In The Mosaic. di RobiSmolderhalder (/viewuser.php?uid=169071)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** One year ago. ***
Capitolo 3: *** Because I see in you what you yourself do not see. ***
Capitolo 4: *** Irrational. ***
Capitolo 5: *** A new Edward. ***
Capitolo 6: *** AVVISO. ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
In The Mosaic.
Prologo.
8 Maggio 2012-
Amsterdam.
Sentivo il
marciare dei suoi passi. Un rumore fastidioso,
quasi insopportabile. Ricordo bene quel giorno come se fosse appena
passato.
Quell’uomo solo, indifeso, silenzioso. Come una colombina
appena nata in cerca
della sua mamma, come un uomo senza arte né parte. Ogni
volta riconoscevo i
suoi passi, che mi innervosivano per poi farmi sorridere. Sorrido tra
me,
riflettendo a quanto mi manca quel rumore, ormai divenuto una
dipendenza. Una
lacrima scorre sul mio viso, caccio indietro la rabbia ma, tentativo
vano. Lo
sento, dentro di me, nelle mie narici ancora il suo profumo. Nella mia
mente i
suoi occhi tristi e senza speranza, quegli occhi che avevo imparato a
conoscere
in fretta, quegli occhi che mi prendevano facendomi annegare nel loro
mare. Un
mare che non conosceva sentimenti alcuni, un mare dove una volta che
c’eri
dentro riuscivi a distinguere solo l’intensità
delle tenebre. Un mare che tempo
fa mi faceva paura, adesso quel mare sarebbe la mia unica ancora di
salvezza.
Dicono che il male esiste perché esiste anche il bene, che
c’è sempre la quiete
dopo la tempesta, che il sole c’è per tutti. Forse
tutto questo accade
solamente con determinate persone. Sono sempre stata una di quelle
ragazze
solari, una di quelle che sorride, anche se c’è
una catastrofe in corso…le mie
amiche mi hanno sempre adulato per il mio modo di riuscire a fari
sorridere
anche le persone che si credevano nell’oltretomba da secoli.
Per quello decisi,
allora, di laurearmi in psicologia. Ho sempre amato ogni aspetto che
caratterizza la gente, quindi mi sono chiesta perché no?
Perché non dare una
mano alla gente? Perché non far sbocciare quel fiore che
ognuno di noi ha
all’interno del proprio cuore? Caparbia, come mio solito
fare, riuscii a
laurearmi il più presto possibile. Mio padre, uno dei
migliori avvocati della
città, mi fece costruire uno studio tutto mio –
sì, lui e mia madre hanno la
tendenza a viziarmi, dato che hanno solo me come figlia –
cominciai a lavorare,
comprai una piccola villetta tutta per me, non avendo intenzione di
mettere su
famiglia e passarono cinque lunghissimi anni. Era una delle cose
migliori che
potessero capitarmi, il mattino, quando scendevo di casa e mi recavo
nel mio
bar preferito tutte le persone mi sorridevano, magari perché
avevo aiutato i
loro figli, nipoti, cugini. Non appena arrivavo a lavoro, trovavo i
miei
pazienti speranzosi mentre incontravano i miei occhi, velati da un paio
di
occhiali vecchio stile, io davo speranza a loro, e non c’era
cosa che poteva
rendermi più felice di come mi sentivo ogni volta. Ero
realizzata, ero in pace
con me stessa…sei mesi fa la mia carriera si
frantumò in tanti piccoli pezzi
diventando un mosaico senza forma, senza essenza. La mia vita oggi
è un mosaico,
ma non di quelli belli, un mosaico al quale manca il pezzo centrale, il
più
importante, quello di cui non può fare a meno. Un anno fa
esatto lo conobbi.
Era bello come il sole, aveva la testa chinata e avanzava verso di me
con quei
passi terribilmente suoi, con suo padre che gli stava col fiato sul
collo. Non
appena lo vidi sentii un certo senso di familiarità,
qualcosa sia dentro di lui
che dentro di me che ci legava, un senso di profonda appartenenza.
Questo prima
di incrociare i suoi occhi. Mi fecero paura. Un brivido mi percuote al
solo
pensiero. Erano arrabbiati, erano furiosi, sembravano quelli di un
demone
posseduto. Mi hanno sempre fatto paura i demoni, eppure riuscii ad
affrontare
quegli occhi, quel verde modificato dal senso di rabbia profonda,
dall’odio
verso tutto quello che lo circondava. Affrontai i suoi occhi, affrontai
il suo
silenzio che molte volte mi lacerò il cuore per poi
ricucirlo con un suo
invisibile sorriso, affrontai Edward Culle, il figlio del presidente
del
consiglio di Amsterdam, il trentenne più ricco dei paesi
bassi. L’uomo più
distrutto del pianeta.
Questa
è la storia di Edward Cullen.
Questa
è la mia storia.
Questo
è il racconto dei suoi demoni del passato. Il
racconto tenebroso che ha circondato quello che poteva essere un amore
puro e
sereno. La mia rivincita. La mia peggiore sconfitta.
**
Eccomi!
Ho pubblicato
questo prologo, solo perché adesso la mia vita
non ha più impegni…È bruttissima
questa cosa, lo so…ma almeno scrivo, mi
sfogo…Sapete
no?
È
piccolissimo perché comunque è una piccola
introduzione :’)
Fatemi Sapere.
Un bacione.
Roby <3
|
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Capitolo 2 *** One year ago. ***
In the mosaic.
One
year ago.
L’aroma
di caffè mi arrivò dritta in faccia, come il
respiro
di qualcuno sul mio corpo, anche quella mattina. Nonostante avessi
l’abitudine
di far colazione al bar, il caffè appena sveglia, in pigiama
e con la bocca
impastata dal sonno, era d’obbligo. Così, ogni
sera, senza che mi fossi mai
scordata, attivavo la sveglia sul timer della macchinetta del
caffè; in quel
modo ogni mattina alle sei non era la sveglia a strillare per
svegliarmi, né le
urla dei vicini e neppure la chiamata di un ipotetico fidanzato, avevo
smesso
con le relazioni, io e le relazioni che andavano oltre le amicizie ci
prendevamo
a cazzotti. L’odore forte e allo stesso tempo piacevole, che
ogni mattina
sfiorava le mie narici, sapeva darmi la giusta carica per ricominciare,
con il
lavoro, con le mie amiche e soprattutto con mia madre, che ogni giorno
chiamava
per sapere se e cosa avessi mangiato, se avevo bisogno di vestiti, cibo
e quant’altro,
mia madre non riusciva ad accettarlo, ma era successo; ero una persona
assolutamente dipendente su ogni punto di vista. Anche quella mattina
mi alzai,
a piedi nudi e col pigiama che poteva starmi su tre volte, mi diressi
in
cucina. Quel giorno lo ricordo ancora come se fosse appena passato. Il
cielo
era plumbeo, avevo un gran caldo dentro casa, ma, al pensiero di uscire
in
strada rabbrividii fino alla punta dei capelli. Bevvi il mio
caffè e ignorando
il pacchetto di sigarette che stava sopra il tavolo urlando
“prendimi”, mi
diressi in bagno. La doccia. Quella ci voleva sempre dopo il
caffè. Dopo aver
fatto colazione, guardai l’orologio, erano solo le sette,
avevo un’ora a mia
disposizione e mi sembrò stupido prendere l’auto.
Amavo andare a piedi. Amavo
sentire la gente di prima mattina, chi urlava per il ritardo, chi
invece se ne
stava seduta su un gradino a sorseggiare il caffè dentro un
bicchiere di
cartone, chi era rimasto fuori a dormire e vagabondava per le strade.
«Tesoro!» Sentii l’urlo di mia madre e mi
gelai sul posto.
Chiusi gli occhi e cercando di dipingermi un sorriso in volto mi voltai.
«Mamma, che fai qui?»
«Oh tesoro! Sono ancora le sette! Credevo di trovarti a
casa…sono
passata per vedere come stavi, ieri avevi un po’ di
tosse.» In effetti era
vero, mi solleticava la gola da qualche giorno, ma ovviamente a lei non
lo
avevo detto e, ovviamente, lei lo aveva capito dalla mia voce.
«Sta’ tranquilla Mamma, sto bene. Sto per andare a
lavoro.
Ci vediamo uno di questi giorni…» Sussurrai
allontanandomi di poco. Con lei era
così o te la dava a gambe levate immediatamente, oppure
dovevi stare lì per
circa mezz’ora a sentirla ciarlare di quanto splendido sia
preparare le torte.
Torte al cioccolato, al limone, con le carote, mele, mandorle,
nocciole, panna,
crema al caffè. Mia madre amava fare le torte e tutti lo
sapevano. Ogni anno
partecipava ai vari concorsi che poi venivano registrati e messi in
onda, ma
lei non ha mai vinto, semplicemente perché ci sono altre
persone più brave. Non
le ho mai detto che le sue torte sono le migliori del mondo, in quel
caso
dovrei sparire dall’universo. Congedai mia mamma che
scoppiò a ridere
voltandosi dall’altro lato, per poi sparire tra i passanti.
«Mrs.
Owen. So che è difficile, soprattutto quando in certe
situazioni
non ci siamo dentro ma, deve cercare di alzarsi, di reagire, sua figlia
ha
bisogno di questo…solo di questo, deve aiutarla, in questo
modo, mi duole dirlo,
ma sta peggiorando solo la situazione.» Sussurrai guardando
gli occhi grigi
della signora Owen, una donna sulla quarantina, era venuta da me
qualche mese
prima…inizialmente mi aveva chiesto
“compagnia” solo per sfogarsi. Sua figlia,
quindici anni, è stata violentata né lei
né sua madre possono andare avanti
dopo quel giorno. Non mi era mai capitata una cosa del genere, ma si sa
è una
cosa mostruosa, soprattutto quando la persona che compie il gesto
è a piede
libero pronto a colpire ancora.
«Dottoressa…io…»
Balbettò un secondo prima di scoppiare a
piangere. Mi alzai dalla poltrona e corsi ad abbracciarla, non potevo
farlo in
realtà, era vietato dal regolamento; niente relazioni con i
pazienti, niente
gesti o parole di affetto, dentro al posto di lavoro il paziente si
tratta come
un estraneo, anche se fa parte della famiglia. Si asciugò le
lacrime su un
fazzoletto di seta e la clessidra si fermò, segnando la fine
dell’ora. Compilai
la ricevuta e Mrs. Owen tirò fuori cinquanta euro. Erano
solo le nove del
mattino e avevo già una grande voglia di piangere. Capitava
spesso che
piangessi dopo la giornata lavorativa, i pensieri e le parole dei miei
pazienti
andavano via soltanto dopo una fumante tazza di tè al
mirtillo, le mie amiche
principalmente mi chiesero di mollare tutto, ma il punto era proprio
qui, mi
piaceva regalare sorrisi, mi piaceva avere la consapevolezza di essere
capace
ad aiutare le persone, quando stavo male per loro poi passava, e
soltanto
capendoli fino in fondo poteva aiutarli per davvero. In quel periodo
trecento
persone diverse venivano in studio, era stato una dei periodi
lavorativi più
proficui, il lavoro andava bene, ed io stavo bene con me stessa, fino a
quel
giorno, ovviamente. Per la pausa pranzo venne Rosalie, portò
due panini
imbottiti e parlammo per tutta l’ora della sua nuova fiamma
“senza nome”, non
mi rivelava mai il nome, non almeno fin quando la cosa non diventava
ufficiale.
Mi dispiacque molto salutarla; lei era una maestra d’asilo e
i suoi orari non
coincidevano mai con i miei, la vedevo poco ed era una delle cose che
più
odiavo. Io e Rosalie ci conoscemmo nel lontano millenovecento
novantotto,
entrambe avevamo diciotto anni, stavo portando a spasso il mio
cagnolino Billy –ormai
morto di vecchiaia- quando ad un certo punto il suo nipotino si mise a
giocare
con il mio cane, parlammo di tutto quel pomeriggio, continuammo ad
incontrarci
e dal quel giorno divenne l’amica più cara che
avessi mai avuto. Rosalie era
mia sorella, mia cugina, mia madre, il mio fidanzato, lei era tutto
quello di
cui avevo bisogno…forse ero pure dipendente da questo nostro
legame
indissolubile. Scesi le scale e misi la chiavetta sul distributore
automatico, il
caffè, di certo, non era il migliore del
mondo…eppure ne avevo assolutamente
bisogno.
«Papà?» Chiesi confusa mentre goffamente
pulivo le mie
labbra con la manica della maglia. Solo dopo mi resi conto del gesto
che
affettivamente avevo fatto. Era strano vedere lì mio padre,
non ci vedevamo mai
se non la domenica a pranzo. Amavo mio padre, ma non lo vedevo spesso a
causa
del lavoro, suo e mio, a causa anche della sua timidezza, nonostante
fossi la
figlia, non era l’uomo più aperto del mondo con
me. Dovevo aver combinato
qualcosa che in quel momento non ricordavo.
«Bells. Come stai?» Mi chiese sorridendomi.
Sospirai di
sollievo e mi avvicinai a lui abbracciandolo. Ero più
tranquilla, quando doveva
rimproverarmi lo faceva subito, in modo veloce ed efficace, arrivati al
“come
stai?” era tutta acqua passata. Non amava rimproverarmi, non
amava riprendermi
mentre sbagliavo. Voleva che crescessi da sola, inciampando sui miei
piedi, lo
voleva, ma non era riuscito a farlo…mi aveva viziato nel
migliore dei modi, la
cosa migliore, fu però il mio carattere…il mio
modo di essere, se fossi stata
un’altra persona, avrei approfittato di tutto ciò,
invece mi ritrovai matura
presto, mi ritrovai con la mente collocata al mio futuro e infine mi
ritrovai
sapendo cosa volevo nella vita.
«Sto bene. Che fai qui?»
«Ho dovuto lasciare una pratica importante tra le mani della
nuova segretaria, ho un po’ di fretta a dire il
vero…»
«Bè? Quindi? Hai bisogno di qualcosa?»
Ero confusa fino al
limite assoluto.
«Ho bisogno di qualcosa, sì. Ricordi Carlise? Il
mio amico
del liceo, quello che…»
«No papà. Carlisle non mi dice nulla.»
Lo interruppi prima
che cominciasse a raccontarmi di quanti dispetti facesse al liceo,
aveva fretta
disse qualche attimo prima, io invece dovevo accogliere un paziente tre
minuti
dopo.
«Bella. Carlisle Cullen. »
«Oh Papà! Il presidente! È ovvio che lo
conosco, ma…Papà
muoviti!» Dissi portandomi le mani tra i capelli,
cominciavano a darmi fastidio
anche gli occhiali sul naso.
«Suo figlio Bella. Ha dei problemi che nessuno psicologo
riesce a guarire. Non so cosa abbia realmente. Gli serve uno psicologo
potenziale ed io mi chiedevo se…»
«Portalo qui.» Mormorai cercando con lo sguardo
l’agenda
sulla scrivania.
«Domani alle tre?» Gli chiesi guardandolo con
l’agenda
aperta tra le mani.
«Bella lui è qui…» A quelle
parole rimasi a bocca aperta.
Ero allibita, per l’ennesima volta uno dei miei genitori mi
aveva dato per
scontato. Era come se mi avesse costretta ad accettare, se io mi fossi
opposta,
avrei dovuto comunque accettare, lui lì, con suo padre ed io
non potei fare
nulla se non annuire. Non dissi nulla a mio padre quel giorno, di
certo, non
sapevo cosa sarebbe successo di lì a qualche mese, forse in
quel caso mi sarei
gettata dalla finestra e basta. Mi sedetti sulla poltrona e attesi
l’arrivo di
quest’uomo, provai ad immaginarlo per qualche secondo, ma
niente di quello che
la mia mente aveva visualizzato gli rese giustizia.
I suoi passi
erano pesanti, non appena udii quel rumore
sinistro che provocavano mi alzai pronta ad affrontare lui e il
fardello che si
portava dietro. Testa china, braccia incollate al fianco, pugni chiusi,
occhi
rivolti al pavimento e quei passi…quei passi che mi fecero
paura per qualche
istante, mi sentii fuori posto in quel momento. Suo padre avanzava con
la mano
appoggiata alla spalla del figlio, un sorriso di circostanza dipinto in
volto.
Era Carlisle Cullen, un uomo che per certi aspetti avevo odiato, non mi
piaceva
molto il suo modo di “aiutare” il nostro paese, ma
in quel momento pensai che
suo figlio avesse bisogno di qualcuno, il presidente lo lasciai per
secondo…forse
la rabbia nei suoi confronti mi avrebbe aiutata nelle mie notti insonni.
«Buon pomeriggio signorina Swan.» Salutò
educatamente Mr
Cullen. Io mi inchinai a lui e mi sorrise in modo caldo.
Indicò con gli occhi
il figlio che non intendeva comunque alzare il viso o, per lo meno,
fare
qualche cenno di saluto alla sottoscritta.
«Lui è Edward…» Disse il
padre chiaramente in imbarazzo.
«Prego, accomodatevi.» Sussurrai impaurita, non
conoscendone
il reale motivo. Non appena i due sparirono oltre la soglia del mio
studio mi
avvicinai alla sala d’aspetto, dove Mr. Sanderson aspettava
che fosse chiamato
da me. Spiegai lui la situazione e con gli occhi delusi
accettò l’appuntamento
di domani, ringraziai mentalmente Rosalie per avermi fatto tenere
l’ora dell’indomani
libera per un velocissimo giro in città, purtroppo
però l’avevo riempita
adesso. “Pazienza” mi ripetei rientrando nel mio
studio. Edward Cullen aveva
ancora la testa china e sinceramente quella cosa alterava i miei nervi
in
maniera mostruosa. Mi sedetti al mio posto e guardai gli occhi azzurri
di Mr.
Cullen, erano cordiali…quasi
rassicuranti…già dal primo giorno
cercò in
anticipo di chiedermi scusa con un semplice sguardo. Non mi sentii a
mio agio
in quei pochi secondi e forse dal quel giorno non mi ci sentii mai.
Restammo
tutti e tre in silenzio, mio padre era già tornato a lavoro.
Alzai gli occhi al
cielo e mi schiarii la voce.
«Mi chiamo Isabella Swan e faccio la psicologa da cinque
anni. Il mio intento non è curare le persone, anche
perché, sono del parere che
chi viene qua non sia malato ma, che venga qua per avere lo stimolo
adatto per
tornare sui propri passi. Io ascolto, consiglio e poi giudico.
Solitamente le
sedute durano un’ora, dipende sempre e comunque dalle
esigenze dei pazienti, può
essere dimezzata o prolungata.» Dissi per la millesima volta
nella mia vita.
Quello era il mio solito modo di presentarmi a gente nuova e di solito
la gente
mi sorrideva o, rispondeva subito dicendo che sapeva già
tutto sul mio metodo. Mr.
Cullen invece annuì solamente.
«Credo che per oggi un’ora basti. Se non
è troppo chiederlo
vorrei che fosse lei a decidere quanto Edward abbia bisogno.»
Rimasi un attimo
interdetta, non era questione di riuscire a capire quanto tempo
avessero
bisogno i clienti, erano semplicemente loro che decidevano quanto voler
stare
qui dentro. Annuii rendendomi conto che non c’era
nient’altro da fare. Lui si
congedò e disse a Edward che lo avrebbe aspettato fuori, il
figlio annuì ed io
tirai un sospiro di sollievo nel vedere che almeno a quello aveva
reagito. “Pazienza”
mi ripetei ancora.
Tutto a un tratto la stanza divenne fredda, era come se la
sua presenza potesse annullare ogni cipiglio di serenità.
Non sapevo come
riuscire a rompere quel cumulo di ghiaccio che si era creato in pochi
attimi, si
era posto in mezzo allo spazio che ci divideva. Mi sentivo in imbarazzo
come
mai prima di allora, afferrai il mio taccuino e la biro e lo guardai,
vedendo
soltanto i suoi capelli bronzei scarmigliati.
«Mi sono laureata in psicologia cinque anni fa…ho
sempre
amato questo lavoro, era il mio sogno nel
cassetto…» Cominciai a parlare in
quel modo per la prima volta in vita mia, solitamente non facevo
neanche in
tempo a sfilare la penna dalla borsa che le persone iniziavano a
sfogarsi, io
dovevo solo annuire…quella volta cambiai metodo e capii che
era l’unico modo
per riuscire a lavorare con lui. Gli raccontai
dell’università, rivelai di me
più di quanto io stessa potessi mai immaginare. Ogni tanto
sistemavo gli
occhiali che scivolavano dal mio naso più del previsto e
ogni qualvolta
guardavo il suo viso, che non appena avevo cominciato a parlare aveva
alzato,
non avevo ancora avuto il piacere di vedere i suoi occhi
però, erano chiusi,
anzi, sigillati. Non aveva traccia di curiosità nel viso,
non aveva alcuna
espressione. Mi fece paura, non di quella che si intende con il proprio
termine, paura di fallire con questa missione, di non riuscire a
concludere
nulla. Odiavo sentirmi così, ho odiato in primis il momento
in cui mi resi
conto che già dal primo giorno le mie paure non erano
propriamente infondate.
Fermai la voce e lo guardai con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Non era obbligato a venire qui, Mr. Cullen, è
passata solo
mezz’ora ma può sempre tornare a
casa…»
«Edward. Mi chiamo Edward.» Mormorò
finalmente aprendo le
palpebre, il suo sguardo mi colpì come uno schiaffo dritto
in faccia. I suoi
occhi erano verdi, erano piccoli e poco lucenti, notai la loro bellezza
estasiata, ma solo in secondo tempo riuscii a leggerli come mio solito
e mi
spaventai. Vidi pura paura, senso di abbandono, rabbia,
dolore…i suoi occhi
erano affondati in un mare di tenebre. Chiusi i miei occhi di scatto ma
riuscii
a mantenere l’espressione tranquilla.
«Bene, Edward.» Dissi guardando le sue labbra. Era
uno degli
uomini più belli che avevo mai visto. La sua pelle sembrava
morbida come quella
di un neonato e mi faceva tenerezza, mi sarebbe piaciuto abbracciarlo,
cullarlo
e forse…forse anche dargli un bacio.
«Mi parli un po’ di lei, se
vuole…dobbiamo cercare di
conoscerci se vogliamo andare avanti…okay?» Gli
chiesi sorridendogli
dolcemente. Lui annuì e mi guardo le mani.
«Non…possiamo darci del tu?»
«Ma certo.» Dissi fermamente convinta e sollevata
da quel
suo comportamento inaspettato.
«Non scrivere
però…non…»
«D’accordo!» Esclamai mettendo il
taccuino sul cassetto. Lo
guardai e lo incitai a parlare con il suo sguardo, adesso morbido e
caldo…forse
lo sguardo di prima era stato solo una mia
impressione…adesso quello sguardo
agghiacciante era sparito totalmente.
«Mio padre crede di aiutarmi sballottandomi da uno psicologo
ad un altro. Non so qual è il mio problema e mi dispiace che
questa volta sia
toccata a te la patata bollente. È testardo e decide sempre
lui per gli altri.»
«Di cosa ti occupi Edward?» Domandai rimanendo
perplessa…diceva
di essere una persona senza alcun problema…eppure quando
arrivò nel mio studio
sembrava tutt’altro.
«Di niente. Mio padre è ricco, credo che anche le
zanzare
siano a conoscenza della sua ricchezza, di rimando non vuole che noi
figli
lavoriamo.»
«Hai fratelli?»
«Ho una sorella, gemella.»
«Ho capito. Quindi non vuoi più venire
qui?»
«Dovresti chiederlo a mio padre.» Era visibilmente
arrabbiato ogni volta che nominava il padre.
«Sei tu che decidi qui Edward, non lui. Se tu ritieni che
non sia necessario venire qui, allora ci parlo io con tuo
padre.»
«No. Non è necessario.» Disse prima di
scoppiare a piangere.
Strizzai gli occhi e non potei fare a meno di alzarmi dalla poltrona e
avvicinarmi
a lui. Accarezzai la sua schiena e solo dopo qualche secondo mi accorsi
dei
miei capelli che solleticavano il suo viso, si calmò subito
e guardò i miei
occhi.
«Edward, ascoltami, io voglio aiutarti. Non fare
così, dimmi
tutto, tira fuori tutto quello che c’è dentro di
te, io sono qui per questo.»
Mormorai sicura come non mai delle mie parole.
«Isabella…mi
dispiace…io…» Scossi la testa e gli
sorrisi. La
clessidra segnò la fine dell’ora e dentro di me mi
dispiacque parecchio. Lo
salutai e lui mi ringraziò dicendomi che ci saremmo visti
nei prossimi due
giorni. Suo padre lo aspettava in macchina, credevo che sarebbe rimasto
sopra
per sapere qualcosa…c’era qualcosa di strano nel
legame tra padre e figlio…mi
sentivo di troppo a pensarlo eppure non potevo farne a meno. Mi
avvicinai alla
finestra e lo vidi che mi fissava dall’interno
dell’auto, non potei togliere lo
sguardo da lui, tutto di quell’uomo mi suonava interessante.
Lui continuava a
guardarmi e sorrideva, nella stanza c’era ancora freddo ma
quello che aveva
appena fatto riuscì a scaldarmi il cuore.
Ebbene, ce
l’ho, stranamente, fatta.
Il capitolo è uno dei più corti (a parte i
prologhi) che io
abbia mai scritto, ma credo che dentro ci sia tutto quello che deve
esserci in
un primo capitolo.
Spero che la storia incuriosisca e per qualsiasi cosa io
sono qui ad accettare i vostri pareri.
La storia verrà aggiornata ogni
Venerdì…dovrei farcela ;)
Come molti di voi sanno ne ho due in corso…ma voglio
provarci lo stesso.
Grazie.
Un bacione,
Roby <3
|
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Capitolo 3 *** Because I see in you what you yourself do not see. ***
In the mosaic.
Because I see in you what you
yourself do not see.
Quella mattina
Amsterdam aveva ospitato la neve assieme ai
suoi soliti passanti, raggelati e di fretta. Amsterdam non era la
città che
tutti raccontavano, ma come ogni città che esiste al mondo;
non per niente la
gente dice “ogni città è
paese”. Amsterdam aveva parecchie storie da
raccontare…come
me ad esempio. Era domenica quella volta e con un sonoro sbuffo scesi i
gradini
e salii in macchina con malavoglia. Amavo i miei genitori, nonostante
erano
consapevoli di rubarmi l’unico giorno libero a mia
disposizione. Il mio
problema era sempre stato il non sapere dire di no, avevo sempre
accontentato
tutti e questo mio difetto, ebbene lo consideravo un difetto di quelli
peggiori
e ne avevo molti, molte volte mi aveva portato in un punto finito, dove
non c’era
nulla che io potessi fare o dire, dove mi ero persa nel mio famoso
bicchiere d’acqua.
Odiavo quel lato di me, odiavo anche me stessa il più delle
volte. Arrivai a
casa di mia madre alle undici, nonostante dovevo solo pranzarci, non mi
era mai
piaciuto arrivare a casa della gente per l’ora di pranzo,
potevo dare l’impressione
che fossi lì soltanto per mangiare. Mia madre era, come
sempre, indaffarata a
cucinare per un regimento di soldati, quando ogni volta eravamo sempre
i
soliti, io, lei, papà e Rose. Nemmeno Rose riusciva a dire
di no a mia madre,
il più delle volte persuasiva rivolto nei suoi confronti era
un eufemismo fatto
e finito. Mio padre era stravaccato sul divano a guardare i programmi
sportivi,
salii le scale e andai in quella che una volta era camera mia.
C’erano ancora
le fotografie dei miei vecchi amici, quelli che ho perso a causa dello
studio,
altri si sono trasferiti e altri ancora hanno preso strade opposte alla
mia.
Sfiorai con l’indice una foto che ritraeva me e Allyson, io
lei e Rose eravamo
ottime amiche, almeno fino al primo superiore. Ci rimasi di merda
quando si
allontanò definitivamente…e il mio cuore perse un
battito quando venni a
conoscenza di quello che fece della sua vita. Aveva abbandonato gli
studi,
nonostante io e Rosalie continuavamo a volerle stare accanto, anche se
aveva
uno spinello tra le mani, anche se lei ci guardava come se fossimo
delle
scolarette per il quale bisognava stare alla larga. Allyson batteva
nella
strada principale vicino all’aeroporto, Allyson aveva
abortito tre volte nel
giro di quattro anni, Allyson aveva perso l’orientamento che
conduce alla retta
via, Allyson amava la droga, lo sballo, Allyson si era allontanata da
noi e
aveva inconsapevolmente rovinato la sua vita. Ogni tanto la vedevo
girare nel
parco dove si affacciava il mio studio e, quelle poche volte, che il
nostro
sguardo si incontrava nei suoi occhi c’era puro odio. Mi
voltai vicino alla
finestra e mi incantai a guardare i fiocchi di neve che amabilmente
scendevano
dal cielo. Chissà perché in quel preciso istante
mi venne in mente Edward
Cullen. L’avevo visto solo due volte ed ero assolutamente
consapevole che
fossero poche, ma a essere sincera in lui non ci avevo ancora capito
una mazza.
Avevo solo capito che gli piaceva starsene in silenzio ed era in quei
momenti
che mi veniva in mente che pensavo: “che diavolo viene a fare
nel mio studio se
non parla?” non potevo fare niente con lui, fin quando non mi
diceva cosa in realtà
lo turbasse, avevo le mani legate. Il padre non si era fatto vivo e con
lui
nemmeno i suoi soldi, ma era amico di mio padre e quindi mi fidavo.
Anche se,
molte volte i soldi mi importavano meno di zero. In pochissime ore mi
ero
accorta di quanto quel ragazzo mi attraeva. Non appena si muoveva, il
mio corpo
era percosso da brividi, le sue mani…Dio le sue mani
riuscivano a scaturire in
me pensieri davvero poco puri che molte volte non facevano che farmi
vergognare
di me stessa. Edward mi piaceva e non poco, forse era anche per quello
che
volevo assolutamente sapere cosa c’era che non andava in lui,
dentro il suo
cuore e alla sua mente soprattutto. Scesi le scale con
l’espressione più
imbronciata che potessi fare e raggiunsi mio padre. Mi sedetti sul
divano al
suo fianco, nonostante lo spazio fosse ridotto a causa della sua
posizione da “oggi
sono libero e non mi va di fare nulla” e lo guardai, come
facevo sempre quando
volevo ottenere qualcosa da lui. La regola per volere qualcosa da mio
padre
era: pretendilo ma non farglielo capire.
«Dimmi Bells.» Infatti mormorò, con il
sorriso sulle labbra.
«Come va a lavoro? »
«Può sempre andare peggio…»
Disse sorridendomi. La maggior
parte dei clienti di mio padre avevano casi da grattacapo…si
vociferava che lui
fosse uno degli avvocati migliori della città e, in
automatico, tutte le
persone che avevano cause difficili da affrontare si rivolgevano a lui.
«Senti papà…»
«Bella, Carlisle mi ha detto che domani sul tuo conto avrai
mille euro accreditati, per le due sedute e per quelle che avverranno
in futuro…»
«Ma papà…sono venti sedute!»
«E?»
«Sono troppe! Soprattutto se la persona in questione non fa
nulla per risolvere dei problemi che in certi momenti non crede di
avere, e in
altri invece sì!» Sbottai arrabbiata! Ero io,
sempre e solo io, che decidevo il
numero delle sedute necessarie, soltanto io potevo rendermi conto se il
paziente fosse in parte tornato in sé. Potevano passare
settimane, mesi, anni…e
per Edward che non voleva essere aiutato, tendendo presente
ciò che lui stesso
mi aveva fatto intendere. Non costringevo nessuno, erano gli altri a
volere il
mio aiuto.
«Bella, ascolta…Carlisle ha bisogno di essere
aiutato con
Edward…vedi sono anni che è
così…così…disturbato…»
«Papà! Edward è sano! È
tranquillo! Cosa diamine vi fa
credere che lui non sia normale?» Urlai alzandomi di fronte a
lui che aveva
spento la tv e si era rivolto completamente verso di me.
«Bella…sua madre è morta quando lui era
piccolo, aveva solo
nove anni. Suo padre all’inizio sapeva che poteva prenderla
come uno shock,
così come per la sorella, Alice…fino ai tredici
anni Edward si comportava in
modo normale…ma non appena cominciarono le scuole medie, il
ragazzo cambiò.
Ricordo ancora quando all’inizio di tutto questo Carlisle si
confidava con me…Edward
aveva smesso di mangiare all’inizio,
tant’è che parecchie volte finì in
ospedale. Non parlava più, ogni tanto lo sentivano mormorare
nella sua camera
ma, mai sentirono realmente la sua voce, solamente i professori
riuscivano a
parlare con lui e, gli stessi, dicevano a Carlisle che non
c’era nulla di cui
preoccuparsi, che Edward era un ragazzo come molti, almeno
nell’ambiente
scolastico. Ricominciò a parlare con la sua famiglia il
giorno della sua
Laurea, il giorno dopo fece un disastroso tentativo di suicidarsi.
Carlisle da
quel giorno, oltre ad essere stato costretto dal primario del reparto
in cui
Edward era stato ricoverato a causa dei suoi maldestri tagli sui polsi,
decise
che comunque Edward aveva bisogno di uno psicologo. Ne girarono
un’infinità e
ogni volta che Carlisle mi avvertiva di aver fallito
l’ennesima volta io mi
sentivo in colpa. Conosco mia figlia, conosco il suo lavoro e,
soprattutto,
sono sicuro che solamente tu riuscirai ad aiutare realmente Edward.
Bella, io
la vedo in te, la voglia di aiutare la gente che ti parte dal profondo
del
cuore, la vedo la delusione quando pensi che qualcosa con i tuoi
pazienti
potrebbe andare storto…e la vedo anche adesso…la
voglia che hai di rompermi un
vaso in faccia perché sto affermando la verità.
Consigliai te a Carlisle e ora
siamo qui.» Disse con una strana agitazione in volto.
«Papà…io non credevo
che…senti, non ti prometto
nulla…solo…ci
proverò.»
«Bene.» Mormorò.
«Cerca di conoscerlo anche fuori dal lavoro…tipo
una cena…un
drink o…»
«Papà! »
«Insomma! Non puoi dire che sia un brutto ragazzo »
Esclamò
con la faccia fintamente inorridita.
«No…Edward è
bellissimo…» Sussurrai rendendomene conto solo
dopo colorando la mia faccia di rosso peperone. Mio padre si
schiarì la voce
imbarazzata e si alzò nello stesso tempo in cui
suonò il campanello. Sarà
Rosalie, pensai mentre andai in cucina. C’era il caos totale:
piatti impilati
per essere portati a tavola dappertutto, i bicchieri di cristallo che
mia madre
usava solo ed esclusivamente per ospiti speciali, teglie di cannelloni
ripieni
sul bancone, tre torte diverse, un tacchino intero con contorno di
patate e wurstel,
spinaci con mozzarella, pesce marinato.
«Mamma!» Esclamai con la tentazione di aggrappare
le mie
dita ai capelli.
«Bella, ascolta, abbiamo ospiti non possiamo fare certe
figure.»
«Mamma, è solo Rose.» Dissi prendendola
in giro mentre
afferrai una patata calda con le dita, bruciandomele assieme alla
lingua.
«No! Non so come mai non te l’abbia detto, Rose non
viene.
Abbiamo Carlisle Cullen e i suoi figli a pranzo…»
Mi sentì raggelare il sangue
senza conoscerne esattamente il motivo. Insomma cosa c’era da
preoccuparsi
tanto? Forse solo il fatto che vedere Edward in un posto che non era il
mio
studio era la cosa più eccitante del mondo? Sì,
forse era per quello. Sentii la
voce di Carlisle e feci un respiro profondo, una parte di me voleva
passare l’intera
giornata a contemplare la magnifica bellezza di
quell’uomo…un’altra parte invece
sperava che lui non ci fosse. Mi affacciai dalla soglia della cucina e
lo vidi;
era di spalle, indossava un paio di Jeans e una camicia di seta bianca
che
racchiudeva i muscoli delle sue braccia in modo meraviglioso. Il solito
calore
che mi coglieva di sorpresa ogni qualvolta che la mia mente vedeva o
immaginava
Edward mi colse anche quel giorno, in quel preciso istante. Avevo una
voglia
tremenda di fare la pipì, ma, ovviamente non era quello il
mio problema. Mi
avvicinai agli ospiti, tanto valeva farlo subito.
«Benvenuti!» Esclamai con finto entusiasmo, che,
dal sorriso
di mio padre significò messo in scena perfettamente.
«Isabella…» Sussurrò Edward
sorridendomi, sempre con quel
suo modo strano…quel modo che non contagia gli occhi, quel
modo che ha di voler
sorridere con tutto se stesso ma non poterlo potenzialmente fare. Erano
quelli
i momenti che il mio corpo e la mia mente erano ipnotizzati da lui, ero
sicura
al cento per cento che se in quel preciso istante mi avesse chiesto di
saltellare per tutta la stanza con una gamba sola io l’avrei
fatto. Abbassai lo
sguardo imbarazzata e mi
avvicinai al padre e a quella che doveva essere sua sorella: Alice.
«Che piacere dottoressa Swan.» Si
inchinò Carlisle io lo
guardai lusingata ma subito mi ridestai, non amavo quei trattamenti, o
forse
sì, solo che non riuscivo ad accettarlo. Alzai gli occhi al
cielo, rendendomi
conto ancora una volta della potenza della presenza di Edward in me,
avevo il
cervello in panne, non riuscivo a controllare i miei sentimenti e,
soprattutto,
non riuscivo a decidere cosa voler fare, era l’istinto che
comandava, ed io ero
pro alla ragione, su tutti i campi.
«Isabella, fuori dallo studio.» Mormorai tornando
in me. Alice
si presentò con il suo sorriso genuino e la sua voce
squillante, assolutamente
diversa dal fratello. Durante il pranzo, il quale ero seduta affianco a
Edward,
mi chiesi più volte se fossero davvero fratelli. Lei era
molto diversa, lei era
una persona apparentemente felice, tranquilla. Sorrideva, parlava
continuamente,
si interessava alle conversazioni intervenendo con la sua mente
brillante…Edward,
dal suo canto, se ne stava seduto in silenzio…fin quando,
mia madre, -che non
sapeva assolutamente nulla del nostro rapporto poiché, mio
padre mi aveva
assolutamente proibito di parlarne con lei con un motivo a me
sconosciuto –
parlò direttamente con lui.
«Cosa fai tu nella vita?» Chiese con la sua voce
calda e
affettuosa.
«Niente. Non mi chieda il perché. Non mi chieda
come mai non
lavoro se sono laureato in medicina, lo chieda a mio padre,
invece…» Disse con
la sua voce gelida, facendo tramortire mia madre, cosa che non accadeva
mai se
non una volta ogni cento anni.
«Scusami…io…non…»
Balbettò lei, avevamo consumato anche il
dessert, il pranzo era totalmente finito, mi venne la geniale idea di
alzarmi
dal tavolo, ma restai pietrificata, forse era solo la
curiosità…o forse era
solo il polo Edward ed io la calamita Bella.
«No. Mi scusi lei…ecco io…»
Balbettò anche lui che aveva perso
la sicurezza di poco prima. Vidi suo padre guardarlo torvo, mentre lui
aveva la
testa china, come se volesse scoppiare a piangere da un momento
all’altro. Non so
dove presi una certa sicurezza ma accadde, presi la mano di Edward
invitandolo
ad alzarsi e lo fece, come se fosse un cagnolino al guinzaglio, salimmo
le
scale e lo portai in quel posto dove potevo sentirmi me stessa,
potente, dove
riuscivo a calmarmi e a razionalizzare i miei pensieri quando ero solo
un’adolescente.
Questo era Edward per me, era un adolescente con una crisi
adolescenziale in
corso, sembrava un pulcino abbandonato e mai come quella volta mi fece
tanta
tenerezza. Accarezzai il suo braccio ed entrammo dentro la piccola
mansarda che
ospitava i miei vecchi giocattoli, libri, patti e bicchieri in eccesso,
coperte, stufe…c’era anche una piccola panca e ci
accomodammo restò in silenzio
fin quando non mi colse alla sprovvista. Mi abbracciò
così forte che mi parve
di soffocare per un istante, accarezzai i suoi capelli che
solleticavano il mio
collo e poi lo sentii, quel rumore che mi lacerò il cuore
quella e, tante altre
volte, i suoi singhiozzi, suoni acuti e terribili, sentii la mia gola
ardere di
rabbia senza averne motivo alcuno, e una lacrima solcò il
mio viso. Rimanemmo
in quella posizione per quelle che parvero due ore e non appena si fu
calmato
si addormentò con la testa sulle mie gambe. Non capii subito
il perché, ma
sentivo che forse questa non era la mia sconfitta, che forse potevo
aiutare
quest’uomo, che insieme ce l’avremmo fatta, che gli
sarebbe bastato dirmi solo
una piccola parte di ciò che lo tormentava e insieme saremmo
riusciti a farlo uscire
da questo limbo che non conosceva la pace. Edward era un uomo
internamente
solo, Edward non sapeva camminare eppure già pretendeva di
correre, Edward, ne
ero sicura, non aveva un semplice disturbo, c’era qualcosa
all’interno del suo
cuore che lo aveva marchiato, la sua mente possedeva un tarlo
più grande della
sua anima.
«Ce la faremo…» Mormorai bagnando il suo
bellissimo volto
con una lacrima. Avevo paura, lo avevo ammesso a me
stessa…eppure qualcosa mi
diceva che valeva la pena aiutarlo, lottare, andare avanti. Edward non
viveva
adesso, Edward più avanti lo avrebbe fatto. Ero
più tranquilla…ma, ovviamente
non ero consapevole che Edward sì che ce l’avrebbe
fatta, ma alzandosi lui
avrebbe fatto cadere qualcun altro.
I suoi occhi si aprirono e ci trovammo faccia a faccia, con
gli sguardi mescolati. Vedevo il suo tormento, vedevo che il sole da
quelle
parti non esisteva più, vedevo la felicità
lasciarlo solo in un prato, vedevo
il suo sorriso, quello vero, ormai estinto.
«Non dormivo…» Sussurrò
tranquillo. Lo guardai e non mi
preoccupai di quel piccolo dettaglio.
«Devi aprirti con me Edward, devi farlo. Se vuoi mettere
fino a questa situazione confusionale, devi farlo…se non ti
piaccio io puoi
sempre cambiare, ma ti prego, permetti a qualcuno di
aiutarti!» Dissi mentre la
mia voce si affievoliva piano piano.
«Con te non posso.» Disse spezzandomi il cuore
facendomi
intendere che non si fidava per niente di me e non riuscii ad
arrabbiarmi.
«Perché non puoi?» una lacrima
solcò il mio viso.
«Perché, sembra strano, sei importante
Isabella…»
«Bella chiamami Bella…» Pentendomi
immediatamente di averlo
interrotto, quando, forse, finalmente stava dicendo qualcosa che poteva
tirarmi
su il morale.
«Bella, non voglio trascinarti in questo schifo.»
«Non c’è niente di te che fa
schifo.»
«Sì…ma tu se testarda, me ne sono reso
conto subito, la
prima volta che ti ho visto.»
«Edward…io voglio aiutarti, io credo in
te.»
«Come fai a credere in me se nemmeno io ci credo?»
«Sai perché?» Dissi sicura come mai
nella mia vita,
prendendogli il viso tra le mani. «Perché io vedo
in te quello che tu stesso
non riesci a vedere.»
Eccomi!!!
Perdonate il ritardo, sono una cogliona -.-
Purtroppo ho avuto una settimana difficile, un lutto e cose
varie che non sto lì a buttar giù, annoiandovi
più di quanto non abbia già fatto
il capitolo :D
Spero con tutto
il cuore che continuerete a seguire questa
storia, per me davvero importante.
A
venerdì…I promise.
Roby <3
|
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Capitolo 4 *** Irrational. ***
In the mosaic.
Irrational.
Non riuscivo a
prendere sonno quella notte, forse era per il
semplice fatto che avrei incontrato Edward Cullen anche quel
Lunedì. Dovetti
ammettere a me stessa, parecchie volte, che mi faceva
paura…il giorno prima di
incontrarlo la mia mente veniva presa dall’ansia, avrei
dovuto immaginare più o
meno la causa…il problema era proprio quello, non ne avevo
idea. Avevo pensato
più volte fossero delle coincidenze…quella di
quella sera, ad esempio, era che
comunque fino a qualche ora prima eravamo insieme. Al pensiero di lui,
abbandonato con la testa sulle mie gambe e il suo viso…quel
viso che avrei
contemplato mille volte, era finalmente rilassato.
Edward era parecchio strano.
Edward aveva bisogno di qualcuno che lo spronasse a parlare.
Edward si sentiva solo.
Edward si credeva inutile.
Edward sembrava un piccolo sasso circondato da miliardi di
chicchi di sabbia.
E
quella volta, come sempre sul conto di Edward sperai che tutto potesse
andare
per il verso giusto. Quello che non riuscii mai a capire era quanto
pericoloso
fosse stato. Lui. La sua presenza. Il suo passato.
Mi rigirai tra le lenzuola cercando di pensare a qualcosa
che potesse farmi addormentare, erano le tre del mattino dopo cinque
ore avrei
cominciato a lavorare. Ovviamente il contare le pecore non mi
aiutò nemmeno
quella volta…tutt’a un tratto, nei miei occhi
chiusi, visualizzai due occhi
verdi, pieni di rancore, fallimento, ansia…un brivido mi
percosse, quel brivido
rimase a cullarmi quando finalmente il mio respiro si fece pesante,
quel
brivido sarebbe rimasto fino a quando Edward avrebbe invaso in quel
modo i miei
pensieri. Quando mi svegliai, con la mia solita abitudine, vidi la mia
pelle
ricoperta dai brividi. “È il freddo”
pensai. Ma all’interno del mio cappotto,
con le calze di lana alle gambe nella metropolitana, quei brividi
rimasero lì,
come per visione di quello che sarebbe accaduto di lì a
poco.
Arrivai in ufficio in anticipo di dieci minuti, afferrai il
mio cellulare, il quale non visualizzavo lo schermo da ieri a pranzo e
ci trovai
undici messaggi di Rose. In alcuni mi avvertiva del motivo per il quale
era
mancata a pranzo il giorno prima, gli altri erano delle foto. Pigiai il
dito
sopra la piccola diapositiva e mentre aspettai che si caricasse il
Signor
Dumond fece capolino nel mio ufficio. Guardai l’orologio e
mancavano cinque
minuti alle otto. Tirai un sospiro udibile solo a me stessa e sfoderai
il mio
sorriso rincuorante.
«Si accomodi.» Lui lo fece e cominciò a
raccontarmi di
quanto bella fosse l’Australia. Molti erano guariti ma
avevano chiesto la mia
consulenza oltre per il semplice fatto che mi si erano affezionati. Non
approvavo ciò, difatti quando nuovi clienti venivano a
bussarmi alla porta io
mandavo via quelli che già erano tornati a essere quelli di
sempre. Ogni volta
mi si spezzava il cuore, nonostante promettessi a tutti quanti che mai
ci
saremmo persi di vista. Un senso di tristezza mi pervase quando
realizzai che
tra qualche mese avrei fatto lo stesso con Edward. Mi schiarii la voce
e dopo
cinque ore mi preparai mentalmente all’entrata di Edward. Mi
mozzò il fiato,
come sempre, nei suoi jeans e camicia nera, con i suoi capelli ramati
che
avevano voglia di essere messi al guinzaglio talmente erano ribelli, e
poi i
suoi occhi…quelli che fino a quel momento non mi avevano mai
lasciata un attimo.
Gli
occhi di Edward, molte volte, mi fecero paura, ma erano soltanto loro
che
riuscivano a darmi libero accesso a lui, alla sua anima.
«Ciao.» Mi disse sorridendomi, quel sorriso che
ogni
santissima volta faceva rotolare su se stesso il mio cuore.
«Buongiorno Edward, accomodati pure.»
Nell’abbassare lo
sguardo mi accorsi che i miei collant ultra-resistenti si erano
sfilati,
rivelando gran parte della mia gamba. Arrossii violentemente e mi
aggiustai gli
occhiali…ero solita a farlo quando su di me calava il
più totale imbarazzo. “Chissà
come diavolo si saranno strappati…” Dissi tra me,
per poi continuare “Possibile
che il suo sguardo intenso possa fare questo?” risi di me
come un’adolescente
che sogna ad occhi aperti. Era finito quel tempo per me, prima ancora
di
rendermi conto che era appena cominciato. Scossi la testa e guardai
Edward che,
come suo solito, stava in silenzio. Immersi il mio sguardo nel suo e mi
accorsi
che nel suo sguardo c’era molta nostalgia. Chissà
di cosa. Afferrai il mio
amato taccuino e stirai le mie braccia.
«Si invecchia mio caro Edward.» Dissi ironicamente,
per
smorzare un po’ di tensione.
«Resti comunque bellissima.» Mormorò
come se quella fosse la
cosa più ovvia da dire in quel preciso attimo. Abbassai per
l’ennesima volta il
mio sguardo e mi aggiustai le lenti…appunto.
«G-g-grazie…Edward, però tu lo
sai…devi dirmi qualcosa. Non
posso aiutarti se tu non mi dai qualcosa per farlo.»
Sussurrai senza guardarlo,
dovetti ammettere a me stessa che le sue reazioni erano imprevedibili e
a me l’imprevedibilità
metteva terrore…almeno fino ad allora.
«Perché sei così ostinata a volerlo
fare?» Mi chiese
dolcemente.
«Perché tu sei qui…non per conversare
con me o per farmi
compagnia. Questo è il mio lavoro ed aiutarti è
il mio compito.» Dissi
pentendomene nell’instante in cui la sua espressione si fece
delusa.
«Ovviamente non è solo quello…insomma,
lo sai…mi sono
affezionata a te e…»
«Io vedo in te ciò che tu stesso non riesci a
vedere. Me lo
hai detto ieri. Cosa vedi Bella?» Mi chiese con una nota di
stupore nella voce.
Guardai i suoi occhi…giacché mi parse di riuscire
a comunicare solo con loro…dopo
qualche secondo però chiusi i miei con uno scatto veloce.
Edward odiava. Edward
conteneva dentro di sé mostruosità che non dava a
vedere ma che i suoi occhi mi
comunicavano. Rabbrividii e aprii gli occhi. Dovevo farcela.
Quel
giorno per me fu come cercare di vincere in quella sfida e ce la feci,
per un
attimo ce la feci davvero. Solo dopo, ovviamente, mi resi conto che
vincere con
Edward presto sarebbe stata solamente la mia peggiore sconfitta.
«Ieri
mi hai detto che
non vuoi trascinarmi in quello che io chiamo il tuo tormento e che tu
chiami
schifo. Dimmi il perché…cominciamo da
questo.» Dissi sicura di me.
«Non scriverlo però.» Lo accontentai
immediatamente, posai
il mio taccuino sulla scrivania e aspettai con ansia ciò che
aveva da dire.
«Non…» Balbettò parole
incomprensibili per parecchi minuti e
poi mi trafisse con gli occhi, dopo qualche minuto mi sorrise,
facendomi dimenticare
il mio nome, dandomi quella forza che senza quel sorriso non avrei mai
avuto.
«Forza Edward, avanti dai…» Dissi
incitandolo a continuare,
facendogli capire con il mio tono caldo che io ero lì per
ascoltarlo, senza
giudicare, usando le sue parole come toccasana per lui stesso.
«Sono stato fidanzato tre volte…Bella, tre volte,
tutte e tre
le volte sono scappate via.»
«Cosa c’entra questo?» Dissi irritandomi,
confusa, arricciai
le labbra e mi chiesi perché quello che aveva appena detto
aveva ferito
qualcosa all’interno di me stessa.
Quello
che aveva ferito quella volta e altre volte, lo capii, ma solo alla
chiusura di
tutto quello che avevamo vissuto.
«Ti
da fastidio.» Sentenziò con quel sorriso furbo.
«Perché dovrebbe?»
«Non lo so. Ma lo vedo, lo sento, la tua pelle è
ricoperta
di brividi Bella.» Non so come fece a capirlo,
poiché indossavo un maglione
piuttosto coprente, le mie gambe erano fasciate dalle calze di lana, ad
eccezione di quel piccolo strappo…rimasi comunque a
guardarlo e dopo pochi
minuti si alzò.
«È uno schifo. Il mio passato, come il mio futuro
e il mio
presente è uno schifo. Non posso dirti il
perché…forse non lo so bene nemmeno
io. Sta di fatto che la gente scappa sempre via da me. Alla fine,
comunque
vada, tutti mi abbandonano. Non voglio che mi succeda anche con te.
Devo
andare.» Sussurrò. Mi alzai e mi avvicinai
pericolosamente a lui.
«Manca mezz’ora!» Dissi stufa del suo
repentino cambiamento
d’umore.
«Devo andare. Stop. Non voglio venirci più qui
dentro, porca
troia, me ne vado okay?» Urlò talmente forte che
le mie guance divennero rosse
per la rabbia. Mentre vedevo la sua sagoma uscire dallo studio mormorai
un
vaffanculo pieno di risentimento. Sbuffai mentre mi passavo una mano
tra i
capelli e una lacrima si fece largo sul mio viso. Non capivo il suo
comportamento
e in quel momento non riuscivo a capire nemmeno il mio. Non era
stabile, come
non lo ero io da quando era entrato nella mia vita. Edward Cullen non
aveva un
solo fardello dietro…oltre a quelli c’erano pure
gli anni passati che avevano
scavato all’interno della sua mente, mentre la sua corazza
diventava
indistruttibile. Mi alzai dalla sedia e con un movimento fulmineo
gettai per
terra tutto quello che c’era sulla scrivania. Urlai per
tanto, troppo tempo,
fin quando stremata mi accasciai al pavimento, mi calmai –
come sempre – dopo
essermi accarezza gli occhi con l’indice, mentre la mia voce
sussurrava Always
dei Bon Jovi.
Non
capii mai la natura di quel tipo di comportamento che
s’impossessava di me,
capii soltanto che era l’effetto che Edward aveva su di
me…ma, sfortunatamente,
non mi causava solo quello.
«Non
è possibile Bella! Devi parlare con suo padre…o,
meglio, con il tuo! Non è una cosa che può
continuare Bella, assolutamente!» Urlò
Rosalie nella cucina di casa mia, dopo che mi ero sfogata con lei.
Fortunatamente, nel momento in cui avevo più bisogno di
qualcuno, lei c’era.
Non avevo di certo previsto la ramanzina. La guardai con gli occhi
pieni di
lacrime.
“Alla fine, comunque
vada, tutti mi abbandonano.”
E non potevo farlo anch’io…non dopo essermi
affezionata così
tanto a lui, non dopo aver capito il modo per farlo parlare almeno un
pochino
con me.
«Non posso Rosalie…»
«Ti farai male Bella.» Disse per poi da casa mia
sbattendo
la porta come se avesse voluto darmi un ceffone. Conoscevo come il
palmo della
mia mano Rosalie, e l’unico modo per avere un suo sorriso
sarebbe stato
accontentarla. L’avevo sempre fatto fino a quella volta,
poiché Rosalie mirava
sempre per il mio bene…quella volta invece non ce la feci.
Il pensiero di tradire
Edward comprimeva nel mio petto un dolore mai provato prima, un dolore
per il
quale mi sarei fatta male, un dolore per la quale presto ne sarei
diventata
dipendente. Restai accoccolata sul divano con le lacrime agli occhi per
tutta
la sera, non riuscivo a pensare in modo coerente, tutto ciò
che la mia mente
produceva era il senso di colpa che mi avrebbe schiacciata dal momento
in cui
avrei deciso di non volerlo più nel mio studio.
Tutto quello era irrazionale, ed io odiavo
l’irrazionalità,
e in quel preciso instante, non per l’ultima volta, mi chiesi
perché non odiavo
anche il pensiero di Edward, totalmente e incondizionatamente
irrazionale.
Avevo paura, ma non più paura di lui e del suo passato,
avevo paura che quella
mattina sarebbe stata l’ultima volta che i miei occhi
avrebbero incontrato i
suoi. Quegli occhi che oscuravano il suo sole, perché ognuno
di noi ne possiede
uno all’interno dell’anima, quegli occhi che mi
facevano rabbrividire, avevo
bisogno di guardare attraverso quel portale, era l’unico
modo, l’unica via che
poteva condurmi a lui, a tutto ciò che catturava la sua
mente. Che Edward era
lunatico era ormai divenuto un dato di fatto, se solo lui mi avesse
dato la
possibilità, io sarei riuscita a vederlo per davvero, molto
di più di quello
che avevo visto. Edward era buono, i suoi sorrisi erano come quelli di
un
bambino a Natale, c’era l’elemento principale
dentro di lui, quello che sarebbe
riuscito a tirarlo fuori dal baratro; c’era il sentimento
positivo, era
nascosto da qualche parte, ma era lì, io l’avevo
visto. Sentii il suono del citofono
e corsi ad aprire, sperando fosse Rosalie.
«Chi è?» Dio, la mia voce suonava
più roca di quello che
pensavo.
«Sono Edward.» Mi presi un attimo di silenzio,
cercando di
decifrare il suo tono di voce, ma non ci riuscii, poiché non
mi aspettavo
minimamente fosse lui.
«Come?»
«Edward Cullen.» Era spazientito, ma riuscii a
sentire una
piccola risata. Alzai gli occhi al cielo, sicura che se non era per
quella
sera, prima o poi mi avrebbe mandata al manicomio. Aprii il portoncino
e lo
aspettai davanti alla porta.
«Che fai qui?» Dissi prima di guardarlo dalla testa
ai
piedi. Come sempre i miei pensieri non gli rendevano giustizia, non
avevo mai
visto qualcuno di così bello come Edward. I suoi capelli
scarmigliati ad arte,
il suo viso ricoperto da un filo di barba, le sue labbra
dall’aspetto morbide
come il burro, e i suoi occhi che in quel momento non mi dicevano
nulla, mi
affascinavano solamente, erano verdi, ma erano speciali. Erano
l’interno di
Edward Cullen.
«Posso entrare?»
«Chi ti ha detto dove abito?»
«Essere il figlio del presidente ha i suoi
privilegi.»
«Potrei denunciarti.»
«Mi vuoi troppo bene per farlo.» Disse con un
sorriso
divertito, quel sorriso mi fece dimenticare tutto quello che era
accaduto
quella mattina. Edward tagliava a pezzetti il mio cuore, ma
c’era l’antidoto a
quello; il suo magnifico sorriso che mi scioglieva ogni qualvolta come
neve al
sole. Mi scostai di lato e gli feci spazio per entrare, nel chiudere la
porta
mi resi conto che ero in canotta e shorts, nessuno dei miei pazienti si
era mai
permesso di venire a casa mia…le uniche persone che lo
facevano erano i miei
genitori e Rosalie.
«Vuoi qualcosa da bere?»
«No, grazie.» Mormorò guardando le mie
gambe, arrossii e mi
imbarazzai come mai prima di allora. Mi sedetti al suo fianco e lo
guardai
esaminando la sua espressione.
«Volevo chiederti scusa…per
oggi…»
«Nessun problema.»
«No, Bella, mi sono comportato da…»
«Nessun problema Edward!» Dissi interrompendolo,
avevo
dimenticato quello che era successo e passare ancora una volta sopra
l’argomento
mi avrebbe fatto di nuovo male, ed io non volevo che lui lo vedesse.
«Bella, ascolta…»
«No Edward! Non voglio parlarne, chiaro?» Dissi
urlando,
perché non lo capiva? Non riusciva a vedere quanto dentro di
me lui era
entrato? Imprevedibilmente mi abbracciò facendo scorrere il
suo naso sul mio
collo, la mia pelle si ricoprì di brividi e con un gesto
repentino le mie
labbra finirono sulle sue.
Sapevo che era sbagliato. Sapevo che tutto quello mi avrebbe
portato all’apice di qualcosa di doloroso. Sapevo che come
sempre sarei finita
per rimpiangere tutto.
Era
anche quello l’effetto che Edward Cullen aveva su di me.
Dopotutto non riuscii a dire di no nemmeno quella volta,
afferrai i suoi capelli e continuai a baciarlo. Era la mia droga. Era
la cosa
migliore che potesse capitarmi. Era la mia rovina.
Salveeeeeee. No,
sono qui, non state sognando!
Ho cercato di pensare a mille modi per chiedervi scusa, ma
nessuno di quelli rendeva l’idea. È un periodo
strano questo…non ho mai un
attimo di tempo, quando ce l’ho la mia mente bacata mi porta
a leggere o
guardare film…Ma, sì, c’è un
ma! Cercherò di smetterla! Questa storia mi piace,
stranamente, e spero che piaccia anche a voi. Venerdì ci
sarò! Anche perché ho
in mente cosa devo scrivere!
Non
abbandonatemi!
Ps: per chi segue “ Just a little Woman”, non
temete, tra
oggi e domani arriverà anche il prossimo di quella
lì :p
Un bacione.
Roby <3
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Capitolo 5 *** A new Edward. ***
In the mosaic.
A
new Edward.
I baci di Edward
non avevano termini di paragone per me. Era
come se annullassero la mia presenza da qualsivoglia situazione,
entrando
dentro quello che lui stesso riproduceva nella mia mente anche solo
toccandomi
con lo sguardo. Baciare le labbra di Edward era la cosa più
bella che mi fosse
mai capitata. Adoravo l’odore inconfondibile di agrumi che si
innescava come
una bomba nelle mie narici, adoravo la morbidezza delle sue labbra,
talmente
impeccabile che avevo paura di spezzarle.
Le sue
labbra furono la prima cosa che mi fece dipendere da Edward Cullen.
Mentre
mi avviavo a casa di mia madre, con il pensiero
rivolto a Edward e agli ultimi giorni passati insieme, notai una sagoma
nascosta
tra i cespugli, rabbrividii e aumentai il passo. Camminavo
forsennatamente e
con il respiro accelerato al massino, fin quando non raggiunsi il
portoncino e
incespicai infilandomi dentro come una ladra che si guardava attorno.
«Tesoro!» Urlò mia madre, dalla finestra
del piano di sopra.
Sospirai di sollievo e raggiunsi la porta principale. Mio padre, come
ogni
domenica, giaceva nel divano col telecomando in mano come se fosse una
cosa
vitale, lo salutai con un cenno, non appena voltò la testa
verso di me e mi
sorrise. Anche quella volta avrei avuto bisogno di parlare con lui, da sola. Salii le scale e trovai mia madre
nella mia vecchia camera, seduta su quello che una volta era il mio
letto.
«Ciao mamma.»
«Bella…» Sospirò facendomi
alzare le sopracciglia. Quando
mia madre faceva in quel modo; squadrandomi come fossi
un’aliena, non trovando
le parole adatte per cominciare a parlarmi e torturandosi le mani.
Aggiustai i
miei occhiali, nonostante non ce ne fosse alcun bisogno e mi avvicinai
a lei
accarezzandole i capelli.
«Che succede?»
«Bè…ecco, Rosalie era molto arrabbiata
stamattina…mi
chiedevo…»
«Non viene oggi, vero?» Domandai con una nota di
sconforto
nella voce, quell’arpia della mia migliore amica mi mancava
terribilmente, era
come se dentro di me si fosse spezzato qualcosa. Mia madre scosse la
testa e
continuò a guardarmi, sbuffai spazientita e mi sedetti al
suo fianco. Non
capivo perché non sistemava tutto con una telefonata quando
voleva parlarmi,
dato che non riusciva a trovare il modo. Quando mia madre al telefono
era tutta
un cuore e amore e, di presenza, si maciullava la mente in quel modo,
voleva
dire solo una cosa; alla sua prima parola io mi sarei infuriata.
«Dove hai conosciuto Edward Cullen?» Rimasi
spiazzata da
quella domanda, che mai e poi mai mi sarei aspettata. Stavo per
risponderle con
la verità, data la mia scarsa qualità di mentire,
ma mi morsi la lingua quando
ricordai che mio padre, per non so quale assurdo motivo, mi chiese di
non farne
parola con la mamma.
«L’ho conosciuto
qui…Domenica.» Risposi cercando di
mantenere le mani ferme. Ero un disastro a mentire, forse per quello
preferiva
farmi certi discorsi di presenza.
«Stai mentendo.»
«Cosa c’è che non va?» Dissi
alzando la voce, così come gli
occhi al cielo.
«Devi stare lontana da lui.»
«L’ho visto solo una volta!» La mia voce
suonava stridula e
bugiarda come mai prima di allora.
«Non mentirmi, Isabella. Sono pur sempre tua madre,
è
ridicolo.» Disse infuocandosi. Io rimasi in silenzio,
preferivo starmene zitta
che far venir fuori la verità in un nano-secondo.
«Stai lontana da lui, Bella. O ti farai molto
male.» Disse
alzandosi e lasciandomi sola. Scossi la testa con le lacrime che
minacciavano
di venire fuori a flotta. Odiavo piangere, soprattutto quando non ce
n’era
motivo…eppure quella volta, inconsapevole del motivo, priva
di ogni pensiero
coerente scoppiai a piangere. Non riuscivo più a controllare
le mie emozioni,
ero sempre in uno stato sopraffatto, odiavo quei momenti che si fecero
più
presenti giorno per giorno.
Odiavo
sentirmi così vulnerabile, odiavo non essere a conoscenza
dei vari motivi per
la quale le mie emozioni erano sempre triplicate. Sarei anche arrivata
a odiare
me stessa.
Alla fine, quella domenica non parlai con mio padre. Mia madre
ci stava tra i piedi come se sospettasse qualcosa, l’ultima
cosa che volevo era
farli litigare. Passai la giornata con i miei genitori come se tutto
filasse
liscio e, forse, in certi momenti era così. La mia
quotidianità si era
sballata, i miei pensieri lottavano tra loro, tra coerenza e non, le
mie
emozioni giocavano a bowling facendo atterrare la mia
sensibilità come se fosse
una massa di birilli…eppure qualcosa mi spingeva a credere
che tutto quello fosse
necessario. Ogni mio pensiero si fermava a Edward. Edward nella mia
mente.
Edward nel mio olfatto. Edward nella mia vista. Edward, Edward, Edward
ovunque.
Sapevo che prima o poi mi avrebbe fatta innamorare di lui e qualcosa,
mi diceva
che lui avrebbe fatto lo stesso. Quel ragazzo tenero e al tempo stesso
duro
come il ghiaccio, aveva bisogno di qualcuno che lo spronasse a non
avere paura
di rivelare il suo passato. Ed io c’ero e, per quel che
poteva servire, ci
sarei sempre stata. Avevo deciso che arrabbiarmi con il suo silenzio
era
inutile. Lo avrei aspettato, anche un anno intero.
Stavo frugando
nella mia valigetta in cerca del cellulare
quando qualcuno bussò alla porta. Avevo programmato di
chiamare mio padre per
un appuntamento fuori casa ma, chissà per quale strano
motivo, il mio
telefonino pareva essersi smaterializzato.
«Avanti.» Sbottai, rendendomi conto soltanto dopo
aver
parlato che il mio tono risultava sgarbato. Il viso splendente di
Edward fece
capolino nel mio ufficio, lo guardai stralunata poiché era
Martedì, Edward non
veniva mai al Martedì e, se davvero avesse deciso di poter
venire a suo
piacimento si sbagliava di grosso.
«Ciao, nervosa?» Mi chiese sorridendomi, facendomi
scordare
anche il mio nome. Annuii come un automa godendomi quel sorriso che
solo poche
volte aveva accesso alle sue labbra meravigliose.
«Che succede?»
«Sempre il solito. Nervosismo da
Martedì.»
«Non era al Lunedì?»
Farfugliò divertito. Scoppiai a ridere
e guardai i suoi occhi che quella volta erano più sereni
delle altre volte.
Rimanemmo in silenzio per minuti interminabili, godendo entrambi degli
occhi
dell’altro. Sarei rimasta a guardarlo per giorni interi.
«Che fai qui?» Gli chiesi.
«È mezzogiorno…da quel che so dovresti
essere ufficialmente
in pausa.» Rimasi sbigottita, non mi ero completamente
accorta dell’orario.
Afferrai la borsetta e con un sorriso mi alzai facendo cenno a Edward
di
seguirmi. Pranzammo in una trattoria piccola, calda e intima. Per la
prima
volta da quando lo conoscevo, parlò a lungo, raccontandomi
della sua passione
per l’Hockey sul ghiaccio, ero stata invitata ad una partita
per quel Sabato.
Mi raccontò di avere miliardi di disegni sparsi nei vecchi
bauli di giocattoli
di quando era piccolo. Era sereno, tranquillo, quella volta misi in
dubbio la
mia salute mentale per più di una volta; possibile che mi
fossi immaginata
quell’Edward? Quello tenebroso? Quello che soffriva sotto la
maschera che
indossava? Lo ascoltai affascinata, guardando le sue labbra che si
muovevano e…sorridevano,
di quei sorrisi che ti fanno mandare a monte tutto, quei sorrisi che
potrebbero
entrarti nel cuore in modo permanente. Quella non fu l’unica
volta di quell’Edward
e, forse, la cosa che più mi distrusse fu conoscere quel suo
lato…quello vero.
«Bene. Ci vediamo domani?» Domandai,
poiché domani alle tre
avevamo un appuntamento. Lui scosse la testa ed io alzai gli occhi al
cielo.
«Bella…non voglio più essere un tuo
paziente.» Quelle frasi
mi lacerarono il petto come una coltellata.
«Non è una cosa che dipende da
me…Edward.» Dissi con la voce
morta.
«Non dipende neanche da mio padre. Dipende da me. Solo ed
esclusivamente
da me. Non voglio più sottopormi a sedute
psicologiche.» Disse sicuro di sé,
come non l’avevo mai visto. Ingoiai il nodo che
improvvisamente mi si era
formato in gola e annuii, sicura che di lì a poco sarei
scoppiata a piangere.
«Questo non vuol dire che non voglio più
vederti…quel bacio…»
Si interruppe imbarazzandosi, riuscendomi a strappare un piccolo
sorriso.
«È stato importante per me, Bella.» Le
mie mani finirono tra
le sue in men che non si dica.
«Non intendo perdere quello che abbiamo.» E mi
sorrise,
ricucendo il mio cuore, solo come lui sapeva fare. Mi promise che la
sera
stessa sarebbe venuto a casa mia con una sorpresa, “non
cucinare” urlò mentre
mi chiudevo la porta alle spalle. Alzai gli occhi al cielo e
inconsapevolmente
la mia mano sfiorò il mio petto. Sorridevo come
un’ebete, cosa c’era di
male?
«Rose…chiamami,
ti prego.» Sussurrai lasciando a Rosalie l’ennesimo
messaggio. Non la sentivo da giorni e mi mancava in modo terribile.
Erano le
sei, avrei avuto tutto il tempo per un bagno rilassante e
così fu, tant’è che
mi addormentai risvegliandomi come un pinguino appena nato. Erano
già le sette
ed io fremevo per l’arrivo di Edward che, suonò il
campanello mentre riuscii a
infilarmi un pantaloncino e una canotta. Non appena aprii la porta,
l’odore di
salsa barbecue si innescò nelle mie narici. Incontrai il
sorriso di Edward
Cullen e mi sciolsi, tant’è che non riuscii
nemmeno a spiaccicare parola mentre
entrava in casa mia come se fosse una cosa naturale, studiai ogni suo
gesto,
era morbido, perfettamente in sintonia col suo corpo, avvampai quando
me lo
immaginai nudo e mi misi le mani sugli occhi per la vergogna. Venni
spinta
dentro un cerchio di braccia possenti, l’odore di Edward mi
confuse fin dentro
l’anima. Non appena sentii le sue labbra sulle mie e la sua
lingua all’interno
della mia bocca ogni mio senso fu annullato dai suoi baci. Sputava
fuoco
passionale e allo stesso tempo era così dolce che sembrasse
sciogliersi come
neve al sole. Adoravo quell’Edward dolcemente imprevedibile,
che parlava con me
come se fosse naturale quando precedentemente aveva avuto paura anche a
dirmi il
suo nome. Lo adoravo e mi ero affezionata a lui in modo inverosimile.
Lo
abbracciai con l’intento di fare lo stesso con la sua anima,
avevo visto Edward
come un povero uccellino appena nato e, con quel gesto, volevo
dimostrargli che
io l’avrei protetto, che lui era importante per
me…lo era davvero…non sapevo
spiegare il motivo, era entrato dentro di me in modo irrefrenabile ed
io ero
felice di quello. Per la prima volta in vita mia mi sentii desiderata,
completa…a
mio agio. Cenammo con Hamburger e patatine inzuppate nella salsa
barbecue e,
dopo la grande rivelazione di Edward; era astemio, bevemmo due litri di
coca
cola in un’ora.
«Mio dio! Nascondi il cibo come nessuno!»
Urlò prendendomi
in giro. Lo guardai in cagnesco massaggiandomi ancora la pancia piena,
afferrai
velocemente un cuscino dal divano e glielo lanciai dritto in faccia.
Incrociai
le braccia sotto al seno e lo guardai con un sorriso furbo sulle labbra.
«Non ridi più?» Dissi beffeggiandolo.
Lui iniziò a camminare
lentamente verso di me, fin quando con un gesto fulmineo non mi
finì addosso
arpionando le sue mani sui miei fianchi. Credetti di poter prendere
fuoco da lì
a poco. Ero
intrappolata tra l’isola
della cucina e il suo corpo…ammettendo a me stessa che se
anche così non fosse
stato, non avrei avuto intenzione di spostarmi. Avvicinò le
sue labbra al mio
orecchio e sussurrò: «Cosa dovrei fare
adesso?» Il tuo tono era caldo e
suadente, rabbrividii di piacere sentendomi una stupida; stavo perdendo
il
controllo, in quel momento Edward Cullen mi aveva alla sua
mercé, se mi avesse
chiesto di saltellare per un’ora con una gamba sola lo avrei
fatto senza
indugiare.
«Tipo…baciarmi…» Mormorai a
un centimetro dalle sue labbra.
Lo baciai come se non ci fosse un domani, tirai leggermente i suoi
capelli dopo
che un gemito passionale lasciò le sue labbra, le mie gambe
si avvolsero nei
suoi fianchi e non potei fare a meno di mordergli le labbra per non
gemere. Non
sapevo ancora dove tutto quello mi avrebbe portata. Ero felice e quello
mi
bastava, per il momento. Quel giorno, per la prima volta Edward mi
apparve
diverso, solare, stranamente spensierato. Non sapevo se lui era il vero
Edward,
quello che sapevo è che le mie speranze andando avanti mi
entusiasmavano di più
che dall’inizio. Lui aveva parlato…poco, ma era un
inizio. Mi aveva resa
partecipe di un pezzettino della sua vita. Non potei fare a meno di
pensare che
io quell’Edward Cullen lo volevo tutto. Lo desideravo. Amavo
la sua voce
divertita. Adoravo i suoi occhi. I più belli e, allo stesso
tempo, tenebrosi, che
io avessi mai visto.
Sono
imperdonabile.
Non so che dirvi, davvero…spero solo che il capitolo sia di
vostro gradimento.
Scusate.
Un bacione,
Roby <3
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Capitolo 6 *** AVVISO. ***
Salve ragazze...
Non ho mai fatto nulla del genere da quando scrivo su efp. Purtroppo,
mi sono resa conto che non riesco a portare due storie avanti. Just a
little Woman non è proprio alla fine...le idee si
confondono e sono sempre in ritardo con gli aggiornamenti.
In the mosaic non finisce qui, per niente, anzi, è l'unica
mia storia che mi piace tanto, per questo la storia sarà
SOSPESA A TEMPO DETERMINATO, entro quest'estate riprendeò a
scriverla...
Non appena sarà conclusa JALW questa qui
riprenderà vita.
Io vi ringrazio comunque e spero di non deludervi.
Ci tengo.
Un bacione.
Roby
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