il tuo arco?» chiese improvvisamente Silver.

«Sì.» rispose lei senza capire.

Il ragazzo lo studiò e lo soppesò con interesse. «Questo materiale,» disse poi «da dove viene.»

«Perché ti interessa tanto?» chiese Oro avvicinandosi.

«È lo stesso materiale usato per le astronavi, almeno per alcune parti. Mi serve per riparala. Da dove viene?»

I due fratelli Shirogane si guardarono.

«Non lo sappiamo di preciso. Queste armi sono state costruite in Giappone. Non sappiamo che materiale sia, agli altri umani è sconosciuto, ma lì ce ne dovrebbe essere ancora.

«Puoi portarmici?»

«Io... non ne ho idea. So dove si trova, so dov'è situato quello che ne resta, ma non so come arrivarci.»

«Davvero lo sai.»

Il ragazzo biondo annuì con decisione.

«Possiamo andarci anche adesso?»

«Adesso? Come...» quando Silver gli tese la mano si ricordò del teletrasporto.

«D'accordo, ma non ti assicuro niente. E prima passiamo a casa, c'è una cose che devo prendere.»

Silver annuì e Oro gli strinse da mano. L'attimo dopo scomparvero.

«Riprendiamo.» disse Faith balzando di nuovo in piedi.

«Ci sto.» confermò Fosfor alzandosi in piedi.

Evelyn, che aveva ancora la gamba rotta, anche se stava meglio, li affiancò alzandosi in volo.

Riley si avvicinò senza dire nulla.

Psiche arrivò al centro dello spiazzo.

«Gli altri?» chiese Caos prendendo dalla tasca due coltellini svizzeri.

«Loro non sono ancora riusciti ad evocare le loro armi.» spiegò Psiche.

«E come avete combattuto fino ad adesso?» scattò subito Sharlot.

«Oh, non ti piacerebbe.» rispose Aprilynne.

«Fammi vedere.»

La verde si alzò in piedi.

Subito le comparvero coda e orecchie, ma poi la sua trasformazione continuò.

Quando divenne in tutto e per tutto un gatto, anche se piuttosto grosso, balzò sul ragazzo.

Lui tentò di liberarsi usando il coltello, ma presto Aprilynne riuscì a levarglielo di mano.

Riprese in parte le sue sembianze umane. Coda, orecchie, artigli, denti affilati e sguardo assassino, però, rimasero.

Caos barcollò impreparato sotto il suo peso e lei lo bloccò a terra.

«Hai perso.» soffiò lei.

«Neanche per sogno.» ringhiò lui e per fare questo mostrò una fila di denti felini affilatissimi.

Qualcosa scattò dentro la ragazza.

Qualcosa che non le era mai successo, neanche con il fratello.

L'istinto felino di autodifesa prese la meglio su di lei.

Era nel territorio altrui, era un'intrusa, doveva proteggersi da chi rivendicava quegli spazi come suoi. E quel qualcuno era Caos.

Anche in lui la parte animale prese la meglio, ma in modo doloroso e inquietante.

Con una zampata scaraventò un'allibita Aprilynne lontana.

Si acquattò a quattro zampe, pronto a balzare sulla gatta dorata che ringhiava inarcando la schiena e rizzando il pelo.

Scattò, ma mentre era ancora in aria, Aisha gli fu addosso e lo trattenne.

«Sharlot, sbrigati, il siero! È nel cruscotto.»

Mentre la ragazza correva al pickup, Aprilynne riuscì a dominarsi e riprese le sembianze umane.

Fissò Caos che si dimenava come in preda ad una crisi di nervi.

Le iridi verdi e le pupille si erano assottigliate proprio come quelle di un felino; i capelli, di solito molto corti ai lati della testa dove erano così chiari da sembrare bianchi e più lunghi al centro dove invece erano verde chiaro, erano diventati completamente bianchi; le mani si erano fatte più tozze, ma le unghie più affilate.

«Io... non capisco... non volevo...» cercò di dire Aprilynne, ma nessuno dei terrestri le dette ascolto.

Sharlot arrivò qualche istante dopo con in mano un siringa contenente un siero verdastro che iniettò nel braccio di Caos.

Aisha lo lasciò andare e il ragazzo ricadde sulle ginocchia con il fiatone.

«Io...»

«Tranquilla.» dissi subito il ragazzo «Non è colpa tua, non direttamente. Ogni tanto succede anche a mio fratello. Nel nostro DNA c'è un po' troppa roba.» dal tono di voce la ragazza intese che non le avrebbe dato altre spiegazioni.

«Riprendiamo.» ordinò il ragazzo «Propongo di formare delle squadre e anche quelli senza armi devono combattere.»

«Ci sto.» esclamò subito Ethan affiancando Riley.

«Squadre da tre.» aggiunse Aisha portandosi tra la sorella e Caos. Il ragazzo aveva 19 anni, uno meno di Aisha e uno più di Sharlot.

Electra raggiunse Faith e Fosfor.

Kathleen si unì a Catron e Aprilynne.

Evelyn volò vicino ad Ethan e Riley, anche se sapeva di non andare molto a genio ai due – la sua gamba non era ancora guarita e si guardava bene dal camminare.

Psiche e Raylene, vedendosi in inferiorità numerica a causa dell'assenza del fratello guardarono Abigal che si accostò loro, riluttante.

Rimasero fuori solo Pit, Opter, New, appostati su un albero da dove avevano un'ottima visuale, e naturalmente Nevery che, dal momento che era pieno giorno, stava tranquillamente dormendo – l'avevano caricato sul retro del pickup.

«Tutti contro tutti?» chiese Faith impaziente.

«A patto che si rispettino le squadre.» rispose Catron.

Poi tutti si scatenarono.

Il gruppo dei terrestri si trovò presto contro gli Ikisatashi, ma Raylene Psiche e Abigal quasi sibito si scontrarono con Riley, Ethan e Evelyn.

Electra, Faith e Fosfor affrontarono un po' tutti. Loro sembravano il gruppo più affiato.

Il primo che si ruppe fu quello di Psiche, Raylene e Abigal. Quest'ultima prese di mira la povera Evelyn e le due si estraniarono dagli altri e quando la ragazza-pois diede i primi segni di stanchezza Abigal la lasciò perdere e si estraniò dallo scontro.

Contro le frecce di Aisha si dimostrarono utili le scaglie di Faith.

Fosfor riuscì a rallentare Sharlot smagnetizzando tutte le frecce che cadevano a terra in modo che con il suo guanto non potesse richiamarle a sé.

Quando Caos vide Riley mettersi a fare bolle di sapone con le mani dovette trattenersi dal ridere.

«Sarebbe questa la tua arma?»

«Sta a vedere.» rispose il ragazzo controllando le bolle e disponendole a cerchio intorno a Caos e Electra, particolarmente vicini.

Quando toccarono terra le bolle esplosero. Nel vero senso della parola. Si rivelarono piccole bombe.

«Ringrazia il fatto che fossero piccole.» rise Riley creandone altre.

Questa volta, però il ragazzo era pronto e lanciò il suo coltello facendone scoppiare alcune proprio vicine al loro creatore che fu allontanato di alcuni metri.

«Riley!» ringhiò Ethan raggiungendolo.

Sharlot prese la mira e colpì altre tre bolle.

Quando la polvere si diradò, però, videro che Ethan aveva fatto scudo all'amico con il suo corpo.

La sua maglietta era strappata e mostrava sulla schiena quella che sembrava una corazza di grosse scaglie grigie.

«Armadillo.» spiegò Psiche.

Sharlot, che aveva appena richiamato le sue frecce, la guardò stupita.

L'aliena ne approfittò e allungò il suo nastro avvolgendolo intorno al fascio di frecce e disarmando la terrestre.

Lei si vece spuntare le ali e afferrò al volo le sue frecce.

Psiche liberò il nastro e lo avvolse attorno alle gambe della ragazza alata.

Sharlot se ne accorse appena e prese quota sollevando anche Psiche che non ebbe la prontezza di lasciare il nastro.

Solo dopo alcuni secondi la fucsia si ricordò di poter volare a sua volta.

Lo scontro riprese in aria. Purtroppo frecce e nastro non andavano molto d'accordo.

Gli attacchi di entrambe andavano a buon fine e si trovarono tutte e due di nuovo a terra nel giro di poco tempo.

«Dov'è Electra?» ringhiò Catron raccogliendo i vestiti della ragazza.

«Basta trovare un paio di mutande e reggiseno che camminano.» gli rispose Aprilynne schivando con un salto un calcio della ragazza-camaleonte che però colpì in pieno Kathleen che cadde a terra.

Catron scalciò della terra che si depositò su una parte rialzata dello spiazzo.

«Sei sleale!» urlò Electra ricomparendo e sbattendo furiosamente le palpebre sugli occhi lacrimanti.

«Certo.» rispose Aprilynne battendo il cinque al fratello.

Poi i tre scoppiarono a ridere.

Abigal guardava in disparte.

«Sembrava uno scontro reale, vero?» disse una voce nella sua testa.

Istintivamente si voltò, ma non vide nessuno.

«Ci manca davvero poco, sai? Basta dare loro un motivo per combattere, per farsi fuori a vicenda» a quel punto lo riconobbe.

«Bastardo!» sibilò a denti stretti.

«Abigal!» New, quasi l'avessero chiamata, si voltò verso la ragazza e con un balzo la raggiunse. «Abigal! Va tutto bene?»

La ragazza digrignò i denti.

«Esci dalla mia testa, razza di demone!» soffiò poi.

New sgranò gli occhi, ma prima che potesse fare qualcosa una sfera di energia luminosa la investì in pieno facendola cadere a terra priva di sensi.

Era passata così vicina ad Abigal che per un attimo credette di essere stata lei stessa a lanciarla.

«New!» esclamò Evelyn precipitandosi sull'amica, ma fu colpita a sua volta da un sfera di energia e crollò sulla ragazzina.

Abigal strinse i pugni tra i capelli.

«Non sei curiosa di sapere come andrebbe a finire?»

 

«Questo una volta era un parco.» spiegò Oro «Siamo arrivati.» aggiunse poi di fronte ad un edificio che un tempo doveva essere rosa.

Entrarono.

C'era molta polvere un po' dappertutto e dei lenzuoli coprivano ciò che restava della mobilia.

«Vieni.» Oro fece strada fino alla scale che portavano nel sotterraneo buio.

Quando furono arrivati in quella che doveva essere una stanza piuttosto grande Oro cercò a tentoni l'interruttore e quando lo trovò una luce fioca si accese. «I pannelli solari funzionano.» disse soddisfatto. «Li ho montati insieme a mio padre.»

«Ma è enorme.» commentò stupito Silver.

«Lo hanno ingrandito parecchio quando ero piccolo.»

«Vivevi qui?»

«No, stavo già in America, ma venivamo qui di nascosto. Era la nostra “base”.» c'era un velo di malcelata malinconia nella sua voce che Silver comprese.

Su un lato c'era un enorme schermo a parete.

Dalla parte opposta c'era quello che era a metà tra un laboratorio e un'officina.

Appoggiate e fissate ad una parete c'erano delle lastre metalliche che Silver riconobbe subito.

«Eccole!» esultò avvicinandosi e sfiorando la prima.

«Quelle? Ma non sono come l'arco di Sharlot.»

«Non sono state ancora lavorate, solo tagliate. Quante sono?» lo sguardo del ragazzo era insolitamente vispo. «15, 16, 17. Diciassette! Bastano e avanzano!»

«Bisognerà fonderle, però.» osservò Oro, ma l'altro scosse la testa.

«Acido muriatico. Serve quello. Questo metallo resiste a temperature altissime. Viene usato per viaggiare nello spazio! Può volare vicino ad una supernova! Se la tocca però non c'è scampo.»

«Una supernova? Stai scherzando?»

«Oh no.» disse l'alieno quasi con venerazione mentre accarezzava una di quelle lastre. «casa» sussurrò quasi tra sé e sé. Studiò i ganci che le tenevano fissate alla parete. «Questi come si sbloccano?»

«Dal computer. Se riesci ad accenderlo.»

«Sicuro!» si sedette ad una scrivania e accese un vecchissimo monitor.

Sullo sfondo apparve l'immagine di cinque ragazze e tre ragazze. «Chi sono?» chiese.

«Le MewMew.» Silver lo guardò senza capire «Le prime il cui DNA fu modificato inserendovi quello di un animale.» spiegò Oro. Indicò quella con i capelli verdi. «Questa è mia madre. Lory Midoricawa. E lui è Ryan Shirogane. Mio padre. È lui che ha progettato tutto. Gli devo anche un maledetto gene felino.»

Silver alzò un sopracciglio aspettando che il computer finisse di caricarsi.

«Lui sperimentò l'efficienza del suo progetto su sé stesso. Gli andò bene, ma a noi ha creato dei problemi visto che nel nostro DNA c'è già quello della neofocena. I due animali non vanno molto d'accordo.»

«Un animale marino?»

L'altro annuì. «Non molto comodo, in effetti.»

Poi indicò altri due ragazzi. «Loro sono Mina Aizawa e Kyle Akasaka. Lui era socio di mio padre.»

«Sono i genitori di Aisha e Sharlot?»

«Sì. Lei era il lorichetto blu.»

«Aisha, però, è un lorichetto arcobaleno.» osservò Silver.

«Sei un buon osservatore.» si complimentò Oro «Purtroppo nemmeno noi sappiamo come sia possibile.»

Un rumore fece voltare il ragazzo. I ganci che tenevano ferme le lastre si sganciarono.

«Trovato!» esultò Silver.

«Hai fatto presto.»

«Questo computer è piuttosto rudimentale.»

Oro prese tre di quelle lastre, poi l'altro richiuse i ganci.

«E questo?» Silver fu catturato da un file senza nome nella cartella delle fotografie.

«Sono file vuoti.»

Silver tentò invano di aprirli.

«È un vecchio modello, non dovrebbe essere difficile recuperarli.»

Silver si infilò sotto la scrivania e studiò il groviglio di fili.

«Sei sicuro di capirci qualcosa?»

«Ci giocavo da piccolo con questa roba.»

Oro sgranò gli occhi. Chi poteva essere tanto pazzo da far giocare i propri figli con cose del genere?

«Premi invio.» ordinò Silver da sotto la scrivania e Oro obbedì.

«Come hai fatto?»

«Funziona?»

«Funziona! Sono... foto. Foto.» era quasi arrabbiato. Suo padre gli aveva sempre vietato di aprire quei file e cosa c'era dentro? Foto!

Ne aprì una a caso.

«Sono semplicissime foto!»

Silver si rialzò e guardò le immagini la sua espressione da divertita e allegra si fece seria e allibita.

«Cosa c'è Silver?»

«Questa...» aprì una foto. «Questa è mia madre!» continuò a sfogliarle «E questo è mio padre! Questi i genitori di Aprilynne e Catron. E questi quelli di Kath, Pit e Opter! Come... com'è possibile che ci siano delle loro foto in questo computer?»

 

Electra sferrò con colpo verso Aprilynne che serrò le mani sui suoi pugni e tentò di contrastare la spinta della ragazza.

Fosfor le guardò distrattamente.

«Cosa sta facendo quella stupida ragazzina? Non sembra tanto amichevole con Electra.» disse una voce nella testa del ragazzo. «Le sta facendo del male. Guardala, non è tutto graffiata?» si voltò. In effetti era vero. Electra non sembrava messa troppo bene e Aprilynne non ci stava andando leggera. «Come puoi rimanere indifferente mentre la ragazza che odia fa del male alla tua migliore amica. O no?»

Aprilynne urlò di dolore quando sentì una scossa percorrerle dolorosamente il braccio e persistere.

«Fosfor!» urlò bloccando e tutti si fermarono «Che stai facendo?»

«Lascia andare Electra!»

«L'ho lasciata bastardo!»

Catron si protese verso la sorella. «Sta aggredendo tua sorella, Catron, le sta facendo del male.»

Catron balzò su Fosfor. «Quella è mia sorella, mostro!»

«E quelli sono i miei amici!» scattò Faith fermandolo mentre una voce nella sua testa non faceva che istigarla.

«Molla il mio ragazzo maledetta vipera!» ringhiò Kathleen attaccandola.

Le puntò al collo un'arma metallica che non si era neanche resa conto di aver evocato. Sembravano goniometri di 360 gradi fatti però in affilatissimo metallo. Lei li impugnava da una barra centrale.

«Allontanati da me!» sibilò Faith mentre riduceva gli occhi a due fessure stringendo i pugni e ritrovandosi in mano le sue scaglie avvelenate.

«E tu molla il mio ragazzo.»

Per tutta risposta Faith con uno scatto rapidissimo afferrò il collo di Catron – prima lo stava tenendo per la spalla. Catron sentì le scaglie premere contro il suo collo.

Nel frattempo Raylene stava tenendo ferma Electra mentre Fosfor le dava di santa ragione ad Aprilynne che rispondeva con colpi rabbiosi e vigorosi. Lei non aveva neanche bisogno di essere provocata.

«Questi sono tutti impazziti.» disse Riley a Ethan e non gli venne neanche il singhiozzo.

«Andiamocene finché siamo in tempo.» rispose il ragazzo e Riley creò delle bolle-bombe per diversivo. Delle stellette ninja, però le fecero scoppiare subito tutte.

«Dove credete di andare?» ringhiò Electra impugnando le sue nuove armi.

«Lontani da te.» le rispose Ethan.

Lo sguardo della ragazza si fece rabbioso e guidata dalla voce maligna nella sua testa lanciò con impensabile rapidità le stellette.

Tutte andarono a conficcarsi nell'enorme scudo grigio che Ethan aveva appena evocato.

«Grandioso!» commentò il ragazzo. «Ti autorizzo a tentare di uccidermi più spesso Electra.»

«Tentare di ucciderti?» per un attimo la ragazza tornò in sé.

«Sono dei traditori. Stavano cercando di scappare. Non fidarti di loro, vogliono solo illuderti e usarti.» incalzò subito la voce nella sua testa e lei ripartì all'attacco.

«Fermatevi!» cercò di intromettersi Psiche, ma neanche lei era immune ai Suoi poteri.

«Dove sono gli umani? Non sono loro la causa di tutti i vostri problemi? Se non si fossero intromessi a quest'ora sareste già a casa. Sei quasi morta per colpa di quella ragazza cinque notti fa.»

Si voltò di scattò e Aisha trasalì vedendo il suo sguardo folle.

Liberò il suo nastro e si avventò su di lei, subito difesa dalla sorella.

«Raylene, aiutami!»

La ragazza si voltò. Era chiaro che aveva ormai perso la ragione. Solo allora si accorsero della frusta che impugnava. Lanciava scosse elettriche ogni dieci secondi.

Caos la attaccò alle spalle puntandole il coltello sulla gola.

Sharlot e Aisha che si coprivano le spalle a vicenda sembravano le uniche immuni a quello strano spirito maligno che aveva messo tutto contro tutti.

Raylene lo colpì con la sua frusta e lui cadde a terra.

Stava per colpirlo di nuovo, ma Fosfor afferrò l'arma con i suoi guanti e fu Raylene a prendere la scossa.

«Prenditela con qualcuno alla tua altezza, stupida Ikisatashi!»

«E chi ti dice che io non mi sappia difendere?» ringhiò Caos.

Aprilynne, intanto, impugnava due sai e Faith doveva fare appello a tutta la sua destrezza per non essere colpita.

Poi, all'improvviso, una sfera di energia creò una violentissima onda d'urto.

Tutti si ritrovarono stesi a terra, piuttosto malconci.

«Siete solo degli incompetenti.» ringhiò Catron, in piedi al centro di quello che era stato il cuore dell'onda d'urto.

Stringeva tra le mani un cerchio rosso con dei ghirigori dorati sulla parte alta.

Sharlot si alzò in piedi.

«Catron. Calmati. Che sta succedendo? Che cosa vi prende?»

«Zitta patetica umana!»

Sharlot si fermò guardandolo stupita. Non era in sé. Era chiaro.

Kathleen si alzò in piedi.

«Da che parte stai Sharlot?» soffiò la ragazza. Aveva i capelli corti e arancioni tutti spettinati e stringeva ancora le sue strane armi.

«Aggrappati a me, Kathleen.» ordinò Catron. La ragazza lo raggiunse e gli strinse il braccio.

«Aprilynne?»

«Sono qui.» rispose la sorella, ancora stesa a terra, sputando un grumo di sangue per poi afferrare la gamba del fratello.

Ormai un po' tutti si stavano rialzando. Erano graffiati e storditi.

Catron stese le mani con cui teneva la sua arma verso Sharlot e il cerchiò cominciò ad illuminarsi.

Cerchi concentrici si mossero verso l'interno vuoto, come quando si lancia un sasso nell'acqua, solo al contrario.

Poi una sfera luminosa partì dal centro ed esplose a mezz'aria creando un'altra onda d'urto.

Sharlot fu colpita in pieno e cadde all'indietro, per fortuna Aisha la intercettò e fece sì che la sorella non si facesse troppo male.

L'energia li allontanò tutti dai tre che invece rimasero al centro.

Tutti tranne Riley e Ethan, lo scudo del secondo aveva protetto entrambi.

«Non osate mettervi contro di noi!» ruggì Raylene affiancata dalla sorella minore. Impugnava con sicurezza la sua frusta dall'aria letale.

Evelyn era ancora stesa a terra.

Aprì gli occhi a fatica e cercò di sollevarsi.

«Sta' giù.» le intimò la voce di New nella sua testa.

«Se vede che sei sveglia attaccherà anche te. Raggiungi Pit e Opter, portali via, trova Silver e Oro e falli tornare, c'è bisogno di loro, subito!»

Evelyn raccolse le energie e si trasformò in un ragno.

Stando attenda a non poggiare la zampa rotta arrivò sotto l'albero dove Pit e Opter erano rimasti nascosti e lo scalò più in fretta che poté.

Abigal, intanto, stava guardando quella scena allucinante con gli occhi sbarrati e la testa che sembrava volerle scoppiare.

«È incredibile cosa si può fare utilizzando i pensieri della gente. La discordia è la più forte e più letale delle armi.» questa volta la voce non era affatto nella sua testa.

Si voltò.

Lui era molto più vicino di quanto si aspettasse.

Prima che potesse fare qualcosa Profondo Blu la afferrò con i polsi usando solo una mano e la bloccò spingendola con la schiena contro un albero.

«Lasciami andare, sporco assassino!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

Lui le si fece ancora più vicino.

Sulle sue labbra era dipinto un sorriso che la lasciò stupita e ammutolita.

«lasciami andare, sporco assassino, vattene, ci siamo già passati.» mormorò lui, i loro visi erano vicinissimi.

Così come le loro menti.

Gli occhi di Abigal si fecero vacui.

Si ritrovò in una stanza che non conosceva. Ogni suono era attutito o amplificato, così come ogni altro particolare. Era un ricordo.

Ma non le apparteneva.

Lei non era l'osservatore, ma stava guardando con i suoi occhi.

Aprì una porta.

Vide se stessa. Era appollaiata sul davanzale di una finestra, una gamba stretta tra le braccia e guardava fuori. I capelli erano acconciati in una lunga treccia azzurra.

Poi, come se avessero tagliato parte della pellicola, l'osservatore si fece improvvisamente più vicino.

Si vide voltarsi e sussultare.

La prese e la bloccò contro i muro.

«Ti ho trovata finalmente.» sembrava esserci un leggero eco.

«No!» si sentì urlare. «Lasciami andare, sporco assassino!»

«Così presto?»

«Vattene!»

Fu ricatapultata nel presente.

«Ora mi credi?» sussurrò lui mentre lei sussultava per la vicinanza che non ricordava. «Ora ricordi?» la sua voce tremava.

«Io... non capisco... chi era?»

«Eri tu, Victoria!» rispose scuotendola dalle spalle.

«Io non sono Victoria, non so neanche chi sia!»

«Bugiarda!» gridò lui con rabbia zittendola. «Perché fai così?» la sua voce si era già addolcita «Cosa ti hanno fatto?» c'era una nota di disperazione nelle sue parole.

Abigal continuò a fissarlo, senza sapere cosa dire, cosa pensare.

Lui ormai le aveva lasciato i polsi e la teneva per le spalle.

Si avvicinò lentamente, i loro respiri si fondevano e i loro sguardi intrecciarono.

Azzurri e blu. Ghiaccio e oceano.

La baciò lentamente e con passione cercando di controllare la sua fame.

Le sue mani le percorsero la schiena e la strinsero a sé.

Lei all'inizio non fece nulla.

Sentiva in lui tutto il desiderio che le era ignoto e, eppure, che sentiva di conoscere.

Come in un ricordo che non le apparteneva.

Non la lasciò andare neanche quando si ritrovò con il respiro mozzato.

Giusto il tempo di riprendere fiato, poi la baciò di nuovo.

E questa volta lei ricambiò. Forse solo per riflesso. Forse perché ormai sentiva di non avere più nulla da perdere.

Quasi incredulo la strinse ancora di più, desideroso di sentirla di nuovo vicina.

Era la sua debolezza, lo sapeva, ma non poteva farci nulla.

Era più forte di lui.

Quella ragazza era più forte persino di lui.

Più forte.



Il capitolo parla da sé.
Fatemi sapere!
Artemide12

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Capitolo 13
*** Imprevedibile ***


Imprevedibile

 

«Che stai facendo?» chiese lei entrando e vedendolo lavorare con un cellulare.

«Dobbiamo pur mantenere i contatti con la Terra, se restiamo completamente tagliati fuori rischiamo di perderci qualcosa di importante.»

«E con chi vorresti rimanere in contatto?»

«Beh, non tutti hanno bisogno dei miei “metodi” per sopravvivere.»

Lei ci mise un po' a capire di chi stava parlando.

Sorrise. In effetti era un'ottima idea.

Proprio il giorno prima era stata dalla sua amica – non riusciva proprio a considerarla una cognata, anche se in realtà non lo erano.

«Hai già parlato con lui?»

«Certo. Dice che è una buona idea.»

Gli si sedette accanto osservando il suo lavoro.

«Sicuro che con quello riusciremo a comunicare anche oltre l'atmosfera terrestre?»

«Non siamo così lontani, non usciremo neanche dall'orbita.»

«Se lo dici tu.» fece la donna poco convinta.

L'alieno fissò il vuoto per alcuni secondi, poi lei.

«In effetti potrà farlo solo di notte.»

«Tanto per noi non fa differenza, no?»

«Non più di tanto.» confermò lui.

 

L'ascensore si fermò dopo diverse decine di piani in discesa.

Nevery si strinse al padre quando vide il corridoio completamente bianco che sembrava non finire mai.

«Starete qui prima di un nuovo ordine.» disse il soldato aprendo la porta scorrevole di una stanza.

Le pareti erano spessissime.

Felix si affacciò prima di entrare.

Su un materasso steso a terra e interamente sotterrato sotto una coperta grigia.

Ancorati alla parete c'erano due lettini sollevati da terra.

I due entrarono e la porta si richiuse alle loro spalle.

«Non ne usciremo mai, vero?» chiese Nevery.

Il padre lo guardò, ma non rispose. Non sembrava molto d'accordo, comunque.

La figura che dormiva emise un lamento profondo, ma basso mentre si svegliava.

La prima cosa insolita che notarono fu la coda.

Prima ancora che lo sconosciuto emergesse dalle coperte, una coda leonina arancione fendette l'aria con un moto svogliato.

Entrambi sgranarono gli occhi quando lo videro.

Aveva una massa informe di capelli blu petrolio, come gli occhi.

Era interamente arancione, dalla testa ai piedi.

Gli addominali scolpiti mettevano in risalto il corpo snello e atletico.

Si alzò in piedi un po' goffamente. Indossava solo un calzoncino nero.

Mani e piedi erano simili a delle zampe: le dita erano tozze e arrotondate, le unghie più lunghe e affilate, ma non retrattili.

Quando sorrise mostrò una collezione spaventosa di denti.

Felix si portò davanti al figlio con fare protettivo.

«Tranquillo, non voglio farti del male. È da un po' che non ho più compagnia.» la voce era roca e profonda, ma non ostile.

Nevery lo guardò da dietro il padre.

«Sei un chimero?» chiese poi.

L'uomo lo guardò stupito.

«I parassiti sono creature estinte, come hai fatto a capirlo?»

Nevery non rispose.

Sulla Terra i parassiti si erano evoluti e quando divenivano chimeri assumevano in tutto e per tutto, dimensioni escluse, l'aspetto di un animale realmente esistente.

Aveva visto una sola eccezione: Psiche. Quando quell'uomo aveva usato la sua forza vitale il chimero era identico a lei.

«Non puoi essere un chimero!» esclamò Felix senza muoversi.

«Credimi, ero convinto che fosse tutto una specie di incubo.»

I due si studiarono a lungo.

«Ian Gorgoyl» l'uomo-leone tese la mano.

«Felix Lyoko»

«Always.»

Ian si accovacciò a terra e gli altri due si sedettero a gambe incrociate davanti a lui.

«Volete che vi racconti?»

«Non penso che ci sia molto altro da fare.» rispose subito Nevery.

«Io sono in coma da almeno quindici anni, se non di più. Da quando ne avevo 25, comunque. Questo l'ho scoperto colo recentemente, per quanto mi riguarda sono rimasto in uno stato di relativa incoscienza che credevo non finisse più. Poi, un giorno, qualche settimana fa, mi sono sentito come risucchiare, per qualche istante ho creduto di essere morto. Poi mi sono risvegliato. In questo corpo.» si indicò in un gesto soddisfatto e spavaldo, ma anche spaventato. «Era orribile, vedevo il mio corpo steso sul letto, morto, senza forza vitale. Il resto è molto confuso, me l'hanno raccontato, ma sono abbastanza sicuro che sia la verità. Un uomo aveva una specie di allevamento di chimeri e uno era sopravvissuto. Lo ha usato con la mia forza vitale, non so perché. Lui era il mio creatore, il parassita che è in me gli doveva obbedienza. I suoi ordini mi risuonavano nella mente e opporsi era impossibile. Faceva male, ma proprio per questo obbedivo. A tutto.»

«Ma è... orribile!» commentò Nevery pensando a cosa avesse potuto provare Psiche.

«Ad un certo punto smetti di pensare e uccidi e pasta.»

«Uccidere?» sibilò Felix.

«È quello che mi ordinava di fare. Persone potenti, politici. Per questo mi hanno catturato. Mi avrebbero eliminato se i chimeri non si fossero estinti da anni. Hanno ucciso quell'uomo. Condannato senza processo. Sarei stato il prossimo, non riuscivano a tenermi fermo e la mia testa stava letteralmente esplodendo. Ma nel momento esatto in cui quell'uomo è morto la mia mente si è liberata. Non dovevo più obbedire a nessuno. Sono tornato ad essere me stesso. E loro se ne sono accorti.» parlava come se stesse raccontando una vecchia leggenda ad un pubblico affascinato «Mi stanno studiando. Ma prima o poi mi uccideranno. Non c'è posto per i mostri in questo pianeta.»

«Tu non sei un mostro.» ribatté Nevery.

Ian alzò di scatto la sguardo e lo guardò dritto negli occhi. In quel momento sembrò davvero un leone. Nevery si sentì mancare.

«Una persona normale sarebbe diventata un essere incontrollabile al mio posto. Io invece sono qui e posso guardare il mio corpo senza vita pensando a quanto sono fortunato. Una persona normale, un chimero normale, si sarebbe distrutto con la morte del suo creatore.»

 

Si allontanò da lui ansimando con gli occhi sgranati.

Che diavolo le era venuto in mente?

Lui era il nemico e lei lo aveva appena... baciato!

Cercò di riprendere fiato e di riprendere il controllo.

Continuava a guardarlo allibita continuando ad indietreggiare.

«Victoria...» ansimò lui muovendo un passo verso di lei.

Abigal indietreggiò di rimando continuando a tenere gli occhi sbarrati.

«No!» urlò. «Io non sono Victoria! Il mio nome è Abigal. Abigal!»

«Come possono averti manipolata in questo modo Victoria?» lui la afferrò per i polsi.

«Non mi ha fatto niente nessuno! Sono cresciuta su Arret con loro da quando sono nata e mi chiamo Abigal, capito? Abigal!»

«Chi è stato? È stato quel ragazzo? Che ti ha fatto?»

«Dalton!» strillò lei come se le avesse dato un pugno. «Lo hai ucciso!»

«Ti hanno fatto di peggio.»

«Io lo amavo!» ringhiò lei con insistenza.

Quelle parole sembrarono finalmente colpirlo.

La fissò come se avesse detto qualcosa di osceno.

Ma il primo stupore fu assorbito e schiacciato dalla rabbia.

Mentre la teneva ancora per i polsi la spinse a terra.

«Ti hanno messa contro di me!» la ragione aveva abbandonato i suoi occhi e Abigal non poté far altro che cercare di indietreggiare e impedirsi di tremare mentre la paura le confondeva i pensieri e non riusciva neanche ad evocare le sue armi.

 

Concentrarsi era difficile.

Ancora sotto forma di tarantola era ferma sulle mani intrecciate di Pit e Opter.

Non sapeva dove si trovava Silver, come poteva raggiungerlo?

Si ricordò di un trucco che le aveva insegnato New tempo prima.

Chiuse i suoi otto occhi.

Immaginò Silver e poi un piccolo spazio vuoto davanti a lui. Vece in modo da non dover vedere il pavimento e di non pensare alle pareti circostanti.

Tentò di teletrasportarsi.

Come una lampadina che si sta fulminando per un attimo credette di essere lì, arrivò lì, ma quello dopo si ritrovò di nuovo al punto di partenza.

C'era troppa energia opposta dove si trovava, non ci sarebbe mai riuscita.

Ma non c'era né tempo né modo di allontanarsi.

Riprovò.

Pensò a Silver e si costrinse ad indugiare sui particolari. Cosa che, a dirla tutta, non le dispiacque affatto. Silver le piaceva, anche New se n'era accorta.

Immaginò il volto concentrato, gli occhi blu, il mento un po' appuntito, il petto ampio, le braccia possenti, gli addominali scolpiti, …

Ringraziò il fatto che le tarantole non potessero arrossire. In realtà non sapeva come fosse sotto la maglietta.

Cercò inutilmente di riscuotersi.

Raccolse tutte le sue energie per il teletrasporto.

Lottò contro la forza contraria che tentava di riportarla indietro che la arpionava con forza e violenza trascinandola in mezzo alla battaglia. La testa sembrava volerle scoppiare, così come tutto il resto del corpo.

Ogni sua piccola fragile zampa tremava mentre temeva di non poter teletrasportare lei e i bambini tutti interi.

Lo aveva letto da qualche parte.

Un arrettiano ubriaco che si era teletrasportato da un aereo nella sua macchina che in quel momento. Solo parti del suo corpo erano arrivate. Uno spettacolo orribile.

Ma anche i bambini lo sapevano: mai teletrasportarsi quando si è in movimento.

Lei non avrebbe mai permesso che succedesse qualcosa del genere.

Si prosciugò completamente e quando riaprì gli occhi e si ritrovò davanti alla faccia stranita di Silver, seduto ad una scrivania, rotolò finché non si ritrovò sul pavimento.

«Evelyn!»

Era così esausta da non aver sentito né l'impatto con il suolo né il dolore.

Incapace di controllarsi riprese le sue sembianze umane.

Riuscì a ricordare di aver lasciato i vestiti sul campo di battaglia – una volta trasformata in ragno ne era uscita fuori. Con uno sforzo immane riuscì a rannicchiarsi in posizione fetale in modo da coprirsi almeno in parte.

Era coperta di lentiggini un po' su tutto il corpo.

Socchiuse gli occhi.

Vide Silver passarle un telo e distogliere lo sguardo ancora confuso.

Nonostante tutto non poté fare a meno di arrossire violentemente.

Cercò di dire qualcosa, ma aveva la voce impastata e nessuno capì nulla.

Oro guardò Silver in cerca di spiegazioni.

«Si è teletrasportata qui mentre era sotto forma di tarantola. I vestiti non si trasformano, dobbiamo portarceli dietro.»

«Fino a qui ci arrivavo. Ma perché? Non poteva venire vestita?»

«Che sta succedendo?» chiese Silver a Pit.

«Non lo so. Ad un certo punto hanno cominciato a combattere tutti contro tutti. All'inizio era solo un allenamento, ma poi hanno cominciato a fare sul serio. Sono impazziti tutti, glielo si vedeva in faccia che non ci stavano più con la testa.»

«Tutti tranne Aisha e Sharlot.» precisò Opter.

«Caos?» chiese Oro.

«Anche lui è impazzito. Ha quasi pugnalato Faith alle spalle. L'avrebbe fatto se Electra non l'avesse colpito con le sue stellette.»

«Stellette?»

«Tutti hanno evocato le loro armi.»

«Tutti?»

«Tutti!»

«Non è possibile.»

«C'era anche un uomo.» disse a quel punto Opter e Pit lo guardò per accertarsi che non stesse dicendo bugie, lui non si era accorto di nulla.

«Un uomo Opter?»

Il bambino annuì. «Un uomo con i capelli neri vestito di blu. Quello che ha tentato di rapirci.»

In altre situazioni Silver non avrebbe capito, ma l'immagine dell'alieno che lo infilzava era praticamente indelebile nella sua testa.

«Dobbiamo andare, subito!»

«no» fece Evelyn, tentando di sollevarsi facendo appello a tutte le energie che le rimanevano.

Riuscì solo a mettersi seduta appoggiando la schiena alla parete. Incrociò il telo sul davanti, poi lo annodò dietro il collo.

Fece dei lunghi respiri.

«Se andiamo lì verremo coinvolti anche noi, non c'è modo di fermarli.»

«Quel bastardo deve averli stregati.» ringhiò Silver.

«Aisha e Sharlot hanno resistito, però. Forse possiamo fare qualcosa.» commentò invece Oro.

«Cosa?» chiese il blu.

«Creare un buono scudo. Potrebbe liberarli.» ribatté Oro aprendo la valigetta.

Dentro c'era un paio di nacchere dorate sulla cui superficie era incisa l'immagine di un meraviglioso corallo tinteggiato di verde.

«Cosa sono?» chiese Pit.

Oro infilò dei guanti verde scuro, poi prese le due nacchere.

«Colpiscimi.» disse rivolto a Silver.

«Ma...»

«Sta' tranquillo.»

L'alieno indugiò, ma Pit afferrò una sbarra metallica e gliela lanciò contro.

Oro aprì le nacchere puntandole verso la sbarra e da entrambe fuoriuscì un getto di luce verdeacqua che si unirono a formare uno scudo luminoso sul quale la sbarra rimbalzò.

«Fortissimo!» esclamò Pit. «Cos'altro respinge?»

«Tutto. Una volta era una specie di incantesimo di attacco, ora è di difesa.»

«I guanti a che servono?» chiese Silver.

«A recuperare velocemente le nacchere nel caso io le perda. Come le ragazze con le frecce.»

«E come vorresti usarlo?»

«Resiste a qualsiasi incantesimo e si può estendere a chiunque mi stia vicino. Se riesco a “liberare” mio fratello insieme possiamo creare uno scudo abbastanza grande per tutti.»

«E poi per quanto puoi mantenerlo?»

«Non lo so.» ammise Oro «Ma è già qualcosa e mentre noi stiamo qui a parlare quelli si scannano, tanto vale tentare.»

«D'accordo.» acconsentì Silver. «Voi tre restate qui.»

«No! Io vengo.» ribatté Evelyn.

«Sei troppo debole.»

«Posso farcela.»

Silver si arrese con un sospiro. Le si avvicinò e fece per prenderla in braccio.

«Non ti ho chiesto aiuto.»

«Ma ne hai bisogno.»

Gli mise un braccio intorno al collo e si lasciò sollevare.

Oro si avvinò stringendo due valigette identiche che contenevano le sue nacchere e quelle del fratello.

Pit mese il broncio, ma Opter aveva già cominciato ad arrampicarsi dappertutto.

Non si materializzarono proprio al centro del campo di battaglia.

Si nascosero dietro a due grossi alberi.

Evelyn si fece mettere a terra.

La situazione era drammatica.

Riley era steso a terra, ma non sembrava ferito. Ethan era seduto a gambe incrociate davanti a lui e parava ogni tipo di attacco con il suo scudo.

Faith e Electra si coprivano le spalle a vicenda dagli attacchi di Aprilynne e Kathleen.

Raylene e Psiche se l'erano presa con Fosfor che spesso veniva aiutato da Electra e Faith.

Anche Catron era a terra, doveva aver preso un colpo in testa, ma nessuno si curava più di lui.

«Dov'è Abigal?» notò Silver.

Evelyn ritrovò con lo sguardo New, ancora priva di sensi. «Lì!»

Era stesa a terra, tremava come una foglia e Profondo Blu la sovrastava in tutta la sua altezza.

Aisha e Sharlot stavano tentando di tenere fermo Caos.

«Posso distrarlo.» disse Silver di malavoglia «Tu sbrigati.» fece per andare «Evelyn, tu cerca di portare via quelli svenuti.» la ragazza annuì.

«Ehi bastardo!» gridò Silver quando si fu allontanato dagli alberi.

Profondo Blu si voltò con aria infuriata.

«Tu! Sei un illuso se credi di potermi fermare.»

Un colpo alla schiena fece cadere a terra Silver, impreparato.

Riuscì a rotolare di lato e evitare un nuovo colpo.

«Psiche! Che stai facendo? Sono io, Silver, tuo fratello!»

La ragazza parve esitare.

Poi qualcosa attraversò la sua mente e partì di nuovo all'attacco.

Silver riuscì ad evocare la sua arma, ma non voleva colpire la sorella. Quella non era un chimero.

Avanti Silver, in fondo è colpa sua se sei quasi morto quella sera.

Cercò di resistere alle provocazioni, fece appello a tutto il suo autocontrollo, ma la voce dell'uomo gli rimbombava nella testa e rimbalzava coma una pallina dentro una scatola.

«No!» urlò il ragazzo.

Ti ha trascinato lì e non ha fatto nulla per salvarti.

«Non è vero! Non era lei!»

Avrebbe potuto opporsi, ribellarsi, invece...

Volente o nolente, il ragazzo dovette affrontare la sorella perché lei gli si scagliò contro con rabbia crescente.

 

Silver era già atterra quando Oro corse verso il fratello minore che si divincolava tra le braccia di Aisha e Sharlot.

Li raggiunse nell'arco di pochi minuti.

Aveva poco tempo. Doveva sbrigarsi.

Le ragazze gli rivolsero degli sguardi interrogativi, ma non dissero nulla.

Si posizionò davanti ai tre, poi evocò lo scudo.

Caos prese un respiro improvviso, come di chi riemerge dopo un lungo periodo in apnea.

Si guardò intorno disorientato.

Oro gli avvicinò con un piede la valigetta.

«Sbrigati Caos!» urlò.

Guardò avanti e incontrò lo sguardo dell'alieno.

Lo fissava con astio.

Sentiva chiaramente la sua energia scontrarsi contro il suo scudo e mantenerlo attivo era difficile.

«Aisha, Sharlot, colpitelo.» ordinò mentre le braccia cominciavano a tremargli.

Entrambe scoccarono delle frecce, ma Profondo Blu le deviò tutte con la forza del pensiero.

Lo vide allungare la destra nella loro direzione.

Dalla sua mano si creò una sfera di energia azzurra.

Oro sgranò gli occhi «Caos sbrigati!» urlò.

Il fratello si mise in fretta e furia i guanti e prese le nacchere, ma non fece in tempo.

La sfera di energia la investì in pieno.

Oro fu scaraventato a diversi metri di distanza. Si scontrò contro un grosso albero.

Gli altri tre cercarono di rialzarsi, ma una nuova onda d'energia azzurra li investì e questa volta, oltre a volare a metri e metri di distanza, persero definitivamente i sensi.

Silver, che era riuscito a bloccare Psiche a terra e a disarmarla, si voltò a guardarli.

 

Evelyn riuscì finalmente a rimettesi in piedi.

Si guardò intorno.

Raylene aveva cercato di colpire Fosfor con la sua frusta, ma lui l'aveva afferrata e ora si davano la scossa a vicenda senza farsi scrupoli.

I terrestri erano tutti a terra. Così come Riley, protetto da Ethan, e Catron.

Kathleen e Aprilynne, che stavano avendo la peggio contro Electra e Faith, si erano rifugiate dietro Ethan che le proteggeva involontariamente.

Silver teneva ferma Psiche.

Abigal, rannicchiata a terra ai piedi di Profondo Blu, non faceva altro che tremare e singhiozzare.

New sembrava si stesse lentamente riprendendo.

Profondo Blu stava evocando una grossa sfera di energia e con lo sguardo puntava Silver, che non sembrava affatto nel pieno delle sue forze.

«Silver!» sussurrò Evelyn.

Il ragazzo non si era reso conto del pericolo, troppo preso dalla sorella.

Non poteva permettere che gli facesse del male! Non se lo sarebbe mai perdonato!

Vide che i terrestri cercavano di riprendersi, ma erano deboli e storditi, faticavano a guardarsi intorno.

Prese fiato.

Se fosse intervenuta troppo presto non sarebbe servito a niente.

Aspettò che profondo Blu fosse pronto, poi, mentre stava già scagliando la sua sfera energetica, si scagliò su Silver facendolo rotolare di lato appena in tempo.

Psiche evitò l'impatto per un soffio.

Rimase accucciata a terra. Nei suoi occhi c'era un velo di ragione.

Evelyn poteva vederla mentre lottava contro la voce di Profondo Blu nella sua testa.

Come poteva quell'uomo controllare tutti loro?

Possibile che bastasse così poco per metterli uno contro l'altro?

Mentre ancora si faceva quelle domande e Silver l'aiutava a rialzarsi, la sentì anche lei. La sua voce.

Vi trattano come burattini. Vi considerano sacrificabili. La loro vita viene prima della vostra. Vuoi davvero sottostare a tutto questo?

Evelyn per un attimo fissò Psiche con rabbia.

Mentre sentiva che quelle parola facevano effetto su di lei si costrinse a spostare lo sguardo su Silver.

Avresti potuto morire, solo perché lui viene prima di te.

Per me sì. Pensò Evelyn continuando a fissare gli occhi blu oltremare del ragazzo.

La rabbia scemò velocemente, così come era arrivata.

Le istigazioni di Profondo Blu le scivolavano addosso impotenti. Poteva anche ignorarle, fingere di non sentirle affatto, se continuava a specchiarsi in quei due oceani.

Con la coda dell'occhio vide Profondo Blu stringere i pugni e digrignare i denti, mentre Silver continuava a farsi fissare, cercando di capire il motivo di quell'intensità.

Chiuse gli occhi per non perdere quell'immagine da cui dipendeva la sua sanità mentale.

Si mosse verso Psiche e l'aiutò ad alzarsi.

«Non ascoltarlo.» le sussurrò nell'orecchio «Pensa a qualcosa di piacevole.»

La voce nelle loro teste svanì e anche Silver sciolse i pugni, le unghie avevano lasciato dei solchi nel palmo della mano.

«Su di noi i tuoi trucchetti non funzionano più!» gridò spalancando gli occhi e fulminandolo con lo sguardo.

«Osi sfidarmi, ragazzina?»

«Certo.»

«Povera illusa.» ghignò allargando le braccia.

La terra cominciò a tremare sotto i loro piedi.

Psiche divenne un lupo e artigliò il terreno.

Silver e Evelyn si sostennero l'un l'altra.

Persino Profondo Blu sembrava stupito «I miei poteri sono quasi al completo!» esclamò e sul suo viso si dipinse uno dei sorrisi più minacciosi che gli altri avessero mai visto.

Il cielo si oscurò all'istante, come durante un'eclissi totale.

Faith, Electra, Aprilynne, Kathleen, Raylene e Fosfor, che stavano ancora combattendo, si fermarono, improvvisamente consci di ciò che stava succedendo.

Oro riuscì a rotolare e avvicinarsi a Aisha e Caos. Sharlot, invece, batté la testa contro qualcosa e perse definitivamente i sensi.

Tra le mani di Profondo Blu, intanto, era riapparsa la sua spada.

Silver sussultò ed evocò all'istante la sua arma.

Ma non servì a nulla.

Profondo Blu infilzò la spada nel terreno e la terra cominciò a spaccarsi.

E a pulsare.

Come una ferita sanguinante.

Aprilynne lanciò un urlo di dolore e si accasciò a terra con il fiato mozzato.

Raylene le si inginocchiò accanto – restare in piedi sotto la violenza di tutte quelle scosse era impossibile.

Aprilynne non era ferita, a parte qualche graffio stava bene.

Eppure era accucciata su se stessa e più la forza di Profondo Blu smuoveva la terra più lei urlava.

Persino Catron, che rimase privo di sensi, assunse un'espressione dolorante e sfinita.

Un vento impetuoso stava avvolgendo Profondo Blu e impediva a chiunque di avvicinarsi.

Una crepa sempre più profonda si stava avvicinando a Sharlot, Aisha, Caos e Oro, stesi atterra, minacciando di inghiottirli.

I due ragazzi recuperarono a fatica le armi e unirono i poteri creando intorno a loro quattro un guscio sferico che sembrava fatto d'acqua.

Quando la terra si spaccò in due sotto di loro, rimasero sospesi in aria.

Avevano le membra intorpidite e tutto ciò che riuscivano a fare era mantenere lo scudo.

Faith ed Electra, invece, sprofondarono nel vuoto.

Fosfor riuscì ad afferrare quest'ultima, ma, mentre cercava di ritirarla su, il vento fece cadere anche lui.

Lo scudo di Ethan si scontrava con il vento sempre più violento e il ragazzo era costretto ad indietreggiare.

Raylene si alzò e riuscì a ritrovare le sagome dei fratelli e Evelyn.

Si incamminò verso di loro.

«Raylene! No!» urlò la voce di Oro alle sue spalle.

Si voltò stupefatta e incontrò lo sguardo sfinito del ragazzo biondo.

«Sei impazzita?» le urlò.

I suoi occhi azzurri fremevano di terrore e sembravano un mare in tempesta. La supplicavano di non andare.

«Sono i miei fratelli. Devo farlo.» disse e, senza sapere se li fosse riuscito a sentirla, si voltò.

Oro urlò più volte il suo nome, invano, ma non smise.

Era terrorizzato.

Come se quel vento avesse potuto inghiottirla per sempre.

Psiche, intanto, ringhiava, ma in forma di lupo era più piccola del normale e presto in vento la scaraventò lontana.

Si scontrò violentemente con lo scudo di Ethan e cadde a terra uggiolando.

Kathleen era china tra Catron e la sorella.

Con lo sguardo cercava disperatamente i fratellini.

Vide il pick-up con cui erano arrivati. Era lì dove lo avevano lasciato e sembrava ancora tutto intero. Dentro c'era Nevery che dormiva beatamente.

Come diavolo faceva a dormire in mezzo a quel macello?

Trascinò fin lì Catron e poi riuscì a fare lo stesso con Riley.

Non trovò New.

Si nascose con Aprilynne dietro la macchina.

La verde tremava da far paura e ogni tanto lanciava strilli acutissimi.

Ethan e Psiche riuscirono a rifugiarsi dietro un grosso masso.

Abigal, stesa ai piedi di Profondo Blu proprio nel centro di quella tempesta di vento, si sentiva sempre più debole.

Capiva a mala pena cosa stava succedendo, consapevole solo di non essere del tutto padrona della sua mente.

«Smettila, ti prego! Basta! Lasciali stare. Lasciaci stare.» supplicava, non sapeva se ad alta voce o se lo pensava soltanto.

Lui non la ascoltava lo stesso.

Immagini confuse le attraversavano la testa così velocemente da non riuscire neanche a decifrarle.

Cercò di urlare, ma le uscì solo un verso straziante.

Ancora in balia del vento impetuoso, Raylene, Silver ed Evelyn che si tenevano stretti e cercavano di avanzare drizzarono le orecchie quando sentirono quel suono.

Si era alzata moltissima polvere e non vedevano più niente.

Era Evelyn a guidarli.

Lei sentiva la voce di New nella testa che le diceva dove andare.

Solo ad un certo punto, nessuno seppe bene quanto tempo dopo, arrivarono alle spalle di Profondo Blu, nonostante all'inizio fossero di fronte a lui.

Abigal girò la testa con estrema lentezza allungando la mano verso di loro e muovendo le labbra in una silenziosa preghiera di aiuto.

Silver si slanciò in avanti e si chinò su di lei per controllare che stesse bene.

Sembrava che l'avesse investita una mandria imbufalita, ma era intera.

Catturato dal rumore Profondo Blu si voltò. Il vento iniziò a diminuire, ma era ancora molto forte.

Rivolse uno sguardo di fuoco ai tre che non si accorsero subito di essere stati notati.

Alzando lo sguardo Raylene e Evelyn sussultarono, ma non ebbero il tempo di fare nulla.

Mentre il vento lentamente si calmava gli occhi di Profondo Blu si illuminarono di luce rossa.

Stese la mano verso le ragazze.

I loro corpi si illuminarono.

«No!» urlò Silver scattando in piedi, ma subito un torpore gli invase la mente. Si sentiva stordito e ogni suono gli arrivava in ritardo e rimbombava nel suo cranio.

Le immagini iniziarono a farsi sfocate.

Ora capiva come si sentiva Abigal in quel momento.

Mentre il vento si placava, incapace di reagire, vide Profondo Blu prendere le forze vitali di Raylene.

I loro corpi caddero a terra.

Le due sfere luminose, una piccola e rosa confetto e l'altra enorme e viola, contrastavano con i buio innaturale che si era creato.

Si fermarono sul palmo aperto di Profondo Blu.

I suoi occhi si illuminarono di nuovo di rosso.

E le due forze vitali esplosero.

Un urlo si sovrappose al suono come di vetri che s'infrangono.

Tutti si voltarono verso New che, per quanto piccola e gracile, in quel momento sembrava estremamente imponente.

Fissava Profondo Blu con tanta rabbia di cui nessuno credeva che quella ragazzina allegra fosse capace.

«Mostro!» urlò con voce ovattata che non era la sua.

«Erano solo due ragazzine.» ghignò Profondo Blu.

Silver, intanto, aveva raggiunto il corpo della sorella, ma non aveva il coraggio di toccarlo.

«Evelyn era come una sorella per me!» continuò New e la sua voce sembrava rimbombare nella testa di ognuno. «Questa me la pagherai cara, demone!»

Il corpo di New si illuminò mentre si sollevava leggermente da terra. Divenne azzurrino. E poi trasparente. La maggior parte dei tratti del viso sparirono, i capelli, anch'essi trasparenti, divennero una massa informe che si muoveva intorno alla sua testa come se ci fosse ancora vento.

La bocca e le labbra non erano che una serrata linea sottile che divideva la parte inferiore del volto. Le orecchie erano sparite. Nelle mani e nei piedi le unghie erano diventate un tutt'uno con le dita che a loro volta erano diventate palmate.

Tutto ciò che restava di lei erano gli occhi argentati.

I vestiti la attraversarono e caddero a terra.

Ma ormai il suo corpo aveva solo una forma “umana”, per il resto era liscio e trasparente e rifletteva la luce, quasi fosse stato solo un involucro d'acqua.

Al centro del suo petto solo leggermente arrotondato dalle forme femminili, brillava la sua forza vitale. Argentata.

Era umana? Aliena? Qualcos'altro?

In quel momento nessuno sapeva dirlo.

Nel buio che si era creato il suo corpo era l'unica fonte di luce.

La sua voce risuonava direttamente nella testa di ognuno.

«Ti cancellerò dalla faccia dell'intero Universo! Fosse l'ultima cosa che faccio!»

Le vibrazioni che scuotevano la terra si arrestarono.

Il torpore abbandonò le teste di Silver e Abigal.

Aprilynne smise di tremare e di urlare.

Ma nessuno si mosse.

Profondo Blu, il volto dipinto in un'espressione di incredulo stupore, si rendeva a mala pena conto che New gli era entrata nella mente e che senza il minimo sforzo stava utilizzando i suoi poteri per annullare i suoi stessi incantesimi.

Quando si riscosse era troppo tardi.

Il buio si stava diradando liberando un sole rosso e lontano che già stava tramontando all'orizzonte.

«Tu...» cercò di dire.

«Vattene!» ordinò New alla sua mente con la stessa facilità con cui lo aveva fatto con il chimero topo di diverse settimane prima.

Senza sapere come o perché, Profondo Blu ubbidì.

Si teletrasportò via.

New, come in un flash, tornò all'improvviso normale e cadde a terra.

In un attimo si rinfilò i vestiti.

«Evelyn!» singhiozzò inginocchiandosi accanto al corpo dell'amica.

Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi come da una sorgente.

Lentamente gli altri uscirono dai loro nascondigli.

Faith, Fosfor e Electra sbucarono dal terreno volando a fatica e irregolarmente, come se avessero in singhiozzo.

Aisha, Sharlot, ancora priva di sensi, Caos e Oro atterrarono e la bolla verde scomparve.

I due ragazzi erano esausti, ma Oro riuscì comunque ad alzarsi in piedi e a raggiungere il corpo di Raylene.

Silver riusciva solo a guardarla, non aveva il coraggio di toccarla.

Sapeva già cosa avrebbe sentito.

Lo vedeva.

Era fredda.

Non respirava.

Il suo cuore non batteva.

Oro allungò la mano sulla sua spalla, ma, appena la sfiorò, il suo corpo si dissolse in una nube nera.

Silver lo guardò senza capire, ma il ragazzo ne sapeva quanto lui.

I suoi occhi azzurri si erano fatti di ghiaccio.

Abigal si sollevò sui gomiti.

Fissava il vuoto.

Quel nome, Victoria, le rimbombava nella testa senza trovare collocazione.

Psiche, non più in forma animale, corse tra le braccia del fratello.

Mentre Ethan aiutava Riley ad alzarsi, si era appena ripreso, Kathleen uscì da dietro il pick-up.

Aprilynne era stesa priva di sensi accanto al fratello.

«Lo odio!» fu tutto ciò che riuscì a ringhiare Silver.

Abigal gli lanciò un'occhiata di fuoco «Sei un bastardo!» gli gridò «Non bastava Dalton, vero? Dovevano toccarti la sorella perché ti rendessi conto che quello è un mostro.»

Silver rimase spiazzato da quell'accusa e non seppe cosa rispondere.

«Se solo un'egoista.» concluse Abigal tornando a fissare il vuoto davanti a sé.

 

Dopo l'ennesimo calcio spalancò gli occhi.

Aveva tentato di addormentarsi dopo il terremoto, ma era stato impossibile.

Il bambino sembra essere diventato all'improvviso irrequieto.

La luce era tornata da poco, ma Arlene non ne aveva accesa neanche una.

Si sollevò sui gomiti.

Guardò sgomenta il suo pancione.

Era sicura che prima del terremoto fosse molto più piccolo. Prima poteva essere scambiato per uno di sette mesi un po' grosso, ora era vicinissimo ai nove.

E il bambino non stava fermo un momento.

Terrorizzata si alzò lentamente dal letto e si diresse verso il soggiorno.

Sentiva Marcus parlare al telefono.

Era agitatissimo.

Rimase dietro la porta ad ascoltare.

Dire che lo amava era poco.

Nonostante quello che le stava succedendo le era stato più vicino che mai dimostrando un sangue freddo ammirabile.

Capì che stava parlando con una donna.

Forse una segretaria.

«No, questo va oltre ogni nostra idea, potrebbe far saltare tutto, compromettere settant'anni di lavoro! … Lo so che non potete intervenire, è troppo rischioso e troppo presto, ma... Non mi importa! Voglio solo aiutarla! … ma come puoi dire che è solo una gravidanza? Ti rendi conto di quello che sta succedendo?»

Fece una lunga pausa durante la quale rimase in ascolto.

«Lo so. Non è colpa vostra.» disse poi. «Era qualcosa di...

imprevedibile



ok, ok,
scusate il ritardo e perdonate l'apocalisse che ho creato.
Potrebbe risultare un po' confuso, ma questa volta era proprio questa la mia intenzione.
Se qualcosa vi è sfuggito chiedete pure.
Con affetto,
Artemide12



p.s.
lei è Arlene Garden
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Capitolo 14
*** Aiuto ***


Aiuto

 

L'astronave atterrò silenziosa.

Ne scese solo l'alieno dagli occhi dorati.

«Gli altri?» chiese subito lei.

«Tart, Paddy e Mina sono messi male, mi dispiace, ci metteranno un po' a riprendersi, Straw si sta prendendo cura di Mina, ho paura che qualche organo interno possa essersi danneggiato.»

«Cosa?» urlò la donna in piedi accanto a lei.

I suoi occhi verdi si ridussero a due fessure per trattenere le lacrime e i capelli corti le si drizzarono sulla nuca.

«Che gli è successo? Avevate detto che non era pericoloso!»

L'alieno era davvero mortificato. «Io... mi dispiace, ma qualcosa è andato storto, lui era lì.»

«Lui?»

«Profondo Blu. Non so come facesse a sapere dove trovarci. La buona notizia è che ci crede morti.»

«Kyle?» chiese ancora la donna dai capelli neri scuri stringendo i pugni.

«Ha un polso slogato, era al volante, ma per il resto sta bene.»

«Tart e Paddy? Loro come stanno?» chiese lei.

L'alieno abbassò lo sguardo. «Sono interi, ma entrambi hanno preso una brutta botta in testa. Tart ha un trauma cranico e Paddy ha perso diverso sangue. Sono entrambi in coma farmacologico.»

«Dannazione,» sbottò lui «meno male che dovevi fare un lavoro semplice e pulito!»

«Non è colpa mia! Non potevo sapere che era lì. È spuntato fuori all'improvviso!»

«Ha ragione lui.» lo sostenne la donna dai capelli scarlatti. «Non è colpa sua.»

Lui si arrese alzando gli occhi al cielo.

«Ryan?» chiese la donna dagli occhi verdi.

«Lui è rimasto. Per ora.»

 

Socchiuse lentamente gli occhi.

Sentiva tutto il corpo intorpidito.

Gli occhi dorati furono investiti dalla luce.

Strinse le mani intorno al cuscino.

Mise a fuoco.

Il fratello era steso accanto a lei.

Era cambiato da quando erano partiti da Arret.

Ora anche i suoi capelli, oltre che i suoi occhi, erano diventati rosso fuoco.

Catron le accarezzò la guancia.

Aprilynne vide nei suoi occhi un velo di disperazione e si rese conto che il rosso non era dovuto solo alle iridi.

Aveva pianto.

«Cosa c'è?» sussurrò.

Catron si morse il labbro e distolse lo sguardo.

Cinse i fianchi della sorella e se la strinse al petto nascondendo il viso nei suoi capelli verde smeraldo.

Aprilynne si agitò, ma decise che era meglio andare per gradi.

«Dove siamo?»

«A casa di Kathleen.» le parole si susseguirono rapide e furono soffocate dai capelli della sorella.

«Catron?»

Non le rispose, ma sapeva che stavolta avrebbe risposto.

«Cos'è successo?»

«Hai dormito tre giorni. Io mi sono svegliato ieri.»

«No. Cos'è successo?»

«Raylene.» mormorò solo, le labbra che tremavano.

Aprilynne rimase alcuni secondi immobile, poi scattò a sedere sciogliendosi dall'abbraccio.

«Cosa?» urlò «Raylene cosa

«Lo sai cosa.» disse lui cercando di abbracciarla di nuovo.

«No!» lei si allontanò. «Non è vero!»

«Profondo Blu ha distrutto la sua forza vitale.»

«Non è vero!» ringhiò Aprilynne alzandosi dal letto e fissando il fratello.

Gli occhi dorati sembravano ambra liquida, avrebbe potuto sciogliersi da un momento all'altro.

«Invece è vero.»

«Lo hai visto? Lo hai visto con i tuoi occhi?»

«Io...»

«Rispondi!»

«No, ero già svenuto.» ammise il ragazzo «Ma Kathleen l'ha fatto.»

Aprilynne si fiondò fuori dalla stanza sbattendo la porta.

Dalla luce dovevano essere le dieci di mattina.

Kathleen era seduta a tavola, lo sguardo arancione fisso nel vuoto.

Pit e Opter erano a scuola.

«Kathleen Ikisatashi.» soffiò Aprilynne raggiungendola a passo di carica.

Si fermò di fronte a lei, dall'altra parte del tavolo e puntò le mani sulla superficie metallica.

La guardava supplichevole di sentire qualcosa che non fosse ciò che le aveva detto il fratello.

«È vero.» confermò la ragazza in un sussurro «Mi dispiace, davvero. L'ho vista.»

«No!» strillò Aprilynne ancora più forte. «Non può essere!»

«April...» cercò di calmarla il fratello raggiungendola.

«Non chiamarmi April! Solo Ray mi chiama April!»

«Lei...»

«No!» l'aria si increspò e Aprilynne sparì.

 

Il dolore ha strani effetti nelle menti delle persone.

Nella maggior parte dei casi porta caos e irrazionalità. Sconvolge azioni e pensieri stravolgendo il mondo in cui si vive e trasformando la realtà che ci circonda.

La screziata luce che indorava ogni giornata sembra lontana, crudele e illusoria.

Ma ogni mente è una caso a parte.

Una legge della fisica dice che ad ogni azione corrisponde una reazione, uguale e contraria.

Al caos esterno si scontrava l'appannata razionalità di Silver.

Era diventato una specie di automa.

Compiva meccanicamente ogni azione. Sembrava completamente assorbito nel compito di riparare l'astronave.

Aveva cancellato tutto il mondo circostante. Lo vedeva come attraverso uno spesso velo lo scuro e lo escludeva in quanto discordava con l'ordine maniacale in cui era sprofondato.

Ma in certi casi la razionalità non è meno pericolosa dell'irrazionalità.

Ad occhi esterni la sua poteva sembrare la reazione di un uomo forte.

Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.

In quel momento era più debole che mai.

Aveva costruito come un guscio intorno a sé stesso per impedire al dolore di sopraffarlo.

Perché lo temeva. Temeva di dover vedere il mondo sotto una luce diversa dalla solita, influenzata dal dolore.

Si era chiuso in una gabbia priva di sentimenti.

Ma questi non potevano scomparire. Non è nella loro natura. Si accumulavano, giorno dopo giorno, in chissà quale parte del suo animo, e, al primo spiraglio, lo avrebbero sicuramente abbattuto.

Solo Abigal, in quel momento, riusciva a sopportare la sua presenza.

In realtà la sfruttava. Tutto ciò che voleva era stare da sola. Silver non parlava più se non era strettamente necessario e tutti gli giravano alla larga. E lei rimaneva relativamente sola.

Le andava bene. Per il momento.

Gli altri si limitavano ad evitarlo.

Psiche, la sorella, l'unica che gli era rimasta, la imbottiva di sonniferi e tranquillanti.

L'unica a reagire veramente alla sua presenza era New.

Cominciava a strillargli contro ogni volta che lo vedeva.

Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.

Silver incanalava la rabbia della ragazzina che andava ad accumularsi con tutti gli altri sentimenti.

 

Aprilynne si materializzò nella camera dei tre fratelli – non era ancora disposta a definirli due.

Vi trovò solo Psiche.

Era seduta sul bordo del suo letto, con addosso solo mutande e canottiera.

Lo sguardo fisso nel vuoto.

«Psiche?»

Nessuna risposta.

Aprilynne le si avvicinò e le passò una mano davanti agli occhi.

La ragazza alzò lo sguardo apatico. Sembrava non esserci.

Aprilynne adocchiò i farmaci sul comodino.

Aprì la scatola e prese le pillole.

Le aprì e le buttò tutte nel cestino.

«Se andiamo avanti così diventiamo tutti dei rimbambiti.»

Nel bicchiere d'acqua di Psiche versò invece una bustina zucchero – prese in grande quantità dalla cucina di Kathleen. Lo lasciò sul comodino ed uscì.

La porta della camera di New ed Evelyn era socchiusa.

New stava armeggiando con dei legnetti e una tuta bianca.

«Che fai?» chiese.

New alzò lo sguardo e la studiò.

Dopo un lungo minuti di silenzio la dodicenne scrollò le spalle.

«Ho scoperto che l'arco di Aisha è fatto di un materiale stranissimo che ha una memoria tattile.»

Aprilynne alzò un sopracciglio.

«Prendi questo.» le disse passandole un bastoncino lungo quanto un braccio.

Appena la verde lo prese quello si afflosciò come fosse stato una corda.

«Ma cosa...?»

«Reagisce al mio tocco e diventa rigido. Succede lo stesso se prendi l'arco di Aisha, in pratica può usarlo solo lei.»

«Forte. E cosa vorresti farci?»

«Li sto agganciando alla mia tuta, guarda,» le mostrò il pantalone «si confondono con le cuciture, le ho mascherate.»

«Sì, ma perché?»

«Per usare i miei poteri perdo i sensi. In questo modo potrò rimanere in piedi.»

«Sicura che funzioni?»

«Certo ho già provato!»

«Devi usarli così spesso i tuoi poteri?» chiese Aprilynne domandandosi per la prima volta quali fossero i suoi poteri.

New strinse i pugni e si lasciò cadere sul letto.

«Avrei potuto evitarlo. So che avrei potuto. E invece non ho fatto nulla! Ho lasciato che le uccidesse. È colpa mia!» un singulto improvviso la scosse mentre alzava di nuovo lo sguardo.

La verde indietreggiò istintivamente.

Sentiva l'energia della ragazza che si propagava per la stanza.

La sentì mentre le entrava involontariamente nella testa.

«Smettila.»

«Scusa.» New si asciugò gli occhi con la manica. «Vedi? Ora riesco ad usarli tranquillamente, invece quando mi servono vado nel pallone. Non è giusto! È colpa mia!»

«Cosa?» chiese Aprilynne, la voce che le tramava.

New la fissò dritta negli occhi, come se potesse vedere dentro di lei.

«Evelyn e Raylene.» fece una pausa «Ti sei appena svegliata vero?»

Non era una vera domanda e la verde non le diede nessuna risposta.

«Non puoi eludere la realtà, Aprilynne. Puoi solo affrontarla.»

Aprilynne strinse labbra e pugni.

«Loro...»

«Loro? Aspetta... anche Evelyn?»

Lo sguardo di New si fece tagliente e rabbioso «Non te l'hanno detto?»

Fece per ribattere.

«Non negare, lo so. Lo vedo, lo sento. Ti hanno detto solo di Raylene. Che bastardi! Vi odio!»

«Tu... le hai viste?»

«Se le ho viste? Peggio! Le ho sentite! Ho sentito le loro forze vitali esplodere! È stato orribile!»

Aprilynne la raggiunse e si abbassò per avere gli occhi alla sua altezza.

«Tu senti quello che provo, vero?»

New annuì «Ma non quello che pensi.»

«Ma senti ciò che sono.»

Annuì.

«Ti sembro pazza? O irrazionale?»

Chiuse gli occhi.

«Pazza no. Irrazionale un po'.»

«Ma tanto da illudermi con una bugia?»

«No.»

«E allora perché non ci credo? Perché proprio non riesco a credere che Raylene sia morta?»

«Perché sei sconvolta.» rispose sicura New.

Aprilynne si morse il labbro tremante trattenendo le lacrime.

Scosse lentamente la testa.

Avrebbe voluto continuare a negare ad alta voce, ma dalle sue labbra serrate non uscì neanche un suono.

Lottò contro le lacrime che volevano sgorgare.

Afflitta dallo stesso dolore New poteva non solo sentire chiaramente ciò che l'altra provava, ma anche capirlo.

La differenza era che in Aprilynne la parta irrazionale era di gran lunga più influente di quella razionale. E quella era la parte che si opponeva testardamente alla verità, soffocando ragione e istinto.

Era come se dentro di lei fosse partito un campanello d'allarme che aveva creato una specie di blackout nella ragazza.

New si ritrovò a studiare la mente di Aprilynne con insolita curiosità.

Da quando si era rivelata poteva sentire a piacimento le emozioni di chi le stava intorno, ma per manipolarle doveva ancora perdere i sensi.

Ma non era questo il problema.

Cosa si era rivelata?

Ricordava quando era successo a Pit e Opter – loro erano davvero piccolissimi, ma tutti gli Ikisatashi avevano rivelato i loro geni animali molto presto.

Si erano sentiti doloranti e caldi per un paio di giorni, come se dovesse venire loro la febbre, e poi, all'improvviso, si erano trasformati in scimmie leonine.

Lei negli ultimi giorni aveva provato solo un insolito benessere generale.

Tutti questi pensieri l'avevano distratta.

Aprilynne era di nuovo sulla soglia.

«Tu non le hai viste.» borbottò.

«Fa così tanta differenza?»

«Per me sì.»

Uscì camminando lentamente.

Tutti gli altri Connect erano intenti a riparare la nave.

Ora che ci pensava, anche il buco nel muro nella camera di New – si sforzò di non aggiungere “ed Evelyn” – era stato sistemato.

Conosceva così poco Evelyn che non riusciva a provare nulla di particolare.

Si fece schifo da sola.

Due delle sue compagne erano morte e lei ne stava deliberatamente ignorando una, proprio come aveva fatto in vita. In fondo in fondo le sembrava giusto.

Ma che sto dicendo? Vergognati Aprilynne! si disse.

Era ciò che aveva sempre odiato di Silver, dare molta meno importanza alle vite dei ragazzi creati in laboratorio. Era profondamente ingiusto e sbagliato, lo sapeva bene.

Sua madre l'aveva messa in guardia da quei pensieri.

All'epoca non capiva.

All'epoca giocava e si azzuffava indifferentemente con Catron, Raylene, Abigal e Dalton.

Abigal e Dalton.

Li aveva sempre conosciuti insieme. Pensare anche solo ai loro nomi separatamente le sembrava impossibile.

Dalton è morto e me ne sono a mala pena accorta. E pensare che li trattavo malissimo. Ma era un gioco. A noi piaceva giocare.

Quasi stava per andare a cercare Abigal quando Silver le passò accanto.

Per un attimo le fece paura.

Aveva lo sguardo più assente che mai, si muoveva come un automa e non faceva che ripetere «riparare l'astronave» con il tono di chi è stato ipnotizzato.

«Silver?»

Il ragazzo si bloccò, come se si fossero incastrati gli ingranaggi.

Si voltò con estrema lentezza e studiò la ragazza a lungo.

Sembrava non riconoscerla. Più che altro non registrarla proprio.

«Silver? Ti sei rimbambito?»

Per un attimo rinvenne.

Nei suoi occhi passò un lampo di risentimento per essere stato svegliato e si voltò di scatto.

«Silver!» strillò la verde afferrandogli il braccio e costringendolo a girarsi.

«lasciami stare»

«Ma sei rimbambito? Che cosa pensi di fare? Girare per l'astronave come uno zombie?»

«devo riparla lasciami andare»

«Ma dove ti credi di essere?»

«non...»

Lo schiaffo che la ragazza gli mollò risuonò nell'aria.

Silver sgranò gli occhi, improvvisamente lucidi.

Si portò una mano sulla guancia con espressione meravigliata.

Aprilynne, per quanto risentita, parve riprendersi.

«Scusa.»

«Grazie.» sussurrò invece lui mentre si appoggiava con la schiena alla parete.

«Grazie? Ma ti è andato di volta il cervello? Ti ho appena dato uno schiaffo!»

Lui si lasciò scivolare contro il muro mentre il respiro si faceva affannoso.

«Dimmi di Raylene.»

Lui alzò lo sguardo «Cosa vuoi che ti dica?» urlò all'improvviso.

«L'hai vista?»

«Era davanti ai miei occhi.»

«E dov'è?»

Un'espressione stupita gli si dipinse in faccia «Lei ed Evelyn, dove sono?»

«A Evelyn ha pensato New.»

«E Raylene?»

«Lei è sparita. Il suo corpo. È sparito.»

«Cosa?»

«Io... non lo so, non riesco a pensarci.» abbaiò il ragazzo come volesse allontanare da sé le sue stesse parole.

Aprilynne prese un lungo respiro, poi si chinò fino ad avere gli occhi alla stessa altezza di quelli di Silver, ormai seduto a terra con la schiena ancora appoggiata alla parete e le gambe piegate.

«Che vuol dire che è sparita?»

Silver raccolse le forze per affrontare il suo sguardo.

Ma in quel momento erano uno più fragile dell'altra.

«L'ho vista. Ero chino si Abigal. E l'ho visto prendere la sua forza vitale. Lei è caduta a terra. E poi è scomparsa, come fosse fatta di fumo. Ma era morta. Morta. Senza più vita in corpo.»

Aprilynne non poté ignorare il fatto che Silver aveva parlato interamente al singolare, come se Evelyn non esistesse.

«Lo hai notato.» la vocina flebile di New li fece voltare entrambi.

Portava la sua nuova tuta.

Fissava Aprilynne. «Lo hai notato.» ripeté stupita e ammirata. Poi sembrò riprendersi. «Scusa, non volevo leggerti nel pensiero, stavo solo provando la tuta.» spostò lo sguardo improvvisamente rabbioso su Silver. «È inutile che ti faccia di nuovo la predica, tanto l'unico modo per fartela entrare in testa sarebbe usare i miei poteri.» rientrò in camera e si chiuse la porta alle spalle, sbattendola.

Aprilynne intanto si era raddrizzata.

«Dove stai andando?» chiese il ragazzo con un tono che tendeva pericolosamente per il neutro.

«Per me non è morta, finché non ho il suo corpo.» dichiarò la verde per poi allontanarsi.

Si andò a chiudere nella sala comandi, nella quale dormiva Nevery, nel suo solito posto.

Si sorprese nel trovarci anche Abigal.

Era seduta con le schiena appoggiata al mobiletto e in mano una bottiglia contenente un liquido scuro e frizzante.

Aprilynne si fermò sulla porta.

Abigal girò lentamente la testa verso di lei.

Il suo sguardo era docile, ma non spento. Sembrava... stanco.

«Sapevo che saresti venuta.» sussurrò.

«Come facevi a saperlo?»

«Tu vieni sempre da Nevery quando vuoi stare sola, ma non completamente. Lo faceva anche lui quando eravamo su Arret e tu ti addormentavi sul divano, proprio come un gatto.»

I loro sguardi si incrociarono di nuovo.

Abigal si spostò leggermente verso sinistra e fece segno ad Aprilynne di sedersi.

La verde non se lo fece ripetere.

«Tu invece hai smesso presto di fare avanti e indietro dalla tua camera a quella di Dalton. Ti ci sei trasferita... due anni fa?» si interruppe «Scusa!» scattò subito, dispiaciuta, ma senza alzare la voce.

Abigal mandò giù una sorsata di quel liquido frizzante «Ti direi che è bello sentirti parlare come se fosse ancora vivo, ma non so se è così o solo una odiosa svista.»

Aprilynne non rispose.

Rimasero al silenzio e al buio ancora per diverso tempo.

Quanto era passata dall'ultima volta che erano state così vicine senza insultarsi a vicenda?

«Che cos'è?»

«L'ho trovata nel frigo di Aisha, per loro è una normale bevanda frizzante, ma almeno a me fa qualche effetto... rilassante.»

Aprilynne si fece passare la bottiglia.

Coca cola. Chissà che significa.

L'assaggiò, ma non le fece nessun effetto particolare e la ridiede ad Abigal.

«Ti capisco.» disse all'improvviso la blu. «Neanch'io crederei che Dalton fosse morto se non avessi visto il suo corpo. O almeno non vorrei crederci.»

«Mi hai sentita?»

«Penso che ti abbia sentita tutta l'astronave. Hanno levato l'isolante dalle pareti e rimbomba tutto. Glielo volevo dare anch'io uno schiaffo a Silver, ma credo che poi saremo finiti a picchiarci sul serio.»

«Non gli avrebbe fatto male. Una bella azzuffata ogni tanto, non guasta.»

Abigal la guardò con espressione furbetta, forse sotto l'effetto della bevanda.

«Cos'è, una sfida?»

«Può darsi.»

«Se la metti così.» Abigal l'atterrò all'istante, ma la forza che ci mise era scarsissima e subito Aprilynne ribaltò la situazione.

Si rotolarono a lungo, poi rimasero stese a terra, sorridendo nonostante tutto.

«Avevi ragione, un'azzuffata non fa male ogni tanto.»

«Quella non era affatto un'azzuffata.»

«Allora, mi prenoto la prossima.»

«Per me va bene.»

Abigal si voltò a pancia in giù studiò l'espressione di Aprilynne.

«Conosci una Victoria?» chiese all'improvviso.

«Ikisatashi?»
«Anche, ma non per forza.»

«Viva o morta?»

«Indifferente.»

«Mia nonna. La madre adottiva di mio padre»

Abigal la guardò esterrefatta.

Si ristese a terra.

Come aveva fatto a non pensarci?

Cercò di immaginarsi la donna, ma non ci riuscì. Non l'aveva mai conosciuta, era morta proprio l'anno prima che Abigal “nascesse”.

Sapeva che era una bella donna, ed era propabile che avesse gli occhi blu e i capelli azzurri così come che li avesse di qualsiasi altro colore, ma era possibile che fosse identica a lei?

No, non poteva essere la ragazza dagli occhi color oceano e i lunghissimi capelli azzurri.

Che ci fossero due Victoria?

 

Le tirò via l'eleatico e le lunghe onde nere come il petrolio le ricaddero sulle spalle nude e intorno al viso da predatrice.

Gli occhi viola e intensi come sangue si avvicinarono ai suoi color del cielo mentre gli passava le mani tra i capelli biondi.

La baciò violentemente, ma lei ne sembrò più che soddisfatta.

I loro corpi si avvicinarono come fossero calamite.

Non c'era nulla di dolce tra loro, ma nessuno dei due lo cercava.

«Ti trovo in buona compagnia.» una voce maschile li vece sobbalzare.

Si allontanarono di scatto e lei, schiacciata contro il muro, per poco non cadde a terra.

Lui le si parò davanti, ma solo per coprirla, non certo per proteggerla.

«Che ci fai qui? Dovresti essere sulla Terra, come hai fatto ad arrivare?»

«Teletrasporto.» rispose tranquillamente Profondo Blu.

«Cosa?»

«I miei poteri, a quanto pare questa volta ci ho messo meno tempo a ricrearmi.»

«E perché sei qui?»

Lui si avvicinò con calma e decisione «Poi anche dire alla tua amichetta di rivestirsi, abbiamo da fare.» lo superò.

«È il capo delle mie guardie del corpo.» precisò il ragazzo dai capelli biondi.

«Oh, la tua amichetta sta facendo un ottimo lavoro allora.»

«Il mio nome è Caliane!» ringhiò la ragazza dagli occhi viola.

Profondo Blu le si avvicinò velocemente, il ragazzo stava recuperando i vestiti.

Lei si era rimessa la divisa da guardia del corpo.

«Beh, Caliane, io sono Profondo Blu, anche se probabilmente questo nome non ti dice niente come il tuo non dice niente a me.»

Si voltò e puntò verso la porta.

«So perfettamente chi siete, voi, piuttosto, dovrete preoccuparvi di chi sono io.»

Profondo Blu si voltò di scatto.

Fulminò il ragazzo biondo con lo sguardo, ma lui era altrettanto sorpreso.

«So anche il vostro nome, quello che rinnegate, quello che è morto con la vostra amichetta

Dalla mano di Profondo Blu si propagò un fumo nero e denso che si protese verso il collo della ragazza.

«Chi sei?»

«Il mio nome non vi dirà nulla, è vero. Ma il mio sangue potrebbe interessarvi di più.»

«Spiegati!» ordinò mentre il fumo si stringeva intorno al collo.

Ma il fumo divenne polvere, e come tale volò via.

«Sono la figlia della donna che vi ha ucciso già una volta, parecchi anni or sono, e da lei ho preso ogni mio potere.»

«COSA?» urlò Profondo Blu avventandosi sulla ragazza e afferrandola per il collo con una stretta più che salda.

Lei non si scompose minimamente.

Afferrò il suo polso e vi affondò le unghie.

Profondo Blu vide la sua mano raggrinzirsi e farsi scheletrica.

La ritrasse di scatto e quella tornò normale.

Fissò lo sguardo rabbioso sul ragazzo biondo.

«Risparmiati le occhiatacce, non ne sapevo nulla!»

Profondo Blu si voltò di nuovo verso la ragazza.

«Cosa vuoi?» abbaiò.

Caliane camminò per la stanza fino a recuperare la cintura con le armi.

Se l'allacciò in vita.

«Per vostra fortuna,» esordì con voce seducente «abbiamo un nemico comune.»

«Spiegati.» la esortò il ragazzo biondo.

«I ribelli. E non parlo dei terrestri. Sono tra la popolazione e aumentano di giorno in giorno.»

I due la guardarono senza sapere bene cosa dire.

Chi diavolo era quella ragazza?

«Non mi hai ancora risposto.» ringhiò Profondo Blu. «Cosa vuoi?»

Lei sorrise seducente rivelando un meraviglioso sguardo assassino.

«Potere

«Mi fa piacere sentire che siete diversa da vostra... madre

«Lei stava con gli Ikisatashi, è naturale che io sappia non poco sull'argomento. Sono una di loro.»

Profondo Blu annuì.

«Una buona alleata.» sentenziò.

«Ovviamente.» ribatté lei.

«Hai occhio per le donne con cui andare, Cavaliere.» commentò Profondo Blu «Ma ora abbiamo altro a cui pensare. Seguimi Cavaliere. E... Caliane...»

Li portò in una specie di laboratorio medico.

Su un tavolo da operazione c'era il corpo di una ragazza.

Il Cavaliere Blu sussultò.

«Ma è...» esitò. «Mew Pam.»

«La somiglianza è spiccata, vero? Ma non è lei. È la figlia.» Profondo Blu le scostò una ciocca di capelli scoprendo l'orecchio piccolo, ma appuntito.

«È incredibile. Aspetta. L'hai uccisa?»

Profondo Blu annuì.

«Ho distrutto la sua forza vitale, più morta di così.» un enorme sorriso gli attraversò il volto.

«Perché l'hai portata qui?» chiese Caliane.

«Loro, almeno per ora, sono gli unici ibridi esistenti. Dobbiamo capire di cosa sono capaci.»

«Perché? Non possiamo ucciderli e basta?»

«La Terra sta morendo. Gli umani sono pochi e non possono fare molto, ma c'è la possibilità che si rifugino nello spazio come ha fatto la nostra specie.»

«Perché non ucciderli tutti?» insistette la ragazza.

«Perché gli umani in sé possono tornarci utili, le loro menti sono deboli e le loro forze vitali facilmente sfruttabili. Il problema non sono loro, ma eventuali ibridi. Loro riescono a resistere persino a me. Prendi la sorella di questa ragazza, il chimero creato con la sua forza vitale aveva le sue sembianze e la sua mente ha continuato a funzionare, è riuscita a chiedere aiuto! I loro poteri possono quasi competere con i miei.»

«Potrebbe dipendere solo dal fatto che sono degli Ikisatashi.» ipotizzò il Cavaliere Blu.

«No.» rispose Caliane catturando di nuovo la loro attenzione. «Gli Ikisatashi erano solo ben allenati, non diversi dagli altri arrettiani. Per metà sono umani, questo è vero, ma ciò che li contraddistingue è il DNA animale.»

«Spiegati meglio.»

«Poco tempo fa io e il mio patrigno, un ribelle, abbiamo fatto delle ricerche per scoprire se su Arret ci fossero dei gene compatibili, cosa che erano le MewMew. Ne abbiamo trovati solamente due su tutto il pianeta. Un bambino di dieci anni, Always Lyoko e un uomo in coma, Ian Gorgoyl. Mio padre ha usato la sua forza vitale e un parassita per creare un chimero.»

«...e?»

«Venite a vedere con i vostri occhi.»

Questa volta fu lei a guidarli fuori dall'edificio attraverso un tunnel sotterraneo fino ad arrivare in un'altra struttura composta dal pianoterra e poi da numerosi livelli sotterranei.

Disse qualcosa al ragazzo della sicurezza in un diletto così stretto e un accento così marcato che i due non riuscirono a capire una parola.

Il ragazzo si fece obbedientemente da parte per lasciarli accedere all'ascensore.

Caliane inserì un codice nel display sulla parete, poi digitò un -27 e l'ascensore cominciò a scendere.

Per un po' scese il silenzio.

Il Cavaliere Blu si avvinghiò al fianco di Caliane.

Lei gli si avvicinò e lui sentì la sua pelle calda sotto le dita, ma l'espressione della ragazza non mutò quasi per niente.

«Non sapevo che vostra madrfe avesse avuto discendenti. In effetti, dopo tutto il tempo che ci ho messo per rigenerarmi, ho perso completamente le sue tracce.» disse Profondo Blu.

«Non mi sorprende affatto. C'è una grossa falla nel vostro sistema di rintracciamento persone.»

«Ovvero?»

«Per le donne è abbastanza facile nascondersi senza però sparire.»

«Spiegatevi.»

«La legge permette, anche se non obbliga, alle donne di cambiare cognome una volta sposate e di poter tagliare i legami, almeno legalmente, con la famiglia d'origine. I figli adottai, invece, possono prendere il nome del nuovo genitore e dimanticare il vecchio. È il motivo per cui mia madre ed io vi siamo sfuggite così facilmente. Mia madre si è sposata.»

«Sposata?» Profondo Blu sembrava perplesso, il Cavaliere aveva ormai perso il filo del discorso e la sua mente era altrove, persa in congetture tutt'altro che caste.

«Seath Ikisatashi?» chiese titubante dopo un po'.

«Quella della seduzione è un'arte.» sorrise Caliane spostando lo sguardo magnetico sul Cavaliere Blu che fece risalire la mano sulla sua schiena fino ad arrivare alla base del collo.

«Credevo di conoscerlo.»

«Hai ucciso la donna che amava, la gente viene stravolta da azioni del genere.»

«Suzanne ha scelto il proprio destino quando mi ha attaccato.» rispose assolutamente tranquillo Profondo Blu.

«Uno di voi due può spiegarvi di chi stiamo parlando?» ringhiò spazientito il Cavaliere.

Profondo Blu lo ignorò apertamente, ma Caliane si voltò verso di lui.

«Seath e Suzanne sono due dei “Primi Ikisatashi” che, come saprai, sono i cinque ragazzi orfani che si coalizzarono, circa un secolo fa, contro lo stato. Loro dicevano di agire per il bene del pianeta, ma hanno creato più danni che altro. In particolare, Seath e Suzanne erano i genitori di Ghish e Sheira Ikisatashi.»

«Conosco fin troppo bene il primo, ma non il secondo.»

«Entrambi furono sottratti ai genitori quando erano ancora molto piccoli. Si levano diversi anni e sono cresciuti separati. Si sono incontrati solo molti anni dopo.»

«Dopo tutto quel macello sulla Terra?»

«Una decina di anni dopo, sì. Comunque, Profondo Blu ha ucciso Suzanne, mentre Seath riuscì a salvarsi. Lui ritrovò sua figlia Sheira e, ecco il bello, mia madre, Kleys. Sia Seath che mia madre avevano un DNA modificabile, diciamo così, ma su di loro non è mai stato fatto nessun esperimento. Tra i due c'erano una notevole differenza d'età e quando ebbero un bambino lui non era esattamente giovane. Questo bambino ero io.»

«Aspetta.» la fermò il Cavaliere «Quindi tuo padre era il padre di Ghish Ikisatashi? Quindi quel bastardo sarebbe tuo fratello?»

«Fratellastro.» precisò la ragazza.

Profondo Blu non lo dava a vedere, ma era particolarmente interessato al passato della ragazza.

«Ora considera:» riprese Caliane «Seath non ritrovò mai il primo figlio, Ghish appunto che invece fu adottato insieme ad altri due fratelli, Pai e Tart.»

«Conosco anche loro.»

«Seath e mia madre crebbero sia Sheira, figlia del primo e di Suzanne, sia me. Sheira è più grande di me di una decina d'anni. Mia madre, però, si è risposata subito dopo la morte di Seath, ha cambiato di nuovo cognome e con lei anch'io, passando da Ikisatashi a Eighel.»

«Mi sta andando in pappa il cervello.» dichiarò il biondo.

«Beh, sta' zitto e ascolta, perché di sicuro non te lo rispiego io.» lo zittì Profondo Blu.

Caliane aspettò un attimo, poi continuò: «Ora ascoltami bene. Dovresti sapere che Seath Ikisatashi, è stato trovato dallo stato e ucciso circa vent'anni fa. Quello che tutti non sanno, però, è che Seath aveva una figlia: Sheira Ikisatashi. E io lo so, perché sono sua sorella.»

«Aspetta un attimo.» scattò il Cavaliere «Sheira Ikisatashi non è il soldato che ho fatto arrestare qualche giorno fa?»

Caliane sorrise «Esattamente. E fino ad ora non l'avete mai trovata perché si è sposata giovanissima con un certo Felix Lyoko e con lui ha un figlio di dieci anni, Always Ikisatashi. E, per chiudere in bellezza, questo Always ha un DNA modificabile.»

L'ascensore si fermò e i tre uscirono.

«Aspetta, puoi farmi un riepilogo dell'albero genealogico?» chiese il Cavaliere.

Caliane sbuffò. «D'accordo, vedi di scrivertelo sulla mano. Seath sta con Suzanne. Hanno due figli, a distanza di diversi anni: Ghish e Sheira. Ghish viene separato dalla famiglia e dato in adozione e tanti saluti. Rimane solo Sheira. Profondo Blu uccide Suzanne. Seath si mette con Kleys. Con lei ha me. Seath viene catturato e ucciso durante la caccia agli Ikisatashi e sia mia madre che sua figlia Sheira si sposano. Mia madre con un certo Jay Eighel, di cui prendo il cognome, e mia sorella con Felix Lyoko, con cui ha Always. Ci sei adesso?»

«Più o meno, ma va bene così.»

Profondo Blu roteò gli occhi.

La sua pazienza stava per terminare.

Se quella maledetta ragazzina non fosse stata una tale minaccia l'avrebbe già messa a tacere.

«E qua giù cosa siamo venuti a fare?» chiese il Cavaliere.

Caliane li precedette davanti al vetro che dava su una stanza bianca.

«Venite, loro non ci vedono.» li sollecitò.

Nella stanza c'erano tre persone.

Un uomo stava seduto sul bordo del suo letto e guardava un bambino dagli occhi e i capelli dorati giocare con un... chimero.

Era un misto tra un uomo e un leone.

«Il bambino è Always Lyoko, il chimero è Ian Gorgoyl, l'uomo con DNA modificabile in coma.»

«Come può essere un chimero?» chiese Profondo Blu «I parassiti su questo pianeta.»

«No.» ribatté la ragazza «Io e mio padre Jay ne abbiamo radunati il più numero possibile quando ero piccolissima e poi abbiamo distribuito un virus sul resto del pianeta per sterminare gli altri. In questo modo ho sotto controllo l'intera specie.»

«Hai?» sottolineò il Cavaliere.

«Mio padre è morto. Controllava il chimero con la forza vitale di Ian e lui si è ribellato al suo controllore facendolo scoprire. È stato processato e giustiziato.»

«Non è possibile. Il chimero sarebbe morto!» ringhiò Profondo Blu.

Caliane si voltò e annuì. «Lui ha un DNA modificabile, come il bambino, per questo li ho messi insieme.»

«Quindi... potresti partecipare al processo di Sheira Lyoko e dimostrare che è proprio l'Ikisatashi che cerchiamo.» commentò intanto il Cavaliere Blu.

Caliane annuì senza guardarlo. «Ma non dovrete ucciderla, potrebbe sapere qualcosa che mi è oscuro.»

Il Cavaliere si allontanò arrivando alla parte opposta della parete.

Profondo Blu lo seguì.

«Com'è la situazione sulla Terra?» sussurrò il Cavaliere.

«Delicata, ma non critica.»

«Sai niente di Aoyama?»

«L'ho trovato, ma non si è mai intromesso negli scontri né si è messo in contatto con i ragazzi. Avrà imparato a stare al suo posto.»

«Dunque è vero, gli Ikisatashi hanno nascosto allo Stato diversi ragazzi.»

Profondo Blu annuì. «Qualcuno è morto prima della partenza, con l'astronave ne sono arrivati diciotto. Si fanno chiamare Connect e, anche se non so come sia possibile, tutti hanno il DNA unito a quello di qualche animale. In più non risultano su nessuno registro. Tutti questi ragazzi sono spuntati fuori dal nulla!»

«Cosa? E quanti sono?»

«Erano diciotto: otto Ikisatashi, compresa la ragazza, e altri dieci. Ho ucciso due di questi ultimi e la ragazza Ikisatashi. Ne rimangono quindici»

Il Cavaliere annuì.

 

Sharlot chinò la testa sul quaderno di chimica.

Non riusciva a concentrarsi.

Era ancora tutta sottosopra.

Lanciò la penna e si lasciò cadere sul banco.

«Basta!» esclamò, la voce soffocata dalle braccia e dai capelli.

Tutti si voltarono verso di lei.

«Non ne posso più.» continuò senza curarsi degli sguardi sorpresi. Non poté fermare alcune lacrime di frustrazione e cominciò a singhiozzare sommessamente.

Si sentiva sovraccaricata.

Non riusciva più a conciliare la sua vita di ragazza “normale” e la sua missione.

Il sonno sembrava sfinirla ancora di più.

Le giornate erano sempre più pesanti con l'avanzare delle riparazioni dell'astronave.

Appena sarebbe stata pronta, loro e gli altri alieni sarebbero partiti.

«Sharlot, che hai?» chiese una ragazza che le si era avvicinata.

«Lasciami stare!» urlò allontanandola.

La professoressa si avvicinò piuttosto alterata.

«Si può sapere cosa ti prende Akasaka?»

Sharlot alzò la testa e puntò gli occhi rossi cerchiati sulla donna.

«Io non ce la faccio.» mormorò, le labbra che tremavano.

Tutti, in qualche modo, capirono che non stava parlando della scuola.

«Non era così che doveva andare. Era solo un gioco, un esperimento... » dei singhiozzi la interruppero, ragazzi e insegnante erano visibilmente agitati e cercavano di dare senso alle parole di Sharlot.

Ognuno le interpretò in modo più o meno diverso, ma nessuno si avvicinò alla realtà.

«Non sarebbero mai dovuti arrivare, animali che non sono altro!» con un gesto nervoso scaraventò lontano il quaderno e l'astuccio raddrizzandosi contro lo schienale.

«Maledetti a...» «Sharlot!»

La voce di Aisha la bloccò prima che potesse dire qualcosa di troppo.

Portava la sua “divisa” e aveva in spalla la faretra chiusa.

«Lei che ci fa qui?» chiese l'insegnate.

«Sono venuta a prendere mia sorella.»

«Avrebbe più bisogno di un medico, o di uno psicologo.»

La donna e Aisha si fronteggiarono a suon di sguardi.

Aisha era molto più sicura, ma c'era qualcosa che turbava anche lei.

«Che sta succedendo?»

«Non è tenuta a saperlo.»

«Sta' zitta Aisha.» la pregò Sharlot, ma questo fece solo scattare la ragazza, non meno provata della sorella.

«No sta' zitta tu Sharlot! Sapevi quali erano i rischi, non puoi tirarti indietro.»

«Nessuno mi ha mai lasciato scelta!» balzò in piedi «Nessuno ci ha mai chiesto cosa ne pensiamo di tutto questo! Se ne sono tutti infischiati! Io non lo volevo tutto questo.»

«Non ci si può tirare indietro di fronte ad una cosa del genere, i nostri genitori lo sapevano!»

«Già! Maledetti loro e quel dannato Shirogane che ha cominciato questo inferno!»

«Falla finita!»

Erano l'una davanti all'altra, sul punto si picchiarsi di fronte ad una classe intera.

Una più forte dell'altra.

Una più insicura dell'altra.

Marcus Evans entrò in quel momento, per niente sorpreso di trovare Aisha e Sharlot in quel modo.

«Posso spiegarle tutto io, professoressa, ma non in questo momento, è una questione della massimo urgenza e ho bisogno di Sharlot Akasaka.»

Sharlot, visibilmente sorpresa, guardò prima lui poi la sorella.

Aisha scosse impercettibilmente la testa, ne sapeva quanto lei.

«Ma che è, un telefilm?» commentò una ragazza, qualcuno rise, ma nessuno le diede peso.

«Presidente?» fece la professoressa di chimica.

«Mi rincresce per la scenata, credo sia colpa mia, ma le assicuro che al momento opportuno avrà le più che dovute spiegazioni.»

La donna non sapeva che fare.

Aisha prese per mano Sharlot e l'accompagnò fuori prima che nessuno potesse dire nulla.

Evans le raggiunse poco dopo chiudendo la porta.

«Venite presto, dobbiamo uscire dal grattacelo.»

«Chi sei?» chiese Aisha con la sua solita diffidenza.

«Esattamente quello che sembro, Marcus Evans, presidente dello Stato e compagno di Arlene Garden, professoressa di scienze di Sharlot.»

«Se è per questo è stata anche la mia professoressa, ma questo che c'entra?»

«La situazione è delicata.»

«Quale situazione?»

«Ve la spiegherò lungo la strada. Ho bisogno di voi.»

«Di noi?»

«Siete le uniche che possono aiutarmi.»

«Cosa vi serve?» mormorò Sharlot.

«Aiuto.»

 



Non è un capitolo di azione, ma penso che almeno stavolta potevamo farne a meno.
Insomma, ho creato un bel casino, lo so e non crediate che mi piaccia, e, devo ammetterlo, me ne sono in parte pentita e sto cercando a tutti i costi una soluzione. :(  
Però non si può dire che in questo capitolo non succeda nulla!
Abbiamo una Victoria Ikisatashi, un Cavaliere Blu, una Caliane e un Always parenti di Ghish!
A proposito di questi ultimi, nel caso qualcosa non fosse chiaro, vi consiglierei di farvi uno schemino e, se proprio qualcosa non quadra, chiedete pure.
A presto,
Artemide12



p.s.
lei è Caliane, anche se dovrebbe essere riccia,
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Capitolo 15
*** Azzurra ***


Azzurra

 

Entrò nella stanza senza bussare.

La ragazza bionda alzò lo sguardo.

Aveva gli occhi rossi, ma era finalmente tranquilla.

Lei le si sedette accanto e le circondò le spalle con un braccio.

La ragazza bionda accarezzò la guancia dell'alieno bruno.

Era seduta sul bordo del letto.

Il bip costante dei macchinari era l'unico vero suono.

Il respiro del ragazzo si sentiva appena.

«Andrà tutto bene.» sussurrò lei.

«Mina è già completamente guarita mentre lui... è in coma da giorni.» spostò lo sguardo sul marito.

«Almeno ora è qui, non permetteremo mai che gli succeda qualcosa.»

La bionda si sforzò di sorridere.

«Pit e Opter sono ancora piccoli, come faranno senza genitori? E Kathleen...»

«Anche tu badavi ai tuoi fratellini, sono sicura che Kathleen ha preso il tuo carisma.»

Sbuffò una risata.

«Tu sei sempre stata brava con le parole.»

«Ognuno ha le proprie specialità.»

«E quella di Mina è avere sempre qualcosa di strano?»

«È sono guarita in fretta, è sempre stata di costituzione forte.»

La donna bionda tornò ad accarezzare la guancia dell'alieno privo di sensi scompigliandogli i capelli castani.

Quanto avrebbe voluto rivedere anche i suoi occhi color del miele.

«Era tutto così facile, una volta, così bello...»

 

Oro si appoggiò allo schienale della sedia da scrivania.

Continuava a fissare quell'unica, assurda, fotografia.

Erano lì, i dieci ragazzi intorno ai quali sembrava ruotare tutto.

Al centro c'erano suo padre Ryan e Kyle, il padre di Aisha e Sharlot.

E insime e loro le cinque MewMew e, incredibile ma vero, i tre alieni che fino a poco tempo prima aveva considerato esclusivamente nemici.

I suoi genitori erano vicino al centro del gruppo, a sinistra della leader, la MewMew dai capalli rossi. Suo padre teneva un braccio intorno alle spalle di sua madre che, sotto gli occhiali, era arrossita.

Alla loro sinistra, al margine della foto, c'erano Kyle e Mina, che sembrava ancora più bassa di quanto non fosse accanto al marito. Si levavano diversi anni, lo sapeva, ma erano sempre andati d'accordo.

Aveva visto tante volte quei quattro insieme.

Era il resto della foto a lasciarlo stupito e perplesso.

Era convinto che, dopo la fine della battaglia, le MewMew si fossero disperse e gli alieni non si fossero più fatti vivi. Quella foto dimostrava il contrario.

Poteva essere una specie di raduno, ma ne dubitava. Negli sguardi di quei ragazzi c'era una complicità di un gruppo unito, oltre che di persone che un tempo avevano combattuto insieme.

D'altro canto, lui stesso non riusciva a credere che dopo aver rischiato la vita e salvato il mondo, un gruppo così affiatato avesse potuto disperdersi.

No. Ovviamente no. Si erano tenuti in contatto. Erano rimasti vicini.

Ma... gli alieni?

A giudicare dalla data della foto, mancava poco più di un anno alla sua nascita, quindi la Terra stava già risentendo dei cambiamenti climatici. Anzi, ad essere precisi, proprio in quell'anno c'era stato l'Assemblamento.

Gli alieni c'erano? Erano in qualche modo implicati in quello che stava succedendo? Lo erano tutti?

Al centro della foto c'erano Strawberry Momoyma e l'alieno con i capelli verdi e gli occhi dorati che la abbracciava di dietro e sorrideva sornione.

Aprilynne e Catron non avevano esistato un attimo a riconoscere in loro i propri genitori.

E lo stesso valeva per i due accanto.

L'alieno dagli occhi viola affiancava composta la donna dai capelli corvini, a dir poco bellissima, che teneva le mani sul proprio pancione. Sempre prestando fede alla data, il bambino che aspettava doveva essere Silver.

Quelli più irriconoscibili erano gli adolescenti alla loro destra, nella parte sinistra della foto.

L'alieno aveva gli occhi arancione miele di Kathleen e i capelli castani di Opter.

La ragazza umana, invece, era bionda come Pit e, per esclusione, doveva essere Mew Paddy. Era a dir poco irriconoscibile. Era stato Catron ad identificarli come i genitori di Kathleen, perché faticava a crederci. Alla fine però aveva annuito convinta.

Lui ancora non riusciva a crederci. I suoi genitori e gli alieni erano rimasti in contatto fino a poco prima della sua nascita? O anche dopo? Erano spariti. Tutti e dieci. Un caso?

No, non era possibile. O qualcuno aveva dato loro la caccia o se ne erano andati volontariamente.

Forse entrambe le cose.

Ricordava come Ryan, suo padre, fosse in pensiero il giorno che sua madre era scomparsa praticamente nel nulla. Era come se lui già lo sapesse.

Lui era rimasto. A quanto pareva, a differenza di tutti gli altri, era rimasto con loro fino a tre anni prima. Ora come non mai sentiva la sua mancanza.

Ma perché non gli aveva mai detto niente? Perché gli aveva fatto credere che gli alieni fossero dei nemici?

Avevano progettato qualcosa insieme?

E se Aprilynne, Catron, Silver, Psiche, Kathleen, Pit e Opter – non aggiungere Raylene gli provocò una fitta di dolore – erano figli di MewMew e alieni, erano forse degli ibridi?

E allora perché si ostinavano a dire il contrario?

Si sfilò gli occhiali e li gettò di lato.

I suoi genitori potevano essere ancora vivi.

Volente o nolente, la speranza si era riaccesa dopo tutti quegli anni di rassegnazione.

«Oro! Oro!» strillò Caos entrando nella stanza.

Oro si alzò e si voltò verso il fratello.

«Che succede?»

«Non ci crederai mai!»

«Spara.»

«Indovina chi c'è alla porta?»

«Aisha e Sharlot?»

«E poi?»

«E poi non lo so!» fece una pausa «Raylene?» non poté fare a meno di chiedere, speranzoso.

Un'ombra attraversò il volto del fratello minore, ma poi scomparve.

«Il presidente!»

«Mi prendi in giro.» affermò.

«No! Parlo sul serio! Mr Evans è alla nostra porta e chiede di noi! Conosce i nostri nomi!»

Caos era un patito della politica fin da quando era piccolo. Marcus Evans, due volte presidente di ciò che restava degli Stati Uniti, era quello che per gli altri era il cantante preferito o l'idolo della TV. «Vieni muoviti!»

Oro seguì incerto il fratello fin nell'ingresso.

In piedi davanti alla porta chiusa c'era proprio lui, il presidente.

Oro rimase bloccato.

Si guardò intorno confuso, ma il fratello e le sorelle Akasaka ne sapevano quanto lui.

«...buongiorno...» fu tutto ciò che trovò da dire.

«Come ho già detto agli altri, lasciamo perdere le formalità Oro. Datemi pure del tu.»

«Cosa vi porta qui?» chiese Oro ignorando l'invito.

«Ho bisogno del vostro aiuto.»

«Non vedo come...»

«Ne ha bisogno!» il suo tono imperativo lo fece trasalire.

Conosceva quella voce, ne era sicuro! Ma dove diavolo l'aveva già sentita?

Alla televisione? No, lì aveva sentito sempre e solo il suo tono gentile, per quanto diplomatico.

Quella sicurezza era completamente diversa e lui la conosceva.

«Ha?» chiese intanto Caos.

«Arlene. Vi prego, non so quanto tempo abbiamo ancora.»

«Sta male?» chiese Sharlot.

«No, non sta male. Ma... spiegare è difficile.» li guardò uno ad uno «Vi prego, dovete venire.»

«Ci da un momento?» chiese Oro facendo segno agli altri di avvicinarsi.

L'uomo esitò, ma poi si arrese con un mezzo sbuffo e un cenno del campo.

I quattro si riunirono in cerchio.

«È una pazzia.» disse subito Aisha «Potrebbe essere una trappola. Rifiutiamo e seguiamolo.»

«Una trappola? Ma sai chi è quello?» la incalzò Caos.

«So che anche quel chimero aveva le sembianze di Psiche.»

«Ma Psiche è... quella che è.»

«Caos ha ragione, io dico di seguirlo.» lo spalleggiò Sharlot «La Garden non si vede da quasi un mese e nessuno sa che fine abbia fatto, quelli della scuola l'hanno sentita solo un paio di volte al telefono.»

I tre guardarono Oro, come in attesa di una sentenza.

«Seguiamolo.» disse dopo un po' il biondo, poi, vedendo lo sguardo risentito di Aisha, aggiunse «Ma teniamo gli occhi aperti e portiamo le armi.»

«Senza che se ne accorga?» chiese la mora. «È difficile.»

«Io metto le nostre nacchere nella valigetta del portatile. Voi due portatevi uno zaino e metteteci archi e frecce.»

Tutti e quattro annuirono e si voltarono verso l'uomo.

«D'accordo veniamo, dacci solo un minuto per prendere il computer.» disse Oro tornando nella sua stanza seguito da Aisha che aveva le sue armi e quelle della sorella.

Quando rientrarono Marcus vece finta di non vedere lo zaino della ragazza più grande.

Lo seguirono fin fuori dal grattacelo.

Li guidò fino ad una macchina argentata lucidissima apparentemente senza vetri o finestrini.

Sembrava un unico pezzo di argento liscio con la forma di un'auto.

Era il sogno di qualsiasi automobilista.

Dava l'idea di essere molto veloce.

«Ma che macchina è?» chiese Oro.

«La migliore mai costruita. Nessuna marca in particolare, prende il meglio da tutti. È unica, ma non irripetibile. Non sono un amante delle macchine, ma questa è proprio un gioiello.»

«Ma come si entra?» chiese Aisha.

«Sempre molto pratica eh?» l'uomo si avvicinò alla macchina e appoggiò la mano sul metallo, più o meno dove avrebbe dovuto inserire una chiave.

Il metallo si mosse come fosse liquido andando a formare le fessure degli sportelli.

Premette ancora la mano e lo sportello si aprì.

«Forza, salite.»

Lo sportello di richiuse.

Sul davanti, dove prima c'era solo metallo, si accesero delle luci.

I quattro erano rimasti pietrificati.

«Comincio a dare ragione ad Aisha.» borbottò Caos.

«Anche io!» confermò Sharlot arpionando il braccio della sorella.

«Finitela!» sbuffò invece la ragazza avvicinandosi alla macchina.

Premette la mano dove avrebbe dovuto esserci lo sportello per i sedili posteriori e quello si aprì.

«Avanti!» li incitò entrando.

Sharlot la imitò quasi correndo e Caso fece lo stesso.

Oro fu costretto a sedersi davanti accanto all'uomo.

«Lei è sicuro di essere Marcus Evans, il presidente?» chiese il biondo.

«Più che sicuro! Ma penso che lascerò il posto.»

«COSA?» urlò Caos.

«Se le cose vanno come credo ci sarà bisogno di me altrove.»

Calò il silenzio.

Davanti a Marcus non c'erano né volante né qualsiasi tipo di comandi di un'auto. Non c'era neanche l'autoradio.

I sedili erano di pelle bianca, senza neanche una cucitura, che si adattavano perfettamente a chi vi si sedeva.

«Non ci sono le cinture di sicurezza?» mormorò Sharlot, ma mentre lo diceva sentì che una strana forza attrattiva la teneva vicina ai sedili.

«Non c'è né bisogno.» le rispose Evans.

Dal metallo davanti a lui fuoriuscì quello che sembrava un volante senza la parte superiore e inferiore del cerchio.

La macchina sfrecciò velocissima, ma la cosa non sorpresa più di tanto i ragazzi.

«Ma da dove viene questa macchina?» chiese Oro, non trovando niente di meglio da dire.

«È il regalo di un vecchio amico.»

Arrivarono in pochi minuti, ma tutti e quattro erano sicuri che a piedi ci avrebbero messo almeno un'oretta.

Appena scesero dalla macchina si ritrovarono in un campo dominato solo dall'erba alta piuttosto secca.

Aisha rabbrividì.

«Non mi piace questo posto.» dichiarò. Il ricordo della prima notte che c'era stata, mentre inseguiva Abigal, era ancora vivido nella sua mente e solo ora capiva veramente cos'era successo.

Si diressero verso il vecchio fienile.

Aisha ricordava anche quello.

Si immobilizzò.

«È una trappola!» gridò.

Marcus si voltò verso di lei.

«Cosa te lo fa pesare?» sembrava sinceramente confuso.

«Quel posto! È lì che Profondo Blu ha ucciso Dalton!» indietreggiò afferrando il braccio della sorella e trascinandosela dietro.

Marcus parve colpito, il suo sguardo si dipinse di paura, poi di comprensione e pentimento.

«Avrei dovuto immaginarlo.» mormorò quasi tra sé e sé.

«Vi giuro che non è una trappola e se non vi fidate potete prendere le vostre armi, ma non ho nulla da nascondere, quindi vi prego lo stesso di seguirmi, ormai siamo arrivati.»

Sharlot si liberò dolcemente dalla presa della sorella maggiore e poi la prese per mano. Spostò lo sguardo sull'uomo e annuì.

Aisha impugnò l'arco, ma li seguì.

Si avviarono verso il fienile.

«Cosa intendeva dire con “dovevo immaginarlo”?» lo incalzò Oro stando al passo svelto dell'uomo. «Sapete chi è Profondo Blu?»

Evans rispose solo alla prima domanda.

«L'unico posto sicuro in cui nascondere qualcosa è la propria testa.» disse «Nel mio caso non vale neanche quello. Non sempre almeno.»

Oro si pietrificò sul posto e gli altri lo superarono, poi li raggiunse di corsa.

«Tu!» strillò «Sei tu l'uomo che mi pedinava! Quello sulla torre! Quello che mi segue da... da tutti questi anni!»

«Da quando tuo zio è scomparso. sì.»

«Perché?»

«Per proteggervi. Tutti voi.»

«Perché?»

Ma intanto erano arrivati.

«Non è il momento, ragazzi.» aprì la porta con un vecchio mazzo di chiavi.

L'interno era molto diverso dall'ultima volta.

Su una parete laterale era stato improvvisato un letto dall'aria non troppo scomoda, mentre sull'altra erano stati sistemati un tavolo e delle sedie.

Rannicchiata in posizione fetale sul letto c'era Arlene.

Dormiva, ma non sembrava molto rilassata.

Marcus si chinò su di lei e le sussurrò qualcosa nell'orecchio.

Lei aprì lentamente gli occhi e guardò i quattro ragazzi, non molto sorpresa.

Lui sussurrò qualcos'altro e lei annuì appena.

Le mise un braccio intorno alle spalle e la aiutò a mettersi a sedere.

Aveva una spessa coperta, ma la mise da parte.

Solo allora notarono il pancione.

E si sorpresero di non averlo fatto prima.

Oro, Caos e Aisha si guardarono senza capire.

«Non è possibile!» esclamò invece Sharlot «Solo poco più di un mese fa non eravate neanche incinta! E se lo eravate non si vedeva niente, quindi non potevate essere di più di tre mesi.»

Arlene sorrise.

«Sei sempre stata sveglia, Sharlot. Dov'è Kathleen?»

«Kathleen?»

«Non l'ho trovata.» rispose Marcus.

«Che vuol dire?» ringhiò Aisha «Che vuol dire tutto questo?»

«Io, non so bene come spiegarlo... ma il padre del bambino è Profondo Blu.»

«COSA?» fecero tutti e quattro.

«Lei come conosce Profondo Blu?»

 

Si mangiucchiò le unghie per l'ennesima volta.

E per l'ennesima volta una parte del suo cervello le ordinò di smetterla.

E non era perché fosse particolarmente volenterosa di abbandonare quel vizio.

Qualcuno le ordinava di finirla.

Era da giorni che andava avanti così.

Aveva anche considerato l'ipotesi di farsi vedere da un medico, ma aveva paura.

Sua madre era stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico perché continuava a ripetere avvertimenti sugli alieni per metà in inglese e per metà in una lingua sconosciuta.

Il punto era che sua madre si era dimostrata tanto pazza da non esserlo.

Tutte le sue stranezze avevano una loro logica.

Quella lingua inventata... lei l'aveva sentita parlare in quella lingua con il marito, suo padre, anche se poi lui aveva negato.

E lei aveva paura.

Paura che, se avesse detto la verità sulla voce nella sua testa, le avrebbero fatto fare la fine di sua madre.

In fondo, dal momento che non aveva chissà quanti amici e che il padre non era quasi mai a casa, non era impossibile fingere di essere ancora normale.

Suo padre era il segretario del presidente e ultimamente Mr Evans non c'era quasi mai e all'uomo toccava fare anche la sua parte.

Il problema era la scuola.

Convivere con una voce quasi incessante nella sua testa era un'impresa esasperante.

Perché era questo che le era successo. E andava avanti ormai da giorni.

Da quando c'era stato quel buio improvviso prima del tramonto e una specie di esplosione non lontano dal suo grattacelo.

Ma non era solo una voce.

Era come se avesse dentro la testa un'altra persona che solo lei poteva sentire.

Ma non era solo dentro la sua testa.

Era interamente dentro di lei.

Cercò di concentrarsi sul compito di chimica.

L'insegnate aveva avuto la geniale idea di fissare tutti i compiti della sua materia nello stesso giorno, in modo che non potessero sapere dagli altri cosa c'era.

Continuò a fissare il testo degli esercizi resistendo alla voglia di mettersi le mani tra i capelli.

Era un esercizio a crocette, quindi avrebbe anche potuto tirare a caso, ma proprio non sapeva dove mettere le mani.

Quando aveva cercato di studiare, il giorno prima, quel diavolo dentro la sua testa aveva reso impossibile concentrarsi.

«C»

Si guardò intorno confusa.

«C, E, A, C, B, D, F.»

Sgranò gli occhi.

No, ti prego non qui, lasciami stare, ti prego, ti prego.

«Sono le risposte. C, E, A, C, B, D, F. Avanti sbrigati, scrivi e consegna così ce ne andiamo.»

Ma che diavolo stai dicendo? Vuoi uscire dalla mia testa?

«Non saprei farlo neanche volendo, non ho idea di come ci sono finita qui dentro! Forza ora finiamo questo banalissimo compito e usciamo.»

Primo, non è affatto banalissimo, io sto impazzendo. Secondo, non parlare al plurale. Questo è il mio corpo, non il tuo! Chiaro?

«Smettila di urlare, tanto ti sento anche se sussurri dannazione, sento ogni tuo pensiero.»

E io i tuoi, credimi, è sicuramente peggio, i tuoi discorsi proprio non riesco a seguirli.

«Così ci fai solo perdere tempo. Scrivi: C, E, A, C, B, D, F.»

Come fai ad essere sicura? Hai buttato a caso?

«Certo che no! Sono roba da bambini di sette anni.»

Sei tutta matta tu.

«Guarda che non sono io quella che sente voci nella testa.»

Una sola.

«Scrivi!»

Sbuffò e si fece dettare di nuovo le lettere.

Poi si lasciò dire anche i rimanenti a risposta aperta.

Consegnò dopo tre quarti d'ora dalla consegna, a dispetto delle due ore e mezza messe a disposizione.

La professoressa la fissò come fosse matta e lei si trovò d'accordo.

«Guarda che non sei matta.»

Ha parlato quella che sta bene.

Uscì dall'aula sentendosi stanchissima.

Non riusciva ancora a credere che quella donna li avesse costretti a trattenersi a scuola anche dopo il pranzo.

Dall'ascensore uscirono due ragazzi.

«Ehi come ti butta Pam?»

Ringhiò.

Nel vero senso della parola.

E rimase pietrificata.

E da quando ringhiava?

«Scusa è colpa mia, è stato istintivo quando ho sentito la tua rabbia. Cos'hai di male il nome Pam?»

Nulla, ma è il loro modo di prendermi in giro.

«Perché?»

Pam Fujiwara era un'attrice molto famosa e anche una donna bellissima. È un modo per dirmi che sono particolarmente brutta.

«E perché tirano in ballo questa qui?»

Perché anche io sono una Fujiwara.

«Davvero?»

La figlia del fratello minore, fratellastro in realtà. Ma questo non lo sa nessuno quindi non andarlo a dire in giro.

«Tranquilla, non vado da nessuna parte senza il tuo controllo.»

Molto incoraggiante. Comunque, per concludere il discorso, visto che non ho voluto dire a nessuno come sono davvero imparentata con quell'attrice e, visto che lei ad un certo punto è sparita nel nulla, si sono fatti strane idee.

«Forte.»

Forte un corno.

«Guarda che non sei così male.»

Si voltò verso lo specchio dell'ascensore.

I capelli biondi erano chiusi in una cosa bassa infilata sotto il giacchetto.

Il viso era tempestato di lentiggini chiare che, sotto i vestiti, invadevano anche il resto del corpo.

L'unica cosa di se stessa che trovava bella erano gli occhi. Che poi erano l'unica cosa che veramente ricordavano l'attrice. Il taglio era leggermente diverso, forse più aggraziato, ma il colore era proprio lo stesso.

Purtroppo il resto del corpo non era all'altezza.

Portava un lupetto scuro molto largo che nascondeva la maggior parte delle forme e che scendeva dritto anche sugli anonimi jeans.

«Non sei così male.»

Guarda che li sento i tuoi pensieri che dicono il contrario.

«Uffa! È solo che non ti valorizzi.»

Ma fammi il piacere! Non sarei al pari della mia prozia neanche se mi vestisse il miglior stilista del mondo.

«Che scemenza, stare qui a parlare di vestiti mentre il mondo è in pericolo.»

Ecco, ora sono impazzita davvero. Ci mancavano solo i pensieri apocalittici.

«Guarda che»

Taci!

«Non potrei neanche se lo volessi! Non posso smettere di pensare.»

Si incamminò a passo di carica verso casa sua.

Non mi importa, taci ugualmente.

Spalancò la porta di casa e lanciò lo zaino sul pavimento, con rabbia.

Si gettò sotto una doccia gelata.

Non ce la faceva più.

Purtroppo né l'acqua calda né quella fredda riuscirono a sciogliere i suoi neuroni come fecero con il resto del corpo.

La voce nella sua testa rimaneva in silenzio, ma lei continuava a percepirne la presenza come qualcosa di estraneo.

«Come ti chiami?»

Isabelle.

«C'è una cosa che dobbiamo fare Isabelle.»

 

«Aspetta un attimo.» lo fermò Oro.

«Se questo Mark Aoyama è ancora vivo da qualche parte, allora potrebbe aiutarci, potrebbe dirci cos'è successo... dopo. E potrebbe dirci che fine hanno fatto le MewMew.»

Mr Evans lo guardò dritto negli occhi e annuì sicuro.

«È incredibile, dobbiamo dirlo agli altri prima che riparino l'astronave e ripartano.»

«Riparino l'astronave e ripartano? Così presto? Com'è possibile?»

Oro lo studiò confuso.

Conosceva anche le condizioni dell'astronave?

«Hanno trovato il materiale.» rispose rimanendo sul vago.

L'uomo sembrò ricordarsi improvvisamente di qualcosa.

«La cantina del Caffè MewMew?»

Oro si scambiò uno sguardo con Caos, seduto dall'altra parte del tavolo.

Non rispose alla domanda, ma Mr Evans non sembrava attendere una risposta.

Aisha e Sharlot erano sedute sul letto accanto ad Arlene.

Era molto stanca, ma lucida.

«Continua a crescere.» disse mettendosi una mano sul pancione.

Malgrado tutto non poteva sopprimere il suo nuovo istinto materno e ormai si era affezionata al bambino.

«Cosa farete quanto nascerà? Ormai non dovrebbe mancare molto.» osservò Aisha.

Arlene annuì facendo oscillare i capelli biondi.

«Lo so, lo sappiamo. Non possiamo rivolgerci ad un ospedale rischiando di far scoprire che il bambino è... diverso. Io... non lo so, è successo tutto così in fretta. Speravamo che voi potreste aiutarci.»

Le due sorelle si guardarono.

«Un medico che sorvoli su tutto queste stranezze?» Aisha era fortemente dubbiosa.

«Aspetta!» si illuminò invece Sharlot «Silver! Lui è un medico.»

«È vero ma... i bambini di cui si è occupato sono “nati” in laboratorio, se la saprà cavare con un parto?»

«Tentar non nuoce.»

 

Si sedette ai comandi prendendo un lungo respiro.

«Cosa c'è?» chiese Aprilynne, e subito se ne pentì, intuendo la risposta.

«Avremo un pilota di meno per il viaggio di ritorno.» disse Silver abbassando lo sguardo.

Aprilynne allungò la mano fino a stringere il braccio del ragazzo e lui le sorrise debolmente.

«Io posso aiutarvi.» propose Abigal che condivideva la sedia con la verde.

«Tu?» fece Silver scettico «Ma se non sai neanche pilotare!»

«Imparo in fretta.»

Silver era ancora fortemente dubbioso.

«Cosa c'è?» lo incalzò Abigal, piccata, «Temi che io non ne sia capace? Oppure è una cosa che vale per tutti noi creati in laboratorio?»

«Smettila.» tentò di tagliare corto il ragazzo.

«Oppure temi che il mio stato emotivo sia troppo precario per una tale responsabilità?»

Gli occhi blu di Silver ebbero un guizzo involontario.

Gli stessi occhi blu di Abigal si accesero. «Beh, perché se è così potrei dire lo stesso di te.»

Il ragazzo dovette arrendersi sotto la mesta risata di Kathleen, seduta in braccio a Catron alle sua spalle.

«Anche io posso imparare e sono sicura che tu sia il miglior insegnate in circolazione.» aggiunse poi, ricomponendosi.

Silver sospirò. O forse sbuffò.

«D'accordo, ma se è così chiamate anche Psiche.»

«Allora anche Ethan e Riley» suggerì Aprilynne «Hanno 17 anni in fondo.»

«Riley li compirà il mese prossimo.» precisò Silver.

«Poco importa, più gente sa pilotare meglio è. Chiaramente ci alterneremo noi, ma in caso di emergenza potrebbero tornare utili.» Catron spalleggiò la sorella.»

«Anche Faith compirà 17 anni il mese prossimo.» puntualizzò Abigal.

«Ehi, non esagerate!» Scattò Silver «Vada per Ethan e Riley, ma Faith no e tanto meno Fosfor e Electra che hanno 16 e 15 anni, e poi loro sanno già pilotare gli sgusci.»

«Affare fatto.» concordò Aprilynne e Abigal si alzò subito per andare a chiamare i ragazzi.

Silver tenne lo sguardo basso.

«Cos'altro c'è?» gli domandò Catron abbassando la voce.

«Anche se abbiamo aggiustato l'astronave e riuscissimo a ripartire non andremmo molto lontano.»

«Perché?» fece Kathleen allarmata «Non c'è carburante?»

«Non è esatto. Quest'astronave non va con il carburante normale, ha bisogno di una diversa fonte di energia. Su Arret compravo al mercato nero dei globi.»

«Globi?» ripeté Kathleen.

«Sono delle specie di sacche più o meno sferiche di un particolarissimo tipo di plastica che contengono l'energia che serve a far funzionare l'astronave. È una specie di concentrato di vento solare. Sulla terra forse c'è ma è impossibile servirsene, specialmente se il pianeta è così degradato.»

Psiche si materializzò nella sala comandi.

«Questo vuol dire... che siamo ancora bloccati qui?» sbottò Aprilynne e la voce le si strozzò in gola mentre faceva del suo meglio per trattenere le lacrime.

«April, calmati, siamo tutti agitati, non...»

Aprilynne scattò in piedi.

«No! Non dirmi di calmarmi! Tu non la senti!»

Catron, come gli altri, non poté nascondere la sorpresa.

Si alzò in piedi senza però lasciare Kathleen.

«Cosa? Cosa non sento?»

«La sua voce... le sue suppliche. Sta morendo e io sono l'unica stupida che sembra sentirla!»

«Chi?» chiese Psiche che stava ancora ricomponendo i pezzi della conversazione che si era persa.

Sorprendentemente fu Catron a rispondere.

«La Terra.» disse in un sussurro appena udibile.

Aprilynne si voltò verso di lui con gli occhi spalancati.

«Anche tu?»

Catron si prese una lunga pausa prima di rispondere.

«Solo qualche volta, lo sogno.»

«Siete sicuri di stare bene?» chiese Kathleen passando lo sguardo da un fratello all'altro.

Aprilynne alzò un sopracciglio, seriamente dubbiosa e stava per dire qualcosa quando la porta si aprì e ne entrarono Abigal seguita da Riley e, a diversi passi di distanza, da Ethan.

«È vero che volete insegnarci a pilotare o era solo uno scherzo per farci venire qui?» chiese Riley, chiaramente al settimo cielo.

«Non era uno scherzo.» lo rassicurò Silver riuscendo a sorridere.

Riley gli saltò letteralmente al collo.

«Lo sapevo che non eri solo un'egoista!» l'istante dopo gli venne il singhiozzo.

Arretrò di un paio di passi.

«..ehm... senza offesa, ...volevo solo dire che pilotare è quello che avevo sempre desiderato.»

Psiche e Kathleen soffocarono una risata.

Silver si costrinse ad alzare gli occhi al cielo e far finta di niente.

«Prima cominciamo e meglio è.» disse, più a se stesso che agli altri. «Aprilynne, Catron, datemi una mano.»

Ma i due fratelli non lo stavano ascoltando.

Entrambi fissavano Ethan come ipnotizzati e lui spostava lo sguardo agitato da uno all'altra.

Quasi non riuscivano a distogliere lo sguardo.

«Ragazzi, si può sapere cosa avete da guardare?» fece Ethan a disagio e sempre più agitato.

Kathleen si avvicinò a Catron e gli strinse la mano.

Lui si girò all'improvviso, come distratto da quel contatto.

Aprilynne invece si avvicinò ad Ethan continuando a fissarlo.

«Cos'è?» la sua voce era un sussurro.

«Cosa?» fece il ragazzo, confuso.

«Quello.» l'indice di Aprilynne sfiorava il suo petto.

Ethan indietreggiò, ma Aprilynne si avvicinò di nuovo.

Il suo dito si illuminò come fosse fosforescente, seguito dalla mano e da qualcosa sotto la maglietta di Ethan.

Solo a quel punto il ragazzo sembrò capire.

Si sfilò una specie di ciondolo con appeso qualcosa che brillava.

«La luccioletta!» fece Riley, come fosse il suo giocattolo preferito.

 

Sharlot salutò Kathleen e poi chiuse la chiamata.

«Silver sa qui a breve.»

«Per breve quanto intende?» chiese Caos che giocherellava con della paglia.

«Vuol dire subito.» rispose la voce di Silver alle sue spalle. «Allora, avete interrotto la mia lezione di pilotaggio, quindi si può sapere cosa succede?»

«Credo di essere io il problema.» disse Arlene, seduta sul bordo del letto, mettendo da parte la coperta che teneva sulle gambe.

Silver si guardò intorno senza capire.

Ai suoi occhi quella era una normale donna al nono mese di gravidanza.

E non aveva senso che quei quattro l'avessero portato lì per una cosa del genere.

«So che sembra difficile credere, ma ha solo un mese.» disse la donna portandosi una mano sulla pancia.

«Come...»

«Beh, non è la sola cosa che dovresti sapere.»

 

Caliane si prese il mento tra le mani e cominciò a tamburellarsi il labbro con le unghie.

Odiava le procedure burocratiche, ma di certo non poteva evitarle.

«Io non capisco.» insistette una donna.

Profondo Blu alzò gli occhi al cielo, ma le fece segno di parlare.

«Prima ci dite che la Terra potrebbe rappresentare una minaccia e proponete di mandare una squadra ad eliminare il problema, nonostante ciò che è successo in passato, e subito dopo ci dite di non correre e di aspettare.»

Profondo Blu, più serio di quanto Caliane si aspettasse, studiò a lungo la donna.

«È vero.» confermò «Ho detto questo. Perché dobbiamo pazientare ancora quattro cinque giorni.»

«Perché?» questa volta a parlare fu il Cavaliere Blu, seduto tra Caliane e Profondo Blu, che però stava in piedi intorno al tavolo.

«Perché ci servono cinque giorni per ottenere il più potente e prezioso alleato che possiamo desiderare, anche se poi servirà altro tempo perché raggiunga l'età giusta.»

«Spiegatevi.» lo incitò di nuovo la donna, l'unica dei sette potenti del pianeta.

«Dobbiamo aspettare la sua nascita. Che avverrà tra cinque giorni.»

«Nascita?» il Cavaliere, come tutti, era sorpreso.

Profondo Blu annuì.

«Ho fatto delle... ricerche. Ho scoperto che eventuali ibridi tra arrettiani e terrestri sarebbero la specie più potente che l'universo possa conoscere.» evitò accuratamente di parlare come se già esistessero altri ibridi, rimase sul vago e sul teorico. «Se poi umano e arrettiano hanno un DNA particolare» e anche stavolta si mantenne sul vago «sarebbe davvero qualcosa di incredibile. Se poi l'arrettiano ha determinati poteri...»

«Stai parlando di te.» quella di Caliane non era né una domanda né un'affermazione. Lei era solo la guardia del corpo del Cavaliere Blu, non avrebbe mai avuto diritto alla parola.

Visto che né Profondo Blu né il Cavaliere le dissero qualcosa, però, tutti gli altri si guardarono bene dall'intervenire. Erano già abbastanza a disagio per l'imprevista, ma non del tutto sgradita, ricomparsa di Profondo Blu, non volevano certo metterselo contro.

«Esattamente.» rispose l'alieno «Sto parlando di mio figlio. Mio e di un'umana. La loro specie si è ridotta a poche migliaia di individui, mi è stato difficilissimo trovarne una con il DNA adatto.»

«E noi dovremmo aspettare che nasca e che cresca?» replicò il ragazzo biondo, visibilmente contrariato.

«Certo che no. Gli ho fatto un incantesimo. La sua crescita segue i ritmi che decido io. Quando raggiungerà l'età adatta la rallenterò in modo che duri il più a lungo possibile. Ecco perché la spedizione deve partire tra cinque giorni. Una volta nato qualcuno dovrà semplicemente andare lì, prenderlo alla madre, e portarlo qui.»

«E chi vorreste mandare su quel pianeta sperduto?» chiese un uomo con gli occhi rosso sangue.

Profondo Blu ci pensò, poi si voltò verso il Cavaliere.

«Cosa pensi che sarebbe in grado di fare la tua amica?» chiese spostando lo sguardo su Caliane.

«Penso che... farebbe il suo lavoro.»

Ma non ci credeva neanche lui.

Se Caliane fosse stata mandata sulla Terra avrebbe annientato la specie umana.

 

«Cosa c'è Silver?» lo incitò Marcus. «Qualcosa non va?»

«Il bambino sta bene, si direbbe sano e forte, ma è cresciuto troppo in fretta e non ha avuto tempo o modo di mettersi nel modo giusto.»

«Questo che vuol dire?» chiese Arlene rimettendosi seduta.

Silver la guardò negli occhi.

«Che anche quando arriverà il momento della nascita, e stiamo parlando di giorni, sarà necessario un cesario.»

Calò il silenzio.

«Ne sei sicuro?» chiese Oro avvicinandoglisi.

«Più che sicuro.» confermò il ragazzo.

«Accidenti.» commentò Marcus.

«Ma il bambino a che punto è?» chiese Aisha alzandosi dal tavolo intorno al quale Sharlot e Caos stavano dando fondo ai biscotti che avevano offerto loro.

«Che vuoi dire?»

«Mi chiedevo se fosse completamente formato.»

«Ne sono abbastanza sicuro. Certo, direi.»

«E tu sei in grado di fare un cesario?» fu Arlene stessa a chiederlo.

Negli occhi di Silver si lesse tutta l'agitazione.

«Io... ho fatto diversissime operazioni, tutte andate a buon esito, ma mai un cesario. Non so se...»

«Ne sarai perfettamente in grado.» la rassicurò Marcus. «Non ci sono prerequisiti migliori dell'esperienza.»

«Sì, ma... insomma tutto ciò che so me l'ha insegnato mio padre, non ho mai seguito nessun tipo di scuola e...»

«Silver.»

Il ragazzo guardò l'uomo negli occhi.

«Sincerità e modestia ti fanno onore, ma davvero credi che potremmo rivolgerci a qualcun altro?»

«No.»

Marcus si voltò verso Arlene che, seppur timidamente, sorrise.

«Davvero ti fidi di...» fece Oro.

«Mi fido di Marcus. E se lui si fida di te Silver, allora posso farlo anch'io. E poi l'hai detto tu, è questione di giorni e dovrà comunque essere un cesario.»

«Mi stai dicendo che... dovrei farlo subito.»

Arlene strinse forte la mano di Marcus, ma annuì. «Prima che cambi idea almeno.»

Silver fece un profondo respiro.

«D'accordo. Ma vi porto nell'astronave e mi serve qualcuno che mi aiuti. Di solito lo faceva Raylene, ma...»

si voltò verso Oro, ma lui scosse la testa.

«Io non sono la persona giusta, sono sicuro che Caos ne sarà molto più entusiasta.» e indicò il fratello che sollevò lo sguardo mentre un sorriso enorme gli si dipingeva sul volto.

«Magari!» esclamò.

«E posso fidarmi?» chiese il blu.

«Garantisco io.» lo rassicurò Oro.

L'alieno annuì. «Affare fatto allora.»

«Aspetta.» fece Marcus. «Perché non può aiutarti tua sorella?»

I ragazzi lo fissarono sorpresi. Era incredibile che sapesse tanto di loro, ma a quel punto li stupiva di più che quel “particolare” gli fosse sfuggito.

«Raylene...» Silver non riuscì a finire la frase e dovette distogliere lo sguardo perché gli altri non notassero i suoi occhi lucidi.

«Quando?» chiese l'uomo, gli occhi spalancati.

«Giorni fa.» fu Aisha a rispondere.

«No, aspetta. È Evelyn quella che è morta.»

«Lo sono entrambe.» fu di nuovo Aisha a parlare.

Macus non ribatté, ma qualcosa lo turbava.

 

«Fatto!» annunciò Catron uscendo con la sorella dalla sala macchine. «Silver aveva ragione, quella strana pietra può dare energia a tutta l'astronave. E credo anche che durerà molto più a lungo di qualsiasi globulo.»

«Se lo sapevo ve lo dicevo prima.» borbottò Ethan non troppo convinto.

«Ancora non ho capito dove lo avete trovato.» commentò Aprilynne.

Riley fece per dire qualcosa, ma poi ci ripensò.

«L'importante è che funziona.» tagliò corto Catron.

«Funziona benissimo.» confermò Aprilynne, poi si portò le mani alle tempie. «Voci a parte.»

«Ignorale.» le consigliò il fratello mettendole una mano sulla spalla, ma lui stesso sapeva che non era facile.

Psiche si materializzò nella stanza: i capelli completamente spettinati, ma il viso ormai sveglio.

«Ragazzi non ci crederete mai!»

«A cosa non dovremmo credere?» la incalzò Kathleen.

«A chi c'è di sopra.»

«mmm» fece Abigal «dev'essere qualcuno di interessante.»

 

Silver prese un lungo e profondo respiro.

«È tutto pronto.» disse, più a se stesso che agli altri. «L'anestetico farà effetto tra poco.»

«Anestesia locale?» domandò Marcus.

«Così ha voluto lei.»

Calò un silenzio teso.

Caos camminava per la stanza, agitato. Il grosso lo avrebbe fatto Silver, lui avrebbe solo dovuto dargli una mano.

«Cosa c'è, Silver?» la voce di Marcus era bassa e lontana, antica.

«Stavo solo pensando... quel bambino è... un ibrido, il primo.»

L'uomo gli mise una mano sulla spalla.

«Silver guardami negli occhi.» il ragazzo obbedì. «So che non è il momento migliore per dirtelo, ma...» non sapeva da dove cominciare «sì, il bambino sarà un ibrido, ma di certo non il primo.»

«Come? Ce ne sono altri?» i terrestri erano sorpresi quanto lui.

Marcus non distolse lo sguardo da Silver.

«Silver, tu e gli altri Ikisatashi siete tutti ibridi.»

«Che stai dicendo?»

«La verità.»

«E come lo sai?»

Sharlot, dal suo posto, azzardò l'unica ipotesi che ritenne possibile.

«Te l'ha detto Mark Aoyama? L'hai conosciuto allora?»

«Lo so perché...»

Tutti aspettarono in silenzio che finisse.

«Io sono Mark Aoyama.»

 

«New! Che ci fai in camera mia?» sobbalzò Nevery entrando nella stanza.

«Quel cristallo potrebbe durare troppo poco.»

«Come? Quale cristallo? Di che stai parlando?»

«Vieni con me, ti spiego tutto lungo il tragitto.»

«Tragitto? Dove andiamo?»

«Dobbiamo trovarne altri. Andiamo sulla Terra.»

«Tu devi essere matta. Ricordi com'è finita l'ultima volta?»

«Già, ma stavolta non c'è nessuno in pericolo. Dai, andiamo a torniamo, non se ne accorgerà nessuno.»

«E va bene.» sbuffò «Devo smetterla di farmi sempre convincere da te.»

«Smetti il più tardi possibile allora.»

New e Nevery si presero per mano e si smaterializzarono.

Ancora non immaginavano neanche cosa stava per succedere.

 

Era davvero piccolissimo.

Stava in una mano.

Quelle di Silver tremavano mentre lo soppesava.

Aveva un voluminoso ciuffo biondo umido e spettinato.

Teneva gli occhi serrati e quando aprì la bocca minuscola strillò con una voce acutissima.

Sentì Arlene cercare di spostarsi.

Silver diede il bambino a Caos, che da dieci minuti ripeteva ad alta voce cosa doveva fare come fosse una poesia.

Silver si impose di nuovo mano ferma e si affrettò a concludere il lavoro.

Il tempo volò mentre si costringeva a rimanere concentrato e non pensare.

Non pesare a quello che gli aveva detto quell'uomo.

Chi era questo Mark?

Oro non aveva avuto il tempo di spiegarglielo per bene e il poco che aveva capito non aveva senso.

Ibridi.

Quella parola gli rimbombava nella testa.

Possibile che loro fossero degli ibridi?

Era questo il motivo di tutte quelle loro... stranezze?

No, non era il momento di pensarci.

Ripulì il taglio ormai ricucito alla base della pancia di Arlene che lo guardava, vigile e in silenzio.

Il bambino strillava ancora, sembrava non trovare pace.

Caos era stato bravissimo. Più di quanto si aspettasse.

«Così dovrebbe andare.» disse, tanto per spezzare il silenzio.

«Sei il miglior chirurgo che esista.» commentò Arlene.

«Dici questo perché hai già avuto esperienza con dei cesari?»

Rise «No, ovviamente no.»

Bussarono.

«Si può?» chiese la voce di Marcus, … di Mark.

«Un momento.» rispose Silver recuperano tutti gli strumenti e mettendoli via, avrebbe dovuto sterilizzarli di nuovo.

Caos aveva ripulito il bambino ancora urlante e gli stava facendo i controllo che Silver gli aveva illustrato. Sembrava così paterno.

Silver andò ad aprire la porta comunicante con la stanza accanto.

Mark entrò subito.

«Sarà meglio spostarti nell'altra stanza.» disse Silver rivolto ad Arlene e lei annuì.

Il blu si voltò verso Mark. «Portala subito di là, prima che l'anestetico smetta di fare effetto.»

L'uomo annuì prese Arlene in braccio.

«Come stai?»

«Non lo so.»

«È stata bravissima.» li rassicurò Silver. «Vi portiamo subito il bambino.»

Mark sparì nella stanza accanto con Arlene tra le braccia.

«Hai fatto, Caos?»

«Sì. È tutto perfetto. Ha una voce acutissima.»

«Lo sento.»

Silver prese il bambino ora infagottato tra le braccia.

Lo studiò a lungo.

Alzò lo sguardo su Caos.

«Portala a sua madre, prima che la sentano persino sulla terra.»

Quando entrò nella stanza accanto e incontrò lo sguardo di Mark, Silver non seppe come interpretarlo. Vi si leggevano così tante emozioni diverse da lasciare spiazzati.

Decise di concentrarsi su Arlene che subito tese le braccia.

«È una bambina.» annunciò Silver dandola alla madre.

Subito la piccola smise di piangere, come se sapesse esattamente chi era la donna.

Arlene le accarezzò il viso, disegnando il contorno delle piccole orecchie a punta, l'unico segno che indicava quando fosse speciale.

Per la prima volta, molto lentamente, aprì gli occhi.

Erano di un azzurro abbagliante, vivo.

«Da noi,» disse cauto Silver «si usa che i genitori sussurrino all'orecchio del bambino il suo nome.»

Arlene guardò a lungo la bambina.

Poi, con estrema cautela e con fare materno, avvicinò al suo minuscolo orecchio le labbra, da cui uscì un sussurro dolce e soffice.

«Azzurra.»



Mi scuso tantissimo per il ritardo, ma ho avuto problemi con il computer e probabilmente ne avrò ancora. :(
Dal prossimo capitolo torniamo all'azione, intanto ditemi cosa pensate di questo. Ho frammentato un po' le scene per dare un effetto di continuità, tipo nei film, spero che non risulti confuso. per favore.
A presto, un abbraccio e voi cinque che mi seguite,
Artemide12

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Capitolo 16
*** Le MewMew ***


Le MewMew

 

«Mark, no! Non se ne parla nemmeno!» stava praticamente ringhiando la rossa.

Lei incrociò le braccia al petto e si appoggiò alla parete.

Non sembravano passati tanti anni.

La rossa strinse in telefono e, mentre ascoltava più o meno pazientemente, sollevò lo sguardo e lo fece scorrere su tutti i presenti.

«Mark, ascoltami, tu potresti anche non avere problemi e nemmeno loro. Ma pensa a noi! Se ci coinvolgi non potremmo più uscirne, ma ora come ora non possiamo intervenire, ci serve tempo per...» fu interrotta dall'interlocutore dall'altra parte del telefono.

Dopo poco riattaccò.

«Allora?» chiese subito lui.

«Sta venendo qui.»

«Ma è pazzo?»

«Dice che prima o poi saremmo dovuti per forza tornare in azione.»

«Per me è pazzo lo stesso.» ribatté lui, ma sul suo viso si leggeva già l'eccitazione e lo spirito d'avventura.

Era arrivato il momento di tornare in azione.

 

«Dai, queste bastano.» insistette Nevery rigirandosi tra le mani le numerose acque-cristallo. «Se pensavano di poter andare avanti con una sola possono farcela anche con altre... undici!»

«Non lo so, non conosco questa forma di energia.» disse svogliatamente New, guardandosi intorno.

«New, lasciatelo dire, sei una pessima attrice. Su, perché siamo venuti qui? Cosa c'è?»

New indugiava.

«Senti, mancano solo due ore alle otto di mattina e io crollerò addormentato, volente o nolente.»

«Lo so, lo so. Solo che...»

«Un'altra delle voci

«Sì, no. È una sensazione. Cioè, è una voce, ma non sta chiamando me, sta parlando con qualcun altro.»

«Avanti, New, ora ti preoccupi anche delle voci nella testa degli altri?»

«Questa è diversa Nevery, è...» si guardò intorno, voltando la testa di scatto, «sparita. È sparita. No, eccola.»

Ipnotizzata, o in trance, la ragazza fissò un punto imprecisato verso l'orizzonte, dove il sole stava sorgendo. Verso l'oceano.

«Sono due.»

«Wow, allora sono in buona compagnia, forza andiamo.»

New lo afferrò per il braccio. «Forza, corri.» dicendo questo si alzò in volo portandosi dietro l'amico.

Prima di quanto ritenessero possibile si trovarono sullo strapiombo di una scogliera.

«Che posto è questo?»

New non lo ascoltava. Posò le mani a terra e si sporse in avanti.

La marea stava salendo.

«Viene da qui? La voce.»

Gli occhi di New si fecero vacui e opachi.

«Non sento più niente. Solo un attimo fa...»

Si voltò di scatto, come se l'avessero chiamata.

Dietro di loro c'era una ragazza piena di lentiggini che li fissava confusa. Teneva i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo e aveva gli occhi di un blu elettrico con sfumature viola.

Nevery si alzò in piedi lentamente consapevole di quanto dovessero apparire strani ai suoi occhi.

«Ciao.» fu tutto ciò che trovò da dire.

«Tu...» indugiò la ragazza «..ti chiami... Nevery

Il bambino scambiò uno sguardo con New che scosse la testa.

«E tu... tu New?»

«E tu chi sei?»

La ragazza si guardava intorno a disagio, e profondamente turbata.

«Isabelle. Isabelle Fujiwara.»

New sorrise, più o meno.

«È strano incontrare qualcuno fuori dai grattacieli.»

«Io... sto cercando...» si morse la lingua «Voi...»

«Siamo alieni.» confermò New e la ragazza trasalì. «E io posso leggerti nel pensiero, ma solo se voglio.»

«Non farlo!» disse d'istinto «Per favore.» aggiunse.

New annuì.

«Io...» fece per dire qualcosa, ma poi si voltò di scatto, esasperata «sto impazzendo. Sto impazzendo. Loro non ci sono. Gli alieni non esistono e... no! Non esisti neanche tu! Stai zitta!»

«Con chi parli?» fece Nevery, mentre sentiva il sonno avvicinarsi.

«Con nessuno, voi non ci siete!»

«No, Isabelle, siamo reali, siamo veri alieni.»

«Voi...» il caos regnava dietro gli occhi di Isabelle.

E per un attimo quegli occhi ebbero un vero e proprio lampo viola.

New sussultò e fece un passo indietro.

Il suo corpo si afflosciò, ma la tuta modificata la sostenne.

Poco dopo scattò in piedi.

«Non è possibile! Nevery muoviti!»

Si avvicinò correndo incontro a Isabelle e le strinse il braccio, poi si teletrasportò sull'astronave.

«Allelujia! Dove eravate finiti?» li accolse in malo modo Aprilynne, poi notò la ragazza umana.

«E tu chi sei?»

«Isabelle Fujiwara.»

«Fujiwara?» ripeté allibito Oro, l'unica altra persona nella stanza.

Aprilynne lo fissò alzando un sopracciglio.

«Come Pam Fujiwara?»

La ragazza alzò gli occhi al cielo. «Sì, come lei.»

«Pam, la MewMew.»

Isabelle lo fissò intensamente.

Lui si sentì scoperto, come se gli stessero guardando nel profondo dell'anima.

«Tu...» aggrottò le sopracciglia «ti chiami Oro?»

«Come lo sai?»

Isabelle si prese la testa tra le mani. «No! Basta, ti prego, basta! Stai zitta!»

«Me che le prende?» chiese Aprilynne.

«Non ci crederete mai.» rispose New. «In lei c'è Raylene.»

La fissarono come se fosse diventata verde.

«Se è uno scherzo è pessimo.» dichiarò Aprilynne.

«Te lo giuro! Chiedilo a lei.»

Ma Isabelle non sembrava d'accordo. «Voi siete tutti pazzi! Io sento voci nella testa e voi cosa fate? Mi date pure retta! Ma chi siete? Cosa volete da me?»

«Decollo tra dieci minuti.» annunciò la voce di Catron negli altoparlanti.

«Decollo?» ripeté Isabelle.

«New, accidenti, che diavolo ti è saltato in mente?» scattò Aprilynne. «Lì dentro non può esserci Raylene!»

«Ehi! Sono una persona, non una scatola!»

«Devo fermare Catron! Non possiamo portarla con noi.»

«No!» gridò Isabelle e l'attimo dopo si tappò la bocca con la mano, allibita.

Aprilynne la fissò dritta negli occhi.

«Cosa hai detto?»

«Io non ho detto niente.»

Ma ormai in Aprilynne si era riaccesa la speranza.

Quella non era la sua voce, e quello non era il suo corpo.

Ma quello era il suo tono deciso e irremovibile. Era la sua forza di volontà.

Si rivolse a New.

«Com'è possibile?»

La ragazzina scosse la testa. «So solo che la forza vitale di Raylene è dentro di lei.»

«Cos'è una forza vitale?» chiese Isabelle.

Nevery crollò a terra e la ragazza fece per strillare, ma una parte di lei non si scompose affatto.

«Ok.» fece Aprilynne cercando di riordinare i pensieri. «Ma sarà meglio non dirlo agli altri, sopratutto a Silver, finché non ci siamo allontanati dalla Terra.»

«Stai scherzando?» urlò Isabelle facendo per saltarle addosso.

New le comparve davanti inchiodandola con lo sguardo.

«Devi stare calma.» la sua voce echeggiò nella testa di Isabelle che non poté opporsi.

Si fermò.

Annuì poco convinta.

Si sedette sul letto di Aprilynne.

«Ok, fece la ragazza. Oro, tu e New trovate il modo di nasconderla, almeno per adesso. Io porto Nevery in sala comandi.»

«Non in camera sua?» chiese Oro, che era rimasto immobile a fissare la ragazza umana.

«Lui non ci dorme mai in camera sua.»

L'aliena prese il bambino in braccio e uscì.

Ai comandi c'erano Catron, Silver e, con grande sorpresa di tutti, Abigal.

C'era qualcosa di importante nel fatto che nel viaggio di ritorno ai comandi ci fosse una Connect che non fosse una Ikisatashi.

«Tutto bene?» chiese Abigal vedendo il viso di Aprilynne.

«Sì.» mentì lei «Nevery è praticamente svenuto, ci siamo spaventati.»

Lo sistemò nel suo solito mobiletto, poi si sedette in una postazione secondaria e allacciò la cintura.

«Ci siamo.» annunciò Silver voltandosi verso Abigal e incontrando il suo sguardo.

Ad Aprilynne non sfuggì il fatto che i loro occhi non fossero solo dello stesso colore, ma identici in tutto e per tutto.

Catron strinse la mano della sorella che ricambiò.

«Non si torna indietro.» dichiarò Silver.

«Nessuno di noi vuole tirarsi indietro.» rispose Abigal spostando lo sguardo di fronte a sé e azionando i comandi.

Aprilynne quasi stritolò il polso di Catron.

Se lei si sentiva stringere il cuore al pensiero di dover lasciare lì Raylene, nonostante fosse rinata la speranza, poteva solo immaginare come si sentissero Abigal e Silver.

Ma anche in questo erano più che simili, uguali: nascondere i propri sentimenti.

 

Il risveglio non fu dei migliori, anzi, decisamente dei peggiori.

Neanche il tempo di aprire gli occhi e subito di sentì scuotere violentemente.

«Ehi! Attenzione!» sentì lamentarsi suo padre.

Spalancò gli occhi dorati e si ritrovò con il viso a pochi centimetri da quello di un militare.

«Forza. In piedi Always Lyoko. Sei stato convocato in consiglio.» lo lasciò andare «Anche voi, Ian Gorgoyl.»

L'uomo-chimero balzò in piedi, evidentemente eccitato che stesse succedendo qualcosa di nuovo.

«Dove lo portate?» scattò suo padre.

«Stia calmo. È un'informazione riservata. Voi avete diritto a un'ora di incontro sorvegliato con vostra moglie. Vi sta già aspettando. Di sicuro si aspetta che abbiate trovato un buon avvocato.» il soldato sghignazzò e Felix si impose autocontrollo.

Il soldato spinse Nevery e Ian fuori dalla stanza.

La luce che entrava dalle finestre spalancate quasi li accecò.

Ad aspettarli c'era una ragazza dall'aria a dir poco letale.

Era armata di sole due pistole appese alla cintura, ma con gambe e braccia quasi interamente ricoperte di pugnali di svariate dimensioni.

La massa voluminosa di ricci nerissimi erano chiusi in una coda di cavallo e gli occhi viola fecero gelare loro il sangue nelle vene.

«Seguitemi.» ordinò per poi voltarsi e salire su un ascensore.

Il soldato non venne.

Scesero per un numero inverosimile di piani.

Le porte si aprirono su un lungo corridoio deserto illuminato solo da neon.

La ragazza proseguì spedita.

Passarono davanti ad un vetro lungo che dava su una specie di sala operatoria.

Nevery sobbalzò e dovette reprimere un grido.

Raylene, o almeno il suo corpo, era steso su un tavolo operatorio e stava rigido nella posa che hanno i corpi che sono stati per molto tempo senza forza vitale.

Aveva addosso solo uno striminzito vestito lilla tipo quelli ospedalieri.

«Che hai da guardare, ragazzino?» ringhiò la ragazza.

«Io?» Nevery sentiva il battito acceleratissimo del cuore e il sangue che pompava nelle orecchie. «Niente!»

Ma Caliane tornò sui suoi passi e per un attimo sembrò illuminarsi alla vista del corpo di Raylene, ma non disse nulla.

«Muovetevi.» ordinò fermandosi poi davanti ad una porta nera.

All'interno, dietro ad un piccolo tavolo rettangolare, stavano due alieni vestiti di blu.

Nevery si costrinse a rimanere calmo appena riconobbe Profondo Blu.

Ringraziò il fatto di aver dormito tutte le volte che l'uomo si era presentato sulla Terra.

Ian rimaneva in silenzio, ma muoveva la coda leonina nervosamente. Si passò le zampe tra la zazzera di capelli blu.

«Andremo subito al sodo.» disse il ragazzo biondo mentre Caliane si posizionava alla sua sinistra.

«Oggi stesso partirà una spedizione per la Terra.»

«Terra?» ripeté Ian «Cos'è?»

«Un pianeta molto distante da qui, appartiene al sistema solare.»

«E perché avete scelto noi?» chiese Nevery temendo la risposta.

«Questo non vi è dato saperlo.»

«Chi è il terzo?» domandò Ian. «Le spedizioni si fanno sempre in tre.»

«Io sono la terza.» annunciò Caliane e sia Nevery sia Ian si sentirono mancare. «Altre domande?»

«Questo vuol dire che non mi sopprimerete?» la voce di Ian era incerta.

«Non finché ti saprai rendere utile.» confermò il ragazzo biondo.

«E cosa ci andiamo a fare lì giù?» continuò l'uomo-chimero.

«Cerchiamo dei ribelli in fuga.»

«E ci saranno alieni?»

«Sì, ma sono pochi e non sanno di noi, quindi non saranno un problema.»

Ian fece un bel respiro e annuì.

Sulle sue labbra si dipinse un accenno di sorriso.

Gli occhi glaciali di Profondo Blu fissarono su quelli dorati di Nevery.

«Ad una condizione.»

Tutti e tre lo fulminarono con lo sguardo.

«Non sei nella posizione di dettare condizioni.» sibilò Profondo Blu.

«Ci avete ripescati da quella gattabuia, vuol dire che vi serviamo noi. E nessun altro.»

«Ringrazia che sei ancora vivo, moccioso, avremmo potuto ucciderti in qualsiasi momento.» ringhiò il Cavaliere Blu.

Stava per aggiungere altri insulti, ma Caliane lo zittì con un gesto.

«Sentiamo la tua condizione, e poi decideremo se vale la pena di accettarla.»

«La mia mamma.»

«Scordati che la rilasciamo.» tagliò corto la donna.

«Non ho detto questo. Voglio solo che ritardiate il processo.»

«A quando?» chiese Profondo Blu precedendo il ragazzo alla sua destra.

«Fin quando saprò rendermi utile. Processatela, e uccidetela perché so che lo farete, e non avrete mai nulla da me.»

«E scommetto che questo vale anche per tuo padre.» fece Caliane.

Nevery già temeva di aver chiesto troppo. «Solo per la sua vita, non pretendo che lo rilasciate.»

«Non se ne parla.» dichiarò il Cavaliere Blu.

«Va bene invece.» lo contraddisse Caliane.

«COSA?»

«È un bambino! Quale modo migliore di averlo in pugno che controllare i suoi genitori.»

«Dopo tutto il tempo che ci abbiamo messo a trovare quella donna non...»

«Sono io che l'accuso. Senza accusa non c'è processo.»

Il Cavaliere si voltò verso Profondo Blu.

Lui distolse finalmente lo sguardo da Nevery.

«Io dico che il ragazzino è furbo. E credo che Caliane abbia ragione. Ormai abbiamo quella donna, non può andare da nessuna parte.»

Nevery quasi svenne per il sollievo.

Ian gli fece di nascosto l'occhiolino.

I cinque uscirono dalla stanza, Profondo Blu e il Cavaliere davanti e Caliane che chiudeva la fila.

Si fermarono davanti agli ascensori.

«Voi due venite con me, bisogna comunicare che la missione è pronta.»

Ian e Nevery si fermarono dietro di lui, mentre il Cavaliere e Caliane salivano su un ascensore appena arrivato.

Rimasero immobili e composti finché le porte non si chiusero.

A quel punto si saltarono praticamente addosso a vicenda.

I loro corpi non facevano che avvicinarsi, come pezzi di un puzzle che cercano la combinazione giusta per incastrarsi.

Lui infilò le mani sotto la maglietta di lei risalendole poi la schiena e facendola rabbrividire.

Lei gli stava già slacciando l'uniforme blu indugiando sui suoi pettorali.

Le loro labbra si cercavano voraci, separandosi appena per riprendere fiato.

Prima ancora di arrivare al piano giusto si teletrasportarono altrove.

Nessuno li vide.

Ma a Profondo Blu non sfuggiva nulla.

Un'ombra attraversò per un attimo il suo volto.

E mentre già spariva, nella sua mente si formulava un nome, più dolorosamente del previsto.

Victoria.

È solo questione di tempo.

 

Alzò lo sguardo sul finestrino.

Ormai erano usciti dall'atmosfera.

Arlene si era addormentata tra le sue braccia con la bambina stretta al petto.

Azzurra lo fissava perfettamente sveglia con i suoi occhioni color cielo e abbozzava sorrisi scomposti, ma tenerissimi.

Era impossibile credere che fosse figlia di quel mostro.

Il ciuffo biondo insolitamente voluminoso si confondeva con le onde altrettanto chiare che erano sfuggite alla coda di Arlene.

Mark le poggiò le labbra sulla fronte, poi si alzò con cautela, attento a non svegliarla.

La bimba lo seguì con lo sguardo.

Rabbia e felicità si fondevano in una strana miscela.

Ci aveva messo tempo a dimenticare Strawberry, per quanto lontani sembrassero ora quegli anni.

Alla fine se n'era fatto una ragione. E vederla tanto felice con Ghish non riusciva proprio a farlo stare male.

Era stato pronto a rifarsi una vita.

Ma poi era tornato lui. Profondo Blu.

E il mondo gli si era rovesciato addosso.

Quando si era ritrovato davanti al Cavaliere Blu, il suo alter-ego alieno, non aveva voluto credere ai suoi occhi. E lui gli aveva rivelato quella terribile maledizione.

L'acqua-cristallo aveva diviso le loro tre forze vitali e pertanto li aveva indeboliti, ma finché tutti e tre vivevano erano tutti e tre immortali.

A lui non era mai sembrato bello. Aveva trovato subito il lato negativo: avrebbe visto morire tutti quelli che amava mentre lui sarebbe sopravvissuto.

La soluzione sarebbe stata non innamorarsi più.

Ma non era facile. Non per lui almeno.

Quando era finalmente riuscito a gettarsi il passato alle spalle e ad ambientarsi in un mondo che non era più il suo, aveva incontrato Arlene.

L'aveva conosciuta per caso, quando aveva già assunto la sua nuova identità.

La amava, e sapeva che prima o poi avrebbe dovuto dirle almeno una parte della verità su di sé, ma sposarla era fuori discussione.

Un matrimonio implicava, per legge, dei figli, e l'ultima cosa che voleva era sopravvivere anche ai propri figli.

Pensò ad Azzurra.

Ma sapeva bene che non sarebbe mai stata la stessa cosa.

Si fermò davanti ad una lunga vetrata che dava sullo spazio aperto.

Sapeva cosa stava per succedere, avrebbero aspettato di essere abbastanza lontani dalla Terra e poi sarebbero sfrecciati via ad una velocità superiore, seppur di poco, a quella della luce.

Ma quei ragazzi erano troppo giovani e ingenui, proprio come loro all'epoca.

Da soli non ce l'avrebbero mai fatta.

Avrebbe saputo raggiungere la sala comandi anche ad occhi chiusi.

Aprilynne si voltò appena lo sentì entrare.

«Che ci fai qui? Tra poco prenderemo velocità e...»

«Non dovete farlo.»

Silver voltò lentamente la testa, un sopracciglio inarcato.

«Vedete quella?» indicò il grosso satellite che si vedeva oltre il vetro.

«La Luna?» chiese Silver, per conferma.

Mark annuì.

«Poco di stante c'è una stazione spaziale.»

«No!» esclamò Abigal «Voglio dire, forse. Quello che ne resta in ogni caso. È stata abbandonata un sacco di anni fa, quando la popolazione ha iniziato a decimarsi!»

Mark accennò un sorriso.

«È quasi un ventennio che nessuno la controlla.» la corresse. «È stata abbandonata anche da più tempo. Da quando l'astronave di Pai, Ghish e Tart, ripartendo, la mise fuori uso.»

«I nostri genitori?» chiese Catron.

«Già.»

Silver si irrigidì all'improvviso.

Non aveva più ripreso l'argomento “ibridi” con Mark. Forse perché non riusciva a darsi una spiegazione sensata. In effetti, aveva sempre notato delle stranezze nelle loro madri, ma non gli era mai passato per la testa che potessero non essere arrettiane.

«Stai scherzando vero?» fece Catron.

Mark spostò lo sguardo tra i ragazzi.

«No.» disse con calma.

«Ma loro non sono mai stati qui! Nessuno era mai stato sulla Terra!» protestò Aprilynne.

«Questo è quello che il tuo governo vorrebbe farti credere. In pochi lo sanno e si guardano bene dal farne parola. Per essere precisi, la vostra specie ha avuto origine proprio sulla Terra. Non ho il tempo di fornirvi delle prove, ma vi prego di credermi. O almeno di ascoltarmi.»

I ragazzi si scambiarono occhiate confuse e combattute.

Alla fine la curiosità, almeno quella di Silver, ebbe la meglio perché il ragazzo fece rallentare l'astronave fin quasi a fermarla.

«Ti ascoltiamo.» disse.

«Molto bene. Molti, e dico molti, secoli fa, la Terra, o almeno gran parte, era abitata da un civiltà insolitamente evoluta. Le condizioni ambientali, però, erano disastrose. Appena scoprirono come viaggiare nello spazio, tutti gli abitanti abbandonarono la Terra. Si fermarono pianeta su cui trovarono le condizioni adatte per la vita. Lo chiamarono Arret, che è l'inverso di “Terra”. Qui le temperature erano rigidissime e il terreno poco fertile, ma le condizioni erano comunque migliori di quelle della Terra. Purtroppo, però, le cose andarono velocemente peggiorando. Quando trovarono una fonte di energia, inviarono una squadra sulla Terra per vedere se avrebbero potuto tornarci. La squadra non fece mai più ritorno. Passarono secoli a sognare di poter tornare sulla Terra. Pai, Ghish e Tart Ikisatashi pensavano di poter risolvere la situazione. Non erano stati inviati dal governo, come Profondo Blu voleva far credere loro, ma avevano comunque buone intenzioni. Sulla Terra però, si era ormai impiantata una nuova civiltà: noi umani. Profondo Blu li persuase ad usare i chimeri per annientarci. È qui che entrano in gioco Ryan Shirogane e Kyle Akasaka. Loro trovarono il modo di contrastare la forza degli alieni: modificarono il DNA di cinque ragazze unendolo a quello di un animale in via di estinzione. Le MewMew, così si chiamavano, acquistarono subito degli straordinari poteri.»

«Questa parte della storia me la ricordo. Me l'ha raccontata Oro.» rifletté Silver, per tentare di convincersi che fosse tutto vero.

Mark annuì, poi riprese a parlare.

«Alla fine Ghish, Pai e Tart voltarono le spalle a Profondo Blu e le ragazze riuscirono a sconfiggerlo. Trovarono una specie di accordo. Gli alieni portarono sul loro pianeta tutta l'acqua-cristallo che riuscirono a trovare e con quella Arret tornò a vivere.»

«Pensavo si fosse trattato di un particolare evento astronomico o roba del genere.» obiettò Abigal «Su Arret insegnano questo.»

«Perché non sanno cosa successe realmente. La verità è che tre ragazzi poco più che adolescenti si presentarono dai governatori con una fonte di energia sufficiente a risollevare le sorti del pianeta e lo Stato fece di tutto per insabbiare la vicenda. Ghish, Pai e Tart accettarono solo ad una condizione: poter tornare sulla Terra quando volevano. Accettarono e i tre poterono tornare dalle ragazze di cui nel frattempo si erano innamorati. Pai sposò Pam, Ghish Strawberry, Tart Paddy. E nel frattempo Ryan si era messo con Lory e Kyle con Mina. Questi nomi vi suoneranno familiari.»

I ragazzi annuirono.

«Loro erano le MewMew?» chiese Aprilynne dopo un momento «Stai scherzando?»

«Ti dico di no. Da chi avresti preso il tuo DNA animale? Sai bene che l'hai ereditato geneticamente, no?»

«Sì, ma... la mamma un'aliena? E poi aspetta quindi noi saremmo...»

«Ibridi.» concluse Silver.

Calò il silenzio per un po'.

Fu Abigal a romperlo.

«Quindi siamo sterili?»

Mark studiò il viso molto più a lungo del lecito, ma lei continuò a fissarlo.

«Voi non siete ibridi. Siete normali alieni, solo le vostre orecchie sono state modificate, in modo da potervi confondere anche voi sia con i terrestri che con gli arrettiani. Ah, e naturalmente avete anche voi dei geni animali. Così come Sharlot e Oro sono “solo umani” con DNA animale.»

«Quindi la risposta è no.» concluse la ragazza abbassando lo sguardo e poi riposarlo sui comandi.

Mark la guardò ancora a lungo, come se volesse aggiungere altro.

«No. In linea di massima almeno.»

«C'è qualcosa che mi sfugge.» disse Aprilynne «Chi è Profondo Blu? E chi sei tu?»

«Profondo Blu è la fonte di tutti i nostri problemi. Era stato già ucciso una volta quando accompagnò i vostri padri sulla Terra.»

«Com'è possibile?»

«I suoi poteri sono quasi illimitati e lui si serviva della sua scorta personale di acqua-cristallo per rigenerarsi. Riuscì a riprendere una forma umana solo poco prima dello scontro finale. Le MewMew, Strawberry in particolare,» e dicendo questo lanciò un'occhiata significativa ad Aprilynne e Catron «lo sconfissero. Credevano di averlo ucciso una volta per tutte, ma non fu così. Ci vuole ben altro per ucciderlo. Ha solo accusato un brutto colpo, così brutto che solo recentemente è riuscito a rigenerarsi.»

«E a tornare in azione.» concluse Abigal, e le parole le si strozzarono in gola.

«Già.»

«E tu? Cosa c'entri in tutto questo?» chiese Catron.

«Vedi, specialmente all'inizio, Profondo Blu aveva bisogno di un corpo in cui vivere e allo stesso tempo era così potente da generare un'altra forza vitale. Posso dire che si impossessò di me, anche se l'abbiamo scoperto solo alla fine. Quello che sapevo era che potevo cambiare aspetto, mi trasformavo nel Cavaliere Blu. Tre forze vitali in un unico corpo. Dopo la battaglia credevo di essermene liberato. Invece Mew Berry aveva sprigionato così tanta energia da riuscire a separarci. Ma questo l'ho scoperto solo molto tempo fa. Quello che so è che, anche se separati, rimaniamo in qualche modo legati. Condividiamo dei poteri. E siamo immortali.»

«Immortali?» Abigal sgranò gli occhi.

«Profondo Blu ha la parte vitale. Se lui dovesse venire ucciso allora io e il Cavaliere torneremo ad essere mortali.»

«Ma hai detto che non c'è modo di ucciderlo.»

«Il modo c'è. Ciò non toglie che sia quasi impossibile.»

«E qual'è il modo?» chiese Silver.

«Attaccarlo con un'energia di gran lungo superiore alla sua.»

«E la sua quanto è potente?»

«Per darti un'idea: per distruggerlo ci vorrebbe una forza tale almeno da far esplodere un pianeta.»

Silver lo fissò. Per quanto impassibile fosse in quel momento, il cuore gli batteva a mille.

«immortali» ripeté Abigal a bassa voce, tra sé e sé.

«Questo... quanto tempo fa succedeva?» domandò Aprilynne.

«La prima guerra e lo scontro finale si verificarono quando le vostre madri erano giovanissime. Pam aveva sedici anni, Pai diciassette; Lory, Mina e Strawberry tredici, Ghish quindici, Tart e Paddy dieci....»

«Ho capito.» lo interruppe la ragazza «E poi? Non è finita qui, vero?»

«Vero. Come me, il Cavaliere Blu ricomparse, ma è più codardo di quanto si pensi e non ci ha mai attaccato veramente. Ci fece tornare in allerta, però. E ci accorgemmo che qualcosa non andava. Le condizioni della Terra stavano peggiorando ad una velocità spaventosa. Lo sapevamo anche prima, ma non lo avevamo mai collegato all'acqua-cristallo.»

«L'acqua-cristallo?» Silver parve perplesso «Cosa c'entra.»

«Ho detto che Ghish, Pai e Tart ne avevano portato il più possibile sul loro pianeta che subito era rifiorito, mentre la Terra stava morendo. Pai si affrettò a fare delle ricerche. Scoprì qualcosa di sorprendente: proprio come noi, i pianeti hanno delle forze vitali, le acque-cristallo. Loro avevano sottratto quella della Terra per portarla su Arret e ora era la Terra che si trovava in una situazione critica. Ovviamente, non potevano riprendere l'acqua-cristallo di Arret, che non ne ha mai avuta una sua, e riportarla qui, sarebbero tornati al punto di partenza.»

«E allora?» Abigal era rapita dal racconto, sembrava un bambino a cui stavano raccontando la sua storia preferita.

«Aspetta.» fece Silver «Hai detto che per uccidere Profondo Blu, per annientare la sua forza vitale, ci sarebbe voluta almeno un'energia sufficiente a far esplodere un pianeta?»

Mark annuì compiaciuto. «La forza vitale di Profondo Blu avrebbe potuto sostituire l'acqua-cristallo della Terra.»

«Ma lui era morto, quindi dovevano aspettare che si rigenerasse.» continuò Catron «Dopodiché qualcuno avrebbe dovuto sottrargliela, senza dover ucciderlo, e portarla sulla Terra, è geniale! Ma chi potrebbe mai essere tanto potente?»

«Voi.»

«COSA?» esclamarono tutti insieme.

«In teoria.»

Sbiancarono.

«Pianeta morente a parte, abbiamo capito tutti subito che i vostri poteri erano enormi. Come ibridi eravate compatibili sia con i terrestri che con gli arrettiani, come dimostra il fatto che possiate mangiare tranquillamente cibo terrestre mentre Abigal si è sentita male. In più avevate il codice genetico animale delle vostre madri e i poteri dei vostri padri, doti più uniche che rare anche tra gli arrettiani.»

«Già.» osservò Silver «Mi ero sempre chiesto com'era possibile che tre fratelli avessero tutti dei poteri fuori dalla norma. Voglio dire, tutti possono far comparire le proprie armi, ma sono armi e basta le nostre si servono di energie diverse, in più loro potevano spostare oggetti creare chimeri solo con il pensiero ed erano sensibili all'acqua-cristallo, ora so di cosa si tratta.»

Mark annuì di nuovo.

«In effetti è sorprendente, ma non così tanto se ci rifletti. Pai e Tart sono davvero fratelli e poteri come questi si trasmettono geneticamente. Tutti e tre erano orfani, quindi mi sembra normale che, avendo tutti e tre queste abilità si siano avvicinati.»

«Già, non ci avevo pensato.»

«Chissà chi erano i nostri nonni, allora.» commentò Aprilynne.

«Non credo che lo scopriremo mai.» rispose Mark pacato.

«Volare era un potere solo dei loro padri?» chiese Abigal.

«No. Terra e Arret hanno forze di gravità diverse. Gli arrettiani, come nel tuo caso, possono volare sulla Terra, i terrestri possono volare su Arret.»

«Quindi noi...» cominciò Catron.

«Potete volare su entrambi i pianeti, solo che, per ovvie ragioni, non ci avete mai provato.»

«Wow.»

Silver spinse lo sguardo pensieroso oltre il vetro della sala comandi. All'improvviso si ricordò di perché si erano fermati,

«E perché dobbiamo andare su quella vecchia stazione spaziale?»

 

Kathleen cercò disperatamente di tenere fermi i fratellini.

«Perché non siamo ancora partiti?»

«Torniamo a casa?»

«No! Non lo so! State buoni! Dobbiamo andare a sederci e metterci le cinture e...»

«Chi c'è lì?»

«Lì dove?»

Pit indicò una stanza.

Kathleen mise giù Opter e si avvicinò alla stanza.

Bussò.

Nessuno venne ad aprire, ma Kathleen drizzò le orecchie e sentì qualcuno muoversi all'interno.

L'astronave era praticamente ferma, così azzardò a teletrasportarsi all'interno della stanza.

Una ragazza bionda sobbalzò, ma si zittì subito.

«E tu chi sei?»

«Isabelle.»

«Chi?»

Un movimento brusco fece perdere loro l'equilibrio e finirono entrambe a terra.

«Che diavolo sta succedendo?»

«Sembra che siamo atterrati.» commentò la ragazza con un tono e uno sguardo non suoi.

 

Psiche fu la prima a scendere.

In realtà corse fuori appena vide le porte aprirsi.

E quasi finì addosso ad una donna con i capelli corvini e gli occhi cobalto.

Si sentì mancare.

«Mamma?» urlò.

«Psiche!» la donna la strinse in un abbraccio stritolante.

 

«Loro chi sono?» chiese Abigal guardando fuori dal vetro e facendo scorrere lo sguardo sulle dieci persone che si erano radunate fuori dall'astronave.

«Non le riconosci?» fece Mark sorridendo.

Alcuni volti, in effetti, le erano familiari, ma erano sepolti tra i lontani ricordi d'infanzia.

«Chi sono?» ripeté.

«Le MewMew.»




Ehilà!
Ci siete ancora? Spero di sì.
Mi dispiace per il MOSTRUOSO ritardo.
Spero che riusciate a perdonarmi.
Artemide

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Capitolo 17
*** Victoria ***



parte seconda

Arret


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Victoria

 

«Io... ancora non riesco a crederci!» disse Aprilynne, appena si fu liberata dagli abbracci stritolanti della madre.

Paddy e Tart erano così assorbiti dai figli ritrovati da essersi estraniati dal resto del gruppo.

Kathleen sedeva in mezzo a loro, con le lacrime agli occhi, mentre Pit e Opter passavano dalle sue ginocchia a quelle dei genitori che non smettevano un attimo di coccolarli.

Lory e Ryan non erano da meno. Né il biondo né Oro amavano molto le smancerie, ma all'inizio era stato decisamente inevitabile.

Dal momento che tutti gli Ikisatashi erano stati monopolizzati dai genitori era toccato agli altri Connect occuparsi dell'astronave.

Le uniche a non essere presenti in quell'incredibile riunione di famiglia erano Pam e Psiche.

La notizia di ciò che era successo a Raylene era stata a dir poco terribile, anche se tutti conoscevano i rischi.

Anche Pai era scosso.

Silver conosceva abbastanza suo padre da rendersene conto.

La maschera impassibile che indossava non era altro che uno scudo nei confronti del dolore che avrebbe affrontato più avanti.

Pensò rapidamente a come distrarlo.

«Tutto questo è fantastico, ma... com'è possibile?» chiese, dando voce a quel pensiero comune.

Pai afferrò al volo l'occasione di poter parlare e distrarsi.

«Non sembra una bella cosa per un genitore, decidere di lasciare i proprio figli, ma era necessario. Era necessario che tutti, Profondo Blu in primis, ci credessero morti. In questo modo avrebbero smesso d cercarci. E non avrebbero trovato voi. Era essenziale. Per quanto riguarda gli altri» e fece un cenno di saluto con la testa a Riley e Ethan che attraversavano la stanza «a meno che non fossero stati catturati, risalire a loro era impossibile.»

«Ma perché non ci avete portato con voi?» domandò Catron.

Ghish gli scompigliò i capelli rossi più del necessario e il ragazzo si ritrasse istintivamente con un soffio felino.

Ryan stava per prendere la parola, ma comprese che era meglio lasciar parlare Pai.

«Avremmo voluto, davvero.» rispose l'alieno «Ma non avrebbe avuto senso. Avremmo dovuto prepararvi ad una missione a cui noi stessi non eravamo pronti. Potevamo insegnarvi a combattere, cosa che avete imparato ugualmente, ma non potevamo insegnarvi a vivere, a sopravvivere, su Arret. Serviva, inoltre, che qualcuno tenesse acceso il computer del rifugio perché continuasse a comunicare con noi.»

«Davvero?»

«Dovremmo ringraziare chi di voi ha salvato tutte le vostre foto su quel computer, ci ha tenuti piuttosto aggiornati.»

«New.» disse subito Aprilynne.

Pai annuì distrattamente.

«A proposto.» li interruppe a quel punto Ryan «Perché non dite agli altri di fermarsi un momento, in fondo fanno parte anche loro della squadra.

Aprilynne annuì energicamente e balzò in piedi. Per poco non si portò dietro Strawberry che la stava abbracciando.

«Non sembrate molto invecchiati.» osservò Sharlot guardandosi intorno.

«È bello sentirsi dire che sono ancora affascinante.» commentò Ghish.

Sharlot lo ignorò, esattamente come fece Mina.

«Nello spazio si invecchia più lentamente.» confermò Ryan.

Aprilynne ritornò nella stanza seguita da Ethan, Riley, Faith, Electra e Fosfor che si strinsero su un divano o si sederono per terra.

Nella stazione spaziale era stata riattivata la gravità e lì né terrestri né arrettiani potevano volare.

«New, Nevery e Abigal arriveranno tra poco.»

«Allora,» esordì Pai facendo vagare lo sguardo tra i Connect «vediamo se mi ricordo di tutti.»

Li scrutò attentamente, con interesse.

Si sentivano tutti tesi, come sotto esame.

Quella abbastanza grandi da ricordarsi di Pai, il famoso padre di Silver che aveva dato inizio al progetto, erano leggermente più tranquilli.

«Siete pochi.» constatò a malincuore.

«ma guarda un po'!» esclamò Riley, poi sobbalzò e gli venne il singhiozzo.

«Occhi rossi, capelli verdi, gambe lunghe e muscoli per saltare ben sviluppati. Tu sei Riley. Il ragazzo-rana.»

Riley era così sorpreso che gli passò il singhiozzo.

Il padre di Silver, l'autorità che era sempre bastata a zittire tutti, sapeva chi era lui?

Sembrava sciocco, ma era incredibilmente gratificante.

«Perché così sorpreso?» Pai aggrottò le sopracciglia «Sei un Ikisatashi, perché non dovrei ricordarmi di te?»

«I-io?» balbettò «Io un Ikisatashi?»

L'alieno dai capelli lilla lanciò un'occhiataccia al figlio seduto accanto a lui «Che diavolo gli avete fatto?» lo rimproverò bonariamente prima di ritornare a rivolgersi al ragazzo «Ikisatashi era il cognome che si metteva a tutti gli orfani, vuol dire speranza. Chi di voi non dovrebbe esserlo?»

Si scambiarono occhiate sbalordite senza riuscire a formulare frasi sensate.

«Dunque, riprendiamo... tu devi essere Ethan, giusto?»

Il ragazzo annuì sorridendo.

«Aspetta il tuo DNA è unito a quello di un...» guardò Ryan in cerca di aiuto.

«Armadillo.» disse sicuro il biondo.

«Armadillo. Giusto. Passiamo ad una ragazza. Occhi di colori diversi e strabici, carnagione pallida, capelli bianchi e a zig-zag tu sei» «Electra! Camaleonte!»

Pai si voltò verso Paddy.

«Esatto.»

«Mi ricordo di te.» continuò la ragazza bionda «Più o meno, eri molto piccola. Ricordo che non ti si trovava mai perché ti mimetizzavi.»

Electra divenne completamente rossa, occhi e capelli compresi.

Fosfor le passò un braccio intorno alla vita ridacchiando e lei divenne del colore della sua camicia.

«Tocca a me.» fece Strawberry fissandolo «Allora... hai capelli e occhi azzurri quindi... ehm...» fu il turno della MewMew di arrossire «un indizio?»

Ghish reclinò leggermente la testa all'indietro e rise.

«Il suo potere è dare la scossa.» rispose Lory e Fosfor la fissò sorpreso.

«Medusa!» esultò Strawberry «Nome... aspetta, c'era un trucco. Sei una medusa che si illumina al buio quindi... lo so... fosforescente! Sei Fosfor!»

Lui annuì, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro.

«Ora è il turno di Mina.» disse Paddy indicando l'amica.

La ballerina scrutò l'ultima ragazza rimasta.

Kyle, accanto a lei, si protese in avanti.

Mina non descrisse la ragazza ad alta voce, si limitò a riflettere in silenzio.

«Faith.» sentenziò infine.

«Serpente.» concluse poi Kyle.

«E Dalton?» chiese Pam, sulla soglia della porta. Nessuno si era accorto di lei e Psiche.

Si andarono a sedere accanto a Pai e Silver.

Aprilynne abbassò lo sguardo, ma fu l'unica a rispondere.

«Lui... be' Profondo Blu lo ha...»

Lasciò cadere la frase a metà e Strawberry le cinse le spalle con un braccio.

«Non nominatelo quando c'è Abigal però.»

«Abigal.» Pam ripeté quel nome come se fosse una formula magica, mentre sbiancava.

«Cos'ha il mio nome?»

Tutti si voltarono verso i ragazzi che erano appena entrati.

Abigal era davanti a tutti, lì dove poco prima si trovava Pam.

Stava in posizione eretta, il mento leggermente sollevato, le gambe quasi unite, i lunghissimi capelli azzurri stretti in una treccia che le penzolava dietro la schiena.

Era insolitamente bella, persino più del solito.

Gli occhi blu saettarono da un volto all'altro ottenendo sempre lo stesso risultato.

La fissavano come se avessero visto un fantasma.

Per un po' nella stanza regnò il silenzio più assoluto.

«Allora?» li incitò, tentando di non far notare quanto fosse agitata. Forse stava per ottenere la risposta a tutte le sue domande.

I tre Ikisatashi si fissarono a vicenda.

«È incredibile.» disse Ghish tornando a fissare Abigal «Insomma sì, ma... non credevo che potesse essere così... uguale

La ragazza lo fissò dritto negli occhi con tutta la fermezza di cui era capace e lo vide deglutire.

«Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?»

Aprilynne, Catron e gli altri sembravano saperne quanto lei.

«È... una questione piuttosto delicata.» era raro che a Pai mancassero le parole. Sentì un tuffo al cuore. Cos'è che le nascondevano.

«Forse è meglio se ti siedi.»

Si guardò intorno per qualche istante.

Aprilynne si spostò di lato per farle spazio e lei andò a sedersi accanto all'amica che le prese la mano e gliela strinse.

Pam non le staccava gli occhi di dosso e Pai e Tart facevano fatica a guardarla in faccia.

«Scusa se tocco un punto dolente, ma sai, è incredibile che tu e Dalton steste insieme, siete entrambi due dei più speciali.»

Abigal aveva paura di chiedere il perché, ma il suo sguardo parlò per lei.

«Lui è stato il primo creato in laboratorio. Un vero è proprio miracolo.»

«E io? Non lo sono?»

«Un miracolo?»

«Non sono stata creata in laboratorio?»

Questo voleva dire che aveva una famiglia? Che era imparentata con la Victoria di cui parlava Profondo Blu?

«Sì, sì, non era a questo che mi riferivo. Tu... hai mai sentito nominare una certa Victoria?» chiese con il tono di chi si aspetta una risposta negativa.

Abigal divenne una statua di sale. Pallidissima.

Era così rigida e immobile che quasi tremava.

Annuì lentamente, una sola volta, non si fidava della propria voce.

Pai si sorprese, ma non più di tanto.

«Lei era nostra madre. Adottiva, ovviamente. Anche lei era un'Ikisatashi. Anni fa, quando Silver era piccolo, ho fatto una ricerca per scoprire se su Arret ci fosse qualcuno che, come le MewMew, avesse un DNA che poteva essere unito a quello di un animale. Ottenni dei risultati scarsissimi. Quattro persone in tutto il pianeta, molte meno che sulla Terra. Una di queste era proprio Victoria. Le chiesi se avesse voluto sottoporsi all'esperimento, ma lei rifiutò. Diceva che stava invecchiando troppo per certe cose. Non era affatto vecchia, ma è morta praticamente all'improvviso, pochi mesi dopo.»

«Pochi mesi dopo cosa

«La mia curiosità era troppo forte e poi Pam ha avuto un'idea. Qualcosa che continuo a non approvare come principio, ma che mi affascina. Noi potevamo creare individui praticamente dal nulla, creando il DNA che preferivamo. Allora abbiamo pensato: possiamo ricrearne uno? Potevamo. Ne parlammo a Victoria. È difficile descrivere la sua reazione, più difficile di quanto immagini. Era spaventata almeno quanto me. Ma acconsentì. Chiese soltanto due cose.»

«Quali?» Abigal sentiva appena la sua voce. Sentiva un peso sul petto che le impediva di respirare.

«La prima era poter scegliere il tuo nome. La seconda che dessimo il via all'esperimento solo dopo la sua morte. Come se sapesse che ci avrebbe lasciato di lì a poco.»

Pai tacque.

Questa volta era Abigal a non avere la forza di guardarlo negli occhi.

Aprilynne sentiva la mano tremarle violentemente e cominciare a sudarle.

«Sono... sono un...» non riusciva a pronunciare quella parola.

«clone» quello di Silver fu un sussurro. I suoi occhi percorrevano Abigal meravigliati.

Un clone.

L'incarnazione di una persona già esistita.

Victoria.

Profondo Blu l'aveva scambiata per la sua gemella genetica.

Pai e gli altri sapevano che quell'uomo l'amava?

«Aspettate un attimo.» esclamò New, che insieme a Nevery aveva raggiunto il gruppo degli altri. «Non vuol dire nulla. Geneticamente è uguale. Fisicamente è uguale! Non può avere la stessa mente anche se forse ha una mentalità troppo simile. È solo identica a lei, ma non è lei. È un'altra ragazza con la stessa faccia.»

Pai la guardò compiaciuto.

«È quello che pensavamo. Quello che mi ripetevo mentre creavo il suo embrione.»

«E non è così?» chiese Abigal. Si rivide mentre Profondo Blu la baciava. Quello che aveva provato era suo? O no?

«È difficile dirlo.»

Abigal fremeva dalla voglia di chiedergli il perché di quelle parole, ma non ne aveva la forza.

Strinse una mano a pugno.

Aprilynne le strinse di più l'altra, ma Abigal non smetteva di fissare Pai negli occhi, come se potesse leggervi tutte le risposte che cercava.

All'improvviso spostò lo sguardo su Silver che quasi sussultò.

«Tu lo sapevi?» ringhiò.

«No! Santo cielo no!»

«Avrei fatto volentieri a meno di dirlo a te, a limitarmi a trarre le mie conclusioni da solo, ma se sei come Victoria immaginavo che lo avresti voluto sapere.»

Lei annuì.

A quel punto Pam si alzò e andò verso di lei.

Le tese una mano. «Vieni, c'è una cosa che devi vedere.»

Per un po' Abigal le fissò la mano, poi strinse di più quella di Aprilynne, come a dirle di seguirla, e accettò l'invito della donna.

Silver si alzò di scatto, come in un riflesso automatico. Si guardò intorno un po' imbarazzato, ma solo suo padre aveva fatto caso a lui e lo lasciò andare.

I tre ragazzi seguirono Pam fuori dalla stanza.

«Hai detto che non sei sicuro che un clone sia un'altra persona. Perché?» chiese New appena si furono allontanati.

«Tu sei New?» chiese Ryan.

Lei spostò lo sguardo su di lui. «Sì.»

«Ti sei già manifestata?»

«Sì.» questa volta la sua voce indugiò un momento. Tornò a fissare Pai. «Non mi hai ancora risposto. E hai detto che lei e Dalton erano due dei più speciali, chi sono gli altri?»

«Sono due domande separate.»

«Non nella tua mente.»

Pai sollevò un sopracciglio. «Puoi leggermi nel pensiero?»

«Posso farlo. Posso anche manipolare la tua volontà. Posso capire quante persone ci sono in una stanza pur non vedendo nulla e se le conosco posso sapere chi sono.»

«Qualcos'altro?»

«Per farlo devo... mollare il mio corpo. È come se svenissi, solo che sono lucida, in un certo senso.»

«Quindi in questo momento non mi stai leggendo nel pensiero?»

«No, ma ho comunque una percezione di quello che ti frulla in testa. Posso capire se menti, per esempio.»

«E non credi che questo sia abbastanza speciale?»

New tacque.

«Con quale animale è stato legato il mio DNA?»

Kathleen si andò a sedere accanto a Catron e a Ghish e Strawberry non sfuggì come lui le cinse la vita.

«Voi non lo sapete?» chiese ai nipoti.

Kathleen scosse la testa.

«No.» disse Catron «Lei è praticamente venuta fuori dal nulla. Un mattina ci siamo svegliati e abbiamo scoperto che un embrione si stava sviluppando senza che nessuno lo avesse deciso.»

«Siete stati voi a... “innescarlo”?» la voce di Psiche sorprese tutti. Era distaccata, anche se in parte interessata. La sua non suonava come una domanda.

«Sì.» confermò il padre «Così come abbiamo dato il via al New Project.»

«New come New o New come “nuovo”?» chiese Kathleen e poi ridacchiò della sua frase.

«Entrambe le cose. New prende il nome dal progetto. Il tuo DNA non è stato legato a quello di nessun animale, bensì a quello di un alieno parassita. Sei una specie di chimero.» fece una pausa per studiare le reazioni della ragazza, ma lei era tranquillissima.

«E Nevery?» chiese invece.

«Nevery?»

«Lo hai guardato mentre parlavi di ragazzi speciali.»

Pai studiò il bambino di dieci anni che sedeva accanto a New.

«Chi ti ha chiamato Nevery?»

Lui ci rifletté, forse per la prima volta.

«Non lo so.» ammise.

«Sei dirmi che ore sono, Nevery?»

«No. Ma è passata almeno qualche ora dalle otto di sera e sono abbastanza lontane le otto di mattina.»

«Dorme dodici ore spaccate, da sempre.» intervenne New «E se lo si costringe a stare alzato crolla addormentato. È spaventoso. Sembra morto. Respira appena ed è come se il suo cervello si spegnesse. Ho provato a leggergli nel pensiero mentre dormiva. Con gli altri riesco a vedere i loro sogni o comunque a registrare un'attività neuronale, ma da lui non viene mai niente.»

Pai si protese in avanti appoggiando gli avambracci sulle ginocchia.

«Ryan, non ci credo che stai facendo parlare lui tutto il tempo.» commentò intanto Ghish rivolgendosi al biondo.

«Questo è il suo progetto, ho già partecipato abbastanza, se non gli dessi almeno la soddisfazione di parlarne sarei davvero impertinente.»

Lory sorride e gli mise una mano sulla spalla.

«Hai partecipato a tutto questo?» chiese Oro.

«In parte. L'idea è stata di Pai, io gli ho solo spiegato come aveva funzionato il Mew Project e gli ho dato una mano.»

Oro annuì sorridendo, poi tornò a prestare attenzione a Pai.

«Ti dice niente il nome Always, Nevery?»

Per un attimo la sua espressione fu così sorpresa da essere comica.

«E-esiste? Always Lyoko esiste? Non è un'invenzione del mio subconscio?»

«No.»

«Always? È lui?» Ghish scattò in avanti, improvvisamente interessato al ragazzo. «Il figlio di Sheira?»

«Conosci mia madre? Cioè... la madre di Always... insomma...»

«Sheira è mia sorella.» disse Ghish.

Nevery lo fissò intensamente.

All'improvviso vide la somiglianza. Era spiccata.

Sua madre era cieca, ma lui stesso aveva gli occhi dorati, proprio come i suoi. I tratti del viso. La corporatura esile, ma forte. Il modo in cui gli angoli della bocca si sollevavano mentre parlava.

Non aveva parole.

«Che rapporto hai con Always, Nevery? Vi conoscete? Vi parlate?»

«Io sono Always.» rispose il bambino «Crollo addormentato per dodici ore spaccate. Qui. Appena chiudo gli occhi di qua, alle otto di mattina, li riapro di là. Alle otto di sera mi addormento e mi risveglio di qua. Lo faccio da sempre, credevo fosse un sogno.»

«Sempre?» ripeté Pai, dubbioso.

«No. È molto strano. All'inizio vivevo solo di là. Poi un giorno, o forse una notte, all'improvviso sono stato catapultato qui. Da allora faccio avanti e dietro, è come se non dormissi mai in realtà.»

«E prima? Era sempre stato tutto normale?»

«Facevo spesso sogni ricorrenti e dormivo le solite dodici ore, ma per il resto tutto normale.»

Pai annuì, ma nei suoi occhi si era appena accesa una scintilla.

«Allora?» fece New.

«Be', come ha detto prima Ghish, tua madre Sheira è sua sorella. Siamo rimasti in contatto con lei e, quando ha avuto un figlio, le ho chiesto di mandarmi un campione del suo DNA.»

«E perché mai?»

«Be', vedi le MewMew erano ragazze il cui DNA era modificabile, per così dire, questa è una caratteristica che si eredita e io ho scoperto che sia Tart, che Ghish che me, abbiamo un DNA così.»

«Ma hai detto...»

«Che non c'era nessuno.»

«Considera questa caratteristica un gene recessivo. Noi ne abbiamo solo uno, perciò non risultiamo gene compatibili, ma in parte lo siamo. Ho solo sperato che il bambino avesse ereditato tali geni. E avevo ragione.»

Guardò Nevery.

«Sono io quel bambino?»

«Sì.»

«Sono davvero reali? Esistono?»

«Sì. Sono davvero su Arret. Potresti incontrarli.»

Ripensò a quando avevano arrestato sua madre. Lei gli aveva detto che era solo questione di tempo. Lei sapeva.

«E io cosa sono?»

«Per quanto riguarda il tuo corpo, sei anche tu un clone. Nevery è il clone di Always. Tu avevi un DNA modificabile, ma non avrei mai potuto legarlo a quello di un animale, no di certo. Così da qui ho creato un clone.»

«E perché ho... preso coscienza solo dopo?»

«Perché quando sei nato per la seconda volta, diciamo così, eri più piccolo del vero te. Non so bene perché volevo che aveste la stessa età a dire il vero. Ho fatto sì che al clone venisse iniettata una sostanza per accelerare la crescita. Poi, al momento giusto, ho smesso di farlo.»

«E mi hai lasciato andare.»

«Già. A quanto pare la tua “coscienza madre” è arrivata anche al clone. È stupefacente!»

«E mette in discussione molti principi.» concluse New «Abigal potrebbe avere qualcosa della vecchia Victoria.»

Pai per un attimo sembrò soppesare l'osservazione con un minimo di speranza, poi scosse la testa. «No. Victoria è morta prima che l'embrione di Abigal cominciasse a svilupparsi, quindi è impossibile che la sua coscienza sia sopravvissuta.»

New annuì, convinta dalla sua sicurezza.

 

Pam frugò a lungo nell'armadio, prima di estrarne un contenitore in plastica dura della misura dei fogli di carta solo molto alto. Il coperchio era stato artisticamente lavorato a mano e, circondate da spirali intrecciate tra loro, spiccavano le parole Da Victoria ad Abigal.

«Lo ha chiuso con la cera, non lo abbiamo mai aperto perciò non posso dirti cosa ci sia.»

Abigal prese lo prese con mani tremanti e annuì.

«grazie» sussurrò.

«Vi lascio.» disse Pam dolcemente.

Guardò il figlio.

Silver le sorrise.

«Io e Aprilynne rimaniamo mamma.»

«D'accordo, ma non disturbatela finché non ha finito.» raccomandò loro, poi uscì.

Mentre tornava verso la stanza in cui tutti gli altri erano riuniti s'imbatté in una ragazza che rientrava nell'astronave.

«E tu chi sei?»

La ragazza sobbalzò e si volò.

Aveva lunghi capelli biondi e boccolosi, il viso ricoperto di lentiggini e gli occhi di un blu così intenso da essere quasi viola.

Non la riconobbe.

La vide fissarla intensamente e poi sgranare gli occhi.

Disse le parole “mamma” e “zia” quasi contemporaneamente.

Tentò di ricomporsi.

«Sei... sei Pam Fujiwara?»

Pam indugiò «Sì, sono io. E tu chi sei? Che ci fai qui?»

«New mi ha portata qui. E sono Isabelle Fujiwara, tua nipote.»

«Isabelle?» il suo sguardo si addolcì improvvisamente. «È così che ti chiami?»

Isabelle annuì.

«Perché New ti ha portato qui?»

«Perché...» Isabelle avrebbe voluto negare tutto, come con gli altri, ma quella donna le trasmetteva una fiducia innata. O forse a trasmettergliela era la voce nella sua testa, quella che gli altri chiamavano Raylene «qualche giorno fa ho cominciato a sentire la voce di una ragazza nella mia testa. Lei ha riconosciuto il mio cognome. Poi oggi New è comparsa dal nulla e lei l'ha riconosciuta.»

«Riconosciuta?»

«New dice che dentro di me c'è la forza vitale di Raylene. Però l'altro ragazzo, Oro, dice che non è possibile.»

Pam era troppo scioccata per parlare.

«Raylene?»

«Così dicono gli altri.» si interruppe «Così dice anche lei.»

«Prima...» aveva le lacrime agli occhi «mi stavi chiamando “mamma”?»

«Non io.» rispose Isabelle «Lei lo ha fatto.»

Pam non poté trattenere le lacrime di commozione.

 

Abigal si sedette dietro una scrivania mentre Silver e Aprilynne si accomodavano in silenzio su un divano dall'altra parte della stanza.

Trovò un tagliacarte nel portapenne e lo usò per rompere lo strato di cera che sigillava il confanetto.

Dentro c'erano vari piccoli oggetti personali.

Prese alcune foto.

Sul retro erano stati scritti i nomi delle persone ritratte.

Seth. Suzanne. Cole. Aaron.

Pai. Ghish. Tart.

Fissò la più rovinata. Fissò se stessa.

C'era una luce negli occhi della ragazza nella foto. Una luce che conosceva e che allo stesso tempo ignorava. Era un lampo di felicità che solo un abile fotografo avrebbe saputo catturare.

Era la stessa luce che vedeva nei propri occhi prima che Dalton morisse.

Rimise le foto nel cofanetto.

Prese un piccolo sacchetto di stoffa.

Dentro c'era un ciondolo inserito in una catenella finissima e argentata.

Dentro ad una struttura fluida e argentea c'era una grossa pietra blu che sembrava avere una stella al suo interno.

Acqua-cristallo, si rese conto.

Posò il ciondolo sul tavolo, davanti al cofanetto, in modo che Aprilynne e Silver, da dove erano, non potessero vederlo.

E poi estrasse quella che forse era la cosa di maggior valore che potesse trovarvi.

Una lettera.

Una lettera scritta si un foglio di carta fina e ruvida che una volta doveva essere azzurrina, ma che ora, ingiallendosi, sembrava verdastra.

L'inchiostro che formava le parole scritte in una grafia fluida e nitida aveva ancora un odore forte.

Per un po' fissò le scritte senza leggerle, studiando quella grafia ordinata. La sua grafia.

E poi lesse.

Incapace di fermarsi.

 

Cara Abigal,

è già diverso tempo che Pai mi ha chiesto di poter creare un mio clone.

So che se gli avessi detto di no non l'avrebbe mai fatto.

Invece ho accettato, ma a due condizioni: ho scelto io il tuo nome e potrà crearti solo dopo la mia morte, alla quale, tra le altre cose, non manca ormai molto.

Pai ha cercato di convincermi che non sarai uguale a me in tutto e per tutto perché certi comportamenti vengono dall'esperienza ed è impossibile che due persone possano vivere le stesse cose.

Io gli credo, ma so che gran parte di ciò che siamo è scritta nel nostro DNA e quello lo avrai uguale al mio.

Una volta credevo che il proprio codice genetico fosse una delle poche cose certe e uniche che abbiamo, invece mi hanno mostrato quanto esso sia fragile.

Questo lo rende ancora più prezioso.

Consapevole che sarai più simile a me di quanto gli altri immaginino e abbastanza sicura di conoscere me stessa, ti scrivo perché so che se io scoprissi di essere un clone vorrei sapere quanto più possibile della mia madre genetica.

Ti parlerò di tutto ciò che mi riguarda e spero che tu e gli altri possiate fare tesoro delle informazioni che sto per scrivere, ma confido nella tua discrezione per quanto riguarda alcuni fatti personali.

Ti prego infine di ricordare che tu potrai anche essere come me, ma sarai sempre e comunque una persona unica e a parte.

 

La mia vita di orfana – perché è questo che sono, come il mio cognome, Ikisatashi, conferma – si fece interessante solo quando a 13 anni mi trasferirono nella casa-famiglia di Skyles.

Fu lì che conobbi Seath, Suzanne, Cole e Aaron. Quest'ultimo non ci è mai stato particolarmente simpatico, ma era molto intelligente e spesso ci fu di grande aiuto.

Ero la più piccola del gruppo: Cole aveva appena 16 anni, gli altri 20.

Fummo noi quelli che il Governo ora chiama “i primi Ikisatashi”. I primi ad avergli dato problemi.

All'epoca le condizioni del pianeta non erano delle migliori, ma erano ben lontane dal degrado ambientale che ha spinto Ghish, Pai e Tart ad andare sulla Terra.

Suzanne e Seath erano già fidanzati. Mi innamorai di Cole. A 15 anni rimasi incinta. Non sono mai stata fertile e se ho concepito quel bambino fu solo perché eravamo entrambi abbastanza testardi e forse un po' matti da continuare a provarci.

Quando è nato il piccolo il Governo me lo portò via. Fu un durissimo colpo. Li odiai.

Quell'anno anche Cole divenne maggiorenne e tutti insieme scappammo dalla casa-famiglia.

Avremmo fatto volentieri a meno di Aaron, ma senza di lui non saremmo mai riusciti ad uscire di lì.

Non si disturbarono neanche a cercarci.

Ci stabilimmo in una casa poco distante. La costruimmo noi. Tutta quanta. E ancora una volta Aaron ci fu di aiuto.

Anche Cole era un piccolo genio.

Lui capì che Arret era un pianeta morente, ma che aveva anche un grandissimo potenziale e scoprì a cosa era dovuto.

Ogni pianeta, proprio come gli esseri viventi, ha una forza vitale. A sentire Pai ora la chiamano acqua-cristallo.

L'unico problema di Arret era che la sua era debole e frammentata.

Ci impegnammo a raccogliere quanti più frammenti possibile. Io e Seath fummo di grande aiuto. Eravamo sensibili all'acqua-cristallo, come lo sono le MewMew. Noi avevamo un DNA modificabile, e anche se non era mai stato legato con quello di nessun animale, questo ci dava dei poteri. Gli stessi poteri che hanno Ghish, Pai e Tart.

Nel frattempo, due anni dopo la nostra fuga, anche Suzanne e Seath ebbero un bambino: Ghish.

Eravamo tutti felicissimi.

Qualcosa andò storto, però.

Una notte vennero dei militari inviati dal Governo per arrestarci.

Aaron riuscì a mettere in salvo Suzanne, Seath e i frammenti di acqua-cristallo.

Io, Cole e il bambino, di poche settimane, fummo catturati.

Ci separarono spedendoci in tre posti diversi.

Nel frattempo Aaron, Seath e Suzanne continuarono le ricerche.

Sei anni dopo la nostra fuga dalla casa-famiglia di Skyles, al compimento dei miei 21 anni, ho rivendicato i miei diritti di maggiorenne e sono stata rimessa in libertà.

Ritrovai Cole.

Restammo inseme per quasi un anno e rimasi di nuovo incinta.

Seguendo le tracce dell'acqua-cristallo rintracciammo anche Aaron, Seath e Suzanne.

Non sapevamo ancora come né perché, ma il Governo sembrava deciso ad impedirci di salvare il pianeta.

Quando è nato il mio secondo figlio ho capito che tenerlo con noi sarebbe equivalso ad una condanna. Rintracciai il fratello che ormai aveva sette anni – fu una gioia immensa scoprirlo ancora vivo – e feci di tutto perché si riunissero.

A quel punto scoprimmo a nostre spese perché il Governo faceva tanto per ostacolarci e ci considerava una minaccia: chiunque avesse controllato l'acqua-cristallo avrebbe acquistato un potere immenso.

Sottovalutammo la cosa, convinti che nessuno di noi fosse interessato ad una cosa simile.

Pagammo a caro prezzo il nostro errore.

Quando riunimmo tutti i frammenti di acqua-cristallo Aaron ci attaccò e, una volta neutralizzati, se ne impadronì.

Cercammo di fermarlo. E in parte ci riuscimmo.

Prima di morire, però, Aaron uccise Cole.

Non ricordo di essermi mai sentita peggio.

Lo odiai con tutta me stessa e giurai di vendicarmi anche se non sapevo come visto che credevo che Aaron fosse già morto.

Credevo. Perché ci sbagliavamo.

Il potere dell'acqua-cristallo lo aveva salvato e gli impediva di morire, per quanto gravi fossero le sue condizioni.

Da quando aveva sottratto al pianeta la sua forza vitale, però, questo aveva iniziato ad indebolirsi e presto perse il suo già precario equilibrio.

Noi tre, ormai, non potevamo fare nulla.

Ma per Aaron noi continuavamo ad essere delle minacce.

Ci trovò.

E fu facile. Io e Seath reagivamo all'acqua-cristallo e quindi alla sua presenza. Una volta tornato in forze, per lui fu un gioco da ragazzi.

Le mie doppie scuri, i pugnali di Seath e il boomerang di Suzanne non poterono nulla contro i suoi nuovi poteri.

Io e Seath riuscimmo a salvarci.

Purtroppo non posso dire lo stesso di Suzanne.

La portammo in ospedale che era più morta che viva e tutto ciò che poterono fare fu salvare la bambina di sette mesi che aspettava. La chiamarono Sheira.

Decidemmo di separarci.

Mi ritirai nella casa che avevamo costruito nove anni prima, anche se era infestata dai fantasmi della mia vita.

Inutile dirti che Aaron mi trovò di nuovo. In realtà non feci nulla per nascondermi. Dopo la morte di Cole avevo perso la mia solita forza.

Ciò che successe dopo, però, nessuno di noi due avrebbe mai potuto prevederlo.

Ci innamorammo.

Non so dirti di preciso cosa o come avvenne. Forse ormai eravamo entrambi pazzi.

Quando mi sono voltava lui era lì, non so dire da quanto tempo. Forse infondo gli ero sempre piaciuta, ma ero troppo presa da Cole per accorgermene.

Quando mi afferrò riuscii solo a piangere come una stupida e dargli dello sporco assassino.

Per tutta risposta lui mi baciò e io ricambiai. Inutile dirti cosa avvenne dopo.

Restammo insieme per molti mesi.

Parlammo anche di avere un bambino, ma non ci riuscimmo. Decidemmo di adottarne uno.

Fu allora che ritrovai Ghish. Lui si era affezionato a Pai e Tart – loro erano veramente fratelli – e li prendemmo tutti e tre con noi.

All'epoca avevano 10, 8 e 3 anni.

Loro non conobbero mai Aaron.

Prima ancora che si trasferissero da me Seath mi fece una visita a sorpresa.

Quando vide Aaron andò su tutte le furie.

Con Seath c'era una ragazza che non doveva avere più di 16 anni: Kleys. Non so che cosa avesse di particolari, ma i suoi poteri erano straordinari e diversi dai nostri, sfruttavano un'energia devastante e negativa anziché positiva. Non l'ho mai più rivista anche se ho saputo che ha sposato Seath e hanno avuto una figlia prima che lui fosse ucciso.

Kleys disintegrò Aaron, nel vero senso della parola.

Seath mi odiò, ma mi risparmiò in nome della nostra vecchia amicizia.

Forse fu per vendetta che non gli dissi nulla di suo figlio Ghish.

Ancora una volta, però, l'acqua-cristallo aveva salvato Aaron. Perché si rigenerasse ci vollero sette anni e un'energia tale da formare un'altra forza vitale, ma si salvò.

Nel frattempo le condizioni di Arret si erano fatte a dir poco disastrose.

Aiutai Pai, Ghish e Tart – avevano 17, 15 e 10 anni – a rubare un'astronave e a prepararla.

Aaron, in una forma che lui stesso definì “embrionale”, si offrì di guidarli.

Dovevano arrivare su un pianeta disabitato a cui sottrarre la forza vitale per portarla su Arret.

Purtroppo non sapevo che l'acqua-cristallo aveva risvegliato in Aaron la sua parte malvagia che io ero riuscita in qualche modo a cancellare. Li condusse sulla Terra mettendo loro in testa idee diaboliche: è vero che la nostra specie una volta abitava su quel pianeta, ma non aveva mai pensato di tornarci.

Loro credettero ad Aaron.

Ormai avrai capito di chi sto parlando.

Io ho sempre continuato a chiamarlo Aaron, ma lui ormai si presentava come Profondo Blu.

Sono orgogliosa di Pai, Ghish e Tart e di come seppero reagire, ma non sapevano che sottraendo l'acqua-cristallo alla Terra, la sua forza vitale, l'avrebbero condannata.

Arret ritornò alla vita, ma la Terra stava morendo. Pai, Ghish e Tart se ne sono accorti quanto, per rivedere le ragazze che amano, ci sono tornati.

Credo che tu conosca il resto della storia.

Rividi Aaron pochissime volte. Sapevamo entrambi che ci trovavamo schierati sui due fronti opposti di una guerra imminente, ma noi continuavamo ad amarci.

Non l'avevo mai confidato a nessuno, ma sento che è giusto che tu lo sappia.

So che lui c'è ancora del buono, non può essere stato cancellato, così come non era stato cancellato il male.

Se lo vedi, ti prego, digli che non smetterò mai di amarlo, ma che il mio tempo è passato e io sono felice.

Lo sono stata con lui e lo sarò per sempre.

 

Con affetto,

Victoria Ikisatashi

 

P.S.

L'ultima cosa che devi sapere è che io non ho mai abbandonato davvero i miei figli, nessuna madre ne sarebbe capace.

 

Abigal sollevò il viso e si accorse solo in quel momento che grosse lacrime le rigavano gli occhi,

Le mani le tremavano.

Richiuse la lettera in fretta e furia e la rimise nel cofanetto.

Non riusciva a pensare lucidamente.

Allontanò il cofanetto con una mano, poi si portò le mani alla testa.

Dei singhiozzi violenti la scossero, senza un motivo preciso.

Perché stava piangendo? Non era la sua storia quella, ma quella di Victoria. O no? Non era uguale alla sua? Non era anche lei un'orfana sotto certi aspetti? Non aveva amato Dalton? Non avevano provato ad avere un bambino? E non era stato Profondo Blu, Aaron, ad ucciderlo?

Silver e Aprilynne le furono subito accanto, o forse lo erano anche prima.

«Abigal, Abigal calmati.» Silver fece ruotare la sedia e si chinò per avere il viso alla stessa altezza di quello della ragazza.

«No!» quasi urlò «Chi-» singhiozzò «chi sono io?»

Silver esitò un momento, stordito.

«Sei una Connect, una di noi, una nostra amica,» cominciò Aprilynne.

«Sei Abigal, Abigal Ikisatashi.» rispose Silver guardandola dritta negli occhi «Chi altro dovresti essere?»

Lei singhiozzò ancora, fissando quegli occhi blu identici ai suoi.

«Victoria.»








sono tornataaaaaaa
non mi scuserò mai abbastanza, lo so.
Ma... che ne dite? Abbiamo scoperto finalmente chi è Victoria, sorpresi?
Sono un po' scoraggiata per quel che riguarda questa storia, quindi per favore recensite, anche negativamente se lo ritenete opportuno, ma fatelo, ve ne sarei davvero grata.
Vi ringrazio per non avermi abbandonato, ma purtroppo non posso promettervi che gli aggiornamenti saranno regolari, anzi, temo che procederanno piuttosto lentamente.
Un abbraccio a tutti,
Artemide

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Capitolo 18
*** Casa ***


Casa

 

Solo il sonno, seppur molto tardi, riuscì a sciogliere quell'enorme riunione di famiglia.

In realtà non lo fece del tutto perché i letti matrimoniali su cui dormivano MewMew e alieni dovettero accogliere anche i rispettivi figli.

L'unica altra camera da letto fu occupata da Faith, Electra e Fosfor. Questi ultimi, con non poca sorpresa da parte di entrambi, passarono la notte abbracciati.

Non era la prima volta che, trovandosi a corto di spazio, i tre dormivano insieme.

Faith, come al solito, era sprofondata in un sonno profondo appena, subito dopo cena, aveva chiuso gli occhi. Forse dipendeva dal suo DNA di serpente.

L'avevano portata di peso fin nella camera che Strawberry aveva mostrato loro, poi si erano stesi dall'altro lato del letto a due piazze.

Electra aveva dato le spalle a Fosfor, ma poi il ragazzo le aveva cinto i fianchi con le braccia e l'aveva stretta contro il suo petto. Lei si era rigirata nel suo abbraccio per poterlo guardare in faccia.

«A che pensi?» le aveva chiesto Fosfor dopo un po'.

«Prima erano i cugini a comandare, adesso ci sono i genitori che comandano loro. E noi perdiamo sempre più importanza.»

«Diventiamo ancora più sacrificabili, è questo che vuoi dire?»

Lei aveva affondato il viso nel suo petto. «sì» aveva sussurrato.

«Ma non li hai sentiti? Sono anni che vivono qui e persino quelli che non abbiamo mai conosciuto si ricordano i nostri nomi.»

«Già. Ma perché si sono davvero affezionati o solo perché tengono agli esperimenti ben riusciti che rappresentiamo?»

Fosfor non aveva saputo cosa ribattere.

Con le mani le aveva risalito la schiena per stringerla di più e lei, con un brivido, era diventata dello stesso colore della sua maglietta.

Lui aveva soffocato una risata. «Questo che vuol dire? Che ti piaccio così tento che vorresti assomigliarmi?»

Electra era arrossita, ma, dato che era interamente di colore blu, le sue guance divennero viola invece che rosse.

«Riusciremo ad uscirne vivi.» le aveva sussurrato mentre le accarezzava prima la guancia, poi la tempia e infine i capelli.

«Non puoi saperlo.»

«Te lo prometto.»

«Non dipende da te.»

L'aveva allontanata un po' per poter catturare il suo sguardo strabico. «No.» aveva ammesso «Purtroppo no.»

Difficile dire che dei due avesse baciato l'altro, forse entrambi, ma all'improvviso si ritrovarono stretti come non mai e solo quando Faith sibilò incoscientemente nel sonno ritornarono alla realtà.

«Ne usciremo vivi.»

«Non puoi...»

«Te lo prometto.»

 

Ethan e Riley avevano occupato i divani e per una volta quest'ultimo non aveva avuto incubi e non gli era venuto il singhiozzo nel sonno.

New era sprofondata in una poltrona e, rannicchiata com'era, sembrava solo un grosso cuscino.

Nevery, perfettamente sveglio dal momento che erano lontane le otto di mattina, passò la notte nella camera di Ghish e Strawberry e, quanto gli altri quattro si erano addormentati, si era rannicchiato ai piedi del letto sfogliando una vecchia rivista di luoghi esotici terrestri che aveva trovato.

«Salutami Sheira domattina.» aveva borbottato Ghish prima di addormentarsi, ma le parole si erano mescolate tra loro visto Aprilynne gli dormiva praticamente sopra.

Aveva evitato di dirgli che sua madre era in carcere.

Non era l'unico che non dormiva.

Abigal era ritornata sull'astronave, in quella che era stata la stanza sua e di Dalton. Rileggeva la lettera di Victoria, si rigirava tra le mani il ciondolo che conteneva un frammento di acqua-cristallo arrettiana, studiava le foto che si erano conservate per trovare somiglianze con chi conosceva.

Lo shock era passato, sostituito da una calma vuota.

Un suono, una specie di risolino, le giungeva dalla camera accanto. Riconobbe la risata della piccola Azzurra. Quella bambina era a dir poco incantevole.

E la faceva riflettere. Che ruolo aveva in tutto questo?

Era impossibile che Profondo Blu amasse Arlene – Abigal sentiva che non poteva essere così – era andato da lei con la precisa intenzione di avere un figlio, ma perché? Perché avere un figlio e perché proprio da un'umana?

La risposta venne praticamente da sola e Abigal si diede della stupida per non esserci arrivava prima.

Un ibrido.

Azzurra era un ibrido. Probabilmente il più potente che avrebbe mai potuto esistere.

Profondo Blu voleva usarla. E voleva farlo presto, per questo cresceva così in fretta.

Ma allora perché farla nascere proprio dalla compagna di Mark?

Nella stanza accanto, Arlene dormiva profondamente, al contrario della figlia.

Almeno per ora Azzurra aveva mantenuto il suo impressionante ritmo di crescita e dimostrava già qualche mese, nonostante abbia invece meno di due giorni.

Se ne stava a pancia in giù sul cuscino di Mark che era due volte lei. Vi affondava la testa e poi la tirava su lentamente, per sbirciare quello che considerava suo padre, sebbene fosse troppo piccola per elaborare un simile pensiero.

I capelli biondi era cresciuti a loro volta andando a formare una nuvola di ricci soffici che le incorniciava il viso rotondo e le nascondeva le graziose orecchie a punta.

Allargava le labbra mostrando la bocca sdentata come surrogato di un sorriso e dei giocosi versi acuti erano le sue dolcissime risate.

Era impossibile pensare che fosse figlia di un uomo senza scrupoli come Profondo Blu.

Da lui sembrava aver preso solo gli occhi di un azzurro ghiaccio meravigliosi e in qualche modo inquietanti. Erano vispi e luminosi e riflettevano un'intelligenza incredibile per una bambina così piccola.

Mark le passò un dito sul dorso della manina pallida e lei glielo afferrò subito. Per qualche istante lo fissò come se potesse leggergli negli occhi tutto il suo conflitto interiore, poi gli regalò un sorriso raggiante come per rincuorarlo.

Non poté fare a meno di sorridere a sua volta.

Questo la rese ancora più felice. Gli lasciò il dito prese a battere le manine.

Si fermò di colpo, fissando i propri palmi come incantata, poi li agitò di nuovo, concentrata.

Scintille bianche si propagarono dalle sue dita e galleggiarono verso il cuscino come fiocchi di neve. Li fissò affascinata, poi alzò lo sguardo su Mark, soddisfatta.

Si costrinse a sorriderle, ma una parte di lui era sbigottita.

Azzurra agitò le braccia intorno a sé finché non fu circondata da piccole luci.

«Incredibile.» commentò prendendone una in mano.

Era come una piccola stella. Scintillò per un po', poi si fece sempre più pallida e infine scomparve.

Azzurra sbadigliò, quella piccola magia l'aveva stancata.

Scese dal cuscino e si andò ad infilare tra Arlene e Mark.

Lui le sfiorò lo fronte affettuosamente mentre chiudeva gli occhi e si addormentava.

 

Aprì gli occhi per l'ennesima volta durante la notte e si mise a sedere sul piccolo divano era davvero comodo.

Fece vagare lo sguardo per la stanza.

Il grosso letto matrimoniale sembrava minuscolo.

Psiche dormiva tra le braccia della madre e Silver era steso di profilo tra la sorella e il padre.

Le avevano permesso di dormire nella stessa camera, ma era chiaro creava più disagio che altro.

Uscì dalla stanza in punta di piedi.

Percorse in silenzio il corridoio.

Solo una delle porte era socchiusa.

Non resistette alla tentazione di sbirciare.

Caos dormiva tra Lory e Ryan. Nessuna traccia di Oro. Una parte di lei già lo sapeva.

Riprese a camminare.

I passi rimbombavano nel corridoio deserto. Il loro ritmo era così innaturale per lei.

Con le mani lisciò i jeans, poi distolse lo sguardo perché anche quelle mani erano una visione innaturale.

Aprì un'altra porta e si ritrovò in una piccola stanza di passaggio semicircolare.

Un vetrata dava sullo spazio aperto.

Oro le dava le spalle, ma poteva vedere il riflesso del suo volto sul vetro.

Se l'aveva notata, la ignorò.

«Lo spazio ha sempre avuto il suo fascino.»

«Mette anche paura. Pensare di essere sospeso in mezzo al nulla... non mi fa dormire.»

«Ad alcuni fa questo effetto.»

«E a te Isabelle?» chiese Oro voltando solo la testa.

Lei avanzò fino a trovarsi accanto a lui.

Distolse lo sguardo dal suo riflesso biondo con gli occhi cobalto.

«Mia cugina Isabelle dorme da qualche ora, Oro.»

Il ragazzo spalancò gli occhi e la fissò.

«Ray-Raylene?»

Lei sentì un groppo in gola. Era una sensazione strana. Aveva la piena percezione del corpo, ma nulla era come se lo aspettava.

Oro si voltò completamente verso di lei.

«Sei davvero tu?»

Il labbro inferiore le tremava leggermente, reazione al nervosismo propria di Isabelle, ma del tutto nuova per lei.

Si limitò ad annuire.

Oro aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì un suono.

Le circondò il collo con le mani che gli tremavano.

«È... così strano.» fu tutto ciò che riuscì a dire.

Lei mise le proprie mani su quelle di lui. «Anche per me.»

A quel punto Oro non poté più fermarsi, non poté più aspettare. So chinò su di lei e catturò le sue labbra. Gliele dischiuse lentamente, come se avessero tutto il tempo del mondo, mentre in realtà non era così.

Lei si trovò ad indietreggiare, sentì il muro contro la schiena.

Parte di tutto quello le era ormai naturale. Per quei pochi giorni di collaborazione prima che Profondo Blu li attaccasse erano rimasti soli diverse volte.

Oro le fece scendere le mani lungo i fianchi per stringerla a sé.

Raylene gli posò l'indice sulle labbra per fermarlo, sebbene lei stessa non volesse farlo.

«Rischi... rischi di svegliare Isabelle.» si rese conto che Oro teneva gli occhi chiusi.

Le passò le labbra sulle dita, poi sulla mano e sull'incavo del polso.

«Oro...»

Lui sospirò rassegnato e appoggiò la propria fronte alla sua.

«Credevo davvero di averti perso.»

«Lo credevo anch'io.»

La guardò gli occhi cercando di concentrarsi solo su quelli.

«Hai idea di dove sia il tuo corpo?»

Raylene scosse la testa.

 

«Allora» esordì Ryan «io e Pai ci abbiamo riflettuto: dobbiamo dividerci in due gruppi. Uno si fermerà su Arret, cercherà i ribelli e proverà a smuovere la situazione; l'altro gruppo, invece, continuerà il viaggio e chiederà aiuto alla Fratellanza.»

«Cos'è la Fratellanza?» chiese Caos.

«È un'organizzazione politica mirata a mantenere la pace nei pianeti abitati.»

«Ce ne sono più di due?»

«Molti di più.» disse Silver.

«Dovremo convincere la Fratellanza ad aiutare sia Arret che la Terra.»

«Il problema è che abbiamo una sola astronave se non sbaglio.» osservò Silver.

«Non sbagli.» confermò Pai «Quella con cui siamo arrivati qui non funziona ormai da tempo, ma non è un problema. Arret è il pianeta abitato più vicino, chi di noi si fermerà lì potrà scendere mentre gli altri proseguiranno il viaggio.»

Dopo poco tutti annuirono.

«Dobbiamo dividerci allora.» disse Aisha.

Pai annuì, ma fu Ryan a parlare. «Su certe cose c'è poco da discutere quindi Isabelle, New, Nevery, Pit e Opter verranno con me e Lory dalla Fratellanza.»

«No!» esclamò Nevery, che, dato che mancava almeno mezz'ora alle otto, era ancora sveglio «Io posso muovermi meglio di tutti su Arret e conosco la sede del Governo, non esiste che venga con voi.» ripensò al millepiedi robot rimasto nell'ufficio del comandante Triao.

«E io posso essere utile.» protestò a sua volta New «Chi altri potrebbe leggere nel pensiero o manipolare le menti altrui? Per quanto non mi piaccia farlo so quanto possa essere utile.»

Ryan guardò Pai.

«Non si può dire che abbiano torto.» ammise pensieroso.

«La gente muore tutti i giorni, senza distinzioni!» continuò Nevery «Se sappiamo combattere e possiamo renderci utili perché dovremmo avere il privilegio di nasconderci?» nei suoi occhi dorati brillava una luce singolare.

«Testardo.» commentò Ghish, ma detto da lui sembrava un complimento.

«Deve essere una cosa di famiglia.» ribatté Strawberry guardando teneramente i figli.

«Chi di voi verrà su Arret?» chiese Fosfor.

«Stai dando per scontato di doverci andare anche tu o sbaglio?» osservò Lory rivolgendogli uno sguardo bonario.

Fosfor scrollò le spalle.

«Io, Pam, Ghish, Strawberry e Mina.» rispose Pai «Kyle, Paddy e Tart andranno con Ryan e Lory.» gli interessati annuirono.

Mina e Kyle si scambiarono un rapido sguardo. A nessuno dei due piaceva l'idea di doversi separare, ma sapevano che era necessario: Mina era un'ottima combattente e Kyle, come umano, doveva aiutare Ryan a sostenere la causa della Terra.

«Allora anche noi veniamo su Arret.» affermò Aprilynne e Catron annuì.

Strawberry sospirò e abbassò lo sguardo, ma annuì. Se lo aspettava.

«E noi.» le fece eco Psiche.

«Io.» la corresse Silver «Tu finiresti solo per farti ammazzare, non sei mai stata una buona combattente e...» lasciò la frase in sospeso, ma era chiaro quello che volesse dire. Dopo Raylene, non ce l'avrebbe fatta a perdere un'altra sorella.

Psiche fece per protestare, ma Pam la fermò. «Ha ragione lui. Resterai con Isabelle.»

«Anche io andrò su Arret.» si fece avanti Oro.

Raylene, seppur con gli occhi si Isabelle, alzò lo sguardo su di lui. Rimase in silenzio, ma la sua espressione era eloquente. Almeno per lui.

«Oro...» provò a dire Lory, ma lui la interruppe.

«Siamo tutti implicati in questa guerra, mamma! Anche se sono umano il mio aiuto può servire su Arret.» il suo tono indicava che la sua decisione era irremovibile «Caos verrà con voi.»

«Ma...» provò a protestare il fratello, poi si zittì da solo. Era le stessa situazione di Silver e Psiche.

Ryan fece vagare lo sguardo nella stanza.

«Gli altri?»

«Davvero ce lo stai chiedendo?» Riley lo fissò con i suoi occhi rossi da rana, era così sorpreso che la sua domanda non risultò neanche impertinente.

«Sì.» rispose Ryan senza capire.

Riley guardò Ethan, come se stesse parlando una lingua diversa e l'amico fosse in traduttore.

«Riley voleva dire che la tua è una domanda difficile: scegliere di andare su Arret potrebbe essere un suicidio, ma dire di voler andare dalla Fratellanza potrebbe essere interpretato come vigliaccheria.»

Gli altri rimasero in silenzio, ma da come distoglievano lo sguardo era chiaro che erano d'accordo.

«Capisco.» disse Ryan dopo un po' «Ma è umano volersi salvare, non c'è nulla di vigliacco, almeno in genere. Ciò che vi chiediamo è di essere realisti. Comunque contandoci, direi che altre cinque persone verranno dalla Fratellanza e quattro andranno su Arret.»

Ancora per qualche minuto la stanza cadde nel silenzio più assoluto.

«Io andrò su Arret.» la voce di Abigal sembrò quasi rimbombare.

Silver scattò in piedi quasi senza accorgersene. «Tu vai lì solo per farti ammazzare!» si girò verso il padre «Servono persone pronte a tutte è vero, ma anche che sappiano badare a se stesse, non suicide!»

«Chi ti dice...» Pai non ebbe il tempo di finire la frase.

«E anche se fosse?» Abigal parlava con quella calma spaventosamente vuota e anonima che ultimamente la caratterizzava. «Morire per una giusta causa non è poi così insensato.»

«Solo se è necessario.»

I due ragazzi si guardarono in cagnesco e gli occhi blu di entrami sembravano carichi di elettricità.

«Non ho detto che mi farei ammazzare alla prima occasione.»

«Sì che lo faresti.»

«Non sono così stupida, Silver!» improvvisamente la sua voce salì di tono e si caricò di un'autorità quasi innata che fece ammutolire il ragazzo.

La fissò come se all'improvviso avesse cominciato a brillare. Dovette resistere all'istinto di strizzare gli occhi.

«Non ho mai detto che mi lascerai ammazzare alla prima occasione.» continuò imperterrita «Solo sarei pronta a farlo, se dovesse essere necessario. Non è quello di cui abbiamo bisogno?» quasi senza accorgersene spostò lo sguardo si Kathleen «Dopo la morte di Dalton non mi importa molto di quello che può succedermi, è vero, ma proprio perché so quello che provo io non voglio che succeda ancora ad altri.»

Kathleen le sorrise.

«Dimostramelo.» ribatté Silver.

Abigal tornò a fissarlo.

Il fatto che non avesse abbandonato neanche per un secondo la sua posizione rilassata non faceva che accrescere il suo senso di autorità.

Ghish, Pai e Tart lo sentivano più di chiunque altro. Victoria era la loro madre adottiva, ricordavano bene quell'atteggiamento.

Abigal abbassò lo sguardo, ma rispose ugualmente e il suo tono non era meno deciso.

«Secondo l'idea originale scommetto che io e Oro saremmo dovuto andare dalla Fratellanza, ma dal momento che non lo faremo rimangono due posti, per così dire.»

«Non è una gara ad accaparrarsi i posti per la salvezza, Arret non vuol dire morte, è rischioso, sì, ma non fino a questo punto Abigal!»

Lei sembrò appena sentirlo.

Rialzò lo sguardo e lo fissò di nuovo su di lui. «Electra e Fosfor andranno dalla Fratellanza.»

Per qualche secondo tutti continuarono a guardare lei, poi l'attenzione cominciò a spostarsi su i due ragazzi.

Prima, abbastanza sicuri di essere ignorati, si erano avvicinati l'una all'altro. Fosfor le aveva cinto i fianchi con un braccio e lei gli si era appoggiata. Si irrigidirono nel vede tutti gli sguardi rivolti verso di loro.

Silver tornò quasi subito a fissare Abigal.

Lei si lasciò studiare, sfidandolo con lo sguardo a dirle che si sbagliava.

Silver non resistette a lungo, abbassò gli occhi e annuì. «D'accordo, hai ragione.»

Abigal non poté fare a meno di sorridere, ma poi emise una specie di sospiro che sembrò svuotarla di nuovo.

Pai non poté fare a meno di lanciare un'occhiata a Tart.

Quella ragazza sembrava Victoria in tutto e per tutto. Non quando diventava neutra e vuoto, certo, ma c'erano dei momenti in cui guardarla dava i brividi.

«Aspettate» disse Fosfor quasi senza accorgersene «...davvero?»

«No, per finta.» Ghish non riuscì a trattenersi e Strawberry gli rifilò una gomitata che lo fece solo ridacchiare di più.

«Non starlo a sentire.» si affrettò a dire Tart «Non dice sul serio.»

«Non parla mai sul serio.» gli fece eco Paddy.

«Tante grazie.» sbottò Ghish.

«Abigal ha ragione,» affermò intanto Pai «non credevamo che lei e Oro venissero su Arret. E nulla vieta che voi possiate venire con noi.»

Electra e Fosfor si guardarono. Lui ritirò il braccio con cui la stringeva, ma istintivamente si presero la mano. Poi però si guardarono intorno, in particolare fissarono Ethan e Riley. Ciò che avevano detto era dannatamente vero.

«Decido io per loro, così non ci sarà imbarazzo.» intervenne Abigal «Andranno dalla Fratellanza e se qualcuno ha qualcosa da dire,» sorrise agli altri «anche se sono sicura che non sia così, dovrà prendersela con me.»

Naturalmente nessuno aveva niente da dire.

«Noi, cioè, io...» cominciò Aisha.

«No.» disse con dolcezza, ma decisione allo stesso tempo Kyle «Tu e Sharlot verrete con noi. Più umani sosterranno la causa della Terra e maggiori saranno le probabilità di farcela.»

«Ma... noi possiamo... la mamma...» tentò debolmente di protestare Sharlot.

«Non prendetevela,» disse il padre mettendo ad entrambe una mano sulla spalla «ma Mina vale quanto voi due messe assieme.»

«Rimaniamo solo io, Ethan, Riley e Kathleen.» osservò Faith «Tre di noi andranno su Arret il quarto dalla Fratellanza.»

«Uno solo?» si assicurò Ethan.

«Sì.» confermò Pai.

«Allora io e Riley andiamo su Arret. Rimanete tu Faith e Kathleen.»

«Allora c'è poco da discutere.» disse la ragazza-serpente «Io verrò su Arret.»

Kathleen sembrò sinceramente sorpresa. «Perché?»

«Perché tutta la tua famiglia andrà dalla Fratellanza.»

«E allora? Se sono tutti al sicuro a maggior ragione io...»

«Va bene così. Se vuoi vedila come se mi andasse di tornare a casa.» la sicurezza con cui parlava Faith era simile, ma non uguale a quella di Abigal.

Lei voleva tornare perché quella era il suo pianeta, casa sua, il suo territorio, qualcosa che voleva riavere, qualcosa per cui avrebbe combattuto fino alla fine facendo di tutto per restare viva.

Abigal era spinta solo dal senso di dovere e di giustizia.

«E noi?» chiese Mark che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Arlene aveva tentato di rimanere concentrata, ma la sua attenzione continuava a gravitare intorno alla piccola Azzurra che stava tra le sue braccia.

«Voi dovete tornare sulla Terra.» a parlare era stato Nevery «Io, cioè Always, partirà appena sveglio per una missione sulla Terra insieme a Ian e Caliane.»

«E lo dici ora?» esclamò Ghish.

«Chi è Caliane?» chiese Paddy «E Ian?»

«Ian è un uomo-chimero, Caliane è la ragazza, o forse dovrei dire guardia del corpo, del Cavaliere Blu.»

«Simpatica?» commentò Ghish.

«Per niente. E ha anche dei poteri... inquietanti. Ha tenuto testa a Profondo Blu.»

«Ian Gorgoyl?» domandò Pai.

«Mi sembra di sì.»

Ryan guardò Mark «Pensi di poterli... tenere a bada?»

«Di sicuro sapranno già di me, comunque penso di sì. Ho ancora dei poteri.»

«Sicuro?»

«Sì. Volendo posso teletrasportarmi da qui direttamente sulla Terra.»

Lo guardarono stupefatti. «Davvero?» Pai era incredulo «Neanche noi possiamo farlo.»

«Io posso, anche se è molto stancante.»

«Siamo d'accordo allora, diamoci da fa...» Ryan vide Nevery accasciarsi a terra come se il cuore gli si fosse fermato all'improvviso «Ma che...»

«Sono le otto.» disse Aprilynne prendendolo in braccio.

«Fa sempre così?» chiese Lory. «È spaventoso!»

«All'inizio sì.» confermò la ragazza.

 

Nevery riaprì gli occhi all'istante, solo a qualche anno luce di distanza e in un corpo completamente identico a quello di prima.

La stanchezza che aveva cominciato a sentire era svanita di colpo, come tutte le volte.

Caliane lo aveva buttato giù dal letto, anche se non sapeva dire quando.

«Alleluja! Stavo per buttarti un secchio d'acqua addosso.» ringhiò la ragazza «Muoviti.» gli lanciò una tuta che sicuramente gli stava grande.

In un piccolo zaino c'erano anche qualche pacchetto di fazzoletti, uno spazzolino da denti e altri piccoli oggetti dall'aria utile che non perse tempo ad esaminare. Dopo qualche giorno in quella sottospecie di prigione bianca sembrava un lusso.

Si cambiò il più in fretta possibile, poi si precipitò fuori precedendo Ian.

Vivere tra i Connect gli aveva insegnato a essere rapido quando era necessario.

Forse per questo uscendo trovò Caliane e il Cavaliere Blu ancora avvinghiati l'uno all'altra. La ragazza si vedeva appena schiacciata com'era tra lui e il muro. In loro non c'era proprio niente di dolce e Nevery non provò l'impulso di distogliere lo sguardo come era successo più volte nella stazione spaziale fino a poco prima.

«Ehi!» abbaiò il Cavaliere Blu quando finalmente si accorse di lui «Che ci fai qui?»

«Sono pronto.» disse in tono neutro.

«Bene. Anche la vostra astronave lo è, decollerete tra pochi minuti.» guardò la sua guardia del corpo «Tienili d'occhio e non farteli scappare.»

«Dubiti di me?» lo provocò lei che ancora non si era staccata dal muro.

Ian uscì in quel momento.

«Sapete quello che dovete fare.» detto questo il Cavaliere Blu si smaterializzò.

Ian e Nevery seguirono Caliane per diversi corridoi bui e deserti che, come il bambino intuì, dovevano diramarsi per diversi chilometri sotto la città.

Prima di quanto ritenesse possibile si ritrovarono nell'hangar.

Caliane continuò a camminare senza dire una parola.

L'astronave su cui salì era molto diversa da quella con cui i Connect erano arrivati sulla Terra. Questa era più piccola e più affusolata, sembrava la punta di una freccia. Il metallo di cui era ricoperta aveva una sfumatura che andava rosso al violetto a seconda della luce.

Era una delle più veloci che esistessero, Nevery ci avrebbe scommesso.

«Wow» Ian era senza parole, sembrava incantato «e io che pensavo che mi avrebbero soppresso.»

«Non è ancora stato detto il contrario.» gli ricordò Caliane, diversi metri più avanti con voce arzilla. Stava passando una mano sul metallo lucido e crepitante di elettricità. I suoi occhi viola brillavano di eccitazione anche più di quelli di Ian.

«Salite.» disse, come in trance.

Non si voltò indietro prima di salire a bordo e, una volta dentro, si chiuse il pannello d'ingresso alle spalle. Inspirò profondamente mentre le luci bluastre si accendevano.

Nevery e Ian la seguirono fino alla punta dell'astronave nella sala di controllo, ma lei si mise da sola ai comandi.

Nevery si assicurò il posto vicino alla vetrata e si allacciò le cinture.

Una parte di lui stava andando sulla Terra proprio mentre l'altra stava tornando.

Partirono quasi subito.

Per qualche minuto rimasero all'interno dell'atmosfera del pianeta, poi presero velocità all'improvviso e puntarono verso l'alto.

«Quanto è distante questa Terra?» chiese Ian.

«Parecchi anni luce.»

«Anni luce?» ora sembrava persino spaventato, il suo volto leonino nascondeva molto male le emozioni «Anche se viaggiassimo alla velocità della luce di metteremmo... anni appunto.»

«Questo gioiellino può andare più veloce della luce.» Caliane sembrava orgogliosa come se l'avesse costruito lei. «Ne sono rimasti solo altri due in grado di farlo.»

Uno è quello che abbiamo rubato, capì Nevery, quello che mia madre ha aiutato a rubare.

Ancora non riusciva a crederci. Davvero i suoi genitori sapevano che esisteva un suo clone?

Certo che lo sapevano. Si diede dello stupido per non esserci mai arrivato da solo prima.

Quali genitori non battono ciglio sapendo che il proprio figlio rimane in uno stato di coma per dodici ore al giorno tutti i giorni con una regolarità spaventosa? Così come non si stupivano che sapesse cose che non gli erano mai state insegnate, che conoscesse vie della città in cui non era mai stato, che già da molto piccolo fosse quasi completamente autonomo nonostante le loro attenzioni, che avesse idee strane che doveva per forza aver sentito da qualcun altro, che avesse sviluppato un senso della giustizia di gran lunga superiore a quello degli altri ragazzi.

I suoi genitori sapevano tutto dei Connect. Sua madre glielo aveva dimostrato il giorno in cui era stata arrestata, dicendogli che era solo questione di tempo.

Sua madre. La sorella di uno dei tre Ikisatashi che erano stati cercati per così tanto tempo. Una ribelle che faceva parte dell'esercito.

Se ci era riuscita lei, nascondendo per così tanti anni le proprie origini al Governo, allora anche altri dovevano esserci riusciti.

Il sistema che teneva sotto controllo il pianeta non era poi così potente. C'era modo di aggirarlo. C'erano dei punti deboli.

Avevano davvero qualche speranza di farcela.

Inspirò profondamente.

Con Caliane lontana sulla Terra avevano un nemico di meno.

Ian teneva gli occhi blu fissi sullo spazio pieno di stelle che sfilava velocissimo intorno a loro. Era così affascinato che sembrava un bambino.

La coda leonina non stava ferma un minuto, quasi fosse un arto indipendente dal resto del corpo.

Il DNA del suo clone era stato unito con quello di qualche animale, questo influiva sul suo se stesso di adesso?

Si guardò le mani.

Lui aveva quasi undici anni e gli altri si erano tutti rivelati intorno ai dodici, ma infondo lui era già un'eccezione, no?

Cosa era in grado di fare?

Si concentrò, anche se non sapeva bene su cosa.

I palmi delle mani e le dita gli formicolavano. Incanalò l'energia fino a farla fuoriuscire da sé.

Le particelle d'aria sopra la sua mano si illuminarono leggermente di dorato.

Pochi secondi dopo aveva tra le mani un boomerang.

Si guardò intorno allarmato, ma nessuno prestava attenzione a lui.

Riassorbì l'energia e il boomerang sparì.

Non aveva mai evocato la sua arma e sapeva che alcuni ci mettevano una vita per riuscirci, ma era la prima volta in assoluto che ci provava.

Forse era tutto lì: bastava provarci.

Un brivido caldo lo attraversò. Qualcosa si muoveva nella sua schiena.

Guardò le proprie braccia. Si stavano ricoprendo di una sottile peluria sofficissima. Avvicinò il braccio agli occhi. Non erano lei, ma piccole piume dorate, come quelle dei pulcini.

Abbassò di scatto le braccia.

Di nuovo nessuno si era accorto di nulla.

«che diavolo...» borbottò Caliane «Chi sono quelli?»

Un'astronave blu veniva dalla direzione opposta alla loro.

Nevery si sentì morire.

Avrebbe riconosciuto quell'astronave ovunque. Era la stessa che lo aveva portato sulla Terra. La stessa che ora stava portando il suo clone su Arret.

«La loro radio è attiva, perché non rispondono?»

«Forse sono della Fratellanza.» Nevery ringraziò che fosse stato Ian a dirlo.

«No, ci sarebbe un simbolo!»

«Comunicare destinazione.» era chiaramente la voce di Pai.

«Cosa? Comunicatela voi la destinazione!»

«Con quale autorità ci fare questa domanda?»

«Come inviato speciale del pianeta Arret del sistema di Bellatrix.»

«Il vostro pineta non ha più autorità. Comunicate la destinazione.»

«Andate al diavolo! Chi sareste voi?»

«Delegati speciali della Fratellanza. La prego di moderare i toni.»

Nevery soffocò una risata.

Il tono di Pai era così inflessibile e calmo che era impossibile non credergli.

«Mi scusi.» ora la voce di Caliane era così dolce e suadente che sembrava miele «Ma questa è una missione molto delicata e non ci è permesso fermarci così a lungo.»

«Mi spiace ma devo insistere, comunicare destinazione.»

«Questa è un'informazione riservata.»

«Non dovremmo...» cominciò Ian.

«Non sono nemmeno della Fratellanza!»

«Come fai a dirlo?»

Si girò e gli lanciò un'occhiata magnetica dietro le lunghe ciglia nere «Conosco diversa gente della Fratellanza, abbastanza da sapere che hanno un disco registrato che risponde alla radio e non dice mai “la prego di moderare i termini”.»

Aveva parlato abbastanza forte perché Pai potesse sentirla.

Se lo immaginava, rigido e frustrato per aver commesso un errore del genere.

Caliane armeggiò con i comandi e sfrecciarono via.

 

Mark entrò per primo e accese la luce.

Trovare la casa vuota e silenziosa proprio come l'aveva trovata fu un sollievo indescrivibile.

«Siamo soli.» annunciò e si fece da parte perché Arlene entrasse con in braccio la piccola Azzurra.

La donna si andò a sedere sul divano.

«Dorme?» chiese Mark guardando la bambina.

«Sì.» Arlene alzò lo sguardo «Mark io... mi dispiace di essermi lasciata ingannare così avrei dovuto...»

«No.» si sedette difronte a lei. «È anche colpa mia.»

«Tua? Come puoi dire che è colpa tua?»

«Dovevo immaginarlo che sarebbe tornato a cercarmi, sono rimasto sulla Terra per questo. Avrei dovuto trovare il modo di dirti la verità.»

«Ma come potevi?»

«Dovevo Arlene. Cosa avresti pensato dopo qualche anno quando tu avresti cominciato ad invecchiare e io fossi rimasto sempre uguale? Sono già costretto a dichiarare più anni di quanti ne dimostri.»

Arlene fece per dire qualcosa, ma all'improvviso si interruppe. «Succederà lo stesso, vero? Anche se ora lo so.» la sua voce si sentiva appena «E dovrai sparire dalla circolazione quando sarà troppo evidente.» tentò invano di respirare con calma «Ed è per questo che non volevi dei figli. Per non sopravvivere a loro.» d'istinto strinse Azzurra.

«Non andrà così.» Mark cercò di parlare con più sicurezza di quanto non avesse in realtà. «Profondo Blu è tornato, se riusciamo ad ucciderlo tutto questo finirà, ricomincerò ad invecchiare e...»

«Tu non sei un assassino.»

«A tutto c'è un limite. E lui mi ha rovinato abbastanza la vita.»

«Questo non fa di te un assassino, io so che non uccideresti mai. Nemmeno lui.»

Mark abbassò lo sguardo e quasi senza volerlo lo posò su Azzurra, che ancora dormiva.

Cosa avrebbe pensato, una volta cresciuta, sapendo che aveva ucciso suo padre?

«No!» Arlene sembrò avergli letto nel pensiero «Non mi importa cosa dice la genetica, non sarà mai sua figlia! Il sangue non è tutto. E se siete davvero così legati...»

Azzurra aprì gli occhi di scatto e Arlene sussultò come se le avesse dato la scossa.

La luce sfarfallò.

La bambina invece si illuminò.

«Interessante.» sibilò una voce femminile, in arrettiano.

Mark si voltò.

Al buio non vedeva quasi niente e quell'oscurità era chiaramente innaturale.

«È nata prima del previsto, dobbiamo avervi sottovalutati.»

Arlene indietreggiò fino a trovarsi con le spalle al muro. Non capiva le loro parole, non del tutto, ma non ci voleva un genio per immaginarsele.

La luce che il corpo della bambina emanava aumentò e Mark poté vedere i suoi avversari.

Una ragazza dallo sguardo felino e viola se ne stava dritta a pochi metri da lui, pronta ad attaccare, con un pugnale nero interamente lavorato e dall'aria letale.

Lentamente, dall'ombra emersero altre due figure. La più alta aveva così poco di umano che persino Mark si irrigidì.

Era un misto tra una uomo e un leone. Il corpo, provvisto di coda, era arancione mentre artigli, occhi e capelli di un blu scuro magnetico.

La terza figura era minuta e più indietro rispetto alle altre.

Mark incrociò lo sguardo di Always che annuì lentamente, senza farsi notare. Stringeva un boomerang tra le mani.

«Cosa vuoi Caliane?» chiese ricordandosi all'improvviso il suo nome e cercando di prendere tempo. Da quello che gli aveva raccontato Nevery, era abbastanza pericolosa da essere temibile.

«Conosci il mio nome?» mascherò lo stupore piuttosto bene «Allora dovresti sapere anche che è meglio non oppormisi.»

Mark guardò verso Arlene cercando di non farsi notare.

Illuminata da Azzurra, aveva un che di spettrale. La vedeva, era pronta a scattare.

«Non mi hai ancora risposto.»

Lo sguardo di Caliane si fece crudele e deciso «La bambina.»

Mark concentrò l'energia sul palmo della mano.

«Scordatelo.» mentre ancora parlava lanciò verso di lei la sfera di energia.

Caliane la schivò alzandosi in volo.

Ian scattò verso Arlene. Mark stava per seguirlo, ma ci pensò Nevery a fermarlo. Lanciò il suo boomerang e l'uomo-chimero barcollò stordito.

Nevery si mise tra lui e Arlene.

«Prendi Azzurra.» gli ordinò la donna mettendogli in braccio la bambina.

«Ma...»

Arlene lo afferrò per un gomito e corse in cucina.

Ian si riprese in fretta e corse loro dietro.

Arlene arrivò appena in tempo.

Aprì un cassetto alla cieca e ne estrasse un coltello.

Si voltò.

Il buio più totale non era diramato nemmeno dalla luce di Azzurra.

Si guardò intorno.

Distingueva a mala pena i contorni dei mobili.

Strinse il coltello.

Spinse Nevery dietro di sé.

«Sono io quello che sa combatte!» protestò lui, in inglese.

Arlene non lo ascoltò.

Aguzzò la vista e tese le orecchie.

Sentiva Mark e Caliane lottare nel soggiorno.

Un rumore. Non sembrava un passo, ma era dannatamente vicino.

Lanciò il coltello e sentì un ruggito. Qualcosa si allontanò e andò contro il tavolo.

Seguendo un'idea venuta da qualche film corse verso il frigorifero e lo spalancò.

Finalmente la stanza fu illuminata, anche se poco.

Il coltello aveva colpito Ian, anche se di striscio, e si era conficcato nel tavolo. L'uomo-chimero si teneva la mano sul fianco, ma ruggì appena incontrò il suo sguardo e si acquattò, pronto a saltare.

«Ian aspetta!» lo chiamò Nevery. «Loro possono aiutarci! Gli altri sono già in viaggio!»

«Gli altri? Chi? E tu che ne sai? Come conosci questa gente?» ringhiò Ian senza abbandonare la sua posa.

«Li conosco da quando ero piccolo. Be', non proprio loro, loro li ho conosciuti poco tempo fa.»

«Mentre eri in cella? In sogno?»

«No, mentre ero qui sulla Terra.»

«Impossibile. È la prima spedizione...»

«No, è la terza. La seconda è quella dell'astronave che abbiamo incrociato. Era l'astronave rubata. Mia madre li ha aiutati a prenderla, per questo l'hanno arrestata.»

Ian indugiò.

«Dimostramelo.»

«Okay. Guarda la bambina.»

Questa volta fu Arlene a ringhiare, anche se non come Ian.

«Okay, guardala a distanza.»

Azzurra, che si teneva aggrappata a lui come solo i bambini piccoli sanno fare, cercò di mettere il busto in posizione eretta e si lasciò scoprire un orecchio.

Ian alzò un sopracciglio.

«Gli umani non le hanno così.» fece un cenno verso Arlene «Lei è un ibrido. È per questo che la vogliono.»

«Se li tradisco quelli mi ammazzano!»

«Ti uccideranno ugualmente quando non gli servirai più. Noi... i miei amici... alcuni sono tornati su Arret per radunare i ribelli e altri stanno andando dalla Fratellanza. È solo...»

Nel soggiorno, Mark urlò. Quello che sembrava un fulmine violaceo illuminò la casa a giorno, poi la lasciò di nuovo al buio.

Anche Azzurra si spense, sembrava stanca.

L'elettricità statica si percepiva nell'aria.

Arlene non vide più nulla.

Non ricordava di essersi mossa, ma si ritrovò in soggiorno.

Mark era a terra, immobile in una posizione innaturale, Caliane torreggiava su di lui, il corpo attraversato da scariche elettriche violacee. L'espressione così feroce e vuota allo stesso tempo da sembrare irreale.

Di nuovo non ricordò di essersi mossa, di aver deciso di muoversi, ma l'attimo dopo l'aveva già spinta a terra, allontanandola da lui.

Il vantaggio durò giusto i pochi secondi della sorpresa, poi Caliane ribaltò la situazione con facilità.

Arlene tentò di divincolarsi, ma la ragazza aliena era molto più forte di lei.

La sentì caricarsi di energia.

L'elettricità passava nel suo corpo sotto forma di scariche dolorose.

Arlene sentiva che era solo l'inizio.

Maledisse il parquet e il legno isolante.

Ormai Caliane brillava.

Arlene si sentì accecata da quegli spaventosi occhi viola.

Le afferrò le braccia, ma si fece solo male. Toccarla era impossibile.

Caliane strinse la presa sulle sue spalle.

Arlene urlò.

Quei soli due secondi in cui l'elettricità attraversò distruttiva il suo corpo furono i peggiori della sua vita.

Da qualche parte sentì anche Azzurra urlare.

Due soli secondi in cui quella corrente anomala bruciò ogni sua energia, ogni fibra, ogni resistenza.

Le tolse la forza di urlare ancora, le strappò l'aria dai polmoni, come se una forza esterna la stesse facendo accartocciare su se stessa.

La sua forza di volontà si sgretolò fino a ridursi in cenere.

Gli occhi le si rovesciarono all'indietro.

Due soli secondi, sempre gli stessi, furono il tempo che impiegò Ian ad accucciarsi e a balzare su Caliane, a scaraventarla il più lontano possibile.

Ma furono troppi.

Nevery, Azzurra che gli si dimenava disperatamente tra le braccia, era riuscito a riscuotere Mark.

La bambina si illuminò di nuovo, sembrò esplodere e tutte le luci si accesero.

Caliane era in un angolo, gli occhi iniettati di sangue, che tentava continuamente di rialzarsi mentre Ian le assestava colpi rapidi ogni volta che si muoveva cercando di toccarla il meno possibile e allo stesso tempo di imprimere forza nei suoi affondi.

«Bastardi.» riuscì comunque ad abbaiare lei sputando un grumo di sangue.

Ian le assestò un pugno alla mascella.

Lei ansimò, ma non gemette nemmeno. Era chiaro che non gli avrebbe dato quel tipo di soddisfazione.

«Ian basta!» lo richiamò Nevery.

«Perché?» ruggì l'uomo-chimero bloccandosi con una mano a mezz'aria, ancora stretta a pugno e senza distogliere lo sguardo dalla ragazza. «Loro non avrebbero esitato un solo istante ad ucciderci.»

«Appunto! Noi non siamo come loro Ian, non possiamo comportarci come loro. È quello che vogliono. È quello che si aspettano da noi.»

Mark nel frattempo era riuscito a rialzarsi.

Andò verso Arlene, o ciò che restava di lei.

Il panico lo assalì appena la vide riversa a terra, immobile «Arlene... no! Apri gli occhi!»

Una risata gorgogliò nella gola di Caliane e il calcio di Ian non servì a farla andare via. «Quanto valeva la sua vita, umano?»

Lo sguardo di Mark era così pieno di dolore da non sembrare nemmeno arrabbiato. «Mille volte la tua, come minimo!» fu tutto ciò che si lasciò sfuggire.

Caliane rise ancora, ormai come impazzita, e Ian capì presto che il dolore non aveva più alcun effetto su di lei.

«Arlene! Ti prego!»

«Non può sentirti» lo canzonò la ragazza.

Ian non resistette e le sferrò un altro calcio. Questa volta il piede affondò nel suo fianco come fosse fatta di fumo.

Indietreggiò di un passo.

«Che cosa sei?»

«Di sicuro non umana. Non più di te.»

«Un chimero?»

«Ti piacerebbe!» sibilò lei mentre tentava di sollevarsi ancora una volta. Ci riuscì. «Non sono come voi. Non sono nulla che voi conosciate. Non potete...»

Il colpo alla testa fu così rapido e violento da farle perdere i sensi immediatamente.

«Se volete che non la uccida dovete trovare il modo di farla tacere.»

Si voltò e si accorse che nessuno lo ascoltava.

Nevery era in ginocchio accanto a Mark che teneva il corpo di Arlene tra le braccia.

Che fosse troppo tardi era palese.

Azzurra smise di dimenarsi.

 

Visto da lontano, non sembrava altro che una sfera azzurra con qualche riflesso nella parte illuminata. Aveva l'aria di una polla di sapone sospesa nel vuoto, proprio davanti a loro.

Avvicinandosi, però, si era fatta sempre più grande e aveva acquistato nuove sfumature di colore.

Rivolate verso il sole, o meglio, verso la stella Bellatrix, un'enorme isola dalle infinite sfumature di verde emergeva dalle acque. Poi, anche il verde cominciò a farsi meno intenso, liberando i contorni dei centri abitati più grossi.

Quando furono abbastanza vicini, ormai dentro l'atmosfera, lo spettacolo delle città arrettiane fu finalmente visibile ai loro occhi.

Erano immense e il reticolo di strade più grandi e di vie più piccole, praticamente invisibili, andava a disegnare un'enorme ragnatela in cui erano intrappolati gli edifici. L'altezza delle costruzione variava a seconda della posizione. Più si andava verso il centro più erano alte e, evidentemente, importanti.

Ai comandi c'erano solo Abigal e Silver.

Il ragazzo guardò fuori con aria nostalgica.

«Sembra un pianeta felice, visto così.»

Lo sguardo di Abigal, dopo un intenso luccichio, tornò a farsi vacuo.

«Tornerà ad esserlo. Anche se non per sempre.»

Silver la guardò cupo.

«Tutto ha un limite Silver, anche la felicità.»

«Allora penso di aver accumulato abbastanza tristezza, da poter passare il resto della vita a smaltirla con la felicità.»

Abigal lo guardò a lungo, studiandolo come non aveva mai fatto prima. C'era l'eco di un'emozione in fondo ai suoi occhi. Di certo non l'amore che l'aveva sempre resa così vitale, ma di certo affetto. Un affetto che, Silver lo sentiva, lei si stava sforzando di far riemergere, giusto per non rimanere del tutto vuota.

Per un attimo il ragazzo rimase così disorientato che non seppe cosa fare.

«Troviamo un posto sicuro in cui atterrare.» lo riscosse Abigal.

«Giusto.» concordò «Anche se tecnicamente dovremmo dire “arrettare”.»

Un sorriso si dipinse sulle labbra di Abigal, e per un attimo tornò ad essere la ragazza dai capelli azzurri e gli occhi blu che poteva irradiare bellezza.

Solo un attimo però.

 

Isabelle guardò fuori dalla vetrata e fece vagare lo sguardo nella piccola radura nella quale erano atterrati.

E così, questo è il vostro pineta?

«Sì.» confermò Raylene.

È bellissimo, così... pieno di vita.

«Non è sempre stato così. I miei genitori ricordano ancora era freddo e praticamente invivibile. Ha sempre alternato momenti particolarmente floridi e altri sterili. Nessuno sa bene perché.»

Isabelle fece vagare lo sguardo, senza riuscire a fermarlo su niente in particolare.

Al momento non è poi così allegro come sembra, vero?

Raylene non rispose. Preferì cambiare argomento.

«Il suo nome è il contrario di quello della Terra perché quando i nostri antenati l'hanno abbandonata era diventata inospitale e speravano che invece questo fosse un pianeta florido.»

Isabelle annuì distrattamente.

Quasi non si accorse del sussurro non suo che le uscì dalle labbra dischiuse.

«Casa.»

 

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Capitolo 19
*** D'accordo ***


D'accordo

 

«Come facciamo a trovare quelli della Fratellanza?» chiese Caos, sedendosi accanto al padre che armeggiava con i comandi insieme a Kyle e Tart.

«Basta atterrare sul primo pianeta abitato e... rivolgersi allo stato.» la risposta venne di Isabelle, seduta a gambe incrociate dietro di loro, sul mobiletto su cui di solito dormiva Nevery.

Ryan si voltò a guardarla e la fissò a lungo.

«Il primo pianeta abitato che capita?»

Sul volto di Isabelle si dipinse la sorpresa, poi sospirò. «Quello abitato più vicino è Zora, non ce ne sono altri nell'arco di anni luce. Ha detto il primo come vicinanza, non il primo che capita.» il fatto che parlasse di una parte di sé in terza persona ancora suonava molto strano.

Ryan annuì e tornò a guardare i comandi.

«È giusto.»

 

Era ancora buio quando attraversarono silenziosamente le vie della città addormentata fino a ritrovare la vecchia baracca all'apparenza pericolante che nascondeva l'entrata del loro nascondiglio.

Oro vide tutti i ragazzi trattenere il respiro mentre entravano nella stanza principale: una specie di salotto arredato molto semplicemente da cui partivano due corridoi, uno che portava alle camere, l'altro, molto più corto, ad altre stanza.

«Pai, Pam, voi potete stare nelle stanze di Raylene e Psiche» Abigal prese in mano la situazione «Non ci sono letti matrimoniali, almeno le stanze sono comunicanti. Mina, tu starai in quella di Evelyn. Ghish e Strawberry in quelle di Fosfor e Electra, anche le loro sono comunicanti, insieme a quella di Faith. Oro... se vuoi puoi stare in quella di Dalton.»

«Davvero? Non ti dà fastidio?» chiese il ragazzo.

Abigal non lo guardò. «No. Se a te dà fastidio dormire nella sua stanza puoi stare in quella di Kathleen. Mina vale anche te. Nel caso dia fastidio a tutti e due c'è anche quella di Pit e Opter, però bisognerà unire i letti perché sono più piccoli.»

«Nessun problema.» affermarono entrambi.

«Bene.» si concesse un momento di esitazione, poi rialzò lo sguardo «New, tu fai il primo turno di guardia, non credo che le telecamere possano riprendere a funzionare presto. Silver, tu occupati di questo. Qualcuno deve rimette a posto il laboratorio, qualcun altro deve occuparsi delle pulizie.» s'interruppe e sospirò. «Okay, ognuno sa quello che deve fare.»

I Connect annuirono e si dispersero silenziosamente.

Nessuno sapeva bene cosa dire. Quello non era certo il posto migliore dell'universo, eppure tornare a casa faceva un certo effetto. Anche se con casa si intendevano due corridoi sotterranei leggermente claustrofobici sotto una baracca nel quartiere più povero di tutto il pianeta.

Nella polvere dei mobili c'erano i loro ricordi, nella muffa sulle pareti le loro speranze.

Abigal mostrò a Pai, Pam e Oro le loro stanze.

Quando entrò nell'ultima, quella di Dalton, non poté fare a meno di fermarsi.

Fece scorrere lo sguardo nella camera vuota, apparentemente uguale alle altre e invece incredibilmente diversa.

La porta che comunicava con la sua stanza era aperta, come sempre. Sulla parete liscia sopra il letto erano attaccate fotografie che sembravano appartenere ad una vita passata. Sulla scrivania c'erano ancora alcuni dei suoi disegni.

Abigal si mosse quasi senza accorgersene.

La carta era ruvida a contatto con le dita. Spessa e reale.

Si guardò di nuovo intorno, mentre Oro rimaneva sulla soglia, in silenzio.

Ispirò l'aria stantia.

Così poco rimaneva di Dalton?

Ricordi, una porta aperta, disegni e fotografie.

I primi, gli unici che avesse all'inizio, avevano rischiato di soffocarla. Cos'erano infondo? Immagini impresse nella sua mente fragile e sconvolta.

Quante volte, da sola, si era ritrovata a chiedersi se fosse mai esistito? Il ragazzo che amava era reale? O almeno, lo era stato? Come poteva dimostrarlo?

Ma le fotografie, e ancora di più la carta ruvida dei fogli da disegno erano reali. Tangibili.

All'improvviso si ricordò che c'era anche Oro. Non fu una bella sensazione. Ebbe l'istinto di ringhiare a scacciarlo via. Come se quello fosse il suo territorio, qualcosa che le apparteneva e che doveva proteggere.

Strinse i pugni e rimase immobile per qualche altro secondo.

Poi, proprio mentre Oro stava aprendo bocca per dirle che poteva andare nella stanza di Evelyn, si riscosse.

Radunò tutti i disegni, staccò tutte le fotografie e mentre ancora stringeva entrambi al petto, chiuse la porta con forza e si voltò.

«È tutta tua.» riuscì a sussurrare mentre andava via.

Entrò nella propria stanza, quella accanto.

Avrebbe voluto lasciarsi andare a lacrime e urla, perché il dolore stava tornando a colpirla, ma sapeva bene quanto fossero sottile le pareti.

Lasciò libere le lacrime, ma impedì a mani e labbra di tremare.

Doveva andare avanti. Come sempre.

Dalton non era il primo Connect che moriva.

Le foto le mise a quelle che stavano sopra il suo letto, i disegni li sistemò sulla scrivania. In cima, mise il ritratto che Dalton le aveva fatto poco prima di partire.

Non era perfetto, ma era bellissimo.

La raffigurava sul davanzale di una finestra – anche se lì finestre non ce n'erano – mentre guardava fuori. Teneva la braccia intorno ad una gamba piegata contro il petto, e l'altra gamba a penzoloni. La testa era appoggiata al vetro e i capelli erano raccolti in una lunga treccia azzurra.

Gli occhi blu, illuminati dalla luce esterna, brillavano mentre guardavano fuori, verso un paesaggio che, data l'angolazione, s'intravedeva appena e appariva come una semplice luce bianca e abbagliante.

Il disegno si sovrappose ad un'altra immagine, un ricordo. Quello che le aveva mostrato Profondo Blu il giorno che l'aveva baciata.

Lasciò il foglio.

Sospirò, o almeno quello era l'intento.

Si asciugò le lacrime con un gesto deciso e uscì.

Sentiva le voci degli altri, per quanto basse, nelle altre stanze. Ognuno stava ritrovando una parte di sé, che fosse un orsacchiotto di peluche, come Nevery, o delle foto come lei.

Attraversò il corridoio, sbucò nel salotto e entrò nell'altro.

Entrò nel laboratorio e trovò l'interruttore.

Si guardò intorno.

Quello era messo davvero male.

Recuperò i pochi prodotti per pulire che avevano da uno sgabuzzino e si mise al lavoro.

Ancorate ad un tavolo una volta sterilizzato, c'erano quelle che sembravano delle bolle di vetro.

Uno strato di polvere le ricopriva.

Le ripulì con una pezza bagnata.

Solo allora le riconobbe.

Le chiamavano ampolle. Erano ciò che sostituiva il ventre materno per loro che venivano creati in laboratorio. All'interno di alcune c'erano pesino degli embrioni ormai morti che avano dovuto abbandonare prima di andarsene.

Posò la mano sul vetro e ve la tenne premuta.

«Possiamo creare delle vite dal nulla.» sussurrò tra sé e sé, affascinata.

«Ma non abbiamo il potere di riportarne indietro altre.» concluse Silver per lei.

Sussultò e si voltò.

«Che ci fai qui?»

«Hai detto che qualcuno doveva rimettere a posto il laboratorio e io ho finito di sistemare le telecamere e il resto del sistema di sicurezza.»

Abigal annuì e gli indicò con il capo il computer spento su uno dei tavoli. «Non l'ho toccato.»

Silver vi si sedette davanti e lo accese con cautela.

Abigal tornò alle pulizie. La polvere era dappertutto e lei sapeva bene che il laboratorio doveva essere un ambiente sterile.

Sbirciò oltre la spalla di Silver, verso il computer. Lo sfondo era una semplice schermata bianca. Sterile proprio come tutto il resto.

Sospirò, forse troppo pesantemente.

Silver si voltò lentamente e con cautela cercò il suo sguardo.

«Abigal, devo parlarti.»

Le sue sottili sopracciglia azzurre si aggrottarono mentre si voltava a sua volta.

«Siediti.» il ragazzo le indicò la sedia accanto a lui.

Abigal vi si sedette e accavallò le gambe lunghe.

«Si tratta di Dalton.» Silver aspettò. Aspettò una qualsiasi reazione, una delle tante che si sarebbe aspettato.

Abigal invece rimase composta e controllata. Ora ricordava le parole di New, sapeva cosa aveva in mente il ragazzo, ma voleva lasciarlo parlare.

«Il suo DNA è salvato nel computer e, come l'esperienza di Nevery dimostra, possiamo accelerare la crescita di un individuo.»

Abigal sollevò leggermente il mento.

Con lo sguardo riluceva una vaga aria di sfida.

«Potremmo...» Silver cominciò a sentirsi a disagio «potrei... ricrearlo.»

Quelle parole sembrarono non arrivare neanche ad Abigal. Per qualche secondo regnò il silenzio.

Lei abbassò lo sguardo, ma la sua voce era decisa.

«Lo hai detto tu Silver, per quante vite possiamo essere in grado di creare, non possiamo riportarne indietro altre. Potresti creare un suo clone. Potrei veder crescere un ragazzo identico a Dalton, magari con il suo stesso nome. Ma non sarebbe mai la stessa persona. Io ne sono la prova. Li sento gli sguardi di Pai, di Ghish e di Tart. Vedo quanto faccio loro paura, Silver. Sono impressionati. Eppure, tu credi che io sia la loro Victoria?» lo fissò dritto negli occhi.

Silver tentò di raddrizzarsi.

«È una donna che non ho mai conosciuto, di cui non so niente. Probabilmente ho anche un carattere diverso, anche se di sicuro le assomiglio molto anche in questo. Creeresti solo un altro ragazzo, magari schiacciandolo con la consapevolezza di dover sostituire Dalton. E per me non sarà mai la stessa cosa. Potrà avere i suoi occhi e il suo sorriso, ma non sarà mai lo stesso ragazzo con cui sono cresciuta. Non sarà mai il ragazzo che amo.»

Silver rimase colpito dal fatto che per il verbo amare avesse usato il presente, quasi senza accorgersene.

Si sentì uno stupido ad aver anche solo pensato una cosa simile. Infatti per Raylene non l'aveva fatto.

Abigal aveva ragione.

«Scusa.» mormorò.

La ragazza non rispondeva.

Fissava il vuoto, ma i suoi occhi erano vigili, la sua mente attiva.

Si voltò con uno scatto così repentino che Silver sussultò.

«Puoi creare un DNA praticamente dal nulla, giusto?»

«Sì. Cioè, partiamo sempre da una base che è comune a tutti voi e a noi. È ciò che ci rende speciali, che permette di legare il nostro DNA a quello animale.»

«Quindi era uguale anche tra me e Dalton.»

«Sì.» rispose il ragazzo, che ancora non capiva.

Lei rimaneva in silenzio.

«Cosa c'è?»

«C'è una cosa che potresti fare per me. Per noi.»

«Ti ascolto.»

Abigal si costrinse a rialzare lo sguardo, ma si vedeva che questo le costava un certo sforzo.

«Noi volevamo avere un bambino. Lo sai. Ma ho letto che già Victoria non è stata molto fertile e di certo noi non abbiamo avuto poi molte occasioni per tentare.» finse di ignorare il proprio rossore «Potresti creare un nuovo Connect unendo i nostri DNA.»

Silver rimase sbalordito.

Non era una richiesta poi così strana, era quasi commovente. Ma era una cosa che non si sarebbe mai aspettato.

Gli occhi blu di Abigal erano leggermente lucidi.

«Puoi farlo?»

Lui si concentrò sul proprio respiro.

Cosa c'era di male infondo? Chi avrebbe potuto negare che quello fosse figlio loro? Era disposto a creare nuovi Connect comunque, perché non acconsentire a quella richiesta?

«Posso farlo. E posso accelerare leggermente la gestazione, in modo che duri otto mesi invece che nove, o magari anche un po' meno.»

«E perché?»

«Perché Dalton è morto da qualche settimana, quasi un mese. In questo modo, contando a ritroso, i nove mesi comincerebbero da quando era ancora vivo. Non so se mi spiego.»

Per tutta risposta, Abigal lo abbracciò con un slancio. Affondò il viso nell'incavo del suo collo, forse per nascondere le lacrime di commozione.

Dopo un attimo di sorpresa, Silver restituì la stretta.

«Grazie Silver, è importante per me.»

«Lo so.» quasi senza accorgersene le aveva cominciato ad accarezzare i capelli «C'è solo un problema ora che ci penso.»

«Ovvero?» domandò lei staccandosi.

«In una gravidanza normale tutto è casuale, in questo caso dovrei decidere io ogni suo tratto.»

«Tiriamo a sorte.» propose lei, ormai euforica come non succedeva da tanto «Pari e dispari.»

Silver sorrise e aprì subito un file per appuntarsi tutto.

«Okay, cosa più importante, il sesso. Maschio dispari, femmina pari.» cominciò.

«Ci sto.»

Uscì pari.

«Femmina, a questo punto, cara futura-mamma devi scegliere un nome.»

«Hope.» disse dopo un po'. «È un nome terrestre, di dove è Dalton ora.»

«Speranza?»

«Di un futuro migliore.»

«Hope, allora. Andiamo avanti. Occhi. Dovrebbe avere i tuoi.»

«Per quanto mi riguarda dovrebbe essere una copia di Dalton. E comunque, gli occhi marroni sono rari su Arret, il colore della terra, fertile e piena di vita. Io trovo che quelli siano bellissimi.»

Silver sospirò. «Pari marrone, dispari blu.»

Venne dispari.

Abigal sbuffò dal naso.

«In una gravidanza vera, non potresti decidere niente.»

«Lo so, lo so. Occhi blu.»

«Capelli. Pari marrone, dispari azzurri.»

Pari. Marrone.

Andarono avanti a lungo, analizzando ogni minimo dettaglio.

Abigal era instancabile e Silver la ammirava.

Si fermarono solo quando il sonno tornò a farsi sentire. Per rientrare indisturbati avevano dovuto attendere che tramontasse il sole e, quando Nevery si era svegliato segnalando lo scoccare delle otto, erano entrati in città.

Abigal teneva la testa appoggiata sulle braccia incrociate sul tavolo e gli occhi chiusi.

Per una volta da settimane sembrava tranquilla.

Silver si ritrovò a guardarla quasi senza accorgersene.

«sei più forte di quanto crediamo, vero?» mormorò tra sé e sé «la più forte di tutti noi»

«Sono solo una brava attrice, Silver.» ribatté lei aprendo un occhio.

Lui non si scompose, o almeno non lo diede a vedere. «Non si è mai più se stessi di quando si recita una parte Abigal.»

Il suo sguardo tornò cupo, anche se non quanto prima.

La ragazza sbadigliò e si alzò.

«Un'ultima cosa.»

«Sì?»

«Questo voglio che sia tu a deciderlo. Con quello di quale animale sarà legato il suo DNA?»

«Nessuno, se possibile. Sarà comunque speciale.»

 

New capì quasi subito che le telecamere avevano ripreso a funzionare, lo percepì, e abbandonò il suo posto di guardia.

Seguì l'istinto e trovò Nevery appena fuori dalla baracca, seduto su ciò che restava di una panchina.

Teneva il viso rivolto verso l'alto e guardava le stelle.

Occupava la parte integra della panchina, quindi lei si inginocchiò a terra e alzò gli occhi a sua volta.

«Caliane, Ian ed io siamo già arrivati sulla Terra.» disse lui «Una volta pensavo che quella vita fosse un sogno, rispetto a questa era troppo bella per essere vera. Ora che so che entrambe erano reali, i miei corpi sono su pianeti diversi e i miei genitori in qualche fortezza del governo a chissà quanti metri sottoterra.»

«Li troveremo Nevery, li libereremo.»

«Almeno so che sono vivi. Chissà se, Kara, la mamma di Domnio è ancora viva.»

«Chi è Domnio?»

«Un mio amico. Vive non lontano dal mercato nero, anche se penso che ora sia stato abbandonato. Un giorno i soldati sono entrati e hanno arrestato tutti e c'era anche la madre.»

«Mi dispiace.»

«Domnio era fuori di sé. Lo capisco. Non oso pensare suo padre...» si interruppe. Abbassò lo sguardo di scatto e puntò gli occhi dorati in quelli argentati di New.

Lei sentì il suo cervello lavorare in fretta, ma era troppo cosciente per potergli leggere nel pensiero.

«Cosa c'è?»

«Il padre di Domnio e il mio costruivano dispositivi elettronici. Li vendeva al mercato nero, ma dicevano sempre che avevano dei clienti abituali. Vendevano solo a loro.»

«Non ti seguo.»

«Mia madre era nell'esercito, ci serviva come copertura. In questo modo secondo lo stato papà poteva non lavorare. Doveva risultare questo.»

«Continuo a non seguirti.»

«I miei genitori fanno parte dei ribelli. Cavolo l'ho sempre saputo!»

«Ma i tuoi genitori sono in carcere.»

«Ma il padre di Domnio no! Ora capisco. La mamma rubava file al governo e loro li facevano arrivare ai ribelli, ma certo!»

«Ma tua madre è cieca.» osservò New.

Nevery ebbe un momento di esitazione.

Poi però altri ricordi vennero a galla. Suo padre che le passava qualcosa di nascosto, il giorno che erano venuti ad arrestarla. Il modo di muoversi della madre. E, soprattutto, una, seppur banale intuizione.

«Vieni» disse alzandosi «devo chiedere una cosa a Ghish.» l'idea che fosse suo zio gli risultava troppo strana.

Lo trovarono nella camera di Catron, mentre rovistava ovunque per farsi i fatti del figlio. In un certo senso era comprensibile visto che erano stati separati per tanti anni.

«Always!» esclamò facendo un balzo.

«Ciao... zio.» lo fissò per qualche istante «Mia madre è cieca?»

«Cieca? Sheira? Certo che no! Non che io sappia almeno. Ha gli occhi dorati, proprio come me e te.»

Nevery annuì. Se lo aspettava.

Era ovvio in effetti.

Doveva fingersi tale. In modo da poter rubare i file e tenere gli occhi aperti per i ribelli senza rischiare di essere incolpata. In modo che, in caso avessero scoperto che era la Ikisatashi che cercavano, poteva essere lasciata in pace perché più utile come soldato che come informatrice.

Era tutto così ovvio!

Probabilmente era suo padre stesso a costruire le lenti a contatto.

«So dove andare per trovare i ribelli.» dichiarò Nevery con sicurezza.

 

Zora un pianeta relativamente piccolo, relativamente freddo e ricoperto di acqua.

Le città più importanti avevano una parte costruita in superficie che si appoggiava sulla parte sottomarina.

Quando l'astronave entrò in orbita, le acque di quasi tutto il pianeta erano agitate, la pioggia cadeva fitta, deviata in continuazione dal vento incessante e ululante. Grossi nuvoloni neri nascondevano la città alla vista e il brutto tempo interferiva con le comunicazioni.

In parte fu una fortuna perché l'astronave non aveva alcun permesso, ma, date le sue condizioni e il brutto tempo, fu possibile inscenare un atterraggio di fortuna.

Degli uomini completamente incappucciati vennero loro incontro mentre scendevano dall'astronave.

Gridarono qualcosa in una lingua acuta e sibilante.

Ryan e Kyle si guardarono impotenti.

Fu Psiche a farsi avanti.

Disse qualcosa di stentato e dovette ripeterlo molte volte prima che gli uomini incappucciati la capissero.

Uno di loro rispose sillabando le parole.

«Cosa dice?» chiese Ryan.

Psiche si voltò verso di loro. Il vento le scompigliava i capelli appesantiti dalla pioggia e tremava come una foglia. Dovette gridare per farsi sentire.

«Credo che ci stiano chiedendo di seguirli.»

«Credi

«Silver parla la loro lingua, io non n so molto.»

«Okay, seguiamoli, non abbiamo molta scelta.»

Scesero tutti alzando le mani per mostrare che erano disarmati.

Uno degli uomini fece loro segno di seguirlo e li condusse all'interno della struttura più vicina.

La luce azzurrina artificiale era abbagliante in confronto all'oscurità dell'esterno.

Aisha teneva Sharlot dietro di sé, ma lei tentava comunque di farsi avanti.

Ora che il maltempo e il freddo non li distraevano più di tanto, Sharlot poté studiare l'uomo, l'alieno, che aveva davanti. Era alto almeno due metri e, per quel poco che poteva vedere, era ricoperto di squame azzurrine.

Disse qualcosa all'altro alieno che se ne andò attraverso un lungo corridoio, poi li condusse in una grande stanza vuota che sembrava uscita da un film di fantascienza in cui tutto è bianco e solo apparentemente semplice.

Poco dopo entrò un altro alieno, vestito più semplicemente.

Psiche si contorceva le mani agitata.

Dovere fare da traduttrice quando le sue conoscenze di quella lingua erano davvero basilari.

L'alieno si avvicinò. L'assenza, sulla testa, di una cresta coriacea e spinosa simile a quella che certi pesci hanno sulla schiena, indicava che era una donna. Al posto della mani aveva otto tentacoli da polpo con squame azzurre sul dorso e bianchi e appiccicosi, anche se senza ventose, all'interno. Per i “piedi” era lo stesso

«Benvenuti.» disse in arrettiano.

Psiche trattenne a stento un sospiro di sollievo. Dovevano aver mandato lei proprio perché parlava la loro lingua.

«Il mio nome è Askenegher, sono una delle poche a conoscere ancora la vostra lingua.»

A quel punto Tart si fece avanti e Psiche fu felice di poter scomparire dietro Ryan e Kyle, vicino ad Isabelle che seguiva con sguardo attento la scena, come se capisse.

«Ci scusiamo per il nostro arrivo così improvviso, ma si tratta di una questione urgente e della massima importanza.»

«Ditemi.» lo invitò Askenegher.

«Siamo qui in rappresentanza di due pianeti e chiediamo udienza ai rappresentati della Fratellanza.»

«Due pianeti?»

Paddy avanzò silenziosamente e affiancò Tart, si sforzò di sorridere.

L'aliena la studiò a lungo, prima confusa, poi incuriosita. Si soffermò sulle sue orecchie.

«Quale pianeta, oltre ad Arret, ha interrotto i contatti con la Fratellanza così a lungo da essere dimenticato?»

«Uno che non ne ha mai fatto parte.» rispose Tart. «La Terra. Del sistema solare.»

Askenegher lo fissò dritto negli occhi, cosa non facile visto quanto era alta. Era stupita, probabilmente stava racimolando quel poco che sapeva su quell'angolo di Universo così lontano.

«Nel sistema solare c'è vita?»

«Da millenni.» intervenne Ryan facendo un passo avanti «E siamo qui perché continui ad essercene.»

«Non avevo mai visto razze così simili.» commentò l'aliena tra sé e sé, poi si riscosse «Un pianta che non fa parte della Fratellanza, non ne può richiedere il sostegno. E un nuovo sistema che entri in contatto con il nostro, per quanto piccolo, impiega tempo ad entrare a far parte della nostra alleanza.»

«Ma siete tenuti a prestare soccorso ai pianeti che ve lo chiedono e che...» cominciò Tart, che Pai aveva istruito a lungo su come comportarsi.

«Questo secondo i precedenti accordi.» lo interruppe Askenergher «Ma secondo i nuovi, redatti più di un decennio fa, non possiamo aiutare i pianeti che non fanno parte della Fratellanza, è stato deciso dopo che i sistemi di...»

«Non è del tutto vero.» quella voce non era venuta né da Tart, né da Ryan, né tanto meno da Paddy.

Tutti si voltarono e si spostarono leggermente fino a scoprire Isabelle che si guardava intorno frastornata.

Per qualche istante rimase in silenzio, nervosa e con gli occhi che saettavano da una parte all'altra.

Fece un passo indietro, come se qualcuno l'avesse spinta, poi ritrovò l'equilibrio, sollevò il viso e puntò gli occhi in quelli senza pupilla di Akenegher.

«C'è un'eccezione.» disse parlando in arrettiano.

I Connect presenti si scambiarono occhiate stupite mentre sussurravano il nome di Raylene.

Lei non si fece distrarre. «Un pianeta fino ad ora sconosciuto e quindi non alleato più essere considerato tale se si presenta sotto la protezione di un membro della Fratellanza.»

«Solo se si tratta di due singoli pianeti che dimostrano di aver mantenuto dei rapporti così stretti da poter essere considerati come un unico sistema. Anche questo è un accordo in revisione perché il solo fatto che due pianeti siano così vicini implica che uno dei due non sia sconosciuto.»

Gli occhi di tutti andavano dall'aliena a Isabelle come in un'appassionante partita a tennis.

«Un pianeta si può ritenere sconosciuto dopo almeno venticinque anni di isolamento.»

«Non metto in dubbio che questa Terra sia un pianeta a noi sconosciuto, ma viceversa Arret è molto conosciuto e, per quanto inaccessibile al momento, non può aver avuto rapporti con...»

«L'accordo non specifica che tipo di rapporti.»

Un occhio dell'aliena si fece più grosso dell'altro, probabilmente era l'equivalente umana dell'inarcare un sopracciglio.

Raylene, da dentro Isabelle, trattenne il fiato. Sapeva che questo era l'unico asso nella manica che avevano, l'unica cosa che avrebbe potuto salvare la Terra e con essa tutti gli umani.

Spostò lo sguardo su Kathleen che stava accanto a Psiche, e su Pit e Opter.

Parlò fissandoli.

«Degli ibridi sono la prova più inequivocabile e tangibile dell'unità di due pianeti.»

«Ibridi?» ripeté Askenegher.

Tart e Paddy si portarono subito alle spalle dei figli.

Paddy prese in braccio Opter mentre Tart metteva una mano sulla spalla di Kathleen.

«Nati e cresciuti su Arret, ma ibridi.» confermò Raylene.

Lo sguardo di Askenegher si fece più serio che mai. Risollevò la testa con un movimento repentino.

«Seguitemi.» ordinò loro.

 

«Nevery, sei sicuro?» chiese Silver per l'ennesima volta.

Ormai erano tutti in strada e il ragazzo stava cominciando a preoccuparti che qualcuno si insospettisse.

«Sono sicuro.» confermò il bambino fissandolo negli occhi.

«Va bene.» disse Pai «Ma qualcuno deve rimanere qui e dobbiamo dividerci, siamo in troppi.»

Tutti annuirono.

«Un gruppo lo guida Nevery, l'altro io.» intervenne New «Ho visto la strada nella sua mente.»

«Io rimango.» annunciò Mina.

«Anche io.» si aggiunse Oro. «Al momento sarei solo d'intralcio.»

«Allora anch'io.» gli fece eco Faith «Almeno un arrettino deve rimanere con loro.»

Silver annuì e guardò quelli che restavano. «Continuiamo ad essere troppi. Rimarranno anche Ethan e Riley.» i due ragazzi annuirono «Ghish, Strawberry, Catron e Aprilynne vanno con Nevery; io, papà, mamma e Abigal con New.»

Era la cosa migliore.

Si scambiarono dei rapidi sguardi.

Per qualche motivo tutti sentivano che sarebbe passato parecchio tempo prima che si fossero rivisti. Alcuni, non li avrebbero rivisti affatto.

Quelle occhiate erano più espressive e più cariche di affetto di qualsiasi abbraccio.

Solo Strawberry, Mina e Pam si avvicinarono fisicamente e si strinsero.

«Fate in modo che questa non sia la nostra ultima avventura, chiaro ragazze?» fece Strawberry.

 

Il Cavaliere Blu si aggirava inquieto per la stanza. Aveva un brutto presentimento e non riusciva a liberarsene. Profondo Blu gli avrebbe dato del bambino.

Aveva trovato una scusa e se n'era andato.

Il laboratorio era deserto.

Il corpo della ragazza ibrido così simile a Mew Pam giaceva freddo e intoccato sul tavolo di metallo.

Profondo Blu aveva detto di farla studiare, ma al momento medici, ricercatori e tutti coloro che potevano svolgere un compito simile erano sommersi di lavoro.

Una semi-aliena morta e quindi inoffensiva poteva anche aspettare.

Il ricevitore che aveva in tasca prese a vibrare.

Lo prese e schiacciò il pulsante di risposta.

«Sì?»

«C'è una comunicazione dalla Terra, vuole che gliela passiamo direttamente?»

«Sì.»

Attese in silenzio, nervoso.

Il suono che indicava l'inizio della comunicazione partì, accompagnato da uno strano verso, come di un urlo soffocato.

«Caliane?»

«Non...» seguì un ringhio, poi la voce della ragazza si fece distante e indistinta.

«Caliane!»

«Sta bene.»

«Ayoama?»

«Indovinato.»

«Tu...»

«Come ti dicevo, Caliane sta bene, molto meglio che se aveste catturato voi uno dei nostri.»

«Puoi scommetterci!» ringhiò il Cavaliere Blu avvicinandosi al corpo di Raylene.

Le voltò la testa nella sua direzione e le strinse le dita introno al collo, come se volesse soffocarla. Affondò le unghie nella carne così tanto che se fosse stata viva sarebbe uscito del sangue. Ma era solo un corpo senza forza vitale, poteva essere spostato, ma non ferito.

«Già, tu ci uccideresti.» il tono di Mark era rassegnato più che arrabbiato.

«Cosa vuoi?» la parole erano così cariche di disprezzo da potersi capire a fatica. «Cosa vuoi per Caliane e il bambino?»

«Il bambino.» ripeté Mark senza riuscire a trattenere un sorriso.

Guardò Azzurra, che ora dimostrava più di due anni e che si divertiva ad articolare le sue prima parole tra le braccia della madre. Arlene la stringeva maternamente.

Mark non riusciva a dimenticare quegli orribili istanti in cui Arlene era morta davvero.

Poi, però, era successo l'incredibile.

Azzurra si era illuminata di nuovo, e con lei anche Arlene. E aveva riaperto gli occhi.

Si riscosse. Doveva giocare bene le sue carte.

Spostò lo sguardo su Caliane, che Ian teneva a bada.

In qualche modo, dopo aver ridato vita alla madre, Azzurra aveva bloccato i poteri della ragazza.

«Una creatura meravigliosa.» riprese «Sono sicuro che sarà capace di fare molte cose, pensa come la prenderà quando scoprirà che razza di uomo è suo padre.»

«Ehi! Questo vallo a dire a Profondo Blu, è lui...»

«Tu non hai specificato quale bambino.» ribatté Mark guardando Caliane dritta negli occhi.

Lei gli restituì uno sguardo carico di risentimento, mentre il Cavaliere Blu rimaneva in silenzio.

«Cosa vuoi?»

«Che tu venga qui di persona. E che tu venga solo.»

Seguì un nuovo silenzio, lungo quanto il primo, ma completamente diverso. Quello era causato dallo stupore, questo dalle riflessioni.

«D'accordo.»

 

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Capitolo 20
*** Bentornati su Arret ***


Bentornati su Arret

 

Le strade erano così buie che probabilmente senza i loro sensi animali avrebbero fatto fatica a muoversi.

Si stava alzando una nebbia densa e sempre più fitta e l'umidità si sentiva nelle ossa.

Le vie principali erano deserte, ma lo stesso non poteva dirsi per i vicoli. Non incontrarono nessuno durante tutto il tragitto, ma la sensazione di non essere soli, che ci fossero altre persone nei vicoli, che delle ombre incrociassero di continuo le loro, come fantasmi, non li abbandonò per tutto il tragitto.

L'unica nota positiva era che Nevery aveva il percorso stampato in mente e avrebbe potuto muoversi anche ad occhi chiusi.

Strawberry si strinse nella mantella nera. Tutti ne indossavano una. Erano estremamente pratiche, senza maniche, si allacciavano sul davanti e il cappuccio copriva tutto il viso. Per muoversi di notte erano perfette. Solo che all'altezza delle caviglie l'umidità si faceva sentire.

Si portò una mano al ciondolo che portava al collo.

Erano anni che non si trasformava, poteva quasi sentirlo pulsare, impaziente di liberare tutta l'energia accumulata. Ma Ryan era stato chiaro: durante la prima metamorfosi sarebbero state potentissime, non dovevano rischiare di trasformarsi prima del tempo.

Guardò verso Ghish, l'unico a non avere il cappuccio alzato. Si guardava continuamente intorno, divorando ogni particolare su cui il suo sguardo si soffermava. Lui era di nuovo a casa, proprio come i ragazzi.

I suoi occhi dorati sembravano brillare di impazienza.

Era pur sempre Ghish, era il combattimento a piacergli, non i piani, l'azione, non la fuga.

Fosse stato per lui, ne era certa, sarebbero andati in pieno giorno nella piazza principale e avrebbero sfidato il governo.

Ad essere sincera, cominciava a credere che non fosse un'idea poi così cattiva.

Strawberry voltò lo sguardo e incontrò quello della figlia.

Aprilynne la guardava intensamente, come se volesse stamparsi nella memoria il volto della madre.

Le sorrise e lei ricambiò.

Nevery si fermò di colpo.

«Ci siamo.» sussurrò con un fil di voce accostandosi al muro di destra e avvicinandosi alla fine del vicolo. Si sporse leggermente, poi tirò indietro la testa. «Ci sono dei soldati di guardia.»

«Ci penso io.» dichiarò Strawberry.

«Sicura?» chiese Ghish.

«Sì, voi sbrigatevi e non guardatevi indietro, perdereste solo tempo.»

Ghish annuì e si avvicinò a lei prendendole il volto tra le mani.

Aprilynne e Catron si guardarono confusi, stavano davvero per baciarsi? Lì? In quel momento?

Appena le loro labbra si sfiorarono, però, Strawberry si tramutò in un gatto nero che li guardò tutto dal basso, poi corse via.

«Fa sempre così?» non poté trattenersi dal chiedere Catron.

«Sì.»

«E come avete fatto per... per tutto questo tempo?»

«Uno strano liquido di Ryan che blocca il DNA di gatto, lo stesso che usano Oro e Caos.»

Sentirono ringhiare e videro i soldati di guardia abbandonare i propri posti per vedere cosa stava succedendo.

Si mossero in un attimo e nel massimo silenzio.

Nevery sgusciò fino alla casa giusta citofonò con insistenza.

«Chi è?» rispose quasi subito una voce burbera.

«Sono Always Lyoko.»

«Always? Come... entra, sbrigati.»

L'uomo si affrettò ad aprire e scrutò con sorpresa, sospetto e timore le tre figure ammantate che lo seguivano.

«Puoi fidarti, davvero.» lo rassicurò Always e nella sua voce si sentiva la fretta.

L'uomo posò lo sguardo su Ghish, l'unico senza cappuccio, e lo studiò minuziosamente anche se in pochi secondi. Sembrò persino notare la somiglianza tra lui e il bambino.

Si fece da parte per lasciarli entrare.

«Sbrigatevi.»

Ghish si fece avanti per ultimo, si fermò proprio sulla soglia e guardò indietro.

L'espressione dell'uomo si fece ancora più diffidente.

Un gatto nero sgusciò dentro, Ghish sorrise e si scostò permettendo all'umo di chiudere la porta.

Si ritrovò in un corridoio stretto e buio, gli altri lo avevano preceduto.

Prese in braccio il gatto e ridacchiando posò le labbra sulle sue.

Subito Strawberry riprese le sembianze umane, ma il bacio continuò. Entrambi si goderono quel momento, sapendo che sarebbe passato tempo prima che avrebbero potuto averne un altro, se avrebbero potuto averne.

Alla fine, seppur con riluttanza, si separarono.

Strawberry abbassò lo sguardo mentre arrossiva leggermente, Ghish ridacchiò, poi si diressero entrambi nel piccolo soggiorno a cui portava il corridoio.

L'uomo fissò stupito Strawberry, ma non disse una parola.

La casa era molto piccola: nel soggiorno c'erano anche, in un angolo, lavello e piano cottura con un piccolo frigo; un tavolo rettangolare stava tra la piccola cucina e un divano messo difronte alla TV; una scala portava ad una specie di balconcino interno che faceva da corridoio per le due camere da letto e il bagno che vi si affacciavano.

In cima alle scale c'era un ragazzino sugli undici anni in pigiama che li fissava timoroso.

Nevery non riusciva a crederci. Da sotto il cappuccio fissava l'amico, senza parole.

Era tutto vero.

Era la prova che quella gente esisteva, che i suoi genitori esistevano veramente.

Si rese conto solo in quel momento di non averci mai creduto davvero.

Era ancora troppo bello per essere reale.

Si riscosse e abbassò il cappuccio. Non tolse la mantella perché, come ben ricordava, in quella casa senza riscaldamenti faceva piuttosto freddo di notte.

«Always!» gridò Domnio fiondandosi giù dalle scale e saltandogli addosso. «Sei vivo! Sei vivo! Papà, te lo dicevo che era vivo.»

L'uomo lo fissava con altrettanta sorpresa e interesse del figlio.

Lo andò ad abbracciare con qualche secondo di ritardo, ma lo strinse con affetto.

«Credevamo foste spacciati, che vi avessero scoperto.»

«Ci è mancato poco. È una lunga storia.»

«Abbiamo tutta la notte.»

«Ogni minuto è prezioso invece.»

«Be', la notte dovremo sprecarla comunque, con i soldati di ronda non si va da nessuna parte.»

Nevery annuì.

Domnio spostò lo sguardo sugli altri e Nevery si ricordò di dover fare le presentazioni.

«Domnio, Craig, loro sono mio zio Ghish,» si costrinse a chiamarlo zio con naturalezza «Strawberry e i miei cugini Aprilynne e Catron.» era qualcosa di incredibile pronunciare quelle parole. «Ragazzi, loro sono il mio amico Domnio e suo padre Craig.» si ricordò all'improvviso della madre dell'amico e guardò l'uomo «E Kara?»

«Non sappiamo niente, non sono venuti nemmeno a dirci che l'hanno portata via. O l'hanno uccisa e dimenticata subito oppure è viva e si rifiuta di parlare o chissà cos'altro le stanno facendo! Non so quale delle due ipotesi sia peggiore. E i tuoi genitori?» si affrettò a cambiare argomento.

«Mia sorella è stata arrestata con la scusa di averci aiutato a rubare un'astronave.» intervenne Ghish decidendo di dare una versione non del tutto falsa, ma neanche completamente vera della storia. In fondo, se volevano essere precisi, avrebbero dovuto anche dire che quello non era il Nevery che conoscevano.

«Un'astronave!» esclamò Domnio, per un momento allegro.

«Una scusa?» chiese invece Craig.

«Ci ha aiutati realmente, ma il vero motivo per cui l'hanno presa è perché è una Ikisatashi.»

«Sheira? Una Ikitasashi?» era incredulo, per un attimo rimase stupito, poi si ricompose e assemblò le infomazioni «Quindi anche voi.»

«Sì.» Ghish sorrise, mettersi in mostra era la sua specialità «Anzi, ad essere precisi sono uno dei tre ragazzi che hanno... “avvelenato” il cognome.»

Craig sgranò gli occhi. «Non posso crederci!» si illuminò come un fan che vede dal vivo la sua star preferita. Gli strinse la mano con trasporto, forse troppo «Ero sicuto di aver visto la vostra faccia da qualche parte! Non posso crederci! Vi davano per morti, dove siete stati?»

«Nascosti. E al sicuro. Anche se un po' tagliati fuori dal mondo.» rispose Strawberry, non era una bugia.

Craig la guardò bene per la prima volta.

Inclinò leggermente la testa di lato.

«Senza offesa, ma avete qualcosa di strano, anche se non saprei dire cosa.»

«Forse è il fatto che non è arrettiana.» suggerì Ghish, orgoglioso.

«Come no?»

«Viene dalla Terra, l'unico pianeta abitato del sistema solare.»

«Un'aliena!» esultò Domnio.

«Incredibile.» commentò il padre, poi fissò Aprilynne e Catron «E loro sono... ibridi?»

I ragazzi annuirono.

«Incredibile.» ripeté lui «E... a cosa devo la vostra presenza qui? Anche gli altri Ikisatashi sono tornati?»

«Sì.»

«Grazie al cielo!»

«Mio fratello Pai dovrebbe arrivare da un momento all'altro, Trat invece è dalla Fratellanza.»

«La Fratellanza! Finalmente! Ah, le nostre preghiere sono state ascoltate!»

«È presto per cantar vittoria.» lo interruppe Strawberry «Il mio pianeta sta morendo per colpa delle stesse persone che controllano il vostro, dobbiamo unire le forze. Nevery ci ha portato da voi perché era sicuro che voi foste in contatto con i ribelli, ci serve tutto l'aiuto possibile. I rinforzi della Fratellanza non riusciranno mai ad arrivare se qui non ci sarà abbastanza scompiglio da impedire che qualcuno li fermi. Se avete delle armi, dei guerrieri, questi è il momento!»

Craig la fissò in silenzio, pensoso, ma chiaramente euforico.

«Dobbiamo muoverci subito!» esclamò Catron attirando l'attenzione «Ricordate che abbiamo poco tempo prima che la spedizione che hanno mandato sulla Terra faccia ritorno.»

Nevery stava per dire che al momento non c'era da preoccuparsi, ma Craig lo precedette.

«Non possiamo spostarci facilmente, di giorno non è poi più facile che di notte, da quando inoltre hanno chiuso il mercato nero, i contatti che ho con i ribelli sono davvero limitati.»

«Ma sapresti trovarli?» chiese Nevery. «Sai dove sono?»

«So dove è probabile trovarli, ma andare lì vuol dire non tornare indietro.» li avvisò.

«Questa è una domanda a cui devi rispondere tu, non noi.»

«Perché?»

«Perché sotto la città se ne snoda un'altra sotterranea, fatta di milioni di gallerie che possono portarti ovunque e che io so come raggiungere.»

 

Senza essersene pienamente resa conto, in tanti anni New aveva memorizzato l'intero reticolo di strade di tutta la città. Alle vie che conosceva aveva aggiunto delle immagini, le altre rimanevano linee colorate che si incrociavano, ma che rimanevano ben chiare nella sua mente.

Sapendo di dover fare una strada diversa da quella di Nevery, scelse quella che le sembrava una scorciatoia. Lo era, ma aveva in grande svantaggio di dover attraversare una delle vie principali della città e quindi sicuramente una delle più controllante.

Lei stava davanti al gruppo, i sensi in allerta.

Stava cominciando a vederci chiaro per quanto riguardava i suoi poteri. Se voleva rimanere cosciente non poteva leggere nel pensiero delle persone, non completamente almeno. Poteva capire se le stavano mentendo o se quelli con cui stava parlando si distraevano e percepiva una minima parte delle loro emozioni. Poteva sentire quante persone erano con lei in una stanza.

Quando perdeva i sensi – gli altri sensi almeno – i suoi poteri si acuivano. Diventava padrona delle menti che la circondavano. Certo, alcune erano più forti di altre e più difficili da influenzare o piegare al suo volere, ma prima o poi cedevano.

Non le piaceva l'idea di poter esercitare un simile controllo sulle persone, ma riconosceva che in caso di bisogna sarebbe stato un grande vantaggio.

Ma fino a che punto poteva spingersi oltre?

C'erano delle menti che potevano resisterle?

E il suo controllo era davvero totale o solo parziale? Le persone a cui davano ordini erano davvero incapaci di opporsi?

Sapeva bene che certe menti erano straordinarie.

Psiche era l'esempio migliore. All'apparenza era fragile, anche se non del tutto indifesa, ma aveva una forza di volontà fortissima.

Profondo Blu aveva preso la sua forza vitale e l'aveva usata per ottenere un chimero. Eppure una parte di lei era resistita. Una parte di lei era rimasta cosciente ed era stata tanto forte da riuscire a chiederle aiuto.

Il DNA di New era unito con quello di un alieno parassita, quindi era abbastanza sicura che se Psiche aveva opposto resistenza ad un chimero vero, poteva fare altrettanto con lei.

Ma ne era capace solo Psiche, perché era speciale, o era un tratto comune anche degli altri ibridi? Con Aisha c'era riuscita con facilità, quindi non dipendeva dal DNA animale.

Questi pensieri la distrassero molto più di quanto avrebbero dovuto.

Quando si rese conto delle menti che si avvicinavano, era troppo tardi.

Si bloccò in mezzo alla strada un attimo prima che una voce brusca, accompagnata dal rumore metallico di un'arma, si facesse strada tra la nebbia.

«Fermi dove siete!»

«Dannazione.» sibilò Silver.

New rimase in silenzio. Rivolse loro un'occhiata di scuse, anche se sapeva che il suo dispiacere era irrilevante.

Un uomo comparve davanti a loro mentre altri li accerchiavano.

«Chi siete? Che ci fate in giro a quest'ora?»

Pam si sistemò i capelli in modo che nascondessero le sue orecchie piccole e umane.

«Cittadini.» rispose Pai a denti stretti.

New indietreggiò finché non si trovò proprio davanti ad Abigal. La ragazza le strinse le spalle, pronta a sorreggerla.

«È vietato andare in giro a quest'ora di notte.» disse il soldato, ma era evidente che parlare era solo una formalità. Posò gli occhi rossi sulle loro mantelle. «Siete in arresto, con l'accusa di ribellione.»

New si lasciò andare.

Si impossessò della mente dell'uomo.

Poteva sapere tutto di lui.

Vide che era solo un ragazzo, uno che come tanti aveva scelto di fare il militare per proteggersi. Non era un ribelle, anche se non amava il governo. Faceva il suo lavoro.

«Non siamo ribelli, puoi lasciarci passare.» gli sussurrò nella testa.

Vide le tre sorelle più piccole, tutte con gli stessi occhi rossi, e un figlio appena nato dagli occhi enormi e arancioni.

Come poteva costringerlo? Davanti a tutti quegli altri soldati che, una volta risvegliati dal torpore lo avrebbero additato solo perché era stato il primo a subire gli effetti dei suoi poteri e per salvarsi a loro volta.

New esitò, pur sapendo che gli altri rimanevano fermi e non reagivano solo perché avevano fiducia in lei. E nel tempo che si lasciò sfuggire, dei colpi si susseguirono.

Per un momento credette che sarebbero morti tutti lì, per colpa sua.

Poi sentì una fitta al braccio e il narcotico che entrava velocemente nelle sue vene costringendo la sua mente a dormire.

 

Strinse le mani a pugno per non far vedere che tremavano. Si conficcò le unghie nella carne, ma in quel momento quel dolore fisico sembrava irreale.

Sperava solo che Profondo Blu non leggesse in lui tutto quello che sapeva.

Quando entrò lo trovò in piedi al centro della stanza, che gli dava le spalle, avvolto in una sfera di luce ondeggiante che sembrava fatta d'acqua.

L'energia era palpabile.

«Perché sei qui, Cavaliere?» gli chiese brusco, senza voltarsi.

Aspettò un momento, per assicurarsi che la voce non gli tremasse.

«Caliane non si è ancora messa in contatto con noi.» mentì.

«Tieni troppo a quella ragazza.» commentò Profondo Blu.

Si sentì invadere dalla rabbia. Chi era quell'uomo per dire a lui a chi doveva tenere e a chi no?

Non poteva dirgli la verità perché l'accordo era che andasse sulla Terra da solo. Avrebbe risolto la faccenda e sarebbe stato come se la missione fosse stata portata a termine con successo.

Si giocò l'unica carta che sapeva avrebbe smosso Profondo Blu.

«Tu l'amavi?» chiese di punto in bianco.

Profondo Blu si voltò per la prima volta, sorpreso.

«Victoria. L'amavi?»

Lo sguardo di Profondo Blu si fece velenoso e per un attimo si pentì di aver parlato.

«Chi ti ha detto...»

«Caliane. Forse anche tu dovresti tenere un po' a lei.»

«Quella maledetta...»

«Non dire una parola contro di lei!» non poté trattenersi dall'urlare.

Rimasero a fissarsi in cagnesco, per interi minuti.

«Non mi hai risposto.»

«L'amore è una debolezza.»

Il Cavaliere Blu si voltò e se ne andò.

Non sapeva cosa di preciso si aspettasse da Profondo Blu, ma in qualche modo le sue parole gli diedero la carica. Sarebbe andato sulla Terra. Subito.

Si teletrasportò direttamente nell'hangar e si fece preparare un'astronave.

 

Profondo Blu batté un pugno contro la porta.

Sentire quel nome, così importante per lui, Victoria, pronunciato con tanto disprezzo dal Cavaliere Blu, aveva acceso in lui una rabbia profonda. Sostituita quasi subito dal dolore.

Rimase immobile per qualche secondo, cercando di calmarsi.

Sentì bussare.

Si teletrasportò fuori.

«Abbiamo catturato un gruppo di persone che giravano per città durante la notte. Abbiamo provato a confrontare volti e impronte digitali, ma non è venuto fuori nulla. È come se fossero usciti fuori dal nulla.»

«Portami da loro.»

«Sì signore.»

Si lasciò condurre in uno dei tanti corridoi sotterranei.

Arrivò davanti al vetro che dava su una stanza bianca e sterile.

Per un attimo non credette ai suoi occhi.

Pai Ikisatashi. Era lui.

Come poteva essere uguale all'ultima volta che l'aveva visto?

A questo punto, anche se vivo, avrebbe dovuto mostrare i primi segni della vecchiaia.

Era così sorpreso che all'inizio non vide gli altri.

Poi, però, il suo sguardo arrivò alla donna che gli stava accanto.

Mew Pam. Quasi identica a sua figlia, l'ibrido che aveva portato lì dalla Terra.

E Silver, il ragazzo che aveva trapassato con la spada.

Si malediceva per non averlo ucciso quando ne aveva avuto l'occasione.

E poi la vide.

Victoria.

Stava consolando New, rannicchiata a terra e quasi completamente coperta dalla sua mantella, ma lui non se ne accorse.

Aveva occhi solo per lei.

«Hanno provato a scappare?» chiese improvvisamente.

Se non lo avessero fatto, era chiaro che avevano un piano e quella era un trappola.

«Più o meno. Hanno provato a teletrasportarsi e ha dare risposte false alle domande che abbiamo fatto loro. Non si sono impegnati molto, ma non abbiamo comunque scoperto nulla.»

Profondo Blu annuì.

«Voglio interrogare la ragazza dai capelli azzurri.»

«Gli altri?»

«Uccideteli con il gas.»

«Come volete.»

 

Nevery, in realtà, non sapeva affatto come avrebbe fatto ad introdursi nei cunicoli sotterranei delle città. Sapeva che c'era un ingresso sotto il quartier generale dei soldati scelti, quelli che dovevano proteggere i capi dello stato e quindi sotto le celle di osservazione e isolamento in cui avevano tenuto lui, suo padre e Ian. E un altro sotto l'hangar delle astronavi di stato.

Non erano gli unici, di questo era certo, ma dove erano gli altri? Di sicuro erano usati dalle pochissime persone che li conoscevano e che volevano avere una via di fuga a portata di mano.

Dovevano portare in posti strategici, da cui sarebbe stato possibile andarsene, proprio come l'hangar. Mentre rifletteva capì che sua madre doveva conoscerli, altrimenti come avrebbe fatto ad aiutarli a scappare senza che nessuno si accorgesse della sua presenza?

Ma comunicare con lei era fuori discussione e dubitava che anche suo padre fosse al corrente.

Era meglio non immischiarli, finché tutti lo credevano sulla Terra ad aiutare Caliane, i suoi genitori erano al sicuro.

Si morse il labbro.

Dove poteva trovarsi un ingresso?

Di sicuro non ci si poteva teletrasportare direttamente sottoterra. Anche se avesse scelto come meta uno dei corridoi che aveva visto, di sicuro le pareti erano isolate e quindi impossibili da attraversare, e inoltre avrebbe comunque dovuto uscire di casa ed era abbastanza sicuro che le strade fossero monitorate per registrare eventuali campi magnetici dei teletrasporti.

Insomma, dovevano spostarsi a pendi e doveva trovare alla svelta un ingresso per i tunnel sotterranei.

Rifletti, si disse, dove si rifugerebbero i capi di stato se sapessero di essere in pericolo? Quale luogo è abbastanza sicuro?

La risposta venne quasi subito dopo la domanda, come se a parlare fosse stato qualcun altro.

Gli tornò in mente il loro laboratorio, che in gran parte stava sottoterra, sì, ma che era protetto dalla montagna a cui era addossata la finta baracca. Era solida e impediva di rilevare la loro presenza e l'attività elettrica. Era un posto perfetto. Così perfetto che loro stessi lo avevano usato.

Ora si spiegavano tante cose.

Il facile collegamento con l'impianto elettrico della città; i pattugliamenti della zona, ma eseguiti sempre dagli stessi soldati scelti; a rete internet – anche se non poteva chiamarsi così visto che funzionava molto diversamente da ciò che esisteva sulla Terra.

«Dobbiamo tornare al nostro quartier generale.» nessuno lo aveva mai chiamato così, ma gli venne naturale e gli altri non disse nulla «Lì vicino passa uno dei cunicoli.»

Evitò di specificare che, ammesso che avesse ragione, non sapeva ancora come avrebbe fatto ad entrarvi.

 

Riley e Ethan se ne stavano seduti sulla soglia della baracca, come se si trovassero lì per caso, avvolti nel buio di una via secondaria di un quartiere non illuminato.

Faith se ne stava pochi metri dietro di loro, seduta sul divano sfondato che, oltre al tavolo con sole tre zampe, era l'unico arredamento della baracca.

Visto che erano così pochi, potevano evitare di rintanarsi sottoterra e fingere di abitare la baracca.

Mina e Oro erano saliti sul tetto tramite quella che sembrava legna ammuffita accanto ad un muro e che invece era una solida scala con una struttura di metallo.

Il tetto era inclinato e rotto in alcuni punti strategici, ma solidissimo.

Se fossero stati nel centro della città, da lì avrebbero potuto vedere solo il palazzo difronte.

Ma lì, in quel quartiere dimenticato da tutti, le case, per motivi di stabilità, non avevano che il pianoterra e, in alcuni casi, il seminterrato. Inoltre la baracca, essendo sul fianco della montagna, era leggermente più alta.

Oro lasciò che lo sguardo vagasse il più lontano possibile, ma tutto ciò che poteva vedere oltre il buio e la nebbia erano palazzi sempre più alti, ben lontani dall'oceano che si scorgeva dalla sommità del suo grattacielo.

«Era tanto che non venivo qui.» disse Mina. Fissava il vuoto, la mente distante e un sorriso appena accennato sulle labbra. «Più degli altri. Tu e Aisha ci siete venuti, quando eravate molto piccoli, ma Caos e Sharlot non si erano mai mossi dalla Terra. Gli altri sono venuti a trovarci due volte, ma era sempre molto complicato, sia perché non dovevano dare nell'occhio sia perché dovevano badare agli altri piccoli Connect oltre che ai loro figli. Ricordo ancora Aprilynne che rincorreva Dalton e Abigal. Era una peste, come suo padre. Solo che lei è cresciuta mentre Ghish si comporta ancora come un bambino. A volte è snervante.»

«Lo credo bene.»

Mina ridacchiò appena, lo sguardo ancora fisso nel vuoto.

Sentirono qualcuno correre e si sporsero per guardare giù.

Faith era uscita e guardava verso di loro.

«Mark ci ha mandato un messaggio dalla Terra.» annunciò.

«Brutte notizie?» chiese Ethan «O belle?»

«Nessuna delle due. Ci ha inviato le coordinate per trovare il laboratorio dove si trova il corpo di Raylene. Dice che se è davvero dentro Isabelle, dovremo recuperarlo.»

«E dov'è?» chiese subito Oro.

«Nel centro della città, ma io so arrivarci, il difficile, per non dire impossibile...»

«Ci andremo subito.» tagliò corto il ragazzo attirando tutti gli sguardi su di sé. Li ignorò. «Prima partiamo prima arriviamo.»

«Sì, ma...» provò a protestare Riley, ma Faith lo interruppe.

«D'accordo, datemi solo pochi minuti per sistemare... lì sotto.»

Tutti annuirono e Faith rientrò.

«Non sarà facile arrivare in centro.» commentò Mina «Se fossimo sulla Terra gli altri Faith, Ethan e Riley potrebbero volare e uno di noi potrebbe trasportarti, ma qui solo io e te possiamo farlo.»

«Cosa? Io? Volare?»

«Sì, Oro, siamo su Arret, qui la gravità funziona in modo diverso anche se può sembrare uguale. Qui gli umani volano, come sulla Terra lo fanno gli arrettiani.»

Oro la fissò.

E gli tornò in mente che c'era una cosa che aveva sempre voluto chiederle, da quanto era sparita e loro avevano scoperto la loro parte animale.

Mina si voltò verso di lui.

«Cosa c'è?»

Oro abbassò lo sguardo sulle proprie mani, mai si decise.

«C'è una cosa vorrei sapere.» cominciò.

«Avanti.» lo spronò Mina con improvvisa prudenza.

«Il tuo DNA è legato a quello di un lorichetto blu e anche quello di Sharlot, ma non Aisha, lei è un lorichetto arcobaleno. Per molto tempo mi sono limitato a credere che fosse un caso, una combinazione di geni magari, ma non è possibile.»

Mina curvò leggermente le spalle, come se improvvisamente un peso enorme la schiacciasse.

«Questa non è una domanda.» disse debolmente.

«Non se formulata così.» ammise Oro, poi si riscosse «La stai eludendo?»

«L'ho fatto per anni. Ho insistito per andarcene dal giorno in cui si è rivelata la sua parte animale e ho cercato di convincerla a non mostrarla agli altri.»

«Perché?»

«Temevo... temo...» cominciò, ma le parole le morirono in gola mentre continuava ad evitare lo sguardo del ragazzo.

«Cosa?»

Mina si costrinse a raddrizzarsi. Lo fissò dritto negli occhi.

«Posso dirtelo.» affermò, forse rivolgendosi più a se stessa «Ma devi promettermi, giurarmi su qualunque cosa ti stia a cuore, che non lo dirai a nessuno, mai, neanche ad Aisha.»

Oro annuì senza esitazioni. «Te lo giuro.»

Mina prese fiato. «Quello che hai supposto è giusto, dipende da una combinazione di geni. Il DNA di Aisha è diverso perché un potere più grande lo ha mutato.»

«Ma com'è possibile? E perché non è successa la stessa cosa a Sharlot?»

Mina guardò fisso davanti a sé mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

«Perché Sharlot è figlia di Kyle» mentre parlava la sua voce si abbassava «... mentre Aisha è figlia di Mark.»

 

Quando il soldato entrò nella stanza nessuno si mosse.

A disagio, si diresse velocemente verso la ragazza dai capelli azzurri, seduta accanto ad una figura minuta che stava così rannicchiata da notarsi appena, coperta com'era dalla mantella.

«Tu vieni con me.» disse afferrandola per un braccio senza tante cerimonie.

Lei trattene una smorfia, ma non disse nulla.

Lanciò un ultimo sguardo agli altri, poi si lasciò trascinare fuori.

Il soldato chiuse la porta e nella stanza tornò a regnare il silenzio.

«Che razza di benvenuto.» commentò Silver, pensando a quante ne avevano passate per tornare su Arret e alla velocità con cui, dopo anni di sotterfugi, si erano lasciati catturare.

 

Si guardarono intorno per diversi minuti.

«Non c'è nessuno.» disse infine Catron, dando voce ai pensieri di tutti.

«Pam e Pai avranno avuto dei problemi?» chiese Strawberry, a nessuno in particolare «Forse Mina è andata ad aiutarli.»

«Dev'essere così.» tagliò corto Aprilynne, meno preoccupata di quanto avrebbe dovuto. Guardò Nevery. «E ora? Come la raggiungiamo questa galleria sotterranea?»

Lui la fissò a propria volta.

Sapeva che Aprilynne spesso sembrava aggressiva, ma non era cattiva.

Inoltre, ora che sapeva di essere suo cugino, la vedeva sotto un'altra luce.

«Immagino non con il teletrasporto.» rispose prima di rendersene conto.

Domnio ridacchiò.

Craig era troppo intento a guardarsi attorno stupito.

«Dico sul serio.» ribatté Aprilynne.

«Potrei aiutarvi io.» propose una voce alle loro spalle.

Si voltarono tutti, il cuore in gola.

Sulla soglia c'era una donna dai capelli cortissimi color giallo fluo e gli occhi così dorati che sembravano due fari.

«Mamma!» gridò Nevery infilandosi tra Aprilynne e Catron e correndo verso di lei.

«Always?» sembra sinceramente sorpresa.

Si china per poterlo guardare bene.

«In realtà sono Nevery.»

«Nevery.» pronunciò il suo nome come per vedere come suonava. I suoi occhi gli scrutavano il volto stupiti e un po' spaventati. «È incredibile.»

Anche Nevery la fissava.

Fissava i suoi occhi luminosi che tanto a lungo aveva creduto ciechi.

«Come hai fatto ha scappare?» chiese.

«Ho usato proprio uno di quei corridoi. Avevo finito le lenti a contatto che mi ha fato tuo padre e dovevo inventarmi qualcosa.» sorrise orgogliosa e alzò per la prima volta lo sguardo su Ghish «Sono o no una Ikisatashi?»

«mmm... più o meno.» commentò lui, ma poi i due fratelli si abbracciarono e rimasero così per diversi minuti.

«Cavolo, ti ho lasciato che eri una bambina e ora sembri avere la mia stessa età.»

«Diciamo che ti porti bene i tuoi quarant'anni e passa e comunque quando te ne sei andato ero già incinta, stupido. Quindi bambina un corno.»

«Ora ti riconosco!» esclamò Ghish facendo il gesto di scompigliarle i capelli, ma si fermò trovandoli decisamente troppo corti.

Lei gli fece la linguaccia.

In quel momento sì che pareva una bambina.

«E papà?» chiese Nevery.

«E mia mamma?» chiese Domnio.

«Felix sta bene, ci hanno fatti incrociare per qualche secondo lungo un corridoio propri ieri, ma non so niente di Kara, Domnio.»

«Fantastico... zia,» li interruppe Catron «ma credo che ci resti poco tempo.»

«Sì, giusto, venite, l'entrata è di fuori. Sapevo che vi rifugiavate qui, ma volevo aspettare di vedere delle facce conosciute.»

Tutti gli altri annuirono e la seguirono fuori.

Nel vederla muoversi con tanta destrezza, Nevery si rese conto di che brava attrice dovesse essere se in tanti anni nessuno aveva creduto per un solo istante che potesse vederci.

E questo nonostante tutti si stupissero del fatto che sapesse sparare con tanta precisione.

Notò che aveva una pistola infilata nella cintura e si chiese dove l'avesse presa.

Lei ogni tanto gli lanciava delle occhiate indecifrabili, ma non diceva nulla.

La seguirono in una casa minuscola a pochi isolati di distanza.

Due soldati, un uomo e una donna, giacevano a terra. Respiravano, ma qualcuno doveva averli colpiti pesantemente alla testa.

Alla donna mancano il giacchetto dell'uniforme e la pistola che ora sono in possesso di Sheila.

«Non ci credo che erano così vicini a noi.» mormorò Catron.

«Sbrighiamoci.» li spronò Sheila.

 

Kathleen tamburellò con le nocche sulla panca su cui era seduta.

Erano ore che aspettavano.

Dalla stanza difronte a loro non giungeva nessun suono, ma era sicura che i membri della Fratellanza stessero discutendo a gran voce.

Non avevano mai sentito parlare della Terra ed ecco che saltavano fuori degli ibridi con gli arrettiani, specie con cui negli ultimi anni non avevano avuto buoni rapporti.

Avrebbero potuto decidere di non fare un bel niente per aiutarli e, sotto un certo punto di vista, avrebbero avuto ragione.

Si poteva solo sperare bene.

Ryan, Kyle e Tart erano dentro.

Lei era seduta tra Sharlot e Pit. Alla sinistra di Pit c'era sua madre – uguale a come la ricordava nonostante fossero passati quasi dieci anni dall'ultima volta che l'aveva vista – con in braccio Opter.

La porta si aprì così lentamente che sembrò impiegarci un'eternità.

Tutti trattennero il fiato.

Uscirono solo Askenegher, un altro abitante di Zora, Tart, Ryan e Kyle, in quest'ordine.

L'alieno sconosciuto cominciò a parlare.

Tutti rimasero in silenzio, anche se la maggior parte non aveva capitolo nulla, e quando finì di parlare guardarono automaticamente Askenegher per la traduzione.

«Lui è Mnenigmesh, il nostro rappresentante nella Fratellanza. Dopo un lungo dibattito abbiamo stabilito che come alleati, abbiamo il dovere di soccorrere Arret, se è vero che un folto gruppo di ribelli indigeni potrà supportarci. Questo nei termini degli accordi della Fratellanza e, per quanto riguarda Zora, per l'aiuto datoci anni or sono. Per la Terra il discorso è leggermente diverso. Non possiamo negare ciò che noi stessi abbiamo visto, ovvero l'esistenza di ibridi. Questa è indubbiamente un'alleanza, ma devono essere i rappresentanti di Arret a chiedere che un pianeta loro alleato debba essere soccorso.»

«Mi gira la testa.» mormorò Electra a Fosfor in inglese.

«Se questa è la traduzione, mi immagino cosa dovesse essere il discorso originale.» rispose il ragazzo nella stessa lingua.

«Aiuteremo Arret e poi, se così sarà deciso dai suoi rappresentanti, andremo in soccorso della Terra o quantomeno degli umani superstiti se sarà troppo tardi per il pianeta. Nel caso si salvi, però, il sistema solare dovrà entrar a far parte della Fratellanza.»

Considerando che il presidente era Mark, era una cosa fattibile.

Non era esattamente ciò che avevano sperato, ma era già moltissimo.

Gli unici a non aver capito ancora nulla erano Aisha, Sharlot e Caos – Isabelle sembrava aver compreso –, ma avrebbero spiegato tutto loro più tardi.

Mnenigmesh disse qualcos'altro, ma questa volta fu direttamente Ryan a parlare, in inglese.

«Abbiamo chiesto di poter partecipare alla missione di soccorso.» fece una pausa e tutti annuirono «La risposta è stata affermativa, ma dovremo dividerci. Pit, Opter, Isabelle, Sharlot e Caos resteranno qui su Zora.»

I primi tre non dissero nulla, ma gli altri due balzarono in piedi.

«Perché?» chiese Caos per entrambi «Pit e Opter sono troppo piccoli e Isabelle non può certo combattere, ma perché anche noi dovremmo restare qui?»

«In primo luogo – e questa è stata una cosa avanzata dalla Fratellanza a cui non posso non dare ascolto – voi due parlate solo l'inglese. In caso di bisogno, non capireste né l'arrettiano né nessun'altra lingua. È qualcosa che non potete ignorare, potrebbe costarvi la vita.»

Caos sbuffò, ma si sedette.

«Ma questo allora vale anche per Aisha.» protestò invece Sharlot.

«È vero, ma lei è una combattente migliore di entrambi, ha riflessi più pronti dei vostri e un istinto più forte. I suoi poteri sono di gran lunga superiori ai vostri.»

«Come fai a dirlo?» esclamò Aisha stessa.

«Lo erano già quando eri una bambina. Non abbiamo mai saputo spiegarlo, ma tu hai dei poteri in più dispetto agli altri. Tu puoi davvero fare la differenza. E sei quella che è più pronta a correre rischi e avrebbe più probabilità di uscirne viva, è forse una bugia?»

Aisha rimase un lungo istante a fissarlo.

Poi spostò lo sguardo sul padre.

Kyle la guardava, ma senza vederla. Era assorto e distante, come se stesse cercando di risolvere qualcosa.

I ricordi di una vita le passarono davanti agli occhi.

La prima volta che il suo DNA animale si era manifestato: non si era limitata a farsi spuntare le ali, si era interamente trasformata in un lorichetto arcobaleno. La prima volta che aveva tirato con l'arco e tutte le successive, non aveva mai sbagliato un colpo. I sensi più acuti di quelli della sorella. Capacità di guarire molto più in fretta del normale. Si soffermò su quest'ultimo pensiero. Ricordò quando da piccola si era rotta un braccio saltando giù da un balcone del primo piano – era una fortuna che fosse sopravvissuta – e il fatto che la frattura fosse guarita in pochi secondi, non ricordava mai di un graffio superficiale, o una semplice influenza.

Sentì una strana energia risvegliare i suoi muscoli. La voglia di azione.

Rialzò lo sguardo.

«No, hai ragione.» disse a Ryan con fermezza.

Lui sorrise e continuò.

«Io, Kyle, Kathleen, Electra e Fosfor guideremo un gruppo di astronavi che rimarrà in orbita intorno al pianeta. Il nostro compito sarà portare quante più astronavi possibile fuori dal pineta, in modo da indebolire le difese a terra e dare modo all'astronave di Aisha, Psiche, Tart, Paddy e Lory di atterrare più o meno indisturbata.»

Tutti annuirono.

Ryan scambiò qualche altra parola con Mnenigmesh, ma era chiaro che la questione era chiusa.

Askenegher disse che ai ragazzi che sarebbero rimasti su Zora sarebbero state assegnate delle stanze in quello stesso edificio e li invitò a seguirla.

Mentre si alzava, Isabelle afferrò psiche per un braccio, costringendola a seguirla.

Rimasero indietro rispetto al resto del gruppo.

«Cosa c'è?» chiese Psiche.

«C'è una cosa che dovresti fare m... per lei, per Raylene.» disse cambiando bruscamente tono di voce mentre parlava.

Psiche si limitò a fissarla, senza sapere cosa fare o dire.

«Dovresti...» Isabelle fece un respiro profondo, poi annuì «Dovresti prendere la mia forza vitale e portarla con te su Arret. Lì, da qualche parte c'è il mio corpo, vorrei raggiungerlo il prima possibile.»

Stordita, Psiche impiegò diversi minuti per capire.

«E come faccio? Perché io?» chiese con un fil di voce.

«Perché sei mia sorella e sei l'unica di noi che l'abbia mai fatto.»

Isabelle la lasciò andare e si mise difronte a lei.

Psiche inspirò profondamente, poi tese una mano davanti a sé.

Tese una mano e si concentrò.

Il corpo e la forza vitale, la forza vitale e il corpo.

Isabelle si illuminò di una luce lilla e dal suo petto uscirono due piccole stelle.

Una era rosa chiaro, l'altra di un viola potente e molto più brillante.

Psiche non ebbe dubbi su quale fosse quella della sorella.

La attirò a sé e lasciò andare l'altra.

Isabelle tornò in sé facendo due passi indietro e portandosi una mano al petto.

Si guardò intorno confusa e in ascolto.

Dopo qualche istante si illuminò in un sorriso.

«Sono sola!» esclamò portandosi le mani alla testa e quasi saltando dalla gioia «Sono sola!»

Psiche teneva la forza vitale di Raylene sul palmo della mano, incredula.

Poi, lentamente, la piccola stella scomparì all'interno della mano, come assorbita.

«Ciao sorellina.»

Raylene! Allora è vero! È vero!

«Certo che è vero.»

 

 

A quanto pareva, i ribelli avevano scoperto quei corridoio sotterranei già qualche anno prima e li avevano ampliati e sfruttati.

Sheila camminava in testa al gruppo, con Nevery affianco, e procedeva spedita senza quasi guardarsi intorno.

Quando ad un certo punto trovarono due uomini che sorvegliavano l'ingresso ad un nuovo corridoio, non volevano credere ai propri occhi.

Il ragazzo di destra puntò subito una pistola contro di loro gridando «Chi va là?», ma l'altro dovette riconosce Sheila perché disse subito che potevano passare.

Il cunicolo era più stretto degli altri, ma più regolare e portava a delle scale scavate nella pietra.

Le salirono velocemente e con trepidazione, vagamente consapevoli di trovarsi all'interno della montagna.

Sbucarono al centro di un ambiente rotondo.

Addossate alla parete erano state messe delle sedie.

Due uomini e una donna si alzarono appena li videro arrivare, come se li stessero aspettando.

«Sheila!» esclamò l'uomo di centro con sollievo «Quando una spia ci ha detto che eri scappata non volevamo crederci. Chi sono le persone che porti con te?» chiese, poi aggiunse «È un piacere rivedere anche te Craig, ho saputo di Kara, mi dispiace molto. È stata una ribelle fino alla fine.»

Craig strinse una mano intorno alla spalla di Domnio che si sentì mozzare il fiato a quella dichiarazione. Entrambi non ebbero la forza di dire nulla.

«Tikor, sono felice di presentarti, Nevery,...»

«Tuo figlio? Non si chiamava Always?» la interruppe la donna.

«Sì, Cleda, lui...» indecisa, guardò Nevery.

«Sono un clone. In realtà sono sulla Terra.» rispose con tranquillità il ragazzo.

I tre lo fissarono a bocca aperta.

«Ci sarà tempo per le spiegazioni.» tagliò corto Shiela «Lui è mio fratello Ghish e loro sua moglie Straberry, una terrestre, e i figli, Aprilynne e Catron.»

«Ibridi autentici.» precisò Catron con un sorriso spavaldo.

«Loro sono Tikor, sua moglie Cleda e loro figlio Svebos, capi dei ribelli.»

Tikor li fissò uno ad uno, soffermandosi infine su Ghish.

«Ghish... Ikisatashi?» chiese incredulo.

«In carne ed ossa.»

L'uomo allungò la mano entusiasta e Ghish gliela strinse.

«Credo...» articolò Tikor «Credo che avremo davvero molto di cui parlare.»

«E molto poco tempo.» sottolineò Aprilynne.

«Già, senza dubbio.» concordò l'uomo senza però muoversi.

«Sono qui anche i vostri fratelli? Possiamo contare sul loro aiuto?»

«Certo! Pai è qui da qualche parte, Tart dalla Fratellanza.»

I tre sembravano al settimo cielo, per poco non si misero a fare salti di gioia.

«Bentornati!» esclamò Tikor con decisione e rinnovata forza.

«Bentornati su Arret.»

 

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Capitolo 21
*** La guerra comincia! ***


La guerra comincia!

Ancora per un lunghissimo minuto sentì l'aria vibrare intorno a sé, poi i suoi piedi toccarono il suolo e lui si accasciò a terra.
Teletrasportarsi da un edificio all'altro era un conto, ma attraversare anni luce di universo per arrivare su un altro pianeta era un altro.
Per qualche istante rimase immobile, in ginocchio, gli occhi chiusi, a riprendere fiato.
Aprì gli occhi.
Non avrebbe potuto trovare un paesaggio più diverso da quello che si aspettava.
Credeva che ormai sulla Terra si fossero diffusi ovunque i grattacieli delle città, ma gli unici edifici che si potevano definire tali li scorgeva appena in lontananza, raggruppati e isolati.
Era circondato da una radura desolata dove regnava solo la sterpaglia.
Si stese a terra.
Aveva bisogno di recuperare le energie per affrontare quell'Aoyama. Per riavere Caliane.
Si portò le mani alla fronte.
Ne valeva davvero la pena?
Infondo, però, era stato profondo Blu stesso a volere quella missione, per recuperare quel maledetto ibrido. Stava solo rimettendo le cose a posto.
Ma perché Profondo Blu aveva dovuto scegliere propria la sua donna? Non poteva prenderne un'altra, una qualsiasi? Dopo sarebbe bastato rapirla e aspettare che partorisse, era tanto difficile?

Arlene si assicurò che Azzurra stesse dormendo, prima di andare nella stanza accanto.
Quella bambina stava continuando a crescere in maniera impressionante. Ormai sembrava avere quasi cinque anni. Di più sorprendente, c'erano solo i suoi poteri.
Poter riportare in vita qualcuno morto... era qualcosa che, per quanto meraviglioso, faceva paura.
Quella casetta fuori città che pareva un fienile era molto più grande di quanto sembrasse all'esterno.
Sul tavolo c'era quella che sembrava una scatola di legno lunga e stretta.
Mark la aprì quasi con solennità. Non si era accorto di Arlene, così sussultò quando le sentì dire «Che cos'è?»
Alzò lo sguardo di scatto, con aria colpevole.
«Caos, Oro, Aisha e Sharlot, non sono stati gli unici né i primi a doversi costruire un'arma personale.»
Sollevò con entrambe le mani la lunga spada argentata, la destra nell'elsa e la sinistra sotto la lama.
Arlene trasalì violentemente.
«Non vorrai... non vorrai...» cercò di dire, ma le mancava improvvisamente la voce.
«Ucciderlo?» completò Mark.
Lei rabbrividì.
«Certo che no.»
Si sentì quasi svenire per il sollievo.
«Ma devo difendermi, devo attaccare. Se vince lui, dopotutto, non si prenderà la briga di risparmiarmi, dovresti saperlo.» continuò lui con veemenza.
Arlene si portò una mano al petto, come se volesse far rallentare il proprio cuore con le dita.
Udì Mark riporre la spada al suo posto, poi si sentì circondare da braccia forti.
«Scusa.» le sussurrò nell'orecchio «Non volevo.»
«No. Hai ragione, lui non sarà leale.»
«Se per sleale intendi che userà i suoi poteri e qualsiasi mezzo in suo possesso per sconfiggermi, allora neanche io sarò leale.»
Arlene lo abbracciò a propria volta e sorrise, il viso affondato nel suo petto.
«Ma che scenetta romantica.» ringhiò una voce alle loro spalle.
Entrambi sussultarono e Mark si portò immediatamente davanti ad Arlene, per proteggerla. Si costrinse a non guardare verso il tavolo, verso la spada.
Il Cavaliere Blu rimase con le spalle attaccate alla parete.
«Non vedo nulla di quello che mi era stato promesso.» osservò lui.
«Perché tanto non avrai nulla!» esclamò una vocetta acuta da dietro Arlene.
Azzurra era in piedi dietro la madre, le gambe leggermente divaricate come per migliorare il suo equilibrio, gli occhi azzurri fissi sul nuovo arrivato, i capelli biondissimi sparsi intorno al capo a formare un'aura dorata come se fosse sott'acqua.
Parlava con tono leggermente distaccato, lo sguardo fisso e vacuo allo stesso tempo e la sua voce echeggiava nella stanza.
Il Cavaliere Blu la divorò con lo sguardo.
Arlene fece per mettersi in mezzo, ma Mark la trattenne e ne approfittò per spostarsi verso il tavolo.
«Ah, sì?» chiese tagliente.
«Sì.» ribatté sicura Azzurra «Lo vedo.»
Tutti e tre sgranarono gli occhi.
Mark fu il primo a riprendersi e, senza farsi notare, chiuse la mano intorno all'elsa della spada.
In quel momento la porta si aprì.
«Ian ho appena dato il son...» Nevery si interruppe a metà frase «...nifero alla ragazza.» concluse a bassissima voce.
Quelle parole fecero scattare il Cavaliere Blu.
L'attimo dopo stringeva la propria spada tra le mani e la brandiva con rabbia.
Mark parò prontamente il primo fendente e ne usò la forza per far indietreggiare l'avversario fin fuori dalla piccola casa.
Nevery si fece da parte appena in tempo.
I due fecero diversi passi nell'erba alta e secca.
All'improvviso cominciò a soffiare un vento impetuoso, anche se non freddo.
«Credi davvero di poter vincere?» ringhiò il Cavaliere Blu.
«Guardati intorno!» rispose Mark «Questo pianeta sta morendo e io non lo abbandonerò!»
«Sei ingenuo e ottuso, anche dopo tutti questi anni!»
Si teletrasportò dietro dietro di lui e cercò di trafiggerlo da dietro, ma Mark se lo aspettava e si voltò appena in tempo.
Parò i fendenti successivi, sferrati con tanta forza e tanta rabbia da sembrare fulmini.
Ma il Cavaliere era molto più allenato di lui con la spada.
Mark sentì sopraggiungere presto la stanchezza. Troppo presto.
Il suo avversario aveva ancora tutte le sue energie.
Il Cavaliere tentò un affondo dal basso. Mark lo fermò.
Le lame delle spade stridevano l'una sull'altra mentre entrambi stringevano i denti e tenevano salda la presa sulle armi per mantenere quella posizione di stallo.
Il Cavaliere si concentrò. Incanalò la propria energia nelle braccia, poi nelle mani, infine nella spada. Ora ne aveva il pieno controllo. Trasmise energia al metallo che si fece incandescente, poi sempre più sottile. E sempre più lungo.
Mark, gli occhi socchiusi per la fatica, ebbe solo il tempo di spalancarli.
Al Cavaliere bastò un affondo neanche troppo potente.
Mark urlò per il dolore e il Cavaliere affondò ancora di più la spada, trapassandolo da parte a parte, poi sfilò la spada e lo lasciò cadere.
Guardò con trionfo il sangue sulla propria spada.
Si sentiva euforico e inebriato.
Dopo anni finalmente c'era riuscito.
Aveva sconfitto il suo più grande e odiato nemico. Il ragazzo con cui era stato costretto a condividere corpo e pensieri, che lo aveva fatto agire contro la sua volontà.
L'urlo strozzato di Arlene lo riportò alla realtà.
Si voltò e alzò lo sguardo.
Ian sembrava sparito. Non se ne preoccupò. Aveva sconfitto Aoyama, un chimero non sarebbe stato un problema.
Si aspettava che Arlene lo fissasse allibita, forse ammirata.
Ma lei sembrava non vederlo nemmeno.
Aveva occhi solo per il Mark accasciato a terra, in una pozza di sangue.
E nei suoi occhi c'era solo dolore.

Qualcuno bussò alla porta.
Lory si alzò e andò ad aprire.
Ryan era sulla soglia.
Per qualche istante rimase in silenzio a fissarla, come distratto, poi fece scorrere lo sguardo su tutti gli altri e infine si ridestò.
«Tutto è pronto. Viaggeremo su due astronavi diverse. Paddy, Tart, Psiche, Aisha, voi seguirete Lory nell'hangar 4. Kyle, Kathleen, Electra e Fosfor, voi verrete con me. Nell'hangar 3 e nel 2 ci divideremo in astronavi diverse. Kathleen, tu sarai con me e Kyle, Electra, Fosfor, voi piloterete un Caccia.»
Tutti annuirono.
«Ora andate a radunare le vostre cose, il decollo è previsto tra due ore.»
Tutti si dispersero velocemente.
Psiche tornò alla camera che al momento con Electra e Fosfor.
Tutte le sue cose entravano in uno zaino, come quelle di tutti infondo.
Gli altri due sembravano intenzionati a restare avvinghiati per tutto il tempo che restava loro prima della partenza, così Psiche si affrettò ad uscire e a lasciarli fuori.
Nel corridoio, davanti alla porta, c'era Isabelle.
Psiche non sapeva mai come comportarsi con lei.
«Devo parlarti.» dichiarò l'umana «In privato.» aggiunse poi, dopo che l'altra ebbe annuito.
Si chiusero in un bagno.
«Si tratta di Raylene.» disse subito Isabelle. «Io... lei... vuole venire su Arret.»
Psiche spalancò gli occhi.
«Cosa?» esclamò allibita «E come? Senza un corpo.»
«Vuole andare lì a recuperarlo. E dice che potresti portarla tu.»
Psiche aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì un suono.
«Mi sta dicendo di dirti che non sei obbligata se non vuoi, ma io sento che lo desidera moltissimo.»
«Io... come... come dovrei fare?» balbettò la ragazza.
«Dice... di seguire l'istinto. Dice che l'hai già fatto.»
Psiche si voltò, appoggiò le mani alla versione zoriana di un lavandino e prese fiato.
Isabelle andò verso la porta.
Psiche si voltò di scatto e tese la mano in avanti.
Dal corpo di Isabelle, ora sospeso a mezz'aria, emersero due piccole luci.
Una era di un rosa pallido, sembrava quasi zucchero filato. L'altra, viola intenso, brillava così tanto che era sorprendente che non accecasse.
Psiche la riconobbe subito.
Attirò a sé la seconda e lasciò andare la prima che tornò alla sua proprietaria.
Isabelle barcollò all'indietro e si portò una mano al petto, ansimando.
«Che diavolo...» cominciò, ma poi lo sguardo le cadde sulla forza vitale che volteggiava sul palmo di Psiche. «Quella è...»
«Raylene.» confermò l'altra, incredula «Sì, è lei.» ripeté con le lacrime agli occhi.
Psiche avvicinò la mano al petto.
Il suo corpo la assorbì e la sua mente la accolse.
Raylene?
«Ciao Psiche.»

Il soldato spalancò la porta con noncuranza e si lanciò una rapida occhiata intorno.
Gli avevano detto di portare fuori una ragazza dai capelli azzurri.
Ne individuò una.
Due ragazzi erano rannicchiati in un angolo, ma non si curò di guardarli.
«Tu.» abbaiò alla ragazza che gli stava davanti «Vieni con me.»
Gli altri si lanciarono occhiate indecifrabili, ma non si mossero e non dissero nulla.
Quando la ragazza azzurra si fu alzata, le mise delle manette, poi la afferrò per un braccio e se la trascinò dietro.
Chiuse la porta della cella, poi attraversò il corridoio fino alla stanza infondo.
Dentro c'era solo un tavolo rettangolare con due sedie ai lati opposti.
Fece sedere la ragazza in modo che desse le spalle alla porta ed uscì.
«Ho fatto tutto.» annunciò.
«Bene.» commentò distrattamente Profondo Blu «Procedete con il gas.»
«Signore, ci vorrà un po', dobbiamo chiudere gli sbocchi di aerazione e...»
«Non mi importa! Chiamatemi solo a cose fatte, voglio i loro cadaveri.» tagliò corto Profondo Blu, poi entrò.
Per qualche istante rimase davanti alla porta chiusa.
Finalmente era da solo con lei.
Finalmente avrebbe potuto chiarire ogni cosa. Sapere come poteva essere ancora viva.
Cominciò a girare intorno al tavolo.
Lei alzò gli occhi su di lui, ma non mosse minimamente la testa.
Avrebbe saputo che cose le avevano fatto. Perché non ricordava più chi era, perché non ricordva pià di loro.
La fissò negli occhi.
Quegli occhi blu così profondi a potercisi perdere.
Lei aggrottò le sopracciglia.
Era così bella quando si accigliava.
Profondo Blu si accostò a lei che alzò la testa per poterlo fissare.
Le accarezzò prima il collo, poi una guancia.
Lei non parve accorgersene. Aveva un'espressione concentrata, come se fosse immersa in una lettura difficile.
Profondo Blu sollevò un sopracciglia.
«Victoria... Ikisatashi?» chiese lei ad un certo punto.
«Tu... ricordi?»
«Cosa dovrei ricordare?» domandò lei, candidamente.
Profondo Blu fece un passo indietro.
C'era qualcosa di strano in quella ragazza.
«Quando dici “Victoria”, intendi Victoria Ikisatashi?» insistette lei.
«Certo.» rispose lui guardingo.
«È morta.»
Si sentì gelare.
Come poteva parlare di se stessa con così tanta sicurezza.
«20 anni fa.»
«Tu...»
«Abigal ha 19 anni. È un clone.»
«”È”?»
Lei tirò su le mani, che prima teneva in grembo, e le appoggiò sul tavolo.
I suoi polsi erano sciolti e lei giocherellava con le manette aperte.
«Abigal.» lei sorrise leggermente. I suoi occhi si scolorirono all'improvviso facendosi argentati. «È ancora in quella cella. A respirare gas per tuo ordine.» I capelli si accorciarono diventando a loro volta argentei. I tratti del viso si distesero e cambiarono. «Se i calcoli di Silver sono esatti, le restano esattamente cinquantadue secondi di vita.» lo informò New.
Profondo Blu non pensò a nulla.
L'attimo dopo stava già correndo per il corridoio.

Con l'arrivare dell'alba si poteva girare più liberamente.
Faith guidava il gruppo.
«Sicura che sia la strada giusta?» la punzecchiò Riley.
«Sicura.» sibilò lei, per l'ennesima volta.
Oro, dietro di loro, si contorceva le mani per l'impazienza. Lui e Mina indossavano delle specie di felpe arrettiane con un cappuccio, in modo che le loro orecchie troppo piccole non si notassero.
«Come faremo ad entrare una volta lì?» chiese, più che altro per non rimanere troppo a lungo in silenzio.
«L'ho già fatto più volte,» lo rassicurò Faith «per procurare delle attrezzature a Silver e Raylene, se arriviamo per le sei, quando si danno il cambio, non dovremmo avere problemi.»
«Le ultime parole famose.» borbottò Riley, prima che gli venisse il singhiozzo.
Faith gli lanciò un'occhiata che doveva essere velenosa, ma che non lo rimase a lungo.
Gli diede una spintarella e entrambi presero a ridere.
Ethan aggrottò le sopracciglia.
«Da quando voi due ridete insieme? Faith, stavo cominciando a dubitare delle tue capacità di farlo!»
«Sta' attento a quello che dici, tu!»
«Fatela finita.» li zittì Mina «Non è affatto il momento di scherzare.»
«Rilassati» replicò Ethan «posso darti del tu vero?»
«No.»
«Lo abbiamo già fatto altre volte.» continuò il ragazzo-armadillo tranquillamente.

«Siamo già arrivati?» si stupì Aisha.
«Il fatto che Arret sia rimasto indietro in quanto a tecnologia non vuol dire che lo abbiamo fatto anche gli altri.» rispose dolcemente Lory.
«Tart, guarda, guarda! Si vede Arret!» esultò Paddy arrampicandosi su un sedile per poter guardare fuori.
Tart le fu subito accanto, la faccia attaccate al vetro.
«È più azzurro, cosa gli hanno fatto, l'hanno allagato?»
Paddy rise.
«Dev'essere una tua impressione, io invece lo vedo più arancione.»
«Arancione? Come può essere arancione un pianeta così abitato? Magari più grigio. Azzurro ti dico.»
«E io invece lo vedo arancione!»
Aisha li fissò sgranando gli occhi.
«Si rendono conto che stiamo per far scoppiare una rivolta planetaria?»
«Sì, credo di sì.» rispose Lory sorridendo «Sono così di natura. E meno male. È meglio così che a crogiolarsi nell'angoscia, no?»
Aisha la fissò scettica.
Psiche se ne stava accanto a lei, apparentemente in silenzio.
Teneva gli occhi chiusi, l'espressione concentrata, ma il suo viso era sereno.
Non aveva mai creduto veramente che la sorella, in qualche modo, fosse ancora viva. Non fino a quando aveva visto la sua forza vitale, potente e luminosa, volteggiare sul palmo della sua mano; non fino a quando aveva avvertito la sua coscienza risvegliarsi e prendere forma dentro di lei; non finché non aveva sentito di nuovo la sua voce.
Ora non aveva bisogno di parlarci. Le bastava percepire la stessa impazienza per la battaglia.
Un alieno si avvicinò a loro e disse qualcosa in uno stentato arrettiano che ovviamente Aisha non capì. Guardò Lory.
«Stiamo per entrare in orbita.» le spiegò «Quelli che rimarranno nello spazio creeranno un diversivo che ci permetterà di atterrare senza essere visti. Dobbiamo allacciare le cinture.»
Aisha obbedì.
«Dillo a loro!» sorrise poi, indicando con la testa Paddy e Tart, ancora intenti a guardare fuori e a discutere sui colori del pianeta.

«Signore, non può entrare lì!»
Profondo Blu mandò al diavolo il soldato e usò i suoi poteri per far esplodere la porta.
Si guardò intorno.
Silver era seduto a terra, la schiena appoggiata al muro, tossendo in continuazione, ma ancora un po' lucido.
Pam, che a parte qualche colpo di tosse isolato stava bene, era china su Pai, che invece era steso a terra, già privo di sensi.
Ma Profondo Blu non li vide.
I suoi occhi si posarono immediatamente su Abigal.
Era a pochi centimetri da Silver, stesa a terra come se fosse appena caduta dal letto, i capelli azzurri scomposti intorno al volto sofferente.
Silver si piegò in due senza riuscire a respirare tra un colpo di tosse e l'altro, gli occhi troppo arrossati per poterci vedere.
Pam alzò lo sguardo su di lui, ma solo per un secondo. Continuava a scuotere Pai, che invece non dava segni di vita.
Profondo Blu agitò la mano davanti a sé creando una bolla di aria respirabile davanti al proprio viso, poi corse verso Abigal.
Prima che potesse raggiungerla, però, sentì l'aria tremare alla sua sinistra.
Si voltò appena in tempo per vedere New teletrasportare Pai e Pam fuori dalla stanza.
Silver ansimò spaventosamente, poi sparì a propria volta.
Profondo Blu si voltò verso la porta. Avendola lasciata aperta aveva permesso loro di teletrasportarsi fuori dalla cella. Ora erano chissà dove all'interno dell'edificio!
Dannazione! Pensò, poi prese in braccio Abigal, ancora priva di sensi e uscì.
I soldati di guardia erano immobili ai loro posti, gli occhi fissi nel vuoto.
Quella specie di bambina chimero doveva averli ipnotizzati.
Si teletrasportò nella propria camera e adagiò Abigal sul letto.
Il suo viso si stava lentamente rilassando, ma non sapeva dire se fosse un bene o un male. Cercò di sentirle il battito, ma era troppo agitato per riuscirci.
Le posò una mano al centro del petto.
Aveva ucciso molte volte, ma poteva anche salvare?
Poteva salvare almeno lei? Almeno Victoria?
Ripensò a quello che aveva detto quella ragazzina.
Che quella che aveva davanti era solo un clone.
Non poteva essere vero. Quei bastardi non potevano essere riusciti ad arrivare ad un tale livello di scienza vivendo per decenni nell'ombra!
Si sedette accanto a lei.
Le posò una mano sul volto.
La pelle sotto le dita era morbida e liscia proprio come la ricordava. Come poteva non essere lei?
«Victoria?» la voce gli tremava «Mi senti?»
Lei non si mosse minimamente.
Qualcosa suonò ripetutamente.
Profondo Blu estrasse una specie di telefono da sotto il mantello.
«Sì?»
«Delle astronavi ci stanno attaccando, qualcuno ha già manomesso le nostre comunicazione agli altri edifici.»
«E cosa aspettate a mandare astronavi nello spazio per rispondere all'attacco?»
«Non possiamo senza un ordine preciso.»
«Ve lo do io un'ordine preciso!» sbraito Profondo Blu.
«Spiacente, ma lei...»>
«Mandi un'astronave nello spazio, ora!»
«Un'astronave sola non servirà a molto, sono una flotta intera...»
«Incapaci!» ringhiò Profondo Blu lanciando l'apparecchio e smaterializzandosi.
Abigal scattò a sedere.
Corse a raccogliere l'apparecchio e si assicurò che non fosse rotto.
«Siete ancora in linea?» chiese. La sua voce, a causa del gas, non era molto limpida.
«Sì. Voi chi siete?»
Abigal sorrise.
«Victoria Ikisatashi.»
«Chi?»
«Lasci stare. Mi ascolti. Mi è stata lasciata una lista di istruzioni.»
«Non ha l'autorizzazione...»
«Ce l'ho autorizzazione.» ringhiò Abigal «Controlli i registri se vuole, perda tempo, faccia pure! Aspetti che invadano il pianeta e poi si giustifichi dicendo che aspettava ordini precisi!»
Il ragazzo dall'altra parte non disse nulla.
Abigal si fece forza.
Si avvicinò ad un armadio a muro. Non si apriva.
«Dovete armare quante più astronavi possibili e mandarle nello spazio, si devono concentrare sull'allontanamento della flotta.» si concentrò e fece apparire una delle sue doppie scuri. Sferrò due colpi precisi all'armadio e una delle ante si aprì. «Delle squadre di ricognizione speciale devono essere mandate al mercato nero, secondo fonti affidabili i ribelli si raduneranno lì.» l'armadio era pieno di armi. Si allacciò una cintura e cominciò ad infilarci quante più pistole possibili, assicurandosi che fossero cariche.
«Non abbiamo abbastanza uomini.»
«Dovrete trovarli. Una squadra deve anche rintracciare Sheira Ikisatashi in Lyoko, ha importanti informazioni sui ribelli. Per trovarla usate il marito, Felix Lyoko. Dovete trovare un pretesto per liberarlo e pedinatelo, vi porterà da lei e dai ribelli.»
Forzò la porta dell'appartamento e uscì in corridoio.
Non c'era nessuno. Le luci erano tutte fulminate.
Abigal fissò l'apparecchio all'orecchio e evocò anche l'altra scure.
«Quando questa conversazione sarà conclusa interrompete qualsiasi comunicazione che non sia a voce o via corriere, i ribelli rintracciano tutte le altre.»
«Va bene.» rispose, l'interlocutore, esitante.
«Bene.» tagliò corto Abigal chiudendo la conversazione.

Avanzò lentamente, per protrarre quanto più possibile quei momenti di gloria.
Arrivò davanti ad Arlene, troppo allibita per farsi indietro, che continuava a spostare lo sguardo incredulo da lui a ciò che c'era alle sue spalle.
Le prese il volto tra le mani, le dita che le accarezzavano il collo, per costringerla a fissarlo.
«Spiacente dolcezza, ma, finalmente, avete perso.» scandì beatamente l'ultima parola.
«Non toccarla!» ringhiò Azzurra.
Il fatto che una bambina così piccola potesse affrontarlo con tanta ferocia era così comico e patetico!
Lasciò andare Arlene stando bene attento a graffiarla sulla guancia con le unghie e si accovacciò per avere il viso alla stessa altezza di quello di Azzurra.
«Vedi ragazzina? Ho vinto io e tu» puntò in dito contro il suo petto e lei si ritrasse «verrai via con me e farai esattamente come dico io, è chiaro?»
Qualcosa di freddo e appuntito si posò sulla sua nuca.
«Tu... toccale... di nuovo... e troverò un modo... per ucciderti davvero, è chiaro?»
Pietrificato e allo stesso tempo liquefatto, il Cavaliere Blu si alzò piano piano e con altrettanta lentezza si voltò.
Mark era proprio davanti a lui, la spada che teneva in mano segnava la loro distanza ed era puntata sulla sua gola.
La mano libera di Mark era premuta sul petto, in corrispondenza della ferita che ormai doveva essersi rimarginata. Respirava a fatica, ma si stava riprendendo velocemente.
«Come...» abbaiò con rabbia e disprezzo.
«Lo hai dimenticato? Nessuno di noi due può morire finché Profondo Blu vive.»
«Questo vuol dire che neanche tu puoi uccidermi.» ringhiò per provocarlo.
«Presto lui sarà morto e noi di nuovo mortali.»
«Con la differenza che tu hai da perdere e io no.»
Sentì la punta della spada affondare un po' di più sulla sua gola. Nonostante sapesse di non poter morire, la paura era comunque molta.
Dove aveva lasciato la sua spada?
«Tu credi?» ribatté Mark abbassando la mano che teneva sul petto ormai guarito e riprendendo a respirare regolarmente. «Ian, vieni dove può vederti.»
Ian? Chi era Ian? Il chimero?
Già, dov'era il chimero?
Sentì qualcuno muoversi alla sua sinistra facendo il giro e trascinando qualcun altro che imprecò.
Riconobbe la voce e sentì il proprio cuore perdere un battito.
Doveva aspettarselo, infondo era per questo che era venuto.
Aveva visto Caliane disarmata solo quando era stato lui stesso a spogliarla.
In quel momento oltre che disarmata era anche evidentemente debole.
Quando fu davanti a lui e Ian smise di sorreggerla cadde in ginocchio. Non era legata né trattenuta, sembrava incapace di muoversi.
Alzò la testa a fatica e i suoi occhi viola incontrarono i suoi. Erano spiritati e colmi di ira, rancore e paura. Aprì la bocca per parlare, ma le uscì solo un rantolo.
Abbandonò ogni riserbo e ogni premura.
«Che cosa le hai fatto?» urlò.
«Tu avresti fatto di peggio se le parti fossero state invertite.»
«CHE COSA LE HAI FATTO?»
«Meno di quanto pensi.» il tono di Mark era cambiato, ora sembrava volerlo tranquillizzare. Questo lo mandò ancora più in bestia.
«Posso fare lo stesso anche a te se voglio.» sibilò una voce acuta e ingenua, quasi onirica.
Inclinò solo leggermente la testa per poter fissare la bambina dai capelli biondi e gli occhi azzurri che ora stava davanti alla madre. «Posso bloccarti, o costringerti a fare ciò che voglio.» faceva paura. Per essere così piccola faceva decisamente paura.
Il Cavaliere non poté trattenersi.
«Cos'altro sai fare?»
«Posso controllare tutto ciò che mi circonda. Posso guarire e ferire. Creare e distruggere. Modificare. Riportare in vita e uccidere.»
Arlene le mise una mano sulla spalle per fermarla. «Basta Azzurra.» ansimò, chiaramente turbata dalle parole di sua figlia.
Ma era anche la figlia di Profondo Blu, certe cose doveva averle nel sangue.
«Mi stai minacciando?» ringhiò tornando a rivolgersi a Mark «Allora non sei poi così diverso da Lui.»
Mark scosse la testa. «Mi sto difendendo è diverso, sto lottando per le persone a cui voglio bene.»
«Anche io!» urlò lui e inevitabilmente tornò a fissare Caliane. Sicuramente poteva sentirlo. Se solo avesse potuto sapere cosa stava cercando di dirgli con lo sguardo!
«Tu sei venuto qui per uccidere, lei è venuta qui per uccidere.»
«È quello che ci è stato ordinato.»
«È quello che avete voluto fare.» ribatté Mark «Ma perché? Perché mi odi così tanto?»
Il Cavaliere Blu fece un passo indietro per mettere più spazio tra il proprio collo e la spada.
«Perché? Tu non ti rendi conto di quello che mi hai fatto! Se non fosse stato per te e la tua “umanità” non sarei quello che sono! Non sarei costretto a nascondere la mia identità di ibrido!»
Vide la notizia farsi strada nella mente di Mark che, seppur per un semplice istante, esitò.
«Non ci eri arrivato? Io sono l'unione tra te e Profondo Blu, sono un ibrido esattamente come quella banda di ragazzini che chiamate Connect, esattamente come lei.» e con un cenno del capo indicò Azzurra «E se mi mettessi contro Profondo Blu ci metterebbe un attimo a capirlo. A rendersi conto che il pericolo che teme e che cerca di sopraffare, il genere che vuole sterminare o usare è il suo alleato. Per tutti questi anni sono stato costretto a nascondermi a misurare ogni gesto e ogni parola. Se non fosse stato per me avrebbero scoperto il vostro stupidissimo laboratorio nella montagna. Ah, credevi che fosse un segreto? Mi spiace, sono anni che lo sorveglio. Se non avessi messo io Sheila di guardia a quelle astronavi non sarebbe mai riuscita a farli scappare con una di quelle.»
«Non è vero, tu l'hai fatta arrestare!»
«E cosa dovevo fare? Profondo Blu in persona l'ha ordinato. E poi è scappata mi pare! In questo stesso momento è con i ribelli, mi pare.»
«Io non ti credo!»
«Questo non è colpa mia.»
«Sei venuto qui per uccidermi, si può dire che lo hai fatto.»
«Sono venuto per riprendermi ciò che è mio.» e guardò Caliane, ormai tanto valeva sbilanciarsi «E comunque la tua era in ogni caso una trappola, no? Mi sono preparato e difeso. E ho vinto, perciò ora dammi ciò per cui sono venuto, Caliane e la bambina.»
Era chiaro che Mark ancora non gli credeva, ma appena concluse la frase qualcosa attraversò la sua espressione e il Cavaliere Blu capì di essere in svantaggio. C'era qualcosa che non sapeva, era evidente.
«Sì, è vero, sei venuto per la ragazza e... per un bambino. Il bambino.»
Il Cavaliere Blu si limitò a fissarlo, aspettando che concludesse, non gli avrebbe dato la soddisfazione di chiedere spiegazioni.
Un verso lo distrasse.
Veniva da Caliane e significava rabbia, lo vedeva nei suoi occhi.
La vide raccogliere le forze e raddrizzare la schiena.
Ispirò affannosamente, come chi sta compiendo un grosso sforzo, e l'aria intorno a lei cominciò a farsi più densa e più scura.
Un grugnito infantile venne dalle sue spalle. Sicuramente era Azzurra.
Qualcosa brillò e Caliane si afflosciò di nuovo. Questa volta si stese completamente a terra, ma sembrava avere di nuovo libertà di movimento.
Si rannicchiò leggermente, ma sollevò la testa e trafisse tutti con lo sguardo.
«Bastardi.» ringhiò con quanto più odio e disprezzo riuscì a trovare, la voce roca di chi ha urlato per ore.
Il cavaliere sentì il cuore battergli più forte e non poté fare a meno di fissarla con desiderio. Persino in una condizione del genere, in cui era chiaramente in svantaggio, manteneva la sua arroganza e la sua determinazione. Eppure qualcosa era cambiato. La rabbia che le bruciava dentro era diversa e nel modo in cui si guardava intorno non c'era solo desiderio di attacco, ma anche ricerca di difesa.
E all'improvviso capì.
Capì su che gioco di parole aveva puntato Mark e sentì di odiarlo ancora di più.
Puntò lo sguardo su di lui, troppo risentito per sentirsi arrabbiato.
«Non è vero.» ringhiò.
«Non ho specificato quale bambino.»
Guardò Caliane lasciando che i suoi occhi le chiedessero ciò che le sue labbra non volevano formulare.
Lei serrò le mani a pugno e distolse lo sguardo.
E improvvisamente un pensiero banale quanto rilevante gli attraversò la testa.
«E tu come lo sai?» chiese, prima di potersi trattenere.
Mark abbozzò un sorriso.
«Te l'ho detto, io vedo.»
La risposta però era venuta da Azzurra.
Si spostò di lato, in modo da non dare le spalle a nessuno.
La bambina andò verso Mark.
«Io vedo tutto.»
Indietreggiò di un altro passo per allontanarsi ancora di più dalla spada.
«Vedi anche... le bugie? Puoi capire se mente?» domandò Mark.
Azzurra annuì senza guardarlo e Mark tornò a rivolgersi al Cavaliere.
«Sei davvero un ibrido?»
Si prese tempo, ma solo perché sapeva che gliene sarebbe servito per dare le risposte successive.
«Sì.»
Azzurra annuì.
«E Profondo Blu non lo sa?»
«In questi anni non è stato molto presente e io invece sono stato molto attento.»
Azzurra annuì di nuovo.
«Lui dà la caccia agli ibridi?»
«Ha scoperto della nostra esistenza per colpa dei vostri sconsiderati ragazzi. Erano al sicuro sul Arret, ma no, non bastava, sono dovuti venire qui a rovinare tutto e a farsi scoprire invece di rimanere nascosti e vivere in pace!»
Azzurra aspettò qualche istante, poi annuì.
Mark ispirò profondamente.
«Sei venuto qui perché ti ha mandato Profondo Blu?»
«Lui ha mandato Caliane, io sono venuto qui dopo la tua chiamata.»
«Per uccidermi.»
«Sì!»
«E avresti ucciso e fatto del male anche ad Azzurra, Arlene e Ian.»
«Sì! Abbiamo avuto l'ordine di prendere la bambina e portarla viva, ma avrei ucciso Ian e... il bambino, dov'è?»
«Non ti deve importare.»
«Come vuoi.»
«Gli ordini erano chiari.» abbaiò Caliane «Se si fossero rivoltati io stessa li avrei uccisi. Dite al ragazzino che ora non ha nessun modo di proteggere i suoi genitori!»
«Sono fuggiti entrambi.» la informò il Cavaliere.
«E tu li hai aiutati?»
Domanda pericolosa.
Mentire avrebbe voluto dire far crollare quell'equilibrio precario che si stava formando.
«No. Ma non li ho fermati quando sono fuggiti, avrei potuto farlo.»
Azzurra annuì, una volta sola.
Cos'altro poteva vedere quella bambina?
Poteva leggere nel pensiero? Poteva convincerla ad aiutarlo?
«Se ti lasciassi andare, ora, con Caliane, ma senza Azzurra, cosa faresti?»
«Tornerei da Profondo Blu e gli direi la verità, che ti sei messo in mezzo, che la bambina è nata e ha poteri straordinari.»
«Gli diresti che sei un ibrido?»
«No.»
«Questo perché sei sicuro che Profondo Blu vincerà.»
«Sì.»
«E se invece ti lasciassi tornare su Arret da solo e tenessi io Caliane, e Azzurra ovviamente, e ti fornissi un'arma per fermare Profondo Blu, cosa faresti?»
Il Cavaliere Blu esitò.
«E naturalmente, il patto sarebbe che se io vi aiutassi e voi vincesse, riavrei Caliane.»
«E rimarresti in vita dopo la morte di Profondo Blu.»
Si rese conto che tutto girava intorno a Caliane.
Se solo avesse ascoltato Profondo Blu, se solo non l'avesse amata o desiderata, avrebbe potuto decidere di tornare con l'arma su Arret, ma poi non aiutarli e lasciarla morire. Lei e il bambino. Un bambino che sarebbe stato per tre quarti un arrettiano e per un quarto un terrestre, potente per eredità sia paterna che materna.
Ma ne valeva poi la pena?
Poteva rimanere coerente con se stesso, non essere un traditore e lasciarla morire.
Oppure poteva salvare lei e il marito e mettersi contro Profondo Blu.
Guardò Caliane. E capì cosa stava tentando di dirgli senza parole: che sarebbe morta piuttosto che essere una traditrice.
«Se io... rifiutassi... voi avreste comunque l'arma, trovereste il modo di usarla comunque, che vantaggio potete avere da me?»
«Tu potresti avvicinarti di più a Profondo Blu e rendere le cose più semplici, ma sì, troveremo comunque un modo. In ogni caso noi vinciamo, per te può significare la differenza tra la vita e la morte.»
«Allora non mi sembra di avere molta scelta.»
«È un sì? Tornerai su Arret con l'arma e ci aiuterai?»
«Sì.»
Mark guardò Azzurra.
Lei, dopo un lunghissimo, straziante, minuto, annuì. E Mark abbassò la spada.

Dopo aver girato per quasi tutto l'edificio, protetta dall'uniforme da guardia del corpo speciale che sembrava un pass per accedere ovunque, Abigal riuscì a trovare finalmente ciò che cercava: il centro di controllo elettrico di tutta la città.
Sparò ai tre impiegati che c'erano senza pensarci due volte, la pistola era caricata con i sieri paralizzanti, poi cambiò i proiettili con quelli esplosivi e li puntò ai vari pannelli.
Non c'era tempo e lei non era abbastanza esperta per cavarsela in poco tempo senza fare confusione.
Sparò praticamente ovunque, finché ogni cosa si spense.
Pai, Pam, Silver e New stavano sicuramente facendo altrettanto, come stabilito. Di sicuro avevano già trovato un modo per far entrare un gruppo di ribelli nell'edificio e di liberare tutti i prigionieri.
Lei ora doveva occuparsi di altro.
Si sfilò il ciondolo che aveva trovato tra le cose di Victoria.
Lo strinse nella mano.
Dove sei Aaron? Pensò con intensità, come quando aveva detto con il pensiero a New di tenere per sé ciò che avrebbe sentito, poco prima che, con le sue sembianze, lasciasse la cella.
Il ciondolo contente acqua-cristallo si illuminò e la guidò.

«È quello?» sussurrò Oro con trepidazione.
«Sì.» confermò Faith «È il laboratorio più grande e attrezzato di tutta la città, non vedo dove altro avrebbero potuto portarla.»
«E come pensi che faremo ad entrare?» commentò Mina, tagliente.
«L'ultima volta avevo un camice, una carta d'identità falsa e un pass funzionante.»
Mina la fissò malissimo, ma lei non si scompose.
Sollevò una mano e cominciò ad agitare leggermente le dita rigirandosi i dardi avvelenati che vi erano apparsi. «Oggi ho questi. Scommetto che funzioneranno anche meglio.»
Riley singhiozzò rumorosamente e Ethan gli diede una violenta e improvvisa pacca sulla spalla per farlo smettere.
«Ancora non ho chiaro il tuo piano.» protestò Mina alzando leggermente la voce.
«Allora 'sta a vedere.»
Faith la superò e si posizionò all'imbocco nel vicolo, a pochi passi dalla strada principale, ma ancora nascosta nell'ombra.
Fece cenno a Ethan e Riley di stare pronti, poi si sporse leggermente e si guardò intorno.
Indicò un gruppo di tre persone vestite distintamente che confabulavano a bassa voce tra di loro.
Con dei movimenti così fulminei da essere impercettibili, Faith scagliò i suoi dardi con una precisione impressionante.
Ethan e Riley ebbero appena il tempo di uscire dal vicolo e mettersi davanti ai tre uomini che quelli caddero a terra.
Oro aiutò i ragazzi a trascinare i tre nel vicolo.
«Sono... morti?» chiese Mina, inorridita.
«Non ne ho idea.» confessò la ragazza-serpente chinandosi sui tre uomini. Frugò nelle loro tasche fino a trovare i pass. Prese le loro borse e tirò fuori i camici per poi porgerli ai tre ragazzi mettendo i mantelli al loro posto.
«Se anche riuscissero a passare» ricominciò Mina «come giustificherebbero la nostra presenza?»
«Diranno che siamo delle cavie. È orribile, ma ultimamente succede.» aggiunse difronte all'espressione della MewMew.
«Sbrighiamoci.» le interruppe Oro finendo di chiudere il proprio camice e afferrando una delle borse.
«Non così di fretta, rischiamo di tralasciare qualcosa di importante. Dobbiamo assicurarci che, se sono ancora vivi, questi tre non vadano da nessuna parte.»
«Ci penso io.» disse Ethan e creò uno scudo che li rinchiuse e li nascose. Grigio com'era sembrava un rigonfiamento del muro.
«Bene, andiamo.» Faith si rimise il cappuccio e si mosse per prima, poi si ricordò che secondo il suo piano doveva essere una cavia e fece segno ai ragazzi di precederla. Oro chiudeva la fila.
Una volta sulla strada principale oltrepassarono le porte a vetri del laboratorio e si ritrovarono in un atrio circolare e sicuramente asettico e non illuminato.
Ethan inserì il pass del dispositivo che si trovava di lato alle porte che avevano davanti, ma queste rimasero chiuse.
Guardò Faith che sollevò leggermente le spalle.
Ethan riprovò.
Niente.
D'istinto diede un forte colpo al dispositivo che scricchiolò, ma non sembrò essersi rotto.
Il rumore, però, aveva attirato l'attenzione di qualcuno all'interno.
Dietro le porte apparve una donna esile e dall'aria sciupata, ma lo sguardo vigile.
«Scusate, ci deve essere un blackout, tutta la zona, forse la città, è senza elettricità. Non funziona nessun mezzo di comunicazione.» mentre parlava gesticolò con qualcosa che loro non potevano vedere e le porte si aprirono «Per il momento siamo dovuto ricorrere ad un generatore autonomo, ma non durerà a lungo e dobbiamo cercare di risparmiare quanta più energia possibile. Loro sono?» chiese poi indicando Faith e Mina.
«Cavie.» rispose Ethan dopo un istante di esitazione.
La donna non parve affatto convinta.
Si avvicinò a Faith e le levò il cappuccio. Le afferrò il mento per costringerla a guardarla.
La ragazza la fissò con l'aria più vitrea e impassibile che riuscì a trovare, quasi ipnotizzata.
«Sono state sedate.» inventò Oro mentre la donna eseguiva la stessa operazione con Mina passandole una mano davanti agli occhi per controllarne i riflessi.
Lei sbatté le palpebre all'istante e si irrigidì, ma riuscì a controllare la propria espressione.
La donna era chiaramente dubbiosa.
«Non eravamo stati avvisati dell'arrivo di nuovo personale e... cavie.»
«Non lo sapevamo neanche noi fino a poche ore fa.» disse Oro e Ethan dovette trattenere un sospiro di sollievo perché lui non avrebbe saputo cosa inventarsi «Sono state trovate questa notte, c'è il sospetto che siano ibridi, come la ragazza che è stata porta qui qualche giorno fa. Siamo venuti per delle analisi più accurate e un confronto, può farci strada.»
La donna parve molto colpita, anche se fece del suo meglio per non darlo a vedere. Rimase in silenzio per alcuni interminabili istanti.
Riley deglutì e Ethan sperò che non gli venisse il singhiozzo proprio in quel momento.
«Sono poche le persone che hanno accesso a queste informazioni altrimenti tenute segrete dallo stato dottor... ?»
«Shirogane.»
Nel momento in cui la donna posò gli occhi sul distintivo cucito al camice Oro capì di aver commesso un grosso errore.
Aprì la bocca per parlare, dire qualsiasi cosa – la prima che gli venne in mente fu che il nome sul distintivo era una copertura, ma poi si ricordò che probabilmente la donna conosceva il vero proprietario – ma non ce ne fu bisogno.
Lei si accasciò a terra sotto i suoi occhi e solo quando si fu ripreso capì che era stato uno dei dardi di Faith a colpirla.
«Muoviamoci.» li incalzò «E ringraziamo il fatto che è rima mattina e che le loro comunicazioni non funzionano.»
Si mossero tutti insieme, come un unico corpo, verso il corridoio che avevano davanti.
«Bella interpretazione, Oro.» si complimentò Ethan per alleggerire la tensione.
«Grazie.»
«E ora che fai?» chiese, vedendo che il ragazzo si attardava per accendere le luci.
«Spreco le loro riserve di energia.»

I ribelli nascosti nel contro soffitto erano quasi una cinquantina.
Aprilynne e Catron erano rimasti impressionati davanti a quei numeri.
Quando Pai, Pam, Silver e New si erano materializzati davanti a loro, nel cuore del quartier generale sotterraneo per informarli che Abigal aveva mandato quanti più soldati possibile in ciò che restava del mercato nero Craig non se l'era fatto ripetere due volte. Era lui, ora, a guidare il gruppo.
Non dovettero aspettare molto.
Dopo solo mezz'ora dal loro arrivo dei soldati cominciarono a circondare silenziosi l'edificio e altri entrarono con circospezione.
Ghish si sfregò le mani.
«Andiamo?»
«Non ancora.» disse Craig, facendo però segno a tutti di stare ponti.
I ribelli più vicini alle finestre caricarono le armi e presero di mira i soldati all'esterno.
«Non ancora.» ripeté Craig mentre sempre più uomini entravano nell'edificio.
Alcuni ribelli lanciarono dei piccoli sassi contro il pavimento per fare rumore.
«Non ancora.»
Ghish guardò Strawberry, già perfettamente concentrata sulla battaglia imminente, la prima di tante.
«Non ancora.»
La prima per liberare Arret.
«Ora!»
Ghish non capì neanche chi si mosse per primo.
Un attimo prima c'era il silenzio più totale, l'attimo dopo il finimondo.
Fece apparire i suoi sai e sorrise esultante.
«La guerra comincia!»

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Capitolo 22
*** Com'è l'inferno ***


Com'è l'inferno




«Di qua.» ordinò Faith.
«Perché di là?» protestò Riley.
«Perché conosco questo laboratorio e perché sento delle voci, probabilmente delle guardie.»
Gli altri annuirono e la seguirono. Si mossero rasenti al muro, la sfarfallante luce bluastra di emergenza che creava isolate pozze luminose.
La parete curvava lentamente, senza un vero e proprio angolo, e questo era un male perché voleva dire che sarebbero stati visibili molto prima.
Le voci si avvicinavano.
Faith si fermò e allungò un braccio dietro di sé come per contenere gli altri. La sua lingua ora biforcuta esaminò l'aria. «Dannazione!» sibilò poi «Sono in quindici.»
«Così tanti?» osservò Ethan.
«Sapevano che saremmo venuti a cercarla.» intuì Oro mentre si liberava silenziosamente del camice e recuperava le sue nacchere.
Faith roteò i polsi e delle scaglie avvelenate comparvero subito tra le sue dita.
«Possiamo riuscire a trattenerli mentre qualcuno va a prendere Raylene.» Faith ragione in fretta «Ethan, Oro i vostri poteri sono puramente difensivi, quindi potrete attraversare il corridoio senza essere colpiti: andrete voi.»
«Così noi rimarremo interamente scoperti però.» osservò Riley.
«Ce la caveremo. Se vogliamo tirare fuori Raylene di lì dovremo farcela. Riley passa avanti, tu agirai per primo. Le tue bombe li coglieranno di sorpresa e daranno il tempo a Ethan e Oro di avvicinarsi. Tutto chiaro?»
Tutti annuirono.
«Forza allora.»
Riley si fece avanti. Unì indice e pollice a cerchio e vi soffiò attraverso. La bomba si gonfiò dal nulla come una bolla di sapone. Poteva sembrarlo in effetti, se non fosse stato per il nucleo scintillante e sfrigolante che aveva all'interno. Ne creò due, una per ogni mano.
Con il singhiozzo, il ragazzo rana si lasciò gli amici alle spalle e continuò ad avanzare per il corridoio finché qualcuno non lo notò e urlò «E tu chi sei?» impugnando già la propria arma.
Da qual momento, il tempo sembrò cominciare a scorrere molto più in fretta.
Riley scagliò la prima bomba con un movimento esperto, come un lanciatore di baseball, e subito ne creò un'altra. Quando la sfera toccò terra, nemmeno un secondo dopo, esplose con violenza.
Sei soldati vennero scaraventati contro il muro alle loro spalle e le luci andarono in cortocircuito.
Ethan e Oro, ognuno protetto dal proprio scudo, attraversarono il corridoio di corsa, fermandosi solo quando Riley scagliò la seconda bomba, per potersi riparare meglio. Corsero poi fino alla porta del laboratorio.
Dei soldati vennero loro contro, ma caddero uno dopo l'altro, colpiti da delle scaglie avvelenate di Faith. Nel giro di pochi secondi i soldati iniziarono a sparare.
Mina, ancora al sicuro dietro la parete, fece dei respiri profondi. Tirò fuori il proprio ciondolo da MewMew. La prima trasformazione dopo tanto tempo sarebbe stata la più potente. Valeva la pena usarla adesso? Per recuperare il corpo senza vita della figlia di Pam? Per proteggere i ragazzi.
Chiuse gli occhi. Certo che ne valeva la pena. Non doveva fare lo stesso errore dei ragazzi e considerarli inferiori solo perché creati in laboratorio.
«Mew Mina» sussurrò con intensità «Metamorfosi!»
Fu un attimo. Un attimo che si dilatò fino all'inverosimile e che rievocò ricordi lontani nel tempo, ma solo un attimo.
Quello dopo, mentre tutti i presenti sbattevano le palpebre momentaneamente accecati dalla luce azzurra della trasformazione, Mina aveva di nuovo le sue ali, l'arco e le frecce. Non erano vere e proprie armi, in quanto erano fatte di energia più che di materia, avrebbero ucciso un chimero, non un umano, ma le infondevano comunque una potenza ineguagliabile.
Con già una freccia in mano tese l'arco e la scoccò con una precisione chirurgica, come se la mira fosse un senso esattamente come ascoltare.
La freccia colpì la porta del laboratorio – altrimenti ermeticamente chiusa – facendola spalancare.
L'onda di energia non diede alle luci di emergenza nemmeno in tempo di sfarfallare un'ultima volta. Si spensero di colpo, tutte insieme, lasciando il corridoio nel buio più assoluto.
Oro, schiena contro schiena con Ethan, strinse le nacchere e premette uno dei pulsanti di lato, quello che azionava le torce. Socchiuse una nacchera quel tanto che bastava per individuare il percorso da fare. Afferrò Ethan per un polso e se lo trascinò dietro.
Si infilarono in quello che doveva essere il laboratorio. Appena furono dentro, Ethan usò uno dei suoi scudi per chiudere l'entrata visto che la porta era ormai praticamente inesistente e in ogni caso non abbastanza resistente.
Oro aprì completamente le nacchere in modo da illuminare quanto più possibile l'ambiente circostante.
«Cosa diavolo è questo posto?» esclamò guardandosi intorno. Nulla era come se l'era aspettato. Non si distinguevano tavoli, scaffali, sedie, armadi. Niente. Era come se tutto fosse stato ricoperto da una sorta di vetro verde e opaco colato dall'alto.
«È un laboratorio moderno della massima sicurezza.» gemette Ethan, i suoi occhi evidentemente riconoscevano l'ambiente anche se avrebbero preferito non farlo.
Mentre Oro valutava se era il caso di chiedere o meno spiegazioni, i colpi fuori dal laboratorio ricominciarono, molto più potenti e decisi di prima.
L'apparizione aveva colto alla sprovvista le guardie e il buio li aveva disorientati, ma si trattava pur sempre di soldati scelti e ben addestrati. Ci impiegarono pochi istanti a riprendersi e a schierarsi.  L'assenza di luce non sembrava fermarli, né rallentarli. Conoscevano a memoria uno le mosse degli altri.
Furono quindi Faith, Riley e Mina a trovarsi in difficoltà quando i colpi sparati alla cieca, ma pur sempre precisi, cominciarono ad attraversare il corridoio nella loro direzione, come puntine che scansionano il tabellone di una battaglia navale e che prima o poi centreranno il bersaglio.
Mina riuscì a tornare sui propri passi, fino ad essere protetta dalla parete arrotondata. Sentiva quelli che sperava – ma non si illudeva – fossero “comuni” proiettili conficcarsi nel muro. Poteva vedere le scintille provocate dall'impatto.
Incoccò un freccia e si sporse quel tanto che bastava per tirarla. Non si vedeva niente, perciò non provò neanche a prendere la mira. Appena sentì la freccia sfuggirle dalle dita si rifugiò nuovamente dietro il muro.
Di nuovo, la freccia illuminò di azzurro la sua traiettoria ad arco. Rivelando la posizione prima di Faith e Riley, poi della formazione di soldati e infine atterrare sul pavimento, nel quale si creò una crepa lunga e profonda. Sprigionò un'energia che sembrò mandare momentaneamente in tilt le armi.
Faith e Riley ne approfittarono per alzarsi da terra, dove si erano buttati per sfuggire ai colpi, ma vi tornarono subito. Mina era troppo lontana, non sarebbero mai riusciti a raggiungerla prima che la sparatoria riprendesse.
Faith cominciò a rotolare verso il muro e si trascinò dietro Riley.
«Le bombe!» gli sussurrò.
Il ragazzo rana cercò di concentrarsi, di mettere ordine alle idee e di sopprimere quella voce nella testa che gli urlava “scappa e non pensare agli altri”.
Avanzò ancora un po', carponi, fermandosi solo quando la sua testa urtò la gamba di Faith.
Congiunse indice e pollice e li avvicinò alla bocca. Cominciò a soffiare. Si accorse dell'errore quando era troppo tardi. L'istinto che l'aveva portato a non usufruire delle sue armi divenne un pensiero concreto solo in quel momento.
Il contenuto esplosivo delle sue bolle brillava. Ribolliva di luce non tanto da illuminare di nuovo tutto il corridoio, ma abbastanza da rivelare la sua posizione e quella di Faith.
Nell'istante il cui la bolla si staccò dalle sue dita e si librò in aria, un proiettile la centrò in pieno, facendola esplodere. Lì, a dieci centimetri dalla sua faccia.
«Riley!» urlò Faith sgranando gli occhi, prima che un gridò straziante le riempisse le orecchie. Solo quando sentì il sapore di sangue in bocca e si accorse di essersi morsa la lingua biforcuta con tutte le forze, capì che era venuto da lei. Il dolore arrivò con un istante di ritardo e fu fortissimo. Non sentiva più la propria gamba come arto, era come se una parte di lei fosse diventata puro fuoco. Distinse appena il calore provocato dal sangue che le rigava il polpaccio fuoriuscendo dall'enorme ferita aperta e il calore del dolore stesso.
Urlò di nuovo, questa volta per disperazione. Le guance erano zuppe di lacrime di cui non si accorse nemmeno. Non riuscì a pensare a nulla se non che voleva mettere fine a quella tortura. Desiderò persino che le sparassero. Tutto il suo corpo, eccetto la gamba ferita e inerme, cominciò a tremare mentre la pozza di sangue si allargava. Non era abbastanza lucida per rendersi conto che non poteva provenire tutto da un persona sola.
L'unico lato positivo fu che l'esplosione aveva rivelato anche a Mina la loro posizione.
Tese di nuovo l'arco e questa volta tirò appositamente la freccia a terra, proprio sotto di Riley. Si aprì un'altra spaccatura, più profonda della prima. La seconda freccia colpì lo stesso punto, solo pochi centimetri più in là e la crepa si spalancò così tanto che Riley ci scivolò dentro. Pensò di fare lo stesso per aiutare Faith, ma la sentiva urlare e non vedendola non sapeva se si era spostata o no. Rischiava di colpirla.
Lanciò una freccia contro le guardie. Avevano cominciato ad avanzare. Ne colpì una in pieno che con la forza dell'urto finì addosso ad un altra ed entrambi persero i sensi. Le altre si scostarono appena. L'onda di energia aveva messo di nuovo fuori usco le loro armi: avevano qualche seconda di vantaggio.
Mina sapeva di non dover sprecare il tempo e di non poter raggiungere i ragazzi.
«Faith!» urlò mentre incoccava un'altra freccia. Con la luce della precedente aveva potuto vedere bene la scena. Allargò la crepa sul pavimento. Si vedevano tutte le tubature sottostanti, ma c'era abbastanza spazio perché i due ragazzi ci si nascondessero.
Le rispose un sibilo strozzato.
«Rotola nella crepa, sbrigati.»
Un gemito di dolore. Le armi doveva essere di nuovo funzionanti.
«Faith!» gridò «Rotola a destra. Ora!»
Faith obbedì. Obbedì così come avrebbe obbedito a qualsiasi voce così decisa e allo stesso tempo angelica che fosse riuscita a sentire in mezzo a quella tortura.
Rotolò dandosi lo slancio con le spalle e tanto bastò a farla finire all'interno della crepa, momentaneamente al sicuro, proprio mentre gli spari riprendevano.
Il dolore era già così forte che l'impatto con il suolo non poté aumentarlo. Anzi, le riportò uno sprazzo di lucidità al quale si aggrappò con tutte le sue forse.
Inclinò la testa.
«Riley!» chiamò senza fiato. Il ragazzo era accanto a lei, anzi, sotto di lei visto che gli era rotolata sopra, la testa all'altezza della sua pancia. Era immobile. Sperò che fosse solo privo di sensi e non morto. Pregò con tuta se stessa che non lo fosse, anche quando vide la lunga ferita che gli spaccava la testa fino al naso, accecando un occhio. Poteva vedere l'osso del cranio. Se anche era ancora vivo, sarebbe morto a breve, dissanguato.
Urlò. Sibilò. Gemette. Pianse. Il dolore non era solo fisico. C'era anche qualcos'altro, qualcosa che le opprimeva pesantemente il petto. «Riley!» chiamò, pur sapendo che era inutile. Sentiva a mala pena – come fossero stati solo un drammatico sottofondo – i passi cadenzati e inesorabili dei soldati che avanzavano e le frecce di Mina che li colpivano rallentandoli, ma non fermandoli. «Ethan!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Desiderò poté raggiungere il ragazzo con il pensiero, o almeno con lo spirito. Dirgli che erano lì, in trappola, che stavano morendo e che non era giusto. Non era giusto certe cose si capissero solo troppo tardi. Come il fatto che aveva paura di morire, una paura estremamente diversa e mille volte più intensa di quella che può assalire chiunque a mente fredda, nel mezzo di una meditazione. Era puro terrore che scorreva nelle vene rimpiazzando il sangue che stava perdendo.
Ricominciò a tremare.
Cercò di riprendere il controllo almeno delle mani. Aveva ancora tra le dita alcune delle sue scaglie avvelenate.
Puro terrore.
Voleva che finisse. Che il dolore alla gamba si estinguesse. Che il peso nel petto legato a Riley si dissolvesse. Che il bisogno di avere Ethan accanto svanisse.
Amò le proprie lacrime.
«Ethan!» gridò di nuovo e sentì anche la gola prendere fuoco, improvvisamente secca, ruvida «Riley.» gracchiò mentre faceva sempre più fatica a mantenere la lucidità.
Riuscì ad alzare lo sguardo.
Un soldato era proprio sull'orlo della crepa e li stava guardando. Non riuscì a mettere a fuoco la sua espressione, ma intravide la sua pistola puntata verso il basso.
Non mi avrete. Fu tutto ciò che riuscì a pensare. Lanciò due scaglie praticamente alla cieca, ma dovette centrare comunque il bersaglio perché vide la guardia accasciarsi a terra.
Riuscì a sorridere, poi si accorse di un improvviso bruciore alla mano. Era diverso da quello della ferita alla gamba. Se la avvicinò alla faccia e mise a fuoco. Un taglio le attraversava il palmo che stava rapidamente perdendo sensibilità. Già cominciava a non sentire più il braccio. Nella ferita era conficcata una scaglia. Si ricordò di averne lanciate solo due mentre ne faceva comparire sempre gruppi di tre. Lasciò cadere il braccio e strinse i denti.
In un istante fu sicura che il suo veleno fosse letale.
Chiuse gli occhi e poi li rovesciò sotto le palpebre.

Corsero fuori dell'astronave appena atterrarono.
Psiche fu l'unica a rimanere indietro. Guardò Aisha, Lory, Paddy e Tart andare dritti verso i due ribelli venuti a prenderli. Erano già pronti alla guerra. Persino Lory e Paddy in quel momento erano simili a guerriere.
Si riscosse solo quando mise a fuoco la figura di suo fratello, leggermente distaccato rispetto al resto dei ribelli.
«Silver!» esclamarono sia lei che Raylene correndo dritte verso di lui.
Il ragazzo dai capelli blu sorrise e allargò le braccia stringendola in un abbraccio stritolante appena gli fu saltata addosso.
«Mi sei mancata sorellina.» le disse, il viso affondato nei suoi capelli ricci. Dopo aver rischiato di morire asfissiato, rivedere l'unica sorella che gli era rimasta, sana e salva, era bellissimo. Di certo, però, avrebbe preferito incontrarla di nuovo solo una volta che la situazione fosse stata sicura e non in quel momento, nel momento di massimo pericolo per tutti.
«Anche tu ci sei mancato.» rispose lei riaprendo gli occhi, ma senza scogliere l'abbraccio. Si accorse che dietro al fratello, sospesa per aria a gambe incrociate, c'era New. Le sorrise.
«“Ci”...?» ripeté Silver allontanandosi un po' per poter guardare Psiche negli occhi.
Lei annuì, provò a dire qualcosa, ma non ci riuscì.
«In lei c'è Raylene.» spiegò New al posto suo.
Silver le fissò entrambe come se fossero pazze.
«È vero Silver.» confermò Psiche «Ho estratto la sua forza vitale da Isabelle e l'ho presa con me. Raylene è viva Silver, la sua coscienza è dentro di me. Percepisco la sua presenza, sento i suoi pensieri.» sorrise «Si sta chiedendo dov'è la battaglia. Dice che è venuta qui per combattere. Non lo farai nel mio corpo Ray.» aggiunse «Lo vedremo.» replicò poi lei stessa, con un tono e un'espressione per un attimo completamente diversi.
Silver sgranò gli occhi. «Raylene.»
Psiche sembrò inghiottire qualcosa. «Ti saluta. In realtà voleva darti dello stupido per averci messo tanto a capirlo.»
Il fratello non sapeva cosa dire.
«Non c'è tempo.» intervenne New interrompendoli «Dobbiamo raggiungere Mina e gli altri, sono andati a recuperare il corpo di Raylene, ma sono nei guai.»
«E tu come lo sai?» osservò Psiche.
«Faith.» rispose New «Era disperata. I pensieri disperati sono i più potenti e cercava, desiderava, di raggiungere qualcuno con il pensiero. Io l'ho sentita.»
Silver aggrottò le sopracciglia, ma Psiche annuì. Conosceva quella sensazione. La sua coscienza, mentre era un chimero, era riuscita a fare lo stesso.
New allungò le mani e i due fratelli le afferrarono, pronti a teletrasportarsi via.

Non aveva voluto usare di nuovo il teletrasporto per ritornare su Arret. Sarebbe stato uno spreco di energie che non poteva permettersi. In più non poteva sapere se il luogo in cui sarebbe arrivato sarebbe stato sicuro o nel bel mezzo di una battaglia.
Aveva preso l'astronave che Caliane aveva usato per andare sulla Terra – era abbastanza veloce da coprire la distanza tra i due pianeti in sole due ore dopo essere stata modificata e potenziata da Mark e, per quanto incredibile, da Azzurra.
Il cuore gli batteva sempre più forte mentre si avvicinava al pianeta. Non aveva mai amato Profondo Blu, ma nemmeno poteva dire di odiarlo. Poteva davvero tradirlo solo per salvare Caliane?
Lasciò momentaneamente i comandi per prendersi la testa tra le mani. Doveva decidersi perché non avrebbe potuto concedersi nessuna esitazione.
Solo quando rialzò lo sguardo, ormai abbastanza vicino al pianeta da non poterlo vedere tutto intero, notò la flotta che lo circondava. Si sentì raggelare. Era una flotta della Fratellanza. Come diavolo era possibile che fossero lì? Chi li aveva chiamati dopo così tanto tempo? Chi li aveva avvertiti della situazione? Chi li aveva convinti a venire in soccorso dei ribelli?
Mentre ancora scrutava la flotta e le poche astronavi arrettiane che zigzagavano tra di esse, il suo sistema di comunicazione si attivò automaticamente.
«Navicella A004, identificarsi. Parla il comandante Shirogane.» la voce maschile parlò in un arrettiano abbastanza buono, anche se chiaramente non di un madrelingua.
Per un po' il Cavaliere fissò il pannello, sorpreso. «Comandate Shirogane?» ripeté sorpreso.
Dall'altra l'interlocutore esitò.
«Ryan Shirogane?» insistette.
«Affermativo. Ora identificatevi.»
Il Cavaliere imprecò. «C'è almeno qualcuno che è morto per davvero?» ringhiò.
«Non lo ripeterò. Identificatevi.»
«Sono il Cavaliere Blu. Vengo dalla Terra e chiedo di poter atterrare su Arret.»
«Il Cavaliere Blu?»
«Affermativo. Mark Ayoama mi manda a... fare la mia parte.»
«Spiegati.»
«Non...»
«Sei uno dei nostri principali bersagli perciò dammi un buon motivo per non ordinare di spararti.»
«Innanzitutto perché sarebbe inutile visto che al momento non posso morire.» non riuscì a trattenersi dal replicare «E in secondo luogo perché faresti esplodere anche l'arma che porto con me e potreste dire addio alla vostra flotta.»
Spostò lo sguardo su altri pannelli olografici. Due piccoli caccia lo avevano affiancato da entrambi i lati. Il computer li identificava come Electra e Fosfor Ikisatashi.
«Di quale arma stai parlando?»
Il Cavaliere Blu prese fiato lentamente. Rispondere voleva dire decidere. Ma chi voleva prendere in giro... aveva paura, ma aveva già scelto. Lo aveva fatto sulla Terra. O Azzurra non avrebbe confermato che stava dicendo la verità. «Un'arma che Ayoama mi ha consegnato per uccidere Profondo Blu.» mentre parlava continuava ad avvicinarsi al pianeta. Il fatto che non gli avessero ancora sparato era un buon segno.
«Come faccio a sapere che non stia mentendo?»
«Perché non lo sto facendo!» urlò, incapace di trattenersi, i nervi già messi a dura prova «Perché Caliane è sulla Terra! Perché ho un dannatissimo figlio che non deve conoscere quel mostro! Ma tu non puoi saperlo, va bene? Perché siamo nel bel mezzo di una guerra planetaria e tu non puoi andare su un altro pianeta a controllare, okay? Tanto anche se non mi sparate voi adesso, lo farà qualcuno su Arret e io sopravviverò comunque, quindi a cosa diavolo vi serve?»
Ryan, dall'altra parte, tacque.
Guardò Kyle che, seduto alla sua destra, aveva ascoltato tutto in silenzio, così come Kathleen, alla sua sinistra.
Kyle annuì lentamente.
«Va bene.» disse alla fine «Sei libero di atterrare. Manderò un messaggio a Mew Lory e Mew Paddy dicendo di aspettarti. Andrai con loro. Sono sbarcate qualche minuto fa.»
«Bene.» fece per chiudere «Buona fortuna.» disse alla fine.
«Cavaliere...?»
«Sì?»
«Spero di non dovermi pentire delle mie parole, ma... è bello riaverti in squadra, anche se ti ricordavo diverso.»
«Ricordavi Ayoama con la mia faccia.» gli fece notare «Felice di esservi di aiuto, comunque.»
Chiuse la comunicazione.
Si voltò.
Eccola lì. L'arma che avrebbe ucciso Profondo Blu. Scioccamente appoggiata sul sedile alla sua destra. Grande quanto un sasso. Nera come l'ossidiana. Affilata in ogni sua parte. Traboccante di energia viola e velenosa. In grandi quantità poteva uccidere un pianeta secondo Mark.
In piccole, poteva costituire una forza vitale. Come quella di Caliane.
Era qualcosa di estremamente complesso, un concetto non facile da capire né tanto meno da afferrare. Mark aveva nominato i concetti di materia e antimateria, due opposti che appaiono con la stessa forma.
Prese in mano la pietra. La sua pelle si tese e i polpastrelli si sensibilizzarono. Era morbida, anche se densa e compatta, e leggerissima. Sembrava di avere in mano del fumo solido.
Anti-forza vitale. Ecco come l'aveva definita Mark. Capace di dare la vita agli organismi preposti, proprio come una normale forza vitale, ma di distruggere gli altri.
Pietra-fumo. Suonava bene.
Avrebbe davvero distrutti l'enorme quantità di acqua-cristallo che teneva in vita Profondo Blu? Lo sperava.
La posò di nuovo sul sedile accanto a sé. La mano con cui l'aveva tenuta era bollente e allo stesso tempo di un inquietante grigio cadaverico.
Mentre entrava nell'atmosfera, completamente guidato dal pilota automatico, si voltò per controllare quelli che all'apparenza erano un semplice mucchio di scatoloni. Lo erano in effetti, ma contenevano così tanta pietra-fumo da avvelenare un pianeta, o quasi. Erano ciò che stava distruggendo la Terra. Mark gliene aveva consegnata la maggior quantità possibile.
Tornò a concentrarsi sui comandi proprio mentre cominciava la procedura di atterraggio. Poche decine di metri più in basso, la pista si stendeva dritta e lucida davanti a lui. Non pensò neanche per un secondo di ricorrere ai comandi manuali, preferiva andare piano che rischiare sballottamenti.
Quando l'astronave finalmente arrestò la sua corsa e si fermò, disattivò tutti gli schermi olografici e si prese qualche secondo per guardare fuori.
Un piccolo gruppo di persone di stava avvicinando.
Riconobbe immediatamente Mew Lory e Mew Paddy, anche se non erano trasformate, e dimostravano parecchi anni in più rispetto all'ultima volta che le aveva viste. La ragazza umana che era con loro non l'aveva mai vista, ma a giudicare dalla faretra e dall'arco che si portava dietro doveva essere una figlia di Mew Mina.
Si alzò e scese dall'astronave. Si fermò proprio alla fine della passerella abbassata e attese che lo raggiungessero.
«Cavaliere!» lo salutò Lory con tono serio, ma comunque cordiale «Questa sì che è una sorpresa.» si fermò a pochi passi da lui e aspettò che Paddy la affiancasse «Ryan dice che avete con voi un'arma.»
«È esatto.» confermò «Non un'arma come probabilmente la intendete voi, ma comunque un'arma in grado di uccidere Profondo Blu.»
«Suona bene.» commentò Paddy. La fissò intensamente sorpreso. Questa donna bionda che si rallegrava di un imminente omicidio era la stessa bambina di tanti anni prima? Preferì non pensarci.
«Ho bisogno del vostro aiuto.» ammise subito, ma senza mitezza «La pietra-fumo – questo è il suo nome – deve trovarsi in grandi quantità vicino a Profondo Blu. Dobbiamo portarla tutta nella base militare e nasconderla, io provvederò a portarlo lì.»
Lory annuì, poi si voltò verso il ribelle che era con loro «Craig?» chiese.
«Ho un mezzo con cui possiamo trasportarla e mio figlio conosce delle scorciatoie per arrivarci.»
Il Cavaliere abbassò lo sguardo sul ragazzino dai capelli viola che era con lui. Lo riconobbe. Si chiamava Domnio e l'aveva visto un paio di volte giocare con il figlio di Sheila Ikisatashi, Always.
«Bene.» disse facendosi da parte per lasciarli salire «Sbrighiamoci allora.»

New, Psiche e Silver si materializzarono proprio alle spalle del gruppo di soldati che stava avanzando. Videro di sfuggita Mina ritirarsi dietro la parete dopo aver scoccato una freccia azzurra e notarono delle profonde crepe sul pavimento.
Silver evocò immediatamente il proprio ventaglio. Lo puntò verso l'alto. Con una potente scossa, tutte le luci si riaccesero.
Mina uscì di nuovo allo scoperto per poter vedere cosa stava succedendo mentre le guardie rimaste – ormai non erano che sei, seppur bene armate – esitarono e si voltarono.
Prima che chiunque potesse fare la propria mossa, gli sguardi dei soldati si fecero vacui e tutti e sei lasciarono cadere le armi.
Silver e Psiche fissarono New.
La dodicenne si teneva la testa con le mani, gli occhi serrati, e respirava affannosamente. «Sbrigatevi!» ordinò.
Lo scudo che nascondeva una porta sprangata, scomparve e Ethan corse nel corridoio. Si guardò intorno. Non sembrò stupirsi più di tanto nel vedere i tre ragazzi, il suo sguardo scivolò loro addosso e si fermò solo sulle crepe nel pavimento.
«Faith! Riley!» urlò attraversando il corridoio di corsa. Passando, colpì uno ad uno tutti i soldati in testa, in modo che perdessero i sensi. Arrivò alla crepa e si chinò. Fu come se lo avessero accoltellato. Si sentì soffocare. Allungò le braccia, ma gli tremavano troppo. «Silver!» riuscì ad articolare ad un certo punto.
Il ragazzo dai capelli blu si riscosse a quella disperata richiesta di aiuto.
Si avvicinò con poche, ampie, falcate.
Per quante scene simili potesse aver visto, si sentì raggelare. Per un momento esitò, poi fece appello al proprio sangue freddo e si chinò. Tirò fuori i due ragazzi dalla crepa nella quale erano incastrati.
Ethan, quasi incapace di parlare, sembrò volerli prendere in braccio entrambi.
Silver prese i polsi di Faith e Riley e li strinse, in ascolto.
«Allora?» chiese Ethan, divorato dall'ansia. Abbassò lo sguardo sulla ferita al polpaccio di lei, che gli era più vicina «Ha perso sangue, ma ho visto di peggio ed è alla gamba...» snocciolò disperatamente. Aveva ragione.
Silver lasciò andare il braccio di Faith, ma continuò a stringere quello di Riley.
«Allora?»
«È ancora vivo!» decretò scattando in piedi «Torno subito.»
«Ancora vivo? Che vuol dire? E Faith?» la voce di Ethan salì di tono «Silver!»
Ma non era il momento di fermarsi a pensare. Bisognava agire in fretta. Dopo, ci sarebbe stato tutto il tempo di disperarsi. Silver tornò indietro ed entrò nel laboratorio.
Oro era lì ed era evidente che non sapeva dove mettere le mani.
Silver si avvicinò alla parete e ci bussò due volte. Si accese uno schermo olografico. Nel giro di pochi secondi la sostanza che ricopriva l'intera stanza cominciò a colare e scivolare via liberando tutto ciò che c'era. Silver corse subito a recuperare un kit di pronto soccorso per poi tornare fuori.
Oro, invece, si avvicinò lentamente al lungo tavolo al centro della stanza. Un lenzuolo bianco copriva quello che sembrava un corpo. Ispirò profondamente e lo sollevò.
Era proprio lei. Era proprio Raylene.
Sentì dei passi avventati e si voltò.
Psiche in un attimo fu accanto a lui. Sembrava fuori di sé.
«Sono io!» esclamò con una voce stranissima che lo fece trasalire. La ragazza tirò via il lenzuolo scoprendo tutto il corpo. Era quello, senza ombra di dubbio, e non aveva nemmeno un graffio. Un movimento repentino, quasi spasmodico, Psiche si voltò verso di Oro. «Sono qui!» si interruppe e batté più volte le palpebre «Scusa.» disse con tono di voce ora normale «Quello che volevo, che voleva dire, è che è dentro di me. Raylene.»
La guardò confuso.
«La forza vitale di Raylene è dentro di me, non più in Isabelle. L'ho portata con me. Lei è...» non finì la frase. Oro agì d'istinto, senza pensare.
Tese la mano guantata verso la ragazza. Non aveva intenzione di farle del male, era qualcos'altro a guidarlo. L'aria tra di loro cominciò a vibrare e ad illuminarsi. Dal suo palmo si sprigionò un'intensa forza attrattiva che risucchiò da Psiche una sfera di luce viola.
La forza vitale di Raylene volteggiò per alcuni istanti sul palmo di Oro, poi, indirizzata da quest'ultimo, si avvicinò al proprio corpo e vi sprofondò lentamente, con naturalezza.
Psiche barcollò all'indietro e batté le palpebre mentre si portava una mano al petto e balbettava un «Come...?»
Il corpo di Raylene riprese colore, il suo petto si sollevò all'istante in un respiro silenzioso e i suoi occhi si spalancarono. Vagarono per pochi istanti, poi si fissarono su Oro.
Non riuscirono a trattenersi. Raylene fece appena in tempo a sollevare il busto che Oro era già chino su di lei. Si baciarono con tanta intensità che se fossero stati fatti di vetro sarebbero andati in frantumi. Invece rimasero solidi e caldi, l'una contro l'altro, sempre più avvinghiati, quasi fusi.
Psiche non poté fare altro che fissali attonita.
Nel corridoio, intanto, Silver si stava occupando della ferita alla testa di Riley, ancora privo di conoscenza.
Ethan era in ginocchio accanto a lui, ancora troppo scosso per reagire.
Mina, a pochi passi da loro, stava immobile, incapace di staccare gli occhi dalla scena e allo stesso tempo incapace di sopportarla.
Era questa la loro missione? Per recuperare il corpo di una ragazza in un certo senso ancora viva, ne sarebbero morti due? Cosa aveva Raylene più di Faith e Riley?
Silver alzò lo sguardo su di lei come se lo avesse chiamato. I suoi occhi le lanciarono il chiaro messaggio di andarsene, anche se le parole furono meno dure: «Credo sia meglio che controlli che non venga nessuno. Se non sbaglio questo laboratorio comunica con l'ospedale. Manda un messaggio agli altri.»
Mina raddrizzò la schiena, ma tenne gli occhi bassi.
«Io... cosa devo dire?»
«Che mandino appena possibile qualcuno qui, se riusciamo a prendere il controllo dell'ospedale potremo portare lì tutti i feriti.» risponde lui continuando a medicare la ferita di Riley. Sta chiudendo la ferita ormai pulita e disinfettata con dei punti; sicuramente l'occhio rimarrà cieco. «Dì anche che...» la voce gli si incrina leggermente «che abbiamo perso Faith,» deglutisce «ma Riley dovrebbe essere fuori pericolo.»
A quelle parole Ethan si riscosse all'improvviso e, prima che potesse fare nulla, Silver fu colpito da un pugno in pieno volto e cadde all'indietro portandosi una mano alla faccia.
«Abbiamo perso Faith, eh?» tuonò Ethan ergendosi in tutta la sua altezza e portando in fuori il petto. Torreggiava su Silver con espressione feroce.
«Ethan...»
«Per cosa?» urlò il ragazzo armadillo fuori di sé «Per tua sorella! Perché voi, a differenza di noi, potete non rassegnarvi ad una perdita. “Può essere sopravvissuta.” Per noi “l'abbiamo persa”!» gli fu di nuovo addosso, lo bloccò a terra e tentò di colpirlo di nuovo. Silver gli afferrò i pugni per evitare che gli facesse male, ma non lo fermò ulteriormente, lasciò che si sfogasse. «Avremmo potuto aspettare che fosse tutto finito, e invece no! Lei dovevamo venire a prenderla subito!» ringhiò di rabbia «Cosa avete di speciale? Siamo tutti dei dannatissimi ibridi! Dei maledetti mezzi animali! Voi i principi, noi i cani, vero?» riuscì a liberare una mano e colpì Silver con tutta la propria forza, al centro del petto. Lui strinse i denti, ma non disse nulla. «I sacrificabili!» pugno «I semplici pedoni.» pugno «Gli inferiori.» pugno «Come se non provassimo sentimenti!» pugno.
«Ethan, calmati!» ordinò New avvicinandosi – era rimasta a controllare che tutti i soldati rimanessero privi di sensi e aveva spostato da parte l'unico che, colpito dalle scaglie di Faith, era morto.
«No.» ansimò Silver fissandola e dicendole con il pensiero di non fare nulla.
Riuscì a bloccare Ethan e a scrollarselo di dosso.
Psiche, Oro e Raylene, intanto, erano usciti nel corridoio e si stavano avvicinando in silenzio.
Fu allora che Riley riprese coscienza. Un respiro convulso successe i precedenti, appena percettibili. I muscoli, come scossi dalla corrente, si risvegliarono all'improvviso. Chinò la testa di lato e sputò sangue finché le sue vie respiratorie non furono di nuovo completamente libere. Cominciò immediatamente a gemere di dolore.
Silver si rialzò subito. Non aveva pensato a dargli degli antidolorifici.
Guardò Raylene che immediatamente tornò nel laboratorio e gli portò una siringa già pronta e piena di un liquido opaco. Silver lo iniettò senza esitazione nel collo di Riley mentre Ethan riprendeva fiato e si avvicinava all'amico.
Riley aprì l'occhio integro e sbatté la palpebra più volte prima di riuscire a mettere a fuoco.
«Ethan.» soffiò senza forze.
«Riley!» Ethan si chinò su di lui come se non potesse credere ai propri occhi. «Grazie al cielo!»
Riley tossì leggermente. «Ehi amico... cos'ha da guardare tutta questa gente?»
Ethan gracchiò una specie di risata, poi, di punto in bianco, lo baciò. Fu rapido, anche perché si sentì immediatamente troppo osservato. Riportò indietro il busto di scatto e si costrinse a fissare solo Riley.
Il ragazzo rana sorrise – sembrò un po' un idiota a dire il vero – mentre la palpebra gli si richiudeva. L'antidolorifico stava agendo anche da anestetico.
Silver si alzò finalmente in piedi e abbracciò silenziosamente Raylene.
Mina decise che era il momento giusto per allontanarsi e ripercorse il corridoio all'indietro, fino a tornare nell'ingresso. Si imbatté nel corpo della donna che li aveva fatti entrare. Aveva ancora le scaglie di Faith conficcate nel collo. La ragazza serpente si era lasciata dietro un numero sconsiderato di inutili vittime, non poté fare a meno di pensare. Non avendo mai davvero conosciuto Faith e non essendo quindi legata a lei, sentì quasi che vi fosse un senso di giustizia in quella perdita.
Non uscì in strada, ma guardò fuori attraverso i vetri infrangibili delle forte.
In strada c'era il panico, ma non il caos.
I soldati della Fratellanza dovevano essere già sbarcati da un pezzo se in così tanti si trovavo per le strade. Erano armati, ma sparavano solo se strettamente necessario. Ordinavano a tutti di tornare a casa e chiudersi dentro, colpivano i soldati arrettiani con sedativi e, via dopo via, conquistavano la città. Non era un'impresa facile, i feriti erano tantissimi, ma la netta superiorità numerica era un notevole vantaggio.
Mina si allontanò dall'ingresso e andò a sedersi dietro ad una scrivania. Prese una freccia e la utilizzò come fonte di energia per riavviare un computer. Non si intendeva di informatica, ma dopo tanti anni vissuti in una stazione spaziale aveva acquistato una certa praticità. Continuò ad aprire e chiudere file fino a trovare ciò che cercava: una piantina dell'edificio e dell'ospedale accanto. Silver aveva ragione, erano collegati. Capì anche perché avessero trovato così tante guardie. L'ospedale era stato sigillato esternamente e al momento l'unico accesso era il laboratorio che sarebbe rimasto riservato solo all'esercito arrettiano.
Respirò profondamente e si abbandonò allo schienale della sedia. A quanto pareva la loro battaglia appena conclusa, era servita a qualcosa di veramente utile. Avrebbe voluto che Faith lo sapesse.
Si portò una mano al collo, le dita si strinsero intorno al ciondolo da MewMew e chiamò le altre.

Il medaglione sembrava impazzito. Funzionava un po' come una bussola – rimaneva sospeso a mezz'aria e si muoveva autonomamente – e avrebbe dovuto guidarla fino a Profondo Blu, ma non faceva altro che fermarsi e cambiare direzione all'improvviso. Dubitava che quell'uomo fosse capace di sdoppiarsi, quindi probabilmente si stava teletrasportando di continuo da un posto all'altro.
Di quel passo, non sarebbe mai riuscita a raggiungerlo.
Sbuffò dal naso, esasperata. Il distintivo rubato di guardia del corpo del Cavaliere Blu – che portava il nome di una certa Caliane – faceva da lasciapassare con l'esercito, mentre il nominare le MewMew e i Connect mostrando le orecchie piccole appuntite le permetteva di non essere rallentata dai membri della Fratellanza, ma sapeva che non avrebbe potuto vagare in quel modo ancora a lungo.
Afferrò il ciondolo e se lo mise al collo nascondendolo poi sotto la maglietta. Avrebbe comunque percepito la vicinanza di Profondo Blu, ma tanto valeva girare a caso per la città.
Uscì dall'edificio in cui si trovava e cominciò a correre per i vicoli sempre più stretti. Non aveva idea di quale fosse quella parte di città, perciò non provò nemmeno ad orientarsi. Quando cominciò ad avvicinarsi ad una via principale le strade si fecero gradualmente più larghe. Non rallentò, anzi, cominciò a correre ancora più veloce, finché, svoltato un angolo, non finì contro un soldato di Zora.
Indietreggiò per riprendere l'equilibrio.
«Scusi.» ansimò, pronta a ripartire, ma quello la fermò mettendole una mano davanti al busto.
«La devo pregare di tornare a casa signorina.» disse in un arrettiano un po' incerto, ma con tono deciso.
Lei scosse la testa e sollevò una ciocca di capelli per scoprire l'orecchio. «Sono una Connect. Abigal Ikisatashi.»
Il soldato si mise una mano su quello che doveva essere un auricolare e rimase in ascolto per qualche istante, esaminandola attentamente. Probabilmente la divisa che portava lo rendeva scettico. Alla fine disse qualcosa nella sua lingua, poi la guardò e annuì.
Abigal rimase dov'era.
«Dove sono?»
«Nella parte centro sud della città.» rispose il soldato.
«Qual'è la situazione al momento.»
«Una vostra squadra sta conquistando l'ospedale, un'altra continua a combattere nei pressi del mercato nero, quello è il punto peggiore, stiamo mandando rinforzi. La squadra appena atterrata sta venendo qui, si occuperanno della base militare dell'esercito.»
«Siamo vicini agli hangar delle astronavi quindi?»
Il soldato annuì.
Abigal si fece finalmente un'idea di dov'era.
«Dimmi della squadra che sta venendo qui.»
Il soldato si riportò una mano all'auricolare, poi rispose: «È composta da Mew Lory, Mew Paddy, Aisha Akasaka e due ribelli. E il Cavaliere Blu.»
Abigal sollevò un sopracciglio sentendo l'ultimo nome, ma non fece commenti «Puoi avvertirli di raggiungermi? Mi unirò a loro.»
Il soldato annuì e parlò di nuovo nella sua lingua in un microfono nascosto chissà dove.
Abigal si sedette a terra.
«Sai di perdite?»
«Che vi riguardino immagino.»
Abigal annuì e rimase in attesa.
«La squadra nello spazio non ha subito danni.» Fosfor ed Electra erano vivi. E anche Kathleen. Ryan e Kyle dovevano aver fatto un buon lavoro. «Quella nell'ospedale ha fatto rapporto mezz'ora fa. Hanno comunicato il ritrovamento di Raylene Ikisatashi» Raylene. Era viva. Era tornata. Abigal si sentì raggiante. «e la perdita di una certa Faith Ikisatashi.» L'attimo dopo si sentì sprofondare. Faith era morta. «Della squadra nel mercato nero non abbiamo notizie da un'ora.»
Mew Berry e Mew Pam. Se non sbagliava. Ghish e Pai Ikisatashi. Silver e New, a meno che non si fossero separati.
Catron e Aprilynne.
Abigal si prese la testa fra le mani.
Pregò con tutta se stessa che stessero bene.

Strawberry era a dir poco stremata. Combatteva ininterrottamente da due ore almeno. Uno scontro non era mai durato così tanto e in più erano passati anni e anni dall'ultima volta che ne aveva affrontato uno. Aveva continuato ad allenarsi, certo, con tutte le altre e nella sua forma umana, in modo che una volta trasformata le sue doti si sarebbero amplificate, ma la fatica di quei giorni era nulla in confronto a ciò che provava adesso. I muscoli bruciavano, corrosi e inaciditi. Le stavano iniziando a venire i crampi e aveva l'impressione che le sue stesse ossa tremassero. Le sue onde di energia erano potenti, senza dubbio: potevano stendere chiunque nel raggio di una decina di metri, disattivavano le armi e sembravano ricaricare Pam. Richiedevano quasi altrettanta energia, però. Ogni volta aveva l'impressione che le forze la abbandonassero del tutto, che ogni attacco la dissanguasse. E ogni volta era peggio. Non si era mai spinta così al limite.
Appena sentiva di essersi “ricaricata”, per quanto possibile, attaccava di nuovo indirizzando l'energia verso l'esercito arrettiano, poi si faceva da parte, stremata e Ghish e i suoi figli impedivano che qualcuno si avvicinasse a lei. Ma anche loro erano stanchi. Non quanto lei, ma stanchi: i loro riflessi meno pronti, i loro colpi più lenti, anche se altrettanto precisi. Non avrebbero potuto andare avanti ancora per molto.
I soldati, invece, continuavano ad arrivare.
Chissà come, era riuscita a scoprire che la base militare stava per essere conquistata e tutte le forze erano state concentrate lì nel mercato nero.
Si fece da parte per riprendere fiato e tornò dietro le file dei ribelli. Si inginocchiò a terra puntellandosi con le mani per non accasciarsi completamente.
«Strawberry! Stai bene?» Ghish era a pochi passi da lei e la fissava intensamente con quei suoi meravigliosi occhi dorati.
Lei accennò un sorriso e annuì. «Sì, non preoccuparti, sono solo stanca.»
«Non sei obbligata a continuare.»
«Ghish!» esclamò esasperata «È una guerra, certo che devo continuare! Ce la posso fare. Posso attaccare almeno altre due volte e i soldati stanno diminuendo finalmente. Anche se dovessi svenire, ne sarà valsa la pena, no?»
Ghish non sembrava d'accordo. Non disse nulla, ma non si mosse. Continuò a fissarla.
Strawberry si obbligò ad alzarsi per dimostrargli che stava bene.
«Torna a combattere, Ghish, hanno bisogno di te. Sarò lì tra poco.» sbuffò vedendo che non si muoveva «Vuoi rischiare che qualcuno trapassi Aprilynne e Catron?»
Ghish ridacchiò sfoderando un sorriso sghembo. «Quelli non li ferma nessuno.» le fece l'occhiolino «Hanno preso da me.»
Strawberry, quasi involontariamente, abbassò lo sguardo sulla sua pancia, doveva sapeva esserci ancora la cicatrice lasciata dalla spada di Profondo Blu, anche se ora era coperta.
Questo sembrò convincere Ghish a tornare nel bel mezzo delle battaglia.
Strawberry appoggiò la schiena alla parete. Si guardò intorno.
I ragazzi ribelli troppo giovani per combattere, zigzagavano da una parte all'altra dei locali, nello loro tute di protezione, per raccogliere i corpi e – per quanto fosse macabro – dividere i morti, dai privi di sensi e dai feriti. Cercavano di curare i più gravi con quello che avevano.
«Lo hanno conquistato l'ospedale?» chiese uno di loro ad una bambina di appena dodici anni che stava appollaiata su una trave e manteneva le comunicazione con tutte le altre squadre.
La bambina scosse la testa. «Non ancora.» disse e il ragazzo sgusciò via.
Strawberry pregò che Mina se la stesse cavando.
Poi, all'improvviso, tutto sembrò distante. I rumori si fecero più attutiti e lei si sentì più leggera.
Lottò contro quella forza invisibile che le chiudeva le palpebre e riuscì a rimanere cosciente. Strinse i pugni e voltò la testa. I suoi occhi ne incontrarono un paio freddi come il ghiaccio. Immediatamente si sentì sveglia e balzò in piedi, le mani già strette introno alla propria arma.
«Ciao Strawberry.» la voce di Profondo Blu era gelida proprio come la ricordava, proprio come nei suoi incubi.
Il cuore le batteva all'impazzata nel petto, quasi volesse esplodere. Il sangue le ribolliva nelle vene. Per quanto avrebbe voluto attaccarlo subito, sapeva che doveva aspettare, altrimenti non avrebbe avuto abbastanza energia. Doveva aspettare di essere carica. Incanalò tutta l'energia che le rimaneva.
Profondo Blu doveva sapere di avere un certo vantaggio di tempo. Si spostava con una calma e una sicurezza terrorizzante.
Strawberry si guardò rapidamente intorno. Nessuno sembrava vederli. Dopo un po' percepì una specie di membrana avvolgerli e nasconderli. Nessuno avrebbe potuto aiutarli. Nemmeno Pam.
Tornò a fissare Profondo Blu che aveva cominciato a girarle intorno.
«Ne è passato di tempo dall'ultima volta che ci siamo visti.» sibilò. Riusciva a stento a mascherare la ferocia.
Strawberry stava sudando freddo. Non aveva ancora abbastanza energie, non era pronta.
«Sei invecchiata.» continuò Profondo Blu, sottolineando chiaramente che lui invece non era cambiato per niente, che aveva ancora la sua forza e tutta la sua crudeltà «Il corpo di una tredicenne non è quello di una cinquantenne.» aggiunse fissando il suo petto che si alzava e si abbassava velocemente, al ritmo con il respiro affannato.
Per un istante ebbe la tentazione di urlargli che non aveva cinquant'anni. Non era ancora arrivata nemmeno a quaranta. Riuscì a trattenersi. Irritarla era il suo scopo.
«Ho avuto questo privilegio.» rispose allora senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Continuava ad incanalare quanta più energia possibile. E allo stesso tempo non ci riusciva. Quelle erano le ultime forze che le rimanevano, se l'attacco non fosse bastato, come avrebbe fatto a difendersi.
«Non sei stata una madre molto presente a quanto ho saputo.»
Strawberry sentì che se l'avesse accoltellata avrebbe sofferto di meno. Strinse i denti e si costrinse a replicare. Non era da lei affrontare un simile scontro verbale, quella era la specialità di Ghish. «Anche tu hai messo su famiglia, adesso, dovresti imparare dai miei errori e passare più tempo con tua figlia. Cresce in fretta.» Immediatamente capì di aver fatto un passo falso. Aveva mostrato quanto le stesse a cuore l'argomento, mentre sapeva bene che non avrebbe mai potuto addolcire Profondo Blu.
Lui sorrise. Un sorriso sghembo, presuntuoso e soddisfatto. Sarebbe stato persino bello se non fosse stato associato a quegli occhi glaciali. «Il dovere viene prima di tutto.» rispose candidamente «Anche della famiglia. Devo occuparmi del mio pianeta. Tu dovresti capirmi. Hai lasciato ben due figli da soli per poterti ritirare nello spazio. Io almeno ho lasciato la madre.»
Le mani di Strawberry cominciarono a tremare. «Non potrò mai capire un uomo senza cuore e spietato come te.» esplose.
«No?» la stuzzicò cominciando ad avvicinarsi un po', ma senza abbandonare il suo movimento rotatorio «Davvero?» sorrise di nuovo «Non sono così senza cuore, sai? Ho mandato a prendere mia figlia. Ho salvato chi amo.»
«Tu non sei capace di amare.»
«Lo sono. Tu non saresti pronta a fare l'impossibile per le persone che ami?» lo sguardo si Strawberry, automaticamente, si fissò su Ghish, ancora intento a combattere insieme ad Aprilynne e Catron «Non saresti capace di uccidere per loro?»
«Darei la vita per loro.» rispose senza esitazione.
«Vedi.» era alle sue spalle, il fiato sul suo collo.
«È diverso. Sacrificarsi e uccidere sono esattamente l'opposto.»
«Devi uccidermi, se vuoi salvarli. Sacrificarti non servirebbe a niente. Ti raggiungerebbero presto.»
«Tu sei spregevole. E crudele. E hai ucciso senza scrupoli.»
«Cerchi una giustificazioni alle azioni che stai per compiere? Sei pronta a macchiarti le mani con il mio sangue?»
«L'ho già fatto.»
«Già. Hai già perso la tua innocenza anni or sono.»
«E ho sofferto. Sono stata tormentata per anni dai ricordi durante il giorno e dagli incubi durante la notte. A differenza di te, io ho una coscienza.» strinse ancora di più le mani intorno alla propria arma. Era carica. Lo sentiva. Non avrebbe sbagliato. Doveva solo riuscire a coglierlo di sorpresa.
Profondo Blu sembrò deluso dalla sua risposta. Le girò intorno fino a che non furono faccia a faccia.
«Che peccato.» mormorò «Una coscienza è così vincolante.» la fissò intensamente mentre si avvicinava di nuovo, si chinò su di lei fino a sussurrare nel suo orecchio «Potresti gettarla via, sai? Adesso. Potresti ribaltare le sorti di questa guerra. Ed io potrei aiutarti.» una mano fredda le sfiorò la spalla «Sono stato anche Mark, ricordi? So quanto puoi essere preziosa e dolce e protettiva. So quanto sono importati i sentimenti per te. La coscienza schiaccia i sentimenti, ti impedisce di viverli appieno, di scoprirne di nuovi.»
La rabbia e la repulsione le diedero la scossa di cui aveva bisogno.
Erano così vicini che quando sollevò la propria arma la posò direttamente sul petto di Profondo Blu.
E esitò.
«Avanti.» fece lui «Uccidimi, lasciati guidare dalla rabbia e dì addio alla tua coscienza. Oppure non farlo, combatti per me.» sorrise trionfante «In ogni caso, io vinco.»
Non aveva senso. Era completamente pazzo.
Strawberry sorrise. Dolcemente, come avrebbe fatto solo con Ghish, solo con un amante. «Mi dispiace.» disse, poi liberò tutta la propria energia.
Sentì l'incantesimo che li nascondeva agli altri frantumarsi come vetro, il suo potere che si diffondeva in tutta la stanza e oltre, fuori, nelle strade, in tutta la città, a ondate. Disattivava qualsiasi arma e stordiva i nemici, giusto quanto bastava per dare un leggero vantaggio agli amici. La avvolgeva e proveniva direttamente da lei.
Durò secondi, minuti interi.
Poi le sue punte dei piedi toccarono terra e il suo corpo si fece di nuovo pesante.
Le palpebre le si chiudevano.
Incontrò lo sguardo di Ghish.
Poi un dolore lancinante, acuto, di fuoco, acido e ghiaccio insieme le attraversò il fianco. Le levò il fiato. Un gemito le si strozzò in gola.
Si accasciò all'indietro, contro un corpo umano.
«Te l'ho detto...» sussurrò Profondo Blu.
Vide il terrore negli occhi dorati di Ghish. Poi tutto sfocato.
«...io vinco sempre...»
Erano una bella cosa da vedere per ultima.
«...e tu...»
Prima del buio.
«...mia cara...»
Del nulla che rimpiazza il dolore.
«...scoprirai...»
Anche i suoni scivolano via.
Resta solo...
«com'è l'infermo.»





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aiutoooooo
sto combinando un macello! Non odiatemi per favore.
E, se mi odiate, rallegratevi pensando che mancano solo due capitoli.
Artemide

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Capitolo 23
*** Mai ***


Mai




Fu come essere trapassato per la seconda volta. O peggio.
La prima, il dolore fisico aveva oscurato tutto il resto, finché, per qualche istante, non era sparito, lasciandogli modo di vivere coscientemente i suoi ultimi secondi.
Vedere la scena dall'esterno, fu distruttivo.
Lo stupore dilagò negli occhi di Strawberry mentre si fissavano, prima che si facessero vacui e distanti. Ciechi anche se spalancati.
E poi Profondo Blu dietro di lei, come un fantasma funesto, come l'immagine della morte stessa, fattasi persona. La pazzia nei suoi occhi.
Ghish ebbe l'impressione che la sua vecchia cicatrice si stesse lacerando, riaprendosi non solo sul fianco, ma anche al centro del petto, nella gola e negli occhi.
Per qualche istante, dopo l'onda di energia che aveva lasciato privi di sensi tutti i loro nemici, nessuno si mosse. Gli sguardi si spostarono a mala pena per la stanza.
A rompere la scena fu Profondo Blu. Allontanò la testa dall'orecchio di Strawberry e fece un passo indietro sfilando la spada dal fianco della ragazza.
Dopo, fu il caos.
Ghish non prestò la minima attenzione a Profondo Blu che si teletrasportò via. Ebbe occhi solo per il corpo che si accasciava a terra privo di forze. Corse quasi senza respirare, spostando con violenza chiunque gli si parasse davanti. La afferrò prima che le sue spalla toccassero il pavimento.
«Strawberry!» urlò fuori di sé «Strawberry!» strinse le sue spalle, le sollevò la testa con una mano «No! Strawberry.»
Le palpebre della ragazza sbatterono due volte, ma era chiaro che non vedevano niente. Non si fermarono sul volto pieno di terrore di Ghish.
«Strawberry!» continuò a chiamarla «Strawberry, mi senti?»
«..hi...sh..» mugolò, le costò uno sforzo immenso, il dolore si fece immediatamente più forte.
Un rivolo di sangue le uscì dal lato della bocca.
«No! Strawberry, ti prego no. Non andartene.» la sollevò leggermente, in modo che la testa stesse più in alto possibile, appoggiandosela contro il petto.
La mano della ragazza si sollevò debolmente e lui l'afferrò subito.
«Strawberry...» la voce gli si strozzò in gola «no...» con la mano con cui le teneva contro di sé poteva sentire il battito del suo cuore. Sempre più debole, sempre più distante.
Sollevò la testa. Si guardò disperatamente intorno.
In mezzo al via vai di gente, immobili sul fondo della stanza, c'erano ben quattro persone. Aprilynne e Catron li fissavano scioccati, ma Ghish non aveva tempo per loro.
«Pai!» chiamò con tutto il fiato che aveva. Con rabbia e disperazione. «Aiutami!»
Il fratello adottivo si riscosse. Usò il teletrasporto per arrivare immediatamente lì.
Ghish non lo guardò nemmeno, sembrò dimenticarsi della sua presenza. Continuò a chiamare Strawberry per nome a stringerle forte la mano e tenendola contro di sé.
Pai lo lasciò fare. Si sporse per poter vedere la ferita. La tenne aperta per poterla studiare meglio. Strawberry non reagì nemmeno a quella che probabilmente era una nuova ondata di dolore.
Pai sentì le proprie mani fermarsi automaticamente. Era un medico, il suo occhio era abituato a capire certe cose, a sapere che quando il sangue era così tanto, la ferita così profonda, la coscienza così distante, era troppo tardi.
Guardò Ghish, che non gli aveva prestato la minima attenzione. Poté vedere chiaramente come la parte di lui abituata a lottare fino all'ultimo combattere violentemente con la razionalità, così poco influente in lui, che invece sapeva bene che non si poteva fare nulla.
Non ci sarebbe stata nessuna acqua-cristallo abbastanza potente da riportarla indietro.
Pai lo ricordava. Ricordava il buio, il niente assoluto. O forse sarebbe stato meglio dire che non ricordava. Ed era peggio. Quando aveva riaperto gli occhi, era stato che atterrare dopo una caduta libera durata anni interminabili di cui non si era reso conto. Ecco cos'era la morte, ciò che faceva così tanta paura. Non un mostro, non un luogo pieno di trappole, non un rompicapo senza soluzioni. Ma il Nulla.
L'unica sensazione lontanamente simile, era la separazione tra forza vitale e corpo. La coscienza che sparisce, il corpo che si fa inerme, incapace di reagire e di essere danneggiato.
Solo che in quel caso, la maggior parte delle volte, poi ci si risveglia. Dalla morte no.
Ghish era fuori di sé, guardò impotente i suoi ultimi istanti di vita. La carnagione del suo corpo si fece bianchissima, quasi grigia e si afflosciò definitivamente tra le sue braccia.
Lui smise immediatamente di chiamarla. La mano che la teneva stretta aveva sentito il suo cuore battere sempre più piano, ma si era fermato troppo all'improvviso, la presa della sua mano si era allentata ad una velocità innaturale.
Sollevò lo sguardo su Pai, con espressione assassina.
«Che cosa hai fatto?» urlò.
«Ghish...» Pai scattò in piedi «Ghish, aspetta.»
Ghish si alzò in piedi, teneva ancora il corpo di Strawberry tra le braccia. «Ti ho chiesto di aiutarmi a salvarla, non a farla morire più in fretta!» Prima che potesse fare anche solo un passo avanti, Aprilynne a Catron si materializzarono dietro di lui e lo afferrarono per le spalle urlando «papà!» Si fermò. Il cuore che gli batteva all'impazzata nel petto, proprio dove la testa di Strawberry era appoggiata, come se lo stesse ascoltando. Solo che era tutt'altro che viva. Il suo corpo era persino più leggero, vuoto. La trasformazione si era dissolta insieme al colorito della sua pelle.

Avevano trovato Abigal sul ciglio delle strada, proprio come aveva detto il soldato che li aveva contattati.
Il padre di Domnio fermò il veicolo proprio davanti alla ragazza dai capelli azzurri.
Lei e i componenti della squadra si fissarono per qualche momento, senza dire una parola. Lei sfiorò appena con lo sguardo Mew Lory, Mew Paddy e Tart Ikisatashi. Incrociò quello di Aisha che annuì leggermente, una volta sola, per dirle che stava bene e, infine, si soffermò sul Cavaliere Blu.
I suoi occhi azzurri erano gli stessi di Profondo Blu, eppure erano fin troppo diversi. Si sentì inquieta e avvertì il suo ciondolo farsi più caldo, anche se non cominciò a brillare. Percepì anche qualcos'altro, come una presenza, la fece rabbrividire ed ebbe l'istinto di ritrarsi.
«Sì, fa un po' questo effetto.» disse il Cavaliere Blu battendo leggermente la mano sugli scatoloni che stavano tra le loro gambe. Il ribrezzo si trasformò in curiosità.
Senza dire nulla salì sul veicolo e si andò a sedere nell'unico posto vuoto, quello vicino al Cavaliere Blu, di fronte ad Aisha. La ragazza umana non distolse lo sguardo da lei neanche per un secondo. Aveva la faretra sulla schiena e teneva stretto il suo arco, nonostante i suoi guanti glielo assicurassero alle mani.
«Cosa c'è?» le chiese infine.
«Sei viva.» fu l'unico commento che ebbe in risposta.
La base militare si trovava poco distante dalla città, ma sembrava essere lontanissima. Procedevano ad una velocità moderata, probabilmente per far agitare il meno possibile il loro pericoloso carico.
«Una volta arrivati dovremo dividerci.» disse il Cavaliere Blu.
Gli altri non ne furono molto felici.
Lory si rivolse al loro autista. «Craig, qual'è la situazione nella base militare?»
L'uomo diede un rapido sguardo ad uno schermo olografico. «Abbiamo guadagnato terreno, ma ancora c'è parecchia resistenza. Quello è un intero quartiere popolato solo da soldati scelti e sempre ben armati, prenderne il controllo è essenziale quanto difficile.»
«Combattono tutti nelle strade principali,» intervenne il figlio, Domnio «io ne conosco alcune secondarie che farebbero al caso nostro, ma posso guidare solo un piccolo gruppo.»
«Perché non potremmo usare il teletrasporto?» osservò Tart.
«Perché hanno dei rilevatori nel quartier generale, ci individuerebbero subito.»
«Ma è lì che dobbiamo andare comunque, no?» osservò Lory.
Il Cavaliere Blu scosse la testa. «Profondo Blu non andrà mai lì.» si rivolse direttamente a Domnio «La nostra meta è l'ufficio del comandante Triao, i sotterranei per essere precisi.»
«Ma dobbiamo aiutare i ribelli a conquistare la base.» protestò Lory.
Il Cavaliere Blu annuì. «Per questo dobbiamo dividerci. Voi MewMew e tu Tart, andrete in loro soccorso, le ragazze verranno come me, Domnio ci farà strada.»
«Sono delle squadre squilibrate!» protestò Paddy.
«Sono adeguate.» ribatté il Cavaliere «I vostri poteri serviranno a far vincere i ribelli, io ho bisogno di qualcuno meno vistoso, che sappia muoversi nell'ombra e che conosca il pianeta. O almeno il genere.» aggiunse accennando ad Aisha.
Nessuno rispose. Per quanto non si fidassero ciecamente di lui, aveva ragione. Le MewMew avevano sempre lottato allo scoperto, sebbene il più lontano possibile dalle folle, e avevano sempre avuto problemi a nascondere la loro vera identità. In più, Profondo Blu avrebbe potuto avvertire la loro presenza. Era il motivo per cui avevano dovuto rifugiarsi nello spazio e separarsi dai loro figli. Per proteggerli da lui.
Il silenzio fu il consenso di tutti.
«Come fai ad essere sicuro che verrà proprio dove dici?» chiese ad un certo punto Aisha, fissandolo dritto negli occhi.
Il Cavaliere esitò leggermente.
«Verrà.» sentenziò al suo posto Abigal.
E nessuno replicò.

Raylene seppe farsi valere. Al punto che gli altri cominciarono a credere che fosse valsa la pena recuperarla, sebbene il prezzo rimanesse troppo alto.
Decisero di non dividersi più. Erano abbastanza, otto, da poter contare sul numero.
Le guardie, sparpagliate per tutto l'ospedale in modo da controllarne ogni parte, erano relativamente facili da mettere fuori combattimento – si impegnarono a non uccidere nessuno. Era come un videogioco, ad ogni stanza un paio di avversari, tutti dello stesso livello, tutti abbattibili in pochi colpi, se precisi.
Il lavoro di gruppo li rallentò considerevolmente, ma avanzando in modo compatto furono sicuri di aver fatto piazza pulita di ogni possibile ostacolo prima di dichiarare libero l'ospedale. I dottori sembrarono notare appena il proprio cambio di fronte, continuarono a prendersi cura di chiunque venisse presentato loro davanti.
Riley fu ricoverato in neurologia, ma, essendo considerato stabile, fu praticamente dimenticato. Ethan rimase tutto il tempo con lui.
Faith, invece, o ciò che restava di lei, fu invece portata all'obitorio.
Oro si posizionò all'ingresso del pronto soccorso, di guardia, gli scudi costantemente alzati.
Silver, Raylene e Psiche pattugliavano i corridoi senza però dividersi e fungendo la infermieri ogni volta che fu necessario. Essere di nuovo insieme era bellissimo. La guerra non era ancora finita, lo dimostravano le centinaia di feriti che arrivavano da tutta la città, ma avevano vinto la loro piccola, grande battaglia.
New stette nelle due sale in cui avevano radunato tutte le guardie svenute. Controllava che le loro menti rimanessero addormentate, e nel frattempo estendeva i suoi poteri il più possibile conquistando un metro dopo l'altro, divenendo consapevole di ciò che accadeva in una parte sempre più ampia della città.
Mina salì sul tetto deserto dell'edificio e camminò fino alla balaustra che lo circondava. Guardò in basso. L'altezza non era un problema per una MewMew che poteva volare.
La notizia che l'ospedale era stato conquistato si era sparsa in fretta, era una benedizione per molti.
Spostò lo sguardo in alto, verso il cielo, cercando di spingerlo oltre le nuvole e la luce del giorno morente, fino allo spazio. Ce la stavano facendo, ma non avevano ancora vinto.
Poi qualcosa in lontananza catturò la sua attenzione.
Una spessa colonna di luce si stava alzando in lontananza, da chissà dove. Persino da lì, a distanza di pochi istanti, poté avvertire l'energia che emanava. Il suo istinto la riconobbe prima ancora che i suoi occhi mettessero bene a fuoco il suo colore viola.
Pam. Anche la battaglia nel mercato nero era stata vinta.
Strinse le dita intorno al proprio arco e si concentrò.
Lasciò che tutta l'energia che le rimaneva fuoriuscisse da lei, che si intensificasse così tanto da divenire concreta e visibile. Si sentì sollevare da terra mentre una colonna di luce blu la avvolgeva e saliva fino al cielo. Sperò che potesse arrivare fin oltre l'atmosfera, nello spazio, che potesse far sapere agli altri che lei stava bene. Come Pam.
Un pensiero terrificante le si fece strada nella mente.
Perché Pam? Perché lei aveva segnalato la vittoria nel mercato nero? Perché non Strawberry?

Caliane inclinò la testa di lato.
L'idea che i suoi guardiani non fossero altro che due bambini, la irritava da morire. Una, certo, era la figlia di Profondo Blu, ma ciò non la rendeva meno odiosa. Anzi. Era così vicina. Le sarebbe bastato toccarla e lasciar fuoriuscire tutto il suo potere distruttivo. Ci avrebbe messo pochissimo.
Azzurra si voltò verso di lei lanciandole un'occhiataccia tra il risentito e il comprensivo.
Caliane ebbe ancora più voglia di strangolarla.
Azzurra dovette ignorare questo suo ultimo pensiero perché tornò a prestare attenzione all'altro bambino, Always. Lui aveva qualcosa incollato al palmo della mano, una specie di piccolo schermo.
«Sta entrando qualcuno!» esclamò Always «Guarda, non è il Cavaliere?»
La curiosità di Caliane fu così forte da rompere il controllo di Azzurra per qualche istante, sollevò il busto puntandosi sui gomiti per poter vedere oltre le loro spalle.
Era vero. Era lui. Stava trascinando le scatole che Mark gli aveva consegnato nell'ufficio del comandante Triao, lo avrebbe riconosciuto tra mille. E con lui c'erano un'umana e la mezza alliena con i capelli azzurri. Dunque era proprio vero. Il Cavaliere voleva uccidere profondo Blu.
La curiosità e il trasporto furono sostituiti dalla repulsione e dall'odio.
Era solo un traditore.
Uno schifosissimo voltafaccia.
In tutta risposta, sentì un movimento all'interno di sé. Un calcio ben assestato dal dentro della pancia. Vi portò immediatamente una mano sopra. E si sentì ancora peggio. Portava in grembo il figlio di un traditore. I loro nemici avrebbero vinto la guerra e lei sarebbe stata con loro, come se fosse anche lei una traditrice. Mai!
Meglio essere una prigioniera.
Meglio essere morta.
Quel pensiero si fece strada dentro di lei e le impregnò la mente. La lasciò calma.
Sorrise addirittura. Forse stava impazzendo. Poco importava. Si odiava per aver amato un traditore del genere, per essere stata con lui, per aver concepito un figlio con lui. E per amarlo ancora nonostante lo volesse uccidere.
Si stese si nuovo.
Voltò la testa.
I bambini le davano le spalle, ma tanto lei non poteva muoversi. Azzurra le bloccava quasi ogni singolo muscolo. La bambina era cresciuta ancora, anche se ora stava rallentando. Fisicamente dimostrava quasi sei anni. Mentalmente era più matura e più infantile allo stesso tempo.
Avrebbe capito.
Questa volta si concentrò sui propri pensieri.
So che puoi sentirmi.
«E so cosa stai per chiedermi.»
confermò la sua voce nella sua testa.
Uccidimi. Disse comunque.
«Perché dovrei?»
Perché è ciò che voglio, ciò che ritengo più opportuno.

Nessuna risposta.
Non posso più combattere questa guerra e in ogni caso è troppo tardi, stiamo perdendo, no?
«Già. Perderete.»
Sarò una prigioniera a vita. Se mi lascerete libera continuerò a fare ciò per cui sono stata addestrata: combattere per il Governo arrettiano anti-Fratellanza, distruggere la Terra, dare la caccia agli ibridi. In prigione impazzirò e troverò comunque un modo per togliermi la vita.

«Non ha senso.»
Non per te. È ciò che voglio.
«Non puoi decidere anche per il bambino.»
Al diavolo è solo un ammasso di cellule ancora dipendente da me!
«È vivo.»

Ringhiò a denti stretti. Si sforzò di rimanere calma e concentrata mentre si sentiva piena di acido.
Dannazione. Dannazione perché infondo ne era felice. Strinse a pugno la mano che teneva sul ventre. No, doveva uccidere anche lui. O forse no. Forse bastava che morisse lei. Sarebbe nato in una guerra già finita, nella fazione sbagliata, ma almeno non sarebbe stato un traditore. Non importa. Uccidici.
«No! Non voglio!»

Questa dovrebbe essere la figlia di Profondo Blu? Una bambina che, malgrado non appaia proprio gentile, non vuote uccidere.
Per favore. A che vita mi vuoi condannare? E vuoi fare crescere mio figlio senza una madre? Con un traditore per padre! E poi sarà come me, i suoi poteri saranno oscuri e distruttivi, come quelli di tutta la nostra famiglia. Noi siamo diversi, non la nostra forza vitale non è acqua-cristallo, ma pietra-fumo.
Azzurra si irrigidì e voltò la testa verso di lei, fissandola negli occhi.
«Sai della pietra-fumo?»
Certo. È ciò che mi dà vita, ciò che alimenterà il bambino. Siamo l'antidoto a quelli come te, non potremo mai convivere. Puoi vederlo questo?

Azzurra annuì, ora, finalmente, sembrava preoccupata. Caliane non poté fare a meno di sentirsi orgogliosa.
«Tu non sei abbastanza potente da contrastarmi.»
Lo sono abbastanza da spaventare tuo padre, neghi forse che il mio potere potrebbe uccidere anche te se riuscissi a prenderti di sorpresa? E di cosa sarà in grado lui, il figlio del Cavaliere Blu, sarà persino più dotato di me.
«No! Lui nascerà, io l'ho visto. Blu nascerà.»

Caliane rimase di sasso. Blu? Ripeté. È così che si chiamerà?
«Sì.»
Diavolo.
Come poteva decidere di ucciderlo? Il suo cuore si fece improvvisamente pesante e sapeva che Azzurra non c'entrava niente. Una parte di lei, nel momento in cui la creatura che aveva dentro cessò di essere un'identità astratta e prese la forma di bellissimo bambino, andò in frantumi. Potresti accelerare la gravidanza. Disse. Così come è stato fatto per te. Tenere in vita solo il mio corpo quel tanto che basta per farlo sopravvivere.
«Non vuoi vederlo?»
Se lo vedrò non riuscirò più a decidere di morire. E poi mi odierò in eterno per questo.

Azzurra continuò a fissarla senza dire niente. Always era troppo preso dal suo piccolo schermo per prestare attenzione a quel loro scambio silenzioso. Alla fine la bambina dagli occhi azzurri abbassò lo sguardo e i capelli biondi le ricadono davanti al viso.
Caliane avvertì finalmente le palpebre appesantirsi e il bambino le diete un calcio più forte degli altri mentre si muoveva dentro di lei. Sorrise, sollevata.
Solo un'ultima cosa. Riuscì a decidere.
«Cosa?»
Dimmi se Profondo Blu e il Cavaliere moriranno.

«Cos'è quella?» chiese Ryan guardando direttamente verso il pianeta. Una luce viola bucava le nuvole e continuava a salire, dissolvendosi lentamente.
Kyle accanto a lui gli rispose con lo stesso sguardo interrogativo.
«Ce n'è un'altra!» esclamò Kathleen, alla loro sinistra indicando un punto che ai loro occhi appariva vicinissimo, ma che probabilmente era distante chilometri. «Questa è blu.»
«Riceviamo un segnale.» gracchiò la voce di Fosfor dal trasmettitore. «È di Mew Pam.»
«E di Mew Mina.» aggiunse Electra. Le loro astronavi monoposto stavano rientrando nello spazio proprio in quel momento. «Hanno preso il controllo dell'ospedale.»
«E del mercato nero, lo scontro è finito.» annunciò Fosfor.
Kyle non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.
«E le altre?» chiese Kathleen «Come sta la mamma? E papà? E Mew Lory?» aggiunse guardando Ryan.
«Sono nella base militare fuori dalla città.» spiegò Electra «Non abbiamo notizie al momento, hanno interrotto le comunicazioni.»
«Aspettate.» Fosfor sembrava preoccupato. La comunicazione trasmise delle specie di imprecazioni a metà.
«Fosfor, che succede?» chiese Ryan
«Brutte notizie.» la voce di Fosfor era cupa.
«Quanto brutte?» lo incitò Kathleen torcendosi le mani.
«Orribili.»
«Fosfor...»
«Mew Berry.» per un po' non vi fu altro che silenzio «Abbiamo perso Mew Berry.»

«State indietro.» ordinò Aisha mentre incoccava una freccia e tendeva l'arco davanti a sé.
Erano il più lontano possibile dall'entrata dell'ufficio e il cumulo di pietra-fumo si trovava al centro della stanza.
Aisha si concentrò. Aveva sempre avuto un'ottima mira, ma la situazione richiedeva un'attenzione particolare. La sua energia fluiva nell'arco e alimentava la freccia ed entrambi sembravano vivi quanto lei. Erano una parte di lei.
Aprì le dita e la freccia volò via, passando attraverso la fessura millimetrica della porta socchiusa e colpendo il bersaglio con una precisione chirurgica. L'esplosione, come avevano, sperato, chiuse la porta e nulla uscì dall'ufficio.
Aspettarono qualche minuto, poi tutti e tre si avvicinarono con cautela.
Il cavaliere Blu dovette forzare un po' la porta, ma non vi furono altri problemi.  L'interno della stanza era irriconoscibile.
Una sostanza nera e semitrasparente ricopriva ogni cosa come una sottile e lucida pellicola adesiva.
«Non toccatela.» ordinò il Cavaliere Blu.
«Sei sicuro che funzionerà?» chiese Aisha, ancora scettica.
«Non io. Lo era Mark, perciò lamentati con lui. Magari a sua figlia spiegherà meglio il piano.»
Mentre Abigal spalancò gli occhi nel sentire quella frase, Aisha si limitò ad abbassare lo sguardo.
Lo sapeva. Lo aveva sempre saputo.
Così come sapeva che era lui l'uomo che li aveva sorvegliati e protetti in tutto questo tempo passato sulla Terra.
Il fatto che la notizia non avesse avuto l'effetto desiderato deluse un po' il Cavaliere. «Funzionerà.» disse cambiando discorso «Però bisognerà attivarlo.»
«Che cosa intendi?» domandò Abigal.
«Reagisce al contatto diretto con l'acqua-cristallo. Profondo Blu ne è impregnato, forse basterà.»
«No, non basterà.» sentenziò Abigal.
Il Cavaliere tacque.
«Tranquillo.» aggiunse la ragazza «Funzionerà.»
Lui alzò un sopracciglio, Aisha invece esclamò un sorpreso «No!» poi, in risposta allo sguardo del Cavaliere aggiunse «Vuole sacrificarsi, aspettarlo qui per attivare la pietra-fumo.»
«Ma devo farlo io, insomma, solo io posso attiralo qui.» era evidente che l'idea non gli piaceva.
«Falliresti.» decretò ancora Abigal «Tu vuoi salvarti e se ci riuscirai tu lo farà anche lui. Ci penserò io.» i suoi occhi imposero ad entrambi di non fare altre domande.
Lo sguardo di Aisha dal battagliero si fece rassegnato, sapeva di non poterla dissuaderla, e poi all'improvviso dolce. Si protese in avanti e la abbracciò. «Ce l'avevi quasi fatta,» sussurrò «ne eri quasi uscita viva.»
«Non ne sono mai uscita viva, in nessuna delle mie vite.»
Aisha non capì, ma non disse niente. Alla fine, dopo un attimo eterno e allo stesso tempo brevissimo, si separò da lei. «Addio, allora?»
Abigal annuì. «Ho promesso ad un amico che lo avrei raggiunto.» disse, a mo' di spiegazione «E di non fare troppo tardi.» i suoi occhi si fecero lucidi «Beh, lui era più di un amico.»
Aisha annuì. «Chiudi gli occhi.» le sussurrò.
Abigal ubbidì. Tese le orecchie il più possibile, sfrutto il suo udito fino di volpe artica, ma non sentì niente. Nessuno le disse di riaprire gli occhi, ma, alla fine, lo fece.
La porta era chiusa e l'ufficio era vuoto.
Era sola.
Non doveva esitare. Non doveva sbagliare.
Con mano tremante tirò fuori il suo ciondolo da sotto la maglietta e se lo rigirò tra le dita.
Sono qui. Pensò intensamente, mentre quello si illuminava.

New spalancò gli occhi di getto.
Scattò in piedi. I soldati intorno a lei si stavano lentamente riprendendo.
Si concentrò e annullò nuovamente i loro sensi. L'agitazione rafforzò il suo potere. Sarebbero rimasti così per un po'.
Uscì chiudendosi la porta alle spalle.
«Silver!» chiamò ad alta voce, cominciando a correre in direzione delle scale. Sapeva che era al piano si sopra, ma non di preciso dove.
Doveva raggiungerlo e avvertirlo in tempo. Dovevano almeno provare a salvarla.

Ci mise anche meno del previsto.
Dovette aspettare solo pochi minuti prima che l'aria davanti a sé tremolasse con intensità e che Profondo Blu si materializzasse davanti a lei.
«Victoria!» esclamò subito, illuminandosi e coprendo i passi che li separavano quasi di corsa. Tentò subito di baciarla, ma lei si ritrasse. Lui la trattenne, ma aggrottò le sopracciglia cercando il suo sguardo.
«Ciao Aaron.» disse lei dolcemente, prolungando il suono del suo vero nome il più a lungo possibile.
I suoi occhi brillarono. Mentre le teneva ancora una mano dietro la schiena, con l'altra le accarezzò il viso. Abigal resistette all'istinto di dimenarsi.
«Ricordi il mio nome.»
«In realtà, l'ho scoperto piuttosto di recente.» disse. La sua voce non era né suadente né ostile, solo sincera, come se non avesse davanti l'uomo che aveva amato la sua lei originale, né l'assassino di Dalton. «Tu, invece, proprio non ricordi il mio.»
Profondo Blu raddrizzò il busto e continuò a guardarla stranito.
Lei sospirò. «Io sono Abigal.» gli ricordò infine.
Un lampo di rabbia gli attraversò gli occhi e la strinse più forte. «Tu sei Victoria! So che sei tu, non so cosa ti hanno fatto, ma sei tu.»
«No. E sì allo stesso tempo.» gli concesse «Questo è il corpo che conosci, ma non lo stesso.» abbassò lo sguardo «Sono un'altra persona. Victoria Ikisatashi è stata la mia matrice, ma io non sono lei. Si può ricreare un corpo, non l'anima. Per quanto le possa assomigliare...»
«no»
«...io sono solo un clone.»
Era ciò che aveva detto anche quella specie di argentata bambina mutaforma. Non poteva essere. Si era rifiutato con tutte le sue forze di crederlo e sentirlo pronunciare dalle sue labbra era come una serie di coltellate.
«Non esistono i cloni.» disse, cercando di convincere sia se stesso che la ragazza che aveva di fronte. Anche clonate, due persone non potevano essere così uguali. Quella che aveva tra le braccia era Victoria e non avrebbe potuto essere nessun altro. Voleva farsi chiamare Abigal? Poco importava. Era lei.
Abbassò lo sguardo e i suoi occhi trovarono il ciondolo che portava al collo.
Abigal dovette trattenere un sorriso trionfante quando allungò una mano per prenderlo tra le dita.
«E sostieni di non essere Victoria.» abbozzò una risata «Ricordo il giorno che te l'ho dato. In modo che fossi sempre riuscita a trovarmi. O a farti trovare.»
Il cuore di Abigal batteva a mille. Era paura, e gioia. Ce la stava facendo, sarebbe riuscita ad ucciderlo, la guerra sarebbe finita, il pianeta sarebbe stato libero. La loro casa sarebbe stata finalmente loro. Ma morire la terrorizzava.
Dalton. Pensò.
Le mani le tremavano visibilmente mentre scioglieva il nodo della collana dietro al collo. Profondo Blu stringeva ancora il ciondolo.
«Sei l'unica che abbia mai amato.» le stava sussurrando.
Si ritrasse all'istante, disgustata, e la sua espressione non riuscì a nasconderlo. Questo, finalmente, sembrò scuotere l'alieno.
«L'unica persona che invece io abbia mai amato, è Dalton.» affermò lasciando che finalmente la sua rabbia si riversasse fuori da sé «Il primo dei Connect, il ragazzo cervo. E tu, mostro senza cuore, lo hai ucciso davanti a me!»
Le sue parole ebbero l'effetto sperato.
Gli occhi di Profondo Blu brillarono di rabbia e le sue mani si chiusero a pugno con una specie di spasmo. Sapeva che lo avrebbe fatto. In qualche modo Abigal lo sapeva. Il ciondolo che l'alieno teneva ancora in mano si frantumò all'istante l'acqua-cristallo filtrò tra le sue dita.
Abigal sapeva di avere pochi secondi e di doverli sfruttare al meglio per impedirgli di capire cosa stava succedendo e non dargli modo di scappare.
«Victoria mi ha scritto una lettera.» disse e catturò immediatamente la sua attenzione mentre la pietra-fumo che ricopriva tutto iniziava a brillare in modo sinistro «Voleva che tu sapessi che non ha mai smesso di amarti,» non poté resistere all'istinto di cominciare ad indietreggiare verso la porta «ma che il suo tempo era passato ed era felice.» l'aria si stava facendo pesante e opaca poteva sentire l'energia che stava per inghiottirli «Lo è stata con te e lo sarà per sempre.»
Fu come se l'intera stanza si fosse ripiegata su di loro, avvolgendoli, stringendoli, soffocandoli, schiacciandoli. Era fredda come il ghiaccio e bruciava da morire. Riempiva i polmoni e li imbottiva fino a farli scoppiare, veniva assorbita dalla pelle, trapassava i muscoli, impregnava le ossa. Non c'era scampo. Non risucchiava la vita, la polverizzava.
Abigal lottò con tutte le proprie forze, perché l'istinto di sopravvivenza le imponeva di farlo.
Come fosse lontano chilometri e chilometri e immerso sott'acqua, sentì Profondo Blu urlare. La sua piccola vendetta. Una grande vittoria. Era appena riuscita dove le MewMew stesse avevano fallito.
Quando i nervi del suo corpo, dopo un cortocircuito, smisero di obbedirle, fu solo la sua mente a dimenarsi, a tentare di respingere quella morte nera e pesante. I polmoni le scoppiavano.
Altri suoni in lontananza. Avvertì una sconosciuta fonte di energia, anche se non era abbastanza vicina da aiutarla.
In qualche modo seppe la base militare era stata definitivamente conquistata.
Volle urlare, ma non ci riuscì, i suoi polmoni stavano scoppiando, poteva sentire ogni singola cellula del suo corpo impazzire.
Poi una specie di esplosione le gettò aria nei polmoni per qualche secondo. Avvertì di nuovo il pavimento sotto di sé.
Non vedeva nulla tranne ombre.
«Abigal!» la chiamò qualcuno. Aveva il corpo così intorpidito da non sentire niente. Seppe solo che la propria angolazione stava cambiando.
Riuscì a mettere a fuoco per qualche secondo. Tutta la stanza era come bruciata. Di Profondo Blu non era rimasto niente se non un'indistinta sagoma carbonizzata e sfibrata di ogni brandello di vita.
E vide se stessa. Tutto il suo corpo era completamente nero e inerme.
Per un attimo si era illusa.
Non aveva mai avuto scampo. La pietra-fumo si era ormai fusa con il suo organismo, la stava ancora uccidendo.
La vista le si appannò di nuovo e questa volta sapeva che non sarebbe tornata.
«Abigal!» gridò il ragazzo inginocchiato accanto a lei e che la stava tenendo tra le braccia. Questa volta riconobbe la voce.
Quelle ultime gocce di energia le usò per parlare.
«Si...ve...» sibilò.
«Abigal!» questa volta il suo nome non era un richiamo, solo un gemito disperato. Stava piangendo?
«la... 'am'ina»
«C-cosa?»
Non riuscì a ripeterlo, stava già scivolando via. Silver riuscì però a capire.
«La bambina? Hope! Lei... nascerà in un mondo migliore. Grazie a te. Abigal... Abigal...» non sapeva cosa dire «Mi prenderò cura io di lei. E sarete tu e Dalton insieme.»
Riuscì a sorridere, o almeno credette di farlo. Era un'immagine bellissima. Una bambina che era parte di entrambi. Avrebbe voluto portarla in grembo. Sentirla crescere dentro di sé. E sapere che lei poteva ascoltare il suo battito.
Lei era stata creata in laboratorio, non aveva mai sentito il battito materno mentre si formava.
Sentiva un cuore ora. Silver doveva averla stretta al petto.
Non poté che pensare all'ironia della sorte. Lei non aveva sentito il battito materno e ora stava sentendo quello del nipote della sua matrice.
Dalton. Pensò infine, prima di scivolare via.

Un miscuglio improbabile di impulsi sensoriali le si rigettò addosso all'improvviso. Dopo quello che avrebbe potuto essere stato un secondo o l'eternità.
Voci, silenzio, bep-bep, un dolore forte altri più piccoli ovunque, aria pompata dentro la sua gola, mani ovunque, odore di ferro, plastica, disinfettante, una macchia opaca di luce negli occhi ciechi.
Poi niente di nuovo, ma un niente diverso.
Tornò in superficie per un'altra manciata di secondi, il clima che la circondava era più caldo e più tranquillo. I bep-bep più regolari e meno fastidiosi. Tutto più ovattato, ma anche più vicino. Le voci erano sollevate, anche se ancora incomprensibili.
Scivolò via di nuovo, questa volta più dolcemente.
Quando riprese i sensi lo fece diverso tempo dopo. Forse anche qualche giorno. Lo poteva sentire.
Riacquistò lentamente il controllo del proprio corpo, anche se rimase immobile. Aveva qualcosa nel braccio sinistro, probabilmente una flebo. Diversi punti del corpo le prudevano, come se fossero rimasti i segni tante piccole punture. Era stesa su un letto abbastanza comodo. I capelli erano sciolti intorno al viso, probabilmente anche tragicamente spettinati.
Si sentiva anche dimagrita, o almeno svuotata. Le energie che la stavano svegliando, però, significavano che aveva avuto già diverso tempo per riprendersi dalla fatica immane della battaglia.
Fece un respiro più profondo degli altri, come primo controllo. L'aria era fresca e piacevole, nonostante il leggero odore di disinfettante. Le tirò la pelle del fianco. Vi portò la mano. Non trovò la pelle, ma una fasciatura che copriva un grosso cerotto. Lo tastò comunque. Individuò una grossa cicatrice. Non sentiva altri dolori, però, qualunque cosa l'avesse ferita, doveva essere ormai in via di guarigione.
E poi, all'improvviso, i suoi ultimi istanti di vita le si rigettarono addosso come una valanga di neve gelida e lei spalancò gli occhi. Incontrò il soffitto bianco.
Per qualche istante si limitò a fissare i granelli di polvere che volteggiavano sopra di lei.
Poi, lentamente, girò la testa. Ghish aveva portato la sua sedia a metà del letto. Teneva un braccio steso accanto al suo corpo e la testa appoggiata sulla spalla. Dormiva beatamente. Le teneva la mano che non aveva mosso, quella del braccio con la flebo. Ovviamente, era bel lontana dal complicato macchinario terrestre. La sacca con la sostanza nutritiva era avvolta intorno al braccio come una specie di bracciolo da piscina e protetta da una fascia elastica e rigida. Era pesante, ma decisamente più comoda della variante terrestre.
Rimase per diversi minuti a guardare Ghish dormire. Aveva l'aria terribilmente stanca. Probabilmente non si era mai mosso da lì.
Le venne da ridere. Sicuramente era rimasto con lei per tutto il tempo, quasi lo vedere fare su e giù per la stanza e girarsi ad ogni minimo respiro per non perdersi nessun possibile sviluppo. E lei si era svegliata mentre dormiva.
Allungò la mano libera e gli scostò dalla fronte la ciocca verde che gli nascondeva parte del volto. Poi seguì con il dito il contorno del suo volto.
Lui spalancò gli occhi immediatamente. L'oro delle sue iridi si riversò all'esterno in un tripudio di luce riflessa e sfaccettature d'ambra.
Non avrebbe potuto desiderare un risveglio migliore.
«Strawberry!» forse doveva essere un urlo di gioia, ma la versione impastata dal sonno fu decisamente meno stridula e molto più piacevole.
«Buongiorno.» mormorò lei.
Ghish sorrise come un'ebete, poi, per un attimo, parve offeso. «Avrei dovuto essere io a svegliarti così.»
Strawberry sorrise. Poi rise proprio. «Ma va benissimo anche questa versione.» dichiarò.
«Va bene, allora mi limiterei a tagliare solo queste ultime battute.»
«Scordatelo, è tutto ripreso e sarà tutto confermato nella mia memoria in versione integrale.»
«Ohh, scommetto che non lo passeranno comunque mai in TV.»
«No, è un canale privato.»
Questa volta risero entrambi. Ghish si svegliò per bene e si stiracchiò un po' senza lasciarle la mano.
Poi si alzò e si sedette sul bordo del letto e si chinò su di lei. La baciò senza nessun riguardo, senza nemmeno tentare ad essere delicato, dopo la paura che aveva provato, era il minimo. Si ritrovarono senza fiato e non si fermarono a riprenderlo. Si fermarono solo quando il leggero bep-bep che monitorava il battito cardiaco di Strawberry non sembrò impazzire.
Ghish si allontanò quanto bastava per farle spalancare la bocca e inspirare. Rise sulla sua guancia, poi le baciò la tempia e infine appoggiò la fronte alla sua. Tennero entrambi gli occhi socchiusi, le ciglia che si sfioravano.
«Non... non morirmi mai più tra le braccia.»
Lei non disse nulla, si limitò a portare la mano libera al suo viso, accarezzandogli la guancia con il pollice e accarezzandogli poi i capelli verdi. Sapeva bene di cosa stava parlando. Anche lui le era morto tra le braccia, quasi nello stesso modo.
«Che cosa...» aveva la gola secca «che cosa è successo? Io... sono morta, lo ricordo. Cioè, non lo ricordo,» inspirò convulsamente.
«Shh.» fece Ghish chiudendo completamente gli occhi «Ti ha salvata Pai.» spiegò «Un attimo prima che morissi davvero ha preso la tua forza vitale. Ti ho tenuta in mano, ho visto la tua anima.» sussurrò con voce tra l'orgoglioso, il malizioso e il commosso «Aveva ancora un colore acceso, brillava tantissimo.» le diede un rapido bacio «Sei bellissima Strawberry, in ogni tua parte.»
«Ghish!»
La baciò di nuovo, questa volta in modo puramente giocoso.
Lei gli morse la lingua, anche se non forte, e lui si ritrasse.
Strawberry fissò le loro mani ancora intrecciate.
«I medici hanno detto che l'idea di Pai è stata geniale.» riprese tranquillamente «Abbiamo potuto portarti all'ospedale senza che le tue condizioni cambiassero, ti hanno ridato la tua forza vitale solo all'ultimo quando era tutto pronto. Ti hanno fatto immediatamente delle trasfusioni e operata. Sei salva per miracolo. E lo sono tantissime altre persone.»
«Oh, sono sicura che ora sapranno sfruttare al meglio l'idea di Pai.»
Ghish annuì vagamente, l'idea di parlare di Pai e delle sue idee la prima volta che la rivedeva, non gli andava a genio. Non gli sarebbe mai stato abbastanza grato, ma gli aveva anche fatto prendere un infarto.
«Aspetta. Da chi hanno preso il sangue per le trasfusioni?» osservò Strawberry «Io sono umana e quello delle altre ragazze non si può usare perché hanno un DNA animale diverso.»
«Beh una parte da Ryan, anche Kyle avrebbe voluto ma non aveva il gruppo sanguigno adatto. L'altra parte da Arlene, sai, la moglie di Mark.»
«Il sangue è arrivato dalla Terra?»
«Già.»
«Arlene ora è la moglie di Mark?»
«Già.»
«Mi sono persa un sacco di cose.»
«Già»
«Quanto tempo è passato di preciso? Sai, non vorrei dovermi ritrovare con dei figli più grandi di me o roba simile.»
«Solo cinque giorni. Ma i cinque giorni più caotici che si siano mai visti. Non hai idea di quante cose sono cambiate. Almeno così dicono Aprilynne e Catron.»
«Così dicono?»
«Ehi, io non mi sono mosso da lì, non ho nessuna fretta di vivere in un nuovo mondo da solo.»
Strawberry sorrise. E fu un sorriso bellissimo.
Si tirò su fin quasi a mettersi seduta. La cicatrice tirava un po'. Portò di nuovo la mano libera sopra le bende. «Non se ne andrà mai, vero?» chiese anche se già sapeva la risposta. Già conosceva la cicatrice. Ora ne avrebbe avuta una uguale. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma ormai era marchiata sulla sua pelle, tanto valeva vedere il lato positivo. Avrevvero avuto qualcos'altro in comune.
Ghish scosse la testa.
«Mai.»



___________________________________
o mio dio o mio dio
ancora non riesco a credere di essere arrvata a questo punto
Manca solo l'epilogo! (piango)
Come mia abitudine, non scriverò niente lla fine dell'ultimo capitolo perciò ci tengo  fare tuti i ringraziamenti ora.
Grazie a voi nove (perché sì, siete solo nove) che avte seguito fino all'ultimo questa storia e grazie a tuti coloro che passeran qui anche solo per caso, non vi sarò ai abbastanza grata.
Un abbraccio forte forte quindi a:

Ria , Yoake e Akly
e
Salice_ , Ginchan , Chocolae90 ,  tazzilla , Kurosaki_chan e Mizuiro_Chan

Questa è stata la mia prima fan fiction, su Tokyo Mew Mew - la mia serie di cartoni preferita, quella in cuiè rimasta una parte consistente della mia me bambina - e in assoluto, la prima storia che ho puublicato qui su efp (e con la quale eo arrivataa temere di dover concludere per quano a lungo si stava protraendo).
Non è la prima storia che ho portato a termine in vita mia, ma l terza, il che le fa comunque guardagnare un posto sul podio e una stra-meritata medaglia di bronzo.
Non pretendo che vi sia piaciuta quanto a me, sarebbe impossibile a prescindere, mi auguro solo che vi sia piaciuta, che si sia guadagnata il tempo che le avete dedicato.
Per adesso e per tutto il tempo avenire, il solo e più grande augurio che voglio farvi
è bonne lecture.

Artemide12

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Capitolo 24
*** Ciò che resta ***


Ciò che resta

 

«Tiriamo a sorte.» propose lei, ormai euforica come non succedeva da tanto «Pari e dispari.»
Lui sorrise e aprì subito un file per appuntarsi tutto.
«Okay, cosa più importante, il sesso. Maschio dispari, femmina pari.» cominciò.
«Ci sto.»
Uscì pari.
«Femmina, a questo punto, cara futura-mamma devi scegliere un nome.»
«Hope.» disse dopo un po'. «È un nome terrestre, di dove è suo padre ora.»
«Speranza?»
«Di un futuro migliore.»

Diversi anni dopo

Raylene si svegliò stiracchiandosi. Era stesa a pancia in giù nel letto. Sbatté la palpebre finché non riuscì a mettere a fuoco. Guardò verso il comodino.
Diavolo, era tardissimo!
Dei colpi sulla porta, qualcuno che stava bussando. Capì cosa l'aveva svegliata, fosse stato per lei, avrebbe dormito volentieri qualche altra ora. Si puntellò sui gomiti e inarcò la schiena per sollevare il busto.
«Chi è?» abbozzò.
«Sono Silver.» rispose la voce del fratello «Sto uscendo. Papà è già andato, mamma è ancora qui. Lei e Psiche stanno ancora organizzando per stasera. La tua colazione è sul tavolo da un'ora, da quando sei così dormigliona?»
Raylene spostò lo sguardo sul ragazzo biondo che dormiva ancora beatamente accanto a lei. Da quando Oro mi tiene sveglia fino a tardi. Pensò, ma si guardò bene dal dirlo. Nessuno sapeva della presenza del ragazzo nella casa, tanto meno nella sua stanza, tanto meno nel suo letto. Avrebbero sicuramente fatto le peggiori supposizioni. E a ragione.
Sorrise. «Sono stata sveglia fino a tardi.» si limitò a dire, optando per la quasi-verità «Avevo da fare.»
Sentì il fratello sospirare e per un attimo si chiese se non sapesse più di quanto lei credesse. Sperò di no. E l'attimo dopo di sì.
Poco importava.
«Ci si vede dopo allora.» lo salutò, stendendosi di nuovo e girandosi pancia in su. Tirò su il lenzuolo per assicurarsi di rimanere coperta.
«Ci si vede.» concordò Silver, dall'altra parte della porta.
Si allontanò e tornò nell'ingresso, dove una bambina lo aspettava impaziente. «Pronto?» chiese appena lo vide.
«Pronto.» confermò raggiungendola.
Hope gli riservò uno dei suoi sorrisi raggianti e gli prese la mano. Doveva essere un gesto dolce, che significasse che si fidava di lui, che era lui l'adulto, ma non era così. Era un incitamento, un chiaro “seguimi”. Era di Abigal.
Così come lo erano i suoi occhi blu. Identici a quelli di Silver. Identici come solo uno stesso patrimonio genetico può renderne.
Il sorriso, però, era quello di Dalton. Così come i capelli castani raccolti in una coda di cavallo.
Tutta Hope era così. I caratteri dei genitori si alternavano del suo corpo in crescita con l'estrema armonia che solo la casualità può creare. A differenza loro, però, non aveva nessun DNA animale nel sangue. Era una bambina ibrida normalissima.
Uscirono di casa e si avviarono lungo la strada. Avrebbero potuto teletrasportarsi, ma non ne valeva la pena. Era una bella giornata, il posto era vicino e sicuramente avrebbero incontrato qualcuno di conosciuto.
Hope trotterellava accanto a Silver allegra, facendo ondeggiare i capelli dietro la testa e canticchiando a labbra chiuse. Un'abitudine di Dalton nell'espressione di Abigal. Non era proprio facile abituarsi.
Passarono accanto alla casa di Ethan e Riley. Era una costruzione a due piani. Loro abitavano il primo e il sottotetto. Il pianoterra comprensivo di giardino circostante era occupato da Fosfor ed Electra. Loro erano fuori e Hope corse fino alla staccionata bianca per salutarli allegramente.
«Ciao birba.» ricambiò Fosfor avvicinandosi. «È da un po' che non ci si vede.»
«Sono stata da Pit e Opter.» spiegò lei salendo sulle punte dei piedi e poi dondolandosi sui talloni.
Silver intercettò lo sguardo di Electra che era rimasta seduta su un divanetto da esterni in stile terrestre. Andava molto in quel periodo. «Coma va?» le chiese.
«Alla grande!» rispose lei portando entrambe le mani sull'enorme pancia rotonda «Non la smettono di dare calci, ma è piacevole. Stanno bene.»
«Già, resta solo da scoprire quali porcherie avranno nel sangue.» commentò Fosfor.
Già, i loro figli erano stati concepiti naturalmente, quindi era inevitabile che i geni animali dei genitori si mescolassero. Era già successo.
«Sono sicuro che il siero risolverà qualsiasi problema.» disse Silver tranquillamente.
Il siero che Ryan aveva brevettato per i figli – e per il loro DNA in parte di neo-focena e in parte di gatto – si era dimostrato efficace anche per i figli di Catron e Kathleen quindi sicuramente avrebbe funzionato anche sui loro.
«Zio Ethan e zio Riley?» domandò Hope. Chiamava tutti loro zii e tutte le MewMew nonne. Silver, invece, era solo Silver.
Fosfor sollevò le spalle. «Credo che non si siano ancora svegliati.»
Riley non si era mai ripreso. Il colpo aveva danneggiato permanentemente le sue capacità mentali. Ogni tanto aveva degli spaventosi vuoti di memoria e faticava a riconoscere chi non fosse Ethan, ma per il resto se la cavava bene.
«Quando li vedi salutameli.» si assicurò Hope «Ora noi dobbiamo andare.» riprese a camminare portandosi dietro Silver, si voltò a salutare con la mano prima che girassero l'angolo.
Oltrepassarono quella che per qualche assurdo motivo era diventata “casa Ikisatashi” – assurdo perché non era certo l'unica ad ospitare qualcuno con quel cognome, specialmente in un quartiere intero che portava il nome “Ikisatashi”. Era pensata per due famiglie come quella di Fosfor, Electra, Ethan e Riley, ma di fatto era stata allargata e ce ne vivevano tre: il piano più in alto era abitato dalla sorella di Ghish, Sheila, il marito, Felix, e dai due corpi del figlio, Always e Nevery; il pianoterra allargato da Ghish e Strawberry, Aprilynne e, da quando avevano messo su famiglia, da Catron e Kathleen. Al momento, comunque, “casa Ikisatashi”, sembrava vuota.
Cento metri più avanti, c'era il parco costruito pochi anni prima.
Appena entrarono videro sfrecciare davanti a loro le biciclette di Always e New. Era impressionante quanto entrambi fossero cresciuti. Una volta erano loro i bambini. Ora si trattava dell'ennesima coppia felice che si era creata tra di loro. Erano perfetti, e non solo caratterialmente: l'organismo di New, grazie al DNA di chimero, non aveva bisogno di dormire, mentre ad Always dalle otto di sera bastava cambiare corpo e diventare Nevery. Erano sempre in giro.
Seduta dietro di New, le braccia strette attorno alla sua vita come se fossero in moto, c'era Eve. O meglio, Evelyn Junior. Era stata una strana richiesta da parte di New, ma Silver l'aveva accontentata, aveva ricreato Evelyn, la ragazza ragno, o almeno un'ibrida identica a lei, stesso aspetto, stesso nome, stesso DNA animale. New non l'aveva voluta come una sorta di figlia, ma come una sorellina. E per tutti, ormai, New ed Eve erano le sorelle.
Eve aveva la stessa età di Hope ed andavano molto d'accordo.
Si salutarono di sfuggita prima che le biciclette si allontanassero nel parco fino a scomparire.
«Forza.» la incitò Silver, cogliendo l'occasione per ristabilire i concetti di adulto-bambino. Non che servisse a molto.
Ripresero a camminare finché non in ritrovarono in un grosso spazio pianeggiante e sgombro di alberi. Al centro svettava un'enorme costruzione fatta di corda su cui ci si poteva arrampicare. Inutile dire che tutti loro ne andassero pazzi.
Hope vi corse subito e in un attimo si trovava a due metri da terra.
Silver fece in giro della struttura.
Arlene era seduta su una panchina affianco a Strawberry mentre Mark aiutava il Cavaliere a montare un enorme telescopio. Faceva parte dei programmi di quella sera: enorme pic-nic tutti insieme e poi nottata a guardare le stelle. Anche se parlare di stelle era inesatto. Pai aveva previsto che quella notte sarebbe stata visibile la Terra. Nessuno su Arret voleva perdersela, loro avevano solo deciso di stare tutti insieme.
Ghish si trovava alla base della costruzione di corda e dava a tutti indicazioni su come muoversi. Peccato che la sua intenzione fosse quella di far rimanere tutti incastrati.
Quando Hope arrivò su una delle piattaforme, raggiungendo gli altri, le voci dei bambini cominciarono a farsi più forti e più euforiche. Se ne distinguevano chiaramente tutti i proprietari.
«Gara a chi arriva per primo in cima?»
«No! Non vale tu sei già più in alto.»
«Ha ragione.»
«Tanto vinco lo stesso.»
«Scommessa che invece stavolta le tue previsioni sbagliano?»
«Non sbaglio mai.»
«Questo è vero.»
«Me ne infischio! Arrivo prima io se partiamo tutti alla pari.»
«Io sono già arrivata, vale?»
«No! Hai barato, ora le prendi!»
Dopo qualche altro schiamazzo, un ragazzo dai capelli biondo platino e gli occhi viola cadde fino a terra, dove atterrò in piedi, estremamente arrabbiato.
«Tu!» urlò indicando verso l'alto «Brutta...»
«Ehi, frena, io sono bellissima.» lo interruppe una ragazza dagli occhi azzurri e i lunghi capelli biondi materializzandosi davanti a lui, le braccia incrociate e lo sguardo sicuro e leggermente presuntuoso.
Nonostante passassero quasi tutti il tempo a litigare a darsele di santa ragione, Azzurra e Blu erano migliori amici. Rappresentavano la prova vivente che gli opposti si attraggono. Una era l'acqua-cristallo, l'altro la pietra-fumo. Una era benevolmente potente ma irrimediabilmente arrogante, l'altro potenzialmente distruttivo ma il più delle volte gentile.
Se si escludeva questo preciso istante, in cui si stavano rotolando per terra prendendosi a pungi. Entrambi non facevano in tempo a rompersi il naso a vicenda, che ogni minimo graffio guariva all'istante.
Il fatto che Blu avesse ereditato i capelli chiarissimi del padre e non quelli neri della madre e gli occhi viola piuttosto che quelli azzurri, era un sollievo per tutti. Se fosse assomigliato a Profondo Blu, sarebbe stato etichettato a vita.
Gli altri tre ragazzi, intanto, erano tornati nella parte più bassa della struttura.
Hope scese di nuovo a terra, i due fratelli rimasero in alto.
Silver rimase un momento a fissarli. Dalton, il più grande, aveva i capelli arancioni della madre e gli occhi rossi del padre; Abigal, al contrario, i capelli rossi e gli occhi color miele. Erano i nipoti più belli che Ghish e Strawberry potessero desiderare.
«Botte! Botte!» incitava Dalton agitando un pugno.
«noo» articolò invece Abigal mettendosi seduta su una corda, le braccia stese in alto per tenersi a quella di sopra e i piedini che si agitavano «si fanno male» era così piccola, così dolce e così graziosa che era impossibile non innamorarsi subito di lei.
«Abigal!» protestò contrariato Ghish nello stesso istante in cui Strawberry ringhiò «Dalton!»
era evidente che i due la pensavano in modo molto diverso riguardo alla zuffa.
Una nuvola coprì il cielo mentre quel momento di quotidiana tanto agognata “tranquillità” trascorreva senza interruzioni.
Silver si guardò intorno.
Anche altre persone si aggiravano per il parco in cerca del punto migliore dove sistemare il proprio telescopio, arrettiani, terrestri e ibridi affollavano il parco come se avessero vissuto insieme da sempre. Tutti di origine terrestre, tutti attualmente arrettiani.
Tutti umani.
La Fratellanza aveva decretato che la Terra non era più un pianeta abitabile – come se fosse chissà quale scoperta – e tutti i terrestri, non senza sorpresa, erano stati trasferiti su Arret. C'era del paradossale se si pensava che l'intento iniziale dei tre fratelli Ikisatashi era stato quello di far tornare tutti sulla Terra. Allo stesso tempo, sembrava essere destino: se non avessero mai avuto quell'intenzione, non sarebbero mai arrivati sulla Terra, e in quel momento gli umani sarebbero stati estinti.
Silver si rese conto che le persone lo fissavano a propria volta, ma con molta più intensità. Sorridevano, sussurravano ai loro figli, qualcuno accennava persino dei saluti. Altri si limitavano a continuare a fissare nella sua direzione.
«Cos'hanno da guardare tanto?» non poté fare a meno di sbottare.
«Come cos'hanno?» esclamò Hope, accanto a lui «Siamo i Connect! Gli ibridi che hanno salvato il pianeta.» l'uso del “siamo” e non del “siete” o dell'ancora più corretto “sei”, infastidì particolarmente Silver.
Fissò Hope intensamente. Fissò i suoi occhi blu dal taglio rotondo, da cerbiatto, in un viso i cui tratti, nella sua mente, erano ancora troppo legati a persone differenti.
Pensò ai figli di Catron e Kathleen, i nuovi Dalton e Abigal, così diversi dalla persone di cui portavano il nome e che non avrebbero mai saputo niente di loro.
A Eve, Evelyn Junior, così identica alla sua predecessora.
«No, non è vero.» disse.
Hope aggrottò le sopracciglia. «Come no? Cosa siete allora?» questa volta disse “siete”.
Silver sospirò.
«Noi siamo...»
Già, cosa erano? E la risposta venne, da sola, forse perché da qualche parte c'era sempre stata.
«ciò che resta.»

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