In The Mosaic.

di RobiSmolderhalder
(/viewuser.php?uid=169071)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** One year ago. ***
Capitolo 3: *** Because I see in you what you yourself do not see. ***
Capitolo 4: *** Irrational. ***
Capitolo 5: *** A new Edward. ***
Capitolo 6: *** AVVISO. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


In The Mosaic.

 

 

 

 

Prologo.

 

 

 

 

 

 

 

 

8 Maggio 2012- Amsterdam.

 

Sentivo il marciare dei suoi passi. Un rumore fastidioso, quasi insopportabile. Ricordo bene quel giorno come se fosse appena passato. Quell’uomo solo, indifeso, silenzioso. Come una colombina appena nata in cerca della sua mamma, come un uomo senza arte né parte. Ogni volta riconoscevo i suoi passi, che mi innervosivano per poi farmi sorridere. Sorrido tra me, riflettendo a quanto mi manca quel rumore, ormai divenuto una dipendenza. Una lacrima scorre sul mio viso, caccio indietro la rabbia ma, tentativo vano. Lo sento, dentro di me, nelle mie narici ancora il suo profumo. Nella mia mente i suoi occhi tristi e senza speranza, quegli occhi che avevo imparato a conoscere in fretta, quegli occhi che mi prendevano facendomi annegare nel loro mare. Un mare che non conosceva sentimenti alcuni, un mare dove una volta che c’eri dentro riuscivi a distinguere solo l’intensità delle tenebre. Un mare che tempo fa mi faceva paura, adesso quel mare sarebbe la mia unica ancora di salvezza. Dicono che il male esiste perché esiste anche il bene, che c’è sempre la quiete dopo la tempesta, che il sole c’è per tutti. Forse tutto questo accade solamente con determinate persone. Sono sempre stata una di quelle ragazze solari, una di quelle che sorride, anche se c’è una catastrofe in corso…le mie amiche mi hanno sempre adulato per il mio modo di riuscire a fari sorridere anche le persone che si credevano nell’oltretomba da secoli. Per quello decisi, allora, di laurearmi in psicologia. Ho sempre amato ogni aspetto che caratterizza la gente, quindi mi sono chiesta perché no? Perché non dare una mano alla gente? Perché non far sbocciare quel fiore che ognuno di noi ha all’interno del proprio cuore? Caparbia, come mio solito fare, riuscii a laurearmi il più presto possibile. Mio padre, uno dei migliori avvocati della città, mi fece costruire uno studio tutto mio – sì, lui e mia madre hanno la tendenza a viziarmi, dato che hanno solo me come figlia – cominciai a lavorare, comprai una piccola villetta tutta per me, non avendo intenzione di mettere su famiglia e passarono cinque lunghissimi anni. Era una delle cose migliori che potessero capitarmi, il mattino, quando scendevo di casa e mi recavo nel mio bar preferito tutte le persone mi sorridevano, magari perché avevo aiutato i loro figli, nipoti, cugini. Non appena arrivavo a lavoro, trovavo i miei pazienti speranzosi mentre incontravano i miei occhi, velati da un paio di occhiali vecchio stile, io davo speranza a loro, e non c’era cosa che poteva rendermi più felice di come mi sentivo ogni volta. Ero realizzata, ero in pace con me stessa…sei mesi fa la mia carriera si frantumò in tanti piccoli pezzi diventando un mosaico senza forma, senza essenza. La mia vita oggi è un mosaico, ma non di quelli belli, un mosaico al quale manca il pezzo centrale, il più importante, quello di cui non può fare a meno. Un anno fa esatto lo conobbi. Era bello come il sole, aveva la testa chinata e avanzava verso di me con quei passi terribilmente suoi, con suo padre che gli stava col fiato sul collo. Non appena lo vidi sentii un certo senso di familiarità, qualcosa sia dentro di lui che dentro di me che ci legava, un senso di profonda appartenenza. Questo prima di incrociare i suoi occhi. Mi fecero paura. Un brivido mi percuote al solo pensiero. Erano arrabbiati, erano furiosi, sembravano quelli di un demone posseduto. Mi hanno sempre fatto paura i demoni, eppure riuscii ad affrontare quegli occhi, quel verde modificato dal senso di rabbia profonda, dall’odio verso tutto quello che lo circondava. Affrontai i suoi occhi, affrontai il suo silenzio che molte volte mi lacerò il cuore per poi ricucirlo con un suo invisibile sorriso, affrontai Edward Culle, il figlio del presidente del consiglio di Amsterdam, il trentenne più ricco dei paesi bassi. L’uomo più distrutto del pianeta.

Questa è la storia di Edward Cullen.

Questa è la mia storia.

Questo è il racconto dei suoi demoni del passato. Il racconto tenebroso che ha circondato quello che poteva essere un amore puro e sereno. La mia rivincita. La mia peggiore sconfitta.

 

 

 

 

 

 

**

 

Eccomi!

Ho pubblicato questo prologo, solo perché adesso la mia vita non ha più impegni…È bruttissima questa cosa, lo so…ma almeno scrivo, mi sfogo…Sapete no?

È piccolissimo perché comunque è una piccola introduzione :’)

Fatemi Sapere.

Un bacione.

 

Roby <3

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** One year ago. ***


In the mosaic.

 

 

One year ago.

 

 

 

 

 

 

L’aroma di caffè mi arrivò dritta in faccia, come il respiro di qualcuno sul mio corpo, anche quella mattina. Nonostante avessi l’abitudine di far colazione al bar, il caffè appena sveglia, in pigiama e con la bocca impastata dal sonno, era d’obbligo. Così, ogni sera, senza che mi fossi mai scordata, attivavo la sveglia sul timer della macchinetta del caffè; in quel modo ogni mattina alle sei non era la sveglia a strillare per svegliarmi, né le urla dei vicini e neppure la chiamata di un ipotetico fidanzato, avevo smesso con le relazioni, io e le relazioni che andavano oltre le amicizie ci prendevamo a cazzotti. L’odore forte e allo stesso tempo piacevole, che ogni mattina sfiorava le mie narici, sapeva darmi la giusta carica per ricominciare, con il lavoro, con le mie amiche e soprattutto con mia madre, che ogni giorno chiamava per sapere se e cosa avessi mangiato, se avevo bisogno di vestiti, cibo e quant’altro, mia madre non riusciva ad accettarlo, ma era successo; ero una persona assolutamente dipendente su ogni punto di vista. Anche quella mattina mi alzai, a piedi nudi e col pigiama che poteva starmi su tre volte, mi diressi in cucina. Quel giorno lo ricordo ancora come se fosse appena passato. Il cielo era plumbeo, avevo un gran caldo dentro casa, ma, al pensiero di uscire in strada rabbrividii fino alla punta dei capelli. Bevvi il mio caffè e ignorando il pacchetto di sigarette che stava sopra il tavolo urlando “prendimi”, mi diressi in bagno. La doccia. Quella ci voleva sempre dopo il caffè. Dopo aver fatto colazione, guardai l’orologio, erano solo le sette, avevo un’ora a mia disposizione e mi sembrò stupido prendere l’auto. Amavo andare a piedi. Amavo sentire la gente di prima mattina, chi urlava per il ritardo, chi invece se ne stava seduta su un gradino a sorseggiare il caffè dentro un bicchiere di cartone, chi era rimasto fuori a dormire e vagabondava per le strade.
«Tesoro!» Sentii l’urlo di mia madre e mi gelai sul posto. Chiusi gli occhi e cercando di dipingermi un sorriso in volto mi voltai.
«Mamma, che fai qui?»
«Oh tesoro! Sono ancora le sette! Credevo di trovarti a casa…sono passata per vedere come stavi, ieri avevi un po’ di tosse.» In effetti era vero, mi solleticava la gola da qualche giorno, ma ovviamente a lei non lo avevo detto e, ovviamente, lei lo aveva capito dalla mia voce.
«Sta’ tranquilla Mamma, sto bene. Sto per andare a lavoro. Ci vediamo uno di questi giorni…» Sussurrai allontanandomi di poco. Con lei era così o te la dava a gambe levate immediatamente, oppure dovevi stare lì per circa mezz’ora a sentirla ciarlare di quanto splendido sia preparare le torte. Torte al cioccolato, al limone, con le carote, mele, mandorle, nocciole, panna, crema al caffè. Mia madre amava fare le torte e tutti lo sapevano. Ogni anno partecipava ai vari concorsi che poi venivano registrati e messi in onda, ma lei non ha mai vinto, semplicemente perché ci sono altre persone più brave. Non le ho mai detto che le sue torte sono le migliori del mondo, in quel caso dovrei sparire dall’universo. Congedai mia mamma che scoppiò a ridere voltandosi dall’altro lato, per poi sparire tra i passanti.

 

«Mrs. Owen. So che è difficile, soprattutto quando in certe situazioni non ci siamo dentro ma, deve cercare di alzarsi, di reagire, sua figlia ha bisogno di questo…solo di questo, deve aiutarla, in questo modo, mi duole dirlo, ma sta peggiorando solo la situazione.» Sussurrai guardando gli occhi grigi della signora Owen, una donna sulla quarantina, era venuta da me qualche mese prima…inizialmente mi aveva chiesto “compagnia” solo per sfogarsi. Sua figlia, quindici anni, è stata violentata né lei né sua madre possono andare avanti dopo quel giorno. Non mi era mai capitata una cosa del genere, ma si sa è una cosa mostruosa, soprattutto quando la persona che compie il gesto è a piede libero pronto a colpire ancora.
«Dottoressa…io…» Balbettò un secondo prima di scoppiare a piangere. Mi alzai dalla poltrona e corsi ad abbracciarla, non potevo farlo in realtà, era vietato dal regolamento; niente relazioni con i pazienti, niente gesti o parole di affetto, dentro al posto di lavoro il paziente si tratta come un estraneo, anche se fa parte della famiglia. Si asciugò le lacrime su un fazzoletto di seta e la clessidra si fermò, segnando la fine dell’ora. Compilai la ricevuta e Mrs. Owen tirò fuori cinquanta euro. Erano solo le nove del mattino e avevo già una grande voglia di piangere. Capitava spesso che piangessi dopo la giornata lavorativa, i pensieri e le parole dei miei pazienti andavano via soltanto dopo una fumante tazza di tè al mirtillo, le mie amiche principalmente mi chiesero di mollare tutto, ma il punto era proprio qui, mi piaceva regalare sorrisi, mi piaceva avere la consapevolezza di essere capace ad aiutare le persone, quando stavo male per loro poi passava, e soltanto capendoli fino in fondo poteva aiutarli per davvero. In quel periodo trecento persone diverse venivano in studio, era stato una dei periodi lavorativi più proficui, il lavoro andava bene, ed io stavo bene con me stessa, fino a quel giorno, ovviamente. Per la pausa pranzo venne Rosalie, portò due panini imbottiti e parlammo per tutta l’ora della sua nuova fiamma “senza nome”, non mi rivelava mai il nome, non almeno fin quando la cosa non diventava ufficiale. Mi dispiacque molto salutarla; lei era una maestra d’asilo e i suoi orari non coincidevano mai con i miei, la vedevo poco ed era una delle cose che più odiavo. Io e Rosalie ci conoscemmo nel lontano millenovecento novantotto, entrambe avevamo diciotto anni, stavo portando a spasso il mio cagnolino Billy –ormai morto di vecchiaia- quando ad un certo punto il suo nipotino si mise a giocare con il mio cane, parlammo di tutto quel pomeriggio, continuammo ad incontrarci e dal quel giorno divenne l’amica più cara che avessi mai avuto. Rosalie era mia sorella, mia cugina, mia madre, il mio fidanzato, lei era tutto quello di cui avevo bisogno…forse ero pure dipendente da questo nostro legame indissolubile. Scesi le scale e misi la chiavetta sul distributore automatico, il caffè, di certo, non era il migliore del mondo…eppure ne avevo assolutamente bisogno.
«Papà?» Chiesi confusa mentre goffamente pulivo le mie labbra con la manica della maglia. Solo dopo mi resi conto del gesto che affettivamente avevo fatto. Era strano vedere lì mio padre, non ci vedevamo mai se non la domenica a pranzo. Amavo mio padre, ma non lo vedevo spesso a causa del lavoro, suo e mio, a causa anche della sua timidezza, nonostante fossi la figlia, non era l’uomo più aperto del mondo con me. Dovevo aver combinato qualcosa che in quel momento non ricordavo.
«Bells. Come stai?» Mi chiese sorridendomi. Sospirai di sollievo e mi avvicinai a lui abbracciandolo. Ero più tranquilla, quando doveva rimproverarmi lo faceva subito, in modo veloce ed efficace, arrivati al “come stai?” era tutta acqua passata. Non amava rimproverarmi, non amava riprendermi mentre sbagliavo. Voleva che crescessi da sola, inciampando sui miei piedi, lo voleva, ma non era riuscito a farlo…mi aveva viziato nel migliore dei modi, la cosa migliore, fu però il mio carattere…il mio modo di essere, se fossi stata un’altra persona, avrei approfittato di tutto ciò, invece mi ritrovai matura presto, mi ritrovai con la mente collocata al mio futuro e infine mi ritrovai sapendo cosa volevo nella vita.
«Sto bene. Che fai qui?»
«Ho dovuto lasciare una pratica importante tra le mani della nuova segretaria, ho un po’ di fretta a dire il vero…»
«Bè? Quindi? Hai bisogno di qualcosa?» Ero confusa fino al limite assoluto.
«Ho bisogno di qualcosa, sì. Ricordi Carlise? Il mio amico del liceo, quello che…»
«No papà. Carlisle non mi dice nulla.» Lo interruppi prima che cominciasse a raccontarmi di quanti dispetti facesse al liceo, aveva fretta disse qualche attimo prima, io invece dovevo accogliere un paziente tre minuti dopo.
«Bella. Carlisle Cullen. »
«Oh Papà! Il presidente! È ovvio che lo conosco, ma…Papà muoviti!» Dissi portandomi le mani tra i capelli, cominciavano a darmi fastidio anche gli occhiali sul naso.
«Suo figlio Bella. Ha dei problemi che nessuno psicologo riesce a guarire. Non so cosa abbia realmente. Gli serve uno psicologo potenziale ed io mi chiedevo se…»
«Portalo qui.» Mormorai cercando con lo sguardo l’agenda sulla scrivania.
«Domani alle tre?» Gli chiesi guardandolo con l’agenda aperta tra le mani.
«Bella lui è qui…» A quelle parole rimasi a bocca aperta. Ero allibita, per l’ennesima volta uno dei miei genitori mi aveva dato per scontato. Era come se mi avesse costretta ad accettare, se io mi fossi opposta, avrei dovuto comunque accettare, lui lì, con suo padre ed io non potei fare nulla se non annuire. Non dissi nulla a mio padre quel giorno, di certo, non sapevo cosa sarebbe successo di lì a qualche mese, forse in quel caso mi sarei gettata dalla finestra e basta. Mi sedetti sulla poltrona e attesi l’arrivo di quest’uomo, provai ad immaginarlo per qualche secondo, ma niente di quello che la mia mente aveva visualizzato gli rese giustizia.

I suoi passi erano pesanti, non appena udii quel rumore sinistro che provocavano mi alzai pronta ad affrontare lui e il fardello che si portava dietro. Testa china, braccia incollate al fianco, pugni chiusi, occhi rivolti al pavimento e quei passi…quei passi che mi fecero paura per qualche istante, mi sentii fuori posto in quel momento. Suo padre avanzava con la mano appoggiata alla spalla del figlio, un sorriso di circostanza dipinto in volto. Era Carlisle Cullen, un uomo che per certi aspetti avevo odiato, non mi piaceva molto il suo modo di “aiutare” il nostro paese, ma in quel momento pensai che suo figlio avesse bisogno di qualcuno, il presidente lo lasciai per secondo…forse la rabbia nei suoi confronti mi avrebbe aiutata nelle mie notti insonni.
«Buon pomeriggio signorina Swan.» Salutò educatamente Mr Cullen. Io mi inchinai a lui e mi sorrise in modo caldo. Indicò con gli occhi il figlio che non intendeva comunque alzare il viso o, per lo meno, fare qualche cenno di saluto alla sottoscritta.
«Lui è Edward…» Disse il padre chiaramente in imbarazzo.
«Prego, accomodatevi.» Sussurrai impaurita, non conoscendone il reale motivo. Non appena i due sparirono oltre la soglia del mio studio mi avvicinai alla sala d’aspetto, dove Mr. Sanderson aspettava che fosse chiamato da me. Spiegai lui la situazione e con gli occhi delusi accettò l’appuntamento di domani, ringraziai mentalmente Rosalie per avermi fatto tenere l’ora dell’indomani libera per un velocissimo giro in città, purtroppo però l’avevo riempita adesso. “Pazienza” mi ripetei rientrando nel mio studio. Edward Cullen aveva ancora la testa china e sinceramente quella cosa alterava i miei nervi in maniera mostruosa. Mi sedetti al mio posto e guardai gli occhi azzurri di Mr. Cullen, erano cordiali…quasi rassicuranti…già dal primo giorno cercò in anticipo di chiedermi scusa con un semplice sguardo. Non mi sentii a mio agio in quei pochi secondi e forse dal quel giorno non mi ci sentii mai. Restammo tutti e tre in silenzio, mio padre era già tornato a lavoro. Alzai gli occhi al cielo e mi schiarii la voce.
«Mi chiamo Isabella Swan e faccio la psicologa da cinque anni. Il mio intento non è curare le persone, anche perché, sono del parere che chi viene qua non sia malato ma, che venga qua per avere lo stimolo adatto per tornare sui propri passi. Io ascolto, consiglio e poi giudico. Solitamente le sedute durano un’ora, dipende sempre e comunque dalle esigenze dei pazienti, può essere dimezzata o prolungata.» Dissi per la millesima volta nella mia vita. Quello era il mio solito modo di presentarmi a gente nuova e di solito la gente mi sorrideva o, rispondeva subito dicendo che sapeva già tutto sul mio metodo. Mr. Cullen invece annuì solamente.
«Credo che per oggi un’ora basti. Se non è troppo chiederlo vorrei che fosse lei a decidere quanto Edward abbia bisogno.» Rimasi un attimo interdetta, non era questione di riuscire a capire quanto tempo avessero bisogno i clienti, erano semplicemente loro che decidevano quanto voler stare qui dentro. Annuii rendendomi conto che non c’era nient’altro da fare. Lui si congedò e disse a Edward che lo avrebbe aspettato fuori, il figlio annuì ed io tirai un sospiro di sollievo nel vedere che almeno a quello aveva reagito. “Pazienza” mi ripetei ancora.
Tutto a un tratto la stanza divenne fredda, era come se la sua presenza potesse annullare ogni cipiglio di serenità. Non sapevo come riuscire a rompere quel cumulo di ghiaccio che si era creato in pochi attimi, si era posto in mezzo allo spazio che ci divideva. Mi sentivo in imbarazzo come mai prima di allora, afferrai il mio taccuino e la biro e lo guardai, vedendo soltanto i suoi capelli bronzei scarmigliati.
«Mi sono laureata in psicologia cinque anni fa…ho sempre amato questo lavoro, era il mio sogno nel cassetto…» Cominciai a parlare in quel modo per la prima volta in vita mia, solitamente non facevo neanche in tempo a sfilare la penna dalla borsa che le persone iniziavano a sfogarsi, io dovevo solo annuire…quella volta cambiai metodo e capii che era l’unico modo per riuscire a lavorare con lui. Gli raccontai dell’università, rivelai di me più di quanto io stessa potessi mai immaginare. Ogni tanto sistemavo gli occhiali che scivolavano dal mio naso più del previsto e ogni qualvolta guardavo il suo viso, che non appena avevo cominciato a parlare aveva alzato, non avevo ancora avuto il piacere di vedere i suoi occhi però, erano chiusi, anzi, sigillati. Non aveva traccia di curiosità nel viso, non aveva alcuna espressione. Mi fece paura, non di quella che si intende con il proprio termine, paura di fallire con questa missione, di non riuscire a concludere nulla. Odiavo sentirmi così, ho odiato in primis il momento in cui mi resi conto che già dal primo giorno le mie paure non erano propriamente infondate. Fermai la voce e lo guardai con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Non era obbligato a venire qui, Mr. Cullen, è passata solo mezz’ora ma può sempre tornare a casa…»
«Edward. Mi chiamo Edward.» Mormorò finalmente aprendo le palpebre, il suo sguardo mi colpì come uno schiaffo dritto in faccia. I suoi occhi erano verdi, erano piccoli e poco lucenti, notai la loro bellezza estasiata, ma solo in secondo tempo riuscii a leggerli come mio solito e mi spaventai. Vidi pura paura, senso di abbandono, rabbia, dolore…i suoi occhi erano affondati in un mare di tenebre. Chiusi i miei occhi di scatto ma riuscii a mantenere l’espressione tranquilla.
«Bene, Edward.» Dissi guardando le sue labbra. Era uno degli uomini più belli che avevo mai visto. La sua pelle sembrava morbida come quella di un neonato e mi faceva tenerezza, mi sarebbe piaciuto abbracciarlo, cullarlo e forse…forse anche dargli un bacio.
«Mi parli un po’ di lei, se vuole…dobbiamo cercare di conoscerci se vogliamo andare avanti…okay?» Gli chiesi sorridendogli dolcemente. Lui annuì e mi guardo le mani.
«Non…possiamo darci del tu?»
«Ma certo.» Dissi fermamente convinta e sollevata da quel suo comportamento inaspettato.
«Non scrivere però…non…»
«D’accordo!» Esclamai mettendo il taccuino sul cassetto. Lo guardai e lo incitai a parlare con il suo sguardo, adesso morbido e caldo…forse lo sguardo di prima era stato solo una mia impressione…adesso quello sguardo agghiacciante era sparito totalmente.
«Mio padre crede di aiutarmi sballottandomi da uno psicologo ad un altro. Non so qual è il mio problema e mi dispiace che questa volta sia toccata a te la patata bollente. È testardo e decide sempre lui per gli altri.»
«Di cosa ti occupi Edward?» Domandai rimanendo perplessa…diceva di essere una persona senza alcun problema…eppure quando arrivò nel mio studio sembrava tutt’altro.
«Di niente. Mio padre è ricco, credo che anche le zanzare siano a conoscenza della sua ricchezza, di rimando non vuole che noi figli lavoriamo.»
«Hai fratelli?»
«Ho una sorella, gemella.»
«Ho capito. Quindi non vuoi più venire qui?»
«Dovresti chiederlo a mio padre.» Era visibilmente arrabbiato ogni volta che nominava il padre.
«Sei tu che decidi qui Edward, non lui. Se tu ritieni che non sia necessario venire qui, allora ci parlo io con tuo padre.»
«No. Non è necessario.» Disse prima di scoppiare a piangere. Strizzai gli occhi e non potei fare a meno di alzarmi dalla poltrona e avvicinarmi a lui. Accarezzai la sua schiena e solo dopo qualche secondo mi accorsi dei miei capelli che solleticavano il suo viso, si calmò subito e guardò i miei occhi.
«Edward, ascoltami, io voglio aiutarti. Non fare così, dimmi tutto, tira fuori tutto quello che c’è dentro di te, io sono qui per questo.» Mormorai sicura come non mai delle mie parole.
«Isabella…mi dispiace…io…» Scossi la testa e gli sorrisi. La clessidra segnò la fine dell’ora e dentro di me mi dispiacque parecchio. Lo salutai e lui mi ringraziò dicendomi che ci saremmo visti nei prossimi due giorni. Suo padre lo aspettava in macchina, credevo che sarebbe rimasto sopra per sapere qualcosa…c’era qualcosa di strano nel legame tra padre e figlio…mi sentivo di troppo a pensarlo eppure non potevo farne a meno. Mi avvicinai alla finestra e lo vidi che mi fissava dall’interno dell’auto, non potei togliere lo sguardo da lui, tutto di quell’uomo mi suonava interessante. Lui continuava a guardarmi e sorrideva, nella stanza c’era ancora freddo ma quello che aveva appena fatto riuscì a scaldarmi il cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ebbene, ce l’ho, stranamente, fatta.
Il capitolo è uno dei più corti (a parte i prologhi) che io abbia mai scritto, ma credo che dentro ci sia tutto quello che deve esserci in un primo capitolo.
Spero che la storia incuriosisca e per qualsiasi cosa io sono qui ad accettare i vostri pareri.
La storia verrà aggiornata ogni Venerdì…dovrei farcela ;) Come molti di voi sanno ne ho due in corso…ma voglio provarci lo stesso.
Grazie.
Un bacione,

 

Roby <3

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Because I see in you what you yourself do not see. ***


In the mosaic.

 

Because I see in you what you yourself do not see.

 

 

 

 

 

Quella mattina Amsterdam aveva ospitato la neve assieme ai suoi soliti passanti, raggelati e di fretta. Amsterdam non era la città che tutti raccontavano, ma come ogni città che esiste al mondo; non per niente la gente dice “ogni città è paese”. Amsterdam aveva parecchie storie da raccontare…come me ad esempio. Era domenica quella volta e con un sonoro sbuffo scesi i gradini e salii in macchina con malavoglia. Amavo i miei genitori, nonostante erano consapevoli di rubarmi l’unico giorno libero a mia disposizione. Il mio problema era sempre stato il non sapere dire di no, avevo sempre accontentato tutti e questo mio difetto, ebbene lo consideravo un difetto di quelli peggiori e ne avevo molti, molte volte mi aveva portato in un punto finito, dove non c’era nulla che io potessi fare o dire, dove mi ero persa nel mio famoso bicchiere d’acqua. Odiavo quel lato di me, odiavo anche me stessa il più delle volte. Arrivai a casa di mia madre alle undici, nonostante dovevo solo pranzarci, non mi era mai piaciuto arrivare a casa della gente per l’ora di pranzo, potevo dare l’impressione che fossi lì soltanto per mangiare. Mia madre era, come sempre, indaffarata a cucinare per un regimento di soldati, quando ogni volta eravamo sempre i soliti, io, lei, papà e Rose. Nemmeno Rose riusciva a dire di no a mia madre, il più delle volte persuasiva rivolto nei suoi confronti era un eufemismo fatto e finito. Mio padre era stravaccato sul divano a guardare i programmi sportivi, salii le scale e andai in quella che una volta era camera mia. C’erano ancora le fotografie dei miei vecchi amici, quelli che ho perso a causa dello studio, altri si sono trasferiti e altri ancora hanno preso strade opposte alla mia. Sfiorai con l’indice una foto che ritraeva me e Allyson, io lei e Rose eravamo ottime amiche, almeno fino al primo superiore. Ci rimasi di merda quando si allontanò definitivamente…e il mio cuore perse un battito quando venni a conoscenza di quello che fece della sua vita. Aveva abbandonato gli studi, nonostante io e Rosalie continuavamo a volerle stare accanto, anche se aveva uno spinello tra le mani, anche se lei ci guardava come se fossimo delle scolarette per il quale bisognava stare alla larga. Allyson batteva nella strada principale vicino all’aeroporto, Allyson aveva abortito tre volte nel giro di quattro anni, Allyson aveva perso l’orientamento che conduce alla retta via, Allyson amava la droga, lo sballo, Allyson si era allontanata da noi e aveva inconsapevolmente rovinato la sua vita. Ogni tanto la vedevo girare nel parco dove si affacciava il mio studio e, quelle poche volte, che il nostro sguardo si incontrava nei suoi occhi c’era puro odio. Mi voltai vicino alla finestra e mi incantai a guardare i fiocchi di neve che amabilmente scendevano dal cielo. Chissà perché in quel preciso istante mi venne in mente Edward Cullen. L’avevo visto solo due volte ed ero assolutamente consapevole che fossero poche, ma a essere sincera in lui non ci avevo ancora capito una mazza. Avevo solo capito che gli piaceva starsene in silenzio ed era in quei momenti che mi veniva in mente che pensavo: “che diavolo viene a fare nel mio studio se non parla?” non potevo fare niente con lui, fin quando non mi diceva cosa in realtà lo turbasse, avevo le mani legate. Il padre non si era fatto vivo e con lui nemmeno i suoi soldi, ma era amico di mio padre e quindi mi fidavo. Anche se, molte volte i soldi mi importavano meno di zero. In pochissime ore mi ero accorta di quanto quel ragazzo mi attraeva. Non appena si muoveva, il mio corpo era percosso da brividi, le sue mani…Dio le sue mani riuscivano a scaturire in me pensieri davvero poco puri che molte volte non facevano che farmi vergognare di me stessa. Edward mi piaceva e non poco, forse era anche per quello che volevo assolutamente sapere cosa c’era che non andava in lui, dentro il suo cuore e alla sua mente soprattutto. Scesi le scale con l’espressione più imbronciata che potessi fare e raggiunsi mio padre. Mi sedetti sul divano al suo fianco, nonostante lo spazio fosse ridotto a causa della sua posizione da “oggi sono libero e non mi va di fare nulla” e lo guardai, come facevo sempre quando volevo ottenere qualcosa da lui. La regola per volere qualcosa da mio padre era: pretendilo ma non farglielo capire.
«Dimmi Bells.» Infatti mormorò, con il sorriso sulle labbra.
«Come va a lavoro? »
«Può sempre andare peggio…» Disse sorridendomi. La maggior parte dei clienti di mio padre avevano casi da grattacapo…si vociferava che lui fosse uno degli avvocati migliori della città e, in automatico, tutte le persone che avevano cause difficili da affrontare si rivolgevano a lui.
«Senti papà…»
«Bella, Carlisle mi ha detto che domani sul tuo conto avrai mille euro accreditati, per le due sedute e per quelle che avverranno in futuro…»
«Ma papà…sono venti sedute!»
«E?»
«Sono troppe! Soprattutto se la persona in questione non fa nulla per risolvere dei problemi che in certi momenti non crede di avere, e in altri invece sì!» Sbottai arrabbiata! Ero io, sempre e solo io, che decidevo il numero delle sedute necessarie, soltanto io potevo rendermi conto se il paziente fosse in parte tornato in sé. Potevano passare settimane, mesi, anni…e per Edward che non voleva essere aiutato, tendendo presente ciò che lui stesso mi aveva fatto intendere. Non costringevo nessuno, erano gli altri a volere il mio aiuto.
«Bella, ascolta…Carlisle ha bisogno di essere aiutato con Edward…vedi sono anni che è così…così…disturbato…»
«Papà! Edward è sano! È tranquillo! Cosa diamine vi fa credere che lui non sia normale?» Urlai alzandomi di fronte a lui che aveva spento la tv e si era rivolto completamente verso di me.
«Bella…sua madre è morta quando lui era piccolo, aveva solo nove anni. Suo padre all’inizio sapeva che poteva prenderla come uno shock, così come per la sorella, Alice…fino ai tredici anni Edward si comportava in modo normale…ma non appena cominciarono le scuole medie, il ragazzo cambiò. Ricordo ancora quando all’inizio di tutto questo Carlisle si confidava con me…Edward aveva smesso di mangiare all’inizio, tant’è che parecchie volte finì in ospedale. Non parlava più, ogni tanto lo sentivano mormorare nella sua camera ma, mai sentirono realmente la sua voce, solamente i professori riuscivano a parlare con lui e, gli stessi, dicevano a Carlisle che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che Edward era un ragazzo come molti, almeno nell’ambiente scolastico. Ricominciò a parlare con la sua famiglia il giorno della sua Laurea, il giorno dopo fece un disastroso tentativo di suicidarsi. Carlisle da quel giorno, oltre ad essere stato costretto dal primario del reparto in cui Edward era stato ricoverato a causa dei suoi maldestri tagli sui polsi, decise che comunque Edward aveva bisogno di uno psicologo. Ne girarono un’infinità e ogni volta che Carlisle mi avvertiva di aver fallito l’ennesima volta io mi sentivo in colpa. Conosco mia figlia, conosco il suo lavoro e, soprattutto, sono sicuro che solamente tu riuscirai ad aiutare realmente Edward. Bella, io la vedo in te, la voglia di aiutare la gente che ti parte dal profondo del cuore, la vedo la delusione quando pensi che qualcosa con i tuoi pazienti potrebbe andare storto…e la vedo anche adesso…la voglia che hai di rompermi un vaso in faccia perché sto affermando la verità. Consigliai te a Carlisle e ora siamo qui.» Disse con una strana agitazione in volto.
«Papà…io non credevo che…senti, non ti prometto nulla…solo…ci proverò.»
«Bene.» Mormorò.
«Cerca di conoscerlo anche fuori dal lavoro…tipo una cena…un drink o…»
«Papà! »
«Insomma! Non puoi dire che sia un brutto ragazzo » Esclamò con la faccia fintamente inorridita.
«No…Edward è bellissimo…» Sussurrai rendendomene conto solo dopo colorando la mia faccia di rosso peperone. Mio padre si schiarì la voce imbarazzata e si alzò nello stesso tempo in cui suonò il campanello. Sarà Rosalie, pensai mentre andai in cucina. C’era il caos totale: piatti impilati per essere portati a tavola dappertutto, i bicchieri di cristallo che mia madre usava solo ed esclusivamente per ospiti speciali, teglie di cannelloni ripieni sul bancone, tre torte diverse, un tacchino intero con contorno di patate e wurstel, spinaci con mozzarella, pesce marinato.
«Mamma!» Esclamai con la tentazione di aggrappare le mie dita ai capelli.
«Bella, ascolta, abbiamo ospiti non possiamo fare certe figure.»
«Mamma, è solo Rose.» Dissi prendendola in giro mentre afferrai una patata calda con le dita, bruciandomele assieme alla lingua.
«No! Non so come mai non te l’abbia detto, Rose non viene. Abbiamo Carlisle Cullen e i suoi figli a pranzo…» Mi sentì raggelare il sangue senza conoscerne esattamente il motivo. Insomma cosa c’era da preoccuparsi tanto? Forse solo il fatto che vedere Edward in un posto che non era il mio studio era la cosa più eccitante del mondo? Sì, forse era per quello. Sentii la voce di Carlisle e feci un respiro profondo, una parte di me voleva passare l’intera giornata a contemplare la magnifica bellezza di quell’uomo…un’altra parte invece sperava che lui non ci fosse. Mi affacciai dalla soglia della cucina e lo vidi; era di spalle, indossava un paio di Jeans e una camicia di seta bianca che racchiudeva i muscoli delle sue braccia in modo meraviglioso. Il solito calore che mi coglieva di sorpresa ogni qualvolta che la mia mente vedeva o immaginava Edward mi colse anche quel giorno, in quel preciso istante. Avevo una voglia tremenda di fare la pipì, ma, ovviamente non era quello il mio problema. Mi avvicinai agli ospiti, tanto valeva farlo subito.
«Benvenuti!» Esclamai con finto entusiasmo, che, dal sorriso di mio padre significò messo in scena perfettamente.
«Isabella…» Sussurrò Edward sorridendomi, sempre con quel suo modo strano…quel modo che non contagia gli occhi, quel modo che ha di voler sorridere con tutto se stesso ma non poterlo potenzialmente fare. Erano quelli i momenti che il mio corpo e la mia mente erano ipnotizzati da lui, ero sicura al cento per cento che se in quel preciso istante mi avesse chiesto di saltellare per tutta la stanza con una gamba sola io l’avrei fatto.  Abbassai lo sguardo imbarazzata e mi avvicinai al padre e a quella che doveva essere sua sorella: Alice.
«Che piacere dottoressa Swan.» Si inchinò Carlisle io lo guardai lusingata ma subito mi ridestai, non amavo quei trattamenti, o forse sì, solo che non riuscivo ad accettarlo. Alzai gli occhi al cielo, rendendomi conto ancora una volta della potenza della presenza di Edward in me, avevo il cervello in panne, non riuscivo a controllare i miei sentimenti e, soprattutto, non riuscivo a decidere cosa voler fare, era l’istinto che comandava, ed io ero pro alla ragione, su tutti i campi.
«Isabella, fuori dallo studio.» Mormorai tornando in me. Alice si presentò con il suo sorriso genuino e la sua voce squillante, assolutamente diversa dal fratello. Durante il pranzo, il quale ero seduta affianco a Edward, mi chiesi più volte se fossero davvero fratelli. Lei era molto diversa, lei era una persona apparentemente felice, tranquilla. Sorrideva, parlava continuamente, si interessava alle conversazioni intervenendo con la sua mente brillante…Edward, dal suo canto, se ne stava seduto in silenzio…fin quando, mia madre, -che non sapeva assolutamente nulla del nostro rapporto poiché, mio padre mi aveva assolutamente proibito di parlarne con lei con un motivo a me sconosciuto – parlò direttamente con lui.
«Cosa fai tu nella vita?» Chiese con la sua voce calda e affettuosa.
«Niente. Non mi chieda il perché. Non mi chieda come mai non lavoro se sono laureato in medicina, lo chieda a mio padre, invece…» Disse con la sua voce gelida, facendo tramortire mia madre, cosa che non accadeva mai se non una volta ogni cento anni.
«Scusami…io…non…» Balbettò lei, avevamo consumato anche il dessert, il pranzo era totalmente finito, mi venne la geniale idea di alzarmi dal tavolo, ma restai pietrificata, forse era solo la curiosità…o forse era solo il polo Edward ed io la calamita Bella.
«No. Mi scusi lei…ecco io…» Balbettò anche lui che aveva perso la sicurezza di poco prima. Vidi suo padre guardarlo torvo, mentre lui aveva la testa china, come se volesse scoppiare a piangere da un momento all’altro. Non so dove presi una certa sicurezza ma accadde, presi la mano di Edward invitandolo ad alzarsi e lo fece, come se fosse un cagnolino al guinzaglio, salimmo le scale e lo portai in quel posto dove potevo sentirmi me stessa, potente, dove riuscivo a calmarmi e a razionalizzare i miei pensieri quando ero solo un’adolescente. Questo era Edward per me, era un adolescente con una crisi adolescenziale in corso, sembrava un pulcino abbandonato e mai come quella volta mi fece tanta tenerezza. Accarezzai il suo braccio ed entrammo dentro la piccola mansarda che ospitava i miei vecchi giocattoli, libri, patti e bicchieri in eccesso, coperte, stufe…c’era anche una piccola panca e ci accomodammo restò in silenzio fin quando non mi colse alla sprovvista. Mi abbracciò così forte che mi parve di soffocare per un istante, accarezzai i suoi capelli che solleticavano il mio collo e poi lo sentii, quel rumore che mi lacerò il cuore quella e, tante altre volte, i suoi singhiozzi, suoni acuti e terribili, sentii la mia gola ardere di rabbia senza averne motivo alcuno, e una lacrima solcò il mio viso. Rimanemmo in quella posizione per quelle che parvero due ore e non appena si fu calmato si addormentò con la testa sulle mie gambe. Non capii subito il perché, ma sentivo che forse questa non era la mia sconfitta, che forse potevo aiutare quest’uomo, che insieme ce l’avremmo fatta, che gli sarebbe bastato dirmi solo una piccola parte di ciò che lo tormentava e insieme saremmo riusciti a farlo uscire da questo limbo che non conosceva la pace. Edward era un uomo internamente solo, Edward non sapeva camminare eppure già pretendeva di correre, Edward, ne ero sicura, non aveva un semplice disturbo, c’era qualcosa all’interno del suo cuore che lo aveva marchiato, la sua mente possedeva un tarlo più grande della sua anima.
«Ce la faremo…» Mormorai bagnando il suo bellissimo volto con una lacrima. Avevo paura, lo avevo ammesso a me stessa…eppure qualcosa mi diceva che valeva la pena aiutarlo, lottare, andare avanti. Edward non viveva adesso, Edward più avanti lo avrebbe fatto. Ero più tranquilla…ma, ovviamente non ero consapevole che Edward sì che ce l’avrebbe fatta, ma alzandosi lui avrebbe fatto cadere qualcun altro.
I suoi occhi si aprirono e ci trovammo faccia a faccia, con gli sguardi mescolati. Vedevo il suo tormento, vedevo che il sole da quelle parti non esisteva più, vedevo la felicità lasciarlo solo in un prato, vedevo il suo sorriso, quello vero, ormai estinto.
«Non dormivo…» Sussurrò tranquillo. Lo guardai e non mi preoccupai di quel piccolo dettaglio.
«Devi aprirti con me Edward, devi farlo. Se vuoi mettere fino a questa situazione confusionale, devi farlo…se non ti piaccio io puoi sempre cambiare, ma ti prego, permetti a qualcuno di aiutarti!» Dissi mentre la mia voce si affievoliva piano piano.
«Con te non posso.» Disse spezzandomi il cuore facendomi intendere che non si fidava per niente di me e non riuscii ad arrabbiarmi.
«Perché non puoi?» una lacrima solcò il mio viso.
«Perché, sembra strano, sei importante Isabella…»
«Bella chiamami Bella…» Pentendomi immediatamente di averlo interrotto, quando, forse, finalmente stava dicendo qualcosa che poteva tirarmi su il morale.
«Bella, non voglio trascinarti in questo schifo.»
«Non c’è niente di te che fa schifo.»
«Sì…ma tu se testarda, me ne sono reso conto subito, la prima volta che ti ho visto.»
«Edward…io voglio aiutarti, io credo in te.»
«Come fai a credere in me se nemmeno io ci credo?»
«Sai perché?» Dissi sicura come mai nella mia vita, prendendogli il viso tra le mani. «Perché io vedo in te quello che tu stesso non riesci a vedere.»

 

 

 

 

 

Eccomi!!! Perdonate il ritardo, sono una cogliona -.-
Purtroppo ho avuto una settimana difficile, un lutto e cose varie che non sto lì a buttar giù, annoiandovi più di quanto non abbia già fatto il capitolo :D

 

 

 

Spero con tutto il cuore che continuerete a seguire questa storia, per me davvero importante.

A venerdì…I promise.

Roby <3

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Irrational. ***


In the mosaic.

 

 

 

 

Irrational.

 

 

 

 

 

Non riuscivo a prendere sonno quella notte, forse era per il semplice fatto che avrei incontrato Edward Cullen anche quel Lunedì. Dovetti ammettere a me stessa, parecchie volte, che mi faceva paura…il giorno prima di incontrarlo la mia mente veniva presa dall’ansia, avrei dovuto immaginare più o meno la causa…il problema era proprio quello, non ne avevo idea. Avevo pensato più volte fossero delle coincidenze…quella di quella sera, ad esempio, era che comunque fino a qualche ora prima eravamo insieme. Al pensiero di lui, abbandonato con la testa sulle mie gambe e il suo viso…quel viso che avrei contemplato mille volte, era finalmente rilassato.
Edward era parecchio strano.
Edward aveva bisogno di qualcuno che lo spronasse a parlare.
Edward si sentiva solo.
Edward si credeva inutile.
Edward sembrava un piccolo sasso circondato da miliardi di chicchi di sabbia.

E quella volta, come sempre sul conto di Edward sperai che tutto potesse andare per il verso giusto. Quello che non riuscii mai a capire era quanto pericoloso fosse stato. Lui. La sua presenza. Il suo passato.
Mi rigirai tra le lenzuola cercando di pensare a qualcosa che potesse farmi addormentare, erano le tre del mattino dopo cinque ore avrei cominciato a lavorare. Ovviamente il contare le pecore non mi aiutò nemmeno quella volta…tutt’a un tratto, nei miei occhi chiusi, visualizzai due occhi verdi, pieni di rancore, fallimento, ansia…un brivido mi percosse, quel brivido rimase a cullarmi quando finalmente il mio respiro si fece pesante, quel brivido sarebbe rimasto fino a quando Edward avrebbe invaso in quel modo i miei pensieri. Quando mi svegliai, con la mia solita abitudine, vidi la mia pelle ricoperta dai brividi. “È il freddo” pensai. Ma all’interno del mio cappotto, con le calze di lana alle gambe nella metropolitana, quei brividi rimasero lì, come per visione di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Arrivai in ufficio in anticipo di dieci minuti, afferrai il mio cellulare, il quale non visualizzavo lo schermo da ieri a pranzo e ci trovai undici messaggi di Rose. In alcuni mi avvertiva del motivo per il quale era mancata a pranzo il giorno prima, gli altri erano delle foto. Pigiai il dito sopra la piccola diapositiva e mentre aspettai che si caricasse il Signor Dumond fece capolino nel mio ufficio. Guardai l’orologio e mancavano cinque minuti alle otto. Tirai un sospiro udibile solo a me stessa e sfoderai il mio sorriso rincuorante.
«Si accomodi.» Lui lo fece e cominciò a raccontarmi di quanto bella fosse l’Australia. Molti erano guariti ma avevano chiesto la mia consulenza oltre per il semplice fatto che mi si erano affezionati. Non approvavo ciò, difatti quando nuovi clienti venivano a bussarmi alla porta io mandavo via quelli che già erano tornati a essere quelli di sempre. Ogni volta mi si spezzava il cuore, nonostante promettessi a tutti quanti che mai ci saremmo persi di vista. Un senso di tristezza mi pervase quando realizzai che tra qualche mese avrei fatto lo stesso con Edward. Mi schiarii la voce e dopo cinque ore mi preparai mentalmente all’entrata di Edward. Mi mozzò il fiato, come sempre, nei suoi jeans e camicia nera, con i suoi capelli ramati che avevano voglia di essere messi al guinzaglio talmente erano ribelli, e poi i suoi occhi…quelli che fino a quel momento non mi avevano mai lasciata un attimo.

Gli occhi di Edward, molte volte, mi fecero paura, ma erano soltanto loro che riuscivano a darmi libero accesso a lui, alla sua anima.
«Ciao.» Mi disse sorridendomi, quel sorriso che ogni santissima volta faceva rotolare su se stesso il mio cuore.
«Buongiorno Edward, accomodati pure.» Nell’abbassare lo sguardo mi accorsi che i miei collant ultra-resistenti si erano sfilati, rivelando gran parte della mia gamba. Arrossii violentemente e mi aggiustai gli occhiali…ero solita a farlo quando su di me calava il più totale imbarazzo. “Chissà come diavolo si saranno strappati…” Dissi tra me, per poi continuare “Possibile che il suo sguardo intenso possa fare questo?” risi di me come un’adolescente che sogna ad occhi aperti. Era finito quel tempo per me, prima ancora di rendermi conto che era appena cominciato. Scossi la testa e guardai Edward che, come suo solito, stava in silenzio. Immersi il mio sguardo nel suo e mi accorsi che nel suo sguardo c’era molta nostalgia. Chissà di cosa. Afferrai il mio amato taccuino e stirai le mie braccia.
«Si invecchia mio caro Edward.» Dissi ironicamente, per smorzare un po’ di tensione.
«Resti comunque bellissima.» Mormorò come se quella fosse la cosa più ovvia da dire in quel preciso attimo. Abbassai per l’ennesima volta il mio sguardo e mi aggiustai le lenti…appunto.
«G-g-grazie…Edward, però tu lo sai…devi dirmi qualcosa. Non posso aiutarti se tu non mi dai qualcosa per farlo.» Sussurrai senza guardarlo, dovetti ammettere a me stessa che le sue reazioni erano imprevedibili e a me l’imprevedibilità metteva terrore…almeno fino ad allora.
«Perché sei così ostinata a volerlo fare?» Mi chiese dolcemente.
«Perché tu sei qui…non per conversare con me o per farmi compagnia. Questo è il mio lavoro ed aiutarti è il mio compito.» Dissi pentendomene nell’instante in cui la sua espressione si fece delusa.
«Ovviamente non è solo quello…insomma, lo sai…mi sono affezionata a te e…»
«Io vedo in te ciò che tu stesso non riesci a vedere. Me lo hai detto ieri. Cosa vedi Bella?» Mi chiese con una nota di stupore nella voce. Guardai i suoi occhi…giacché mi parse di riuscire a comunicare solo con loro…dopo qualche secondo però chiusi i miei con uno scatto veloce. Edward odiava. Edward conteneva dentro di sé mostruosità che non dava a vedere ma che i suoi occhi mi comunicavano. Rabbrividii e aprii gli occhi. Dovevo farcela.

Quel giorno per me fu come cercare di vincere in quella sfida e ce la feci, per un attimo ce la feci davvero. Solo dopo, ovviamente, mi resi conto che vincere con Edward presto sarebbe stata solamente la mia peggiore sconfitta.
«Ieri mi hai detto  che non vuoi trascinarmi in quello che io chiamo il tuo tormento e che tu chiami schifo. Dimmi il perché…cominciamo da questo.» Dissi sicura di me.
«Non scriverlo però.» Lo accontentai immediatamente, posai il mio taccuino sulla scrivania e aspettai con ansia ciò che aveva da dire.
«Non…» Balbettò parole incomprensibili per parecchi minuti e poi mi trafisse con gli occhi, dopo qualche minuto mi sorrise, facendomi dimenticare il mio nome, dandomi quella forza che senza quel sorriso non avrei mai avuto.
«Forza Edward, avanti dai…» Dissi incitandolo a continuare, facendogli capire con il mio tono caldo che io ero lì per ascoltarlo, senza giudicare, usando le sue parole come toccasana per lui stesso.
«Sono stato fidanzato tre volte…Bella, tre volte, tutte e tre le volte sono scappate via.»
«Cosa c’entra questo?» Dissi irritandomi, confusa, arricciai le labbra e mi chiesi perché quello che aveva appena detto aveva ferito qualcosa all’interno di me stessa.

Quello che aveva ferito quella volta e altre volte, lo capii, ma solo alla chiusura di tutto quello che avevamo vissuto.
«Ti da fastidio.» Sentenziò con quel sorriso furbo.
«Perché dovrebbe?»
«Non lo so. Ma lo vedo, lo sento, la tua pelle è ricoperta di brividi Bella.» Non so come fece a capirlo, poiché indossavo un maglione piuttosto coprente, le mie gambe erano fasciate dalle calze di lana, ad eccezione di quel piccolo strappo…rimasi comunque a guardarlo e dopo pochi minuti si alzò.
«È uno schifo. Il mio passato, come il mio futuro e il mio presente è uno schifo. Non posso dirti il perché…forse non lo so bene nemmeno io. Sta di fatto che la gente scappa sempre via da me. Alla fine, comunque vada, tutti mi abbandonano. Non voglio che mi succeda anche con te. Devo andare.» Sussurrò. Mi alzai e mi avvicinai pericolosamente a lui.
«Manca mezz’ora!» Dissi stufa del suo repentino cambiamento d’umore.
«Devo andare. Stop. Non voglio venirci più qui dentro, porca troia, me ne vado okay?» Urlò talmente forte che le mie guance divennero rosse per la rabbia. Mentre vedevo la sua sagoma uscire dallo studio mormorai un vaffanculo pieno di risentimento. Sbuffai mentre mi passavo una mano tra i capelli e una lacrima si fece largo sul mio viso. Non capivo il suo comportamento e in quel momento non riuscivo a capire nemmeno il mio. Non era stabile, come non lo ero io da quando era entrato nella mia vita. Edward Cullen non aveva un solo fardello dietro…oltre a quelli c’erano pure gli anni passati che avevano scavato all’interno della sua mente, mentre la sua corazza diventava indistruttibile. Mi alzai dalla sedia e con un movimento fulmineo gettai per terra tutto quello che c’era sulla scrivania. Urlai per tanto, troppo tempo, fin quando stremata mi accasciai al pavimento, mi calmai – come sempre – dopo essermi accarezza gli occhi con l’indice, mentre la mia voce sussurrava Always dei Bon Jovi.

Non capii mai la natura di quel tipo di comportamento che s’impossessava di me, capii soltanto che era l’effetto che Edward aveva su di me…ma, sfortunatamente, non mi causava solo quello.

 

 

 

«Non è possibile Bella! Devi parlare con suo padre…o, meglio, con il tuo! Non è una cosa che può continuare Bella, assolutamente!» Urlò Rosalie nella cucina di casa mia, dopo che mi ero sfogata con lei. Fortunatamente, nel momento in cui avevo più bisogno di qualcuno, lei c’era. Non avevo di certo previsto la ramanzina. La guardai con gli occhi pieni di lacrime.
Alla fine, comunque vada, tutti mi abbandonano.”
E non potevo farlo anch’io…non dopo essermi affezionata così tanto a lui, non dopo aver capito il modo per farlo parlare almeno un pochino con me.
«Non posso Rosalie…»
«Ti farai male Bella.» Disse per poi da casa mia sbattendo la porta come se avesse voluto darmi un ceffone. Conoscevo come il palmo della mia mano Rosalie, e l’unico modo per avere un suo sorriso sarebbe stato accontentarla. L’avevo sempre fatto fino a quella volta, poiché Rosalie mirava sempre per il mio bene…quella volta invece non ce la feci. Il pensiero di tradire Edward comprimeva nel mio petto un dolore mai provato prima, un dolore per il quale mi sarei fatta male, un dolore per la quale presto ne sarei diventata dipendente. Restai accoccolata sul divano con le lacrime agli occhi per tutta la sera, non riuscivo a pensare in modo coerente, tutto ciò che la mia mente produceva era il senso di colpa che mi avrebbe schiacciata dal momento in cui avrei deciso di non volerlo più nel mio studio.
Tutto quello era irrazionale, ed io odiavo l’irrazionalità, e in quel preciso instante, non per l’ultima volta, mi chiesi perché non odiavo anche il pensiero di Edward, totalmente e incondizionatamente irrazionale. Avevo paura, ma non più paura di lui e del suo passato, avevo paura che quella mattina sarebbe stata l’ultima volta che i miei occhi avrebbero incontrato i suoi. Quegli occhi che oscuravano il suo sole, perché ognuno di noi ne possiede uno all’interno dell’anima, quegli occhi che mi facevano rabbrividire, avevo bisogno di guardare attraverso quel portale, era l’unico modo, l’unica via che poteva condurmi a lui, a tutto ciò che catturava la sua mente. Che Edward era lunatico era ormai divenuto un dato di fatto, se solo lui mi avesse dato la possibilità, io sarei riuscita a vederlo per davvero, molto di più di quello che avevo visto. Edward era buono, i suoi sorrisi erano come quelli di un bambino a Natale, c’era l’elemento principale dentro di lui, quello che sarebbe riuscito a tirarlo fuori dal baratro; c’era il sentimento positivo, era nascosto da qualche parte, ma era lì, io l’avevo visto. Sentii il suono del citofono e corsi ad aprire, sperando fosse Rosalie.
«Chi è?» Dio, la mia voce suonava più roca di quello che pensavo.
«Sono Edward.» Mi presi un attimo di silenzio, cercando di decifrare il suo tono di voce, ma non ci riuscii, poiché non mi aspettavo minimamente fosse lui.
«Come?»
«Edward Cullen.» Era spazientito, ma riuscii a sentire una piccola risata. Alzai gli occhi al cielo, sicura che se non era per quella sera, prima o poi mi avrebbe mandata al manicomio. Aprii il portoncino e lo aspettai davanti alla porta.
«Che fai qui?» Dissi prima di guardarlo dalla testa ai piedi. Come sempre i miei pensieri non gli rendevano giustizia, non avevo mai visto qualcuno di così bello come Edward. I suoi capelli scarmigliati ad arte, il suo viso ricoperto da un filo di barba, le sue labbra dall’aspetto morbide come il burro, e i suoi occhi che in quel momento non mi dicevano nulla, mi affascinavano solamente, erano verdi, ma erano speciali. Erano l’interno di Edward Cullen.
«Posso entrare?»
«Chi ti ha detto dove abito?»
«Essere il figlio del presidente ha i suoi privilegi.»
«Potrei denunciarti.»
«Mi vuoi troppo bene per farlo.» Disse con un sorriso divertito, quel sorriso mi fece dimenticare tutto quello che era accaduto quella mattina. Edward tagliava a pezzetti il mio cuore, ma c’era l’antidoto a quello; il suo magnifico sorriso che mi scioglieva ogni qualvolta come neve al sole. Mi scostai di lato e gli feci spazio per entrare, nel chiudere la porta mi resi conto che ero in canotta e shorts, nessuno dei miei pazienti si era mai permesso di venire a casa mia…le uniche persone che lo facevano erano i miei genitori e Rosalie.
«Vuoi qualcosa da bere?»
«No, grazie.» Mormorò guardando le mie gambe, arrossii e mi imbarazzai come mai prima di allora. Mi sedetti al suo fianco e lo guardai esaminando la sua espressione.
«Volevo chiederti scusa…per oggi…»
«Nessun problema.»
«No, Bella, mi sono comportato da…»
«Nessun problema Edward!» Dissi interrompendolo, avevo dimenticato quello che era successo e passare ancora una volta sopra l’argomento mi avrebbe fatto di nuovo male, ed io non volevo che lui lo vedesse.
«Bella, ascolta…»
«No Edward! Non voglio parlarne, chiaro?» Dissi urlando, perché non lo capiva? Non riusciva a vedere quanto dentro di me lui era entrato? Imprevedibilmente mi abbracciò facendo scorrere il suo naso sul mio collo, la mia pelle si ricoprì di brividi e con un gesto repentino le mie labbra finirono sulle sue.
Sapevo che era sbagliato. Sapevo che tutto quello mi avrebbe portato all’apice di qualcosa di doloroso. Sapevo che come sempre sarei finita per rimpiangere tutto.

Era anche quello l’effetto che Edward Cullen aveva su di me.
Dopotutto non riuscii a dire di no nemmeno quella volta, afferrai i suoi capelli e continuai a baciarlo. Era la mia droga. Era la cosa migliore che potesse capitarmi. Era la mia rovina.

 

 

 

 

 

 

 

 

Salveeeeeee. No, sono qui, non state sognando!
Ho cercato di pensare a mille modi per chiedervi scusa, ma nessuno di quelli rendeva l’idea. È un periodo strano questo…non ho mai un attimo di tempo, quando ce l’ho la mia mente bacata mi porta a leggere o guardare film…Ma, sì, c’è un ma! Cercherò di smetterla! Questa storia mi piace, stranamente, e spero che piaccia anche a voi. Venerdì ci sarò! Anche perché ho in mente cosa devo scrivere!

 

Non abbandonatemi!
Ps: per chi segue “ Just a little Woman”, non temete, tra oggi e domani arriverà anche il prossimo di quella lì :p

 

Un bacione.

 

Roby <3

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** A new Edward. ***


In the mosaic.

 

 

A new Edward.

 

 

 

 

 

 

I baci di Edward non avevano termini di paragone per me. Era come se annullassero la mia presenza da qualsivoglia situazione, entrando dentro quello che lui stesso riproduceva nella mia mente anche solo toccandomi con lo sguardo. Baciare le labbra di Edward era la cosa più bella che mi fosse mai capitata. Adoravo l’odore inconfondibile di agrumi che si innescava come una bomba nelle mie narici, adoravo la morbidezza delle sue labbra, talmente impeccabile che avevo paura di spezzarle.
Le sue labbra furono la prima cosa che mi fece dipendere da Edward Cullen.
Mentre mi avviavo a casa di mia madre, con il pensiero rivolto a Edward e agli ultimi giorni passati insieme, notai una sagoma nascosta tra i cespugli, rabbrividii e aumentai il passo. Camminavo forsennatamente e con il respiro accelerato al massino, fin quando non raggiunsi il portoncino e incespicai infilandomi dentro come una ladra che si guardava attorno.
«Tesoro!» Urlò mia madre, dalla finestra del piano di sopra. Sospirai di sollievo e raggiunsi la porta principale. Mio padre, come ogni domenica, giaceva nel divano col telecomando in mano come se fosse una cosa vitale, lo salutai con un cenno, non appena voltò la testa verso di me e mi sorrise. Anche quella volta avrei avuto bisogno di parlare con lui, da sola. Salii le scale e trovai mia madre nella mia vecchia camera, seduta su quello che una volta era il mio letto.
«Ciao mamma.»
«Bella…» Sospirò facendomi alzare le sopracciglia. Quando mia madre faceva in quel modo; squadrandomi come fossi un’aliena, non trovando le parole adatte per cominciare a parlarmi e torturandosi le mani. Aggiustai i miei occhiali, nonostante non ce ne fosse alcun bisogno e mi avvicinai a lei accarezzandole i capelli.
«Che succede?»
«Bè…ecco, Rosalie era molto arrabbiata stamattina…mi chiedevo…»
«Non viene oggi, vero?» Domandai con una nota di sconforto nella voce, quell’arpia della mia migliore amica mi mancava terribilmente, era come se dentro di me si fosse spezzato qualcosa. Mia madre scosse la testa e continuò a guardarmi, sbuffai spazientita e mi sedetti al suo fianco. Non capivo perché non sistemava tutto con una telefonata quando voleva parlarmi, dato che non riusciva a trovare il modo. Quando mia madre al telefono era tutta un cuore e amore e, di presenza, si maciullava la mente in quel modo, voleva dire solo una cosa; alla sua prima parola io mi sarei infuriata.
«Dove hai conosciuto Edward Cullen?» Rimasi spiazzata da quella domanda, che mai e poi mai mi sarei aspettata. Stavo per risponderle con la verità, data la mia scarsa qualità di mentire, ma mi morsi la lingua quando ricordai che mio padre, per non so quale assurdo motivo, mi chiese di non farne parola con la mamma.
«L’ho conosciuto qui…Domenica.» Risposi cercando di mantenere le mani ferme. Ero un disastro a mentire, forse per quello preferiva farmi certi discorsi di presenza.
«Stai mentendo.»
«Cosa c’è che non va?» Dissi alzando la voce, così come gli occhi al cielo.
«Devi stare lontana da lui.»
«L’ho visto solo una volta!» La mia voce suonava stridula e bugiarda come mai prima di allora.
«Non mentirmi, Isabella. Sono pur sempre tua madre, è ridicolo.» Disse infuocandosi. Io rimasi in silenzio, preferivo starmene zitta che far venir fuori la verità in un nano-secondo.
«Stai lontana da lui, Bella. O ti farai molto male.» Disse alzandosi e lasciandomi sola. Scossi la testa con le lacrime che minacciavano di venire fuori a flotta. Odiavo piangere, soprattutto quando non ce n’era motivo…eppure quella volta, inconsapevole del motivo, priva di ogni pensiero coerente scoppiai a piangere. Non riuscivo più a controllare le mie emozioni, ero sempre in uno stato sopraffatto, odiavo quei momenti che si fecero più presenti giorno per giorno.

Odiavo sentirmi così vulnerabile, odiavo non essere a conoscenza dei vari motivi per la quale le mie emozioni erano sempre triplicate. Sarei anche arrivata a odiare me stessa.
Alla fine, quella domenica non parlai con mio padre. Mia madre ci stava tra i piedi come se sospettasse qualcosa, l’ultima cosa che volevo era farli litigare. Passai la giornata con i miei genitori come se tutto filasse liscio e, forse, in certi momenti era così. La mia quotidianità si era sballata, i miei pensieri lottavano tra loro, tra coerenza e non, le mie emozioni giocavano a bowling facendo atterrare la mia sensibilità come se fosse una massa di birilli…eppure qualcosa mi spingeva a credere che tutto quello fosse necessario. Ogni mio pensiero si fermava a Edward. Edward nella mia mente. Edward nel mio olfatto. Edward nella mia vista. Edward, Edward, Edward ovunque. Sapevo che prima o poi mi avrebbe fatta innamorare di lui e qualcosa, mi diceva che lui avrebbe fatto lo stesso. Quel ragazzo tenero e al tempo stesso duro come il ghiaccio, aveva bisogno di qualcuno che lo spronasse a non avere paura di rivelare il suo passato. Ed io c’ero e, per quel che poteva servire, ci sarei sempre stata. Avevo deciso che arrabbiarmi con il suo silenzio era inutile. Lo avrei aspettato, anche un anno intero.

 

 

Stavo frugando nella mia valigetta in cerca del cellulare quando qualcuno bussò alla porta. Avevo programmato di chiamare mio padre per un appuntamento fuori casa ma, chissà per quale strano motivo, il mio telefonino pareva essersi smaterializzato.
«Avanti.» Sbottai, rendendomi conto soltanto dopo aver parlato che il mio tono risultava sgarbato. Il viso splendente di Edward fece capolino nel mio ufficio, lo guardai stralunata poiché era Martedì, Edward non veniva mai al Martedì e, se davvero avesse deciso di poter venire a suo piacimento si sbagliava di grosso.
«Ciao, nervosa?» Mi chiese sorridendomi, facendomi scordare anche il mio nome. Annuii come un automa godendomi quel sorriso che solo poche volte aveva accesso alle sue labbra meravigliose.
«Che succede?»
«Sempre il solito. Nervosismo da Martedì.»
«Non era al Lunedì?» Farfugliò divertito. Scoppiai a ridere e guardai i suoi occhi che quella volta erano più sereni delle altre volte. Rimanemmo in silenzio per minuti interminabili, godendo entrambi degli occhi dell’altro. Sarei rimasta a guardarlo per giorni interi.
«Che fai qui?» Gli chiesi.
«È mezzogiorno…da quel che so dovresti essere ufficialmente in pausa.» Rimasi sbigottita, non mi ero completamente accorta dell’orario. Afferrai la borsetta e con un sorriso mi alzai facendo cenno a Edward di seguirmi. Pranzammo in una trattoria piccola, calda e intima. Per la prima volta da quando lo conoscevo, parlò a lungo, raccontandomi della sua passione per l’Hockey sul ghiaccio, ero stata invitata ad una partita per quel Sabato. Mi raccontò di avere miliardi di disegni sparsi nei vecchi bauli di giocattoli di quando era piccolo. Era sereno, tranquillo, quella volta misi in dubbio la mia salute mentale per più di una volta; possibile che mi fossi immaginata quell’Edward? Quello tenebroso? Quello che soffriva sotto la maschera che indossava? Lo ascoltai affascinata, guardando le sue labbra che si muovevano e…sorridevano, di quei sorrisi che ti fanno mandare a monte tutto, quei sorrisi che potrebbero entrarti nel cuore in modo permanente. Quella non fu l’unica volta di quell’Edward e, forse, la cosa che più mi distrusse fu conoscere quel suo lato…quello vero.
«Bene. Ci vediamo domani?» Domandai, poiché domani alle tre avevamo un appuntamento. Lui scosse la testa ed io alzai gli occhi al cielo.
«Bella…non voglio più essere un tuo paziente.» Quelle frasi mi lacerarono il petto come una coltellata.
«Non è una cosa che dipende da me…Edward.» Dissi con la voce morta.
«Non dipende neanche da mio padre. Dipende da me. Solo ed esclusivamente da me. Non voglio più sottopormi a sedute psicologiche.» Disse sicuro di sé, come non l’avevo mai visto. Ingoiai il nodo che improvvisamente mi si era formato in gola e annuii, sicura che di lì a poco sarei scoppiata a piangere.
«Questo non vuol dire che non voglio più vederti…quel bacio…» Si interruppe imbarazzandosi, riuscendomi a strappare un piccolo sorriso.
«È stato importante per me, Bella.» Le mie mani finirono tra le sue in men che non si dica.
«Non intendo perdere quello che abbiamo.» E mi sorrise, ricucendo il mio cuore, solo come lui sapeva fare. Mi promise che la sera stessa sarebbe venuto a casa mia con una sorpresa, “non cucinare” urlò mentre mi chiudevo la porta alle spalle. Alzai gli occhi al cielo e inconsapevolmente la mia mano sfiorò il mio petto. Sorridevo come un’ebete, cosa c’era di male?

 

«Rose…chiamami, ti prego.» Sussurrai lasciando a Rosalie l’ennesimo messaggio. Non la sentivo da giorni e mi mancava in modo terribile. Erano le sei, avrei avuto tutto il tempo per un bagno rilassante e così fu, tant’è che mi addormentai risvegliandomi come un pinguino appena nato. Erano già le sette ed io fremevo per l’arrivo di Edward che, suonò il campanello mentre riuscii a infilarmi un pantaloncino e una canotta. Non appena aprii la porta, l’odore di salsa barbecue si innescò nelle mie narici. Incontrai il sorriso di Edward Cullen e mi sciolsi, tant’è che non riuscii nemmeno a spiaccicare parola mentre entrava in casa mia come se fosse una cosa naturale, studiai ogni suo gesto, era morbido, perfettamente in sintonia col suo corpo, avvampai quando me lo immaginai nudo e mi misi le mani sugli occhi per la vergogna. Venni spinta dentro un cerchio di braccia possenti, l’odore di Edward mi confuse fin dentro l’anima. Non appena sentii le sue labbra sulle mie e la sua lingua all’interno della mia bocca ogni mio senso fu annullato dai suoi baci. Sputava fuoco passionale e allo stesso tempo era così dolce che sembrasse sciogliersi come neve al sole. Adoravo quell’Edward dolcemente imprevedibile, che parlava con me come se fosse naturale quando precedentemente aveva avuto paura anche a dirmi il suo nome. Lo adoravo e mi ero affezionata a lui in modo inverosimile. Lo abbracciai con l’intento di fare lo stesso con la sua anima, avevo visto Edward come un povero uccellino appena nato e, con quel gesto, volevo dimostrargli che io l’avrei protetto, che lui era importante per me…lo era davvero…non sapevo spiegare il motivo, era entrato dentro di me in modo irrefrenabile ed io ero felice di quello. Per la prima volta in vita mia mi sentii desiderata, completa…a mio agio. Cenammo con Hamburger e patatine inzuppate nella salsa barbecue e, dopo la grande rivelazione di Edward; era astemio, bevemmo due litri di coca cola in un’ora.
«Mio dio! Nascondi il cibo come nessuno!» Urlò prendendomi in giro. Lo guardai in cagnesco massaggiandomi ancora la pancia piena, afferrai velocemente un cuscino dal divano e glielo lanciai dritto in faccia. Incrociai le braccia sotto al seno e lo guardai con un sorriso furbo sulle labbra.
«Non ridi più?» Dissi beffeggiandolo. Lui iniziò a camminare lentamente verso di me, fin quando con un gesto fulmineo non mi finì addosso arpionando le sue mani sui miei fianchi. Credetti di poter prendere fuoco da lì a poco.  Ero intrappolata tra l’isola della cucina e il suo corpo…ammettendo a me stessa che se anche così non fosse stato, non avrei avuto intenzione di spostarmi. Avvicinò le sue labbra al mio orecchio e sussurrò: «Cosa dovrei fare adesso?» Il tuo tono era caldo e suadente, rabbrividii di piacere sentendomi una stupida; stavo perdendo il controllo, in quel momento Edward Cullen mi aveva alla sua mercé, se mi avesse chiesto di saltellare per un’ora con una gamba sola lo avrei fatto senza indugiare.
«Tipo…baciarmi…» Mormorai a un centimetro dalle sue labbra. Lo baciai come se non ci fosse un domani, tirai leggermente i suoi capelli dopo che un gemito passionale lasciò le sue labbra, le mie gambe si avvolsero nei suoi fianchi e non potei fare a meno di mordergli le labbra per non gemere. Non sapevo ancora dove tutto quello mi avrebbe portata. Ero felice e quello mi bastava, per il momento. Quel giorno, per la prima volta Edward mi apparve diverso, solare, stranamente spensierato. Non sapevo se lui era il vero Edward, quello che sapevo è che le mie speranze andando avanti mi entusiasmavano di più che dall’inizio. Lui aveva parlato…poco, ma era un inizio. Mi aveva resa partecipe di un pezzettino della sua vita. Non potei fare a meno di pensare che io quell’Edward Cullen lo volevo tutto. Lo desideravo. Amavo la sua voce divertita. Adoravo i suoi occhi. I più belli e, allo stesso tempo, tenebrosi, che io avessi mai visto.

 

 

Sono imperdonabile.
Non so che dirvi, davvero…spero solo che il capitolo sia di vostro gradimento.
Scusate.
Un bacione,

 

Roby <3

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** AVVISO. ***


Salve ragazze...
Non ho mai fatto nulla del genere da quando scrivo su efp. Purtroppo, mi sono resa conto che non riesco a portare due storie avanti. Just a  little Woman non è proprio alla fine...le idee si confondono e sono sempre in ritardo con gli aggiornamenti.
In the mosaic non finisce qui, per niente, anzi, è l'unica mia storia che mi piace tanto, per questo la storia sarà SOSPESA A TEMPO DETERMINATO, entro quest'estate riprendeò a scriverla...
Non appena sarà conclusa JALW questa qui riprenderà vita.
Io vi ringrazio comunque e spero di non deludervi.
Ci tengo.


Un bacione.

Roby

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2330245