Paris Burning

di thecitysmith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***
Capitolo 4: *** Chapter 4 ***
Capitolo 5: *** Chapter 5 ***
Capitolo 6: *** Chapter 6 ***
Capitolo 7: *** Chapter 7 ***
Capitolo 8: *** Chapter 8 ***
Capitolo 9: *** Chapter 9 ***
Capitolo 10: *** Chapter 10 ***
Capitolo 11: *** Chapter 11 ***
Capitolo 12: *** Chapter 12 ***
Capitolo 13: *** Chapter 13 ***
Capitolo 14: *** Chapter 14 ***
Capitolo 15: *** Chapter 15 ***
Capitolo 16: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Chapter 1 ***


Non avevano nome.

 

Forse perché non c'era niente che potesse descriverle in modo abbastanza accurato. La religione ci aveva provato, con devozione e dannazione in egual modo. La scienza anche, con etichette e diagrammi sui quali un frustrato Combeferre si era scervellato, notte dopo notte, prima dei suoi esami. Entrambe avevano fallito.

 

Erano state le persone ad arrivarci più vicine. Le chiamavano semplicemente "Città".

 

Era quello che erano. Erano uomini e donne, avevano capelli, e occhi, e arti, e bocche eppure... erano di più. Erano strade ed edifici, monumenti e mercati, palazzi e fogne, poveri e ricchi, il tutto chiuso in un'ingannevole forma umana. Erano le Città. Rifiutavano ogni altro titolo altisonante.

Non ne avevano bisogno.

Enjolras ci teneva a sottolineare questo aspetto, nei suoi discorsi. Dopotutto, se i più veri simboli dell’umanità e delle sue migliori creazioni non avevano bisogno di titoli o denaro, perché dovremmo noi, il popolo, averli lo stesso?

Sarebbe stato certamente un passaggio ad effetto se non fosse stato per un piccolo problema. Era difficile celebrare i valori di una città che non si era sicuri esistesse.

Del resto, nessuno sapeva chi fosse Parigi.

Forse è non é un’affermazione del tutto corretta. Ovviamente Parigi esisteva. Era davanti agli occhi di tutti. Aveva strade, e case e persone. Era una bella città, e di sicuro era reale. Sì, tutti erano d'accordo sul fatto che la città di Parigi esistesse. Ma nessuno era sicuro se la Città di Parigi esistesse.

Le Città erano sempre citate nella storia. Dipinte sulle pareti delle piramidi in Egitto, o scolpite nei templi Aztechi. La ragione era ovvia: invecchiando così lentamente, sagge, e immortali, erano la risposta a un mondo che vedeva i propri dei distanti e crudeli. Gli imperatori le tenevano al loro fianco, i re le avevano come consigliere, la gente arrivava dalla campagna e scopriva che le Città capivano i loro problemi, non importava quanto insignificanti fossero.

Non c'era da meravigliarsi che fossero così amate.

Non c'era da meravigliarsi che l'assenza di Parigi causasse così tanti conflitti.

Si era pensato per tanto tempo che il Re, nel suo egoismo, l'avesse chiuso o chiusa da qualche parte. Tenendo più alla sicurezza che alla felicità del popolo. Un po' strano, dato che un attacco ai danni di una Città era visto come un crimine imperdonabile, anche in tempi di guerra, ma i francesi continuavano ad aggrapparsi a quella scusa.

Ma poi il Re se n'era andato con nessun altro a parte la sua famiglia.

I palazzi, e poi le prigioni, erano state svuotate con crescente disperazione. Vuoti.

Nemmeno Napoleone poté trovare la loro amata Parigi.

Secoli dopo gli storici avrebbero detto che quello fu il vero inizio del declino del condottiero, nonostante le molte battaglie che avrebbe vinto. Dopotutto, come potevano gli eserciti marciare per un ideale, per il gioiello della loro nazione, se non erano sicuri che esistesse?

I loro nemici non perdevano occasione di evidenziare questo problema. Dopotutto, Madrid e Berlino scendevano in battaglia con i loro comandanti. San Pietroburgo rise e danzò nella neve quando i francesi furono costretti a scappare di fronte al suo inverno. Persino Londra sedeva di fianco al suo Re, valutando ogni soldato che giurava di proteggerla con i suoi freddi occhi blu. Erano potenti, e soprattutto erano leali.

E dov'era Parigi, avrebbe chiesto uno straniero, con un sorriso canzonatorio sul volto. Scoppiavano innumerevoli risse, nelle taverne e anche nelle aule di lezione. Perché la loro città non era meno delle altre, loro stessi non erano inferiori solo perché la loro Città non si era ancora rivelata. Perché avrebbero dimostrato il loro valore, avrebbero continuato a combattere e a morire per la loro amata Parigi finché non sarebbe arrivato il momento in cui si sarebbe rivelata, e si sarebbe eretta orgogliosa al loro fianco.

, sarebbero stati felici di morire per Parigi.

 


(nessuno notò un uomo dai riccioli scuri che vomitava in un vicolo)

 

 


 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Per questo capitolo, la traduzione é di piuma_rosaEbianca e il betaggio di barricadeuse. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci.

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c. 

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Capitolo 2
*** Chapter 2 ***


Enjolras pensava che Parigi fosse bellissima.

 

Anche se forse avrebbe dovuto essere "sapeva" dato che il termine "pensare" era davvero troppo poco per descrivere la passione che sentiva dentro. Era una presunzione, ovviamente. Enjolras era il primo ad ammetterlo. L'idea che lui o qualsiasi altro umile cittadino potessero sapere anche una minima cosa sulla loro misteriosa Città era ridicola. Le più grandi menti che la Francia avesse avuto avevano discusso sulla sua esistenza da prima che lui nascesse. Non poteva in alcun modo sapere.


Eppure la consapevolezza gli attraversava le vene, bruciando calda e splendente.


Come poteva essere altrimenti? Ci aveva ragionato sopra. Sì, Parigi era un labirinto, palazzi pretenziosi e fetidi vicoli, ma la Città di Parigi era tutto un altro discorso. Era un ideale in cui tutti loro credevano, un essere che si sarebbe sollevato sopra il pantano di povertà e corruzione, guidandoli verso un’esistenza migliore. Non era stato così per tutte le grandi Città? Atene, non si era forse seduta ad ascoltare Socrate e Platone? E Roma, non aveva forse incoraggiato le migliori opere di Da Vinci?


Se doveva essere completamente onesto con se stesso, non era solo il ragionamento accademico che lo aveva portato a questa conclusione. C'erano notti in cui tornava a casa dagli incontri al café, ancora ardente per l'idea della rivoluzione e del liberare Parigi dalle sue catene, che anche nel sonno l'aria diventava pesante, e nei suoi sogni si eccitava. Sogni di un soldato al suo fianco, la mano stretta alla sua, o di una donna, il seno scoperto mentre guidavano l'attacco insieme. Entrambi bellissimi, entrambi che guardavano lui.


Si svegliò ansimando, e arrossì di vergogna mentre si occupava di quell’esigenza impellente. Gli altri lo prendevano in giro per la sua apparente purezza, ma quanto sarebbero stati sorpresi di sapere che era colpevole di desideri ben più lascivi. Scosse la testa e si ridistese. In realtà non avrebbe mai potuto fare niente del genere, non che Parigi gliene avrebbe mai dato la possibilità. Però si sentiva in colpa, perché si permetteva di distrarsi così tanto, e perché osava macchiare in questo modo la sua visione di Parigi.


Non ne parlava. Si concentrava sulla rivoluzione. Non stava salvando Parigi per i suoi desideri egoistici, ma per il bene superiore del popolo. Il non poter parlare della bellezza di Parigi nei suoi discorsi, non con Grantaire ad ascoltare, lo aiutava. L'ultima volta che aveva fatto quell'errore Grantaire aveva riso fino alle lacrime. Di norma non lasciava che l’ubriacone lo distraesse, ma Grantaire era rimasto abbastanza sobrio da sostenere una discussione. Nel suo idealismo, Enjolras si era dimenticato delle ustioni sulle braccia di Londra a causa dei suoi grandi incendi. Delle cicatrici che erano apparse sul volto di Vienna dopo che così tanti dei suoi figli erano stati uccisi nella battaglia di Austerlitz. Le linee tristi sul volto di Berlino mentre stringeva a sé le città morenti del Sacro Romano Impero (dell’ultima Enjolras non aveva mai sentito parlare, ma Grantaire ne sembrava sicuro).


Da allora Enjolras aveva deciso di non parlare più di Parigi senza essere sicuro di avere prove solide a sostegno dei suoi argomenti. Cosa difficile, date le pochissime certezze che si avevano su di lui o lei, anche le Città tenevano la bocca chiusa sul loro fratello mancante. Ma era meglio tenersi sull'astratto piuttosto che affrontare le prese di giro di Grantaire. Era stato particolarmente maligno quella sera. Enjolras supponeva che il cinico non credesse affatto in Parigi.


(Grantaire si era ubriacato anche molto più del solito quella sera.)


Ma Enjolras. Lui ci credeva con lo stesso ardore che aveva portato le persone a venerare le Città come dei. Non poteva farne a meno. Parigi era tutto quello che sperava per la Francia stessa. Era anche uno dei meno sorpresi del fatto che Parigi non si fosse ancora rivelata. Era ovvio che si tenesse distante dalle masse che l’avevano delusa così tanto. Non ne erano degni. Fino a quanto avrebbero avuto un Re e il popolo oppresso, non erano degni. Parigi probabilmente si era nascosta dalla vergogna dopo aver visto quello che erano diventati.


E pensare che soldati amareggiati avevano provato a incolpare la Città del loro fallimento! Enjolras diventò immediatamente rosso di rabbia, al pensiero. Si alzò e si vestì prima di rendersi conto che era ancora notte fonda. L'ultima volta che si era introdotto in casa di Courfeyrac per parlare di Parigi aveva interrotto una situazione piuttosto delicata e si era ritrovato una scarpa lanciata in direzione della sua faccia.


Quindi si sedette alla sua scrivania e scrisse furiosamente, con passione, fino alle prime ore della mattina. Scrisse per la rivoluzione. Ma, sopratutto, scrisse per Parigi.


Sì, Enjolras sapeva che Parigi fosse bellissima.


 

 


 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Per questo capitolo, la traduzione é di piuma_rosaEbianca e il betaggio di barricadeuse. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Quindi ci rivediamo il 13 febbraio.

Per il momento, ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti. 

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c. 

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Capitolo 3
*** Chapter 3 ***


PB 3

Grantaire sapeva di essere brutto.


Persino il suo nome lo era, anche se se ne era liberato molto tempo prima. Paris, come Paride: il figlio inutile. Non rispettato quanto Ettore, non temuto come Achille, non amato (ha!) quanto Patroclo. No, era quello che aveva rubato, iniziato guerre e causato la morte di tutti quelli che amava, e poi lui stesso era morto senza onore e ignorato. Paride non aveva offerto niente alla leggenda, così come Parigi la Città non poteva offrire nulla alla sua gente.


Così adesso era Grantaire. Un nome semplice, comune. Preso da un soldato che aveva offerto un sorso di coraggio liquido a quello che credeva essere un cadetto nervoso, tanti secoli prima. Si era anche dimenticato che guerra fosse. Ma si ricordava gli occhi gentili dell'uomo. Era morto con migliaia di altre persone, nel fango, per la sua Città. Era stata una vittoria, aveva detto il Re. Erano stati orgogliosi di morire. E allora perché non avevano neanche una lapide per segnare il posto dove riposavano? Grantaire aveva preso il suo nome in una sorta di protesta, si ricordava vagamente, cercando di dare un significato agli occhi gentili di quell'uomo e alla sua morte inutile.


Adesso era solo un'altra cosa che aveva rubato, insieme alle loro vite.


Be', questo era persino più depresso rispetto alla sua ordinaria malinconia. Grantaire lanciò uno sguardo sospettoso alla bottiglia che teneva in mano. Era pessimo come al solito. O meglio, lui era pessimo come al solito. Non era sempre stato così, ovviamente. Una volta amava il mondo. Si ricordava di aver avidamente divorato filosofia e arte con il sogno che le persone sarebbero arrivate a Parigi - a lui - per cercare la loro ispirazione. Per innamorarsi di lui, della terra, degli edifici, del cielo e perfino l'uno dell'altro. Per amare così come lui amava la sua gente. E lui l’aveva amata, così tanto, che voleva darle il mondo intero.


E adesso. Be'. Probabilmente era una buona cosa che fosse fatto per metà di catacombe. Poteva trovare il vuoto dentro di sé e spingere tutto giù, giù, giù nell'oscurità, per non essere mai più ritrovato. Grantaire inclinò la bottiglia e il mondo sfumò nel buio.


Riaprì gli occhi un po’ di tempo dopo. La luce del sole entrava dalle assi sulla finestra. Sapeva d'istinto che mancavano poche ore al tramonto, ed era in ritardo per l'incontro con i Les Amis.


Non che volesse andarci, in verità. Faceva troppo male, vedere persone che lo amavano, che lo amavano davvero. Vedere i suoi amici, perché nonostante Grantaire facesse del suo meglio per farsi odiare erano suoi amici, parlare di Parigi in quei toni speranzosi. Ma non aveva scelta. Era una Città. Non avevano una volontà loro, obbligate com’erano a star ferme e guardare mentre gli umani le costruivano e demolivano con uguale facilità. Erano schiavi dei capricci degli umani.


(E, nonostante tutto, li amavano)


Grantaire bevve di nuovo. Anche se attenuava il dolore delle cicatrici che gli attraversavano la schiena, non riusciva a evitare i sogni. Sperava disperatamente che si fermassero, e allo stesso tempo era terrorizzato all'idea che un giorno lo avrebbero fatto davvero.


Non era forse un suo diritto sognare di un futuro migliore? Era una vocetta che strillava da dove l'alcool non era ancora arrivato. Non era quello che tutte le Città facevano? Si ricordava delle poche e incostanti lettere alle altre Città prima di abbandonare completamente ogni comunicazione, chiedendo il loro silenzio. Forse era stato un idiota a fidarsi di loro, di quelli che sarebbero dovuti essere suoi nemici, ma la bruciante solitudine che continuava per secoli e secoli li costringeva a cercarsi. Dopotutto, gli umani non avrebbero mai potuto capire il significato di quei sogni.


Sogni che mostravano loro la strada. Sogni che davano loro speranza o li avvertivano. Tutti avevano capito quando Londra aveva sognato di navi che crescevano nel suo ventre. Vienna e Budapest avevano iniziato timidamente la loro corrispondenza a causa dei dolci sogni che avevano fatto l'una sull'altra. Perfino il piccolo Washington gli aveva fatto dei disegni pieni di colori accesi - uomini volanti e una luna sorridente - la sua giovane età che rendeva il significato un po' più astratto del normale.


Ma Parigi... Parigi sognava Enjolras.





Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo

Per questo capitolo, la traduzione é di piuma_rosaEbianca e il betaggio di barricadeuse. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Quindi ci rivediamo il 20 febbraio.

Per il momento, ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti.

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.

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Capitolo 4
*** Chapter 4 ***


All’inizio, Grantaire non aveva capito chi fosse. E come avrebbe potuto, quando i suoi sogni erano un vortice indistinto, a parte quel guizzo d’oro. Ma poi quello scintillio era diventato una fiamma consumante, che gli incendiava la mente, strappandolo dal sonno notte dopo notte.


Tutte le Città sognavano dell’oro. Era il segno che qualcosa stava per arrivare, qualcosa di terribile o di meraviglioso. L’oro poteva significare una grande ricchezza o prosperità, e Dio sapeva quanto ne avrebbe avuto bisogno in quel momento, ma poteva anche essere un avvertimento. Un sole, per scaldarlo o bruciarlo, se avesse volato troppo in alto. O peggio ancora: un lampo di fuoco, la distruzione.


Aveva cercato un sonno senza sogni, bevendo ancora e ancora, ma le visioni non potevano essere messe a tacere. Ogni notte bruciavano più luminose, finché, una notte di mezza estate, quella luce abbagliante si condensò in una figura. Dorata e alta e bellissima, e Grantaire ne rimase colpito fin nelle ossa. L’uomo di fronte a lui era meglio di qualsiasi moneta del Re, era il sole, un Apollo. Ma in tutti i suoi sogni, la figura gli dava le spalle. Grantaire cercava di farsi vedere, di farlo voltare a guardarlo, ma l’Apollo continuava a camminare, e Grantaire era condannato ad inseguirlo attraverso le infinite catacombe della sua mente.


Era andata avanti così per mesi. Inseguendo sogni che lo facevano svegliare esausto, e fantasie che lo lasciavano ansimante e frustrato nei suoi pantaloni logori. La sofferenza della Città era echeggiata dappertutto attorno a lui dal fetore dell’estate. Mosche ronzanti in grandi nuvole, mentre la città di Parigi soffocava nel caldo e affondava ancora di più nella povertà, e la sua personificazione si rifiutava di lasciare il suo letto, cercando solo l’abbraccio del sonno.


Fu in una notte coperta, quando i gridi dai bassifondi si erano fatti più bassi, che Grantaire inseguì Apollo fuori dai suoi sogni, nel mondo reale. Cadde dal letto, la sua bottiglia che si frantumava vicino a lui, e sentì la necessità arpionarlo, profonda, dentro al ventre. La caccia era ancora aperta. Si alzò, sentendosi tirare, e non poté fare altro che seguire quel bisogno, come un pesce senza speranza, preso all’amo.


Scivolò nelle ombre della notte, seguendo quella sensazione come un povero pazzo, finché non arrivò ad un piccolo café. Sarebbe stato uguale a tutti gli altri, non fosse stato per la luce che usciva dalle sue finestre, e il suono di voci rumorose e allegre. Aggiustandosi la camicia e con una strana ansia a pervaderlo, Grantaire salì i gradini ed entrò nella taverna.


E lì, in mezzo agli studenti, c’era il suo Apollo.


Enjolras.


Grantaire ordinò una bottiglia intera e si nascose sul fondo della sala. Per tutta quella settimana, ascoltò i loro discorsi e le loro belle idee per la Francia… e si disperò.


Erano rivoluzionari. Proprio quella, tra tutte le idee malsane. L’aveva già vista, insinuarsi nella mente dei giovani e portarli dritti nella tomba. Non aveva intenzione di restare a guardare mentre questi studenti si costruivano da soli la pira.

E lo disse anche. Ma quello fu un errore, visto che immediatamente tutti gli occhi della stanza erano rivolti a lui, e il suo Apollo si era fatto minaccioso. Quella notte giurò che non sarebbe mai più ritornato.

E si presentò di nuovo il giorno dopo, vittima degli occhi del loro capo, da quel blu, come il fiore della consolida. Era peggio di qualsiasi bottiglia avesse mai bevuto. Fu sorpreso di scoprire che lo riconoscevano, e che invece di buttarlo fuori lo accoglievano nei loro discorsi. Imparò i loro nomi, come se non li avesse saputi fin dal giorno in cui erano nati. Combeferre, Courfeyrac, Joly, Feuilly… uomini buoni, uomini onesti, uomini morti.

Le settimane diventarono mesi, e si scoprì di nuovo con degli amici. Ma i sogni non si fermarono, anzi, se possibile, divennero ancora peggio, e nonostante la possibilità di vederlo in abiti umani, e con un nome umano, Apollo, no, Enjolras, bruciava ancora più splendente di prima. E adesso… adesso era voltato a guardare Parigi, e i suoi occhi facevano male. Lo guardavano e aspettavano, domandando cose che Grantaire non avrebbe mai potuto dare.

Si svegliò piangendo.

Lisbona era la Città più vecchia di tutta l’Europa Occidentale. Disperato, le inviò in tutta fretta una lettera, per sapere cosa potesse voler dire il suo sogno. Ma chiedere consigli a qualcuno contro cui hai combattuto in guerra non é sempre saggio.

(«Sei fatto per metà di catacombe, caro Parigi. Ha senso che tu ti senta vuoto, perché é quello che sei. I cimiteri sono spesso tormentati dalla vita che manca loro.»)

Quella notte, litigò con Enjolras la prima volta. Faccia a faccia, furiosi nel bel mezzo del café, su diritti e privilegi e la volontà del popolo. Fu esilarante; fu terrificante. Enjolras non aveva mai maggiore controllo sulle parole come quando le usava contro a quell’ubriacone.

Una piccola parte di Grantaire ne era quasi compiaciuta. L’altra, più semplice, notò semplicemente che era in questi momenti che Enjolras era più bello, la statua di marmo che era infiammata di rosso, illuminata da una luce che gli proveniva da dentro. Pieno di vergogna, giurò a sé stesso che se ne sarebbe andato nel momento stesso in cui il suo Apollo gliel’avrebbe detto, una semplice parola per mandarlo via per sempre.

Ma Enjolras non lo fece.

Grantaire ritornò a casa e ci trovò una lettera da Londra. Lisbona doveva averle detto di quella che aveva spedito a lei, le due Città erano sempre state vicine l’una all’altra. Grantaire occhieggiò attentamente la lettera, come se fosse una vipera. Londra aveva un modo tutto suo di usare parole poco gentili, e lui ne era spesso stato la vittima. Sperava che questa volta non avesse esagerato troppo col veleno.

(«Anch’io ho sognato di una figura, una volta. Dai capelli di fuoco, vestita di bianco. Era la mia Regina delle fate, la mia Gloriana, la mia Elizabeth.») La lettera gli scivolò via dalle dita paralizzate. («Dolce Parigi, non aver paura di chi amerai.»)

E cosa ne sai tu dell’amore? Avrebbe voluto urlare alla carta. Si guardò intorno furibondo, intrappolato in quel terribile rifiuto. Londra aveva una mente di metallo, di ingranaggi e numeri, non sapeva niente dell’amore, anche se tutti conoscevano la storia della Regina inglese che aveva sposato la sua Città. No. Doveva essere- era un inganno! Londra amava i suoi figli con la stessa passione di lui, e sarebbe stata felice di farlo a pezzi pur di dare loro quell’impero che volevano così tanto.

Ma no, aveva già vinto contro di lui. Era soddisfatta. Perché cercare di distruggerlo quando era già a terra? Oh, Dio. Era peggio di qualsiasi veleno. Non avrebbe potuto devastarlo in questo modo se non con la verità.

Grantaire si prese la testa tra le mani. Amore, dunque. Di tutte le cose, non proprio l’amore. Sarebbe stato disposto a prendere i suoi sogni come un avvertimento, magari di doversi lasciare alle spalle Enjolras e i Les Amis per la sua stessa sicurezza. Del resto, Parigi era molto di più che un gruppetto di ragazzi. Ma l’amore.

(Paride aveva amato Elena. La sua città era bruciata fin nelle fondamenta.)

L’amore finiva sempre male, per le Città. Il regno senza eredi di Elizabeth aveva precipitato Londra nelle guerre civili. Mosca era stata abbandonata, la sua Capitale portata via e data a San Pietroburgo da uno Zar senza cuore. E ora Parigi… Parigi sapeva che sarebbe successa la stessa cosa.

Aveva già amato, una volta.

Secoli prima, quando era stato fiero e giovane. I Borgogni erano marciati sopra al suo cuore, gli avevano preso la Cittadinanza, e lui aveva combattuto per recuperarla. Aveva vissuto nel fango e nella pioggia, e lì, in mezzo a quella miseria, un lampo d’oro.

Giovanna d’Arco gli aveva sorriso.

O Giovanni, come aveva pensato si chiamasse, all’epoca. Divennero compagni d’arme. Fu sul campo di battaglia che Parigi le aveva rivelato il suo segreto, mormorando come in un confessionale, e il suo amore per Giovanni si era trasformato in venerazione, mentre anche lei gli sussurrava un suo segreto.

Una donna. Una donna l’aveva raggiunto nel momento del bisogno e aveva cambiato le sorti della guerra contro l’Inghilterra. Era bastato uno sguardo dagli occhi azzurri, come la consolida, di lei, perché lui volasse al suo fianco, e con lui la Francia intera. Erano stati gli anni più gloriosi della sua vita. L’aveva amata, furiosamente, appassionatamente, pur non avendola mai toccata. Lei era al di sopra di quello, splendente come il sole, e lui era un umile Icaro, appena capace di guardarla in tutta la sua gloria.

E come il sole, lei era bruciata.

E come Icaro, lui era precipitato.

L’amore finiva male, per le Città. Anche nelle storie senza troppi colpi di scena, le Città erano costrette a guardare i loro amanti invecchiare e morire senza di loro. Ma lui non poteva non amare. Era un uomo, così come era una Città. Aveva un cuore, e una mente, e un’anima. Non era fatto di pietra.

E quindi amava.

Amava Enjolras. Era così ovvio, adesso. I suoi sogni improvvisamente chiari, sogni di uscire da una gabbia, di essere libero. Lo vedi, Enjolras, ho ascoltato. Sogni di stare in piedi, orgoglioso al fianco di Enjolras, mano nella mano, sorridendo-

(«Lo permetti?»)

Il suo Apollo avrebbe avuto la sua leggenda, un giorno, Grantaire non aveva dubbi. Ma non sarebbe stata una storia intrecciata alla sua. Non poteva soffrire di nuovo in quel modo. Se ne sarebbe andato l’indomani, allontanandosi il più possibile. Probabilmente non sarebbe mancato a nessuno.

Che Enjolras avesse pure la sua rivoluzione. Che il suo amore per Parigi eclissasse qualsiasi altra cosa. Che splendesse così luminoso da prendere fuoco spontaneamente. Che diventasse pure un martire per una Città che non avrebbe mai conosciuto.

Grantaire non aveva mai chiesto a nessuno di morire per lui.

All’improvviso, il dolore serpeggiò sui suoi polsi. Grantaire si ritrovò senza fiato. In lontananza, delle persone gridavano, e il fumo si alzava nel cielo, assieme al rosso che si faceva strada sulle sue braccia.

 

Parigi stava bruciando.

 

 

 


 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Ora, ci sarebbero delle note da fare su questo capitolo, che ci teniamo a spiegare: la prima é quando Grantaire "rimane colpito fin nelle ossa" da Apollo. É un'osservazione stupida, ma sappiate che nell'originale é "struck to the bone". Ossia quello che canta Marius in "Red & Black". Così, giusto perché adoriamo quando nelle fanfiction vengono inseriti versi delle canzoni (weird, we are so weird).
 Poi, Londra e Lisbona. Premettendo che ovviamente questa storia sarà piena di slash e femslash, nel mondo di thecitysmith le due città sono spostate. Il concetto é complesso e di sicuro l'autrice lo spiega meglio, ma diciamo solo che si sono avvicinate ai tempi delle prime espansioni coloniali nel Nuovo Mondo e sono letteralmente sposate, anche se nel corso della loro lunga vita hanno avuto altri amanti, perché le Città amano chi é amato dalla loro gente. Cosa che ci porta al punto successivo: la storia di Londra con Elisabetta I. Che é bellissima e boh, feels. Anche Grantaire ha amato Giovanna d'Arco, e anche lì, feels. Se volete chiedere qualche chiarimento in più su questa cosa, non esitate.
Infine, ci tenevo a parlare della Cittadinanza. L'inglese é una fantastica lingua perché ha una facilità nel formare parole dalla quale l'italiano é lontano anni luce. L'autrice usa due concetti, la Capitalhood, e la Cityhood. Per Capitalhood si intende l'essere la Capitale, un processo difficile per le Città. La Cityhood é l'essere una Città, ossia avere una personificazione, avere il diritto di essere chiamata, appunto, città e Città. Per Capitalhood probabilmente terremo Capitale, con la maiuscola. Per Cityhood abbiamo pensato a Cittadinanza con la maiuscola, a sottolineare meglio che la parola ha un significato un po' diverso dal suo solito. Bene, scusate il papiro. 

Per questo capitolo, la traduzione é di barricadeuse e il betaggio di piuma_rosaEbianca. Abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 27 febbraio.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.

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Capitolo 5
*** Chapter 5 ***


Era sempre stato il fuoco, a distinguerle.


Gli edifici crollavano e i fiumi straripavano, ma erano solo le bruciature a restare sulla loro pelle. Era la paura di ogni Città, fin da quando la Vecchia Roma era stramazzata al suolo ai piedi di Nerone, mentre suonava la sua lira, la musica che copriva le grida di lei.

 

Il fuoco era l’unica cosa che poteva ucciderle.

Non c’era certo da stupirsi se Bergen ancora tremava all’idea degli incendi che l’avevano quasi consumato, se Londra si svegliava dopo incubi di esplosioni assordanti e fiamme incessanti. (Stranamente, Berlino era l’unico a non temere il fuoco. Lui sognava di trincee, ma questa é un’altra storia.)

Quindi, quando il fuoco si arrampicò sui suoi polsi, Grantaire sentì una morsa vera e reale di paura attanagliargli il cuore. L’alcool nelle sue vene venne spazzato via in un istante, e i suoi occhi annebbiati si rimisero a fuoco. Odiava tutto quello che era e che sarebbe stato, ma che fosse dannato se non avesse almeno deciso di che morte morire.

Corse fuori in strada, sentendo dove il fuoco ruggiva più forte. Era nato nei livelli inferiori dei bassifondi, a poche strade di distanza da dove i suoi amici si incontravano. Grantaire scattò, muovendosi con una velocità che avrebbe sconvolto quelli che lo conoscevano. Ma era una Città, e la città si spostava con lui.

La gente si ritrovò ad inciampare su ciottoli che cambiavano posizione, le folle si divisero facilmente per lasciar passare quello strano uomo. Le strade si accorciarono, raggrinzendosi agli angoli, le case cigolarono, nuovi vicoli saltarono fuori nei punti doveva aveva bisogno di passare, muri caddero e Grantaire raggiunse l’incendio in una frazione del tempo che avrebbe impiegato una persona normale.

(il giorno dopo avrebbe visto una grande confusione per gli abitanti delle strade che aveva attraversato, mentre si ritrovavano con dei nuovi vicini, o anche senza un muro, o con uno in più dove erano sicuri che prima non ci fosse. Ma ancora, questa é un’altra storia.)
Si fermò di botto alla fine della strada, mentre abbracciava con lo sguardo l’intera scena. Tre case erano già intrappolate in un inferno, orribili fiamme gialle che bloccavano il vicinato, nonostante gli uomini cercassero di tenerle a bada. Grantaire riuscì a vedere diversi membri dei Les Amis nella folla. Non avrebbe dovuto esserne sorpreso. Ma era piacevole lo stesso scoprire che non erano solo chiacchiere vuote. Bahorel stava coraggiosamente trascinando via delle persone dalle case ormai distrutte. Joly, tremendamente serio, si stava occupando degli ustionati, mentre Feuilly, che chiaramente conosceva le famiglie, stava cercando di capire chi mancasse.

E in mezzo alla confusione stavano Enjolras e Combeferre, intenti ad organizzare una catena di secchi d’acqua dalla fontana. Vedere il suo Apollo sullo sfondo delle fiamme fu abbastanza da far barcollare Grantaire. Un grido: «Questo non é posto per un ubriacone!». Cosa che lo fece scattare.

«Non sono più infiammabile di voi.» Poteva anche assomigliare a una statua, ma il suo Apollo restava fatto di carne.

Cercò di avanzare, ma la testa gli pulsava per il fumo che si diffondeva nell’aria. L’ustione sul suo braccio continuava ad ingrossarsi, mentre sentiva delle vite spegnersi tutto intorno a lui. Anton e il suo fratello gemello giacevano immobili nella cantina dove avevano cercato rifugio. L’anziano Monsieur Chastain non era riuscito a scendere in tempo gli scalini ripidi. Grantaire barcollò di nuovo.

I suoi sensi si espandevano in modo incontrollabile. Senza alcool a domarli, si ritrovò cosciente di ogni battito di cuore attorno a lui, di ogni respiro, dell’acqua che scorreva nelle fogne sotto di lui, e dell’incendio che divampava dentro di lui, che gli consumava la pelle agonizzante centimetro per centimetro. Ma no, no, il suo corpo- la sua persona umana- stava bene. Doveva ricordarselo. Le Città potevano impazzire, se non erano capaci di distinguere le due.

Un grido risuonò nella strada, una madre che realizzava dell’assenza di sua figlia. Grantaire si voltò in tempo per vedere Enjolras lanciarsi verso le case, correndo lungo il muro laterale per cercare un’altra entrata.

Con un sospiro che poteva essere una maledizione o una preghiera, Grantaire si mosse a seguirlo.

Il calore gli colpì la faccia come uno schiaffo, mandandolo quasi per terra. L’aria uscì di colpo dai suoi polmoni assieme al veleno del fumo, e Enjolras continuò ad avanzare, senza curarsi del fatto che la casa verso la quale si stava dirigendo era ormai diventata una trappola mortale. Grantaire sentiva il legno dei pavimenti e dei mobili cadere nell’affamata presa del fuoco, sentiva i soffitti incurvarsi verso il basso, sentiva la casa gemere e cigolare sotto il peso della sua stessa distruzione.

E la cosa peggiore di tutte, poteva sentire la ragazzina morire in uno dei piani superiori dell’edificio. In quell’istante la conosceva, come tutte le Città con i loro cittadini. Il suo nome era Madalene. Aveva sette anni e le piaceva intrecciare i capelli di sua sorella. E i suoi polmoni erano troppo deboli per sopravvivere al fumo.

Enjolras aveva trovato una finestra, e nel vicolo, lontano dagli altri sguardi, Grantaire si mosse con una velocità non umana. Afferrò il suo Apollo per quella sua giacca rossa e lo trascinò indietro. «Non serve! E’ troppo tardi!»

Madalene esalò il suo ultimo respiro proprio in quel momento.

Grantaire si era dimenticato di cosa si provava, quell’eco di morte dentro il suo cuore, senza l’oblio del vino ad addolcirlo. Faceva così male che non si accorse di Enjolras che girava su sé stesso per schiaffeggiarlo e liberarsi.

«Smettila di arrenderti così facilmente! Non puoi saperlo!»

Era raggiante di furia e odio contro Grantaire.

Qualcosa, dentro di lui, cadde, come delle catacombe che rovinavano dentro ad acque profonde. Così vuote, che anche il gridò più acuto non avrebbe sentito altra risposta che il suo stesso eco. Niente che fosse nato in questa fossa avrebbe mai potuto vivere alla luce del sole. Come aveva fatto a non capirlo prima?

Grantaire si allontanò da Enjolras.

«Lo so,» disse semplicemente.

Con un gemito d’agonia del legno, la casa cadde su un fianco, franando nel vicolo. Grantaire spintonò via Enjolras, dall’altra parte della via, e le rovine lo schiacciarono.

«No!» ruggì Enjolras. Le fiamme non si erano ancora spente del tutto, ma lui aveva già infilato le mani tra i detriti, come a volerle spostare, per poter cercare il suo amico.

Ma non ce n’era bisogno.

Grantaire uscì dalle rovine come in un sogno. Senza pensarci troppo, si scrollò di dosso i tizzoni che ancora scoppiettavano sulle sue spalle, mentre tegole e piastrelle gli scivolavano sopra, macchiate del suo sangue. Grantaire si stirò la schiena, desiderando qualcosa da bere. Le ferite non erano mai una bella cosa, anche quando guarivano in pochi secondi. Guardò con aria assente le sue dita schioccare di nuovo nella loro posizione naturale, la pelle ricrescere, se non nei punti dove era stata ustionata, su entrambe le braccia. Bé, non che prima fosse poi così bello. (Un momento, erano uguali a quelle di Londra? Che imbarazzo.) I pensieri della Città si interruppero quando realizzò che c’era qualcosa di molto sbagliato.

Enjolras lo stava fissando.

Aveva pensato, stupidamente, che Enjolras fosse svenuto dopo il crollo, o che fosse andato a cercare aiuto, o che, come gli altri che si erano radunati lì intorno, fosse accecato dal fumo. Ma come sempre, Enjolras si distingueva dalla folla. E per la prima volta da quando l’aveva incontrato, Grantaire davvero detestò quella sua capacità. Così come detestò l’istruzione che ogni studente riceveva sulle Città- comprese le loro capacità di guarirsi- e così come odiò la guarigione che rimise a posto la sua spalla slogata con uno schiocco, finché le uniche tracce dell’accaduto furono i vestiti sporchi di fumo e un paio di ustioni sulle braccia.

(e il rosso dello schiaffo sulla sua guancia. Ma se Dio aveva pietà il suo Apollo non se ne sarebbe accorto, almeno di quello)

Un intero edificio in fiamme gli era caduto addosso.

Sembrava che Grantaire avesse avuto appena un piccolo incidente in cucina.

Oh no, oh Dio. Come l’avrebbe spiegato?

Cominciò ad allontanarsi, cercando di rimettere ordine nei suoi pensieri, di inventare una qualsiasi bugia, ma Enjolras lo inseguiva, senza dargli il tempo di pensare- se solo fosse stato capace di ragionare. Enjolras lo afferrò per il braccio, e ogni suo pensiero coerente volò via come uno stormo di uccellini spaventati.

Per un momento, si fissarono l’un l’altro. Enjolras senza espressione, Grantaire incapace di spostare lo sguardo.

«Ehi, voi due? State bene?», il fumo si stava diradando, e i loro amici stavano ridendo, sollevati di vederli entrambi vivi. Grantaire spostò gli occhi da dove Enjolras stava toccando le sue ustioni (con delicatezza, perché é delicato) per guardarli con un sorriso forzato.

«Benissimo! Ci siamo spostati dall’altra parte in tempo. Come se un incendio potesse impedirmi di sedermi al bancone, stasera!», risero, perché Grantaire, quel povero ubriacone, faceva sempre ridere. Si unì a loro. «Per non parlare del nostro capo, che-»

«Parigi», sussurrò Enjolras.

Era un riflesso, o un vecchio ricordo, o semplicemente la sorpresa (perché quando era stata l’ultima volta che qualcuno l’aveva chiamato con quel nome?) che fece voltare di nuovo Grantaire, con uno scatto. E si condannò con le sue stesse mani. Enjolras trattenne il respiro.

Il silenzio si strinse come un nodo.

«Io-» cominciò Grantaire. «Cosa…», ma tutto stava crollando. Le catacombe si stavano riempiendo d’acqua, gli riempivano la gola come bile, e parlare non gli era possibile. Non poteva- non lo fece. Enjolras non disse niente. Per la prima volta in entrambe le loro vite, le parole venivano loro meno. «Volevo solo-»

(dolce parigi, non aver paura)

Non aveva paura. Non sentiva nient’altro che odio: per sé stesso, per i bassifondi su cui era costruito, anche per i suoi palazzi più belli, perché erano i luoghi che il suo sole detestava più di tutto. Non c’era niente di lui su cui il suo Apollo avrebbe voluto brillare.

Enjolras continuò a guardarlo, i suoi occhi blu che entravano fin nel profondo. Non si era mai sentito così esposto, così chiaro, come se tutti i suoi segreti fossero messi in mostra, e nonostante tutto non riusciva a leggere l’espressione sul volto di Enjolras.

(di chi amerai)

E poi Grantaire capì e il mondo scivolò via. L’espressione di Enjolras che lo aveva lasciato senza parole, la conosceva bene. Era orrore. E fu abbastanza da farlo divincolare per liberarsi, e scappare.

 

 

 

 

 


 

 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Per questo capitolo, la traduzione é di barricadeuse e il betaggio di piuma_rosaEbianca. Abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 6 marzo.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.


 

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Capitolo 6
*** Chapter 6 ***


PB 6

Doveva scappare.


Era l’unico pensiero coerente nella testa di Grantaire, mentre correva. Ritornò come un fulmine nella sua soffitta e per un momento rimase lì immobile, tremando, ancora incapace di processare quello che era successo.


Era stato scoperto. Come era potuto accadere? Nessuno aveva mai capito chi fosse per secoli, non da quando aveva perfezionato l’arte di scivolare via dalle vite delle persone, inosservato, inutile, perché se un ubriacone smetteva di farsi vedere in una taverna allora tutti sapevano che era morto in un canale, e nessuno sospettava che si stesse invece rifacendo una vita e un nome da un’altra parte, in modo che non si notasse che non invecchiava.


Con tutti gli anni che erano passati, non era mai stato preso. Ci era andato vicino quando Napoleone aveva scandagliato ogni strada di Parigi per cercarlo, quell’uomo reso pericoloso dalla sua vanità ferita quando la sua Città non si era presentata a lui spontaneamente. Aveva rivoltato i bassifondi da cima a fondo e inseguito le voci che parlavano di un uomo che si era trasferito da poco e che diceva di essere il figlio del precedente proprietario, nonostante questo proprietario fosse stato giovane e senza eredi, e nonostante la fin troppo strana somiglianza tra i due. Grantaire era rimasto nascosto tra le travi del soffitto mentre l’ometto vagava furibondo sotto di lui, prendendo a calci pennelli e tele. Aveva trattenuto il respiro finché Napoleone non se n’era andato, dichiarando, «La mia Parigi» (Mia!) «non si abbasserebbe mai a vivere in mezzo a tutto questo sporco.»


Quando si era allontanato Grantaire era saltato a terra e si era inchinato in direzione della porta, un sorriso di presa in giro sul volto. «Desolato di deludere l’Empereur, ma non tutti abbiamo manie di grandezza.»


E adesso si era fatto scoprire da un ragazzo poco più che adolescente, che non ci aveva neanche provato seriamente, che l’aveva reso stupido e lento con appena uno sguardo. Un ragazzo che l’aveva fatto ustionare. Un ragazzo che era pericoloso, pericoloso per Parigi, pericoloso per i suoi figli e- qualcosa di oscuro cominciò a sussurrare dentro la sua mente.


La parte antica di lui, schiacciata sotto il Cristianesimo e la colonizzazione e quella finta civilizzazione, cominciò a ridestarsi, e a cantare in Gallico. Gli era mancata la lingua di sua madre, si ricordava mentre gliela sussurrava quando era bambino, e gli parlava di piacere e violenza e-


-era un solo testimone. Facile da far sparire. La Senna non lasciava scampo, l’acqua era profonda e le catacombe silenziose. Perché era una Città, e una Città deve proteggere i suoi figli.


Spessi tatuaggi blu e verdi colorarono la sua pelle come lividi, scendendo in spirali sui suoi fianchi, linee curve che parlavano della caccia. Una buona caccia, che avrebbe ribaltato i ruoli per inseguire quel lampo d’oro, il ragazzo avrebbe lottato, ovviamente, non era abituato ad essere la preda ma alla fine avrebbe avuto paura e avrebbe corso e allora si sarebbero ritrovati nella foresta delle strade ma Parigi le conosceva e l’avrebbe intrappolato e immobilizzato e gli avrebbe morso il collo mentre lo costringeva a terra e-


-Grantaire ritornò bruscamente in sé stesso, così velocemente che per poco non cadde. I tatuaggi svanirono, ma il suo battito non accennò a diminuire. Non aveva sentito i tamburi da più di un millennio. La situazione doveva essere davvero disperata se il vecchio mondo riusciva a chiamarlo con così tanta facilità.


Non c’era altra soluzione, allora: doveva scappare. Grantaire afferrò una vecchia valigia e cominciò a riempirla con i suoi pennelli e colori. Non aveva altri vestiti a parte quelli che indossava, e per quanto riguardava le bottiglie disseminate per la stanza, bé, le avrebbe bevute prima di andare via. E una volta che l’avrebbe fatto, nessuno l’avrebbe più trovato. Soprattutto non un gruppetto di giovani uomini dalle buone intenzioni ma senza troppo potere.


Non poteva lasciare i confini della città. Quello, ovviamente, gli era fisicamente impossibile. Ma poteva nascondersi, c’erano una miriade di angoli e crepe sparsi per tutta la città. A dirla tutta, se fosse stato davvero disperato sarebbe potuto andare a bussare alle porte del Palazzo Reale, e il Re non l’avrebbe mandato via una volta vista la sua vera identità. (un immagine della faccia di Enjolras quando l’avrebbe saputo, dipinta di un dolore che non era normale per lui, e no, Grantaire non era così disperato.)


Bussarono alla porta.


O forse lo era, disperato. Grantaire si guardò intorno in preda al panico, e per un solo, isterico attimo, valutò la possibilità di nascondersi sotto al letto.


I colpi alla porta divennero più insistenti, quasi frenetici. Grantaire chiamò a raccolta tutto il suo coraggio e, in una voce di almeno un’ottava più alta per colpa dell’ansia, chiese, «Chi é?»


Sentì un’imprecazione sottovoce e poi Enjolras spalancò la porta di forza. Era senza fiato, con i capelli che gli coprivano il viso, e si immobilizzò non appena vide Grantaire. Per un momento si guardarono l’un l’altro.


«Potresti chiudere la porta?», chiese Grantaire, con una calma esagerata. Forse era tutto un sogno dovuto al fumo dell’incendio. Forse Enjolras non ne avrebbe parlato.


«Tu sei Parigi.»


O forse no.


Era quasi un’accusa. Grantaire non era molto bravo nei confronti faccia a faccia, quindi fece l’unica cosa che sapeva fare quando si trovava all’angolo.


«Non ho idea di cosa tu stia parlando.», ci fu una pausa mentre entrambi cercavano di processare l’enormità di quella bugia. Enjolras lo guardò sbalordito.


«C’é una linea retta tra la tua soffitta e le case bruciate, e tu l’hai percorsa in una manciata di secondi.»


«E’ sempre stata lì, e non é proprio colpa mia se non l’hai mai notata.»


«Attraversa degli edifici.», la porta si chiuse sbattendo e Enjolras cominciò ad avvicinarsi. Grantaire indietreggiò. «Ti ho visto toglierti di dosso dei detriti che avrebbero ucciso un uomo normale.»


«Hai respirato molto fumo e hai anche sbattuto la testa, non é che vuoi che chiamo Joly?», si ritrovò con la schiena attaccata alla scrivania ed Enjolras continuava ad avanzare.


«Hai risposto al tuo nome.»


«L’hai urlato nel bel mezzo della strada e io ero solo stupito. Non puoi incolparmi di essere sorpreso se cominci a blaterare della tua amata Patria quando siamo a un passo dall’essere morti entrambi.»


Enjolras sbatté le mani ai lati di Grantaire, circondandolo e afferrando il tavolo con una stretta terribilmente salda. Il suo viso era a pochi centimetri di distanza da quello di Grantaire, che si inclinò indietro il più possibile, nonostante la tentazione che erano quelle due labbra rosse. Gli occhi del suo Apollo fiammeggiavano e avere tutta quell’attenzione rivolta a lui era terrificante.


«Qual é il tuo nome?»


«…Grantaire.»


«Qual é il tuo nome?»


«Grantaire!»


«Quello é un cognome, qual é il tuo nome di battesimo?», Grantaire divenne di ghiaccio e Enjolras continuò ad incalzarlo. «Come si chiama tuo padre? E qual era il cognome da nubile di tua madre? Dov’é che avevi detto che lavori? Dove sei cresciuto? Perché il tuo accento é così strano? Perché so così poco di te?»


«Perché non mi hai mai chiesto nulla!» scattò Grantaire. «Ti sei reso conto che questa é la più lunga conversazione senza insulti che abbiamo mai avuto? Non sai niente di me perché non te ne é mai importato abbastanza da chiedere!»


Enjolras fece un passo indietro. Prese un respiro profondo, come quando era nel bel mezzo di un dibattito e decideva la miglior risposta da dare, e Grantaire si preparò per un assalto verbale in piena regola, ma il suo Apollo disse solo, «Hai ragione.»


Grantaire lo guardò a bocca aperta, sbalordito.


«Non ho mai chiesto.» Enjolras mise la mano sulle ustioni del braccio di Grantaire, così attento, e Grantaire non sapeva come comportarsi con lui attento. Era passato troppo tempo e non sapeva come reagire ad un tocco gentile, e cercò di divincolarsi, ma Enjolras non si allontanò. Lo fissò dritto negli occhi. «Ma se lo facessi, adesso. Sarei ancora in tempo?»


Grantaire non riusciva a respirare. Il palmo della mano di Enjolras lo infiammava, fin nel profondo.


«Tu sei Parigi?», e non era più tempo delle bugie. Grantaire voltò la testa. Enjolras abbassò la voce, «Non devi dire di sì, se non vuoi.»


«A nessuno é mai importato di cosa volessi io.», continuava a guardare di lato, come se non stesse succedendo nulla. «Le Città… le Città non possono volere delle cose.»


La presa di Enjolras diventò così stretta da essere quasi dolorosa. Grantaire si voltò e lo vide illuminarsi, trionfante, gli occhi scintillanti, bloccato tra il desiderio di chiedere altro a Grantaire e di sorridere. Sarebbe stato meraviglioso, perfetto per un dipinto, se non per il modo in cui Enjolras lo stava guardando; come se non l’avesse mai visto prima di allora. Nelle viscere di Grantaire si fece strada una sensazione orribile. Per fortuna Enjolras si era allontanato, le mani tra i suoi riccioli biondi, e camminava avanti e indietro. Era perfettamente a suo agio, aveva trovato qualcos’altro su cui discutere e ragionare. I suoi occhi blu non lasciarono Grantaire neanche per un istante. «Come abbiamo fatto a non capire? Sei comparso una sera, e sapevi tutte quelle cose di filosofia, e conoscevi la nostra causa, ma nessuno di noi ha mai sospettato, come abbiamo…»


Ah, questo era terreno familiare, per Grantaire. «Come avreste potuto, quando sono così?». Indicò sé stesso senza entusiasmo. «No, penso che le aspettative generali fossero un po’ più alte.»


Enjolras corrugò la fronte, smettendo di camminare per guardarlo seriamente. «Non era affatto quello che intendevo.»


«Non serve che menti, Apollo, ho visto la tua espressione quando hai capito la verità.» Lui aveva fatto la sua confessione, adesso era il turno di Enjolras. «Eri orripilato, vero? Non che non avessi ragione ad esserlo.»


«Ma certo che no. Hai capito male. Non ero orripilato da te, ma da me. Per il modo in cui ti ho trattato. La Città di Parigi si palesa e mi salva la vita e io cosa faccio? La colpisco dritta in faccia!»


«Lo,» disse Grantaire con calma. I tamburi si accesero nella sua testa. Enjolras era confuso. «Lo, non la. Non sono una cosa


«Io-», non aveva mai visto Enjolras così senza parole, e così tante volte nello stesso giorno. Si chiese se sarebbero riusciti a sbloccare la situazione. Cercò di sorridere, anche se in realtà il suo sorriso sembrava di più una smorfia ringhiante.


«Non preoccuparti. Non importa.»


«Certo che importa!», la discussione stava diventando rapidamente strana e scomoda. «Sei Parigi. Di te si sa così poco, e tutto quello che dici, che pensi di te stesso é importantissimo. Questo cambia tutto, tutto quello per cui abbiamo lottato.»


«Enjolras.», i tamburi erano sempre più forti.


«Sei la ragione primaria per cui ho fondato i Les Amis. Sei l’ideale per il quale abbiamo combattuto, per il quale abbiamo cercato di convincere il popolo.»


«Enjolras.»


«Ho sognato di incontrarti, tutto l’abbiamo fatto, ma per me- Io amavo-»


«Non osare dirmelo.» La diga cedette e tutta la sua disperazione ne uscì come un fiume in piena. «Non potrei sopportarlo. Mi hai odiato prima di sapere chi fossi. E potevo anche accettarlo, potevo capirlo. Ma dire che- dire che mi- no- no, non posso, non voglio.»


Enjolras lo stava guardando di nuovo con orrore, e, peggio ancora, con pietà. «Cosa ti é successo? Chi ti ha reso così?»


«Ha! Nessuno,» e si voltò. Gli serviva qualcosa da bere, gli serviva disperatamente. Enjolras era troppo vicino, la sua presenza gli inondava i sensi e stava diventando difficile distinguersi, Città e cittadino. Grantaire prese una bottiglia mezza vuota e bevve. «E tutti, credo.»


Bevve a lungo, e quella parte di lui che aveva l’anima malata e corrotta (le puttane e i poveracci e i ladri) si beava dell’espressione sul viso del suo Apollo. Enjolras se ne stava lì, i capelli circondati di luce come un’aureola e Grantaire voleva soltanto afferrarlo, tirarlo giù da quel suo piedistallo e…


«Non posso farne a meno. Voglio aiutarti.»


«Non ho bisogno di essere salvato da nessuno.», e l’alcool la faceva sembrare una frase facile da dire.


«Ovviamente.», il sarcasmo era uno sbaglio, Enjolras se ne rese conto nel momento stesso in cui lo disse. Gli occhi di Grantaire divennero immediatamente di un blu ghiaccio, piatto, mortale (se ne era dimenticato da tempo, ma anche lui era stato capace di essere terribile, una volta).


«Fuori.»


«Grantaire-»


«Questo non cambia niente, perché in tutti il tempo che ho passato ad ascoltarti, non c’é stata una singola volta in cui sono stato d’accordo con te. O te ne sei dimenticato?» Stava rovinando tutto, e lo sapeva. Il marmo di Apollo si stava crepando, rivelando un uomo dal cuore ferito. «Adesso fuori.»


Ed Enjolras se ne andò.


Grantaire radunò le sue bottiglie e bevve, bevve e bevve finché le catacombe dentro la sua anima furono piene, e poi bevve ancora, finché quell’acqua sporca non si chiuse sopra la sua testa.












Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo

In questo capitolo, Grantaire sente per la prima volta i tamburi. Il concetto dei tamburi é terribilmente affascinante, perché é così geniale che lascia senza parole ogni volta: le Città nascono quando le persone si sentono a casa dentro le loro mura (in realtà é un processo preciso che é spiegato sul tumblr dell'autrice). Sono composte da strati e strati di civilizzazioni diverse, e quelle più antiche, come Londra, Parigi, Roma, e tra le altre italiane anche Torino e Napoli e tutte le città che già prosperavano durante l'impero romano, hanno ancora nel profondo un'idea di paganesimo. E per quelle Celtiche, allora il segno tangibile sono i tatuaggi, che accomunano Parigi, Londra, Edimburgo, Glasgow, almeno nel canon. E insieme a quello ci sono i tamburi, che chiamano alla battaglia e alla guerra: Parigi sente i tamburi celtici, perché sono il primo suono che ha associato al combattimento. L'autrice ha spiegato che le città più giovani, fondate nell'Ottocento, per esempio, sentono i cannoni, o alcune addirittura il fischio dei bombardamenti delle Guerre Mondiali. Ma tutte le Città sentono la guerra, anche se in mondo diverso. Scusate il papiro, ma questo worldbuilding, mioddio.

Per questo capitolo, la traduzione é di barricadeuse e il betaggio di piuma_rosaEbianca. Abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 13  marzo.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.



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Capitolo 7
*** Chapter 7 ***


Enjolras non aveva visto Grantaire per due giorni.


Aveva continuato a piovere per tutto il tempo.


Dopo che Parigi- Grantaire- Parigi lo aveva mandato via, Enjolras era tornato alle case bruciate e aveva cercato qualcosa da fare per distrarsi. Il fuoco si era spento da diverso tempo, le vittime erano state medicate e mandate da persone care che se ne prendessero cura, perché i dottori erano troppo costosi. (Joly aveva promesso di fare visita a più persone possibili)


Di norma sarebbe stato abbastanza per farlo agitare, parlare dell'attenzione per i malati e l'ovvia mancanza di preoccupazione per l'argomento, ma era stata una giornata lunga e non solo per lui. Così Enjolras aveva disdetto l'incontro per quella sera, consapevole che molti di loro avevano visto qualcuno morire, quel giorno (un buon allenamento, aveva notato una parte impassibile di lui, devono abituarcisi). Le facce dei Les Amis andarono dal grato al sorpreso e lui sentì uno spasmo; era davvero sembrato così spietato? (Pensò al blu infinito degli occhi di Grantaire e pensò che forse avevano ragione.)


Era stato distratto da allora, bloccato in una nebbia mentale fatta di confusione e dubbi. Enjolras non era una persona insicura, molto raramente aveva incertezze su cosa faceva o provava, ma quello era prima che il suo mondo venisse capovolto e la sua Patria si rivelasse come un ubriacone che non sopportava giovani ricchi che pensavano di giocare.


Eppure non riusciva ad arrabbiarsi, o perfino a sconvolgersi per quell'uomo- la Città. Grantaire non si era fatto più vedere dall'incendio, eppure la testa di Enjolras scattava speranzosa ogni volta che qualcuno saliva le scale. Era ovvio per gli altri che c'era qualcosa che non andava. Combeferre lo aveva messo alle strette la sera prima.


("Tu e Grantaire avete litigato?"

"Cosa te lo fa pensare?"

"Non si è fatto vedere, e non perde mai un incontro quando sa che sei tu a parlare.")


Sì, era vero. Enjolras lo aveva notato. Grantaire non era una persona proprio facile da ignorare, ed era stato sempre chiaro come la pensava sulla rivoluzione. (Non sono mai stato d'accordo con te!) Così perché era tornato, giorno dopo giorno? Non era così crudele da divertirsi nel vederli combattere per la libertà. E di nuovo, cosa sapeva di lui? Non gli aveva mai nemmeno chiesto il suo nome di battesimo, per l'amor del Cielo!


("Dimmi; cosa ne pensi di Grantaire?"


"Ah," l'amico sembrava stranamente compiaciuto. Combeferre cancellò il suo sorriso dalla faccia quando si accorse che Enjolras era sinceramente stressato. "Penso che possa essere fantastico, quando vuole. Dopo tutto è l'unico che è riuscito a tenerti testa."


"Sì, l'ho notato." La sua parte insicura si stava svegliando di nuovo, rendendogli difficile parlare. "Ma era sempre ubriaco quando lo faceva, non ho mai pensato che fosse serio."


"Io non ho mai avuto l'impressione che non lo fosse." Enjolras si ritirò leggermente e Combeferre gli posò una mano sulla spalla. "Credo che ti stia concentrando troppo su come vorresti che fosse e non vedi i valori che ha già." E lo lasciò solo.)


Era ormai il terzo giorno che Grantaire non si faceva vedere. Enjolras non aveva dormito, rimanendo sveglio ben oltre l'alba, anche se era difficile da dire. Il sole non riusciva a oltrepassare la tetra coltre di nubi che copriva il cielo. Parigi era bloccata in un crepuscolo angosciante ed era tutta colpa della sua follia. Non riusciva ad evitarsi di ripensare ad ogni critica che Grantaire gli avesse mai mosso. (Per qualche ragione riusciva a ricordarsele tutte perfettamente).


Era difficile concentrarsi, anche durante gli incontri, quando tutto quello a cui riusciva a pensare erano le parole di Grantaire che gli venivano urlate addosso a ripetizione, come chiodi che gli trapassavano i pensieri. Il modo in cui i suoi riccioli scuri gli avevano coperto il volto quando si era rifiutato di guardarlo. Semplicemente- un milione di piccole cose- il gracchiare della sua voce quando aveva ringhiato il nome di Enjolras-


"Enjolras."


Grantaire non lo aveva mai chiamato così. Sempre e solo Apollo o qualche altra figura.


"Enjolras."


Qualcosa tratto dalla storia, una storia che aveva vissuto. Faceva male sapere che Grantaire aveva tirato fuori figure dal suo passato per prendere in giro Enjolras. Che gli avesse sventolato la verità sotto il naso, sapendo che non avrebbe mai indovinato?


"Enjolras!" Il biondo tornò al presente in uno scatto. Era seduto a un tavolo nel café, con i Les Amis che lo fissavano in attesa. Stavano discutendo di qualcosa e lui aveva perso completamente il filo del discorso. Imbarazzante.


Nel tentativo di salvarsi la faccia, disse velocemente "Sì, sono d'accordo." I Les Amis gli lanciarono occhiate stupite.


"Sei d'accordo con me?" Marius era completamente sconvolto.


"Cosa? Aspetta, parlavi ancora di Napoleone? No." La pioggia scendeva lungo la finestra, implorando di entrare. Enjolras chiuse gli occhi. "Va bene. E' ridicolo. Mi dispiace amici, ma devo andarmene."


"Cosa?" risposero diverse voci confuse.


"E' tutto a posto, non stavamo comunque facendo niente." Combeferre sembrava sollevato. Enjolras annuì e uscì. I Les Amis lo guardarono andarsene.


"Cosa?" disse Joly, come se ripetere la domanda avrebbe potuto rendere le cose più chiare.


"Beh, era ora," disse Courfeyrac, soddisfatto. Al suo fianco, Jehan annuì mentre intrecciava distrattamente altri fiori con i suoi capelli.


"Spero che lui e Grantaire risolvano tutto."


"Vi sentite mai come se non capiste qualcosa?" si lamentò Bossuet.


La pioggia diventò una tempesta.


Enjolras avanzò, sbattendo gli occhi per l'acqua che gli incollava i capelli alla testa. Pesanti nuvole grigie avevano chiuso il cielo come una tomba. L'intera Parigi sembrava piegarsi e tremare sotto la pioggia scrosciante che la sommergeva e tingeva tutto di grigio, rendendo difficile vedere. Era come se Parigi si stesse nascondendo da lui. E forse era così.


Aveva controllato l'attico di Grantaire (la sua valigia era ancora lì, la sua valigia era ancora lì) e i posti dove andava di solito, ma non l'aveva trovato. Probabilmente era fuori, quindi, e il pensiero riempiva Enjolras di terrore. Le Città non potevano ammalarsi se non per malattie che colpivano il cuore o la mente. La peste le aveva infettate quasi tutte a causa del dolore per tutti quei figli morenti.


Le strade di Parigi stavano piangendo.


Enjolras si guardò intorno lentamente. Poteva sentirle. Le case gemevano e la pioggia gorgogliava nei canali di scolo. Osservò la pioggia scorrere giù per le strade e... no, aspetta. L'acqua non stava andando verso il basso ma di lato, riversandosi in un vicolo pericolante. Enjolras guardò in alto e vide le case oscillare e inclinarsi ai lati, coprendo la stradina dal vento.


Protettive.


Enjolras corse in avanti. L'acqua si sollevava in spruzzi intorno ai suoi stivali mentre si insinuava nel vicolo. Sembrava che tutta la pioggia ristagnasse lì, quasi alta fino alle ginocchia nello scorrere verso l'imboccatura della strada, verso il passaggio che portava alle catacombe. E sull'orlo stava Grantaire.


"Grantaire!" Lo trascinò lontano da quella voragine oscura. Grantaire era privo di sensi, la sua testa scura che ciondolava all'indietro contro Enjolras. Poteva sentire quanto la Città fosse fredda anche attraverso i vestiti. La stessa paura che aveva sentito quando Grantaire era scomparso sotto la casa bruciata lo attanagliò. A Grantaire piaceva bere, ma mai fino a perdere conoscenza. Anche al suo peggio era sempre capace di camminare e parlare (o canzonare).


Non poteva chiamare Joly, non senza dover rispondere a un sacco di domande scomode. Quindi riportò Grantaire al suo appartamento. Non fu facile, dato che quell'ubriacone era più alto di lui. Quando arrivarono, entrambi stavano tremando per il freddo. Il buon senso superò il suo imbarazzo ed Enjolras liberò Grantaire da tutti i vestiti tranne i pantaloni e lo mise nella vasca da bagno, facendo avanti e indietro con secchi di acqua calda finché non fu sommerso fino al collo.


Conscio del fatto che le sue mani stavano diventato blu, Enjolras si mise qualcosa di asciutto addosso e camminò per l'appartamento, aspettando che Grantaire si svegliasse. Non voleva sedersi al suo fianco; non era un invalido. Comunque, era difficile impedire ai suoi occhi si posarsi su di lui.


Parigi... non era bello.


Era difficile da ammettere, specialmente dopo anni passati a sognare (oh dio, quei sogni!) ma Grantaire non era proprio una bellezza. Aveva capito dai commenti che la gente faceva su di lui che lineamenti delicati erano considerati più attraenti. Grantaire sembrava un pugile, robusto e squadrato con muscoli ben definiti. Enjolras sobbalzò quando si rese conto che la forza delle sue braccia era quello che rimaneva degli eserciti francesi. Le spalle di Grantaire una volta si erano allargate e rafforzate per sorreggere l'esercito di Napoleone.


Aveva pensato che le nocche rovinate di Grantaire fossero per colpa di risse fra ubriachi, ma adesso che era mezzo nudo poteva vedere che il danno era ben più esteso. Probabilmente Grantaire era stato in più battaglie di quante Enjolras potesse nominare; e si vedeva. Le cicatrici che gli attraversavano la schiena erano la parte peggiore. C'era una macchia di pelle scolorita sul suo fianco, e sottili, profonde ferite che gli costellavano il petto. C'era anche... anche... qualcosa che faceva capolino dal pezzo di stoffa legato intorno al collo. Con un terribile presentimento Enjolras lo sciolse. E lì, quasi troppo sottile per essere vista, una linea rossa circondava interamente il collo di Grantaire. Era sottile e precisa, il taglio efficiente di una ghigliottina.


Enjolras ricadde a sedere. "E io che ti ho raccontato di Robespierre."


Nonostante tutto, l'espressione di Grantaire era pacifica. Molto espressiva. Gli era utile quando parlava, piegandosi in smorfie o ghigno per sottolineare le sue argomentazioni. Accompagnata dai suoi riccioli scuri e i suoi occhi blu, Grantaire sarebbe potuto essere bello, se non fosse stato per l'espressione disperata che portava fin troppo spesso e che donava così poco alla sua faccia. Ma chi era lui per giudicare? Qualcuno aveva reso Parigi il cinico che era.


Solo in quel momento si rese conto di aver osservato qualcuno che era poco più di uno sconosciuto, considerando quanto poco sapeva di lui. Aveva iniziato ad allontanarsi quando gli occhi di Grantaire si aprirono. I loro sguardi si incrociarono.


La pioggia si fermò.


Enjolras espirò lentamente, senza osare muoversi. Grantaire si sollevò, piccole gocce d'acqua tremarono sui suoi polpastrelli nell'accarezzare le guance marmoree di Enjolras. Alla fine il biondo non ne poté più. "Grantaire?"


Avrebbe potuto urlarlo per la reazione che ottenne. Grantaire ricadde all'indietro, quasi scivolando sott'acqua nel rovesciarla oltre i lati della vasca. "Sei davvero qui?!"


"Ovvio che ci sono! Che pensavi?"


"Pensavo di star sognando." Si guardò intorno disorientato, non avendo mai visto casa di Enjolras dall'interno. "Cosa ci fai- facciamo- qui?"


"Ti ho trovato sotto la pioggia. Ero preoccupato."


"Preoccupato? Mi chiedo se per me o per Parigi."


"Non potrebbe essere per entrambi?" disse Enjolras sulla difensiva. Non lo avrebbe di certo lasciato a sé stesso se non fosse stato una Città. Non era crudele. Ci fu una pausa imbarazzante. Grantaire controllò di stare bene, arricciando le dita dei piedi e delle mani per assicurarsi che nessuna fosse danneggiata. Era sempre doloroso quando venivano congelate o cose del genere, doveva staccarsele prima che potessero ricrescere. Enjolras lo guardò in silenzio. "Stai bene?"


"Starei meglio con qualcosa da bere," disse Grantaire. Enjolras fece una smorfia.


"Pensi davvero che dovresti?"


Per un secondo, dei segni verdi e blu strisciarono lungo il torso di Grantaire, circondandogli il collo come un serpente prima di scendere lungo la sua schiena e sparire.


"In questo momento, un vecchio è caduto in acqua. Suo figlio si é tuffato dietro di lui. Nessuno dei due sa nuotare; posso sentirli affogare." Grantaire aveva parlato con voce terribile, piatta, senza mai spostare lo sguardo da quello di Enjolras. "Delle quattordici prostitute che lavorano al porto, solo nove sopravviveranno all'inverno. Il protettore di una sta progettando di ucciderla. Un'altra ha del nero nei polmoni, posso sentirlo soffocarmi. Il freddo si prenderà le altre. Nelle case dietro di loro, tre diverse famiglie stanno morendo di fame. Dietro, un bambino è appena morto nella sua culla, anche se la madre ancora non se n'è accorta. Quando lo farà, non riuscirò a dormire per il dolore. Nelle strade ci sono mendicanti che non riescono a ricordare cosa sia il calore. Ed ho descritto solo i primi tre isolati qui intorno, mentre posso sentirli tutti. I bassifondi di Parigi sono nella mia testa. Quindi, mio caro Apollo, dimmi un po' se sarebbe meglio che bevessi o meno."


Enjolras gli passò una bottiglia.


X


Rimasero in silenzio per un po'. Il sole era uscito e riempiva di luce l'appartamento. Si rifletteva sulle ciglia dorate di Enjolras e sui suoi zigomi, facendolo sembrare un angelo. Grantaire si sforzò di non guardarlo, strizzando pigramente l'acqua dai propri capelli. Alcune gocce di sangue affiorarono sulla superficie dell'acqua.


"Stai bene?" chiese Enjolras alla fine.


"Sto bene, Apollo. Fluctuat nec mergitu. Battuta dai flutti ma non affonda." citò il motto di Parigi quasi senza sarcasmo. Era ancora pieno di rabbia, un sentimento così umano da farlo sentire più vulnerabile del solito.


"Sono Grantaire." disse, alla fine, cercando di risolvere la cosa. Le parole gli vennero veloci e amare. "Devi capirlo, Apollo. Posso anche essere una Città, ma non sono l'ideale che ti sei immaginato. Immagino sia il problema del non farsi vedere per secoli, dà alla gente il tempo di sperare in qualcosa. Non tutti possiamo essere di marmo, caro Apollo. Sono Parigi, ma non la tua Parigi perfetta."


"E io non sono Apollo!" Grantaire sobbalzò. Enjolras era arrossito, ma non sembrava imbarazzato per aver alzato la voce. Intrecciò le dita e corrugò le sopracciglia. "Non sono l'unico ad aver sopravvalutato qualcuno. Sai che mi hai chiamato con il mio vero nome solo quando ti sei arrabbiato?"


Grantaire scivolò un po' più a fondo nella vasca. Apol- Enjolras aveva ragione, come sempre. Ma non riusciva davvero a smettere di vederlo come rivestito di luce dorata. E forse era un po' ingiusto chiedergli di smettere di vederlo come Parigi. (Non potrebbe essere per entrambi, aveva detto. Era davvero possibile?) Non avrebbe mai pensato, di norma, ma l'acqua fredda aveva ridotto il fuoco che gli bruciava dentro a un pulsare leggero. Si strofinò il petto e si accorse che era il suo cuore. Quel vecchio cuore traditore, che sbatteva le proprie ali contro le sue costole nel tentativo di volare verso Enjolras. Vecchio sciocco.


"Sembra che abbiamo torto entrambi." disse, in fine, il suo cuore che ancora scalpitava per gli occhi di Enjolras su di sé. Avrebbe dovuto tagliargli le ali decenni prima; pensava di averlo fatto.


"Non sono Apollo. Sono umano, faccio errori e posso sbagliarmi. E mi sono sbagliato. Non volevo farti del male e mi dispiace." Enjolras sapeva che si sarebbe fatto trascinare, e, nonostante litigassero molto spesso, non aveva mai desiderato fargli del male.


"Dispiace anche a me, di non essere ciò che ti aspettavi." A quante persone aveva fatto le stesse scuse nei secoli dopo Jeanne? Ogni volta che trovavano un uomo triste che voleva solo rimanere solo. Molti se ne erano andati disgustati. Eppure Enjolras era lì, e conosceva i difetti di Grantaire meglio di chiunque altro. "Eri deluso."


"No!" Enjolras esplose con improvvisa ferocia. "Ero scioccato e preoccupato e confuso ma mai, mai deluso. Non lo dire neanche per scherzo!" Si passò una mano fra i capelli. "Pensavo di essere stato io a deluderti. Non sono riuscito a dormire pensando che tu potessi odiarmi."


"Odiarti?" Grantaire riuscì perfino a ridere. Non sapeva? Come poteva non sapere? "Non potrei mai odiarti, Enjolras."


I capelli del suo Apollo si erano asciugati, adesso, e gli circondavano la testa come un'aureola. Ma non sembrava un angelo; lo guardava da pari a pari, e in qualche modo era perfino più difficile da sopportare. Il suo sguardo era luce pura, scivolava attraverso le sue costole, attraversando le catacombe dove qualcosa ancora sopravviveva. L'acqua si ritirò e Grantaire riuscì a respirare liberamente, come non faceva da anni.


"Mi ricordi quello che volevo essere."


Enjolras sbatté gli occhi, perplesso, e Grantaire si rannicchiò su sé stesso. Era ovvio che non riuscisse ad immaginarsi Grantaire diverso dall'ubriacone che gli era sempre sembrato.


"E' per questo che sei scappato?" Enjolras si fermò, assottigliando le labbra. "O sei scappato a causa mia? Sarebbe stato lo stesso se l'avesse scoperto chiunque altro?"


"Probabilmente no." ammise. Avrebbe potuto ragionare con gli altri, fino a un certo limite. Loro non parlavano costantemente di Parigi. "Ma è colpa mia, non tua. Non è facile per un cinico ricordarsi di ciò che ha perso." Gli venne una cosa in mente. "Non lo hai detto agli altri, vero?!"


"No. No, lo lascio a te."


"Grazie." Grantaire si tranquillizzò. "Non è che non mi fidi di voi. E' solo che qualcuno potrebbe emozionarsi un po' troppo, o distrarsi, basterebbe una sola parola per avere le guardie addosso."


"Non ti useremmo mai in questo modo," disse Enjolras. "Non se tu non lo volessi. Sei prima di tutto nostro amico, lo sai."


Lo so davvero? Scacciò quel pensiero. I Les Amis gli avevano dato una casa, non c'era alcun motivo di dubitare di loro. "Be', non importa poi molto. Adesso che avete così tanti sostenitori per la vostra rivoluzione, non avete più bisogno di me."


"Cosa?" Enjolras si sollevò di scatto. "Non hai intenzione di tornare?"


"Io- no. Pensavo fosse ovvio. Non sarebbe difficile per te avermi lì?"


"Ovviamente no."


"Ma ho sempre interrotto ogni incontro. Adesso che sai che sono... sono Parigi... sicuramente ti darei solo fastidio."


"Se mi facessi infastidire così facilmente non sarei degno di stare a capo di questa rivoluzione. Contrariamente a ciò che pensi, mi hai sempre aiutato dandomi qualcosa contro cui combattere e," esitò, i ricordi dei loro litigi ancora freschi. "E se davvero riusciremo a cambiare la Francia, vorrei che tu fossi presente, consapevole. Sembra che ti siano successe diverse cose che non hai, forse, consentito interamente."


"Se la vuoi mettere su questo piano." disse Grantaire, sarcastico. "Non voglio essere salvato, Enjolras."


"Se fosse vero, allora perché sei venuto?"


Grantaire aveva la gola secca e gli occhi stanchi. "Immagino di aver sperato che poteste convincermene."

 


Enjolras si avvicinò, ma Grantaire era ancora sott'acqua. Lasciò che la sua mano sfiorasse la superficie mentre quella di Grantaire galleggiava al di sotto. Rimasero ferme l'una sull'altra, i polpastrelli che si toccavano, come se fossero l'una il riflesso dell'altra. Nessuno dei due osò attraversare lo barriera d'acqua che li separava.

 

 

 


 

 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Per questo capitolo, la traduzione é di piuma_rosaEbianca e il betaggio di barricadeuse, Abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 20  marzo.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.

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Capitolo 8
*** Chapter 8 ***


PB 8

Grantaire passò i giorni seguenti da solo, ma non senza fare conversazione. Le sue lettere a Lisbona e a Londra erano state il primo passo, e adesso arrivavano da ogni dove. Le Città erano impazienti di parlare di nuovo con lui, adesso che era uscito dal suo esilio volontario.


Aveva scritto a Lisbona, chiedendo educatamente da dove avessero sentito che era di nuovo pronto a riallacciare i rapporti, visto che lui certamente non ne aveva mai parlato. La risposta di lei fu abbastanza dolce da rovinargli i denti.


Non devi preoccuparti, caro, l’ho deciso io al posto tuo.

Per favore, cerca di vedere la cosa dal nostro punto di vista. Ti rinchiudi in te stesso, e tutto quello che sappiamo noi é che i Francesi cominciano di punto in bianco ad uccidersi l’un l’altro, e quando si fermano é solo per conquistare un impero in tutta Europa. E dopo che tutto quel disastro é finito, tu ci scrivi di nuovo, dicendo che ti sei innamorato di un essere umano, senza menzionare neanche di sfuggita la guerra, e poi cerchi di scivolare di nuovo nell’ombra. O sei la persona più ingenua che esista, o hai deciso di prendere tutto come un gioco. Se pensi davvero che non cercheremo di parlare con te allora sei stato via per troppo tempo. E’ ora che ti riunisca alla società civile.


Bé, almeno si era un po’ calmata, rispetto alla sua prima lettera. Tutto il Portogallo aveva sofferto sotto Napoleone. Probabilmente l’unico motivo per cui era rimasta così tranquilla era il fatto che non si era fatto vedere al fianco dell’Imperatore. Gliene era grato (anche lei era un Impero, pur se decadente, e capiva bene che le azioni degli umani non erano colpa delle Città). Ma in qualunque caso, a Grantaire non andava bene l’essere trascinato fuori dal suo silenzio da chi si presentava come un’attenta sorella maggiore.


E lo disse nella sua lettera successiva, una lamentela che spedì ad Edimburgo. Erano stati compagni di bevute per secoli, e forse si sarebbe dovuto aspettare la sua allegra risposta.


Scrivi a Londra prima di scrivere a me? Ma ti sembra possibile? Ti sei dimenticato l’Alleanza di Auld? E tutti quegli anni che ho passato ad ascoltare le tue ubriacature tristi, e adesso mi metti da parte per quella biondina. Sono sconvolto, Parigi, sconvolto. Arrabbiato, anche. Quand’é che ritorni a bere con noi, vecchio bastardo? Ignora l’ultima parte, Glasgow mi ha di nuovo rubato il pennino.


La cosa meravigliosa di Edimburgo, che ancora portava i capelli lunghi, un fiume rosso che gli scendeva sulla schiena, era che conosceva Parigi. Sapeva cosa importava a Parigi, e quindi quando Grantaire aggiunse, alla fine della lettera «società civile? Non ho nessun interesse nell’apparire al mio Re», Edimburgo si concentrò proprio su quello.


Ecco cosa ti preoccupa, allora. Nessuno si aspetta che ti mostri a corte. Lisbona ha parlato di società civile, non di Re, anche se a volte ci provano sempre. Ti sei perso tante cose. I Re non sono così in voga come lo erano un tempo. Persino Londra li trova noiosi. Aye, adesso le piacciono i militari. Grazie, Glasgow. Ma per l’amor di Dio non chiederle niente a riguardo a meno che tu non voglia perdere qualche dente.


Ora, detesto dirlo, ma Lisbona ha ragione. Sei scomparso una volta e tutta l’Europa é diventata un inferno. Le Città sono gente superstiziosa. Se lo fai ancora, potrebbero attaccarti, pensando che stai covando un altro Napoleone. E poi, cosa c’é di così male nel parlarci? Puoi dire tutto quello che vuoi sulle politiche e i tradimenti, ma quando ci si ritrova tra Città é sempre una maledetta bella festa. Te ne sei perse alcune niente male. Non ti dico neanche cosa ha fatto Berlino una volta, nel caso qualcuno trovi questa lettera.


In qualunque caso, per quanto mi riguarda, me ne devi una. Sai com’é essere bloccato su quest’isola con Londra che si avvia a diventare un Impero? Lei e Lisbona hanno cominciato a passarsi segreti, e fa quella risata da strega che odio tutte le volte che mi vede. Non ti sto chiedendo di avvolgerti in un tricolore e danzare davanti al tuo dannato Re, ma almeno mostra un po’ di solidarietà. Con chi dovrei andare a bere, secondo te? Con chi dovrei lamentarmi? Vieni una volta a fare una bevuta con noi, come ai vecchi tempi.


Tuo, Edimburgo.

P.S. Ho sentito delle voci interessanti su te e un umano. Penso siano false, perché so che non sei così tanto idiota. A meno che tu non lo sia. Lo sei??


Grantaire roteò gli occhi. La lettera di Edimburgo era stata la prima ad arrivare, ma ancora non aveva scritto una risposta. Più che altro perché non sapeva cosa dire. Gli era mancato il suo amico, ovviamente. Ma non ci si poteva disfare di anni di depressione e alcolismo in un batter d’occhio, nemmeno una Città ne era in grado. E dopo essere apparso assieme a un paio di Città, la notizia sarebbe arrivata alla corte francese, anche se la sua ricerca si era un po’ spenta, nel corso degli anni.


Ma non c’era nessun motivo per cui non potesse scrivere agli altri, o no? Era una cosa abbastanza innocua, e la corte non ne avrebbe saputo niente. Una delle leggi delle Città era che meno gli umani sapevano delle loro vie di comunicazione, meglio era. Una Città doveva avere una parte di sé stessa che fosse solo ed esclusivamente sua, dopo tutto.


Quella era una delle ragioni per le quali aveva scritto a diverse Città, soprattutto alle più vecchie, quelle con più esperienza, in tutta Europa. Con i consigli di Lisbona e di Edimburgo in mente, le salutava come chi cerca di rientrare in società, parlava di nulla, e poi, casualmente, quasi per scherzo, diceva che non potevano incolparlo se era distratto da un umano. Non che lo fosse, oh no, ma se anche fosse successo?


Non era forse la sua strategia migliore, ma era davvero disperato, a questo punto. L’Apollo dei suoi sogni era stato sostituito da Enjolras, il caldo, umano Enjolras, che si tuffava nell’acqua per prendere la mano di Grantaire e riportarlo alla luce della superficie. La mano nella sua, così calda…


Si stava distraendo. E le risposte continuavano ad arrivare, un fiume che non sembrava fermarsi.


Le altre Città francesi, i suoi fratelli e le sue sorelle, non avevano proprio capito il punto. Lione semplicemente gli dava il bentornato. Tolosa pretendeva che andasse a fargli visita, «E ricordati di portare qualcosa da mangiare», perché a quanto pare si era dimenticato che la rivoluzione aveva abolito le province e non era più la Capitale dell’Occitania, nonostante quello che ancora gli piaceva credere (tamburi, tamburi nella sua testa). Anche Rouen aveva mandato una lettera, ma come al solito era finita nel fuoco ancora prima di essere aperta.


Solo Bordeaux aveva davvero compreso la sua paura. Si era risvegliata dal suo perenne sonno alcolico per rispondergli, e gli aveva anche mandato una bottiglia del suo miglior vino (persino Grantaire pensava che bevesse davvero troppo, e del resto se la chiamavano la Bella Addormentata un motivo c’era). Ma l’unico consiglio che gli dava era, «dal modo in cui scrivi, sembri disperato. Fate sesso e problema risolto», che non era esattamente d’aiuto, soprattuto quando cercava di concentrarsi e pensare.


I problemi vennero dalle Città fuori dalla Francia.


San Pietroburgo era più giovane delle altre Città, e ancora bizzarramente innocente rispetto a quello a cui lui era abituato (ma era diventata Capitale da poco). C’era solo una domanda che continuava a ripetere, «Cosa ti passava per la testa?», preoccupandosene quasi come una bambina. Il che era comprensibile, visto che era cresciuta col Generale Inverno alle sue spalle, e tutti si preoccupavano del suo caratteraccio. Dal momento che non era stato presente durante il suo Impero, e ancora meno per l’invasione della Russia, non poteva risponderle. E per la parte sull’umano, aveva semplicemente scritto


«Non credevo nemmeno fosse possibile. Non dico che gli umani sono inferiori, ma siamo così diversi. Avevo pensato fossimo incompatibili. Non lo siamo?» Il suo tono esitante lo fece sorridere. Anche se la lettera gli era inutile per risolvere i suoi problemi, Grantaire decise di tenerla lo stesso, legata con un nastro di velluto insieme a tante altre, nel cassetto della sua scrivania. Sarebbe stato dolce rileggerla dopo qualche tempo, nostalgico, quando San Pietroburgo sarebbe diventata un po’ più cosciente del mondo attorno a lei, come le altre Città.


(all’alba del Ventunesimo Secolo, quella lettera sarà trovata da qualcun altro. Mosca sederà in questa stanza sporca e ricorderà sua sorella, e la sua innocenza. Leggerà l’inchiostro sbiadito finché i suoi non diventeranno appannati dalle lacrime, e rimpiangerà- e rimpiangerà- e rimpiangerà-)

Madrid aveva lo stesso tono di Lisbona nella sua prima lettera. Non si preoccupava neanche di rivolgersi a lui nel modo giusto. L’inchiostro era a chiazze, le parole disordinate nelle pagine.


Immagina svegliarsi con Lisbona che sfonda la porta delle tue stanze annunciando che c’é una crisi a Parigi. Ero mezzo svestito, che correvo per il cortile cercando disperatamente di radunare un esercito per fronteggiare una nuova invasione quando scopro, un bel po’ di tempo dopo, che lei intendeva una crisi di cuore.


Se tutto quello di cui ti preoccupi é una piccola infatuazione, bé, aspetta, ma sei almeno in Francia al momento? Lascia stare. Non mi sorprenderebbe. Sembra davvero che tu ti sia perso alcune cose importanti. Se fossi stato un’altra Città, ti avrei detto di smetterla di farne un dramma: un’infatuazione può essere soddisfatta, o può passare in fretta.


A meno che, ovviamente, non si parli d’amore. Può essere meraviglioso: tra due umani o tra due Città, ma non ci si dovrebbe mai mischiare. Se fossi un’altra Città, ti direi di lasciar perdere quell’umano subito. Ma sto parlando con te. Fallo. Soffri. Potrebbe farti diventare un uomo migliore.


Non l’aveva neanche firmata.


Grantaire non ne era poi troppo sorpreso. Anche se Madrid non fosse stato arrabbiato per la guerra, restava comunque il peggior tipo di romantico, quel tipo che vedeva la bellezza non solo nel creare, ma anche nel distruggere. Senza dubbio, il suo amante era morto in battaglia, e quello era il motivo delle sue parole dure, ma in qualunque caso lui o lei non sarebbero vissuti troppo più a lungo.


Madrid aveva una passione per i sognatori, gli artisti e i poeti, ma non quelli famosi, o meglio, non ancora. Li trovava quando erano ancora timidi ed esitanti e li prendeva per mano, facendoli entrare nella sua vita e nel suo letto finché non sbocciavano. E una volta che la loro arte aveva raggiunto il suo picco, se ne andava. Perché se la loro delizia era stupenda, la loro disperazione faceva loro raggiungere le vette più alte.


Da quando Lisbona l’aveva tradito, era stata l’arte il vero amore di Madrid, e gli umani erano solo il mezzo per raggiungerla (quanti lo sognavano ancora, di notte, quando lui aveva già dimenticato da tempo i loro nomi?). Si circondava con attenzione di un circolo di creazione e distruzione, e la guerra lo aveva interrotto. Per forza era così indisposto.


Ma aveva comunque dato il suo consiglio. Era più di quanto Grantaire si aspettasse. Vienna, Budapest e quasi tutte le Città italiane erano rimaste in silenzio. Le Città cercavano di non giudicarsi l’un l’altra per quello che facevano i loro umani. Il diventare un Impero era considerata un’inevitabilità. Era così per tutte le Città, nel passato o nel prossimo futuro. Il trucco era solo sopravviverci.


La colpa che le accumulava tutte di solito significava che, dopo che tutto era finito, c’era un certo grado di comprensione. Le Città spesso diventavano ancora più vicine, dopo aver condiviso questo tipo di esperienza. Lui di certo capiva molto di più Lisbona e Madrid di quanto non l’avesse fatto per secoli. E di solito aiutava anche il fatto che la Città attaccante imparava sempre qualcosa dal suo fallimento (Grantaire si chiese se, ignorando quel pezzo della sua Storia, non si fosse perso qualcosa. Forse sarebbe riuscito a capire meglio i Les Amis se non avesse lasciato andare giù dentro a una bottiglia tutti quegli anni). Ma era difficile quando le ferite non erano ancora diventate cicatrici. Tutte cercavano di accettare quello che era successo e andare avanti, il galateo del vecchio mondo aveva le sue regole, la civiltà aveva domato la ferocia da molto tempo, ma era… difficile.


Le Città che non avevano avuto così tanto a che fare con Napoleone erano molto più generose, nelle loro lettere. Soprattutto Berlino, che ancora cavalcava l’onda della sua vittoria e dell’Impero di Prussia (il giovane soldato ancora credeva nella gloria della battaglia. Grantaire non sapeva se trovava la cosa divertente o deprimente o terrificante), gli mandò alcune lunghe lettere.


Dal momento che Grantaire lo chiedeva con insistenza, Berlino gli raccontò le battaglie e i giochi politici che si era perso, anche se in un modo che comprendeva meno vanterie e più dettagli oggettivi, di cui Grantaire era molto grato. Madrid aveva ragione, aveva perso molto.


Tra l’altro, in molte lettere Berlino chiedeva di una delle Città inglesi. Qualcuno chiamato Portsmouth. Grantaire non poteva aiutarlo, non sapeva molto di quel tipo, se non che era un esperto marinaio e che si era presentato a tutte le battaglie degli ultimi secoli. E non capiva che interesse avesse potuto avere Berlino in un altro ragazzo che aveva la sua stessa sete di sangue e la stessa passione per-


Oh. Oh, per l’amor del cielo. Era la persona peggiore, per questo genere di cose. Non era nato per fare il Cupido. A quanto sembrava, le altre Città inglesi avevano interrotto ogni tipo di comunicazione tra i due, perché nonostante i diversi gemellaggi tra le Città prussiane e inglesi, due uomini… bé, era ancora un po’ troppo… («Hanno detto che eravamo troppo appassionati, qualunque cosa voglia dire.») e Berlino stava provando a fargli arrivare delle lettere tramite le altre Città. Grantaire roteò gli occhi. Ma, con il pensiero di Enjolras nella mente, e conoscendo la profonda sincerità e onestà di Berlino, gli consigliò di provare con Venezia o Roma. Una qualsiasi delle Città italiane sarebbe stata contenta di passare le lettere dei due uomini. Non c’era niente di più romantico di una storia d’amore proibita, dopotutto.


Almeno finché era tra due Città.


Perché persino Berlino capiva che gli umani andavano bene per rotolarsi tra le lenzuola, per giocare, per rapporti d’amicizia, ma non per l’amore. Proprio lì, in fondo alla sua lettera, c’erano due righe scritte velocemente e poi cancellate.


Mi ricordo del vecchio Fritz. La sua morte mi ha quasi ucciso. Non farti questo.


Era il consiglio che riecheggiava attraverso tutta l’Europa. Ma Grantaire continuava a sognare dell’oro. Stava ancora affogando, e gli serviva solo quella piccola spinta che lo avrebbe spinto oltre la superficie, a respirare di nuovo.


Nella sua crescente disperazione, si rivolse ad alcune Città con più esperienza, che avevano sulle spalle vecchi imperi, o molti secoli.


Copenhagen. Ahahahahahahaha. Sei fottuto.


Quella era la sua lettera. Che era… chi é che scrive la sua risata sulla carta? (Grantaire venne preso da una visione improvvisa e orribile di Copenhagen e Edimburgo che incontravano Bahorel, e il tutto che degenerava in una rissa, o peggio, in amicizia).


E Atene.


Aveva un po’ paura di lei. Era una delle più vecchie Città di tutta l’Europa. Era lì quando la Vecchia Roma era bruciata. Aveva preso parte alle guerre tra Città più crudeli e feroci della Storia, quando i suoi fratelli e sorelle, le Città-Stato, avevano realizzato che ci poteva essere solo una Capitale della Grecia e mossero le Guerre Silenti uno contro l’altra.


Anche le l’antica religione stava svanendo, Atene era stata venerata, un tempo, come Atena. Era comprensibile che la Dea della Guerra fosse l’ultima ancora a rimanere, dopo che aveva tagliato la gola di Sparta - di Ares - e dato fuoco ai resti prima che potesse guarire. Se il suo potere era diminuito, la sua influenza di certo era ancora ben presente. Le Città le scrivevano da ogni parte del mondo, chiedendole ogni tipo di consiglio. Una piccola parte di lui aveva sperato che la sua lettera sarebbe andata persa nel mucchio delle altre. Grantaire avrebbe dovuto aver capito già da un po’ che la fortuna non era proprio dalla sua parte.


Ragazzino.


Non il miglior modo di iniziare. La delusione vibrava lungo tutta la pagina.


Sono l’ultima delle Città greche che sono state divinità. Questo significa che il nostro passato é la mia responsabilità, vegliando sui templi e ricordando quello che é stato. Gli altri sono giovani, e non sanno cosa significhi, quando qualcuno prega gli antichi dei. Io sì. I fiori stanno sbocciando di nuovo, a Delfi. Qualcuno sta venerando Apollo.


All’inizio ne sono rimasta sorpresa. Una preghiera singola non può causare una fioritura simile. Anche il più fanatico degli umani non può far rinascere i fiori. Poi ho ricevuto la tua lettera. Un umano non potrebbe riportare in auge le antiche usanze, ma la devozione di una Città potrebbe rimettere in moto le cose. So bene che, forse, non era tua intenzione che le cose si evolvessero in questo modo. Il fatto che chiami il tuo umano «un dio dorato» é probabilmente più adorazione che non venerazione, ma nonostante tutto dipinge un quadro preoccupante. Se il tuo amore é forte abbastanza da far ricrescere i fiori allora é forte abbastanza da consumarti, certamente molto di più di quanto non si meriti un umano. Quello che stai facendo é malsano- é un’ossessione. Allontanatene il prima possibile, ragazzino, o ti distruggerà oltre ogni limite.


Con affetto,

Atene


Bé. Non poteva proprio ribattere. Dopo tutto, quello che Enjolras aveva detto sul piedistallo era giustificato, non credeva fosse così preoccupante ma a quanto pareva…


Cosa stava facendo? Grantaire bevve ancora un po’ e cercò di fare ordine tra i suoi pensieri. Stava cercando approvazione, o una scusa per smettere di inseguire Enjolras? Non aveva davvero bisogno delle opinioni delle altre Città, le loro parole potevano anche essere d’aiuto, ma le sue azioni venivano solo dalle sue decisioni. Ma ce n’erano così tanti, ordini e consigli e suggerimenti. E tutti con lo stesso messaggio: mai innamorarsi di un umano. Evitalo, schiaccialo, come se fosse possibile. Come se l’amore potesse essere semplicemente buttato via.


E poi arrivò una lettera da Londra.


Complimenti per la tua sempre crescente discrezione. Per poco non coglievo il sarcasmo della tua ultima missiva. Per rispondere alla tua domanda, sì, ho ricevuto tutte le tue ultime lettere, semplicemente non avevo voglia di rispondere.


Anche se sembra che tu non abbia sentito gli effetti della guerra, alcuni di noi invece l’hanno fatto, eccome. Ho risposto alla tua prima lettera solo per sottolineare la nostra attuale tregua, sperando che mi avresti lasciata in pace. Vedi, qualche anno fa ho amato un uomo chiamato Nelson. Era tutto per me, e mi é stato portato via.


Oh no. Grantaire si passò una mano sul viso. Si sarebbe dovuto aspettare qualcosa del genere. Tra tutte le altre Città, Londra aveva l’abitudine di innamorarsi degli umani. Chaucer, Matilde, Enrico V, Elizabeth e Shakespeare erano solo alcuni dei tanti. Il suo cuore era aperto come il mare, e anche se era profondo e oscuro, di certo non era vuoto. In quelli erano simili. Si sforzò di continuare a leggere.


Quando successe, ti ho odiato più di quanto credessi possibile. Ho inseguito i francesi fino alla Spagna, aspettando il momento in cui saresti apparso sul campo di battaglia per strapparti via il cuore. Ma non c’eri. Non c’eri mai, e la mia rabbia non sapeva dove sfogarsi. Mi piacerebbe molto odiarti, ma lo rendi davvero difficile, dolce Parigi. Sul serio, ignori un impero solo per amore degli umani. Solo tu potresti essere così depresso da rinunciare a un impero. Non cambiare mai.


E’ passato un po’ di tempo da allora, ma non abbastanza. Mi sono calmata. Tu non mi hai attaccata. E io ti ho fatto cose peggiori. Forse é stata la giustizia a far sì che le cose succedessero così, un amante per un’amante. Nelson per Giovanna, entrambi morti per salvare le nostre vite, che non ne valevano la pena. Ma comunque, dopo quel colpo, volevo ignorarti.


Ma non posso ignorare i tamburi.


Non i miei, ovvio. I miei inglesi, con la loro solita cortese brutalità, hanno cominciato a coprire ogni altro suono con i loro ritmi (come hanno fatto i romani, quando ci hanno schiavizzati la prima volta. Sembra che la storia si ripeta, alla fin fine). Parlo dei tuoi. Riesco a sentirli anche dall’altra parte della Manica. E qualche giorno fa é venuta da me Cardiff, li aveva sentiti anche lei. Era spaventata.


Sta per succederti qualcosa. Qualcosa di terribile- non nel modo in cui lo intendono gli umani- voglio dire qualcosa di immenso, immenso e inimmaginabile. E solo a te, non alla Francia. Dio solo sa che siamo rimasti solo noi a sentire i tamburi come una volta. Ma se qualcosa si muove sotto la superficie può creare un’ondata. Se non stai attento, potrebbe ricadere su tutto il tuo popolo. E’ per questo che ti ho scritto. Dopo tutti i nostri anni insieme, non posso fare a meno di sentirmi responsabile per qualsiasi pazzia tu faccia.


Hai detto di essere innamorato. E questo é palesemente vero. In quell’ultima lettera eri più vivo di quanto non lo sei stato per un lungo tempo. Quello che succederà dopo é una tua scelta. So che dovrei dirti di lasciar perdere questo umano, come tu mi hai messa in guardia con Elizabeth. Potrei dirti che sarebbe tutto più sicuro, più facile senza questo Enjolras (però scusa, qual é il suo nome di battesimo?), ma sappiamo entrambi che non é così che funziona l’amore. E francamente, quand’é che abbiamo mai scelto la via più facile, noi due?


Per questo soffrirai, ovviamente. Sarai ferito, e col cuore spezzato. Cadrai. E’ inevitabile. Quindi perché non godersi il volo, finché dura?


Sempre tua, con amore,

Londra.


La sincerità disarmante delle ultime parole colpì Grantaire come un pugno, dritto nello stomaco. Rimase senza parole, incapace di muoversi, mentre il suo cuore pieno di cicatrici si faceva sentire con un dolore così dolce che sembrava sanguinare, senza fine.


(fluttuò verso l’alto, nell’acqua, dove vedeva la luce)


E poi, un’ultima nota, scribacchiata su un foglietto e infilato in tutta fretta sotto la soglia della sua porta.


Lascia che ti convinca. -E


(emerse dalla superficie, e finalmente respirò)





Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo

Ora, il solito piccolo rant: vorremo attirare la vostra attenzione su Berlino e Portsmouth, che qui vengono citati di sfuggita. Sono una delle coppie che hanno preso più piede all'interno del Cities 'Verse, e thecitysmith ha scritto dei passi davvero bellissimi su di loro, che spaziano dalla Seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro e veramente, anche se sono due personaggi completamente inventati, servono a capire. Così come tutte le altre Città. Per noi, sono state un aiuto incredibile a capire, a farci entrare la Storia sottopelle. Ok, adesso basta con questi papiri, però.

Per questo capitolo, la traduzione é di barricadeuse e il betaggio dipiuma_rosaEbianca , Abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 27 marzo.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.

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Capitolo 9
*** Chapter 9 ***


PB 8

(È così che comincia)


Grantaire sapeva essere silenzioso quando voleva. Avrebbe potuto sconvolgere i suoi amici, ma decenni passati a scivolare nell'ombra e nascondersi nelle folle gli rendevano facile risalire le scale del café Musain senza che nessuno lo notasse.


Attento come un animale braccato, Grantaire si guardò intorno prima di sedersi nel punto più lontano possibile. Aveva il fiato corto, tremava per l'ansia. Era la prima volta, in così tanto tempo, che si lasciava cambiare da qualcuno, o almeno gliene dava la possibilità. Non sapeva cosa stesse facendo. Aveva bisogno di bere.


Poi, Enjolras lo vide. Grantaire non seppe come avesse fatto. Era dall'altra parte del café, circondato di gente, nel bel mezzo di un discorso appassionato, eppure i suoi occhi blu riuscirono a trovare Grantaire. Si girò e sorrise, un lampo di luce improvviso; come un fulmine, o del fuoco.


Gli altri lo notarono e presto gli furono tutti attorno, accogliendolo a braccia aperte dalla sua "malattia". Nonostante il chiacchiericcio familiare, l'aria era cambiata. Era successo qualcosa e non si poteva tornare indietro. Grantaire lo guardò. Enjolras non lo raggiunse, non provò a fare niente, non si aspettava niente da lui adesso che sapeva. Lo guardò e basta, e aspettò che fosse Grantaire a farsi avanti.


Non fu a quell'incontro. Ma entrambi sapevano che sarebbe successo, alla fine.


(Una lenta, strana danza)


Nelle settimane successive, si girarono attorno lentamente. Grantaire si morse la lingua per non parlare durante gli incontri e Enjolras si costringeva a distogliere lo sguardo ogni volta che lo vedeva prendere una bottiglia. Non stava funzionando. Rendeva solo le cose più tese. Alla fine, dopo una riunione, ebbero una furiosa discussione per tutta la strada verso l'appartamento di Enjolras. Quando arrivarono alla porta, Grantaire si accorse che il suo leader non aveva mai parlato del suo essere una Città, e, in cambio, Enjolras si era accorto che Grantaire parlava per esperienza, non cinismo.


Si guardarono e, di nuovo, respirare divenne un po' più facile.


No, decisero, litigare non era la soluzione. Ma adesso, invece che interrompere le riunioni, discutevano durante le loro passeggiate. Grantaire mostrò a Enjolras parti di Parigi che nessuno conosceva (non le catacombe però, quelle mai) e in cambio Enjolras insisteva spesso perché Grantaire si fermasse a mangiare con lui, o perfino per la notte.


(Grantaire si chiese se il suo impavido condottiero non stesse cercando di evitare che ritornasse al sudicio appartamento. Enjolras non mancava mai di fargli notare

che era probabilmente poco salutare, ogni volta che si trovavano lì. Grantaire non glielo aveva fatto notare perché, bé- "La mia Parigi non si abbasserebbe mai a vivere in mezzo a tutto questo sporco" - e l'associazione avrebbe decisamente fatto male ad Enjolras.)


Non era stato un idillio istantaneo, ma era stato meglio.


Enjolras, ora che non sentiva di essere preso in giro davanti ai suoi luogotenenti, tratteneva la sua crudeltà. La maggior parte delle volte, anche dopo aver discusso, finivano per rilassarsi in un silenzio amichevole: Enjolras impegnato a scrivere, Grantaire a sfogliare i suoi libri di storia e a sottolinearne gli errori.


("Dio, davvero l’hanno interpretato così?"

"Ah, mi ricordo la Riforma. Che confusione. Il re di Londra - Enrico qualcosa - dovette spiegarle cinque volte la differenza fra Cattolici e Protestanti. Ci rinunciò quando lei iniziò a dire che il paganesimo era più facile, dato che gli alberi non chiedevano niente."

"Se incontrassero davvero Roma sarebbero terrorizzati. Quella donna beve come, bé, come me."

"Non mi ricordo questa guerra. C'eravamo davvero in questa guerra?"

"Ahahahah, avresti dovuto vedere la faccia di Oslo! Era furioso."

"Una volta ero un monaco."

"Nessuno di noi partecipò a questa battaglia; eravamo tutti intenti a smaltire l’ubriacatura della festa di compleanno di Praga."

"Bé, di certo non é andata così."

"Oh Dio, non i Franchi!"

"Grantaire, smettila, ti prego." Ma stava ridendo e Grantaire ghignò.

"Stessa cosa che hanno detto i Franchi.")


(sempre a girarsi intorno, cercando di tenere il tempo)


Passavano la maggior parte delle notti svegli. Era il momento in cui Grantaire parlava della sua Cittadinanza. Non osava farlo durante le loro passeggiate, anni di cautela gli avevano insegnato che una singola parola nel posto sbagliato poteva richiamare i soldati all'istante. (In realtà la sua ricerca era scemata rapidamente dopo Napoleone, ma preferiva non correre il rischio).


Lo faceva, non perché Enjolras gliel’aveva chiesto, ma proprio perché no l’aveva fatto. E così Grantaire diede tutte le informazioni che si sentiva di dare, e che sapeva non avrebbero messo a disagio Enjolras. Nonostante cosa ne pensasse l'altro, c'erano moltissime cose che gli umani non potevano capire riguardo alle Città, e onestamente non avrebbero neanche voluto farlo. Grantaire parlò solo degli ultimi decenni. Anche i più sensibili fra gli umani trovavano snervante quando parlava di aver conosciuto Carlo Magno, o combattuto contro i Vichinghi. Strane piccole creature, gli umani.


"Non parlo tanto spesso quanto vorrei con i miei fratelli e sorelle." ammise, gesticolando. Enjolras stava facendo finta di leggere, ma la sua immobilità tradiva il suo interesse. "Non è come con gli altri, che sapevo non mi avrebbero permesso di nascondermi. Volevo tenere vivi i contatti con loro. Sono la mia famiglia. Ma... non hanno mai capito. La maggior parte di loro si interessano di politica e stanno vicino a persone importanti, così non capivano quale fosse il mio problema. Quando arrivò Napoleone dovetti tagliare completamente ogni contatto. Non potevo fidarmi di loro."


"Erano così disposti a tradirti?"


"Erano influenzati dai loro abitanti. E' difficile da spiegare - quando la gente decide qualcosa - ti dà alla testa. Possiamo esserne travolti se non stiamo attenti."


"Scavalcano le tue opinioni?"


"Le opinioni della gente sono le nostre. La maggior parte del tempo. Ricordo quanto sia stato difficile ignorare i richiami di Napoleone mentre tutti lo amavano. Fortunatamente, nonostante la Città di Parigi lo venerasse, io, Grantaire, non lo facevo."


"Quindi avete una volontà propria," Enjolras era sollevato. Era difficile pensare che le persone fossero capaci di togliere la libertà a qualcuno, persino a una Città (non erano proprio le più indipendenti delle creature). "Quindi ha anche una personalità oltre alla tua Cittadinanza."


"Dio, non chiedermelo. L'ultima volta che qualcuno ha chiesto a Città del Vaticano se le Città avessero un'anima o meno è crollato completamente e ha digiunato per tre settimane." Si interruppe, pensoso. "A Marsiglia piacerebbe risponderti. Ha un certo gusto per la filosofia da quando ha avuto i primi contatti coi Greci."


"Davvero? Non mi dispiacerebbe discuterne con lui," disse Enjolras senza pensare, poi sobbalzò e alzò gli occhi dal suo lavoro, realizzando che Marsiglia non era semplicemente un altro studente da reclutare. Grantaire sventolò una mano con aria noncurante.


"E' tutto a posto. Tecnicamente l'hai anche incontrato- ci hai beccati a giocare a domino insieme."


"Era lui?" Enjolras sembrava sconvolto.


"Già. Una strana coincidenza. Era lì per qualche ragione che non ricordo," Marsiglia aveva sempre avuto una bellissima voce, La Marsigliese ne era una prova, e spesso cantava per guadagnarsi da vivere quando viaggiava. Aveva abbastanza soldi per pagare da bere a Grantaire, ed era tutto quello su cui l'altra Città si era concentrata.


"Vi ho interrotti," disse Enjolras all'improvviso.


"No, ho fallito nel fare quello che mi avevi chiesto. Ci hai visti e te ne sei andato. Non hai interrotto niente, ho scelto io di seguirti." (perché il senso di colpa lo aveva colpito come una secchiata di acqua ghiacciata. Marsiglia -che spesso si comportava come un indesiderato fratello maggiore senza curarsi delle loro età effettive- aveva riconosciuto lo sguardo affranto sul suo volto e aveva sospirato, "sciocco". Senza subbio gli avrebbe rifilato una serie di avvertimenti sull'amore, ma Grantaire era già per strada a scusarsi con un impassibile Enjolras).


Per fortuna Enjolras stava già cambiando argomento, "Straordinario. Non vi assomigliate tanto." No, decisamente no, Marsiglia era abbronzato grazie al suo mare, e dove Grantaire aveva cicatrici da battaglia, Marsiglia aveva macchie scure rimanenti dalle molte epidemie che gli avevano strappato i suoi figli fin troppe volte.


(un ricordo. Stare seduto al suo fianco mentre Marsiglia piangeva e delirava fra le coperte madide di sudore, la sua bellissima voce ridotta a un gridare rauco. Bordeaux aveva sorretto la Città malata, e nonostante fosse distrutta era inamovibile. I suoi occhi incontrarono quelli di Parigi al di sopra della testa di Marsiglia e si domandarono se stessero per perdere un altro fratello a causa del dolore e dell'olezzo dei cadaveri bruciati per le strade)


"Le persone hanno questa impressione sbagliata dalle città Spagnole, dato che loro hanno tutte capelli ed occhi scuri credono che tutte le Città degli stessi stati si assomiglino. E' totalmente sbagliato." Stava balbettando. Perché stava balbettando? Era sempre pungente e acuto quando parlava, ma ogni volta che veniva menzionata la sua Cittadinanza si trasformava a un ragazzino emozionato. Da qualche parte, Londra stava ridendo di lui.


"Davvero?" Enjolras era affascinato. Le sue lezioni, essendo le Città una materia scolastica a parte che tutti dovevano seguire, così come la matematica o le lingue, erano apparentemente sbagliate. (molto sbagliate, se credevano a quei libri che Grantaire aveva appena smontato)


"Sono solo loro ad essere così. La verità è che siamo molto diversi. Non dire mai che tutte le città Scandinave sono imparentate solo perché sono quasi tutte bionde- a meno che tu non voglia iniziare una rissa. Nella famiglia di Londra sono tutti molto diversi ma tutti parenti. Non c'è un vero schema. Come la mia, siamo tutti diversi tranne per gli occhi, abbiamo tutti gli occhi azzurri."


Pensò di offrirsi di presentare Enjolras ai suoi. Ghignò pensando alla reazione della sua famiglia, chiedendosi se Enjolras avrebbe compreso cosa davvero significava quel gesto. (e poi ci pensò meglio, alla reazione della sua famiglia, dopo aver ricevuto troppe lettere imbarazzanti, piene di deliri poetici su statue di marmo e dei perfetti. Grantaire impallidì. Forse era meglio che Enjolras non li conoscesse. In effetti, pensò alle facce entusiaste di Lione e Bordeaux, la cosa migliore era tenerlo il più lontano possibile da loro).


(Ma la musica diventava sempre più veloce e loro sempre più vicini)


Le candele erano quasi consumate. La notte avanzava dagli angoli della stanza, ma nessuno dei due uomini aveva voglia di muoversi. Grantaire era sdraiato sul divano, con Enjolras seduto a fianco a gambe incrociate, un piede che sfiorava un polpaccio di Grantaire. Quell'intimità casuale era ormai diventata la norma.


Erano in silenzio per il momento. Grantaire non aveva bevuto dall'ora di pranzo. Non che fosse sobrio, no, aveva semplicemente trovato un nuovo modo per andare avanti. Grantaire si concentrava solo su Enjolras, bloccando il dolore delle strade (i mattoni appoggiati alla sua schiena a pezzi) e godendosi il sole.


Era un po' strano a vedersi, Grantaire che si sedeva vicino ad Enjolras, con la testa ciondolante, gli occhi fuori fuoco. Era come se fosse in trance. Non potevano farlo in pubblico. Ma Enjolras amava aiutarlo senza dargli l'idea di trattarlo con sufficienza. Così quando erano al Musain trovava sempre il modo di sfiorargli una spalla mentre passava, per dargli qualcosa su cui concentrarsi. Anche adesso erano seduti a pochi centimetri di distanza.


Forse non era molto sano, ma funzionava. Grantaire canticchiava fra sé e sé, sentendosi caldo come non faceva da anni. La presenza di Enjolras era calore, non c'era altro modo di descriverlo. Le strade erano attutite quando si concentrava sul battito cardiaco del biondo. Se si concentrava abbastanza, riusciva perfino a sentire le sue emozioni, piccole onde che si espandevano dal suo corpo. La passione, l'intensità c'erano sempre, ma ora erano leggermente sottotono, una risacca tranquilla. Grantaire aprì gli occhi.


"Sei turbato."


"Ho ricevuto una lettera da mia madre," Enjolras ammise alla fine.


Grantaire si sollevò a quelle parole. "Pensavo avessi tagliato ogni ponte con loro, come gli altri."


"L'ho fatto- è solo che- ogni tanto mi scrive qualcosa del genere, implorandomi di tornare a casa. Non capisce perché sto facendo questo, o cosa significhi. Vuole solo che torni a casa." Strinse la lettera così tanto da accartocciarla. Grantaire gli toccò la mano delicatamente. "Starò bene. Ho solo bisogno di qualcosa per distrarmi."


"Io non parlo con Rouen da secoli," offrì Grantaire.


"A causa di Jeanne?" Grantaire sospirò. Enjolras, nonostante tutta la sua perfezione, non aveva tatto, ma non lo faceva per cattiveria. Annuì. Enjolras si accigliò. "Ebbe davvero una parte in tutto quello? Credevo che alle Città non fosse permesso prendere certe decisioni..."


"No, scegliamo di non farlo. Non c'è davvero una legge. E' come se- non troveresti mai una Città che cerca di essere eletta o guida eserciti. Sono faccende umane. Ovviamente non è sempre stato così, in passato."


"Ah sì, quando le Città erano venerate come Dei," Enjolras grugnì. Grantaire ghignò. "Non era vero, no?"


"Sì che lo era," si sentiva meglio vedendo lo sguardo scioccato sul volto del suo capo.


"Ti veneravano? Come cosa? Di cosa eri il Dio?" Grantaire lanciò uno sguardo significativo alla bottiglia ai piedi del divano. "Non puoi essere serio."


"No. Dioniso non mi aveva coinvolto così profondamente al tempo. Ero il Dio della Caccia. Il Raccolto. Tornei e cani e combattimenti e una vita sana e divertente." Ero anche il Dio della Virilità, ma non c'è bisogno che tu lo sappia. "Non so di preciso come iniziò. Ero giovane allora, mi piaceva fare quelle cose e incoraggiavo altri a farle." Scrollò le spalle. Era stato più facile lasciarli fare, non si stava lamentando. I giovani, bellissimi ragazzi che lo avevano seguito, ridendo selvaggi nei boschi. Avevano fatto banchetti, lì, avevano bevuto e si erano divertiti. Si chiese cosa avrebbe fatto Enjolras se fosse stato lì. Sarebbe rimasto nei villaggi di notte- per paura dell'immortale nella foresta- o sarebbe corso a cercarlo? Lo avrebbe visto come libertà piuttosto che pericolo? Si sarebbe unito a quelle creature luminose, avrebbe ballato con gli altri? Avrebbe ballato con lui?


Linee blu e verdi sorsero sulla sua gola, strisciando in basso, uscendo dalle sue maniche dove Enjolras poteva vederle. Erano bellissime in modo selvaggio: linee spesse di nodi celtici sovrapposti, intervallati da scene dei suddetti banchetti. Non battaglie, questa volta, ma i festeggiamenti che seguivano, svolti liberamente sulla sua pelle così che Enjolras potesse vedere. Potesse chiedere. Potesse arrossire, magari, e poi-


(qualcosa di feroce fece le fusa nel retro della testa di Parigi)


Enjolras ne toccò uno sul suo collo e Grantaire artigliò il divano per impedirsi di fare qualche follia.(era notte. E' un tuo cittadino, tuo da prendere. Portalo nella foresta. Guarda la sua pelle accendersi di luce di stelle e sangue).


"Ti stanno venendo più spesso," Enjolras notò con interesse. Grantaire si schiarì la gola.


"Ah. Sì. Ha. Ha. Divertente. E' stato- è stato tanto tempo fa. E' tutto nel mio passato. Nel mio passato." ripeté finché anche l'ultimo tatuaggio non fu scomparso. Enjolras era completamente perso. Grantaire continuò come se niente fosse successo. "Era una vita più semplice allora, non ti sarebbe piaciuta. Probabilmente mi avresti preferito quando iniziai a imparare la filosofia- dopo che i Romani se ne andarono."


"Rinunciasti alla Divinità?"


"Lo facemmo tutti." disse Grantaire, pensieroso. "Dopo un po', smetti di essere un bambino e realizzi che gli umani hanno più controllo su di te che tu su di loro. Non è come essere un Dio. Quindi adesso, in generale, osserviamo. Proteggiamo. E quando possiamo, insegniamo Non credo che si aspettino che abbiamo ruoli molto attivi al giorno d'oggi. C'è un motivo se la Bibbia parla di noi come Guardiani, sai."


"Creati nel settimo giorno, sì," disse Enjolras, nonostante non fosse particolarmente religioso. "Quindi Rouen non...?"


"Accese lui stesso la pira? No. Neanche Londra c'era. Aveva passato troppo tempo oltre i suoi confini e si era ammalata. Sono stati gli umani," la sua voce era amareggiata. "Non è quello che Rouen ha fatto; è quello che non è riuscito a fare. Ci sono alcune Città che prendono il concetto del "guardare e basta" un po' troppo seriamente. Si rifiutano di prendere parte a qualsiasi attività umana. Anche se diciamo di non farlo, è comunque flessibile, possiamo dare consigli. Sussurriamo nelle orecchie dei comandanti. Rouen non avrebbe potuto salvarla, ma avrebbe potuto chiedere un giorno in più, così che potessi raggiungerla in tempo. Avrebbe potuto chiedergli di non consegnarla agli Inglesi. Avrebbe potuto chiedergli di non venderla come una- avrebbe potuto fare qualcosa. E non se ne pentì neanche! Disse solo che era compito degli umani! Come riuscì a stare lì e dirmelo in faccia? Come riuscì a stare lì senza fare niente mentre le persone soffrivano e-"


All'improvviso si ricordò dove fosse. Enjolras lo stava fissando, gli occhi spalancati e scuri. Probabilmente non aveva mai sentito Grantaire parlare così prima di allora. Grantaire non aveva sentito se stesso parlare così da quando- da quando- (il suo cavallo era coperto di schiuma e ansimava ma lui continuava a spronarlo- doveva raggiungere Jeanne in tempo- fosse dannato il suo Re per non aver fatto nulla- l'avrebbe salvata lui stesso- cavalcò e cavalcò finché il suo cavallo non stava per crollare- al di là della collina- giusto in tempo per vedere le fiamme consumarla).


Era stato un cinico per così tanto tempo, l'improvviso scoppio di parole che si ricordava dire quando era giovane aveva sorpreso perfino lui. Grantaire si sforzò di sorridere. "Ma sentimi. Penserai che sono un completo ipocrita."


Enjolras non lo negò. I suoi occhi erano così scuri che gli rimaneva un solo, sottile anello di blu. "Non ti avevo mai sentito parlare così prima d'ora."


"Ti sorprende che fossi un idealista un tempo?"


"Non riesco ad immaginarti tale." Era onesto, ma Grantaire sentì comunque una fitta.


"Oh sì, molto più di voi. Ero estremamente giovane e innocente. Mi avresti amato." Trattenne il fiato. Aveva detto troppo, aveva detto la cosa sbagliata e aveva rovinato tutto. "Mi disp-" ma la scusa morì sulle sue labbra quando Enjolras si sporse e gli sfiorò il volto.


"No." La sua espressione era indecifrabile, i suoi occhi determinati.


(e alla fine, uno fa un passo fuori tempo)


"Vuoi parlarmi delle tue cicatrici?"





Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo

Giusto per fare un po' di luce (nel caso io, piuma, non fossi l'unica ignorante a non sapere cosa diamine c'entri Rouen con Parigi):  Rouen, allora chiamata Ratumacos, nel 900 circa, era la capitale di una vasta regione chiamata Vexin, situata nella bassa valle della Senna. Parigi faceva parte di questa regione, deduco dunque che sia per questo che considera Rouen sua madre.  (Deduco, ma non sono certa. Non prendetemi troppo sul serio)

Per questo capitolo, la traduzione é di piuma_rosaEbianca e il betaggio di barricadeuse, Abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 3 aprile.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.


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Capitolo 10
*** Chapter 10 ***


PB 8


Oh.


Ecco, questo era un cambiamento. Grantaire si mosse, sotto lo sguardo di Enjolras. Tutte le Città avevano cicatrici. Le loro vicende erano scritte sui loro corpi. Enjolras sapeva delle guerre che aveva combattuto, non sarebbe stato più terribile che vederlo scorrere le pagine di un libro di storia, eppure… eppure…


La sensazione delle mani di Enjolras sulla sua pelle, che lo esploravano quasi fosse stato una mappa, e lui senza potersi mai nascondere. Voleva quasi dire no (quel basso calore nel suo ventre non era d’accordo), ma Enjolras lo stava ancora fissando- e non era mai stato capace di negargli qualcosa, in verità.


«Ce ne sono… un po’.» disse infine Grantaire. Enjolras non gli lanciò nessuno sguardo pieno di pietà, semplicemente annuì con la comprensione grave di chi conosceva bene la storia di Parigi.


«Se non vuoi-»


«No. No, penso dovrei.» si era portato dietro quel peso per molto tempo. I poeti di Londra avevano tracciato le cicatrici sulla sua schiena per mandare via il dolore, gli amanti di Madrid avevano baciato anche le ustioni più orribili. E una volta Giovanna aveva accarezzato una tempia sanguinante di Parigi, e aveva sorriso. Si era dimenticato di cosa volesse dire sentirsi senza peso. Forse era tempo di smetterla di sopportarlo da solo.


Grantaire si passò la lingua sulle labbra, la gola secca. «Quanto- intendo- quanto vorresti vedere-»

«Non devi nasconderti da me», disse con calma Enjolras. «Non avresti mai dovuto avere bisogno di nasconderti.»


Grantaire annuì, e si alzò, tremando. «Sarebbe- sarebbe più facile se fossi sul letto.», si sarebbe potuto sedere ed Enjolras lo avrebbe potuto osservare dal sofà, ma no, il suo capo dorato era già in piedi e lo stava seguendo.


Si sedettero insieme, e Grantaire si tolse gli stivali, con attenzione (Enjolras era già a piedi nudi, e come se tutta la situazione non fosse già abbastanza una tentazione di suo, era anche costretto a vedere la curva di quelle caviglie perfette). I suoi piedi, invece, non erano così un bel vedere. Enjolras li fissò, e Grantaire sorrise, stanco. Le piante erano chiazziate di nero e blu, la pelle delle dita innaturalmente pallida. Congelate.


«Brutti inverni. Tanti, per tutti.» Non stavano davvero andando in cancrena. Era solo il colore che restava, come monito. Come se avesse mai potuto dimenticare il dolore. Grantaire lasciò andare un respiro, lentamente, cercando di non sentirsi in trappola, e si sistemò sul letto finché non si ritrovò seduto a gambe incrociate, faccia a faccia con Enjolras. L’altro piegò le gambe, e i suoi occhi non lasciarono mai Grantaire.


La Città esitò, domandandosi da dove cominciare, prima di decidere che arrotolarsi le maniche era la scelta più facile. Enjolras allungò una mano, «Posso?», prima di prendere le mani di Grantaire nelle sue. Tracciò le linee dei suoi grandi palmi e delle dita callose, girandole e portandosele vicino al viso per guardare le nocche piene di croste.


«Le crociate», balbettò Grantaire. «I nostri scudi si sono frantumati quando le linee sono state sfondate.» Era quasi blasfemo, vedere Enjolras piegato così sulle sue mani, come se volesse baciarle. Enjolras continuò a far scorrere le sue lunghe dita verso il polso, e poi oltre, corrugando la fronte alla vista delle ustioni lasciate dagli edifici in fiamme, appena poche settimane prima, prima di fermarsi alle linee scure che marchiavano la pelle di Grantaire in lunghe strisce sui suoi gomiti e anche oltre. «…a volte le lezioni di Roma sono state difficili da imparare.» Le labbra di Enjolras si strinsero. «Non fanno più male, ormai.»


«Ma un volta sì, vero?» e non era pietà, solo terribile comprensione.


«Più di quanto tu possa immaginare.» non spiegò oltre, ed Enjolras non chiese nulla. Rimase seduto mentre Grantaire si toglieva il gilet. Le macchie scure delle altre cicatrici erano ben visibili attraverso la sua camicia sottile, e quindi si tolse anche quella. Non aveva senso nascondersi. Aveva supposto che Enjolras avrebbe chiesto di quelle, e quindi rimase stupito quando lui, invece, allungò una mano verso il fazzoletto che aveva al collo.


«No!», e si inclinò all’indietro, lontano. Come avrebbe potuto spiegare quello?


«Grantaire, l’ho già visto.»


Oh. Certo. Il bagno. Se ne era dimenticato. Era stato così attento a nasconderlo (anche nelle estati afose quando persino Enjolras lasciava perdere il suo, lasciando un piccolo triangolo di pelle luccicante di sudore che lui voleva- aspetta un momento- smettila di distrarti).


Si tolse il fazzoletto. Il segno lasciato dalla ghigliottina era rosso anche nella fioca luce della candela. Enjolras, con estrema, estrema gentilezza, ci premette sopra un dito.


«Robespierre.»


«Sì, anche se non per le ragioni che potresti pensare tu.»


«Capisco perché non approvi le rivoluzioni.»


«Oh, ma questa sì, all’inizio. Ero speranzoso tanto quanto gli altri. E arrabbiato, avevo tanta rabbia dentro, all’epoca. Ero lì, il giorno della Bastiglia», sospirò. «Ma poi é cambiato tutto. E io mi sono ritirato.»


«E ti hanno trovato comunque.»


«A dir la verità mi sono intromesso io.» il ghigno di Grantaire sembrava quello di un teschio. «Hanno preso Versailles. Riesco ancora a sentire le sue grida. Gridava che qualcuno la aiutasse, e le avevano tagliato i suoi bellissimi capelli, e la stavano trascinando verso la- piattaforma e lei urlava e ho cercato di fermarli. Una pazzia. Ma lei era così giovane.»


«Non sapevano chi fossi?»


«Nemmeno dopo.» Quando le strade avevano scricchiolato e pianto. Ma erano già rosse di sangue e la folla stava urlando di nuovo, e cos’era poi un’altro lampo di follia quando già stavano danzando sull’orlo del baratro?


(dopo, si era svegliato con l’odore di cadaveri in decomposizione a riempirgli il naso. Bordeaux lo stava stringendo, lo stava letteralmente tenendo insieme perché riuscisse a guarire. E anche mentre lo faceva c’erano lacrime intrappolate tra le sue ciglia e lui aveva saputo immediatamente che Versailles non c’era più)


«Non volevo che lo sapessi, perché, bé, non volevo- pensavo che saresti potuto restare deluso. Le rivoluzioni, e gli umani, possono essere caotici e non volevo rovinare la tua…» il dito di Enjolras stava facendo il giro del suo collo, accarezzando piano la linea rossa.


«Non gira tutto intorno a me.», le palpebre dei suoi occhi erano pesanti, mentre sfiorava i capelli di Grantaire e ritornava indietro, tracciando il contorno del pomo d’Adamo della Città prima di premere, gentilmente, a sentire il pulsare del sangue.


«E’ sempre girato tutto intorno a te.» sussurrò Grantaire. Erano troppo vicini, ed Enjolras stava tra le sue gambe. Lo guardava, continuava a guardarlo, tenendo la mano lì, contro il suo battito. «E alle persone come te, quelle che brillano così luminose.», e proprio quando pensava di non riuscire più a trattenersi, Enjolras si mosse, stendendo il palmo sulla spalla di Grantaire e scendendo, lungo la schiena.


Enjolras trattene il respiro.


Perché una cosa era vedere le cicatrici, ma un’altra era sentire la pelle ruvida, sollevata. I lembi di pelle strappati via, che erano guariti storti, e male. Per la prima volta, Enjolras esitò. Erano ferite così enormi. Non c’era parte della pelle di Parigi che fosse intatta.


«Anche lei é bruciata.», sorrise Grantaire, ed era la cosa più dolorosa che Enjolras avesse mai visto.


Ma non erano ustioni. L’erudito dentro di lui era confuso. Non erano le cicatrici giuste.


«La guerra dei Cent’Anni? Gli inglesi? Gli Ugonotti?», come erano riusciti a farla franca? Erano segni di tortura, non potevano essere altro.


E Grantaire rise.


(perché si ricordava quando li aveva mostrati agli altri la prima volta, dal momento che svenire ad un ballo tendeva a mandare le Città in una certa agitazione. Si ricordava gli sguardi accusatori che gli altri avevano lanciato a Londra. La confusione e il senso di colpa sul viso giovane di lei, mentre cercava di ricordarsi ogni battaglia e capire come avevano fatto i suoi umani a lasciare così tanti segni su chi aveva vinto. E Parigi aveva voluto piangere, perché avevano pensato, avevano dedotto che soltanto dei nemici avrebbero potuto ridurlo così. E gliel’aveva detto. E aveva guardato le loro espressioni diventare prima sorpresa e poi incredulità e poi furia)


«No, caro Enjolras. Sono stati i francesi.» rise di nuovo, ed era un suono vuoto. «Bé, il Re francese, in realtà. Carlo ha rifiutato l’offerta degli Ugonotti di riscattare Giovanna. Ha fatto finta che non stesse succedendo niente. E alla fine l’hanno consegnata agli inglesi. Dire che ho reagito male é un eufemismo. L’ho accusato pubblicamente, a corte, di essere un codardo. Poi sono scappato via, per cercare di salvarla da solo. Ovviamente, ho fallito.» la stretta di Enjolras si fece più salda, sulla sua spalla. «E poi Carlo mi fece frustare, per avergli disobbedito.»


(«Uccidiamolo», aveva detto Praga, i suoi capelli rossi, come tegole su un tetto, fiammeggianti attorno a lei. Oslo era al suo fianco, rigirandosi i suoi coltelli tra le dita, e anche Edimburgo era lì, gli occhi attenti. Non tutti alleati, non tutti nemici. Ma Città, prima di qualsiasi altra cosa. E le Città si occupavano da sole dei loro affari.


«No, no. Le cose si stanno aggiustando, non posso fermarle proprio adesso. Solo…», e poi il giovane Parigi. Lui che rideva e ballava e combatteva e incoraggiava gli incontri delle Città a qualunque occasione, disse qualcosa di sconvolgente. «Devo solo stare un po’ da solo.»


Quella fu l’ultima volta che lo videro)


«Io…» sapeva che Enjolras stava disperatamente cercando di trattenere un fiume di parole indignate. «E’… un danno enorme.»


«Hai ragione. Le ferite sui nostro corpi umani svaniscono col tempo, di solito. Ma questa volta ho fatto in modo che non lo facessero. Ed é stato facile, in realtà. Ho solo continuato ad aprirle, ancora e ancora.» Avrebbe dovuto rovinare l’atmosfera, probabilmente, ma Grantaire aveva parlato piano, ed Enjolras continuò a tenere la mano su di lui, accarezzandogli la spalla, la clavicola, e poi c’era il suo palmo caldo, lì dove il suo cuore batteva. «Volevo ricordare. E volevo che anche il Re non dimenticasse mai.»


«Così ribelle», disse Enjolras, e non era una presa in giro, non del tutto. Erano così vicini, visi che si sfioravano l’un l’altro al minimo movimento, bocche che condividevano lo stesso respiro. Grantaire stava camminando sul filo del rasoio, sarebbe bastato soltanto ancora un-


«Devo aver pensato che ci sono delle persone per cui vale la pena combattere.», e quello fu abbastanza. Enjolras premette la bocca su quella di Grantaire, e tutto il suo controllo venne spazzato via. Circondò il biondo con un braccio e lo portò più vicino. L’altra mano salì a stringere la nuca di Enjolras e approfondì il bacio, quasi cullando l’altro a sé.


«Tutti voi», esclamò, quando si separarono, senza sapere se era felice o furioso, senza voler lasciare andare Enjolras, mai più. «Sempre lì a cercare di rendermi migliore. Sempre lì a chiedermi cose.»

Enjolras affondò le mani nei suoi capelli e lo trascinò in un altro bacio, mordendogli il labbro inferiore, prepotente come Grantaire aveva sempre sognato fosse. Quando si staccarono, entrambi avevano il fiato corto. «Ma ti piace, non vieni agli incontri solo per guardarmi.»


«Sottovaluti il mio bisogno di una bella vista.» Grantaire passò le dita nei ricci di Enjolras, mentre gli baciava il collo pallido.


«E tu sottovaluti il tuo potenziale.» Fu tutto quello che Enjolras riuscì a sospirare.


«Ah, mi avessi incontrato allora. Mi avresti amato.» E all’improvviso Grantaire si ritrovò sulla schiena, ed Enjolras era seduto a cavalcioni su di lui, piegato in qualche modo strano, per farli arrivare ad essere faccia a faccia.


«Zitto, adesso.», e gli baciò il collo, proprio sulla cicatrice rossa- e Grantaire trattenne il fiato, mentre continuava a scendere. Passò la lingua su ognuna delle piccole ferite sul suo petto.


«Agincourt, L-Londra e i suoi maledetti archi lunghi», balbettò Grantaire. Poi quella lunga cicatrice sulle costole, che ancora faceva male nei giorni particolarmente caldi, «La Guerra dei Trent’Anni. Quel bastardo di uno spagnolo ha imbrogliato.»


E poi ancora giù, sull’orribile nodo di pelle sul fianco. «La peste, quando hanno bruciato i corpi. É solo un segno, non-», ma era pieno di vergogna, nel vedere le mani immacolate di Enjolras, brillanti se paragonate alle sue cicatrici. «Solo… ne sei sicuro…?»


«Zitto.», ordinò di nuovo Enjolras, la bocca ferma sulla pelle di Grantaire. «Deciderò da solo chi amare. É una decisione solo mia, e non mi farò comandare da nessuno.» Era senza fiato, e probabilmente lo stava prendendo in giro, ma suonava così deciso (per qualcuno che- ah- proprio lì, contro la coscia di Grantaire- era eccitato) e la Città piegò indietro la testa e rise.


«Proprio da te, portare la giustizia sociale anche in una situazione così- non riesco a crederci-», Enjolras gli morse il fianco, e Grantaire sbuffò, mentre i suoi fianchi si alzavano, involontariamente. Enjolras sembrava compiaciuto, e si sollevò piano, dolorosamente piano, togliendosi il gilet e la camicia.


Grantaire rimase a fissare tutta quella distesa di pelle pallida, perfetta e intatta e tutto quello che lui non era. Allungò una mano, le dita tremanti.


«Non Apollo», mormorò Enjolras. «Solo io.» E aveva ragione; nessun marmo avrebbe mai potuto arrossire così, essere caldo così; Grantaire non era mai stato più felice di avere torto. Enjolras si piegò in avanti e si baciarono ancora, le bocche bollenti e umide e aperte. «Credo avremo bisogno di un po’ di sego.»


«Come fai a saperlo?», ma Grantaire non si stava lamentando.


«Essere dedicato alla causa non significa essere casto», Enjolras stava quasi sogghignando. «Soprattutto quando ero più giovane, e più distratto.» Grantaire lo avrebbe ribaltato lì e ora solo per quel ghigno (e quell’immagine), ma Enjolras stava slacciando i pantaloni di entrambi e nessuno si preoccupò più di parlare.


Enjolras immerse la mano nel sego, e le candele stavano per spegnersi, inondandolo di luce dorata. Allungò le dita verso le sue gambe e Grantaire bestemmiò in francese, franco e celtico mentre la schiena di Enjolras si inarcava, e lui si preparava.


«Dio mio, ti prego.» Grantaire strinse le lenzuola, cercando di controllarsi. Non poteva- doveva lasciare che Enjolras finisse- essere attento, e lento (un viso perfetto dipinto di concentrazione, piccoli sospiri che gli sfuggivano dalle labbra) perché Grantaire non era stato fatto per la gentilezza e i tamburi nella sua testa gli comandavano di prendere quello che era suo.


Quindi bestemmiò ancora e afferrò le lenzuola, strusciando i fianchi sudati contro quello di Enjolras, facendolo gemere al contatto. E il suo perfetto, ridicolo, umano amore gli afferrò la spalla e con la stessa faccia concentrata si abbassò piano su Grantaire. Ed era caldo e stretto e Grantaire aveva stracciato le lenzuola.


«Per favore.» ansimò. Enjolras sorrise e lo baciò e Grantaire gli prese le cosce e spinse, strappando un grido ad entrambi.


Si mossero insieme, e ogni preoccupazione che poteva aver avuto sul fargli male svanì mentre Enjolras gli mordeva le labbra e chiedeva di più, più veloce, più forte. Non si aspettava mai niente di meno di quello che qualcuno poteva dare, in niente, e quindi Grantaire diede e diede e diede - era una Città e conosceva la sua gente - e fu un imbroglio delizioso quello di usare quella conoscenza per trovare il punto preciso dentro ad Enjolras per portarlo al limite.


E questo era ogni sogno bruciante e ogni incontro pieno di frustrazione e ogni orribile disegno e Grantaire non staccò per un istante lo sguardo da Enjolras mentre lui tremava, e gemeva, mentre Grantaire lo prendeva in mano e gli allargava le gambe per arrivare ancora più a fondo. Restarono attorcigliati l’uno all’altro, baciandosi ogni volta possibile, uniti in tutti i modi. E Grantaire si chiese come avrebbe potuto lasciare andare Enjolras dopo aver conosciuto così intimamente. E poi pensò, mentre Enjolras arcuava la schiena e veniva, che forse non ne avrebbe avuto bisogno.


(e la parte migliore fu Enjolras che gridava il suo nome, il suo nome, non Parigi ma «Grantaire! Ti prego, adesso, Grantaire, io-», ancora e ancora e ancora, come una preghiera.)









Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo

Per questo capitolo, la traduzione è di barricadeuse e il betaggio di piuma_rosaEbianca, abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 10 aprile.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

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Capitolo 11
*** Chapter 11 ***


PB 11 PB 8

Grantaire si svegliò.


La luce del sole inondava il letto, indorando i capelli di Enjolras mentre dormiva tranquillo sul petto di Grantaire. Non c'erano modi migliori di svegliarsi. Grantaire sorrise e baciò Enjolras sul capo mentre si stiracchiava. L'inverno era un ricordo lontano, la primavera era stata portata via dalle ultime piogge (pioveva spesso, a Parigi). Il cielo era luminoso perfino nelle prime ore del mattino. L'estate era arrivata; calda come il letto in cui giacevano insieme.


Ma le estati erano brevi, a Parigi (pioveva spesso a Parigi, ricordate?). Enjolras era deciso a tirarne fuori il più possibile, e scivolava giù dal letto in quelle prime, chiare ore del giorno, ripetendo di avere del lavoro da fare. Grantaire lo osservava. A volte lo tirava di nuovo a letto. A volte Enjolras glielo lasciava fare. La furia disperata della loro prima volta era divenuta qualcosa di lento e semplice. Aveva imparato tutto di Enjolras, la sua latitudine e longitudine in quelle mattine dorate: le sorprendenti lentiggini sulle sue spalle, la cicatrice sul suo ginocchio (fatta cadendo da un albero quando era un bambino; si arrampicava sempre troppo in alto), unghie mangiucchiate, piccole imperfezioni che emanavano umanità più di ogni altra cosa.


Forse era quello il piano di Enjolras; far innamorare di sé ogni Città del mondo. Cambiarle tutte, farle lottare tutte per essere migliori. E non si sarebbero più state Guerre Silenti, solo la delicata brama delle Città che contavano ogni suo respiro e se lo dividevano fra loro. Ma no. Era troppo egoista per quello. E adesso che aveva lui, come avrebbe mai potuto lasciarlo andare? Anche se fosse stato per salvare il mondo. Grantaire non voleva un'icona, e neanche un amore grandioso, leggendario. Voleva solo queste mattine con Enjolras, e scambiarsi storie e sudore e sorrisi.


Grantaire si girava, con la voglia di parlare. E nonostante sapesse che le sue parole erano deboli e perfino insensate, era decisamente troppo innamorato per trattenersi dal dire "Non darmi la gloria, dammi solo un minuto del tuo tempo." Ma Enjolras se n'era già andato. Ah be', Grantaire nascondeva la testa sotto le lenzuola. C'era sempre un domani.


Grantaire dormiva.


(e sognava: di parole che volavano dalle labbra di Enjolras, spargendosi, brillando e frammentandosi come le increspature dei riflessi sulla superficie della Senna. Adesso lo capiva, perché così tante Città amavano i loro scrittori, ambasciatori della loro lingua, perché c'era della poesia in Enjolras. Non sono nelle sue parole, ma nella sua pelle.


Nel sogno lo toccava con le sue mani impacciate, apriva il marmo e trovava un vivaio di stelle incastonate sulle costole di Enjolras. E lì, al centro, non un cuore pulsante ma un sole, bianco e caldo, che gira. Non era né sangue né amore, ma pura vita che scorreva nelle sue vene. Non ne era sorpreso, aveva sempre saputo che soli e costellazioni risiedevano negli occhi e nei capelli e nelle parole di Enjolras. Il suo leader, che non sanguinava altro che luce. Sì, sognava di stelle sulla pelle di Enjolras. E a volte, nel cuore della notte, sognava che quelle stelle uscissero da lui.)


Grantaire sognava.


A volte non era molto chiaro se si svegliasse. Tutto sembrava scivolargli addosso in modo strano. Veloce e lento, frammentato come i sogni. Il suono della strada era soffocato, la consapevolezza della sua città che ondeggiava perfino quando era sobrio. Enjolras era sempre splendente sul suo orizzonte di consapevolezza; il suo sole; ma ogni altra cosa stava svanendo.


(i fiori sbocciavano di nuovo a Delfi)


Se avesse prestato ascolto alle parole di Atene riguardo alle ossessioni, si sarebbe reso conto di cosa stava succedendo. E invece metteva via sempre più parti di Parigi, e usava Enjolras come lucchetto per tenerle lontane. Si concentrava sull’uomo biondo, concentrava tutto su di lui, e lentamente, la Città di Parigi cominciò a scivolare via dal resto della sua gente. Ma non lo notò, troppo impegnato ad afferrare i pochi, preziosi momenti delle sue giornate che riusciva a passare con Enjolras.


E così dipingeva, cercando di fermare dei ricordi di lui. Aveva dipinto Enjolras prima ancora che si conoscessero; una figura splendente che volava. I dipinti raffiguravano un uomo adesso, ma non meno luminoso. Dipingeva con il fervore di un discepolo- ogni linea- ogni curva- ogni spirale di oro e rosso. (così tanto rosso). Una volta si schizzò di tempera e si infradiciò la camicia, le sue mani erano interamente ricoperte di rosso, nove macchie rosse rovinavano il ritratto di Enjolras- ma poi si svegliò ed era solo un sogno e dipinse di nuovo.


Lo faceva per cercare di immortalare questi momenti di pura felicità. Morbidi tratti di gesso per le notti in cui vagavano per le strade. Drammatici colori ad olio per i colori saturati: gli incontri al café quando tutto era rosso e nero. Duro carboncino per quando litigavano. Acquerelli per il loro tempo insieme, sfocando i colori così tanto da rendere difficile dire dove uno di loro cominciasse e l'altro finisse. (dipingeva Enjolras stesso, passando il pennello sopra la sua pelle delicata finché non avevano lo stesso verde e blu, finché Enjolras non assomigliava al dio che Grantaire era stato una volta.)


Forse era troppo cinico, o disperato. Ma a volte guardava Enjolras e pensava- ti ricorderò ancora in dieci, venti, cento anni?- perché per quanto lo amasse, aveva amato anche Jeanne allo stesso modo, e adesso non riusciva neanche a ricordare il suono della sua voce.


Questi ricordi che stava raccogliendo, per quanto adorabili, erano semplicemente stelle nella notte. Erano una distrazione. Perché la felicità gli stava sfuggendo e qualcosa si stava avvicinando. Così Grantaire afferrava tutta la pace che riusciva a trovare, ne faceva tesoro avidamente, potreste dargli torto? Ecco una consolazione per chi ci tiene: quelle ultime settimane furono perfette.


X


Enjolras sapeva che Grantaire si stava rovinando.


L'uomo (così aveva chiesto di essere chiamato) lo aveva fatto per le ultime settimane. Passava la maggior parte del tempo a letto, o chiuso nella sua stanza con i suoi dipinti, con quella sua strana espressione persa. Enjolras avrebbe voluto fare qualcosa; ma sapeva solo come risolvere problemi politici, non problemi dell'anima. Enjolras poteva provare a portargli la rivoluzione e il cambiamento della società, ma Grantaire era stato ferito terribilmente. Non aveva mai davvero smesso di bere, mai davvero smesso di essere cinico.


E neanche Enjolras si era davvero mai fermato. Sapeva di poter essere estremo, perfino pericoloso, ma i suoi ideali erano davvero troppo avvolti al suo essere più profondo. Se mai li avesse persi, si sarebbe dovuto liberare del suo nucleo, il suo centro vitale. Gli ci era voluto tanto per capire che era la stessa cosa per Grantaire, che se fosse potuto guarire, lo avrebbe fatto lentamente. Era stato in una notte buia, con le stelle che li osservavano, che aveva accettato il fatto che avrebbe potuto non vivere abbastanza a lungo per vedere Grantaire sorridere veramente.


Andava bene, però. Era qualcosa per cui sarebbe stato felice di combattere.


La mattina dopo aveva provato a tirare fuori l'argomento, per poi ritrovarselo a cavalcioni addosso che lo bloccava contro le coperte. "Guardami," aveva chiesto, con qualcosa di selvaggio nei suoi occhi blu. "Solo me, guarda la mia pelle e i miei capelli e miei occhi. Ignora la mia città e guarda solo me." Non voleva parlare dell'inevitabile. Così Enjolras semplicemente chiuse la bocca di Grantaire con la sua. Ne avrebbero parlato un altro giorno.


Se fosse stato sincero, o forse meno disciplinato, Enjolras avrebbe ammesso che l'estate stava passando un po' troppo in fretta. Le mattine a letto erano meravigliose. Ma non erano fatte per lui; non poteva dormire quando la sofferenza era incisa in ogni lineamento del volto di Grantaire. Era irrequieto. L'estate si stava facendo più calda e la rivoluzione stava arrivando. Così si alzava presto ogni giorno e andava al café per fare nuovi piani, nuove soluzioni, nuovi discorsi. (Grantaire gli caracollava dietro più tardi, perché alcune cose non cambiavano mai.)


Il Musain, una volta pieno di grida gioiose e studenti che discutevano, adesso era stipato di fucili. Una certa tristezza si stendeva sopra gli uomini (ragazzi?), c'erano guardie ad ogni angolo adesso, per controllare ogni pattuglia. Erano pronti. Avevano solo bisogno di un segno.


Forse era questo che stava facendo così male a Grantaire. Un giorno, mentre stavano dando agli uomini un addestramento da soldati (perché erano costretti. Non volevano essere soldati, né fare del male a nessuno. Ma c'era una linea rossa attorno al collo di Grantaire ed Enjolras non riusciva a smettere di pensare a cosa sarebbe successo se lui- loro- avessero vinto. Robespierre era stato il suo maestro e forse non era stata una cosa buona) E allora il cinico, Grantaire, doveva pensarla al contrario, perché si voltò e ringhiò qualcosa simile a "Ragazzi."


Iniziarono a litigare di nuovo, cattive, dure parole soffiate che confondevano gli altri, a mala pena a conoscenza della loro relazione ed erano colpiti dalle loro crisi. (avevano deciso insieme che ci sarebbe stato troppo da spiegare e ci sarebbe voluto troppo tempo, considerando la tendenza allo spettegolare che alcuni membri avevano). Finché un giorno Enjolras non trascinò Grantaire in avanti e pretese di sapere cosa c'era che non andasse in lui. Il cinico balbettò qualcosa come "stiamo mentendo, state mentendo e nessuno lo vuole ammettere. Stiamo tutti fingendo che sarà facile. Non lo sarà."


Ed Enjolras lo sapeva. Ovviamente lo sapeva ma Grantaire continuava ad allontanarsi. Aveva passato così tanto tempo a nascondersi, a tenere i suoi secoli ripiegati da qualche parte che gli sembrava impossibile che qualcuno fosse disposto ad ascoltarlo.


(Quella notte, Enjolras lo schiacciò sul letto, Grantaire che scalciava sotto di lui. "Mi stai facendo impazzire," morse il collo di Grantaire. "Nascondendoti da me. Voglio scuoterti fino a farti aprire per me- solo per me- e farti ascoltare- demolire ogni tua fortezza, finché non avrai più motivo di nasconderti da me." E Grantaire storse i polsi e gli si spinse addosso, agognando contatto.

"Liberami!" scattò, senza pensare. Ma era la personificazione di Parigi e la sua richiesta di libertà fece volare il cuore di Enjolras. Ed era buffo ma adesso si stavano toccando e Grantaire non poteva lamentarsi ma non era quello che intendeva, non era quello che intendeva)


Come poteva dirglielo, però? Adesso Enjolras gli sorrideva. Sapeva che lo rendeva frustrato, la costante distanza di Grantaire, la sua assenza di attenzione, ma non poteva, non poteva davvero credere in qualcosa che non fosse il suo amante. Almeno non adesso. Non quando le sue strade erano livide e le sue costole iniziavano a farsi vedere mentre la gente moriva di fame. E Enjolras provava a capire ma gli umani erano sempre umani.


La tensione crescente rendeva difficile trovare momenti di felicità. Non piacere, quello c'era ancora, ma quelle lunghe notti passate a parlare erano un lontano ricordo. Ci provavano ancora però. Si scambiavano sorrisi al café. Sedevano insieme, le gambe intrecciate sul divano. Una volta, quando Enjolras stava provando un discorso sull'educazione, con Grantaire che gli gridava critiche a cui rispondere- per poi vedere il cinico- in tono piuttosto confuso- dire, "Oh, sono d'accordo." E Enjolras lo fissò per un po', poi attraversò lentamente la stanza, gli prese il volto fra le mani e lo baciò.


La mattina dopo, Enjolras lo guardò e gli chiese: "Perché me? Perché, fra tutti, hai scelto me?


Grantaire rise, perché non era mai stata una scelta per lui. "Siamo attratti da ciò che ci manca, Apollo."


Non fu capace di smettere di ridere, le lacrime che gli scendevano lungo le guance finché, allarmato, Enjolras non gli prese la testa e lo obbligò a guardarlo. Fuori, le strade di Parigi scivolarono, come un serpente che si stendeva al sole.


"Che ti sta succedendo?" chiese Enjolras.


"I tamburi," disse Grantaire. Ovviamente. Come aveva fatto a non accorgersene prima? I tamburi stavano suonando, sostituendo il pulsare del sangue nelle sue vene. "I tamburi stanno suonando di nuovo."


La rivoluzione stava arrivando. Grantaire pensò di poterla sentire, grattargli il retro del collo dove la lama aveva colpito per prima, o forse era paura (o pie illusioni. Enjolras glielo chiese- "la gente si solleverà?"- e Grantaire sorrise e non stava mentendo, non davvero)


E anche se avesse mentito, sicuramente anche un santo avrebbe capito che doveva, se significava che Enjolras avrebbe continuato a toccarlo con tenerezza, a baciarlo e accarezzare le cicatrici sulla sua schiena. Ma ogni momento riecheggiava di quello che sarebbe successo. (questo è l'ultimo? Sta cercando di mandarmi a memoria come sto facendo io?) E così cercava di aggrapparvisi forte, Dio solo sa quanto ci provasse, ma continuavano a sfuggirgli di mano, ed ogni sorriso era intriso di tristezza.


I suoi sentimenti per Enjolras si intrecciavano con la reazione di Parigi alla violenza che si avvicinava. Le strade alternavano silenzio e rumore così come Grantaire alternava uomo e Città. (chi sono? Chi sono?) I giorni passavano e a volte Grantaire si sentiva soffocare sotto di essi, e a volte non sentiva nient'altro che speranza; luce che non bruciava ma si espandeva, spiegandosi sotto la sua pelle come ali. Le catacombe erano secche, l'acqua era sparita ma adesso erano fragili ed esposte e lui sperava e sperava.


Ma stava diventando difficile ignorare le lettere dalle altre Città, che aumentavano sempre di più, chiuse e non lette nei cassetti della sua scrivania.


X

Non sarebbe durata.


Gli umani erano come candele, calde e splendenti, ma veloci a bruciare. Enjolras era il peggiore, nel suo fuoco feroce. Puntava sempre alla prossima cosa da fare, e la rivoluzione stava arrivando. Enjolras diceva di poterlo sentire nelle ossa e guardava Grantaire speranzoso, fino a che la Città non annuiva, sperando disperatamente che non stesse mentendo. (non stava mentendo. Non avrebbe mai potuto mentirgli)


I tamburi suonavano quotidianamente nella sua testa. Ma il ritmo era diverso. Un continuo picchiare sommesso che lo faceva tremare anche nel calore del loro letto. Fu comprensibile che gli ci volle un po' per rendersi conto che era qualcos'altro. Dopo essersi aperto a cose che aveva tenuto nascoste per secoli, anche altro poteva uscire di nuovo.


"La chiamano Luna del Raccolto" disse velocemente ad Enjolras una sera. Meglio risolvere la cosa. "Quando la luna sembra arancione o rossa- ci sono- erano soliti esserci certi rituali. E' la festa in celebrazione degli antichi dei."


"E' anche conosciuta come Luna di Vino, o Luna Cantante," concluse Enjolras, senza neanche levare gli occhi dal suo lavoro. Era teso per lo stress, così gli ci volle un po' di più ad accorgersi del silenzio. Alzò lo sguardo e trovò Grantaire che lo fissava. "Pensavi davvero che non sarei andato a fare delle ricerche dopo che mi hai parlato dei tamburi? Dopo aver visto quei tatuaggi sulla tua pelle?"


"Pervertito," ribatté Grantaire. Enjolras arrossì. Era stato un interessante giro in biblioteca, poco ma sicuro.


"Disse il Dio della Virilità."


"Oh diamine," Grantaire si coprì gli occhi, "hai veramente cercato tutto, eh?"


"Dicono che dovresti avere delle corna. Sono deluso." Chiuse i suoi libri. "Ma perché me lo dici adesso? La Luna del Raccolto è in Autunno."


"Di solito sì. Ma c'è violenza per le strade e l'aria sta cambiando e posso sentirlo," rabbrividì per un momento prima di tornare in sé. "A volte... a volte il lato umano di una Città può... scivolare. Veniamo dalla Terra; è facile che veniamo sopraffatti dalla sua influenza- le sue foreste e correnti e antiche canzoni. Cerchiamo di reprimerlo ma, beh, alcune cose non possono essere ignorate. Volevo solo fartelo sapere."


"Se tu... scivolassi... io sarei in pericolo?"


"Ovviamente no," disse Grantaire, indignato. "Sarei sempre me stesso, solo un po' fuori controllo. Devi solo ricordarti di non scappare, mi farebbe solo venire voglia di darti la caccia. E non vuoi che succeda."


"E se volessi?" Enjolras mormorò, troppo piano perché Grantaire lo sentisse.


Per un po' se ne dimenticarono.


E poi, una notte, sorse una luna rossa.


Grantaire arrivò tardi a un incontro e rimase in un angolo per tutto il tempo. Enjolras non riusciva a capire se fosse ubriaco o arrabbiato per qualcosa. Non sembrava irritato, giocava distrattamente con una bottiglia, osservava. In modo strano, così che nessuno lo avvicinò.


La luna era piena e ben visibile quando Enjolras lasciò il café. Bassa sull'orizzonte, il colore sanguigno che proiettava strane ombre. Una Luna del Raccolto in Estate. Uomini da meno sarebbero rimasti in casa, ma Enjolras era stressato per l'imminente rivoluzione, e non ci aveva pensato, né aveva notato il modo in cui gli occhi di Grantaire avevano seguito ogni suo movimento durante l'incontro.


Ci fu un rumore alle sue spalle.


Improvvisamente consapevole di essere in una delle zone più buie di Parigi, Enjolras si voltò lentamente, esaminando l'area in cerca di una qualsiasi minaccia. Fu sollevato nel vedere Grantaire uscire dall'ombra.


"Grantaire!" chiamò, soddisfatto. Ma c'era qualcosa di sbagliato. La testa della Città era inclinata di lato, i suoi passi lenti e... stava strisciando, felinamente, verso l'altro uomo.

Un antico istinto primordiale fece fare ad Enjolras un passo indietro. I tatuaggi erano ritornati, solo che stavolta coprivano la pelle di Grantaire quasi interamente, raggiungendo le sue dita, circondandogli il collo, perfino guizzandogli intorno agli zigomi. Spesse linee verdi e blu che si intrecciavano, si contorcevano come rampicanti e sembravano espandersi ad afferrare tutto quello che avevano intorno- Enjolras incluso.


Grantaire si fermò quando furono a pochi pollici di distanza l'uno dall'altro, i suoi occhi erano dilatati in un ampio cerchio verde foresta. Chinò la testa sul collo di Enjolras e respirò profondamente.


"Grantaire?" Enjolras cercò di ignorare l'istinto che gli diceva di correre prima di essere preso e tenuto per sempre (o un altro istinto che gli suggeriva di andargli incontro e lasciarsi catturare) "Sii serio."


"Sono feroce." E poi ghignò con davvero troppi denti. "Adesso corri."


Ed Enjolras corse.


Come aveva potuto dimenticare della Luna del Raccolto? Sorella della Luna della Caccia. Quasi come Apollo per Artemide. In ogni modo, la luna era ben alta e la caccia era aperta.


Enjolras si mosse attraverso le strade. Grantaire era Parigi, poteva sentire ogni passo, ogni eco dell'affannato respiro di Enjolras, così rinunciò all'essere silenzioso e cercò soltanto di essere veloce. (poteva sentire Grantaire, lì, dietro di lui nell'ombra. La Città non si stava neanche sforzando, semplicemente lo osservava nel suo tentativo di scappare, divertito, prima di dargli il colpo mortale)


Non c'era davvero alcun pericolo, comunque. (Non ti farei del male!, aveva detto, e Grantaire non era l'unico ad avere fede) Enjolras si ritrovò a gioire della sensazione dei suoi polmoni che funzionavano, i suoi muscoli che si muovevano, scacciando lo stress e i problemi di essere un leader e lasciandosi andare. Le strade erano vuote, probabilmente per un motivo, e poteva correre e correre-


-ma c'era un po' di paura. Un antico istinto animale che gli ricordava di avere un predatore molto più grande alle calcagna. E anche quello portava il suo brivido. Se fosse riuscito a tornare al suo appartamento, vincendo in qualche modo quella corsa, superando una Città in furbizia, sarebbe stato qualcosa. (qualcosa che non voleva succedesse. Vieni, pensò, vieni a prendermi se ci riesci)


Avrebbe dovuto aspettarselo, in realtà. Le strade si contorcevano in modo strano, curvandosi e fondendosi fino ad essergli irriconoscibili, il sussurro dei mattoni che si spostavano come alberi che frusciavano in una foresta. Una città era semplicemente un altro tipo di giungla, e lui era intrappolato al suo interno. Il battito del suo cuore era come un tamburo quando raggiunse le scale del suo appartamento e Grantaire uscì dall'ombra e lo afferrò per la vita. Era stato lì ad aspettarlo per tutto il tempo. Enjolras non aveva mai avuto una vera possibilità.


Grantaire lo spinse contro un muro, togliendogli il fiato. Strofinò il naso contro i suoi capelli biondi, inspirando il suo odore mentre le sue mani gli stringevano i fianchi, possessive, strattonando la sua giacca rossa "Rosso," mormorò Grantaire, con voce un po' più profonda e roca del normale. "Così visibile nell'oscurità. Pensò che tu volessi essere trovato."


Prima che potesse rispondere (e parlare sopra al continuo cantilenare nella sua mente -preso, catturato, preda) Grantaire lo sollevò, piegandogli le gambe sopra le sue spalle e si spinse addosso a lui finché Enjolras non ebbe difficoltà a trattenersi dal seguire la spinta con il bacino. La Città si umettò le labbra lentamente, e la sua voce diventò come denso vino rosso. "E' questo che vuoi?"


E perché era testardo, e sorpreso, e forse curioso di vedere cosa sarebbe successo, Enjolras rimase in silenzio, sprezzante. Provò a girare la testa, ma Grantaire gli afferrò il mento, spingendosi ancora di più contro di lui per tenergli la testa diritta, e lo baciò con forza, facendo scivolare la lingua nella sua bocca ed assaggiandolo, mordendogli il labbro inferiore fino a farlo ansimare. E Grantaire chiese, facendo le fusa "E' questo che vuoi?"


"Sì!" e la casa si contorse e furono nella sua stanza, sul suo letto e sarebbe stato difficile da spiegare la mattina seguente. Ma Grantaire si stava togliendo la camicia ed Enjolras riusciva solo a pensare ai tatuaggi che scorrevano sul suo torso, nodi celtici e scuri viticci, foreste e creature che le attraversavano per rapire via bellissimi giovani. (per rapire lui)


Completamente nudo, Grantaire lo sovrastò, con un desiderio così selvaggio sul volto che Enjolras si sentì come nudo. Gli sembrò inevitabile quando Grantaire ordinò: "Spogliati."


"E se non lo facessi?" (perché non era una preda) Grantaire ringhiò e gli saltò addosso, spingendolo sul letto. Enjolras si piegò all'indietro, scoprendo la pallida curva del suo collo. Grantaire si rilassò all'instante, mordendolo leggermente prima di scivolare in basso, aprendogli la camicia e baciandogli il petto. "Ti ho vinto. Ho vinto la caccia e voglio il mio premio." Aprì i pantaloni di Enjolras. "Ti ho preso, coniglietto, e adesso ti mangio." E con quelle parole lo prese in bocca.


Enjolras gridò e spinse in avanti il bacino- o almeno ci provò- Grantaire gli afferrò un fianco e lo trattenne mentre succhiava e leccava, tirandosi su per far passare la lingua attorno alla cima prima di prenderlo tutto di nuovo.


Quando pensò che stesse per venire, Grantaire si tirò su ed Enjolras mugolò e sarebbe stato imbarazzante se non fosse stato per lo sguardo soddisfatto che Grantaire gli lanciò mentre gli apriva le gambe. Gli porse le dita "Succhia" e dolorante per il desiderio, Enjolras obbedì, leccandogli le dita prima di prenderne in bocca tre insieme, cercando di renderle più bagnate possibile.


Grantaire emise un suono d'impazienza e le tirò via, portando la mano in basso ed Enjolras inarcò la schiena quando sentì entrare direttamente due dita, che sforbiciavano e lo allargavano. Il dolore al suo membro era insopportabile e cercò di toccarlo. Grantaire ghignò e torse la camicia di Enjolras in modo da tenergli le braccia bloccate ai lati mentre continuava a prepararlo- e tutto quello che Enjolras poté fare fu spingere il bacino contro le sue dita e-


"Ti prego," sussurrò alla fine. Grantaire fece uscire le dita, lasciando Enjolras con la sensazione di vuoto. Leccandosi le labbra, la Città fece scorrere le mani sul petto di Enjolras, tirandogli le braccia e aprendogli ancora di più le gambe. Facendogli ben capire quanto fosse in suo possesso. (preda)


"Preso," mormorò, e i suoi occhi erano neri come la pece. "Mio." E si spinse dentro, Enjolras gridò ma Grantaire ingoiò il suono mordendogli la bocca, spingendo più forte e più a fondo fino a che stelle bianche non esplosero davanti agli occhi di Enjolras e venne. Grantaire rise, un suono selvaggio, gioioso.


Più tardi, quella notte, Enjolras si svegliò confuso. Il corpo gli doleva in modo molto piacevole, e Grantaire gli stava baciando delicatamente i lividi. "Mi dispiace," sussurrò, i suoi occhi di nuovo blu.


"Non importa," disse Enjolras con voce roca, stiracchiando un braccio prima di passarglielo intorno. Lo stress della rivoluzione se n'era andato. Sentiva ogni muscolo rilassato. Grantaire sorrise e lo baciò più a fondo, le dita che accarezzavano il punto in cui Enjolras era ancora stirato ed aperto. Blu e verde cominciarono a riaffiorare sulla pelle di Grantaire. Enjolras spalancò gli occhi. "Non è ancora finita?"


"Virilità, ricordi?" rise Grantaire, e le nuvole che coprivano la luna si spostarono e tutto era nuovamente dipinto di rosso. Fecero l'amore ancora due volte quella notte, Enjolras su mani e ginocchia, gemendo, con Grantaire che gli teneva il retro del collo, e poi fu Grantaire ad essere tenuto fermo a contorcersi mentre Enjolras lo cavalcava, mordendolo ogni volta che provava a strappargli un bacio, sprezzante e senza fiato per il potere.


(il segno di un morso rimane su un fianco di Enjolras: un tocco di verde e blu che non vuole andarsene)


X


Non poteva durare.


Enjolras non poteva durare.


I tamburi si erano fermati per un po', ma Grantaire sapeva che non sarebbe durato. Non poteva impedirsi di pensare che fosse stata l'ultima caccia di un vecchio lupo, la luna che gli cantava l'ultima triste canzone, l'ultima gioia prima della fine- l'ultimo dono della terra e per chi era quella canzone? Lui o...


Grantaire osservò la sua testa dorata. Non riusciva ad immaginarsi Enjolras con i capelli grigi, o con rughe sul suo volto di marmo. Era destinato alla giovinezza, Grantaire lo sapeva nel profondo dentro di sé, non avrebbe mai visto i trent'anni. (così giovani, perché sono sempre così giovani). E così, era tempo di dirgli una cosa.


"C'è una storia su una Città che amò un umano, una volta, e cadde con lui." Enjolras si irrigidì. Nonostante non potesse vedergli il volto da quell'angolazione, sapeva che si stava accigliando. "E' una storia che ogni Città insegna a quelle più giovani, per avvertirle." Roma l'aveva insegnata a lui e Londra. Erano stati entrambi pessimi allievi.


"Chi era?"


"Pompei." Ed Enjolras espirò lentamente. Sapeva dove voleva arrivare. "Lei aveva un amante. Non era un uomo importante, a volte non lo sono, sai. Gli uomini non hanno sempre bisogno di scuotere le stelle perché una Città li ami. Per quello che ricordo, era gentile. Il suo più grande difetto era l'essere umano, così morì."


"Cosa accadde?" Enjolras alzò lo sguardo. Grantaire passò una mano fra i suoi riccioli.


"Lei si lanciò nel Vesuvio."


Enjolras si alzò a sedere, le lenzuola che cadevano mentre Grantaire si accigliava e cercava di farlo ritornare al caldo. "Suicidio." Non era religioso, ma i suoi occhi erano sconvolti. "Le Città possono farlo?"


"No." Una memoria confusa; fumo che si innalzava così in alto nel cielo che tutti si fermarono per la strada e lo osservarono. "Non senza conseguenze."


(portarono le Città più giovani per quelle strade coperte di cenere, dopo, per vedere le statue delle persone che avevano provato a scappare. Persone che adesso erano bloccate nella pietra, intrappolate e contorte dal terrore, ogni volto distorto in una maschera di morte. Una lezione, le Città più vecchie dissero gravemente. Non innamoratevi mai di un umano.)


"Nel momento in cui ci si lanciò, il vulcano eruttò. Tutti morirono. E' già abbastanza brutto quando una Città viene uccisa o muore per un incidente- rivolte, confusione- ma il suicidio...quando una Città perde ogni voglia di vivere, niente sopravvive."


Enjolras lo stava fissando terrorizzato; e Grantaire poteva vederlo passare fra i suoi ricordi dell'ubriacone, solo e miserabile. La Città rise; era un suono sgradevole. "Non ti preoccupare. Ci vuole davvero tanta volontà per ignorare il desiderio di vita della tua gente abbastanza a lungo da farti del male. Io sono stato a mala pena capace di aprire le cicatrici sulla mia schiena."


Il libero arbitrio non era sempre un'opzione valida per lui.


(Non è la stessa cosa per altre Città più forti. Nonostante non le invidiasse. Si ricordò di essere stato una colonia con Lisbona, due bambini in un letto con le coperte tirate sopra la testa. Lei aveva tracciato le cicatrici sui suoi polsi e sussurrato "Non conta ciò che possiamo superare, ma ciò che scegliamo.")


Enjolras stava fissando l'oscurità. Grantaire reclinò la testa all'indietro. "Preferiresti che non te l'avessi detto."


"Un po'," ammise il biondo. "Quello che ci insegnano è completamente diverso: che le Città hanno bisogno dell'influenza umana. Che ne sono dipendenti, che senza di noi," e fu il suo turno di ridere amaramente. "Che senza di noi le Città sarebbero incapaci di credere, pensare, di vivere o perfino morire."


"Vedrai," Grantaire rispose gravemente.


Quella notte, mentre stavano a letto insieme, Enjolras teneva la testa sul suo petto, come sempre. Ma nessuno di loro dormì. Tutta Parigi sembrava trattenere il fiato, aspettando che la diga si rompesse e che la rivoluzione invadesse le strade di nuovo.


X


Una scena in una stanza illuminata dal sole:


Tempera rossa sulle mani di Grantaire. Pensò di star sognando di nuovo, così sorrise. "Sono innamorato di te, lo sai."


Enjolras lo guardò. "Lo so."


Ed è abbastanza.


Perché Enjolras era il suo sole. E non si sarebbe potuto dire a Grantaire di non stargli vicino più che a un uccello di non volare.


Così sì, mentì. Strinse i suoi dipinti e finse che la felicità sarebbe stata abbastanza per cambiare i colori del mondo in qualcosa di acceso e rosso, rosso, rosso.


(lettere urlavano in bianco e nero)


La realtà era oscurità che si avvicinava da ogni lato, inevitabile. Ma Grantaire era accecato dal sole.


Dall'amore.


L'amore era la bugia che gli permetteva di sperare. Lo lasciava a costruire le sue ali di cera e fingere che i suoi sogni fossero di volare, non cadere.







Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo

Per questo capitolo, la traduzione è di  piuma_rosaEbianca e il betaggio di barricadeuse, abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 17 aprile.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.



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Capitolo 12
*** Chapter 12 ***


C’era qualcosa che prudeva, nel petto di Grantaire. No, era più una stretta; la pelle appena sopra il cuore irritata e fastidiosa. Se la strofinò senza badarci troppo, mentre sedeva al suo solito tavolo, al café. Non faceva così male da allarmarlo. E, francamente, preferiva di gran lunga guardare le clavicole che spuntavano fuori dalla camicia di Enjolras, che pensare a quello.

 

Enjolras stava parlando, la testa bionda che brillava alla luce di candela e forse Grantaire aveva bevuto un po’ troppo questa volta, ma i sogni lo stavano tormentando, nell’ultimo periodo. Gli altri uomini correvano avanti e indietro portando messaggi. L’aria era densa di attesa. Stavano sciorinando numeri e contando le armi che avevano a disposizione. Non era forse eccitante? Il colore sulle guance del suo amato lo fermò dal dire alcunché, ma Grantaire era già disgustato dall’odore della polvere da sparo.

 

Il dolore al petto si fece più acuto.

 

Stava succedendo qualcosa, a Parigi. Era poco prudente fare quello che stava per fare in pubblico, ma tutti stavano guardando al loro capo senza paura, e non lui. Grantaire appoggiò indietro la schiena, chiuse gli occhi, e piano espanse i suoi sensi nelle strade. Attraverso il café (possiamo farcela/così solo/avrei un po’ di fame/guardami guardami perché Jehan non mi guarda), e poi fuori dalla porta, dove incontrò una figura famigliare.

 

Marius entrò con passo leggero nel café.

 

Grantaire si sentì improvvisamente come se avesse avuto la bocca piena di zucchero.

 

Essere una Città portava sofferenza. Ma c’erano anche sprazzi di gioia. E questo ne era un esempio. Perché se una Città poteva sentire il dolore dei suoi figli, allo stesso modo poteva sentire quando si innamoravano.

 

Ed era una sensazione che Grantaire non avrebbe scambiato con null’altro al mondo. Quando Marius entrò nell’edificio, inebriato d’amore, Grantaire poteva percepire tutto. Vibrava nel ragazzo come una canzone silenziosa. Se il suo amore per Enjolras era selvaggio, come il fuoco, come il sole, come le stelle che cadevano dal firmamento, l’amore di Marius per (Cosette, Cosette, non so cosa dire) era delicato. Non meno forte, no, ma gentile, come un’alba di primavera, come il battito d’ali di un’allodola, come (un futuro: una bambina dai capelli biondi, una cambretta bianca e rosa e lunghi giorni d’estate passati ad essere chiamato ‘papa’) e Grantaire si sentì investito di meravigliosa dolcezza.

 

Oh, amico mio, penso Grantaire, pieno d’affetto, che vita avrai.

 

(non notò, allora, che molti visi mancavano da quel futuro)

 

Era troppo impegnato a sorridere, gli occhi ubriachi fissi sul tavolo, perso nei meandri dell’amore, e non sentì Joly chiedere a Marius cosa avesse. L’esplosione di emozione che venne dal ragazzo fu indimenticabile, però; migliore di qualsiasi vino. Non sarebbe sembrato strano se avesse annusato Marius, vero? Erano amici. Annusarsi a vicenda era accettabile. Poteva avvicinarsi. Magari non troppo, per non invischiarsi in tutto quel suo fanatismo napoleonico, ma comunque. Abbastanza vicino.

 

«Riesco a vederli, adesso», disse, sognante. «Marius appartiene alla stirpe dei poeti. Devono essere degli strani amanti. Posso immaginare com’é. Estasi nelle quali si dimenticano di baciarsi. Casti sulla terra, ma uniti nell’infinito. Sono anime dotate di sensi. Dormono insieme nelle stelle.»

 

Era stato un poeta, una volta. Si era dimenticato anche quello. Gli altri ridevano delle sue parole, prendendo in giro Marius per il suo amore illuminato dalle stelle, come l’aveva definito Grantaire. Dietro di loro, Enjolras si alzò, gli occhi scuri di irritazione. Degno a malapena Grantaire di uno sguardo, sapendo benissimo da dove arrivava tutta quell’atmosfera, e si girò a rimproverare Marius.

 

Il dolore colpì Grantaire di nuovo. E questa volta non riusciva a ignorarlo. Era come delle corde di violino, tese sempre di più, sempre più strette, e gli impedivano di respirare, tutte le strade di Parigi che cadevano nel silenzio mentre lo strumento tremava, si incurvava, e finalmente le corde si spezzavano.

 

Da qualche parte, la luce di un’anima si spense.

 

La morte affligge tutte le Città, ma alcune morti sono peggio di altre. Un condottiero, o un amante, qualcuno caro alla Città o al popolo (spesso entrambi), qualcuno la cui morte avrebbe causato un grande lutto. Ma Grantaire, avvolto nella luce di Enjolras, non riusciva a vedere bene oltre a quell’alone dorato. Gli Amis erano tutti lì presenti, e non riusciva a pensare a nessun altro la cui perdita avrebbe potuto causargli una reazione simile.

 

La vista gli si sfocava, per colpa dell’alcool o della visione, non ne era sicuro. Grantaire sapeva che avrebbe dovuto parlarne ad Enjolras, ma l’altro era così intento nell’arringare gli altri e Grantaire non aveva cuore di interromperlo.

 

Altri non la pensavano così.

 

Una figura minuta corse su per le scale e tirò Courfeyrac per una manica. E Courfeyrac chiese silenzio, proprio mentre Grantaire riconosceva finalmente ciò che stava provando. La voce del ragazzino volò sopra le loro teste, alta e brusca.
«Il generale Lamarque-»

 

«-é morto.» sussurrò Grantaire. Nessuno sentì il suo eco, anche se Combeferre lo guardò, l’espressione intellegibile.

 

Ma non che importasse molto, non quando il dolore stava uscendo ad ondate dal corpo di Enjolras. E il dolore era il sentimento più orribile che una Città potesse sentire. Era salato, come il mare, navigava nei loro occhi e si solidificava sulla loro pelle. E gli umani portavano il lutto per così poco. Come le onde si portano via un’impronta nella sabbia, per loro svanisce non tanto il dolore, quanto la memoria di chi stanno piangendo. Per le Città, un lutto può durare secoli.

 

(dimmi, Enjolras, piangerai per me tanto quanto io potrò piangere per te)

 

Ma Enjolras non si sentiva così passeggero. Del resto, non faceva mai le cose a metà. Il dolore, per lui, era come un’ustione che divorava la gola di Grantaire. Enjolras si alzò al di sopra del rumore degli altri uomini, e tutti si voltarono verso di lui, e lui li guardò uno per uno, gli occhi scintillanti di lacrime, ma lo sguardo fisso, sicuro, fermo.

 

(C’erano delle lettere nel cassetto di Grantaire)

 

«Lamarque é morto.»

(Ci scrivi che ti sei innamorato di un umano)

 

«La sua morte é il segno che aspettavamo.»

 

(Non pensavo nemmeno fosse possibile)

 

«Il giorno del suo funerale, quando onoreranno il suo nome, quella sarà la nostra occasione!»

 

(I fiori stavano fiorendo di nuovo, a Delfi. Qualcuno sta venerando Apollo)

 

«Il nostro grido di battaglia raggiungerà ogni orecchio!»

 

(Quello che stai facendo é malsano- un’ossessione)

 

«Il nostro tempo é vicino, così vicino che ci agita il sangue nelle vene,»

 

(Soffrirai per questo, ovviamente. Sarai ferito e col cuore spezzato. Cadrai. E’ inevitabile. Quindi, perché non godere del volo, finché dura?)

«Ma dobbiamo essere attenti.»

 

(alcune non le aveva mai lette)

 

«L’esercito che combattiamo é pericoloso,»

 

(Cosa stai facendo? Smettila immediatamente)

 

«con uomini e armi che non potremo mai eguagliare.»

 

(Non riesco più a sentirti, cosa sta succedendo?)

 

«C’é un prezzo salato che potreste pagare.»

 

(Ti sei appena ripreso, non lasciarci di nuovo!)

 

«E’ il momento di decidere chi siete, e per che cosa combattete.»

 

(Non farlo)

 

«Per che cosa siete disposti a morire.»

 

(Non farlo)

 

«I colori del mondo stanno cambiando.»

 

(Non farlo)

 

«Il popolo lo sa, e quando chiameremo, verrà.»

 

E Grantaire stava correndo fuori, perché non riusciva a respirare. Barcollò lontano dal café, in uno dei vicoli, appoggiandosi al muro mentre cercava disperatamente dell’aria.

 

«Grantaire» la voce di Enjolras dietro di lui. «Stai bene?» la Città si chiese se avrebbe mai notato la sua assenza, se non fosse sceso in strada a mandare dei messaggi ai loro alleati.

 

«Non esattamente» disse Grantaire. Tutto intorno a lui, le strade si spostarono, di poco; si preparavano all’impatto. «Ma avevi ragione. Il tempo é adesso. Adesso.» Era troppo buio perché Enjolras potesse vedere gli occhi della Città, e quindi sorrise.

 

«Lo so. É solo l’inizio. Riesco a sentirlo anch’io.»

 

Grantaire si rialzò dal muro, nonostante le gambe che ancora sentiva deboli. La sua mano si posò sulla spalla di Enjolras, prima di accarezzargli i capelli biondi. «Sei stanco, amore mio. Vieni a letto con me?»

 

Enjolras si allontanò. «Non stanotte. Mi dispiace, ma l’ora é arrivata. Dopo questo, cambierà tutto. Avremo tutto il tempo del mondo.» Enjolras sorrise di nuovo, radioso nella luce che proveniva dal café. Grantaire rimase nelle ombre del vicolo. Così giovane… «Dopo questo, posso aiutarti a guarire.»

 

E si separarono.

 

In quell’istante, mentre guardava Enjolras andare via, Grantaire rimpianse di non averlo baciato. Il bisogno era così affilato e doloroso che lo colse di sorpresa. Scosse la testa. Non avrebbe dovuto preoccuparsi; avrebbe potuto baciarlo dopo. C’era sempre domani.

 

(quella notte, Grantaire sognò la pioggia)

 

X

 

Era il 5 giugno 1832, e il popolo stava cantando.

 

Il mattino era privo di colori, come se una secchiata d’acqua avesse lavato il cielo. Ma non era un problema, la giacca rossa di Enjolras era abbastanza. Gli stava bene. Grantaire si sistemò meglio il suo berretto rosso (una memoria di anni prima), perché gli nascondesse gli occhi.

 

Erano nelle strade, ai lati della via per la quale passava la processione funebre.

 

Grantaire prese un profondo respiro, e tutta Parigi sembrò tornare in vita.

 

I ribelli corsero avanti, prendendo possesso della carrozza, e i cavalli dei soldati. E dietro di loro, il popolo cominciò a cantare la loro canzone. Tutti i ricordi che Grantaire aveva della rivoluzione ritornarono nel suo respiro e le sue mani iniziarono a tremare. C’erano troppi soldati.

 

Si arrampicò sulla bara assieme al suo capo, guardando le guardie galoppare via. La folla applaudì.

 

«Torneranno», disse. Enjolras annuì, ma continuò a tenere ben sollevata la bandiera rossa.

 

Un segnale passò, dalle prime linee, indietro, a Combeferre, ad Enjolras. Grantaire detestava avere ragione. I soldati si erano allineati davanti a loro, ancora a cavallo. Le loro pistole scintillavano (una carica ad Agincourt, una linea di difesa a Gerusalemme, una guerra in Spagna; era una vita ben nota.)

 

«Aspettate, finché potete.» stava dicendo Enjolras a qualcuno.

 

Il popolo stava cantando. Le guardie aspettavano. Per un attimo, Grantaire pensò alla pace e al cambiamento e ai suoi fratelli uomini e sperò.

 

Poi un colpo, e una donna cadde a terra, il vestito intriso di sangue.

 

(la parte peggiore era che Grantaire poteva sentire quel ragazzo. Perché la guardia era un ragazzo. Grantaire conosceva il suo terrore e le dita nervose sul grilletto. Era un bambino di Parigi, e Parigi non poteva non conoscerlo, non poteva non amarlo. E quindi Grantaire chiuse gli occhi quando la folla lo prese e lo trascinò via dalla sua linea e, attimi dopo, lanciava il suo corpo senza vita vicino a quello della donna. Aveva avuto un figlio della sua età, una volta)

 

I soldati caricarono, e tutti i pensieri di Grantaire vennero consumati da Enjolras.

 

Quel coraggioso, magnifico pazzo aveva solo una pistola, e usava la bandiera per respingere i cavalieri che si avvicinavano troppo. Anche Marius era lì, cercando di combattere, ma Enjolras vestiva di rosso. Rosso, brillante rosso. Grantaire riusciva a percepire che metà della Guardia Nazionale notavano quel colore. Tre presero la mira.

 

Enjolras venne spinto a terra, Grantaire sopra di lui, le braccia spalancate mentre prendeva due pallottole nello stomaco. Nel caos generale, nessuno lo vide cadere. Guardò in basso e ghignò verso Enjolras, i denti macchiati di sangue, sentendosi appena un po’ selvaggio. «Non andrò al tuo funerale.»

 

«Vai, devi andartene via da qui» esclamò Enjolras, di nuovo in piedi. «Li costringeremo ad arretrare e poi alzeremo la barricata, ma tu devi andare in un posto sicuro.»

 

«É quello che ho cercato di dire a te

 

Ma quando era mai stato capace di negare qualcosa ad Enjolras? E del resto, se fosse stato scoperto lì, chissà cosa sarebbe successo. Il massacro dei ribelli per portarlo a palazzo, di sicuro.

 

Con quella paura che si addensava nella mente, Grantaire si allontanò dal centro dello scontro, una mano premuta sul suo stomaco sanguinante. Aveva subito ferite peggiori, senza dubbio, ma il dolore continuava a farsi sentire. Lembi di pelle a brandelli circondavano la pallottola, cercando di buttarla fuori. Le strade gemettero, attorno a lui, ben udibili anche sopra al fragore del combattimento, sapendo che la loro Città era ferita. Un vicoletto spuntò fuori in mezzo a due edifici, offrendogli un posto dove potersi riposare.

 

Grantaire ci si infilò con sollievo. Non appena il rumore degli spari e delle grida fu svanito in lontananza, si fermò e sollevò la camicia, con una smorfia. Anche se il tessuto bagnato si era attaccato ai buchi nel suo stomaco, non sembrava essercene dentro alle ferite, il che era positivo, dal momento che le intenzioni erano pericolose persino per le Città. Alla fine, le ferite smisero di sanguinare, espellendo il metallo e ricucendosi nel giro di qualche secondo. Grantaire sospirò.

 

Da dietro di lui provenne il suono di un moschetto che cadeva da mani paralizzate.

 

Grantaire si irrigidì, quasi fosse un cadavere.

 

Si girò, piano, pieno di orrore, e vide una Guardia Nazionale fissarlo. L’uomo era abbastanza vicino da aver visto le ferite guarire, e abbastanza intelligente da capire cosa significava.

 

«Pairigi…», sussurrò la guardia, reverente. Allungò una mano tremante, «Tu sei Parigi.»

 

In un qualsiasi altro momento, Parigi gli sarebbe saltato al collo e l’avrebbe ucciso. Parigi. Parigi l’avrebbe fatto, sì; ma Grantaire no. Era così immerso nella sua vita umana che non poteva compiere un simile atto, non lì, non adesso. Non quando, guardando dentro agli occhi dell’uomo, del giovane uomo, sapeva che aveva una famiglia; una madre e dei fratelli. Sapeva che non avrebbe davvero voluto diventare una Guardia Nazionale, ma la paga era buona, che la divisa gli irritava la pelle e che il fucile era pesante da portare. Che aveva seguito quell’uomo col berretto rosso- Parigi- nella speranza di combattere un vero ribelle invece di sparare indistintamente sulla folla.

 

E Grantaire… semplicemente non poteva ucciderlo. La guardia si avvicinò ancora, gli occhi umidi e spalancati di meraviglia e Grantaire indietreggiò.

 

«Ti prego, non andartene», implorò la guardia.

 

Era così trasfigurato dalla vista della sua Città che non vide Combeferre arrivargli alle spalle. Il rivoluzionario lo colpì alla nuca e corse verso Grantaire, controllando che non fosse ferito.

 

«Cosa ci fai qui? Avresti potuto essere scoperto.» Combeferre spostò lo sguardo sulla guardia e Grantaire lo vide, chiaro come la luce del giorno, mentre soppesava la vita del giovane e si chiedeva se valesse o no la pena di sprecare una pallottola. «Ce n’era solo uno? O qualcun’altra ti ha visto guarire?»

 

«No… non c’era nessun altro.»

 

«Le armi sono tutte riposte altrove. Di lui ci occuperemo dopo, ma per ora, devi andartene.» Combeferre indicò lo sbocco del vicolo, proprio dove c’era il café. Ma Grantaire rimase immobile dallo shock.

 

«Tu… tu lo sai?» La risposta fu uno sguardo esasperato. Ma certo, che domanda stupida. Combeferre sa sempre.

 

«Adesso vai! Dì a Bossuet e a Joly che arriverò presto anch’io!»

 

Grantaire scattò, la mente che volava. Dopo decenni passati a nascondersi, si era fatto scoprire tre volte nel giro di un anno. I tatuaggi non comparvero, talmente era confuso. Era questo, allora? Le lettere sulla sua scrivania, il popolo per le strade, gli umani che chiamavano il suo nome. Era questo? Era questo il suo ritorno?

 

Corse dentro il café, senza sapere bene se essere eccitato o terrorizzato; anche se sul suo viso si stava facendo strada un sorriso. Joly e Bossuet stavano bevendo ad uno dei tavoli e lui afferrò quell’ultimo, ignorando lo sguardo preoccupato che gli lanciò Joly (anche se, doveva ammetterlo, aveva un’aspetto da folle)

«Stanno arrivando!», disse Grantaire, «Stanno arrivando a costruire la barricata!»

 

«Dove?», chiese Joly.

 

«Questo é un buon posto», Bossuet era in piedi, e sorrideva. «Qui va bene.»

 

Si spostarono in strada, aspettando i loro compagni. Grantaire fece per seguirli quando una voce femminile lo fermo. «Parigi.»

 

Per un unico, isterico istante, pensò che qualcun altro lo avesse scoperto. Musichetta, forse, o la proprietaria del café, o anche una donna qualsiasi che passava per la strada, considerando come stavano andando le cose. Invece, ad avvicinarsi a lui fu una figura sottile, che si abbassò il cappuccio. Una cascata di ricci castani ne piovve fuori, e si ritrovò a guardare un familiare paio di occhi blu.

 

«Parigi», disse lei, di nuovo.

 

«Bordeaux», sussurrò il fratello. «Cosa ci fai qui?»

 

«Potrei chiederti la stessa cosa. Nel nome del cielo, cosa pensi di fare?»

 

«Quello per cui sono famoso.», Parigi cercò di sorridere. Ma dallo sguardo terrificato della sorella, capì che forse non aveva avuto molto successo. Ed era consapevole del fatto che la gente li stesse osservando. Anche nel suo stato perennemente disfatto, Bordeaux era una visione, e la maggior parte delle sue cicatrici erano nascoste dal vestito. Era troppo bella per intrattenersi con uno come lui. «Dovresti andartene di qui, tesoro, presto il combattimento arriverà qui. E non fare quella faccia, non sei stata forse tu a dirmi di- di-»

 

«Ti ho detto di andare a letto con qualcuno. Ti ho detto- Ho sperato che finalmente ti saresti divertito un po’ e avresti allontanato l’ombra di Jeanne. Non ti ho detto di cominciare una rivoluzione, di metterti in pericolo, di mettere noi in pericolo! Non ti ho detto di… di innamorarti, non di un umano.» La sua voce si spezzò, sull’ultima frase.

 

Le mani di Grantaire stavano di nuovo tremando.

 

«Cosa, sei qui punirmi?»

 

Bordeaux gli afferrò le mani e non le lasciò andare, anche quando lui provò a strattonarla. Gli occhi di lei mandavano lampi.

 

«No! Sono qui perché hai smesso di rispondere alle nostre lettere. Hai idea di quanto siamo preoccupati? Eravamo così speranzosi quando hai ricominciato a scrivere, ed é stato orribile vederti svanire di nuovo. Ti sei dimenticato che anche noi ti amiamo? Ti amiamo! Sei nostro fratello! Sei stato nostro fratello da molto prima di tutto questo!»

 

Stava piangendo. Parigi liberò le mani, piano. Non aveva risposte da dare.

 

«Dovresti… dovresti andartene, Bordeaux. Vai via.»

 

«Non posso. Sono qui per portarti via. Per tenerti al sicuro, perché l’ultima volta non ci siamo riusciti, e le conseguenze sono state disastrose.»

 

«Devi fare quello che ti dico io, Bordeaux. Io sono la Capitale.»

 

«Lo sei?» chiese Bordeaux. «Perché nessuno di noi lo sente più, ormai. Nessuno riesce a sentirti, nei confini della nazione. Sembra che tu sia già morto.»

 

«Devi andartene.»

 

«Ti prego…», gli occhi di lei erano così blu, e Parigi si chiese se anche i suoi lo erano mai stati, così brillanti. «Devi capire, questa cosa non sta succedendo da nessuna altra parte. Sono solo loro! Questa ribellione non potrà mai vincere. Non lasciare che questo tuo Apollo ti bruci, non un’altra volta.»

 

I loro occhi erano simili, si riempivano di lacrime allo stesso modo, allo stesso momento. «Lo amo.»

 

«Ed é per questo che ti farà soffrire.»

 

«Grantaire!» Riconobbe quel grido di gioia. I Les Amis stavano riempiendo la strada, correndo via dal cuore del tumulto, raccogliendo mobili per costruire la barricata.

 

«Parigi», disse Bordeaux, frenetica.

 

«Grantaire!»

 

«Parigi.»

 

Enjolras.

 

Era una scelta così facile.

 

Bordeaux rimase a guardare, mentre Parigi si allontanava. Grantaire le sorrise tristemente.

 

«Dovresti andartene, tesoro.»

 

L’uomo che le stava parlando non era suo fratello.

 

«Grantaire!»

 

Continuò ad allontanarsi.

 

X

 

Bossuet aveva ragione. Era un buon posto per una barricata. Il Corinthe creava un ostacolo, rue Mondetour era stata chiusa a sinistra e a destra, e l’unica via percorribile era rue Saint-Denis. Courfeyrac e gli altri chiamarono gli inquilini delle case, incitandoli a buttare giù tutti i mobili che potessero, mentre gli altri raccoglievano rocce e sampietrini e persino un carro rovesciato, per costruire la barricata.

 

Grantaire aveva ancora delle schegge di legno nella pelle, conficcate lì da quando aveva costruito altre barricate. Decenni prima, ma ancora facevano male più delle cicatrici sulla schiena. Non poteva farlo di nuovo.

 

E quindi scivolò attraverso le strade, indebolendo i cardini delle porte e dei cancelli che i Les Amis sarebbero corsi a prendere. Chiuse tutte le aperture delle case, fece sparire i vicoli, come se non fossero mai esistiti. Si fermò vicino all’apertura di una fogna, chiedendosi se qualcuno avrebbe potuto essere così disperato da usarla, ma alla fine qualcosa lo fermò (l’immagine di una ragazza dai capelli biondi). Grantaire passò oltre, lasciandola aperta. I tetti si inclinarono, pesanti di fango; sarebbe stato difficile per i cecchini appostarsi lì sopra. La strada stessa sembrò restringersi, seguendo la sua volontà, e gli uomini erano così intenti che non si accorsero dell’artista che camminava tra di loro, passando le mani sui muri.

 

La barricata crebbe. Ad ogni nuova strada bloccata riusciva a sentire un dolore acuto, come se alcune delle vene che correvano verso il cuore venissero tagliate. Ma era quello che erano le rivoluzioni, dopotutto, no? Le strade di Parigi sentivano il suo tocco. Si appoggiarono a lui, offrendogli i loro sussurri, ricordi di sangue che era entrato per sempre nelle loro pietre. Lui ascoltò, e ricordò.

 

Ricordò la prima barricata mai costruita, nel 1588, i soldati stranieri nelle sue strade e la Lega Santa che gridava contro il loro Re e sangue che inondava i gradini della chiesa. Ricordò il 1648, la fine della Guerra dei Trent’Anni ma non delle tasse. Non del sangue, quando il popolo scese di nuovo in strada. Si era unito a loro, quella volta, in piedi in cima alla barricata con i suoi (amici? Come si chiamavano? Ecco qualcosa che avresti dovuto scrivere nelle tue lettere, Parigi), senza sapere se sarebbe stato l’inizio di una serie infinita di guerre civili. Di una serie infinita di morti. C’era sempre sangue nelle strade di Parigi. Ormai lo sapeva.

 

Non erano quelli i ricordi che voleva. Ma erano quelli che le strade gli potevano dare, e quindi Grantaire li prese tutti, ogni scheggia, ogni sasso, e se li caricò sulle spalle, come tutte le Città sono costrette a fare.

 

Erano pesanti.

 

Guardo alla barricata in costruzione e pensò, Eccoci di nuovo qui, amici miei. Mi chiedo, é davvero cambiato qualcosa?

 

Non era già successo tutto, prima? Non c’era forse stato Robespierre, là in piedi, una volta, vestito di rosso? Non era stato forse Napoleone che aveva avuto la folla che cantava per lui?

 

Tutti questi uomini, non erano forse stati ragazzi, prima?

 

Gli sembrava che tutti i fantasmi del passato cercassero di sollevarsi dal terreno e trascinarlo giù. Traballò verso il fondo della strada, la mano appoggiata alla barricata, alzando gli occhi verso Enjolras prima che le gambe gli cedettero.

 

Joly gli fu immediatamente accanto, con altri Amis che lo guardavano preoccupati.

 

«Sta bene?»

 

No, no sto bene. Bordeaux aveva ragione; c’é qualcosa di sbagliato, in me.

 

Ma poi Enjolras si materializzò al suo fianco, e le sue mani calde erano sul suo viso, e Grantaire non poté fare a meno di sorridere. Enjolras lo guardò intento, prima di dire, «Liberati del tuo alcool da qualche altra parte», per non destare sospetti.

 

Se qualcuno degli altri trovò strano che Enjolras aiutasse a rialzarsi l’ubriacone che aveva appena rimproverato, non disse niente. Enjolras passò un braccio attorno alla vita di Grantaire e lo portò al riparo, dentro al café.

 

Enjolras lo aiutò a sedersi, tenendolo bene d’occhio. E sì; era per questo che Grantaire stava combattendo, per vedere i suoi capello dorati cadergli sul viso, mentre si addolciva, preoccupato. «Stai bene?»

 

«Credo di sì. I grandi cambiamenti a volte sono difficili per una Città. É un po’ come morire.»

 

E quelle erano proprio le parole giuste. Enjolras si illuminò, brillando della sua stessa luce interiore (avevi torto, Atene, come si può volere il sole quando si ha questo?). Grantaire non si era mai sentito così sobrio in anni, e comunque vacillava. Il suo amore aveva sentito la parola, cambiamento, e non l’avvertimento che l’accompagnava.

 

«Posso fare qualcosa, qualsiasi cosa?», chiese Enjolras.

 

«Non più di quanto tu non abbia già fatto.» 

 

«Ti unirai a noi?»

 

«…non adesso. Ma guarderò», Grantaire alzò gli occhi su Enjolras con uno sguardo così amorevole, così preoccupato, che quest’ultimo non riuscì a capire se le altre parole vennero dette per scherzo, o no. «Lasciami dormire qui finché non morirò.»

«Non morire, ma rinascere.» Enjolras gli baciò la fronte, senza curarsi di chi poteva vederli. «Il popolo si solleverà, e così anche tu

 

Il cielo era ancora coperto.

 

Grantaire guardò arrivare altri volontari. Una folla varia, giovani ragazzi e ispidi lavoratori, ricchi e poveri, ciascuno con le sue armi. E, ovviamente, Gavroche, che si spostava quasi ballasse, distribuendo ordini a destra e a manca e comportandosi da piccolo imperatore.

 

«Non posso darti una pistola», aveva detto Enjolras al ragazzino, che si era limitato a guardarlo e a rispondere, «Se sarete tutti uccisi prima di me, ne prenderò una delle vostre.»

 

Grantaire rise, a quella risposta, e arruffò i capelli del ragazzino quando si avvicinò per un paio di parole (e per rubare del vino). Stava per dirgli qualcosa di confortante, o magari ancora prenderlo in giro, quando l’aria cambiò. Grantaire inspirò a fondo l’aria, una volta, due volte. C’era un nuovo odore, freddo e metallico, in mezzo alle nuove reclute.

 

Le osservò, per vedere cosa sarebbe successo. Erano tutti vestiti uguali, con coccarde tricolori e berretti rossi… a parte uno. Certo, c’era una coccarda sul suo cappotto scuro, ma non la indossava allo stesso modo degli altri. Grantaire lo guardò da lontano. Non osava espandere la sua coscienza, non con i combattimenti e tutta la morte che ancora aleggiava nelle strade circostanti. La coscienza era esattamente quello che Grantaire voleva mantenere. E per quanto riguardava quell’uomo: massiccio, dalla faccia rapace, priva di espressioni. L’odore veniva da lui. Come di acciaio.

 

Come un soldato.

 

Si voltò verso Gavroche, che stava guardando a sua volta l’uomo, con un’espressione particolare sul viso. Come quella di una piccola volpe, che aveva appena snidato un coniglio. Grantaire si abbassò e gli sussurrò all’orecchio, «Tieni d’occhio quello per conto mio, va bene?»

 

«Sicuro, Monsieur Paris.»

 

Grantaire, che aveva bevuto un’altro sorso, lo spruzzò fuori. Guardò il ragazzino pieno di sconvolgimento. Gavroche, quella piccola carogna, ebbe il coraggio di scrollare le spalle, assolutamente tranquillo.

 

«Solo perché sono ancora un cucciolo non vuol dire che non presti attenzione», indicò con la testa gli adulti, e disse, soddisfatto, «Non come loro.»

 

«D’accordo…», Grantaire non riusciva neanche a reagire normalmente. «Vai… Fai che andare, allora.», e nemmeno fermò il ragazzino, quando prese un sorso dalla bottiglia, prima di correre di nuovo in strada.

 

Fuori, Enjolras stava chiedendo di andare a spiare le guardie, e dopo poco quell’odore di metallo svanì. Grantaire bevve di nuovo, non per apatia, ma perché sapeva bene che Gavroche avrebbe fatto quello che gli aveva chiesto. Forse Grantaire aveva ancora fede in qualcuno, dopotutto.

 

Per la terza volta in quella giornata, Grantaire sorrise.

 

X

 

Calò la notte. 

 

Gli uomini erano stati gioviali per tutto il giorno, o almeno abbastanza energici. Cantavano, si tiravano pacche sulle spalle mentre la barricata cresceva, ma ora uno strano silenzio cominciava a diffondersi tra di loro. Vennero distribuite le pallottole- ciascuna destinata ad uccidere un uomo- e la realtà di quello che stavano facendo li colpì.

 

I tamburi risuonavano in tutta Parigi. Tutti potevano sentirli, ora, un ritmo basso che sarebbe potuto facilmente essere scambiato per il pulsare del sangue nelle loro orecchie. Gli uomini respiravano piano, ben consapevoli delle vecchie storie delle Città. Alcuni pregavano, come succedeva nelle battaglie antiche, chiedendo la protezione della loro Città.

 

Grantaire si voltò.

 

Sopra le loro teste, la bandiera rossa sventolava.

 

X

 

Fu quasi contento quando Grantaire gli saltò in braccio, sussurrando, «So chi é!»

 

L’odore di metallo era tornato.

 

Era una distrazione, se non altro. Gavroche si allontanò e Grantaire si spostò avanti, pronto ad intervenire, mentre guardava la scena svolgersi.

 

Il finto ribelle stava parlando agli altri. «Sono stato nelle loro linee, ho contato i loro uomini. É pericoloso; hanno uomini in abbondanza.»

 

«Non aver paura, se conosci i loro movimenti, possiamo anticiparli», Enjolras afferrò la spalla dell’uomo e gli occhi di Grantaire si strinsero. «Ci sono modi in cui un popolo può combattere.»

 

«Abbiamo tempo di pianificare tutto. Non attaccheranno stanotte. Vogliono prenderci per fame e poi concentrare le loro forze sul fianco destro-»

 

«Bugiardo

 

Tutti gli occhi si voltarono verso il ragazzino che adesso stava in cima alla barricata, il suo viso sottile illuminato mentre ghignava e si inchinava beffardo alla spia.

 

«Buonasera, caro Ispettore.»

 

Ogni testa ritornò a guardare la spia.

 

Meglio di un’opera!, pensò la parte selvaggia di Grantaire. Anche Gavroche si stava divertendo da morire. Puntò il dito e continuò.

 

«Conosco quest’uomo, amici miei! Ha cercato di arrestarmi neanche una settimana fa! E’ l’Ispettore Javert! Sta con la Guardia Nazionale, e tutto quello che vi sta dicendo é una frottola!»

 

L’ispettore venne immediatamente catturato.

 

E così anche Gavroche.

 

Ma mentre l’uomo veniva legato, Courfeyrac fece volare il ragazzo, ridendo di gusto. Tutti gli altri uomini si complimentarono con lui, e Gavroche si illuminò d’orgoglio, soprattutto quando vide la sua Città, e Grantaire sollevò la bottiglia in un gesto di saluto.

 

Per Javert le cose andarono diversamente. Gli uomini lo presero, portandogli via la pistola e il cappotto, e tirandolo verso il café. Enjolras vibrava di rabbia, e la mano che teneva ben salda la spia tremava, mentre la colpiva. Javert sputava parole di rabbia, e minacce. «Uccidetemi! Ho visto che avete dei coltelli!»

 

Enjolras ritornò in sé con difficoltà. «Noi», disse, a denti stretti, «Non siamo assassini. Sarà il popolo a giudicare il tuo tradimento, non io.»

 

E con quello, fece cenno agli altri di andarsene, esitando quando Grantaire non lo fece. Enjolras era chiaramente poco contento di lasciarlo nella stessa stanza con la spia, ma non c’erano altri posti. Era l’unico spazio ancora aperto per loro; le finestre delle botteghe vicine erano state chiuse e barricate. Grantaire non era l’unico a ricordarsi il passato.

 

«Starò bene, tu vai. Gli uomini hanno bisogno di te.» disse con calma Grantaire.

 

«Non lo voglio vicino a te», Enjolras gli posò una mano sulla guancia e Grantaire inclinò la testa, verso il suo tocco. Dall’angolo venne un verso.

 

«Disgustoso.»

 

Gli occhi di Enjolras divennero freddi come il ghiaccio. Ma niente poteva compararsi a quello che provò Grantaire. La Città inclinò la testa.

 

«Vai. Me ne occuperò io.»

 

Uno sprazzo dei tatuaggi, ed Enjolras arrossì un poco, prima di annuire.

 

Quando se ne fu andato, Grantaire si voltò e riservò a Javert un ghigno che forse aveva qualche dente di troppo. «Dovreste proprio concentrarvi sui vostri problemi, ispettore, prima di giudicare gli altri.»

 

«Non ho bisogno di giudicare. Le stelle hanno visto le tue colpe», ribadì l’uomo. Guardò Grantaire mentre anche lui abbassava lo sguardo, e i loro occhi si incontrarono.

 

Avrebbe dovuto fare più attenzione.

 

Le Città possono sentire le loro strade, o perlomeno i quartieri attorno a loro, se si concentrano abbastanza. Sentono le emozioni delle persone, i loro pensieri, se sono loro vicine, fisicamente o emotivamente. Ma se incrociano gli occhi con un umano… riescono a vedere la sua anima.

 

E a volte, quell’umano può vedere a sua volta.

 

Entrambi voltarono la testa allo stesso momento, rabbrividendo.

 

«Tu… tu sei… Non capisco», disse Javert. «Come puoi stare dalla stessa parte di questi ribelli? E’ una disgr-»

 

«Non avere la presunzione di conoscermi, umano» ribatté Grantaire, torreggiando sopra l’altro uomo. Javert cercò di allontanarsi dai suoi occhi.

 

«Ma la legge…»

 

«Non é l’unica forza, in questa terra. Né é la più importante.» Javert gli lanciò uno sguardo smarrito, mentre la sua risoluzione scivolava via. Grantaire si sentiva dispiaciuto, quasi, per quell’uomo che sapeva di metallo. Quest’uomo duro, mai spezzato. Ma il metallo di frantumava, se messo sull’incudine. Fu la pietà che gli impedì di dire qualsiasi altra cosa se non questa,

 

«Ti sei sempre sbagliato, sai? Su tua madre. Era Roma, é vero, ma ti amava comunque. Riesco a capirlo già solo dai tuoi ricordi»

 

Javerti abbassò lo sguardo.

 

Per un momento, Grantaire continuò ad osservarlo (dentro di lui, attraverso di lui, e poi oltre), e la Città di Parigi sentì l’acqua salirgli alla gola. Non era lui che stava annegando, quella volta.

 

Oh, Javert, pensò, che vita avresti potuto avere.

 

 

Dalla strada arrivò un grido, e Grantaire cercò di correre fuori nello stesso momento in cui fu costretto a piegarsi su sé stesso, in preda all’agonia. Qualcuno era appena morto. Riuscì ad uscire fuori, e seppe subito quello che stava per vedere.

 

L’uomo che giaceva morto sui sampietrini della strada (altro sangue da ricordare), aveva rifiutato di lasciar passare il ribelle che chiamavano Le Cabuc. Ed era stato ucciso. Ucciso da qualcuno che diceva di combattere per i diritti e la libertà di tutti. Grantaire si sentiva male. Come cambia in fretta, la marea. Quanto in fretta i ribelli diventano tiranni.

 

Le Cabuc era in ginocchio.

 

Enjolras era lì vicino, e quando vide Grantaire con la coda dell’occhio, la sua furia divenne qualcosa di puro, e terrificante. Avvicinò la sua pistola alla testa dell’omicida e disse, semplicemente, «Dì le tue preghiere, se lo desideri.»

 

Non sarò un tiranno, pensò Enjolras, per chi? Per Grantaire? Per sé stesso?

 

Apollo era il dio dell’ordine. Della malattia. Della profezia. Non della pietà. Mai della pietà.

 

Morte, mi servirò di te.

 

La pistola sparò. Gli altri non poterono fare altro che guardare mentre il corpo che una volta era Le Cabuc cadeva a terra. Enjolras annuì, l’espressione ancora impassibile, «Spostatelo da lì.»

 

E con quello, si allontanò. Jehan e Combeferre lo sfiorarono, mentre passava, senza condannarlo, solo semplici ancore per il loro capo. Enjolras tese una mano a Grantaire, che fece un passo indietro da quella figura in rosso, i fantasmi del passato davanti agli occhi.

 

(la linea sul collo pungeva. Anche la ghigliottina canta; lo sapevate?)

 

«Non aver paura di me.» disse Enjolras, con calma. I suoi occhi blu lo stavano pregando. «Non diventerò mai quello.»

 

Grantaire si costrinse ad annuire.

 

Quella notte, dormirono l’uno nelle braccia dell’altro. Non c’erano stelle, nel cielo.

 

X

 

Furono i tamburi a svegliarlo. Grantaire ci era ormai così abituato che all’inizio pensò fossero solo nella sua testa. Ma poi realizzò che non erano i tamburi celtici, quanto piuttosto il rumore ritmico di un battaglione in avvicinamento. In un batter d’occhio fu in piedi, tirando su con sé anche Enjolras.

 

«Sono qui!»

 

La sentinella stava già gridando, e i ribelli correvano verso la barricata. Si disposero nelle file ordinate che avevano ideato settimane prima. Dall’altra parte della barricata, i soldati si fermarono e si alzò una voce.

 

«Chi va là?» 

 

Enjolras tirò indietro la testa e gridò, «La rivoluzione francese!»

 

«Fuoco

 

La barricata tremò, schegge di legno che volavano in ogni direzione e detriti che cadevano a terra. Enjolras gridò di aspettare che i soldati si avvicinassero, prima di sparare. A differenza loro, i Les Amis non avevano retroguardie pronte a rimpiazzarli.

 

Arrivò un’altra scarica di proiettili, e con un rumore secco, la bandiera rossa cadde.

 

Un uomo (Parigi sapeva: Padre Mabeuf, che voleva evitare che i ragazzi facessero qualcosa di assolutamente stupido) cercò di rimetterla a posto e venne colpito. Il sangue colava, e la sua giacca era ormai rossa come la bandiera. Enjolras e Jehan si allungarono a recuperare il cadavere e all’improvviso i soldati si stavano avventando su di loro.

 

«Attenzione!», strillò Gavroche mentre le guardie cercavano di scavalcare la barricata. Regnava il caos. C’era Combeferre, una pistola in ogni mano, e Bahorel vicino a lui, che rideva mentre combatteva per proteggere i suoi amici. Altri soldati caddero, altri soldati arrivarono.

 

«Respingeteli! Respingeteli!», gridava Enjolras. Macchie nere danzavano davanti agli occhi di Grantaire. Fratelli che uccidevano fratelli. Sembrava che il suo collo volesse dividersi in due, gridando dal dolore. Le sue interiora si contorcevano, rivoltandosi l’una sull’altra, come serpenti che si nutrivano della carne dei loro fratelli, e c’era veleno nel suo petto, nel suo cuore.

 

Altre grida, i soldati venivano respinti ma due- no, tre erano riusciti a saltare giù dalla parte opposta e adesso il combattimento si era fatto confuso. Uno cadde. Poi un altro. E Courfeyrac era vicino a lui, e gridava «Dov’é Jehan? Dov’é Jehan?», prima che una pallottola gli entrasse nel petto.

 

Andava tutto bene. I soldati erano in minoranza. Ma Grantaire poteva comunque sentirli, smarriti e feriti e arrabbiati e spaventati (voglio solo tornare a casa) o erano i ribelli? Ragazzi. Tutti solo ragazzi.

 

L’ultimo soldato cadde a terra e con uno sforzo finale i Les Amis rimandarono indietro le ultime guardie, respingendole giù dalla barricata, e gli uomini già stavano esultando, macchiati di sangue, e Enjolras stava ancora gridando ordini, la paura che appestava ancora l’aria-

 

-e poi Bahorel venne passato da parte a parte da una baionetta, e morì.

 

Grantaire smise di respirare.

 

 

 


 

 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Da qui si va di corsa verso la fine. Preparate i fazzoletti, perché i feels e le emozioni vere cominciano adesso.

Per questo capitolo, la traduzione è di barricadeuse e il betaggio di  piuma_rosaEbianca, a bbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

 

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 24 aprile.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.

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Capitolo 13
*** Chapter 13 ***


(da qualche altra parte, il bicchiere di Lione si infranse sul pavimento.


"Oh," disse a bassa voce.)


Grantaire cadde in ginocchio, graffiandosi una spalla contro la barricata nel cadere. Era circondato dal caos, ma le sue orecchie sembravano non funzionare. Gli uomini che gli combattevano intorno erano sfocati, non emettevano alcun rumore.


La morte di Bahorel non aveva portato dolore, né vero dispiacere. Aveva portato silenzio. Una parte di Parigi era ammutolita. Lo spazio che la voce rauca di Bahorel aveva riempito era ora una voragine desolata.


Grantaire adesso era solo parzialmente consapevole di ciò che stava succedendo. I soldati avevano coperto due terzi della barricata, Courfeyrac, che in precedenza aveva guidato l'attacco al grido di "Seguitemi!" adesso giaceva su un fianco, stringendosi il petto. Sangue schiumoso scorreva sotto le sue dita. Il fiato corto di Grantaire imitava il suo: ah, era per quello che non riusciva a respirare.


Sopra di lui, Gavroche stava puntando il fucile di Javert, che non riuscì a sparare. Un soldato si chinò sopra di lui, ridendo, prima che Marius lo abbattesse con uno sparo. Grantaire ancora non riusciva a respirare, a stare in piedi. Poteva solo inginocchiarsi mentre una certa dolcezza gli riempiva di nuovo la bocca, Marius sulla barricata che combatteva, il suo zucchero mischiato al sale.


"Non sparate a caso," stava gridando Enjolras, ma gli uomini erano nel panico. I soldati sarebbero stati su di loro di lì a poco, e anche su Grantaire. Quale sarebbe stata la loro reazione nel trovare una Città fra i caduti?


"Allontanatevi!" una voce furiosa giunse. "O faccio saltare in aria la barricata!"


Marius era in piedi sulla cima della barricata. Il ragazzo con la faccia a luna piena che li aveva fatti divertire era diventato un uomo nella sua rabbia. Nessuno ci avrebbe creduto se non l'avessero visto con i loro stessi occhi. Stava tenendo una torcia vicino a un barile di polvere da sparo, le mani ferme, senza paura.


"La barricata e te insieme!" Il capitano ribatté. Marius gli lanciò uno sguardo di una calma terrificante nell'avvicinare la torcia alla polvere.


"E me insieme," concordò. Stava dicendo la verità, Grantaire lo sapeva. Il sale, il sapore del mare del dolore, aveva quasi sopraffatto la sua dolcezza. E lì, nell'intreccio dei suoi pensieri: un padre, un nonno, e soprattutto, un'allodola perduta. Ah. Era venuto a morire. Una promessa che Grantaire poteva già vedere compiersi.


(e ovunque, in chiunque altro, nella testa di ogni ragazzo da entrambe le parti, c'era un solo pensiero.


Non voglio morire.


gli occhi di Grantaire si riempirono di lacrime).


I soldati si ritirarono, e la barricata fu libera.


Avrebbero continuato a vivere.


Per il momento.


Grantaire ricominciò lentamente a sentire. Gli uomini stavano esultando. Combeferre, Bossuet e Gavroche circondavano Marius, chiamandolo ad alta voce, invasi da quella folle euforia che lascia capire che sapevano quanto vicini erano al disastro. Marius teneva Courfeyrac su una spalla e lo trasportava verso il café mentre lui sosteneva di star bene.


"Grantaire!" Enjolras era al suo fianco, lo scuoteva. "Sei ferito?"


"Non... fisicamente," riuscì a dire, alzandosi in piedi. Enjolras gli passò una mano sulla spalla e rimase sorpreso nel vederla diventare rossa. Non era una brutta ferita, almeno non per un umano.


"Non stai guarendo," disse Enjolras, piano.


"No, infatti." Non riusciva a sopportare altre domande, non quando lui stesso non sapeva le risposte.


Enjolras ordinò ad alcuni uomini di fare la guardia e andarono insieme nel café dove erano stati disposti i morti e i feriti. Bahorel e papà Mabeuf erano stati messi da una parte. La maggior parte degli altri, feriti da macerie o lame, si aiutavano l'un l'altro a medicarsi le ferite.


A Courfeyrac andò il tavolo. Disteso sulla schiena, smorfie di dolore sul volto mentre Joly gli scavava dentro, cercando di tirare fuori il proiettile.


"Quanto è grave?" chiese Enjolras a Bossuet, non osando interrompere lo studente di medicina.


"Credo abbia sfiorato un polmone," il più imbranato dei loro amici si teneva ben lontano dal tavolo, tenendo le mani dietro la schiena per sicurezza. Aveva sempre avuto il timore di passare la sua sfortuna ai suoi amici.


"Non lo ucciderà ancora," ansimò Joly.


"Questo mi è di grande aiuto," disse Courfeyrac con voce assonnata, gli era stato dato più alcool di quanto perfino Grantaire poteva sopportare. Un occhio iniettato di sangue di posò improvvisamente sul suo capo. "Non curatevi di me. Dov'è Jehan?"


Grantaire si irrigidì. Enjolras attraversò tutto il café, contando i feriti, e poi, con dispiacere, i morti. Jehan non era fra loro. Guardò Grantaire, il blu dei suoi occhi a metà fra un'implorazione e un ordine.


E come poteva rifiutarsi? Grantaire chiuse gli occhi e sentì le strade sotto i suoi piedi, allargarsi nella sua mente immerse nel dolore e nel sangue dei ribelli e dei soldati e infine...un intrepido poeta, preso e tenuto prigioniero dai soldati.


"Lo hanno loro, vivo," disse sottovoce. Enjolras chiamò Combeferre all'istante.


"Dobbiamo proporre uno scambio," disse la guida. "La loro spia per Jehan. Posso andare-"


"E' qui fuori," rantolò Grantaire. Senza fare domande, entrambi lo seguirono all'esterno, su per la barricata per vedere dove Jehan era stato messo sulla strada di fronte a loro. Una fila di soldati era allineata dietro di lui, i fucili carichi.


"Jehan!" gridò Enjolras, "Stiamo arrivando!"


(e Grantaire conosceva il suo amico, e sentiva quello che lui sentiva. Sentì la stretta delle corde, la pressione della benda sugli occhi- no non quando non posso vedere il cielo non fatemi morire senza vedere il cielo- sapeva che Jehan stava freneticamente ripetendo ogni poesia che riusciva a ricordare, ogni ricordo di colore e luce perché nonostante fosse su una strada fangosa, bendato e spaventato, voleva che i suoi ultimi pensieri fossero belli.


E lo furono. Perché disperatamente, così pieno d'amore com'era, Jehan non poté non pensare ai suoi amici. Enjolras, Combeferre, Bossuet, Joly, Courfeyrac… oh, Courfeyrac… così tanti ricordi, così tanta luce, sembrava esplodere intorno a lui)


"Vive la France! Lunga vita alla Francia! Lunga vita al popolo!"


(Jehan era stato il cuore e l'anima del gruppo. Era il loro poeta, ad ogni incontro, in ogni riunione. Sempre circondato da amici, pensò Grantaire. Non si lascia che una persona del genere muoia da sola.)


Uno sparo risuonò.


Cadde il silenzio.


"Lo hanno ucciso..." sussurrò Combeferre.


Enjolras si voltò, gli occhi scuri e pericolosi. La sua furia era improvvisamente così improvvisa e pura che Grantaire ne fu quasi accecato. Barcollò e poi dovette corrergli dietro mentre Enjolras si precipitava verso il café e strattonava Javert per il colletto.


"I tuoi amici ti hanno appena sparato," ringhiò.


"Enjolras fermati!" Grantaire tentò di afferrarlo. Enjolras tirò fuori la pistola e la puntò alla testa di Javert. Le sue mani stavano tremando troppo perché potesse prendere la mira, il suo bel volto era distorto da qualcosa di irriconoscibile. Qualcosa di brutto.


"Non diventare come loro," disse Grantaire con delicatezza. "Non sei un assassino. Jehan non avrebbe voluto che tu ti abbassassi a tanto per causa sua."


Enjolras abbassò l'arma.


Si allontanò a grandi passi, con Grantaire che lo guardava. Accanto a loro, un pallido e bendato Courfeyrac riuscì solo a sussurrare "...Jehan?"


"Mi dispiace, amico."


Courfeyrac cominciò a piangere.


Era insostenibile. Grantaire poteva sentire i soldati che scaricavano il corpo di Jehan da una parte, lasciando che i suoi lunghi capelli si infangassero nelle pozzanghere. Grantaire ritirò i suoi sensi e li richiuse più strettamente possibile, ripiegandoli nella parte più remota della sua mente.


Enjolras era da tutt'altra parte, lontano dalla barricata, e parlava con alcuni uomini. Per una volta, Grantaire non lo seguì, sapendo che aveva bisogno di tempo. Così, invece, l'ubriacone rimase lì per un po', facendo scorrere lentamente lo sguardo dalla fine della strada, sui negozi chiusi e le misere soglie delle case, alla barricata. Una strada così piccola, poco importante. Una barricata così piccola. E poi, Grantaire lo seppe. Con la serenità di un profeta, pensò:


Morirò qui.


Les Amis si erano infiltrati fra le crepe della sua anima. Toglierli lo avrebbe mandato in pezzi- adesso lo sapeva. Intere parole, poesie, canzoni, erano tutte sparite da dentro di lui quando Jehan era morto. Si sentiva inferiore per questo.


Non era nuovo per una Città essere influenzata più da un gruppo di persone che un altro. Bastava guardare ai nobili, a come avessero sempre tenuto le Capitali per le orecchie. (beh, Grantaire sorrise nonostante tutto, non sempre). Ma quando l'amore era versato nella miscela le cose si facevano pericolose; quando un umano superava quella connessione, poteva consumarla, e lui e la Città insieme. L'amante di Pompei era morto, e così lei aveva deciso che dovevano morire tutti gli altri.


Ma Parigi non sarebbe stato così crudele. Nonostante avesse fucili puntati alla schiena e una bottiglia in mano e cicatrici sulla sua pelle... amava ancora i suoi figli. Non credeva in loro. Ma li amava. E così avrebbe seguito il suo amore nella tomba, come aveva fatto la dolce Versailles quando la sua Marie era morta. Una nuova Parigi sarebbe arrivata, alla fine. Lasciate che sia lui a sfregiarsi. Lasciate che Grantaire dorma.


Le Città erano sempre influenzate, c'era solo da chiedersi quale umano lo avrebbe fatto. Se aveva la possibilità di scegliere con chi morire, i Les Amis non sarebbero stati così male. No. Non sarebbe stato male per niente.


(ovviamente c'erano storie di Città che erano riuscita liberarsi completamente degli umani. Ma erano solo quello: storie. Storie dell'orrore. Storie di fantasmi.

Storie di Atlantide)


Grantaire bevve. Sapeva di sale. Così Les Amis avevano Parigi- proprio come volevano. Ma forse Parigi non aveva la sua gente. Quasi rise. Ad ogni modo, era troppo tardi per loro, o per lui. Aveva fatto la sua scelta.


(la scelta di chi? Sua? O di Grantaire?)


Bevve di nuovo, e poi andò alla barricata e si offrì volontario per fare la guardia, sorprendendo quelli che stavano lì seduti. Così, fu il primo a sentire uno strano grido. Come quello di un ragazzo sperduto. Si girò in tempo per vedere il volto di Marius contrarsi in una smorfia di dolore.


C'era una traccia di sangue dalla barricata alla soglia di una casa.


Grantaire chiuse gli occhi lentamente. Non sapeva quanto ancora poteva sopportare. Respingendo ancora Parigi più forte che poteva, si costrinse a guardare (perché un umano- un amico- lo avrebbe fatto). Su quella soglia, Marius stava stringendo a sé un corpo. A prova di quanto Grantaire avesse represso i suoi istinti, gli ci volle un po' per rendersi conto che fosse una ragazza travestita. Marius era distrutto. La ragazza stava peggio.


"Éponine. Cosa ci fai qui?" stava chiedendo Marius.


Lei sorrise. "Sto morendo."


"Cosa? Non dire così."


"Zitto. Non lasciare che mio fratello mi veda, lo renderebbe solo triste, monsieur. Lascia che continui a cantare." Sospirò. "E' una cosa strana. Sono venuta qui per morire con te. Invece ti ho salvato."


"Mi hai salvato? Eponine..." la voce di Marius si ruppe. "La tua mano... sanguina. E' dove-?"


"Sì, è stata bucata quando ho preso il proiettile che ti avrebbe colpito."


"EEponine come posso- ma- ma c'è così tanto sangue..." si stava espandendo, scuriva i vestiti di entrambi. C'era del sangue a un angolo della sua bocca. "Posso chiamare Joly."


"No, è solo la mano. Diciamo che è solo la mano." Non era mai stata così felice in tutta la sua vita, lì, fra le braccia di Marius. Era caldo dove lei era fredda, ma era sempre stato così, non è vero? Non voleva che se ne andasse. "Ha senso. Questa è la mano che avrebbe dovuto consegnarti qualcosa."


Infilò la mano sana in una delle sue tasche e gli passò una lettera.


"Eponine..."


"Faresti qualcosa per me? Puoi promettermelo?"


"Sì, qualsiasi cosa."


"Dammi una bacio sulla fronte dopo che sarò morta."


Marius, che in verità non aveva mai amato nessuno prima né dopo Cosette, era senza parole, e si vergognava. Non poteva darle quello che lei voleva davvero. Ma poteva darle questo, forse.


"Lo farò."


"Sai, monsieur Marius, credo che fossi un po' innamorata di te." Provò a sorridere, e morì. Marius la strinse a sé, chiamandola prima di realizzare che era morta. C'erano lacrime sulle sue guance e lui le asciugò prima di baciarla sulla fronte.


Eponine era un'anima infelice. Grantaire sarebbe dovuto essere contento del fatto che adesso era in pace, ma quando era morta, aveva portato con sé l'ultima parte della dolcezza di Marius. Non avrebbe più sorriso nello stesso modo.


Gli occhi gli si colmarono di lacrime, e Grantaire le lasciò cadere.


Iniziò a piovere.


X


La pioggia si rovesciava sulle strade di Parigi, riempiendo i canali di scolo e facendo ingrossare la Senna. Gocciolava anche nelle catacombe, ma quelle rimanevano vuote e buie come sempre. Marius aveva portato il corpo di Eponine dentro già da un po', e adesso era in piedi fuori dal café, i capelli resi lucidi dalla pioggia, e proteggeva la lettera in una mano.


Grantaire concentrò la sua attenzione altrove. Alcune cose dovevano rimanere private. Avrebbe tagliato fuori le morti se avesse potuto, ma le Città non possono, non quando una parte della loro anima stava gridando.


L'immagine di quella triste lettera accartocciata nella mano di Eponine non voleva lasciarlo. E con lei, veniva un bisogno che lo consumava.


Aveva delle lettere da scrivere.


Forse era a causa dei secoli di abitudini di cui cercava di liberarsi. O la sua morte che si avvicinava; che gli diceva di adempiere all'ultimo dovere di Parigi. O forse era la sottil solitudine dello stare lì da solo, all'ombra della barricata. Tenendo i sensi abbastanza all'erta per percepire l'arrivo dei soldati, Grantaire prese la borsa che Jehan aveva lasciato indietro. (il suo corpo giaceva abbandonato dall'altro lato, fra fango e pioggia.) Così, con le ultime pagine del poeta, Grantaire cominciò a scrivere.


Aveva perso il gusto per le parole già da molto. Le sue lettere erano tutte corte. Abbastanza corte da permettergli di strappare le pagine per essere sicuro che gli bastassero. Ne aveva così tante da scrivere. Ognuna richiese tempi diversi. Le più veloci gli vennero prima.


Richieste a Londra e Varsavia. Scuse per Vienna, Budapest e Madrid. Consigli a Lisbona e Berlino (e se davvero amate quelle stupide Città inglesi, o chiunque altro, amate con passione. E proteggete il vostro amore meglio di come ho fatto io.). A Roma, un umile addio. E ad Atene:


Avevi ragione. Ed avevi torto, così tanto.


Le lettere ai suoi fratelli non furono meno corte, ma gli presero molto, molto più tempo. Le strinse a sé, chino sulle ultime pagine in fare protettivo mentre l'acqua cadeva sull'inchiostro. Se era pioggia o qualcos'altro, nessuno poteva saperlo tranne Parigi.


A Lione- "Mi dispiace."


Tolosa- "Prenditi cura di loro. E' il tuo turno adesso."


Versailles- "Non dare ascolto ai fantasmi."


Marsiglia- "Non smettere mai di cantare."


Alla fine, a Rouen- "La piango ancora. Una volta non riuscivo a capire la tua paura degli umani. Adesso, forse, ci riesco. E ti perdono."


E finalmente, a Bordeaux- "Cuore mio. Dolcezza. Perdonami, non sono venuto via con te. Ma sappilo, ti prego, se fossi stato un uomo migliore, avrei potuto amarti."


Aveva finito. Aveva compiuto il suo dovere. La Città si morse il pollice fino a farlo sanguinare, e poi lo posò delicatamente come un sigillo accanto agli indirizzi di ogni lettera. Gavroche aveva appena preso una lettera di Marius, e stava superando la barricata quando Grantaire lo chiamò, porgendogli le lettere.


"Puoi consegnarle?"


"Sicuro, monsieur, se sapessi come."


"Portale per strada, il vento saprà cosa fare." Era un vecchio modo. L'ultimo frammento di magia in questo mondo pesante, metallico. Una volta fuori dalla vista dell’autore , le lettere sarebbero scomparse fra mattoni e pietra e cielo- arrivando sulla soglia delle altre Città entro un giorno- mancanti solo la macchia di sangue. Antiche magie richiedevano antichi sacrifici, dopotutto.


Gavroche sbatté gli occhi. "State sanguinando, Monsieur."


La spalla di Grantaire non era ancora guarita.


"Sto bene, vai adesso."


"Tornerò prima della battaglia," promise il ragazzino. Grantaire lo guardò allontanarsi, e sperò vivamente che il destino non fosse così crudele.


"Proteggetelo," sussurrò alle strade. "Nascondetelo, tenetelo al sicuro. E se potete, tenetelo lontano." Era l'unica cosa che poteva fare. Era ancora una Città.


(e allora perché stava ancora sanguinando?)


La pioggia si fermò lentamente, e Grantaire finse che non fosse perché la paura aveva affondato i suoi artigli nel suo petto. Non aveva risposte per questo, e ogni lettera per Roma o Atene sarebbe arrivata troppo tardi.


Gli uomini, almeno, sembravano di buon umore. Con la polvere da sparo dei soldati bagnata dalla pioggia, ne approfittarono per ingrandire la barricata. In un breve momento di riposo, Feuilly incise qualcosa nel muro di fronte al café. Grantaire avrebbe letto quelle parole molto, molto più tardi.


"Grantaire," Enjolras era con lui, il blu dei suoi occhi nuovamente dolce. "Vado a controllare come stanno le cose per gli altri."


"C'è una casa disabitata qui sulla destra, vai lì e aggira le strade. La maggior parte dei soldati sono bagnati ed irritati, non ti vedranno," disse Grantaire all'istante. Enjolras sembrò vagamente divertito.


"Stavo per dire torno subito." Scosse la testa e baciò Grantaire su una guancia, con un lieve sorriso. Molto lieve. Sembrava stanco. Prima che Grantaire potesse dire altro, Enjolras si allontanò e sparì nella casa che Grantaire gli aveva indicato.


Erano rimasti trentasette uomini. L'attacco sarebbe arrivato all'alba. Senza cibo ma con molto da bere, non c'era altro da fare che aspettare. E ancora, gli uomini erano allegri. Credevano tutti che entro un giorno, la rivoluzione sarebbe scoppiata. Così gli uomini si radunarono e fecero brindisi: ai caduti, alla rivoluzione. Si avvicinarono ai loro amici e cantarono canzoni che volarono al di sopra della barricata, facendo distogliere lo sguardo ai soldati, incerti su cosa provavano. Quella notte, le loro voci riecheggiarono per le strade di Parigi.


(si dice che se vai in una certa strada di Parigi, a notte fonda, quanto ti senti solo, puoi ancora sentirli cantare)


Poi Enjolras tornò.


E i suoi occhi erano come le oscure porte delle catacombe. Grantaire lo vide per primo, il suo corpo si fece freddo e pesante- un cadavere che galleggia nell'acqua- e il silenzio si diffuse come una malattia. Le canzoni e le risate si spensero mentre tutti si voltavano verso il loro capo, in piedi, tremante e pallido. La sua voce era forte come sempre, però.


"Entro un ora, un terzo dell'esercito di Parigi ci sarà addosso, insieme alla Guardia Nazionale. Il popolo... non si è sollevato."


Le strade di Parigi erano vuote.


Grantaire si prese la testa fra le mani.


Una certa calma si diffuse fra gli uomini. Non era una pausa dall'azione, piuttosto un profondo respiro dopo un eccesso, Eccoli al punto di svolta dei loro destini; avrebbero potuto scappare ed essere cacciati come insetti, o avrebbero potuto combattere e morire. Potevano farsi ricordare nella vergogna o nella lotta. La rivoluzione si reggeva sul filo di un coltello.


Una voce gridò. "E così sia! Facciamo una protesta di cadaveri!"


A quelle parole, gli uomini tornarono in vita ruggendo, gridando tutti la loro sfida alle strade disattente.


"Moriamo affrontandoli!"


"Facciamogliela pagare per ogni uomo!"


"Se il popolo ha abbandonato la repubblica, dimostriamogli che l'ideale della repubblica non ha abbandonato il popolo!"


"Un giorno sorgeranno altri a prendere il nostro posto!"


(nessuno seppe mai chi fu a parlare per primo. Rimase un eroe non celebrato, sconosciuto fino alla fine. Non c’era da sorprendersi. La voce di Parigi era diversa da quella di Grantaire, dopotutto.)


"Rimaniamo tutti qui!" il grido fu seguito da altri ragazzi, così volenterosi di morire. Enjolras alzò una mano per richiedere silenzio.


"Perché sacrificarci tutti e quaranta?"


"Perché non ce ne andremo! Come potremmo mai?" Chiese un altro ribelle.


"Abbiamo quattro uniformi da guardie. Quattro di voi possono scappare."


Cadde un silenzio imbarazzato. Nessuno si fece avanti. Da una parte, Marius parlò a Courfeyrac sottovoce, spingendolo a farsi avanti, la sua ferita al petto era già abbastanza come sacrificio. Ma il suo amico scosse la testa. Il suo cuore era già morto e giaceva con Jehan dall'altro lato della barricata.


Combeffere si alzò, parlando a tutti. "Vi prego, quelli di voi con mogli e bambini, con madri che li aspettano a casa. Vi prego di pensare a loro. Non è la vostra vita e il vostro futuro che state sacrificando, è il loro. Se hanno bisogno di voi, se vi amano, non lasciateli."


(in tutta la sua saggezza, Combeferre aveva dimenticato una cosa: sua madre, una candela accesa sulla soglia, mentre sperava di vedere suo figlio tornare a casa.) Diversi uomini stavano guardando Marius, l'eroe della barricata. Per la prima volta, era in completo accordo con i Les Amis.


"Uomini sposati e con famiglie a carico, fatevi avanti," disse.


"Ve lo ordino!" disse Enjolras.


"Vi supplico."


Qualcosa va detto sulla testarda nobiltà di questi giovani, nessuno si fece avanti. Indicarono i loro amici, invece, i loro compagni, e li denunciarono con terribile gentilezza.


"Tu hai un figlio."


"Tu hai tre fratelli da sostenere."


"Vai, amico, devi andare."


"E quando vai, dì a mia madre che le voglio bene."


Alla fine, cinque uomini furono scelti. Ma c'erano solo quattro uniformi. Un'altra discussione sembrava sul punto di esplodere, poiché ogni uomo voleva restare, quando una quinta uniforme cadde dal cielo.


Jean Valjean era arrivato.


"Chi sei?" chiese Bossuet, stringendo il fucile con forza.


"E' un uomo che salva gli altri," disse Combeferre.


"Io lo conosco," disse Marius. Era abbastanza per soddisfare il sospetto di tutti di fronte a questo improvviso colpo di fortuna. Enjolras si voltò verso Jean Valjean.


"Benvenuto, cittadino. Sappi che stai per morire."


Jean Valjean annuì, e poi aiutò il quinto uomo ad indossare la sua uniforme. Nel frattempo, Enjolras andò a cercare Grantaire. Si era allontanato quando gli uomini avevano deciso di morire. Forse era stato sopraffatto.


Lo trovò che si nascondeva nell'ombra fra due case. Piegato contro un muro come se stesse cercando di non vomitare. La sua spalla continuava a sanguinare.


"Grantaire, dobbiamo tornare indietro. La barricata ha bisogno di essere difesa, e gli uomini vanno tenuti su di morale. Senti le persone che-"


"Basta! Smettila!" Grantaire si voltò e schizzò in avanti così velocemente che Enjolras fece un passo indietro. Ma l'altro di limitò a prendergli il volto fra le mani. "Basta. Posso farti uscire di qui."


"Cosa?" Enjolras fu preso in contropiede.


"Posso farti uscire di qui," Grantaire stava balbettando. "Posso portarti via- posso formare nuove strade e possiamo fuggire- saranno troppo sconvolti per fermarci- raderò al suolo l'intera Parigi se devo-"


"E poi?" Enjolras chiese a voce bassa. "Pensi davvero che si fermerebbero? Saremmo ricercati come topi, i nostri amici e le nostre famiglie distrutte nella nostra ricerca. Il nostro messaggio andrebbe perso e, peggio, tu saresti scoperto."


"Quindi devo lasciarti morire?"


"Ho fatto un sogno sul futuro," disse Enjolras, serio. "Con tutte le nazioni sorelle e le persone che credevano nell'uguaglianza. Siamo già così avanti, in un mondo in cui le Città si scrivono lettere senza odio o giudizi, credo che potremmo seguire l'esempio. Stiamo avanzando verso la verità, verso l'unione delle persone. E credo che l'Europa sarà al centro di tutto questo, e la Francia la guiderà. Volevo aiutarti. V-volevo salvarti."


"Io voglio salvare te!" Esplose Grantaire. "Volevo presentare Combeferre ad Atene. Volevo vedere Bahorel ed Edimburgo bere insieme, e Feuilly conoscere finalmente Varsavia. Volevo viaggiare con te in America e in Asia. Volevo mostrarti tutto, darti tutto, vederti vincere discussioni con ogni altra Città, incontrare Madrid e Lisbona e Londra- va bene- magari non Londra- ma-" rise.


"Non ti rendi conto che è già abbastanza che tu sia qui?" disse Enjolras.


"Non capisco. Dovrebbe essere abbastanza. Parigi dalla tua parte. Parigi che vi ha scelto, questo piccolo gruppo di persone, che si è lasciato influenzare. Siete gli unici in decenni ad aver fatto una cosa del genere, e allora perché la gente non si sta ribellando?" Grantaire era disperato. "Sono io? E' la punizione per gli anni in cui non ho fatto il mio dovere? Ho represso Parigi così tanto che non riescono più a sentirmi? Non sono più Parigi?"


"Puoi perdere la Cittadinanza in questo modo?" Anche Enjolras sembava perso. Grantaire rise di nuovo, un suono orribile, vuoto.


"Se potessi, non credi che l'avrei già fatto da molto? No. Sono solo io."


"Parigi."


"Malato."


"Parigi."


"Un fallimento."


"Grantaire!" Grantaire si voltò con sguardo interrogativo, Enjolras lo stava fissando. "Credo di aver capito qual è il problema."


"Quale?"


"Non hai risposto al tuo nome. Rispondi solo a Grantaire. Perché Grantaire non è Parigi. E' per questo che puoi reprimere Parigi ma allo stesso tempo sentire le strade. E' per questo che non stai guarendo, mentre rispondi a quel nome. Perché sei Parigi, ma Grantaire è separato da lui." Poteva vedere Enjolras inseguire la sua teoria, inarrestabile, come sempre. Non sarebbe stata una cosa buona chiedergli di fermarsi. "Ed è...è per questo che la gente non si è sollevata. Perché non sono io ad influenzare Parigi, ma Grantaire."


Enjolras fu costretto a guardare la sanità di Grantaire venire distrutta davanti a sé.


"Allora..." la voce di Grantaire tremò. "Allora è colpa mia. Ho distrutto tutto quello per cui hai lavorato. Io e il mio bere, io e il mio cinismo." Si prese la testa disperatamente. "No, non può finire così. Dai, credi! Credi!" Si gridò contro, graffiandosi la testa con le unghie.


"Grantaire! Grantaire!" Enjolras gli afferrò le mani prima che potesse fare altri danni. "Fermati!"


Grantaire, non Parigi, lo guardò con gli occhi pieni di lacrime. "Ti ho ucciso."


"Non minimizzarci così. In tutto il tuo dolore, non compatirci. Lo abbiamo scelto. Cosa avremmo fatto altrimenti? Avremmo seguito i nostri padri? Saremmo diventati vecchi e grassi e corrotti?"


(Enjolras non era nato per avere i capelli grigi.)


"Il peggio non é morire. E’ non vivere. Se la colpa è di qualcuno, qui, è mia, per aver fallito nel convincerti, per non averti trovato in tempo, e delle persone per averti fatto così male. Qualsiasi cosa succeda oggi, sia che veniamo sconfitti o vinciamo, se ti dai qualcosa per cui combattere, se abbiamo fatto si' che tu ci ricordi, allora ci basta. Le rivoluzioni illuminano una Città, e così possono illuminare l'umanità intera. Le rivoluzioni non possono essere soppresse, non a Parigi, non in nessun luogo che le stia aspettando. Arriveranno. Tutto quello che devi fare è vivere.


"Lo fai sembrare così facile."


"Lo sarà." Enjolras gli accarezzò una guancia. "Il diciannovesimo secolo è grande, ma il ventesimo sarà felice. Non ci saranno più cose come la storia dei vecchi, non dovremmo più temere un invasione, un usurpatore o rivalità fra le nazioni,


(o le sirene antiaeree. o la marcia di stivali militari. dimmi parigi, le persone cantano ancora?)


"-o la civiltà dipendente dalla nascita dei re. Non dovremmo più temere carestie, mancanza di lavoro e il patibolo e la spada. Saremo felici. O almeno, tu lo sarai, anche se io non sarò qui per vederti."


"Mi dispiace," sussurrò Grantaire. "Mi dispiace così tanto."


"Non piangerci ancora," Enjolras gli tenne il volto teneramente. "La rivoluzione richiede un pedaggio. Prende vite quando le dovrebbe salvare. Ma è un sacrificio che deve avvenire per assicurare il futuro. Lo sapevamo tutti, e sappiamo che morendo, entriamo in una tomba invasa dalla luce dell'alba."


Grantaire riuscì solo a dire, "Ti amo."


"E io amo te," sorrise Enjolras, e si avvicinò.


Fu l'ultima volta che si baciarono.

 

 

 

 


 

 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Oh, il dolore. Jehan, Courfeyrac, Bahorel, l'imminenza della distruzione. Abbiamo pianto traducendo e betando il capitolo. Ma pianto davvero.

Per questo capitolo, la traduzione è di piuma_rosaEbianca e il betaggio di barricadeuse, a bbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 1 maggio.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.


 

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Capitolo 14
*** Chapter 14 ***


E arrivò l’alba, fredda e luminosa, ingiusta, quasi fosse decisa a mettere bene in chiaro ogni dettaglio della strada ancora vuota, a sottolineare quello che stava per succedere. La natura é senza pietà, e non oscura mai la sua bellezza davanti alla crudeltà o alla sofferenza umana. All’uomo, la natura non risparmia nulla della sua meraviglia, canti di uccelli e farfalle che continuano a volare anche nel mezzo di una carneficina. La natura fa sentire l’uomo osservato da cose sacre. L’uomo uccide sotto il sereno blu del cielo, spezza e distrugge, ma poi sorge il sole, e l’estate continuerà ad arrivare. Un giglio resta un giglio. Una stella una stella. I papaveri continueranno a sbocciare nelle pianure delle Fiandre. Come se la natura dicesse all’uomo, «Guarda le mie opere. E poi guarda le tue.» *

 

Era una bellissima giornata.

 

Si prepararono per l’attacco.

 

I cinque uomini che erano stati scelti, vestiti delle loro uniformi rubate, erano stati mandati via. Uno aveva pianto, mentre si allontanava. Grantaire sapeva, in una qualche terribile vista profetica, che solo tre di loro sarebbero vissuti negli anni a venire. Rabbrividì.

 

I ribelli restanti rafforzarono la barricata più che poterono, aggiungendoci pietre dalla strada, un vecchio materasso, e un paio di bare (non ancora usate). Ma non poteva comunque resistere ai colpi di cannone. Lo sapevano. Quando Enjolras arrivò a prendere il suo posto, gli uomini si sistemarono e attesero. La speranza se n’era andata. E quindi loro erano diventati pericolosi.

 

Il rumore aumentò. Qualcosa stava arrivando dall’altra parte della strada, un ruggito solenne accompagnati dai passi serrati dei militari. Era il cannone. Dalla barricata si levò un sospiro, quasi a significare, «finalmente».

 

Grantaire, che era cresciuto con la paura di frecce e spade, ricordò la prima volta che aveva mai visto un cannone sparare. Aveva tagliato a metà interi reggimenti, facendo esplodere sangue e anime sul campo di battaglia con terribile violenza. Lui si era allontanato zoppicando dalla battaglia per rimettere; perché erano stati i francesi ad usarlo. Era stata una vittoria gloriosa, così gli avevano detto, assicurata da uno strumento che era puro genio. In quel momento gli era sembrato che la scienza, una volta adorata e inseguita, si fosse macchiata d’impurità.

 

Ma non era ora di ricordare. Il cannone avanzò e si allineò con la barricata. Tutti erano tesi. Rimbombò il colpo, assordante.

 

Rimbalzò sul materasso.

 

Dopo una pausa incerta, tutta la barricata scoppiò a ridere. Era una risata nervosa, ma sollevata, e sollevata ancora di più con la comparsa di Gavroche, uno sguardo di disprezzo rivolto ai soldati. «Forza!», li sfidò, e tutti lo applaudirono.

 

«Hai mandato la mia lettera?», chiese Marius. Era lontano, ma Grantaire stava avendo problemi a non sentire. I confini tra lui e i suoi amici erano diventati confusi. Il posto di una Città é quello dell’osservatore. Ma non poteva più restare passivo. Grantaire si costrinse ad alzarsi e andare alla barricata, dove Gavroche stava facendo rapporto a Enjolras.

 

«Siete circondati.»

 

«Allora dobbiamo impedire che sparino di nuovo.», disse Enjolras. Non era una sua opinione, ma un fatto. Tutte le sue decisioni lo erano. Quindi non esitò minimamente a puntare il suo fucile. Anche Combeferre e Grantaire si sporsero oltre la barricata, verso la guardia che era responsabile di caricare il cannone. Un capitano.

 

Il capitano che aveva visto Parigi nel vicolo.

 

Nello stesso momento in cui Grantaire lo riconobbe, la guardia fece lo stesso. Il suo viso giovane impallidì quando realizzò chi fosse l’uomo dall’altra parte della barricata.

 

«Parigi», disse, a voce abbastanza alta perché anche gli altri potessero sentirlo.

 

Grantaire chiuse gli occhi. Oh, Dio, non hai proprio pietà?

 

Poteva sentire l’orrore e la confusione del capitano. Nel vicolo, non aveva ben capito da qualche parte stesse Parigi, nella rivolta; era stato troppo entusiasta per accorgersene. Ma adesso che la verità era immobile davanti a lui il capitano si guardò attorno- cercando di capire cosa fare- cercando di capire cosa dire-

 

Grantaire guardò Combeferre, disperato. Anche la guida aveva riconosciuto la guardia.

 

«Che tragedia», mormorò Combeferre, mentre Enjolras prendeva la mira. «Lo sa, tanto quanto lo sappiamo noi, ma non possiamo lasciarlo vivere. Così come non possiamo lasciare che quel cannone spari di nuovo. É un uomo intelligente, intrepido, profondo, senza dubbio ha una famiglia, é stato innamorato, non può avere più di venticinque anni. Potrebbe essere tuo fratello.»

 

«Lo é.» Una lacrima segnò la guancia di Enjolras.

 

Il capitano vide il fucile, e non disse nulla. Perché anche se stava nelle mani di un ribelle, era un ribelle che si trovava fianco a fianco con Parigi, non con le guardie. E sotto la sua uniforme, il capitano era un cittadino. Quindi allargò le braccia e attese.

 

(Per te, Parigi)

 

Enjolras sparò. Il capitano venne spinto all’indietro dalla forza del colpo, e cadde. La barricata guadagnò diversi minuti, non perché nessuno si stesse affannando a caricare il cannone, o grazie alla pallottola che entrò nel cuore del capitano, ma perché, come é già noto, le persone sarebbero sempre state felici di morire per Parigi.

 

Mentre gli altri usavano quel tempo prezioso per prepararsi, o per borbottare dell’uomo chiamato Valjean, Grantaire si sedette lontano, e ricordò il Capitano.

 

Vivevano in un mondo indifferente, e non sarebbe stato ricordato, non come eroe, anzi, proprio per niente. E quindi Grantaire concentrò su di lui i suoi pensieri. Si chiamava Fannicot. Si era sentito oltraggiato da quella bandiera rossa sulla barricata, in una furia che credeva essere giusta (perché lui era dalla parte che aveva ragione, pensava), e aveva mandato i suoi uomini all’attacco. E loro avevano seguito i suoi ordini, nonostante le scariche di fuoco che avevano trovato ad accoglierli, perché era un buon capitano. Troppo giovane, dicevano alcuni. Impulsivo, e alla ricerca di gloria, ma solo perché aveva dei fratelli maggiore. Grantaire sapeva che sua madre l’avrebbe pianto.

 

Anche Grantaire lo pianse, anche se forse erano stati i suoi uomini a catturare Jehan. Il capitano non meritava di morire. Nessuno di loro se lo meritava.

 

Si potrebbe dire che, in quei momenti, il resto di Parigi si stava svegliando. Focolai di ribellione. Un uomo, solo, sparò a un soldato di cavalleria e venne passato a fil di spada. Una donna fece fuoco su una guardia nazionale attraverso le persiane delle sue finestre. Un ragazzino di quattordici anni venne arrestato perché portava delle munizioni nelle tasche. Ogni volta, i soldati avanzarono. I focolai si spensero.

 

E Grantaire pianse.

 

X

 

Courfeyrac tossiva. Un suono basso, rauco di sangue. Grantaire rabbrividì e cercò di allontanarsi. Non dalla tosse, ma dai suoi pensieri. (Il cielo é così blu, Jehan. Ma é grigio, senza di te.) Bossuet era seduto vicino a lui, preoccupandosi nel suo modo silenzioso. Courfeyrac aveva un ghigno che sembrava quello di un teschio.

 

«Non sono l’unico, ascoltate.» In lontananza, rimbombò il colpo di un cannone. «Anche quello tossisce, anche se si crede il dio del tuono.»

Gli uomini risero, aggrappandosi ad ogni ultima possibilità di allegria che era loro rimasta. L’unica eccezione era Enjolras, che era in piedi poco più in là, gli occhi fissi sull’oltre, dall’altra parte della barricata. Molti si girarono verso di lui, perché erano abituati così. I suoi capelli dorati si accesero come la criniera di un leone, nella luce.

 

«Ammiro Enjolras,» disse Bossuet, pensoso. «Ma lui vive solo, e la cosa lo rende triste. Noi abbiamo amanti a renderci coraggiosi. Ma Enjolras non ha bisogno di nessuno; ed é intrepido tanto quanto noi. Non avevo mai sentito di qualcuno così, freddo come il ghiaccio e coraggioso come il fuoco.»

 

Enjolras mormorò semplicemente, «Parigi.»

 

Gli uomini non lo sentirono, ma andava bene lo stesso, non l’aveva detto per loro. Grantaire avrebbe sorriso, se non fosse stato per il nome. Parigi. Ti ho chiesto una volta se fosse Parigi di cui sei innamorato, e non io. Non mi ricordo cosa mi hai risposto, amore mio, e non potrei sopportare di chiedertelo di nuovo.

 

All’improvviso si alzò la voce di Enjolras. «Novità! Un altro cannone!»

 

La barricata cadde in una frenetica attività. Una selva di colpi accolse l’avvicinarsi del cannone. Il fumo era dappertutto, mentre i ribelli sparavano sui soldati che cercavano di caricare i colpi. Alcuni caddero.

 

Enjolras guardò le munizioni e disse, quasi a sé stesso, «Un altro quarto d’ora e non avremo più pallottole.»

 

Nessuno lo sentì, se non Gavroche.

 

Fu Courfeyrac a prendere il turno di guardia successivo, e quindi fu lui a dover guardare Gavroche saltare giù dalla barricata, in strada. In piedi in mezzo alle pallottole, raccogliendo le munizioni delle guardie nazionali morte.

 

«Gavroche! Cosa stai facendo?» sibilò Courfeyrac. Si sporse avanti, più che poté, ma Gavroche si allontanò saltellando, malandrino come sempre. «Torna qui!»

 

La voce di Courfeyrac richiamò gli altri, ma solo dalla sua parte della barricata. C’era ancora fumo. I soldati non avevano visto nulla.

 

Grantaire si arrampicò vicino a Courfeyrac, ma non osò alzare la voce. Si guardò attorno, immerso nel panico, cercando di capire come fare a proteggere il ragazzino. Il fumo si stava diradando. La strada piatta, e ampia, non era d’aiuto, e qualsiasi cosa avrebbe potuto fare avrebbe richiesto tempo e sforzo (e attenzione) che non poteva permettersi. Le case si sporsero pericolosamente in avanti mentre Grantaire faceva lo stesso sopra la barricata, nella speranza di afferrare Gavroche prima che lo facesse la morte. Il panico non accennava ad andarsene.

 

«Gavroche! Torna indietro!», gridò, mentre il fumo spariva e i soldati si alzavano.

 

La prima pallottola colpì il cadavere che Gavroche stava perquisendo.

 

«Gli unici uomini che riescono a uccidere sono quelli già morti,» esclamò Gavroche, sarcastico. I soldati risero, anche mentre prendevano la mira. Ma i ribelli erano in silenzio, un silenzio teso, tutti sopra la barricata, cercando di convincere il ragazzino a tornare indietro. Volarono pallottole, cogliendo l’occasione della loro distrazione. Sangue rosso colò sulla strada finché i ribelli non furono costretti a ritirarsi.

 

Grantaire fu uno degli ultimi ad andarsene, stringendosi la spalla dove il buco lasciato da un colpo di fucile si stava già richiudendo. Si girò e vide Joly e Bossuet che lo fissavano. Non seppe dire cosa fu peggio: la completa confusione sulla faccia di Joly, o la sua completa mancanza in quella di Bossuet. Il più distratto dei suoi amici scosse le spalle e si allontanò velocemente. C’erano cose più importanti a cui pensare.

Restò solo Courfeyrac. Tossì finché non c’era sangue, sulle sue labbra, e di nuovo. «Gavroche! Torna qui

 

Il ragazzino sorrise. E cominciò a cantare mentre si chinava a raccogliere munizioni, una canzonetta di scherno, popolare. Sembrava che nulla potesse toccarlo. I suoi piedi veloci lo portarono sempre più lontano. Grantaire strinse i denti, e tutta la barricata tremò mentre cercava di raggiungerlo.

 

Uno sparo.

 

La canzone restò senza una fine.

 

(Gavroche non aveva pensieri, o rimpianti. I bambini che muoiono raramente ne hanno, perché sono troppo confusi, troppo innocenti per capire cosa sta succedendo loro. Gavroche non era un innocente - ma non aveva paura. Uomini lo avevano applaudito. Parigi aveva bevuto con lui. E quel buon uomo con la tosse si era preoccupato per lui molto più di quanto il suo vero padre non avesse mai fatto. In una vita dove fin troppo spesso era stato buttato a calci nel fango, e lì aveva vissuto, arrabattandosi per vivere, la morte avrebbe potuto essere una tortura uguale. Ma per un breve periodo Gavroche era stato felice. E quindi no, non aveva rimpianti.)

 

Fu quella la ragione per la quale, mentre tutta la barricata gridò, Grantaire finì in silenzio la canzone di Gavroche.

 

(due ragazzini continuarono a correre per le strade di Parigi, senza sapere di avere appena perso loro fratello)

 

Courfeyrac, senza pensare, corse fuori dalla barricata, seguito subito da Marius. Le pallottole piovvero attorno a loro, ma le ignorarono, e riportarono indietro il cadavere di Gavroche. Lo presero dalle mani di Courfeyrac quando lui cadde a terra, piangendo e continuando a tossire. Il sangue gli riempiva i polmoni, ma non si era mai sentito più vuoto.

 

(Jehan, sarò con te presto, credo. Prego sia così.) Tossì di nuovo, incapace di parole mentre altri portavano via il piccolo corpo, a riposare con gli altri. (Avrei potuto vivere. Penso sarei potuto essere un buon padre.)

 

Un silenzio solenne cadde sulla barricata, mentre i ribelli si dividevano le ultime munizioni raccolte dal sangue di Gavroche. Quindi a testa. Solo Valjean le rifiutò. La barricata non era senza speranza, non era a lutto. Nelle loro ossa correvano i brividi dei fanatici - dei martiri. Prepararono le loro pistole, ma pensavano alle loro anime.

 

Arrivò mezzogiorno.

 

Portarono fucili e pietre ai primi piani delle case, e sui tetti. Trasformarono il café in una fortezza. Era giusto che tutto finisse dove era cominciato, pensò Grantaire.

 

C’erano pochi uomini rimasti. I morti erano disposti uno vicino all’altro. Marius venne mandato a controllare la cima della barricata mentre gli altri lavoravano.

 

«Ci siamo solo noi, adesso,» disse Enjolras, con calma, ma tutta l’attenzione della stanza si spostò su di lui. «Non mischieremo i nostri cadaveri.» Si voltò verso Javert. «Non ti ho dimenticato.»

 

Turò fuori una pistola.

 

Jean Valjean sobbalzò, e anche Grantaire. Il movimento portò la Città a fissare l’uomo, a vedere i suoi occhi - occhi che erano fissi su Javert. Valjean non vide Grantaire, e nemmeno l’effetto che gli scatenò la sua anima.

 

(-un tozzo di pane- il collare da prigioniero- «Sì, vuol dire che sono libero»- argento nelle mie mani- libertà vigilata stracciata- «Vi prego, monsieur le maire!»- una storia orribile, complicata, se non per la risata di una bambina, e sotto a tutto l’anima pesante dell’uomo, carica di tutti quegli anni e ancora illuminata, nonostante tutto. Non te ne ricordi, Parigi, le anime dei giusti brillano.)

 

Grantaire fece un suono strozzato. Quell’anima, lì, in quel momento, era troppo crudele. Quasi non registrò le parole dell’uomo.

 

«Lasciate che sia io a uccidere la spia.»

 

Grantaire rimase stupito. Non si era mai sbagliato, prima. La sua Cittadinanza l’aveva ormai abbandonato completamente?

 

«Prendilo,» disse Enjolras, sovrastando le proteste degli altri. Non guardò Grantaire, semplicemente consegnò la pistola a Jean Valjean. Bossuet si era sbagliato: anche il ghiaccio può bruciare.

 

Fuori, Marius gridò un avvertimento. La risata di Javert era come l’acciaio. «Ci reinconteremo presto.»

 

Pochi minuti dopo, risuonò uno sparo. Enjolras annuì, come se il lavoro fosse stato fatto. Ma non lo era. Grantaire si voltò dall’altra parte, così che nessuno potesse vedere la sua espressione. Javert era sopravvissuto. E non per caso. Grantaire guardò l’espressione dura di Enjolras e non disse niente. Vivere non era un crimine.

 

E del resto, non spettava a lui giudicare. Sapeva, in qualche modo, che quella storia non sarebbe finirà lì. L’uomo dall’anima splendente, e l’uomo fatto d’acciaio, stavano solo passando attraverso le loro vite, inseguendo un altro destino. Nella sua testa, Grantaire riusciva a sentire le acque della Senna.

 

Non ci sarebbero state stelle, quella notte.

 

L’acqua continuava a salire mentre gli uomini uscivano e Enjolras, le sopracciglia crucciate, lo portava verso una sedia sul retro della stanza.

 

«Stai bene?»

 

Grantaire lo guardò appena, gli occhi che vagavano su ogni centimetro del suo viso. Si sentiva messo a nudo, i nervi scoperti, battuti dalle tempeste, che tentavano di prepararsi per il peggio ma che in fondo l’avevano già accettato.

 

«Se così vivo.», disse, con meraviglia. «Vedo e sento ogni parte di te, le impronte delle tue dita, le fibre del tuo cuore, l’aria nei tuoi polmoni. É tutto così fragile, così debole. Ma… sei così vivo. Com’é possibile?»

 

Li amava. Li amava tutto così tanto che gli si riempirono gli occhi di lacrime. Le Città dicevano che erano nate per amarli, che non avevano scelta, che non era giusto. Grantaire non la pensava così. Gli umani erano creature così terribili, così meravigliose. Come si poteva non amarli?

 

Enjolras accarezzò i ricci di Grantaire, un gesto familiare, ormai. «Resta qui,» disse, deciso. «Non verrano a cercare qui. Ti proteggerò finché posso.»

 

Grantaire cercò di prendergli la mano, ma Enjolras era già sparito.

 

Era la fine.

 

Le case divennero trappole dalle quali non era possibile scappare. E arrivò la cavalleria, l’artiglieria. Il fuoco dei cannoni era davvero diventato un tuono, che divorava vite. Tamburi, e baionette-

 

E i ribelli avevano solo quindici pallottole ciascuno.

 

La guardia nazionale attaccò ancora e ancora, con crescente ferocia. Prendevano fuoco, sì, ma non si ritirarono, non l’avrebbero fatto di nuovo. Sapevano che c’era una sola fine per questa storia, e volevano che fosse loro. Enjolras era in piedi da un lato della barricata, Marius dall’altro (e lei piangerebbe, Marius, se tu morissi qui.) I combattimenti aumentarono.

 

I ribelli avevano solo quindici pallottole ciascuno.

 

Risero, sull’orlo della follia. Courfeyrac voleva unirsi alla lotta, ma si ritrovò in ginocchio, incapace di rialzarsi. Non tossiva più sangue, solo perché non ne aveva molto rimasto. La pallottola aveva compiuto il suo lavoro.

 

Feuilly, che ancora combatteva, gridò, «Dove sono gli altri che avevano promesso di unirsi a noi, che avevano giurato sul loro onore!»

 

Combeferre gli strinse una spalla, «Molti uomini che dicono di avere onore preferiscono guardarlo da lontano.»

 

Spararono sui soldati finché i muri attorno a loro non furono costellati di buchi. I soldati inciamparono sui loro morti, le uniformi scurite dal fumo, le facce pallide e livide di rabbia, come spettri che finalmente arrivano al banchetto loro promesso.

 

Non c’erano più munizioni.

 

Negli anni a venire, un uomo chiamato Victor Hugo vi dirà che questo momento fu come ogni grande ultima resistenza nella storia; degno della caduta di Troia. Menzogna. Questi ribelli avevano bende e ferite sanguinanti, erano disperati, e quando i soldati si affacciarono dalla cima della barricata, ad alzarsi furono le grida spaventate di ragazzi. I soldati fecero irruzione, come un’inondazione.

 

La barricata cadde.

 

E anche Grantaire.

 

É questo quello che succede, quando una Città ama qualcuno. I Les Amis combatterono per l’ultima volta. I fucili ormai inutili, andarono incontro a pallottole e spade con pugni e pistole. Parigi sentì il loro dolore e la loro paura, sentì la presa salda dei soldati sulle loro baionette, e Grantaire pianse, raggomitolato su sé stesso sul pavimento sporco, l’intero corpo scosso da tremori, mentre la sua anima si spezzava a metà. Finalmente, l’oscurità lo prese prima che la sua mente potesse frantumarsi,

 

Galleggiò nel buio, nel sonno, interrotto solo da rapidi sprazzi del mondo reale.

 

Bossuet venne ucciso mentre si assicurava che gli altri fossero riusciti a scappare verso il café.

 

(Ce l’ho fatta. Joly é al sicuro. Finalmente sono stato d’aiuto. Si prenderà cura lui di Musichetta.)

 

E Feuilly.

 

(Prima di morire, Feuilly aveva inciso queste parole sul muro di fronte al café: Vivent les peuples! É ancora lì. Le stesse parole erano apparse sul fianco di Grantaire, vicino al suo cuore.

 

Aveva senso, quindi, il suo ultimo pensiero: Non voglio morire.)

 

E Joly.

 

(Posso salvarlo. Sono un dottore posso- Ho bisogno solo di un po’ più di tempo vi prego solo un po più di tem-)

 

E Courfeyrac.

 

(se ne andò con sollievo, e la sensazione di cadere nelle braccia di qualcuno, labbra conosciute che gli premevano un bacio sulla tempia. Jehan…?)

 

Combeferre prese tre baionette nel petto mentre cercava di aiutare un soldato ferito. Alzò gli occhi al cielo, e pensò, con incredibile serenità,

 

(Saremmo potuti essere grandi)

 

e morì.

 

L’intera strada era nel caos. I colpi del cannone dovevano aver danneggiato le case, perché si stavano quasi ripiegando su loro stesse, in agonia. Le fogne attorno a loro gorgogliavano, l’acqua risaliva dalle catacombe, afferrando chiunque riuscisse a raggiungere. Sopra, si ammassavano nuvole, nere e pesanti. Bambini piangevano. Soldati inciampavano sui loro stessi piedi. Qualcosa non andava.

 

(Parigi stava gridando)

 

Nella stanza al primo piano del café, però, c’era una calma irreale. Enjolras raddrizzò le spalle, e alzò la sua bandiera rossa, un’ultima volta. I soldati di fronte a lui presero la mira. 

 

Grantaire si svegliò.

 

 


 

 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Di nuovo, le lacrime. Non siamo pronte. Una piccola nota: il primo paragrafo é quasi interamente preso da Victor Hugo. L'autrice ha scelto così perché é uno dei suoi passi preferiti dell'intero Mattone, e non possiamo che essere d'accordo. 

Per questo capitolo, la traduzione è di barricadeuse e il betaggio di piuma_rosaEbianca, a bbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Scusate il ritardo per questo capitolo. Ci rivediamo l'8 maggio.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.

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Capitolo 15
*** Chapter 15 ***


È così che andò:


Le guardie erano insanguinate e infuriate. Diedero la caccia agli ultimi ribelli all'interno del café, distruggendo tutto quello si trovava sulla loro strada. Enjolras aveva avuto ragione: non notarono la stanza sul retro dove una Città giaceva priva di sensi. Salirono invece quel che restava della scalinata, mezzi accecati dal sangue, spingendosi l'un l'altro, fino a dove trovarono Enjolras da solo.


Era arretrato fino all'angolo, vicino alla finestra. Quando non ci fu più nessun posto dove andare, e si ritrovò disarmato, non c'era nient'altro da fare se non alzare il mento, in segno di sfida.


"Sparatemi!"


"Lui è il capo!" gridò una delle guardie. "E' quello che ha sparato al nostro capitano! Sparategli!" Il grido fu ripreso dagli altri. Il loro luogotenente sollevò la mano. Sembrava triste. Se Enjolras riconobbe il suo amico d'infanzia, non ne diede segno.


"Sei stato tu a sparare al capitano?"


"Sì."


In quel tetro silenzio, dodici guardie puntarono i fucili.


Enjolras sollevò la bandiera. Il sole cominciò a tramontare aldilà delle case e la luce si riversò attraverso la finestra, illuminandolo, rendendolo qualcosa di inumano, bellissimo. Un Apollo, alla fine. Ci fu una pausa, come un respiro trattenuto prima di tuffarsi.


Dopo ore di mitraglie e palle di cannone, dopo il tremendo ruggito dell'assalto che non lo aveva minimamente smosso, fu il silenzio a svegliare la Città.


Grantaire aprì gli occhi.


E seppe. La tenda era stata strappata, in un solo istante fu tutto rivelato. Qualsiasi dubbio ci fosse nella sua mente scomparve. Grantaire uscì dalla stanza sul retro, attraversò il bar pieno di cadaveri e salì le scale. Il legno era rovinato, ma riuscì a sorreggere i suoi passi incerti. Poteva sentire la presa dei soldati sui fucili. Poteva sentire il sudore che scorreva lungo il collo del luogotenente. Poteva sentire la stoffa rossa stretta nella mano di Enjolras.


Salì alla stanza di sopra.


Gli occhi di Enjolras e Grantaire si incontrarono.


Sapete come va a finire.


X


È così che cominciò:


Le Città nascevano dopo tre morti. Il sangue di una madre che dà alla luce un bambino. L'ultimo respiro di un vecchio. Il sangue di un giovane uomo sparso in guerra. Tutti devono morire credendo che quella sia la loro casa, la loro patria, che siano al sicuro lì.


Dopo ciò, la natura fa il resto, creando una scintilla di vita nel buio che qualcuno chiamerebbe l'anima.


La prima volta che sentì/pensò/visse fu prima ancora di esistere. Prima di aver pensato "Io" o saputo la lunghezza della sua schiena o mosso i suoi polpastrelli. Fu quando il primo sangue aveva inzuppato la terra. Non abbastanza, non ancora.


Ma se lo ricordava, in modo vago, incerto se fosse un vero ricordo o solo una sensazione di calore. Parigi che aspettava, senza mente né nome, nella terra, Madre Terra, che lo teneva vicino, che lo cullava in una lingua antica, quella che i suoi figli parlavano. Insegnandogli, preparandolo.


(non se lo ricordava, questo: la sua voce: che cuore avrai, mia parigi. che canzoni canteranno su di te. il tuo più grande trionfo sarà nella sconfitta.)


E Parigi imparò. Non era ancora abbastanza vivo da piangere quando li sentì morire, uno vecchio, uno coraggioso davanti agli invasori. Senza speranza, anche, davanti a loro. Giovane. Giovane più di ogni altra cosa. Non avrebbero cantato per lui. Madre Terra sorrise, e raccolse il sangue e il respiro che non era ancora Parigi. Li prese in sé. Li legò fra loro.


Gli diede la vita.


Veniva in modi diversi, quella scintilla. Tempeste, bufere, qualsiasi cosa naturale. Copenhagen nacque con il lampeggiare di un fulmine e il ruggire di un tuono. Cairo sentì la sabbia pungergli le labbra. Efeso aveva aperto gli occhi e aveva visto illusioni, la luna doppia nel cielo.


Ma Parigi venne al mondo in un'alba di primavera.


La sua gente era scappata il giorno prima, il sangue ancora fresco sul suolo. Parigi nacque solo. Non dispiacetevene. Significò soltanto che poté osservare il verde delle colline, i fiori di campo, il sangue sui loro petali, il colore perfetto del cielo.


E' il motivo per cui gli occhi di Grantaire sono blu.


La sua gente sarebbe ritornata, avrebbe visto il bambino fra i fiori e lo avrebbe accolto. Avvolto in pellicce di coniglio, accarezzato i suoi riccioli e sussurrato in una lingua che già sapeva. Ma non ancora. Per adesso, c'era solo lui.


E poi il sole sorse.


La luce si sparse sulla terra e lo illuminò. I raggi lo riscaldarono. Era intoccato. Era bellissimo. La prima volta che Parigi prese fiato fu la prima volta che si innamorò.


L'amore di un padre, rifletté Monsieur Enjolras, era una cosa difficile. Si abbassò e schiaffeggiò di nuovo suo figlio. "Chiedi scusa."


"No."


Non è che non fosse fiero di suo figlio, oh no. Era un bambolotto stupendo, anche alla tenera età di cinque anni. Anche intelligente, un degno erede.


"Non era una domanda."


"Non lo farò."


Lo schiaffeggiò di nuovo. Il lato della guancia del bambino era rosso acceso adesso. C'erano lacrime nei suoi occhi, ma il bambino non vacillò. Monsieur Enjolras sospirò. Uno spirito forte era una cosa buona e giusta, ma non se non poteva essere disciplinato. Educato, come si diceva. Indirizzato nella giusta via. Era suo dovere di padre.


Era un peccato che sua madre sembrava avere più influenza su di lui. Cose del genere potevano rovinare un ragazzo. Comunque, gli diede un'idea. Monsieur Enjolras si chinò verso il suo ribelle bambino.


"Capisci che hai fatto molto male al figlio del Visconte."


"Lui ha fatto più male a quel cane!"


"Lo so , lo so. Ma ha fatto arrabbiare il Visconte, e hai fatto preoccupare terribilmente tua madre. La sua salute non è mai stata troppo buona, e dobbiamo prenderci cura di lei. Lo capisci, vero? Di non farlo più, per il bene di tua madre?"


"...sì."


"Bene."


"Ma non chiederò scusa."


Il ciclo ricominciò da capo.


Parigi era giovane, una volta, spingendo i suoi limiti, per vedere quanto lontano poteva andare e per quanto a lungo. Non era l'unico a farlo.


Era una notte di luna piena, di un ardente color ambra, quando il suo sangue Celtico lo chiamò e lui non poté far altro che seguirlo. Fu così che la incontrò. Slanciata e minuta, pensò che fosse un essere magico, o una qualche driade caduta da un albero lì vicino. Poi vide i tatuaggi che circondavano il suo collo, e gli occhi vecchi nel suo volto giovane. Un'altra Città.


"Parigi," si presentò con un inchino.


"Londra," rispose lei. I suoi occhi brillarono nell'oscurità.


Non è cosa saggia, dare nomi a creature magiche. I nomi hanno potere. Ma sicuramente questa volta non sarebbe stato troppo grave. Lei era molto bassa, e inoltre era una donna. Si sorrisero. Entrambi erano troppo giovani per capire la pesante canzone della luna, i movimenti carnali degli altri all'ombra dei salici piangenti. Così sentirono la canzone, e ballarono.


Parigi era sempre stato un eccellente ballerino, e girarsi intorno diventò presto darsi la caccia, che diventò a sua volta correre per il piacere di farlo, fino a quando non rotolarono sull'erba sulla riva del fiume, ridendo mentre la luna scendeva verso l'orizzonte. Londra sembrava bella, nonostante non avesse mai davvero pensato alle ragazze prima di allora. Ammirò il brillare dei suoi capelli nel crepuscolo. Aveva fiori bianchi intrecciati con ciocche dorate. Lei ne prese uno e lo fece a pezzi, le sue mani sorprendentemente cattive. Lui si accigliò e si sporse, prendendone uno anche lui, anche se le sue dita impacciate ne ammaccarono i petali.

Gli occhi astuti della ragazza incrociarono i suoi. "Puoi baciarmi, se vuoi."


Cosa successe dopo fu così terribile che entrambi giurarono di non parlarne mai più.


Parigi pianse.


Londra lo colpì.


Era difficile per loro, queste Città-bambine, che non lo avevano mai fatto prima. Comunque, cresciute entrambe con storie d'amore, un freddo stringersi nella penombra era quanto di più deludente. C'era una somglianza che Parigi e Londra erano costretti ad ammettere, per quanto di controvoglia; erano entrambi dei romantici.


Fu per il meglio, che si separarono lì, senza alcun amore ad arrossire loro le guance. Nonostante tutto, il ricordo rimase, e alla fine si scambiarono lettere, più per imitazione di Roma che vero bisogno. Passarono i secoli, e le buste diventarono sempre più spesse, con notizie di umani, di re e poeti, di amori, che deliziavano o spezzavano loro il cuore. (fino a che, un giorno, Parigi smise di scrivere)


Non era un'amicizia. No. Non era neanche una semplice conoscenza, non quando i loro umani combattevano e si scambiavano culture in egual misura. Poteva essere spiegato solo con il ricordo di fiori bianchi, e un sorriso nel buio. E per loro andava bene così.


Era davvero troppo presto, quella mattina. Enjolras, nei suoi otto anni di esperienza, aveva deciso che fosse una punizione ulteriore, aggiunta a quella che aveva già ricevuto.


Si era nascosto dal suo tutore una volta di troppo, ed era stato colto mentre cercava di cantare le canzoni che i ragazzi della strada gridavano ogni volta che la loro carozza passava. Quindi. Un posto suggerito dai più vicini amici di famiglia. Stanza spoglie con file di banchi e un insegnante irascibile che sbatteva il suo bastone contro le gambe delle sedie mentre passava. E anche sulle nocche.


Enjolras aveva passato tutta la lezione guardando fuori dalla finestra. Almeno, fino a quando non notò che il ragazzo biondo accanto a lui aveva un libro sulle ginocchia, appena sotto al banco. Lo stava leggendo, girando le pagine senza fare rumore, completamente assorto. Enjolras non aveva mai visto un cattivo comportamento così tranquillo. Quando la lezione fu finalmente finita, parlò, "Ti è permesso farlo?"


"No."


"Bene. Non lo dirò a nessuno," aggiunse quando vide lo sguardo diffidente del ragazzo. "Sono Enjolras."


"Combeferre," rispose il ragazzino.


Enjolras si sentì sorridere.


Era. Fottutamente. Invincibile!


Parigi reclinò la testa e rise selvaggiamente quando le linee dei pagani si ruppero e lui avanzò. Le Città non avevano il permesso di condurre, le Città non avevano il permesso di farsi coinvolgere dalle guerre principali (almeno, non contro gli umani, le altre Città erano libere) ma questa guerra era per l'anima! Sicuramente era permesso, unirsi alle crociate per dare ai suoi figli un vantaggio, una possibilità di liberare Gerusalemme dagli infedeli, un posto più alto nel regno dei cieli. Il Papa lo aveva ordinato. Il luogo di riposo delle loro anime sarebbe stato assicurato non appena avrebbero preso Gerusalemme.


E lui amava i suoi figli, abbastanza da affondare la sua spada nel sangue impuro. Non era l'unico, aveva visto Città spagnole e inglesi e italiane fra i soldati. Le lame graffiavano la sua armatura e Parigi andava avanti, colpendo e colpendo ancora. Poteva sentire i suoi figli, sentire il loro odio e la loro disperazione e la loro rabbia. Tutti ricordavano le promesse che i preti avevano fatto loro, di una madre o una sorella o un fratello che sarebbero bruciati se non avessero combattuto. (stranamente, la loro rabbia sembrava angoscia, ogni tanto). Li sentiva anche morire. Piaghe si aprivano sulla sua pelle. Cercava di non pensarci, sarebbero andati in Paradiso, dopo tutto. Martiri per la loro causa.


Ci fu una chiamata di ritirata. Parigi imprecò. Non importava cosa facesse, sembravano essere sempre in ritirata. Guardò gli uomini e poi avanzò. Il suo re non sapeva che lui fosse lì, ad ogni modo.


Superò l'esercito, il punto più furioso della battaglia, e andò per le strade di Gerusalemme stessa. Per un momento, Parigi si permise di crogiolarsi nella sua gloria. Si tolse l'elmo e si asciugò il sudore dalla fronte. L'ultimo uomo che aveva ucciso era dietro di lui. Sembrava… sembrava giovane. Era probabilmente solo un'illusione data dal sole.


Parigi avanzò ancora. Vagheggiamenti gli attraversarono la mente. Liberare Gerusalemme da solo, o trovare qualche passaggio segreto attraverso il quale condurre i suoi uomini verso la vittoria. Vittoria. Sembrava così lontana. Comunque, era sicuro che si sarebbe goduto quella vista, alla fine.


Le strade erano stranamente deserte.


Parigi le attraversò barcollando, calciando la polvere. La sua armatura era pesante e calda sotto quel sole cupo. Si sentiva... teso. Fragile. Era stato lontano dai suoi confini per troppo tempo. Gli unici Parigini che poteva sentire adesso stavano morendo. E cosa succedeva a una Città quando la sua gente moriva? Non voleva scoprirlo. Sarebbe tornato a casa presto. Ma non ancora.


Entrò in un edificio per togliersi dalla luce, una costruzione aperta, grandiosa. Sorprendente, per una città governata da degli infedeli. Lì, una donna stava pregando.


"Tu," disse Parigi. "Chi sei?"


Ci fu un silenzio. E poi, con parole basse che sembravano riempire l'aria stessa, lei rispose,


"Sono Gerusalemme."


Stava sanguinando. Non solo dalle mani, ma dalle braccia e dalla testa e dal volto. I suoi abiti erano inzuppati. Odorava di morte. Piangeva sangue, lacrime senza fine che scorrevano lungo le sue guance. Parigi la guardò e vide i segni della sua spada sulla pelle di lei.


"Io..." sussurrò. "...Io sono venuto a liberarti."


Non avrebbe mai saputo spiegare cosa vide negli occhi di Gerusalemme.


La sua spada sferragliò sul pavimento. Parigi scappò.


"Mamma, dove stiamo andando?" chiese Enjolras. Aveva dieci anni, e non pensava che avrebbe dovuto tenere la mano di sua madre in questo modo. Ma lei si rifiutava di lasciarlo andare e lo trascinava per le strade di Parigi, l'altro che si teneva alla sua gonna mentre il suolo diventava sempre peggiore.


Non era mai stato in questa parte della città. Sarebbero dovuti essere a fare spese. Adesso erano circondati da ogni tipo di persone. Donne in abiti logori. Uomini sporchi, muscolosi. Dozzine di ragazzi non più grandi Enjolras. Era quasi spaventato da loro, dal rumore e dall'odore che emanavano.


Ma loro non lo stavano guardando. Stavano guardando un altro uomo in piedi su palco improvvisato. Era sporco quanto loro, dai capelli scuri, povero.


E stava sputando fuoco.


Enjolras capiva a mala pena cosa stesse dicendo, sapeva solo che le parole lo colpivano come fulmini. Non aveva mai sentito cose simili prima di allora, su re ed imperatori, sulla corruzione e il popolo. Mai in questo modo.


Sua madre gli stava stringendo la mano molto forte. Si ricordò improvvisamente dei pamphlet spiegazzati che teneva in un cassetto del suo tavolino da toeletta. Anche loro dicevano cose del genere. Enjolras si ritrovò senza fiato e sorridente. Era questo. Era ogni cosa che aveva problemi ad esprimere. Strinse di rimando mentre le parole dell'uomo gli volavano intorno.


E poi tutto si fermò. Le guardie arrivarono. La folla si ammutolì all'improvviso, e poi si mosse. Il palco fu ribaltato. Il caos esplose. Sua madre lo trascinò via.


Quando furono di nuovo sulle strade pulite, vicino a casa, lei si girò e lo guardò con occhi spaventati.


"Ricordatelo."


Voleva che si ricordasse dell'uomo, picchiato per la strada.


Enjolras, però, ricordò le sue parole.


Parigi era silenziosa.


Era stata una lunga guerra. Gli Inglesi avevano preso la sua terra, il suo essere una Capitale. Era stanco. E cosa ancora più importante, era umano. O almeno più umano di prima. Le Capitali dovevano temere solo il fuoco. Una Città qualunque, se la sua anima veniva sommersa e la sua mente offuscata, poteva morire anche per una freccia o una spada. E ne aveva viste tantissime di recente.


Qualche settimana prima, sarebbe stato pronto ad arrendersi. Era già stato colonizzato in passato. Sarebbe sopravvissuto. Cos'erano un altro po' di cicatrici?


Ma non adesso. Adesso, per la prima volta, i suoi figli avevano una speranza. I soldati che lo conoscevano gli afferravano una mano o una spalla nel passare, svegli e pronti. Stendardi cuciti di fresco sbattevano nel vento, portando il simbolo del vero re di Francia. Per la prima volta, gli uomini si riunivano sotto di essi, pronti a combattere. Pronti a vincere. Ed era tutto a causa di una persona.


"Dov'è?" Parigi chiese a voce bassa. Diversi uomini puntarono verso la chiesa.


I soldati avevano continuato ad andare avanti e indietro per messe e preghiere e confessioni. I gradini erano sporchi. Non era una chiesa particolarmente grandiosa, una semplice cappella di campagna vicino a dove l'esercito si era sistemato.


Parigi non era entrato una chiesa da Gerusalemme.


Si leccò le labbra e risalì lentamente i gradini, ogni passo sempre più pesante. Quasi si dimenticò di lasciare la spada prima di entrare, arrossendo sotto lo sguardo di rimprovero del prete.


Le porte di legno cigolarono nell'aprirsi e lui entrò. Dentro era buio e quasi vuoto. L'uomo che aveva radunato l'armata, che aveva pronunciato parole come uccelli in volo, era stato lasciato solo. Erano bastati pochi giorni e già lo rispettavano. Forse questo denotava quanto fossero disperati, quanto Parigi li avesse davvero delusi.


C'erano delle candele in fondo alla chiesa, le loro fiamme tremolanti illuminavano l'altare e il crocifisso al di sopra. Parigi si avvicinò, tenendo gli occhi sulle fiamme. Non riusciva a guardare l'uomo sanguinante sulla croce. Non voleva vederlo mentre lo giudicava.


"E' tranquillo qui," disse una voce e Parigi sobbalzò, facendo quasi cadere una candela. Chi aveva parlato era inginocchiato sulla panca più vicina, le mani giunte in preghiera.


"Tu sei quello- quello che ha parlato agli uomini. Quello che li ha convinti a combattere."


"Sì."


"Dovrei ringraziarti. Voglio dire, hai parlato in modo stupendo."


"Non ero io a parlare," l'uomo- il ragazzo in realtà- disse tranquillamente. "Era Dio."


"Oh," distolse lo sguardo. La religione era una cosa umana. Le Città non avevano un ruolo in quel campo. Lo aveva imparato nel modo più crudo. "Non credevo- Sono sorpreso che lo abbia fatto."


"Lui si preoccupa." Il ragazzo si accigliò, alzandosi in piedi. Era anche basso. Quanti anni aveva?


"Ovviamente. Sono solo sorpreso che mi abbia trovato degno."


Il ragazzo si avvicinò. "Non credi di essere degno di essere salvato?"


I suoi occhi, notò Parigi, erano di una tonalità brillante di blu, come i fiori di speronella che crescevano sull'erba lì fuori. Parigi li incrociò, e caddero l'uno nell'anima dell'altro. Quando si separarono, Parigi cadde in ginocchio.


"Parigi," il ragazzo- no- la donna rantolò, afferrando la panca per sostenersi. "Sei Parigi!"


"Tu brilli," Parigi sussurrò. "Tu brilli. Chi sei?"


"Io sono Giovanna d'Arco," sorrise. E Parigi l'avrebbe seguita fino alla fine del mondo. L'avrebbe seguita in battaglia, per ridiventare una Capitale. L'avrebbe seguita per costringere l'esercito inglese a ritirarsi, per sollevarsi con la sua nazione. Per non avere mai un'altra cicatrice.


(e questa era speranza)


Enjolras rise rotolando giù da Pierre, pelle impregnata di pelle. Era sazio e soddisfatto, e si stese sul letto sorridendo mentre Pierre posava pigri baci sulla sua spalla.


"Sto per unirmi alle guardie," mormorò Pierre.


"Cosa?" Enjolras si sollevò all'improvviso, spingendolo via. Pierre sospirò.


"E' uno scopo nobile. Duro lavoro e buona paga ed è quello che voglio fare."


"Nobile? Starai a fare la guardia ai ricchi, abusando i poveri e tutti quelli che hanno davvero bisogno di protezione."


"Enjolras," Pierre mugolò, "Questo andava bene da dire quanto eravamo giovani, ma abbiamo delle responsabilità adesso. Dobbiamo mettere da parte i nostri sogni infantili."


"Voler fare la cosa giusta non è infantile."


"Lo è quando fai i tuoi discorsi nelle classi e fuori dall'università e non per strada. Alcuni di noi devono lavorare per pagarsi da vivere. Non possiamo tutti vivere nella villa dei nostri genitori," disse Pierre apertamente.


"Allora vattene."


"D'accordo." Pierre raccolse i suoi vestiti. "E mi unirò alla guardia."


"Allora non farti più vedere."


Se ne andò. Enjolras fissò la porta. Era furioso. Era anche abbastanza intelligente da sapere che Pierre aveva ragione. Viveva a casa dei suoi genitori, ancora un membro della borghesia mentre ne parlava male.


Enjolras aveva sedici anni. Quella notte fece i bagagli e non si guardò indietro.


Un'altra guerra. Un'altra fottutissima guerra e l'unica cosa che riusciva a ricordarsi era il nome del soldato che gli aveva dato la sua fiaschetta per calmare i nervi. Non riusciva neanche a ricordarsi perché stessero combattendo, o contro chi.


E il Re non si ricordava neanche un nome di quelli che morivano. Gli ordini arrivavano a casa sua, intimandogli di ritornare a corte, di inchinarsi di fronte al suo re. Ritornavano insieme ad ogni nuovo re. Parigi li aveva ignorati tutti. Non poteva sopportare di guardare un re. Le cicatrici sulla sua schiena gli dolevano ogni volta che lo faceva.


Le guardie erano arrivate a casa sua di notte. Nonostante non vivesse più nei Palazzi, si sapeva ancora della sua casa in periferia. Era stato un errore. Parigi si era calato giù dalla finestra e si era allontanato nella notte, nella più completa oscurità.


Cominciò a piovere.


La fiaschetta che gli aveva dato il soldato era vuota. Le strade gemevano e si aprivano per fargli strada verso il calore di un café, non uno particolarmente pulito, ma onestamente a Parigi non interessava più molto. La cameriera gli fece l'occhiolino e gli chiese cosa volesse.


Parigi era abituato a bere con gli amici, con altre Città, o ad vedersi offrire i migliori vini del paese durante i banchetti. Non aveva mai bevuto per dimenticare prima di allora.


"Va bene qualsiasi cosa," disse a voce bassa. La donna lo guardò con sguardo compassionevole, forse in cerca di una mancia, forse per vero sentimento. Non riusciva a dirlo.


"Come ti chiami?"


Si ricordò del soldato dal sorriso gentile.


"Sono Grantaire."


L'incontro al café non era così affollato come Enjolras aveva sperato. Combeferre, sempre fedele, era lì, insieme ad altri loro amici. Ma la maggior parte di loro erano studenti, il che rendeva difficile sostenere che fossero la voce del popolo.


Due notti prima un uomo chiamato Feuilly si era fatto vedere, e Enjolras aveva sperato disperatamente che il fabbricante di ventagli sarebbe venuto di nuovo. Un uomo del popolo, autodidatta, era proprio quello di cui avevano bisogno.


Ci fu uno scoppio di risa dal lato opposto del café, e Enjolras si sporse per vedere.


"Che stanno facendo?"


"Credo che abbiano trovato un nome per il nostro gruppetto," disse Courfeyrac con grande affetto. Anche se quello sguardo dolce avrebbe potuto essere meno per il nome e più per Jehan, che stava silenziosamente scrivendo poesie sul suo taccuino e lanciando occhiate a Courfeyrac quando pensava che non stesse guardando. Enjolras si sforzò di non sospirare. Capiva cosa volesse dire apprezzare la compagnia, ma l'amore lo confondeva, specialmente quando sembrava mettersi in mezzo a tutto.


Non era il suo ruolo giudicarli, così si girò verso gli altri. "Posso sapere qual'è il nome?"


"Saremo Les Amis de l'ABC!" esclamò Joly, paonazzo dalle risate.


"...abaissés? Amici degli umili? E'..." Enjolras si prese la testa fra le mani. "E' una battuta terribile!"


Le risate scoppiarono di nuovo nel café.


Grantaire barcollò per le strade, il brandy nella sua bocca che gli faceva girare la testa. Ne aveva bevuto troppo. Non ne aveva bevuto abbastanza. I fumi di alcol che emanava facevano storcere il naso ai passanti, che si allontanavano disgustati. E perché non avrebbero dovuto? Era ributtante. Grantaire riuscì per un pelo a imboccare un vicoletto prima di vomitare violentemente per la strada. L'acido gli bruciò la bocca. Sputò bile e notò che era macchiata di sangue.


Lisbona gli aveva detto una volta che, a dire il vero, poche cose potevano uccidere una città a meno che non volesse morire. (Non è quello che possiamo superare, aveva detto, è quello a cui scegliamo di sopravvivere.). Beh, lui voleva morire. Quel pensiero lo aveva inseguito sino a quando Napoleone lo aveva portato in alto e poi lasciato cadere di nuovo, così lontano. Da quando così tante persone erano morte ed erano state massacrate nel suo nome. Perché ogni comandante e ogni re e ogni imperatore era come gli altri. Voleva morire. Voleva morire.


"Ti prego, monsieur," c'era una creatura pietosa nel vicolo, i capelli rasati e dei denti mancanti. Gli porse una mano congelata, "Farei di tutto..."


Se avesse guardato nei suoi occhi, avrebbe visto una bambina chiamata Cosette. Ma una Parigi che avrebbe pianto non aveva più niente da dare.


"Vattene."


Barcollò via per cercare altro da bere.


Enjolras era a metà discorso in una stanza piena di gente quando la risata di un ubriaco risuonò dal bar. Nonostante di recente la stanza fosse stata tenuta da parte per Les Amis, era consapevole che fosse un luogo pubblico, ed era preparato ad ignorare le interruzioni. Continuò il suo discorso, fino a quando la voce ritornò.


"Non credi onestamente in questa roba, vero?"


"Cerco raramente di convincere persone di ideali in cui non credo. Non sono un politico, dopo tutto." Ci fu una risata generale, e adesso aveva la piena attenzione dell'ubriaco. I suoi occhi erano stranamente lucidi per uno uomo così a fondo nella sua bottiglia.


"Così credi davvero che se lavoriamo tutti insieme le cose miglioreranno, nonostante tutte le prove storiche del contrario?"


"Le rivoluzioni sono necessarie-"


"Le rivoluzioni sono un circolo. Robespierre finì sotto la sua stessa ghigliottina. L'uomo che aiutò a mettercelo si incoronò poco tempo dopo. La natura umana non cambierà mai."


"Scetticismo e cinismo non sono teorie filosofiche valide. Se non proviamo a cambiare le cose, l'unico risultato sarà che ogni cosa rimarrà com'è." Poteva vedere Combeferre che annuiva in approvazione. L'ubriaco, però, si limitò a ghignare, con un'espressione acida.


"Come ti pare, Apollo."


Grantaire si sporse verso l'uomo al suo fianco, "Quell'uomo, chi è?"


"Enjolras."


X


È così che finì:


Le guardie non lo avevano ancora visto. Erano folgorati da Enjolras, che in cambio guardava solo Grantaire. E sotto il suo sguardo, Grantaire si raddrizzò.


"Lunga vita alla Repubblica!


Per un momento, tutti, a Parigi, si fermarono. Quelle parole riecheggiarono nelle loro teste, affondando in profondità, svanendo subito.


"Chi sei?" chiese il luogotenente.


"Nessuno," rispose lui. Perché non importava più se fosse Grantaire o Parigi. "Sono uno di loro, quindi finiteci entrambi in un colpo solo."


E che fosse abbastanza. Era la sua scelta. Era dove voleva essere. Adesso stava ad Enjolras. Enjolras che poteva, nel massimo della sua crudeltà, rifiutarlo, per il bene superiore. Perché se avesse detto "Vivi", Grantaire avrebbe potuto solo obbedire. Enjolras, che era affascinante e capace di essere terribile.


Grantaire si girò verso di lui e gli offrì con gentilezza la sua mano.


"Me lo permetti?"


Apollo avrebbe detto vivi. L'Apollo che aveva fermato le guardie con uno sguardo sprezzante, la fredda statua di marmo che li aveva fatti esitare, perché non si può far sanguinare un dio. Ma il volto di Enjolras si addolcì, e in quella dolcezza loro videro qualcosa che poteva essere ucciso. Sollevarono i loro fucili. Strano che, fra un uomo e una Città, fosse Enjolras ad essere reso più umano dall'amore.


Enjolras sorrise.

 


La sua mano era così calda...

 

 


 

 

Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo 

Non ce la possiamo fare con questa storia. La fine é una mazzata ogni volta. Right in the feels.

Per questo capitolo, la traduzione è di piuma_rosaEbianca e il betaggio di barricadeuse, abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

Abbiamo deciso di pubblicare un capitolo a settimana: ci siamo già portate avanti per non avere problemi o ritardi, quindi possiamo dire con sicurezza che d'ora in poi il giovedì sarà il giorno di Paris Burning. E quindi il giorno dei feels. Ci rivediamo il 15 maggio con il gran finale.

Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: continuate a crescere e ad avvicinarvi anche all'originale, cosa di cui siamo contentissime (e anche dopo aver letto quel capolavoro riuscite ancora a farci dei complimenti, siete meravigliosi)

The Cities are still burning,
al prossimo capitolo,
b + c.

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Capitolo 16
*** Epilogue ***


La notte prima della caduta della barricata, Grantaire scrisse lettere alle altre Città. Non avevano un ordine particolare, solo il peso delle sue parole, la cascata delle sue preghiere, mentre quelle più profonde restavano nella sua anima. Ma le lettere delle Città raggiungono la loro destinazione in alcune ore. E arrivano quasi sempre troppo tardi.


Questa volta non fecero eccezione.


X


Ottawa e Gatineau stavano giocando nel giardino quando vennero raggiunte da un maggiordomo. Con lui arrivò l’uomo che era incaricato della loro custodia, anche se alle due piccole non interessava poi più di tanto il suo nome, impegnate com’erano nei loro giochi, anche se presto sarebbero diventate adulte.


«Ottawa, porta qui tua sorella,» disse l’uomo, prima in inglese, e poi, dopo una pausa, in francese. Le sue spalle erano piegate all’ingiù. C’era qualcosa stretto nella sua mano. «Ho paura di avere brutte notizie per voi…»


X


Roma stava chiudendo la sua casa in vista della notte, anni di esperienza che ormai la costringevano a fare lei l’ultimo giro di controllo, quando vide la lettera atterrare ai suoi piedi. La raccolse e aprì la busta con attenzione. I suoi grandi occhi antichi si chiusero, e le rughe sul suo viso si approfondirono, mentre il dolore si scolpiva nel suo viso.


«Oh no, oh no…»


X


Berlino si svegliò con un sobbalzo. Non aveva avuto intenzione di addormentarsi, ma certe attività lo avevano cullato in un sonno soddisfatto. Adesso, non sarebbe più riuscito a ritornare a riposare. La sua fronte era umida di sudore freddo. Berlino si sedette.


«Cosa succede?», un mormorio sonnolento vicino a lui. Portsmouth lo avvolse con un braccio, il pollice che seguiva la linea del fianco del suo amante.


«Un brutto sogno,» Berlino guardò in basso, gli occhi pieni d’affetto.


«E allora torna qui, lascia che ti conforti.» Port lo morse e Berlino era tentato.


Ma c’era qualcosa nella stanza. Berlino fissò la lettera scivolare sotto la porta. Il simbolo sul retro della busta era familiare, anche se non l’aveva visto per un bel po’: una nave in mezzo a una tempesta e il motto, «Fluctuat nec mergitur». Si abbassò a prenderla nello stesso momento in cui qualcuno cominciò a prendere a pugni la porta. Entrambe le Città scattarono in piedi, infilandosi i pantaloni. Il bussare non accennò a smettere.


Portsmouth spalancò la porta e vide Londra immobile nella luce del corridoio. Il suo viso era rigato di lacrime.


«Ho bisogno di una nave.»


«Cosa succede?», domandò Portsmouth.


Berlino prese la lettera dal pavimento e l’aprì, la bocca che formava una singola, stretta linea. Una busta simile, anche se molto più accartocciata, spuntava fuori dalla tasca di Londra.


«Edimburgo e Cardiff sono qui, anche loro, lui ha ricevuto la lettera per primo e ci ha svegliati tutti. Abbiamo bisogno di una nave- la prima a salpare per la Francia.»


«Vai al porto, ce n’é una che leva le ancore stanotte.» disse Portsmouth, ancora stupito finché Berlino non gli tese la lettera. Port impallidì.


«Vieni anche tu?» chiese Londra, rivolta a Berlino.


«Certo.» Strinse la spalla di Portsmouth in un addio silenzioso (Tornerò presto), prima di seguire Londra nella sua corsa.


La voce di Portsmouth lo inseguì.


«É morto? É morto?»


X


«PARIGI!», un grido agonizzante. L’acqua si agitò nei canali e si mosse, con la stessa rabbia e dolore e confusione di quella voce.


Diverse guardie fecero irruzione nelle stanze di Amsterdam, per trovare la Città in preda a una rabbia devastante.


«Come osa?», chiese lei, rivolta agli uomini che la fissavano confusi. «Come osa dopo- dopo- con tutto quello che abbiamo passato? Come osa lasciarci invece di assumersi le sue responsabilità? Come osa andarsene come se- come osa arrendersi?», e il suo bellissimo viso si sciolse in lacrime.


«Cos’é successo?», chiese il suo ministro, appena arrivato.


«Parigi, lui é-», Amsterdam si prese la testa. «Non lo so. Non lo so! Non riesco a capire. Non riesco più a sentirlo!»


«Questa cosa potrebbe avere grandi conseguenze politiche,» il viso del ministro era preoccupato. «I suoi umani ne sono al corrente?»


Un vaso si infranse sulla parete vicino alla testa dell’uomo. Tutti si zittirono all’istante.


«Gli umani non c’entrano niente, « ruggì Amsterdam, e la sua voce era la voce di centinaia e centinaia. I suoi occhi brillavano d’odio. «E adesso fuori!»


X


Madrid galoppava lungo la strada, alzando polvere al suo passaggio. Si abbassò a mormorare parole incoraggianti al suo cavallo. Sarebbe stato un viaggio lungo.


Anche se era scuro, riuscì a vedere qualcuno avanzare sulla strada verso di lui. Tirò le redini più per la sorpresa che per altro.


«Lisbona?»


«Madrid!», esclamò l’altra Capitale, in spagnolo, dal momento che era sulle sue strade. Anche lei fece rallentare il suo cavallo. Entrambi sembravano esausti. «Ho già cambiato cavallo due volte nelle tue taverne, spero non ti dispiaccia.»


«No, ho ricevuto anch’io una lettera.»


«Dobbiamo fermarlo.»


«Lo so», e cercò di odiare Parigi per le guerre, ma era difficile. Anche Madrid era stato un impero, e conosceva la pazzia che ne derivava. Ma il fatto che volesse gettare al vento la sua vita avrebbe potuto precipitare la Francia nel caos.


«E se é troppo tardi?», disse Lisbona. Sul suo viso c’era una disperazione tranquilla, piena di dignità. L’Europa era ancora giovane. Non era pronta ad assaggiare il gusto amaro della perdita.


«No.»


E con quello, entrambi spronarono i loro cavalli, galoppando via nella notte.


X


Stoccolma era seduta assieme ad Oslo quando arrivarono le loro lettere. Il fuoco era acceso vicino a loro, più per abitudine che per altro; Oslo ormai non sentiva più il freddo. Entrambi guardarono le fiamme a lungo, prima di parlare.


«É morto?»


«Sì.»


Il fuoco sibilò, sprizzando scintille verso di loro.


X


Mosca venne svegliato dal suono di un pianto. Si rigirò, confuso e affamato ed era decisamente troppo presto per qualsiasi cosa fosse. Si sedette e si irrigidì, alla vista di San Pietroburgo, la sua piccola faccia da bambola accartocciata e piena di dolore.


«Io- Io-», balbettò, per la prima volta nella sua vita.


«Parigi», pianse lei.


«Cos’ha fatto?», chiese Mosca, prima che lei gli porgesse una piccola, triste lettera. La lesse attentamente. Ecco. Il costo dell’amore. Se ne sarebbe ricordato.


«Non capisco», disse San Pietroburgo, ed era ovvio che non capisse. Era fin troppo giovane. «Le Capitali non possono morire, giusto? Posso morire? Morirò?»


«No», Mosca la abbracciò, riscaldandola. «Certo che no.»


X


«É morto?»


X


«É morto?»


X


Atene camminava piano, come se fosse schiacciata da un peso immenso. La strada era lunga, ma non importava. Sarebbe arrivata comunque troppo tardi. Tutti loro, tutti sarebbero arrivati tardi. Ma camminava, perché aveva sepolto fratelli e sorelle e figli. Avrebbe fatto lo stesso per Parigi.


«Oh, bambino…», sospirò Atene. Stringeva la lettera, cercando di memorizzare le curve della calligrafia che vi era impressa prima che sparisse e diventasse polvere.


Il sole sorse.


E a Delfi sbocciarono i fiori.


X


«É morto?»


X


Arrivarono all’alba del giorno successivo, rossa di sangue. Troppo tardi. Non restava più nulla della barricata, tutto era stato portato via dalle guardie e dai cittadini. Nulla, se non ricordi, e le Città francesi.


Nell’oscurità erano arrivate insieme, e avevano lavato via il sangue dalle strade di Parigi, con dolcezza. Attorno a loro il mormorio di donne, alcune piangenti, altre che si rifiutavano di credere a quello che era appena successo, altre che condannavano. Il popolo di Parigi non aveva ancora capito cosa aveva perso.


Lì si riunirono le Città francesi. E non combatterono. Non ci furono scontri per la Capitale. Non quando davanti ai loro occhi c’era il risultato di guerre e combattimenti. Tolosa contò i cadaveri. Marsiglia era zitto. Nuova Versailles tormentata dai fantasmi del passato. Rouen arrivò ed esitò, senza sapere quanto quello fosse il suo posto, ma lo lasciarono restare senza fare domande. Era loro fratello, nonostante tutto.


Non suonarono i tamburi.


Le Città straniere restarono indietro, perché non era la loro cerimonia. Restarono nei vicoli, o passarono in punta di piedi nella piccola, brutta stanza in cui era morto il loro Parigi. Puzzava di sangue, e di alcool. Niente di speciale. Era… umano, stranamente. Si sorrisero l’un l’altro, perché era proprio da lui, no? Si tennero per mano. Alcuni si arrampicarono sui tetti, o si ritirarono nell’ombra, appena ombre negli occhi degli umani che non erano loro figli.


Soltanto una si fece avanti.


«Questo?», chiese la proprietaria del Café, scoprendo il volto di uno dei cadaveri. Parlava piano. Le sue stanze erano distrutte, sì, ma queste famiglie avevano perso molto di più.


«Sì. Lui.», disse la signora, dopo una pausa, ricordando il ritratto abbozzato e disperato che Parigi le aveva mandato. «Mi aveva spedito un ventaglio, una volta.»


«Lo conoscete?»


«Certo.», rispose Varsavia, con dolcezza, accarezzando i capelli di Feuilly. «É mio figlio.»


L’avrebbe riportato a casa, nei suoi confini, e l’avrebbe seppellito nella sua terra, come aveva chiesto Parigi. Varsavia aveva sempre onorato i morti.


Il cielo si fece scuro. Le stelle erano nere e fredde, e la luna si nascondeva.


(un intermezzo: Bordeaux in piedi nel mezzo dell’appartamento di Parigi, circondata da quadri di luce e bellezza e rosso. Urlò e pianse e gridò e strappò le tele con le sue mani nude, finché non c’era più nulla da fare se non piangere. Era ancora in ginocchio, circondata da frammenti di rosso, quando Lione la trovò e le avvolse le braccia attorno al corpo. Nessuna delle due disse una sola parola.)


A Parigi piovve per tutte e tre le settimane successive.


E la pira funebre fu difficile da accendere. Fu una cerimonia strana, con un prete che disse appena un paio di parole e poi, con uno sguardo ansioso, si allontanò, lasciandoli soli. Pensava fosse strano che questi figlioli prodighi, questi (martiri) traditori del loro Paese avessero così tante persone a dire loro addio.


Dicevano di essere membri delle famiglie, queste creature innaturali, bruciate. Umani con occhi brillanti, in piedi a sfidare il vento e la tempesta finché tutti i parenti non se ne erano andati, singhiozzando.

Le fiamme si alzarono contro la pioggia, in un’ultima resistenza.


«La maggior parte dei cadaveri era troppo danneggiata per essere riconosciuta», mormorò Tolosa. «Li abbiamo bruciati tutti insieme.»


«Va bene», disse Lisbona. «Come avete fatto a convincere il prete?»


«L’ho fatto io. E le famiglie - quelle che sono venute - hanno dato un po’ di denaro per pagarlo.» rispose Copenhagen. «Io ho aggiunto il resto. Sono morti come guerrieri. Era nel loro diritto.»


Guardarono mentre il fuoco si spegneva, piano. Prima che riuscissero a trovare il coraggio di avvicinarsi le ceneri si erano ormai raffreddate. Amsterdam lasciò che la polvere le scorresse tra le dita e aggrottò la fronte.


«Nessun corpo riconosciuto. E quindi? É morto?», disse, dando voce a quello che tutti stavano pensando.


«Lo spero», rispose Madrid, e subito venne sommerso da sguardi indignati, persino dai nemici della Francia. Non si parla male dei morti, soprattutto di quelli che in vita avevano sopportato enormi dolori. Alzò il mento e continuò, «Pensate se non lo fosse. Non sono così crudele.»


«In qualunque caso,» fu Roma a smorzare sul nascere la discussione, «Abbiamo perso molto, oggi. Dovremmo rispettarlo, e tornare a casa col nostro dolore.»


Le Città annuirono.


Ma Londra stava guardando da un’altra parte.


Là, sotto agli alberi, una figura si stava allontanando. Il suo passo era incerto. Aveva una bottiglia, in mano.


Londra, la pioggia che le batteva negli occhi, aprì la bocca per parlare.


(cosa avrebbe potuto dire? É là? Dobbiamo salvarlo/confortarlo/indebolirlo/ucciderlo. La Francia era un nemico. Le Capitali non hanno un cuore gentile.


Ma sapeva cosa voleva dire cadere, e cosa voleva dire volare, e cosa si provasse in un momento così, quando le mani di Elizabeth avevano tremato strette nelle sue e aveva detto, col suo ultimo respiro:


«Tutto ciò che ho per un altro po’ di tempo!»


Perdere la persona che ami ti apre dentro una voragine talmente enorme che non potrà mai essere guarita)


Londra restò zitta.


Le Città tornarono a casa. Non c’era più nulla che potessero fare.


X


«É morto?»


Sì.


No.


Potrebbe confortarvi sapere che Grantaire morì assieme a Enjolras.


Ma Parigi no.


X


Dopo, tanto dopo, ci fu una rivoluzione.


Il popolo di Parigi aveva sognato - una figura in rosso - di «lunga vita alla Repubblica!» - e quello che era stato solo un sogno era diventato realtà.


(non ti aveva deluso, in fondo, enjolras)


Il Re venne destituito, la Repubblica dichiarata.


La notte era davvero finita, e un nuovo mondo sorse come l’alba, con un cielo blu tanto quanto i fiori della serenella. Un uomo sorrise e sentì il calore del sole sul suo viso per l’ultima volta.


Si allontanò dalle folle festanti, scivolando giù nelle catacombe, e non fu più visto.


L’acqua era fredda.


E negli abissi, Atlantide aspettava.





Note delle traduttrici

Il motivo per cui abbiamo deciso di portare questa storia su EFP é semplice: Paris Burning é un capolavoro che va al di là della semplice fanfiction, é un worldbuilding spettacolare che tutti dovrebbero leggere, anche al di là del fandom di Les Misérables. Entrambe l'abbiamo letta, ci abbiamo pianto lacrime amare, l'abbiamo adorata, e abbiamo deciso di provare a tradurla. Non eguaglieremo mai lo stile dell'autrice, della nostra R (si firma così davvero e afferma che sia solo una fortunata coincidenza), e anzi, se potete, andate anche a leggere l'originale. Noi qui abbiamo il nostro piccolo tentativo

Per questo capitolo, la traduzione è di barricadeuse e il betaggio di piuma_rosaEbianca abbiamo deciso di alternarci un po', per dividerci il lavoro. Per qualsiasi domanda, o annotazione, anche tecnica, non esitate a chiederci. E se avete qualcosa che vi incuriosisce sulle Città, sentitevi liberi di lasciare un messaggio privato.

E così, con un giorno di ritardo, ovviamente dovuto solo alla nostra voglia di prolungare un po' di più il nostro tempo con voi e con questa storia, siamo giunte alla fine di questa avventura.  E' stato bellissimo. Doloroso, stancante, difficile, ma davvero bellissimo. Ringraziamo chi ha commentato e messo Paris Burning tra preferiti e seguiti: siamo felicissime di essere riuscite a portarvi la bellezza che è questa storia, di avervi fatte avvicinare all'originale, e speriamo di avervi messo un po' di curiosità per il meraviglioso worldbuilding che sta dietro a questa storia. 

Grazie, grazie, grazie davvero tantissimo.

The Cities are still burning,
b + c.

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